In un futuro lontano, una classe dominante di umani geneticamente modificati ottiene l’equivalente dell’immortalità mediante l’uso di droghe. Questa classe dominante tiene l’intera società in stasi grazie alla manipolazione genetica del genoma umano, eliminando ogni sorta di mutazione spontanea dello stesso. Come se non bastasse, solo poche persone attentamente selezionate hanno la possibilità di riprodursi. Tuttavia nelle megalopoli si sviluppano dei movimenti clandestini ed appare una razza di cyborg, opposta agli immortali.

Frank Herbert

Gli occhi di Heisenberg

CAPITOLO PRIMO

Per stamattina penso che abbiano programmato un acquazzone, rimuginò il Dottor Thei Svengaard. La pioggia rende i genitori così nervosi… per non parlare del suo effetto sull’umore dei dottori.

Una folata di aria invernale, carica di umidità, tamburellò contro la finestra alle spalle della sua scrivania. Svengaard si alzò e si chiese se attivare il silenziatore di cui erano dotate le finestre, ma i Durant — i genitori di quella mattina — avrebbero potuto allarmarsi ancora di più per il silenzio innaturale.

Si avvicinò alla finestra, guardò in basso, verso la folla di pedoni — gente dei turni di mattina che si recava al lavoro nella megalopoli, esausti lavoratori dei turni della notte che si avviavano verso un sonno molto simile alla morte. Nonostante la loro esistenza da trogloditi, l’andirivieni di tutta quella gente comunicava un senso di potere, di attività. Svengaard sapeva che la maggior parte di essi erano Steri senza figli… sterili, sterili. Andavano e venivano, innumerevoli, ma tutti contraddistinti da un numero.

Aveva lasciato acceso l’intercom collegato alla segreteria, e udiva l’infermiera, Mrs. Washington, che sottoponeva i Durant ad un fuoco di fila di domande e di moduli da riempire.

Routine.

Era quella la parola chiave. Tutto doveva sembrare una procedura normale, quasi casuale. I Durant e gli altri tanto fortunati da essere stati scelti per diventare genitori non avrebbero mai dovuto sospettare la verità.

Il Dottor Svengaard distolse la mente da simili pensieri, ricordando a se stesso che il senso di colpa non era un’emozione ammissibile per un membro della professione medica. Il senso di colpa conduceva inevitabilmente al tradimento… e il tradimento poteva avere conseguenze terribili. Gli Optimati erano estremamente suscettibili nei confronti di tutto quel che riguardava il programma di riproduzione.

Quest’ultima riflessione, venata com’era da un’ombra di critica, per un istante inquietò Svengaard. Deglutì e concentrò la sua mente sulla definizione che la Gente aveva coniato per gli Optimati: Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.

Con un sospiro, Svengaard si allontanò dalla finestra, girò intorno alla scrivania e superò la porta che conduceva alla sala dei preparativi, alle spalle della quale si trovava il laboratorio. Nella sala, si fermò a controllare allo specchio il proprio aspetto: capelli grigi, occhi scuri, mento volitivo, fronte alta e labbra severe sotto un naso aquilino. Era sempre stato piuttosto orgoglioso dell’aspetto gelido e distaccato conferitogli dal suo schema DNA, ma ormai aveva accettato la necessità di addolcirlo in determinate circostanze. Ammorbidi la piega della bocca e i suoi lineamenti assunsero un’espressione di interesse pieno di sollecitudine.

Sì, per i Durant quell’espressione sarebbe andata benissimo… se il loro profilo emotivo era stato elaborato con accuratezza.

L’infermiera Washington aveva appena introdotto i Durant nel laboratorio, quando vi entrò anche il Dottor Svengaard, che si era servito dell’ingresso riservato esclusivamente a lui. La pioggia batteva e scrosciava sul lucernario. Un clima simile improvvisamente gli sembrò il più adatto all’atmosfera della stanza: vetro lavato alla perfezione, acciaio, plasmeld e piastrelle… tutto così impersonale. Pioveva su tutti… e tutti gli esseri umani dovevano passare per una stanza come quella… perfino gli Optimati.

Svengaard provò un istintivo moto d’antipatia per i genitori. Harvey Durant era un giovane snello, alto più di un metro e ottanta, con capelli biondi e ricci e occhi di un azzurro chiaro. Il viso era apparentemente franco, innocente. Lizbeth, sua moglie, altrettanto giovane, raggiungeva quasi l’altezza del marito, ed era egualmente bionda e con gli occhi azzurri. La sua figura suggeriva che la donna possedeva la robustezza di una valchiria. Dal suo collo, appesa ad una catenina d’argento, pendeva uno di quegli onnipresenti talismani della Gente: una figuretta in ottone che raffigurava Calapine, l’Optimate di sesso femminile. L’assurdità di quel culto della fecondità, e delle sfumature religiose che vi erano sottintese, non sfuggì a Svengaard. Represse a malapena un risolino di commiserazione.

In ogni caso, i Durant erano genitori, e in perfetta salute: testimonianza vivente dell’abilità del bioingegnere che aveva creato i loro genotipi. Per un istante, Svengaard permise a se stesso di provare un senso d’orgoglio per la professione che esercitava. Non erano molti coloro a cui era permesso entrare nella ristretta cerchia di bioingegneri che, operando a livello subcellulare, mantenevano la variabilità umana entro limiti definiti.

L’infermiera Washington si fermò sulla soglia del laboratorio, alle spalle dei Durant, annunciò, «Dottor Svengaard, Harvey e Lizbeth Durant,» poi andò via, senza attendere una risposta.

Il tempismo e la discrezione dell’infermiera erano come sempre perfetti.

«I Durant, ma che piacere,» esordì Svengaard. «Spero che la mia infermiera non vi abbia annoiato oltremisura con tutti quei moduli e quelle domande. Ma immagino che, quando avete chiesto di assistere, foste coscienti di dovervi sottoporre a questa noiosa procedura.»

«Comprendiamo benissimo,» lo rassicurò Harvey Durant. E pensò, Chiesto di assistere, sicuro! Questo tipo pensa davvero che i suoi vecchi trucchi funzioneranno con noi?

Il Dottor Svengaard notò il tono caldo e energico, baritonale, della voce di Durant. Ciò lo fece innervosire, aumentò l’antipatia che aveva immediatamente provato nei suoi confronti.

«Non vogliamo assolutamente sottrarle più tempo di quello strettamente necessario,» dichiarò Lizbeth Durant. Strinse la mano del marito, e servendosi del loro codice segreto, basato su differenti pressioni delle dita, gli chiese: «Hai capito anche tu che gli siamo antipatici?»

Harvey, servendosi a sua volta del codice, gli rispose, «È uno Steri, per giunta presuntuoso; è così fiero della sua posizione che quasi non si accorge di ciò che lo circonda.»

Il tono pratico della donna diede fastidio al Dottor Svengaard. La Durant stava già guardandosi attorno: sguardi rapidi, indagatori. Devo essere io ad avere il controllo della situazione, pensò Svengaard. Si avvicinò ai due, strinse loro la mano. I palmi dei Durant erano madidi di sudore.

Sono nervosi. Perfetto.

Il rumore di una pompa del sistema di supporto vitale, che proveniva dalla sua sinistra, gli parve in quel momento molto forte, quasi rassicurante. Le pompe erano il metodo migliore per innervosire i genitori. Del resto, era per quello che facevano invariabilmente tanto rumore. Si girò verso la pompa, e indicò una vasca di cristallo sigillata e sospesa su di un campo di forza quasi al centro del laboratorio. Il rumore della pompa proveniva da quella vasca.

«Eccolo lì,» annunciò.

Lizbeth fissò la superficie traslucida, lattiginosa, della vasca. Si umettò le labbra con la lingua. «È là dentro?»

«Sì, perfettamente al sicuro,» la rassicurò Svengaard.

Nutriva ancora la fievole speranza che i Durant potessero decidere di tornarsene a casa, e di attendere lì il risultato dell’operazione.

Harvey prese la mano della moglie, la accarezzò. «Ci è parso di capire che lei ha chiamato uno specialista,» disse.

«Il Dottor Potter,» rispose Svengaard. «È uno dei medici della Centrale.» Lanciò una rapida occhiata ai movimenti nervosi delle mani dei Durant, notando gli onnipresenti tatuaggi sull’indice che indicavano il genotipo. Pensò che adesso avrebbero potuto aggiungere la desideratissima "F" che conferiva il rango di individui fertili, e represse un improvviso moto di gelosia.

«Sì, il Dottor Potter,» ripeté Harvey. Usando il codice, segnalò a Lizbeth, «Hai notato il tono con cui ha parlato della Centrale?»

«E come avrei potuto non farlo?» gli replicò lei.

La Centrale, pensò Lizbeth. Quel luogo evocava nella sua mente gli onnipotenti Optimati, ma anche i Cyborg che in segreto si opponevano ad essi; la cosa la riempì di profondo disagio. In quel momento non poteva permettersi di pensare a nulla che non fosse suo figlio.

«Sappiamo che Potter è il migliore nel suo campo,» disse Lizbeth, «e non vogliamo che lei pensi che ci siamo lasciati prendere da sciocche paure irrazionali…»

«…ma vogliamo assistere,» concluse Harvey. Poi pensò, Questo medico altezzoso farà meglio a rendersi conto che conosciamo bene i nostri diritti.

«Capisco,» commentò il Dr. Svengaard. Al diavolo questi due imbecilli! imprecò in mente sua. Ma poi, continuando ad usare un tono di voce neutro e rassicurante, disse, «La loro preoccupazione è degna di nota. Ammiro i loro sentimenti. Tuttavia, le conseguenze…»

Lasciò la frase in sospeso, ricordando loro che anche lui godeva di alcuni diritti legali: era autorizzato ad effettuare l’intervento con o senza il loro consenso e non poteva essere ritenuto responsabile di traumi emotivi subiti dai genitori. La Legge Pubblica 10927 parlava chiaro. I genitori potevano invocarla per ottenere il diritto di assistere, ma il chirurgo avrebbe comunque eseguito l’intervento a sua completa discrezione. Il futuro della razza umana era stato rigidamente pianificato, il che escludeva l’eventuale nascita di mostri o devianti genetici.

Harvey annuì rapidamente e con enfasi. Strinse forte la mano della moglie. La sua mente fu inondata da frammenti di terribili storie sussurrate dalla Gente e di miti ufficiali. Vedeva Svengaard in parte alla luce di quelle storie, in parte attraverso la letteratura proibita distribuita di nascosto, e di malavoglia, dai Cyborg all’Associazione Clandestina dei Genitori — attraverso le opere di Stedman e Merck, Shakespeare e Huxley. Le sue conoscenze del passato erano tanto limitate che si rendeva conto di essere incapace di liberarsi completamente dalla superstizione.

Anche Lizbeth annuì, ma più lentamente. Sapeva fin troppo bene qual era il loro scopo principale, ma quello nella vasca rimaneva pur sempre suo figlio.

«È sicuro,» chiese, lanciando di proposito un’esca a Svengaard, «che non soffrirà?»

Quella domanda assurda, scaturita dalla necessaria ignoranza in cui veniva mantenuta la Gente, fece infuriare il Dottor Svengaard. Sapeva di dover troncare il più presto possibile quella conversazione. Ciò che avrebbe potuto dire continuava ad interferire con ciò che doveva dir loro.

«L’ovulo fertilizzato non possiede terminazioni nervose,» replicò seccamente. «Ha meno di tre ore di vita, e la sua crescita viene ritardata mediante inalazione controllata di nitrato. Nel suo caso, parlare di sofferenza è semplicemente assurdo.»

Sapeva che per quei due i termini tecnici non avevano alcun significato, tranne quello di sottolineare ancor più l’enorme distanza che correva tra dei semplici genitori e un bioingegnere submolecolare.

«Immagino di aver detto una vera sciocchezza,» si schermì Lizbeth. «L’ov… è così semplice, non è ancora un essere umano.» Ma con le dita segnalò a Harvey, «Che sciocco è costui! Con lui, è come leggere i pensieri di un bambino.»

La pioggia ballò una tarantella sul lucernario. Svengaard attese che finisse, poi ribatté: «Ah, ora cerchiamo di non travisare.» Pensò che non poteva esserci momento più adatto per dare una rinfrescata alla loro scarsissime nozioni sull’argomento. «Il vostro embrione può anche avere meno di tre ore di vita, ma contiene già ogni enzima base di cui avrà bisogno non appena si sarà sviluppato appieno. In effetti si tratta di un organismo enormemente complicato.»

Harvey lo fissò con una finta espressione di soggezione di fronte alla mente eccelsa di un uomo che riusciva a comprendere misteri quali la formazione e il modellamento della vita.

Lizbeth lanciò una rapida occhiata alla vasca.

Due giorni prima, alcuni gameti selezionati, suoi e di Harvey, immersi in una stasi artificiale, erano stati uniti, e lasciati liberi di dar via ad una mitosi limitata. Quest’ultimo processo aveva creato un embrione fertile — cosa rara in un mondo in cui soltanto pochi, accuratamente selezionati, non erano sottoposti al gas contraccettivo, dunque liberi di procreare, e tra quest’ultimi ancor meno individui producevano embrioni fertili. Non era ritenuto necessario che Lizbeth comprendesse il processo nei suoi minimi particolari, e lei aveva sempre dovuto nascondere il fatto che fosse pienamente in grado di farlo. Essi — gli Optimati della Centrale — eliminavano spietatamente qualsiasi minaccia, per quanto piccola, alla loro supremazia. E per loro, la minaccia peggiore era che la conoscenza cadesse nelle mani sbagliate.

«Adesso… quant’è… grande?» chiese Lizbeth.

«Ha un diametro di un decimo di millimetro,» rispose Svengaard. Concesse ai suoi lineamenti di rilassarsi in un sorriso. «È una morula e, in epoca primitiva, non avrebbe ancora compiuto il tragitto verso l’utero. Questo è il momento in cui è più sensibile al trattamento. Dobbiamo operare su di esso adesso, prima della formazione del trofoblasto.»

I Durant annuirono, pieni di soggezione.

Il Dottor Svengaard si crogiolò nel loro rispetto. Sapeva che le loro menti annaspavano, alle prese con definizioni che ricordavano a malapena, frutto della limitata istruzione che era stato permesso loro di conseguire. Le schede con i loro dati rivelavano che la donna era la bibliotecaria di un asilo, mentre l’uomo era un istruttore di giovani — nessuno dei due aveva avuto bisogno di un’istruzione particolarmente approfondita.

Harvey toccò la vasca, ritrasse di scatto la mano. Il cristallo della vasca era caldo, percorso da leggere vibrazioni. E c’era il continuo thrap-thrap-thrap della pompa. Si rese conto che quel rumore fastidioso era provocato di proposito, lesse e interpretò, come gli era stato insegnato dall’Associazione, il comportamento di Svengaard, intuendo quanto fosse duplice, sotto l’apparente cortesia. Diede un’occhiata al laboratorio — tubi di vetro, armadietti grigi, angoli e curve di scintillante plasmeld, onnipresenti quadranti di apparecchiature, simili a occhi di creature che lo guatassero. Quel luogo odorava di disinfettante, e di altre sostanze chimiche più esoteriche. Nel laboratorio, tutto aveva un duplice scopo: essere perfettamente funzionale e instillare timore nei non iniziati.

Lizbeth si concentrò sull’unico oggetto di uso comune, di cui conosceva la funzione: un lavabo in porcellana smaltata dai rubinetti splendenti. Il lavabo era incastrato tra due misteriose costruzioni formate da spirali di vetro e blocchi di plasmeld grigio opaco.

Il lavabo turbò Lizbeth. Serviva a disfarsi della spazzatura. I rifiuti venivano macinati, prima di essere inviati nel sistema di recupero. Qualsiasi cosa, purché piccola, poteva essere gettata in un lavabo, per poi perdersi.

Per sempre.

Qualsiasi cosa.

«Non riuscirà a convincermi a non assistere,» dichiarò Lizbeth.

Dannazione! imprecò mentalmente Svengaard. C’era un tremito nella sua voce. Quella brevissima esitazione, quel tremito l’avevano tradita, contrastavano con l’atteggiamento risoluto della donna. Durante l’intervento di ingegneria genetica che l’aveva plasmata, il chirurgo aveva enfatizzato troppo il suo istinto materno… e non importava che, sotto ogni altro aspetto, avesse operato brillantemente.

«Ci preoccupiamo di voi quanto del bambino,» replicò lui. «Il trauma…»

«La legge ce ne dà il diritto,» intervenne Harvey. Poi segnalò a Lizbeth, «Finora la faccenda sta andando più o meno come avevamo previsto.»

Questo stupido conosce la legge, pensò amaramente Svengaard. Sospirò. Le statistiche dimostravano che soltanto una coppia di genitori su centomila insisteva per assistere, nonostante le pressioni più o meno occulte per farla recedere da quella decisione. Tuttavia le statistiche erano una cosa, la realtà era tutta un’altra faccenda. Svengaard si era accorto delle occhiate irate che gli scoccava Harvey. Evidentemente il corredo genetico di costui conteneva un forte istinto di protezione — troppo forte, per la verità. Durant non sopportava di veder maltrattata la sua compagna. Senza dubbio era un marito modello e non partecipava alle orge degli Steri — era un uomo fuori dal comune.

Uno sciocco.

«La legge,» ricordò loro Svengaard con tono grondante rimprovero, «richiede anche che io informi i genitori sui pericoli di un trauma psicologico. Non avevo alcuna intenzione di dissuadervi dall’assistere.»

«Noi lo vogliamo, fermamente,» ribatté Lizbeth.

Harvey provò un moto d’ammirazione nei confronti della moglie. Lizbeth stava recitando la sua parte alla perfezione; e quel tremito nella voce era stato così convincente.

«Non riuscirei a sopportare l’attesa in nessun altro modo,» spiegò Lizbeth. «Non sapere se…»

Svengaard si chiese se fosse il caso di insistere — magari facendo leva sul loro timore reverenziale, oppure esercitando la propria autorità. Uno sguardo alle ampie spalle di Harvey e agli occhi supplichevoli di Lizbeth fu sufficiente a dissuaderlo: i due sarebbero rimasti ad ogni costo.

«Molto bene,» si arrese con un sospiro.

«Guarderemo da qui?» si informò Harvey.

Svengaard fu terribilmente irritato da quella domanda. «No di certo!» Quei due idioti erano davvero dei primitivi. Ma poi ricordò che una simile ignoranza era causata dal profondo mistero, accuratamente coltivato, in cui era avvolta l’ingegneria genetica. Con voce più calma, spiegò, «Una sala privata con un sistema video a circuito chiuso sarà a vostra disposizione. La mia infermiera vi accompagnerà lì.»

L’infermiera Washington diede prova della sua professionalità comparendo proprio in quell’istante sulla soglia della sala. Ovviamente aveva ascoltato tutta la conversazione. Un’infermiera davvero brava non lasciava mai al caso simili faccende.

«Qui dentro non c’è altro da vedere?» chiese Lizbeth.

Svengaard percepì il tono supplichevole della donna, notò il modo in cui lei evitava di posare lo sguardo sulla vasca. Tutto il proprio disprezzo, represso fino a quel momento, esplose in un commento sferzante, «Cos’altro vorrebbe vedere, Ms. Durant? Sicuramente non si sarà aspettata di vedere la morula.»

Harvey tirò la moglie per un braccio. «Grazie, Dottore.»

Ancora una volta gli occhi della donna scrutarono la sala, sempre evitando la vasca. «Sì, grazie per averci mostrato… questa stanza. Mi rincuora enormemente vedere quanto siete… per qualunque emergenza.» I suoi occhi indugiarono sul lavabo.

«Ma si figuri,» rispose il Dottor Svengaard. «L’infermiera Washington vi fornirà la lista dei nomi permessi. Potreste occupare parte del tempo scegliendo un nome per vostro figlio, se non l’avete già fatto.» Rivolse un cenno all’infermiera. «Accompagni i Durant nella Sala Cinque, per favore.»

L’infermiera disse, «Prego, se hanno la cortesia di seguirmi?» Si voltò con quell’aria di impazienza indaffarata che Svengaard era giunto a credere tutte le infermiere acquistassero una volta ricevuti i loro diplomi. I Durant vennero risucchiati nella sua scia.

Svengaard tornò a voltarsi verso la vasca.

C’era tanto da fare — Potter, lo specialista della Centrale, sarebbe arrivato entro un’ora… e non sarebbe stato troppo contento di avere degli spettatori. La gente comune capiva così poco gli obblighi che l’esercizio della medicina implicava. Preparare psicologicamente i genitori sottraeva tempo che sarebbe stato meglio utilizzare per faccende più importanti… e sicuramente complicava i problemi posti dalla sicurezza. Svengaard pensò alle cinque direttive, da distruggere dopo essere state lette, inviategli da Max Allgood, il capo del Servizio di Sicurezza della Centrale, durante l’ultimo mese. Era un avvenimento inquietante: faceva sospettare che la Sicurezza avesse subodorato qualche nuovo pericolo.

Ma la Centrale insisteva sulla necessità di socializzare con i genitori. Svengaard sapeva che gli Optimati dovevano avere buone ragioni per aver autorizzato una simile politica. La maggior parte delle loro decisioni era perfettamente sensata. Svengaard sapeva che qualche volta cadeva preda della sensazione di essere un orfano, una creatura priva di passato. Ma per scuotersi da quello stato emotivo gli bastava un momento di riflessione: «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.» Loro tenevano in pugno il mondo, avevano pianificato il futuro — un posto per ogni uomo e ogni uomo al suo posto. Alcuni dei vecchi sogni — i viaggi spaziali, le ricerche filosofiche, la colonizzazione dei mari — erano stati temporaneamente accantonati, messi da parte per perseguire il raggiungimento di scopi più importanti. Ma le ricerche in quei campi sarebbero riprese, il giorno in cui loro avrebbero risolto le incognite dell’ingegneria submolecolare.

Nel frattempo, c’era molto da fare per gli individui dotati di buona volontà: nutrire la popolazione di lavoratori, sopprimere i devianti, studiare sempre più a fondo il genoma della razza umana, da cui erano nati gli stessi Optimati.

Svengaard avvicinò il microscopio a mesoni alla vasca in cui era ospitato l’embrione dei Durant, lo regolò su di una amplificazione ridotta, per minimizzare l’interferenza postulata da Heisenberg. Un’altra occhiata non avrebbe danneggiato l’embrione. Magari sarebbe riuscito a localizzare la cellula pilota, facilitando il compito di Potter. Mentre si chinava verso l’oculare, Svengaard si rendeva perfettamente conto di star razionalizzando un proprio impulso. In realtà, non aveva resistito al desiderio di osservare ancora una volta quella morula che aveva il potenziale, che poteva essere plasmata in un Optimate. Simili meraviglie capitavano così di rado.

Accese il microscopio e lo mise a fuoco.

Gli sfuggì un sospiro. «Ahhhh…»

La morula, a bassa amplificazione, appariva estremamente passiva; non pulsava, poiché era immersa nella stasi… eppure era così bella nel suo sonno parziale… così piccola… ma tuttavia teatro di tante antiche battaglie.

Svengaard posò la mano sui controlli dell’ingrandimento, esitò. Un ingrandimento maggiore comportava numerosi pericoli, ma Potter avrebbe potuto senza dubbio porre rimedio alle tracce di interferenza mesonica. E poi la tentazione di guardare al massimo ingrandimento era troppo forte.

Raddoppiò l’ingrandimento.

Lo raddoppiò ancora una volta.

I successivi ingrandimenti diminuirono sempre più l’impressione che la morula fosse in stasi. Svengaard registrò dei movimenti, e nelle zone non perfettamente messe a fuoco si intuivano dei lampi, simili a pesci che guizzassero nell’acqua. Dallo sfondo emerse la tripla spirale di nucleotidi che lo aveva spinto a chiamare Potter. L’embrione era quasi un Optimate. Possedeva quasi quella magnifica perfezione di forme e mente che poteva accettare l’equilibrio indefinito della Vita, raggiunto mediante la somministrazione, estremamente accurata e delicatissima, di enzimi.

Svengaard provò una punta di tristezza. Quegli stessi enzimi, anche se lo mantenevano in vita, lo stavano lentamente uccidendo. Era il destino di tutti gli esseri umani. Potevano vivere duecento anni, qualche volta perfino più a lungo… ma l’equilibrio si spezzava per tutti, tranne che per gli Optimati. Loro erano perfetti, limitati soltanto dalla sterilità… ma quello era il fato di molti umani, e comunque non sottraeva nulla alla loro esistenza eterna.

Poiché anche lui era sterile, Svengaard aveva l’impressione di avere qualcosa in comune con gli Ottimati. Loro avrebbero risolto anche quel problema… un giorno o l’altro.

Si concentrò sulla morula. A quell’ingrandimento, notò un lieve movimento provocato da un aminoacido contenente solfo. Con un moto di sorpresa, Svengaard lo riconobbe: era isovaltina, un indicatore genetico che indicava la presenza di un mixodema latente, foriero di una qualche potenziale deficienza tiroidea. Era un difetto inquietante, in quella morula tanto vicina alla perfezione. Avrebbe dovuto avvertire Potter.

Poi si dedicò all’esame del mitocondrio. Seguì la membrana invaginata fino alle creste appiattite, simili a sacchi, ritornò lungo la seconda membrana esterna, mise a fuoco il compartimento idrofilo esterno. Sì… era possibile ovviare all’inconveniente dell’isovaltina. Quella morula poteva ancora raggiungere la perfezione.

Un movimento guizzante apparve sull’orlo del campo di visione del microscopio.

Svengaard si irrigidì, pensò, Mio Dio, no!

Rimase immobile, con l’occhio incollato all’oculare, mentre il fenomeno che si era verificato soltanto otto volte nella storia della manipolazione genetica avveniva sotto il suo sguardo.

Una linea sottile, simile ad un tentacolo, penetrò nella struttura cellulare, provenendo da sinistra. Si snodò attraverso un ammasso di spirali alfa, trovò le estremità ripiegate delle catene di polipeptidi in una molecola di miosina, si contorse e si dissolse.

Al suo posto comparve una nuova struttura, dal diametro di circa quattro Angstrom e lunga mille Angstrom: protamina spermatica ricca di arginina. Tutt’intorno ad essa, le proteine del citoplasma mutavano, lottavano contro la stasi, e stavano riorganizzandosi in nuove combinazioni. Svengaard, basandosi sulle descrizioni degli altri otto casi, sapeva cosa stava succedendo. Il sistema di scambio ADP-ATP stava diventando più complesso — più "resistente". Ciò avrebbe reso il compito del chirurgo infinitamente più complesso.

Potter sarà furioso, pensò Svengaard.

Spense il microscopio e si raddrizzò. Si asciugò dal sudore i palmi delle mani e controllò l’orologio del laboratorio. Erano trascorsi meno di due minuti. I Durant non erano neppure arrivati nella sala privata, ma in quei due minuti una qualche forma di energia… una forza esterna aveva modificato l’embrione, apparentemente con uno scopo ben preciso.

È questo che ha messo in stato d’allerta la Sicurezza… e gli Optimati? si chiese Svengaard.

Aveva sentito descrivere quel fenomeno, aveva letto i rapporti… ma vederlo con i propri occhi! Vedere quel mutamento… così sicuro, così deciso…

Scosse il capo. No! Non era voluto! Si è trattato di un fenomeno casuale, nient’altro.

Ma quella visione lo ossessionava.

Rispetto a ciò che ho appena visto, quanto sono goffi i miei sforzi! Dovrò avvertire Potter. Toccherà a lui riportare alla normalità quella catena alterata… ammesso che ci riesca, visto che adesso è più resistente.

Turbato, per nulla convinto di aver assistito ad un evento casuale, Svengaard iniziò a effettuare gli ultimi controlli sulle apparecchiature di laboratorio. Controllò la dotazione di enzimi, e il collegamento con il computer che ne controllava il dosaggio: citocromo b5 ed emoproteina P-450 in abbondanza, una buona scorta di ubiquinone, sulfidrile, arseniato, azide e oligomicina, una quantità sufficiente di fosfoistidina. Passò in rassegna l’intera fila: due tipi di agenti acilati, 4-dinitrofenolo, e i gruppi di isoxazolidone-3 con riduzione NADH.

Poi si occupò dell’attrezzatura, controllò il micromeccanismo del bisturi a mesoni, i dati che apparivano sui quadranti della vasca e del meccanismo di stasi.

Tutto in ordine.

Doveva esserlo. L’embrione dei Durant, quella meraviglia dall’incredibile potenziale, adesso era resistente: un’incognita genetica… se Potter fosse riuscito dove gli altri avevano fallito.

CAPITOLO SECONDO

Non appena fu arrivato in ospedale, il Dottor Vyaslav Potter passò dall’Ufficio Registrazioni. Era un po’ stanco, dopo il lungo viaggio in sotterranena dalla Centrale alla Megalopoli di Seatac, ma raccontò una barzelletta sul sistema di riproduzione primitivo all’infermiera dai capelli grigi che era di turno. Lei ridacchiò, mentre scovava l’ultimo rapporto di Svengaard sull’embrione dei Durant. Posò il rapporto sul banco e fissò Potter.

Il dottore diede un’occhiata alla cartellina, poi sollevò gli occhi e incontrò lo sguardo della donna.

È possibile? si chiese. Ma… no: è troppo vecchia — non sarebbe neppure una buona Compagna. E poi, i pezzi grossi non ci concederebbero mai il permesso di procreare. Ricordò a se stesso: Io sono uno Zeek… un J411118zK. Il genotipo Zeek aveva conosciuto un breve periodo di popolarità nella regione della Megalopoli di Timbuctu, durante i primi anni Novanta. Sue caratteristiche erano capelli neri e crespi, epidermide di un colore appena più chiaro di quello del cioccolato, occhi scuri e dall’espressione dolce, un viso grassoccio e benevolo, il tutto su un corpo alto e forte. Uno Zeek. Un Vyaslav Potter.

Il genotipo non aveva mai prodotto un Optimate, maschio o femmina, e neppure un accoppiamento di gameti che fosse fertile.

Potter si era arreso da molto tempo. Era stato tra quelli che aveva votato affinché si smettesse di produrlo. Pensò agli Optimati con cui aveva a che fare e rise di se stesso. «Se non fosse per gli occhi scuri…» Ma quel commento sarcastico non gli causava più tanta amarezza.

«Sa,» disse rivolgendo un sorriso all’infermiera, «i Durant che hanno fornito l’embrione di cui debbo occuparmi stamattina — sono stato io a modellarli, entrambi. Forse è troppo tempo che svolgo questo lavoro.»

«Oh, non dica sciocchezze, Dottore,» replicò lei, scuotendo vigorosamente il capo. «Non ha ancora raggiunto la mezza età. Non sembra neppure un giorno più vecchio dei suoi cento anni.»

Potter sbirciò la cartellina. «Però questi due giovani mi portano il loro embrione affinché io intervenga e…» Si strinse nelle spalle.

«Glielo dirà?» chiese la donna. «Cioè, che è stato lei a modellare anche il loro genotipo?»

«Con tutta probabilità non li vedrò neppure,» le fece notare Potter. «Sa com’è. E poi, qualche volta le persone sono contente del loro genotipo… ma altre volte vorrebbero aver ricevuto un po’ più di questo, un po’ meno di quello. Di solito, attribuiscono la colpa al bioingegnere. Non comprendono, e non potrebbero farlo, i problemi che dobbiamo affrontare nel modellare il loro corredo genetico.»

«Ma i Durant mi sembrano decisamente ben riusciti,» gli fece notare l’infermiera. «Normali, felici… forse un po’ troppo preoccupati per loro figlio, ma…»

«Il loro genotipo è tra i migliori,» replicò Potter. Batté l’indice sulla cartellina. «Qui dentro ne abbiamo la prova: un embrione fertile e dotato di potenziale.» Sollevò il pollice nel tradizionale gesto che indicava un Optimate.

«Dovrebbe essere fiero di loro,» affermò l’infermiera. «La mia famiglia ha ottenuto un solo embrione fertile su centottanta tentativi; loro invece hanno prodotto un embrione fertile e dotato di potenziale.» Ripeté il gesto di Potter.

Quest’ultimo piegò le labbra in una smorfia di commiserazione, chiedendosi il perché si facesse immancabilmente trascinare in conversazioni del genere, specialmente con le infermiere. Sospettava di nutrire ancora delle speranze. Esse affondava nello stesso humus da cui scaturivano le voci incontrollate, i ciarlatani della procreazione, il mercato nero di sostanze fecondanti, la vendita di immaginette dell’Optimate Calapine, in base alla voce infondata che quest’ultima avesse prodotto un embrione fertile. Era lo stesso sentimento che spingeva i fedeli a consumare i grossi alluci degli idoli di fertilità a furia di baci.

La sua espressione di commiserazione divenne un sogghigno cinico. Illusi! Se soltanto sapessero la verità.

«È al corrente che i Durant assisteranno?» gli chiese l’infermiera.

Potter sollevò la testa di scatto e la fissò con sguardo rabbioso.

«In ospedale lo sanno tutti,» proseguì lei. «La Sicurezza è già stata avvertita. I Durant sono stati controllati, e adesso si trovano nella Sala Cinque, che possiede un collegamento video a circuito chiuso con il laboratorio.»

Potter fu invaso dal furore. «Dannazione! È mai possibile che nessuno in questo stupido posto sappia fare le cose per bene?»

«La prego, Dottore,» ribatté l’infermiera con tono freddo. «Non è il caso di arrabbiarsi in questo modo. I Durant hanno invocato la legge. Questo ci lega le mani e lei lo sa benissimo.»

«Al diavolo quella stupida legge!» imprecò Potter, ma ormai si era calmato. La legge! pensò. Ancora quella pagliacciata. Tuttavia, dovette ammettere che era necessaria. Senza la Legge Pubblica 10927, la gente avrebbe potuto iniziare a porsi le domande sbagliate. E senza dubbio Svengaard aveva fatto del suo meglio per dissuadere i Durant.

Potter abbozzò un sorriso di scusa. «Mi dispiace di essere scattato a quel modo. Ho avuto una settimana pessima.» Sospirò. «Proprio non capiscono.»

«Vuole consultare qualche altro documento, Dottore?» chiese l’infermiera.

Potter si accorse che l’intesa fra loro si era spezzata. «No, grazie,» rispose. Prese la cartellina dei Durant e si avviò verso l’ufficio di Svengaard. La sua solita fortuna: una coppia di osservatori. Questo significava una grossa mole di lavoro extra. Naturalmente!

I Durant non potevano accontentarsi di visionare il nastro dopo l’intervento. Oh, no. Loro dovevano assistere. Ciò implicava che non erano innocenti come sembravano — non importava cosa sostenesse lo staff della Sicurezza dell’ospedale. La gente comune non insisteva più per assistere; si presupponeva che quell’impulso fosse stato eliminato dal loro patrimonio genetico.

Coloro che sfidavano quel condizionamento genetico, ormai molto pochi, avrebbero dovuto essere attentamente sorvegliati.

E poi Potter ricordò a se stesso, Sono stato io a modellare quei due. E non ho commesso errori.

Si imbatté in Svengaard sulla porta dell’ufficio di quest’ultimo, e ascoltò il suo breve riassunto degli avvenimenti. Poi Svengaard iniziò a balbettare sugli accordi che aveva preso con quelli della Sicurezza.

«Non mi importa un fico secco di quello che dicono quelli della vostra Sicurezza,» tuonò Potter. «Abbiamo ricevuto nuove istruzioni. In ogni caso del genere, bisogna avvertire la Sezione Emergenze della Centrale.»

Entrarono nell’ufficio di Svengaard. Le pareti erano ricoperte di pannelli di finto legno — una stanza d’angolo con vista su giardini pensili ricoperti di fiori e terrazze costruite utilizzando l’onnipresente plasmeld trifasico rigenerativo, il "plasty" delle abitazioni della Gente. Nulla doveva invecchiare o consumarsi, in quel mondo che gli Optimati avevano stabilito essere il migliore. Nulla tranne gli esseri umani.

«La Sezione Emergenze della Centrale?» chiese Svengaard.

«Non devono esserci eccezioni,» replicò Potter. Si sedette sulla poltrona di Svengaard, appoggiò i piedi sulla scrivania, e posizionò il videotelefono di un bianco avorio sul proprio stomaco, con lo schermo a pochi centimetri dal volto. Digitò il numero della Sicurezza e il proprio codice di identificazione.

Svengaard sedette dall’altro lato della scrivania, all’apparenza tanto arrabbiato quanto spaventato. «Le dico che sono stati controllati,» insisté. «Su di loro non abbiamo rilevato alcun dispositivo insolito. Non avevano alcunché di anormale.»

«Ma hanno insistito per assistere,» ribatté Potter. Scosse il comunicatore. «Cosa stanno facendo questi imbecilli?»

Svengaard gli ricordò, «Ma la legge…»

«Al diavolo la legge!» esclamò Potter. «Sa bene quanto me che potremmo far passare il segnale video proveniente dal laboratorio attraverso un computer dotato di simulatori ottici, in modo da far vedere ai genitori qualunque cosa vogliamo. Le è mai capitato di chiedersi perché non lo facciamo?»

«Perché… loro… ahh.» Svengaard scosse il capo. Quella domanda l’aveva colto di sorpresa. Perché non agivano in quel modo? Le statistiche dimostravano che un certo numero di genitori avrebbe comunque insistito per assistere e…

«Ci abbiamo provato,» gli rivelò Potter. «E, in qualche modo, i genitori si sono accorti che il nastro era stato manipolato dal computer.»

«Come?»

«Lo ignoriamo.»

«Ma i genitori non sono stati interrogati?»

«Si sono suicidati.»

«Suicidati — e come?»

«Non sappiamo neppure questo.»

Svengaard tentò di deglutire, ma improvvisamente aveva la gola arida. Iniziava ad intuire che la Sicurezza era davvero preoccupata, dietro l’apparente e monolitica facciata di tranquillità. «Ma la percentuale statistica di…»

«Al diavolo le statistiche!» ruggì Potter.

Una voce maschile e autoritaria provenne dal comunicatore: «Con chi sta parlando?»

Potter guardò lo schermo e rispose, «Con Sven. Questo embrione vitale per cui mi ha chiamato…»

«È fertile?»

«Sì! E ha il pieno potenziale, ma i genitori insistono per assistere all’in…»

«Datemi dieci minuti, e vi manderò un’intera squadra, via sotterranea,» disse la voce. «Adesso sono a Friscopolis. Non dovrebbero impiegarci più di una manciata di minuti.»

Svengaard si asciugò le palme sudate sul camice. Non riusciva a vedere il volto sullo schermo, ma la voce sembrava quella di Max Allgood, il capo della Sicurezza.

«Rimanderemo l’intervento fino all’arrivo dei suoi uomini,» disse Potter. «I dati le stanno venendo trasmessi via fax e dovrebbero essere sulla sua scrivania tra pochi minuti. C’è un’altra…»

«Ci ha detto tutto su quell’embrione?» chiese l’uomo. «Qualche difetto?»

«Un mixodema latente, una valvola cardiaca potenzialmente difettosa, ma l’em…»

«Okay, la richiamerò non appena avrò dato un’occhiata ai…»

«Dannazione!» esplose Potter. «Sarà tanto gentile da lasciarmi pronunciare dieci parole di fila senza interrompere?» Fissò infuriato lo schermo. «Qui abbiamo qualcosa più importante dei difetti o dei genitori.» Potter sollevò lo sguardo dal comunicatore, fissò Svengaard, poi guardò di nuovo lo schermo. «Sven mi ha riferito di aver assistito a una modifica esterna dell’arginina.»

Un basso fischio di sorpresa provenne dal comunicatore. «Ne è sicuro?»

«Assolutamente.»

«Ha seguito lo schema degli altri otto?»

Potter guardò Svengaard, il quale annuì.

«Sven sostiene di sì.»

«A loro non piacerà.»

«Non piace neanche a me.»

«Sven ha visto abbastanza… da farsi qualche nuova idea sull’accaduto?»

Svengaard scosse il capo.

«No,» disse Potter.

«Esiste una forte possibilità che non significhi nulla,» ipotizzò l’uomo. «In un sistema di determinismo crescente…»

«Oh, certo,» lo interruppe Potter in tono ironico. «In un sistema di crescente determinismo aumenta in proporzione anche l’indeterminazione. E come dire che in un vulvalismo di crescente minniratto…»

«Be’, loro sostengono questo.»

«Così dicono. Da parte mia, io credo che la Natura reagisce con forza ad un’interferenza eccessiva.»

Potter fissò lo schermo. Per qualche motivo, stava ricordando la sua giovinezza, l’inizio dei suoi studi in medicina, e il giorno in cui aveva imparato quanto vicino fosse stato il proprio genotipo a quello degli Optimati. Scoprì che il vecchio nucleo d’odio si era trasformato in tolleranza leggermente divertita e in cinismo.

«Non capisco come facciano loro a tollerarla,» si stupì il suo interlocutore.

«Perché io ero molto vicino,» sussurrò Potter. Si chiese quanto vicino sarebbe stato l’embrione dei Durant. Farò del mio meglio, si ripromise.

L’altro si schiarì la gola, disse, «Bene, conto su di lei affinché svolga il suo compito alla perfezione. L’embrione dovrebbe fornire una verifica decisiva dell’intervento est…»

«Non dica stupidaggini!» lo interruppe seccamente Potter. «L’embrione confermerà il rapporto di Sven fino all’ultimo enzima. Lei pensi a fare il suo lavoro; noi faremo il nostro.» Schiacciò bruscamente il pulsante che interrompeva la comunicazione, poggiò il comunicatore video sulla scrivania e rimase seduto, fissandolo. «Stupido presuntuoso… no, non è colpa sua. Vive troppo vicino a loro. È colpa del modellamento originale. Forse sarei anch’io così, se mi avessero condizionato ad esserlo.»

Svengaard tentò di deglutire. Fino a quel momento non aveva mai udito un simile alterco, o una conversazione tanto franca, tra due uomini provenienti dalla Centrale.

«La vedo sorpreso, vero, Sven?» gli chiese Potter. Abbassò le gambe dalla scrivania sul pavimento.

Svengaard si strinse nelle spalle. Si sentiva a disagio.

Potter lo studiò. Svengaard, all’interno dei suoi limiti, era eccellente, ma mancava di immaginazione, di creatività. Era un bioingegnere brillante ma, poiché era privo di quelle qualità, spesso si rivelava uno strumento spuntato.

«Lei è un buon uomo, Sven,» gli disse. «Affidabile. Ecco cosa c’è scritto nel dossier su di lei: affidabile. Non cambierà mai. D’altronde è stato modellato a questo scopo. Ciò va benissimo, per il posto che occupa.»

Svengaard udì soltanto l’elogio. «Certo, fa sempre piacere sentirsi apprezzati, ma…»

«Ma abbiamo del lavoro da fare.»

«E adesso sarà ancora più difficile,» gli ricordò Svengaard.

«Pensa che quell’intervento esterno sia un fenomeno accidentale?» gli chiese Potter.

«Io… mi piacerebbe credere che,» Svengaard si umettò le labbra con la lingua, «non fosse voluto, che nessuno…»

«Le piacerebbe che si fosse trattato del caso, del principio di Heisenberg,» disse Potter. «Il principio di indeterminazione, il risultato delle nostre manipolazioni… un avvenimento casuale in un universo capriccioso.»

Svengaard fu ferito dal tono duro della voce di Potter e replicò, «Non è precisamente così. Intendevo soltanto dire che speravo che nessun super agente causale fosse intervenuto sull’em…»

«Dio? Non mi starà dicendo che teme che la modifica sia opera della mano di una divinità?»

Svengaard distolse lo sguardo. «Quando ero a scuola, ho assistito ad una sua conferenza. In quell’occasione ci spiegò che dovevamo essere sempre pronti ad affrontare il fatto che la realtà che percepiamo potrebbe rivelarsi estremamente differente da ciò che le nostre teorie ci inducono a sospettare.»

«Ho detto questo? L’ho detto sul serio?»

«Sì.»

«Qualcosa là fuori, eh? Qualcosa che i nostri strumenti non riescono a rilevare. Non ha mai sentito parlare di Heisenberg. Non è l’indeterminazione.» La voce di Potter si abbassò. «Agisce. Modifica.» Inclinò la testa. «Ah-hah! Il fantasma di Heisenberg è sistemato!»

Svengaard fissò infuriato Potter. Quell’uomo lo stava prendendo in giro. Replicò stizzosamente, «In effetti Heisenberg ha dimostrato che abbiamo dei limiti.»

«Ha ragione,» concesse Potter. «Il nostro è un universo piuttosto capriccioso. Ed è stato Heisenberg ad insegnarcelo. C’è sempre qualcosa che non riusciamo ad interpretare o comprendere… o misurare. E ci ha preparato questo bell’enigma, eh?» Potter diede un’occhiata al suo orologio da dito, poi guardò di nuovo Svengaard. «Noi di solito interpretiamo ciò che ci circonda sulla base di categorie percettive proprie della nostra mente. La nostra civiltà ha studiato l’indeterminazione basandosi proprio su Heisenberg. Ma se il suo insegnamento è davvero valido, come facciamo a stabilire se un avvenimento inspiegabile è opera del caso oppure riflette la volontà di Dio? Anzi, a cosa serve porsi una domanda del genere?»

Svengaard replicò in tono difensivo, «Be’, in qualche modo ce la caviamo.»

Potter lo sorprese scoppiando a ridere, con la testa inarcata all’indietro, il corpo squassato dalle risate. Poi il riso si acquietò e Potter disse, «Sven, lei è impagabile. Sul serio. Se non fosse per quelli come lei, saremmo ancora all’età della pietra, staremmo ancora tentando di sfuggire ai ghiacciai e alle tigri dai denti a sciabola.»

Svengaard si sforzò di non replicare in tono rabbioso e ribatté, «E allora, loro cosa pensano che sia quella modifica della quantità dell’arginina?»

Potter lo fissò, studiandolo, poi rispose. «Che io sia dannato se non l’avevo sottovalutata, Sven. Tutte le mie scuse, eh?»

Svengaard fece spallucce. Quel giorno Potter si stava comportando in modo strano: reazioni sorprendenti, strani sfoghi emotivi. «Ma lei sa cosa ne dicono loro di tutta la faccenda?»

«Ha sentito quel che ha detto Max Allgood al telefono,» gli rispose Potter.

E così si trattava veramente di Allgood, pensò Svengaard.

«Certo che lo so,» brontolò Potter. «Max non ha capito nulla. Loro dicono che la manipolazione genetica forza la mano alla natura — che non può essere ridotta ad un sistema meccanico, e che di conseguenza non si può renderla stazionaria. Non si può impedire il mutamento, capisce? Si tratta di un sistema esteso, l’energia cerca un livello a cui…»

«Sistema esteso?» ripeté Svengaard.

Potter sollevò lo sguardo sul viso di Svengaard, su cui era visibile un’espressione di sconcerto. La domanda concentrò di colpo l’attenzione di Potter sulle differenze che correvano tra gli schemi mentali di coloro che lavoravano a stretto contatto con la Centrale, e quanti invece riuscivano soltanto a sfiorare il mondo degli Optimati, attraverso resoconti di seconda mano e illazioni.

Siamo così diversi, pensò Potter. Proprio come gli Optimati sono diversi da noi e Sven è diverso dagli Steri o dai Fertili. Siamo isolati uno dall’altro… e nessuno di noi ha un passato. Solo gli Optimati lo posseggono. Ma si tratta di un passato individuale… egoisticamente personale… e antico.

