La popolazione esclusivamente maschile che vive sul pianeta Athos rischia l’estinzione: dopo due secoli dal primo insediamento, infatti, le colture di cellule femminili necessarie ad assicurare la continuità della riproduzione in laboratorio stanno perdendo vitalità. L’unica speranza è rappresentata dal dottar Ethan Urquhart, inviato sulla stazione spaziale di Kline per trovare una cura. Ethan però non è preparato a incontrare sconosciute creature aliene… come Elli Quinn, che lo terrorizza per il semplice fatto che è una donna. Ma Elli è anche una mercenaria dendarii in missione segreta, che da subito mostra uno spiccato interesse per i problemi di Athos. Perché un complesso intrigo è già in moto, pronto a inghiottire nelle sue spire l’ingenuo Ethan, depositario inconsapevole di un segreto di cui Cetaganda vuole impadronirsi a ogni costo…

Lois McMaster Bujold

La spia dei Dendarii

Per quelli che mi hanno ascoltato:

Dee, Dave, Laurie, Barbara, R.J., Wes

e le pazienti signore del M.A.W.A.

CAPITOLO PRIMO

Il parto procedeva regolarmente. Le lunghe dita di Ethan staccarono con delicatezza la sottile cannula dai supporti.

— Ora dammi la soluzione ormonale C — ordinò al meditec in attesa al suo fianco.

— Eccola, Dr. Urquhart.

Ethan premette l’hypospray contro la membrana discoidale all’estremità della cannula e sparò nell’interno una dose calcolata. Controllò i monitor: la placenta ondeggiava libera, separata dalla superficie nutritiva che l’aveva sostenuta negli ultimi nove mesi. Era il momento.

Con gesti rapidi spezzò i sigilli, alzò il coperchio del contenitore cilindrico e passò il vibro-bisturi sullo spesso rivestimento di microscopici tubicini per lo scambio dei liquidi. Quand’ebbe aperto la massa spugnosa, il meditec la trasse di lato con una pinza e chiuse il tubo che la riempiva di soluzione oxi-nutriente. Solo poche gocce di fluido chiaro spruzzarono le mani guantate di Ethan. La sterilità dell’interno non era stata compromessa, notò con soddisfazione, e il suo passaggio col bisturi era stato così leggero che l’argenteo sacco amniotico sotto i tubicini era intatto. Una piccolo corpo roseo si muoveva impaziente nell’interno. — Fra un momento sarai fuori — gli promise allegramente lui.

Un’altra incisione, ed Ethan estrasse l’umido e sporco infante da quella che era stata la sua prima casa. — Detergente!

Il meditec gli mise il bulbo in mano, e lui ripulì dal fluido il naso e la bocca del bambino per prepararlo al suo primo stupefatto respiro. Il neonato ansimò, gemette, sbatté le palpebre e vagì nella gentile ma ferma presa di Ethan. Il meditec spostò il tavolino con la bacinella d’acqua sotto la luce calda e lui vi appoggiò il neonato, per chiudere e tagliare il cordone ombelicale. — Ora sei libero di andare per il mondo, piccolo — gli disse.

Il tecnico in attesa presso la porta venne a prendere il replicatore uterino che aveva così fedelmente incubato il feto per tre quarti di un anno. Le luci spia e i monitor dell’apparecchio erano spenti, adesso; l’uomo cominciò a staccarlo dal banco dov’era fissata una fila di macchinari identici, per portarlo al piano di sotto dove sarebbe stato pulito e riprogrammato.

Ethan si volse al padre dell’infante, che s’era fatto avanti con ansia. — Peso ideale, colorito ottimo, riflessi soddisfacenti. Posso assegnare a suo figlio un A-più, signore.

L’uomo sorrise, tirò su col naso, ebbe una breve risata e si asciugò una lacrima d’emozione dall’angolo di un occhio. — È un miracolo, Dr. Urquhart.

— È un miracolo che succede una decina di volte al giorno, qui a Sevarin. — Ethan sorrise.

— Lei non si annoia mai, dottore?

Ethan abbassò uno sguardo compiaciuto sul neonato, che agitava le gambe e apriva e chiudeva i pugni dentro la bacinella. — No. Mai.

Ethan era preoccupato per il CJB-9. Accelerò il passo nei silenziosi e pulitissimi corridoi del Centro di Riproduzione del Distretto di Sevarin. Era quasi la fine del turno di notte, e lui era stanco; la sera prima era venuto in anticipo per occuparsi di un paio di nascite difficili.

L’ultima mezzora del turno era stata come al solito la più indaffarata per tutti, un crescendo di rapporti da compilare e di istruzioni ai colleghi che sbadigliando arrivavano per sostituirli. Ethan non aveva sbadigliato, ma si fermò a prendere due tazze di caffè nero al distributore nell’ingresso del reparto tecnico, prima di far visita al caposquadra dei tecnomedici nel suo cubicolo di monitoraggio.

Georos lo salutò con un cenno, e la sua mano proseguì il movimento per afferrare la tazza che lui gli porgeva. — Grazie, signore. Come sono andate le sue ferie?

— Bene. Mio fratellastro, il minore, si è preso una settimana di permesso dalla caserma dove presta servizio, così per una volta tanto ci siamo ritrovati insieme a casa. Nella Provincia Meridionale. Per il nostro vecchio è stato bello. Il ragazzo ha avuto una promozione: ora è primo controfagotto nell’orchestra del reggimento.

— Ha intenzione di fare la firma, dopo i due anni di leva?

— Credo di sì. Almeno per altri due anni. Sta coltivando la sua esperienza musicale, cioè la cosa che più gli interessa, e i crediti extra per i doveri sociali che si metterà in tasca non gli daranno affatto fastidio.

— Mmh. — Georos annuì. — Provincia Meridionale, eh? Mi chiedevo perché non la vedevamo mai in giro quando ha un momento libero.

— È il solo modo in cui ho l’impressione di prendermi una vacanza vera: uscire dalla città — ammise seccamente Ethan. Guardò le file di monitor allineati nel cubicolo. Il capo della squadra notturna tacque e sorseggiò il caffè, gettando un’occhiata al medico che ora, esaurito il suo unico argomento di conversazione spicciola, sembrava un po’ a disagio.

I display mostravano il Banco 1 di Replicatori Uterini. Ethan chiamò sugli schermi il Banco 16, dei quali faceva parte l’embrione CJB-9.

— Ah, dannazione. — Scosse il capo e fece un lungo sospiro. — Proprio come temevo.

— Già — annuì Georos, con un sorrisetto malinconico. — Totalmente non-utilizzabile, non c’è dubbio su questo. Un paio di sere fa ho eseguito un ecoscandaglio… è solo una massa di cellule.

— Non potevano diagnosticarlo la settimana scorsa? Perché il replicatore non è stato riciclato? Ci sono altri in attesa. Dio il Padre sa che è vero.

— Per eliminare l’embrione bisognava aspettare il permesso paterno. A proposito… — Georos si schiarì la gola. — Roachie ha chiesto al padre di venire a colloquio con lei, questa mattina.

— Umpf… — Ethan si passò una mano fra i corti capelli neri, lasciandoli assai meno ben pettinati di prima. — Ricordami di dire grazie al nostro beneamato capo. Mi avete tenuto da parte qualche altro lavoro sporco?

— Soltanto una riparazione alla genetica del 5-B… probabilmente una deficienza ormonale. Ma immagino che ci tenga a occuparsene lei stesso.

— Infatti.

Il capo della squadra tecnica cominciò a registrare il suo rapporto di fine turno.

Ethan arrivò con qualche minuto di ritardo al colloquio con il padre del CJB. Durante l’ispezione mattutina era entrato in una delle camere dei replicatori trovando il tecnico di servizio che lavorava tenendo a tutto volume una canzone rauca e aritmica dal titolo Resta Sveglio Tutta La Notte, popolare fra i giovani non specializzati, che con versi folleggianti esaltava gli stimo-vocali. Le sue note stridule avevano fatto allegare i denti a Ethan; difficilmente la si poteva considerare una stimolazione sonora prenatale per i feti in crescita.

Quand’era uscito, nella camera risuonava il classico inno Dio dei Nostri Padri, Illumina la Strada, eseguito dall’Orchestra Sinfonica della Fratellanza Unita, e il tecnico stava sbadigliando vistosamente.

Nella camera successiva aveva trovato un banco di replicatori uterini che da quella notte andavano avanti con una saturazione del 75% di sostanze di rifiuto nella soluzione di scambio-eliminazione. Il tecnico di servizio s’era affrettato a spiegargli che stava aspettando il regolamentare minimale dell’80% prima di eseguire il cambio dei filtri. Ethan gli aveva spiegato, con voce dura e nitida, la differenza fra minimale e ottimale, quindi aveva assistito al cambio del filtri e atteso che la saturazione delle sostanze di rifiuto scendesse a un più ragionevole 40%.

L’impiegata all’ingresso del Centro dovette far squillare a lungo il suo avvisatore per penetrare nell’attenzione di Ethan, occupato a illustrare al tecnico l’esatta gradazione di trasparenza giallo-limone in una soluzione oxi-nutriente che operasse al meglio. Lui salì di corsa al piano degli uffici e restò ad ansimare qualche momento fuori dalla porta, in bilico fra l’urgenza di ritrovare la sua dignità di rappresentante del Centro e la scortesia del far aspettare un cliente. Poi inalò un lungo respiro che non aveva nulla a che fare col suo galoppo su per le scale, si dipinse sulla faccia un sorriso cordiale e aprì la porta dove la scritta Dr. Ethan Urquhart — direttore del Reparto Riproduzione Biologica risaltava in lettere dorate sulla superficie di plastica bianca.

— Fratello Haas? Io sono il dottor Urquhart. No, no… non si alzi, la prego. Resti comodo — aggiunse, mentre l’uomo scattava in piedi nervosamente salutandolo con un cenno del capo. Ethan lo aggirò per andare dietro la sua scrivania, dove ebbe l’impressione assurda di essere più al sicuro.

L’uomo era grosso come un orso, con la faccia arrossata dai lunghi giorni trascorsi al sole e al vento. Le sue mani, che giravano e rigiravano il berretto, erano robuste e callose. Dopo aver scrutato Ethan commentò con voce rombante: — Mi aspettavo un medico più anziano.

Lui si passò le dita sul mento glabro, poi si rese conto di quel gesto e abbassò subito la mano. Se solo avesse portato la barba, o magari anche i baffi, la gente avrebbe smesso di prenderlo per un ventenne malgrado il suo metro e ottantacinque di statura. Fratello Haas aveva un’ispida barba di due settimane, cortissima a paragone dei lussureggianti mustacchi che lo proclamavano — evidentemente da molto tempo — genitore alternativo. Un solido cittadino.

Ethan fece un sospiro. — Si accomodi, prego. — E ripeté il cenno.

L’uomo sedette sul bordo della sedia, stringendo il berretto quasi in gesto di supplica. L’abito che indossava, probabilmente il suo unico vestito buono, era fuori moda e un po’ liso, ma lavato e stirato con cura; Ethan si chiese quanto avesse dovuto sfregarsi le mani con la spazzola, quel mattino, per riuscire a togliersi così bene ogni granello di polvere da sotto quelle unghie cornee.

Fratello Haas sbatté distrattamente il berretto contro un polpaccio. — Il mio bambino… dottore, c’è per caso… c’è qualcosa che non va con mio figlio?

— Uh… non le hanno detto niente per videofono?

— No, signore. Mi hanno detto soltanto di venire qui. Così ho firmato per una vettura al garage della mia comune, e sono venuto.

Ethan guardò il dossier sulla sua scrivania. — Lei ha guidato per tutta la strada dalle Sorgenti Cristallo fin qui, questa mattina?

Fratello Haas sorrise. — Io faccio il contadino. Sono abituato ad alzarmi presto. Comunque, nessun sacrificio è di troppo per il mio bambino. È il primo, sa… — Si passò una mano sulla mandibola e rise. — Be’, questo credo che sia ovvio.

— Come mai è venuto qui a Sevarin, e non al Centro Replicatori del suo distretto a Las Sands?

— È stato per via del CJB. A Las dicono che là non hanno un CJB.

— Capisco. — Ethan si schiarì la gola. — C’è qualche particolare ragione se ha deciso per il gruppo CJB?

Il contadino annuì con fermezza. — Sì, è una decisione che ho preso dopo un incidente durante l’ultimo raccolto. Uno di noi è caduto contro una trebbiatrice dalla parte sbagliata… ha perso un braccio. Era un tipico incidente di fattoria, ma hanno detto che se un dottore fosse potuto intervenire prima avrebbero potuto salvargli il braccio. Il fatto è che la comune sta crescendo. Siamo proprio sul confine della zona terraformata. Abbiamo bisogno di un dottore nostro. Tutti sanno che dal gruppo CJB vengono i medici migliori. Chi può dire quando mai avrò abbastanza crediti da doveri sociali per un secondo figlio, o un terzo? Così ho voluto il migliore.

— Non tutti i dottori in medicina sono CJB — disse Ethan. — E senza dubbio non tutti i CJB fanno i medici.

Haas sorrise educatamente, per nulla d’accordo. — Lei a che gruppo appartiene, dottor Urquhart?

Ethan si schiarì ancora la gola. — Be’… in effetti io sono un CJB-8.

Il contadino annuì, confermato nella sua opinione. — Dicono che lei è il migliore nel suo campo. — E guardò l’esperto in riproduzione biologica con aria famelica, come se vedesse nel suo volto quello del figlio che anelava di avere.

Ethan poggiò le mani sulla scrivania e cercò di assumere un atteggiamento gentile ma distaccato e professionale. — Senta, mi sembra di capire che per videotelefono non le abbiano spiegato la situazione, e me ne dispiace. Come lei però ha sospettato, c’è un problema col suo, uh, concepito.

Fratello Haas Sbatté le palpebre. — Mio figlio.

— Ah… no, temo che lei non potrà avere un figlio. Non questa volta. — Ethan allargò le mani con un sospiro di compatimento.

Un’ombra scese sul volto di Fratello Haas. L’uomo strinse le labbra, poi rialzò lo sguardo con un anelito di speranza. — C’è qualcosa che lei possa fare? Io so che lei fa riparazioni genetiche. Se costa molto… be’… la fratellanza della mia comune mi aiuterà, e col tempo io potrò pagare il debito…

Ethan scosse il capo. — Noi possiamo intervenire soltanto in una dozzina di problemi genetici più comuni. Alcuni tipi di diabete, ad esempio, possono essere eliminati sostituendo un gene in un piccolo gruppo di cellule che vengono poi immesse nel feto, se questo può essere curato in uno stadio precoce del suo sviluppo. Altre malattie possono essere prevenute intervenendo sullo sperma quando filtriamo via la parte difettosa, nei portatori di cromosoma X. Ci sono molti problemi abbastanza facili da individuare negli esami preliminari, eseguiti cioè prima che la blastula sia impiantata nel replicatore e cominci a formare la sua placenta. Di routine, a questo punto si sceglie una cellula iniziale che viene passata attraverso una serie di controlli computerizzati. Ma i controlli computerizzati scoprono solo ciò che sono programmati per scoprire, ovvero un centinaio dei più comuni difetti di nascita. Non è impossibile che ad essi sfugga una malattia rara, o ancora poco nota. Succede una dozzina di volte all’anno… ma succede. Il suo non è un caso unico. In genere noi procediamo subito all’annullamento del parto, e fertilizziamo un altro ovulo. È la soluzione migliore anche in termini di costo, dato che solitamente non vanno sprecati più di sei giorni di lavoro del replicatore uterino. Nel suo caso è trascorso più tempo.

Fratello Haas fece un sospiro. — Così bisogna ricominciare daccapo. Si accarezzò la mandibola. — Dag me lo diceva che porta sfortuna cominciare a farsi crescere la barba da padre prima della nascita. Suppongo che avesse ragione.

— Si tratta solo di un ritardo — lo rassicurò Ethan. — Dato che l’origine del problema era nell’ovulo, e non nel suo sperma, il Centro non le farà pagare il mese di lavoro del replicatore uterino. — Scrisse una frettolosa nota in merito, sul dossier.

— Vuole che io torni giù, al reparto paternità, per rilasciare una seconda dose di sperma? — domandò Fratello Haas, rassegnato.

— Ah… prima che lei se ne vada, sì, certo. Questo le risparmierà un altro lungo viaggio. Ma c’è un piccolo problema di cui sarà bene parlare fin d’ora. — Ethan tossicchiò. — Temo che non sarà possibile offrirle di nuovo il gruppo CJB.

— Ma io sono venuto fin qui proprio per il CJB! — protestò Fratello Haas. — Dannazione… ho il diritto di deciderlo io! — Le sue mani si chiusero a pugno in modo allarmante. — Perché non è possibile?

— Be’… — Ethan fece una pausa, e scelse le parole con cura. — La sua difficoltà con il gruppo CJB non è la sola che abbiamo avuto negli ultimi tempi. Quella cultura sembra essersi… deteriorata. In realtà abbiamo fatto un gran lavoro proprio per questo feto: tutti gli ovuli che la cultura ha prodotto in una settimana sono stati assegnati al suo caso e vagliati, in cerca di uno che… mmh, fosse almeno all’apparenza adatto. — Non c’era bisogno di dire a Fratello Haas quanto fosse stata spaventosamente esigua quella produzione. — I miei tecnici migliori hanno lavorato duro, e io anche. Parte del motivo per cui abbiamo accettato il rischio e continuato oltre i sei giorni standard con questo concepito, è che si trattava del solo gruppo di cellule di cui proseguiva la crescita dopo la suddivisione della quarta cellula. Da allora, la nostra cultura del gruppo CJB ha praticamente cessato la produzione di ovuli. Capisce?

— Ah. — Fratello Haas annuì, placato. Poi si animò di decisione nuova. — Dove posso rivolgermi, allora? Non m’importa se dovrò attraversare tutto il continente. Quello che voglio è un figlio del gruppo CJB.

Cupamente Ethan si chiese perché la fermezza di propositi fosse considerata una virtù, e non una dannata seccatura. Trasse un lungo respiro e disse quello che aveva sperato di non essere costretto a dire: — Temo che non possa occuparsene nessun altro centro, Fratello Haas. Il nostro era il solo ad avere una cultura CJB, su tutto Athos.

Il contadino lo guardò sbalordito. — Non ci sarà più nessun neonato del gruppo CJB? Ma allora dove troveremo i nostri medici, i nostri meditec.

— I geni del gruppo CJB non sono certo scomparsi — puntualizzò Ethan, seccamente. — Ci sono uomini su tutto il pianeta che li hanno in sé, e che li passeranno ai loro figli.

— Ma cos’è successo alle… alle culture? Perché non funzionano più? — domandò Fratello Haas, sbalordito.

— Forse sono state… uh, avvelenati, o qualcosa del genere? Un sabotaggio di quei maledetti Emarginati…

— No, no! — lo interruppe Ethan. Nel nome di Dio il Padre, che disordini avrebbe potuto scatenare una voce come quella. — È una cosa del tutto naturale. La prima cultura del gruppo CJB fu portata dai Padri Fondatori quando Athos venne colonizzato… dunque risale a duecento anni fa. Duecento anni di servizio eccellente. È soltanto… diventata vecchia. Consumata. Sfruttata al limite delle sue possibilità. Ha raggiunto la fine del suo ciclo vitale, già una dozzina di volte più lungo di quanto lo sarebbe stato in una, uh… — si trattava di un’oscenità, ma lui era un dottore e quella parola faceva parte della terminologia medica — "una femmina".

In fretta, prima che Fratello Haas potesse trarne la sola logica conclusione, proseguì: — Senta, ciò che intendo fare è proporle una buona soluzione, Fratello Haas. Il mio migliore meditec, una persona assai coscienziosa e abilissima nel suo prezioso lavoro, è un JJY-7. Ora, noi qui a Sevarin abbiamo un’ottima cultura del gruppo JJY-7, e lei ne può approfittare. Io stesso non esiterei ad avere un figlio del gruppo JJY-7, se soltanto… — S’interruppe, per non impantanarsi in un argomento troppo personale con un cliente. — Io sono convinto che lei ne sarà più che soddisfatto.

Benché riluttante Fratello Haas si lasciò persuadere ad accettare quell’alternativa, e poi scese al reparto prelievi che aveva già visitato un mese prima armato di più rosee speranze. Seduto alla sua scrivania, dopo l’uscita del cliente, Ethan sospirò accigliato e si massaggiò lentamente le tempie con due dita. Quel gesto parve non ottenere altro che spargere la preoccupazione invece che dissiparla. La sola logica conclusione…

Tutte le culture di ovuli su Athos discendevano da quelle portate dai Padri Fondatori. Era stato un segreto a disposizione di tutti nei centri di riproduzione, negli ultimi due anni… quanto sarebbe occorso perché arrivasse a conoscenza del pubblico? La cultura del gruppo CJB non era stata la sola a morire, in quegli anni. Ethan supponeva che il decorso delle culture seguisse una linea parabolica, e la maggior parte di esse si trovava nella curva discendente. Il sessanta per cento dei feti cresceva senza problemi, nelle loro placente alloggiate in uno spesso bozzolo di tubicini di scambio, ma provenivano da otto sole colture di ovuli. Da lì a un anno, se i suoi calcoli segreti sarebbero stati confermati, la situazione sarebbe stata ancor più grave. Quanto tempo restava prima che non ci fossero più abbastanza ovuli da soddisfare la domanda, sempre crescente… o addirittura da mantenere stabile di numero la popolazione? Ethan mugolò, immaginando un futuro in cui le sue prospettive di lavoro continuavano a diminuire… sempreché, ancora prima, non fosse stato travolto da una folla inferocita di non-padri d’aspetto ursino…

Scrollò via quei pensieri funesti. Si doveva fare qualcosa, senza dubbio, prima che la situazione precipitasse a quel punto. Qualcosa doveva esser fatto.

Quella preoccupazione continuò a echeggiare come una luttuosa nota stridente, in sottofondo alle normali e spesso piacevoli giornate lavorative di Ethan, nei tre mesi successivi al suo ritorno dalle ferie. Un’altra cultura ovarica, il gruppo LMS-10, avvizzì e fu dichiarata morta, e la produzione di cellule-uovo della cultura EEH-9 diminuì della metà. Sarebbe stata la prossima ad andarsene, calcolò Ethan. La prima novità in quella fosca parabola discendente arrivò del tutto inaspettata.

