Federico Moccia.

Ho voglia di te.

Capitolo 1.

"Voglio morire." Questo è quello che ho pensato quando sono

partito. Quando ho preso l'aereo, appena due anni fa. Volevo farla

finita. Sì, un semplice incidente era la cosa migliore. Perché

nessuno

avesse colpe, perché io non dovessi vergognarmene, perché nessuno

cercasse un perché... Mi ricordo che l'aereo ha ballato per tutto

il viaggio. C'era un temporale e tutti erano tesi e spaventati. Io

no.

Io ero l'unico a sorridere. Quando stai male, quando vedi nero,

quando

non hai futuro, quando non hai niente da perdere, quando... ogni

istante è un peso. Immenso. Insostenibile. E sbuffi in

continuazione.

E vorresti in tutti i modi liberartene. In qualsiasi modo. Nel più

semplice, nel più vigliacco, senza rimandare a domani di nuovo

questo

pensiero: lei non c'è. Non c'è più. E allora, semplicemente,

vorresti

non esserci più anche tu. Sparire. Puff. Senza troppi problemi,

senza dare fastidio. Senza che qualcuno si preoccupi di dire: "Oh,

ma hai saputo? Sì, proprio lui... Non sai che fine ha fatto...".

Sì, quel

tipo racconterà la tua fine, ricca di chissà quali e quanti

particolari,

si inventerà qualcosa di assurdo, come se ti conoscesse da sempre,

come se solo lui avesse sempre saputo veramente quali erano i tuoi

problemi. Che strano... Quando magari non hai fatto in tempo a

capirlo

neanche tu. E non potrai fare più niente contro quel gigantesco

passaparola. Che palle. La tua memoria sarà vittima di uno stronzo

qualsiasi e tu non potrai farci niente. Ecco, quel giorno avrei

voluto

incontrare uno di quegli strani maghi. Mettono un mantello su

una colomba appena apparsa e, puff, improvvisamente lei non c'è

più. Non c'è più e basta. E tu esci soddisfatto da quello

spettacolo.

Magari hai visto delle ballerine un po' più grasse del dovuto, sei

stato

seduto su una di quelle sedie antiche, un po' rigide, in una sala

ricavata

alla meno peggio da qualche scantinato. Sì, c'era anche odore

di muffa e di umido. Ma una cosa è certa. Che fine ha fatto quella

colomba tu non te lo chiederai mai più. Invece no. Noi non

possiamo

sparire così facilmente. E passato del tempo. Due anni. E ora

sorseggio una birra. E ricordandomi quanto avrei voluto essere

quella

colomba, sorrido e un po' me ne vergogno.

"Ne vuole un'altra?"

Uno steward mi sorride fermo vicino al suo carrello delle bibite.

"No, grazie."

Guardo fuori dal finestrino. Nuvole tinte di rosa si lasciano

attraversare.

Morbide, leggere, infinite. Un tramonto lontano. Il sole

che fa un ultimo occhiolino. Non riesco a crederci. Sto tornando.

A 27. Questo è il mio posto sull'aereo. Fila a destra subito dopo

le ali, corridoio centrale. E sto tornando. Una bella hostess mi

sorride di nuovo mentre mi passa vicina. Troppo vicina. Sembra

mandata dai Nirvana: "If she comes down now, oh, she looks so

good...". Ha un profumo leggero, una divisa perfetta, una camicia

appena trasparente tanto da farti apprezzare quel reggiseno di

pizzo.

Va su e giù per l'aereo, senza problemi, senza preoccupazioni,

sorridendo. "If she comes down now..."

"Eva è un bellissimo nome."

Grazie.

"Lei è un po' come la prima Eva, lei mi tenta..."

Rimane per un attimo in silenzio a fissarmi. La tranquillizzo.

"Ma è una tentazione lecita. Posso avere un'altra birra?"

"Ma è la terza..."

"E certo, se continua a passare così... Io bevo per dimenticarla."

Sorride. Sembra sinceramente divertita.

"Ma conta sempre quello che bevono tutti, o sono io che le sono

rimasto particolarmente impresso?"

"Decida lei. Sappia che è l'unico che ha chiesto una birra."

Se ne va. Ma prima di andarsene sorride di nuovo. Poi rimbalza

allegramente mentre si allontana. Mi sporgo un po'. Gambe

perfette,

calze pesanti, contenitive, velate scure, scarpe serie di serie

come le altre. I capelli tirati su, una coda doppia con qualche

intreccio

di troppo, di un biondo leggermente mesciato. Si ferma. La

vedo parlare con un signore della mia stessa fila ma un poco più

avanti. Ascolta le sue richieste. Annuisce semplicemente, senza

parlare.

Poi dice qualcosa ridendo e lo tranquillizza. Si gira un'ultima

volta verso di me prima di andare via. Mi guarda. Occhi verdi. Una

linea leggera. Una sfumatura alta color ebano e un po' di

curiosità.

Allargo le braccia. Questa volta sono io a sorriderle. Il signore

dice

ancora qualcosa. Lei risponde in maniera professionale e poi si

allontana.

"Molto carina quella hostess."

La signora vicino a me entra disordinata tra i miei pensieri.

Attenta

e sorridente, occhio furbetto dietro occhiali spessi.

Cinquant'anni

portati bene, non come i suoi due orecchini, troppo

grandi, proprio come quell'azzurro pesante sulle palpebre.

"Sì, gnocca."

Cosa?

"È una gnocca. Noi a Roma diciamo così di una hostess come

quella." Veramente diciamo molto di più ma non mi sembra il caso.

"Gnocca..." scuote la testa. "Mai sentito."

"Gnocca, come no... A volte, bella gnocca. È un'espressione

simpatica rubata alla pasta. Ha presente gli gnocchi, no?"

"Eh, come no. Quelli li ho sentiti e mangiati un sacco di volte."

Ride divertita.

"Ecco, e le sono piaciuti?"

"Da morire."

"Vede, allora è facile. Quando a una ragazza le si dice che è

gnocca, vuol dire che è 'buona' come quelli che ha mangiato lei."

"Sì, ma mi fa ridere pensarla come uno gnocco. Mi sa di... come

si dice... ecco: goffo!"

"E no! Lei deve pensare a quegli gnocchi con sopra il sugo caldo,

quel pomodoro dolce, quelli che si sciolgono in bocca, quasi si

incollano tanto che la lingua poi li deve staccare dal palato."

"Sì, insomma ho capito. A lei piacciono da morire gli gnocchi."

"Abbastanza."

"Li mangia spesso?"

"A Roma molto spesso. A New York non ho mai mangiato italiano,

che ne so, così, per principio."

"Strano, dicono che ci sono un sacco di ristoranti italiani

buonissimi.

Oh, ecco, sta tornando la... 'gnocca'."

La signora ride divertita e indica la hostess che arriva

sorridente

con il bicchiere di birra. Sembra quasi una pubblicità talmente è

bella.

"Glielo dica che è una gnocca, vedrà che le fa piacere."

"No, lei mi prende in giro."

"Ma no, le assicuro che è un complimento."

"Allora, glielo faccio?"

"E glielo faccia."

La hostess arriva, mi porge un piccolo vassoio con il bicchiere

sopra un centrino di carta.

"Ecco qua la sua birra. Non gliene posso servire altre perché

stiamo per atterrare. "

"Non glielo avrei chiesto. Sto iniziando a dimenticarla. Anche

se non è facile. "

"Ah sì... Be', grazie."

Assaggio la birra.

"È buonissima, grazie, perfetta, fredda al punto giusto. Portata

da lei poi, sembra proprio quella birra della pubblicità."

"Ma mi tolga una curiosità, qual è la prima cosa che

dimenticherà?"

"Forse com'era vestita..."

"Non le piace la nostra divisa?"

"Molto. È che la immaginerò in maniera diversa..."

Mi guarda un po' perplessa, ma non le lascio il tempo di

rispondere.

"Si ferma molto a Roma?"

"Qualche giorno... Settembre a Roma è il massimo. Voglio andare

in giro e fare un po' di shopping. Magari troverò qualcosa per

non essere dimenticata."

"Oh, ne sono sicuro. Troverà dei vestiti perfetti per lei. Perché

lei è... come posso dire... come si dice?"

Mi giro verso la signora seduta accanto a me.

"Mi aiuti lei."

La signora sembra un po' timorosa, poi si butta: "Lei è... una

gnocca!".

La hostess la guarda perplessa per un attimo, poi guarda me.

Alza il sopracciglio e all'improvviso scoppia a ridere. Meno male.

È andata. Rido anch'io.

"Oh, brava signora, è proprio quello che avrei detto anch'io!"

La hostess di nome Eva si allontana scuotendo la testa.

"Allacciate le cinture per favore."

La sua coda alta si muove perfetta come tutto il resto. Perfetta

come le ali di una farfalla. Una farfalla da prendere. C'era un

pezzo

che mi faceva impazzire negli States, un pezzo inglese di qualche

anno

fa... "I'm gonna keep catching that butterfly..." I Verve. Cerco

di

ricordarla tutta. Non ci riesco. Una voce arriva a distrarmi. La

signora

sta armeggiando con qualcosa. E non lo fa in silenzio.

"Uffa, non riesco mai a trovare la cintura in questi aerei."

Aiuto la signora che ci si è letteralmente seduta sopra.

"Eccola qua, signora, sta qui sotto."

"Grazie, anche se non riesco a capire a cosa possa servire. Mica

ce la fa a tenerci fermi."

"Ah, quello no, di sicuro."

"Sì, insomma... Dico, se sbattiamo, non è mica come stare in

macchina. "

"No, come stare in macchina proprio no... È nervosa?"

"Da morire." Mi guarda e quasi si pente di aver usato

quell'espressione.

"Tanto, signora, se è destino è destino."

"Che vuol dire?"

"Quello che ho detto."

"Sì, ma cosa ha detto?"

"Ha capito benissimo."

"Sì, ma speravo di non capire. Ho il terrore degli aerei."

"Non si era capito." La vedo così preoccupata, mi sorride muovendo

le labbra, salivazione azzerata. Sorseggio la mia birra, e decido

di divertirmi.

"Pensi che la maggior parte dei disastri aerei avviene alla

partenza

oppure..."

"Oppure?..."

"All'atterraggio. Cioè fra poco."

"Ma che sta dicendo?"

"La verità, signora, bisogna sempre dire la verità."

Bevo un lungo sorso di birra, mentre con la coda dell'occhio

mi accorgo che mi guarda fissa.

"La prego, mi dica qualcosa."

"E signora, cosa vuole che le dica?"

"Mi distragga, non mi faccia pensare a quello che potrebbe..."

Mi stringe più forte la mano.

"Mi fa male."

"Ah, mi scusi." Allenta un po', ma non molla. Comincio a

raccontarle

qualcosa. Pezzetti della mia vita un po' confusi, così come

vengono.

"Allora, vuole sapere perché sono partito?" La signora annuisce.

Non riesce a parlare. "Guardi che è una storia lunga..." Fa cenno

di sì con più vigore, vuole solo ascoltare, qualunque cosa pur di

essere un po' distratta. Mi sembra di parlare con un amico, con il

mio amico... "Si chiamava Pollo, ecco. Strano nome, vero?" La

signora

non sa se deve dire sì o no, qualunque cosa purché io continui

a parlare. "Ecco, è l'amico che ho perso più di due anni fa. Stava

sempre insieme alla sua ragazza, Pallina. Una persona troppo

forte, occhi vispi, sempre allegri, fortissima, dalla battuta

facile e

pungente..." Ascolta in silenzio, occhi curiosi, quasi rapiti

dalle mie

parole. Che strano... Con una persona che non conosci a volte ti

trovi meglio, ti racconti più facilmente. Ti apri sul serio. Forse

perché

non ti interessa il suo giudizio. "Io invece stavo con Babi, che

era la migliore amica di Pallina." Babi. Le racconto tutto... Come

l'ho conosciuta, come ho iniziato a ridere, come mi sono

innamorato,

come mi è mancata... La bellezza di un amore la vedi perfettamente

solo quando lo hai perso. Forse si sta così quando si va in

analisi. È una cosa che mi sono sempre domandato. Ma con quelli

lì, si riesce veramente a essere del tutto sinceri? Dovrò

chiederlo

a qualcuno che ci è stato. Penso mentre parlo. Piccole pause ogni

tanto. La signora divertita e curiosa subito ci si infila, più

tranquilla

ora, mi ha lasciato perfino la mano. Ha dimenticato la tragedia

dell'aereo.

Ora, secondo lei, si occupa della mia.

"E questa Babi, l'ha più sentita?"

"No. Ogni tanto ho sentito mio fratello. E mio padre qualche

volta. Ma non troppo spesso, le telefonate da New York costano

una cifra."

"Si è sentito solo?"

Le racconto qualcosa di vago. Non riesco a dirlo. Mi sentivo meno

solo che a Roma. Poi inevitabilmente accenno a mamma. Ci cado

dentro e quasi mi diverte offendere i principi di quella donna.

Mia madre ha tradito mio padre. Io l'ho beccata con quello che

abitava

di fronte a noi. Quasi non ci crede. La notizia l'ha messa

totalmente

a suo agio. L'aereo? Neanche si ricorda che sta in aereo. Mi

fa mille domande... Non faccio quasi in tempo a starle dietro.

Come

mai piace così tanto sguazzare nelle cose degli altri? Argomenti

piccanti,

particolarità vietate, atti quasi oscuri o peccati piacevoli.

Forse

perché così, solo ad ascoltarli, non ci si sporca. La signora

sembra

godere e soffrire del mio racconto. Non capisco se è vero, né mi

interessa. Le dico tutto e senza problemi. La mia violenza

sull'amante

di mamma, i miei silenzi a casa, non aver mai svelato niente a mio

padre e a mio fratello. E poi il processo. Mia madre seduta lì, di

fronte

a me. Lei in silenzio, lei che non ha avuto il coraggio di

ammettere

quello che aveva fatto. Lei che non è riuscita a barattare il suo

tradimento

per giustificare la mia violenza. E io lì, sereno, quasi a ridere

del giudice che mi incolpava di un atto per me così naturale:

massacrare uno stronzo che ha violato il ventre della donna che mi

ha generato. La signora mi guarda a bocca aperta. Signora, guardi

che lo possiamo dire in mille modi... Ma un conto è scherzare come

ha fatto Benigni quando è saltato sulla Carrà. Qui invece si

trattava

di mia madre. La signora se ne rende conto. Improvvisamente torna

seria. Silenzio. Allora cerco di sdrammatizzare.

"Come direbbe Pollo, a me Beautiful mi fa una pippa! "

Invece di scandalizzarsi lei ride, ormai è complice: "E poi?" mi

chiede curiosa della prossima puntata. E io continuo a parlare

senza

problemi, senza canone. Il mio racconto non ha prezzo. Le spiego

il perché dell'America, il voler andar via, nascosto in un corso

di

grafica, laggiù... "E siccome è facile incontrarsi anche in una

grande

città... meglio cambiarla del tutto. Solo nuove realtà, nuove

persone,

e soprattutto nessun ricordo. Un anno di chiacchiere difficili in

inglese,

aiutate dalla presenza di qualche italiano incontrato casualmente.

Tutto molto divertente, una realtà piena di colori, musica,

suoni, traffico, feste, novità. Tutto un gran rumore foderato di

silenzio.

Niente di quello che la gente ti diceva aveva a che fare con lei,

poteva richiamarla, ridarle vita. Babi. Giornate inutili per far

riposare

il mio cuore, il mio stomaco, la testa. Babi. Impossibilità totale

di tornare indietro, di essere in un attimo sotto casa sua, di

incontrarla

per strada. Babi. A New York non c'è pericolo... A New York

non c'è spazio per Battisti. "E se ritorni nella mente basta

pensare

che non ci sei che sto soffrendo inutilmente perché so, io lo so,

io so

che non tornerai. " Falsi accordi per cercare di evitare tutti i

posti che

conosce e frequenta anche lei, Babi. La signora sorride.

"La conosco anch'io quella canzone." Canticchia malamente

qualcosa.

"Sì, è proprio quella." Cerco di dare un taglio a quell'esibizione

da Corrida.

Ma mi salva l'aereo. Sta-tup. Un rumore secco, metallico. Un

movimento duro e un piccolo sussulto dell'aereo.

"Oddio e che è?" La signora si avventa sulla mia mano destra,

l'unica libera.

"È il carrello, non si preoccupi."

"Ma come non mi preoccupo! E fa tutto questo rumore? Sembra

che si è staccato..."

Poco lontano la hostess e gli altri membri dell'equipaggio

prendono

posto sulle poltrone libere e qualche strano posto laterale vicino

alle uscite. Cerco Eva, la trovo, ma non guarda più dalla mia

parte. La signora cerca di distrarsi da sola. Ci riesce. Molla la

mia

mano in cambio di un'ultima domanda.

"Perché è finita?"

"Perché Babi si è messa con un altro. "

"Ma come? La sua ragazza? Con tutto quello che mi ha raccontato?"

Quasi si diverte più lei ora a mettere il dito nella piaga.

L'aereo

e il suo atterraggio sono passati in second'ordine. E mi tempesta

di

domande fino all'ultimo anzi, presa dalla foga, è passata al tu. E

va

giù diretta. Da quando l'hai lasciata, hai più fatto l'amore con

un'altra

donna? E ancora giù in picchiata, come gli Stukas di quei cartoni

animati, Linus il barone rosso. Ci torneresti insieme? Pazienza

e le sue sparatorie. Perdonare è possibile? Ne hai parlato con

qualcuno? O la birra ha fatto effetto o è lei e le sue domande che

mi fanno girare la testa. O il dolore di quell'amore non ancora

dimenticato.

Non capisco più nulla. Sento solo il rullare del motore

dell'aereo e la turbina al contrario in fase di atterraggio. Ecco,

ho

un'idea, posso salvarmi da questo interrogatorio...

"Guardi le luci della pista. Non ce la possiamo fare" le dico

ridendo,

di nuovo padrone del gioco.

"Oddio, è vero, eccole..." Guarda dal finestrino spaventata

l'aereo

e le sue ali che quasi sfiorano terra e ondeggiano indecise. Con

un guizzo da vecchia pantera, mi afferra la mano destra al volo.

Guarda

di nuovo fuori. Ancora un ultimo istante, si butta con la testa

nella

poltrona, spinge con le gambe in avanti quasi volesse frenare lei

con i suoi piedi. Mi stampa le unghie nella carne della mano. Con

qualche morbido rimbalzo l'aereo tocca terra. Subito le turbine

dei

motori girano al contrario, quell'enorme massa di acciaio trema

impazzita

con tutte le sue poltrone, signora compresa. Ma lei non si dà

per vinta. Stringe gli occhi e trema prendendosela con la mia

mano.

"Il comandante informa che siamo arrivati a Roma Fiumicino.

La temperatura esterna..."

Un tentativo di applauso si alza dal fondo dell'aereo spegnendosi

quasi subito. Non è più di moda.

"Be', ce l'abbiamo fatta."

La signora sospira: "Grazie a Dio!".

"Magari ci incontreremo un'altra volta."

"Oh sì, mi ha fatto molto piacere parlare con te. Ma sono tutte

vere quelle cose che mi hai raccontato?"

"Come è vero che lei mi ha stretto la mano." Le mostro la destra

e il segno delle unghie.

"Oh, quanto mi dispiace."

"Non fa nulla."

"Dia qui."

"No, sul serio, è tutto a posto."

Qualche telefonino comincia a squillare. Sorrisi e tranquillità

del dopo atterraggio. Quasi tutti aprono le cappelliere sopra i

loro

posti e tirano giù pacchi di regali portati dall'America, più o

meno

qualcosa di inutile, pronti a mettersi in fila e guadagnare

l'uscita il

prima possibile. Dopo le ore immobili nell'aereo, dove si è

costretti

a fare un bilancio degli anni passati fino a quel momento, si

ritorna

alla fretta del non pensare, ai falsi pensieri, alla corsa verso

l'ultimo

traguardo.

"Arrivederci." "Grazie, buonasera." Hostess più o meno carine

salutano all'uscita dell'aereo. Eva, con fare professionale e un

sorriso stampato, saluta tutti, perfetta.

"Grazie delle birre. "

"Dovere." Mi sorride più naturale, forse.

"Se hai dei problemi..." le lascio un bigliettino.

Lo guarda perplessa: c'è il mio numero di Roma.

"È stato il mio esame al corso di grafica."

"È andato bene?"

"Erano tutti molto soddisfatti. Hanno trovato geniale dividerlo

in bianco e azzurro."

"Carino."

Se lo mette in tasca. Non ho rischiato a dirle che sono della

Lazio.

Poi scendo dalla scala.

Tiepido vento. Settembre. Tramonto, sono appena le otto e

mezzo. In perfetto orario. È bello camminare di nuovo dopo aver

volato per otto ore. Saliamo sul pulmino. Guardo la nostra

compagnia.

Qualche cinese, un robusto americano, un giovane che non

ha smesso di ascoltare uno di quei Samsung YP-T7X da 512 MB che

avevo visto anche a New York. Due amiche in vacanza che non

parlano

più, sature forse della lunga convivenza. Una coppia innamorata.

Ridono, si dicono sempre qualcosa di più o meno utile, si fanno

degli scherzi. Li invidio, o meglio, mi piace guardarli. La mia

compagna di viaggio, la signora cicciotta che ormai sa tutto della

mia vita, mi si avvicina. Mi guarda sorridendo come a dire: "Ce

l'abbiamo fatta, eh?". Annuisco. Quasi mi pento di averle

raccontato

tanto. Poi mi tranquillizzo. Non la vedrò mai più. Controllo

passaporti. Qualche cane lupo tenuto a bada passeggia nervosamente

su e giù cercando un po' di coca o d'erba. Cani a rota

insoddisfatti

ci guardano con gli occhi buoni, strafatti per tenersi in

allenamento. Un poliziotto apre distrattamente il mio passaporto.

Poi ci ripensa, gli sfugge una pagina, la recupera e guarda con

più

attenzione. I miei battiti accelerano un poco. Niente. Non gli

interesso.

Me lo rida, lo richiudo e lo metto nello zaino. Recupero il

mio bagaglio. Esco libero, di nuovo a Roma. Sono stato due anni

a New York e mi sembra di essere partito ieri. Cammino veloce

verso

l'uscita. Incrocio gente che trascina valigie, un tipo corre

affaticato

verso un aereo che forse perderà. Al di là delle transenne parenti

aspettano qualcuno che non arriva. Ragazze belle e ancora

abbronzate

d'estate sono in attesa del loro amore o quello che è stato.

Con le braccia conserte, passeggiando o ferme, con gli occhi

agitati o tranquilli, comunque aspettano. "Taxi, che le serve un

taxi?" Un finto tassinaro mi corre incontro fingendosi onesto: "Le

faccio un buon prezzo". Non rispondo. Capisce che non sono un

buon affare e lascia perdere. Mi guardo in giro. Una signora

bella,

elegante, con un vestito chiaro e dell'oro leggero al collo, tiene

tranquillo

il suo sguardo sulla mia rotta. È bella. Le sorrido. Lei accenna

a una risposta minima che però contiene tutto. Tradimento,

vorrei ma non posso, la sua voglia di libertà. Poi guarda altrove,

rinunciando.

, Continuo a guardarmi in giro. Niente. Che stupido. Ma

certo. Cosa mi aspettavo? Chi sto cercando? È per questo che sei

tornato? Allora non hai capito niente, non hai ancora capito

niente.

Mi viene da ridere sentendomi un cretino.

"Dovrebbe essere arrivato..."

Nascosta dietro una colonna, in silenzio ma con il cuore a mille,

parla sottovoce a se stessa. Forse per coprire il rumore del suo

cuore, che in realtà sta battendo a duemila. Poi prende coraggio.

Un respiro lungo e lentamente si affaccia. "Eccolo. Lo sapevo, lo

sapevo!" Quasi "salta" con i piedi per terra.

"Non ci posso credere... Step. Lo sapevo, lo sapevo, ero sicura

che tornava oggi. Non ci posso credere. Mamma mia, certo che è

dimagrito un sacco. Però sorride. Sì, mi sembra che stia bene.

Sarà

felice? Magari è stato bene fuori. Troppo. Ma che, sono cretina?

Mi

faccio prendere dalle gelosie. Ma che diritto ne ho poi?

Nessuno...

E allora? Mamma, come sto messa. Sul serio, sto troppo male,

troppo.

Cioè, io sono troppo felice. Troppo. È tornato. Non ci posso

credere. Oddio, sta guardando verso di me! "

Si nasconde subito di nuovo dietro la colonna. Un sospiro. Chiude

gli occhi stringendoli forte. Resta appoggiata con la testa al

freddo

marmo bianco, con le mani stese contro la colonna. Silenzio.

Respiro lungo. Fiuuuuu. Inspirare... Fiuuuuu. Espirare... Riapre

gli

occhi. Proprio in quel momento passa un turista che la guarda

perplesso.

Lei accenna un sorriso per cercare di fargli sembrare che

sia tutto normale. Ma non lo è. Non ci sono dubbi.

"Cavoli, mi ha visto, me lo sento. Oddio, Step mi ha visto, lo so.

"

Si riaffaccia. Nulla. Step è passato come se nulla fosse.

"Ma certo, che cretina. E poi, se anche fosse?"

Eccomi qui. Sono tornato. Roma. Fiumicino, per l'esattezza.

Cammino verso l'uscita. Attraverso le porte a vetri ed esco sulla

strada. Davanti ai taxi. Ma proprio in quel momento provo una

strana sensazione . Mi sembra che qualcuno mi stia osservando. Mi

giro di botto. Niente. Non c'è niente di peggio di chi si aspetta

qualcosa...

E non trova niente.

Capitolo 2.

Il tramonto dipinge d'arancio alcune nuvole sparse qua e là.

Una luna già pallida nel cielo si nasconde tra gli ultimi rami di

un

albero fronduto. Rumori stranamente lontani di un traffico un po'

nervoso. Da una finestra arrivano alcune note di una musica lenta

e piacevole, il suono di un pianoforte migliorato nel tempo.

Quello

stesso ragazzo, più grande, prepara i nuovi esami per la

specializzazione.

Poco più sotto, le linee bianche del campo da tennis risplendono

dritte sotto il pallore lunare e il fondo della piscina vuota

aspetta triste come ogni anno la prossima estate. Anche questa

volta è stata svuotata troppo presto da un portiere pignolo. Al

primo

piano del comprensorio, fra piante curate e linee alzate di una

serranda in legno, una ragazza ride.

"Daniela, ma hai finito di stare al telefono? Avete il cellulare,

vostro padre ve lo ricarica praticamente ogni giorno ! Perché

state

sempre a quello fisso di casa? "

"Ma che, non lo sai, mamma, che qui non prende? Prende solo

in salotto e lì ci siete sempre voi a sentire ! "

"Si dà il caso che noi viviamo in questa casa."

"Va bene, mamma. Sto con Giuli. Finisco di dirle una cosa e

attacco."

"Ma se l'hai vista tutta stamattina a scuola. Chissà che può

essere

successo da allora! Eh? Cosa dovrai mai raccontarle! "

Daniela copre con la mano la cornetta.

"Guarda che anche se fosse una cosa stupidissima, mi piacerebbe

che fossi io a decidere se la devo per forza far sapere a tutti

o no, va bene?"

Daniela si gira e dà le spalle a Raffaella pensando così di avere

in qualche modo ragione. La madre alza le spalle e si allontana.

Daniela

controlla con la coda dell'occhio di essere rimasta sola.

"Giuli hai sentito? Devo attaccare."

"Allora come rimaniamo?"

"Che ci vediamo lì."

"No... non intendevo questo!"

"Senti, io ho deciso." Daniela si guarda preoccupata in giro.

"Non è proprio questo il momento di parlarne al telefono con tutti

che girano per casa! "

"Ma Dani, è una cosa troppo importante! Non puoi deciderla

così... a tavolino!"

"Senti, ma non ne possiamo parlare direttamente alla festa?"

"Ok, come vuoi. Allora ci vediamo lì fra tre quarti d'ora. Ce

la fai?"

"No, facciamo almeno un'ora e un quarto!"

"Ok, ciao."

Dani riattacca il telefono. Guarda che Giuli a volte è

impossibile.

Ma che, non lo capisce quando si ha bisogno di quella mezz'ora

in più. Devo essere perfetta, bellissima. Capita raramente nella

vita di potersi preparare per una serata come questa. Anzi, ride

tra

sé, non capita mai. Di solito "quello" accade proprio quando meno

te lo aspetti. Poi va in camera sua indecisa per la prima volta su

cosa mettersi sotto. Si sente diversa, stranamente insicura. Poi

si

tranquillizza. È normale sentirsi così, non si può essere sicuri

su come

andrà la prima volta che si fa l'amore. Fa un respiro lungo. È

vero. L'unica cosa della quale sono sicura è che lo farò stasera e

con

lui. Raffaella la incrocia proprio in quel momento nel corridoio.

"Daniela, ma si può sapere a cosa stai pensando?"

"Ma niente mamma... cretinate."

"E allora se sono cretinate, pensa a cose più importanti! "

Per un attimo Daniela vorrebbe dirle tutto. La sua decisione

importante e soprattutto irrevocabile. Poi ci ripensa. Capisce che

sarebbe finita.

"Certo, mamma, hai ragione."

Tanto non vale la pena discutere con lei. Si sorridono. Poi

Raffaella

guarda il pendolo in salotto.

"Oh, non c'è niente da fare. Avevo chiesto a tuo padre di tornare

prima che dobbiamo andare dai Pentesti che abitano all'Olgiata.

Mai una volta che mi facesse felice..."

Capitolo 3.

"Stefano! " Dritto di fronte a me, al centro della strada, c'è mio

fratello. Sorrido. "Ciao Pa'." Mi fa piacere vederlo. Quasi mi

emoziono,

ma riesco a non farlo vedere più di tanto.

"Allora, come stai? Non sai quanto t'ho pensato."

Mi abbraccia forte. Mi stringe. Mi fa piacere. Per un attimo mi

ricordo l'ultimo Natale che abbiamo passato insieme. Prima che

partissi. E quella pasta che aveva preparato e che pensava che non

mi piacesse...

"Allora... Ti sei divertito giù in America, eh?"

Mi prende di mano una valigia. Naturalmente la più leggera.

"Sì, sono stato bene, giù in America. Ma perché giù?"

"Boh, è un modo di dire."

Mio fratello che conosce i modi di dire. Certo che sono proprio

cambiati i tempi. Mi guarda felice, sorride. È sereno. Mi vuole

bene sul serio. Ma non mi somiglia pe' niente. Mi fa pensare a

Johnny Stecchino.

"Be', che hai da ridere?"

"No, niente." Lo guardo meglio. Tutto tirato, camicia nuova,

perfetta, pantaloni leggeri sul marrone scuro, con risvolto in

fondo,

giacca a quadretti e finalmente...

"Ehi, Paolo, hai perso la cravatta?"

"Be', d'estate non me la metto. Ma perché, sto male?"

Non aspetta neanche la risposta.

"Ecco, siamo arrivati. Guarda che mi sono fatto..." Allarga il

braccio a mostrarmela in tutto quello che è, secondo lui, il suo

splendore: "Audi 4 ultimo modello. Ti piace?".

Come dire di no a tanto entusiasmo?

"Bella, niente male."

Spinge il pulsante che tiene in mano. L'allarme dopo due bip e

le doppie frecce scompare. Paolo apre il cofano: "Vieni, metti qua

le valigie".

Butto dietro le due sacche americane oltre a quella piccola che

ha già ordinatamente messo a posto lui: "Ehi, fai piano".

Mi fa venire subito in mente un'idea: "Che me la fai provare?".

Mi guarda. Il suo viso cambia espressione. Un tuffo al cuore.

Ma l'amore per suo fratello ha il sopravvento.

"Ma certo, tieni." Sorride con un piccolo sforzo e mi lancia le

chiavi con tutto il radiocomando. Pazzo. Mai amare un fratello

come

me. Soprattutto se ti chiede un'Audi 4 come quella. E nuova.

Mi metto alla guida. Profuma di nuovo, macchina impeccabile, solo

un po' stretta. Accendo il quadro e do il via al motore.

"Si guida bene."

"Pensa che è ancora in rodaggio..." Mi guarda preoccupato e si

mette la cintura. E io, forse per il fatto che sono tornato a

Roma,

che vorrei gridare, ma che ne so, che vorrei in qualche modo

liberarmi

di questi due anni di silenzio, della mia rabbia vissuta lontano,

parto all'improvviso dando gas. La Audi 4 sgomma, scodinzola,

si ribella, urla, le sue gomme strepitano sull'asfalto caldo.

Paolo

si attacca con tutte e due le mani alla maniglia vicino al

finestrino.

"Ecco, lo sapevo, lo sapevo! Ma come mai con te finisce sempre

così?"

"Ma che dici! Se la macchina l'ho appena presa! "

"Volevo dire che con te non si può mai stare tranquilli! "

"Ok..." Scalo, prendo la curva e gioco un po' con lo sterzo tanto

da accarezzare quasi il guardrail.

"Va bene adesso?"

Paolo si risistema sul sedile tirandosi giù la giacca.

"Niente da fare, con te non c'è mai un attimo di tranquillità."

"Ma dai, lo sai benissimo che stavo scherzando. Non stare lì a

preoccuparti, sono cambiato."

"Ancora? Ma quanto sei cambiato?"

"Questo non lo so, sono tornato a Roma per verificarlo."

Restiamo in silenzio.

"Si può fumare qui dentro?"

"Preferirei di no."

Mi metto la sigaretta in bocca e spingo il pulsante

dell'accendisigari.

"Ma che fai, l'accendi lo stesso?"

"È il preferirei che ti ha fregato."

"Vedi... Sei cambiato. E in peggio."

Sorrido e lo guardo. Gli voglio bene. E forse lui è cambiato sul

serio, mi sembra più maturo, più uomo. Do un tiro alla Marlboro

medium e faccio per passargliela.

No, grazie.'

Di risposta apre uno spiraglio del finestrino. Poi ritorna

allegro:

"Sai una cosa? Sto con una".

Mio fratello è più grande di me di sette anni. È incredibile, a

volte sembra un ragazzino, ha voglia di raccontarmi le cose che è

un piacere. Decido di dargli soddisfazione.

"E com'è, carina?"

"Carina? È bella! Alta, biondo chiaro, la devi conoscere. Si

chiama Fabiola, si occupa di arredamento, le piace andare solo in

certi posti, ha molto gusto..."

"Eh... Certo, certo, sicuro..."

"Ok, ok. La tua è una battuta scontata, anzi una 'sbattuta', ti

piace questa? La dice sempre lei! "

"Un po' equivoca, non ti pare? Deve stare attenta, quando la dice.

Comunque adesso ho capito perché vi trovate tanto bene insieme. "

"Be', comunque ci vado molto d'accordo."

Molto d'accordo. Ma che vorrà dire poi. L'accordo è qualcosa

che ha a che fare con la musica. O peggio coi contratti. L'amore

invece

è quando non respiri, quando è assurdo, quando ti manca,

quando è bello anche se è stonato, quando è follia... Quando solo

all'idea di vederla con un altro attraverseresti a morsi l'oceano.

"Be', se andate d'accordo, questo è l'importante. E poi..."

Cerco di chiudere alla meglio. "Fabiola è un bel nome."

Chiusura banale. Ma non ho trovato altro. Fondamentalmente

non me ne frega niente, ma se gli dicessi che il nome fa cagare,

per come è lui non sarebbe felice. Paolo ha bisogno dell'opinione

di tutti. La cazzata più grande che si può fare. Tutti chi, poi.

Neanche

i nostri sono stati tutti per noi.

Mi legge quasi nel pensiero: "Anche papà sta con una, sai?".

"Come posso saperlo se non me lo dice nessuno."

"Monica, una bella donna. Cinquant'anni, ma se li porta benissimo.

Gli ha rivoluzionato la casa. Ha levato un po' di antichità,

l'ha svecchiata."

"Anche a papà?"

Paolo ride come un pazzo: "Troppo forte questa".

Mio fratello e il suo entusiasmo deficiente. Ma prima era così?

Quando torni da un viaggio, tutto ti sembra un po' diverso.

"Vivono insieme, devi conoscerla."

Devi. Che vuol dire devi? Do un colpo secco al volante per

scansare uno che non ne vuole sapere di togliersi di mezzo. E

spostati!

Lampeggio, niente. Do gas, scalo. La macchina scatta sulla

destra per superarlo.

Paolo spinge con le gambe in avanti e si tiene al bracciolo tra

me e lui. Poi rientro a sinistra e lo tranquillizzo.

"Tutto a posto. In America non potevo mai farlo, ti controllano

al millimetro."

"E invece sei tornato apposta per sbizzarrirti con la mia

macchina,

vero?"

"Mamma come sta?"

"Bene."

"Che vuol dire bene?"

"E allora che vuol dire come sta?"

"Quanto la fai difficile. È tranquilla? Sta con qualcuno? Tu la

senti? Si vede e si sente con papà?"

Non riesco a fargli quell'ultima domanda: ha chiesto di me?

"Mi ha chiesto spesso di te." È l'unica alla quale risponde:

"Voleva

sapere se ti sentivo da New York, come andava il corso eccetera

eccetera".

"E tu?"

"E io le ho detto quel poco che sapevo. Che il corso andava bene,

che stranamente non avevi ancora fatto a botte con nessuno e

poi mi sono inventato un po' di cose."

"Tipo?"

"Che stavi da due mesi con una ragazza, italiana però. Se avessi

detto americana si sarebbe capito subito che era falso, non vi

sareste

capiti."

"Ah, ah. Avvisami quando si ride. Anche questa è una 'sbattuta'?"

"Poi gli ho detto che ti divertivi, la sera uscivi spesso, niente

droga però, ma un sacco di amici. Insomma, che non avevi

intenzione

di tornare e che comunque stavi bene. Come sono andato?"

"Più o meno."

"Cioè?"

"Sono stato con due americane e ci siamo capiti benissimo."

Non fa in tempo a ridere, scalo ed esco tagliando a destra. Giù

dalla tangenziale, in curva do gas, le ruote stridono, una

macchina

vecchia suona alle mie spalle, continuo la curva come se niente

fosse

ed entro sul raccordo. Paolo si risistema sul sedile. Si tira giù

la

giacca. Poi tenta di dire la sua.

"Non hai messo la freccia."

"Già." Guido per un po' in silenzio. Paolo guarda spesso fuori,

poi di nuovo verso di me cercando di attirare la mia attenzione.

Che ce?

"Com'è finita la storia del processo?"

"Sono stato graziato."

"Cioè?" mi guarda incuriosito. Mi giro e sostengo per un po'

il suo sguardo. Resta in silenzio. Mi guarda tranquillo. Sereno.

Non

credo che menta. Oppure è un attore formidabile. Paolo è un buon

fratello, ma tra i suoi ipotetici pregi non si rintraccia il

formidabile.

Riguardo la strada.

"Niente, sono stato graziato, punto e basta."

"Cioè, spiegami meglio."

"Tu che non sai di queste cose? Hai presente quei condoni per

le tasse o per l'edilizia che vengono fatti apposta quando si va a

qualche elezione? Ecco, questo è uno di quei casi lì, i reati come

il

mio vengono dimenticati e ci si ricorda invece di un presidente. "

Sorride.

"Sai, è un sacco di tempo che mi chiedo perché hai menato

quello che abitava di fronte a noi. "

"E sei riuscito a sopravvivere a questo incredibile

interrogativo?"

"Sì, ho avuto anche altro da fare."

"In America non dureresti un giorno. Non hai tempo per farti

domande."

"Ma siccome stavo a Roma tra un cappuccino e un aperitivo,

ci ho pensato. E sono arrivato anche a una conclusione."

"Che meraviglia! E cioè?"

"Che il nostro vicino infastidiva in qualche modo mamma,

apprezzamenti

pesanti e una battuta di troppo. Tu, non so come, lo

sei venuto a sapere e patapuff, l'hai mandato all'ospedale..."

Rimango in silenzio. Paolo mi fissa. Vorrei evitare il suo

sguardo.

"Però c'è una cosa che non capisco, che mi sfugge... Ma scusa,

mamma era al processo e non ha detto niente, non ha raccontato

cosa era successo, cosa le poteva aver detto quel tipo o insomma

perché tu avevi reagito così. Se solo avesse parlato, il giudice,

magari,

poteva capire."

Paolo. Cosa sa veramente Paolo. Lo guardo per un attimo, poi

ritorno a guardare la strada. Linee bianche per terra, una dopo

l'altra,

tranquille sotto la Audi 4. Una dopo l'altra, a volte leggermente

sbafate. Il rumore della strada. Batum, batum, la Audi 4, morbida,

si alza e si abbassa a ogni piccolo dosso. Le giunture dei pezzi

di

quella strada si sentono tutte, ma non danno fastidio. È giusto

dire

la verità? Far conoscere sotto una luce diversa una persona a

un'altra. Paolo ama mamma così com'è. La ama come crede che

sia. O come vuole credere che sia.

"Paolo, ma perché me lo chiedi?"

"Ma così, per sapere..."

"Non ti tornano i conti, vero?"

"Be' sì, insomma."

"E per un commercialista come te è un incubo."

Giovanni Ambrosini era il nome del nostro vicino, l'ho scoperto

solo al processo. Anzi no, il cognome prima. Quando ho suonato

alla sua porta era scritto sul campanello. E venuto ad aprire in

boxer.

Quando mi ha visto ha chiuso al volo la porta. Io ero entrato solo

per parlare. Per chiedergli educatamente di abbassare la musica.

Poi

un tuffo al cuore. Nello spiraglio della porta, incorniciato da

quello

stipite il suo volto. Quello sguardo che ci ha unito e diviso per

sempre.

Non lo dimenticherò mai. Nuda come non l'avevo mai vista, bella

come l'ho sempre amata... Mia mamma. Tra le lenzuola di un altro.

Non ricordo altro se non quella sigaretta che aveva in bocca. E

il suo sguardo. Come la voglia di consumare qualcos'altro dopo

lui,

quella sigaretta e infine... Me. Guarda, figlio mio... questa è la

realtà,

questa è la vita. Ancora mi bruciano le guance del cuore. E poi

Giovanni

Ambrosini. L'ho tirato fuori da casa sua, per i capelli. È finito

a terra. Gli ho fracassato due zigomi con un calcio dietro la

nuca. Si

è infilato tra la ringhiera delle scale, e ho continuato a

colpirlo con il

tacco sull'orecchio destro, sulla faccia, tra le costole, sulle

dita delle

mani, fino a spappolargliele. Su quelle mani che l'avevano

toccata.

E... Basta. Basta. Basta per favore. Non ce la faccio più. Quei

ricordi

che non ti abbandonano mai. Mai. Guardo Paolo. Un respiro lungo.

Calma. Più lungo. Calma e bugie.

"Mi dispiace, Paolo, ma a volte i conti non tornano. Quello lì mi

stava sul cazzo, tutto qua. Mamma non c'entra niente, figurati."

Sembra soddisfatto. Gli fa piacere sentire questa versione.

Guarda fuori dal finestrino.

"Ah, non ti ho detto una cosa."

Lo guardo preoccupato.

"Che cosa?"

"Ho cambiato casa. Sto sempre alla Farnesina, ma ho preso un

attico."

Finalmente una notizia tranquilla. "Bello?"

"Fortissimo. Lo devi vedere. Stanotte dormi da me tanto, no?

Il numero di telefono è rimasto lo stesso. Sono riuscito a farmelo

ridare da un amico alla Telecom."

Sorride soddisfatto di quel suo piccolo potere. Cavoli, non ci

avevo pensato! Meno male che ha mantenuto lo stesso numero. È

quello che ho messo sul mio biglietto da visita. Quello che ho

dato

alla hostess. A Eva, la gnocca. Sorrido tra me. Corso Francia,

Vigna

Stelluti, su verso piazza Giochi Delfici. Passo davanti via

Colajanni, la traversa che porta a piazza Jacini. Un motorino si

ferma

improvvisamente allo stop. Una ragazza. Oddio. Lei. Capelli biondo

cenere, lunghi, sotto il casco. Porta anche un cappellino con la

visiera. Ha l'i-pod azzurro e un giubbotto sul celeste proprio

come

i suoi occhi. Sì, sembra proprio lei... Rallento. Balla con la

testa

a tempo di musica e sorride. Mi fermo. Lei parte. La lascio

passare.

Gira allegra davanti alla nostra macchina. Mi dice grazie solo

con le labbra... Il mio cuore ora rallenta. No, non è lei. Ma un

ricordo mi assale. Come quando stai in acqua, in mare, di mattina

presto, fa freddo. Qualcuno ti chiama. Ti giri, lo saluti... Ma

quando

ti volti, per riprendere a camminare, arriva un'onda improvvisa.

E allora senza volerlo mi ritrovo lì, naufrago da qualche parte,

in qualche giorno di appena due anni fa. È notte. I suoi sono

fuori.

Mi ha telefonato. Mi ha detto di andarla a trovare. Salgo le

scale.

La porta è aperta. L'ha lasciata accostata. La apro lentamente.

"Babi... Ci sei? Babi..."

Non sento niente. Chiudo la porta. Cammino per il corridoio.

In punta di piedi verso le camere da letto. Una musica leggera

arriva

dalla camera dei suoi genitori. Strano, aveva detto che erano al

Circeo. Dalla porta semichiusa si intravede una luce fioca. Mi

avvicino.

Apro la porta. Vicino alla finestra improvvisamente appare lei.

Babi. Ha addosso i vestiti della madre, una camicetta di seta

leggera

color sabbia, trasparente e sbottonata. Sotto si intravede un

reggiseno

color crema. Poi una gonna lunga con dei disegni sul cachemire.

Ha i capelli tirati su tutti intrecciati. Sembra più grande, vuole

essere più grande. Sorride. Ha in mano un flûte pieno di

champagne.

Ora ne sta versando uno per me. Poggia la bottiglia dentro

un secchiello pieno di ghiaccio, posato sul comodino. Intorno ci

sono

delle candele e un profumo di rose selvagge che piano piano ci

avvolge. Poggia un piede su una sedia. La gonna apre il suo

spacco,

cade di lato, scoprendo uno stivaletto, e la sua gamba, coperta

da una calza leggera, in microrete color miele, autoreggente. Babi

mi aspetta con i due flûte in mano e i suoi occhi improvvisamente

cambiano. Come se fosse cresciuta all'improvviso.

"Prendimi, come se fossi lei... Lei che non ti vuole, lei che ogni

giorno mi sfinisce cercando di dividerci..." Mi passa il

bicchiere.

Lo bevo tutto di un sorso. È freddo, è buono, è perfetto. Poi le

do un bacio intenso come il desiderio che provo. Le nostre lingue

sanno di champagne, addormentate, perse, ubriache,

anestetizzate...

Improvvisamente si svegliano. Le passo la mano tra i capelli

e rimango prigioniero di ciocche strette, di capelli lavorati. Le

tengo

la testa così, persa tra le mie mani, mia, perdutamente mia...

mentre un suo bacio diventa più avido. Del tutto padrona nella

mia bocca, sembra che voglia entrarmi dentro, divorarmi, arrivare

al mio cuore. Ma che fai? Ferma. È già tuo. Poi Babi si stacca

e mi guarda. Sembra sul serio sua madre. E mi fa paura l'intensità

che avverto, che non avevo mai visto. Allora mi prende una mano,

si alza un po' la gonna di lato e me la infila. Poi mi guida su,

più su... lungo le gambe insieme a lei. Abbandona la testa

all'indietro.

A occhi chiusi. Un suo sorriso. Nascosto. Un suo sospiro,

forte e chiaro. La mia mano, la porta ancora più su. Senza fretta,

sulle sue mutandine. Eccole. Le sposta leggermente e mi perdo

con le dita nel suo piacere. Babi ora sospira più forte. Mi apre i

pantaloni e me li tira giù veloce, avida anche qui, come non mai.

E dolcemente lo trova. Si ferma. Mi guarda negli occhi. E sorride.

Mi lecca la bocca. Mi morde. Ha fame. Ha fame di me. Si appoggia,

mi spinge, tiene la sua fronte contro la mia, sorride, sospira,

comincia a muoversi con la mano su e giù, perdendosi affamata

nei miei occhi e io nei suoi... Poi si sfila le mutandine, mi

dà un ultimo bacio leggero e mi fa una carezza con la mano sotto

il mento. Si mette sul letto a quattro zampe, si scopre da dietro

alzandosi

la gonna. Se la poggia sulla schiena e si gira verso di me.

"Step, ti prego, prendimi con forza, come se io fossi mia madre,

fammi male... Ti prego, ti giuro, ne ho voglia."

E mi sembra incredibile. Ma lo faccio. Ubbidisco, e lei comincia

a urlare come non aveva mai fatto, e quasi svengo dal piacere,

dal desiderio, dall'assurdo di quella situazione, dall'amore di

ciò

che non credevo possibile. Sono ancora affannato di piacere nel

ricordo

e quasi mi manca il respiro...

"Ehi, Step!"

"Sì?"

Improvvisamente torno. È Paolo.

"Ma che succede? Ti sei fermato in mezzo alla strada."

"Eh?"

"Ma così mi sorprendi. Siamo diventati gentili? Non ti avevo

mai visto fare una cosa del genere: dare la precedenza a una

ragazza

che neanche ce l'ha! Incredibile. O l'America ti ha fatto

veramente

bene e sei cambiato sul serio. Oppure..."

"Oppure?"

"Oppure quella ragazza ti sembrava qualcun altro."

Si gira verso di me e mi guarda.

"Ehi... Non ti dimenticare che siamo fratelli."

"Appunto, è questo quello che mi preoccupa... È una 'sbattuta',

se non l'hai capita."

Paolo ride. Io riprendo a guidare cercando di nuovo il controllo.

Lo trovo. Poi un respiro lungo. Più lungo. E il dolore di sapere

che quell'alta marea non mi abbandonerà mai.

Capitolo 4.

La Z4 è una macchina meravigliosa. Darei non so cosa per farmela.

Claudio Gervasi è a Porta Pinciana, fermo davanti alla vetrina

della concessionaria BMW. La guarda come se fosse un bambino,

estasiato, desideroso, dispiaciuto perché non la può avere. Se

solo

Raffaella sapesse cosa sta desiderando, sarebbero dolori. Se poi

sapesse

tutto il resto, sarebbe morto. Preferisce non pensarci. Non

lo saprà mai. A questo punto visto che è arrivato fino lì, tanto

vale

entrare. Non c'è niente di male ad avere un desiderio. O anche

questo

rientra nel novero dei peccati sociali? Claudio cerca di

convincersi.

Tanto mica m'impegno in qualche modo... voglio solo sapere

anche quanto mi danno per un'ipotesi di permuta. Magari mi

calcolano bene la mia Mercedes 200. Certo che ne ha fatti di

chilometri.

Però l'ho tenuta così bene... Gira intorno alla macchina.

Tranne quella piccola strusciatura dovuta a Babi e a Daniela e

soprattutto

a come posteggiano la loro Vespa. Be', sentiamo cosa mi

dicono... Entra nel negozio. Gli si avvicina subito un giovane

commesso,

impeccabile, con una cravatta bella grossa, blu come il suo

completo dalla giacca misurata e i pantaloni perfetti a tubo, col

risvolto

che si accompagna morbido ai suoi mocassini scuri, semplici,

ma perfettamente lucidi. Proprio come quella macchina. Vista

da vicino sembra ancora più bella. Un celeste pallido e l'interno

un

po' più scuro, con le rifiniture di un beige leggero e della pelle

nera

che in maniera morbida riveste ogni punto, dal volante al cambio.

Irresistibile.

"Buonasera, posso aiutarla?"

"Sì, vorrei sapere quanto viene questa BMW. È la Z4, vero?"

"Certo, signore. Allora, full optional, chiavi in mano con l'ABS

completo e i cerchi naturalmente in lega... vediamo un po'...

Signore,

lei è fortunato, siamo in un periodo di promozione. Per lei,

sono 42.000 euro. Euro più, euro meno, s'intende."

Sicuramente più. Meno male che sono fortunato e che è il periodo

di promozione. Allora il commesso che lo vede leggermente

deluso gli sorride.

"Guardi che questa è stata la macchina di James Bond."

Claudio non crede ai propri occhi.

"Proprio questa?"

"Ma no, non questa!" Il commesso lo guarda cercando di capire

se lo sta prendendo in giro apposta. "Anche perché credo che

quella che hanno usato in quel film sia la Z3, la BMW della serie

precedente e, per essere precisi, sarà anche stata demolita o

messa

a qualche asta! Però questa è ancora più precisa, è stata usata

anche nel film Ocean's Twelve, o Eleven?, ora non mi ricordo bene.

Comunque l'hanno portata: George Clooney, Matt Damon,

Andy Garcia, Brad Pitt e ora... lei! "

Claudio abbozza un sorriso.

"Forse..."

Il commesso capisce che ha davanti a sé un indeciso cronico.

Non sa la verità. Ha davanti a sé un'ombra spietata, un ologramma

terribile, una proiezione a laser, Claudio avvolto dal pensiero

di sua moglie. Il ragazzo decide di riscaldare il possibile

cliente con

un po' di informazioni. Gira intorno alla macchina dando dati:

velocità,

consumo, prestazioni d'ogni tipo e naturalmente eventualità

d'ogni ipotesi di leasing.

"A proposito..." a questo ultimo dato Claudio acquista un po' di

speranza, "ma nel caso, voi prendete indietro una macchina, no?"

"Certo, come no! Anche se adesso, in questo momento, il mercato

dell'usato è un po' debole, signore."

Claudio non aveva dubbi.

"Gli può dare un'occhiata? Ce l'ho qui fuori."

"Certo, andiamo a vederla."

Claudio esce dal negozio accompagnato dal commesso.

"Eccola, è questa."

Mostra fiero la sua Mercedes 200 grigio scuro metallizzata. Il

ragazzo ora è attento, serio, minuzioso. La guarda toccandola ogni

tanto, controllando eventuali lavori di riparazione subdolamente

nascosti. Claudio cerca di rassicurarlo.

"Ho fatto sempre tutti i tagliandi, ho cambiato da poco anche

le gomme..."

Il commesso gira attorno alla macchina e guarda l'altra fiancata,

quella rovinata dalla Vespa. Claudio allora cerca di distrarlo.

"E ho fatto anche la revisione completa proprio l'altra

settimana."

Ma a un commesso come quello non sfugge nulla.

"Sì... però qui ha preso una bella botta, eh! "

"Eh, le mie figlie. Gliel'ho detto mille volte d'incollare la

Vespa

al muro, niente! "

Il commesso alza le spalle come a dire "E io che ci posso fare?

.

"Be', comunque andrà rimessa a posto. Il motore poi lo dobbiamo

controllare, eh? La vedrà il capo tecnico. Be', se non ci fossero

problemi io credo che il suo valore sia sui... 4.000, 4.500 euro."

"Ah..." Claudio rimane senza parole. Sperava almeno nel doppio.

"Ma è del'99."

"Veramente io pensavo del 2000, comunque il prezzo che le ho

detto glielo confermo, va bene?"

Va bene? Va bene sì! E ti credo che va bene. A voi dovrei dare

37.500 euro, euro più, euro meno. Ma Claudio decide di non

pensarci.

"Sì, bene... certo..."

"Allora la saluto. Noi per qualsiasi cosa siamo qui."

Il giovane commesso gli stringe con forza la mano, certo di averlo

più o meno convinto. Poi gli dà un bigliettino con tanto di

nominativo

e marchio BMW. Claudio lo guarda allontanarsi. Quando

ormai il commesso è dentro il negozio e non lo può più vedere,

Claudio strappa il biglietto e lo butta in un cestino lì vicino.

Ci manca

solo che Raffaella trovi questa traccia. Sale sulla sua Mercedes.

Poggia le mani sul volante. Cara, lo sai che io non ti tradirei

mai!

Poi prende il telefonino, si guarda intorno, e scrive un sms. Lo

invia

e naturalmente un secondo dopo lo cancella. Infine, come ultimo

gesto di grande libertà, si accende una Marlboro.

Capitolo 5.

"Ecco Step, è il 237. Aspetta che apro il cancello. Posteggia qui.

Il numero 6, è il mio." Paolo ne è fiero. Prendiamo le borse.

"L'ascensore

parte direttamente dal garage." È fiero anche di questo.

Arriviamo al quinto piano. Apre la porta come se fosse una

cassaforte.

Allarme, due serrature, porta blindata. Sopra c'è il suo nome.

Paolo Mancini, un bigliettino stampato su una piccola targa

bordata d'oro. Orribile, ma non glielo dico.

"Hai visto? Ho messo uno dei miei bigliettini nella targa. C'è

anche il numero di telefono. Buona idea, no? Ma perché ridi? Non

ti piace, vero?"

"Come no. Ma secondo te, perché dovrei dirti sempre bugie? Mi

piace sul serio, fidati." Sorride un po' più rilassato e mi fa

entrare.

"Ok, vieni, allora guarda, ecco..."

La casa non è male all'interno, parquet nuovo, colori chiari,

muri bianchi.

"Manca un po' d'arredamento ma pensa che l'ho fatta tutta rifare.

Guarda, ho messo dei dimer così le luci le puoi regolare quanto

vuoi, vedi?"

Ne prova una alzando e abbassando una luce. "Forte, no?"

"Fortissimo." Rimango all'entrata con le sacche in mano. Paolo

sorride felice della sua idea.

"Ti faccio vedere dove puoi stare."

Apre una camera in fondo al corridoio. "Dadan! "

Paolo rimane sulla porta con la faccia sorridente.

"Eh..." Ci deve essere qualche sorpresa. Entro.

"Ho recuperato la tua roba e te l'ho portata qui. Qualche

maglione,

le magliette, le felpe. E guarda qui..." Mi mostra un quadro

attaccato al muro.

"Era rimasta una tavola di Andrea Pazienza. Questa non l'hai

bruciata."

Mi ricorda, senza volerlo, quel Natale di due anni e mezzo fa.

Forse lo capisce e un po' se ne dispiace.

"Be', io vado in camera mia. Sistemati come ti pare."

Poggio la sacca sul letto, apro la zip e comincio a tirare fuori

la roba. Maglioni, giubbotti. Un track jacket Abercrombie. Jeans

scoloriti, marca Junya. Una felpa color sabbia Vintage 55. Camicie

ben piegate Brooks Brothers. Le metto dentro un armadio bianco.

Ha diversi cassetti. Apro anche l'altra valigia e li riempio

tutti.

In fondo alla sacca c'è un pacco incartato. Lo prendo e vado di

là. Paolo è in camera sua disteso sul letto con i piedi che

sbucano

fuori.

"Tieni" gli lancio il pacco sulla pancia. Lo prende come se fosse

un cazzotto e si piega in due accogliendo il pacco sul letto.

"Grazie, e perché?" Cerca sempre una spiegazione.

"È l'ultima moda americana."

Lo scarta e lo stende davanti ai suoi occhi. E un po' perplesso.

"È il giubbotto della Fire. Lì lo mettono quelli che sono

arrivati."

Ora che gliel'ho detto gli piace di più.

"Me lo provo ! " Se lo infila sopra la giacca e si guarda allo

specchio.

Cerco di non ridere.

"Cazzo, è forte! " Quell'espressione non è da lui. Gli è piaciuto

sul serio.

"Hai azzeccato pure la misura."

"Tienilo bene. Vale un pezzetto della tua casa."

"Sul serio costa così tanto?"

"Ehi, la tua camera però è più bella, più grande."

"Sì, lo so Step, ma..."

"Paolo... stavo scherzando."

Paolo tira un sospiro di sollievo.

"No, sul serio, comunque l'hai veramente messa su bene."

"Non sai quanto ci ho speso."

Ecco che risbuca fuori il commercialista. Me ne torno in camera.

Comincio a spogliarmi. Ho voglia di una doccia. Paolo entra

in camera, ha ancora il giubbotto addosso con il cartellino che

gli penzola dal collo e un pacchetto in mano. "Anch'io ho una

sorpresa

per te." Fa per lanciarmelo, ma poi ci ripensa e me lo passa

piano. "Non si può lanciare. È delicato."

Lo apro incuriosito. "È per il tuo compleanno." Riesce a

imbarazzarmi.

"Cioè veramente è per il compleanno che hai passato

in America. Abbiamo potuto farti solo una telefonata. "

"Sì, l'ho trovata in segreteria." Continuo a scartare il regalo.

Cerco di non pensare a quel giorno. Ma non ci riesco. 21 luglio...

Stare fuori apposta tutto il giorno per non aspettare inutilmente

davanti al telefono. Poi tornare a casa e vedere la segreteria

lampeggiare.

Un messaggio, due, tre, quattro. Quattro messaggi, quattro

telefonate ricevute. Quattro possibilità. Quattro speranze. Via

con la prima. "Pronto, ciao Stefano, sono papà... Auguri! Credevi

che me ne fossi dimenticato, eh?"

Mio padre. Deve sempre aggiungere un po' di umorismo a

quello che fa. Spingo il tasto e mando avanti. "Tanti auguri a te.

Tanti auguri a Step... " Mio fratello. Mio fratello che

addirittura mi

canta gli auguri per telefono. Che gaggio! Ne rimangono due. Un

altro messaggio, il penultimo. "Ciao Stefano..." No. E mia madre.

Lo ascolto in silenzio. La sua voce scorre morbida, lenta, piena

di

amore, un po' affaticata forse. Allora stringo gli occhi. E i

pugni.

E fermo quelle lacrime. E ci riesco. Oggi è il mio compleanno,

mamma. Voglio essere allegro, voglio ridere, voglio stare bene,

mamma... Sì, anche tu mi manchi. Sono tante le cose che mi

mancano...

Ma oggi ho voglia di non pensarci. Ti prego. "Ancora auguri,

Stefano, e mi raccomando, chiamami quando puoi. Un bacio."

Rimane così un ultimo messaggio. La luce verde lampeggia

silenziosa. La guardo in silenzio. Lentamente si accende e si

spegne.

Quella luce verde potrebbe essere il più bel regalo della mia

vita. La sua voce. L'idea di poterle mancare anch'io. Di poter in

un attimo tornare indietro, ad allora, di ricominciare... Sogno

ancora

per un attimo. Poi spingo il tasto. "Ciao mitico! Ma come

stai? Oh, che piacere assurdo sentire la tua voce, anche se solo

in

segreteria. Non sai quanto mi manchi... Da morire. Roma è vuota

senza di te. Ma mi hai riconosciuto, vero? Sono Pallina. Certo

ormai

la mia voce è un po' più da donna. Allora, ti devo raccontare

una marea di cose. Da dove cominciamo? Vediamo un po'... Tanto

me la posso prendere comoda, i miei stanno fuori, telefono da

casa e spendo che è una meraviglia visto che mi hanno pure fatto

arrabbiare. Così li punisco un po', va'..." Mi fa ridere, mi fa

piacere.

La ascolto con un sorriso. Ma non posso mentire, non a me

stesso. Non era questa la telefonata che aspettavo. Non è un

compleanno

senza la sua voce. Non mi sembra neanche di essere nato.

E invece ora, dopo più di due anni, sono di nuovo qui.

"Allora che ne dici, ti piace?"

Finisco di scartare e poi guardo la scatola.

"Oh, guarda che questo è l'ultimo modello: un Nokia fantastico."

"Un telefonino?"

"Forte, eh? Prende dappertutto. Pensa che l'ho avuto grazie a

un amico, perché ancora non si trova nei negozi. È un N70, ha

tutto

ed è pure piccolo. Entra nella tasca della giacca. " Se lo infila

per

farmi vedere quant'è vero quello che dice.

"Certo che ne hai di amici attivi, eh?"

"Et voilà, visto? E poi si apre così e si può escludere il suono e

vibra soltanto. Tieni." Nemmeno ha sentito la mia battuta. Aspetta

solo la mia reazione.

"Grazie" è l'unica cosa che riesco a dire. "Un telefonino mi

mancava proprio."

"Hai già il numero: 335 808080, facile no? Sempre il mio amico

della Telecom."

È ancora più soddisfatto. Mio fratello e i suoi amici. Ora ho un

numero. Sono bollato. Identificato. Raggiungibile. Forse.

"Bellissimo, ora però devo assolutamente fare una doccia."

Lancio il telefonino sul letto.

Paolo esce scuotendo la testa: "Capirai, durerà poco quel

telefonino

se lo lanci così".

Mio fratello. Non c'è niente da fare. Che noioso! Eppure siamo

tutti e due nati dallo stesso seme, quello di mio padre, almeno

spero. Accendo la radio lì sul comodino e la sintonizzo. Mentre mi

spoglio mi metto a ridere da solo. Mia madre che ha messo al mondo

Paolo con un altro. Sarebbe il massimo. Almeno avrei una

spiegazione.

Ma questo lo escludo. Erano altri tempi. Tempi d'amore.

Mi piace questo pezzo. Mi metto a canticchiare qualcosa.

Sono sotto casa di Paolo. Ho visto le luci che si accendevano.

So che questa è la nuova casa di suo fratello. Ecco, lo vedo. Step

passa davanti alla finestra. Quella deve essere la sua camera.

Ehi,

ma si sta spogliando. E sta canticchiando qualcosa. Mi metto gli

auricolari. Accendo la radio del mio telefonino. Cambio canale

fino

a quando non mi sembra di trovare quello che Step canticchia.

Guardo la stazione. Ram power 102.70. Uno lo vivi, uno lo ricordi.

Chissà cosa preferisce Step... Guardo l'ora. È tardi, devo tornare

a casa. I miei mi stanno aspettando di sicuro.

"Paolo, che hai un asciugamano?"

"Te li ho già messi in bagno. Guarda li trovi in ordine di colore,

quello azzurro più chiaro per il viso, quello più scuro per il

bidè

e infine un accappatoio blu dietro la porta. "

E certo, in confronto Furio è un pazzo sregolato.

"Ehi, Step, fatti un po' vedere?"

Compaio davanti alla porta.

"Mazza come stai bene. Sei dimagrito?"

"Sì. In America fanno un altro tipo di allenamento in palestra.

Moltissimo pugilato. Ai primi incontri ho capito quanto siamo

lenti

qui a Roma. "

"Sei definitissimo."

"E da quando in qua ti sei imparato 'sti termini?"

Mi lascio andare volutamente al mio ruvido romano.

"Mi sono iscritto in palestra."

"Non credo alle mie orecchie. Era ora! Ma come, mi facevi tutte

quelle storie. Ma che perdi tempo in palestra, che ti importa del

fisico e tutte... E alla fine che fai?"

"Mi ha convinto Fabiola."

"Ah, ecco. Vedi, Fabiola già mi piace."

"Ha detto che stavo seduto troppo e che un uomo deve decidere

chi è fisicamente a trentatré anni. "

"A trentatré anni?"

"Ha detto così."

"Allora avevi ancora due anni di libertà."

"Ho preferito non essere nella regola perfetta."

"E brava Fabiola." Vado in bagno. "E dove ti sei iscritto?"

"Alla Roman Sport Center." Silenzio. Ricompaio dalla porta.

"Anche questo l'ha deciso Fabiola?"

"No" sorride fiero, secondo lui, della sua scelta. "Io... be', la

verità è che anche lei era già iscritta là."

"Ah, ecco..." Me ne torno in bagno e chiudo la porta. Non ci

posso credere. Non c'è niente di peggio che andare in palestra con

la propria donna. Stai lì che pensi a lei anche sotto i pesi, che

controlli

chi le si avvicina, che cosa le dicono, quello magari negato che

invece fa finta di insegnarle il movimento giusto... e cosa fa lei

e come

risponde. Terribile. Le vedo ogni tanto quelle coppie. Un bacio

alla fine di ogni serie. E poi alla fine dell'allenamento la

domanda

d'obbligo: "Che facciamo stasera?".

Perché una coppia deve già avere il suo programma. E certo,

sennò che coppia è. Eh... Se invece sei uno "scoppiato" allora la

Roman è perfetta. Automaticamente il muscolo lavora doppio, deve

mettersi in mostra lui stesso per acchiappare. Le macchine e i

bilancieri fingono quasi di lavorare, silenziosi spettatori di

chissà

quanti amori calcolati. Eh sì, perché finita ogni serie ci si

guarda,

ci si spizza, un sorriso e poi vai con la chiacchiera inutile. Chi

sei,

dove sei stato ieri, che locale è stato aperto oggi, che progetti

hai

per la serata, cosa fai domani e quanti soldi hai. Insomma, se

vale

o no la pena di scoparti.

Apro l'acqua della doccia e mi ci infilo sotto. Acqua fredda.

Poggio le braccia contro il muro e spingo fino a cercare

inutilmente

di abbatterlo. Mi si gonfiano le spalle e l'acqua rimbalza

ora più tiepida. Poi porto la testa all'indietro, bocca

semiaperta...

E l'acqua cambia improvvisamente corso. Piccolo fiume impetuoso

che trova anse e nascondigli tra i miei occhi, tra il naso e la

bocca, tra i denti e la lingua. La sputo fuori dalla bocca,

respirando.

Mio fratello. Mio fratello che va alla Roman Sport Center.

Mio fratello con la sua Audi 4 nuova. Mio fratello con la sua

donna.

Mio fratello che si allena con lei e tra una risata e l'altra

decide

cosa fare per la serata. Ora è tutto chiaro. Lui è papà, senza

ombra di dubbio. Più cresce e più la fotocopia si definisce. Io

invece

rimango sbiadito in un angolo. Vorrei sapere chi si è fottuto

il mio toner. Esco dalla doccia. Mi infilo l'accappatoio e mi

asciugo i capelli con l'asciugamano azzurro proprio come vuole

lui. Mi friziono forte i capelli corti appena rasati e in un

attimo

sono asciutti. Mi lascio l'asciugamano poggiato sulla testa e vado

in camera. Paolo mi vede.

"È impressionante come somigli a mamma. Chiamala, la farai

felice."

"Sì, più tardi." Oggi non ho voglia di far felice nessuno.

Capitolo 6.

Dal fondo del corridoio, si sente il rumore delle chiavi che

girano

nella toppa della porta di casa. Raffaella si volta.

"Oh... ecco Claudio!"

La porta in fondo al corridoio si apre lentamente. E in tutta la

sua nuova bellezza invece entra Babi.

Raffaella le corre incontro.

"Ma che hai fatto!"

"Come che ho fatto?"

"Sì, hai fatto tardi e in più hai tagliato i capelli! "

"Oddio mamma, mi hai fatto prendere un colpo! Chissà che

pensavo! Sì, me li sono tagliati stamattina. Sto bene? Ha detto

Arturo,

che me li ha fatti, che così mi donano molto di più."

"Sì... ma avevamo impostato un po' tutto sui tuoi capelli lunghi!

"Mamma, ma sono solo scalati," Babi le sorride, "lo sapevo che

avresti detto così. Guarda..." Apre una piccola borsa di Furia e

tira

fuori tre polaroid. "Ecco, ho fatto apposta i provini. Allora? Non

sto meglio?"

Raffaella le guarda. Poi sorride contenta e soddisfatta della

figlia

e del suo nuovo taglio di capelli insieme a tutto il resto in

quelle

foto. Ma non vuole dargliela vinta. No, non vuole essere esclusa

da nessuna decisione, soprattutto per una cosa così importante.

"Sì, stai bene. Ma la scelta che avevamo fatto mi sembrava più

giusta... quella coi capelli lunghi."

"Ma dai, non fare la difficile! Mamma, vedrai che per allora

saranno

anche ricresciuti. Piuttosto, sono tornata prima perché stasera

abbiamo la cena da Mangili, giusto?"

"No, l'ho spostata alla settimana prossima."

"Ma mamma, scusa, allora potevi avvisarmi! Ho fatto presto

apposta perché dovevamo andare da lui! Fammi una telefonata,

no? Ho sempre il telefonino dietro! Mi chiami per le cose più

stupide

e poi non mi chiami per questo! "

"Non ti chiamo mai per cose stupide."

"Sì, lo so, ma ci tenevo un sacco a risolvere questo problema."

Babi sbuffa, si mette le mani sui fianchi. Quando perde la calma

torna proprio bambina. Ci manca solo che si metta a battere i

piedi.

"Babi, non fare così, dai, da Mangili ci andiamo la settimana

prossima..."

"Sì, ma subito! Io voglio essere sicura di questo Mangili, non

lo abbiamo mai provato. Non lo conosce nessuno."

"Ma se organizza pure le cene per il Vaticano."

"Sì, lo so, ma quelli non escono mai, non sono abituati a

mangiare!

Che ne sanno se è buono o no quello che gli passano lì in

convento?"

"Babi, non fare così. Vedrai che andrà tutto benissimo."

Raffaella cerca di tranquillizzarla.

"E una semplice cena..."

"Sì, ma è la mia cena e per me è importante! E uno si augura

che non sia l'ultima cena ma che, in questo caso, sia almeno

l'unica

cena!"

E così dicendo Babi se ne va, si chiude in camera sua e sbatte

la porta. Raffaella alza le spalle. È normale essere nervosi in

questa

situazione. Proprio in quel momento si apre la porta di casa ed

entra

Claudio.

"Amore, eccomi!"

"E meno male. Ma che hai fatto fino adesso?"

Claudio la bacia frettolosamente sulle labbra.

"Scusami, ho dovuto controllare delle pratiche in ufficio." Non

le può certo dire che invece ha controllato ogni possibile

optional, i

consumi e le fantastiche prestazioni della Z4. Non solo. Ha anche

fatto fare una valutazione praticamente irrisoria della sua

Mercedes.

"Cambiati la camicia e mettiti anche un'altra cravatta. Veloce.

Ti ho preparato tutto sul letto."

"Ma scusa, non dobbiamo andare a provare il catering del mio

amico Mangili? Che bisogno c'è che mi cambio?"

"Claudio, ma dove hai la testa? Ti ho chiamato apposta stamattina

in ufficio. Mi ero completamente dimenticata che stasera

dovevamo andare dai Pentesti. Mangili l'ho spostato alla settimana

prossima! Forza, preparati, che siamo già in ritardo."

Ah già, e vero.

Claudio va in camera e cerca di recuperare il tempo perduto.

Si spoglia veloce, si leva la giacca. Proprio in quel momento un

suono

insistente arriva dal telefonino. Claudio lo prende dalla tasca

della giacca. Ecco la risposta al suo messaggio. Lo legge,

sorride,

fa appena in tempo a cancellarlo quando entra Raffaella.

"Sbrigati, che cosa perdi tempo con quel telefonino. Chi era?"

"Sì, scusa, era Filippo Accado che mi aveva mandato un messaggio."

"Filippo? E da quando in qua vi scrivete messaggi?"

"Oh, per fare prima."

Claudio si leva la camicia e s'infila quella pulita, sbottonando

solo il colletto per fare più veloce, ma anche per nascondere il

viso.

"Niente, mi diceva che lunedì non si gioca a bridge, non so cos'è

successo."

"Meglio. Vuol dire che allora organizziamo per lunedì la prova

del catering da Mangili. Forza sbrigati, che t'aspetto in

salotto."

Claudio finisce d'infilarsi la camicia e s'accascia stravolto sul

letto.

Non se l'era mai vista così brutta. Ecco, è saltato pure il

bridge.

Be', è stata la prima cosa che m'è venuta in mente, a qualcosa

bisogna

pur rinunciare. Si mette la cravatta, alza il colletto della

camicia

e prepara il nodo. E se dai Pentesti ci fossero anche gli Accado?

Cazzo, a questo non c'avevo proprio pensato. E se Filippo, che è

un

coglione, non capisse al volo? Già gli sembra di sentire la sua

voce:

"Ma Claudio che dici? Io veramente non t'ho mandato nessun

messaggio".

E in quel momento vorrebbe non andare a quella festa. Si

stringe intorno al collo l'elegante cravatta blu scelta da

Raffaella. Poi

si guarda allo specchio. E per un attimo quella cravatta gli

sembra

una terribile corda da impiccato.

Capitolo 7.

Paolo è lì che guarda la tv mentre parla al telefono, steso sul

suo letto con le gambe che sporgono un po' fuori e il suo pollice

che saltella sul telecomando cercando qualcosa che lo interessi

più

di chi sta dall'altra parte del telefono.

"Ciao, io esco."

"Dove vai?"

Lo guardo per una volta senza sorridere: "A fare un giro".

Si pente di avermelo chiesto e cerca subito di recuperare.

"Il doppio delle chiavi lo trovi in cucina dentro l'armadio a

sinistra

prima della porta in un vasetto di cotto." La sua solita

precisione.

Poi spiega a chi sta dall'altra parte del telefono cosa sta

facendo, per chi e perché. Sono il fratello tornato dall'America.

Poi mi urla da lontano. "L'hai trovato?" Mi metto le chiavi in

tasca

e ripasso davanti a lui. "Trovato." Sorride. Sta per riprendere

a parlare quando copre d'improvviso la cornetta con la mano

sinistra,

poi teso come una corda: "Ma... Vuoi che ti presto la macchina?".

È preoccupatissimo nel dirlo, pentito nell'averlo proposto,

disperato all'idea di un mio sì. Lascio passare apposta qualche

secondo. E ne godo. D'altronde non gliel'avevo mica chiesta io.

"No, lascia perdere."

"Ah, ok, ok." Fa un sospiro. Ora è più rilassato. Poi cerca

comunque

in qualche modo di risolvere la mia vita. "Hai visto, Step?

Ho fatto portare la tua moto qui sotto in garage. "

"Sì, l'ho vista, grazie." Ma la mia vita non si risolve così

facilmente.

Prendo l'ascensore e scendo in garage. Sotto un telo grigio,

lì in fondo al cortile, vedo spuntare una ruota. La riconosco.

Leggermente consumata ma ancora viva, un po' di polvere e tanti

chilometri fatti. Con una mossa da torero sfilo via il telo.

Eccola.

L'Honda Custom VF 750 blu metallizzata. Accarezzo il serbatoio.

La mia mano dipinge un segno morbido nella polvere che

dorme su quel blu. Poi alzo la sella, attacco i cavi della

batteria, e

la richiudo. Ci monto sopra. Tiro fuori le chiavi dal giubbotto e

le

infilo lì sotto. Vicino al motore. Il portachiavi penzola leggero,

oscilla, rimbalza, toccando ogni tanto il freddo motore. Più su,

una

luce fioca colora di verde e rosso il dispositivo dell'accensione.

La

batteria è scarica. Provo per sfizio, ma sarà impossibile

accenderla.

Spingo il pulsante rosso con la mano destra. Vane speranze ora

confermate. Niente da fare. Devo spingere. Esco fuori dal garage

con la moto inclinata, poggiata al corpo, sulla mia destra, contro

le gambe. I quadricipiti si gonfiano. Uno dopo l'altro, passi

leggeri,

sempre più veloci. Il battito dei passi si alterna al rumore del

brecciolino, uno, due, tre, sempre più veloce. Esco dal cortile e

la

spingo per la strada. Ora più veloce. Ancora qualche passo. La

seconda

è già inserita. Tengo con la sinistra la frizione. Ecco, è il

momento.

Lascio andare la frizione. La moto frena quasi di colpo.

Ma io continuo a spingere, e lei borbotta. Tiro la frizione e la

lascio

di nuovo. E lei tossisce. Ora, ancora, con forza. Sto sudando.

Un'ultima spinta, me lo sento. E infatti si accende di botto. Fa

uno

scatto in avanti. Tiro la frizione e do gas con la destra. Il

motore

prende vita e ruggisce nella notte, sotto le case, nella strada

buia.

Ancora gas. Esce fumo vecchio dalle marmitte, grandi nuvole che

tossiscono di passato, di lungo riposo. Ancora gas. Ci monto sopra

e accendo le luci. Poi lascio andare la frizione e via nel vento

notturno. Sudato mi asciugo correndo via veloce per la Farnesina.

Passo sotto il cavalcavia. Affronto la curva scalando piegato,

senza frenare. Levo un po' di gas per ridarlo a metà curva e

stringere

di nuovo. La moto scodinzola. Do ancora gas e come un cane

ubbidiente lei corre via con me verso Ponte Milvio, dopo la

chiesa, il Parlotta, le mille pizze mangiate lì, il Gianfornaio

sulla

sinistra e quel fioraio lì vicino. Cazzo, quanti fiori mandati da

quel

fioraio, quello che fa più sconti di tutti. Tanti fiori, sempre

diversi,

sempre per la stessa lei. Non ci penso, non ci voglio pensare.

Pistola, il cocomeraio, è lì fuori che prova un telefonino. Due

clacsonate e mi guarda. Lo saluto ma non mi riconosce. Lo andrò a

trovare più tardi per ricordargli chi sono. Me ne frego, do gas, e

scivolo via nella notte. Cazzo... Che bella, Roma. Mi sei mancata.

Do ancora gas e giù per il Lungotevere. Dribblo le macchine.

Destra,

sinistra... Infine allargo portandomi veloce sul bordo della

strada. Sfioro i pini del Foro italico. Qualche mignotta sta

prendendo

posto accanto al suo fuocherello ancora spento. Gambe

grasse rotolano giù frenate solo da qualche gambaletto troppo

stretto. Una, finta o vera colta, legge un giornale. Ride con una

bocca sgangherata per qualche idiozia trovata tra quelle pagine.

Magari è una notizia triste e non l'ha capita. Un'altra e già

seduta

su una piccola sedia pieghevole, ha in mano le parole crociate e

con una penna le riempie veloce. O scrive a caso o sa veramente

quelle risposte. Do ancora gas e contemporaneamente scalo. Quinta,

quarta, terza, curva a gomito a destra. Freno poco più in là

davanti

al cineporto. Metto il cavalletto e scendo dalla moto. Gruppi

di ragazze ridono divertite fumando una sigaretta non viste da

qualche illuso genitore. Una bionda con i capelli corti e il

trucco

troppo pesante mi guarda, dà di gomito alla sua amica. Bruna,

occhi

nocciola, capelli a caschetto, seduta a gambe incrociate su un

SH 50 grigio petrolio. Quest'ultima mi guarda sbigottita e rimane

a bocca aperta. Mi tocco i capelli corti dietro la testa. Sono

abbronzato,

magro, sorrido, mi sento bene. Sono tranquillo. Ho voglia

di una birra fredda e di vedermi un film. Ho voglia di un'altra

cosa a essere sincero ma so di non poterla avere.

"Step, non ci posso credere!"

La bruna scende dall'SH 50 e mi corre incontro gridando come

una pazza. La guardo cercando di metterla a fuoco. Poi a un tratto

la riconosco: Pallina. Non ci credo... Pallina. Pallina, la donna

del mio amico, del mio migliore amico. Di Pollo, il compagno delle

prime sbornie, delle prime donne, di mille cazzate, di risate e

cazzotti, e lotte per terra, nella pioggia, nel fango, nelle

notti, nel

freddo, nel caldo, nelle vacanze della vita. E sigarette a mezzi e

centinaia

di litri di birra, sì, Pollo delle mille corse in moto e di

quell'ultima...

"Pallina." Mi salta al collo abbracciandomi con forza. E con

quella forza che mi ricorda proprio lui, il mio amico che non c'è

più. Cerco di non pensarci. La stringo forte, più forte, e respiro

tra

i suoi capelli, cercando di riprendere fiato, di ritornare al

presente,

alla vita. "Pallina." Si stacca e rimane a guardarmi con gli occhi

lucidi. Mi viene da ridere.

"Cazzo, ma sei diventata una strafiga!"

"Oh, ce l'hai fatta a capirlo!"

Ride divertita, ride e piange, al solito, pazza com'è, bella com'è

diventata.

E si asciuga con la mano il naso e tira su.

"E chi ti riconosceva! "

Gira davanti a me sorridendo, con amore negli occhi. Mi fa una

specie di sfilata.

"Allora come sto? Sono dimagrita eh, e il capello corto ti piace?

Che ne dici? Questo taglio lo conosci?"

"No assolutamente."

"Cazzo! Ma dai, questa è l'ultima moda! Ma come, proprio tu

che sei stato in America e non lo sai ! " Ride come una pazza.

"Sono fashion! L'ho copiato da 'Cosmopolitan' e 'Vogue'. Hai

presente Angelina Jolie e Cameron Diaz, ecco, le ho mischiate e

superate!"

È passato il momento difficile. Mi dà un cazzotto.

"Quanto mi sei mancato, Step." E mi abbraccia di nuovo.

"Anche tu."

"Ehi, pure tu stai una favola. Fatti vedere. Sei dimagrito. Questi

ci sono ancora?"

Mi tocca la maglietta e mi passa la mano sugli addominali.

"Eccome se ci sono... E più che mai! "

Mi fa il solletico.

"Ahia, ferma."

Ride.

"Mazza come stai messo. Vieni che ti presento. Questa è la mia

amica Giada."

"Ciao."

"Lui è Giorgio e lei Simona." Ci guardiamo facendo cenni di

saluto. Mi fermo per un attimo di troppo sul viso di Giada che

arrossisce

dando quell'ultimo tocco di fard alle sue guance già troppo

truccate. Pallina se ne accorge.

"Andiamo bene. Manco sei arrivato che già fai una strage."

Giada si gira facendo cadere i capelli sul viso. Si nasconde,

sorride,

gli occhi verdi spuntano tra le foglie chiare di un capello

divertito.

Alla Bambi. Pallina scuote la testa.

"Mah... Eccola lì... È andata. Andiamo anche noi, va'. Noi

entriamo

a farci una birra. Oh, caso mai dopo ci raggiungete, eh? Che

dobbiamo parlare dei tempi passati."

Non faccio in tempo a salutare, che Pallina mi trascina via:

"Cavoli,

ti devo raccontare mille cose. Oh, m'avessi scritto due righe,

una telefonata, una cartolina. Ma almeno il numero mio te lo

ricordi?".

Glielo dico perfettamente a memoria. Poi mi tradisco: "È lì che

cercavo sempre Pollo". Cazzo, vorrei non averlo detto. Per fortuna

siamo al cancello. Pallina mi salva. O non ha sentito o fa finta.

Saluta

un buttafuori mingherlino: "Ciao Andrea. Che, ci fai entrare?".

"Certo Pallina, stai sola con il tuo amico?"

"Sì, ma sai chi è lui?"

Andrea non risponde.

"Dai, è Step, ti ricordi, ti ho raccontato..."

"Come no." Sorride: "Cazzo, ma sono vere tutte le cose che ho

sentito su di te?".

"Riduci al sessanta per cento e qualcosa di buono c'è."

Pallina scuote la testa, mi tira per un braccio ed entra.

"E modesto." Pallina gli dà una pacca sulla spalla: "Grazie

Andrea".

La seguo divertito.

"Certo che sono proprio cambiati i tempi..."

"Perché?"

"Ma è così che li prendono i buttafuori adesso?"

Pallina guarda Andrea che ci segue con lo sguardo incerto. Forse

non è del tutto convinto che io sia quello Step di cui ha tanto

sentito parlare.

"Ma guarda, Step, che quello è uno preciso."

"Sì, preciso. Che vuol dire preciso? Ai bei tempi, prima di stare

su una porta ti facevano vedere i sorci verdi per capire se te la

cavavi o no. Sai che una volta al Green Time mi hanno detto di

consegnare

i soldi in una stanza in fondo... Sono entrato e mi sono

piombati addosso in tre." Comincio a raccontare. C'era anche

Pollo.

Stavolta però riesco a tenerlo fuori, a farlo stare tranquillo, al

suo posto, dovunque sia. Spero solo che stia ascoltando, e che si

diverta a questo ricordo.

"Insomma, col cavolo che mi hanno preso i soldi. Mi sono tolto

la cinghia al volo e pum ! In faccia a tutti e tre. A uno l'ho

preso

con la fibbia e gli ho spaccato uno zigomo. Gli altri due poca

roba.

Ma certe sganassate in faccia. E da quel giorno ho fatto quattro

mesi filati sulla porta del Green Time. 100 a sera. Era un sogno

e rimorchiavi che era una meraviglia."

"Pollo aveva un segno sulla faccia sotto lo zigomo sinistro. Mi

ha detto che era stata una cinghiata. "

Non le sfugge niente: "Forse sarà stato il padre".

Mi guarda e sorride. "Bugiardo. Non sei cambiato."

Ci sediamo a un tavolino di plastica con delle sedie bianche

e rimaniamo in silenzio. Mi giro a guardare intorno. Dietro di noi

c'è una specie di gommone gigante riparato alla meno peggio che

funziona da piscina. Persone di tutti i tipi schiamazzano e si

schizzano

là dentro. Uno dal bordo, urlando come un pazzo, raccoglie

le gambe e si lancia in mezzo a bomba. Schizza tutt'intorno.

Una signora grassa con un costume blu si copre i capelli come

può: "E santissima...". Impreca alzando le mani verso il ragazzo

che ride tra i suoi amici. La donna blatera qualcos'altro e

riprende

la sua passeggiata in quella piscina dall'acqua calda e schiumosa.

Il marito al bordo opposto, mezzo pelato e obeso, ride

guardandola.

Scuote la testa e fuma una sigaretta. Sicuramente sta anche

pisciando. Poi comincia a tossire. La sigaretta gli cade in acqua

e si spegne, gli dà una botta leggera con la mano spingendola più

in là nell'acqua dove un bambino nuota tentando un goffo stile

libero.

"Allora come stai?"

"Benissimo e tu?"

"Bene. Bene." Rimaniamo un po' in silenzio, imbarazzati per

quel tempo che non c'è più. Per fortuna, dalle casse distribuite

ovunque arrivano le note di una canzone, The lion sleeps tonight.

E chissà chi è adesso il leone tra noi. E, soprattutto, se dorme

davvero.

Un cameriere viene a prendere le ordinazioni.

"Aspetta, fammi indovinare. Una Corona con una fettina di limone."

Sorrido: "No, adesso Bud".

"Ma dai, anche a me piace un casino. Due Bud, grazie."

Chissà se l'ha detto sul serio.

"Sai, ti ho pensato spesso mentre stavi laggiù... A New York,

vero?"

"Sì." Mi fa ridere, non è cambiata, parla a raffica e a volte

tanto

per farlo. Mi ha pensato così spesso che non era neanche sicura

dov'ero. Cazzo Step, è Pallina. Lasciala stare. È la donna del tuo

amico Pollo. Non giudicare anche lei, non analizzare le sue parole

in continuazione. Dai, molla. Mi schiaffeggio il cervello: "Sì, a

New

York. E mi sono divertito un casino".

"Lo immagino. Hai fatto bene ad andartene. È stato tutto così

difficile qui." Arrivano le Bud. Le alziamo. Sappiamo a cosa

stiamo

per brindare.

"A lui..." Lo dico a bassa voce. E lei annuisce. Ha gli occhi

velati

d'amore, di ricordi, del passato. Ma qui è presente. E le Bud si

urtano con violenza. Poi la butto giù gelata che è una meraviglia.

Vorrei non staccarmi più, ma a metà freno e prendo fiato. Poggio

la Bud sul tavolo. "Buona." Cerco nel giubbotto. Pallina è più

veloce

di me. Tira fuori un pacchetto di Marlboro light dalla camicia

verde chiara con spalline militari e tasche con zip. Ne tira fuori

una

e mi passa il pacchetto. Ne prendo una e mi accorgo che non c'è

più la sigaretta girata. Quella del desiderio. Sogni finiti? Mi

prende

la tristezza. Richiudo il pacchetto e glielo do. Me la metto in

bocca. Poi lei mi allunga un accendino, anzi no, insiste per

accendere.

Ha le mani fredde, ma sorride. "Sai che da allora non sono

più stata con nessun uomo." Tiro una boccata e la mando giù,

piena,

pesante.

"Uomo? Ragazzo!" cerco di banalizzare.

"Va be', insomma, quello che è." Forse la Bud, la sigaretta, il

casino, tutto quello sporco intorno a noi. Ridiamo. E tutto

diventa

come un tempo, senza problemi. Ci raccontiamo di tutto, ricordi,

novità nostre, degli altri. Cazzate. Solite cazzate. Ma stiamo

bene.

Mi informa di fatti romani. "Eh dai, quella lì, te la ricordi, no?

Non sai che è diventata! "

"Bona?"

"'Na botte." Risate.

"Frullino, invece, è finito dentro di nuovo."

"No, giura!"

"Sì, ha fatto a botte col Papero perché s'era messo con la donna

sua e quello l'ha denunciato."

"Non ci posso credere, ma non c'è più religione."

"Telo giuro."

Ridiamo.

"I fratelli Bostini hanno aperto una pizzeria."

"Dove?"

"Al Flaminio."

"E com'è?"

"Buona, ci trovi un po' tutti ma anche un sacco di gente nuova.

È forte sai, e poi non spendi molto. Giovanni Smanella invece

non s'è preso ancora la maturità."

"No, non ci posso credere, ma che c'ha nel cervello?"

"Boh, pensa che quest'inverno mi veniva dietro."

"Ma dai... Che pezzo di merda! "

Riaffiorano i bei tempi. Pallina mi guarda preoccupata.

"Ma no, era una cosa carina. Eravamo diventati amici, mi faceva

compagnia. Mi parlava spesso di Pollo. "

"Pure!" Rimango in silenzio.

"Cazzo, Step," Pallina dà un lungo sorso alla birra, "ma non

sei cambiato di una virgola! "

Sto teso, ma poi lascio perdere. Ma sì, che mi frega. Non ha fatto

niente di male. In fondo la vita continua.

"Sono cambiato." Sorrido.

"Eh, meno male, allora si possono toccare anche altri argomenti?"

sorride e mi fa la faccia furba, indimenticabile. "Ahia..."

Si capisce che cambio faccia. "Ecco la nota dolente. Oh, te la sei

cercata. " Si scola l'ultimo sorso di birra, poi appare

completamente

donna: "Allora... l'hai più sentita? Quant'è che non la senti? Hai

provato a chiamarla da laggiù?".

È una macchinetta, sembra non fermarsi.

"Ehi calma, cazzo. Neanche fossi la pula che m'ha beccato!"

Cerco di non sembrare più di tanto toccato dal discorso. Ma non

so se ci riesco: "No, mai sentita".

"Più?"

''Più."

"Giura!"

"Giuro."

"Non ci credo."

"E che cavolo. Ma pensi che ti dico le bugie? Allora l'ho

sentita."

"No, no, va bene, ci credo. Io invece l'ho incontrata."

Poi fa una pausa. Lunga. Troppo lunga. Non dice niente. Lo fa

apposta. Mi guarda e sorride. Vuole che io dica qualcosa. Aspetta

ancora, troppo. Ma perché? Che palle. Che stronza. Non resisto.

"Allora dai, Pallina, forza. Sputa. Racconta."

"Sempre molto carina ma..."

"Ma?"

"Diversa. Non so come dire. Ecco, è cambiata."

"Be', su questo non avevo dubbi, tutti siamo cambiati."

"Sì, lo so... Ma lei... Lei è cambiata in un modo... Che ne so,

ecco,

in un modo diverso."

"Ma l'hai già detto! Ma che vuol dire 'sto modo diverso?"

"Senti, non lo so. È diversa e basta. È così, non so come dirlo.

O lo capisci o la devi vedere per capirlo. "

E grazie.

Poi non so come ma faccio la domanda. Mi viene normale. L'ho

pensata ma non volevo dirla. Eppure mi sfugge, mi esce così, senza

volerlo, che quasi non la dico io.

"Ma... era da sola?"

"Sì. E sai dove stava andando? A fare shopping."

Mi viene da ridere. La ricordo, la immagino e improvvisamente

la vedo. Babi. "Tu aspetta qui. Non ti muovere Step, non mi

sparire

come al solito. No, sul serio, non te ne andare che poi voglio il

tuo consiglio..." Mi lascia davanti alla vetrina. Entra, guarda,

sceglie,

poi mi chiama. "Guarda, ho deciso, prendo questo. Ti piace?"

Ma non mi dà il tempo di rispondere. Ci ripensa, cambia il

modello.

Ne prova un altro, le sta bene. Ora sembra di nuovo decisa. Fa

una specie di sfilata, poi mi guarda: "Allora?... Eh, che ne

dici?".

"Mi sembra che ti stia benissimo."

Si riguarda allo specchio. Ma trova qualcosa che non va, che

solo lei sa.

"Mi scusi ma voglio pensarci ancora un po' su."

Allora esce dal negozio e mi abbraccia.

"No, no, ho deciso di no. Viene troppo."

E si sente felice perché comunque ha deciso per il meglio. E alla

fine glielo regalavo io qualche giorno dopo. E lei rideva. Ed era

diventato un gioco. Un altro gioco. Babi, perché hai voluto

smettere

di giocare? Ma non faccio in tempo a trovare la risposta.

"Oh, ma lo sai che non sta più con quello?"

"No, non lo so. Come potrei saperlo poi? Te l'ho detto che non

l'ho più sentita. E che, c'ho gli informatori segreti?"

"Credo che non stia con nessuno." Lo dice apposta, sorridente,

pensa di farmi piacere. Non so cosa pensa o non lo voglio pensare:

"Be', Babi non mi interessa".

Fa la faccia incredula alla mia risposta. "Cosa?"

"Non mi interessa. Sul serio. D'altra parte qualcuno ha detto

che se ce la fai a New York, ce la puoi fare ovunque. E io credo

d'avercela

fatta."

"Ho capito. Non era qualcuno. Era Qualcosa è cambiato. Va

be', ti credo." Sorride e alza il sopracciglio. Mi bevo un altro

sorso

di birra.

"Guarda che non mi interessa veramente."

"Ma perché me lo ripeti, scusa."

Un telefonino comincia a squillare. Non è uno squillo normale.

Sembra una suoneria polifonica, ma bassa, distorta, brutta. Un

ragazzo seduto al tavolo vicino al nostro lo tira fuori dalla

tasca e

lo avvicina all'orecchio. Non è il suo. Continua a parlare con la

ragazza

seduta di fronte a lui, leggermente arrossito. Chissà quale

telefonata

poteva ricevere. La ragazza fa finta di niente. Il telefonino

continua a squillare. La suoneria insiste e diventa più alta. Un

uomo

grasso tira fuori un telefonino minuscolo dalla camicia e lo

guarda.

Non ci vede bene e se lo porta vicino all'orecchio. No, non è il

suo. Quasi lo butta sul tavolo. "Che palle 'sti telefonini."

"Io l'ho lasciato a casa," fa Pallina, "quindi non può essere il

mio. Qualche volta, quando non c'ho voglia, lo stacco, ma stasera

me lo sono proprio dimenticato." Lo squillo insiste.

"Guarda che mi sa che è il tuo." Finisco l'ultimo sorso di birra

che quasi mi va di traverso. Cazzo, è vero, non c'avevo pensato.

Lo tiro fuori dalla tasca. È lui. Ora suona più forte. La suoneria

deve

averla scelta Paolo. La gente mi guarda. Anche Pallina. Cerco

di giustificarmi. "Me l'ha regalato stasera Paolo." Pallina

annuisce.

"Pronto." E proprio il mio.

"Meno male, credevo fossi in discoteca. Ma non sentivi?" Una

bella voce di donna che alla fine si mette a ridere. "Ti starai

chiedendo

chi può avere il tuo telefonino. Tuo fratello mi ha spiegato

tutto.

Spero solo di essere stata io la prima a inaugurarlo. Sono Eva. "

Rimango per un attimo in silenzio. Eva? Ma certo... Eva, la

hostess. Eva che mi porta le birre, Eva che saltella su e giù per

l'aereo.

Eva la gnocca. Ecco quando serve un fratello. E un telefonino.

"Allora... Ci sei?"

"Come no."

"Hai capito chi sono o sei riuscito sul serio a dimenticarmi?"

"Come posso dimenticare..." Vorrei dire Eva la gnocca ma capisco

che non è il caso. "Eva. È che credevo che questo telefonino

non funzionasse. Non aveva ancora chiamato nessuno."

"Perché a quante hai già dato il tuo numero?"

Leggermente già gelosa. Rido: "A nessuna...".

"Dove sei?"

"Sono qui con una mia amica."

Silenzio dall'altra parte. "Qui dove?"

"Qui in giro..."

La cosa strana del telefonino è che sei dappertutto e da nessuna

parte.

"E com'è questa tua amica?"

"Una mia amica."

"La tua amica cosa dice che stai così a lungo al telefono?"

Pallina si guarda in giro e saluta degli amici che sono appena

entrati.

"Non dice. Te l'ho detto. E un'amica." La sento più sollevata.

"Senti, se ti va, ci incontriamo da qualche parte. Magari andiamo

a fare un giro."

"C'è un problema."

"La tua amica?"

"No, la mia moto. Sono in moto."

"Ah, allora sì che è un problema."

"Hai paura?"

"Non ho paura, dovrei averne?"

"No." Mi piace questa ragazza.

"Il problema è che non posso andarci. Ho il divieto

dell'assicurazione

di volo. "

Non so se crederle. Ma non è importante.

"E certo, se fai un volo in moto loro non pagano."

"Perché non vieni a trovarmi? Sono all'Hotel Villa Borghese."

Pallina mi guarda e fa un segno con la mano come a dire "Oh,

ma quanto dura 'sta telefonata?".

"E dopo usciamo in taxi? O non sei assicurata neanche per

quelli?"

Eva ride: "E dopo decidiamo".

Chiudo la telefonata.

"E meno male. Discussione con donna?"

"Sei diventata curiosa, eh?"

Mi alzo e prendo lo scontrino.

"Che fai, te ne vai?"

si, ma pago.

Pallina rimane un po' delusa: "Ci vediamo uno di questi giorni

o riparti subito?".

"No, resto."

"Dammi il numero, così ti rintraccio io."

"Non lo so a memoria."

Mi guarda con la sua faccia buffa. La piega da un lato. E mi

fissa.

È più carina, più donna. E le voglio bene. Ma non c'è niente da

fare. Non mi crede.

"Dai, allora ti faccio uno squillo io. Oppure telefona a casa, mi

trovi lì, sto da mio fratello, il numero è sempre lo stesso."

Si tranquillizza. Si alza e mi dà un bacio: "Ciao Step.

Bentornato".

E raggiunge gli amici.

Capitolo 8.

La moto si accende subito. La batteria si è ripresa senza

problemi.

Prima, seconda, terza. In un attimo sono sotto il cavalcavia

di corso Francia. Mi viene in mente una cosa e torno indietro. A

una come Eva forse può piacere. E soprattutto ne ho voglia io.

Cinque minuti dopo. Corso Francia, piazza Euclide, viale Parioli.

Una casba di ristoranti e macchine in doppia fila. Finti

posteggiatori

eleganti, probabili polacchi dall'italiano stentato. Una signora

più o meno negata tenta una manovra per posteggiare bene. Secondo

lei. In realtà ha bloccato un'intera curva. Ragazzi e ragazze

fuori dal Duke ostacolano il traffico. Svicolo veloce fra le

macchine,

evito un tentativo di curva a U e sono a piazza Ungheria. A

destra e poi dritto fino allo zoo. In fondo a sinistra e poi di

nuovo

a destra. Hotel Villa Borghese. Posteggio la moto e scendo con

la busta. "Buonasera." Cazzo, non ci avevo pensato. Non so il

cognome.

"Buonasera..." Ci riprovo. Chissà da dove può arrivarmi

l'ispirazione. Il portiere, un uomo sui sessant'anni dall'aria

pacioccona

e simpatica, decide di salvarmi.

"La signorina l'aspetta. Camera 202, secondo piano."

Vorrei chiedergli perché pensa che io vada proprio da lei. E se

volevo invece una stanza o qualcos'altro? Una semplice

informazione,

per esempio. Ma capisco che è meglio stare zitti. "Grazie."

Mi guarda andar via. Fa un mezzo sorriso, poi sospira. Fa su e giù

con la testa. Invidia per Eva o per quegli anni ormai passati, più

belli

perfino di lei. Salgo le scale. 202. Mi fermo e busso.

"È lo champagne?" chiede divertita venendo verso la porta.

"No, la birra."

Apre: "Ciao, entra". Mi bacia due volte sulla guancia. Cammina

tranquilla, leggermente altera ma più morbida di come passeggiava

sull'aereo. E un'altra cosa. Ha i capelli sciolti.

"A parte gli scherzi, vuoi qualcosa da bere? Me la faccio portare

da giù."

"Sì, te l'ho detto. Della birra."

"Quella è nel frigo." Mi indica un piccolo frigorifero nell'angolo

opposto al suo. Vado a prenderla. Quando mi giro è già seduta

sul divano. Ha le braccia aperte, poggiate sul bracciolo e sul

cuscino. Le gambe lasciate andare giù, con le ginocchia che si

stringono

vicine. "Sono stravolta. Ho fatto un giro per fare shopping

come mi avevi detto tu."

"E come è andata?"

"Bene. Ho comprato una camicia da notte e un completo molto

carino di un blu particolare, 'blu perso', così l'ho chiamato io.

Ti piace?"

"Molto."

Sorride, si tira su, sedendosi più dritta: "Vuoi vedere come mi

sta?".

Vivace, attenta, divertita. E mi sorride. Mi guarda in maniera

più intensa. Con una strana malizia. Per dimostrare qualcosa, la

sua

ipotetica eleganza o chissà cos'altro. È una sfida? L'accetto. "Ma

certo."

Prende una busta. Mi guarda, poi alza il sopracciglio e divertita

si allontana. Ma so che vuole sentirselo dire.

"Dove vai?"

"In bagno. Che pensavi?" E chiude dietro di lei la porta con

un ultimo sorriso della serie: "Ma tra poco sono qui, cosa credi".

Finisco la birra appena in tempo. Eccola. Eva.

"Come sto?" Ha la camicia da notte trasparente che le scivola

sul corpo come un'onda leggera, così leggera che mi sembra quasi

di sentire quel mare. È color blu polvere. Blu perso, come ha

detto

lei. Ha pettinato anche i capelli. Perfino il sorriso, non so, è

cambiato.

"Carina. Molto. Se questa è la camicia da notte... ora vorrei

vedere

il completo."

Ride. Poi cambia espressione e si avvicina con fare professionale.

È tornata hostess. "È lei che ha suonato? Cosa desidera?"

Non mi vengono battute. Me ne affiora una: "Come direbbe la

signora:

'Te, gnocca' ". Ma la trovo pessima. E l'abbandono. E faccio

bene.

Ma lei insiste.

È vicinissima al mio viso. E mi torna in mente per un attimo

quella canzone dei Nirvana, "If she ever comes down now...".

"Allora, cosa desideri?"

"Perdermi nel tuo blu perso."

E questa le piace. Eva ride. Me la dà buona. La battuta. Decide

di sì, di farmi perdere subito. Mi bacia. Meravigliosamente bene,

tranquilla, morbida, a lungo. Gioca con il mio labbro inferiore

succhiandomelo, lo tira leggermente a sé, alla sua bocca. Poi, a

un

tratto, lo lascia andare. Ne approfitto.

"Ti ho portato una cosa."

D'altronde non c'è fretta. Non è previsto l'atterraggio. Non

adesso. Mi stacco da lei e prendo la busta. Rimane sorpresa a

guardarmi.

Ha i capezzoli che affiorano tra le pieghe leggere della sua

camicia da notte. Ma non voglio perdermi ora tra quelle correnti.

Apro la busta sotto i suoi occhi.

"No, stupendo. Due fette di cocomero!"

"Le ho prese da un mio amico a Ponte Milvio. Era una vita che

non lo vedevo, me le ha regalate."

Gliene passo una.

"Ha i cocomeri più buoni di Roma." Dopo i tuoi, vorrei aggiungere.

Ma sarebbe peggio dell'altra. Addenta la fetta e subito

con un dito raccoglie un po' di succo che le scivola dalle labbra

e

succhia cercando di non perderne neanche una goccia. Rido. Sì.

Non c'è fretta. Addento la mia anch'io. È fresca, dolce, buona,

compatta,

non farinosa. Eva continua a mangiare. Le piace. Le divoriamo

guardandoci, sorridendo. Diventa quasi una gara. Le mezze

lune rosate alla fine ci rimangono in mano. Mentre con la bocca

continuiamo a masticare. Il succo ci scivola giù fino al mento.

Lei

poggia la sua fetta finita sul tavolo e, senza asciugarsi la

bocca, mi

bacia di nuovo.

"Ora sei tu il mio cocomero." Mi morde sul mento e mi dà una

leccata tutt'intorno alla bocca, frenata solo dalla mia barba

ancora

leggera. E lei decisa, affamata, divertita. Ancora più donna.

"Sai, ti ho desiderato in aereo e ti desidero adesso..."

Non so cosa risponderle. Mi fa strano sentirla parlare. Rimango

in silenzio mentre lei mi sorride. "È la prima volta che vado con

un passeggero."

Tranquillo tiro fuori il telefonino dalla tasca. Penso alla

suoneria

e lo spengo. Certo, visto come stanno andando le cose, è il più

bel regalo che Paolo mi potesse fare.

"Invece tu eri l'unica hostess che mi mancava."

Prova a darmi uno schiaffo. Le blocco al volo la mano e la bacio,

dolcemente. Si arrabbia, fa la finta imbronciata, sbuffa.

"Però sei anche il cocomero più buono che abbia mai assaggiato."

Scuote la testa divertita e si libera dalla presa. Si siede

davanti

a me con le gambe incrociate. Decisa, sfrontata, spavalda. Mi

infila

apposta la mano lì davanti. Lentamente, con dolcezza. Dove sa

lei. Dove so io. Mi guarda negli occhi, con sfida, senza pudore. E

io la guardo, senza cedere, sorridendo. Allora mi tira a sé, con

desiderio,

avida, aggrappandosi quasi alle mie spalle. E mi lascio andare,

così. Mi perdo in quell'ex blu perso, piacevolmente rapito

dalla dolcezza del tutto, cocomero compreso.

Capitolo 9.

Lontano. Sull'Aurelia, prima di Fregene, a Castel di Guido. Un

vecchio castello abbandonato è stato tirato a nuovo. Cinquanta

writer hanno passato due giorni a graffitarlo. Cinque americane

tirate

su con lampade d'ogni tipo, tanto da poterlo, in un attimo,

illuminare

a giorno. All'interno, tre consolle con duecento casse da

100 kw sparse lungo i saloni abbandonati, su, nelle rocche, nelle

stanze con gli antichi affreschi ormai scoloriti dal tempo e

perfino

nelle cantine. Cinquemila candele disseminate a caso tra il

giardino

e gli interni. E come se non bastasse, due camion con più di

duecento

materassi ancora coperti dal cellophane. Sì, perché non si sa

mai... E quel non si sa mai Alehandro Barberini non se lo lascia

certo

scappare. Questa è la sua serata. Per i suoi vent'anni il padre

gli

ha regalato una carta nera della Diners. E quale migliore

occasione

per inaugurarla se non questa? 200.000 euro, una strisciata et

voilà, il gioco è fatto. E Gianni Mengoni non si è certo lasciato

scappare

l'occasione di un evento come questo. È lui che ha preso in

mano la situazione. Ha ordinato più di mille bottiglie di alcolici

e

trecento di champagne, quarantacinque vasche gonfiabili piene di

ghiaccio eventi camerieri... d'altronde, perché andarci cauti?

Lui,

solo per l'organizzazione, si è fatto staccare un assegno da

30.000

euro. Già incassato. "Sai, con questi nobili un po' decaduti un

po'

no, non si sa mai" ha detto al povero Ernesto, che si è dovuto

occupare

sul serio di tutta l'organizzazione. Per Ernesto invece 1800

euro e una faticata che dura da più di un mese. Ma per lui quei

1800 sono una manna dal cielo. Vuole colpire al cuore la bella

Madda.

È un mese che trescano ma ancora non gliel'ha data. Stasera

sente di poter andare sul sicuro. Le ha comprato il giubbotto che

le piaceva tanto. 1000 euro suonati per della pelle rosa anticata

graffiata.

Ma contenta lei... contento pure lui. Il pacchetto l'ha nascosto

in macchina e quando tornerà a fine serata, all'alba... o quando

sarà, sarà... è già sicuro di quel suo sorriso. Di quel sorriso

che

l'ha tanto colpito, che l'ha convinto a prenderla come aiutante

anche

per questa serata. E per "soli" 500 euro. Insomma, se tutto va

bene, alla fine della serata Ernesto si metterà in tasca 300 euro

ma

avrà qualcosa in cambio che non ha prezzo. Certe felicità non

fanno

caso agli zeri.

"Dani, ma dov'eri finita? E un'ora che t'aspetto qua fuori."

"Lo so, ma abbiamo dovuto lasciare la macchina in fondo. Ha

sempre paura che gliela rigano."

"Ma perché, con chi sei venuta?"

"Come con chi? Te lo avevo detto, con Chicco Brandelli!"

"Non ci credo!"

"Guarda che quando io dico una cosa è quella."

"Ma ancora gira... Guarda che quello t'ha puntato solo per

vendicarsi

di tua sorella ! "

"Sentila. Ma quanto sei acida. Con me è carino invece. Ma poi

che ne vuoi sapere tu. Ma perché, scusa, Giovanni Franceschini,

quello che ha sempre fatto il filo a cosa... a quella della III A,

come

si chiama?"

"Cristina Gianetti."

"Eh. Non si è messo poi con la sorella più piccola, quando l'ha

conosciuta?"

"E grazie, la prima è una suora patentata, l'altra dicono che fa

dei numeri che in confronto Eva Henger è noiosa! "

"Be', a me Brandelli mi piace un casino e poi te l'ho già detto,

tra quattro giorni è il mio compleanno e ormai ho deciso."

"Ancora con questa storia? Guarda che non è che a diciott'anni

scadi! Tu ti sei fissata. Anche se la tua prima volta ce l'hai fra

due

anni, ma che ti frega?"