«Sì, un sistema esteso,» spiegò Potter. «Sia a livello microcosmico che macrocosmico, loro sostengono che tutto è basato su sistemi ordinati. Il concetto di materia è decisamente fallace. Tutto viene generato da collisioni di campi energetici: alcuni di grandi proporzioni che agiscono rapidamente e in maniera spettacolare… altri, più piccoli, che operano lentamente, gentilmente. Ma anche questo è relativo. L’energia possiede infiniti aspetti. Tutto dipende dal punto di vista dell’osservatore. Ogni volta che esso muta, cambiano anche le regole con cui avvengono le collisioni. Esiste un numero infinito di regole, e ogni insieme di esse dipende da due fattori di eguale importanza: il punto di vista e l’ambito in cui operano le stesse regole. In un sistema esteso, questo intervento esterno assume l’aspetto di un nodo su di un’onda regolare. Ecco cosa dicono loro.»

Svengaard scese dalla scrivania e rimase immobile, in preda allo sbalordimento. Ebbe l’impressione di aver appena intravisto un livello di comprensione più alto, che avrebbe potuto rispondere a tutte le domande che lui si era posto sull’universo.

È veramente così lavorare nella Centrale? si chiese.

«Una teoria ardita, non è vero?» gli chiese Potter. Si alzò. «Un’idea davvero grandiosa!» Ridacchiò. «Sa, un certo Diderot aveva avuto un’idea del genere. Intorno al 1750. E adesso loro ce la ripropongono. Che grande saggezza!»

«Forse Diderot era… uno di loro,» azzardò Svengaard.

Potter sospirò, pensando, Quanta ignoranza produce il conoscere soltanto una storia manipolata. Poi si chiese quanto fosse manipolata la storia che conosceva lui.

«Diderot era uno come noi,» ringhiò.

Svengaard lo fissò, ridotto al silenzio dalla… bestemmia che l’altro aveva pronunciato.

«Tutto si riduce a questo,» disse Potter. «Alla Natura non piace che ci si immischi nei suoi affari.»

Suonò un campanello, situato sotto la scrivania di Svengaard.

«La Sicurezza?» chiese Potter.

«Questo è il segnale che è tutto a posto,» lo informò Svengaard. «Possiamo iniziare.»

«I pezzi grossi della Sicurezza sono al loro posto,» commentò Potter. «Avrà notato che non si sono neppure sognati di venire qui a dirci qualcosa. Sorvegliano anche noi, sa.»

«Io… non ho nulla da nascondere.» disse Svengaard.

«Certo che no,» lo rassicurò Potter. Girò intorno alla scrivania, passò un braccio sulle spalle di Svengaard. «Andiamo, è tempo di indossare la maschera di Archeo. Stiamo per dare forma e organizzazione ad un essere vivente. Siamo davvero degli dèi.»

Svengaard era ancora confuso. «Cosa faranno… ai Durant?» chiese.

«Fare? Nulla, dannazione… a meno che i Durant non li costringano. I Durant non si accorgeranno neppure di essere sorvegliati. I tizi della Centrale osserveranno tutto quello che succede nella sala. I Durant non potranno nemmeno ruttare, senza che il gas emesso venga analizzato. Su, venga, andiamo.»

Ma Svengaard si ritrasse. «Dottor Potter,» chiese, «secondo lei, che cosa ha introdotto la catena di arginina nella morula dei Durant?»

«Sono più vicino alla sua ipotesi di quanto lei pensa,» rispose Potter. «Stiamo lottando contro… l’instabilità. Abbiamo sconvolto gli schemi dell’ereditarietà con i nostri falsi isomeri, la somministrazione di enzimi e i raggi a mesoni. Abbiamo indebolito la stabilità chimica delle molecole del plasma germinale. Lei è un dottore. Pensi alle dosi di enzimi che dobbiamo prendere per rimanere in vita, a quanto profondamente siamo stati modificati. Ma non è sempre stato così. E qualsiasi cosa abbia prodotto la stabilità originaria, essa è ancora attiva e lotta. Ecco, è questo ciò che io penso.»

CAPITOLO TERZO

Le infermiere addette al laboratorio posizionarono la vasca sotto la console degli enzimi, prepararono i tubi e l’analizzatore collegato al computer. Lavoravano in silenzio, con efficienza, mentre Potter e Svengaard esaminavano i quadranti. L’infermiera addetta al computer sistemò i nastri e controllò l’apparecchio, che emise una breve serie di ronzii e ticchettii.

Potter si sentiva invaso dall’ansia che l’assaliva prima di ogni intervento. Sapeva che ad essa sarebbe subentrata la nervosa sicurezza dell’azione, ma per il momento era pronto a scattare per un nonnulla. Diede un’occhiata agli indicatori della vasca. Il ciclo di Krebs si manteneva a 86,9: più di sessanta punti al di sopra della cifra che avrebbe indicato la morte dell’embrione. L’infermiera addetta alla vasca si avvicinò, controllò la sua maschera a respiratore. Potter provò il microfono. «Un bel cane arrabbiato… aveva trovato un grosso embrione malato.»

Udì distintamente il risolino dell’infermiera addetta al computer, le lanciò un’occhiata, ma la donna gli volgeva le spalle e aveva il volto nascosto dal cappuccio e dalla maschera.

«Il microfono funziona, Dottore,» lo informò l’infermiera addetta alla vasca.

Potter non riusciva a vedere le sue labbra, ma le guance, mentre parlava, si erano increspate.

Svengaard fletté le dita coperte dai guanti, respirò profondamente. Nell’aria era percepibile un lieve odore di ammoniaca. Si chiese perché mai Potter si prendesse sempre la briga di scherzare con le infermiere. In un certo senso, aveva l’impressione che, così facendo, sminuisse la sua posizione di bioingegnere.

Potter si avvicinò alla vasca. Mentre camminava, il suo camice sterile emise un fruscio familiare. Sollevò lo sguardo verso lo schermo applicato sulla parete, che mostrava più o meno cosa vedeva il chirurgo e che inviava le immagini alla sala in cui erano ospitati i Durant. Lo schermo gli mostrò l’immagine di se stesso, quando Potter rivolse verso di esso la lente applicata alla fronte.

Al diavolo i genitori, pensò. Mi fanno sentire colpevole… tutti quanti.

Concentrò nuovamente la propria attenzione sulla vasca, che adesso era piena di strumenti. Il gorgoglio della pompa lo irritò.

Svengaard si avvicinò all’altro lato della vasca, in attesa. La maschera gli copriva la metà inferiore del volto, ma gli occhi conservavano un’espressione tranquilla. L’uomo emanava fiducia, sicurezza.

Ma cosa prova veramente? si chiese Potter. Poi ricordò a se stesso che in un’emergenza non c’era un assistente migliore di Svengaard.

«Può iniziare ad aumentare il flusso di acido piruvico,» gli disse.

Svengaard annuì, premette il pulsante dell’apparecchio dispensatore.

L’infermiera addetta al computer iniziò a far girare le bobine.

Osservarono i quadranti mentre il ciclo di Krebs iniziava ad aumentare 87,0… 87,3… 87,8… 88,5… 89,4… 90,5… 91,9…

Ora, pensò Potter, è iniziato il processo irreversibile di crescita. Solo la morte potrà interromperlo. «Mi avverta quando il ciclo di Krebs raggiunge i centodieci,» disse.

Mise in posizione il microscopio e i micromanipolatori e li assicurò ai supporti. Vedrò anch’io quel che ha visto Sven? si chiese. Ma sapeva che era improbabile. Il fulmine proveniente dall’esterno non colpiva mai due volte nello stesso punto. Colpiva. Compiva ciò che nessuna mano umana avrebbe potuto fare. Spariva.

Ma dove?

Le lacune inter-ribosomali vennero messe a fuoco. Le osservò, aumentò l’ingrandimento e individuò le spirali del DNA. Sì — la situazione era quella descritta da Svengaard. L’embrione dei Durant era uno di quelli che potevano avere accesso al mondo super-umano della Centrale… se l’intervento fosse riuscito.

Stranamente, quella conferma scosse Potter. Rivolse la sua attenzione alle strutture del mitocondrio, notando le tracce, chiarissime, dell’intrusione. Corrispondeva perfettamente alla descrizione di Sven. Le spirali alfa avevano iniziato a rafforzarsi, ri velando le tipiche striature dei mutamenti intervenuti nella quantità di aneurina. Quell’embrione avrebbe resistito al chirurgo. L’intervento sarebbe stato tra i più difficili.

Potter si raddrizzò.

«Allora?» chiese Svengaard.

«È proprio come mi aveva detto,» rispose Potter. «Un lavoro molto semplice.» Quella frase fu pronunciata a beneficio dei genitori che li stavano osservando.

Poi si chiese cosa stesse scoprendo sui Durant la Sicurezza. Forse erano carichi di sonde e sensori mascherati da oggetti di uso comune? Era possibile. Ma correvano voci su nuove tecniche usate dai membri dell’Associazione dei Genitori Clandestini… e sui Cyborg, che stavano emergendo dalla fitta oscurità in cui avevano agito per secoli — ammesso che trattasse davvero di Cyborg. Potter non era troppo convinto.

Svengaard si rivolse all’infermiera addetta al computer, «Inizi a diminuire la somministrazione di acido piruvico.»

«Fatto,» annunciò la donna.

Potter concentrò la propria attenzione sulla console che ospitava le sostanze di importanza prioritaria: per prime le piramidine, gli acidi nucleici e le proteine, poi aneurina, riboflavina, piridossina, acido pantotenico, acido folico, colina, inositol, sulfidril…

Si schiarì la gola, mentre formulava un piano d’azione per superare le difese di cui disponeva la morula. «Tenterò di trovare una cellula pilota mascherando la cisteina in un singolo punto,» annunciò. «Stia pronto col sulfidril e prepari un nastro intermedio per la sintesi proteica.»

«Pronti,» annunciò Svengaard. Rivolse un cenno del capo all’infermiera addetta al computer, che inserì il nastro con gesti fluidi, sicuri.

«Ciclo di Krebs?» chiese Potter.

«Sta per arrivare a centodieci,» disse Svengaard.

Silenzio.

«Centodieci,» avvertì Svengaard.

Potter si piegò di nuovo sul microscopio. «Fate partire il nastro,» ordinò. «Due minimi di sulfidril.»

Aumentò lentamente l’ingrandimento, scelse una cellula per effettuare il mascheramento. Dopo che la visione confusa provocata dall’intrusione del microscopio si fu schiarita, osservò le cellule circostanti per assicurarsi che la mitosi procedesse secondo la tangente fissata da lui. Il processo era lento… lento. Aveva appena iniziato, e già, attraverso i guanti, si sentiva le mani madide di sudore.

«Pronti con il trifosfato di adenosina,» disse.

Svengaard inserì il tubo del dispensatore nei micromanipolatori, annuì in direzione dell’infermiera addetta alla vasca. Stavano già facendo ricorso all’ATP. L’intervento non sarebbe stato dei più facili.

«Cominciare con un minimo di ATP,» comunicò a Svengaard.

Quest’ultimo premette un pulsante del dispensatore. Il fruscio del nastro del computer parve aumentare d’intensità.

Potter sollevò momentaneamente la testa dal microscopio, la scosse. «Questa cellula non va bene,» annunciò. «Proveremo con un’altra. Stessa procedura.» Si chinò di nuovo sul microscopio, mosse i micromanipolatori, aumentando l’amplificazione di una tacca alla volta. Penetrò lentamente nella massa cellulare. Delicatamente… delicatamente… Anche la semplice presenza del microscopio poteva provocare danni irreparibili.

Ahh, pensò, individuando una cellula attiva all’interno della morula. In essa la stasi aveva prodotto un rallentamento delle funzioni vitali relativamente contenuto. Nella cellula era possibile osservare un’intensa attività chimica. Riconobbe, mentre passavano attraverso il campo di visione del microscopio, due coppie basiche legate a una spirale complessa di fosfato di zucchero.

L’ansietà che aveva provato all’inizio era svanita: ora era stata sostituita dall’abituale sicurezza e provava la sensazione, a lui ben nota, che la morula fosse un oceano in cui nuotava, che l’interno della cellula fosse il suo habitat naturale.

«Due minimi di sulfidril,» disse.

«Sulfidril, due minimi,» ripeté Svengaard. «Pronto con l’ATP.»

«Ora,» disse Potter, che poi spiegò, «Sto per inibire la reazione di scambio nei sistemi mitocondrici. Cominciare con oligomicina e azide.»

Svengaard dimostrò la sua abilità obbedendo a Potter senza la minima esitazione. L’unico segno che manifestò del suo essere a conoscenza dei pericoli che comportava quella procedura fu la domanda, «Devo tener pronto un agente scorporante?»

«Stia pronto con l’arsenato numero uno,» rispose Potter.

«Il ciclo di Krebs sta diminuendo,» li informò l’infermiera addetta al computer. «Ora è a 89,4.»

«Effetto d’intrusione,» annunciò Potter. «Somministri 0,6 minimi di azide.»

Svengaard premette il pulsante.

«Zero virgola quattro di oligomicina,» disse poi.

Potter ormai aveva l’impressione di vivere soltanto attraverso gli occhi incollati all’oculare del microscopio e le mani che guidavano i micromanipolatori. La sua stessa esistenza si era trasferita nella morula, si era fusa in essa.

Gli occhi gli dissero che la mitosi periferica era cessata… come avrebbe dovuto, dopo la somministrazione di quei particolari enzimi. «Penso che ci siamo,» disse. Lasciò un segnale per individuare la posizione del microscopio, ne modificò l’ingrandimento, e si occupò delle spirali del DNA, alla ricerca dello squilibrio idrossilico, che avrebbe prodotto una valvola cardiaca difettosa. Ora che aveva individuato la cellula pilota, si era trasformato nell’artista, nell’abilissimo bioingegnere. Iniziò a riplasmare il delicato equilibrio chimico della struttura interna.

«Attivare il generatore,» annunciò.

Svengaard obbedì, mettendo in funzione il generatore di mesoni. «Attivato,» confermò.

«Il ciclo di Krebs è a settantuno,» annunciò l’infermiera addetta al computer.

«Primo taglio,» disse Potter. Liberò una singola, accurata, scarica di mesoni, osservò il caos turbinante che seguì. L’appendice idrossilica svanì. I nucleotidi si riformarono.

«Emoproteina P-450,» disse Potter. «Pronto a ridurla con NADH.» Attese, studiando le proteine globulari che si formavano davanti ai suoi occhi, osservando le molecole biologicamente attive. Adesso! L’istinto e l’esperienza si unirono per suggerirgli il momento adatto. «Due minimi e mezzo di P-450,» ordinò.

Nel cuore della cella il caos parve inghiottire un gruppo di catene di polipeptidi.

«Ridurre la quantità,» avvertì.

Svengaard regolò il dispensatore di NADH. Non vedeva direttamente ciò che vedeva Potter, ma la lente sulla fronte dell’altro gli rimandava un’immagine leggermente distorta del campo di visione del microscopio. Questo, oltre le istruzioni di Potter, gli faceva comprendere che nella cellula era un atto un lento processo di mutamento.

«Ciclo di Krebs a cinquantotto,» comunicò l’infermiera addetta al computer.

«Secondo taglio,» annunciò Potter.

«Generatore pronto,» disse Svengaard.

Potter cercò l’isovaltina responsabile del mixedema latente, la trovò. «Mi dia un nastro sulla struttura,» disse. «S-isopropylcarbossimetilcisteina.»

Il nastro del computer sibilò sulle bobine, si fermò, riprese a scorrere con ritmo lento, regolare. Nel quadrante superiore destro del campo di visione del microscopio apparve l’immagine di riferimento dell’isovaltina. Potter paragonò i due tracciati punto per punto, ordinò, «Via il nastro.» L’immagine di riferimento scomparve.

«Ciclo di Krebs a quarantasette,» lo informò l’infermiera.

Potter tirò un respiro profondo, un po’ tremulo. Altri ventisette punti e l’embrione dei Durant avrebbe rischiato di morire.

Deglutì, puntò il fascio di mesoni.

L’isovaltina venne vaporizzata.

«Pronto con la cicloserina,» lo avvertì Svengaard.

Ah, il buon vecchio Sven, pensò Potter. Non c’è bisogno di spiegargli volta per volta ciò che deve fare.

«Confronto su D-4-aminoisoxazolidone-2,» disse Potter.

L’infermiera addetta al computer preparò il nastro, disse, «Confronto pronto.»

L’immagine di riferimento comparve nel campo di visione di Potter. «Fatto,» disse. L’immagine svanì. «Uno virgola otto minimi.» Osservò l’interazione tra i vari gruppi enzimici mentre Svengaard somministrava la cicloserina. Il gruppo amino mostrava un ottimo campo aperto di affinità. L’RNA messaggero si adattava perfettamente ai suoi opercoli.

«Ciclo di Krebs trentotto virgola sei,» riferì l’addetta al computer.

Dovremo rischiare, pensò Potter. Questo embrione non tollererà ulteriori modifiche.

«Riducete della metà la stasi,» ordinò. «Aumentare l’ATP. Dieci minimi di acido piruvico.»

«Stasi in diminuzione,» disse Svengaard. E pensò, Ci siamo vicini. Premette i pulsanti dell’ATP e dell’acido piruvico.

«Datemi il ciclo di Krebs a intervalli di mezzo punto,» disse Potter.

«Trentacinque,» lesse l’infermiera. «Trentaquattro virgola cinque. Trentaquattro. Trentatré virgola cinque.» La sua voce iniziò ad acquisire un tono incalzante, teso: «Trentatré… trentadue… trentuno… trenta… ventinove…»

«Interrompete la stasi,» disse Potter. «Mostratemi lo spettro completo di aminoacidi con istidina attivata. Incominciate a somministare pirodossina — quattro virgola due minimi.»

Le mani di Svengaard volarono sui pulsanti.

«Utilizzare di nuovo il nastro delle proteine,» ordinò Potter. «Registrare lo schema del DNA utilizzando i dispositivi automatici del computer.»

I nastri frusciarono sulle bobine.

«Sta rallentando,» commentò Svengaard.

«Ventidue,» stava annunciando l’addetta al computer. «Ventuno e nove… ventidue… ventuno e nove… ventidue e uno… ventidue e due… ventidue e uno… ventidue e due… ventidue e tre… ventidue e quattro… ventidue e cinque… ventidue e sei… ventidue e cinque.»

Potter assisteva con trepidazione a quella lotta dall’esito incerto. La morula era vicinissima alla morte. Nei minuti seguenti avrebbe potuto sopravvivere o soccombere. Oppure venire menomata. Cose del genere succedevano. Quando il danno subito era troppo grave, la vasca veniva spenta, e il suo contenuto gettato via. Ma Potter ormai si era identificato con quell’embrione. Sentiva di non poterlo perdere.

«Desensibilizzatore mutagene,» disse.

Svengaard esitò. Il ciclo di Krebs seguiva una lenta curva sinuosidale che tendeva pericolosamente a valori a cui l’embrione sarebbe morto. Sapeva perché Potter aveva preso quella decisione, ma bisognava anche tener conto che quella decisione avrebbe potuto generare nell’embrione una tendenza a contrarre tumori. Si chiese se avrebbe dovuto tentare di persuadere Potter a desistere. Meno di quattro punti dividevano l’embrione dalla dissoluzione finale, dal nulla della morte. La somministrazione di mutageni poteva provocare una crescita rapidissima oppure distruggerlo. E anche se i mutageni avessero funzionato, l’embrione sarebbe stato vulnerabile a processi cancerosi.

«Desensibilizzatore mutagene!» ripeté Potter.

«Dosaggio?» chiese Svengaard.

«Mezzo minimo in frazioni. Ci penserò io a somministrarlo.»

Svengaard premette i tasti dell’apparecchio dispensatore, gli occhi fissi sul monitor che gli forniva i dati sul ciclo di Krebs. Non aveva mai udito che un simile, drastico procedimento fosse stato applicato ad un embrione tanto vicino alla morte. Di solito i mutageni venivano usati per embrioni parzialmente difettosi di Steri, una mossa che talvolta produceva effetti drammatici. Era come scuotere un secchio pieno di sabbia per pareggiare i grani. Eppure, qualche volta, il plasma germinale, stimolato dal mutagene, realizzava da solo un equilibrio migliore. Di tanto in tanto veniva prodotto addirittura qualche embrione fertile… ma mai un Optimate.

Potter ridusse l’ingrandimento, studiò ì movimenti che avvenivano nell’embrione. Premette delicatamente i tasti del dispensatore, poi cercò i segni che rivelavano che l’embrione avrebbe generato un Optimate. L’attività cellulare rimaneva incerta, parzialmente confusa.

«Ciclo di Krebs: ventidue e otto,» disse l’addetta al computer.

È leggermente aumentato, pensò Potter.

«Molto lento,» commentò Svengaard.

Potter continuò ad osservare la morula. Stava crescendo, espandendosi in maniera irregolare, lottando con tutta la forza immagazzinata nel suo microscopico interno.

«Ciclo di Krebs: trenta virgola quattro,» disse Svengaard.

«Sto per cessare la somministrazione di mutageni,» annunciò Potter. Puntò il microscopio su di una cellula periferica, desensibilizzò le nucleoproteine, cercò le configurazioni difettose.

La cellula era perfetta.

Potter si dedicò alle spirali di DNA con un senso crescente di meraviglia.

«Ciclo di Krebs: trentasei e otto, in aumento,» disse Svengaard. «Inizio a somministrare colina e aneurina?»

Potter rispose automaticamente; la sua attenzione era concentrata esclusivamente sulla struttura genetica della cellula. «Sì, inizi.» Completò l’esame, passò ad un’altra cellula periferica.

Era identica.

Un’altra ancora — sempre la stessa cosa.

Lo schema genetico alterato si era mantenuto, ma Potter comprese che si trattava di uno schema quale non si era più visto in un essere umano a partire dal secondo secolo di manipolazione genetica. Pensò di chiedere un confronto, tanto per essere sicuro. Senza dubbio il computer sarebbe stato in grado di fornirglielo. Nessuna registrazione veniva persa o buttata via. Ma non osava… c’era troppo in gioco. E poi sapeva di non aver bisogno del confronto. Quella struttura genetica era un classico, un esempio da manuale che lui aveva fissato quasi quotidianamente, durante tutto il periodo di apprendistato medico.

Lo schema del super-uomo, che aveva spinto Sven a chiamare uno specialista della Centrale, era lì, rafforzato dalla propria opera. Era però strettamente accoppiato a quello di piena fertilità. Le strutture base della longevità erano inscritte nelle configurazioni della struttura genetica.

Se quell’embrione avesse raggiunto la maturità e avesse incontrato una compagna fertile, avrebbe potuto generare bambini vivi e in perfetta salute, senza l’interferenza di un ingegnere genetico. Non aveva bisogno di enzimi per sopravvivere. Senza di essi, avrebbe vissuto una vita dieci volte più lunga di quella media di un essere umano… e con alcune lievi modifiche enzimatiche avrebbe potuto entrare a far parte dei ranghi degli immortali.

L’embrione dei Durant avrebbe potuto dar origine ad un’altra razza — simile a quella degli Optimati, ma sotto alcuni aspetti drammaticamente diversa. La progenie di quell’embrione avrebbe potuto inserirsi nei ritmi della selezione naturale… totalmente al di fuori del controllo degli Optimati.

Era lo schema da cui nessun umano poteva scostarsi troppo e sperare di sopravvivere, e tuttavia era ciò che la Centrale temeva maggiormente.

Durante il corso di studi, ad ogni ingegnere genetico era stata ripetuta continuamente la teoria che la selezione naturale è un’assurdità che condanna le sue vittime a esistenze opache, vuote.

Solo le ragioni degli Optimati, e la loro logica, dovevano effettuare la selezione.

Come se avesse avuto la possibilità di scrutare il futuro, Potter provò la profonda certezza che l’embrione dei Durant, se fosse maturato, avrebbe davvero incontrato una compagna fertile. Quell’embrione aveva ricevuto un dono dall’esterno - una grossa quantità di spermo-arginina, che costituiva la chiave della sua fertilità. Durante il flusso di mutageni che aveva aperto i centri attivi del DNA, lo schema genetico dell’embrione era stato plasmato in una forma stabile che nessun umano avrebbe osato tentare di realizzare.

Perché ho somministrato i mutageni proprio in quel momento? si chiese Potter. Sapevo che era ciò che dovevo fare. Ma come facevo a saperlo? Forse sono stato usato come strumento da una forza esterna?

«Ciclo di Krebs: cinquantotto, in rapido aumento,» lo informò Svengaard.

Potter moriva dalla voglia di discutere quel problema con Svengaard… ma c’erano i dannati genitori e quelli della Sicurezza… che lo osservavano. È possibile che qualcun altro abbia visto o sappia abbastanza di questo schema da aver compreso cosa è successo qui dentro! si chiese.

Ma perché ho usato i mutageni!

«Riesce già a vedere lo schema?» chiese Svengaard.

Ormai l’embrione stava crescendo rapidamente. Potter studiò il ritmo di proliferazione delle cellule stabilizzate. Era meraviglioso.

«Ciclo di Krebs: sessantaquattro virgola sette,» annunciò Svengaard.

Ho aspettato troppo a lungo, pensò Potter. I pezzi grossi della Centrale si chiederanno perché ho aspettato tanto a lungo, prima di uccidere quest’embrione. Ma non posso farlo! È così meraviglioso.

La Centrale perpetuava il proprio potere mantenendo il mondo completamente ignaro del suo dominio, e concedendo ai suoi spenti schiavi dosi di enzimi che per loro rappresentavano l’unica possibilità di rimanere in vita.

Un detto della Gente recitava: «In questo mondo ci sono due mondi — uno che non lavora e vive sempre; uno che non vive e lavora sempre.»

Lì, in una vasca di cristallo, era ospitato un minuscolo agglomerato di cellule, una creatura vivente con un diametro minore di sei decimi di millimetro, e che possedeva la capacità di vivere la propria vita fuori del controllo della Centrale.

Quella morula doveva morire.

Mi ordineranno di ucciderla, pensò Potter. E io diventerò un uomo sospetto… finito. E cosa accadrebbe se quest’embrione riuscisse a sopravvivere? Cosa ne sarebbe dell’ingegneria genetica? Ritorneremmo a correggere difetti minori… come facevamo prima di iniziare a plasmare superuomini?

Superuomini!

Nella propria mente, Potter fece quel che non poteva fare apertamente: maledisse gli Optimati. Erano enormemente potenti, in grado di dare, in un solo istante, la vita o la morte. Molti di essi possedevano menti geniali. Ma dipendevano dagli enzimi quanto qualunque Steri o Fertile. E c’erano individui brillanti quanto loro tra gli Steri, i Fertili… e tra gli ingegneri genetici.

Ma nessuno di essi poteva vivere per sempre, reso sicuro dal possesso di un potere brutale, assoluto.

«Ciclo di Krebs: cento esatti,» disse Svengaard.

«Ci siamo riusciti,» replicò Potter. Si arrischiò a sbirciare l’addetta al computer, ma la donna gli volgeva le spalle, tutta presa dalle sue apparecchiature. Senza la registrazione effettuata dal computer, sarebbe stato possibile nascondere cosa era avvenuto nel laboratorio. Ma con la registrazione disponibile all’esame della Sicurezza e degli Optimati, ciò si sarebbe rivelato affatto impossibile. Svengaard non aveva visto abbastanza. Le lenti fissate alla fronte riflettevano in maniera approssimativa il campo di visione del microscopio. Le infermiere addette alla vasca non sarebbero state neppure in grado di sospettare ciò che era successo. Soltanto l’addetta al computer, con il suo piccolo monitor, avrebbe potuto sapere… e la registrazione completa era conservata nella macchina: uno schema di onde magnetiche incise su nastro.

«Questo è il livello più basso a cui abbia visto scendere il Ciclo di Krebs senza che l’embrione morisse,» rifletté Svengaard.

«A quanto era sceso?» chiese Potter.

«Ventuno e nove,» rispose Svengaard. «Venti è il valore minimo, ma non ho mai sentito di un embrione che sia sceso al di sotto di venticinque, e che poi sia sopravvissuto. E lei, Dottore?»

«No, neppure io.»

«Abbiamo ottenuto lo schema che volevamo?» volle sapere Svengaard.

«Per ora, non voglio interferire troppo,» rispose Potter.

«Ovviamente,» disse Svengaard. «Qualunque cosa succeda, si è trattato di un intervento magistrale!»

Intervento magistrale! pensò con sarcasmo Potter. Cosa direbbe questo sciocco se gli rivelassi cosa ho ottenuto? Un embrione fertile. Un Totale. Lo uccida, mi direbbe. Non avrà bisogno di enzimi e potrà generare. Non ha un difetto… neppure uno. Lo uccida, mi direbbe. È uno schiavo fedele. L’intera triste storia dell’ingegneria genetica potrebbe trovare la sua giustificazione in quest’unico embrione. Ma l’istante dopo che alla Centrale avranno terminato di visionare il nastro, l’embrione verrà distrutto.

Eliminatelo, diranno… poiché non amano usare parole come "uccidere" o "morte".

Potter si chinò sul microscopio. L’embrione era bellissimo, sia pure nella sua terribilità.

Potter arrischiò un’altra occhiata all’infermiera addetta al computer. La donna si girò, con la mascherina abbassata, incontrò il suo sguardo, sorrise. Era un sorriso d’intesa, furtivo, il sorriso di una cospiratrice. Poi sollevò un braccio per tergersi il sudore dalla fronte. La manica sfiorò un pulsante. Uno stridio acuto, metallico, provenne dalla console del computer. L’infermiera si voltò di scatto verso l’apparecchiatura, rantolò, «Oh, mio Dio!» Le sue mani volarono sulla tastiera, ma il nastro continuò a scorrere sibilando attraverso il meccanismo di trasporto. La donna si voltò, tentò di togliere la copertura trasparente della console di registrazione. Le grandi bobine giravano follemente.

«Si è guastato!» esclamò l’infermiera.

«È bloccato su CANCELLARE!» gridò Svengaard. Balzò accanto all’infermiera, tentò anche lui di rimuovere la copertura, che si incagliò nelle scanalature.

Come se fosse immerso in una trance, Potter rimase a guardare mentre l’ultimo tratto del nastro passava in un lampo sulle testine e iniziava a riavvolgersi sull’altra bobina.

«Oh, Dottore, abbiamo perso la registrazione!» gemé l’infermiera.

Potter concentrò la sua attenzione sul piccolo monitor dell’infermiera. Avrà seguito attentamente l’intervento? si chiese. Qualche volta osservano queste operazioni passo passo… e le infermiere addette ai computer la sanno lunga. Se ha osservato tutto, si farà fatta una buona idea di quel che è successo. O almeno avrà sospettato qualcosa. La cancellazione del nastro: ma si è davvero trattato di un incidente? Posso accettare una spiegazione del genere?

L’infermiera si voltò e affrontò il suo sguardo. «Oh, Dottore, sono così mortificata,» si scusò.

«Nessun problema, infermiera,» disse Potter. «Adesso in quell’embrione non c’è nulla di speciale, a parte il fatto che vivrà.»

«Non ci siamo riusciti, eh?» chiese Svengaard. «Devono essere stati i mutageni.»

«Sì,» disse Potter. «Ma senza di essi sarebbe morto.»

Poi fissò l’infermiera. Non ne era sicuro, ma pensò di aver scorto un’espressione di profondo sollievo apparire sul volto della donna.

«Preparerò una registrazione verbale dell’intervento,» disse Potter. «Per un embrione di questo tipo, dovrebbe essere più che sufficiente.»

E pensò, Quand’è che inizia una cospirazione? Forse ne sto iniziando una?

Be’, in caso affermativo c’era ancora tanto da fare. Nessun occhio esperto avrebbe più potuto guardare l’embrione attraverso l’oculare del microscopio, senza diventare un membro della congiura… o un traditore.

«Abbiamo ancora il nastro della sintesi proteica,» disse Svengaard. «Per comparazione, potremo ottenere i fattori chimici, e i tempi.»

Potter pensò a quel nastro. Poteva rivelarsi pericoloso? No: conservava i dati sulle sostanze usate durante l’intervento… ma non su come erano state usate.

«Andrà bene lo stesso,» disse. «Sì, andrà bene.» Indicò lo schermo. «L’intervento è terminato. Potete interrompere il circuito video diretto e far accompagnare i genitori in sala d’aspetto. Sono davvero spiacente di non aver potuto fare di più, ma l’embrione diverrà un essere umano in piena salute.»

«Uno Sterile?» gli chiese Svengaard.

«È troppo presto per azzardare conclusioni,» replicò Potter. Guardò l’infermiera addetta al computer. Era infine riuscita a rimuovere la copertura e a fermare i nastri. «Ha una qualche idea su ciò che ha causato il guasto?»

«Probabilmente la rottura di un solenoide,» ipotizzò Svengaard.

«Quest’equipaggiamento è molto vecchio,» disse l’infermiera. «Ho chiesto molte molte che venisse sostituito, ma sembra che non siamo molto in alto nella lista di priorità.»

E la Centrale ha una naturale ritrosia ad ammettere che qualsiasi cosa possa usurarsi, pensò Potter.

«Sì,» disse poi. «Bene, sono convinto che ora otterrà ciò che aveva chiesto.»

Qualcun altro l’ha vista mentre faceva scattare quell’interruttore? si chiese Potter. Tentò di ricordare dove stavano guardando tutti coloro che erano nella stanza al momento dell’incidente, timoroso che un monitor della Sicurezza avesse potuto tenere l’infermiera sotto sorveglianza. Se la Sicurezza si è accorta di quel che ha fatto, è spacciata. E anch’io sono finito.

«Il rapporto del tecnico sulle riparazioni effettuate dovrà essere accluso all’incartamento che riguarda questo caso,» disse Svengaard. «Presumo che lei…»

«Me ne occuperò io, Dottore,» lo tranquillizzò l’infermiera.

Voltandosi, Potter ebbe l’impressione che lui e la donna avessero appena finito di avere una conversazione silenziosa, sottintesa. Si accorse che il grande schermo era grigio e vuoto; i Durant non stavano più osservando. Se fanno parte dell’Associazione dei Genitori Clandestini, potrebbero rivelarsi utili. Bisogna fare qualcosa per quest’embrione. La cosa migliore sarebbe di portarlo fuori di qui… ma come?

«Mi occuperò io dei dettagli finali,» disse Svengaard. Iniziò a controllare i sigilli della vasca, i monitor delle funzioni vitali, poi cominciò a smontare il generatore di mesoni.

Qualcuno deve parlare con i genitori, rifletté Potter.

«I genitori saranno delusi,» commentò Svengaard. «Di solito conoscono il motivo per cui viene chiamato uno specialista… e probabilmente nutrivano grandi speranze.»

La porta che dava sulla stanza dei preparativi si aprì, e nel laboratorio entrò un uomo che Potter riconobbe come un agente della Sicurezza della Centrale. Era biondo, con un viso rotondo e lineamenti che si tendeva a dimenticare cinque minuti dopo averli visti. L’uomo attraversò la stanza e si fermò di fronte a Potter.

Per me è la fine, si chiese Potter. Poi si sforzò di chiedere con voce ferma, «Cosa mi dice dei genitori?»

«Sono puliti,» rispose l’agente. «Niente dispositivi camuffati, una conversazione normale… terribilmente banale, ma normale.»

«Neppure una minima traccia di altro?» chiese Potter. «Non potrebbero avervi giocato lo stesso senza far uso di strumenti?»

«Impossibile!» replicò brusco l’altro.

«Il Dottor Svengaard pensa che il padre abbia un istinto di protezione troppo accentuato, e che la madre possegga un istinto materno materno troppo sviluppato.»

«Le registrazioni d’archivio dicono che è stato lei a modellarli,» ribatté l’agente.

«È possibile,» concesse Potter. «Qualche volta bisogna concentrarsi sui difetti più grossi e trascurare quelli meno importanti, pur di salvare l’embrione.»

«E oggi, ha per caso trascurato qualcosa?» domandò l’agente. «Mi è parso di capire che il nastro è stato cancellato… un incidente.»

Sospetta qualcosa? si chiese Potter. L’entità del pericolo, il suo coinvolgimento personale in quella faccenda minacciarono di sopraffare la sua mente. Dovette compiere uno sforzo sovrumano per conservare un tono di voce calmo, quasi noncurante.

«Ovviamente tutto è possibile,» rispose. Si strinse nelle spalle. «Ma non credo che sia successo niente di strano. Salvando l’embrione, abbiamo perso lo schema genetico da Optimate, ma qualche volta succede. Non possiamo vincere sempre.»

«Dovremo controllare l’incartamento dell’embrione?» volle sapere l’agente.

Brancola ancora nel buio, si disse Potter. Rispose, «Come desidera. Molto presto preparerò un nastro con il resoconto verbale sull’intervento; probabilmente sarà tanto accurato quanto quello visivo. Può anche attendere che sia pronto per poi analizzarlo, prima di decidere.»

«Lo farò,» disse l’agente.

Svengaard aveva allontanato il microscopio dalla vasca. Potter si rilassò leggermente. Nessuno avrebbe potuto dare un’occhiata casuale, ma pericolosa, all’embrione.

«Immagino che tutte queste precauzioni non siano servite a nulla,» disse Potter. «Mi dispiace, ma i genitori hanno insistito per osservare.»

«Meglio precauzioni dieci volte più numerose, che una coppia di genitori che sa troppo,» replicò l’agente. «Come mai il nastro è stato cancellato?»

«Un incidente,» rispose Potter. «L’equipaggiamento era usurato. Tra breve, le forniremo il rapporto tecnico.»

«Eviti di citare nel rapporto l’incoveniente,» disse l’agente. «Mi basterà la comunicazione verbale. Ora Allgood deve mostrare ogni rapporto alla Tuyere.»

Potter si permise un cenno pieno di comprensione. «Non si preoccupi.» Gli uomini che lavoravano per la Centrale conoscevano bene quelle cose. Ciascuno tentava di celare agli Optimati particolari che avrebbero potuto turbarli.

L’agente si guardò intorno, commentò, «Qualche giorno non avremo più bisogno di tutta questa segretezza. E per me sarà sempre troppo presto.» Si voltò.

Potter lo guardò andar via, pensando a quanto superbamente quell’agente si adattasse allo svolgimento dei compiti che la sua professione richiedeva. Un esemplare perfetto, con un solo difetto: una mente troppo fredda, troppo incline alla logica, dotata di insufficiente immaginazione, impreparata ad esplorare le strade del caso.

Se mi avesse torchiato, sarei crollato, confessando tutto, rifletté Potter. Avrebbe dovuto essere più curioso sull’incidente. Ma noi tendiamo ad emulare i nostri padroni, perfino nei loro difetti.

Potter iniziò ad avere maggiore fiducia nel successo della sua inattesa avventura. Si voltò per aiutare Svengaard a sbrigare gli ultimi particolari, chiedendosi, Come faccio a sapere che l’agente ha creduto alla mia spiegazione? Quella domanda non fu accompagnata da alcuna sensazione di disagio. So che mi ha creduto, ma perché l’ha fatto?

Poi comprese che la propria mente aveva assorbito informazioni sui geni — il funzionamento interno delle cellule e le loro manifestazioni esteriori — per tanti di quegli anni che quella mole di dati si era fuso in un superiore livello di comprensione. Ormai era capace di intuire le reazioni condizionate dalla manipolazione genetica, anche in base ad indizi involontari.

Posso leggere nella mente delle persone!

Fu una rivelazione sconvolgente. Potter si guardò intorno, osservò le infermiere che stavano terminando di smontare le apparecchiature. Quando i suoi occhi si posarono sull’addetta al computer, lui seppe che la donna aveva cancellato deliberatamente il nastro. Non ebbe più alcun dubbio su quel particolare.

CAPITOLO QUARTO

Lizbeth e Harvey Durant uscirono mano nella mano dall’ospedale, dopo il colloquio sostenuto con i due dottori, Potter e Svengaard. Sorridevano e facevano ondeggiare allegramente le loro mani intrecciate come bambini in vacanza — e in un certo senso lo erano.

La pioggia del mattino era stata fatta cessare e le nuvole si erano spostate verso est, al di sopra delle alte cime che torreggiavano sulla Megalopoli di Seatac. Il cielo era di un azzurro ceruleo, e un sole capriccioso vi navigava alto.

Una folla di persone, in ordine sparso di marcia, stava attraversando il parco che si stendeva dall’altro lato della strada: si trattava ovviamente dei lavoratori di qualche fabbrica o di un gruppo di lavoro impegnato negli esercizi fisici obbligatori. Erano uguali uno all’altro, e solo qualche occasionale tocco di colore mitigava la loro uniformità: una sciarpa arancione sulla testa di una donna, un panciotto giallo indossato da un uomo, lo scarlatto di un feticcio della fertilità che pendeva da un cerchietto d’oro al lobo di un’altra donna. Un uomo indossava un paio di scarpe verde vivo.

Quei patetici tentativi di affermare la propria individualità in un mondo in cui l’uniformità era inscritta nel codice genetico fecero breccia nelle difese emotive di Lizbeth. Distolse il viso, per evitare che quella scena le cancellasse il sorriso dalle labbra, e chiese: «Dove andiamo?»

«Hmmm?» Harvey la fece fermare, e attesero che il resto del gruppo li superasse.

Tra i marciatori, dei volti si girarono per osservare con invidia Harvey e Lizbeth. Tutti sapevano perché i Durant erano lì. L’ospedale, la cui enorme mole in plasmeld si ergeva alle spalle della coppia, il fatto che fossero insieme, l’abbigliamento, i sorrisi… tutto contribuiva a indicare che erano in permesso di procreazione dai rispettivi lavori.

Ogni individuo in quella folla sperava disperamente in quella medesima scappatoia dalla monotonia quotidiana in cui erano tutti imprigionati. Gameti fertili, permesso di procreazione: quello era il sogno di tutti. Perfino coloro che sapevano di essere Sterili speravano ancora, alimentando le fortune di ciarlatani e fabbricanti di feticci.

Non hanno un passato, rifletté Lizbeth, ricordandosi di colpo un’osservazione comune a tutti i filosofi della Gente. Sono tutti senza passato, e hanno soltanto la speranza del futuro a cui aggrapparsi. In una qualche epoca, il nostro passato è svanito nelle tenebre; sono stati gli Optimati e i loro ingegneri genetici a cancellarlo.

Di fronte a quel pensiero, anche il permesso di procreazione perdeva il suo fascino speciale. I Durant potevano anche non essere costretti a svegliarsi in fretta e a separarsi per recarsi al lavoro, ma erano egualmente senza passato… e in un istante avrebbero potuto perdere il loro futuro. Il bambino che si stava formando nella vasca dell’ospedale… poteva ancora essere una parte di loro in alcuni piccoli particolari, ma i bioingegneri l’avevano cambiato. L’avevano tagliato fuori dal suo passato.

Lizbeth ricordò i propri genitori, il senso di estraneità che aveva provato nei loro confronti, la percezione di differenze che anche i legami di sangue erano incapaci di attenuare.

Erano i miei genitori soltanto in parte, pensò. Loro lo sapevano… e anch’io lo sapevo.

E allora iniziò a provare un senso di estraneità nei confronti del figlio non ancora completamente formato, un’emozione che sottolineva ancora di più le necessità del momento. A cosa serve ciò che stiamo facendo? si chiese. Ma conosceva bene la risposta: far cessare per sempre quell’amputazione continua del passato.

L’ultimo volto invidioso li aveva superati. La folla divenne una selva di schiene in movimento, contraddistinte da qualche chiazza di colore. Girarono l’angolo e scomparvero.

Anche noi abbiamo girato un angolo, senza alcuna possibilità di tornare indietro? si chiese Lizbeth.

«Andiamo a piedi alla metropolitana,» disse Harvey.

«Attraverso il parco?» chiese lei.

«Sì,» rispose Harvey. «Pensa: dieci mesi.»

«E poi potremo portare nostro figlio a casa,» disse Lizbeth. «Siamo davvero fortunati.»

«Dieci mesi — sembrerà un periodo di tempo lunghissimo,» disse Harvey.

Lizbeth gli rispose mentre attraversavano la strada ed entravano nel parco. «Sì, ma potremo vederlo ogni settimana, quando lo trasferiranno nella vasca grande… e mancano soltanto tre mesi.»

«Hai ragione,» ammise Harvey. «Saranno trascorsi prima di quanto pensiamo. E fortunatamente non è uno specialista o nient’altro. Potremo allevarlo in casa. Il nostro orario di lavoro verrà ridotto.»

«Quel dottor Potter è stato meraviglioso,» commentò Lizbeth.

Mentre parlavano, le loro mani intrecciate si muovevano esercitando con le dita le lievi pressioni e movimenti del codice segreto di conversazione che li classificava come Corrieri dell’Associazione Clandestina dei Genitori.

«Ci stanno ancora sorvegliando,» comunicò Harvey.

«Lo so.»

«Svengaard è inutile per noi: uno schiavo del potere.»

«Senza dubbio. Sai, non sapevo che l’addetta al computer fosse una dei nostri.»

«Anche tu te ne sei accorta?»

«Potter la stava guardando, quando lei ha fatto scattare l’interruttore.»

«Pensi che quelli della Sicurezza se ne siano accorti?»

«Assolutamente no. Erano troppo occupati a sorvegliare noi.»

«Forse non è una di noi,» ipotizzò Harvey. E poi disse ad alta voce, «È un giornata bellissima, vero? Prendiamo il sentiero fiorito.»

Lizbeth gli rispose con le dita, «Pensi che quell’infermiera sia un’Accidentale?»

«Può essere. Forse si è accorta di ciò che Potter aveva ottenuto e sapeva che c’era soltanto un modo per salvare l’embrione.»

«Allora qualcuno dovrà contattarla immediatamente.»

«Con molta catela, però. Potrebbe rivelarsi emotivamente instabile… neurotica.»

«E Potter?»

«Dobbiamo mandargli subito qualcuno dei nostri. Avremo bisogno di aiuto, se vogliamo far uscire di lì l’embrione.»

«Se accetterà, avremo dalla nostra parte nove chirurghi della Centrale,» gli fece notare Lizbeth.

«Se accetterà,» replicò Harvey.

La moglie lo fissò con un sorriso che celava alla perfezione la preoccupazione che l’aveva improvvisamente assalita. «Hai qualche dubbio?»

«È solo che, mentre lo leggevo, lui stava facendo lo stesso con me.»

«Oh, sì,» replicò Lizbeth. «Ma era lento… in confronto a noi.»

«Me ne sono accorto. Era come se fosse un dilettante alla sua prima volta, come se acquistasse maggiore confidenza man mano che procedeva.»

«Non è stato addestrato,» disse la moglie. «Questo è ovvio. Temevo che avessi letto in lui qualcosa che mi era sfuggito.»

«Penso che tu abbia ragione.»

In tutto il parco la luce del sole aveva trasformato il pulviscolo atmosferico in innumerevoli colonne che si alternavano agli alberi. Lizbeth osservò quella scena mentre rispondeva, «Non c’è alcun dubbio, caro. Potter è un Naturale, ha sviluppato per caso questo talento. Capita, lo sai, deve essere così. Nulla può impedirci di comunicare.»

«Questo non impedisce che loro ci provino.»

«Sì,» ammise Lizbeth. «Oggi non hanno fatto altro, quando ci sorvegliavano in quella sala. Ma gente che pensa in maniera meccanica non riuscirà mai a indovinare che le nostre armi sono le persone e non le cose.»

«È il loro punto debole più grave,» confermò Harvey. «La Centrale ha scavato i solchi genetici con la logica… e la logica continua a renderli sempre più profondi. Adesso sono così profondi che non si riesce più a vedere l’esterno.»

«E l’universo sterminato che ci sta chiamando,» segnalò lei.

