Vincitore di vari premi Hugo e Nebula e finalista molte altre volte, Gardner Dozois si è ormai conquistato una solida reputazione come autore di ottimi racconti e romanzi brevi. Ci sembra infatti che, pur se autore di un buon romanzo su una storia d’amore tra un umano e un’aliena come (1978), la sua dimensione migliore rimanga quella della «short story», come indica anche quest’agghiacciante visione di una guerra futura tra bianchi e neri.

Gardner Dozois

Dove non splende il sole

Robinson aveva guidato per quasi due giorni attraverso la Pennsylvania, fino alle sterili lande fuligginose del New Jersey, spingendo la macchina con brutale disperazione alla massima velocità e sfidando i propri limiti di resistenza fisica. Completamente esausto, aveva dovuto fare tappa in una cittadina costiera in rovina, piena di case in legno con i rivestimenti esterni lacerati e con pallidi visi che sbirciavano attraverso le imposte chiuse strettamente. Aveva guidato lentamente lungo strade deserte invase da una marea di giornali spiegazzati, cartacce, ed altri rifiuti che rotolavano e frusciavano sospinti dalla pungente brezza marina. Aveva deciso di fermarsi a dormire in una stazione di rifornimento deserta; ed era rimasto con gli sportelli ed i finestrini completamente chiusi, fissando la luna che faceva capolino da una pompa di benzina arrugginita e stringendo tra le mani il cric. Una volta aveva sognato squali con le gambe e, nel tentativo di sfuggire alle fauci spalancate, si era svegliato di soprassalto sbattendo la testa violentemente contro il soffitto; poi si era calmato, sbattendo le palpebre nel calore soffocante ed umido della macchina chiusa, rimanendo ad ascoltare l’oscurità famelica.

Nel chiarore rossastro di quel mattino, un’orda cenciosa di profughi di Atlanta si era riversata nella città, trascinando con sé un’ondata di relitti metallici. Aveva guidato tutto il giorno lungo il mare oleoso agitato, punteggiato di scorie come un grigio tappeto a brandelli, vagando in mezzo al terrore da una città devastata all’altra, guardando i cartelloni pubblicitari divelti e le porte dei negozi sbarrate.

Adesso era notte fonda e lui stava cominciando realmente ad accettare quello che era successo, ad accettarlo con le viscere e non solo con la mente, mentre la dura realtà gli trafiggeva lo stomaco come la lama di un coltello. L’autostrada secondaria su cui si trovava si restrinse, e seguì un tratto sopraelevato; Robinson rallentò per affrontare la curva, trasalendo al gemito del motore mentre scalava le marce. Seguì un lungo rettilineo ed egli premette di nuovo sull’acceleratore, avvertendo la risposta lamentosa e tremante della macchina. Per quanto reggerà questa carretta? pensò. Quanto durerà la benzina? Quanti chilometri ancora? Premette ancora inutilmente l’acceleratore, cercando di scacciare quell’altro inevitabile pensiero, di cancellare l’immagine che da giorni baluginava dietro le sue palpebre: l’immagine di una figura scomposta, distesa di traverso su di un mucchio di pietre, quel tenero corpo annerito e carbonizzato, la pelle lacerata e nera come la carta carbone, striata da rivoli di sangue coagulato…

Si morse le labbra fino a farle sanguinare. Anna, pensò, Gesù, Dolce Gesù, Anna… lo sfinimento stava di nuovo per sopraffarlo, un maglio felpato che lo isolava persino dal reale dolore dei propri nervi.

Sul lato destro della carreggiata, poco più avanti, c’era un ostacolo e si spostò sull’altra corsia per evitarlo. Dopo Filadelfia l’autostrada era stata bloccata da una massa di auto strombazzanti, ma lui conosceva molto bene la rete di strade secondarie e aveva potuto distanziare il branco. Ora le strade erano praticamente deserte. Chi aveva ancora un briciolo di buon senso era già sparito da un bel pezzo dalla circolazione.