"Due anni? Ma che sei matta? E quando recupero? Ma come,

ora che ho preso coraggio, tu mi sfondi così? E poi scusa, tu

quando

l'hai fatto?"

"Sedici."

"Vedi e ti credo che parli come ti pare."

"Ma che c'entra, io con Luigi ci stavo già da due anni."

"Senti, non rompere. A me Chicco Brandelli mi piace un casino

e io stasera ho deciso che lo faccio con lui. Cavoli e fai l'amica

per una volta ! ! "

"Ma infatti, è proprio perché ti sono amica."

Dani si gira e lo vede da lontano.

"Dai basta, basta. Eccolo che arriva. Dai, adesso entriamo e

non ne parliamo più."

"Ciao Giuli." Chicco Brandelli la saluta con un bacio sulla

guancia. "Come stai bene, è una cifra che non ti vedevo. Stai

proprio

un fiore... Allora? Sono stato bravo a trovare i biglietti per

questa serata? Siete contente, bambole? Dai, andiamo dentro."

Chicco Brandelli prende per mano Daniela e va verso l'entrata.

Alle sue spalle Giuli incrocia lo sguardo di Daniela e fa il verso

a Brandelli mimandolo... "bambole". Poi fa una smorfia di schifo

come a dire "mamma, ma è terribile". Daniela da dietro, senza

farsi

vedere, prova a tirarle un calcio. Giuli si sposta ridendo. Chicco

tira di nuovo a sé Daniela.

"Ma che fate? Dai, state buone, state sempre a giocare. Adesso

entriamo." Si avvicina ai quattro buttafuori, dei tipi enormi, di

colore, dai capelli rasati e rigorosamente vestiti di nero. Il

tipo controlla

i biglietti. Poi annuisce vedendo che è tutto a posto. Sposta

una corda dorata facendoli passare. La piccola comitiva entra,

seguita

da altri ragazzi appena arrivati.

Capitolo 10.

Poco più tardi o forse molto più tardi. Quando ci si addormenta

su un letto non si sa più che ora è. Mi sveglio, è li accanto. I

capelli

sciolti le sprofondano tra le pieghe del cuscino, lì dove la sua

bocca

imbronciata cerca respiro. Mi comincio a vestire in silenzio.

Mentre

mi infilo la camicia Eva si sveglia. Allunga veloce la mano vicino

a lei.

Vede che non ci sono. Poi si gira. Sorride trovandomi ancora lì.

"Vai via?"

"Sì, devo andare a casa."

"Mi è piaciuto molto il cocomero."

"Anche a me."

"Sai qual è una cosa che mi è piaciuta moltissimo?"

Mi ricordo tutte quelle che abbiamo fatto e mi sembrano tutte

perfettamente belle. E poi perché sbilanciarsi?

"No, qual è?"

"Che non mi hai chiesto come sono stata."

Rimango zitto.

"Sai, è una cosa che tutti mi chiedono sempre e mi sembra così...

stupida, non so come dire."

Tutti. Tutti chi? vorrei dire. Ma non è poi così importante.

Quando

fai solo sesso non cerchi ragioni. È quando non fai solo quello

che cerchi tutto il resto.

"Non te l'ho chiesto perché so che sei stata bene."

"Cretino! " Me lo dice con troppo amore. Mi preoccupo. Si avvicina

e mi stringe le gambe, baciandomi subito dopo la schiena.

"Perché, come sei stata?"

"Benissimo."

"Hai visto?"

Lei rincara: "Di più".

"Lo so" e le do un bacio veloce sulle labbra, poi infilo la porta.

"Ti volevo dire che rimango ancora qualche giorno..."

Donna leggermente dispiaciuta.

"Per fare shopping?"

"Sì..." Sorride ancora un po' intontita di piacere. "Anche..."

Non le do il tempo di aggiungere altro.

"Chiamami, il mio numero ce l'hai" poi esco in fretta. Rallento

giù per le scale. Di nuovo solo. Mi infilo il giubbotto e tiro

fuori

una sigaretta dalla tasca. Faccio il punto della situazione. Sono

le tre e mezzo. Nella hall il portiere è cambiato. È uno più

giovane.

Sonnecchia appoggiato alla sedia. Esco per strada e accendo la

moto. Ho ancora addosso il profumo del cocomero e di tutto il

resto.

Peccato. Avrei voluto ringraziare il portiere che c'era prima.

Che ne so, lasciargli una mancia o ridere con lui, fumarmi una

sigaretta.

Magari gli avrei raccontato qualcosa, quelle solite cazzate

che si raccontano su quello che si è combinato. Chissà, nel

passato

l'avrà fatto anche lui con qualche amico. Non c'è niente di più

divertente che raccontare i dettagli a un amico. Soprattutto se

lei

non ha preso il nostro cuore. Non come allora. Lei. Di lei non ho

mai raccontato nulla a nessuno, nemmeno a Pollo. Ma è un attimo.

Niente, non c'è niente da fare. Quando fai solo del sesso, l'amore

di un tempo ti viene a cercare. Ti trova subito. Non bussa alla

porta.

Entra così, all'improvviso, maleducato e bello come solo lui può

essere. E in un attimo infatti sono di nuovo perso in quel colore,

nell'azzurro dei suoi occhi. Babi. Quel giorno.

"Dai muoviti, ma quanto ci metti."

Sabaudia. Lungomare. La moto è ferma sotto un pino, vicino

alle dune.

"Allora? Step, non ho capito. Ma tu lo vuoi o no il gelato?"

Sono piegato, sto chiudendo la moto con la catena.

"Ma come non hai capito, ma guarda che sei forte. Ti ho detto

di no, Babi, grazie no."

"Ma sì che lo vuoi, lo so."

Babi, dolce testarda.

"Ma allora scusa, perché me lo chiedi? Ma poi ti pare, Babi,

che se lo volessi non me lo prenderei? Non costa niente."

"Ecco, vedi come sei... Pensi subito al denaro, sei venale."

"Ma no, lo dicevo nel senso che il ghiacciolo costa poco. Che

ti frega Babi, uno lo prende lo stesso e al massimo lo butta. "

Babi si avvicina con due ghiaccioli in mano.

"E infatti ne ho presi due. Tieni, uno per me all'arancia e uno

per te alla menta. "

"Ma a me non mi piace per niente alla menta."

"Ma scusa prima non lo volevi per niente e ora ti lamenti pure

per il gusto! Ma guarda che sei forte. E poi comunque vedrai che

ti piacerà."

"Ma lo saprò o no se una cosa mi piace! "

"Adesso fai così perché ti sei impuntato. Dai, ti conosco bene."

Prima scarta il mio e comincia a leccarlo. Poi me lo passa dopo

averlo assaggiato.

"Uhmm... Il tuo è buonissimo."

"E allora prendi il mio! "

"No, ora mi va quello all'arancia."

E lecca il suo ghiacciolo, guardandomi, ridendo. E poi diventa

spinta, perché il ghiacciolo si scioglie velocemente e se lo mette

tutto

in bocca. E ride. E poi vuole assaggiare per forza di nuovo il

mio.

"Dai, dammi un po' del tuo" e lo dice apposta, ridendo, e si

struscia,

e siamo poggiati sulla moto, e allargo le gambe, e lei ci si

infila

dentro, e ci baciamo. I ghiaccioli cominciano a sciogliersi, lungo

il

palmo delle mani giù per il braccio. E ogni tanto andiamo con la

lingua

a raccogliere un po' d'arancia, un po' di menta. Sulle mani, tra

le dita, lungo i polsi, lungo l'avambraccio. Morbida. Dolce.

Sembra

una bambina. Ha un pareo lungo, celeste chiaro, coi disegni più

scuri.

Lo tiene avvolto in vita. Ha i sandali azzurri e sopra solo un due

pezzi, azzurro pure quello, e una collana lunga con delle

conchiglie

bianche, arrotondate, alcune più piccole, altre più grandi. Si

perdono

e ballano tra i suoi seni caldi. Mi bacia sul collo.

"Ahia! " Mi ha poggiato apposta il ghiacciolo sulla pancia.

"Piccolino mio, ahia..." Mi fa il verso. "Ma che, ti ho fatto

male?

Hai freddo?"

Irrigidisco i muscoli e lei si diverte ancora di più. Fa scivolare

il

ghiacciolo sui miei addominali, uno dopo l'altro. Ma io mi

vendico.

"Ahi."

"Ecco, tieni un po' di menta sui tuoi fianchi." E continuiamo

così, a pennellarci di arancia e menta sulla schiena, dietro il

collo,

sulla gamba e poi tra i suoi seni. Il ghiacciolo si spezza. Un

pezzo

s'infila dentro il bordo del costume.

"Ahia, ma che sei cretino, è gelato! "

"E certo che è gelato, è un ghiacciolo! "

E ridiamo. Persi in un bacio freddo sotto il sole caldo. E nelle

nostre bocche arancia e menta si trovano mentre noi naufraghiamo.

"Dai, Babi, vieni con me."

"Ma dove?"

"Vieni..."

Guardo a destra e a sinistra, poi attraverso la strada velocemente

tirandola via con me e lei corre, quasi inciampa, strappando

i sandali all'asfalto caldo. Lasciamo il mare, la strada, per

salire

su, tra le dune. E correre ancora verso l'interno. Poi, poco

lontani

da un campeggio di turisti stranieri, ci fermiamo. Lì, nascosti

tra la macchia bassa, tra il verde brullo, sulla sabbia quasi

rarefatta,

sotto un sole guardone, mi distendo sul suo pareo. Ora siamo

a terra. E lei viene su di me, senza il costume, mia. E con il

caldo, gocce di sudore scivolano giù, portate da rivoli di capelli

biondo cenere, perdendosi sulla sua pancia già abbronzata, più

giù, tra i suoi riccioli più scuri e ancora più giù, tra i miei...

E quel

dolce piacere, il nostro. Babi si muove su di me, su e giù,

lentamente.

Poi lascia andare indietro la testa, sorridendo verso il sole.

Felice di essere amata. Bella, in tutta quella luce. Menta.

Arancia.

Menta. Arancia. Menta... Aranciaaaaa...

Basta. Sono fuori. Dai ricordi. Dal passato. Ma sono anche fuori

di testa. Prima o poi le cose che hai lasciato indietro ti

raggiungono.

E le cose più stupide, quando sei innamorato, te le ricordi

come le più belle. Perché la loro semplicità non ha paragoni. E mi

viene da gridare. In questo silenzio che fa male. Basta. Lascia

stare.

Metti tutto di nuovo a posto. Ecco. Chiudi. Doppia mandata.

In fondo al cuore, lì dietro l'angolo. In quel giardino. Qualche

fiore,

un po' d'ombra e poi dolore. Mettili lì, ben nascosti, mi

raccomando,

dove non fanno male, dove nessuno li può vedere. Dove

tu non li puoi vedere. Ecco. Di nuovo sotterrati. Ora va meglio.

Molto meglio. E mi allontano dall'albergo. E guido piano. Via

Pinciana,

via Paisiello, dritto verso piazza Euclide. Non c'è nessuno in

giro. Una macchina della polizia è ferma davanti all'ambasciata.

Uno dorme. L'altro legge chissà cosa. Accelero. Supero il

semaforo,

poi giù per via Antonelli. Sento il vento fresco che mi accarezza.

Chiudo gli occhi per un attimo e mi sembra di volare. Un respiro

lungo. Bello. Il servizio della hostess poi è stato impeccabile.

Eva. Persa in quel "blu perso". Bella. Ha un corpo perfetto. E poi

mi piace una donna che non si vergogna del suo desiderio. Dolce.

Dolce come un cocomero. Anzi, di più. Imbocco corso Francia. È

notte fonda. Allungo sul cavalcavia. Ora fa quasi freddo. Alcuni

gabbiani si alzano in volo dal Tevere. Si affacciano sul ponte. È

come

se timidi salutassero. Poi si rituffano giù, verso il fiume. Fanno

dei versi leggeri, un richiamo, una richiesta. Piccoli gridi

soffocati,

quasi avessero paura di svegliare qualcuno. Scalo e giro su per

via

di Vigna Stelluti. Poi mi metto a ridere da solo. Eva... Che

strano.

Non so neanche il suo cognome.

Capitolo 11.

A Castel di Guido la festa impazza. All'interno la musica è

assordante.

Luci rosse, viola, blu. Delle cubiste ballano su balle di

fieno, completamente nude. Un culturista incatenato con un

cappuccio

in testa, dal corpo oliato coperto solo da un perizoma

grecoromano, finge di ringhiare, di staccarsi dalle catene del

muro per

cercare di prenderle. Dani e Giuli gridano divertite. Un cavaliere

e la sua donna nuda attraversano il salotto a cavallo. Su un

divano

abbandonati ragazzi e ragazze bevono, ridono, si baciano nascosti

dalla penombra, illuminati a tratti da un piccolo faro verde che

attraversa

le stanze seguendo la musica. Camerieri in perfetta giacca

bianca passano con vassoi servendo da bere a tutti alcolici al

top,

dal rum John Bally al gin Sequoia. Chicco ne prende al volo due e

se li scola. Poi balla sul posto alzando le braccia al cielo.

"Ma questo posto è stupendo! È l'inferno per soli ricchi, quindi

è solo per noi... Grande! " Poi prende Daniela e le fa fare un

giro

a tempo di musica, ride con lei, l'abbraccia e la bacia

delicatamente

sulle labbra. Poi la lascia andare così, con un piccolo volteggio

di danza più o meno azzeccato.

"Aspettate qui, bambole, che vado a prendervi qualcos'altro

da bere!"

Giuli lo guarda andare via, poi si gira verso Daniela e la fissa

in

silenzio.

"Dani... ma sei veramente decisa?"

"Non ce la posso fare..."

"Ah, ecco!"

"Ma no, mi piace un casino, è solo che mi devo lasciare andare,

e tu mi rendi tutto ancora più difficile."

"Io?"

"E chi sennò! Mi devo stonare. Solo che se bevo, poi mi sento

male."

"Dani guarda, ma quello non è Andrea Palombi?"

"Sì, è lui. Mamma! È una vita che non lo vedo! "

"Si è trasformato. Ma che gli hanno fatto? Gli hanno menato?"

"No, da quando ci siamo lasciati ha avuto un crollo."

"Totale! Ecco, con lui dovevi avere la tua prima volta, con uno

che almeno ti amava sul serio, ma quanto siete stati insieme?"

"Sei mesi."

"E in sei mesi non c'è stata occasione?"

"Ci sarà pure stata, ma se sto così vuol dire che alla fine non

c'è stata! Quindi... E comunque non è che sono cose che si possono

stabilire a tavolino ! "

"Ma che dici! Ma se stasera stai facendo tutto a tavolino! "

"Basta, mi stai intonando. Non ce la farò mai. Devo prendere

un'ecstasy! Ecco, quello mi ci vorrebbe."

"Sì, fichissimo. Io l'ho presa alla festa di Giada, quella sì che

t'aiuta"

"Che t'ha fatto?"

"Niente^ Stavo benissimo. C'era pure Giovanni e abbiamo fatto

l'amore. È stato bellissimo con lui."

"E ti credo, stavi sotto ecstasy."

"Ma che c'entra, io con Giovanni sto sempre benissimo! Mi sono

sempre trovata bene con lui da quel punto di vista, abbiamo una

grande intesa sessuale, che ti credi?"

"Certo, lui l'intesa sessuale ce l'ha con chiunque respiri! "

"Be', adesso l'acida sei tu, eh. Allora scusa potevi andare con

Giovanni direttamente invece di farti tanti problemi, no? ! "

"Basta, dai, non litighiamo. Ma dove la trovo?"

"Che cosa?"

"Giovanni?! Macché... un'ecstasy! Ma oh, ti sei rincoglionita?"

"Guarda, lì c'è una gangsta."

"Chi?"

"Una gangsta. Sei proprio out. Le gangste sono quelle toste,

quelle che hanno la roba. La vedi quella lì coi capelli a

treccine?

Dai cavoli! È lì vicino alla consolle? Ecco, lei c'ha di tutto.

L'ho vista

all'entrata. Hai capito qual è? Eccola là, l'hai vista?"

"Sì, ma sta vicino a Madda."

"A chi?"

"A Madda Federici. Quella che ha fatto a botte con mia sorella

due anni fa."

"Ma che ti frega. Ma tu poi che c'entri, scusa? E comunque

quelle lavorano insieme. Tu salutala e vedrai che non ci saranno

problemi. "

"Dici?"

"Vai."

Daniela prende coraggio e attraversa il salone. Madda da lontano

la vede arrivare. E la riconosce. Non le ha mai dimenticate.

Nessuna delle due. Si rivolge alla gangsta.

"Sophie, che t'è rimasto?"

"Un'ecstasy e uno scoop."

"Oh, vedi quella che arriva adesso?"

La gangsta guarda verso Daniela.

"Sì, embe'?"

"Be', se ti chiede qualcosa dalle comunque lo scoop."

"E quanto le chiedo?"

"Cazzi tuoi."

Daniela arriva. Si ferma davanti alle due. La gangsta alza il

mento

come a dire "cerchi qualcosa?". Daniela saluta per prima Madda.

"Ciao, come stai?"

Madda non risponde. Daniela continua.

"Scusa, volevo sapere se hai un'ecstasy."

"E io voglio sapere se hai i soldi" fa la gangsta.

"Quanto ti dovrei dare?"

"50 euro."

"Ok, tieni." Daniela li prende dalla tasca dei pantaloni e glieli

passa. La gangsta li fa sparire in un attimo nelle sue saccocce

davanti.

Poi tira fuori dal bracciale una pasticca bianca. Daniela la

prende e fa per andarsene.

"Ehi, ferma. " Madda la blocca. "Quella roba non la porti in giro.

La prendi ora e qui. Tieni" e le allunga la mezza bottiglia di

birra

che stava bevendo.

Daniela la guarda preoccupata.

"Ma non mi farà male con la birra?"

"Se sei venuta fino qua, non può che farti bene! "

Daniela s'infila la pasticca in bocca e dà un lungo sorso. Poi

torna giù e riprende fiato. Deglutisce e sorride.

"Fatto."

Madda la ferma.

"Fai vedere? Alza la lingua."

Daniela ubbidisce. Madda controlla per bene. Sì, ha preso sul

serio la pasticca.

"Ok, ciao e divertiti."

Daniela si allontana proprio mentre Chicco Brandelli ha raggiunto

Giuli con due bottiglie di champagne. Madda e Sophie restano

a guardarla.

"Capirai, quella va fuori di testa. Se non hai mai preso nulla,

uno scoop ti sfonda. Non ti ricordi neanche quello che hai fatto."

"Je sta bene. Così porta i miei saluti a sua sorella! "

"Mai mettersi contro di te, eh?"

"Mai. È solo questione di tempo."

"Be', Madda, io vado."

"E con l'ultima ecstasy che ci fai?"

"Me la frullo a casa. C'è Damiano che torna presto stasera. Almeno

facciamo un po' di sesso."

"Ok, godi sore'. Mi fai un ultimo piacere? Hai presente la

macchina

di Ernesto?"

"Sì, quella blu sfondata."

"Ecco, vieni che ti spiego cosa devi fare."

La musica sembra salire. Lo scoop sta facendo effetto. Dani

balla sfrenata davanti a Giuli.

"Come stai?"

Da sogno.

"E che effetto ti fa?"

"E che ne so? Non lo so. Non capisco più niente, so solo che

voglio scopare! Voglio scopare!"

Daniela salta come una pazza gridando, coperta a volte dal suono

della musica, a volte no. Proprio come quando finisce davanti

ad Andrea Palombi.

" Io voglio scopare ! " urla Daniela a squarciagola. Andrea le

sorride.

"Finalmente!" Le fa eco. "Anch'io!"

"Sì, ma io non con te! "

E Daniela continua a correre urlando, saltando di gioia, facendo

casino, persa tra le braccia che la toccano, bevendo bicchieri

che le passano davanti, ballando con sconosciuti, fino a trovare

quelle mani, quelle labbra, quel viso, quel sorriso... Ecco.

Cercavo

te. Mi piaci. Sei proprio bello. E lo vede biondo e poi bruno

e poi non lo vede più. E poi si trova in una camera e lo vede

spogliarsi.

E si vede spogliarsi. Il cellophane del materasso viene sfilato

via come la carta di un gelato, di un gelato da leccare. Ed è

quello che lei fa. Poi si perde distesa su quel materasso freddo.

Delle mani la prendono da sotto, le allargano le gambe. E piano

piano si sente accarezzare. Ahi, mi fa male... Fa male... Ma deve

far male? È così, pensa. Sì, è così. È bello anche perché fa male.

E

continua a vedere quello strano mare intorno a sé. E tutto

ondeggia.

E su e giù. E su e giù. Come quel corpo su di lei. E poi sorride.

E ride. E ha un'unica domanda. Ma domani mattina qualcuno

scriverà qualcosa sul muro per me? È così che funziona, no?

Una scritta d'amore solo per me... E sorride. Addormentandosi.

Non sapendo che non ci sarà nessuna scritta, di nessun genere. E

neanche un nome, se è per questo.

Più tardi. È l'alba.

"No, non ci posso credere!" Ernesto corre distrutto verso la

sua macchina blu.

"Mi hanno sfondato il finestrino! "

"Capirai," fa Madda salendo in macchina, "è già tutta sfondata! "

"No, ma non hai capito, m'hanno fregato un bellissimo regalo

che avevo preso per te! Non sai, avevo speso un sacco di soldi.

Era

quel giubbotto rosa, quello che ti piaceva tanto ! "

"Sì e tu hai scucito ben 1000 euro per me?! E cosa volevi mai

in cambio? Eh? A furbo! Domani ce credo. Portami a casa, va', che

sono stanca e ho sonno! "

"Te lo giuro, Madda! Te l'avevo preso."

"Sì sì, va bene. Senti, io devo andare a casa che domani mattina

parto presto."

"Per dove?"

"Firenze, starò fuori una settimana. Magari ci sentiamo quando

torno."

"A fare che?"

"Ma, per lavoro, altre serate, altre cose. Ma che, me stai a fa'

l'interrogatorio? Senti, oh, guarda che così mi stressi... mi stai

sempre

addosso, e mollami! "

E così Madda scende al volo e sale sulla prima macchina che

passa. È quella di Mengoni ed è ancora più felice di andare via

con

lui. Ernesto le corre dietro gridando.

"Dove vai? Aspetta!"

Madda sorride tra sé. Ma aspetta che? Il giubbotto rosa è già a

casa che m'aspetta. E senza dartela. Che serata. Da sogno! Ho pure

conciato per le feste la Gervasi piccola. È stato veramente un

sogno!

E Madda non sa, invece, a quale incubo ha dato vita.

Capitolo 12.

Dormiveglia. Sento i rumori di Paolo dalla cucina. Mio fratello.

Muove le cose cercando di non fare rumore, lo capisco da come

vengono poggiati i piatti sul tavolo e richiusi i cassetti. Mio

fratello

è una donna. Ha le stesse attenzioni che aveva mia madre. Mia

madre. Sono due anni che non la vedo, chissà come avrà adesso i

capelli. Li cambiava spesso nell'ultimo anno. Seguiva la moda, i

consigli delle amiche, una foto su un giornale. Non ho mai capito

perché una donna è sempre così fissata sui capelli. Mi viene in

mente

un film con Lino Ventura e Françoise Fabian, Una donna e una

canaglia. 1970. Lui finisce in prigione. Lei va a trovarlo. Buio.

Si

sentono solo le loro voci.

"Cosa c'è?... Perché mi guardi così?"

"Hai cambiato taglio di capelli."

"Non ti piaccio?"

"No, è che quando una donna cambia taglio di capelli vuol dire

anche che sta per cambiare uomo."

Sorrido. Mia madre ha visto molte volte quel film. Magari ha

preso sul serio quelle parole. Una cosa è sicura: ogni volta che

la

incontro non ha mai lo stesso taglio. Paolo compare sulla porta,

la

apre piano, attento a non farla cigolare: "Stefano, vieni a fare

colazione?".

Mi giro verso di lui: "Hai preparato roba buona?".

Rimane un momento perplesso: "Sì, credo di sì".

"Va bene, allora vengo." Non capisce mai quando scherzo. In

questo non ha preso da mia madre. Mi infilo una felpa e rimango

in mutande.

"Ammazza come sei dimagrito."

"Di nuovo... Già me lo hai detto."

"Dovrei trasferirmi anch'io per un anno in America. Si tocca

un rotolo della pancia prendendolo tra due dita: "Guarda qui".

"Il potere e la ricchezza regalano la pancia."

"Allora dovrei essere magrissimo. " Cerca di buttarla sullo

scherzo.

Anche in questo è diverso da mamma perché non gli riesce.

"A che pensi?"

"Che sei forte ad apparecchiare."

Si siede soddisfatto: "Be' sì, mi piace..." . Mi passa il caffè.

Io lo

prendo e a occhio ci aggiungo un po' di latte freddo, senza

neanche

provarlo, poi addento un grosso biscotto al cioccolato: "Buono".

"È cacao amaro. Li ho presi per te. A me non piacciono. Sono

troppo amari. Mamma te li prendeva sempre quando stavamo a casa

tutti insieme."

Rimango in silenzio a bere del caffellatte. Paolo mi guarda. Per

un attimo vorrebbe aggiungere qualche cosa. Ma ci ripensa e si

prepara

il suo cappuccino.

"Ah, ieri sera ti ha chiamato quella ragazza, Eva Simoni, ti ha

trovato sul telefonino?"

Eva. Ecco come si chiama: Simoni. Mio fratello sa pure il cognome.

"Sì, mi ha trovato."

"E l'hai vista?"

"Che sono tutte queste domande?"

"Sono curioso, aveva una bella voce."

"All'altezza del resto."

Finisco di bere il caffellatte: "Ciao Pa', ci vediamo".

"Beato te che stai così."

"Che vuol dire?"

Paolo si alza e comincia a mettere tutto a posto: "Dai, che stai

così, libero, te la diverti, fai quello che ti pare. Sei stato

fuori, sei

ancora sul sospeso, non definito".

"Sì, sono fortunato." Me ne vado. Gli dovrei dire troppe cose.

Gli dovrei spiegare in maniera gentile che ha detto un'ignobile,

grande, terribile cazzata. Che uno cerca la libertà solo quando si

sente prigioniero. Ma sono stanco. Ora non mi va, non mi va

proprio.

Entro in camera, guardo la sveglia sul comodino e riesco di

botto.

"Cazzo, ma tu mi hai svegliato e sono solo le nove?"

"Sì, fra poco devo stare in ufficio."

"Ma io no!"

"Sì, lo so, ma visto che devi andare da papà..." Mi guarda

perplesso.

"Ma... non te l'avevo detto?"

"No, non me l'avevi detto."

Continua a mantenere una certa sicurezza. Poi mi guarda col

dubbio di averlo fatto o meno. E veramente sicuro di avermelo

detto,

oppure è un grande attore.

"Be', comunque ti aspetta alle dieci. Ho fatto bene a svegliarti,

no?

"E certo, come no. Grazie Paolo."

"Figurati."

Niente. Ironia zero. Continua a mettere le tazze e la caffettiera

nel lavabo tutto ordinatamente nella vasca a destra, sempre e solo

in quella a destra.

Poi torna sull'argomento.

"Ehi, ma non mi chiedi perché papà ti vuole vedere alle dieci,

non sei curioso?"

"Be', se mi vuole vedere immagino che poi me lo dirà."

"E già, certo."

Vedo che è rimasto un po' male.

"Ok. Allora... Perché mi vuole vedere?"

Paolo smette di lavare le tazze e si gira verso di me asciugandosi

le mani su uno straccio. È entusiasta.

"Non dovrei dirtelo perché è una sorpresa."

Si accorge che mi sto incazzando.

"Però te lo dico perché mi fa piacere. Credo ti abbia trovato

un lavoro! Sei felice?"

"Moltissimo."

Però, sono migliorato. Riesco a fingere bene anche davanti a

una domanda così.

"Allora che ne dici?"

"Che se continuo a chiacchierare con te faccio tardi."

Vado a prepararmi.

Sei felice? La domanda più difficile. "Per essere felici," dice

Karen Büxen, "ci vuole coraggio." Sei felice... Una domanda così

poteva farla solo mio fratello.

Capitolo 13.

Dieci meno un minuto. Guardo il mio cognome scritto sul

campanello.

Ma è casa di mio padre. È scritto a penna in modo irregolare,

senza fantasia, senza calore, allegria neanche a parlarne. In

America non sarebbe passato. Ma cosa importa. Siamo a Roma, in

una piccola piazza a corso Trieste, vicino a un negozio che vende

roba di finta classe. La accatasta in vetrina al prezzo di 29,90

euro.

Come se un coglione qualsiasi non capisse che avere quella roba

da schifo equivale ai suoi 30 euro. Animo da commercianti, finti

furbi e un sorriso obbligato. Suono.

"Chi è?"

"Ciao papà, sono io."

"Sei puntuale. L'America ti ha cambiato." Ride.

Vorrei tornarmene a casa, ma ormai sono qui: "A che piano

stai?".

"Al secondo."

Secondo piano. Entro e mi chiudo il cancello alle spalle. Che

strano,

il secondo piano non mi è mai piaciuto. L'ho sempre considerato

una via di mezzo tra l'attico e il giardino, un posto al buio per

chi

sopravvive. Spingo il due. Il discorso vale anche per l'ascensore.

Un

tragitto corto a metà. Inutile per chi vuole fare un po' di sport,

scomodo

comunque per chi non ce la fa. Papà è sulla porta che mi aspetta:

"Ciao". È emozionato e mi stringe forte. Un po' a lungo, troppo

a lungo. Mi viene un piccolo nodo alla gola ma lo prendo a calci.

Non ci voglio pensare. Mi dà un cazzotto leggero sulle spalle:

"Allora...

come va?".

"Benissimo." I calci sono serviti. Parlo normalmente: "E tu?

Come stai?".

"Bene. Che te ne sembra di questa casetta? Mi sono spostato

da sei mesi ormai e mi ci trovo bene, l'ho arredata io."

Vorrei dire "e si vede", ma lascio stare. Non che me ne freghi

niente.

"Poi è comoda, non è tanto grande, sarà un'ottantina di metri

quadri, ma per me va benissimo, ci sto quasi sempre da solo."

Mi guarda. Crede o spera che quel "quasi sempre" porti da

qualche parte. Invece no. Se è per me... Giace lì, insabbiato.

Sorride

inutilmente, poi riprende: "Ho trovato quest'occasione e l'ho

presa, poi la sai una cosa? ho sempre pensato che un secondo piano

non mi piacesse invece è meglio, è più... coibentata".

Spero che non mi chieda cosa significhi. L'avrò sentito migliaia

di volte. È uno di quei termini che odio.

"E poi è più comoda, più tranquilla."

Troppi aggettivi sono quasi sempre per giustificare una scelta

sbagliata.

Mi ricorda una frase di Sacha Guitry: "Ci sono persone che

parlano,

parlano... finché non trovano qualcosa da dire".

"Sì, sono d'accordo con te." Magari lo fosse sulla citazione, ma

non può. L'ho solo pensata. Non gliela dirò.

Mi sorride.

"Allora?"

Lo guardo sconfortato. Allora? Cosa vuol dire la domanda

"allora?".

Mi ricordo che quando stavo in classe al liceo c'era Ciro

Monini, quello del primo banco, che diceva sempre: "Allora?

Allora?".

E Innamorato, quello dietro a lui, rispondeva sempre: "Allora?

Sessanta minuti!". E rideva. E la cosa terribile è che rideva

anche l'altro. Andavano avanti così quasi ogni giorno. Non so se

si

vedono ancora. Ma temo che facciano lo stesso gioco magari con

qualcun altro... Allora? Allora io voglio bene a mio padre. Cazzo,

sto male e scomodo in questa poltrona. Ma mi sforzo. "Non sai

quanto sono stato bene a New York, benissimo."

"C'era gente?" Lo guardo. "Dico, italiani." Per un attimo mi

ero preoccupato.

"Sì, molti, ma tutta gente diversa da quella che uno è abituato

a incontrare qui."

"In che senso diversa?"

"Ma, non lo so. Più intelligenti, più attenti. Dicono tutti meno

cazzate. Girano, parlano senza problemi, si raccontano..."

"Che vuol dire si raccontano?"

Se almeno fossimo a cena. A tavola perdonerei chiunque. Anche

i miei parenti. Chi l'ha detto? Ero al liceo e mi ha fatto ridere.

Forse Oscar Wilde. Non credo di farcela. Ma ci provo.

"Che non si nascondono. Affrontano la loro vita. E poi...

ammettono

le loro difficoltà. Non a caso hanno quasi tutti uno

psicanalista."

Mi guarda preoccupato: "Ma perché, tu ci sei andato?".

Mio padre, sempre la domanda sbagliata al momento giusto.

Lo tranquillizzo. "No papà, non ci sono andato." Vorrei aggiungere

"Ma forse avrei dovuto. Forse quello psicanalista americano

avrebbe capito i miei problemi italiani". O forse no. Vorrei

dirglielo, ma lascio stare. Non so quanto dureremo. Cerco di

semplificare.

"Io non sono americano. E noi italiani siamo troppo orgogliosi

per ammettere di aver bisogno di qualcuno. "

Rimane in silenzio. Si preoccupa. Mi dispiace. Allora cerco di

aiutarlo, di non fargli credere che abbia lui qualche colpa.

"E poi scusa che facevo, buttavo i miei soldi? Andare da uno

psicanalista e non capire quello che ti dice in inglese... allora

sì che

hai problemi di testa! " Ride.

"Ho preferito spenderli in un corso di lingue, almeno li ho

buttati,

ma senza sperare di stare meglio! "

Ride di nuovo. Ma mi sembra che si sforzi. Chissà cosa vorrebbe

che gli dicessi.

"Comunque, a volte non siamo capaci di raccontare i nostri

problemi neanche a noi stessi."

Diventa serio.

"Questo è vero."

"È la stessa ragione per la quale ho letto che sono sempre meno

quelli che in chiesa si confessano."

"Già..."

Non ne è convinto. "Ma dove l'hai letta?"

Come sospettavo. "Non me lo ricordo."

"Allora torniamo a noi."

Perché dove eravamo andati? Torniamo a noi... Che modo di

dire. Sto male. Sto scomodo. Mio padre. Mi sto innervosendo.

"Ti ha detto niente Paolo?"

"Di cosa?" Mentire al padre. Io non rientro in quell'articolo

sulla confessione. Non vado in chiesa. Non più. "No, non mi ha

detto niente."

"Be'..." Mi sorride superentusiasta. "Ti ho trovato un lavoro."

Cerco di fingere alla meglio: "Grazie". Sorrido. Dovrei fare

l'attore.

"Potrei sapere di che si tratta?"

"Ma certo. Che sciocco. Allora, ho pensato, visto che sei stato

a New York e hai fatto un corso di computer grafica e di

fotografia,

giusto?"

Andiamo bene. Non è sicuro neanche lui su cosa ha fatto suo

figlio a New York. E dire che la scuola la pagava proprio lui ogni

mese.

"Sì, giusto."

"Ecco, l'ideale era che ti trovassi qualcosa che ha a che fare con

quello che hai studiato. E l'ho trovato! Ti hanno preso in un

programma

televisivo come addetto alla computer grafie e alle immagini!"

Lo dice con un tono che sembra la traduzione italiana dell'oscar

americano: And the winner is... il vincitore è... sono io?

"Be', naturalmente sarai l'assistente, cioè la persona che segue

chi fa tutti i disegni grafici al computer e cura le varie

immagini,

credo."

Quindi non sono il vincitore. Solo un secondo classificato.

"Grazie papà, mi sembra un'ottima cosa."

"O qualcosa del genere, insomma, non so spiegarti."

Approssimativo come sempre. Impreciso. Vicino alla verità o

qualcosa del genere. Mio padre. Ma ha mai capito sul serio quello

che è successo con mamma? Credo di no. A volte mi domando cosa

c'è di lui in me. Mi immagino la scopata che mi ha generato. Lo

guardo, lui sopra la mamma. Mi viene da ridere. Se sapesse cosa

sto

pensando. Suona il citofono. "Ah, deve essere per me." Si alza

frettoloso,

leggermente imbarazzato. E certo, per chi può essere? Io non

abito più qui, come Alice. Papà ritorna ma non si siede. Rimane lì

in

piedi, muove le mani in modo nervoso: "Sai, non so come dire, ma

c'è una persona che vorrei farti conoscere. È strano dirlo al

proprio

figlio, ma diciamo che siamo fra uomini, no? È una donna". Ride

per

sdrammatizzare. Non voglio rendergliela difficile.

"Certo papà, che problema c'è... siamo tra uomini."

Resto in silenzio. Rimane lì in piedi a guardarmi. Non so che

dire.

Vedo che evita il mio sguardo. Suonano alla porta e va ad aprire.

"Ecco, lei è Monica."

E bella. Non tanto alta, troppo truccata. Ha un profumo forte,

un vestito di media eleganza, i capelli troppo bombati, sulle

labbra

troppa matita. Sorride, i denti non sono un granché. Non è poi

così bella. Mi alzo in piedi come mi ha insegnato mia madre e ci

stringiamo la mano.

"Piacere."

"Mi ha tanto parlato di te, sei tornato da poco vero?"

"Ieri."

"Come sei stato fuori?"

"Bene, molto bene."

Si siede tranquilla e accavalla le gambe. Gambe lunghe, molto

belle, scarpe leggermente consumate, un po' troppo. Dalle scarpe,

ho letto, si riconosce la vera eleganza di una persona. Leggo un

sacco

di cose ma non mi ricordo mai dove. Ah sì, era "Class",

sull'aereo.

Era un'intervista a un buttafuori. Diceva che dalle scarpe decide

sempre se far entrare una persona nel suo locale o no. Lei sarebbe

rimasta fuori.

"E quanto tempo sei stato a New York?"

"Due anni."

"Tanto" sorride guardando mio padre.

"Ma sono passati così, senza problemi."

Spero non faccia altre domande. Forse lo capisce. E si ferma.

Tira fuori dalla borsa un pacchetto di sigarette. Diana blu. Anche

su questo il buttafuori sarebbe rimasto indeciso. Poi se ne

accende

una con un Bic colorato e dopo aver dato la prima tirata si guarda

in giro. Lo fa solo per far capire, non cerca niente in realtà.

"Ecco, Monica" si precipita vicino a lei mio padre con un

portacenere

preso al volo da un comò lì dietro.

"Grazie" tenta di far cadere della cenere nel portacenere. Ma

è ancora troppo presto. Sulla sigaretta c'è stampata mezza sua

bocca

sotto forma di rossetto rosso, con tutte le sue zigrinature. Odio

il rossetto sulla sigaretta.

"Be', io vado, arrivederci."

"Ciao Stefano, mi ha fatto piacere conoscerti" sorride un po'

troppo. E mi segue mentre mi allontano.

"Aspetta, ti accompagno."

Vado con mio padre verso la porta.

"Ci conosciamo da qualche mese. Sai, in fondo sono quattro

anni che non uscivo con una donna." Ride. Ogni volta che deve far

passare qualcosa che gli sembra difficile, ride. Ma che cazzo

c'avrà

da ridere? E poi si giustifica troppo. Sembra sempre che cerchi di

convincere se stesso delle scelte che fa. Comunque non me ne frega

niente. Non vedo l'ora di farla finita.

"Sai, è simpatica..."

Mi racconta qualcosa di lei. Ma non lo sto a sentire. Vedo che

parla, parla, parla. Ma penso ad altro. Mi ricordo che ero piccolo

e mia madre scherzava con lui in camera da pranzo. Poi ha

cominciato

a correre e lui subito dietro nel corridoio, inseguendola

fino alla porta della camera da letto e io correvo dietro a papà e

gridavo:

"Sì, prendiamola, catturiamola!". Poi hanno lottato un po'

sulla porta. Mamma rideva e si voleva chiudere dentro e lui invece

cercava di entrare. Alla fine mamma ha lasciato andare la porta

ed è corsa verso il bagno. Ma lui l'ha raggiunta e l'ha buttata

sul

letto e papà rideva perché lei ha iniziato a fargli il solletico.

Ridevo

anch'io quel giorno. Poi è arrivato Paolo. Allora mamma e papà

ci hanno fatto uscire dalla stanza. Hanno detto che dovevano

parlare

ma ridevano mentre lo dicevano. Allora io e Paolo siamo andati

in camera nostra a giocare. Poi, un po' più tardi anche loro

due sono venuti da noi. Ma chiacchieravano piano, lenti, erano

come

morbidi in viso. Li ricordo con una luce diversa, come se fossero

luminosi. Perfino nei capelli, negli occhi, nel sorriso. E si sono

messi a giocare con noi e mamma mi abbracciava e rideva e mi

pettinava sempre i capelli. Me li mandava indietro, un po' con

forza,

per scoprire il viso. Mi dava fastidio ma glielo lasciavo fare.

Perché

le piaceva. E perché era la mia mamma.

"Scusa papà, ma devo proprio scappare..." Tronco chissà quale

discorso.

"Ma mi hai sentito? Hai capito allora? Alle due da Vanni. Ti

aspetta

il signor Romani per il programma." Stava parlando di questo.

"Sì, certo, ho capito. Il signor Romani alle due da Vanni. "

Sbuffo.

"Scusami, eh?"

Poi scendo veloce per le scale, non mi fermo a guardare indietro.

Poco dopo sono sulla moto. Ho fretta di allontanarmi. Ho voglia

di andare lontano. Cambio le marce e la velocità, non so perché,

mi piace più del solito.

Capitolo 14.

Babi, che fine hai fatto? Una bella canzone diceva che è facile

incontrarsi anche in una grande città. Sono giorni che giro. Non

volendo, la cerco. Mi ha preso in giro quella canzone. Non c'è

traccia

di lei. Senza accorgermene, mi ritrovo sotto casa sua. Fiore, il

portiere, non c'è. C'è la sbarra abbassata. Un nuovo negozio di

vestiti

lì vicino, dove prima c'era un'autorimessa. Perfino Lazzareschi

non c'è più. C'è un nuovo ristorante, Jacini. Elegante, tutto

bianco.

È come se qualcuno volesse quasi costringerci a migliorare. Ma

io resto così, come sono, con il mio giubbotto Levi's un po'

strappato

e la moto con le marmitte allentate.

"Ehi, ma tu non sei Step?"

Mi giro e non ci credo. E mo', chi è questa qua? Sono seduto

sulla moto davanti al giornalaio quando mi si avvicina questa

strana

"sgnappetta" castana chiara, con la faccia divertente, da

impunita,

le mani sui fianchi come se non avessi capito.

"Allora? Sei tu o no?"

"Ma tu chi sei?"

"Mi chiamo Martina, abito qui agli Stellari. Potresti rispondere?"

"Perché me lo chiedi?"

"E tu rispondi... che, hai paura?"

Mi fa quasi ridere, è forte. Avrà sì e no undici anni.

"Sì, sono io Step."

"Veramente sei Step? Non ci credo. Non ci credo. Non ci posso

credere... Non ci credo."

La guardo divertito. Sono io che non riesco a crederci.

"Allora?"

"Tu forse non ti ricordi di me, sarà stato due anni fa, ero sulle

scalette del comprensorio con due mie amiche e stavo mangiando

la pizza rossa e tu salivi di corsa e hai detto 'Mmmh, mi sembra

buona quella pizza' e io non ti ho risposto, ma ho pensato un

sacco

di cose, e te l'avrei fatta assaggiare! "

"Forse avevo fame..."

"No, ma questo non c'entra."

"Non ci sto capendo più niente."

"No, ti volevo dire che per me, anzi per noi, c'è una cosa

pazzesca

che tu hai fatto. Ne parliamo sempre con le mie amiche, ti

giuro, quella scritta sul ponte di corso Francia... Io e te... Tre

metri

sopra il cielo. Mamma, lo pensiamo sempre. Ma come ti è venuto

in mente? Cioè, ma veramente l'hai fatta tu?"

Non so cosa rispondere, ma non importa. Tanto non me ne dà

neanche il tempo.

"Cioè, per me quella è la scritta più bella del mondo. Quando

mamma mi accompagnava a scuola la guardavo. Ma poi lo sai che

qualcun altro ha fatto quella stessa scritta? Cioè, ti hanno

copiato!

C'è quella scritta anche in altri posti di Roma, ti giuro, è

pazzesco,

sta in un sacco di posti! E una mia amica quest'estate al mare mi

ha detto che l'ha vista anche nella sua città! "

"Veramente non volevo lanciare una moda."

Immagino per un attimo se ora passassero i miei amici, quelli

di un tempo e mi vedessero stare qui intrattenuto da questa specie

di "sgnappetta"... Eppure mi piace.

"Be', comunque è pazzesco, noi tutte sogniamo un ragazzo che

faccia una scritta così per noi. Ma mica è facile trovare un tipo

così! "

Mi guarda e sorride. Mi ha fatto un complimento secondo lei.

"Ecco, lo vedi quello lì..."

Mi indica, senza farsi vedere troppo, un ragazzino vicino

all'uscita

del comprensorio. È seduto sulla catena che va da un pilastro

all'altro. Si dondola dandosi una spinta con le sue grosse scarpe

da

ginnastica. Ha i capelli lunghi, una specie di codino con un

nastro

colorato alla fine, ed è un po' cicciotto.

"Si chiama Thomas, mi piace un casino e lo sa." Il tipo la vede.

Sorride da lontano. Alza il mento come per salutarla. Sembra

anche incuriosito che Martina parli con un ragazzo più grande.

"Sì, secondo me lo sa. Fa apposta il cretino con le mie amiche,

e mi dà un fastidio! Se becco chi gliel'ha detto... Ma fino a

quando

non sono sicura... Ma a quello lì quando gli verrebbe in mente

una scritta bella come la tua, eh?"

Guardo Martina e penso a tutto quello che ha ancora da vivere.

Alla bellezza del suo primo amore, di quello che sarà, di quello

che non pensi mai possa finire.

"Al massimo fa una scritta da deficiente per la sua squadra. E

poi la sai una cosa? Questa te la devo proprio raccontare. Una

volta

mio padre e mia madre, che stanno insieme da un sacco di tempo,

almeno da poco prima che nascessi io, be' un giorno stavano

litigando

come pazzi per casa, io stavo in camera mia e li sentivo

benissimo,

e mia madre a un certo punto ha detto a mio padre: 'Il tuo

non è amore, ti sei fatto due conti, hai visto che ero una brava

ragazza

e che potevo andar bene... ma l'amore non è questo, hai capito?

L'amore non è come fare i conti dall'alimentari. L'amore è quando

fai una cosa pazza, come quella scritta sul ponte. Io e te... Tre

metri

sopra il cielo. Ecco, quello è amore'. Così gli ha detto, hai

capito?

Bello, no? Eh? Che pensi Step, ha ragione mia madre, vero?"

"Quella scritta era per una ragazza."

"Oh lo so, come no, era per Babi. Abita qui agli Stellari, nella

palazzina D, la conosco e la vedo ogni tanto, Io so che era per

lei,

che ti credi, so tutto."

Inizia a infastidirmi. Cosa può sapere? Cosa sa? Non voglio

sapere.

"Be', grazie Martina, ora devo proprio andare."

"Lo dicevamo sempre noi amiche che lei era fortunatissima.

Una scritta così poi. Io un ragazzo che mi fa una scritta così non

lo

lascerei mai. Ti posso fare una domanda?"

Non mi dà il tempo di rispondere.

"Ma perché vi siete lasciati?"

Rimango per un po' in silenzio. Poi accendo la moto. È l'unica

cosa che posso fare.

"Non lo so. Se avessi la risposta ti giuro che te la darei."

Sembra dispiaciuta sul serio. Poi viene rapita di nuovo dalla sua

allegria.

"Be', comunque, se passi un'altra volta da queste parti magari

ci mangiamo insieme un pezzo di quella pizza rossa, eh?"

La guardo e le sorrido. Io e Martina, undici anni, che ci mangiamo

la pizza. I miei amici impazzirebbero. Ma non glielo dico.

Almeno lei, con la sua età, che si tenga stretta i suoi sogni.

"Certo, Martina, se passo di qua."

Capitolo 15.

Paolo non è tornato. Forse non torna per pranzo. La casa è

perfettamente

in ordine. Troppo in ordine. Preparo la sacca. Calzettoni,

maglietta, pantaloncini, una felpa e mutandine. Mutandine.

Pollo mi prendeva sempre in giro perché usavo i diminutivi per

ogni cosa. "Facciamo un giretto. Ti va un caffettino? Mi

andrebbero

due pennette..." Questa cosa deve avermela attaccata mia madre.

Gliel'ho detto una volta a Pollo. Lui si è messo a ridere. "Quanto

sei donna," mi diceva, "hai una donna dentro." E mia madre ha

riso quando gliel'ho raccontato. Chiudo la zip della borsa. Mi

manchi,

Pollo. Mi manca il mio migliore amico. E non posso far niente

per farlo tornare. Non posso incontrarlo. Prendo la sacca ed esco.

Affanculo, non voglio pensare. Mi guardo allo specchio mentre

l'ascensore

scende. Sì. Non voglio pensare. Mi metto a cantare una

canzone americana. Non mi ricordo le parole. Era l'unica che

sentivo

sempre a New York. Una vecchia di Bruce. Cazzo, cantare fa

bene. E io voglio star bene. Esco dall'ascensore con la sacca

sulle

spalle. Canticchio: "Needs a local hero, somebody with the right

style...". Sì, era qualcosa del genere. Ma non importa. Pollo non

c'è

più. Piccolo eroe. "Lookin' for a local hero, someone with the

right smile..." Vorrei tanto parlare un po' con lui ma non è

possibile.

Mia madre invece abita da qualche parte ma non ho voglia di

parlare con lei. Ci provo di nuovo... "Lookin' for a local hero."

Cazzo

non ho imparato niente di quella canzone.

Flex Appeal, la mia palestra, la nostra palestra. Nostra, dei

nostri

amici. Scendo dalla moto. Sono emozionato. Cosa sarà cambiato?

Ci saranno altre macchine? E poi chi incontrerò? Mi fermo

un attimo nella piazzetta prima dell'ingresso. Guardo nella

vetrata

appannata dalla fatica e dal sudore.

Delle ragazze ballano al ritmo di una canzone americana nella

sala grande. Tra loro ci sono solo due uomini che tentano

disperatamente

di andare a tempo con il bodywork di Jim. Così leggo

sul foglio attaccato all'entrata che indica la speciale lezione o

quel che deve essere. Indossano scarpe, body, tutine e top quasi

tutte di marca. Pare una sfilata. Arabesque, Capezio, Gamba,

Freddy, Magnum, Paul, Sansha, So Danca, Venice Beach, o Dimensione

Danza. Come se nascoste dietro un nome potessero ballare

meglio. Come cazzo fanno due uomini a non vergognarsi per

quel miserabile tentativo di ginnastica. In mezzo a tutte quelle

donne poi. Body stretti e colorati, trucchi perfetti, calzamaglie

nere, pantaloncini o tute aderenti... e poi, due uomini in

calzoncini.

Uno pelato, l'altro quasi. Hanno la maglietta larga che nasconde

la pancia. Saltano scoordinati, affannati, disperatamente

alla rincorsa del ritmo. Ma non lo trovano. Anzi, qualcuno deve

averglielo nascosto per bene fin dall'infanzia. Insomma, fanno

pena.

Vado oltre ed entro. In segreteria c'è un ragazzo mezzo tinto,

capello lungo, faccia abbronzata. Parla sommessamente al cellulare

con un'ipotetica donna. Mi vede e continua per un po' a

chiacchierare,

poi alza lo sguardo e si scusa con una certa "Fede" al telefono.

"Prego?"

"Vorrei fare la tessera. Tutto il mese."

"Sei già stato qui da noi?"

Mi guardo in giro, poi guardo lui.

"Ma non c'è Marco Tullio?"

"No. È fuori. Lo puoi trovare domani mattina."

"Ok, allora mi iscrivo domani, sono un suo amico."

"Come vuoi..."

Non gliene frega più di tanto, d'altronde i soldi non sono suoi.

Vado nello spogliatoio. Due ragazzi si stanno cambiando per

allenarsi.

Ridono e scherzano. Parlano del più e del meno e di una certa

ragazza. "Niente, siamo stati a cena alla Montecarlo, la pizzeria.

Oh, non sai... Ogni due minuti le squillava il cellulare. Era

l'uomo

che sta facendo il militare. E lei giù che gli raccontava

cazzate."

"Ma no, giura!"

"Te lo giuro."

Ascolto mentre mi cambio, ma già immagino come va a finire:

"E lei che diceva 'ma no, no, sto a cena con Dora. Dai, te la

ricordi

quella che c'ha il negozio, è una parrucchiera'...".

"Ma dai, e lui?"

"E lui che poteva fare? Le credeva. Alla fine siamo andati a casa

sua e mentre lei mi faceva un pompino, ha squillato di nuovo il

suo telefonino."

"No! E tu che hai fatto?"

"Io? Ho risposto, che dovevo fare?"

"E che gli hai detto?"

"Mi dispiace ma in questo momento non può proprio rispondere,

sta discutendo con Dora! "

"Ma dai! Troppo forte." E giù risate.

"Da allora Dora è il soprannome che ho dato al mio uccello.

Eccolo qui..." lo tira fuori e lo mostra all'amico. "Ciao Dora,

saluta

Mario!"

Ridono come pazzi mentre il tipo con "Dora" in mano saltella

a piedi nudi sul bagnato. Alla fine scivola e cade per terra.

L'altro

ride ancora di più mentre io vado ad allenarmi.

"Tienimi le chiavi, le metto qui." Infilo le chiavi con le quali

ho

chiuso l'armadietto in un portapenne sulla scrivania. Il tipo alla

segreteria

mi fa un cenno con la testa e continua a chiacchierare al

telefonino. Poi ci ripensa. Mette la mano sopra il telefonino e

decide

di dirmi qualcosa.

"Ehi capo, per oggi puoi allenarti, ma domani devi fare la

tessera.

"

Mi guarda soddisfatto con la faccia un po' da paraculo, un po'

da duro. Poi con un sorriso ebete torna a parlare. Si gira e mi dà

le

spalle. Si vanta. Ride. Sento le sue ultime parole: "Hai capito,

Fede?

È arrivato e crede di stare a casa sua".

Non fa in tempo a finire. Lo prendo per i capelli. A mano piena.

Quasi lo alzo dalla seggiola. Si mette sull'attenti con la testa

leggermente

piegata verso di me. I capelli tirati in gruppo fanno un

male cane. Lo so. Me lo ricordo. Ma ora sono i suoi.

"Chiudi il telefonino, coglione." Abbozza un "Ti richiamo eh,

scusami". E chiude.

"Allora, per prima cosa questa è casa mia. E poi..." gli tiro i

capelli

più forte. "Ahia, ahia mi fai male."

"Invece io voglio che senti bene: non chiamarmi mai più capo

in vita tua. Hai capito?"

Cerca di fare un sì con la testa ma accenna solo un piccolo

movimento.

Tiro più forte per esserne sicuro.

"Non ho sentito... Hai capito?"

"Ahia, ahia... Sì."

"Non ho sentito."

"Sì" quasi urla dal dolore. Ha le lacrime agli occhi. Mi fa anche

un po' pena. Lo lascio andare con una piccola spinta. Si accascia

sulla sedia. Si massaggia subito la testa.

"Come ti chiami?"

"Alessio."

"Ecco, sorridi," gli do due schiaffetti leggeri sulla guancia,

"ora

puoi richiamarla se ti va, dille pure che hai reagito, che mi hai

cacciato

dalla palestra, che mi hai menato, di' pure quello che ti pare,

ma... non te lo dimenticare. Non mi chiamare mai più capo."

Poi una voce alle mie spalle.

"Anche perché dovresti saperlo. Lui si chiama Step." Mi giro

sorpreso, anche leggermente in difesa. Non mi aspettavo di sentire

il mio nome. Non ho visto nessuno dei miei amici, nessuno che

possa sapere il mio nome. E invece c'è qualcuno. Lui. È magro,

anzi

magrissimo. Alto, braccia lunghe, capelli con un taglio comune,

sopracciglia un po' folte, unite al centro sopra un naso lungo che

sporge su delle labbra strette di una bocca larga. Forse è così

larga

perché sorride. Sembra un francese. Sicuro di sé, tranquillo, ha

le mani in tasca e lo sguardo divertito. Porta i pantaloni lunghi

della

tuta e una felpa sbrindellata sul rosso stinto. Sopra ha un

giubbotto

Levi's chiaro. Non so classificarlo.

"Non ti ricordi di me, vero?" No, non mi ricordo. "Guardami

bene, forse sono cresciuto." Lo guardo meglio. Ha un taglio sopra

la fronte, nascosta dai capelli, ma niente di grave. Si accorge

cosa

sto guardando. "È stato l'incidente in macchina, dai, sei anche

venuto

a trovarmi all'ospedale."

Cazzo come facevo a non ricordarmi!

"Guido Balestri! È una vita... Stavamo alle medie insieme."

"Sì e abbiamo fatto i due anni del liceo. Poi ho abbandonato."

"Sei stato bocciato? Non mi ricordo proprio tutto."

"No, ho seguito mio padre."

Ah, è vero. Come no! Balestri. Il padre è un grande non so che,

uno che sta sempre in mezzo a tutte quelle cose, società per

azioni

o roba del genere. Stava sempre in giro per il mondo.

"Allora... come stai?"

"Bene e tu?"

"Bene anch'io. Bello rivederti. Ho sentito tanto parlare di te,

Step, qui a Vigna Clara ormai sei un mito."

"Be', non direi proprio."

Rivolgo lo sguardo ad Alessio. Sta mettendo a posto dei fogli e

fa finta di non sentire. Non riesce a non toccarsi i capelli.

Guido

ride divertito.

"Che c'entra, sei un mito per chi conosce le nostre storie. Si

parla ancora di quelle risse mitiche... Mi ricordo di quando hai

fatto

a botte col Toscano dietro a Villa Flaminia nel boschetto."

"Eravamo dei ragazzini..."

Guido rimane un po' deluso.

"So che sei stato a New York."

"Sì, sono stato fuori due anni."

"Stasera ci vediamo. Siamo un po' di gente, andiamo a mangiare

una pizza. Perché non vieni anche tu?"

"Chi siete?"

"Un po' di gente del Villa Flaminia. Li ricordi senz'altro, dai...

Pardini, Blasco, Manetta, Zurli, Bardato, tutti loro. Insomma con

donna o senza. Dai vieni, cazzo, farà piacere a tutti rivederti.

Andiamo

a Bracciano all'Acqua delle donne."

"Mai stato."

"È un posto bellissimo, anzi se c'hai la donna portala. Posto

incantevole.

Una volta mangiato lì, dopo... è tutta una passeggiata...

e in discesa. Il dessert ti spetta di diritto... ma a casa sua."

Riesce a farmi ridere: "A che ora andate?".

"Verso le nove."

"Vengo a mangiare ma evito la passeggiata..."

"Cioè senza donna." Ride in maniera strana. Me lo ricordavo

più sveglio. Ha un dente davanti spezzato e non dava mai troppa

confidenza. Ora me lo ricordo meglio. Lo chiamavamo Scorza.

Era tutto un programma. Correva che era uno sfacelo. Quando

ci allenavamo a scuola nel campo da corsa del Villa Flaminia,

gareggiava

nell'ultimo gruppo. "I porcellini" li chiamava Cerrone,

il nostro prof di Educazione fisica. Anche il prof era strano

forte.

Mentre facevamo ginnastica si metteva a leggere il giornale

sportivo e per controllarci ci faceva due buchi al centro. Come se

noi non ce ne accorgessimo. Però sui tre porcellini era

imbattibile.

Arrivavano al traguardo in tre, lui, Biello e Innamorato, bianchi

cadaverici, con la lingua di fuori. "Porcellini da latte! "

gridava

il prof. "Vi dovremmo mettere allo spiedo e farvi rosolare." E

rideva come un pazzo. Ma questo a Balestri non glielo ricordo.

Forse è meglio di no. In fondo mi ha invitato a cena. Anzi ci

tiene

a ricordarmelo.

"Oh, allora alle nove all'Acqua delle donne, eh, con donna o

senza. "

"Va bene."

Mi saluta e scappa via. Che verrà a fare in palestra? Non ha un

chilo, non sale di peso, è magro come il mio ricordo più sbiadito.

Cazzi suoi. Però è simpatico.

Ecco. Lo sapevo! Lo sapevo che Step veniva ad allenarsi qui in

palestra. Ne ero sicura. Ed ero sicura che veniva proprio in

questa

palestra! Sono troppo forte. E lui è troppo conservatore. Troppo.

Spero che almeno in qualcosa cambi! ! ! Be', ora me ne vado. Non

mi ha visto. Io invece ho sentito quello che dovevo sentire.

Attacco con le prime macchine, mi scaldo veloce, ripetizioni a

raffica, per ammorbidire i muscoli. Carico poco, il minimo

indispensabile.

Vedo uscire una ragazza di fretta con un cappellino

arancione mezzo calato in testa. Certo che ce ne sono di persone

strane al mondo. Lì vicino due altre ragazze parlano fra loro e

ridono

di qualcosa. Racconti della serata prima o di quello che deve

ancora accadere. Una è leggermente truccata, porta i capelli corti

mesciati e se li tocca in continuazione. Ha un bel fisico e sta a

gambe

larghe perché sa di averlo. L'altra è più cicciotta e non tanto

alta,

capello alle spalle, più scuro del solito forse perché sporchi. Ha

le mani sui fianchi e una tuta grigia leggermente macchiata dalla

quale spunta fuori anche un po' di pancia.

"Lavorate! Qui in palestra si viene per lavorare..." Sorrido

mentre

passo. Quella bassa mi risponde facendo una specie di smorfia.

L'altra è più tranquilla: "Siamo in fase recupero".

"Da che?"

"Stress da pesi."

"Pensavo qualcosa di meglio."

"Quello più tardi..."

"Non ne dubito." Ora ridono tutte e due. In realtà sull'altra ho

qualche dubbio. Ma una donna qualcosa la spunta sempre. Non

c'è niente da fare, noi dovremmo essere più compatti, almeno in

certi casi. La guardo meglio. Dice qualcosa all'amica indicandomi

con lo sguardo. L'altra mi guarda. La vedo riflessa nello specchio

che sorride. È bella con i capelli corti, ha un seno piccolo

perfettamente

disegnato sotto il suo body. Le s'intravedono i capezzoli.

Lo sa ma non si copre. Sorrido e penso ai miei addominali. Faccio

subito una prima serie da cento. Quando ho finito le due ragazze

non ci sono più. Saranno andate a farsi la doccia. Chissà se le

riconosco

quando le incontro. È incredibile come una donna che

esce dagli spogliatoi può essere diversa da quella che hai visto

poco

prima sotto i pesi. Ma non c'è verso, migliorano tutte. Al massimo

te la potevi immaginare elegante e invece quella che t'esce la

vedi con degli stivali con le borchie d'oro o roba del genere. Ma

comunque diverse. Miracoli del trucco. Ecco perché la spuntano.

Seconda serie da cento. Guardo il soffitto senza fermarmi, uno

dopo

l'altro, con le mani dietro la testa, con i gomiti allineati,

tesi,

aperti. Uno dopo l'altro. Ancora più forte. Non ce la faccio più,

il

dolore inizia a sentirsi, penso a mio padre, alla sua nuova donna.

Continuo senza fermarmi. 88, 89, 90. Penso a mia madre. 91, 92.

Quant'è che non la vedo. 94, 95. Devo chiamarla, dovrei chiamarla.

98, 99, 100. Finito.

"Non ci posso credere, Step! " Mi giro, quasi non riesco a parlare

dal dolore agli addominali. Per un attimo mi ricordo il film di

Troisi quando lui, pur di vedere la donna che gli piace tanto,

corre

intorno al palazzo e quando la incontra non ha il fiato per

parlarle.

Troppo forte Troisi.

"Che ci fai? Aho, sei tornato... Mi avevano detto che eri fuori

a New York ! "

Ancora? Oh, non c'è niente da fare. Non sono proprio riuscito

a passare inosservato.

Finalmente mi sono ripreso e lui lo riconosco facilmente.

"Ciao Velista, come stai?"

"Ancora con questo soprannome. Lo sai che non mi ci chiama

più nessuno?"

"Vuol dire che sei cambiato?"

"Ma di che poi? Io non ho mai capito perché mi chiamavate

tutti il Velista, manco a dire che amo le barche, non ci so' quasi

mai

andato."

"Veramente non sai il significato del tuo soprannome?"

"No, ti giuro."

Lo guardo. Denti un po' larghi, come allora, una felpa sdrucita,

un paio di pantaloncini verdi chiari, i calzettoni calanti,

sbrindellati,

perfettamente in linea con un paio di Adidas stansmith ormai

decrepite. Il Velista.

"Allora?"

Mento. "Ti chiamavano Velista perché amavi tanto il mare."

"Ah, ecco ! Ora ho capito, quello è vero. Mi piace proprio tanto.

"

È soddisfatto ora, fiero del suo nome. Sembra quasi guardarsi allo

specchio, tanto l'ha rivalutato. In realtà non c'aveva mai una

lira,

veniva con noi solo per mangiare la pizza e scroccare. Per questo

tutti

dicevano che "andava a vela". Povero Velista. Una volta prese un

sacco di botte da una mignotta giù al bowling, vicino all'Amene

perché

dopo non so quale lavoretto, voleva pure lo sconto. Aveva solo

10 euro in tasca e aveva goduto per almeno 20.

"Oh, so' proprio felice di rivederti."

Mi guarda contento, lo sembra davvero.

"Hai già visto qualcuno?"

"No, sono arrivato ieri. Non ho visto nessuno qui in palestra."

"Ma sai, adesso s'allenano un po' da tutte le parti. Qualcuno

poi s'è messo a lavora', qualcun altro se ne è andato fuori

all'estero.

Oh ecco, guarda chi arriva."

Fuori dalla finestra si vede passare una borsa blu scuro sopra

le spalle di un uomo dai capelli corti.

"Non lo riconosco." Lo guardo meglio. Niente. Il Velista prova

a darmi una mano.

"Ma dai, è il Negro. Non te lo ricordi?"

"Ah, ho capito, sì, ma lo conoscevo solo di vista."

Il tipo entra e saluta il Velista: "Ciao Andre'. Che fai,

t'alleni?".

Il Velista incredulo mi indica fiero."Ma hai visto con chi sto?

È Step."

Il Negro mi fissa per un po'. Poi sorride. Ha la faccia simpatica,

uno zigomo un po' ammaccato, mi viene incontro: "Ma dai,

Step... Certo, come no. È una vita che non ci vediamo".

Ora lo riconosco. Porta i capelli corti. Prima li teneva sempre

un po' lunghi, oliati, stava fisso con un giubbotto blu

all'Euclide

di Vigna Stelluti.

"Non sapevo avessi questo soprannome. Il Negro. Mi ricordo

che ti chiami Antonio."

"Sì, dopo la storia di Tyson, dicono che ci somiglio."

Ha il collo un po' taurino, la pelle porosa e il naso un po'

ammaccato,

capelli corti alla Tyson. Ha gli occhi un po' a palla e il labbro

superiore più grosso del solito.

"Be', insomma mica ci somigli tanto."

"Ma no fisicamente! " Ride sguaiato e comincia per un po' a

tossire.

"Per la storia della rissa! Pure io so' andato a un concorso di

miss a Terracina e poi c'ho provato con una che stava a

partecipa'.

Hai capito? Per questo dicono che so' Tyson. 'Sta stronza, mi ha

invitato

su in camera, io volevo scopa' e lei pensava che je volessi

racconta'

le barzellette. S'è offesa pure e non ci voleva sta'. Ma io jo

fatto

capi' che il suo era solo un problema di capoccia. E da allora mi

chiamano il Negro." Ridono come pazzi lui e il Velista.

"No, sai, è uscita la storia su tutti i giornali di Borgo Latino,

giù

prima di Latina. Il Tyson della Pontina, un mito. Che poi alla

fine

c'avevo ragione io, a questa je pure piaciuto."

Il Velista ci mette il carico: "Mejo de Tyson" e continuano a

ridere

e a tossire.

"A proposito, so che sei stato in America, a New York, se non

sbaglio."

Si ricomincia.

"Sì, sono stato laggiù. C'ho passato due anni, ho fatto un corso

e sono tornato ieri. E ora c'ho voglia di allenarmi. " Cerco di

troncare.

"Oh, ti va di fare due tiri? Mi dicevano tutti che eri forte a

boxare."

Il Negro sorride della sua proposta. È sicuro di sé e continua:

"Be', magari è un sacco di tempo che non t'alleni, se non ti va

non

ti sta' a preoccupa'. È che tutti parlavano di 'sto mito, 'sto

mito, e

mo' che ce l'ho davanti...".

Il Negro ride divertito, troppo sicuro di sé. Deve essere uno

che s'allena tutti i giorni almeno un'oretta e mezza.

"Ma no, figurati. Mi va."

"Allora vado subito a cambiarmi."

Vedo una luce diversa nei suoi occhi, più svegli, acuti,

leggermente

socchiusi.

Il Velista rimane invece idiota come prima: "Aho, forte

'st'incontro.

C'ho una sete pazzesca, Negro. Che, te posso segna' un Gatorade

che oggi non c'ho una lira?".

Il Negro fa segno di sì con la testa e va dritto negli spogliatoi.

Il Velista va allegro verso il bar confermando così il suo

soprannome.

Io invece rimango solo. Alessio alla segreteria mi fissa. Sta

succhiando

un Chupa-Chups e mi guarda in maniera diversa da prima.

Abbassa gli occhi e si rimette a leggere un "Parioli Pocket" che

ha poggiato sul tavolo. Sfoglia due pagine, poi mi guarda di nuovo

e sorride. "Scusa, Step, per prima. Non ti conoscevo. Non sapevo

chi fossi."

"Perché, chi cazzo sono?"

Rimane per un attimo perplesso, cercando qualche risposta

nell'aria.

Ma non trova niente. Poi ci ripensa e prende coraggio.

"Be', sei uno che si conosce."

"Uno che si conosce..." Ci penso un attimo. "Sì, è un argomento

interessante. Bravo. Vedi a volte... Non lo avevo considerato."

Sorride felice, per niente cosciente del fatto che lo prendo per

il culo.

"Senti..."

"Dimmi, Step."

"Sai se c'è qualcosa per boxare?"

"Come no."

Esce da dietro la segreteria e si muove veloce verso una panca

all'ingresso. Alza i sedili. "Qui sotto c'è la roba di Marco

Tullio.

Lui non vuole mai che nessuno la usi. "

"Grazie."

Mi guarda con entusiasmo. Mi siedo sulla panca e comincio a

infilarmi i guantoni. Non lo guardo, ma sento i suoi occhi su di

me.

"Vuoi che te li stringo?"

Lo guardo per un attimo. "Ok."

Viene veloce verso di me. Prende i lacci con cura, li avvolge

intorno

ai guantoni, lo fa con precisione. Ora non ride, è serio. Si

morde leggermente le labbra mentre i capelli lunghi gli coprono

ogni tanto gli occhi. Con l'altra mano li butta all'indietro

mentre

continua a fare il suo lavoro. Lentamente, con cura, stringendo

con

precisione. "Fatto!" Sorride. Mi alzo in piedi. Sbatto i guanti

uno

contro l'altro.

"Vanno bene, no?"

Vuole essere sicuro di aver fatto un buon lavoro.

"Ottimi!"

Dallo spogliatoio femminile escono le due ragazze di prima.

Quella alta ha un paio di pantaloni neri stretti fino alle

caviglie, un

trucco leggero e un rossetto che rende le sue labbra tranquille e

accoglienti.

Una borsa a tracolla su una camicia bianca con piccoli

bottoni perlati, il tutto si intona con il suo passo elegante.

Quella

bassa invece ha una gonna scozzese a quadri blu e marrone troppo

corta per le sue gambe e due mocassini neri che rendono

ingiustizia

alla sua camicia celeste. Del trucco ha cercato in qualche

modo di miracolare il suo viso. Ma almeno per oggi quelli di

Lourdes

dovevano essere in vacanza. Si fermano alla segreteria. Alessio

fa il giro e dà loro le tessere.

Quella alta mi si avvicina: "Ciao, io mi chiamo Alice".

"Stefano." Allungo il guantone, come per darle la mano.

Lei lo stringe sorridendo: "Lei è la mia amica Antonella".

"Ciao."

"Che fai, combatti?"

Si, ci provo.

"Ti dispiace se restiamo a vedere un po' l'incontro?"

"Perché mi dovrebbe dispiacere. Be', se poi fate il tifo per me,

certo che non mi dispiace."

Ridono. "Va bene, puntiamo su di te. Che si vince?"

In quel momento esce il Negro. Ha un paio di calzoncini blu

morbidi e lunghi, quelli da vero pugile. Ha già infilato i

guantoni.

Ha qualche segno sulle braccia e due o tre tatuaggi di troppo. È

ben messo. Non me lo ricordavo così.

Alice mi si avvicina: "Ma combatti contro il Negro?".

Allora è conosciuto anche lui.

"Sì, perché?"

"Mi sa che abbiamo sbagliato a puntare su di te."

Mi guardano, sembrano realmente preoccupate.

Cerco di tranquillizzarle. "Va be', animo ragazze, al massimo

durerà poco."

Il Negro ci interrompe. "Allora... entriamo?"

Ha fretta.

"Come no. Vai avanti tu."

Entra nella sala dell'aerobica. Due ragazze stanno facendo un

po' di addominali su dei tappeti di gomma blu. Sbuffano vedendoci

entrare.

"Oh, non mi dite che ce ne dobbiamo andare."

Cerco di metterla sullo scherzo: "Be', a meno che non volete

combattere pure voi due".

Il Negro non ha il senso dello spirito: "Forza uscite". In un

attimo

sono fuori. "Tre round serrati, ti va?" Me lo dice con tono

eccessivamente

duro.

"Sì, mi va. Facciamo un buon allenamento."

"Facciamo un bell'incontro." Sorride in maniera antipatica.

"Ok, come vuoi tu." Alice è vicino alla finestra. "Ci prendi il

tempo?"

Sorride annuendo. "Sì, ma come si fa?"

"È facile. Ogni minuto e mezzo gridi 'Stop!'."

"Ho capito." Guarda l'orologio aspettando di dare il via. Intanto

saltello sul posto. E scaldo le braccia. Mi viene in mente una

cosa. Antonella, quella bassa, alla fine di ogni minuto e mezzo

potrebbe

entrare con un cartello con scritto il numero di round e

sculettare

intorno alla sala dell'aerobica come nei migliori film americani.

Ma qui non siamo in America. E neanche in un film. Siamo

in palestra. Anche il Negro comincia a saltellare, dà di continuo

dei

colpetti tra i suoi guantoni, fissandomi. Alice alza il viso

dall'orologio.

Incrocia il mio sguardo. È leggermente preoccupata. In qualche

modo si sente responsabile. Ma poi decide che non può più

aspettare. E quasi lo urla quel: "Via!".

Il Negro mi viene subito incontro. Sorrido fra me. L'unica cosa

che non ho mai smesso di fare in America in questi due anni è

stata proprio andare in palestra. Per essere precisi, fare boxe.

Solo

che lì sono dei veri uomini di colore e sono tutti veloci e

potenti.

È stato duro tenergli testa. Durissimo. Ma l'avevo presa a cuore.

E non è andata troppo male. Ma che sto facendo? Mi sto

distraendo...

Appena in tempo. Il Negro mi sferra due pugni potenti

al viso. Schivo destro e sinistro. E mi abbasso al suo tentativo

di

gancio. Poi respiro e saltello allontanandomi. Schivo altri due

colpi

e comincio a saltellargli intorno. Il Negro fa una bella finta di

corpo e mi colpisce basso in pieno stomaco. Ho un sussulto, mi

piego in due. Cazzo, mi manca l'aria. Faccio una specie di rantolo

e vedo girare intorno a me la stanza. Sì, mi ha preso proprio

bene.

Faccio appena in tempo ad alzarmi che vedo calare da destra il suo

guantone. Lo schivo d'istinto. Ma mi colpisce di striscio

spaccandomi

il labbro inferiore. Cazzo. Cazzo. Non ci voleva. Che figlio di

mignotta. Lo guardo. Mi sorride.

"Allora, come va, mitico Step?"

Fa sul serio lo stronzo. Mi metto a saltellare: "Ora meglio,

grazie".

Sto recuperando. Tutto torna lucido. Gli giro intorno. Alla

finestra

della sala si è accalcata un po' di gente. Riconosco Alice e la

sua amica Antonella, Alessio, il Velista e qualcun altro. Smetto

di

guardare e torno concentrato su di lui. Ora tocca a me. Mi fermo.

Il Negro saltella e viene in avanti, affonda con un sinistro e

carica

il destro. Lo lascio passare schivando a destra e poi colpisco

forte

con il sinistro proprio sopra il sopracciglio. Rientro e con tutta

la

mia forza lo colpisco con il destro in pieno viso. Sento il naso

scricchiolare

sotto il guantone. Non fa in tempo a indietreggiare che lo

colpisco due volte all'occhio sinistro, il primo lo para bene, poi

abbassa

la guardia e il secondo gli arriva dritto come un bolide.

Indietreggia

e scuote la testa. Riapre gli occhi giusto in tempo per vedere

il mio gancio che arriva. Gli spacco il sopracciglio destro. Il

sangue gli cola giù subito sulla guancia come se piangesse lacrime

rossastre. Prova a coprirsi con i guantoni. Gli do un uppercut in

pieno stomaco. Si piega in due e lascia andare giù i guantoni.

Errore.

Vedi... Errore. L'ho visto fare in America una volta e mi viene

istintivo rifarlo. "Ehi, Negro e a te, eh, ora come va?" Non

aspetto

la sua risposta. La so già. Carico il destro e lo faccio

esplodere.

Dal basso verso l'alto, sul suo mento, da sotto. Il Negro salta

quasi

all'indietro, preso in pieno dal colpo. Vola via che è una

meraviglia.

Finisce sopra gli step rosa e lilla e li rovescia per terra. Poi

si

accascia con la faccia sullo specchio e scivola lento lasciando

una

leggera scia. Alla fine arriva a terra, sul linoleum beige, che

subito

si copre di sangue.

Guardo Alice: "Allora, quanto manca?".

Alice guarda l'orologio. Mancano pochi secondi.

"Stop. È finito adesso."

"Hai visto, che ti avevo detto? Non durava molto."

Esco dalla sala di aerobica. Il Velista si precipita dentro per

vedere

come sta il Negro.

"Non ti preoccupare. Ho già guardato, respira."

Il Velista si tranquillizza: "Mazza Step, l'hai sfonnato".

"Lui ci teneva tanto a fare un incontro serio... e l'ha fatto."

Vado davanti allo specchio. Mi guardo il labbro. È spaccato e

già gonfio. Il sopracciglio invece è a posto. Alice mi si

avvicina.

"Se fosse stato un vero incontro di boxe e avessi puntato tutti

i miei soldi avrei perso. "

"Che c'entra, in quel caso ci mettevamo d'accordo e io mi buttavo

giù alla prima ripresa."

Alessio mi si avvicina: "Io invece i miei soldi li avrei vinti

tutti.

Aho, non so perché, ma me lo sentivo che vincevi tu".

"Come non so perché." Lo vedo di nuovo in difficoltà, vorrebbe

dire qualcosa ma non sa bene cosa. Lo aiuto.

"Dai, toglimi i guanti, va'..."

"Tieni. Ti ho preso un po' di ghiaccio per il labbro."

È Alice. Mi si avvicina con un fazzoletto di carta con dentro

alcuni

cubetti.

"Grazie, di' alla tua amica di prendere un po' d'acqua fredda

da mettere sulla faccia del Negro, gli farà bene."

"Lo sta già facendo."

Alice mi guarda con un sorriso strano. Mi affaccio. Antonella

è nella sala dell'aerobica che aiuta il Velista a mettere impacchi

sulla

faccia del Negro. Trucco o miracoli, se tutto va bene la ragazza

la spunta. Il Velista o il Negro. Non so con chi capita peggio.

Uno

magari non paga, l'altro invece la violenta. Ma non sono affari

miei.

Allora mi siedo sulla panca. Mi metto il fazzoletto sul labbro.

Vedo

Alice che mi guarda. Vorrebbe dire qualcosa anche lei. E anche

lei non sa bene cosa. Non gliene do il tempo. Non ne ho voglia.

Non adesso almeno. "Scusa, ma vado a fare la doccia." E così

sparisco

di scena. Li lascio soli. Immagino per un attimo una cena tra

Alessio e Alice, i loro tentativi di fare un po' di conversazione.

La

Fede ci rimarrà male. Ma anche questi non sono affari miei. Poi,

senza pensieri, mi infilo sotto la doccia.

Capitolo 16.

Chi non ha visto Vanni, non può capire. Forse anche chi l'ha

visto. Fermo la moto lì davanti e scendo. È una specie di casba di

persone colorate. Una donna dalle labbra pronunciate, quasi quanto

il suo seno, parla con uno stempiato dal riporto totale. Ha una

gonna corta, la donna, e due gambe perfette che si spengono più

in su tra le sue bocce, anch'esse rifatte. Naturalmente ride al

racconto

del "riportato", poi risponde a un telefonino dove sicuramente

mentirà. Il riportato si finge distratto, si infila tutte e due le

mani nelle tasche di una giacca di un gessato scolorito. Trova una

sigaretta e l'accende. Dà un tiro fingendosi soddisfatto, ma i

suoi

occhi fissano in continuazione il seno della donna. Lei gli

sorride.

Chissà, magari riuscirà a fumarsi pure lei. Poco più in là il

caos.

Tutti parlano, qualcuno chiede un frozen yogurt, ragazzi seduti

sul

motorino preparano la serata. Qualche Maserati passa lì davanti

cercando posto. Una Mercedes opta per la doppia fila. Tutti si

salutano,

tutti si conoscono. C'è Gepy seduto su un SH 50, capelli

cortissimi, bracciale tatuato al braccio, stile maori, e il segno

sbiadito

di un altro, fatto tanto tempo prima sulle nocche della mano

destra. Si legge ancora la parola. "Male." Forse spera che così i

cazzotti

che tira siano più efficaci. Sorriso inesistente come sempre. Si

guarda intorno senza cercare niente di preciso. Ha una felpa

sdrucita,

tagliata alta per mettere più in risalto un 48,50 al massimo, di

un braccio male allenato, troppo poco definito. Mi guarda

distratto

e non mi riconosce. Meglio così. Io devo incontrare il potere e

lui non fa parte di questo giro. Il potere poi. Almeno questo mi

immagino

dalla descrizione che ne ha fatto mio padre. Ha parlato di

un uomo coltissimo, alto, elegante, magro, sempre perfettamente

vestito, con i capelli lunghi, gli occhi scuri, una cravatta

Regimental

e almeno una punta del colletto slacciata. Mio padre ha insistito

su questo punto. "Il colletto slacciato ha un vero significato,

Step,

ma mai nessuno è riuscito a capirlo."

Immagino che nessuno glielo abbia neanche mai chiesto. Mi

guardo intorno. Non c'è nessuno che corrisponde al "potere".

Guardando

meglio non c'è proprio neanche nessuno di magro. Gepy.

Be', in effetti Gepy un po' magro lo è. E che gli manca tutto il

resto.

È sempre lì, seduto sull'SH 50. Passa una zingara grassa sui

cinquanta.

Gepy è distratto, la zingara gli strappa di dosso la sua mano

e gliela prende tra le sue.

"1 euro per il tuo futuro. Ti porterà bene."

"Aho, ma che voi? Ma chi ti ha chiesto niente. Ma che, sei

scema?"

"Fidati di me, fatti leggere la mano, signore."

La zingara comincia a toccare la mano di Gepy con il dito come

per leggerla. "Allora, ecco vedo la sorte positiva..."

Gepy si spaventa e fa per ritrarla.

"Ma vaffanculo! Non lo voglio sapere il mio futuro."

Ma la zingara insiste e la trattiene.

"Fammi vedere bene, solo 1 euro te l'ho detto."

"Aho, ma hai finito o no? Mi stai rompendo i coglioni e molla! "

Ma la zingara insiste. Ci tiene a parlargli del suo futuro. Mica

per niente, per soldi! Diventa quasi una lotta ridicola. Poi Gepy

prende e le sputa in faccia e comincia a ridere. La zingara alza

un

pezzo della gonna mostrando dei gambaletti marroni e si pulisce il

viso. Una striatura più chiara compare sulla sua guancia mentre le

labbra scure cominciano a vomitare disgrazie. "Maledetto! Vedrai

che cosa..."

"Cosa? Che vuoi dire, eh? Cosa? Sentiamo cosa, mo' ti do un

calcio..." Gepy scende veloce dall'SH 50 per darle un calcio, ma

la

zingara si allontana. Qualcuno guarda la scena. Poi tutti fanno di

nuovo finta di niente e ricominciano a parlare tra loro. Quello è

stato solo un aneddoto divertente da raccontare a qualche cena o

da usare per chissà quale altro motivo. Una cosa è sicura. Gepy

non

è certo l'uomo che cerco. Poi lo vedo. Eccolo là. Sembra quasi

estraneo

a quello che accade lì intorno. Seduto da solo a un tavolino

sorseggia

qualcosa di chiaro, lì dove galleggia un'oliva. Ha i capelli

lunghi come da descrizione, il vestito di lino blu scuro, una

camicia

bianca, dalla stiratura impeccabile. Una cravatta leggera a

strisce

blu e nere scivola morbida lungo il petto fino ad adagiarsi oltre

la cinta, lì tra le gambe incrociate. Poco più in giù dal risvolto

dei pantaloni spuntano delle Top-Sider, né troppo nuove, né troppo

vecchie, consumate quanto basta per essere in linea con la cinta

dei pantaloni. Se ancora mi fosse rimasto qualche leggero dubbio,

quel colletto di camicia, solo da una parte slacciato, li cancella

tutti. È lui. "Salve."

Si alza in piedi. Sembra felice di vedermi: "Oh, buongiorno, lei

è Stefano?". Ci diamo la mano.

"Suo padre mi ha parlato benissimo di lei."

"Che altro poteva fare."

Ride. "Mi scusi." Gli suona il telefonino: "Ciao. Certo non ti

preoccupare. Ho già detto tutto. Ho già fatto tutto. È tutto a

posto.

Vedrai che firmano".

Uomo di potere, ama la parola "tutto".

"Ora scusami che sono in riunione. Sì, ciao. Ma certo. Ma certo

mi fa piacere, te l'ho detto..."

Chiude il telefonino. "Un rompicoglioni." Sorride.

"Mi scusi, eh? Allora mi diceva?"

Riprendo a parlare e racconto del corso che ho fatto a New

York.

"Quindi grafica in 3D."

"Sì."

"Perfetto." Annuisce compiaciuto. Sembra conoscere perfettamente

la materia. Risquilla il telefonino. "Mi scusi, ma oggi è proprio

una giornataccia."

Annuisco, fingendo di capirlo. Immagino che per lui sia sempre

così. Mi ricordo che anch'io ho un telefonino. Stupidamente

quasi arrossisco. Lo tiro fuori dal giubbotto e lo spengo. Se ne

accorge.

O forse no.

Finisce la telefonata: "Bene, lo spengo anch'io, così possiamo

chiacchierare tranquilli".

Se n'era accorto.

"Allora, farai da assistente al grafico di ruolo. Si chiama

Marcantonio

Mazzocca. È bravissimo. Lo conoscerai tra poco, sta venendo

qui, era lui poco fa al telefonino."

Spero non fosse quello della prima telefonata, ha chiuso il

telefono

chiamandolo "rompicoglioni".

"Pensa che è un nobile, ha sconfinate colline di vigneti su al

Nord. A Verona, cioè, il padre ce l'ha. Poi ha iniziato a

dipingere,

a fare quadri. È venuto giù a Roma e ha cominciato a girare per

locali

e a fare, sai, i biglietti di invito per le varie feste e altri

lavoretti

del genere? Poi pian piano si è specializzato nella computer

grafie

e alla fine l'ho preso io." Lo ascolto. Certo, per citare, un

grande

film, Nella morsa del ragno, "Uno fa ciò che è". Ma decido di

non dirlo. Prima voglio conoscerlo, questo Mazzocca. Beve un sorso

di aperitivo. Saluta qualcuno che si trova a passare di là. Poi si

asciuga con un tovagliolo di carta. Sorride. È fiero del suo

potere,

delle sue decisioni, di avere preso un nobile semplicemente per

fare

il grafico nelle sue produzioni televisive.

"Allora, spero che ti troverai bene con lui. Certo è un po'

rompicoglioni..."

Era quello della prima telefonata.

"...Ma è precisissimo nel suo lavoro e poi..."

Non fa in tempo a finire la frase. "Step, ma sei tu?" Alzo lo

sguardo. Questa non ci voleva. Gepy è di fronte a me con la faccia

da ebete, sorridente, le braccia aperte sollevate in alto. Sembra

un

predicatore un po' idiota se non fosse per i pelacci che gli

escono

fuori da quella felpa tagliata male e i suoi capelli corti.

"Non ci posso credere, sei tu! " Sbatte il palmo delle mani uno

contro l'altro con forza eccessiva. "Sei proprio te. Ma dove cazzo

eri finito?"

"Ciao Gepy, come stai?"

"Sto benissimo e non sai come sono felice di vederti. Ma che

ci fai qui tutto agghindato. Aho, non riesco a crederci. Step è di

nuovo su piazza!"

Vorrebbe urlarlo a qualcuno, si guarda in giro, ma non capisce

che il suo show non è destinato proprio a nessuno. Se non a

me. Il signor Romani poi... Non credo proprio che appartenga al

suo target.

"Scusami Gepy, ma stiamo parlando." Guardo il signor Romani

cercando, non so perché, il suo appoggio. Mi sorride divertito e

fa

una faccia come a dire non ti preoccupare, sono cose che

succedono,

non sai quanti me ne capitano a me di coglioni come questo.

Almeno questo è quello che mi fa piacere leggere.

"Aho Step, ancora mi ricordo quando hai sfondato il Mancino.

Eravamo su da Giovanni, il gelataio, ti ricordi, eh? Quello stava

lì che faceva il capo, poi sei arrivato tu. Non hai fatto in tempo

a scendere dalla moto, oh, manco l'hai visto, che quello ti è

partito.

Hai preso una sveglia, mamma santa. Il Mancino credeva che

eri finito, invece..."

Gepy ride sguaiato.

"Bum, l'hai preso con un calcio in pancia e non gli hai dato

tempo. Bum, bum, bum, che serie impressionante al viso."

Gepy saltella lì davanti tirando cazzotti nell'aria. "Bum, bum,

bum, me lo ricordo come fosse ieri. Una carneficina, l'hai

sdraiato.

E quella volta al benzinaio di corso Francia, da Beppe. Quando

sono arrivati quei due bori sulla Renault 4, che poi mi hanno

detto pure che erano amici del Mancino, che t'hanno circondato..."

"Gepy, scusa, te lo ripeto, stavo parlando con il signore."

"Ma no, non ti preoccupare."

Romani sorseggia l'aperitivo, sembra sinceramente interessato.

"Lascialo parlare."

Gepy mi guarda interrogativo, poi senza aspettare neanche un

minimo cenno riparte tranquillo: "C'avevano pure una catena. Aho,

niente, eh?... ja detto male... Sembra che non sono neanche più

rimasti

amici con il Mancino! Ahhhhh!".

Riprende a ridere ancora più sguaiato di prima.

"Che mito! So' finiti quei tempi, so' passati. Adesso tutti

tranquilli,

tutti a bivaccare come pecore, senza nome, senza regole, senza

onore... Pensa che adesso se ci provi con la donna di uno, quello

non si incazza neanche. Non c'è più religione. "

Quest'ultima specie di discorso tra il nostalgico e l'amaro mi

convince a darci un taglio.

"Senti, magari ci vediamo una di queste sere, eh?! "

"Come no. Tieni, ti lascio il mio numero." Tira fuori un

bigliettino

dalla tasca posteriore dei jeans. Quasi mi rifiuto di guardarlo.

C'è il numero del suo cellulare e dietro la foto di Gepy

perfettamente

stampata in bianco e nero con lui a torso nudo, in finta

posa da culturista o qualcosa del genere. "Forte, no? Me ne so'

fatti fa' duemila," poi serio, "mi servono pure per lavorare, eh!

"

Poi si allontana all'indietro, mettendosi in posa classica.

Pollice,

mignolo, orecchio, bocca.

"Chiamami, Step, che ci facciamo 'sta pizza. Ci conto!"

Annuisco abbozzando un sorriso.

Gepy scuote la testa e si allontana saltellando.

"Mi sembra un tipo simpatico. " Romani mi guarda incerto. Non

è del tutto convinto della sua affermazione.

"Be', a modo suo... È tanto che non lo vedo. A quei tempi era

molto divertente."

"A quei tempi? Sembra che sia passata un'era. Si tratterà di

qualche anno."

La sua domanda rimane nel vuoto. Un'era in fondo è passata.

Romani finisce di bere il suo aperitivo. "Eccolo. Sta arrivando. È

Marcantonio. "

Uno strano incrocio tra Jack Nicholson e John Malkovich cammina

sorridendo verso di noi fumandosi una sigaretta. Stempiato,

con i capelli corti sopra l'orecchio e le basette lunghe che gli

accarezzano

la guancia chiudendosi a virgola. Un bel sorriso, uno sguardo

furbo. Con una schicchera lancia lontano la sigaretta, poi quasi

piroetta su se stesso e si siede sulla sedia libera vicino a noi:

"Allora,

come va? Sono stato un po' rompicoglioni al telefono, eh?".

Non permette a Romani di rispondere.

"Ma è la mia dote principale. Sfinire, lentamente ma sfinire.

La goccia cinese, tac, tac, fino a corrodere anche il metallo più

duro.

È questione di tempo, basta non avere fretta e io non ne ho."

Tira fuori un pacchetto di Chesterfield light azzurre e le poggia

sul tavolino sotto un Bic nero. "Marcantonio Mazzocca, nobile

decaduto

ma in netta ripresa." Gli do la mano: "Stefano Mancini,

credo il tuo assistente".

"Assistente, che termine ignobile hanno coniato per darci dei

ruoli." Romani lo interrompe: "Può essere ignobile quanto ti pare,

ma lui sarà il tuo assistente. Be', ora vi lascio. Spiegagli tutto

e

bene. Perché da lunedì si comincia. Andiamo in onda fra tre

settimane.

E tutto deve essere perfetto!".

"E sarà perfetto, boss! Ho portato un logo per il titolo, se

gentilmente

può controllarlo..." gli allunga una piccola cartellina comparsa

come per miracolo da una tasca interna della sua giacca leggera.

Romani la apre.

Marcantonio lo guarda tranquillo, sicuro del suo lavoro.

Romani è compiaciuto, poi se ne accorge: "Ehm, un po' più

chiaro il logo e poi... Via tutti questi ghirigori, queste frecce

qui...

Tutto più leggero! ".

Romani si allontana con la cartellina sotto il braccio.

"Vuole sempre dire la sua, lo fa sentire più sicuro. E noi stiamo

al gioco."

Si accende un'altra sigaretta. Poi si rilassa, si lascia andare

sulla

sedia e tira fuori dalla tasca un'altra cartellina. La apre. "Et

voilà. "

C'è lo stesso disegno col logo più chiaro e senza le frecce

proprio

come aveva chiesto Romani.

"Hai visto? Già fatto! "

Poi si stira guardandosi in giro. "È fantastico qui, non trovi,

assistente?

Guarda i colori, le donne... guarda quella!"

Indica una bionda dai capelli corti, corpo muscoloso e sicuro.

Sedere alto che si perde sotto una gonna stretta, il naso un po'

troppo

grande a confronto di due labbra che raccontano il peggio

ipotizzandone un piacevole impiego.

"L'ho conosciuta in maniera profonda. Fa parte del giro, sai..."

"Cioè?"

"Il giro... quello del nostro lavoro, donne di immagine" tira una

boccata ridendo. "Hai visto le labbra? Mi ha prosciugato!"

Ne conferma il piacevole impiego. "Cioè? Vuoi dire che sono

tutte così?"

"Non sono tutte così. Sono di più, sono bellissime. Le vedrai,

le vedrai. Sono vere. Sono donne fantastiche, nascoste tra vestiti

colorati, ballerine, vallette, comparse. Ridono, si accendono come

niente, come piccole bombette dalla miccia corta. E dietro quei

seni,

stretti da corpetti impossibili, quei sederi sodi, strozzati da

costumi

minuscoli, ci sono le loro storie. Tristi, allegre, assurde. Sono

ragazze che ancora studiano, che hanno già un figlio e non più

un marito, che non hanno mai studiato, che stanno per sposarsi o

separarsi, che non si sposeranno mai o che ancora sognano di

farlo.

Tutte lì raccolte con un'unica cosa in comune: apparire nella

magica scatola. Apparire..."

"Be', ti piacciono eccome se riesci a raccontarle così. Sembri

un poeta."

"Io sono Marcantonio e vengo dal Nord, oltre Milano, dal Veneto

più ricco. E non ho più un soldo. Mi è rimasto il sangue nobile

e la voglia di amarle tutte, in questo sarò sempre ricco. Le devi

vedere... E le vedrai, giusto?"

"Penso di sì."

"No, è sì. Sei il mio assistente o no? E allora ti divertirai un

mondo!"

Mi dà una pacca sulla spalla alzandosi. "Be', ti saluto."

Prende sigarette e accendino e se li mette in tasca. Poi sorride

e alza il sopracciglio. Va verso la ragazza dai capelli corti

biondi e

le gira intorno. Rimango per un po' a guardarlo. Fa un altro giro

intorno alla ragazza, poi si ferma e si pianta di fronte a lei con

le

mani nelle tasche della giacca. Comincia a parlare, tranquillo,

sicuro,

sorridente. Lei lo ascolta incuriosita, poi comincia a ridere.

Lei scuote la testa. Lui le fa un cenno, lei ci pensa un attimo,

poi

sembra optare per il sì e si incammina per entrare da Vanni.

Marcantonio

mi guarda, sorride e mi fa l'occhiolino. Poi la raggiunge.

Le mette una mano dietro la schiena per "aiutarla" a entrare nel

bar. Lei si lascia guidare e scompaiono dalla mia vista.

Capitolo 17.

Volume al massimo. "What if there was no light, nothing wrong,

nothing right, what if there was no time..." La voce di Chris

Martin dei Coldplay riempie la stanza. Forse per coprire un altro

suono. Quello cupo e continuo che ora sta sentendo dentro come

un pungolo, un richiamo che non smette di tormentarla man mano

che passano le ore.

"Daniela, che sei sorda? Vuoi abbassare per favore? O lo fai

perché anche Fiore dal cancello impari la canzone?"

Per un attimo l'immagine di Fiore che canta in inglese-romanesco

mentre pota le piante la distrae e la fa sorridere. Per un attimo.

Perché poi quel dubbio, il suo dubbio, torna a parlare, a

chiamarla.

Sì, mamma, magari fossi sorda, magari non sentissi più quella

voce che continua a dirmi l'unica verità che non voglio sentire.

Anzi, è meglio alzare un altro po', è meglio cantare con Chris

quelle

parole che ora sembrano così vere, così adatte... Daniela inizia a

tradurle mentalmente. Cosa accadrebbe se non ci fosse luce, niente

di sbagliato, niente di giusto, cosa accadrebbe se non ci fosse

tempo... Già. Se non ci fosse tempo. Se non ce ne fosse più.

Basta.

Bisogna fare qualcosa, bisogna chiarire una volta per tutte.

"Pronto, Giuli? Ti disturbo? Che fai?"

"Ciao! No tranquilla, anzi ti pensavo!"

"Pensavi a me? Be', credevo fossi messa meglio! "

"Brava eh, vedo che la simpatia dilaga. Vuoi sapere perché?"

"Dimmi."

"Stavo scaricando dal telefonino sul computer le foto che ho

scattato alla festa. Sono fichissime! Sono venute bene anche se

non

c'era tanta luce. Ci sei anche tu mentre balli e fai la scema! "

"Davvero?! Non mi sono accorta che mi fotografavi."

"E ti credo, eri completamente fuori! Ci sei tu con Brandelli,

poi tu con due pazzi scatenati che ti saltavano intorno, poi

ancora

tu che gridi non so cosa a chi... poi basta perché a un certo

punto

sei sparita! Non ti ho vista più! Ma dove cavolo eri, eh? Ora mi

devi

raccontare tutto quello che non ho potuto fotografare!..."

"Già! E stata una festa forte, vero? Mi sono divertita un sacco!

E finalmente ce l'ho fatta! Visto? Chicco è stato proprio carino,

e

tu che ne parli sempre male... Ma a che ora sono sparita di là con

lui?" Giuli non ci fa caso. Perché dovrebbe? La voce di Daniela

sta

tremando un po' mentre lo chiede, nel tentativo di sembrare il più

sicura e naturale possibile. "Sì, insomma, quanto sono stata di là

con lui? Tu eri lucida, c'avrai fatto caso, no?! Dopo quanto tempo

sono tornata da te e siamo andate via?"

"Cavolo, ma davvero non ti ricordi proprio nulla?! L'ecstasy a

te fa proprio uno strano effetto! Con lui non lo so, perché

sinceramente

Brandelli l'ho visto seduto su un divanetto che parlava con

delle tizie, ma tu non c'eri già più. Forse siete spariti prima

insieme.

Da me sei tornata almeno dopo un paio d'ore. Quindi penso

che vi siate divertiti! Dai, mi racconti? Com'era lui? Com'è

stato?

Ti è piaciuto?"

"È stato diverso da come credevo, ma in fondo come fai a

immaginare

per filo e per segno una cosa che non hai mai provato?

Finché non ti ci ritrovi... dai, ti racconto tutto la prossima

volta che

ci vediamo. Tutto... quel poco che mi ricordo! Come faccio ora al

telefono? Lo sai che qui mi sentono. Se passa mamma è la fine.

Anche

se tengo lo stereo alto, quella c'ha le orecchie di un indiano.

Dai, vengo a trovarti presto. Ora devo andare."

"Va bene, scappi sempre sul più bello. Ti aspetto, donna navigata!

Mandami un sms prima, così mi faccio trovare in casa. E chi

se lo perde il racconto della prima volta della piccola Gervasi?!

"

Magari, Giuli, magari fossi scappata sul più bello. Almeno ora

dentro sentirei solo i Coldplay, invece di questo dubbio che non

mi lascia in pace.

"Ok, ciao."

Niente. Il dubbio è ancora lì. Sottile come un velo che nasconde

la verità. Pesante come un macigno che schiaccia la serenità.

"You don't have to be alone, you don't have to be on your

own..." Le tracce scorrono. "A message"... "Non devi essere sola,

non devi startene per conto tuo..." Già, Chris, perché non vieni

qui

tu, a darmi il messaggio che aspetto, la notizia che non so? Il

volume

è sempre alto. Raffaella si è arresa. E Fiore, forse, sta

imparando

l'inglese. Le parole che escono dal lettore continuano a colpire

nel segno. Ma non c'è da stupirsi: l'anima sa sempre scegliersi la

colonna sonora migliore. E le canzoni non arrivano mai a caso.

Come

la verità, del resto.

"Pronto, Chicco? Disturbo?"

"Ciao piccolina, come stai? Forte l'altra sera, eh? Che festa!

Stasera? Vengo a prenderti, ci beviamo un caffè?"

"Be', vediamo, dai! Sì, davvero bella la serata, mi sono divertita

da matti, non credevo! E tu sei stato carinissimo! Davvero

dolce..."

"Ho visto, ti sei sballata di brutto! Carino, dolce, dici? Ma non

ho fatto nulla! Anzi, avrei potuto anche esserlo di più se non

sparivi

come hai fatto! Ti ho persa quasi subito e non ti ho più rivista.

Ma dove sei finita? C'era un bel lento, E... di Vasco. Lo volevo

ballare

con te. Dov'eri? Poi volevo riaccompagnarti a casa, ma a quel

punto tu e Giuli non c'eravate già più! Perché?"

Non è per il lento mancato. E nemmeno per il passaggio perso

a casa che il suo stomaco si chiude e il cuore inizia a battere

più

veloce del normale. È perché Daniela cerca risposte. E invece

arrivano

solo domande.

"Sì, infatti, scusa, volevo dirtelo, Giuli ha chiamato suo

fratello

che ci ha riaccompagnate perché non ti trovavamo più e non

rispondevi

al cellulare! Forse avevi la batteria scarica. Scusa se sono

sparita... ho fatto mille giri, ho ballato, ho riso e così ho

perso la

cognizione del tempo! Va be', dai, ci sentiamo dopo, così

decidiamo

se prenderci quel caffè. "

"D'accordo, piccolina, a dopo allora!"

Piccolina. Magari... Essere ancora come allora, quando giocavo

qui in camera con Babi. Quando non mi dovevo preoccupare

di nulla. Quando trovavo tutte le risposte, perché le domande

erano

più semplici. Mica come questa. Questa è difficile. E pure

assurda.

Così tanto che nemmeno Giuli o Chicco hanno risolto il dubbio.

E loro erano lì. Sì. Lì. Ma non con me, non in quella stanza.

Solo il tempo, ora, mi può aiutare. Dovrò solo aspettare qualche

giorno... solo... pare facile.

Daniela apre l'armadio e si guarda allo specchio. Prova a scorgere

sul suo viso un cenno, un cambiamento, qualcosa che l'aiuti a

capire, che le dia almeno una piccola certezza cui aggrapparsi.

Nulla.

Solo un piccolo brufolo nascosto dalla frangetta, apparso chissà

quando, forse di notte. Troppo poco per essere il segnale di una

verità profonda che viene a galla. Sarà la cioccolata che ho

mangiato

ieri. E poi una sensazione diffusa, che non sa definire, qualcosa

che l'avvolge dal basso.

Ultima traccia del ed. "How do you see the world?" Un'altra

domanda. E neppure a questa è facile rispondere.

Capitolo 18.

"Com'è andato l'incontro?"

Non faccio in tempo a entrare che Paolo mi assale con la sua

curiosità.

"Credo bene."

"Che vuol dire, credo bene?"

"Vuol dire che penso che sia andato bene, che forse ho fatto

una buona impressione."

"Cioè?"

"Comincio la settimana prossima! "

"Perfetto, e vai! Dobbiamo festeggiare. Ti preparo una cena

favolosa.

Sono diventato un drago in cucina. Sai che mentre non c'eri

ho fatto un corso da Costantini..."

"Stasera non posso."

"Come mai?"

"Esco con amici."

"O esci con Eva?"

Mi guarda malizioso come se io potessi avere qualche ragione

per mentirgli. Mi fa ridere. "Ho detto con degli amici. Fai

proprio

come mamma."

"A proposito è passata, ti voleva salutare."

Sono in camera e non ho voglia di ascoltarlo. Almeno non su

questo. Ma Paolo naturalmente non ne vuol sapere e mi urla da

lontano."Ma mi senti? Sto parlando con te."

"E certo, con chi sennò? Siamo noi due in casa."

Che tipo. Compare sulla porta.

"Guarda qui." Ha un sacchetto trasparente in mano. Mi guarda

sorpreso: "Ma come, non li riconosci? I morselletti! Te li

ricordi?

Sono quei biscotti che ha sempre fatto mamma con il miele e

le nocciole. Dai, come fai a non ricordarteli? ! Ce li metteva

sempre

sul termosifone per ammorbidirli e noi lì a mangiarli come pazzi

quando ci dava il permesso di vedere il film del lunedì sera". Ne

tira fuori uno: "E dai, non ci credo che non te li ricordi".

Gli passo davanti urtandolo.

"Sì, me li ricordo, ma ora non mi vanno. Sto andando a cena."

Paolo è dispiaciuto. Rimane lì con il morselletto in mano a

guardarmi

mentre mi infilo il giubbotto e prendo le chiavi.

"Dai, me ne mangio qualcuno domani mentre faccio colazione,

va bene?"

"Ok, come vuoi."

Paolo mi guarda uscire, poi sposta la sua attenzione sul

morselletto

e prova a morderlo: "Ahia, è duro...".

"Mettili un po' in forno."

Sono in ascensore e mi chiudo il giubbotto. Che palle. Mi passo

la mano nei capelli corti e li muovo un po', per quel poco che si

può fare. I morselletti sono i biscotti più buoni del mondo, non

troppo dolci, difficili da masticare all'inizio ma poi... Sembrano

come

una gomma, leggermente più duri, prendono sapore e ogni tanto

incontri qualche nocciola.

Mamma. Mi ritorna in mente lì in cucina. "Mischiare il miele

dentro la pentola, girare, rigirare e ogni tanto assaggiare..."

Portava

appena la punta di un lungo cucchiaio di legno alla bocca, poi

alzava gli occhi verso l'alto socchiudendoli per concentrarsi

meglio

sul sapore. "Qui ci vuole un altro po' di zucchero. Tu che ne

dici?"

E mi invitava così a far parte del gioco, assaggiare con il

cucchiaio

di legno. Io annuivo. Sempre d'accordo con lei, con mamma. La

mia mamma. Allora lei canticchiava: "E la pillola va giù, la

pillola

va giù". Apriva il coperchio rosso del barattolo dello zucchero e

giocando con il polso ne faceva scivolare un po' nella pentola.

Quanto

bastava, almeno secondo lei. Poi richiudeva il coperchio del

barattolo,

lo posava, si strusciava le mani sul grembiule a fiori e veniva

lì vicino a me a vedere come andava: "Se finisci presto di

studiare

ti do un morselletto in più di Paolo... tanto lui non lo sa". E

ridevamo insieme e lei mi baciava dietro il collo mentre io tiravo

su le spalle, stringendole per il brivido...

Che palle! Com'è difficile dimenticare le cose belle.

Corro via veloce con la moto. Il vento è piacevole e caldo in

questa serata di settembre. Ci sono poche macchine. Imbocco corso

Francia giù da Vigna Stelluti e arrivo fino al semaforo, poi giro

e prendo la Flaminia. Accelero dando gas. Il semaforo in fondo è

verde, accelero ancora di più prima che cambi colore. Fa più

freddo

qui, ho un brivido. È il verde ai bordi della strada. Tra le

colline

più alte, con qualche grotta nascosta e alti alberi che nascondono

ogni tanto la luna. La moto rallenta da sola. Sto entrando in

riserva.

Strano. Avevo fatto il pieno. Sarà sporco il carburatore. Per

questo consuma più del solito. Do più gas e senza scalare scendo

giù con la mano sulla sinistra del serbatoio fino a trovare la

levetta.

La sposto in basso verso la riserva. Devo fare benzina. Supero

il grande Centro Euclide sulla destra e poco più in là mi appaiono

le luci di un self-service. Mi fermo di fianco al distributore. È

acceso.

Spengo la moto e infilo le chiavi nel tappo del serbatoio. Poi

mi alzo e mi sfilo il portafoglio dalla tasca dei jeans. Sempre

tenendo

la moto tra le gambe, prendo due fogli da 10 euro e li infilo

nella macchinetta. I secondi 10 euro vengono risputati fuori. Li

rinfilo e mentre entrano do un cazzotto sopra il distributore.

Qualche

secondo e una pernacchia meccanica mi avvisa che ha preso

anche quelli. Indietreggio un po' con la moto e faccio per

staccare

la pompa. Cazzo, non è possibile. Non è possibile. C'è un

lucchetto

sul distributore della super. È bloccata. Non è il solito

lucchetto

dei distributori. È più grande. E ha bloccato anche il pulsante

per prendere la ricevuta. È un trucco! Un trucco di qualche

piottaro del cazzo che vuole fare il pieno alla faccia mia. M'ha

fregato

20 euro 'sto piottaro... Cazzo. Cazzo. Cazzo. Non ho tempo.

Devo andare all'appuntamento. Questa non ci voleva proprio. Chiudo

il serbatoio, rinfilo le chiavi nella moto e parto incazzato a

tutto

gas. La pompa di benzina rimane sola nel silenzio della notte.

Qualche macchina sfreccia veloce verso chissà quale magico weekend

o più semplicemente una cena a poco dalle parti di Prima Porta.

Un gatto attraversa la piazza del benzinaio. Improvvisamente si

ferma come se avesse sentito qualche strano rumore. Rimane

immobile

così nella penombra con la testa girata, il collo un po' piegato

e gli occhi socchiusi. È come se cercasse qualcosa. Ma non c'è

niente. Il gatto si rilassa e riprende a camminare per la sua

strada,

diretto chissà dove. Alcune nuvole passano veloci. Un vento

leggero

scopre ogni tanto la luna. Da dietro la casupola del benzinaio

una macchina si mette in moto. Sbuca da lì dietro una Micra blu

scuro con solo i fari di posizione. Avanza lentamente verso la

pompa

di benzina. Posteggia, spegne il motore e scende un tipo non

troppo alto, con un cappello nero in testa un po' da donna e un

giubbotto Levi's scuro. Si guarda intorno. Poi non vedendo

nessuno,

tira fuori dalla tasca la chiave del lucchetto e lo apre. Non fa

in tempo a prendere in mano la pompa che gli sono addosso, lo

scaravento sul cofano della macchina e gli monto sopra. "Col cazzo

che fai benzina coi soldi miei ! " Gli blocco il collo ma si

agita.

Nella colluttazione il cappello gli vola via. Un'ondata di capelli

neri

lunghi si riversa sul cofano blu. Carico il destro per colpirlo in

piena faccia, ma una luna pallida illumina di botto il suo viso.