— Ethan? — La voce del capo del personale, Desroches, suonava tesa anche attraverso l’intercom. Sulla sua faccia c’era un’espressione strana: le labbra, incorniciate fra i mustacchi e la voluminosa barba nera, continuavano a fremere agli angoli. Non aveva affatto l’aria bisbetica, minacciosa, che in quegli anni era diventata la sua caratteristica permanente. Incuriosito, Ethan depose con cura sul bancone del laboratorio la microsiringa e si avvicinò allo schermo.

— Sì, signore?

— Vorrei che lei salisse un momento nel mio ufficio. Subito, se non le spiace.

— Ho appena cominciato una fertilizzazione…

— Appena avrà finito, allora — concesse Desroches, con un gesto della mano.

— Che sta succedendo?

— La nave del censimento annuale è arrivata ieri. — L’uomo indicò in alto con un pollice, benché l’unica stazione spaziale di Athos si trovasse in orbita sincrona sopra un altro quadrante del pianeta. — C’è la posta. Le sue riviste sono state approvate dal Consiglio dei Censori… ho tutti i numeri usciti l’anno scorso, qui sulla mia scrivania. E c’è anche un’altra cosa.

— Un’altra cosa? Ma io ho ordinato solo le pubblicazioni…

— Non una sua proprietà personale. Una cosa che riguarda il Centro di Riproduzione. — I denti di Desroches biancheggiarono. — Finisca quel che sta facendo, e poi venga a vedere. — Lo schermo si spense.

Certo che sarebbe andato. Un anno di numeri arretrati del Giornale Betano di Biologia Riproduttiva, importato a un costo astronomico, anche se difficilmente l’estremo interesse scientifico di quegli articoli avrebbe fatto brillare di gioia gli occhi di Desroches. Ethan si affrettò, pur procedendo meticolosamente, a completare la fertilizzazione; poi mise il contenitore dell’ovulo nello scomparto dell’incubatrice dal quale, entro sei o sette giorni, se tutto fosse andato bene, la blastula sarebbe stata trasferita in un replicatore uterino su uno dei banchi del laboratorio accanto, quindi salì subito al piano di sopra.

Su un angolo della consolle di comunicazione del capo del personale c’era infatti un’ordinata pila di dischetti, ciascuno nella sua elegante scatoletta etichettata. Sull’altro angolo campeggiava un olocubo raffigurante due ragazzi bruni in sella a un paio di pony dal pelame scuro. Ethan non guardò neppure da quella parte, perché la sua attenzione era stata istantaneamente attirata da un candido contenitore refrigerato, piuttosto voluminoso, poggiato al suolo. Le luci-spia del suo display di controllo brillavano di un rassicurante colore verde.

Forniture Biologiche L. BHARAPUTRA FIGLI — Gruppo Jackson diceva un’etichetta. Contenuto: tessuto umano congelato, ovarico. 50 unità. Mantenere funzionante e non ostruito il filtro del refrigeratore. E sotto : Questo lato in ALTO.

— Abbiamo il tessuto ovarico! — esclamò Ethan estasiato e sorpreso, battendo le mani.

— Alla fine, sì — sorrise Desroches. — Questa sera il Consiglio della Popolazione avrà una riunione molto concitata, ci scommetto. Ma… che sollievo! Quando penso alla caccia che dobbiamo dare al materiale di fabbricazione straniera, alla fatica che mi costa avere valuta estera… per un poco ho creduto che avremmo dovuto mandare personalmente qualche povero diavolo su un altro mondo, a procurarsi questa roba.

Ethan rabbrividì a quel pensiero, poi rise. — Uhau! Grazie al Padre nessuno ha dovuto fare questo sacrificio. — Passò una mano sullo scatolone di plastica bianca, con reverenza. — Presto ci vedremo attorno delle facce nuove.

Desroches annuì con aria pensosa, poi sorrise allegramente. — Proprio così. Be’… questa è tutta roba sua, dottor Urquhart. Lasci i lavori di routine del laboratorio ai suoi tecnici, e metta le nuove culture nella loro nuova casa. Priorità assoluta.

— Su questo può scommetterci!

Ethan depose teneramente il contenitore su un banco del Laboratorio Colture, e regolò i comandi per far alzare di qualche grado la temperatura interna. Prima di maneggiare il materiale doveva attendere un poco. Quel giorno lui avrebbe prelevato soltanto una dozzina di gruppi, per rifornire le apparecchiature di coltura fredde e vuote e rimettere in loro nuova vita. Serio in viso toccò il pannello spento dietro il quale il feto CJB-9 era cresciuto così a lungo e inutilmente. Quella vista lo fece sentire triste e, cosa strana, in balia degli eventi.

Il resto dei tessuti avrebbe atteso nel contenitore dove aveva viaggiato finché i tecnici delle Costruzioni avrebbero installato un banco di apparecchiature nuove lungo la parete opposta. Ebbe un sogghigno al pensiero dell’attività frenetica che adesso avrebbe scombussolato la placida routine di quel dipartimento. Be’, un po’ di esercizio non avrebbe fatto male a quella gente.

Intanto che aspettava portò le sue nuove riviste alla consolle di comunicazioni, per darci un’occhiata. Esitò un momento. Da quando era stato promosso alla direzione del dipartimento, l’anno addietro, il suo grado di censura era stato elevato a Livello di Sicurezza A. Questa era la prima occasione che aveva di sfruttarlo, la prima occasione di controllare la maturità e la capacità di giudizio che si supponevano necessarie per maneggiare riviste galattiche senza tagli, del tutto non-censurate. Si umettò le labbra e tenne i nervi sotto controllo, desideroso di dimostrare a se stesso che meritava appieno la fiducia che avevano voluto dargli.

Scelse un dischetto a caso, lo inserì nella fessura del lettore e chiamò a schermo l’indice del contenuto. La maggior parte delle due dozzine di articoli riguardavano, comprensibilmente ma con sua delusione, vari problemi della riproduzione dal vivo in femmine della razza umana, cosa che quindi non poteva riguardare il suo lavoro. Con virtuosa fermezza Ethan represse l’impulso di guardarli. C’era tuttavia un articolo sulla diagnosi precoce di una poco nota forma di cancro dei vasi deferenti, e un altro con l’assai invitante titolo Un miglioramento nella permeabilità delle membrane di scambio nei replicatori uterini. Il replicatore uterino era un’invenzione sviluppata in origine su Colonia Beta, pianeta assai famoso per la sua tecnologia biologica d’avanguardia, e un tempo lo si usava quasi unicamente per ospitare gravidanze in caso d’emergenza medica. La maggior parte dei perfezionamenti tecnici, degli studi, e delle novità biologiche proveniva tutt’ora da Colonia Beta, fatto che non era molto apprezzato su Athos.

Ethan chiamò l’articolo a schermo e lo lesse con attenzione. Il nuovo metodo sembrava basarsi su una mescolanza diabolicamente sottile di linfoproteine e polimeri, espediente che deliziò la sua mentalità geometrica, almeno alla seconda lettura, quando riuscì finalmente a capirlo. Per un poco si perse in calcoli su quel che sarebbe costato realizzare lo stesso lavoro lì a Sevarin. Avrebbe dovuto parlarne col direttore di Costruzioni…

Distrattamente, intanto che rifletteva ai materiali che sarebbero occorsi, chiamò a schermo la pagina dell’autore. Un miglioramento nella permeabilità delle membrane di scambio nei replicatori uterini proveniva dall’ospedale universitario di una città di nome Silica. Ethan sapeva poco della geografia di altri mondi, ma quello sembrava proprio un nome betano. Ciò che menti ordinate e mani abili sarebbero state capaci di realizzare con quell’idea…

Kara Burton M.D. Ph.D. ed Elizabeth Naismith M.S. Bio-ingegneria… questi furono i nomi alzando lo sguardo dai quali si trovò a fissare due delle più strane facce che avesse mai visto.

Facce prive di barba, come quelle di uomini che non avessero figli o di ragazzi, ma senza la solidità giovanile di un ragazzo. Facce molli e pallide, dall’ossatura sottile, e tuttavia segnate dalle rughe dell’età matura. I capelli di Elisabeth Naismith erano quasi tutti bianchi. L’altra persona era corpulenta, vestita con un camice da laboratorio celeste lungo al ginocchio e scarpe a tacco alto.

Ethan s’irrigidì con un tremito, in attesa che la pazzia scaturisse da quei loro sguardi da medusa per contagiarlo e travolgerlo. Non accadde nulla. Dopo qualche momento staccò le mani dal bordo della consolle, a cui le aveva attanagliate, e cercò di calmarsi. Forse, allora, la follia che possedeva gli uomini, schiavi di quelle creature nel settore colonizzato della galassia, era qualcosa che si trasmetteva soltanto col contatto della carne… o attraverso una sorta di aura telepatica che emanava come il calore fisico dai loro corpi? Coraggiosamente Ethan alzò di nuovo lo sguardo in quello delle figure a schermo.

Così, dunque. Quella era una femmina… due femmine, in effetti. Ethan analizzò la sua reazione alle immagini; con immenso sollievo scoprì che almeno in apparenza non ne era stato toccato. Provava indifferenza, perfino una leggera repulsione. Il Pozzo del Peccato non s’era spalancato per ingoiare la sua anima nelle profondità dell’abisso, sempre presumendo che lui avesse l’anima. Quando allungò una mano e spense lo schermo del lettore in lui non ci fu altra emozione che una curiosità frustrata. Chiarito questo fatto decise che. per affermare la validità inespugnabile della sua risolutezza, per quel giorno non avrebbe letto una parola di più. Infilò di nuovo il dischetto nella scatola e lo mise via, insieme agli altri.

Lo scatolone refrigerante era quasi alla temperatura giusta. Ethan andò a prendere le bacinelle termiche, preparò i bagni di soluzione nutriente per le nuove colture e li programmò per raffreddarsi a una temperatura molto bassa, identica a quella del contenuto dello scatolone. Indossò i guanti isolanti, spezzò il sigillo e sollevò il coperchio.

Invece del cilindro metallico che si aspettava c’erano dei pacchetti di plastica. Dei pacchetti?

Stupefatto Ethan abbassò lo sguardo nel contenitore. Ogni campione di tessuto avrebbe dovuto essere racchiuso, isolatamente degli altri, in un suo bagno di azoto liquido, non c’era dubbio su questo. Gli informi pacchetti che vedeva erano invece ammucchiati insieme come involti di carne acquistata in una cooperativa alimentare. Il cuore gli balzò in gola per il terrore e la sorpresa.

Un momento, un momento, non doveva lasciarsi prendere dal panico… forse quella era una nuova tecnologia galattica di cui non aveva ancora sentito parlare. Alacremente frugò nella statola in cerca di un manuale d’istruzioni, o magari di un foglio spiegazzato buttato lì fra i pacchetti. Niente. Per qualche minuto la sua mente girò a vuoto.

Guardando quegli involti refrigerati Ethan si rese conto, alla fine, che lì dentro non c’erano affatto colture di tessuti, bensì dei semplici pezzi di organi interni, tagliati e refrigerati. Avrebbe dovuto ricavarne lui stesso le colture. Deglutì un groppo di saliva. Non é impossibile, si disse, cercando di rassicurarsi.

Trovò un paio di forbici, aprì un primo pacchetto e lasciò scivolare il roseo contenuto nel bagno nutriente di una bacinella termica, con un liquido plop. Attraverso il fluido trasparente lo contemplò, preoccupato e deluso. Forse avrebbe dovuto tagliarlo a strisce, per far giungere la soluzione nutriente a ogni strato… no, non ancora; il bisturi avrebbe potuto danneggiare la struttura delle cellule, congelate com’erano. Prima bisognava scongelare.

Aprì anche altri pacchetti, pervaso da un crescente disagio. Strano, molto strano. Qua c’era un blocco di carne grosso sei o sette volte più degli altri, vitreo e tondeggiante. Là ce n’era un altro piatto e bianco, simile a formaggio di campagna e un po’ repellente. Con improvviso sospetto contò i pacchetti. Erano trentotto. E quelli più grandi sul fondo dello scatolone…

Una volta, durante il servizio militare, lui s’era offerto volontario per il servizio di cucina nel reparto macelleria, forse affascinato da quel poco di rozza anatomia che là si eseguiva. Il ricordo gli piombò addosso come una mazzata.

— Questa roba — sibilò raucamente, a denti stretti, — è l’ovaia di una mucca!

Il suo esame del materiale fu attento e completo, e gli prese tutto il pomeriggio. Quand’ebbe finito, il laboratorio somigliava alla classe di dissezione anatomica del suo primo anno di zoologia, della quale Ethan conservava ancora sanguinose memorie, ma adesso era sicuro, più che sicuro.

Salito al piano di sopra, ci mancò poco che non aprisse con un calcio la porta dell’ufficio di Desroches. Si fermò sulla soglia a pugni stretti, faticando a controllare la rabbia che l’aveva invaso.

Desroches si stava infilando il soprabito, con l’aria d’essere già lontano da lì, a casa sua. Aveva spento l’olocubo. cosa che faceva soltanto alla fine della giornata lavorativa. Nel vedere la faccia stravolta del suo visitatore sbatté le palpebre, sconcertato. — Per Dio il Padre, Ethan. cosa le è successo?

— Avanzi di isterectomie. Rifiuti di sala operatoria, per quello che ne so. Un quarto del materiale è chiaramente canceroso, metà è roba atrofizzata, e cinque pezzi non sono neppure di tessuto umano, per l’amor di Dio! E tutti quanti sono in stato di putrefazione!

— Cosa? — Desroches ansimò, sbiancandosi in faccia. — Non avrà guastato il refrigeramento del contenitore, vero? Non avrà…

— Venga a vedere lei stesso. Venga e guardi — sbottò Ethan. Girò su se stesso, e mentre usciva disse: — Io non so cos’abbia pagato il Consiglio della Popolazione per questa roba, ma una cosa la so: siamo stati truffati.

CAPITOLO SECONDO

— Forse — disse speranzosamente il delegato anziano del Consiglio della Popolazione di Las Sands, — la Casa Bharaputra ha commesso un errore in buona fede. Forse pensavano che il materiale ci servisse per gli studenti di medicina, o qualcosa del genere.

Ethan si stava chiedendo perché Roachie l’avesse trascinato a quella riunione. Come testimone? Come esperto? In un’altra occasione avrebbe potuto sentirsi intimidito da quell’ambiente lussuoso: lo spesso ed elegante tappeto, il bel panorama della capitale dalle finestre, il tavolo di legno ondulato e le facce barbute dei consiglieri che si riflettevano sulla sua lucida superficie. Ma in quel momento era così irritato che non se ne accorgeva neppure. — Questo non spiega perché ci siano 38 pezzi in una scatola marcata 50 sbottò, — né spiega la presenza di quelle dannate ovaie di mucca. Credevano per caso che volessimo allevare minotauri, qui?

Il giovane delegato di Delara li informò, con voce blanda: — La scatola che abbiamo ricevuto noi era completamente vuota.

— All’inferno! — disse Ethan, alzandosi. — Nessun materiale così putrefatto e scadente può essere frutto di un errore "in buona fede" o di un disguido nella spedizione… — Desroches, esasperato, gli accennò di rimettersi a sedere, e lui moderò il tono: — Se non si tratta di negligenza, o di una truffa, l’unica ipotesi che posso fare è quella di un atto di sabotaggio.

— Più tardi — gli promise sottovoce Desroches. — Potrà alzarsi e approfondire questo punto più tardi.

Il presidente raccolse i dischi coi rapporti ufficiali sul materiale ricevuto da tutti e nove i Centri di Riproduzione, li registrò sulla sua consolle di comunicazioni e fece un sospiro. — Perché diavolo abbiamo ordinato le nostre forniture a quella gente del Gruppo Jackson? — chiese. Era una domanda retorica, ma sembrava aspettarsi una risposta.

Il capo del sub-comitato per gli acquisti mise due pasticche in un bicchier d’acqua e le guardò mentre cominciavano a sciogliersi in un nugolo di bollicine. — La Casa Bharaputra ci faceva il prezzo più basso — spiegò, accigliato.

— E tu hai messo il futuro di Athos nelle mani di chi fa i prezzi più bassi? — grugnì un altro consigliere.

— Voi tutti avete approvato. Ve ne siete dimenticati? — ribatté il capo del sub-comitato per gli acquisti, accalorandosi. — Anzi, avete insistito, dopo aver saputo che un’altra ditta ci avrebbe mandato soltanto trenta colture per lo stesso prezzo. La Casa Bharaputra ci aveva promesso cinquanta colture… e vi brillavano gli occhi quando ho letto il preventivo, lo ricordo benissimo.

— Cerchiamo di attenerci all’ordine del giorno, prego — lo esortò il presidente. — Non abbiamo tempo da perdere con le recriminazioni o per distribuire le colpe. La nave del censimento galattico lascerà l’orbita di Athos fra quattro giorni, e questo è il solo mezzo di trasporto disponibile fino all’anno prossimo, se vogliamo trasmettere all’estero la nostra decisione.

— Dovremmo avere anche noi le nostre navi da balzo — fece notare un consigliere. — Allora non saremmo trattati in questo modo, né ci troveremmo alla mercè dei programmi di viaggio altrui.

— I militari insistono con me da anni per averne un paio — disse il consigliere dell’Ufficio della Difesa.

— E a quale centro di riproduzione vorresti tagliare i fondi per acquistarle? — domandò ironicamente un terzo. — Noi e i militari siamo le due voci maggiori nel bilancio, insieme alle opere di terraformazione dalle quali dovrà nascere il cibo con cui vogliamo nutrire più figli… salvo che tu non desideri spiegare ai nostri cittadini che i figli da loro agognati devono esser lasciati nell’aldilà, per fare posto su questo mondo a dei giocattoli che non producono nulla in cambio del loro costo.

— Non producono nulla… finché non ce ne sarà bisogno — mugolò l’altro consigliere, irritato.

— Per non parlare della tecnologia che dovremmo importare insieme a delle astronavi da guerra… e cosà, ti prego d’illuminarmi, potremo esportare per pagarle? Il nostro reddito annuale lordo basta appena per…

— Allora facciamo in modo che le navi da balzo si paghino da sole. Se le avessimo potremmo esportare qualcosa, e avere così abbastanza valuta galattica da…

— Cercare il contatto con quelle culture contaminate sarebbe una contravvenzione ai dettami dei Padri Fondatori — lo interruppe un quarto consigliere. — Essi ci hanno portato qui, proprio in fondo a questo lungo corridoio di transito, e in una zona isolata della Distorsione Galattica, in primo luogo proprio per tutelarci dalla nociva influenza…

Il presidente batté alcuni secchi colpi sul tavolo. — I dibattiti su argomenti d’interesse planetario spettano al Consiglio Generale, signori. Oggi ci siamo riuniti per occuparci di un problema specifico, e possibilmente in fretta. — La sua voce piatta e irosa non invitava alla discussione. Intorno al tavolo i consiglieri si irrigidirono, buttarono giù note sulle loro tastiere e assunsero espressioni accigliate.

Il giovane delegato di Barka, dopo essersi consultato con un suo collega anziano, si schiarì la gola. — Evitando di andare su altri mondi, c’è un’unica possibile soluzione. Possiamo far crescere il nostro materiale genetico qui.

— È proprio perché le nostre colture non crescono più che siamo stati costretti a… — cominciò un altro.

— No, no, questo l’ho capito, è ovvio — s’affrettò a interromperlo il delegato di Barka, un capo del personale come Desroches. — Io volevo dire che, uh… — si schiarì la gola, — potremmo far crescere alcuni feti femminili noi, qui. Non sarà necessario portarli a termine, naturalmente. Tolti dal replicatore uterino prima del parto, si potrà asportare loro il tessuto ovarico, e ricominciare con altri feti.

Sul tavolo cadde un pesante silenzio e ci furono borbottìi di disgusto. Il presidente torse la bocca come se avesse succhiato un limone acerbo. Il consigliere di Barka deglutì un groppo di saliva ed evitò accuratamente di guardare dalla sua parte.

Infine il presidente disse: — Non siamo ancora alla disperazione. Tuttavia forse è un bene aver intavolato un argomento a cui qualcun altro avrebbe pensato, se le cose dovessero peggiorare.

— Non sarebbe necessario renderlo di pubblico dominio — precisò il delegato di Barka.

— Questo voglio sperarlo — annuì il presidente. — Prendo nota della possibilità suggerita. I presenti sono tenuti a considerare segreto e non divulgabile questo argomento. Ma devo sottolineare che questa proposta non risolverebbe l’altro perenne problema, ormai da anni all’attenzione del Consiglio e di Athos: mantenere un’accettabile varietà genetica. La nostra generazione non lo sente ancora come un problema pressante, ma tutti noi sappiamo che lo diverrà, in futuro. — Il suo tono si ammorbidì. — Sarebbe venir meno alle nostre responsabilità se oggi lo ignorassimo, scaricandolo così sui nostri nipoti sotto forma di crisi.

Intorno al tavolo ci furono mormorii di sollievo, quando la logica prese il posto delle emozioni destate dal delegato di Barka. Anche quest’ultimo apparve rassicurato. — È giusto… Proprio così… Bisogna pensarci prima… Meglio prendere due piccioni con una fava, se possibile…

— L’Ufficio Immigrazione potrebbe esserci d’aiuto nel cercare un agente — disse un consigliere, che una settimana all’anno lavorava all’Ufficio Immigrazione e Naturalizzazione di Athos. — Se uno degli immigrati fosse disposto.

— Quanti immigrati sono arrivati con la nave di quest’anno? — domandò l’uomo seduto di fronte a lui.

— Tre.

— Per l’inferno, è un periodo di stanca?

— Non direi. L’anno scorso ne sono giunti soltanto due. E due anni fa, nessuno. — L’uomo dell’Ufficio Immigrazione sospirò. — La logica fa pensare che dovremmo essere sommersi da folle di uomini in cerca di una vita migliore o di asilo politico. Probabilmente i Padri Fondatori hanno voluto esser certi di offrirci un pianeta molto al di fuori delle consuete rotte di navigazione. Talvolta mi chiedo se la gente, sugli altri mondi della galassia, ha mai sentito parlare di noi.

