John Child è riuscito a sfuggire al terrore del suo passato. Sì è rifatto una nuova vita, ha riscoperto l’amore. Gli manca disperatamente sua figlia ma di certo non sente la mancanza dell’atroce incubo che si è lasciato alle spalle.

Poi, all’improvviso, tutto ricomincia.

Orribili visioni gli invadono la mente. Una cosa, una creatura incredibilmente forte ha invaso la sua coscienza e lo rende testimone, attraverso i suoi oechi, di assassinii brutali, di mutilazioni orrende.

Senza dubbio John ha un grande potere psichico, ma anche la cosa lo ha. E la cosa lo ha fiutato, è sulle sue tracce sempre più famelica...

James Herbert

La pietra della Luna

Il Passato

Il ragazzo aveva smesso di piangere.

Giaceva sul suo letto stretto, gli occhi chiusi, il volto come una maschera di alabastro nella luce della luna. Ogni tanto un tremore scuoteva tutto il suo corpo.

Si strinse nelle lenzuola, tirandole su, fin sotto il mento. Una pesantezza terribile gli prendeva il corpo, come se nelle vene fluisse piombo liquido; il peso era la sensazione di una perdita, e lo aveva lasciato debole ed esausto.

Il ragazzo giaceva li da molte ore, quante non lo sapeva proprio. Gli ultimi tre giorni erano stati un’eternità senza tempo; ma suo padre gli aveva proibito di muoversi dal letto. E quindi lui giaceva, sopportando la perdita, spaventato dalla nuova solitudine.

Fin quando qualcosa lo costrinse ad aprire di nuovo gli occhi cerchiati di rosso.

La figura era in piedi, gli sorrideva dal fondo del letto. Egli ne sentiva il calore, breve requie dallo strazio. Ma non era possibile. Suo padre gli aveva detto che non era possibile.

«Non puoi… non puoi essere…» disse, la flebile voce appena un tremolio contro la notte. «Lui… dice che… non puoi… essere…».

Il senso della perdita lo invase di nuovo, poiché ora era anche dentro di lei.

D’un tratto il ragazzo sbigottito guardò altrove, in alto, in un angolo della stanza, come se improvvisamente si fosse reso conto di un’altra presenza, di un altro sguardo posato su di lui, invisibile. L’attimo svanì con i passi nel corridoio, ed egli distolse lo sguardo, una paura vera negli occhi. La donna era scomparsa.

Sulla porta, l’ombra fluttuante di un uomo.

«Te l’avevo detto» disse, e alla rabbia e durezza delle parole sembrava mischiarsi la colpevolezza. «Mai più! Mai più…». Aveva il pugno sollevato mentre arrancava verso il ragazzo rannicchiato sotto le coperte.

Fuori, la luna piena era nitida e pura contro il nero della notte.

* * *

Finalmente era morta.

Dove c’era stato il terrore, restava solamente il vuoto.

Occhi morti. Come di un pesce su una lastra di ghiaccio.

Il corpo dormiente, l’ultimo spasimo esaurito, l’ultimo lamento soffocato. L’ultima sua espressione dissolta.

Le dita artigliate erano ancora tese verso la forma sopra di lei, uno dei pollici infilato nella bocca come per strapparle il sorriso.

La forma si alzò, mollando la presa sul collo; il respiro era appena affaticato, nonostante la donna che aveva sotto si fosse dibattuta a lungo.

Si sfilò il pollice dalle labbra beffarde e la mano del cadavere cadde, uno schiaffo sulla carne nuda.

Soppesò la vittima, un sorriso sempre fisso sul volto.

Prese le mani senza vita, stringendone i polsi, tirandole in alto. Si sfregò le unghie rotte lungo il viso, posò le dita irrigidite attorno al proprio collo come per canzonarle, in una parodia ai vendetta. Un sogghigno rauco a deriderne l’inerzia.

A cavalcioni del cadavere, lasciò scivolare le mani sul corpo nudo, muovendole perché toccassero dappertutto, carezzassero ogni parte. Le mortali, morbide carezze suscitavano altre sensazioni.

La forma si diede da fare mentre il corpo della donna si raffreddava lentamente.

Dopo poco si alzò dal letto, un leggero sudore ne ricopriva la pelle. Lungi dall’essere sazia.

Un gelido piovasco batteva contro i vetri con improvvise folate, quasi una protesta contro la crudeltà esercitata all’interno. Le tende sbiadite tirate contro la luce ne soffocavano il rumore.

Aprì di scatto la borsa in un angolo della squallida stanza, ne estrasse un involto nero che svolse sul letto, accanto al cadavere. Nella debole luce lampeggiò l’acciaio degli strumenti. Li alzò uno ad uno e dopo averli esaminati tenendoli vicini agli occhi che baluginavano, scelse il primo.

Il corpo fu squartato dallo sterno al pube, quindi da fianco a fianco. Il sangue colò velocemente dalla profonda incisione a croce.

I lembi della carne furono prima separati poi ripiegati. Le dita già rosse vi si immersero.

Rimosse gli organi, tagliando dove era necessario, e li ripose sulle coperte dove rilucevano fumando.

Per ultimo il cuore, strappato via, gettato sul mucchio da dove scivolando sul viscido cumulo si spiaccicò a terra. Un afrore acre riempiva la stanza.

Fatto un vuoto, lo si riempie facilmente.

La forma cercò in giro per la stanza ogni sorta di piccoli oggetti. Finalmente soddisfatta, tirò fuori ago e filo dall’involto sul letto.

Iniziò a cucire assieme i lembi, bucando le carni con punti grossolani, sorridendo sempre. Il sorriso diventò un ghigno ripensando all’ultimo oggetto riposto nel cadavere.

* * *

Pinnava con lenti movimenti sopra le rocce verdastre, rilassato, muovendo le mani di tanto in tanto, per cambiare direzione, attento alle escrescenze aguzze che tagliavano facilmente la pelle resa morbida dall’acqua. Fletteva lentamente le gambe, partendo dalle anche con colpi lunghi e aggraziati, le pinne semirigide lo spingevano agevolmente attraverso i flutti.

Le alghe creavano effetti ondulanti e i pesci viravano stretti, sorpresi dalla sua improvvisa intrusione, le anemoni silenziosamente sembravano fargli cenno. La luce del giorno filtrava, i raggi sparsi nel santuario segreto e muto del fondo. Childes sentiva solamente il suono sordo e pesante dei propri gesti.

Una breve onda, un movimento nella sabbia, ne attirò lo sguardo e lui si avvicinò cauto, poggiò delicatamente la mano su una balza di roccia, e si fermò oscillando.

Sotto di lui una stella di mare si era attaccata a una vongola e mentre la teneva immobile ne schiudeva le valve con i peduncoli a tubicino. La stella lavorò pazientemente, i cinque tentacoli impiegati uno alla volta, in modo da stancare la preda, allargando con risolutezza l’apertura fino a scoprire i tessuti molli della vongola. Childes guardo con un misto di fascino e di leggera repulsione mentre il cacciatore estrudeva il proprio stomaco per affondarlo nella sostanza carnosa da succhiare.

Un lieve spostamento tra le guglie e le caverne delle rocce vicine, distolse l’attenzione del nuotatore. Perplesso, studiò gli anfratti per qualche momento prima che un ulteriore movimento attirasse il suo sguardo. Il paguro sgattaiolò attraverso la roccia, la conchiglia e le chele ricoperte di alghe verdi, un camuffamento naturale ed efficace sia in acque basse che profonde, nonostante fosse comunque quasi invisibile.

Childes seguì i passi del granchietto, ammirandone l’agilità e la velocità; il piccolo essere era reso ingrandito dalla lente del vetro della maschera e dall’acqua di mare stessa. Il granchietto si fermò d’un tratto come se si fosse accorto di essere osservato e allungò una chela alla ricerca di un’altra rincorsa.

Il sorriso del nuotatore alla vista di quel panico improvviso e fremente era deformato dal boccaglio infilato tra denti e gengive; quando si rese conto di non avere quasi più aria nei polmoni, senza fretta si apprestò a risalire alla superficie.

La visione arrivò senza preavviso, come le altre tanto tempo prima.

Quasi non sapeva cosa vedeva, poiché era nella sua mente non nei suoi occhi; un miscuglio di colori, odori. Le mani gli prudevano nell’acqua. C’era qualcosa di lungo, viscido, attoreigliato, rosso e fradicio. Del metallo, acciaio acuminato contro qualcosa di molle e tenero. Nuotava nel sangue. Stava nuotando nel sangue. Fu preso dalla nausea e risucchiò acqua salata.

Il corpo gli si incurvò per il dolore e la bile mescolata all’acqua salata che eli correva nella gola, esplose nel tubo del respiratore riempiendolo.

Il boccaglio gli sfuggì ed altra acqua gli entrò in bocca. Il grido che emise fu un gorgoglio soffocato. Scalciò, le braccia tese verso la superficie. Bolle impazzite si univano al folle disordine che aveva negli occhi. La superficie illuminata sembrava lontanissima.

Un’altra visione riempì il suo incubo. Mani crudeli, dita tronche, che si muovevano ritmiche. Un folle pensiero-visione. Qualcuno cuciva qualcosa.

Il corpo di Childes s’inarcò di nuovo.

Tentò istintivamente di serrare la bocca, ma senza più controllo le labbra continuavano a far entrare grandi sorsate di acqua salata, quasi stessero cospirando con il mare contro di lui. I sensi gli si spegnevano, sentiva braccia e gambe deboli. Così veloce, pensò. Si diceva che affogare fosse una cosa molto veloce. Eppure, assurdamente, sentiva il cannello ritorto del respiratore che pendendo dalla fascetta della maschera gli graffiava la guancia. Si agitò sentendosi affondare, alla deriva.

Un braccio snello scivolò sotto la sua spalla, afferrandolo forte. Un corpo si abbracciò alla sua schiena. Ora saliva lento, controllato. Cercò di aiutare, ma sentiva calare su di sé un manto cupo.

Esplose alla superficie dal nero, soffocante abbraccio, la vita gli rifluì dentro dolorosamente, non teneramente restituita.

Il suo stomaco e i polmoni sconvolti espellevano liquido, tossì, sputò, rischiando di trascinarli entrambi sott’acqua. Udì vagamente una voce suadente e cercò di seguirne i consigli, si sforzò di rilassarsi, ordinando ai polmoni di inspirare cautamente, sorso a sorso, sputando i residui, tossendo fuori la bile.

Lei lo trainò verso la riva, tenendogli le braccia da sotto i gomiti, la testa poggiata ad un suo braccio. Nuotava sulla schiena al suo fianco, le pinne davano sicurezza al loro moto tra le piccole onde. Il respiro era ancora affaticato ma dopo poco egli poté aiutarla, piegando le gambe a tempo con quelle di lei.

Raggiunsero il bagnasciuga e la ragazza lo issò in piedi. Gli tolse la maschera dal volto e gli mise un braccio attorno alle spalle ingobbite, colpendogli la schiena ogni qualvolta lui rimetteva ancora acqua di mare, piegandosi con lui, il giovane viso segnato dalla preoccupazione. Inginocchiandosi gli tolse le pinne, poi si tolse le sue. Le spalle di lui sussultavano ancora per lo sforzo di respirare; stava mezzo piegato con le mani appoggiate alle ginocchia. Pian piano si rimise, i sussulti diventarono un tremore. La ragazza attese pazientemente, la maschera tirata fin sulla fronte, i capelli biondi, sciolti, scuriti dall’acqua le cadevano grondanti sulle spalle. Non parlava sapendo bene che per ora sarebbe stato inutile.

Alla fine fu lui ad ansimare: «Amy…».

«Va tutto bene, arriviamo fino alla spiaggia.»

Uscirono dall’acqua, barcollando un po’, il braccio di lei sotto le sue spalle per sostenerlo. Childes si accasciò sulla sabbia: si sentiva nello stesso tempo scioccato, disgustato. Lei si sedette accanto a lui scostandogli i capelli dagli occhi, massaggiandogli la schiena.

Erano soli nella piccola baia lontana; la ripida salita attraverso le rocce erose per molti era troppo impegnativa e una fredda brezzolina di libeccio teneva lontana l’altra gente. Una vegetazione abbondante ricopriva la china bordata al fondo di una cinta di pietra, granito ben dilavato dalle furiose maree. I primi fiori di maggio erano sparsi sul crinale macchiando di giallo, di verde e di blu la vegetazione. Una cascatella sgorgava vicina, il ruscello correva tra ciottoli e sassi fino a raggiungere il mare. Al largo piccole barche da pesca, gozzi per lo più, dondolavano quieti sulla superficie piatta dell’acqua, le corde d’attracco come fili grigi tesi verso un piccolo molo all’altro capo dell’insenatura. Al molo si arrivava attraverso un sentiero stretto, separato dalla spiaggia da una muraglia sparsa di massi rocciosi. La ragazza notò dei visi che scrutavano nella loro direzione dal molo, evidentemente preoccupati della scena veduta; agitò un braccio per segnalare che tutto andava bene e si voltò.

Childes si sedette, si strinse le ginocchia tra le braccia e vi poggiò la testa. Tremava ancora.

«Mi hai spaventata, Jon» disse la ragazza inginocchiandosi davanti a lui.

Lui la guardò, pallido in viso. Si passò la mano sugli occhi come per scacciare un ricordo.

«Grazie per avermi tirato fuori» disse infine.

Lei si chinò in avanti, gli baciò la guancia poi la spalla. Aveva negli occhi una certa curiosità. «Ma cos’è successo là sotto?»

Il suo corpo ebbe un sussulto, e lei si rese conto di quanto freddo avesse. «Prendo la coperta» disse alzandosi.

I piedi nudi non recero caso al ciottolato duro mentre correva verso il mucchio dei loro abiti e delle borse posati su un lastrone piatto poco lontano. Childes ne guardò l’agile figura mentre prendeva una coperta da un borsone e fu grato della sua presenza, non solo perché l’aveva tirato fuori dal mare ma perché c’era. Spostò lo sguardo verso il mare, un nastro bianco all’orizzonte messaggero di tempesta.

Chiuse gli occhi e sentì in gola il sapore di sale. Lasciò cadere la testa e mugolò piano.

Ma perché adesso? Dopo tanto tempo?

Il peso della coperta sulle spalle lo fece riprendere un poco.

«Bevi» disse Amy, tenendogli sotto il naso una fiaschetta d’argento.

Il brandy gli tolse un poco il sapore di sale e ne sentì con piacere l’improvviso calore. Alzò un braccio e lei s’infilò sotto la coperta con lui.

«Stai bene?» chiese accoccolandosi. «Ti ho portato gli occhiali».

Li prese e li inforcò. Il mondo messo a fuoco non pareva più reale di prima.

Quando parlò la voce era malferma. «Sta accadendo di nuovo» disse.

* * *

«Domani?» chiese.

Amy scosse la testa. «Papà ha ospiti, tutto il giorno». Roteò gli occhi. «Sono di servizio».

«Affari?»

«Già! Potenziali investitori di Lione. Li ha invitati per il fine settimana, ma grazie a Dio sono potuti venire solo per la domenica. Vanno via lunedì pomeriggio dopo una visita alla società. Papà è dispiaciuto, avrebbe voluto mostrare loro tutta l’isola.»

Paul Sebire, il padre di Amy, era amministratore delegato della Jacarte International, una potente società finanziaria con sede sull’isola che era essa stessa un paradiso fiscale sia per quelli del continente che per quelli del Regno Unito. Nonostante fosse più vicina alla Francia infatti, era decisamente di dominio inglese.

«Peccato.» commentò Childes.

«Mi dispiace Jon». Si sporse all’indietro nella macchina per baciarlo; i lunghi capelli, ora raccolti, attoreigliati attorno al collo gli carezzavano il petto.

Egli restituì il bacio, assaporando l’odore di mare su di lei, assaggiando il sale dalle sue labbra.

«Ma non si rilassa mai?» chiese.

«È rilassante per lui. Ti avrei fatto invitare ma non credo che ti saresti divertito.»

«Mi conosci bene». Si preparò a partire. «Abbracciami tuo padre.»

Lei fece una smorfia. «Dubito che lo apprezzi. A proposito di prima, Jon…»

«Grazie d’avermi tirato fuori.»

«Non intendevo questo.»

«Quello che ho visto?»

Lei annuì. «È così tanto tempo.»

Jon guardò diritto davanti a sé, ma si guardava dentro. Poi rispose: «Non ho mai pensato che fosse veramente finita.»

«Ma sono passati tre anni. Perché deve ricominciare ora?»

Childes si strinse nelle spalle. «Forse è un caso. Può darsi che non succeda più. Forse la mia fantasia mi ha fatto un brutto scherzo.» Sapeva bene che non era così, ma ora non aveva voglia di discuterne. Chiuse gli occhi. Allungandosi sul volante le toccò il collo. «Dai, non guardarmi così. Tu divertiti domani, poi ci vediamo a scuola lunedì. Ne parliamo allora.»

Amy prese il borsone dal sedile posteriore. «Mi chiami stasera?»

«Pensavo che tu volessi correggere dei compiti.»

«Non ho molta scelta vista la domenica così piena. Ma un intervallo me lo sarò meritato no?»

Lui rispose con tono scherzoso: «Okay, prof. Ma non mi maltrattare le ragazze.»

«Dipende da cos’hanno scritto. Non so più se sia più difficile insegnargli il francese o un inglese decente. Per lo meno con i computer sono le vostre macchine a correggere gli errori.»

Lui sbuffò e sorrise. «Vorrei che fosse così facile.» Le baciò la guancia mentre usciva dall’auto. Le prime gocce di pioggia bagnarono i vetri.

«Abbiti cura Jon!». Voleva, doveva dire di più, ma sentiva le resistenze di lui. Imparare a conoscere Jon era stato un lungo lavoro, ancora oggi sapeva che c’erano degli angoli nascosti, bui, dentro di lui, irraggiungibili. Si chiese se la sua ex moglie avesse mai provato a farlo.

Amy guardò la piccola Mini nera allontanarsi, fece un gesto di saluto, pensierosa. Si girò e si affrettò, attraverso la cancellata di ferro battuto, correndo per il breve viale fino alla casa prima che prendesse a piovere sul serio.

Childes lasciò dopo poco la strada principale, svoltando in una delle viuzze che ramificavano l’isola come piccole vene che si dipartono dalle arterie principali; di tanto in tanto rallentava accostandosi alle siepi e ai muri che costeggiavano la strada. Teneva stretto il volante tanto da far risaltare il bianco delle nocche, guidando per riflesso più che coscientemente; nella mente, ora che era solo, si affollavano altri pensieri.

Quando arrivò finalmente al cottage era di nuovo tremante, in bocca di nuovo sentiva il sapore acro della bile.

Guidò la Mini attraverso lo stretto ingresso davanti alla vecchia casa di pietra, uno spiazzo che egli aveva ripulito dagli sterpi e dai rovi quando era arrivato. Spense il motore. Lasciò la borsa con le cose del mare e saltò giù dalla macchina cercando goffamente la chiave del portoncino. La chiave non voleva entrare nella toppa. Finalmente gli riuscì, sospinse la porta e infilò il corridoio, appena in tempo. Lo stomaco gli salì come un ascensore e vomitò nel fondo della tazza del piccolo bagno, ma gli parve di aver rigettato solo una piccola parte della roba che gli torceva le viscere. Si soffiò il naso con della carta e tirò lo sciacquone, guardando la carta morbida avvitarsi fin quando non venne rapidamente risucchiata. Si tolse gli occhiali dalla montatura scura e si lavò il viso con l’acqua fredda tenendo le dita premute sugli occhi, rinfrescandoli. Childes si guardò nello specchio mentre si asciugava il viso: il riflesso era pallido, le occhiaie scure sembravano finte. Allungò le mani tendendo le dita che non riusciva a tenere ferme.

Si rimise gli occhiali, passò nel soggiorno e si chinò per passare attraverso la porta; non era poi tanto alto ma l’edificio era vecchio, i soffitti bassi e ancor di più le porte. La stanza era di dimensioni ridotte, ma lui non vi aveva piazzato troppa roba; un vecchio divano logoro, una TV portatile, un tavolinetto quadrato, le basse scansie che incorniciavano il caminetto erano ricolme di libri; su una di queste, accanto a una lampada c’erano delle bottiglie con dei bicchieri. Jon prese una bottiglia di scotch e se ne versò una robusta dose.

Fuori la pioggia cadeva decisa. Egli rimase accanto alla finestra che dava sul giardinetto posteriore, guardando fuori incupito. Il cottage, in fila con altri appena distaccati tra di loro, sul retro dava su campi aperti. Una volta le case erano state alloggi per braccianti della tenuta, ma la tenuta era stata frazionata e venduta da un pezzo. Childes era stato fortunato a trovarne una in affitto, poiché sull’isola era difficile trovare case libere. Era stata la preside, Estelle Piprelly, ansiosa si avere a disposizione la sua abilità con i computer, ad indicargli quel luogo. Il suo notevole prestigio lo aveva aiutato poi ad ottenere il contratto di locazione.

In lontananza sulla penisola s’intravedeva appena il college, una strana accozzaglia di edifici che si era sviluppata negli anni in tanti stili poco armonici. La struttura principale, con una torre, era bianca. Ma da così lontano era appena una protuberanza grigiastra attraverso il velo della pioggia, contro il cielo abbrunato da nuvoloni rigonfi.

Quando Childes era fuggito dall’Inghilterra, dalla pubblicità perniciosa, dagli sguardi curiosi, non solo di amici e colleghi, ma anche di sconosciuti che avevano visto il suo volto alla televisione o nei giornali, l’isola aveva rappresentato un rifugio sicuro. Qui vi era una comunità chiusa in se stessa, le complicazioni della madrepatria erano tenute volutamente a distanza. Eppure, per quanto raggomitolata su se stessa, quella comunità non aveva avuto difficoltà ad accoglierlo tra i poco più di cinquantamila abitanti. L’interesse morboso, le accuse — il ricordo gli fece stringere forte il bicchiere — erano alle sue spalle, e voleva che rimanesse così.

Childes vuotò il bicchiere e se ne versò un altro; come il brandy di prima anche lo scotch aiutava a far scomparire dalla bocca il sapore amaro che vi ristagnava. Tornò alla finestra ma vide riflesso solo il fantasma di se stesso. La giornata stava già scivolando nell’oscurità.

Ma si trattava della stessa cosa? Le immagini che gli erano apparse sott’acqua potevano ancora avere a che fare con quei terribili incubi e visioni che lo avevano tormentato tanto tempo prima? Non sapeva cosa pensare, l’essere quasi affogato gli aveva alterato la memoria. Eppure per un attimo, mentre giaceva ansimante sulla spiaggia aveva avuto la certezza che le visioni fossero tornate.

Fu preso dal terrore. Aveva freddo eppure il sudore gli bagnava le tempie. L’ansia gli strinse la gola, una nuova angoscia lo colpì.

Uscì nell’ingresso, alzò il telefono e compose un numero. Dopo poco rispose una voce ansimante.

«Fran?», chiese dipingendone il viso sul muro di fronte con la fantasia.

«E chi sennò? Sei tu Jon?»

«Sì!»

Seguì una lunga pausa, poi la sua ex moglie disse: «Beh? Mi hai chiamata, avevi qualcosa da dirmi?»

«Dov’è… come sta Gabby?»

«Sta bene tutto sommato. È qui accanto da Annabel, giocando a chi fa più casino. Credo che Melanie avesse intenzione di esiliarle in giardino, ma ci si è messo il tempo, qui sta diluviando. Lì come va?»

«Lo stesso, credo che sia in arrivo un temporale.»

Ancora un silenzio.

«Senti Jonathan, ho un po’ da fare. Devo essere in città per le quattro.»

«Lavori anche di sabato adesso?»

«In un certo senso. Oggi arriva a Londra un nuovo autore. L’editore vuole che lo coccoli un po’, devo spiegargli il programma del giro che farà la prossima settimana.»

«Non poteva pensarci Ashby?»

Rispose secca. «Mandiamo avanti l’agenzia in due, io faccio la mia parte. E poi còs’altro t’aspetti da una carrierista rinata a nuova vita?»

L’accusa, appena velata, colpì nel segno, e lui si chiese se lei sarebbe mai riuscita ad accettare il fatto che lui se ne era andato. Scappato, avrebbe detto lei.

«E di Gabby chi si cura?»

«Cenerà da Melanie, poi passa Janet a prenderla.» Janet era la ragazza che Fran aveva assunto come baby-sitter quotidiana. «Rimarrà con Gabby fin quando non torno. Va bene così?»

«Senti Fran… non volevo dire…»

«Nessuno t’ha costretto, potevi fare a meno di andartene.»

«Potevi fare a meno di restare lì.» rispose quieto.

«Mi chiedevi di rinunciare a troppe cose.»

«Ma l’agenzia era solo part-time, allora.»

«Ma per me era importante. E adesso lo è ancora di più, deve esserlo. È poi c’erano altre ragioni, la nostra vita.»

«Era diventata un inferno.»

«E di chi è stata la colpa?». La voce le si ammorbidi, come se si pentisse delle proprie parole. «Va bene, lo so, le cose sfuggivano al tuo controllo: ho cercato di capire, di affrontarle. Ma sei stato tu a voler scappare.»

«C’era dell’altro, e tu lo sai.»

«Io so che alla fine tutto si sarebbe risolto!». Sapevano entrambi cosa intendeva dire.

«Non ne puoi essere certa.»

«Senti, adesso non ho tempo di discuterne, mi devo sbrigare. Darò i tuoi baci a Gabby e magari ti chiamerà domani.»

«Vorrei vederla presto.»

«Beh, non lo so. Forse a fine trimestre. Vedremo.»

«Fammi un favore Fran.»

Lei sospirò, la rabbia era svanita ormai. «Dimmi.»

«Passa da Gabby prima di andare via. Un salutino, sai! Assicurati che stia bene.»

«Ma che ti piglia, Jon? L’avrei fatto comunque, ma cosa ti viene in mente?»

«Niente, niente, sarà questa vecchia casa vuota. Uno si preoccupa, sai com’è.»

«Mi sembri strano. Sei veramente tanto giù?»

«Passerà! Scusa il disturbo.»

«Non ti preoccupare. Ti serve qualcosa, Jon, vuoi che ti mandi qualcosa?»

Gabby! Mandami mia figlia. «No, grazie, non mi serve niente. Va tutto bene. Grazie lo stesso.»

«Okay. Adesso devo proprio andare.»

«Buona fortuna col tuo autore.»

«Per come vanno gli affari prendiamo tutto quello che capita. Gli faremo una buona promozione. Ci sentiamo, ciao.»

La comunicazione si interruppe. Childes tornò in soggiorno e si accasciò sul sofà; non voleva un altro scotch. Si tolse gli occhiali, e si strofinò gli occhi con le dita irrigidite: l’immagine della figlia gli galleggiò brevemente davanti agli occhi. Gabriel aveva quattro anni quando lui se n’era andato. Sperava che un giorno avrebbe capito il perché.

Riposò a lungo, la testa contro lo schienale del sofà, le gambe stese sul tappetino che ricopriva il pavimento di legno lucido, gli occhiali nella mano tenuta sul petto; ogni tanto fissava il soffitto, o chiudeva gli occhi cercando di ricordare che cosa aveva visto.

Per qualche motivo tutto ciò che riusciva a visualizzare era il rosso. Un rosso spesso, sciropposo. Gli sembrava addirittura di sentire l’odore del sangue.

* * *

Il primo degli incubi lo sorprese quella notte stessa.

Si svegliò rigido e impaurito. Solo.

Lo strascico del sogno rimaneva ma non riusciva a metterlo a fuoco. Sentiva solamente una cosa biancastra, tremolante, un fantasma imprendibile. Svanì man mano che la luce della luna riempiva la stanza.

Childes si sedette sul letto, appoggiando la schiena contro il muro fresco. Era gelato, la paura lo sfiorava dandogli brividi di sgomento. E non sapeva perché, non ne trovava il motivo.

Fuori il silenzio immoto della notte argentata venne lacerato dal grido lugubre di un gabbiano solitario.

* * *

«No Jeanette, dovrai tornare indietro a verificare. Ricordati che il computer non ha un cervello suo, dipende completamente dal tuo. Una sola istruzione sbagliata e non è che si confonda, fa il broncio. E non ti dà quello che vuoi.»

Childes sorrise alla ragazzina, un po’ stanco dei suoi regolari errori di fondo, ma ben conscio del fatto che non tutte le menti dei giovani erano in sintonia con il rapido avanzare dell’era tecnologica, a dispetto di ciò che i giornali e i supplementi a colori della domenica andavano ripetendo. Ormai fuori dal mondo del commercio dei computer, aveva dovuto rallentare, prendere il passo dei ragazzi a cui insegnava. Alcuni avevano intuito, altri no, ed egli doveva spingerli a superare le loro frustrazioni.

«Forza, ricomincia da RETURN, ripeti ogni fase passo per passo, lentamente questa volta. Se pensi ad ogni mossa non puoi sbagliare.»

L’occhiata era molto poco convinta. Lui pure.

Lasciò Jeanette a mordicchiarsi il labbro inferiore, ogni tasto premuto con eccessiva decisione, come se vi fosse una battaglia di volontà, tra la ragazzina e la macchina.

«Ottimo Kelly, proprio bene!»

La quattordicenne lo guardò raggiante, la luce degli occhi forse troppo intensa. Egli scrutò con approvazione lo schermo.

«È proprio tuo questo grafico?» chiese lui.

Lei annuì guardando di nuovo il display visivo.

«Pare proprio che non ce la farai con le spese.»

«Sì, quando manderò a casa lo stampato, papà non potrà che arrendersi all’evidenza dei fatti.»

Childes rise. Kelly aveva fatto presto a capire il potenziale della microelettronica. C’erano sette di queste macchine poste su tavoli sparsi per la classe, che faceva parte del laboratorio di scienze. I computer erano continuamente utilizzati, anche quando lui non era disponibile alla supervisione delle attività. Era stato fortunato, quando era venuto — fuggito — sull’isola. Tutti i college, molti dei quali privati, erano pronti a dotarsi dei computer per poter rispondere alla domanda dei genitori, che pagavano, e che si aspettavano che la materia facesse parte degli studi dei figli. Fino al suo arrivo nell’isola, Jon era stato consulente di una società di servizi che assisteva le aziende fornendo sistemi di computer adatti alle loro esigenze, qualsiasi esse fossero. Consigliavano l’impianto e il software più adatto, preparavano programmi specifici, spesso installavano i macchinari e gestivano corsi d’addestramento intensivi per l’utenza. Una delle funzioni di Childes era di individuare gli intoppi del sistema, risolvere quei problemi che inevitabilmente sorgono all’inizio di ogni operazione. Aveva un intuito eccezionale, geniale, dicevano alcuni. Riusciva a dipanare l’intrico fino a scoprire qualsiasi errore. Era altamente specializzato, molto ben pagato, e stimato da tutti i suoi colleghi; la sua partenza fu comunque di sollievo a molti.

Kelly sorrideva. «Ho bisogno di un altro programma adesso», disse.

Childes controllò l’orologio. «È un po’ tardi per cominciarne uno nuovo. Te ne darò uno più difficile la prossima volta.»

«Io potrei restare.»

Un’altra delle ragazzine fece un risolino e Childes non riuscì a trattenere un leggero rossore. Ridicolo. Quattordici anni, Cristo!

«Sì, forse tu potresti, ma io no. Metti in ordine il tavolo fino a che non suona la campanella. Anzi meglio ancora, dai una mano a Jeanette, sembra che abbia qualche problema.»

Negli occhi una fiammella di disappunto, ma il sorriso rimase. «Sissignore» fece, un po’ asciutta.

Scivolò verso il monitor di Jeanette e lui criticò mentalmente il suo modo di fare, i movimenti del corpo troppo sapienti per la sua età. I capelli chiari cortissimi e il nasino dispettoso accompagnati dal seno che già sbocciava contrastavano con l’immagine infantile rappresentata dall’uniforme della scuola: gonna blu, camicia bianca e cravatta a righe. In confronto Jeanette era proprio una scolaretta, la donna in lei non si vedeva affatto. Evidentemente le differenze non riguardavano solo i computer.

Passò tra i tavoli, chinandosi di tanto in tanto per dare istruzioni, suggerire procedure corrette; alcune delle ragazze si dividevano una macchina e si comunicavano l’un l’altra il loro entusiasmo. La campanella lo sorprese anche se sapeva che mancava poco.

Si drizzò e vide che Kelly e Jeanette non sembravano andare molto d’accordo. «Spegnete le vostre macchine», disse. «Vediamo, quand’è che ci rivediamo?»

«Giovedì!», risposero in coro.

«Bene, allora vedremo di ripassare tutti i vari tipi di computer, poi parleremo degli sviluppi futuri. Spero che avrete delle domande interessanti da farmi.»

Qualcuna brontolò. «Problemi?»

«Quand’è che passeremo alla grafica?» chiese una ragazza. Il viso tondo, da cherubino, pieno di disappunto.

«Tra poco, Isabel. Quando sarete pronte. Adesso andate e non dimenticatevi nulla, chiudo a chiave quando vado via.»

La corsa alla porta non fu proprio quello che la preside del college La Roche avrebbe apprezzato, ma Childes non si sentiva né insegnante né educatore, ma solo un consulente di computer di questa e di altre due scuole dell’isola. Finché i ragazzi rimanevano sotto controllo e sembravano assorbire buona parte di ciò che lui spiegava, gli piaceva mantenere una atmosfera rilassata in classe; non voleva che le macchine li mettessero in soggezione, e l’atteggiamento informale era d’aiuto. Di fatto trovava gli alunni di tutt’e tre i college estremamente ben educati, persino quelli del college maschile.

Aveva gli occhi irritati dalle lenti a contatto morbide. Pensò di rimettersi gli occhiali che teneva sempre nella ventiquattrore, a portata di mano per i casi di emergenza. Troppa fatica, decise di no. L’irritazione sarebbe passata.

«Toc, toc.»

Si voltò e vide Amy sull’uscio spalancato.

«Il signore viene fuori a giocare?» scherzò.

«E una proposta?»

«Perché no!». Amy entrò nella stanza; i capelli li teneva in una crocchia, un tentativo di sembrare professorale. Per Childes era un tocco di sensualità in più, così come lo era il vestito verde chiaro, tutto abbottonato, poiché sapeva cosa c’era sotto. «Hai gli occhi stanchi» disse, guardandosi alle spalle verso la porta aperta, poi lo baciò brevemente sulla guancia.

Egli si trattenne dall’impulso di stringerla a sé. «Com’è andata la giornata?»

«Lasciamo perdere. Ho fatto recitazione.» Ebbe un fremito. «Sai cosa vogliono rappresentare a fine trimestre?»

Lui lasciò cadere dalle carte nella valigetta e la richiuse di scatto.

«Dimmelo!»

«Dracula! Te la immagini la faccia di Miss Piprelly quando glielo dirò? Mi terrorizza solo l’idea!»

Lui sogghignò. «Mi sembra ottimo! Sempre meglio di quel Nicholas Nickleby, per l’ennesima volta.»

«Bene! Le dirò che Dracula ha la tua approvazione.»

«Ma io sono solo un esterno. Non faccio parte del corpo insegnanti, la mia opinione non conta.»

«Perché, la mia sì? La preside non sarà proprio un ayatollah, ma qualche parentela c’è di sicuro.»

Lui scosse la testa sorridendo. «Non è poi tanto male. Un pò ansiosa forse. Tiene troppo all’immagine della scuola, ma la posso capire, ci andate giù duro con le scuole private in quest’isoletta.»

«Questo succede quando si è un paradiso fiscale. Comunque hai ragione, la concorrenza è spietata, e il consiglio d’amministrazione non perde occasione per ricordarcelo. Un po’ di solidarietà gliela do, ma…»

Si accorsero di una figura sull’uscio.

«Ti sei dimenticata qualcosa Jeanette?» chiese Jon, chiedendosi da quanto era lì.

La ragazzina lo guardò con timidezza. «Mi scusi, prof, credo di essermi dimenticata la stilo sul tavolo.»

«Okay, cercala pure.»

A testa china, Jeanette entrò nella stanza, a piccoli passi frettolosi. Era una fanciulla dall’incarnato olivastro, gli occhi scuri, un giorno forse sarebbe stata carina. Piccola per l’età che aveva, i capelli informi, senza traccia di uno stile. La giacca blu, troppo grande, la rimpiccioliva ancora di più. Aveva poi una timidezza tenerissima che Childes, qualche volta, trovava un tantino esasperante.

Si mise a cercare attorno al computer che aveva adoperato. Amy la guardava con un leggero sorriso mentre Childes si apprestò a staccare le prese dei macchinari. Jeanette sembrò non avere fortuna e finì per fissare avvilita il computer quasi che questi avesse misteriosamente ingoiato l’oggetto mancante.

«Niente?» chiese Childes avvicinandosi e chinandosi a sfilare la spina.

«Nossignore!»

«Certo che no. Eccola qui per terra.» Inginocchiandosi le porse la penna che aveva perduto.

Con un che di solenne, gli occhi bassi, Jeanette la prese. «Grazie» disse, e Childes fu sorpreso di vederla arrossire e fuggire dalla stanza.

Staccò la spina e si drizzò. «Cos’hai da sorridere?», chiese a Amy.

«Quella povera piccola ha una cotta per te.»

«Jeanette? Ma se è una bambina!»

«In una scuola per sole femmine, un maschio appena appena decente attira per forza l’attenzione, non te ne sei accorto?»

Alzò le spalle. «Un paio di loro mi avranno anche guardato strano, ma… e poi come sarebbe a dire appena decente?»

Con un sorriso Amy gli prese il braccio e lo condusse verso la porta. «Dai. La scuola è finita e io ho proprio bisogno di un po’ di pace. Una corsetta in auto e poi un gin and tonic con tanto ghiaccio prima di andare a casa per la cena.»

«Ancora ospiti?»

«No, no. Solo la famiglia stavolta. A proposito, sei stato invitato a cena questo fine settimana.»

Aggrottò la fronte. «Tuo padre ha cambiato idea?»

«Bah, non direi, gli sei comunque antipatico. Diciamo che c’è lo zampino della mamma.»

«Ah! Bene. Sono proprio contento!»

Lei lo guardò e gli fece una smorfia, stringendogli il braccio prima di affrontare il corridoio. Lungo le scale sentiva la scia di commenti sussurrati da numerose allieve, vide qualche gomitata. Lei e Jon si comportavano in modo molto formale quando erano in pubblico a scuola, ma bastava un passaggio in macchina a far correre le parole.

Raggiunsero le grandi porte a vetri dell’edificio, una struttura relativamente nuova che ospitava i laboratori di scienze, le aule di musica e di lingue. Era separata dall’edificio principale da un vialetto circolare con in mezzo un’aiuola. Al centro di quest’ultima una statua del fondatore del La Roche fissava stoico l’edificio primario come se dovesse tenere il conto di quanti passavano per il portone. Le ragazze si affrettavano attraverso il cortile, chi verso il parcheggio alle spalle del palazzo, chi verso i dormitori e le sale comuni nell’ala meridionale, un chiacchiericcio sfrenato dopo la lunga giornata di disciplina. L’aroma salmastro della brezza che saliva dalle scogliere era un piacere dopo il chiuso delle aule. Childes aspirò profondamente scendendo con Amy le scale di calcestruzzo della costruzione.

«Signor Childes, permette un attimo?»

Entrambi mugugnarono piano, la preside faceva cenno dall’altro lato del viale.

«Ti raggiungo» mormorò, accennando con la mano alla preside.

«T’aspetto vicino ai campi da tennis. Ricordati che sei più grosso di lei.»

«Ah sì? E chi lo dice?»

Si separarono. Childes seguì un percorso diritto, attraversò l’aiuola dirigendosi verso la preside che attendeva. La sua smorfia gli suggerì che avrebbe dovuto aggirarla. L’unica parola che ben si adattava alla signorina Piprelly era «diritta»: stava sempre eretta, si rilassava di rado, e aveva il volto particolarmente angoloso, quasi senza una curva, una morbidezza. Persino i corti capelli, tendenti ormai al grigio, erano pettinati in un’unica piega perfettamente parallela al terreno; le labbra sottili, pur senza essere cattive, non rivelavano tracce di umorismo alcuno. La montatura quadrata degli occhiali si sposava coerentemente alla generale linearità della donna. Persino i seni si rifiutavano di cambiare l’aspetto complessivo e Childes si era chiesto spesso se non fossero trattenuti mediante un artifizio. Quando era in vena di cattiverie aveva anche pensato che non li avesse affatto.

Aveva ben presto scoperto che la professoressa Estelle Piprelly, plurilaureata, sempre con lode, era meno severa di quanto sembrasse, anche se ogni tanto si lasciava andare.

«Mi dica signorina Piprelly» fece lui, fermandosi sullo scalino all’ingresso.

«Potrà sembrarle prematuro, ma sto preparando il corso di studi per l’anno prossimo, Childes, ed è necessario poter offrire tali informazioni ai genitori delle ragazze; inoltre il consiglio di amministrazione preme perché sia prima delle vacanze estive. Allora, stavo pensando che lei potrebbe dedicarci un po’ più del suo tempo dall’autunno prossimo. Pare proprio che i computer siano in auge, nonostante io non ne veda il motivo.»

«Beh, non so, lei sa che ho anche i corsi al Kingsley e al de Montfort.»

«Sì, ma so anche che le rimangono comunque parecchie ore libere. Sono sicura che potrebbe farci scappare qualche ora in più per la nostra scuola.»

Come si faceva a spiegare a una persona come lei che viveva solo del e per il proprio lavoro, che per lui non era affatto prioritario. Non più. Era cambiato, dentro, era cambiata la sua vita.

«Un pomeriggio in più, Childes, il martedi magari?». Lo sguardo teso non ammetteva rifiuti.

«Mi ci faccia pensare un poco», rispose lui guardandola irrigidirsi, infastidita.

«Bene, ma devo approntare la bozza del piano entro il fine settimana…»

«Glielo faccio sapere entro giovedì.» Sorrise, ma era seccato della nota di scuse nella propria voce.

«A giovedì allora.» Il sospiro sembrò un lamento esasperato.

Il colloquio era già finito, niente buongiorno, niente, come se lui non ci fosse più. La Piprelly stava richiamando un gruppetto di ragazze che come lui avevano attraversato il prato. Egli sgusciò via quasi di nascosto, ma poi allungò il passo cercando di apparire naturale.

Dopo aver sgridato il gruppo di ragazze (cosa che fece con poche secche parole e senza alzare la voce), Estelle Piprelly posò nuovamente lo sguardo sull’insegnante che si stava allontanando. Camminava con le spalle leggermente curve, studiando il terreno davanti a lui come se pianificasse ogni appoggio del piede, un uomo abbastanza giovane che a volte sembrava particolarmente logorato. No, forse logorato non era il termine giusto. C’era qualche volta un’ombra in quegli occhi, un’angoscia latente che balenava.

Aggrottò la fronte che si riempì di rughe, e con le dita stuzzicò sovrapensiero un filo che le pendeva dalla manica.

Childes la turbava, e lei non poteva spiegarsene la ragione. Era un ottimo professionista, meticoloso e benvoluto dagli allievi, qualche volta un po’ troppo benvoluto. La sua specializzazione era ai certo un’utile aggiunta ai corsi offerti dalla scuola; inoltre alleggeriva sicuramente il carico di lavoro degli altri insegnanti di scienze. Eppure, nonostante la richiesta di altre ore fattale dal consiglio, qualcosa nella sua presenza la rendeva irrequieta.

Tanto, tanto tempo fa, quando era una ragazzina lei stessa e l’isola era stata invasa dai tedeschi che intendevano adoperarla come rampa di lancio per l’attacco finale contro il territorio inglese, lei aveva sentito intorno a sé la distruzione imminente. Non che la cosa fosse imprevedibile con i tempi che correvano, ma alcuni anni dopo si rese conto di possedere un livello di sensibilità più elevato degli altri. Niente di eccezionale, non a livello di medium o di preveggente, semplicemente una sensibilità più percettiva. Si era poi attenuata, ma non era del tutto scomparsa col passare degli anni. Il pragmatismo della professione scelta contribuiva a reprimerla. Ma in quei giorni lontani aveva visto la morte nei visi di quei soldati tedeschi, una naturale premonizione nei loro passi, nei loro sguardi.

In modo diverso e confuso sentiva lo stesso anche in Childes. Benché fosse ormai scomparso alla vista, la signorina Piprelly rabbrividì.

* * *

Mentre tornava dal bar con i drink, aggirando tavoli e sedie da giardino, Amy si sciolse i capelli che le caddero sulle spalle in una lunga coda, trasformando una vecchia foggia in qualcosa di chic. C’era una sottile eleganza in Amy, innata, non ricercata, e Childes si trovò di nuovo a pensare che tutto sembrava meno che una insegnante, non di quelle che aveva conosciuto lui per lo meno. La sua pelle appariva dorata sotto l’ombrellone, gli occhi verdi e chiari e qualche ciocca chiara che le incorniciava il volto aumentavano l’effetto. Come sempre era poco truccata; questo vezzo la rendeva simile a qualcuna delle ragazze sue allieve, l’illusione confermata dai piccoli seni, appena un tenero gonfiore. Eppure a ventitré anni, undici meno di lui, aveva una maturità serena, di cui lui spesso si meravigliava; non sempre questa era messa in evidenza, poiché ella possedeva anche una innocenza maliziosa che esaltava ancora di più l’impressione adolescenziale. Ignara delle proprie doti, cambiava facilmente d’umore, lasciandolo sconcertato.

Le dita sottili e scherzosamente febbrili ghermirono il bicchiere che lui porgeva, il sole radente del tardo pomeriggio le colpì la mano bagnandola d’un oro più rosso.

«Però! Se la Piprelly sapesse d’avere un’ubriacona a scuola…» commentò lui allungandole il gin and tonic.

Lei fece tremare la mano tenendo il bicchiere mentre se lo portava alle labbra. «La Pip dovrebbe sapere che la metà dei docenti è alcolizzata, e la colpa è sua!»

Childes si mise dall’altro lato del tavolo per poter meglio godere della sua vista. «La nostra direttrice vuole che io faccia più ore a scuola.» L’improvviso sorriso di Amy lo allietò.

«Sarebbe meraviglioso Jon!»

«Mah. Non lo so. Cioè, sarebbe bello vedere te di più, ma quando sono venuto qui avevo deciso di uscire dal solito tran tran, te lo ricordi no?»

«Ma è diverso, questo è un ambiente diverso da quello da cui provenivi.»

«È vero, un altro pianeta addirittura. Io però mi sono abituato al ritmo che ho preso, passeggiate nel pomeriggio, nuotate, pisolini in riva al mare. Finalmente ho tempo per pensare.»

«Qualche volta pensi troppo, secondo me.» Il tono era diverso ora. Lui allontanò lo sguardo. «Le ho detto che ci avrei pensato.»

«Vigliacco!» rispose Amy, la voce nuovamente allegra.

«Mi fa sentire come se avessi dieci anni!» disse, scuotendo la testa.

«Can che abbaia non morde. Però se fossi in te obbedirei.»

«Bell’aiuto mi dai.»

Lei posò il bicchiere. «Vorrei dartelo, tu passi troppo tempo da solo, un impegno maggiore con il college potrebbe essere un bene per te.»

«Lo sai cosa penso degli impegni.»

Lo guardò negli occhi. «Ne hai uno nei confronti di tua figlia.»

Lui sorseggiò la birra. «Senti, cambiamo discorso, è stata una lunga giornata.»

Amy sorrise, ma gli occhi erano percorsi ancora da una sottile preoccupazione. Gli toccò la mano, carezzandogli le dita, mascherò i pensieri dietro una battuta: «La Pip perderebbe la testa se potesse averti a tempo pieno.»

«Mi vuole solo per un altro pomeriggio!»

«Oggi, due giorni e mezzo; domani, l’anima.»

«Ma tu non dovevi farmi coraggio?»

Lei lo guardò maliziosa. «Ti dicevo solo di arrenderti, altri hanno tentato di resistere.» La voce le si incupì minacciosa, lui storse la bocca.

«Curioso, è vero che mi guarda in modo strano da un po’ di tempo.»

«Fa parte del suo voodoo.»

Lui si lasciò andare contro lo schienale. C’era altra gente nel giardino del bar dell’albergo. Tutti approfittavano della bella serata dopo le settimane di pioggerella gelida. Una grossa ape pelosa ondeggiava sopra le azalee vicine, il suo ronzio annunciava i mesi più caldi a venire. Fino a poco tempo prima aveva pensato di aver trovato la pace su quell’isola. Un modo di vita tranquillo, una natura piacevolissima, Amy, la meravigliosa Amy, le sue temporanee solitudini, avevano portato alla sua vita un equilibrio, una sicurezza lontana dal ritmo frenetico e in continua evoluzione dei microchip, dalla carriera in una città folle, da una moglie che una volta aveva amato, ma poi aveva avuto terrore di… ma di cosa? Qualcosa che nessuno dei due aveva compreso.

Poteri psichici! Una maledizione intangibile, incontrollabile.

«Chi è che fa il serio adesso?»

La domanda interruppe i suoi pensieri, e lui la guardò con uno sguardo vuoto.

«Avevi quello sguardo perso che dovrei conoscere bene ormai, non stavi solo sognando ad occhi aperti.»

«Ricordavo…»

«Il passato è passato, meglio lasciarlo perdere, Jon.»

Egli annuì. Non aveva risposte da darsi. E c’era quella sensazione di irrequietezza che lo agitava da quando aveva avuto l’incubo due settimane prima.

Lei posò le braccia sul tavolino. «Ehi, non mi hai ancora dato una risposta.» Sbuffò per l’espressione di sorpresa che vide sul viso di lui. «L’invito a cena, non hai ancora detto se vieni o no.»

«Ho scelta forse?» I cattivi pensieri fugati dal sorriso innocente e malizioso di Amy.

«Certo! Puoi accettare oppure essere deportato. Papà non sopporta le cattive maniere.»

«E conosciamo bene il suo potere sugli affari di stato.»

«Esattamente!»

«Allora verrò.»

«Ma come sei ragionevole!»

«Quanto ha dovuto brigare tua madre?»

«Non molto, lo ha ricattato.»

«È difficile immaginare tuo padre cedere a qualcuno.»

«Non conosci la mamma. All’apparenza può sembrare tutta dolcezza e soavità, ma sotto sotto c’è una vena d’acciaio che qualche volta intimorisce anche me.»

«Per lo meno fa piacere sapere che a lei piaccio.»

«Non direi proprio così, diciamo che non ti è del tutto contraria.»

Lui rise sottovoce. «Mi divertirò da matti a questa cena.»

«Sai, credo che ti trovi misterioso. Uomo cupo ma attraente con un passato oscuro, e così via.»

Childes abbassò lo sguardo sul bicchiere di birra. «È così che lo vede il mio passato?» chiese.

«La incuriosisce e questo la diverte.»

«E il caro paparino?»

«Non vali sua figlia, tutto lì.»

«Ne sei sicura?»

«No, ma non è molto importante. Lui rispetta i miei sentimenti, e io gliel’ho fatto capire quello che sento per te. Nonostante la testardaggine non mi farebbe mai il torto di darti addosso.»

Childes avrebbe voluto esserne certo. Nelle poche occasioni in cui si erano incontrati l’ostilità del finanziere era stata celata a malapena. Forse non gli piacevano i divorziati, o forse non si fidava di nessuno che non fosse conforme ai suoi standard, al suo concetto di normalità.

Per evitare di diventare nuovamente cupo Childes fece una smorfia e chiese: «Mi serve l’abito da sera?»

«Beh, sono stati invitati anche un paio di soci in affari, compreso un consigliere d’amministrazione del La Roche con la moglie, quindi non sarà proprio informale la cosa. La cravatta è d’obbligo.»

«E io che pensavo che la serata fosse in mio onore!»

«La tua presenza sarà in mio onore» rispose guardandolo intensamente. «A te potrà sembrare strano, ma per me è molto importante averti vicino. Io non so perché c’è questo antagonismo tra te e mio padre, Jon, ma è comunque sciocco e dannoso.»

«Da parte mia non c’è animosità.»

«Lo so. E non ti chiedo di cedergli. Voglio solo che ci veda insieme in una situazione mondana, dimostrargli come stiamo bene insieme.»

Lui fece un sogghigno e lei lo rimproverò con gli occhi. «Lo so a cosa stai pensando tu, ma non intendevo quello, sono sempre la sua bambina, non te lo scordare.»

«Non immagina nemmeno quanto sei donna.»

«Non c’è n’è bisogno, sono sicura che non mi crede ancora candida come neve, comunque.»

«Chissà? Non è facile per un padre così premuroso accettare certe cose.» L’intimità dell’argomento gli aveva trasmesso un gradevole calore, la vicinanza di lei lo emozionava piacevolmente. Anche Amy sorrideva diversamente, non ammiccante ma partecipativa, gli occhi verdi pieni di un luminoso languore. Distolse gli occhi agitando i cubetti di ghiaccio nel bicchiere, guardandoli attentamente come se nelle tonde palline fosse nascosto chissà quale messaggio. Dagli altri tavolini arrivavano brandelli di conversazione punteggiati da risate, un aereo virava attorno alla punta occidentale dell’isola, già volando sul mare appena pochi secondi dopo il decollo dal minuscolo aereoporto dell’isola, con le ali che riverberavano il rosso del sole. Una leggera brezza mosse una ciocca sul viso di Amy.

«Io dovrei andare» disse dopo una pausa.

Sapevano ambedue cosa volevano veramente. Childes disse: «Ti riporto al La Roche così prendi la macchina.»

Finirono le bevande e si alzarono all’unisono, attraversando il giardino verso il cancello bianco del parcheggio. Lei gli prese la mano, stringendogli le dita in risposta alla stretta di lui.

Montati in macchina si protese e lo baciò sulle labbra, la passione di lui acuita e addolcita al tempo stesso dalla dolcezza di lei. Questa sensazione contraddittoria era come il bacio stesso, leggero e profondo. Quando si separarono, ansimanti, infiammati, lui lasciò scivolare le dita sulla sua guancia sfiorandole le labbra umide. Si rese conto che il loro rapporto aveva raggiunto inaspettatamente e sorprendentemente una nuova vetta. Si era sviluppato lentamente dapprima, ed era emerso con una gradualità attenta, lui timoroso di dare troppo di sé, lei guardinga nei confronti dello straniero, diverso dagli uomini che aveva conosciuto. Ora pareva che avessero superato quel limite oltre il quale un eventuale ritorno non può che essere un cammino lungo e doloroso. Conoscevano tutt’e due questa verità inesorabile, ma erano incapaci di sfuggire agli eventi.

Lui guardò fuori, sconvolto da questa ondata di emozioni, incapace di capire come avessero preso il sopravvento così rapidamente. Mise in moto, ingranò la marcia e infilò fa viuzza dell’albergo.

Childes aprì l’uscio e sostò un attimo nel piccolo atrio, per schiarirsi le idee, riprendere fiato. Chiuse la porta.

La presenza di Amy gli era rimasta addosso, galleggiava impalpabile nell’aria, e di nuovo egli si meravigliò dello stupefacente evolversi dei loro sentimenti. Aveva tenuto a freno le emozioni così a lungo, godendo della sua compagnia, di tutti i suoi pregi, la maturità, l’innocenza, e ceno la sua bellezza fisica, conscio che il loro rapporto era più di un’amicizia, ma sempre controllato, non voleva lasciarsi andare, soccombere, a qualcosa di più profondo. Le ferite del matrimonio distrutto non erano ancora cicatrizzate, c’era ancora un fondo d’amaro in quel ricordo.

Non poté reprimere un sorriso infelice, quasi fosse stato preso dal rimpianto.

Il telefono lo fece sussultare. Si allontanò dalla porta e sollevò la cornetta.

«Jon?». Aveva come il fiato corto.

«Sì, Amy?»

«Cosa ci è accaduto?»

«Anche tu, allora?» rispose lui dopo un attimo.

«E meraviglioso e terribile al tempo stesso. È come una malattia eccitante.»

Lui rise al paragone, rendendosi conto di quanto fosse corretto. «Dovrei dirti che passerà ma non voglio.»

«Mi fa paura ma sto tanto bene.»

Lui capì l’incertezza di lei, che aggiunse poi a mezza voce: «Non voglio soffrirne.»

Chiuse gli occhi e si lasciò andare contro il muro. Lottava con le proprie emozioni. «Diamoci un po’ di tempo per pensarci su!»

«Ma non voglio.»

«Forse sarebbe meglio per tutt’e due.»

«Perché? Cosa abbiamo ancora da sapere l’uno dell’altro? Voglio dire, niente d’importante, no? Abbiamo parlato, m’hai detto di te, del tuo passato, di cosa provi. C’è altro che devo sapere?»

«No, Amy, niente più segreti. Sai tutto di me, molto più di chiunque altro.»

«Allora perché? Hai paura di quello che sentiamo?»

«Pensavo che l’avessi anche tu.»

«Non così, io ho solo paura della mia vulnerabilità.»

«Eccola la risposta, vedi!»

«Pensi che potrei mai fare qualcosa che ti farebbe del male?»

«Possono accadere delle cose su cui non abbiamo potere.»

«Pensavo che fossero già accadute.»

«Non parlavo di quelle. Gli avvenimenti possono interferire con ciò che sentiamo, cambiare i sentimenti, mi è già successo altre volte.»

«Mi avevi detto che il tuo matrimonio traballava prima ancora che ti accadessero quelle terribili cose, che hanno solo allargato la frattura tra te e Fran. Non scappare Jon, non…»

S’interruppe e Childes finì la frase per lei. «Non come l’altra volta.»

«Scusa. Non volevo essere cattiva. Lo so che le circostanze erano insopportabili.» Amy sospirò delusa. «Jon, ma perché questa telefonata si è così trasformata, ero così felice, volevo parlarti, mi mancavi.»

La sua tensione si allentò, ma rimaneva una traccia di disagio, una vena di irrequietezza impalpabile che egli non sapeva dominare. «Spiace anche a me Amy, come un cretino sono ancora qui, a leccarmi delle vecchie ferite.»

«Le esperienze negative passate possono talvolta rovinare quelle nuove.»

«Molto saggio, sì!»

Lei si allietò nel sentire che nella sua voce era tornata una nota serena, eppure si sentiva un pochino meno entusiasta di prima e disse: «Cercherò di tenere a freno le emozioni.»

«Ehi, dai, non dar retta alle lamentele di un vecchio. E così ti mancavo, ma se ci siamo lasciati dieci minuti fa.»

«Quando sono arrivata a casa mi sono sentita così… così… non lo so, eccitata, felice, sottosopra, male. Ti volevo insomma!»

«Brutti sintomi, dev’essere grave.»

«Lo è, Dio m’aiuti, lo è.»

«Ce l’ho anch’io!»

«Ma se…»

«Te l’ho detto, non badarci. Ogni tanto mi prendono le lune, sai.»

«Lo so. Posso invitarti a pranzo domani?»

«Scema!»

«Sì, sì!» La complice affettuosità era tornata.

«Sai che ti dico, perché non mangiamo qui, sempre che tu sopporti la mia cucina?»

«Ma abbiamo solo un’ora.»

«Bene, preparo stasera. Niente di speciale, solo surgelati.»

«Adoro i surgelati.»

«Io adoro te.»

«Jon…»

«Ci vediamo domani a scuola Amy.»

«Sì» rispose lei in un sospiro.

La salutò senza quasi udirne la risposta, si sentì il clic di fine comunicazione ma Childes rimase con la cornetta di plastica levigata tra le dita, lo sguardo fisso sul muro. Non aveva inteso lasciarsi sfuggire quelle ultime parole, non avrebbe voluto infrangere quell’ultima membrana con una ammissione che ambedue conoscevano ormai. Ma che importanza poteva avere? Di cosa aveva ancora paura? Non era poi tanto difficile da capire.

Quella bizzarra visione di due settimane prima, seguita dall’incubo, lo aveva lasciato con quella familiare e deprimente apprensione, un riattizzarsi dell’angoscia che lo aveva quasi distrutto già una volta. Aveva sconvolto la sua vita con Fran e Gabby, non voleva fare del male a Amy. Pregò di essersi sbagliato, che non stava accadendo tutto di nuovo, che era solamente un parto della sua fantasia.

Childes si strofinò gli occhi accorgendosi di quanto fossero indolenziti. Tirò un respiro profondo poi espulse l’aria con forza come se si liberasse dei cattivi pensieri; entrò nel piccolo bagno al pianoterra e aprì l’armadietto. Tirò fuori una bottiglietta di plastica e la custodia delle lenti, richiuse l’armadietto e scrutò la propria immagine riflessa nello specchio. Aveva gli occhi venati di rosso e si accorse di uno strano pallore del volto. Ancora la fantasia, si disse, si stava stupidamente lasciando andare a una morbosa introspezione che poi cresceva e mutava. Diventava un balzo all’indietro, lo scoppio ritardato di un avvenimento vecchio, e basta. Quando era quasi affogato probabilmente era stato troppo a lungo sottacqua, senza accorgersi che i suoi polmoni erano allo stremo. La mancanza di ossigeno aveva provocato le immagini confuse. Poi l’incubo… era solo un incubo, senza significati particolari. Stava dando troppo peso ad una esperienza spiacevole ma senza importanza, forse si poteva giustificare, con quello che era accaduto a pungolare i ricordi. Dimenticare! Le cose erano cambiate. La sua vita era diversa ora.

Sbirciando lo specchio da vicino Childes si spremette delicatamente la lente morbida dall’occhio destro, la lavò nel palmo della mano con il liquido e la infilò nel contenitore pieno di fluido. Ripeté l’operazione con la lente sinistra.