CAPITOLO QUINTO

Max Allgood, il capo della Sicurezza, salì i gradini in plasmeld del palazzo dell’Amministrazione precedendo di poco i due bioingegneri che l’accompagnavano, come si addiceva a colui che dirigeva il rapido e terribile braccio esecutivo degli Optimati.

Il sole del mattino alle spalle del terzetto proiettò le loro ombre sugli angoli e le superfici del bianco edificio.

Furono inghiottiti dalla penombra argentea del portico d’ingresso, dove scese una barriera per l’inevitabile controllo. Sensori sensibilissimi li scrutarono, in cerca di microrganismi ostili.

Allgood sopportò l’esame con una pazienza scaturita dall’abitudine e studiò i suoi compagni — Boumour e Igan. Lo divertiva il pensiero che lì dentro tutti dovevano abbandonare i loro titoli. Nessun dottore era ammesso ad entrare in quell’edificio. Lì dovevano essere chiamati farmacisti. Il titolo di "dottore" suscitava negli Optimati una spiacevole inquietudine. Essi sapevano che i dottori esistevano, ma solo per prendersi cura dei semplici, della Gente. Nella Centrale si evitava di usare la parola "dottore", sostituita da un eufemismo, e del resto nessuno utilizzava parole come morte o uccidere, e neppure alludeva al fatto che una macchina o una qualsiasi struttura potessero usurarsi. Soltanto i nuovi Optimati nel loro periodo di apprendistato e i semplici di aspetto giovanile prestavano servizio in Centrale, sebbene alcuni semplici fossero stati mantenuti in servizio dai loro padroni per periodi considerevoli.

Boumour e Igan superarono entrambi l’esame, anche se il volto di Boumour, appuntito e simile a quello di un elfo, lo faceva sembrare più anziano di quanto fosse in realtà. Era un uomo massiccio, dalle spalle poderose. Al suo confronto, Igan appariva snello e fragile, con il mento lungo e una bocca piccola e stretta. Gli occhi di entrambi avevano il colore di quelli degli Optimati: un azzurro penetrante. Probabilmente erano quasi-Optimati. La maggior parte dei dottori-farmacisti della Centrale lo erano.

I due apparivano a disagio sotto gli occhi di Allgood, ed evitavano il suo sguardo. Boumour iniziò a parlare a bassa voce con Igan, con una delle sue mani, appoggiata sulla spalla dell’altro, che aveva iniziato a muoversi nervosamente. Il movimento della mano di Boumour sulla spalla di Igan parve familiare ad Allgood, che provò la sensazione di aver già visto in precedenza qualche cosa del genere, in qualche altro posto. Ma non riuscì a ricordare dove.

L’esame continuò, e Allgood ebbe l’impressione che durasse più a lungo del solito. Spostò la propria attenzione allo scenario che circondava l’edificio. Era stranamente pacifico, in pieno contrasto con l’atmosfera della Centrale, e Allgood lo sapeva.

Comprese che la possibilità che aveva avuto di accedere agli archivi segreti e perfino ai vecchi libri gli aveva fornito una conoscenza sulla Centrale fuori dal comune. Il feudo degli Optimati si stendeva per parecchi chilometri in un territorio che un tempo aveva costituito parte del Canada e degli Stati Uniti settentrionali. Occupava una zona approssimativamente circolare di settecento chilometri di diametro; contava duecento piani sotterranei. Era una regione in cui erano ubicati molteplici centri di controllo: controllo metereologico, controllo genetico, controllo dei batteri, controllo degli enzimi… controllo degli esseri umani.

In quel piccolo angolo del complesso, il cuore dell’intera Amministrazione, i dintorni erano stati trasformati in un giardino all’italiana, con tocchi di tinte pastello. Gli Optimati erano persone capaci di spianare una montagna per puro capriccio. Nel territorio della Centrale la natura era stata addomesticata, derubata della sua pericolosa selvatichezza. Anche quando gli Optimati modellavano un panorama, in esso mancava quell’elemento drammatico egualmente assente nelle loro vite.

Spesso Allgood rifletteva su quella caratteristica. Aveva visto dei film di epoche precedenti l’avvento degli Optimati e si era reso conto delle differenze. La meticolosa raffinatezza della Centrale gli sembrava in rapporto con gli onnipresenti triangoli rossi che indicavano i Dispensatorii Farmaceutici in cui gli Optimati conservavano le preziose scorte d’enzimi.

«Ci stanno mettendo troppo tempo o è solo una mia impressione?» chiese Boumour. Aveva una voce dal tono ricco, quasi baritonale.

«Pazienza,» rispose Igan. La sua era una voce da tenore.

«Sì,» disse Allgood. «La pazienza è la migliore alleata di un uomo.»

Boumour guardò il capo della Sicurezza, studiandolo, riflettendo. Allgood non era tipo da perdersi in chiacchiere; quando parlava, aveva sempre qualche scopo in mente. Era lui, e non gli Optimati, la minaccia maggiore per la Congiura. Era totalmente dalla parte dei suoi padroni: un burattino perfetto. Perché oggi ci ha ordinato di accompagnarlo qui? si chiese Boumour. Sa qualcosa? Ci denuncerà?

L’incredibile bruttezza di Allgood affascinava Boumour. Il capo della Sicurezza era un semplice basso e tarchiato, con un viso tondo e saettanti occhi a mandorla, un ciuffo di capelli scuri che gli ricadeva sulla fronte: un genotipo Shang, o almeno così si intuiva dal suo aspetto.

Allgood si voltò verso la Barriera di Quarantena, e con un sussulto provocato da un’intuizione improvvisa Boumour comprese che la bruttezza esterna di Allgood scaturiva da quella interiore. Era la bruttezza creata dalle paure, sue e di coloro che proteggeva. Quella comprensione provocò in Boumour un’improvvisa sensazione di sollievo, che egli segnalò a Igan attraverso pressioni esercitate dalle proprie dita sulla spalla dell’altro.

Igan si scostò improvvisamente da Boumour, per guardare la campagna. È ovvio che Max Allgood abbia paura, pensò. Vive immerso in un groviglio inestricabile di paure… proprio come gli Optimati… povere creature.

La vista che era possibile godere dalla Centrale iniziò a imprimersi sui sensi di Igan. Quella era una giornata di primavera tanto perfetta da sembrare irreale, ed era stato il Centro di Controllo Metereologico a stabilire che fosse così. La scalinata che conduceva all’edificio dell’Amministrazione guardava verso un lago, rotondo e perfetto come una lastra di smalto azzurro. Su di una bassa collina alle sue spalle, sorgevano alcuni plinti di plasmeld, simili a pietre bianche: erano gli ingressi degli ascensori che scendevano nella superprotetta e segreta fortezza degli Optimati, duecento piani più in basso.

Oltre la collina, il cielo diventava di un oleoso color azzurro cupo. Era attraversato di tanto in tanto da bagliori rossi, verdi e dorati, secondo uno schema piuttosto banale. Poi si udì un rombo smorzato: da qualche parte, nel territorio della Centrale, un Optimate aveva dato il via per divertimento a un temporale controllato.

Igan pensò che si trattava di una dimostrazione futile, priva di pericolo o di dramma… due parole, decise, che avevano lo stesso significato.

Quel giorno, la tempesta era la prima cosa vista da Allgood che si adattasse alla sua interpretazione dell’atmosfera che pervadeva la Centrale. Per lui, la Centrale era la sede di un potere supremo e oscuro. Le persone svanivano in essa e non erano mai più riviste, e solo lui, il capo della Sicurezza, e una manciata tra gli agenti più fedeli, erano a conoscenza del loro fato. Allgood aveva l’impressione che lo scoppio di tuono si adattasse alla perfezione ai suoi sentimenti; era un suono che simboleggiava un potere assoluto. In preda alla tempesta, adesso il cielo stava assumendo un acido colore giallastro, mentre le nubi disperdevano l’aria primaverile. I plinti, sulla collina che dominava il lago, erano divenuti cenotafi pagani profilati contro uno sfondo verde-porpora.

«Possiamo proseguire,» lo avvertì Boumour.

Allgood si voltò e scoprì che la Barriera di Quarantena si era sollevata. Entrò per primo nella Sala del Consiglio con le sue pareti di scintillante materiale adamantino e i suoi banchi di plasmeld vuoti. Il terzetto attraversò lingue ondeggianti di vapore profumato, che si aprirono al loro passaggio.

Accoliti Optimati, che indossavano cappe verdi fissate alle spalle da fibbie di diamanti, uscirono dall’oscurità che avvolgeva la maggior parte della sala per scortarli. Sulle loro cappe erano intessute zampogne di platino, ed essi agitavano turiboli d’oro che emanavano nuvole rosa di antisettico.

Allgood mantenne la sua attenzione sull’altra estremità della sala. Là, un globo gigantesco, rosso come una radice di mandragora, era sospeso tra una miriade di raggi luminosi. Aveva un diametro di circa quaranta metri, e una delle sue sezioni era ripiegata all’indietro, come se a un’arancia fosse stata tagliata via un pezzo di buccia. Quello era il Centro di Controllo della Tuyere, lo strumento dotato di bizzarri poteri, e di apparati sensori ancora più strani, mediante i quali essi dominavano i loro sudditi. All’interno lampeggiava una miriade di luci verdi fosforescenti, insieme all’azzurro intenso delle lampade ad arco. Grandi quadranti rotondi inviavano messaggi e luci rosse guizzavano ammiccanti. Cifre scorrevano apparentemente attraverso l’aria, mentre simboli esoterici danzavano su nastri di luce.

Al centro, simile al nocciolo del frutto, si ergeva una colonna bianca, che sosteneva una piattaforma triangolare. Ai vertici del triangolo, assisi su troni in plasmled dorato, sedevano i tre Optimati conosciuti come la Tuyere — amici, compagni, eletti come supremi dominatori di quel secolo, e con ancora settantotto anni di potere innanzi a loro. Per i tre, quel mandato era lungo quanto un battito di ciglia, e spesso rappresentava una seccatura, in quanto li costringeva ad affrontare realtà spiacevoli che gli altri Optimati mascheravano con l’uso di eufemismi.

Gli accoliti si fermarono a venti passi dal globo, ma continuarono ad agitare i loro turiboli. Allgood avanzò di un passo, fece segno a Igen e Boumour di fermarsi. Il capo della Sicurezza sapeva fin dove poteva spingersi, in quel luogo. Hanno bisogno di me, si disse. Ma non nutriva illusione alcuna sui pericoli che quel colloquio avrebbe potuto riservargli.

Allgood sollevò lo sguardo verso il centro del globo. Un sottile e danzante schermo d’energia formava come un velo ingannevolmente trasparente; attraverso di esso, si intravedevano forme, profili, ora chiari, ora confusi.

«Sono venuto,» annunciò Allgood.

Boumour e Igan ripeterono quella formula di saluto, ricordando a se stessi il protocollo che in quel luogo doveva essere rigidamente osservato: Chiamate sempre per nome l’Optimate a cui vi state rivolgendo. Se non conoscete il suo nome, chiedeteglielo umilmente.

Allgood attese che la Tuyere rispondesse. Qualche volta pensava che non possedessero alcuna percezione del passare del tempo, od almeno che con si accorgessero del trascorrere dei secondi, dei minuti, o perfino dei giorni. Poteva davvero essere così. Per individui dotati di vita eterna, l’alternarsi delle stagioni avrebbe potuto essere simile al rapido ticchettio di un orologio.

Il supporto dei troni girò, presentando uno ad uno i tre membri della Tuyere. Sedevano avvolti da abiti traslucidi e aderenti, che li facevano apparire seminudi, e sottolineavano la loro somiglianza con i semplici. Di fronte al segmento aperto adesso c’era Nourse, la cui figura ricordava quella di un dio greco, con il viso squadrato, folte sopracciglia, un torace gonfio di muscoli che si contraevano ad ogni respiro. E quanta regolarità c’era in quel respiro, quanta controllata lentezza!

La base ruotò, mostrando Schruille, minuto, imprevedibile, con grandi occhi rotondi, alti zigomi, un naso schiacciato, una bocca che sembrava perpetuamente atteggiata in una smorfia di disapprovazione. Era anche il più pericoloso dei tre. Alcuni dicevano che parlava di cose che gli altri Optimati consideravano tabù. Una volta, in presenza di Allgood, aveva pronunciato la parola "morte", anche se si stava riferendo a quella di una farfalla.

Ancora una volta la piattaforma girò e apparve Calapine, con la veste cinta da placche di cristallo. Era una donna snella, dai seni alti, aveva capelli castani dalla sfumatura dorata, occhi gelidi e insolenti, labbra piene e un lungo naso su un mento aguzzo. Allgood, in qualche occasione, l’aveva sorpresa a guardarlo stranamente. Da parte sua, aveva cercato di non pensare a quegli Optimati che sceglievano dei semplici come Compagni.

Nourse parlò a Calapine, guardandola attraverso il riflettore prismatico montato sulla spalliera di ogni trono. Lei gli rispose, ma le voci non riuscirono ad arrivare fino al pavimento della sala.

Allgood osservò attentamente quello scambio di battute, nel tentativo di intuire l’umore dei due. La Gente sapeva che Nourse e Calapine erano stati amanti per periodi equivalenti a molte centinaia di vite di semplici. Nourse godeva della fama di possedere una volontà forte ma prevedibile, mentre Calapine era dotata di una mente capricciosa e volubile. Bastava menzionare il suo nome, e molto probabilmente qualcuno avrebbe rivolto gli occhi al cielo, chiedendo, «Cosa ha combinato questa volta?» Di solito quelle parole venivano pronunciate con un misto di paura e ammirazione. Allgood conosceva quella paura. Aveva servito altre Triadi Supreme, ma nessuna di esse aveva messo così a dura prova la sua tempra come quest’ultima… e la peggiore dei tre era proprio Calapine.

La piattaforma si era fermata. Nourse era di fronte all’apertura nel globo. «Sei venuto,» disse con voce tonante. «È ovvio che tu l’abbia fatto. Il bue conosce il suo padrone, l’asino la greppia da cui si nutre.»

Questa è una quelle giornate in cui va tutto storto, comprese Allgood. Pazzesco! Ciò poteva soltanto significare che erano al corrente che lui aveva commesso un errore… ma del resto non era sempre così?

Calapine fece ruotare il trono per poter guardare i semplici. La Sala del Consiglio era stata costruita avendo come modello il senato romano, con false colonne e file di scranni sotto l’occhio dei sensori ottici. Tutto sembrava concentrare la sua attenzione sulle tre figure, leggermente in disparte dagli accoliti.

Sollevando lo sguardo, Igan ricordò che aveva temuto e odiato quelle creature per tutta la sua vita — anche se nei loro confronti provava un senso di pietà. Era stato davvero fortunato a non essere diventato uno di loro. Era stato sul punto di essere trasformato in Optimate, ma poi si era salvato. Ricordava ancora l’odio che aveva nutrito verso gli Optimati per tutta l’infanzia, odio che in seguito era stato temperato dalla pietà. Nei primi tempi, invece, si era trattato di un sentimento puro, tagliente, fiammeggiante contro i Donatori di Tempo.

«Siamo venuti come ordinato per riferire sul caso dei Durant,» disse Allgood. Tirò due profondi respiri per calmare i nervi troppo tesi. Quei colloqui erano stati sempre pericolosi, ma adesso lo erano doppiamente, da quando aveva deciso di fare il doppio gioco. E ormai non poteva tirarsi indietro, né ne aveva la minima voglia, non dopo aver scoperto i cloni di se stesso che venivano fatti crescere. Poteva esserci un solo motivo per cui gli Optimati aveva preso una decisione del genere. Benissimo, gliela avrebbe fatta vedere lui.

Calapine studiò Allgood, chiedendosi se fosse giunto il momento di procurarsi un diversivo dalla noia dividendo il letto con quel brutto semplice. Magari sarebbe stato divertente. Schruille e Nourse non avrebbero mosso obiezioni. Le sembrava di ricordare di aver già fatto una cosa del genere con un altro semplice di nome Max, ma non riusciva assolutamente a rammentare se quell’episodio fosse riuscito ad alleviare la sua noia.

«Di’ cosa ti diamo, piccolo Max ,» disse Calapine.

La voce dell’Optimate, morbida e con una traccia d’ironia, spaventò il capo della Sicurezza. Allgood deglutì. «Voi mi donate la vita, Calapine.»

«Di’ quanti piacevoli anni hai vissuto,» gli ordinò Calapine.

Allgood si accorse che la gola gli si era completamente seccata. «Quasi quattrocento anni, Calapine,» raspò.

Nourse ridacchiò. «E davanti a te hai ancora moltissimi anni meravigliosi, se ci servirai bene.»

Quella era la minaccia più diretta che Allgood avesse mai sentito pronunciare da un Optimate. Di solito facevano eseguire la loro volontà ricorrendo a sottili eufemismi; agivano attraverso semplici che erano in grado di affrontare concetti quali "morte" o "uccidere".

Chi hanno creato per distruggermi? si chiese Allgood.

«Molti anni, tic-tac,» intervenne Calapine.

«Basta così!» esclamò brusco Schruille. Detestava parlare con i membri delle classi inferiori, e non apprezzava il modo in cui Calapine tendeva trappole alla Gente. Fece ruotare il suo trono e così tutti e tre i membri della Tuyere ora furono rivolti verso l’apertura nel globo. Schruille si osservò pensieroso le dita ricoperte dalla pelle meravigliosamente giovane, chiedendosi perché mai fosse scattato in quel modo. Uno squilibrio enzimico? Di solito durante quei colloqui rimaneva in silenzio, come meccanismo di difesa, poiché gli capitava di essere incline alla pietà nei confronti dei miseri semplici… per poi disprezzarsi a causa di quello stesso sentimento.

Boumour si affiancò ad Allgood, disse, «Ora la Tuyere vuole avere la compiacenza di ascoltare il nostro rapporto sui Durant?»

Allgood soppresse un moto di rabbia per quell’interruzione. Quello sciocco non sapeva che doveva sembrare che fossero sempre gli Optimati a guidare la conversazione?

«Le parole e le immagini del vostro rapporto sono state viste, analizzate e archiviate,» disse Nourse. «Ora sono le informazioni non contenute nel rapporto ciò che vogliamo.»

Cosa? si stupì Allgood. Forse pensa che gli abbiamo nascosto qualcosa?

«Piccolo Max,» disse Calapine. «Ti sei piegato alle nostre necessità e hai interrogato l’infermiera addetta al computer, dopo averle somministrato dei narcotici?»

Ci siamo, si rese conto Allgood. Respirò profondamente, poi rispose, «L’infermiera è stata interrogata, Calapine.»

Igan si avvicinò a Boumour, disse, «Su questo vorrei dire qualcosa anch’io, se mi è per…»

«Tieni a freno la tua lingua, farmacista,» lo interruppe bruscamente Nourse. «Stiamo parlando con Max.»

Igan chinò il capo, pensò, Che situazione pericolosa! E tutto a causa di quella stupida infermiera. Non era neppure una di noi. Nessun Cyborg addetto agli archivi la conosce. Non faceva parte di nessuna cellula, né di alcuna organizzazione. Un’Accidentale, una Steri… e ci ha messo in un tale pericolo!

Allgood si accorse che a Igan tremavano le mani, si chiese, «Ma cos’hanno questi dottori, che li spinge ad agire in modo così sciocco?

«L’azione dell’infermiera è stata compiuta di proposito, non è forse così?» chiese Calapine.

«Sì, Calapine,» ammise Allgood.

«I tuoi agenti non se ne sono accorti; però noi sapevamo che il suo comportamento doveva essere intenzionale.» Si voltò per controllare gli strumenti del Centro di Controllo, poi rivolse nuovamente la sua attenzione su Allgood. «Spiegaci come questo sia stato possibile.»

Allgood sospirò. «Non ho scuse, Calapine. Gli agenti responsabili sono stati puniti.»

«Ora però dicci il perché quell’infermiera ha agito così,» ordinò Calapine.

Allgood si umettò le labbra con la lingua, e rivolse uno sguardo rapidissimo a Boumour e Igan. Avevano entrambi gli occhi rivolti verso il pavimento. Guardò nuovamente Calapine: il suo viso scintillava all’interno del globo. «Non siamo riusciti a scoprire i suoi moventi, Calapine.»

«Non siete riusciti?» domandò Nourse.

«La donna… ahh… ha cessato di esistere durante l’interrogatorio, Nourse,» ammise Allgood. Mentre i tre della Tuyere si irrigidivano sui loro troni, aggiunse, «Un difetto nel suo schema genetico, così mi dicono i farmacisti.»

«Un vero peccato,» disse Nourse, rilassandosi contro lo schienale del trono.

Igan sollevò lo sguardo, sbottò, «Potrebbe essersi trattato di un… annullamento volontario, Nourse.»

Che dannato stupido! imprecò mentalmente Allgood.

Ma adesso lo sguardo di Nourse era fisso su Igan. «Tu eri presente, Igan?»

«Siamo stati io e Boumour a iniettarle i narcotici,» replicò Igan.

E poi è morta, pensò. Ma non siamo stati noi a ucciderla. Lei è morta, e la colpa ricadrà su di noi. Dove può aver imparato la tecnica che la ha consentito di fermare il proprio cuore con un atto di volontà? Si pensava che solo i Cyborg la conoscessero, o potessero insegnarla.

«Annullamento… volontario?» ripeté Nourse. Anche usando quell’eufemismo, l’idea aveva implicazioni terrificanti.

«Max!» esclamò Calapine. «Ora di’ se avete usato una… eccessiva crudeltà.» Si sporse in avanti, chiedendosi perché voleva che Allgood ammettesse di aver fatto ricorso alla tortura.

«La donna non ha per nulla sofferto, Calapine,» replicò Allgood.

Calapine si appoggiò nuovamente alla spalliera del trono, visibilmente delusa. Sta forse mentendo? Controllò i suoi strumenti: indicavano che Allgood era calmo. Dunque stava dicendo la verità.

«Farmacista,» disse Nourse, «esprimi il tuo pensiero.»

«L’abbiamo esaminata accuratamente,» disse Igan. «Non può essere stato il narcotico. È assolutamente impossibile…»

«Alcuni tra noi pensano che si sia trattato di un difetto genetico,» intervenne Boumour.

«Su questo esiste un certo disaccordo,» ribatté Igan. Guardò Allgood, poiché aveva percepito la disapprovazione dell’altro. Ma, in tutti i casi, doveva continuare. Gli Optimati dovevano essere costretti a provare un senso di inquietudine. Quando si riusciva con l’inganno a farli reagire in maniera emotiva, anche loro potevano commettere degli errori. E il piano richiedeva che facessero qualche errore proprio in quel momento. Dovevano essere manovrati — con sottigliezza, con estrema abilità.

«Max, la tua opinione?» chiese Nourse. Osservò Allgood con attenzione. Ultimamente i cloni che avevano ottenuto si erano rivelati di qualità inferiore: un risultato della degenerazione cellulare.

«Abbiamo già prelevato campioni del materiale cellulare,» disse Allgood, «e stiamo sviluppando un clone. Se otterremo una copia davvero fedele, controlleremo la questione del difetto genetico.»

«È un peccato che quel clone non sarà in possesso dei ricordi dell’originale,» commentò Nourse.

«Davvero,» esclamò Calapine. Guardò Schruille. «Non è così?»

Costui la fissò senza rispondere. Forse Calapine pensava di prendersi gioco di lui come faceva con i semplici?

«Questa donna aveva un Compagno?» chiese Nourse.

«Sì, Nourse,» rispose Allgood.

«Era un’unione fertile?»

«No, Nourse,» disse Allgood. «Erano tutti e due Steri.»

«Alleviate la pena del Compagno,» ordinò Nourse. «Un’altra donna, qualche divertimento. Lasciamo che pensi che la sua Compagna ci fosse fedele.»

Allgood annuì, disse, «Nourse, gli daremo una donna che lo terrà sotto continua sorveglianza.»

A Calapine sfuggì una risatina trillante. «Perché nessuno ha citato Potter, l’ingegnere genetico?» chiese.

«Ci stavo arrivando, Calapine,» replicò Allgood.

«L’embrione è stato esaminato da qualcuno?» chiese Schruille, che aveva improvvisamente sollevato lo sguardo.

«No, Schruille,» rispose Allgood.

«Perché non è stato fatto?»

«Se ci troviamo di fronte a un’azione organizzata per violare le leggi genetiche, Schruille, sarebbe meglio se i membri di quest’organizzazione non sospettino di essere stati scoperti. Non ancora. Prima dobbiamo sapere tutto su questa gente — i Durant, i loro amici, Potter…»

«Ma l’embrione è la chiave dell’intera faccenda,» affermò Schruille. «A quale intervento è stato sottoposto? Cos’è?»

«È un’esca, Schruille,» disse Allgood.

«Un’esca?»

«Sì, Schruille; servirà a prendere in trappola chiunque altro sia coinvolto.»

«Bene, ma cosa gli è stato fatto?»

«Importa poco, Schruille, fintantoché… avremo il suo completo controllo.»

«Spero che l’embrione sia scrupolosamente sorvegliato,» disse Nourse.

«Assolutamente, Nourse,» lo tranquillizzò Allgood.

«Manda da noi il farmacista Svengaard,» ordinò Calapine.

«Svengaard… Calapine?» disse Allgood.

«Tu non hai bisogno di chiederti il perché,» replicò lei. «Mandalo e basta.»

«Sì, Calapine.»

L’Optimate si alzò, segno che il colloquio era terminato. Gli accoliti si girarono, sempre agitando i loro turiboli, e si prepararono ad accompagnare i semplici fuori della sala. Ma Calapine non aveva ancora finito. Fissò Allgood, poi disse, «Guardami, Max.»

Lui la guardò, riconoscendo quello strano sguardo indagatore negli occhi dell’Optimate.

«Non sono bella?» chiese Calapine.

Allgood fissò la snella figura addolcita dal vestito e dagli schermi d’energia all’interno del globo. Era bellissima, come molte delle Optimate. Ma quella bellezza gli ripugnava a causa della sua minacciosa perfezione. Lei avrebbe vissuto per sempre, del resto aveva già vissuto quarantamila o cinquantamila anni. Ma, un giorno, il corpo di Allgood avrebbe rifiutato gli enzimi e i ritrovati medici. Sarebbe morto mentre Calapine avrebbe continuato a vivere… a vivere.

La sua carne inferiore rifiutava Calapine.

«Sei bellissima, Calapine,» disse Allgood.

«Ma i tuoi occhi non l’ammetteranno mai,» ribatté lei.

«Cosa desideri, Cal?» chiese Nourse. «Vuoi questo… vuoi Max?»

«Voglio i suoi occhi,» replicò Calapine. «Soltanto i suoi occhi.»

Nourse guardò Allgood. «Le donne.» La sua voce aveva un falso tono di cameratismo.

Allgood rimase sbalordito. Non aveva mai sentito un Optimate usare un tono del genere.

«Ho rivolto una domanda molto chiara a Max,» disse Calapine. «Non interrompere le mie parole con queste battute tipicamente maschili. Nel profondo del tuo cuore, Max, quali sentimenti provi verso di me?»

«Ahhh,» commentò Nourse. Annuì.

«Lo dirò io per te,» si offrì Calapine quando Allgood rimase muto. «Tu mi adori. Non dimenticarlo mai, Max. Tu mi adori.» Guardò Boumour e Igan, poi li congedò con un gesto della mano.

Allgood abbassò gli occhi. Sapeva che Calapine aveva ragione. Si girò, e con gli accoliti che li scortavano, condusse Boumour e Igan fuori della sala.

Quando furono sulla scalinata, gli accoliti rimasero indietro, mentre la Barriera si abbassava. Igan e Boumour si girarono verso sinistra, poiché avevano notato un nuovo edificio, in fondo alla lunga spianata di fronte al palazzo dell’Amministrazione. Ne osservarono i muri, le aperture coperte da filtri colorati che proiettavano nell’aria lampi rossi, azzurri e verdi, e si resero conto che quell’edificio bloccava la strada che avevano avuto intenzione di percorrere per lasciare la Centrale. Era stato eretto in pochissimo tempo, rappresentava il nuovo giocattolo di un Optimate. Lo videro, e cambiarono il loro percorso con quella rassegnazione automatica che contraddistingueva i frequentatori abituali della Centrale. I semplici e gli abitanti della Centrale sapevano trovare la strada attraverso l’intrico delle sue strade quasi per istinto. Quel luogo sfidava ogni tentativo dei cartografi di tracciarne una mappa, poiché era soggetto ai continui capricci degli Optimati.

«Igan!»

Era Allgood che li stava chiamando.

Si girarono, attesero che li raggiungesse.

Allgood si fermò di fronte a loro, con le mani sui fianchi. «Anche voi l’adorate?»

«Non dica sciocchezze,» lo rimbeccò Boumour.

«No,» disse Allgood. Aveva gli occhi infossati. «Non pratico alcun culto diffuso tra la Gente, non appartengo a nessuna congregazione di Fertili. Come potrei mai adorarla?»

«Ma è così,» disse Igan.

«Sì!»

«Loro rappresentato l’unica vera religione del nostro mondo,» disse Igan. «Non ha bisogno di far parte di un culto o di possedere un talismano per saperlo. Quel che ha voluto dirle Calapine è che, se esiste davvero una cospirazione, ebbene i suoi membri sono puri e semplici eretici.»

«Era questo che voleva dire?»

«Sicuramente.»

«E Calapine sa bene quale trattamento si è soliti infliggere agli eretici,» rifletté Allgood.

«Senza alcun dubbio,» commentò Boumour.

CAPITOLO SESTO

Svengaard aveva visto quell’edificio alla olo-tv e nei documentati educativi. Aveva udito le descrizioni della Sala del Consiglio, ma trovarsi là di persona, davanti alla Barriera della Quarantena, con il sole che irradiava una luminosità bronzea sulle colline… era qualcosa che non aveva mai sognato che potesse accadere.

Sulla collinetta di fronte a lui, gli ingressi degli ascensori erano simili a verruche. Alle spalle di essa, c’erano altre basse colline, su cui sorgevano edifici che era facile scambiare per spuntoni di roccia.

Sulla spianata, incrociò una donna che spingeva un carrello a levitazione magnetica pieno di fagotti dalla forma strana. Svengaard si chiese quale potesse essere il contenuto di quei fagotti, ma sapeva che non aveva il coraggio di domandarlo alla donna, o perfino di mostrare un’indiscreta curiosità.

Il triangolo rosso di un Dispensatorio Farmaceutico brillò su un pilastro accanto a lui. Lo superò, poi si voltò a guardare la sua scorta.

Per giungere lì, aveva attraversato mezzo continente in sotterranea, con una carrozza a esclusiva disposizione sua e della guardia, un agente della Sicurezza. Ora si trovavano vicini al cuore della Centrale, e la guardia non l’aveva mai perso di vista, neppure per un istante.

Svengaard iniziò a salire i gradini.

L’atmosfera di quel luogo stava iniziando a pesare sul suo animo: sembrava pregna di malaugurio. E anche se sospettava cosa causasse quella sensazione, Svengaard sapeva che non sarebbe riuscito facilmente a liberarsene. Decise che era impossibile dimenticarsi di tutte le superstizioni che nutriva la Gente. I membri della Gente, nella maggior parte dei casi, non possedevano alcun corpus di miti o leggende, tranne quelli che riguardavano gli Optimati. Nella memoria storica della Gente, gli Optimati e la Centrale erano immersi in un aura frutto di sinistro timore e adorazione.

Perché mi hanno convocato? si chiese Svengaard. La guardia si era rifiutata di rivelarglielo.

Giunti alla barriera, furono fermati e attesero in un silenzio nervoso.

Svengaard si accorse che anche l’agente della Sicurezza era in preda al nervosismo.

Perché mi hanno convocato?

L’agente si schiarì la gola, disse, «Ha memorizzato alla perfezione il protocollo da seguire?»

«Penso di sì,» rispose Svengaard.

«Una volta introdotto nella Sala, segua gli accoliti che la scorteranno. Sarà interrogato dalla Tuyere: Nourse, Schruille e Calapine. Ricordi di usare i loro nomi, quando si rivolge a uno di loro. Eviti di usare parole quali "morte", "uccidere" o "morire". Se può, eviti perfino i concetti che esse esprimono. Lasci che siano loro a condurre la conversazione. È meglio che non dica nulla, se non è espressamente interrogato.»

Svengaard fece un respiro tremulo.

Mi hanno chiamato qui per darmi una promozione? si chiese. Deve trattarsi proprio di questo. Dopo tutto, ho compiuto il mio apprendistato sotto uomini quali Potter e Igan. Forse mi promuoveranno alla Centrale.

«E non usi la parola "dottore",» lo avvertì l’agente. «Qui i dottori vengono chiamati farmacisti o ingegneri genetici.»

«Ho capito,» gli assicurò Svengaard.

«Allgood vorrà un rapporto completo sul colloquio,» lo informò l’agente.

«Sì, certamente,» rispose Svengaard.

La Barriera di Quarantena si sollevò.

«Può entrare,» gli disse l’agente.

«Lei non viene con me?» chiese Svengaard all’agente.

«Non sono stato invitato,» disse l’agente. Girò sui tacchi e iniziò a discendere la scalinata.

Svengaard deglutì, entrò nella penombra dalle sfumature argentee del portico, lo attraversò e si trovò nella lunga sala, dove fu raggiunto da sei accoliti che, tre per parte, lo scortarono agitando turiboli da cui proveniva fumo rosato. Svengaard riconobbe l’odore di antisettico.

Il grande globo rosso ad un’estremità della sala dominava la scena. Da un’apertura, provenivano luci ammiccanti e lampeggianti. Svengaard fu affascinato dalle sagome che si muovevano all’interno del globo.

Gli accoliti lo fecero fermare a venti passi dall’apertura e Svengaard guardò in alto, verso la Tuyere, riconoscendo i tre membri attraverso gli schermi energetici; Nourse era al centro, mentre ai lati sedevano Schruille e Calapine.

«Sono venuto,» disse Svengaard, pronunciando la formula di saluto che l’agente gli aveva detto di usare. Si asciugò le palme sudate sulla sua tunica migliore, che aveva indossato per l’occasione.

Nourse parlò con voce imperiosa. «Tu sei l’ingegnere genetico, Svengaard.»

«Thei Svengaard, sì… Nourse.» Svengaard ispirò a fondo, chiedendosi se si fossero accorti dell’esitazione che lo aveva colto mentre tentava di ricordare il nome dell’Optimate che gli aveva rivolto la parola.

Nourse sorrise.

«Di recente hai partecipato all’alterazione genetica di un embrione generato da una coppia di genitori, i Durant,» disse Nourse. «Il responsabile dell’intervento era Potter.»

«Sì, io ero il suo assistente, Nourse.»

«Durante quell’intervento è accaduto un incidente,» disse Calapine.

La voce dell’Optimate possedeva uno strano tono musicale, e Svengaard si accorse che l’Optimate non gli aveva rivolto una domanda, ma gli aveva semplicemente ricordato un dettaglio su cui voleva che Svengaard facesse la massima attenzione. Il dottore iniziò a sentirsi profondamente turbato.

«Un incidente, sì… Calapine,» rispose.

«Hai seguito attentamente l’operazione?» gli chiese Nourse.

«Sì, Nourse.» Svengaard si accorse che la sua attenzione si era rivolta su Schruille, che sedeva in silenzio, con espressione meditabonda.

«Dunque,» proseguì Calapine, «sarai certamente in grado di dirci cos’è che Potter ha nascosto riguardo l’alterazione genetica dell’embrione.»

Sgomento, Svengaard comprese di aver perso la voce. Riuscì soltanto a scuotere la testa.

«Non ha nascosto nulla?» chiese Nourse. «È questo che vuoi dirci?»

Svengaard annuì.

«Non desideriamo farti alcun male, Thei Svengaard,» lo rassicurò Calapine. «Puoi parlare liberamente.»

Svengaard deglutì, si schiarì la gola, disse, «Io… la domanda… non ho visto… nascondere nulla.» Tacque, ma poi ricordò di non aver usato il nome dell’Optimate, e disse, «Calapine,» proprio mentre Nourse iniziava a parlare.

Nourse si interruppe e si accigliò.

Calapine ridacchiò.

Nourse ribatté, «Eppure ci hai detto di aver assistito all’alterazione genetica.»

«Io… non ero al microscopio ogni secondo, come Potter,» disse Svengaard. «Nourse. Io… uh… svolgevo le funzioni da assistente: dare istruzioni all’addetta al computer, azionare il dispensatore di enzimi, e così via.»

«Adesso dicci se avevi stabilito qualche rapporto d’amicizia con l’infermiera addetta al computer,» ordinò Calapine.

«Io… lei ha…» Svengaard si umettò le labbra con la lingua. Ma cosa vogliono da me? «Abbiamo lavorato insieme per molti anni, Calapine, ma non posso affermare che fossimo amici. Lavoravamo insieme, ecco tutto.»

«Hai esaminato l’embrione dopo l’intervento?» chiese Nourse.

Schruille si irrigidì sul suo trono e fissò attentamente Svengaard.

«No, Nourse,» disse il dottore. «I miei compiti erano quelli di assicurarmi che la vasca funzionasse alla perfezione e di controllare i sistemi di supporto vitale.» Respirò profondamente. Forse lo stavano mettendo alla prova… ma quelle domande erano così bizzarre!

«Ora dicci se Potter era tuo amico,» ordinò Calapine.

«È stato uno dei miei insegnanti, Calapine, qualcuno con cui ho lavorato su alcuni delicati problemi di genetica.»

«Ma non fa parte delle persone che frequenti abitualmente,» disse Nourse.

Svengaard scosse il capo. Ancora una volta ebbe l’impressione che l’atmosfera fosse carica di minaccia. Non sapeva cosa aspettarsi; magari il grande globo sarebbe rotolato su di lui, schiacciandolo e riducendo il suo corpo in una miriade di atomi sparsi. Ma no, gli Optimati non agivano in maniera così grossolana. Studiò i tre volti, adesso perfettamente distinguibili attraverso le mutevoli cortine d’energia. Lineamenti sterili, freddi. Svengaard riconosceva il genotipo: avrebbero potuto essere dei normali Steri, se da essi non fosse stata intuibile l’aura di mistero che contraddistingueva tutti gli Optimati. Tra la Gente si mormorava che fossero sterili per scelta, poiché consideravano la procreazione come l’inizio della morte, ma in base agli indizi sul codice genetico che trasparivano dai loro lineamenti, Svengaard poteva affermare con tutta sicurezza che le cose stavano in maniera affatto diversa.

«Perché hai chiamato Potter per risolvere quel particolare problema?» chiese Nourse.

Svengaard inspirò, provò un brivido, disse, «Lui… la configurazione genetica dell’embrione… ne faceva quasi un Optimate. Potter ha operato spesso nel nostro ospedale. Lui… ho piena fiducia in Potter; è un brillante dot… ingegnere genetico.»

«Dicci adesso se sei amico di qualche altro farmacista,» volle sapere Calapine.

«Essi… lavoro con loro quando vengono nel nostro ospedale,» disse Svengaard.

«Calapine,» finì per lui Nourse.

Calapine fu scossa da una risata squillante.

Il volto di Svengaard divenne paonazzo per l’ira. A che razza di prova lo stavano sottoponendo? Perché lo stavano interrogando, prendendosi gioco di lui?

La rabbia gli fece ritrovare l’uso della voce e così replicò, «Io sono soltanto il capo di un dipartimento di ingegneria genetica in un ospedale, Nourse, dunque non sono un tecnico che occupa una posizione elevata. Mi occupo soltanto di interventi che rientrano nella norma. Quando mi trovo di fronte a qualcosa che richiede l’opera di uno specialista, obbedisco alle direttive, e lo chiamo. In questo caso, Potter era lo specialista maggiormente indicato.»

«Era uno degli specialisti,» lo corresse Nourse.

«Uno degli specialisti che ammiro e rispetto,» ribatté Svengaard. Non si curò neppure di aggiungere il nome dell’Optimate.

«Ora di’ se sei arrabbiato,» ordinò Calapine, e ancora una volta Svengaard percepì quel tono musicale nella voce della donna.

«Lo sono.»

«Spiegaci il perché.»

«Per quale motivo sono qui?» chiese Svengaard. «Perché mi state sottoponendo a questo interrogatorio? Ho commesso qualche reato? Verrò punito?»

Nourse si sporse in avanti, puntando le mani sulle ginocchia. «Tu osi rivolgerci delle domande?»

Svengaard fissò l’Optimate. Nonostante il tono, il volto squadrato dell’uomo era atteggiato in un’espressione rassicurante. «Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarvi,» dichiarò Svengaard. «Qualsiasi cosa. Ma come posso aiutarvi o rispondervi, se non so cosa volete?»

Calapine fece per parlare, ma Nourse la bloccò sollevando una mano.

«Dirtelo rappresenta il nostro più profondo desiderio,» spiegò Nourse. «Ma sicuramente tu sai che noi non possiamo comprenderci veramente. Una ciotola di legno può contenere dell’acido solforico? Abbi fede in noi. Noi abbiamo a cuore il benessere dell’umanità intera.»

Un senso di calore e gratitudine invase Svengaard. Certo che si fidava di loro! Erano il vertice genetico dell’intera razza umana. Poi ricordò a se stesso: Loro sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi.

Svengaard sospirò. «Cosa volete che io faccia?»

«Hai risposto a tutte le nostre domande,» disse Nourse. «E perfino a ciò che non ti abbiamo chiesto.»

«Ora dimenticherai tutto quello che abbiamo detto,» ordinò Calapine. «Non riferirai la nostra conversazione a chicchessia.»

Svengaard si schiarì la gola. «A nessuno… Calapine?»

«A nessuno.»

«Max Allgoood mi ha chiesto di riferirgli…»

«Dovrai rifiutarti,» disse lei. «Non avere timore, Thei. Noi ti proteggeremo.»

«Se è questa la tua volontà, Calapine,» dichiarò Svengaard.

«Non desideriamo che tu ci consideri ingrati, o creda che noi non apprezziamo i tuoi servigi e la tua lealtà,» disse Nourse. «Ci teniamo alla tua buona opinione su di noi, e non vorremmo apparire freddi o insensibili ai tuoi occhi. Sappi che la nostra prima preoccupazione è sempre il benessere della razza umana.»

«Sì, Nourse,» disse Svengaard.

Si trattava di un discorso gratuito e il tono con cui fu pronunciato inquietò Svengaard, ma nondimeno lo aiutò a schiarirsi la mente. Cominciava a capire la loro curiosità, ad intuire i loro sospetti. Che adesso erano diventati anche i suoi. Potter aveva tradito la sua fiducia, non era così? Quel nastro non era stato cancellato per caso. Molto bene… i colpevoli avrebbero pagato.

«Adesso puoi andare,» gli disse Nourse.

«Con la nostra benedizione,» aggiunse Calapine.

Svengaard si inchinò. E si rese conto che Schruille non aveva detto una parola né si era mosso durante l’intero colloquio. Si chiese perché quel particolare all’improvviso lo spaventasse tanto. Quando si girò, gli tremavano le ginocchia; ancora una volta scortato dagli accoliti che agitavano i turiboli fumanti, uscì dalla sala.

La Tuyere rimase ad osservarlo finché la barriera non si abbassò alle spalle di Svengaard.

«Ecco un altro che non sa nulla su ciò che ha ottenuto Potter,» commentò Calapine.

«Sei sicura che Max non lo sappia?» chiese Schruille.

«Assolutamente,» dichiarò lei.

«Allora avremmo dovuto dirlo anche a lui.»

«E rivelargli il modo in cui l’abbiamo saputo?» ribatté Calapine.

«So cosa intendi dire,» disse Schruille. «Uno strumento spuntato è inutile.»

«Svengaard è uno di quelli di cui possiamo fidarci,» disse Nourse.

«Si dice "camminare sul filo del rasoio",» fece notare Schruille. «E quando si cammina sul filo di un rasoio, bisogna fare molta attenzione a dove si mettono i piedi.»

«Che idea disgustosa,» fu il commento di Calapine. Si girò verso Nourse. «Ti stai dedicando ancora a da Vinci, mio caro?»

«Sì, alla sua pennellata,» rispose Nourse. «Imitarla richiede molta applicazione. Ma dovrei riuscire a replicarla alla perfezione in quaranta o cinquanta anni. Molto presto, in ogni caso.»

«Purché tu compia tutti i passi in maniera appropriata,» commentò sardonico Schruille.

Nourse replicò, «Qualche volta, Schruille, il tuo cinismo raggiunge i limiti della buona educazione.» Si girò, studiò i quadranti, i sensori, le spie e gli schermi inseriti tra lui e Calapine nella parete interna del globo. «Oggi tutto è ragionevolmente tranquillo. Cal, lasciamo il controllo a Schruille, andiamo a fare una nuotata, e magari una puntatina in Farmacia.»

«Mantenersi in esercizio, mantenersi in esercizio,» si lamentò Schruille. «Hai mai pensato di fare venticinque vasce, invece di venti?»

«Ultimamente fai delle affermazioni tra le più sorprendenti,» si stupì Calapine. «Vorresti forse che Nourse metta a repentaglio il suo equilibrio chimico? Temo di non riuscire più a comprenderti.»

«Non ci provi neppure,» replicò Schruille.

«Possiamo fare qualcosa per te?» chiese Calapine.

«I miei bioritmi mi hanno sprofondato in una terribile monotonia,» ammise Schruille. «Voi non potete far nulla per rimediare a questa situazione?»

Nourse osservò Schruille attraverso il riflettore prismatico. Ultimamente la voce di Schruille, con il suo tono lagnoso, stava diventando così irritante! Nourse iniziava già a rimpiangere che la comunione di gusti e la necessità li avessero messi insieme. Ma forse, quando sarebbe terminato il mandato della Tuyere…

«Monotonia,» ripeté Calapine. Poi si strinse nelle spalle.

«C’è qualcosa di trionfale in una monotonia ben ponderata,» disse Nourse. «È una frase di Voltaire, se non mi sbaglio.»

«Strano, sembrava proprio una delle tue,» ironizzò Schruille.

«Qualche volta mi sembra utile invocare un benigno interessamento nei confronti della Gente,» disse Calapine.

«Anche quando siamo soli?» chiese Schruille.

«Pensa al fato dell’infermiera addetta al computer,» disse Calapine. «In astratto, naturalmente. Non provi un senso di rammarico o di pietà?»

«La pietà è un’emozione inutile,» ribatté Schruille. «E il rammarico è pericolosamente affine al cinismo.» Sorrise. «Ti passerà. Andate pure a nuotare. E quando vi sentirete in forma, pensate a me… che sono qui.»

Nourse e Calapine si alzarono, richiesero i raggi trasportatori.

«Efficienza,» disse Nourse. «Dobbiamo esigere maggiore efficienza da coloro che ci servono. Le cose devono funzionare meglio.»

Schruille sollevò lo sguardo su di loro, mentre attendevano i raggi. Desiderava soltanto non udire più il frastuono incoerente delle loro voci. Non capivano, non volevano capire.

«Efficienza?» rifletté Calapine. «Forse hai ragione.»

Schruille non riuscì a contenere le emozioni contrastanti che infuriavano nel suo animo. «L’efficienza è l’opposto dell’abilità!» esclamò. «Pensateci sopra!»

I raggi arrivarono. I due vennero trasportati via, senza rispondergli, e lasciarono che fosse Schruille a richiudere il segmento. Poi sedé, finalmente solo, all’interno del centro di controllo che ammiccava di luci verdi, azzurre e rosse… solo tranne gli occhi scintillanti dei sensori video montati lungo l’orlo superiore del globo. Ne contò ottantuno attivati, che fissavano lui e il funzionamento del globo. Ottantuno dei suoi pari… o gruppi di essi che osservavano lui e il suo lavoro, mentre Schruille osservava a sua volta la Gente e le attività che essa svolgeva.