Si affiancò al rottame, lo sorpassò. Era un furgoncino, rovesciato su di un fianco e sventrato dal fuoco. Un uomo giaceva riverso sull’asfalto, a cavallo della linea bianca. Se non fosse stato per il pallido luccichio delle mani e del viso, avrebbe potuto sembrare un fagotto di stracci abbandonato. C’erano macchie di sangue sull’asfalto consumato. Robinson si portò ancora di più sulla sinistra per non investire il corpo, sbandò e si rimise in carreggiata. Superato il furgone, ritornò nella propria corsia e accelerò di nuovo. Il furgoncino e l’uomo scivolarono dietro di lui, indugiarono per un attimo nello specchietto retrovisore, illuminati dai suoi fanalini posteriori, e poi vennero inghiottiti dall’oscurità.

Dopo alcune miglia, Robinson cominciò a crollare dal sonno, addormentandosi al volante per qualche frazione di secondo, per poi risvegliarsi scuotendo il capo e sbattendo le palpebre. Imprecando, spalancò completamente gli occhi e abbassò il finestrino. Il vento entrò ululando dalla fessura. L’aria era afosa, impregnata dal fumo del carbone e dai vapori chimici che soffocavano la parte settentrionale del New Jersey.

Con un riflesso automatico, Robinson si sporse verso la radio, la accese e cercò di sintonizzarsi su qualche stazione, aggrappandosi ciecamente a quel mondo invisibile in cerca di qualcuno che gli tenesse compagnia. L’unica risposta furono le scariche di energia statica. Quasi tutte le stazioni di Filadelfia e Pittsburgh non trasmettevano più; quelle zone erano state colpite duramente. L’ultima stazione di Chicago aveva interrotto le trasmissioni all’imbrunire, non appena erano stati segnalati degli scontri fuori dallo stadio. Per un po’, alcuni degli annunciatori avevano fatto riferimento a «forze ribelli», ma poi questa era stata evidentemente giudicata una cattiva propaganda, perché aveva ricominciato a chiamarli «sovversivi» e «anarchici isolati».

Per un attimo captò il segnale di una stazione di Boston, che trasmetteva un conciliante discorso di qualche autorità, ma anche questa scomparve sommersa dalle scariche e venne lentamente rimpiazzata da una stazione di Filadelfia che trasmetteva messaggi di emergenza. Non c’erano più stazioni locali. Probabilmente non c’era più neppure la televisione, non che questa gli mancasse molto. Erano mesi che non vedeva più un documentario o una trasmissione in diretta, ed anche ad Harrisburg, nei giorni che precedettero l’ultima fiammata, avevano completamente smesso di trasmettere notiziari e mandavano in onda solo filmetti comici e vecchi musical degli anni venti (figure allegre che ballavano in frac sui piani a coda, irreali come il delirium tremens nel bianco bagliore tremolante del televisore, con l’eco della musica metallica e delle risate registrate che riempivano la stanza come il grido di uccelli meccanici. Fuori, si udivano occasionali colpi di arma da fuoco…).

Alla fine si sintonizzò su di una stazione che trasmetteva ininterrottamente musica classica, soprattutto Mozart e Johann Strauss.

Guidava meccanicamente, ascoltando un pezzo di Dvorak che chissà come si era infilato tra Haydn e Il Danubio Blu. Assorto nella musica, la mente già confusa cullata dal rumore continuo dell’asfalto sotto le ruote, Robinson riuscì quasi a dimenticare…

Una minuscola stella rossa apparve all’orizzonte.

Robinson la guardò con indifferenza per un po’, prima di accorgersi che diventava sempre più grande; ebbe un attimo di incertezza, prima di capire di che cosa si trattasse, e allora avvertì una stretta allo stomaco.

Imprecò sottovoce, spaventato. Le marce stridettero, la macchina sobbalzò, rallentando. Spinse il freno per diminuire ancora la velocità. Una luce brillò proprio sotto la stella rossa e tinse di bianco la notte, accecandolo. Mormorò una bestemmia, sentì un vuoto allo stomaco e i muscoli delle gambe gli si irrigidirono per la paura.

Robinson spense il motore e lasciò che l’auto si fermasse lentamente. Il faro lo seguì, rimanendo puntato sul parabrezza. Socchiuse gli occhi per il bagliore, ammiccando. Le lacrime gli annebbiarono la vista e il faro si trasformò in una Stella di Davide che irradiava bianche lame di luce. Robinson trasalì e distolse lo sguardo, cercando di rimettere a fuoco l’immagine, ma non osò fare il minimo movimento. La macchina si fermò con un sussulto.