— Forse questa informazione viene soppressa da… uh, loro. Sapete di chi parlo.

— Forse gli uomini che tentano di arrivare qui vengono fermati a Stazione Kline — ipotizzò Desroches. — Forse soltanto a pochi loro concedono di passare oltre.

— È la verità — annuì l’uomo dell’Ufficio Immigrazione. — Tuttavia va notato che gli individui provenienti da fuori tendono a essere un po’… uh. strani.

— Non c’è da stupirsene, considerando che sono il prodotto un parto così traumatico, e delle… uh. creature, che li educano. Non per colpa loro.

Il presidente batté ancora sul tavolo. — Queste chiacchiere potrete continuarle più tardi. Dunque, siamo tutti d’accordo nell’insistere con la nostra precedente scelta, e cioè cercare al di fuori di questo pianeta un rifornimento di tessuti da coltura…

Ethan, che si sentiva bollire, non riuscì a star zitto: — Signori! Non starete pensando di rivolgervi ancora a quei delinquenti che ci hanno appena… — Desroches lo costrinse con fermezza a rimettersi a sedere.

— … acquistandoli da una fonte più sicura e controllata — finì il presidente, gratificando Ethan di uno sguardo severo. Non di biasimo, tuttavia, ma anzi come se si sentisse d’accordo con lui. — Il vostro parere, signori consiglieri?

Dai presenti si levò un mormorio di approvazione.

— I sì prevalgono, la mozione è approvata. Penso inoltre che siate d’accordo sull’opportunità di non fare due volte lo stesso errore: non più acquisti alla cieca. Ne consegue che dovremo scegliere un agente. Qualche suggerimento, Dr. Desroches?

Desroches si alzò in piedi.

— Grazie per avermi interpellato, signor presidente. Ho già riflettuto con attenzione su questo problema. È ovvio che l’agente commerciale ideale deve prima di tutto possedere le conoscenze tecniche necessarie per valutare, scegliere, imballare e trasportare le colture. Questo restringe considerevolmente la rosa di candidati, dai quali mi sia perciò consentito escludere tutti gli emigrati giunti nei recenti anni sul nostro pianeta. L’agente dovrà essere inoltre un uomo di provata integrità, non solo perché sarà responsabile di quasi tutto il commercio con l’estero che Athos potrà permettersi quest’anno…

— Di tutto — lo corresse con calma il presidente. — Il Consiglio Generale non ha approvato altri scambi, ieri sera.

Desroches annuì. — E non solo perché il futuro di Athos dipenderà dalla sua capacità di giudizio, ma anche perché dovrà avere la fibra morale per resistere alla, uh… a qualunque cosa ci sia là fuori, e che lui potrebbe quindi incontrare.

Stava parlando di loro, ovviamente, delle femmine, e di tutto ciò che costoro avrebbero potuto fare a un uomo. Dato che aveva elencato la fibra morale fra le caratteristiche indispensabili, Ethan si chiese se Roachie stesse meditando di offrirsi volontario. Senza dubbio era qualificato dal punto di vista tecnico, riconobbe. E ammirò il coraggio del collega, anche se fino a quel momento l’aveva considerato un piccolo burocrate di vedute ristrette. Ora invece riconosceva di averlo giudicato frettolosamente. Per Desroches sarebbe stato un sacrificio lasciare i due figli, che lui adorava, per un intero anno…

— Dovrà anche essere un uomo libero dalle responsabilità familiari, in modo che la sua assenza non lasci un pesante fardello sulle spalle del suo coniuge alternativo designato — continuò Desroches.

Tutte le facce barbute intorno al tavolo annuirono gravemente.

— … e infine, dovrà essere un uomo dotato dell’energia e della fermezza che gli occorreranno per portare a termine il suo compito, superando gli ostacoli che gli saranno opposti dalle… dal destino o da chiunque altro potrebbe trovarsi ad affrontare. — Desroches appoggiò saldamente una mano su una spalla di Ethan; l’espressione di cupa approvazione sulla faccia del presidente si allargò in un sorriso.

Le parole con cui Ethan stava per congratularsi con lui, e fargli i suoi auguri gli si erano congelate in gola. Da un lato all’altro del cranio gli echeggiava soltanto una stridula, tremante e incredula frase: Questa me la pagherai, Roachie…

—  Signori, ho il piacere di proporre alla vostra attenzione il nostro nuovo agente commerciale, il dottor Urquhart — disse Desroches, e rivolse a Ethan un sorriso allegro. — Ora può alzarsi e dire quel che voleva dire — lo incitò.

Il silenzio, a bordo della vettura da superficie di Desroches sulla strada fra la capitale e Sevarin, fu lungo e pesante. Infine l’uomo si decise a romperlo, nervosamente: — Non vuole proprio ammettere di avere la capacità di occuparsene?

— Questo è lei a dirlo — grugnì Ethan, scostante. — Avevate già deciso tutto in anticipo, lei e il presidente.

— Era necessario, data la scarsità di tempo. Ho pensato che lei sarebbe stato troppo modesto per offrirsi volontario.

— Modesto un accidente. Quello che lei ha pensato è che sarebbe stato più facile costringermi ad accettare se mi aveste colto di sorpresa.

— Ma niente affatto, caro Ethan! Sono convinto che lei sia l’uomo più adatto per questo incarico, ecco la verità. E il presidente ha voluto la mia opinione in anticipo perché solo Dio il Padre sa chi avrebbe scelto il Consiglio, lasciato libero di chiacchierare e perdere altro tempo. Magari quell’idiota di Frankin, da Barka. Le piacerebbe vedere il destino di Athos nelle mani di quell’individuo?

— No — fu d’accordo Ethan, con riluttanza. Poi ebbe uno scatto d’ira. — Sì! Mandateci lui, là fuori.

Desroches sorrise, e sul lucido quadro di comando si riflesse il bianco dei suoi denti. — Ma i crediti da doveri sociali che lei ne ricaverà… pensi a questo! Il costo di tre figli, i CDS che guadagnerebbe in dieci anni di lavoro, e tutto ciò in un solo anno che. me lo lasci dire, può essere in buona parte considerato una vacanza. Il compenso approvato dal Consiglio è stato generoso.

Senza volerlo troppo Ethan immaginò un olocubo sulla sua scrivania, pieno di vita e con tre sorridenti volti di fanciulli… pony anche per loro, naturalmente, e lunghe giornate in barca a vela sotto il cielo terso, con lui che insegnava ai figli i segreti del vento e del mare, come suo padre aveva insegnato a lui, e le voci e le risa in una casa non più vuota, e un futuro senza timori…

Ma con voce tetra disse: — Se riuscirò nell’incarico, e se riuscirò a tornare indietro. Inoltre io ho già da parte crediti da doveri sociali per un figlio e mezzo. Il Consiglio avrebbe fatto meglio a stanziare abbastanza crediti da doveri sociali per qualificare il mio coniuge alternativo designato. Sto parlando di mio fratello… cioè, del mio fratellastro, Janos.

— Se lei scusa la mia franchezza, Ethan, gli uomini come il suo fratellastro sono proprio la ragione per cui i CDS non possono essere trasferiti neppure ai familiari — disse Desroches. — È senza dubbio un giovanotto affascinante, ma lei stesso deve ammettere che si tratta di un irresponsabile.

— È giovane — protestò Ethan, a disagio. — Ha soltanto bisogno di un po’ di tempo per maturare.

— Tre anni più giovane di lei, mi sembra di ricordare. Sciocchezze. Il suo fratellastro non maturerà mai, finché può appoggiarsi a lei. Credo che le converrebbe assai di più trovare un CAD già qualificato, piuttosto che cercare di tirarne fuori uno da un ragazzo scriteriato come Janos. Inoltre, con un CAD qualificato come partner, lei potrebbe avere una vita familiare…

— Lasciamo la mia vita privata fuori da questa storia, le spiace? — sbottò Ethan. ferito in un punto sensibile. — Vita che, fra l’altro, questa missione scombussolerà completamente. Non me la sento proprio di ringraziarvi per questo incarico. — E incrociò le braccia, seduto accanto al posto di guida, con gli occhi fissi nella notte che correva incontro alla vettura.

— Poteva andarle peggio — gli fece notare Desroches. — Il Consiglio avrebbe potuto attivare il suo stato di Riserva dell’Esercito, farle dare un ordine dall’Ufficio della Difesa e mandarla in missione con la paga da sottufficiale. Per fortuna lei è stato così intelligente da non cadere in questa trappola.

— Mi sono accorto che non stavate bluffando.

— Infatti non stavamo bluffando. — Desroches sospirò e si fece più serio. — Non l’abbiamo scelta a caso, Ethan. E le dirò che trovare un sostituto in grado di svolgere il suo lavoro a Sevarin non sarà assolutamente facile per me.

Desroches fece scendere Ethan davanti al giardino dell’appartamento che lui divideva con il fratellastro, e prima di ripartire gli raccomandò di farsi vedere di buon’ora al Centro di Riproduzione, l’indomani. Ethan annuì con un sospiro. Quattro giorni. I primi due, e non un minuto di più, gli erano concessi per istruire il suo assistente anziano ai molti nuovi compiti che avrebbe dovuto svolgere, e per sbrigare almeno i più urgenti affari personali — gli conveniva fare testamento? — poi un giorno alla capitale per le ultime istruzioni presso il Consiglio della Popolazione, e quindi presentarsi alla pista di atterraggio delle navette. Il suo cervello già fremeva nello sforzo di barcamenarsi con tutte quelle novità.

Una quantità di cose, al Centro di Riproduzione, avrebbero dovuto semplicemente essere abbandonate. D’un tratto gli venne da pensare al figlio di Fratello Haas, il feto del gruppo JJY, felicemente impiantato nel replicatore uterino tre mesi addietro. Lui aveva già progettato di occuparsi personalmente del parto, così come s’era occupato della fertilizzazione dell’ovulo. L’alfa e l’omega, per assaporare anche se brevemente e attraverso gli occhi di un altro uomo il frutto gioioso del suo lavoro. Avrebbe fatto ritorno su Athos assai dopo la scadenza di quella data.

Mentre camminava verso la porta, nella penombra, inciampò sulla bicicletta elettrica di Janos stesa di traverso sul sentiero fra le aiuole. Per quanto Ethan si sforzasse di ammirare l’idealistica indifferenza del fratellastro verso le superficialità del benessere materiale, gli sarebbe piaciuto che fosse più ordinato con le sue cose… ma lui era fatto così.

Benché l’uso volesse che lo chiamasse "fratello", in realtà Janos non aveva con lui altro che una parentela legale, essendo figlio del CAD di suo padre. I due uomini avevano allevato insieme i loro cinque figli, così come erano stati insieme come partner nella vita privata e nella conduzione della loro ditta, un impianto dapprima sperimentale e poi di buon successo economico per l’allevamento del pesce, sulla costa della Provincia Meridionale. Nessuno dei due aveva mai fatto differenze fra i suoi figli e quelli del suo coniuge alternativo designato. Ethan, il più anziano dei tre figli di suo padre, studioso e analitico, era destinato fin dalla nascita a un’istruzione superiore e a un lavoro nel campo scientifico. Steve e Stanislaus, gli altri due, nati a una settimana uno dall’altro, provenivano invece dallo stesso gruppo di coltura ovarica del padre, ed erano positivi e portati agli affari. Degli altri due, Janos era energico e fatto per le attività fisiche, dotato di una personalità eclettica e spumeggiante. Bret, il "piccolo", che al momento faceva servizio di leva nell’Esercito, aveva invece chiare tendenze musicali; era a lui che Ethan si riferiva parlando col caposquadra dei meditec, quel mattino. Sentiva la loro mancanza da anni, prima nell’Esercito, poi all’università, e infine dopo aver accettato quel lavoro troppo-buono-per-poterlo-rifiutare lì nel Distretto di Sevarin.

Quando Janos aveva deciso di trasferirsi anch’egli a Sevarin. avido di lasciare la vita di campagna per quella di città, Ethan era stato ben lieto di prenderlo in casa con sé. Non gli importava che la presenza del fratellastro ostacolasse i suoi saltuari tentativi di socializzare con qualche aspirante partner. Ethan. che era sempre stato timido nei rapporti sentimentali, detestava gli approcci sessuali che ai giovanotti di città riuscivano spontanei, e che lui trovava invece troppo facili e artificiosi. Di conseguenza lui e Janos avevano ripreso senza problemi i rapporti sessuali della loro infanzia. E quella notte Ethan aveva bisogno di quel genere di conforto, perché nel suo intimo si sentiva molto più spaventato di quel che il suo sarcastico botta-e-risposta con Dcsroches avesse fatto pensare.

L’appartamento era buio e silenzioso. Ethan fece un rapido passaggio in tutte le stanze e poi, con un borbottio, andò a controllare nel garage.

La sua vettura antigravità non c’era. Ethan l’aveva acquistata solo due settimane prima, coi risparmi di un anno di lavoro e grazie anche al recente aumento di paga che gli spettava con la promozione a direttore del suo dipartimento: una Aerostar De Luxe ultimo modello, personalizzata su richiesta del cliente e con piastre antigravità che potevano sollevarla fino a un chilometro d’altezza in venti secondi. Ethan imprecò fra i denti, poi si diede dello sciocco e cercò di calmarsi; in realtà aveva già promesso a Janos che gliela avrebbe fatta provare, appena finito il rodaggio. Inutile mettersi a discutere con lui se l’aveva presa un po’ prima; sarebbe apparso stupidamente pignolo.

Rientrò in casa e considerò doverosamente l’idea di andarsene subito a letto. Era tardi, ma… dannazione, il nervosismo gli avrebbe impedito di dormire. Controllò la consolle di comunicazioni. Nessun messaggio, naturalmente. Senza dubbio ciò significava che Janos era uscito con l’idea di tornare a casa prima di lui, cercò di dirsi. Ethan fece il numero di videotelefono della vettura antigravità; nessuna risposta. Be’, dato che a bordo non c’era nessuno questo gli dava modo di effettuare la ricerca col sistema antifurto, senza che Janos se ne offendesse. Chiamò a schermo la carta della città e batté un codice che lo collegava col satellite. Uno degli accessori extra da lui chiesti era un costoso trasmettitore incorporato nel telaio stesso della Aerostar De Luxe, che avrebbe costretto un ladro a fare a pezzi il motore per smontarlo. Il segnale che il satellite gli mandò sulla carta rivelò che la vettura si trovava in città: a neppure due chilometri di distanza da lì, nel Parco dei Padri Fondatori. Senza dubbio Janos è a una festicciola in casa di qualche amico, pensò, grattandosi la mandibola. Be’, decise infine, allora tanto valeva andarsene da quelle stanze vuote e deprimenti, e raggiungerlo per un’ora o due; così si sarebbe preso la soddisfazione di stupirlo non mostrandosi arrabbiato perché lui era uscito con la sua vettura senza permesso.

L’aria della notte gli scompigliò i capelli e gli schiarì la mente quando sfrecciò per le strade silenziose sulla ronzante bicicletta elettrica. Era freddo, ma fu la vista delle luci gialle dei veicoli del soccorso stradale che gli gelò le ossa, appena ebbe svoltato nel vasto Parco dei Padri Fondatori. Che Dio il Padre non voglia… Ma no, no, era affrettato pensare al peggio solo perché Janos e il soccorso stradale si trovavano nello stesso luogo. Sicuramente si trattava di una vicinanza casuale e senza rapporto.

Nessuna ambulanza, niente polizia municipale; soltanto un paio di veicoli di servizio mandati da qualche garage. Ma se non c’era sangue sull’asfalto, perché quella piccola folla affascinata? Fermò la bicicletta presso le querce allineate sul lato sud del parco, si accorse che gli spettatori stavano guardando all’insù e alzò la testa, seguendo il raggio dei fari puntati fra il fogliame scuro.

La sua Aerostar De Luxe. Parcheggiata sulla cima di una quercia alta 25 metri.

No… incastrata sulla cima di una quercia alta 25 metri. Il propulsore sfondato dai rami, le ali semi-retrattili accartocciate, gli sportelli aperti. Il cuore di Ethan si fermò alla vista della cintura di sicurezza del posto di pilotaggio che penzolava fuori. Il vento aumentò, i rami oscillarono con allarmanti crepitii e la folla fece prudentemente qualche passo indietro. Lui s’incamminò in mezzo alla gente per vedere meglio. Fra i pezzi di plastica e i detriti vegetali piovuti sull’asfalto non c’erano tracce di sangue…

— Ehi, signore, meglio che lei non stia qui sotto. È pericoloso.

— Quella lassù sembra la mia vettura… è una Aerostar De Luxe rosso fiamma, no? — disse Ethan. — In cima a un dannato albero, maledizione. — Accorgendosi di avere la voce stupidamente stridula per la tensione tacque, e si schiarì la gola. Abbassò gli occhi e lo irritò vedere che alcuni dei presenti ridacchiavano. Cosa trovavano di divertente nella vista di una vettura nuova di zecca ridotta in quelle condizioni? Fece qualche passo indietro, poi si girò ad afferrare per una manica l’uomo del garage che gli aveva rivolto la parola.

— Senta, il giovanotto che guidava quella Aerostar, dove…

— È andato via da un pezzo. L’ho visto salire sull’ambulanza.

— L’hanno portato all’ospedale? È ferito?

— No, non mi è parso. Lui no, almeno. Il suo amico aveva un brutto taglio nella testa, invece. Comunque, mi sembra di aver sentito che gli agenti li avrebbero accompagnati al pronto soccorso e poi portati alla stazione della Polizia Municipale, dove suppongo che passeranno qualche guaio. Il conducente stava cantando.

— Ah. Era… ubriaco, vuol dire? — domandò Ethan.

— Ehi lei, ha detto che quella vettura là in cima è sua? — lo interpellò un uomo con la divisa della Protezione Ambientale, avvicinandosi.

— Credo di sì. Io sono il Dr. Urquhart. Perché?

L’uomo della Protezione Ambientale tirò fuori un minicom tascabile sul cui schermo c’era un modulo compilato a mezzo. — Lei si rende conto che questo albero ha quasi duecento anni? È stato piantato dagli stessi Padri Fondatori, e ha un valore storico incalcolabile. Guardi adesso quella crepatura sul tronco, spaccato quasi da cima a fondo…

— La tengo, Fred! — gridò una voce dall’alto. — Abbassa, ora. Piano… ho detto piano!

— Toglietevi di mezzo, laggiù! Via, via!

— Come responsabile dei danni, lei dovrà…

Uno schianto di legno che si spezzava, un violento fruscio sulla chioma dell’albero, un: — Aaah! — della folla, e il gemito acuto di un veicolo antigravità le cui piastre stavano andando all’improvviso fuori fase.

— Oh, merda! — imprecò una voce alla sommità della quercia. La folla si disperse di corsa, fra imprecazioni e grida d’avvertimento.

Cinque metri al secondo, fu il pensiero isterico di Ethan. 25 metri d’altezza per… quanti chili pesava una Aerostar De Luxe?

L’impatto a muso in giù sull’asfalto fece schizzare via il parabrezza e irretì di pieghe orizzontali simili a onde la scintillante carrozzeria rossa, da cima a fondo. Alcuni frammenti rotolarono o volarono fin dall’altra parte della strada. Nel breve intervallo di assoluto silenzio che seguì lo schianto Ethan poté udire lo sfrigolio della costosa elettronica interna che andava in corto circuito. La batteria era rimasta intatta, evidentemente; ne ebbe la prova quando alcune scintille appiccarono il fuoco al quadro dei comandi.

La testa bionda di Janos si volse quando il giovanotto sentì la voce di Ethan, alla Stazione della Polizia Municipale di Sevarin. Parve stupito di vederlo lì.

— Oh, Ethan — lo salutò con calma. — Già di ritorno dalla capitale? Spero che tu abbia fatto buon viaggio. Io ho avuto una giornataccia, temo. — Fece una pausa, poi schioccò le dita. — A proposito… uh, hai trovato la tua Aerostar?

— L’ho trovata.

— Non ci saranno problemi, stai tranquillo. Tu lascia fare a me. Ho chiamato il garage. Forse l’hanno già tirata giù.

Il barbuto sergente di polizia con cui Janos stava parlando, seduto dall’altra parte della scrivania, fece udire un grugnito. — Certa gente non la lascerei andar fuori neanche su un triciclo a pedali, se volete sapere la mia opinione.

— L’hanno tirata giù — annuì seccamente Ethan. — Ho pagato il conto del garage. E ho pagato i danni per l’albero.

— L’albero?

— Monumento storico, dovrei chiamarlo. Questo è il nominativo della pianta sul modulo che mi ha rilasciato la Protezione Ambientale.

— Oh, capisco. Che pignoleria, per qualche rametto spezzato.

— Come hai fatto? — lo interrogò Ethan. — A incastrarti su quella quercia, voglio dire.

— Gli uccelli, Ethan — spiegò Janos. — Sono stati loro.

— Gli uccelli. Ti hanno costretto a scendere di quota, intendi?

— Non proprio. — Janos ridacchiò, a disagio. La popolazione avicola di Sevarin, tutta discendente da fagiani e galli selvatici fuggiti dai primi insediamenti, era attualmente lasciata libera nelle zone più abitate dove trovava da mangiare fra i rifiuti, ma non era formata da specie molto capaci di volare. I grossi pennuti venivano tenuti sotto controllo dalla Sorveglianza Ambientale, che li considerava una noia. Ethan gettò uno sguardo alla faccia del sergente e constatò che non sembrava preoccupato della sorte degli uccelli. Era un sollievo; la vista di un altro modulo per danni da pagare gli avrebbe fatto venire una crisi di nervi.

— Vedi — continuò Janos, — abbiamo scoperto che quegli stupidi uccelli potevano essere abbattuti, con un po’ di vera abilità… passandogli molto vicino, voglio dire, quelli vanno in stallo e precipitano a vite, proprio come gli aerei antichi. È come la guerra nell’aria, capisci, uno dirige addosso al nemico e… bang! lo butta giù. — Le mani di Janos saettarono qua e là, evocando le eroiche picchiate dell’aereo da caccia. — Waaam… e giù un altro. È un utile esercizio di volo, no?