"Cazzo... Ma sei una donna!"

Cerca di divincolarsi da sotto. La tengo ancora un po' mentre

abbasso il braccio destro: "Una donna, una fottuta donna".

La lascio andare. Si rialza dal cofano e si risistema il

giubbotto.

"Ok, sono una donna e allora? Cazzo c'hai da ridere, vuoi fare

a stecche? Non mi fai mica paura."

Troppo forte questa tipa. La guardo meglio: ha le gambe

divaricate,

un paio di jeans a vita bassa e delle Sneakers Hi-tech. Ha una

T-shirt nera sotto il giubbotto di jeans scuro. Ha stile la tipa.

Raccoglie

il cappello e se lo infila nella tasca dei pantaloni: "Allora?".

"Allora che? Guarda che eri tu che ti stavi fottendo i miei

soldi."

"E allora?"

"Ancora? Allora niente. " Mi infilo nella Micra e le sfilo le

chiavi

dal cruscotto. "Così non facciamo anche un inseguimento." Me

le metto in tasca, poi vado più avanti. Sbuco un attimo dopo con

la moto. Ero tornato fin dietro la siepe del benzinaio a motore

spento.

L'accendo e in un attimo sono davanti a lei. Spengo e apro il

serbatoio.

"Passami la pompa."

"Non ci penso minimamente."

Scuoto la testa, la prendo da solo e faccio benzina. Poi mi viene

un'idea, metto solo 10 euro nel mio serbatoio e mi fermo. Faccio

il

giro della sua Micra con la pompa in mano, apro il tappo e metto i

restanti 10 nella sua macchina. Lei mi guarda, incuriosita. È

bella,

con un'aria un po' da dura. Forse è semplicemente scocciata di

essere

stata beccata. Ha i capelli tutti sfilati in avanti, sembrano

molto

scalati, gli occhi grandi e scuri e un bel sorriso, per quel poco

che si

è potuto vedere. Fa una strana smorfia di curiosità.

"E ora che fai?"

"Ti faccio benzina."

"E perché?"

"Perché andiamo insieme a una cena. " Sposto la moto e la chiudo

dietro la casupola del benzinaio.

"Non se ne parla proprio. Io a una cena con te? Ma io ho altro

da fare... Ho una festa, un rave, un appuntamento con i miei

amici."

Faccio il duro ma mi viene da ridere: "Allora mettiamola così,

tu volevi passare la tua serata con i miei 20 euro, invece sei

molto

più fortunata e la passi con me".

"Ma senti questo.

"Oppure, se ancora non è sufficiente per il tuo fantastico

orgoglio...

diciamo che passi la tua serata con me sennò ti denuncio. È

più semplice così?"

La tipa mi fa un sorrisetto malizioso. "E certo, io monto in

macchina,

anzi per essere più precisi nella mia macchina, con uno

sconosciuto."

"Non sono più uno sconosciuto. Sono uno che stava per essere

mezzo rapinato da te. "

Sbuffa di nuovo.

"Allora vediamolo da quest'altro punto di vista. Io salgo sulla

mia macchina con un possibile mezzo rapinato, ok? E fino a qui ci

siamo. Ma perché non dovrei pensare che tu mi porti chissà dove

e approfitti di me? Dammi un motivo valido."

Rimango in silenzio. Vaffanculo a tutti quelli che le fanno

preoccupare.

Pezzi di merda che ci avete rovinato la piazza, vigliacchi

incapaci di conquistare, inutili esseri di questo splendido mondo.

"Ok... Ok..."

Mi metto a ridere, ma so che ha ragione: "Allora mettiamola

così. Lo vedi questo cellulare?".

Lo tiro fuori dalla tasca.

"Sai con una semplice telefonata quanti 'approfitti' meglio di

te potevo farmi? Quindi stai zitta e sali."

Ecco quando un telefonino diventa utile!

Mi lancia uno sguardo di odio e poi viene verso di me. Mi si

pianta di fronte e allunga un braccio con la mano aperta. Alzo al

volo il braccio. Penso mi voglia dare uno schiaffo. Ho sbagliato.

"Per adesso non ti schiaffeggio. Dammi le chiavi, guido io."

Sorrido, infilandomi nella sua macchina: "Non se ne parla

proprio".

"Ma come puoi pensare che io mi fidi di te?"

"No, come puoi pensare tu che io mi fidi di te? Tu che mi stavi

fregando in partenza ! "

Mi allungo dall'altra parte aprendole la portiera. Le sorrido.

"Ho ragione o no? Forza, monta."

Rimane un po' perplessa, poi sbuffa e sale in macchina con le

braccia conserte e lo sguardo fisso in avanti. Guido per un po' in

silenzio.

"Ehi, si porta bene la tua macchina."

"È compreso nell'affare il fatto che dobbiamo parlare?"

Abbiamo appena superato Saxa Rubra.

"No, ma adesso puoi fare un altro affare. Vedi, io potrei

scaricarti

qui e portarti via la macchina, naturalmente senza 'approfittarne'

come dici tu... Semplicemente con la tua macchina... ma la

mia benzina. Quindi cerca di essere gentile, divertiti, sorridi,

hai

un sorriso così bello."

"Ma se ancora non l'hai visto..."

"Appunto... Che aspetti?"

Sorride apposta, digrignando i denti: "Eccolo qua, sei contento?".

"Molto."

Allungo la mano aperta verso di lei. Si scosta veloce.

"Oh, che fai?"

"Madonna, che mal fidata ! Mi presento no, come le persone

educate,

quelle che non rubano. Io sono Stefano, Step per gli amici."

Mi lascia la mano aperta a mezz'aria nella penombra della

macchina:

"Bene... Ciao Stefano, io invece sono Ginevra, Gin per le

amiche. E per te invece, sempre Ginevra".

"Ginevra, forte... Come facevano a sapere i tuoi che avrebbero

messo al mondo una principessa di questo tipo?"

La guardo tirando su il sopracciglio, poi non ce la faccio più e

scoppio a ridere: "Oddio scusami, mi viene troppo da ridere e non

so perché. Principessa".

Continuo così. La guardo e rido. Mi diverte. Mi sta simpatica.

Forse perché non è bella. La macchina procede veloce. La luce dei

lampioni abbandona e riprende il suo viso. Lo pennella di chiaro,

poi di scuro. E ogni tanto la bacia la luna. Ha gli zigomi alti,

un

mento piccolo. Le sopracciglia leggere, come un punto di fuga,

corrono

via verso i capelli. Ha degli occhi nocciola, intensi, vivaci e

allegri,

malgrado sia molto scocciata. Sì, mi sono proprio sbagliato.

Non è bella. È bellissima.

"Sono stati forti i tuoi genitori. Ottima la scelta del nome:

principessa

Ginevra..."

Mi guarda in silenzio.

"Stefano, i miei genitori non ci sono più. Sono morti."

Mi si gela il sangue. Il peggior cazzotto possibile, in piena

faccia,

allo stomaco, sui denti. Cambio espressione.

"Scusami."

Rimaniamo così per un po' in silenzio. La macchina corre veloce.

Guardo dritto la strada cercando di far perdere tra quelle

veloci strisce bianche il mio stupido errore. La sento sospirare,

forse sta piangendo. Non ce la faccio a voltarmi, ma devo. Devo...

La vedo lì in un angolo che mi guarda. Tutta rattrappita contro

il finestrino. È seduta di sbieco. Poi, all'improvviso, scoppia

a ridere come una pazza: "Oddio, non ce la faccio più, ti ho detto

una cazzata! Uno pari va bene? Tregua". E al volo infila un ed

nello stereo.

"Hai cercato la guerra, e io te l'ho data. Rimasto male, eh? Fai

tanto il duro ma sotto, sotto... sei un sensibilone. Piccolo

lui..."

Ginevra ride e si muove andando a tempo coi Red Hot Chilli

Peppers.

"Allora dove andiamo a mangiare di bello?" Adesso è molto

più tranquilla, padrona della situazione. Rimango in silenzio.

Cazzo,

mi ha fottuto. Bel colpo, ma da stronza. Come si può scherzare

su una cosa del genere? Continuo a guidare guardando dritto.

Con la coda dell'occhio la vedo ballare. Tiene il ritmo

perfettamente,

balla divertita su Scar Tissue. Si agita muovendo i capelli.

Ride ogni tanto mordendosi il labbro inferiore.

"Dai, mica te la sarai presa?"

Mi guarda.

"Ma scusa. Sei alla guida della mia macchina. Certo, con la tua

benzina, lo dico io prima che lo ridici tu. Porti una ragazza a

cena

con i tuoi amici, giusto? O qualcosa del genere... Insomma non hai

nessun motivo per prendertela, o no? L'hai detto tu...

Divertiti...

Sorridi! ! ! E io l'ho fatto. Perché allora adesso non lo fai

anche tu?"

Continuo a non parlare.

"Capirai. La tira lunga. Ha messo il muso. Preferivi che fossero

morti sul serio? Va be', allora proviamo a fare un po' di

conversation...

I tuoi come stanno?"

"Benissimo, sono separati."

"Capirai! Copione. Mamma mia, quanto sei scontato. Ma non

riesci a inventarti qualcosa di meglio?"

"Ma che ci posso fare se è così. Guarda che sei forte. Vedi, è

colpa tua, hai tolto la credibilità ai nostri dialoghi."

"Non stai dicendo sul serio..."

"Ti ho detto di sì."

Rimane anche lei per un po' in silenzio. Mi guarda con la faccia

perplessa. Mi studia quasi di traverso.

"Non è vero."

"Ma ti ho detto di sì."

Non è ancora del tutto convinta di quello che le ho detto. Mentre

guido mi volto a guardarla. Rimaniamo per un attimo così, a

fissarci

negli occhi. È una specie di gara. Poi lei abbassa per prima lo

sguardo. Sembra arrossire. Ma c'è troppa penombra per decidere

se è vero o no.

"Ehi guarda avanti, guarda la strada. La benzina è tua, ma la

macchina è mia, giusto? Quindi non me la sfasciare."

Sorrido senza farmene accorgere.

"Mi hai detto una cazzata, vero? Non sono separati."

"Come no, da diversi anni ormai."

"Be', se è vero mi dispiace. Comunque ho letto da qualche parte

che sono più del sessanta per cento i separati con figli grandi.

Quindi..."

"Quindi?"

"È un dato che non puoi usare per fare la vittima."

"Ma chi vuole fare la vittima. Ma senti questa..."

Vorrei raccontare tutta la storia, forse perché non sa niente di

me o perché mi dà fiducia, oppure per qualche altro motivo che

non so. Ma non lo faccio, qualcosa mi frena.

"A cosa stai pensando? Ai tuoi?"

"No, pensavo a te."

"E a cosa pensavi se neanche mi conosci."

"Pensavo a quanto è bello quando non conosci qualcuno, ma

ce l'hai lì accanto, a quanti problemi non hai, come te la puoi

immaginare,

giochi di fantasia, vai dove vuoi. "

"E dove sei arrivato?"

Lascio apposta una pausa.

"Lontano."

Anche se non è vero, però mi diverte dirglielo.

"Anzi ci ho ripensato, mi sa che hai ragione tu."

"Cioè?"

"Ne'approfitto'."

"Idiota. Quanto sei cretino. Mi vuoi far preoccupare, vero? Ma

non ce la puoi fare, mi dispiace. Sono terzo dan. Sai cosa vuol

dire

terzo dan o neanche lo sai? Be', te lo spiego al volo."

Parla a raffica e io l'ascolto divertito.

"Vuol dire che non fai in tempo a mettermi una mano addosso

che io già t'ho rovinato, hai capito? Terzo dan, di karate. E ho

fatto anche kick boxing. Prova ad allungare una mano e sei finito.

Finito."

"Meno male. Allora sono al sicuro."

Non faccio in tempo a finire la frase che il volante mi scappa di

mano. La Micra sbanda paurosamente. Controsterzo al volo e levo

il piede dal gas. Ginevra mi finisce addosso. Porto la macchina

dolcemente

verso destra mentre lei si tira su. Si è spaventata. Mi colpisce

forte con un pugno sulla spalla, sempre nello stesso punto.

"Deficiente, mi hai fatto paura! Cretino! "

Rido. " Ahia, ferma, stai buona. Guarda che io non c'entro niente.

Mi sa che abbiamo bucato."

"Ma che stai a dire! L'hai fatto apposta! "

"Ti dico di no."

Scendo dalla macchina e mi abbasso davanti al cofano per guardare

le ruote.

"Ecco qua, hai visto?"

Scende anche lei e vede la gomma bucata.

"E ora?"

"E ora spero che hai la gomma di scorta."

"Certo che ce l'ho."

Brava!

Rimaniamo così per un po' a guardarci.

"Be'?"

"Be' cosa? Vai e prendila, no?"

"Ma scusa, stavi guidando tu. Quindi la colpa è tua."

"Forse... Ma la macchina è tua. E quindi la ruota la cambi tu."

Ginevra sbuffa e va verso il cofano del motore.

"È in quello dietro! "

"Stavo controllando che non si fosse rotto niente." Mente.

"Certo... Certo... Come no."

Apre il bagagliaio e solleva il cartone sotto il quale c'è la

ruota.

"Ma come si sfila?"

"La vedi quella vite in alto grande? Svitala e poi tira la ruota

verso di te. "

Segue tutte le mie istruzioni, la ruota è libera. Prova a tirarla

fuori, ma a metà la ruota le ricade dentro il bagagliaio

rimbalzando.

Non ce la fa.

"Scusa, ma perché non mi aiuti?"

"Che c'entra. Io è come se non ci fossi. Hai detto tu che non

ero previsto nella tua serata, no? Per non parlare dei discorsi

sulla

parità, e poi c'è una cosa ancora più importante."

Mi si mette di fronte con le mani sui fianchi. "Sentiamo. Cosa?"

"Hai detto che sei terzo dan, giusto? Pensa se perdi con una

ruota... Ah, ah..."

Mi guarda incazzata nera. Quasi si tuffa dentro il bagagliaio,

abbraccia

la ruota e inarca la schiena all'indietro. Fa un grande sforzo,

vado veloce verso di lei, per aiutarla, ma ce la fa prima che

arrivi.

"Ce l'ho fatta, cosa credi." Poi, passando, mi spinge apposta di

lato con la spalla.

"E levati! Non stare in mezzo che intralci e basta."

Rotola la ruota tenendola dritta, quasi me la manda addosso.

"Allora ti vuoi togliere o no?"

"Come no, anzi vado a sedermi lì sotto l'albero, a fumarmi una

bella sigaretta. Ehi, non ci mettere troppo però, eh? ! ! "

Ecco, vai, va.

Capitolo 19.

Mi siedo al bordo della strada, sopra un muretto e mi accendo

una sigaretta. Rimango così, nascosto nel buio a guardarla. Poi le

urlo da lontano:

"Brava, brava, stai andando benissimo".

Si infila sotto la macchina per piazzare il cric. È inginocchiata,

poggia le mani a terra tenendo sollevate le dita e guarda dove

deve

infilare il cric. Il sedere stretto dai jeans spunta come una

piccola collina

lì sull'asfalto, stagliandosi contro la carrozzeria della

macchina,

come se fosse un cielo blu. Lo agita mentre cerca di trovare il

punto

giusto dove piazzare il puntale del cric. È uno spettacolo.

"Ehi, non sai che panorama si vede da qui. Dovresti vederlo.

La luna, tutta tonda, perfetta. È luna piena, sai?"

Si alza pulendosi le mani. Si strofina un palmo con le dita

leggere

facendo volare via pezzetti di brecciolino incastonati nella pelle

morbida.

"Ma quale luna che non si vede niente."

"Due minuti fa c'era, te lo giuro, una luna tutta jeansata, una

meraviglia. Stava lì che spuntava da sotto la tua macchina. "

"Guarda, neanche ti rispondo."

Inizia a caricare il cric pompando su e giù mentre la macchina

oscilla leggermente.

"Avvisami quando hai finito, che magari mi addormento."

Mi lascio scivolare all'indietro sul bordo del muretto. Guardo

le nuvole che passano lì sopra nel cielo scuro. Ormai si mischiano

con il fumo che lascio fuggire dalla bocca. Nitide, trasparenti,

bagnate

di luce nascosta, quella luna più alta, che non si vede ma è lì,

più su, non jeansata. Faccio un bel respiro. Sorrido e mi giro a

guardarla.

E lì che sta svitando i bulloni. Prova con forza a girare la

croce.

Non ce la fa e ci salta sopra con un piede. La croce fissata al

bullone rimbalza e cade a terra. Lei sbuffa, con il bordo della

mano,

per non sporcarsi, si leva i capelli dal viso. Bella e accaldata.

Rinfila la croce nel bullone e ci riprova. Sta arrivando una

macchina.

È scura, passa a media velocità, lampeggia e suona il clacson.

Poi sento una frenata poco più avanti e il rumore di una

retromarcia

accelerata, da boro. È una Toyota Corolla. Torna indietro a tutta

velocità, sbandando leggermente. Fa una mezza curva in

retromarcia.

Poi si ferma davanti alla Micra di Ginevra. Scendono delle

persone. Mi metto a sedere sul muretto. Sono tre ragazzi. Butto

la sigaretta per terra e rimango lì a seguire la scena.

"Ehi, ciao, che fai qui da sola di notte?"

"Hai bucato eh? Che sfiga."

"Che sfiga noi, per un attimo abbiamo pensato che eri una

mignotta."

Si mettono a ridere.

Uno tossisce. Avranno sì e no vent'anni, portano i capelli corti,

devono essere militari.

Ginevra non guarda dalla mia parte.

"Sentite, per favore, mi aiutate a cambiare la gomma?"

"Come no... È un piacere."

Il più piccolo si mette a terra e con la croce inizia a svitare i

bulloni.

"Ammazza come so' arrugginiti."

"Eh, non ho mai cambiato una ruota di questa macchina... È

la prima volta che buco."

"Be', c'è sempre una prima volta."

Uno dei tre ride in maniera sguaiata, gli altri lo seguono.

"Oh, meno male che ti è successo stasera che passavamo noi."

"E già, meno male che ci siete voi." Questa volta Ginevra butta

uno sguardo dalla mia parte e senza farsi vedere fa un gesto con

la mano come a dire: "Tie', hai visto? Questi mi hanno aiutato".

Il piccoletto cambia la gomma che è una scheggia, leva al volo

tutti i bulloni e sposta la gomma bucata. La fa cadere a terra lì

vicino

facendola rimbalzare e ci infila subito quella nuova. Centra i

buchi in un attimo e infila tutti i bulloni. Dà una stretta

generale,

uno per volta senza stringere troppo, poi li ripassa tutti per la

stretta

decisiva. Deve fare il meccanico di giorno. Dà un'ultima botta

con la croce e si tira su.

"Et voilà, ecco fatto. Tutto a posto, signorina! "

Si pulisce le mani sbattendole sui jeans sopra il ginocchio. Sono

talmente sporchi che non lascia impronte.

"Grazie, non avrei saputo come fare senza di voi."

Non c'è niente da fare, penso. E proprio una principessa. La

frase giusta al momento giusto. O sbagliata. Un tentativo come un

altro per liquidarli in maniera simpatica. Ma non avevo dubbi, non

attacca.

"Aho e mo' che fai? Ci mandi via così?"

Il tipo più alto, e anche un po' più grosso degli altri, prende in

mano la situazione.

"Be', vi ho detto grazie. Ci avrei messo più tempo, ma guarda

che me la cambiavo anche da sola la gomma, eh! "

Il tipo guarda gli altri e sorride. Ha un maglione largo sul

bordeaux,

con il collo stretto e una striscia nera sul petto. "Va be', ma

dacci almeno un bacetto."

"Non se ne parla proprio."

"Aho, t'avessi chiesto de facce 'na pippa..."

Ride divertito, sfoderando un sorriso che intristisce perfino me.

Ha dei denti così mangiati che fanno della smorfia del suo viso

una

maschera grottesca.

"E dai, che ti è andata bene col bacetto."

Il tipo prende Ginevra al volo e la tira a sé. Ginevra è

spiazzata.

Lui l'abbraccia in vita e prova a baciarla. Ginevra istintivamente

allontana il viso. Il tipo gli dà una specie di leccata sulla

guancia

e continua cercando di infilarle la lingua in bocca. Ginevra si

divincola.

Il tipo è forte, la stringe deciso. Ginevra prova a colpirlo

tra le gambe con una ginocchiata, ma lui le sta troppo addosso.

Non ci riesce. Il piccoletto, quello che ha cambiato la ruota sta

zitto,

guarda la scena in silenzio. Anzi, sembra leggermente infastidito.

L'altro, quello cicciotto, ride in un angolo, tutto preso, quasi

eccitato,

fa il tifo per l'amico.

"Bravo Pie', ficcagli la lingua in bocca."

Pie', immagino Pietro, non ci riesce però. Anzi, Ginevra si agita

così tanto che alla fine gli dà perfino una specie di capocciata.

"Ahia, mortacci tua." Pietro si porta le mani sulla fronte.

"Così impari, coglione!" Ginevra si sistema i capelli, ferma in

mezzo alla strada poco lontano da lui, senza scappare, senza

chiamarmi.

"Coglione a me? Ma mo' te faccio vede' io." Il tipo parte deciso

andandole contro. Ginevra abbassa la testa e si protegge con le

mani chiudendosi a riccio. Pietro la prende per il giubbotto.

È ora di intervenire: "Ehi, ci hai fatto divertire, ora basta

però".

Pietro la lascia andare, gli altri due rimangono sorpresi

vedendomi

spuntare dall'ombra. Vado verso di loro.

"E tu chi cazzo sei?"

"Uno che passava di qui per caso. E tu invece, chi cazzo pensi

di essere?"

Sono arrivato. Pietro mi guarda. Sta soppesando se vale la pena

di rispondermi. Se ce la può fare o no, insomma. Opta per il sì:

"Ma vedi di levarti dai cojoni, va'". Sbaglia. Parto al volo con

un

cazzotto dritto per dritto, perfetto. Non riesce neanche a

vederlo.

Lo prendo di striscio, ma non troppo, quel tanto che basta per

sfondargli

il naso. Lo vedo oscillare sulle gambe, accenna un disperato

tentativo di reazione. Lo colpisco di nuovo, di sinistro, dritto

sopra

il sopracciglio destro, di impatto pieno, preciso, sordo, con

cattiveria.

Si accascia a terra con un tonfo secco, non fa in tempo a muoversi

che lo prendo d'incontro con un calcio in piena faccia. Pum.

Non appena ritiro indietro la gamba si forma una pozza di sangue.

Ne scende tanto, morbido e caldo, dal naso sulla strada, lento,

nella

penombra, si mischia con l'asfalto. Pietro, o come cazzo si

chiama,

ha la bocca aperta, respira facendo strane bollicine con quel

rivolo

di sangue che inciampa sulle sue labbra. Ne sputa ogni tanto

qualche goccia mista a saliva qua e là. Non ride più, adesso.

"Be'..." Guardo Ginevra. "Andiamo va', sennò facciamo tardi."

Prendo la gomma bucata, la butto dietro nel bagagliaio e richiudo

il portellone. Passo vicino al piccoletto che ha cambiato la

gomma, lo supero. Quello cicciotto invece sta vicino alla

macchina.

È lento nell'accorgersene. Lo prendo al volo con la destra. Mi

ritrovo il suo orecchio tra pollice e indice, lo stringo forte

storcendoglielo

con rabbia. Vorrei staccarglielo.

"Ahia, cazzo, ahia."

"Levati di mezzo, coglione. E dimagrisci." Gli do un'ultima tirata

micidiale e lo lascio andare. Rimane piegato con le mani a

preghiera

sull'orecchio mentre salgo in macchina. Aspetto che Ginevra

chiuda la portiera e parto veloce. Guardo i tre nello specchietto

retrovisore. Ormai sono lontani, avvolti nella notte che ci

separa.

"Allora come stai?"

Rimane in silenzio. Cerco di farla ridere.

"Non sanno come sono stati fortunati quei tre. Se si scatenava

il terzo dan erano cavoli loro, eh?"

Ma non ci riesco. Niente, non accenna a parlare. La guardo.

Ha i capelli che le scivolano giù, come sconfitti, coprendole una

parte del viso. Le labbra socchiuse spuntano dal suo nascondiglio,

incerte e indecise, tremano un po'.

"Dai Ginevra, è tutto a posto."

"Tutto a posto un cazzo! Pensa se bucavo ed ero sola."

"Ma non è successo."

"Ma poteva succedere. Quei tre si fermavano e come andava a

finire?"

"Ma poteva essere che invece passavo io in moto e ti aiutavo

semplicemente a cambiare la gomma." Cerco di tranquillizzarla.

"Non ci posso credere che siete così stronzi... In tre

approfittarsi

di una da sola, che merde! "

Vedo che è andata in fissa. Cerco di sdrammatizzare.

"Allora diciamo che hai un bel culo."

"Perché c'eri tu?"

"No, che c'entro io. Magari c'entrano i tuoi. Hai proprio un

bel culo, nel vero senso della parola. Cioè, lo si vedeva mentre

cambiavi

la ruota. Diciamo che è un po' colpa tua... A stare lì così, in

quel modo... Insomma hai scaldato troppo gli animi di quei

poveracci.

"

"Ah, quindi tu vorresti dire che il mio culo, stretto in dei

banalissimi

jeans, è un attentato alla tranquillità."

"Già, proprio così."

"Ma dove vivi?! Pensa se mai bucasse Jennifer Lopez allora!

Che succederebbe? Una guerra mondiale."

"Ma che c'entra. Lei il suo didietro ce l'ha assicurato per

milioni

di dollari..."

"E allora?"

"Se lo può giocare tranquillamente."

"Ma vattene, va'. Sei proprio un idiota."

"Cercavo solo di farti ridere."

"Be', non ci sei riuscito."

Rimaniamo in silenzio e continuo a guidare. Gin alza il volume

della radio, non vuole pensare. "Mi piace molto questa canzone.

Sai cosa dice?"

Provo ad ascoltarla. Ma a me non posso mentire. Ho imparato

perfettamente a usare il computer, la grafica, il 3d e tutto il

resto,

ma con l'inglese è stata una scazzottata continua. "Qualcosa

capisco..."

"Dice: 'Non so niente di storia, di matematica...'." Gin continua

a tradurre, salvandomi.

Ascolto le sue parole. Parla lenta sorridendo, sembra che non le

sfugga niente. "Queste parole mi piacciono."

"È molto bella." Non so perché, ma sembra capitata a caso,

perfetta per il momento. "Sì, è bella." E subito dopo dalla radio

parte un'altra canzone. Ma stavolta non ho problemi. "Tu vestita

di fiori o di fari in città, con la nebbia o i colori, cogliere le

rose a

piedi nudi e poi..." Mi lascio andare. Guardo fuori, nel buio

della

notte. Una di quelle strane coincidenze, la musica al momento

giusto,

una macchina che non è tua, una strada senza luci, senza traffico,

l'infinito davanti, una ragazza vicino. Tra l'altro bellissima. Si

sistema meglio il giubbotto.

"Manca molto all'appuntamento?"

Passiamo proprio in quel momento allo svincolo subito prima

del tunnel per Prima Porta. Sono tutti lì, Bardato, Manetta,

Zurli,

Blasco e un altro po' di gente. Intravedo anche qualche donna. Li

supero senza fermarmi.

"No, fra un attimo ci siamo." Accelero, ma tanto non credo mi

riconoscano. Sapevano che venivo in moto. E da solo. Invece sono

in macchina e con lei. Continuo a guidare come se niente fosse.

Gin

guarda fuori dal finestrino.

"Hai visto? Lì c'è un gruppo che aspetta qualche ritardatario.

Che posto assurdo per darsi un appuntamento."

Mi guarda dopo averlo detto. Mi batte il cuore. Non ci posso

credere che abbia capito.

"Già, un posto assurdo."

Continua a guardarmi: "È strana questa situazione vero?".

"Quale situazione?" Spero non voglia parlare di nuovo del

gruppo.

"Be', che siamo qui in macchina io e te, due perfetti sconosciuti.

E già è successo di tutto. Come ci siamo incontrati stavamo per

fare

a botte... E per soli 20 euro."

"Che tu mi volevi fregare."

"Sì, ma non ti perdere sempre nei dettagli. Poi buchiamo e io

devo cambiare la ruota. "

"Vai avanti. Non ti perdere nei dettagli neanche tu." Gin sorride.

"Si fermano in tre, uno ci prova con me, tu gli meni e adesso

per chiudere andiamo a cena con un gruppo di amici tuoi. Sembriamo

già una di quelle tipiche coppie... La classica serata con

qualche imprevisto in più."

"Già, solo che non stiamo insieme."

"Ah, certo."

Continuo a guidare, ma la sua affermazione mi suona strana.

"Che vuol dire: 'Ah, certo?'."

"Vuol dire 'Ah, certo', nulla di più." Si mette a ridere.

"Be', quel 'Ah, certo' non vuole dire solo 'Ah, certo'. Dietro c'è

molto di più, giusto?"

La guardo in attesa di risposta.

"Ma tu devi essere un po' fissato con il 'dietro', eh? Il mio

'dietro'

è un attentato alla tranquillità, il tuo 'dietro' è un

retropensiero

che non finisce più. Scusa, eh, ma che stiamo insieme, io e te?"

"Per adesso, no."

"No, la risposta in questo caso, visto che stiamo discutendo,

deve essere solo 'no', non 'per adesso no'. È chiaro?"

Si scalda la piccolina.

"Ah, certo."

"Allora non stiamo insieme."

"No."

"Oh, bene."

Aspetto qualche secondo: "Per adesso".

Gin mi guarda infastidita: "La vuoi sempre vinta tu, eh?".

"Sempre."

"Be', allora mettiamola così. Noi non stiamo insieme, per adesso

e di sicuro per il resto della serata. E se continui a discutere

aggiungo

altre date più lontane, posso arrivare perfino a limiti di mesi,

è chiaro?"

"Chiarissimo."

Sorrido.

"Ho imparato però che la sicurezza quando viene messa troppo

in vista è un sinonimo di insicurezza. Vuoi che sia più chiaro?"

"Sì."

"Era meglio se dicevi solo 'per adesso'." Sorrido. Gin scuote la

testa.

"Per adesso la smetto perché mi sono scocciata. E poi ti pare

che io e te discutiamo sul fatto che non stiamo insieme? "

"Già, di solito si discute solo quando si sta già insieme. Vuol

dire che abbiamo cominciato al contrario."

"Non abbiamo proprio cominciato."

Freno piano piano e accosto.

Gin mi guarda preoccupata: "E ora che fai? Ci provi?".

"No, per adesso. L'appuntamento era qui, ma non vedo nessuno.

Se ne devono essere già andati, abbiamo fatto tardi."

"Hai fatto tardi."

"Ok. Ho fatto tardi."

"E come mai mi dai ragione?"

"Se cominciamo a discutere per ogni cosa in questo modo, ci

lasciamo prima di metterci insieme. "

Gin stavolta scoppia a ridere. Rido anch'io. Ci guardiamo ridendo

all'ombra di un appuntamento mai esistito. La musica è alta.

Passano una sequenza mista tra vecchi e nuovi successi.

"Che bella! Questa è il massimo! "

E ti credo: stanno dando la mitica Love me two times dei Doors.

"Love me two times, girl, one for tomorrow one just for today...

Love me two times, I'm goin'away... ma questa non te la traduco."

"Credo d'aver capito cosa dice."

Tutt'intorno è buio. Ma "per adesso", forse ha ragione lei, è

meglio andare.

"Dove mi porti?"

"Andiamo a cena, io e te. Vorrà dire che i miei amici li

conoscerai

un'altra volta."

"Quale altra volta?"

Lo guardo aspettando una reazione. Decido di accettare la

tregua.

"Be', se mai capiterà."

"Ecco, se mai capiterà."

Tutta soddisfatta alzo il volume della radio e cambio stazione

cercando freneticamente chissà quale altra canzone. Poi senza

farmi

accorgere, nella penombra della macchina, con la coda dell'occhio

guardo Step.

Non ci posso credere... Io, Gin, in macchina con lui. Se lo

sapessero

i miei. Non so perché, ma è sempre il primo pensiero che

mi viene in mente. Cioè, se i miei sapessero che ora sono in

macchina

con uno sconosciuto, cioè con quello che loro credono uno

sconosciuto, cosa potrebbero dire? Già me la immagino mia madre:

"Ma che, sei pazza? Ginevra, non devi mai dare confidenza a

nessuno. Te l'avrò detto mille volte...". Oh, non c'è niente da

fare,

qualunque cosa, non si sa perché, ma mia madre dice sempre di

avermela già detta mille volte. Boh. Una cosa è sicura: questo non

se lo aspetterebbe mai. E poi cosa potrei dirle? Ma sai, era per

fare

benzina... Come potrei spiegarle come stanno veramente le cose?

No, non ci voglio pensare. Non ci posso credere neanche io.

"Sai cosa mi hai ricordato prima?"

"Quando?"

"Quando stavo cambiando la ruota e sono arrivati quei tre

deficienti.

"

"Cosa ti ho ricordato?"

"Richard Gere."

"Richard Gere?"

"Sì, nella scena di Ufficiale e gentiluomo, quando lui e il suo

amico escono insieme a quelle due ragazze e vanno in un bar. Poi

all'uscita c'è quello che va a dare fastidio alle ragazze con

altri amici

e Richard Gere cerca in tutti i modi di non litigare, ma alla fine

non ce la fa più e gli spacca la faccia. "

"Anche Richard Gere era un terzo dan?"

"No, scemo. Quelli erano dei colpi da full contact."

"Però, te ne intendi."

"Te l'ho già detto. Ho fatto anche kick boxing e qualche lezione

di full contact. Non ci credi? Prima o poi avrò modo di

provartelo.

"

"Ah, quello è sicuro... e comunque più che Ufficiale e gentiluomo

mi sembra più adatta un'altra citazione. Ezechiele 25 17: 'E

la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e

furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare e in

fine a distruggere i miei fratelli e tu saprai che il mio nome è

quello

del Signore, quando farò calare la mia vendetta sopra di te.' "

"Ah, modestino, eh?! Comunque, ti piace Pulp Fiction."

"Sì."

"Anche molto, a giudicare da come li hai sistemati! "

Step sorride e continua a guidare. Chissà cosa avrà voluto dire

con quella storia: ah, quello è sicuro... Meglio non indagare. Lo

guardo mentre guida. Ha il braccio destro teso e tiene il volante

deciso, ma nello stesso tempo con grande tranquillità. Il gomito

sinistro

è poggiato sul bordo del finestrino, e si tiene il mento con la

mano sinistra. La mano destra è in alto, al centro del volante, lo

stringe forte e accompagna le curve, dolcemente. Ha un tatuaggio

sul polso vicino a un bracciale rigido in oro. Il tatuaggio mi

sembra...

A/Li avvicino senza che se ne accorga e lo guardo meglio.

"È un gabbiano."

(^osa?

"È un gabbiano, il tatuaggio che ho sul polso."

Mi sorride perdendo per un attimo di vista la strada.

Mi sento arrossire, ma sono sicura che non si nota: "Guarda la

strada".

"E tu guarda i tatuaggi tuoi."

"Non ho tatuaggi."

"Non ti hanno permesso di fartene neanche uno?"

Step sorride in maniera antipatica, mi sfotte.

"I miei non c'entrano niente, è una scelta mia."

"Ah certo, capisco..."

Mi guarda comprensivo e alza il sopracciglio prendendomi per

il culo.

"Una tua scelta..."

il, mia.

Rimaniamo in silenzio. Poi dopo un po' mi scoccio.

"E poi ti ho mentito. Ho un tatuaggio, bellissimo, ma dubito

che tu potrai mai vederlo."

"È nascosto bene?"

"Dipende dai punti di vista."

"Cioè?"

"Oh, hai capito benissimo."

"Sì, ma non so 'quanto bene' ho capito, o meglio 'dove' ho capito.

"È una piccola rosa alla fine della mia schiena, va bene?"

"Va benissimo. Adoro cogliere i fiori! "

"È l'unico tatuaggio in rilievo."

"Cioè."

"Pieno di spine."

"Hai sempre la risposta pronta, eh? Ma le mie mani sono piene

di calli." Sorride anche lui. Ha un bel sorriso. Questo non posso

negarlo. Non posso neanche dirglielo. Ha una strana fossetta

sulla guancia sinistra. Vaffanculo, mi piace un sacco. E poi è

completamente

diverso da Francesco. Non so perché mi viene in mente

lui proprio in questo momento. Forse perché mi brucia ancora

tutta quella storia. Francesco è l'ultimo ragazzo che ho avuto.

Cioè,

praticamente l'unico. E il più stronzo, per essere precisi.

Capitolo 20.

Francesco. Eppure mi sembrava così carino. È anche vero che

la verità sull'amore te la dirà solo il tempo. All'inizio tutto ti

sembra

carino. Poi, dopo la partenza, quello che sembrava carino può

diventare bello. Perfino eternamente bello... Ma il più delle

volte,

però, diventa semplicemente brutto. Ecco. Francesco era stato

l'eccezione.

Era riuscito a farlo diventare ancora peggio. Tremendamente

brutto. Uno scontato errore di percorso aveva rovinato tutto.

Non posso dimenticare quella sera.

"Allora, che dici, facciamo un salto al Gilda, ti va?"

"No grazie France, domani ho l'interrogazione di storia e ancora

non ho neanche finito il capitolo."

"Ok, come vuoi... ti porto a casa." Aveva guidato più veloce del

solito quella sera ma io, soprappensiero, non ci avevo fatto caso.

Scendo dalla macchina.

"Ciao, buonanotte... Che fai tu, ci passi al Gilda?"

"No, no, tanto se non ci vieni tu non mi va di andare. E poi sono

stanco anch'io."

Non mi accompagna al portone, non l'aveva mai fatto del resto.

Strano, eppure quella sera mi aveva dato fastidio. Non che io

sia una di quelle donne che hanno paura o che amano farsi

accompagnare

dappertutto. Eppure quella perdita di tempo, quei pochi

passi fino al portone erano un qualcosa che mi era sempre piaciuto

e non avevo mai provato. Forse perché ti fa sentire più importante

del tempo e della fretta, forse perché ci può scappare un

ultimo bacio. Invece Francesco aveva appena aspettato il girare

della

mia chiave nel portone, il mio saluto da lontano per partire a

razzo

con la sua ultima Mercedes 200 SLK. Veloce. Troppo veloce. Sono

sensazioni. Sciocche sensazioni. A volte però sagge sensazioni.

Più tardi. Ho studiato e ristudiato il capitolo e alla fine

qualcosa

mi era entrato in testa. Guardo l'orologio. Le due e mezzo.

Uno squillo glielo faccio a Fra'. Ho voglia di sentire le sue

parole,

di distrarmi un attimo con la sua voce. Non posso andare a letto

con ancora il capitolo di storia in testa. Niente, il telefono

squilla a

vuoto. Che strano. Abita nell'appartamentino sotto i suoi, quello

che gli ha lasciato la nonna che si è trasferita a Rieti. Il

telefono

squilla ancora. Non sente, o dorme profondo oppure... Non può

essere che non sente. Cavoli, stando a casa deve sentire per

forza.

Sono due camere più la cucina e un bagno. La conosco bene quella

casa, ci ho passato diversi weekend. L'idea del tempo passato

con lui mi innervosisce ancora di più. Weekend così intimi e lui

non risponde. Niente, tanto non ho sonno. Sai che faccio? Esco e

vado a citofonargli sotto casa. Camuffo alla meglio il letto, un

cuscino

sotto le lenzuola al posto del mio corpo e il vestito per domani

mattina a scuola già preparato sulla sedia. Poi piano piano supero

la camera dei miei in punta di piedi, prendo le chiavi della Polo

(allora non avevo la mia splendida Micra) e via nella notte. Ma

vuoi vedere che quello stronzo è andato al Gilda? Tre e dieci.

Meglio

passare prima di lì. Posteggio al volo in doppia fila a via Mario

dei Fiori e vado alla porta. C'è Massimo, il buttafuori, che mi

saluta. "Ehi, ciao Gin, che fai qui a quest'ora?"

"Secondo te?"

"Hai voglia di ballare, giusto?"

Idiota.

"In realtà volevo fare per una notte il buttafuori."

Ride di gusto: "Forte, sei forte".

"Senti, non vedo la Mercedes di Francesco."

"Bella macchina, eh?"

"Sì, bellissima. Ma sai se è dentro?"

"No, stasera non è proprio passato. Lo so perché non mi sono

mai mosso dalla porta. E poi l'ha cercato anche Antonello che è

entrato mezz'ora fa. L'ha cercato dentro e se ne è andato. Non

c'era,

gli ha dato buca perché mi ha detto che avevano un appuntamento.

Prego." Fa entrare un uomo grasso con una signora vestita

più di oro che di tessuto, con un trucco così pesante da

spaventare

perfino le sue prime rughe.

"Va bene, se lo vedi digli che lo sto cercando."

"Ok, ciao Gin. Buonanotte."

Sì, buonanotte... magari! Questa storia di non trovarlo mi sta

innervosendo. Passo sotto casa di Francesco. Niente, la Mercedes

non c'è. Di solito posteggia fuori perché tanto lì vicino c'è la

camionetta

dei carabinieri che controllano qualche politico non ancora

indagato o un pentito, boh, non l'ho mai capito. Un carabiniere

è vicino alla camionetta. Saluto mentre passo con la Polo. Cerco

in qualche modo di allietare la sua serata. Mi guarda mentre vado

via. Lo vedo nello specchietto che continua a fissare la mia Polo

che si allontana domandandosi sinceramente il perché di quel

saluto. Se non altro l'ho incuriosito. Abbandono il carabiniere e

ripenso

a Francesco. Ma dove cavolo sarà finito? Che palle sono le

tre e mezzo. Domani ho l'interrogazione. Mi restano appena quattro

ore per dormire. Sempre che riesca a trovarlo in tempo. Prendo

il posto del carabiniere nella mia storia d'amore e decido di

andare

fino in fondo. Peccato che Eleonora non c'è. Ele, come la

chiamiamo

noi, è la mia migliore amica. È dovuta partire, è andata in

Toscana a trovare alcuni suoi parenti. Ele è fiorentina di

nascita,

poi si è trasferita a Roma. La Toscanaccia, la chiamiamo noi.

"Oh grulla, oh Ele... O turchina fata..." Tutta aspirata. "Ti

tocca

d'esse' interrogata."

Ci divertiamo a prenderla in giro ogni volta che siamo in classe

e che potrebbe toccare a lei. Cavoli, se c'era mi avrebbe fatto

compagnia. Qualunque scusa è buona per Ele per stare fuori casa

a fare l'alba. Peccato. Be', visto che abita qui vicino provo a

passare

da Simona. Simona è tutta romana, capello biondo, bel fisico,

un po' strana di carattere. Ma è simpatica. È un anno che ci

frequentiamo

e abbiamo stretto un buon rapporto. Naturalmente mal

visto da Ele. Lei dice che sotto sotto quella è una stronza.

"Fidati di me, fidati della Toscanaccia, stavolta la grulla sei

tu."

Io rido. Ele è gelosa. È naturale, non sopporta che ogni tanto io

e

Simona ci vediamo. Ecco, sono arrivata sotto casa e qui succede

l'inverosimile... O meglio il verosimile visto che mentre citofono

a

casa di Simona si apre il portone ed esce Francesco. Quattro meno

un quarto. Come se non bastasse l'ora, non ha più la cravatta,

la camicia sbottonata e, la cosa più tremenda, ha quel viso che ho

visto tante volte. Troppe. Ora le rimpiango tutte. Dopo aver

amoreggiato

tutti ci addolciamo. I nostri tratti del viso si ammorbidiscono,

gli occhi sono leggermente umidi, le labbra un po' più carnose

e si arriva al sorriso con più facilità, ma più lentamente.

Francesco

non ha tempo di dire niente.

"Gin, io..." Ci prova, ma gli sputo in faccia. Uno scaracchio

perfetto. Lo centro in pieno, non lo guardo neanche. Mentre me

ne vado penso solo che si pulirà.

"Gin, fermati, ti spiego tutto."

"Tutto che? Cosa c'è da spiegare?"

Monto sulla Polo che ho lasciato in doppia fila e lui mi rincorre,

cerca di bloccarmi la portiera, ma non fa in tempo. Mi chiudo

dentro e metto la sicura.

"Gin, non è come pensi tu. È la prima volta che vado con lei.

Dai, non te ne andare, Gin." Aspetta un attimo e poi dice quello

che non gli avrei mai voluto sentir dire. Almeno non in quel

momento.

"Gin, io ti amo."

Apro un pezzo del finestrino: "Ah sì? Per questo ti scopi una

come Simona. Pensa che io di te amo solo la tua macchina! ". Parto

sgasando e faccio qualche metro, cercandola. Eccola lì. L'ha

posteggiata

perfino vicino al portone, senza preoccuparsi neanche di

nasconderla. Eccola lì la sua splendida Mercedes 200 SLK grigio

metallizzata. Sono ferma nella Polo. Mi sento come un toro prima

di affrontare il torero, sbuffo mentre con il piede gioco con

l'acceleratore.

Do gas e lo spingo più giù due o tre volte. Penso a mamma

e alla sua Polo. Be', qualcosa mi inventerò, provo troppo gusto

solo a pensarlo. Vedo dallo specchietto Francesco arrivare di

corsa. |

È troppo tardi, è troppo bello... Che gusto ! Che sogno ! Mi metto

'

la cintura. Nella vita ci sono delle cose alle quali non si può

rinunciare.

Questo è uno di quei momenti. Lascio andare la frizione

e parto a tutto gas. Ecco. La vedo avvicinarsi a velocità

spaventosa.

La sua Mercedes, la sua bella, nuova, fiammante Mercedes.

Freno solo all'ultimo ma d'istinto, tanto per non morire. Boom. Un

botto fantastico, rimbalzo sul sedile. Centrata in pieno; sul

fianco

laterale, sulla portiera. Metto la retromarcia. La Polo si sgancia

con

fatica, ma riparte che è una meraviglia. La Mercedes è lì davanti

a

me, completamente tumefatta, perfino un finestrino si è spaccato.

Non oso immaginare i miei danni, ma la faccia di Francesco sì.

Quella la vedo bene ed è tutto un programma. Che bello... Guarda

la sua macchina distrutta. È allibito, non ci crede, non ci vuole

credere, ma ci deve credere. Eccome se ci deve credere... E sai

che

c'è? Ne faccio un altro. Sì. C'è troppo gusto, è troppo bello.

Parto

a tutta velocità e la punto un po' più avanti. Boom. La prendo in

pieno con ancora più forza, senza paura questa volta, senza

neanche

frenare. Ormai c'ho preso la mano. Ho una voglia pazzesca di

distruggergliela tutta. Il parafango davanti è spaccato e si

accartoccia

perfino il cofano. Francesco è lì, davanti a me, senza parole.

Lo guardo, scoppio a ridere e mi allontano salutandolo. Vaffanculo

tu e la tua Mercedes. Stronzo di merda. Quando ci vuole, ci vuole.

E ora devo pensare a Simona. Oh, ma la sistemo per le feste

quella stronza, oh se la sistemo. Ma deve essere una vendetta

intelligente,

fredda, calcolata, pungente. Geniale. Vorrei trovare ancora

più aggettivi se fosse possibile. Posteggio sotto casa e scendo

dalla macchina. Povera Polina. L'ho rovinata tutta davanti. C'ha

il

cofano contratto come se fosse una mano con un crampo, due

fanalini

rotti e anche il fascione. Porca trota, e ora che racconto a

mamma. Continuo a pensare in ascensore. Qualche cosa mi inventerò

per la povera Polina e per quella stronza di Simona. Sì,

uscirà qualcosa, ne sono sicura. Mi spoglio e mi infilo nel letto.

Continuo a pensare ai miei due problemi, alla loro possibile

soluzione.

Continuo così, ricordandomi il botto, la Mercedes sfondata.

Piano piano sto per addormentarmi. Un ultimo pensiero nel

dormiveglia. Sorrido. Boom! Che botto, che bello! In tutto questo

non ho più pensato a Francesco. Puff. Svanito. E, sorridendo,

vengo

rapita da Morfeo.

La mattina dopo mi sveglio lucida come non mai. In un attimo

ho le due soluzioni. Parto subito con la prima, il problema della

Polo. Telefono ad Ale, un mio amico sempre in mezzo ai guai che

stavolta però può togliermi dal mio.

"Pronto... Ma chi è?" Ha la voce roca, si sarà addormentato da

nemmeno un'ora.

"Ale? Sono Gin."

"Gin, che cazzo succede? Ma che ore sono?"

"Le sette."

"Le sette? Ma che, ti sei rincoglionita?"

"Ale, mi devi aiutare, ti prego, dimmi che c'hai sottomano qualche

macchina rubata."

"Gin, non per telefono... porca troia!"

"Scusa Ale."

Torna tranquillo: "Che macchina ti serve?".

"Una qualunque ma che sia rubata. Mi serve solo la targa."

"Solo la targa? Boh, tu sei tutta scema."

"Ti prego Ale, è una cosa importante."

"Tutte le tue cose sono sempre importanti, aspetta un attimo."

Dopo una decina di secondi torna al telefono: "Dai, scrivi. Roma

R27031. È una Clio blu".

"Perfetta, grazie Ale."

"Aho, è tutto a posto?"

"Sì, tutto a posto."

"Perfetto. Allora guarda che io mi metto a dormi' e stacco il

telefono.

"

"Ok, ti chiamo nel pomeriggio e ti spiego tutto."

"Non me ne frega un cazzo." E attacca.

Appena in tempo. Arriva mamma in vestaglia appena alzata:

"Ginevra, ma che fai? Sei già sveglia?".

"Mamma, non sai che è successo. Ieri sera mi è venuto addosso

un pazzo con la macchina."

"Oddio, figlia mia, ti sei fatta niente?"

"No, sto bene. Ha distrutto la Polo però ed è fuggito... Ma

guarda,

ho preso la targa! " Le passo il biglietto appena scritto. "Era

una

Clio scura. Lo dobbiamo denunciare." Mamma prende il biglietto.

"Dai qua, lo dico subito a tuo padre. Meno male che non ti sei

fatta niente. Ma sei sicura? Non è che hai sbattuto la testa?"

"No mamma, sul serio è tutto a posto."

"Meno male." Mi dà un bacio sulla fronte.

"Vai a fare colazione sennò finisce che fai tardi."

"Sì, mamma." Mi allontano da brava bambina sotto lo sguardo

affettuoso di una madre apprensiva. Mi sento in colpa. Scusa

mamma, ma dovevo proprio farlo. Chissà, forse un giorno ti

racconterò

tutta questa storia. Un giorno. Intanto pensiamo a oggi.

Ho già trovato anche la seconda soluzione, quella per sistemare

Simona.

Un attimo dopo sono tra i banchi di scuola. È già passata

un'ora, la prima. Religione. Ha incrociato due volte il mio

sguardo

la stronza e si è girata dall'altra parte. Non ha neanche il

coraggio

di affrontare le conseguenze delle sue azioni. Il massimo è che è

stata perfino interrogata da don Peppino, così chiamiamo noi il

pretino di religione, e Simona ha avuto perfino il coraggio di

rispondere...

Mortacci sua. Be', non voglio chiamare Dio in causa

per stronzate come questa. Ma la seconda ora è tutta mia e anche

la terza. Ci sguazzo, mi voglio divertire, due ore da sogno. Oggi

abbiamo

compito in classe di italiano. È facendo la borsa appena sveglia

che mi è venuta l'idea. Sublime... Ecco, ho trovato l'aggettivo

coniato apposta per la vendetta. E la mia penna scivola veloce sul

foglio bianco, riempiendolo di parole, di righe, di fatti, di

ricordi,

di delusioni, di aggettivi, di sproloqui, di insulti. Vola che è

una meraviglia,

sembra fatata la mia penna. E dire che io in italiano sono

sempre stata un po' frenata. Sono fuori tema, non ho dubbi, ma

che piacere, che divertimento dedicare il mio compito in classe

alla

mia amica, anzi alla mia ex amica. Anzi, per essere proprio

precisi,

a quella stronza. Le ho dedicato perfino il titolo: Misera fine

di un'amicizia. Sono sicura che la mia prof d'Italiano me lo

passerà,

magari prendo anche un bel sette, o forse no, quello no, è un

fuori

tema. Magari un quattro, ma che bel quattro! Di sicuro però non

mi manderà dal preside e forse me lo farà perfino leggere in

classe.

Sarà dalla mia parte la prof, ne sono sicura. Non tanto perché

abbiamo un buon rapporto, ma perché si è separata da poco.

Settimana dopo. Ritiro il tema. Be', da non crederci... Al di

sopra

delle aspettative. Sette e mezzo! Mai preso un voto così in

italiano. E

non è finita qui. La prof deve avere una grande simpatia per me o,

cosa molto più probabile, deve aver sofferto veramente tanto per

la

sua separazione. Fatto sta che ha sbattuto con la mano sulla

cattedra.

"Silenzio, ragazze. E ora vorrei invitare a leggere il suo tema

una ragazza particolare. Una vostra compagna di classe che ha

capito

che la cultura, l'educazione e l'essere civili sono la più grande

arma della nostra società: Ginevra Biro."

Mi alzo e per un attimo mi viene da arrossire. Davanti a tutti.

Davanti agli altri. Poi metto da parte quel rossore. Cazzo, no! È

la

mia giornata, non esiste, mi spetta. Quale pudore, quali altri.

Non

esistono gli altri in alcune occasioni. E questa è una di quelle

occasioni.

Vado vicino alla prof e comincio a leggere. Scivolo veloce

con enfasi e divertimento. Con rabbia ed entusiasmo. Azzecco le

pause giuste, il tono. Poi la storia mi rapisce. Ma l'ho scritto

sul serio

io questo tema? Cavoli, mi sembra perfetto! E continuo a leggere

così, divertita, cantilenando quasi. Una dopo l'altra le parole

si succedono, si rincorrono leggere tra le righe, su e giù, senza

pausa

come onde di un mare azzurro. Corrono vicine, senza spezzarsi

mai. Arrivo quasi alla fine in un attimo. Mi mancano due righe. Mi

fermo e quando stacco gli occhi dal foglio Simona è lì che mi

guarda.

Ha la bocca aperta, è sbiancata, attonita. Ho raccontato tutta

la nostra storia, la nostra amicizia, la mia fiducia, il suo

tradimento.

Faccio un'ultima pausa. Un bel respiro e via con il finale:

"Ecco signori. Ora voi tutti sapete chi è Simona Costati. Se sua

madre avesse avuto un po' più di coraggio, l'avrebbe chiamata con

il suo vero nome: Stronza! ".

Piego il foglio e guardo compiaciuta la classe. È un boato. Tutte

insieme urlano contente: "Brava, hai fatto bene, sei forte Biro!

Sì, ancora, di nuovo, la devi sfondare, così, sei mitica! ".

E all'improvviso, partito da non so chi, non certo da me, né dalla

prof, meno che mai da Simona, si alza un coro perfetto, ispirato

sicuramente dal mio tema pieno di cultura.

"Stronza, stronza, stronza!"

Simona si alza dal banco. Attraversa la stanza trascinando i

piedi,

con la testa bassa, senza avere il coraggio di guardare in faccia

nessuno. Poi scoppia a piangere ed esce dalla classe.

"Brava, è un bellissimo tema." È la voce della prof. Incredibile.

Pensavo che mi avrebbe buttata fuori per, che ne so, diffamazione

di un'alunna? Invece no. Si vede che ha apprezzato la forma!

O il contenuto... Comunque mi sorride. Chissà, forse per un attimo

ha avuto un rimpianto. Avrebbe voluto scrivere anche lei un tema

così a suo marito.

***

Capitolo 21.

"A cosa stai pensando?"

"Alla scuola."

"Cioè, non ci posso credere. Tu vieni in macchina con me, che

sono il top del desiderio romano... e che fai? Pensi alla scuola!

"

"Be', anche la scuola può avere il suo lato interessante."

"Sì, magari più il lato stressante."

"Io credo che sotto sotto anche a te piaceva studiare."

"Certo, come no: anatomia. Ma direttamente sulle compagne! "

"Mamma... Ma stai in fissa, eh?!"

"Be', è un lato che mi affascina."

"Sì, già ti vedo. Da piccolo giocavi sempre al dottore."

"Da piccolo? Anche ieri! Vuoi che ti visiti subito?"

"Pensa che strano, ti vedo molto di più come una persona

divertente

che un allupato! "

"Be', è già qualcosa."

"E certo, perché a me le persone presuntuose mi divertono un

sacco. Uno poi che si crede il top del desiderio romano. Be', è

tutto

un programma."

Mi guarda, scoppia a ridere, sinceramente divertita. I capelli

scuri le cadono sugli occhi che ridono in perfetta armonia con il

suo sorriso: "Oddio, è più forte di me, che buffone che sei. Sei

troppo

forte!".

Una curva capita a proposito. A gomito perfetto, e dalla mia

parte poi. Prendo il volante da sotto e lo giro con forza tutto a

sinistra.

Gin mi arriva quasi catapultata addosso. Freno di botto, inchiodo

con lei fra le braccia. Le prendo i capelli con la destra e li

tengo stretti, forte quanto basta. "Nessuno mi ha mai chiamato

buffone. " E la bacio sulla bocca. Tiene le labbra serrate e prova

a

divincolarsi. La tengo stretta per i capelli, con forza, si

divincola

cercando di liberarsi. La stringo più forte. Alla fine si lascia

andare

e dischiude le labbra.

"Finalmente" sussurro a mezza bocca e poi mi avventuro nella

sua. "Ahia" mi morde con forza. Mi porto la mano alla bocca e

la lascio andare.

Gin torna al suo posto: "Tutto qui? Pensavo meglio".

Mi passo le dita sulle labbra cercando del sangue. Non ce n'è.

Gin è in posa con le mani alzate, pronta alla difesa.

"Allora Stefano, o Step o come cazzo ti pare, hai voglia di

litigare?"

La guardo sorridendo: "Hai anche i riflessi pronti, eh?".

Mi colpisce forte sulla spalla, uno dopo l'altro, una serie di

pugni

dal basso verso l'alto colpendo sempre e di nuovo nello stesso

punto.

"Ahia, fai male."

Le blocco al volo il braccio, poi l'altro. La tengo ferma,

immobile

sul sedile. Poi le sorrido divertito da tutte quelle botte.

"Scusami, Gin. Non volevo farlo apposta. Poi ho visto che un

po' ci stavi..."

Prova di nuovo a colpirmi, ma la tengo ben ferma.

"È che siamo arrivati, ok?"

Scendo veloce dalla macchina prima che riprovi a colpirmi.

"Chiudi, se ti va. Oh, poi fa' un po' come ti pare, tanto la

macchina

è tua, no? Va be', che tanto chi se lo frega 'sto cesso di

Micra...

Prende pure male le curve."

Gin chiude la macchina al volo e mi raggiunge.

"Stai attento, eh. Non fare il duro con me, che caschi male."

Poi Gin guarda l'insegna.

"Il Colonnello. Ma si chiama proprio così?"

"Già, si chiama così. Che pensavi, che era un soprannome del

ristoratore messo al posto dell'insegna?"

"Ma pensi di rimorchiare una ragazza alla tua prima uscita con

queste battute così divertenti?"

"No, con te sono rilassato. Vado sul sicuro! "

"Ah certo, proprio sul sicuro... L'hai visto, no?"

"Pace, va bene? Dai, mangiamoci una bella bistecca."

"Ok. Per la pace va bene, ma invece per la cena... paghi tu,

vero?

"Dipende..."

"Da cosa?"

"Da come va il dopo cena."

"Ancora? Guarda che il dopo cena consiste nel fatto che io ti

riaccompagno alla moto e fine. Chiaro? Dimmelo subito, che sennò

non mangio neanche una bruschetta. Ma ti pare che mi ricatti sulla

cena, ma fai schifo ! "

Gin entra nel ristorante altera e divertente. La seguo. Non c'è

molta gente. Ci sediamo a un tavolo abbastanza lontano dal forno

che fa troppo calore. Mi levo il giubbotto. Mi è venuta fame.

Arriva subito un cameriere per le ordinazioni.

"Allora, ragazzi, che vi porto?"

"Allora, per la signorina solo una bruschetta. Per me invece un

bel primo di tagliatelle ai carciofi e una bistecca alla

fiorentina con

un'insalata di contorno."

La guardo divertito: "Oppure la signorina ci ha ripensato e vuole

qualcos'altro?".

Gin guarda il cameriere sorridendo: "Le stesse cose che ha

ordinato

lui. Grazie. E in più mi porta una bella birra".

"Una birra anche per me. " Il cameriere segna tutto velocemente

e si allontana felice di quell'ordinazione così facile.

"Se vuoi fare alla romana mi dici dove abiti e domani ti faccio

riavere i soldi, va bene? Questo per farti capire che non c'è

dessert.

"Ah no? Ma guarda che ti sbagli. Qui hanno dei gelati al tartufo

che sono una favola da prendere affogati al caffè. "

"Ciao Step. Aho, eri sparito. Sei diventato un borghese come

gli altri. "

Si avvicina Vittorio, il Colonnello, gentile come sempre: "Si va

tutti alla Celestina mo', fa fico, se rimorchia. E allora ce

annate tutti.

Ma d'altronde siete dei pecoroni". Mi si mette con le mani sul

tavolo: "Aho, te sei dimagrito, lo sai?".

"Sono stato due anni a New York."

"Ma dai, ecco perché non te sei fatto più vede'. Ma se magna

così male?"

Ride divertito della sua battuta.

"A Vitto'... Sei sempre er mejo! Facci portare subito una

bruschettina, eh?"

Poggio le chiavi della macchina di Gin sul tavolo, mentre Vittorio

si allontana. Con la panza in avanti, ancheggiando come sempre,

come allora. Invecchiato ma sempre allegro. Ha la faccia da

bambinone con le guance rosse, i capelli arruffati sulle orecchie,

piccoli sprazzi di bianco argentato su quella piazza sempre

rosolata

da braciole e fiorentine. Mi guardo un po' in giro. C'è diversa

gente, non molta, non rumorosa, non troppo elegante. Mangiano

con piacere, senza chiedere cose troppo difficili, senza essere

troppo

ricercati, senza pensieri, magari con una giornata faticosa alle

spalle e un bel piatto davanti. Una coppia lì vicino mangia senza

parlare. Lui sta spolpando la parte dell'osso di una braciola. Lei

ha

appena infilato in bocca una patata fritta e si lecca le dita.

Incrocia

il mio sguardo e sorride. Sorrido anch'io. Poi si rituffa sulle

patatine

senza paura di ingrassare.

Gin passa all'attacco.

"Allora chiariamoci subito: mi hai fottuto le mie chiavi, hai

fottuto

la mia macchina e soprattutto hai fottuto me."

"Magari! Quest'ultima cosa non mi dispiacerebbe affatto."

Gin è davanti a me con le mani sui fianchi e sbuffa.

"Cretino, nel senso che hai fottuto la mia serata. Mettiamola

così, sennò ti fai pure strane idee. Vedi poco fa in macchina..."

"Per così poco... Come te la tiri! "

"Allora passiamo al pratico. Chiariamo una volta per tutte. Chi

scuce qui?"

"Cioè?"

"Fai il finto tonto?"

"Vediamo, se tiri fuori argomenti divertenti, pago io. Sennò..."

"Sennò?"

"Pago sempre io."

"Ah, allora rimango."

"Però mela dai!"

Mi dà uno schiaffo al volo. Cazzo, è velocissima. Mi prende in

piena faccia.

"Ahia."

Quella delle patate smette di mangiare e ci guarda. E anche due

o tre persone dei tavoli più vicini.

"Scusatela." Sorrido massaggiandomi la guancia. "Si è innamorata."

Gin non presta neanche attenzione alla gente che la

guarda.

"Allora facciamo così, tu paghi la cena senza pretendere niente

e in cambio io ti do qualche lezione di educazione. Dai, affare

fatto. Che ci guadagni pure."

Vittorio posa la bruschetta sul tavolo: "Allora, ne vuole una

anche

la signorina?".

Gin mi ruba al volo dal piatto la bruschetta e le dà un morso

enorme portandosi via metà dei pomodori, quelli freschi che

Vittorio

taglia con amore, non come quei pomodori tagliati a pezzettini

il pomeriggio e lasciati dentro una cuccuma a freddare nel

frigorifero.

"Portamene un'altra, Vit."

"Uhm, che buona."

Gin si infila un pezzo di pomodoro in bocca e si lecca le dita.

"E bravo Step! Mi sa che si mangia pure bene qua. Come va la

guancia?"

"Benissimo! Di' la verità, sei rimasta male perché mi sono fermato

al bacio? C'è tempo, dai, non te la prendere. Voi ragazzine

siete tutte uguali. Volete tutto e subito."

"E tu invece vuoi un'altra pizza in faccia e adesso?"

"Hai i tempi perfetti. Brava. È difficile trovare oggi una ragazza

passabile con la battuta pronta come le sue mani."

"Mmm." Gin mi fa un sorriso forzato con la faccia in avanti,

come a dire: spiritoso...

"Che c'è?"

"È il passabile che non digerisco facilmente."

"Invece con la mia bruschetta vai forte. Te la sei praticamente

ingozzata. "

All'improvviso sento delle voci.

"Ma dai, Step! Lo sapevo. Ve l'avevo detto che era lui."

Non ci posso credere. Sono tutti lì, alle mie spalle. Il Velista,

Balestri,

Bardato, Zurli, Blasco, Lucone, Bunny... Ci sono tutti, non posso

crederci. Ne manca uno, il migliore: Pollo. Mi si stringe il

cuore,

non voglio pensarci, adesso no. Sento un brivido di freddo e per

un

attimo chiudo gli occhi, adesso no, ti prego... Per fortuna mi

salta al

collo Schello: "A 'nfamone, che fai il separatista bulgaro?".

"Americano, caso mai."

"Ah già, perché lui è stato in America... Negli States... Ma come

mai non sei venuto all'appuntamento? Eravamo lì tutti quanti

ad aspettare il mito. Ma il mito è crollato... Ora va a cena, fa

il

tête-à-tête con la donna."

"Caso mai fa il tette a tette! "

"Guarda che bocce che c'ha..."

"Primo, non sono la sua donna."

"Secondo, attenti ragazzi, che è un terzo dan."

"Hai finito con questa storia del terzo dan? Sei ripetitivo."

"Io? Ma se tu l'hai sottolineato tre volte da quando ci siamo

conosciuti. E sei talmente terzo dan che ho dovuto stendere uno

per difenderti."

"Ok! San Tommaso... dei bori. L'hai voluto tu." Gin si alza dal

tavolo, fa un giro intorno agli amici, li guarda per un attimo.

Poi, senza

pensarci, si gira di botto, prende Schello con tutte e due le mani

per il giubbotto, se lo carica sull'anca, si piega veloce in

avanti. Perfetta,

senza esitazioni. Schello strabuzza gli occhi, Gin piega la gamba

destra e spinge in alto aiutandosi di spalle. Schello vola via

come

una piuma e atterra di schiena sul tavolo della coppia silenziosa.

Ora

sapranno di che cosa parlare. Il tipo si scosta di botto dal

tavolo.

"Ma come cazzo..." Fine, sia lei che lui. Lo pronunciano

all'unisono.

"Le mie patate..." Lei.

"Cazzo, la mia giacca di cammello..." Lui.

Se non altro per quella coppia apatica il botto di Schello

diventerà

qualcosa da raccontare, al limite del leggendario.

Schello si rialza dolorante. "Ahia, ma chi cazzo è stato?"

"Un terzo dan o giù di lì" risponde Gin prontamente.

Tutti ridono: "Divertente. E troppo forte. Sì, è forte la tua

ragazza.

"

"Ancora... Non sono la sua ragazza!"

"Per ora."

"Be', allora che ci fai a cena con Step?" Carlona, credo la

chiamino

così, da sempre la ragazza di Lucone. Alza il sopracciglio

divertita,

come a dire "la so lunga io su noi donne". Gin sorride: "Anche

tu hai ragione. Be', vorrà dire che scrocco una cena e poi filo".

"Una cena offerta da Step e poi via. Mission: Impossible in

confronto

è una barzelletta. "

"E questa chi me la ripaga?"

Schello lo guarda sbigottito. Il tipo si è tolto la giacca di

finto

cammello condita di fritto e gliela mette sotto gli occhi.

"Allora, dico a te... chi me la ripaga?"

"Ma che, stiamo su Scherzi a parte? Aho, ma che me state tutti

a prende' per il culo? Dov'è la telecamera nascosta?"

Schello inizia a saltellare a destra e a sinistra per il locale.

"Eh? Dov'è?... Dov'è?"

Cerca un'ipotetica telecamera un po' dappertutto, sotto i quadri,

dietro le porte, nella borsa di qualche donna appoggiata sullo

schienale della sedia. Alza le cose e tocca tutto, senza rispetto

come

al solito, spiritoso e irriverente, al limite del demenziale.

Cercare

una telecamera sotto il tovagliolo di uno che sta mangiando...

il tipo naturalmente si risente.

"Hai finito? Coglione! Ma che cazzo tocchi, eh? Vuoi fare un

altro volo?"

Si alza deciso con le mani lungo i fianchi, dure, con le nocche

segnate da ore di lavoro, scalfite da ferite, segnate dal tempo,

plasmate

da polvere e pitture, da gesso e stucchi, da calcinacci,

screpolate

di fatica sofferta.

"Allora? Hai capito, testa di cazzo?"

"Ehi.... Fly down."

Schello se ne approfitta scommettendo che non capisce una parola

di inglese. Naturalmente vince la sua scommessa.

"Che fai, offendi? Ma io ti spacco il culo."

Il muratore gli mette le mani al collo, è la sua maniera elegante

per farsi bello agli occhi della ragazza.

"Veramente era un modo di scusarsi, ma in inglese, lo capisci,

fa molto lord."

Il muratore carica il pugno, noi ridiamo divertiti, Vit

fortunatamente

interviene: "Ora basta, su, tornate in riga. Sono il vostro

colonnello o no? E basta, su".

Aiuta il tipo a uscirne gratificato. "Ti porto un bel limoncello,

dai. Offre la casa." Poi prende Schello per le spalle e lo

riaccompagna

nel gruppo. "Non siete cambiati, eh? Mi fa piacere rivedervi,

sul serio. Non so com'è, Step, ma quando ci sei tu, le serate non

sono mai noiose. Forza, accomodatevi. Vi faccio subito un tavolo

per dodici?"

"Forse Step vuole continuare la sua cena romantica."

Guardo Gin. Lei apre le braccia.

"Faremo un'altra volta, vero caro?"

Simpatica è simpatica. Però... È quel però che mi lascia

perplesso:

"Ma sì, cara, faremo la prossima volta. Quando resti di nuovo

senza benzina e senza soldi..."

Gin sorride, poi prende e mi dà un cazzotto sulla spalla, con

una certa forza anche. Lucone non si perde mai niente. "Cazzo,

forte la bimba, ha un jeb niente male, eh ! "

Tutti annuiscono. Si siedono facendo un gran casino, spostando

le sedie, ridendo, litigando sui posti. Solo le donne si guardano

disapprovando Gin con finto distacco. Un'approvazione su un'altra

donna dà sempre fastidio, fosse anche la tua migliore amica. Poi

la cena vola via veloce. Chiacchiere per mettermi al corrente

delle

piccole grandi novità. "Oh, non sai... Giovanni si è lasciato con

Francesca. Non sai lei che storta che gli ha fatto: s'è messa con

Andrea,

l'amico suo. E lui manco gli ha sfonnato la faccia. Che tempi!

Oh, notizia bomba: Alessandra Fellini finalmente l'ha data! A

Davide. Ora lo chiamano 'er Goccia'. E sai perché, Step? Erano

quattro anni che stava lì come la goccia cinese. Primavere,

estati,

in montagna, al mare... lui sempre presente. Regali, regaletti,

bigliettini.

Andava premiato o no? E lei l'ha premiato! Gliel'ha data.

Sì, però ora che ha preso il via sembra de sta' alle Olimpiadi.

Vengono premiati un po' tutti! "

"E te credo, cerca di guadagnare il tempo che ha perso."

"Mazza quanto siete cattivi." Carlona cerca di difenderla per

solidarietà di categoria.

"Guarda che è vero... Comunque il merito resta der Goccia."

"Sì, il primo è sempre il primo. Grande merito."

Guido Balestri prende le redini del racconto.

"Bel regalo che gli ha fatto al Goccia, ci mancava solo che

c'avesse

le ragnatele su quella grotta pluviale." E giù risate. "Che poi

Davide è venuto in piazza e ha tenuto una specie di comizio

pubalgico..."

"Non ci credo."

"Ti giuro. Ha raccontato a tutti che lei ha goduto come una

pazza."

"No..."

"Sì!"

"E ti credo, si portava dietro quattro anni di tiraggio... Aho, e

poi quando una molla, è giusto che molli alla grande!"

"Oh, l'hanno sentita ululare alla luna. Meglio della mitica

Lassie dei Porcelloni. Te lo ricordi?"

"Come no! Mitico film."

"Davide in questo è grande."

"Sì, non è solo grande. È glande! In tutti i sensi. Aho, Davide

in altri tempi avrebbe umiliato Golia! "

Su questa quasi nessuno ride. Gin sì. Ed è una gran soddisfazione.

E continuano così, ridendo e facendo casino.

Li guardo mentre mangiano. Niente. Non sono cambiati. Sono

uno spettacolo. Si abbuffano come al solito con la roba appena

arrivata,

si tuffano con le forchette sulla lonza, sul prosciutto, sul

salame.

Divorano le fette chiacchierando, lasciandole apposta penzolare

dai

denti fino giù sul mento. Arrivano gli spiedini. Tutti si tuffano

al volo

per prenderli. Sono ancora caldi e fumanti: salsicce e peperoni,

da

poco arrostiti, diventano spade profumate per una disperata

schermaglia

tra Schello e Lucone. Si unisce anche Hook ai due e iniziano

a combattere. Si sente il rumore del ferro attutito a volte dalla

carne

appena arrostita. Un affondo di Schello, parato al volo da Lucone.

E

là, vola via una salsiccia. Gin la prende al volo con la mano

destra, ottimi

riflessi, e in più, ancora calda, se ne mangia un pezzo.

"Allora! Hai visto che velocità? Scommetto che ti ho ricordato

un film, dai, spremi le meningi..."

"È vero, qualcosa mi hai ricordato, una scena di un film, sì, ma

che film?"

"Ti aiuto va', è la storia di una prostituta, anzi più che una

storia

è la favola di una prostituta. "

Entra Lucone, esagerato come sempre."Ci sono: Biancaneve e

i sette cazzi." Gin lo guarda schifata storcendo la bocca e

ingoiando

l'ultimo pezzo di salsiccia.

"Come sei sboccato... È Pretty Woman. Prova a dire che non

l'hai visto e stavolta ti meno sul serio."

Mi guarda alzando il sopracciglio. Pretty Woman, come no, con

Julia Roberts.

"Allora, te lo ricordi, o no?"

Improvvisamente indietro nel tempo. Io e Babi, Hook e il Siciliano

finiti, chissà come, al cinema tutti insieme. Hook e il Siciliano

che alla fine del primo tempo sono usciti.

"Ma che è 'sta cazzata. Ma che, siete matti?"

"Sì, noi ce ne annamo."

E finalmente ho potuto prendere la mano di Babi e tenerla per

tutto il film mentre lei mi imboccava di pop corn.

"Sì, me lo ricordo."

Ma non le racconto tutto il mio film.

"Dai, la scena era quella del cameriere che prende al volo

l'escargot che Vivien, così si chiamava Julia Roberts nel film,

cercando

di mangiarsela, ha lanciato fuori dal piatto."

"Sì, come no. Malgrado tutti gli insegnamenti del direttore

dell'albergo."

"Hai visto che te lo ricordi? Step fa il duro, ma sotto sotto è un

tenerone!!"

"Molto sotto sotto."

"Ma a me piace scavare. Chi ha fretta? Da piccola volevo fare

l'archeologa. E poi... Poi ho capito che soffro di claustrofobia e

non

sarei mai riuscita a entrare in una piramide. "

"Insomma ti piace stare più sopra che sotto."

"Ma non riesci mai a uscirtene con niente di meglio?"

"Aspetta che mi ci impegno." Mi metto le mani sulla testa come

se mi concentrassi. Poi le abbasso sul tavolo e le sorrido.

"No, mi dispiace, non esce nulla di meglio."

Ma proprio in quel momento. Pum. Gin prende in pieno viso

una fetta di pane bagnata. Le esplode sulla guancia e pezzetti di

mollica le finiscono tra i capelli. Non posso non ridere. Lucone

si

scusa da lontano.

"Oh, scusami, cazzo, era indirizzato a Step."

"E allora c'hai proprio una mira da schifo! "

Gin si massaggia la guancia, arrossata e ancora bagnata.

"Mi hai fatto male... Adesso vedi! " È come un segnale di

battaglia.

Tutti cominciano a tirarsi di tutto. Schello come se non bastasse

tira fuori il "bambino" e spinge al volo play.

"La battaglia ha bisogno di una buona colonna sonora."

Non fa in tempo a dirlo che una braciola centra in pieno la cassa

del suo Aiwa mentre parte a palla Hair. Tutti cominciano a ballare

da seduti agitando le braccia verso l'alto cercando di schivare

a tempo ogni tipo di cibo. Questa volta una patata centra in piena

fronte Gin che si alza di scatto come impazzita. Ecco, penso io,

ora

esce fuori di testa sul serio. E fa di meglio. La cosa più bella

che io

possa immaginare. Sale in piedi sulla sedia e via... Mimando alla

meglio il mitico Treat Williams in Hair. Sale con l'altro piede

sul

tavolo e via così, un passo dopo l'altro. Gin avanza ballando,

lasciandosi

cadere i capelli davanti e poi scoprendo di nuovo il viso.

Sorridendo, poi sensuale, poi di nuovo dura, comunque bellissima.

Niente male sul serio. E tutti stanno al gioco. Spostano i piatti

ormai vuoti, le forchette e i bicchieri a ogni suo passo. Hook,

Lucone,

Schello. Perfino le donne ci stanno. Tutti tirano via quello

che hanno davanti. Si fingono sconvolti da quella stravagante Gin,

proprio come gli invitati di quella lunga tavolata in Hair. Gin

balla

che è una meraviglia. Schello invece rovina tutto come al solito.

Sale sul tavolo e inizia a ballare dietro a Gin. Senza grazia,

distruggendo

tutto con il suo fuoritempo perfetto. Un calcio a destra.

Uno a sinistra. E via così. La donna di Hook non fa in tempo

a togliergli il piatto di sotto. Una clarks sfondata di Schello

centra

in pieno da sotto un piatto che vola via liscio così... Preciso.

Come

calciato dal Di Canio rigorista. E là! Prende in piena fronte la

donna

del muratore. La tipa stramazza giù dalla sedia. Si porta le mani

al viso e lancia un urlo agghiacciante che supera tutti, perfino

il

"bambino" di Schello. Vit corre come un pazzo.

"Porca puttana, ma che, siete pazzi? Via, scendete da lì. Signora,

come va?!"

Vittorio la aiuta a rialzarsi. Per fortuna non ha nulla o quasi...

Insomma, non si è aperta. Solo un bozzo enorme lì, sulla destra.

Un improvviso corno ingiustificato, o forse no.

"Chi è stato?"

"Ma che c'entra chi è stato."

Schello su certe cose non è mai fuori tempo soprattutto se rischia

di andarci lui di mezzo.

"È stato un caso, un incidente."

"Sì, quello che capita a te."

Vit si mette subito in mezzo e ferma il muratore.

"Su, non faccia così. È meglio di no."

"Ah no, e che fai, mi offri un altro limoncello? Sai che ci faccio

io con il tuo limoncello? Mi ci pulisco il cazzo."

"Ah, se la mette così. Prego se la sbrighi lei."

Il muratore prende la rincorsa e prova ad acchiappare al volo

Schello che indietreggia sul tavolo e cade all'indietro finendo

con

la gamba incastrata nella paglia di una sedia e poi giù per terra.

Il muratore non si perde d'animo, corre, fa il giro del tavolo.

Schello è lì per terra con la gamba incastrata nella sedia che non

riesce a rialzarsi. Il muratore, pensando alla sua donna, prende

la

rincorsa per calciarlo in piena faccia. Forse spera in un

pareggio.

Ma non è così. Il muratore viene sollevato al volo da dietro. Si

ritrova

a calciare nel vuoto. Lucone gli fa fare un mezzo giro e lo lascia

cadere in piedi poco più in là: "Dai basta, è stato sul serio...

un

incidente".

"Sì..."

Interviene Hook.

"Scusa eh, ma pensa piuttosto a mettere un po' di ghiaccio alla

tua donna che è meglio."

"Sai il ghiaccio dove te lo metto? Te lo ficco in culo! "

"Se la prendi così, allora non c'è proprio rimedio. Poi mi dicono

pure che ho fatto pippa."

Hook ride, il muratore non capisce, prova a dire qualcosa ma

viene centrato al volo da Hook. Un cazzotto in piena faccia,

velocissimo.

Bum. È migliorato Hook, però. Ne deve aver fatte di riprese

mentre ero fuori. Il muratore vola all'indietro che è una

meraviglia.

Atterra poco più in là su una sedia che cade, finisce

all'indietro,

spaccandosi sotto di lui. Steso. Tutti cominciano a gridare.

Qualcuno nel locale si agita. Dei signori in fondo si alzano dai

tavoli.

Una signora prende un cellulare e comincia a telefonare. È il

via. Non abbiamo bisogno di guardarci. Lucone, Hook, il Velista,

Balestri, Zurli, Bardato si trascinano via le donne.

"Cavoli, ma io non ho mangiato niente."

"Io neanche."

"Stai buona, dai, vieni via che dopo ti offro un bel gelato da

Giovanni. "

"Lo so io che ti dà. Un Calippo solo crema."

Ridono, perfino Schello si libera, scalciando via la sedia, che

sfortunatamente arriva di nuovo addosso al muratore che aveva

appena

capito, forse, dove si trovava. Tiro giù dal tavolo Gin per un

braccio. Sta per cadere ma la prendo al volo.

"Che è, che succede?"

"Per ora niente, ma è meglio andarsene."

"Aspetta... il giubbotto" torna indietro e prende al volo il

giubbotto

scuro Levi's e poi via.

"Ciao Vit, scusaci ma abbiamo una festa."

"Sì, una festa... sempre così voi, eh? Ve la farei io la festa!!

!"

Sembra scocciato, ma in realtà è come sempre divertito. È lì fermo

sulla porta. Ci guarda tutti uscire correndo, facendo un gran

casino.

Schello fa un salto, sbatte i piedi lateralmente uno contro

l'altro

alla John Belushi, gli altri ridono, Lucone e Bunny rubano

qualcosa

da mangiare dagli altri tavoli: una bruschetta, un pezzo di

salsiccia.

Balestri cammina lento. Ha lo sguardo stanco, un po' alticcio

o chissà cos'altro. Comunque sorride e allarga le braccia come

a dire "Son fatti così". Che poi il vero "fatto" è proprio lui.

Schello

ruba un pezzo di galletto strappandolo letteralmente dalla bocca

di una signora che va a vuoto con il morso. Quasi si morde la

lingua e sbatte indispettita il pugno sul tavolo.

"Ma non è possibile! Il boccone del re. Me l'ero lasciato per

ultimo."

Vit, che stava bevendo un bicchiere di vino, scoppia a ridere e

se lo versa addosso. Io passo in quel momento con Gin e per non

essere da meno frego alla signora una patata. Do un morso:

"Perfetta,

ancora calda, patate grosse come le fa Vit, tagliate a mano,

non surgelate, tieni".

Passo metà della patata rimasta a Gin.

"E poi non dire che non t'ho offerto la cena."

E corriamo via così, seguendo gli altri, mano nella mano. Lei

ride, scuotendo la testa con la mezza patata in bocca.

"Ma scotta..."

Finge di lamentarsi e ride e corre come una pazza. Con le gambe

in fuori, i capelli al vento e il giubbotto scuro. E in

quell'attimo,

di notte, ho un solo pensiero. Sono felice che mi abbia fregato 20

euro di benzina.

Capitolo 22.

Più tardi in macchina.

"Un po' eccessivi ma troppo simpatici i tuoi amici. A volte a

noi donne capita di uscire con certi morti."

"A noi donne... A noi donne chi?"

"Ok, allora diciamo che a volte 'a me' è capitato di uscire con

certi morti... Va bene così?"

"Un po' meglio."

"Va bene. Allora che dovrei dire: 'Sono mitici i tuoi amici! '. Va

meglio così?"

"Mitici. Che brutta espressione. Ancora con mitici. Sembra il

titolo di un film vanziniano. Di' epici casomai! "

Gin si mette a ridere: "Ok, touché".

Poi mi guarda e aggrotta le sopracciglia.

"Ops, scusa. Non lo capisci vero il francese?"

"Come no, touché, touché significa..."

Faccio di botto una curva strettissima. Mi arriva dritta fra le

braccia. Le sue tette finiscono in qualche modo tra le mie mani.

"Ecco, significa questo touché? Giusto?"

Prova a partire con uno schiaffo, ma questa volta sono più veloce

di lei. Lo paro al volo.

"Ops, scusa. Anzi, pardon! Non volevo proprio 'toucharti' ma

tu es très jolie! Allora come vado in francese? Comunque 'siamo

arrivati'. Ma questo proprio non lo so dire."

Scendo dalla macchina. Gin è infuriata.

"Toglimi una curiosità: se i tuoi amici sono così 'epici', come

dici tu, perché quando sei passato davanti all'appuntamento hai

fatto finta di non vederli?"

Cazzo. È micidiale. Non le sfugge niente. Cammino e le do le

spalle. Ma mi ha preso una fitta allo stomaco.

"E questo, ma forse non lo sai, si dice tombé, cioè colpito e

affondato, stronzo!"

Gin rientra nella sua macchina, accende al volo e parte a duemila

sgommando. Corro verso la moto. Ancora un metro e sono

arrivato.

"Ma guarda questo. Ma vaffanculo. Ma come se la tira, ma chi

si crede di essere? Ok, si chiama Step, e allora? Chi cazzo lo

conosce...

Sì, è un mito o è stato un mito, ma per i suoi amici. Gli epici,

come li chiama lui. E allora?"

"E allora un po' ti piace."

Mi ero sempre divertita fin da piccola a fare Gin 1 la vendetta

e Gin 2 la saggia. Almeno io le chiamavo così. La prima, Gin 1 la

vendetta, è Selvaggia. Tra l'altro da piccola avevo un'amica che

si

chiamava proprio così e mi sarebbe sempre piaciuto un sacco

rubarle

il suo nome. La seconda, Gin la saggia, è Serena, quella romantica

ed equilibrata. E Selvaggia e Serena discutono in continuazione

su tutto.

"Sì, mi piace e allora?"

"E allora hai sbagliato."

"Chiarisci meglio il concetto."

"Ok, mi piace molto! Mi piacciono i suoi capelli corti, le sue

labbra carnose, i suoi occhi allegri e buoni, le sue mani e... ah

sì,

mi piace un sacco il suo gran bel culo. "

"Come sei sboccata."

"Mamma quanto rompi."

"Ah, sì?"

"Sì!"

"Ma se ti piace tutta questa roba, allora spiegami... perché gli

hai fregato le chiavi della moto?"

"Perché nessuno può toccare le mie tette se non sono io ad

autorizzarlo.

È chiaro? E Step, il mito, anzi 'l'epico' non era autorizzato.

E queste belle chiavi me le tengo per ricordo."

"Sono sicuro che stavi pensando a me."

Cavoli, è Step, è in moto, ma come ha fatto a partire?

"Fermati e accosta sennò ti distruggo a calci questa specie di

catorcio."

Avrà fatto i contatti, porca miseria. Gin rallenta e alla fine si

ferma. Se ha staccato il blocchetto così velocemente ed è partito,

forse non sarà un mito ma è proprio sveglio.

"Allora? Brava, molto divertente."

"Che cosa?"

"Ah, fai pure la finta furba? Le chiavi."

"Ah sì, scusami. Me ne sono accorta solo adesso. Be', si vede

che... Sì, insomma, forse hai sbagliato giubbotto e le hai

infilate

nel mio."

La prendo per il bavero.

"No Step, ti giuro che non me ne sono accorta."

"Non giurare... falsa! "

"Be', forse le ho prese per sbaglio."

"Ah, per sbagliare hai sbagliato di sicuro, hai preso le chiavi di

casa."

"No, giura?"

"Ah, su questo giuro proprio."

"Non ci posso credere."

"Credici." La lascio andare: "Che farlocca che sei".

"Non mi chiamare farlocca" tira fuori le chiavi dal giubbotto e

me le lancia con forza. Mi sposto al volo e le prendo di lato:

"Farlocca,

non riesci neanche a colpirmi. Forza, sali in macchina che ti

riaccompagno a casa".

"No, non ti preoccupare."

"Mi preoccupo eccome. Tu sei una di quelle ragazze pericolose. "

"Che vuoi dire?"

"Che buchi un'altra volta, qualcuno ti aiuta a cambiare la gomma,

tu da brava farlocca ti fidi, fai una brutta fine e l'ultimo con

il

quale sei stata vista sono io."

"Ah, solo per questo?"

"Dicono che mi piace una vita tranquilla, quando si può. Oh,

poi non rompere, monta in macchina e basta."

Gin sbuffa e sale in auto. Accende il motore, ma prima di partire

tira giù il finestrino. "Ho capito perché lo fai."

Mi accosto con la moto: "Ah, sì e perché?".

"Così scopri dove abito."

"Questo catorcio è targato Roma R24079. Mi bastano dieci minuti

e un mio amico al Comune per sapere il tuo indirizzo. E mi

risparmierei

anche un sacco di strada. Cammina, farlocca presuntuosa!"

Parto sgommando. Cavoli, Step si ricorda la mia targa a memoria.

Io non sono ancora riuscita a impararla. In un attimo mi sta

dietro. Lo vedo dallo specchietto. Che tipo. Mi segue, ma non si

avvicina troppo. Che strano, è prudente. Non lo avrei mai detto.

Be', in fondo non è che lo conosco poi tanto... Mah!

Scalo e mi tengo lontano. Non vorrei che Gin facesse qualche

scherzo frenando di botto. È il metodo migliore per mettere fuori

uso un motociclista. Se ti dice bene non fai in tempo a inchiodi

dare. Ti giochi forcella e moto. Fai un bel botto e non puoi

ripartire

per l'inseguimento. Corso Francia, piazza Euclide, via Antonelli.

Se la tira la presuntuosa. Non si ferma a nessun semaforo.

Passa davanti all'Embassy a tutta velocità. Supera le macchine

ferme al semaforo, poi ancora dritta e gira a destra e poi a

sinistra,

sempre senza freccia. Un mezzo rincoglionito le suona il

clacson ma in netto ritardo. Via Panama. Si ferma poco prima di

piazzale delle Muse. Gin posteggia infilandosi al volo tra due

macchine

senza toccarle, con una sola manovra. Pratica e precisa. O

forse solo culo?

"Ehi, sei brava a fare manovra."

"Perché non hai visto il resto."

"Ma è possibile che non si possa mai dire niente senza che tu

debba dare l'ultima battutina?"

"Ok... Allora, grazie della cena, sono stata benissimo, sei stato

fantastico, i tuoi amici sono mitici, scusami epici. Scusa per

l'errore

delle chiavi e grazie per avermi accompagnato. Va bene così?

Dimentico

niente? "

"Sì, non mi inviti su da te?"

"Cooosa? Ma non se ne parla proprio. Non ho mai fatto salire

nessuno dei miei ragazzi, figuriamoci se adesso faccio salire te,

uno

sconosciuto. Ma figurati! ! ! "

"Perché, ce ne sono stati?"

"Di ragazzi?"

"Eh, di che sennò."

"Una cifra."

"E come facevano a sopportarti?"

"Erano forti in matematica. Facevano la somma e alla fine c'erano

molte più cose positive di tutto il resto. Ma purtroppo in

matematica

mi sa che invece tu vai male. "

"Veramente era l'unica cosa nella quale riuscivo così così."

"Ecco appunto, così così. È che qui ti mancano i numeri...

buonasera

signor Valiani..."

Mi giro per guardare chi saluta, non c'è nessuno. Sento il rumore

del cancello alle mie spalle.

"Ta dan!"

Mi rigiro: Gin è dall'altra parte del cancello che ancora vibra.

Se l'è chiuso dietro. È stata velocissima.

"Te l'ho detto, sei epico. Ma mi crolli sul banale."

Gin corre verso il portone. Fruga in tasca per trovare le chiavi.

Ci metto un secondo: destro, sinistro, scavalco il cancelletto e

corro verso di lei che cerca disperatamente la chiave del portone.

Pum. Le sono addosso e l'abbraccio da dietro. Fa un urlo. La tengo

ferma.

"Ta dan! Giocavi da piccola a uno due tre stella? Non hai fatto

in tempo a girarti che io ti ho presa. Ora sei mia."

I suoi capelli profumano. Ma non sono dolci. Odio i profumi

dolci. Sanno di fresco, di frizzante, di allegro, di vita. Si

dibatte cercando

di liberarsi ma la tengo stretta. "Se non vuoi farmi salire su

a casa possiamo conoscerci qui."

Prova a colpirmi con il tacco all'indietro, ma allargo veloce le

gambe.

"Liscio... Ehi, non sto facendo niente di male. Non ti ho messo

mica le mani addosso, ti ho solo abbracciata."

"Ma io non te l'ho chiesto."

"Ti pare che chiedi a uno 'dai, per favore, abbracciami'? Gin,

Gin... mi sa che una cifra di quei ragazzi lasciavano un po' a

desiderare.

"

Ho la mia guancia vicino alla sua. È liscia, morbida e fresca come

una splendida pesca, dolcemente dorata dalla peluria chiara,

trasparente, senza trucco. Apro le labbra e mi ci poggio sopra ma

senza baciarla, senza morderla. Muove la testa a destra e a

sinistra

per cercare di allontanarmi ma le sto attaccato come un'ombra. C'è

un vento leggero notturno che ci porta il profumo dei gelsomini

del giardino.

"Ehi, allora, come va? Ci hai ripensato?"

"Neanche per sogno."

Risponde in maniera strana, a voce bassa, in maniera quasi roca.

"Sì, ma ti sta piacendo..."

"Ma che dici?"

"Lo sento dalla voce."

Si schiarisce la gola.

"Senti, ti vuoi staccare o no?"

"No."

"Come no?"

"Ma scusa, me l'hai chiesto, giusto? E no è la mia risposta."

Ci riprovo. In silenzio. A bassa voce. Portato dal vento notturno.

"Toc toc, Gin, posso entrare?"

"Ma non sai cosa troverai."

"Non entro mai in nessun posto se non so come uscirne."

"Che bella frase."

"Ti piace? L'ho prestata a quelli del film Ronin."

"Scemo."

Le sta piacendo, forse. Mentre l'abbraccio la tengo stretta e

dondolo

con lei leggermente a destra e a sinistra, tenendole le braccia

lungo il corpo a bloccare le sue. Canticchio qualcosa. E Bruce ma

non so se la riconosce. Le mie note morbide e lente si trasformano

in un respiro caldo che si mischia ai suoi capelli poi più giù,

sul collo.

Gin abbandona le braccia. Sembra essersi lasciata un po' andare.

Continuo a cantare lentamente, muovendomi con il corpo. Lei

mi segue, ora complice. Vedo la sua bocca, bellissima. È

semiaperta,

sognante, sospira, ha una leggera increspatura. Forse un brivido.

Sorrido. La libero un po', ma non troppo. Mi allontano con il

braccio

destro. Lo porto su per il suo fianco. Piano piano. E lei mi segue

passo passo, con gli occhi nella penombra della notte, con

l'immaginazione

nel buio delle emozioni. Preoccupata che io possa toccare

qualcosa, come un bambino che scopre il trucco di chissà quale

splendida magia. Ma non è questo il mio desiderio. Lento, con

dolcezza,

smarrito tra i suoi capelli. Le accarezzo il collo, mi poggio con

il palmo sulla sua guancia. La spingo un po', giocando... Le

faccio

girare il viso a sinistra. Così, lentamente, Gin lascia andare il

suo viso

sul vetro, i capelli riversi in avanti, e d'improvviso,

seminascosta

da quel profumato cespuglio nero, compare la sua bocca. Come una

rosa d'amore appena dischiusa, morbida e bagnata. Sospira,

abbandonata,

e disegna piccole nuvole di vapore sul vetro di quel portone.

Allora la bacio. E lei sorride, mi lascia fare, un po' mordicchia,

un po' ci sta, ed è bellissimo. È drammatico, è commedia, è

paradiso,

no... E meglio. È inferno. Perché mi sto eccitando.

"Gin, ma sei tu?"

Una voce di uomo alle mie spalle. Proprio adesso... No! Non

ci posso credere. Il cancello, i passi... Non abbiamo sentito

niente.

Storditi dal desiderio. Mi giro al volo pronto a parare più che a

colpire.

D'altronde il suo uomo non ha tutti i torti. Lo guardo. È un

tipo non troppo alto, e un po' magro.

"Cavoli, non ci posso credere." Ha la faccia divertita più che

incazzata. Gin si rimette a posto i capelli, è scocciata ma non

più

di tanto.

"Be', invece credici o vuoi che ci baciamo di nuovo?"

Cavoli, è dura la tipa.

"Ah, per me."

Sono ancora con le mani alzate.

"Stefano, questo è Gianluca, mio fratello."

Abbasso la guardia, tiro un leggero sospiro, ma non è la

preoccupazione

del combattimento. Quella meno che mai. Altri pensieri.

Il che forse è più preoccupante.

"Ciao."

Gli do la mano e sorrido. Certo non è il modo migliore per

conoscersi.

Uno che ci prova con la sorella.

"Be', ora sei in buone mani, posso andare."

"Sì, non credo che lui mi violenterebbe."

Sorride, prendendomi in giro.

"Puoi andare, epico Step."

Mi allontano verso il cancello e li lascio così, fratello e

sorella,

sullo sfondo del portone. Accendo la moto e parto lasciando in

quel

profumo notturno dei gelsomini un bacio dato solo a metà.

Gianluca guarda Gin strabiliato.

"Ma sul serio, non ci posso credere!"

"Credici, tua sorella è una come tante, e se ti può consolare come

hai visto non è lesbica."

"No, non hai capito, non ci posso credere, ti stavi baciando con

Step!"

Gin finalmente ha trovato la chiave e apre il portone.

"Perché, lo conosci?"

"Lo conosco? Vorrei sapere a Roma chi non lo conosce."

"Eccomi. Hai l'esempio davanti a te, io non lo conoscevo."

Gin poi pensa tra sé, tanto è mio fratello, bugia più bugia meno.

"Non ci credo. Non è proprio possibile che non ne hai mai sentito

parlare. Dai, lo conoscono tutti. È uno che ne ha combinate di

tutti i colori, è uscito pure su un giornale, sulla sua moto

mentre

pinnava con la sua donna dietro, in mezzo alla polizia. Non ci

posso

credere! Mia sorella che bacia Step." Gianluca scuote la testa.

"È questo che è: il titolo del 'Gazzettino dello sfigato'?"

Entrano in ascensore.

"Comunque non so se ti crollerà un mito, ma il famoso Step, il

picchiatore, il duro, quello che fa la pinna con la donna

dietro..."

"Sì, ho capito, lui, allora?"

"Bacia esattamente come tutti."

Nello stesso istante Gin spinge il 4. Poi si guarda allo specchio.

Arrossisce. Con se stessa non ce la può proprio fare. Ha detto

un'altra

bugia. Più grossa. E lo sa benissimo.

Capitolo 23.

Notte. Corro con la moto a tutta velocità. Piazza Ungheria, dritto

verso lo zoo. Non trovo una parola per definire Gin. Ma ci provo

lo stesso. Simpatica, no, molto carina, macché! Bella, divertente,

diversa. Ma perché definirla poi. Forse è tutto questo messo

insieme.

Forse è ancora altro. Non ci voglio pensare. Una cosa mi

viene in mente però e mi fa sorridere. Con lei sono passato a

piazza

Euclide, seguendo la sua macchina. Non ho dato neanche uno

sguardo alla Falconieri, non ho pensato alle uscite di scuola di

Babi,

a me che l'aspettavo, al tempo che è stato. Ci sto pensando

adesso.

Improvviso, come un fulmine a ciel sereno. Un ricordo. Quel

giorno. Quella mattina. Come se fosse ora. Sono davanti alla sua

scuola. La osservo da lontano, la vedo scendere, ridere con le sue

amiche, chiacchierare di chissà che. Presuntuoso sorrido. Magari

di me... La aspetto.

"Ciao..."

"Ma dai, che bella sorpresa, mi sei passato a prendere a scuola."

"Sì, fuggi via con me."

"Mamma se lo merita. E sempre in ritardo."

Babi mi sale dietro sulla moto. Mi stringe subito forte.

"Cioè, non ho capito, non è per stare con me che fuggi, è per

punire tua madre che è ritardataria! Ma guarda che sei forte..."

"Ma scusa, se si possono ottenere tutte e due le cose, non è

meglio?"

Passiamo davanti a sua sorella che è lì che aspetta.

"Dani, di' a mamma che torno a casa più tardi. E tu non correre,

eh?"

Poco dopo a via Cola di Rienzo. Rosticceria Franchi. Usciamo

con una busta piena di quei supplì vegetali che fanno solo lì, che

le piacciono tanto, fritti da far paura, ancora caldi, con un

sacco di

fazzolettini, una bottiglietta d'acqua in due e una fame

incredibile.

Ce li mangiamo così, lei seduta sulla moto e io lì di fronte, in

piedi, senza parlare, guardandoci negli occhi. Poi improvvisamente

comincia a grandinare. Ma di brutto, in un modo incredibile. E

allora corriamo, corriamo come pazzi, e ci ripariamo sotto un

portone

chiuso, quasi scivolando pur di toglierci subito da quella

grandine.

Rimaniamo così, al freddo, sotto la sporgenza di un terrazzo.

Poi la grandinata piano piano si trasforma in neve. Nevica a Roma.

Ma non fa in tempo a toccare terra che quella neve si scioglie.

Noi

ci sorridiamo ancora per un attimo, lei dà un altro morso al suo

supplì, io provo a baciarla... E poi pluff, proprio come quella

neve

anche questo ricordo si scioglie. Non c'è mai un perché a un

ricordo.

Arriva all'improvviso, così, senza chiedere permesso. E non

sai mai quando se ne andrà. L'unica cosa che sai è che purtroppo

tornerà di nuovo. Ma di solito sono attimi. E ormai so come fare.

Basta non fermarsi troppo. Appena arriva quel ricordo,

allontanarsene

velocemente, farlo subito, senza rimpianti, senza concessioni,

senza metterlo a fuoco, senza giocarci. Senza farsi male. Ecco,

meglio... Ormai è passato. Quella neve si è sciolta del tutto.

Spengo la moto ed entro. Il portiere è sempre lo stesso:

"Buonasera,

che piacere rivederla".

Mi riconosce.

"Piacere mio."

In tutti i sensi, ma non glielo dico.

"Vuole che l'annuncio?"

"Se ce n'è bisogno."

Mi guarda e sorride.

"No, non c'è nessuno con lei."

"Ok, allora salgo e le faccio una sorpresa."

Entro nell'ascensore. Il portiere si affaccia.

"Niente cocomero stasera?" Faccio appena in tempo a rispondere

"No, stasera no". È incredibile. Non c'è niente da fare. Ai

portieri

non sfugge nulla. 202. Sono davanti alla porta e busso. Sento

i suoi passi veloci. Mi viene ad aprire senza chiedere chi è.

"Ciao!

Che sorpresa!" Eva è felice di vedermi: "Ho provato a chiamarti

sul tuo cellulare ma era spento. Eri in dolce compagnia?".

"Solo amici."

Mento e mi sento un po' in colpa, ma non so neanche perché.

Non ha proprio senso.

"Io non ti ho cercato."

"Be', sei venuto direttamente. Hai fatto bene, perché domani

parto di nuovo."

"Per dove?"

"Sudamerica, vuoi venire con me?"

"Magari. Ma devo stare a Roma, sai ho un po' di cose da fare."

"Ah, capisco."

Meno male che non mi chiede quali. In realtà non so neanch'io

quali sono queste cose. Iniziare a lavorare, iniziare una storia.

Finirne

finalmente un'altra. Quella. No. Non adesso. Non è proprio

il momento. Il suo ricordo sta tornando, ma lo cancello con

facilità.

Forse perché Eva ha addosso un altro completo. È carino ed

elegante come l'altro. Più trasparente. Le vedo il seno.

"Sai, Eva, non sapevo se passare, magari stavi con qualcuno."

"Dopo ieri sera... Ma per chi mi hai preso?"

Eva si mette a ridere, fa una faccia buffa e scuote la testa. Poi

si inginocchia. Mi sbottona i jeans e si bagna le labbra. Non mi

lascia

più dubbi. Già, per chi l'ho presa?

Capitolo 24.

Mattina. Vanni brulica di gente. Tutti indaffarati, vestiti bene,

benissimo, male, malissimo. Eterogenei, fino alla follia. Gli

utili e

gli inutili del grande paillettato mondo della televisione.

Comunque

presenti. Sempre.

"Ciao, direttore."

"Buongiorno, dottore."

"Avvocato, si ricorda di me? Non la volevo disturbare, ma che

ne è stato di quel progetto?"

"Ma è vero o no che hanno bloccato quella trasmissione?"

"Insomma, parte o non parte questo benedetto programma?"

"Comunque dobbiamo assolutamente metterci dentro questa

ragazza."

"Ma com'è, bella?"

"Che importanza ha? Tanto deve esserci."

E giù di lì. Creare, manipolare, guadagnare, ungere, trattare,

ricattare,

costruire, entusiasmare, produrre e mietere ore e ore di

televisione.

Comunque vada, con idee nuove, vecchi format, scopiazzature

qua e là, ma comunque trasmettere. In mille modi attraverso

quel piccolo elettrodomestico che tutti abbiamo conosciuto appena

nati. Lei, la tv, il nostro grande fratello, o come sorelle, la

nostra piccola

seconda mamma. O forse la prima e l'unica.

Ci ha fatto compagnia, ci ha voluto bene, ci ha allattato di

generazione

in generazione, con lo stesso latte catodico, fresco, a lunga

conservazione, andato a male...

"Hai capito?"

"Insomma questo è quello che pensi. E sei venuto fin da Verona

per fare tv. "

"Per creare immagini e loghi in maniera nobile e... giù di lì."

"E basta con questo 'giù di lì'. È approssimativo, troppo

approssimativo."

Marcantonio mi guarda. Sorride.

"Bravo, stai migliorando. Aggressivo e figlio di puttana, così mi

piaci. "

"La riconosco: Platoon."

"Cominci sul serio a stupirmi... Vieni, andiamo a vedere a che

punto è il TdV. "

"EcheèilTdV?"

"Ma come, non lo sai? Il Teatro delle Vittorie, tempio storico

della televisione che fu. "

"Se è 'tempio storico' allora andiamo,"

Attraversiamo la strada. Una bancarella di libri occupa lo spazio

dei giardini. Ragazzi e ragazze dall'aria più o meno intellettuale

sfogliano libri a basso costo. Una ragazza cicciotta ha in mano

un libro di ricette. Marcantonio non se la lascia sfuggire.

"Compra sesso e sport, è più gratificante."

Ride da solo mentre lei lo guarda semiavvilita. Marcantonio si

accende al volo una Chesterfield e la fuma con avidità mimando

chissà quale atto sessuale, secondo lui.

"Buongiorno, Tony."

"Salve conte, come va?"

"Male da quando la monarchia è caduta."

Tony scoppia a ridere. Lui, semplice vigilante del Teatro delle

Vittorie, si diverte a stare lì. Nel suo piccolo ha trovato il

potere.

Gestisce la porta. Fa entrare gente importante, direttori,

comparse,

attori, ne ferma altra solo perché non ha un pass. Insomma un

buttafuori del varietà.

"E c'hai ragione, conte. Almeno me potevi manda' una squadra

di plebei per aprire 'sta porta di sicurezza. È una settimana che

ho chiamato i tecnici. Aho, non s'è visto nessuno."

Be', comunque, penso, è un preciso. Poi si avvicina e ci confida

a bassa voce. "Mica per niente, è che passavo da 'sta porta per

andare a piscia' al bagno di sotto. Così invece devo fa' tutto il

giro...

'na rottura de cojoni."

E scoppia a ridere, semplice improvvisato, opportunista di

comodità.

"Perfetto, Tony, abbiamo finalmente chi risolverà questo tuo

problema di fondamentale priorità. "

"E chi sarebbe?"

"Lui, Step!"

"E chi è, uno della tua corte?"

"Ma scherzi. Eroe di regale importanza... Straniero nella terra

che allora dominava da tiranno... E poi scusa, Tony, vuoi piscia'

in

fretta o no?"

"Magari... A Step, se ci riesci te devo un favore."

"Tony... Eroe di regale importanza vuol dire solo nobiltà d'animo.

Un eroe non è uno che mercanteggia, eh? ! Quindi caso mai

il favore lo devi a me."

"Va be', che c'entra, la porta l'aggiusta lui... Mi sembrava più

carino."

Potrebbero continuare per ore. L'eroe, sì insomma quello che

è, comunque, io decido di interromperli.

"Be', quando avete finito e mi spiegate dov'è la porta..."

"Hai ragione, scusa..."

Tony ci fa da guida: "Venite di qua". Dentro al teatro tutti

battono,

grande rumore di ferro, seghe elettriche, saldatori.

"È quasi finito. Stanno a monta' le luci" quasi si scusa Tony.

"Ecco, è questa la porta, c'ho provato in tutti i modi. Niente,

nisba. Non c'è un cazzo da fare."

La guardo attentamente. È una di quelle porte a pressione, si

deve essere bloccata la serratura laterale. Qualcuno avrà messo il

blocco interno. Forse lo stesso Tony e non se lo ricorda o non

vuole

ammettere di aver fatto questa cazzata. Ci vorrebbe la chiave.

Oppure: "Hai una sbarra di ferro non troppo larga?".

"Tipo questa?" ne prende una da una cassetta poggiata lì a terra:

"Si capisce che c'ho provato in tutti i modi, eh?".

"Abbastanza." Fisso la sbarra nella serratura e do una botta

secca con forza. Neanche tanta poi. "Apriti sesamo."

E la porta si apre d'incanto. "Et voilà, ecco fatto."

Tony è tutto felice, sembra un ragazzino. "A Step, non so come

ringraziarti, sei magico."

Gli riconsegno la sbarra.

"Be', non esageriamo."

Marcantonio prende in mano la situazione: "Giusto, non esageriamo.

Ricordati solo che ci devi un favore ciascuno, eh?".

"Fattibile, fattibile..." sorride Tony e, rincuorato, inaugura la

porta andando a pisciare. Marcantonio mi fa l'occhiolino e mi

passa

davanti.

"Vieni, ti faccio vedere il teatro." Scendiamo giù, nel palco.

Oltre

le sedie della platea, sotto il grande arco della galleria. Ed

eccole

lì. Al suono di una musica avvolgente. Le ballerine. Tute

colorate,

scaldamuscoli abbassati, capelli lunghi o corti o in parte rasati

e

disegnati. Le ballerine. Bionde, brune, capelli rossi o pennellati

di

blu. Con il fisico scolpito, asciutto, magro, con gli addominali

definiti.

Con le gambe muscolose e un fondoschiena arrotondato ma

compresso. Pronto a esplodere in una spaccata su una nota acuta.

Perfette, padrone di movimenti agili e scattanti, affaticate ma

comunque

sorridenti. La musica ad alto volume riempie tutto il

palcoscenico.

E loro si lasciano portare, si incastrano, si incrociano, si

uniscono a tempo, si abbandonano indietro, si lasciano andare, la

vivono sottomesse. Grandi proiettori le esaltano vestendole di

fasci

di luce. Accarezzano le loro gambe scoperte, i loro seni piccoli,

quei

costumi ridotti. "Stop! Bene, bene, basta così!"

La musica si stoppa. Il coreografo, un piccolo uomo di circa

quarant'anni, sorride soddisfatto.

"Bene, facciamo una pausa. Riproviamo più tardi."

"Questo è il balletto."

"Sì, lo avevo capito."

Ci sfilano vicine sorridendo tutte un po' di fretta per non

freddarsi,

ancora accaldate ma profumate e leggere. Due o tre baciano

Marcantonio: "Ciao ragazze". Sembra conoscerle bene. A una

addirittura

dà una leggera pacca sul sedere. Lei sorride per niente

imbarazzata,

anzi: "Non mi hai più chiamata".

"Non ho potuto."

"Cerca di potere." E scappa via così, con un sorriso pieno di

promesse.

Mi guarda alzando il sopracciglio destro: "Ballerine... Quanto

amo la tv!".

Sorrido guardando l'ultima. È un po' più piccola delle altre,

esce correndo, è rimasta indietro per prendere la sua felpa.

Rotonda

e guizzante con un po' di roba in più ma tutta al posto giusto.

Mi sorride. "Ciao. " Non faccio in tempo a rispondere che è già

volata via.

"Comincio ad amarle anch'io."