Uscito nell’ingresso infilò la mano nella valigetta e ne estrasse gli occhiali, gli occhi già meno irritati di prima. Stava per entrare in cucina per vedere cosa riusciva a mettere insieme per il pranzo del giorno dopo quando udì un leggero tonfo al piano di sopra. Trattenne il respiro e volse lo sguardo fino all’angolo della stretta scalinata. Attese, con quel miscuglio di sensazioni che si avvertono in piena notte, quando non si vuole sentire più quel rumore sospetto e misterioso, ma di cui, al tempo stesso, si vuole una conferma. Iniziò a salire le cigolanti scale di legno con addosso un irragionevole nervosismo. Girò l’angolo e vide che la stanza da letto era aperta. Niente di strano, l’aveva lasciata aperta quella mattina, lo faceva sempre. Salì gli ultimi gradini e fece i pochi metri del corridoio spalancando la porta della stanza da letto. La stanza era vuota e lui si rimproverò d’essersi comportato come una zitella paurosa. Vi erano due finestre, una di fronte all’altra nella stanza: ad una di queste si vedeva tremolare qualcosa di piccolo e delicato. Egli si avvicinò sentendo vibrare sotto il suo peso le vecchie assi del pavimento. Fece schioccare la lingua quando riconobbe l’oggetto tremolante: era una piuma, di gabbiano o di piccione, non ne era sicuro. Era già accaduto; gli uccelli vedevano oltre le due finestre il cielo e tentavano di volare attraverso la stanza, colpivano il vetro da quel lato ma si procuravano appena un attimo di stordimento e un po’ di mal di testa, lasciando sul vetro qualche piuma attaccata. Mentre guardava un alito di vento mosse la piuma e la fece volteggiare via.

Childes stava per voltarsi quando vide in lontananza la scuola. Il cuore sembrò arrestarsi e le mani abbrancarono il davanzale quando vide il rogo. Ma tirò subito un sospiro di sollievo quando s’accorse che l’edificio bianco rifletteva soltanto il fiammeggiare del sole al tramonto.

Ma l’immagine gli si impresse nella mente e gli tremavano le mani mentre si sedeva sul letto.

* * *

Guardava da sotto un albero. L’allegra giornata solatia strideva contro la mestizia del cimitero.

I parenti erano raccolti attorno alla fossa aperta, i vestiti scurì inondati di sole. Le croci bianche macchiate, le lapidi, angioletti sorridenti e crepati, attorniavano apatici il campo pieno di ossa sepolte. Il lento scorrere del traffico si sentiva di lontano; da qualche parte una radiolina venne spenta, un becchino si era accorto della cerimonia in corso. La voce del prete arrivava come una cantilena soffocata nel fossato all’ombra del tasso dove la figura attendeva.

Quando la piccola cassa fu calata nella fossa una donna barcollò in avanti come per fermare quell’ultima violazione del figlio morto. Un uomo al suo fianco la sorresse trattenendola mentre la donna si accasciava. Altri ancora chinarono la testa o allontanarono lo sguardo, il dolore della madre straziante quanto la prematura morte. Le mani salivano ai volti con fazzolettini umidi stretti in pugno. Le facce degli uomini erano come congelate, come stampate in una plastica rigida.

Osservava la scena dal suo nascondiglio, sorridendo segretamente.

La minuscola bara sparì dalla vista, ingoiata dalla terra umida, l’apertura bordata di verde come fauci. Il padre gettò qualcosa dietro alla bara, un oggetto a colori vivaci, un giocattolo, un pupazzo, qualcosa che il bimbo aveva amato, poi la terra ricoprì la tomba. Il gruppo di persone a lutto iniziò ad allontanarsi con apparente riluttanza, ma con intimo sollievo. La madre dovette essere sostenuta da altre due donne, trascinata via, la testa continuamente voltata come se il piccolo la richiamasse, la pregasse di non lasciarlo lì, solo, al freddo, alla putrefazione. Lo strazio ebbe il sopravvento e la donna fu quasi portata di peso alle macchine nere in attesa.

Sotto l’albero la figura attese che la tomba fosse riempita. Per ritornare a notte fonda.

* * *

«Grazie Helen. Sparecchia pure ora.» Vivienne Sebire notò con soddisfazione che la cena tanto amorevolmente preparata — mousse di salmone, anatra alle mele e visciole accompagnata da zucchine e broccoli — era stata divorata con gusto e appetito. Notò anche che Jonathan Childes non aveva mostrato altrettanta golosità.

Grace Duxbury, seduta accanto al padrone di casa, Paul Sebire, che era a capotavola, disse con la sua voce squillante: «Meravigliosa Vivienne. Non me ne andrò di qui finché non mi avrai svelato il segreto di quella mousse.»

«Sì!» assentì il marito, «un antipasto veramente eccellente. Com’è Grace, che a te riesce raramente l’avocado con i gamberi se non chiamiamo un cuoco?»

L’avrebbe pagato caro quel commento, pensò Vivienne, se poco poco conosceva Grace. «Il segreto è semplicemente nella quantità di pasta d’acciughe che ci metti, un pochino più di quel che dice la ricetta, ma non troppo.»

«Deliziosa!», commentò nuovamente George Duxbury.

Helen era una donna tarchiata con un viso allegro e le sopracciglia che si univano a punta sul naso; era la governante-cameriera dei Sebire. Iniziò a ritirare i piatti mentre la padrona di casa si beava delle lodi ricevute. Amy, che era seduta di fronte a Childes si alzò dalla sedia. «Ti do una mano» disse a Helen, cercando con lo sguardo Childes con cui scambiò un sorriso complice.

«Ciò che vorrei sapere è come ha fatto un vecchio reprobo come te a sposare una cuoca meravigliosa come Vivienne e a ritrovarsi una figlia affascinante così.». Fu Victor Platnauer a fare la battuta, uno dei consiglieri dell’isola nonché membro del consiglio d’amministrazione del college La Roche. La moglie Tilly, seduta accanto a Childes, lo sgridò scherzosamente ridacchiando come gli altri ospiti.

«Semplicissimo, caro Victor,» rispose Sebire asciutto come sempre, «furono proprio le doti culinarie della mia dolce moglie a farmela sposare, e i miei geni hanno prodotto la nostra bella Aimée». Aveva sempre insistito nel chiamare la figlia con il nome vero.

«No, no! Amy ha preso la bellezza dalla madre non dal padre. Non è vero, Childes, eh, Jonathan?»

«Ha le migliori qualità di entrambi i genitori» disse Childes diplomaticamente, asciugandosi le labbra con un tovagliolo.

Uno a zero, pensò Amy mentre sostava sull’uscio della cucina; qualcuno applaudì e gridò: «Bravo!». Fin qui tutto bene. Aveva osservato attentamente il padre tutta la serata mentre studiava Jon con quello sguardo calcolatore e critico che riservava sempre ai clienti potenziali, ai colleghi o ai rivali. Ciò nonostante era stato un ospite perfetto, cortese e attento, dando a Jon tanto spazio quanto agli altri ospiti, compreso un socio in affari di Marsiglia. Amy aveva il sospetto che Edouard Vigiers non fosse stato invitato solamente perché si trovava sull’isola per discutere certi accordi finanziari, ma anche perché era giovane, brillante, di successo, sicuramente un buon partito. Un genero ideale agli occhi di Paul Sebire. Amy incominciava a pensare che l’unico motivo che il padre aveva di invitare Jon era che così lei, Amy, avrebbe potuto mettere a confronto i due. Le differenze balzavano agli occhi.

Dovette ammettere che il francese era attraente oltre che vivace e simpatico, ma il padre sbagliava ad usare un metro tanto ovvio e superficiale. Sapeva che Paul Sebire era un uomo generoso e giusto nonostante l’astuzia brutale che adoperava negli affari e una certa ostinazione. Lei lo amava, quanto può una figlia. Sfortunatamente la possessività che egli non voleva ammettere lo portava ad imporre l’immagine dell’uomo da destinare a sua figlia: uno della sua razza, se non addirittura una copia più giovane di se stesso. Un tentativo goffo, anche se lui credeva di essere astuto; come sempre sottovalutava gli altri, soprattutto la sua unica figlia.

Amy ripensò sognante al pranzo con Jon quella settimana, il loro primo incontro da soli, nel suo cottage, dopo essersi resi conto di quanta strada aveva fatto il loro rapporto, quanto profondo era diventato e quanto si desideravano. C’era stato poco tempo a disposizione, ma le carezze, il toccarsi, il tenersi, avevano preso un nuovo sapore, una nuova intensità.

«Vorrei quei piatti quando ha finito di origliare, signorina Amy». La voce divertita di Helen, appoggiata al lavandino con una mano sul fianco, interruppe i ricordi di Amy.

«Beh, non stavo origliando.» Sorrise arrossendo. «Stavo sognando ad occhi aperti. Mi ero perduta da qualche parte.»

Victor Platnauer si sporgeva sul tavolo guardando Childes dritto negli occhi. Poco più che sessantenne Platnauer era ancora un uomo robusto, con quella rozzezza del volto così frequente tra i nativi dell’isola, la voce rauca e i modi bruschi. Al contrario la moglie Tilly aveva una voce morbida, quasi un mormorio, l’aspetto e i modi simili a quelli di Vivienne Sebire.

«Mi fa piacere sapere che ha deciso di dedicare un po’ più di tempo al La Roche» disse Platnauer.

«Solo un pomeriggio in più» rispose Childes. «Ho dato conferma proprio questa settimana.»

«Così mi ha detto la signorina Piprelly. Bene, mi fa piacere ma forse riusciremo a convincerla a darcene ancora di più; certo mi rendo conto che lei insegna anche al Kingsley e al de Montfort, ma è importante per noi allargare questo settore del nostro corso di studi. Non è soltanto una esigenza dei genitori, mi si dice che anche gli allievi mostrino molto interesse per l’informatica.»

«Purtroppo non è così per tutti» spiegò Childes. «I ragazzi intendo, ci si illude se si crede che tutti i ragazzini abbiano una propensione naturale al calcolo e all’elaborazione elettronica.»

Tilly Platnauer ebbe un moto di sorpresa. «Io pensavo proprio che fossimo ormai nell’epoca delle guerre stellari, con tutti i ragazzini piccoli geni del micro-chip in confronto agli adulti.»

Childes sorrise. «Vede, siamo solo agli inizi. Poi i giochi elettronici non sono esattamente come l’applicazione pratica dei computer, sono comunque un buon inizio, ma il computer ha una logica assoluta e non tutti i ragazzi sono perfettamente logici.»

«Nemmeno molti adulti lo sono» brontolò Platnauer.

«C’è sempre il rovescio della medaglia, in un certo senso» continuò Childes. «L’industria dei divertimenti ha fatto in modo che il consumatore pensasse ai computer come a oggetti divertenti, e questo va bene, crea interesse. Poi il pubblico, i ragazzi nel caso nostro, scoprono che c’è da faticare prima di poter capire veramente come funzionano, e qui iniziano le defezioni.»

«Allora la risposta è iniziarne l’insegnamento in tenera età, così potranno diventare un fattore quotidiano della loro vita». Era stato Vigiers a parlare, con un accento che addolciva le parole senza deformarle.

«Giusto! Ma quella sarebbe una situazione ideale, dove il computer diventa un oggetto casalingo qualsiasi, un soprammobile, come la TV o lo stereo. Manca ancora un bel pezzo a quel tipo di situazione.»

«Motivo di più perché le nostre scuole diano ai nostri bambini modo di apprendere le nuove tecnologie mentre le loro menti sono ancora tenere e malleabili, non le pare?» insisté Platnauer.

«In linea di principio sì. Ma bisogna capire che non è una scienza alla portata di tutti. E sfortunatamente la microtecnologia diventerà sicuramente un fatto quotidiano tra una ventina d’anni, e ci sarà molta gente e molte aziende che rimarranno indietro.»

«Bisogna quindi assicurarci che i giovani di quest’isola non rimangano indietro» affermò Sebire e Platnauer annuì approvando.

Childes nascose la frustrazione. O non avevano capito o non volevano: la conoscenza della tecnologia si poteva insegnare con le buone o con le cattive ma se non ci si era portati era difficile da digerire.

Vigiers cambiò argomento. «Lei insegna anche scienze al La Roche, Jon?»

Rispose per lui, inaspettatamente, Sebire. «No, nient’affatto. Il signor Childes è un esperto di informatica, Edouard, una specie di genio, mi si dice.»

Childes lo guardò sorpreso. Chi lo dice, si chiese, Amy?

«Ah» fece Vigiers. «Allora sono ancora più curioso di sapere cosa l’ha portato ad insegnare ai giovani, non è quel che dite… dunque… un passo indietro? Giusto, sì? Mi scusi se sono indiscreto, ma un cambiamento netto di attività, une brusque changement de vie, diremmo noi, è sempre interessante, non è d’accordo?». Sorrise amabilmente e Childes si fece guardingo.

«Qualche volta ci si accorge che l’eterno gareggiare non è quel che fa per noi» rispose attento.

A Vivienne Sebire la risposta piacque e quindi aggiunse. «E chi potrebbe resistere alla quiete dell’isola, a dispetto di quello che fate voialtri affaristi per rovinarcela!». Lanciò un’occhiata intensa al marito.

La porta della cucina si aprì ed entrarono Amy e Helen con dei vassoi d’argento pieni di dolci.

«Altre delizie!» fece entusiasta George Duxbury. «In quale tentazione ci induci questa volta Vivienne?»

«C’è da scegliere» rispose, mentre i vassoi venivano posti al centro del tavolo. «Il cioccolato con le albicocche l’ho fatto io, il soufflé di lamponi è una specialità di Amy; naturalmente potete prenderli tutt’e due, se avete ancora posto.»

«Lo trovo, il posto!» l’assicurò Duxbury.

«Alla mia dietologa verrebbe un colpo se mi vedesse» disse la moglie allungando il piatto tra le risate di tutti. «Cioccolato con le albicocche grazie.»

Amy si mise seduta mentre Helen serviva. Vigiers si sporse verso di lei e le bisbigliò in tono confidenziale. «Io assaggerò il soufflé, ha un’aria invitante!»

Lei sorrise fra sé e sé. Edouard aveva una di quelle voci basse adatte alla vendita degli immobili in TV. «La mamma è una vera cuoca, io pasticcio solamente.»

«Sono sicura che lo sa fare molto bene. Suo padre mi diceva che anche lei insegna al La Roche.»

«Sì. Inglese e francese. Assisto anche nei corsi di dizione e recitazione.»

«Allora parla bene la mia lingua? Il vostro nome mi dice che siete di origine francese, sì? E se permette lei ha quel fascino particolare che hanno le donne del mio paese.»

«Fu proprio il vostro Victor Hugo che scrisse che queste isole erano brandelli di Francia raccolti dall’Inghilterra. Una volta facevamo parte del ducato di Normandia quindi molti di noi hanno antenati francesi. Alcuni degli anziani parlano ancora il ‘patois’, e sono sicura che avrà notato che i luoghi conservano il nome originale.»

«Siamo sempre stati un possedimento prezioso, per più di una nazione, Monsieur Vigiers» fece Grace Duxbury, che aveva ascoltato la conversazione.

«Mi auguro che il mio paese non vi abbia mai provocato fastidi» rispose lui con occhi divertiti.

«Fastidi?» rise Sebire. «Avete cercato di invaderci più volte, i vostri pirati hanno fatto scorribande per secoli, persino Napoleone ci provò, ma rimediò solo un occhio nero.»

Vigiers sorseggiò il vino con evidente spasso.

«Abbiamo comunque sempre molto apprezzato le nostre origini francesi,» continuò Sebire, «e devo dire che sono felice che i rapporti non si siano mai interrotti.»

«Mi pare di capire che i tedeschi non suscitano le stesse simpatie?»

«Decisamente no!» ringhiò Platnauer. «L’occupazione in tempo di guerra è ancora fresca nella memoria e poi ci sono tutti quei bunker e le difese costiere a ricordarceli. Devo dire però che non c’è animosità oggigiorno, alcuni veterani delle forze di occupazione tornano come turisti.»

«È curioso quanto quest’isola abbia sempre attratto l’uomo fin da epoche lontane» disse Sebire mentre sceglieva anche lui il soufflé. «Nel Neolitico arrivavano fin qui a seppellire i morti e a pregare i loro dei, vi sono ancora quelle massicce tombe di granito, l’isola è cosparsa di megaliti e menhir, quei massi che essi adoravano. Aimée perché non fai fare il giro dell’isola a Edouard domani? Lunedì deve tornare a Marsiglia e non ha ancora avuto il tempo di dare un’occhiata intorno. Che ne dici, Edouard?»

«Mi farebbe veramente piacere» rispose il francese.

«Mi dispiace ma io e Jon abbiamo altri impegni per domani». Amy sorrise ma lo sguardo che lanciò al padre era di ghiaccio.

«Sciocchezze!» insisté Sebire, cosciente del fastidio della figlia ma inamovibile. «Vi vedete sempre a scuola, e quasi tutte le sere mi pare, sono sicuro che a Jonathan non dispiace lasciarti libera qualche ora visto che il nostro ospite rimane così poco tempo.» Guardò ammiccante Childes in fondo al tavolo, egli stava conversando con Vivienne ma la sua attenzione venne immediatamente attratta dal sentire il proprio nome.

«Eh, sì, certo, cioè, sta a Amy decidere» disse incerto.

«Ecco fatto» fece Sebire sorridendo alla figlia. «Nessun problema!»

Imbarazzato Vigiers disse: «Ma non c’è problema, veramente, se…»

«Non c’è problema Edouard» lo interruppe Sebire. «Aimée è abituata ad intrattenere i miei ospiti d’affari. Ho spesso sperato che scegliesse la mia professione anziché l’insegnamento. Sarebbe stata un vero e proprio fiore all’occhiello per la società.»

«Sai bene che la finanza non mi dice nulla» rispose Amy, nascondendo la rabbia di non poter fare altro che accettare il ruolo impostole di guida turistica. Accidenti a Jon, perché non l’aveva tratta d’impaccio? «Mi piacciono i bambini, sono soddisfatta di fare qualcosa di utile. Non voglio criticare ma il vostro modo di fare soldi non mi gratificherebbe affatto, ho bisogno di un riscontro tangibile dei miei sforzi, non di cifre su un bilancio.»

«E ottiene questo con i suoi studenti?» chiese Vigiers.

«Sì! Con molti.»

«Con tutti, ne sono sicuro, se hanno te come educatrice.»

«Papà, non ho bisogno di uno sponsor!» minacciò lei.

I due uomini risero all’unisono e Grace Duxbury disse: «Non gli dar retta, Amy cara. Sono ambedue di quella razza quasi estinta che crede che gli uomini controllino il mondo. Mi dica, Monsieur Vigiers, ha avuto modo di provare i nostri ristoranti durante la sua sosta qui sull’isola? Come ha trovato la loro cucina in confronto a quelle, ottime, del suo paese?»

Mentre la conversazione proseguiva, Amy guardò Childes cercando di comunicargli il suo disappunto per l’indomani. Egli capì e scuotendo leggermente la testa alzò verso di lei il bicchiere. Alzando il proprio Amy rispose al brindisi.

Helen era tornata in cucina dove stava caricando piatti e posate nella lavastoviglie. Era contenta che la cena fosse andata così bene per la sua padrona. La signorina Amy era fortunata ad avere due cavalieri e Helen si chiese come facesse a resistere a quel francese così perbene, colto, con quei suoi modi francesi, quell’aria francese, e quella voce francese… irresistibile!

Rabbrividì e allungò la mano verso la finestra oltre il lavello. La notte s’era fatta fresca, buia, con solo una sottile falce di luna. Tirò a sé i vetri.

Attorno al tavolo si rideva. Duxbury, che oltre ad importare merci varie forniva di mobili, attrezzature e quant’altro servisse le aziende dell’isola e organizzava anche convegni commerciali per conto di società straniere, stava raccontando ai commensali una delle sue storielle su avvenimenti buffi che accadevano ai convegni, come sempre lunghissima ma divertente.

Childes prese una cucchiaiata di soufflé e fece una smorfia di apprezzamento a Amy, che abbozzò un bacetto di risposta. Si era sentito teso all’inizio della serata, sospettoso di Paul Sebire, guardingo, sicuro che sarebbe stato sottoposto a chissà quale prova di giudizio sul suo carattere, sul suo valore. Invece il finanziere era stato più che corretto, l’asprezza dei precedenti incontri dimenticata o, per lo meno, tenuta a freno. Eppure Childes non si sentiva rilassato; si era reso conto che il giovane francese non era solamente un ospite, ma era stato presentato da Sebire come rivale potenziale e la gita di Amy e Vigiers suggerita da Sebire gli confermava questo sospetto. Era ovvio e ingenuo, ma Childes doveva ammettere di avere l’aspetto un po’ dimesso in confronto a Vigiers.

Al contrario Vivienne Sebire era stata cordiale e premurosa, accogliendolo con calore e, da perfetta padrona di casa, facendolo sentire un ospite gradito. Un perfetto contrappeso alla generale freddezza del marito.

Partecipò alle risate degli altri quando Duxbury raggiunse il culmine del racconto dando a loro a malapena il tempo di tirare un respiro prima di ripiombare in un’altra storia. Childes allungò la mano verso il bicchiere e, mentre se lo portava alle labbra, gli sembrò di intravvedervi un baluginio. Strizzò gli occhi guardando il liquido chiaro. S’era sbagliato, un riflesso forse, sorseggiò il vino riponendo il bicchiere sul tavolo quando di nuovo qualcosa vi si mosse dentro. Guardò ancora, incuriosito più che preoccupato.

No, solo vino, nient’altro, niente che potesse… niente che…

Un’immagine, ma non nel bicchiere, nella sua testa.

Risatine soffocate mentre Duxbury proseguiva il racconto.

L’immagine era irreale, sfocata, come l’incubo, una macchia confusa. Childes ripose il bicchiere accorgendosi che gli tremava la mano. Una strana sensazione gli opprimeva la nuca, come una mano, gelata, che la stringesse. Fissò il vino.

Amy squittì prevedendo il finale piccante a cui stava arrivando Duxbury.

L’immagine si era moltiplicata in tante visioni che lentamente scorrevano mettendosi a fuoco. Il caldo della stanza si era fatto soffocante. La mano libera di Childes corse al colletto come per allentarlo.

Grace Duxbury che aveva sentito il racconto del marito un’infinità di volte, e ne conosceva il finale, già si scherniva imbarazzata.

Childes ormai si guardava dentro, vedendo dentro di sé uno scenario che era oltre i confini della stanza, eppure allo stesso tempo lì, con lui. Gli sembrava di avvicinarsi a quell’azione della fantasia, farne parte integrante, ma anche solo di osservarla. Della terra smossa veniva rimossa.

Il brontolio allegro di Victor Platnauer, quasi un’esplosione, era contagioso, e Vivienne si ritrovò a ridere prima ancora che la storiella fosse finita.

Dita rozze, unghie spezzate, coperte di terriccio umido. Grattavano il legno. Gli sforzi ripresero, frettolosi. Il legno fu scoperto e ne apparve la forma, stretta, rettangolare, piccola. Childes sussultò versando il vino.

Vigiers si era accorto di quel che succedeva e guardò Childes oltre il tavolo.

Il coperchio della bara venne fracassato, i frammenti si sparsero intorno sotto i colpi dell’ascia. Spezzoni aguzzi furono strappati via allargando il foro. Il corpicino fu scoperto, il volto indistinto nella poca luce. La mano di Childes si strinse sul bicchiere. La stanza ondeggiava, respirava a fatica. L’invisibile presa sul collo si faceva più pesante, come una morsa.

Per un attimo le mani, che Childes sentiva, quasi fossero le sue, fecero una pausa, come se il profanatore avesse sentito qualcosa, si fosse accorto di essere osservato, sentisse Childes stesso. Qualcosa nella sua mente fu sfiorata come dal ghiaccio. Poi la sensazione passò.

Tilly Platnauer sapeva che non avrebbe dovuto mostrare di gradire il racconto, ma la faccia di Duxbury era esilarante, le spalle le sussultavano dallo spasso.

Il piccolo cadavere fu strappato dalla cassa foderata di seta. Childes vide gli occhietti aperti senza profondità, senza vita. Il bimbo venne steso sull’erba accanto alla buca, dove la brezza notturna ne smosse i capelli, incorniciandogli il viso, donandogli un’illusione di vita. I vestiti gli vennero strappati via, e fu lasciato nudo nella luce notturna, marmo bianco immobile.

Il metallo luccicò alla luce fioca della luna. Fiondò verso il basso. Penetrò. Affettò.

Il bicchiere si frantumò, il vino si mescolò al sangue che scorreva a fiotti sulla tovaglia di lino bianco. Qualcuno urlò. Childes si era alzato, rovesciando la sedia, ondeggiando, gli occhi fissi al soffitto, le labbra gonfie, la pelle lucida di sudore.

Il corpo gli prese a tremare, si irrigidì, persino i capelli gli si rizzarono in capo, e con un grido disperato crollò sul tavolo.

* * *

Addentò con avidità il cuore del bimbo morto.

* * *

Amy strinse i pugni e chiuse gli occhi alla vista dell’immagine riflessa del padre.

Erano nella sua stanza, lei con il viso pallido, gli occhi gonfi di pianto, seduta con un’aria derelitta alla specchiera. Paul Sebire, agitato e rabbioso, camminava su e giù alle sue spalle. Lei non riusciva a cancellare dalla mente la vista di Jon accompagnato fuori da Platnauer. Il consigliere lo aveva fatto accomodare nella propria macchina, rifiutandosi di permettergli di guidare, nonostante le proteste; il volto di Jon era tirato, terreo.

Si era rifiutato di far chiamare un medico, aveva insistito che stava bene, che era solo svenuto, il caldo della sala da pranzo lo aveva sopraffatto. Ma la serata era fresca, la casa appena riscaldata, affatto calda, ma non era stato contraddetto. Sarebbe stato bene appena avesse potuto sdraiarsi un poco, aveva detto loro, bastava un po’ di riposo. Rifiutò, assolutamente, l’offerta di Amy e Vivienne di fermarsi lì per la notte, dicendo che aveva solo bisogno di rimanere solo per un poco. Il suo sguardo perso la spaventò quanto il pallore del viso, ma era stato inutile discutere.

Lo aveva abbracciato prima che partisse, sentendolo tremare dentro, desiderando di poterlo acquietare. La mano ferita era stata medicata e fasciata, Amy gli baciò la punta delle dita attenta a non stringerla troppo. Childes le aveva impedito di accompagnarlo.

Paul Sebire smise di camminare. «Aimée,» disse posandole una mano sulla spalla, «non voglio che ti arrabbi, voglio solo che tu ragioni e mi stia a sentire.»

Le carezzò i capelli, stringendole di nuovo le spalle. «Vorrei che tu interrompessi questo rapporto con Childes.» Attese la reazione che però non venne. Amy fissava semplicemente la sua immagine riflessa nello specchio, cosa che era ancor più sconcertante. Continuò cautamente. «Credo che quell’uomo sia squilibrato, dapprima pensavo che fosse un attacco epilettico, ma i sintomi non corrispondevano. Aimée, quell’uomo sta per avere un completo esaurimento nervoso.»

«Non è squilibrato, non è nevrotico, e non sta per avere un esaurimento» disse con calma Amy. «Tu non lo conosci papà, non sai quello che ha passato.»

«Sì che lo so. Mi chiedevo appunto se tu conoscevi i suoi trascorsi.»

«Cosa vorresti dire?». Si girò verso Sebire facendo scivolare via la sua mano dalle spalle.

«Il suo nome mi ricordava qualcosa, fin da quando lo nominasti la prima volta. Ma non riuscivo a ricordare che cosa, anche se continuavo a pensarci. Qualche tempo fa, quando mi resi conto che eri seriamente intenzionata a frequentarlo ho fatto un po’ di indagini» Alzò una mano a mo’ di difesa. «Non mi guardare in quel modo, sei la mia unica figlia, sei la cosa più importante della mia vita, non pensi che abbia il diritto di andare a fondo di una cosa che ti riguarda così da vicino?»

«Non potevi chiederlo a me?»

«Chiederti cosa? Avevo un dubbio, tutto lì! E poi non ero certo che tu sapessi tutto di Childes.»

«E che cosa avresti scoperto?» chiese lei, acida.

«Beh, sapevo più o meno quando era arrivato e che aveva una professione nel settore informatico. Chiesi a Victor Plamauer, che come sai è membro del comitato di polizia, di fare indagini discrete. Discrete davvero, te l’assicuro. Se aveva avuto a che fare con la legge, cose del genere.»

«Pensi che lo avrebbero assunto nei college se avesse avuto la fedina sporca?»

«Certo che no! Ma io cercavo qualcos’altro, te l’ho detto, il nome mi era noto e non sapevo perché.»

«E così hai scoperto perché se ne andò dall’Inghilterra, perché ha dovuto lasciare la famiglia.»

«Non mi avevi mai nascosto il suo divorzio, e quindi quella non fu una sorpresa. Ma lo fu invece sapere che era stato implicato in un omicidio.»

«Papà, se tu avessi fatto fare indagini serie sapresti tutto. Jon aiutò a risolverli quegli omicidi. Fu falsamente accusato e perseguitato dalla stampa, anche molto tempo dopo i fatti.»

«Ufficialmente quegli omicidi non sono mai stati risolti.»

Lei mugugnò tra la disperazione e la rabbia.

Sebire non fece una piega. «Ci furono una serie di omicidi, le vittime erano tutti bambini, e gli indizi indicavano che l’assassino era sempre lo stesso.»

«E Jon fornì alla polizia prove indispensabili.»

«Li portò dove erano stati seppelliti due dei corpi, questo è vero. Ma ci si chiedeva come poteva saperlo, Aimée, e fu questo a provocare lo scandalo.»

«Ma lui glielo disse, glielo spiegò.»

«Disse di aver assistito agli omicidi, non fisicamente, non era sul luogo del delitto, ma che li aveva ‘visti’ accadere. Come puoi pensare che la polizia, la gente, non si meravigliasse?»

«Lui ha… aveva… delle specie di visioni. Non è poi una cosa così insolita, è già successo ad altri, papà. La polizia si rivolge spesso ai sensitivi perché li aiuti a risolvere dei crimini.»

«Ogni volta che si viene a sapere di qualche delitto particolarmente orrendo, la polizia viene tempestata di consigli da pazzoidi vari che affermano che gli spiriti hanno detto loro com’è fatto l’assassino, o dove colpirà ancora. E una cosa ridicola ma frequente, ed è una perdita di tempo per la polizia.»

«Non sempre, non sempre. Alcuni delitti sono stati risolti grazie a queste persone.»

«E tu vorresti dirmi che Childes è uno di questi ‘dotati’?» Sebire pronunciò ‘dotati’ come fosse una parolaccia. «È quello che affermavano i giornali dell’epoca.»

«È proprio questo il punto. Non lo è. Non è un veggente, né è dotato di poteri paranormali nel senso comune. Jon non aveva mai avuto esperienze del genere prima, non in quel modo. Era confuso e smarrito quanto gli altri. E aveva paura».

«La polizia lo fermò perché sospetto.»

«Non riuscivano a spiegarsi quello che sapeva. Certo che lo sospettarono sulle prime, ma ci furono molti testimoni che dissero che lui era altrove quando erano stati compiuti i delitti.»

«Si pensava che fosse comunque coinvolto in qualche modo, le informazioni che dava erano precisissime.»

«Alla fine trovarono l’assassino e dimostrarono che con Jon non c’erano collegamenti.»

«Mi dispiace ma questo non è scritto da nessuna parte. Gli assassinii non furono mai risolti ufficialmente.»

«Ti converrebbe fare una verifica, papà, scopriresti che lo furono, ufficiosamente. Il mostro si tagliò la gola da solo. Ma il caso venne comunque archiviato perché il suicida non lasciò alcun messaggio, niente che provasse che aveva ammazzato lui i bambini. Ma la polizia aveva forti indizi, anzi prove, contro di lui. Lo fecero capire allora, anche i giornali, tuttavia non si poté dichiararlo ufficialmente, era contro la legge. Ma l’assassino si era ucciso proprio perché sapeva di essere sul punto di farsi scoprire; Jon aveva fornito alla polizia informazioni tali da permettere loro di individuare l’uomo, un pregiudicato per molestie a minori, che si era fatto anche un po’ di galera per questo. Non ci furono altre morti da quando si suicidò.»

«Allora perché Childes è fuggito?» Sebire aveva ripreso a discutere deciso a non mollare finché non avesse fatto breccia nella figlia. «Ha abbandonato la moglie e la figlia per venire qui. Perché avrebbe dovuto farlo?»

«Non le ha abbandonate, non è come dici tu.» La voce di Amy si era fatta più acuta. «Jon pregò la moglie di seguirlo ma lei si rifiutò. Era distrutta anche lei dagli avvenimenti. Voleva che né lei né Gabriel, la figlia, dovessero subire altri pettegolezzi, telefonate di maniaci. La stampa, che dapprima sbatteva il mostro in prima pagina, cercò poi di tramutare Jon in una specie di fenomeno da baraccone! Lei sapeva che non ci sarebbe stata pace per loro…»

«Anche se fosse, abbandonarle in quel modo…»

«Il matrimonio era in crisi già da prima. La moglie di Jon era una professionista quando si sposarono, poi quando arrivò la bambina lei non ebbe più tempo per il lavoro. Fran si stufò presto di fare la casalinga, sempre all’ombra di lui. Voleva una propria vita autonoma, prima ancora che iniziassero gli avvenimenti.»

«E la bimba? Come ha…?»

La voce di Amy si abbassò di tono. «Lui ama Gabriel, quasi lo straziò doverla lasciare, ma era cosciente del fatto che se fosse rimasto la tensione li avrebbe distrutti tutti. Non poteva offrire nulla alla figlia da solo, non sapeva ancora come avrebbe vissuto, cosa avrebbe fatto. Aveva appena mandato a monte una carriera brillante, lasciava alla moglie quasi tutto ciò che avevano, tutti i risparmi. Come poteva occuparsi di una bambina di quattro anni?»

«E perché proprio qui? Perché è venuto in quest’isola?» Sebire aveva nuovamente smesso di camminare, la sovrastava, e la collera gli montava dentro.

«Ma perché così è vicino a casa sua, non capisci? È abbastanza lontana da renderlo uno sconosciuto eppure abbastanza vicina da permettergli di rimanere in contatto con la famiglia. Jon non le ha abbandonate, non ha voltato loro le spalle. Era sconvolto quando seppe che la moglie aveva chiesto il divorzio. Forse sperava di poter riaccomodare le cose un giorno. Per amore di Gabriel, sperava che venissero a vivere qui, non lo so! Forse aveva progettato di tornare in Inghilterra tra qualche anno, dopo che i giornali e la gente lo avessero del tutto scordato. Poi sono arrivate le carte per il divorzio.»

«Va bene Aimée, ammettiamo pure che sia tutto vero, che non sia coinvolto in quei delitti terribili, che il divorzio non sia solo colpa sua…»

Amy fece per aprire la bocca, gli occhi chiari fiammeggiavano, ma Sebire la bloccò.

«Stammi a sentire,» disse fermo, non ammettendo repliche, «rimane il fatto che quell’uomo non è normale. Come ti spieghi queste, non so nemmeno come si chiamano, non conosco quel tipo di fenomeno, diciamo ‘intuizioni’? Perché proprio a lui devono accadere?»

«Non lo sa nessuno. Tanto meno Jon. Nessuno può spiegarlo. Peché gliene fai una colpa?»

«Non lo incolpo proprio di niente. Sto soltanto dicendo che c’è qualcosa di strano in lui. Puoi spiegarmi cosa gli è accaduto stasera, cosa lo ha fatto svenire? È mai successo prima? Buon Dio, Aimée, pensa se succedeva mentre guidava la macchina, magari con te dentro?»

«Non so cosa gli è successo, e nemmeno lui. Che sappia io non gli è mai capitato niente di simile.»

«Ma si è rifiutato persino di vedere un medico.»

«Lo farà, ci penserò io.

«Tu te ne starai lontana da lui!»

Amy lo guardò incredula. «Ma tu credi veramente di potermi dire quel che devo e non devo fare, come se fossi una bambina? Credi veramente di potermi proibire di vederlo?». Rise, ma era un riso senza allegria. «Sveglia papà! Siamo nel ventesimo secolo!»

«Io credo che Victor Platnauer non sarà molto contento di avere nel corpo insegnanti un docente che ha questi attacchi di svenimento.»

Le fuggì un ansito. «Ma non dirai sul serio vero?»

«Come no!»

Lo fissò con rabbia appena celata e scosse la testa. «Stava male, poteva succedere a chiunque.»

«Forse. Ma per un altro tipo di persona non ci sarebbe niente di grave.»

«Tu però non hai intenzione di lasciar perdere, vero?»

«Non è questo il punto.»

«E qual’è allora?»

«Mi preoccupa. Ho paura per te.»

«È un uomo gentile e caro.»

«Non voglio che tu sia coinvolta con lui.»

«Lo sono già, e molto anche.»

Sebire fremette, s’avvicinò alla porta e si voltò a guardarla. Amy conosceva bene suo padre, quella sua ferocia quand’era contrariato. Le parole erano semplici e controllate ma negli occhi gli bruciava una decisione irremovibile.

«Penso che sia ora che gli altri sappiano dei misteriosi trascorsi di Childes.» affermò prima di richiudersi dietro la porta.

* * *

Il sudore gli scorreva addosso, veri e propri rivoli che inzuppavano le lenzuola. Si girò su un fianco, le lenzuola umide gli si appiccicavano alla pelle, e avevano lo stesso acre odore che emanava il suo corpo.

La visione, l’apparizione, era ancora fresca nella memoria di Childes, tanto era stata reale, l’orrore così tangibile, palpabile. Lo riempiva ancora, potente, vivida.

Egli era stato presente, nel cimitero, tanto vicino al piccolo cadavere da sentirne il contatto umido e freddo. Per alcuni brevi istanti egli era vissuto dentro quell’altro essere, quella cosa, che aveva violato il bimbo defunto. Ne aveva sentito l’oscena esaltazione.

Eppure ne era stato anche distaccato, un osservatore passivo, impotente.

I pensieri continuavano a correre e con essi nella sua mente s’intrufolava come un’informazione viscida. Un’altra angoscia, un concetto inspiegabile, che gli fece emettere un lamento addolorato. Era un pensiero troppo penoso per potercisi soffermare, ma non lo lasciava. Non poteva esserne sicuro, per quanto la mente avesse potuto rimuoverne la coscienza, in qualche recondito angolino lui doveva sapere. Ma lui aveva sentito o no se quelle mani mostruose che estraevano il piccolo corpo dal giaciglio erano le sue?

La visione era in realtà un ricordo? Il mostro era proprio lui? No, non poteva essere, non poteva.

Childes fissò la finestra serrata e ascoltò i rumori della notte.

* * *

Sedeva nell’ombra, guardando la sottile lama di luce lunare attraverso le finestre lerce; sogghignò ripensando alla cerimonia svoltasi nel cimitero quella sera stessa.

Ripensò al momento stupendo in cui aveva squarciato quel corpo, allo scempio delle interiora, e si esaltò al ricordo.

Si umettò le labbra con la lingua. Il cuore immobile aveva un buon sapore.

Ma una smorfia ne stravolse il volto.

Nel cimitero, per un attimo appena, mentre estraeva dalla bara il corpicino, una sensazione aveva frenato il suo gesto, la sensazione di essere osservata. Eppure il cimitero era deserto, questo era sicuro, a far da spettatori notturni solo le lapidi e gli angeli congelati.

Eppure c’era stato un contatto con qualcosa, con qualcuno. Una congiunzione di spiriti.

Chi?

E come era possìbile?

La figura si mosse sulla sedia mentre una nube avviluppava la luna; il respiro si fece breve e aspro finché non rivide il debole chiarore. Analizzò l’eventualità che qualcuno sapesse, sforzò la mente alla ricerca dell’intruso, cercò ma non trovò nulla. Non ancora.

Ma c’era tempo, c’era tempo.

* * *

«Ha il viso un po’ pallido.» fece Estelle Piprelly mentre Childes, entrato nello studio, si sedeva su una sedia di fronte alla grande scrivania.

«Sto benissimo.» rispose.

«Ma si è fatto male.»

Lui sollevò la mano fasciata a mo’ di difesa. «Ho rotto un bicchiere, niente di serio, qualche taglietto.»

Il soffitto della stanza era alto, le pareti coperte fino a metà altezza di rovere chiaro, poi dipinte di un riposante verde pastello; uno dei muri era invece arredato con scansie piene di libri. Un ritratto del fondatore del la Roche troneggiava sul muro alla destra di Childes: era indubbiamente somigliante, ma, come tanti dipinti dell’epoca vittoriana non esprimeva nulla del carattere del personaggio ritratto. Accanto alla porta un antico orologio ticchettava rumoroso come se ogni secondo che passava fosse di per sé importante. Childes guardò oltre la preside del La Roche, fuori il sole splendeva dalle grandi finestre accendendo d’argento i capelli grigi della donna. La vista dava sui grandi giardini del college, i fiori e gli arbusti risvegliati dal novello tepore, le serre imbiancate che rilucevano nel sole, abbaglianti. Oltre le mura vi erano le scogliere aspre, bastioni a difesa dal mare che andavano lentamente erodendosi. Il blu scuro segnava il confine tra mare e cielo, un segno netto tra i due elementi così simili. Benché la stanza fosse spaziosa e i colori morbidi Childes si sentiva imprigionato, come se i muri reprimessero una energia che lui stesso emanava, una forza che il suo corpo non era capace di racchiudere. Sapeva bene che non era altro che una leggera claustrofobia, niente di più, in gran parte dovuta anche all’imminente confronto con la preside.

«Ho ricevuto una telefonata di Victor Platnauer stamattina,» iniziò la Piprelly, confermando quel che lui si aspettava, «so che vi siete incontrati in casa di amici sabato sera.»

Childes annuì.

«Mi ha parlato del suo, ehm, spiacevole incidente» continuò la preside. «Ha detto che lei ha avuto uno svenimento durante la cena.»

«La cena era appena terminata.»

«Era preoccupato del suo stato di salute» disse lei sbirciandolo con una enorme freddezza. «Del resto lei capisce che abbiamo una enorme responsabilità nell’insegnamento ai giovani, un avvenimento del genere in classe potrebbe provocare chissà quali traumi alle ragazze. In quanto nostro amministratore, il consigliere Platnauer sentiva l’esigenza di verificare che questi avvenimenti non fossero frequenti. Mi pare ragionevole, non le sembra?»

«È stata la prima volta, glielo assicuro!»

«Ha idea del perché è accaduto? È andato da un medico?»

Egli esitò un attimo prima di rispondere. «No, a tutt’e due le domande. Sto bene ora, non ho bisogno di un medico.»

«Sciocchezze! Se è svenuto ci sarà pure un motivo.»

«Forse sì, ecco, ero piuttosto teso sabato. Una questione personale.»

«Abbastanza da farla svenire?» disse lei in tono ironico.

«Posso solo dirle che non era mai accaduto prima. Sono in buona salute attualmente, anzi forse sto meglio di quanto non sia stato da un pezzo. La vita qui sull’isola è per me un grosso cambiamento, un modo diverso di vivere rispetto al mio precedente lavoro, senza stress, senza la concorrenzialità dovuta alla carriera. E devo aggiungere che il mio matrimonio era stato poco sereno negli ultimi anni. Le cose sono cambiate da quando sono venuto qui, mi sento più rilassato, più felice, oserei dire.»

«Sì, posso crederle. Ma come le ho detto prima quando è entrato, lei ha l’aria un tantino tesa.»

«Quel che è successo ha scioccato anche me, oltre agli altri commensali» disse un poco risentito.

Era a disagio di fronte allo sguardo scrutatore della donna; distolse gli occhi spolverandosi un inesistente granello di polvere dai pantaloni di velluto a coste. Per un attimo gli sembrò che lei penetrasse fin dentro la sua anima.

«Va bene, Childes, non intendo insistere in merito. Comunque le suggerisco di vedere un medico al più presto, quello svenimento potrebbe essere il sintomo di qualche malattia di cui lei non sa nulla.»

Lui si sentì sollevato ma non disse niente.

La Piprelly tambureggiò con la stilografica sulla scrivania come se fosse il martelletto di un giudice. «Victor Platnauer mi ha anche informata di qualcosa che ha a che fare con il suo passato, e di cui, e mi spiace dirlo, lei non mi ha mai riferito.»

Egli si drizzò sulla sedia, il corpo teso, le mani strette intorno alle ginocchia, ben sapendo quello che sarebbe seguito.

«Mi riferisco naturalmente alle sue spiacevoli esperienze con la polizia prima che lei arrivasse sull’isola.»

Avrebbe dovuto rendersi conto che certe cose non si dimenticavano facilmente, l’Inghilterra era troppo vicina, troppo accessibile perché certe notizie non filtrassero. Ma Platnauer ne era stato sempre a conoscenza? No, la cosa si sarebbe saputa prima. Qualcuno glielo aveva detto di recente, e Childes sorrise tra sé e sé: Sebire aveva indagato sul suo passato, oppure Amy ne aveva parlato col padre, e questi aveva informato l’amministratore della scuola. In un certo senso era contento che il segreto non fosse più tale, anche se erano solo affari suoi. La rimozione porta alla depressione, non è così? si chiese.

«Tutto vero!» rispose ad alta voce.

«Come dice prego?» la preside aveva l’aria sorpresa.

«Le mie esperienze con la polizia, come dice lei. Li ho solamente informati. Li ho aiutati, sul serio, a risolvere un’indagine.»

«Così mi si dice. Per quanto il modo fu alquanto strano, non crede?»

«Sì. Direi proprio strano. Tanto che il ricordo ancora mi lascia sbalordito. In quanto al non averla informata, non ne vedevo la necessità, non fui coinvolto nella faccenda.»

«Ma certo. Non ne sto facendo un caso, mi creda.» Era la volta di Childes ad essere sorpreso. «La mia posizione qui non è dunque messa in discussione?»

Il ticchettio dell’orologio segnò il tempo della pausa: sei secondi.

«Mi pare giusto dirle che ho chiesto alla nostra polizia di darmi ulteriori delucidazioni in merito. Lei ne può capire i motivi, vero?»

Ella non sorrise e mantenne i soliti modi bruschi ma Childes la vide in una nuova luce quando disse: «Non ne vedo alcun motivo, per ora, sempre che lei non abbia qualcos’altro da dirmi, che comunque verrei a sapere?»

Scosse la testa. «Non ho nulla da nascondere, glielo assicuro.» «Molto bene. Abbiamo molto bisogno delle sue conoscenze specifiche, altrimenti non le avremmo chiesto di dedicare al La Roche una fetta maggiore del suo tempo e tutto questo l’ho spiegato a Victor Platnauer. Devo dirle però che dapprima non era molto convinto delle mie argomentazioni, comunque è un uomo giusto. La terrà d’occhio però, Childes, e anch’io. Siamo d’accordo che la questione rimarrà rigorosamente segreta. Il La Roche non può permettersi la pubblicità collegata a un caso del genere, abbiamo un’ottima reputazione da mantenere e difendere.»

Estelle Piprelly si appoggiò allo schienale, e per quanto il suo corpo rimanesse diritto, l’atteggiamento pareva quasi rilassato. Continuò ad osservare con attenzione Childes, con quello sguardo penetrante e profondo, la stilografica dritta tra le dita come un paletto di confine. Lui si chiese come fosse realmente, cosa pensasse di lui, il perché di quell’improvviso lampo di paura dietro alle spesse lenti degli occhiali.

Lei si riprese subito lasciandolo con il dubbio di aver visto giusto, perché non vi era stato alcun cambiamento nei suoi modi.

«Non la tratterrò più a lungo,» disse asciutta, «sono sicura che abbiamo entrambi molte cose da fare.»

Voglio che se ne vada, pensò tra sé e sé, subito! Non era colpa dell’uomo, non poteva essere incolpato per quell’incredibile sensibilità che possedeva, così come lei stessa non era responsabile delle sue eccezionali facoltà. Non poteva mandarlo via per quello, sarebbe stato troppo ipocrita, e crudele. Ma lo voleva fuori dalla stanza, adesso, subito. Per un attimo aveva avuto la sensazione che lui l’avesse riconosciuta, avesse visto attraverso la sua maschera perenne, avesse presentito quella sua abilità, un dono di natura tanto inaccettabile a lei quanto lo era la cattiva pubblicità per la scuola. Il suo segreto, la sua pena, era privata, da non condividere con nessuno. Troppo a lungo era stato coperto, nascosto, per anni. Avrebbe corso il rischio di continuare ad averlo come insegnante, era giusto in fondo… ma lei si sarebbe tenuta lontano da lui, non gli avrebbe mai dato la possibilità di scoprire la loro somiglianza. Sarebbe stato sciocco, dopo tanto tempo, pericoloso addirittura, per una persona nella sua posizione.

«C’è qualcos’altro che deve dirmi Childes?». Trattenne a stento l’impazienza, anni di ferrea disciplina la assistevano.

«Solamente grazie, sono contento di avere la sua fiducia.»

«La fiducia non c’entra niente. Innanzi tutto se avessi pensato che lei non meritava fiducia non l’avrei assunta. Diciamo che ho bisogno delle sue capacità.»

Lui riuscì a sorriderle mentre si alzava, iniziò a dire qualcosa poi ci ripensò ed uscì dalla stanza.

La preside appoggiò la testa all’alto schienale; il sole sulle spalle non riuscì però a disperdere quel senso di gelo.

Una volta fuori nel corridoio Childes cominciò a tremare. Quella mattina si era convinto di aver ripreso il controllo di se stesso, che buona parte dell’angoscia si fosse dissipata il giorno precedente, espulsa letteralmente dall’organismo, lasciandolo talmente spossato che una volta tornato a casa sarebbe stato subito preda del sonno. E così fu. Un sonno senza sogni, senza quel rigirarsi inquieto, senza lenzuola intrise di sudore; solo alcune ore di oblio. Quella mattina si era svegliato riposato, le immagini viste il sabato sera appena un ricordo sommesso, ancora fastidioso, ma relegato in qualche comparto lontano della memoria, un riflesso inconscio, una specie di autodifesa mentale, ci doveva essere un termine medico preciso per definire quel tipo di reazione.

Il giornale del mattino mandò in frantumi quella fragile difesa.

Aveva comunque compiuto tutti i gesti del vivere quotidiano deciso ad arrivare in fondo alla giornata; poi, nel frattempo, c’era stato l’incontro con la Piprelly. E ora tremava.

«Jon!»

Si voltò allarmato, ed Amy vide la paura sul suo volto. Gli si avvicinò sollecita.

«Jon cos’hai? Hai il viso stravolto.»

Childes si aggrappò a lei brevemente. «Andiamocene da qui,» disse, «puoi allontanarti per un po’?»

«Sì certo, c’è ancora l’intervallo per il pranzo, ho una mezz’ora prima delle lezioni.»

«Facciamo un giro in un posto tranquillo!»

Si separarono nel sentire dei passi lungo il corridoio ed infilarono le scale che portavano all’ingresso principale; non dissero nulla fin quando non furono fuori, al sole, che li scaldò dopo il fresco dell’edificio.

«Dov’eri ieri?» chiese Amy. «Ti ho cercato tutto il giorno.»

«Pensavo che tu stessi facendo vedere l’isola a Edouard Vigiers.» Non c’era critica nel commento.

«L’ho fatto per un’oretta. Ma lui aveva capito che ero in pensiero per te e ha deciso di tagliar corto. Inoltre non ero un granché come compagnia.» Si avviarono verso il parcheggio. «Sono passata dal cottage ma non c’era anima viva, ero preoccupata.»

«Mi dispiace Amy, avrei dovuto pensarci. Ho sentito il bisogno di uscire, non potevo star chiuso lì dentro.»

«Per quello che è successo a cena?»

«Sì, non mi sono certo attirato le simpatie di tuo padre.»

«Non è questo l’importante. Voglio sapere Jon.» Lo prese per il braccio.

«Sta ricominciando tutto daccapo Amy. L’ho capito da quella volta alla spiaggia. Le stesse sensazioni, come se fossi altrove; guardavo, vedevo un qualcosa che accadeva e non avevo alcun potere sugli eventi.»

Erano arrivati alla macchina e lei vide che gli tremavano le mani. «Forse è meglio che guidi io» suggerì.

Egli aprì la portiera e le consegnò le chiavi senza discutere. Presero una stradina che conduceva al mare. Di tanto in tanto lei gli gettava un’occhiata mentre guidava e la tensione di lui ben presto prese anche lei. Si fermarono in uno spiazzo che sovrastava una piccola insenatura, il mare in basso era di un azzurro smagliante, verde a tratti e più chiaro sulle secche. Attraverso i finestrini aperti potevano sentire la risacca infrangersi sui ciottoli della spiaggia. In lontananza il traghetto rollava attraverso le acque placide verso il porto, dal lato orientale dell’isola.

Childes ne seguì il lento avanzare con la mente altrove ed Amy dovette prendergli il viso e girarlo verso di sé. «Siamo qui per parlare, per favore dimmi cosa ti è accaduto sabato sera.» Si sporse in avanti e lo baciò accorgendosi con sollievo che il tremore gli era passato.

«Farò di meglio, ti mostro qualcosa!» disse lui allungando la mano per raccogliere il giornale sul sedile posteriore. «Guarda qui!» disse, indicando il foglio.

«DISSACRATA LA TOMBA DI UN BIMBO» lesse lei ad alta voce, ma poi si zittì continuando a leggere incredula. «Oh, Jon! Ma è terribile. Chi può fare cose del genere, fare a pezzi il corpicino di un bimbo, ma…» Ebbe un fremito e distolse lo sguardo dalla pagina. «È una cosa oscena.»

«È quello che io ho visto Amy!»

Lei lo guardò senza capire, i capelli biondi mossi dalla brezza.

«Ero lì, accanto alla tomba. Ho visto quel corpo mentre veniva violato, ero quasi partecipe in qualche modo.»

«No! Tu non potresti mai…»

Lui le strinse un braccio. «Ho visto tutto, a un certo punto ero in contatto con la mente della persona che lo stava facendo.»

«Ma come?». La domanda rimase sospesa a mezz’aria.

«Come prima. Proprio come l’altra volta. La sensazione di essere dentro l’altra persona, di vedere tutto con i suoi occhi. Ma io non c’entro. Non ho controllo. Non posso fermare quello che succede.»

Amy era spaventata dal suo improvviso sguardo di terrore e lo abbracciò parlandogli dolcemente. «Va tutto bene Jon, non ti può accadere niente, tu non ne fai parte, ciò che succede non ha nulla a che fare con te.»

«Avevo dei dubbi in merito l’altra sera» disse lui riprendendosi. «Mi chiedevo se per caso non stessi ricordando qualche violenza che avevo commesso io, certi fatti che poi il cervello aveva provveduto a cancellare.» Indicò col dito il giornale. «Poi questo mi ha fatto ricredere: è accaduto in Inghilterra la sera che ero a casa vostra. Per lo meno questo è un sollievo.»

«Se solo fossi stata con te, ieri, te l’avrei fatta passare io quella stupida idea.»

«No, parlare non sarebbe servito, avevo bisogno di stare solo.»

«Condividere i problemi serve sempre.»

«Il problema è qui dentro», disse lui toccandosi la fronte.

«Tu non sei pazzo.»

Lui sorrise amaramente. «Questo lo so. Ma riuscirò a rimanere sano di mente se le visioni continuano? Dovresti saperlo, com’è, per capire che cosa vuol dire Amy, per capirne la paura. Quando passa mi sento lacerato dentro, come se mi avessero mangiato un pezzo di cervello.»

«È così che ti sentivi l’altra volta? In Inghilterra, intendo.»

«Già. Forse era peggio, era una cosa completamente nuova allora.»

«Quando trovarono l’uomo che aveva commesso i delitti, che cosa hai provato?»

«Sollievo, un incredibile sollievo. Come se avessero sollevato una coltre nera, come se ad un tratto mi avessero messo degli occhiali da sole dopo un lungo periodo in un deserto assolatissimo. Ma stranamente il sollievo arrivò prima che la polizia rintracciasse l’assassino; vedi, io ho avvertito l’esatto momento in cui lui si tolse la vita, perché in quel momento la mia mente fu come liberata, è stata la sua morte a rendermi libero.»

«Ma perché proprio lui. Perché quell’assassino, solo lui? Te lo sei mai chiesto?»

«Certo, ma non sono mai arrivato ad una risposta soddisfacente. Ho avuto altri presentimenti ma niente di speciale, niente che si potesse definire ESP, percezioni extrasensoriali, niente di quel genere. Tutte cose normali, che tutte le persone hanno: tipo quando suona il telefono sapere chi chiama prima ancora di rispondere, oppure quando ci si perde sapere qual’è la direzione giusta. Cose semplici, che capitano a tutti, niente d’eccezionale.» Si girò sul sedile seguendo con gli occhi un gabbiano librarsi controvento. «I veggenti dicono che la nostra mente è come una radio sintonizzata di continuo sulla stessa lunghezza d’onda di altre menti: ebbene si vede che lui stava trasmettendo su di una frequenza che solamente io potevo ricevere, l’eccitazione che sentiva nell’uccidere esaltava la trasmissione, ne aumentava la potenza al punto che la ricevevo bene.» Il gabbiano ora planava, le ali tese al sole biancheggiavano nel sole.

Childes guardò di nuovo Amy. «È una teoria stupida però. Ma non riesco a trovarne un’altra di migliore.»

«Non è stupida affatto, stranamente mi sembra logica. Una forte emozione, uno shock può indurre ad una comunicazione di tipo telepatico tra le persone, questo è risaputo. Ma adesso cos’è che succede? Cos’è che ha dato il via a queste comunicazioni psichiche, stavolta?»

Childes ripiegò il giornale e lo gettò sul sedile posteriore. «Dev’essere come prima, ho captato un’altra frequenza.»

«Devi andare alla polizia.»

«Stai scherzando! Ciò che è successo l’altra volta ha distrutto il mio matrimonio e mi ha fatto scappare come un coniglio. Pensi veramente che abbia voglia di riprovarci?»

«Non hai alternative.»

«Certo che ne ho, posso starmene zitto e pregare che non succeda più.»

«L’altra volta non fu così!»

«Per quello che ne so non ha ammazzato ancora nessuno.»

«Per quello che ne sai tu! Cos’è successo l’altra settimana quando hai visto qualcosa che ti ha sconvolto al punto tale che quasi annegavi?»

«Era solo un ammasso confuso di cose, non lo so proprio cos’era.»

«Forse era un omicidio?»

«Non posso rovinare tutto andando alla polizia. Che possibilità avrei al La Roche o nelle altre scuole se si venisse a sapere che c’è una specie di pazzoide veggente che insegna sull’isola? Victor Platnauer mi sta già prendendo di mira e non voglio proprio dargli il pretesto per spararmi.»

«Platnauer?»

Lui le spiegò per sommi capi l’incontro con Estelle Piprelly.

«Ho paura che ci sia lo zampino di papà in questa faccenda.» disse lei quando ebbe finito di raccontare.

«E gliene hai parlato tu a tuo padre? Scusa, non volevo essere brusco, non c’è motivo che tu abbia dei segreti in famiglia, non voglio rimproverarti se è così.»

«Ha chiesto alla polizia di indagare sul tuo caso. Io non c’entro per nulla.»

Childes sospirò. «Avrei dovuto saperlo. Purché noi ci separiamo. Vero?»

«No, Jon. È solo preoccupato del mio avvenire, di chi frequento.» rispose lei con una mezza bugia.

«Beh, non posso dargli torto se si preoccupa.»

«Non ti si adatta la parte del mediatore». Gli carezzò il bavero della giacca, una smorfia le indurì l’espressione. «Penso sempre che dovresti andare alla polizia. L’ultima volta hai potuto dimostrare di non essere un mitomane, no?»

Lui le strinse le dita agitate. «Aspettiamo un pochino ancora, eh? Queste visioni… potrebbero non essere nulla, potrebbero scomparire.»

Amy si voltò e mise in moto. «Dobbiamo tornare» disse; poi aggiunse: «E se non andassero via? Se peggiorassero? Jon, e se ammazza qualcuno?»

Lui non trovò alcuna risposta.

* * *

Quando sentì la voce squillante di Gabby, Childes assunse nella voce un tono fintamente normale. «Pronto.» disse lei.

«Con chi parlo, scusi?» giocò lui, allontanando i pensieri cupi.

«Ma papàaa!» rispose lei, abituata al gioco. «Indovina che è successo a scuola oggi.»

«Vediamo un po’… avete sparato alla maestra?»

«Noo!»

«La maestra ha sparato a voi?»

«Sii serio, su.»

Lui sorrise della piccola frustrazione, la vedeva in piedi accanto al telefono col ricevitore attaccato all’orecchio, gli occhiali scesi sul naso come sempre.

«Allora dimmelo tu, saputella.»

«Beh! Abbiamo portato le nostre ricerche del trimestre e la signorina Hart ha fatto vedere la mia a tutta la classe perché era proprio bella.»

«Quella sui fiori spontanei?»

«Ma sii, te l’ho detto la settimana scorsa.» rispose la bimba, quasi arrabbiata.

«Ah, sì, me n’ero quasi dimenticato, sai com’è… allora le era proprio piaciuto, eh? Sono proprio contento!»

«Sì! E Annabel ha preso un voto di meno, però l’aveva copiato un po’ dal mio, mi sa! Io ho preso un 10 e lode, lei 10, che però va bene lo stesso, no?»

Lui ridacchiò. «Splendido.»

«Poi la signorina Hart ci ha promesso che la settimana prossima andiamo tutti su un grande autobus al parco dell’amicizia, dove hanno le scimmie nelle gabbie e un lago con le barche e gli scivoli e le robe.»

«Hanno le scimmie sull’autobus?»

«Ma no, al parco, scemo! Mamma ha detto che mi prepara il pranzo al sacco e mi dà dei soldi da spendere.»

«Che bello, e lei viene con te?»

«No, è solo roba per la scuola. Ci sarà tempo buono secondo te?»

«Penso proprio di sì, adesso è già abbastanza caldo, no?»

«Spero proprio di sì, anche Annabel. Vieni a trovarmi presto?»

Come sempre la domanda venne, inserita a sorpresa, senza che lei si rendesse conto di quanto riuscisse a ferirlo.

«Spero di sì, tesoro, forse a metà trimestre, o forse vieni tu a trovarmi qualche giorno se la mamma può.»

«In aereo? La barca mi dà fastidio, ci mette troppo, e poi mi fa male al pancino.»

«Certo, in aereo. Potresti fermarti anche di più, fino al giorno in cui inizia la scuola.»

«Posso portare la mia micia? Sennò soffre di solitudine!» La gatta nera di Gabby le era stata donata per il suo terzo compleanno. Poi lo sviluppo della gatta aveva subito preso il suo ritmo naturale sorpassando in poco tempo la crescita della bambina, i comportamenti da cucciolo avevano ben presto ceduto all’altera presunzione tipica della sua razza molto prima che Childes se ne andasse.