I sensori misero Schruille leggermente a disagio. Prima di prestare servizio nella Tuyere, non aveva mai osservato il globo e i suoi occupanti. In quel luogo avvenivano troppe cose terribili, a cui era meglio non pensare. Forse la Triade precedente era curiosa del loro lavoro? Chi erano coloro che li stavano osservando?

Schruille rivolse la sua attenzione agli strumenti. Spesso, in momenti del genere, gli sembrava di essere il "Signore della Verità" di Chen Tzu-ang, che vedeva l’intero mondo in una bottiglietta di giada. Bene, quel luogo era la sua bottiglia di giada. Gli sarebbe bastato sfiorare un bracciolo del trono con il suo anello di controllo per osservare una coppia che faceva l’amore a Warsopolis, studiare l’embrione contenuto in una vasca nella Grande Londra o liberare gas ipnotico in qualche strada di Nuova Pechino. Doveva soltanto sfiorare un pulsante e avrebbe potuto analizzare i ritmi mutevoli di un intera forza lavoro nella Megalopoli di Roma.

Scrutando nel proprio animo, Schruille non trovò alcuna ragione che lo spingesse a farlo.

Tentò di ricordare quanti visori erano stati accesi durante i primi anni del mandato della Tuyere; era sicuro che non superassero la dozzina. Adesso, invece, erano ottantuno.

Avrei dovuto avvertirli di fare attenzione a Svengaard, pensò. Avrei dovuto dir loro che possono far affidamento su una Provvidenza di tipo speciale per gli stolti. E Svengaard è uno sciocco che mi preoccupa.

Ma sapeva che Nourse e Calapine avrebbero sicuramente difeso Svengaard. Avrebbero insistito che quell’uomo era fedele, leale, degno di fiducia. Avrebbero scommesso qualsiasi cosa sulla sua lealtà.

Qualunque cosa? si chiese Schruille. Ma c’è qualcosa che non scommetterebbero sulla lealtà di Svengaard?

A Schruille parve quasi di udire Nourse che con tono supponente affermava, «Il nostro giudizio su Svengaard è esatto.»

Ed è questo che mi preoccupa maggiormente. Svengaard ci adora… come Max. Ma l’adorazione, per nove decimi, si basa sulla paura.

E col passare del tempo, scaturisce esclusivamente da essa.

Schruille alzò lo sguardo verso i visori accesi, parlò ad alta voce, «Tempo-tempo-tempo…»

E adesso lasciamo che si rodano il fegato, pensò.

CAPITOLO SETTIMO

Il luogo era una stazione di pompaggio del sistema di riciclaggio della Megalopoli di Seatac; si trovava a più di quattrocento metri di profondità e pompava nella Grande Colata acqua destinata all’irrigazione: un sottoprodotto del processo di riciclaggio. Era un edificio di quattro piani, un intrico di tubi, console di computer, passerelle d’accesso illuminate da fotoglobi sospesi su campi di forza, e pulsava al ritmo delle gigantesche turbine che controllava.

I Durant erano scesi laggiù durante l’ora di punta serale, servendosi dei condotti riservati al personale, muovendosi con calma, assicurandosi che nessuno li stesse seguendo e che non avessero su di sé alcun dispositivo-spia. Fino a quel momento, avevano superato senza difficoltà cinque punti di controllo.

Tuttavia erano stati attentissimi a "leggere" le espressioni e il comportamento delle persone che incontravano. La maggior parte di esse erano semplici, frettolosi cittadini, impegnati nei loro affari. Occasionalmente scambiavano uno sguardo di riconoscimento con un altro corriere, oppure identificavano qualche preoccupato funzionario di basso rango, in giro per eseguire un incarico per conto degli Optimati.

Nessuno si accorse di una coppia, vestita in abiti marroni come tutti i lavoratori, che emerse con le mani intrecciate sulla Passerella Nove della stazione di pompaggio.

I Durant si fermarono e si guardarono intorno. Erano stanchi, esaltati e anche un po’ timorosi: infatti erano stati convocati nel quartier generale dell’Associazione dei Genitori Clandestini. L’atmosfera era satura dell’odore di idrocarburi. Lizbeth annusò l’aria.

Ciò che disse al marito mediante il loro codice privo di parole fu leggermente venato di tensione. Harvey si sforzò di rassicurarla.

«Probabilmente incontreremo il nostro Glisson,» le disse.

«Potrebbero esistere altri Cyborg che hanno lo stesso nome,» replicò lei.

«È altamente improbabile.»

Harvey la spinse dolcemente verso la passerella, superarono una delle luci sospese, e due lavoratori che osservavano dei contatori Picot, con volti a cui l’illuminazione proveniente dal basso conferiva un aspetto bizzarro.

Lizbeth percepiva quanto fosse pericolosa la loro posizione e chiese, «Come facciamo ad essere sicuri che loro non ci stanno osservando?»

«Sai bene che questo è uno dei posti sotto il nostro controllo,» replicò Harvey.

«Ma come è possibile?»

«Basta filtrare i dispositivi spia attraverso un computer ottico. Di conseguenza, gli Optimati vedono soltanto ciò che noi vogliamo che vedano.»

«Comunque è pericoloso fidarsi di un simile espediente,» commentò Lizbeth. «Perché ci hanno convocato?»

«Lo sapremo tra pochi minuti,» rispose lui.

I Durant superarono un portello a tenuta stagna, che serviva a escludere la polvere, ed entrarono in un deposito di attrezzi, sulle cui pareti grigie si aprivano i fori dei tubi di trasmissione, oltre l’inevitabile computer che ticchettava, ronzava e lampeggiava. L’atmosfera di quel luogo era satura di un odore dolciastro di olio.

Quando il portello si richiuse alle spalle dei Durant, una figura apparve alla loro sinistra e si sedette su di una panca imbottita di fronte alla coppia.

I Durant la fissarono in silenzio. Avendola poi riconosciuta, provarono nei suoi confronti un moto istintivo di repulsione. La figura che stava loro di fronte non era né quella di un uomo né tantomeno quella di una donna. Mentre li osservava, sembrò formare un tutt’uno con la panca su cui sedeva. Poi quell’essere estrasse da una delle tasche della sua tuta grigia dei cavi e iniziò a inserirli nel computer montato nella parete.

Harvey concentrò la propria attenzione sul volto squadrato, profondamente segnato, dello sconosciuto, sui suoi occhi color grigio chiaro, vuoti, freddi, con lo sguardo carico di quell’attenzione priva di qualunque sfumatura emotiva che era tipica dei Cyborg.

«Glisson,» chiese Harvey, «è stato lei a convocarci?»

«Sono stato io,» rispose il Cyborg. «Sono passati molti anni, Durant. Ha ancora paura di noi? Vedo che è così. Siete in ritardo.»

«Non conosciamo bene questa zona,» si difese Harvey.

«E abbiamo fatto molta attenzione a non farci scoprire,» aggiunse Lizbeth.

«Allora vi ho insegnato bene,» commentò Glisson. «Eravate due alunni ragionevolmente bravi.»

Mediante il codice segreto, Lizbeth comunicò al marito: «Sono così difficili da leggere, ma c’è qualcosa che non va.» Distolse lo sguardo da quello del Cyborg, agghiacciata da quegli occhi calcolatori. A dispetto dei suoi sforzi per considerarli creature fatte di carne e sangue, la mente di Lizbeth non riusciva a dimenticare che i corpi dei Cyborg contenevano computer miniaturizzati collegati direttamente al loro cervello, mentre gli arti erano strumenti oppure armi. E la loro voce, poi: monocorde, con un tono che non ammetteva repliche.

«Lei non dovrebbe temerci, signora,» disse Glisson. «A meno che lei non sia la vera Lizbeth Durant.»

Harvey, incapace di reprimere un moto di rabbia, esclamò, «Non si rivolga a mia moglie in questo modo! Noi non siamo di sua proprietà.»

«Qual è la prima lezione che vi ho impartito, dopo avervi reclutati?» chiese Glisson.

Harvey riacquistò il proprio auto-controllo, si sforzò di sorridere. «Non perdere mai la calma,» rispose. La mano di Lizbeth continuava a tremare nella sua.

«Allora è evidente che lei non l’ha imparata alla perfezione,» commentò Glisson. «Avevo sopravvalutato la sua capacità di auto-controllo.»

Lizbeth segnalò a suo marito, «Era pronto ad usare la violenza contro di noi.»

Harvey le segnalò di essersene accorto anche lui.

«Per prima cosa,» continuò Glisson, «voglio il vostro rapporto completo sull’operazione.» Vi fu una pausa, mentre il Cyborg cambiava la connessione dei cavi al computer. «Non fatevi distrarre da ciò che sto facendo. Creo false immagini di strumenti — in modo che,» e indicò il deposito, «questo ambiente, che sui loro schermi appare pieno di attrezzi, non venga controllato.»

Una panca scaturì dalla parete alla destra dei Durant. «Sedetevi, se siete stanchi,» li invitò Glisson. Il Cyborg indicò i cavi che lo collegavano al computer. «Io mi sono seduto solo per controllare quest’ambiente mentre parliamo.» Sorrise rigidamente, come a voler sottolineare che i Durant dovevano rendersi conto che i Cyborg erano immuni alla stanchezza.

Harvey fece sedere sulla panca la moglie, mentre Lizbeth gli segnalava con le dita, «Fai attenzione. Glisson ci sta nascondendo qualcosa.»

Glisson si voltò leggermente per guardarli bene in faccia. «Voglio un rapporto verbale completo. Non omettete alcun particolare, per quanto esso vi possa sembrare trascurabile. La mia capacità di assorbire dati è illimitata.»

I due iniziarono a raccontare quello di cui erano stati testimoni durante l’operazione, alternandosi continuamente, come tutti i bravi Corrieri avevano imparato a fare. Durante il loro racconto, Harvey provò la strana sensazione che lui e Lizbeth si fossero trasformati in parti dei meccanismi del Cyborg. Glisson rivolgeva le domande in maniera così meccanica, e loro rispondevano in modo così spassionato, oggettivo. Harvey doveva continuare a ripetere a se stesso, È di nostro figlio che stiamo parlando.

Infine Glisson disse, «Sembra non esserci alcun dubbio che ci troviamo di fronte ad un embrione fertile immune al gas. Il vostro rapporto non fa altro che completare il quadro. Abbiamo altri dati, capite.»

«Non sapevo che lo specialista fosse uno dei nostri,» disse Lizbeth.

Ci fu una pausa, mentre gli occhi di Glisson divenivano ancora più vacui del solito. I Durant ebbero quasi l’impressione di vedere formule matematiche incomprensibili lampeggiare nei circuiti cerebrali del Cyborg. Correva voce che i Cyborg pensassero quasi esclusivamente in termini matematici dei più astrusi, che all’occorrenza traducevano in linguaggio comune.

«Lo specialista non era uno dei nostri,» stabilì Glisson. «Ma lo diventerà presto.»

Quale algoritmo ha generato questa conclusione? si chiese Harvey. «E il nastro dell’operazione?», chiese subito dopo.

«È stato distrutto,» rispose Glisson. «Proprio in questo momento, il vostro embrione viene trasferito in un luogo sicuro. Lo raggiungerete. Presto.» Dalla labbra meccaniche del Cyborg sfuggì un risolino.

Lizbeth rabbrividì. Harvey percepì il nervosismo della moglie dalla mano che le stringeva. «Nostro figlio è al sicuro?»

«Sì,» replicò Glisson. «I nostri piani prevedono che la sua sicurezza sia fuori questione.»

«In che modo?» volle sapere Lizbeth.

«Lo capirete presto,» disse Glisson. «Si tratta di un metodo antico e affidabile. Ma siate certi di questo: gli embrioni fertili sono armi di grande valore. E noi non mettiamo mai a rischio le nostre armi migliori.»

Lizbeth segnalò al marito, «L’operazione — chiediglielo adesso.»

Harvey si inumidì le labbra con la lingua, disse, «Ci sono… quando viene chiamato uno specialista della Centrale… di solito significa che l’embrione verrà trasformato in un Optimate. Loro hanno… nostro figlio è…»

Le narici di Glisson si allargarono. Il volto assunse un’espressione di superiorità: per un Cyborg quell’ignoranza era un vero e proprio insulto. Con voce fredda spiegò, «Anche volendo limitarci ad azzardare delle ipotesi, avremmo bisogno della registrazione completa, inclusi i dati sugli enzimi somministrati. Ma il nastro è andato distrutto. Soltanto lo specialista conosce con certezza l’esito dell’operazione. Dobbiamo interrogarlo.»

Lizbeth disse, «Svengaard o l’infermiera addetta al computer avrebbero potuto dire qualcosa che…»

«Svengaard è uno sciocco,» la interruppe Glisson. «L’infermiera è morta.»

«L’hanno uccisa loro?» bisbigliò Lizbeth.

«Il modo in cui è morta non ha alcuna importanza,» ribatté Glisson. «Essa ha svolto la sua funzione.»

Con la mano, Harvey segnalò, «I Cyborg hanno qualcosa a che fare con la sua morte!»

«Me ne sono accorta!»

Harvey chiese, «Lei ci… Potremo parlare con Potter?»

«A Potter verrà offerta la possibilità di diventare un Cyborg,» rispose Glisson. «Dopodiché, la decisione di parlare sarà soltanto sua.»

«Ma noi vogliamo sapere cosa è accaduto a nostro figlio!» esclamò con rabbia Lizbeth.

Harvey le segnalò freneticamente, «Scusati, e in fretta!»

«Signora,» replicò Glisson, «mi permetta di ricordarle che il cosiddetto status di Optimate non è un qualcosa a cui aspiriamo. Si ricordi del giuramento che ha prestato.»

Lizbeth strinse la mano di Harvey per interrompere i suoi segnali, disse, «Mi dispiace. Per noi è stato un vero choc venire a conoscenza della… possibilità che…»

«Considero la vostra tipica instabilità emotiva come una circostanza attenuante,» disse Glisson. «Però è bene che vi avverta di una cosa: su vostro figlio udrete delle cose che non dovranno turbarvi.»

«Quali cose?» sussurrò Lizbeth.

«Qualche volta una forza di provenienza sconosciuta interferisce con un’operazione genetica,» spiegò loro Glisson. «Abbiamo ragione di credere che questo sia successo anche con vostro figlio.»

«Cosa vuole dire?» chiese Harvey.

«Ah!» esclamò con ironia Glisson. «Lei mi pone una domanda a cui non c’è risposta.»

«Ma come agisce… questa cosa?» lo supplicò Lizbeth.

Glisson la fissò. «Si comporta più o meno come una particella carica: penetra il nucleo genetico e ne altera la struttura. Se è davvero successo questo a vostro figlio, potreste anche considerarla una fortuna, visto che apparentemente impedisce agli embrioni di diventare Optimati.»

I Durant rifletterono su quell’informazione.

Poi Harvey disse, «Ha ancora bisogno di noi? Adesso possiamo andare?»

«Voi rimarrete qui,» li informò Glisson.

I Durant lo fissarono.

«In attesa di ulteriori ordini,» continuò Glisson.

«Ma si accorgeranno della nostra scomparsa,» obiettò Lizbeth. «Il nostro appartamento… lo frugheranno da cima a…»

«Abbiamo creato due cloni che vi sostituiranno per un periodo di tempo sufficiente a farvi fuggire da Seatac,» disse Glisson. «Non tornerete mai più. Ma questo dovevate saperlo.»

Le labbra di Harvey si mossero, poi formularono, «Fuggire? Cosa… perché dobbiamo…»

«Ci saranno dei combattimenti,» spiegò Glisson. «Stanno avvenendo già adesso. I culti animati dal desiderio di morte avranno il sopravvento.» Il Cyborg alzò lo sguardo verso il soffitto. «Guerra… sangue… uccisioni. Sarà come prima, quando il cielo fiammeggiava e la terra scorreva come lava fusa.»

Harvey si schiarì la gola. Guerre precedenti. Glisson dava l’impressione che quelle guerre fossero scoppiate poco tempo prima, addirittura il giorno prima. E proprio per quello il tono di Cyborg era assai convincente. Si diceva che un antenato di Glisson avesse combattuto nella guerra Optimati-Cyborg. Nessuno tra i membri dell’Associazione Clandestina dei Genitori sapeva quante identità avesse assunto Glisson durante la propria vita.

«Dove andremo?» chiese Harvey. Segnalò a Lizbeth di non interromperlo.

«Per voi è stato preparato un luogo adatto,» disse Glisson.

Il Cyborg si alzò, scollegò i cavi dal computer, disse, «Voi aspetterete qui. Non tentate di andarvene. Ovviamente provvederemo ai vostri bisogni.»

Glisson superò il portello, che si richiuse con un pesante tonfo.

«Sono tanto malvagi quanto gli Optimati,» segnalò Lizbeth.

«Verrà il giorno in cui ci libereremo sia di loro che degli Optimati,» rispose Harvey.

«Non accadrà mai,» ribatté Lizbeth.

«Non dire una cosa del genere!» le ordinò il marito.

«Se solo conoscessimo un dottore che è d’accordo con noi,» si rammaricò lei. «Potremmo prendere nostro figlio e fuggire via.»

«Che assurdità! Come potremmo tenerlo in vita senza la vasca e il macchinario per…»

«Quel macchinario è dentro di me,» ribatté Lizbeth. «Sono… nata con esso.»

Harvey la fissò, sconvolto da quelle parole.

«Non voglio che gli Optimati o i Cyborg controllino la vita di nostro figlio,» segnalò Lizbeth, «e influenzino la sua mente con gas ipnotico, ne ricavino cloni da usare per i loro scopi, lo dominino, lo costringano a…»

«Non perdere la calma,» la blandì Harvey.

«L’hai sentito anche tu,» disse Lizbeth. «Cloni! Possono controllare tutto, perfino la nostra esistenza. Possono condizionarci a… a fare… qualsiasi cosa! Per quel che ne sappiamo, potremmo essere stati condizionati a rimanere qui, proprio in questo momento!»

«Liz, stai diventando irragionevole.»

«Irragionevole? Guardami! Possono prendere un frammento della mia pelle e da esso far crescere una copia identica a me. Identica! Come sai che sono io? Come fai a essere sicuro che sono io quella originale? Eh, come fai?»

Harvey le afferrò il braccio con cui non stava comunicando e per un istante non trovò le parole. Poi si costrinse a calmarsi e scosse la testa. «Tu sei tu, Liz. Non sei semplicemente carne prodotta da una sola cellula… Tu sei… tutte le esperienze che abbiamo condiviso… tutto quello che abbiamo fatto… e vissuto insieme. Non possono duplicare anche i ricordi… anche usando un clone è impossibile.»

Lizbeth premette la guancia contro il ruvido tessuto della giacca di Harvey, bramando la sensazione tattile che suo marito fosse davvero lì con lei, che fosse reale.

«Creeranno dei cloni da nostro figlio,» gli disse. «È questo che stanno progettando, e tu lo sai.»

«Allora avremo molti figli.»

«Perché è successo?» Lizbeth sollevò lo sguardo sul marito, con le ciglia rese pesanti dalle lacrime. «Hai sentito quello che ha detto Glisson. Qualcosa di esterno ha modificato il nostro embrione. Cos’era?»

«Come posso saperlo?»

«Ma qualcuno dovrà pure saperlo.»

«Ti conosco,» segnalò Harvey. «Vuoi credere che si tratti di Dio.»

«E di cos’altro potrebbe trattarsi?»

«Potremmo essere di fronte al caso, oppure ad una manipolazione più sottile. Oppure qualcuno ha scoperto qualcosa che non vuole dirci.»

«Uno di noi? Non lo farebbe mai!»

«Allora si tratta della Natura,» disse Harvey. «La Natura che desidera imporre nuovamente se stessa, nell’interesse dell’Uomo.»

«Qualche volta parli come una cultista.»

«Non sono stati i Cyborg,» le segnalò Harvey. «Adesso questo lo sappiamo.»

«Glisson ha detto che si è trattato di una fortuna.»

«Ma stiamo pur sempre parlando di alterazione genetica. Per i Cyborg, questa è una bestemmia. Loro preferiscono alterare fisicamente il bioschema.»

«Come Glisson,» gli fece notare Lizbeth. «Quel robot rivestito di carne.» Ancora una volta premette la guancia contro il corpo del marito. «Ecco, questo è il mio timore più grande: che trasformino così nostro figlio… i nostri figli.»

«Per numero, noi Corrieri superiamo i Cyborg cento a uno,» la tranquillizzò Harvey. «Fino a quando rimarremo uniti, saremo sicuri di vincere.»

«Ma noi siamo fatti di carne e di sangue,» obiettò lei. «Siamo così deboli.»

«Tuttavia noi possiamo fare qualcosa che tutti questi Steri messi insieme non possono fare: perpetuare la nostra specie.»

«Ma cosa importa?» gli chiese Lizbeth. «Gli Optimati non muoiono mai.»

CAPITOLO OTTAVO

Svengaard attese che fosse giunta la notte e ispezionò l’area attraverso gli schermi montati nel suo ufficio, prima di recarsi nel locale in cui si trovava la vasca con l’embrione. Nonostante il fatto che quello fosse il suo ospedale e che lui avesse ogni diritto di recarsi lì, era consapevole di star commettendo un’azione proibita. Il significato del colloquio che aveva sostenuto alla Centrale non gli era sfuggito. Agli Optimati non sarebbe piaciuto, ma lui doveva guardare in quella vasca.

Superata la porta, si fermò, esitando nelle tenebre, rendendosi conto in maniera distaccata che non era mai entrato in quella sala, se non con le luci accese. In quel momento, invece, l’unica fonte d’illuminazione era costituita dalle lucette dei quadranti e delle spie: fievoli puntini luminosi e cerchi fosforescenti con cui orientare il proprio cammino.

Il rumore delle pompe creava un bizzarro ritmo monotono che pervadeva quell’ambiente fiocamente illuminato di un senso di urgenza. Svengaard immaginò gli embrioni ospitati nella sala (quella mattina erano stati ventuno) che uscivano dalle vasche e iniziavano a raddoppiarsi, sempre di più, in una strana ed estatica frenesia di crescere, diventando individui unici, distinti, separati.

Il gas contraccettivo che permeava l’aria respirata dalla Gente non era ancora stato loro somministrato. Per il momento, potevano crescere quasi come avevano fatto i loro predecessori, prima dell’avvento degli ingegneri genetici.

Svengaard annusò l’aria.

Le sue narici, rese istintivamente più sensibili dall’oscurità, percepirono nell’atmosfera il vago sentore salino del liquido amniotico. Dal suo odore, la sala avrebbe anche potuto essere la spiaggia primordiale su cui erano fiorite le prime forme di vita.

Svengaard rabbrividì e ricordò a se stesso, Io sono un ingegnere submolecolare, un chirurgo genetico. In questo posto non c’è nulla di strano.

Ma quel pensiero non riuscì a convincerlo del tutto.

Si allontanò dalla porta, iniziò a procedere lungo la fila di vasche cercando quella che ospitava l’embrione dei Durant. Nella sua mente aveva ben chiaro il ricordo di ciò che aveva visto: l’intervento esterno che aveva irrorato di arginina le cellule dell’embrione. Si era trattata di un’intrusione. Ma da cosa era stata provocata? Potter aveva ragione? Il responsabile era un ignoto creatore di stabilità? Stabilità… ordine… sistemi. Sistemi estesi… aspetti infiniti dell’energia che privavano di ogni concretezza il concetto di materia.

Nel buio colmo di sussurri, quei pensieri divennero di colpo estremamente inquietanti.

Inciampò contro il supporto di un apparecchio piuttosto basso e imprecò a sottovoce. Aveva un nodo allo stomaco, provocato dall’urgenza presente nel ritmo delle pompe, e dalla necessità, notevolmente concreta, di fare in fretta, prima che l’infermiera del turno di notte iniziasse i suoi giri ad intervalli di un’ora.

Una sagoma d’insetto, un’ombra profilata contro altre ombre, spuntò dalla parete di fronte a Svengaard. Il bioingegnere si irrigidì, e gli ci volle qualche secondo per riconoscere i contorni di un microscopio a mesoni.

Svengaard si voltò e osservò i numeri luminosi sulle vasche: dodici, tredici, quattordici… quindici. Eccolo. Controllò il nome sulla targhetta, leggendolo alla luce di un quadrante: "Durant".

Qualcosa in quell’embrione aveva irritato gli Optimati e allarmato oltremodo la Sicurezza. L’addetta al computer che aveva seguito l’intera operazione era scomparsa; e quella che aveva preso il suo posto era tremendamente mascolina e decisa…

Svengaard allontanò il microscopio dalla parete, lo mosse con attenzione nel buio, posizionandolo sulla vasca. Poi, a tentoni, stabilì il collegamento tra lo strumento e la vasca, che vibrava sotto le sue dita. Attivò il microscopio, lo regolò, si chinò verso l’oculare.

All’interno della brulicante massa cellulare, comparve l’immagine molto nitida di un segmento di gene idrofilo. Svengaard si concentrò su di esso, dimenticando il buio, la propria consapevolezza totalmente rivolta verso il campo di visione dello strumento. I raggi mesonici penetrarono più a fondo… nel mitocondrio. Svengaard trovò le spirali alfa e iniziò a esaminare le catene di polipeptidi.

Poi corrugò la fronte, perplesso. Passò a un’altra cellula. Poi a un’altra ancora.

Le cellule mostravano un basso livello di arginina, di questo era certo. Mentre controllava ancora una volta, una ridda di pensieri si accavallò nella sua mente: Ma come può proprio l’embrione dei Durant, tra tutti, possedere una quantità tanto bassa di arginina? Qualsiasi normale embrione maschile possiederebbe più protamina spermatica di questo qui. E come può il sistema di scambio ADP-ATP non recare alcuna traccia dello schema Optimate? L’intervento non avrebbe potuto provocare una tale differenza.

Di colpo, Svengaard diresse il fascio di mesoni sui geni che stabilivano il sesso, osservò le loro catene che si intrecciavano.

È femmina!

Si raddrizzò e controllò il numero della vasca e l’etichetta. «Quindici. Durant.»

Allora guardò la cartella clinica, leggendola alla fioca luminosità emanata dal contatore. Riportava le annotazioni fatte dall’infermiera durante i primi ottantuno giri di controllo. Diede un’occhiata all’orologio: mancavano altri venti minuti all’ottantaduesimo giro.

Non è possibile che l’embrione dei Durant sia femmina, pensò. Non dopo l’operazione fatta da Potter.

Poi comprese che qualcuno aveva scambiato gli embrioni. I sistemi di supporto vitale non facevano alcuna differenza tra un embrione e l’altro. Senza un’attenta analisi al microscopio, nessuno avrebbe potuto accorgersi della sostituzione.

Chi era stato?

Nella mente di Svengaard, i candidati più probabili erano gli Optimati. Avevano portato l’embrione dei Durant in un luogo sicuro, e avevano lasciato al suo posto un sostituto.

Per quale motivo?

È un’esca, si rese conto. Un’esca.

Ma chi stanno tentando di prendere all’amo?

Si raddrizzò, con la bocca arida, il cuore che gli martellava in petto. Un suono proveniente dalla parete alla sua sinistra lo fece voltare di scatto. Il computer d’emergenza della sala delle vasche si era improvvisamente attivato: i nastri stavano iniziando a girare, le luci a lampeggiare. Svengaard udì il suono ronzante di una stampante.

Ma non c’è nessuno che lo sta adoperando!

Svengaard si voltò e fece per fuggire dalla sala, ma urtò contro una forma massiccia, solida. Mani e braccia lo bloccarono con forza spietata e, alle spalle del suo catturatore, Svengaard intravide un settore della parete aperto: all’interno brillavano luci fioche e si intuiva del movimento.

Poi un’oscurità immensa e profondissima sembrò calare sul suo cervello.

CAPITOLO NONO

La nuova addetta al computer dell’Ospedale di Seatac riuscì a parlare con Max Allgood al videotelefono dopo un intervallo molto breve, il tempo necessario alla Sicurezza per rintracciarlo. Sullo schermo, gli occhi di Allgood apparivano infossati. La bocca era contratta in una smorfia.

«Sì?» esordì. «Oh, è lei.»

«Sta accadendo qualcosa di molto importante,» gli comunicò la donna. «Svengaard si trova nella sala degli embrioni, e sta esaminando al microscopio quello dei Durant.»

Allgood alzò gli occhi al cielo. «Ma per l’amor di… Ed è per questo che mi ha tirato… che mi chiamato?»

«Ho sentito un rumore e lei mi aveva raccomandato…»

«Faccia finta che non le abbia detto nulla.»

«Le dico che ho udito del trambusto, e che adesso il Dottor Svengaard non è più nella sala, è sparito. E non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà servito di un’altra porta.»

«Non ci sono altre porte.»

«Mi stia a sentire, dolcezza, ho una cinquantina di agenti che controllano quella sala. Neppure una mosca potrebbe muoversi là dentro, senza essere rilevata dai nostri sensori.»

«Allora controlli dove è andato Svengaard.»

«Oh, per…»

«Controlli!»

«Va bene, va bene!» Allgood attivò la sua linea riservata, contattò uno degli agenti. Attraverso l’altra linea, che era rimasta aperta, la donna poté udire le parole del capo della Sicurezza. «Dov’è Svengaard?»

Una voce, attutita dalla distanza, rispose, «È entrato, ha esaminato al microscopio l’embrione dei Durant, poi è andato via.»

«E uscito dalla porta?»

«Certo.»

Il viso di Allgood riapparve sullo schermo dell’addetta al computer. «Ha sentito?»

«Sì, ma sono rimasta nascosta all’estremità del corridoio dal momento in cui è entrato nella sala, e non l’ho visto uscire.»

«Probabilmente si sarà girata per pochi secondi.»

«Be’…»

«L’ha fatto, vero?»

«Posso aver distolto lo sguardo per un istante, ma…»

«E così l’ha perso.»

«Ma ho sentito del trambusto, lì dentro!»

«Se fosse successo qualcosa di strano, i miei uomini me l’avrebbero già riferito. Quindi dimentichi l’intera faccenda. Il nostro problema non è Svengaard. Loro mi avevano avvertito che probabilmente avrebbe fatto qualcosa del genere, e che noi non dovevamo preoccuparcene troppo. E su queste cose hanno sempre ragione.»

«Se è proprio sicuro.»

«Sì, ne sono sicuro.»

«Mi dica, ma perché siamo tanto interessati a quell’embrione?»

«Non ha bisogno di saperlo, tesoro. Ritorni al suo lavoro e mi lasci riposare per un po’.»

La donna interruppe la comunicazione, chiedendosi ancora la causa del rumore che aveva udito: era come se qualcuno fosse stato colpito da un oggetto.

Allgood rimase a fissare lo schermo vuoto. Rumore? Trambusto? Sul suo viso si dipinse una smorfia interrogativa, poi Allgood espirò lentamente. Dannata pazzoide!

Improvvisamente si alzò e si voltò verso il letto, in cui giaceva la Compagna che si era scelto per la notte, avvolta nella luce rosata di un abat-jour, ancora non del tutto sveglia; lo stava fissando. Lo sguardo dei suoi occhi dalle lunghe ciglia di colpo lo fece infuriare.

«Dannazione, fuori di qui!» ruggì Allgood.

La Compagna si rizzò a sedere sul letto, ormai completamente sveglia, lo guardò.

«Fuori!» le ordinò Allgood, indicandole la porta.

La donna quasi ruzzolò giù dal letto, raccolse i propri indumenti, e uscì di corsa: un fugace lampo di carne rosea.

Solo quando fu andata via, Allgood comprese a chi assomigliasse: a Calapine. Una ben misera copia, però. Poi si meravigliò della sua reazione. I Cyborg gli avevano assicurato che le modifiche che avevano fatto, gli strumenti che avevano impiantato nel suo corpo, lo avrebbero aiutato a controllare le proprie emozioni, gli avrebbero permesso di mentire impunemente perfino agli Optimati. Ma quello scoppio d’ira l’aveva spaventato. Abbassò lo sguardo su una delle pantofole, abbandonata sul tappeto grigio; l’altra era finita chissà dove. Diede un calcio alla pantofola e iniziò a camminare avanti e indietro.

C’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Era vissuto per quasi quattrocento meravigliosi anni, la maggior parte dei quali trascorsi al servizio degli Optimati. Di conseguenza aveva sviluppato un istinto quasi infallibile nel riconoscere le situazioni di pericolo. Era una questione di sopravvivenza.

C’era qualcosa che non andava.

Forse i Cyborg gli avevano mentito? Lo stavano usando per portare a compimento uno di quei piani tortuosi tanto tipici della loro logica?

Inciampò sulla pantofola, la ignorò.

Rumore. Trambusto.

Pronunciando sottovoce un’imprecazione, ritornò alla sua linea riservata, richiamò l’agente. Il volto che apparve sullo schermo aveva un che di infantile: labbra tumide, occhi grandi e ansiosi.

«Andate nella sala delle vasche e ispezionatela,» ordinò Allgood. «Minuziosamente. Cercate le tracce di un eventuale colluttazione.»

«Ma se qualcuno ci vede…»

«Al diavolo! Faccia come le ho detto!»

«Sissignore!»

L’agente interruppe la comunicazione.

Allgood si liberò frettolosamente della vestaglia, ogni desiderio di dormire ormai cancellato dalla sua mente, poi fece una doccia veloce e iniziò a vestirsi.

C’era qualcosa che non andava. Lo sentiva. Prima di lasciare il suo alloggio, diramò l’ordine di trovare Svengaard e di portarlo da lui per essere interrogato.

CAPITOLO DECIMO

Alle otto del mattino, le strade e i marciapiedi mobili del distretto industriale settentrionale di Seatac brulicavano di vetture e di pedoni: flussi continui di persone tutte prese dalle loro preoccupazioni, indifferenti a ogni altra cosa. Il Controllo Meteorologico aveva annunciato che quel giorno la temperatura si sarebbe mantenuta piacevolmente sui venti gradi, con cielo terso. Dopo un’ora, iniziato ormai il turno di lavoro, il traffico si sarebbe diradato di molto. Il Dottor Potter aveva visto molte volte la città in preda a quella frenesia, ma era la prima volta che ne veniva coinvolto.

Sapeva che l’Associazione Clandestina dei Genitori aveva scelto quell’orario proprio perché era perfetto per mimetizzarsi tra la folla. Lui e la sua guida erano soltanto due membri insignificanti di quei flussi umani. Chi mai li avrebbe notati? Quel pensiero, tuttavia, non diminuì l’interesse affascinato con cui Potter osservava la scena.

Una Steri dalla corporatura imponente, che indossava la divisa a strisce verdi e bianche degli addetti alle presse in un complesso industriale, lo urtò superandolo. Per Potter aveva l’aspetto di una B2022419kG8, con la pelle color crema e lineamenti marcati. Da un cerchietto d’oro all’orecchio pendeva un feticcio della fertilità.

Era seguita quasi a ruota da un ometto con le spalle cascanti che impugnava una corta sbarra d’ottone. Quando incrociò Potter, gli scoccò un sogghigno furbesco, come a volergli dire, «È l’unico modo per poter camminare senza problemi in una folla come questa.»

La guida di Potter gli fece segno di prendere il marciapiede di discesa, che lo condusse in una strada secondaria. Per Potter la sua guida era un enigma; non era neppure riuscito a individuare il suo tipo genetico. L’uomo indossava un semplice abito marrone e un cappotto. Appariva ragionevolmente normale, tranne la sua pelle: pallida, malaticcia. Gli occhi profondamente incassati scintillavano quasi come lenti. Un cappello gli nascondeva i capelli, eccetto un paio di ciuffi castani che davano quasi l’impressione di essere finti. Le sua mani, quando toccavano Potter per guidarlo, erano fredde, leggermente repellenti.

La folla si assottigliò, mentre il marciapiede di discesa girava attorno ad un angolo per poi sbucare in una strada simile ad un canyon, stretta tra due torreggianti edifici privi di finestre. Era invasa dalla polvere, che quasi nascondeva la vista di alcuni ponti piuttosto lontani. Potter si chiese il perché della presenza della polvere. Era come se il Direttore della sezione locale del Controllo Meteorologico permettesse che la polvere si depositasse in quel luogo avendo ceduto ad una passione inconscia per la natura.

Un uomo massiccio li superò e Potter rimase colpito dalle sue mani: polsi spessi, nocche sporgenti, grandi calli a forma di mezzaluna. Potter non riuscì a immaginare quale lavoro potesse provocare quelle deformazioni.

La guida fece loro discendere tutta una serie di marciapiedi e poi arrivò in un vicolo. Ormai la folla era rimasta alle loro spalle. Potter provava un senso di distacco. Aveva l’impressione di star rivivendo un’esperienza familiare.

Perché sono venuto qui con questo individuo? si chiese.

Sulla spalla, la guida indossava il simbolo, una ruota, degli autisti addetti ai trasporti, ma gli aveva detto subito di far parte dell’Associazione Clandestina dei Genitori.

«So cosa ha fatto per noi,» lo aveva informato. «Adesso, saremo noi a fare qualcosa per lei.» Poi gli aveva rivolto un cenno del capo. «Venga.»

Dopo quella breve conversazione avevano scambiato soltanto poche parole, ma fin dall’inizio Potter aveva compreso che la guida era stata davvero inviata dell’Associazione. Quello non era un trucco.

Ma perché ho accettato il loro invito? si chiese. Di certo non l’aveva fatto per le velate promesse che gli prospettavano una vita prolungata e nuove e immediate conoscenze. Ovviamente, dietro a tutto questo c’erano i Cyborg, e lui sospettava che la guida potesse essere uno di loro. La maggior parte degli Optimati e dei Servitori di rango superiore tendevano a considerare come delle sciocchezze le voci che giravano tra la Gente sull’esistenza dei Cyborg, ma Potter non si era mai unito a coloro che dubitavano o si burlavano di esse. Ma non avrebbe saputo spiegarne il motivo, così come, del resto, non avrebbe saputo spiegare la sua presenza in quel vicolo, circondato da pareti in plasmeld, illuminato dalla luce spettrale dei neon.

Potter sospettava di essersi infine ribellato contro una delle tre maledizioni della sua epoca: moderazione, droga e alcohol. A suo tempo, era stato tentato dai piaceri offerti dalle ultime due… per poi passare alla moderazione. Sapeva che non era una cosa normale, considerati i tempi in cui viveva. Era meglio unirsi ad uno dei culti che praticavano orge sfrenate. Ma la prospettiva di avere rapporti sessuali senza alcun scopo, e senza alcuna possibilità di procreare, lo disgustava, anche se si rendeva conto che era un segno di sfacelo finale.

Il vicolo sbucò in una delle piazze dimenticate della megalopoli: triangolare, e con un fontana che sembrava essere stata costruita in vera pietra, resa verdolina dal passare degli anni.

Gli Optimati non conoscono questo posto, pensò Potter. Disprezzavano la pietra che veniva erosa e consumata dal tempo. Loro preferivano il plasmeld, che aveva la capacità di rigenerarsi, rimanendo immutabile per l’eternità.

La guida rallentò il passo, quando furono all’aria aperta. Potter percepì un lieve odore di prodotti chimici che proveniva dall’uomo, un odore dolciastro d’olio, e notò una sottile cicatrice che correva lungo la nuca dell’altro, fino a scomparire nel colletto della camicia.

Perché non ha tentato di ricattarmi per costringermi a venire? si chiese Potter. Era tanto sicuro? C’è qualcuno che mi conosce così bene?

«Abbiamo un lavoro per lei,» disse la guida. «Un’operazione che dovrà eseguire.»

La curiosità è il mio punto debole, si rese conto Potter. Ecco perché sono qui.

La guida poggiò una mano sul braccio di Potter, lo avvertì, «Si fermi. Non si muova e aspetti.»

Il tono di voce era calmo, ma Potter percepì una tensione nascosta nelle parole della guida. Si guardò intorno, sollevò lo sguardo. Gli edifici erano privi di finestre, indistinguibili uno dall’altro. All’angolo di un altro vicolo si apriva un’ampia porta. Erano quasi arrivati alla fontana senza incontrare nessuno. Niente si muoveva nei paraggi. Si udiva soltanto il lieve rombo di macchine lontane.

«Cosa c’è?» sussurrò Potter. «Perché stiamo aspettando?»

«Non è nulla,» replicò la guida. «Lei, comunque, aspetti.»

Potter si strinse nelle spalle.

La sua mente ritornò al primo incontro che aveva avuto con quell’essere. Come facevano a sapere cosa avevo ottenuto? Dev’essere stata l’addetta al computer. Senza dubbio è una di loro.

La guida si era rifiutata di rispondere a quella domanda.

Sono venuto perché speravo che potessero aiutarmi a risolvere l’enigma dell’embrione dei Durant, pensò poi. Sospetto che siano stati loro a provocare l’intrusione dell’arginina.

Pensò a come l’aveva descritta Svengaard: aveva depositato protamina spermatica ricca di arginina nelle spirali alfa delle cellule dell’embrione. Poi c’era stato il proprio intervento: il mascheramento della cisteina, neutralizzata con il sulfidrile e la fase ATP… oligomiciana e azide… l’inibizione della reazione di scambio.

Potter alzò lo sguardo e fissò la striscia di cielo incorniciata dagli edifici che circondavano la piazza. La sua mente, concentrata sulla modifica a cui era stato sottoposto l’embrione dei Durant, si era imbattuta in una nuova ipotesi. Non vedeva più il cielo. La sua coscienza era ancora una volta immersa all’interno della cellula brulicante di vita, seguiva il mitocondrio come un pescatore subacqueo la sua preda.

«Potrei ripeterlo,» sussurrò Potter.

«Silenzio,» gli intimò la guida.

Potter annuì. Su di un qualsiasi embrione, pensò. La chiave è l’irrorazione d’arginina. E io potrei duplicare il fenomeno, basandomi sulla descrizione di Svengaard. Dèi! Potremmo creare milioni di embrioni simili a quello dei Durant: tutti fertili e vitali!

Respirò profondamente, turbato dalla consapevolezza che — una volta cancellato il nastro — la sua memoria poteva rivelarsi l’unica fonte di informazioni per poter replicare il procedimento. Svengaard e l’addetta al computer ne avevano potuto osservare soltanto una parte. Ma loro non erano stati lì dentro, immersi nel cuore della cellula.

Un qualsiasi abile bioingegnere avrebbe potuto dedurre ciò che era successo ed essere capace di replicarlo in base alle registrazioni parziali, se solo gli fosse stato sottoposto il problema. Ma chi si sarebbe curato di farlo? Di certo non gli Optimati. E neppure quello sciocco di Svengaard.

La guida tirò Potter per la manica.

Potter fissò quel volto inespressivo e dagli occhi gelidi, di cui non riusciva a riconoscere il tipo genetico.

«Siamo osservati,» lo avvertì la guida in tono stranamente piatto. «Mi ascolti molto attentamente: È in gioco la sua vita.»

Potter scosse la testa, ammiccò. Gli parve quasi che la propria coscienza fosse scomparsa; era divenuto un fascio di sensi che registravano le parole e le azioni dell’altro.

«Entrerà in quella porta davanti a noi,» gli disse la guida.

Potter si voltò, fissò la porta. Due uomini che trasportavano dei pacchi incartati emersero dal vicolo di fronte, attraversarono in fretta la piazza. La guida li ignorò. Potter udì un suono di giovani voci diventare sempre più forte nel vicolo. La guida ignorò anche quelle.

«Una volta entrato in quell’edificio, prenderà la prima porta a sinistra,» continuò poi. «Vedrà una donna addetta ad un centralino. Le dirà: "Mi fa male una scarpa". Lei risponderà: "Ognuno ha i suoi problemi". Da quel momento in poi, la donna si prenderà cura di lei.»

Potter ritrovò la voce: «E se lei… non è lì?»

«Allora passi per la porta alle spalle della sua scrivania, attraversi l’ufficio, e troverà un corridoio. Giri a sinistra e raggiunga il retro dell’edificio. Vi troverà un uomo che indossa l’uniforme da supervisore al carico, a strisce grigie e nere. Ripeterà con lui la procedura che le ho illustrato.

«E lei?» chiese Potter.

«Di questo non deve preoccuparsi. Adesso, si sbrighi!» La guida gli diede uno spintone.

Potter barcollò verso la porta proprio mentre dal vicolo spuntava una donna in uniforme da insegnante che guidava una fila di bambini, che lo separò dalla porta.

I sensi sconvolti di Potter registrarono la scena: i bambini, tutti vestiti con pantaloncini aderenti che rivelavano le loro lunghe gambe da fenicottero. Improvvisamente lo circondarono e Potter fu costretto ad aprirsi la strada verso la porta.

Alle sue spalle, qualcuno gridò.

Potter si acquattò contro la porta, trovò la maniglia, si voltò indietro a guardare.

La guida aveva girato intorno alla fontana, che adesso la nascondeva dalla cintola in giù, ma quello che era visibile del suo corpo fu più che sufficiente a sbalordire Potter, immobilizzandolo sul posto. Il petto dell’uomo era nudo e rivelava una cupola di un bianco latteo da cui scaturiva una luce accecante.

Potter spostò lo sguardo verso sinistra, vide una fila di uomini che stavano uscendo da un altro vicolo venire carbonizzata da quella luce ardente. I bambini stavano gridando, piangevano, tentavano di ritornare nel vicolo, ma Potter li ignorò, affascinato dallo spettacolo di quella macchina assassina che lui aveva pensato fosse un essere umano.

Una delle braccia della guida si sollevò, venne puntata verso l’alto. Dalle dita tese, saettarono raggi di luce azzurra. E dove essi terminavano, aeromobili precipitavano dal cielo. L’atmosfera circostante era divenuta un inferno crepitante di ozono, punteggiata da esplosioni, urla, grida rauche.

Potter rimase a fissare quella scena, incapace di muoversi, dimentico delle istruzioni che aveva ricevuto e della sua mano poggiata sulla maniglia.

La guida era ormai bersagliata dal fuoco di risposta. I suoi vestiti si raggrinzirono, svanirono in uno sbuffo di fumo, rivelando un corpo corazzato i cui muscoli dovevano essere stati forgiati in fibre di plasmeld. I raggi mortali continuavano a scaturire dalle mani e dal petto.

Potter scoprì che non poteva più resistere a quello spettacolo. Spalancò la porta, avanzò barcollando nella penombra di un atrio dalle pareti dipinte di giallo. Chiuse la porta mentre un’esplosione scuoteva l’edificio. La porta tremò sui cardini.

Sulla sua sinistra, si spalancò una porta. Un’esile donna bionda e dagli occhi azzurri si fermò a fissarlo. Stranamente Potter si sfrozò di riconoscere le sue caratteristiche genetiche, e fu rassicurato dal tocco d’umanità che esse gli comunicarono. Alle spalle della donna, Potter scorse il centralino.

«Mi fa male la scarpa,» disse allora.

Lei deglutì. «Ognuno ha i suoi problemi.»

«Sono il Dottor Potter,» si presentò lui. «Penso che la mia scorta sia stata appena uccisa.»

La donna si scostò dalla porta, disse, «Entri.»

Potter entrò barcollando in un ufficio in cui erano visibili file e file di scrivanie deserte. La sua mente era sconvolta da ciò che sottintendevano le scene di violenza a cui aveva appena assistito.

La donna lo tirò per un braccio, lo guidò verso un’altra porta. «Da questa parte,» disse. «Dobbiamo passare per i condotti di servizio. È l’unico modo. Questo posto verrà circondato in pochi minuti.».