"Bravo, così mi piaci. Allora questo è il palcoscenico e quello

è il nostro logo. Vedi, lì sul boccascena: 'I grandi geni'.

Modestamente

opera mia..."

"Non avevo dubbi, si riconosce dal tratto..."

Mento spudoratamente.

"Ma che, mi stai prendendo per il culo?"

"Scherzi?" sorrido.

"Be', lo stesso logo è già in 3d in grafica. Il programma è

questo:

una serie di persone comuni, dei veri e propri inventori, viene

qui sul palcoscenico e mostra come ha risolto un piccolo o un

grande problema della nostra società con una loro semplice

intuizione."

"Forte come idea."

"Noi li presentiamo, ci mettiamo il balletto intorno, ci

costruiamo

lo spettacolo sopra e loro mostrano l'idea che gli è venuta

in mente con tanto di prototipo depositato. È semplice come

programma ma credo che interessi alla gente. Non solo, ma quelli

che presentano qui da noi le loro invenzioni hanno un trampolino

di lancio con la tv che li può portare chissà dove. Possono fare

soldi

veri con le loro invenzioni. "

"Ah certo, se sono interessanti e se servono veramente a

qualcosa."

"Lo sono. Guarda che è forte questo programma. È un'idea di

Romani... Secondo me sarà un grande successo come tutto quello

che fa. Romani... Lo chiamano il re Mida della tv."

"Per quanto guadagna?"

"Per i successi che fa. Tutto quello che tocca dà grandi

risultati."

"Bene, allora devo essere felice di lavorare con lui."

"Be', hai iniziato dalla cima. Eccoli."

Li vedo entrare quasi in processione. Romani è davanti al gruppo.

Lo seguono due ragazzi sui trentacinque anni, uno robusto,

completamente calvo con degli occhiali scuri sulla testa, l'altro

magro

e un po' stempiato. Dietro di loro c'è un tipo con i capelli

lunghi

ma ordinati. Ha l'aria furba, si guarda continuamente intorno.

Ha un naso aquilino, uno sguardo nevrotico e a scatti. Indossa un

completo di velluto verde scuro senza più risvolti. L'orlo dei

pantaloni

è stato risistemato da poco. Si vede la piega più scura.

Sicuramente

ha dato alle sue gambe qualche centimetro in più e alla

sua eleganza qualcosa in meno. Se questo era ancora possibile.

"Allora, a che punto siamo?" Romani si guarda in giro. "Ma

non c'è nessuno?" Arriva di corsa un uomo basso dai capelli biondi

e gli occhi celesti. "Buongiorno, maestro. Sto finendo di montare

le luci, per stasera è tutto a posto."

"Bravo Terrazzi, lo dico sempre che sei il migliore."

Terrazzi sorride compiaciuto.

"Torno alla consolle per fare i punti luce."

"Vai, vai."

Il tipo con i capelli lunghi si avvicina a Romani: "Bisogna sempre

incoraggiarli, eh? Dargliela calda così danno di più, vero?".

Romani stringe gli occhi e lo guarda con durezza.

"Terrazzi è bravo sul serio, il più bravo. Fa le luci da prima che

tu fossi nato."

Il tipo con i capelli lunghi torna in silenzio al suo posto.

Si mette in fila, per ultimo. Riprende a guardarsi intorno, finge

di interessarsi a un angolo qualunque della scenografia. Alla

fine,

per sfogarsi con qualcuno, se la prende con la sua mano destra

e comincia a mangiarsi le unghie.

"Quelli sono gli autori. Romani è anche il regista, te lo ricordi

no?" me lo dice in modo ironico.

"Come no. È quello che ci dà lavoro."

"Gli altri due, quello robusto e quello magro, sono Sesto e

Toscani,

il semipelato e il pelato. Li chiamavano 'il Gatto e la Volpe',

e da sempre sono i due schiavi di Romani. Poi hanno provato a fare

un programma da soli, gliel'hanno chiuso dopo due puntate e

da allora li abbiamo ribattezzati 'il Gatto & il Gatto'. In quel

gruppetto

l'unica vera volpe è solo Romani, e di razza. Poi oltre a il Gatto

& il Gatto, c'è Renzo Micheli, il Serpe. Quello bassetto e un po'

cicciotto con i capelli lunghi e il naso adunco, è di Salerno, ha

le

mani in pasta dappertutto e un fiato da imbarazzare perfino un

topo.

Romani se lo porta dietro da più di un anno. Credo sia figlio

obbligato di un favore costato troppo. Lo chiamano Serpe perché

parla male di tutti, perfino di Romani, anzi soprattutto di lui

che è

il suo unico skipass in quest'ambiente. E la cosa più assurda è

che

Romani lo sa benissimo."

"Serpe, forte come soprannome."

"Step, attento a lui, ha quasi quarant'anni, molti amici nel

potere

e ci prova con tutte, soprattutto con le ragazzine. "

"Allora ti sbagli Mazzocca, se è così, è lui che deve stare

attento

a me. E ora fammi vedere dove è la nostra postazione. "

Capitolo 25.

"Gin, non ho capito perché ti ostini a portarmi con te ai provini,

non hai capito che sono l'eterna scartata?"

Guardo Eleonora e sorrido. Lei invece scuote la testa.

"Cioè, secondo me, tu Gin ci godi a vedermi bocciare. Ti devo

aver fatto qualcosa in un'altra vita o chissà cosa in questa."

"Ma Ele, non dire così. È che mi porti fortuna."

"Ho capito, ma non potevi essere come tutte, che ne so, portarti

un cornetto in tasca, un animaletto tipo una ranocchia, un

porcellino,

l'elefante con la proboscide in su?"

"No, Iwant you."

"Sembri lo zio Sam con i poveri soldati americani. Ci manca

solo che decidi di fare un provino in Vietnam."

"E tu naturalmente mi seguiresti."

"Certo, come no... ti porto fortuna! "

Poi uno scontro improvviso.

"Porca puttana, il mio frozen."

Marcantonio ha tutto lo yogurt versato sulla giacca. Gin scoppia

a ridere: "Porti fortuna, ma non a lui".

"Ehi, ragazze, ma perché non guardate avanti mentre camminate?"

"Ma perché scusa tu invece che guardavi? Il tuo yogurt?"

"Sì, solo che adesso vivo di ricordi."

"E allora perché devi dare la colpa a noi?"

Esco poco dopo con il mio frozen ancora intatto. E vedo Gin.

Non ci posso credere. Anche lei qui. Mi viene da ridere. Mi

avvicino.

"Guarda, guarda chi si vede. Aspetta, ho capito. Vuoi che ti offra

anche il pranzo."

"Io? Ma che, scherzi? Una cena basta e avanza. Piuttosto, che

ci fai qui da Vanni? Aspetta, ah, ho capito, mi hai seguito."

"Calma, calma. Perché pensi sempre che tutto ruoti solo e

sempre intorno a te? Non lo vedi? Prendo un frozen con un mio

amico."

"Strano. È una vita che vengo qui e non ti ho mai incontrato."

"Una vita non credo. Forse sei venuta in questi ultimi due anni

che ero fuori. "

Marcantonio interviene: "Scusate, non è che vi dispiace se mentre

fate tutta la vostra cronistoria io entro a pulirmi... E poi

sbrigati,

Step, che noi abbiamo un appuntamento importante".

Marcantonio rientra da Vanni scuotendo la testa. Eleonora

alza le spalle: "Che cafone il tuo amico, non si è neanche

presentato".

"Non ho capito, gli fai rovesciare addosso il suo frozen e

pretendi

pure che ti faccia l'inchino. Mi sembra di capire che sei una

degna amica di Gin. " Poi mi rivolgo a lei.

"Be', allora? A parte fare danni, che combinate da queste parti?"

Eleonora risponde spavalda: "Siamo venute a fare un provino".

Gin le dà una gomitata. "Ahia."

"Non ti sbilanciare, non lo conosci neanche e lo metti al corrente

delle nostre cose."

Do un'assaggiata al mio frozen. Buono, non c'è male: "E chi

siete, un nuovo gruppo? Le Spy Girls?".

"Ah, ah... Sai Ele, lui ha delle battute fenomenali. Tutto sta a

capire quando sono o non sono battute. "

"Ah, ecco."

"Be', no, questa non era una battuta, è una realtà. Molte ragazze

vengono prese per lavorare in agenzie investigatrici. E i tipi

come voi danno poco nell'occhio."

"Sì, un cazzotto nell'occhio ti dovevo dare. Ieri sera quando ci

provavi come un disperato..."

Ele ci guarda sorpresa: "Questa non me l'avevi raccontata!".

Gin sorride guardandomi.

"È stata una cosa così poco importante, che mi era passata di

mente!"

Mi levo il cucchiaino dalla bocca e cerco di raccogliere del

frozen

sul fondo della coppetta.

"Le hai detto che a un certo punto sospiravi?"

"Vaffanculo!"

"Questo ieri sera non mi sembra che lo hai detto."

"Te lo dico oggi, due volte: vaffanculo! "

Sorrido. "Adoro la tua eleganza."

"Peccato che non puoi apprezzarla del tutto. Be', noi dobbiamo

andare, mi dispiace solo di una cosa... Ele, scusa ma non potevi

rovesciarlo addosso a lui lo yogurt, acido per acido."

Si allontanano. Le guardo andare via. Gin la dura e l'amica sua,

un po' più bassa. Ele come la chiama lei, Elena, Eleonora o chissà

cos'altro. Fanno ridere. "Ehi salutatemi Tom Ponzi!"

Gin senza neanche voltarsi alza la mano sinistra e in particolare

indica il cielo con il dito medio alzato. Arriva Marcantonio

giusto

in tempo per vedere quel saluto.

"Ti adora, eh?"

"Sì, è in visibilio per me."

"Ma che gli farai tu alle donne, devo temerti, cazzo, devo

temerti.

"

Gin ed Ele continuano a camminare. Ele sembra sul serio scocciata.

"Si può sapere come mai non mi hai raccontato nulla?"

"Ma ti giuro Ele, mi è passato di mente, sul serio."

"Sì, senz'altro... Cioè, tu ti baci con quel bono della miseria e

ti passa di mente!"

"Sul serio ti piace così tanto?"

"Be', bono è bono, però non è il mio tipo. Io preferisco

quell'altro.

Sembra Jack Nicholson da giovane. Secondo me ha un sacco

di pensieri spinti. Mi dà più l'idea del porco."

"E ti piace un porco?"

"Be', il sesso deve essere anche fantasia e io l'avrei

sbalordito...

Mi mettevo a leccargli tutti i vestiti che gli ho sporcato di

frozen e

poi cominciavo a strapparglieli via con i denti. "

"Sì, e poi ti arrestavano davanti a Vanni."

"Piuttosto chi è quel bono della malora?"

"Della miseria avevi detto."

"Va be', quello che è. Che fa, dove abita, come l'hai conosciuto,

sul serio vi siete baciati, ma come si chiama?"

"Altro che Tom Ponzi, sei molto peggio. Ma che, devo rispondere

veramente a questa smitragliata?"

"E certo, che aspetti?"

"Allora rispondo a tutte, eh? Non lo so, non lo so, l'ho

conosciuto

ieri sera, c'è stato un bacio, si chiama Stefano."

"Stefano?"

"Step."

"Step? Step Mancini?"

Eleonora strabuzza gli occhi e mi guarda.

"Sì, si chiama Step e allora?"

Mi prende per il giubbotto e mi scuote tutta.

"Non ci posso credere, yaoo! Passeremo agli annali. Minimo

quando racconto la notizia usciamo su 'Parioli Pocket'. Step il

picchiatore,

il duro. Ha una Honda 750 Custom blu scura, corre come

Valentino Rossi, ha fatto a botte con mezza Roma, stava fisso a

piazza Euclide, amico di Hook, di Schello e per la sua donna ha

litigato

perfino con il Siciliano. Step e Gin incredibile! "

"Oh, ma lo conoscete tutti 'sto Step, l'unica a non conoscerlo

ero io."

"E lui con chi si mette? Con te!"

"A parte che non ci siamo messi insieme, primo. Secondo, chi

è questa sua donna?"

"Ah, allora ti interessa. Sei crollata!"

"Macché! Sono curiosa e basta."

"Stava con una un po' più grande di noi, credo, una bella ragazza,

andava alla Falconieri. È la sorella di Daniela, quella dedotta

che stava con Palombi, quello che stava..."

"Ho capito che stava con Giovanna che stava con Piero che stava

con Alessandra eccetera eccetera. La tua rete infinita. Va be',

non conosco nessuna di queste persone e soprattutto non me ne

frega niente. E ora andiamo a fare il provino che ho bisogno di

soldi.

Mi voglio comprare il motorino per me e mio fratello."

"Ma non puoi chiedere i soldi ai tuoi?"

"Non se ne parla. Dai, tira fuori i documenti."

Gin ed Ele prendono la carta d'identità e la mostrano al tipo

alla porta. "Ginevra Biro ed Eleonora Fiori, dobbiamo fare il

provino

come centraliniste, ma in video, cioè appariamo."

Il tipo dà un'occhiata ai documenti, poi controlla sul foglio di

una cartella. Segna con una penna al bordo del foglio. "Aho e meno

male. Entrate che cominciano fra poco. Mancavate solo voi."

Capitolo 26.

Ragazze schierate al centro del palcoscenico. Alte, bionde, brune,

leggermente rosse, appena tinte di henné. Più o meno eleganti,

casual o pseudokitsch nel disperato tentativo di mettere insieme

due cose fintamente intonate. Scarpe da ginnastica sotto perfetti

completi grigi, la moda del momento, vecchie zeppe troppo alte

per una moda ormai smussata. Nasi dritti o malamente rifatti, o

non ancora ritoccati per insufficienza di soldi. Alcune

tranquille,

altre nervose, altre ostinate con quel piercing spavaldo, altre

ancora,

più timide, rimaste bucate da un piercing sbullonato da poco.

E tatuaggi più o meno scoperti, chissà quanti altri nascosti. Le

ragazze

dei provini. Gin ed Ele si infilano di nascosto tra le ultime.

"Allora..."

Romani, il Gatto & il Gatto, il Serpe e qualche altro addetto ai

lavori sono tutti seduti in prima fila pronti al piccolo grande

spettacolo,

un po' di divertimento prima delle vere fatiche.

Mi siedo in fondo alla fila, con il mio frozen ancora da due

cucchiaiate

e mi gusto da lontano la scena. Gin non mi vede. Sembra

sicura di sé, tranquilla, con le mani in tasca. Non so dire a che

gruppo

appartiene. Mi sembra unica. Pure la sua amica non scherza.

Muove ogni tanto la testa nel tentativo di portare indietro i

capelli.

Il coreografo ha un microfono in mano.

"Allora, adesso fate un passo in avanti, vi presentate, nome e

cognome, età e che lavori avete già fatto. Guardate la telecamera

centrale, la due, quella con la lucetta rossa dove c'è sopra quel

signore

che ora vi saluta. Saluta Pino! "

Il tipo seduto sulla telecamera centrale, senza staccare il volto

dal suo monitor, lascia per un attimo la telecamera, alza la mano

e

saluta verso di loro.

"Ok! Avete capito?"

Qualche ragazza accenna un sì incerto con la testa. Gin

naturalmente,

come potevo immaginare, non si muove.

Il coreografo deluso butta giù le braccia, poi al microfono: "Ehi

ragazze, fatemi sentire la vostra bella voce, ditemi qualcosa...

Fatemi

sentire che esisto". Dalle ragazze si alza un mezzo coretto

scoordinato

di sì, va bene, d'accordo, perfino qualche sorriso.

Il coreografo sembra più soddisfatto.

"Bene, allora cominciamo."

Marcantonio mi si avvicina.

"Aho, Step, che fai qui dietro? Andiamo avanti, ci mettiamo

nelle prime file, si vede meglio."

"No, io me la gusto da qui."

Come vuoi.

Si siede vicino a me.

"Vedrai che Romani ci chiama. Su ogni cosa vuole anche il nostro

parere."

"Eh, e quando ci chiama ci andiamo."

Una alla volta le ragazze si passano un microfono e si presentano.

"Ciao sono Marelli Anna, ho diciannove anni. Ho partecipato

a diverse trasmissioni come valletta e sto studiando Legge. Ho

fatto anche una particina in un film di Ceccherini..."

Renzo Micheli, il Serpe, sembra sul serio interessato.

"Che parte facevi?"

"La prostituta, ma era solo una posa."

"E ti è piaciuta la parte?"

Tutti sghignazzano ma senza farsi vedere troppo.

Solo Romani rimane impassibile. Marelli Anna risponde:

"Sì, mi piace il cinema. Ma secondo me ho più futuro in

televisione".

"Bene, andiamo avanti con la prossima."

"Buongiorno, sono Francesca Rotondi, ho ventun anni e sto

per laurearmi in Economia. Ho fatto..."

Romani si gira a destra e a sinistra guardandosi in giro, poi ci

vede.

"Mazzocca, Mancini, venite più vicino."

Marcantonio mi guarda alzandosi. "Che ti avevo detto?"

"E noi andiamo, sembra un po' di stare a scuola, ma se fa parte

del gioco..."

Le ragazze dei provini hanno la luce in faccia e non possono

vedere. Un'altra ragazza si presenta e un'altra. Poi comincia

quella

vicino a Gin. Finisco per sedermi in prima fila a destra. Lei

ancora

non mi ha visto. Ele invece, la sua amica, sì.

Ele naturalmente non si lascia scappare l'occasione.

"Ehi, Gin." Sottovoce. "Guarda chi abbiamo in prima fila."

Gin coprendosi con la mano gli occhi dalla luce si sposta un po' e

mi vede. Mi porto la mano destra vicino al viso e senza farmi

vedere

la saluto. Non la voglio prendere in giro. Lo capisco che è lì

per lavoro. Ma lei niente, non la prende bene e di nuovo, come al

solito, con la mano sinistra, stesa lungo i fianchi mi mostra il

suo

dito medio mandandomi affanculo. E tre.

"Tocca a te, bruna."

È il suo momento ma distratta viene presa alla sprovvista.

"Che è, oh? Ah, sì. " Prende il microfono che la ragazza alla sua

destra le allunga. "Sono Ginevra Biro, diciannove anni, studio

Lettere

indirizzo spettacolo. Ho partecipato a diverse trasmissioni nel

ruolo della valletta. Ta dan." Gin spinge le mani in avanti e poi

in

alto facendo un passo in avanti e mezzo inchino. "Se avevo la

solita

busta era volata via. "

Poi ritorna al suo posto. Tutti ridono divertiti.

"Forte questa."

"Sì, simpatica e pure carina."

"Già, molto in gamba."

Rimango così a guardarla anch'io divertito. Lei mi guarda,

spavalda

e sicura, per niente intimorita di trovarsi lì davanti a tutti,

sotto

i riflettori. Anzi, mi fa anche una smorfia. Mi sporgo verso

Romani.

"Scusi dottor Romani..." lui si gira verso di me.

"Posso fare una domanda a questa ragazza, sa, per conoscerla

meglio."

Mi guarda incuriosito.

"È una domanda professionale o vuoi il suo numero?"

"Assolutamente di lavoro."

"E allora, certo, siamo qui per questo."

ritorno seduto, la guardo e mi concedo un attimo. Poi parto.

"Quali sono le sue prospettive per il futuro?"

"Un marito e tanti bambini. Tu se vuoi puoi fare il bambino."

Cazzo. Ko, mi ha steso. Tutti ridono come pazzi. Si sbellicano

più del dovuto. Perfino Romani ride e mi guarda allargando le

braccia

come a dire "ha vinto lei". E ha vinto sul serio. Neanche mi fossi

incontrato con Tyson. Mi avrebbe fatto meno male. Ok, come

vuoi Gin. Me ne frego degli altri e riparto.

"E allora scusi, perché è qui a fare provini invece di darsi alla

sana e giusta ricerca di quest'uomo?"

Gin mi guarda e sorride. Si finge buona, ingenua e risponde

come la più santa delle donne.

"E perché non potrebbe essere proprio qui il mio uomo ideale?

La vedo preoccupato, ma non dovrebbe, perché lei naturalmente

dalla mia ricerca è escluso."

Qualcuno ancora sghignazza.

"Ok, adesso basta" dice Romani. "Abbiamo finito?"

"No, veramente ci sarei ancora io."

L'amica di Gin, Ele, fa un passo avanti mostrandosi.

"Bene, si presenti."

"Sono Eleonora Fiori, vent'anni. Ho tentato di partecipare a

diverse trasmissioni, con scarsi risultati, però studio disegno,

lì invece

ottengo ottimi risultati. "

Qualcuno sottovoce se ne esce con una stupida battuta.

"E perché non continui, allora?"

Deve essere stato Sesto, quello del Gatto & il Gatto. Ma nessuno

ride. Allora Micheli, il Serpe, si guarda intorno. Romani finge

di non aver sentito. E naturalmente fa così anche lui. Toscani,

l'altro Gatto, ride per un attimo. Poi, quando capisce che non gli

conviene, si spegne in una specie di tosse leggera, una finta

raucedine

improvvisata.

"Benissimo, grazie signorine."

Romani si avvicina al coreografo, guarda il foglio che ha in mano

e segna con il dito alcuni nomi. Poi ci guarda e viene verso di

noi.

"Avete qualche preferenza?"

Guardo il foglio. Ci sono alcune crocette al lato delle ragazze.

Cinque o sei sono state scelte. Guardo giù, a fine lista. Eccola

lì.

Ginevra Biro ha già la sua crocetta. Incredibile, io e Romani

abbiamo

gli stessi gusti, sorrido. Non è così difficile, poi. Sesto e

Toscani

ne indicano una per uno, Romani li accontenta. Il Serpe ne

indica addirittura due, ma Romani gliene passa una sola. Poi

arriva

anche Mazzocca e dà la sua indicazione.

"Romani, ti potrà sembrare assurdo, ma dobbiamo prenderne

una. Può non piacerti, ma se ci rifletti bene, sceglierla è

geniale."

"Sentiamo, qual è?"

"Piacerà a tutte le persone insicure, a quelle che a casa pensano

di non potercela fare. Quella la devi prendere, Romani."

"Quale?"

"L'ultima."

Il Gatto & il Gatto seguiti dal Serpe partono quasi all'unisono.

"Buuu. " È un'indignazione generale la loro. Romani non dice

niente,

i tre non sentendolo si fermano. Il Serpe ormai si è pronunciato

troppo.

"Ma è un'assurdità. Ma che, facciamo una miss Italia al contrario?

Ci mandate i sottotitoli con la spiegazione a casa..." Decide

di tenere il punto. Mazzocca scuote la testa.

"È un'idea forte. Ci stavi già pensando Romani, vero?"

Romani rimane per un po' in silenzio. Poi all'improvviso sorride.

"No, non ci avevo pensato, ma è giusta, molto giusta. Ok, segna

anche questa, Carlo. " Il coreografo non ha capito nulla ma mette

quell'ultima sospirata crocetta!

"Ok, allora, ragazze..."

Il coreografo abbandona le prime file e si porta al centro del

palcoscenico. "Ringrazio fin da adesso quelle che hanno

partecipato

ma che non sono state scelte..."

Ele alza le spalle "Prego".

Gin le dà una botta con il gomito.

"E non fare sempre la pessimista. Sii costruttiva, positiva, tu te

le chiami certe sfighe. "

Il coreografo inizia a leggere. "Allora, Calendi, Giasmini,

Fedri..." E alcune delle ragazze improvvisamente si accendono,

sorridono,

fanno un passo in avanti. Altre, il cui nome è stato ormai

superato nella fila, si spengono vedendo nuovamente lontano il

sogno

di brillare anche se solo per un attimo in tv. "Bertarello, Sole

si, Biro e Fiori." Gin ed Ele fanno per ultime un passo in avanti.

Ele la guarda.

"Non ci posso credere. Ora fanno come in Chorus Line che

quelle che fanno un passo in avanti vengono mandate via e le altre

rimangono."

"Allora, quelle che ho chiamato iniziano da lunedì prossimo. Mi

raccomando, a mezzogiorno negli uffici per il contratto e alle due

qui in teatro che cominciano le prove. Le prove vanno dal lunedì

pomeriggio

al sabato. Il sabato sera c'è la diretta, è tutto chiaro?"

Una delle ragazze scelte, una delle più carine, con degli occhi

enormi e un'espressione un po' tonta alza la mano.

"Che c'è?"

"Veramente io non ho capito."

"Che cosa?"

"Quello che ha detto."

"Cominciamo bene. Allora tu stai attaccata a quella con i capelli

rossi che ti sta vicino e fai sempre quello che fa lei. Questo

l'hai capito?"

"Più o meno." Fa la ragazza scocciata guardando la rossa che

le sorride cercando di darle più o meno sicurezza. Forse anche lei

non ha capito bene qualcosa.

Ele si mette la mano nei capelli.

"Non ci posso credere, mi hanno presa!"

"E invece credici. L'hai finita con questa storia della scartata."

Ginevra ed Ele vanno verso l'uscita.

"Diventerò una star! Yaooo! Non ci posso credere!"

"Be', su questo mi manterrei sul calmo."

Tony le vede, le saluta divertito.

"Allora com'è andata?"

"Benissimo."

"A tutte e due?"

Ele lo guarda storcendo la bocca.

"Eh già, prese tutte e due e per prime" ed escono ridendo

divertite

e prendendosi a spinte. "Ogni tanto bisogna sapersela vendere

bene, no?"

"Porca trota... la macchina! "

"Dov'è?"

"Non c'è più." Ginevra si guarda in giro preoccupata. "L'avevo

parcheggiata qua davanti. Mia... Me l'hanno fottuta. Ladri di

merda!"

"Ehi, non te la prendere con i ladri." Le dico spuntando alle

sue spalle insieme a Marcantonio. "Ma chi se lo fotte quel

catorcio?

"Non ti ci mettere pure tu adesso. Mo' devo fare la denuncia."

"Ma te la sei chiamata. Ti pare che dai come soprannome alla

macchina Mia?"

"Ma se è Mia!"

"Era tua, ora è loro o sua. Insomma, basta solo che le cambi

nome e torna tutto a posto ! "

"Io penso che dovrai pagare semplicemente la multa, te l'hanno

portata via, quindi se proprio vuoi prendertela con qualcuno

prenditela con i vigili. Poi, se proprio vuoi essere precisa, cosa

che

mi sembra una tua grande prerogativa, prenditela con te stessa."

"Senti, io sono incavolata nera e tu mi stranisci ancora di più

con questo fiume di parole. Ma che vuoi dire?"

"Che hai posteggiato davanti all'uscita di sicurezza del teatro.

Niente di più facile."

"Il signore ha ragione." Una vigilessa passa vicino a noi. Ha

sentito tutta la nostra chiacchierata e decide di partecipare

divertita.

"Gliela abbiamo dovuta portare via."

"Be', 'dovuta' mi sembra un po' troppo, potevate aspettare due

minuti. Ero dentro il teatro per lavoro."

La vigilessa smette di sorridere.

"Che, vuole questionare?"

"Le sto solo raccontando come stanno le cose."

La vigilessa si allontana senza rispondere. Ginevra non perde

l'occasione, fa una linguaccia e anche se a bassa voce dice

"Stronza

vigilessa di merda. Ma fai più sesso di notte, che poi al mattino

sei meno acida". Rido alzando un fischio verso il cielo.

"Fiuu... Finalmente una ragazza che rispetta le nostre

istituzioni!

Brava, sana e soprattutto rispettosa. Mi piaci."

"Tu per niente!"

"Ma è un consiglio che segui anche tu?"

"Quale?"

"Quello di fare sesso per essere meno acida. No, perché sennò,

lo sai, ti aiuto io, eh?"

"Certo, come no."

"Guarda che lo farei solo per il tuo umore."

"Sto già al massimo, grazie."

Marcantonio decide di interrompere al volo.

"Ok, basta così. Avendo il pomeriggio libero e soprattutto avendo

passato tutte e due la selezione opterei per andare a bere e

brindare

tutti insieme, d'altronde..." Marcantonio sorride a Ele, poi

scuote la testa. "Eh, eh, d'altronde vi abbiamo votato noi,

giusto?"

"Hai ragione. E allora, andiamo a bere."

Guardo Ele e allargo le braccia.

"Ehi, se fai così è come dire: 'Purtroppo mi tocca'."

Gin mi si para davanti molto determinata.

"Ehi, mitico Step di 'sto cavolo, non riprendere la mia amica,

è chiaro?"

Per un attimo la temo sul serio.

"Ok, allora vediamo come rispondi tu al nostro invito."

"E che è, un altro provino? Ma pagate pure?"

La guardo sorridendo. "Se vuoi."

"Non ho dubbi che faresti anche questo. Ma mi dispiace, te lo

sogni."

Marcantonio si mette in mezzo a noi. "Ma possibile che qualunque

cosa si dica finite sempre per litigare? Ho solo detto andiamo

a bere qualcosa. Un po' di entusiasmo e che cavoli! "

Ele urla come una pazza. "Yaooo! Sì, bellissimo! Andiamo a

scolarci di tutto, divertiamoci come pazzi..." Si alza i capelli

lanciandoli

verso l'alto e agita le braccia verso il cielo, poi si mette a

ballare e fa un giro su se stessa. Poi si ferma e mi fissa. "Sono

andata

bene così? "

Sorrido. "Può andare!"

Ma che mi potevo aspettare? D'altronde sono amiche.

Marcantonio scuote la testa, poi prende Ele per un braccio:

"Andiamo va', che sennò qui facciamo l'alba... e ci sono modi

migliori

per farla". E se la porta via, trascinandola quasi. Ginevra rimane

lì a guardarla.

"Ohi, ohi. Ti hanno portato via l'amichetta."

"È grande e vaccinata, il problema era se andava via con te."

"Perché? Eri gelosa?"

"Ehi, a convinto! Ero disperata per lei. Ok, dove hai la moto?"

"Perché?"

"Mi accompagni a casa e mani a posto, sennò ti prendi un'altra

sberla come al ristorante."

"Ah, incredibile. Cioè, io ti devo accompagnare fino a casa e

non tocco neanche? Questa poi. Non l'avevo mai sentita. Roba da

pazzi!"

Capitolo 27.

Arriviamo alla moto, ci salgo sopra e l'accendo. Lei fa per salire

ma io scatto in avanti.

"Niente da fare, sono un tassista innovativo io."

"Cioè?"

"Si paga prima di iniziare la corsa."

"E che vuol dire?"

"Che mi dai un bacio."

Mi sporgo in avanti con le labbra e gli occhi chiusi. In realtà il

destro lo tengo mezzo aperto. Non vorrei mi partisse come al

solito.

Gin mi si avvicina e mi dà una slinguazzata pazzesca dal basso

verso l'alto sulle labbra, tipo frenata di caduta di cono gelato

mezzo

sciolto.

"Ehi, e che è?"

"Bacio così! Sono anch'io una ragazza innovativa." E mi sale

al volo dietro. "Forza, con quello che ho pagato minimo mi

dovresti

portare a Ostia. "

Mi metto a ridere e parto in prima impennando con la ruota

davanti. Ma Gin è velocissima. Si stringe forte in vita e appoggia

la

testa sulla mia spalla. "Vai mitico Step, adoro correre in moto."

Non me lo faccio ripetere due volte. Volo via che è una meraviglia

e lei unisce le gambe, stringendomi forte. Sembriamo un unico

corpo

su quella moto. Destra, sinistra, piegamenti morbidi e leggeri,

dando gas. Giriamo davanti a Vanni e poi dritti verso Lungotevere.

Una curva in fondo a destra. Rallento per un attimo al semaforo

rosso che quasi d'incanto vedendoci scatta sul verde. Supero in

velocità due macchine ferme. Destra, piegato, sinistra, piegato,

ed

eccoci di fianco al Tevere e via veloci, con il vento in faccia.

Vedo

nello specchietto una parte del suo viso. I suoi occhi socchiusi,

l'attaccatura

dei capelli, leggero bordo del suo viso bianco. Capelli

lunghi e scuri si confondono accarezzando il sole laggiù che

tramonta

alle nostre spalle, morbidi si colorano di rosso, ribelli lottano

con il vento, ma quando do gas, finiscono per arrendersi, e vinti

si lasciano prendere dalla velocità. Ha ancora gli occhi chiusi.

"Eccoci signorina, siamo arrivati."

Mi fermo davanti a casa sua, metto il cavalletto laterale e resto

seduto.

"Ammappela, ci abbiamo messo un attimo."

La guardo divertito. "Ammappela? E che significa?"

"È un misto tra ammazza e capperi, il tutto alleggerito in 'la'."

Non l'avevo mai sentito. "Ammappela. Lo userò."

"No. È mio, ho i diritti sull'Italia."

"Pure?"

"Certo. Be', allora grazie, potrei usarti qualche altra volta.

Devo

dire che come tassista non sei niente male. "

"Be', allora dovresti invitarmi a salire."

"E perché?"

"Così facciamo la tessera, risparmi sulla corsa singola."

"Non ti preoccupare. Mi fa piacere pagare."

Questa volta Gin crede di essere più veloce di me e si chiude

al volo dietro il portone pensando di fregarmi. "Eh no!

Scherzetto!

" Tiro fuori dalla tasca dei jeans le sue chiavi e gliele faccio

penzolare

davanti agli occhi.

"Me l'hai insegnato tu, no?"

"Ok, mitico Step, ridammele!"

La guardo divertito. "Epico... Non lo so mica. Mi sa che mi vado

a fare un giro e torno più tardi, magari una corsa notturna."

"Non ti conviene. Tempo mezz'ora e ho cambiato tutte le

serrature."

"Ma spendi più soldi di dieci corse di quelle vere..."

"Ok, vuoi trattare?"

Come no.

"Allora, cosa vuoi in cambio delle mie chiavi?"

Alzo la testa e le lancio uno sguardo divertito.

"Non me lo dire va', saliamo. È meglio chiudere con 'ti offro

qualcosa' come nei film, quelli belli. Ma prima ridammi le

chiavi."

Apro il portone e me le chiudo strette nella mano destra.

"Te le ridò su a casa, fammi fare da chaperon."

Gin sorride divertita "Cavoli, non finirai mai di stupirmi."

"Per il mio francese?"

"No. Hai lasciato la moto aperta." Ed entra camminando sostenuta.

Metto il blocco in un attimo e dopo un secondo sono davanti

a lei. La supero ed entro nell'ascensore.

"Allora signorina vuole entrare in ascensore o ha paura e va a

piedi?"

Entra sicura e si mette di fronte a me. Vicina, molto vicina.

Troppo vicina. Però. È proprio forte. Poi si allontana.

"Bene, si fida del suo chaperon. Che piano, signorina?"

Ora è appoggiata alla parete e mi guarda. Ha degli occhi grandi,

fortemente innocenti.

"Quarto, grazie." Sorride divertita di quel gioco. Mi sporgo in

avanti verso di lei fingendo di non riuscire a trovare il

pulsante.

"Oh, finalmente. Quarto, fatto."

Ma rimane così, schiacciata contro la parete di quel legno antico,

consumato dal continuo su e giù nel cuore di quella tromba

delle scale. Saliamo in silenzio. Sono lì, appoggiato a lei, senza

spingere

troppo, respiro il suo profumo. Poi mi scosto e ci guardiamo.

I nostri volti sono così vicini, lei sbatte gli occhi per un

attimo, poi

continua a tenere lo sguardo fisso su di me. Sicura, spavalda, per

niente intimorita. Sorrido, lei mi guarda e muove le guance, un

accenno

di sorriso anche lei. Poi si avvicina e mi sussurra all'orecchio,

calda, sensuale.

"Ehi, chaperon..."

È un brivido forte.

"Sì?" La guardo negli occhi. Lei alza il sopracciglio.

"Siamo arrivati." E sguscia da in mezzo alle mie braccia agile e

veloce. In un attimo è fuori dall'ascensore. Si ferma davanti alla

porta. La raggiungo e tiro fuori le chiavi.

"Ehi, sono peggio di quelle di San Pietro."

"Dai qua."

Diciamo un po' tutti questa storia delle chiavi di San Pietro. Mi

sento sciocco per averla tirata fuori, lì, in quel momento. Boh...

Forse per ingannare quel tempo. Chissà perché lo diciamo. San

Pietro

deve avere una sola chiave e forse non ha bisogno nemmeno di

quella. Ma poi ti pare che lo lasciano fuori? Gin dà un'ultima

mandata.

Io sono pronto a mettere il piede in mezzo alla porta e bloccarla

quando cercherà di farmi restare fuori. Invece Gin mi spiazza.

Sorride allegra, apre gentilmente la porta. "Forza, entra e non

fare casino." Mi lascia passare e richiude la porta dietro di me,

poi

mi supera e comincia a chiamare: "Ehi, sono qui! C'è nessuno?".

La casa è carina, umile, non troppo carica, tranquilla. Alcune

foto

di parenti sopra una cassapanca, altre ancora su un piccolo mobile

semirotondo appoggiato al muro. Una casa serena, senza eccessi,

senza quadri strani, senza troppi centrini. Ma soprattutto, ore

diciannove, semitramonto, senza nessuno dentro.

"Ehi, hai proprio culo, mitico Step."

"Hai finito con questa storia del mitico? E poi perché ho culo?

A parte che qui se c'è qualcuno che ha culo e non in senso

figurato

quella sei tu. Rotondo, tosto, perfetto."

Allungo la mano sorridendo verso il suo fondoschiena.

"Oh, hai finito? Sembri un carcerato uscito di galera dopo sei

anni che non vede una donna. "

"Quattro."

Mi guarda aggrottando le sopracciglia.

"Cosa quattro?"

"Sono uscito ieri dopo quattro anni di galera."

"Ah sì?" Non sa se prendermi sul serio o no. Mi guarda incuriosita

e comunque decide di giocare.

"A parte che sicuramente sarai innocente... ma che cosa hai

fatto?"

"Ho ucciso una ragazza che mi aveva invitato a casa sua

precisamente

alle..." faccio per guardare l'ora,"be', suppergiù a quest'ora

e aveva deciso di non darmela."

"Presto, presto... Ho sentito un rumore, sono i miei. Cavoli!"

Mi spinge verso un armadio.

"Entra qua dentro."

"Ehi, ancora non sono il tuo amante, non sei neanche sposata.

Dov'è il problema?"

"Shhh."

Gin mi ci chiude dentro e poi corre di là. Rimango così, in

silenzio,

non so bene cosa fare. Sento un rumore lontano di porta

che si apre e si chiude. Poi più nulla, silenzio. Ancora silenzio.

Cinque

minuti, nulla. Ancora nulla. Otto minuti. Niente. Ancora niente.

Guardo l'orologio. Cazzo, sono passati quasi dieci minuti. Che

faccio? Be', io mi sono scocciato. D'altronde non è successo

niente

di male. Io esco. Apro piano piano l'anta dell'armadio. Guardo

attraverso la fessura. Niente. Alcuni mobili e uno strano

silenzio,

almeno per me. Poi d'improvviso un pezzo di un divano. Apro un

po' di più l'anta. Un tappeto, un vaso e poi la sua gamba, così,

accavallata.

Gin è distesa sul divano, ha la testa indietro appoggiata

allo schienale e si fuma una sigaretta. Ride divertita.

"Ehi, mitico Step, ce ne hai messo. Che hai fatto tutto questo

tempo chiuso nell'armadio? Hai fatto roba da solo, eh? Egoïste! "

Cazzo, mi ha fottuto! Esco fuori con un balzo e cerco di

prenderla.

Ma Gin è più veloce di me. Ha appena spento la sigaretta e

si dà alla fuga. Sbatte contro l'angolo di una porta, quasi

scivola su

un tappeto che si arriccia sotto il suo passo ma recupera in

curva.

Due balzi ed è in camera sua, si gira di colpo e prova a chiudere

la

porta. Ma non ce la fa. Ci sono sopra con tutte e due le spalle.

Gin

prova a resistere per un attimo, poi abbandona il tentativo.

Lascia

la porta e si butta sul letto con i piedi alzati verso di me.

Scalcia ridendo

come impazzita. "Ok scusa, mitico Step, anzi no, epico Step,

anzi Step solo, Step e basta, Step perfetto. O meglio, Step come

vuoi tu! Dai, stavo scherzando. Ma almeno i miei scherzi sono più

divertenti, non come i tuoi."

"Perché?"

"I tuoi sono lugubri! Te che ammazzi una ragazza mentre stai

a casa sua da solo. E dai! "

Giro intorno al letto cercando di entrare nella sua difesa, ma

lei mi segue scalciando verso l'alto. Veloce e attenta segue le

mie

mosse distesa sul letto e ruotando senza perdermi di vista. Poi

scarto

a destra, faccio una finta, e mi lancio addosso a lei. Entro nella

sua guardia e lei subito ritira le braccia e le porta davanti al

viso.

"Ok, ok... mi arrendo, facciamo pace."

"E certo che facciamo pace."

Ride e poggia la guancia sulla spalla sinistra. "Ok..." Mi fa un

piccolo sorriso e viene verso di me. E si lascia baciare morbida,

tenera

e calda, ancora affaticata ma tranquilla. Si lascia baciare, sì, e

bacia anche lei, scivola e ritorna su fra le mie labbra con

attenzione,

con impegno, con passione, con il suo essere piccola. Apro gli

occhi per un attimo e la vedo navigare così, così vicino al mio

viso,

così presa, così partecipe, così impegnata. No, stavolta non ha

scherzi

nascosti nelle sue piccole tasche. Richiudo gli occhi e mi lascio

andare con lei. Viaggiamo insieme, piccoli surf della nostra

stessa

onda, morbide lingue, mano nella mano che ridendo si prendono

a spinta per poi abbracciarsi di nuovo. Labbra che giocano

all'autoscontro

cercando di farsi un po' di posto, di incastrarsi alla meglio,

in quella stretta e morbida macchina targata bacio. Poi Gin

comincia a scuotersi un po'. Continuo a baciarla. Si scuote di

nuovo.

Cos'è, passione? Si stacca da me. "Oddio scusami." Scoppia a

ridere. "Non ce la faccio più... Tu undici minuti e trentadue

secondi

chiuso nell'armadio del salotto, non ci posso pensare. Cavoli,

è da leggenda! Scusami ti prego, scusami." E salta giù dal letto

prima che possa agguantarla. "Però baci bene se può consolarti."

Rimango disteso sul letto, mi appoggio sul gomito e rimango a

fissarla.

È difficile trovare una ragazza così carina e per di più

divertente

e spiritosa. Anzi no, ho sbagliato. Così divertente, spiritosa e

così bella. Anzi no, ho sbagliato di nuovo. E così... bellissima.

Ma

non glielo dico.

"Lo sai qual è la cosa più incredibile? Che faremo un lavoro

insieme

tutti i giorni per chissà quanto e siccome tutto torna, tu sarai

lì e io ti punirò."

"Ah, bravo, passi alle armi più basse, mi minacci... molto bene!

Che volevi invece? Che ti si faceva vedere la casa, ti si offriva

qualcosa da bere... Puro formalismo? Facile!" Fa una voce in

falsetto.

"Cosa vuoi Stefano? Un aperitivo? Con anche delle patatine

magari..." E finge perfettamente una risata "Ah... Ah!"

"Guarda che come patata tu vai benissimo."

Continua con la voce in falsetto.

"Oh, non ci posso credere. Che battuta favolosa! Neanche

Woody Allen nei suoi giorni migliori..."

"Sì, magari dopo una scopata con la finta figlia coreana! "

"Ma perché sei sempre così greve? Non pensi che possano essersi

semplicemente innamorati? Accade sai."

"Certo, nelle favole, in quasi tutte mi sembra, o no?"

"In tutte!"

"Le conosci bene."

"Certo, e ho deciso di vivere la mia vita come una favola. Solo

che questa non è stata ancora scritta. Sono io che decido, passo

per

passo, momento per momento, sono io che scrivo la mia favola."

Decido di non rispondere. Mi guardo in giro per la stanza. Qualche

peluche, le foto di Ele, almeno mi sembra, qualche altra ragazza

e poi due o tre tipi fighissimi. Se ne accorge.

"Quelli sono modelli di pubblicità. Abbiamo lavorato insieme

e nient'altro." Segue tutto Gin.

"Ma chi ti ha chiesto niente."

"Ti vedevo preoccupato."

"Assolutamente no, non conosco questa parola."

"Oh, certo, mi ero dimenticata, tu sei un duro. Brr, che paura! "

Mi alzo e faccio un giro per la camera.

"Sai che si può capire tutto di una donna guardando nel suo

armadio? Fammi vedere!"

"No!"

"Di che hai paura, dello scheletro? Ammazza oh, ma quanta

roba hai? E tutta nuova di zecca! Ci sono ancora i cartellini

attaccati.

E poi tutto di marca, la signorina! Dotata e non solo di curve,

eh?!"

"Lo vedi che sei scemo? E per nulla aggiornato. È tutta roba

che non pago. "

"Sì, eccola, la ragazza immagine di qualche griffe."

"No. Uso Yoox. Ordino tutto in internet su questo sito che è

un outlet. Ci sono tutte le marche più importanti. Scelgo quello

che

voglio, me lo faccio arrivare a casa. Lo indosso qualche giorno

stando

attenta a non sciupare nulla e a non togliere il cartellino. Poi

glielo rimando entro il decimo giorno, dicendo che non sono

soddisfatta,

che magari la taglia era troppo grande."

Continuo a scorrere i vestiti. C'è di tutto: top di Cavalli e

Costume

National, una longuette Jil Sander, gonne Haute, due borse

D&G, una maglia chiara in cachemire di Alexander McQueen, un

soprabito Moschino in jeans, una divertente giacca a quadri di

Vivienne Westwood, una blusa Miu Miu, jeans Miss Sixty Luxury...

"Una griffata diabolica."

';Già."

È forte. Bella, divertente, spregiudicata. Sa come fare a vivere

alla grande. Ma guarda cosa si è inventata. Ecco una che naviga

con

intelligenza. Yoox per vestirsi sempre diversa, sempre alla moda,

senza spendere un euro. Mi piace.

"Fermo così! Hai un'espressione assurda! A che pensi?!"

Prende qualcosa dal tavolo e me la punta contro. "E sorridi,

duro!" Una polaroid. Alzo il sopracciglio proprio mentre scatta.

"Dai, in fondo starai benissimo tra quei due modelli. Certo, non

hanno le tue storie alle spalle ma saranno felici di vivere

accanto alla

leggenda' ! "

"Be', sì, come i due ladroni sulla croce accanto a Gesù."

"Be', il paragone mi sembra un po' azzardato."

"Sì, ma sono diventati famosi anche loro."

"Ma non erano certo felici! Loro non erano lì per amore."

Le rubo la polaroid e gliene scatto una.

"Anch'io!"

"Dai, fermo! Vengo male nelle foto! "

Scatto e tiro via la polaroid appena fatta.

"Vieni male nelle foto? E perché dal vivo invece?"

"Scemo, cretino, ridammela." Cerca di strapparmela in tutti i

modi. Troppo tardi. Me la infilo nella tasca del giubbotto.

"Vedrai,

se non ti comporti bene, se provi a raccontare la storia

dell'armadio.

Ti trovi i manifesti con la tua faccia su tutta Roma."

"Va be', era per dire! "

"E questo cartellone che significa?" Indico un foglio

perfettamente

diviso per giorni e settimane e mesi attaccato sopra il tavolo,

con scritti diversi nomi di palestre.

"Questo? Sono le palestre di Roma, vedi, una per ogni giorno.

Sono divise per maestri, lezioni e zone. Hai capito?"

«sì e no.»

"Cavoli, Step, ma che leggenda sei?! Dai, è facile. Una prova

di lezione per ogni palestra, ogni giorno un posto diverso ce ne

sono

più di cinquecento a Roma, anche non troppo lontane. Hai voglia

ad allenarti gratis ! "

"Cioè, domani per esempio..."

Guardo il cartellone, incrocio con il dito il giorno come se

stessi

giocando a battaglia navale.

"Fai lezione da Urbani e non paghi una lira."

"Bravo, affondato. E così via! È un sistema che ho inventato

io. Forte, eh?"

"Già, tipo quello di fare benza con il lucchetto."

"Sì, fanno parte del mio grande manuale della risparmiatrice.

Niente male, vero? Ehi, guarda come sei venuto bene."

La polaroid è più nitida ora. "Dai, la metto in mezzo a questi

due. Non sfiguri poi tanto. Invece ho visto che guardi tanto il

mio

cartellone. Che c'è, 'leggenda', vuoi allenarti a vela anche tu?

T'ho

capito, eh... dai, preparo un cartellone anche per te, scalo di un

giorno e veleggi tranquillo senza che ci incontriamo mai."

"Non ne ho bisogno."

"Ricco?"

"Macché! È che le palestre ormai mi usano come immagine! "

"Sì certo, come no! E io ancora che ci casco. Be', è finita la

visita

guidata. Ti accompagno perché fra poco ritornano i miei, o

vuoi nasconderti di nuovo nell'armadio? Ormai sei allenato."

Mi sorpassa e mi guarda alzando il sopracciglio. "Sereno. Te

l'ho detto, non lo dico a nessuno."

Mi accompagna alla porta e rimaniamo così in silenzio per un

attimo. Poi parte lei. "Be', non facciamolo pesante questo saluto.

Ciao tassinaro, tanto ci vediamo, no?"

Come no.

Vorrei dire qualcosa. Ma non so neanche io bene cosa. Qualcosa

di bello. A volte, se non si trovano le parole, è meglio fare

così.

La tiro e me la bacio, Gin resiste per un attimo, poi si lascia

andare.

Morbida come prima. Anzi, di più. Qualcuno alle nostre spalle...

"Scusate, eh? Ma vi salutate proprio sulla porta..."

È il fratello, Gianluca, appena uscito dall'ascensore. Gin è più

che imbarazzata. È scocciata.

"Certo che tu hai dei tempi perfetti."

"Oh, adesso è colpa mia! Forte mia sorella. Senti, Step, fammi un

favore. Tra un bacio e l'altro dalle una raddrizzatina a questa! "

E si fa strada fra di noi entrando in casa. Gin ne approfitta e

mi dà un pugno sul petto.

"Lo sapevo che con te ci sono sempre e solo casini."

"Ahia! Adesso è colpa mia."

"E di chi sennò? Ancora un bacio e un bacio e un bacio. Ma

che, non resisti? Già sei così drogato di me? Mah..." E mi chiude

la porta in faccia. Divertito prendo l'ascensore. In un attimo

sono

giù nell'androne.

Gianluca entra in camera di Gin.

"Forte Step, ma ormai fate coppia fissa, eh?"

"Ma di che? E poi forte che?"

"Be', state sempre a baciarvi."

"Capirai, per un bacio..."

"Due, per quello che io ho potuto contare."

"Oh, ma che, fai lo scrutatore anche qui? Va be' che per

arrotondare

vai a fare i conteggi delle schede. "

"Ma quella è politica."

"Step deve essere ancora più una sòla."

"Che vuoi dire?"

"Che non mi fido di uno come lui, simpatico anche divertente

ma chissà cosa nasconde."

"Se lo dici tu."

"Certo Luke. Da un bacio si vede tutto. E lui è... è strano."

"Cioè?"

"Non si concede, non si fida e quando uno non si fida, vuol dire

che è il primo che non merita fiducia."

òara.

"È!"

Gianluca esce e finalmente mi lascia sola. Ok. Basta. Ora voglio

riordinarmi le idee. Scuoto la testa e agito i capelli. Gin ti

prego,

torna in te. Non ci credo che hai scuffiato per il mito, per la

leggenda.

Step non fa per te. Problemi, casini, chissà qual è il suo vero

passato. E poi ci hai fatto caso? Ogni volta che lo baci, sul più

bello, cioè sii più precisa, sul più meraviglioso, sul più

fantastico,

sul più superfavola andante, arriva sempre Luke, tuo fratello. Che

vorrà dire? Un segno del destino, un santo mandato dal paradiso

per evitarti l'inferno, un'ancora di salvezza? O semplice sfiga?

Porca

trota, potevamo continuare a baciarci per ore. Come bacia. Come

bacia lui. Come dire... non so che dire! Un bacio è tutto. Un

bacio è la verità. Senza troppi esercizi di stile, senza

intorcinamenti

estremi, senza funambolici avvitamenti. Naturale, la cosa più

bella.

Bacia come piace a me. Senza doversi rappresentare, senza doversi

affermare, semplice. Sicuro, morbido, tranquillo, senza fretta,

con divertimento, senza tecnica, con sapore. Posso? Con amore!

Oddio! No, questo no. Vaffanculo Step!

Capitolo 28.

"Ciao Pa'."

"Stefano, ma dove sei stato? Sei sparito."

"Ehi," lo supero andando in camera, "lo sai in America qual è

la prima legge che ti insegnano?"

"Sì, se vuoi campare fatti gli affari tuoi."

"Bravo. E la seconda?"

"Questa non la so."

"Fuck you! "

Entro in camera e mi chiudo dietro la porta.

"Lo vedi allora che un po' di inglese lo hai imparato sul serio,

bravo. Sai anche qualche altra parola, spero."

Non gli rispondo e mi butto sul letto. Proprio in quel momento

sento suonare il citofono. Riesco dalla camera veloce. Paolo è

già nel salotto e va verso il citofono.

"Rispondo io."

Quasi glielo strappo di mano. Rimane interdetto.

"Ma non ho capito, è casa mia, ti ospito, e tu ti impadronisci

di tutto."

Lo guardo male, poi sorrido.

"Dai, ti faccio da maggiordomo." Un altro squillo. Alzo il

citofono.

Mi batte forte il cuore.

"Salve, c'è Step?" Voce femminile. I battiti aumentano. "Sono

Pallina!"

"Ohi, sono io, che fai?"

"Vengo a vedere la tua nuova casa e poi ti trascino in un local-

tour.

"Di quest'ultima se ne discute. Ok, sali. Quinto piano."

Spingo il tasto per l'apertura del portone. Paolo mi guarda e

sorride.

"Donna?"

Annuisco.

"Vuoi che ti lascio la casa? Mi chiudo in camera e faccio finta

di non esserci?"

Mio fratello. Ma cosa può capire lui, cosa sa veramente di me?

"È Pallina, la donna di Pollo."

Rimane in silenzio. Poi sembra rattristarsi.

scusami.

Se ne va in camera sua, in silenzio. Mio fratello. Che soggetto,

l'uomo del fuoritempo. In quello ha un tempismo perfetto.

Campanello.

Vado ad aprire la porta.

"Ehi!"

"Cazzo, Step."

Mi si butta con le braccia al collo e mi stringe forte.

"Ancora non posso crederci che sei tornato."

"Se fai così riparto, eh?"

"Dai, scusa."

Pallina si ricompone.

"Fammi vedere la casa."

"Vieni con me."

Chiudo la porta e la precedo, le faccio da guida.

"Questo è il salotto, tessuti chiari, tende, eccetera eccetera."

Parlo descrivendole il tutto. La guardo muoversi dietro di me,

guardare le cose con attenzione, ogni tanto toccare per valutare

meglio,

per pesare qualche oggetto. Pallina, come sei cresciuta,

dimagrita,

un taglio diverso di capelli. Anche il trucco sembra un po'

più forte o sono i miei ricordi a essere sbiaditi?

"E questa è la cucina... Vuoi qualcosa?"

"No, no, per adesso no."

"Oh, te che fai i complimenti fa veramente schifo, eh?"

Scoppia a ridere.

"No, no sul serio."

La sua risata non è cambiata. Sembra sana, riposata, tranquilla.

Se solo Pollo ti vedesse ora. Sarebbe fiero di se stesso. Dai suoi

racconti è stato il tuo primo uomo, Pallina. E a me Pollo non

diceva

bugie, non ne aveva bisogno, non doveva esagerare per farsi

bello, per farsi figo, per me il suo amico, il suo più grande

amico.

Pollo ha modellato quel bruco di cera, lui, più che un alito, un

sospiro

d'amore per quella giovane farfalla al suo primo volo... Eccola

qui, davanti a me. Cammina sicura Pallina. Poi, d'improvviso,

Pallina cambia espressione.

"E non mi fai vedere la camera da letto?"

Improvvisamente diversa. Sensuale e maliziosa. Una stretta al

cuore. Ha un altro uomo? Dopo di lui ha avuto altri uomini? Cosa

è successo dopo Pollo? Step, sono passati quasi due anni. Sì, ma

non voglio ascoltare. Step, è una ragazza, è giovane, carina...

Sì, lo

so. Ma non mi interessa. Non la vuoi giustificare? No, non ci

voglio

pensare.

"Ecco una è questa."

Apro una porta bussando leggermente.

Si può?

Paolo che si stava sfilando la camicia si ricompone subito e viene

alla porta.

"Come no, ciao Pallina!"

"Ecco, lui è l'arredatore di tutto quello che hai visto."

Ciao.

Si danno la mano. Pallina sorride un po' imbarazzata.

"Complimenti, è bellissima, ottimo gusto. Pensavo che avesse

scelto tutto una donna. "

Paolo fa per rispondere ma non gliene do il tempo.

"Ma lui è un po' donna."

E chiudo piano la porta tagliandolo fuori dal nostro percorso.

"Ehi, ma io intendevo la 'tua' camera da letto."

Mi dà una botta sulla spalla spingendomi in avanti.

"Non si era capito. Ecco è questa."

Apro la porta della mia camera.

"Ehi, non male."

Pallina entra e si guarda intorno.

"Un po' spoglia però, manca colore."

Mi accorgo che la polaroid di Gin è appoggiata sul mio comodino.

Senza farmi vedere la copro.

"Be', ma ha un suo fascino così. E poi c'è tempo per dare colore.

"

Mi guarda incuriosita cercando una spiegazione a quella frase,

ma proprio in quel momento squilla il telefono. Pallina lo tira

fuori

dalla tasca del giubbotto, lo guarda, poi se lo porta

all'orecchio.

"Ehi, ma non è il mio."

Prendo il telefonino dal tavolo lì vicino.

"Infatti è il mio!"

Non conosco il numero.

"Sì?"

"Bentornato."

Arrossisco. Ascolto la sua voce.

"Spero che ci vedremo adesso che sei di nuovo a Roma."

"Sì."

"Ti piace la tua nuova casa?"

"Sì."

"Sei stato bene fuori?"

"Sì."

Annuisco, poi ascolto altre sue parole, sempre dolci, cortesi,

piene di un amore delicato, preoccupato di rompere quel sottile

cristallo, il nostro passato, il nostro segreto. Continuo a

rispondere.

Riesco a dire anche qualcos'altro oltre ai miei semplici sì.

"Tu come stai?"

E continua a parlare. Pallina mi guarda ma non mi dice nulla.

Accenna un chi è muovendo la testa. Ma non le do il tempo. Mi giro

verso la finestra. Guardo lontano rincorrendo la sua voce.

"Sì, promesso, ti richiamo io e ti vengo a trovare, sì..."

Poi un difficile silenzio cercando qualcosa da dire per salutarsi.

"Ciao." E chiudo.

"Ohi, ma chi era? Un'altra delle tue donne?"

Si e no.

Sorrido fintamente divertito, cercando di scrollarmi di dosso

quella difficile telefonata. Ma non le do il tempo di ribattere.

"Era

mia madre. Allora, usciamo o no per questo local-tour? "

Capitolo 29.

Il sole è tutto vestito di tramonto. Ma non dipende dai suoi

raggi quella luce che ora le illumina il viso. Babi esce di casa.

Si

muove leggera, rapida. Come quando si va incontro a qualcosa

che si aspetta da tanto. Forse da sempre. Indossa il suo completo

nuovo, color carta da zucchero. Ha raccolto i capelli, scoprendo

due guance leggermente arrossate. E non certo per la velocità con

cui ha sceso le scale. Non ha preso l'ascensore perché oggi le

sembrava

troppo lento. A volte le cose non vanno a tempo con la nostra

felicità. È per questo che ora sta per andare in garage a prendere

la Vespa. A quest'ora, col traffico che c'è, sarebbe da pazzi

usare la macchina. La Vespa è più veloce. O almeno, sta al passo

del suo cuore. Lo diceva anche Cremonini quando cantava coi

Lunapop... "Ma com'è bello andare in giro con le ali sotto i

piedi,

sei hai una Vespa Special che ti toglie i problemi..." Ma Babi

di problemi non ne ha. Anzi. Ha solo bisogno e voglia di correre,

di non fare tardi al suo appuntamento. Chissà come andrà, se

sarà come se lo aspetta.

Uno strano fruscio interrompe i suoi pensieri. Non sembra un

gatto. Né il vento. E nemmeno Fiore.

"Ciao."

Quante volte ha sentito quella voce. Solo che oggi sembra diversa.

Più roca. È come se arrivasse da lontano, da un posto che

forse lei non ha mai visitato. Dove si arriva solo quando ci si

sente

soli. Troppo soli. E lì la voce non serve più, perché non c'è

nessuno

ad ascoltare.

"Alfredo. Ciao... come va? Ma che ci fai dietro il cespuglio?"

"Ciao, ti aspettavo."

"Ah, e scusa, ti nascondi?"

"Non ero nascosto, ero lì dietro, bastava guardare e mi vedevi

subito. Dove vai? Sei bella, stai bene."

"Be', grazie... ho un appuntamento. Come stai?"

"Perché non hai risposto al mio sms di ieri? Ho tenuto acceso

il cellulare tutta la notte, ma non mi è arrivato nulla."

"Già, scusa, ho finito il credito e ora che me lo ricordi è meglio

se dopo ricarico. Sì, il messaggio l'ho visto. Senti, però ora non

ho

molto tempo per parlarne, possiamo rimandare? Magari uno dei

prossimi giorni sali su e con calma..."

"Con calma un cazzo."

"Alfredo, che hai? Che è questo tono?"

"Alfredo che hai, che è questo tono. Ma sentila. Insomma, dove

stai andando? Ti vedi con qualcuno tipo a Vigna Stelluti? Oppure

a corso Francia? O magari davanti alla Falconieri per un tuffo

nei ricordi? "

"Alfredo, non capisco... e comunque non mi piace il tono che

usi, mi dici che è successo? Che hai? Sei strano."

"Veramente che è successo dovresti dirmelo tu, ti pare?"

"Guarda che non è il caso di farne una tragedia."

"Ah, non importa! Tanto a te che te ne frega, eh? È felice lei,

sta bene lei. Esce di casa tutta bella lei, tutta veloce e se ne

va a vedersi

con chissà chi. O forse lo so chi è, il chissà chi?"

"Si può sapere che vuoi? Che sono tutte queste domande?"

"Perché non posso chiederti qualcosa io? E vietato? Ti ricordi

chi sono, vero? Sono Alfredo, quello che..."

"Quello che cosa? Quello che si nasconde dietro i cespugli e

mi fa il terzo grado? Quello che sta cercando di farmi sentire in

colpa

e non si capisce per cosa? Quell'Alfredo?"

La raffica di domande termina quasi in un urlo. Le guance di

Babi, adesso, sono rosse davvero. E non per l'entusiasmo.

"Sì, proprio quell'Alfredo. Quello che hai preso per il culo così

bene. E brava Babi! "

"Se continui così è peggio, lo capisci? È peggio anche per te.

Guarda che a volte le cose semplicemente non vanno come vorremmo,

tutto qua, non è colpa di nessuno, non devi fare così... Non

sciupare tutto."

Quando le parole non bastano più. Perché dentro brucia qualcosa

che non si può dire. Che non si riesce a dire. Quando chi hai

di fronte, invece di darti la risposta che vorresti, dice altro.

Dice di

più. Dice troppo. Quel troppo che è niente. Che non serve a nulla.

E fa male il doppio. E l'unico desiderio è restituire quel dolore.

Fare male. Sperando così di sentirsi un po' meglio. Alfredo le

molla

uno schiaffo in pieno viso, forte, bello, preciso, rabbioso,

maleducato.

Non riesce a trovare altri aggettivi tanto gli è piaciuto.

"Alfredo, ma sei pazzo?"

Non lo sa. Sta lì a guardarsi la mano come se non fosse sua.

Però è la sua. Ed è finita nel posto sbagliato. E non è sicuro di

stare

meglio, ora. Babi è sconvolta. Ha gli occhi pieni di lacrime. Una

delle sue guance è più rossa di prima. E non dipende dalla rabbia.

"Tu sei matto, sei un violento. Tu sì che lo sei. Step non si

sarebbe

mai azzardato, lui non l'avrebbe mai nemmeno pensato di

farmi una cosa del genere! Sei un cretino, altro che bravo ragazzo

posato e tranquillo, sei un animale. Una bestia! Me ne vado, non

dico altro. E sì, se lo vuoi sapere sto andando a fare una cosa

importante.

Molto importante. Che riguarda la mia vita futura. E l'amore.

E non ti perdonerò mai d'avermi fatto fare tardi."

Tenendosi la mano sulla guancia se ne va, veloce ma meno leggera

di quando è uscita di casa. Cerca di ricomporsi, di calmarsi.

Alza la saracinesca del garage e si guarda nello specchietto della

Vespa. Chissà, pensa, forse il vento riuscirà a rinfrescarmi la

guancia.

Magari il rossore andrà via. Sennò, che figura ci faccio quando

arrivo? Accidenti a lui, ma è matto davvero? C'avevo messo una

vita a prepararmi per bene e guardami ora, ho la faccia sconvolta

e gli occhi lucidi.

Non si è voltato. Non ha risposto. La mano gli trema ancora.

Ma non c'è paragone col terremoto che ha dentro. Non sa che dire.

E non dirà niente. Quel silenzio in cui vive da giorni lo sta

abbracciando

di nuovo, si sta rubando quell'ultima goccia di speranza

che lo aveva portato ancora lì, a nascondersi dietro un cespuglio

per aspettarla. Per sapere una verità che già dovrebbe conoscere.

Perché i fatti parlano più chiaro delle persone. Ma lui non li ha

ascoltati. Né prima né adesso. E mentre sale le scale, sente alle

spalle

il rumore della Vespa che parte a tutta velocità, nervosa come

chi la guida.

Scusa, Babi, non volevo. Davvero, non volevo. La prossima volta

andrà meglio. La prossima volta parleremo con calma, magari

verrò su da te e ci prenderemo un tè. E mi racconterai dove sei

andata

oggi.

Capitolo 30.

Siamo fuori nella notte in moto, io e Pallina. Lascio andare la

750. Una velocità tranquilla, pensieri al vento. Lei si stringe a

me,

ma senza esagerare. Due equivoci umani, congiunzioni astrali di

uno strano destino. Io, il migliore amico del suo uomo, lei, la

migliore

amica della mia donna. Ma tutto questo appartiene al passato.

Scalo e corro via veloce, il vento rinfresca. Porta via i miei

pensieri.

Ah, sospiro. Così bello a volte non pensare. Non pensare. Non

pensare... Vento, velocità e rumori lontani. Non pensare. Una

serie

di locali. Akab come prima tappa.

"Dai, qui conosco tutti, saranno felici di vederti."

Mi lascio guidare. Entriamo, saluto. Riconosco qualcuno.

"Un rum, grazie."

"Chiaro o scuro?"

"Scuro."

Un altro locale. Charro caffè. Mi lascio andare.

"Un altro rum, con ghiaccio e limone."

Poi all'Alpheus. E un altro rum. Ghiaccio e limone. Qui fanno

di tutto: musica anni '70 e '80, hip-hop, rock, dance. Poi al

Ketum

bar. Mi dimentico dove ho posteggiato la moto. Cosa importa. "Un

altro rum. Ghiaccio e limone." Ridiamo. Saluto qualcuno. Uno mi

salta addosso.

"Cazzo, Step, sei tornato! Si ricomincia coi casini, eh?"

Sì, si ricomincia. Ma chi cazzo era quello lì? Un altro locale e

un altro rum e poi ancora un altro e un altro ancora. E altri due

rum. Ma chi era quello che mi è saltato addosso. Ah sì, Manetta.

Si era addormentato una volta in montagna. Sì, eravamo a

Pescasseroli.

Sotto il piumino, con i piedi di fuori. Gli abbiamo messo tra

le dita dei piedi dei cerini con la capocchia in fuori e li

abbiamo accesi.

Cazzo, che balzo che ha fatto quando si è svegliato sentendosi

bruciare. E noi giù per terra a ridere come matti. Io e Pollo. E

lui che saltava per la stanza con i piedi bruciacchiati, che

gridava.

"Cazzo che incubo! Che incubo, cazzo! " E noi giù a ridere, da

sentirsi

male. Io e Pollo. Che risate. Da matti. Io e Pollo. Ma Pollo ora

non c'è più. Una tristezza mi prende forte. Un altro rum, tutto

d'un

sorso, giù. Mentre ballo con Pallina, la sua dama, la donna del

mio

amico, l'amico che non c'è più. Ma ballo, ballo soltanto e rido,

rido

con lei. Io rido e penso a te. Un altro rum e, non so come, sono

sotto casa.

"Ehi, siamo arrivati."

Scendo dalla moto un po' traballante. Quell'ultimo rum di

troppo.

"Dove hai messo l'sh?"

"No, sono venuta in macchina, ora ho una 500 modello nuovo."

"Ah, carina." In realtà è una delle macchine che mi piace di

meno. Ma serve a qualcosa dirglielo? No, e quindi sto zitto, anzi

rincaro la dose.

"Vanno benissimo, non consumano niente e i pezzi di ricambio

sono a buon prezzo."

"Sì, infatti."

"Serata divertente, eh?"

"Fortissima." Su questo sono sincero. "Sono cambiati i locali

giù al Testaccio. "

"Cioè?"

"Meglio. Buona musica, la gente sembra divertirsi sul serio.

Pezzi forti, si balla una cifra. Sì, una bella serata."

Pallina si fruga in tasca e nel giubbotto.

"Ehi, mi sa che mi sono dimenticata le chiavi su da te."

"Non c'è problema, saliamo."

In ascensore, uno strano silenzio. I nostri sguardi si incrociano.

Rimaniamo senza parlare. Pallina sorride. Lo fa con tenerezza.

Io tamburello sul ferro della parete, sullo specchio. Cazzo, a

volte

l'ascensore sembra non arrivare mai. O sono i troppi rum che

rallentano

quel viaggio? O altro ancora? Arrivati. Apro la porta di casa

e Pallina si infila dentro. Si guarda in giro, poi va verso il

tavolo.

"Eccole, trovate! " Mi copre la visuale però, non ho visto niente.

Erano sul serio sul tavolo le chiavi, se l'era dimenticate o era

una

scusa per salire? Ma che ti viene in mente? Stai male. Perché

pensi

queste cose, Step? Troppi rum. Le chiavi erano sul tavolo,

dovevano

essere lì.

"Ehi, ma hai anche il terrazzo."

"Sì, sai che non c'avevo fatto caso."

"Ma dai! Sei sempre il solito distratto."

Apro la finestra ed esco fuori. C'è una luna bellissima. Alta,

tonda, lì tra i palazzi lontani, tutti bagnati dal suo pallore.

Silhouette

di vecchie antenne, moderne parabole e poi, quasi un controsenso,

panni stesi del giorno prima. Respiro forte, profumo di gelsomini

estivi, aria notturna settembrina, grilli lontani, silenzio tutto

intorno. Arriva Pallina alle mie spalle.

"Tieni, te ne ho portato un altro." Mi passa un bicchiere.

"Per chiudere bene la serata."

Lo prendo e lo porto alla bocca, annusandolo.

"Un altro rum. Sembra anche buono."

Paolo mi stupisce sempre di più. Rum in casa. Sta migliorando.

Ne prendo un sorso. Deve essere un Pampero. No, un Havana

Club, vejo sette anos, almeno. "Buonissimo."

Torno a guardare lontano. Poi un rumore di macchina sparisce

da qualche parte.

"Sai, Step, ti devo dire una cosa."

Rimango in silenzio. Continuo a guardare lontano. Do un altro

sorso senza girarmi. Pallina continua a parlare. La sento dietro

di me, vicino alle mie spalle.

"Non ci crederai. Da quando Pollo è morto non sono stata più

con nessun altro ragazzo. Ci credi?"

"Perché non dovrei crederci?" Rimango girato.

"Neanche un bacio, te lo giuro."

"Non giurare. Non credo tu mi dica bugie."

"Una te l'ho detta."

Mi giro e la guardo negli occhi. Lei sorride.

"Le chiavi le avevo nel giubbotto."

Una folata leggera di vento caldo della notte agita morbida i

suoi capelli scuri. Pallina. Piccola donna cresciuta. Ha la pelle

d'oca

e chiude gli occhi, regalandosi un respiro profondo. Poi si

avvicina

e mi abbraccia. Poggia la testa sul mio petto. Dolce amica

profumata.

La lascio fare.

"Sai, Step, sono così felice che tu sia qui."

Tengo le braccia larghe non sapendo bene che fare. Poi poggio

il bicchiere sul davanzale e la abbraccio piano. La sento

sorridere.

"Bentornato. Ti prego, stringimi forte."

Rimango così, senza trovare la forza di stringere ancora. Cerco

di scusarmi.

"Senti..."

Ma è un attimo. Lei alza la testa dal mio petto e mi dà un bacio.

Spinge sulle mie labbra e dischiude la bocca. Poi prova a

muoversi,

si agita lenta, con gli occhi chiusi. Sposta la bocca a destra e

a sinistra, cercando l'incastro giusto, la posizione, lo svolgersi

naturale.

Ma è impossibile. Io sono fermo. Immobile. Non so che fare,

non vorrei ferirla. Rimango così, con le labbra chiuse,

sicuramente

fredde, forse di pietra. Pallina lentamente rallenta il suo

disperato

agitarsi. Poi china di nuovo la testa sul petto e comincia a

piangere. In silenzio. Piccoli sussulti della sua testa, poi

singhiozzi

più brevi, disperati. Mi stringe per non staccarsi da me,

vergognosa

del mio sguardo. Io piano piano le accarezzo i capelli. Poi le

sussurro

all'orecchio: "Pallina... Pallina, non fare così".

"No, non avrei mai dovuto farlo."

"Ma cosa hai fatto? Non è successo niente. Non c'è stato nulla.

È tutto a posto."

"No. Ho provato a darti un bacio."

"Sul serio? Non me ne sono accorto. Dai, che il nostro amico

sicuramente ci starà guardando e starà ridendo di noi."

"Di me magari."

"Con me è arrabbiato perché non ci sono stato."

Pallina scoppia a ridere. Ma è una risata nervosa, tira su con il

naso e si asciuga con la manica del giubbotto. Un po' ride e un

po'

ancora piange.

"Scusami Step."

"Oh ancora... Ma scusami di che? Guarda che se continui con

questa storia ti porto a letto."

"Sì, magari."

Ride di nuovo più tranquilla stavolta. Le agito davanti al viso

l'indice minaccioso.

"A fare la nanna, che ti credevi, eh?" Sorride di nuovo.

"Quella la vado a fare sul serio."

E senza dire più nulla, ancora imbarazzata si dirige verso la

porta.

Si ferma un attimo. "Ti prego Step, dimenticatelo e chiamami."

Le sorrido e le faccio cenno di sì. Poi chiudo gli occhi e un

attimo

dopo Pallina non c'è più. Rimango così in silenzio in piedi nel

salotto,

poi mi guardo in giro e vedo la bottiglia di rum. Avevo ragione.

È un Havana Club. Tre anni soltanto però. Taccagno di un

Paolo. Esco in terrazzo. Guardo giù e faccio appena in tempo a

vedere

la 500 di Pallina che gira in fondo alla strada. Mi scolo l'ultimo

sorso della bottiglia senza passare per il bicchiere e rimango lì.

Con le braccia incrociate, appoggiate sul davanzale, con la

bottiglia

vicino ormai vuota. "Porca troia." Ho una rabbia dentro e non

so con chi prendermela. Cazzo e vaffanculo. Perché? Perché?

Perché?

Merda. Non posso fare niente. Neanche bestemmiare. No,

non servirebbe a niente. Ma non ci voglio pensare. Sto male,

cazzo.

Guardo giù. Eccola. Grazie. Sono più felice ora. Prendo la

bottiglia

per il collo, raccolgo tutta la mia forza e la lancio giù come

un boomerang, perfetto, veloce, speriamo solo che non ritorni. La

bottiglia rotea a duemila e pum, centra il parabrezza della Twingo

in pieno, disintegrandolo. Era una Twingo nuova, perfetta. Nera

credo o comunque scura. L'insieme di tutto ciò che odio. Un colpo

solo. Come Il cacciatore.

Capitolo 31.

Un vento leggero si perde tra piccole case ordinate, tra marmi

bianchi e grigi, tra fiori appena appassiti e altri appena messi.

Foto

e date ricordano qualcuno. Amori passati, vite spezzate o

naturalmente

recise. Comunque, andate. Strappate. Come quella del

mio amico. E a volte tutto questo accade senza un perché e il

dolore

è ancora più grande. Cammino tra le tombe. Ho un mazzo di

fiori in mano, i girasoli più belli che ho potuto trovare. In

amicizia,

come nell'amore, non si bada a spese. Ecco. Sono arrivato.

"Ciao, Pollo."

Guardo quella foto, quel sorriso che tante volte mi ha fatto

compagnia.

Quell'immagine piccola, così come grande e generoso era

il suo cuore.

"Ti ho portato questi."

Come se non mi vedesse, come se non sapesse. Mi piego, tolgo

dei fiori appassiti da dentro un piccolo vaso. Mi chiedo chi

glieli

ha portati e quando. Forse proprio Pallina. Ma poi abbandono

questo pensiero, lo butto via lontano proprio come coi fiori

appena

tolti. Sistemo alla meglio quei grandi girasoli. Sembrano ancora

forti di quei campi, sani di quei soli. Li dispongo con cura,

facendo

spazio tra loro. Sembrano quasi accomodarsi naturalmente.

E subito si rivolgono verso il sole, come un sospiro lungo, di

soddisfazione,

come se da sempre avessero cercato quel vaso.

"Ecco, ecco fatto."

Rimango per un po' in silenzio, quasi preoccupato di poter esser

stato interpretato male, di poter aver avuto qualche pensiero

sbagliato, non puro come invece è la nostra amicizia.

"Ma così non è, Pollo, e tu lo sai. Così non è stato neppure per

un attimo. "

E poi quasi prendo le difese di Pallina.

"La devi capire, è una ragazzina e le manchi. E tu sai, o forse

non sai, quanto cavolo le davi, cos'eri per lei, quanto la facevi

ridere,

quanto la facevi felice. E noi possiamo dircelo. Quanto

l'amavi..."

Mi guardo in giro, quasi preoccupato che qualcuno possa sentire

quella confidenza.

Lontano, più lontano, c'è una donna anziana vestita di nero.

Prega. Un po' più in là un giardiniere e il suo rastrello cercano

di

raccogliere alcune foglie ormai ingiallite. Torno dal mio amico. E

a lei.

"Devi capirla, Pollo. È una bella ragazza. È diventata una donna.

È incredibile come si trasformano. Tu le vedi, le rincontri, ed è

bastato un po' di tempo, un attimo, per trovare al posto loro

qualcun'altra.

Ieri non ho avuto dubbi, non so, non potrei mai. Lo so

che mille volte abbiamo riso e scherzato su 'mai dire mai', ma è

bello

poter avere qualcosa nella vita che rappresenti una certezza, no?

Cazzo, la verità è che solo noi possiamo essere una nostra

certezza.

E mi piace un sacco dire 'no', hai capito? Mi piace un sacco dire

di 'no'. E mi piace un casino dire 'mai'! Cazzo, mi piace dirlo

per te, per quello che è stata ed è la nostra amicizia. Perché è

una

certezza. È la mia certezza. Già t'immagino, starai ridendo. Mi

prendi

per il culo, eh? Anzi no, lo so. Se ti avessi fatto tutto questo

discorso

mentre stavamo da qualche parte insieme alla fine mi facevi

uno scherzo. Ma siccome non mi puoi rispondere... be', te la devi

prendere così com'è tutta 'sta storia, ok? E comunque già la so

la domanda che mi avresti fatto. No. Non l'ho vista e non ho

intenzione

di farlo, va bene? Almeno non ora. Non sono pronto. Sai,

a volte penso se le cose fossero andate diversamente. Se se ne

fosse

andata lei al posto tuo. Io e te come amici non ci saremmo mai

lasciati, mentre lei, forse, così non avrei mai potuto

dimenticarla.

Lo so, sono egoista, ma almeno adesso ho ancora qualche

possibilità

di dimenticarla. Invece ti volevo raccontare qualcosa di questa

Gin. È una boccata di aria nuova. Ti giuro, cazzo, è allegra,

simpatica,

intelligente, è forte. Non ti posso dire di più perché, perché...

non ci sono stato a letto."

In quel momento passa lì vicino l'anziana signora. Ha finito tutte

le sue preghiere. Mi guarda incuriosita. Fa uno strano sorriso.

Non si capisce bene se è un sorriso di solidarietà o di semplice

curiosità.

Fatto sta che sorride e si allontana.

"Be', Pollo, ora vado anch'io. Spero di poterti raccontare presto

qualcosa su Gin, qualcosa di buono."

Poco lontano è appena arrivato un nuovo ospite. Alcune persone

scendono dalle auto in silenzio. Occhi lucidi, fiori freschi,

ultimi

ricordi. Parole dette a mezza voce cercando di capire bene cosa

fare. Il tutto confuso dal dolore. Poi mi piego per un'ultima

volta.

Sistemo meglio quel grosso girasole. Gli concedo un altro po' di

spazio e l'occasione di fare compagnia al mio amico del cuore. Mi

torna in mente una frase di Winchell: "L'amico è colui che entra

quando tutto il mondo è uscito". E tu, Pollo, sei ancora dentro

me.

Capitolo 32.

"E quindi che hai fatto, ci sei uscito?"

Lo guardo sorridendo.

"Macché, sono uscito con una mia vecchia amica."

"E hai intinto il biscotto nel passato..."

Lo guardo. Marcantonio ha una faccia alla Jack Nicholson e cerca

di carpire con simpatia i miei segreti. Ma non sa la storia. Non

sa

chi è Pallina. Non sa nulla di me e Pollo. Gli sarebbe stato

simpatico?

"Io invece mi sono visto con la Fiori."

"E allora?"

"Oh, io non capisco le donne. Un bacio, un altro bacio, una

strusciatina, la cominci a toccare come si deve, ma alla fine,

scusa,

non è meglio scopare direttamente? Eh, no, è troppo presto, è

troppo

presto. Ma di che, oh? ! "

Poco più in là. Stessa città, stessa storia. O meglio, al

femminile.

"E quindi che hai combinato?"

Silenzio. Prendo Ele da dietro intorno al collo e le punto il mio

fermaglio alla gola.

"Se non parli ti sgozzo."

Ele quasi tossisce.

"Va bene, va bene, ma che sei cretina? Quasi mi strozzi. E poi

chi te le racconta queste prudité?"

"Che cosa?"

"Prudité: piccole cose spinte, sei proprio out."

Ele scuote la testa guardandomi.

"Senti Ele, a parte che nel caso è pruderie, ma possibile che

non riesci a mettere in fila tre parole d'italiano che ci devi

subito

sbattere dentro uno stranierismo ! "

"Yes, I do."

Sollevo gli occhi al cielo. Incorreggibile. "Ok, racconti o no?"

"Allora sai che ha fatto? Mi ha invitato a cena a casa sua."

"Ma chi?"

"Marcantonio, il grafico."

"L'amico di Step!"

"Marcantonio è Marcantonio e basta. E non sai che carino, come

si è dato da fare, mi ha preparato una cena splendida."

Marcantonio sorride. Come uno che la sa lunga. O meglio, la

sa a memoria, tante devono essere le volte che la mette in

pratica.

"Allora, per cominciare sono andato giù da Paolo, il giapponese

di via Cavour, e ho preso un po' di roba. Tempura, sushi, sashimi,

passion fruit. Roba che sfizia, alto contenuto erotico. Li ho

portati

su, ho dato una riscaldatina al tempura, et voilà, tutto fatto. Ho

apparecchiato con le classiche bacchette giapponesi più forchetta

se hai poca dimestichezza con l'uso del mangiare orientale..."

"Avevi preso pure dal marocchino al semaforo i classici fiori da

5 sacchi?"

"Be', certo, quelli sono ideali: minima spesa per effimero

centrotavola!"

Ele sembra entusiasta della serata.

"Be', continua. Quindi aveva apparecchiato con amore, tutte

cose scelte con gusto..."

"Con molto gusto."

"Sei pronta? Domanda fondamentale: fiori ce n'erano?"

"Certo! Rose piccole, bellissime, ha giocato pure sul mio

cognome..."

Scoppiamo a ridere, poi torno seria.

"Ele, ora dimmi la verità." Ele alza gli occhi al cielo.

"Ecco lo sapevo. Dadà e arrivederci alla prossima puntata." Le

salto di nuovo al collo: "Questa volta ti sgozzo sul serio".

"No, ok, d'accordo parlo, parlo."

La libero dalla stretta. Ele mi guarda con occhio preoccupato,

alzando anche il sopracciglio.

"Ehi, non è che poi mi sgozzi sul serio?"

La guardo preoccupata. "Cosa hai combinato?"

"Ok... Gli ho fatto un pompino! "

"No, Ele, non è possibile! Alla prima uscita! Questa non si è

mai sentita."

"Ma di che parli?! Benedetta, quella che tu giudicavi una santa,

la Paoletti te la ricordi, no? È stata beccata al Piper in bagno

inginocchiata

in santa adorazione orale con tale Max conosciuto su pista

da ballo. Tempo di conoscenza mezzo disco di Will Young... La

cover dei Doors, Light my fire. Dopo di che è stata presa sul

serio da

uno strano fuoco. Ha cantato al microfono e si è fatta pure

beccare.

E Paola Mazzocchi? Lo sai che l'hanno beccata in bagno a scuola

con il prof di Educazione fisica, Mariotti? Eh, lo sai o non lo

sai, dopo

appena una settimana di scuola. L'adoratrice di cannoli siciliani!

Ti ricordo che quel soprannome ha girato per tutta la scuola. E

sai

perché? Perché Mariotti ha i capelli biondo tinti, ma è di

Catania."

"Sì, ma queste sono leggende metropolitane. Mariotti è rimasto

a insegnare. Ma ti pare che veniva beccato e non lo allontanavano?

"Ah, non lo so. So solo che la Mazzocchi aveva comunque quattro

in Educazione fisica..."

"Che c'entra?"

"C'entra, c'entra... Vuol dire che non sapeva neanche fare bene

un pompino."

"Ele, ma tu sei fuori! Vuoi dire che invece tu ti vanti della tua

bravura? Mo' ti sgozzo sul serio."

Marcantonio ci prova gusto a raccontare.

"Le ho fatto body art."

"Che vuol dire?"

"Tu che vieni da New York non lo sai? Cioè, io sarei giustificato,

ho passato le mie vacanze a Castiglioncello... Ma tu invece lì,

nella Big Apple e non sai di che stiamo parlando?"

Sbuffo e sorrido guardandolo.

"So cos'è. Ma che vuol dire è un'altra domanda."

"Oh, ecco, così mi piaci. Le ho dipinto il corpo. L'ho spogliata

tutta, poi ho cominciato a dipingerla. Pennelli a tempera calda,

leggeri, sul suo corpo, su e giù, intingendoli ogni tanto

nell'acqua

calda di una boccetta. Scivolavo su di lei dandole piacere,

guardandola.

Anche le sue guance acquistavano colore, senza che io me

ne occupassi. Le ho dipinto addosso quelle mutandine che le avevo

appena tolto, poi piano piano del chiaroscuro sui suoi capezzoli,

che, sempre più turgidi, sembravano impazzire a quelle pennellate

calde di piacere."

"E poi?"

"Presa da un orgasmo cromatico ha voluto dare lei colore al

mio pennello."

"Tradotto?"

"Mi ha fatto un pompino."

"Fiuuu. Se tanto mi dà tanto..."

"Hai qualche buona speranza con l'amica, su questo stai

ragionando?

"

"Ragionavo ad alta voce, sbagliando... E poi?"

"Poi niente, siamo rimasti a chiacchierare del più e del meno,

abbiamo piluccato un po' di giapponese rimasto e l'ho accompagnata

a casa."

"Ma dai, dopo il pompino non te la sei scopata?"

"No, non ha voluto."

"Cioè spiegami un po', il pompino sì e la scopata no, che ragione

c'è?"

"Ha tutta una sua filosofia. Almeno questo mi ha detto lei."

"E non ti ha detto altro?"

"Sì, mi ha detto: 'Bisogna sapersi accontentare'. Anzi no, meglio.

Ha detto che chi si accontenta, gode. E poi si è messa a ridere. "

"Ma Ele scusa... Allora tanto valeva che ci andavi a letto. Sesso

per sesso..."

"Ma che c'entra, scopare è un'altra cosa, l'unione perfetta.

Coinvolgimento

totale. Lui che è dentro di te, l'ipotesi di un figlio... Ti

rendi conto? Altro discorso è un pompino."

"E certo! Come no! "

"Senti, per me è come un saluto più affettuoso. Ecco, tipo stretta

di mano."

"Una stretta di mano? Vallo a raccontare ai tuoi."

" Certo, se uscisse nel discorso... Ma perché scusa loro non

l'hanno

fatto? Siamo noi che non riusciamo a vedere la normalità del

sesso, se ne dovrebbe parlare come di tutto, è che siamo borghesi,

per esempio, immagina tua madre che fa un..."

"Ele!!!"

"Ma perché, anche tua madre fa la difficile?"

"Ti odio."

"Be' Step, ora ti saluto. Quando abbiamo appuntamento con

Romani, il Serpe, e il resto del sottobosco?"

"Domani alle undici. Cioè, questo è il massimo... Ora ti devo

ricordare io gli appuntamenti. "

"Certo. È questa la vera 'assistenza'. Allora ci vediamo domani

a quell'ora meno qualche minuto."

Lo vedo allontanarsi così, un po' ciondolante, con una sigaretta

già in bocca. Dopo neanche un passo si gira. Mi guarda e fa un

sorriso. "Ehi... Fammi sapere se hai novità anche tu con la Biro.

Non fare l'ermetico, eh? Aspetto i tuoi racconti e non t'inventare

niente. Tanto un pompino si batte facilmente! "

Capitolo 33.

Un pomeriggio come tanti altri. Ma non per lei. Raffaella Gervasi

gira inquieta per casa. Qualcosa non le torna. Uno strano

malessere.

Un fastidio di fondo. Qualcosa che ha dimenticato... o qualcosa

che non riesce a ricordare. Raffaella cerca di calmarsi. Che

sciocca, forse sono così per mia figlia Babi. È così cambiata.

Così

piacevolmente cambiata. Finalmente sa quello che vuole. Ha fatto

la sua scelta e ora non ha più dubbi. Ma io? Io cosa voglio? E

improvvisamente

si ritrova davanti allo specchio del salotto. Si avvicina

preoccupata alla sua immagine, si guarda, cerca con le mani

di lisciarsi la pelle, di aiutarsi, si tira un po' indietro le

guance per

cancellare dal viso quel tempo passato, quegli anni che giacciono

lì, depositati ormai intorno ai suoi occhi. Ecco, vorrei meno

rughe,

ma questo è facile. Basta farsi un po' di botulino. Va di moda

adesso.

Fanno delle specie di feste dove si correggono queste

"imperfezioni

estetiche". Passano con un vassoio d'argento, una serie di

siringhe... le prendono e ci danno dentro che sembra champagne.

Leggere, indolore, costano perfino meno di un Moèt. Ma è veramente

questo il tuo problema? Raffaella si guarda negli occhi e cerca

di essere sincera almeno con se stessa. No, hai quarantotto anni

e per la prima volta in vita tua, nei confronti di tuo marito hai

un dubbio. Cosa gli sta accadendo? Torna sempre più spesso tardi

dal lavoro. Ho perfino controllato il conto in banca che abbiamo

in comune. Ci sono molti prelievi, troppi. Come se non bastasse

si è comprato dei ed. Lui... dei ed? Ho controllato in macchina.

Ascolta un certo Maggese di Cesare Cremonini, un ragazzino, poi

una compilation di Montecarlo Nights, quella musica notturna

strana

e sensuale e, colmo dei colmi... Buddha Bar VII, ancora peggio!

Per uno che ha sempre e solo ascoltato musica classica e che al

massimo

si è avventurato in un jazz delicato, tutto questo è una specie

di rivoluzione. E dietro a ogni rivoluzione così non ci può essere

che una donna. Ma com'è possibile? Claudio... e un'altra! Be', non

ci posso credere. Perché non ci puoi credere? Quante coppie del

vostro gruppo si sono sfasciate? E per cosa? Diverbi sulle scelte

di

lavoro? Discussioni su dove andare per le vacanze estive, se al

mare

o in montagna? Contrasti sull'educazione dei figli? O in che modo

cambiare l'arredamento di casa? No. Dietro c'è sempre e solo

un'altra persona. Una donna. E quasi sempre più giovane. E mentre

se lo confessa, Raffaella passa in rapida successione le schede,

le ipotesi, le facce di tutte quelle donne, quelle amiche, vere o

false

che siano. Niente. Non esce niente. Non le viene in mente niente.

Neanche una minima ipotesi, un nome, un indizio qualsiasi. Allora,

presa dalla gelosia più folle, si tuffa nell'armadio di Claudio e

fruga in ogni giacca, nei giubbotti, nei cappotti, nei pantaloni,

cercando

una qualsiasi prova, respirando i baveri, gli interni, per

sentire,

per cercare di trovare quel profumo colpevole, quel capello di

troppo, quello scontrino, un biglietto d'auguri, una frase

d'amore,

un accenno di desiderio... un piano di fuga! Qualsiasi cosa che

possa

dare pace a questa sua follia isterica, a questa sua insicurezza

rabbiosa. Claudio e un'altra. Perdere tutto quello che sembrava

per

lei e la sua vita una certezza quasi banale. Poi improvvisamente

una

luce, un lampo, un'idea. Forse la soluzione. Raffaella si

scapicolla

in sala da pranzo in cerca di quella cuccuma d'argento dove

finisce

la posta appena arrivata. Eccola là. C'è tutta. E non è stata

ancora

aperta. La prende a piene mani e comincia veloce a sfogliarla.

Per Babi, per Daniela, per me, per Babi di nuovo... ecco, per

Claudio! Ma è l'Enel, per me una promozione di saldi e sconti. Ma

cosa vuoi che me ne freghi ora. Eccola. Claudio Gervasi.

L'estratto

conto della carta di credito Diners. Raffaella corre in cucina,

prende un coltello e la apre delicatamente. Se trovo qualche

prova,

poi la richiudo e metto tutto a posto e faccio finta di niente.

Così

poi lo becco in flagrante e lo rovino. Lo rovino. Giuro che lo

rovino.

Tira fuori l'estratto e comincia a spizzarlo come la più grande

partita di poker mai giocata al mondo. Ogni riga è un sussulto.

L'ipotesi che l'avversario possa avere in mano quattro donne. O

anche

semplicemente una, ma comunque un'altra. Raffaella controlla

frenetica tutti gli importi. Niente. Tutti pagamenti regolari. Rid

del mutuo, pagamento del gasolio per la macchina... ecco! Una nota

strana. Acquisto in un negozio di ed. Quanti ne avrà presi? Be',

per il prezzo che vedo devono essere i tre che ha in macchina.

Niente

da fare. Ecco il completo di Franceschini, quello a via Cola Di

Rienzo. È quello che ha preso ai saldi e poi Teresa, la sarta, gli

ha

fatto l'orlo ai pantaloni. Sì, è tutto a posto. Raffaella ora

guarda più

tranquilla le ultime due righe, pagamento del telefono di casa...

mamma mia, questo bimestre abbiamo speso 435,00 euro. Ma non

fa in tempo ad arrabbiarsi. A pensare a quello che dirà alle

figlie,

le sole colpevoli di quell'intera cifra. Perché improvvisamente i

suoi

occhi cadono su un'altra spesa. 180,00 euro per qualcosa che lei

non si sarebbe mai aspettata.

Capitolo 34.

Ai Prati vicino alla Rai, all'angolo tra via Nicotera e viale

Mazzini,

c'è il Residence Prati, casa e albergo di tante piccole stelle del

cinema, della fiction, della soap, del varietà, di tutta la tv

italiana.

Ecco, poco più in là c'è anche una palestra. Scendo giù, è un

seminterrato.

Non sembra, ma sono quattrocento metri quadri buoni

se non di più, ben dislocata, diversi specchi, bocche di lupo,

un'areazione perfetta, un grosso tubo d'acciaio che serpeggia a

testa

in giù dal soffitto sbuffando e respirando.

"Ciao, cerchi qualcuno?"

Una ragazza con i capelli corti dalla pettinatura buffa mi sorride

nascosta dietro una strana scrivania. Nasconde un libro di

diritto,

chiuso con una matita in mezzo e due evidenziatori lì vicino,

classico da primo anno di università.

"Sì, sto cercando una mia amica."

"Chi è? Forse la conosco. È iscritta da molto tempo?"

Mi viene da ridere e vorrei risponderle: "Da mai! ". Ma sarebbe

come buttare all'aria ogni possibilità con Gin. Farla scoprire

nella

sua rete di palestre, il massimo.

"No, mi ha detto che oggi voleva fare una lezione di prova."

"Dimmi il nome che te la chiamo al microfono."

"No grazie." Sorrido, finto ingenuo. "Voglio farle una sorpresa."

"Ok, come vuoi."

La ragazza si rimette tranquilla e riprende a studiare. Codice

penale. Ho sbagliato, deve essere minimo al terzo anno, se non c'è

di mezzo qualche fuori corso. Poi rido fra me e me. Chissà, magari

un giorno potrebbe essere il mio avvocato. Probabile.

Eccola lì, Ginevra. Gin. La Biro. Roba da pazzi. Facendo onore

al suo cognome, descrive nell'aria traiettorie perfette prima di

colpire il sacco. Saltella di continuo. Pseudoprofessionista

pugile.

Improvvisamente mi ricorda Hilary Swank quando va a festeggiare

in palestra, da sola, il suo compleanno. Gira attorno al sacco

veloce

e Morgan Freeman decide di darle alcuni consigli su come si

colpisce. Avevo sentito dire che le donne italiane si erano

fissate

per la boxe. Ma pensavo fossero dicerie. Questa invece è una

realtà.

"Vai ancora, brava così, colpisci dritto." Qualcuno la allena.

Ma non somiglia a Clint Eastwood. Sembra perfino soddisfatto,

forse se la vuole solo portare a letto. Eppure la guardo. Eppure,

perché mi sembra di guardarla in modo diverso. Che strano. Quando

da lontano guardi una donna, ne scorgi i minimi particolari,

dettagli,

come muove la bocca, come si imbroncia, come si morde il

labbro, come sbuffa, come si aggiusta i capelli, come... tante

altre

cose. Cose che da vicino perdi, cose che a pochi passi magari

vengono

messe da parte dai suoi occhi.

Gin continua a sbuffare colpendo ripetutamente il sacco. "Destro

sinistro e giù ! Brava ritorna indietro, destro sinistro e giù...

Così

ancora..."

Continua a sudare mentre colpisce e agita i capelli neri

all'indietro.

Poi, sembra quasi un rallenty, si sposta i capelli dalla faccia

con il guantone e li porta lì, dietro le orecchie. Ci manca solo

che

si rifà il trucco. Donne e boxe, roba da pazzi. Mi avvicino piano,

senza farmi vedere.

"Ora prova un affondo e giù."

Gin colpisce due volte di sinistro poi prova l'affondo di destra.

Le sposto al volo il sacco e le blocco il braccio destro. "Pum."

Vedo

la sua faccia sorpresa, quasi attonita. Veloce, chiudo la mia mano

a pugno e la colpisco leggero sul mento. "Ciao, One Million

Dollar Baby. Pum, pum, eri morta." Si divincola liberandosi.

"Che cavolo ci fai qui?"

"Volevo provare questa palestra."

"Ma guarda! Proprio questa."

"Si dà il caso che può capitare, mi è comoda e siccome anch'io

'lavoro' qui vicino..."

"Sono stata presa a prescindere da te."

"Ma chi ti ha detto niente."

"Eri allusivo."

"Sei malata."

"E tu sei stronzo!"

"Basta, calma... Non vi metterete a discutere proprio qui in

palestra,

no?"

Si mette in mezzo l'allenatore.

"E poi scusa, Ginevra... per te questa è la prima lezione di prova

qui da noi, no? Non sei iscritta qui alla Gymnastic. Quindi lui

non

poteva sapere, non poteva essere sicuro di trovarti. È stato un

caso."

La guardo e sorrido. "È stato un caso. La vita è fatta di casi. E

mi sembra assurdo trovare delle ragioni al perché di quel caso.

Giusto?

È un caso e basta."

Gin sbuffa con le mani poggiate sul fianco ancora prigioniere

dei guantoni.

"Ma che 'caso' stai dicendo?"

"Buona Ginevra" si rifà sotto l'allenatore. "C'è troppo astio fra

di voi. Sembra che vi odiate."

"No, non sembra. È! "

"Allora dovete stare attenti. Tu che dovresti essere ancora fresca

di scuola te lo dovresti ricordare: 'Odi et amo. Quare id

fariam..., néscio...'."

Gin alza gli occhi al cielo.

"Sì, sì, grazie, la conosco. Ma qui i problemi sono altri."

"Allora dovete risolverli fuori di qui."

La guardo e sorrido.

"Giusto, vero... Ecco una buona idea. Esci?"

"Devi stare attento. Non la sottovalutare, Ginevra è forte, sai?"

"E come se non lo so. È pure terzo dan."

"Ma dai..." L'allenatore si fa curioso. "Non lo sapevo questo.

Sul serio?"

"Sì, stranamente sta dicendo la verità."

L'allenatore si allontana scuotendo la testa.

"C'è astio, c'è astio. Così non va, così non va."

Poi torna indietro sorridente, come se avesse trovato la soluzione

a tutti i problemi mondiali. Quanto meno a quelli miei e di

Gin.

"Perché non fate un piccolo incontro? Scusate, è l'ideale, un

sano scarico di tensioni."

Gin alza la mano con il guantone aperto verso di me, indicandomi.

"Tse, ma figurati se questo qua si è portato la roba per

cambiarsi."

"E invece 'questo qua' se l'è portata."

Le sorrido divertito e prendo da dietro la colonna la mia sacca.

"E ora, seguendo i consigli del tuo allenatore, vado subito a

cambiarmi. Non ti preoccupare comunque, ci vediamo fra poco."

Gin e l'allenatore rimangono lì a guardarmi mentre mi allontano.

"Non c'è niente di meglio, in fondo quel ragazzo mi sembra

simpatico e così puoi mettere in pratica parte dei colpi che oggi

ti

ho spiegato, comunque mi sembra che tu li abbia perfettamente

capiti."

"Sì, ma tu hai capito chi è quello?"

L'allenatore mi guarda perplesso. "No, perché chi è?"

"Lui è Step."

Rimane per un po' soprappensiero con gli occhi socchiusi, cercando

nel suo immaginario, tra i suoi ricordi e il sentito dire delle

tante leggende metropolitane. Niente. Non trova niente.

"Step, Step, Step. No, mai sentito."

Lo guardo preoccupata mentre lui mi sorride compiaciuto. " No,

sul serio, mai. Ma stai tranquilla, gli terrai testa! "

E in quel momento capisco due cose. Uno, sicuramente non è

un buon allenatore e due, proprio per questo dovrei iniziare a

preoccuparmi.

Una maglietta leggera, pantaloncini, calzettoni e le nuove Nike

prese alla Nike Town di New York. "Ehi, Step, ciao." Negli

spogliatoi

incontro uno che conosco, ma del quale non ricordo il nome.

"Che fai, ti alleni qui?"

"Solo per oggi. Voglio fare una lezione di prova tanto per vedere

un po' come cammina questa palestra."

"Cammina bene, eccome! A parte che è piena di fighe. Hai visto

quella al sacco? Una bona da paura."

"Fra poco tiro due colpi con lei."

"Ma dai!"

Il tipo del quale non mi ricordo assolutamente il nome mi guarda

sorpreso, poi un po' preoccupato.

"Non è che ho sbagliato? Non dovevo dirlo?"

"Che cosa?"

"Che è una bona da paura?"

Chiudo a chiave l'armadietto, mi metto il lucchetto in tasca.

"E perché mai? È vero! " Gli sorrido ed esco.

"Allora, terzo dan, si comincia?"

Gin mi guarda facendo un finto sorriso.

"A parte che qui non c'entra niente il terzo dan e poi come sei

ripetitivo, non riesci a trovare niente di nuovo?"

Rido come un pazzo e allargo le braccia.

"Non ci posso credere. Stiamo per fare un combattimento di

pugilato, un bell'incontro di quelli tosti... e tu che fai?

Sfruculi."

"Bello, sfruculi, mi mancava."

"Tu non lo puoi usare, in questo caso i diritti sono miei!" E

proprio subito dopo... Bum. Questo non me l'aspettavo. Mi prende

in piena faccia con un destro, veloce, preciso, posso dire

inaspettato

come giustificazione. Comunque mi ha preso.

"Brava, benissimo."

L'allenatore salta divertito.

"Destro, sinistro affondi e ti richiudi."

Muovo la mascella e me la sposto a destra e a sinistra,

leggermente

indolenzita.

"Niente di rotto?"

Gin saltella sulle gambe guardandomi e alza un sopracciglio.

"Se vuoi, cominciamo sul serio."

Poi saltellando mi viene più vicina.

"Questo era solo un assaggio, mitico Step. Ah, il mio allenatore

non ha mai sentito il tuo nome. "

La guardo mentre mi infilo i guantoni.

"Se è per questo non ha visto neanche la foto che ti ho fatto

con la polaroid. Certo, se la vedesse..."

"Se la vedesse?"

"Be', forse ci ripenserebbe. In quella foto fai così paura che di

colpo gli passerebbe perfino la voglia di portarti a letto ! "

"Ora mi hai veramente stufato."

Gin mi salta addosso come una furia e comincia a colpirmi. Paro

ridendo pugni che volano da tutte le parti, a guantone aperto,

poi chiuso, largo, stretto. Alla fine mi entra con un calcio

dritto per

dritto.

"Ehi..."

Colpito e affondato. Basso ventre. Mi prende lì in pieno. Mi

piego in due dal dolore. Riesco a trovare un po' di fiato.

"Ahia! Non vale!"

"Con te vale tutto."

"Ecco, Gin, se anche volessi dimostrarti il mio amore, in questo

momento non sarei proprio all'altezza."

"Non ti preoccupare... Mi fido sulla parola."

Porca puttana, mi ha distratto, mi ha fatto ridere e poi mi ha

sfondato. Rimango piegato in due cercando di recuperare. Si

avvicina

l'allenatore. "Problemi?"

Mi poggia la mano sulla spalla.

"No, no, tutto a posto... O quasi."

Sbatto i piedi e mi porto le mani sui fianchi, respiro

profondamente

mentre mi tiro su.

"Ecco, vedi, ora potrei finirti, se non provassi pena per te."

"Come sei caritatevole. Ci spostiamo sul ring?"

"Certo."

Gin mi sorride tranquilla. Mi passa sicura davanti. L'allenatore

si

porta ai bordi del ring e alza le corde aiutandoci a passare

sotto.

"Ehi, ragazzo, mi raccomando... Nessun colpo proibito e andateci

piano, eh? Un bell'incontro, su."

Gin mi raggiunge al centro del ring, ci diamo un colpetto sui

guantoni. Tutti e due insieme, come nei film.

"Sei pronta?"

"Sono pronta a tutto. E non gli dare retta, lui non è il mio

allenatore

e tu sei finito ! Ti avviso che sono ammessi tutti i colpi

soprattutto

quelli proibiti, almeno da parte mia! "

"Ohi, ohi, ohi... Che paura!"

Di risposta cerca di colpirmi in pieno volto, ma stavolta sono

pronto, paro di sinistro e le do un bel calcio nel culo, senza

farle

troppo male però.

"Eh, eh, eh... Adesso ci sono anch'io. Allora si comincia?"

Saltelliamo su e giù, girandoci intorno, studiandoci mentre

Nicola,

l'allenatore, ha fatto partire il tempo su un suo cronometro

Swatch o qualcosa giù di lì. Gin comincia a colpirmi e sorride

mentre

lo fa.

"Ehi, ti diverti ancora, eh? Brava, fai bene perché fra un po'..."

Poi un colpo dritto per dritto in pancia mi toglie per un attimo

il

respiro. Veloce l'amica.

"Risparmia il fiato, mitico Step, che ne hai bisogno. Ti avevo

detto che ho fatto anche molto full contact?" Continuo a

saltellare

mentre recupero. "Prima regola, devi sempre attaccare dopo un

colpo andato a fondo, sennò..."

Le parto da vicino ma non troppo forte, non troppo veloce. Destro,

ancora destro, poi driblo di sinistro e poi di nuovo destro. I

primi tre li para perfettamente il destro finale entra. Poi vedo

Gin

accusare il colpo, si sposta verso sinistra e quasi scivola. L'ho

colpita

troppo forte. Faccio per prenderla prima che cada per terra!

"Ehi, scusa, t'ho fatto male?" Sinceramente preoccupato. "È

che..."

Gin mi risponde con un uppercut prendendomi il mento di striscio.

Mi spezza le parole in bocca, per fortuna solo quelle.

"Non mi hai fatto niente." Sbuffa inorgoglita e gira veloce la

testa portandosi indietro i capelli, poi salta all'attacco. Una

doppia

sforbiciata. Destro, sinistro e di piatto col piede mi spinge

indietro

e poi ci dà sotto. Destro, sinistro e ancora destro. Sinistro,

destro,

gancio, li paro come posso, per non colpirla ancora, paro

sorridendo

e ogni tanto anche un po' in difficoltà, a essere sincero. Sempre

più vicini. Mi mette all'angolo, attacca ancora. "Ehi, troppa

foga."

Mi copro con i guantoni e lei continua a colpire, poi tenta un

colpo dritto per dritto di destro e tac, ecco fatto. Allargo il

sinistro

al volo e lo raccolgo al corpo. Le blocco il braccio destro sotto

il

mio e lo tengo ben stretto. "Imprigionata! "

Rimane bloccata così, leggermente più lontana con il sinistro.

"Ci vai con troppa foga, vedi che succede?"

Gin prova a liberarsi in tutti i modi. Si tira indietro, si

appoggia

alle corde, mi viene contro, si rilancia indietro, sbatte contro

di

me divincolandosi. Le do un pugno leggero con il destro sul viso.

"Pum... Vedi che potrei farti?" Continuo a colpirla. "Pum, pum,

pum. Gin pungiball... Eri finita!"

Di tutta risposta, come impazzita prova a colpirmi con il sinistro

libero. Lo paro con facilità, non si arrende, pum, pum, pum,

glieli paro tutti, uno dopo l'altro. Gin tenta da sotto, poi con

un

dritto, un gancio, di nuovo da sotto, sale con un piede sulla

corda

e si dà una spinta per colpire con ancora più slancio. Niente da

fare,

sono fermo contro l'angolo e le tengo il destro ben stretto a me.

Gin è fuori di sé. "Iaooo!" Prova a colpirmi con il ginocchio, ma

alzo al volo il mio parando anche quello. Prova a colpirmi di

nuovo

con un gancio sinistro ma lo fa con meno velocità, forse un po'

stanca. Ecco l'errore che aspettavo. Allargo il braccio destro e

blocco

anche il suo sinistro tenendolo ben stretto a me. "E ora?" Rimane

così a guardarmi per un attimo di fronte a me, completamente

bloccata. "Dove va adesso Gin, la tigre?" Prova a liberarsi.

"Buona, stai buona. Qui, tra le mie braccia." Prova di nuovo a

liberarsi

ma non ce la fa. Mi avvicino e la bacio, sembra starci per

un attimo. "Ahia! " Mi ha morso. La lascio al volo liberandole

tutte

e due le braccia. "Porca troia." Mi porto i guantoni alla bocca

per vedere se butto sangue. "Ma così mi stacchi un labbro. E poi

le altre? ! ! Guarda che quelle menano e non sono poche."

"Te l'ho già detto. Io non ho paura."

E per confermarmelo, prova un waikiki. Gira su se stessa per

colpirmi con un calcio rotante. Ma io sono più veloce, scivolo per

terra e le faccio una spazzata facendola cadere giù vicino a me.

"È inutile, Gin, è come quando Apollo in Rocky 4 dice: 'Io t'ho

insegnato quasi tutto. Tu combatti alla grande, ma io sono

grande!'."

È in un attimo le sono sopra, le blocco il corpo con le gambe

avvinghiate intorno alla vita e con il destro la tengo stretta a

terra

con la faccia sul pavimento, proprio lì, vicino alla mia.

"Allora? Sai che sei bellissima così? È un sentimento sincero il

mio." Non so perché, ma mi ricorda tanto Arma letale. Quando

Mel Gibson e René Russo si confrontano sulle cicatrici e poi

cadono

a terra. Ma noi siamo più belli, siamo veri.

"Gin, ti va di fare l'amore?"

Gin sorride e scuote la testa. "Qui? Adesso, sul parquet della

palestra, davanti a Nicola e agli altri che ci stanno guardando?"

"Il trucco è solo non pensarci."

"Ma che dici, Step, ma sei scemo? Poi magari senti pure che

fanno il coro dandoci il tempo. "

"Ok, allora riprendiamo il combattimento, come vuoi tu. Io ti

avevo dato una chance."