«Non mi pare una buona idea, e poi la mamma si sentirebbe sola senza compagnia, ti pare?». Non vedeva la figlia da sei mesi e si chiedeva quanto potesse essere cresciuta; Gabby sembrava crescere a sbalzi, sorprendendolo ogni volta che la vedeva.

«Sì, forse hai ragione, volevi parlarci con la mamma?»

«Sì grazie!»

«Non c’è. Se vuoi ti passo Janet; è lei che bada a me adesso.»

«Oh, va bene, passami un attimo Janet.»

«Vado a chiamarla. Ciao papà. A proposito, ieri ho spruzzato la micia di porporina per farla luccicosa.»

«Scommetto che si è divertita un mondo.»

«No, invece! S’è incavolata un sacco e starnutisce di continuo e mamma dice che non gliela togliamo più.»

«Chiedi a Janet di passarle l’aspirapolvere addosso, vedrai che il grosso lo toglierete, sempre che riusciate a tenerla ferma.»

Gabby fece una risatina allegra. «Scommetto che si arrabbia da matti, dico a Janet che le vuoi parlare, va bene?»

«Brava!»

«Ciao pà, ti voglio bene!»

«Ti voglio bene anch’io.» rispose, sentendo il ricevitore sbattere prima ancora che avesse finito. Si sentirono i passetti risuonare in lontananza e la vocina gridare.

Altri passi, più pesanti, poi il ricevitore fece di nuovo un fruscio.

«Signor Childes?»

«Ciao Janet, come va?»

«Bene! Fran è al lavoro fino a tardi, quindi l’aspetto. Sono andata a prendere Gabby a scuola come d’accordo.»

«Per il lavoro tuo come va?»

«Niente ancora! Comunque ho un paio di colloqui la settimana prossima, non proprio quello che cerco ma a questo punto mi va bene tutto! Facciamo le corna.»

Lui le espresse la sua solidarietà. Janet era una ragazza sveglia ma con poche qualifiche. Con le difficoltà di impiego che c’erano, lei così giovane e inesperta, figuriamoci!

«Voleva lasciar detto qualcosa a Fran?» chiese Janet.

«No, no. Volevo parlare con Gabby. Chiamerò domani caso mai.»

«Le dirò che ha chiamato.»

«Sì, grazie Janet, e buona fortuna per i colloqui.»

«Mi ci vorrebbe proprio. Arrivederci signor Childes.»

La linea tornò muta e lui si ritrovò da solo nel cottage. C’era sempre una sorta di brutalità nel riattaccare il telefono in quei casi. La mano ferita gli faceva male, pulsava. La gola era estremamente secca. Rimase in piedi accanto al telefono per qualche momento. I suoi pensieri correvano alla bimba poi all’ispettore di polizia che si era occupato del caso dei bambini trucidati anni prima, e che era riuscito con il suo aiuto a rintracciare l’assassino maniaco. Le sue dita presero il ricevitore ma non riuscì a fare il numero. Amy aveva torto, non c’era motivo di chiamare la polizia. Cosa poteva dirgli? Non era ceno in grado di individuare la persona che aveva disseppellito il bimbo morto, non aveva nemmeno un indizio riguardo al dissacratore, né su dove potesse essere. Fin quando non aveva letto il giornale non sapeva nemmeno cosa fosse successo o se fosse accaduto in Inghilterra: aveva, sì, creduto che la visione fosse vera, non una fantasia, ma gli era sembrata più vicina, sull’isola. No, non aveva niente da dire alla polizia, proprio niente. Staccò la mano dal telefono.

La nascita di Gabby era stata difficile, un trauma.

Era uscita dall’utero a piedi in avanti di un colore blu violaceo tanto da aver quasi fatto svenire di paura Childes che era rimasto a fianco di Fran durante l’intero parto. Aveva pensato che un cosino così fragile e raggrinzito e di quel colore poi, non avrebbe mai potuto sopravvivere. L’ostetrica l’aveva capovolta estraendole del muco dalla cavità orale senza avere il tempo di rassicurare i genitori: si curava solo della vita del neonato. Riuscì a liberare la piccola dall’ostruzione, quindi soffiò forte nella piccola gola per stimolarne il respiro. Il primo grido fu appena un flebile lamento quasi impercettibile ma riuscì a dare sollievo a tutti i presenti, medici, infermieri e genitori compresi. Era stata fasciata e posta sul seno della madre, il cordone ombelicale reciso con destrezza. A quel punto Childes, che era mentalmente esausto quanto Fran lo era tìsicamente, sentì crescergli dentro una calda sensazione d’orgoglio e mentre le guardava le stanchezza gli si trasformò in una serena rilassatezza.

Fran aveva i lineamenti stravolti dalla fatica, invecchiati, la bimba ancora sporca e umida di sangue aveva il viso accartocciato e segnato come quello di un vecchio, ma ambedue riposavano dopo la battaglia per la vita. Lui si era chinato su di loro attento a non schiacciarle ma con il bisogno di sentirle vicine. L’odore sterile dell’ospedale si mischiava al puzzo di sudore e in quel momento lui pensò che nulla avrebbe potuto mai distruggere il loro sodalizio, la loro unità.

Durante le settimane successive era come se Gabby emergesse lentamente da un lungo e terribile trauma, ed era in fondo così, una transizione dal semplice esistere alla coscienza dell’essere. Egli iniziò allora a capire quale shock si accompagna sempre alla vita.

Il sonno si prendeva buona parte della sua vita in quei primi giorni, concedendo momenti dolcissimi in cui imparare, assorbire, alimentarsi; la trasformazione che si andava compiendo era meravigliosa ed affascinante da osservare. La sua crescita era per lui un miracolo, passava ore intere semplicemente a guardarla, vederla crescere, diventare una bimbetta che camminava con le gambette incerte, che aveva un grande amore per il proprio pollice e per uno straccio che una volta era stata la copertina della culla. La sua prima parola lo aveva deliziato anche se non era stata ‘papà’, e quel bisogno assoluto di lui e di Fran accompagnato da un amore senza remore aveva influito anche in altri campi della sua vita. Gabby gli aveva insegnato che tutti gli essere viventi sono altrettanto vulnerabili; la carriera inesorabile in un settore asettico fatto di macchine e teorie aveva smorzato in lui questa sensibilità.

Questa riscoperta passione lo aveva quasi distrutto quando aveva visto con la mente l’uccisione di quei poveri bambini.

Dopo tre anni quelle immagini lo sconvolgevano ancora e ora erano più vivide e potenti.

Childes aveva passato la serata preparando esercizi per la lezione del giorno dopo, quel martedì pomeriggio che aveva promesso alla Piprelly e che era già operativo. Tra non molto ci sarebbero stati gli esami e l’informatica ne avrebbe fatto parte. Era irritato dal fatto che i suoi pensieri continuassero ad andare a Gabby, agli anni di felicità che aveva trascorso in famiglia, anche se Fran non aveva mai del tutto rinunciato all’idea di riprendere la sua carriera di PR. Erano avvenute però troppe cose che avevano rovinato quella breve felicità, e gli anni successivi non erano stati sufficienti a disperdere l’angoscia.

Fissò senza vederli i fogli sparsi sul tavolino di fronte a lui, la lampada da tavolo gettava all’intorno ombre cupe. Dormiva Gabby? Con gli occhiali accanto al cuscino per darle sicurezza? Guardò l’orologio, le nove e mezza. Doveva essere a letto. Chissà se Fran leggeva ancora una storiella per farla addormentare, ma forse di questi tempi era troppo impegnata, troppo stanca quando arrivava a casa. Childes raccolse le carte pensando preoccupato al fatto che quando aveva fatto un giro di domande botta e risposta alle ragazze, alcune di loro non avevano ancora capito la differenza tra computer digitali ed analogici, o che ve ne erano di misti. Roba facile, basilare, che non avrebbe dovuto creare problemi. L’idea degli esami era un dramma, confidava comunque che gli esercizi pratici avrebbero sortito risultati migliori della teoria.

Si passò una mano sugli occhi stanchi, le lenti parevano carta vetrata sulle pupille. Cibo, pensò, dicono che il cibo faccia bene. Sono stanco, tanto. Un panino, va’! E un bicchiere di latte, anzi forse un bicchierino di qualcosa di forte.

Stava per alzarsi quando un dolore gelido, lancinante, lo colpì dentro la testa.

Childes si mise entrambe le mani sulle tempie stordito dall’inaspettata sensazione. Strinse gli occhi, cercò di liberarsi dal gelo. Ma invano.

Fuori udiva il vento far frusciare le fronde degli alberi. Da qualche parte scricchiolò una trave che si assestava dopo il tepore della giornata.

Il dolore si attenuò e lui scosse la testa come se avesse avuto le vertigini. Troppo scrivere, pensò, troppa concentrazione, fino a tarda ora. Un concentrarsi disturbato dai pensieri di Gabby. E di altre cose.

Un goccetto potrebbe farmi rilassare un poco. Si alzò, premendo con le mani sulla scrivania. Il gelo gli prese di nuovo i nervi facendolo ondeggiare; si attaccò al bordo della scrivania per sorreggersi.

I pensieri gli si accavallarono nella testa, il gelo ora somigliava a delle dita che gli frugassero nella mente, cercando di carpirgli i pensieri e… e… sembrava… nutrirsene. Le spalle gli si incurvarono, la testa appesantita. Le labbra si ritirarono come per un dolore, ma non vi era dolore, solo quel terribile gelo e la confusione mentale. Gli sfuggì un grugnito.

Poi la mente gli si liberò. Rimase in piedi appoggiato alla scrivania, il respiro pesante, aspettando che passasse del tutto. Sembrò un tempo molto lungo, eppure Childes sapeva che erano stati solamente pochi secondi. Attese che i nervi scossi si quietassero poi attraversò la stanza e si versò un bel po’ di whisky. Stranamente non sapeva di niente.

Il sorso successivo quasi gli andò di traverso, il sapore era tornato forte. Sputando si passò il dorso della mano sulle labbra. Che accidenti gli capitava? Assaggiò di nuovo la bevanda stavolta con attenzione, a piccoli sorsi. Si sentì riscaldare.

Childes si guardò attorno incerto di quel che cercasse, sentendo però un’altra presenza. Sciocco, non c’era nessuno oltre a lui nella stanza, non era entrato nessuno di nascosto mentre lavorava alla scrivania.

Le ombre gettate dal lume lo infastidirono e si diresse verso l’interruttore sul muro accanto alla porta, allungò la mano fasciata per accendere la luce centrale, poi si guardò le dita sorpreso del formicolio improvviso che avvertiva, come se avesse preso una scossa prima ancora di toccare l’interruttore. Guardò poi l’altra mano mano che reggeva il bicchiere di whisky; anche quella ora formicolava, sembrava anzi che fosse il bicchiere stesso a tremare. Quelle invisibili, insidiose dita ripresero a frugare.

Il corpo gli cedette e si lasciò andare sul divano accasciandosi nella sua morbidezza come se portasse un peso. Il bicchiere cadde a terra, il liquido si sparse sul tappeto. Childes chiuse gli occhi sentendo aumentare il senso di intrusione. Tante immagini gli vorticavano nella mente, matrici numeriche, visi, la stanza in cui era ora, numeri, simboli, sparivano e riapparivano, avvenimenti del passato, il suo stesso viso, la sua anima, le paure, sogni dimenticati da tempo venivano richiamati e frugati a fondo.

Fece un lamento, cercò di allontanare quei tentacoli di ghiaccio, imponendosi di rimanere calmo, volendo che la confusione cessasse.

I muscoli di Childes si rilassarono un poco quando il gelo si attenuò di nuovo. Il torace si sollevava e abbassava in modo convulso. Guardò le ombre sull’altra parete. Qualcosa, qualcuno stava cercando, stava cercando di conoscerlo.

Quasi senza intervallo quel frugare riprese, facendogli tendere il corpo, infiltrandosi nella sua coscienza. NO! urlò la sua mente. «No!» urlò lui davvero. Ma era lì, dentro di lui, cercava, gli succhiava i pensieri. Lui ne sentiva la presenza, che gli frugava dentro come una specie di ladro psichico. Lo invase tutto osservandogli i pensieri, dell’isola, delle scuole in cui insegnava, pensieri di Amy, di Fran, di… Gabby. Di GABBY!

Sembrò indugiare interessato.

Childes si tirò su dal divano lottando contro quella coscienza estranea, strappando ognuno dei gelidi tentacoli quasi fossero entità fisiche. Sentì che allentavano la presa e lo sforzo lo fece cadere in ginocchio. Si sforzò di fissare il pensiero su una foschia biancastra, nient’altro, niente che potesse distrarlo o dare un appiglio all’intruso; dopo un poco la testa sembrò sgombrarsi.

Ma prima di sentire un vero e proprio sollievo, che lo lasciò esausto e tremante sul pavimento, sentì un suono così reale che si guardò intorno fin negli angoli più bui della stanza.

Era solo. Ma quella sinistra risata repressa sembrava vicina.

* * *

Jeanette era in ritardo. Le altre ragazze della camerata erano già tutte scese e lei era ancora lì in vestaglia a spazzolarsi vigorosamente i denti.

Ma proprio oggi accidenti! Esami! Bleah! Matematica! Jeanette era ormai convinta di essere una capocciona quando si trattava di numeri.

La luce del mattino inondava il bagno facendo luccicare la fila di lavandini di porcellana; l’acqua era sparsa in piccole pozzanghere sul pavimento di piastrelle testimoniando delle abluzioni delle ragazze. Era sola, preferiva così: le altre la mettevano in imbarazzo quando confrontavano dimensioni e forme del loro seno tutte ansiose di primeggiare nella gara verso l’adolescenza compiuta. Jeanette era buona ultima, molto indietro rispetto alle altre tredicenni e quattordicenni della sua classe e non ci teneva affatto a fare confronti. Questo stato di inadeguatezza era aumentato dal fatto che non le erano ancora venute le mestruazioni.

Jeanette si sciacquò la bocca, sputò nel lavandino e si asciugò il viso con un asciugamano. Poi buttò alla rinfusa le cose da toilette nella borsetta di plastica rosa. Saltellò con i piedi nudi fino alla porta e quasi scivolò sul pavimento, poi percorse il corridoio in ombra lasciando impronte umide mentre correva sull’impiantito di legno. Era vietato camminare a piedi nudi a scuola ma non aveva avuto tempo di cercare le pantofole disperse sotto il letto, e poi tutti, compreso il personale, erano giù a fare colazione.

Faceva freddo nella camerata che divideva con altre cinque ragazze, nonostante il sole fuori fosse già alto. Jeanette stese rapidamente sul letto disfatto gli indumenti, mutandine rigorosamente blu, come da regolamento, maglietta bianca. Si lasciò scivolare dalle spalle la vestaglia imbottita, si strappò via il pigiama senza sbottonarlo e lo lanciò sul letto accanto ai vestiti. Si strofinò le braccia per farsi passare l’improvvisa pelle d’oca e allungò il braccio per raccogliere la maglietta. Prima di infilarsela si guardò il torace e sospirò delusa. I capezzoli erano evidenti, ora eretti a causa del freddo, ma quei leggeri gonfiori da cui sporgevano non erano certo soddisfacenti. Si pizzicò i capezzoli per farli indurire di più e massaggiò i gonfiori sperando che ciò favorisse la loro crescita. Una leggera sensazione di caldo piacere la pervase tutta e lei s’immaginò di avere un seno già formato. Si sedette sul letto con ancora indosso i pantaloni del pigiama premendo sotto le mani i due gonfiori. Era piacevole e lei pensò che forse poteva… no, non c’era tempo per quella roba, era già abbastanza in ritardo.

Tirò via il pigiama e si infilò rapidamente le mutandine, la maglietta e le calze bianche recuperate in fondo al cassetto accanto al letto. Dato che il tempo andava facendosi bello le ragazze del La Roche avevano avuto il permesso di indossare le divise estive, vestitino azzurro con maniche corte. Jeanette se lo infilò e poi le scarpe, che avevano bisogno di una buona lucidata. Rimise in ordine il letto nascondendo sotto le lenzuola gli indumenti da notte. Poi prese una spazzola strapazzandosi i capelli ingarbugliati facendo smorfie di dolore. Il piccolo specchio bordato di blu con una farfallina dipinta in un angolo rifletteva il risultato, non del tutto soddisfacente. Nonostante la fretta Jeanette cercò i segni di qualche fioritura notturna. Aveva quasi del tutto eliminato la cioccolata dalla sua dieta, e faceva di tutto per finire tutte le verdure che le venivano date fino a sfiorare quasi la nausea, eppure puntualmente quei maledetti foruncoli apparivano ogni volta che c’era qualche occasione particolare. Ma oggi non era un giorno speciale, solo quegli accidenti di esami, e la sua pelle era pulita, senza un segno. Avrebbe scommesso chissà che cosa che il giorno del suo matrimonio ce ne sarebbero stati in quantità e lei avrebbe dovuto portare il velo per tutta la durata della cerimonia con addosso la paura di baciare il suo sposo a cui lei sarebbe sembrata come un gelato alla crema con dentro pezzi di fragola.

Jeanette avvicinò ancora di più lo specchio guardando i propri occhi scuri, sognando di poterci leggere il suo futuro. Era stata spesso sgridata, sia dai genitori che dai docenti perché, passava troppo tempo a sognare e troppo poco a pensare; aveva tentato di pensare alle cose serie ma dopo qualche minuto i pensieri le sfuggivano e si perdevano in fantasie. Ci provava, ci provava tanto, ma sembrava che i suoi pensieri avessero una volontà tutta loro. Vedere il cielo attraverso una finestra significava immaginare di volare sopra gli alberi, sopra le onde increspate di bianco, non come un uccello ma come uno spirito libero. Il sole sul viso la portava in deserti assolati, spiagge dorate, giornate calde trascorse… e la parola la faceva eccitare terribilmente… con il suo amante. Odorare il profumo di un fiore dava corso a tutta una serie di pensieri sull’origine della vita, animali piccoli e grandi, e di cos’era lei. Vedere la luna…

Un’ombra le passò dietro.

Si girò ma non c’era nessuno, solo lei, la camerata era vuota.

Poster e ritagli di giornale lastricavano i muri con cantanti pop, attori, tennisti, tagli di capelli, modelli di vestiti, e stupidaggini varie. C’erano un paio di orsacchiotti e di bambole rappezzate, tenute più come mascotte che per la tenera compagnia che avevano fatto negli anni precedenti. Delle sculture mobili appese sopra ai letti rotearono come se ci fosse stata una brezza.

Non c’era nessuno, eppure Jeanette sentiva una presenza.

Le tornò la pelle d’oca sulle braccia. Il sole sembrava meno luminoso. Si scostò dall’armadietto e con passi cauti passò tra le file dei letti tenendosi bene al centro, controllando l’ombra sotto ognuno di essi come se dovesse uscirne una mano per agguantarle la caviglia. Poi accelerò il passo verso la porta.

Con un balzo fu fuori, si voltò a guardarsi indietro, ma non vide altro che una camerata vuota piena di poster colorati, imbottite vivaci sui letti vuoti. Il sole riempiva la stanza disperdendo le ombre.

Non c’era proprio nessuno. Lei comunque si allontanò di corsa.

* * *

Allargò le gambe sopra di lui scuotendo vigorosamente i capelli, inondandolo di goccioline salate. Lui aprì un occhio schermandolo con la mano dai raggi ancora forti, nonostante fosse pomeriggio inoltrato. La pioggia di gocce sul petto lo rinfrescò gradevolmente.

«Com’è?» chiese Childes.

«Fredda!» rispose Amy inginocchiandosi accanto a lui, mentre strofinava rapidamente i capelli con un grosso asciugamano di spugna. «Ma stupenda. Perché non fai un tuffo anche tu?»

Lui richiuse gli occhi e rispose pigramente. «Troppa fatica togliermi le lenti». Non accennò al fatto che era da quella disgraziata volta quando erano andati a pesca che non nuotava. Quel quasi annegamento di un mese prima lo aveva lasciato piuttosto timoroso dell’acqua.

«Ma dai! Staresti bene dopo una bella rinfrescata.» Gli piazzò una mano umida sulla pancia ridendo della immediata contrazione dei suoi muscoli.

Lui la tirò verso di sé godendo del suo corpo bagnato, del sapore di sale e di mare. «Devo riposarmi, non sforzarmi.»

«Riposarti? Ma se non fai proprio niente da una settimana, grazie agli esami.»

«Giusto, e non intendo che cambi.»

Amy si avvolse nell’asciugamano lasciando cadere i lembi attorno ai loro corpi stesi. Premendogli sul torace gli mordicchiò le labbra. «Bello!» fece lui. «È come baciare un’ostrica.»

«Non ho capito bene se è un complimento o no». I lunghi capelli umidi bagnarono il viso di lui che si allungò a leccarle brevemente il mento.

C’erano poche persone sulla spiaggia a quell’ora, le orde di turisti inglesi ed europei non erano ancora arrivate, e la popolazione dell’isola era ancora alle prese con il lavoro quotidiano. L’insenatura aveva una bella striscia di sabbia dominata a un capo da un bunker tedesco a tre piani, un gigantesco monolite di calcestruzzo a ricordare le terribili e ancora recenti vicende. Rocce aguzze, che sembravano appena cadute dalla scogliera chiudevano l’altro lato.

«Hai fatto la pace con papà?» chiese Childes.

Amy sapeva bene che quell’uso della parola papà era teneramente scherzoso, una presa in giro del suo modo di chiamare il padre, e ormai non si offendeva più. «Beh, io tengo il broncio a lui e lui lo tiene a me. Ma alla fine dovrà accettare i fatti.»

«Non ne sarei troppo convinto, sai.»

«Non è mica un orco, Jon. Non ce l’ha con te personalmente.»

«A me era sembrato proprio di sì la settimana scorsa, quando ha messo la pulce nell’orecchio alla Piprelly.»

«Pip non si lascia dire quello che deve fare da nessuno. E comunque per essere giusti con papà… devi ammettere che qualcosina di strano nel tuo passato c’è.»

Lui sorrise arrotolandosi i capelli di lei attorno a un dito. «Ti turba ancora, eh?»

«Come non potrebbe Jon? Soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. Sai quanto ti amo, come posso dimenticarmi certe cose.»

«Non è più successo niente, Amy, più niente dalla cena. Non sono più tanto a disagio, non salto più su per un nonnulla. Non so spiegartelo ma è come se mi fossi tolto un grosso peso, per adesso almeno.» Non le aveva detto niente di quella sera da solo nel cottage quando quella strana tensione nella sua mente lo aveva messo in ginocchio. Nei giorni successivi quella sensazione di angoscia si era andata dissolvendo come se dall’esterno qualcuno alleggerisse un peso, una fattura malefica. Egli sentiva che la minaccia lo aveva scansato. Nonostante ciò l’eco di quella risata maligna gli risuonava ancora nella mente.

«Lo spero Jon» disse Amy per concludere il discorso, allontanando gli ultimi dubbi. «Io preferivo il vecchio Jon, quello che avevo incontrato allora. Tranquillo, senza problemi, alle volte buffo…», gli tirò dolcemente i capelli, «alle volte sexy.» Lui la prese per i capelli tirandola a sé, la baciò sulle labbra teneramente poi con furia crescente, le lingue si cercavano freneticamente rincorrendosi nelle loro bocche umide. Il corpo di lei si avvinghiò al suo con foga.

«Ehi, andiamo piano,» disse lui ansimando, «ho solo il costume addosso e siamo in un luogo pubblico.»

«Non ci vede nessuno» fece lei carezzandogli il collo e premendolo forte con le cosce.

«Non si comporta così una collegiale.»

«La scuola è finita.»

«Anch’io sarò finito se continui così.»

«Uh. Fai vedere se si è svegliato.»

«Amy!» l’ammonì lui.

Lei ridacchiò.

«Che pudico che sei!» disse tornando a spazzolarsi i capelli.

Lui si tirò su accovacciandosi e nascondendo le gambe tra le braccia.

«Vergogna!» lo prese in giro.

«Mi sta venendo un’idea!» disse lui allusivo.

«Ah sì?!» rispose lei ancora scherzosa, ma con la voce leggermente arrochita.

«Perché non vieni da me ad asciugarti per bene. Se non devi andare a casa.»

«In effetti avevo detto che sarei rientrata per la cena.»

«Ah, è così eh? Hai da fare.»

«Io no, ma pensavo che forse tu…?»

«Qualche ideuccia ce l’avrei…»

Andarono in auto fino al cottage, non si curarono di rivestirsi, appena riprendeva a fare caldo sull’isola erano frequenti le scene di persone seminude alla guida di automobili. Arrivarono presto al cottage di pietra grigia.

Amy rabbrividì mentre Childes richiudeva il portoncino. «Fa freschino qui dentro» esclamò.

«Ti prendo la mia vestaglia e ti faccio un drink.»

«Vorrei anche lavarmi di dosso questa salsedine.»

«Ti prendo la vestaglia, ti faccio un drink, e ti preparo il bagno.»

Lei lo abbracciò e lo baciò sulla punta del naso. «Tu pensa solo ai drink.»

La strinse alla vita, tirandola a sé, cercando le sue labbra con le sue.

Amy rispose al bacio con eguale fervore, lo sentì duro contro il suo ventre, ma si liberò prima che le cose si facessero serie. «Lasciami fare il bagno» gli disse con il fiato corto.

«Sei appena uscita dal mare, più pulita di così!»

Lei si voltò. «Prepara i drink e leggiti la posta. Ci metto un attimo.» Sparì nel bagno prima che lui potesse protestare ancora. Lui andò a raccogliere le lettere sullo zerbino dell’ingresso. La busta rosa con su Snoopy attirò la sua attenzione, e sorrise nel riconoscere la scrittura infantile. Si infilò la camicia che era rimasta appesa alla ringhiera delle scale con il resto delle loro cose, entrò nel soggiorno, gettò le altre due buste sul tavolino. Mentre attraversava la stanza aprì la lettera. Gabby gli scriveva almeno una volta la settimana, delle volte lunghe lettere piene di informazioni, altre, come questa, brevi, appena qualche rigo; era il suo modo di tenere aperto il canale di comunicazione, nonostante i molti chilometri di distanza. La micia aveva ancora gli sbrilluccichii, Annabel aveva la vallicella, e la mamma aveva promesso di insegnarle a fare i dolcini delle fate al fine settimana. Childes portò alle labbra la fila di XXXX: era un loro segreto, ad ogni X corrispondeva un bacio sulla carta.

Dal bagno arrivava lo scroscio dell’acqua; egli rimise il foglio nella busta riponendo il tutto in un cassetto. Versò un whisky per sé e un Martini per Amy poi si avviò verso la cucina in cerca di ghiaccio: lei stava giusto entrando nella vasca quando lui entrò nel bagno per darle il Martini. Si fermò sulla porta a guardarla ammirandone la pelle appena abbronzata, la snellezza delle gambe e del corpo, le lunghe dita delicate che stringevano il bordo della vasca. I capelli di lei ancora umidi di acqua di mare pendevano in lunghe ciocche ingarbugliate attorno al viso e sulle spalle. Gli occhi verde chiaro si chiusero quando si lasciò affondare lentamente nell’acqua calda e sospirò di piacere sentendo il calore che la sommergeva. Le punte dei piccoli seni sporgevano dall’acqua.

Childes chiuse l’acqua e le porse il drink. Lei aprì gli occhi e sorrise prendendo il bicchiere. Toccarono i bicchieri e sorseggiarono le bevande mentre la mano di Childes accarezzava la levigatezza della sua pelle a fior d’acqua fino a raggiungere la fine peluria tra le gambe.

Amy trattenne il respiro e si strinse il labbro inferiore tra i denti. «Bello» mormorò appena, mentre la mano di lui si soffermava. Lui si chinò in avanti baciandole un capezzolo mentre lei gli carezzava languidamente i capelli. La mano scivolò lungo la spina dorsale dove senza fretta lo massaggiò sotto la camicia e fu lui ora a mugolare di piacere. Le labbra di lui trovarono il suo collo e mordicchiarono teneramente i rilievi dei tendini costringendola a voltare la testa con un brivido di piacere.

Lui si rilassò volendo ancora protrarre l’attesa. Lei girò la testa per guardarlo e disse semplicemente: «Ti amo!». Nel suo sguardo una luce serena.

Lui la baciò di nuovo, sfiorandola appena, scostandole i capelli dal viso. «C’è un letto bello comodo di sopra» le bisbigliò.

Amy abbassò gli occhi come per un ritorno di timidezza. «Mi piace stare con te». Sorseggiò il Martini godendo del calore del liquido dentro di sé. Lui la aiutò a spargersi lo shampoo nei capelli sciacquandoli poi con l’acqua raccolta nel bicchiere di whisky ormai vuoto. Poi le strofinò la schiena con un asciugamano: tutti i movimenti erano lenti e languidi, senza fretta o vigore. Poi la tirò su dall’acqua e lei gli si mise davanti, una figura dorata e sottile, tanto innocente nella propria nudità quanto sapiente era il suo sorriso. Childes la asciugò strofinandola con il telo da bagno, arrivando alle gambe che si aprirono leggermente per permettergli di passare; lui si fermò per baciarle il ventre, le anche, le cosce e il pube dove era umida ma non solo per il bagno.

«Jon». La voce aveva ora una nota di leggera urgenza. «Andiamo di sopra ora.»

Lui si alzò e le porse l’accappatoio blu scuro appeso dietro la porta, glielo avvolse intorno alle spalle legando la cintura in modo che le braccia rimasero in trappola. «Tu vai avanti, io verso un altro bicchiere.»

Dal soggiorno sentì i passi nudi di lei, poi il cigolio del letto mentre lei ci si adagiava. Rapidamente riempì i bicchieri e salì le poche scale tralasciando questa volta il ghiaccio. Amy era ancora avvolta nell’accappatoio sdraiata sopra le coltri in attesa. Una gamba provocatoriamente nuda fino all’anca, la scollatura appena scostata a mettere in mostra la delicata curva dei seni.

Childes contemplò la scena prima di entrare, posò i bicchieri sul comodino e si sedette accanto a lei sul letto. Non parlarono ma si osservarono con gli occhi fissi uno sulle labbra dell’altro.

Infine Amy lo attrasse a sé togliendogli la camicia mentre cadevano. Le mani di lui si insinuarono sotto l’accappatoio dietro la schiena e le strinsero la carne. Si baciarono senza più controllo, le labbra aperte a cercare l’altro.Le mani di lei instancabili lo cercavano, lo frugavano lungo i fianchi, la schiena, le cosce, graffiavano, stringevano, incitavano. Lui le prese i seni morbidi, con la piccola punta dura e turgida che si strofinava contro le mani di lui.

Lo baciò sul petto con la punta della lingua guizzante provocandogli una piacevole tensione.

La mano di lui scivolò in giù verso le cosce, si infilò sotto il tessuto ruvido a stringerle le natiche rotonde, premendole con un movimento circolare delle dita. Amy mugolò e cadde sulla schiena, le gambe aperte alle sue carezze. La mano frugò in cerca del suo sesso umido e venne accolta con un gridolino. Lui si soffermò e la penetrò con le dita accordandole al movimento delle anche che lo invitavano. Ella si apriva a lui ed egli sondava con le dita quell’umido calore. Il pollice sfregava teneramente le parti esterne sensibili facendola ansimare mentre lo stringeva con tutto il corpo.

Il respiro di Amy si fece corto e rapido e lei grugnì di delusione quando lui la lasciò; voleva continuare, voleva ancora godere di quello sfregamento, ma egli la desiderava con urgenza, aveva bisogno di affondare in lei. Lei capì e lo aiutò a liberarsi degli ultimi vestiti prendendogli il membro da dentro il costume e guidandolo a lei.

Egli entrò senza difficoltà, un caldo scivolare umettato, ed entrambi mormorarono parole indistinte. Childes si fermò per guardarla in viso, per vederne l’amore, per dimostrarle il proprio. Si baciarono di nuovo ma la tenerezza cedette subito il passo a una passione più urgente.

Lui sentiva la calda morbidezza delle sue cosce intorno alle proprie, si chinò a baciarle i seni, si alzò sui gomiti per poterla guardare di nuovo: sotto di lui era magnifica. Accelerò i colpi in accordo alle spinte di lei, poi si accasciò, il mento premuto sul suo collo e lei avvertì la forza con cui la stringeva. I due corpi si muovevano frenetici l’uno nell’altro finché la stanza si riempì di gemiti di piacere e delle frasi spezzate di lei che lo incitavano ancora. L’ultimo grido rimbalzò sui muri seguito dall’ansimare di godimento che si andò poi lentamente spegnendo.

Dopo poco si separarono, ancora baciandosi. Giacquero sul dorso, lasciando calmare l’eccitazione, riprendendo lentamente fiato. Amy si riebbe più velocemente di lui e si voltò a guardarlo. Ne studiò il profilo, la curva del mento, la piccola gobba sul naso. Gli passò un dito sulle labbra socchiuse e lui lo morse dolcemente, il respiro ormai normalizzato.

«Ancora?» chiese lei maliziosamente.

Lui emise un gemito di spossatezza stringendola a sé. Lei appoggiò la testa sul suo petto.

«Qualche volta sembri una quindicenne sai?»

«Adesso?»

Lui annuì. «E qualche minuto fa anche.»

«Ti dispiace?»

«Affatto! Io so qual’è la verità, conosco la donna che è in te.»

«Vuoi dire la puttana che è in me?»

«No, la donna!»

Lo mordicchiò. «Mi fa piacere che ti piaccia.»

«Hai reso felice un vecchio signore.»

«Trentaquattro anni non sono proprio tanti.»

«Ho undici anni più di te.»

«Beh, sì. Ripensandoci undici anni sono parecchi. Forse dovrò cambiare i miei piani.»

«Avevi dei piani?»

«Diciamo dei progetti.»

«Perché non li racconti anche a me questi progetti?»

«Per ora no. Non sei ancora pronto.»

«Mi chiedo se tuo padre sarebbe d’accordo.»

«Cosa c’entra lui?»

«E una persona importante per te, e non credo che saresti contenta di averlo contro.»

«Certo che no. Ma io ho la mia vita da vivere, le mie decisioni da prendere.»

«E i tuoi errori da commettere?»

«Anche quelli. Ma perché sei tanto pessimista? Credi che il nostro amore sia un errore?»

Childes si alzò su un gomito e la fissò. «Oh no, Amy! Non lo credo affatto. È tutto magnifico, tanto che qualche volta mi spaventa, ho paura di perderti.»

Lei lo strinse più forte. «Eri tu che costruivi barriere insormontabili.»

«Eravamo tutti e due piuttosto freddini all’inizio.»

«Quando sei arrivato alla scuola eri un uomo sposato, anche se separato. E poi eri un po’ misterioso, ma forse è stato proprio questo ad attirarmi.»

«Mi ci è voluto un anno per chiederti di uscire.»

«Infatti ti ho invitato io, ricordi? Quella festa sulla spiaggia una domenica? E tu rispondesti che forse saresti venuto.»

Lui sorrise. «Già. Me ne stavo abbastanza appartato allora.»

«Lo fai ancora.»

«Non nei tuoi riguardi.»

Lei fece una smorfia. «Non lo so. C’è qualcosa in te che continua a sfuggirmi.»

«Amy, non vorrei sembrare noioso ma c’è molto di me stesso che perfino io non so. Dentro di me c’è qualcosa, non so bene cosa, nascosto in qualche piega, nell’ombra, qualcosa che dorme. Delle volte mi sembra un mostro in agguato. È una sensazione di disagio e strana, qualche volta mi chiedo se non sono forse un po’ pazzo.»

«Tutti abbiamo angoli nascosti nella nostra personalità. È proprio ciò che rende gli esseri umani così interessanti.»

«Ma questo è diverso. Questo è come… come…» Si rilassò, accorgendosi della crescente tensione del suo corpo. «Non riesco a spiegarlo,» disse alla fine, «posso dirti solo che è come se ci fosse uno strano potere, indefinibile, senza sostanza, quasi irreale. Potrebbe essere anche tutta fantasia. Ma io sento che c’è qualcosa di insondato, ma forse questa è una sensazione diffusa.»

Lei lo guardava attentamente. «In un certo senso sì. Ma questa tua sensazione ha a che fare con queste ‘visioni’, come le chiami tu?»

Lui ci pensò su prima di rispondere. «Mi sembra di sì. In quei momenti è più forte, sì.»

«Non hai mai cercato di capirne di più?»

«Come? Da chi vado? Da un medico? Uno strizzacervelli?»

«Da uno parapsicologo.»

«No, questo proprio no. Non ho intenzione di cadere in una trappola del genere.»

«Jon, è evidente che sei un sensitivo, allora perché non parlarne con un esperto?»

«Se tu solo avessi un’idea delle lettere, delle telefonate che ho ricevuto da sedicenti sensitivi, per non parlare poi di quelli che si sono presentati sulla porta di casa, tormentando la mia famiglia per tre anni.»

«Non intendevo quel tipo di persona. Volevo dire un parapsicologo vero, uno che studia seriamente questi fenomeni.»

«NO!»

Lei fu sorpresa dalla durezza della risposta. Rimase lì disteso, gli occhi rivolti al soffitto. «Non voglio essere analizzato, non voglio andare più a fondo. Voglio lasciare le cose come stanno, Amy, così forse questa faccenda finirà, scomparirà.»

«Perché hai tanta paura?»

Lui rispose con voce sommessa, tenendo gli occhi chiusi. «Perché io sento che se questo potere, questa capacità che io ho, venisse liberata, risvegliata, accadrebbe qualcosa di terribile, di terribile oltre ogni limite.» Aprì di nuovo gli occhi ma non la guardò. «Sì, qualcosa di terribile, e spaventoso» aggiunse.

Amy lo fissò in silenzio.

Più tardi quella stessa sera mentre Amy preparava la cena Childes passeggiò inquieto tra il soggiorno e la cucina. L’umore aveva risentito di quel loro discorso ma non la loro intimità. Lei era allo stesso tempo preoccupata e perplessa dalle affermazioni di Childes, ma decise di non insistere. Jonathan aveva qualche problema, ma Amy era abbastanza sicura che prima o poi glielo avrebbe detto. In un certo senso le dispiaceva che quella conversazione avesse avuto luogo poiché egli era diventato irrequieto e pensoso. Durante la cena fu soprattutto lei a chiacchierare.

Fecero di nuovo all’amore prima che lei se ne andasse, stavolta al pianoterra sul divano. Lo fecero con meno urgenza, più lentamente, trattenendosi, gustando a fondo ogni attimo di piacere. Il legame tra loro era forte, e non vi erano più dubbi riguardo al loro sentimento reciproco. Egli era tenero ed amorevole, pian piano tornando al precedente stato di serenità, e l’amò in modo tale da farla piangere in silenzio. Gli spiegò che era felicità non tristezza, a provocare quelle lacrime e lui la tenne così stretta e così a lungo che lei ebbe quasi paura di soffocare.

Quando infine l’accompagnò a casa era tardi, ed entrambi sentivano come se una cappa di euforia li avvolgesse, ad unire e mescolare le loro anime.

Lo baciò ancora augurandogli la buonanotte, a lungo e teneramente, poi lo lasciò di colpo. Lui attese che avesse raggiunto l’ingresso prima di voltare la macchina e avviarsi per il vialetto, lei infilò le chiavi solo quando vide scomparire le rosse luci posteriori dell’auto.

Prima di entrare Amy si voltò a guardare ancora la notte, il paesaggio aveva un che di magico sotto il chiaro della luna piena.

* * *

Il vecchio sentì la porta aprirsi, e chiuse gli occhi fingendo di dormire. Si sentirono i passi di qualcuno che entrava nella stanza, passi strusciati e pesanti che aveva da tempo imparato a odiare e si irrigidì contro le cinghie di contenzione del letto. Un puzzo acre confermò i suoi sospetti e sbottò incapace di trattenersi.

«Sei di nuovo qui a tormentarmi, eh» gracchiò con tono stridulo. «Non riesci a lasciarmi stare, eh? Sempre qui.»

Non ci fu risposta.

Il vecchio allungò il collo nel tentativo di vedere meglio. La lampadina che pendeva dal soffitto, schermata da una rete metallica, dava una debole luce, ma vide comunque la figura scura in attesa accanto alla porta.

«Lo sapevo che eri tu!» gridò l’uomo supino. «Che cosa vuoi stavolta? Non riuscivi a dormire, eh? Non ci riesci, eh, lo sai che lo sanno tutti ormai! Così dicono, di notte va a caccia. Non gli piaci sai, a nessuno piaci. Nemmeno a me! Anzi ti odio. Ma questo lo sai benissimo.» La sua risata chioccia risuonò secca nella stanza.

«Cosa fai lì? Non mi piace essere guardato di nascosto. Ecco, chiudi bene la porta così nessuno può sentirti mentre mi torturi. Non vorrai mica svegliare gli altri matti, eh? Ma io l’ho detto ai dottori, gliel’ho detto cosa mi fai quando siamo soli. Hanno detto che ti avrebbero parlato.» Sogghignò. «Ti manderanno via, e subito anche!»

La figura si allontanò dalla porta dirigendosi verso il lettino.

«Scommetto che pensavi che non mi avrebbero mai creduto» continuò il vecchio. “Ma loro lo sanno che i matti non sono tutti rinchiusi la notte. Ci sono anche quelli che sono liberi di girare quando gli altri dormono, quelli che fanno finta di essere buoni e simpatici durante il giorno. Quelli che sono pazzi quanto quelli a cui badano.»

Gli stava sopra, oscurando la lampadina. In una mano portava una borsa.

«Mi hai portato qualcosa, eh?» disse il vecchio cercando di scorgere il volto nella massa scura che lo sovrastava, «Un altro dei tuoi scherzi infami. Mi hai lasciato i segni l’altra volta. Li ho fatti vederi ai dottori». Ridacchiò soddisfatto. «Adesso mi credono. Stavolta non potevano dire che mi ero fatto male da solo!» Una goccia di saliva gli scivolò lungo il mento incartapecorito. Sentì il peso della borsa sul petto, udì l’aprirsi del lucchetto. Grandi mani che frugavano.

«Che cos’è che hai lì?» domandò il vecchio. «È lucido. Mi piacciono le cose lucide. Mi piacciono affilate. È affilato? Sì, si vede che lo è. Non l’ho detto ai dottori, sai. Volevo solo prenderti in giro, non lo farei mai. Non gli direi di te, davvero. A me piace…». Le parole gli uscivano a stento, «…mi piace quando mi… fai male… noi ci divertiamo.»

Si divincolò sotto le cinghie strette, i muscoli deperiti inutili ormai. Curiosamente il terrore che aveva negli occhi lo rendeva quasi lucido, sano di mente.

«Dimmi, che cos’è?». Ora parlava in fretta, quasi un unico lamento. Le spalle e il torace premevano dolorosamente contro le cinghie di cuoio. La figura si piegò su di lui che ne poté alfine scorgere il volto. «Non mi guardare così, ti prego. Non mi piace quando sorridi in quel modo. No, ti prego… non mi toccare la fronte con quel coso… No! Mi fai male… Lo so che non mi sente nessuno se urlo… Guarda che urlo eh?… mi tagli… ma è sangue… sangue… negli occhi. Ti prego, non ci vedo… Adesso urlo… è troppo…»

L’urlo fu soltanto un gorgoglio soffocato. Un calzino gli era stato infilato in gola.

La figura si chinò ancora sul letto continuando a segare con movimenti lenti e regolari. Il personale e i ricoverati del manicomio dormivano tranquilli.

* * *

L’incubo arrivò quella notte stessa, ma Childes non stava dormendo, guidava verso casa.

Dapprima lo assali una sensazione di caldo afoso, l’aria si fece pesante come se fosse piena di densi vapori. Strinse le mani sul volante, e benché umide di sudore le dita gli tremarono. Cercò di concentrarsi sulla strada appena illuminata davanti a sé, cercando di ignorare il pulsare della testa. La pressione aumentò, come una sostanza nebulosa che gli si andava espandendo dentro la testa, i muscoli del collo si tesero, le braccia gli si fecero di piombo.

La prima immagine gli passò davanti come un lampo. Per un attimo la pressione diminuì. Non era sicuro di ciò che aveva visto, l’attimo era troppo fuggente, la pesantezza cupa ritornava a ondate. Sbandò, strappando cespugli e rovi con la fiancata dell’auto. Rallentò, ma senza fermarsi.

Gli sembrava di aver visto delle mani, mani grandi, forti.

La testa ora gli sembrava piena di bambagia putrida che man mano gli sopprimeva la coscienza, crescendo di volume. Non mancava molto a casa e Childes si costrinse a mantenere una velocità costante, anche se prudente, seguendo la linea in mezzo alla strada sapendo che a quell’ora c’era poca gente in giro. Con la mente vide lo strumento lucido nelle grosse mani, un’apparizione brillante che lo colpì come un fulmine abbagliandogli la vista.

Lottò per tenere la carreggiata; la visione sparì così com’era comparsa. Il senso di pesantezza era ora meno incombente, ma il tremore delle dita ora gli si trasmetteva anche al braccio.

Non mancava molto, la strada che conduceva al cottage era già di fronte. Childes staccò il piede dall’acceleratore e iniziò a frenare. Una gocciolina di sudore gli colò dalla fronte fino a un occhio e venne spazzata via dal dorso della mano. Il movimento gli costò fatica. Girò lo sterzo, i fari della Mini illuminarono la schiera di casette poco lontano. Sapeva cosa gli stava capitando e temeva le immagini che sarebbero seguite. Sentiva un disperato bisogno di essere nella sua casa, si sentiva tremendamente esposto lì fuori nella luce notturna, la luna faceva sembrare tutto come congelato, gli alberi curiosamente piatti, come ritagliati nel cartone.

Ancora pochi metri. Calma adesso. La macchina si fermò nello spazio davanti al cottage, Childes spense il motore e si lasciò andare sul volante, senza forze. Tirò dei profondi respiri, la pressione alle tempie ormai insopportabile. Tirò fuori le chiavi dal cruscotto e barcollò verso la casa. La luna gli illuminò d’argento il viso e i capelli. Cincischio con la chiave ma finalmente gli riuscì di infilare la toppa e aprire la porta, per cadere poi in ginocchio quando la visione lo colpì alla mente con pieno fulgore.

Il viso terrorizzato del vecchio era chiarissimo, l’orrore evidentissimo nei suoi occhi. Le labbra sottili e rinsecchite balbettavano parole che Childes non poteva udire, la saliva gli scorreva dalla bocca mentre si divincolava dalle cinghie che lo costringevano sullo stretto lettino. I tendini del collo risaltavano dalla pelle floscia del collo avvizzito, il nodo sporgente del pomo d’Adamo andava su e giù come se ingoiasse l’aria. Aveva le pupille allargate contro lo sfondo giallognolo delle orbite, e Childes vi scorse un riflesso, una forma indefinibile che diventò più grande quando qualcuno si avvicinò al vecchio.

Childes si accasciò contro il muro quando vide un oggetto di metallo appoggiato alla fronte dell’uomo impaurito, urlò quando vide iniziare il movimento della sega, si portò le mani agli occhi come per nasconderli a quella vista. Il sangue sgorgava dalla ferita, fluiva denso lungo la testa della vittima, tingendogli i capelli di rosso, accecandolo.

Il movimento si fermò per un attimo: rimase solo il tremolio del corpo del vecchio, la piccola sega da chirurgo ben piantata ormai nell’osso del cranio. In quell’attimo ci fu come un riconoscersi, una congiunzione delle menti: l’omicida lo identificò.

E gli diede il benvenuto.

* * *

«Overoy?»

«Ispettore Overoy, sì.»

«Sono Jonathan Childes, ispettore.»

«Childes?». Qualche secondo di pausa. «Ah sì, Jonathan Childes, è da parecchio che non ci si sente.»

«Tre anni.»

«Davvero? Eh già. Cosa posso fare per lei, Childes?»

«Beh, è difficile. Non so bene da dove cominciare.»

Overoy spinse indietro la sedia e poggiò un piede sull’orlo della scrivania, poi con una mano sfilò una sigaretta dal pacchetto e se la mise in bocca. L’accese con un accendino da quattro soldi, dando così il tempo a Childes di trovare le parole.

«Si ricorda degli omicidi?»

Overoy sbuffò fuori una nuvola di fumo. «Vuol dire i ragazzini? Come non potrei? Lei ci fu di grande aiuto in quell’occasione.»

E ne pagai caro il prezzo, pensò Childes, ma disse: «Credo che mi stia accadendo di nuovo.»

«Come, scusi?»

Overoy non gli stava certo rendendo più facili le cose. «Ho detto che credo mi stia accadendo di nuovo. Le visioni, la precognizione.»

«Scusi un attimo, vuole forse dirmi che ha scoperto degli altri cadaveri?»

«No. Questa volta pare che gli omicidi io li veda mentre avvengono.»

Il piede di Overoy scivolò giù dalla scrivania, e lui si sporse, cercando una penna. Fosse stato un altro al telefono avrebbe lasciato perdere la conversazione credendolo un altro mitomane, ma aveva imparato a prendere sul serio Childes anni prima, anche se gli era stato difficile. «Mi dica esattamente quello che ha, ehm, visto, Childes.»

«Prima voglio che lei accetti una condizione.»

Overoy guardò il ricevitore come se si trattasse di Childes in persona. «Sentiamo» rispose.

«Voglio che tutto quello che le dirò rimanga tra noi due soltanto, niente soffiate alla stampa. Non come l’altra volta.»

«Guardi che quella volta non fu soltanto colpa mia. La stampa ha fiuto per questo tipo di cose, questo non posso evitarlo. Ho cercato di tenerla nell’anonimato ma una volta sguinzagliati quelli non mollano.»

«Voglio che me lo garantisca, Overoy, non posso correre nuovamente il rischio di essere braccato… è stato più che sufficiente l’ultima volta. Inoltre ciò che ho da dirle può non significare proprio niente.»

«Posso solo dirle che farò del mio meglio.»

«Non mi basta.»

«E che cosa s’aspetta da me allora?»

«Un’assicurazione, per ora almeno, che quello che le dirò rimarrà tra noi due soli. Per lo meno fino a quando non avrà trovato qualche riscontro, poi ne parlerà solamente ai suoi capi o a persone comunque coinvolte nei casi.»

«Casi? Quali casi?»

«Solo uno per ora, ma forse ce n’è un altro.»

«Vorrei che mi dicesse di più.»

«Mi dà la sua parola?»

Overoy scrisse il nome di Childes su di un foglietto e lo sottolineò due volte. «Dato che non ho idea di che cosa lei stia parlando, sì. Ha la mia parola.»

Ma l’altro esitava ancora come se non si fidasse dell’investigatore. Overoy attese pazientemente.

«Si ricorda di quella tomba di un bambino che è stata profanata e il corpo del bimbo mutilato? A che punto sono le indagini?»

Overoy sollevò sorpreso le sopracciglia. «Per quello che ne so non c’è un indizio; lei ha delle informazioni?»

«Io l’ho visto fare.»

«Vuol dire come l’altra volta, che se l’è sognato?»

«Non ero lì fisicamente, ma non l’ho nemmeno sognato.»

«Scusi, la parola era sbagliata. Lo ha visto accadere dentro la sua testa?»

«La cassa è stata spaccata con una specie di piccola ascia, il corpicino poggiato sull’erba accanto alla fossa.»

Ci fu di nuovo una pausa. «Vada avanti» sollecitò Overoy.

«Il cadavere è stato squarciato con un coltello, poi hanno strappato via tutte le viscere.»

«Childes, non dico che non le credo, ma questi dettagli erano su tutti i giornali. Lo so che è stata dura convincermi l’altra volta… anzi credevo proprio che lei fosse un pazzoide dapprima… ma poi le ho creduto. Neppure io potevo negare l’evidenza quando lei ci condusse al secondo cadavere. Ma mi servono altri fatti, mi capisce?»

Il tono di Childes divenne piatto, senza espressione. «C’è una cosa che i giornali non hanno detto, quello che ho letto io per lo meno: il cuore del bimbo è stato mangiato.»

La penna che Overoy faceva roteare si fermò a mezz’aria.

«Overoy! Mi ha capito?»

«Sì, sì, ho sentito. Il cuore non era stato mangiato ma era stato sbranato. Il patologo ha trovato dei segni di denti. E c’erano altri morsi su tutto il corpo.»

«Ma che razza di bestia può…?»

«È quello che vorremmo sapere. Cos’altro può dirmi, Childes?»

«Di questo niente. Ho visto quello che succedeva, non chi lo faceva. È come se avessi visto questo sconcio attraverso gli occhi di chi lo compiva.»

Overoy si schiarì la gola. «Mi sembra di ricordare che lei se ne andò nelle Isole della Manica, dopo quell’altro, ehm, affare. È da lì che ci sta chiamando ora?»

«Sì!»

«Può darmi l’indirizzo e il numero di telefono?»

«Vuole dirmi che non avete una mia scheda?»

«Mi risparmia la fatica di cercarla.»

Childes gli diede i dati e poi chiese. «Allora mi prende sul serio?»

«L’altra volta lo feci, no?»

«Alla fine.»

«Solo una domanda di routine, Childes, lei capisce perché gliela devo fare. Lei era sull’isola la notte che fu dissacrata la tomba del bambino?»

La voce all’altro capo suonò stanca. «Sì, ero qui. E le darò i nomi di alcuni testimoni che potranno confermarlo.»

La penna di Overoy scribacchiò altri appunti. «Mi dispiace,» si scusò il poliziotto, «ma certe cose è meglio farle subito.»

«Dovrei esserci abituato, dopo l’ultima volta.»

«Beh, deve ammettere che le circostanze erano piuttosto insolite. Dunque è sicuro di non potermi dire altro di questo… incidente?»

«Ho paura di no!»

L’investigatore lasciò cadere la penna e recuperò la sigaretta dal posacenere. La cenere gli cadde sugli appunti. «Questo è successo due settimane fa, come mai non ci ha chiamati prima?»

«Allora speravo che fosse un caso sporadico, un’apparizione unica, e poi non è che potessi dirvi molto.»

«Come mai ci ha ripensato, allora?»

Childes quasi farfugliò. «Io… io ho avuto un’altra visione ieri sera.» Overoy riprese in mano la penna. «Adesso è tutto un po’ confuso, come… un sogno. Stavo tornando a casa in macchina, era tardi, quando ho avuto un’apparizione mentale. Una sensazione tanto forte che a momenti andavo a sbattere. Sono a malapena riuscito ad arrivare a casa, ad entrare. Poi sono svenuto, sembrava che il mio cervello se ne fosse andato da qualche altra parte.»

«Mi dica che cosa ha visto.»

«Ero in una stanza… non si vedeva molto bene… ma mi sembrava nuda, squallida. E stavo guardando un uomo anziano. Era impaurito, molto spaventato, aveva paura di qualcuno che avanzava verso di lui. Questo qualcuno, qualcosa, ero io! Ma non ero io. Vedevo tutto attraverso gli occhi di un altro. C’era qualcosa di orrido in questo… questo mostro.»

«Mostro?»

«È così che lo sentivo. Era malato, depravato, io lo so, perché sono stato dentro quella mente.»

«Ha idea di chi potesse essere?»

«No, no! E di nuovo come tre anni fa. Aspetti, mi ricordo le mani, mani grandi e brutali. Portavano una borsa… con dentro degli strumenti.»

«Strumenti taglienti» disse Overoy, e non era una domanda.

«Non li ho potuti vedere, ma ho sentito che lo erano.»

«Il vecchio ha detto qualcosa, ha gridato il nome dell’altra persona?»

«Non udivo niente, tutto avveniva in silenzio.»

«Il vecchio cercava di fuggire?»

«Non poteva! Si divincolava, cercava di scappare ma non poteva muoversi. Era una cosa strana; giaceva su un lettino, una specie di branda, ed era legato con delle cinghie, credo. Lottava, ma non poteva muoversi. Non poteva!»

«Va bene, stia calmo Childes. Mi dica solo quello che è successo.»

«Quelle mani, quelle grosse mani hanno preso un seghetto dalla borsa e hanno iniziato a segare il cranio del vecchio…»

Overoy avvertiva l’angoscia dell’altro. Seguì un lungo silenzio. Aspettò alcuni secondi prima di chiedere. «Ha idea di dove sia avvenuto tutto ciò, anche solo un indizio?»

«No, mi dispiace. Non è granché, vero? Ma vede, il motivo per cui ho deciso di chiamarla è che io sono convinto che chi ha fatto questo al vecchio è la stessa persona che ha mutilato il cadavere del bimbo.»

Overoy bestemmiò sottovoce. «Come fa ad esserne sicuro? Lo ha detto lei, che non ha visto chi commetteva i crimini.»

«Io… io lo so e basta. Deve fidarsi. Per alcuni secondi sono stato nella mente di quella creatura, ne ho condiviso i pensieri. Io so che è la stessa persona.»

«Mi diceva che tutto ciò accadeva ieri sera, vero?»

«Sì, era tardi, dopo le undici, forse mezzanotte, non sono ben sicuro. Ho guardato i giornali stamane, ma non c’era scritto niente, allora ho pensato che forse era troppo tardi perché la notizia venisse pubblicata nell’edizione del mattino. Nemmeno la radio ne ha parlato.»

«Per quello che ne so io non è accaduto niente del genere da almeno ventiquattrore, comunque posso fare una verifica in centrale, ma in casi come questi fa presto a circolare la voce.» Raccolse di nuovo la sigaretta dal posacenere e fece una lunga boccata. «Mi dica una cosa,» disse buttando fuori una nuvola di fumo, «sono solo questi due gli… incidenti che ha… visto di recente?» Qualche anno prima la domanda non sarebbe stata posta con altrettanta naturalezza.

«Perché me lo chiede?»

«Beh…» L’esclamazione esprimeva tutti i dubbi che aveva il poliziotto a divulgare certe informazioni. Ma prese una decisione. «Una prostituta è stata ammazzata un mesetto fa, noi siamo convinti che c’è qualche collegamento tra questo delitto e la profanazione della tomba del bimbo.»

«La stessa persona?»

«Ci sono forti indizi. Lo stesso tipo di lesioni, il corpo squartato, le viscere asportate, segni di denti nelle carni, certe…»

«Un mese fa?»

La domanda fu tanto secca da far interrompere Overoy. «Sì, più o meno, perché, vuol dire qualcosa?»

«La prima visione… stavo nuotando… ho visto sangue… budelle…»

«Proprio in quel periodo?» interruppe l’investigatore.

«Sì, ma non c’era niente di chiaro. Non riuscii a capire cosa avevo visto. Ma lei è certo che si tratti della stessa persona?»

«Assolutamente. Abbiamo confrontato dei campioni di saliva trovati sui due corpi e anche i calchi delle dentature che hanno lasciato i segni dei morsi. Per quanto riguarda il movente, beh, i pazzi non ne hanno affatto bisogno. La prostituta era stata violentata e noi siamo convinti che sia stato fatto dopo la morte. Nessuna donna per quanto caduta in basso avrebbe permesso che le si facesse una cosa come questa. Il medico legale dice che non vi era stato alcun rapporto sessuale, non c’erano tracce di sperma. Ma le erano stati infilati nella vagina ogni sorta di oggetti, quindi pensiamo che l’omicida fosse un frustrato, un impotente. Sappiamo che è molto forte, la donna è stata strozzata a mani nude, e non era certo una piuma, anzi! Aveva dei precedenti per aggressione e lesioni, soprattutto contro uomini.»

Overoy diede un’altra boccata alla sigaretta. «C’era anche un’altra cosa che rendeva certo il collegamento tra i due casi. Vorrei che lei pensasse ancora a quello che ha visto. Non ha ‘visto’ qualcos’altro, qualcosa di molto particolare?»

«Gliel’ho detto, nient’altro.»

«Ci pensi bene, con calma.» Overoy studiò il blocco per appunti che aveva di fronte e attese. Dopo poco udì di nuovo la voce di Childes.

«Mi dispiace, non c’è altro. Se cerco di concentrarmi diventa tutto più confuso. Ma perché me lo chiede?»

«Non posso ancora dirglielo. Comunque ecco cosa farò, Childes, controllerò questa faccenda del vecchio, vediamo se è arrivata qualche notizia nel frattempo. Poi mi metterò in contatto con quelli che si occupano del caso della prostituta e con quelli del bambino morto. Dopo di che la richiamo. Va bene?»

«E non ne parlerà con nessuno naturalmente?»

«Per ora sì. Poi non è che io abbia molto da dire in giro, no? Anche se abbiamo ottenuto un risultato l’ultima volta, io sono ancora oggetto di qualche battuta qui al dipartimento, per il fatto che mi lasciai coinvolgere da lei. Quindi può capire che non ho molta voglia di ricominciare da capo. Mi scusi la franchezza, ma le cose stanno proprio così.»

«Perfetto! Anch’io la penso così.»

«La richiamo quando no qualcosa di preciso, d’accordo? Potrei anche metterci parecchio.»

Quando Overoy riappese il ricevitore guardò a lungo il blocco notes. Childes era in buona fede, di questo era sicuro. Strano forse, ma questo si poteva facilmente spiegare, con quello strano sesto senso che si ritrovava. E poi era quel potere ad essere strano, non Childes.

Il poliziotto spense la sigaretta e si studiò le dita macchiate di nicotina. Accese un’altra sigaretta poi prese la pietra pomice che fungeva anche da fermacarte e iniziò a strofinarsi vigorosamente la pelle macchiata. Childes aveva avuto ragione a proposito del bambino morto, però lo aveva dovuto provocare lui a proposito della prostituta, ed era rimasto comunque abbastanza sul vago. E lui, poliziotto cinico e incallito qual’era che cosa doveva dedurne? Forse niente, forse tutto? Ripassò rapidamente gli appunti. Questa storia del vecchio… che accidenti significava? Overoy buttò la pomice e con la penna isolò una parola.

CINGHIE. Childes aveva detto che l’uomo era legato ad un lettino. La stanza era poco ammobiliata, com’è che aveva detto? Squallida. Ecco, squallida. Ma che razza di posto…?

Overoy guardò a lungo la parola evidenziata, poi fissò il muro di fronte. Vedeva i movimenti nell’altro ufficio attraverso il vetro opaco, sentiva le macchine da scrivere, i telefoni suonare, voci, ma non registrò nulla di tutto ciò. C’era qualcosa, un tragico incidente accaduto la notte precedente. Ma ci poteva essere un collegamento?

Indeciso ma curioso, Overoy prese il telefono.

* * *

Il poliziotto aspettava presso il cancello degli arrivi, era ben visibile con quella camicia azzurra e con le spalline e i pantaloni scuri. La notevole altezza lo rendeva ancora più appariscente ed un paio di passeggeri appena scesi dal volo proveniente da Londra lo guardarono nervosamente mentre si avvicinava al banco della dogana.