Sedeva immobile, le mani contratte sul volante, ascoltando i sibili acuti e gli scricchiolii metallici del motore che si raffreddava. Si udì il suono di una portiera sbattuta; qualcuno gridò un ordine inintelligibile e vi fu una secca risposta. Robinson guardò di traverso, cercando di scorgere quello che circondava quella nova in miniatura che era il faro. Un rumore di passi scricchiolanti sulla ghiaia. Una figura si avvicinò alla macchina, disegnando un profilo confuso ed indistinto davanti al parabrezza, una macchia pastosa di forma vagamente umana. Qualcosa baluginò, una lama di luce che ruotava nelle mani pastose, come se cercasse di fuggire. Robinson sentì gli occhi farsi pesanti. Si morse le labbra e rimase seduto immobile, ammiccando…

La figura pastosa grugì e si voltò di nuovo verso il faro, con i contorni vaghi e ondeggianti. — Okay — gridò con voce pastosa. Un rumore metallico, e il faro ridusse ad un quarto la propria intensità, diventando un occhio di color arancione cupo. Colori e dettagli si riversarono nel mondo, confusi con le bizzarre sovrapposizioni di immagini bianco-azzurre. La figura pastosa si trasformò in un sergente di polizia di mezza età, tozzo, non rasato, con i capelli brizzolati. Tra le mani aveva un fucile di grosso calibro e le luci danzavano su e giù lungo la canna, disegnando strane increspature sull’acciaio azzurrato. La canna era puntata in direzione della gola di Robinson.

Robinson azzardò un timido sguardo, senza muovere il capo. La stella rossa era la luce di emergenza sul tetto di una macchina della polizia parcheggiata di traverso sulla strada. Un poliziotto più giovane (ancora una recluta… lo si capiva dagli stivali tirati a lucido… la luce riflessa sulle punte color ebano) era in piedi accanto alla luce lampeggiante montata tra il parabrezza e il tetto. Cercava di sembrare truce e implacabile, impugnando goffamente la grossa pistola d’ordinanza.

Un movimento sul lato opposto della strada. Robinson ruotò gli occhi, li socchiuse e poi si morse l’interno delle labbra. Una jeep del CRM, incrostata di fango, era parcheggiata in mezzo alla banchina erbosa. Dentro c’erano tre uomini. Mentre guardava, l’uomo alto nel sedile del passeggero disse qualcosa al guidatore, scavalcò il fianco della jeep e scivolò sui tacchi lungo il terrapieno, producendo una piccola valanga di terra e pietrisco. L’autista fece scivolare le mani dentro la giacca dell’uniforme per scaldarsi, e appoggiò i gomiti al volante, con uno sguardo annoiato e gli occhi socchiusi. Il terzo uomo, un caporale dall’aspetto sudicio, era seduto nella parte posteriore della jeep, vicino alla mitragliatrice calibro 50 montata sul veicolo. Il caporale sogghignò rivolto a Robinson, guardandolo al di sopra della canna della mitragliatrice, e giocherellando con il grilletto.

L’uomo alto emerse lentamente dall’orlo della strada, oltrepassò la recluta nervosa senza degnarla di uno sguardo ed entrò nel cerchio di luce. Mentre si avvicinava alla macchina di Robinson, l’ombra allungata si trasformò lentamente in un tenente del CRM che indossava una sfavillante giacca a vento impermeabile col cappuccio gettato all’indietro. Su di una targhetta di pelle marrone cucita sulla spalla si poteva leggere una scritta logora in stampatello: CONTROLLO REGIONALE DEL MOVIMENTO. Sottobraccio teneva un fucile mitragliatore.

Il sergente della polizia si voltò mentre il tenente si avvicinava alla vettura. La bocca del fucile non si mosse dal petto di Robinson. — Sembra okay — disse. Il tenente borbottò, oltrepassò il sergente e si avvicinò al finestrino del posto di guida. Per un attimo fissò Robinson con uno sguardo privo di espressione, poi appoggiò il fucile mitragliatore nell’incavo del braccio destro. Sollevò lentamente l’altra mano, e picchiò leggermente sul vetro.