Ci rialziamo insieme. Questa volta però, divertito, attacco io. La

stringo nell'angolo e comincio a colpirla. Senza andarci troppo

pesante

però. Gin è veloce e cerca di uscirne. Con una spinta la rimetto

all'angolo. Lei si abbassa, schiva, fa per uscirne, ma io la

riblocco

e la ributto lì. Poi finge un sinistro, in realtà allarga. Io tiro

al corpo

lentamente. Lei velocissima richiude il braccio bloccandomi il

destro.

Subito dopo, quasi al volo fa la stessa cosa con il mio sinistro.

"Ta ta... Ti ho bloccato io. E adesso?"

In realtà con una capocciata me ne libererei subito, ma non mi

sembra proprio il caso. Gin sospira.

"Al solito... sei mio prigioniero, non ti azzardare a mordere,

però. Giuro che se lo fai ti stendo."

Prende e mi bacia. La lascio fare, divertito, saliva e sudore,

baci

lisci e morbidi, desiderosi e sfuggenti. La lascio fare, sì. Gioca

con le mie labbra, la stringo tra i guantoni, lei si strofina a

me, pantaloncini

e maglietta, sudata al punto giusto. I suoi capelli mi si

attaccano

al viso nascondendomi da sguardi indiscreti.

Ma Nicola, che ci seguiva tenendo il tempo, non può certo perdersi

questo strano incontro.

"Prima si vogliono sfondare e poi buttano tutto in cagnara. Che

gioventù assurda."

E si allontana scuotendo la testa. In cagnara quello che stiamo

facendo? Questa è arte, uomo. Arte fantastica, sopraffina,

mistica,

selvaggia, elegante, primordiale. Continuiamo a baciarci

nell'angolo

del ring, fregandocene, ora più liberi nella stretta ed eccitati,

almeno io. Fuori tempo... massimo. Lascio scivolare il guantone

che finisce guarda caso fra le sue gambe, ma Gin si sposta. Poi,

come

se non bastasse salgono sul ring due tipi sui quarant'anni con

un paio di capezze al collo, i capelli grigi e un'aria consumata.

"Scusate, eh, non vorremmo disturbare questo match. Ma noi

vorremmo boxare sul serio, se ve potete leva' di qua."

"Sì, portate 'st'idillio da un'altra parte, va'."

Ridono. Prendo Gin per un braccio stringendola con il dito del

guantone e l'aiuto a uscire dal ring. Quello più grosso, che sa

ancora

di fumo, non se la lascia scappare.

"Aho, ma che ce troverai poi a combattere con una donna..."

Gin mi sfugge dalle mani e si rinfila veloce sotto la corda

rientrando

nel ring.

"Ci trova, ci trova... vuoi vedere?" E si mette in posa. Mi metto

in mezzo prima che vada tutto a scatafascio.

"Ok, ok. Come non detto, vi lasciamo combattere. Scusateci.

La ragazza è nervosa."

"Io non sono nervosa."

"Ehm, quindi è meglio che ci andiamo a prendere un gelato."

Piano a Gin, sussurrandole all'orecchio: "Offro io, ma ti prego

piantala".

Gin allarga le braccia. "Ok, ok."

"Ecco bravi, andate a prendervi il gelato, va'."

"Sì, un gelato al bacio."

Ridono tutti e due. Uno poi con una tosse catarrosa. Ci mancava

pure la battuta. Gin prova a girarsi di nuovo, ma la spingo via

con forza.

"A cambiarsi, doccia, e poi gelato. Forza e senza discutere."

"Ehi, mi fai più paura del mio papi. Guarda, tremo tutta." E

simula una specie di balletto di sedere imitando le donne

africane.

Però. Le do una pacca forte sul culo.

"Forza, ho detto. A cambiarsi."

E con un'ultima spinta riesco, a viva forza, a spedirla dentro gli

spogliatoi. Fiuu, che fatica. Se tanto mi dà tanto. Mission

impossible.

Non ci credo. Gin sbuca di nuovo fuori dalla porta degli

spogliatoi.

"Guarda che mi cambio solo perché sono le undici e ho finito

la mia ora di allenamento."

"Sì, certo."

Mi guarda un attimo perplessa, con il sopracciglio tirato su, poi

lo lascia andare e sorride.

"Ok." Capisce che gliel'ho data vinta.

"Ci metto un attimo, ci vediamo al bar della palestra, lì in

fondo."

Vado anch'io a cambiarmi. Che lotta. Non so se è meglio dentro

il ring o fuori. Tiro fuori le chiavi dell'armadietto e comincio a

cambiarmi. Ma che c'avrà poi di speciale? Mi butto sotto la

doccia.

Sì, ok, un bel culo, un bel sorriso... Trovo uno shampoo lasciato

da qualcun altro e me lo rovescio in testa. Sì, è anche una tipa

divertente,

le palestre a vela. La battuta pronta. Però è uno sfinimento.

Sì, ma quant'è che non ho una storia come si deve? Due anni.

Però come si sta bene. Libero e bello. Rido come un coglione

mentre lo shampoo dolciastro mi si infila negli occhi, cazzo.

Brucia.

Niente rotture: che fai stasera, che facciamo domani, che si fa

per il weekend, ti richiamo dopo, dimmi che mi ami, tu non mi

ami più, ma come non ti amo, chi era quella, perché c'hai parlato,

con chi stavi al telefono? No, non esiste. Mi sono ripreso da

poco,

sempre che mi sia ripreso. Voglio le "calendarine". Il primo di

ogni

mese quella, il due l'altra, il tre un'altra ancora, il quattro

chissà,

anche niente magari, il cinque quella figa straniera incontrata

per

caso, il sei... Il sei... Sei solo, lo sai. Sì certo, ma che mi

frega, non

voglio impaludarmi. Mi asciugo e mi infilo i pantaloni. Non voglio

dare spiegazioni. Mi chiudo la camicia e prendo la borsa. Vado

verso

l'uscita. Non la saluto neanche, tanto la becco più tardi al

Teatro

delle Vittorie. Ah, no. Oggi non c'è convocazione per loro. Va

be', glielo dico domani quando la vedo. Capirai, quella è capace

di

ripiombare a casa mia e farmi la piazzata. Se non ci sono io,

becca

Paolo. Con Paolo ha gioco facile, lo sfonda. Capirai, la

prenderebbe

per una belva umana, una furia, una tigre. Che palle! La devo

pure aspettare. Chissà quanto ci metterà a prepararsi. Che tipo

di donna sarà? Sofisticata, menefreghista, spendacciona, attenta

al

soldo, folle, cocainomane, mignotta, impossibile? Arrivo al bar e

ordino un Gatorade non troppo freddo.

"A cosa mi scusi?"

"All'arancia."

Poi le risposte arrivano quasi da sole. Gin è naturale, selvaggia,

elegante, pura, appassionata, antidroga, altruista, divertente.

Poi

rido. Ma che palle! Magari è ritardataria e la dovrò aspettare.

Sborso 2 euro, levo il tappo e bevo il Gatorade. Mi guardo

intorno.

Un tipo agghindato da post allenamento legge "il Tempo".

Mangia a ripetizione piegato su un riso scondito, colorato qua e

da qualche chicco di mais e da un peperone capitato lì per caso.

Al

tavolo vicino un altro pseudomuscoloso chiacchiera con una ragazza

con tono falso. Si mostra eccessivamente allegro a qualunque

cosa lei gli risponda. Due amiche progettano chissà cosa per

un'ipotetica vacanza. Un'altra racconta alla sua amica del cuore

quanto si sia comportato malissimo un lui. Un ragazzo al bancone

ancora sudato per la serie appena fatta, uno già cambiato. Una

ragazza

che beve un frullato e va via, un'altra che aspetta chissà che

cosa. Cerco il viso di quest'ultima nello specchio di fronte al

bancone.

Ma è coperta dal ragazzo addetto al bar. Poi lui serve qualcosa

e se ne va scoprendola. Come la carta che ti arriva per un poker

sperato, come l'ultimo rimbalzo della pallina di una roulette che

forse si ferma su quel numero che tu hai puntato... esce lei.

Eccola.

Mi guarda e sorride. Ha i capelli davanti agli occhi appena

truccati,

sfumati di un grigio leggero. Le labbra rosa e un poco

imbronciate.

Si gira verso di me.

"Be', che fai, non mi riconosci?" Poker. En plein. È Gin. Ha

un tailleur azzurro. Su un risvolto si leggono due piccole cifre.

D&G. Sorrido. Yoox. Poi scarpe alte dello stesso colore.

Elegantissime.

René Caovilla. Dei legacci leggeri liberano a tratti le sue

caviglie.

Alle dita dei piedi, unghie velate di un pallido azzurro più

chiaro, come piccoli sorrisi divertiti, si affacciano da

un'abbronzatura

leggera. Occhiali Chanel sempre azzurri appoggiati sulla testa.

È come se un velo di miele fosse stato lasciato colare,

perfettamente

modellato sulle sue braccia, sulle sue gambe scoperte, sul

suo viso che sorride.

"Allora?"

Allora... Allora tutti i miei propositi vanno a farsi fottere.

Cerco

qualche parola. Mi viene da ridere e insieme in mente quella scena

di Pretty Woman. Richard Gere che cerca Vivien al bar

dell'albergo.

Poi la trova. Pronta per andare all'opera. Gin è perfetta come

lei, di più. Sono messo proprio male. Prende la borsa e viene

verso di me.

"Stai pensando a qualcosa?"

"Sì." Mento. "Che il Gatorade era troppo freddo."

Gin sorride e mi supera.

"Bugiardo, pensavi a me."

Decisa e divertita si allontana, non troppo ancheggiante ma sicura

su per le scale che portano fuori dalla palestra. Le gambe

scendono

giù dalla gonna leggera, leggermente plissettata e si perdono,

toniche e guizzanti, forse un po' incremate, sparendo sottili più

giù

per lasciar posto a un tacco deciso e squadrato.

Si ferma in cima alle scale e si gira. "Allora che fai, mi guardi

le gambe? Dai, non stare in fissa. Andiamo a prendere un aperitivo

o quello che vuoi tu che poi ho il pranzo con i miei e mio zio.

Due palle. Sennò, con il cavolo che mi conciavo così."

Donne. Le vedi in palestra. Piccoli body, strane tute inventate,

pantaloncini stretti e magliette sbrillentate. Aerobica a più non

posso.

Sudate su un viso senza trucco, capelli impiastricciati, incollati

al viso. E poi pluff... Peggio della lampada di Aladino. Escono

dagli

spogliatoi miracolate. Quel cesso slavato che hai visto prima non

c'è più. Il brutto anatroccolo si è truccato. È nascosto in

vestiti ben

scelti, ha le ciglia più lunghe, arcuate da un mascara costoso.

Labbra

perfettamente disegnate, a volte perfino tatuate, fanno uscire

ancora di più quella bocca che non è stata ancora pizzicata dalla

costosa zanzara collagene. Le donne, giovani cigni mascherati.

Certo

non sto parlando di Gin. Lei è...

"Oh, ma a che pensi?"

"Io?"

"E chi sennò? Siamo io e te."

"Niente."

"Sì, ancora. Be', deve essere un niente molto particolare.

Sembravi

imbambolato. Te ne ho date troppe, eh?"

"Sì, ma mi sto riprendendo."

"Io vengo con la mia macchina."

"Ok. Seguimi."

Monto in moto, ma non resisto. Piazzo lo specchietto per poterla

vedere salire in macchina. La supero. La tengo al centro della

mia vista. Eccola, sta salendo. Gin si piega in avanti, si siede

sul

sedile, morbida e leggera fa volare via da terra una dopo l'altra

le

sue gambe. Veloci e scattanti, quasi unite se non per un attimo,

quel

piccolo frame di pizzo che però per me è come un film. Che

sensuale

fotoflash. Poi torno alla realtà. Metto la marcia e via. Gin mi

segue senza problemi. Guida come una pilota provetta. Non ha

problemi nel traffico, allarga, supera e rientra. Suona il clacson

ogni

tanto per prevenire qualche errore altrui. Segue oscillando la

macchina

nelle sue curve, agitando la testa, immagino, a tempo di musica.

Gin selvaggia metropolitana. Ogni tanto mi lampeggia quando

si accorge dal mio specchietto che la sto controllando, doppi fari

come a dire... ehi, stai tranquillo, ci sono. Ancora qualche curva

e ci siamo. Mi fermo, la lascio sfilare, mi accosta. "Dai,

posteggia

qui, che lì non si entra." Non chiede altre spiegazioni. Chiude la

macchina e mi monta dietro tenendosi la gonna bassa per quella

strana operazione da cavallerizza.

"Troppo forte questa moto, mi piace. Ne ho viste poche così."

"Nessuna. L'hanno fatta solo per me."

"Sì, senz'altro, ancora. Sai quanto costerebbe un solo modello

per una sola persona?"

"415.000 euro..."

Gin mi guarda sinceramente strabiliata.

"Così tanto?"

"E calcola che a me hanno fatto pure un grosso sconto."

Mi vede sorridere nello specchietto che ho girato verso di lei

per incrociare il suo sguardo. Cerco di fare una piccola lotta a

braccio

di ferro con gli sguardi. Poi crollo e sorrido. Lei mi batte forte

sulla spalla. "Ma va', che cavolo dici, sei proprio un cazzaro! "

Questa,

dai tempi delle mitiche risse a piazza Euclide, dalle scorribande

sulla Cassia fino giù a Talenti e ritorno, non mi era mai

capitata.

Step, un cazzaro. E chi si è permesso di dirlo? Una donna. Questa

donna, questa qui dietro a me. E continua poi.

"A parte il suo costo, mi piace veramente tanto questa moto.

Un giorno o l'altro me la devi far portare."

Roba da pazzi, qualcuno che mi chiede di guidare la mia moto, e

chi poi? Sempre una donna. La stessa che mi ha dato del cazzaro!

Ma

la cosa più incredibile di tutte è che io le dico: "Sì, certo".

Ci infiliamo a Villa Borghese, guido veloce ma senza troppa

fretta e mi fermo davanti al piccolo bar vicino al laghetto.

"Ecco, siamo arrivati, qui non ci viene tanta gente, è più

tranquillo."

"Che c'è, non ti devi far vedere?"

"Ehi, hai voglia di litigare oggi? Se lo sapevo, in palestra ci

andavo

giù più duro."

"Guarda che ti ha detto bene."

"Ancora."

"Ok, ok, pace dai, ci si prende un aperitivo 'tregua', ci stai?"

Capitolo 35.

Claudio posteggia la macchina in garage. Per fortuna non c'è

la Vespa. Ancora nessuna delle figlie è tornata. Meglio. Almeno

non

corre il rischio di rovinare di più la fiancata. Anche se è

difficile

scendere al di sotto di quello che gli hanno offerto per la

Mercedes.

E con questo ultimo pensiero di libertà, dedicato al sogno della

sua Z-A, chiude il garage e sale a casa.

L e nessuno?

L'appartamento sembra in silenzio. Un sospiro di sollievo. È bello

concedersi un attimo di tranquillità. Anche per organizzare ancora

meglio l'uscita serale. Non sarà facile. C'ha pensato tutto il

pomeriggio,

ma vuole ripassare il piano, perfezionarlo anche nei minimi

dettagli. Vuole essere sicuro che non ci sia nessun imprevisto.

Ma proprio in quel momento gli piomba alle spalle Raffaella.

"Ci sono io, e c'è anche questa."

Gli sbatte davanti alla faccia l'estratto conto della sua carta di

credito, con la penultima riga sottolineata con l'evidenziatore

giallo.

Claudio la prende per le mani sbigottito. Raffaella gli si fa

ancora

più sotto.

"Allora, che vuol dire? Mi sai dare una spiegazione?"

Claudio si sente un giramento di testa. Il suo estratto conto

aperto. Schiaffato lì, davanti a tutti. A tutti... a sua moglie.

Oddio,

pensa, cosa avrà trovato? Fa una veloce ricognizione mentale. No.

Non ci dovrebbe essere nulla. Poi la vede. In fondo al conto la

penultima

riga risalta su tutte le altre. Prova inconfutabile della sua

colpa, dell'essere voluto tornare sul luogo del delitto. Ma lei

non

può sapere, non può immaginare.

"Ah, questa... ma niente, non è niente."

"180 euro per niente? Non mi sembra un buon affare."

"Ma no, è che ho comprato una stecca da biliardo."

"Ah sì? Questo lo so. Nell'estratto conto si legge perfettamente:

La bottega del biliardo. Quello che non so è da quando tu giochi

a biliardo. E soprattutto chissà quante altre cose allora non so.

"

"Ma Raffaella, ti prego. Guarda che ti sbagli, non è per me."

Poi una specie d'illuminazione, un faro nella notte, la

possibilità

di uscire illeso da quel mare in tempesta, da quel navigare a

vista

tra scogli appuntiti nascosti dall'uragano Raffaella.

"Non sapevo che regalare al dott. Farini, e siccome so che nella

casa al mare ha un biliardo, ho pensato che questo fosse un bel

regalo! Infatti gli è piaciuto molto. Pensa che stasera ci

vediamo,

andiamo a cena e poi facciamo anche una partita! "

Non era proprio questo il piano che aveva pensato tutto il

pomeriggio,

ma a volte l'improvvisazione crea delle bugie miracolose.

Raffaella non sa se crederci.

"Cioè, andate a giocare a biliardo tu e lui?"

"Sì, ma tu non sai. Dice che con la stecca che gli ho regalato gli

si

è riaccesa un'antica passione. Da quando ha ripreso a giocare

anche

le cose in azienda gli vanno meglio, capisci? Il biliardo lo

rilassa, non

è un miracolo?" Poi tutto fiero, quasi gonfiandosi. "Pensa che mi

ha

affidato dei finanziamenti per centinaia di migliaia di euro

grazie a

una stecca da biliardo da soli 180 euro. Non sono stato bravo?"

La vede ancora dubbiosa. Allora decide di giocare il tutto per

tutto, spericolato funambolo della menzogna, trampoliere della più

bassa bugia, Stuntman della falsità più assurda.

"Senti, non so come convincerti, guarda, ecco, potremmo fare

così, vieni anche tu con noi! Facciamo la cena e poi ci tieni i

punti

nella sala da biliardo, eh, ti va?"

Raffaella rimane per un attimo in silenzio.

"No, grazie."

Di fronte a questo tuffo nel vuoto, si tranquillizza. Anche

Claudio.

E se avesse detto di sì? Dove lo trovavo alle sette di sera

Farini?

È almeno un anno che non lo sento, sarebbe stato difficile

organizzare

una cena così, su due piedi, e soprattutto una partita a

biliardo, visto che Farini non ha proprio l'aria del giocatore.

Claudio

decide di non pensarci. Sta troppo male anche solo all'idea. Così

le sorride, cercando di fugare del tutto ogni sua minima

perplessità.

Ma Raffaella ha un ultimo guizzo.

"Scusa, ma se era un regalo di lavoro, perché non hai usato la

carta dell'ufficio?"

"Oh, ma tu lo sai com'è fatto Panella, quello spulcia tutto, e se

poi Farini non decideva d'affidarsi al nostro studio? Già lo so,

me

l'avrebbe rinfacciato tutto l'anno! Ho pensato che per 180 euro

potevo correre il rischio! " E proprio mentre lo dice, Claudio si

rende

conto di quanto ha rischiato anche lui questa volta. Si leva la

giacca, sta sudando. Va verso la camera da letto per nascondere in

qualche modo la tensione drammatica del momento.

"Ah, Raffaella, ma non ti preoccupare, eh? Ora che Farini è venuto

da noi, io quei 180 euro me li faccio rimborsare, cosa credi! "

Raffaella lo segue e lo raggiunge in camera. Sta per dire ancora

qualcosa ma Claudio non ce la fa più. Si avvicina e la prende per

le braccia.

"Sai, mi piace che dopo tutti questi anni tu sia ancora gelosa.

Vuol dire che il nostro rapporto è vivo."

Raffaella sorride. Le sembra in qualche modo di essere tornata

ragazza, be', se non altro più giovane, è come se in un attimo

quelle rughe, viste nello specchio, fossero sparite. Claudio si

avvicina

e le dà un bacio. Piano piano cominciano a spogliarsi, come

non facevano da tempo, da troppo tempo. E Claudio si sente

colpevolmente

eccitato. Raffaella lo guarda.

"Sì, mi sembrava assurdo che tu potessi fare una cosa del genere

e ora m'è venuta una voglia pazzesca, sento la rabbia che diventa

desiderio."

Claudio si abbassa i pantaloni e le solleva la gonna, la lascia

scendere lentamente sul letto e le sfila le mutande, alzandole le

gambe

con ancora le scarpe. Nella penombra della stanza, con l'aria

ancora

incerta, rarefatta da dubbi e bugie, da menzogne, dalla disperata

ricerca della verità, iniziano a toccarsi. Poi Claudio si tira

giù le mutande, le allarga le gambe e prende sua moglie. Claudio

va su e giù. Ansima e suda nella camicia. Raffaella se ne accorge.

"Ma spogliati del tutto."

"E se poi arrivano le nostre figlie?"

Raffaella sorride e chiude gli occhi, godendo, tirandolo a sé.

"Hai ragione... è bello così... continua ancora... dai..."

E Claudio spinge con forza, cercando di soddisfarla, eccitato

ma preoccupato. Come sarà più tardi la sua prestazione sul tavolo

da biliardo-letto con la controfigura di Farini? Preferisce non

pensarci.

Ha letto un articolo sull'ansia da prestazione. Va evitato proprio

come pensiero. Una cosa è sicura: i graffi della settimana prima

sono rimasti ben nascosti sotto la camicia tutta sudata.

All'improvviso

dal fondo del corridoio si sente la voce di Babi.

"Papà, mamma... ci siete?"

Raffaella dalla camera, con la voce leggermente rauca, cerca di

prendere tempo.

"Un attimo, arriviamo."

E proprio in quel momento Claudio, eccitato dall'assurdo di

tutta quella situazione, viene. Raffaella rimane così, interrotta

sul

più bello. È costretta suo malgrado a sorridere. Poi Claudio le dà

un bacio sulle labbra.

"Scusami..." e s'infila nel bagno. Si sciacqua velocemente. Anche

la faccia. Se l'è vista brutta, bruttissima. Invece è andato tutto

bene. Ora spera solo di essere all'altezza della serata, visto che

perfino

il piano è perfetto. Poi si ricorda che non ci deve assolutamente

pensare. Altrimenti già lo sa. Ti prende l'ansia da prestazione.

Capitolo 36.

Gin sorride e ci sediamo a un tavolino. Poco lontano un

intellettuale

con occhialini e libro sul tavolo sorseggia un cappuccino,

poi riprende in mano un articolo di "Leggere". Più in là una donna

sui quarant'anni con i capelli lunghi e un bastardino sotto la sua

sedia fuma svogliata una sigaretta, triste e nostalgica forse di

tutte

quelle canne che non si fa più.

"Bell'ambientino, eh?"

Gin si è accorta di quello che stavo guardando.

"Be', lo teniamo su noi. Che prendi?"

Alle sue spalle si è "concretizzato" un cameriere.

"Buongiorno, signori."

Ha circa sessant'anni e ci tratta in maniera elegante.

"Per me un Ace."

"Per me invece una CocaCola e una pizzetta bianca prosciutto

e mozzarella."

Il cameriere facendo un piccolo inchino con la testa si allontana.

"Ehi, dopo la palestra ti tratti niente male, eh? Pizzetta bianca

e CocaCola, la dieta degli atleti!"

"A proposito di atleta, tu che sei un'atleta a scrocco mi devi far

avere la lista delle tue palestre dei 365 giorni."

"Come no, senz'altro ti faccio subito la fotocopia."

"Complimenti comunque, è un'ottima idea..."

"Non solo, ma se sei attento riesci anche a fare lo stesso tipo di

lezione ogni settimana, l'unica cosa è che devi diventare amico

degli

istruttori perché quelli prima o poi ti sgamano."

"E allora?"

"Dopo la lezione gli offri due Gatorade, esponi la tua difficoltà

finanziaria e vai a vela tranquilla che è una meraviglia. Facile

no?"

"C'è qualcun altro che usa questo metodo?"

Ritorna il cameriere.

"Ecco qua, l'Ace per la signorina e per lei pizzetta bianca e

CocaCola."

Il cameriere posa tutto al centro del tavolo, mette uno scontrino

sotto il piattino finto argento e si allontana.

"No, penso di no."

Gin addenta una grossa patatina e se la mangia. Poi ridendo si

copre la bocca con la mano. "Almeno spero..." Continuiamo così

a chiacchierare, a conoscerci, a ridere e a provare a indovinare

cosa

abbiamo in comune.

"Ma dai, non sei mai stata fuori dall'Europa?"

"No, Grecia, Inghilterra, Francia, una volta perfino in Germania

all'Oktober Fest con due amiche mie."

"Ci sono stato anch'io."

"Ma quando?"

"Nel 2002."

"Pure io."

"Pensa che forza."

"Sì, ma la cosa più assurda è che una delle mie amiche era pure

astemia. Non sai che è diventata: ha preso una birra da un litro,

quei boccaloni ripieni che lavano dentro a quelle vasche enormi.

Se n'è scolato metà e dopo neanche mezz'ora era su un tavolo che

ballava una specie di tarantella e poi si è messa a gridare 'la

fontanella,

la fontanella...' e se l'è fatta sotto, un disastro."

La guardo mentre beve l'Ace. C'era una ragazza che ballava sul

tavolo nella sala dove eravamo noi. Ma chi non ballava quella sera

sul tavolo all'Oktober Fest? Mi ricordo che quando ho detto a Babi

che partivo con Pollo e Schello e un'altra macchina di amici per

andare a Monaco si era arrabbiata come una pazza.

"Cioè parti per Monaco, e io?"

"Tu no... Siamo solo uomini."

"Ah sì? Voglio proprio vedere."

E poi quel coglione di Manetta nell'altra macchina che fa? Ti

arriva con la donna. E al ritorno giù discussioni del cavolo con

Babi

perché naturalmente, come tutto, prima o poi, anche quello si

era venuto a sapere.

"A che stai pensando?"

Mento. "Alla tua amica che ballava sul tavolo. L'avreste dovuta

filmare. Sai le risate poi."

"Ma noi abbiamo riso come pazze sul momento, che ti frega

del poi. Poi, poi... Ora! "

E beve un altro sorso di Ace guardandomi allusiva. Ahia, che

vuole dire? La cosa si mette male. Male. Insomma si mette. Gin

vuole l'"ora". Ma non adesso, adesso ancora no. Forse domani, sì

insomma, tra un po', dopo...

"A che stai pensando? Ancora alla mia amica che balla sul tavolo?

Non ci credo, secondo me hai conosciuto qualcuna all'Oktober

Fest e ti stai ricordando una delle vostre bravate."

"Ci vedi male."

"Io ci vedo benissimo. Ho dieci decimi."

"No, vedi male il nostro gruppo. Ci hai presi per non so cosa.

Noi siamo persone tranquille, serene. Certo siamo tipi allegri,

non

di quelli che vanno al ristorante e stanno lì solo a pensare alle

buone

maniere 'No questo non si fa, questo neanche...', sì insomma

quei rompicoglioni. " Mi giro e ho culo. Una coppia si è appena

seduta.

Hanno un setter inglese, dei vestiti di marca e, come il più

naturale dei controsensi, hanno tutti e due sotto il braccio "il

manifesto".

Arriva il cameriere e ordinano qualcosa.

"Ecco, guarda quei due. Non si rivolgono la parola." Ordinano

infatti separatamente, senza darsi la precedenza, senza chiedere

l'uno all'altra e viceversa cosa gli va in questo momento.

Distrattamente,

scontatamente, galleggiando così alla deriva.

"Guarda, il cameriere se ne va e loro riprendono a leggere, tutti

e due 'il manifesto' poi... Non che io abbia qualcosa contro quel

giornale..."

O meglio ce l'ho ma Gin non so bene come la pensa, qualcuno

potrebbe dire: quindi non ti vuoi esporre? Sì, rompicoglioni, è

proprio così.

"Ma nemmeno se lo dicono che hanno comprato tutti e due lo

stesso quotidiano? Cosa c'è di peggio? Indifferenza totale..."

Il cameriere ritorna veloce a quel tavolo. Hanno preso tutti e

due un semplice caffè.

"E ora l'uomo paga solo perché tocca a lui, così è la regola." Il

tipo si alza un po' dalla sedia, sposta il peso sulla gamba

destra, il

portafoglio evidentemente lo tiene a sinistra, infila la mano

nella

tasca e paga mentre la donna senza neanche guardarlo continua a

bere il suo caffè.

"Distratti e annoiati. Ben vengano i miei amici, o no? E che

cazzo!

Fanno casino, rutti, fanno a botte, non pagano, o lo fanno urlando

chiedendosi 1 euro a testa e altro, ma almeno per loro la vita

non è sopravvivere, cazzo."

Gin sorride.

"Sì, sì, hai ragione, almeno su questo hai ragione."

E questo mi basta, non voglio di più. Non per adesso almeno.

"Va bene, ma rilassati ora, Step, anche perché hai altro da fare."

"Cioè?"

"Devi risolvere il problema con il signore."

Mi giro, dietro alle mie spalle c'è il cameriere che sorride. Non

me ne ero accorto.

"Permette?"

Non riesco neanche a rispondere. Il tipo si sporge in avanti e

prende lo scontrino da sotto il piattino di finto argento. Non

l'avevo

sentito arrivare alle mie spalle. Strano, non è da me. Ecco, con

Gin sono per la prima volta rilassato. È un bene?

"Sono 11 euro, signore."

Faccio esattamente la stessa mossa del tipo squallido della coppia

abulica ed estraggo di tasca il portafoglio. Lo apro e sorrido.

"Meno male."

"Che cosa?"

"Che siamo diversi da quei due squallidoni."

"Cioè?"

Gin mi guarda alzando il sopracciglio. "Spiegati meglio! "

"È molto semplice. Devi pagare tu, non ho soldi."

"Preferirei non eccedere in stravaganze pur di essere diversi.

Cioè era meglio se eravamo uguali a quei due e pagavi tu."

Gin tutta elegante e sorridente, perfettamente vestita e truccata,

mi fa una smorfia, finta ironica. Poi sorride ancora al cameriere,

scusandosi per l'attesa. Apre la borsetta, tira fuori il

portafoglio,

lo apre e questa volta non sorride più. Anzi un po' impacciata,

arrossisce.

"Siamo proprio diversi da quei due. Anch'io non ho soldi." Poi

guardando il cameriere: "Sa, mi sono cambiata perché ho un pranzo

con i miei parenti e quindi, siccome pagano loro, non ci ho

pensato".

"Male..."

Il cameriere cambia tono, espressione. Quella sua cortesia sembra

svanire nel nulla. Forse, uomo maturo, anziano si sente preso

in giro da questi due ragazzi.

"A me non interessa tutto questo."

Prendo in mano la situazione.

"Guardi, non si preoccupi, accompagno la signorina alla macchina,

vado a prendere i soldi a un Bancomat e torno qui da lei a

pagare."

"Sì, certo... e io mi chiamo Joe Condor! Vi sembro così allocco?

Tirate fuori i soldi o chiamo la polizia."

Sorrido a Gin. "Scusami." Mi alzo e prendo il cameriere per

un braccio gentilmente all'inizio, poi alla sua ribellione "Ma che

vuoi, sta' fermo" stringo un po' di più e me lo porto più lontano.

"Ok, signor cameriere. Siamo in difetto, ma non farla lunga.

Non intendiamo fregare 11 euro. È chiaro?"

"Ma io..."

Stringo più forte, questa volta in maniera decisa. Vedo sulla sua

faccia una smorfia di dolore e subito lascio andare.

"Per favore, glielo sto chiedendo per favore. È la prima volta

che esco con questa ragazza..." Forse commosso e convinto più di

ogni altra cosa da questa mia ultima confessione, annuisce.

"Ok, allora l'aspetto più tardi."

Torniamo al tavolo. Sorrido a Gin. "Tutto risolto." Gin si alza

e guarda il cameriere sinceramente dispiaciuta.

"Mi dispiace sul serio."

"Oh, non si preoccupi. Sono cose che capitano."

Io sorrido al cameriere. Lui mi guarda. Credo che cerchi di capire

se tornerò o meno.

"Non torni troppo tardi per favore."

"Non si preoccupi."

E andiamo via così. Con un sorriso gentile e un briciolo di

dignitosa

speranza.

Capitolo 37.

Sono dietro a Step, sulla moto, sulla sua moto, i miei pensieri

al vento. Ma guarda questo. Ma dove ti sei ficcata, Gin? È

assurdo.

Prima uscita o meglio la seconda. La prima però lui e i suoi

amici sono fuggiti da quel posto. Come si chiama? Il Colonnello.

E ora, oggi, stamattina che ha la possibilità, la grande esclusiva

di

uscire con te, Gin l'unica, l'irripetibile, la formidabile. Che

fa? Si

presenta senza soldi. Ci manca poco che ci sbattono pure dentro.

Roba da pazzi. Mio zio Ardisio direbbe: "Attenta, attenta Ginevra,

quello non è il principe della terra". Già mi immagino la sua

voce, tutta roca, tutta in su, con le "e" strette e le "t" che

diventano

facilmente delle "d"... "Addenda, addenda, principessa..."

Zio Ardisio. "Quello è il principe dei porci... Neanche un fiore

per la mia principessa, devi chiudere gli occhi e costringerdi a

sognare...

Addenda, addenda... principessa..." Scuoto la testa, ma

lui se ne accorge, fingo di guardare da un'altra parte. Ma mi

segue

nel suo specchietto e si sporge indietro per farsi sentire.

"Che c'è? Ho fatto la classica figuraccia?"

"Ma di che?"

"Prima uscita, non pago io, quasi ti faccio pagare, anzi peggio,

quasi venivamo arrestati. So già cosa pensi..."

Step sorride e fa la voce in falsetto per imitarla. "Ecco, lo

sapevo

questo è un poco di buono."

Come una tiritera continua. Io sto sulle mie.

"Ma guarda con chi sono capitata. Ah, se lo sapessero i miei..."

Step sorride e continua imperterrito. Oh, ha beccato tutti i miei

pensieri. Però è pure simpatico. Cerco di non sorridere ma non ce

la faccio.

"C'ho preso, vero? E di' la verità, dai."

"No, stavo pensando a quello che poteva dire mio zio Ardisio. "

"Lo vedi? Va be', insomma qualcosa di vero c'era in quel tuo

sorriso. "

"Ti chiamerebbe il principe dei porci!"

"A me?" Fingo di fare il duro. "Ci dovrebbe solo provare."

Mi fermo. Gin scende davanti alla sua macchina. È serena,

divertita, veramente elegante. Rimane così, con le gambe

leggermente

divaricate e i capelli che le scendono sugli occhi mentre

cerca le chiavi nella borsa. Ha una borsetta piccola, eppure

ci deve essere dentro un sacco di roba. Gin fruga, smacina, sposta

delle cose di qua e di là. Intanto la guardo, incorniciata da un

arco di travertino, all'entrata di via Veneto, risplende tutta la

sua

bellezza moderna in quella cornice antica.

Un vento leggero accarezza le trasparenze della sua gonna. Sotto

quel leggero celeste, tra quei disegni di fiori appare un azzurro

unito e deciso che nasconde più su, tra le sue gambe ancora

abbronzate,

il fiore proibito.

"Eccole! Oh, non so com'è, finiscono sempre in fondo."

Tira fuori dalla borsetta delle chiavi attaccate a una pecorella

nera.

"È il regalo di Ele, la pecora Embè! Forte vero? Ma stai attento

alla pecora Embè..."

"Perché?"

"Prende a calci tutti i lupi che le si avvicinano."

"Tranquilla, praticamente me la sono già mangiata..."

"Cretino... Be', grazie dell'aperitivo, è stato come dire...

unico.

Vuoi che ti porto qualcosa da mangiare dopo che ho finito con i

miei zii?"

"Capirai, never ending story, peggio del film. Ehi, può accadere

di dimenticarsi dei soldi, no?"

"Come no... strano però che capiti sempre tutto a te."

E con questa bella frase, si allontana e sale in macchina.

"Passaci da quel cameriere. Ti aspetta. Nessuno andrebbe illuso."

Poi parte quasi sgommando, guidando a modo suo. Mi verrebbe

da urlarle: "Aho, a bella! Mi devi ancora 20 euro di benzina..."

ma finisco per pentirmi perfino del mio pensiero.

Capitolo 38.

"Eccola che arriva! Gin!"

Li saluto da lontano. Che strano gruppo tutti insieme, di altezze

sfalzate, dai vestiti così diversi. Mio fratello jeans e maglietta

Nike, mia madre un vestito scuro a fiori con sopra una mantellina

blu, mio padre impeccabile in giacca e cravatta e mio zio Ardisio

con una giacca arancione e una cravatta nera con i pois bianchi. È

incredibile dove riesce a trovare certa roba. I costumisti della

televisione,

Fellini stesso, andrebbero pazzi per lui. Con quei capelli

arruffati, bianchi e capricciosi che incorniciano quel viso buffo

sottolineato

da quegli occhialetti tondi. Come un punto esclamativo

dopo la frase: Che tipo mio zio!

"Ciao" ci baciamo tutti con affetto, con amore, con tenerezza

e mamma come al solito mi bacia mettendomi la mano sulla guancia

come a imprimere ancora più amore a quel suo semplice bacio,

come se volesse fermarlo per un attimo in più rispetto a tutti gli

altri.

Mio zio invece come al solito esagera e mentre mi bacia mi tira

unendo pollice e indice sotto il mento, obbligandomi a scuotere

la testa a destra e sinistra.

"Eccola qua la mia principessina." Poi mi molla lasciandomi

un po' di dolore. Mi devo per forza passare la mano sotto il mento

per allisciarmelo e lo zio si becca uno sguardo di odio leggero.

Ma è un attimo. Poi sorrido al suo sorriso. Mio zio è fatto così.

"Allora?" Cominciano sempre così i nostri incontri. "Chi ha

scelto questo posto?"

Alzo timidamente la mano. "Io, zio..." E resto in attesa. Zio mi

guarda con il sopracciglio leggermente alzato, un'espressione un

po' dubbiosa e il labbro che trema. Passa qualche attimo di

troppo,

comincio a preoccuparmi.

"Brava, è bello, brava figlia mia, è bello. Sul serio. Un tempo si

mangiava in mezzo all'arte..."

Sospiro, fiuu... È andata, anche se non sono "figlia sua", voglio

bene a mio zio. Speravo gli piacesse mangiare qui con tutti noi al

Caffè dell'arte vicino a viale Bruno Buozzi.

Zio Ardisio comincia uno dei suoi racconti.

"Mi ricordo quando volavo sull'accampamento, quello con i

miei soldati..." La sua voce si fa più roca quasi modulata dalla

pressione

dei ricordi, spezzata a tratti dalla forza della nostalgia. "E io

gli gridavo e gridavo 'studiate, leggete'. Ma loro erano troppo

preoccupati

dalla morte. E poi facevo un giro con il mio aereo bimotore

e poi tornavo indietro per dare notizie e atterravo sull'erba lì

vicino.

Burubu, burubam, sballottato arrivavo, con quell'aereo che

era un miracolo dell'avazione..."

Luke che naturalmente fa il preciso nei pochi momenti quando

non dovrebbe esserlo. "Aviazione zio, aviazione con la i."

"E io c'ho detto? Avazione, eh?"

Luke scuote la testa e sorride. Meno male che Luke stavolta

rinuncia.

Al tavolo arriva un cameriere giovane e composto con i capelli

corti ma non troppo, con uno sguardo ingenuo ma lucido. Quasi

perfetto oserei dire, se non fosse che spinge un carrello con dei

flûte lucidi, tirati a nuovo e una bottiglia già infilata in un

secchiello

pieno di ghiaccio. È un Möet, ottimo champagne e certo, ci

mancherebbe,

tanto paghiamo noi.

"Mi scusi, eh? Ma non ci siamo proprio. Nessuno ha ordinato...

Vedo già mamma che mi guarda preoccupata. Il giovane cameriere

interviene sorridendo.

"No, signora, questa bottiglia la offr..."

"Grazie per la signora, ma non esiste proprio."

"Se gentilmente mi fa finire, la offre quel signore laggiù."

Il cameriere, ora più serio, indica alcuni tavoli lontani, quasi

sul

fondo del ristorante. Incorniciato dagli alberi nella vetrata alle

sue

spalle c'è lui, Step. Si alza dal tavolino e sorridendo muove la

testa accennando

a un inchino. Non ci posso credere, mi ha seguito fin qui.

E certo, voleva vedere dove andavo, ha voluto scoprire se ero

veramente

con la mia famiglia. E questo è il pensiero di Gin la vendicativa.

Gin-Selvaggia. Ma Gin non è così! Una parte di me si ribella.

Magari

voleva solo scusarsi per l'aperitivo, in fondo hai fatto una

figuraccia

anche tu. E questo è il pensiero di Gin la saggia. E qualcosa,

non so bene perché, mi rende più simpatica Gin-Serena.

"Questo biglietto è per lei, signora."

Il cameriere mi porge un biglietto e questo ancora di più mi fa

pensare che la mia scelta sia giusta. Lo apro leggermente

imbarazzata,

con gli occhi addosso di tutti, papà, mamma, Luke, zio Ardisio.

Prima di leggere arrossisco. Che palle. Ma perché proprio adesso.

Leggo. "È bellissimo guardarti da lontano... ma da vicino è

meglio...

Ci vediamo stasera? P.S. Non ti preoccupare, ho trovato un

Bancomat e ho già pagato il cameriere del nostro aperitivo."

Chiudo il biglietto e sorrido e quasi mi dimentico che ho tutti

gli occhi addosso. Zio Ardisio, papà, mamma, Luke. Tutti vogliono

sapere che c'è scritto, a cosa è dovuta quella bottiglia e

naturalmente

il più irrequieto, quello che resiste meno di tutti è proprio

zio Ardisio.

"Allora, principessa... A che cosa la dobbiamo questa bottiglia?"

"Be'. Quel ragazzo l'ho aiutato... non era capace, non sapeva,

insomma si sta preparando per un esame."

"Ardisio, ma che ti importa?" Mamma mi salva in calcio d'angolo.

"C'è qua una bella bottiglia, brindiamo e pace! No?"

"Ecco appunto..."

Guardo Step e gli sorrido, lui mi vede da lontano, si è seduto

di nuovo. Ma che fa ora? Perché non se ne va? È stato carino, ma

basta. E vattene Step, che aspetti?

"Mi scusi?"

Il cameriere mi guarda sorridendo, non ha ancora aperto la

bottiglia.

"Sì?"

"Mi ha detto il signore che mi dovrebbe rispondere."

"Cosa?"

"Non lo so, credo al biglietto."

Tutti mi guardano di nuovo, ancora più attenti di prima.

"Gli dica di sì. " Poi guardo loro. " Sì, voleva sapere se l'ho

iscritto

all'esame."

Tutti tirano un sospiro di sollievo. Tranne mamma naturalmente

che mi fissa, ma evito il suo sguardo. Finisco di nuovo a guardare

il cameriere che tira fuori un altro biglietto. "Allora le devo

dare

questo."

"Un altro?"

Crollano un po' tutti.

"Ma stavolta ce lo dici che c'è scritto?"

"Ma che è, una caccia al tesoro?"

Arrossisco di nuovo naturalmente e lo apro. "Allora, alle otto

io sono sotto casa tua. Ti aspetto, non fare tardi, non combinare

casini... P.S. Porta i soldi, non si sa mai."

Sorrido fra me e me.

Il cameriere ha finalmente stappato la bottiglia, finisce veloce

di versare lo champagne nei flûte e fa per andarsene.

"Senta, scusi..."

"Sì?"

Fa un piccolo giro su se stesso e mi guarda.

"Ma se le rispondevo di no aveva un altro biglietto?"

Il cameriere sorride e scuote la testa. "No, in quel caso mi ha

detto che dovevo semplicemente portarmi via la bottiglia. "

Capitolo 39.

Raffaella ha raggiunto Babi in salotto.

"Ciao Babi, dimmi... allora che c'è?"

"No, è che ti volevo far vedere questi, mamma, ma che hai? Sei

tutta arrossata..." Babi la guarda preoccupata. "Ma che avete

litigato?"

"No,tutt'altro..."

Raffaella la guarda sorridendo. Ma Babi non le dà soddisfazione

e le mostra un giornale.

"Ecco, ti dicevo, ti piacciono questi sui tavoli? Non sono carini?

O preferisci questi altri che sono più naturali? Spiga e grano,

bello no? Meglio questo, vero?"

"Mi ci fai pensare stasera?"

"Devi uscire, vero?"

"Sì, vado dai Flavi."

"Mamma, guarda che dobbiamo decidere, la stai prendendo

troppo sottogamba! "

"Domani decidiamo tutto, Babi, ora sono in ritardo."

Raffaella va in bagno e comincia a truccarsi velocemente. Proprio

in quel momento arriva anche Daniela.

"Mamma, ti devo parlare."

"Sono in ritardooo..."

"Ma è importante! "

"Domani! Non c'è niente che non possa essere risolto domani! "

In quell'istante passa Claudio. Va di corsa anche lui. Daniela

cerca in qualche modo di fermarlo.

"Ciao papà, ti puoi fermare un secondo? Ti devo raccontare

una cosa, è molto importante ! "

"Ho una cena con Farini. Ho già detto tutto alla mamma. Scusami,

ma è un affare di lavoro importantissimo e poi c'è di mezzo

anche una partita..."

Claudio bacia frettolosamente Daniela. Raffaella lo raggiunge

sulla porta.

"Claudio, aspettami, scendiamo insieme."

Daniela rimane così, in mezzo al corridoio a guardare i suoi

genitori

che vanno via. Poi si avvicina alla camera di Babi. Ma la porta

è chiusa. Daniela bussa.

"Avanti, chi è?"

"Ciao... scusa, ti devo raccontare una cosa. Possiamo parlare?"

"No, guarda. Sto uscendo. Mamma se n'è andata e dovevamo

decidere una marea di cose importanti. Scusami, ma non è proprio

il momento. Vado da Smeralda, almeno mi dice qualcosa lei. Se hai

bisogno cercami sul telefonino."

Ed esce così anche lei di scena. Daniela, rimasta sola, si

avvicina

al telefono di casa e compone un numero.

"Pronto Giuli... ciao... che stai facendo? Ah, bene... senti,

scusami,

ma non è che posso passare? Ti devo dire una cosa, sì, una

cosa importante. Sì, ti giuro, ti rubo solo due minuti. Sì, scusa

eh,

ma non so proprio che fare. Ti giuro, sì, ne parliamo tra una

pubblicità

e l'altra. Ok, grazie."

Daniela attacca, chiude veloce la porta di casa e scende a razzo

le scale. Apre il portone ed esce.

Proprio in quel momento, da dietro una siepe: "Dani! ".

È Alfredo.

"Oddio, m'hai fatto prendere un colpo... mamma mia, ho il

cuore a duemila. Ma che, ti nascondi così!"

"Scusami, ho visto uscire ora Babi."

Daniela si accorge che è pallido, dimagrito, nervoso.

"Ecco, no... volevo parlare un po' con te che sei sua sorella."

Daniela lo guarda. Oddio, questo qua mo' m'attacca un bottone

su Babi.

"No scusami, Alfredo, guarda io non so niente... devi parlare

solo con lei. "

"Ok, scusa, hai ragione. E tu come stai?"

"Bene, grazie..." Daniela lo guarda meglio. Alfredo potrebbe

essere la persona giusta con la quale parlare. È un medico, è

maturo,

magari mi dà anche un consiglio giusto.

"Sai, scusami se ti ho spaventato."

"Oh figurati, non ti preoccupare, è passato."

"Eh, invece a me non passa. Penso sempre a tua sorella e sto

malissimo. Pensa che prendo anche degli ansiolitici."

"Mi dispiace."

Rimangono per un po' in silenzio. Poi Daniela decide di chiudere

quella conversazione impossibile.

"Be', ora scusami, ma devo proprio andare, mi sta aspettando

una mia amica..."

"Ok, scusa tu..."

Daniela se ne va di corsa a prendere in garage la Vespa. Spera

di arrivare da Giuli che non è ancora cominciato il film. Poi

ripensa

ad Alfredo. Poveraccio, guarda come sta. Certo che la passione di

Babi distrugge proprio. In questo momento è un uomo finito,

instabile,

psicolabile. E sulla sua decisione Daniela non ha dubbi. Alfredo

era l'ultima persona alla quale avrebbe potuto dire di essere

incinta.

Capitolo 40.

Comodo e tranquillo, elegante come non mai, almeno credo.

Mi guardo nello specchietto e non riesco a riconoscermi. Capelli

ancora freschi dalla doccia appena fatta, giacca blu, camicia

bianca

e pantaloni di lino beige con delle scarpe americane marroni

scure,

dalla cucitura in corda che non risalta troppo però, regalando

un'immagine moderna. Cinta alta con fibbia grossa, di un marrone

scuro identico alle scarpe. Ah, dimenticavo, camicia abbottonata

fino al penultimo e telefonino nella tasca. Io con il telefonino.

Ancora non ci posso credere. Rintracciabile sempre, dovunque,

mai libero quindi e come per magia o per sfiga naturalmente suona.

Cazzo proprio adesso, lo apro, vuoi vedere che Gin ha un problema?

Se è così, non me ne frega niente, passo a prenderla sotto

casa, anzi no, salgo su e la rapisco. Continuo frenetico con i

miei

pensieri.

"Pronto?"

"Step, meno male che rispondi..."

È Paolo, ma certo come ho fatto a non pensarci?

"Che succede?"

"Step, è successa una cosa tremenda, mi hanno fregato la

macchina."

"Porca puttana... Mi hai fatto pensare a mamma e papà..."

"No, loro stanno bene. Sono sceso giù e non c'era più la mia

Audi 4. Cazzarola, ma come avranno fatto? Non c'è vetro per terra,

non hanno spaccato il finestrino quindi. Ma pure il garage era

aperto e senza forzature. Ma come avranno fatto?"

"A Pa', guarda che ormai i ladri hanno tecniche perfette, eh? I

garage con telecomando poi non li sfonda più nessuno. Hanno un

variatore di frequenze. Girano finché il garage non si apre."

"Ah già, non ci avevo pensato. Porca troia! "

Mi fa piacere sentire mio fratello così incazzato, mi sembra più

vivo, e finalmente, cazzo, si riscalda. Ma sempre per roba da poco

però... la sua macchina. Che sarà mai.

"Proprio adesso me l'hanno fregata. Porca pupazza."

Ecco, porca pupazza. Che vuol dire "Porca pupazza"?

"Ho pagato l'altra settimana l'ultima rata del finanziamento.

Potevano fregarmela prima, almeno mi risparmiavo quei soldi."

Bleah! Che schifo. Infido calcolatore. Commercialista fino in

fondo.

"Va be', Pa', insomma che vuoi fare?"

"No, io speravo..."

"Che te l'avessi fregata io?"

"No, ma che scherzi? Anche perché le chiavi e il doppio stanno

ancora qui."

"Ah, allora per un attimo l'hai pensato, eh?"

"No, perché, cioè..."

"Eh no, se sei andato a controllare il doppio, vuol dire che ci

hai pensato. Solo io potevo prenderlo."

Pausa di silenzio.

"Be' sì, per un attimo l'ho pensato. Ma mi avrebbe fatto piacere,

cioè, sì insomma, sempre meglio tu..."

Mio fratello. "Pa', stai zitto va', che è meglio."

"Perché?"

Già, perché mi dice. E io stupido che tento di farglielo capire.

"Niente Pa', tutto a posto."

"Ecco io volevo sapere Step, no, senza che ti offendi, eh?"

"Che cosa? Dimmi..."

"No, siccome tu bene o male conosci un sacco di gente in quei

giri. Ecco se non hai problemi... se puoi sentire in giro se si sa

di

qualcuno che l'ha presa."

"Ehi, ma quelli vogliono soldi, eh? Mica vorrai che vado a fare

a botte con gente di quella portata per una macchina qualsiasi."

"Qualsiasi... Per una Audi 4! "

"Sì, sì, per una Audi 4."

"No, no questo no, assolutamente... Ecco io ci avevo già pensato,

sono disposto a dare anche 4300 euro..."

"E perché proprio questa cifra?"

"Ho pensato che con la franchigia e tutto il resto..."

Mio fratello, grande commercialista. Il migliore.

"Ok Pa', se posso ci provo."

"Grazie Step, lo sapevo che potevo contare su di te."

Mio fratello che può contare su di me, questo è il massimo. Due

curve e sono sotto casa sua. Vado a citofonare, mentre sto per

farlo

mi ricordo che ha un telefonino. Le faccio due squilli per

avvisarla.

Avrà capito? Nel dubbio aspetto un attimo. Prima o poi scenderà.

Prima o poi. Le donne e il loro prepararsi. Forse è meglio se

citofono. Ancora un minuto. Mi concedo un altro minuto per

aspettarla.

Mi accendo una sigaretta. Ecco, finisco di fumarmi la sigaretta

e poi citofono. Strada tranquilla. Mi guardo in giro. Qualche

macchina che passa sullo sfondo. Uno che inchioda perché un altro

ha fatto il prepotente non facendolo passare. Ma poi anche

quest'ultimo

riparte e tutto procede, tranquillo, sperso in questa grande

città. Che palle! Che riflessioni del cavolo. Ma dove la porto

stasera?

Che strano, ho pensato a tutto ma non a questo. Dove la porto?

Questa era una cosa alla quale pensare. Mi viene un'idea, ma

poi mi preoccupo. Mi preoccupo di quello che sto pensando. Io

che mi preoccupo dove portarla a mangiare? Non mi starò

preoccupando

un po' troppo? Quando esci con una donna se ti metti a

scalettare la serata è lì che toppi.

E toppi alla grande, eh! Non ci siamo. Ci vuole disinvoltura,

casualità, quello che è, è. Poi improvvisamente mi viene un'idea.

Cazzo però, mi piace la mia idea. Un altro tiro e poi citofono. Ma

il cancello in quel momento si apre. Un rumore, uno scatto di

serrature.

Il portone in fondo si dischiude lentamente. Della luce filtra

dall'androne, leggermente arancione. Illumina le foglie lì intorno

nel giardino, i gradini lontani, i motorini posteggiati. Poi esce

una signora anziana. Cammina lenta, sorridente, con le gambe

leggermente

ricurve sotto il peso degli anni. Poi, subito dopo, lei. Lei

che l'ha fatta passare, lei che ancora le tiene il cancello, lei

che l'aiuta

a uscire, che le parla sorridendo, che annuisce a qualche domanda

occasionale, lei gentile, lei bella, lei sorridente. Lei. La

signora

mi passa davanti e anche se non la conosco mi scappa un

"Buonasera".

Mi sorride. Come se mi conoscesse da sempre.

"Buonasera a lei" e si allontana lasciandomi solo con Gin. Ha

i capelli raccolti, un giubbotto corto di pelle, con zip e

cinturini,

una divertente cintura azzurra 55 DSL, i pantaloni scuri a vita

bassa,

a cinque tasche e cuciture a contrasto. Borsa grande in tessuto

Fake London Genius. Ha stile. E per averlo non ha speso nulla.

Incredibile

come noti tutto quando ti piace qualcuno. Ha la faccia

buffa. Ma che dico? Bella.

"Ma la moto? Non sei venuto in moto?"

"No."

"E io che mi sono conciata così." Mi fa una specie di piroetta

davanti. "Non sembro un po' il 'Selvaggio' Marion Brando?"

Sorrido. "Più o meno."

"Ma allora come sei venuto?"

"Con questa, ho pensato che stavi più comoda."

"Una Audi 4! E a chi l'hai fregata?"

"Ah, mi sottovaluti, è mia."

"Sì, e io sono Julia Roberts."

"Dipende dal film. Ho capito, Pretty Woman."

"Tsk."

Gin va verso la portiera e mi dà al volo un pugno sulla spalla.

"Ahia."

"Cominciamo male. Non mi è piaciuta quella battuta."

"Ma no, Pretty Woman nel senso che vuole un sogno."

"E allora?"

"Allora hai trovato il tuo sogno..."

"Ma chi, la Audi 4?"

"No, io." Sorrido, entriamo in macchina e parto sgommando.

"Più che un sogno, questo mi sembra un incubo. Dai, di' la verità,

a chi l'hai fregata?"

"A mio fratello."

"Ecco così mi piaci, sarà sempre una bugia, ma almeno è più

credibile. "

Accelero leggermente e ci perdiamo nella notte. E penso al doppio

delle chiavi comprato da quel tipo vicino al bar dei Sorci Verdi

a corso Francia, quello che ha le copie di tutte le chiavi di

tutte

le macchine possibili e immaginabili. Penso a Pollo e alla prima

volta

che mi ci ha portato, penso agli scherzi che facevamo, penso a

mio fratello preoccupato per la sua macchina rubata, penso alla

serata,

penso alla mia idea, penso al mio passato. Un qualche pensiero

veloce, più forte degli altri. Passo davanti all'Assunzione. Mi

voglio distrarre. Mi giro verso Gin. Ha acceso la radio,

canticchia

una canzone e si è accesa una sigaretta. Poi mi guarda e sorride.

"Allora dove andiamo?"

"Be', è una sorpresa."

"Era quello che speravo che dicessi."

Mi sorride e piega di lato la testa, si scioglie i capelli. E in

quel

momento capisco che la vera sorpresa è lei.

Capitolo 41.

"Allora? Qual è la sorpresa? È una bella sorpresa?"

"Sono più sorprese."

"E dimmene una."

"E no. Non è più una sorpresa."

Posteggio e scendo giù dalla macchina. Un marocchino o qualcosa

giù di lì mi corre incontro con la mano già aperta. Gliela prendo

al volo e gliela stringo. "Ciao capo..." ride divertito e sguaina

una

specie di dentatura alla "ecco perché i dentisti sono così cari!

".

sono 2 euro.

"Senz'altro. Ma pago quando torno." Gli stringo un po' più

forte la mano. "Così sono sicuro che la ritrovo perfetta, vero? Si

paga a servizio fatto."

Mi guarda preoccupato. "Quindi tienila bene d'occhio, non voglio

graffi. Chiaro?"

"Ma io dopo mezzanotte sono..."

"Torniamo prima." E mi allontano.

"Allora aspetto, eh?"

Non rispondo e guardo Gin.

"Ci tiene proprio a questa macchina tuo fratello, eh?"

"Maniacale. In questo momento sta disperato perché pensa che

gliel'abbiano rubata."

"Non è che ci ferma la polizia e finiamo in galera?"

"Mi ha dato una notte per ritrovargliela."

"E poi?"

"Poi parte la denuncia. Ma non ti preoccupare, gliel'ho già

ritrovata,

no?"

Gin ride e scuote la testa.

"Poveraccio tuo fratello, mi immagino cosa gli hai fatto passare."

"Veramente lui non lo sa, ma l'ho sempre salvato da molte

situazioni.

"

Penso a mia madre per un attimo. Mi viene voglia di raccontarle...

Ma questa è la nostra serata, io e lei. E basta.

"A che pensi?"

"Che ho fame... vieni! "

E la trascino via, prendendola per mano. Da Angel, un aperitivo,

un Martini ghiacciato per tutti e due, shakerato, ghiaccio e

limone

alla James Bond o giù di lì e a stomaco vuoto è un sogno. Gin

ride e mi racconta. Storie del passato, amiche sue ed Ele e come

si

sono conosciute e le litigate e le gelosie dell'amica. E io la

prendo

poi per mano e saluto un tipo con l'orecchino che sembra

conoscermi

e poi me la porto in bagno.

"Ehi, ma che vuoi fare? Non mi sembra proprio il caso, eh?"

"No guarda..." Le passo 20 centesimi o forse 50 o forse 1 euro,

magari 2, non li vedo nemmeno. Glieli metto in mano. Penso

al tipo del parcheggio. A quando torno e gli dirò che non ho più

monete.

"Questo è il pozzo dei desideri, vedi quanti soldi ci sono sul

fondo?" Gin guarda dentro una specie di pozzo in quel bagno pieno

di piante e tappeti colorati, rosso, viola, arancione e una luce

blu e gialla e muri bianchi e color mattone. "Dai... Hai

espresso?"

Lei sorride, si gira e butta via la mia moneta con un desiderio

tutto

suo che finisce sul fondo nella speranza di avverarsi. La seguo a

ruota e faccio volar via la mia sopra la mia spalla. E vola giù

che è

una meraviglia e sparisce ondeggiando in mezzo all'acqua con uno

strano zigzag per poi posarsi sul fondo tra mille altri sogni e

qualche

desiderio, forse, più o meno realizzato.

Usciamo in silenzio, mentre un tipo entra veloce quasi urtandoci

mentre già si sbottona i pantaloni, ma poi ci ripensa e si tuffa

sul lavandino vomitando. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere,

schifati

e imbrividiti... Bleah... Chiudendoci la porta alle spalle e via.

Lascio 15 euro sul tavolo e in un attimo siamo fuori. Incontro

Angel che mi saluta.

"Ciao Step, quanto tempo..."

"Sì, sì. Dopo, caso mai, ripasso."

In realtà si chiama Pier Angelo, ancora me lo ricordo, vendeva

strani quadri a piazza Navona agli stranieri, croste improbabili

per

delle cifre ancora più improbabili. Un tedesco, un giapponese, un

americano, una sua strana spiegazione in inglese non proprio

perfetto,

maccheronico e inventato, e via un altro "pacco" per potersi

comprare un giorno, come poi ha fatto, il suo Angel's.

"Allora? Tutto qui?"

"Stai tranquilla... ho capito, non vuoi faticare."

La prendo al volo e me la carico sulle spalle. "No dai, che fai?"

Ride divertita e prova a picchiarmi, ma lo fa senza cattiveria.

"Ti porto io... Basta che non fai più domande."

"Dai, mettimi a terra!"

Passiamo davanti a un gruppetto di ragazzi e ragazze che ci

guardano più o meno divertiti, sognanti le prime, imbarazzati i

secondi.

Questo è quello che mi sembra di leggere sulle loro espressioni.

E voliamo via. Cul de sac.

"Ecco ora puoi scendere. Qui un aperitivo di formaggi e vini."

Gin si sistema giù il giubbotto che le si era alzato e anche la

maglietta

che le ha scoperto la pancia, morbida ma compatta senza

strani piercing all'ombelico, naturale e rotonda.

"Che fai guardi? La mia pancetta non è il massimo."

Bella e insicura. "Vuoi dire che c'è dell'altro?"

Gin sbuffa.

"Sono calamitato, attratto, inevitabilmente risucchiato e..."

"Sì, sì, ok. Ho capito il concetto."

Ci sediamo al primo tavolo e ordino a uno di colore vagamente

francese con tanto di grembiule bianco.

"Allora un formaggio di capra agro e stagionato e due bicchieri

di Traminer. "

Il tipo annuisce e io nella sua incertezza spero tanto che abbia

capito sul serio.

"Dove l'hai letta questa storia del Traminer e formaggio di capra?

Te l'ha suggerita tuo fratello?"

"Perfida..."

Faccio con la mano il segno di vittoria rivolto in basso verso di

lei.

"Viperetta acida. No, mi dispiace, ho fatto un corso personale

con un sommelier francese. Una sommelier per essere precisi. Da

Epernay, nello Champagne. Calze velate grigie. Leggerissime e

sempre

rigorosamente autoreggenti. Vuoi altri dettagli? "

Sbuffa scocciata.

"No grazie, sennò ricominci, sai io sono naturalmente attratto...

eccetera eccetera e quelle altre cavolate lì..."

Il tipo vagamente francese le poggia un piatto in legno sul

tavolino

e "voilà". Ci ha preso: formaggio di capra e Traminer freddo.

Incredibile e non si ferma lì.

"Vi ho portato anche del miele naturale..."

"Grazie."

Che bello quando uno ama il suo lavoro. E non c'è niente di più

bello invece di una ragazza che mangia con gusto. Come lei.

Sorride

e spalma il miele su del pane ancora caldo, appena tostato,

perfettamente

abbronzato, non bruciato. Ci poggia sopra un pezzo di

formaggio e dà un grosso morso, deciso ma lento, mentre con

l'altra

mano si protegge dalla caduta libera di briciole impazzite. Poi si

tocca con la punta delle dita il palmo e come suonando uno strano

motivetto le lascia cadere giù nel piccolo piatto, vicino al pane

rimasto,

mentre con l'altra mano prende il Traminer e con un piccolo

sorso accompagna il tutto.

È perfetta, cazzo, è perfetta, lo so. Piccoli spunti... Che senso

hanno non lo so... Ma in realtà... Lo so. Il Traminer scende giù

veloce,

freddo con il suo retrogusto. Gelato. Un bicchiere dopo l'altro.

Sì. Lo so, è perfetta. E da quello che penso, da come mi intorto,

su

quel "lo so, non lo so", capisco già di essere mezzo ubriaco.

Aspetto

che finisca l'ultimo morso, metto dei soldi sul tavolo e la

rapisco.

"Vieni andiamo."

"Ma dove?"

"Un posto per ogni sua specialità."

E corriamo via, così, un po' di vino, un po' di risate. Tra

sguardi

indiscreti, persone agli altri tavoli, teste che fanno capolino

per

guardare, spiare, osservare, quei due sconosciuti... Noi due,

meteore

di una qualsiasi notte, in un locale qualsiasi, un momento più

che qualsiasi, ma solamente nostro. Come questo cibo-tour.

"Ehi Step?"

"Sì?"

"Quanti punti base toccheremo?"

"Che vuol dire?"

"Visto che mangiamo una cosa in ogni posto, per capire quanti

saranno, sennò ho paura che scoppio. Sì, insomma, in quanti locali

ci fermiamo?"

"Ventuno!"

Rispondo deciso, leggermente scocciato, cazzo. Ma scusa, neanche

un accenno, che ne so: carina l'idea, originale, divertente. Gin

improvvisamente si stoppa. Si ferma in mezzo alla strada e punta i

piedi.

"Che succede?"

Mi prende al volo per il giubbotto e mi tira a sé con tutte e due

le mani, tenendolo per i baveri.

"Dimmi a chi l'hai rubata?"

"La Audi 4? Te l'ho detto, a mio fratello..."

"No, questa idea. Mangiare una cosa diversa in ogni posto, da

chi l'hai presa?

Rido scuotendo la testa, più ubriaco che mai, anche di

divertimento

etilico.

"L'ho pensata io."

"Vuoi dire che è un'idea tutta tua, che non l'hai rubata da

qualche

parte? Da qualche libro scemo, da qualche film romantico, da

qualche leggenda metropolitana?"

Allargo le braccia e tiro un po' su le spalle. "Tutta mia."

Sorridendo

"Mi è venuta in mente così...". Schiocco le dita. Gin mi tiene

ancora per il bavero e mi guarda con la faccia ancora un po'

dubbiosa.

"E non l'hai già fatta a qualcun'altra?"

"No. È solo per te. Se è per questo, neanche nei posti che ho

scelto sono mai stato con qualcun'altra."

Mi lascia andare al volo, spingendomi all'indietro.

"Ma va'! Questa l'hai detta grossa!"

"Pum!" Fa esplodere un finto palloncino soffiando con tutta

la bocca. "Pum."

"Cazzata! Ah, ah, Step ha detto la cazzata."

Quasi ne fa una tiritera. La prendo io al volo per il bavero, la

rigiro su se stessa prima che si allontani troppo. Fa una mezza

giravolta

e finisce vicino al mio viso. La sua bocca.

"Ok, detta la cazzata. Ma sempre in gruppo. Mai da solo, come

sono ora qui con te..."

"Ok, già va meglio. Così ci posso credere."

"Ci devi credere."

La voce mi si abbassa e mi sorprendo anch'io nel sentirla così

soffocata, sussurrata quasi, alle sue orecchie, intorno al suo

collo,

tra i suoi capelli. Guardo i suoi occhi, le sorrido sincero. Lo

apprezza,

mi crede. Ma voglio sigillare. "Giuro..." e stavolta si fida.

Sorride anche lei e si lascia andare. Bacio. Bacio morbido, bacio

lento, bacio non irruento. Bacio al Traminer, bacio leggero, bacio

di lingue in lotta, bacio surf, bacio sull'onda, bacio con morso,

bacio

vorrei andare avanti ma non posso. Bacio non si può. Bacio c'è

gente...

Capitolo 42.

Non ci posso credere. Io, Gin, qui a via del Governo Vecchio

che mi bacio per strada. Gente che passa, gente che mi guarda,

gente

che si ferma, gente che mi fissa... E io in mezzo alla strada.

Senza

pensare, senza guardare, senza preoccuparmi. Occhi chiusi. Gente

intorno. Ecco, penso che ci potrebbe ora anche essere uno che

mi sta fissando a cinque centimetri dal nostro bacio. Apro di

pochissimo

l'occhio destro. Niente. Tutto tranquillo. Lo richiudo.

Chissà se dall'altra parte... Ma me ne frego! Io e Step. Di questo

sono sicura. Lo abbraccio più forte e continuiamo a baciarci così,

senza problemi, senza pensieri. Poi scoppiamo a ridere, chissà

perché.

Forse perché ha mosso un po' la mano, mi ha toccato il fianco,

scivolando verso chissà dove. Ma sono onesta. Io non ci avevo

neanche pensato. Mi è solo venuto da ridere e basta. E così a lui.

E lo abbiamo fatto! Siamo scoppiati a ridere. Mi sono toccata con

la guancia destra la spalla, sorridendo, appoggiandomi di lato,

lasciando

passare un brivido... O forse un desiderio.

"Dai, vieni ci aspettano i Primi della classe."

"E chi sono, degli amici tuoi secchioni?"

"Macché! È un posto dove si mangia solo pasta."

"Ah, be', che ne sai. Magari il cuoco si è laureato in Filosofia."

Cerco di risolvere così quella mia battuta vanziniana. Con Step ci

riesco. Chissà, forse perfino quei due fratelli, malgrado tutti i

loro

successi, sentendola avrebbero sorriso.

Il proprietario si presenta come un certo Alberto. Saluta, è

gentile,

ci fa accomodare, ci suggerisce un "trittico" dice lui. "Trofie

al pesto, tortelloni alla zucca e riso champagne e gamberi."

Ci guardiamo e facciamo sì con la testa, ok, va bene, sì. Insomma,

senti Alberto, ma perché non te ne vai?

"E da bere?"

Step chiede se c'è un vino bianco, almeno credo. Ma non ho

sentito bene... Farfallina o qualcosa del genere.

"Benissimo." Alberto invece, che ha capito, si allontana.

Mi guardo intorno nel locale. Archi fatti di mattoni antichi,

pietre

che escono dai muri, bianco, marrone, rosso, luci rivolte verso

l'alto. Guardo giù. Cotto, perfetto e nuovo. Poco più in là la

cucina.

Finta antichità, ferro, pezzi più scuri, ghisa o altro e due porte

che

sbattono insieme tipo saloon mentre esce un ragazzo con un piatto

caldo fumante e nessuno gli spara. Anzi a un tavolo gli fanno

segno

felici di raggiungerlo. Chissà da quanto stavano aspettando.

"Ecco la vostra Falanghina."

Alberto porta una bottiglia di vino bianco in mezzo al tavolo e

la stappa con facilità. Falanghina... No farfallina. Sono fuori.

Step

la prende e ne versa un po' nel mio bicchiere. Poi aspetto che

faccia

la stessa cosa con il suo e li alziamo per bere.

"Aspetta, brindiamo."

Lo guardo preoccupata.

"Sentiamo," sorrido, "a cosa brindiamo?"

"A quello che vuoi tu. Ognuno decide e poi si brinda insieme."

Mi concentro un attimo. Lui mi guarda negli occhi. Poi allunga

il suo bicchiere verso il mio e lo urta.

"Magari è lo stesso desiderio."

"Magari un giorno ce lo diciamo."

be si avvera.

Guardo Step cercando di capire. Lui mi sorride. "Si avvera...

si avvera..."

E butto giù d'un fiato con la certezza che prima o poi quel

desiderio,

almeno il mio, si avvererà. Faremo l'amore... Mah! Aiuto!

Ma che dico? Oddio. Mi distraggo. Mi guardo in giro. Come sembrano

diverse le coppie che mangiano agli altri tavoli. Chissà com'è,

ma crediamo sempre di essere i migliori. È il mio caso almeno. Sì,

Gin la presuntuosa. Ma non potrei mai stare al tavolo con uno con

il quale non mi rivolgo parola. Mangiare in silenzio. Ma che senso

ha? Così fanno quei due. Ogni tanto, fra un boccone e l'altro

guardano

fuori, fuori dalla loro vita, dai loro pensieri. In cerca di

qualcos'altro.

Annoiati da quello che hanno accanto. Da quella stessa

vita che proprio loro hanno scelto ! Sbirciano negli altri tavoli,

fra

le altre persone, continuando a masticare in cerca di curiosità.

Ma

ti rendi conto?

"Ahhh!!"

"Ma che fai, urli?" Step mi guarda preoccupato, ma io rido.

"Tu sei tutta matta."

"No, sono tutta felice! "

E urlo di nuovo mentre la tipa annoiata al tavolo ha smesso per

un attimo di masticare e mi guarda sorpresa, incuriosita. E io,

be',

io la saluto. Prendo un boccone dai piatti appena arrivati e me lo

metto in bocca. "Uhm, buono..."

Giro l'indice sulla guancia sempre guardando la vicina annoiata

che scuote la testa, non capendo. E pensare che l'uomo, quello di

fronte a lei, non si è neanche accorto di niente. E Step ride. E

mi

guarda. E scuote la testa. E io gli sorrido.

"Ehi, ma non stai pagando un po' troppo?"

"La cena è offerta da mio fratello. In realtà, lui è un po'

tirato,

ma non ha problemi di soldi."

"Forte, e perché lo fa?"

"Mah, forse per aiutare me, il fratello più piccolo che ha

problemi

con le donne."

"Ma smettila! Sì, senza dubbio è per questo."

E via di nuovo correndo veloci, ridendo. Poi montiamo in macchina.

Non so come trovo altri 2 euro in tasca. Li do al marocchino

che forse sperava qualcosa in più. Ma poi ci ripensa, si ritiene

comunque soddisfatto e ormai da adottato romano mi aiuta a fare

manovra: "Venga, venga dotto', tutto a posto, gliel'ho guardata

come

un fiorellino".

Non trova risposta se non il mio fare cenno di sì con la testa.

Sì, sì, va bene, va bene così.

Musica. 107, 10. Tmc. Le parole del dj lasciano spazio alle note

degli U2. E Gin, ovviamente, conosce la canzone. "And I miss

you when you're not around, I'm getting ready to leave the

ground..."

"Ma le sai proprio tutte! "

"No. Solo quelle che parlano di noi due."

Lungotevere. Poi passiamo il ponte. Destra, sinistra, piazza

Cavour,

via Crescenzo. Papillon. Mario il proprietario ci saluta. "Salve,

siete in due?"

"Sì, ma due speciali, eh?" Sorrido a Gin stringendola a me. Il

tipo

ci guarda. Stringe un po' gli occhi. Starà pensando: "Ma io questo

lo conosco? Chi è? È uno importante?".

Ma non trova risposta, anche perché non c'è.

"Prego venite, vi metto di qua così state più comodi."

Grazie.

Nell'indecisione ha optato per due che comunque vanno trattati

bene. A prescindere, insomma. Attraversiamo una sala con una

tavolata piena di gente, per lo più donne e anche carine. Bionde,

brune, rosse, sorridono, ridono, tutte truccate parlano ad alta

voce,

ma mangiano educate, spezzettano pezzi di pizza appena fatta

da un piatto centrale. Poco più in là forchette fameliche si

tuffano

su alcune fette di prosciutto appena tagliate, rosa e leggere,

figlie

di chissà quale maiale.

"Porco..."

"Ahia, che è?"

Gin mi ha appena colpito al fianco con un cazzotto dritto per

dritto.

"Mi hai preso alla sprovvista."

"Ti ho visto come guardavi quella."

"Ma che? Stavo pensando al prosciutto."

"Sì, senz'altro, ancora. Mi hai preso per scema?"

Mario fa finta di non sentire. Ci fa accomodare a un tavolo ad

angolo e ci lascia subito.

"Sì, al prosciutto... lo so io a cosa pensavi. Quelle devono

essere

le ballerine del Bagaglino. Festeggiano la prima o qualcosa del

genere. Quello lì con pochi capelli è il regista e quelle due al

suo

fianco sono le prime ballerine. "

"Che ne sai?"

"Si dà il caso che io ogni tanto faccio dei provini... Sei tu

l'infiltrato

nel mondo dello spettacolo."

Una del gruppo si alza dal tavolo, si dirige verso il bagno, ci

passa davanti, sorride e poi si gira perdendosi in fondo alla sala

ma

lasciando un perfetto panorama, due gambe muscolose, un sedere

tondo imprigionato con qualche difficoltà in una gonna troppo

stretta.

"Sì, guarda come sbavi e tu pensavi al prosciutto! Peccato! "

"Peccato che?"

"Ti sei giocato la serata."

"Cioè?"

"Se avevi qualche minima chance con me, e guarda che ce n'era

un filino, be'l'hai persa."

"E perché?"

"Perché sì. Anzi, ti do un consiglio. Infilati al bagno, segui

quella,

al massimo ci ricavi una sveltina o due biglietti per il

Bagaglino.

"E poi ci andiamo insieme."

"Neanche morta."

"Non ti piace il Bagaglino?"

"Non mi piaci tu."

"Benissimo."

"Che vuol dire benissimo?"

"Che ho una chance..."

"Cioè?"

"Che sei gelosa, un po' rompipalle, ma in definitiva..."

"In definitiva?"

"Ci stai!"

Gin sta per ripartire quando la fermo al volo con la mano.

"Aspetta. Almeno ordiniamo."

Mario è comparso alle spalle di Gin.

"Allora, che faccio preparare?"

"Siamo venuti per provare quelle buonissime tagliate, grandi e

al sangue. Ne abbiamo sentito tanto parlare."

"Perfetto."

Mario sorride felice di essere famoso almeno per le tagliate.

"E ci porti un buon cabernet."

"Va bene il Piccioni?"

"Faccia lei."

"Benissimo."

E si sente ancora più soddisfatto del fatto che si possa contare

su di lui anche per la scelta del vino.

"Gin, dai, non litighiamo, vuoi cambiare posto? Vuoi sederti

di qua?"

"Perché?"

"Così le guardi tu quelle ragazze, le ballerine."

"No, no." Sorride. "Mi diverte che le guardi tu, anzi mi fa

piacere.

"Tifa piacere?"

"Certo, più coppia aperta di così. A, perché non siamo coppia.

B, dopo quel panorama di tette e culo sarai più sereno nel

sentirti

un bel no da una misera mortale..."

"Terzo dan in tutto e per tutto, eh?"

La ragazza che era andata in bagno ripassa davanti a noi per

tornare al suo tavolo. Mi giro d'istinto senza volere. Gin non

aspettava

altro e la chiama,

scusa.

"Sì."

"Puoi venire un attimo?"

La ragazza, sorpresa, annuisce.

"Dai, Gin, lascia stare. Passiamo almeno una volta una serata

tranquilla. "

"Ma di che ti preoccupi? Io sto semplicemente lavorando per te."

La ragazza si avvicina gentile e curiosa al nostro tavolo.

"Grazie eh... Vedi questo ragazzo, Stefano, Step il mito per

alcuni,

voleva il tuo numero di telefono ma non ha il coraggio di

chiedertelo."

La ragazza rimane sorpresa, la bocca mezza aperta completamente

presa in contropiede.

"Veramente..."

Gin sorride.

"No, no, non ti devi preoccupare per me. Io sono sua cugina."

"Ah."

Ora sembra più rilassata. La tipa mi guarda, valuta se è il caso

di

darmelo o no e io, forse per la prima volta in vita mia,

arrossisco.

"Pensavo stavate litigando o magari uno scherzo..."

"No, assolutamente."

Gin rimane decisa sulla sua affermazione.

"Ok, ci hai pensato troppo. Non fa niente. Carina questa gonna.

È di Ann Demeulemeester?"

"Di chi?"

"No, mi sembrava. Taglia 40, vita con passanti, bottoni nascosti,

una tasca..."

"No, è Uragan."

"Uragan?"

"Sì, è la marca nuova di un mio amico."

"Ah, ho capito e tu sei una specie di testimonial."

La ragazza sorride allisciandosi la gonna e cercando di

sistemarsela

un po'.

"Sì, diciamo di sì."

Fatica inutile. La gonna rimane fissa bloccata, semplicemente

avvinghiata ai suoi fianchi, non mostrando, per un pelo, le

mutandine.

"Be'..."

Cerco di prendere in mano la situazione.

"Scusaci. Ma vedo che ti chiamano al tavolo."

La ragazza si gira. Effettivamente se ne stanno andando.

"Ah sì, scusate."

be, ciao.

"Sì, ciao."

La tipa si allontana.

Rimaniamo così a fissarla nel suo incedere e, non si sa perché,

sculetta più di prima.

"Complimenti."

"Per che cosa?"

"Be', è la prima volta che una donna riesce a mettermi in

imbarazzo...

e per di più con un'altra."

"Be', io ce l'ho messa tutta. Strano... ma se non ti dà il suo

numero,

figuriamoci il resto."

"Be', se non altro potrò giocare su questo senso di colpa..."

"Per cosa?"

"Non crolla tutti i giorni un mito come il mio... Step che non

riesce ad avere il numero di una che veste Uragan. Non è roba da

tutti i giorni. "

"Non so se questo ti può consolare, ma aveva le tette rifatte."

"Non ci ho fatto caso. Ero più affascinato dal suo culo naturale."

Sorrido malizioso. "Su quello non hai niente da dire, vero?"

"Veramente ho qualche dubbio anche su quello. Mi dispiace

solo che non potrai mai averne la prova."

"Mai dire mai."

Proprio in quel momento Mario posa i due piatti di tagliate

davanti

a noi.

"Eccole qua."

"Grazie, Mario."

"Dovere." Ci sorride. Gin prende subito a tagliarla.

"Be', intanto Step accontentati di questa carne qua."

"Ah, se questa però non è naturale, siamo fottuti tutti e due."

A quelle parole Mario rimane interdetto.

"Ma che, state scherzando? Qui solo carne doc. Oh, non mettete

in giro strane storie che vado fallito."

Scoppiamo a ridere.

"No, no, non ti preoccupare. Si parlava d'altro, sul serio!"

E continuiamo a mangiare, versandoci del cabernet, mangiando

lentamente, ridendo, raccontandoci dei fatti insignificanti ma

che ci sembrano così importanti. Sprazzi di vita, dell'uno o

dell'altra,

ai quali non abbiamo mai partecipato. Momenti euforici e diversi

con amici del passato che oggi però, a rivederli bene, non

sembrano

poi così un granché. O forse è il timore di non essere abbastanza

divertente. Gin mi versa del vino. E solo il fatto che sia lei a

farlo già mi fa dimenticare tutto.

Capitolo 43.

Giuli guarda Daniela a bocca aperta.

"Chiudi quella bocca, mi fai sentire ancora più in colpa così! "

Giuli la chiude. Poi deglutisce e cerca di riaversi.

"Sì, ho capito... ma com'è possibile?"

"Com'è possibile? Eppure dovresti saperlo, visto che anche tu

e prima di me lo hai fatto. Vuoi che ti spiego?"

"Ma no, cretina. Questo lo so, sei tu caso mai che non lo sai.

Dicevo, com'è possibile che sei rimasta incinta? ! "

"Senti, Giuli, ti prego non fare così, sto malissimo. Cioè, ti

prego.

E pensa che lo sto dicendo a te... pensa a quando lo dirò ai

miei!

"Perché, glielo dici?"

"E certo che glielo dico, come faccio sennò?"

"Ma guarda che non ci vuole nulla, eh? Basta una giornata di

clinica e la tua cavolata puff, sparisce. Hai capito?"

"Macché, sei pazza? Io il bambino voglio tenerlo."

"Vuoi tenerlo? Allora tu sei proprio pazza! "

"Giuli, da te questo proprio non me l'aspettavo. Mi obblighi a

venire tutte le domeniche a messa con te e poi... hai il coraggio

di

dire una cosa del genere! "

"Oh senti, vieni a fare la predica tu a me! Hai voluto farlo per

forza prima dei diciotto anni sennò ti sentivi una sfigata e sei

stata

pure punita, lo vedi? Ti sembra un discorso religioso il tuo? Ma

fammi il piacere! Comunque fai come ti pare, la vita è tua..."

"Ti sbagli. La vita è anche sua. Vedi, è a questo che non pensi.

Ora c'è un'altra persona oltre a me."

"E a tutto il resto invece tu non ci pensi, vero? Per esempio,

glielo hai detto a lui?"

"A lui chi?"

"Come a chi? Al padre! "

"No."

"Brava! E non pensi allora a come la prenderà Chicco Brandelli

quando avrà la notizia, eh, no, non ci pensi?"

"No, non ci penso."

"E certo, non te ne frega niente a te, quello secondo me

s'ammazza!"

"Non credo che sia lui il padre."

"Cosa? E chi è? Ho capito. Ti prego, no, dimmi di no. Andrea

Palombi. Ma è diventato un mostro, è terribile, uno sfigato, pensa

come diventa questo povero bambino."

"Il mio bambino sarà bellissimo, prenderà tutto da me..."

"Guarda che non lo sai, non lo puoi sapere, magari invece viene

identico a Palombi. Mamma, se è così, io non faccio la madrina,

te lo dico fin da adesso, io non la faccio ! "

"Oh, non ti stare a preoccupare. Non viene uguale a lui."

"E perché?"

"Perché non è lui il padre."

"Non è neanche lui il padre? E allora chi è? Cavolo, sei sparita

dalla festa a un certo punto ma pensavo fossi andata via con

Chicco."

" No, mi ricordo solo che ho preso un 'ecstasy bianca dalla

gangsta

dove mi hai mandato tu e poi..."

"Un'ecstasy bianca? Ma tu hai preso uno scoop!"

"Uno scoop, e che è?"

"E ti credo che non ti ricordi niente. Meno male che non sei

rimasta

sott'acqua. Quello ti sfonda, ti leva tutti i freni inibitori, fai

di tutto, diventi la porca più porca del mondo e poi puff, a

momenti

non ti ricordi neanche come ti chiami! "

"Be' sì, è andata proprio così... credo..."

"Non ci posso credere, hai preso uno scoop."

"Quella è stata Madda che ha voluto punire in qualche modo

mia sorella."

"Sì, facendo godere te!"

"Ma lei mica lo sapeva che poi sarei stata così bene."

"Cavoli, riesci sempre a stupirmi."

"Sono forte, eh?"

"Insomma... ma possibile che non ti ricordi nulla, niente, non

un indizio?"

"Niente, ti giuro, buio totale. E stato bello, sì, questo me lo

ricordo!"

Giuli rimane per un attimo in silenzio sul divano. Poi beve un

sorso d'acqua, guarda Daniela e ritrova la forza di parlare.

"Be', una cosa però riesco a immaginarla..."

"Che cosa?"

"La faccia dei tuoi."

"Io no."

"E secondo me ti gonfiano così tanto che alla fine tu non

assomigli

neanche più a loro. "

"No. Secondo me invece la prenderanno bene. Scusa, ma è in

queste situazioni che si vede il vero amore di una famiglia, no?

Se

va sempre tutto benissimo, che bravura c'è? Sarebbe fin troppo

facile

in quel caso, giusto?"

"Sì, sì, certo. A me m'hai convinto, vediamo se riesci a

convincere

anche loro! "

"Be'..." Daniela si alza dal divano. "Io vado. Voglio dirglielo

stasera stessa, non ne posso più di tenermi questo segreto. Sarà

una

liberazione. Ciao, Giuli..."

Si danno un bacio sulla guancia. Poi Giuli la saluta e mentre

esce le dice:

"Fammi sapere, eh? Chiamami se hai bisogno".

"Ok, grazie."

Giuli sente sbattere la porta di casa. Alza il volume della tv e

si

rimette a guardare il film. Dopo poco spegne la televisione.

Decide

di andare a letto. Una cosa è sicura: dopo la storia di Daniela,

qualunque altro film è noioso.

Capitolo 44.

Mario arriva preoccupato al nostro tavolo.

"Ma che fate? Già ve ne andate? Avete preso solo un secondo.

Ho un dolce buonissimo fatto in casa, con le mie mani. Anzi, per

essere sincero, con quelle di mia moglie."

E quest'ultima confessione mi prende alla sprovvista. Vorrei

raccontargli tutto, spiegargli che non è che si è mangiato male,

ma

che ho avuto questa grande idea, grande... Un'idea. Un piatto

particolare

da ogni parte, in ogni posto famoso per quel piatto. Anche

il cabernet ha fatto il suo effetto e partecipa alla festa. Così

preferisco

una semplice bugia.

"No, è che abbiamo un appuntamento con i nostri amici, sennò

quelli scappano."

Mario sembra accettare con tranquillità questa spiegazione.

"Arrivederci allora... ma tornate presto."

"Certo, certo."

Anche Gin partecipa. "La tagliata era buonissima."

Ma mentre usciamo succede qualcosa d'imprevisto.

"Aspettate, aspettate!"

Un ragazzo dall'aria buffa con i capelli gonfiati a mo' di

cappello

da cuoco ci corre incontro.

"Step, tu sei Step, vero?"

Annuisco.

Sorride soddisfatto di aver fatto centro.

"Tieni, questo è per te."

Prendo un foglietto ma non faccio in tempo a leggerlo perché

Gin più veloce me lo strappa di mano mentre il ragazzo continua.

"Me l'ha dato una ragazza bionda, una ballerina." Sorride felice.

"È una di quelle del Bagaglino. Mi ha detto di darlo a te o a

tua cugina."

Mario lo guarda preoccupato e poi, quasi a scusarsi con noi "È

mio figlio. Vieni andiamo di là che c'è ancora gente da servire".

"Ma se hanno finito tutti."

Mario lo strattona.

"Ma non capisci un cavolo!" E lo spinge in avanti. "E forza!

Muoviti."

E il ragazzo, mortificato, piega la testa in giù già pronto a

sentire

la solita ramanzina del padre chiedendosi perché sempre e solo

a lui.

"Tieni." Gin mi passa il foglio.

"Mastrocchia Simona... Già una che mette prima il cognome e

poi il nome..."

Poi mi guarda con una certa aria di sufficienza.

"Telefonino, fisso ed e-mail sul biglietto. Vuole essere

rintracciata.

Visto, sa anche usare il computer. È tecnologica. Come la

gonna Uragan. Meno male che hai svoltato la serata."

"Veramente non l'ho ancora svoltata. Comunque in tempo di

guerra non si butta via niente! "

Piego il biglietto e me lo metto in tasca.

"Ah, ah, molto divertente, sul serio."

Rimaniamo un po' in silenzio, camminando. Vento di primi

d'ottobre, qualche foglia qua e là tra i marciapiedi. Quel

silenzio

mi infastidisce.

"Ma guarda che sei forte, hai fatto il casino, le hai chiesto il

numero,

fai la mia cugina preoccupata, quella sorride e poi infine ce

lo dà, e tu t'arrabbi. Guarda che sei insuperabile."

"Insuperabile, hai detto bene. Allora? È finito questo cibo-tour,

o come cavolo si chiama? Non hai messo neanche un titolo a questa

tua grande idea! "

Fa risuonare il tutto con eccessiva enfasi e continua a guardarmi

per un po'. Poi apre la bocca, fa la smorfia come se imitasse un

"boccalone", uno stupido pesce, o un semplice umano qualsiasi

che comunque non trova le parole per rispondere. Insomma mammifero

o anfibio, sta parlando di me. Mi brucia pure sui tempi. E

dire che avevo pensato di chiamarlo proprio cibo-tour... Be', tiro

fuori il foglietto con il numero di Mastrocchia Simona, il

telefonino

che mi ha regalato Paolo e comincio a digitare sui tasti. In

realtà

lo faccio a caso, senza guardare. Con gli occhi, ma senza farmene

accorgere, la sto controllando. E la piccola tigre parte in

quarta.

"Ma guarda che stronzo!"

Mi si avventa contro. Chiudo al volo il telefonino e lo metto in

tasca mentre con la destra paro un suo colpo, forte a calare,

dritto

sulla faccia, mentre Mastrocchia Simona con il suo numero scritto

in maniera incerta cade a terra. Le prendo il polso e veloce

glielo

giro portandole il braccio dietro la schiena. Una mezza giravolta

ed è attaccata a me. "Ahi." Quasi sorpresa da quella velocità e da

quel dolore. Allento un po' la presa. La tiro a me. Con la

sinistra

le prendo i capelli, infilo le dita tra le ciocche. E come un

pettine

selvaggio, un po' grezzo, un po' naturale, le fisso i capelli

indietro.

Le libero la fronte. I suoi occhi sono grandi, intensi, spaziosi.

Mi

guardano. Come mi piace. Poi li chiude. Li riapre e si ribella.

Prova

a divincolarsi. Ma registro un po' la presa.

"Buona... Shh." Sussurro. "Sei troppo gelosa..."

A quella parola sembra quasi impazzire, scalpita, si agita, tenta

di colpirmi con i piedi, con le ginocchia.

"Io non sono gelosa! Mai stata e mai lo sarò. Sono famosa per

non esserlo!"

Rido parando più o meno i suoi colpi. Si getta con la bocca

aperta sul mio viso, prova a mordermi. Comincia una guerra di

guance, un alternarsi di strusciate, i suoi denti si aprono e si

chiudono,

cercandomi, non trovandomi, mi avvicino e mi allontano, la

sua bocca mi insegue, io mi spingo giù, spostandole la testa,

liberandomi,

nascosto tra i capelli, fino al collo. Apro la bocca, tanto,

più che posso. Vorrei quasi inghiottirla tutta e insieme respiro

catturandole

la pelle, il collo, la giugulare e con un morbido morso gigantesco

la blocco, la prendo, la posseggo.

"Ahia. Ahia. Ok, basta!" Scoppia a ridere. "Mi fai il solletico,

ti prego, il collo no."

Si piega verso di me con la testa cercando di liberarsi. Fa uno

strano balletto, piccoli passi che si spostano verso sinistra

mentre

continua a ridere. E brividi e sorrisi, piega la testa sulla sua

spalla,

chiude gli occhi, debole, sconfitta, abbandonata, conquistata da

quel sensuale solletico. E io la bacio. Morbidissima, dalle labbra

calde come non ho mai sentito. Come una febbre. Di desiderio. O

la lotta che è stata... Ma tutto il resto mi sembra fresco,

compreso

lì, sotto il giubbotto, sotto la maglietta che mi lascia visitare.

Poi, il

suo seno... Lo accarezzo per un attimo con la mia mano, morbida

e gentile. Ma è solo un attimo, sento il suo cuore battere veloce,

più

veloce. E non so perché, vi giuro che non lo so, li lascio lì,

tutti e

due. Non voglio disturbare. Le prendo la mano.

"Vieni, ci manca il dolce..."

Tranquilla si lascia portare. Poi all'improvviso si ferma un

attimo.

Mi blocca tenendomi per mano e muove le labbra spingendole

in avanti, smorfiosa paperina, leggermente imbronciata.

"Perché come dolce io non andavo?"

E provo a dire qualcosa ma non me ne lascia il tempo. Mi scappa

via di mano e mi supera correndo, con il petto spinto in avanti,

quel seno che era mio prigioniero, con le gambe indietro, ridendo,

libera. E io la inseguo mentre poco più in là, ormai preda del

vento,

forse di un altro destino, rimane un numero di telefono e un nome.

Anzi un cognome e un nome: Mastrocchia Simona.

Capitolo 45.

Claudio è fermo con la sua Mercedes a via Marsala. Si guarda

in giro preoccupato. Poi si chiede: ma che pericolo c'è a stare in

macchina? Uno può essere stanco, magari ha viaggiato tanto, il

rischio

di un colpo di sonno. Oppure ha voglia di una sigaretta. Ecco,

sì. Mi fumo una bella sigaretta. Non c'è niente di male. Claudio

tira fuori dal pacchetto una Marlboro ma la rimette subito dentro.

No. Meglio di no. Ho letto su un giornale che riduce certe

prestazioni.

No. Non ci devo pensare. Non ci devo pensare. Devo allontanare

questo pensiero altrimenti s'innesca l'ansia da prestazione.

Ecco. Arriva. Cammina saltellando. Ha un lettore ed tra le mani

e la cuffia alle orecchie, sorride tenendo il tempo con la testa,

i

capelli sciolti e la pelle leggermente abbronzata, com'è naturale.

Un vestito leggero sul verde con dei girasoli gialli e il suo seno

piccolo.

Bella. Come sempre. Come l'ha vista la prima volta. Giovane

come l'ha continuata a desiderare da quella sera, da quel bacio

dato

in macchina, dopo la partita vinta a biliardo con Step, il ragazzo

con cui stava allora Babi. Simpatico, quel tipo, un po' violento,

forse... ma che partita che abbiamo fatto quella sera! Claudio ha

continuato a giocare da allora. Per una passione ritrovata. Ma non

per il biliardo. Per lei, per Francesca, la giovane brasiliana che

sta

arrivando. In fondo è per lei che si è iscritto a quel club, è per

lei

che ha comprato la stecca nuova, una Zenith, è per lei che

vorrebbe

vincere quel torneo sulla Casilina. Che follia. Non meno di

questa.

Andare quasi tutte le settimane all'Hotel Marsala con lei. Ormai

è più di un anno che va avanti questa storia. Certo, è un piccolo

albergo, fuori dal giro delle sue amicizie, frequentato solo da

giovani turisti, da marocchini o albanesi che magari hanno voglia

di spendere poco. Ma che ci può fare? Lui di voglia invece ne ha

tanta... e di lei. E questo è il solo modo per vederla. Pagando

naturalmente

cash la stanza.

"Francesca!"

La chiama da lontano. La ragazza, col Sony alle orecchie, sembra

non sentire. Allora Claudio clicca due volte sulla leva delle

luci,

lampeggiando. Francesca se ne accorge, sorride, si leva le

cuffiette e corre veloce verso di lui. S'infila nella macchina.

Gli monta

sopra, quasi un tuffo sulle sue labbra.

"Ciao! Ti desidero! " ed è sincera. E ride. E fa la pazza. E lo

bacia

con forza, con voglia, con passione, morbida, leccandolo,

sorprendendolo

come sempre. Più di sempre.

"Francesca, ma dov'eri tutt'oggi, t'ho cercato."

"Lo so... vedevo il tuo numero, ma non ti volevo rispondere."

"Come non mi volevi rispondere?"

"Sì, non ti devi abituare. Io sono la musica e la poesia... libera

come il mare, come la luna e le sue maree. " E così dicendo

Francesca

gli inizia a sbottonare la camicia e lo bacia sul petto. Poi gli

apre la cinta dei pantaloni e continua a baciarlo, e il bottone, e

la

zip, e poi più giù, ancora più giù, fino ad allargargli le mutande

e

andare avanti, senza paura, senza problemi, come la luna e le sue

maree. Ma questa è una mareggiata! pensa Claudio e si guarda

intorno,

abbassandosi un po' sul sedile, nascondendosi più che può.

Certo che se lo beccano adesso. Altro che una sigaretta e un po'

di riposo. Questi sono atti osceni in luogo pubblico. Una cosa è

sicura, dell'ansia da prestazione nessuna traccia. Spera solo che

non chiami Raffaella in quel momento per sapere come sta andando

la partita di biliardo. Non saprebbe cosa rispondere. È una

partita meravigliosa. Claudio chiude gli occhi, si lascia andare.

E

sogna un panno verde e le palle che vanno in buca, una dopo

l'altra,

senza che neanche le colpisca, così, come per magia. E poi per

ultimo vede anche se stesso su quel panno. Rotola dolcemente,

scivola,

su e giù, fino a sparire dentro l'ultima buca in fondo... ah, sì,

così... che partita!

Francesca si rialza da sotto il cruscotto.

"Vieni, andiamo..." e lo prende per mano e lo tira via senza

neanche fargli chiudere bene il finestrino. Claudio riesce a

malapena

ad abbottonarsi i pantaloni e a mettere l'allarme da lontano

alla Mercedes. Ma che importa? Tanto per 4000 euro, ma vuoi

mettere

con la Z4... quello sì che è un sogno. Proprio come lei, come

Francesca, che saluta il portiere.

"Buonasera, Pino, la diciotto per favore."

"Certo, buonasera signori." Il portiere non fa in tempo a dirlo.

Francesca gli ruba le chiavi dalle mani e spinge Claudio

nell'ascensore.

"Dobbiamo stare attenti..."

Francesca ride e lo zittisce baciandolo, non lo vuole sentire.

"Shht... zitto!"

Ma non può immaginare cosa sta pensando Claudio. Ma scusa,

eravamo già stati in macchina, potevamo andare a prenderci

semplicemente un gelato o una birra o anche un prosecco, che ne

so, e l'ansia da prestazione, poi? Scusa, eh? Claudio sente che

sta

tornando. Cerca di allontanarla.

"Francesca..."

"Sì, tesoro?"

"Mi raccomando, non parlarne mai a nessuno, eh? Neanche alle

persone che pensi non possano mai incontrarmi."

"Ma di cosa?"

"Di noi."

"Noi chi? Non so di chi parli. " E ride e lo bacia di nuovo.

"Vieni,

siamo arrivati." E lo trascina nel corridoio e Claudio quasi

inciampa

e la segue e alla fine si lascia andare scuotendo la testa. Ma

mentre cammina le guarda il sedere. È un tutto "brasileiro". Sodo,

forte, allegro, vivace, ballerino, pazzo... altro che ansia da

prestazione!

Questa è voglia di mareggiata, di cavalcare le onde, di fare

surf, perso in quel mare brasiliano... Un ultimo barlume.

"No, sai, è che mia moglie ha scoperto il fatto che ho comprato

una stecca da biliardo."

"Embe'?"

"Io ho subito detto che era un regalo per una persona che

conosco..."

"Bravo, vedi? Ma ti pare che poi si ricorda di quella sera che

hai giocato a biliardo e ci siamo conosciuti? Ne è passato di

tempo,

che ne può sapere? E poi quel posto è stato chiuso, per questo

ora sto sulla Casilina!"

"No. Non hai capito. Non è che lei sa, lei indovina! "

"Voglio proprio vedere se indovina cosa sto per farti..." e così

dicendo apre la porta, spinge dentro Claudio e chiude la diciotto

alle sue spalle. Claudio finisce sul letto e lei gli salta sopra,

padrona,

selvaggia, oltre la luna e le sue maree. Claudio dimentica ogni

preoccupazione, anche dove si trova. La lascia fare. Poi ha

un'unica

certezza. No, questo non l'avrebbe indovinato mai nessuno.

Neanche sua moglie.

Capitolo 46.

"Allora, entriamo?"

"Certo, perché no?"

"Ma mi sa che non ci fanno passare. Guarda, hanno una lista."

"Ma io qui al Follia li conosco."

"Che palle, ma tu conosci tutti."

"Va be', se proprio ti fa piacere ci mettiamo in fila e paghiamo.

Tanto è il conto di mio fratello."

"Poveraccio. Anche se è ricco, non dilapidare il suo patrimonio.

Una ragazza esce spintonata da dietro. I due buttafuori sulla

porta fanno appena in tempo a levare la catena. Una specie di

energumeno

dai capelli lunghi esce dietro di lei e le dà un'altra spinta.

"E muoviti, che hai rotto il cazzo!"

La ragazza prova a dire qualcosa, ma non fa in tempo. Un'altra

spinta spezza al volo le sue parole e si ritrova sul cofano di una

macchina posteggiata. Il tipo sudato con i capelli unti le mette

la

mano sulla faccia.

"Allora? T'ho visto che guardavi quello biondo."

Gin non riesce a parlare, guarda incredula la vicenda.

Il toro scatenato chiude la mano trasformandola in un pugno pieno

di rabbia e di violenza, digrigna i denti, ha la faccia da pazzo.

"Te l'ho detto mille volte, porca troia!"

E senza pietà la colpisce in pieno petto.

La ragazza si piega in due e si porta le braccia al volto

coprendosi

impaurita. Gin non si trattiene ed esplode, sembra fuori di sé.

"Oh, ma basta... Falla finita."

Il tipo si gira verso di noi, stringe gli occhi e mette a fuoco

Gin

che lo guarda spavalda.

"E te, che cazzo vuoi?"

"Che la lasci perdere. Vigliacco schifoso! "

Fa un passo verso di lei, ma non gliene lascio il tempo, la tiro

per un braccio portandola dietro di me.

"Ehi, calma. Le dà fastidio la tua scena. È chiaro?"

"E'sticazzi!"

Rimango per un attimo in silenzio, provo a contare, non voglio

partire. La prima vera uscita con Gin... Non mi sembra proprio il

caso.

Il tipo: "Allora?". v

Allarga le gambe. È pronto a litigare. Che palle... I due

buttafuori

si mettono in mezzo.

"Calma, è tutto sotto controllo."

Sembrano preoccupati. Strano. Non mi conoscono. Forse conoscono

il tipo. È bello grosso, piazzato, tosto. Devono temere lui.

Ma è nervoso, rabbioso, cattivo. Non sembra lucido. La rabbia a

volte offusca e fa perdere la calma, la freddezza. La cosa più

importante.

Grosso è grosso comunque.

"Calma, Giorgio. Non t'ha detto niente di male. Stai litigando

con la tua ragazza qui davanti a tutti e può capitare che

qualcuno..."

Lo conoscono. Questo non va bene.

"Non è che può capitare, deve capitare! Sta massacrando quella

poveraccia."

Gin non riesce proprio a star zitta. E questo è ancora peggio.

Non solo. Continua.

"Bravo, ti credi figo? Pensa che invece sei solo un coglione."

I due buttafuori impallidiscono. Mi guardano con una faccia

come a dire "E mo', come cazzo la mettiamo?". Il toro sembra non

aver sentito. E attonito, privo di parole, scuote la testa

rintronato,

come se quelle parole fossero state un tir in pieno viso, un

mantello

rosso aperto all'improvviso in piena arena. La ragazza alle sue

spalle si massaggia il petto, piange e tira su con il naso. Sembra

non

riuscire a respirare bene, il suo petto fa su e giù con uno strano

asincronismo in quel grande silenzio che si è creato.

"Ehi, cazzo Step, che succede? Forza, vieni dentro. Eri sparito

eh? Raccontami..."

Mi giro, è il Ballerino. Lui sta da sempre qui al Follia, non si è

mai allontanato, lui.

"Ma da quanto sei tornato?"

"Be', sarà un mesetto..."

"E non ti sei neanche fatto sentire! Che stronzo! Dai, vieni

dentro

dai che c'è una festa, stiamo tagliando una torta buonissima, alla

mimosa. Dai. Te ne freghi un bel pezzo per te e la tua signora. È

bona, dolce e in più non paghi, no?"

"Ma che la mia signora?"

"No, la torta."

Ride e comincia a tossire. Che le mille sigarette spente e

assopite

giù nei suoi polmoni si siano divertite anche loro come pazze

a quella battuta così scema?

Faccio per girarmi ed entrare, seguito da Gin, dai due buttafuori.

Ma in realtà è come se guardassi ancora indietro. È come se

i miei occhi non lo perdessero mai di vista. Ho le orecchie tese,

i

sensi svegli, in guardia. Infatti. Non mi ero sbagliato. Tre passi

veloci

alle mie spalle, uno scalpiccio strano e d'istinto mi piego in

avanti girandomi su me stesso. Ecco che arriva come una furia. Il

toro scatenato batte via di spalla i due buttafuori e fa per

avventarsi

su di me, ma io mi porto di lato. Lo colpisco di striscio, di

sinistro

e il tipo finisce contro il muro. Poi urla e velocissimo si

rigira.

Ha la faccia segnata dalla polvere di muro giallo misto alle

escoriazioni

della strusciata. Un po' di sangue comincia a colargli dall'occhio

sinistro, da sopra il sopracciglio. Sta per ripartire. Ma questo

non se l'aspetta. Scatto in avanti colpendolo di destro,

velocissimo

anche perché è enorme, non potrei fare altro. Lo centro in

pieno viso, naso e bocca. Si porta le mani in faccia. Non perdo

tempo,

gli assesto un calcio nei coglioni meglio di tutti i lanci che io

abbia mai fatto in una partita di football. Bum. Si accascia come

se

niente fosse e d'istinto lo colpisco appena tocca terra. In

faccia. Un

calcio dritto, sordo, definitivo. Ma il tipo è duro. Potrebbe

riprendersi.

Allora faccio per caricare di nuovo...

"E basta Step, che cazzo te ne frega?" Il Ballerino mi tira per

la giacca. "Vieni a mangiarti la torta prima che se la finiscano."

Mi riaggiusto il giubbotto e faccio due respiri lunghi. Sì, è

meglio

basta. Ma che cazzo m'ha preso? Ma che me ne frega poi di

questo boro.

Eccola, la ritrovo dopo un attimo. È lì che mi guarda in silenzio.

Gin. Ha uno sguardo... Non so definirlo. Forse non sa che pensare.

Le sorrido cercando di rompere quel ghiaccio.

"Ti va un po' di torta?"

Annuisce senza rispondere. Le sorrido. Vorrei dimenticasse che

c'è gente così... Ma Gin crede ancora in tante cose. E capisco che

è difficile. Allora la scuoto, l'abbraccio, la spingo. "E dai..."

E finalmente sorride. Poi la faccio passare avanti. Le tengo la

mano, in maniera elegante, forse un po' stonata dopo tutto quello

che è successo, e l'aiuto a scavalcare il tipo rimasto a terra.

Capitolo 47.

Raffaella posteggia la macchina nel cortile del palazzo. Il loro

garage

è aperto. Claudio non è ancora tornato. Guarda l'orologio. È

mezzanotte. Vuol dire che la partita di biliardo è andata per le

lunghe...

be', se questo porta lavoro, allora è un bene. Chiude la macchina

e guarda in alto. La luce della stanza di Babi è ancora accesa.

Raffaella va verso il portone. Non sa com'è, ma in questo periodo

non riesce mai a essere del tutto serena. Forse ha troppi

pensieri. Alfredo

è ancora nascosto in giardino, dietro una pianta. Vedendola,

fa un passo indietro, si infratta nel verde, nel buio del parco.

Raffaella

sente il crack di un pezzetto di legno. Si gira di botto.

"C'è qualcuno?"

Alfredo smette quasi di respirare. Sta come immobile, paralizzato.

Raffaella cerca frenetica le chiavi nella borsa, le trova, apre il

portone e lo chiude veloce alle sue spalle. Alfredo si rilassa. Fa

un

sospiro e comincia a respirare di nuovo. No, così non può andare

avanti. Ma se quella notizia è vera, niente può più andare avanti.

"Babi, ci sei?" Raffaella vede la porta socchiusa con un po' di

luce che esce dalla camera. "Posso?"

Babi è sul letto. Sta sfogliando delle riviste.

"Ciao mamma. Scusa, non ti avevo sentito. Guarda, sto scegliendo

questi, ti piacciono?" Le fa vedere alcune foto.

"Molto. Mi sono presa uno spavento. Ho sentito un rumore nel

boschetto vicino al portone e m'è preso un colpo."

"Ah, non ti preoccupare. È Alfredo."

"Alfredo?!"

"Sì, sono due giorni che si nasconde di notte là dietro."

"Ma non può fare così, terrorizza la gente. E poi la settimana

prossima io ho una cena qui a casa. Molti lo conoscono, se lo

vedono

così, cosa penseranno?"

"Ma che t'importa." Ma vedendo che Raffaella resta della sua

idea, Babi continua. "Va bene. Se fa così anche la prossima

settimana,

vuol dire che ci parlo. Ok, mamma?" Le mette davanti un

altro giornale. "Allora guarda, ho deciso e mi ha aiutato anche

Smeralda.

Prendiamo questi: spiga e grano che portano pure bene, ok? "

"Sì, ma..."

"No, mamma. Sei uscita e te ne sei andata a giocare, lo so. Basta,

abbiamo deciso, no? Sennò qui non si va mai avanti. Ti giuro,

io sto troppo male, mi sembra ancora tutto per aria, per

favore..."

Raffaella la guarda e sorride.

"Va bene Babi, mi sembrano perfetti." La vede rilassarsi, più

tranquilla.

"Sul serio?"

"Sì, sul serio."

"Non è che me lo stai dicendo solo per farmi contenta?"

"No, davvero, questi sono i più belli."

Babi torna raggiante. Raffaella decide di farsi un regalo anche

lei.

"Senti Babi, ti volevo chiedere una cosa."

"Sì, dimmi."

"Ti ricordi quella volta che papà si doveva vedere con Step, che

doveva dirgli di lasciarti perdere?"

"Mamma, ma ancora stai pensando a quella storia? Sono passati

più di due anni, stiamo decidendo una cosa importantissima e

tu ci pensi ancora?"

"Lo so, lo so, ma non è che ci penso, è solo una curiosità. Ecco,

non è che ti ricordi se quella sera, per caso, hanno giocato a

biliardo?"

"Sì, certo che me lo ricordo e hanno pure vinto! 200 euro mi

sembra."

"E con chi stavano?"

"Come con chi stavano?

Babi squadra la madre. Vede che è strana, assorta. Babi sorride

scuotendo la testa.

"Mamma, ma ti pare che alla tua età ti fissi e fai la gelosa... ma

dai, mamma!"

"Scusa, hai ragione. È che ha comprato una stecca da biliardo

proprio qualche tempo fa. Però sembra che l'abbia regalata a

qualcuno."