Potter si fermò, puntando metaforicamente i piedi. Non si era aspettato la violenza. Non aveva saputo cosa aspettarsi, ma di certo non aveva pensato alla violenza.

«Dove stiamo andando?» chiese. «Cosa volete da me?»

«Non lo sa?» replicò la donna.

«Lui… non me l’ha detto.»

«Tutto le verrà spiegato,» affermò lei. «Ma ora si sbrighi.»

«Non mi muoverò neppure di un millimetro finché non me lo dirà,» si impuntò Potter.

La donna pronunciò un’imprecazione volgare. Poi disse, «Se è proprio necessario, allora lo farò. Lei dovrà inserire l’embrione dei Durant nella madre. È l’unico modo in cui possiamo portarlo fuori di qui.»

«Nella madre?»

«Come si faceva nell’antichità,» spiegò lei. «So che è disgustoso, ma è l’unico modo. Ora, però, si sbrighi!»

Potter le permise di trascinarlo oltre la porta.

CAPITOLO UNDICESIMO

Nel Centro di Controllo, il Globo rosso, la Tuyere occupava i troni sul triangolo rotante, considerando una mole immensa di dati, correlando, deducendo, diramando ordini. La porzione di parete curva a disposizione di ciascuno dei membri della Tuyere sottoponeva loro i dati in forme differenti: visivamente, attraverso gli schermi, come funzioni di probabilità in diagrammi matematici, analoghi, piramidi fluttuanti, griglie di dati binari che esprimevano valori relativi, come curve di comportamento calcolate in base a schemi di azione/reazione che apparivano sotto forma di fluenti linee verdi…

Nei quadranti superiori del globo, i sensori video attivati mostravano quanti Optimati stavano seguendo le azioni della Tuyere — quella mattina erano più di mille.

Calapine tormentava l’anello di comando al pollice sinistro, percepiva il fievole ronzio che emetteva mentre lo faceva ruotare e scorrere sulla pelle. Era inquieta, agitata da sentimenti a cui non avrebbe saputo dare un nome. I suoi compiti stavano diventando repellenti, i suoi compagni odiosi. Lì dentro, il tempo perdeva ogni significato, trasformandosi in una confusa teoria di giorni e notti tutte uguali. Tutti i Compagni che aveva conosciuto sembravano fondersi incessantemente in un unico individuo.

«Ho esaminato ancora una volta il nastro della sintesi proteica dell’embrione dei Durant,» disse Nourse. Attraverso il prisma accanto alla sua testa, lanciò una rapida occhiata a Calapine, tamburellò sul bracciolo del trono, con dita inquiete che si muovevano avanti e indietro sul plasmeld scolpito.

«Ci è sfuggito qualcosa, c’è qualcosa a cui non abbiamo pensato,» si burlò di lui Calapine. Guardò Schruille, lo sorprese a strofinarsi le palme sul tessuto dell’abito che gli ricopriva le gambe, un gesto che sembrava tradire un notevole nervosismo.

«Sì, ma ho scoperto di che cosa si tratta,» replicò Nourse.

Un movimento della testa di Schruille attirò l’attenzione di Nourse. Si girò. Per un istante, i due si fissarono attraverso i prismi. Nourse trovò interessante che Schruille avesse un lieve difetto della pelle accanto al naso.

Strano, pensò. Come può uno di noi essere affetto da un difetto simile? Senza dubbio non può trattarsi di uno squilibrio enzimico.

«Be’, e quale sarebbe?» chiese Schruille.

«Hai un leggero difetto della pelle vicino al naso,» rispose Nourse.

«E questo l’hai dedotto dal nastro che riguarda l’embrione?» gli chiese ironicamente Calapine.

«Eh? Oh… no, ovviamente no.»

«Allora cos’hai scoperto?»

«Sì. Bene… adesso mi sembra piuttosto ovvio che l’operazione compiuta da Potter potrebbe essere replicata… dato quel tipo di embrione e una corretta somministrazione di protamina spermatica.»

Schruille rabbrividì.

«Hai dedotto l’intero corso dell’operazione?» volle sapere Calapine.

«Non nei minimi particolari, ma me ne sono fatto un’idea generale.»

«Potter potrebbe ripeterla?» chiese allora lei.

«Probabilmente ci riuscirebbe perfino Svengaard.»

«Ci scampi e liberi,» mormorò Calapine. Si trattava di una formula rituale le cui parole raramente attiravano l’attenzione cosciente di un Optimate, ma questa volta Calapine sentì distintamente se stessa pronunciarla, specialmente la parola "scampi", che parve scolpirsi a lettere di fuoco nella sua mente.

Fece ruotare il suo trono.

«Dov’è Max?» chiese Schruille.

Il tono lamentoso della voce dell’altro strappò un sorriso ironico dalle labbra di Nourse.

«Max sta lavorando,» rispose. «In questo momento è molto occupato.»

Schruille sollevò lo sguardo verso i sensori video, pensando a tutti i suoi pari che li stavano osservando: i Decisionisti, che vedevano in quella situazione una nuova occasione per applicare i loro talenti, senza rendersi conto di quale violenza potesse scatenarsi; gli Emotivi, pieni di timore e inclini all’autocommiserazione, resi quasi del tutto incapaci d’agire dal senso di colpa; i Cinici, interessati dalla novità del gioco (Schruille sapeva che la maggior parte degli osservatori erano Cinici); gli Edonisti, infuriati dall’attuale emergenza, e preoccupati poiché una situazione simile interferiva con i loro divertimenti; ed infine gli Effeti, che in tutte quelle novità non vedevano altro che qualcosa su cui riversare il loro sarcasmo.

Adesso sorgerà una nuova fazione? si chiese Schruille. Sarà quella dei Brutali, la cui sensibilità verrà completamente cancellata dalle necessità dell’auto-conservazione? Nourse e Calapine non hanno ancora considerato questo problema.

Rabbrividì ancora una volta.

«Max ci sta chiamando,» annunciò Calapine. «Ce l’ho sul mio schermo di accettazione.»

Schruille e Nourse attivarono i loro ripetitori e fissarono la figura solida e massiccia di Allgood.

«Sono pronto a fare il mio rapporto,» annunciò Allgood.

Calapine scrutò il volto del capo della Sicurezza. Allgood appariva distratto, timoroso.

«Cosa ne è stato di Potter?» chiese Nourse.

Allgood sbatté le palpebre.

«Perché esita a risponderci?» chiese Schruille.

«Lui ci adora,» disse Calapine.

«Ma l’adorazione scaturisce dalla paura,» ribatté Schruille. «Forse vuole mostrarci qualcosa, un video oppure un dato secondario che può rivelarsi importante. È così, Max?»

Allgood li fissò dallo schermo, tutti e tre. Ancora una volta stavano giocando, dimentichi del passare del tempo, tutti presi dalla ricerca di dati, dati, e ancora dati; quell’esigere continuamente particolari trascurabili era una conseguenza del loro essere immortali. Ma questa volta, sperava che il loro gioco proseguisse all’infinito.

«Dov’è Potter?» domandò Nourse.

Allgood deglutì. «Potter ha… temporaneamente eluso la nostra sorveglianza.» Sapeva che era peggio che inutile mentire.

«Eluso?» chiese Schruille.

«In che modo?» volle sapere Nourse.

«C’è stata… violenza,» ammise Allgood.

«Mostracela,» gli ordinò Schruille.

«No,» intervenne Calapine. «Mi basta la parola di Max.»

«Metti in dubbio l’affermazione di Max?» chiese Nourse a Schruille.

«Assolutamente no,» replicò Schruille. «Ma osserverò questa violenza.»

«Come puoi fare una cosa del genere?» si stupì Calapine.

«Allontanati, se vuoi,» disse Schruille. Poi, scandendo bene le parole, ripeté, «Osserverò… questa… violenza.» Fissò Allgod. «Max?»

Allgood deglutì di nuovo. Quello era uno sviluppo che non aveva previsto.

«È avvenuta,» riconobbe Nourse. «Ma questo, Schruille, lo sappiamo.»

«Certo che è avvenuta,» replicò Schruille, «ne ho rilevato la traccia, anche se è stata filtrata dai nostri strumenti. Violenza. Ma ora voglio disinserire i dispositivi di sicurezza che proteggono la nostra sensibilità.» Emise uno sbuffo ironico. «Sensibilità!»

Nourse lo fissò, essendosi accorto che ogni traccia di lamentosità era scomparsa dalla voce di Schruille.

Quest’ultimo sollevò lo sguardo e vide che molti dei sensori video si stavano spegnendo. Senza dubbio stava disgustando perfino i Cinici. Tuttavia, qualcuno rimase acceso.

Ma ce la faranno a resistere fino alla fine? si chiese.

«Mostra la violenza, Max,» ordinò.

Allgood si strinse nelle spalle.

Nourse fece ruotare il suo trono, voltando le spalle allo schermo. Calapine si coprì gli occhi con le mani.

«Come ordini,» disse Allgood. Il suo volto svanì dallo schermo. Al suo posto, comparve una ripresa dall’alto di una piccola piazza stretta tra edifici privi di finestre. Due minuscole figure stavano girando intorno ad una fontana nella piazza. Si fermarono e uno zoom permise di distinguere i loro volti: uno era Potter, mentre l’altro era uno sconosciuto dall’aria strana e dagli occhi spaventosamente gelidi.

Poi fu di nuovo la volta di un campo lungo: altri due uomini stavano sbucando da un vicolo, trasportando dei pacchi. Alle loro spalle marciava una fila di bambini sorvegliata da una donna che indossava l’uniforme da insegnante.

Di colpo, Potter si mosse di scatto, si fece largo tra i bambini. Il suo compagno stava correndo verso l’altro lato della fontana.

Schruille arrischiò un’occhiata verso Calapine, scoprì che la donna stava sbirciando attraverso le dita.

Un grido acuto proveniente dallo schermo attirò nuovamente la sua attenzione verso di esso.

Il compagno di Potter si era trasformato in un essere orribile, i cui vestiti erano caduti, e sul cui petto sorgeva un bulbo latteo, che irradiò una luce intensissima.

Lo schermo divenne nero, poi la scena ricomparve, questa volta ripresa da una diversa angolazione.

A Schruille bastò un rapido sguardo per accertarsi che Calapine aveva abbandonato ogni finzione di coprirsi gli occhi: ora fissava direttamente lo schermo. Anche Nourse lo stava guardando, attraverso il prisma montato sulla spalliera del trono.

La figura sullo schermo emise un altro raggio di luce. Lo schermo divenne nero ancora una volta.

«È un Cyborg,» spiegò Schruille. «È giusto che ne siate informati.»

La scena riapparve, questa volta ripresa da un’altezza maggiore e da un’angolazione nuovamente differente. Lo scontro che si svolgeva nel canyon di plasmeld era ormai portato avanti da dei moscerini, ma non era difficile trovare l’epicentro dell’azione. Raggi di luce accecante saettavano da una figura acquattata al centro della piazza. Aeromobili esplodevano e precipitavano ridotte in mille pezzi.

Un veicolo della Sicurezza scese in picchiata alle spalle del Cyborg. Un pulsante raggio di luce coerente scaturì dall’aeromobile e scavò un solco fumante lungo il lato di un edificio. Il Cyborg ruotò di scatto su se stesso, sollevò una mano, da cui scaturì un dito azzurro che parve estendersi all’infinito. Il dito incontrò il velivolo in picchiata e lo spezzò in due. Una delle metà urtò contro l’edificio, rimbalzò e investì il Cyborg.

Una palla di fuoco di un giallo spaventosamente intenso prese il posto della piazza. Un istante dopo, una fortissima esplosione scosse l’intera zona.

Schruille sollevò lo sguardo e si accorse che tutti i sensori video erano attivati e brillavano di un rosso intenso.

Calapine si schiarì la gola. «Potter è entrato in quell’edificio sulla destra.»

«È tutto qui quello che hai da dire?» le chiese Schruille.

Nourse fece ruotare il suo trono e fissò con ira Schruille.

«Non è stata un’esperienza interessante?» gli domandò Schruille.

«Interessante?» ripeté Nourse.

«Viene chiamata guerra,» disse Schruille.

Il volto di Allgood riapparve sullo schermo, fissandoli con velata intensità.

Naturalmente è curioso di osservare la nostra reazione, pensò Schruille.

«Tu conosci le nostre armi, Max?» gli chiese.

«Tutto questo parlare di armi e di violenza mi disgusta,» annunciò Nourse. «A cosa ci serve?»

«Perché possediamo delle armi, se non intendiamo utilizzarle?» proseguì Schruille. «Max, conosci la risposta a questa domanda?»

«Conosco le vostre armi,» rispose Allgood. «Sono l’ultima difesa della vostra incolumità personale.»

«Certo che abbiamo delle armi!» gridò Nourse. «Ma perché dobbiamo…»

«Nourse, controllati,» lo esortò Calapine.

Nourse si rilassò sul suo trono, con le mani che ne stringevano spasmodicamente i braccioli. «Controllarmi

«Esaminiamo i nuovi sviluppi della situazione,» continuò Schruille. «Sappiamo che i Cyborg esistono. Fino a questo momento, hanno eluso il nostro controllo. Evidentemente hanno la possibilità di entrare nei nostri computer e di manipolare i dati che ci forniscono, inoltre godono dell’appoggio di membri della Gente. E poi abbiamo scoperto che posseggono un braccio armato capace di sacrificare… ho detto sacrificare un membro per il bene degli altri.»

Nourse lo fissò ad occhi spalancati, mentre rifletteva su quelle parole.

«E noi abbiamo dimenticato completamente come si fa ad essere brutali.»

«Puah!» esclamò Nourse.

«Se si ferisce un uomo con un’arma,» rifletté Schruille, «di chi è la responsabilità: dell’arma o di chi la impugna?»

«Spiegati meglio,» sussurrò Calapine.

Schruille indicò l’immagine di Allgood. «Ecco la nostra arma. L’abbiamo puntata innumerevoli volte, finché non ha imparato a puntarsi da sola. Non abbiamo solo dimenticato come essere brutali, abbiamo semplicemente dimenticato di essere brutali.»

«Che sconcezza!» protestò Nourse.

«Guardate,» li esortò Schruille. Indicò i sensori video, tutti attivati. «Ecco la prova che quel che dico è vero. In quale altra occasione tanti nostri pari hanno osservato il Globo?»

Alcune luci si spensero, ma si riaccesero non appena i canali vennero utilizzati da altri che desideravano osservare.

Allgood, che stava assistendo a quella scena dallo schermo, era completamente affascinato. Aveva il respiro mozzo per l’emozione, ma ignorò quel particolare. Gli Optimati che affrontavano apertamente il concetto di violenza! Dopo una vita trascorsa a baloccarsi con degli eufemismi, Allgood scoprì che quel pensiero era inaccettabile. Era successo tutto così in fretta. Ma quelli erano gli Immortali, coloro che non potevano mai sbagliare. Si chiese quali pensieri solcassero in quel momento le loro menti.

Schruille, di solito silenzioso e meditativo, fissò Allgood e disse: «Chi altro ha eluso la nostra sorveglianza, Max?»

Allgood scoprì di non riuscire a parlare.

«I Durant sono scomparsi,» disse Schruille. «Svengaard non è stato trovato. Chi altro?»

«Nessuno, Schruille, nessuno.»

«Vogliamo che siano catturati,» gli disse l’Optimate.

«Naturalmente, Schruille.»

«Vivi,» intervenne Calapine.

«Vivi, Calapine?» ripeté Allgood.

«Se è possibile,» disse Schruille.

Allgood annuì. «Obbedisco, Schruille.»

«Adesso puoi tornare al tuo lavoro,» lo congedò quest’ultimo.

Lo schermo divenne nero.

Schruille iniziò a sfiorare i controlli inseriti nel bracciolo del suo trono.

«Cosa stai facendo?» gli chiese Nourse, notando un tono petulante nella propria voce che non gli piacque per nulla.

«Elimino i programmi di filtraggio che escludono la violenza dai nostri occhi, se non come dato astratto,» spiegò Schruille. «È giunta l’ora che osserviamo come sono veramente le terre su cui dominiamo.»

Nourse sospirò. «Se lo reputi davvero necessario.»

«Io so che è necessario.»

«Interessantissimo,» commentò Calapine.

Nourse la guardò. «Cosa ci trovi di tanto interessante in quest’oscenità?»

«L’esaltazione che provo,» rispose la donna. «È questa la cosa più interessante.»

Nourse fece ruotare il trono, voltandole le spalle, poi fissò irato Schruille. Ora era assolutamente sicuro che l’altro aveva un’imperfezione della pelle sul volto — proprio vicino al naso.

CAPITOLO DODICESIMO

Per Svengaard, cresciuto in un mondo totalmente dominato dagli Optimati, l’idea che non fossero infallibili costituiva una vera e propria eresia. Tentò di escluderla dalle proprie orecchie e dalla propria mente. Non essere infallibili significava essere soggetti alla morte. Ma questo capitava solo alle classi inferiori, non agli Optimati. Come potevano non essere infallibili?

Conosceva il bioingegnere che sedeva di fronte a lui, nella pallida luce dell’alba che filtrava attraverso strette fessure nel soffitto a cupola. Quell’uomo era Toure Igan, uno dei medici d’élite della Centrale, a cui venivano sottoposti soltanto i problemi di bioingegneria più delicati e complessi.

La stanza che occupavano era un piccolo spazio ricavato tra le pareti di un condotto d’aria che serviva i sotterranei del Complesso delle Cascate. Svengaard sedeva in una poltrona piuttosto confortevole, ma aveva le braccia e le gambe legate. Passava altra gente, superando il tavolo a cui sedeva Igan. Portavano pacchi dall’aria strana, e nella maggior parte dei casi ignoravano sia Igan sia il suo compagno.

Svengaard studiò i lineamenti scuri e intensi di Igan. Le rughe sul viso dell’uomo tradivano l’inizio dello squilibrio enzimico. Stava iniziando a invecchiare. Ma gli occhi avevano ancora il colore azzurro del cielo estivo, erano ancora giovani.

«Lei deve scegliere da che parte stare,» gli aveva appena detto Igan.

Svengaard permise alla sua attenzione di vagare. Passò un uomo che portava un palla metallica dorata. Da una delle tasche spuntava una corta catenella d’argento da cui pendeva un feticcio della fertilità a forma di lingam.

«Lei deve rispondermi,» lo esortò Igan.

La gente continuava a passare per la piccola stanza. Il fatto che tutti indossassero la stessa uniforme iniziò a innervosire Svengaard. Chi era questa gente? Che facessero parte dell’Associazione Clandestina dei Genitori, questo era ovvio. Ma chi erano?

Una donna lo sfiorò. Svengaard alzò lo sguardo su un sorriso abbagliante scoccato da un volto nero, riconobbe una Zeek, il viso molto simile a quello di Potter ma dalla tinta ancora più scura… un errore nel genotipo. Al polso destro la donna portava un braccialetto di capelli umani biondi. Svengaard continuò a fissare il braccialetto finché la donna non girò un angolo, scomparendo alla vista.

«Ormai è guerra aperta,» disse Igan. «Lei deve credermi. La sua vita dipende da questo.»

La mia vita? si chiese Svengaard. Tentò di pensare alla propria vita, di individuarne le peculiarità. Aveva una moglie terziaria, poco più di una Compagna, una donna come lui a cui non era stato mai concesso il permesso di generare. Per un istante, non riuscì a ricordare i lineamenti del volto della moglie: nella sua memoria si confondevano con quelli di mogli e Compagne che aveva avuto in precedenza.

Lei non è la mia vita, si rese conto. Ma allora chi è la mia vita?

Era cosciente di essere stanchissimo, e di soffrire dei postumi dei narcotici che i suoi catturatori gli avevano somministrato durante la notte. Ricordava le mani che l’avevano afferrato, lo sguardo sbalordito che aveva dato alla parete che non poteva essere una porta e che invece lo era, lo spazio illuminato alle spalle di essa. E ricordava di essersi risvegliato in quel luogo, mentre Igan gli sedeva di fronte.

«Non le ho nascosto niente,» continuò Igan. «Le ho detto tutto. Potter è riuscito a malapena a salvare la vita. Per quanto riguarda lei, è già stato diramato l’ordine di arrestarla. L’infermiera addetta al computer è morta. Molte persone sono morte. E ne moriranno ancora. Devono essere sicuri, non capisce? Non possono lasciare nulla al caso.»

Cos’è la mia vita? si chiese Svengaard. E pensò al suo confortevole alloggio, agli oggetti d’arte e ai video d’intrattenimento, alle opere scientifiche di consultazione, agli amici, alla vita piatta e sicura che la sua posizione gli permetteva di condurre.

«Ma dove andrò?» chiese Svengaard.

«Per lei è stato preparato un posto.»

«Ma nessun luogo è al sicuro da loro,» ribatté Svengaard. Pronunciando quelle parole, per la prima volta si rese conto di quanto fosse intenso il suo risentimento nei confronti degli Optimati.

«Ci sono molti posti sicuri,» spiegò Igan. «Loro fanno solo finta di essere dotati di percezioni super-umane. In effetti, il loro potere si basa sulla tecnologia — macchine e strumenti — e su di un servizio segreto di sorveglianza. Ma le macchine e gli strumenti possono anche essere manomessi, adoperati per scopi affatto diversi. E gli Optimati dipendono dalla Gente per commettere atti di violenza.»

Svengaard scosse la testa. «Quel che mi sta dicendo è assurdo.»

«Tranne un particolare,» replicò Igan. «Loro sono come noi: ognuno dotato di una personalità individuale. E questo lo sappiamo per averlo sperimentato.»

«Ma perché dovrebbero fare le cose di cui li accusa?» protestò Svengaard. «Non è ragionevole. Loro sono buoni con noi.»

«Il loro unico interesse è quello di continuare ad esistere,» gli spiegò Igan. «E sono sempre sull’orlo del baratro. Fino a quando non avvengono cambiamenti significativi nell’ambiente che li circonda, continueranno a vivere… indefinitivamente. Ma non appena avverrà un qualche mutamento significativo, essi diventeranno come noi: soggetti ai capricci della natura. Per essi, capisce, non può esistere alcuna natura, se non sottomessa al loro volere.»

«Non ci credo,» insisté Svengaard. «Loro ci amano e si prendono cura di noi. Consideri quel che hanno fatto per noi.»

«L’ho fatto.» Igan scosse il capo. Svengaard si stava dimostrando ancora più stolido di quanto si fossero aspettati. Rifiutava l’evidenza per rifugiarsi in vecchie formule.

«Voi volete che periscano,» lo accusò Svengaard. «Perché?»

«Perché ci hanno privato della possibilità di evolverci,» rispose Igan.

Svengaard lo fissò. «Cosa?»

«Sono diventati gli unici individui liberi nel nostro mondo,» disse Igan. «Ma gli individui non si evolvono. Al contrario dei popoli. E noi non abbiamo un popolo.»

«Ma la Gente…»

«Certo, la gente! Ma tra di noi, chi ha il permesso di procreare?» Igan scosse la testa. «Lei è un bioingegnere, dannazione! È possibile che non abbia ancora intuito lo schema?»

«Schema? Quale schema? Cosa vuol dire?» Svengaard tentò di alzarsi dalla sedia, maledì i legacci che lo bloccavano. Si sentiva le braccia e le gambe intorpidite.

«Gli Optimati obbediscono ad una sola regola, nel campo della procreazione,» disse Igan. «Il ritorno all’individuo medio. Autorizzano rapporti casuali con gli individui medi proprio per impedire lo sviluppo di individui superiori alla media. E a questi individui viene impedito di procreare.»

Svengaard scosse la testa. «Non ci credo,» ripeté. Ma poteva percepire il dubbio che si infiltrava nella sua mente. Il suo caso, per esempio: qualunque partner avesse scelto, il permesso di procreare gli era sempre stato negato. Aveva controllato di persona gli accoppiamenti genetici, rilevando combinazioni che avrebbe giurato fossero fertili, ma gli Optimati avevano detto di no.

«Lei ora comincia a credermi,» constatò igan.

«Ma consideri le lunghe vite che ci donano,» disse Svengaard. «Io posso aspettarmi di vivere per quasi duecento anni.»

«Questo grazie alla scienza medica, e non agli Optimati,» replicò Igan. «La chiave è una somministrazione estremamente accurata di enzimi. Unita ad una vita pianificata in cui le emozioni sono ridotte al minimo, a esercizi ginnici ad hoc e a una dieta personalizzata. Procedimenti che potrebbero essere applicati alla maggior parte delle persone.»

«Una vita infinita?» sussurrò Svengaard.

«No! Ma una vita lunga, molto più lunga di adesso. Io, per esempio, sto per raggiungere i quattrocento anni, e come me ce ne sono molti. Quasi quattrocento meravigliosi anni,» disse, ricordando la maligna definizione di Calapine… e il risolino di Nourse.

«Lei… quattrocento anni?» chiese Svengaard.

«Concordo che sono nulla paragonati alle molte migliaia della loro vita,» disse Igan. «Quasi tutti noi potremmo raggiungere quell’età, ma loro non lo permettono.»

«Perché?» volle sapere Svengaard.

«In questo modo, possono offrire vite più lunghe ai loro fedeli servitori,» spiegò Igan, «come ricompensa per i servigi resi. In caso contrario, non avrebbero alcun mezzo per comprarci. E lei lo sapeva! Proprio per questo li ha serviti per tutta la vita.»

Svengaard abbassò lo sguardo sulle proprie mani legate. È questa la mia vita? si chiese. Mani legate? Chi comprerà le mie mani legate?

«E avrebbe dovuto sentire Nourse ridacchiare per i miei miseri quattrocento anni,» disse Igan.

«Nourse?»

«Sì! Nourse della Tuyere, Nourse il Cinico, Nourse che ha vissuto per più di quarantamila anni! Perché crede che Nourse sia un Cinico? Altri Optimati sono più vecchi, molto più vecchi. Ma quelli non sono Cinici.»

«Non capisco,» ammise Svengaard. Fissò Igan, sentendosi debole, battuto, incapace di controbattere la forza di quelle parole, di quelle idee.

«Dimentico che lei non è della Centrale,» disse Igan. «Gli Optimati identificano se stessi in base a quelle poche emozioni che decidono di provare. Sono Decisionisti, Emotivi, Cinici, Edonisti ed Effeti. Per arrivare all’edonismo passano attraverso una fase cinica. Ma i membri della Tuyere perseguono già il proprio piacere personale, e questo non è un buon segno.»

Igan studiò Svengaard, soppesando l’effetto provocato dalle proprie parole. Si trovava di fronte a una creatura che si elevava a malapena rispetto al livello mentale medio della Gente. Era un uomo medievale. Per lui, la Centrale e gli Optimati costituivano il primum mobile che controllava il sistema celeste. Oltre la centrale si stendeva l’empirea dimora del Creatore… e per gli Svengaard di quel mondo esisteva poca differenza tra un Optimate e il Creatore. Erano entrambi più in alto della luna, e totalmente privi di difetti.

«Dove possiamo fuggire?» chiese Svengaard. «Non possiamo nasconderci da nessuna parte. Loro controllano le forniture di enzimi. L’istante stesso in cui uno di noi entrerà in uno dei Dispensatorii Farmaceutici, sarà la fine.»

«Abbiamo le nostre fonti di approvvigionamento,» replicò Igan.

«Ma perché volete me?» domandò Svengaard. Contino a fissare i legacci.

«Perché lei è un individuo speciale,» spiegò Igan. «Perché Potter la vuole al suo fianco. Perché lei sa dell’embrione dei Durant.»

L’embrione, pensò Svengaard. Ma qual è il significato di quell’embrione? Tutto sembra ruotare intorno ad esso.

Sollevò gli occhi, incontrò lo sguardo di Igan.

«Lei trova difficile considerare gli Optimati nel modo in cui glieli ho descritti,» commentò Igan.

«Sì.»

«Sono una piaga,» dichiarò Igan. «Sono una malattia che affligge l’intera umanità.»

Svengaard rabbrividì per l’amarezza che aveva percepito nella voce dell’altro.

«Saul ha cancellato l’esistenza di migliaia di persone, Davide quella di decine di migliaia, ma gli Optimati hanno cancellato il nostro futuro,»

Un uomo grande e grosso si avvicinò al tavolo, si fermò voltando le spalle a Svengaard.

«Ebbene?» chiese. Anche se aveva pronunciato una sola parola, fu chiarissimo che la sua voce aveva un inquietante tono d’urgenza. Svengaard tentò di osservare il suo volto, ma non ci riuscì a causa dei legacci che lo bloccavano. Per lui l’uomo rimase un’ampia schiena coperta da una giacca grigia.

«Non lo so,» rispose Igan.

«Non abbiamo più tempo,» disse il nuovo venuto. «Potter ha terminato il suo lavoro.»

«Con quale risultato?» chiese Igan.

«Lui dice che l’operazione ha avuto successo. Ha usato un’iniezione di enzimi per accelerare il ristabilimento della madre. Tra poco sarà in grado di spostarsi.» Con una mano massiccia l’uomo indicò dietro la spalla, verso Svengaard. «Che ne facciamo di lui?»

«Lo porti con sé,» disse Igan. «Cosa sta facendo la Centrale?»

«Ha ordinato l’arresto di tutti i bioingegneri.»

«Così presto? Hanno preso anche il Dottor Hand?»

«Sì, ma lui ha scelto la porta nera.»

«Ha costretto il suo cuore a fermarsi,» commentò Igan. «Era l’unico modo. Non possiamo permetterci che uno di noi venga interrogato. In quanti siamo rimasti?»

«Sette.»

«Compreso Svengaard?»

«Con lui siete in otto.»

«Per il momento terremo Svengaard sotto sorveglianza,» disse Igan.

«Stanno iniziando a far evacuare il loro personale da Seatac,» annunciò l’uomo.

Svengaard riusciva a vedere soltanto una metà del viso di Igan, coperto parzialmente dal nuovo venuto, ma quella metà mostrava chiaramente un’espressione preoccupata, riflessiva. L’unico occhio visibile fissò Svengaard per un istante, poi guardò altrove.

«È chiaro,» disse Igan.

«Sì, stanno per distruggere la megalopoli.»

«No… loro direbbero "sterilizzare".»

«Ha mai sentito Allgood parlare della Gente?»

«Molte volte. Feccia della terra. Distruggerebbe l’intera regione senza battere ciglio. È tutto pronto per muoverci?»

«Più o meno.»

«L’autista?»

«È stato programmato per il percorso desiderato.»

«Faccia un’iniezione a Svengaard per tenerlo tranquillo. In viaggio non avremo tempo di occuparci di lui.»

Svengaard si irrigidì.

L’uomo si girò. Svengaard sollevò lo sguardo, fissando due occhi scintillanti, grigi, calcolatori, privi di qualsiasi emozione. Una delle mani massicce dell’uomo si sollevò, stringendo una siringa a pressione. La mano gli toccò il collo. Svengaard sussultò.

Poi fissò quel volto privo di espressione mentre la sua mente veniva avvolta da soffici nuvole. Si sentiva la gola arida, era incapace di parlare. Volle protestare, ma nessuna parola gli uscì di bocca. La sua coscienza divenne un globo sempre più piccolo concentrato su di una piccola parte del soffitto dotato di feritoie. La scena si condensò, divenne sempre più piccola, fino a trasformarsi in un occhio dalle pupille simili a feritoie che ruotava freneticamente.

Poi Svengaard precipitò in una morbida oscurità.

CAPITOLO TREDICESIMO

Lizbeth giaceva su di una panca, con Henry seduto accanto a lei che la sorreggeva. In uno spazio ristretto, una specie di cubo non molto più grande di uno scatolone da imballaggio, erano in cinque. Il vano era stato ricavato al centro del carico normale di un hovercraft da trasporto. Un solo neon, in alto, lo illuminava di una luce fievole, malata. Lizbeth vedeva Igan e Boumour seduti sulla panca di fronte, con le gambe allungate sulla figura di Svengaard, che, legato, imbavagliato e privo di sensi giaceva sul pavimento.

Harvey aveva detto che fuori era già calata la sera. Lizbeth pensò che questo significava che dovevano aver percorso un buon tratto di strada. Provava un leggero senso di nausea e l’addome le faceva male, laddove le erano stati applicati i punti. Ma il pensiero di portare dentro di sé suo figlio la dava uno strano senso di sicurezza. Inoltre provava una calda sensazione di soddisfazione. Potter le aveva assicurato che, mentre custodiva dentro di sé l’embrione, avrebbe potuto tranquillamente fare a meno di assumere enzimi. Ovviamente il medico doveva aver pensato che, una volta giunti in un luogo sicuro, l’embrione sarebbe stato rimosso dal suo corpo e rimesso in una vasca. Ma lei si sarebbe opposta. Voleva portare a termine la gravidanza. Nessuna donna l’aveva fatto per migliaia di anni, ma lei voleva farlo.

«Stiamo accelerando,» commentò Igan. «Ormai dobbiamo essere usciti dai tubi.»

«Ci saranno dei posti di blocco?» chiese Boumour.

«Senza dubbio.»

Harvey si rese conto della veridicità dell’affermazione di Igan. La velocità era aumentata? Sì… i loro corpi stavano compensando la maggiore pressione che subivano nelle curve. Il ventilatore sotto la panca di Lizbeth inviava un flusso d’aria più fresca. Il veicolo procedeva più spedito, senza più sobbalzi. Il rombo delle turbine riecheggiava fortemente nel piccolo vano, e lui percepiva nell’atmosfera l’odore di idrocarburi incombusti.

I posti di blocco? La Sicurezza avrebbe usato ogni mezzo per evitare che qualcuno riuscisse a fuggire da Seatac. Si chiese cosa sarebbe accaduto alla megalopoli. I bioingegneri avevano parlato di gas mortali liberati nell’atmosfera, di raggi sonici. Avevano affermato che la Centrale era in possesso di numerose armi. Harvey allungò un braccio per sostenere Lizbeth mentre il veicolo svoltava bruscamente.

Non sarebbe stato capace di dare un nome alla sensazione che provava sapendo che Lizbeth portava in grembo il loro figlio. Era una sensazione strana, certo non si trattava di disgusto od orrore… ma era strana. In lui si era risvegliato un riflesso istintivo, e dunque era costantemente all’erta nei confronti di eventuali pericoli che avrebbero potuto minacciare la moglie. Ma per quel momento c’era solo il vano, che odorava di sudore stantio e olio.

«Cosa c’è nel carico che ci circonda?» chiese Boumour.

«Un po’ di tutto,» rispose Igan. «Parti di macchinari, vecchie opere d’arte, oggetti sparsi. Abbiamo preso tutto quello su cui potevamo mettere le mani per farlo sembrare un carico assolutamente normale.»

Oggetti sparsi, pensò Harvey. Fu affascinato da quella definizione illuminante. Oggetti sparsi. Stavano trasportando pezzi di macchinari che forse non sarebbero mai stati costruiti.

Lizbeth allungò la mano a tentoni, strinse quella del marito. «Harvey?»

Premuroso, lui si chinò verso la moglie. «Sì, cara?»

«Mi sento… così… strana.»

Harvey lanciò uno sguardo disperato ai due dottori.

«Sua moglie starà benone,» lo tranquillizzò Igan.

«Harvey, ho paura,» disse Lizbeth. «Non ce la faremo.»

«Non è questo il modo di parlare,» la rimproverò Igan.

Lizbeth sollevò lo sguardo, si accorse che il bioingegnere la stava studiando dall’altro lato dello stretto vano. In quel viso severo, i suoi occhi brillavano come due strumenti chirurgici. Anche lui è un Cyborg? si chiese Lizbeth. Lo sguardo gelido di quegli occhi infranse il suo autocontrollo.

«Non mi importa nulla della mia vita!» sibilò. «Ma cosa ne sarà di mio figlio?»

«Farebbe meglio a calmarsi, signora,» la avvertì Igan.

«Non posso,» ribatté lei. «Non al pensiero che non abbiamo scampo.»

«Non dovrebbe preoccuparsi tanto,» tentò di rassicurarla Igan. «Il nostro autista è il miglior Cyborg disponibile.»

«Non riuscirà mai a farci sfuggire alle loro grinfie,» gemé lei.

«Farebbe meglio a star zitta,» disse Igan.

Harvey aveva ormai trovato un oggetto da cui proteggere la moglie. «Non le parli in quel modo!» esclamò.

Igan replicò in tono di sopportazione. «Non ci si metta anche lei, Durant. E abbassi la voce. Sa bene quanto me che durante il tragitto potremmo trovare blocchi stradali dotati di dispositivi di ascolto. In effetti, dovremmo parlare solo quando è strettamente necessario.»

«Stanotte niente riuscirà a sfuggire alle maglie della loro rete,» bisbigliò Lizbeth.

«Il nostro autista è poco più di un guscio di carne intorno ad un potentissimo computer,» li informò Igan. «È stato programmato esclusivamente per svolgere questo compito. Se non ci riesce lui, nessuno sarebbe in grado di farci passare.»

«Nessuno,» mormorò Lizbeth. Iniziò a piangere con singhiozzi convulsi che le scossero l’intero corpo.

«Guardi cosa le ha fatto!» accusò Harvey.

Igan sospirò, sollevò una mano che stringeva una capsula, la tese verso Harvey. «Le dia questa.»

«Cos’è?» chiese Harvey con voce sospettosa.

«Si tratta soltanto di un sedativo.»

«Non voglio un sedativo,» singhiozzò Lizbeth.

«È per il suo bene, mia cara,» tentò di convincerla Igan. «Se continua così, potrebbe rischiare di perdere l’embrione. È passato troppo poco tempo dall’operazione; dovrebbe rimanere calma e tranquilla.»

«Non vuole prenderlo,» disse Harvey. I suoi occhi sprizzavano rabbia.

«Deve farlo,» insisté Igan.

«No, se non vuole.»

Igan costrinse la sua voce a conservare un tono ragionevole. «Durant, sto solo cercando di salvare le nostre vite. Adesso lei è infuriato e…»

«Ha dannatamente ragione! Sono fuori di me! E sono stufo di ricevere continuamente ordini!»

«Mi perdoni, se la ho offesa in qualche modo, Durant,» disse Igan. «Ma devo avvertirla che la sua attuale reazione è condizionata dal suo schema genetico. Lei ha un istinto protettivo maschile eccessivamente sviluppato. Sua moglie starà benissimo. Il sedativo è innocuo. È isterica poiché il suo senso materno è fin troppo intenso. Sono difetti dei vostri genotipi, ma andrà tutto bene se rimarrete calmi.»

«E proprio lei afferma che noi abbiamo dei genotipi difettosi?» ribatté Harvey. «Scommetto che lei è uno Steri che non ha mai…»

«Basta così, Durant,» intervenne l’altro dottore. Aveva una voce profonda, imperiosa.

Harvey guardò Boumour, notando il viso da elfo e il corpo massiccio. Il dottore appariva imponente e pericoloso, il suo volto era stranamente inumano.

«Non possiamo permetterci di litigare,» tuonò Boumour. «Potremmo essere vicini a qualche posto di blocco. E di sicuro sono dotati di dispositivi d’ascolto.»

«Noi siamo perfetti,» ringhiò Harvey.

«Forse ha ragione,» gli concesse Igan. «Ma entrambi state riducendo le nostre possibilità di fuga. Se a uno di voi cedono i nervi quando incontreremo un posto di blocco, siamo spacciati.» Questa volta tese la mano con la capsula verso Lizbeth. «La prenda, per favore. Contiene soltanto un tranquillante, del tutto innocuo, glielo assicuro.»

Con esitazione, Lizbeth prese la capsula. Era fredda e gelatinosa. Le comunicò una sensazione di disgusto. Volle scagliare quella cosa contro Igan, ma poi Harvey le sfiorò una guancia.

«Forse faresti meglio a prenderla,» le disse il marito. «Per il bene del bambino.»

Lizbeth tese la mano, schiacciò la capsula contro la parte inferiore della lingua, poi la inghiottì. Se Harvey era d’accordo, quella era la cosa giusta da fare. Ma non le piacque l’espressione offesa e perplessa negli occhi del marito.

«Adesso si rilassi,» disse Igan. «Farà effetto molto in fretta — tre o quattro minuti e si sentirà perfettamente tranquilla.» Si sedette di nuovo e lanciò una rapida occhiata a Svengaard. La figura legata era apparentemente ancora priva di sensi; il petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare.

Era ormai da molto tempo che Svengaard era sempre più cosciente della fame e del movimento che faceva rotolare il suo corpo contro una superficie solida. E il movimento comunicava anche una sensazione di velocità. Percepiva confusamente un odore di sudore umano, udiva un rombo di turbine. Quel suono stava iniziando a imporsi alla sua coscienza. Dalle palpebre pesanti filtrava una luce fievole. Sentiva di avere un bavaglio in bocca, le braccia e le gambe legate.

Svengaard aprì gli occhi.

Per un istante, non riuscì a mettere a fuoco le immagini, poi si scoprì a fissare un soffitto basso, illuminato da un minuscolo neon, al di sotto del quale si notava la griglia di un comunicatore accanto a una spia color rubino. Il soffitto gli sembrava troppo vicino e sulla destra aveva notato una forma confusa — una gamba tesa su di lui. Il neon emetteva un bagliore giallastro a malapena sufficiente a diradare l’oscurità.

La spia iniziò a lampeggiare freneticamente.

«Un posto di blocco!» sibilò Igan. «Silenzio, tutti quanti!»

Il velivolo iniziò a rallentare. Le turbine diminuirono i giri e il loro rombo si trasformò in un lamento. Infine l’hovercraft si fermò, mentre le turbine si spegnevano con un sussurro.

Lo sguardo di Svengaard esaminò in un lampo il luogo in cui si trovava. Alla sua destra, sopra di lui, una panca… su cui erano sedute due persone. Un bordo metallico sporgeva dal supporto della panca accanto la sua guancia. Con cautela, Svengaard mosse la testa verso il bordo, sentì attraverso la benda che la sua carne era entrata in contatto con esso. Spinse delicatamente la testa in avanti e il bavaglio si abbassò leggermente. Il bordo gli graffiò la guancia, ma Svengaard ignorò il dolore. Un’altra leggera spinta e il bavaglio si abbassò ancora di una frazione di millimetro. Svengaard si guardò intorno, vide sopra di lui, alla sua sinistra, il volto di Lizbeth. La donna aveva gli occhi chiusi, le mani che le coprivano la bocca. Sembrava terrorizzata.

Svengaard mosse ancora una volta la testa.

In lontananza, da qualche parte, si udirono delle voci: domande rivolte in tono tagliente, mormoni di risposta.

Le mani di Lizbeth smisero di coprirle la bocca, rivelando labbra che si muovevano senza emettere un suono.

Le voci adesso tacevano.

Lentamente, l’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard voltò bruscamente la testa. La benda che teneva al suo posto il bavaglio si spezzò. Svengaard lo sputò via e urlò, «Aiuto! Aiuto! Sono prigioniero! Aiuto!»

Igan e Boumour balzarono in piedi per la sorpresa. Lizbeth urlò, «No! Oh, no!»

Harvey si scagliò in avanti, sferrò un pugno contro la mascella di Svengaard, mentre con l’altra mano gli tappava la bocca. Rimasero immobili, in una terribile attesa, mentre l’hovercraft continuava a guadagnare velocità.

Igan emise un respiro tremulo, fissò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, che avevano assunto un’espressione selvaggia.

Dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Cosa è successo? Non sapete neppure osservare le precauzioni più semplici?»

Il tono di voce accusatorio, ma nel contempo privo di emozioni, gelò Harvey. Si chiese perché l’autista si fosse rivolto loro in quel modo, invece di annunciare se erano stati scoperti oppure no. Poi si rese conto che Svengaard giaceva svenuto sotto di lui. Sperimentò l’impulso selvaggio di strozzarlo seduta stante, ebbe quasi l’impressione di stringere tra le mani la gola dell’uomo.

«Ci hanno sentito?» sussurrò Igan.

«Apparentemente no,» rispose l’autista, con voce resa gracchiante dal comunicatore. «Non noto alcun segno d’inseguimento. Presumo che eviterete di commettere di nuovo una simile imprudenza. Per favore, mi spieghi cosa è successo.»

«Svengaard si è svegliato prima di quanto ci aspettassimo.»

«Ma era imbavagliato.»

«In qualche modo… è riuscito a liberarsi del bavaglio.»

«Forse dovreste ucciderlo. È ovvio che con lui il ricondizionamento non funzionerà.»

Harvey si allontanò da Svengaard. Ora che il Cyborg aveva ventilato quella prospettiva, lui non aveva più alcuna voglia di uccidere Svengaard. Harvey si chiese chi fosse colui che si trovava nella cabina di guida. I Cyborg sembravano tutti uguali, grazie alla loro intelligenza computerizzata tanto lontana da quella umana, ma l’autista era ancora più distaccato del solito.

«Rifletteremo… su cosa fare,» rispose Igan.

«Svengaard è stato neutralizzato?»

«Sì, è svenuto. Ora non darà più fastidi.»

«Certo non grazie a lei,» commentò Harvey fissando Igan. «Era proprio sopra di lui.»

Il viso di Igan impallidì. Ricordò di essere rimasto immobile, dopo essere balzato in piedi per la paura e la sorpresa. Fu travolto da un moto di rabbia. Con che diritto quel bifolco osava rimproverare un dottore? «Mi dispiace, ma temo di non essere un uomo incline alla violenza,» rispose freddamente.

«Allora farà meglio a diventarlo,» ribatté Harvey. Sentì che Lizbeth gli posava la mano sulla spalla e le permise di farlo sedere di nuovo sulla panca. «Se ha ancora un po’ di quella roba che ha usato per addormentare Svengaard, sarà meglio che gliene somministri un po’, prima che si svegli di nuovo.»

Igan si rimangiò una risposta tagliente.

«È nella borsa sotto la nostra panca,» disse Boumour. «Un suggerimento ragionevole.»

A malavoglia, Igan cercò a tentoni una siringa e iniettò a Svengaard il narcotico.

Ancora una volta dal comunicatore provenne la voce dell’autista: «Attenzione! Anche se non ci hanno inseguito immediamente, non dobbiamo presupporre che non abbiano rilevato le vostre voci. Di conseguenza, sto eseguendo il Piano Gamma.»

«Chi è l’autista?» bisbigliò Harvey.

«Non ho visto chi hanno programmato per quest’incombenza,» disse Boumour. Studiò Harvey. Quella domanda era decisamente appropriata. Quel Cyborg era strano, molto più della media. Gli avevano detto che l’autista sarebbe stato dotato di un computer eccezionalmente veloce, una macchina progettata per aumentare al massimo le probabilità di successo della loro fuga. Ma chi aveva scelto il programma?

«Cos’è il Piano Gamma?» sussurrò Lizbeth.

«Stiamo abbandonando il percorso in precedenza scelto,» disse Boumour. Fissò la parete di fronte a lui. Abbandonare il percorso scelto… questo significava che ormai dipendevano esclusivamente dall’abilità dell’autista… e dalle eventuali cellule dell’Associazione che non fossero state scoperte. Ovviamente ognuna di quelle cellule poteva essere già sorvegliata dalla Sicurezza. Anche l’animo di Boumour, di solito saldo come una roccia, iniziò a provare il morso della paura.

«Autista!» chiamò Harvey.

«Silenzio,» replicò bruscamente il Cyborg.

«Si attenga al piano originale,» ordinò Harvey. «Là dove eravamo diretti sono dotati di attrezzature mediche, nel caso mia moglie…»

«La salvezza di sua moglie non è considerata il fattore principale,» rispose l’autista. «I membri che agiscono lungo il percorso programmato non devono essere scoperti. Non mi distragga con le sue obiezioni. Il Piano Gamma verrà eseguito.»