Robinson abbassò il finestrino. Il tenente lo scrutò con pallidi occhi azzurri che erano come finestre aperte sul nulla. Robinson lanciò uno sguardo alla bocca dell’arma affusolata, poi lo sollevò verso le labbra serrate del tenente, piccole, sottili ed esangui. Robinson sentì un brivido, mentre i peli delle braccia si rizzavano fino a sfiorare la stoffa dei suoi abiti. — Vediamo i documenti — disse il tenente. La sua voce era secca e tagliente. Lentamente, molto lentamente, Robinson infilò la mano sotto la giacca sportiva stazzonata, e la estrasse porgendo al tenente la carta di identità e i documenti di viaggio. Il tenente li prese, fece un passo indietro e li esaminò con una sola mano, mentre con l’altra continuava a tenere puntato verso Robinson il fucile mitragliatore. La bocca dell’arma automatica era a pochi centimetri e sobbalzava adagio, disegnando un mezzo cerchio sul petto di Robinson.

Robinson si passò la lingua sulle labbra aride e cercò di deglutire senza riuscirci. Il suo sguardo passò dagli occhi freddi e penetranti del tenente alla smorfia stanca del sergente, agli sguardi nervosi e combattivi della recluta e all’espressione indifferente dell’autista, fino agli occhi velati e al ghigno rude del caporale dietro la calibro 50. Tutti lo stavano fissando. Lui era il centro dell’universo. La luce di emergenza pulsava, gettando lunghe ombre confuse tra gli alberi, lambendoli e poi scivolando via rapidamente, con il movimento ritmico di uno yo-yo. Verso nord, all’orizzonte un bagliore infuocato rischiarava nubi, con violente fiammate che subito si affievolivano. Era Newark, che stava bruciando.

Il tenente si agitò, cercando con impazienza di staccare con la mano libera una pagina appiccicaticcia dai documenti di viaggio. Borbottò, piantò uno stivale sulle fiancate dell’auto di Robinson, appoggiò il mitragliatore sul ginocchio ed usò i denti per aprire la pagina incollata. Robinson sorprese la recluta mentre fissava con evidente disapprovazione gli stivali malconci del tenente, e cominciò a ridere nonostante la canna del mitragliatore incombesse su di lui. Ma subito soffocò quella risata, perché già in gola aveva un suono cupo e sinistro; era un riso isterico, che si agitava nel petto come un crepitìo di foglie secche, come il volo di una falena. Il tenente tolse il piede, raddrizzandosi. Lo stivale ricadde sul terreno con un rumore secco, e lasciò un’impronta confusa e fangosa sulla fiancata. Figlio di puttana, pensò Robinson, improvvisamente colto da una furia irrazionale.

Un uccello notturno lanciò un grido sinistro dal folto degli alberi. Si alzò un vento freddo, che spruzzò di pietrisco le macchine, un vento cupo e metallico carico di cenere e di odore di legno bruciato. Il vento sollevò le pagine del documento di viaggio, agitò il pelo sul cappuccio della giacca a vento del tenente, e tentò inutilmente di scompigliare i suoi capelli cortissimi. L’ufficiale continuò a leggere, tenendo ferme con il pollice le pagine svolazzanti. Figlio di puttana, pensò infuriato Robinson, soffocato dalla rabbia e dalla paura. Sadico bastardo. Il lungo silenzio si era fatto pesante come un macigno. La luce di emergenza gettava le sue ombre rossastre sul viso del tenente, tramutando i suoi occhi in due rosse pozze di sangue, poi improvvisamente prosciugate, e le guance nelle vuote orbite di un teschio, di nuovo riempite in pochi secondi. Lui continuava a sfogliare meccanicamente i documenti, senza alcuna espressione.

Improvvisamente richiuse le pagine con un colpo secco.

Robinson sussultò. Il tenente lo fissò per un interminabile minuto e poi gli restituì i documenti. Robinson li prese, cercando di non strapparglieli di mano. — Perché è in viaggio? — chiese con calma il tenente. Le parole gli uscirono in maniera confusa e disordinata: — Viaggio di lavoro… nessun piano… doveva ritornare… sua moglie (era meglio dire moglie. Oh, Anna…). — Il tenente lo ascoltò senza mutare espressione, poi si voltò e fece un gesto alla recluta.