Il piccolo aeroporto era affollato di turisti e di uomini d’affari. Fuori il sole estivo brillava, sciolto ormai ogni residuo di freddo. Un flusso continuo di auto andava e veniva nella corsia del divieto di sosta scaricando passeggeri con i loro bagagli e fagocitando quelli in arrivo. All’interno le me di poltroncine erano colme di viaggiatori, ragazzini annoiati correvano tra le file inciampando spesso nei piedi distesi della gente, madri di famiglia, stanche, fingevano di non accorgersene. Gruppetti di vacanzieri dall’aria florida ridevano e scherzavano decisi a godersi anche gli ultimi minuti della loro vacanza.

L’ispettore Robillard sorrise quando scorse la figura ben nota fendere a grandi falcate il corridoio della zona arrivi. A prima vista Ken Overoy non sembrava cambiato affatto, ma man mano che si avvicinava si notava il diradarsi dei capelli biondastri e il leggero gonfiore dello stomaco.

«Ciao Geoff» disse Overoy cambiando mano alla borsa per poter offrire la destra. Ignorò del tutto i due funzionari di dogana accanto al bancone. «Grazie di essermi venuto incontro.»

«Nessun problema» disse Robillard. «Stai bene Ken?»

«Chi vuoi prendere in giro? Piuttosto la vita da isolano pare che faccia bene a te.»

«Merito di un po’ di vela al fine settimana. Mi fa piacere rivederti dopo tutto questo tempo.» I due ufficiali di polizia si erano conosciuti ai tempi del corso d’addestramento al New Scotland Yard, poi si erano rivisti al corso per ispettori nello Yorkshire. Robillard aveva sempre mantenuto i contatti con Overoy andandolo a cercare ogni volta che capitava in Inghilterra. Lo divertivano sempre le storie di intrighi polizieschi della capitale, così diverse dall’esperienza di poliziotto sull’isola, anche se avevano anche loro una buona dose di crimini. In questo caso era lui a dare con molto piacere una mano al poliziotto londinese. Condusse Overoy fuori dal terminal verso una macchina parcheggiata in attesa, una Ford bianca con lo stemma dell’isola sulle fiancate e una lampada azzurra sul tetto.

«Come vanno gli affari qui da voi?» chiese Overoy buttando la borsa sul sedile posteriore.

«Aumentano di colpo appena inizia la stagione turistica. Perché non ve li tenete lì i vostri scippatori?»

L’altro rise forte. «Anche i ladri hanno diritto a una vacanza, no?»

Robilland mise in moto e si girò a guardare il compagno che si stava accendendo una sigaretta. «Dove si va?»

Overoy guardò l’orologio. «Sono appena passate le tre, a quest’ora dove sarà il nostro uomo? A scuola?»

L’ispettore annuì. «Oggi è martedi, quindi sarà al La Roche.»

«Allora al La Roche… lo beccherò all’uscita.»

«Dovrai aspettare.»

«Non fa niente, ho tempo. Prima comunque potrei trovarmi una stanza in albergo.»

«No, no. Wendy non mi perdonerebbe mai se tu non ti fermassi da noi.»

«Ma… non voglio dare fastidi…»

«Ma figuriamoci, ci fa piacere averti con noi, Ken, e puoi raccontarci tutto dei crimini nella città del peccato. Wendy ne sarà entusiasta.»

Già a suo agio Overoy sorrise. «Okay, dimmi tutto mentre andiamo alla scuola.»

Robillard lasciò ben presto l’intasata strada principale per infilare una delle vie tranquille e ombreggiate che portavano alla costa. I colori vivi delle siepi e l’aria fresca di mare fecero ulteriormente rilassare Overoy. Gettò la sigaretta mezza fumata dal finestrino e si riempì i polmoni d’aria. «Cosa sai di Jonathan Childes?» chiese, tenendo gli occhi sulla stradina che gli snodava davanti.

Robillard rallentò per fare strada a un altro veicolo che proveniva in senso contrario. «Non molto, solo quello che c’era nel nostro rapporto. Abita qui da solo da tre anni, pare che se la prenda abbastanza comoda, anche se è impiegato presso tre college. Quel che si dice di basso profilo. Strana coincidenza: abbiamo fatto anche noi una richiesta di informazioni su di lui qualche settimana fa.»

«Ah sì? E perché?» chiese Overoy curioso.

«Uno dei nostri consiglieri che è membro del comitato di polizia ci chiese di fare delle indagini sul suo conto. Platnauer si chiama, ed è anche membro del Consiglio di amministrazione del La Roche; immagino che sia per questo che aveva chiesto un controllo.»

«Ma perché ora? Childes lavora in quella scuola già da un pezzo.»

«Un paio d’anni pressappoco. Devo ammettere che anch’io sono stato incuriosito dall’improvviso interesse che questo tipo attira. Cos’ha combinato, Ken?»

«Non ti preoccupare, è pulito. Ci sono stati dei casi in cui lui potrebbe darci una mano. Tutto qui»

«Adesso sì che sono curioso. Le informazioni, quello che c’era, furono fornite al consigliere Platnauer che le ha poi passate alla signorina Piprelly che è la preside del La Roche. Da allora tutto tace. L’aiuto che Childes fornì tre anni fa è abbastanza ben documentato, ma è l’unica volta che risulta coinvolto in qualche modo con la polizia. Dato che quel caso era tuo mi è sembrato strano che non avessero chiesto informazioni direttamente a te.»

«Non ce n’era bisogno. È tutto nello schedario.»

«Allora vuoi dirmi cos’è questa storia?»

«Mi dispiace, Geoff, non posso per ora. Potrebbe non essere niente e allora voglio evitare a Childes qualsiasi fastidio, ne ha già avuti abbastanza l’altra volta per colpa mia.» Overoy prese un’altra sigaretta. «Spifferai troppe cose alla stampa e gli piombarono addosso come avvoltoi famelici.»

«Ma cos’è questo tipo, un chiaroveggente?»

«Non esattamente, è un sensitivo, questo sì. Ma non fa premonizioni, non parla con gli spiriti dei morti, quelle robe lì. Tre anni fa ha visto mentalmente dov’erano seppelliti dei corpi e ci fornì abbastanza indizi per poter rintracciare l’assassino. Sfortunatamente arrivammo tardi, si era già ammazzato da sé.»

«Ma come può…?»

«Non ne ho idea. Non cerco nemmeno di capirle certe cose. Chiamala telepatia, se vuoi. Quello che so è che Childes non è di sicuro uno svitato, anzi, il più sconvolto da queste sue capacità è proprio lui.»

Overoy vide il college femminile prima ancora che il collega glielo indicasse. L’edificio principale bianco e imponente si erse di fronte a loro oltre le cime degli alberi, quando la macchina della polizia fece un’ultima svolta. Il sole si rifletteva accecante sui muri quando si fermarono davanti al cancello e l’investigatore fischiò, ammirando il lungo viale.

«Però, che posticino!» commentò. Dietro l’alto palazzo c’erano svariate strutture e quindi il mare, di un colore blu cobalto che sfidava la chiarezza del cielo. Il verde carico degli arbusti delle scogliere e dei boschetti circostanti dava all’insieme un aspetto piacevole; i colori del mare, del cielo e della terra si fondevano armonicamente. Non lontano da dove erano parcheggiati c’erano dei campi da tennis bordati da aiuole di fiori colorati; persino i colori artificiali del parcheggio non disturbavano l’occhio.

«Potrei tranquillamente tornare a scuola, se fosse in un posto come questo» disse Overoy, soffiando fumo dalla bocca.

«Dovresti anche cambiare sesso prima.»

«Farei anche quello.»

L’ispettore rise. «Vuoi che ti porti su fino alla scuola?»

Overoy scosse la testa. «Aspetterò Childes lì su quella panchina accanto ai campi, è inutile dare nell’occhio.»

«Come ti pare, ha una Mini nera, la targa è…», estrasse un foglietto dal taschino della camicia, «…27292, ho controllato prima di venirti a prendere. Vediamo se c’è ancora.» Passò facilmente attraverso i grandi cancelli di ferro e accostò vicino al parcheggio. «Eccola lì,» disse indicandola, «quindi è ancora a scuola.»

Overoy aprì la portiera e si allungò verso la borsa sul sedile posteriore.

«Puoi anche lasciarla lì se vuoi. Tanto devo passare a prenderti più tardi» gli disse Robillard.

«Mi serve solo una cosa» rispose l’investigatore mentre apriva la cerniera di una tasca esterna. Ne tirò fuori una busta gialla. «Non c’è bisogno che tu mi venga a riprendere, Geoff, credo che Childes mi inviterà a casa sua così potremo chiacchierare un poco. Poi chiamerò un taxi.»

«Il nostro indirizzo ce l’hai?»

«Sì, sì, ce l’ho.» Overoy scese dall’auto, stringendo gli occhi contro il bagliore del sole. Poi per un attimo infilò di nuovo la testa dentro la macchina. «Ah, Geoff, se giù alla centrale non dici nulla mi fai un grosso favore. Ho promesso a Childes che avrei tenuto la bocca chiusa.»

«E che cosa potrei raccontare?» rispose Robillard sorridendo. «Ci vediamo più tardi.»

Fece marcia indietro attraverso la cancellata principale e con un ultimo gesto di saluto partì. Overoy si stiracchiò, quindi mise la busta nella tasca interna della giacca. Si diresse verso la panchina dispiacendosi sia di non aver preso anche gli occhiali da sole sia del fatto che non stessero giocando ragazze più grandicelle.

In un vialetto dall’altro lato dei campi da gioco passavano delle macchine dirette verso un altro parcheggio dietro gli edifici scolastici. Overoy pensò che si trattasse di genitori venuti a prendere le figlie. Diede un’occhiata all’orologio, Childes sarebbe arrivato di lì a poco.

Posò la giacca su una panchina accanto, si arrotolò le maniche della camicia fino al gomito e allentò la cravatta. Era piacevole starsene lì al sole a pensare. Ogni tanto aveva una punta d’invidia per l’amico Robillard, per l’atmosfera tranquilla in cui operava. Overoy sapeva però che per quanto attraenti potessero sembrare quelle condizioni di vita, qui un uomo abituato alla città con la sua corruzione, la malavita e il crimine si sarebbe ben presto sentito frustrato come lui, che a trentotto anni godeva ancora dell’attività frenetica della polizia cittadina. Josie però si sarebbe innamorata della calma agiatezza della vita sull’isola; le spiagge, i barbecue, la purezza dell’aria, e naturalmente le poche chiamate notturne e l’assenza di straordinari per lui.

Si udì la campanella lontana e ben presto le ragazzine cominciarono a uscire dai vari edifici e il loro chiacchiericcio ruppe la tranquillità che regnava. Passò ancora un po’ di tempo prima che l’investigatore scorgesse Childes camminare verso di lui con a fianco una ragazza bionda e snella vestita di giallo. Vide la ragazza portarsi una mano dietro alla testa; i capelli le caddero giù in una lunga coda. Overoy la studiò attentamente: era giovane, abbronzata e molto carina. Si chiese se tra lei e Childes ci fosse qualcosa e quando le dita della ragazza sfiorarono il braccio di Childes ebbe la risposta. Overoy si alzò in piedi buttandosi la giacca su una spalla e infilando l’altra mano in tasca.

Childes stava per entrare nel parcheggio quando intravvide il poliziotto. Si arrestò e la ragazza lo guardò sorpresa. Lei seguì la direzione del suo sguardo e vide Overoy avvicinarsi.

«Salve Childes,» disse, «mi riconosce?»

«E difficile dimenticarsi di lei.» Arrivò la risposta e Overoy vi sentì un certo rancore. I due si strinsero la mano. Childes con una certa riluttanza.

«Mi scusi per la sorpresa,» fece l’investigatore, «ma ho, ehm, approfondito quella questione di cui abbiamo accennato al telefono la settimana scorsa, e ho pensato che fosse meglio venirla a trovare.» Fece un cenno con il capo alla ragazza, s’accorse dei suoi occhi verde pallido, e si rese conto che vista da vicino era notevolmente carina.

«Amy ti presento l’ispettore investigativo Overoy» disse Childes. «È il poliziotto di cui ti ho parlato.»

Amy strinse la mano di Overoy con occhi ora sospettosi.

«Possiamo parlare a quattr’occhi?» chiese l’investigatore tornando a guardare Childes.

Amy disse subito. «Ci sentiamo più tardi Jon» e si girò per andarsene.

«Ma non c’è bisogno che…»

«Non c’è problema» lo rassicurò. «Io ho da fare quindi ci sentiamo dopo. Arrivederci ispettore.» Esitò un attimo come se volesse dire ancora qualcosa, ma poi si allontanò verso una MG rossa voltandosi a guardare Jon con uno sguardo preoccupato prima di montare in macchina. Childes la seguì con gli occhi finché non fu uscita dai cancelli, poi si rivolse al poliziotto.

«Non se ne poteva parlare al telefono, accidenti?» Ormai non nascose più la propria irritazione.

«Credo proprio di no. Se ne renderà conto anche lei. Possiamo andare a casa sua?»

Childes scrollò le spalle. «D’accordo. Le è stato assegnato questo caso?» chiese al poliziotto mentre si dirigevano verso la macchina.

«Non del tutto. Diciamo che mi sto occupando di quest’aspetto della questione solo perché ho già avuto modo di fare la sua conoscenza.»

«Allora c’è un collegamento.»

«Può darsi.»

«Allora un uomo è stato ucciso nelle circostanze da me descritte.»

«Ne parleremo a casa sua.»

Uscirono dal La Roche e Overoy si meravigliò del breve percorso che li portò nel viottolo stretto in cui si trovava la casa di Childes. Certo, pensò, l’isola è larga solo pochi chilometri. La casa, appena un piccolo cottage, era l’ultima di una schiera, e guardandola capì meglio il disappunto di Childes per questa sua intrusione. Il cottage aveva un fascino antico, del genere per cui la gente ricca in Inghilterra darebbe un occhio della testa per averlo come seconda casa.

Faceva piacevolmente fresco all’interno. Overoy si lasciò cadere su di un divanetto, Childes si tolse la giacca e l’appese nell’ingresso.

«Vuole qualcosa da bere, un tè, un caffè?» chiese Childes con un tono meno ostile di prima.

«Grazie, se ha una birra andrebbe benissimo.»

«Birra allora.»

Childes sparì in cucina e ritornò dopo poco portando un cartone da sei lattine e due bicchieri. Strappò via il coperchio a una lattina e la porse ad Overoy che già ne assaporava la freschezza dopo tutto il caldo preso. Si versò la birra e alzò il bicchiere verso Childes in un gesto amichevole. Childes sedette su una sedia di fronte a lui senza rispondere al brindisi.

«Allora, cos’aveva da dirmi?» chiese mentre si versava la birra a sua volta. Poggiò le lattine su un tavolino basso tra di loro come in una specie di terra di nessuno.

«Può darsi che lei abbia ragione a proposito di quel vecchio» disse Overoy e Childes si sporse in avanti sulla sedia.

«Avete trovato il corpo?»

L’investigatore buttò giù un sorso di birra poi scosse la testa. «Quando mi ha detto che era legato al letto, un lettino con delle cinghie, mi pare abbia detto, e che la stanza era squallida, senza mobili, mi è venuto in mente qualcosa. Quella mattina era arrivato un rapporto che riguardava un incendio in un ospedale psichiatrico.»

Childes stava fissando il fondo della stanza, il bicchiere a mezz’aria. «È quello!» disse piano.

«Beh, noi non ne siamo sicuri. Sono morte venticinque persone nell’incendio, anche tra il personale c’erano vittime, parecchi erano uomini anziani, la maggior parte affetti da demenza senile, altri con disturbi più gravi. Uno di questi potrebbe essere il suo ma i corpi erano quasi tutti talmente bruciati che non è stato possibile verificare se fossero stati mutilati prima della morte.»

«Il fuoco, come…»

«Non è stato un incidente, gli esperti hanno stabilito che l’incendio è stato appiccato in due punti, ai piani superiori e nelle cantine, c’erano delle taniche di benzina vuote. Non abbiamo idea di chi sia il piromane ma si pensa che ci fosse uno dei ricoverati in giro e che abbia trovato le taniche. Quelli che se ne stanno occupando ritengono probabile che sia morto anche lui nell’incendio.»

«Come fanno ad esserne sicuri?»

«Non lo sono. Ma i sopravvissuti sono stati interrogati e non c’è nulla che indica la responsabilità di uno di loro; certo, alcuni sono pazzi del tutto, è impossibile esserni certi. Può darsi che sia stato qualcuno venuto da fuori.»

Childes si accomodò sulla sedia, i pensieri persi dentro se stesso. Overoy attese senza fretta. Lontano si sentiva il ronzio di un aereo.

«E ora, che succede?»

«Evidentemente se c’è un collegamento tra tutti questi delitti abbiamo bisogno anche del più piccolo frammento che ci aiuti a ricostruire l’identità dell’assassino. In tutta sincerità non c’è nessuno che abbia ancora collegato l’incendio con gli altri due casi, tranne me naturalmente, ma abbiamo le prove che gli altri due lo sono. Le dispiace se fumo?»

Childes fece segno di no, Overoy prese una sigaretta dalla giacca e l’accese utilizzando una lattina vuota come posacenere.

«Che prove avete?» chiese Childes.

«Le mutilazioni dei due corpi erano molto simili, tanto per cominciare. Inequivocabilmente i segni di un sacrificio rituale: gli organi interni strappati via, il cuore dilaniato, oggetti vari riposti dentro il corpo; nel caso della donna soprammobili presi nella stanza in cui abitava; per il bimbo erba, terra, fiori secchi anche. Dopodiché lo squarcio viene ricucito. Solo un pazzo fa certe cose, ma questo ha un certo metodo.»

«Potrebbero essere più di una persona, forse una setta o qualcosa del genere.»

«Sono state trovate le impronte digitali di una sola persona in entrambi i luoghi del delitto, sul coperchio della bara del bimbo e sugli oggetti estratti dalla prostituta; chiunque sia non gliene frega niente di lasciare in giro le sue impronte. Al manicomio invece non c’era una sola impronta grazie al fuoco.»

«E sulle taniche di benzina?»

«Carbonizzate anche quelle. Mi dica della faccenda del vecchio, cos’altro ha visto?»

Childes impallidì. «Mi dispiace, sono svenuto quasi subito. L’immagine era così intensa, la tortura… non ce l’ho fatta più.»

«La capisco. Però lei è convinto che sia la stessa persona?»

«Ne sono certo. Ma è difficile spiegare come. Quando uno è nella mente di un altro lo riconosce come se non lo vedesse, anzi meglio, non ci possono essere contraffazioni.»

«Ha detto di aver visto due grosse mani.»

«Sì, le guardavo come se le vedessi con gli occhi dell’altro. Erano mani grosse, rozze, da operaio, direi. Mani molto forti, sembravano.»

«C’erano gioielli, voglio dire anelli, un bracciale, un orologio?»

«No, niente del genere.»

Overoy aveva studiato l’uomo che gli sedeva di fronte mentre parlava, ne aveva notato il volto stanco, i movimenti tesi. Se mai la vita sull’isola gli aveva fatto bene, ormai non si vedeva più. Overoy sentì compassione per Childes, ma sapeva di non poter fare altro che insistere ancora. Quando parlò aveva preso un tono quasi suadente. «Si ricorda come lo prendemmo, alla fine, l’assassino l’altra volta?»

«Sì, lasciò qualcosa sul luogo dell’ultimo omicidio.»

«Esatto, un bigliettino. Un biglietto in cui dichiarava che avrebbe ucciso un altro bimbo, che non poteva resistere all’impulso. All’epoca uno psichiatra dichiarò che l’uomo voleva esser preso, voleva che gli si impedisse di commettere quegli orrendi crimini, e che questo era il vero senso del messaggio. Quando le mostrammo quel biglietto lei riuscì a descrivere l’assassino, dove abitava e che tipo di lavoro faceva. Noi non dovemmo fare altro che controllare gli schedari alla ricerca di maniaci sessuali che corrispondessero alla descrizione.»

«Ancora non so spiegarmi come facevo a saperlo.»

«Perché è fuggito da tutto questo?»

«Parecchia gente si mise in contatto con me per spiegarmi cos’era accaduto, e non riuscivano a capire perché non mi interessasse saperlo. L’istituto di ricerche psichiche voleva pubblicare un saggio sul mio caso; un paio di università americane volevano che tenessi delle conferenze, e Dio solo sa quante persone mi hanno chiesto di trovare parenti scomparsi. Io non avevo idea di quello che mi stava succedendo e francamente non volevo saperlo. Volevo solo essere lasciato in pace. Ha idea di come ci si può sentire?»

«Sì, come un fenomeno da baraccone. Io credo però che lei prenda le cose troppo sul serio.»

«Lei ha ragione, forse, ma io avevo paura, ero scosso. Lei non ha idea di ciò che ho dovuto vedere a causa di questo mio strano potere.»

«Ma ha deciso lo stesso di telefonarmi la settimana scorsa, nonostante i guai dell’altra volta.»

Childes stappò un’altra lattina di birra, aveva ancora il bicchiere mezzo pieno. Lo riempì fino all’orlo e ne prese un sorso, poi rispose: «Dovevo farlo. Chiunque sia deve essere fermato. Sto pregando che sia finito nell’incendio.»

«Oltre ad aspettare che si verifichi un altro caso, ci potrebbe essere un altro sistema per scoprirlo.»

Childes lo guardò con sospetto. «E quale?»

Il poliziotto poggiò il bicchiere sul tavolino, prese la giacca e dalla tasca interna tirò fuori una busta gialla. «Le avevo detto che avevamo un’altra prova del collegamento tra i primi due casi e che c’era qualcosa di rituale in entrambi». Allungò la busta verso Childes e aggiunse. «Dentro c’è un oggetto identico a un altro che è ancora in mano al medico legale. Tutt’e due provengono dai delitti, uno da dentro il corpo della prostituta e l’altro da quello del bambino. C’è voluto un po’ per potergliene portare uno, ma ci sono riuscito.»

Childes fissò la busta, non voleva toccarla.

«La prenda» insisté l’investigatore.

Childes allungò la mano indeciso, poi la ritrasse. «Non credo di volerlo fare.»

Overoy si alzò e gli portò la busta. «Questa tortura mentale finì solo quando trovammo l’assassino, l’ultima volta.»

«No. Quando si è ucciso. Io seppi che era finita esattamente in quel momento.»

«E adesso cosa sente? Il maniaco è morto nell’incendio?»

«Io… io credo di no.»

«Allora prenda la busta, tocchi quello che c’è dentro.»

Ancora titubante Childes prese la busta. Rabbrividì, come sfiorato da una leggera scarica elettrica. L’oggetto sembrava leggerissimo.

Aprì la busta e vi frugò dentro col pollice e l’indice. Sentiva qualcosa di piccolo, piccolo e tondo, e liscio.

Childes estrasse una piccola pietra chiara e ovale. Mentre la teneva sul palmo della mano vide un lampo azzurro dentro la forma argentea, un fuoco azzurro dentro l’oggetto iridescente.

Childes ondeggiò e Overoy lo prese per una spalla, ritraendo immediatamente la mano come se avesse preso la scossa. L’ispettore fece un passo indietro e vide i capelli di Childes rizzarsi e muoversi come se fossero percorsi da una scarica elettrica.

Un formicolio pervase completamente il corpo di Childes, scuotendolo, facendogli scoppiare i nervi. Tremava senza più controllo. Un fulmine di luce fredda gli toccò la mente. Si sentì sorpreso, ma non era solo sua la sorpresa, era anche di un altro. Qualcosa di putrido sembrò insinuarglisi in testa. Degli occhi lo guardavano, ma come da dentro se stesso. La mano si chiuse attorno alla pietra fino a farsi penetrare le unghie nella pelle.

Sentiva LA COSA…

* * *

…e LA COSA sentì lui…

* * *

«Era una pietra di luna» disse Childes a Amy. «Una minuscola pietra di luna che era stata messa nel corpo della prostituta. Overoy mi ha detto che ce n’era un’altra nel corpo del bimbo.»

Amy era seduta in terra ai piedi di Childes con un braccio poggiato sulle sue ginocchia, il viso ansioso sollevato verso di lui. Lui si adagiò sullo schienale del divano, un bicchiere di whisky posato in grembo. Aveva bevuto di continuo da quando il poliziotto se n’era andato due ore prima. L’alcool però non aveva avuto alcun effetto cablante, tanto che si chiedeva se il cervello non fosse tanto sconvolto dall’esperienza avuta da non sentire più nulla.

«E non ne è stata trovata un’altra all’ospedale dopo l’incendio?»

«C’erano troppi danni per poter trovare un oggetto tanto piccolo.»

«Eppure questo Overoy ti ha creduto quando gli hai detto che si trattava sempre della stessa persona.»

«Ha imparato a fidarsi già dall’altra volta, anche se non gli è stato facile.»

Childes sorseggiò il whisky; il sapore era amaro, ma il liquido ardente aiutava a sciogliere quel gelo che sentiva ancora dentro di sé. «È sempre la stessa immagine che ogni tanto mi appare, Amy, un biancore tremolante, come una luna che passa dietro le nubi. C’era anche in un incubo che ho avuto.»

«E non hai idea di che cosa significhi?»

«Nessuna, no.»

«La pietra ha provocato in te una reazione molto forte?»

Il sorriso di lui non era affatto divertito. «Ho fatto prendere a Overoy una paura fottuta, e anche a me stesso. Questa creatura, chiunque sia, qualsiasi cosa sia, mi conosce. Era qui, in questa stanza, dentro la mia testa, Amy, si cibava dei miei pensieri come un verme, un parassita. Io ho cercato di resistergli, di tenere la mente sgombra, ma era troppo potente. Mi era già avvenuta la stessa cosa un’altra volta, ma non era così irresistibile.»

«Non me lo avevi detto.»

«Cosa potevo dire? Pensavo di diventare pazzo, poi per un po’ ha smesso, mi sentivo bene, non più minacciato. Oggi è tornata, come una furia.»

«Ancora non riesco a capire perché te, Jon. Tu non sembri essere un sensitivo, a parte questi casi, anzi, non te ne importa niente di queste cose, proprio il contrario, caso mai. Scansi qualsiasi discorso sui fenomeni paranormali come se fossero tabù.»

«Abbiamo parlato altre volte di ciò che mi è accaduto.»

«Non intendevo questo. Parlavo in termini generali, dell’occulto, del sovrannaturale, cose di cui si parla abbastanza spesso ormai. Tu hai sempre cambiato discorso ogni volta che ho accennato a vampiri, fantasmi o cose del genere.»

«Roba da favole per bambini, dai!»

«Ecco, vedi, di nuovo rifiuti qualsiasi dialogo. Sembra che tu ne abbia paura!»

«Stupidaggini!»

«Davvero? Perché non mi hai mai parlato dei tuoi genitori?»

«E che razza di domanda sarebbe questa?»

«Dimmelo.»

«Sono morti tutti e due, questo lo sai, no?»

«Sì, ma perché non mi hai mai parlato di loro?»

«Mia madre quasi non me la ricordo. E morta quand’ero bambino.»

«Quando avevi sette anni, ed è morta di cancro. E tuo padre, perché non ne parli mai?»

Childes strinse le labbra. «Amy, ho già subito un interrogatorio oggi, non vorrai mica continuarlo tu? Cosa credi che sia io, il settimo figlio di un settimo figlio, una specie di stregone? Ma non vedi che è ridicolo?»

«Certo, ma io sto solamente cercando di farti aprire, Jon, di andare un po’ più a fondo. Da quando ti ho conosciuto ho sentito che stavi nascondendo qualcosa, non solo a me ma soprattutto a te stesso!» Amy adesso era arrabbiata, era la sua testardaggine sorda ad irritarla. Vedeva negli occhi di lui di aver colpito nel segno, che c’era qualcosa di vero nelle sue accuse.

«Va bene, se ti interessa così tanto, sta’ a sentire. Mio padre era un uomo pragmatico e razionale, ha lavorato per 26 anni nella stessa ditta come contabile nell’ufficio paghe e contributi, nel tempo libero faceva il predicatore laico…»

«Questo me l’avevi detto già.»

«…ed è morto alcolizzato.»

Lei si irrigidì sorpresa, ma era ancor più insistente. «D’accordo, ma non è tutto, c’è qualcosa d’altro.»

«Ma santo Dio, Amy, cosa vuoi da me?»

«Solo la verità!»

«Il mio passato non ha nulla a che fare con quello che mi sta succedendo adesso.»

«Ma tu che ne sai?»

«Odiava qualsiasi cosa avesse a che fare col misticismo o lo spirituale. Quando è morta mia madre non parlò mai di morti, non mi permetteva di andare sulla sua tomba.»

«Ed era un predicatore…!» esclamò lei incredula.

«Era un ubriacone. È morto soffocato dal vomito quando avevo diciassette anni. E vuoi sapere una cosa? Mi sono sentito liberato. Ero contento di essermi liberato di lui! Adesso cosa pensi di me? Eh?»

Lei si inginocchiò e gli mise le braccia attorno alle spalle, lo sentì irrigidirsi, cercare di sfuggire, e lo strinse più forte. Lentamente la rigidezza del corpo sembrò sciogliersi.

«Mi si sta rovesciando il bicchiere» disse sottovoce. Amy lo scosse un poco finché lui esclamò: «Ehi!»

Lei lo lasciò andare mettendosi seduta accanto a lui di traverso in modo da potergli vedere il viso. «E tu ne hai avuto un senso di colpa tale da non riuscire a dirmelo? Ma non vedi che non può influire minimamente nel nostro rapporto?»

«Amy, lasciami spiegare, io non avevo nessun senso di colpa, ero rattristato forse, in colpa no! Si è ammazzato da solo.»

«Per via di tua madre.»

«Sì, forse. Ma aveva un altro dovere, verso suo figlio. Fino a un certo punto ci ha pensato a me, ma c’erano altre cose che non gli perdonerò mai.»

«Era cattivo?»

«Secondo lui no!»

«Ti picchiava?»

Un’ombra passò sul viso di Childes. «Mi ha cresciuto secondo le sue regole. Ma lasciamo perdere ora Amy, non ce la faccio più.» Lui s’accorse che aveva gli occhi lucidi e si sporse in avanti per baciarla. «Volevi aiutarmi, no? Però non è servito a molto, vero?»

«Chi può dirlo? Per lo meno adesso di te so qualcosa di più.»

«A cosa ti serve?»

«Mi aiuta a capirti.»

«Ma cosa vuoi che ti aiuti!»

«Mi aiuta a capire il tuo riserbo. Perché ti sei tenuto stretto certe cose. Io credo che la tua emotività sia stata repressa dopo che è morta tua madre. Non potevi amare liberamente tuo padre, hai detto che era un pragmatico, un razionale, è difficile scambiare affetto con una persona così.»

«Lui era fatto così.»

«E tu hai preso un po’ da lui.»

Lui aggrottò la fronte. Lei proseguì. «Ma non ti rendi conto di quanto sei assolutamente logico, quanto maledettamente noioso, qualche volta. Si capisce bene perché la prima percezione psichica che hai avuto ti ha tanto sconvolto.»

«Non ho mai negato che ci siano fenomeni paranormali.»

«Ma tanto meno lo hai accettato.»

«Perché sei così aggressiva Amy?»

La domanda la scosse. «Oh Jon, non volevo. Volevo solo aiutarti a scavare dentro di te. Ci deve essere un nesso tra te e quest’altra persona, qualcosa che attira la tua mente alla sua.»

«O viceversa!»

«Quel che è. Sarà anche reciproco.»

L’idea lo fece rabbrividire. «Non è una persona Amy, è una creatura malvagia, un essere corrotto.»

Lei gli prese una mano tra le sue. «Dopo tutto quel che ho detto, adesso sono io che ti chiedo di essere logico. L’assassino è un essere umano, Jon. Un individuo molto forte, stando al tuo amico poliziotto, ma comunque una persona con una mente sconvolta.»

«No, no. Io ero dentro quella mente, sono stato testimone di quell’orrore.»

«E allora perché non puoi vedere chi è?»

«E… è… troppo forte, troppo potente, mi schiaccia la mente, me la sbrana, la devasta, questa… cosa… sembra che mi divori la psiche, mi rubi ogni pensiero. Io assisto a questi atti osceni solo perché me lo permette, anzi lo vuole. Questa bestia si sta prendendo gioco di me, Amy.»

Lei gli prese il bicchiere e lo pose in terra, gli strinse le mani tra le sue. «Stasera rimango qui con te.»

«E tuo padre…?»

«Buon Dio Jon, ho ventitré anni! Telefono a mia madre e le dico che stanotte dormo fuori!». Fece per alzarsi ma Childes la trattenne per un braccio.

«Non sono molto d’accordo.»

«Non importa, io rimango lo stesso.»

Lui si riprese un poco. «Non vorrei vedere arrivare tuo padre con una doppietta carica. Non credo che ce la farei stasera.»

«Dirò alla mamma di nascondergli le cartucce». Si alzò in piedi e gli accarezzò ancora il viso prima di avviarsi all’ingresso. Childes ascoltò la sua voce soffocata buttando giù l’ultimo sorso di whisky. Chiuse gli occhi abbandonandosi contro lo schienale e si chiese se Amy poteva capire quanto fosse felice di non rimanere solo quella notte.

Il suo borbottare la fece svegliare. Giacque accanto a lui in ascolto. Parlava nel sonno.

«…non è vero… lui dice che non… non puoi… essere… lui dice che tu non…». Amy non lo svegliò. Cercava di capire il significato di quelle parole che Jon andava ripetendo.

«… non puoi essere…»

* * *

Aveva frugato nella mente di quell’uomo, dapprima con perplessità ma poi eccitata dal contatto. Chi era? Qual’era il suo potere? Poteva essere pericoloso?

Sorrise godendo del nuovo gioco.

Erano passate tante immagini tra di loro, qualche volta la loro rapidità e forza erano state preoccupanti, ma ben presto le accettò e poi ne trasse piacere. Aveva sondato e inseguito, scatenando la propria coscienza alla ricerca di questa persona spaventata, non sempre aveva avuto successo. Eppure quel legame sensitivo quasi intangibile si stava rafforzando. Aveva sentito e assorbito il suo panico, persino i ricordi non erano stati risparmiati.

Gli altri omicidi, l’omicidio dei bambini erano seppelliti, nei recessi più profondi della memoria dell’uomo, ma li aveva scoperti e osservati con una certa sorpresa che si trasformò subito in un piacere sadico. Più che visti, poiché non si manifestavano visivamente in senso letterale, venivano percepiti e vissuti. Goduti a fondo. E capiva anche quale legame ci fosse tra l’uomo e questi assassinii.

C’erano altre sensazioni evocate da questa persona da contemplare: era un divertimento, una nuova forma di tortura da sfruttare. Poteva essere scoperto poiché il passato era sempre presente nella sua mente, una gran parte anche in modo determinante, e benché non si potesse individuare lui fisicamente, coloro che conosceva si potevano tenuamente percepire. La Pietra di Luna, chissà in quale modo misterioso, era giunta fino a lui, ma era stata proprio quella gemma a fornire il ponte, l’elemento catalizzatore nell’unione delle loro menti, e la breccia che si era creata era stata così improvvisa da essere devastante, mentre prima c’erano stati solo dei tentativi di sondaggio. Quando scoprì gli omicidi dei bambini capì anche il collegamento con la polizia e quindi con la pietra. Comprese allora le capacità parapsicologiche dell’uomo. Erano quegli altri omicidi la chiave.

Era facile rintracciare notizie a proposito, i giornali dell’epoca avevano ampiamente riportato le varie atrocità commesse nonché il modo strano in cui si era conclusa la vicenda; un archivio pubblico fornì tutte le informazioni che servivano.

Era passata ormai una settimana, compose il numero successivo dell’elenco, tutti gli altri avevano lo stesso prefìsso ed erano stati cancellati con un tratto di penna.

Sogghignò quando all’altro capo si sentì una vocina rispondere: «Pronto?»

* * *

Il caldo le avvolse piacevolmente quando uscirono dal palazzo Rothschild e dall’aria condizionata: nel sole sembravano tanti angioletti cinguettanti. Le dodici ragazze erano tutte vestite con la divisa azzurra del La Roche, e chiacchieravano di continuo, approfittando di ogni momento passato fuori dal college. Si riunirono sul marciapiede davanti al moderno palazzo di uffici mentre Childes le contava, assicurandosi che non se ne fosse persa nessuna. Sentiva che la visita fatta alla grande sala dei computer della società era stata più che positiva, anche se la maggior parte delle allieve non aveva capito un’acca del discorso molto tecnico del funzionario (Childes aveva sorriso vedendo lo sguardo delle ragazze perso nel vuoto). Comunque si erano fatte un’idea di che tipo di servizi i computer fornivano in una grande società.

Tutti presenti, nessuno smarrito, nessun ferito. Era stata una mattinata soddisfacente. Childes guardò l’orologio: le 11.47.

Da dove stavano si vedeva il largo viale del lungomare che costeggiava il porto dove, ondeggiavano le cime degli alberi degli yatch allineati.

«Manca ancora un po’ all’ora di pranzo» disse alle ragazze, «perché non facciamo un giro giù al porto?»

Strillarono di contentezza e si misero ordinatamente su due file. Childes si mise alla testa, chiedendo soltanto che chiacchierassero facendo meno rumore. Per la prima volta quella settimana sentiva un ritorno di equilibrio mentale. Il sole, le chiacchiere delle ragazze, la normalità dei dintorni contribuivano all’effetto. Dopo l’esperienza con la pietra gli era rimasto addosso uno strano senso di inutilità, e dopo la conversazione con Amy erano venuti a galla dei ricordi che sarebbe stato meglio lasciare sepolti. I giorni seguenti gli episodi oscuri e la rigidità della sua educazione erano tornati a tormentarlo, anche se capiva di non avere più odio per il padre. Aveva rimosso da un pezzo quel sentimento, insieme ad altri purtroppo. Stranamente proprio il padre lo aveva costretto a quell’esercizio di autocensura. Ed era per questo che adesso teneva testa alle situazioni, con un autocontrollo che nasceva da quell’antica abitudine a reprimere. Persino gli ultimi macabri eventi e il nuovo manifestarsi del suo potere potevano essere sconfitti con l’aiuto del sole e della normalità. Erano le notti, le notti buie che erano alleate dell’orrore.

Childes adocchiò una panchina libera di fronte a uno degli stabilimenti balneari e sei delle ragazze ci si lanciarono sopra quando lui la indicò, stringendosi a spintoni nel poco spazio. Le altre si appoggiarono alla ringhiera di fronte.

Il porto era gremito di turisti e residenti, macchine e autobus bianchi circolavano lentamente lungo il perimetro, le banchine erano affollate di auto parcheggiate. Due stabilimenti racchiusi da moli di cemento erano pieni di yatch e motoscafi di ogni tipo e misura, i pescherecci dell’isola erano ancorati a moli più isolati e tranquilli dall’altro lato del porto. Dall’estremità di una delle banchine si ergeva un faro dipinto di bianco mentre sull’altro un fortino era a guardia del porto. Negozi e bistrò si affacciavano sul mare con le facciate a colori vivaci. All’intorno alcune gradinate sfociavano in ripidi vicoli che tagliavano la collina a terrazze e come freschi corridoi in ombra conducevano verso la cittadina in alto.

«Due di voi oggi faranno la loro buona azione quotidiana a favore di un anziano» disse Childes avvicinandosi. Lo guardarono con curiosità e lui indicò con il pollice. «Su, fate sedere il professore.»

«Isobel conta per due, professore?» chiese Kelly con allegra malizia indicando la compagna grassottella seduta all’altro capo della panchina. Si udirono altre risate e una protesta indignata.

«Penso che prenderò il tuo di posto, Kelly. Così potrai fare anche tu una buona azione.»

Lei si alzò senza una smorfia, ma negli occhi c’era sempre un lampo di sfida. «Tutto ciò che desidera, signore.»

Lui tirò fuori il portafoglio. «Potete scegliere crema o fragola, niente frutti misti, cioccolato doppio con le mandorle, niente triplo mango o mandarino o kiwi. Niente che ci possa complicare la vita, OK? E poi ci vogliono altre due volontarie che vadano con Kelly.»

Con un’espressione golosa e con sospetta rapidità Isobel si alzò mentre le altre gongolavano e si offrì. «Vado io, signore.»

«Oh, no!» si lamentò qualcuna. «Non ci rimarrà più niente ora che torna.» Vi furono altre risate e un’occhiataccia da parte della ragazzina grassoccia.

«Va bene» disse Childes, sedendosi nel posto lasciato da Kelly e porgendo due biglietti estratti dal portafoglio. «Perché non vai anche tu Jeanette?». Sorrise alla ragazzina appoggiata alla ringhiera e la vide mettersi sull’attenti. «Penso di poterti affidare la grana, no?». Lei prese i soldi quasi con timidezza evitando di guardarlo negli occhi. «Tu prendi le ordinazioni Einstein,» disse rivolto a Kelly, «il mio alla vaniglia, e state attente alla strada, la signorina Piprelly non me la perdonerebbe mai se tornassi con la combriccola decimata.»

Si avviarono, Kelly e Isobel che ridacchiavano insieme mentre Jeanette le seguiva più lentamente. Childes le tenne d’occhio fin quando non ebbero attraversato il viale pieno di traffico, poi spostò l’attenzione sul porto per guardare il traghetto dall’Inghilterra avvicinarsi cautamente al molo. Più al largo alcune vele bianche punteggiavano il mare calmo come piccoli coni rovesciati; sopra di loro un Trislander giallo, un velivolo a dodici posti che faceva la spola tra le isole quasi come un autobus, iniziò la discesa con il suo ronzio sordo, monotono quanto quello delle api.

Si ricordò che per fortuna il traffico e il caos che lo circondavano erano solo una parentesi stagionale, una breve interruzione alla pace e alla calma dell’isola, e anche ora bastava guardare al largo, i gabbiani in picchiata sul mare leggermente increspato, per sentirsi pervadere da una calma serenità.

Si rilassò, felice di vedere che anche le ragazze stavano bene in sua compagnia; queste gite divertivano loro tanto quanto lui. Incominciò a fare delle domande relative alla sala dei computer della Rothschild per appurare quanto avessero capito e assorbito, ma presto la conversazione andò oltre i limiti scolastici: egli trovò i commenti delle ragazze interessanti e qualche volta anche divertenti, e si ricordò che spesso queste gite favorivano una maggiore conoscenza tra docente e alunni. Childes decise di pianificare una sortita simile anche con i ragazzi del Kingsley; non sarebbe stata forse una mattina così piacevole, Childes già anticipava di dover applicare una maggiore disciplina per poter tenere a freno la maggiore aggressività dei maschi.

Kelly, Isobel e Jeanette tornarono cariche di coni gelato tra l’entusiasmo delle compagne. Childes fece un sorriso a Jeanette che, infilatasi una mano in tasca, ne trasse il resto.

«Grazie» le disse.

«Grazie a lei, signore» rispose, una parte di timidezza scomparsa.

«Hai capito qualcosa di ciò che hai visto stamattina?» le chiese.

«Oh sì, credo di sì… beh… qualcosa per lo meno.»

«Non è difficile come sembra, una volta che ci fai l’abitudine tutto va al suo posto, una volta che hai capito bene le cose basilari. Vedrai!» aggiunse consolante. Poi rivolto alle altre esclamò: «Ehi, chi l’ha preso il mio?»

«Oohh. Mi scusi» disse Kelly ridendo. «Non lo mangiavo mica sa.»

Il gelato si andava già sciogliendo, scivolando in rivoli bianchi lungo la mano che lo reggeva.

Lui prese il gelato e lei si portò subito la mano alla bocca per leccarsi via la crema sciolta.

In quel mentre gli arrivò alle narici l’odore di bruciato. Un odore singolare. Come di carne che cuoce, no peggio, molto peggio. Come di carne bruciata.

Guardò Kelly: la mano che teneva alla bocca era annerita, pelle bruciacchiata appesa all’osso nudo. Una mano deforme, un artiglio carbonizzato.

Sentiva le risate delle ragazze attorno a sé, ma parevano giungere da lontano. Sentì qualcosa di appiccicoso sulla coscia, abbassò lo sguardo e vide una goccia di crema bianca scivolargli lungo i pantaloni.

Quando guardò di nuovo Kelly, stava mangiando il gelato con tutte le altre e si leccava la mano sana, integra.

* * *

La strada era ampia e tranquilla, scarso il traffico.

Le case erano tutte indipendenti, con garage privati e piccoli giardini sul davanti, tutti molto ben tenuti. I giardini sul retro dovevano essere grandi: il tipo di zona, benestante senza essere ricca, lo indicava chiaramente. La macchina si muoveva lentamente, l’autista alla ricerca di un numero, una casa particolare. L’auto si arrestò dolcemente davanti a quella casa e il suo occupante la osservò attentamente.

Sapeva che lui non ci sarebbe stato: la bambina con la vocina buffa come lo erano spesso le voci infantili, aveva detto al telefono che papà era andato a vivere su un’isola, certo che ricordava il nome dell’isola, aveva sette anni e mezzo, no?

Attese in macchina, guardando inosservato, era un sabato mattina presto, un’ora in cui gli abitanti delle case riposavano dopo le fatiche quotidiane della settimana. Ora che aveva trovato la casa l’autista sarebbe ritornato con il buio, la notte lo avrebbe protetto.

Ma d’un tratto si fece più attento: una bambina aveva girato l’angolo della casa correndo dietro a un gatto nero. Un fremito percorse tutto il suo laido corpo.

Il gatto saltò sopra un muretto che delimitava il giardino e si arrestò quando fissò la forma oscura raggomitolata nella macchina parcheggiata. Il pelo dell’animale si arruffò, la coda si irrigidì e gli occhi gialli fiammeggiarono. Poi sparì, costretto alla fuga dalla paura.

Al suo posto apparve il visetto di una bimba, che sbirciava oltre il muretto.

La figura nella macchina guardò ancora un attimo, poi aprì la portiera dell’auto.

* * *

Fran si stiracchiò, spalancando la bocca in un gigantesco sbadiglio, assaporando il languore del risveglio, mugolando di piacere. Si girò su un fianco e i capelli chiari le caddero sul cuscino.

Un fine settimana da sola, finalmente. Niente impegni, niente clienti a cui badare, niente incontri, niente telefonate. E nemmeno giornalisti starnazzanti e produttori televisivi che chiedevano interviste a clienti che comunque rifiutavano all’ultimo momento per un capriccio qualsiasi. Neanche quel continuo dover tenere a bada soci in affari e clienti, anzi, soprattutto clienti. Credevano tutti che qualsiasi divorziata anche solo belloccia fosse a disposizione di tutti. Un’occasione per poter passare un po’ di tempo con Gabby, povera piccola abbandonata, la più brava bambina del mondo. Dio dammi t forza di alzarmi a prepararle una colazione come si deve, pensò. Ancora dieci minuti a letto, però.

Gabby era già entrata prima per il bacino del risveglio e per un fugace abbraccio sotto le coperte. Dopo aver promesso alla sua mammina una buona tazza di tè, era poi scomparsa; si erano solo sentiti gli strilli per chiamare a sé l’adorata micia.

Fran era contenta che Douglas non si fosse fermato per la notte. Non che fosse implicito, ci teneva alla famiglia lui. Douglas Ashby era un ottimo socio in affari, e un amante splendido e fantasioso; sfortunatamente per lei era anche un bravo marito (con una sola infedeltà, lei) e non stava mai via di casa più del necessario. Mah, forse era meglio così, gliene era bastato uno di uomo importante nella vita. Sapeva che a Gabby il padre mancava molto, e negli ultimi due anni c’erano state delle volte in cui aveva rimpianto di essere stata così intollerante nei suoi confronti, ma il troppo è troppo. Avevano dovuto affrontare entrambi la verità, che non erano fatti l’uno per l’altra.

Però sarebbe stato bello avere un uomo accanto nel letto adesso. Strano come una nottata di splendido amore le facesse l’effetto di svegliarsi ancora vogliosa. Il lamento soffocato questa volta era segnato da un accenno di frustrazione. Il tè Gabby, il tè. Salva tua madre dalla vergogna.

Fran si alzò a sedere sul letto ammucchiando i cuscini dietro la schiena. Contemplò la propria immagine nello specchio di fronte al letto dall’altro lato della stanza. Niente male, si disse. Seni sodi e poca ciccia da pizzicare. I capelli lunghi e folti senza ombra di tintura. Lo specchio, troppo lontano, pietosamente non rifletteva quelle rughette fastidiose attorno agli occhi e al collo. Alzò il lenzuolo per guardarsi la pancia. Beh, qualche esercizio ci vuole prima che ciò che per ora si può definire un po’ rilassato diventi ‘flaccido’. Le cosce erano OK invece: snelle e ben tornite come sempre. Peccato che un corpicino così venisse poco adoperato. Fran lasciò cadere il lenzuolo.

Sollevò la testa a guardare il soffitto; bisogna che faccia qualcosa con la piccola oggi, pensò. Potremmo andare a fare shopping, poi a pranzo fuori in qualche posto. Sì, le piacerebbe. Forse anche al cinema stasera, si potrebbe invitare anche Annabel. Anche questo le piacerà. Devo passare più tempo con Gabby, accidenti al lavoro! La figlia stava diventando precocemente matura, forse un po’ troppo responsabile per una bambina della sua età. Gli anni dell’innocenza sono troppo preziosi per bruciarli così. Era sorprendente, considerando quanto poco si vedessero, quanto incominciava a somigliare al padre. Erano entrambi miopi, ma la somiglianzà andava al di là dei tratti somatici. Fran udì il rumore di una macchina fuori che partiva allontanandosi lungo la strada.

Chiuse gli occhi, ma era inutile: anche se era stanca il sonno se n’era andato, la testa ormai le ronzava, piena di pensieri, la maggior parte inutili. Ma perché, perché, quando poteva rilassarsi, il cervello non glielo permetteva? E dov’era Gabby con quella benedetta tazza dite?

Si alzò dal letto e raccolta una finissima sottoveste dalla sedia, se l’infilò andando verso la porta. Sporgendosi oltre la balaustra chiamò: «Gabby! Sto morendo di sete, io! Arriva questo tè?»

Non ci fu risposta.

* * *

Lei si girò nel letto, Childes rimase immobile per non svegliarla.

Aveva un seno scoperto, le curve delicate lo tentarono. Ma resistette. Il desiderio di assaggiare quelle labbra appena schiuse nel sonno era però irresistibile.

La baciò leggermente e gli occhi le vibrarono un attimo prima di aprirsi.

La baciò di nuovo a questa volta lei rispose al bacio; lo strinse a sé cingendogli le spalle con le braccia. Le labbra si separarono ma i corpi rimasero avvinghiati, ognuno godendo del tepore del corpo dell’altro, della sensazione di pienezza che avvertivano dentro di sé. Lei allargò le cosce dove lui la stava premendo facendola sospirare e fece scorrere la punta delle dita lungo la sua spina dorsale.

Cambiarono posizione per guardarsi negli occhi fianco a fianco; lui giocherellò con i suoi capezzoli che si ergevano fieri ed eretti, lei abbassò la mano per carezzarlo con gesti teneri e sapienti. Fecero l’amore con calma, lentamente, tutta la frenesia si era spenta la sera prima. Ora era un momento per distendersi, per un’unione serena, un’eccitazione quieta.

Lui l’accarezzò con la lingua ed ella lottò per controllare l’eccitazione montante, provocata dai suoi tocchi squisiti, irresistibili; sentendola giungere al culmine la penetrò rapidamente, con un movimento tanto facile che quasi non s’accorse di essere entrato in lei completamente. Alzò le gambe avvolgendolo e stringendolo freneticamente per attirarlo ancora più a fondo.

Non ci volle molto perché si rompessero gli argini e l’orgasmo li investisse entrambi in lunghe ondate di piacere lasciandoli esausti e ansimanti. Rimasero aggrappati l’una all’altro fin quando non ritornò la calma dei sensi.

Finalmente si separarono e giacquero fianco a fianco a riprendere fiato.

«Hai dormito bene stanotte?» chiese Amy.

«Sì, non me l’aspettavo, ma invece sì, profondamente.»

«Niente sogni?»

«Non mi pare, no, non me ne ricordo.»

Gli carezzò il viso e i capelli e lui sentì l’odore dei loro corpi sulla punta delle sue dita. «Avevi una bruna faccia ieri.»

«Avevo paura Amy e ne ho ancora. Come mai ho visto la mano di Kelly in quel modo? Per fortuna le ragazze ridevano tanto che non si sono accorte della paura che mi ero preso». Le strinse un braccio. «E se fosse una premonizione?»

«Hai sempre detto di non avere premonizioni.»

«C’è qualcosa che sta cambiando dentro di me, lo sento.»

«No, Jon, no. Tu sei solo confuso e scioccato da questa faccenda della pietra. Qualcuno sta manipolando la tua mente, ti sta tormentando, lo hai detto tu stesso.»

«Vuoi dire che mi mette nella testa questi pensieri?»

«Forse!»

«Ma no! E ridicolo. Queste cose non succedono veramente.»

«Cristo!» esplose lei. «Come fai a dirlo! Perché continui a non voler vedere la realtà delle cose?»

«E questa sarebbe realtà secondo te?»

«E quello che sta succedendo, no? Jon, tu devi venire a patti con te stesso, devi smettere di opporti a ciò che per un altro è innaturale, ma per te non lo è! Accetta il fatto di avere questo sesto senso, o quel che è, e impara a controllarlo. Hai già ammesso che c’è un potere esterno a te che ti succhia i pensieri, allora tu devi capire i tuoi poteri per riuscire ad impedirglielo.»

«Non è mica così facile…»

«Non dico che lo è, ma non può essere che qualcun altro decida ciò che vedi o pensi.»

«Sì, certo, hai ragione. Vorrei tanto riuscire a dominarmi, ma di questi tempi ogni volta che mi sembra di riprendere il controllo delle cose arriva un altro episodio a mettermi KO. È sfibrante, io ho bisogno di riflettere, Amy. C’è qualcosa che tu hai detto che mi sta girando nella mente da un pezzo, solo che ho bisogno di un po’ più di tempo per rimuginarci sopra. C’è una porta che va aperta dentro di me, mi manca solo la chiave.»

«Non potremmo lavorarci insieme?»

«Non ora. Sono certo che c’è qualcosa che solo io posso fare, ti prego, sii paziente ancora un poco.»

«Purché tu prometta di non nascondermi nulla e tantomeno a te stesso.»

«È una promessa facile da mantenere.»

«Staremo a vedere.»

«Hai fame?»

«Sei abilissimo a cambiare discorso.»

«C’è altro da dire?»

«Un sacco di cose»

«Più tardi però. Che cosa vuoi per colazione?»

«Se non hai un bue intero, m’accontento di toast e caffè.»

«Se hai fame, c’è anche dell’altro.»

«Lascio a te decidere. Ma se preferisci preparo io qualcosa.»

«Sei tu l’ospite.»

«Spero di non esserti già di peso, sono qui da ben due giorni.»

«Non preoccuparti. Piuttosto come l’ha presa papà?»

«Non ha fatto una piega. Devo farmi un bagno, Jon.»

«Okay. Tu ti fai il bagno e io cucino.»

«Facciamolo insieme, dai!»

«Ancora non ti basta?»

«Mmm. D’accordo, tanto la tua vasca è troppo piccola.»

Lui si alzò dal letto e si mise l’accappatoio. «Faccio in due minuti», le gridò scendendo le scale.

Amy chiuse gli occhi, subito un espressione tesa le segnò i dolci lineamenti.

Al piano inferiore Childes si rasò e lavò velocemente dopo aver aperto i rubinetti del bagno per Amy. Aprì l’armadietto, prese l’astuccio e si applicò le lenti morbide davanti allo specchio che si andava già coprendo di vapore. Rifece le scale di corsa, a due a due, indossò dei jeans sbiaditi, scarpe scamosciate e una felpa grigia mentre Amy lo guardava dal letto.

«Hai bisogno di essere messo all’ingrasso» commentò.

«Ah sì? E per quand’è la macellazione?» rispose lui, ma nessuno trovò la battuta divertente. «Il bagno è quasi pronto» aggiunse, passandosi le dita tra i capelli folti e scuri.

«Mi sento una mantenuta.»

«Anch’io vorrei sentirmi così qualche volta, ma non a tutte riesce!»

«Sei di nuovo allegro.»

«È una mia buona abitudine». Si rese conto che in fondo la risposta era vera: la rimozione come allontanamento dell’irrisolvibile.

«Se mi dai un bacio mi alzo.»

«Ah sì? E per farti scendere le scale cosa ci vuole?»

«Vedi tu.»

«L’acqua sta per traboccare.»

«Qualche volta non sei affatto carino.»

«E tu non sei certo una professoressa zitellona». Le lanciò l’accappatoio. «Tra dieci minuti si mangia» Childes però non poté resistere alla tentazione di avvicinarsi al letto e baciarle labbra, collo e seno prima di scendere in cucina.

Più tardi, seduti al tavolo della cucina, lei aveva di nuovo un’aria più da scolaretta che da maestra; i capelli bagnati e l’accappatoio blu aumentavano l’effetto. Decisero il programma della giornata.

«Dovrò fare un salto a casa a prendere un po’ di roba» gli disse, mentre si dava da fare con appetito attorno a un piatto di uova strapazzate con bacon e pomodori.

«Ti accompagno se vuoi». Sorrise della sua voracità, non lo sorprendeva più che nonostante tutto quello che mangiava non perdesse mai la sua snellezza. Morse il proprio misero toast.

«Forse è meglio se vado da sola» disse Amy scuotendo la testa.

«Prima o poi dovremo affrontarci» disse lui alludendo a Paul Sebire.

«Meglio dopo che prima. Hai già abbastanza da sopportare senza aggiungerci altre grane.»

«Mi sto abituando ad averti qui.»

Lei smise di mangiare. «È… è bello… non è vero?»

«Sì. Bello, sì.»

Lei gli fece una boccaccia e riprese a mangiare. «Voglio dire che è piacevole. Tranquillo ed eccitante al tempo stesso.»

«Sì, credo di sì.»

«Tu ‘credi’ di sì?» borbottò lei continuando a masticare.

«Beh, sì. Oddio, potrebbe anche piacermi del tutto prima o poi.»

«Allora vengo a stare qui?»

Lui rimase di stucco, ma lei sembrò non accorrersene. «Potremmo fare una prova,» continuò, «vedere come va.»

«Se non ti preoccupi di tuo padre per lo meno pensa alla Piprelly: cosa pensi che farebbe se venisse a sapere che due dei suoi insegnanti vivono insieme nel peccato?»

«Almeno siamo una coppia eterosessuale, che è già un punto a nostro vantaggio. Eppoi Pip non lo saprà mai.»

«Ma come, se su quest’isola quando uno starnutisce ad un capo dell’isola dall’altro la gente prende il raffreddore. Stai scherzando, probabilmente sa già tutto di noi due.»

«Tanto meglio allora.»

Lui fece un sospiro allegro. «Beh, una differenza c’è…»

Lei posò la forchetta. «Senti, se stai cercando altre scuse…»

Lui rise. «No, no, l’idea mi sembra ottima. Solo che…»

Si bloccò. La fissava senza vederla, aveva gli occhi spalancati.

«Jon… ?» Lei si allungò oltre il tavolo per toccargli una mano. Sul fornello la macchina del caffè borbottava. Sul vetro di una finestra ronzava una mosca. Ma tutto sembrava immobile. «Cos’hai?» chiese nervosamente Amy.

Childes sbatté gli occhi. Tentò di alzarsi ma si fermò a metà e mugolò. «Oh no… no, questo no…».

Le nocche erano bianche mentre stringeva spasmodicamente il tavolo, le spalle incurvate, la testa penzoloni. Amy rabbrividì nel vedergli negli occhi un’angoscia disperata.

Urlò: «Jon!» vedendolo inciampare verso la porta sbattendo a terra la tazza piena di caffè. Amy spinse indietro la sedia e lo seguì nell’ingresso. Era accanto al telefono: con un dito tremante cercava di comporre un numero. Invano, tremava troppo. La guardò implorante.

Lei lo raggiunse e lo prese per una spalla. «Cos’hai visto Jon, dimmelo!» lo pregò.

«Aiutami Amy, ti prego aiutami!»

Restò colpita nel vedere le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. «Chi vuoi chiamare? Chi, Jon?»

«Fran. Presto, è successo qualcosa a Gabby!»

Il cuore le balzò in petto, ma prese il ricevitore sforzandosi di tenere a bada l’emozione. Gli chiese di dirle il numero e dapprima lui non lo ricordava, assurdamente, in modo quasi perverso. Poi le cifre vennero dette con impeto confusamente e lei dovette farsele ripetere più lentamente.

«Sta suonando» disse, restituendogli la cornetta e avvicinandosi a lui. Sentiva tutto il suo corpo vibrare.

Il telefono all’altro capo venne alzato e lei udì una voce lontana rispondere.

«Fran?»

«Sei tu Jonathan? Oh Dio, come sono contenta che hai chiamato!» C’era una sorta di angosciata fragilità nella sua voce che fece quasi svenire Childes, la paura angosciosa quasi ebbe il sopravvento. «Gabby… sta…?» iniziò a dire.

«È accaduta una cosa tremenda Jon. Tremenda!»

«Fran…?». Le lacrime ormai lo accecavano.

«L’amica di Gabby, Annabel. È scomparsa Jon. È venuta a giocare con Gabby prima, ma non è mai arrivata qui. C’è la polizia adesso da Melanie e Tony, Melanie è sul punto di avere una crisi isterica. Nessuno ha visto Annabel, è sparita nel nulla. Gabby è distrutta e non fa altro che piangere. Jonathan, mi senti?»

Solo l’aiuto di Amy gli impedì di scivolare a terra.

* * *

Mentre accompagnava Childes all’aeroporto Amy gli lanciava frequenti sguardi pieni d’ansia, studiava il suo volto pallido e teso. Lui non aprì bocca durante il breve percorso.

Il sollievo provato si univa alla tristezza per la bimba scomparsa. Egli conosceva il destino di Annabel. Aveva commesso un errore, era sua figlia la vittima predestinata, ma ormai anche l’altro sapeva dell’errore.