«Tanto vale rassegnarsi,» commentò Boumour, mentre Harvey balzava in piedi, reggendosi con una mano sulla panca. «Cosa può farci lei, Durant?»

Harvey ricadde a sedere, cercò a tentoni la mano di Lizbeth. La moglie gli segnalò, «Aspetta. Non hai letto i dottori? Anche loro sono spaventati… e preoccupati.»

«Io mi preoccupo solo di te,» gli rispose allo stesso modo Harvey.

E così la salvezza della donna — e probabilmente la salvezza di noi tutti — non costituisce il fattore principale, pensò Boumour. Ma qual è allora il vero obiettivo? Che tipo di programma controlla il nostro computer di carne?

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Dei tre membri della Tuyere, soltanto Nourse occupava il suo trono all’interno del Globo, e la sua attenzione era concentrata sui raggi, le luci ammiccanti e i quadranti, gli ologrammi fosforescenti che riferivano sulle attività della Gente. Un sensore video gli mostrò che in quell’emisfero era ormai calata la sera. L’oscurità aveva avvolto le terre che si stendevano da Seatac alla megalopoli di N’Scotia. Nourse considerò il calare delle tenebre come un presagio nefasto di ciò che sarebbe accaduto e desiderò che Schruille e Calapine si affrettassero a tornare.

Lo schermo video si attivò. Nourse voltò il viso verso di esso, vi vide comparire i lineamenti di Allgood. Il Capo della Sicurezza rivolse un inchino a Nourse.

«Cosa c’è?» gli chiese l’Optimate.

«Il Posto di Blocco di Seatac Est riferisce che è appena passato un veicolo con uno strano carico, Nourse. Le turbine erano dotate di dispositivi di mascheramento acustico, ma siamo riusciti a capire che servivano a nascondere il respiro di cinque persone nascoste nel carico. Mentre il veicolo iniziava a muoversi, si è udito uno scoppio di voci. In base alle tue istruzioni, abbiamo applicato un tracciatore al veicolo e adesso lo stiamo tenendo sotto sorveglianza. Quali sono i tuoi ordini?»

Sta iniziando, si rese conto Nourse. E io sono qui da solo.

Nourse osservò gli strumenti collegati con i posti di blocco. Seatac Est. Il veicolo era un puntino verde che si muoveva sullo schermo. Lesse i dati in codice binario che descrivevano l’incidente, li confrontò con un’analisi motivazionale totale. Ne ricavò analoghi di probabilità che lo colmarono di un senso di inquietudine, di catastrofe imminente.

«Le voci sono state identificate, Nourse,» disse Allgood. «Le impronte vocali appartenevano a…»

«Svengaard e Lizbeth Durant,» terminò la frase Nourse.

«E visto che la donna è lì, il marito non può essere troppo lontano,» disse Allgood.

L’abitudine di Allgood di affermare l’ovvio stava iniziando a irritare Nourse, che represse la rabbia e notò che l’uomo aveva dimenticato di usare il nome-titolo del suo superiore. Era un segnale microscopico, ma significativo, specie se Allgood apparentemente non si accorgeva di aver commesso un errore.

«E così ce ne restano soltanto due da identificare,» disse Nourse.

«Ma possiamo formulare un’ipotesi abbastanza verosimile… Nourse.»

Nourse diede un’occhiata agli analoghi di probabilità. «Due dei nostri farmacisti.»

«Uno di loro potrebbe essere Potter, Nourse.»

Nourse scosse il capo. «Potter è ancora a Seatac.»

«Potrebbero avere una vasca portatile in cui è ospitato l’embrione, Nourse,» disse Allgood, «ma non siamo riusciti a rilevare macchinario di quel tipo.»

«Non sareste stati in grado di rilevare il rumore del macchinario eventualmente usato,» spiegò Nourse. «E anche nel caso contrario, non l’avreste riconosciuto.»

Nourse alzò lo sguardo sui sensori video — tutti attivati — degli Optimati che stavano osservando il Globo. Di notte e di giorno i canali erano sempre sovraffollati. Loro sanno cosa ho voluto dire, pensò Nourse. Sono disgustati, oppure questo è soltanto un altro aspetto interessante della violenza?

Com’era prevedibile, Allgood disse, «Non riesco a comprendere ciò che ha detto Nourse.»

«Non ce n’è bisogno,» replicò l’Optimate. Fissò il viso sullo schermo. Appariva molto giovane, ma Nourse aveva iniziato a rendersi conto che nella Centrale la gioventù era solo apparenza. Perfino gli Steri tradivano la loro età, a un occhio attento. Improvvisamente gli sembrò di comportarsi come i membri della Gente Sterile, che spiavano ansiosamente i volti degli altri, sperando che, al paragone, il loro aspetto fosse migliore, più giovane.

«Quali sono gli ordini di Nourse?» chiese Allgood.

«Il grido di Svengaard indica che è prigioniero,» disse Nourse. «Ma non dobbiamo sottovalutare la possibilità che si tratti di un elaborato stratagemma.» Parlò con un tono di voce stanco, rassegnato.

«Dobbiamo distruggere il veicolo, Nourse?»

«Distruggere…» Nourse rabbrividì. «No, non ancora. Ma continuate a sorvegliarlo. Diramate l’allarme generale. Dobbiamo scoprire dove sono diretti. Ogni contatto che stabiliranno deve essere attentamente annotato.»

«Ma se ci sfuggono, Nourse, potrebbe rivelarsi…»

«Avete bloccato le loro forniture di enzimi?»

«Sì, Nourse.»

«Allora non potranno fuggire molto lontano… o a lungo.»

«Come vuole, Nourse.»

«Puoi tornare al tuo lavoro,» lo congedò l’Optimate.

Nourse continuò a fissare lo schermo anche dopo che era diventato nero. Distruggere il veicolo? Ma avrebbe significato la fine del gioco, e non lui non voleva che finisse — mai. Una curiosa esaltazione stava lentamente invadendo il suo animo.

Il segmento d’entrata del Globo si aprì sotto di lui. Calapine entrò, seguita da Scruille. Si sedettero sui rispettivi troni sulla piattaforma triangolare. Nessuno dei due disse una parola. Sembravano meditabondi, stranamente calmi. Nourse, guardandoli, pensò che gli ricordavano quei temporali programmati dagli Optimati in modo che i lampi e i tuoni non potessero far del male ai loro pari.

«Non è ora?» chiese Calapine.

A Nourse sfuggì un sospiro.

Schruille attivò i sensori video posti sulle montagne. Improvvisamente gli schermi furono inondati dal chiarore della luna, dal canto degli uccelli notturni, dal frusciare delle foglie. In lontananza, oltre i rilievi che la luce lunare avvolgeva in un gelido bagliore, si scorgevano linee e chiazze luminose che individuavano la costa e le baie della megalopoli e il complesso sistema di sopraelevate.

Calapine fissò quella scena, pensando ai gioielli a alle chiacchiere, simboli dell’ozio. Erano molti secoli che non provava più il desiderio di baloccarsi con quel tipo di passatempi. Ma perché penso a queste cose proprio in questo momento? si chiese. Quelle luci non sono giocattoli.

Nourse esaminò le proiezioni che mostravano le attività della Gente che abitava la megalopoli di Seatac.

«La situazione è normale… tutto è pronto,» riferì.

«Normale!» esclamò Schruille.

«Chi sarà di noi a dare il via?» sussurrò Calapine.

«Lo farò io, poiché è da più tempo che avevo previsto quest’eventualità,» annunciò Schruille. Ruotò una manopola inserita nel bracciolo del trono, e mentre lo faceva fu sbalordito dalla semplicità di quel gesto. Quella manopola, e il potere che controllava, era rimasta lì per interi eoni, insensibile collegamento ad altri macchinari. Per farla ruotare erano bastate una mano e la volontà che l’aveva fatta muovere.

Calapine osservò la scena sui suoi schermi: le colline illuminate dal chiaro di luna, la megalopoli alle loro spalle, un giocattolo animato e soggetto ai suoi capricci. Sapeva che anche l’ultimo membro del personale specializzato era stato evacuato. Gli oggetti preziosi che potevano rimanere danneggiati erano stati tutti rimossi. Tutto il resto era pronto a subire il suo fato.

Lampi di un giallo abbagliante iniziarono ad apparire qua e là tra i grappoli di luci. Gli schermi della Tuyere rimandarono immagini tremolanti quando i raggi sonici fecero tremare i sensori video. Le luci iniziarono a spegnersi nell’intera regione… a gruppi, o una per volta. Una nebbia bassa e verde invase la scena, colmando le valli e sommergendo le colline.

Poi non fu più visibile alcuna luce. Rimase soltanto la nebbia verde, che continuava a strisciare sotto la luce impassibile della luna.

Schruille osservò gli strumenti, che fornivano cifre sempre decrescenti… per poi indicare tutti zero. Nulla permetteva di osservare l’agonia della Gente che periva nei condotti di collegamento, nei sotterranei, nelle strade… nelle fabbriche… nei luoghi di ricreazione.

Nourse stava piangendo.

Sono morti, sono tutti morti, pensò. Morti. Nella sua mente quel termine aveva assunto curiosamente una valenza neutra. Poteva venir applicato ai batteri… o alle erbacce. Bisognava sterilizzare un campo prima di piantarvi fiori stupendi. Perché sto piangendo? Tentò di ricordare se avesse mai pianto prima di quel momento. Forse, una volta l’ho fatto. Ma è stato tanto tempo fa… tanto tempo… fa… ho pianto… ho pianto. Improvvisamente quelle parole avevano perso ogni significato. Ecco il problema di una vita senza fine: dopo troppe ripetizioni, tutto perde significato.

Schruille studiò la nebbia verde sugli schermi. Qualche riparazione e potremo mandare altra Gente, pensò. Ripopoleremo Seatac con Gente il cui genotipo sia meno difettoso. Ma poi si chiese come avrebbero fatto a trovare individui del genere. Gli strumenti del Globo rivelavano che Seatac era solo una delle tante manifestazioni del problema. Dappertutto, i sintomi erano gli stessi.

Lui ne comprendeva la causa: l’isolamento di ogni generazione dalle altre. La Gente era ossessionata dalla mancanza di tradizioni, dall’assenza di continuità… i suoi appartenenti sembravano comunicare nonostante tutti i tentativi messi in atto dagli Optimati per impedirlo. E i detti che fiorivano tra la Gente mostravano quanto fosse radicata in profondità quella necessità di comunicazione.

Schruille citò a se stesso: Quando Dio creò il primo uomo insoddisfatto, lo cacciò fuori dalla Centrale.

Ma siamo stati noi a creare questa Gente, pensò Schruille. Dunque, perché abbiamo creato degli uomini insoddisfatti?

Si girò e si accorse che Nourse e Calapine stavano piangendo.

«Perché piangete?» domandò loro.

Ma i due Optimati rimasero in silenzio.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Non appena terminò l’ultima sopraelevata, il veicolo si allontanò dal tunnel che correva sotto la montagna e iniziò a percorrere l’ampia pista di Lester che saliva, attraverso vecchie gallerie e un altopiano spazzato dal vento, fino alla riserva naturale e ai luoghi di villeggiatura riservati alle coppie in permesso di procreazione. Lì non c’erano luci artificiali, solo il bagliore della luna e gli accecanti raggi dei fari del veicolo.

Ogni tanto incrociavano qualche omnibus che scendeva, pieno di coppie melanconiche e silenziose — la loro vacanza era ormai terminata — che tornavano alla megalopoli. Anche se qualcuno tra loro avesse notato l’hovercraft, l’avrebbe senza dubbio scambiato per un veicolo incaricato dei rifornimenti.

In una curva al di sotto dello Homish Resort Complex, l’autista-Cyborg modificò l’assetto dell’hovercraft. Le turbine furono spinte alla massima velocità e il loro rombo divenne stridulo ed assordante. Iniziarono di nuovo i sobbalzi. Il veicolo aveva abbandonato il fondo stradale.

All’interno della stretta scatola in cui erano nascosti, Harvey si resse alla panca con una mano e con l’altra afferrò Lizbeth per impedirle di cadere, mentre l’hovercraft sussultava e sobbalzava seguendo il percorso di una linea ferrata fuori uso da tempo immemorabile, sfondava una barriera di arbusti e cominciava a percorrere uno stretto sentiero creato dagli animali, attraversando cespugli di rododendri.

«Cosa succede?» gemé Lizbeth.

La voce dell’autista rispose dal comunicatore, «Abbiamo lasciato la strada. Non avete nulla da temere.»

Nulla da temere, pensò Harvey. Quell’idea gli parve tanto ridicola che quasi ridacchiò, prima di rendersi conto che era sull’orlo di un attacco isterico.

L’autista aveva spento tutte le luci esterne del veicolo, e ora per guidare il veicolo si basava soltanto sulla luna e sulla sua vista ad infrarossi.

La sua visione potenziata gli faceva apparire il sentiero come la lucente scia lasciata da una lumaca attraverso la boscaglia. Il veicolo seguì quella pista per circa due chilometri, lasciandosi dietro una scia di polvere e foglie, fino al punto in cui il sentiero incrociava una strada, usata dai veicoli della forestale, il cui fondo era abbastanza largo e agevole. Qui girò a destra, sibilando come un enorme mostro preistorico, risalì faticosamente lungo il fianco di una collina, ne ridiscese rombando l’altro versante, per poi raggiungere la cima della collina seguente, su cui si fermò.

Le turbine si spensero con un gemito e il veicolo si adagiò al suolo. L’autista uscì dalla cabina di guida, una figura massiccia e tarchiata e con braccia artificiali adattissime al compito che l’attendeva. Strappò via uno dei pannelli laterali e cominciò a gettare il carico in un profondo burrone invaso da piante di cicuta.

All’interno del loro nascondiglio, Igan balzò in piedi, avvicinò la bocca al comunicatore e sibilò, «Dove siamo?»

Silenzio.

«È una domanda stupida,» commentò Harvey. «Come fa a sapere perché si è fermato?»

Igan ignorò l’insulto. Dopo tutto, chi lo aveva pronunciato era soltanto un rozzo appartenente alle classi inferiori. «Sta spostando il carico,» disse Igan. Si sporse verso Harvey e batté la mano contro una parete del nascondiglio. «Cosa sta succedendo lì fuori?»

«Oh, si sieda,» esclamò Harvey. Poggiò una mano sul petto di Igan e spinse. Il medico barcollò all’indietro, finendo sulla panca sul lato opposto.

Igan fece per scagliarsi contro Harvey, il volto scuro per la rabbia, gli occhi sfavillanti, ma Boumour lo trattenne e disse con voce tonante, «Calma, amico Igan.»

Igan si rimise a sedere. Lentamente il suo volto assunse un’espressione paziente. «È strano,» rifletté, «come le emozioni si impongano nonostante…»

«Passerà,» fece Boumour.

Harvey cercò la mano di Lizbeth, le segnalò, «Il petto di Igan — è convesso e duro come plasmeld. L’ho sentito attraverso la giacca.»

«Pensi che sia un Cyborg?»

«Respira in modo normale.»

«E prova ancora emozioni. In lui leggo della paura.»

«Sì… ma…»

«Staremo attenti.»

Boumour disse, «Durant, lei dovrebbe nutrire maggiore fiducia nei nostri confronti. Il Dottor Igan ha dedotto che l’autista non starebbe scaricando il veicolo, se non fosse convinto che siamo al sicuro.»

«E come sappiamo che sta scaricando?» replicò Harvey.

Un’espressione cauta turbò il viso di solito tranquillo di Boumour.

Harvey la interpretò, poi sorrise.

«Harvey!» gli segnalò Lizbeth. «Pensi che…»

«No, là fuori c’è il nostro autista,» la rassicurò il marito con lo stesso sistema. «Dall’odore, direi che siamo in qualche riserva naturale. Inoltre non abbiamo sentito nessun rumore di lotta. Ed è impossibile catturare un Cyborg senza lottare.»

«Ma dove siamo?» gli chiese Lizbeth.

«Tra le montagne,» la informò Harvey. «E considerato il viaggio, ho l’impressione che siamo molto lontani dalle strade più trafficate.»

Improvvisamente il loro nascondiglio sussultò e si spostò di lato. Il neon si spense. Nell’oscurità, la parete alle spalle di Harvey venne staccata. L’uomo strinse a sé Lizbeth, si voltò, fissò un panorama buio… illuminato soltanto dalla luna… e la forma massiccia dell’autista, profilata contro le luci lontane della megalopoli. La luna inargentava le cime degli alberi sotto di loro e nell’aria aleggiava l’odore resinoso degli aghi di pino sollevati dal passaggio dell’hovercraft. I dintorni erano immersi in un silenzio profondo, come se la natura stesse studiando quegli intrusi.

«Uscite,» ordinò l’autista.

Il Cyborg si girò. Harvey scorse i suoi lineamenti, improvvisamente illuminati dal chiaro di luna, esclamò, «Glisson!»

«Le porgo i miei saluti, Durant,» disse Glisson.

«Perché è stato scelto proprio lei?» gli chiese Harvey.

«E perché no?» ribatté Glisson. «Ora scendete di lì.»

Harvey protestò, «Ma mia moglie non è in grado di…»

«So delle condizioni di sua moglie, Durant. Ma è passato del tempo dall’intervento che ha subito. Può camminare, se non si sforza troppo.»

Igan mormorò nell’orecchio di Harvey, «Sua moglie non avrà problemi. La faccia alzare con gentilezza e la sorregga.»

«Io… sto bene,» disse Lizbeth. «Ecco.» Poggiò un braccio sulla spalla di Harvey. Insieme, scesero a terra.

Igan li seguì, chiese, «Dove siamo?»

«Da qualche parte, diretti verso qualche altro posto,» replicò Glisson. «Come sta il nostro prigioniero?»

Boumour gli rispose dall’interno del nascondiglio. «Sta rinvenendo. Aiutatemi a farlo uscire.»

«Perché ci siamo fermati?» chiese Harvey.

«Dobbiamo affrontare una salita molto ripida,» disse Glisson. «Meglio sbarazzarci del carico. L’hovercraft non è fatto per un lavoro del genere.»

Boumour e Igan li superarono trasportando Svengaard, che deposero contro un tronco d’albero sul ciglio del sentiero.

«Aspettate qui, mentre sgancio il rimorchio,» disse Glisson. «E riflettete su Svengaard; forse dovremmo abbandonarlo.»

Sentendo pronunciare il nome, quest’ultimo aprì gli occhi, si scoprì a fissare le luci lontane della megalopoli. Gli faceva male la mascella, a causa del pugno sferratogli da Harvey, e la testa gli pulsava. Aveva fame e sete. Le mani legate avevano ormai perso ogni sensibilià. Un intenso odore di aghi di pino colpì le sue narici. Starnutì.

«Forse dovremmo davvero sbarazzarci di Svengaard,» disse Igan.

«Io penso di no,» replicò Boumour. «È un uomo istruito, un possibile alleato. E avremo bisogno di uomini istruiti.»

Svengaard diresse lo sguardo verso il punto da cui provenivano le voci. Gli altri erano accanto all’hovercraft, una sagoma lunga e argentea davanti a un tozzo rimorchio. Poi si udì un rumore metallico. Il rimorchio scivolò all’indietro per almeno due metri prima di fermarsi contro un monticello di terriccio.

Glisson ritornò, si accovacciò accanto a Svengaard. «Qual è la vostra decisione?» chiese il Cyborg. «Lo porteremo con noi oppure lo uccideremo?»

Harvey deglutì, sentì che Lizbeth gli stringeva la mano.

«Portiamolo con noi ancora per un po’,» propose Boumour.

«A patto che non ci crei altri problemi,» intervenne Igan.

«Potremmo sempre usare parti della sua anatomia,» disse Glisson. «Oppure possiamo ricavare un clone e condizionarlo.» Il Cyborg si alzò. «Non è necessario prendere una decisione immediata. Meglio rifletterci sopra con calma.»

Svengaard rimase in silenzio, gelato dalla impassibile crudeltà delle parole del Cyborg. Che uomo duro e brutale, pensò. Un tipo spietato, pronto a ogni violenza. Un vero killer.

«Bene, allora salite tutti in cabina,» ordinò Glisson. «Abbiamo un lungo…» Il Cyborg si interruppe e fissò la megalopoli.

Svengaard si girò verso i grappoli di luci bianco-azzurre, che ardevano gelide in lontananza. Un bagliore giallo era comparso tra le luci alla sua sinistra. Un altro fiorì dietro il primo: un gigantesco falò profilato contro le lontani montagne illuminate dal chiaro di luna. Altri bagliori spuntarono sulla destra. Un’ondata di ultrasuoni scosse il corpo di Svengaard e trasse una lamentosa dissonanza metallica dalla carrozzeria del veicolo.

«Cosa sta succedendo?» sibilò Lizbeth.

«Silenzio!» ordinò Glisson. «Tutti zitti e osservate.»

«Dèi della vita,» mormorò Lizbeth. «Cosa c’è?»

«La megalopoli sta morendo,» spiegò Boumour.

Un’altra ondata di ultrasuoni scosse l’hovercraft.

«Fa male,» si lamentò Lizbeth.

Harvey l’attirò a sé, mormorò, «Che siano dannati!»

«Quassù fa male,» commentò Igan con tono freddamente scientifico. «Ma laggiù uccide.»

Una nebbia verde stava emergendo dalla boscaglia a una decina di chilometri di distanza. Fuoriusciva e scendeva verso il basso come un mare furioso, sotto l’impassibile luce della luna, sommergendo ogni cosa: le colline, le luci simili a gemme, i bagliori dorati.

«Pensavate che avrebbero usato la nebbia della morte?» chiese Boumour.

«Sapevamo che l’avrebbero usata,» rispose Glisson.

«Suppongo fosse prevedibile che avrebbero deciso di sterilizzare l’intera zona,» disse Boumour.

«Ma cos’è quella nebbia?» volle sapere Harvey.

«Viene emessa dalle griglie usate per diffondere il gas contraccettivo,» spiegò Boumour. «Basta che una sola particella sfiori la pelle… ed è finita.»

Igan si avvicinò a Svengaard, lo fissò. «Essi sono i potenti che ci amano e si prendono cura di noi,» recitò in tono amaramente sardonico.

«Cosa succede?» gli chiese Svengaard.

«È sordo? O forse cieco? I suoi tanto adorati Optimati stanno sterilizzando Seatac. Aveva degli amici, laggiù?»

«Amici?» ripeté Svengaard in tono incerto. Si voltò a guardare la nebbia verde. Tutte le luci si erano ormai spente.

Una terza scarica di ultrasuoni li scosse, fece tremare il veicolo, e perfino il suolo.

«Cosa ne pensa adesso di loro?» chiese Igan.

Svengaard scosse la testa, incapace di rispondere. Si chiese il perché non fosse dotato di un interruttore di sicurezza emotivo con cui tagliare fuori dalla sua coscienza quella scena. Ma i suoi sensi, in qualche modo divenuti anormali, lo costringevano ad assistere a quel dramma. Tuttavia, lo stavano semplicemente ingannando. Si trattava soltanto di un inusuale caso di auto-suggestione.

«Perché non mi risponde?» chiese Igan.

«Lo lasci in pace,» intervenne Harvey. «Anche noi siamo sconvolti. E lei, non prova nulla?»

«Ma lui vede quel che sta succedendo, e non ci crede,» replicò Igan.

«Come hanno potuto farlo?» bisbigliò Lizbeth.

«Istinto di conservazione,» spiegò Boumour. «Una caratteristica che il nostro amico Svengaard non possiede; ma forse è stata eliminata dal suo corredo genetico.»

Svengaard fissava la nube verde. Si muoveva con un tale silenzio, una tale furtività. La distesa buia che un tempo era fiorita di luci e di vita lo aveva reso terribilmente cosciente della propria mortalità. Pensò agli amici che aveva laggiù, ai suoi colleghi dell’ospedale, agli embrioni, alla moglie.

Erano morti tutti.

Svengaard si sentì svuotato, incapace di provare una qualsiasi emozione. Riusciva soltanto a domandarsi, Qual era il loro scopo?

«Salite nella cabina di guida,» ripeté Glisson. «Sistematevi nel retro, sul pavimento.»

Delle mani dai gesti bruschi sollevarono Svengaard — lui riconobbe Boumour e Glisson. L’impassibilità dell’autista confondeva Svengaard. Fino a quel momento, non aveva mai incontrato un essere umano tanto distaccato.

I due lo scaricarono sul pavimento dell’hovercraft. Il bordo aguzzo del supporto di un seggiolino gli si piantò in un fianco. Dei piedi lo sfiorarono. Qualcuno gli urtò lo stomaco con un piede, lo ritrasse immediatamente. Le turbine vennero attivate. Una portiera venne chiusa. L’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard sprofondò in una specie di torpore.

Lizbeth, che era seduta sopra di lui, sospirò profondamente. Udendo quel sospiro, Svengaard scoprì a malincuore di provare un senso di compassione per la donna, la prima emozione che provava dopo aver osservato la morte della megalopoli.

Perché l’hanno fatto? si chiese. Perché?

Nel buio, Lizbeth strinse la mano di Harvey. Ogni tanto, grazie al chiaro di luna, scorgeva il profilo di Glisson, seduto davanti a lei. I movimenti essenziali del Cyborg, la sensazione di potere trasmessa da ogni suo gesto, la turbarono profondamente. La cicatrice dell’operazione subita le prudeva. Voleva grattarsi, ma aveva paura di richiamare l’attenzione degli altri su di sé. Il Servizio dei Corrieri esisteva da lungo tempo, ed era riuscito a ingannare sia i Cyborg che gli Optimati, nella maggior parte dei casi facendo ricorso alla dissimulazione. Lizbeth, impaurita, si rifugiò ancora una volta in essa.

Attraverso il loro codice segreto, Harvey le segnalò, «Ora riesco a leggere Boumour e Igan. Sono diventati Cyborg di recente. Probabilmente sono dotati soltanto di collegamenti provvisorii con i computer nei loro corpi. Stanno ancora cercando di capire il prezzo che hanno dovuto pagare, tentano di reprimere le loro naturali emozioni umane, di contraffarle.»

Lizbeth rifletté su quelle affermazioni, esaminando in base ad esse il comportamento dei due medici. Spesso suo marito leggeva le persone molto meglio di quanto era in grado di fare lei. Di conseguenza, lesse ancora una volta Igan e Boumour.

«Li hai letti?» gli chiese Harvey mediante la pressione delle dita.

«Sì, e hai ragione.»

«Ciò significa che hanno rotto definitivamente con la Centrale. Non potranno più tornare indietro.»

«Questo spiega Seatac,» segnalò lei. Poi iniziò a tremare.

«Significa anche che non possiamo fidarci di loro,» replicò Harvey. Attirò a sé Lizbeth, cercando di consolarla.

L’hovercraft continuò a risalire faticosamente lungo le colline, evitando gli spazi aperti, seguendo antichi sentieri, occasionalmente il letto di qualche torrente. Poco prima dell’alba, svoltò a sinistra lungo una linea frangifiamme, attraversò una macchia di pini e di cedri, seguì uno stretto sentiero con le turbine che sollevavano una grossa nube di polvere e foglie secche. Glisson lo fece fermare dietro un vecchio edificio, con le pareti ricoperte di muschio e piccole finestre coperte da tende. Accanto all’edificio era visibile una breve fila di pseudo-anitre, ricoperte da una patina verdastra che dimostrava come non fossero state attivate da anni: pallide sagome illuminate dall’unico fotoglobo appeso sotto la grondaia.

Le turbine smisero di girare con un lamento. Poi gli occupanti del veicolo udirono un ronzio di macchinari e, guardando avanti a loro, scorsero una tozza e argentea torre di ventilazione svettare oltre la cima degli alberi.

Una porta ad un angolo dell’edificio si aprì. Ne uscì un uomo dalla testa grossa, dalla mascella pronunciata, e con una spalla più bassa dell’altra; si stava soffiando il naso in un fazzoletto rosso. Era vecchio, e il suo viso era una maschera ossequiosa.

Glisson disse, «È il segnale. Significa che qui siamo al sicuro… per ora.» Scese dal veicolo, si avvicinò al vecchio, tossì.

«In questi giorni circolano molti malanni,» disse il vecchio. La voce era tanto segnata dall’età quanto il viso: ansimante, in difficoltà sulle consonanti.

«Lei non è l’unico a soffrirne,» rispose Glisson.

Il vecchio si raddrizzò, l’espressione servile svanì. «Suppongo che abbiate bisogno di un nascondiglio,» disse. «Non so se questo è un posto sicuro. E non so neppure se dovrei accettare di nascondervi.»

«Qui gli ordini li do io,» ribatté Glisson. «E tu ubbidirai.»

Il vecchio studiò Glisson per un istante, poi il suo viso fu distorto da un’espressione di rabbia. «Sei un dannato Cyborg!» esclamò.

«Tieni a freno la lingua,» lo minacciò Glisson con tono piatto. «Abbiamo bisogno di cibo, e di un posto sicuro in cui trascorrere la giornata. Avrò bisogno del tuo aiuto per nascondere il nostro veicolo. Sicuramente sei pratico della zona. E ci fornirai un altro mezzo di trasporto.»

«Meglio fare a pezzi l’hovercraft, e poi seppellirlo,» disse il vecchio con voce acida. «Si è scatenato un vespaio. Ma immagino che questo voi lo sappiate.»

«È così,» gli confermò Glisson. Si girò, fece un cenno verso il veicolo. «Venite, e fate scendere anche Svengaard.»

Gli altri lo raggiunsero. Boumour e Igan sorreggevano Svengaard: sebbene gli fossero state liberate le gambe dai legami, l’uomo si reggeva in piedi a stento. Lizbeth camminava con una cautela che dimostrava come non fosse certa che l’incisione fosse guarita, anche dopo aver preso gli enzimi che avrebbero dovuto accelerarne la cicatrizzazione.

«Staremo qui durante il giorno,» annunciò loro Glisson. «Quest’uomo vi accompagnerà ai vostri alloggi.»

«Ci sono notizie da Seatac?» chiese Igan.

Glisson guardò il vecchio, ordinò, «Rispondi.»

L’uomo fece spallucce. «Un Corriere è passato di qui un paio di ore fa. Ha detto che non ci sono sopravvissuti.»

«Sa qualcosa su un certo Dottor Potter?» gracchiò Svengaard.

Glisson si voltò di scatto e lo fissò.

«Non so,» rispose il vecchio. «Che strada ha preso?»

Igan si schiarì la gola, rivolse un’occhiata rapidissima a Glisson, poi fissò il vecchio. «Potter? Penso che fosse nel gruppo che tentava di fuggire seguendo i condotti dell’energia.»

Il vecchio sbirciò la torre di ventilazione, i cui contorni divenivano ogni istante sempre più distinti, mentre l’alba spuntava sulle montagne. «Nessuno è uscito dai condotti,» rispose. «Per prima cosa, hanno spento gli impianti di ventilazione e hanno irrorato i condotti con quel gas.» Guardò Igan. «E i ventilatori hanno ripreso a funzionare da almeno tre ore.»

Glisson studiò Svengaard, gli chiese, «Perché è così interessato a Potter?»

L’altro rimase in silenzio.

«Mi risponda!» ordinò Glisson.

Svengaard tentò di deglutire. Gli doleva la gola. Si sentiva con le spalle al muro. Le parole di Glisson lo avevano fatto infuriare. Senza alcun preavviso, Svengaard si catapultò in avanti, trascinandosi dietro Igan e Boumour, e sferrò un calcio contro Glisson.

Il Cyborg lo schivò con un movimento rapidissimo, afferrò il piede del prigioniero, strappò Svengaard dalla stretta dei due bioingegneri, ruotò su se stesso, e lo scagliò lontano. Svengaard cadde sulla schiena, strusciò dolorosamente contro il terreno, si fermò. Prima che potesse fare una sola mossa, Glisson si piantò su di lui. Svengaard rimase a terra, singhiozzando.

«Perché è così interessato a Potter?» gli chiese ancora una volta Glisson.

«Vada via, via, via!» singhiozzò Svengaard.

Glisson si raddrizzò, cercò con lo sguardo Igan e Boumour. «Avete qualche spiegazione per il suo comportamento?»

Igan si strinse nelle spalle. «È una semplice reazione emotiva.»

«Forse causata dallo choc,» disse Boumour.

Harvey segnalò a Lizbeth, «Svengaard era in stato di choc, ma il suo comportamento indica che ne sta uscendo. Quei due sono dei dottori! Non riescono neppure a capire questo?»

«Glisson l’ha capito,» gli rispose la moglie. «Li sta semplicemente mettendo alla prova.»

Glisson si voltò e squadrò Harvey. La comprensione che percepì negli occhi del Cyborg provocò nell’uomo una fitta di paura.

«Sii molto prudente,» gli segnalò Lizbeth. «Sospetta di noi.»

«Portate dentro Svengaard,» ordinò Glisson.

Svengaard sollevò lo sguardo verso l’autista. Glisson, lo chiamavano i Durant. Ma il vecchio aveva affermato che era un Cyborg. Era possibile? Quei semi-uomini erano resuscitati per sfidare ancora una volta gli Optimati? Era quella la ragione della sterilizzazione di Seatac?

Boumour e Igan lo aiutarono a ralzarsi, controllarono i legacci che gli bloccavano le mani. «Cerchi di non commettere altre sciocchezze,» lo avvertì Boumour.

Anche loro sono come Glisson? si chiese Svengaard. Anche loro sono metà uomo e metà macchina? E i Durant?

Svengaard sapeva di essere sul punto di scoppiare a piangere. Isteria, si rese conto. Provocata dallo choc. Poi, assalito dal senso di colpa, iniziò a riflettere sulla sua reazione. Perché la morte di Potter mi ha colpito più di quella di un’intera Megalopoli, di quella di mia moglie e dei miei amici? Cosa rappresentava Potter per me?

Boumour e Igan, un po’ trascinandolo di peso, un po’ sorreggendolo, lo fecero entrare nell’edificio. Percorsero uno stretto corridoio, entrarono in locale vasto e poco illuminato, il cui soffitto era altissimo e fatto di travi nude. Lo adagiarono su di un polveroso divano di plastica, i cui meccanismi idraulici si adattarono con riluttanza al contorno del suo corpo. La poca luce proveniva da due fotoglobi appesi alle travi del soffitto e illuminava i pochi mobili sparsi nel locale, e mucchi di strani oggetti tutti coperti da una specie di telo lucido e scintilante. Si accorse che sulla sua sinistra c’era un tavolo di legno. Legno! Più avanti giacevano una branda, e un antico secrétaire con un cassetto mancante, sedie di vari stili. Un caminetto macchiato di fuliggine, da cui spuntava una sbarra di ferro simile a una forca, occupava metà della parete di fronte a lui. L’intera stanza puzzava di umidità e putridume. Il pavimento scricchiolava sotto i passi dei presenti. Era anch’esso in legno!

Svengaard alzò lo sguardo verso le finestrelle da cui filtrava la luce grigia dell’alba, ogni istante sempre più brillante. Ma Svengaard sapeva che la luce del sole, anche al suo massimo, non sarebbe riuscita a scacciare l’oscurità da quella stanza. L’atmosfera era tetra; gli faceva pensare a innumerevoli persone morte, dimenticate. Le lacrime iniziarono a scorrergli sulle guance.

Che cosa mi sta succedendo? si chiese.

Udì il suono delle turbine dell’hovercraft che venivano attivate. Sentì che il veicolo si sollevava dal suolo, iniziava a muoversi… si allontanava. Harvey e Lizbeth entrarono nella stanza.

La donna guardò prima Svengaard, poi Bourhour e Igan, che si erano seduti sulla branda. Con la sua andatura cauta, si avvicinò a Svengaard, gli toccò una spalla. Notò le lacrime, segno d’umanità, e desiderò che fosse lui il dottore che l’avrebbe assistita. Forse esisteva il modo. Decise che l’avrebbe chiesto a Harvey.

«La prego, si fidi di noi,» disse a Svengaard. «Sono stati loro ad aver ucciso sua moglie e i suoi amici, non noi.»

Svengaard si ritrasse dal tocco.

Come si permette di compatirmi? pensò. Ma la donna aveva toccato qualche corda del suo animo. Sentiva di star andando in pezzi.

Un silenzio oppressivo scese sulla stanza.

Harvey si avvicinò e guidò la moglie verso una sedia.

«È di legno,» disse Lizbeth con voce piena di meraviglia, toccandone la superficie. Poi disse, «Harvey, sto morendo di fame.»

«Ci porteranno del cibo non appena avranno finito di occultare il veicolo,» rispose lui.

Lizbeth gli strinse la mano, e Svengaard osservò affascinato i movimenti nervosi delle sue dita.

In quel momento ritornarono Glisson e il vecchio, chiudendosi con fragore la porta alle spalle. L’edificio scricchiolò sotto i loro passi.

«D’ora in poi, useremo un veicolo della forestale,» annunciò Glisson. «È molto più sicuro. Ma c’è una cosa che dovreste sapere.» Il Cyborg fece scorrere il suo sguardo gelido sul volto dei presenti. «Sul tetto del rimorchio che abbiamo abbandonato la notte scorsa c’era un rivelatore.»

«Un cosa?» chiese Lizbeth.

«Un dispositivo per seguire le nostre tracce,» spiegò Glisson.

«Ohh!» Lizbeth si coprì la bocca con una mano per la paura.

«Non so da quanto vicino ci stessero seguendo,» continuò Glisson. «Sono stato modificato per portare a termine questa missione, e ho dovuto rinunciare ad alcuni miei strumenti. Può anche darsi che sappiano che siamo qui.»

Harvey scosse la testa. «Ma perché…»

«Perché non hanno tentato di catturarci?» concluse Glisson. «È ovvio: sperano che li condurremo al centro nevralgico della nostra organizzazione.» Un qualche sentimento molto simile alla rabbia turbò i lineamenti del Cyborg. «Ma può anche darsi che riusciremo a far loro una bella sorpresa.»

CAPITOLO SEDICESIMO

Nel Globo di Controllo, l’attività degli strumenti montati sulle pareti era relativamente ridotta. Calapine e Schruille della Tuyere occupavano i loro rispettivi troni. La piattaforma ruotava lentamente, permettendo ai due di avere sott’occhio l’intera superficie del globo. Le spie creavano un gioco caleidoscopico di colori sui lineamenti di Calapine: ondate successive di verdi, rossi, porpora.

L’Optimate era stanca, in preda ad un sentimento di autocommiserazione. Era sicura che gli analizzatori enzimici funzionassero difettosamente. Si chiese se quelli dell’Associazione avessero manomesso in qualche modo i computer della Farmacia.

Era inutile interpellare Schruille. Si sarebbe burlato di lei.

Su di uno schermo di fronte a Calapine, apparve il volto di Allgood. L’Optimate fece fermare la piattaforma, mentre il Capo della Sicurezza le rivolgeva un inchino e diceva, «Ho chiamato per fare rapporto, Calapine.» L’Optimate notò le profonde occhiaie di Allgood e, dal modo in cui l’uomo teneva rigidamente eretta la testa, intuì che doveva aver assunto delle droghe per vincere la stanchezza.

«Li hai trovati?» chiese Calapine.

«Sono da qualche parte sulle montagne, Calapine,» rispose Allgood. «Devono essere là.»

«Devono!» ripeté lei con sarcasmo. «Sei un ottimista piuttosto sciocco, Max.»

«Conosciamo l’ubicazione di alcuni nascondigli che potrebbero aver scelto, Calapine.»

«E per ciascuno di quelli che conoscete, ne esistono altri nove che ignorate,» ribatté acidamente l’Optimate.

«Ho fatto circondare l’intera zona, Calapine. La stiamo battendo palmo a palmo, con la massima scrupolosità. Sono lì, e noi li troveremo.»

«Max sta dicendo solo chiacchiere,» commentò Calapine sbirciando Schruille.

Quest’ultimo le scoccò un sorriso ironico, fissò Allgood attraverso il riflettore prismatico. «Max, hai trovato la fonte da cui è stato trafugato l’embrione che è stato sostituito a quello dei Durant?»

«Non ancora, Schruille.»

Allgood li fissò, con il viso che tradiva chiaramente la sua confusione per lo strano comportamento combattivo dei suoi Optimati.

«Hai fatto ricerche a Seatac?» gli domandò Calapine.

Allgood si umettò le labbra con la lingua.

«Parla!» gli ordinò bruscamente Calapine. Ahh, la paura nei suoi occhi.

«Lo stiamo facendo, Calapine, ma…»

«Pensi che siamo stati troppo precipitosi?» concluse Calapine.

Allgood scosse la testa.

«Ti stai comportando stranamente,» constatò Schruille. «Hai paura di noi?»

Allgood esitò, poi ammise, «Sì, Schruille.»

«Sì, Schruille!» lo derise Calapine.

Allgood la guardò, con la paura che era stata sopraffatta dal risentimento. «Sto facendo quel che posso, Calapine.»

Dietro la rabbia apparente di Allgood, Calapine rilevò nel suo comportamento una precisione sospetta. Sbarrò gli occhi per la meraviglia. Era davvero possibile? Guardò Schruille, chiedendosi se anche lui se ne fosse accorto.

«Max, perché ci hai chiamato?» chiese Schruille.

«Io… per fare il mio rapporto, Schruille.»

«Ma non ci hai fatto alcun rapporto.»

Con esitazione, servendosi degli strumenti che aveva di fronte, Calapine eseguì un controllo speciale su Allgood, poi lesse i risultati. Nel suo animo, l’orrore si mischiò alla rabbia. Un Cyborg! Avevano modificato Max! Il suo Max!

«Tu devi soltanto obbedire ai nostri ordini,» stava dicendo Schruille ad Allgood.

Il Capo della Sicurezza annuì, rimase in silenzio.

«Tu!» sibilò Calapine. Si sporse verso lo schermo. «Tu hai osato! Perché? Perché, Max?»

Schruille domandò perplesso, «Cosa…?»

Ma Allgood, nel momento stesso in cui Calapine gli aveva rivolto rabbiosamente le sue domande, aveva compreso di essere stato scoperto. Sapeva che era la fine, l’aveva capito dallo sguardo negli occhi di Calapine. «Ho visto… ho scoperto i cloni,» balbettò.

Calapine ruotò con rabbia feroce una delle manopole inserite nei braccioli del suo trono. Una scarica di ultrasuoni colpì con forza inaudita Allgood, facendo tremolare la sua immagine sullo schermo. L’uomo mosse le labbra, senza produrre alcun suono, lo sguardo fisso nel vuoto. Poi crollò al suolo.

«Perché l’hai fatto?» chiese Schruille alla sua compagna.

«Era un Cyborg!» rantolò Calapine, e indicò i dati sui suoi strumenti che lo provavano.

«Max? Il nostro Max?» Schruille diede un’occhiata ai rilevatori, poi annuì.

«Il mio Max,» lo corresse lei.

«Ma ti adorava, ti amava.»

«Adesso non più,» sussurrò Calapine. Spense lo schermo, ma continuò a fissarlo. La sua mente stava già iniziando a dimenticare l’intero episodio.

«Hai provato una sensazione piacevole nell’azione diretta?» le chiese Schruille.

Calapine incrociò lo sguardo dell’altro attraverso il riflettore. Piacere nell’azione diretta? In effetti… la violenza provoca un senso d’esaltazione.

«Adesso non abbiamo più Max,» disse Schruille.

«Sveglieremo un suo clone,» replicò Calapine. «Per il momento, la Sicurezza può funzionare benissimo anche senza di lui.»

«Ma chi sveglierà il clone?» chiese Schruille. «Igan e Boumour non sono più dalla nostra parte. Il farmacista, Hand, è scomparso.»

«Cosa sta trattenendo Nourse?» si informò Calapine.

«Un problema con gli enzimi,» rispose Schruille con voce lievemente ironica. «Mi ha parlato di una modifica necessaria nelle sue prescrizioni: riguardava i derivati ormonali di Bonellia, mi pare.»

«Può svegliare lui il clone,» disse Calapine. Immediatamente dopo, tentò di ricordare perché avevano bisogno di fare una cosa del genere. Oh, sì, Max non c’era più.

«Ma la questione è molto più complessa,» le fece notare Schruille. «Sai bene che la qualità dei cloni non è più quella di un tempo. Il nuovo Max dovrà essere istruito sul come svolgere i suoi compiti, ma si tratterà di un processo relativamente lungo. Potrebbero volerci settimane… o mesi.»

«Uno di noi può tranquillamente gestire la Sicurezza,» propose Calapine.

«E tu pensi davvero che ne sarebbe capace?» obiettò Schruille.

«Prendere decisioni, in un certo qual modo, è emozionante,» commentò Calapine. «Non nego che ci siamo annoiati profondamente negli ultimi secoli. Ma adesso, adesso mi sento pienamente viva, vitale, attenta, curiosa.» Alzò lo sguardo verso i sensori collegati con gli altri Optimati. «E non sono la sola.»

Anche Schruille guardò il cerchio scintillante di sensori. «Tu parli di vita,» commentò. «Ma Max… è morto.»

Calapine si ricordò di quel particolare, poi ribatté, «Max può essere facilmente rimpiazzato.» Osservò Schruille, girando la testa per guardarlo direttamente, senza la mediazione del prisma. «Oggi sei davvero di umore morboso, Schruille. A quanto mi ricordo, hai pronunciato ben due volte la parola "morte".»

«Morboso, dici?» rispose Schruille. «Ma non sono stato io a cancellare Max.»

Calapine scoppiò a ridere. «Le mie reazioni sorprendono perfino me, Schruille!»

«Non hai notato alcun cambiamento nella quantità di enzimi che devi assumere?»

«Sì, ci sono state delle variazioni. E allora? Il tempo passa. Fa parte della vita. Bisogna sempre modificare qualcosa.»

«Senza dubbio,» si dichiarò d’accordo Schruille.

«Ma dove avranno trovato l’embrione?» si chiese Calapine, seguendo improvvisamente un altra linea di pensiero.

«Forse il nuovo Max riuscirà a scoprirlo,» disse Schruille.

«Sarà suo dovere.»

«Oppure sveglieremo un nuovo Max,» ironizzò Schruille.

«Non prenderti gioco di me, Schruille.»

«Non oserei mai.»

Ancora una volta Calapine lo fissò direttamente.

«E se quell’embrione sono stati loro a produrlo?» le chiese Schruille.

Calapine distolse lo sguardo. «Come, per tutto ciò che è giusto?»

«L’aria può essere depurata dal gas contraccettivo,» disse Schruille.

«Sei disgustoso!»

«Io? In ogni caso, ti sei chiesta cosa stava tentando di nascondere Potter?»

«Potter? Ma sappiamo cosa nascondeva.»

«Una persona tanto devota alla conservazione della vita… così com’è,» le ricordò Schruille. «Cosa nascondeva nella sua mente?»

«Potter non c’è più.»

«Ma cosa nascondeva?»

«Tu pensi che conoscesse l’origine della… interferenza esterna?»

«Forse. E lui, di sicuro, avrebbe saputo dove trovare un embrione.»

«Allora, se è come hai detto tu, la registrazione ci svelerà la fonte.»

«Sì, ho pensato anch’io a questa eventualità.»

Calapine lo fissò, questa volta attraverso il prisma. «È impossibile.»

«Cosa? Che io pensi?»

«Sai bene cosa volevo dire — quello che stai pensando.»

«Secondo me, è possibile.»

«No!»

«Sei decisamente cocciuta, Cal. Una donna dovrebbe essere l’ultima persona sulla terra a negare questa possibilità.»

«Ora sei davvero disgustoso!»

«Sappiamo che Potter ha scoperto un embrione fertile,» insisté Schruille. «Potrebbero averne molti, maschi e femmine. E dalla storia sappiamo quali siano le possibilità di queste unioni primitive. Esse sono parte della nostra eredità naturale.»