Athos non aveva avuto nemici né guerre nei suoi duecento anni di storia. Ethan digrignò i denti, ma conservò la calma. — E l’ultima picchiata si è conclusa sull’albero. Colpa del buio, suppongo. Sì, ora capisco come sia potuto accadere.

— No, questo è successo prima del tramonto. Era giorno.

Ethan fece un rapido calcolo. — Prima delle sei. Posso chiederti come mai non eri al lavoro?

— Be’, questo è colpa tua, mi spiace ma devo proprio dirtelo. Se tu non te ne fossi andato all’alba per accompagnare quel rompiscatole alla capitale, io non avrei dormito fino a tardi.

— Ho rimesso la sveglia. Non ha suonato alle otto meno dieci?

— Sai benissimo che non riesco a svegliarmi con quell’affare.

Vero. Tirare Janos già dal letto, fargli ingoiare la colazione e spedirlo fuori dalla porta, vestito e in orario per andare al lavoro, era il primo duro lavoro della giornata di Ethan.

— Però io ci sono andato lo stesso, dato che non ero in ritardo neanche di tre quarti d’ora — continuò Janos. — Ma in corridoio ho trovato il capo, invelenito per chissà quale motivo suo. Insomma, non ha voluto sentire ragioni e… be’. mi ha licenziato. — Abbassò lo sguardo sugli stivaletti e li inclinò da una parte e dall’altra, accigliandosi, come se si accorgesse soltanto allora di quant’erano impolverati.

— Licenziato per essere arrivato una volta in ritardo? Ma questa è un’ingiustizia. Sentì, parlerò io a quel signore domattina stessa, e… se tu vuoi, insomma, vedrai che in qualche modo…

— Uh, no, non preoccuparti. Meglio lasciar perdere.

Ethan esaminò con più attenzione l’attraente faccia di Janos, incorniciata dai capelli d’oro. Nessun graffio, nessuna contusione sulla sua pelle liscia. Ma sull’avambraccio destro aveva dei lividi che dalla forma sembravano lasciati da dita umane, e le nocche delle dita della mano destra erano spellate. Lui aveva già visto spellature simili. Insospettito chiese: — Cos’è successo al tuo braccio?

— Il capo e quel presuntuoso idiota del suo amante sono diventati un po’ rudi, e mi hanno buttato fuori dalla porta.

— Cosa? Dannazione, come si sono permessi! Io li denuncio…

Janos alzò una mano per placarlo e scosse la testa. — Questo è stato dopo che io gli ho fatto un occhio nero — spiegò, riluttante.

Ethan contò fino a dieci e ricominciò a respirare. Non era il momento di pensarci. Non c’era tempo, ecco il suo problema. — Così hai passato il pomeriggio a consolarti con la birra, finché ti sei ubriacato. Con chi eri? Non con quel tale, spero…

— Ero con Nick — annuì Janos, e incassò la testa nelle spalle, in attesa dell’esplosione.

— Mmh. Suppongo che questo spieghi il massacro degli uccelli. — Nick era il compagno di giochi di Janos in un certo numero di attività competitive che lasciavano freddo Ethan. Ogni tanto gli veniva il sospetto che Janos facesse anche attività d’altro genere con lui. Ora non è il momento di pensarci. Janos inarcò un sopracciglio, sorpreso, quando l’esplosione non venne.

Ethan tirò fuori il portafogli e si rivolse al sergente di polizia, in tono cortese: — Agente, c’è una multa per il tamponamento di volatili in corsia di sorpasso o qualcosa del genere?

— Be’, signore, non direi. Ma se vuole aggiungerne una nuova a quelle già addebitate alla sua vettura…

Ethan scosse il capo.

— Il giudice del tribunale si è già occupato di tutto, nell’ultima seduta pomeridiana. Il suo amico è libero di andarsene.

Ethan ne fu sollevato, ma l’accenno al tribunale l’aveva fatto accigliare. — Vuol dire che non ci sono state accuse a suo carico? Neppure quella per…

— Oh, le accuse ci sono state, signore: guida di un veicolo aereo in stato di ubriachezza, pericolo per la sicurezza pubblica, danni alle proprietà comunali… la spesa per l’intervento dell’ambulanza… — Il sergente enumerò tutte le voci della lista.

— Hanno prelevato la somma dai tuoi CDS in banca, allora? — domandò Ethan a Janos, cercando di richiamare alla mente l’ultimo bilancio a lui noto delle finanze del fratellastro.

— Uh, non proprio. Avanti, andiamocene a casa. Ho un mal di capo infernale.

Il sergente restituì a Janos le sue proprietà personali. Lui firmò la ricevuta senza neanche guardarla e augurò il buongiorno a tutti; erano le tre del mattino passate.

Seduto sulla canna della bicicletta elettrica. Janos usò la scusa del rumore del motore per non dover fare conversazione durante il tragitto fino a casa. Quello fu un errore strategico, perché diede tempo a Ethan di riesaminare la cosa alla luce di un’aritmetica mentale più stretta.

— Janos. dove hai trovato i soldi per pagare la cifra che ti è stata chiesta dal giudice, in tribunale? — gli domandò quando furono entrati, chiudendo la porta. Si girò a guardare l’orologio digitale dell’ingresso. Da lì a tre ore avrebbe dovuto essere al lavoro.

— Non tormentarti con questi pensieri — consigliò il fratellastro. Si tolse gli stivaletti gettandoli sotto il divano con un calcio e andò in cucina. — Stavolta non escono dalle tue tasche.

— Da quelle di chi. allora? Non avrai chiesto denaro in prestito a Nick, eh? — insisté lui. seguendolo.

— Diavolo, no. Lui è più al verde di me. — Janos prese un bulbo di birra dal distributore, estrasse il tubetto refrigerante e bevve un sorso. — Ottimo sciacquabudella. Ne vuoi una? — offrì, esitante.

Ethan rifiutò di lasciarsi attirare in una critica delle preferenze del fratellastro in fatto di bevande, visto che il suo intento era evidentemente quello di distrarlo. — Sì, grazie.

Janos inarcò un sopracciglio, sorpreso, e gli gettò un bulbo. Ethan lo prese e si lasciò cadere su una poltrona, allungando le gambe davanti a sé. Mettersi a sedere fu un errore; tutta la stanchezza emotiva della giornata gli piombò sulle spalle. — I particolari. Janos.

Lui scrollò le spalle. — Hanno detratto i CDS dal conto che avevo in banca, naturalmente, come hai detto tu; il guadagno dei miei due anni di servizio militare. Temo che non ci sia rimasto più niente.

— Oh, Dio! — esclamò stancamente Ethan. — Quel conto non ha fatto che rimpicciolire, da quando sei uscito dall’Esercito. Chiunque alla tua età avrebbe ormai abbastanza crediti da doveri sociali per essere un buon CAD per qualcuno, senza doversi offrire volontario per niente. — Il furioso impulso di afferrare Janos e sbattergli la testa nel muro per ammorbidirgliela un poco fu smorzato solo dal pensiero dello sforzo che gli sarebbe costato alzarsi. — Se avessi un figlio, un bambino piccolo, con che animo potrei lasciarlo con te per andare a lavorare, sapendo che aspetti solo l’occasione, di uscire a divertirti?

— Diavolo, Ethan. chi ti sta chiedendo di farlo? Io non ho tempo da sprecare cambiando i pannolini a quelle fabbriche di cacca. È una cosa che va bene per quelli come te. Cioè… io apprezzo gli uomini come te. Ma quello portato alla paternità sei tu, non io. Lavorare in quel Centro tutto il giorno ti ha rovinato, credimi. Una volta eri un tipo a posto. — Accorgendosi di aver superato il confine della già fin troppo stupefacente tolleranza del fratellastro. Janos assunse un’espressione di scusa e si avviò verso il bagno.

— I centri di riproduzione sono il cuore di Athos — replicò seccamente Ethan. — Lì c’è il nostro futuro. Ma a te non importa niente di Athos, no? A te non importa niente di nessuno, salvo della persona che c’è dentro la tua pelle.

— Ti dirò… — A giudicare dal suo sogghigno, Janos stava per commentare la rabbia del fratellastro con una battuta oscena, ma poi vide la sua faccia scura e decise che non sarebbe stato prudente.

All’improvviso quella discussione fu troppo per Ethan. Aprì le dita e lasciò cadere il bulbo di birra sul pavimento. Nel vederlo rimbalzare mollemente la sua bocca di piegò in un sorriso sardonico, aspro e rassegnato come una smorfia. — Puoi tenerti la mia Aerostar De Luxe, quando me ne sarò andato.

Janos si voltò, improvvisamente allarmato. — Andato? Ethan, io non volevo…

— Oh, no, non me ne vado per quel motivo. La cosa non ha niente a che fare coi nostri rapporti. Finora non ho avuto il tempo di dirtelo… il Consiglio della Popolazione mi ha incaricato di una missione urgente per conto del governo. Riservata. Top secret. Sul Gruppo Jackson. Resterò assente almeno un anno.

— Ora chi è quello a cui non importa niente di nessuno? — disse Janos. irosamente. — Andartene così, per un anno, come nulla fosse. Non pensi a cosa ne sarà di me? Secondo te, io che dovrei fare intanto che tu sei a… — La sua bocca restò scioccamente aperta su quella vocale. — Ethan, il Gruppo Jackson è… un pianeta, no? Un mondo straniero, dove ci sono… ci sono loro. È così?

Ethan annuì. — Partirò fra quattro… no, fra tre giorni, con la nave del censimento galattico. Tu puoi tenere tutte le mie cose. Io non so… non posso prevedere cosa succederà, là fuori.

La bella faccia di Janos era diventata seria, pallida. Con voce sottile, improvvisamente mite, disse: — Vado a farmi una doccia. Tu mi aspetti sul letto?

Un po’ di conforto, finalmente. Ma Ethan s’era già addormentato, sulla poltrona, prima che Janos uscisse dalla stanza da bagno.

CAPITOLO TERZO

Stazione Kline era il frutto di una crescita durata trecento anni, e tuttavia Ethan fu colto di sorpresa dalla vastità delle sue dimensioni e dalla sua complessità. La stazione era stata costruita in una regione di spazio dove ben sei corridoi di transito facevano convergere altrettante rotte di balzo entro una distanza ragionevole a velocità sub-luce. La stella spenta a cui si doveva quell’anomalia nella Distorsione Galattica non aveva pianeti, e così l’immensa struttura discoidale ruotava da sola in un’orbita lenta, nella zona esterna del suo pozzo gravitazionale buio e freddo come lo Stige.

La Stazione Kline aveva già alle spalle cent’anni di storia quando il pianeta Athos era stato scoperto e colonizzato; aveva funto da base e punto di partenza per l’ultima fase del nobile esperimento dei Padri Fondatori. Valeva poco sotto l’aspetto militare per la difesa di quel nodo per le rotte da balzo, ma era un ottimo posto per gli scambi commerciali, e aveva cambiato proprietario un certo numero di volte quando l’uno o l’altro dei mondi più prossimi s’era assunto l’incarico di difendere i suoi corridoi di transito, nonché i suoi incassi. Attualmente manteneva una precaria indipendenza politica basata sugli intrighi militari dei vicini, sulla determinazione dei suoi abitanti, su una buona capacità nel fare affari con tutti, e sulla nascita di un sentimento nazionale che poteva senz’altro chiamarsi patriottismo. Circa centomila cittadini kliniani vivevano nel suo ramificato labirinto di sezioni, e nei periodi di maggior traffico la stazione poteva ospitare fino a ventimila turisti o viaggiatori di passaggio.

Queste notizie e altre ancora Ethan le aveva apprese dagli impiegati della nave del censimento. L’equipaggio era composto da otto membri tutti di sesso maschile, e questo particolare, aveva scoperto lui, non si doveva al loro rispetto per le leggi e le usanze di Athos, bensì alla scarsa propensione delle impiegate femmine dell’Ufficio Censimento a trascorrere lunghi mesi nello spazio senza la prospettiva di una vacanza al suolo su un pianeta che consentisse loro quel semplice diritto. Ciò aveva dato a Ethan un po’ di respiro prima di trovarsi immerso nella cultura galattica. L’equipaggio era stato cordiale con lui, ma non troppo desideroso di penetrare nel suo timido riserbo, così Ethan aveva trascorso la maggior parte di quei due mesi di viaggio nella sua cabina, studiando videolibri di medicina e preoccupandosi.

Come preparazione aveva deciso di leggere tutti gli articoli scritti da e sulle donne delle sue copie dei Giornale Betano di Biologia Riproduttiva. C’era la biblioteca della nave, naturalmente, ma il suo contenuto non era stato certo approvato dall’Ufficio della Censura Athosiano, e lui non sapeva esattamente quale livello di sicurezza gli fosse attribuito per quella missione. Meglio rispettare i precetti delia virtù che gli erano stati insegnati, s’era detto con cupa determinazione; sapeva che ne avrebbe avuto bisogno.

Femmine. Replicatori uterini con le gambe, ecco cos’erano. Lui non sapeva bene se la loro natura fosse quella di provocare l’uomo al peccato, o se il peccato fosse qualcosa di insito in loro come il succo in un’arancia, oppure se il peccato fosse un contagio che emanava da loro tipo un virus. Avrebbe dovuto studiare con più scrupolo durante l’educazione religiosa della sua infanzia, anche se l’argomento non era infine così proibito che non se ne parlasse in giro, se proprio uno aveva voglia di sviscerarlo. E tuttavia, quando lui leggeva gli articoli scientifici del Giornale, il loro contenuto non faceva affatto capire o supporre quale fosse il sesso dell’autore.

Questo non aveva senso. Che fossero le loro anime dunque, e non le loro menti, ad essere così diverse? Uno degli articoli del quale lui aveva creduto che l’autore fosse un uomo era risultato scritto da un ermafrodita betano, un sesso che non esisteva ancora quando i Padri Fondatori avevano colonizzato Athos. Ma che genere di sesso era? Per un poco lui s’era perso in fantasticherie immaginando i problemi dei funzionari dell’Ufficio Doganale Athosiano se una creatura simile avesse chiesto il visto d’ingresso, mentre i medici cercavano di capire se la sua mascolinità escludesse la sua femminilità o viceversa… probabilmente il dilemma sarebbe stato deferito a un comitato, che ci avrebbe ponderato sopra per tanto di quel tempo che l’ermafrodita avrebbe rischiato di morire di vecchiaia.

L’Ufficio Doganale di Stazione Kline si rivelò non meno burocratico e tedioso, a causa delle procedure di controllo e disinfestazione microbiologica più capillari che Ethan avesse mai visto. Ai kliniani, almeno in apparenza, non importava niente che uno contrabbandasse anni, droghe, o fosse un criminale evaso da qualche penitenziario, purché le suole delle sue scarpe non ospitassero spore misteriose o virus mutanti. Il preoccupato terrore di Ethan e, doveva ammetterlo, la sua famelica curiosità, erano giunti al culmine quando gli fu finalmente permesso d’incamminarsi nel corridoio tubolare che collegava l’astronave al resto dell’universo.

Al primo sguardo il resto dell’universo risultò deludente: un lungo molo, freddo e maleodorante, dove sfociavano le strutture di scarico e smistamento per le merci delle navi mercantili. L’incolore faccia meccanizzata di Stazione Kline, si disse, era evidentemente come il retro di un arazzo ricamato che senza dubbio avrebbe fatto un migliore effetto una volta visto dal giusto lato. Perplesso si domandò quale della dozzina di uscite visibili da lì conducevano verso i settori destinati ad abitazione e alle attività commerciali. L’equipaggio della nave aveva da fare a bordo, e i tre membri appena sbarcati erano già scomparsi; la squadra di disinfestazione della Dogana aveva fatto il suo lavoro e se n’era andata senza una parola, come se fosse attesa con urgenza su un’altra nave. Allo sbocco di un tunnel un’unica solitaria figura stava appoggiata con le spalle al muro, nell’universale atteggiamento pigro e casuale di chi osserva gli altri al lavoro o sta aspettando qualcuno. Ethan controllò la reazione dei suoi canali semicircolari alla gravità del molo, tenne stretti i manici della sua borsa da viaggio e si avviò a passi misurati in quella direzione.

L’elegante uniforme bianca e grigia che l’individuo indossava era sconosciuta a Ethan, ma evidentemente militare, dato che la completava un cinturone da cui pendeva la fondina di una pistola. Null’altro che uno storditore, il cui possesso era legale sulla stazione, anche se il calcio appariva lievemente consunto e la fondina — lui lo notò subito, fiero della sua perspicacia — non era di quelle chiuse che facevano perder tempo prima di estrarre l’arma.

Il soldato, giovane e snello, s’era girato nel sentire avvicinarsi i passi di Ethan, e dopo averlo esaminato da capo a piedi con aria distratta aveva continuato a guardarlo, accorgendosi che veniva verso di lui con l’intenzione di rivolgergli la parola. La sua bocca si curvò in un sorrisetto cortese, quando lo vide fermarsi lì.

— Mi scusi, signore, posso chiederle… — cominciò Ethan, ma subito s’interruppe, incerto. Fianchi troppo arcuati per una figura così snella, occhi troppo larghi e distanziati ai lati di un naso finemente cesellato, mascella sottile e delicata, un volto liscio senza barba come quello di un ragazzino… e avrebbe potuto essere un ragazzino assai avvenente e piuttosto alto per la sua età, ma…

La risata di lei (quello era il pronome che le si addiceva, non potevano esserci dubbi) suonò stranamente acuta agli orecchi di Ethan, che stava arrossendo. — Ehi… tu devi essere un athosiano, è così? — lo interpellò divertita quella voce un paio di ottave troppo alta. — Volevi chiedermi qualcosa?

Ethan fece un passo indietro, prima d’accorgersi che quello era il secondo passo indietro. Be’, cercò di giustificarsi, la persona che si vedeva davanti non aveva niente in comune con la foto della scienziata di mezz’età sul Giornale Betano. Era stato un errore più che comprensibile da parte sua. Comunque, s’era appena ripromesso che avrebbe evitato di parlare con le femmine, per quanto umanamente possibile, ed ecco che stava già… Si schiarì la voce. — Come si fa per uscire da qui? — mormorò, gettando occhiate a destra e a sinistra lungo il molo.

La femmina inarcò le sopracciglia. — Non ti hanno dato una mappa della stazione?

Ethan scosse il capo, nervosamente.

— Be’, è quasi un crimine mandare in giro uno straniero per Stazione Kline senza una mappa. Uno potrebbe avventurarsi alla ricerca urgente di un gabinetto, perdersi nei corridoi di servizio e morire di fame prima di trovare il modo di uscirne. Ah… ecco laggiù uno spaziale che conosco. Ehi, Dom! — gridò la femmina verso un membro dell’equipaggio della nave del censimento, ora vestito in eleganti abiti civili, che stava attraversando il molo. — Vieni qui un momento, per favore!

L’uomo dell’equipaggio cambiò strada, mentre la sua espressione seccata diventava compiaciuta nel vedere la persona che l’aveva chiamato, anche se appariva perplesso. Nel fermarsi accanto a loro si tenne eretto più di quanto Ethan l’avesse mai visto, petto in fuori e pancia in dentro. — Purtroppo non ricordo dove, ma… — e sorrise, — io la conosco, signora?

— Be’, dovresti… sei stato seduto accanto a me per due mesi, al corso di addestramento Emergenze Navali nello Spazio. Ammetto che è stato parecchio tempo fa. — Si passò una mano fra i corti capelli riccioluti. — Immaginami coi capelli più lunghi. Andiamo., la re-gen non può aver cambiato la mia faccia a questo punto. Io sono Elli!

La bocca dell’uomo si aprì in un O di stupore. — Per la Cometa Santa! Elli Quinn! Ma sei diversa… cosa ti è successo?

Lei si toccò uno zigomo liscio. — Completa rigenerazione facciale. Che te ne pare?

— Ti hanno fatto un lavoro fantastico!

— Chirurghi betani, sai… i migliori.

— Sì, ma… — Dom si accigliò. — Perché? Non si può certo dire che tu fossi sgradevole da guardare, prima di arruolarti coi mercenari. — La gratificò di un sorriso timido come un pugno nelle costole, mentre oscillava avanti e indietro sui talloni con l’espressione di un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria. — Oppure sei diventata ricca con quel lavoro?

Lei si sfiorò ancora la mandibola, e il suo sorriso si spense. — No, non ho sposato un miliardario o svaligiato il suo yacht. È stata una necessità… mi sono presa un raggio al plasma nella testa durante un abbordaggio, in una battaglia su Tau Verde, qualche anno fa. Non avevo un aspetto molto attraente senza faccia, credimi. Così l’ammiraglio Naismith, che non fa le cose a metà, me ne ha comprata una nuova.

— Che mi possano… — mormorò Dom, colpito. — Be’, non si può dire che te ne abbia comprata una da quattro soldi.

Ethan, che aveva trovato un po’ esagerato il suo entusiasmo per l’estetica facciale della femmina, fu costretto ad ammettere che aveva ragione. Una bruciatura da plasma era orrenda, c’era anzi da sorprendersi che non l’avesse uccisa. Osservò la faccia di lei con interesse medico.

— Se non ricordo male te n’eri andata coi mercenari dell’ammiraglio Oser. — disse Dom. — Quella che indossi è ancora la sua uniforme, no?

— Ah, permettimi di presentarmi col mio grado, amico: comandante Elli Quinn, della Flotta dei Liberi Mercenari Dendarii, al tuo servizio. — E gli rivolse uno scherzoso inchino. — I Dendarii si sono annessi Oser, le sue uniformi, e me… ed è stato un bel passo avanti nella mia carriera, lascia che te lo dica. Ma questa è la prima vera vacanza che mi prendo da quando me ne andai da casa, dieci anni fa, e intendo godermela. Capitare come per caso davanti ai vecchi compagni di scuola e sbalordirli con la mia nuova faccia… sventolare le mie ricche carte di credito davanti agli occhi della gente che diceva che avrei fatto una brutta fine… ma, a proposito di fare una brutta fine, sembra che abbiate spedito in esplorazione il vostro passeggero, qui, privo delle necessarie informazioni. Ed essendo un athosiano, senza una mappa qui non è in grado di trovarsi neanche… il naso. -

Dom guardò sospettosamente l’ufficialessa mercenaria. — Non è che stai facendo giochi di parole, eh? Ne ho sentiti altri su quelli che si fermano su Athos, e dopo quattro anni nello spazio ti assicuro che quelle battute possono diventare drammaticamente vere.