Amy parcheggiò la MG mentre Childes faceva il check-in al banco. Lo raggiunse nella sala d’attesa, nessuno dei due parlò molto mentre aspettavano che venisse annunciato il volo. Poi lei lo accompagnò al cancello tenendolo abbracciato.

Amy lo baciò teneramente prima di passare il varco e stringendolo a sé brevemente gli disse: «Chiamami se puoi.»

Lui annuì col volto tirato. Poi sparì attraverso il varco con altri passeggeri, la borsa da viaggio buttata dietro la spalla. Amy uscì dal terminal e rimase in macchina fin quando non vide decollare l’aereo. Aveva il volto coperto di lacrime.

* * *

Childes suonò il campanello e vide subito un movimento dietro i vetri. La porta si aprì e Fran lo guardò con un misto di contentezza e di mestizia negli occhi.

«Jonathan!» esclamò, facendo un passo come se volesse abbracciarlo; esitò, notando l’uomo accanto a Childes, e l’occasione del gesto si perse lì.

«Ciao Fran» disse Childes girandosi per presentare il suo compagno. «Ti ricordi l’ispettore Overoy vero?»

Prima confusa, poi ostile, Fran cambiò espressione mentre rispondeva. «Come non potrei?» digrignando i denti, interrogando con lo sguardo l’ex marito.

«Ti spiego poi» disse Childes.

Lei si scansò per lasciarli passare. Overoy le augurò la buonasera senza ricevere risposta.

«Andiamo nel soggiorno» disse Fran ma i passettini affrettati dal pianerottolo di sopra impedirono loro di fare come suggerito.

«Papà, papà» si udì gridare con gioia ed eccola arrivare lanciandosi dagli ultimi tre scalini verso le braccia protese di Childes. Lo strinse tutto bagnandogli le guance con le lacrime, gli occhiali spinti indietro sul viso. Lui chiuse gli occhi e la tenne stretta a lungo.

Singhiozzava mentre gli diceva. «Papà, hanno preso Annabel.»

«Lo so, amore, lo so.»

«Ma perché papà, perché l’uomo cattivo l’ha portata via?»

«Non lo sappiamo ancora. Vedrai, ci penserà la polizia a trovarla.»

«Ma perché non la lascia andare? La sua mamma piange, e io pure, è la mia migliore amica, lei.» Aveva il visino arrossato dal gran piangere, gli occhi gonfi sotto le lenti degli occhiali.

Posò la figlia in terra e si mise seduto sugli scalini accanto a lei, tirò fuori il fazzoletto e le asciugò le lacrime, poi le tolse gli occhiali e li pulì parlandole dolcemente. Le piccole dita rimasero strette attorno al suo braccio.

Overoy li interruppe. «Vado a fare una visita a questi signori… ehm…»

«Berridge!» suggerì Fran.

«Sì, vada pure!» gli disse Childes mettendo un braccio attorno a Gabby. «Ci vediamo quando ha finito.»

Con un cenno a Fran Overoy si voltò chiudendosi alle spalle la porta d’ingresso. Lei si alzò per girare la chiave.

«Che accidenti ci fa quello?» chiese adirata.

«Gli ho telefonato prima di partire» spiegò Childes. «È venuto a prendermi all’aeroporto e mi ha accompagnato.»

«Sì, ma cos’ha a che fare con tutto questo?»

Childes carezzò la testa della figlia e Gabby guardò prima lui poi la madre con una nuova ansia dipinta in viso. Lui non voleva una discussione di fronte a lei.

«Gabby, vai di sopra, io arrivo subito. Io e la mamma dobbiamo parlare.»

«Non vi strillerete mica però?»

Se lo ricordava ancora. «Ma no, certo che no. Solo che dobbiamo parlare di una cosa a quattr’occhi.»

«Sei occhi. Dovete parlare di Annabel?»

«Sì!»

«Ma è amica mia, anch’io voglio parlare.»

«Quando vengo su parliamo quanto vuoi.»

La bimba si alzò e prima di avviarsi si strinse forte al collo del padre. «Prometti di venire presto?»

«Prometto.»

«Mi manchi tanto papà.»

«Anche tu a me, passerottino»

Salì le scale voltandosi in cima per salutare prima di correre nella sua stanza.

«Gabriel!» chiamò Fran, «credo che sia ora che tu ti prepari per la nanna. Il pigiama rosa è nel primo cassetto.» Udirono quel che poteva essere una protesta, poi il silenzio.

«E stata una brutta giornata per lei oggi» commentò quando Childes si alzò in piedi.

«Brutta anche per te si direbbe.»

«Ma capisci l’inferno che stanno vivendo Melanie e Tony?». Si tenne ancora lontana per un attimo guardandolo incerta, poi si precipitò tra le sue braccia, la testa abbandonata sulle sue spalle. «Oh Jon, ma che bestialità orrenda.»

Lui la tranquillizzò accarezzandole i capelli. «Poteva essere Gabby, capisci?» ribadì lei. Lui rimase zitto.

«Strano, avevo sentito che c’era qualcosa che non andava stamattina. Gabby era giù a preparare il tè e io mi sono alzata per vedere perché ci metteva tanto». Rise stancamente. «Non ci crederai, aveva versato lo zucchero e lo stava pazientemente spazzando fino all’ultimo granello perché io non me ne accorgessi. Annabel dev’essere passata per il viale, non lo sa nessuno, nessuno l’ha vista, solo quello che l’ha portata via. Dio mio, quante volte glielo abbiamo detto di non uscire dal cancello.»

«Perché non beviamo tutt’e due qualcosa. Ci farebbe bene.»

«Avevo paura di bere il primo, non so se sarei capace di smettere, sbronza non sarei di molto aiuto a Melanie. Comunque adesso che ci sei tu va bene, sei sempre stato bravo a frenare i miei eccessi.»

Andarono nel salotto tenendosi come se fossero ancora amanti. Tutto era piacevolmente familiare a Childes, nonostante qualche oggetto d’arredamento fosse stato acquistato dopo che se n’era andato. Era difficile dimenticare cinque anni di vita lì; allo stesso tempo era una cosa lontana, non faceva più parte della sua vita, del suo mondo. Era un sentimento strano e non piacevole.

«Tu mettiti seduta, i drink li preparo io» le disse. «Sempre gin and tonic per te?»

«Sempre,» annuì Fran «fammelo bello lungo.» Si lasciò andare sul divano togliendosi le scarpe per raccogliere i piedi sotto di sé. «Jon, quando hai chiamato stamattina io non ti ho dato il tempo di parlare, però poi ripensandoci mi è sembrato che tu avessi già una voce angosciata, da come hai pronunciato il mio nome persino!»

«Vuoi ghiaccio?»

«No, va bene liscio. C’era qualcosa che non andava quando hai chiamato?»

Versò una buona dose di gin poi cercò l’acqua tonica nel mobiletto. «Credevo fosse successo qualcosa a Gabby!» rispose.

«A Gabby? Ma perché, cosa… ?» La voce le si spense e chiuse gli occhi. «No, oh no, di nuovo!» sospirò.

Lui le porse il gin and tonic mentre lei lo seguiva con lo sguardo. «Spiegami!» gli ordinò con un filo di voce mentre prendeva il bicchiere.

Childes si versò uno scotch poi tornò verso il divano sedendosi vicino a lei. «Sono ricominciate le visioni.»

«Jon…»

«Stamattina ho avuto la precisa sensazione che Gabby fosse in pericolo.» Come poteva dirle che lui aveva saputo che la loro figlia era in pericolo, e che Annabel era stata presa per errore! Per tutta la giornata era stato sbeffeggiato da quell’altra mente perversa, aveva avuto attimi di percezione delle prolungate atrocità compiute, la creatura, chiunque fosse, lo aveva tormentato cercando la sua mente per infliggergli quelle dolorose visioni. Stranamente dopo un poco Childes si era accorto di essersi assuefatto alle immagini. Aveva capito che ormai il peggio era avvenuto. Annabel non soffriva più le torture. Fin quasi dall’inizio. Questo però doveva pur dirlo a Fran.

«Ma non era Gabby, era la sua amichetta Annabel, vero?» aveva già risposto Fran al posto suo.

«Sì, in qualche modo non ho visto bene, mi ero confuso.» Era da vigliacchi, ma era meglio dire la verità un po’ alla volta, Fran comunque stava per subire un altro brutto colpo. «Fran, devo dirti un’altra cosa…»

Lei prese un sorso di gin come per prepararsi; le sue ‘intuizioni’ erano sempre negative, mai buone. Poi lo disse lei per lui incapace di frenarsi. «E morta vero? Annabel è morta?»

Egli abbassò la testa evitandone lo sguardo.

Il viso di Fran ebbe un crollo e il bicchiere le si rovesciò sull’abito. Childes lo raccolse poggiandolo sul tavolino accanto al divano. Le passò una mano attorno alle spalle e l’attirò verso di sé.

«E così atroce, così vile!» si lamentò lei. «Come faremo a dirlo a Tony e a Melanie. Come?»

«Non possiamo dire niente, Fran, c’è la polizia per questo… quando troveranno il corpo.»

«Ma come posso guardare in faccia Melanie, come faccio ad aiutarla quando io so? Sei sicuro Jon, proprio sicuro?»

«È tutto come prima.»

«E non ti sei mai sbagliato!»

«No.»

La sentì irrigidirsi. «Perché hai creduto che fosse stata presa Gabby allora?» Si scostò per poterlo guardare bene in viso. Fran non era una stupida. «Non lo so, forse ho fatto confusione perché è avvenuto così lontano da me.»

Lei fece una smorfia, arricciò il naso poco convinta, stava per insistere quando suonò il campanello. «Sarà Overoy» disse Childes sollevato. «Vado ad aprirgli.»

La faccia dell’ispettore era scura mentre seguiva Childes in salotto. «La stanno prendendo piuttosto male.»

«Cosa s’aspettava?» rispose Fran tagliente.

«Mi scusi, non era un’espressione molto azzeccata» si scusò Overoy. Annuì quando Childes gli indicò la bottiglia di whisky. «Posso fare a lei la stessa domanda che ho fatto ai genitori di Annabel, signora… Childes sempre, o sbaglio?»

«Childes suona sempre meglio del mio nome da ragazza sulla carta intestata e non ho mai pensato di cambiarlo, poi è meglio anche per Gabby, meno confusione. Mi faccia le sue domande allora, su. Intanto posso ripeterle ciò che ho detto più volte ai suoi colleghi oggi, non ho visto nessuno di sospetto nei paraggi da almeno una settimana, anzi da mesi, se è per questo. E adesso rispondete voi due ad una domanda.»

Overoy prese il whisky che Childes gli porgeva e si scambiarono un’occhiata.

«S’accomodi ispettore, ha l’aria di stare scomodo lì in piedi.» Fran riprese il gin and tonic notando che le tremava ancora la mano. Ma era anche curiosa ora, le stava prendendo forma nella testa un nuovo sospetto. Childes le si avvicinò e si sedette.

«Trovo strano che Jonathan l’abbia chiamata subito appena avuta un’altra delle sue tremende visioni, e che lei vada immediatamente a prenderlo all’aeroporto per portarlo qui. Voglio dire, perché tutto ciò quando sono, vediamo, almeno tre anni che non vi sentite?»

«Io conosco i suoi precedenti, signora, la sua particolare abilità.»

«Sì, questo lo so. So che adesso gli crede. Ma mollare tutto quel che fa solo per andare a prelevarlo? Mi chiedo persino se era di servizio oggi, dopo tutto è sabato, no?»

Stavolta rispose Childes. «Veramente ho chiamato l’ispettore a casa.»

«Addirittura a casa.»

«Senti Fran, non avevamo intenzione di nasconderti nulla. È solo che abbiamo… ho pensato che saresti già stata abbastanza sconvolta per la scomparsa di Annabel senza stare a cercare altre preoccupazioni per ora.»

Negli occhi di lei una paura nuova. Usò entrambi le mani per portarsi il bicchiere alle labbra, sorseggiò piano e riportò le mani col bicchiere in grembo. Teneva la schiena diritta e aveva una voce incerta quando disse: «Penso sia ora che mi diciate tutto.»

S’era fatto tardi.

Childes e Fran erano soli, seduti attorno al tavolo di cucina davanti a una cena cucinata malvolentieri, e mangiata con ancora minore entusiasmo. Nella stanza di Gabby era tutto tranquillo e silenzioso.

«Dovrei andare a vedere come sta Melanie.» Fran si morse il labbro inferiore con un gesto ansioso che lui aveva spesso criticato quando ancora vivevano insieme.

«Sono le dieci passate Fran, io non andrei a disturbarla adesso. E poi può darsi che il medico le abbia dato qualche tranquillante per aiutarla a dormire.»

Le spalle di Fran s’ingobbirono. «E cosa potrei dirle poi, dopo quello che tu hai detto a me! Ma sei proprio sicuro?»

Lui sapeva cosa intendeva. «Vorrei tanto avere qualche dubbio.»

«No, come ti ho detto non hai mai sbagliato in queste… queste occasioni.» Non c’era nessuna critica in questa sua affermazione, solo una nota di immensa tristezza. «Ma questa volta c’è qualcosa di diverso, non è vero? Questa volta non è come prima.»

Lui sorseggiò il caffè ormai tiepido prima di rispondere. «Non ho una spiegazione valida. Solo che stavolta questo mostro mi conosce, riesce a penetrare nella mia mente: come e perché è un mistero.»

«Forse ha trovato per caso il tuo codice d’accesso.»

La guardò sorpreso. «Non ti seguo.»

Fran respinse in avanti il piatto e poggiò i gomiti sul tavolo. «Mettila così, tanto per citare i tuoi beneamati computer. Quando vuoi accedere a un altro sistema devi avere il codice particolare di quel sistema per potervi entrare, non è così? Una volta che hai il codice sei dentro la memoria, la banca dati di quell’altro sistema. Tanto è vero che poi si ha un dialogo tra le due macchine, giusto? Bene, forse quest’altra mente ha trovato fortuitamente il tuo codice d’accesso, o forse nel tuo subconscio tu hai il suo.»

«Non sapevo che ti interessassi di certe faccende.»

«Di solito no, infatti. Ma dopo l’altra volta sono rimasta per lo meno incuriosita. Ho fatto qualche ricerca, non molto, abbastanza per cominciare a capire. Molto ancora non è chiaro, ma almeno so qualcosa delle varie teorie a proposito dei fenomeni psichici. Ti dirò, molti sono fatti ridicoli, altri invece hanno una loro logica affascinante. Mi sorprende che proprio tu non abbia cercato di capirci qualcosa!»

Si sentì a disagio nel rispondere. «Io volevo scordarmi di tutto, non cercare di approfondire.»

«Strano!»

«Cosa?»

«Mah, niente» Sorrise come distratta. «Non ti sono mai piaciute le storie di fantasmi, io ho sempre pensato che fosse per la tua mania dei microchip; in quella tua testa tecnologica non c’è posto per certi romanticismi. Che ironia della sorte, che proprio uno come te dovesse ricevere dei messaggi psichici. Se non fosse così orrendo ci sarebbe quasi da ridere.»

«In qualche cosa sono cambiato, comunque.»

«Ah sì? E in che cosa sentiamo?»

«Intanto i computer sono diventati secondari nella mia vita. Sono solo un lavoro, part-time oltretutto.»

«Allora sei cambiato davvero. Altri miracoli?»

«Un ritmo di vita diversa, più tranquilla, più tempo dedicato al riposo, godendo di ciò che mi circonda.»

«Non è che tu fossi un mostro di laboriosità quand’eri qui, Jon, anche se in effetti facevi troppe ore; comunque trovavi sempre del tempo da dedicare a me e a Gabby quando potevi.»

«Oggi mi rendo conto che comunque non era sufficiente.»

«Anch’io ero in colpa. Facevo troppe richieste ingiuste. Ma è acqua passata ormai, è inutile stare qui a rivangare.»

«No, infatti, è acqua passata come dici tu.» Pose la tazza sul tavolo. «Fran, mi preoccupa che rimaniate qui da sole.»

«Allora credi davvero che questo mostro volesse rapire Gabby?»

«Voleva colpire me attraverso di lei.»

«Come fai a sapere che si tratta della stessa persona? E perché ne parli come se fosse un mostro, un animale? È un mostro ma è umano». Ora la sua voce era adirata.

«Non riesco a credere che sia un uomo. Quella sensazione di malvagità è così potente, così ‘sovrumana’! Quando i suoi pensieri penetrano i miei, riesco quasi a sentire l’odore della corruzione, ne vedo la depravazione.»

«Sei proprio cambiato, sì!»

Lui scosse la testa stancamente. «Cerco di descrivere l’impressione che mi rimane dopo. Una malvagità purulenta, terrificante che mi viene imposta ed è oscena Fran.»

«Sì, credo di capire. Jon, io non metto in dubbio le tue visioni, e che tu soffra realmente quando accadono, ma sei certo di non aver perso la testa?»

Lui sorrise. «Non sei mai stata una con i peli sulla lingua, eh? Vuoi dire se sto diventando pazzo?»

«No, non era questo che intendevo. Ma queste tremende esperienze non potrebbero provocarti delle allucinazioni? Parliamoci chiaro, ci sono milioni di funzioni poco conosciute della mente, chi ci dice quando uno va fuori fase e in che modo?»

«Devi credermi: questa persona, se è così che vuoi chiamare questo essere, che ha ucciso la prostituta e il vecchio, che ha profanato il corpo del bimbo è la stessa che ha rapito per errore Annabel. Mi conosce, e vuole farmi del male, per questo tu e Gabby dovete essere protette.»

«Ma come poteva sapere dove abitavamo? Ha letto l’indirizzo nella tua testa? È completamente folle questa storia.»

«Non riesco a nascondere il mio passato, non capisci?»

«No, non capisco un maledetto niente.»

«Come con il computer, è tutto nella mia memoria, una volta che si ha il codice diventa facile. Forse ha scoperto cosa mi era già successo, come ho visto quegli altri omicidi». Gli venne un’idea. «Fran, hai fatto rimettere il numero nell’elenco?»

«Non quello vecchio, dopo tutte quelle telefonate di pazzi che sono arrivate. Ma io ho bisogno di essere sull’elenco con il lavoro che faccio, e allora mi sono fatta dare un nuovo numero.»

Childes si accasciò sulla sedia. «Ecco la risposta, è così che ha fatto.»

«Insomma, non è umano ma riesce a consultare l’elenco telefonico». Il piede le batteva nervosamente in terra.

«Ho cercato di spiegartelo. È una persona, ma dentro è disumana. È intelligente, altrimenti la polizia l’avrebbe già presa, e poi è sensibilissima.»

«Non abbastanza da rapire la persona giusta, però!» esclamò lei.

«No, grazie a…». Si fermò senza finire la frase, e quel comune senso di colpa ruppe la tensione. «Il punto è,» disse Childes più gentilmente, «che si accorgerà presto dell’errore se non lo ha già capito grazie ad Annabel.»

«I giornali!»

«Tutti i mezzi di comunicazione.»

Lei spalancò gli occhi. «Jon, se scoprono il nesso…»

Lui finse di studiare la tovaglia. «Si ricomincerebbe da capo. È una coincidenza troppo forte: una bambina viene rapita alla porta accanto all’uomo che aveva aiutato la polizia nelle indagini di tre anni fa.»

«Non potrei sopportarlo un’altra volta.»

«Un’altra buona ragione per andarsene un po’. Overoy ha provveduto a far sorvegliare la casa ma non può tenere lontana la stampa. Adesso hanno come pretesto di tenere d’occhio Melanie e Tony, ma i giornalisti capiranno al volo. Sarà una giornata campale quando scopriranno la verità. Io penso che potreste venire tutt’e due da me per un poco.» Quest’ultima frase la disse con una certa cautela.

«Non è proprio possibile Jon» rispose subito lei. «Io ho un lavoro, ricordi? e Gabby deve andare a scuola.»

«Un paio di settimane non farebbero male a nessuna delle due, tu avrai pure delle ferie!»

Lei scosse la testa. «No, no. L’agenzia ha troppo lavoro di questi tempi, e non possiamo permetterci di mandare via i clienti. E poi Gabby e io prima o poi dovremmo pur tornare, e allora cosa succederebbe?»

«La speranza è che nel frattempo questo assassino venga beccato.»

«Mi piacerebbe sapere come! No, Jon, non si può fare, arriviamo a un compromesso, andremo a stare da mia madre. Le piacerebbe tanto avere Gabby tra i piedi per un po’. Non è molto lontana così potrei arrivare in città abbastanza facilmente.»

«Perché non permetti a Gabby di venire da me da sola?»

«Il giudice ne ha affidato a me la tutela!» rispose lei con tono duro.

«Lo so, io non ho contestato niente.»

«Hai fatto bene a non farlo. E comunque non ti è venuto in mente che sei tu in pericolo in questa situazione? Non credi che questo tuo tormentatore possa essere venuto qui a cercare proprio te?»

L’ipotesi era stata discussa con Overoy mentre venivano dall’aeroporto. «Può darsi che tu abbia ragione Fran, non c’è modo di esserne sicuri. Ma ciò dimostrerebbe che non sa dove vivo attualmente.»

«Più lui ti fruga nella mente e più cose saprà di te.» Continuava a definire ‘lui’ il rapitore di Annabel.

«Il potere non funziona in quel modo. I pensieri non sono così sicuri, potrà sapere com’è l’ambiente in cui mi trovo, ma non dov’è! Ti ricordi che anch’io ero in grado solo di descrivere il luogo dov’erano sepolti i bambini.»

«Eri piuttosto preciso però; comunque ho capito quello che vuoi dire. Rimane il fatto che tu rappresenti un pericolo.»

Lui fu costretto ad accettare. «Anche da tua madre dovrete essere comunque protette.»

«Chissà come si divertirà, sai com’è fatta, no?»

«Sì, certo. E Gabby, la tieni a casa allora?»

«Se credi, altrimenti potremmo trovargli una scuola vicino a casa di mia mamma.»

«Meglio ancora.»

«D’accordo allora!» Fran si passò la mano tra i capelli castani e sembrò rilassarsi un poco. «Vuoi un altro caffè?»

«No grazie. Sto crollando. Ti crea problemi se rimango qui stanotte?»

«Era previsto. Nonostante gli screzi che ci sono stati sei sempre il benvenuto qui.» Gli toccò la mano con un gesto un po’ incerto e lui rispose premendole la punta delle dita, brevemente. «Forse non è andata a finire troppo bene la nostra storia, ma c’è stato qualcosa di buono, no?»

Malgrado la stanchezza Childes sorrìse. «Sono stati anni belli Fran.»

«All’inizio.»

«Siamo cambiati, non ci si riconosceva più.»

«Quando…» iniziò a dire, ma lui l’interruppe.

«Acqua passata Fran.»

Lei abbassò lo sguardo. «Ti sistemo il lettino nella stanza degli ospiti, se è lì che vuoi dormire…» La frase rimase volutamente sospesa a mezz’aria.

Era tentato. Fran non era ceno meno desiderabile ora di quanto non lo fosse stata prima e le tetre emozioni della giornata li avevano lasciati entrambi bisognosi di affetto fisico. Passò qualche attimo prima che rispondesse: «Ho un buon rapporto sentimentale con un’altra persona da un po’ di tempo.»

Forse c’era una punta di risentimento nella voce di Fran. «Una collega, un’insegnante?»

«Come fai a saperlo?»

«Quando è tornata dall’ultima vacanza con te, Gabby non parlava d’altro che di questa maestra tanto simpatica che aveva incontrato. E da parecchio che andate avanti no? Non ti preoccupare, parla pure tranquillo, non sono più gelosa, oltretutto non potrei neanche permettermelo.»

«Si chiama Aimée Sebire.»

«Francese?»

«No, solo il nome. La conosco da un paio d’anni ormai.»

«Una cosa seria.»

Lui non rispose. «Io invece m’innamoro sempre di uomini sposati,» sospirò Fran, «non sono mai stata brava a scegliere.»

«Sei sempre molto bella Fran.»

«Ma non irresistibile!»

«In altre circostanze io…»

«Sì, non ti preoccupare, lo faccio apposta per metterti a disagio, l’indipendenza per una donna non è poi quella gran cosa di cui si dice, anche in quest’epoca. Avere un corpo caldo contro cui accoccolarsi nel letto, una forte spalla maschile su cui addormentarsi, sono ancora bisogni primari per noi sedicenti donne emancipate.» Si alzò lentamente dal tavolo e lui si accorse per la prima volta delle ombre scure che aveva sotto gli occhi. «Ci penso io alle lenzuola. Ancora non mi hai detto cosa pensate di farne del nostro amico orco, tu e il tuo compare Overoy». Si fermò sulla porta della cucina in attesa della risposta.

Egli si voltò sulla sedia per guardarla meglio e la risposta la raggelò.

«Finora mi ha sempre cercato ‘lui’, mi ha frugato nella mente ‘lui’: Overoy pensa che sia giunto il momento di invertire i fattori.»

Si svegliò all’improvviso sentendo la presenza di qualcuno lì nella stanza. Per alcuni secondi rimase disorientato, la poca luce dall’esterno era estranea, le forme nella stanza buia sconosciute. In un attimo ripercorse gli avvenimenti della giornata. Era a casa. No, non era a casa. Era temporaneamente tornato nella sua vecchia casa con Fran e Gabby. La luce veniva dal lampione sulla strada.

Un’ombra si avvicinò.

Childes si mise seduto di scatto, irrigidito dalla paura improvvisa.

Si sentì un peso sul letto e la voce bassa di Fran. «Scusa Jon, non ce la faccio a dormire da sola stanotte. Non arrabbiarti.»

Lui alzò le coperte e lei gli scivolò accanto avvicinandogli. La sottoveste era morbidissima contro la sua pelle.

«Mica dobbiamo fare l’amore per forza» bisbigliò. «Non è per questo. Basta che mi metti un braccio intorno e mi tieni stretta per un po’.»

Lui obbedì… e fecero l’amore.

* * *

Si svegliò di nuovo molto più tardi; era notte fonda, il sonno gli ottundeva la mente.

Una mano gli strinse la spalla, anche Fran si era svegliata. «Cos’è?» mormorò.

«Non lo so…»

Si udì di nuovo un suono.

«Gabby!» dissero all’unisono.

Childes si precipitò giù dal letto con Fran alle spalle, dirìgendosi di corsa verso la porta. Un freddo terrore gli faceva accapponare la pelle nuda. Cercò a tastoni l’interruttore della luce del corridoio, preso da una improvvisa vertigine, la luce gli fece strizzare gli occhi.

Videro la gatta nera fuori della porta aperta della stanza di Gabby, aveva la schiena arcuata, il pelo irto come tanti spilli. Fissava davanti a sé, gli occhi furenti, la mascella vibrante di rabbia con i dentini aguzzi.

Gabby gridò ancora, uno strillo acuto.

Il pelo della gatta si mosse come sfiorato dalla brezza, poi sparì lungo le scale.

Si affrettarono lungo il corridoio e quando entrarono nella stanza videro Gabby seduta sul letto. Guardava diritto davanti a sé fissando un angolo buio della stanza, la lampada da notte gettava lugubri ombre sul suo viso. Non li guardò affatto quando si avvicinarono al letto ma continuò a fissare sempre quello stesso angolo in ombra, dove sembrava vedere qualcosa. Qualcosa che né il padre né la madre potevano scorgere.

Quando Fran la prese tra le braccia, sbatté gli occhi come se si risvegliasse da un sogno. Childes la guardò preoccupato mentre si divincolava per cercare qualcosa dietro al comodino. Trovò gli occhiali e li inforcò scrutando nuovamente l’angolo della stanza.

«Dov’è?» chiese con la vocina piena di lacrime.

«Chi amore, chi?» chiese Fran stringendola a sé.

«È andata via un’altra volta, mamma? Era così triste!»

Childes sentì i capelli drizzarglisi sulla nuca, aveva la fronte e le mani madide di sudore.

«Dimmi chi Gabriel,» disse sua madre, «dimmi chi hai visto.»

«Mi ha toccata ed era tanto fredda, ghiacciata, mamma. Annabel era così triste.»

Nelle profondità della mente di Childes qualcosa si mosse, un ricordo dimenticato da tempo.

* * *

Il pacchetto arrivò il lunedì mattina con la prima posta ed era indirizzato a JONATHAN CHILDES. Sia il suo nome che l’indirizzo di Fran erano scritti in stampatello con una grafia minuta e ordinata. La busta era gialla e di formato normale.

Dentro c’era una scatoletta di dieci centimetri per dieci.

Dentro la scatola c’era della carta velina arrotolata.

Avvolti nella carta c’erano sei oggetti.

Cinque erano le piccole dita di una mano.

L’ultimo era una liscia, bianca pietra di luna.

* * *

La vita continuò, come al solito.

Childes fece ritorno all’isola dopo due giorni di interrogativi estenuanti da parte della polizia, e non prima di aver visto la figlia e l’ex moglie al sicuro in casa della nonna, che abitava in un tranquillo villaggio alle porte di Londra. Non le aveva accompagnate per evitare che qualsiasi dettaglio del viaggio gli rimanesse impresso nella memoria.

Nonostante non avesse potuto fornire alla polizia alcun indizio in più, era sicuro che soltanto le rassicurazioni dell’ispettore Overoy li avevano convinti a lasciarlo partire. Né il timbro postale, di un quartiere periferico di Londra, né la meticolosa calligrafia dell’indirizzo sul macabro pacchetto avevano fornito indizi utili alle indagini. Non c’erano tracce di saliva sull’involucro, la busta era del tipo autoadesivo, e non c’erano impronte chiare sulla busta o sulla scatola. Alla stampa non era stato fatto cenno della pietra di luna che era assieme alle dita mutilate; la polizia evitava sempre di provocare delitti di mitomani che imitavano gli altri. Che ci potesse essere un collegamento con altri casi non fu negato, anche se gli inquirenti si rifiutarono di spiegare il perché.

Childes beneficiò della discrezione delle autorità e riuscì a lasciare il paese prima che certe ovvie conclusioni venissero fatte dai mass media. Il suo contatto psichico con l’assassino era rimasto segreto. Il rapporto del medico legale dichiarò che le dita erano state mozzate quando la vittima era già morta, una magra consolazione dall’orrore.

Il corpo di Annabel non fu mai trovato e a lui non venne alcuna visione, malgrado cercasse più volte di scrutare nella propria mente.

Non doveva accadere più nulla per alcune settimane.

* * *

Nel sogno guardava il bambino dai capelli scuri e sapeva che quel bimbo era lui stesso.

Era seduto diritto sul piccolo letto con le lenzuola ammucchiate all’intorno, ed era piccolo, tanto piccolo. Parlava, ripeteva sempre le stesse parole come in una litania senza senso.

«…non puoi… non puoi essere…»

Ai piedi del letto una figura di donna, una statua d’avorio immobile nella luce della luna. Emanava una tristezza inconsolabile, e così come l’osservatore dormiente sapeva di essere quel bimbo, sapeva anche che la donna era sua madre. Ma era morta.

«…lui dice che… non puoi… non puoi essere…» mormorava il ragazzino, e la tristezza tra la donna e il bambino, tra madre e figlio, si fece immensa.

Poi il figlio si accorse dell’osservatore, i suoi occhi sorpresi guardarono in alto verso l’angolo più buio del soffitto, guardò se stesso dritto negli occhi.

Ma l’attimo svanì appena si sentirono dei passi pesanti nel corridoio. Svanì anche la visione spettrale della madre.

L’ombra scura e ondeggiante di un uomo si stagliò contro la porta; Childes fu colpito dalla sensazione di disperazione e di rabbia che fluiva dal padre in ondate minacciose, una furia carica di colpe che saturava l’aria. Childes si ritrasse, così come fece il se stesso bambino, quando l’uomo ubriaco avanzò con i pugni alzati.

«Te l’avevo detto,» urlò il padre, «mai più! Mai più…» Il ragazzino gridò sotto le coperte mentre cadevano i colpi.

Childes cercò di gridare, di dire al padre di lasciar stare quel bambino che non poteva fare a meno di evocare il fantasma, lo spirito della madre; che lei era tornata per rassicurarlo, per fargli sapere che l’amore non era morto con il suo corpo minato dal cancro, che l’amore vive sempre, che la tomba non era una prigione, che lei lo avrebbe amato sempre e che lui avrebbe potuto sempre saperlo grazie a questo suo dono particolare che gli permetteva di vederla… Ma il padre non ascoltava, non udiva, l’ira superava ogni sentimento, ogni emozione. Aveva detto al figlio che non vi era vita dopo la morte, che i morti non potevano fare ritorno per tormentare i vivi, che la madre era morta piena di odio e che aveva meritato la lunga sofferenza perché Dio condannava coloro che avevano l’animo corrotto dall’odio, e che non poteva risorgere per parlare d’amore quando era colma di rancore per lui, per il marito, il padre del suo bimbo, e che non esistevano gli spiriti o i fantasmi perché persino la chiesa negava la loro esistenza, e non c’era niente del genere, niente, niente…!

Le urla del bambino si erano trasformate in singhiozzi, la punizione stavolta era stata peggiore di tutte le altre. Ben presto la coscienza iniziò a svanire mentre il bimbo chiudeva la propria mente, rigettando volutamente ciò che stava accadendo, ciò che era accaduto. Childes, l’uomo, il testimone dormiente si rese conto che rigettava anche ciò che sarebbe accaduto in futuro.

Si svegliò piagnucolando, come aveva fatto tanti anni prima, da bambino.

«Jon, che cos’hai?»

Amy si sporgeva su di lui, i suoi capelli gli carezzavano la guancia. «Avevi un incubo, come l’altra volta, ripetevi sempre le stesse parole, poi hai gridato a qualcuno di smetterla, di fermarsi.»

Aveva il fiato corto, rapido, il torace gli pompava come un mantice. Lei aveva acceso la lampada sul comodino e il suo dolce viso era un sollievo dopo l’incubo, nonostante l’angoscia evidente.

«Mi… mi ha costretto lui…» mormorò.

«Chi, Jon? Cosa?»

Si stava riprendendo velocemente. Childes rimase sdraiato ancora qualche momento, raccogliendo le idee. Poi si tirò su in modo da poggiare la schiena contro il muro. Amy era accoccolata al suo fianco, le ombre accentuavano le curve del suo corpo sinuoso e il lenzuolo le cadde attorno ai fianchi. Con la mano gli tolse i capelli scuri davanti agli occhi.

«Cosa ho detto nel sonno?» le chiese.

«Borbottavi qualcosa come ‘non può essere’, anzi no, ‘non puoi essere’. Continuavi a ripetere la stessa frase, poi hai iniziato a gridare.»

Malgrado l’ora tarda non c’era un filo di vento, non una brezza passava attraverso la finestra spalancata a rinfrescare l’aria.

«Oh Amy, Amy. Adesso comincio a capire.» Le parole suonarono quasi come un lamento.

Lei lo abbracciò e gli posò la testa sul petto. «Mi spaventi Jon. parlami, spiegami tutto, non nascondermi niente.»

Lui le accarezzò la schiena assorbendo con piacere il suo calore attraverso le dita sensibili. Iniziò a parlare, con voce bassa, esitante dapprima, come se dovesse lui stesso capire ciò che diceva.

«Quando Gabby… quando ha visto… ha creduto di vedere… Annabel… quella notte… dopo che era stata rapita, qualcosa in me si è risvegliato: un pensiero, una sensazione, un ricordo. Qualcosa che avevo tenuto nascosto per tanto tempo. È difficile, non so se riuscirò a spiegartelo completamente, ma ci devo provare.»

Amy si staccò da lui per poterlo guardare meglio.

«Nessuno, credo, vuole odiare il proprio padre,» continuò, «e poi ricordati che per anni è stato il mio unico genitore, quindi possono essere intervenuti anche dei sensi di colpa nel mio non accettare certe verità sul mio conto. Non sono sicuro di niente, sto solo cercando delle risposte, un filo logico, capisci Amy?»

Rimase silenzioso, come se cercasse nei suoi pensieri, come se tentasse di mettervi ordine. Amy suggerì. «Il sogno Jon, perché non parti da lì?»

Childes si passò le dita sugli occhi chiusi. «Sì!» disse. «Il sogno, deve essere quello la chiave di tutto. Solo che non credo che sia stato solo un sogno, Amy.» Le prese la mano tenendosela in grembo e guardando la finestra sull’altro lato della stanza. «Ho visto me stesso bambino, avevo più o meno l’età di Gabby, mi sembrava di guardarlo dal soffitto, guardavo me stesso, come se fossi seduto su in alto in un angolo della mia stanza. Il bambino era seduto nel letto, aveva paura, eppure a me sembrava che fosse felice. C’era qualcun altro nella stanza, illuminata dalla luna, era una donna, guardava il ragazzo come facevo io. Io so che era mia madre.»

Childes tirò un respiro profondo mentre Amy aspettava in silenzio. Aveva il viso teso e gli occhi lucidi di emozione per la scoperta fatta e di tristezza al tempo stesso. Lei si irrigidì quando lui disse. «Ma mia madre era morta da almeno una settimana.»

«Jon…»

«No, ascoltami fino in fondo Amy. Gabby non ha sognato quella notte che ha visto Annabel. Non capisci? Gabby ha il mio stesso potere, è una sensitiva, una medium… io non so come accidenti definirla perché ho evitato queste cose per tutta la vita. Gabby e io siamo uguali, ha ereditato da me questo ‘dono’. Ma mio padre, che Dio lo aiuti, mi ha picchiato tanto da farmele scordare certe idee; lui si rifiutava di ammettere che ci potesse essere un potere del genere, e ha fatto in modo che neanche io lo accettassi. Nel sogno l’ho visto entrare nella stanza e picchiare il bambino, picchiare me fin quando non ho perso conoscenza. E non era la prima volta, e nemmeno l’ultima. Mi ha costretto a rimuovere queste capacità, questo extra-senso dalla mia mente.»

Fece una pausa, per riprendere fiato; le ultime parole erano state come un torrente in piena. «Non credo che saprò mai tutta la verità Amy. Posso solo raccontarti quello che ho sentito. Ho sempre rifiutato razionalmente tutto ciò che ha a che fare col sovrannaturale, come tutti i ragazzini a cui viene detto per anni, di continuo, che una cosa è sbagliata o contro natura. Eppure il potere è rimasto racchiuso dentro di me tutto questo tempo. Ma ti immagini che razza di conflitto deve esserci stato nel mio cervello di bambino? Io amavo mia madre e mi mancava, avevo bisogno del suo conforto, del suo amore, e mio padre è riuscito a costringermi a rifiutarla, e con lei, quel mio particolare potere. Probabilmente alla fine il raziocinio ha vinto la battaglia, ma non poteva durare in eterno.»

Amy ritrasse la mano per carezzargli il viso. «Spiegherebbe tante cose di te. Anche il perché hai scelto una professione così razionale e logica per esempio. L’unica sorpresa è che tu non sia pieno di nevrosi.»

«E chi lo dice?» Si spostò sul letto per allentare la tensione del corpo. «Ma perché adesso Amy? Perché tutto questo è venuto fuori adesso?»

«Ma non è appena successo. Non capisci? Questi avvenimenti sono iniziati tre anni fa.»

«L’omicidio di quei bambini?»

«Non è stato allora che sono riprese le visioni? Eppoi chissà quante altre volte ti era successo, e tu l’hai imputato a una semplice intuizione.»

Lui ci pensò su poi disse lentamente. «Forse c’è voluta un’altra mente per dargli il via.» E aggiunse sottovoce. «Qualcuno che ha trovato per caso il mio codice.»

«Cosa?»

«Una cosa che mi ha detto Fran, un paragone tra la mente e i computer con i loro codici d’accesso. Il paragone non è importante ma il principio potrebbe esserlo.» Tirò su le ginocchia improvvisamente. «Mi sono ricordato di un’altra cosa del sogno, se così si può definire. Il bambino mi ha visto. Si era accorto della mia presenza.»

Lei scosse la testa. «Non capisco.»

«Mi ha guardato dal letto. Io ho guardato me stesso. Amy! No, non ho sognato stanotte, è stato un ricordo. Io mi ricordo dello spirito di mia madre che veniva da me. Mi parlava del suo amore, del fatto che la morte non è la fine, e mi ricordo di altri occhi che mi guardavano quella notte. Ti giuro Amy, io ricordo quella notte dal punto di vista del bambino. Quegli occhi appartenevano a qualcuno che mi voleva bene, come mia madre. Amy, capisci adesso? Io avevo allora il potere di vedere il me stesso futuro! Sono pazzo Amy? O è questa la verità? Io ho avuto allora il potere di vedere me stesso nel futuro e oggi ho visto me stesso nel passato.»

Tremò e lei lo strinse forte. «Lo sento Amy, sento forte il potere in me. E… e…»

Davanti a lui c’era un bagliore, un vago baluginio, ma lui sapeva che era solo nella sua testa, non nella stanza. Prima piccolo poi sempre più grande, arrotondato, prendeva forma.

Una pietra di luna.

Ma no. Cresceva ancora, cambiava consistenza. Non era più una pietra.

Fessure e crateri ne segnavano la superficie. Catene di montagne gettavano ombre sulla sua superficie bianca.

Vedeva la luna.

E con quell’immagine lo colpì una sensazione di terribile paura.

* * *

Jeanette arrivò di volata attraverso l’aiuola circolare diretta al laboratorio di scienze, sperando che nessuno dei docenti la vedesse mentre calpestava quel sacro terreno. Girò attorno alla statua del fondatore della scuola, i capelli scuri al vento, i libri per la lezione successiva sotto il braccio. Fortuna che c’era informatica e che il professor Childes non si incavolava quasi mai, anche se ogni tanto diventava piuttosto severo quando le ragazze facevano troppo casino.

Con sollievo superò l’aiuola e arrivò sull’acciottolato dell’ingresso. Imboccò gli scalini a due a due, spinse il portone di cristallo e piombò su per le scale che portavano al primo piano dov’era l’aula di informatica che faceva parte dei laboratori di scienze. Quando fu quasi in cima inciampò lasciando cadere i libri, così dovette ridiscendere per raccoglierli tutti.

Fuori della porta dell’aula sostò un attimo per tirare il respiro e riassettarsi i capelli con le dita, poi entrò.

«Ciao Jeanette» l’accolse Childes con una smorfia. «Sei un po’ in ritardo.»

«Sì, mi scusi signore» disse lei, ancora trafelata nonostante la sosta. «Ho lasciato nel dormitorio il foglio del mio programma e non ho avuto tempo per andarlo a prendere prima.» Lo guardò un po’ preoccupata.

«OK,» le disse, «vediamo un po’, dovrai dividere una macchina con Nicole e Isobel. Poi toccherà a te. Spero che tu abbia un buon programma da sperimentare!»

«È un test di ortografia.»

Qualcuno ridacchiò. «Beh, certo che è un pochino elementare, Jeanette, comunque andrà benissimo» disse Childes e poi aggiunse a beneficio delle altre: «Ognuno ha i suoi tempi con i computer, non ci sono scorciatoie. Ci vuole un po’ prima che la logica della macchina diventi chiara a tutti; poi fila tutto liscio.»

Jeanette si mise su una sedia alle spalle di Nicole e di Isobel e vide che stavano facendo un gioco di anagrammi.

Childes passò di apparecchio in apparecchio, dando consigli o suggerimenti per migliorare i programmi delle alunne in modo da renderli più interessanti.

Sostò alle spalle di Kelly e sorrise con evidente piacere. Stava simulando i tempi di ingresso e uscita dal porticciolo turistico, sia delle barche a motore che di quelle a vela. Si era presa la briga di far visita alla locale capitaneria di porto per raccogliere i dati riguardanti le maree, i venti, i regolamenti portuali ed altro. Kelly si accorse del suo interesse e lo guardò con un sorriso.

Come al solito, pensò lui, sei sempre un po’ troppo presuntuosa Kelly, ma non c’è dubbio che sei la più brava. «Non c’è male Kelly, vedo che pensi al tuo futuro.»

«Proprio così, ma il mio yacht spero che sia alle Bahamas.»

Lui riuscì a trattenere una risata. «Sono sicuro che sarà così Kelly.»

Lei tornò a guardare lo schermo muovendo le dita agili e sicure sulla tastiera. L’unica macchia che aveva sulla mano era di inchiostro e lui si chiese, e non era la prima volta, cosa mai avesse provocato quella visione della sua mano bruciata qualche giorno prima. Le premonizioni non facevano parte del suo strano potere. Eppure da ragazzo aveva visto se stesso nel futuro. Era confuso e spaventato, ma non aveva più intenzione di soggiacere a questa maledizione, né al mostro che lo tormentava attraverso la mente. Childes aveva iniziato a sondare se stesso, una tattica che gli aveva suggerito Overoy. Cercare la mente pervertita del criminale. L’incendio del manicomio era ancora ufficialmente opera di ignoti, ma né lui né Overoy avevano dubbi; era opera dello stesso che aveva ucciso e mutilato prima. Forse avrebbe dovuto essere grato della fiducia che l’ispettore aveva in lui, e non c’erano dubbi che Overoy aveva fatto del suo meglio per evitare che Childes venisse collegato alla sparizione di Annabel. Overoy lo stava ripagando del fatto di non aver gestito molto bene la precedente vicenda. Ma Childes non si fidava comunque di quell’uomo. L’ultima volta che si erano parlati, appena tre giorni prima, Overoy lo aveva informato che gli era stato assegnato il coordinamento delle indagini riguardanti tutti e quattro i casi. Il suo coinvolgimento con Childes era il motivo principale dell’incarico; sfortunatamente non c’erano stati ulteriori sviluppi. Lui non poteva dirgli proprio niente altro, qualcosa che gli evitasse di fare la figura del cretino con i suoi superiori. No, non aveva altre informazioni, comunque gli aveva detto della strana apparizione della pietra che era poi diventata la luna stessa. Cosa significava? E che accidenti ne sapeva! No, non c’era stato nessun contatto con l’altra niente. Anzi, dopo aver accettato la realtà di questo suo potere extra-sensoriale Childes si chiedeva se il potere non lo avesse abbandonato, come un fantasma che scompare appena uno cerca di metterlo a fuoco.

Si chiese se non fosse tutto finito. Che quella creatura, come l’infanticida anni prima, non si fosse per caso tolta la vita, non avesse forse cessato di esistere? Erano finite le orrende visioni e gli incubi?

«Signore, signore!»

La voce di Kelly aveva interrotto i suoi pensieri. Lui la guardò e vide che si era di nuovo girata verso di lui, ma stavolta aveva uno sguardo perplesso.

«Cosa c’è Kelly?» le chiese alzandosi dalla cattedra.

«Il mio computer sta dando i numeri». Si voltò e pigiò con forza un tasto.

«Ehi, buona! Non te la prendere con il computer. Ricominciamo da capo con logica» le disse avvicinandosi.

Si sporse in avanti e si sentì gelare, ogni altra parola gli rimase in gola. Strinse la mano sullo schienale della sedia sentendo una leggera pressione alla mente.

«Perché hai scritto quella roba Kelly?» chiese, cercando di mantenere la calma.

«Io non ho fatto niente,» rispose lei indignata, «è apparsa senza preavviso e il resto è scomparso.»

«Lo sai benissimo che non è possibile!»

«Ma davvero, io non ho fatto niente!»

«OK! Cancella lo schermo e ricominciamo daccapo.»

La ragazza premette il tasto RETURN. Non accadde niente.

Childes pensando ancora che si prendesse gioco di lui si allungò e premette la stessa chiave. Non ebbe alcun effetto.

«Kelly, cos’hai…»

«Ma come facevo, io non so fare queste cose…»

«Va bene, va bene, cedimi il posto.» Childes si inserì al posto della ragazza, gii occhi fissi sul monitor. Stentava a credere ai propri occhi. Altre ragazze si erano avvicinate incuriosite. «Proviamo con il RESET» mormorò mantenendo calma la voce. Ma non poteva nascondere il sudore che gli imperlava la fronte. Premette il tasto. Lo schermo si cancellò e mi tirò un sospiro di sollievo.

Poi la parola riapparve.

«Ma perché fa così, signore?» chiese Kelly che sbirciava sorpresa e affascinata da sopra la sua spalla.

«Non ne ho idea,» rispose, «non dovrebbe poterlo fare. Potrebbe essere qualcuno che dall’esterno si è inserito nel nostro sistema.» Ma era poco probabile, pensò tra sé. Poi ripensò all’analogia di Fran. Sciocchezze, non c’entrava niente! Premette di nuovo il RESET.

La parola scomparve; poi riapparve.

«Non vorrei cancellarti il programma,» disse Childes a Kelly con la voce falsamente tranquilla, «ma ho paura di non avere altre soluzioni». Stavolta premette HOME. Lo schermo si cancellò, diventò grigio, vuoto. Lui si abbandonò sulla sedia.

Poi si irrigidì nuovamente quando vide risplendere dal buio la parola. Fissò Io schermo con gli occhi sbarrati. Era a lettere verdi:

MOON

Alcune delle ragazze si erano radunate attorno a loro ma da quelle rimaste al posto arrivavano gridolini sorpresi. Childes si alzò e andò di monitor in monitor. Su ognuno era stampata la stessa incredibile parola.

Con una disperazione che spaventò le ragazze, passò di banco in banco strappando le prese, togliendo corrente a ogni macchina, finché tutti gli schermi non furono grigi. Le ragazze si assieparono da un lato come se fosse impazzito.

Cautamente si avvicinò al computer dove aveva lavorato Kelly, si chinò e infilò la spina.

Lo schermo si accese, ma adesso la parola che lo aveva spaventato non c’era più.

Trovò Amy dopo la lezione, durante la quale era a malapena riuscito a mantenere una facciata di tranquillità davanti alle ragazze. Aveva spiegato che probabilmente il fenomeno era dovuto a qualche strana interferenza di qualche computer esterno al sistema. La spiegazione era poco credibile ma le ragazze sembrarono accettarla.

Childes fece salire Amy in macchina ringraziando il cielo che la lezione fosse finita subito prima dell’intervallo del pranzo, dandogli modo di allontanarsi. Non si fermò finché non arrivarono in un punto isolato sulla scogliera.

Spense il motore e si girò a guardare il mare. Dopo qualche secondo, quando ebbe ripreso a respirare normalmente, si voltò verso di lei e disse: «È qui Amy. È qui sull’isola.»

* * *

La giornata era perfetta. Appena qualche piccola nuvola bianca immobile contro lo sfondo azzurro limpido del cielo. Non si sentiva un alito di vento. Il sole come una palla di fuoco brillava dominando il mondo. Una leggera foschia si andava diradando sul mare rendendo altre isolette lontane appena delle macchioline indistinte.

Decine di motoscafi segnavano il mare con le loro scie spumeggiami mentre le vele cercavano invano una brezzolina con cui gonfiarsi. Sotto riva dei surfisti stavano cavalcioni delle loro tavole con le vele colorate pigramente adagiate sull’acqua. Le spiagge erano affollate mentre le insenature isolate rimanevano tranquille, rifugi ideali per coloro che ambivano alla tranquillità tanto da affrontare le impervie discese.

Sulla cima di una scogliera che dominava una di queste piccole baie si ergeva il collegio femminile La Roche, bianco edificio come un faro illuminato dal sole.

Un sabato ideale per il giorno delle premiazioni: tutti, docenti, studentesse e classi erano agghindati pronti per le ispezioni ufficiali. Era un giorno importante per la scuola, venivano assegnati premi e onorificenze, certificati di merito e attestati per i risultati raggiunti individualmente e in gruppi o squadre. Poi c’erano i discorsi, quello della preside, la signorina Estelle Piprelly, e quello di uno dei consiglieri, Victor Platnauer; poi ci sarebbe stata la recita della capoclasse, un resoconto in versi baciati (come voleva la tradizione) degli avvenimenti dell’anno. Era questa una prova di ingegno e costanza per la ragazza prescelta (e di grande pazienza da parte dell’uditorio), tutto per conquistare altri genitori paganti. Un giorno di grandi divertimenti anche: una serie di lotterie, giochi vari, una rivendita di divise di seconda mano, un banco di dolci e pasticcini, un altro di gelati e di fragole e panna, marmellata e caramelle, un banco di hot-dog e una grande grigliata di salsicce, un distributore di vino e bevande varie; vi sarebbe stato anche il saggio di ginnastica e il coro, poi un balletto popolare, il tutto tra i magnifici prati e le aiuole fiorite.

Una giornata in cui niente doveva andare storto, insomma.

Arrivavano frotte di genitori, nei parcheggi quasi al completo le auto manovravano per entrare in spazi angusti, le ragazze giravano tra la gente eccitate e nervose ma tutte cercando di mostrarsi a loro agio, molte civettavano nonostante la raccomandazione di comportarsi bene. Childes aveva abbandonato la sala dei computer appena era terminata l’ora obbligatoria messa a disposizione per i colloqui con i genitori. Scrutava con irrequieta attenzione il mulinio delle attività attorno a lui. Cercava di non farsi scorgere mentre fissava ogni viso che passava, ma più d’uno aveva mostrato un leggero imbarazzo nell’incontrare il suo sguardo indagatore.

A un certo punto anche lui si sentì osservato. Voltandosi si accorse che la signorina Piprelly, verosimilmente in conversazione con alcuni ospiti a pochi metri da lui, lo guardava intensamente.

I loro occhi si incontrarono e vi fu una sorta di riconoscimento, una comunicazione che non aveva mai sentito prima. Un velo di ansia passò negli occhi della preside e Childes la osservò mentre prendeva congedo dalle persone che aveva vicine, avviandosi verso di lui con quel fare impettito che la caratterizzava.

Rispose brevemente al saluto di altri visitatori con sorrisi gentili ma che non ammettevano ulteriori scambi, poi gli fu dinanzi e lo guardò in volto. Lui sbatté gli occhi colpito dall’energia che emanava, un’aura di vitalità piena di colori tenui. Era uno straordinario fenomeno che aveva più volte vissuto in questi ultimi tempi, sembrava una radiazione cangiante che fiammeggiava appena, poi scompariva nel momento in cui si tentava di osservarla meglio. Lui ne era affascinato e incuriosito assieme. Lo strano effetto svanì appena la Piprelly parlò.

«Gradirei che lei non rimanesse lì impalato a guardare la gente in quel modo, Childes. C’è forse qualcosa che non va?»

Quell’incredibile sapienza che aveva negli occhi! Egli cominciava a guardare la preside con occhi diversi, ne presentiva nuove e maggiori sensibilità sotto quella scorza apparentemente rude. Eppure il loro rapporto era sempre uguale, si chiedeva se per caso quel nuovo modo di vedere la donna non fosse dovuto a confusi sviluppi dentro se stesso.

«Signor Childes?». Attendeva ancora una risposta. Il bisogno di dirle tutto era irresistibile, ma quando mai gli avrebbe creduto? Estelle Piprelly era una preside razionale e con i piedi ben piantati per terra, energica e tenace nella sua ricerca della perfezione in campo didattico. Eppure c’era qualcosa in lei che smentiva questa immagine, qualcosa di impalpabile, di mimetizzato, che lui non riusciva a cogliere.

Sospirò spazientita. «Signor Childes!?»

«Mi scusi, ero sovrapensiero.»

«Sì, questo l’ho capito. Se permette si direbbe che lei sta poco bene. Ha un’aria un po’ esaurita, è qualche tempo ormai che l’ho notato. Da quando si è preso quei giorni di ferie, mi pare.»

Una breve malattia, aveva detto per giustificare il viaggio a Londra quando era sparita Annabel. «Niente di grave,» rispose con una scrollata di spalle, «ormai il trimestre è finito quindi avrò tutto il tempo di riposarmi.»

«Non si può certo dire che lei abbia lavorato a tempo pieno, comunque!»

«No, forse no.»

«Ma ha qualche preoccupazione» insisté lei. Lui tentennò, ma questo non era né il luogo né il momento per parlare in tutta franchezza. Probabilmente lo avrebbe allontanato dalla festa se l’avesse fatto.

«No, no. Stavo solo facendo una specie di giochino, con i genitori. Cercavo di accoppiarli ai loro figli. Ha mai notato come alcuni padri o madri sono identici alle ragazze mentre altri sono completamente diversi? È curioso no?»

Non sembrò molto soddisfatta della risposta ma aveva troppo da fare per poter perdere tempo. «Non lo trovo affatto curioso. Comunque le suggerisco di lasciar perdere il suo ‘giochino’ e di frequentare di più i nostri ospiti.» La preside si voltò e fece per avviarsi ma si fermò ancora e aggiunse: «Signor Childes, se ci fosse qualche problema me ne parli, sono sempre a disposizione per lei.»

Lui evitò il suo sguardo sentendosi a disagio. L’invito non era stato tanto casuale. Ma quante cose sapeva di lui?

«Me lo ricorderò» le disse e la seguì con lo sguardo mentre si allontanava.

Amy vide Overoy che tentava di sembrare un genitore in visita, ma appariva solo un poliziotto in borghese a caccia di borseggiatori, lo sguardo attento e l’aspetto lo tradivano subito. Non riuscì a trattenere un sorriso, ma forse lei lo vedeva così, perché sapeva chi era e cosa faceva lì. Riuscì a frenare l’impulso malizioso di chiamarlo ad alta voce «ispettore Overoy!». Decise invece di lasciare per un attimo il banco delle fragole e panna alle due tredicenni che le stavano accanto. «Fate da sole per un po’ e ricordatevi, solo quattro fragole per ogni coppetta altrimenti le finiamo subito e non ci guadagnamo niente. E attente al resto!»

«Sì signorina Sebire» risposero all’unisono felicissime di tanta autonomia.

Amy attraversò il prato salutando tutti i genitori che conosceva. Overoy era sotto un albero e sorseggiava vino da un bicchiere di plastica, con le maniche della camicia arrotolate e la giacca su un braccio.

«Fa caldo vero, ispettore?» lo salutò Amy avvicinandosi.

Lui si voltò con fare sorpreso. «Salve signorina Sebire, c’è parecchio lavoro a quel suo banco.»

«Fragole e panna vanno molto con una giornata così. Vuole una coppetta?»

«Molto gentile ma grazie, no.»

«Migliorerebbe il suo travestimento.»

«Sono molto ovvio, vero?», sorrise della presa in giro.

«Sarà perché io so chi è lei e perché è qui. Comunque gli altri non li ho notati.»

Lui scosse la testa facendo una smorfia. «Lo credo, sono solo qui, e sono fuori servizio. Non sono riuscito a convincere i miei capi ad affidarmi una squadra. Oltretutto non siamo competenti per il territorio dell’isola. Per fortuna l’ispettore Robillard è un vecchio amico, e così sono qui per un week-end di vacanza.»

«Mi pareva d’averlo visto insieme a sua moglie.»

«È qui anche lui fuori servizio, dà un’occhiata in giro.»

«Cercate il mostro?»

«È un po’ difficile quando non sappiamo come è fatto il nostro uomo.»

«Jon si rifiuta di ammettere che si possa trattare di un essere umano.»

«Me ne sono accorto.» Overoy si grattò la guancia e per poco non versò il vino. «Childes è un uomo strano per certi versi, signorina Sebire.»

«Non lo sarebbe anche lei se avesse passato quello che ha passato lui?», commentò Amy con dolcezza.

«Io starei molto peggio, sarei diventato completamente pazzo.»

«Lui non lo è di certo!» disse lei con improvvisa durezza.

Lui alzò il bicchiere come per scusarsi. «Non volevo dire niente del genere, signorina. Anzi, lo trovo eccezionalmente sano di mente, tutto considerato. Volevo dire che questa faccenda della percezione extra-sensoriale è strana.»

«Pensavo che ci fosse abituato ormai.»

«Non lo è lui, come potrei esserlo io?»

«Jon inizia ad accettarla questa dote.»

«Io è da molto tempo che l’ho accettata in lui, ma ciò non significa che mi ci sia abituato.»

Un gruppo di genitori la salutarono da lontano e lei ricambiò, poi si rivolse di nuovo al poliziotto. «Lei crede veramente che questa persona sia qui sull’isola?»

Overoy finì il vino prima di rispondere. «Sa che Childes è qui, quindi potrebbe essere. Ho paura che questa storia si sia trasformata in una vendetta contro di lui.»

«Ma lei crede veramente che possa leggere nel cervello di Jon in quel modo?»

«Per scoprire dove trovarlo, vuol dire? Non ce n’era bisogno. La figlia di Childes, Gabby, aveva ricevuto una strana telefonata un paio di giorni prima della sparizione di Annabel, ma non si ricordava il giorno preciso; noi crediamo che fosse il rapitore.»

«Jon me ne ha accennato.»

«Non lo abbiamo saputo che qualche tempo dopo. Quando abbiamo nuovamente interrogato Gabriel, le abbiamo chiesto se lei o Annabel erano state avvicinate o avevano parlato con sconosciuti nei giorni precedenti il rapimento. Solo allora si è ricordata della telefonata.» Con lo sguardo scrutò la folla, sempre attento e vigile. «Gabriel non sapeva come descrivere la voce, ma ci fece una specie di imitazione. Mi fece quasi accapponare la pelle.» Cercò in giro un posto dove buttare il bicchiere ormai vuoto. Amy glielo prese di mano. «Continui la prego!»

«Era una voce strana, una specie di brontolio, senza accenti particolari, niente che ci potesse aiutare. Certo Gabriel è solo una bambina e la persona può aver mascherato la voce, quindi serve a ben poco. Purtroppo quando ha chiesto di parlare con il papà Gabby gli ha detto che non abitava più lì ma in un’isola… questa.»

«Quindi quando è andato a casa loro…»

«È andato lì apposta per Gabby, o comunque con cattive intenzioni. Non lo abbiamo detto ai genitori di Annabel, al punto in cui sono le cose sarebbe inutile; noi comunque siamo convinti che ha scambiato Annabel per la figlia di Childes. La piccola aveva detto ai genitori che andava a giocare da Gabby, e noi crediamo che sia stata presa mentre era nel giardino di casa Childes.»

«Il corpo non è ancora stato trovato, vero?»

Overoy scosse la testa dispiaciuto. «Niente, nemmeno una traccia. E poi stavolta l’assassino non ha bisogno di far trovare il cadavere, ci ha già mandato le dita e la pietra di luna.»

Nonostante il caldo Amy ebbe un brivido. «Ma perché agisce in questo modo?»

«Allude alla pietra? O alle mutilazioni? Lo scempio dei corpi ha tutta l’aria di essere un rito, e la pietra si inserisce in questo contesto.»

«Jon le ha detto del suo sogno?»

«Quello della pietra che si trasforma in luna? Sì, me l’ha detto, ma che cosa significa? Perché la parola ‘MOON’, luna, è apparsa sullo schermo dei computer? E poi, sarà apparsa davvero?»