«Ciò che stai dicendo è incredibilmente volgare,» ansimò Calapine.

«Riesci ad affrontare un concetto come quello di morte, ma non questo,» commentò Schruille. «Molto interessante.»

«Disgustoso!» gridò lei.

«Ma possibile,» ribatté Schruille.

«E poi l’embrione sostituito non era fertile!» ribatté piccata Calapine.

«Un’altra ragione per cui sarebbero stati disposti a sacrificarlo al posto dell’altro, eh?»

«Ma dove troverebbero la vasca, le medicine, gli enzimi, i…»

«Dove sono sempre stati.»

«Cosa?»

«Hanno inserito di nuovo l’embrione dei Durant nella madre,» spiegò Schruille. «Di questo possiamo esserne certi. Ma non sarebbe stato egualmente logico lasciarlo là dov’era — non rimuoverlo dalla madre, non isolare i gameti in una vasca?»

Calapine era tanto sbalordita da essere incapace di replicare. Un sapore acido le invase la bocca; scioccata, si rese conto di star per vomitare. C’è qualcosa che non va nella prescrizione degli enzimi, pensò.

Si rivolse a Schruille con voce calma, lentamente. «Vado subito in Farmacia. Non mi sento bene.»

«Prego,» disse Schruille. Lanciò uno sguardo ai sensori video; erano tutti accesi.

Calapine scese con cautela dal trono, si lasciò trasportare dal raggio fino al segmento d’uscita. Prima di abbandonare il Globo, alzò lo sguardo verso la piattaforma, la sua mente in preda a un vago ricordo. Quale Max è stato… cancellato? Ne abbiamo avuti molti… era un modello perfetto per la Sicurezza. Pensò agli altri Max che si erano succeduti nei secoli, tutti eliminati non appena avevano iniziato a dar noia ai loro padroni. Erano una fila infinita, immagini riflesse da una moltitudine di specchi.

Cosa significa cancellare uno dei Max? si chiese. Io rappresento un’esistenza continua. Ma un clone non ricorda. Un clone rappresenta un’interruzione nella continuità.

A meno che le cellule non ricordino anch’esse.

Memoria… cellule… embrioni…

Pensò all’embrione nell’utero di Lizbeth Durant. Una cosa disgustosa, ma semplice. Così meravigliosamente semplice. Ebbe un nodo alla gola. Girandosi di scatto, Calapine scese nella Sala del Consiglio, diretta di corsa verso il Dispensatorio più vicino. E mentre correva, strinse a pugno la mano con cui aveva ucciso Max e annientato una megalopoli.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

«Le dico che mia moglie sta male!»

Harvey era chino su Igan, e tentava di scuoterlo dal sonno. Si trovavano in un’angusta stanza dalle pareti in terra battuta, con il soffitto in travi di plasmeld, e in un angolo un unico fotoglobo che spandeva una fievole luce giallastra. Cinque materassi erano accostati alle pareti: Boumour e Igan erano sdraiati su due di essi, uno di fronte all’altro, Svengaard giaceva su un terzo; gli altri due erano vuoti.

«Si sbrighi!» implorò Harvey. «Sta male.»

Igan grugnì, si rizzò a sedere. Diede un’occhiata al cronografo — in superficie il sole era sul punto di tramontare. Erano scesi in quel nascondiglio poco prima dell’alba, dopo una notte trascorsa a percorrere a piedi, con la guida di un forestale, sentieri tra i boschi che si snodavano apparentemente all’infinito. Gli doleva ancora tutto il corpo per quell’esercizio a cui non era decisamente abituato.

Lizbeth sta male?

Erano passati tre giorni da quando le era stato impiantato l’embrione. Le altre donne che si erano sottoposte all’operazione erano guarite in fretta, ma non erano state costrette a scarpinare una notte intera su sentieri di montagna.

«La prego, faccia in fretta,» lo esortò Harvey.

«Vengo, vengo,» disse Igan. E pensò, Com’è cambiato il tono della sua voce, ora che ha bisogno di me.

Anche Boumour si mise a sedere, gli chiese, «Vuoi che venga anch’io?»

«No, tu rimarrai qui e aspetterai Glisson,» rispose Igan.

«Glisson ha detto dove stava andando?»

«A cercare una guida. Presto farà buio.»

«Ma non dorme mai?» chiese Boumour.

«Per favore!» supplicò Harvey.

«Sì, va bene!» replicò in tono brusco Igan. «Quali sono i sintomi?»

«Vomita… dice di sentirsi svenire.»

«Mi faccia prendere la mia borsa.» Igan sollevò dal pavimento una grossa borsa nera, lanciò un’occhiata a Svengaard. Il suo respiro era ancora regolare, segno che il narcotico che gli avevano somministrato prima di andare anche loro a dormire non aveva ancora esaurito il suo effetto. Bisognava prendere una decisione su Svengaard. Quell’uomo li rallentava troppo.

Harvey tirò Igan per una manica.

«Sto venendo! Si calmi!» protestò Igan. Liberò il braccio, seguì Harvey attraverso un basso foro nella parete ad un’estremità della stanza, entrò in un locale identico a quello che aveva appena lasciato. Lizbeth giaceva dal lato opposto della stanza, su un materasso sotto un singolo fotoglobo.

Harvey le si inginocchiò accanto. «Sono qui, cara.»

«Harvey,» mormorò lei. «Harvey.»

Igan si unì a loro, estrasse dalla sua borsa un apparecchio diagnostico multi-funzione. Lo poggiò sul collo di Lizbeth, lesse le cifre che erano apparse sul quadrante. «Dov’è che le fa male?» chiese.

«Ohhh,» gemè Lizbeth.

«Per favore,» disse Harvey fissando Igan. «La prego, faccia qualcosa.»

«Si allontani,» ordinò Igan.

Harvey si alzò, fece due passi indietro. «Cos’ha?» chiese con un sussurro.

Igan lo ignorò, allacciò un nastro misuratore di enzimi al polso di Lizbeth, controllò i quadranti.

«Ma cos’ha?» chiese di nuovo Harvey.

Igan staccò lo strumento da Lizbeth, lo ripose nella borsa. «Nulla.»

«Ma è…»

«Perfettamente normale. La maggior parte delle donne hanno reagito allo stesso modo. Il suo sistema enzimico sta modificandosi per adattarsi alle nuove esigenze.»

«Ma non c’è qualche…»

«Si calmi!» Igan si alzò, affrontò Harvey. «Ora ha pochissimo bisogno di prescrizioni enzimiche. E presto potrà farne del tutto a meno. Sua moglie sta meglio di lei. E potrebbe tranquillamente andare in una farmacia anche adesso. Non verrebbe riconosciuta.»

«Ma allora perché…?»

«È l’embrione. Compensa i bisogni di sua moglie per proteggere se stesso. È un processo automatico.»

«Ma Lizbeth sta male!»

«Si tratta soltanto di un lieve squilibrio ghiandolare.» Igan sollevò la borsa. «Fa parte del vecchio processo di gestazione: l’embrione le dice di produrre determinate sostanze, e sua moglie ubbidisce. Ma questo causa qualche lieve scompenso nel suo sistema ghiandolare.»

«Lei non può fare nulla?»

«Certo che potrei. Tra un po’, a sua moglie verrà una fame terribile. Le daremo qualcosa che eliminerà la nausea, e poi la faremo mangiare. Ammesso che in questo buco ci sia del cibo.»

Lizbeth gemé. «Harvey?»

Il marito le si inginocchiò di nuovo accanto. «Sì, cara?»

«Mi sento malissimo.»

«Sii paziente, tra qualche minuto ti daranno qualcosa che ti farà sentire meglio.»

«Ohhhh.»

Harvey sollevò uno sguardo rabbioso su Igan.

«Non appena possibile,» lo rassicurò il medico. «Non si preoccupi, è tutto normale.» Si girò e uscì dalla stanza.

«Cosa c’è che non va in me?» sussurrò Lizbeth.

«È l’embrione,» rispose Harvey. «Non hai sentito quel che ha detto Igan?»

«Sì. Ma mi fa male la testa.»

Igan ritornò con una capsula e un bicchiere d’acqua, si chinò verso Lizbeth. «Prenda questa. Attenuerà la nausea.»

Harvey la aiutò a sedersi sul materasso, la resse mentre Lizbeth inghiottiva la capsula.

Lizbeth fece un respiro tremulo e restituì il bicchiere. «Mi dispiace di dare tanto…»

«Non si preoccupi,» replicò Igan. Guardò Harvey. «È meglio portarla nell’altra stanza. Glisson ritornerà tra pochi minuti. Dovrebbe aver trovato del cibo e una guida.»

Harvey aiutò la moglie ad alzarsi, la sorresse mentre seguivano Igan nell’altra stanza. Là scoprirono che Svengaard era seduto sul materasso, e fissava le proprie mani legate.

«Stava ascoltando?» gli chiese Igan.

Svengaard guardò Lizbeth. «Sì.»

«Ha riflettuto su quello che è accaduto a Seatac?»

«Sì, l’ho fatto.»

«Non starà pensando di liberarlo,» obiettò Harvey.

«La sua presenza ci rallenta troppo,» disse Igan. «E non possiamo liberarlo.»

«Forse dovrei occuparmi io di lui,» ribatté Harvey.

«Lei cosa suggerisce, Durant?» chiese Boumour.

«Per noi rappresenta un pericolo,» stabilì Harvey.

«Ahh,» disse Boumour. «Allora lo lasciamo a lei.»

«Harvey!» esclamò Lizbeth. Si chiese se suo marito fosse improvvisamente impazzito. Era questa la sua reazione alla richiesta che gli aveva fatto di prendere Svengaard come proprio dottore?

Ma Harvey ricordava bene i gemiti di Lizbeth. «Se si tratta di scegliere tra lui e mio figlio, be’, è una scelta molto facile.»

Lizbeth gli strinse la mano, gli segnalò, «Cosa vuoi fare? Non puoi fare sul serio!»

«E poi, chi è lui?» chiese Harvey, fissando Igan. Ma segnalò a Lizbeth, «Aspetta. Osserva.»

Lizbeth ricevé il messaggio, non insisté.

«È un bioingegnere,» disse Harvey con voce che grondava disprezzo. «Un loro servo. Come può giustificare la sua esistenza? È un essere sterile, una vuota non-entità. Non ha futuro.»

«È questa la sua scelta?» chiese Boumour.

Svengaard sollevò lo sguardo verso Harvey. «Sta parlando di assassinarmi?» Il tono privo d’emozione della sua voce sorprese Harvey.

«Non ha niente da obiettare?» gli chiese.

Svengaard tentò di deglutire. Si sentiva la gola come fosse invasa da cotone secco. Guardò Harvey, misurando la corporatura massiccia, i possenti fasci di muscoli dell’uomo. Ricordò l’eccesso di istinto protettivo, quell’errore genetico che lo aveva reso schiavo della minima esigenza di Lizbeth.

«Perché dovrei?» replicò Svengaard, «quando la maggior parte di ciò che ha detto risponde a verità, e lei ha già deciso?»

«Come lo farà, Durant?» chiese Boumour.

«Lei cosa mi suggerisce?» replicò Harvey.

«Lo strangolamento potrebbe rivelarsi interessante,» ipotizzò Boumour, e Harvey si chiese se anche Svengaard riuscisse a percepire il tono gelido del Cyborg nella voce dell’uomo.

«Meglio rompergli il collo. È un sistema più rapido,» disse Igan. «Oppure si potrebbe usare un’iniezione letale. Nella mia borsa ne ho molte.»

Harvey sentì che Lizbeth tremava al suo fianco. Le diede un colpetto sul braccio, poi si liberò dalla stretta della moglie.

«Harvey!» esclamò Lizbeth.

Lui scosse la testa e si avvicinò a Svengaard.

Igan si affiancò a Boumour e rimase a guardare.

Harvey si inginocchiò accanto a Svengaard, strinse le dita intorno al collo del medico, poi si chinò verso l’orecchio rivolto dal lato opposto rispetto agli ascltatori. Con un bisbiglio che soltanto Svengaard poté udire, disse, «La vogliono vedere morta, e subito. La maniera non è importante. Lei che ne pensa?»

Svengaard sentì le mani dell’altro serrarsi sulla sua gola. Avrebbe anche potuto tentare, servendosi delle mani legate, di scostare quella dita dalla stretta ferrea, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Era impossibile dubitare della forza di Harvey,

«Allora, la sua scelta?» sussurrò Harvey.

«Lo faccia, Durant!» lo esortò Boumour.

Svengaard si rese conto che alcuni secondi prima era stato rassegnato a morire, l’aveva perfino desiderato. Ma improvvisamente quel desiderio era scomparso.

«Voglio vivere,» bisbigliò.

«È questa la sua scelta?» sussurrò Harvey.

«Sì!»

«Durant, sta parlando con lui?» chiese Boumour.

«Perché vuole vivere?» domandò Harvey con tono di voce normale. Rilassò leggermente le dita, un sottile messaggio rivolto a Svengaard. Anche una persona non addestrata l’avrebbe compreso.

«Perché non sono mai stato vivo,» spiegò Svengaard. «Voglio vedere cosa si prova ad esserlo.»

«Ma come può giustificare la sua esistenza?» chiese Harvey e contrasse leggermente le dita.

Svengaard guardò Lizbeth, comprendendo finalmente le intenzioni di Harvey. Poi sbirciò in direzione di Boumour e Igan.

«Sono entrambi dei Cyborg?» chiese.

«Sì, ormai non possono più tornare indietro,» disse Harvey. «Sono privi di sentimenti umani… e anche se non sono stati trasformati del tutto, non fa alcuna differenza.»

«E allora come può essere sicuro che si prenderanno cura di sua moglie?»

Le dita di Harvey allentarono la stretta.

«Ecco il modo con cui potrei giustificare la mia esistenza,» dichiarò Svengaard.

Harvey allontanò le mani dalla gola di Svengaard, strinse le spalle dell’altro. Tra i due si stabilì una comunicazione istantanea, qualcosa che andava oltre le parole, un linguaggio fatto di carne su carne. Svengaard comprese di avere un alleato.

Boumour si avvicinò, chiese, «Sta per ucciderlo, oppure no?»

«Nessuno lo ucciderà,» ribatté Harvey.

«Allora cosa stavate facendo?»

«Risolvevamo un problema,» rispose Harvey. Continuò a tenere la mano sul braccio di Svengaard. Il medico si rese conto che, mediante quel semplice contatto, riusciva a comprendere l’intento di Harvey. Aspetti. Stia calmo. Me ne occuperò io.

«E ora quali sono le sue intenzioni nei confronti del nostro prigioniero?» chiese Boumour.

«Intendo liberarlo e sottoporre mia moglie alle sue cure,» rispose Harvey.

Boumour lo fissò con ira. «E se noi non fossimo d’accordo?»

«Quale idiozia!» esclamò Igan. «Come può fidarsi di lui, quando ha noi a sua disposizione?»

«Ma lui è umano come me,» ribatté Harvey. «Curerà mia moglie per altruismo; non la considererà soltanto un macchinario che ospita un embrione.»

«È assurdo!» esclamò bruscamente Igan. Ma poi si accorse che Harvey aveva scoperto il loro segreto.

Mentre tentava di continuare a parlare, Boumour sollevò una mano, facendolo tacere. «Non ha spiegato cosa farà, se noi ci opporremo alla sua decisione.»

«Voi non siete ancora stati trasformati completamente in Cyborg,» disse Harvey. «Per voi è una situazione nuova, state cambiando. Sospetto che siate anche notevolmente vulnerabili.»

Boumour arretrò di tre passi, con lo sguardo che valutava attentamente Harvey. «E Glisson?» chiese.

«Glisson vuole soltanto alleati fidati,» replicò Harvey. «E io gliene sto fornendo uno.»

«Come fa a sapere di potersi fidare di Svengaard?» chiese Igan.

«Il fatto stesso che me lo chieda tradisce il suo essere ancora incompleto come Cyborg,» replicò Harvey. Si girò, iniziò a slegare le mani di Svengaard, si chinò e gli tolse i legacci che gli bloccavano le gambe.

«Vado a vedere se arriva Glisson,» annunciò Igan, e lasciò la stanza.

Harvey si rialzò, guardò in viso Svengaard. «È a conoscenza delle condizioni di mia moglie?» domandò.

«Ho sentito quel che ha detto Igan,» rispose Svengaard. «Ogni bioingegnere deve studiare la storia, e le origini genetiche. Ho una conoscenza accademica dello stato di sua moglie.»

Boumour emise un suono sprezzante.

«Quella è la borsa di Igan,» indicò Harvey a Svengaard. «Mi dica perché mia moglie sta male.»

«Non è soddisfatto della spiegazione datale da Igan?» chiese Boumour. Sembrava addirittura oltraggiato da quel pensiero.

«Ha detto che era naturale,» obiettò Harvey. «Ma come si fa a definire naturale uno stato di malessere?»

«Igan ha somministrato qualcosa a sua moglie,» disse Svengaard. «Sa di cosa si trattava?»

«Era una capsula simile a quella che le ha dato mentre eravamo in viaggio,» rispose Harvey. «Ha detto che si trattava di un tranquillante.»

Svengaard si avvicinò a Lizbeth, ne studiò gli occhi, la pelle. «Mi dia la borsa,» disse, annuendo in direzione di Harvey. Poi guidò Lizbeth fino ad un materasso vuoto, scoprendo di essere affascinato dalla prospettiva di visitare la donna. Fino a poco tempo prima, il pensiero l’avrebbe disgustato; ora, il fatto che Lizbeth portasse l’embrione in grembo, alla maniera antica, lo riempiva di curiosità, come per un grande mistero.

Lizbeth rivolse uno sguardo interrogativo verso il marito, mentre Svengaard la faceva stendere sul materasso. Harvey le rivolse un cenno del capo inteso a rassicurarla. Lizbeth tentò di sorridere, ma era stata assalita da uno strano timore. Non era Svengaard a spaventarla. Le mani del medico erano delicate, gentili. No, era la prospettiva di essere visitata a terrorizzarla. Sentiva che nel suo corpo lo spavento lottava contro la medicina che le aveva somministrato Igan per calmarla.

Svengaard aprì la borsa, ricordando i diagrammi e le spiegazioni contenute negli mnemo-nastri che aveva consultato da studente. A quel tempo, quelle nozioni erano state oggetto di battute goliardiche, ma in quel momento anche queste ultime gli furono d’aiuto, poiché lo aiutavano a concentrarsi sugli elementi essenziali.

Attaccati alla parete, perché se ti capiterà di cascare,

allora sì che dovrai imparare a nuotare!

Nella sua memoria udì la strofetta, e lo scoppio di risa che invariabilmente la seguiva.

Svengaard si dedicò alla visita, escludendo dai propri pensieri ogni altra cosa, tranne se stesso e la paziente. Pressione sanguigna… enzimi… produzione di ormoni… secrezioni corporee…

Poi si rilassò, corrugò la fronte.

«C’è qualcosa che non va?» gli chiese Harvey.

Boumour era in piedi, alle spalle di Harvey. «Sì, ce lo dica,» insisté.

«C’è una quantità sovrabbondante dell’ormone che regola il ciclo mestruale,» li informò Svengaard. Poi pensò, Attaccati alla parete…

«Ma è l’embrione a provocare questi mutamenti,» ribatté sarcasticamente Boumour.

«Sì,» ammise Svengaard. «Ma perché è avvenuto questo squilibrio nella produzione dell’ormone?»

«Ce lo spieghi lei, che è dotato di una conoscenza superiore,» ironizzò Boumour.

Svengaard ignorò il tono derisorio dell’altro. Lo fissò. «L’avete fatto altre volte. Qualche vostra paziente ha sofferto di aborti spontanei?»

Boumour si accigliò.

«Ebbene?» incalzò Svengaard.

«Qualcuna,» ammise controvoglia Boumour.

«Sospetto che l’embrione non sia ben attaccato all’endometrio,» disse Svengaard. «Alla parete dell’utero,» spiegò poi, quando si rese conto che Harvey non aveva compreso. «L’embrione deve fissarsi saldamente alla parete dell’utero, ed è un ormone prodotto durante il ciclo mestruale che controlla il processo.»

Boumour si strinse nelle spalle. «Be’, ci aspettiamo sempre di perdere una certa percentuale di embrioni.»

«Mia moglie non è una certa percentuale,» ringhiò Harvey. Si voltò e scoccò un’occhiata a Boumour che lo costrinse ad arretrare di tre passi.

«Ma queste cose possono sempre succedere,» si difese Boumour. Poi fissò Svengaard, che aveva estratto una siringa a pressione dalla borsa di Igan e la stava preparando. «Cosa sta facendo?»

«Le somministro una leggera dose di enzimi che stimoleranno la produzione degli ormoni di cui abbisogna,» spiegò Svengaard. Diede un’occhiata a Harvey, notando la paura che provava, e la necessità che l’altro aveva di essere rassicurato. «Per il momento, è la cosa migliore che possiamo fare per lei, Durant. Dovrebbe funzionare, se il corpo di sua moglie non ha risentito troppo di questo.» Con un gesto, indicò la loro fuga, la tensione emotiva, la stanchezza.

«Faccia tutto quello che ritiene necessario,» disse Harvey. «So che in ogni caso farà del suo meglio.»

Svengaard praticò l’iniezione, diede un colpetto affettuoso sul braccio di Lizbeth. «Tenti di rilassarsi. Riposi. Non si muova, se può farne a meno.»

Lizbeth annuì. Stava "leggendo" Svengaard, e aveva percepito la sua genuina preoccupazione nei propri confronti. Il suo tentativo di rassicurare Harvey l’aveva commossa, ma era invasa da timori che non riusciva a scacciare.

«Glisson,» sussurrò.

Svengaard intuì i pensieri di Lizbeth, disse, «Non permetterò che nessuno la faccia muovere di qui, prima di essere sicuro che lei si sia ristabilita. Lui e la sua guida dovranno aspettare.»

«Lei non permetterà?» ripeté Boumour in tono ironico.

Come per sottolineare quelle parole, il terreno che li circondava tremò con uno spaventoso brontolio. La polvere penetrò nella stanza dalla stretta entrata e mentre iniziava a ricadere, Glisson si materializzò, come per un qualche trucco da illusionista.

Non appena il terreno aveva iniziato a tremare, Harvey si era buttato al suolo con Lizbeth, coprendola col suo corpo.

Svengaard era ancora chino accanto alla borsa di Igan.

Boumour si era voltato di scatto a fissare Glisson. «Raggi sonici?» sibilò Boumour.

«No,» rispose Glisson. La voce solitamente fredda del Cyborg aveva assunto un tono cantilenante.

«Glisson non ha più le braccia,» fece notare Harvey.

Allora se ne accorsero tutti: dalle spalle del Cyborg, invece delle braccia, pendevano cavi sconnessi, che erano serviti a controllare gli arti di Glisson.

«Sono stati loro a intrappolarci qui dentro,» annunciò il Cyborg, ancora una volta con tono cantilenante, come se qualcosa si fosse rotto all’interno del suo corpo. «Come potete vedere, sono privo di braccia. Non è divertente? Ora avete capito perché non abbiamo mai potuto combatterli apertamente? Quando vogliono, possono distruggere qualunque cosa… chiunque.»

«Igan?» bisbigliò Boumour.

«Quelli come lui sono facili da distruggere,» spiegò Glisson. «Ho assistito all’evento. Accettate la mia parola.»

«Ma cosa faremo?» domandò Harvey.

«Fare?» Glisson lo fissò. «Aspetteremo.»

«Ma uno di voi ha affrontato un’intera squadra della Sicurezza, quando Potter è fuggito,» gli ricordò Boumour. «E adesso tutto quel che sa fare è aspettare?»

«Non sono stato programmato per usare la violenza,» lo informò Glisson. «Vedrete.»

«Cosa ci faranno?» sibilò Lizbeth.

«Tutto quel che vorranno,» replicò Glisson.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

«È fatta,» annunciò Calapine.

Guardò Schruille e Nourse attraverso i prismi riflettenti.

Schruille indicò i diagrammi che erano comparsi sulla parete interna del Globo. «Avete osservato l’emozione di Svengaard?»

«Era davvero terrorizzato,» commentò Calapine.

Schruille increspò le labbra, studiò il riflesso dell’altra Optimate. La visita alla Farmacia le aveva permesso di riacquistare la sua sicurezza interiore, ma sedeva sul trono in preda a una strana tristezza. Il caleidoscopico gioco di luci sulle pareti del Globo conferiva alla sua pelle un aspetto malato. Uno strano rossore aveva invaso i suoi lineamenti.

Nourse diede un’occhiata verso l’alto, ai sensori video: erano tutti accesi, brillavano di un rosso smorto. L’intera comunità di Optimati stava osservando la Tuyere.

«Dobbiamo prendere una decisione,» stabilì Nourse.

«Sembri pallido, Nourse,» commentò Calapine. «Hai qualche problema con i tuoi enzimi?»

«Non più di te,» replicò Nourse in tono difensivo. «Si è trattato di un semplice squilibrio. Ma sta già passando.»

«Ora, io dico: portiamoli qui,» annunciò Schruille.

«A quale scopo?» gli chiese Nourse. «Lo schema della loro fuga ci è ben noto. Perché rischiare che fuggano di nuovo?»

«Mi disturba il pensiero che là fuori ci siano individui fertili non registrati, e dunque non sottoposti al nostro controllo,» rispose Schruille.

«Sei sicuro che riusciremmo a catturarli vivi?» chiese Calapine.

«Il Cyborg ha ammesso che, contro di noi, è impotente,» le ricordò Schruille.

«A meno che non si tratti di un trucco,» intervenne Nourse.

«Non credo,» ribatté Calapine. «E una volta che li avremo portati qui, estrarremo le informazioni di cui abbiamo bisogno direttamente dai loro cervelli.»

Nourse si girò a guardarla. Non riusciva a comprendere cosa fosse successo a Calapine: parlava con l’insensibile brutalità di una femmina della Gente; a causa della violenza a cui aveva assistito, si era trasformata in un demone assetato di sangue.

Ma cosa riuscirà a calmarla? si chiese. Poi fu sconvolto da quel suo stesso pensiero.

«E se sono in possesso di mezzi per auto-distruggersi?» domandò Nourse. «Vi ricordo i casi dell’addetta al computer e di alcuni bioingegneri, che con ogni probabilità erano in combutta con questi criminali. Non siamo riusciti a impedire che si auto-distruggessero.»

«Quanto sei volgare, Nourse,» protestò Calapine.

«Volgare? Io?» Nourse scosse il capo. «Voglio semplicemente evitare ulteriori sofferenze. Distruggiamoli subito, poi rifletteremo sull’accaduto.»

«Glisson è un Cyborg completo,» gli ricordò Schruille. «Riesci a immaginare quante informazioni potremmo apprendere dai suoi banchi di memoria?»

«Io ricordo il Cyborg che scortava Potter,» replicò Nourse. «Non corriamo rischi. La sua docilità potrebbe rivelarsi un trucco.»

«Basterà immettere un narcotico a contatto nella loro attuale prigione,» propose Schruille. «Ecco il mio suggerimento.»

«E come fai a essere sicuro che farà effetto anche sui Cyborg?» obiettò Nourse.

«Certo, potrebbero sfuggirci per la seconda volta,» ammise Schruille. «Ma che differenza fa?»

«Finirebbero in un’altra megalopoli,» disse Nourse. «Non è così?»

«Sappiamo che l’infezione è molto estesa,» spiegò Schruille. «Sicuramente esistevano cellule di congiurati anche qui, nella Centrale. Le abbiamo eliminate, ma le…»

«Io dico di fermarli subito!» esclamò con foga Nourse.

«Sono d’accordo con Schruille,» intervenne Calapine. «Quali rischi correremmo?»

«Prima li fermeremo, prima potremo ritornare alle cose di cui dobbiamo occuparci,» insisté Nourse.

«Ma questa è proprio una di quelle cose,» gli ricordò Schruille.

«Ti stuzzica l’idea di sterilizzare un’altra megalopoli, eh, Schruille?» commentò con amara ironia Nourse. «Quale sarà, questa volta? Che ne dici di Loovil?»

«Una è stata sufficiente,» replicò Schruille. «E poi, in una faccenda del genere, non c’entra nulla ciò che piace o non piace fare.»

«Allora mettiamo la questione ai voti,» decise Calapine.

«Tanto siete due contro uno, vero?» commentò Nourse.

«Calapine intende dire una votazione generale,» spiegò Schruille. Diede un’occhiata ai sensori video. «Ovviamente abbiamo il numero legale.»

Nourse fissò gli indicatori, sapendo di essere in trappola. Non avrebbe osato respingere la proposta di una votazione generale — o di una qualunque votazione — e i suoi due compagni sembravano così sicuri di se stessi. Ma questa è proprio una di quelle cose.

«Abbiamo permesso ai Cyborg di interferire,» disse Nourse, «poiché le loro manovre aumentavano la percentuale di embrioni fertili nel genoma. Lo abbiamo fatto soltanto per distruggerlo?»

Schruille indicò una fila di ologrammi sulla parete del Globo. «Certo, se siamo in pericolo. Ma la vera questione è l’esistenza di individui fertili non registrati, il fatto che probabilmente siano immuni al gas contraccettivo. In quale altro modo avrebbero potuto produrre l’embrione che è stato sostituito a quello dei Durant?»

«In fin dei conti, non abbiamo bisogno di nessuno di loro,» disse Calapine.

«Vuoi distruggerli tutti?» si stupì Nourse. «Tutta la Gente?»

«Sì, per poi allevare una nuova generazione di cloni,» ribatté lei. «E perché no?»

«I cloni non sempre sono di buona qualità,» obiettò Nourse.

«Il nostro potere non ha limiti,» gli ricordò Schruille.

«Il nostro sole non brillerà all’infinito,» replicò Nourse.

«Ci occuperemo del problema a tempo debito,» stabilì Calapine. «Quale ostacolo non possiamo affrontare? Non siamo limitati dal tempo.»

«Eppure siamo sterili,» commentò amaramente Nourse. «I nostri gameti rifiutano di unirsi.»

«Per quanto riguarda me, fanno benissimo,» ribatté Schruille.

«Adesso si tratta di indire una semplice votazione,» disse Calapine. «La questione è semplicemente se dobbiamo catturare e portare qui una piccola banda di criminali. Perché dunque discutere su questioni tanto grandi?»

Nourse fece per parlare, poi ci ripensò. Scosse il capo, fece correre lo sguardo da Calapine a Schruille.

«Ebbene?» chiese quest’ultimo.

«Io penso che il vero problema sia questo piccolo gruppo,» disse Nourse. «Un bioingegnere Steri, due Cyborg e due Fertili.»

«E Durant era pronto a uccidere lo Sterile,» commentò Schruille.

«No,» ribatté Calapine. «Non avrebbe ucciso nessuno.» Improvvisamente, scoprì di essere interessata dal ragionamento di Nourse. Dopo tutto, erano state proprio le sue capacità di ragionamento e la sua logica che l’avevano sempre attratta.

Schruille, vedendola esitare, esclamò: «Calapine!»

«Abbiamo tutti notato l’emozione di Durant,» disse Nourse. Con un gesto, indicò la parete piena di strumenti davanti a lui. «Non avrebbe ucciso nessuno. Stava… istruendo Svengaard, gli stava parlando con la pressione delle mani.»

«Come fa con sua moglie,» disse Calapine. «Ma certo!»

«Tu sostieni che dovremmo far sviluppare una nuova serie di cloni,» disse Nourse. «E da dove prenderemo il materiale genetico? Dagli abitanti di Seatac, forse?»

«Potremmo prendere per prime delle cellule pilota,» propose Schruille, e si chiese come mai fosse stato costretto a mettersi sulla difensiva così improvvisamente. «Io dico di mettere ai voti la proposta. O li portiamo qui per interrogarli a fondo, oppure li distruggiamo.»

«Non ce n’è bisogno,» si arrese Nourse. «Ho cambiato idea. Portateli qui… se ci riuscite.»

«Allora è stabilito,» fece Schruille. Digitò l’ordine su di un bracciolo del trono. «Vedete, è tutto così semplice.»

«Davvero?» commentò ironico Nourse. «E allora perché tutto a un tratto io e Calapine siano diventati tanto riluttanti a usare la violenza? Perché rimpiangiamo i vecchi tempi, quando c’era Max che ci proteggeva da noi stessi?»

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

La Sala del Consiglio non aveva ospitato una simile folla, da quando, trentamila anni prima, si era svolto il dibattito sull’autorizzazione per esperimenti limitati dei Cyborg su individui della loro stessa specie. Gli Optimati occupavano file di banchi in plasmeld, i cui cuscini multicolori provocavano un’iridescenza. Alcuni erano nudi, ma la maggior parte di essi, consci della solennità dell’occasione, erano giunti indossando vestiti di svariate epoche storiche, scelti secondo il capriccio individuale. Si notavano toghe, gonnellini, gonne coperte di trine, perizomi e muu-muu, in una ridda di tessuti e di stili che risalivano fino alla preistoria.

Coloro che non erano riusciti a entrare nella sala, osservavano la scena attraverso mezzo milione di sensori video che luccicavano tutt’intorno le pareti.

Era appena spuntata l’alba, nell’emisfero in cui era ubicata la Centrale, ma nessun Optimate dormiva.

Il Globo di Controllo era stato spostato di lato e i membri della Tuyere occupavano tre scranni all’estremità opposta della sala. I prigionieri erano stati introdotti dagli accoliti in una piattaforma pneumatica. I cinque sedevano sulla piattaforma, immobilizzati all’interno di lastre di plasmeld azzurro che permettevano loro a malapena di respirare.

Quando abbassò lo sguardo su di loro dal suo scranno, Calapine si permise un lieve sorriso, notando le cinque figure imprigionate in maniera tanto crudele. La donna: nei suoi occhi si scorgeva un tale terrore. Il volto di Harvey Durant distorto dall’ira. L’attesa piena di rassegnazione di Glisson e Boumour. Svengaard, invece, aveva l’aria di chi si fosse appena svegliato da un sogno.

Eppure Calapine aveva l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava. Non riusciva a comprendere il motivo, ma si sentiva vuota.

Nourse ha ragione, pensò. Questi cinque criminali sono davvero importanti.

Qualche Optimate seduto ai primi banchi aveva portato con sé un carillon, e la sua fievole melodia argentina poteva essere udita al di sopra del costante brusio che riempiva la sala. Il suono sembrò farsi più forte, mentre gli Optimati iniziavano a far silenzio, pieni d’aspettativa. Il carillon si interruppe a metà della melodia.

La sala era sempre più silenziosa.

Nonostante la paura, Lizbeth si guardò intorno. Prima di quel momento, non aveva mai visto un Optimate in carne e ossa, ma solo sugli schermi che trasmettevano comunicazioni di interesse pubblico (Durante la sua vita, la maggior parte delle volte erano comparsi i membri della Tuyere, sebbene alcuni tra la Gente, più vecchi, menzionassero la Triade Kagiss, che aveva preceduto quella attuale). Gli Optimati le sembrarono così diversi, colorati… e così distaccati. Ebbe la terribile impressione che tutto non fosse accaduto per caso, che trovarsi lì, in compagnia degli altri quattro prigionieri, fosse il risultato di un terribile schema ordito dal Fato.

«Sono completamente immobilizzati,» commentò Schruille. «Non c’è nulla da temere.»

«Eppure sono spaventati,» replicò Nourse. E a un tratto si ricordò un episodio che aveva vissuto durante la gioventù. Era stato invitato a casa di un amante delle antichità, un Edonista, che gli aveva mostrato con orgoglio le sue copie in plasmeld di statue ormai scomparse da millenni: un pesce gigantesco, una figura equestre acefala (dalle linee ardite), un monaco la cui testa era coperta da un cappuccio, e un uomo e una donna avvinti in un abbraccio terrorizzato. Comprese che erano stati i volti di Harvey e Lizbeth ad avergli ricordato quell’ultima statua.

In un certo qual modo, sono i nostri genitori, pensò Nourse. Anche noi discendiamo dalla Gente.

Improvvisamente, Calapine comprese che cosa mancava in quella scena. Non c’era un Max. Sapeva che era scomparso, e per un fuggevole istante si chiese che cosa gli fosse accaduto. Forse era troppo vecchio, non serviva più. Il nuovo Max evidentemente non era ancora pronto.

È strano che Max se ne sia andato in questo modo, pensò. Ma le vite della Gente sono effimere quanto tele di ragno. Un giorno sono lì; le vedi. Quello seguente, sono svanite. Devo ricordarmi di chiedere cosa è successo a Max. Ma sapeva che non l’avrebbe mai fatto. La risposta avrebbe potuto implicare una parola disgustosa, un concetto che l’avrebbe nauseata, seppure celato da un pietoso eufemismo.

«Prestate particolare attenzione al Cyborg Glisson,» dichiarò Schruille. «Non è strano che i nostri strumenti non rilevino in lui alcuna emozione?»

«Forse non ne ha,» osservò Calapine.

«Ah!» esclamò Schruille. «Un’ipotesi assai brillante.»

«Non mi fido di lui,» disse Nourse. «Un mio antenato mi ha raccontato dei trucchi usati dai Cyborg.»

«È sostanzialmente un robot, programmato per reagire nel modo più efficace per proteggere la propria esistenza. La sua attuale docilità è interessante.»

«Il nostro scopo non era quello di interrogarli?» chiese Nourse.

«Tra un istante,» disse Schruille, «metteremo a nudo i loro cervelli, ne estrarremo i ricordi per esaminarli. Ma prima, è meglio studiarli.»

«Sei così volgare, Schruille,» disse Calapine.

Un mormorio d’approvazione si diffuse nella sala.

Schruille lanciò un’occhiata a Calapine. La voce della donna aveva avuto un tono così strano. Scoprì di esserne stato turbato.

Gli occhi del Cyborg Glisson si mossero, valutando freddamente la scena, luccicando a causa delle lenti speciali che ne espandevano la capacità ottica.

«Se n’è accorto anche lei, Durant?» chiese con voce strozzata a causa del plasmeld che l’imprigionava.

Harvey ritrovò la voce. «Io… non… ci credo.»

«Stanno parlando tra loro,» disse Calapine in tono brillante. Fissò Harvey Durant, intravide nei suoi occhi uno sguardo in cui si mescolavano odio e compassione.

Compassione? si chiese.

Un’occhiata al minuscolo ripetitore da polso le confermò che i dati degli strumenti del Globo erano esatti. Compassione. Compassione! Come osa!

«Har… vey,» bisbigliò Lizbeth.

Una rabbia impotente distorse il viso di Harvey. Mosse gli occhi, ma non tanto da riuscire a vederla. «Liz,» sussurrò. «Liz, io ti amo.»

«Questo è il momento dell’odio, non dell’amore,» lo avvertì Glisson, con un tono distaccato che conferiva alle sue parole un’aura di irrealtà. «Dell’odio e della vendetta,» concluse Glisson.

«Cosa state dicendo?» chiese Svengaard. Era rimasto ad ascoltare le loro parole con crescente sbalordimento. Per un po’, aveva pensato di ricordare umilmente agli Optimati che lui era stato catturato, trattenuto contro il suo volere, ma un sesto senso gli disse che sarebbe stato inutile. Per quegli esseri superbi, lui non era nulla: la schiuma di un’onda che si frangeva contro un’alta roccia. E loro erano la roccia.

«Li guardi con l’occhio del medico,» lo esortò Glisson. «Stanno morendo.»

«È vero,» ammise Harvey.

Lizbeth aveva chiuso gli occhi per impedire alle lacrime di sgorgare. Ora li spalancò e fissò le persone intorno a lei, le vide attraverso gli occhi di Harvey e Glisson.

«Stanno davvero morendo,» alitò con un filo di voce.

Gli occhi addestrati di un Corriere non potevano sbagliarsi: la mortalità sul volto degli immortali! Ovviamente Glisson se n’era accorto grazie alla sua tipica capacità da ciberneuta di correlare e produrre ipotesi.

«Qualche volta la Gente sa essere così disgustosa,» si stupì Calapine.

«Non può essere,» obiettò Svengaard con un tono di voce indecifrabile che stupì Lizbeth; la voce era priva di quella disperazione che lei si sarebbe aspettata.

«Ho detto che sono disgustosi!» sbottò Calapine. «Nessuno stupido farmacista dovrebbe avere l’ardire di contraddirmi.»

Boumour riemerse dal suo stato di apatia. Il computer all’interno del suo corpo, la cui logica era ancora aliena per Boumour, aveva registrato e analizzato la conversazione, ricavandone conclusioni significative. Sollevò lo sguardo, e sebbene fosse ancora incompleto come Cyborg, rilevò dalla carne degli Optimati i segni quasi impercettibili che la sua ipotesi era esatta. Era vero! C’era qualcosa che non andava negli immortali. La sorpresa colmò l’animo di Boumour di una vaga sensazione di perdita, come se avesse dovuto manifestare una qualche emozione che non era più in grado di provare.

«Le loro parole,» disse Nourse. «Per me, sono quasi del tutto privo di significato. Cosa stanno dicendo, Schruille?»

«Adesso interroghiamoli sui Fertili,» li esortò Calapine. «E sull’embrione che hanno sostituito a quello dei Durant. È importantissimo.»

«Guardate là, nella fila più in alto,» disse Glisson. «Quell’Optimate alto. Vedete le rughe sul suo viso?»

«Sembra così vecchio,» sussurrò Lizbeth. Stranamente, si sentiva svuotata. Fino a quando fossero esistiti gli Optimati — immutabili, eterni — anche il suo mondo avrebbe poggiato su di un pilastro altrettanto saldo. Anche se si era opposta al loro dominio, Lizbeth aveva sempre avuto quella sensazione. I Cyborg morivano… alla fine. La Gente moriva. Ma gli Optimati continuavano a vivere… per sempre.

«Come è possibile? Che cosa sta succedendo agli Optimati?» chiese Svengaard.

«La seconda fila sulla sinistra,» disse Glisson. «La donna dai capelli rossi. Vedete le occhiaie, lo sguardo vacuo?»

Boumour mosse gli occhi per vederla. Questo gli bastò per constatare la verità delle parole di Glisson.

«Cosa stanno dicendo?» domandò Calapine. «Cos’è questo?» Parlò in tono querulo, perfino alle proprie orecchie. Si sentiva inquieta, afflitta da dolori di cui non avrebbe saputo spiegare la causa.

Un brusio di scontento si alzò dai banchi della sala. Inframmezzate a esso, si poterono udire risatine, esclamazioni di rabbia, risate sguaiate.

Dovevamo interrogare questi criminali, pensò Calapine. Quando cominceremo? Devo essere io a iniziare?

Fissò Schruille, che si era afflosciato sullo scranno e rivolgeva uno sguardo carico d’odio su Harvey Durant. Poi si voltò verso Nourse, notò il suo sorrisetto di superiorità, l’espressione remota dei suoi occhi. Una vena pulsava nel collo di Nourse — non l’aveva mai notata prima; su una guancia spiccava un groviglio di venuzze vermiglie.

Lasciano che sia io a occuparmi della faccenda, pensò poi.

Con uno scatto nervoso delle spalle, toccò il ripetitore da polso. Una luce purpurea invase il globo che era stato spostato ad un lato della sala. Un raggio di luce scaturì dalla sommità della sfera e lambì il pavimento. Si allungò verso i prigionieri.

Schruille osservò la scena. Presto i cinque criminali si sarebbero trasformati in folli creature urlanti, e avrebbero confessato tutto ciò che sapevano agli analizzatori della Tuyere. La loro personalità sarebbe svanita, ridotta a una fascio di fibre nervose, da cui la luce ardente avrebbe assorbito ricordi, esperienze, conoscenze.

«Aspetta!» esclamò Nourse.

Studiò la luce. L’esclamazione aveva interrotto l’avvicinamento del raggio ai prigionieri. Sentiva che stavano commettendo un grosso errore di cui si era accorto soltanto lui, e si guardò intorno nella sala improvvisamente silenziosa, chiedendosi se qualcun altro avrebbe potuto dare un nome a quell’errore. In quel luogo si trovavano le tecnologie segrete su cui si basava il loro dominio, tutto era ordinato, programmato. Ma, in qualche modo, la casualità della Vita si era introdotta nella Sala. Era un errore.

«Perché stiamo aspettando?» chiese Calapine.

Nourse tentò di ricordarlo. Sapeva di essersi opposto all’interrogatorio. Perché?

La sofferenza!

«Non dobbiamo causare sofferenze,» affermò allora. «Dobbiamo dar loro la possibilità di confessare senza esservi costretti.»

«Sono impazziti,» sussurrò Lizbeth.

«E noi abbiamo vinto,» affermò Glisson. «Attraverso i miei occhi, tutti i Cyborg possono assistere alla nostra vittoria.»

«Ci distruggeranno,» gli ricordò Boumour.

«Ma avremo vinto lo stesso,» replicò Glisson.

«Come?» chiese Svengaard. E a voce più alta ripeté, «Come?»

«Potter ha funto da esca, e così abbiamo fatto loro assaporare il gusto della violenza,» spiegò Glisson. «Sapevamo che avrebbero abboccato. Dovevano farlo.»

«Perché?» sussurrò Svengaard.

«Perché abbiamo modificato le condizioni ambientali in cui vivevano,» rispose Glisson. «Piccole cose: un po’ di pressione qua, un inquietante Cyborg là. E abbiamo fatto loro provare il gusto della guerra.»

«Come?» insisté Svengaard. «Come?»

«Istinto,» replicò Glisson. Quella parola fu pronunciata in tono talmente deciso, che fu chiaro che era il risultato di una logica inumana da cui non c’era scampo. «Le guerra, per gli umani, fa parte del loro istinto. La battaglia. La violenza. Ma le menti degli Optimati hanno imparato a controllare quest’istinto — per migliaia di anni. Ah, il prezzo che hanno pagato: stagnazione, apatia, noia. Ora si sono trovati di fronte alla necessità di usare la violenza, ma la loro capacità di adattarsi si è atrofizzata. Di conseguenza, sono sottoposti a squilibri enzimici sempre più gravi, si stanno allontanando sempre più dallo stato di immortalità. Presto moriranno.»

«Guerra?» Svengaard aveva udito le storie su come gli Optimati preservassero la Gente dalla violenza. «Non può essere,» protestò. «Magari si tratta di una malattia sconosciuta o di…»

«Le mie conclusioni sono esatte, fino all’ultimo decimale,» replicò Glisson.

Calapine urlò, «Ma cosa stanno dicendo?»

Aveva udito perfettamente le parole dei prigionieri, ma il loro significato le sfuggiva. Stava pronunciando vere oscenità. La sua mente registrava una parola, poi quella successiva, ma non riusciva a stabilire un legame logico tra esse. Erano soltanto volgarità, della specie peggiore. Scosse Schruille per un braccio. «Cosa stanno dicendo?»

«Tra un istante li interrogheremo e lo sapremo,» rispose Schruille.

«Sì,» disse Calapine. «Voglio la verità.»

«Ma come è possibile?» sussurrò Svengaard. Vedeva una coppia che danzava tra i banchi. Altre coppie si abbracciavano, facevano l’amore. Alla sua destra, due Optimati presero a inveire uno contro l’altro — vicinissimi allo scontro fisico. Svengaard ebbe l’impressione di vedere edifici che crollavano, la terra fendersi e sputare fiamme.

«Li guardi!» incalzò Glisson.

«Ma perché non riescono ad adattarsi a questo… mutamento?» chiese Svengaard.