La risata della femmina mercenaria echeggiò fra i carrelli trasportatori parcheggiati sul molo. — Ecco rivelato il segreto motivo per cui tutti ti hanno abbandonato, signor athosiano — disse a Ethan. Si rivolse all’altro: — Posso occuparmi io di lui, allora, essendo in virtù del mio sesso esente dal sospetto di, uh, desideri lascivi contronatura?

— Per quel che riguarda me, puoi — concesse Dom con una scrollata di spalle. — Io ho una moglie che mi aspetta a casa. — E s’avviò intorno a Ethan, evitandolo con attenzione.

— Bene. Ci vediamo più tardi, d’accordo? — disse la femmina.

L’uomo della nave del censimento annuì e dopo un ultimo sguardo, fra ammirato e rammaricato di doverla lasciare, sparì lungo la rampa d’uscita. Rimasto solo con la femmina Ethan soppresse l’impulso di corrergli dietro in cerca di protezione. Ripensando vagamente che la servitù economica era uno dei marchi dei dannati, all’improvviso ebbe l’orribile sospetto che la femmina mirasse ad alleggerirlo del suo denaro… e lui aveva con sé tutto il denaro che quell’anno Athos aveva destinato alle spese all’estero. Il suo sguardo corse con repentina preoccupazione all’arma che lei aveva al fianco.

Sulla strana faccia della femmina ci fu un’espressione divertita.

— Non guardarmi così. Non ho intenzione di mangiarti. Né di fare del sesso con te. — Ebbe una smorfia. — La terapia di conversione non è fra le mie specialità.

— Fare del… — Ethan deglutì saliva. — Io sono un uomo fedele al mio p-partner — balbettò. — Si chiama Janos. Ho qui una sua foto… vuole vederla? Così capirà…

— Ti credo sulla parola — disse lei. alzando una mano. L’ironia che c’era nella sua voce si smorzò in un tono più comprensivo. — Ti ho davvero spaventato, è così? Santo cielo, non sarò la prima donna che tu abbia mai incontrato, per caso?

Ethan annuì. Dodici uscite da cui poteva andarsene, e aveva voluto venire a domandare proprio a lei…

La femmina sospirò. — Ti credo. — Si mordicchiò pensosamente un labbro. — Potresti assumere una guida indigena, anche se Stazione Kline ha fama di non derubare troppo i turisti. È un buon posto per gli affari… una giungla, in altre parole. Io comunque sono un cannibale amico, e se vuoi posso offrirti mezzora del mio tempo.

Ethan scosse il capo, con un sorriso paralizzato sul volto.

Lei scrollò le spalle. — Be’, forse quando avrai superato il tuo shock culturale ci incontreremo ancora. Se cerchi un distributore puoi procurarti uno di questi… — Tolse di tasca un oggetto, un piccolo proiettore olovideo. — Non costano poco, ma te ne regalano uno quando scendi da una nave passeggeri come si deve… io del mio non ne ho bisogno. — Premette il pulsante e nell’aria apparve un’immagine larga un metro, che ondeggiò quando lei mosse l’altra mano per indicare la zona periferica. — Noi siamo qui. Ti consiglio di dirigerti in questa sezione, la Passeggiata del Viaggiatore, dove potrai trovare negozi, una camera d’albergo, ristoranti… in effetti nella zona commerciale puoi trovare tutto, ma immagino che tu voglia attenerti alle cose normali. Passa da questa parte. Prendi questa rampa e gira qui, al secondo incrocio. Sai come far funzionare quest’affare? Bene. Buon divertimento… — La femmina gli mise in mano il proiettore olovideo, lo salutò con un ultimo sorriso e se ne andò da un’altra uscita.

Lui raccolse la sua borsa da viaggio, s’incamminò su per la rampa e alla fine, dopo aver sbagliato strada solo tre o quattro volte, trovò la zona commerciale. Durante il tragitto aveva incrociato molte altre femmine a piedi, che sembravano infestare i corridoi, i tubolari delle auto a bolla, i marciapiedi, i pozzi degli ascensori e le scale, ma grazie a Dio il Padre nessuna di loro l’aveva accostato. Sembrava che quelle creature fossero ovunque. Una teneva un infante inerme fra le braccia; Ethan aveva dovuto sforzarsi per reprimere l’eroico impulso di strappare il poverino al pericolo e portarselo via. Con un bambino a cui badare non sarebbe riuscito a condurre a termine facilmente la sua missione, e del resto non poteva salvarli tutti. Gli venne anche da pensare, comunque, mentre un gruppo di ragazzini gli roteavano attorno in un ascensore antigravità come uno stormo di passeri, che c’era il cinquanta per cento di probabilità che quell’infante fosse femmina. Questo placò un poco la sua coscienza.

Ethan trovò un albergo dove il personale, almeno nell’atrio, sembrava tutto mascolino, e scelse una camera basandosi sul prezzo. Ciò avvenne solo al termine di una lunga e complicata tele-conferenza — fra l’impiegato al banco, il computer centrale di Stazione Kline, la vice-direttrice dell’Ufficio Turisti, e dopo di lei ben quattro funzionari di una banca o del governo della stazione l’oggetto della quale era il valore di cambio da assegnare alle sterline athosiane in possesso di Ethan.

I funzionari furono gentili e fecero il possibile per calcolare il cambio più favorevole, trasformando le sterline in dollari betani attraverso il passaggio preliminare in due monete che lui non aveva mai sentito nominare. I dollari betani, gli fu spiegato, erano una delle monete più solide e universalmente accettate. Tuttavia lui si ritrovò con molti meno dollari di quant’erano state le sue sterline, e con rammarico dell’impiegato dovette declinare la proposta della Suite Imperiale in favore di una Camera Turistica Economica. Il fattorino attese che lui avesse raccolto la sua borsa e lo accompagnò all’ingresso del seminterrato, dove si separò da lui dopo avergli indicato la strada con un cenno.

Il cubicolo in cui Ethan si ritrovò quand’ebbe aperto la porta era economico, e probabilmente era anche turistico, ma che fosse una camera qualcuno avrebbe potuto dubitarne. Quando fosse stato addormentato, si disse Ethan, la ristrettezza del locale non lo avrebbe disturbato. Adesso tuttavia era sveglio. Premette la valvola che gonfiava il letto, si sdraiò (in fretta, poiché non rimaneva molto spazio per stare in piedi) e ripassò mentalmente le istruzioni che aveva avuto prima della partenza, cercando d’ignorare la noiosa impressione che le pareti si muovessero verso l’interno per schiacciarlo.

Quando il Consiglio della Popolazione aveva finalmente trovato dieci minuti per fare il calcolo, durante una seduta, il costo per rispedire al mittente il materiale biologico ricevuto era risultato maggiore della cifra che Casa Bharaputra avrebbe dovuto restituire al governo di Athos, cosicché l’ipotesi di rivolgersi di nuovo al Gruppo Jackson era stata cancellata. Dopo un irritante dibattito Ethan era riuscito ad avere carta bianca nella scelta di un altro fornitore, ciò sulla base di informazioni attendibili che sarebbe stato suo compito trovare a Stazione Kline.

Il Consiglio gli aveva elencato alcune istruzioni ben precise. Non spendere più dei denari che aveva (ovvero non firmare impegni di pagamento per conto di Athos). Procurarsi il materiale biologico migliore disponibile. Andare lontano quanto avrebbe dovuto (ovvero non lamentarsi scioccamente dei sacrifici personali). Non sprecare denari in viaggi non necessari (ovvero andare a piedi piuttosto che su mezzi pubblici, finché possibile). Evitare i contatti personali coi galattici (questa gli era stata data come norma di comportamento morale). Non dire ai galattici niente di Athos (l’Ufficio della Difesa aveva parlato di spionaggio militare). Approfittare dei momenti liberi per coltivare possibili emigranti (scelti fra coloro che potevano portare su Athos un po’ di valuta pregiata). Spargere la voce che Athos era: A) un paradiso per gli uomini dalla mente libera che volessero salvarsi da loro, e B) di nessun valore dal punto di vista strategico e militare. Non mettersi nei guai. Non lasciarsi imbrogliare. Tenere gli occhi aperti per eventuali altre opportunità commerciali favorevoli. Non dimenticare che l’uso personale di fondi di proprietà del Consiglio era considerato un reato, e punito come tale.

Per fortuna di Ethan. tuttavia, il presidente del Consiglio lo aveva preso da parte nel suo ullìcìo, dopo la seduta, dicendogli che voleva parlare con lui in privato.

— Questi sono gli appunti che ha preso in aula? — aveva chiesto, indicando i fogli e i dischetti che lui aveva in mano. — Li dia a me.

E li aveva gettati nel cestino della carta straccia.

— Si procuri quella roba e torni indietro — era stato il suo unico ordine. — Tutto il resto sono chiacchiere.

Il cuore di Ethan si gonfiò a quel ricordo. Sorrise fra sé, si alzò dal letto, gettò in aria il proiettore olovideo riprendendolo destramente al volo, poi se lo mise in tasca e uscì dall’albergo con l’idea di fare quattro passi.

Sulla Passeggiata dei Viaggiatori Ethan trovò alfine l’altra faccia dell’arazzo, quella ricamata, col semplice espediente di prendere un’auto a bolla, farsi portare al molo d’attracco delle più lussuose navi passeggeri e incamminarsi da lì verso il centro di Stazione Kline. Racchiuse nel cristallo e in cornici cromate c’erano vedute della notte galattica, di altre sezioni della stazione scintillanti di luci colorate, e dei piani centrali a forma di ruota che tuttora continuavano a girare per mantenere la loro ormai sorpassata gravità centrifuga. Non erano stati abbandonati — niente veniva mai scartato in quella società legata alle magre risorse dello spazio — ma alcuni erano adibiti ad usi meno importanti, e altri venivano pian piano smantellati per fornire materiale alle sezioni in crescita, come se Stazione Kline fosse un serpente che si mangiava la coda.

Entro le lunghissime paratie della Passeggiata dei Viaggiatori fioriva una gran quantità di rampicanti, di alberi in grandi vasi, di piante aerofage, di orchidee, di aiuole colme d’erbe mutanti. C’erano bizzarre fontane dove l’acqua scorreva al contrario, altre capovolte, altre ancora i cui getti di liquido spiraleggiavano intorno alle scale e alle passerelle, il tutto animato di strana vita grazie ai trucchi realizzati con la gravità artificiale. Ethan si fermò a guardare affascinato, per un intero quarto d’ora, la sfoglia d’acqua emessa da una di quelle fontane che, magicamente sospesa nell’aria, scivolava nel percorso ad otto di un Nastro di Moebius, senza inizio e senza fine. Un passo più indietro, oltre la barriera trasparente di una vetrata che dava sullo spazio, regnava la gelida notte che avrebbe potuto pietrificare in eterno tutta quella vita. Il contrasto artistico era sopraffacente, ed Ethan non era il solo turista fermo lì davanti con aria trasognata.

Lungo il bordo esterno della sezione adibita a parco c’erano caffè e ristoranti dove, calcolò Ethan ormai più aggiornato sui prezzi, se lui si fosse recato lì per i suoi pasti avrebbe dovuto accontentarsi di mangiare una volta alla settimana. E alberghi dove alloggiavano i clienti che potevano permettersi quattro pasti al giorno in quei ristoranti. E teatri, e negozi dove si vendevano sogni proibiti, e chiese che, a dar retta alle loro insegne opalescenti, potevano offrire la consolazione spirituale di ben ottantasei religioni ufficialmente riconosciute. Quella di Athos, ovviamente, non era fra esse. Mettendo la testa in una delle chiesette Ethan vide che c’era in corso la cerimonia funebre di una persona la quale doveva aver rifiutato l’immagazzinamento nel cimitero sottovuoto fuori dalla stazione in favore della cremazione, che stava avvenendo grazie a un impianto a onde corte. Ethan, con gli occhi ancora pieni del vuoto spaziale che incombeva oltre le fontane, si disse che anche lui avrebbe preferito il fuoco al ghiaccio. Dalla porta aperta di una chiesa vicina vide che si stava svolgendo un rito misterioso, officiato da un vecchio con un libro in mano, davanti a cui una femmina in un vaporoso abito bianco e un uomo in nero si tenevano per mano. I due si misero a vicenda un anello e poi uscirono a braccetto, accompagnati da una musica di bell’effetto, fra due ali di amici allegri e festosi alcuni dei quali gettavano sulla coppia manciate di chicchi di riso.

Mentre Ethan proseguiva verso il centro, i suoi pensieri si fecero più pratici. Lì c’erano le ambasciate, i consolati, le sedi di numerose ditte e gli uffici degli agenti commerciali di una quantità di pianeti che spedivano le loro merci attraverso il nodo di rotte di balzo al cui centro c’era Stazione Kline. Lì, presumibilmente, avrebbe ottenuto informazioni sulle ditte produttrici di materiale biologico che potevano soddisfare le necessità di Athos. Poi avrebbe acquistato un biglietto per il pianeta prescelto, e quindi… ma per il momento Stazione Kline era già un sovraccarico sufficiente per i suoi sensi.

Doverosamente Ethan entrò nell’atrio dell’ambasciata betana, con l’idea di cominciare a informarsi da lì. Per sua sfortuna l’interfaccia computerizzato dietro il banco della portineria era manovrato da un’impiegata femmina. Lui si ritrasse in fretta, senza rivolgerle la parola. Forse ci avrebbe riprovato più tardi, si disse, la prossima volta che sarebbe passato da quelle parti. Poi ignorò con una smorfia le targhe degli uffici commerciali delle grandi Case del Gruppo Jackson. Prima di partire, decise, avrebbe spedito una lettera al rappresentante locale di Casa Bharaputra per lamentarsi aspramente della loro disonestà.

Al confronto degli edifici davanti a cui passava, l’albergo in cui aveva preso alloggio gli sembrava ora alquanto modesto. Ethan calcolava di aver percorso oltre due chilometri, attraverso vari livelli, fino alla zona più lussuosa; ma una curiosità che ad ogni cosa nuova si rinfocolava invece di placarsi lo indusse a uscire dalla Passeggiata dei Viaggiatori, per proseguire nei quartieri interni dove abitavano i cittadini della stazione. Qui l’aspetto degli edifici passava da sgargiante a utilitaristico.

Gli odori di un piccolo locale pubblico, stretto fra una fabbrica di contenitori plastici e un’officina per la riparazione di tute pressurizzate, ricordarono a Ethan che non aveva mangiato da prima di sbarcare dalla nave. Ma guardando nell’interno vide che c’erano molte femmine sedute ai tavoli. Represse gli impulsi dello stomaco e proseguì il cammino, sentendosi sempre più affamato. Un giro a caso in quella zona lo portò, dopo esser sceso in due pozzi antigravità, in una piccola sezione poco pulita e d’aspetto modesto. Un cartello lo informò che distava poco dal molo d’ormeggio dal quale era entrato a Stazione Kline. Il suo vagabondare fu arrestato dall’odore intenso di grasso fritto che usciva dalla porta di un locale. Lui sbirciò nell’interno poco illuminato.

Una ventina di clienti, quasi tutti con le tute d’ogni colore degli operai addetti ai moli, sedevano ai tavoli o stavano appoggiati al banco di mescita in atteggiamenti rilassati. Evidentemente si trattava di una sala di riposo frequentata dai lavoratori del posto durante le pause nell’orario quotidiano, e non di una trappola per turisti. Inoltre non c’erano donne, neppure una. Il morale di Ethan si risollevò. Qui sarebbe riuscito a rilassarsi un poco, e magari a rifocillarsi lo stomaco senza spendere troppo. Forse avrebbe anche potuto attaccare utilmente discorso con qualcuno. In effetti, viste le istruzioni che gli erano state date dall’Ufficio Immigrazione Athosiano. aveva il dovere di farlo. Perché non cominciare da lì?

Ignorando una sensazione di disagio a livello subliminale — non era il momento di lasciarsi dominare dalla sua timidezza — Ethan entrò, socchiudendo gli occhi per adattarli a quella penombra. Era qualcosa di più di una sala di riposo. A giudicare dall’odore alcolico di quelle bevande, i clienti dovevano considerare conclusa la loro giornata di lavoro. Era una specie di locale di ricreazione, dunque, anche se non aveva alcuna somiglianza con un club athosiano. Ethan si chiese speranzosamente se lì non vendessero anche la birra di carciofi. Ma su una stazione spaziale era molto più probabile che avessero birra di alghe coltivate o qualcosa del genere. Soppresse un fremito di nostalgia, si umettò le labbra, e s’avviò a passi fermi verso la mezza dozzina di uomini in tuta da lavoro che stavano al banco. I cittadini locali dovevano essere abituati a vedere turisti con abiti assai più bizzarri dei suoi, in stile athosiano: maglia a maniche traforate, pantaloni gialli col risvolto e morbidi mocassini bianchi, ma per un momento lui provò il bisogno d’essere in completo bianco da medico come al Centro di Riproduzione, con la sua medaglia d’identità sul petto, abbigliamento questo che gli aveva sempre dato sicurezza e personalità nel trattare con i clienti e specialmente coi lavoratori come costoro.

— Buongiorno, signori. Come state? — li interpellò educatamente. — Io sono un delegato dell’Ufficio Immigrazione e Naturalizzazione del pianeta Athos. Se posso avere per qualche minuto il piacere della vostra attenzione, vorrei parlarvi delle possibilità di lavoro e di inserimento che il mio mondo apre agli immigrati nelle zone appena terraformate…

Il poco promettente silenzio che quelle parole avevano fatto calare sui presenti fu interrotto da un operaio corpulento in tuta verde. — Athos? Il pianeta dei finocchi? Tu sei uno di loro?

— Non può essere — disse un altro, in tuta azzurra. — Quella gente non mette mai il naso fuori dal suo buco.

Un tipo seduto a un tavolo lì accanto, in tuta gialla, disse una cosa estremamente volgare che fece ridere qualcuno.

Ethan trasse un lungo respiro e decise di insistere, anche se non gli sembrava che quegli uomini fossero molto recettivi. — Io vengo da Athos, ve l’assicuro. Sono un athosiano in tutto e per tutto. Il mio nome è Ethan Urquhart, e sono uno specialista in biologia della riproduzione. Mi trovo qui perché recentemente c’è stato un calo nella nostra percentuale delle nascite…

Tuta Verde esplose in una risata. — Posso crederci, ragazzo! Lascia che ti dica una cosa, tesoruccio. qui sei capitato nel posto sbagliato…

L’individuo volgare seduto al tavolo, dalla cui bocca esalavano vapori alcolici ad alta concentrazione, berciò un commento ancor più grossolano del primo e sollevò un dito in quello che sembrava un gesto offensivo. Tuta Verde ridacchiò e batté un indice sul petto di Ethan. — Kline non è il posto giusto per te, athosiano. È su Colonia Beta che devi andare, se vuoi farti operare per cambiare sesso. Poi, quando hai fatto, torna pure qui e magari possiamo organizzare qualcosa insieme… tieni presente che a me piacciono le poppe belle grosse.

— Vedendolo così da dietro, magari questo signorino mi sta bene anche subito! — gracidò Tuta Gialla.

Ethan si girò verso il tavolo, mentre i suoi sentimenti confusi e offesi lasciavano il posto a una freddezza formale. — Signore, lei sembra avere dei pregiudizi dolorosamente ristretti circa il mio pianeta. Le relazioni sentimentali sono questione di preferenze personali, e del tutto private. In realtà vi sono alcuni che per interpretare rigidamente i precetti dei Padri Fondatori fanno voto di castità. Essi sono i più rispettati…

— Yaaak! — gridò Tuta Verde, accanto a lui. — Questo è ancora peggio! — Il suo commento scatenò un coro di risate e di fischi fra gli altri lavoratori.

Ethan sentì un afflusso di rossore al volto. — Scusatemi. Io sono uno straniero, qui. Questo è il solo posto privo di femmine che ho visto finora su Stazione Kline. e così ho pensato che vi avrei trovato persone capaci di apprezzare un discorso razionale. La possibilità che si apre per voi su un pianeta civile…

— Apri questa possibilità! — latrò Tuta Gialla, e si alzò in piedi afferrandosi con gesto osceno la cerniera dei pantaloni.

Ethan girò su se stesso e lo colpì con un pugno alla mascella.

Subito dopo l’orrore e la vergogna per aver perso il controllo fino a quel punto lo paralizzarono. Non era quello il comportamento adatto a un rappresentante dell’Ufficio Immigrazione di Athos… doveva subito scusarsi e…

— Un posto senza femmine, eh? — grugnì Tuta Gialla tirandosi in piedi. I suoi occhi arrossati, pieni d’alcool, mandavano lampi d’ira. — È per questo che sei entrato qui… alla ricerca di pervertiti come te. Ora ti faccio vedere io!

Ethan stava per alzare un dito ammonitore quando s’accorse che non poteva. Due robusti amici di Tuta Gialla l’avevano afferrato da dietro per le braccia. S’irrigidì, lottando contro il terrorizzato impulso di divincolarsi da quella presa e liberarsi. Se fosse rimasto fermo esibendo un’espressione pacata, forse avrebbe potuto…

— Ehi, ragazzi, prendetevela con calma — intervenne Tuta Verde, in tono improvvisamente ansioso. — Dopotutto è un turista ignorante, pensate a cosa… aspetta!

Il primo pugno colpì Ethan al plesso solare e lo fece piegare in due, mentre il fiato gli scaturiva dalla gola con un ansito rauco. I due uomini lo fecero raddrizzare senza complimenti. Tuta Gialla non era un tipo sportivo. — Ecco cosa gli facciamo qui dentro… — whaam, un altro pugno. — … a quelli come te!

Ethan scoprì che non riusciva a trovare il fiato per chiedere scusa Disperatamente pregò che Tuta Gialla facesse un discorso un po’ più lungo per dargli il tempo di respirare. Ma Tuta Gialla continuò la sua opera demolitrice, di destro e di sinistro, colpendolo metodicamente.

— E questo… per aver insinuato… che qui dentro siamo… tutti come te…

Una voce di contralto, fredda e sarcastica, interruppe il pestaggio: — Evidentemente qualcuno non ha ancora capito che alla polizia non piace che i turisti vengano picchiati. È pessima pubblicità. Cosa succederebbe se costui sporgesse denuncia per aggressione?