«Cosa intende dire?» chiese Amy scossa.

«La mente è una ben strana cosa e quella di Childes è apparentemente diversa dalle altre. Non potrebbe essersi immaginato tutto?»

«Ma l’hanno vista anche le ragazze della sua classe!»

«Ragazze in età puberale, un’età molto impressionabile come lei certo saprà. Sto pensando alla possibilità di una ipnosi, un’allucinazione in massa. Queste cose accadono, signorina Sebire.»

«Ma le circostanze non erano…»

Lui alzò la mano. «Sto solamente avanzando un’ipotesi di tipo razionale. Non sarei qui se non credessi a Childes, e sto lavorando a una teoria che potrebbe darci qualche lume. Ma devo ancora verificarla.»

«MOON non potrebbe essere il nome di qualcuno?»

«E stata una delle prime cose che ho pensato, ho fatto controllare tra i clienti della prostituta, tra gli amici. Finora niente, ho fatto ricerche su tutti i pazienti e il personale del manicomio, ma anche lì niente. Qualcosa salterà fuori prima o poi, succede sempre, in tutte le indagini.»

«C’è un modo in cui io possa darle una mano?» si offrì Amy.

«Non saprei proprio, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile, ma come? Tenga ben aperti gli occhi comunque, se nota qualcosa di sospetto, qualcuno che osserva Childes. E in ogni caso, stia attenta anche lei. Non dimentichiamoci che l’assassino ha cercato di colpirlo attraverso la figlia, potrebbe provare anche con lei.»

«Ma lei… lei crede che sia qui oggi?»

«E chi può dirlo? In fondo cosa abbiamo? Una parolina su un computer. Non dice molto. Ma se è qui, sa dove abita Childes, non deve far altro che guardare l’elenco telefonico, c’è un solo Childes.»

«Ma starete sorvegliando il cottage spero!» esclamò Amy preoccupata.

«Io non ho alcuna autorità qui, signorina.»

«L’Ispettore Robillard…»

«Cosa può fare? Io ho avuto un sacco di storie con i miei, cosa vuole che dica Robillard ai suoi superiori: lui stesso pensa che io sia un po’ fuori di testa.»

«Ma allora Jon è indifeso.»

«Può darsi che oggi si riesca a concludere qualche cosa. Childes ha delle sensazioni che riguardano la sicurezza delle bambine. È per questo che sono qui, e mi sono portato dietro Geoff Robillard. Non è una grande unità operativa, lo devo ammettere, ma date le circostanze non possiamo fare di meglio. Avevamo intenzione di far sapere alla preside questo nostro segreto, ma che accidenti di ragione potevamo darle! Non sono sicuro nemmeno io del perché sono qui! Ma qualche precauzione bisogna pur prenderla!»

Amy sentì di dover rivalutare Overoy mentre lo ascoltava. «Credo proprio che Jon abbia avuto fortuna nel trovare un alleato come lei,» gli disse, «non credo che ce ne siano tanti di poliziotti disposti a credergli.»

Overoy guardò altrove, imbarazzato. «Gli devo molto, e comunque è un aggancio reale. Altrimenti perché questo pazzo avrebbe mandato una pietra? In tutta sincerità Jonathan è l’unica traccia che abbiamo in tutti questi casi.» Rivolse lo sguardo verso la folla cercando qualcosa, pur indefinibile: uno sguardo diverso, un movimento, qualsiasi gesto che tradisse un individuo sospetto al suo sguardo allenato. Finora sembrava tutto tranquillo, ma la giornata era appena agli inizi.

Amy stava per salutarlo quando Overoy aggiunse. «Le ha raccontato del sogno fatto da sua figlia?»

«Quando Gabby ha sognato di Annabel dopo che era morta?»

Lui annuì.

«Sì, me lo ha detto.»

«Non era solamente un sogno, vero?»

«Non glielo ha detto Jon?»

«È rimasto sul vago. Mi ha detto che lui e la signora Childes hanno udito Gabby chiamare di notte e che quando sono arrivati nella stanza l’hanno trovata seduta sul letto piuttosto sconvolta e che asseriva di aver sognato Annabel. Io però vorrei sapere se si è trattato di un sogno, non è importante, signorina Sebire, sono solo curioso. Gabby ha ereditato la stessa dote del padre?» Non si accorse che qualcosa di ciò che aveva detto aveva scosso Amy.

«Jon non crede che fosse solo un sogno» rispose distratta. «Può darsi che a lei abbia detto così per proteggerla.»

«Da me?»

«L’altra volta si lasciò sfuggire di mano la situazione, non permetterebbe a Gabby di rivivere un’esperienza del genere. Anzi, mi sorprende che glielo abbia detto.»

«Non è stato lui, è stata la signora Childes; lui me l’ha riferito come un incubo.»

«Forse allora non avrei dovuto dirle niente.»

Stavolta si accorse che l’allegria di lei era svanita, e credette che si fosse pentita della rivelazione fatta. «Come ho detto, niente di importante. Lasciamo perdere, soltanto mi dispiace che ancora non si fidi di me. Sarebbe un brutto colpo se Childes mi nascondesse qualcosa di importante.»

«Sono sicura che non lo farebbe mai ispettore. Jon è un uomo molto spaventato in questo periodo.»

«Ad essere sinceri non è l’unico; ho visto le foto dell’obitorio, ho visto di che cosa è capace questo maniaco.»

«Credo proprio di non voler sapere niente altro, ispettore.» Diede un’occhiata al banco delle fragole. «Devo tornare dai miei clienti adesso, le ragazze sono sommerse di lavoro.»

«Io e l’ispettore Robillard saremo sempre in giro. Se nota qualcosa di sospetto lo faccia sapere a uno di noi. Non credo che possa accadere nulla con tutta questa gente, ma non si sa mai. E, signorina, se dovesse incontrarmi di nuovo, non mi chiami ispettore.» Le sorrise, ma lei pensava evidentemente ad altro e si allontanò senza ricambiare il saluto. «Me lo ricorderò» disse semplicemente, e scomparve nella folla attorno al banco.

Controllò l’ora: tra poco sarebbero iniziati il saggio di ginnastica e il balletto.

Childes tenne d’occhio i passanti mentre affluivano lentamente verso lo spiazzo sul retro. Continuava a sentirsi a disagio malgrado non fosse accaduto proprio nulla che potesse far pensare male. Non aveva incrociato nessuno che gli provocasse un brivido, o gli facesse drizzare i capelli sulla nuca, reazione che lui era sicuro avrebbe avuto solo vedendo quella persona, la creatura, che cercava. La creatura che cercava lui. Ma forse si sbagliava. Forse non era affatto sull’isola. No, ne era sicuro, la sensazione era troppo forte, troppo intensa.

Childes seguì gli ospiti e notò tra di loro il poliziotto dell’isola, Robillard; anche Overoy doveva essere poco lontano.

Intorno a lui la gente chiacchierava allegra, sorrideva, passeggiava colorata e festosa. L’atmosfera era di totale normalità. Ma perché lui si sentiva tanto a disagio? Non c’erano state premonizioni, nessuna vibrazione interna, nessuna sensazione di ansia nel cervello. Solamente una pesante coltre di preoccupazione, indefinita e sfumata. Sentì che qualcuno lo guardava ed ebbe quasi paura a voltarsi, ma si costrinse.

Paul Sebire era a pochi metri da lui apparentemente in conversazione con Victor Platnauer, ma in realtà fissava Childes. Il finanziere si scusò bruscamente e si diresse verso di lui. «Non intendo fare scenate qui, Childes, ma credo che sia giunta l’ora che io e lei facciamo una chiacchierata seria.»

Per un attimo Childes dimenticò il suo interesse contingente. «Sono pronto a parlare di Amy quando vuole» rispose con una calma che lo sorprese.

«È di lei che voglio parlare, non di mia figlia.»

Si affrontarono tra la folla, che passava loro accanto evitandoli come fossero stati due massi in un fiume.

«Ho scoperto certe cose di lei che non mi sono piaciute» continuò Sebire.

«Avevo immaginato che fosse stato lei a dare il via alle indagini sul mio conto. Deve essere rimasto sorpreso di scoprire che Amy sapeva già tutto.»

«Che lei l’avesse informata o meno non mi riguarda. Quello che mi interessa è che la polizia ha indagato sul suo conto.»

«Bene, allora sa di che cosa si trattava e non devo spiegarglielo io.»

«Sì, sì. L’hanno rilasciata perché non vi era nessun indizio contro di lei. Ma rimane il fatto che lei non mi sembra affatto una persona equilibrata, lo ha dimostrato quella sera a cena.»

«Guardi, non ho intenzione di discutere con lei adesso. Pensi come le pare, l’unico fatto importante è che io amo sua figlia e ormai dovrebbe aver capito che Amy ricambia il mio amore.»

«È accecata per ora, anche se non ne vedo il motivo. Si rende conto che non ho più visto mia figlia da quando è venuta a stare con lei?»

«Questo è un problema vostro, non sono certo io a costringerla a non vedere suo padre.»

«Non è fatta per uno come lei!» Aveva alzato la voce e alcune persone nei pressi si erano voltate a guardare.

«Questo sta ad Amy deciderlo.»

«No, non può decidere lei, io…»

«Ma non sia ridicolo!»

«Come si permette…!»

In quel momento un altro uomo si insinuò tra i due. «Paul, credo che dovremmo avviarci,» disse Victor Platnauer in tono suadente, «stanno per iniziare i saggi ed io devo tenere il solito discorsetto.» Ridacchiò. «Cercherò di non farlo troppo lungo viste le tue lamentele dell’anno scorso. Ci scusi, Childes. Dunque c’era quella questione del…». Condusse docilmente il finanziere lungo il vialetto continuando a parlargli pacatamente, evidentemente ansioso di evitare scenate che potessero disturbare l’andamento della giornata.

Childes li guardò mentre si allontanavano, si rammaricava di aver avuto uno scontro tanto aspro con Sebire ed era insoddisfatto. Non si era risolto niente. Non aveva inteso innamorarsi così tanto di Amy, ma chi non era vulnerabile in amore? Comunque ormai era successo e aveva intenzione di non lasciarla più. Certo che litigare in pubblico con il padre non serviva a molto. E nemmeno andare a letto con Fran. Rimosse quest’ultimo pensiero ma il senso di colpa rimase.

Non c’era più tanta gente attorno a lui, la maggior parte si era affollata sul campo dietro alla scuola. Childes fece un lungo giro controllando le zone meno frequentate dei giardini, scrutò attento i cespugli e i boschetti, guardò nei portoni e nelle rientranze delle palazzine.

In alto i gabbiani volavano pigramente, tuffandosi all’improvviso verso il basso sotto la linea della scogliera. Udì il rumore della risacca in lontananza infrangersi sotto sulle rocce. Un grosso calabrone svolazzava appesantito, vittima forse del gran caldo anch’esso. Il sole batteva forte provocando una leggera caligine all’orizzonte.

Childes continuò a camminare seguendo il calabrone. Un leggero fruscio da qualche parte vicino a lui lo turbò fin quando non si rese conto con un certo sollievo che i cespugli erano tanto bassi da non poter nascondere altro che un uccello o qualche animaletto.

Quando girò l’angolo fu colpito dal clamore delle voci, la vista formicolante del prato in netto contrasto con la quiete che si era lasciato dietro. C’erano lunghe file di panche e di sedie allineate davanti all’edificio con in mezzo uno spiazzo abbastanza grande da consentire lo svolgimento dello spettacolo e la successiva premiazione e i discorsi. Ospiti e alunne riempivano le sedie con i loro vestiti a colori vivaci sullo sfondo verde del prato. Un aereo giallo del servizio delle isole sorvolò l’adunata e quindi sparì dietro le chiome di un folto di alberi che si stagliava sulla cima della scogliera.

Childes s’incamminò lungo il vialetto di ghiaia ma quando vide che tutti i posti riservati agli insegnanti erano stati occupati proseguì verso le ultime file. Appena vide un posto libero si sedette ed attese che iniziassero i saggi.

Sulla terrazza la signorina Piprelly era seduta, con altri membri del consiglio della scuola, dell’associazione dei genitori, e alcuni insegnanti scelti, davanti a un lungo tavolo pieno di trofei, certificati, premi delle lotterie e di un microfono dall’aspetto piuttosto antiquato. Per accedere al terrazzo si doveva percorrere una breve scalinata in pietra. Alle spalle della stessa si ergeva l’antico edificio di pietra grigia, e subito dietro svettava la torre bianca dell’edificio costruito più di recente, dov’erano alloggiati i dormitori, il refettorio e la palestra.

La folla prese posto, quando la preside si alzò per prendere la parola, e Childes, che sentiva la calda carezza del sole sulle spalle, cominciò a pensare che forse aveva avuto torto a preoccuparsi.

* * *

Jeanette era distesa sul letto, appoggiata a una pila di cuscini con le ginocchia alzate e l’orlo del vestitino azzurro tirato a coprire le gambe. I piedi calzati di bianco erano infilati sotto la coperta. Teneva seduto sulla pancia un Pierrot bianco e nero non proprio immacolato; la schiena del pupazzo era appoggiata alle sue gambe, il cappellino nero inamidato ne incorniciava il volto melanconico che aveva visto tempi migliori. La ragazza giocherellava oziosamente con i bottoni di stoffa del suo panciotto.

Jeanette avrebbe dovuto essere insieme alle compagne di classe, ma era riuscita a svignarsela perché aveva solo voglia di star sola. Tutte avevano lì parenti e genitori, fratelli e sorelle, mentre lei non aveva nessuno, stare con loro voleva dire solo farle sentire maggiormente la mancanza dei genitori. Eppoi non era stata scelta né per il balletto né tantomeno per il saggio ginnico dove sapeva bene di non avere alcuna possibilità. Sapeva anche che non c’erano premi o certificati di merito ad aspettarla sul tavolone. Non ce n’erano mai! Una volta aveva vinto un premio di ricamo ma non le aveva certo cambiato la vita. Forse era un bene che i genitori non avessero affrontato il lungo viaggio dal Sudafrica soltanto per stare seduti a guardare le altre ragazze ricevere premi vari. Suo padre faceva l’ingegnere di qualche tipo, anche se non aveva mai capito bene esattamente di cosa. Utilizzava l’isola come base di partenza per i suoi viaggi, e la madre l’accompagnava spesso. Stavolta stavano via diciotto mesi. Diciotto mesi! Ma poi avrebbe passato due interi mesi con loro, tutta l’estate. Loro le mancavano terribilmente ma non era così sicura di mancare altrettanto a loro. Loro dicevano di sì, ma questo era normale no? “Ma certo che ti vogliamo bene cara, ma non è il caso che tu venga in giro per il mondo interrompendo di continuo il tuo corso di studi. Certo che ti vorremmo con noi, ma bisogna dare la precedenza all’educazione”. Jeanette lasciò cadere il Pierrot che le scivolò di dosso finendo in terra. La sua aria triste l’aveva ormai contagiata.

Chiuse gli occhi, il viso rivolto verso il soffitto, l’unica treccia (era convinta così di assomigliare alla signorina Sebire) stesa attraverso il cuscino. Se qualcuno la beccava nel dormitorio erano guai; per fortuna gli insegnanti erano tutti troppo indaffarati con i genitori per avere il tempo di venire a controllare i piani superiori, altrimenti non avrebbe corso il rischio. Le piaceva ogni tanto rimanere da sola, l’unico guaio era che dopo un po’ si sentiva sola.

Janette sospirò e si immaginò Kelly che marciava sicura a ritirare i propri trofei; migliore oratrice nei dibattiti, voto più alto in matematica e fisica, premio per i migliori progressi nel campo dei computer, ecc, ecc, ecc. Quanto le sarebbe piaciuto essere come lei! Ed era anche tanto bella. Non bisogna essere invidiose, si disse Jeanette, ma qualche volta, qualche volta avrebbe voluto essere come la sua compagna. Non lo sarebbe mai stata però, questo era un dato di fatto, ma tutti avevano per lo meno un pregio, qualcosa che li rendeva uguali agli altri; per quanto la riguardava era solo un po’ difficile scovarlo. Ma un giorno si sarebbe rivelata al mondo, forse tra non molto, forse quando le sarebbero cominciati i cicli sarebbero scomparsi quegli orrendi brufoli, e magari le sarebbe cresciuto anche il seno. E forse avrebbe sognato un po’ meno e forse sarebbe anche diventata più alta e…

… le sculture mobili si stavano muovendo.

Ma certo, le finestre erano spalancate per lasciar passare un po’ d’aria, una brezzolina muoveva le figure di carta. Jeanette si arrabbiò con se stessa. Le altre la canzonavano spesso perché dicevano che aveva paura della sua stessa ombra, e qualche volta era vero. Non le piacevano gli angoli bui, i film paurosi, odiava tutto ciò che strisciava, i cigolii della vecchia palazzina, lo sbattere delle imposte che la tenevano sveglia mentre attorno a lei tutte dormivano tranquillamente. E le ombre soprattutto, anche sotto ai letti.

Jeanette si drizzò sul letto ma non posò subito le gambe a terra; prima si chinò a controllare sotto il letto.

Soddisfatta del fatto che non vi fossero bestie strane che la potessero trascinare nel loro antro oscuro Jeanette posò i piedi per terra. Rimase ancora seduta sul letto ascoltando attentamente, senza sapere bene che cosa stesse ascoltando. Forse era il rumore del parquet nelle stanze vicine, oppure quel misterioso grattare che poteva sì essere un topolino, ma forse no, poteva essere una cosa immonda che vagava per i corridoi trascinando il proprio corpo viscido, oppure una figura gigantesca ammantata di nero in agguato dietro alla porta, che attendeva con le unghie protese, aguzze…

Smettila! Di nuovo si stava mettendo paura da sola. C’erano delle volte in cui Jeanette odiava quella sua sciocca fantasia che le faceva vedere fantasmi di sua pura invenzione. Era pieno giorno, la scuola era piena di gente, e lei si stava tormentando apposta con queste lugubri fantasie. Jeanette allungò i piedi infilandoli dentro le scarpe, aveva deciso che era ora di raggiungere gli altri.

Aveva calzato una scarpa tenendola ferma con l’altro piede quando udì dei passi avvicinarsi. Guardò con curiosità i peli del braccio drizzarsi, la sensazione di paura le prese anche la schiena facendola rabbrividire.

Si tese tutta. Ascoltò. Guardò la porta spalancata del dormitorio.

I passi erano lenti, pesanti. Si avvicinavano. Il suono la ipnotizzava.

Sentiva il cuore che le batteva forte, molto forte.

I passi si fermarono, e per un attimo ebbe l’impressione che le si fosse fermato anche il cuore.

Ma sentiva davvero qualcuno respirare dietro la porta?

Si alzò lentamente, sfilandosi la scarpa. Rimase immobile accanto al letto, quasi senza respirare, il Pierrot la fissava con il pianto congelato sul viso.

Non avrebbe voluto avvicinarsi alla porta, ma forse per vincere la paura si diresse piano piano verso l’uscita. I piedi con le sole calze erano silenziosi sul legno lucido mentre avanzava con circospczione. Aveva le mani chiuse a pugno.

Ebbe ancora un’esitazione prima di varcare la soglia. Non era mai stata tanto spaventata in vita sua.

Dietro alla porta qualcosa aspettava.

I saggi di ginnastica e di ballo erano terminati, la signorina Piprelly aveva fatto il suo discorso breve e succinto prima di presentare il consigliere Platnauer. Il discorso di questi fu più pacato e aveva per lo meno un accenno di umorismo. Nonostante ciò Childes ebbe difficoltà a concentrarsi su quel che veniva detto perché stava osservando senza sosta la folla riunita davanti a sé, cercando il pur minimo segnale che qualcuno non fosse quello che sembrava.

Non solo non aveva veduto niente di sospetto, ma non sentiva niente di strano. Era tutto a posto, spettatori attenti, tempo splendido, anche se forse un po’ troppo caldo. Ottimi i saggi delle alunne, e i discorsi erano stati meno noiosi del solito.

Era appena iniziata la distribuzione dei premi quando un movimento attirò il suo sguardo. Sbatté gli occhi, non era sicuro che non fosse solo un gioco di luce, un riflesso in uno dei vetri della palazzina dall’altro lato del prato. Eppure c’era qualcosa che prima non aveva notato, qualcosa che aveva sentito più che visto. Gli occhi gli caddero in un punto su in alto dell’edificio davanti a lui.

C’era un viso, affacciato a una delle finestre dell’ultimo piano.

Troppo lontano per poter vedere bene, ma per istinto sapeva a chi apparteneva quel volto.

Il sangue gli si gelò nelle vene.

Childes era stordito, non riusciva a muoversi, incollato alla sedia da una paura di piombo. Aprì la bocca per parlare, gridare, ma sembrava che la sua gola fosse stretta in una morsa d’acciaio, gelida, che gli bloccava la laringe.

Il volto era immobile, pareva che avesse gli occhi fissi su di lui.

Poi la macchia bianca scomparve.

Childes si alzò barcollando, le gambe sembravano pesargli troppo per riuscire a muoverle, riuscì comunque a scavalcare la panca. Si guardò attorno cercando Overoy, la semiparalisi dovuta allo shock stava passando, ma non riuscì comunque a vederlo. Non poteva aspettare. Qualcosa di grave accadeva dentro la scuola, qualcosa di terribile che lo faceva rabbrividire di terrore.

Costeggiò le file di sedie e si affrettò lungo il vialetto inghiaiato verso l’edificio. Dietro di lui scrosciarono applausi mentre una delle ragazze saliva le scale per andare a ritirare il suo premio. In pochi notarono la sua figura frettolosa, tra questi Overoy che si era fermato sotto un albero ai margini del prato da dove aveva goduto di una posizione dominante. Sfortunatamente era dall’altro lato del pubblico, a una certa distanza dal sentiero che stava seguendo Childes; il poliziotto decise di aggirare l’ostacolo per poi raggiungere Childes sul retro dell’edificio. Overoy si infilò velocemente la giacca e s’incamminò verso l’ingresso principale della scuola.

Childes imboccò la prima porta che trovò, e rabbrividì involontariamente, all’interno l’aria era più fresca. Salì una breve rampa di scale e si trovò nell’atrio che occupava la parte anteriore dell’edificio. Il volto si era affacciato a una finestra del terzo piano dove si trovavano i dormitori delle ragazze più grandi. Si avviò verso la scalinata principale, i suoi passi risuonavano sul legno lucido del parquet.

Passò davanti alla biblioteca, alla saletta docenti e alla sala d’attesa per i genitori prima di raggiungere l’ampia scalinata. Allungò il collo come se si fosse aspettato di vedere qualcuno affacciarsi su in alto. Le scale erano deserte.

Overoy imprecò, sottovoce. Aveva dimenticato che il collegio non aveva una pianta regolare, nel tempo vi erano state varie aggiunte e modifiche ed egli si trovò separato da Childes dalla bianca struttura della torre che si univa ad angolo retto all’edificio principale. Poteva scegliere di girarci intorno oppure di entrare. Vide una porta e l’aprì.

Primo piano. Childes scrutò i corridoi a destra e a sinistra. Niente. Dall’alto si udì un rumore.

Si sporse oltre il corrimano. Rumori secchi, qualcosa veniva trascinato. Guardò in alto.

«No!» urlò. «Non farlo!»

Salì le scale a tre alla volta aiutandosi con il corrimano, il viso di un pallore mortale, non solo per lo sforzo della corsa.

Secondo piano. Non si udivano più rumori di sopra. Proseguì la rincorsa e avvertì uno scalpiccio.

Continuò a salire: un rumore come di un respiro strangolato.

Terzo piano, quasi. Un’ombra — che si muoveva in modo goffo e impacciato — sembrò scivolare nell’ombra dietro un angolo. Gli parve di udire dei passi ma tutta la sua attenzione era rivolta a quel piccolo corpo che penzolava e si dibatteva nella tromba delle scale.

Quando roteò verso di lui poté vederne il viso che già diventava paonazzo. Aveva gli occhi fuori delle orbite e cercava disperatamente di sciogliere il cappio che aveva attorno al collo. Le gambe scalciavano furiosamente.

«Jeanette!» gridò Childes.

Era quasi in cima quando inciampò cadendo sul pianerottolo, ma si rimise subito in movimento fingendo di non sentire il dolore lancinante al ginocchio sbattuto malamente in terra. Non tentò nemmeno di alzarsi ma proseguì carponi verso la balaustra sporgendosi in basso verso quel corpo che si contorceva. Trovò le sue braccia e le strinse forte cercando di sostenerla.

Gli sembrò di percepire un movimento dietro di sé ma era tutto concentrato nel tentativo di sollevare la ragazza impiccata. Fece forza ma era in una posizione scomoda. Poteva solo rimanere lì, supino e ansimante, proteso all’infuori con le mani serrate attorno ai polsi della ragazzina.

La sentiva scivolare.

«Non ti dimenare, Jeanette. Cerca di stare ferma… dai… lascia fare a me!»

Ma non poteva resistere, ormai il suo respiro era ridotto ad un sibilo strozzato. Con le dita cercava di sciogliere il nodo attorno alla sua gola graffiandosi a sangue nella frenesia disperata.

Childes sentì che la ragazza gli stava sfuggendo.

Passi di corsa lungo le scale. Overoy che fi fissava con gli occhi sbarrati, correndo con tutta la forza che possedeva.

Childes serrò ancor più le dita, distendendo le gambe lungo il pavimento per fare da contrappeso e appoggiò il viso alla ringhiera di ferro. Si sforzò di tenere duro, sentendosi via via indebolire, e con la coda dell’occhio scorse un oggetto vicino sul pavimento.

Era piccolo. Era tondo. Era una pietra di luna.

* * *

Il traffico nella zona del porto era intenso e Childes guidava con molta cautela, ancora con i nervi a fior di pelle e le mani che tremavano. Accanto a lui Amy era pensosa, evidentemente scossa dagli avvenimenti, eppure stranamente riservata.

Si fermò al semaforo di un incrocio vicino ai moli. Dei turisti passeggiavano nel tepore della sera; in basso, nel porticciolo, gli equipaggi degli yacht sorseggiavano vino discutendo oziosamente sulla mancanza di vento. Altri turisti di ritorno da qualche altra isoletta sbarcavano dall’aliscafo attraccato in fondo alla lunga banchina centrale. Le gru di colore verde chiaro utilizzate per merci varie erano piegate ad angoli strani, dando l’impressione di essere in segreta conversazione.

Diede un’occhiata ad Amy. «Stai bene?»

«Sono spaventata Jon.» Lo guardò brevemente, poi si voltò di nuovo.

«Anch’io lo sono. Adesso la polizia dovrà aumentare la sorveglianza.»

«Povera piccola Jeanette.»

«Ce la farà! Aveva la gola contusa e una compressione della laringe e della trachea. Quel pazzo ha usato una cravatta, ma ce la farà.»

«Sto pensando al trauma che ha subito. Riuscirà mai a dimenticare quello che è successo?»

Il semaforo scattò e Childes premette l’acceleratore svoltando a destra per costeggiare il porto.

«E giovane, Amy, e il tempo riesce ad attenuare anche i traumi più brutti.»

«Mi auguro che sia così.»

«C’è da ringraziare il cielo che Overoy sia arrivato in tempo, non avrei resistito molto.»

«Non ha visto nessun altro, Overoy?»

«No, ma del resto ha dovuto pensare prima a Jeanette e a me. La polizia crede che abbia usato le scale antincendio per la fuga, da lì è abbastanza facile scomparire nel bosco e allontanarsi dalla zona della scuola. Il La Roche non è quel che si dice una fortezza.»

Dopo aver costeggiato il porto la strada saliva in ripidi tornanti e furono ben presto fuori dai sobborghi della cittadina.

«Avrei voluto che il tuo ispettore riuscisse per lo meno a vederlo» disse Amy in tono brusco.

Childes le lanciò un’occhiata sorpresa.

«Non hai visto come ti guardavano i poliziotti mentre ti interrogavano?» aggiunse lei.

«Sì, con sospetto. Ma ormai mi ci sono abituato. Nessuno è riuscito a vederlo, quel pazzo. Neanche Jeanette. Da quello che siamo riusciti a capire, e ricordati che è ancora sotto shock, e che le ferite alla gola le impediscono di parlare bene, lei è uscita dal dormitorio e qualcuno l’ha aggredita da dietro, stringendole il cappio attorno al collo prima che riuscisse a gridare. Lei si è divincolata con tutte le sue forze ma è stata trascinata lungo il corridoio, gettata nella tromba delle scale e poi legata appesa alla ringhiera. Ti rendi conto della forza che ci vuole per fare una cosa del genere? Jeanette sarà anche piccolina per gli anni che ha, ma ci vuole comunque una forza incredibile per riuscirci. Se ci avesse trovato chiunque altro, a parte Overoy, sarebbe stato difficile convincerli che non ero stato io a impiccarla. Ma anche così sarebbe difficile credere che con il mio fisico riuscirei a fare una cosa del genere.»

Svoltò nella viuzza di campagna che conduceva al suo cottage; ai lati le alti siepi e i muretti li nascondevano alla vista.

«Ma perché è venuto qui?» Amy si era girata verso di lui con una espressione corrucciata. «E perché se la prende con i bambini?»

«Per tormentarmi» rispose lui tetro. «Sta giocando, sa che prima o poi lo beccheranno, soprattutto adesso che è intrappolato sull’isola, ma non gliene importa niente. Fin quando non sarà preso si può divertire alle mie spalle.»

«Ma dov’è il collegamento, perché proprio te?» La sua voce aveva un tono disperato.

«Che Dio mi aiuti Amy, non lo so proprio. Le nostre menti si sono incrociate e questo è stato sufficiente. Forse rappresento una sfida, qualcuno per cui esibirsi oltre che da prendere in giro.»

«Tu hai bisogno di protezione, devono sorvegliarti.»

«Può darsi che Overoy riesca a convincerli ma dubito che possa ottenere molto di più di un controllo sporadico da parte di qualche pattuglia. Credo che la polizia dell’isola sarà più che altro impegnata a sorvegliare il La Roche fino alla fine del trimestre.»

Gli alberi s’incurvavano sopra la strada formando un arco al loro passaggio e gettando ombre scure sulla macchina. Childes si massaggiò una tempia come per lenire un mal di testa.

«Sono sicura che Overoy insisterà perché tu sia adeguatamente protetto.» Le macchioline di luce infrante dal tetto di foglie disegnavano come lentiggini luminose sul viso di Amy mentre correvano lungo la via.

«Farà del suo meglio, ma all’ospedale Robillard mi ha detto che i suoi uomini sono già oberati di lavoro a causa della stagione turistica, sai anche tu come aumentano di numero i crimini durante l’estate.»

Lei rimase di nuovo silenziosa.

Childes accostò di lato per permettere a un’altra macchina di passare nella direzione contraria. L’autista fece loro un cenno di saluto; quindi riprese il viaggio.

Amy ruppe il silenzio. «Ho parlato con Overoy stamattina, prima degli interrogatori. Si chiedeva se per caso Gabby non fosse come te Jon, una sensitiva.»

«Me lo sono chiesto anch’io. Certo Gabby potrebbe essersi sognata la sua amica, era rimasta così sconvolta. Però con noi ha molto insistito sul fatto di averla proprio vista.»

«Con te e con Fran?»

«Sì.»

«Dove eravate quando Gabby ha gridato, Jon?» Aveva la voce ferma, gli occhi fissavano la strada, ma Childes sentì che nella domanda si celava una nota polemica. «Non ne avevamo accennato prima, ma tu e Fran siete arrivati insieme nella stanza di Gabby, da quanto ho capito.»

«Amy…»

«Voglio saperlo Jon.»

Lui sterzò bruscamente per evitare un ramo sporgente da un cespuglio. «Ho dormito da solo nella stanzetta degli ospiti quella notte.» Sarebbe stato molto più facile mentire, ma non con Amy, non doveva. «Fran era spaventata, ed è venuta da me.»

«Quindi avete dormito insieme?»

«È successo per caso Amy. Senza volerlo, io non volevo. Credimi, è stato solo un caso.»

«Solo perché lei era sconvolta?»

«Fran aveva bisogno di affetto. Ne aveva passate tante quel giorno.»

Diede un’occhiata ad Amy. Piangeva. Childes le prese una mano. «Non significa niente Amy, solo un po’ di conforto, niente di più.»

«Non crederai mica che adesso sia tutto a posto, no?»

«No, ho sbagliato, lo so, e me ne dispiace. Solo non voglio che tu pensi che sia stata una cosa intenzionale…»

«Io non so più cosa pensare. Certo che capisco… siete stati sposati tanti anni. Ma questo non rende meno acuta la ferita.» Liberò la mano dalla sua. «Io credevo che tu amassi me, Jon.»

«Lo sai che è così.» Dentro la testa sentiva crescere una tensione che non aveva nulla a che fare con la discussione con Amy. «Io… io non potevo mandarla via quella sera.»

«Quasi come fare un piacere a un vecchio amico, eh?»

«Sì, proprio così, in un certo senso.»

«Mi auguro che Fran non se ne sia resa conto.»

La strada scendeva diventando più buia. «Non lasciare che questo incrini quello che c’è tra noi Amy.»

«Potrà essere tutto come prima?»

Una sensazione, un formicolio alla nuca, simile a quello che aveva avvertito prima nel parco della scuola, quando aveva visto quel viso alla finestra.

«Non… non è… una cosa importante…» balbettò, le dita sul volante cominciavano ad irrigidirsi. Sentì che le scapole gli si bloccavano.

«Non lo so Jon. Se solo tu me lo avessi detto prima…»

«Ma come facevo, cosa potevo dirti?» Una mano pesante e fredda gli si posò su una spalla uscendo dal buio del sedile posteriore. Ma non c’era niente dietro di lui.

«Amy…»

Vide quegli occhi guardarlo dallo specchietto retrovisore. Occhi malvagi, crudeli. E con un’espressione soddisfatta.

Amy lo guardò sentendone la tensione, vide l’orrore che lo invadeva. «Jon, cosa c’è…»

Childes vide gli occhi avvicinarsi, mentre la cosa, quell’orrenda cosa ghignante, allungava la mano con le dita forti, omicide, le unghie protese verso il suo collo, a lacerargli le carni.

L’auto sbandò di lato, strisciando contro una siepe. «Jon!!!» urlò Amy.

Gli occhi avidi. Dita d’acciaio gli strinsero la gola. Sentì un respiro fetido sulla guancia. Cercò di afferrare quella mano ma toccò solo il proprio collo.

La macchina sbandò ancora, colpendo un muretto basso. Un getto di scintille si levò dal cofano quando la Mini strusciò lungo i sassi. Rami e cespugli frustavano la carrozzeria.

Amy agguantò lo sterzo cercando di girarlo verso sinistra ma le mani di Childes erano arpionate al volante, rigide, il metallo lacerato stridette ancora.

Riusciva a malapena a respirare tanto gli stringeva la gola. Il piede destro era premuto a fondo sull’acceleratore nel tentativo di sfuggire al mostro ghignante sul sedile posteriore. Ma come poteva sfuggirgli se era lì in macchina con lui?

La strada faceva una curva. Lui girò un poco il volante ma non abbastanza per imboccarla. Inchiodò, spingendo il piede sul freno; ma era ormai troppo tardi. La macchina sbandò ancora, il muro sembrava balzarle incontro.

Dopo aver sbattuto in un angolo, l’auto si arrestò con un botto assordante. Childes si resse al volante e attuti il colpo tenendo le braccia leggermente piegate.

Ma Amy non aveva niente a cui reggersi.

Venne scagliata in avanti, il parabrezza le esplose intorno, urlava mentre volava oltre il muso della Mini. Cadde dolorante e insanguinata al di là del muretto.

* * *

Childes si piegò in avanti e si prese la testa tra le mani; il sordo pulsare gli provocava nausea. Sentiva anche un dolore nel petto, sapeva che aveva sbattuto contro lo sterzo della macchina. Ma lui era stato fortunato. Amy no.

Una porta in fondo al lungo corridoio si aprì e ne uscì un uomo in camice bianco. Il medico scorse Childes adagiato su un divanetto e allungò il passo verso di lui fermandosi a parlare con un’infermiera. L’infermiera proseguì entrando nella stanza da dove il medico era uscito. Childes fece per alzarsi.

«Non si muova Childes.» Il dottor Poulain si avvicinò e aggiunse: «Mi siedo volentieri anch’io, proprio una bella giornatina, non c’è che dire.» Si sedette con un sospiro di sollievo. «Anche per lei la si direbbe una giornata intensa.» Osservò Childes con occhio professionale. «È ora che dia un’occhiata anche a lei.»

«Mi dica come sta dottore.»

Poulain si passò una mano tra i capelli precocemente ingrigiti e sorrise all’uomo che gli sedeva davanti. «La signorina Sebire ha subito escoriazioni profonde al viso, al collo e alle braccia, un paio purtroppo lasceranno qualche piccola cicatrice. Ho dovuto toglierle dei frammenti di cristallo da un occhio, niente di cui preoccuparsi, erano rimasti in superficie, non è stata danneggiata né l’iride né la pupilla, quindi non dovrebbero esserci conseguenze. Danni solo superficiali, insomma.»

«Dio mio…»

«Sì, Dio deve averci messo lo zampino. Vorrei tanto che il governo dell’isola applicasse la norma ormai vigente in Inghilterra, di rendere obbligatorie le cinture di sicurezza, ma tanto continueranno a discuterne per anni.» Fece schioccare la lingua in segno di disapprovazione. «Comunque la signorina ha anche un polso fratturato e parecchie contusioni al torace e alle gambe. Nonostante tutto direi che è un ragazza molto fortunata.»

Childes tirò un sospiro di sollievo prendendosi nuovamente la testa tra le mani. «Posso vederla?» chiese, guardando di nuovo il medico.

«Mi dispiace, ma deve riposare, le ho fatto somministrare un sedativo, ormai sarà addormentata. Ha chiesto di lei prima, le ho detto che stava bene. Mi è sembrata molto contenta di saperlo.»

All’improvviso Childes si sentì totalmente esausto, le mani gli presero a tremare in modo irrefrenabile.

«Vorrei vederla in ambulatorio» suggerì Poulain. «Ha un brutto ematoma sulla guancia e anche il labbro mi sembra molto gonfio.»

Childes si toccò il viso e fece una smorfia quando trovò il gonfiore. «Devo aver girato la testa quando ho colpito il volante» disse premendosi leggermente il labbro gonfio.

«Faccia un respiro profondo e mi dica se fa male.»

Childes obbedì. «Un po’ indolenzito, ma nient’altro.»

«Mmm. Niente dolore, sicuro?»

«No, no.»

«Comunque è meglio controllare.»

«Sto bene, un po’ scosso, tutto qui.»

Il medico rise. «Un po’! I suoi nervi sono a pezzi, altro che scosso. Quando oggi pomeriggio è arrivato qui con quella ragazzina… Jeanette? Sì, Jeanette. Avevo suggerito che prendesse un sedativo leggero, ma lei si è rifiutato. Bene, adesso le consiglio qualche cosa di più forte, qualcosa da prendere quando arriva a casa, che la faccia dormire a lungo.»

«Credo che dormirò bene comunque.»

«Io non ne sarei tanto sicuro.»

«Quanto deve rimanere qui Amy?»

«Dipende molto da che aspetto avrà il suo occhio domani mattina. Ci vorranno un paio di giorni sotto osservazione, anche se non ci sono problemi.»

«Ma lei aveva detto…»

«Glielo confermo. Sono quasi certo che non ci saranno problemi per l’occhio, ma dobbiamo comunque essere cauti. A proposito, non ho ancora capito com’è avvenuto l’incidente.» Notò con sorpresa la paura alterare i lineamenti del viso dell’altro.

«Non glielo so dire dottore» disse lentamente Childes evitando lo sguardo del medico. «È successo tutto così rapidamente. Devo essermi distratto proprio mentre imboccavo quella curva.» Cosa poteva dire a Poulain di credibile? Che aveva visto degli occhi riflessi nello specchietto retrovisore, occhi osceni e malvagi che lo guardavano? Che nel sedile posteriore aveva visto qualcuno che non c’era affatto?

«Distratto da che cosa?»

Childes guardò il medico senza capire. «Da che cosa è stato distratto?» insisté Poulain.

«Non… non lo ricordo. Forse ha ragione lei, avevo i nervi scossi.»

«Adesso ha i nervi a pezzi non prima, prima era solo un po’ scosso. Mi scusi l’insistenza, Childes, ma conosco la famiglia Sebire da molti anni, e conosco Amy da quand’era una bimba, è qualcosa di più di un semplice interesse professionale. Stavate per caso litigando?»

Childes non riuscì a rispondergli subito. Il dottor Poulain continuò. «Vede, credo che lei dovrà probabilmente spiegare alla polizia quelle chiazze che ha sulla gola, che hanno tutta l’aria di essere delle contusioni e sembrerebbero indicare un tentativo di strangolamento; sono evidenti i segni della compressione.»

Per un attimo Childes fu colto da un panico selvaggio e terribile. Come poteva esserci un potere del genere? Non era possibile! Egli aveva sentito la mano, sentito stringersi le dita intorno al collo, ma in macchina c’era solamente Amy. Scacciò il panico. Nessuno, niente poteva lasciare dei segni semplicemente con il potere della propria mente. A meno che la vittima non fosse stata complice infliggendosi le ferite da sé.

Ma non ebbe il tempo di continuare nelle sue elucubrazioni, né il medico poté fare altre domande. Le porte dell’ascensore si aprirono per lasciar passare Paul Sebire e la moglie. Childes aveva chiamato casa Sebire al telefono appena giunto in ospedale. Aveva parlato con Vivienne Sebire, le aveva detto dell’incidente. La preoccupazione di Paul Sebire diventò immediatamente rabbia quando scorse Childes che si era alzato dal divano assieme al dottore.

«Dov’è mia figlia?», chiese il finanziere a Poulain, facendo finta di non vedere Childes.

«Sta riposando» rispose il medico, poi proseguì informandoli delle condizioni della figlia.

Sebire aveva il volto teso quando Poulain ebbe finito di parlare. «Vogliamo vederla.»

«Non è il caso adesso, Paul» disse il medico. «Starà dormendo, inoltre non vi aiuterebbe affatto, in questo tipo di incidente le lesioni sembrano spesso molto più gravi di quel che sono. Ho appena consigliato al signor Childes di evitare di darle disturbo.»

Sebire trasudava odio allo stato puro quando si girò a guardare il giovane. Vivienne prese velocemente il braccio di Childes. «Tu come stai Jonathan? Non mi hai detto molto per telefono.»

«Sto bene, è Amy che mi preoccupa.»

«Tutto questo non sarebbe mai accaduto se non avesse perso la testa per lei» ringhiò Sebire. «Io l’avevo avvertita che avrebbe avuto solo guai da questa storia.»

La moglie intervenne di nuovo. «Adesso basta Paul, Jonathan ha già avuto abbastanza guai oggi. Poi il dottore ci ha detto che non avrà alcuna lesione permanente…»

«Nessuna lesione! Avrebbe potuto rimanere deturpata per il resto della vita, nessuna lesione davvero…»

Poulain lo interruppe. «Non vi saranno segni, niente comunque che non possa essere sistemato con un po’ di chinirgia plastica.»

Childes si massaggiò la schiena, aveva qualche difficoltà a causa del dolore al petto. «Signor Sebire, vorrei dirle quanto mi dispiace…»

«Le dispiace! E crede veramente che questo possa bastare?»

«È stato un incidente, poteva capitare a…». A chiunque? Non riuscì a finire la frase.

«Stia lontano da mia figlia, ha capito? Prima di farle ancora del male!»

«Paul» Vivienne lo prese per un braccio cercando di impedirgli di avanzare su Childes.

«Ti prego Paul,» aggiunse Poulain, «ci sono altri pazienti in questo piano.»

«Quest’uomo non è quello che sembra» disse Sebire indicandolo con la mano protesa. «Io me n’ero accorto subito. Guardate quello che è successo oggi alla scuola.»

«Come puoi dire così?» protestò la moglie. «Lui ha salvato quella bambina!»

«Ma davvero? E chi ha visto cos’è successo veramente? Forse è il contrario, era lui che la voleva ammazzare!»

«Sebire, lei sta dicendo scemenze come al solito» replicò Childes sottovoce.

«Ah sì? Lei è sospettato Childes, non solo da me, ma anche dalla polizia. Non credo che tornerà a far danni al La Roche, o in qualsiasi altra scuola, a far del male a dei poveri bambini innocenti.»

Childes avrebbe voluto picchiare il finanziere, sfogare la frustrazione su qualcuno, su chiunque, e Sebire sarebbe stato l’ideale, per poter restituire il colpo in qualche modo. Ma non aveva più energie. Si voltò e fece per allontanarsi.

Sebire gli afferrò un braccio e lo costrinse a voltarsi. «Mi ha sentito Childes? Lei ha chiuso qui sull’isola, le consiglio di sparire finché è in tempo.»

Childes liberò stancamente il braccio. «Ma vada all’inferno!» gli disse.

Il pugno di Sebire lo colpì alla guancia dove aveva già l’ematoma. Barcollò, colto di sorpresa, un ginocchio gli si piegò a terra. Attorno a lui sentì una confusione di voci, di grida, prima di riprendersi. Ma rimettersi in piedi fu un’impresa stranamente difficile. Qualcuno lo aiutò mettendogli una mano sotto l’ascella. In piedi si sentiva stordito ma la persona al suo fianco lo sorreggeva ancora. Si rese conto che era Overoy e che l’ispettore Robillard tratteneva Sebire impedendogli di aggredirlo ancora.

«Avevi un gran brutto oroscopo stamattina» gli sussurrò Overoy all’orecchio.

Childes riusciva a reggersi in piedi da solo ormai, sebbene non resistesse all’impulso di accasciarsi sul divano vicino. Le gambe sembravano di piombo come se il sangue non vi fluisse più. Vivienne Sebire era accanto al marito, pallida, negli occhi uno sguardo di scuse. Sebire continuava a dimenarsi, ma i suoi sforzi si facevano sempre meno convinti, senza vigore, sembrava aver esaurito la rabbia in quell’unico pugno. E forse anche una traccia di vergogna si nascondeva dietro la sua rabbia.

«Dai Jon, andiamocene» disse Overoy chiamandolo per la prima volta con il suo nome di battesimo. «Usciamo di qui. Hai l’aria di uno che ha bisogno di un buon bicchiere di qualcosa di forte. Offro io.»

«Il signor Childes non è stato ancora visitato» disse ansioso il medico.

«A me sembra che stia benone» rispose il poliziotto tirando la manica di Childes. «Forse un po’ ammaccato ma sopravviverà. Caso mai glielo riporto più tardi.»

«Come crede» disse Poulain, poi si rivolse a Sebire tentando di sdrammatizzare la situazione. «Forse potreste dare un’occhiata a Amy, se promettete di non fare rumore e di non distrurbarla.»

Il finanziere sbatté gli occhi un paio di volte, il viso ancora rosso di rabbia, poi distolse lo sguardo da Childes e annuì con la testa. Robillard io lasciò andare.

«Andiamo!» disse Overoy a Childes. Lui esitò, aprì la bocca per dire qualcosa alla madre di Amy ma non riuscì a trovare le parole giuste. Si incamminò con il poliziotto al fianco.

Una volta nell’ascensore Overoy premette il pulsante e disse: «La guardia che sta con la ragazzina ci ha chiamati per dirci che lei era di nuovo qui in ospedale. Le deve piacere proprio questo posto.»

Childes si appoggiò alla parete con gli occhi chiusi.

«Ci hanno detto che è andato fuori strada.»

«Già» fu tutto quel che Childes riuscì a rispondere.

L’ascensore si fermò dolcemente, la porta scorrevole si aprì per lasciar entrare un inserviente che spingeva una sedia a rotelle. Una donna anziana si contemplava mestamente le mani deformate dall’artrite, e quasi non si accorse degli altri uomini tanto era presa dalla propria malattia. Nessuno parlò fin quando non si riaprì la porta del piano terreno. L’inserviente uscì con la sedia a rotelle ed il suo carico di tristezza, fischiettando allegramente. «Ho preso una macchina in affitto per il fine settimana, possiamo andarcene in un posto tranquillo a chiacchierare» gli disse Overoy, tenendo aperte le porte che già iniziavano a rinchiudersi. «Anche se la sua macchina andasse ancora non credo che lei sarebbe in grado di guidarla. Ehi, siamo arrivati, sa?»

Childes si scosse. «Cosa?»

«Siamo arrivati.»

«Mi scusi.»

«È sicuro di star bene?»

«Sì, sono solo stanco.»

«In che condizioni era la sua macchina?»

«Pessime.»

«Da buttare?»

«Oh, l’aggiusteranno prima o poi.»

«Allora prendiamo la mia.»

«Può portarmi a casa?»

«Certo. Bisogna che parliamo un poco però.»

«Parleremo, sì.»

Lasciarono l’ospedale e trovarono la macchina noleggiata da Overoy nel parcheggio riservato ai medici. Montarono e Childes si accasciò sul sedile con un sospiro di sollievo. Prima di mettere in moto Overoy disse: «Lei sa che devo partire domani sera,» Childes annuì con gli occhi chiusi, «quindi se ha ancora qualcosa da dirmi…»

«Mi ha costretto ad andare fuori strada.»

«Come sarebbe a dire?»

«L’ho visto che mi guardava, Overoy. Era sul sedile posteriore. Ma non c’era veramente!»

«Aspetti un attimo. Lei crede di aver visto qualcuno sul sedile posteriore e questo è il motivo per cui è andato fuori strada?»

«Era lì! Ha cercato di strozzarmi!»

«E la signorina Sebire può confermarlo? Lo ha visto anche lei?»

«Non lo so. No, non può averlo visto, era solo nel mio cervello. Ma io sentivo quelle mani strozzarmi, le sentivo!»

«Non è possibile!»

«Posso mostrarle i segni. Li ha visti anche il dottor Poulain». Si allentò il colletto e Overoy accese la lucetta interna. «Li vede?» chiese Childes.

«No Jon. Solo qualche graffio, niente ematomi.»

Childes girò lo specchietto e allungò il collo per guardarsi. Era vero, non aveva alcun segno sul collo.

«Mi porti a casa» disse esausto. «Facciamo questa chiacchierata!»

* * *

Era in piedi, nel buio dell’antica e solitaria torre. Era immobile, in silenzio, si godeva il vuoto. Il buio oblio.

Il suono delle onde che si infrangevano contro le scogliere più in basso entrava dalle aperture, echeggiando contro le pareti circolari, come tanti sospiri. La cosa nel buio si immaginò che fossero le voci sommesse di coloro che erano morti in mare, che si lamentavano in eterno dal loro limbo senza stelle. Il pensiero era divertente!

Un puzzo nauseante ristagnava tra le mura cadenti della torre, urina, feci e marciume, i rifiuti di coloro che non avevano interesse per i monumenti nè per la loro storia. Ma quegli odori non infastidivano la figura in agguato nel buio accogliente. Anzi, godeva di quel putridume.

Da qualche parte nella notte una bestiolina cadde vittima di un altro essere più veloce e più mortale.

Sorrise.

Le forze stavano crescendo. Quell’uomo era parte di questa costruzione. Ma non lo sapeva.

Ancora no. Ma ben presto lo avrebbe saputo.

E per lui sarebbe stato troppo tardi!

* * *

Estelle Piprelly scrutava il buio dalla sua finestra. La luna ammantata di nuvole dense rendeva tutto invisibile. I viali, gli alberi erano ancora lì, anche il mare che batteva contro la scogliera, ma per quanto la riguardava il mondo finiva dietro a quella finestra. Si sentiva così sola da riuscire quasi a credere che la vita fosse solamente un’illusione, un parto creativo della sua mente.

Ma non era la solitudine il problema, era abituata alla solitudine, quando non era impegnata in affollate riunioni di lavoro; no, era questo senso di vuoto minaccioso che risvegliava un’angoscia profonda, insopportabile. Gli umori della notte presagivano calamità.

Voltò la schiena alla sua immagine riflessa, la nota schiena diritta ora leggermente incurvata la faceva sembrare più fragile. Passeggiò per la stanza senza uno scopo preciso, senza un pensiero chiaro. Il viso era solcato da rughe di preoccupazione, le mani dentro le maniche del cardigan chiuse a pugno. Le labbra erano meno tirate, meno decise del solito.

Non era soltanto la notte tetra a turbare la preside del La Roche, nè tantomeno il silenzio inquietante. Proprio quella mattina aveva visto la morte affacciarsi nella sua scuola. Quel volto dissacrante era apparso nel viso di alcune ragazze. Così come da bambina, pur senza capire, aveva visto sui volti dei soldati che occupavano l’isola l’imminente massacro, oggi aveva visto la maschera della morte sul volto delle sue alunne.

L’agitazione montante la costrinse a sedersi. Sopra il camino un orologio a cupola con il quadrante di legno laccato scandiva il tempo. Lei si strinse addosso il cardigan coprendosi anche il collo. Il gelo le saliva da dentro.

La signorina Piprelly sembrava improvvisamente più vecchia, addirittura tremante sulla poltroncina. Rivolse la mente all’esterno, cercando disperatamente di percepire qualcosa, ma sapendo che le forze non le bastavano, che le sue capacità non arrivavano oltre un certo limite, non erano assolutamente paragonabili a quelle di Jonathan Childes. Era strano che proprio lui non sapesse quanto potere possedeva. Quell’uomo era un enigma preoccupante. Si voltò quando la finestra fu sfiorata da un ramo. S’aspettava quasi di vedere la Morte in persona.

La signorina Piprelly si chiese quanto fosse sicura la scuola; all’ingresso c’era un poliziotto di guardia, ogni tanto scendeva dall’auto accanto al cancello principale per pattugliare il parco; controllava tutte le porte e le finestre, e illuminava con la torcia i cespugli tutto intorno. Ma come poteva un poliziotto solo impedire a qualcuno di entrare in uno degli edifici con tutte le entrate che c’erano? La disposizione stessa del complesso della scuola rendeva difficile una sorveglianza accurata e offriva nascondigli a qualsiasi malintenzionato. Aveva parlato con l’ispettore Robillard proprio quel pomeriggio, pregandolo di provvedere (ma senza riuscir a spiegare le cause della sua preoccupazione), e lui l’aveva assicurata che la zona sarebbe stata ben sorvegliata e controllata. Che lo era stata da quando era stata aggredita Jeanette. Aveva detto di capire la sua preoccupazione ma di non condividerla, poiché era improbabile che il delinquente tornasse al La Roche adesso che sapeva che la polizia era all’erta. La preside sperava tanto che la calma sicurezza del poliziotto fosse giustificata.

Tornò a pensare a Jonathan Childes, come aveva fatto spesso negli ultimi giorni. Suo malgrado lei aveva dovuto chiedergli di allontanarsi dalla scuola, spiegando che non era sospeso dal posto, nè tantomeno sospettato di niente, soltanto che la sua presenza al La Roche sembrava aver messo in pericolo le ragazze e lei doveva innanzitutto pensare al loro benessere. Lei stessa, Victor Platnauer, e gli altri membri del consiglio avevano discusso il problema con l’ispettore Robillard ed avevano convenuto che sarebbe stato saggio tenerlo lontano dalla scuola per un po’ (evitò di dire che Platnauer aveva chiesto il suo immediato licenziamento). Dato che mancavano appena due settimane alla fine dell’anno scolastico, sperava che lui accettasse senza far difficoltà. E così fece, senza la minima esitazione.

Quando lo aveva ricevuto nel suo studio quel lunedì mattina, appena tre giorni prima, l’intensità del suo potere era sconcertante. Sembrava udire appena le sue parole, eppure non era distratto. Era evidentemente alle prese con una confusione interiore ma perfettamente conscio di ciò che succedeva intorno a lui. Era sicuramente scosso da quanto gli era capitato, la terribile esperienza di Jeanette e l’incidente con la signorina Sebire, tutto nello stesso giorno; sentiva comunque che il suo stato di evidente confusione non riguardava questi episodi. Quest’uomo stava sondando, lei lo aveva sentito dentro la sua mente, ma la ricerca era casuale, senza una precisa direzione. Lui aveva riconosciuto in lei il potere, ma non aveva detto nulla. In certi momenti lei aveva sentito una vibrazione circondarlo, un campo di energia psichica che si contraeva e si espandeva di continuo. La fluttuazione la turbava profondamente ma lui sembrava non accorgersi di queste invisibili emanazioni.

Il suo corpo sussultò violentemente quando la terribile violenza che si stava per scatenare la colpì, attraversandole il cervello come una lama di coltello rovente. Non pensava più al passato, il vero incubo era presente, in quel preciso istante.

Nella scuola si aggirava una presenza malvagia.

Le ombre nella stanza si fecero più cupe, i rintocchi dell’orologio più forti, e sembravano volerla intimidire, impedirle di ragionare.

La signorina Piprelly pensò di chiamare subito la centrale di polizia. Si alzò della sedia: dovette sforzarsi perché le ombre e il frastuono dell’orologio la sconvolgevano. Si avviò barcollando verso il telefono, ma non alzò il ricevitore, la mano sospesa a mezz’aria.

Cosa poteva dirgli, “per favore venite, sono sola e spaventata, c’è qualcuno nella scuola, qualcuno che vuole farci del male, le ragazze stanno dormendo e io ho visto la morte sui loro volti e sono così giovani, così innocenti, non hanno ancora vissuto, e non sanno di essere in pericolo…”: poteva dire così alla polizia?

Le avrebbero subito chiesto se aveva visto qualcuno. Il loro uomo non aveva comunicato niente di anormale, l’avrebbero chiamato via radio, ordinandogli di controllare di nuovo, e di fare rapporto. “Nessun problema signorina,” avrebbero detto — una vecchia zitella che aveva paura delle ombre —, “tutto a posto, il loro uomo era di guardia, poteva richiamare quando voleva!”.

Poteva mentire forse, dire che aveva sentito dei rumori. E se poi arrivavano in forze e non c’era segno di intrusi, allora cosa sarebbe successo? Sorrisetti ironici, sguardi di commiserazione? Risate divertite sulla via del ritorno?

Quest’ultimo pensiero la fece rinsavire. Drizzò la schiena e atteggiò il viso a maggiore durezza. Non poteva cedere così alla preoccupazione. La signorina Piprelly si diresse verso la porta. Avrebbe guardato in giro lei prima; poi, se trovava qualche traccia avrebbe chiamato la polizia. La minima traccia…

Ma quando aprì la porta per un attimo si perse di coraggio. Gli sembrò di essere stata sfiorata da una mano scheletrica.

* * *

Childes si svegliò.

Non c’era stato alcun incubo, nè demoni notturni, nessun orrore lo aveva destato. Aveva semplicemente aperto gli occhi di colpo ed era perfettamente sveglio.

Rimase steso al buio ascoltando la notte. Non c’era nulla che lo disturbasse, solo il vento, una brezza, un sussurro nell’aria.

Si alzò comunque dal letto, era nudo e sentì subito freddo. Rimase seduto sulla sponda incerto, indeciso, sentiva un’inquietudine strana roderlo dentro. La finestra era una macchia grigiastra nell’oscurità. Attraverso il vetro le ombre scure delle nubi si spostavano lentamente.

Cercò a tastoni gli occhiali, li inforcò e andò verso la finestra. Strinse forte il davanzale sentendo una morsa gelida e cattiva stringergli il petto.

Lontano, sulla scogliera, il La Roche era illuminato di rosso.

Ma non era come prima, stavolta non era il sole calante a illuminare gli edifici della scuola. Stavolta erano fiamme, che si alzavano lungo i muri uscendo dalle finestre in lunghe lingue di fuoco.

* * *

Mentre Estelle Piprelly scendeva, i passi insolitamente rumorosi nel silenzio dei corridoi e delle scale, colse un odore inaspettato. Un odore insolito perché fuori contesto rispetto all’odore del legno stagionato, della cera e dei corpi umani che vi regnava quotidianamente.

Questo odore non faceva parte di questa normalità. Sostò, poggiando la mano sul robusto corrimano, ascoltò quel silenzio spaventoso. Il puzzo, ancora indistinto poiché la fonte era lontana, era dolciastro e acidulo al tempo stesso, e le faceva venire alla mente una baracca in fondo al parco dove venivano riposti gli attrezzi da giardinaggio. Una vecchia baracca di mattoni piena di utensili, di tosaerba, di motoseghe e cose simili, che odorava sempre di terriccio, di grassi, e… di benzina.

Ora che l’aveva identificato l’ansia si moltiplicò; quel puzzo significava che forse le sua angosciose intuizioni non erano ingiustificate. Sentì improvvisa l’urgenza di ritornare sui suoi passi, risalire le scale fino all’ultimo piano dove dormivano le sue protette, svegliarle e condurle lontano. Ma una forza irresistibile la spingeva in basso costringendola a rinunciare al suo intento.

La curiosità si opponeva al raziocinio. Sentiva il bisogno di dare fondamento ai suoi sospetti. Non voleva essere accusata di aver gridato al lupo. Ma una vocina, appena un sussurro, sepolta nelle profondità della sua coscienza le suggeriva altrimenti, di seguire il morboso impulso di trovarsi faccia a faccia con quel fantasma che l’aveva costantemente ossessionata nei volti sconosciuti di coloro che sarebbero morti.

Proseguì la discesa.

Arrivata all’ultimo gradino, dove si apriva l’atrio con corridoi che si allungavano d’ambo i lati, sostò di nuovo e annusò l’aria arricciando il naso: l’odore ora era pungente. Le tavole del pavimento erano umide di un liquido appiccicoso. Dalle scale sullo sfondo arrivava della luce che rendeva più cupe le ombre in fondo ai lunghi corridoi. A una decina di metri davanti a lei le grandi porte doppie erano chiuse, sul muro accanto tutta una serie di interruttori.

Dieci metri non erano molti. E allora perché quello spazio le sembrava insormontabile? E perché il buio le pareva pieno di oscure minacce?

Perché era diventata una sciocca zitellona che tra non molto avrebbe controllato sotto il letto tutte le sere. No, si disse, non era questa la ragione. Quel buio era minaccioso, quello spazio era davvero incolmabile.

Ma non aveva alternative. Ritornare di sopra significava che sarebbe stato dato fuoco alla benzina. Accendere le luci poteva far uscire allo scoperto l’intruso, forse spaventarlo. Comunque le luci avrebbero attirato l’attenzione del poliziotto di guardia.