«La loro capacità di adattamento si è atrofizzata,» ripeté Glisson. «E lei deve rendersi conto che l’adattamento crea esso stesso nuove condizioni di vita, provoca oscillazioni comportamentali sempre più violente. Li guardi! Stanno perdendo il controllo.»

«Fateli tacere!» urlò Calapine. Balzò in piedi, avanzò verso i prigionieri.

Harvey osservò l’Optimate che si avvicinava. Era affascinato e terrorizzato nello stesso tempo. Calapine sembrava aver perso il controllo dei movimenti, di ogni reazione emotiva, tranne la rabbia. I suoi occhi, fissi su Harvey, sprizzavano furore. Un violento tremito le squassava il corpo.

«Tu!» esclamò Calapine, indicando Harvey. «Perché mi fissi così e borbotti? Rispondimi!»

Harvey rimase in silenzio, non a causa della rabbia dell’Optimate, ma per essersi improvvisamente reso conto dell’età di quella donna. Quanti anni aveva vissuto? Trentamila? Quarantamila? Oppure era una degli Optimati originali, e aveva più di ottantamila anni?

«Parla, di’ ciò che vuoi,» gli ingiunse Calapine. «Io, Calapine, te lo ordino. Mostra rispetto e forse sarò misericordiosa.»

Harvey la fissò, ammutolito. Calapine sembrava ignara della baraonda sempre più violenta che si era scatenata nella Sala del Consiglio.

«Durant,» disse Glisson, «deve ricordare che esistono impulsi sotterranei chiamati istinti che dirigono le nostre esistenze come la corrente inesorabile di un fiume. Questo è ciò che chiamiamo cambiamento. Ora ci circonda. Il mutamento è l’unica costante.»

«Ma Calapine sta morendo,» fece notare Harvey.

Quest’ultima non riuscì a comprendere le sue parole, ma fu toccata dalla sfumatura di preoccupazione che percepì nella voce di Durant. Diede un’occhiata al braccialetto che la manteneva in collegamento con gli strumenti del Globo. Preoccupazione! Durant era preoccupato per lei, non per la sua vita o per la sua insignificante compagna!

Si girò, mentre veniva avvolta da una subitanea oscurità, e stramazzò al suolo, con le braccia spalancate verso le file di banchi.

Un risolino crudele sfuggì dalle labbra di Glisson.

«Dobbiamo fare qualcosa per loro,» disse Harvey. «Devono capire cosa stanno infliggendo a loro stessi!»

Improvvisamente, Schruille si riprese, guardò verso la parete opposta della sala, notò che molti dei sensori video, utilizzati dagli Optimati che non erano riusciti ad entrare nella sala, erano spenti. Poi venne allarmato dalla confusione di cui sembravano essere preda i suoi pari. Alcuni degli Optimati stavano andandosene; nel farlo barcollavano, correvano, ridevano…

Ma dovevamo interrogare i prigionieri, pensò Schruille.

Lentamente l’isteria che aveva invaso la sala si impresse sui sensi di Schruille, che guardò Nourse.

Nourse sedeva con gli occhi chiusi, borbottando tra sé e sé. «Olio bollente,» disse poi. «Ma è un sistema troppo rapido. Abbiamo bisogno di una tortura più raffinata, che duri più a lungo.»

Schruille si tese in avanti. «Voglio rivolgere una domanda all’uomo chiamato Harvey Durant.»

«Cosa?» sbottò Nourse. Aprì gli occhi, si sporse in avanti, poi si rilassò.

«La domanda è: cosa sperava di guadagnare dalle sue azioni?» chiese Schruille.

«Molto bene,» approvò Nourse. «Rispondi alla domanda, Harvey Durant.»

Nourse toccò il proprio braccialetto. Il raggio purpureo si avvicinò di un paio di centimetri ai prigionieri.

«Non volevo che moriste,» spiegò Durant. «Assolutamente.»

«Rispondi alla domanda!» latrò Schruille.

Harvey deglutì a vuoto. «Volevo…»

«Volevamo formare una famiglia,» intervenne Lizbeth. Parlò con voce chiara, tranquilla. «Ecco tutto. Volevamo una famiglia.» Iniziò a piangere e si chiese a chi sarebbe assomigliato loro figlio. Senza dubbio nessuno di loro sarebbe sopravvissuto a quella follia.

«Cosa?» si stupì Schruille. «Ma cosa sono queste sciocchezze su una famiglia?»

«Dove avete preso l’altro embrione?» chiese Nourse. «Rispondete e forse ci dimostreremo misericordiosi.» La luce bruciante si avvicinò ancora un po’ ai cinque prigionieri.

«Abbiamo a disposizione degli individui fertili e immuni al gas contraccettivo,» rispose Glisson. «Sono molti.»

«Avete sentito?» esclamò trionfante Schruille. «Ve l’avevo detto.»

«Dove sono?» chiese Nourse. Si accorse che gli tremava la mano destra, la fissò sorpreso.

«Proprio sotto il vostro naso,» replicò Glisson. «Sono mimetizzati tra la popolazione. E non chiedetemi di fornirvi i loro nomi. Non li conosco tutti. Nessuno li conosce.»

«Non ce ne sfuggirà nessuno,» promise Schruille.

«Nessuno!» gli fece eco Nourse.

«Se vi saremo costretti,» annunciò Schruille, «sterilizzeremo tutta la Terra, tranne la Centrale, e ricominceremo da capo.»

«Con che cosa?» ribatté acidamente Glisson.

«Che vuoi dire?» Schruille quasi gridò quella domanda.

«Dove troverete il genoma umano necessario per ricominciare?» chiese Glisson. «Siete sterili, e state per morire.»

«Ci basta di una sola cellula per duplicare l’organismo originale,» gli ricordò Schruille in tono sardonico.

«E allora perché non avete clonato voi stessi?» ribatté Glisson.

«Tu osi rivolgerci delle domande?» trasecolò Nourse.

«Benissimo, allora risponderò io al vostro posto,» disse Glisson. «Avete rinunciato alla clonazione perché è un processo gravido di rischi. I cloni sono instabili, votati all’estinzione.»

Calapine udì soltanto delle parole sconnesse, «Sterili… morire… instabili… estinzione…» Quelle parole terribili si insinuarono nella sua coscienza, occupata a osservare una sfilata di grosse salsicce luminescenti. Erano come semi avvolti da un’aura luminosa che si muovessero contro uno sfondo di velluto di un nero oleoso. Salsicce. Semi. Ma poi li vide non proprio come semi, ma piuttosto come vite incapsulate — avvolte in un bozzolo, protette per affrontare un periodo non favorevole al loro sbocciare. Quel pensiero le rese i semi meno disgustosi. Dopo tutto, erano vita… sempre vita.

«Non abbiamo bisogno del genoma,» dichiarò Schruille.

Calapine udì distintamente quell’affermazione, sentì di essere in grado di leggere i pensieri di Schruille. Le parole di una delle salsicce si impressero sulla sua coscienza: Qui, nella Centrale, siamo milioni. Siamo in numero più che sufficiente. La Gente, la cui vita è breve e futile, è solo un disgustoso relitto del nostro passato. Sono i nostri animali domestici, e noi ora non ne abbiamo più bisogno.

«Ho deciso cosa ne faremo di questi criminali,» disse Nourse. Parlò a voce alta, per farsi udire al di sopra del frastuono sempre più assordante. «Applicheremo loro una stimolazione nervosa, un micron per volta. La loro sofferenza sarà squisita e potrà protrarsi per secoli.»

«Ma avevi detto che non volevi usare la violenza,» gli ricordò Schruille.

«Davvero?» chiese Nourse con voce preoccupata.

Non mi sento bene, pensò Calapine. Ho bisogno di andare in Farmacia. In Farmacia. Quella parola agì da interruttore, riportandola alla piena coscienza. Si accorse di essere sdraiata a terra, di avere il naso dolorante per la caduta, e umido di una qualche sostanza.

«In ogni caso, il tuo suggerimento è notevole,» disse Schruille. «Potremmo ricostruire i loro sistemi nervosi ogni volta, e continuare a punirli per sempre. Un’eterna, squisita sofferenza!»

«Un vero inferno,» gongolò Nourse. «Una punizione appropriata.»

«Sono abbastanza pazzi da farlo sul serio,» gracchiò Svengaard. «Come faremo a impedirglielo?»

«Glisson!» esclamò Lizbeth. «Faccia qualcosa!»

Ma il Cyborg rimase in silenzio.

«Questo non l’aveva previsto, eh, Glisson?» commentò amaramente Svengaard.

Ancora una volta il Cyborg non pronunciò parola.

«Mi risponda!» annaspò Svengaard.

«Il piano era che morissero,» disse Glisson con voce priva di ogni emozione.

«Ma adesso magari sterilizzeranno davvero tutta la Terra, salvo la Centrale, e potranno indulgere nella loro follia in perfetta solitudine,» disse Svengaard. «E noi potremmo essere torturati per sempre!»

«Non per sempre,» lo corresse Glisson. «Stanno morendo.»

Applausi fragorosi scoppiarono verso il fondo della sala. Nessuno dei prigionieri poté girarsi per osservarne la causa, ma quel suono conferì maggiore frenesia a un’atmosfera già caotica.

Calapine si alzò dal pavimento. Il naso e la bocca le pulsavano dolorosamente. Si girò verso la piattaforma, osservò il tumulto alle spalle della macchina. Gli Optimati erano saliti sui banchi per osservare una qualche attività nascosta dalla loro stessa calca. Improvvisamente un corpo nudo fu scagliato al di sopra della folla, roteò nell’aria per poi ricadere con un tonfo orribile. Ancora una volta un applauso fragoroso scosse la sala.

Cosa stanno facendo? si chiese Calapine. Si stanno facendo del male — reciprocamente.

Calapine si passò una mano sulla naso e la bocca, la guardò. Sangue. Ora ne sentiva l’odore allettante. Il proprio sangue. Ne fu affascinata. Si avvicinò ai prigionieri, mostrò la mano a Harvey Durant.

«Sangue,» gli disse. Si toccò il naso. Dolore! «Soffro,» annunciò. «Perché sto soffrendo, Harvey Durant?» Lo fissò negli occhi. Durant la guardava con uno sguardo così addolorato. Lui era un essere umano, provava dei sentimenti.

Harvey continuò a guardarla, i loro occhi quasi allo stesso livello grazie alla piattaforma. Improvvisamente provò per lei una grande pietà. Lei era Lizbeth, Calapine, ogni donna mai vissuta. Si accorse che la donna lo fissava con attenzione spasmodica, in attesa della sua risposta, dimentica di ogni altra cosa.

«Anch’io soffro, Calapine,» disse infine. «E la vostra morte mi farebbe soffrire ancora di più.»

Per un istante, Calapine pensò che il baccano nella sala fosse cessato. Poi comprese che continuava ancora più intenso. Udiva Nourse cantilenare «Bene! Bene!» e Schruille ripetere «Eccellente! Eccellente!» Fu conscia di essere stata l’unica ad aver ascoltato le terribili parole di Durant. Erano parole oscene. Aveva vissuto migliaia di anni tentando di cancellare il concetto stesso di morte individuale. Esso non poteva essere espresso, e neppure pensato. Ma Calapine aveva udito quelle parole. Provò il desiderio di far finta che non fossero mai state pronunciate. Ma un frammento dell’attenzione che aveva concentrato su Durant la costrinse a riflettere sul loro significato. Solo pochi minuti prima, aveva visto come i semi della vita superavano gli eoni. Aveva percepito la presenza di forze, al di fuori di qualsiasi controllo, che potevano agire nel mitocondrio di una cellula.

«La prego,» sussurrò Lizbeth. «Ci liberi. Lei è una donna. Deve provare un po’ di compassione. Cosa abbiamo fatto di male? Desiderare l’amore, la nascita di una nuova vita sono crimini tanto gravi? Non volevamo farvi alcun male.»

Calapine non diede segno di aver udito la supplica. Nella sua mente continuavano a risuonare le parole di Harvey, La vostra morte… la vostra morte… la vostra morte…

Il suo corpo fu assalito da vampate di gelo e di calore. Udì un altro applauso. Si rese conto del malessere che l’aveva assalita, del vicolo cieco in cui era stata intrappolata. Fu invasa dalla rabbia. Si chinò verso i controlli della piattaforma, premette un bottone sotto i piedi di Glisson.

Le lastre da cui era formato l’involucro che imprigionava il Cyborg iniziarono a stringersi. Glisson sbarrò gli occhi ed emise un ansito roco. Calapine ridacchiò, premette un altro bottone. Le lastre ritornarono al loro posto. Questa volta Glisson ansimò di sollievo.

Calapine sfiorò con la mano i controlli dell’involucro di Harvey. «Giustifica subito il tuo imperdonabile comportamento!» ordinò.

Harvey rimase in silenzio, gelato dalla paura. Stava per essere schiacciato come un insetto!

Svengaard iniziò a ridere. Ormai aveva compreso di ricoprire un ruolo di secondo piano in tutta quella faccenda. Non riusciva a immaginare il perché fosse stato scelto per assistere a una scena del genere: Glisson e Boumour apatici e silenziosi, Nourse e Schruille che deliravano sui loro scranni, gli Optimati in preda a una violenza insensata, Calapine pronta a ucciderli tutti, per poi dimenticarsene un istante dopo. La sua risata divenne più forte, più selvaggia.

«Smettila di ridere!» gridò Calapine.

Il corpo di Svengaard tremava, in preda a un attacco di ilarità isterica. Annaspò nel tentativo di riprendere fiato. Poi la voce sferzante di Calapine lo aiutò a riacquistare l’autocontrollo. Ma l’intera situazione rimaneva immensamente comica.

«Pazzo!» lo schernì Calapine. «Dimmi perché stavi ridendo!»

Svengaard la fissò. Ora nei confronti di Calapine provava soltanto della pietà. Ricordò il mare che bagnava Lapush, il luogo in cui andavano a riposarsi i medici, e comprese il motivo per cui gli Optimati avevano edificato la Centrale il più lontano possibile da qualunque oceano. Le onde del mare avrebbero loro ricordato che lottavano contro ben altri flutti: quelli dell’eternità. E gli Optimati erano incapaci di sopportare quel pensiero.

«Rispondimi,» ordinò Calapine. La sua mano era vicinissima ai controlli.

Svengaard si limitò a fissare lei, e la follia che si era impadronita degli Optimati. Ora li comprendeva perfettamente; era come se i loro corpi e le loro menti giacessero aperti davanti al suo sguardo.

Le loro anime hanno una sola cicatrice, pensò Svengaard.

Era stata scavata giorno dopo giorno, secolo dopo secolo, eone dopo eone — il timore sempre più grande che la benedizione dell’immortalità potesse rivelarsi un’illusione, che dopo tutto la loro esistenza privilegiata potesse finire. Fino a quel momento, Svengaard non aveva mai sospettato quale prezzo pagassero gli Optimati per la loro immortalità. Più vivevano, più essa aumentava di valore. Più aumentava di valore, più temevano di perderla. Era un circolo vizioso… e la pressione continuava ad aumentare… per l’eternità.

Ma, prima o poi, si sarebbe raggiunto il punto di rottura. I Cyborg l’avevano intuito, ma la loro logica fredda e inumana aveva fatto sì che fossero stati incapaci di prevedere le vere conseguenze.

Gli Optimati erano sempre vissuti circondandosi di eufemismi. Chiamavano farmacisti i dottori, poiché il termine "dottore" implicava concetti come "malattia", e questo per gli Optimati era impensabile. Per loro esisteva soltanto la Farmacia Centrale, e i suoi innumerevoli Dispensatorii, uno dei quali era sempre a pochi passi da qualsiasi Optimate. Non si allontanavano mai dalla Centrale e dalle sue sofisticate difese. Perpetui adolescenti, continuavano a vivere in un asilo infantile trasformatosi in prigione.

«E così non vuoi dirmelo,» concluse Calapine.

«Aspetti,» disse Svengaard, mentre Calapine avvicinava la mano ai pulsanti che controllavano la sua prigione di plasmeld. «Quando avrete ucciso tutti gli individui fertili, e sarete rimasti soltanto voi, quando vi vedrete morire, allora cosa succederà?»

«Come osi!» sibilò Calapine. «Tu osi interrogare un Optimate, la cui esperienza di vita riduce la tua a questo!» Schioccò le dita.

Svengaard guardò il naso illividito di Calapine, il sangue.

«Optimate,» recitò. «Uno Steri la cui costituzione accetta la modifica enzimica che dona l’immortalità… finché il suo stesso corpo inizia ad autodistruggersi. Io penso che voi vogliate morire.»

Calapine si raddrizzò, gli scoccò un’occhiata rabbiosa. Mentre lo faceva, si rese conto del bizzarro silenzio che all’improvviso era sceso sull’intera sala. Si guardò intorno, vide che tutti gli Optimati la stavano fissando attentamente. Poi ne comprese la causa. Hanno notato il sangue sul mio volto.

«Eravate immortali,» proseguì Svengaard. «Ma questo vi ha reso più brillanti, più intelligenti? No. Avete semplicemente vissuto più a lungo, avendo a disposizione più tempo per educare voi stessi, per vivere numerose esperienze. Molto probabilmente non è servito a nulla, oppure avreste compreso molto tempo fa che questo momento era inevitabile: l’equilibrio infranto, la morte di voi tutti.»

Calapine arretrò di un passo. Le parole di Svengaard erano coltelli brucianti che le ferivano i nervi.

«Guardi se stessa, i suoi pari!» incalzò Svengaard. «Tutti voi state male. E cosa fa il vostro prezioso sistema medico computerizzato? Io lo so, senza bisogno che me lo dica qualcun altro: sta tentando di bilanciare le oscillazioni; è stato programmato per questo. Lo farà finché glielo permetterete, ma questo non vi salverà.»

Qualcuno gridò alle sue spalle, «Fatelo tacere!»

Il grido si diffuse per la sala, divenne un canto assordante. Gli Optimati iniziarono a battere i piedi, a battere i pugni sui banchi. «Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere! Fatelo ta-cere!»

Calapine si coprì le orecchie con le mani. Ma sentiva ancora quel canto, attraverso la pelle. E si accorse che gli Optimati stavano abbandonando le file di banchi per avvicinarsi minacciosamente ai prigionieri. Sapeva che tra qualche istante sarebbe scoppiata una sanguinosa violenza.

Gli Optimati si fermarono.

Calapine non riuscì a comprenderne il motivo e tolse le mani dalle orecchie. Gli Optimati incominciarono a urlare, a invocare i nomi di dèi semi-dimenticati. Gli occhi di tutti stavano fissando una figura riversa al suolo.

Calapine ruotò su se stessa, vide Nourse che si contorceva sul pavimento della sala, con la bava alla bocca. La sua pelle era chiazzata da macchie porpora e gialle. Le mani artigliavano il pavimento.

«Fate qualcosa!» gridò Svengaard. «Sta morendo!» Non appena ebbe pronunciato quell’invocazione, si stupì di averlo fatto. Fate qualcosa! Ma era stata la coscienza di essere un medico a farlo parlare, nonostante tutto quello che era accaduto.

Calapine arretrò, sollevò le mani in un gesto di scongiuro antico quanto la stregoneria. Schruille balzò in piedi sullo scranno, con la bocca che si muoveva senza emettere alcun suono.

«Calapine,» disse Svengaard, «se lei non vuole aiutarlo, mi liberi e lo farò io.»

Calapine si affrettò a ubbidire, estremamente grata di poter scaricare quella tremenda responsabilità su qualcun altro.

Al suo tocco, la lastre di plasmeld che imprigionavano Svengaard rientrarono nella piattaforma. Svengaard saltò a terra, quasi cadde. Aveva le braccia e le gambe che gli formicolavano. Zoppicò verso Nourse, con gli occhi e la mente in frenetica attività. Colorito giallastro — probabilmente una reazione immunitaria all’acido pantotenico unita ad uno squilibrio nella soppressione dell’adrenalina.

Il triangolo rosso che indicava un Dispensatorio della Farmacia luccicava alla sua sinistra, al di sopra delle file di banchi. Svengaard si chinò, raccolse il corpo di Nourse ancora in preda alle convulsioni, iniziò a salire verso il simbolo. Improvvisamente, Nourse si accasciò tra le sue braccia, immobile tranne il leggero sollevarsi del petto.

Gli Optimati si scostarono da lui come se fosse un appestato. Di colpo, qualcuno urlò, «Fatemi uscire!»

La folla si mise a correre. Migliaia di piedi rimbombarono sul plasmeld del pavimento. Gli Optimati si accalcarono davanti le porte, scavalcandosi l’un l’altro, lottando follemente per essere i primi a uscire. Si udivano urla, imprecazioni, grida rauche. Era come se in un recinto di bestiame fosse stato liberato un predatore.

Una parte della coscienza di Svengaard registrò l’immagine di una donna alla sua destra. La superò. La donna giaceva tra due file di banchi, con la schiena ad un angolo assurdo, con la bocca spalancata, gli occhi che fissavano il sangue che le ricopriva le braccia e il collo. Non respirava più. Svengaard superò anche un uomo che si trascinava in avanti, con una gamba inutilizzabile, gli occhi fissi sull’insegna dell’uscita, attorno a cui si ammassavano centinaia di figure frenetiche.

A Svengaard avevano cominciato a far male le braccia. Incespicò, quasi cadde salendo gli ultimi due gradini. Depose il corpo di Nourse sul pavimento accanto al punto di distribuzione.

Dal basso lo stavano chiamando delle voci: Durant e Boumour che gli urlavano di liberarli.

Più tardi, pensò Svengaard. Premette il palmo della mano contro la serratura del Dispensatorio. Le porte rifiutarono di aprirsi. È ovvio, pensò. Io non sono un Optimate. Sollevò Nourse, premette una delle mani di Nourse sulla serratura digitale. Le porte scivolarono via. Dietro di esse si trovava un apparecchio di somministrazione, apparentemente del solito tipo: pirimidini, aneurina…

Aneurina e inositol, pensò Svengaard. Devo compensare la reazione immunitaria.

Il lato destro dell’apparecchiatura era occupato da una familiare console di controllo, con un foro per infilarvi un braccio e gli aghi collegati ai quadranti di misurazione. Svengaard premette alcuni tasti sulla consolle, aprì il pannello. Individuò gli aghi che somministravano aneurina e inositol, bloccò gli altri, posizionò il braccio di Nourse sotto gli aghi, che trovarono le vene, vi affondarono. Le lancette dei quadranti scattarono improvvisamente verso l’alto.

Svengaard interruppe il flusso di sostanze. I contatori ritornarono sullo zero.

Con delicatezza, Svengaard staccò gli aghi dal corpo di Nourse, lo adagiò sul pavimento. Il volto dell’Optimate era soffuso da un pallore mortale, ma il respiro era divenuto più forte. Sbatté le palpebre. Le pelle era fredda, madida di sudore.

È lo choc, pensò Svengaard. Si tolse la giacca, la drappeggiò intorno al corpo di Nourse, iniziò a frizionargli le braccia per riattivare la circolazione.

Calapine apparve alla sua destra, si sedette accanto alla testa di Nourse. Aveva le mani strette a pugno, su cui spiccavano bianchissime le nocche. I lineamenti del volto era incredibilmente nitidi, gli occhi fissavano lontano. A Calapine sembrava di aver percorso una lunga strada, da quando si era rialzata dal pavimento della sala, spinta da ricordi che non poteva cancellare. Sapeva che aveva superato la follia, era conscia di aver raggiunto una sanità mentale stranamente distaccata.

Il rosso Globo di Controllo attirò il suo sguardo: la fonte di un enorme potere, che ancora adesso l’attraeva. Poi pensò a Nourse, tante volte divenuto suo compagno di letto. Compagno e giocattolo.

«Morirà?» chiese e si voltò a fissare Svengaard.

«Non subito,» rispose il medico. «Ma quell’ultimo attacco isterico… ha causato danni irreparabili al suo corpo.»

Svengaard si rese conto che adesso nella sala risuonavano soltanto gemiti sommessi e qualche ordine impartito con voce calma. Erano intervenuti alcuni degli accoliti.

«Ho liberato Boumour e i Durant e ho richiesto altri… medici,» lo informò Calapine. «Ci sono stati dei… morti. Molti sono feriti.»

Morti, pensò poi. Che strano parola, se la si usa per gli Optimati. Morti… morti… morti…

Sapeva che la necessità del momento l’aveva forzata a raggiungere un nuovo stato stato di coscienza. Era accaduto laggiù, sul pavimento, in un diluvio di ricordi frutto di quarantamila anni di esistenza. Nessuno di essi le era sfuggito: né un momento di gentilezza, né un momento di crudeltà. Ricordava tutti i Max Allgood, Seatac… ogni amante, ogni giocattolo… Nourse.

Svengaard udì un suono di passi, si guardò intorno. Boumour lo raggiunse, reggendo tra le braccia una donna priva di sensi. Un lungo livido bluastro le attraversava una guancia e la mascella. Le braccia pendevano dal corpo come bastoncini spezzati.

«Il Dispensatorio funziona ancora?» chiese Boumour. La sua voce era gelida come quella di tutti i Cyborg, ma i suoi occhi avevano uno sguardo sconvolto, spaventato.

«Dovrà ricorrere ai controlli manuali,» lo avvertì Svengaard. «Ho disinserito quelli automatici.»

Boumour gli girò attorno con passo pesante, sempre reggendo la donna, che aveva un aspetto così fragile. Sul collo le pulsava una grossa vena.

«Devo somministarle qualcosa che rilassi i suoi muscoli, fino a che non potremo portarla in ospedale,» spiegò Boumour. «Si è fratturata entrambe le braccia… tensione contromuscolare.»

Calapine riconobbe il volto della donna, ricordò che un tempo avevano avuto una discussione senza importanza su un uomo, un compagno di letto.

Svengaard si spostò e continuò a massaggiare il braccio destro di Nourse. Quello spostamento gli permise di dare un’occhiata alla piattaforma. Impassibile, Glisson sedeva nel suo involucro. Lizbeth giaceva sul pavimento della sala, con il marito inginocchiato accanto.

«Mrs. Durant!» esclamò Svengaard, ricordando l’impegno che si era assunto.

«Sta bene,» lo rassicurò Boumour. «Rimanere immobile è stata la cosa migliore che potesse capitarle.»

La cosa migliore! pensò Svengaard. Durant aveva ragione: questi Cyborg sono insensibili come macchine.

«Fatelo ta-cere,» mormorò Nourse.

Svengaard lo guardò, notò il pallore del viso, le venuzze scoppiate sulle guance, la carne flaccida. Le palpebre di Nourse si sollevarono con uno sforzo enorme.

«Lo lasci a me,» disse Calapine.

Nourse mosse la testa, tentò di guardarla. Sbatté le palpebre: ovviamente aveva qualche problema a mettere a fuoco lo sguardo. Gli occhi iniziarono a lacrimargli.

Calapine gli sollevò la testa, la poggiò sul proprio grembo. Cominciò a carezzargli la fronte.

«Gli piaceva,» spiegò. «Vada ad aiutare gli altri, Dottore.»

«Cal,» gemé Nourse. «Oh, Cal… io… soffro.»

CAPITOLO VENTESIMO

«Ma perché li sta aiutando?» chiese Glisson. «Non la capisco, Boumour. Le sue azioni sono illogiche. A cosa serve aiutarli?»

Sollevò lo sguardo sul segmento aperto del Globo, al cui interno Calapine sedeva sulla piattaforma dei troni della Tuyere, da sola. Le luci emesse dagli strumenti giocavano lente sul suo viso. Un ologramma danzava nell’aria di fronte a lei.

Glisson era stato liberato dalla sua prigione di plasmeld, ma sedeva ancora sulla piattaforma, con i cavi che penzolavano dalle cavità vuote delle braccia. Lizbeth era sdraiata su di una gravi-barella e Harvey le era inginocchiato accanto. Boumour voltava le spalle a Glisson, e guardava all’interno del Globo. Muoveva meccanicamente le dita, flettendole, aprendole. Aveva la parte destra della camicia macchiata di sangue. Il volto dai lineamenti sottili come quello di un elfo aveva un’espressione perplessa.

Svengaard spuntò da dietro il globo, una figura che si muoveva lentamente nella penombra rossastra. Di colpo, la sala si illuminò tutta. I grandi fotoglobi si erano attivati automaticamente non appena, all’esterno, era calato il buio. Svengaard si fermò a controllare le condizioni di Lizbeth, diede una pacca sulla spalla di Harvey. «Non si preoccupi. Sua moglie si riprenderà perfettamente; è una donna forte.»

Gli occhi di Lizbeth lo seguirono mentre si avvicinava al Globo di Controllo e vi guardava all’interno. Le spalle di Svengaard erano curvate per la fatica, ma il suo sguardo era stranamente vivo, quasi raggiante. Svengaard era un uomo che aveva trovato se stesso.

«Calapine,» annunciò il medico, «l’ultimo dei feriti è stato inviato in ospedale.»

«Capisco,» rispose l’Optimate. Guardò i sensori video, tutti attivati. Più della metà degli Optimati erano stati internati, ormai impazziti. Migliaia erano morti. Altre migliaia erano gravemente feriti. I sopravvissuti osservavano il globo. Calapine sospirò, chiedendosi cosa stessero pensando i suoi pari, come affrontassero il fatto di aver perso il fragile dono dell’immortalità. Ma lei stessa provava emozioni che la confondevano. Nel suo petto, provava addirittura uno strano senso di sollievo.

«Schruille?» chiese a Svengaard.

«Schiacciato dalla folla che tentava di uscire,» rispose l’altro. «Lui è… morto.»

Calapine sospirò. «E Nourse?»

«Sta rispondendo alla cure.»

«Non ha ancora compreso cosa vi è accaduto?» le chiese Glisson. I suoi occhi scintillarono quando guardò Calapine.

Calapine lo fissò, parlò scandendo bene le parole, «Abbiamo subito un trauma emotivo che ha alterato il delicato equilibrio ormonale del nostro organismo,» rispose. «E siete stati voi, con un trucco, a provocarlo. Questo è chiaro… e non si può tornare indietro.»

«Allora sa tutto,» dichiarò Glisson. «Ogni tentativo di ritornare al vostro vecchio stato avrebbe come risultato quello di farvi precipitare nella noia e in un’apatia sempre più pronunciata.»

Calapine sorrise. «Sì, Glisson. E noi non lo vogliamo. Ora siamo affascinati da un nuovo tipo di… vitalità, che neppure sospettavamo esistesse.»

«Lei ha davvero compreso,» affermò Glisson con tono lievemente irritato.

«Avevamo spezzato il ritmo della vita,» disse Calapine. «Tutta la vita è dominata dal ritmo, ma noi ci siamo fermati. Immagino che questa fosse la causa di quell’interferenza esterna: il ritmo della vita che si imponeva di nuovo.»

«Bene,» disse Glisson, «prima cederete il comando a noi, prima le cose si aggiusteranno…»

«Il comando a voi?» chiese Calapine con voce piena di disprezzo. Guardò fuori, verso la sala illuminata, dominata da un netto contrasto tra luci e ombre. La separazione era così netta: tutto si riduceva ad un’opposizione bianco/nero. «Preferirei far morire tutti noi.»

«Ma state morendo!»

«Anche voi,» ribatté Calapine.

Svengaard deglutì. Si rendeva conto che l’antica animosità non si sarebbe placata facilmente. E si interrogò su se stesso: un bioingegnere di secondo rango che si era trasformato in un medico che curava coloro che avevano bisogno di lui. Durant aveva ben intuito il suo bisogno che altri avessero bisogno di lui.

«Ho un piano che forse tutti noi potremmo accettare,» affermò Svengaard.

«Io la ascolterò,» rispose Calapine con voce affettuosa. Studiò Svengaard, mentre il medico si sforzava di cercare le parole adatte, ricordando che quell’uomo aveva salvato le vite di Nourse e di molti altri.

Non avevamo fatto alcun piano per questa impensabile eventualità, rifletté. È possibile che questo individuo insignificante, fino a poco tempo fa oggetto della nostra derisione, possa salvarci? Ma non osava sperarlo.

«I Cyborg hanno elaborato tecniche che permettono di tenere sotto controllo le emozioni,» esordì Svengaard. «Una volta che le abbiate imparate, credo di conoscere un modo che permetterà di eliminare gli squilibri enzimici nella maggior parte di voi.»

Calapine deglutì. I sensori video iniziarono a lampeggiare, segno che gli osservatori volevano l’accesso ai canali di comunicazione. Ovviamente desideravano rivolgere delle domande a Svengaard. Anche lei ne aveva, ma non sapeva se sarebbe riuscita a trovare le parole adatte. Colse il riflesso del proprio viso in uno dei prismi, ricordò lo sguardo negli occhi di Lizbeth, quando la donna l’aveva implorata dalla piattaforma.

«Non posso promettervi una vita infinita,» disse Svengaard, «ma credo che molti potranno vivere ancora per molte migliaia di anni.»

«Perché noi Cyborg dovremmo essere d’accordo nell’aiutarli?» chiese Glisson. La sua voce aveva un tono calcolatore, quasi querulo.

«Anche voi rappresentate dei fallimenti!» esclamò Svengaard. «Non lo capisce?» Capì che aveva urlato, spinto dalla sua delusione.

«Non urli in quel modo quando parla con me!» replicò Glisson.

E così anche loro provano delle emozioni, pensò Svengaard. Orgoglio… rabbia…

«Avete ancora l’illusione di controllare la situazione?» domandò Svengaard al Cyborg. Indicò Calapine. «Quella donna lassù potrebbe sterminare ogni non-Optimate della Terra.»

«Ascoltalo, sciocco Cyborg,» intervenne Calapine.

«Non usi troppo la parola "sciocco",» la avvertì Svengaard, fissandola.

«Tenga a freno la lingua, Svengaard,» minacciò Calapine. «La nostra pazienza non è infinita.»

«E neppure la vostra gratitudine lo è, vero?» replicò Svengaard.

Un sorriso amaro sfiorò le labbra di Calapine. «Stiamo discutendo della nostra sopravvivenza,» disse.

Svengaard sospirò. Si chiese se gli schemi mentali creati dall’essere stati immortali avrebbero potuto essere modificati. Calapine aveva parlato come avrebbe fatto il vecchio membro della Tuyere. Ma la sua capacità di adattamento lo aveva già sorpreso altre volte.

Quello scambio di aspre battute aveva risvegliato tutti i timori di Harvey Durant per l’incolumità della moglie. Rivolse uno sguardo furioso su Svengaard e Glisson, tentò di controllare la sua paura, la sua rabbia. Quell’immensa sala gli incuteva soggezione, gli ricordava le scene caotiche che vi erano svolte. Il Globo torreggiava su di lui, una forza mostruosa che avrebbe potuto schiacciarli come insetti.

«Bene, allora parliamo di sopravvivenza,» disse Svengaard.

«Intendiamoci bene,» lo avvertì Calapine. «Tra di noi ci sono alcuni che diranno che il vostro aiuto è semplicemente dovuto. Voi siete ancora nostri prigionieri. Altri pretenderanno che vi sottomettiate e confessiate tutto sull’Associazione Clandestina.»

«Sì, è giusto intendersi alla perfezione,» replicò Svengaard. «Ma chi sono i vostri prigionieri? Io, che non ero un membro dell’Associazione e che so poco su di essa. Avete Glisson, che ne sa molto di più di me, ma di sicuro non è conoscenza di tutto. Boumour, uno dei vostri farmacisti fuggiti, ne sa ancora meno di Glisson. Poi ci sono i Durant, ma loro probabilmente conoscono soltanto la cellula di cui facevano parte, e poco altro. Cosa ci guadagnereste a strapparci con la tortura quel poco che sappiamo?»

«Il suo piano per salvarci,» rispose Calapine.

«Il mio piano richiede cooperazione, non coercizione,» ribatté Svengaard.

«E ci permetterà soltanto di continuare a vivere, e non di ritornare al nostro stato di immortali, non è così?» chiese Calapine.

«Dovreste esserne lieti,» affermò il medico. «Vi darebbe la possibilità di maturare, di dare un senso alle vostre vite.» Con un gesto, indicò la sala. «Qui dentro vi siete rinchiusi in una falsa adolescenza! Vi siete limitati a giocare! Io vi offro la possibilità di vivere!»

È davvero così? si chiese Calapine. Questa nuova percezione della vita è causata dall’essere coscienti che dovremo morire?

«Non sono così sicuro che noi Cyborg coopereremo,» annunciò Glisson.

Harvey ne aveva avuto abbastanza. Balzò in piedi, fissò furioso Glisson. «Tu, robot, vuoi che la razza umana muoia! Proprio tu! Tu, che rappresenti un altro vicolo cieco dell’evoluzione!»

«Stupidaggini!» replicò Glisson.

«Ascoltate,» disse Calapine e fece loro udire frammenti di quello che gli Optimati stavano trasmettendo sui canali di comunicazione. Le voci rimbombarono nella sala: «Possiamo ovviare allo squilibrio enzimico con le nostre sole risorse!»… «Eliminate quelle creature!»… «Qual è il suo piano? Qual è il suo piano?»… «Iniziate la sterilizzazione!»… «…il suo piano?»… «Quanto tempo avremo ancora da vivere se… «Non c’è dubbio sul fatto che possiamo…»

Calapine, premendo un interruttore, interruppe il flusso di voci. «Il suo piano dovrà essere sottoposto al voto di tutti gli Optimati,» disse. «Se lo ricordi, Svengaard.»

«Morirete tutti, e presto, se noi non cooperemo,» ribatté Glisson. «Voglio che questo sia perfettamente chiaro a tutti.»

«Lei conosce il piano di Svengaard?» chiese Calapine.

«Per me, il suo ragionamento è trasparente,» affermò il Cyborg.

«Io penso di no,» disse Calapine. «L’ho visto curare Nourse. Ha manipolato il dispensatore affinché somministrasse un’overdose di aneurina e inostol. Ricordando questo particolare, mi chiedo quanti di noi moriranno nel tentativo di arrestare questo processo che continua nei nostri corpi? Io stessa avrei rischiato di assumere un quantità tale di quelle sostanze? Forse è così che si spiega il senso di euforia che si è impadronito di noi? Dopo aver provato una tale eccitazione, chi di noi vorrà ricadere in uno stato di… noia quasi del tutto priva di emozioni?» Fissò Svengaard. «Queste sono alcune delle domande che volevo farle.»

«Conosco il piano di Svengaard,» ribatté acidamente Glisson. «Mettere sotto controllo le vostre emozioni, e poi impiantare un dispensatore di enzimi nei vostri corpi.» Un lieve sogghigno scoprì una fila di denti sul volto del Cyborg. «È la vostra sola speranza. Ma se accetterete, noi avremo vinto.»

Calapine lo fissò sconvolta.

Harvey fu colpito dal tono meschino e brutale della voce di Glisson. Aveva sempre saputo che i Cyborg erano troppo calcolatori e freddamente logici per poter prendere decisioni puramente umane, ma fino a quel momento non aveva mai avuto una dimostrazione tanto lampante di quella verità.

«È questo il suo piano, Svengaard?» chiese Calapine.

Harvey balzò in piedi. «No! Non lo è!»

Svengaard annuì tra sé e sé. Ma certo! Lui che è umano come me, un padre, ha intuito subito qual è il mio piano.

«Tu affermi di sapere quello che io, un Cyborg, ignoro?» si stupì Glisson.

Svengaard fissò Harvey con espressione interrogativa.

«Gli embrioni,» affermò Harvey.

Svengaard annuì, fissò Calapine. «Io propongo di farvi impiantare in permanenza degli embrioni vivi,» spiegò. «Fungeranno da strumenti di controllo, vi aiuteranno a eliminare i vostri squilibri ormonali. Recupererete le vostre emozioni… l’amore per la vita, l’eccitazione da voi tanto apprezzata.»

«Lei ci propone di trasformarci in vasche viventi per gli embrioni?» chiese Calapine con voce carica di meraviglia.

«Il processo di gestazione potrà essere ritardato per secoli,» aggiunse Svengaard. «Con l’utilizzo di ormoni appropriati, potrà essere applicato anche agli individui di sesso maschile. Chiaramente con loro si dovrà usare il parto cesareo, ma questo non sarà doloroso… né avverrà di frequente.»

Calapine rifletté sulle parole di Svengaard, chiedendosi perché quel suggerimento non l’avesse disgustata. Un tempo, era stata nauseata dal pensiero che Lizbeth Durant portasse un embrione dentro di sé, ma Calapine comprese che la sua ripugnanza era stata mescolata ad invidia. Sapeva che non tutti gli Optimati avrebbero accettato quel metodo. Alcuni avrebbero sperato di poter ritornare al loro vecchio stile di vita. Sollevò lo sguardo verso il circolo dei sensori. Però nessuno era sfuggito a quell’intossicante eccitazione. Avrebbero dovuto rassegnarsi al fatto che tutti morivano… prima o poi. A loro rimaneva soltanto il poter scegliere quando.

Dopo tutto, non possedevamo l’immortalità, ma solo l’illusione di essa. Ma l’abbiamo avuta… per eoni.

«Calapine!» esclamò Glisson. «Lei non starà pensando di accettare questa… assurda proposta?»

Il Cyborg è sconvolto dall’idea di una soluzione escogitata da esseri di carne, pensò Calapine. Poi disse, «Boumour, lei che ne pensa?»

«Sì,» intervenne Glisson, «ci dica la sua opinione, Boumour. Dimostri l’assurdità di questa… proposta.»

Boumour si voltò, studiò Glisson, sbirciò Svengaard, i Durant, sollevò lo sguardo verso Calapine. Negli occhi di Boumour splendeva una conoscenza nota solo a lui. «Ricordo ancora… com’ero,» disse. «Io… penso che stessi meglio… prima di venir modificato.»

«Boumour!» esclamò Glisson.

Boumour lo ha ferito nel suo orgoglio, pensò Svengaard.

Lo sguardo di Glisson si fissò con intensità meccanica su Calapine. «Non è ancora detto che vi aiuteremo!»

«Ma noi non abbiamo bisogno di voi!» dichiarò Svengaard. «Non avete il monopolio delle vostre tecniche. Il vostro aiuto ci farebbe risparmiare un po’ di tempo, ci faciliterebbe il compito, ecco tutto. Ma possiamo trovare da soli gli embrioni che ci servono.»

Glisson fece correre lo sguardo su tutti i presenti. «Ma i miei calcoli non avevano previsto che li avreste aiutati!»

Poi il Cyborg tacque, gli occhi divenuti improvvisamente vacui.

«Dottor Svengaard,» disse Calapine, «sarà in grado di creare altri embrioni fertili come quello dei Durant? Lei ha assistito all’intrusione dell’arginina. Nourse credeva che fosse possibile replicare il fenomeno.»

«Sì, è possibile,» confermò Svengaard. Poi rifletté. «Anzi… è molto probabile.»

Calapine alzò lo sguardo verso i sensori. «Se accettiamo questa offerta,» spiegò, «continueremo a vivere. Capite? Adesso siamo vivi, ma fino a poco tempo fa non lo eravamo veramente.»

«Vi aiuteremo, se proprio dobbiamo,» capitolò Glisson, e la sua voce suonò untuosa.

Soltanto Lizbeth, immersa in uno stato di docilità bucolica provocata dalla gravidanza, accortasi che le sue emozioni si stavano placando, intuì il ragionamento logico che aveva fatto cambiare idea al Cyborg. Gli individui docili potevano essere facilmente controllati. Ecco cosa aveva pensato Glisson. Ora che sapeva che il Cyborg poteva provare orgoglio o rabbia, Lizbeth era in grado di leggere i suoi pensieri con chiarezza stupefacente.

Calapine, rilevando dagli strumenti del Globo un’unica domanda posta da tutti gli Optimati, programmò gli analizzatori per la risposta. Quasi subito essa fu a disposizione, sotto forma di ologramma, per gli osservatori. «Questo processo potrebbe allungare la durata media di una vita da ottomila a dodicimila anni, e questo vale anche per la Gente.»

«Anche per la Gente,» sussurrò Calapine. Sapeva che l’avrebbero scoperto. Ora non avrebbe più potuto esistere un organismo come la Sicurezza. Anche il Globo di Controllo aveva dimostrato di non essere esente da difetti e limiti. Glisson l’aveva sempre saputo. Calapine lo capiva dal suo silenzio. Anche Svengaard se ne sarebbe sicuramente accorto. Forse l’avevano fatto perfino i Durant.

Calapine fissò Svengaard; adesso sapeva cosa doveva fare. In quel momento, sarebbe stato facilissimo perdere totalmente la fiducia della Gente.

«Se decideremo in senso affermativo,» annunciò, «tutti potranno beneficiare del processo — Optimati e membri della Gente.»

Questa è politica, pensò poi. La Tuyere si sarebbe comportata in questo modo… anche Schruille sarebbe stato d’accordo. Specialmente Schruille. Schruille, che era così intelligente. Schruille, che è morto. Ebbe quasi l’impressione di sentirlo ridacchiare.

«Può davvero essere fatto anche per la Gente?» chiese Harvey.

«È possibile farlo per tutti,» rispose Calapine. Rivolse un sorriso a Glisson, facendogli capire che era stata lei a vincere. «Ora penso che possiamo mettere la questione ai voti.»

Ancora una volta, Calapine sollevò lo sguardo verso i sensori video, chiedendosi se avesse previsto correttamente ciò che avrebbe deciso la sua gente. Ovviamente, molti di loro l’avrebbero seguita nel suo tentativo. Alcuni avrebbero sperato di ristabilire un equilibrio completo dei propri enzimi. Lei sapeva che non era possibile; lo sapeva anche il suo corpo. Tuttavia, qualcuno avrebbe potuto decidere di tentare di ripercorrere quella via pericolosa che portava alla noia, all’apatia.

«Il verde significherà che accettate la proposta del Dottor Svengaard,» annunciò Calapine. «Il colore dorato, che siete contrari.»

Lentamente, ma poi con sempre maggiore rapidità, il circolo di videosensori divenne verde… verde… un mare di verde con qualche isolata pagliuzza dorata. Calapine non si era aspettata una vittoria così netta, e questo la rese sospettosa. Lei si fidava del suo istinto. Una vittoria schiacciante. Consultò gli strumenti del Globo, lesse i dati: «Il Cyborg può essere manipolato facendo leva sulla sua fiducia assoluta nell’onnipotenza della logica.»

Calapine annuì tra sé, pensando alla sua follia. E la Vita non può essere manovrata contro gli interessi degli esseri viventi, rifletté.

«La proposta è stata accettata,» annunciò.

E scoprì che non le piaceva l’improvvisa espressione di soddisfazione che era apparsa sul volto del Cyborg. Abbiamo trascurato qualche particolare. Oh, be’, ce ne occuperemo… quando saremo tutti più tranquilli.

Svengaard si girò a guardare Harvey Durant, permise ai muscoli del suo volto di atteggiarsi in un ampio sorriso. Era stato come intervenire su di un embrione: una piccolissima modifica, da cui sarebbe scaturito l’intera schema di sviluppo. E si poteva agire in questo modo anche nella realtà.

Harvey rifletté sul sorriso di Svengaard, intuì dal volto dell’uomo i suoi pensieri. Istantaneamente, fu in grado di leggere tutti i volti di coloro che lo circondavano, grazie al proprio addestramento di Corriere. Si era creata una situazione di stallo tra i potenti. La Gente avrebbe avuto una possibiltà — per migliaia di anni, se si doveva credere a Calapine, e lei di sicuro ci credeva. Comprese che l’ambiente genetico era mutato, aveva assunto un nuovo schema: indefinito, indeterminato. A Heisenberg sarebbe piaciuto. Coloro che muovevano le pedine erano stati mossi a loro volta… e cambiati da quella mossa.

«Quand’è che Lizbeth e io potremo andarcene?» chiese allora.

FINE