— Ehi, un momento! — esclamò l’uomo dietro il bancone.

Ethan girò la testa. Era la femmina mercenaria, la comandante Elli Quinn. Possibile che l’avesse seguito fin lì? Stava in piedi qualche passo all’interno del locale, con le braccia lungo i fianchi e la testa leggermente inclinata, lo sguardo attento.

Tuta Verde mormorò qualcosa fra i denti, in tono preoccupato. Tuta Gialla imprecò con rabbia. I due che reggevano Ethan lo lasciarono, e lui cadde pesantemente in ginocchio. Uno di loro, Tuta Azzurra, prese l’ubriaco per un braccio. — Avanti, Zed — disse, senza distogliere lo sguardo dalla faccia della femmina. — Così può bastare, adesso diamoci un taglio.

Tuta Gialla si liberò con uno strattone. — Guarda, guarda. E cos’è per te questo finocchietto, eh, dolcezza? — sbottò.

Un angolo della bocca della femmina si curvò. — Supponiamo che io dica che non sono affari tuoi, eh?

— Le donne che vanno coi finocchi — ringhiò Tuta Gialla, — sono peggio dei finocchi… — E continuò a sbraitare osservazioni grossolane, mentre Ethan, in ginocchio sul pavimento, si massaggiava lo stomaco indolenzito.

— Zed — gli disse Tuta Azzurra. — Falla finita. Questa non è una tecnica. È una mercenaria. Una veterana, anche… guarda i suoi gradi. — Nel locale c’era intanto uno scalpiccio e un movimento generale; parecchi clienti a cui non piaceva come s’erano messe le cose stavano prudentemente raggiungendo l’uscita.

— Tutti gli ubriachi sono uno spettacolo penoso — disse la femmina. — Ma gli ubriachi aggressivi possono essere pericolosi.

Tuta Gialla si mosse verso di lei, senza smettere di grugnire imprecazioni fra i denti. La femmina attese che avesse oltrepassato un confine invisibile, a due passi di distanza da lei. Poi ci fu un improvviso ronzio e nell’aria balenò un lampo azzurrino. Ethan vide l’arma comparsa nella mano di lei rientrare silenziosamente nella fondina ancor prima che Tuta Gialla rotolasse al suolo. Tutti gli altri erano rimasti fuori dal raggio d’azione dello storditore, e intoccati.

— Fatti un sonnellino — sospirò lei. Guardò i due uomini rimasti presso il bancone poco più indietro. — Costui è vostro amico? — domandò, accennando col capo a Tuta Gialla. — Dovreste scegliere meglio i vostri amici. Se io avessi avuto una pistola al plasma potevate andarci di mezzo anche voi… non mi è piaciuto il modo in cui tenevate quest’uomo per farlo picchiare.

Tuta Azzurra e l’altro si scambiarono un’occhiata e uscirono subito dal locale, girandole rispettosamente alla larga. Ethan era ancora in ginocchio; aveva un forte dolore alle costole. La femmina mercenaria lo aiutò a tirarsi in piedi. — Andiamo, athosiano. Sarà meglio che io ti accompagni in un posto più sicuro.

— Avrei dovuto dirgli: "Perché, anche tu hai gusti normali come i miei?" — brontolò cupamente Ethan. — Ecco cos’avrei dovuto dirgli. Oppure…

Le labbra della comandante Quinn s’incurvarono. Irritato Ethan si domandò perché mai tutti quanti sembravano trovar così divertenti gli athosiani. salvo quelli che si comportavano come se temessero d’essere contagiati da un lebbroso.

Ma d’un tratto una nuova paura lo fece arrestare così all’improvviso che quasi perse l’equilibrio, e si appoggiò a una spalla della mercenaria. — Oh, Dio il Padre! Quelli non sono poliziotti? Che abbiano avuto notizia della rissa?

Due uomini stavano venendo dalla loro parte, nel poco frequentato corridoio periferico. Indossavano uniformi verde-pino con una striscia blu, e dai loro cinturoni pendeva una quantità di piccole apparecchiature fra cui anche delle armi. Ethan provò un repentino senso di colpa. — Forse dovrei confessare che ho commesso un reato. Dopotutto ho percosso un cittadino di questa stazione…

Negli occhi della comandante Quinn ci fu una luce divertita. — Non è il caso, a meno che tu non lo abbia contagiato con qualche raro virus che incubavi sotto le unghie. Questi sono del Bio-controllo. La squadra ecologica. Li troverai dappertutto, su Stazione Kline. — Fece una pausa per scambiare un cortese cenno del capo coi due uomini, che passarono oltre, e sottovoce commentò: — Sono una banda di rompiscatole, maniaci della pulizia. — Dopo averci pensato su un momento aggiunse: — Tu non attraversargli la strada, però. Hanno poteri assai ampi, possono perquisire e arrestare chiunque… se ti rifiuti di ubbidirgli, ti ritrovi dietro le sbarre in men che non si dica.

Ethan rifletté sulla cosa. — Suppongo che l’ambiente ecologico di una stazione sia molto più delicato di quello planetario.

— Il suo equilibrio è sempre appeso a un filo, fra il fuoco e il ghiaccio — annuì lei. — In certi posti c’è una dottrina politica, in altri c’è la religione. Qui noi abbiamo le misure di sicurezza contro gli — incidenti spaziali. Le epidemie e gli incendi sono i più temuti. Comunque, se tu vedessi formarsi strati di ghiaccio o di muffa da qualche parte dai subito l’allarme.

All’incrocio successivo girarono sulla Passeggiata dei Viaggiatori. Gli occhi della femmina che camminava al suo fianco erano troppo penetranti, troppo attenti e seri, per andare d’accordo con quella bocca facile al sorriso, e ciò metteva a disagio Ethan, che continuava a farsi domande preoccupanti su di lei. Gli sembrava di aver capito che fosse nativa di quella stazione, anche se sembrava aver viaggiato molto, e ciò che disse poi glielo confermò: — Spero che quel piccolo incidente non ti abbia fatto credere che tutti i kliniani siano così. Che ne diresti se ti offrissi la cena, per fare ammenda delle brutte maniere dei miei concittadini?

Era una sorta di proposta equivoca? Un complotto per averlo da solo e inerme, in balia delle donne che segretamente governavano dietro le quinte? Possibile che avesse messo gli occhi su di lui fin dall’inizio? Si scostò di un passo dalla femmina, che gli camminava accanto con l’andatura di un felino in caccia della preda.

— Io… non voglio mostrarmi ingrato — disse, con voce un po’ acuta per l’improvvisa tensione, — ma il fatto è che ho mal di stomaco. — Era la verità, dopo quei pugni. — Comunque grazie lo stesso. — Lì vicino c’era un pozzo antigravità trasparente che portava al livello superiore, quello in cui si trovava il suo albergo. — Arrivederci!

Ethan le volse le spalle, attraversò il marciapiede di corsa e balzò dentro il pozzo. Il salto non lo aiutò ad accelerare la sua velocità di ascesa, e l’ultimo barlume di dignità lo trattenne dall’agitare le braccia come un volatile. Voltandosi a osservare la Passeggiata attraverso la parete di cristallo vide che la femmina era rimasta là a guardarlo, con aria perplessa e accigliata. Ethan le rivolse un sorrisetto melenso e mosse una mano in segno di saluto mentre, con lentezza da sogno, l’antigravità lo portava al livello superiore.

Alla prima uscita si spinse fuori e poi corse via, aggirando una specie di scultura futurista larga qualche metro e poi una siepe di piante in vaso sul fondo dell’atrio. Qui si nascose, fermandosi a sbirciare fra le foglie. La femmina non apparve dall’ascensore. Quando fu sicuro che aveva rinunciato a dargli la caccia si gettò a sedere su una panchina e restò lì a riprendere fiato per qualche minuto. Finalmente in salvo.

Appena si fu riposato e orizzontato lasciò la panchina e s’avviò nel corridoio, a passi lenti. All’improvviso il suo cubicolo gli appariva pieno di attrattive. Qualcosa da mangiare ordinato al distributore automatico collegato con la dispensa dell’albergo, una doccia, e poi a letto. Basta con le esplorazioni avventurose. Il giorno dopo si sarebbe occupato solo del lavoro per cui era lì. Trovare le informazioni, scegliere il fornitore, acquistare un biglietto sulla prima nave in partenza…

Sul marciapiede a poca distanza dall’albergo, un uomo vestito con anonimi pantaloni grigi e una giacca sportiva dello stesso colore vide arrivare Ethan e gli andò incontro con un sorriso cordiale. — Buongiorno, signore. Lei è il dottor Urquhart? — disse. E mentre lui annuiva, lo sconosciuto lo prese per un polso.

Per educazione Ethan rispose al suo sorriso, ma quei modi strani lo stupirono. Poi s’irrigidì con un sussulto, e aprì la bocca in un grido d’indignazione e di protesta quando l’hypospray che l’altro aveva estratto di tasca gli fu sparato nel braccio. Il tempo di un battito di cuore e la sua bocca si rilassò, il grido gli morì in gola. L’uomo lo guidò dolcemente verso l’auto a bolla in attesa all’ingresso di un corridoio tubolare.

Ethan si sentiva i piedi leggeri come palloncini di gas. Sperò che l’uomo non lo lasciasse andare, altrimenti sarebbe volato su fino al soffitto e sarebbe rimasto là. a testa in giù, e tutto ciò che aveva in tasca sarebbe caduto sul marciapiede. La superficie a specchio dello sportello scivolò in basso, richiudendosi davanti al suo sguardo vacuo come la membrana nittitante sugli occhi di un pipistrello insonnolito.

CAPITOLO QUARTO

Ethan riprese i sensi in una camera d’albergo molto più vasta e più lussuosa della sua, o quantomeno l’aspetto non personalizzato di quell’arredamento a base di metalli argentei e dorati gli diede l’impressione che si trattasse di una camera d’albergo. La lucidità scese nella sua mente con la pesante lentezza di una colala di miele, riempiendone solo una parte. Il resto di lui continuò a fluttuare in una dolce, languida euforia. Nelle lontane profondità del suo cervello, o forse in fondo alla colonna vertebrale, qualcuno gemeva e urlava e si torceva freneticamente, come un animale in gabbia, ma non c’era alcuna possibilità che uscisse da quella trappola. La sua logica vischiosa notò con indifferenza che aveva i polsi legati ai braccioli di una scomodissima sedia di plastica, e che certi muscoli delle gambe, delle braccia e della schiena gli dolevano molto. Di questi fatti prese visione con indifferenza.

Assai più interessante fu la vista dell’uomo che uscì dalla stanza da bagno sfregandosi vigorosamente la faccia umida e arrossata con un asciugamano. Occhi grigi come pezzi di granito, corti capelli grigi. un corpo solido e avvezzo alla ginnastica, altezza media: non molto dissimile dall’individuo che aveva prelevato Ethan dal corridoio e che ora. seduto lì accanto su una sedia antigravità, sorvegliava con attenzione il prigioniero.

Il rapitore di Ethan era un tipo talmente qualsiasi che lui non aveva neppure captato la sua presenza prima di mettere a fuoco lo sguardo proprio sulla sua grigia figura. Ma Ethan era adesso fornito di una strana visione-interiore, come quella a raggi X, grazie a cui poteva vedere che le ossa di costui non contenevano midollo, bensì ghiaccio duro come la roccia e freddo quanto lo spazio fuori dalla stazione. Ethan si chiese come potesse fabbricare globuli rossi in quelle singolari condizioni biologiche. Forse nelle sue vene scorreva azoto liquido. Entrambi gli uomini avevano comunque molto sex-appeal, e lui avrebbe voluto poter alzarsi in piedi per baciarli.

— È pronto a rispondere, capitano? — domandò l’uomo con l’asciugamano, accennando a lui.

— Sì, colonnello Millisor — rispose l’altro. — Gliene ho fatta una dose intera.

L’uomo uscito dal bagno grugnì e gettò l’asciugamano sul letto, accanto al contenuto delle tasche di Ethan ed ai suoi vestiti, che si trovavano tutti quanti lì. Soltanto allora lui si rese conto d’essere completamente nudo. Sul letto c’erano alcune banconote di Stazione Kline, un pettine, un fazzoletto, il piccolo proiettore della mappa, la carta di credito contenente i fondi di cui Ethan disponeva per acquistare le culture, in dollari betani… a quella vista, l’animale in gabbia nel retro del suo cervello ululò e gemette. L’individuo toccò quei pochi oggetti con una smorfia di disgusto. — Questa roba è pulita?

— Ah. Adesso sì, ma prima non tanto — disse il capitano dalle ossa fredde. — Guardi questo. — Prese il proiettore olovideo, svitò la parte posteriore e collegò un visore elettronico sopra i suoi circuiti interni. — Gli abbiamo ripulito le tasche nella zona dei moli, prima di portarlo qui. Vede questa chiazza nera? È stata causata dall’acido contenuto in una membrana di lipidi polarizzati. Quando il raggio del mio scanner l’ha attraversato, la membrana si è depolarizzata e dissolta, e l’acido ha bruciato… qualunque cosa ci fosse qui. Una microtrasmittente, direi, forse unita a un registratore audio-video. Un ottimo lavoro, mascherato nei circuiti standard del proiettore di mappe, il quale fra l’altro nascondeva il rumore elettronico della microspia. È un agente, non c’è dubbio.

— Siete riusciti a rintracciare il collegamento con la sua base?

Il capitano freddo scosse il capo. — No, purtroppo. Come le ho detto, la microtrasmittente si è autodistrutta al momento della scoperta. Però quelli in ascolto non possono più riceverlo, visto che li abbiamo accecati. Adesso loro non sanno dove si trova.

— E questi "loro" chi sono? Terrence Cee?

— Così possiamo sperare.

L’uomo dagli occhi di granito, quello che il capitano freddo aveva chiamato colonnello Millisor, grugnì ancora. Venne di fronte a Ethan e si piegò a fissarlo negli occhi. — Qual è il tuo nome?

— Ethan — rispose serenamente lui. — E il tuo?

Millisor ignorò quell’aperto invito a socializzare. — Il tuo nome completo, e il tuo grado.

Questo colpì un ricordo non sgradevole del suo passato, ed Ethan raddrizzò fieramente le spalle: — Sergente maggiore Ethan CJB-8 Urquhart. Reparto Medico del Reggimento Blu. matricola U-221-767, signore! — esclamò guardando con un sorriso eccitato il suo interlocutore, che s’era ritratto con aria sbalordita. — In congedo, signore! — aggiunse nello stesso tono, dopo un momento.

— Tu non sei un medico?

— Oh, sì — disse orgogliosamente lui. — Dove ti fa male? Fammi vedere la lingua.

— Detesto il penta-rapido — grugnì Millisor al collega. — Li fa parlare troppo.

Il capitano freddo ebbe un sorrisetto. — Sì, ma se non altro può stare sicuro che non tengono nascosto nulla.

Millisor sospirò dal naso, a labbra strette, e si volse di nuovo a Ethan. — Rispondi. Sei qui per incontrare Terrence Cee?

Lui lo guardò un momento, confuso. Vedere Terrence, lì? L’unico Terrence che lui conoscesse era un tecnico elettronico del Centro di Riproduzione. — No. Loro non l’hanno mandato qui — spiegò.

— Loro chi? Chi è che non l’ha mandato? — chiese subito Millisor, protendendosi in avanti.

— Il Consiglio.

— All’inferno. — Il capitano scosse il capo, preoccupato. — Possibile che abbia trovato un nuovo finanziatore, così presto dopo il Gruppo Jackson? Non può aver avuto il tempo, né i contatti necessari! Io stesso ho controllato ogni…

Millisor gli chiese il silenzio alzando una mano e tornò a interrogare Ethan. — Dimmi tutto ciò che sai su Terrence Cee.

Doverosamente lui cominciò a farlo, cominciando dal giorno in cui Terrence era venuto per la prima volta nel suo laboratorio a riparare una centrifuga. Dopo cinque minuti Millisor, sulla cui faccia c’era una perplessità sempre più sfumata di rabbia, lo colpì con un ceffone. — Basta così!

— Evidentemente sta parlando di un altro individuo — ipotizzò il capitano freddo. Il suo capo lo guardò esasperato, e lui suggerì in tono ragionevole: — Provi a passare a un altro argomento. Gli domandi delle colture.

Millisor annuì. — Le colture ovariche umane spedite ad Athos dai laboratori biologici dei Bharaputra. Che cosa ne avete fatto?

Ethan cominciò a descrivere, nei più minuti particolari, tutti i test a cui aveva sottoposto il materiale quel memorabile pomeriggio. Con crescente disappunto notò che i suoi catturatori non sembravano molto compiaciuti da quella narrazione: erano disgustati, e stupefatti, e infine irritati, ma per nulla felici. E lui desiderava soltanto renderli felici…

— Altri discorsi senza senso — lo interruppe il capitano freddo. — Che significano queste scempiaggini?

— Possibile che riesca a resistere alla droga? — si domandò Millisor, scrutandolo con poca simpatia. — Gliene faccia un’altra dose.

— È pericoloso, se lei pensa ancora di rimandarlo in strada con un vuoto di memoria. E cominciamo a essere a corto di tempo per modificare questa parte del piano.

— Qualunque parte del piano può essere cambiata. Se quel carico è già arrivato su Athos ed è stato distribuito, potremmo non avere altra scelta che passare a un’operazione militare, a meno che non decidessimo di limitarci al raid di un commando per distruggere i loro Centri di Riproduzione. Un attacco militare vero e proprio ci costerebbe sei o sette mesi di preparativi… è chiaro che dovremmo sterilizzare l’intero dannato pianeta per essere sicuri di aver eliminato tutto quanto.

— Nessuno ne sentirebbe la mancanza. — Il capitano freddo scrollò le spalle.

— Sì, ma ci costerebbe molto. E non sarebbe facile mantenere l’operazione sotto silenzio.

— Nessun superstite, nessun testimone.

— Ci sono sempre superstiti ai massacri. Fra i vincitori, se non altro. — Gli occhi di granito fissarono il capitano freddo, che grugnì un riluttante assenso. — Gliene faccia un’altra dose.

Un fremito nel braccio sinistro di Ethan. Con metodica insistenza e senza dargli un attimo di requie, i due uomini continuarono a fargli domande sulla spedizione del materiale ovarico, sui suoi superiori, sull’organizzazione di cui faceva parte e sul lavoro che gli era stato affidato.

Ethan cominciò a balbettare. La stanza si espandeva e si restringeva, la testa gli girava come una trottola, i suoi occhi si torcevano nelle orbite come per fissarsi a vicenda. — Oh, io vi amo, vi amo tutti! — gemette, e vomitò con violenza quel poco liquido che aveva nello stomaco. Poi svenne.

Riprese i sensi sotto la doccia. Quando fu riportato sulla sedia gli iniettarono una droga diversa, che invece di renderlo espansivo come l’altra lo riempì di terrori senza nome, e facendo leva sul suo spavento i due lo interrogarono interminabilmente su Terrence Cee e sulla sua missione, sia insieme che uno alla volta.

Sempre più delusi dalle risposte che ottenevano i suoi catturatori gli diedero una terza droga, il cui effetto fu d’incrementare le percezioni sensorie di tutti i suoi nervi; poi gli applicarono alle palpebre e agli organi genitali degli strumenti che non lasciavano segni ma gli procurarono un’indescrivibile agonia. Lui disse loro tutto ciò che sapeva, rispose a ogni domanda (sarebbe stato lieto di dire ciò che volevano sentirsi dire, se solo avesse avuto un indizio di cos’era) ma i due erano spietatamente esperti, quasi chirurgici, nel mettere alla prova la sincerità delle sue risposte con serie di domande incrociate. Ethan divenne cera molle nelle loro mani, quasi frenetico nella sua ansia di accontentarli, finché i suoi sensi esplosero e cadde preda di un attacco di convulsioni così violento che per poco non gli bloccò il cuore. A questo punto i due decisero di rinunciare.

Ethan giacque di traverso sulla sedia di plastica, nudo e bagnato di sudore gelido, sotto shock, fissandoli con pupille dilatate che non vedevano più molto bene.

Il colonnello Millisor lo guardò con un grugnito di disgusto. — Maledizione, Rau! Questo bastardo ci ha fatto perdere tempo e basta. Il carico che ha ricevuto su Athos non è affatto quello che era stato spedito dai laboratori Bharaputra. Terrence Cee è riuscito a metterci le mani sopra, in qualche modo. A quest’ora potrebbe essere in qualsiasi punto della galassia.

Il capitano mugolò un assenso. — E pensare che eravamo così vicini a chiudere la faccenda, sul Gruppo Jackson! Ma no, dannazione. Doveva essere Athos. Tutti siamo stati d’accordo: avrebbe dovuto essere Athos.

— Può ancora essere Athos. Un piano dentro il piano… dentro un altro piano. — Millisor si massaggiò stancamente il collo, e d’un tratto apparve molto più vecchio di quello che Ethan aveva dapprima creduto. — Il defunto Dr. Jahar ha fatto un lavoro troppo buono. Terrence Cee è tutto ciò che Jahar aveva promesso… fuorché leale. Be’, di questo tipo noi non ne abbiamo più bisogno. Lei è sicuro che la macchia scura in quei circuiti non fosse solo un po’ di untume?

Il capitano fece per dare una risposta indignata, poi guardò Ethan come se non fosse più un essere umano ma un pezzo di carne appeso a un gancio nel frigorifero di una macelleria.

— Non era untume. Ma a questo punto possiamo star certi che costui non è neppure un agente di Terrence Cee. Pensa che potremmo usarlo come specchietto per le allodole, tanto per dare loro un bersaglio?

— Se solo fosse un agente — disse Millisor con rammarico. — varrebbe la pena di fare un tentativo. Dato che evidentemente non lo è, a noi non serve. — Guardò il suo orologio da mignolo. — Mio Dio, ci abbiamo lavorato sette ore? Ormai è troppo tardi per cancellargli la memoria e lasciarlo andare. Consegnalo a Okita. che lo porti da qualche parte e organizzi la cosa in modo che sembri un incidente.