Questa si precipitò a controllare il sedile posteriore ed il baule. Robinson lo sentì respirare ed armeggiare sul sedile posteriore, mentre la macchina ondeggiava leggermente per i suoi movimenti. Robinson continuò a guardare avanti e non disse niente. Il tenente rimase in silenzio, reggendo con noncuranza il mitragliatore con entrambe le mani. Il vecchio sergente si agitava inquieto. — Nulla, signore — disse la recluta. Il tenente annuì e lui ritornò svelto alla macchina. — Sembra tutto okay, signore — disse il sergente spostando il peso con impazienza da un piede all’altro. Sembrava affaticato e si riusciva a scorgere una rete di venuzze blu ai lati della testa brizzolata. Il tenente sembrò riflettere per un attimo e poi fece un cenno affermativo con il capo. — Uh, huh — disse lentamente, poi si risvegliò e rivolse una specie di parodia di sorriso a Robinson: — Certo. Va bene, mister, credo che lei possa andare.

Un altro paio di fari ondeggianti comparvero all’improvviso.

Il sorriso del tenente svanì. — Okay, mister — disse. — Stia buono. Non faccia nulla. Sergente, lo tenga d’occhio. — Si voltò e si diresse verso la macchina della pattuglia. I fari ingrandirono, ballonzolando. Robinson sentì il tenente mormorare qualcosa e il riflettore si illuminò di nuovo. Questa volta era puntato in un’altra direzione e vide il fascio luminoso dardeggiare nella notte, una solida colonna di luce, che cercava insistentemente qualcosa, alla fine catturandola come fosse una falena.

Era un grosso Microbus Volkswagen. Alla luce del riflettore appariva granuloso ed irreale, come una fotografia con troppo contrasto.

Il Microbus rallentò e si fermò ai bordi dell’altro lato della strada. Vide le due persone nel sedile anteriore strizzare gli occhi ed alzare le braccia per ripararsi dalla luce abbagliante. Il tenente si avvicinò con calma, li studiò da alcuni passi di distanza e poi fece un gesto con la mano. Il riflettore ridusse ad un quarto la sua luminosità.

Nel diffuso bagliore arancione, Robinson riusciva appena a distinguere i passeggeri del piccolo autobus: un uomo alto con un maglione nero ed una ragazza nordica con lunghi capelli biondi che le arrivavano alle spalle ed una camicetta arancione. Il tenente passò sul lato del guidatore e batté sul vetro. Robinson poté scorgere i movimenti della bocca, appena accennati, ma chiari e precisi. L’uomo magro gli tese i documenti, rimanendo impassibile. Il tenente cominciò ad esaminarli, sfogliandoli lentamente.

Robinson si agitò impaziente. Sentiva il sudore raffreddarsi su tutto il corpo, e scendere in rivoli appiccicosi sotto le ascelle, dietro le ginocchia, in mezzo alle cosce. I vestiti sembravano incollati alla pelle.

Il tenente con un cenno ordinò alla recluta di avvicinarsi e fece un passo indietro fino a portarsi accanto al cofano. La recluta attraversò di corsa la strada, si avvicinò al veicolo e tentò di aprire la porta laterale scorrevole. Robinson colse il guizzo rapido e nervoso della lingua dell’uomo magro. La donna guardava calma di fronte a sé. L’uomo disse qualcosa al tenente in tono scherzoso. La recluta aprì la porta e fece per arrampicarsi all’interno…

Qualcosa si agitò nello spazio tra il sedile posteriore e il portellone, liberandosi da una pesante coperta militare, poi rotolò sulle ginocchia e subito si rialzò. Robinson vide di sfuggita un viso nero, con gli occhi incredibilmente bianchi per il contrasto, e le narici dilatate dal terrore. La recluta barcollò all’indietro, la bocca spalancata, agitando inutilmente la pistola. L’uomo fece una smorfia, una specie di rictus, i muscoli del collo gli si tesero, le labbra lasciarono scoperti i denti. Cercò di mettere in moto il veicolo.