"E allora, scusa, che male c'è? E poi quel posto dove hanno

giocato credo l'abbiano anche chiuso!"

Raffaella a questa notizia si tranquillizza del tutto.

"Va bene, hai ragione. Allora, fammi vedere le altre cose belle

che hai scelto." Apre il giornale. Babi le indica le sue

preferite.

"Allora, queste mi piacciono moltissimo, ma mi sa che costano

tanto."

Proprio in quel momento compare Daniela sulla porta.

"Mamma, ti devo parlare."

"Oddio, non t'avevo sentito, m'hai fatto prendere uno spavento.

Ma che stasera ce l'avete tutti con me! Comunque ora no Daniela,

che stiamo decidendo delle cose importanti. "

"La mia è molto più importante credo. Sono incinta! "

"Cosa?" Raffaella si alza dal letto, seguita da Babi. "È uno

scherzo?!"

"No. È così."

Raffaella si mette le mani nei capelli, passeggia su e giù per la

stanza. Babi si lascia cadere sul letto.

"Proprio adesso..."

Daniela la guarda senza parole.

"Eh, proprio adesso, proprio adesso... ma sentila. Scusami se

ho scelto proprio questo momento ! "

Raffaella si avvicina e la scuote.

"Ma com'è possibile? Non sapevo neanche che uscissi fissa con

un ragazzo!" Poi capisce che la sta trattando troppo duramente.

Allora lascia cadere le braccia lungo i fianchi e le fa una

carezza.

"Mi hai colto alla sprovvista. Ma chi è lui?"

Daniela guarda la madre, poi Babi. Tutte e due aspettano la sua

risposta. Anche loro hanno la bocca semiaperta in questa attesa

spasmodica, esattamente come Giuli. Ma loro la prenderanno meglio.

Sono sicura. Almeno mia madre. Della sua reazione Giuli rimarrà

sorpresa. Lo so.

"Ecco mamma, vedi... c'è un piccolo problema... cioè, per me

non è un problema poi, eh, spero che non lo sia neanche per voi."

Proprio in quel momento, sul pianerottolo di casa, è arrivato

Claudio. Ha visto la macchina di Raffaella e quella di Babi

posteggiate,

e perfino la Vespa. Sono tutti a casa. Dovrebbero già stare

dormendo. E la sua serata è stata perfetta... di più. Altro che lo

Spaccone o lo Scuro di Nuti. È stata la partita di biliardo più

bella

della sua vita. Ma non fa in tempo a finire di pensarlo che un

grido

frantuma la sua serata. Un urlo nella notte, una sirena, un

allarme.

Peggio. Lo strillo di Raffaella. Claudio passa in rassegna ogni

possibilità: hanno chiamato dall'albergo perché abbiamo fatto

troppo

casino, ci ha visti una sua amica che la odia e le ha spifferato

tutto,

c'ha messo dietro un detective da quattro soldi che le ha appena

consegnato delle foto. Ma non gli viene in mente niente se non

scappare. Troppo tardi. Raffaella lo vede.

"Claudio, vieni subito qua, vieni qua! " Raffaella continua a

urlare

come una forsennata. "Vieni subito a sentire cosa è successo! "

Claudio non sa più che fare. Ubbidisce, totalmente assoggettato

a quell'urlare che sbriciola ogni sua possibile reazione, ogni

sua certezza o tentativo di difesa.

"Allora, vuoi sentire cos'è successo? Daniela è incinta!"

Claudio tira un sospiro di sollievo. La guarda. Daniela è in

silenzio.

Ha gli occhi abbassati. Ma Raffaella non si ferma lì.

"Aspetta eh, aspetta! Mica è finita qui! Vuoi sentirla tutta? È

incinta e non sa di chi! "

Daniela a quel punto alza gli occhi e guarda Claudio, implorando

un qualsiasi tipo di perdono, un po' d'amore, una solidarietà

di qualunque genere. Poi c'è Babi, che guarda schifata la sorella

pensando che abbia deliberatamente deciso di rovinare il suo

momento.

E dall'altra parte della stanza c'è Raffaella. Anche lei si

aspetta

qualcosa da Claudio. Uno schiaffo, un urlo, una qualsiasi

reazione.

Ma Claudio è completamente svuotato. Non sa che dire, che

pensare. In parte è sollevato. Per un attimo ha temuto di essere

scoperto.

Allora decide di uscirsene così, anche se è sicuro che la pagherà

per molti anni.

"Io vado a dormire. Scusate, ma ho anche perso a biliardo."

Capitolo 48.

Musica. Prima sala. Gente che entra, gente che esce, gente che

scherza, gente che beve, gente che ride. Ragazzi che cercano di

farsi

sentire, donne che ascoltano e ogni tanto una risata. Gente

immobile,

gente che guarda, gente che spera, gente che chissà cosa pensa.

Seconda sala.

Uno strano dj, troppo normale per esserlo veramente, mette

della bella musica. Ballano tutti ed è difficile farsi strada.

Qualche

esibizionista si è portato su un terrazzino. Su qualche altra

sporgenza,

abbandonata a caso da chissà quale architetto, ballano delle

ragazze. Una cubista spogliata. Una donna marinaio. Una solo

vestita di reti. Una ragazza militare. Belle. Almeno così

sembrano.

Musica e luci a volte però giocano brutti scherzi. Il Ballerino si

fa

strada, spinge, in modo gentile, altri ballerini meno muscolosi di

lui ma forse più ritmati. Piano piano avanziamo in questa specie

di trincea umana.

Terza sala. La sala Vip.

Un tipo con la benda sull'occhio e dall'aria potente canta a più

non posso, ultimo baluardo di quell'ipotetica band alle sue

spalle.

Non canta male.

Qualche Vip sufficientemente sconosciuto siede su un divano

nella sala Vip ricavata da un mezzo soppalco. Un tipo all'entrata

di

questo piccolo ring controlla che nessuno entri in quell'eden

privato.

O forse che quei pochi Vip entrati non se ne vadano prima

di una certa ora. Il Ballerino ci porta due fette di torta.

"Adesso Walter vi dà un tavolino e due bicchieri di champagne.

Oh, scusa Step, ma io devo tornare all'entrata."

Mi fa l'occhiolino e sorride. È migliorato, però. Non me lo

ricordavo

anche con questa strana ironia.

Rimaniamo così in mezzo alla sala, con quelle due fette di torta

in mano. Gin con la forchetta di plastica, in uno strano

equilibrio,

prova a piluccarne un po'.

"Che c'è, sei arrabbiata?"

Mi sorride.

"No, che c'entra. Quello era proprio uno stronzo. Lo avrei fatto

anch'io se avessi potuto. Magari con meno violenza."

La guardo e divento serio. Mi fa tenerezza. Cerco di essere

gentile.

"A volte non puoi scegliere. Allora è meglio abbozzare, fare finta

di niente. Ma nel mio caso sei tu che hai scelto..."

"E non ho fatto bene?"

"Certo. Comincio a conoscerti. So solo che se esco con te devo

essere in forma. "

"Secondo te gli servirà di lezione?"

"Non credo, ma non potevo fare altrimenti. Magari era pieno

di coca. Con i tipi così non puoi parlare. O lui o io. Con chi la

volevi

mangiare questa torta?"

Prende veloce un altro pezzo di torta. "E buona." Mi sorride

mangiandola di gusto. Ha la bocca piena e riesce appena a farsi

capire.

"La voglio mangiare con te..."

Arriva Walter, un tipo sui quarant'anni dalla camicia bianca con

qualche fronzolo. Sembra uscito dal Settecento francese.

"Questi sono per voi."

E lascia su un tavolino due calici di champagne. Poso la torta.

Mi finisco il mio. Anche Gin beve il suo tutto d'un fiato. Ne

prendiamo

un altro al volo da una ragazza che passa con un vassoio.

Gin fa quasi cadere il suo, ma riesco ad afferrarlo. Sono un po'

ubriaco ma ancora lucido.

"Vieni, andiamo."

La prendo per mano e la porto verso l'uscita di sicurezza. In

un attimo siamo per la strada. Vento notturno, vento leggero,

vento

di ottobre. Qualche foglia per terra o poco più. Mi guardo in

giro.

Poco lontano c'è l'entrata del Follia, il tipo è ancora steso per

terra. Ora è poggiato sui gomiti, mentre la sua ragazza è lì

davanti

che lo fissa con le braccia sui fianchi a mo' di anfora. Chissà

cosa

pensa. Magari sotto sotto è soddisfatta che qualcuno l'abbia

conciato

così. Certo non glielo può far vedere. Magari le cose fra i due

cambieranno. Magari, sì, magari... E difficile. Ma non me ne frega

più di tanto. L'ha scelto lei mica io.

"Ehi, si può sapere a cosa stai pensando? Non mi dire che ti

stai ancora beando di come hai ridotto il tipo. È stato solo

sfigato,

l'hai detto tu. Lui o te. Questione di attimi. E lui è partito

dopo.

L'hai preso alla sprovvista. In un incontro normale non so come

sarebbe

finita."

"Io non so come finisci tu se non la smetti. Monta in macchina,

va .

"E ora dove mi porti? Abbiamo preso anche il dolce, e pure a

sbafo. "

"Manca la ciliegina."

"Cioè?"

"Cioè tu."

Alzo la musica in maniera che Gin non possa rispondere, la

metto al massimo e ho culo. "Un'altra come te ma neanche se

l'invento

c'è... Mi sembra chiaro che..." Gin sorride scuotendo la testa.

Riesco a prenderle la mano e portarmela alla bocca. La bacio

dolcemente. E morbida, è fresca, è profumata. Vive di una vita

tutta

sua, malgrado tutto quello che ha toccato. E la bacio ancora. Solo

labbra. Tra le sue dita. Frugando, strusciando, slittando, senza

frenare, lasciandomi andare, cadendo. Le vedo chiudere gli occhi,

lasciare andare la testa all'indietro sullo schienale. Ora,

perfino i

capelli sono ormai abbandonati. Le giro la mano e le bacio il

palmo.

Mi stringe il viso dolcemente, mentre respiro tra le sue linee...

La vita, la fortuna, l'amore. Respiro piano piano senza far

rumore.

Lei d'improvviso apre gli occhi e mi guarda. Sembrano diversi,

come

cristallini, appena appannati da un velo leggero. Felicità? Non

so. Mi sbirciano nella penombra. Sembrano sorridere anche loro.

"Guarda la strada..."

Mi rimprovera. Io ubbidisco e poco dopo giro a destra, giù,

lungo il fiume, Lungotevere, tra le macchine, fra gli altri,

veloce,

con la musica e la sua mano nella mia, che si muove ogni tanto,

ballerina, invitata a chissà quale danza. Cosa starà pensando? E

se

ha indovinato, quale sarà la sua risposta? Sì, no... E come una

partita

di poker. E lei è lì davanti a me, la guardo un attimo. I suoi

occhi,

leggermente abbassati, mi sorridono da sotto, dolci e divertiti.

Non c'è che andare al piatto, perché tiri giù le carte. Sarà un

sì... sarà un no... è troppo presto? Non è mai troppo presto. Non

c'è tempo per queste cose e poi non è una partita a poker, non c'è

piatto. Ma... Magari sono servito? Che bello essere una

"davanzalina" come lei. Una piccola donna al davanzale, è lì che

mi guarda,

pensa, ragiona, si diverte. Ride di quel giovane uomo che cammina

sotto il suo terrazzo, che non sa che fare, se far finta di

niente,

semplicemente sorridere o chiedere l'aiuto di una treccia... Per

salire... Beata te che puoi aspettare le mie mosse.

"Mi gira un po'la testa."

Mi sorride mentre lo dice. È una piccola giustificazione se per

caso accadesse qualcosa? O è una grande giustificazione se già sa

che accade qualcosa. Oppure le gira semplicemente la testa e me

lo voleva dire. Semplicemente. Ma cosa c'è di semplice? Nulla che

valga... Chi l'aveva detta questa? Non mi ricordo. Mi sto

intortando,

giri complessi e complicati, ragionamenti estremi per vedere le

effettive possibilità. Che percentuali ho di riuscita? Basta,

cazzo...

Non mi piace ragionare su tutto questo.

"Gira anche a me."

È la mia semplice risposta. Semplicemente. Gin mi stringe un

po' più forte la mano e io, stupidamente, ci vedo un segno. O

forse

no. Che palle. Ho bevuto troppo.

Aventino.

Una curva e su per la salita. Questa macchina va che è una

meraviglia.

Mio fratello sarà felice che gliel'ho ritrovata. Mi viene da

ridere. Lei mi guarda, mi giro e me n'accorgo.

"Che c'è? A che pensi?"

Gin, dalle sopracciglia un po' abbassate, Gin dallo sguardo un

po' aggrottato, Gin preoccupata.

"Niente, questioni familiari."

Gianicolo. Orto botanico. Mi fermo al volo, tiro il freno a mano

e scendo.

"Ehi, ma dove vai?"

"Niente... non ti preoccupare, torno subito."

Chiude la portiera stendendosi dalla parte mia e si chiude dentro.

Gin serena. Gin sicura. Gin previdente. Mi guardo in giro.

Niente. Perfetto, non c'è nessuno. Uno, due e... tre. Scavalco il

cancello

e sono dentro. Cammino in silenzio. Profumi leggeri, profumi

più forti, un poco pungenti. Future colonie non ancora esistenti.

Distillati in boccetta, essenze costose. Ecco. Ecco la mia preda.

La

scelgo d'istinto, la prendo con cura, la stacco con forza ma senza

maltrattarla. Un desiderio che ho sempre avuto e ora... Ora sei

mia.

Uno, due, tre passi e sono di nuovo fuori. Mi guardo in giro.

Niente.

Perfetto, non c'è nessuno. Torno alla macchina. Gin mi vede

all'improvviso.

Si spaventa. Poi mi apre.

"Ma dove sei andato? Mi hai fatto paura."

Allora apro il giubbotto, scoprendola. Come uno spinnaker che

prende vento all'improvviso in mare aperto. E in un attimo tutto

il

suo profumo inonda la macchina. Un'orchidea selvaggia. Compare

così, tra le mie mani, con un semplice gesto, più di un

prestigiatore

che di un ladro imbranato.

"Per te. Da fiore a fiore, direttamente dall'Orto botanico."

Gin la annusa, si tuffa al centro dell'orchidea selvaggia per

respirarne

il profumo più intenso. Lei, giovane donna in apnea, appare

di nuovo tra quei grandi petali. Mi ricorda un cartone. Bambi,

ecco sì, Bambi. Quegli occhi grandi, lucidi, emozionati che

compaiono

dietro quei petali delicati di un fiore. Quegli occhi spaventati

e incerti su un futuro prossimo. Non uno qualunque, il suo.

Prima, seconda, terza, siamo di nuovo in viaggio. Piccole curve

e su per una salita. Schivo una transenna che ci obbligherebbe

a fermarci e posteggio poco più su. Campidoglio.

"Vieni!"

La faccio scendere dalla macchina e lei come rapita mi segue.

"Ma guarda che..."

"Shh! Parla a bassa voce, qui ci vivono."

"Sì, va bene. Ma volevo dirti... Guarda che di sera qui non

sposano.

E poi non ne abbiamo ancora parlato. Ma io voglio la favola,

te l'ho detto."

"Cioè?"

"Abito bianco, un po' scollato, fiori misti al grano e una bella

chiesa nel verde anzi no, in riva al mare."

Ride.

"Lo vedi che sei ancora indecisa?"

"Perché?"

"Nel verde o al mare?"

"Ah, pensavo che dicevi che ero indecisa se sposarti o meno."

"No, per quello sei decisissima. Faresti carte false."

La tiro a me e provo a baciarla.

"Presuntuoso e poco romantico."

"Perché poco romantico?"

"Non si fanno richieste indirette. Ah ah! " Finge di ridere e mi

scappa dalle braccia, come un pesce salta fuori dalla mia rete e

corre

via veloce, svoltando dietro l'angolo. Le sono dietro. È un

attimo.

Siamo nella piazza grande del Campidoglio. Luce più alta. Una

statua centrale con attaccato un cartello. Naturalmente stanno

facendo

dei lavori. Ci fermiamo vicini ma divisi. Sembra tutto bellissimo,

soprattutto lei. Fa capolino da dietro la statua.

"Allora che fai? Non ce la fai già più?"

Fingo di partire, e lei scappa dietro la statua. Corro dall'altra

parte e pum, la prendo al volo. Lei strilla.

"No... no dai!"

La sollevo e me la porto via. Tipo ratto delle Sabine o giù di lì.

Via dalla luce, via dal centro. Finiamo sotto il colonnato, nella

penombra.

Le faccio ritoccare terra e lei si sistema il giubbotto coprendosi

la pancia, morbida e compatta, appena scoperta. Le prendo

i capelli e le scopro il viso leggermente arrossato, per la corsa

appena fatta, per qualche imbarazzo segreto o chissà che. Il suo

petto va su e giù veloce, poi piano piano rallenta.

"Ti batte forte il cuore, eh?"

La mia mano sul suo fianco. Sotto il giubbotto, sotto la

maglietta,

leggera, quasi come un semplice brivido, sulla sua stessa

pelle. Lei chiude gli occhi e io piano piano salgo, sul bordo, sui

suoi

fianchi, su, dietro la schiena. Apro la mano e la tiro a me,

stringendola,

spingendola verso il mio corpo, baciandola. Alle nostre

spalle una colonna più bassa delle altre, dal diametro più largo.

Lì,

dolcemente, la spingo, lasciandola scendere giù, piano piano. E

lei

si lascia andare. I suoi capelli, la sua schiena persi su quella

base

così antica, corrosa dal tempo, dalle venature sbiadite, dal marmo

poroso ormai quasi stanco, e sì che ne avrà viste di cose... Si

tiene

stretta ai miei fianchi con le sue gambe, stringendomi in una

morsa

leggera, facendole dondolare a destra e sinistra. E io mi lascio

portare. Mentre le mie mani naufragano tranquille lungo la sua

cintura,

i pantaloni, i suoi bottoni. Senza fretta, senza... Senza liberare

niente. Senza troppa voglia. Per adesso. Poi all'improvviso Gin

si gira verso sinistra e apre gli occhi, sgranandoli.

"C'è qualcosa lì!"

Spaventata, determinata, forse un po' seccata. Guardo meglio

nell'ombra ancora intontito dalla leggera sbronza d'amore.

"Non è niente. È un barbone..."

"E dici niente? Ma tu sei pazzo."

Si tira su decisa. E io che non ho sentito niente, e soprattutto

non ho voglia di litigare, la prendo per mano. L'aiuto. Scappiamo

così, lasciando quella mezza colonna antica e quella figura più o

meno presente, dimenticati nell'ombra. Come in un labirinto

procediamo

tra il verde nascosto e le luci più o meno soffuse dei Fori

romani. Sotto di noi, in lontananza, antiche colonne e travi e

monumenti.

Un viottolo si inerpica su dalla piazza del Campidoglio.

Terrazze sbalzate con piccoli parapetti, della ghiaia per terra,

del

verde curato, dei cespugli selvaggi. Tutt'intorno più sotto,

un'altezza.

"Tarpea."

Così, sospesi nel vuoto di quelle rovine, sotto un muretto, in

un cono d'ombra perfettamente protetta, una panchina nascosta.

Gin ora più tranquilla si guarda in giro.

"Qui non ci può vedere nessuno."

"Mi vedi tu."

"Ma se vuoi chiudo gli occhi."

Non dice no, non dice sì. Non dice. Ma respira vicino al mio

orecchio mentre si lascia spogliare. Via il giubbotto, via la

maglietta,

scomposti cadono dalla panchina, in un'ombra ancora più

scura. Via le scarpe, via i pantaloni. Ognuno toglie qualcosa

all'altro.

Poi ci fermiamo. È davanti a me, si copre il seno abbracciandosi

da sola con le mani incrociate sulle spalle, orlata tra i capelli

dalla luce della luna, coperta più giù solo dalle sue mutandine.

Non ci posso credere. Lei, Gin. Quella Gin che mi voleva

fregare 20 euro.

"Ehi, che fai, mi guardi?"

"Non mi hai detto di no. E poi ti sbagli, ho gli occhi chiusi."

Da qualche parte, da un locale o da una finestra lasciata aperta,

note di uno stereo in lontananza. "Won't you stop me, stop me,

stop me..." No. Non vuoi, Gin. Lo sanno anche i Planet Funk.

"Come sei bugiardo."

E allarga le braccia lasciandosi guardare, sorridendo. Poi mi si

avvicina, ha le gambe semiaperte. Rimane così a fissarmi.

"Senti..."

"Shh... non diciamo nulla."

La bacio e piano piano le sfilo le mutandine.

"No, ho voglia di parlare. Primo hai... sì, insomma... quello che

serve?"

"Ce l'ho..." rido. "Ce l'ho."

"Ecco, lo sapevo, lo porti in tasca o nel portafoglio? O l'hai

comprato prima di venirmi a prendere? Perché magari tu eri già

sicuro

che andava così! Be', se vuoi non lo mettiamo..."

"Di' la verità, vorresti avere subito un bel bambino, bello come

me, intelligente come me, forte come me?"

"Ma scusa di me non ha niente?"

"Va bene... E con qualche difetto come te."

"Quanto sei scemo. No, a parte gli scherzi ce l'hai o no... il

coso!?"

"Calma, calma, veramente prima non ce l'avevo..."

"Sì, e ora invece ce l'hai, e chi te l'ha dato? Il barbone?"

"No, il Ballerino, il mio amico del Follia. Si è avvicinato e me

l'ha infilato in tasca e mi ha detto..."

"Che ti ha detto?"

"In bocca al lupo... E veramente carina, ma non credo ce la farai.

"

"Quanto sei bugiardo..."

"Ma è vero! Be', non ha usato proprio queste parole, ma il

significato

voleva essere un po' questo, più o meno."

"E poi un'altra cosa..."

"No, ora basta parlare..."

La tiro a me. Le bacio il collo, lancia i capelli indietro e io

piccolo

vampiro continuo a succhiarla assaporando lei, il suo profumo,

il suo respiro. La mia mano sembra andare da sola, sui suoi

fianchi, sulla sua vita, tra le sue gambe, nella vita che sarà. La

sento

sospirare piano, poi leggermente più veloce, mentre si agita tra

le mie braccia quasi ballando, dolcemente, su e giù, senza

pensieri,

senza falsi pudori, sorridendo, aprendo gli occhi, guardandomi,

con una tranquillità e una serenità che mi mettono in imbarazzo.

E come se non bastasse mentre muovo la mano per prendere la nostra

sicurezza...

"Lascia, voglio farlo io."

"Ma guarda che sono io che devo indossarlo."

"Lo so... cretino. Vuoi sapere quanti ne ho infilati? Aspetta,

fammi pensare..."

"Non lo voglio sapere."

"Questo è il sedicesimo che infilo."

"Ah... Meno male."

"Perché?"

"Be', se era il diciassettesimo mi preoccupavo, porta sfiga! "

Non mi dà soddisfazione però mi fa divertire. Lo sbuccia come

se fosse una caramella, prova con le unghie ma non ci riesce, se

lo porta in bocca e questa volta lo fa con malizia.

"Stai tranquillo... non lo mangio."

Uno strappo deciso ed è lì tra le sue mani. Lo gira e lo rigira

sorridendo.

"È buffo..." È tutto ciò che dice. Poi muove la testa verso di

me.

"E allora?"

Nudo allargo le gambe e lì mi accarezza piano piano, su e giù...

poi me lo infila tranquilla.

"Sono brava?"

"Troppo!"

Ma non dico altro. Ora astronauta perfetto di questo viaggio

tra congiunzioni astrali sotto un cielo stellato, sopra una donna

incantata,

tra rovine del passato, nel piacere del presente.

Galassia. Interspazio. Natura. Profumi. Niente di selvaggio...

Un po' di resistenza, forse troppa... È strano. Vado avanti mentre

lei chiude gli occhi.

"È fredda la panchina."

Ma si lascia andare stendendo del tutto la schiena. Alza un po'

le gambe aiutandomi.

"Ahi..."

"Ti faccio male?"

"No, non ti preoccupare..."

Non ti preoccupare... Non ci posso credere, non ci posso credere,

io, Gin, lo sto facendo... Rimango in silenzio, sospesa, quasi

ascoltando la mia vita che scorre su di me, sotto di me, dentro

di me. In questo momento decisivo, così importante per la mia

vita,

unico, per sempre. Non lo potrò più cancellare. La mia prima

volta. Ed ho scelto te. Ed ho scelto te. Sembra quasi quella

canzone...

Ma non lo è. È realtà. Sono qui, io, in questo momento. E

Step. Lo vedo, lo sento. È sopra di me. Lo abbraccio, lo stringo,

lo stringo forte, più forte. Ho paura, come tutte le volte che si

fa

qualcosa che non si conosce. Ma è una paura normale, più che

normale... O no? Porca trota Gin, non ti far prendere adesso da

tutte le tue fisse, dai film che ti fai, da tutto insomma... Porca

miseria,

Gin, ma che mi combini? Gin la saggia e Gin la ribelle... Dove

siete? Niente, sono andate a farsi fottere... Ma come? Pure loro!

Che battuta... la odio, oddio, no, era per sfatare... Ho paura,

aiuto. Chiudo gli occhi, respiro, sospiro, comunque mi piace. Sono

appoggiata al suo collo, alla sua spalla, non più tesa, non più

preoccupata... In silenzio, così, portata, abbandonata,

naufragata...

E mi piace. Lo sento. Sento le sue mani, sento che mi tocca

tutta, che mi sfila via anche l'ultima cosa di dosso, dolcemente,

sì,

quasi non me ne accorgo... E ora che fa? No, aiuto... Si sta

infilando.

Oddio, che parola, non ci voglio pensare. Non voglio essere

qui a ragionare, a vedermi da fuori, a controllarmi, a sdoppiarmi,

ad avere questa mente che continua a parlare, a dirne... Oh,

ma che vuoi... E basta, e mollami... No! Voglio lasciarmi andare.

Nella culla del suo amore, in questo mare, nel desiderio,

lentamente

lasciarmi portare, dalle sue correnti. Persa. Sì, senza più

pensieri. Perdermi così tra le sue braccia... Ora. Ecco.

La sento ancora tesa, no, ecco, si sta lasciando andare... Un

ultimo

movimento seguendo a tempo una musica che non c'è, ma ancora

più bella forse per questo. Cuori e sospiri...

Un improvviso silenzio. Oddio penso, Gin stai per farlo... Sento

il profumo del suo respiro, del suo desiderio. E cerco la bocca

di Step, il suo sorriso, le sue labbra. Le trovo, e quasi mi ci

tuffo,

per nascondermi, per trovarmi, in un bacio più lungo, più

profondo,

più avvolgente, più... Più tutto.

Un gemito più forte e ora è mia. È strano pensarlo. È mia, mia.

Mia adesso, mia ora... Mia in questo momento, solo mia. Mi viene

da pensarlo. Mia. Mia per sempre... Forse. Ma ora, certo. Ora è

amore... Dentro di lei. E ancora e di nuovo e ancora, senza

fermarmi...

Ora sorride, dolcemente, senza strappi al motore.

E proprio in quel momento lo sento, è lui, è dentro di me... E un

attimo. Un salto, un tuffo al contrario... Un dolore acuto, un

buco

all'orecchio, un piccolo tatuaggio, un dente caduto, un fiore

sbocciato,

un frutto strappato, un passaggio rimediato, una caduta sugli

sci... Sì, ecco, una caduta sugli sci, nella neve fresca, fredda,

bianca,

appena arrivata, direttamente dal cielo, e tu sei lì, con la

faccia in

avanti, che scivoli ancora, che ridi, che ti vergogni, che

spalanchi la

bocca ancora piena di neve, tu negata, tu divertita, tu alla prima

caduta,

alla tua scivolata... Su quella neve, soffice e pulita, così come

mi sento io in questo momento. Finalmente. È dentro di me, lo

sento,

nella mia pancia, aiuto, mi aiuto... Ma che bello. E sorrido,

allontano

il dolore, ritorno a sentire, a provare, e assaggio il piacere,

un piccolo morso... Sto bene, mi piace, lo voglio. Come le sue

lettere,

a pelle, da oggi, incise per sempre dentro di me.

"Step, ho voglia di te."

"Cosa hai detto?"

"Non mi prendere in giro."

"No, ti giuro non ho capito."

Step continua a muoversi sopra di me. Dentro di me. E gli guardo

gli occhi e mi perdo rapita, dal suo sguardo, da quegli occhi che

contengono amore o forse no, ma non me lo chiedo, adesso no...

E mi parla e non si capisce, e sospira nelle mie orecchie, e il

vento,

e il piacere, che ruba, che porta le sue parole, e sorride, e

ride, e

continua a muoversi, e mi piace, e mi piace un sacco, e non

capisco,

e mi bacio le mani, e sono affamata, e glielo ripeto... "Step, ho

voglia di te..."

Più tardi, non so quanto più tardi, Gin mi abbraccia seduta sulle

mie gambe mentre cerco di levarmi la nostra sicurezza. Me lo

sfilo.

Una traccia di leggero inchiostro rosso tra le mie dita. Firma

indelebile.

Mia... Per sempre mia. Per sempre mia. Non ci posso credere.

"Ma..."

"Era quello che ti stavo per dire..."

"Cioè, tu non avevi mai...?"

"No, non avevo mai... ! "

"Perché non lo dici?"

"Sì, non avevo mai fatto l'amore, e allora che problema c'è? C'è

sempre una prima volta per tutto, no? Be', questa era la mia prima

volta. "

Rimango senza parole, non so che dire. Forse perché non c'è

nulla da dire.

Gin che si riveste. Mia... Mi guarda e sorride alzando le spalle.

"Hai visto che strano? Fra tanti è toccato proprio a te. Non te

ne farai una colpa, vero? E neanche un vanto spero."

Si infila la maglietta e il giubbotto senza rimettersi il

reggiseno.

Ancora non riesco a dire nulla. Si infila il reggiseno in una

delle tasche

del giubbotto.

"E poi che ne so... Sarà stata la serata... da domani però non ti

fare strane idee, devo recuperare il tempo perduto. Anche perché

statisticamente sono indietro di quattro anni. La maggior parte

delle

ragazze l'ha già fatto a quindici. "

Ormai completamente rivestita è già sulla scala sotto il lampione

mentre io finisco di chiudermi il giubbotto. Poi si mette a

ridere.

Sicura, serena, perfettamente a suo agio.

"Ma è anche vero che oggi c'è un po' il ritorno a certi valori del

passato. Insomma diciamo che io mi colloco tranquillamente nel

mezzo."

Poco dopo le sono vicino e cominciamo a camminare. Questa

volta finalmente in silenzio, anche perché io non sono riuscito a

dire

più nulla. Poi, a un certo punto, mi passa il braccio dietro la

schiena. Io l'abbraccio stringendola a me. Continuiamo così,

mentre

la respiro. Lei, Gin, ancora profumata del suo primo amore.

Mia. Mia. Mia.

"Sai Step, stavo pensando una cosa..."

Eccola lì, lo sapevo. Era troppo bello! Le donne e le loro

riflessioni.

Finiscono per rovinare anche i momenti più belli, gli unici

che meritano di essere vissuti in silenzio. Fingo di non essere

preoccupato.

"Cosa?"

Poggia la sua testa sulla mia spalla.

"Mi è venuto un pensiero strano, cioè in realtà è una curiosità...

Ma ci pensi? Chissà se dai tempi dell'antica Roma a oggi in quel

posto l'aveva già fatto qualcuno."

"Nessuno."

"Ma come fai a esserne così sicuro!"

"Non c'è niente da fare, certe cose le senti, le senti e basta."

Si ferma. Mi guarda. Ha degli occhi così intensi. E sorride in

un modo...

"Ne sono sicuro... nessuno. Fidati."

Allora poggia di nuovo la sua testa sulla mia spalla. L'ho

convinta

sul serio. Forse per come l'ho detto. Cavoli, mi piacerebbe

sul serio sapere se c'è mai stato qualcuno in quel posto. Ma non

c'è

modo. Eppure non so com'è ma sul serio ne sono convinto anch'io.

Gin riprende a parlare.

"Allora abbiamo scritto un pezzo di storia... la nostra." Mi

sorride

e mi dà un bacio sulle labbra. Morbida. Calda. Amorevole. La

nostra storia... Altro che 20 euro. Mi sa che alla fine mi ha

fregato

sul serio.

Capitolo 49.

"Fermati qui, frena." Non ci penso due volte e lo faccio. Di

botto, al volo, così come è lei. Meno male che non arrivava

nessuno

da dietro. Mio fratello... E chi lo sentiva poi. Va be' che se la

poteva

prendere sempre con il ladro. Gin scende veloce dalla macchina.

"Vieni."

"Ma dove?"

"E seguimi, quante domande che fai."

Siamo di fronte a Ponte Milvio, in una piccola piazza sul

Lungotevere

da dove parte via Flaminia che arriva fino a piazza del Popolo.

Gin corre sul ponte e si ferma a metà, davanti al terzo lampione.

"Ecco, è questo qui."

"Ma che cosa?

"Il terzo lampione. C'è una leggenda su questo ponte, Ponte

Milvio o Mollo come lo chiamava il Belli..."

"Ma che, ora mi fai la colta?"

"Sono colta! Su pochissime cose, ma lo sono. Come questa per

esempio, la vuoi ascoltare o no?"

"Prima voglio un bacio."

"E dai ascolta... È una storia bellissima."

Gin si gira e sbuffa. L'abbraccio da dietro. Ci appoggiamo al

parapetto. Guardiamo lontano. Poco più in là un altro ponte.

Quello

di corso Francia. Mi perdo con lo sguardo. E nessun ricordo

disturba

questo momento. Perfino i fantasmi del passato sanno avere

rispetto di alcuni momenti? Sembra di sì. Gin si lascia baciare.

Sotto di noi il Tevere, buio e scuro, scorre silenzioso. La luce

fioca

del lampione ci illumina leggera. Si sente lo scrosciare lento del

fiume

lungo gli argini. Il suo corso si spezza all'improvviso intorno

alle

colonne del ponte. L'acqua gorgheggia, si innalza, ribolle,

borbotta.

Poi, subito dopo, si unisce di nuovo e continua in silenzio la

sua corsa verso il mare.

"Allora, mi racconti?"

"Questo è il terzo lampione di fronte all'altro ponte... La vedi

questa qui intorno?"

"Sì... Mi sa che qualcuno si è sbagliato a legare il motorino..."

"Macché, scemo. Si chiama 'la catena degli innamorati'. Si mette

un lucchetto intorno a questa catena, lo si chiude e si butta la

chiave nel Tevere."

"E poi?"

"Non ci si lascia più."

"Ma come nascono queste storie?"

"Non lo so, questa esiste da sempre, la racconta perfino

Trilussa."

"Te ne approfitti perché non lo so."

"È vera... È che tu hai paura di mettere un lucchetto."

"Io non ho paura."

"Quello è il libro di Ammaniti."

"O il film di Salvatores, dipende dai punti di vista."

"Comunque tu hai paura."

"Ti ho detto di no."

"E certo, te ne approfitti perché non abbiamo un lucchetto."

"Stai qua e non ti muovere."

Torno dopo un minuto. Con un lucchetto in mano.

"E questo dove lo hai trovato?"

"Mio fratello. Si porta il lucchetto con tanto di catena per

bloccare

il volante. "

"Già, non può mica immaginare che è suo fratello poi che gliela

frega."

"Guarda che sei responsabile quanto me. E fra l'altro mi devi

ancora 20 euro."

"Che rabbino."

"Che ladra!"

"Ma di che? Oh, ma che vuoi, pure i soldi del lucchetto? Facciamo

tutto un conto finale..."

"Troppi me ne dovrai allora."

"Va be', stop, finiamola qui. Allora te la senti o no?"

"Certo che sì."

Metto il lucchetto alla catena, lo chiudo e sfilo la chiave. La

tengo

un po' tra le dita mentre fisso Gin. Lei mi guarda. Mi sfida, mi

sorride, alza un sopracciglio. "Allora?"

Prendo la chiave tra l'indice e il pollice. La faccio penzolare

ancora

un po', sospesa nel vuoto, indecisa. Poi all'improvviso la lascio.

E lei vola giù, a capofitto, rotea nell'aria e si perde tra le

acque

del Tevere.

"L'hai fatto veramente..."

Gin mi guarda con aria strana, sognante, anche un po' emozionata.

"Te l'ho detto. Non ho paura."

Mi salta addosso, a cavalcioni, mi abbraccia, mi bacia, urla di

gioia, è folle, è pazza, è... È bella.

"Ehi, sei troppo felice. Ma non è che funziona sul serio questa

leggenda?"

"Scemo!"

E corre via, gridando sul ponte. Incontra dei signori che

camminano

in gruppo. Tira il cappotto del più serio, lo fa girare su se

stesso, lo costringe quasi a ballare con lei. E scappa via di

nuovo.

Mentre gli altri ridono. Spingono scherzosamente il signore che si

è arrabbiato e vorrebbe sgridarla. Passo vicino al gruppo e

allargo

le braccia. Tutti condividono la felicità di Gin. Perfino il

signore

serio alla fine mi sorride. Sì, è vero, è così bella che obbliga

un po'

tutti a esserne felici.

Capitolo 50.

Mattina. "Non ci posso credere!" Paolo entra come una furia

in camera. "Pazzesco non avevo dubbi, lo sapevo che sei sempre il

mitico Step. Ma come cavolo hai fatto?"

Non capisco ancora niente, so solo che "cazzo" ci sarebbe stato

meglio. "Cavolo" proprio non lo sopporto. Mi rigiro nel letto e

affioro tra i cuscini.

"Di che?"

"La macchina, l'hai ritrovata e in così poco tempo poi. Ti è

bastata

una serata. Sei troppo forte."

"Ah sì... ho fatto qualche telefonata. E ho dovuto 'dare' quello

che sai."

"Che so? No, non lo so..." Paolo si siede sul letto: "Che hai

dovuto

dare? ".

"Ehi, non fare il finto tonto... I soldi."

"Ah certo. Ma no, che c'entra sai, la felicità... Non ci capisco

più niente. Senti, ma com'era il tipo che me l'ha fregata? Uno

furbo,

uno stronzo, un tipo duro, uno di quelli con la faccia..."

Interrompo questa falsa ipotesi di identikit.

"No, non l'ho visto. Me l'ha portata uno che conosco, ma che

non c'entrava niente con il furto."

"Be', meglio così. Cosa fatta, capo ha."

"Che vuol dire?"

"Be', si dice."

Mi rigiro nel letto e infilo la testa sotto uno dei cuscini. Mio

fratello.

Dice cose che non sa neanche cosa vogliano dire. Sento che

si alza dal letto.

"Ancora grazie, Step..."

Fa per uscire dalla camera. Mi tiro su.

"Paolo..."

"Eh, che c'è..."

"I soldi..."

"Ah sì, quanto abbiamo dovuto pagare?"

"Abbiamo? Hai dovuto pagare 2300. Molto meno di quanto

avevi previsto."

"Così tanto, ma porca troia."

Quando si tratta di soldi ecco che riescono le parolacce vere.

"Che ladri, mi verrebbe da non darglieli."

"Veramente ho già pagato io. Ma se vuoi facciamo la denuncia

di furto e gliela riporto subito."

"No, no, che scherzi? Anzi, grazie Step, tu non c'entri niente.

Te li lascio sul tavolo."

Poco dopo mi alzo, ormai la mattina è cominciata e ho voglia

di fare colazione. Incrocio Paolo in salotto. È seduto che sta

finendo

di riempire l'assegno.

"Ecco qua." Perfeziona la sua firma con un ultimo ritocco. "Ti

ho lasciato qualcosa per il tuo fastidio."

Prendo l'assegno e lo guardo. Paolo fa una faccia tutta allegra

come a dire "Allora... sei contento?".

2400. Cioè 100 euro di più di quello che avrei dovuto dare al

ladro. 100 euro per uno che si è sfondato a ritrovargli la sua

macchina.

Almeno questo è quello che pensa lui. Che accattone! Ma

vivi alla grande! Fai almeno 2500 e via, no?! Ma siccome in realtà

mi ha dato una mancia enorme per "prestarmi" la sua macchina e

per una splendida uscita, una bella cena e tutto il resto... non

posso

che dirgli: "Grazie Paolo".

"Ma figurati, grazie a te."

Queste sono le frasi che odio.

"E poi Step, non sai l'assurdo, mi hanno fregato anche un

lucchetto."

"Un lucchetto?"

Faccio finta di cadere dalle nuvole.

"Eh, sì, ero così preoccupato per la macchina che quando mi

fermavo mettevo anche una catena intorno al volante. Ieri non

l'avevo

messa, ma potevo pensare che riuscivano a fregarmi la macchina

anche in garage? Ma che ci farà un ladro con un lucchetto

poi."

"Eh, che ci farà? Boh."

A questa domanda non so veramente cosa rispondere. Vagli a

spiegare. Ma sai, era per la "catena degli innamorati".

"Ma non è finita qua Step, eh? Guarda."

Me lo butta sul tavolo. Lo prendo in mano, lo guardo meglio.

Delicato. Semplice. Ne riconosco la chiusura che ho aperto ieri

sera.

Un reggiseno. Il suo reggiseno.

"Capisci... 'sti stronzi mi hanno rubato la macchina e sono andati

a scopare! Spero solo che lei non gliel'abbia data a quel ladro

di merda. Anzi, che se lo sia messo lei il lucchetto."

"Be', se hai trovato questo reggiseno nella macchina, non credo

che le cose siano andate come ti auguri."

"Ah, già, anche questo è vero."

Mi alzo e faccio per andare in cucina.

"Ma che fai, te lo tieni?"

Faccio finta di non capire.

"Che cosa?"

"Come che cosa? Il reggiseno!"

Sorrido facendolo penzolare davanti al mio viso.

"Be', perché no, farò una nuova edizione di Cenerentola! Invece

della scarpetta cercherò colei che riuscirà a indossare questo

reggiseno."

"A parte che andrà a tutte quelle che portano la terza."

"Che occhio che hai. Meglio, non sarà più difficile."

Paolo mi guarda e alza il sopracciglio.

"Step, scusa la domanda... Ma tu ti credi un principe azzurro?"

"Dipende da chi è stavolta Cenerentola."

Capitolo 51.

"Allora?" Ele mi corre incontro e quasi mi salta addosso. Sembra

impazzita.

"Raccontami tutto, dai... che hai combinato?"

Poi mi monta sopra, spinge forte, quasi a torturarmi.

"Sono sicura che hai combinato..."

"Ma chi te la dà questa sicurezza?"

"Lo sento... Lo sento... Tu lo sai che io sono sensitiva."

Si risiede composta vicino a me.

"Sì, sensitiva. Va be', te lo racconto, però non dirlo a nessuno,

ok?"

Ele annuisce, sorridendo, strabuzza gli occhi, non sta nella

pelle.

"Abbiamo fatto l'amore. "

"Cosa?"

"Hai sentito."

"Non ci credo."

"Credici."

"Sì, va be', questa poi l'hai sparata proprio grossa."

"Allora va bene, non abbiamo fatto niente."

"Sì, niente! Non ci credo."

"E allora lo vedi? Non ci credi comunque."

"Va bene, ma c'è anche una via di mezzo."

"Sì, ma se non c'è stata? Che vuoi da me?"

"Voglio la verità."

"Ma la verità te l'ho detta."

"Cioè?"

"La prima!"

"Cioè...? Avete scopato!?"

"Ma perché la devi sempre mettere così?"

"Perché è quello che avete fatto, o no?"

Mi guarda allusiva non credendoci ancora.

"Allora mi hai mentito. "

"Va bene, allora abbiamo scopato, abbiamo fatto l'amore, abbiamo

fatto sesso, insomma dilla come vuoi. Ma l'abbiamo fatto."

"Cioè, così di botto, l'hai fatto con lui?"

"Sìììì, e con chi sennò! "

"Ma scusa avevi aspettato tanto."

"Appunto! Ma guarda che sei assurda. Delle volte mi dicevi:

'Ma quando lo fai, ma vai con lui, mi buttavi sotto uno qualunque,

vai con quello, ma che ti frega poi se non ti va non lo vedi

più...' e

ora rompi perché sono andata con Step, ma guarda che sei strana

forte. "

"No, è che mi fa strano... E come è stato?"

"Com'è stato? E che ne so, non ho paragoni, io."

"Sì, insomma sei stata bene, ti ha fatto male, hai goduto, in

quanti modi l'avete fatto? Dove siete stati?"

"Oddio non ci posso credere, sembri un fiume in piena, una

marea di domande e che è?"

"Lo sono!"

"Che cosa?"

"Un fiume in piena."

"Ok, siamo stati al Campidoglio. Lì abbiamo iniziato... poi ci

siamo spostati al Foro romano..."

"E lì ti ha'forato'."

"Ele! ! ! Perché mi devi sempre rovinare tutto? È stato

bellissimo.

Se continui così, non ti racconto più niente."

"Ehi, guarda che se continui così, sono io che chiedo i diritti."

Non ci posso credere. La sua voce. Io ed Ele ci giriamo di botto.

Ce li abbiamo proprio lì, seduti due file dietro. Step e

Marcantonio.

Hanno ascoltato tutto. Ma da quanto sono lì? Cosa ho detto?

Di cosa ho parlato? In un decimo di secondo ripercorro velocemente

tutta la mia ultima mezz'ora... la mia vita, le mie parole. Oddio!

Cosa

le avrò mai raccontato? Qualcosa sì, l'ho detta. Ma da quanto

stanno lì? Sono rovinata, finita, vorrei scomparire sotto la

sedia. D'altronde

questo è il TdV, il Teatro delle Vittorie, il Tempio del varietà.

Qui c'era quel pupazzo. Provolino. Com'era la sua frase?

"Boccaccia

mia statti zitta. " E se fossi la Carrà vorrei fare come quel

personaggio

in bianco e nero. Maga Maghella. E scomparire. Invece incrocio

lo sguardo di Step che alza il sopracciglio: "Be', insomma, siamo

andati benino, no? Vero Gin?". Sorride divertito. Non so cosa

dire... No, non deve aver sentito più di tanto. Almeno spero.

Marcantonio frantuma quel drammatico silenzio. "Allora che

facciamo stasera? Be', dopo tutti questi bei racconti potremmo

essere

di 'privé'. " Marcantonio mi guarda. Ha uno sguardo molto intenso.

Prende in giro. Almeno spero... " Scambio coppie? " Ele scoppia

a ridere guardandomi. "Però non sarebbe male. Con te, Gin,

roba da pazzi!" Marcantonio si avvicina e mi accarezza i capelli.

Step rimane seduto sulla sedia e gioca con il sedile facendolo

dondolare

avanti e indietro. Io non so più cosa fare. È come se mi mancasse

il respiro. Divento rossa almeno credo. Abbasso gli occhi,

sbuffo. I capelli diventano quasi elettrici. Poi il miracolo.

"Allora, tutti pronti? Cominciamo le prove!"

Un fuggi fuggi generale a quelle parole dell'assistente di studio.

O forse l'ispettore, non lo so. Chiunque sia, mi ha salvato.

Scappo

via ma dopo un attimo torno indietro. Lo vedo impreparato al mio

gesto, meglio così. Mi avvicino e lo chiamo. "Step?" Si gira. Gli

do

un bacio leggero sulle labbra. Ecco fatto. Step mi guarda. Fa un

sorriso come sa fare solo lui.

"Tutto qui?"

Non gliela voglio dare vinta.

"Sì, tutto qui. Per adesso."

Senza dire niente di più, mi allontano tranquilla. L'ispettore di

studio si avvicina a Step.

"Forte quella ragazza."

"Molto forte."

"Come si chiama?"

"Ginevra, Gin per gli amici."

"È proprio forte."

L'ispettore di studio si allontana. E io, nel dubbio, lo richiamo.

"Ehi..."

"Sì?"

"È vero, è forte. Ed è mia."

Capitolo 52.

Pomeriggio di prove. Sto in sala regia con Marcantonio. Vicino

a noi, divisi semplicemente da un vetro, ci sono Mariani e

tutti gli altri. Il Serpe si agita nervosamente. Il Gatto & il

Gatto

sono seduti come avvoltoi alle spalle di Romani. Guardano i

monitor

della consolle, come impazziti, schizzano da un angolo all'altro

della sala, cercando l'inquadratura perfetta, quella ideale

da offrire a casa per rendere al meglio quello che vedranno.

Romani

no. Romani è calmo. Fuma lentamente una sigaretta, la tiene

sospesa nel vuoto a pochi centimetri dal suo viso in uno strano

gioco d'equilibrio. La cenere fa un difficile arco partendo dalle

sue dita, si prolunga nel vuoto rimanendo così, sospesa nel nulla,

senza cadere. Romani con l'altra mano fa dei leggeri movimenti,

schiocca le dita. Alterna le camere prontamente offerte

dal tipo al mixer. Il tipo è impassibile. Spinge dei bottoni su

una

tastiera, come se suonasse un piccolo pianoforte, leva dai monitor

più piccoli le immagini e le passa al monitor grande davanti

a Romani. Uno, due, tre, dissolvenza, quattro, cinque, sei, totale

dall'alto. "Ecco Step, questa è la tv." Marcantonio mi dà una

pacca sulle spalle. "Vieni andiamo in postazione, stiamo per

iniziare."

"Ma che si fa adesso?"

"Be', niente di speciale. È solo una prova prima della generale.

Praticamente siamo in un ritardo fottuto. Ma è così quasi sempre."

"Ah, capisco."

Alzo le spalle, non è che poi mi sia così chiaro. Ma deve essere

un momento importante, c'è una strana tensione. I cameramen

iniziano

a indossare le cuffie, se le calano sulla testa come soldati

pronti

ad andare in trincea. Muovono veloce la manopola dello zoom,

una botta secca, facendola rollare e impugnano le camere al volo,

allargano le gambe e si mettono in posizione, proprietari di

mitragliatrici

pronte a sparare su qualsiasi immagine venga chiamata dal

loro generale Romani.

"Tre, due, uno... Via con la sigla! " La musica parte. Il monitor

a colori, immobile di fronte a noi, prende improvvisamente vita.

Entrano quei loghi colorati che abbiamo fatto noi. Poi scompaiono

di botto. E sotto di loro una serie di sipari si apre in

successione,

perfettamente a tempo. La camera due, dove un unico cameraman

ha il piacere e la possibilità di stare seduto, avanza lentamente

al centro dello studio. Nel monitor a colori vedo quello che

sta riprendendo. La sua luce rossa è accesa. È il segnale che è in

onda. Avanza inesorabile come un perfetto fucile da caccia. Ha

preso di mira l'ultimo sipario, quella piccola porta sullo sfondo

che

improvvisamente si apre. Eccole. Una dopo l'altra, bionda, bruna,

rossa, escono come piccole farfalle da quella piccola porta, come

foglie colorate che cadono da un autunnale albero televisivo,

loro,

le ballerine. Coperte, scoperte, velate. Dai muscoli nascosti, dai

sorrisi improvvisati, dai capelli pettinati o colorati, dai visi

truccati.

Leggere si portano al centro. Prendono posto con eleganza. Poi

con un unico passo, partono insieme come piccoli soldatini

delicati.

Ballano su se stesse, allontanandosi e ritrovandosi, allargano

le braccia e sorridono, spegnendosi e accendendosi davanti a ogni

camera che si illumina di rosso mandandole in onda. E i cameramen

impeccabili ballano con loro, cambiano inquadratura, le portano

per mano, le lasciano e le riprendono. E Romani dirige il tutto,

perfetto maestro di una musica appena creata, composta di immagini

e luci. Marcantonio in silenzio batte a tempo sui tasti del

computer liberando, uno dopo l'altro, i titoli che appaiono e

scompaiono

muovendosi in 3D ora sul volto di quella ragazza bruna, ora

su un totale dall'alto, ora su una panoramica in dissolvenza.

Bravissimo.

Non sbaglia un colpo. Un ultimo battito e la musica si

stoppa. Silenzio. Le ragazze schierate tutte insieme allargano le

braccia e con un solo gesto indicano il fondo del teatro. Da

quella

piccola porta compare il presentatore. "Buonasera... buonasera.

Oh, eccoci qui... Che vuol dire I grandi genii Vuol dire, vuol

dire. Per esempio essere geniali vuol dire stare qui con queste

bellissime

ragazze e oltretutto essere pagati per starci..."

Guardo Marcantonio. "Ma veramente dirà queste cose?"

"Ma no, che c'entra... Lo fa in prova per divertirsi, per fare il

simpatico e magari beccare una di quelle ballerine, ma quando va

in onda è tutta un'altra cosa. Il più classico dei presentatori.

Magari

fosse così. Anzi non capisce che sarebbe molto più simpatico

a tutti. Ormai la gente è abituata, tutti leggono tutto, seguono

tutto

e sanno tutto. E invece lui crede che a guardarlo ci siano solo

coglioni."

"Be', se lo guardano così tanto, un po' coglioni sono."

Marcantonio si gira e alza il sopracciglio.

"Uhm, vedo che stai imparando. Niente male. Siediti qui va che

ti spiego bene cosa devi fare."

"Come cosa devo fare, ma non ci sei tu?"

"Ma un giorno potrei non esserci, posso avere da fare e poi...

Questa è la gavetta, domani sarà tutto nelle tue mani e tu devi

avere

la padronanza del mestiere."

Padronanza del mestiere. Mi suona male. È come essere stato

risucchiato su da un enorme aspirapolvere che ti prende e non ti

molla più. Mi siedo vicino a Marcantonio che inizia a spiegarmi.

"Allora con questo tasto resetti, con questo mandi di nuovo il

logo

in 3D..." Cerco di seguire, poi per un attimo mi distraggo. Nel

monitor è comparsa Gin, ha portato qualcosa al presentatore che

le sorride e la ringrazia. Guardo il suo primo piano che Romani

gentilmente ci concede. Poi Gin si allontana e il presentatore

continua

a spiegare qualcosa. Anche Marcantonio spiega qualcosa. Io

penso a Gin e al contratto che ho firmato per questo lavoro.

Maledetto

aspirapolvere. In tutti e due i casi mi sento fottuto.

Più tardi. Finite le prove. Dietro le quinte le ragazze si

cambiano

in fretta, riaccendono i telefonini che cominciano a squillare.

Gin si avvicina a Ele che è piegata in due in un angolo degli

spogliatoi.

"Ele, ma che fai?"

"Niente riprendo fiato, mi viene da vomitare. Che fatica! Però

è divertente. Ma è sempre così?"

"Questo non è niente, devi vedere quando c'è la diretta. Questa

è solo una prova."

"Oh, qui anche le altre sono tutte distrutte. Eppure è una vita

che lo fanno. Io altre due prove e sto perfetta. Forse perché di

base

c'ho il fisico. "

Sorride e le dà una pacca sulla spalla e poi fa pure l'occhiolino.

È al settimo cielo. Be', d'altronde finalmente è stata presa.

Almeno

questa volta. Chissà se c'è stato lo zampino... Gin non lo vuole

nemmeno pensare. La guarda mentre si cambia. Si tira via la roba

in un modo, Ele... pensa Gin. Mi ha sempre divertito la sua

maniera

di vestirsi o svestirsi... Non tanto quello che si mette, ma come

lo fa. Sembra una lotta fra lei e quello che deve indossare. Le

va sempre tutto sbrindellato, se lo sistema alla meglio, lo calza

un

po', si tocca i capelli, li butta indietro e via, è pronta.

"Ehi, Gin, che fai dopo?"

"Boh, non lo so."

"Di' la verità."

Mi guarda alzando il sopracciglio.

"Hai già il programmino?"

"Ma di che!" Le lancio il sopra della felpa e la prendo in

pieno.

"Ma ti pare che se c'ho il programmino, come dici tu, non lo

dico proprio a te? Ma che me ne frega! "

"Ho capito, hai il programmino."

Prende la felpa, la usa a mo' di fazzoletto e fa finta di

soffiarcisi

il naso dentro. Le altre la guardando sbigottite. Al solito. È il

suo

scherzo preferito, lo fa da quando ci conosciamo. Ma io non dico

nulla. Ele finge di asciugarsi il naso con la mano mentre le

altre,

schifate, continuano a fissarla.

"Grazie, sei proprio un'amica..."

E così dicendo, mi lancia la felpa, sorride e scappa via. Un po'

più tardi. Ho fatto pure la doccia. È un mito questo teatro. Tutte

le comodità respirando quello che è stato il debutto della Carrà,

di

Corrado, di Pippo Baudo, di Celentano e di chissà quanti altri.

Esco

con la sacca sulle spalle e mi guardo in giro. Niente, non lo

vedo.

"Signori'... Le sue amiche sono già andate via..."

La guardia giurata mi sembra sinceramente dispiaciuta. Ingenuo.

Come se io cercassi sul serio loro.

"Vuole che le do un passaggio, fra poco stacco che tanto arriva

il mio collega." E ride mostrando dei denti gialli, storti

lottatori

di qualche sigaretta a basso prezzo. Poi si perde giustamente

inciampando

in una risata cafona.

"Per me sarebbe un piacere..."

Non più ingenuo, anzi anche un po' viscido.

"No, grazie. Molto gentile."

E come mamma mi ha insegnato, mi allontano senza dare troppa

confidenza.

Capitolo 53.

Ho trovato la mia Cenerentola. Step, che cazzo pensi? Ti sei

bevuto il cervello... la tua Cenerentola. Mamma, sei a pezzi. Va

be', mi piace. È forte, è simpatica, è divertente, è bella! È in

ritardo...

Sono sotto casa sua, le ho fatto lo squillo con il telefonino

e me ne ha fatto uno di risposta. Quindi ha capito che sono qui

sotto. Basta! Ora le citofono, che poi che me ne frega a me che i

suoi non devono sapere nulla della sua vita privata! Gianluca il

fratello ci ha già visto che ci baciavamo. Due volte. Capirai. E

se i

suoi ci vedono che usciamo... Che problema c'è? Ci avessero

beccato

che scopiamo, capirei! Be', lì il problema ci sarebbe. Basta,

io citofono.

Mi avvicino al portone, cerco sul citofono Biro, il suo cognome.

"Fermo che fai?"

"Come che faccio? Citofono a una ritardataria."

"E invece sono puntualissima! Mi hai fatto lo squillo e sono

scesa. Solo che pensavo che ripassavi con la Audi 4 e invece tu

sei

in moto e io in gonna."

"Al massimo saranno felici quelli delle altre macchine... Ma ce

le hai le mutandine sotto?"

"Cretino! " Mi dà un pugno sempre sulla stessa spalla. Ormai

avrò il livido.

"Mi dispiace, ma ho discusso a lungo con il ladro, ho trattato il

prezzo e poi l'ho riconsegnata a mio fratello che è stato

felicissimo."

"Poveraccio."

"Ma come poveraccio. A parte che economicamente sta benissimo

e poi scusa voleva spendere fino a 4300 euro per la sua macchina,

sì insomma, l'ho fatto risparmiare."

"Cioè?"

"Poco più della metà."

"Quindi, secondo te, gli è andata pure bene?"

"Moltissimo, sali va'."

"Be', ha fatto proprio un affare ad avere un fratello come te."

"Lo puoi dire forte."

Gin alza la voce. "Ha fatto un affarone con un fratello come te! "

"Ma dicevo per dire, ti ho sentito."

Mi dà un bacio sulle labbra e monta dietro incastrandosi per

bene la gonna sotto le gambe.

"Tu a spirito niente, eh? Era per scherzare."

Le passo il casco. "Ah senti, mi è venuta un'idea... Ma tuo

fratello

come è messo a soldi?"

"Caschi male. E comunque chi tocca la mia famiglia è fuori,

out, compreso? Anzi solo il fatto che l'hai potuto pensare cambia

già le cose."

Gin scende dalla moto e mi si para davanti.

"Anzi, cambiamo subito!"

"Cioè? Mi dai meglio il bacio di prima che era un po' sfuggente

e per niente lungo?"

"Macché! Cambio programma, smonta dai!"

"No, non mi dire che facciamo di nuovo a botte. Per quello

vediamoci

in palestra."

"Ma che hai capito. Per stavolta la passi liscia. Cambio

programma.

Vuol dire smonta dalla moto che guido io."

"Cosa?" Penso dentro di me, lei, Gin, vuole guidare la moto. La

mia moto. Guidare la mia moto. E chi poi? Una donna. Sì d'accordo,

è Gin. Ma è sempre la mia moto e lei, anche se è Gin, è sempre

una donna. Poi mi rendo conto dell'assurdo. Non credo alle mie

orecchie. "Sì d'accordo, mi diverte vedere come te la cavi."

Ma questo invece sono io. Step! Ma che, ti sei impazzito? Niente.

Non ragiono più, non ci credo. Porca troia. Sono fuori. Scorro

sul sellino tenendo alte le gambe. Mi faccio scivolare la moto

sotto

e finisco sul posto di dietro, lasciando spazio a Gin che monta

davanti.

E io, colmo dei colmi, l'aiuto! Ah... Sono proprio impazzito.

"Allora, sai come si guida?"

"Certo! Per chi mi hai preso? Guarda che ne ho fatte di cose

anche se non ti conoscevo."

"Sì certo..." Mi viene da sorridere ma mi trattengo. Penso alla

panchina, al buio dell'altra notte, alla "nostra storia"... Vorrei

dirle

"Sì infatti, come l'altra sera" ma non lo faccio. Sarebbe una

battutaccia.

Puf. "Ahia!" Mi ha dato una gomitata in piena pancia.

"Lo so a cosa hai pensato."

"Cosa?"

"Hai pensato 'Sì come l'altra sera' ne hai fatte di cose... Si è

visto,

eh? Come no!? Non eri mai stata con nessuno e se non c'ero

io...' Vero? Di' la verità, hai pensato questo."

Oh, non c'è niente da fare, le becca tutte. Mento spudoratamente.

"Ma guarda che tu stai proprio male. Hai la coda di paglia.

Assolutamente

no, non ci pensavo proprio! Ora tu stai in fissa che io

penso sempre a quello. Ma ti sbagli! "

"Sì... e a cosa pensavi allora che ti vedevo sorridere dallo

specchietto?"

"Ma niente... Alla benzina... che ti faccio guidare la moto."

"Sì va be'... ci credo. Andiamo va', che è meglio! Come si accende

'sto coso?"

"'Sto coso è una 750 Custom dell'Honda con la ruota lenticolare...

Tocca i duecento come niente e si accende così." Mi spingo

in avanti, prendo il manubrio e tengo Gin tra le braccia, come se

la stessi abbracciando da dietro. Poi con il pollice destro

accendo

la moto. Do un po' di gas e faccio un respiro lungo tra i suoi

capelli.

Morbidi e profumati, leggeri, quasi mi accarezzano. Chiudo

gli occhi. Mi perdo.

"Ehi!" Li riapro.

"Sì? Che c'è?"

"Se stai così, non riesco a guidare." Sorride.

"Ah, certo." Levo le braccia e mi sposto indietro. Gin si infila

il casco e se lo chiude. La seguo facendo la stessa cosa.

"Allora Step, sei pronto?"

"Sì. Sai come si mette la mare..." Non faccio in tempo a finire

la frase che Gin ha già messo la marcia, è scattata in avanti

dando

gas. Quasi cado dalla moto per il contraccolpo all'indietro. Mi ha

preso alla sprovvista. Non capiterà più. Spero. La stringo forte,

mi

abbraccio al suo giubbotto e le passo le braccia intorno alla

vita.

Ehi però. Non guida male. Incredibile. Cambia le marce tranquilla,

giocando di frizione. L'ha già portata sul serio la moto. E pure

spesso. Rosso, frena al semaforo con la marcia troppo alta. Come

non detto. La moto si spegne di botto e quasi inchioda. Cadiamo

a destra se non fosse che tiro giù veloce la gamba. Reggo tutti e

due.

Compresa la moto. La mia moto...

"Ehi, come va? Sicura che vuoi portarla tu?"

"Non ho visto che era rosso. Non capiterà più." Scala la marcia

in su per riportarla in folle.

"Sicura che..."

"Te l'ho già detto, non capiterà più. Hai deciso dove andiamo? "

"Alla Warner. Ci sono un sacco di sale e fanno..." Non mi lascia

finire.

"Ok, bellissimo. Così posso tirare lungo il raccordo." E parte

velocissima in prima, fregandomi di nuovo.

Warner Village. Quattordici e più sale, film diversi che partono

a orari diversi. Due ristoranti, un pub e tanta gente.

"Ehi Gin, non credevo ce l'avremmo fatta."

"Che cosa? Nel senso se finivamo benzina o se trovavamo la

Warner? "

"Diciamo che la mia preoccupazione era proprio alla base... se

restavamo vivi!"

"Ah ah! Ma non sei soddisfatto di come ti ho portato fino a

qui? E con la tua moto poi? Non ti ho dato emozione e

tranquillità?

Acceleravo, prendevo una curva troppo stretta... Quando superavo

tra due macchine e ti sentivo stringere il mio giubbotto levavo

gas, frenavo un pochino e ti sentivo abbandonare la presa. Era

bellissimo per me guidare così. Tu e le tue emozioni. Era come se

io ti sentissi appeso al filo del mio gas."

Rimango in silenzio mentre andiamo verso la cassa per fare i

biglietti.

"Ehi Step, ma l'hai capita?"

"Che cosa?"

"La storia del filo del gas."

"Be', non è che ci vuole poi tutta questa applicazione."

"Che ne so? Mi rimani perplesso, lì, in silenzio. Come se avessi

perso il controllo della situazione. Animo, animo! Fai i biglietti

va', che io vado a prendere il pop corn."

"Sì, ma per quale sala?"

"Che ne so!"

"Sì, ho capito, ma quale film vuoi vedere? Uno comico, uno

sentimentale, uno del terrore?"

"Ma scegli tu... scusa! Io ti ho portato fino a qua, adesso devo

pure scegliere il film! Mi sembra troppo! Fai qualcosa anche tu.

Calcola solo che il film del terrore mi sembra che l'hai già

visto."

"Guarda che ti sbagli Gin, non l'ho visto."

Guardo la locandina e lo trovo. Le verità nascoste. No. Non l'ho

visto. E poi che ne sa lei di quello che ho visto o no.

"Ma come, l'hai detto tu, l'hai anche interpretato. Sul raccordo

dietro a Gini, un vero film del terrore. Brrr. Ancora tremi tutto.

Ti

vedo. Vai sul sentimentale, va'... che come caschi, caschi bene e

non

ti fai male!"

Due ragazze davanti a me ridono. Gin si allontana scuotendo

la testa. "Roba da pazzi..." Io mi metto le mani in tasca. Le

ragazze

davanti a me mi guardano ancora un po' e sorridono di nuovo.

Poi per fortuna una delle due attacca un discorso che le porta

da qualche altra parte. Per la prima volta capisco cosa vuol dire

sentirsi "soggetto". E poi fatto soggetto da una donna, da Gin,

Gin che ha guidato la mia moto, che l'ha portata bene, tranquilla,

sicura, veloce, che ci si è trovata, che è arrivata fino a qui...

Lungo tutto il raccordo, di notte, in gonna, cambiare le marce

con le scarpe eleganti, con il freddo, con le macchine veloci.

Gin...

la prima donna che ha guidato la mia moto. E la prima che mi ha

fatto soggetto! Mi viene da ridere. Poi tocca a me. Torno serio,

compro i biglietti e non ho dubbi sulla scelta.

Gin è ferma all'entrata della sala con due bicchieroni di pop

corn tra le braccia e una CocaCola poggiata su un secchio lì

vicino

con infilate dentro due cannucce.

"Allora ce l'hai fatta..."

Prendo la CocaCola, tiro un sorso e la supero.

"Andiamo va'."

Gin scuote la testa e mi segue cercando di non far cadere i pop

corn.

"Si può sapere che film hai scelto?"

"Perché? Tanto avresti comunque da ridire."

"Io?!? Ma perché la leggi così. Non è vero. Io sono una che si

adatta. Non sono una rompicoglioni. E poi non ne ho visto ancora

nessuno. Quello comico, quello sentimentale e perfino quello

del terrore. Andavano bene tutti."

"E infatti... li ho presi tutti."

Tiro fuori dalla tasca sei biglietti.

"Prima quello del terrore, poi quello comico così ti riprendi e

poi quello sentimentale così magari alla fine mi riprendo io."

"Con quello sentimentale... E da cosa?"

"Mi riprendo te, in senso fisico... Ma scusa, tutta questa uscita,

tu che porti la mia moto, tre film al posto di uno, tra il secondo

e il terzo c'è un buco di venti minuti e magari mangiamo pure... E

in tutto questo io non ci guadagno niente? Eh no, non vale. Tu sei

un investimento. Cioè a me, qualcosa, o meglio 'una cosa', cioè

'quella cosa' mi spetta... o no? Eh?"

"Una cosa sola? Ma tu vali molto di più. Tieni te li meriti tutti!

"

Gin mi lancia il bicchierone dei pop corn. Io li prendo alla meno

peggio considerando che ho in mano pure la CocaCola. Il risultato

non è dei migliori. Rimango con alcuni pop corn attaccati

al golf, uno perfino sulla spalla e molti, troppi, ai miei piedi.

Gin

si allontana alzando le spalle.

"Non ti preoccupare, offre la casa! "

Proprio in quel momento passano le due ragazze che stavano

davanti a me in fila. Si mettono di nuovo a ridere. Mi scrollo

qualche

pop corn di dosso, poi sorrido anch'io. "Dovete capirla. Non

lo vuole ammettere ma si è innamorata! " Annuiscono. Be', mi

sembra

che la mia spiegazione l'abbiano presa per buona. E un po' più

soddisfatto entro nella prima sala. È buio.

"Gin... Gin, dove sei?" Chiamo sottovoce, ma comunque qualche

tipo preciso di troppo c'è sempre. "Shhh."

"Ma non sono neanche partiti i titoli di testa... e che sarà mai!

"

Alzo la voce. "Gin! Dammi un segno."

Da destra mi arriva un pop corn e mi colpisce sulla guancia.

"Sono qui..."

Mi siedo vicino a lei che subito mi offre il suo bicchierone. "Se

già ti sei mangiato tutti i tuoi pop corn, prendi pure i miei. Io

sono

generosa, lo sai."

"E come no! Più che offrirli tu li tiri direttamente! "

Infilo una mano tra i suoi pop corn e ne prendo un po' prima

che facciano la stessa fine degli altri. "Step, di' la verità. Ma

quest'idea

dei tre cinema l'hai presa da Antonello Venditti?"

"Antonello Venditti? Ma che, sei matta? Ma chi lo conosce?"

"Ma che c'entra! Dalla sua canzone. Quella che parla anche di

Milan Kundera, che parla della scuola, del Giulio Cesare."

"Mai sentita."

"Mai sentita?"

"Sì, mai sentita!"

"Ma dove vivi? È che non fai caso alle parole..."

"No, non faccio caso a un cantautore romanista..."

Un tipo davanti a noi si gira deciso.

"Invece noi facciamo caso alle vostre parole, solo che vorremmo

anche sentire cosa dicono nel film. O anche stavolta ci sono i

titoli secondo voi?"

Preciso, pignolo e pure vendicativo. Capirai, non gli è sembrato

vero. Ha aspettato apposta che parlassimo proprio per dire la

sua battuta sui titoli. Poteva rifare semplicemente "shhh".

Saremmo

stati zitti e basta. Invece è andato lungo, troppo. Faccio per

alzarmi.

"Scusa eh, ma..." Non faccio in tempo a finire la frase che

Gin mi tira giù per il giubbotto facendomi ricadere sulla

poltrona.

"Step... mi fai un po' di coccole?" Mi tira a sé sorridendo e io

non me lo faccio ripetere due volte.

Dopo il primo film, Le verità nascoste, andiamo a bere una birra

al pub della Warner prima che cominci quello comico.

"Ma di' la verità Gin... Hai avuto paura?"

"Io? Non conosco quella parola."

"Allora perché ti stringevi tanto a me e poi sul più bello mi

levavi

la mano?"

"Avevo paura."

"Ah, hai visto? Te l'ho detto..."

"Avevo paura che quello dietro se ne accorgesse e poi ci

denunciasse...

o per rissa o, peggio, per atti osceni in luogo pubblico."

"Meglio la seconda allora."

"E certo, così ci andavo di mezzo pure io."

"Ma no, mica per quello. E che faccio la collezione di denunce.

Atti osceni mi manca! "

"Ah be', con me l'album non lo finisci."

"E perché? Mancano ancora due film."

Si muove di scatto. Le fermo la birra prima che me la tiri

addosso.

"Ehi, niente paura. Volevo solo finirla perché sta cominciando

l'altro film. Se perdi tempo, poi come fai con il tuo album?"

Sorride, beve tutto d'un sorso e finisce la sua birra. Poi si alza

asciugandosi apposta la bocca con il polso del giubbotto.

"Andiamo... o non ti va più?"

E allusiva entra nella sala. Scary Movie. Prima il film del

terrore.

Ora un film comico sul terrore. Chissà come trova la mia scelta.

Ma non glielo chiedo, troppe domande. Gin si agita sulla sedia.

Ogni tanto ride a qualche scena di comicità demenziale. Be', il

fatto

che rida già è incoraggiante. Ride di me? Troppe domande, Step.

Ma che fai, sei diventato insicuro?

Gin si alza. "Ohi, io vado in bagno."

"Ok."

"Hai capito?"

"Sì, me l'hai detto, vai in bagno."

Gin scuote la testa e sorride uscendo dalla fila, tenendosi bassa,

per non disturbare quelli dietro. O senza dare troppo nell'occhio?

Mi giro. Dietro è vuoto. Non c'è nessuno. Mi rimetto a guardare

il film. Un tipo con la maschera corre inciampando dappertutto.

Ma non mi fa ridere. Forse perché sto pensando a Gin. E al

bagno. O forse perché non fa proprio ridere. Comunque, devo andare

anch'io al bagno. Be', "devo" è una parola grossa. Mi va, è

meglio, se non altro per capire se ho capito o no.

Al massimo se Gin mi dice "Ma che hai capito?" le dico "Ma

che hai capito tu? Dovevo andare semplicemente al bagno. Oh che,

non può scappare anche a me?". Uhm, non ci crederà mai. Attraverso

la fila senza far troppo rumore. Le risate di qualcuno più

avanti coprono il fatto che ho sbattuto contro una poltrona mezza

abbassata. Mi massaggio il quadricipite e mi infilo nel bagno. Non

la vedo. Si sarà chiusa nella toilette sul serio?

"Ehi meno male."

Mi spunta all'improvviso da dietro la pesante tenda bordeaux.

"Per un attimo ho pensato che non avessi capito." Ride. Non

le dico che per un attimo non avevo capito sul serio. "Mi hai

messo

paura! " Gin mi si avvicina e mi bacia. È calda, morbida, bella,

profumata, desiderabile e... da finire l'album!

"Be', non dici niente?"

"Sì. Che facciamo? Ci chiudiamo in bagno?"

Lei sorride. " No, rimaniamo qui. " Poggia le mani indietro, si

spinge

sugli avambracci e quasi si arrampica sul lavandino, salendoci

sopra.

Poi allarga le gambe e mi avvicina. Mentre sto per baciarla vedo

uscire dalla tasca del suo giubbotto le sue mutandine. Se l'è già

sfilate

e questo mi eccita ancora di più. Una risata dalla sala arriva

improvvisa

proprio mentre mi apro i pantaloni. Anche questo mi eccita

ancora di più. Poi eccomi in lei. Lei. Tutto. Ridiamo insieme

mentre

la penetro. Poi lei, a un tratto, fa un gemito e sospira mentre di

scoppiano a ridere. Poggio le mani sulle sue natiche, quasi mi

aggrappo

a lei e mi spingo dentro perché sia ancora più mia. Di là ridono

di nuovo. Anche lei. Anzi no, non ride, sorride. Poi sospira. Si

appoggia al mio collo e mi morde leggera. "Dai Step continua, non

ti fermare..." Io continuo lentamente, lei si muove sul lavandino.

Le

si scoprono le gambe. La gonna scivola di lato. La sua pelle sulla

porcellana

bianca e fredda del lavandino. Gin ha un fremito. Sposta le

mani indietro, appoggia la testa allo specchio. Io le tiro le

gambe più

su, verso l'alto e la raggiungo ancora più dentro. Sospira. Sempre

più

forte. Sospira mentre la sento venire. Poi una risata grossa dalla

sala.

Il rumore della porta vicina. Chiudo gli occhi, riesco a malapena

a

sfilarmi e vengo anch'io. Gin però perde l'equilibrio, quasi

scivola di

lato dal lavandino. Per aggrapparsi si tiene a un rubinetto e lo

apre

bagnandosi tutta la gonna di dietro. "Ah! È gelata! " Ridiamo.

Chiudo

al volo l'acqua. Subito dopo mi chiudo anche i pantaloni

sistemandomi

per quanto è possibile. Gin si guarda allo specchio. Dietro

la gonna è completamente bagnata. Incrocio il suo sguardo. "Ti è

piaciuto

eh?" Una risata dalla sala arriva in tempo perfetto. "Spiritoso! "

"Be', a loro ha fatto ridere."

La tenda pesante bordeaux si muove agitandosi e poi puff! Come

tirata fuori da un prestigiatore un po' goffo, compare una

signora.

"Oh non riuscivo più a uscirne, 'sta tenda è di un pesante. E

qui il bagno, vero?"

"Sì, quella porta a destra è quello nostro." Le dice Gin senza

incrociare troppo a lungo il suo sguardo. Poi scompare anche lei

nella tenda. "Grazie" risponde la signora e mi supera senza

accorgersene.

Io, che invece me ne sono accorto, mi chino al volo e seguo

Gin nella sala.

"Ehi, ti sei persa queste." Me le sfila dalla mano al volo.

"Dammele subito." Seduta al suo posto Gin si infila le mutandine

spingendosi indietro sulla poltrona con le spalle.

"Mamma mia, pensa se le trovava la signora, che figura! "

"Sì, se la signora trovava prima come aprire la tenda era la vera

figuraccia! Sai che succedeva..."

"Sì, che finivi il tuo album!"

E anche stavolta la sala ride.

Poco più tardi, finito il secondo film. In un ristorante della

Warner,

stile californiano o giù di lì. Petto di pollo grigliato misto a

parmigiano

e foglie di spinaci freschi. Una Caesar salad da dividere.

"Ehi quella foglia era mia! " Gin mi dà una botta con la

forchetta.

"Ma chi c'aveva fatto caso, oh! "

"E questa?" Ne infilzo una al volo proprio dalla sua parte.

"Anche questa." Ma non fa in tempo a fermarmi che l'ho già

infilata in bocca. Rido masticandola a bocca aperta come uno

strano

cane erbivoro ma divertitamente vorace.

"Che schifo... fai proprio schifo! "

"Bleah!" rispondo alla sua accusa facendo un salto in avanti

per spaventarla. Proprio in quel momento...

"Siete troppo divertenti... così devono essere le coppie! L'amore

non è bello se non è litigarello..." Rimaniamo a bocca aperta. O

meglio io la richiudo quasi subito con tutti quegli spinaci. Non

ho

poi troppa confidenza con quella signora. Anzi per dire la verità,

non ce ne ho per niente. L'ho vista una volta sola e... al bagno.

È la

signora di prima, quella che ci stava per scoprire... in erotici

atteggiamenti.

Gin la riconosce e abbassa lo sguardo arrossendo. È buffa.

Che poi è stata proprio lei a desiderarlo e ora se ne vergogna.

"Scusate se ve lo chiedo, ma sapete per caso qui dov'è il bagno?"

Gin sembra aver trovato nel piatto uno spinacio interessante

ma lo abbandona immediatamente e indica con la forchetta in

fondo alla sala. Io faccio la stessa cosa ma senza forchetta. "Di

là! "

Diciamo all'unisono e poi, subito dopo, scoppiamo a ridere.

"Perché ridete, dovete andarci anche voi?"

Guardo Gin ironico. "Dobbiamo andarci anche noi?"

Gin scuote la testa, fa una strana smorfia con la bocca e riesce

però a non arrossire. "No, ora no. Fra poco comincia il nostro

film ! "

"Di nuovo, ne vedete un altro? Che bella coppia, siete proprio

uniti! Ecco!"

"Sì..." Guardo Gin sorridendo. "Devo dire che il cinema ci unisce

proprio. Anzi, soprattutto il bagno del cinema! "

"Cioè, non ho capito."

Gin mi guarda e scuote la testa, poi sorride alla signora

intenerita

dalla sua ingenuità. "Niente... scherzava!"

"Be', scusate. Ora vi lascio che mi scappa proprio, forse ho

bevuto

troppo. Oppure sarà l'età."

"Macché, signora. Anche noi andiamo spessissimo al bagno..."

Gin mi dà una botta sulla spalla. "E basta! Dai che comincia il

film, andiamo va' ! "

E in un attimo, salutata la signora, siamo in un'altra sala. Qui

si danno film di stagioni passate. È una novità, al Warner. Si

stringe

a me, segue il film con una mano sulla bocca. Accovacciata,

mangiucchia

un po' di unghie e si appoggia di nuovo a me. Le parole

che non ti ho detto. Kevin Costner ha perso sua moglie e non vuole

rimettersi in gioco. Non vuole riprendere a vivere. Scrive lettere

in bottiglie che si perdono in mare, una dopo l'altra, il suo

amore

che naufraga. Ma non scrive a nessuno. Poi qualcuno trova quel

messaggio in una bottiglia. Una giornalista. La lettera commuove

anche lei e diventa un caso. Si accendono le luci. Primo tempo.

Gin

ride tirando su con il naso e si copre con i capelli e non si fa

vedere

e si gira dall'altra parte e mi guarda da sotto e scoppia a ridere

di nuovo e tira su con il naso. "Hai pianto! " La indico

colpevole.

"Embe'... allora? Mica me ne devo vergognare."

"Va be', ma è un film! "

"Sì, e tu invece sei un insensibile."

"Ecco lo sapevo... come al solito la colpa è mia! Andiamo in

bagno a fare pace?"

"Cretino... Adesso non c'entra proprio."

Gin mi dà un pugno sulla spalla. "Ma perché, c'è un momento

che c'entra o non c'entra? Va be', a parte che 'c'entra' suona

male."

"Vedi, sei fuori luogo! Fai pure le battutacce. Pesaaaante!

Ma io..."

"Shhh! Ora basta che ricomincia il film!"

E scivola giù sulla poltrona, tuffandosi su di me, abbracciandomi

e ridendo ferma la mia mano che cercava qualche distrazione.

Poco più tardi davanti a una birra. "Ti è piaciuto?"

"Bellissimo. Sto ancora male."

"Ma Gin... è troppo!"

"Oh, ma che ci posso fare? Sono fatta così. Certo che se non

affondava con la barca e tutto il resto... Ora finalmente che

aveva

cominciato a riamare... ad amare la giornalista... che cattivi gli

sceneggiatori."

"No, perché? È perfetto! Ora sarà la giornalista a scrivere

lettere

d'amore e a metterle nella bottiglia così le trova un altro e la

storia ricomincia... Oppure ci mette un peso dentro, così le

bottiglie

finiscono in fondo e se le legge Kevin Costner."

"Mamma mia. Sei di un macabro! "

"Cerco di sdrammatizzare questo dramma che stai vivendo."

"A parte che non sto vivendo nessun dramma. E poi il pianto

è liberatorio, fa bene, sfoga le ghiandole, capito? È un

equilibratore

proprio come i baci."

"I baci?"

"Sì. I baci contengono degli enzimi, delle strane sostanze...

Tipo...

Endomorfina credo, insomma tipo della droga. I baci

tranquillizzano...

Perché credi che ti bacio io?"

"Mah pensavo... pura attrazione sessuale."

"E invece no, puro effetto tranquillante."

"Quindi vedi, mi stai facendo conoscere un lato nuovo di me

stesso, dovrei baciare più donne, magari scoprirebbero che sono

meglio di qualunque camomilla, dovrei buttarmi sul mercato! Sai

i soldi..."

"Sai le botte!"

"Ah, vedi? Solo a pensarlo sei già gelosa."

"Step ma tu ci hai mai pensato..."

"A che, essere geloso?"

"Ma no, a scrivere, che ne so un biglietto, una poesia..."

"Sì e a metterla in una bottiglia."

Veramente avevo provato a scrivere a Babi. Era Natale. Me lo

ricordo come fosse ieri. I fogli di carta appallottolati sotto il

tavolo.

Tentativi disperati di cercare parole adatte. Adatte a un

disperato.

Io. Io che correvo affannato nell'inutile rincorsa,

nell'impossibilità

di riconquistare un amore che se ne va, che se ne è andato.

E poi incontrare lei, lei con un altro e non trovare neanche la

parola

più semplice. Che ne so... Ciao. Ciao come stai. Ciao fa freddo.

Ciao è Natale. Ciao auguri. O peggio... Ciao ma come... Oppure:

ciao non te l'ho detto mai... Ciao, io ti amo. Ma che c'entra

adesso? Non c'entra più niente.

"No. Mai scritto niente. Neppure un biglietto d'auguri."

"Ma non c'hai neanche provato?"

"No. Mai."

Ma che vuole? Perché insiste? Mi guarda di traverso.

"Uhm..." Perplessa. E poi riattacca. "Be', peccato! Secondo me

sarebbe bellissimo! "

"Cosa?"

"Ricevere qualcosa scritto da te. Ecco io vorrei una poesia...

Una bella poesia."

"Pure bella! Cioè non basta che la scrivo... deve essere pure

bella."

"E certo... soprattutto bella! Mica lunga. Una bella poesia

sentita,

piena d'amore... magari per farti perdonare! "

"E ti pareva! Neanche ho scritto la poesia che comunque ho

già combinato qualcosa."

"Perché? Prima non mi hai forse mentito?"

Sorride, alza il sopracciglio e si alza lasciandomi al tavolo.

"Falso!"

Finisco l'ultimo sorso di birra e in un attimo sono vicino a lei.

"Ehi, ma dimmi la verità. Da cosa lo hai capito?" Le dico

confermando

che c'ha preso in pieno. "I tuoi occhi, Step. Mi dispiace,

ma i tuoi occhi dicono tutto... o almeno abbastanza! "

"Cioè?"

"Mi hanno fatto capire che almeno una volta hai provato a scrivere

una lettera o una poesia o altro. Non lo so io, lo sai tu."

"Ah... certo."

"Ecco vedi. Hai detto certo."

Mannaggia mi sono fregato con quel certo. Ma poi che c'entra

certo? Camminiamo vicini, in silenzio, verso la moto. Una cosa è

sicura. Devo portare più spesso gli occhiali. Quelli scuri. Magari

anche di notte. Oppure non dire più bugie. No. E più facile

portare

gli occhiali... Ah, certo.

Capitolo 54.

10 ottobre.

Uaooo! La prima puntata è andata benissimo. Io,

Gin, non ho toppato niente. Ci mancava pure. Avevo

un'unica entrata alla fine della puntata dove

dovevo portare semplicemente una busta con il nome

del vincitore. Cosa potevo sbagliare? Be', potevo

anche inciampare. Ele invece è stata grande.

Doveva entrare a metà puntata per dare la busta

con la classifica provvisoria. Non ha inciampato.

È stata perfetta. È entrata, ha raggiunto

il presentatore al momento giusto, al posto

giusto solo che... si è dimenticata di portare

la busta! Grande! Ma che dico, grandissima!

Ele è sempre Ele. Però tutti hanno riso, il presentatore

ha fatto una bella battuta (non doveva

essere bellissima però, visto che ora non me la

ricordo). Ele è diventata subito simpatica a tutti!

Alla fine invece di arrabbiarsi con lei tutti

le hanno battuto le mani, hanno riso. Qualcuno

ha detto perfino che l'ha fatto apposta! Ele...

figuriamoci. Il mondo dello spettacolo. . . Vogliono

vederci per forza qualcosa di male. Come ha detto

mio zio Ardisio quando ha saputo che ci lavoravo

"Attenta, nipotina mia. Che lì il più pulito

c'ha la rogna". Forse è vero. Step comunque

profuma sempre...

5 novembre.

Ormai sono una scheggia! Mi hanno fatto fare

una delle ragazze aggiunte al balletto. Roba da

pazzi... E andavo pure a tempo nelle prove! Domani

abbiamo la puntata, bisogna vedere come me

la cavo lì. Il peso della diretta è un'altra cosa,

mi hanno detto. "Lì sbagli con più facilità

e il tuo errore arriva direttamente nelle case di

tutti!" Aiuto! Non ci voglio pensare. Mi vedrà

pure mia madre. Non se ne perde una. Le vede fino

in fondo e riesce sempre a notarmi. L'altra

volta mi ha detto: "Ti ho visto stasera!". "Ma

guarda mamma che ti sbagli, non ho fatto niente."

"Come no! Sei entrata nel finale per i saluti...

Eri l'ultima a destra in fondo a tutti al palcoscenico..."

Mia madre! Non riesci a nasconderle

niente. Più o meno.

6 novembre.

Perfetta! Il coreografo mi ha detto: "Perfetta!".

Ho alzato il sopracciglio e gli ho detto:

"Ma chi, quella davanti a me?". Carlo, il coreografo,

ha riso come un pazzo. "Sei troppo simpatica"

mi ha detto. Ma non si è fermato lì. Mi ha

chiesto il numero di telefono. "Dai, così ti chiamo

ad allenarti, puoi migliorare se vieni in sala

prove con le altre..." Perfetto, mi piace ballare!

Sarebbe stato tutto perfetto se proprio mentre

Carlo si segnava il mio numero sul suo telefonino

non fosse passato Step. Step e il suo

tempismo. Perfetto anche lui. Solo che si è arrabbiato

da morire. Step geloso. Come lo devo leggere?

Ele dice che Step è fantastico, meraviglioso.

E certo, con lei! Non solo, ma Ele dice

che Marcantonio è in fissa con la coppia aperta.

Step invece... con la coppia blindata! Ma non

ci può essere una via di mezzo?

Per fortuna sul tempismo abbiamo fatto pace.

Ultimo piano del mio palazzo, il modo migliore

per fare pace... e per migliorare... come dice

Step. Per fortuna lì non arriva l'ascensore e non

credo neanche che alle due di notte qualcuno decida

di stendere dei panni su in terrazzo. Mio

fratello questa volta non si è visto. Ah, e neanche

la signora del bagno del cinema. "Be'," ha

detto Step, "buonanotte, il mio album dovrà aspettare..."

Se continuiamo così però prima o poi lo

finisce sul serio!

10 dicembre.

Uffa! Ma perché va sempre a finire così! Non

ci può essere un buon rapporto sereno e tranquillo

e soprattutto professionale, tra un uomo e una

donna che lavorano insieme? Evidentemente no. Carlo,

il coreografo, e'ha provato. E di brutto. È

andato sul pesante. M'ha sfiorato la tetta. Pensava

di farmi venire un brivido sessuale. Invece

mi ha fatto vomitare e ci ha rimediato una spinta.

E di quelle forti. Ha sbattuto contro l'asta

a metà dello specchio ed è rimasto piegato in due.

Forse ho esagerato. No. Non ho esagerato, anzi.

Solo che mi ha detto di non presentarmi più in

sala prove. "A meno che..." mi ha detto. A meno

che...! Ma ti rendi conto? A meno che... cosa?!

Mah! Gli avrei voluto rispondere: "Sì, a meno che

non mi presento con Step! ". Altro che spinta poi. . .

Ho deciso. A Step non dirò niente di Carlo. Per

il suo album non gli servono doppioni.

20 dicembre.

Non ci posso credere. È sempre distratto su

tutto e su tutti per quanto riguarda il lavoro,

invece su questo Step si è impuntato. "Come mai

non sei più nel balletto?" "Mah," gli ho detto,

"Carlo ha voluto provare qualche altra ragazza. . . "

Non ci ha creduto. Non ha smesso un attimo, ha

continuato fino alla fine delle prove! Non solo,

ma con perfetta lucidità razionale. Anche un po'

preoccupante...

"Sì e guarda caso chi ha scelto Carlo? Arianna,

la più facile di tutte!" E tu che ne sai?

Avrei voluto rispondergli, ma ho pensato che era

meglio non alzare altra polvere. Mi ha tempestato

di domande. "Ma come? Ma ti piaceva tanto ballare...

Ma non vi salutate più, ma in puntata non

avevi mai sbagliato... Ma non è che ci ha provato?"

Su quest'ultima domanda ho avuto uno scatto

improvviso. Non vorrei che Step l'avesse notato.

Alla fine mi ha detto: "Ok basta!". Meno male ho

pensato. Mi stavo rilassando quando ha aggiunto:

"Lo chiederò direttamente a lui... Qualche cosa

in più mi saprà dire no?". "Fai come ti pare" gli

ho detto... non ce la facevo più. E poi ho pensato:

cosa dirà Carlo non lo so e sinceramente

non me ne frega niente. Una cosa è sicura. Se parla

rimpiangerà la mia spinta.

24 dicembre.

Abbiamo fatto le prove fino alle sei e poi tutti

a casa per il... Natale! Carlo c'è ancora ed

è intero quindi non ha parlato. La cosa strana è

che ora mi saluta tutto carino. Boh... i miracoli

di Step. Forse. Meglio non indagare comunque.

Abbiamo deciso una cosa fighissima io e Step. Prima

tutti a casa con i genitori per il cenone e

poi, dopo mezzanotte, tutti a casa di Step o meglio

del fratello per scartare i regali. Vengono

anche Ele e Marcantonio che stranamente ancora

durano! Stranamente per Ele, che conosco bene, e

stranamente per Marcantonio, che conosco poco.

Comunque, per quello che lo conosco, non credevo

durasse così tanto. Mah! Forse hanno messo in pratica

sul serio lo schema della coppia aperta...

Boh! Meglio per loro. Rileggo adesso quello che

ho scritto e vedo che è pieno di boh, forse, mah. . .

sono diventata troppo incerta? Mah, forse, boh!

Una cosa è sicura. Nella vita è meglio non avere

troppe certezze. Per adesso va... con Step. E va

che è una bellezza!

25 dicembre.

Mi sono svegliata a mezzogiorno e ho fatto una

colazione fantastica, tutto panettone e cappuccino!

Uaooo! Sono troppo felice! Un sacco di gente

dice che le feste di Natale intristiscono...

a me invece piacciono da morire. L'albero con le

lucette, il presepe, la cena tutti insieme e piena

di roba buona. Certo si mette su qualche chilo,

ma dov'è la tristezza? Poi si perdono. Un po'

di movimento e li perdi. E con Step hai voglia a

perdere chili, e quando ingrassi? Che battutaccia!

Speriamo che nessuno lo trovi questo diario.

E poi comunque se adesso per caso tu che lo hai

preso, lo stai leggendo... stai sbagliando tu!

Hai capito fottutissimo/a ladro/a, curioso/a! Comunque

non ci voglio pensare. Ieri sera è stato

tutto bellissimo, troppo! A mezzanotte e mezzo

eravamo tutti a casa del fratello di Step. Paolo,

suo fratello, non c'era. Era andato anche lui

a festeggiare dalla sua donna, una certa Fabiola.

E così eravamo soli. Bellissimo! Marcantonio

ha portato un ed meraviglioso. Café del mar (o

altro) l'ha messo su. Atmosfera perfetta, struggente

ma non troppo, morbida oserei dire. E osa

Gin, osa! Rum, brandy, champagne c'era di tutto.

Ho dato due sorsi dal rum di Step ed ero già ubriaca!

Abbiamo fatto il gioco della bottiglia per

vedere chi scartava per primo. È uscito Marcantonio

e così è toccato a loro. Solo che Marcantonio

ha approfittato del gioco della bottiglia

e "memore" come ha detto lui "dei bei tempi"

quando solo grazie a quella bottiglia si superava

la nostra timidezza. . . si è buttato su Ele.

Avvinghiato tipo polipo. L'ha baciata slinguazzandola

tutta ed Ele rideva, rideva... Stanno benissimo!

Forti davvero! Sono felice per Ele. Bei

regali poi, carinissimi. Ele, sempre esagerata,

gli ha regalato un programma di grafica particolarissimo,

arrivato dall'America e costato un sacco

di soldi (questo me l'ha detto Step che l'aveva

usato quando era stato fuori). Marcantonio

vedendolo è letteralmente impazzito, l'ha abbracciata

e ha iniziato a urlare: "Sei tu la donna

della mia vita, sei tu!". Ele, invece di essere

felice, si è arrabbiata e gli ha detto: "Allora

il tuo amore sì può comprare. . . basta un programma

di grafica!". "Eh no!" ha risposto Marcantonio.

"Non un programma di grafica... un Trambert

xd americano! Eh!" Ele di risposta gli è saltata

addosso. Sono caduti sul divano e hanno cominciato

a lottare. Poi Marcantonio l'ha bloccata

e le ha detto "Non fare così, tu devi essere

più spiritosa, più gentile, più servizievole, ti

dona di più, ti rende più bella, ecco così sei

bella, cioè sei ancora più bella. . .". Insomma l'ha

talmente imbambolata che alla fine a Ele le è pure

piaciuto il regalo! E che regalo! Un vestito

da geisha! Be', certo, in seta, blu scuro, bellissimo,

con la giacca alla coreana, molto elegante.

Ma sempre da geisha è. Ele si è poggiata

la giacca sul petto e si è guardata allo specchio.

Le sono venuti gli occhi lucidi e mi ha detto

piano "Era il mio sogno". Il suo sogno. Essere

una geisha... mah! Tornano i dubbi. Ma sono

passati in un attimo. Anche perché toccava a me.

Ho scartato il regalo che mi ha fatto Step. "No!

Non ci posso credere. Non ho parole." "Che c'è,

non ti è piaciuto?" ha pensato Step. Io l'ho guardato

e ho sorriso. "Apri il tuo..." Step ha iniziato

ad aprire il pacco ma intanto continuava

"Guarda che si può cambiare... Se ti va piccolo

si cambia, eh? O non ti piace il colore?". "Apri,

muoviti" gli ho detto. "No!" Ha detto Step. "Non

ci posso credere!" Mi ha copiato la frase e non

solo quella. Ci siamo regalati due giacche Napapijri

blu scure, identiche, perfettamente identiche...

Mamma... ero senza parole. "È bellissimo!!

Step siamo simbiotici! Cioè ti rendi conto,

abbiamo avuto la stessa idea. Oppure, come al solito,

mi hai seguito?" "Ma di che?" Ho riso un

sacco! Non si voleva far vedere geloso davanti al

suo amico-collega Marcantonio! Come se Ele non

raccontasse a Marcantonio tutto quello che io racconto

a lei. Quindi... morale... tutti sappiamo

tutto di tutti!! ! Ma intanto, che importa? Ci vogliamo

bene! Questo conta! Chiusura serata bellissimo.

Musica, torroncini, chiacchiere per un

po', poi Marcantonio ed Ele se ne sono andati. Mi

tolgo gli stivali, mi stendo sul divano, mi appoggio

a Step e infilo i piedi sotto un cuscino,

al caldo. Posizione da sogno. Parliamo un sacco.

o meglio, parlo un sacco io. Gli racconto degli

orecchini che ho ricevuto dai miei, del regalo di

zio Ardisio, di quello delle zie, di nonna ecc.

Poi quando chiedo a lui come è andata lo sento

indurirsi. Insisto e alla fine, con fatica, scopro

che lui e Paolo hanno cenato con il padre e

la sua nuova donna. Step mi racconta che ha ricevuto

delle scarpe nere da suo fratello, molto

belle, e un golf verde da suo padre, unico colore

che mi dice non sopportare (buono a sapersi!

Meno male! C'era una giacca verde Napapijri. Ma

anche a me, il verde non piace! Fiuuu! È andata

bene... Fortuna simbiotica). Step mi sottolinea

il fatto che il biglietto del regalo suo padre

l'ha fatto firmare anche dalla sua nuova donna.

Cerco di giustificarlo, ma Step non ha dubbi. Ma

chi la conosce quella lì? Tu lo vorresti un regalo

da uno che non conosci? Da questo punto di

vista non ha tutti i torti. Poi, cosa più assurda

(dopo mia lunga insistenza), mi dice che ha

ricevuto anche un regalo da sua madre ma che non

l'ha aperto. E sulla mia battuta "Be' ma tua madre

la conosci, no?" credo di aver sbagliato tutto.

"Pensavo di conoscerla." Oddio. Gli ho rovinato

il Natale. Per fortuna recupero. Con dolcezza,

con tranquillità, con passione, con il tempo...

Abbiamo sentito perfino Paolo che rientrava.

Certo, farlo a Natale va un po' contro i miei

principi, ma mi sentivo in colpa. Be', piccola

giustificazione. Diciamo che è entrato in gioco

un altro lato dell'essere cristiano. Speriamo che

non sia entrato in gioco però nient'altro. Anche

perché dare un natale... proprio a Natale! be',

sarebbe il massimo. Abbiamo riso su questo con

Step. Per fortuna lui si sentiva tranquillo, anche

se ha fatto delle battute sulla scelta del

nome. Facile! Gesù o Madonna, dipende se viene

maschio o femmina. Blasfemo... Anzi, scontato!

Sei scontato come Maria Luisa Ciccone, gli ho risposto.

Comunque il regalo di sua madre non l'ha

aperto.

Capitolo 55.

Cappuccino e cornetto, la cosa più tranquilla che c'è da Vanni.

"Step! Non ci posso credere." Pallina mi corre incontro. Non

faccio in tempo a girarmi che quasi mi rovescia tutto addosso. Mi

abbraccia. Qualcuno ci guarda. Incrocio gli occhi di una signora

riflessi nello specchio davanti a me. Mangia un cornetto e

sospira.

Occhi leggermente lucidi. Fan nostalgica di Carramba che sorpresa!

e di tutte le trasmissioni simili. O è commozione da cappuccino

troppo caldo? Boh.

"Pallina, contegno."

Sorrido abbracciandola. "Ci manca solo che ci propongono di

partecipare a qualche reality show. "

Pallina si stacca e mi guarda. Mi tiene il braccio sui fianchi e

piega la testa un po' di lato.

"Reality show, ma come parli? Step, sei proprio cambiato! Mio

padre direbbe che sei entrato nell'imbuto. "

"Cioè? In che imbuto?"

"Ma guardati, termini tecnici..."

Mi fa fare un mezzo giro e mi riferma davanti a lei sottolineando

il mio stop con una risata. "Vesti quasi alla moda."

"Sì, pure..."

"Be', comunque hai abbandonato il giubbotto boro da pregiudicato

temerario."

"Ma perché..." Mi guardo il giaccone blu scuro che indosso

tranquillo su un paio di jeans e un maglione a collo alto. "Così

non

vado bene?"

"No. Non ci posso credere. Step che cerca conferme! Ahia, siamo

messi male..."

"Si cambia. Ci si modifica, si è più elastici, si ascolta..."

"Allora siamo messi molto male. Sei entrato del tutto

nell'imbuto!"

"Ancora? Ma che vuol dire 'sta storia dell'imbuto?"

"Mio padre paragona la vita sociale a un imbuto appoggiato su

un tavolo. All'inizio ci si aggira liberi nella parte larga senza

pensieri,

senza troppi doveri, senza dover fare ragionamenti, ma poi

quando ci si incammina nell'imbuto, si entra nella parte più

stretta,

allora bisogna andare avanti, le pareti si stringono, non si può

tornare indietro, non ci si può aggirare, gli altri spingono,

bisogna

stare in fila, ordinati! "

"Mamma. Un incubo ! E tutto questo perché ho cambiato giubbotto?

Pensa allora se mi vedi domani."

"Cioè?"

"Abbiamo la puntata in diretta, vestito d'ordinanza: giacca e

cravatta ! "

"No. Non ci posso credere, domani sono qui. E chi se lo perde.

Step in giacca e cravatta! Neanche venissero a fare il concerto

a casa mia Boy George e George Michael e decidessero di venire

tutti e due a letto con me! "

"Va bene tutto, Pallina. Ma mi spieghi il paragone? Due rinomati

gay della musica che attinenza hanno con il fatto che io mi vesta

in giacca e cravatta. Avessi detto una cosa tipo culo e camicia."

"Boh, non lo so. È vero. È strana come attinenza, ci devo

ragionare

su. Ma da 'quel punto di vista' per quanto ti riguarda invece...

non è cambiato niente vero? Perché dicono che in tv, dopo

la moda, c'è la più alta percentuale..."

Per un attimo penso all'incontro che abbiamo avuto sul terrazzo

l'altra sera. Ma è solo un attimo. Rido. È passata. Rido sul

serio.

"No. No. Stai tranquilla. E tranquillizza soprattutto le tue

amiche!"

"Presuntuoso!"

Mi dà una leggera spinta. Chissà se anche lei ha pensato all'altra

notte.

"E di' un po', ma tu cosa fai in questo programma?"

"Quello che ho studiato in America. Loghi, computer grafica,

messa in onda dei titoli di testa, sottopancia dei risultati o

soldi che

si possono vincere. Sai quelle scritte che vedi sotto la faccia di

qualche

presentatore. Be', ecco, io mi occupo di quella roba lì."

"Capirai... tv! Quindi ballerine, vallette, strafighe, bonazze di

tutti i tipi e donne che la danno per lavoro. E quando cambi idea,

anzi, immagino che lì sia un paradiso di conferme..."

"Be', no. Diciamo che quello è il lato più piacevole del lavoro."

Proprio in quel momento passa una delle ballerine. Una... la

più bona.

"Ciao Stefano."

"Ciao."

"Ci vediamo dentro."

"Certo."

Se ne va sorridendo, bella e sicura, con un passo deciso,

tranquillo,

certa delle attenzioni più o meno delicate, dei pensieri, i più

diversi, che accompagnano il suo allontanarsi di schiena.

"Capirai, hai capito tutto."

Pallina è in ottima forma, non perde un colpo.

"E poi... 'Stefano'?! È la prima volta che sento chiamarti

Stefano.

Oddio, sei pure in incognito."

"Sai, Step è troppo confidenziale."

Proprio in quel momento mi sento chiamare. "Step!"

Mi giro. È Gin. Avanza sorridente e solare, bella nella sua

trasparenza

selvaggia. Pallina alza il sopracciglio. "Sì, è vero! Step è

troppo confidenziale!"

Gin arriva e mi bacia veloce sulle labbra. Poi si mette di lato

come a dire: sono pronta per conoscere questa tua amica... Perché

è un'amica, vero? Donne.

"Ehm, sì scusa, ti presento la mia amica Pallina. Pallina questa

è Ginevra. "

"Ciao." Gin le dà veloce la mano. "Chiamami pure Gin."

"Io invece per amici e non, sono comunque Pallina."

Si scrutano per un attimo dal basso verso l'alto, veloci. Poi non

si sa come, né perché, ma per fortuna, decidono di starsi

simpatiche.

Scoppiano a ridere. "Step," fa Gin, "io vado. Non fare tardi

che ti hanno cercato dentro."

"Ok, grazie, arrivo subito."

"Ciao Pallina" la saluta sorridente e si allontana. "Piacere di

averti conosciuto."

Rimaniamo per un attimo in silenzio a guardarla andare via.

Pallina poi curiosa "È un'attrice?".

"No. Ha un ruolo semplice semplice, fa la valletta."

"Cioè?"

"Porta le buste."

"Peccato, è un talento sprecato."

"Che vuoi dire?"

Pallina fa la voce in falsetto "Piacere di averti conosciuto".

"Ma guarda che a Gin magari le stai simpatica sul serio."

"Vedi, sarebbe un'attrice perfetta! Ha fregato anche te."

"Ma sei troppo prevenuta."

"Siete voi uomini troppo sprovveduti. Vedrai se non ho ragione

io. Quando la rivedi?"

Fra poco.

"Ecco allora o starà zitta e farà il muso oppure ti tempesterà di

domande. 'Chi era quella Pallina? Che fa? Da quanto la conosci?'

E preoccupati soprattutto se ti chiede: 'Ma che, c'hai avuto una

storia con lei?'."

"Perché?"

"Perché allora non è solo curiosa... è anche innamorata."

E Pallina si allontana così, come fa lei, come ha sempre fatto,

saltellando.

Raggiunge una sua buffa amica che non conosco e scompare

così. Mi lascia, ancora una volta, semplicemente preoccupato.

Poco dopo sono dentro al Teatro delle Vittorie. Saluto Tony, la

guardia all'entrata e mi guardo in giro cercandola. "Tieni" gli

lancio

il pacchetto. Tony lo prende al volo come il miglior quarterback

di una squadra americana. Tutto bene se non fosse per il fisico e

che di solito sono di colore.

"Ehi, grazie Step. Te ne sei ricordato."

Guarda felice il suo pacchetto di MS.

"Quant'è?"

"Lascia stare, al massimo, se finisco le mie, me ne offri tu

qualcuna."

Falsi tutti e due. Io non fumerei mai una MS neanche se finisco

le mie e ti pare che lui non sa il costo di un pacchetto visto

che, a

quanto vedo, ne fuma quasi due al giorno? Be', comunque mi fa

piacere offrirgliele. In fondo mi è simpatico.

Mi guardo in giro. Forse è andata alla macchinetta della CocaCola

o dei caffè. Non faccio neanche in tempo a guardare. "Se cerchi

Gin, è andata a cambiarsi." Sorride Tony facendomi l'occhiolino.

Oh, non c'è niente da fare. Non sfugge niente a nessuno. A

una guardia poi... sarebbe un controsenso. "Grazie." È inutile

dire

"Ma non cercavo lei" oppure, ancora peggio, "No, veramente

stavo cercando Marcantonio". Non farebbe altro che peggiorare la

cosa.

"Ciao Step, ti ho visto da Vanni che parlavi con una bruna

bassetta."

È Simona, una delle vallette del programma.

"Era Pallina, una mia amica."

"Sì, sì certo... come no! Guarda che lo dico a Gin."

Capirai, peggio di così. Simona si allontana. Proprio in quel

momento arriva Marcantonio. "Ohi, proprio te cercavo, vieni nella

nostra postazione che gli autori ci vogliono parlare."

"Ok! Sono da te tra cinque minuti."

"Due."

"Tre."

"Ok! Non uno di più!"

Marcantonio lancia al volo la sigaretta davanti alla sua

camminata,

la spegne come tocca terra e scompare per uno dei corridoi.

Io non faccio in tempo a girare l'angolo che ci sbatto contro.

Pum,

come una furia. Quasi cade all'indietro, la prendo al volo.

"Gin!... Ma dove corri?"

"Ma niente, per fare un po' di movimento, per tenermi in forma.

Non sono riuscita ad andare in palestra. Anzi a dire la verità...

"

Si avvicina e mi sussurra all'orecchio dopo essersi guardata in

giro

per bene che non ci sia nessuno. "Oggi alla Urbani mi hanno

beccata.

"

"No?"

"Sì. Uno mi è venuto con un foglio vicino e mi ha detto: 'Ma

lei è già venuta a fare la lezione di prova a febbraio e a

giugno?'."

"No!"

"Sì, che te lo devo giurare?"

"No, che c'entra? È che tu non ce la puoi fare..."

"Perché?"

"Non passi mai inosservata..."

"Uhm, che carino! Secondo me hai spifferato tutto tu."

"Io? Ma che, sei matta! "

"No, sei matto tu che mi rispondi pure."

"Ah, senti un po'... " Capirai. Adesso parte con le domande. Lo

sapevo. Pallina ha ragione. Pallina ha sempre ragione.

"Hai visto Marcantonio? Ti cercava, ha detto che avete una

riunione

importante! "

"Sì, grazie. L'ho incontrato prima."

La guardo e sorrido. Gin fa per andare e la fermo.

"Non mi devi dire niente altro?"

"No, perché? Ah, sì..."

Ecco lo sapevo. Pallina non può non avere ragione. Gin mi

guarda di traverso, fa un occhio come a dire allusivo. Ecco che

parte,

lo sapevo... "Stasera c'è mio zio a cena e quindi purtroppo...

dopo

non possiamo fare le nostre 'prove generali'."

"Ah! " Rimango deluso. Non tanto per le prove quanto per la

sua non curiosità.

"Che c'è?" Mi guarda incuriosita.

"No, niente..."

"Step... Ricordati gli occhi."

"Cioè?"

"Non devi mentire, stai mentendo."

"No, cioè sì. È che mi chiedevo..."

"Sì, lo so... Ma come mai Gin non mi chiedi 'Ma chi era quella?

Ma come la conosci... Ma che c'hai avuto una storia', giusto?"

Si... giusto.

"Ma è scontato. Primo, qualunque persona sia, cosa importa?

Vuoi stare con me? Quello è importante. Secondo, potresti

dirmelo...

come non dirmelo... qualunque storia ci sia. Quindi perché

rischiare con i tuoi occhi? Una cosa è sicura, tu le piaci."

"Io? Ma è la ragazza del mio amico." E mi viene quasi naturale

usare il presente per il mio amico Pollo e questo mi fa star

meglio.

"Tu le piaci, Step, fidati! Magari ci ha anche provato. Ricordati,

donna vede donna. Fidati Step. A me poi, a volte, purtroppo devo

dire, non mi sfugge niente."

Si allontana così cercando di rimediare con una corsa veloce alla

sua palestra mancata. È vero, Gin. A te non sfugge niente. Be',

andiamo a questa riunione di autori. Ah, e un'altra cosa. Pallina

non ha sempre ragione.

Entro nella nostra stanza appena in tempo per vedere la scena.

Renzo Micheli, il Serpe, è in piedi davanti a Marcantonio. Ha dei

fogli in mano e li agita in perfetta sintonia con la sua voce.

Agitata.