Il molo dove attraccavano le navi da carico era freddo e buio in quell’ora antelucana. Pochi lampioni spandevano luce gialla sulle paratie, delineando le sagome silenziose delle gru e dei carrelli trasportatori immobili nei vicoli accanto ai magazzini. Le passatoie metalliche s’inarcavano alte nel vuoto, emergendo fra i vapori che sfuggivano dalle tubature e incrociandosi nella penombra, fitte come ragnatele. Misteriosi oggetti meccanici pendevano qua e là fra i cavi, come vittime preservate da gelidi ragni d’acciaio.

— Qui dovrebbe essere abbastanza alto — grugnì l’uomo di nome Okita. Era d’aspetto anonimo quanto il capitano Rau, ma ancor più massiccio e muscoloso. Un gesto rude gli bastò per alzare Ethan in ginocchio sul pagliolato metallico. — Bevi ancora un po’ di questo, avanti.

L’individuo mise a forza un tubo nella bocca di Ethan e strizzò il bulbo, per l’ennesima volta. Gorgogliando semisoffocato lui fu costretto a inghiottire il brandy da poco prezzo, che in gola bruciava come il fuoco. Altro liquore gli fu versato sulla maglia e sui pantaloni. La robusta mano che lo sosteneva si aprì, lasciandolo afflosciare al suolo. — Digerisci anche quello, per un minuto — gli consigliò Okita, come se lui avesse possibilità di scelta in merito.

Ethan appoggiò le dita sui fori del pagliolato su cui giaceva, umido e sporco di grasso, e guardò attraverso di esso la pavimentazione plastica del molo, venti o ventidue metri più in basso. Sembrava ondeggiare e vibrare come una cosa viva, oltre il velo di vapore che usciva da qualche valvola difettosa sotto di lui. Nella sua mente stordita tornò l’immagine della sua Aerostar De Luxe che si schiantava al suolo, all’incirca dalla stessa altezza.

Il sicario e uomo di fatica del capitano Rau si appoggiò alla ringhiera di sicurezza, guardò anch’egli in basso e sospirò con aria poco soddisfatta. — Non mi è mai piaciuto ammazzare un uomo così, voglio dire buttandolo nel vuoto e basta — disse in tono discorsivo. — Non è una cosa sicura, capisci? Lasciandoti cadere a testa in giù, due metri dovrebbero essere abbastanza per spaccarti il cranio. Però ho sentito di un tipo che è caduto per trecento metri in una cava di ghiaia ed è rimasto vivo. Dipende da dove vai a colpire, immagino. — Il suo sguardo blando perlustrò il molo, verso le uscite e la strada centrale, come se sospettasse la presenza di un guardiano notturno. — Qui tengono la gravità artificiale più leggera, per via delle merci. Sembra strano, ma gli costa di più. Penso proprio che dovrò romperti il collo prima di buttarti giù — decise Okita, in tono ragionevole. — Mi spiace farti perdere il brivido del volo, ma lo faccio per te, credimi. Non ti piacerebbe restare ad agonizzare laggiù, soltanto ferito. Giusto?

Ethan non riuscì ad infilare le dita nei fori per aggrapparsi al pagliolato, per quanto ci provasse. In un momento di follia pensò che forse avrebbe potuto comprare la pietà del suo killer con il contenuto in dollari betani della carta di credito, che gli era stata rimessa in tasca con tutto il resto prima che il muscoloso individuo lo prendesse a braccetto e lo portasse via, come due amanti in cerca di un posto buio per le loro effusioni. Come un ubriaco e il suo fedele amico che lo riportava a casa per impedirgli di perdersi nei labirinti della stazione. Ethan puzzava d’alcool, e i mugolii con cui aveva cercato d’invocare aiuto nei corridoi erano risultati incomprensibili per i numerosi passanti, che s’erano limitati a guardarli fra divertiti e sprezzanti. Adesso la sua lingua era meno rigida, ma quel posto era poco illuminato e ancor meno frequentato da gente in grado di soccorrerlo.

Un impeto di lealtà verso il Consiglio lo fece rantolare come un conato di vomito. No. Sarebbe morto senza lasciarsi derubare dei soldi dei suoi concittadini. Del resto, Okita non appariva propenso a lasciarsi corrompere. Ethan non pensava che fosse interessato all’unica altra moneta che lui poteva offrire a un uomo, visto che i normali rapporti sessuali athosiani non sembravano troppo popolari nelle regioni retrograde della galassia. Be’, se non altro quel denaro sarebbe stato prelevato dal suo cadavere e rispedito a chi l’aveva faticosamente guadagnato su Athos…

Athos. No, lui non doveva morire, non poteva permettersi di morire. Il terrificante frammento di conversazione che aveva udito da quei due individui gli era penetrato nella mente come un acido corrosivo. Distruggere i Centri di Riproduzione? Lunghe file di inermi bambini in crescita nei replicatori uterini, decine di migliaia, schiacciati fra le macerie e uccisi nei laboratori in fiamme… Ethan fremette d’orrore e ansimò, ma non riuscì a costringere i muscoli rigidi, semi paralizzati, ad ubbidire alla sua volontà. Quel piano vile e disumano… discusso con tanta calma, organizzato con tanta indifferenza… possibile che fuori dal suo mondo ci fosse tanta pazzia in agguato?

Okita mugolò fra sé, si massaggiò una spalla, controllò i dintorni, e per la terza volta guardò il suo orologio. — Va bene — diagnosticò infine. — Dovrebbe esserti penetrato nel sangue, come ha ordinato il capo. Ora sei pronto per l’autopsia. Passiamo alla lezione di volo.

L’individuo afferrò Ethan per il colletto della maglia e la cintura dei pantaloni, lo tirò in ginocchio e lo puntellò con la nuca contro la ringhiera.

— Perché mi stai facendo questo? — squittì Ethan, in un ultimo disperato tentativo di comunicare con lui. — Io sono un essere umano come te.

— In questo caso sai anche tu cosa significa avere degli ordini. Giusto? — grugnì l’altro. Ethan guardò i suoi occhi inespressivi e si rassegnò a quel destino: stava per essere giustiziato perché era colpevole d’essere innocente.

Okita lo afferrò per i capelli e gli rovesciò la testa all’indietro, premendogli il collo sul tubolare. Il fuligginoso soffitto dei moli, sotto il quale s’incrociavano altri camminamenti e scalette, si confuse negli occhi di Ethan. Il freddo metallo gli morse la carne dolorosamente.

Okita studiò la sua posizione ad occhi socchiusi e gli fece ruotare la testa di qualche grado. — Così va bene. — Tenendo bloccato con un ginocchio il corpo di Ethan contro la ringhiera, alzò la mano destra per abbatterla in un poderoso colpo di taglio su un lato del suo collo.

La passatoia si alzò di qualche centimetro con un un cigolio secco, sobbalzando sotto il peso piombato giù dall’alto. L’ansante figura femminile che vacillava in cerca dell’equilibrio sollevando a due mani lo storditore non perse tempo a gridare avvertimenti, ma si limitò a sparare. Il suo arrivo era stato silenzioso come quello di un fiocco di neve dal cielo, e l’unico rumore dopo il cigolio metallico fu quello dell’arma. La scarica d’energia che lo sfiorò, intorpidendo i suoi sensi, fece poca differenza nelle sconfortevoli condizioni di Ethan. Ma Okita, colpito in pieno, seguendo il momento d’inerzia del suo robusto braccio che si alzava cadde indietro contro l’altra ringhiera. I suoi piedi balzarono verso l’alto in semicerchio, sfiorando la faccia di Ethan.

— Oh, merda! — imprecò la comandante Quinn, e corse avanti a braccia tese. Lo storditore cadde sulla passerella, rotolò via sotto la ringhiera e volò nell’aria, rimbalzando rumorosamente su qualcosa più in basso. Il suo generoso tentativo di agguantare Okita in tempo s’infranse quando le sue mani urtarono contro le suole delle scarpe dell’individuo, e il colpo le spezzò un’unghia. Okita seguì lo storditore, a testa in giù.

Ethan si afflosciò come privo d’ossatura e giacque con la faccia sul pagliolato. Gli stivali della femmina, visti dal livello del suolo, si alzarono sulle punte quando lei si sporse sopra la ringhiera per guardare giù. — Signore Iddio, questo mi dispiace, sul serio — disse, succhiandosi il dito ferito. — Non ho mai ucciso nessuno per disgrazia, prima d’ora. Non è professionale.

— Ancora lei — gorgogliò Ethan.

La femmina ebbe un sogghigno felino. — Che coincidenza, eh?

Ethan si girò a guardare in basso. Il corpo incastrato fra un carrello e un nastro trasportatore smise di sussultare. — Io sono un medico. Forse dovremmo scendere e… uh…

— E cosa? Senti, io non ho neanche un’aspirina da dargli. Purtroppo Okita ha fatto un brutto atterraggio — disse la comandante Quinn. — Ma io non spargerei fiumi di lacrime sulla dipartita di quel gentiluomo. A parte ciò che stava facendo a te, cinque mesi fa ha collaborato all’assassinio di undici persone, sul Gruppo Jackson, per proteggere il segreto che io sto cercando di scoprire.

La sua logica alla melassa suggerì un commento a Ethan: — Se è un segreto che la gente uccide per tenere nascosto, non sarebbe più prudente evitare di scoprirlo? — E per dimenticare i dolori che aveva addosso mugolò ancora: — Comunque lei chi è, in realtà? Perché mi sta seguendo?

— Tecnicamente, io non sto affatto seguendo te. Io sto seguendo il Ghem-colonnello Luyst Millisor, il suo non meno affascinante capitano Rau e i loro due sicofanti… ah, un sicofante. Millisor è interessato a te, e di conseguenza lo sono anch’io. Q.E.D. (Quinn Erat Demostrandum).

— Interessato a me. Perché? — gemette stancamente lui.

La femmina sospirò. — Se fossi arrivata sul Gruppo Jackson due giorni prima di loro, invece che due giorni dopo, saprei dirtelo. In quanto al resto, io sono una comandante dei Mercenari Dendarii, e tutto quello che ti ho detto è vero, salvo che non sono qui per una vacanza a casa. Sono in missione. Pensa a me come una militare provvisoriamente addetta a compiti di spionaggio. L’ammiraglio Naismith sta diversificando le nostre attività.

La femmina si accovacciò accanto a lui, controllò le sue pulsazioni, la dilatazione delle pupille e i riflessi. — Hai l’aria sana come se fossi morto due giorni fa, dottore.

— Lo devo a lei. Quella gente ha trovato la sua microtrasmittente, e ha deciso che io ero una spia. Mi hanno interrogato… — Tacque, accorgendosi che tremiti incontrollabili lo scuotevano.

La femmina si mordicchiò le labbra. — Lo so. Mi dispiace. Comunque, spero che tu abbia notato che giusto poco fa ti ho salvato la vita. Temporaneamente.

— Temporaneamente?

Lei annuì, guardando la lontana pavimentazione dei moli. — Dopo questa faccenda, il colonnello Millisor capirà che qualcuno vuole tenerti in vita. Ciò lo rafforzerà nel proposito diametralmente opposto. È un uomo fatto così.

— Mi rivolgerò alle autorità della stazione e…

— Scusa, ma avrei sperato che tu pensassi qualcosa di meglio. In primo luogo, secondo me la polizia non sarà in grado di proteggerti ventiquattr’ore al giorno. In secondo luogo, così faresti saltare la mia copertura. Finora credo che il colonnello Millisor non sospetti neppure la mia esistenza. Questo potrebbe continuare così, dato che qui attorno io ho una gran quantità di amici e di parenti… ed essendo Millisor e Rau ciò che sono, in effetti preferisco che le cose continuino così. Capisci il mio punto di vista?

Ethan sapeva che avrebbe dovuto rifiutare quel punto di vista e rivolgersi alle autorità, ma era troppo debole e dolorante per opporsi e (gli venne da pensare a un tratto) troppo alto nell’aria. Il brivido della vertigine gli mozzò il fiato. Se quella femmina avesse decìso di mandarlo dietro a Okita…

— Va bene — mugolò. — Uh, lei cosa… cosa vuol fare con me?

La comandante Quinn si piantò le mani sui fianchi e abbassò su di lui uno sguardo accigliato. — Ancora non ne ho idea, Non so se sei un asso o un jolly. Credo che ti terrò nella manica per un po’, finché non avrò capito come mi conviene giocarti. Col tuo permesso — aggiunse dopo un momento, come concessione.

— Uno specchietto per le allodole — mormorò Ethan.

Lei lo guardò pensosamente. — Forse. Se ti viene un’idea migliore, fammela sapere.

Ethan scosse il capo, movimento che mandò ondate di dolore a sciabordare nell’interno del suo cranio e gli fece apparire lampi gialli davanti agli occhi. Se non altro quella femmina non sembrava dalla stessa parte dei suoi recenti catturatori. La nemica dei miei nemici è… mia alleata?

La comandante Quinn lo aiutò a tirarsi in piedi e lo sostenne quando si avviarono giù per le scalette metalliche, fino al suolo. Ethan notò per la prima volta che era diversi centimetri più bassa di lui e più delicata di un uomo anche come muscolatura, cosa che peraltro in teoria avrebbe dovuto sapere, ma a cui non aveva mai pensato. In quel momento, però, non se la sentiva di mettere alla prova la sua superiorità fisica cercando di sfuggirle.

Quando la femmina lo lasciò. Ethan ebbe appena la forza di mettersi a sedere sulla consunta pavimentazione di plastica. Lei andò a chinarsi sul corpo di Okita e lo tastò per sentire le pulsazioni. — Uhu. Collo spezzato e altre brutte fratture. — Si rialzò, fece un sospiro e rimase lì, esaminando sia Ethan che il cadavere con lo stesso sguardo calcolatore.

— Potremmo lasciarlo qui, e la sua faccia apparirebbe in uno dei notiziari mattutini della stazione — disse. — Ma io preferirei dare al colonnello Millisor un pìccolo mistero da risolvere. Sono stanca di seguire le iniziative altrui, stando sempre dietro le quinte e sempre indietro di una mossa. Hai mai pensato alla difficoltà di far sparire un cadavere in una stazione spaziale? Io scommetto che Millisor sa tutto in merito. I cadaveri non ti danno fastidio, no? Voglio dire, tu sei un medico e tutto quanto, giusto?

Lo sguardo di Okita era vitreo come quello di un pesce morto, ma sulla sua faccia c’era un’espressione di rimprovero. Ethan deglutì saliva. — In realtà non mi è mai piaciuta molto quell’estremità del ciclo vitale — spiegò. — La patologia, l’anatomia e via dicendo. Suppongo che sia per questo se mi sono dedicato alla riproduzione. Era più… di buon augurio. — Fece una pausa. Il suo intelletto stava ricominciando a funzionare, a dispetto di tutto. — È davvero difficile liberarsi di un cadavere su una stazione spaziale? Non può buttarlo fuori dal portello più vicino, o giù per un pozzo antigravità poco usato, o qualcosa del genere?

Gli occhi di lei brillavano come pieni di ipotesi. — I portelli che danno all’esterno sono tutti monitorati. È possibile aprirli per certe operazioni d’emergenza, ma non senza far scattare sensori collegati ai computer che registrano tutto. Inoltre, là fuori un cadavere resterebbe a orbitare per sempre intorno alla stazione, anche se lo spingessi via con tutta la tua forza. Analoga obiezione per gli eliminatori di rifiuti; se fai a pezzi e getti nel cesso novanta chili di sostanze proteiche ancora utilizzabili, questo lascia un grosso blip nelle registrazioni. Le hanno già tentate tutte, credimi. Anni fa c’è stato un famoso caso di omicidio; una donna cercò di eliminare il cadavere del marito mangiandolo un po’ per volta, e questo sarebbe forse un buon sistema. Comunque io non me la sento di mangiare Okita. È un tipo che non stimola molto il mio appetito, se capisci quel che voglio dire.

La femmina si mise a sedere accanto a lui, con le ginocchia sollevate e le braccia strette intorno alle gambe, non tanto per riposarsi quanto per trattenere l’energia nervosa e l’impulso di muoversi. — In quanto a nasconderlo da qualche parte nell’interno della stazione… be’, la polizia non è niente a paragone dei controlli maniacali della squadra ecologica. Non esiste un centimetro cubo di Stazione Kline che non compaia su un programma di analisi biologica, e il governo usa a turno tutti i cittadini al di sopra dei dodici anni come personale volontario addetto a ogni tipo di controllo. Potresti continuare a spostare il cadavere qua e là, in qualche contenitore, ma…

Ethan la ascoltava distrattamente, immerso in pensieri spiacevoli quanto le sue sensazioni fisiche.

— Però credo di avere un’idea — continuò lei. — Sì… perché no? Visto che ho commesso un delitto, mi conviene tentare di farne un delitto perfetto. Ogni cosa fatta merita d’essere fatta bene, direbbe l’ammiraglio Naismith.

La comandante Quinn si alzò e prese ad aggirarsi per il molo deserto, cercando e scegliendo attrezzi con l’aria distratta di una casalinga che prelevasse oggetti dai banconi di un supermercato.

Seduto miseramente sulla pavimentazione umida Ethan invidiava Okita, le cui disgrazie terrene erano se non altro terminate. Lui si trovava su Stazione Kline da circa ventiquattr’ore standard, e non aveva ancora mangiato il suo primo pasto né fatto un’ora di sonno. Picchiato, rapito, drogato, quasi-assassinato, e ora divenuto a tutti gli effetti complice di un omicidio che se non era stato esattamente un delitto era comunque la cosa più vicina. La vita in quelle zone incivili della galassia era molto peggiore di quel che aveva immaginato. E adesso era anche caduto nelle mani di una femmina, come se non bastasse. I Padri Fondatori avevano avuto buoni motivi per lasciarsi alle spalle quella società… — Voglio tornare a casa mia — mugolò.

— Via, via — lo blandì la comandante Quinn, arrivando accanto al cadavere di Okita a bordo di un forklift. La bruna femmina saltò giù e trascinò al suolo un contenitore cilindrico lungo un paio di metri, del tipo usato per le spedizioni di merci sfuse. Aveva con sé anche quella che risultò essere una barella antigravità. — Non è questo il modo di abbattersi, proprio quando il mio incarico mostra finalmente qualche apertura. Tu hai soltanto bisogno di un buon pasto caldo… — si voltò a guardarlo. — e forse di una settimana in un letto di ospedale. Questo penso però di dovertelo sconsigliare, dato che ti costerebbe un occhio della testa, ma appena ho finito di sistemare questa faccenda ti porterò in un posto dove potrai riposare un po’, intanto che io mi occupo della prossima fase. D’accordo?

La femmina aprì il coperchio del contenitore e, non senza qualche difficoltà, sistemò il corpo di Okita dentro di esso. Poi usò il forklift per sollevare il contenitore sopra la barella. — Ecco fatto. Non ha neppure troppo l’aspetto di una bara, no? — Tirò giù dal forklift un aspira-rifiuti elettrostatico, diede una rapida ma scrupolosa ripulita alla zona dell’impatto fatale, gettò insieme al cadavere il sacchetto di plastica tolto dall’aspira-rifiuti, quindi risalì sul veicolo e lo portò via, rimettendo poi ogni cosa dove l’aveva trovata. Da ultimo, e con espressione molto più luttuosa di quando s’era occupata di Okita, andò a raccogliere i pezzi del suo storditole.

— Siamo a posto. Questo dà al progetto la sua prima scadenza. La barella e il contenitore dovranno essere riportati qui entro otto ore. prima che le squadre dei moli vengano qui a fare qualche lavoro, altrimenti qualcuno potrebbe accorgersi della loro mancanza.

— Chi sono quegli uomini? — le domandò Ethan mentre lei lo aiutava a salire a cavalcioni del contenitore, sulla barella antigravità spenta e poggiata al suolo. — Sono dei pazzoidi. Voglio dire, tutti quelli che ho incontrato qui sono pazzi, ma quelli… quelli parlavano di assalire e distruggere i Centri di Riproduzione su Athos! Uccidere i bambini e… forse uccidere tutti!

— Sì? — disse lei. — Questo è un risvolto nuovo. Non avevo ancora sentito parlare di questo aspetto dei loro piani. È una vera sfortuna che io mi sia perduto l’interrogatorio, però mi auguro che tu sarai così gentile da farmi un resoconto. Da tre settimane sto cercando di piazzare delle microspie nell’alloggio di Millisor. ma purtroppo il loro equipaggiamento anti-intercettazioni è di prima qualità.

— Lei si è perduta soprattutto molte grida di dolore. Le mie — disse Ethan in tono ostile.

La femmina parve un po’ imbarazzata. — Ah… già. Temo di non aver pensato che avrebbero usato anche sistemi più brutali del penta-rapido.

— Uno specchietto per le allodole — grugnì lui.

La comandante Quinn si schiarì la gola, accovacciata al suo fianco. Prese il telecomando della barella e la accese. Con un ronzio le piastre antigravità sollevarono Ethan e il contenitore a due metri dal suolo, come su un magico tappeto volante.

— Non… non così in alto! — balbettò Ethan, annaspando alla ricerca di una maniglia inesistente. Lei fece abbassare la barella a un palmo d’altezza dal suolo e la mise in movimento, incamminandosi accanto a lui.

La femmina rispose alla sua domanda parlando lentamente e scegliendo le parole con cura. — Il Ghem-colonnello Luyst Millisor è un ufficiale del controspionaggio cetagandano. Il capitano Rau, il defunto Okita e un altro gentiluomo di nome Setti sono la sua squadra.

— Cetaganda! Ma quel pianeta non è troppo lontano da qui per essere interessato a, uhm… — Ethan guardò la femmina — a noi? Voglio dire a questo incrocio di rotte di balzo?

— Non troppo lontano, evidentemente.

— Ma perché, nel nome di Dio il Padre, dovrebbero voler distruggere Athos? Cetaganda è forse… controllato dalle femmine, o qualcosa del genere?

Una risata sfuggì dalla bocca di lei. — Difficile. Io lo definirei anzi un tipico stato totalitario dominato dagli uomini, anche se questo è mitigato da certi aspetti artistici e creativi della loro società. No, Millisor non è interessato al pianeta Athos in se stesso o al "mozzo" di Stazione Kline. Lui sta dando la caccia… a qualcos’altro. Al Grande Segreto. Quello che io sono stata incaricata di scoprire.