Un passo dopo l’altro sul pavimento viscido, e iniziò il lungo viaggio verso l’entrata. Si fermò di nuovo, a metà strada. Aveva udito qualcosa, o lo aveva piuttosto sentito? C’era qualcuno nel corridoio di sinistra? Non c’era un’ombra che si spostava nel buio? Riprese il cammino, il sottile strato di liquido era appiccicoso contro le suole. Allungò il passo nell’avvicinarsi alle porte.

C’era qualcuno in agguato nel buio, qualcuno che desiderava il male della scuola e suo. La sensazione di questa presenza era intensa, le opprimeva il petto facendola respirare a fatica. Il cuore aveva accelerato i battiti, le gambe tremavano così come le mani tese verso gli interruttori. La presenza era vicina, sempre di più, ancora invisibile ma protesa verso di lei, quasi la toccava.

Fuori! Doveva uscire di lì.

Avrebbe trovato la guardia, l’avrebbe chiamata, avvertita. Lui avrebbe saputo cosa fare, prima che la benzina prendesse fuoco! Li avrebbe salvati!

Era alle porte, quasi ci sbatté contro, cercò le maniglie, il catenaccio, piangendo di sollievo, quasi libera.

Si chiese brevemente come mai non fossero chiuse a chiave poi girò le maniglie e fu fuori, con un piccolo grido di trionfo e di paura. L’aria fredda le scompigliò i capelli.

Era lì, una forma indistinta sullo sfondo della notte, immobile e impassibile sulla soglia.

Le gambe della signorina Piprelly cedettero di colpo e le uscì appena un gemito quando la figura si protese verso di lei.

* * *

Childes frenò bruscamente la macchina davanti ai cancelli del La Roche, le mani irrigidite attorno al volante. Spalancò gli occhi quando guardò in fondo al viale illuminato dai fari. Gli edifici del college erano immersi nell’oscurità, la facciata bianca dell’edificio principale era ora di un grigio plumbeo contro il cielo denso di nuvole. Non vi erano fiamme alle finestre, nessun fuoco bruciava.

Non aveva udito sirene durante il percorso. Non aveva incrociato altri veicoli lanciati come lui disperatamente verso la scuola. Le strade erano vuote. E perché mai avrebbe dovuto accorrere qualcuno se non c’era nessun incendio? Scosse la testa, perplesso. Poi si accorse della macchina della polizia accanto ai cancelli, con le luci spente. Childes innestò la marcia e guidò la macchina lentamente avvicinandosi, quasi non volesse disturbare. L’auto era vuota.

O no?

Perché quel bisogno improvviso di scendere dalla sua auto a dare un’occhiata? E perché nello stesso tempo l’impulso di fuggire da questo luogo temibile appena illuminato dalla luna nascosta dietro i nuvoloni immobili e minacciosi?

Già… perché? rispose una voce cupa proveniente da un altro mondo.

Un fulmine lampeggiò brevemente, illuminando la massa densa delle nubi, una brezza vivace soffiò dal mare agitando le foglie e i rami, i fari della macchina formavano un solco luminoso verso la palazzina imponente sul fondo. Childes non aveva più dubbi, avrebbe guardato nell’auto poi sarebbe andato alla scuola; la storia era già stata scritta, aveva uno svolgimento predeterminato. Lui era ancora libero di scegliere, poteva cambiare idea quando voleva, eppure il destino gli intimava di andare. Lui lo avrebbe fatto, ma senza soccombere. Pregò di non soccombere.

Scese dalla Renault girandole attorno verso l’altra auto. Guardò attraverso il finestrino aperto. Il poliziotto era scivolato verso il basso, le ginocchia sospinte in alto dietro lo sterzo. In un attimo di panico isterico Childes credette che stesse dormendo, ma la macchia scura che gli si allargava sulla camicia bianca come uno sparato nero indicava diversamente. Allungò la mano e lo toccò stando attento ad evitare la viscida sostanza che defluiva dal collo. Non ci fu alcuna reazione, come del resto si aspettava. Prese la maniglia della portiera e tirò, aprendo lo sportello quel tanto che bastava per far accendere la lucina interna.

Il mento dell’uomo in divisa era appoggiato al torace e nascondeva alla vista la ferita sul collo. Era un po’ grosso come poliziotto, la lucina sul soffitto si rifletteva sulla sua calvizie. Aveva gli occhi mezzi aperti come se stesse guardando in basso verso la macchia cremisi sulla camicia. Le braccia serenamente distese lungo i fianchi, le mani aperte, rilassate; evidentemente la morte era sopraggiunta così rapida da inibire l’opportunità di una lotta. Appariva sereno, ignaro del proprio fato.

Childes richiuse la portiera, il tonfo sordo suonò come il coperchio di una bara. Si appoggiò al tetto della macchina con la testa tra le braccia incrociate. La vittima non si era minimamente resa conto di quello che le stava per accadere, poco abituata forse a una violenza siffatta. Stava sorvegliando la scuola, il gruppo di edifici, e forse i cespugli vicini attraverso il finestrino aperto in modo da poter udire anche eventuali suoni anomali. Non aveva quindi tenuto d’occhio la strada dietro a sé. Un coltello, un rasoio, una lama d’acciaio affilato, era sbucata attraverso il finestrino per recidergli la gola di netto, un movimento veloce, due, tre secondi appena. Se il poliziotto avesse tentato di gridare non sarebbe uscito altro che un gorgoglio strozzato da quel taglio profondo.

Era qui, nella scuola, l’essere che conosceva con il nome di MOON.

La coscienza di ciò gli crebbe dentro bloccandogli lo stomaco e i polmoni, che quasi non riuscivano più a pompare ana. Alzò la testa e osservò gli edifici in fondo al viale; i fari illuminavano solo la ghiaia, non riuscivano a penetrare fino in fondo quel buio tetro e pauroso.

Nella sua testa risuonò un gemito non suo. Era sfuggito a qualcuno che era dentro il college: dietro quelle mura austere qualcuno era terrorizzato a morte.

E qualcosa, lì dentro, godeva di quel terrore.

In quel momento dietro le finestre del pianterreno dell’edificio principale un bagliore arancione si propagò. L’incendio non era più soltanto una precognizione visiva della sua mente, era una terribile realtà.

* * *

La signorina Piprelly giaceva sul pavimento, incapace di muoversi, la testa piegata a un angolo grottesco. Era cosciente ma terrorizzata. Sapeva, ma in modo stranamente distaccato — poiché non c’era dolore, solo paralisi — di avere il collo rotto, le ossa spezzate facilmente da quelle mani rudi e robuste che l’avevano aggredita quando le gambe avevano ceduto. In quell’attimo terrificante la preside aveva compreso che l’intruso si era nascosto proprio dietro la porta d’ingresso quando l’aveva sentita arrivare.

La donna non aveva scorto il suo assalitore, ne aveva avuto solo un’impressione di pesantezza, una pesante massa inarrestabile che avanzava su di lei per ghermirla. Il respiro maleodorante, fetido, un grugnire soddisfatto; la torsione, lo schiocco delle sue vertebre quando la sua testa, serrata tra le grosse mani dai palmi duri come la roccia, era stata completamente girata all’indietro. La forma nera si era poi allontanata goffamente, un tonfo dietro l’altro dei passi sul pavimento. Poi era ritornata, le aveva versato addosso il liquido sui vestiti, tra i capelli, e lei aveva chiuso gli occhi. Giaceva lì, gli arti inutili, la voce appena un mormorio incomprensibile. Le pungevano gli occhi bagnati dal fluido che le scorreva giù dalla fronte. Li batté cercando di schiarirsi la vista ma la sensazione di buciore permaneva impedendole di vedere. Riusciva appena a intravedere la goffa figura in fondo al corridoio, urlò di paura, ma il suono rimase dentro di lei. Aveva intravisto un leggero bagliore. Un fiammifero acceso. Lo vide cadere a terra, e la fiammella sprizzare verso l’alto quando la benzina esplose.

Quella creatura illuminata dalle fiamme sorrideva… sogghignava… verso di lei!

Le fiamme serpeggiarono velocemente — così velocemente! — lungo il corridoio, verso il suo corpo disteso e inzuppato, e immobile…

* * *

L’incendio aveva invaso quasi tutto il pianterreno e si stava propagando ancora mentre Childes correva verso l’edificio. Le fiamme erano alimentate dai vecchi legni stagionati delle travi e dei pavimenti. Le finestre riflettevano una alla volta una vampa arancione, rossastra e vicino al nucleo del fuoco scoppiavano verso l’esterno gonfiate dal calore. Ormai vicino Childes si accorse che le fiamme già lambivano il primo piano. Si sentiva lo scampanellio degli allarmi antifumo. Quando arrivò sull’erba bagnata di rugiada quasi perse l’equilibrio; riuscì a rimanere in piedi quasi senza cambiare passo, passando attraverso l’aiuola circolare davanti all’ingresso dove la statua del fondatore del La Roche osservava impassibile l’incendio riflettendo anch’essa il rosso delle fiamme.

Childes salì gli scalini dell’ingresso sempre di corsa, aspettandosi di trovare il portone chiuso a chiave. Spinse una della maniglie di ferro e con sorpresa sentì che la porta cedeva. Una vampata di calore bruciante lo investì ricacciandolo all’indietro.

Schermandosi gli occhi contro il bagliore accecante, diede un’occhiata veloce all’interno. La pelle delle mani e del viso gli si ustionò leggermente, il respiro sembrava dita di fuoco cacciate in gola. Tornò fuori, la vernice della porta già iniziava a gonfiarsi e a spaccarsi, a sua volta prossima a prender fuoco.

La scalinata era in fiamme, e lì accanto alla porta intravide una massa annerita che ancora bruciava. Non perse tempo a chiedersi di chi fosse stato quel corpo.

Childes voleva scappare, andarsene dalla scuola, andarsene via, dovunque. Temeva per sé, ma si rendeva conto del pericolo che correvano gli altri, quelli che erano ai piani superiori: le ragazze del college e qualche membro del personale che era alloggiato al La Roche. Ormai i segnali di allarme dovevano averli sicuramente destati, sarebbero stati in preda al panico, spaventati a morte; avrebbero subito pensato alla scalinata principale che era la via di fuga più vicina, ma l’avrebbero trovata già invasa dalle fiamme; forse la paura avrebbe fatto loro scordare le procedure di emergenza tante volte eseguite con disciplina estrema.

Prima di dirigersi verso il retro dell’edificio dove si trovava la scala antincendio, Childes allungò il braccio nell’inferno di fuoco tirando a sé il grande portone, e urlò dal dolore nel toccare il metallo rovente. Tenendo duro richiuse la porta, appena un tentativo per evitare che il risucchio d’aria alimentasse le fiamme che minacciavano le scale. La porta rimbalzò contro gli stipiti, il legno ormai deformato. Childes lasciò perdere e scese di corsa le scale, correndo lungo un lato della scuola, passando sotto le finestre illuminate, curvandosi per evitare i vetri che andavano in frantumi.

Quando girò l’angolo venne investito da un freddo intenso, come se si fosse improvvisamente aperto lo sportello di un congelatore. Il sudore gli si gelò addosso. Era al buio, da quel lato non c’erano bagliori di fiamme, non ancora. Sul prato si riflettevano macchie di luce provenienti dalle finestre dei corridoi e dei dormitori. Tenendosi radente al muro Childes corse fino all’angolo successivo e scorse poco lontano la scala antincendio. Trovò la porta già aperta. Il vetro era già stato rotto all’altezza del lucchetto.

Childes non perse tempo a chiedersi chi fosse stato e perché; spinse la porta e cercò l’interruttore che sapeva essere lì a fianco.

Il fumo acre erano già penetrato fin lì, anche se non così tanto da essere preoccupante. I campanelli d’allarme, che all’interno erano molto più forti, non facevano altro che aumentare la sua paura con il loro suono stridulo e incessante. Affrontò comunque gli scalini di pietra a tre a tre, i suoi nervi scoperti lo rimandavano a un ricordo analogo appena tre giorni prima.

Stavolta però le vite in pericolo erano molte.

Il fumo si fece più denso mentre saliva e si poteva udire il frastuono scoppiettante delle fiamme. Poi delle voci, passi che scendevano, si avvicinavano, luci dall’alto. Intravide dei movimenti lungo le scale. Grazie a Dio stavano scendendo!

Sostò al primo piano scrutando il corridoio che si apriva alla sua destra. In fondo c’era l’inferno, il fuoco divorava tutto dal soffitto al pavimento. Il calore rovente rombava lungo il passaggio lambendolo.

Avanti, era sciocco fermarsi, anche un solo secondo. Era sciocco fermarsi per valutare il pericolo.

Le voci erano ormai vicine, forse solo un piano sopra di lui. Childes continuò a salire, il fumo gli bruciava gli occhi, l’aria stessa sembrava bruciare, inaridita, malgrado le fiamme fossero ancora lontane. Si chiese quanto si fosse propagato il fuoco. Poi vide apparire le prime figure barcollanti e corse loro incontro.

Una bambina di non più di dieci anni in camicia da notte e a piedi nudi, gli cadde tra le braccia, con il viso rigato di lacrime.

«Sei in salvo» le disse, guardando le altre assieparsi alle sue spalle. «Tra poco sarai fuori.»

«Signor Childes, Signor Childes, è proprio lei?». Si sentì chiamare da qualche parte. Un’altra figura si avvicinò. Come le ragazze era anche lei vestita da notte, e si stringeva addosso la vestaglia come se questa potesse difenderla dal calore montante. Portava un paio di scarpe da passeggio senza tacchi, tanto che per un attimo la scambiò per la preside, ma riconobbe subito Harriet Vallois, l’insegnante di storia che era anche una delle tutrici interne.

«Sono tutte uscite dai dormitori le ragazze?» urlò, per superare il clamore dei campanelli d’allarme e delle bambine terrorizzate. Alcune di loro tossivano, l’aria si faceva sempre più irrespirabile.

«La governante e la signorina Todd stanno controllando.» Il tremore delle labbra suggeriva che anche lei era ormai sull’orlo delle lacrime. «Mi hanno mandata avanti con questo gruppo.»

La prese per le spalle per sostenerla. «La signorina Piprelly è con loro?»

«No, no. Sono passata dalla sua stanza, ho bussato ma non c’era nessuno. Ho pensato che fosse andata direttamente nei dormitori… ma non era neanche lì.»

Quel corpo carbonizzato nell’ingresso!

Childes rabbrividì. Il corpo poteva anche essere quello del piromane, morto nell’appiccare il fuoco, chiuso nella sua stessa trappola. Non poteva essere certo che fosse Estelle Piprelly quel corpo annerito, non poteva essere! Eppure lui ne era sicuro, non aveva il minimo dubbio.

Harriet Vallois guardava disperata le scale, gli occhi sbarrati. «Porti fuori le ragazze!» le ordinò, stringendole forte il braccio. Il dolore la fece riprendere.

«Le porti fuori!» ripeté, sospingendola verso le scale e consegnandole la bambina che era rimasta aggrappata alle sue gambe. «State unite e non fermatevi per nessun motivo.» Poi sottovoce aggiunse. «Non ci rimane molto tempo».

Lei si spaventò ancora di più. «Ma lei non ci aiuta?» lo pregò.

Oh sì! Lui avrebbe tanto voluto aiutarle, scendere insieme a loro, uscire da quel luogo di morte in cui già un cadavere giaceva carbonizzato nell’atrio principale, dove chissà chi o cosa si aggirava per i corridoi e dove fiamme terrificanti divoravano tutto.

«Andrà tutto bene» la rassicurò. «Siete quasi arrivate. Io devo andare ad aiutare le altre di sopra.»

La sospinse verso le scale e prendendo per le spalle la ragazza più vicina la invitò a seguirla; le altre si accodarono e lui le consigliò di stare attente e non inciampare, tranquillizzandole una a una man mano che passavano. Stimò che ne erano passate per lo meno una trentina e altre ancora continuavano ad arrivare. Cnildes non aveva idea quante delle trecento e più allieve del La Roche fossero a convitto, ma stimò che dovevano essere almeno una sessantina. A parte Estelle Piprelly solo due delle insegnanti e la governante erano interne nel colle|e a badare alle ragazze. Aumentò l’andatura nonostante la risalita diventasse sempre più dura, l’aria più irrespirabile. Più saliva e più denso si faceva il fumo. I vapori fuligginosi parevano l’avanguardia velenosa dell’incendio che li creava. Era più forte ora anche il rumore dell’incendio, le travi si schiantavano come colpi di fucile all’interno della fornace. E sopra a tutto si sentiva il suono impazzito degli allarmi.

Cominciava a soffocare: tirò fuori il fazzoletto e se lo portò alla bocca. Arrivavano altre ragazze, annunciate da grida strozzate. «Andate avanti!» gridò loro, anche se non sembravano avere bisogno di incitamenti. Apparvero due delle ragazze più grandi che ne sorreggevano un’altra in preda a un attacco isterico paralizzante. Childes fu tentato di prendere in consegna la ragazzina e di portarla giù lui stesso, ma comprese che il terzetto ce l’avrebbe fatta anche da solo.

Qualcuno gli cadde addosso e lui tese le braccia per evitare che cadesse.

«Eloise!» esclamò, riconoscendo l’altra insegnante che era alloggiata nella scuola.

La signorina Todd spalancò la bocca, spaventata e incerta. Ansimava rumorosamente succhiando l’aria malsana.

«Quante ce ne sono lassù?» le urlò da vicino.

Lei scosse la testa cercando di sfuggirgli.

«Perdio cerca di stare calma!»

«Lasciami andare, ti prego, lasciami andare.»

«Quante?»insisté lui, trattenendola per un braccio.

«Abbiamo cercato dappertutto, abbiamo… Alcune avevano tanta paura che si sono nascoste nei bagni. Altre urlavano affacciate alle finestre.»

«L’avete fatte uscire tutte?»

«Lasciami, lasciami andare.»

La trattenne. «L’avete fatte uscire tutte?»

Alcune ragazze li scansavano aggrappate alla ringhiera per sostenersi, le loro spalle sussultavano e piangevano tutte. Le loro urla si fondevano in un unico lamento. L’insegnante si liberò di lui e le raggiunse nella fuga sfiorando le spalle di una, carezzandone un’altra facendo loro coraggio nonostante la sua paura disperata.

Si voltò e gli gridò: «Alcune delle ragazze sono fuggite dalla porta sbagliata, verso la scala principale. La governante è andata a cercarle!». Poi riprese la discesa, sospinta anche da quelle che arrivavano.

Childes non perse altro tempo. Si coprì la bocca con il fazzoletto e salì gli ultimi gradini. Non passò nessun altro. Aveva perso il conto, ma gli sembrava che dovessero essere ormai passate quasi tutte.

Arrivò all’ultimo piano dove il fumo era insopportabile. Aveva gli occhi brucianti, la gola dolorosamente secca. Con terrore vide che le fiamme erano arrivate fino a quel piano; in fondo al corridoio si intravedeva un baluginio appena percepibile attraverso il fumo denso, ma lui era sicuro che provenisse dall’altra scannata.

Si piegò in due per evitare il fumo più denso e corse lungo il corridoio sbirciando nei dormitori mentre passava. Un attacco di tosse lo costrinse ad inginocchiarsi. Si accorse di essere accanto a uno dei bagni e vi si trascinò dentro trovando un’aria più respirabile.

Barcollò tossendo fino a uno dei lavandini, aprì il rubinetto, si tolse gli occhiali e si sciacquò il viso, poi prese un asciugamano, lo inzuppò nel lavandino e se lo mise attorno al collo come una sciarpa coprendosi naso e bocca con i lembi di stoffa bagnata.

Prima di uscire controllò i gabinetti, poi tornò nel corridoio, l’asciugamano a mo’ di maschera. Il rumore del fuoco era diventato un brontolio cupo e il calore era rovente, aumentava man mano che lui si avvicinava alla scalinata. Stava per entrare in un altro dormitorio quando udì un suono diverso dagli altri; appena percepibile nel frastuono dei campanelli, del fuoco e del legno che si schiantava, ma ben distinte, sentì delle grida che sembravano venire dal centro dell’incendio.

Tirandosi l’asciugamano sopra la testa e tenendone un angolo sopra il viso Childes proseguì accostato al muro per sapere in che direzione andare.

Dalla tromba delle scale salì un getto di scintille come da un vulcano, lingue di fiamma salivano lungo i muri, lambivano i legni, sfioravano il soffitto. Il pianerottolo non era ancora bruciato ma iniziava già a fumare, le assi cominciavano a piegarsi.

Childes andò alla balaustra, ritirando subito la mano appena la poggiò sul legno ardente.

Le ragazze erano assiepate in un angolo appena sotto di lui, le scale davanti a loro erano in fiamme e anche quelle dietro. Avevano tentato di allontanarsi per quella strada ed erano state arrestate da un muro di fuoco. Quando erano risalite avevano scoperto che la via del ritorno era già invasa dalle fiamme, che le avevano precedute sospinte da turbinanti correnti d’aria.

Molte delle ragazze sembravano svenute, le altre si stringevano assieme con le mani alzate a coprirsi il viso dal calore. Erano in sei o sette (era impossibile vederle bene tanto erano vicine), e la governante era con loro con la schiena rivolta alle fiamme, le braccia tese come per proteggere le sue ragazze.

Childes scese alcuni gradini ma il calore lo fece ben presto arretrare. Una barriera di fuoco sbarrava l’ampia scalinata. Forse avrebbe potuto saltare attraverso le fiamme, raggiungerle, ma a cosa poteva servire? Cosa avrebbe potuto fare per loro? Tornò frettolosamente sul pianerottolo.

«Signora Bates!» chiamò. «Sono qui.»

Vide la governante alzare la testa e urlò di nuovo. Lei girò il viso dalla sua parte, lo vide. A Childes sembrò di scorgere un lampo di speranza nel suo sguardo ma il calore e il fumo deformavano tutto.

La governante si allontanò dalle ragazze appena pochi passi. «È… è lei, Signor Childes? Che Dio sia lodato! Ci aiuti, per favore. Ci aiuti a uscire di qui!»

Alcune delle ragazze lo guardavano adesso, pur rimanendo rannicchiate nell’angolo. Aiutarle! Ma come? Come poteva tirarle fuori di lì? Lui non poteva scendere, e loro non potevano salire.

La governante era in ginocchio, tossiva e vomitava, l’aria ribolliva. Tornò indietro barcollando, allontanandosi dall’inferno. Un’improvvisa vampata costrinse Childes a indietreggiare. Le fiamme salirono verso il soffitto mordendo le travi per poi scomparire di nuovo nel pozzo di fuoco. Ma le travi non erano rimaste illese, ardevano furiosamente. Mancava poco ormai.

Con una scala forse avrebbe potuto fare qualcosa, poggiandola tra il pianerottolo di sotto e la balaustra. Ma non c’era il tempo di andare a cercarne una. Forse con una corda. Potevano legarsela attorno alla vita così lui avrebbe potuto issarle fin lì, una alla volta. Quante ne avrebbe salvate prima di non avere più forze? E comunque, dove accidenti la trovava una fune?

«Aiuto!» sentì di nuovo. Anche le ragazze avevano preso a chiamarlo.

«State lontane dalle scale!» gridò lui, vedendo che alcune di loro si erano avvicinate alla governante.

Childes riconobbe il viso di Kelly nel gruppo, era annerito dalla fuliggine e segnato dalle lacrime. Tese verso di lui una mano implorante, una bambina vulnerabile e piangente, il ricordo della visione del suo braccio carbonizzato lo colpì, raggelandolo e impedendogli ogni altro movimento.

Diede un gemito scrollando la testa, l’asciugamano, ormai prosciugato dal calore eli cadde intorno alle spalle. Il fumo denso e soffocante lo circondava, dalle assi del pavimento si sprigionavano fiammelle. Delle urla stridule lo fecero tornare in sé, udì uno schianto di legno frantumato e si affacciò alla balaustra.

Un altro pezzo di scalinata era crollato cadendo nell’abisso fiammeggiante di fronte alle ragazze che si rannicchiarono di nuovo nell’angolo più lontano assieme alla governante. Quelle che erano più all’esterno dimenavano le mani come se potessero allontanare il terrificante calore, altre ancora erano cadute a terra o addosso alle loro compagne.

«Vado a cercare qualcosa con cui tirarvi fuori!» urlò loro. «Torno subito!» Non sapeva se lo avessero sentito, e inoltre non sapeva assolutamente cosa fare. Sarebbe stato capace di tirarle fuori veramente? Childes respinse quelle domande angosciose e si allontanò.

Sentiva il calore rovente del pavimento attraverso le suole delle scarpe. Una nebbia densa e asfissiante riempiva il corridoio. Gli sembrò di sentire la pressione che montava, come del vapore trattenuto in una caldaia dalle valvole difettose; l’aria stessa sembrava pronta a prendere fuoco. Aspirò una boccata senza ossigeno e fu preso da un attacco di tosse, aveva i polmoni inariditi.

Ma non si fermò. Si trascinò carponi, le spalle e il torace doloranti, con le mani che si scottavano sul legno, finché non trovò una porta aperta. Entrò e la richiuse con un calcio rotolando sulla schiena e concedendosi appena un attimo di sosta. Il fumo non era tanto denso nella stanza anche se vedeva i lettini attraverso una spessa nebbia. Raggiunse il letto più vicino e ne strappò via le lenzuola.

Sempre inginocchiato prese a legarle insieme, poi si avvicinò a un altro letto e ne prese delle altre; si rifiutava di ammettere che quegli sforzi fossero inutili. Mentre annodava un terzo lenzuolo con gli occhi brucianti e il petto dolorante come se vi fosse stato piantato un coltello, sentì un singhiozzare soffocato. Si guardò intorno senza riuscire a capire da dove provenissero i suoni. Scrutò la stanza. Udiva solo il crepitare delle fiamme. Si piegò per guardare sotto i letti ma non c’era nessuno. Finì di annodare le lenzuola e si diresse di nuovo verso la porta. Ancora quei singhiozzi.

Si voltò di nuovo, osservando la stanza, i letti sfatti, le bambole gettate in terra, abiti abbandonati, poster che cominciavano ad accartocciarsi. Tese l’orecchio, cercando l’origine del rumore. Era appena udibile, ma ora ben distinto dagli altri rumori. Il suo sguardo fu attratto da un armadio in fondo alla stanza.

Non c’era tempo, non c’era più tempo. Doveva ritornare dalle ragazze sulle scale. Gettò a terra le lenzuola e correndo raggiunse l’armadietto.

Aprì gli sportelli e vide le due bambine piagnucolanti, accovacciate sul fondo tra le mazze da hockey e le racchette da tennis, seminascoste da alcuni impermeabili appesi. Urlarono rannicchiandosi ancora di più.

Childes raggiunse con una mano la più vicina, la tirò a sé, voltandole il viso perché lo potesse vedere; ebbe appena il tempo di riconoscere una delle bambine delle primarie quando si spensero le luci.

La smarrì nel buio e le loro urla lo assordarono. Childes si mise carponi e le cercò a tastoni, ne trovò i corpicini tremanti e le abbracciò entrambe. «Non dovete avere paura» disse loro con tono calmo, cosciente del terrore che invadeva anche lui. «Il fuoco ha bruciato i cavi, per questo si sono spente le luci.» Le bambine continuavano a divincolarsi. «Su, mi conoscete no? Sono il signor Childes. Vi porto via di qui, d’accordo?» Cercò di tirarle fuori ma resistevano ancora. «Le vostre amiche sono tutte fuori che vi aspettano. Saranno preoccupate, non credete?» Dio mio! Doveva tornare da loro prima che fosse troppo tardi. «Forza adesso! Scendiamo per le scale, poi potrete dire alle altre quanto è stato emozionante. Una corsetta per le scale e saremo fuori di qui!»

Una vocina spaventata riuscì a malapena a superare i singulti. «Le… le scale… sono tutte bruciate.»

Le accarezzò sui capelli stringendole a sé. «Usiamo l’altra scala. Non vi ricordate più delle altre scale, delle esercitazioni antincendio? Le scale sono di cemento, non possono bruciare. Non c’è niente di cui avere paura. Vi ricordate di me? Sono il signor Childes, sarete venute di sicuro a dare un’occhiata all’aula dei computer!»

Si gettarono tra le sue braccia e lui le strinse a sé, tremanti. Senza dire altro le sollevò e si diresse di nuovo verso l’uscita, una bambina per braccio, quasi senza sforzo. Inciampò ma riuscì a rimanere in piedi. Vedeva filtrare da sotto la porta un filo di luce rossastra.

Un altro rumore si fondeva con gli altri, ancora lontano, all’esterno, ma cresceva di secondo in secondo. Sirene spiegate.

Le due bambine, una in pigiama, l’altra con un camicione che le arrivava fino alle caviglie erano sconvolte da attacchi di tosse violenta. «Cercate di non respirare a fondo» disse, inghiottendo con difficoltà. L’asciugamano gli era caduto dalle spalle.

Quando arrivarono alla porta Childes posò le ragazzine in terra e raccolse la fune di lenzuola annodate, gettandosela su una spalla.

Cercò di parlare con calma, nascondendo il proprio panico. «Vi conosco tutt’e due, sono sicuro, ma porca miseria adesso non riesco a ricordare i vostri nomi. Perché non me li dite voi?»

«Sandy!» mormorò una voce tremula vicino al suo orecchio.

«Oh, bene. E tu? Non me lo vuoi dire il tuo?» chiese, tirando l’altra bambina verso di sé.

«R… Rachel!» balbettò la bimba.

«Brava! Adesso ascoltatemi bene Sandy e Rachel. Io adesso aprirò la porta e uscirò, ma voi dovete aspettarmi qui».

Le piccole dita lo strinsero forte. «Non vi preoccupate, torno subito.»

«Non ci lasciare qui da sole!»

Non sapeva quale delle due avesse gridato. «Devo andare ad aiutare delle altre ragazze. Non sono lontane ma sono nei guai. Devo andare a prenderle.» Si liberò delle loro braccia, odiava doverlo fare ma non aveva scelta. Cercarono di trattenerlo ma lui si alzò e girò la maniglia. Era la sua mano ad essere calda o era il metallo? Spalancò la porta. Dietro un bagliore torrido, la pelle si raggricciò dal calore rovente che spazzava tutto. Schermandosi gli occhi scrutò il corridoio e vide che l’incendio si era esteso.

Il terribile fracasso di legno schiantato lo raggiunse proprio mentre usciva in corridoio. Non udì né grida né altro, ma sapeva cos’era stato, lui sapeva esattamente cos’era accaduto.

Doveva comunque accertarsene. Esserne sicuro. Se c’era anche la minima possibilità che …

«State lì!» gridò alle due bambine terrorizzate. Corse, tenendosi basso, ignorando la sensazione di pelle che si bruciava, sapeva che era solo una sensazione, che non si stava staccando veramente. Sbatté contro il muro, le lenzuola si svolsero strusciando in terra.

Arrivò alla balaustra che sormontava la scalinata, del pavimento ormai solo poche zone non erano state invase dalle fiamme; in alto lingue di fuoco sfioravano il soffitto.

La balaustra era intoccabile, ridotta ormai ad un trave fiammeggiante davanti al baratro di fuoco. Ma attraverso le fiamme si scorgevano tratti delle scale. Soltanto che non c’erano più scale, erano rimasti solamente degli spuntoni di legno in fiamme sporgenti dal muro. Non c’era neanche più il pianerottolo. Era tutto crollato nel cratere di quel vulcano terrificante.

Childes ritornò verso il dormitorio troppo scosso per riuscire a piangere; i suoi occhi lacrimavano, ma per il fumo. Le tre lenzuola annodate giacevano nel corridoio dove erano cadute e già iniziavano ad ardere. Barcollò, appoggiò un braccio al muro ma continuò a camminare, sapeva che fermarsi significava la fine. Affrettò il passo quando vide che le bambine non erano più accanto alla porta dove le aveva lasciate. Pregò in silenzio che non si fossero allontanate, che non fossero fuggite dal fuoco, perdendosi nel fumo sempre più denso.

La porta era ancora socchiusa, la spinse. La sua figura si stagliava nera contro il bagliore rosso e arancione. Rachel e Sandy lo guardavano terrorizzate da un lettino sul quale si erano accovacciate.

«Forza!» disse, e sentì mestizia nella propria voce. «Vi porto fuori!»

Si precipitarono verso di lui che le prese in braccio. Ora sembravano più pesanti, ma ce l’avrebbe fatta. Qualsiasi cosa succedesse le avrebbe portate fuori, doveva salvare almeno loro. Uscì dirigendosi lungo il corridoio, allontanandosi dalle fiamme più alte. Intorno tutto bruciava; pavimenti, muri, soffitti, sembravano sul punto di incendiarsi. Lui riusciva appena a vedere dove andava, e sentiva crescere nella testa un senso di stordimento, la gola gli si era quasi chiusa. Dal pavimento schizzarono fuori delle fiamme lambendo il muro, costringendolo a voltarsi per passare. Le bambine non fiatavano, perfettamente immobili con le braccia strette attorno al suo collo, tremendamente impaurite ma fiduciose. Forse avevano ormai esaurito tutte le lacrime.

Per un po’ camminarono al buio, il fumo oscurava persino il bagliore alle loro spalle, ma poi un’altra luce apparve dalla direzione in cui procedevano. Nonostante gli servisse da guida non fu affatto contento; aveva sperato che il fuoco non avesse ancora raggiunto le scale di cemento.

Arrivarono finalmente sul pianerottolo dopo aver strisciato lungo il muro, quasi accecati. Childes quasi crollò a terra. Si lasciò andare carponi; Sandy e Rachel gli si accovacciarono a fianco aspettando che la tosse squassante gli passasse, anche loro tossivano quasi asfissiate.

Si riprese e si tirò su affacciandosi alla ringhiera di ferro. La tromba delle scale agiva da camino incanalando il fumo denso nel corridoio da cui erano appena giunti.

Potevano ancora farcela, se non morivano soffocati prima. Si avvicinò alle due bambine e cercò di rassicurarle: «Andrà tutto bene. Adesso scendiamo per le scale e saremo fuori prestissimo. Le scale sono di cemento quindi non possono bruciare. Ma dobbiamo stare attenti ai corridoi.» Sentiva che la sua voce era gracchiante e tremula. Infilò una mano in tasca. «Rachel, prendi questo fazzoletto e copriti la bocca e il naso.» La bimba obbedì. «Sandy, ho paura che dovremo rovinare questo camicione.» Strappò una striscia di stoffa legandogliela attorno al collo in modo da coprirle la parte inferiore del viso. Si rimise in piedi. «OK. Si parte!»

Le prese per le mani e le condusse lungo la prima rampa di scale, tenendosi accostato al muro, lontano dal fumo; più scendevano più si faceva denso, e più era rovente l’aria.

Sandy e Rachel lo tiravano indietro e Childes dovette strattonarle per continuare a farle scendere. Quando raggiunsero un angolo tra il primo e il secondo piano le coprì con il proprio corpo. A Rachel si piegavano le gambe e si appoggiò a lui: nella luce rossastra vide che la bambina non ce l’avrebbe mai fatta. Si tolse la giacca, gliela avvolse intorno al corpo e la sollevò. Lei gli si accasciò contro la spalla, semisvenuta. Meglio così, non avrebbe creato problemi muovendosi. Prese di nuovo la mano di Sandy e riprese la discesa cercando di coprirla come meglio poteva.

«Manca poco adesso!» disse, per farle coraggio.

Lei rispose aggrappandosi ancora di più al suo braccio. Per un istante gli balenò davanti il viso di Gabby con i suoi occhiali sempre storti. Quasi gridò il suo nome. Ora fu lui a scivolare, e cadde seduto sui gradini, con Rachel in grembo, completamente avvolta nella giacca. Fu Sandy che lo tirò per un braccio, costringendolo ad alzarsi di nuovo, rifiutandosi di lasciarlo riposare.

Lo guardò, il visino sporco, rigato dalle lacrime, illuminato da un vago chiarore mentre lei ripeteva le sue parole. «Manca poco adesso.»

Manca poco si disse, manca poco, solo un’altra rampa di scale. Ma si stava sempre più indebolendo, le ultime riserve di energia esaurite da una tosse nauseante, ogni boccata d’aria era piena di fumo asfissiante, e quasi non ci vedeva più; aveva gli occhi pieni di lacrime brucianti, tanto che non riusciva più a chiuderli per il dolore…

… e Sandy lo tirava ancora, il corpicino esausto che non reggeva più, le piccole gambe nude si piegavano, ormai era quasi appesa al suo braccio e si lasciava trascinare lungo i gradini…

… perdeva i sensi, la testa piena di immagini di Gabby e di corpi mutilati e offesi, e occhi malvagi che lo fissavano attraverso le fiamme, e Amy, ferita e sanguinante, e la pietra di luna luminosa e bianca, liscia e brillante attraverso il fumo, era la luna che colava sangue denso…

… stava svenendo, scivolava lungo i gradini, perdeva la presa sulla bambina, la mano gli si posò sul gradino, si sosteneva per non cadere, il corpo gli si piegò in due, e si lasciò sopraffare dal caldo soffocante, ma mancava così poco, appena qualche gradino ancora…

Una parte della sua mente ancora cosciente si accorse di qualcosa, qualcosa che avveniva in basso. Cercò di alzare la testa.

Voci. Sentiva delle voci. Grida. Ombre scure contro le fiamme gialle che uscivano dal corridoio del pianterreno. Ombre lungo le scale, che si avvicinavano…

* * *

PIETRA DI LUNA

(silicato di potassio e alluminio — KA 1Si3O8)

DENSITÀ: 2,57

DUREZZA: 6

INDICE DI RIFRAZIONE: 1,519 — 1,526 (basso)

Una varietà di feldspato ortoclasio; la pietra di luna emette una leggera e caratteristica fluorescenza quando sottoposta a raggi X.

E detta pietra di luna perché presenta alla luce una colorazione argentea simile a quella della luna. Colore bianco, definito come schillerizzato, dal tedesco ‘schiller’, iridescenza. Estratto in Madagascar, Sri Lanka, e Burma.

Overoy spense un’altra sigaretta e poi si strofinò gli occhi stanchi. Era seduto al tavolo da pranzo, una luce appesa si rifletteva nel cristallo brunito. La stanza da pranzo era separata dal soggiorno da un arco, due stanze piccole erano così state unite. Un lavoretto che aveva fatto da solo, quando con Jpsie erano venuti a vivere lì, un tempo in cui aveva ancora l’energia per affrontare sia i lavori domestici che quelli professionali. La televisione nell’angolo era spenta, le tende tirate contro la notte estiva, l’unica lampada accesa era la sua. Nulla! Riguardò gli appunti. «Nulla!», disse con disgusto.

La piccola gemma era soltanto un folle biglietto da visita. Ma i biglietti da visita di solito dicevano qualcosa.

E allora cosa significava quella pietra?

Un riferimento alla luna?

Con la mano distese davanti a sé gli appunti, disponendoli ad arco come un punto vincente a carte. Amy Sebire aveva pensato alla parola MOON come a un nome. Ma Childes aveva visto la luna come un simbolo. Un simbolo che rappresentava un nome?

Overoy prese il pacchetto di sigarette, scoprì che era vuoto e lo gettò in fondo al tavolo. Si alzò e per sgranchirsi le gambe fece il giro del tavolo. Tornò a sedersi incrociando le mani dietro la nuca.

Cosa stava combinando Childes? Contro ogni regola Overoy aveva lasciato a Childes la prova trovata sulla scena del delitto. Una prova minuscola, la pietra. Childes l’aveva voluta ad ogni costo. Perché no? La polizia non ci faceva nulla. Ma quella pietra aveva pure un briciola di importanza per l’assassino. Le verifiche fatte presso i gioiellieri di Londra e dintorni non avevano prodotto alcun indizio nonostante le pietre non montate non si vendessero molto frequentemente. La persona che cercavano cambiava spesso luogo d’acquisto, per non farsi notare.

Gli occhi stanchi osservarono la pila di libri ammucchiati sul tavolo, la maggior parte inutili, perché per le informazioni che gli servivano ne erano stati a malapena sufficienti un paio. Erano informazioni che riguardavano principalmente la luna nei suoi aspetti mistici. Follia lunare: Josie lo aveva sgridato prima di lasciarlo per andare a dormire. Ma non mia, Josie, quella di un altro.

Bastava chiedere a un qualsiasi poliziotto, con la luna piena il numero dei crimini aumentava, inspiegabile ma vero. Anche gli strizzacervelli pensavano che la luna potesse influenzare gli squilibrati. Overoy aveva sottolineato un appunto che aveva preso in proposito: “se la luna può agire sulle maree, allora perché non sul cervello che è composto in gran parte di acqua?”. Era una cosa da tenere presente.

Due lune piene nello stesso mese erano considerate una calamità da coloro che credevano in queste cose. C’erano state due lune piene in maggio quando erano iniziate quelle atrocità. Anche questo era stato sottolineato negli appunti.

Un’altra credenza popolare era quella che l’influenza malefica della luna (nonostante la stanchezza sorrise pensando alla storia del vecchio uomo sulla luna e alle sue maniere eccentriche), si potesse manifestare sulla terra come una funesta emanazione di coloro che avevano poteri occulti. Interessante ma non certo un argomento da portare al commissario.

Raccolse un pennarello rosso e cerchiò una parola scritta a stampatello: MUTILAZIONI, poi tirò una riga fino a un’altra parola: RITO. Accanto scrisse: SACRIFICI??? Forse una parola migliore era: OFFERTE.

Ma offerte a che cosa? Alla luna? No, c’era qualche genere di ragionamento, anche se folle! Ad una divinità lunare allora? Erano quasi tutte divinità femminili. Dio, se lo avessero visto i suoi colleghi! Bene ce n’erano parecchie di dee lunari da analizzare:

Diana

Artemide

Selene

Poi ce n’erano tre che erano in realtà la stessa:

Agriope (greca)

Sheol (ebraica)

Nephys (egizia)

Ecate. Il nome gli ricordava qualcosa, un ricordo sfumato. Questo nome lo aveva spinto ad approfondire le ricerche sui riti lunari e su dei e dee particolarmente significativi. (Questa sembrava però essere la più popolare, ma cosa poteva significare? Vediamo!)

Ecate: dea dei morti. A lei erano dedicati riti negromantici. Era figlia del titano Perse e di Asteria. Protettrice e Maestra delle streghe. (Ma davvero prendeva sul serio queste scemenze?)

Ecate: guardiana degli Inferi. Condottiera di una schiera di demoni. Di notte usciva dall’Ade e si aggirava sulla terra accompagnata da cani feroci e dagli spiriti dei morti. Aveva i capelli fatti di serpenti brulicanti e la voce di una belva. Di notte amava ritirarsi vicino a un luogo chiamato Armarantiam Phasis, il ‘lago degli assassina’. (Carina!)

Ecate: padrona di tutti i segreti oscuri, madre delle streghe. (Cosa aveva quel nome che …)

Ecate: come la luna era mutevole di carattere. Alle volte benigna e materna, faceva da levatrice, e da madre putativa, proteggeva i raccolti e le greggi. Poi prendeva il sopravvento l’altro lato del suo carattere, quello oscuro. Diveniva allora una dea infernale, una dea serpente con tre teste: di cane, di cavallo, e di leone. (Cristo! Non poteva credere di aver scritto tutto ciò, meno male che aveva deciso di fare questa ricerca in casa!)

Overoy prese la tazza di caffè nascosta dietro la pila di libri, facendo una smorfia di disgusto per i resti ormai freddi. Posò di nuovo la tazza e si lasciò andare contro lo schienale. Ma dove conduceva tutto ciò? Stava solo perdendo tempo? O c’era forse qualche traccia? Ma quale? Avevano a che fare con una mente sconvolta, malata, qualcuno che mutilava e smembrava i cadaveri delle sue vittime. Una persona che lasciava come biglietto da visita una pietra di luna, che godeva nel torturare le menti degli altri. Un adoratore della luna? O forse più precisamente un adoratore di qualche divinità lunare?

Non aveva proprio senso. Ma del resto la sua preda era completamente pazza.

Ma perché Ecate gli era rimasto in testa? Cosa aveva di familiare quel nome? Qualcosa visto da qualche parte.

Emise un gemito. Non ne posso più, pensò. Sono troppo stanco per poter pensare ancora. Gli ronzava la testa, e non riusciva più a connettere. A letto. Dormici sopra. Parlane con Josie, che ore erano? Beh, le avrebbe parlato al mattino, lei riusciva sempre a chiarirgli le idee. Ma forse aveva sbagliato tutto. Divinità lunari, adoratori, pietre. Sensitivi. La vita era molto più semplice quand’era di ronda.

Si alzò dalla sedia e infilando le mani nelle tasche dei pantaloni diede un’ultima occhiata agli appunti. Poi scrollò le spalle, spense la luce e andò a letto…

… Si svegliò all’alba: la risposta era fi, davanti ai suoi occhi, come un neon lontano nella nebbia. Non era un granché, anzi un barlume, ma comunque un’idea.

Il sonno era scomparso del tutto, e lui si alzò di corsa…

* * *

Luna piena…

* * *

«Con chi parlo?»

«Ciao papà!»

«Ciao passerotto!»

«Sai papà, ho cominciato la scuola nuova.»

«Sì lo so. Me lo ha detto adesso la mamma. Hai già fatto amicizia con qualcuno?»

«Beh sì, una, anzi due. Però non sono molto sicura se mi piace Lucy. Devo restarci tanto in questa scuola papà? Mi manca un po’ quella vera.»

«Solo per un po’ Gabby, fino alle vacanze estive.»

«Poi torniamo nella nostra casa?»

«Perché, non ti piace lì dalla nonna?»

«Oooh sì! Ma a casa è meglio. La nonna mi vizia. Pensa che io sia ancora una bambina piccola.»

«Non capisce che sei cresciuta ormai?»

«No. Ma non è colpa sua, lei ce la mette tutta.»

Lui ridacchiò divertito. «Goditela allora, piccola. Non capita tutti i giorni.»

«Tutti i ‘grandi’ lo dicono. Vieni presto a trovarmi papà? Ho fatto dei disegni per te, proprio con le mani. La nonna si è arrabbiata perché ho sporcato tutti i muri, però non mi ha sculacciato, non lo fa mai. Ma vieni a trovarmi, papà?»

Childes non sapeva cosa risponderle. «Non lo so Gabby. Sai che mi piacerebbe, no?»

«Hai tanto da fare a scuola? Io l’ho detto alle mie amiche nuove che tu insegni ma Lucy non ci crede, dice che i maestri non insegnano mica i video giochi. Io ho cercato di spiegarglielo papà, ma lo sai come sono stupidi certi bambini. Quando cominciano le vacanze posso venire a trovarti papà?

Lui acconsentì anche se le incertezze erano tante.

«Però stavolta non voglio venire con la barca», disse con una vocina disgustata.

«No, certo, verrai in aereo.»

«Voglio dire quando sono lì. Non voglio andare in barca come l’altra volta».

«Vuoi dire quella volta in giro in motoscafo quando siamo andati in tutte quelle spiaggette? Mi sembrava che ti fossi divertita».

«Non mi piace più l’acqua.»

«Come mai Gabby? Ti piaceva tanto prima».

Non disse altro. Rimasero un attimo in silenzio. «Può venire anche la mamma?»

«Sì certo, se vuole. Forse ti lascia stare anche un mese con me.» Dimentica le incertezze, si disse. Lascia che queste promesse alla piccola ti facciano vedere il lato bello della vita. Considerale delle armi… contro quello che sarebbe avvenuto tra non molto.

«Veramente? Dici sul serio? Posso stare con te più di due settimane?»

«Dipende dalla mamma.»

«Glielo chiedi tu? Adesso, ti prego.»

«Beh, no Gabby, non adesso. Devo prima vedere di risolvere alcuni problemi. Poi potrò essere più sicuro.»

«Ma non ti dimentichi la promessa, vero?»

«Non mi dimenticherò, sta tranquilla.»

«OK, papà. C’è la micia che vuole salutarti.»

«Dille miao da parte mia.»

«Miao anche a te. Beh, non lo ha proprio detto ma si vede che lo pensa. La nonna le ha comprato una cesta ma lei preferisce dormire sul frigorifero.»

«La nonna dorme sopra il frigo?»

«Scemo! Vuoi parlare con la mamma? Ha detto che poi mi legge una storia a letto.»

No, avrebbe voluto invece chiederle di quella storia dell’acqua. I bambini sviluppavano spesso delle fobie improvvise e irrazionali che dopo un po’ di tempo scomparivano. Ma Childes era rimasto sconcertato da quel che aveva detto Gabby. Forse era stato un brutto film in TV, oppure uno dei bambini aveva raccontato qualche storia di annegamenti. In ogni caso nemmeno lui era stato molto amante dell’acqua. «OK. Passami la mamma. Ascolta… ti richiamo presto, va bene?»

«Sì papà, ciao ciao, ti voglio tanto bene.»

Per un attimo terribile ebbe paura di non poter più sentirsi dire quelle parole dalla figlia, ma scacciò il pensiero e rispose: «Anch’io ti voglio bene Gabby, tanto tanto».

Lei gli schioccò sei bacetti rapidi e depose il telefono prima che lui riuscisse a restituirli, ma riprese subito il telefono e aggiunse: «Ah papà, dì a Annabel che mi manca tanto e dille anche della nuova scuola.»

Poi si sentì il tonfo del ricevitore e la vocina di Gabby che chiamava la madre.

«Gabby …». Era andata. Forse aveva capito male, o forse si era sbagliata, volendo dire Amy. Dì a Amy che mi manca … La sua amichetta Annabel era morta, Gabby questo lo aveva capito ormai. Fran le aveva spiegato che Annabel non sarebbe più tornata.

«Eccomi qui Jon». La voce di Fran era come sempre frettolosa.

Childes scosse la testa per schiarirsi le idee. «Senti Fran, Gabby è sempre stata bene ultimamente?»

«Beh non proprio, non ha preso molto bene il trasferimento e poi cambiare scuola è sempre un po’ un trauma, lo sai.» Cambiò tono. «Jon, quando mi chiedi di Gabby mi preoccupi.»

«No, niente premonizioni Fran. Te lo assicuro. Ha mai chiesto di Annabel?»

«Sì, spesso, ma non è disperata come m’aspettavo. Perché me lo chiedi?»

«Mah. Ho l’impressione che creda che la sua amichetta sia ancora viva.»

Fran non rispose subito. Alla fine disse. «Ha cominciato a sognare molto da qualche giorno. Niente sogni brutti, o incubi, però parla nel sonno.»

«Ma ha fatto il nome di Annabel?»

«Sì, un paio di volte all’inizio, ma adesso ha smesso. Credo che abbia accettato l’idea che non la vedrà mai più.»

«Come mai ha improvvisamente paura dell’acqua?»

«Cosa?»

«Pare che non le piacciano più le barche né l’acqua.»

«Questa è nuova. Il fuoco potrei capirlo, dopo quello che ti è capitato, ma l’acqua! Non capisco!»

«Le hai raccontato del La Roche?»

«Certo. Il suo papà è un eroe.»

«Eroe proprio non direi.»

«Troppo modesto!»

«Molti da queste parti vorrebbero sapere come ho fatto ad arrivare a scuola così presto, prima ancora che venissero avvertiti i pompieri.»

«Sei sicuro che la polizia non ti sospetti?»

«Non proprio, ma fino ad ora nessuno è venuto a farmi i complimenti.»

«Oh Jon, non ci posso credere. Non possono essere così stupidi! A momenti ci rimanevi anche tu lì dentro. E poi hai salvato la vita di quelle due bambine e …»

«Ne ho lasciate morire altre sette!»

«Hai cercato di salvarle! Lo hai detto tu, hai fatto del tuo meglio.»

«È successo tutto per causa mia.»

«Smettila di fare il martire e cerca di pensare a te stesso. Solo perché un qualche psicopatico ha scelto te per una sua vendetta personale non puoi incolpare te stesso. Niente di quello che è successo dipende da te. Adesso spiegami cosa fanno quei cretini di poliziotti.»

«Bisogna cercare di vedere le cose dal loro punto di vista.»

«Col cavolo!»

«Volevano sapere come mai ero andato alla scuola prima ancora che scoppiasse l’incendio.»

«Questo deve essere stato difficile da giustificare. Spiegamelo di nuovo.»

«Te l’ho già detto, non facciamo il bis. Comunque mi hanno fatto un casino di domande, persino in ospedale quando ancora mi stavano dando l’ossigeno.»

«Che disgraziati!»

«Cosa t’aspetti con una scuola incendiata, parecchi morti e un poliziotto assassinato? Quella era la seconda volta che arrivavo sul luogo del delitto prima di chiunque altro.»

«E quindi ti sospettano di omicidio e incendio doloso. Fantastico! Jon che cavolo aspetti a scappare di lì? Torna qui, subito! Prendi il volo di mezzanotte oppure il primo di domani mattina. Perché sopportare tutto questo?»

«Non credo che sarebbero molto contenti qui.»

«Non possono mica trattenerti!»

«Potrebbero anche. Comunque non parto, Fran. Non ancora.»

Lei era esasperata. «E perché?»

«Perché è qui Fran. E finché rimane qui non può fare del male a te e a Gabby. Questo lo capisci, vero?»

Sì, lo capiva. E lo disse. Sottovoce.

Childes passò nel soggiorno dirigendosi verso un vassoio di bottiglie su una delle mensole della libreria. Prese la bottiglia di whisky, svitò il tappo, poi si fermò. Non serve a niente, si disse, non stanotte.

Ripose la bottiglia.

La stanza era in ombra, unica luce accesa una lampada da tavolo. Ai due lati della stanza le tende erano aperte e lasciavano penetrare una fredda luce notturna. Il cielo era di un colore metallico e scuro. La luna piena ancora bassa nel cielo terso assomigliava a un’ostia, sottile e candida. Chiuse le tende, lasciando fuori la notte.

Infilò le mani nelle tasche dei jeans e andò verso il tavolino accanto al divano, lentamente, ma con un fare deciso. Una barba vecchia di due giorni gli ingrigiva il mento e aveva lo sguardo fisso e intenso, stanco eppure desto. Si adagiò sul divano, i gomiti sulle ginocchia, e studiò il piccolo oggetto tondo sulla superficie di legno lucido del tavolino accanto. Negli occhi una volontà incrollabile.

La luce della lampada donava alla freddezza traslucida della pietra un certo calore: il blu liquido, cangiante in viola, ricordava i colori dell’inverno.

Scrutò nelle profondità della pietra, come una specie di chiaroveggente con la sua sfera di cristallo, affascinato dalle tenui sfumature di colore ma guardava molto più a fondo, cercando forse dentro se stesso, in realtà cercando altro, un nesso, un collegamento: un codice d’accesso!

Trovò solo nomi. E volti morti. Kelly, Patricia, Adele, Caroline, Isobel, Sarah-Jane. E Kathryn Bates, la governante. Tutte morte. Estelle Piprelly, cenere.

Annabel. Morta.

Ma Jeanette era viva. Amy, la dolce Amy, viva. E Gabby. Stranamente queste ultime tre non erano così chiare nelle sue visioni; il pensiero di esse non aveva profondità, era superficiale, come se non avessero a che fare con questa nuova cosa.

I suoi pensieri si aggiravano tra i morti. Persino quelli che non aveva mai conosciuto.

La prostituta. Il bambino violato nella tomba. Il vecchio con la testa segata via. Gli altri del manicomio. Non voleva vederli, né sentirne le voci, perché cercava qualcosa, qualcun altro. Ma le loro immagini e i loro suoni gli pulsavano davanti, pulsavano dentro la sua mente… palpitavano… crescevano, svanivano… crescevano, svanivano… si espandevano, si contraevano… un pallone prima gonfio, poi sgonfio, incorporeo… una palla di foschia bianca… La luna…

Sussultò e si portò la mano alla fronte, un dolore improvviso e acuto si fece strada attraverso quel sordo risentimento che lo aveva tormentato tutto il giorno. Cadde all’indietro sul divano.

La sua mente aveva quasi toccato…

«Vivienne?»

«Sì»

«Sono Jonathan Childes. Mi dispiace disturbare a quest’ora.»

Un breve silenzio all’altro capo del filo. «Scusa, ho chiuso la porta» disse Vivienne. Childes pensò che doveva esserci Paul Sebire nei pressi. «Come stai Jonathan? Sei riuscito a riprenderti da quella tremenda esperienza?»

«Sì. Sto bene grazie». Fisicamente almeno, pensò tra sé e sé.

«Amy è molto fiera di ciò che hai fatto. E anch’io.»

«Vorrei…»

«Lo so. Vorresti aver salvato anche le altre. Ma hai fatto quello che potevi. Spero solo che catturino presto il pazzo che ha fatto questa cosa orrenda. Dunque, non credo che tu voglia perdere tempo con me. Amy sta riposando nella sua stanza, ora te la passo. So che non dorme perché sono passata da lei poco fa. Sarà contenta di sentirti.»

«Sei sicura che non ci sono problemi?»

Vivienne rise piano. «Sicurissima. Comunque… beh, dovrò andare ad avvertirla invece di chiamarla da qui.»

«Il padre?»

«Il padre. Non è cattivo come pensi, Jon. È solo che gli piace dare un’impressione di durezza. Alla fine capirà, vedrai. Adesso riattacco e vado ad avvertire Amy.»

Attese, la testa ancora gli doleva, la stesso sordo pulsare di prima. Un clic, Amy era in linea.

«Jon, che succede?»

«Niente, niente Amy. Volevo solo sentire la tua voce. Ne avevo bisogno.»

«Sono contenta che hai chiamato.»

«Come ti senti?»

«Come l’ultima volta che mi hai chiamata. Ho sonno, ma devono essere le pastiglie. Non ci sono problemi, è passato il dottore prima, ha detto che i tagli sono molto meno gravi di quanto non sembrasse a prima vista. ‘Belle cicatrici’ ha detto. Potrò alzarmi e uscire già domani, e indovina dove vado?»

«No Amy, non qui. Non è il momento.»

«È lì che voglio essere. Sono in grado di superare qualsiasi problema di gelosia per te e Fran. Non è una cosa facile ma ce la farò. Io voglio stare con te. È inutile discutere.»

«Amy, non devi venire!»

«Spiegami perché?»

«Lo sai il motivo.»

«Tu pensi di rappresentare un pericolo per me.»

«Io sono un pericolo per chiunque in questo momento. Ho persino pensato ai rischi che facevo correre a Gabby chiamandola questa sera. Cerco perfino di evitare di pensare a lei, per paura che questo mostro scopra dov’è.»

«La polizia lo troverà. Non ha modo di andarsene dall’isola.»

«Non credo che gliene importi più niente di andarsene.»

Un dolore lancinante, di nuovo. Childes annaspò.

«Jon?»

«Adesso ti lascio riposare Amy.»

«Ho riposato più che abbastanza. Adesso è il momento di parlare.»

«Domani.» C’era un che di spiacevolmente indeterminato in quella parola. «C’è qualcosa che non vuoi dirmi?» chiese lei quasi con cautela.

«No!» mentì lui. «È solo che sono stanco di stare in disparte a guardare tutte queste atrocità senza fare niente.»

«Non c’è niente che tu possa fare. È compito della polizia sistemare la cosa.»

«Forse.»

Lei avvertì di nuovo quel tono nella sua voce; era solenne ma c’era un fondo di rabbia, un’ira contenuta ma nervosa, l’aveva captata appena aveva alzato il telefono, forse persino prima che parlasse, come se la potenza di quell’energia fluisse lungo i fili. Era impossibile, lei lo sapeva, ma allora perché si sentiva così a disagio, così indebolita da questa… immaginaria?… forza?

«Dormi Amy. Riposati», le disse Jon.

Improvvisamente si sentì stanchissima, quasi lui avesse dato un ordine direttamente al suo corpo. Doveva dormire!

«Jon…»

«A domani Amy.»

La sua voce era vuota, sembrava l’ultimo rimbalzare di un’eco. Il ricevitore le sembrò incredibilmente pesante.

«Sì, a domani Jon», disse lentamente. Le palpebre erano stranamente pesanti. Ma cos’era, un’ipnosi per telefono? «Jon…» tentò di protestare, ma non trovò l’energia necessaria per finire la frase.

«Ti amo tanto Amy.»

«Anch’io…»

Di nuovo un clic, la linea fu interrotta. Un’improvviso profondo senso di perdita quasi la ridestò. Ma lui aveva detto di riposare, di dormire.

Il ricevitore le scivolò dalle dita.

Childes posò il telefono e si chiese se le pillole che Amy prendeva non contenessero anche un sedativo oltre all’analgesico. Andò nel bagno per sciacquarsi la faccia, anche lui si sentiva spossato… e paradossalmente, anche straordinariamente all’erta. Riempì il lavabo d’acqua fredda e si spruzzò ripetutamente il viso premendovi gli occhi chiusi con le dita bagnate. Infine si rialzò scrutandosi nello specchio; si guardò negli occhi notando le pupille arrossate attorno alle lenti a contatto. Se lo specchio avesse potuto rifletterlo, avrebbe notato anche l’alone di brevi raggi bianco-violetti di energia eterea irradiata dal suo corpo.

Si asciugò il viso e le mani, poi tornò nel soggiorno. Di nuovo sprofondò nel divano, resistendo alla tentazione di versarsi un bel bicchiere di whisky. Doveva mantenersi lucido, non poteva rischiare di intorpidire i sensi bevendo. La pietra sembrava più luminosa, la fiammella azzurra era quasi scomparsa.

Di nuovo quel dolore nella testa, piccole staffilate ripetute stavolta. Ma lui sopportò. Solo il desiderio urgente di parlare con Amy aveva interrotto quel lungo esercizio della mente e prima ancora il bisogno di sentire la voce di Gabby. Ora non ci sarebbero state altre interruzioni. Amy e Gabby erano al sicuro, lontane dal pericolo. Poteva concentrarsi liberamente. Ma era doloroso, incredibilmente doloroso. Chiuse gli occhi. E continuava a vedere la pietra.

Li riaprì quando gli parve di sentir bisbigliare. Si guardò attorno. Il bisbigliare cessò. Era solo nella stanza. Richiuse gli occhi.

E di nuovo sentì il sommesso bisbigliare.

Permise alla sua mente di inseguire quei suoni, di assorbirli ed esserne assorbita, e tutto avvenne velocemente. (La ricerca era stata lentissima, ore e ore di sondaggi, di esplorazioni). Fu come una valanga di neve in alta montagna, una massa bianca, soffice e cedevole, che precipitava quasi senza scosse, sprofondando in se stessa.