Sesto e Toscani, il Gatto & il Gatto, sono lì dietro accovacciati

che se la ridono in silenzio lanciandosi ogni tanto delle occhiate

divertite

da non si sa poi cosa.

"Hai capito? Non toppare più. Non ti devi permettere di sbagliare.

Non puoi permettertelo. Se ti dico una cosa, è quella. I risultati

vanno dati in ordine da sinistra a destra e non incolonnati. "

"Ma siccome con Romani non si era parlato di come renderli

visivi, ho pensato..."

Micheli, il Serpe, lo interrompe al volo. "Ecco l'errore. Ho

pensato!

Lo sapevo che ti eri spinto oltre, ma non capivo dove. Tu devi

eseguire e bene. Non ti azzardare a pensare!"

E così dicendo, Micheli, il Serpe, gli lancia i fogli ancora caldi

di stampa in faccia. "Tie', rifalli e fammeli vedere!"

Marcantonio riesce a parare i primi fogli, ma gli altri gli

arrivano

sul viso e, come una violenta pioggia cartacea, si aprono a

ventaglio.

Toscani, con il suo solito stecchino in bocca, finge uno strano

stupore divertito. "Ohh."

Poi, non soddisfatto, lecca lo stecchino come fosse un Chupa-

Chups. Sesto, poggiato a un tavolo poco distante si alza curioso

di

vedere come reagirà Marcantonio. Ma niente. Non accade niente.

Micheli aspetta ancora un attimo. Poi "Andiamo va'..." Sembra

quasi dispiaciuto di non ottenere risposta a quella sua

provocazione.

Quei semplici fogli di carta, come guanti di seta di uno

spadaccino

appartenente al passato, non hanno ottenuto risposta nel

loro schiaffeggiare. Marcantonio raccoglie qualche foglio sparso

sul suo tavolo. Renzo Micheli, seguito da il Gatto & il Gatto, fa

per

uscire dalla stanza quando trova me sul suo passaggio. È un

attimo.

Un'esitazione. Mi guarda alzando il sopracciglio, stringe un

po' gli occhi come a dire: vuoi risponderne tu per caso? Ma è solo

un attimo. Mi sposto di lato lasciandoli passare. Quegli strani

padrini

di un duello andato a male escono divertiti dalla stanza. Subito

dopo mi chino per raccogliere i fogli sparsi tutto intorno, per

spezzare quel fastidioso silenzio, per dare una mano, lì dove

posso,

a Marcantonio. Sarebbe stato assurdo decidere al posto suo di

reagire a quella inutile sfida. È Marcantonio ad aiutarmi a

uscirne.

"E così, caro Step, oggi hai imparato un'altra lezione. A volte,

sul lavoro, la tua forza, le tue ragioni devono essere messe da

parte

quando incontri il potere... Litigare con Micheli sarebbe come

cancellarsi, buttare a fiume un'ipoteca sul futuro. Sarà lui il

dopo

Romani."

Cominciano ad annebbiarsi le sue parole.

"E io, sai, ora ho comprato una casa, ho il mutuo e... non sono

più il nobile di una volta... Insomma lì era diverso."

Faccio cenno di sì con la testa. Continuo a fingere di ascoltare.

Pezzi di parole un po' ciancicate. Una strana giustificazione

incollata

lì, nell'aria, alla meglio. Sembrano quelle lettere di giornale,

diverse

fra loro, incollate e poi spedite per chiedere il riscatto che

deve

essere pagato. Ma io non ho quei soldi. Io non posso fare niente.

Raccolgo gli ultimi fogli, li batto sul tavolo e li poggio lì,

delicatamente.

Poi con un "Certo Marcantonio, ti capisco, hai ragione..."

esco di scena con un "Sì, forse anch'io avrei agito in quel

modo..."

lasciando così, con quel forse, un dubbio rassicurante in lui,

un piccolo spazio per la sua dignità. Gin non avrebbe avuto dubbi.

Lei avrebbe scoperto subito la mia bugia. Forse. Magari! Magari

mi tirassero i fogli in faccia, tutti e tre, insieme. Non aspetto

altro. Mi stanno sul cazzo. E cullando questo piccolo sogno mi

allontano.

Chiudo la porta e mi metto gli occhiali. Poi mi viene da

ridere. Che stupido, non c'è mica Gin.

Capitolo 56.

Entro a casa e poggio la borsa. Mi levo la giacca e sento Paolo

di là che sta chiacchierando. Sarà con qualcuno o è la

televisione?

Paolo arriva sorridente verso di me. " Ciao.. .c'è una sorpresa. "

Non

è la televisione. C'è qualcuno. Poi all'improvviso compare.

Incorniciata

dallo stipite della porta del salotto, con un po' di luce della

finestra alle sue spalle che le rende i contorni più sfuocati ai

miei

occhi, così delicata visione, forte e presente invece nella mia

vita,

in tutta la mia vita passata. Mia madre. Mamma.

"Ho preparato qualcosa se hai fame, Step." Dice Paolo prendendo

il giaccone dall'armadio e infilandoselo. "È tutto lì sul tavolo,

se hai fame." Ribadisce, preoccupato di quella situazione.

Non so se è nel dubbio che io abbia fame o nell'avermi servito

quel piatto che magari non mi andava in quel momento. Incontrare

mamma. Forse non ne aveva voglia, potrebbe aver pensato

o forse no. Ma è un attimo. Paolo è uscito lasciandoci così, soli.

Soli come siamo sempre rimasti da quel giorno. Almeno io. Solo

senza di lei. Senza la madre che mi ero disegnato prendendo spunto

proprio da tutti i suoi racconti, da quelle favole che mi aveva

letto da piccolo, da tutte quelle storie che mi aveva raccontato

vicino

al mio letto dove io, con appena poche linee di febbre, amavo

rifugiarmi rannicchiandomi in quel calore, quello delle coperte

e il suo. Sapendo che lei era lì, vicino a me, a raccontare, a

tenermi

la mano, a sentirmi la fronte, a portarmi un bicchier d'acqua.

Quel bicchier d'acqua... Quante volte, pur di averla vicino ancora

un secondo, sul limite dell'addormentarmi le avevo chiesto

quell'ultimo favore, per vederla rientrare ancora una volta,

incorniciata

da uno stipite di un'altra porta, di un'altra casa, di un'altra

storia... Quella con mio padre. E questo splendido disegno

proprio da lei creato, pieno d'amore, di favola, di sogni, di

incanto,

di luce, di sole... Puff, cancellato in un attimo. Averla scoperta

lì, a letto con uno. "Ciao mamma..." Uno qualsiasi, uno

sconosciuto,

un uomo diverso da mio padre con la mia stessa madre

e da allora buio. Buio completo. Sto male. Mi siedo al tavolo,

dove

i piatti sono già preparati. Non vedo neanche cosa c'è e solo

all'idea di mangiare mi viene da vomitare. Ma è la mia unica fuga.

Calma Step. Passerà. Tutto passa. No, non tutto. Con lei il dolore

non è ancora passato. Quel bicchier d'acqua... Calma Step.

Sei cresciuto. Bevo un po' d'acqua. "Allora, so che stai

lavorando...

sei felice?" Felice? Detta da lei questa parola mi fa venire da

ridere. Ma non lo faccio. Rispondo qualcosa così come alle altre

sue domande. "Come sei stato in America? Hai avuto problemi?

Ci sono molti italiani? Pensi di tornarci?" Rispondo. Rispondo a

tutto più o meno bene credo, cercando di sorridere, di essere

gentile.

Proprio come mi aveva insegnato lei. Gentile.

"Guarda, ti ho portato questi."

E tira fuori qualcosa da una borsa, non quella che le avevo

regalato

io quella volta a Natale o per il suo compleanno, quand'era

non mi ricordo. Ma mi ricordo che quella borsa la trovai lì, sulla

poltrona di quella casa. In salotto... il letto di un altro che

ospitava

lei, la mia mamma. Ospitava. Ospitava. Ospitava. Basta Step.

Smettila, smettila.

"Li riconosci? Sono i morselletti che ti piacevano tanto."

Sì. Mi piacevano tanto. Mi piaceva tutto di te, mamma. E ora

per la prima volta, dopo averla più volte guardata, la vedo di

nuovo.

Mia madre. Sorride con questa piccola busta trasparente tra le

mani. La posa leggera sul tavolo e mi sorride di nuovo piegando la

testa di lato. Mia madre. Ha i capelli più chiari ora. Anche la

pelle

sembra più chiara. Lei, delicata come sempre, sembra ancora più

fragile. Dimagrita. Ecco, sembra dimagrita e la pelle leggermente

increspata da un vento leggero. E gli occhi. I suoi occhi un po'

appannati

è come se avessero un po' di luce in meno. È come se qualcuno,

cattivo con me, avesse girato di poco quell'interruttore tenendo

in penombra il nostro amore. Il mio amore. Bevo un altro

po' d'acqua.

"Sì, me li ricordo. Mi piacevano tantissimo."

E uso il passato senza volerlo, senza sapere, con la paura che

perfino quei semplici biscotti abbiano perso quel sapore che mi

piaceva tanto.

"Hai aperto il mio regalo?"

"No, mamma." Non riesco a mentirle. Ancora adesso non riesco

a dirle una bugia. E non è solo la paura di essere scoperto... Mi

viene in mente Gin e la storia degli occhi. Per un attimo mi viene

da sorridere. Ed è un bene.

"No, mamma, non l'ho fatto,"

"Non è educato, lo sai."

Ma non aspetta la mia richiesta di perdono, non ce n'è bisogno.

Il suo sorriso mi fa capire che è tutto a posto, è già passato, e

lei non me lo fa pesare.

"E un libro e vorrei tanto che tu lo leggessi. Ce l'hai qui?"

"Sì."

"Allora prendilo."

E le sue parole sono così cortesi che non riesco a non alzarmi,

andare in camera mia e tornare subito dopo con quel pacchetto,

poggiarlo sul tavolo e scartarlo. "Ecco. È di Irwin Shaw.

Lucy Crown. È una storia molto bella. Mi è capitato per caso

sottomano.

E mi ha colpito molto. Se hai tempo, vorrei che tu lo leggessi."

"Sì, mamma. Se ho tempo lo farò."

Rimaniamo per un po' in silenzio e, anche se è solo un attimo,

mi sembra lunghissimo. Abbasso lo sguardo, ma anche la copertina

del libro non mi aiuta a far passare quell'infinità. Piego la

carta

del regalo, ma anche quello non fa che aumentare il peso dei

secondi

che sembrano non passare mai. Mia madre sorride. Mi aiuta

lei finalmente a superare quella piccola eternità.

"Anche mia mamma piegava sempre la carta dei regali che riceveva.

Tua nonna." Ride. "Forse hai preso da lei." Si alza. "Be',

io vado..."

Mi alzo anch'io. "Ti accompagno."

"No... non ti disturbare."

Mi dà un bacio leggero sulla guancia, poi sorride.

"Ce la faccio. Ho la macchina qua sotto."

Va verso la porta ed esce di spalle, senza più girarsi. Mi sembra

stanca e io mi sento sfinito. E non trovo più tutta quella forza

che mi

è sempre sembrato di avere. Quel bacio, forse, non era così

leggero.

Capitolo 57.

Poco più tardi.

"Oh, stavo proprio pensando a te... siamo simbiotici! Sul serio

ti stavo per telefonare! " Gin è disarmante sempre così allegra.

"Dove sei?"

"Qui sotto. Mi apri?"

"Ma ho appena finito di mangiare, c'è ancora mio zio. E poi

che fai, vuoi venire a casa, presentarti ai miei, approfittare che

c'è

anche mio zio per chiedermi qualcosa?" Ride allegra.

"Dai Gin, inventati qualcosa. Che ne so... che devi ritirare il

bucato su in terrazzo, che devi andare a prendere qualcosa dalla

tua amica al piano di sopra, che devi fuggire con me, di' anche

questo

se vuoi, ma liberati... Ho voglia di te."

"Non hai detto ho voglia di vederti, hai proprio detto 'ho voglia

di te'?"

"Sì, e confermo!" Mi sembra di essere uno dei partecipanti a

quegli stupidi quiz. Spero di non aver sbagliato la risposta. Gin

fa

una pausa lunga. Troppo lunga. Forse ho sbagliato la domanda.

"Anch'io ho voglia di te."

Non aggiunge altro e sento aprire il portone. Non prendo

l'ascensore.

Salgo su le scale veloce come un fulmine fino all'ultimo

piano, senza fermarmi, a volte addirittura a quattro a quattro. E

quando arrivo si apre l'ascensore. È lei. Simbiotici anche in

questo.

Mi tuffo sulle sue labbra e cerco lì il mio respiro. Baciandola

senza tregua, non facendola respirare. Le rubo la forza, il

sapore,

le labbra, le rubo anche le parole. In silenzio. Un silenzio fatto

di

sospiri, della sua camicetta che si apre, del gancio del suo

reggiseno

che salta, dei nostri pantaloni che scendono, della ringhiera che

si muove, di lei che ride facendo "Shh" per non farci sentire, di

lei

che sospira per non farmi venire. Non subito almeno. E strane

posizioni

in quella trappola di gambe, in quel groviglio jeansato che

mi eccita di più, che mi affascina, che mi fa morire. Smettere per

un attimo e in ginocchio, sul freddo marmo del pianerottolo,

baciarla

tra le gambe. Lei Gin, cowgirl stranamente scomposta, mima

un rodeo tutto suo per non cadere dalle mie labbra. Per poi

cavalcarla

di nuovo e correre insieme, noi stupidi, selvaggi, appassionati,

cavalli innamorati tenuti a terra da una ringhiera di ferro.

Vibra in silenzio come la nostra passione. Per un attimo sospesi

nel

vuoto. Rumori lontani. Rumori delle case. Una goccia che cade. Un

armadio che si chiude. Dei passi. Poi più niente. Noi. Solo noi.

La

sua testa indietro, i suoi capelli sciolti, abbandonati in caduta

nella

tromba delle scale. Si muovono frenetici, quasi vorrebbero

saltare,

come il nostro desiderio. Ma un ultimo bacio ci fa venire giù

insieme, tornare a terra proprio mentre l'ascensore viene

chiamato.

"Shh" lei ride accasciandosi per terra. Quasi stremata, sudata,

bagnata e non solo di sudore. Con i capelli che si attaccano al

viso

e ridono con lei. Ci abbracciamo così uniti, pugili suonati,

spompati,

sfiniti, accovacciati a terra, vinti. Nell'attesa di un inutile

verdetto:

pari ai punti... Sorridendo ci baciamo. "Shh" fa ancora lei.

"Shh." Si bea di quel silenzio... Shh. L'ascensore si ferma a un

piano

più sotto. I nostri cuori battono veloci e non certo per paura.

Mi nascondo tra i suoi capelli. Mi appoggio al suo morbido collo.

Mi riposo tranquillo. Le mie labbra stanche, felici, soddisfatte

in

cerca solo di un'ultima risposta.

Gin...

"Sì?"

"Non mi lasciare."

E non so perché. Ma lo dico. E quasi mi pento. E lei rimane

per un po' in silenzio. Poi si scosta da me. E mi osserva curiosa.

Poi

lo dice piano, quasi sussurrandolo.

"Hai buttato la chiave del lucchetto nel fiume."

Poi morbida tiene la mia testa tra le mani e mi guarda. Non è

una domanda. Non è una risposta. Poi mi dà un bacio e un altro e

un altro ancora. E non dice più niente. Mi continua solo a

baciare.

E io sorrido. E accetto volentieri quella risposta.

Capitolo 58.

Un pomeriggio caldo, stranamente caldo per essere dicembre.

Il cielo azzurro, intenso come quelle giornate in montagna dove

non vedi l'ora di sciare. Solo che io devo lavorare. Sono entrato

nell'imbuto

come dice Pallina, ma è l'ultima puntata o meglio l'ultimo

giorno di prove prima dell'ultima puntata. Eppure mi sembra

un giorno particolare. Sento qualcosa di strano e non capisco

perché.

Sesto senso forse. Ma non avrei mai potuto immaginare.

"Buongiorno Tony..."

"'Giorno Step."

Entro frettolosamente nel teatro. Un gruppo di fotografi più o

meno scalcagnati, dalle macchine fotografiche più diverse così

come

i loro vestiti, mi taglia la strada. Non sono certo come quei

precisi

gruppi di giapponesi che si incontrano per le piazze di Roma.

A loro non sfugge nessuna immagine.

"Di là, è andata di là... presto, che la becchiamo."

Rimango interdetto e Tony questo, naturalmente, non se lo fa

scappare.

"Stanno a insegui' la Schiffer. È arrivata prima perché deve

prova'

l'entrata dal palcoscenico. Che poi che c'avrà da prova', è una

camminata, manco ci so' le scale. Che deve prova', è una vita che

cammina. Boh! Forse è pe' giustifica' i soldi che prende, mortacci

sua.

E già che c'è Tony aggiunge: " Aho, se cerchi Gin è andata su

proprio

nel camerino vicino alla Schiffer. L'ha chiamata uno degli autori.

Magari la fa entra' con la Schiffer. Metti che impara a cammina'

bene pure lei, sai i soldi che se fa. Altro che camminate...

vannate a

fa' subito il giro del mondo. Viaggi gratis pure te e con

l'autista."

Tony. Ride un po' sguaiato inciampando in una strana tosse tutta

fumo e niente salute. Ciò nonostante si accende al volo un'altra

MS, buttando via il pacchetto finito. Era quello che gli avevo

portato

ieri o uno nuovo? Cosa importa. Ah, se non importa a lui. Be',

meglio che vado a vedere come sta Marcantonio e come va il nostro

lavoro. Quello, se non altro per contratto, mi dovrebbe

interessare.

Eccolo là. Seduto al computer, concentrato. Lo guardo da

lontano attraverso la porta semiaperta. Poi sorride tra sé, spinge

un

tasto, dà l'invio alla stampa e soddisfatto si accende una

sigaretta

giusto in tempo per vedermi arrivare.

"Ehi, Step, ne vuoi una?" Be', almeno lui a differenza di Tony

la offre e non sembra star poi così male.

"No grazie."

Richiude il pacchetto. "Meglio così! " Se lo infila nella tasca

del

suo giubbotto e si alliscia i pochi capelli che ha ai lati della

testa

portandoli all'indietro. "Ce l'ho fatta... Sono riuscito a

impostare

tutto proprio come volevano."

"Ah, bene." Mi accorgo che evita volutamente di dire come volevano

gli autori, ma non è il caso di farglielo notare. Se non altro

perché mi ha offerto la sigaretta. Rimaniamo per un attimo in

silenzio

a guardare i fogli che escono dalla stampante. Vrrr. Vrrr. Uno

dopo l'altro. Precisi, puliti, ordinati. Colori chiari e leggeri,

perfettamente

leggibili, proprio come volevano, immagino. Marcantonio

aspetta l'uscita dell'ultimo foglio, poi li prende delicatamente

dalla macchina e ci soffia sopra leggero per far asciugare

quell'ultimo

inchiostro appena stampato.

"Ecco fatto. Mi sembrano perfetti."

Mi guarda cercando approvazione. "Sì, credo di sì."

Non è che non ne sono poi tanto sicuro. Il lancio di quei fogli

in faccia a Marcantonio mi ha tolto completamente qual era la

ragione

della discussione.

"Sì, perfetti!"

Mi limito a dire cercando così di uscirne in qualche modo. Ma

non basta. Non è sufficiente, purtroppo.

"Senti Step, mi fai un favore? Puoi portarli tu di sopra agli

autori?"

È riuscito a pronunciarla quella parola finalmente. Ma è una

vittoria, come si dice? Di Pirro! Perché comunque tocca a me

affrontarli.

Che palle! Ma non posso tirarmi indietro. Ormai sono

nell'imbuto. Eh già. E poi mi ha chiesto un favore Marcantonio, il

mio maestro. Come posso dirgli di no.

"Certo, figurati."

Mi guarda sollevato. Mi passa i fogli e mentre esco dalla stanza

si ributta indietro sulla sedia, spegne la sigaretta e se ne

accende subito

un'altra. Che palle! Di una cosa sola sono sicuro. Fuma troppo.

Be', lo devo fare. Non c'è niente di più bello di una cosa che

devi

fare. Devi, prima legge dell'imbuto. Sto iniziando a odiarlo

'st'imbuto.

Tony mi saluta con il suo solito sorriso divertito. Sempre lo

stesso, ogni volta che passo. Ma fosse che Tony non fuma solo MS?

Dove ha detto che sono gli autori? Ah sì, al primo piano, dove c'è

anche il camerino della Schiffer. Faccio veloce le scale. Eccoli.

I fotografi

sono tutti seduti o meglio stravaccati su piccoli divani sbiaditi.

Aspettano l'uscita della diva nell'ipotesi di poterla sorprendere

struccata ma pur sempre bella. Tutto per poter dare un po' più

di valore alle loro eventuali foto rubate. Strano mestiere.

Faticoso e

ferocemente legato a troppe ipotesi. Quando arrivo non mi degnano

neanche di uno sguardo, giustamente. Solo un fotografo, o meglio

una lei, mi dedica un attimo della sua semplice attenzione.

Curiosità

femminile forse. Ma neanche quella è sufficiente per risollevare

in qualche modo la macchinetta fotografica che le penzola annoiata

dal collo. Meglio. Già mi pesa portare quei fogli. Sicuramente

gli autori avranno qualcosa da dire. Ci manca solo l'interesse di

qualcun

altro. Mi guardo in giro cercando dove saranno. "Schiffer." La

scritta, perfettamente stampata a caratteri grossi da una laser

write,

risalta nitida sulla prima porta. La seconda porta è priva di

indicazioni.

La scelta mi viene abbastanza naturale. Busso. Non sento risposta.

Dopo qualche secondo la apro. Niente. Silenzio. Se non il

fatto che compare un piccolo corridoio. In fondo un'altra porta.

Stesso tipo, stesso colore. Avanzo con i fogli tra le mani. Forse

sono

laggiù. In quell'altra stanza. Be', visto che ci sono, tanto vale

provare.

Ma mentre mi avvicino sento un rumore. Uno strano rumore.

Qualche risata soffocata. Poi dei movimenti disordinati, sordi,

ribelli.

Come calci scoordinati di un bambino sollevato in aria che

cerca di colpire un pallone sotto i suoi piedi. Ma quel pallone è

troppo

lontano per dargli il piacere di quel tiro. E così apro la porta.

Senza bussare. Semplicemente maleducato. Ma mi viene spontaneo.

Così come mi sembra irreale quello che vedo. Toscani tiene

abbracciata

Gin da dietro. Sesto è appoggiato a un tavolo con il suo

solito stecchino in bocca e sorride divertito dalla scena, Micheli

è

davanti a Gin e si muove con uno strano tempo. Poi d'improvviso

metto meglio a fuoco la scena. Gin ha la camicetta strappata. Il

suo

seno è nudo, scoperto da un reggiseno finito di traverso. Ha un

pezzo

di scotch da pacchi sulla bocca. Toscani la sta leccando sul collo

con la sua lingua rasposa. Micheli, il Serpe, ha i pantaloni

aperti

davanti, l'uccello di fuori e si sta masturbando. Gin, con i

capelli

bagnati dal sudore per la lotta, si gira all'improvviso verso di

me. È

disperata. Mi vede. Sospira. Sembra avere un attimo di sollievo.

Toscani

incrocia il mio sguardo e smette di leccarla. La sua lingua rimane

sospesa nell'aria come la sua bocca aperta. Sesto non è da meno.

Assume un'aria sbigottita e anche lui apre la bocca. Il suo

stupido

stecchino rimane così sospeso a mezz'aria, appeso al labbro

inferiore.

Finalmente quei fogli hanno una loro ragione. È un attimo.

Li scaglio con forza in faccia a Sesto, l'unico che potrebbe

intervenire

per primo. Lo prendo in pieno. Cerca di evitare il colpo. Scivola

dal tavolo. Finisce per terra. Micheli, il Serpe non fa in tempo

a girarsi. Lo colpisco con il pugno chiuso da destra verso

sinistra

con il braccio aperto come per allontanarlo. Lo prendo in pieno

vicino

alla trachea. Vola all'indietro finendo a gambe all'aria con uno

strano rantolo. Mentre il suo uccello timido si ritrae subito. Si

vergogna

perfino di aver tentato di mettere in scena quella ridicola

erezione.

Toscani smette di abbracciare Gin. In un attimo sono su di

loro. La libero definitivamente strappandole dalle labbra il pezzo

di scotch. "Stai bene?"

Muove su e giù la testa come per dire sì, con le lacrime agli

occhi,

con le sopracciglia aggrottate. Le labbra le tremano in un

disperato

tentativo di parlare. "Shh" le faccio io. La allontano

gentilmente,

la sospingo con dolcezza verso la porta d'uscita. La vedo

andar via, così di schiena. Intuisco che si sta rimettendo a posto

il

reggiseno. Si sistema la camicetta. Riordinando le idee per quello

che le è possibile. Vuole trovare un posto per il suo dolore.

Cerca

di piangere. Ma non ci riesce. Comunque non si gira indietro. Si

allontana semplicemente. Incerta sui suoi passi, traballante sulle

gambe, pensierosa sul da farsi. Per quanto mi riguarda io, invece,

non ho dubbi. Pum. Mi giro di scatto e colpisco Toscani con una

violenza che non pensavo di avere. Lo prendo in piena faccia, da

sotto, colpendo il labbro, il naso, la fronte, strusciandolo

quasi, ma

poggiandoci tutto il mio peso, tutta la mia rabbia. Finisce contro

il

muro e non fa in tempo a fermarsi che gli sono addosso. Dritto per

dritto con il mio piede destro in piena pancia, levandogli il

respiro,

dandogli appena il tempo di cadere giù per poi prendere una

corta rincorsa ma piena di potenza e colpirlo quasi come una palla

al rimbalzo. Pum. In piena faccia. Come un calcio di rigore, come

il miglior Vieri, o Signori, o Ronaldo e tutti gli altri insieme,

tutti,

senza escluderne nessuno. Con un unico urlo e una minaccia. È

un rigore da non sbagliare. Pum. Di nuovo. Contro il muro. Gli si

spappola la guancia. C'è una schizzata di sangue meglio di

qualsiasi

rabbioso interprete della più sudicia pop art. Scavalco Micheli

che ancora rantolando sta recuperando fiato. Gli sorrido

involontariamente.

Gusto il fatto che si stia riprendendo. Deve essere in

forma per quello che naturalmente decido di tenermi come gran

finale. Poi sono da Sesto. Si copre la faccia con tutte e due le

mani

sperando in chissà quale miracolo... Che però non avviene. Pum !

Lo colpisco con il destro, largo, bello, teso, aperto. Da destra

verso

sinistra con tutto il peso del mio corpo. Pum! Di nuovo. Lì, sul

suo orecchio, con una violenza tale che mi sorprendo che non

salti.

Ma poi mi tranquillizzo. Bene, sanguina. E lui stupido, sorpreso,

ancora incredulo, si toglie le mani dal viso, le porta davanti ai

suoi occhi. E le guarda senza volerci credere, cercando chissà

quale

assurda spiegazione a quel dolore, a quel sangue, a quel rumore.

Ma non fa in tempo a realizzare niente. Pum! Ora è libero il suo

volto. Pum. Pum. Uno dopo l'altro gli piazzo una serie di colpi in

faccia. Uno dopo l'altro, dritto per dritto senza tregua, sugli

occhi,

sul naso, sulle labbra, sui denti, sugli zigomi, pum! Pum! Pum!

Uno dopo l'altro, sempre più veloce, sempre più veloce, sempre

più veloce, come un pazzo, come uno normale. Pum! Pum! Pum!

Sono i miei colpi che lo tengono su, che sostengono quel viso che

si sta smaciullando. Pum! Pum! Pum! E non provo dolore e non

provo pietà e non sento più niente se non il piacere. Non capisco

più a chi appartiene tutto quel sangue tra le mie mani. Sorrido.

Mi

fermo. Respiro. Mentre lui si accascia come un sacco morto.

Scivola

giù, floscio, inebetito, forse felice a sua insaputa di esserci

ancora.

Forse. Ma è un dettaglio. Poi lo vedo per caso. Mi sembra la

giusta chiusura. Mi piego, lo prendo tenendolo tra le dita con

disgusto

e disprezzo. E pum. Gli pianto il suo stecchino su quello che

è rimasto del suo labbro inferiore. Non faccio in tempo a girarmi.

Strash. Mi arriva da dietro una sedia. Mi prende in pieno sulla

nuca.

Sento solo il botto. Mi giro. Micheli è in piedi davanti a me. Ha

ripreso fiato. Alle sue spalle sono comparsi tutti quei fotografi

inutili.

Famelici, ravvivati, increduli, quasi slinguettano assatanati su

quell'imprevisto piatto caldo appena servito. Agitano voraci le

loro

macchine fotografiche inondandoci di flash. Avranno visto Gin

andar via. L'avranno vista sconvolta, con la camicetta strappata,

in

lacrime. Ma l'hanno vista andar via. Questo mi fa star meglio.

Strabuzzo

gli occhi, cerco di rimettere a fuoco dopo il colpo appena

ricevuto.

Giusto in tempo. Vedo arrivare di nuovo la sedia. Mi piego

d'istinto facendola passare sopra la mia testa. Fshhh, è un

attimo.

Sento un vento leggero appena sopra i miei capelli. Schivata.

Di poco ma schivata. Mi rialzo di botto bloccandogli il braccio,

gli

stringo il polso facendogli cadere la sedia e poi lo tiro a me

andandogli

incontro di testa. Pum! Una capocciata perfetta, in pieno

sul naso, spaccandoglielo. La raddoppio al volo. Pum. Sul

sopracciglio.

E di nuovo. Pum. In pieno viso. Si accascia sotto i flash

dei fotografi che continuano imperterriti a scattare. Micheli è lì

per

terra. Preso dalla foga, dalla sua idea secondo lui geniale di

colpirmi

con una sedia, non ha pensato minimamente a nascondere quello

stupido arnese che lo ha spinto a fare tutto questo. Ha ancora il

suo uccello di fuori. Il mandante di quello sporco attentato

andato

a male penzola grinzoso tra degli inutili pantaloni grigi. Come

se bastasse un po' di flanella a dargli eleganza. E io non ho

dubbi.

È lui il vero colpevole. E allora è giusto che paghi. Non aspetto

altro.

Mi preparo. Come quel tiro da fuori. Sta per scadere il tempo.

Il pivot è fermo con la palla in mano. È l'ultima partita di

basket,

decisiva per la vittoria del campionato. E improvvisamente lui

tira...

O come un saltatore che si prepara per l'ultimo salto. Ondeggia

sui suoi passi, cerca di trovare il tempo giusto dentro di sé, di

battere il record del saltatore precedente. O più facilmente come

la campana, quel puro gioco da cortile, dove dopo aver lanciato un

sasso bisognava saltellare in maniera corretta lungo un difficile

percorso.

O come in Gunny... "Sta' attento a quello che cerchi, potresti

trovarlo..." Ecco, voi avete trovato me. Non ho dubbi e senza

scagliare la prima pietra, io mi preparo, mi elevo e salto,

andando

a tempo con i flash dei fotografi. Me ne frego. Pum! Ci salto

sopra

e ancora pum. Pum. Di tacco, al centro mentre Micheli si dimena

e quel buffo arnese tra le sue gambe si accartoccia sempre di

più. Pum, ancora, senza pietà, schiacciando con il peso

quell'uccello

approssimativo ormai spezzato delle sue eventuali ali. Pum,

sanguina l'uccello o quello che ne rimane... Prendo la rincorsa e,

pum, chiudo così, in perfetta sintonia con gli ultimi flash dei

fotografi

disintegrandogli le palle, sempre che uno che agisce così ce le

abbia sul serio. Ma io nel dubbio preferisco mettermi al sicuro.

Non

sia mai che uno come Micheli possa generare un altro verme di

quella stirpe... E così per sigillare la chiusura di questo

incontro-

scontro, sono fortunato. D'altronde era la stanza degli autori.

Usarla

fa parte del loro mestiere. La vedo. Piccola, rossa, di ferro.

Richiama

la mia attenzione quasi lampeggiando. La prendo. Mi piego

su Micheli. Qualche flash mi accompagna curioso. Cosa vorrà

fare? E allora li accontento. Clack! Un'unica stretta. Con forza,

determinata,

precisa, perfetta. Micheli urla come un pazzo, mentre

quella cucitrice sigilla del tutto la voglia di quello stupido

uccello

di uscire ancora fuori a fare cucù. Micheli si accascia. Cerca

disperato

tra le sue gambe cosa è rimasto di quell'improbabile araba

fenice. E non riesce a darsi una risposta. Ma come? La mia

cucitrice...

Ribellarsi così proprio a me! A me che sono un autore. Già.

Sorrido uscendo. Ma io no. Io non sono un autore. E uso la

cucitrice

"a cazzo"... Tanto per rimanere in tema. Fotografi preoccupati

si spostano lasciandomi passare. Sorrido divertito a qualche

flash. La fotografa, che prima mi aveva guardato leggermente

incuriosita,

mi dedica ora tutta la sua attenzione. È affascinata dallo

scoop. Poi torna subito professionale a immortalare la scena.

Fa un'ultima foto. Ma è diventata troppo per lei. Vomita

appoggiandosi

alla porta. Qualcuno si sposta. Qualcuno riesce a farmi

una foto da vicino. Già vedo in grande il titolo di un ipotetico

gazzettino:

"Ultima notizia. Step è uscito dall'imbuto!". Sì. Bravi. È

proprio così. E ne sono felice. Poi esco di scena.

Capitolo 59.

Non faccio in tempo a scendere giù. La notizia è arrivata prima

di me. Una strana agitazione ha reso febbrile il teatro. Sembra di

essere

in una improvvisa diretta. Tutti corrono da qualche parte.

Curiosi,

impazziti, urlando, smaniosi di sapere, già padroni di una storia.

La colorano come meglio credono, aggiungendo notizie,

ingrandendola,

cambiandone la partenza, la fine. "Hai saputo?" "Ma

che è successo?" "Una rissa, un marocchino... un polacco... i

soliti

albanesi... una guardia ha sparato... Ci sono feriti? Tutti! "

Chiedo di

Gin. Una ragazza mi dice che è andata a casa. Meglio. Vado verso

l'uscita. Tony mi viene incontro. Sembra agitato anche lui. Lo

deve

essere sul serio, visto che non ha la sigaretta in bocca.

"Vai via Step. Sta arrivando la polizia."

Sembra l'unico ad aver capito qualcosa. "Comunque sia, hai

fatto bene. Mi sono sempre stati sul cazzo tutti e tre." E ride

divertito

della sua sincerità. Lui, semplice custode dell'ingresso

dell'imbuto,

se lo può permettere. Vado verso la moto. Mi sento chiamare.

"Step, Step!" È Marcantonio che corre verso di me. "Tutto

a posto?" Mi guardo per un attimo le mani insanguinate e senza

volerlo me le massaggio. Strano. Non mi fanno male. Marcantonio

se ne accorge. Lo rassicuro.

"Sì, tutto a posto."

"Ok. Meglio. Vai a casa allora. Io rimango qui. Ci sentiamo più

tardi e ti racconto tutto. Gin sta bene?"

"Sì, è andata a casa."

"Perfetto." Poi cerca di sdrammatizzare. "Ma non è che non

gli è piaciuto il lavoro che ho fatto e hanno tirato i fogli in

faccia

pure a te? Sai, mi sentirei in colpa se è successo tutto questo

per

causa mia..."

Ridiamo.

"No. Gli è piaciuto molto. Avevano solo un piccolo cambiamento

da fare. Magari riusciranno pure a dirtelo."

"Sì, magari..."

Torna quasi professionale.

"Be', per quest'ultima puntata può anche andare in onda senza

cambiamenti, no?"

"Sì, credo di sì. Devi solo ristampare quei fogli, quelli che ho

portato su da loro si sono un po' rovinati."

"I fogli, eh? Da quello che ho sentito sono loro rovinati e non

solo

fisicamente. È una brutta storia. Vedrai che ne uscirai vincente.

"

Accendo la moto. "Grazie, Marcantonio. Ci sentiamo."

Metto la prima e mi allontano. Vincente? Ma su che cosa?

Sinceramente

non me ne frega niente. Gin sta bene. Di questo mi importa.

Poco più tardi. Sono a casa e la chiamo. Ci sentiamo per telefono.

È ancora scossa. Ha parlato con i suoi. Ha raccontato tutto.

Parla piano. Non ha ritrovato tutta la forza. Sento le sue parole

qualche tono più basso del solito. Ma è normale.

"Per fortuna è arrivato un ragazzo che mi ha salvato, così ho

raccontato ai miei." Ride un po'. Mi rende felice. Mi viene da

pensare:"Non

hai detto è arrivato il 'mio' ragazzo...". Mi sembra troppo.

È ancora presto per scherzarci sopra... Continuo ad ascoltarla

tranquillo.

"Mi hanno detto di denunciarli. Tu mi farai da testimone, vero?"

"Sì, certo." Mi diverte aver cambiato ruolo. Mi ero scocciato

del solito film dove recitavo sempre la solita parte. "Be', da

imputato

a testimone. E dalla parte della giustizia poi. Contro il sistema!

Non è male. Dovrei iniziare anche a cambiare genere però,

sempre di processo si tratta."

L'ascolto ancora per un po'. Poi le consiglio di prendersi una

camomilla e di cercare di riposare. Non faccio in tempo ad

attaccare.

Il telefono comincia a squillare. Non ho voglia di rispondere

e poi c'è Paolo, magari è per lui.

"Vado io?" Mi sembra felice di rispondere.

"Certo." Mi passa davanti. Annuisco e decido di farmi una doccia.

Mentre mi spoglio capisco che non era per lui. Lo sento parlare

dal salotto. "Cosa? Sul serio! E come stanno? Ah, niente di grave,

quindi. Come gravissimo? Ah, abbastanza grave. Mi stava facendo

preoccupare... Ma come è successo? Ah... Cosa? Lo volete invitare

da Mentana? Ah, da Costanzo? Anche da Vespa? Ma ci sarà stata

una ragione..."

Dal tono capisco che cerca di salvarmi. "Be', è fatto così...

Ah...

lei dice che ha fatto bene? Come? Cioè, lo volete presentare come

un eroe? Ah, una specie di eroe, un paladino, il giustiziere sul

lavoro...

Be', non lo so se accetterà... No, io non sono il suo agente...

sono solo suo fratello."

Mi viene da ridere e mi infilo sotto la doccia. Che sciocco Paolo,

poteva dire che era il mio agente. Oggi tutti i fratelli fanno gli

agenti dei divi. C'è un solo problema. Aumento il getto dell'acqua

calda. Io non sono un divo e non ho intenzione di diventarlo.

Su questa mia ultima scelta però nessuno sembra essere d'accordo

con me.

Il giorno dopo, dalle sette di mattina il telefono comincia a

squillare.

Arrivano le richieste più assurde. Una dopo l'altra. Si presentano

tutte le radio, le più svariate televisioni, inviti per ogni tipo

di

programma, di ogni formato, di ogni genere, a ogni ora, su

qualsiasi

tema. E poi ancora giornalisti, critici, opinionisti, semplici

curiosi.

E Paolo risponde a tutti. Dopo la doccia di ieri sera Paolo ha

voluto

sapere la storia per filo e per segno... Mi ha tenuto più di

un'ora

davanti a uno pseudointerrogatorio offrendomi però, al posto della

solita luce in faccia, un buon piatto di spaghetti. E questo non è

stato male. Cucina bene però, il fratello. Ho parlato e mangiato

con

gusto. C'era pure una bella birra gelata. Ne avevo bisogno. Faccio

colazione mentre lo guardo. È al telefono. Prende appunti e

risponde,

si segna numeri di telefono, appuntamenti, orari per partecipare a

eventuali trasmissioni. "Ah, mandereste l'autista. Sì, sì.. .E per

il compenso?

1500 euro... Sì... No... No... Va bene... Anche se a Fatti e

fattacci

ce ne hanno offerti 2500..." Mi guarda sorridendo e mi strizza

l'occhio. Scuoto la testa e addento il cornetto. Ho sentito dire

che

di solito sono quegli avvocati stanchi del diritto che si

trasformano

in agenti. Ma un commercialista che diventa agente... Questa non

si

è mai sentita. Potrebbe essere una buona idea però.

L'avvocato che diventa agente in fondo parte da un concetto

di diritto e di giustizia per poi perderlo di vista. Il

commercialista

invece no. Il commercialista parte dal concetto di fisco, frode

e risparmio e diventando agente non fa altro che perfezionarlo.

Mio fratello. Sarebbe di sicuro un ottimo agente, ma io un pessimo

divo.

"Ciao Pa', io esco."

Paolo rimane così, con il telefono sospeso nell'aria e la bocca

semiaperta.

"Non ti preoccupare, vado a trovare Gin." E su questo sembra

capire.

"Sì, sì, certo." Lo vedo subito piombare sul suo foglio. Fa una

somma veloce di tutti quelli che potrebbero essere i suoi

ipotetici

guadagni. Poi mi guarda. E in un attimo li vede sfumare. Chiudo

la porta. Sono sicuro che sta pensando alla giornata di vacanza

che

si è preso dall'ufficio. Soprattutto a tutti quegli altri soldi

che ha

perso. Mio fratello. Mio fratello il commercialista che diventa il

mio

agente. Certo che è buffa la vita.

Capitolo 60.

Gin sta bene. Ha gli occhi ancora un po' arrossati, è un po'

sbattuta, ma sta bene. La camicetta strappata e il reggiseno li ha

messi da parte in una busta. Come prova dice lei. Non li voglio

vedere.

Mi fa male ripensare alla scena. Le do un bacio leggero. Non

ho voglia di incontrare i suoi. Non saprei che dire. Ma hanno

capito

chi sono. "Quello della bottiglia di champagne" ha detto Gin

ai suoi per farglielo capire.

"Vorrebbero ringraziarti."

"Sì, lo so. Di' che accetto volentieri... No, di' che ho dei

problemi,

che devo andare a casa. Insomma di' quello che vuoi."

Non ho voglia di sentire il loro grazie. Grazie. Grazie a volte è

una parola fastidiosa. Ci sono cose per cui non vorresti essere

ringraziato.

Ci sono cose che non sarebbero dovute accadere. Cerco di

farglielo capire con gentilezza. Mi sembra di esserci riuscito.

Più tardi

sono a casa. Paolo intuisce che mi deve lasciar stare. Non mi

propone

appuntamenti né l'idea di facili guadagni. Non mi passa papà

né mamma. Sono uscite anche delle foto su alcuni giornali e un

sacco

di gente ha telefonato per salutarmi. Per starmi vicino. O forse

solo per dire: "Io lo conoscevo bene...". Ma io non voglio

nessuno.

Voglio vedermi la puntata. Ecco. Sono le nove e dieci. Inizia la

sigla.

Dopo soli due cartelli con i soliti titoli, la sorpresa. I nomi e

cognomi

dei tre autori non ci sono più. Le ballerine continuano a ballare

perfettamente sorridenti e tranquille malgrado quello che è

successo.

D'altronde loro che c'entrano e poi si sa... the show must go on.

L'ultima puntata poi. Ti pare che non va in onda. Ragioni di

mercato.

Qualcosa ho imparato. È facile capire di che materiale è fatto

l'imbuto.

Di soldi. I titoli continuano. Le ragazze ballano. La musica è

la stessa. Il pubblico sorride. C'è un'altra sorpresa. Il mio

titolo c'è

ancora. Mi squilla il telefonino. Vedo il numero. È Gin. Rispondo.

Ride. Sembra molto più allegra, in piena ripresa.

"Hai visto? Avevo ragione io. Lo pensavo, ma non te l'ho detto,

è come dire che non avrai problemi. Sono felice per te."

È felice per me. Lei che è felice per me. Che tipo. È incredibile.

Riesce sempre a sorprendermi. La saluto. "Ci sentiamo dopo,

quando finisce." Attacco. Non avrai problemi. Che problemi posso

avere io? Al massimo una denuncia per rissa. Un'altra. L'unico

problema è che non finisco l'album. Mi apro una birra e in quel

momento suona il telefonino. Un numero coperto. Non dovrei fidarmi

eppure, non so perché, me la sento e rispondo. E non mi

sono sbagliato. È Romani. Riconosco la voce. Butto un occhio alla

tv. Infatti sono in pubblicità. La prima della trasmissione, quasi

sempre alle nove e quarantacinque. Guardo l'orologio. Sono in

anticipo di qualche minuto. Chissà chi ha fatto la scaletta. Forse

l'avevano già fatta quei tre. Sicuramente non hanno potuto

rimetterci

le mani. Ma lascio perdere tutti questi pensieri. Cerco di sentire

cosa sta dicendo e rimango sorpreso ascoltandolo.

"Quindi ti volevo dire, Stefano, che mi dispiace. Non sapevo.

Non avrei mai potuto immaginare."

E continua con la sua solita tranquillità, con la sua eleganza,

con la sua voce calma e ferma, dal suono pieno. Una voce che dà

sicurezza. Ascolto in silenzio e rimango senza parole se anche

avessi

voluto dire qualcosa. Altre due ragazze hanno denunciato lo stesso

fatto accaduto tempo prima. Non avevano avuto il coraggio di

parlare per paura di perdere il lavoro o peggio, semplicemente

di apparire. E forse ce ne sono altre.

"E dopo quello che hai fatto tu, Stefano, stanno acquistando

sicurezza. Non si sarebbe scoperto chissà per quanto tempo ancora,

forse mai. Quindi, Stefano, mi sento in colpa per averti fatto

trovare in una situazione come questa. Proprio la tua ragazza

poi... "

Scuoto la testa. Non c'è niente da fare. Anche Romani lo sa.

Deve essere stato Tony.

"Quindi ti prego, accetta le mie scuse e grazie, grazie sul serio,

Stefano." Ancora un grazie. Grazie da Romani. Grazie. L'unica

parola

che non volevo sentire.

"Be', ora ti saluto, devo riprendere la puntata. Vienimi a trovare

però. Ho una cosa per voi. E un regalo. Tanto io non lo posso

usare. Ho un'altra trasmissione che parte tra due mesi e non

posso staccare."

Cerca di non dare troppa importanza al suo gesto. Non c'è niente

da fare, è un grande.

"Così state un po' tranquilli. Poi, se vi va, lavoriamo di nuovo

insieme..."

Fa una pausa.

"Se vi va... Ma mi farebbe piacere. Ti aspetto... Stefano?"

Per un attimo teme che sia caduta la linea. Non ho detto niente.

Neanche un intercalare, però chiudo in bellezza.

"Sì, Romani, va bene, passo domani, grazie."

Chiudiamo così la telefonata. Guardo la tv. Come per incanto

la pubblicità finisce e la trasmissione ricomincia. Mi scolo la

birra.

Be', almeno un grazie sono riuscito a dirlo anch'io.

Capitolo 61.

Al TdV stanno già smontando tutto. Pezzi di scena vengono tirati

via uno dopo l'altro con una facilità estrema. Una squadra di

distruttori

agisce implacabile. Con determinazione, senza alcun dubbio,

con rabbia quasi. Ridono tra di loro, sembrano quasi provare

piacere nel farlo.

"È più facile distruggere che costruire..."

La sua voce mi sorprende alle spalle. Ma è sempre rassicurante.

Sorrido dandogli la mano. Anche la sua stretta mi piace. Sincera,

serena, forte, che non ha bisogno di dimostrare niente. Non

più. Romani. È stata la persona più interessante da conoscere. La

più diversa, la più inaspettata. Vero proprietario di

quell'imbuto,

deludente e preoccupante per tanti lati, alla fine riesce anche a

fartelo

apprezzare. Camminiamo. Pezzi di scenografia continuano a

cadere dall'alto. Piccoli crolli di colossi di Rodi pittorici,

domani

già dimenticati. Andare avanti per forza, l'importanza e la

stupidità

del successo, la droga del successo, la bellezza del successo.

Credere per un attimo di non venire dimenticati. Ma non sarà così.

Non sarà così. "Tieni." Mi passa una busta. "Sono i contratti

per te e Ginevra per la prossima trasmissione che faccio. Se vi

va,

siete già dentro. A marzo, un gioco sulla musica. Una trasmissione

facile facile e già collaudata in diversi paesi d'Europa. Fa più

del trentacinque per cento in Spagna. C'è Marcantonio, c'è lo

stesso

coreografo. Ho riconfermato alcune ballerine. Ho escluso altri..."

sorride alludendo ai tre. "Anche perché non credo lavoreranno

più in quest'ambiente. Ho chiesto una campagna stampa

contro quei tre da far impallidire. Mica per niente... per far

risaltare

tutti noi che siamo i buoni!" Ride. "Poi ho scritto un pezzo

speciale su di te. Uscirà tra qualche giorno. Diventerai famoso."

Di nuovo. Niente. Non c'è niente da fare. Sono abbonato a

diventare

famoso per rissa. "Allora io vorrei che tu e Ginevra accettaste

questo contratto. Vi ho fatto aumentare i compensi, a tutti

e due. Diciamo che è un contratto... riparatorio. Non per colpa

nostra, ma visto che la rete ha accettato il mio suggerimento...

Voi

perché dovreste rifiutarlo? " Ride. Poi rimane in silenzio. "Be',

pensateci..."

"Senta Romani, posso chiederle una cosa?"

"Certo."

Lo guardo per un attimo. Ma che mi frega. Io glielo chiedo.

"Ma perché porta sempre uno dei due bottoni del colletto

slacciato?"

Mi guarda. Rimane per un po' in silenzio. Poi sorride.

"È molto semplice: per capire il carattere di chi mi sta di

fronte.

Tutti hanno questa curiosità, la voglia di chiedermelo, di sapere.

Ma molti non lo fanno. Così la gente si divide in due: chi non

osa farmi questa semplice domanda e chi osa. I primi rimarranno

sempre con quella curiosità. I secondi invece avranno scoperto la

ragione di questa stronzata! "

Ridiamo. Non so se è vera. Ma come spiegazione mi piace un

sacco e decido di accettarla così.

"Questa invece è una busta da parte mia. Un ottimo posto dove

andare a pensare al contratto... Qualche spiaggia al caldo aiuta

a far dire di sì. "

E sorride allusivo per tutti quegli ipotetici sì che si possono

dire.

Poi si allontana veloce fingendo di avere qualcosa da fare. Dà

qualche inutile ordine alla squadra. Tanto ormai hanno già

distrutto

tutto. Così però mi ha fregato. Questa volta non ho fatto in tempo

a dirgli grazie.

Capitolo 62.

Non ci posso credere. Gin ha detto di sì. Ha dovuto inventare

che oltre a me ci sono altre tre o quattro persone, ma i genitori

hanno

detto sì. Non solo. Una frase rassicurante. "Se poi c'è lui..."

Quel

lui sarei io. Cosa assurda. Per la prima volta dei genitori

immaginano

al sicuro una figlia vicino a me. Be', l'imbuto a qualcosa è

servito.

Gin al sicuro... Sì, tra le mie braccia! Un sogno. Come la busta

di Romani. Un altro sogno. Volo in prima classe. Thailandia,

Vietnam e Malesia. Tutto pagato, tutto organizzato. A volte fare

la

cosa giusta paga. Anche in un mondo spesso troppo indifferente e

ingiusto. A volte. Quando incontri qualcuno di coraggioso e

onesto.

Come Romani. I migliori voli. I migliori bungalow. Le spiagge

più belle. Il sole, il mare e un contratto che ci aspetta quando

torniamo

per dire sì o no. E la libertà. La libertà di dire sì ogni minuto

se ci va di fare qualcosa oppure no, senza impegni, senza "è

pronto

a tavola", senza si "deve" fare, senza telefonate inaspettate,

senza

problemi, senza incontri di chi non vuoi incontrare. Saliamo

sull'aereo

liberi, tranquilli.

Io un po' meno. Mi guardo in giro. Che sciocco. No, non c'è.

Non ci può essere. Eva, la hostess, non lavora per la Thai. Una

signorina

dagli occhi a mandorla, la pelle leggermente ambrata e dalla

divisa perfetta ci fa accomodare. Le sorrido. È molto gentile. E

anche molto carina. Ci dà qualcosa da bere. Quando se ne va Gin

mi dà una gomitata.

"Ahia!"

"Ti voglio maleducato e scortese con le hostess."

"Certo, lo sono sempre stato."

"Fai vedere gli occhi..."

Mi infilo ridendo gli occhiali. "C'è troppa luce! "

Prova a togliermi gli occhiali. "No, sul serio, levami una

curiosità...

hai mai avuto a che fare con qualche hostess?"

Sorrido. Bevo qualcosa dal bicchiere che la signorina della Thai

ci ha gentilmente offerto. Poi la bacio al volo. Champagne leggero

colora le nostre labbra. Lo faccio durare un po'. Le bollicine di

champagne sembrano rassicurarla. Forse il mio bacio. Soprattutto

il mio "mai". Più che altro il fatto che l'aereo comincia a

rullare.

Gin mi stringe forte dimenticando un mio eventuale passato e

preoccupandosi

soprattutto dell'imminente presente. Statap. Siamo in

volo. Il carrello rientra. L'aereo prende quota. Raggiunge le

nuvole.

Un tramonto più vicino ci accarezza dal finestrino. Gin allenta

il suo abbraccio e posa la testa su di me. "Ti dispiace se sto

così?"

Non faccio in tempo quasi a rispondere. La sento addormentarsi,

abbandonare tutte le ultime tensioni, lasciarsi andare tra le mie

braccia, su un aereo in volo, tra le nostre nuvole, leggere. Si

sente

sicura. Tenera. Cerco di muovermi il meno possibile. Prendo dalla

sacca che ho lì vicino Lucy Crown, il libro che mi ha regalato mia

madre, e comincio a leggere. Mi piace come è scritto. Almeno per

le prime pagine non fa male. Per ora.

"Oh happy day..."

Della musica improvvisa. Mi accorgo di essermi addormentato.

Il libro è poggiato sul tavolino. Gin è lì vicino a me che mi

guarda

e sorride. Ha una macchinetta fotografica tra le mani.

"Ti ho fatto qualche foto mentre dormivi." Ancora. "Eri

bellissimo...

sembravi buono! " L'abbraccio portandola a me.

"Ma io sono buono..." E la bacio. Più o meno convinta della

mia affermazione decide comunque di partecipare. Poi ci accorgiamo

della presenza di qualcuno. Ci stacchiamo per niente intimiditi.

Almeno io. Lei invece arrossisce. E l'hostess di prima, con

due bicchieri in mano. Gentile e professionale, non ci fa pesare

il

nostro amore.

"Sono per voi... Manca poco..."

Li prendiamo curiosi. La hostess delicata e leggera si allontana

così come era apparsa.

"È vero non ci pensavo più: è il 31 dicembre..."

Gin guarda il suo orologio. "Mancano pochi secondi."

Uno strano conteggio dall'accento americano parte dalla cabina

di pilotaggio. "Tre, due, uno... Auguri!"

La musica si alza. Gin mi dà un bacio. "Auguri Step il buono... "

Brindiamo con i due bicchieri arrivati giusto in tempo. Poi ci

diamo un altro bacio. E un altro. E un altro ancora. Senza più

paura

di essere interrotti. Tutti sull'aereo cantano e festeggiano

felici

dell'anno passato o di quello che sarà, di essere in vacanza o di

tornare

a casa. Comunque felici. Con il loro champagne. Con la testa,

e non solo, già tra le nuvole. L'aereo scende un po' di quota e

non

è un caso.

"Guarda..." Fa Gin indicando fuori dal finestrino. In qualche

paese lì sotto stanno festeggiando. E fuochi d'artificio

abbandonano

la terra per venirci a salutare. Per festeggiare il nostro

passaggio.

Si aprono sotto di noi come fiori appena sbocciati. Dai mille

colori imprevisti. Dai mille disegni pensati. Polveri,

perfettamente

incastrate, si liberano prendendo fuoco nel cielo. Una dopo

l'altra. Una dentro l'altra. E per la prima volta li vediamo da

sopra.

Io e Gin abbracciati, con i visi incorniciati nel finestrino, ne

scorgiamo

la fine, la parte da sempre nascosta, da sempre conosciuta

solo alle stelle, alle nuvole, al cielo... Gin guarda estasiata i

fuochi.

"Che bello! " Luci lontane riescono a dipingerla. Delicate

pennellate

di colore luminoso accarezzano le sue guance. E io timido pittore

improvvisato, la stringo a me. E la bacio. Mi sorride. Continuiamo

a guardare fuori. Uno strano gioco di fusi orari, di ore legali,

di passaggio veloce su paesi lontani, ci regala un altro Capodanno

e un altro, e un altro ancora. Ogni ora è di nuovo mezzanotte

e di nuovo Capodanno, e di nuovo e di nuovo ancora. E fuochi

diversi, di diverso colore sparati da un diverso paese, vengono

a noi. Sorridono avvicinandosi, portando l'augurio di chissà quale

fuochista. E la musica continua. E l'aereo, veloce e tranquillo,

procede

spedito. Attraversa il cielo, le felicità e le speranze di chissà

quanti paesi. E la hostess, precisa e ordinata, appare e scompare

puntuale a ogni Capodanno, portando champagne. Noi, ubriachi

di felicità e non solo, ci facciamo gli auguri e ancora e ancora

gli

auguri. Brindiamo più volte per quello stesso nuovo anno, con

un'unica

grande certezza. "Che sia un anno felice..." E dopo averlo

festeggiato

così tanto, stanchi di tutti quegli anni passati in un attimo,

ci addormentiamo sereni e tranquilli. Ci risvegliamo in spiaggia.

E ci sembra quasi di sognare ancora. Davanti a quel mare, a

quell'acqua cristallina sempre calda, a quel sole e a quei

tramonti.

Thailandia, Koh Samui.

"Hai visto Step, è uguale alle cartoline che ricevevo. Ho sempre

creduto che magari uno strano falsario le avesse lavorate al

computer.

"

Gin perennemente a mollo.

"Anche lavorandoci non avrei potuto immaginarmi tanto."

"Certo che grande fantasia ha Dio. Dal nulla poi, mica aveva

esempi ai quali riferirsi Lui... Grande pittore..."

Ed esce così, lasciandomi in acqua, tra mille pesci colorati e

nessuna risposta. Poi qualcosa mi viene in mente.

"Be', ma un grazie anche a Romani però è dovuto."

Nel suo piccolo. Ride e si allontana verso il bungalow. Senza

pareo. Serena e tranquilla come poche. Ancheggiando apposta

divertita,

salutando una piccola bambina thailandese, che la chiama

per nome, già amici, e non solo perché Gin le ha regalato una

maglietta.

Vietnam. Phuquoc.

Ancora in acqua, ora abbracciati, ora schizzandoci, ora una

piccola

battaglia sulla sabbia sotto gli occhi divertiti di bambini

incuriositi

da questi due strani turisti che prima lottano e poi si baciano!

E continuiamo così. Baciandoci un po' di più, cullati dal sole,

bagnati di desiderio e prima che la curiosità di tutti quei

bambini

diventi malizia rientriamo nel bungalow. Una doccia. Tende

abbassate

ballano al ritmo del vento ma senza allontanarsi troppo dai

vetri. Qualche onda si rompe sugli scogli e noi, vicini, ne

seguiamo

il tempo.

"Ehi, ma sei un miracolo della natura... sei diventata

bravissima."

Scemo!

Mi dà un pugno leggero prendendomi in pancia.

"Mi dimentico sempre che sei terzo dan."

"Ora voglio guidare io."

"Ricordati quella volta che hai voluto guidare la mia moto... al

semaforo un altro po' cadevi."

"Cretino. Poi l'ho portata bene però, no? Fidati."

"Ok, voglio fidarmi."

Si sfila da sotto salendomi sopra, sigillando quel passaggio con

un bacio pieno, tanto, lungo. Mi scavalca con la gamba, me lo

prende con la mano e lo porta dentro di sé morbida e decisa. Con

sicurezza. Continua a baciarmi. Piegata su di me mi tiene le

braccia

aperte e spinge in giù il bacino con forza, accogliendomi fino

in fondo, nella sua pancia più lontana. Ho fatto bene a fidarmi.

Mi stringe forte i polsi e abbandona per un attimo il suo bacio.

Apre la bocca. Rimane sospesa sulle mie labbra. Sospira più volte

per poi pronunciare quella fantastica parola. "Vengo." Lo dice

piano, lentamente, staccando quasi ogni piccola lettera, con

una voce bassa... troppo bassa. Di quell'erotico incolmabile... E

in un attimo vengo anch'io. Gin lancia i capelli all'indietro,

spinge

ancora due o tre volte il bacino verso di me, poi si ferma e apre

gli occhi. Fssh. Come se fosse tornata improvvisamente. Di nuovo

lucida d'incanto.

"Ma sei venuto anche tu?"

"Sì, certo! Che faccio, mi perdo per strada?"

"Ma tu sei pazzo?" Ride. "Tu sei proprio pazzo."

Scivola vicino a me, si poggia su un gomito e mi fissa divertita.

"Cioè sei venuto dentro di me?"

"E per forza, di chi sennò? Eravamo io e te."

"Ma scusa io non prendo niente, non prendo la pillola."

"Oddio! Veramente? Non sei tu che prendi la pillola o no... Mi

sono confuso! T'ho preso per l'altra! "

"Cretino... scemo!"

Mi risale sopra e comincia a colpirmi.

"Ahia! Ahia! Basta Gin, stavo scherzando."

Si tranquillizza. "Ho capito, ma scherzavi anche quando dicevi

che sei venuto?"

"No, su quello no! Certo che no!"

"Che vuol dire certo che no?"

"Che era un momento così bello, così unico, così fantastico,

che mi sembrava stupido interromperlo. Come dire, fuori luogo..."

Si ributta vicino a me, sprofonda quasi con un tuffo sul cuscino.

"Tu sei pazzo... E ora che facciamo?"

"Be', prendo ancora un po' di fiato e poi se vuoi ripartiamo.

Guidi sempre tu?"

"Ma no, dico che facciamo, che facciamo, dai, hai capito! Non

scherzare sempre... dove la troviamo qui la pillola del giorno

dopo,

in Vietnam? Mi sembra un assurdo, non la troveremo mai!"

"E allora non la cerchiamo."

"Come?"

"Se non la troveremo mai, è inutile che la cerchiamo, no?"

La bacio. Rimane per un attimo interdetta. Però si lascia baciare.

Non partecipa più di tanto. Mi stacco e la guardo.

"Allora? " Ha il viso buffo. È sorpresa e perplessa al tempo

stesso.

"Il tuo ragionamento non fa una grinza e allora..."

"E allora l'ho già detto, non la cerchiamo. Riprendo fiato e

ricominciamo."

Scuote la testa e sorride, pazza anche lei, mi bacia. Mi accarezza

e mi bacia ancora. E il fiato torna presto. E decido di guidare

io,

senza fretta, senza strappi al motore, accelerando. E mentre il

tramonto

ancora una volta gioca a nascondino, noi veniamo di nuovo,

senza nasconderci stavolta, ridendo, uniti, come prima, più di

prima. Folli d'assurdo. Pazzi d'amore. E di tutto quel che sarà.

Più tardi. In uno strano pub chiamato da ironici padroni

vietnamiti

Apocalipse Now beviamo della birra. Gin scrive a tutto spiano

sul suo diario.

"Ehi, si può sapere che razza di Divina Commedia stai tirando

giù? È da quando ci siamo seduti che non fai che scrivere e la

conversazione

dove la lasci? La coppia è anche dialogo, eh?"

"Shh! Sto fermando il momento."

Gin scrive un'ultima cosa rapidamente, poi chiude il diario.

"Fatto! Altro che Bridget Jones. Sarà un best seller mondiale! "

"Che hai scritto?"

"Quello che abbiamo fatto."

"E ci metti così tanto a descrivere una scopata?"

"Cafone!"

È un attimo. Gin mi lancia la sua birra addosso. Alcuni vietnamiti

si girano. Prima ridono, poi rimangono in silenzio preoccupati,

un po' indecisi su quello che accadrà. Io mi scrollo la birra

dalla faccia. Mi asciugo per quanto è possibile con la maglietta.

Poi

rido rassicurandoli.

"Tutto a posto... è fatta così! Per dire ti amo, siccome non ci

riesce, tira la birra."

Non capiscono ma sorridono. Anche Gin fa un sorriso "simpatico",

ma è finto. Si beve un altro sorso.

"Vuoi sapere cosa ho scritto? Tutto! Non solo l'amore che abbiamo

fatto, ma anche quello che è successo. È un pezzo del nostro

destino. Magari grazie a quell'attimo avremo un figlio. Staremo

insieme per sempre."

"Per sempre? Sai, ci ho ripensato. Secondo me anche in Vietnam

potrebbe esserci la pillola del giorno dopo. Cerchiamola subito!"

Scatto veloce verso il basso proprio mentre Gin mi lancia quel

po' di birra rimasta nel suo bicchiere. Stavolta non mi prende. I

vietnamiti ridono divertiti e battono le mani. Hanno capito il

gioco,

più o meno. Mi inchino verso di loro. Mi inneggiano uno strano

coro: "Ti amo... ti amo... ti amo". Lo pronunciano buffo ma

hanno capito sul serio. Non faccio in tempo a rialzarmi. Il

bicchiere

di birra mi prende in piena pancia. "Ahia! " Questa volta è Gin a

inchinarsi e le donne vietnamite esplodono in un boato. Non so se

avremo un figlio. Una cosa è sicura. Se le cose dovessero andar

male

possiamo sempre mettere su una compagnia e dare spettacolo.

Malesia. Perentian. Tioman.

Dorati, sani, leggermente abbrustoliti da un sole che non ci ha

mai abbandonato. Camminiamo. Un pomeriggio di un giorno qualsiasi.

Come sono tutti i giorni quando sei in vacanza. Ci fermiamo da

un pittore disteso all'ombra di una palma e scegliamo senza

fretta.

"Ecco, quello!"

Uno dei tanti quadri infilati nella sabbia come grandi conchiglie

colorate lasciate essiccare all'aria. Lo scegliamo insieme,

divertiti

che proprio lo stesso ci abbia colpito.

"Come siamo simbiotici, eh Step?"

"Già."

Lo pago 5 dollari, ce lo avvoltola e ce lo portiamo via camminando

lenti verso il nostro bungalow.

"Sono preoccupata."

"Perché? Per la tua pancia? È presto."

"Cretino! Mi sembra strano. Dieci giorni e non abbiamo mai

litigato! Neanche una volta. Tutto il giorno insieme e mai una

discussione."

'

"Be', allora scusa meglio dire: 'tutte le notti insieme e abbiamo

sempre...'."

Gin si gira al volo. Fa la faccia da dura.

"Fatto l'amore! Non t'arrabbiare. È inutile che mi guardi male!

Stavo per dire proprio questo. Tutte le notti insieme e abbiamo

sempre fatto l'amore."

Si... si... certo.

"Anche se..." Continuiamo a camminare. "Scusa eh, Gin. Ma

abbiamo sempre scopato rende molto meglio l'idea."

Comincio a correre. "Cretino. Allora dillo che vuoi litigare! "

Comincia a correre anche lei cercando di raggiungermi. Apro

veloce la porta del bungalow e mi ci infilo dentro. Poco dopo

arriva

anche lei.

"Allora... vuoi proprio litigare."

"No vedi..." le indico la finestra, "è quasi buio. Ormai è tardi,

se si litiga, si litiga di giorno! " La tiro a me. "Perché di

notte..."

"Di notte?" Mi riprende Gin.

"Si fa l'amore, va bene? Si dice come preferisci tu."

"Ok."

Sorride. La bacio. È bellissima. L'allontano un po' dal mio viso.

E sorrido anch'io. "Però adesso scopiamo!" Mi picchia ancora.

Ma è un attimo. Ci perdiamo tra fresche lenzuola che profumano

di mare. E facciamo l'amore, scopando.

Capitolo 63.

Abbiamo passato diversi giorni sull'isola. Ed è vero, non abbiamo

mai litigato. Anzi. Ci siamo anche divertiti. Non avrei mai

immaginato che fosse possibile così, con una lei poi... L'altra

sera

mi sono ritrovato disperso tra le onde del mare. Sembravano dolci

per come erano morbide e calde, in quell'acqua bassa, senza

corrente. O forse è stato tutto per la bellezza e la semplicità di

quel

bacio che ci siamo dati. Così, in silenzio, guardandoci negli

occhi,

abbracciati sotto la luna, senza andare oltre. Abbiamo riso,

abbiamo

chiacchierato, siamo rimasti abbracciati. La cosa bella di

un'isola come questa è che non hai appuntamenti. Tutto quello

che fai, lo fai solo perché ti va, non perché lo devi fare.

Mangiamo

ogni sera in un piccolo ristorante. È tutto in legno, ed è proprio

sul mare, roba che se fai tre scalini, sei già in acqua. Leggiamo

il menù senza capire bene cosa c'è scritto veramente. Alla fine

chiediamo sempre spiegazioni. Quelli che ci lavorano sono tutti

molto gentili e sorridono. E dopo aver ascoltato le loro

spiegazioni

più o meno comprensibili, fatte di gesti e di risate, ci

accordiamo

ogni volta su un piatto diverso. Forse perché vogliamo provarli

un po' tutti, perché speriamo che almeno uno prima o poi ci

piaccia. Ma soprattutto perché stiamo bene.

"E mi raccomando senza sughi strani, senza niente sopra.

Nothing, nothing..."

I tipi sentendoci parlare così, fanno cenno di sì con la testa.

Sempre. Anche quando diciamo delle cose assurde. Alla fine non

sappiamo mai cosa ci porteranno veramente. A volte ci dice bene,

a volte male. Cerco di consigliare Gin.

"Comunque sei vai sul 'pescado' arrosto vai sempre sul sicuro."

Ride.

"Madonna, ma sei già vecchio. Il bello è proprio provare tutto."

Mi guardo in giro. Non c'è quasi nessuno su quest'isola. A un

tavolino lontano da noi mangia un'altra coppia. Sono più grandi

e più silenziosi di noi. È normale che crescendo si abbiano meno

cose da dire? Non lo so e non lo voglio sapere. Non ho fretta. Lo

scoprirò quando sarà il momento. Gin invece parla un sacco, del

più e del meno, di cose divertenti e interessanti. Mi rende

partecipe

di pezzi della sua vita che io non avrei mai potuto conoscere,

neanche immaginare, se non attraverso lei. E io l'ascolto,

guardandola

negli occhi, senza mai perderci di vista. E poi ha sempre

mille proposte.

"Senti, ho avuto una bellissima idea. Domani andiamo su un'isola

qui davanti, anzi no, prendiamo una barca e usciamo a pescare,

no, no, meglio, facciamo un po' di trekking all'interno... Eh, che

ne dici?"

Io sorrido. Non glielo dico che l'isola ha un diametro di appena

un chilometro.

"Certo, bellissima idea."

"Ma quale è bellissima? Te ne ho proposte tre!"

"Tutte e tre bellissime."

"A volte mi sembra proprio che mi prendi in giro."

"Perché dici così? Sei bellissima."

"Vedi, mi prendi in giro."

Mi alzo, mi siedo vicino a lei e le do un bacio. Lungo.

Lunghissimo.

Con gli occhi chiusi. Un bacio totalmente libero. E il vento

cerca di passare tra le nostre labbra, il nostro sorriso, le

nostre

guance, tra i capelli... Niente, non ce la fa, non passa. Nulla ci

divide.

Sento solo delle piccole onde che si rompono sotto di noi, il

respiro del mare, che fa eco ai nostri che sanno di sale... E di

lei. E

per un attimo ho paura. Che io abbia voglia di perdermi di nuovo?

E poi? Cosa succederà? Boh. Mi lascio andare. Mi perdo in quel

bacio. E abbandono quel pensiero. Perché è una paura che mi piace,

sana. Gin all'improvviso si stacca da me, si allontana e mi fissa.

"Ehi, ma perché mi guardi così? A che pensi?"

Le prendo i capelli portati in avanti dal vento. Li raccolgo

dolcemente

nella mia mano. Poi glieli porto indietro, liberando il suo

viso, ancora più bello.

"Ho voglia di fare l'amore con te."

Gin si alza. Prende la giacca. Per un attimo sembra arrabbiata.

Poi si gira e mi fa un bellissimo sorriso.

"Mi è passata la fame. Andiamo?"

Mi alzo, lascio dei soldi sul tavolo e la raggiungo. Cominciamo

a camminare sul bagnasciuga. L'abbraccio. La notte. La luna. Un

vento ancora più leggero. Barche lontane al largo. Vele bianche

sbattono. Sembrano fazzoletti lì a salutarci. Ma no, non partiamo.

Non ancora. Piccole onde del mare ci accarezzano le caviglie,

senza

fare troppo rumore. Sono calde, lente, silenziose. Hanno rispetto.

Sembrano un preludio di un bacio che vuole spingersi più in là.

Hanno paura quasi di farsi sentire. Un cameriere arriva con dei

piatti al nostro tavolo. Ma non ci trova più. Poi ci vede. Ormai

lontani.

Ci chiama. "Domani, mangiamo domani." Il tipo scuote la testa

e sorride. Sì, quest'isola è bellissima. Qui tutti hanno rispetto

dell'amore.

Capitolo 64.

Quando ero piccolo e tornavo dalle vacanze, Roma mi sembrava

sempre diversa. Più pulita, più ordinata, con meno macchine,

con un senso di marcia improvvisamente cambiato, con un

semaforo in più. Questa volta mi sembra identica a quando

l'abbiamo

lasciata. È Gin che mi sembra diversa. La guardo senza che

se ne accorga. Aspetta ordinata in fila il nostro turno per

prendere

il taxi. Muove ogni tanto i capelli, ravvivandoli, li allontana

dal viso e loro, ancora insaporiti di mare, ubbidiscono. No, non

diversa. Semplicemente più donna. Tiene la sua sacca tra le gambe

e uno zaino non troppo pesante sulla spalla destra. Austera e

dritta ma morbida nei tratti. Si gira, mi guarda e sorride. È

mamma?

Oddio, che aspetti sul serio un bambino? Sono stato un pazzo.

Mi guarda curiosa cercando forse di indovinare i miei pensieri.

Io la guardo invece cercando di indovinare della sua pancia.

Sono già in due? Mi ricordo di uno sceneggiato che ho visto da

piccolo. La storia di Ligabue. Ma non il cantante. Il pittore.

Guardando

una sua modella, dipingendola su una tela, Ligabue, dalla

diversa luce dei suoi occhi, dai morbidi tratti del suo corpo,

capisce

che è incinta. Ma io non sono un pittore. Anche se forse sono

stato più pazzo di Ligabue.

"Si può sapere a che pensi?"

"Ti sembrerà assurdo ma a Ligabue."

"Oh, ma dai, non sai quanto mi piace sia come cantante che

come uomo."

Canticchia allegra perfettamente intonata. Sa tutte le parole di

Certe notti, ma non ha indovinato uno dei miei pensieri. Per

fortuna.

Almeno questa volta. "Ehi! La sai una cosa? Ligabue mi piace

anche come regista... L'hai visto tu Radiofreccia?"

"No."

È arrivato il nostro turno. Mettiamo le valigie nel portabagagli

e saliamo sul taxi.

"Peccato, a un certo punto c'è una bella frase... Credo che c'è

un buco grosso dentro, ma che il rock and roll, qualche amichetta,

il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli

amici be', ogni tanto questo buco me lo riempiono."

"Sembra forte... certo che te ne ricordi di citazioni tu, eh?"

Gin insiste. "E Da dieci a zero?"

"Neanche."

"Ma sei sicuro che pensavi al cantante e non a Ligabue il

pittore?"

Mi guarda incuriosita e strafottente. Questa ragazza mi preoccupa.

Dico la strada della casa di Gin al tassista che fa cenno di sì

con la testa e parte. Oh. Tutti sanno tutto. Io mi infilo gli

occhiali.

Gin ride.

"Ti ho beccato eh? O non sai neanche chi è?"

Non si aspetta risposta. Decide di lasciarmi stare. Si appoggia

sulla mia spalla come durante i voli in aereo. Come tutte queste

ultime

notti. La vedo riflessa nello specchietto del tassista. Chiude

gli occhi. Sembra riposare, poi li riapre di nuovo. Incrocia il

mio

sguardo anche attraverso gli occhiali. Sorride. Forse ha capito

tutto.

Forse. Ma una cosa è sicura. Se sarà una bambina la chiamerò

Sibilla.

Un ultimo saluto. "Ciao. Ci sentiamo." Con lo zaino in spalla

e la sacca in mano entra nel portone. La vedo andar via così,

senza

poterle dare una mano. Non ha voluto.

"Non voglio essere aiutata e soprattutto non mi piacciono gli

addii troppo lunghi. E vattene! "

Gin troppo forte. Risalgo sul taxi e do il mio indirizzo. Il

tassista

fa un cenno di sì con la testa. Conosce anche questo. Be',

d'altronde

è il suo lavoro. In un attimo mi tornano in mente tanti momenti

del viaggio. È come un album sfogliato velocemente. Allora

scelgo le foto più belle. I tuffi, i baci, gli scherzi, le cene,

le chiacchierate

senza tempo, l'amore senza tempo, i risvegli senza tempo.

E ora? Sono preoccupato e non solo per il fuso orario. Mi manca.

Lasciarla a casa proprio dopo un viaggio è come partire di nuovo

ma senza saper dove andare e soprattutto con chi. Solo. E Gin

già mi manca. Di questo sono preoccupato. Sono diventato troppo

romantico?

"Siamo arrivati, dotto'."

Per fortuna c'è il tassinaro che mi riporta alla realtà. Scendo.

Non aspetto il resto, prendo la mia roba ed entro in casa.

"C'è nessuno?" Silenzio. Meglio così. Ho bisogno di entrare

piano piano, senza troppi rumori, senza troppe domande, nella mia

vita di tutti i giorni. Metto a posto un po' di roba dalla sacca,

butto

in bagno nella vasca quello che c'è da lavare e mi faccio una

doccia.

Non sento il fuso ma per fortuna sento il telefonino. Esco dalla

doccia. Lo prendo al volo. Mi asciugo un attimo prima di

rispondere.

E lei, Gin.

"Ohi, l'ho acceso un secondo fa, prima di fare la doccia. Lo

sapevo

che non potevi resistere."

"Pensa che io ti avevo chiamato per sapere tu come te la cavavi.

Non è che stai dando le capocciate? Sei in crisi totale da

astinenza...

d'amore?"

"Io?"

Allontano il telefonino di poco e fingo di rivolgermi a un folto

pubblico femminile lì di fronte. "Calma ragazze, calma... Arrivo!

"

Gin fa finta di essere scocciata.

"Strano che non hai detto vengo. E in un attimo ragazze! Saresti

stato più sincero. Non le illudere! Ah! Ah!"

"Uhm! Velenosa. Se la metti su questo piano parliamo con Romani,

due partecipazioni a qualche trasmissione come il caso dell'anno

e ripartiamo subito per il giro del mondo."

" Senza andar troppo lontano... Comincia a prepararti il discorso

per i miei, dovrai passare di qui tra qualche giorno."

"Cosa?"

"Be', se ancora non arrivano 'loro' è meglio che passi tu, no?"

"Cosa?"

"Ma sì, siamo allo scadere, e 'loro' non si vedono, quindi sono

incinta! Preparati la promessa di matrimonio, le scuse e tutto il

resto.

Rimango in silenzio.

"Ecco bravo! Hai capito! Divertiti con quelle ragazze che hai

lì, che ti è rimasto poco tempo! "

"Ma io pensavo che mi sarei dovuto occupare solo della scelta

del nome. "

"E certo. La cosa più facile! No guarda, a quello ci penso io.

Tu preoccupati di tutto il resto. Sai cosa dice sempre la mia

mamma?

'Hai voluto la bicicletta? Ora pedala!'"

"Bicicletta... Se è femmina la potremmo chiamare così. Sarebbe

sicuramente una ragazza molto sportiva e poi che ne so, in onore

di tua mamma."

"Meno male. Credevo fossi già in stato depressivo. Invece ce la

fai ancora a dire qualche cretinata."

"Sì, ma sono le ultime. Sai come papà dovrò essere ancora più

serio. Ma sei sicura piuttosto che sono io il papà? Mio nonno

diceva

sempre: 'Mater semper certa est, pater numquam'."

"Ecco bravo, vivi nell'incertezza. Stai sicuro che se è scemo vuol

dire che è tuo ! "

"Meno male che ero in crisi d'astinenza d'amore! "

"Step... non litighiamo."

"E chi vuole litigare?"

"Mi manchi..." Allontano di nuovo il telefonino.

"Ragazze, volete sapere che ha detto? Che le manco..."

"Dai... non fare lo stupido."

"Sei cambiata?"

"Cioè?"

"Di solito mi dici scemo."

"E cosa è meglio scemo o stupido?"

"Be', diciamo che stupido per me è meglio... e poi scusa scemo

hai detto che chiami mio figlio, a me devi chiamarmi stupido per

forza sennò in questa casa non si capisce più niente. Sai che

confusione?"

"Cretino!"

"Ecco... E adesso cretino chi è? L'altro?"

Ridiamo. Continuiamo a ridere così. A parlare senza più sapere

bene di cosa, né perché^Poi decidiamo di attaccare, promettendoci

di sentirci domani. È un'inutile promessa. L'avremmo fatto

comunque. Quando perdi tempo al telefono, quando i minuti

scorrono senza che te ne accorgi, quando le parole non hanno

senso,

quando pensi che se qualcuno ti ascoltasse penserebbe che sei

pazzo, quando nessuno dei due ha voglia di attaccare, quando dopo

che lei ha attaccato controlli bene che l'abbia fatto veramente,

allora sei fregato. O meglio sei innamorato. Che poi è un po' la

stessa

cosa...

Capitolo 65.

I giorni seguenti a Roma tornano lentamente normali. Le ore

riprendono

il loro posto. Torna a far freddo. Ognuno a stare nella

propria casa. Il mare si allontana. Così come il suo ricordo.

Rimangono

solo le foto di quello splendido viaggio. Finiscono in chissà

quale cassetto presto anche loro dimenticate. Romani è stato

felice

di vederci, così allegri e abbronzati, soprattutto grazie a lui.

Ancora

più felice nel vederci accettare quel contratto di lavoro, sempre

grazie a lui. Paolo e Fabiola sembrano andare d'accordo. Paolo ha

abbandonato l'idea di fare l'agente. Il mio agente. È tornato a

fare

il commercialista. Fa prendere tutte le decisioni a Fabiola, la

sua

donna, così i conti tornano facilmente. Perché se a lui i conti

non

tornassero sia in ufficio che fuori, potrebbe impazzire. Da quanto

sento dai racconti di Paolo, mio padre e la sua donna, della quale

non ricordo assolutamente il nome né voglio fare il minimo sforzo

per ricordarlo, vanno d'amore e d'accordo. D'amore. Anche su

questo

non voglio fare il minimo sforzo. Della vita sentimentale di mamma

invece Paolo non sa nulla. O almeno non mi dice nulla. E

preoccupato

però della sua salute. Le ha visto fare diverse ricerche in

ospedale.

Ma anche di questo Paolo non sa nulla. O anche in questo caso

non mi vuole dire nulla di più. E anche su questo non riesco a

fare

uno sforzo. Non ce la faccio. Già mi è sembrato difficile leggere

il libro che mamma mi ha regalato. Una storia simile alla nostra

ma

con un lieto fine. Un lieto fine, sì. Ma quello è un libro.

"Ciao, che stai facendo?"

"Sto preparando la borsa e me ne vado un po' in palestra..."

Tutto è tornato alla più grande normalità. Anche Gin.

"Ma dai, anch'io più tardi ci vado. Oggi mi tocca." Fa una pausa

cercando nel suo calendario delle palestre a vela. "La Gregory

Gym a via Gregorio VII ! Meno male che non è troppo lontana. Ci

vediamo più tardi?"

"Certo."

"Allora un bacio e a dopo."

Non sapevo cosa sarebbe successo, che di quel "certo" non sarei

stato poi più così certo.

In palestra saluto un po' di gente. Poi comincio ad allenarmi.

Senza spingere troppo, senza forzare con il peso. Ho paura di

stirarmi.

È troppo tempo che non mi alleno. "Ehi, bentornato."

È Guido Balestri, magro e sorridente come sempre. Con la sua

tuta bordeaux sbrindellata come sempre, con una felpa radicai-

chic

ma di marca come tutte le sue cose, anche quelle come sempre.

"Ciao. Ti alleni?"

"No. Ero passato in palestra proprio con la speranza di trovarti.

"

"Non ho una lira..." ride divertito forse perché sappiamo

benissimo

tutti e due che è l'ultima cosa della quale potrebbe avere

bisogno. "E per un po' devo evitare risse."

"E certo, a farsi vedere troppo uno si brucia. Ormai sei un divo

della rissa ! "

Capisco che deve aver seguito tutta la vicenda. Ma lui preferisce

farmelo notare. E per bene. "Ho ritagliato tutti gli articoli:

l'eroe,

il paladino, il giustiziere della tv..."

"Sì, non ci sono andati leggeri."

"Be', neanche tu, dalle foto che ho visto!"

"Non lo sapevo. Hanno pubblicato anche le foto dei tre? Questa

me la sono persa."

Ma non è importante. Ho ancora ben presente la scena reale

con tanto di originali in carne e ossa. Lascio cadere il discorso.

"Allora, a parte gli scherzi, cosa posso fare per te?"

"Sono io che posso fare qualcosa per te. Ti passo a prendere

alle nove Step, ti va?"

"Dipende."

"Ehi, ma sei diventato una di quelle fighette che credono di

avere solo loro l'esclusiva del piacere maschile? Della serie

'verrei

ma non posso'! Dai, ti porto a una bella festa, gente tranquilla,

roba

fina, non dirmi che sei finito in qualche gabbietta femminile?

Vediamo un po' di amici, roba tranquilla! "

L'idea di fare una rimpatriata mi va. È passato un sacco di tempo.

Perché no. Staccare un attimo da tutto. Un tuffo nel passato.

Penso a Pollo ma non mi fa male. Una bella nuotata è quello che

ci vuole. Pacche sulle spalle di gente che non vedo da troppo

tempo.

Qualche bel racconto del passato, strette di mano e sguardi

sinceri.

Amici di risse. Gli amici più veri.

"Perché no."

"Ok, allora dammi l'indirizzo che ti passo a prendere in

macchina."

Ci salutiamo. "Alle nove! Mi raccomando..."

Continuo ad allenarmi ancora un po'. Ci metto più foga.

Presuntuoso.

Che fai? Vuoi tornare in forma per incontrare gli amici

di un tempo? Essere all'altezza dei loro ricordi? Step, il mito! E

autoironico

decido di smettere e farmi una bella doccia.

Poco dopo a casa. Mi squilla il telefonino.

"Ciao, ma non sei passato."

Gin è un po' delusa. "No... è che pensavo fossi ancora in

palestra.

"Macché! Ho dovuto aiutare mia madre a portare su la spesa.

Poi si è accorta che aveva dimenticato di comprare il latte e

allora

sono andata io. Poi sono tornata e si è accorta che si era

dimenticata

il pane e sono andata di nuovo io. Ed era pure rotto l'ascensore.

"

"Be', non sarai andata in palestra ma ti sei tenuta lo stesso in

forma."

"Sì certo. Ho dei glutei fantastici! Vuoi venirli a vedere adesso?

Devo giusto andare a ritirare qualche panno in terrazzo che

stasera

mi sa che piove."

"No, non posso. Mi passa a prendere un mio amico fra poco."

"Ah..." Gin sembra rimanerci male.

"Un mio amico, ho detto, Guido Balestri, quello alto magro...

C'era quella sera che siamo andati dal Colonnello." Cerco di

rassicurarla.

"Boh, non me lo ricordo. Ok come vuoi. Oh, io su in terrazzo

ci vado lo stesso. Poi chi c'è c'è..."

"Dai, non fare la sciocca. Ancora niente?"

"Ancora niente. Per adesso sei ancora un ipotetico papà..."

"Be', allora ne approfitto e ancora per stasera esco. Dai, magari

ci sentiamo dopo."

"No magari. Ci sentiamo dopo! E chiamami senza chi!"

"Ok." Rido. "Come vuole il terzo dan." Non faccio in tempo

a chiudere con Gin che suona il citofono. È Guido. "Scendo."

Capitolo 66.

Raffaella gira per casa. Niente da fare. Non le tornano i conti.

Peggio del salumiere sotto casa che ogni volta ti segna qualcosa

in

più sul conto della spesa, o il benzinaio giù nella piazza che ti

lava

la macchina e poi ti fa il pieno. Persone di fiducia che poi si

scusano

con la solita frase: "Guardi che non è tanto, è l'euro, signo',

che

c'ha fatto raddoppia' tutto". Sembra che sia stato coniato apposta

per le loro truffe. Ma qui si tratta di altro. Di Claudio. Claudio

è

cambiato. Anche come ha fatto l'amore l'altro giorno, che non ha

voluto togliersi la camicia. È strano. Oltre la musica, ha

cambiato

perfino il tipo di lettura. Ha sempre letto solo "Diabolik" e al

massimo

"Panorama". E guarda caso questo lo prendeva sempre quando

sulla prima pagina c'era una bella ragazza. Naturalmente mezza

nuda. E fino a qui è tutto normale. Sosteneva sempre che

all'interno

c'era un importante articolo sul mondo della finanza. Ma ora?

Come si spiega quel libro? Raffaella si avvicina al comodino di

Claudio

e lo prende in mano. Poesie di Guido Gozzano. Lo sfoglia. Niente.

Non c'è niente. Poi improvvisamente qualcosa cade ed è in mezzo

alle pagine. Una cartolina. La gira subito veloce per vedere cosa

c'è scritto. Niente. Solo il timbro e la firma di chi l'ha

spedita. Una

"F". Solo una semplice "F". E un timbro dal Brasile. Chi può

avergliela

mandata? Qualcuno che è stato in Brasile. Guarda la data sul

timbro. È stata spedita sei mesi fa. Chi può essere andato tra gli

amici

che conosciamo in Brasile sei mesi fa? Filippo, Ferruccio, Franco.

No. Non mi sembra che ci sia andato nessuno. E soprattutto che

nessuna moglie ce l'avrebbe mai lasciato andare. A meno che non

sia uno di loro che è andato di nascosto... e manda una cartolina

a

Claudio con una "F"? No. I conti non tornano. Gira la cartolina e

la guarda. C'è una bella ragazza brasiliana. La classica foto di

una

che passeggia sulla spiaggia con un culo in bella mostra e un

costume

tipo filo interdentale. La cosa strana è che si vede perfettamente

il suo viso e sorride. Niente. La rimette nel libro e comincia a

sfogliarlo.

A un certo punto trova una frase sottolineata in rosso. Ma

com'è possibile? Claudio odia il rosso. Non lo avrebbe mai usato.

Gli ricorda i tanti errori che faceva a scuola in italiano,

proprio perché

non leggeva mai niente. E il verso sottolineato, poi: "Non amo

che le rose che non colsi". Con aggiunto un punto esclamativo.

Punto

esclamativo? Qualcuno che oltretutto ha rovinato la sintassi del

poeta, l'ha deturpata, violentata. Uno che non ha rispetto di

nulla

e di niente. Neanche di me. Soprattutto di me. Raffaella va

velocemente

alle ultime pagine per vedere se c'è il prezzo, se è stato

tagliato

o coperto. No, il prezzo c'è. Guarda meglio. Lo porta vicino

al viso. E improvvisamente se ne accorge. Ci sono tracce di colla.

Il

prezzo era coperto. L'adesivo è stato tolto. È stato Claudio! Non

voleva far vedere il nome del negozio dove questo libro è stato

preso.

Gliel'hanno regalato! Ed è stata quella "F". Quella stronza di

"F". Raffaella mette tutto a posto. Deve escogitare un piano.

Purtroppo

l'unica persona che conosce alla Telecom è il dott. Franchi,

un amico di Claudio. A lei non direbbe mai niente, né le

telefonate

o i messaggi che Claudio manda. Figurati. Quella stupida

solidarietà

maschile. Non parlerebbe mai neanche sotto tortura. Raffaella

il suo telefono l'ha già controllato, più volte. Non un messaggio,

né inviato né ricevuto. Anche le telefonate effettuate, quelle

ricevute

o perse, sono poche. Troppo poche. È un telefonino pulito,

troppo pulito. Quindi è sporco. Ma come può fare? Non è certo come

quel deficiente taccagno di Mellini che per risparmiare aveva

fatto un abbonamento " You&Me", quello dove scegli il numero che

chiami più spesso, e sul contratto aveva fatto segnare

direttamente

il numero dell'amante. Quello è stato un gioco fin troppo facile

da

scoprire. Che poveraccio. Almeno in quello poteva avere un po' di

stile. Dovrebbe essere felice ora, che risparmia su tutto. È stato

lasciato

anche dall'amante. Ma forse l'ha fatto apposta per farsi scoprire.

Quando un marito lascia un messaggio nel telefonino vuol dire

che comunque non gliene frega più niente della moglie. E non sa

come dirglielo. Così si risparmia pure la faticaccia. Che

poveracci

che sono gli uomini. Cioè, per assurdo dovrei essere felice che

leva

il copriprezzo del libro e che mi nasconde tutto... E così, mentre

valuta

disperata questa sua ultima considerazione, improvvisamente

le viene un'idea. Un lampo, un attimo, un'illuminazione. Socchiude

gli occhi e comincia a studiarla in tutti i suoi particolari. E

alla

fine sorride, perché capisce che è perfetta.

Poco più tardi. Claudio rientra a casa. Raffaella gli va incontro

salutandolo.

"Ciao, come stai? È andato bene il lavoro?"

"Benissimo."

"Vieni che t'aiuto."

Claudio si fa sfilare la giacca, ma rimane perplesso. Cos'è questa

improvvisa gentilezza? C'è qualcosa che non va. Avrà scoperto

qualcosa? Un altro problema delle figlie? Tanto vale affrontarla

subito.

Claudio la segue in camera da letto.

"Tutto bene tesoro? C'è qualche problema?"

"No, tutto a posto, perché? Vuoi qualcosa da bere?"

Mi chiede anche se voglio qualcosa da bere. Allora un problema

c'è. E grosso.

"Ma Daniela come sta?"

"Benissimo, ha fatto gli esami. Dovrebbero consegnarglieli proprio

oggi, ma sembra tutto a posto. Ma perché mi continui a fare

tutte queste domande?"

"Sai Raffaella, mi sembri così gentile."

"Ma io sono sempre gentile."

"Ma non così gentile! "

È vero, pensa Raffaella. Cavoli, mi sto tradendo.

"Hai ragione, non ti si può nascondere niente! Mi ero

completamente

dimenticata che mi aveva invitato Gabriella per giocare

a burraco da lei. E invece avevamo detto che forse andavamo al

cinema coi Ferrini. "

"Ah." Claudio sospira, rilassandosi. "Ma figurati, cara, voglio

essere sincero. Me n'ero dimenticato anch'io. Non solo. M'ha

chiamato

Farini che stasera mi dà la rivincita a biliardo, ma ti rendi

conto!

Ormai è sicuro, viene al nostro studio! "

"Bene, sono felice! Allora fatti una bella doccia, così ti

rilassi.

Se perdi di nuovo pensa che lo fai apposta per fargli piacere... e

non è carino ! "

"Hai ragione, stasera lo batto, sono sicuro." Claudio si spoglia

del tutto e s'infila nella doccia. Si rilassa sotto il getto

dell'acqua.

Che bello, pensa, mai niente m'è sembrato così facile. E lei si

sente

perfino in colpa. Posso andare all'Hotel Marsala senza problemi

e godermela fino a tarda notte. Come sono fortunato... E non

sa quanto si sbaglia. Raffaella ha appena messo a punto il suo

piano.

Ora non ha più dubbi. Non è perfetto: è diabolico. Claudio finisce

di fare la doccia. Si asciuga velocemente eccitato all'idea

d'uscire

e la saluta con affetto.

"Ma che fai tu? Non esci?"

"No, noi giochiamo verso le dieci. Così aspetto anche Daniela

che torna, mi fa piacere."

"Hai ragione, salutamela e divertiti."

"Anche tu."

Raffaella lo saluta con un sorriso. Claudio esce di corsa. Ma se

avesse avuto gli occhi anche dietro la nuca avrebbe visto come

quel

sorriso, appena si è voltato, si è tramutato in una smorfia

terrificante.

Quello di una donna che sa il fatto suo. E che andrà fino in

fondo. Raffaella prende il telefono di casa e chiama tutt'e due le

figlie.

Poi tutte le sue amiche più intime, quelle che potrebbero in

qualche modo cercarla sul suo telefonino. A tutte dice la stessa

cosa.

Per tutte inventa la stessa bugia.

Capitolo 67.

Poco dopo sono in macchina con Balestri. Gli ho portato una

birra. Guida allegro e sportivo, non solo per la birra forse.

"Ecco.

Siamo arrivati." Via di Grottarossa. Scendiamo. Alcune macchine

sono posteggiate di fronte alla villa ma non ne riconosco nessuna.

Suona a un citofono. Corsi. Anche il cognome non lo conosco. Guido

mi guarda curioso, sembra divertito.

"Oh, Guido, non è che hai sbagliato indirizzo? Non vedo le

moto di nessuno, Corsi poi? Ma chi è?"

"È questa la villa, fidati. Stai tranquillo. Almeno una persona

sono sicuro che la conosci." Aprono il cancello. Entriamo. La

villa

è molto bella, vetrate coperte da tende dai diversi colori si

affacciano

su tutto il giardino. Una piscina semivuota riposa poco

più in là aspettando i primi di maggio e lì vicino un campo da

tennis

con tanto di terra rossa e rete tirata sembra farle da guardia. Un

cameriere sorridente ci aspetta sulla porta, si fa di lato e ci fa

entrare

richiudendola alle nostre spalle.

"Grazie."

Guido lo saluta. Sembrano conoscersi. "C'è Carola?"

"Certo è di là, venga." Ci accompagna per un corridoio. Quadri

illuminati si alternano perfetti all'interno di un'impeccabile

libreria,

tra libri antichi, vasi cinesi morbidamente colorati e oggetti

di cristallo. Tutti delicatamente incastonati in quel legno

chiaro.

Arriviamo in un grande salotto. Il cameriere si fa da parte. Una

ragazza

ci corre incontro.

"Ciao."

Abbraccia Guido salutandolo affettuosamente ma non sulle

labbra. Deve essere Carola.

"Ce l'hai fatta?" Guido si gira verso di me e sorride come a dire:

"Certo Carola, non vedi che è qui?". Carola mi guarda. Rimane

per un attimo sorpresa. Mi osserva con attenzione come se mi

stesse valutando. Socchiude gli occhi, li stringe come se non

credesse

che io... sono io.

"Ma lui... è lui?"

Guido le sorride. "Sì, è lui."

"Sì, penso proprio di essere io... Di solito mi chiamano Stefano,

Step per gli amici... Ma 'lui' non mi avevano mai chiamato...

Lui? Mi spiegate cosa sta succedendo?"

E improvvisamente da quella porta semichiusa, da quel salotto

fatto di persone sconosciute, di voci lontane e confuse, di libri

antichi, di quadri dipinti dal tempo, sento una risata. La sua

risata.

Di lei che mi è mancata, di lei che ho cercato, di lei sogno di

mille

notti. Babi. Babi. Babi. Babi è seduta su un divano in mezzo al

salotto e tiene banco e racconta qualcosa e ride e tutti ridono.

Mentre

io, da solo, rimango in silenzio. Ecco il momento che ho tanto

atteso. Quante volte in America, frugando nei ricordi, spostando

pezzi dolorosi, macigni di delusioni, sono andato giù, in fondo,

fino

a trovare quel sorriso. E ora eccolo lì, davanti a me. E lo divido

con altri. Tutto ciò che era mio, solo mio. E improvvisamente mi

ritrovo a correre attraverso un labirinto fatto di momenti: il

nostro

primo incontro, il primo bacio, la prima volta... L'esplosione

impazzita

del mio amore per te. E in un attimo ricordo tutto quello

che non ti ho potuto dire, tutto quello che avrei tanto voluto che

tu sapessi, la bellezza del mio amore. Quella avrei voluto

mostrarti.

Io, semplice cortigiano ammesso alla tua corte, inginocchiato

davanti

al tuo più semplice sorriso, di fronte alla grandezza del tuo

regno, avrei voluto mostrarti il mio. Su un piatto d'argento,

allargando

le braccia in un inchino infinito, facendoti vedere il mio dono,

quello che provavo per te: un amore senza confini. Ecco, mia

signora, vedi, tutto questo è tuo. Solo tuo. Oltre il mare e in

fondo,

laggiù, oltre l'orizzonte. E ancora Babi, oltre il cielo e oltre

le

stelle, e ancora, oltre la luna e oltre quel che è nascosto. Ecco,

questo

è il mio amore per te. E altro ancora. Perché questo è solo ciò

che ci è dato di sapere. Io ti amo oltre tutto quello che non ci è

dato

di vedere, oltre quello che non ci è dato di conoscere. Ecco,

questo

e chissà quant'altro ancora avrei voluto dirti. Ma non ho potuto.

Non ho potuto dirti nulla che tu avessi voglia di ascoltare. E

ora? Cosa potrei dire ora a quella ragazza seduta sul divano? A

chi

posso mostrare le meraviglie di quel grande impero che le

appartenevano?

Ti guardo e non ci sei più. Dove sei finita? Dov'è quel

sorriso che mi rendeva naufrago di certezze, ma così sicuro di

felicità?

Vorrei scappare ma non c'è tempo, non c'è più tempo. Eccoti.

Babi si gira lentamente verso di me.

"Step! Non ci credo... Che sorpresa..." Si alza e mi corre

incontro.

Mi abbraccia, mi stringe forte e mi bacia dolcemente. Sulla

guancia. Poi si stacca, non andando troppo lontano però. Mi

guarda negli occhi e sorride.

"Come sono felice di vederti... Ma che ci fai qui?"

Mi viene in mente Carramba che sorpresa! Cosa avrebbe gridato

la Raffa nazionale? Ah sì. "Babi è qui!" Ma non mi dà tempo.

Comincia a parlare. Ride e parla, parla e ride. Sembra sapere

tutto

di me. Sa dove sono stato, cosa ho fatto in America, gli studi, il

mio lavoro.

"E poi sei tornato in Italia i primi di settembre. Il 3 credo per

essere precisi. E non mi hai fatto neanche gli auguri per il

compleanno...

Non ti sei ricordato, eh? Be', ma ti perdono..."

E continua così, ridendo. Il 6 settembre era il suo compleanno

e io, quel giorno, me lo sono perfettamente ricordato, come

sempre.

Come ogni anno, anche in America, come ogni altra cosa che

aveva avuto a che fare con lei, le più belle, le più dolorose. E

lei?

Lei mi perdona. Di che? Di non averla saputa dimenticare?

"Era il 6 settembre! Vedi che non ti ricordi..."

"Ah già, è vero." Le sorrido e la lascio andare avanti. Parla lei

per tutti e due, decide lei, va avanti lei, come ha sempre fatto.

"E poi hai fatto una trasmissione televisiva e poi ho visto quei

giornali. Con quelle foto. Per salvare quella ragazza. Come si

chiama?

Be', ora non mi ricordo. Comunque ti ho cercato ma..."

Per fortuna va avanti. Senza chiedermi il nome. Ginevra. Gin

per gli amici. Dovrei chiamarla. Devo chiamarla. Le ho detto che

ci saremmo sentiti dopo. Magari. Sì, ha detto magari. Mi posso

sempre

attaccare a quel "magari". Spengo il telefonino. Mi giro. Mi viene

d'istinto. Vedo Guido che mi sorride. Se ne accorge e mi fa

l'occhiolino.

Lui perfido Lucignolo, io stupido Pinocchio nelle mani

di una Fata Turchina. Buona o cattiva? E lo vedo andar via.

Chiudersi

la porta alle spalle lasciandomi solo. Solo con lei, con Babi,

solo con il destino del mio passato. Babi che mi prende la mano.

"Vieni che ti presento i miei amici." E mi trascina così, più

ragazza,

più donna, più certa, più matura. Più... più non so che.

"Ecco, lui è Giovanni Franceschini, il proprietario del Caminetto

Blu... Lui invece è Giorgio Maggi, dai, lo dovresti conoscere,

ha quella grande società immobiliare che si occupa di

compravendite.

Dai, che ora sta andando fortissimo: Casa Dolce Casa si

chiama."

"No, non la conosco, mi spiace." E sorrido e saluto come se

m'importasse qualcosa di tutto questo. E altri nomi, e altre

storie.

Titoli commerciali di giovani pseudonobili di questa società che

non ha più nessun titolo... Almeno per me.

"E lei invece è Smeralda, la mia amica del cuore! "

Babi mi si avvicina complice, gatta, fa le fusa e mi suggerisce

calda all'orecchio: "Diciamo che ha preso il posto di Pallina".

E ride. E io sento solo il suo Caronne. E la guardo. Almeno

quello è rimasto. E vorrei dirle: "Chi ha preso invece il posto

mio?".

Il mio posto. Già. Perché pensavi di averne uno? Mi potrebbe

rispondere.

Allora sto zitto. Sto in silenzio. La guardo mentre continua

questo strano ballo di presentazioni. Lei, abile cortigiana, dama

impeccabile di quella sua alta società, della sua corte dorata. E

danza, e ride e manda indietro la testa e cascate di capelli e

profumo

e ancora la sua risata. E ancora... Ancora tu. Ma non dovevamo

vederci più... E sento tutto il mio dolore. Quello che non so,

quello che non ho vissuto, quello che ormai mi manca. Per sempre.

Ma quante braccia ti hanno stretta per diventar quel che sei.

Come hai ragione. Come è vero. Che importa. Tanto lei non me lo

dirà, purtroppo. Così resto in silenzio. E la guardo. Ma non la

trovo.

Allora vado a cercare quel film in bianco e nero durato due anni.

Una vita. Quelle notti passate sul divano. Lontano. Senza riuscire

a farmene una ragione. Graffiandomi le guance, chiedendo

aiuto alle stelle. Fuori, sul balcone, fumando una sigaretta.

Seguendo

poi quel fumo verso il cielo, su, più su, oltre... Lì, dove

proprio noi

eravamo stati. Quante volte ho nuotato in quel mare notturno,

perso

in quel cielo blu, portato dai fumi dell'alcol, dalla speranza di

incontrarla di nuovo. Su e giù, senza sosta. Lungo Hydra, Perseo,

Andromeda... E giù fino a Cassiopea. Prima stella a destra e poi

dritto, fino al mattino. E ancora oltre. E a tutte chiedevo:

"L'avete

vista? Vi prego... Ho perso la mia stella. La mia isola che non

c'è.

Dove sarà ora? Cosa starà facendo? Con chi?". E intorno a me il

silenzio di quelle stelle imbarazzate. Il rumore fastidioso delle

mie

lacrime sfinite. E io stupido che cercavo e speravo di trovare una

risposta. Datemi un perché, un semplice perché, un qualsiasi

perché.

Ma che sciocco. Si sa. Quando finisce un amore si può trovare

tutto, tranne che un perché.

Capitolo 68.

Claudio guida tranquillo. Ogni tanto controlla lo specchietto per

vedere se Raffaella lo sta seguendo. Niente. Nessuna macchina

dietro

di lui, nessun sospetto. Solo una volante della polizia, che a un

certo punto accende i lampeggianti e sgomma. Claudio la vede

sfrecciare

veloce girando a destra, giù per la Cassia. Non l'hanno degnato

di uno sguardo. E ti credo, pensa tra sé, io sono un cittadino

modello,

non ho mai fatto niente di male. E del tutto convinto della sua

completa innocenza scala e prende corso Francia, diretto a tutta

velocità

a via Marsala. Poco dopo è a Porta Pia. Si ferma vicino

all'Europa,

posteggia e tira fuori il telefonino dalla tasca. Lo apre,

controlla.

Niente, nessun messaggio. Con Francesca eravamo rimasti che

ci vedevamo all'albergo alle nove e mezzo. Se ci fossero stati

problemi

o avesse finito prima, mi avrebbe mandato un messaggio. Meglio

così. Meno messaggi ci si manda, meno probabilità si hanno di

essere scoperti. Dopo che Raffaella ha aperto l'estratto conto e

mi

ha fatto quell'interrogatorio di terzo grado sulla stecca da

biliardo,

non posso più telefonare o mandare messaggi dal mio telefonino. È

troppo rischioso. Raffaella sarebbe capace perfino di chiamare

Franchi

e di fare un terzo grado pure a lui. Quello non è abituato a una

belva come lei, solidarietà maschile o meno, alla fine

crollerebbe. Ne

sono sicuro. È meglio se chiamo sempre dall'ufficio e se i

messaggi

li ricevo e basta e poi li cancello. Claudio chiude il telefono e

se lo rimette

nel taschino dove lo tiene sempre. Poi, tranquillo e rilassato,

decide di concedersi una sigaretta. Quando ci vuole ci vuole. Oggi

poi non c'è nessun tipo di ansia. Così Claudio si accende una

bella

Marlboro. Ma se avesse guardato bene il suo telefonino, si sarebbe

accorto che è leggermente più nuovo del solito. È in quel caso non

ci sarebbe stata ansia. Ma vero e proprio terrore.

Beep. Beep. Il suono dell'arrivo di un messaggio. Il telefonino

di Claudio lampeggia sul tavolo. Lo sapeva. Era solo questione di

tempo. Raffaella allora sorride e lo prende in mano. Aspetta un

attimo.

Lo guarda indecisa. Ecco, questo è il momento che potrebbe

cambiare totalmente la mia vita. E pensare che quando Claudio ha

voluto prendere quei due cellulari identici da 3, perché erano in

promozione,

io l'ho tanto criticato. Povero Claudio, pensa, oggi aver

potuto scambiare il mio telefonino con quello che teneva nella

giacca

non ha prezzo. Poi il suo viso cambia improvvisamente,

s'indurisce.

La rabbia lo trasforma. Allora decide di aprirlo. Di scoprire

quella carta, quel messaggio che potrebbe mettere definitivamente

fine alla più importante partita della sua vita. Lo apre e poi

legge.

"Ciao tesoro! Ho finito adesso. Allora ci vediamo lì alle nove

e mezzo, come deciso."

Raffaella strabuzza gli occhi, diventano verdi di bile, gli escono

dalle orbite, dalla rabbia digrigna i denti, affanna nel respiro.

Vorrebbe lanciare il telefonino di Claudio contro il muro, ma sa

che perderebbe ogni traccia di quella "F" di merda, di quella

donna

che si permette di chiamarlo "tesoro". E improvvisamente capisce

l'importanza di quel telefonino, unico indizio, unica prova

per un processo del domani. Una mappa perfetta per poterla portare

ora al "suo" tesoro. Raffaella si ricompone, respira forte, si

rilassa.

Deve ritrovare la lucidità. Deve agire d'astuzia. Prende il

telefonino

di Claudio e scrive lentamente la risposta.

"Devo venire in taxi. Mi hanno preso la macchina a casa. Cosa

dico al tassista?" poi invia. E aspetta. Spera di non aver

commesso

nessun errore, nessun modo di scrivere diverso, che non ci

fosse nessun segnale tra loro, tipo "passo e chiudo" o qualche

altra

stronzata del genere. Claudio è stato attento, ma non è poi così

geniale. Non poteva mai sospettare che io sostituissi il suo

telefonino

col mio. E proprio in quel momento il messaggio di ritorno

arriva.

"Tesoro che fai mi scrivi? Avevi detto che era pericoloso. Non

so la strada esatta, ma basta che gli dici Hotel Marsala e ti ci

porta

di sicuro. A tra poco. Voglio prenderti come l'ultima volta..."

E alla lettura di quest'ultime parole Raffaella si sente quasi

morire.

Le si stringe lo stomaco, le si irrigidisce la mascella, le prende

un attacco di fegato. Poi va al telefono di casa e compone un

numero.

3570. Dopo alcuni secondi la voce della centralinista del

radiotaxi

le risponde.

"Per favore, subito un taxi a piazza Jacini. È urgente. Aspetto

in linea. "

Dopo qualche secondo arriva una voce registrata.

"Venezia 31 in due minuti."

Raffaella attacca per confermare. Poi ci pensa su e le viene quasi

una risata isterica. Venezia 31. A Venezia è stato il loro primo

viaggio. Ed è su un taxi chiamato così che finirà tutto. Poi corre

in

bagno e vomita anche quello che non ha mangiato.

Poco più tardi. Fermo al piazzale di Porta Pia, Claudio guarda

l'ora. Sono le nove. Ho ancora mezz'ora. Ha sete. Decide di andare

a prendere una birra a un bar poco distante. Accende la macchina

e fa un'inversione a U. Anche se ha commesso un'infrazione,

è stato prudente. Aveva controllato che non venisse nessuno. C'era

solo un taxi che arrivava da in fondo la strada. Se fosse stato

attento

avrebbe letto la sua sigla: Venezia 31. Certo, anche quella non

gli avrebbe detto niente. Ma se fosse stato ancora più attento, se

avesse guardato anche dentro al taxi, allora avrebbe capito che

per

lui non c'era più scampo.

Raffaella scende dal taxi, paga ed entra nell'Hotel Marsala. Si

guarda intorno. Un ambiente orribile. Una pianta finta in un

angolo.

A terra un tappeto rosso consumato. Vicino al muro c'è una

vecchia panchina dal legno mangiato. Lì davanti, un tavolino col

vetro rotto e alcune riviste vecchie distrattamente poggiate

sopra.