Una lama di fuoco tagliò l’oscurità, il mitragliatore si lamentò, agitandosi nelle mani del tenente. Lui sventagliò avanti e indietro con l’arma, metodicamente, il viso privo di espressione. Il parabrezza del furgone esplose. I due corpi sussultarono, rimbalzando e danzando in modo grottesco. L’uomo magro si inarcò all’indietro, piegandosi, fino ad assumere una posizione naturale, il viso contratto nel rictus, e poi si accasciò sul volante. La donna ricadde di fianco contro la portiera del veicolo. Questa cedette e lei si rovesciò all’indietro, i lunghi capelli che ondeggiavano in maniera scomposta, un braccio sul capo e le dita aperte, come se cercasse di afferrare qualcosa. La donna scivolò per metà fuori dal furgone, con la testa sull’asfalto. Le lunghe dita fremettero, si chiusero, e poi si aprirono.

La figura scura nel retro del furgone armeggiò freneticamente con il portello posteriore, la aprì, rotolò fuori e cercò di tuffarsi oltre il bordo della strada. Dalla scarpata, la grossa calibro 50 aprì il fuoco, facendo esplodere la parte posteriore del tetto del furgone. Il metallo gemette, esalando nuvole di fumo. Il negro venne colpito mentre era in bilico sul portellone, con un piede sollevato. La calibro 50 continuò a sparare e lo tranciò quasi a metà, mandando il corpo inerte a rotolare per cinque o sei metri lungo la strada. L’arma riprese a crepitare, sollevando frammenti di asfalto. La recluta, gridando per l’eccitazione quasi inumana, stava scaricando il revolver sulla figura senza vita.

Il tenente fece un cenno con la mano e tutto si fermò.

Non c’era nessun suono e nessun movimento.

Gli echi svanirono lentamente.

Il fumo si innalzò in lente spirali dalla bocca del mitragliatore del tenente.

In quell’incredibile silenzio si udì qualcuno singhiozzare. Era Robinson. Quando se ne rese conto, strinse i denti e tese i muscoli dello stomaco per soffocare i conati di vomito. Le dita gli dolevano e sanguinavano nei punti in cui le aveva strette intorno al volante. Il vento accarezzava la sua pelle umida.

Il tenente si avvicinò al posto di guida del Microbus e aprì la portiera. Afferrò l’uomo per i capelli e gli sollevò con forza la testa. Il viso scarno era rilassato, senza rughe, con un’espressione di pace quasi ascetica. Il tenente lasciò la presa e la testa insanguinata ricadde.

Lentamente, il tenente girò intorno al veicolo e per un attimo guardò la donna. Giaceva in maniera scomposta per metà fuori dal furgone, col viso rivolto verso l’alto ed un braccio dietro la testa. Gli occhi erano ancora aperti e fissi. Il viso era intatto; sul corpo, un’orrore rossastro si andava diffondendo alla gola fino all’inguine. Il tenente la osservò, accarezzando gentilmente la canna del mitragliatore, il viso che sembrava scolpito nel marmo. Il vento tagliente sollevò il vestito della donna arrotolandolo intorno alla vita. Il tenente alzò le spalle e si diresse verso il retro del veicolo. Sfiorò con uno stivale il negro riverso sull’asfalto, poi si voltò e tornò velocemente verso l’auto di pattuglia. In alto, il caporale sogghignò e cominciò a ricaricare la sua fumante calibro 50. L’autista riprese a sonnecchiare.

La recluta rimase in piedi a fianco del Microbus; tutta l’eccitazione sembrava svanita, il viso cinereo era fisso sul fumo che si alzava dalla sua pistola, e sugli stivali immacolati, una superficie d’ebano ora punteggiata di macchie rosse. La luce lampeggiante arrossava il volto dei corpi inondandoli con una parodia di vita, subito negata e poi restituita, pulsando incessantemente.

Il vecchio sergente si rivolse a Robinson, le mani serrate sul fucile, il viso contratto e stranito, un profilo pallido e scavato, con occhi giallastri, improvvisamente invecchiato di vent’anni. — È meglio che tu te ne vada di qui, ora, figliolo — disse gentilmente. Spostò il fucile, guardò verso il furgone fumante, distolse lo sguardo e poi guardò di nuovo. La rete di venuzze sulle tempie pulsava. Scosse lentamente la testa, si diresse zoppicando verso l’auto pattuglia con le spalle curve, la mise in moto e la tolse dalla strada.

Il tenente si avvicinò mentre Robinson annaspava con l’accensione. — Alza di qui le tue chiappe — disse il tenente, e infilò di scatto un caricatore nuovo nel suo mitragliatore.