Bisbigli.

Voci.

Alcune le riconobbe. Erano delle ragazze del La Roche, quelle che si erano fuse in un’unica massa ardente quando erano precipitate nel vortice di fiamme. Incenerite, cremate in un unico cumulo di polvere.

Altre.

Una vocina stridula come quella di Gabby, ma non era la sua.

Altre ancora. Impazzite anche da morte. Quasi ne sentiva la presenza.

Voci che lo mettevano in guardia. Altre che gli davano il benvenuto.

La testa gli girava. Ora la pietra era diventata la luna, una luna palpitante e che si espandeva, incombeva… minacciava…

… Raggiunse, stavolta in modo completo, la mente malata e maligna dell’altro…

* * *

Se l’agente Donnelly non avesse considerato sacra ogni forma di vita persino quella dei conigli che si bloccavano in mezzo alla strada paralizzati dai fari delle macchine, probabilmente non avrebbe perso le tracce della macchina che aveva l’ordine di pedinare.

Sta di fatto che aveva visto Childes uscire dal cottage, ben visibile illuminato com’era dalla luna, salire in macchina e allontanarsi lungo il viale. Dopo averne dato comunicazione alla centrale il poliziotto si era messo in moto, rimanendo a una distanza discreta ma sufficiente.

Il coniglio (ma forse era una lepre? Dicono che le lepri hanno una morbosa soggezione della luna e corrono all’impazzata le notti in cui brilla) era apparso a una curva e Donnelly aveva frenato appena in tempo, sterzando verso sinistra, fermandosi sul ciglio con il muso dell’auto nella siepe.

Il coniglio (o la lepre, come si faceva a riconoscerli?) era rimasto lì, accucciato in mezzo alla strada, tremante di terrore, gli occhioni neri e lucidi che fissavano tremebondi il buio. Il poliziotto era dovuto scendere per scacciare quella stupida bestiola. Quando l’agente Donnelly aveva ripreso l’inseguimento i fanalini di coda della Renault erano scomparsi.

Pareva che la macchina e il suo autista fossero svaniti nel nulla, ingoiati dal paesaggio imbiancato dal chiaro di luna.

* * *

Prima fu lo scampanellio alla porta a scuoterla dal sonno, poi il suono delle voci la risvegliò del tutto. Una era sicuramente quella del padre, ed era arrabbiato. Tirò via il lenzuolo, con un leggero sforzo si mise in piedi, si avvicinò alla porta della stanza zoppicando un poco e socchiuse la porta quanto bastava per sentire.

Le voci le giungevano comunque soffocate, ma il padre evidentemente stava reclamando per l’ora tarda a cui avveniva la visita. Le sembrò di riconoscere anche le altre due voci. Amy si unì alla madre che si trovava accanto alle scale e guardava l’atrio in basso dove i tre uomini stavano discutendo. Uno era appunto Paul Sebire, ancora vestito perché stava lavorando nello studio. Gli altri due erano l’ispettore Robillard e Overpy. Amy si domandò come mai Overoy fosse di nuovo sull’isola. Rimase accanto alla madre e ascoltò.

«È assolutamente ridicolo Robillard,» stava dicendo Sebire, «perché mai dovrei sapere dov’è? In tutta franchezza, se anche non lo vedessi mai più non mi dispiacerebbe affatto.»

Fu Overoy a rispondergli. «Voglio sapere se la signorina Sebire ha parlato con lui oggi.»

«Può darsi che mia figlia e lui si siano sentiti in questi giorni, ma Aimée non ha idea di dove possa essere a quest’ora di notte.»

Amy e la madre si scambiarono uno sguardo d’intesa. «Vai a prendere la vestaglia e vieni giù» disse Vivienne alla figlia, e si diresse verso le scale. «Ispettore!» lo chiamò scendendo. «Amy ha ricevuto una telefonata da Jonathan stasera.»

Paul Sebire guardò la moglie prima sorpreso quindi infastidito.

«Ah!» fece Overoy, e attese che fosse scesa. «Potremmo scambiare qualche parola con la signorina? È una cosa molto urgente.»

«State a sentire!» esclamò Sebire. «Mia figlia sta dormendo e non deve essere disturbata. Non si è ancora rimessa dall’incidente.»

«Non c’è nessun problema, sono qui.»

Sebire si voltò di scatto e vide la figlia sulle scale. Amy non lo guardò nemmeno; non gli aveva quasi più rivolto la parola da quando aveva saputo che aveva aggredito Jon all’ospedale.

Overoy guardò con dispiacere la benda sull’occhio di Amy e il suo braccio ingessato. Camminava rigida e zoppicava. I segni delle ferite deturpavano un poco il volto levigato e abbronzato che ricordava dai loro precedenti incontri.

«Ci dispiace darle disturbo a quest’ora, signorina» si scusò Robillard, decisamente a disagio in quell’atrio con la porta d’ingresso ancora aperta alile loro spalle. «Ma come abbiamo già spiegato al signor Sebire si tratta di una cosa molto importante.»

«Non si preoccupi ispettore, se si tratta di Jon sono prontissima ad essere d’aiuto. Cosa è successo?»

«Dovresti essere a letto a riposare, Amy» fece Paul Sebire quasi supplicandola.

«Falla finita papà! Sai benissimo che il medico ha detto che domani posso alzarmi e anche uscire, se voglio.»

Overoy intervenne: «Mi dispiace molto del suo incidente, signorina. Jon mi ha detto tutto. E il suo occhio…?»

Nonostante l’ansia di sentire cos’era successo a Jon, Amy sorrise. «Niente di grave a quanto pare, non avrò problemi alla vista. La benda serve solo ad evitare infezioni all’occhio e per farlo riposare per qualche giorno. Ma mi dica tutto, per favore».

Vivienne si avvicinò alla figlia e le passò un braccio attorno alla vita.

«Il signor Childes è scomparso dal suo cottage» disse l’ispettore Robillard. Oltre la sua spalla all’esterno Amy notò che erano parcheggiate molte auto della polizia, non solamente la loro. Le venne un nodo alla gola. «Uno dei nostri agenti che lo sorvegliava… ha perso le sue tracce mentre lo seguiva in campagna.»

«Non capisco.»

«Ci chiedevamo se Jon non avesse telefonato a lei per dirle dove intendeva andare» le spiegò Overoy, grattandosi la tempia con un dito macchiato di nicotina.

Amy guardò prima uno poi l’altro poliziotto. «Sì, mi ha chiamato prima ma non ha detto che usciva. Semmai sembrava stanco. Ma perché lo volete sapere? Non sarà mica sospettato di qualcosa?»

«Non lo è mai stato per quello che mi riguarda» affermò Overoy, guardando con una punta di disprezzo il collega. «Io ho preso il primo volo perché volevo parlare con lui. Spero anche di poter aiutare la polizia locale ad effettuare un arresto.»

Fece una pausa guardandoli entrambi e aggiunse: «Abbiamo identificato la persona responsabile di queste follie. Abbiamo fatto accertamenti e sappiamo che è sull’isola. Ma potrebbe arrivare a Jonathan Childes prima di noi.»

* * *

Childes rimase dentro la macchina, improvvisamente preso da una paura terribile. L’aveva attirato in quel luogo, inducendogli nella mente l’immagine di un grande lago illuminato dalla luna. Ma non esisteva un lago di quelle dimensioni sull’isola. C’era solo questa distesa di acqua, una valle che era stata sbarrata da una grande diga, formando ora una riserva di acqua alimentata dai torrenti che scendevano verso il mare.

Una voce, era stata proprio una voce, forse un pensiero, lo aveva invitato, attirato con una promessa.

Chi istigava quel pensiero non aveva sostanza, o forma. Quando Childes cercava di concentrarsi, la sua coscienza si richiudeva in se stessa. Dietro gli occhi Childes vedeva una sorgente di luce, una luna che si stagliava netta contro gli abissi della sua mente e impediva ogni raziocinio.

Lo voleva lì, e Childes non aveva opposto resistenza.

La promessa! Un movente?

La fine delle morti. La fine della tortura. E, forse, una risposta ai suoi stessi misteri.

Questo pensiero lo spinse ad aprire lo sportello, così come lo aveva guidato attraverso i viottoli di campagna fino a lì. Era sicuro di essere seguito quando era partito dal cottage. Una macchina della polizia, sicuramente, sapeva di essere sorvegliato giorno e notte, ma le luci dietro a sé erano scomparse, l’altro aveva probabilmente preso una svolta diversa nell’intrico di viuzze. Stava diventando anche paranoico? Beh, si poteva anche capire.

La notte era fresca malgrado la stagione, una brezza soffiava dal mare dando sollievo alla terra dopo la calura diurna. I jeans e il maglione non erano sufficienti per scaldarlo, aveva continui brividi lungo la schiena; si tirò su il bavero della giacca attorno al collo. La luna piena era sempre tersa, non offuscata da nuvole, e il suo freddo chiarore illuminava la campagna; sembrava stranamente piatta, e le ombre erano nere e insondabili. Il cielo era tanto luminoso da rendere invisibili i milioni di stelle che lo costellavano. Mentre Childes si avvicinava alla diga gli parve che il paesaggio si fosse congelato intorno a sé.

Era teso e all’erta, con gli occhi scrutava il terreno attorno. Una figura immobile si sarebbe confusa facilmente con le ombre scure e le forme strane dell’ambiente. Quel cespuglio poteva essere una belva in agguato; quel tronco con le radici tese che affioravano in superficie sembrava un uomo seduto; quel boschetto poteva nascondere un predatore notturno.

Si disse che sarebbe stato meglio farsi seguire da una pattuglia della polizia. Avrebbe dovuto chiamare Robillard prima di uscire. Ma come faceva a spiegare all’ispettore, che era piuttosto scettico nei suoi confronti, che quella sera la sua mente si era fusa con quella di un altro? Questa volta però la comunione era stata completa, con Childes all’offensiva, cercando e sondando, sorprendendo l’altro con la propria forza, e poi, gradualmente lasciandosene assorbire.

Da quell’essere!

Come spiegare la silenziosa, tormentosa battaglia delle menti che ne era seguita? La creatura lo derideva insultandolo con gli orrori delle morti avvenute rivelandogliele come in un disordinato montaggio di immagini, ogni inquadratura contenendo le sensazioni, gli odori, il dolore e la paura dell’avvenimento reale, come in una nuova, incredibile dimensione cinematografica.

Il vecchio che si lamentava debolmente mentre la sega intaccava l’osso.

Il terrore folle di Jeanette, appesa alla balaustra, strozzata da una cravatta annodata, salva ma non risparmiata dall’esperienza della morte.

La prostituta, la prima visione di Childes, le sue viscere strappate, allora non sapeva che sarebbe stata la prima di un torrente di macabre apparizioni, un incubo continuo.

La mano carbonizzata di Kelly. La scuola in fiamme prima ancora che venisse appiccato il fuoco.

Il bimbo morto, il suo corpo dissacrato e dilaniato, gli organi putrescenti sparsi sull’erba accanto alla fossa.

Annabel. Povera piccola Annabel, scambiata per Gabby, le sue povere piccole dita smembrate e avvolte in un pacchetto.

E aveva visto l’orrenda morte di Estelle Piprelly, immobilizzata a terra, con il collo spezzato, un rivolo di fuoco che correva verso il suo povero corpo.

Come spiegare questa macabra sequenza a un ispettore di polizia pragmatico, per non dire cocciuto? Spiegargli come sapeva dove sarebbe andato, che l’immagine del lago argentato si era srotolata nella sua mente come un’onda sulla risacca. E che in questo luogo tutto sarebbe arrivato alla conclusione. Non erano cose che si potevano spiegare in modo logico. Potevano solo essere sentite, o credute sulla fiducia. Non erano in molti ad avere quel tipo di fede. Lui stesso per buona parte della vita non l’aveva avuta.

Alle spalle aveva la stradina che correva attorno al lago per poi scendere verso la valle. Salì i larghi pietroni posti a formare una scalinata che conduceva in cima alla diga e sostò ad osservare la lunga passerella di cemento con i parapetti in ferro. Robusti pali di cemento posti a rinforzare ad intervalli regolari i parapetti da ambo i lati, erano ricoperti di firme graffiate sulla superficie da turisti di passaggio; dagli interstizi delle pietre che lastricavano il passaggio sbucavano fasci d’erba. Dall’altro lato si ergeva una torretta ottagonale dove erano alloggiati i meccanismi di controllo della diga.

Childes avanzò. Si sentiva vulnerabile sulla diga, e si guardava continuamente davanti e dietro. La luce biancastra aveva un effetto surreale e incolore sull’ambiente. La superficie del lago pareva una lastra di alluminio appena ruvida, tanto appariva solida; ma sotto si avvertiva la profondità minacciosa dell’enorme massa d’acqua. Cadervi significava venire risucchiato in un’oscurità senza fondo, in cui schiantarsi più che annegare.

Contò i gradini, sette in tutto, il corridoio si prolungava in un ponte sospeso nel vuoto. Lui si portò al centro e attese, solitario e spaventato ma deciso.

Childes sentiva il mare da quel punto, riusciva addirittura a distinguere le creste bianche delle onde che s’infrangevano incessanti contro la scogliera lontana. La notte era limpidissima, spazzata da una brezza pungente che gli scompigliava i capelli mentre guardava oltre il parapetto, in basso verso valle. Il muraglione s’incurvava verso l’esterno terminando alla base in un bacino di drenaggio. Da lì un condotto convogliava l’acqua sottoterra verso il mare. Non lontano dal bacino c’era la grande stazione di pompaggio e inoltre la centrale elettrica circondata da depuratori. Luci lontane s’intravedevano all’altro lato della valle. Gente che si godeva la notte, egli ne invidiò la tranquillità.

Un animale svolazzò sopra la sua testa, troppo erratico il volo per poter essere un uccello; probabilmente un pipistrello che, in perfetta sintonia con quella notte, sparì nel buio. Il battere delle sue ali come lo sfarfallio di un cuore impaurito.

Mentre aspettava, le apparizioni tornarono ad invadergli la mente, assalendolo con rinnovata intensità; per l’ennesima volta si chiese quanta malvagità albergasse nella mente di colui che aveva commesso quei crimini. Childes si era sforzato la niente per giorni interi, guidato ora dall’accettazione di ciò che aveva rimosso dalla coscienza per anni; la sicurezza era diventata più forte e dava vigore al suo potere misterioso.

Ricordava ora altre occasioni in cui aveva respinto le apparizioni, le premonizioni valutandole semplici intuizioni, coincidenze casuali; aveva talmente rifiutato quella dote psichica da riuscire a dimenticare completamente quegli episodi fino a quel momento.

Si ricordò di un amico d’infanzia che egli aveva visto morire investito da un’auto pirata. L’incidente era poi realmente avvenuto molte settimane dopo. Aveva visto uno zio colpito da un attacco cardiaco. Alcuni mesi dopo l’uomo era in coma con una sclerosi coronarica acuta. E aveva visto la morte della madre molto tempo prima che il suo corpo fosse consumato dal cancro.

Suo padre era stato crudele con lui quando gli aveva rivelato queste sensazioni in seguito, dopo la morte di sua madre. Lo aveva picchiato per averla predetta incolpandolo di averla causata. Lo aveva picchiato così tanto da rompergli il naso e tre costole e lo aveva costretto poi a confermare con i medici che lo avevano curato la versione di essersi ferito cadendo dalle scale.

Ma peggio ancora, nei giorni che erano seguiti lui aveva cominciato a credere alla versione del padre. Aveva creduto veramente di aver provocato la morte della madre. La colpa annullava quasi il dolore delle ossa rotte e quando la febbre, che nasceva più dal rimorso che dalle lesioni, era passata, lui aveva ormai eretto un muro incrollabile attorno alle sue capacità sensitive, chiudendovi dentro anche il senso di colpa che ad esse si accompagnavano.

L’assassinio dei bambini tre anni prima aveva in qualche modo forzato un’apertura in questa barriera, aveva scatenato nuovamente i procedimenti precognitivi.

E ora il nuovo mostro aveva abbattuto definitivamente l’argine allagando la sua mente di sensazioni. Il suo subconscio era tornato indietro a riconsiderare la sua misera infanzia. E il bimbo che era stato, aveva allora visto il suo se stesso futuro in quegli occhi che lo guardavano dal soffitto.

Queste risposte ovviamente comportavano altri misteri, ma questi appartenevano alla sfera psicologica, segreti che riguardavano la psiche dell’uomo, i segreti della mente.

Questi pensieri gli si affollavano dentro mentre attendeva in alto sulla diga. Facevano sorgere in lui un’esaltazione spossante, come se si trovasse sull’orlo di una nuova esperienza sensoriale. Osservò la luna e vide che era straordinariamente luminosa, potente e glaciale, dominava il cielo notturno con una vitalità liquida. Il corpo di Childes vibrò di tensione.

Sentì di non essere più solo.

Si guardò alle spalle, da dove era arrivato.

Nulla si muoveva.

Guardò davanti a sé dall’altro lato della diga dove c’erano altri gruppi di alberi, altre ombre scure tra i cespugli, un altro sentiero che si diramava dalla stradina.

Lì, qualcosa si muoveva.

* * *

Lo aveva atteso nel buio rifugio e sorrideva, un ghigno satanico. Così finalmente era arrivato!

Era un bene poiché si avvicinava il loro momento. Ora, sotto la luna piena. Molto appropriato.

Uscì da sotto gli alberi e avanzò verso la diga.

* * *

Se la paura aveva dei confini Childes pensava di averne raggiunto il limite. Dovette appoggiarsi al parapetto per sostenersi, Te gambe improvvisamente deboli. Lo stomaco gli sembrava pieno di piume agitate, il torace rigido faticava a respirare. Persino le braccia gli sembrarono inerti e pesanti, come senza muscoli.

Era sulla diga, una figura nera e goffa illuminata dalla luna che avanzava verso di lui, il corpo basso e tarchiato dondolava leggermente ad ogni passo, arrancando in modo sgraziato, senza alcuna fluidità.

Mentre la figura avanzava lui sentiva la risata malvagia nella sua mente. Una risata rapace che lo raggelò, lo catturò.

Childes strinse più forte il parapetto. Oh Dio, è dentro la mia mente, più forte che mai!

Riuscì ben presto a scorgere il profilo del corpo grossolano. Le spalle larghe ma cadenti, coperte da una massa di capelli ricci e spessi. Il naso e il mento. Le superfici della fronte e delle guance. E il taglio largo e scuro della bocca sogghignante.

Si avvicinò di più, oltrepassò la torretta, il corpo scomparve per un attimo dietro al muretto. Poi riapparve, prima la testa poi le spalle, mentre saliva i gradini. Aveva ancora gli occhi in ombra, pozzi bui che contenevano una minaccia scura e insondabile come l’acqua del lago.

Il corpo sembrava sorgere da una tomba, una testa grossa, con i capelli disordinati, gli occhi nascosti, il ghigno sempre più vicino, la mente protesa, verso di lui. E c’era un’altra cosa che lo disturbava di questo corpo che si trascinava più che camminare, qualcosa che diventava sempre più evidente mentre avanzava, fin quando non si fermò a poco più di tre metri da lui.

Fu solo allora, quando alla fine poté guardare quel volto ora illuminato dalla luna, e vide le fessure degli occhi, piccoli e neri, che capì; quando parlò la voce non rivelava nulla del suo sesso, tanto era bassa e gracchiante.

«Mi sono… molto… divertita» disse, scandendo le parole. Il gorgoglio della risata era orribile quanto la voce e lo colpì come una mazzata. Si aggrappò ancora di più al parapetto.

La donna si avvicinò di un altro metro e lui notò che le sue caviglie sotto una gonnellona larga erano gonfie e fuoriuscivano dagli scarponi allacciati come se la carne si stesse sciogliendo. Una giacca a vento enorme e laida le ricopriva la parte superiore del corpo.

Childes si costrinse a stare diritto. Nella testa gli ronzavano pensieri confusi, la nausea gli otturava la gola. Sentiva l’odore di questa donna, sentiva il puzzo della sua follia! Deglutì, cercando disperatamente di ritrovare le forze.

L’unica domanda che gli venne in mente fu: «Perché?»

La parola fu solo un rantolo, ma lei capì. Sentì, vide, che cambiava atteggiamento, non più divertita.

«Per Lei!», rispose con quella voce afona e allungò il collo per rivolgersi verso la luna. «Per la Mia Signora!»

Aprì la bocca e lui vide i denti storti e anneriti. Sembrò bere la luce della luna e quando voltò di nuovo la testa per un attimo sembrò che la luce bianca che si rifletteva nei suoi occhi piccoli e crudeli provenisse dal suo interno, la luna era dentro di lei e gli occhi non erano che finestrelle attraverso cui filtrava la luce. L’illusione durò poco, ma l’immagine si fissò nella mente di Childes.

«Dimmi… dimmi, chi sei?» chiese Childes balbettando, dubitando della propria sanità di mente.

La donna grossolana lo guardò a lungo prima di rispondergli ancora. I suoi occhi ora erano spenti ma aveva uno sguardo più cupo, più maligno. «Non lo sai?» gli chiese sempre scandendo le parole. «Non hai imparato niente di me? Io ho saputo tante cose di te, bello mio.»

Lui si staccò dal parapetto. «Non capisco» riuscì a dire, cercando di mantenere ferma la voce, e tentando di far smettere il tremolio delle gambe. È solo una donna, si disse, non è un mostro, è solo una donna. Ma era una donna pazza, gli disse una vocina stridula nella testa. Una pazza eccezionalmente forte, disse ancora. E sa che tu sei terribilmente spaventato, bello mio!

«Ti ho rubato la bambina». La donna ridacchiò. Aveva cambiato di nuovo umore, anche Childes ne subiva l’influenza, come se i loro sentimenti fossero collegati.

«Non la tua bambina…» disse maliziosa, «… per sfortuna. L’altra bambinella. Come si dimenava la piccola, quanto lottava!»

Un inizio di rabbia gli fiammeggiò dentro, una fiammella persa nel buio della paura. La fiamma si dilatò disperdendo una parte delle tenebre.

«Tu … hai ammazzato Annabel» disse secco.

«Anche le altre». La sua voce era un ruggito cupo, un ruggito quasi divertito. «Non ti dimenticare le altre. Anche quelle ragazze erano per la Mia Signora.»

La brezza che soffiava sulla diga si era fatta più fredda, più intensa, e portava con sé l’odore salmastro del mare.

«Le hai assassinate.»

«Il fuoco le ha assassinate, bello mio. E anche la donna che ha cercato di fermarmi. Il fuoco ha ammazzato anche quei ritardati nel manicomio. Oh, come mi sono divertita in quel posto lì.» Sporse in avanti la testa con fare confidenziale, gli occhi di nuovo in ombra. «Sì, come mi sono divertita!» ripeté sottovoce. «Il mio manicomio. Nessuno credeva a quegli imbecilli, alle loro storie pietose. Chi avrebbe mai creduto a quello che facevo loro quando li beccavo da soli? Chi può credere a dei pazzi? Era così divertente, così piacevole! Che peccato che sia tutto finito, ma tu ti stavi avvicinando, non è vero, bello mio? E tu mi avresti denunciata, vero? Hai fatto infuriare la Mia Signora.»

Ora Childes si era leggermente avvicinato a lei. «Continuo a non capire, quale signora?»

Fece una smorfia, o forse era una sorta di sorriso malvagio. «Ma come, non lo sai? Non hai sentito il suo potere divino dentro di te? Il potere della Dea della Luna che cala e che cresce con i cicli del pianeta? Non senti la sua forza nelle nostre menti? Hai anche tu il ‘potere’, bello mio. Non capisci?»

«Le visioni…»

Diventò impaziente, Childes sentiva la sua irritazione. «Chiamala come ti pare, non ha alcuna importanza. Quando il ‘potere’ è in comunione, quando le nostre menti sono unite … come adesso, la sua forza è meravigliosa, così… potente.» Il pensiero la lasciò senza fiato e dondolò sui piedi, ammirando di nuovo la sfera bianca nel cielo.

Il puzzo della sua follia era rancido.

Si immobilizzò e abbassò la testa. «Non ti ricordi più del nostro giochino con le macchine?»

«I computer?» Scosse la testa perplesso. «Tu hai fatto apparire la parola MOON sugli schermi!»

Rise, e il suono era minaccioso. «Tu hai fatto apparire la parola nelle loro teste! Non sulle macchine, caro il mio sciocco. Lo abbiamo fatto insieme, tu e io, abbiamo fatto vedere alle tue brave ragazzine quello che volevamo! E io ho fatto vedere a te ciò che volevo.»

Illusioni! Erano tutte illusioni. E forse era meglio così, era più normale, più logico, sapere che niente di tutto ciò era vero.

«Ma perché?» la pregò. «In nome di Dio perché sono dovute morire?»

«Non per Dio, ma per la nostra Dea. Agnelli sacrificali, bello mio. Per la loro energia spirituale, che non era un granché, comunque. Era interessante nella donna invece, quella a cui ho rotto il collo.»

«La signorina Piprelly?»

Scrollò le spalle immense. «Se è così che si chiamava. Hai capito di che energia parlo, vero? La chiameresti forza psichica, o qualche altra parolona così. L’energia che è racchiusa qui dentro.» Si toccò la fronte con un grosso dito e Childes rabbrividì nel constatare quanto fossero grandi le sue mani. Mani potenti, gonfie come il suo corpo.

«Ma quella della donna era niente in confronto alla tua, bello mio. Oh no, la tua è speciale. Ti ho guardato dentro, ho toccato il tuo spirito. Tanta forza, e trattenuta così a lungo! Ma ora appartiene a me.»

Sogghignò ancora e si avvicinò.

«E tutti gli altri?» chiese Childes, che aveva bisogno di tempo affinché la rabbia gli prestasse forza. «Perché li hai mutilati in quel modo?»

«Ho assaggiato le loro anime attraverso le loro carni interne. Era il solo modo, capisci bello mio? Li ho svuotati e poi riempiti di nuovo, ma non con i loro stessi organi … no, no, altrimenti gli organi si sarebbero ripresi l’anima, e la loro anima apparteneva alla Dea. Ma ho lasciato loro una pietra, la Sua presenza materiale sulla terra. L’hai conosciuto il suo spirito terrestre, vero? Quella fiammella azzurra che è la sua essenza. Era il mio dono a quegli sfortunati che dovevano morire per lei.»

Pazza. Era completamente pazza. E si era avvicinata molto, troppo.

Un terrore muto e gelido lo serrava con dita d’acciaio, immobilizzandolo mentre lei tendeva una di quelle grosse mani verso di lui. Le dita si schiusero lentamente, il palmo rivolto in su in modo che la luna ne illuminasse la superficie.

«Ne ho una anche per te» sibilò, sorridendo per tutto quanto era implicito nell’offerta.

Una minuscola pietra di luna giaceva nella sua mano aperta, ma forse era la mente di quella donna folle ad agire sulla sua, impiantandovene il pensiero, l’illusione. Era indubbio che la donna possedeva una forza mentale incredibile. Dentro la gemma un fulgore, una fosforescenza azzurra che la luce della luna rendeva ancora più vivida. E in quella luce egli ripercorse nuovamente tutte le morti.

Con un grido di rabbia Childes colpì la mano protesa e la pietra volò in aria, una minuscola stella cadente che sparì subito nel vuoto della valle.

La folle donna che aveva in sé quella temibile energia rimase immobile in silenzio, la mano sempre protesa, il volto dagli occhi in ombra insondabile. Anche Childes rimase inchiodato, l’aria tra di loro sembrava pericolosamente carica, una corrente insidiosa pareva scorrere dall’uno all’altro. I peli gli si drizzarono sulla pelle. Un pensiero gli esplose nella mente e lo fece barcollare.

Amy era riversa a terra dietro il basso muretto accanto alla strada, con il viso pieno di frammenti taglienti di vetro, il collo ritorto in modo strano, la testa contro un tronco d’albero, la bocca aperta da cui colava sangue schiumoso.

«Noo!» urlò. Il pensiero svanì.

La scura fessura sul viso della donna era un ghigno.

Si coprì il volto con le mani appena lo colpì un’altra visione.

Jeanette appesa sulle scale, il collo strozzato dal cappio della cravatta, la carne tumefatta che premeva sui bordi. La lingua gonfia le usciva dalla bocca allungandosi come un orrido verme violaceo che le strisciava lungo il mento. Gli occhi sporgevano dalle orbite, prima uno poi l’altro uscirono dalle cavità e rimasero appesi per i nervi contro le guance. Un rivolo di liquido giallastro le colò tra le gambe macchiandole un calzino bianco, poi cadde gocciolando nella tromba delle scale.

«Non è reale!» urlò ancora.

Gabby sdraiata, il piccolo corpo bianco, nudo e immobile, come la morte stessa. Lo stomaco squarciato, le viscere appiccicose penzolanti, palpitanti e sguscianti come orrendi parassiti. La bocca si aprì e ne uscirono altre cose striscianti, portandosi dietro la sua piccola esistenza. Le dita erano state mozzate, anche i piedi erano senza dita. Lo chiamava. Papaaà!

Papaaà! Papaaà!

«ILLUSIONE!» gridò forte.

Ma quella cosa che lo sfidava su quella diga rideva, una risata profonda e malefica quanto la mente sconvolta che la emetteva.

La testa gli fu scagliata all’indietro colpita da una forza invisibile. Si toccò la guancia bruciante e sentì caldo. Eppure non si era mossa. Il suo ridacchiare lo tormentò come le fredde dita d’acciaio che lo toccavano stringendogli forte i testicoli. Il dolore lancinante lo fece piegare in due.

«Illusione, bello mio?» disse l’orrenda voce.

Strillò e cadde a terra quando la mano invisibile diventò rovente e gli penetrò nell’ano, bruciandolo su fino alle viscere, stringendogli gli intestini in una morsa di fuoco.

«Illusione?» ripeté.

Malgrado il dolore fosse sovrumano Childes capì che non era realtà; la terrificante intensità del dolore scacciava persino la paura, e con essa quello spaventoso controllo che la donna esercitava su di lui.

Il dolore cessò appena ebbe compreso questa verità. Ma era spossato e accasciato contro il parapetto. Fissò la forma immobile e nera della donna.

«Illusione» ribadì senza più fiato.

La sua ira lo avvolse come una raffica di vento, schiacciandolo al suolo. Ebbe una sensazione pungente agli occhi e vedeva sfocato, si strappò via le lenti a contatto che caddero a terra, due frammenti di plastica accartocciati. Cercò di alzarsi in piedi aggrappandosi al parapetto, gli occhi lacrimavano.

Una pressione sconosciuta lo teneva inchiodato, ma Childes lottò, agguantando l’orlo del parapetto con una mano. Non è reale, non è reale, continuava a ripetere. Poi fece un tentativo per colpire quel mostro. Non con il corpo. Non con i pugni. Con la mente, le tirò un colpo con la mente. Fu sorpreso di vederla oscillare per un attimo.

Lei lo aggredì di nuovo e Childes indietreggiò, sbattendo la schiena contro il parapetto. Ma stavolta gli attacchi non erano così duri, erano meno efficaci.

Sentiva delle voci, distanti e un po’ vaghe. Erano dentro la sua testa, irreali come i pensieri brutali che lei gli inviava. Childes la colpì di nuovo, mentalmente, e la sentì accusare il colpo. Era impossibile, lui sapeva che era impossibile, ma le stava facendo male.

Le voci si fecero più forti, ma venivano sempre da dentro e non avevano a che fare con quella notte.

Sembrava che anche lei ascoltasse, ma lo colpì di nuovo, torturandolo con la mente. Dita crudeli e graffianti, che non erano vere, gli scavavano il volto, gli strappavano le carni. Ne sentiva la pressione ma non il dolore. Una strana vibrazione gli si propagava per tutto il corpo, come se gli scorresse nelle vene e nei nervi al tempo stesso. Le voci aumentavano e diminuivano d’intensità.

«Adesso basta, bello mio.» Udì il suo brontolio gracchiante. «Hai finito di giocare!»

Avanzò verso di lui, le grosse mani protese come morse.

La rabbia lo salvò. Serrò il pugno e colpì forte quel grosso viso carnoso. La prese sul naso ma lei voltò la testa attutendo il colpo. Sgorgò sangue dal suo labbro superiore.

Una delle grosse mani scansò facilmente la sua e poi lei gli fu sopra, schiacciandogli il corpo con il suo peso ingombrante. Il respiro le raschiava in gola. Una manaccia gli premette contro il mento spingendogli la testa all’indietro tanto che era certo che gli si sarebbero spezzate le ossa del collo. La colpì di nuovo al viso ma lei pareva non sentire i colpi. Cercò di divincolarsi, ma lei era troppo forte. La sua schiena fece un arco all’indietro, oltre il parapetto e lui sentì il vuoto aprirglisi sotto.

Tentò di prendere inutilmente a calci l’obeso corpaccio della donna. La mente gli si raggelò. Stava per morire.

Curiosamente si accorse della brezza che gli sfiorava una guancia, ed era conscio dell’abisso alle sue spalle. Aveva gli occhi pieni di immagini della bianca luna sopra di lui, i cui contorni ora gli sembravano sfuocati mentre impassibile illuminava la scena. Sentì il puzzo fetido del suo alito, caldo e amaro per lo sforzo, e l’odore del suo corpo, rancido e sporco. I suoi sensi erano così acutamente scoperti che i suoi pensieri si mescolavano a quelli di lei, le loro psiche individuali quasi fuse in una, e lui la conobbe allora, riconobbe la sua follia, si ritrasse quando gli parve quasi di caderci anche lui. E facendo retrocedere la mente si accorse che le voci stridule erano anche nella sua mente, le udiva anche lei.

Aveva quasi perso l’equilibrio. Lei lo teneva sollevato contro il muretto. Ma si era distratta, cercava con lo sguardo le voci. Scrutò in fondo alla diga, bianca struttura massiccia contro il buio.

Childes riuscì a toccare terra con la punta dei piedi, girò la testa nella stessa direzione, ne seguì lo sguardo.

Vide delle forme annebbiate che si avvicinavano.

* * *

Arrivavano dalla notte come lembi di foschia, nebulosi e vaghi, appena un accenno di fisicità che attraversava l’aria, sottili forme eteree senza sostanza.

Ma le voci che Childes sentiva gemere dentro la propria coscienza erano le loro.

Dapprima sembravano un unico essere, un delicato banco di nebbia che si muoveva lentamente lungo la cresta della diga, ma poi avevano preso a separarsi, a dipanarsi in strutture plastiche individuali, entità separate. Ognuna con una propria forma distinta dalle altre.

La presa della donna si allentò, e sul volto grasso e gonfio si dipinse un’espressione perplessa. Ma era assai più che un’incertezza sorpresa, le sue reazioni erano diverse. Childes lo sentiva attraverso la sua mente; era un tremore, una vena di paura. Si liberò della presa e scivolò sul cemento, i polsi stremati dalla fatica, le spalle addossate pesantemente al muretto.

Lei non si era nemmeno accorta del suo divincolarsi, tanto era assorta nell’osservazione di quegli spettri trasparenti. Aveva le ciglia aggrottate che formavano profonde fenditure nella pelle grassa. Teneva le mani chiuse davanti a sé come se stringesse ancora Childes. Fece un passo all’indietro, il corpo obeso posto ad angolo rispetto ai fantasmi avanzanti, solo la testa era sempre voltata nella loro direzione.

Erano sempre più vicini. Childes era indebolito, come se quelle forme incorporee gli succhiassero le forze, sfruttassero la sua energia: ma anche la pazza stava indebolendosi poiché quegli esseri suggevano anche la sua forza.

Cominciò a capire che cosa aveva voluto dire quando aveva descritto il loro potere come meraviglioso. Ma aveva capito veramente quanto poteva essere meraviglioso? Ormai diventava chiaro che cosa fossero queste apparizioni che si andavano lentamente consolidando. Brividi elettrici gli percorsero il corpo e si lasciò andare contro il parapetto.

La donna, la creatura oscena che gli stava di fronte, era in piedi al centro del passaggio come un monolite basso e largo; la luce della luna illuminava le forme pallide che avanzavano, sempre meno incorporee, sempre più vicine.

Il primo era un ragazzo, poco più di un bambino. Un bambino pallido ed emaciato. Un bambino le cui carni erano esangui, gli occhi senza vita e che tremava di freddo. Un piccolo bambino cui era stato squartato lo stomaco, lembi di pelle penzolavano nel vuoto. Aveva la bocca spalancata e dentro c’era della terra, e delle pallide larve che sempre si nutrono di cadaveri. Le labbra decomposte si muovevano senza emettere suoni eppure si udivano le parole.

«I ammeo» disse il ragazzo, le parole smozzicate nella testa di Childes e della donna, come se i vermi che mangiavano la sua lingua rosicchiassero annche i suoi irreali pensieri.

«I ammeo.» (Ridammelo.)

«O oio iietro.» (Lo voglio indietro.)

La mano scheletrica si protese cercando il cuore che gli era stato rubato.

La donna barcollò e stavolta fu lei ad aggrapparsi al parapetto. Ma un’altra figura eterea si fece avanti dietro al bimbo; era una donna, aveva il rossetto sulle guance come se una mano violenta glielo avesse spalmato sul viso. Il mascara le scorreva giù in grossi rivoli nerastri, dandole l’aspetto di un pagliaccio miserabile, buono solo per spaventare dei bambini. Come il bimbo era nuda, il busto aperto dallo sterno al pube; non aveva seni, al loro posto solo due ferite sanguinolenti. Dei punti di sutura grossolani si erano lacerati e lasciavano uscire vari oggetti, oggetti ridicoli, ma di cui nessuno era in vena di ridere: una spazzola, una sveglietta, uno specchietto, persino una radiolina a transistor. Si tirò i lembi della ferita come fa una donna con un cardigan quando ha freddo.

Negli occhi dal trucco sbavato un odio terribile per quella donna che le aveva torturato il corpo in quel modo, senza averne ancora pagato il prezzo.

La donna infagottata nella giacca a vento alzò una delle sue orrende, grasse mani come per allontanarli.

Ma ecco giungere un vecchio a inserirsi tra la prostituta grottesca e il bimbo tremante. Un sogghigno laido sul suo viso avvizzito. Un pigiama gli pendeva addosso dal corpo smunto, un bagliore negli occhi folli, ma uno sguardo pieno di una sorta di vitalità perversa. Sangue seccato gli macchiava il viso pallido, e la testa gli terminava un paio di centimetri al di sopra delle ciglia, segata via anch’essa, e piena di piccoli esseri che succhiavano e si nutrivano dell’ammasso gelatinoso. Balbettava continuamente cose senza senso come se quei parassiti gli avessero già messo fuori uso il cervello così esposto.

La donna gridò, un suono folle come il borbottio del vecchio, e Childes si ritrasse, rifiutandosi di credere ma sapendo che cosa stava accadendo.

Ora toccava alla donna gridare. «Non può essere vero!»

Le figure nebulose la accerchiarono, strappandole i vestiti, graffiandole la faccia con le unghie. Il bambino si mise in punta di piedi allungando una mano verso le nere cavità degli occhi come se gliene volesse strappare uno.

Lei lo respinse, ma lui si rifece sotto, e rideva dell’osceno gioco. La trascinarono in ginocchio, o forse cadde lei per la paura, e agitò le braccia gridando continuamente. «Non siete veri! Non potete esserlo!»

Si fermarono osservando quell’ammasso informe che era il suo corpo, l’uomo sogghignava sempre, la prostituta si reggeva il ventre e il bambino con la mano tesa reclamava il suo cuore.

«Illusione!» sospirò Childes, e la donna, o meglio quella cosa, gli gridò: «Falli andare via. Falli andare via!»

Per un attimo sembrò veramente che quelle forme svanissero, tornassero nel nulla, appena delle proiezioni mentali, incorporee e irreali.

Finché non apparve una figura minuta che si intrufolò tra il gruppo fino ad arrivare davanti all’obesa donna accucciata per terra.

La bambina indossava un vestitino verde e non aveva né scarpe né calze, né un maglione o una giacca per ripararsi dal freddo della notte. Una metà dei capelli erano raccolti in una lunga treccia, trattenuta da un fiocco. L’altra metà era slegata e in disordine, il fiocco si era perso. Aveva le guance umide, e con una mano cercava di asciugare le lacrime. Ma quelle manine non avevano dita: terminavano in cinque piccoli moncherini insanguinati.

«Annabel» chiamò Childes, con la voce rotta dalla tristezza.

«Voglio andare a casa adesso» disse la bimba, con una voce fina e acuta che gli ricordò quella di Gabby.

La donna alzò la testa e ululò, un lungo lamento di angoscia che si amplificò sulle distese di acqua e si trasformò in un pianto prolungato.

Il bambino affondò le dita nell’orbita dell’occhio fino quasi al polso, almeno così sembrò a Childes. Impossibile, si disse, era solo un incubo! Ma quando la mano scheletrita si ritirò ci fu un rumore come di risucchio e uno sgorgare di liquido scuro; le dita serravano qualcosa di tondo e lucido, un oggetto trattenuto da filamenti elastici che infine si spezzarono rimanendo a penzolare nel liquido vischioso.

La donna si mise in piedi brancolando con la mano per tamponare il sangue che le scorreva lungo la faccia. Urlò, pianse e pregò di essere lasciata in pace.

Ma non la volevano lasciare in pace anzi, l’assalirono con le mani protese.

Riuscì a divincolarsi, colpendo all’impazzata, fece cadere il vecchio cosicché l’ammasso putrescente nel suo cranio scoperchiato si riversò come un liquido da un buffo boccale. Lui si chinò sempre ghignante, sempre emettendo quella risata demenziale, raccolse il cervello semisfatto e lo rimise al suo posto nel cranio come ci si mette un cappello, come un vecchio che si rimette in posizione un parrucchino.

Childes si chiese se alla fine non era del tutto impazzito.

La donna indietreggiava, inciampò nelle gambe distese di Childes, agguantò il bordo del parapetto per rimanere in piedi, si ritirò verso il fondo della diga, verso la torretta, gli alberi fra i quali aveva sostato e si era nascosta prima. Le figure bianche illuminate dalla luna la inseguirono, gli occhi spenti fissi sul suo corpo, le braccia sempre tese in avanti, a ghermirla.

Solo la figurina che era stata Annabel rimase accanto a lui.

La donna fuggiva sempre, barcollando, e Childes la seguì con lo sguardo, detestandola per le atrocità che aveva commesso con quella sua mente perversa e straordinaria, ma non poté godere della macabra vendetta. Si teneva premuta una mano contro l’orbita svuotata, le dita macchiate di sangue nero, ma non smetteva di indietreggiare, di allontanarsi da quegli spettri. Infine voltò la schiena accelerando il passo, un terrore folle la spingeva a continuare, le gambe tozze dalle caviglie lardose quasi correvano.

Ma si arrestò dopo poco. Prese a rinculare sui gradini da cui poco prima era sorta come un demone dalla tomba infernale.

Cadde nelle braccia tese di coloro che la seguivano.

Childes vide allora cosa l’aveva spinta a retrocedere. Dai gradini altre figure spettrali salivano le scale. Prima erano apparse le teste, poi le spalle, i petti, non indossavano le camicie da notte in cui erano morte bruciate ma le divise della scuola. I colori vivaci del La Roche sui corpi anneriti, senza capelli, i crani carbonizzati e infossati; i denti esposti ghignavano, la carne pendeva in orridi lembi. Kelly indicava la donna con un braccio bruciato, mentre le compagne ridacchiavano come se la ragazza avesse appena raccontato una barzelletta sconcia…

… E la signorina Piprelly le guidava, la testa carbonizzata poggiata su una spalla come se dovesse cadere da un momento all’altro; gli occhi rivoltati in modo strano ardevano bianchi dalle ossa annerite, ed erano colmi di infinita tristezza, di pianto…

… e dietro la governante, che sospingeva le sue ragazze, e controllava che nessuna si smarrisse, che stessero tutte bene, che la carne a brandelli e le ossa offese non dolessero; il male era ormai dimenticato, sia per lei che per le ragazze…

Childes aveva la vista annebbiata senza le lenti, eppure tutto nella sua mente gli sembrava terso e chiaro come un cristallo. Persino quando gli occhi si riempirono di lacrime nel vedere, per un attimo fugace, tutti i loro corpi riprendere vita, nuovamente interi, le loro carni intatte e vitali: la testa di Estelle Piprelly eretta come il fiero busto, Kelly vivacissima ed impudente come sempre, il braccio teso snello e levigato. Ma giunte in cima ai gradini erano di nuovo carbonizzati e sfigurati cadaveri.

Le grida della donna si fecero stridule quando le figure la circondarono, i loro corpi esangui le stavano addosso, abbrancando, graffiando, picchiando, una pioggia di colpi che non avrebbe dovuto avere alcun effetto, ma che invece ferivano a sangue, facendo cadere la donna, quella bestia, a terra. Con un grosso braccio si riparava il volto, con l’altro continuava a coprire l’orbita svuotata. Childes si accorse che nella foschia alle spalle del gruppo inferocito, quasi una foschia egli stesso, c’era un uomo in uniforme, lo sfregio sanguinante aperto nella gola una ripetizione del suo mesto sorriso. Childes riconobbe il poliziotto che aveva trovato riverso nella sua auto nel parco del La Roche. Altre forme ancora si agitavano sullo sfondo dei boschi, ma queste davvero era informi, poco più che veli di nebbia sorgenti dalla superficie del lago. Ma tra quelle foschie provenivano risate e gemiti e un pianto dirotto.

Sempre prostrato contro il muro Childes guardò la scena, troppo spaventato per muoversi, per gridare, senza più un briciolo di forza. Accanto a lui la figurina silenziosa di Annabel.

La donna era appoggiata al parapetto, le enormi spalle piegate all’indietro nello sforzo di tenere lontane quella mani spettrali. Si voltò per coprirsi il volto e un fiotto di sangue le passò tra le dita scorrendo lungo il muretto, allargandosi in una macchia scura sulle lastre di cemento.

Avvenne tutto così rapidamente che Childes non sapeva bene cosa avesse visto, o forse sentito, il suo cervello insisteva che nulla di tutto questo era reale, che non stava accadendo proprio niente.

Forse era salita sul parapetto per sfuggire quelle figure.

Forse resa ancora più pazza dal dolore aveva deciso di buttarsi.

Oppure le figure che la circondavano avevano sollevato le sue gambe grosse come tronchi e l’avevano buttata giù.

Di fatto Childes vide la sua mole enorme scomparire e udì il suo grido echeggiare nella notte.

Chiuse gli occhi per non vedere quella follia, ma dietro alle palpebre chiuse vedeva ancora tutto. Era tutto ancora fi, nella sua mente assediata.

«Dio, Dio mio…» mormorò e riaprì gli occhi.

Le forme erano leggermente evanescenti, nebulose e tremule, raggruppate al centro del passaggio, ondulanti e trasparenti, come mosse, pareva, dalla brezza. Gli sembrò di udire altri suoni lontani, e delle luci. Annabel era sempre immobile al suo fianco, minuta e triste, il viso un’immagine fievole di infinita solitudine.

Childes esalò un respiro a lungo trattenuto. Chinò la testa sulle ginocchia, le braccia molli ai fianchi, le mani appoggiate sul cemento, le dita gelide e immobili. Era finita. Era esausto, si chiese se avrebbe mai saputo quale era stata la vera natura di quella donna deviata, demente, che aveva rappresentato per lui una tortura senza fine.

Una mente maniacale, sicuramente un mostro. Ma con uno straordinario potere, una forza psichica che aveva del demoniaco. Pregò che quel potere si fosse estinto, finito con la sua vita.

Ma sentì un formicolio insidioso e minaccioso sulla nuca.

Childes alzò la testa e scrutò le nebbie, lì dove era caduta la donna. La sua bocca si spalancò lentamente, gli occhi sbarrati, e presa a tremare come e più di prima.

Vide la grossa mano, le dita spesse che si aggrappavano all’orlo del muretto in una morsa carnosa. E la tenevano sospesa.

«No!» esclamò sottovoce, appena un sospiro sommesso. «No, no!»

Negli occhi spenti di Annabel non era forse apparsa una fiammella, un accenno di preghiera?

Childes si issò sulle gambe, cercò brancolante l’appoggio del muro, sembrava proprio che le gambe si rifiutassero di sostenerlo, ma la forza rifluì con il sangue negli arti intirizziti, quasi con dolore.

Rimase un attimo appoggiato al muretto poi barcollò verso la mano, le nebbie riprendevano le loro forme distinte, si aprivano per lasciarlo passare. Lo guardarono remote e impassibili; il ragazzino nudo stringeva qualcosa di bianco e di viscido nel fragile pugno, e tentava di ficcarselo in petto come se potesse sostituire il suo cuore perduto. La donna dipinta si teneva il ventre in cui si intravedevano strani oggetti angolosi, il torace smembrato era macchiato da due grossi ovali di sangue. Le ragazze e la governante erano corpi carbonizzati con le ossa esposte tra le carni annerite. L’uomo in divisa con i suoi due sorrisi, uno sopra al mento, l’altro sotto. Estelle Piprelly, intera, senza un segno, che guardò Childes negli occhi, comunicandogli una improvvisa emozione. Lo guardavano tutti, attendevano qualcosa.

Arrivò dove la mano artigliava la sporgenza del muro. Le dita sembravano funi oscillanti che sopportavano tutto il peso di quel grosso corpo. Vide il polso carnoso, la manica della giacca rimboccata sul braccio gonfio, che spariva nel buio all’altezza del gomito. Childes si sporse dal parapetto. La luna illuminava il viso tondo appena sotto di lui, coperto di liquido scuro e denso che le colava lungo le guance e il mento. Uno degli occhi un foro nero e vuoto che lo fissava orribilmente. L’altro braccio le pendeva lungo un fianco come se fosse inutilizzabile.

«Aiuta… mi!» disse, con la sua voce aspra e gracchiante, e non era un’implorazione.

La guardò, vide la follia in quel viso largo, i capelli grigi sparpagliati nel vento. Ne toccò nuovamente la pazzia, ne sentì il laidume, l’ossessione maniacale e demenziale dell’adorazione della luna, una malsana giustificazione del male che essa amava perpetrare; un’anima malata e crudele, uno spirito maligno e rancoroso. Quella parola ‘aiutami’ era piena di sarcasmo. Childes lo capì e lo sentì poiché ancora una volta era dentro quella mente, che lo riempì di immagini mostruose e aberranti, malate e schifose; ancora la divertiva quel gioco. Il suo gioco, la sua tortura.

Ma un nuovo sentimento si affacciò nella sua mente depravata quando lui le prese la grossa mano.

La paura attraversò quei pensieri tormentati come una lama in una piaga purulenta, quando lui le scalzò il primo dito.

Un gemito terrorizzato al secondo.

Uno strillo disperato quando spinse le ultime due dita e lei cadde, cadde, cadde giù nella valle, il suo corpaccio rimbalzò contro il calcestruzzo del bacino scivolando fino in fondo alla diga.

Childes udì i tonfi sordi del corpo che si sfracellava. Cadde a terra sui lastroni di cemento. Sentì un improvviso sollievo inondargli i sensi, l’anima di colpo liberata da un’opprimente oscura pressione, una rabbia confusa e disperata. Era troppo stordito per piangere, troppo spossato per essere felice. Osservò le nebbie diradarsi e scompanre.

Una sola rimase.

Annabel si chinò e gli accarezzò il viso con le piccole dita gelide. Dita che non c’erano prima. Una luce l’attraversò e divenne poco più di una foschia, poi scomparve nel nulla.

«Illusione!» mormorò parlando a se stesso.

* * *

La luce proveniva dai fari di alcune macchine e dalle torce in fondo al sentiero. Childes la fissò schermandosi gli occhi con una mano. Sentì le portiere delle auto che sbattevano, delle voci, vide apparire delle ombre. Era stranamente curioso di sapere come lo avessero trovato, ma non sorpreso; quella notte niente poteva più sorprenderlo.

Childes non voleva più restare sulla diga, anche ora che le nebbie illusorie si erano disperse e quella rozza mano non stringeva più l’orlo del parapetto. La notte era stata troppo convulsa per non desiderare ora una pace più personale, più solitària. Aveva la testa leggera, e nonostante la confusione mentale, la perplessità acuta, si sentiva quietamente euforico. Aveva bisogno di pensare, di valutare i fatti, ma l’accettazione delle sue capacità straordinarie era totale e completa. Era sicuro che si potessero controllare, utilizzare sotto controllo. Era stata lei a dimostrarglielo, anche se le sue intenzioni erano state malvagie, e la sua follia aveva portato a un uso distorto del potere. Si alzò in piedi e guardò verso la valle, guardò oltre il bacino immobile illuminato dalla luna che non aveva più una luce sinistra e minacciosa, ma tersa e pura. Respirò l’aria fresca e leggermente salmastra; sembrava pulita ora e pareva anche ripulirlo dentro. Si voltò e s’incamminò verso le luci. Overoy fu il primo a raggiungerlo, seguito da Robillard e da due altri poliziotti in divisa.

«Jon!», chiamò il poliziotto. «Stai bene? Abbiamo visto tutto». Sorresse Childes per un braccio.

Lui sbatté gli occhi abbagliato dalle torce.

«Puntatele in basso», ordinò Overoy.

I due agenti li superarono puntando il fascio di luce verso la diga, mentre Robillard ordinava alle auto di abbassare i fari. Il sollievo fu immediato. «Avete visto?» farfugliò Childes incredulo.

«Non molto bene. Un banco di nebbia vi ha parzialmente coperti» rispose Robillard.

Un banco di nebbia! Childes non disse nulla.

Overoy parlò rapidamente, come se volesse anticipare Robillard. «Ti abbiamo visto cercare di salvare quell’altra persona Jon.» Fissò negli occhi Childes con un’espressione severa. Robillard aveva invece un dubbio dipinto in volto ma non fece commenti.

Quasi senza interruzioni Overoy proseguì: «Immagino che avesse tentato di ucciderti prima di cadere. Peccato che fosse troppo pesante, che tu non sia riuscito a trattenerla!» Le parole erano state scelte con cura, come se fosse una deposizione da imparare a memoria.

«Sapevate che era una donna?», chiese Childes.

Overoy annuì. «Avevamo scoperto la sua casa in Inghilterra. Ti ho telefonato un paio di volte ma era sempre occupato. Poi ho preso il volo di mezzanotte, appena in tempo.»

I due agenti illuminavano dall’alto il corpo sfracellato in fondo alla diga.

«Quello che abbiamo trovato in quella casa era un vero arsenale di orrori. Ma c’erano tutte le prove che ci servivano. Era la donna il mostro che cercavamo.» Overoy si fece scuro in volto e aggiunse: «Il cadavere della bambina era sotto il pavimento. Metterla lì era stata una pazzia, prima o poi l’odore della decomposizione l’avrebbe fatta scoprire da qualche inquilino del palazzo. Ma forse non gliene importava più. Forse aveva già capito che non poteva andare avanti così quando è venuta qui. Era pazza furiosa, è questa forse l’ironia della cosa.»

Childes guardò l’ispettore con curiosità.

«È così che l’abbiamo scovata. Il suo nome era nella lista di pazienti e inservienti del manicomio. Era un’infermiera, ma doveva essere più pazza dei matti a cui doveva badare. Cristo! Avresti dovuto vedere la roba che abbiamo trovato nella sua stanza; roba sull’occulto, la mitologia; simboli, amuleti. Ah, e un mucchietto di pietre di luna, le saranno costate un patrimonio. Se ognuna di quelle era per un’altra vittima…». Overoy scrollò le spalle.

«Ha detto che adorava…»

«La luna? Sì, una dea in particolare. C’era tutto lì, nei suoi libri, nei simboli. Pazza, completamente pazza.»

C’erano altre persone sulla diga che procedevano verso di loro. Robillard disse. «Quando l’ispettore Overoy ci ha comunicato l’identità della donna è stato facile scoprire che era qui da un paio di settimane; era arrivata con uno dei traghetti. Poi non ci è voluto molto a scoprire dove alloggiava. Una locanda in campagna. Lontano dai centri abitati. Non era rientrata da ieri, abbiamo perquisito la stanza. È stato fortunato stanotte, signor Childes: aveva lasciato lì i suoi ferri del mestiere. In una borsa nera sotto al suo letto abbiamo trovato degli strumenti chirurgici. Si vede che era sicura di liberarsi di lei a mani nude.»

«Era molto forte» affermò Overoy. «I suoi superiori alla clinica ce lo hanno confermato. Pare che la adoperassero per immobilizzare i pazienti più violenti. Secondo i medici ci riusciva con estrema facilità.»

«Non si sono chiesti come mai era scomparsa dopo l’incendio?»

«Non era scomparsa. Fu persino interrogata dalla polizia, come tutti gli altri sopravvissuti. Poi si prese delle ferie, appena si erano calmate le acque. Era pazza, non stupida.»

Forse avrebbe capito più tardi. Per ora Childes non riusciva a mettere a fuoco quanto gli stavano raccontando. Si scosse nell’udire un’altra voce, una voce familiare e amata.

«Jon!», chiamò Amy.

Guardò dietro ai due ispettori e la vide a pochi metri. Paul Sebire la sorreggeva per un braccio, il viso segnato da un’ansia che non gli era propria.

Childes le andò incontro e lei alzò le braccia, il gesso su un braccio bianco come la luna stessa. La strinse a sé, rattristato dalle bende che le coprivano il viso. La lasciò subito per non farle del male.

«Va tutto bene, Jon». Rideva e piangeva, le guance bagnate di lacrime. «Va tutto bene, ho avuto tanta paura, Jon.»

Dietro a lei vide Sebire con una smorfia sul volto stanco. L’uomo non disse niente ma si voltò e tornò verso le automobili parcheggiate sulla strada.

Childes le accarezzò i capelli, baciandole via le lacrime dal viso. Lei sentiva il cambiamento avvenuto in lui, quell’ombra scura che lo aveva oppresso era scomparsa. «Come avete fatto a trovarmi?»

Amy sorrise e gli restituì i baci. «Ce lo ha detto Gabby» gli spiegò.

«Gabby?»

Overoy li raggiunse e fu lui a dire: «Siamo andati a casa della signorina Sebire per cercarti dopo che l’agente di guardia alla tua casa ti aveva perso di vista. Lei non aveva idea di dove tu fossi andato…»

«Però mi sono ricordata che tu avevi chiamato anche Gabby, prima» lo interruppe Amy. «Era solo un tentativo, ma ho pensato che forse avevi detto a Fran dove avevi intenzione di andare. L’ispettore Overoy era d’accordo e così ha chiamato Fran dalla madre. Avevano dei guai con Gabby!»

«Tua figlia era isterica a causa di un incubo che aveva appena avuto» continuò Overoy. «Ti aveva sognato in riva a un grande lago, e c’era una donna mostro che ti voleva buttare di sotto. Tua moglie ha detto che Gabby non smetteva di piangere e di urlare, era sconvolta.»

«E da questo siete riusciti a capire dov’ero?» chiese Childes incredulo.

«Beh, sono abituato alle tue precognizioni, perché non dovevo credere a quelle di tua figlia?»

Anche Gabby. Childes era attonito. Si ricordò di quando lei gli aveva chiesto di salutargli Annabel.

Amy lo scosse da quei pensieri. «Non ci sono grandi laghi sull’isola Jon. C’è solo questo bacino.»

«Non avevamo niente da perdere!» aggiunse Overoy con una smorfia.

«Dovevano solo riuscire a convincere me!» commentò Robillard. «Ma accidenti! Tutta questa storia è un rebus per me. E allora perché avrei dovuto oppormi a correre qui in mezzo alla valle, di notte?» Scosse la testa sempre più confuso. «Sta di fatto che avevano ragione. L’unica cosa che mi dispiace è che non siamo arrivati prima. Lei ha passato un brutto quarto d’ora.»

«È tutto finito Jon?» chiese Amy. Con la mano sana gli accarezzò il viso e ripeté: «È veramente finita questa storia?»

Lui annuì, ma la luna dietro la sua testa gli teneva in ombra il viso. Si voltò e guardò Overoy. «Chi era?» chiese all’ispettore. «Come si chiamava?»

«Aveva un falso nome, abbiamo scoperto che lo adoperava da anni. Si faceva chiamare Heckatty!». Per qualche motivo c’era una nota soddisfatta nel tono della sua voce.

Heckatty! Il nome non diceva proprio niente a Childes. Non che se lo aspettasse. Non era nemmeno troppo sicuro di ciò che era accaduto quella notte. Cosa aveva a che fare questo nome così banale con quella battaglia di spiriti? Forse la fusione delle menti era stata soltanto una proiezione della sua follia, un’illusione creata dalla mente depravata di quella donna.

«Illusione!» mormorò ancora una volta e Amy lo guardò senza capire.

«Dio mio!» esclamò una voce sul passaggio pedonale della diga.

Si voltarono in direzione dei due poliziotti che scrutavano un angolo del passaggio illuminandolo con le torce. Uno degli agenti si chinò e sfilandosi qualcosa dalla tasca l’avvicinò all’oggetto biancastro che giaceva in terra. Poi si rialzò e s’incamminò verso il gruppetto di persone in attesa. Il compagno lo seguì a una certa distanza.

Nonostante la luna conferisse a tutti lo stesso colore cereo, si vedeva che l’agente era teso e più pallido del normale. «Non credo che lei debba vedere signorina!» disse ad Amy, coprendo con la mano il sacchetto di plastica in cui teneva l’oggetto.

Curiosi Overoy e Robillard si avvicinarono.

«Ohh…» fece Robillard. Childes lasciò Amy e si avvicinò a sua volta. L’altro poliziotto illuminava con la torcia le mani del collega. Overoy si era voltato con un moto di ribrezzo.

«Bella lotta dev’essere stata» disse a Childes con solidarietà evidente.

L’occhio insanguinato sembrava enorme, troppo grosso per poter essere contenuto in un viso. I filamenti pendevano dal sacchetto e mentre Childes guardava un raggio di luce colpì l’occhio che parve avvampare, per un attimo, una scintilla di luce sembrò riempire il globo tra le mani dell’uomo. A Childes sembrò la fosforescenza bluastra che splendeva nelle profondità delle pietre di luna.

Childes rabbrividì e si volse, respirò profondamente e si schiarì la mente. Passò il braccio attorno alla vita di Amy e l’attirò dolcemente a sé, allontanandosi dal lago inondato di luce argentea.

* * *

Nella mente di Childes un punto di domanda. Dove lo avrebbe portato questo potere che ormai sapeva di possedere…?

FINE