Un portiere si affaccia dal bancone.

"Buonasera, posso aiutarla? Le serve qualcosa?"

"Il signor Gervasi mi ha consigliato questo albergo. È in camera?"

Il portiere la guarda. Ma è un attimo. Ne ha viste abbastanza

per sapere che a volte è meglio farsi gli affari propri. Poi si

gira.

Controlla nella cassetta delle chiavi. La diciotto è ancora lì.

"No, non è ancora arrivato." Sorride alla signora in maniera

cortese.

"Bene, grazie, allora, se non le dispiace, lo aspetto qui."

Raffaella si siede sulla panchina, stando attenta a non farlo con

troppo slancio. Ci mancherebbe solo questo, cadere e rompersi una

gamba ed essere portata all'ospedale. Ora che sa la verità, che è

arrivata

al capolinea, in fondo alla sua corsa. Questo incontro finale

non se lo vuole perdere per niente al mondo. Raffaella apre un

giornale

e lo sfoglia velocemente. Ma è come se non vedesse le foto, le

scritte, le pubblicità. Solo pagine colorate. Di rosso sangue. E

proprio

in quel momento arriva Francesca. Apre la porta a vetri dell'hotel

ed entra con la sua solita allegria, salutando il portiere.

"Ciao, Pino! Claudio è arrivato?"

Il portiere guarda lei. Poi Raffaella. Risponde quasi balbettando.

"No... ancora no."

"Allora dammi le chiavi, che lo aspetto su."

Il portiere le dà le chiavi numero diciotto e poi decide di andare

nell'altra stanza. In alcuni casi è meglio non aver visto niente.

Raffaella sbatte il giornale sul tavolino e si alza. Va verso di

lei,

si ferma a un passo e la guarda negli occhi. Francesca rimane

senza

parole. Spaventata, fa un passo indietro. Raffaella

improvvisamente

la riconosce. Non ci posso credere. Che stupida che sono

stata. Quella non era una cartolina. Era una foto plastificata. È

lei

quella ragazza sulla spiaggia. Lei è "F".

"Ma che succede?"

Raffaella fa quasi un sorriso di sfida.

"Niente, un controllo. Come ti chiami?"

"Francesca, perché?"

In un attimo quella "F" prende vita. Francesca la stronza.

"Stai aspettando Claudio, vero?"

Francesca non riesce a capire. O forse non vuole capire. Comunque

Raffaella non le dà il tempo. Prende il telefonino di Claudio

e compone il numero, il proprio numero.

"Aspetta, che ora te lo passo."

Claudio ha appena preso una birra, ne sta bevendo un sorso in

macchina, quando quasi si strozza sentendo suonare quel telefonino

dalla tasca. Vibra e suona con uno squillo che però non è il suo.

Lo prende. Lo guarda sorpreso, non capendo. Poi lo apre. E in quel

momento vede quello che non si sarebbe mai aspettato. Il suo nome,

"Claudio", che lampeggia enorme sul display. Ma com'è possibile

che mi sto chiamando? Non capisce più niente. Quello è il

suo ultimo, stupido pensiero, prima di poter realizzare, di

capire,

di cadere nel baratro del dramma. Continua a guardare il suo nome

come ipnotizzato da quello squillo, non capendo che quel suono

è la sua chiamata per un'andata senza ritorno nel mondo degli

inferi. Poi all'improvviso non ce la fa più e decide di

rispondere.

"Pronto?" quasi timoroso, preoccupato di sentire chissà cosa

dall'altra parte. E infatti c'è proprio lei, l'ultima persona che

avrebbe

voluto sentire. Sua moglie.

"Ciao Claudio, aspetta che ti passo una persona."

Claudio resta senza parole, non fa in tempo a dire nulla, mentre

Raffaella poggia il telefonino sull'orecchio di Francesca. Claudio

non può immaginare, non vuole immaginare quale sarà ora la

seconda voce che sentirà... Chi è la persona vicino a sua moglie?

Chi può essere? Allora, completamente disorientato, decide di

ritentare

lo stesso.

"Pronto...?"

"Claudio sei tu? Sono Francesca... c'è qui una donna che mi ha

chiesto..." ma non fa in tempo a finire. Raffaella le leva il

telefonino

dall'orecchio e riparla con Claudio.

"Ti aspetto a casa."

Proprio in quel momento, Claudio passa in macchina davanti

all'Hotel Marsala col telefonino ancora aperto e le vede insieme:

Raffaella e Francesca. Claudio non crede ai suoi occhi, rimane

sbigottito

e accelera, cercando in qualche modo di fuggire. Ma non sa

che da questo momento non ha più scampo.

Francesca si rivolge scocciata a Raffaella.

"Ma scusa, gli stavo parlando, perché mi hai chiuso? Tu sei

maleducata..."

Raffaella le sorride, poi le prende dalle mani le chiavi della

stanza.

Francesca la lascia fare. Il grosso quadrato di legno pesante, con

sopra il numero diciotto attaccato alle chiavi, ciondola dalle

mani

di Raffaella.

"Era questa la stanza dove tu 'prendevi' Claudio?" Francesca

non risponde. Raffaella alza un sopracciglio. "Io non sono

maleducata.

Io sono la signora Gervasi. E tu, tu non sei un cazzo! " e le

dà il quadrato di legno in piena faccia, rompendole il naso e

stampando

per sempre nei suoi ricordi quel numero diciotto.

Capitolo 69.

"Ehi, Step, ma mi stai sentendo?"

"Certo..." Mento.

"Come sono felice di vederti... ma perché non mi hai chiamato

quando sei tornato?"

"Be', non sapevo..."

"Non sapevi cosa?" Ride coprendosi la bocca. Muove i capelli

portandoli all'indietro. "Se sono sola?" Mi guarda. Ora con occhi

più intensi. Senza quel fiore in bocca. Ma non dice altro, e io

ripenso al nostro Battisti. A quando lei si faceva le trecce, alle

sue

guance rosse, alle nostre cantine buie... Al mare nero. Ma non

aspetto

risposta.

"Bevo qualcosa."

E per fortuna trovo subito un rum. Un Pampero, il migliore.

Ne prendo un bicchiere e lo butto giù. Io vorrei... Ne prendo un

altro. Non vorrei... Me lo scolo tutto di un fiato. Ma se vuoi...

Un

altro bicchiere ancora. Come può uno scoglio arginare il mare?

Non ho mai saputo rispondere a quella domanda. Torno da lei, ci

sediamo su un divano. E guardandola trovo la risposta. È

impossibile.

Il mare è infinito. Proprio come i suoi occhi. E il mio scoglio...

Be', il mio scoglio è troppo piccolo. Lei mi guarda e ride.

Ride.

"Hai bevuto, eh?"

"Sì, qualcosa."

E in un attimo siamo lì, all'ombra, come quelle due biciclette

abbandonate. E passa del tempo. Non so quanto. E lei mi racconta

tutto, tutto quello che si può raccontare, che decide di

raccontarmi.

Lei donna. Lei che era chiara e trasparente come me... E prima

che le chieda quante braccia l'hanno stretta per diventar quel

che è, la serata finisce. Proprio come la mia bottiglia. "Ciao

Carola,

ciao ragazzi."

E tutti si salutano, si scambiano baci, appuntamenti, si ricordano

un impegno futuro. E ci troviamo fuori dal portone. Soli, poco

dopo.

"Che fai?"

"Eh, niente. Sono venuto con il mio amico Guido in macchina,

ma lui se ne è andato."

"Non ti preoccupare. Ho io la mia. Ti accompagno io, dai."

E salgo su una Minicooper blu ultimo modello con tanto di stereo

e ed. "Buffo, eh?" Mi guarda mentre guida.

"Ci siamo conosciuti con un passaggio in moto dove io sono

salita dietro di te e ci ritroviamo con un passaggio in macchina

dove

stavolta sali tu."

"Sì, buffo..." Non so cosa aggiungere. Mi chiedo solo se Guido

aveva immaginato anche questo. Lucignolo impeccabile dalla

mente geniale. Rivedo il suo sorriso, l'occhiolino e la sua uscita

di

scena perfetta, da grande confezionatore di destini... Ma perché

proprio il mio.

"Tieni." Babi mi allunga la sua sciarpa.

"Grazie. Ma non ho freddo!"

Ride. "Sciocco." Ora mi guarda più seria. "Mettitela sugli occhi.

Non devi vedere. Ti ricordi, no? Ora tocca a me. E tocca a te

stare al gioco."

Senza parlare me la lego intorno alla testa così come aveva fatto

lei. Quella volta in moto dietro di me. Lei e i suoi occhi

bendati,

volare via tranquilli. Lei abbracciata a me, senza vedere,

lasciandosi

portare verso quella casa ad Ansedonia, il suo sogno, di

notte, quella notte, la sua prima volta... Ora la sento guidare

tranquilla,

alzare un po' lo stereo, lasciarmi portare così dalla musica,

da lei, da quella bottiglia di rum finita dentro di me.

"Ecco, siamo arrivati."

Mi levo la mia sciarpa-benda e nella penombra la scorgo. La

Torre.

"Ti ricordi? Quella volta che ti sei addormentato?"

Come posso dimenticare? Poi quando mi sono svegliato abbiamo

litigato e poi abbiamo fatto pace. Come facevamo pace. Come

si fa pace tra innamorati. E senza neanche accorgermene me la

trovo tra le mie braccia. Eppure non abbiamo litigato. Questa

volta

no... Mi bacia. Morbida, senza pudori, sorride nella penombra.

"Ehi, ma quanto hai bevuto?"

Un po'.

Ma non sembra importargliene poi più di tanto. E continua così,

accarezzandomi. "Mi sei mancato, sai?" Mi sento sciocco, cosa

posso dire? Come posso saperlo? E sarà vero poi? Perché mi dice

così? Perché? E io? Io non so proprio che dire. Vorrei stare

zitto.

Ma mi esce un semplice "Sì?".

"Sul serio." Sorride. Poi mi sbottona la camicia, si spinge oltre.

E continua tranquilla. Senza fretta, ma decisa, sicura, ancora più

sicura, se mi ricordo, di come l'avevo lasciata.

"Vieni esci fuori..."

Quasi mi spinge dalla macchina e ride divertita all'idea che ha

iniziato a piovere. Si apre la camicetta, si toglie il reggiseno,

scoprendosi

il seno. Si lascia accarezzare dall'acqua e poi da me che

scivolo con la lingua sui suoi capezzoli bagnati. Con le mani

sicure

mi apre la cinta, mi sbottona i pantaloni lasciandoli cadere giù,

infila la mano dentro e mi sussurra all'orecchio.

"Eccolo... Ciao... Quanto tempo..."

Spinta come non era mai stata. Non con me almeno. Poi mi bacia

sul petto mentre l'acqua dal cielo continua a cadere. E Babi

scivola

giù lasciandosi portare da quelle gocce fino a trovarlo. E io mi

lascio andare così, portato dal rum, dalla pioggia che cade dal

cielo,

da lei caduta così in basso. E mi piace. E lo fa bene. Mi piace

da morire e ne soffro quasi nell'ammetterlo. Ormai bagnato, tutto

e dappertutto, rapito dalla sua bocca che mi succhia, quasi con

rabbia,

io mi lascio portare. Tutto quel tempo passato. Quel dolore

sofferto... Quella donna perduta... Alzo la testa al cielo. Le

gocce

di pioggia si vedono all'improvviso, accarezzate da quel fascio di

luce di una luna lontana. Vorrei fare come Battisti... "Ma io gli

ho

detto no e adesso torno a te con le miserie mie, con le speranze

nate

morte che io non ho più il coraggio di dipingere di vita..." E

invece

resto. E lei continua così, senza fermarsi, più veloce, con la

sua bocca quasi avida di tutto ciò che è mio. Poi si stacca, si

alza,

mi assale, mi tira a terra e io mi lascio cadere. Mi stendo vicino

a

lei, sotto la pioggia. E mi sale sopra e si alza la gonna e sotto

non

ha già più nulla. Bagnata dappertutto mi allarga le mani ed è

sopra

di me. Comincia a cavalcarmi. L'acqua scende. Mi tengo con le mani

al terreno, mi gira la testa, ho bevuto troppo, lei da lassù

sorride

e gode e mi guarda, vogliosa, sensuale, spinta. E io tocco il

grano

bagnato, l'erba, e la stringo e, per un attimo, non vorrei essere

lì. Ma come... E quel suo sorriso tanto amato? Non era per questo

che sei tornato? E all'improvviso un lampo. Senza luce. Come un

uccello notturno, un battito d'ali, fragoroso nella sua

delicatezza.

La sua voce.

"Mi chiami dopo?"

"Sì, magari ti chiamo."

"Come magari? Mi chiami! Anzi... Chiamami senza chi!"

E allora come dei pixel, dei frame, una foto sovraesposta,

un'immagine

sfocata, una semplice polaroid... Improvvisamente si forma

lucida nella mia mente. Gin. Dolce Gin, tenera Gin, divertente

Gin, pulita Gin. Mi appare tutta, in tutta la sua bellezza. E la

luna

lontana sembra ripropormi un suo nuovo viso. Affranta,

dispiaciuta,

delusa, tradita. E in quel pallore lunare vedo tutto quello

che non avrei mai voluto vedere... Come per incanto la pioggia

si infittisce, i fumi dell'alcol si dileguano. E io,

improvvisamente lucido,

provo a sfilarmi da sotto di lei. Ma Babi mi stringe più forte,

mi tiene fermo, va su e giù, quasi con rabbia, continua la sua

corsa

con ancora più foga, no, non mi lascia scappare. Quasi trascinata

da quel mio voler fuggire, mi cavalca e gode, senza darmi respiro,

né tregua, né riposo. Ancora, ancora e ancora. Si sfila solo

all'ultimo quando ormai io vengo. E soddisfatta, appagata, ormai

sazia, si accascia su di me. Si abbandona così, lasciando lì da

qualche

parte per terra due poveri innocenti. Il mio seme e la mia colpa.

Poi mi dà un bacio leggero, che non so di cosa sappia. So solo

che mi sento ancora più in colpa. E mi sorride, sotto la pioggia,

più

spinta di sempre, più donna di allora. Diversa. Specchio deforme

di ciò che ho tanto amato.

"Sai Step, ti devo dire una cosa..."

Mentre mi rivesto sotto l'acqua, sotto la pioggia che vorrei

purificatrice,

sotto le nuvole scure che mi guardano inquisitorie, sotto

quella luna che sdegnata mi ha voltato la faccia. Lei continua.

"Spero solo che non ti arrabbi."

Continuo a vestirmi in silenzio. La guardo. Io? Arrabbiarmi io?

Ora che non ci sei più? E come potrei arrabbiarmi?

Si porta con tutt'e due le mani i capelli bagnati all'indietro.

Poi

piega la testa, cercando per un attimo di tornare bambina. Ma non

è più possibile. Non ci riesce.

"Ecco... ti volevo dire che tra qualche mese mi sposo."

Capitolo 70.

Notte fonda. Claudio ha girato per tutta Roma. Non riesce a

credere a come si è fatto fottere. Come ha fatto a non accorgersi

che non era il suo telefonino, ma quello di sua moglie. D'altronde

sono identici. Mannaggia a me e a quando ho dato retta a quella

pubblicità. Era una trappola. Ho risparmiato, sì... ma ora quanti

danni mi toccherà pagare? E per quanti anni? Non riesce a

quantificare

tutto quello che lo aspetta. Ma tanto vale affrontarlo. Ormai *

sono le due. Saranno anche tutti andati a dormire, no? Posteggia

sotto casa, fuori dal cancello, proprio per non far sentire

che rientra. Poi corre su per la salita col passo felpato, nella

notte,

apre piano il portone, lo richiude sempre senza far rumore. Poi

la porta di casa, piano piano, lentamente, piegando la maniglia

della porta interna con dolcezza, per non far rumore. Ma lo scatto

finale lo tradisce.

"Papà, sei tu? " Daniela compare dal salotto. "Ciao! Ti ho

aspettato

in piedi perché sono felicissima! Ho fatto gli esami, mi hanno

dato oggi tutte le risposte. Il bambino sta bene e soprattutto non

ho l'Aids!"

Ma Claudio non fa in tempo a esserne felice. Dal buio della cucina

;

gli si scaraventa addosso Raffaella, lo aggredisce da dietro,

montandogli quasi a cavalcioni, urlando, graffiandogli con le

unghie

le guance, accecandolo, strappandogli i capelli, mordendogli

le orecchie. Raffaella è una specie di arpia, uno strano volatile

urlante

aggrappato sulla sua schiena. Ha le gambe strette intorno alla

sua vita e non lo molla. Claudio comincia a urlare pure lui dal

dolore e corre come un pazzo per il corridoio, sotto gli occhi

esterrefatti

di Daniela che non sa assolutamente nulla e che pensava di

poter dividere coi genitori la sua felicità. Claudio, arrivato

alla fine

del corridoio, si gira di botto e si lancia con una spallata

dentro

al grande armadio, sfondandolo con tutta l'arpia sulle spalle.

Finisce

sotto cappotti, pellicce e altri abiti che cadono dalle

rastrelliere.

In mezzo a quell'odore di naftalina, alle scatole di scarpe, ai

tanti

regali di feste passate ormai andate perdute. Claudio si riesce a

liberare da Raffaella, si tira fuori dall'armadio e corre in

camera

sua. In quel momento esce Babi dalla sua stanza.

"Ma che succede? Che, ci sono i ladri?" Poi vede il padre in

faccia,

tutto insanguinato. "Ma che ti è successo? Che ti hanno fatto?"

In quel momento arriva Raffaella.

"Che gli hanno fatto? Che ci ha fatto! Erano mesi che scopava

con una brasiliana in un albergo alla stazione ! " e così dicendo

strappa

via dall'armadio, distrutto, un pezzo di anta e cerca di colpire

Claudio che si chiude in camera. Tira fuori la sua valigia. Poi

apre

l'armadio ma non crede ai suoi occhi: tutte le camicie, le

giacche,

i pantaloni, i maglioni e tutti i completi sono strappati,

tagliati, lacerati.

Una specie di grande, immenso armadio di coriandoli di

classe. Claudio allora prende l'unica cosa che gli è rimasta. Apre

la

porta ed esce dalla stanza. Babi gli corre incontro.

"Papà, ma dove vai?"

"Me ne vado. M'avete rotto i coglioni tutti. Non capite quando

una persona ha bisogno di libertà..."

Raffaella gli piomba da dietro e lo colpisce alle spalle, tra

collo

e nuca, col pezzo dell'anta dell'armadio. Ma Claudio è più veloce

e ci mette in mezzo il libro di Gozzano, Poesie. E poi dicono

che la letteratura non aiuta. Così corre via, attraversa il

corridoio e

fa per uscire di casa. Ma Babi lo raggiunge sulla porta.

"Papà, ma a me chi mi accompagnerà all'altare?"

"Mamma. Ha sempre deciso tutto lei. Che si occupi pure di

quest'ultima rottura di coglioni!"

E così dicendo si libera anche di lei. E scende di corsa le scale.

Pffiuu. Claudio tira un sospiro di sollievo. Pensavo peggio.

Scende

le scalette del portone quando improvvisamente gli piomba addosso

un'altra persona.

"Ah!" Claudio si mette in posizione di difesa. Ma è Alfredo,

l'ex di Babi, completamente ubriaco con una bottiglia in mano.

"Signor Gervasi, lei mi deve aiutare, guardi come sto! Non può

far sposare Babi con questo Lillo solo perché guadagna più di me

e come? Vendendo mutande! Ma non se ne vergogna? E tutta la

nostra amicizia? I giorni passati a tavola? Dove li mette, eh?

Dove

li mette? Lei se ne pentirà! Ha capito?"

Claudio lo guarda e sorride sfinito.

"Non sono riuscito a salvare il mio matrimonio, figurati se mi

devo preoccupare di quello degli altri."

"Ah sì? Allora ora le faccio vedere io! " Alfredo avanza. Agita

minaccioso la birra, facendola roteare e andandogli contro.

Claudio

non ha più dubbi. Gli sferra un calcio in mezzo ai coglioni.

Alfredo

si accascia a terra e si piega su se stesso, dolorante. Claudio

dà un calcio alla birra, mandandola lontana.

"Non ho avuto problemi con Step, figuriamoci se mi preoccupa

uno come te!"

E se ne va via felice, guardando le stelle, sognando la nuova vita

che lo aspetta e un po' preoccupato per tutti quei vestiti che si

dovrà ricomprare.

Capitolo 71.

"Sì, pronto?"

"Ehi, ma che fine hai fatto ieri sera? Ti ho chiamato un sacco,

ma prima non prendeva, poi dava staccato."

Gin. Mi sento morire. Perché ho risposto al telefonino?

"Eh sì... siamo andati con Guido a mangiare in un locale, ma

non mi ero accorto che lì non prendeva. Era sotto."

Non so più che dire. Mi viene da vomitare. E lei, cosa assurda,

mi salva.

"Sì, sottoterra. Ho provato un po', poi mi sono addormentata.

Oggi non ci possiamo vedere. Che pizza ! Devo accompagnare mia

madre da una zia fuori Roma. Ci sentiamo dopo? Io non lo stacco,

eh? Dai scherzo! Un bacio bello e dopo, quando sei sveglio, uno

ancora più bello!"

E chiude. Gin. Gin. Gin. Con la sua allegria, Gin con la sua

voglia

di vivere. Gin con la sua bellezza. Gin con la sua purezza. Mi

sento una merda. Sto di merda. Vuoi il rum, vuoi tutto il resto.

Mamma quanto ho bevuto. Quanto avevo bevuto può essere preso

come giustificazione? Non è sufficiente. Ero capace di intendere

e di volere. Di dire di no fin dall'inizio, di non andare con lei,

di

non mettermi la sciarpa, di non baciarla. Colpevole! Senza ombra

di dubbio. Ma un'ombra ce l'ho. E se avessi sognato? Scendo giù

dal letto. Quei vestiti poggiati sulla sedia ancora bagnati di

pioggia,

quelle scarpe ancora sporche di fango non lasciano più dubbi.

Altro che sogno. È un incubo. Colpevole. Colpevole oltre ogni

ragionevole

dubbio. Cerco nella testa una frase, parole a cui aggrapparmi.

Perché attorno a me non trovo nulla? Mi viene in mente

qualcosa che mi disse una volta il prof di Filosofia: "Il debole

dubita

prima della decisione; il forte dopo". Mi pare fosse di Kraus.

Quindi secondo lui io sarei forte. Eppure mi sento così stupido e

debole. E così stupido artefice di questa mia condanna mi trascino

in cucina. Un po' di caffè mi aiuterà. Passerà un giorno e poi un

altro e poi un altro ancora. E poi tutto questo sarà lontano, sarà

del

passato. Mi verso del caffè già pronto. È ancora caldo. Deve

averlo

lasciato Paolo prima di uscire. Mi siedo al tavolo. Ne bevo un

po', mangio un biscotto. Poi vedo un biglietto. La scrittura la

riconosco.

È di Paolo. Perfetta e ordinata come sempre. Questa volta

però mi sembra solo un po' traballante. Forse era stanco e lo ha

scritto di corsa. Lo leggo. "Sono andato con papà all'ospedale

Umberto

I. Mamma è stata ricoverata lì. Vieni presto per favore." Ora

capisco la scrittura incerta. Si tratta di mamma. Lascio il caffè

e mi

vado a fare veloce una doccia. Sì, ora mi ricordo. Paolo me ne

aveva

parlato, ma non mi sembrava particolarmente preoccupato. Mi

asciugo, mi vesto e dopo pochi minuti sono già sulla moto. Un po'

di vento in faccia mi fa riprendere subito. Va tutto bene. Va

tutto

bene, Step. È quel "vieni presto per favore" che mi fa stare male.

Capitolo 72.

"Mi scusi, sto cercando la signora Mancini, dovrebbe essere

ricoverata

qui da voi."

Un infermiere svogliato dall'aria annoiata sottolineata da una

sigaretta che penetra dalle sue labbra poggia un "Corriere dello

Sport" aperto su chissà quale acquisto e butta un occhio al

computer

che ha davanti.

"Mancini hai detto?"

"Sì."

Poi mi viene in mente che potrebbe aver usato il cognome da

giovane. Non mi viene da non sposata. Qual era? Ah sì.

"Potrebbe essere anche Scauri."

"Scauri? Sì, eccola qui. Scauri. Secondo piano."

"Grazie."

Faccio per cercare nel reparto. Ma appena supero la sua

postazione,

l'infermiere annoiato sembra essersi svegliato di botto e

mi si para contro. "No, non puoi andare. Le visite sono alle

quindici."

Guarda l'orologio alle mie spalle. "Tra un'ora circa, devi stare

fuori."

"Sì, lo so, ma mia madre..."

"Lo so. Non me ne frega niente di tua madre. Alle quindici vale

per tutti. "

E in un attimo rivedo il biglietto di Paolo. "Vieni presto per

favore."

E poi non ci vedo più. Lo afferro alla gola con la mano destra

e lo spingo con tutto il peso fino a trovare il muro più vicino e

lì lo

spalmo. Mi poggio con la mano aperta sulla sua gola con tutto il

mio peso.

"Devo vedere mia madre. Ora. Subito. Non voglio creare incidenti.

Non mi fermare. Per favore..."

Uso la stessa parola usata da Paolo sperando che possa ottenere

qualche risultato. L'infermiere vuole dire qualcosa. Allento la

presa.

L'infermiere riprende fiato e bofonchia "Secondo piano". Poi

tossisce.

"Letto centoquattordici." Tossisce di nuovo. "Vai pure."

Grazie!

Mi allontano così, velocemente, prima che ci ripensi, prima che

dica o faccia qualcosa di giusto che però, in questo momento, mi

sembrerebbe profondamente sbagliato. Come fermarmi di nuovo.

Troppo profondamente sbagliato. Centoventi, centodiciannove.

Destra e sinistra. Avanzo così tra alcuni letti, tra alcune

persone distese,

tra alcune vite abbandonate sulla soglia di un più o meno felice

baratro. Un vecchio sdentato mi accenna un sorriso. Abbozzo

una risposta ma non mi viene granché. Centosedici. Centoquindici.

Centoquattordici. Eccolo. Quasi ho paura ad avvicinarmi. Mia

madre. La vedo lì, distesa tra le lenzuola, pallida, piccola come

non

mi era mai sembrata. Mia madre. Sembra avere avvertito qualcosa,

un leggero rumore che però non ho fatto. Forse solo un battito

accelerato, quello del mio cuore nel trovarla così. Si gira verso

di

me e sorride. Si aggiusta alzandosi sui gomiti, spostando indietro

la schiena. Ma un dolore improvviso le dipinge il viso facendole

passare quell'idea dalla testa. Si affloscia così, ricadendo sul

cuscino,

guardandomi imbarazzata per quel tentativo fallito. Le corro

subito vicino. La prendo delicatamente da sotto la schiena e la

tiro

piano verso il capezzale. L'aiuto stando bene attento a non urtare

tutti quei fili che penzolano giù con chissà quale medicina,

perdendosi

nelle sue braccia. Il suo viso è attraversato da una smorfia,

dipinto del dolore. Ma è solo un attimo. È passato. Mi sorride

mentre

prendo una sedia libera da un letto lì vicino e mi metto accanto

a lei, al suo capezzale per non farla parlare ad alta voce, per

non

farla stancare, non più.

"Ciao."

Prova a parlare ma io le faccio "Shh" portando l'indice alla

bocca.

Rimaniamo così in silenzio per qualche attimo. Poi sembra stare

meglio.

"Come stai, Stefano?"

È assurdo. Lei che lo domanda a me. Un suo sorriso delicato.

Mi guarda cercando risposta. Provo a parlare ma non mi escono le

parole.

"Bene." Riesco a dire prima che accada. Una parola di poco

più lunga si sarebbe rotta tra le mie labbra, come un fragile

cristallo.

Il mio dolore sarebbe andato in mille pezzi, in frantumi, come

uno specchio sottilissimo con riflessa tutta la nostra vita,

quella

mia e di mia madre. Insieme. Le sue parole, i suoi racconti, le

sue risate, i suoi scherzetti, le sue corse, le sue sgridate. Il

suo cucinare,

il suo farsi bella. Scivolano così via, senza possibilità di

essere

trattenute, come gocce d'acqua sul vetro di una macchina in

corsa, sul finestrino di un aereo in partenza, in caduta libera da

una

doccia di mare lasciata aperta e spazzata dal vento. Mamma. Come

lei ha fatto tante volte con me, mi viene naturale. Le prendo la

mano. Lei me la stringe come risposta. Sento le sue dita più

magre,

alcuni anelli più liberi, la pelle quasi posata a caso su quelle

ossa

sottili. Porto la sua mano alla mia bocca e la bacio. Ride,

leggera.

"Cos'è, il bacio del perdono?"

"Shh." Non voglio parlare. Non ce la faccio a parlare. "Shh."

Poggio la mia guancia sul dorso della sua mano. Mi lascia

tranquillo

su quell'umano cuscino piccolo ma pieno d'amore. Il mio, il suo?

Non so. Rimango lì a riposare, con gli occhi chiusi, con il cuore

tranquillo, con le lacrime sospese, in silenzio. Mi accarezza la

testa

con l'altra mano e gioca un po' con i miei capelli.

"Hai letto il libro che ti ho regalato?"

Faccio cenno di sì con la testa oscillando leggero sulla sua mano,

il mio cuscino. La sento sorridere.

"Hai capito allora che può succedere? Tua mamma è una donna,

una donna come tutte... Come tutte? Forse più fragile."

Rimango in silenzio. Cerco un aiuto, qualcosa, non ce la faccio.

Mi mordo il labbro inferiore e trattengo le lacrime. Aiuto. Chi mi

aiuta? Mamma aiutami. "Ho sbagliato, è vero, e il Signore ha

voluto

che proprio tu lo scoprissi. Ma è stata una punizione troppo

grossa. Perdere per quest'errore mio figlio."

Mi alzo di scatto e riesco a sorriderle, tranquillo, forte, come

mi vuole lei, come mi ha fatto lei, mia mamma.

"Ma non mi hai perso. Sono qua."

Mi sorride. Riesce a stendere il braccio e a farmi una carezza

sulla guancia. "Ti ho ritrovato allora."

Le sorrido e faccio cenno di sì con la testa.

"E ti perderò di nuovo."

"Ma perché? No... vedrai che andrà tutto a posto."

Mamma chiude gli occhi e scuote la testa.

"No. Me l'hanno detto. Ti perderò di nuovo."

Fa una pausa e mi guarda. Poi sorride piano piano. Vedo sul

suo viso la felicità di avermi accanto e poi, invece, il dolore

che le

viene da dentro. Improvviso. Una piccola smorfia. Chiude gli

occhi.

Poco dopo li riapre, di nuovo serena. Il dolore è passato. Mi

guarda e sorride.

"Ma stavolta non sarà per colpa mia."

Rimango in silenzio. Vorrei trovare qualcosa da dire, tornare

indietro, laggiù. Scusarmi per tutto quel tempo passato. Vorrei

non

essere mai entrato in quella casa, non averla vista con un altro

uomo,

non averla disturbata, non averne sofferto, essere stato prima

capace di capire, di accettare, di perdonare. Invece no. Non

riesco

a parlare. Non so fare altro che stringerle la mano, leggermente,

con la paura che tutto si possa di nuovo spezzare. Ma lei mi

salva,

mi aiuta, ancora una volta. D'altronde è mia madre. Mamma.

"Parliamo di ciò che ci ha allontanato."

Mi coglie di sorpresa. Rimango in silenzio.

"Non facciamo finta di niente. Credo che non ci sia nulla di

peggio che far finta di niente. Se sei qui, vuol dire che in

qualche

modo lo hai superato."

Niente, non parlo. Allora cerca di aiutarmi.

"Be', non credo comunque che sei andato fino in America per

colpa mia, no?" Sorride. E quel suo sorriso rende tutto più

facile.

"Avevo voglia di un po' di vacanza."

"Due anni? Te la sei presa comoda. Comunque mi dispiace per

quello che è successo. Tuo fratello non ha capito nulla. Tuo padre

invece non ha voluto capire. Ci sarebbe dovuto essere lui al tuo

posto.

Erano successe cose..." si ferma. Improvvisamente una fitta di

dolore attraversa il suo sorriso. Come un'onda leggera venuta da

chissà dove. Poi sparisce di nuovo e mamma riapre gli occhi. E

torna

a cercare il sorriso. Lo trova.

"Vedi, non devo parlare. Meglio così. Almeno di lui ti rimarrà

sempre un bel ricordo. Sono io la colpevole, quella che ha

rovinato

tutto, ed è giusto che io paghi." Un'altra fitta. Sembra più forte

questa volta. Mi avvicino a lei.

"Mamma..."

"Non è niente, sto bene, grazie..." Fa un lungo respiro. "Mi

danno queste medicine così forti. A volte è come se non ci fossi.

Sogno anche se sono sveglia, non sento più niente. È bello.

Dev'essere

una droga. Ora capisco perché voi ragazzi ne prendete così

tanta. Fa dimenticare qualsiasi tipo di dolore. "

"Io però non l'ho mai fatto."

"Lo so. Hai saputo vivere vicino al tuo dolore. Ora basta però.

Non gli permettere più nulla. Fatti restituire la tua vita."

Restiamo per un po' in silenzio.

"Mi sei mancata, mamma."

Poggia la sua mano sulla mia e me la stringe. Cerca di farlo con

forza, ma la sento debole, fragile. Guardo la sua mano. È magra.

Ha perso molto di quella vita che lei stessa generosamente mi ha

dato. Poi mi lascia andare.

"Comunque, Stefano, non volevo parlare di me."

"Cosa vuoi sapere?"

"Mi ricordo che quando ero molto giovane, più piccola di te,

avevo avuto un ragazzo che mi piaceva tantissimo. Ero convinta

che avrei diviso tutta la mia vita con lui. Invece si è messo con

la

mia migliore amica e io ero come impazzita. Dovevi vedere i miei

genitori. Alla fine me ne sono fatta una ragione. E subito dopo ho

incontrato tuo padre. Vedi, sono stata felice che la mia prima

volta

fosse stata proprio con lui... Ecco, ciò che in un momento preciso

ci sembra così perfetto, col passare del tempo può non esserlo

più. Magari capiamo che non era poi così perfetto e anche se lo

abbiamo perso non è detto che non possiamo trovarlo ancora, o

addirittura trovare qualcosa di meglio."

Rimane per un po' in silenzio, mi sorride. Mi vorrebbe felice.

Vorrei tanto esserlo. Anche per lei.

"Ho conosciuto una ragazza."

"Ecco, era questo che volevo sentirti dire. Mi racconti com'è?"

"È divertente, è bella, è strana. È... particolare."

Proprio in quel momento: "Step!".

Martina, quella "sgnappetta" di undici anni conosciuta a piazza

Jacini, compare sulla porta.

"Non ci posso credere!"

"Oddio..." Mia madre rimane senza parole. "Non mi dire che

è lei la ragazza 'particolare' con la quale ti vedi ora? ! " Poi

comincia

a ridere. E alla fine tossisce e di nuovo viene rapita da una

fitta

di dolore. Ma passa subito. E torna ad aprire gli occhi. E sorride

subito.

"Martina, che ci fai qui?"

"Qui lavora mia madre, eccola."

Entra una bella donna con un camice bianco.

"Salve. Io sono la caposala e dovrei cambiare le flebo della

signora

e comunque questa non è l'ora delle visite."

"Sì, lo so, scusi."

"Ma mamma, lui è un mio amico, hai capito chi è, è Step, quello

della scritta sul ponte di..."

"Martina, accompagna fuori il signore. Faccio il mio servizio

e poi la faccio rientrare un attimo per salutare la sua parente,

va

bene?"

"Grazie."

Faccio per uscire dalla stanza quando mamma mi richiama.

"Stefano, mi puoi fare una cortesia? Mi puoi portare un bicchiere

d'acqua?"

"Certo" ed esco con Martina.

"Ma quella signora chi è?"

"Mia madre."

"Sta molto male?"

"Credo di sì, non ho ancora capito bene."

"Se vuoi chiedo meglio a mia madre. Lei sa tutto. Mia madre è

pazzesca sul lavoro. Oggi non poteva lasciarmi a casa e allora mi

ha fatto venire qui. Allora, vuoi che glielo chiedo?"

"No, Martina, lascia stare."

Ci rimane un po' male. Cammina vicino a me in silenzio.

"Dai, fammi vedere invece dove posso prendere l'acqua."

"Certo!" Si accende di nuovo. "Vieni, passiamo di qua che si

fa prima." Poco dopo rientriamo nella stanza. La caposala finisce

di controllare l'ultimo tubicino. Dà una schicchera precisa su una

bottiglietta rovesciata, controllando che il liquido cominci a

scendere.

Le sembra tutto ok.

"Bene. Signora, passo di nuovo verso la mezzanotte." Poi va

verso l'uscita. "Lei può rimanere altri cinque minuti."

Grazie.

"Vieni, Martina, andiamo." Prende la figlia per il braccio per

essere sicura che esca dalla stanza.

"Ahia, mamma, e non mi tirare! Vengo! Ciao Step, ci vediamo."

La saluto con la mano e riprendo posto vicino al letto. Poso il

bicchiere d'acqua sul suo comodino.

"Grazie, Stefano. Allora, non sapevo avessi delle fan. La caposala

mi ha raccontato, Martina e le sue amiche sono letteralmente

impazzite per la tua scritta."

"Già, non credevo di diventare famoso per questo. E dire che

non l'ho neanche firmata! "

Mia madre ride. "Ma le voci girano, che non lo sai? Si sa sempre

tutto. E lei? Lei che stava con te... tre metri sopra il cielo...

che

dice?"

"L'ho vista ieri."

"Che vuol dire che l'hai vista ieri? Ma scusa, non ti stai vedendo

con l'altra?"

Rimango in silenzio. Mamma allarga le braccia.

"Be', certo... Ora che ci penso, sono la persona meno adatta a

dirti qualcosa, no?"

Ci guardiamo. Poi all'improvviso ci mettiamo a ridere. Sembra

stare meglio. La medicina ha fatto effetto.

"Non so cosa hai fatto, ma vuoi un consiglio? Non dire niente

all'altra. Neanche che l'hai vista. Supera da solo in silenzio il

tuo

errore. Spero che quello che ho combinato io allora non sia una

cosa

ereditaria, sennò mi dovrei sentire in colpa anche per i tuoi di

errori."

"No, mamma, lascia perdere, già mi sento in colpa io. Ho tanto

desiderato incontrarla di nuovo, c'ho pensato giorno e notte, ho

sempre immaginato quel momento, come sarebbe stato..."

"E com'è stato?"

"Io e te... tre metri sotto terra! "

"È che a volte facciamo delle cose così stupide. E non quando

siamo innamorati ma quando pensiamo di esserlo." Rimaniamo in

silenzio.

"Be', meglio così. Almeno una cosa te la sei chiarita. La storia

passata è passata. Finita. Non potevi evitarlo, credo."

"Invece avrei dovuto, e come se non bastasse... si sposa."

"Ah, andiamo bene. È per questo che sei rimasto male?"

"No. L'assurdo è che non me n'è fregato niente. M'è sembrata

un'altra persona, una che non aveva niente a che fare con me, con

tutto quello che mi ricordavo, non era più quella ragazza che mi

era tanto mancata, per la quale ero stato così male. E la cosa

assurda

è che si sposa e che me l'ha detto quando era già tutto successo.

Mi sono sentito ancora più in colpa."

"Per quello che ti aveva detto?"

"No, per l'altra ragazza. Per quanto è diversa da lei e per quanto

non se lo merita."

Mia madre mi guarda. Poi sorride. E torna proprio a essere

quella mamma che mi è tanto mancata.

"Stefano, alcune cose devono capitare e sai perché? Perché se

fosse successo più in là poi non sarebbe stato più possibile

mettere

tutto a posto. Di questo, purtroppo, ne sono sicura."

Rimaniamo così per un po', in silenzio.

"Be', ora vado. Non voglio che torni la caposala e mi veda ancora

qui. "

"Io al posto tuo sarei più preoccupato se tornasse la piccola

fan."

"Ah, questo è sicuro! "

Le do un bacio sulla guancia. Lei mi sorride.

"Vienimi di nuovo a trovare."

"Certo, mamma."

Raggiungo la porta e mi giro di nuovo per salutarla. Mi sorride

da lontano e alza la mano. Fa anche l'occhiolino. Forse per farsi

vedere più forte.

"Stefano..."

"Sì, mamma, dimmi. Hai bisogno di qualcosa?"

"No, grazie, ho tutto. Bentornato."

Capitolo 73.

Ormai è il tramonto. Citofono. Qualcuno mi viene a rispondere.

"Mi scusi, c'è Ginevra?"

"No. È in chiesa, qui vicino, a San Bellarmino. Ma chi parla?"

Mi allontano. Non ho voglia di rispondere. Maleducato per una

volta. Perdonatemi anche voi. Ma oggi me lo posso permettere.

Entro

in chiesa in silenzio. Non so che dire, che fare, se pregare e

perché

poi. Ora no. Ora non ci voglio pensare. Alcune signore anziane

in ginocchio rivolte verso l'altare. Hanno tutte in mano il

rosario.

Lo muovono ogni tanto nervose tra le mani pronunciando parole

al Signore, preghiere che sperano Lui possa esaudire. Lui può,

certo. Ma chissà se ne ha voglia. Chissà se lo riterrà giusto,

sempre

che una giustizia ci sia. Ma non ci voglio pensare. Ho altro da

fare.

Io ho il mio peccato. Per me è tutto più facile. Eccola. La vedo

di spalle. Non è inginocchiata ma prega. Dice qualcosa comunque,

di sicuro anche lei al Signore. Mi avvicino piano.

"Gin?"

Si gira e mi sorride. "Ciao... Che bella sorpresa... stavo

ringraziando

il Signore. Sai..." Si porta la mano sulla pancia. "È tutto a

posto. Ero così preoccupata... cioè non è che non volessi... Ma

così

per caso, mi sembrava brutto. Una cosa così importante, così

bella,

avere un figlio..."

"Shh" le faccio. Le do un bacio leggero sulla guancia. Mi avvicino

poi al suo orecchio e tutto d'un fiato, senza più aspettare, senza

paura, io salto. Le racconto tutto, le sussurro il mio peccato,

lentamente,

sperando che capisca, che possa capire, che mi possa perdonare.

Ho finito. Mi tiro indietro. Lei mi guarda in silenzio. Io la

guardo. Non ci crede.

"È uno scherzo?" Prova a sorridere.

Scuoto la testa. "No. Perdonami Gin."

Mi inizia a colpire con tutti e due i pugni con rabbia, piangendo,

urlando, dimenticandosi di essere in chiesa, o forse, ancora più

giustificata per questo. "Perché? Perché? Dimmi perché? Perché

l'hai fatto? Perché?" Continua così, disperata, cade in ginocchio

e

continua a piangere, singhiozzando, cercando quella risposta che

io non ho. Poi va via correndo, lasciandomi lì, in quella chiesa

ancora

più vuota, sotto gli sguardi di quelle signore anziane che per

un attimo hanno dimenticato le loro preghiere e si occupano di me.

Le guardo e allargo le braccia. Magari voi poteste perdonarmi. Ma

non potete, voi no. Contro di voi, non ho peccato. Ho solo forse

dato un po' fastidio... Sì, per questo forse potete perdonarmi. Si

girano

di nuovo verso l'altare e riprendono in silenzio le loro

preghiere.

Forse mi hanno perdonato. Almeno loro. È con lei che sarà

più difficile.

Capitolo 74.

Qualche giorno dopo. Casa Gervasi è al buio. Un silenzio e una

tranquillità che da tempo non si concedeva. Del profumo leggero

di fiori. Babi guarda in cucina e si accorge che ci sono diversi

bouquet

da sposa per la prova.

"Vattene Lillo, non devi vedere! Rovini tutto, dai. Così ogni cosa

sarà una sorpresa per te. Non è più bello?"

"Speravo che potessimo stare un po' insieme, con tutta questa

preparazione si perde un altro tipo di allenamento."

"Più tardi magari, credo che ci siano i miei. Dai, vai a casa,

magari

dopo ti avviso. Se escono passi tu, sennò vengo io da te, va bene?

"Ok, come vuoi."

Babi dà un bacio leggero al suo futuro sposo. Lillo, leggermente

imbronciato, sorride, poi scende velocemente le scale e sparisce

nel

pianerottolo. Babi chiude la porta.

"Mamma... sei in casa?"

"Sono qui, in salotto."

Raffaella è seduta su un divano, ha le gambe allungate e beve

un tè verde che naturalmente oggi va molto di moda. Babi la

raggiunge.

Le tapparelle sono abbassate. Un pendolo leggero tiene il

tempo che passa. Qualche rumore dalla strada come un'eco lontana

e nulla più. Babi si siede sul divano di fronte a lei.

"Sai, mamma, pensavo una cosa... Noi non sappiamo niente di

cosa accade veramente nelle altre famiglie, come sono diverse, che

storia hanno..."

"Be', non lo so, ma di certo non possono superarci."

Si guardano e improvvisamente si mettono a ridere.

"No, questo proprio no. Ti devo dire una cosa. Ho visto Step

ieri sera. "

Raffaella torna seria.

"Perché me lo dici?"

"Perché avevamo deciso di dirci tutto." La mamma rimane lì a

pensare.

"Sì, proprio l'altro giorno mettevo a posto la tua stanza e ho

trovato il poster che ti aveva portato, quello che hai tenuto per

tanto

tempo attaccato sul tuo armadio. Dove facevate 'la pinna' come

la chiamate voi."

"Sì, me lo ricordo. Lo hai buttato?"

"No, quando sarà il momento lo butterai tu."

Uno strano silenzio tra loro, improvvisamente spezzato da Babi.

"Ieri ho fatto l'amore con Step."

"Lo dici apposta, eh? Vuoi stupirmi, mi vuoi sorprendere?"

Raffaella si alza, perde per un attimo la sua calma.

"Forza, dimmi la verità! Cosa vuoi da me, eh? dimmelo, cosa

vuoi?" Sembra volerla prendere a schiaffi, scuoterla con violenza.

È vicina, troppo vicina. Babi alza lo sguardo e le sorride

tranquilla,

serena.

"Cosa voglio da te? Figurati... Non so neanche cosa voglio da

me. Pensa se posso sapere quello che voglio da te. E poi tu quello

che potevi darmi me lo hai già dato."

Raffaella si rimette seduta. Un respiro lungo. Torna calma.

Rimangono

per un attimo in silenzio sedute su due divani. Figure

femminili di età diversa ma molto simili in tante cose, in troppe

cose.

Poi Raffaella sorride.

"Stai bene con questo nuovo taglio di capelli."

"Grazie, mamma. Come va con papà?"

"Bene. Figurati... tornerà. Ha voluto dimostrare qualcosa a se

stesso, ma tornerà. Non è capace di stare lontano. Lui non è un

problema. Piuttosto tu, che hai deciso?"

"Io? Su che cosa?"

"Ma come su che cosa? Dimmi che devo fare. Stasera vado alla

festa dei De Marini. Magari qualche amica mi chiede qualcosa,

vorranno sapere. Mi hai detto che hai visto Step ieri sera.

Allora?

Cosa hai deciso? Ti sposi lo stesso?"

"Certo. Perché non dovrei?"

Raffaella fa un sospiro, ora è più tranquilla. Tutto tornerà a

posto.

È solo questione di tempo e tutto tornerà perfetto come prima,

anzi meglio di prima.

Un nipote di chissà chi, un matrimonio come si deve e un marito

in punizione per un po'. Sì, tutto tornerà perfetto. Raffaella si

alza dal divano.

"Bene, allora posso andare. Stasera giochiamo a burraco. Ci sai

giocare?"

"No, ho visto che giocavano a casa della Ortensi ma non mi sono

seduta."

"Devi provarlo, è molto meglio del gin. È più divertente. Un

giorno che ho un po' di tempo te lo insegno, vedrai che ti

piacerà."

"Va bene."

Raffaella la bacia e fa per andar via.

"Mamma..."

"Sì, dimmi."

"C'è un altro problema."

Raffaella rientra nel salotto.

"Sentiamo."

"C'ho pensato. Però non ti devi arrabbiare. Io non voglio chiamare

i tavoli degli invitati coi nomi dei fiori. È troppo banale. L'ha

fatto anche la Stefanelli per il suo matrimonio. "

"Hai ragione."

"Che ne so, potremmo usare il nome delle pietre preziose per

esempio. Non è più elegante?"

Raffaella sorride.

"Molto. Hai ragione, è un'ottima idea. Faremo cambiare il

cartellone

e i segnatavolo. Fossero questi i problemi..."

E così la bacia di nuovo ed esce felice. È in gamba mia figlia. È

un po' come me, risolve sempre qualsiasi problema trovando la

soluzione

migliore. Raffaella va nella sua stanza a prepararsi. Dopo

poco tempo esce di corsa, elegante e impeccabile come sempre.

Vorrebbe arrivare puntuale a casa dei De Marini. E soprattutto ha

un'unica, ultima, grande preoccupazione. Questa sera deve

assolutamente

vincere a burraco.

Capitolo 75.

"Mamma, io esco."

"Va bene Gin. Telefonami però se fai troppo tardi. Fammi sapere

se torni per cena. Voglio farti quella pizza che ti piace tanto."

Non sento neanche le sue parole.

"Sì, grazie mamma."

Mi metto una felpa e decido di uscire, di perdermi così, senza

tempo. Solo io posso capire. Ho desiderato tanto tutto questo. E

ora? Niente, ora mi ritrovo senza niente, senza il mio sogno. Ma

era tutto vero poi quello che avevo tanto sognato? Non mi va di

pensarci. Sto malissimo. Uffa, non c'è niente di peggio che

trovarsi

in queste situazioni. Uno ne parla un sacco da fuori quando sente

tutte quelle situazioni assurde che riguardano le altre persone,

non so perché ma uno non pensa mai che ci possa finire dentro e

poi invece tac! Ecco che succede, ti riguarda direttamente,

neanche

ti fossi portata sfiga da sola. Cavoli, Gin, devi fare i conti con

il tuo orgoglio e la tua voglia di stare ancora con lui... Ma non

mi

va di fare i conti, porca trota! Che palle! In matematica sono

sempre

stata una negata. E poi in amore non esistono equazioni e conti

matematici! Mica c'è il ragioniere dei sentimenti, o peggio il

commercialista

dell'amore. Che, c'è da pagare anche la tassa sulla felicità?

Cavoli come pagherei se fosse vero... Ma che voglia che ho di

lui però... Sono a Ponte Milvio. Fermo la macchina e scendo. Mi

ricordo di quella notte, di quei baci, la mia prima volta. E poi

qui,

sul ponte... Mi fermo davanti al terzo lampione. Vedo il nostro

lucchetto.

Mi ricordo di quando ha buttato la chiave nel Tevere. Era

una promessa, Step. Era così difficile da mantenere? Mi metto a

piangere. Per un attimo vorrei avere qualcosa dietro per rompere

quel lucchetto. Ti odio, Step!

Risalgo in macchina e parto. Me ne vado in giro così, senza sapere

bene dove andare. Per un bel po'. Non so quanto. Non lo so.

So solo che ora cammino al mare. Persa nel vento, distratta dalle

onde, dalla cantilena delle correnti. Ma sto di un male. E poi mi

sento così stupida. Non ci credo, non è possibile. Mi manca da

morire

quello stronzo, mi manca tutto quello che avevo sognato. Sì,

certo, lo so, qualcuno mi potrebbe dire: "Ma Gin è normale. Cosa

ti aspettavi? Era la sua ragazza! Step è partito per l'America per

quanto stava male. È normale che ci sia ricaduto! ". Ah, sì? Ma

sentilo.

Dice così il tipo... Be', allora si dà il caso che io non sono per

niente normale, hai capito? Non mi ci sento e soprattutto non me

ne frega niente! Sì, è così. E allora? L'hai capito o no,

portasfiga

che non sei altro... Ah, ma io lo so, ne sono certa... Tu avevi

pensato

fin dall'inizio che sarebbe accaduto tutto questo, vero? Da

quando è iniziata la nostra storia... Be', sai che ti dico brutto

jellatore

che non sei altro? A me non me ne frega proprio niente di

niente. Perché io sono pazza! Va bene? Sì, sono pazza. Pazza di

lui

è vero, e di tutto quello che avevo sognato. Quindi te lo dico

subito,

se ti incontro, io ti spacco la faccia. Anzi no, meglio. Visto che

proprio lui insisteva tanto su questo, ti faccio un terzo dan che

te

lo ricordi a vita. E poi tu non puoi neanche immaginare quanto io

lo abbia desiderato.

Capitolo 76.

L'infermiere di turno è seduto davanti a un monitor. È sempre

lo stesso. Finisce di battere qualcosa al computer e poi mi vede

entrare.

Mi riconosce. S'irrigidisce di botto. Poi allarga le braccia,

accenna

un mezzo sorriso come a dire-: "Certo, certo, non è l'orario

ma puoi entrare".

"Grazie." Mi viene da ridere. Ma non è giusto. Mi sento anche

un po' in colpa. E non solo per questo. Lo so. Non mi piace

cambiare

le regole con la violenza. Ma ho bisogno di vedere mia madre.

Ora che l'ho ritrovata. Percorro il corridoio in silenzio. Dalle

camere

ai lati mi arrivano respiri affannati e doloranti. Tutto intorno

un

odore di pulito e di lavande. Ma un non so che di falso. Un uomo

si

trascina in pigiama con la barba incolta e gli occhi spenti. Ha

sottobraccio

una "Gazzetta dello Sport" di un rosa accartocciato. Forse

l'acquisto da parte della sua squadra di un nuovo giocatore

potrebbe

in qualche modo riaccenderlo. Chissà. Nel dolore le cose più

semplici

e banali assumono un valore inaspettato. Tutto diventa un

qualsiasi

appiglio per la vita, un interesse che in qualche modo ci possa

distrarre. Eccola. Sta riposando. Persa in un cuscino molto più

grande

del suo piccolo viso. Mi vede e sorride.

"Ciao, Stefano..."

Prendo una sedia lì vicino e mi metto ai piedi del suo letto.

"Allora?"

Mi guarda interrogativa. So già a cosa allude.

"Niente, non ce l'ho fatta. Mi dispiace. Gliel'ho detto."

"E com'è andata?"

"Mi ha picchiato."

"Oh, finalmente una che ti mena. Hai scelto la strada più

difficile.

È una ragazza molto particolare? "

La descrivo.

"E ho una foto."

Gliela faccio vedere. È curiosa. Piccole rughe appaiono sul suo

viso. Poi un sorriso di sorpresa. Poi di nuovo un segno di dolore

da

qualche parte nel suo corpo, nascosta, ben nascosta. Purtroppo.

"Ti devo dire una cosa..."

Mi preoccupo. Se ne accorge.

"No, Stefano. Non è niente d'importante... Cioè lo è, ma non

ti devi preoccupare."

Rimane per un po' in silenzio. Indecisa se dirmelo o no. Sembriamo

tornati a tanto tempo prima, quando io ero piccolo e lei,

lei stava bene. Mi faceva gli scherzi, mi nascondeva le cose, mi

prendeva

in giro, ci mettevamo a ridere. Mi viene da piangere. Non ci

voglio pensare.

"Allora, mamma, mi dici?"

"Io la conosco, Ginevra."

"La conosci?"

"Sì, hai molto gusto, cioè lei ha avuto molto gusto... insomma

è lei che ti ha scelto e tu hai combinato questo guaio..."

Preferisco non pensarci.

"Ma come la conosci? Cioè, come hai fatto?"

"Mi ha fatto giurare di non dirtelo. Come ho fatto? È lei che

mi ha voluto conoscere. Vedevo sempre questa ragazza che aspettava

sotto casa. Veniva spesso. All'inizio ho pensato che aspettasse

qualcuno che abitava nel palazzo. Poi però quando partivo con la

macchina la vedevo andar via. "

"E allora?"

"Allora un giorno me la trovo al supermercato e ci siamo urtate.

Non so se è stato un caso. Abbiamo fatto amicizia... Ci siamo

messe a parlare..." Tossisce. Si sente male. Lo sforzo è stato

tanto.

Cerca nell'aria dell'ossigeno, della vita, qualcosa... ma non

trova

nulla. Poi mi guarda e i suoi occhi pieni d'amore, di dolcezza,

occhi

di una donna che vorrebbe gridare. Ehi, che fai? Perché mi

guardi così? Sono tua mamma! Non puoi provare compassione per

me. E allora io torno suo figlio, egoista, ragazzino, insomma

proprio

come mi vuole lei.

"Allora, mi racconti bene?"

"Sì. Abbiamo fatto amicizia, non so come, ma abbiamo cominciato

a chiacchierare... Lei non sapeva che l'avevo già vista sotto

casa. Be', insomma, non ne sono tanto sicura. Fatto sta che le ho

raccontato un po' di me, di papà, di Paolo, di te..."

"Cosa le hai raccontato di me?"

"Di te?"

"Eh, di me e di chi sennò?"

"Che ti voglio bene, che mi mancavi, che eri andato fuori, che

saresti tornato... alla fine sembrava incuriosita della nostra

storia.

E chiedeva sempre se avevi telefonato... se ti eri fatto sentire."

"E tu?"

"E io che potevo dirle? Non sapevo mai niente di te. Poi ho saputo

che saresti tornato quel giorno, quando me lo ha detto Paolo

che ti sarebbe venuto a prendere all'aeroporto... E allora quando

con Ginevra ci siamo sentite..."

"Vi siete sentite? Ma perché, vi telefonavate pure?"

"Sì, c'eravamo scambiate il numero. Ma che cosa c'è di strano,

scusa? Eravamo diventate un po' come delle amiche."

Non riesco a crederci. Che strano. Sembra tutto così strano.

"Allora?"

"Allora che?"

"Niente, gliel'ho detto."

"E lei?"

"E lei ha continuato a chiacchierare, come se nulla fosse, ha

detto che si era iscritta e che andava in piscina... Ah sì, mi ha

fatto

ridere perché mi ha chiesto se volevo andare con lei... però se ci

penso una cosa strana c'è..."

Cosa?

"Da quando sei tornato sono andata spesso al supermercato..."

"E allora?"

"Da allora, non l'ho mai più incontrata."

La guardo. Rimango in silenzio. Poi annuisco e sorrido. Lei

vorrebbe

rispondere al mio sorriso, ma un'altra ondata di dolore le fa

chiudere gli occhi. Più a lungo stavolta. Le prendo la mano. Lei

me

la stringe con forza, una forza inaspettata. Poi allenta la presa

e riapre

gli occhi, stanca, più stanca di prima, accenna un sorriso.

"Stefano... ti prego..." Mi indica un bicchiere lì vicino. "Mi

porti

un po' d'acqua, per favore."

Prendo il bicchiere e mi alzo. Faccio alcuni passi e mi sento di

nuovo chiamare.

"Stefano..."

Mi giro. "Sì?"

"A questa mia amica Gin... mandale dei fiori, dei bellissimi

fiori."

Si poggia sul cuscino e mi sorride.

"Sì, mamma, certo..."

Esco dal reparto, trovo subito il bagno con l'acqua potabile che

mi aveva indicato Martina. Dopo averla fatta scorrere un po'

riempio

il bicchiere così come mi aveva insegnato lei, né troppo pieno

né troppo vuoto. Poco più della metà, la giusta misura. Rientro

nel

reparto. Mi bastano alcuni passi. La vedo lì, tranquilla, che

riposa.

Al centoquattordici. Con un sorriso leggero sul viso e gli occhi

chiusi,

così come l'avevo lasciata. Ma non mi ha voluto aspettare. Mamma

ha sempre odiato gli addii. E non so perché mi viene in mente

quando sono partito con il treno per la prima gita scolastica per

Firenze.

Le altre mamme erano tutte lì con i loro fazzolettini, bianchi

o colorati o quello che avevano sottomano, per salutare i

ragazzini

che si affacciavano dai finestrini degli scompartimenti. Io

mi sono affacciato. L'ho cercata giù sulla pensilina tra la gente,

tra

le altre mamme ma lei non c'era più. Non c'era già più. Proprio

come

adesso. Se ne è già andata. Mamma. Poggio il bicchiere sul

comodino

vicino a lei. Ti ho portato l'acqua, mamma. Non l'ho riempito

troppo proprio come tu mi hai insegnato. Mamma. L'unica

donna che non smetterò mai di amare. Mamma. Quella donna che

non avrei mai voluto perdere. E che invece ho perso due volte.

Mamma... Perdonami. Ed esco così, in silenzio, tra letti numerati,

tra persone sconosciute. Distratte dal loro dolore, non guardano

il

mio. Un allarme suona lontano. Due infermieri mi superano

correndo.

Uno mi urta senza volerlo, ma non ci faccio caso. Vanno da

mia madre. Stupidi, non sanno che è partita. Non la disturbate.

Lei

è così, non ama gli addii, non si gira indietro, non saluta.

Mamma.

Mi mancherai, più di quanto non mi sei già mancata in questi anni.

"Se quel che mi ha ferito anche te ferì, io ti penso in un campo

di fragole, io ti penso felice così, a ballare leggera,

bellissima, così..."

Parole di una canzone che riaffiora. Per te mamma, solo per

te. Portale via, tienile strette ovunque stai andando. Balla

bellissima

sul quel prato di fragole, libera finalmente da tutto quello che

ti aveva imprigionata qui. Sto piangendo. Scendo giù. Non c'è

l'infermiere

della postazione. C'è una donna. Mi guarda, curiosa per

un attimo, ma non dice niente. Ne avrà vista di gente uscire senza

nascondere il proprio dolore. Non ci fa più caso. Le sembriamo

tutti uguali, è quasi annoiata dalle nostre stupide lacrime che

non

possono niente. Esco. Ormai è pomeriggio. Il sole ancora alto, il

cielo limpido. Una giornata come tante altre ma diversa da tutte e

per sempre. Vedo arrivare mio padre e mio fratello. Sono lontani.

Chiacchierano sereni, sorridono. Chissà di cosa parlano. Non lo so

e non lo voglio sapere. Beati loro che ancora non sanno. Pochi

momenti

prima del dolore inevitabile, dell'impotenza totale,

dell'accettazione

definitiva. Che ne godano ancora. Ancora tranquilli e

felici, a loro insaputa. Ancora per poco. Cambio strada e mi

allontano.

Ho altro da fare adesso. Mi lascio andare, mi perdo nel vento.

Vorrei che il mio dolore diventasse leggero. Ma non è così. E ci

capito per caso, senza volerlo, giuro. Ora come ora non direi mai

una bugia. E vedo quel ragazzino con un suo amico.

"Allora ci si vede al Campetto alle quattro, va bene? Ehi, Thomas,

dico a te, va bene?! "

"Sì sì, ho capito, alle quattro, mica sono sordo."

"Sordo no, ma scemo sì. Tanto è inutile che stai lì, Michela non

arriva. "

"Ma chi ti dice che aspetto Michela! Cerco Marco, che mi doveva

riportare il pallone! "

"Sì sì, il pallone..."

A volte ci si trova al posto giusto nel momento giusto. Lo guardo.

Non mi pare certo uno che ha il diritto di snobbare miss

"sgnappetta"

degli Stellari. Martina almeno una possibilità se la merita.

Almeno una. Mi avvicino. Non ci fa caso più di tanto. Per un

attimo

mi guarda incuriosito, cerca di mettermi a fuoco per vedere se

mi conosce, se mi ha già visto da qualche parte. Allora gli do uno

schiaffone in pieno viso. E rimane così senza parole. Mi guarda

sbalordito,

ma senza piangere, aggrappato alla sua dignità. Poi gli dico

quello che dovevo dirgli. E lui ascolta in silenzio, senza

fuggire.

Mi piace quel ragazzino. Poi mi allontano in moto. Guardo nello

specchietto. E lo vedo diventare sempre più piccolo. Formica in

un mondo ancora da scoprire e da capire. Con la mano si massaggia

la guancia sinistra. Rossa come quella pizza buona che mi aveva

offerto Martina. E per un attimo il fatto che sono entrato già in

quelli che saranno i suoi ricordi mi fa sentire al sicuro. Vivrò

un po'

più a lungo. Poi penso a mamma, alle sue ultime parole, al suo

consiglio.

Sorrido. Sì, mamma. Certo, mamma. Come vuoi tu, mamma.

E ubbidiente come non lo sono stato mai, come quel figlio che

avrei tanto voluto essere, entro nel negozio più vicino.

Capitolo 77.

Poco più tardi. Casa Biro.

"Ginevra, posso entrare?" Gin apre la porta della camera a sua

madre. "Che c'è mamma?"

"Oggi pomeriggio hanno portato queste per te."

Avvolta da un grande mazzo di rose rosse la mamma si affaccia

nella sua camera, le sorride poggiandole sul letto.

"Hai visto che belle? E poi guarda... c'è una rosa bianca nel

mezzo. Sai che vuol dire vero?"

"No, che vuol dire?"

"È una richiesta di scuse. Qualcuno ti ha fatto qualcosa, qualcuno

si deve scusare?"

"No mamma, è tutto a posto. " Ma alle mamme non sfugge niente.

Quegli occhi arrossati di Gin poi non lasciano dubbi.

"Tieni..." Le passa un fazzolettino da naso e le sorride.

"Quando vuoi, siamo a tavola."

"Grazie mamma. Ma ora non mi va di mangiare."

"Va bene. Ma non te la prendere troppo. Non ne vale la pena."

Gin sorride alla mamma. "Magari..."

Prima di uscire la mamma le consegna un biglietto. "Tieni, c'era

questo tra le rose. Forse è la spiegazione di quella rosa bianca."

"Forse..."

La mamma la lascia sola, sola con il suo dolore, sola con i suoi

fiori, sola con il biglietto. Ci sono momenti che una mamma

conosce

bene. Forse perché ci è passata. Forse perché sa che una figlia

si può amare anche da lontano. Forse perché a volte quando c'è di

mezzo il dolore tutto quell'amore non può essere che d'intralcio.

Chiude la porta e la lascia lì. Con quel biglietto tra le mani. Il

mio

biglietto. Gin lo apre. Gin legge curiosa l'inizio.

"Me l'hai chiesta tante volte. Io ho detto sempre di no. Avrei

voluto regalartela per il tuo compleanno, per Natale, per una

festa

qualsiasi. Mai per chiederti perdono. Ma se dovesse servire, se

non

bastasse, se ne dovessi scrivere ancora mille e mille e mille

ancora,

farei anche questo perché non posso vivere senza di te. " E Gin

continua

a leggere. "Ecco quello che volevi. La mia poesia." Sorride e

legge, legge. Scivola tra le parole, piange, tira su con il naso e

ride

di nuovo. Si rialza e continua. I nostri momenti, la nostra

passione,

il viaggio, l'emozione. E continua sorridendo, tirando ancora

su con il naso, asciugandosi gli occhi, sbiadendo una mia parola

con qualche lacrima sfuggitale di mano. E va avanti così, fino

alla

fine. Non le dico di mia madre. Solo di noi. Non le parlo di altro

se non di me, del mio cuore, del mio amore, del mio errore. Rubo

le parole di un film visto e rivisto tante volte a New York...

"Voglio

che tu leviti, voglio che tu canti con rapimento... Abbi una

felicità

delirante o almeno non respingerla. Lo so che ti suona smielato,

ma l'amore è passione, ossessione, qualcuno senza cui non vivi, io

ti dico: buttati a capofitto, trova qualcuno da amare alla follia

e che

ti ami alla stessa maniera. Come trovarlo? Be', dimentica il

cervello

e ascolta il tuo cuore. Io non sento il tuo cuore. Perché la

verità,

tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio

e non innamorarsi profondamente, be', equivale a non vivere. Ma

devi tentare, perché se non hai tentato, non hai mai vissuto..." E

io

spero di averla convinta che lo aveva già trovato, quel qualcuno.

Un qualcuno che spera di essere un giorno perdonato. Ma non ho

fretta. "Ti aspetterò. E aspetterò. E aspetterò ancora. Per

vederti,

per averti, per sentirmi di nuovo felice. Felice come un cielo al

tramonto."

Gin si mette a ridere. Poi ha una strana sensazione, improvvisa.

Si gira di botto. Guarda sul suo tavolo. Lì nell'angolo dove

li ha sempre tenuti nascosti. E improvvisamente capisce. E si

sente morire. Corre subito di là.

"Mamma! Ma lo hai fatto entrare in camera mia! "

"Ma era quel ragazzo simpatico, quello dello champagne, no?

Sembra così per bene. E poi ti aveva portato quei bellissimi

fiori...

Non potevo dirgli di no, mi sembrava scortese. "

"Mamma... Tu non sai cosa hai combinato."

Capitolo 78.

Sono seduto nella mia stanza. Mi sento un ladro. E in effetti

lo sono. Ma sono troppo curioso. Quando li ho visti sul suo tavolo

non riuscivo a crederci. Tre diari, uno per ogni anno. Dalla

sua prima liceo. Gin è incredibile. Sempre disordinatissima, poi

improvvisamente precisa. Inizio a sfogliare il primo. Ha fatto un

sacco di scritte molto divertenti. Chissà chi è questo Francesco.

Fra'. Come lo chiama lei. E tutti cuoricini poi. Comunque non

l'ha avuta. Mi ha veramente sorpreso il fatto che non fosse mai

stata con nessuno. Non avrei mai creduto, sul serio. E troppo

tenera.

È bella poi... È com'è. Unica. Ha una forza, una determinazione...

A volte sembra distratta, invece sta seguendo tutto, si

guarda intorno, anche alle feste, mentre chiacchiera con un'amica

magari, e invece controlla con chi parlo, con chi non parlo, cosa

succede in fondo al salotto, chi è appena entrato, chi dice cosa

e su chi... E ride come una pazza e ha sempre una battuta

pronta...

Gin. Mi dispiace per quello che è successo. Ma la situazione

con Babi mi è sfuggita di mano. Non sapevo che cosa stavo facendo,

avevo bevuto. Sì... Dai Step, sembra che ce l'hai davanti

e le stai rispiegando tutto... è assurdo. A volte cerchi solo

l'amore.

Sì, ma non ti accorgi che quella donna che hai tanto amato è

fuggita, non c'è più. Eri tu ad averla inventata? Cerchi in quel

bacio

il disperato sapore di quello che hai tanto sentito, provato...

ma non c'è più. Chi te lo ha tolto? Nascosto? Rubato? Chi? Ho

ritrovato i suoi occhi, ma non quella luce, non quel sorriso che

mi è tanto mancato. Così, staccandomi da lei quella sera,

improvvisamente

ho capito: la mia Babi non c'era più. Niente, solo

i suoi capelli spenti come quel sorriso naufragato chissà dove.

Allora

ho richiuso gli occhi e sono fuggito lontano, in mezzo ai ricordi,

ballando ancora con loro, come un grande, unico carosello,

tutti per mano, ridendo, scherzando. E ho rivisto quella ragazza,

la Babi di allora, bella come un primo mare a primavera,

fresca e impaurita, desiderosa di amare ed essere amata, timorosa

anche del semplice togliersi un reggiseno. Eccola, lei per sempre

mia e di nessuno più... Ma i ricordi a volte non vanno disturbati.

Basta. Non ci voglio più pensare. Quel che è fatto è fatto.

Gin capirà. Deve capire. Se non lo avessi fatto avrei sempre

vissuto

nascosto, non sarei mai venuto allo scoperto. Tornare alla luce

dell'amore. Capirà. Deve capire. In fondo non sapeva nulla di

me, non mi aveva mai visto.

Ma cos'è qua? Inizio a leggere.

28 maggio 2002.

Oggi sono felice, felice come non sono mai

stata! Ho finalmente dimenticato del tutto Francesco,

cancellato, esploso, via, per sempre...

E ti credo, chissà che gaggio era...

Perché ieri è successa la cosa più incredibile

della mia vita. Ero a una festa da Roberta

Micchi, una più grande, una che se la tira una

cifra del quinto. Mi ero imbucata con altre due

amiche (Ele e Simo) e ce la stavamo divertendo

un casino quando sono arrivati loro... gli imbucati,

i Budokani.

Cavoli, non ci posso credere, dice di noi? Ma di quando sta

parlando?

Di quale festa? Continuo a leggere velocissimo.

Ho scoperto che si chiamavano così mentre tiravano

la torta della festeggiata e hanno centrato

Giò (il farlocco che ci prova con Ele) in

pieno viso!! ! Che mira. Hanno fatto un casino.

Secondo me è sparita anche un sacco di roba. Insomma

sono fuori. Sono completamente fuori per

lui. Mi ha urtato appena entrato. Mi ha chiesto

scusa però, e per non farmi cadere mi ha preso

al volo e mi ha tenuto abbracciandomi... Cavoli!

Ci siamo trovati col viso a un millimetro e

sono andata fuori di testa. Chissà se l'ha capito.

Ho saputo solo che si chiama Step! Buffo

come nome. Bello da morire come tipo! Spero solo

di rincontrarlo presto...

Cioè, ci siamo conosciuti. Ci siamo incontrati. O meglio, ci siamo

scontrati... Ma che vuol dire tutta questa storia? Cavoli, ma vuoi

vedere che alla festa dove ho conosciuto Babi, dove ho fatto la

doccia

con lei sulle spalle, lì c'era anche Gin? Ci siamo scontrati...

non

me la ricordo. Ma forse non è quella volta... Continuo a correre

veloce,

a sfogliare altre pagine, a cercare altri momenti, altri ricordi,

altre verità. E vado avanti come impazzito, sorpreso, imbrogliato.

Sfoglio veloce le pagine del diario. Gli occhi volano tra le

righe...

Avanti, indietro. Ecco.

L'ho visto! Sono le due e mezzo di notte e non

riesco a dormire. Sono stata sull'Olimpica e lui

era lì con il suo amico, Pollo credo che si chiami.

Ha vinto anche una gara! Mi piace da morire,

ma vedo che scherza un sacco con quella deficiente

del quinto, la Gervasi! Porca trota, Step, se ti

ci metti mi cali una cifra. Quella è una deficiente

(mi ripeto...), tutta casa e chiesa! Anzi,

non so neanche perché stava lì, ha fatto perfino

la Camomilla!!! O tu le trasformi Step, oppure

non so che pensare. Devi avere un dono magico

e non so proprio dirti quale, non vorrei essere

bora, ma certo con quella "bacchetta" ne combini

di casini!!! C'era anche quella trucida di

Maddalena. Chissà se è vero quello che dicono,

che hai una storia con lei. Be', non so proprio

che pensare. Ehi, magico principe! 10 e lode o

come cavolo ti chiamano, prima o poi ti accorgerai

anche di me (spero). Mi ero messa anche la

cinta Camomilla! Mi sei passato davanti e non mi

hai degnato di uno sguardo... Allora? TRASFORMAMI...

Sennò ti strego io. Be', vado a nanna.

Rimango senza parole e vado avanti. Ecco di nuovo qualcosa

che mi riguarda.

Ecco, lo sapevo, sta con gli altri e sono passati

a piazza Euclide. Me lo ha detto Ele che

fanno base fissa qui...

Vado ancora avanti. Sfoglio due, tre pagine veloci...

Non ci posso credere! Si sono messi insieme!! !

Step, ti odio!!! Come se non bastasse, quella

gnoccolona della Gervasi ha fatto a botte con

The Body! Con Madda Federici! Allora è vero che

avevi una storia con lei! A Babi le ha detto pure

bene... Gliele ha date. Non c'è giustizia,

cazzo... Eh, quando ci vuole ci vuole! Ma come

cazzo hai fatto a metterti con una così, Step!!!

Ti giuro che un giorno me lo dovrai spiegare. Ma

non ti accorgi che quella tipa non ha le palle?!

Che per lei tu sei un giocattolo che costava

troppo? Una volta che ti avrà avuto finirai nell'armadio

con tutti quei giocattoli del passato

che l'hanno già scocciata! Certo che a volte voi

uomini siete di un ridicolo, di un banale, non

vi accorgete dell'oro che avete vicino (io!) e

andate a cercare il rame lontano (lei!!!). Però

che culo che e'ha... voglio proprio vedere come

se la caverà. Porca trota se lo voglio vedere!!!

E infatti fa così. Sfoglio le pagine e mi accorgo che non mi ha

mai mollato un attimo. Pagina dopo pagina. Gin... Hai segnato

tutto.

C'eri sempre.

Ieri sono stata a Fregene. Ero da Mastino. È

passato. Mamma, da sogno. Già abbronzato, insomma

vorrei urlarlo! Step sei bono da paura!!

Stavamo giocando a rubabandiera mentre quella

morta della Gervasi stava seduta su un pattino

e a momenti neanche se n'è accorta che eri arrivato!

! Ma quanto può essere scema una così?!

E lui troppo fico l'ha fatta salire sulla sua

moto e l'ha bendata per portarla chissà dove...

Un rapimento da sogno... il MIO sogno! Oddio...

mi hanno rubato il mio sogno!!! Ridatemelo, è

miooooooo!

Troppo simpatica. Silenziosa spettatrice. Come posso dimenticare?

Quella volta che sono fuggito con Babi lì, alla casa sulle rocce,

alla Feniglia, sogni che s'infrangono sugli scogli del passato.

Non voglio pensare... Voglio andare avanti. Due pagine dopo.

Non ci posso credere! Non ci volevo credere!! !

E invece è vero. Mi ha chiamato Ele per avvisarmi...

Sono andata fino lì per vedere se era

vero. Non voglio fidarmi di nessuno in queste

occasioni. E invece è proprio così. Lì, su quel

ponte, bellissima!

IO E TE... TRE METRI SOPRA IL CIELO! Cioè, se

uno mi scrive una cosa del genere e chi lo molla

più! Gervasi, che culo che e'hai, porca trota!

E ancora, ancora...

Sono arrivati alla festa dov'ero anch'io, non

ci posso credere! Si sono vestiti da Tom e Jerry.

Oddio, sto troppo male...

E ancora...

È morto il suo amico Pollo. Ero lì in chiesa.

Avrei voluto abbracciarlo. Ho pregato per lui,

per il suo amore. Ma lui ha bisogno di lei in

questo momento. Non di me.

E continuo in silenzio tra quelle pagine a leggere pezzi della

mia vita. A rivederli attraverso la sua scrittura, le sue note

colorate,

le sue frasi sottolineate.

Si sono lasciati! Ho saputo che si sono lasciati.

Me lo ha detto Silvia (la Serva, la chiamano

così perché sa sempre tutto di tutti e vive

di servate!). È vero! Mi dispiace... so che

non dovrei essere così felice. Ma quanto lo sono,

da pazzi! Da pazzi! Voglio farti felice io,

Step. Voglio farti sentire amato... Ti prego,

dammi questa possibilità...

E ancora. Ancora.

È Natale. Sono uscita e sono andata verso casa

sua, cioè dove abita adesso, da suo fratello.

L'ho visto uscire in moto con dietro suo fratello

Paolo. Erano abbracciati, stavano ridendo.

Bene, sono felice. Mi sembra che stia meglio.

Se ami veramente una persona devi pensare

al suo bene, a ciò che lo rende veramente felice.

Non devi essere egoista... (Mamma, sto diventando

di un pesante...). Comunque gli ho visto

fare una pinna pazzesca con il fratello dietro

che urlava! Mi ha fatto troppo ridere. Sono

tornata a casa. Ho aperto il regalo dei miei. Mi

hanno fatto un pigiama pazzesco! Step, quando lo

vedrai, be', ti leccherai i baffi! (Che bora che

sono!) Poi mi sono messa a letto e ho abbracciato

il cuscino. Sono stupida? L'ho baciato fingendo

che fossi tu. Step. Mi piaci troppo! Mi

sono addormentata facendo un sogno... che poi è

anche un desiderio. T'incontrerò prima o poi...

E ancora. Ancora. Vado avanti tra pagine allegre e pezzi di vita

che riguardano solo lei. Ecco. Parla di nuovo di me.

Sto a pezzi. Sto malissimo. Ho saputo che parte.

Va fuori. Cavoli, dev'essere stata una storia

davvero importante la sua se ha preso questa

decisione. Mi ricordo però una frase che mia

madre mi ha sempre detto, è una cosa bellissima:

"Puoi cambiare il cielo ma non puoi cambiare

l'animo". Gli servirà andarsene? So solo che

ti aspetterò, Step...

È vero. A volte non serve stare sotto un altro cielo. Ciò che devi

risolvere è sempre dentro di te, dovunque tu sia. E ancora.

Ancora.

Non me ne frega niente, nessuno sa mai nulla di

Step! Cazzo, non è possibile! Ho deciso, voglio

conoscere sua madre. Lei qualcosa la saprà, no?

E ancora. Ancora. Sfoglio appena qualche altra pagina.

Ci sono riuscita. L'ho conosciuta "per caso"

al supermercato. Forse se n'è accorta... (spero

proprio di no!) Abbiamo legato un sacco... mi

piace, ma non so, è come se stesse male per qualcosa,

ha una sua tristezza, mi tratta da grande

però, è forte... Certo che è proprio bella. È

tutta suo figlio!

Mamma se n'era accorta. A lei non sfugge niente. E ancora. Ancora.

Sono felice. Siamo diventate amiche. Mi ha

raccontato un po' di cose di Step. Mi sembra di

conoscerlo da una vita. È proprio la persona che

avrei voluto incontrare. Sono strafelice perché

mi ha detto che torna la prossima settimana!

E ancora. Ancora.

E che cavolo! ! ! Ho sbagliato tutto. . . Sono arrivata

alle otto e mezzo di mattina... Non avevo

capito che arrivava alle otto e mezzo di sera!

Ma dicono a.m. e p.m. Ma che, uno sta a guardare

questi dettagli quando sa che sta arrivando

Step!!! Non ci posso credere! Sono andata all'aeroporto

e l'ho aspettato per dodici ore e

non ho avuto il coraggio di fare niente! Cioè

Step si è girato a un certo punto e io mi sono

nascosta di botto dietro una colonna e magari mi

ha pure visto! Cavoli, ha avvertito che qualcuno

lo guardava! Ma che e'ha gli occhi pure dietro...

Però è troppo carino. È dimagrito. È cresciuto.

È. . . è!

Non ci posso credere, è venuta pure all'aeroporto. E ancora.

Ancora.

Stasera lo becco, sono sicura. Ho già pensato

bene il piano. Sono andata giù nel garage

nel pomeriggio, ho aperto il tubetto che

congiunge il serbatoio al motore (Paolo mi ha

spiegato perfettamente tutto! Troppo forte Paolo,

e troppo facile il resto!!!), così non ha

più benzina. Dovrà farla per forza. Ho sentito

in palestra cosa faceva, quindi ha solo due

possibilità: o si ferma al benzinaio sulla Flaminia

o a quello su corso Francia. Ma uno subito

dopo la palestra vuole subito correre...

Per me va lungo. Ha voglia di vento, uno come

lui poi che ama tanto la moto... Be', comunque

nel dubbio blocco tutti e due i benzinai

self-service col lucchetto. Che mi frega! Lo

aspetto sulla Flaminia, se vedo che non arriva

torno indietro a quello di corso Francia.

Piano perfetto... Tanto uno testardo come lui

non accetterà mai di farsi fottere... mica per

i soldi, per il principio! Uno abituato a fottere...

non si fa fottere!

Non credo a quello che sto leggendo. Giro una pagina. E ancora.

Ancora.

Ce l'ho fatta!!! Wow wow wow! Sono tornata a

casa e ho fatto come Julia Roberts in Pretty Woman,

col pugno roteante vicino alla mia faccia

per festeggiare lo splendido piano riuscito. L'ho

conosciuto! Mitica Gin! ! ! Un altro po' e mi stendeva

sul cofano con un cazzotto in pieno viso.

Pfiu pfiu! Me la sono vista brutta. Lo sapevo

che si era nascosto, ma che potevo fare? Dovevo

far finta di cascarci e invece c'è cascato lui!

E di brutto!! ! Ho aspettato due anni e poi anche

le dodici ore all'aeroporto. Che fatica. Ma

sono sicura che ne varrà la pena! Sono sicura

che andrà benissimo, da sogno.

18 settembre.

Iaoooo! Mi è andata bene ma che dico strabene!!!

Ho passato il provino al TdV, dove lavora

lui. Roba da pazzi! Ce l'ho fatta!! Non ci

speravo proprio. Ma la cosa più assurda è che è

passata anche Ele! Oh, non aveva mai superato

un provino! Step... Ma portassi fortuna? Di una

cosa sono sicura. Ora lo vedrò tutti i giorni.

E ora? Ma dove scappi? Ma è troppo giusto così.

. . Troppo forte. Troppo bello. D'altronde ogni

tanto c'è giustizia a questo mondo! Oh, ancora

non ci credo però... Comunque questa poesia è

per te!

Step. Ho sempre avuto voglia di te.

Ho voglia di te.

Per tutto quello che ho immaginato, sognato,

desiderato.

Ho voglia di te.

Per quello che so e ancora di più per quello

che non so.

Ho voglia di te.

Per quel bacio che non ti ho ancora dato.

Ho voglia di te.

Per l'amore che non ho mai fatto.

Ho voglia di te anche se non ti ho mai assaggiato.

Ho voglia di te, di tutto te. Dei tuoi errori,

dei tuoi successi, dei tuoi sbagli, dei tuoi

dolori, delle tue semplici incertezze, dei pensieri

che hai avuto e di quelli che spero hai

dimenticato, dei pensieri che ancora non sai.

Ho voglia di te.

Ho così voglia di te che nulla mi basta.

Ho voglia di te e non so neanche perché...

Uffa. HO VOGLIA DI TE.

Improvvisamente sento un botto. Mi giro di colpo. Gin è sulla

porta della camera. Paolo è dietro di lei.

"Scusami Step, ma non sono riuscita a fermarla. Mi si è infilata

dentro casa come un razzo e..."

Alzo la mano. Paolo capisce. Si ferma. Sta zitto. Non dice più

niente. Rimane con la faccia da ebete, fermo sulla porta mentre

Gin

entra nella stanza. Cammina lentamente, mi guarda ma sembra

passarmi

attraverso. E come se il suo sguardo andasse lontano a cercare

chissà cosa. Scoperta nella sua verità d'amore. Oltre... Ha gli

occhi tristi. Bagnati. Privi di qualsiasi sorriso. Bellissimi. E

mi si

stringe il cuore. Perché ha una luce che conosco. Vedo tutto

quello

che ho vissuto, tutto quello che ho passato, tutto quello che è

naufragato.

"Gin... io..."

"Shh" mi fa lei. E si porta il dito indice davanti alla bocca,

come

una dolce bambina. Chiude gli occhi e scuote la testa.

"Non dire niente, ti prego..." Si riprende i diari, uno dopo

l'altro,

li poggia sul tavolo e li controlla. Li conta e l'infila nella sua

borsa. E se ne va via così, di schiena, senza voltarsi, in

silenzio.

Capitolo 79.

Una chiesa. Spoglia. Un centinaio di persone. Alcuni in piedi,

altri seduti, qualcuno appoggiato a quelle importanti colonne,

antiche,

scurite dal tempo passato, dalle tante preghiere ascoltate, dai

desideri invocati, dai dolori sofferti. Da loro, dai tanti. Dagli

altri.

E poi il mio dolore. Qui. Presente. Il dolore di non aver saputo

essere

fino in fondo protagonista della mia vita, di aver solo perso del

tempo... E per fare cosa poi? Giudicare. Io, giudicare mia madre.

E non riesco a capire come non me ne sia potuto rendere conto

allora.

Improvvisamente mi accorgo come tutto mi è sfuggito di mano,

come accecato da chissà quale ragione ho corso furioso, cieco,

rabbioso verso chissà quale giustizia... E solo ora capisco quanto

ho

fallito. Nel mio ruolo più semplice. Non mi si chiedeva altro,

nulla,

se non il silenzio. Non esprimermi. Anche perché non avevo titoli,

né ruolo, né mandato, né diritto... Niente. Niente che mi desse

quella facoltà: perdonare. Perdonare. Chi sono io per perdonare?

Chi siamo noi per perdonare, chi siamo per poterci dare questo

titolo? E invece no, testardo, egoista, cieco, sono voluto

diventare

giudice. Senza alcun diritto, senza alcun ruolo, senza meriti,

senza un perché. Senza. Prosopopea. Presa da chissà dove, da quale

sentito dire, frutto di quella borghesia più insulsa... E poi, la

cosa

ancor peggiore. Non solo arrogarsi il diritto di perdonare, ma

non saperlo neanche fare. Non perdonare. Ecco. Sono qui in questa

chiesa. In silenzio. E sto male. Non c'è niente di peggio che

sentire

la tua vita sfuggirti tra le mani come semplice sabbia che pensavi

un tempo fosse tua e che invece non ti appartiene più. Come

se tu fossi fermo in piedi, per caso, in uno stabilimento

qualsiasi,

schiavo del vento e di tutto quello che lui ha deciso per te. Non

ho

più niente tra le mani, non mi resta nulla. E me ne vergogno. Mi

guardo in giro. Mio padre, mio fratello, le loro compagne. Perfino

Pallina, Lucone, Balestri e gli altri miei amici. Qualcuno che

manca...

Qualcuno invece di troppo. Ma non mi va neanche di pensarci.

Quelle cose che si devono fare, per formalità, per finto buonismo,

perché non si ha mai il coraggio di essere coerenti fino in fondo,

perché non si sa mai cosa ci aspetta... No. Non ci voglio pensare.

Non oggi. Intorno a me poi tanta altra gente di cui non so neppure

il nome. Parenti lontani, cugini, zii, amici di famiglia, persone

che ricordo solo attraverso foto sbiadite, ricordi confusi di

feste,

di momenti passati, più o meno felici, di sorrisi, di baci e di

altro

ancora, che non so, di chissà quanti anni fa. Un prete ha letto un

brano. Ora sta dicendo qualcosa. Cerca di farmi capire come tutto

quello che sta accadendo è un bene per noi. È un bene per me. Ma

non riesco a seguirlo. No. Non ce la faccio. Il mio dolore è

tanto.

Non riesco a pensare, a capire, ad accettare, a essere

d'accordo...

Come può tutto questo essere un bene per me? Come, in che modo,

per quale assurda ragione? Ha detto cose, mi ha raccontato storie,

mi ha fatto promesse... Ma non riesce a convincermi. No. Solo

di una cosa sono sicuro. Mia madre non c'è più. Solo questo mi è

chiaro. E questo mi basta. O meglio, non mi basta affatto...

Mamma,

mi manchi. Mi manca il tempo di viverti di nuovo, di poterti

dire quello che ora ho capito. E lo dico in silenzio. Ma tu mi

senti.

Un organo comincia a suonare. Dal fondo della chiesa vedo arrivare

Gin. È vestita di scuro, cammina in silenzio. Passa lungo le

arcate,

si tiene fuori dalla vista dei molti, ma non dalla mia. Poi

appoggia

con dolcezza una corona ai piedi dell'altare e mi guarda. Da

lontano. In silenzio. Non accenna a niente. Né un sorriso, né un

rimprovero. Niente. Uno sguardo pulito come solo il suo può

essere.

Al di sopra di tutto, capace di non mischiare il dolore e il

rispetto

con qualunque altra cosa. Un ultimo sguardo. Poi la vedo

tornare in fondo alla chiesa. Poco dopo tutto è finito. All'uscita

la

cerco ma non c'è più. L'ho persa. Persone mi vengono incontro, mi

abbracciano, mi dicono cose, mi stringono la mano. Ma non riesco

a sentire, a capire... Cerco di sorridere, di dire grazie, di non

piangere.

Sì, soprattutto di non piangere. Ma non ci riesco. E non me

ne vergogno. Mamma, mi mancherai. Sto piangendo. Sto

singhiozzando.

E uno sfogo, una liberazione, è la voglia di essere ancora

bambino, di essere amato, di tornare indietro, di non voler

crescere,

di aver bisogno del suo amore puro. Qualcuno mi abbraccia, mi

tiene le spalle, mi stringe. Ma non sei tu, mamma. Non puoi essere

tu. E io mi appoggio, mi piego. Nascondo il mio viso e le mie

lacrime.

E vorrei che non fosse tardi. Mamma, perdonami.

Capitolo 80.

Alcuni giorni dopo. Non so quanti. Quel dolore che provi. Che

non riesci a capire da dove possa arrivare. Che non ti dà

spiegazioni.

Che ti sbatte giù come una grande onda che non avevi visto, che

ti ha preso alle spalle, che ti travolge, ti leva il respiro, ti

fa ruzzolare

sulla sabbia bagnata, su quei passi che ti sembravano così certi

nella tua vita. E invece no. Non lo sono. Non più. Sono giorni che

passo davanti al suo portone. Sono giorni che la vedo uscire nei

modi

più diversi. Nell'unico modo in cui lei è. Bella. Bellissima.

Disordinata,

confusa, elegante, coi capelli raccolti, coi capelli lasciati

andare, giù, pazzi, ribelli. Con due ciuffi, con un vestito a

fiori, con

una salopette mezza calata, con un completo perfetto, con una

camicia

azzurra e il colletto tirato su e una gonna blu scura sotto. Con

dei jeans chiari, con un pinocchietto, con dei jeans strappati e

le cuciture

forti, che risaltano, che si fanno notare. Con tutti i suoi

vestiti

presi su Yoox. Gli accessori. I colori. La fantasia di sapersi

reinventare

ogni giorno. Così. Così com'è lei. Esce sempre da quello

stesso portone e sempre in maniera diversa. Ma ho visto qualcosa

che è sempre uguale. I suoi occhi. Il suo viso. Portano i segni

lontani

di un dispiacere vissuto. Come un sogno bellissimo interrotto

da una serranda tirata su da troppa rabbia. Come il suono

insistente

di un telefonino dimenticato acceso e fatto squillare da uno che

ha

sbagliato numero o, ancora peggio, da qualcuno che non ha nulla

da dire. Come un allarme fatto scattare da un goffo ladro

imbranato

che è già scappato nella notte. Una vita distratta ha urtato col

gomito la sua felicità. E sono stato io. E non posso nascondermi,

non posso giustificarmi. Posso solo sperare di farmi in qualche

modo

perdonare. Ecco. La vedo uscire. La vedo passare. È nella sua

macchina. E per la prima volta dopo tanti giorni nascosto

nell'ombra

faccio un passo in avanti, incrocio il suo sguardo. Fermo

i suoi occhi. Li faccio miei per un attimo. E con loro teneramente

imbarazzato sorrido. Parlo e spiego e racconto e cerco di non

farli andar via. Tutto con uno sguardo. E i suoi occhi sembrano

ascoltare in silenzio, annuire, capire, accettare sul serio quello

che

spero stiano dicendo i miei. Poi, quel silenzio fatto di mille

parole,

intenso come non mai, viene interrotto. Gin abbassa il suo

sguardo.

In cerca di qualcosa. Di un po' di forza. Di un sorriso. Di

qualche

parola detta a voce. Ma non trova niente. Niente. Allora torna

a guardarmi. Scuote leggera la testa. La sua guancia fa una

piccola

smorfia, un accenno di un mezzo sorriso, forse un'ombra di

possibilità. Come a dire "no, non ancora, è troppo presto". Almeno

questo è ciò che voglio leggere. E si allontana così, diretta

verso dove non mi è dato di sapere, verso la vita che l'aspetta,

forse

verso un nuovo sogno, sicuramente migliore di quello che io le

ho rubato. E ha ragione. E se lo merita. Così rimango lì in

silenzio.

Mi accendo una sigaretta. Do solo due tiri e la butto via. Non

ho voglia di niente. Poi capisco che non è vero. Allora la prendo

dal bauletto.

Lontano, più lontano, in quella stessa città. Macchine in

movimento,

clacson, vigili indaffarati, ausiliari inesperti preparati solo

in cattiveria. Rina, la cameriera dei Gervasi, esce dal

comprensorio

degli Stellari. Saluta il portiere col suo solito sorriso dalla

peluria

eccessiva. E continua decisa verso il cassonetto della spazzatura,

accompagnata da un profumo da pochi soldi che nasconde malamente

il lavoro di tutta una giornata. Apre il cassonetto spingendo

forte col piede deciso sulla barra di ferro. Butta con un arco

perfetto,

meglio di una pallavolista alla battuta, il sacchetto della

spazzatura.

Il cassonetto si richiude, come una mannaia lasciata andare

da un boia distratto. Ma non può finire la sua corsa. Da un angolo

spunta fuori un poster arrotolato. C'è la foto ingrandita di quel

ragazzo e quella ragazza a cavalcioni di una moto che "pinna". Il

grido ribelle di quel momento di felicità... di quell'amore ormai

dissolto

nel tempo. Tutto è passato. E ora, come spesso accade, è finito

tra la spazzatura.

Pallina esce di corsa dal suo portone. Allegra e decisa, elegante

come non è più stata. Sale sulla sua macchina e lo bacia ridendo.

Vuole riprendere in mano le redini della sua vita.

"Allora, dove andiamo?"

"Dove vuoi."

Pallina lo guarda e sorride. Ha deciso di buttarsi di nuovo. E

lui è la persona adatta.

"Allora decidi tu, andiamo senza meta per una sera."

E Dema non se lo fa ripetere due volte. Sono anni che aspettava

questo momento. Ingrana la marcia dolcemente e si perde nel

traffico leggero. Poi alza un po' il volume dello stereo e

sorride.

Eva, la hostess, è appena arrivata a Roma. Posa la valigia nella

camera d'albergo e subito prova a chiamarlo. Niente. Il suo

telefonino

è spento, peccato, avrebbe tanto voluto vederlo. Fa niente.

Ci pensa un po'. Poi sorride e compone un altro numero. Chi

viaggia in continuazione ha sempre un altro numero.

Daniela è seduta in camera sua. Ha appena saputo che è maschio.

Sfoglia il libro dei nomi, indecisa. Alessandro, Francesco,

Giovanni... cerca le origini e i significati di ognuno. Dev'essere

un

nome importante, di un condottiero, oppure di uno di quelli

strani,

particolari, che non si dimenticano. E sorride felice tra sé.

Almeno

questo lo posso decidere da sola. Poi si preoccupa. E se il

nome che scelgo è uguale a quello di suo padre? Così rimane

perplessa

e abbandona quel "Fabio" che le sembrava tanto giusto. Vuole

andare sul sicuro... e non sa quant'è inutile questo suo dubbio.

Di sicuro quel bambino non saprà mai il nome di suo padre.

Babi è in camera sua. Controlla felice la lista degli invitati.

Manca

poco. Uffa mamma, hai voluto anche i Pentesti che io non sopporto

e dei cugini che non abbiamo mai visto. Mamma e le sue regole.

Poi per un attimo pensa che quell'idea le piacerebbe da morire.

Sì, sarebbe un'idea bellissima. Invitare Step al suo matrimonio.

Sarebbe fighissimo. E non si rende conto di quanto è tutta sua

madre. Anzi no. Molto peggio.

Due signore si guardano in giro. Vogliono essere sicure che non

ci sia nessuno vicino. Poi tranquille, serve cospiratrici del

pettegolezzo

inutile, possono finalmente sfogarsi.

"Ti assicuro, l'ho visto con una ragazza giovane e molto

abbronzata..."

"Non ci credo... ma l'hai visto tu?"

"No, ma una persona molto fidata."

"Forse ho capito chi te l'ha detto, me l'aveva raccontato anche

a me, ma mi aveva detto anche di non farne parola con nessuno.

Comunque non è abbronzata, è di colore! E una brasiliana! "

"Sul serio? Che strano, da lui questo non me lo sarei mai

aspettato."

"Perché no? Lei è insopportabile! "

Le due donne ridono insieme. Poi rimangono un po' dispiaciute

per quella risata. Forse se lo stanno chiedendo: ma perché,

noi con i nostri mariti come siamo? Finiscono allora per sentirsi

in

colpa, per non sapersi dare bene una risposta. Forse non sono poi

così tanto diverse da lei. Raffaella è in fondo alla sala. Tutte e

due

la guardano. Lei incrocia il loro sguardo e sorride da lontano.

Anche

loro sorridono, complici e un po' goffe. Poi si guardano di nuovo.

Che ci abbia scoperte? Che abbia capito che parlavamo di lei?

E ognuna resta col suo dubbio, mentre Raffaella non le calcola già

più. Dedica ora tutta la sua attenzione all'avversaria.

"Et voilà... chiuso anche il secondo mazzetto. E guarda qui...

Ho fatto anche un burraco ! "

Inizia a contare veloce i punti, felice, senza perdersi dietro a

tutte quelle chiacchiere inutili.

"Ma arbitro, non c'era! " Claudio si alza in piedi, col suo

cappelletto

con la visiera che quasi gli vola via tanta è la foga del suo

entusiasmo, della sua felicità. Si rimette a posto il cappellino e

si

siede di nuovo vicino a Francesca.

"Hai visto anche tu Fra'... non c'era, no?"

E lei fa segno di sì. Non capendo poi tanto di pallone.

"Non c'è niente da fare, è sempre così! Vogliono far vincere

l'Aniene, finisce sempre così qui al Canottieri Lazio ! È perché

quelli

hanno più soci." Claudio, soddisfatto di questa geniale

intuizione,

abbraccia Francesca dandole persino un bacio sulle labbra,

fregandosene

di tutto e tutti, di chi lo conosce, di chi potrebbe vederlo,

di chi potrebbe giudicare... di chi potrebbe dire "Ma come,

ha vent'anni meno di te! ". Poi Claudio, rimettendosi a guardare

la

partita, si accorge che poco più in là ci sono proprio Filippo

Accado

e la moglie. Lo hanno sentito urlare e ora lo stanno fissando.

Lui li saluta con un grande sorriso, sbracciandosi quasi.

"Ciao Filippo. Ciao Marina" e abbraccia di nuovo Francesca,

volendo suggellare in tutto e per tutto e definitivamente quella

sua

ottima scelta. Anche perché, a essere precisi, ha ventiquattro

anni

meno di lui. I due Accado accennano un sorriso, preoccupati di

essere

diventati incolpevoli testimoni di quella che, almeno per loro,

fino a quel momento era stata semplicemente solo una diceria.

Claudio

lo sa. Ed è felice d'averla del tutto confermata. Poi guarda

Francesca.

Bella, morbida, naturalmente abbronzata, giovane e soprattutto...

non rompicoglioni! E le sorride.

"Certo, se mi fossi chiamato Paolo... saremmo stati noi i Paolo

e Francesca del terzo millennio ! "

E lei, che già non capiva nulla di calcio, fa segno di sì anche

questa volta. Claudio capisce d'essersi spinto troppo in là. È

vero,

non si può avere tutto. E allora, per ritrovare la sicurezza della

sua

scelta, tira fuori una sigaretta. Sta per accenderla ma questa

volta

Francesca sa cosa dire.

"Ma Claudio, ne hai fumata una poco fa..."

"Hai ragione cara." Sorride e rimette la sigaretta nel pacchetto,

poi riprende a guardare la partita. Con la coda dell'occhio, senza

farsi accorgere, osserva ancora Francesca. Lei ciancica una gomma

a bocca aperta, canticchiando una strana canzone brasiliana. Ha lo

sguardo un po' fumato, perso in chissà quale pensiero. Ho fatto

bene?

È veramente questo quello che volevo? Claudio ha un attimo

di panico. Be'... sì, penso proprio di sì. Almeno finché dura. Poi

ripensa

alla sua grande decisione. Al grande salto fatto appena una

settimana prima. In fondo è stata proprio Francesca a convincermi

del tutto. Sì, è lei la donna che aspettavo. Devo tutto a lei. È

merito

suo se la Z4 celeste ora è parcheggiata fuori dal circolo. Allora

Claudio riprende a guardare la partita entusiasta e felice.

"Forza ragazzi! Pareggiate! Fateci un bel goal!" e non sa che

proprio in quel momento un semplice boro della Garbatella si

è portato via la sua Z4. Con un semplice spadino da 1 euro se n'è

portati via 42.000... Euro più, euro meno.

Paolo e mio padre hanno deciso di andare al cinese a via

Valadier. Quello dove vanno tutti e da dove tutti escono puzzando

di fritto. Sono seduti a un tavolo. Ridono e scherzano in

compagnia

delle loro donne. Hanno ordinato un sacco di roba. Dalle alghe

fritte agli immancabili involtini primavera, dal maiale in

agrodolce

alla anatra pechinese. Passando per la zuppa di squalo, il

manzo croccante, i ravioli al vapore e quelli alla griglia, il

piatto

novità. Hanno assaggiato di tutto. Si sono rimpinzati provando

ogni tipo di salsa su quello strano piatto girevole che i cinesi

ti mettono

apposta al centro del tavolo per farti sentire un perfetto

orientale.

Ma quando ti arriva il conto anche se è scritto in cinese e ha

una strana linea finale a indicare uno pseudosconto, dovresti

capire

che per loro sarai sempre e solo un occidentale. Paolo e mio

padre si rubano di mano il foglietto. I cinesi stanno lì davanti.

Si

divertono e sorridono a guardarli. Che gliene frega a loro... Dopo

quella solita ridicola pantomima, comunque vada, uno dei due

pagherà

il conto.

Martina e Thomas sono seduti sulle scalette del comprensorio.

Mangiano un pezzo di pizza. Rossa.

"Però... è proprio buona. Dove la compri?"

"Qua vicino. Ti piace?"

"Molto."

"Sai, volevo offrirtela già da tanto tempo, ma non sapevo se ti

andava. "

"E certo che mi va! Anzi, magari domani la compro io e facciamo

ancora merenda qui. Si sta bene seduti sugli scalini. Ti va?"

"Forte, ok."

Poi Thomas, pulendosi come può la bocca con la maglietta, decide

di raccontarglielo.

" Sai Marti, qualche giorno fa stavo passeggiando in piazza quando

mi è successa una cosa stranissima."

"Cosa?"

"Mah, proprio qui. Stavo aspettando Marco che doveva riportarmi

il pallone e a un certo punto s'è fermato uno su una Honda

blu. Ma uno grande, almeno vent'anni. È sceso, m'ha dato una pezza

in faccia e poi lo sai cosa mi ha detto?"

"No, cosa?"

"Lascia stare Michela. E risalito in moto e se n'è andato. Ma ti

rendi conto? Michela che sta con uno di vent'anni!"

È un attimo. Martina sorride senza farsi vedere. Non ci può

credere. Step. È proprio pazzo quello. È uno di quelli che non

s'incontrano

spesso nella vita. Ma se accade, non c'è che da esserne felici.

Ma Thomas non molla.

"E sai chi sembrava? Ti ricordi quel tipo con il quale parlavi

un po' di tempo fa? Dai, quando io stavo seduto sulla catena e ti

ho salutato e voi stavate lì che parlavate davanti al giornalaio?

Hai

capito chi? "

"Sì, ho capito chi dici. Ma guarda che ti sbagli. Non è proprio

il tipo. E poi scusa, ma ti pare che uno come quello si mette con

Michela? Con Michela ci si mette uno come te."

"Io? Ma che sei pazza? Io le sto dietro perché s'è fregata il mio

ed dei Simple Plan, sai Still Not Getting Any? Gliel'avevo

prestato

un mese fa. Ma si vede che quando le ho detto 'Si chiama Pietro e

torna indietro' lei ha capito che il ed tornava indietro da solo!

"

Martina sorride. Non tanto per il tentativo malriuscito di

battuta,

ma perché inizia a capire come stanno le cose.

"Comunque se è quello il tipo, oh diglielo: 'A me di Michela

non me ne frega niente'."

"E certo per paura..."

"Ma che paura ! Io quello se lo ribecco lo faccio nero. Cioè,

magari

tra qualche anno. Ti giuro che comincerò ad andare in palestra.

Anzi no, di più, mi iscrivo al corso di wrestling, voglio

diventare

come John Cena, magari faccio anche una canzone rap. È un

tipo fortissimo, hai capito chi è?"

No.

"Ma non conosci nessuno! "

Thomas alza le spalle e dà un altro bel morso alla pizza. "Mmm

che buona..."Alla fine sorride anche lui, dimenticandosi di quel

fatto.

E fa bene. Nella vita cerchiamo sempre una spiegazione. Perdiamo

del tempo cercando un perché. Ma a volte non c'è. E per triste

che sia, è proprio quella la spiegazione. Thomas parla con

Martina,

ridono e scherzano di altre cose. Poi si guardano. Lei nello

stesso

modo di sempre. Lui come forse non aveva ancora mai fatto. E

sorride.

Forse perché lei lo ha tranquillizzato su quello schiaffo. Forse

semplicemente perché quella ragazzina non è poi così male. Non lo

sa. Non importa. Nel frattempo la pizza finisce. E qualcosa

inizia.

Poco più lontano. Un altro comprensorio. Lì dove in un modo

o nell'altro andranno tutti. Senza rogiti particolari, senza

investimenti

azzeccati o un colpo di fortuna. Dove si è ospiti naturalmente.

Senza riunioni di condominio, senza un amministratore noioso o

un vicino troppo rumoroso. In quel posto dove non è più importante

quanto guadagni ma quanto sei stato capace di dare. Il cimitero.

Nel silenzio di quei prati curati, tanti nomi e semplici foto non

riescono a raccontare il tanto di tutte quelle vite. Ma i volti, i

sorrisi,

il dolore dei loro visitatori raccontano in un attimo la bellezza

di tutto quello che sono stati e la loro continua mancanza. Ecco.

Da un po' di tempo Pollo non è più solo. Ora a fargli compagnia

c'è un altro pezzo della vita di Step. Sua madre. Tutti e due

hanno

dei fiori bellissimi, ancora freschi di vita e d'amore.

Quell'amore

che Step non ha mai risparmiato, che non ha mai avuto la

possibilità

di dimostrare fino in fondo. E nel silenzio di ogni giorno,

nell'eco

lontana della musica della vita che continua, un amico e una

madre stanno parlando. Di lui. Di tutto quello che è stato, di

quello

che i ruoli della vita non hanno permesso di dire. Quelle parole

che non sono state mai dette ma che sono sempre arrivate. Perché

l'amore non va mai perso.

Quando salgo sulla moto ormai è il tramonto. E proprio in quel

momento la vedo tornare. Gin. Con la sua guida veloce, così come

è lei. Segue la curva con la testa, canticchia la canzone che sta

ascoltando

in quel momento. Chissà qual è. Ma sembra di nuovo allegra.

Come sempre. Come l'avevo lasciata. Bella del suo sorriso, della

vita che ha, dei sogni che rincorre, dei limiti che non conosce.

Libera. Libera da tutto quello che non le interessa e anche di

più.

E allora mi allontano così, vedendola stupita, mentre sorride. E

sono

felice. Come non ero da tanto... Colpevole solo di quella scritta.

Immensa. Su tutto il suo palazzo di fronte. Splendida, diretta,

vera. E ora non ho più dubbi. Non ho rimorsi, non ho più ombre,

non ho peccato, non ho più passato. Ho solo una gran voglia di

ricominciare.

E di essere felice. Con te Gin. Sono sicuro. Sì, è proprio

così. Vedi, l'ho anche scritto. Ho voglia di te.

***

I miei ringraziamenti.

Vorrei dire grazie a tutti coloro che nel bene o nel male, e

soprattutto a loro

insaputa, mi hanno dato uno spunto. In fondo la vita è bella

proprio per questo,

perché non dipende solo da te. Un libro invece sì. Voglio

ringraziare chi mi ha volutamente

aiutato.

Grazie a Giulia e ai suoi ottimi consigli. Ma soprattutto ai

momenti bellissimi

che mi ha regalato. Ne ho nascosti alcuni in questo libro, perché

non vadano

dimenticati.

Grazie a Riccardo Tozzi e a sua nipote Margherita, a Francesca

Longardi e a

tutta la Cattleya, perché senza di loro magari questo mio secondo

libro non sarebbe

mai uscito.

Grazie a Ked (Kylee Doust) ! Al suo entusiasmo, al piacere di

ascoltare i suoi

ricordi che alla fine si confrontano con i miei e diventano dei

preziosi consigli.

Grazie a Inge e Carlo Feltrinelli e a tutti gli amici della forza

vendita che hanno

"materialmente" portato il mio libro in giro per l'Italia.

Grazie a Maddy che mi corregge, mi insegna molto e in cambio ride

e si diverte

imparando un po' di sano "gergo romano".

Grazie a Giulia Maldifassi, a Valeria Pagani e a tutte le amiche

dell'ufficio

stampa che mi hanno fatto conoscere e girare l'Italia!

Grazie ad Alberto Rollo che in maniera severa ma piacevole trova

sempre il

modo per indicarmi la via migliore dello scrivere e io

naturalmente lo ascolto.

Grazie ai Budokani, i miei amici, quelli veri, quelli che ci sono

sempre non

solo nelle pagine e nei ricordi.

Grazie a tutti i miei parenti che mi sopportano e dividono con me

il "divano

dei pensieri".

Grazie a Carlantoine, nobile ispiratore!

Grazie al mio "Brother" Mimmo. Quando gli leggo quello che ho

scritto,

lui chiude gli occhi. Poi sorride e annuisce come a dire: "Sì,

vanno bene". Fa

così anche in mare quando sceglie le correnti e il vento.

Grazie a Luce e ai suoi morselletti che mi piacciono sempre tanto.

Infine alcuni suggerimenti me li dà sempre il mio amico Giuseppe.

Mi sta vicino,

mi ascolta e alla fine ride con me. Devo dire che molto spesso ha

ragione.

Quindi, grazie anche a te.