La femmina fece una pausa per dirigere la barella intorno a un angolo, in salita e particolarmente difficoltoso.

— A quanto sono venuta a sapere, su Cetaganda esisteva un progetto genetico, sponsorizzato dai militari e con obiettivi a lungo raggio sia nello spazio che nel tempo. Fino a tre anni fa, il colonnello Millisor era il capo della sicurezza di quel progetto. E la sicurezza, ovvero il loro apparato di controspionaggio, era ferrea. Nei venticinque anni della sua esistenza nessuno era mai riuscito a scoprire nulla di esso, salvo captare voci abbastanza vaghe sul fatto che i militari di quel pianeta si stavano occupando di genetica. Si era saputo soltanto che il suo uomo-chiave era un certo Dr. Faz Jahar, uno scienziato cetagandano specializzato in genetica e considerato di modeste capacità, il quale era scomparso dalla circolazione al tempo in cui quel progetto aveva preso inizio. Tu hai un’idea di quanto sia difficoltoso mantenere un segreto per venticinque anni, quando decine di pianeti investono forti somme nello spionaggio industriale e militare? Questo progetto rappresenta il lavoro di una vita intera per il colonnello Millisor. e così è stato per il Dr. Jahar.

«Comunque sia, accadde qualcosa d’imprevisto. Il progetto andò in fumo… letteralmente. Una notte l’edificio che ospitava i laboratori saltò in aria e tutto il suo contenuto cessò di esistere, compreso il Dr. Jahar. Da allora, il colonnello Millisor e la sua squadra hanno cominciato ad agire all’estero, come se fossero alla caccia di qualcosa nelle regioni colonizzate della galassia. Indagano e si sbarazzano degli ostacoli con la feroce decisione di criminali professionisti… o di uomini spinti da una paura folle. Tuttavia, anche se non metterei la mano sul fuoco per il capitano Rau, il Ghem-colonnello Millisor non è un pazzo né un criminale.

— Di questo lei non riuscirà a convincermene — disse cupamente Ethan. Nei suoi occhi c’era sempre qualcosa che non funzionava, e il tremito muscolare andava e veniva.

Poco più avanti si fermarono di fronte a un largo portello nella parete del corridoio. LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE diceva un cartello su di esso. E un altro, in lettere rosse: SOTTO SEQUESTRO — VIETATO L’INGRESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO.

La comandante Quinn fece qualcosa che Ethan non vide sulla serratura a combinazione, e il portello si aprì scivolando di lato. Prese la barella per i manici e la spinse dentro. Dal corridoio che avevano appena lasciato giunsero delle voci e delle risate. Lei si affrettò a chiudere, e per qualche momento rimasero nel buio più completo.

— Ah, eccola qui — mormorò la femmina, facendo scattare l’interruttore di una torcia elettrica. — Nessuno ci ha visto. La Dea Bendata mi vuole ancora bene. Questo sarebbe un brutto momento per cominciare a fare a meno dei suoi favori.

Ethan sbatté le palpebre e si girò a guardare l’ambiente in cui erano entrati. Una specie di lunga piscina rettangolare, vuota, occupava il centro di una vasta area piena di colonne, statue di marmo alcune delle quali prive della testa o di un braccio, mosaici ed archi elaborati.

— Questa dovrebbe essere la copia esatta di una famosa residenza della Terra — spiegò la comandante Quinn. — Il palazzo Elhamburger o qualcosa del genere. Un ricco armatore della stazione aveva speso un sacco di soldi per farlo costruire (e in effetti è finito) quando i suoi soci hanno improvvisamente cominciato a litigare. Il processo è in corso ormai da quattro mesi, e questa e altre proprietà sono per il momento sotto sequestro. Puoi restare qui a vegliare la salma del nostro amico fino al mio ritorno — disse, tamburellando con le dita sul contenitore.

Ethan si disse che per completare quella sgradevole giornata non gli mancava che una veglia funebre, e per di più in un luogo sconosciuto dove avrebbe continuato ad essere alla mercè di gente sconosciuta. Ma la femmina aveva fatto abbassare la barella al suolo e stava tirando fuori dei larghi cuscini di spugna da una malridotta scatola da imballaggio. — Niente coperte, purtroppo — borbottò. — Io ho la mia blusa imbottita. Ma tu puoi usare questi per coprirti; penso che ti terranno abbastanza caldo.

Distendersi su quella roba fu come sprofondare in una nuvola. — Coprirmi — mormorò Ethan, — stare al caldo…

Lei si frugò in una tasca della blusa. — Devo avere una… ah. — Tirò fuori una confezione sigillata e la aprì. — Questa è cioccolata alla menta, con le noccioline. Ti farà bene.

Ethan la divorò in pochi bocconi e si ritrovò più affamato di prima.

— Ah, un’altra cosa. Non puoi usare il cesso, qui. Il passaggio di rifiuti sarebbe registrato dal computer del servizio fognature, e qualche solerte funzionario potrebbe informarne il tribunale. So che sembra orribile, ma… se hai una necessità, falla dentro il contenitore. — Si strinse nelle spalle. — Non si può dire che Okita non lo meriti, tutto sommato.

— Preferirei morire — farfugliò Ethan, frugandosi in bocca con un dito per togliersi un frammento di nocciolina rimasto incastrato fra i denti. — Uh… lei pensa di stare via molto tempo?

— Non più di un’ora, per adesso. Almeno, spero che un’ora mi basti. Tu faresti meglio a dormire un po’.

Ethan riaprì gli occhi con uno sforzo. — Grazie del consiglio.

— E ora… — La femmina si sfregò le mani, annuendo fra sé. — Diamo inizio alla fase due della ricerca di L-X-10 Terran-C.

— Che cosa?

— Questo era il nome in codice del progetto di cui faceva parte il colonnello Millisor. Terran-C, più in breve. Forse una parte della cosa a cui stavano lavorando aveva avuto origine sulla Terra.

— Ma Terrence Cee è un uomo — disse Ethan. — Quei due non hanno fatto altro che continuare a chiedermi se è stato qui che io l’ho incontrato.

Lei rimase immobile per qualche momento. — Ah… sul serio? Strano. Veramente strano. Questa notizia è del tutto nuova per me. — I suoi occhi brillavano come specchi. Pochi istanti dopo era già uscita.

CAPITOLO QUINTO

Ethan si svegliò di soprassalto, con il fiato mozzo e la netta impressione che qualcosa gli fosse piombato sullo stomaco. Aprì gli occhi e si guardò attorno, del tutto incapace di riconoscere il luogo in cui si trovava. Poi vide che in piedi accanto a lui c’era la comandante Quinn, che lo osservava nella debole luce della sua lampada elettrica, con un pollice uncinato sulla fondina vuota dello storditore. Alzando una mano a palpeggiarsi l’addome scoprì che la cosa di cui aveva sentito il peso era un fagotto. Lo svolse con un grugnito, sbattendo le palpebre; si trattava di due tute rosse del tipo usato nella stazione, di misura diversa, e un paio di stivali di plastica da operaio.

— Mettiti una di queste — ordinò la mercenaria. — e cerca di fare presto, per favore. Credo di aver trovato il modo di liberarci del cadavere, ma bisogna arrivare sul posto prima del cambio di turno, se voglio trovare di servizio le persone giuste.

Ethan scelse una delle due tute e la indossò, dopo aver annaspato sulle insolite cerniere a pressione. Gli stivali erano troppo larghi, ma fu mentre si chinava per infilarseli che un giramento di testa lo fece cadere sui cuscini. Senza nascondere una certa impazienza Quinn lo aiutò ad alzarsi, lo fece sedere sopra il contenitore e accese di nuovo la barella antigravità. A cavalcioni su quel cilindro giallo Ethan aveva la stupida impressione d’essere un bambino di cinque anni, ma si sentiva più riposato e lottò per ritrovare energia. Dopo che la bruna mercenaria ebbe controllato in corridoio salì anche lei in sella al contenitore, che non si abbassò di un millimetro sotto il suo peso; poi i due lasciarono quei locali non visti come quando c’erano entrati e si avviarono nei labirinti periferici della stazione.

Se non altro non aveva più la sensazione che il suo cervello fosse sospeso in un vaso di sciroppo, si disse Ethan. Il mondo scorreva attorno a lui con aspetto e velocità normale, e nei suoi occhi non esplodevano più lampi di colore infuocato che gli lasciavano tracce pulsanti nella rètina. Ma l’elenco di novità positive si fermava lì, perché le tute da operaio che Quinn gli aveva portato per nascondere i suoi abiti athosiani erano di un rosso abbagliante. E un’onda di nausea minacciava di sollevarsi dal fondo del suo stomaco verso la gola, inarrestabile come una marea lunare. Si distese in avanti, per abbassare il suo centro di gravità rispetto alla barella fluttuante, e desiderò dolorosamente qualcosa di più delle tre ore di sonno che la bruna mercenaria gli aveva concesso.

— La gente che ci vede passare mi noterà, con questa roba addosso — obiettò, mentre giravano in un corridoio più frequentato.

— Non ti preoccupare. — Lei si girò a indicare la tuta con un cenno del capo. — Quando uno sta trasportando un contenitore per merci, quell’abbigliamento è come il mantello dell’invisibilità. Il rosso è usato dalle squadre dagli addetti ai Moli e Portelli. Chi ti vede penserà che stai portando il contenitore da qualche parte. Finché non apri bocca, o non agisci come uno straniero.

Passarono dentro un lunghissimo stanzone dove migliaia di carote erano allineate fittamente su una grata, con le radici coperte di peluzzi bianchi immerse nella nebbia emessa dagli spray idroponici e le foglioline verdi alla sommità esposte alla luce. L’aria del locale (Quinn gli assicurò che stavano prendendo una scorciatoia) era fredda e umida, e odorava di sostanze chimiche.

Lo stomaco di Ethan gorgogliò. Quinn, che guidava la barella col telecomando, si girò a guardarlo. Lui scosse il capo. — Credo di aver fatto uno sbaglio a mangiare quella roba con le noccioline — mormorò cupamente.

— Be’, per l’amor del cielo, non vomitarla qui — lo pregò lei. — Se proprio devi, apriamo il contenitore e…

Ethan deglutì con fermezza. — No.

— Pensi che una carota ti aggiusterebbe lo stomaco? — domandò lei con sollecitudine. — Si allungò di lato, facendo ondeggiare follemente il loro mezzo di trasporto, e staccò una carota dalla grata. — Ecco, prova ad assaggiarla.

Lui esaminò dubbiosamente il tubero giallo irto di radichette e di foglie, quindi se lo infilò in una delle molte tasche della tuta. — Forse più tardi.

Oltrepassarono dozzine di banchi di ortaggi in crescita e sul fondo del locale Quinn fece sollevare la barella fino a un’uscita situata a qualche metro d’altezza. VIETATO L’INGRESSO era scritto sul portello in scintillanti lettere verdi.

La mercenaria ignorò il divieto con un’allegra indifferenza giovanile, che la dipinse agli occhi di Ethan come una creatura asociale. Si girò a guardare il portello mentre si richiudeva dietro di loro con un sibilo d’aria compressa. VIETATO L’INGRESSO c’era scritto anche da quella parte. Dannazione pensò innervosito, se infrango la legge potrei finire in prigione, qui su Stazione Kline…

Nel corridoio successivo Quinn fece abbassare la barella al suolo davanti a una porta su cui una targa diceva: CONTROLLO ATMOSFERICO, VIETATO L’INGRESSO — SOLO PERSONALE AUTORIZZATO. Da ciò Ethan comprese che sarebbero entrali proprio lì.

La mercenaria scese dal contenitore e si alzò in piedi. — Ora qualunque cosa accada, cerca di non aprir bocca. Il tuo accento ti tradirebbe subito. A meno che tu non preferisca restare qui fuori con Okita finché non tornerò a occuparmi di voi…

Ethan si affrettò a scuotere il capo, allarmato dalla visione di se stesso che cercava di spiegare a un funzionario di passaggio che lui non era, nonostante le apparenze contrarie, un omicida alla ricerca di un posto dove seppellire un cadavere.

— E va bene. Due mani in più potranno farmi comodo. Ma stai pronto a eseguire subito i miei ordini, se sarà necessario. — Quinn aprì la serratura a combinazione e attraversò la soglia, seguita dalla barella antigravità come da un cane al guinzaglio.

Fu come penetrare nel palazzo di una sirena, sotto il mare. Linee iridescenti di luci ed ombre serpeggiavano con morbida lentezza sul pavimento, sul soffitto e… Ethan restò senza fiato per lo spavento nel guardare quelle pareti: barriere trasparenti alte tre piani dietro cui c’era un oceano d’acqua cristallina, nella quale cresceva un’oscillante foresta di alghe verdi. Miriadi di bollicine argentee sciamavano allegramente fra le fronde di quelle piante acquatiche, ora fermandosi, ora trascinate via dalla corrente.

Un anfibio lungo mezzo metro sbucò da quella giungla subacquea e scese a guardare Ethan con occhi inespressivi. Aveva una pelle nera e liscia come la plastica, e zampe e coda a strisce rosse. Dopo qualche istante l’anfibio s’allontanò con movimenti serpentini e sparì di nuovo nel verde.

— Il sistema di riciclaggio ossigeno/anidride carbonica della stazione — spiegò a bassa voce la comandante Quinn. — Le alghe sono bio-programmate per la massima produzione d’ossigeno, mentre assorbono anidride carbonica e altri gas. Ma naturalmente crescono. Così, per non dover svuotare ogni tanto l’intera camera e ripulirla dalle alghe, sono stati immessi dei tritoni geneticamente modificati che le mietono. Ma naturalmente ci si trova con un sacco di tritoni in sovrappiù…

Quinn tacque, quando un tecnico in tuta azzurra spense un monitor della consolle a cui sedeva e si girò verso di loro, accigliato. Lei agitò la mano con un sorriso civettuolo. — Salve, Dale. Ti ricordi di me? Elli Quinn. Dom mi ha detto che avrei potuto trovarti qui.

— Oh, Elli! — L’uomo cambiò subito espressione e si alzò. — Sicuro, Dom mi ha detto che ti ha incontrato. Diavolo, è un secolo che non ci vediamo… — Venne verso di lei come se volesse abbracciarla, poi esitò e ripiegò su un’energica stretta di mano.

I due cominciarono a chiacchierare dei fatti loro e di argomenti spiccioli, mentre Ethan, che non era stato presentato, cercò di non agitarsi troppo nervosamente e di non aprir bocca o rischiare di agire come uno straniero. Le prime due cose erano abbastanza semplici, ma quali erano le azioni che rivelavano l’estraneo agli occhi degli abitanti della stazione? Rimase accanto alla barella antigravità e fece il possibile per non compiere movimenti, innocui o meno che fossero.

Quinn concluse quello che a Ethan parve un discorso inutilmente lungo sui Mercenari Dendarii esclamando: — E sai una cosa? Quei soldati non hanno mai assaggiato le zampe di tritone fritte!

Negli occhi del tecnico balenò un divertimento i cui motivi erano del tutto oscuri per Ethan. — Ma non mi dire! Possibile che nel grande cosmo esista un’anima tanto scalognata? Allora bisogna supporre che non conoscano neppure la zuppa di tritone.

— Né i filetti di tritone marinati — rincarò la dose Quinn alzando le mani con divertito orrore, — né la tritonata al formaggio!

— Neppure i tortelli di tritone? — le fece eco il tecnico. — Neppure lo stufato di tritone all’aglio? Neppure il dessert verde? Neppure il goulash di mare? Neppure il sugo al tritone con cipolla e prosciutto?

— Fuori di qui non sanno niente sulle pietanze a base di anfibi — confermò Quinn. — Il caviale di tritone è del tutto sconosciuto.

— E le schiacciatine di tritone al basilico?

— Schiacciatine al basilico? — domandò la comandante Quinn, improvvisamente perplessa.

— Sono venute fuori un paio d’anni fa — spiegò il tecnico. — In realtà è zampa di tritone macinata, mescolata con riso e odori, e poi fritta nel burro.

— Ah — annuì la mercenaria. — Per un momento m’era sembrato che tu parlassi di un altro genere di polpettine di tritone.

I due scoppiarono a ridere per un motivo che conoscevano solo su Stazione Kline. Ethan si schiarì la gola e scrutò il locale, alla ricerca di qualche vasca o loculo in cui scaricare il contenuto del cilindro giallo. Un paio di snelli anfibi neri serpeggiarono fino alla parete e lo guardarono con pigro interesse.

— Comunque — disse infine Quinn, cambiando tono. — ho pensato che se ti occupassi tu della prossima raccolta potresti mettermene da parte qualcuno, da congelare e portare via con me. Se in questo periodo non siete a corto, naturalmente.

— Non siamo mai a corto! — esclamò lui. — A corto di tritoni? Che Dio ci scampi. — Guardò Ethan e il contenitore. — Ti servo subito: portane pure via cento chili. Duecento. Trecento, se hai posto.

— Un centinaio di chili sarebbe l’ideale. È tutto quel che posso permettermi di aggiungere al peso del bagaglio. Vorrei organizzare una dozzina di cene per soli ufficiali… uomini, magari, se mi spiego.

Il tecnico ridacchiò, poi la invitò a seguirlo e la precedette su per una scaletta metallica fino a un portello. Ethan colse al volo il rapido gesto di lei e si affrettò a tener loro dietro, manovrando la barella antigravità col telecomando.

A passi attenti il tecnico s’avviò lungo una sottile passerella metallica sostenuta da cavi. Sotto di loro, nel gorgoglio delle bolle d’ossigeno che emergevano alla superficie, l’acqua sibilava come una creatura vivente; la corrente fredda che saliva dal basso fece venire a Ethan la pelle d’oca e gli schiarì la mente. Alcuni gorghi regolarmente disposti facevano intuire la presenza di pompe d’aspirazione sul fondo verde-argento, fra le alghe. Dietro quella piscina se ne vedeva un’altra, e più lontano ce n’erano altre ancora, a perdita d’occhio.

La passerella li condusse a una piattaforma. Il rumore di bolle lasciò il posto a un forte sciacquio quando il tecnico sollevò il coperchio di una larga gabbia sommersa. Il contenitore di rete oscillava, fittamente ricolmo di forme nere e scarlatte che scivolavano una sopra l’altra.

— Oh, Dio, è già piena — esclamò l’uomo. — Inutile cercare di venderli tutti. Sei sicura di non volerne abbastanza per sfamare il tuo esercito?

— Mi piacerebbe, se potessi — ridacchiò Quinn. — Ti dico quello che farò: lascerò l’eccedenza giù all’Assimilazione, a tuo nome, quando avrò fatto la mia scelta. I ristoranti della Passeggiata del Viaggiatore hanno chiesto qualcosa?

— Nessuna ordinazione, oggi. Serviti pure.

Dale raccolse un telecomando e premette un pulsante; la trappola per tritoni si sollevò lentamente, con l’acqua che ruscellava giù da tutte le parti, e i tritoni restarono compressi in una massa compatta dove zampe e code continuavano a divincolarsi. Un altro pulsante del telecomando, un ronzio, e un lampo azzurro che pervase la gabbia. Ethan poté sentire sulla pelle il riverbero del potente storditore fin da dove stava. Gli anfibi smisero di agitarsi e giacquero immobili, tramortiti dalla scarica.

Il tecnico tolse uno scatolone di robusta plastica verde da una pila di altri identici e lo appoggiò su una bilancia digitale, sotto lo sportello di rete metallica sul fondo della gabbia. Azzerò la cifra sul display e aprì lo sportello. Dozzine di tritoni inerti scivolarono giù nello scatolone. Mentre il peso saliva verso i 100 chili rallentò il flusso, quindi prelevò a mano un ultimo corpo nero e chiuse lo sportello. Fatto ciò applicò un’etichetta, rimosse lo scatolone con un trattore a mano, ne mise al suo posto un’altro vuoto e ripeté l’operazione. Il contenuto della gabbia non bastò a riempire per intero il terzo scatolone. Fatto questo, il tecnico aprì il suo computer tascabile e registrò l’esatto totale della biomassa prelevata dal sistema.

— Vuoi che ti dia una mano a riempire il tuo contenitore? — domandò poi, indicando il cilindro di plastica gialla.

Ethan impallidì, ma la mercenaria disse allegramente: — Naah, torna pure giù ai tuoi monitor. Io sceglierò i miei tritoni uno per uno. Visto quel che costa il trasporto via nave, voglio soltanto i migliori.

Il tecnico sorrise e s’incamminò sulla lunga passerella. — Trovati i più succosi — disse. Quinn lo salutò con un cenno amichevole e attese di vederlo sparire oltre il portello d’ingresso.

— E ora veniamo a noi — disse, voltandosi verso Ethan. — Cerchiamo di far tornare queste cifre. Aiutami a spostare il caro estinto sulla bilancia.

Non fu facile. Okita s’era già irrigidito nel contenitore, e ciò che la mercenaria voleva fare richiedeva che fosse privato di tutti gli indumenti. Glieli tolsero con una certa fatica, insieme a un piccolo arsenale di armi letali, e quindi arrotolarono le sue proprietà terrene in un fagotto compatto.

Ethan aveva scacciato la paralisi dell’incertezza e della confusione per concentrarsi su un lavoro che capiva, almeno in parte. Mise il cadavere sulla bilancia e lo pesò. Qualunque fosse la situazione folle in cui era precipitato, lui aveva scoperto una grave minaccia per il pianeta Athos. L’istintiva prudenza che l’aveva spinto ad evitare la vicinanza della femmina mercenaria stava diventando, mentre la testa gli si schiariva sempre più, un altrettanto istintivo desiderio di non lasciarla sparire nel nulla prima di aver scoperto in qualche modo tutto ciò che lei sapeva sulla faccenda.

— Ottantuno virgola quarantacinque chilogrammi — le riferì nel suo miglior tono scientifico, quello che usava coi VIP in visita ai laboratori di Sevarin. — E ora?

— E ora metti il corpo in uno di quegli scatoloni, quindi aggiungi tritoni fino ai… uh, cento virgola sessantadue chilogrammi esatti — ordinò lei, dopo un’occhiata all’etichetta di uno dei contenitori. Quando Ethan ebbe finito (l’ultima frazione di chilo fu raggiunta accludendo mezzo tritone, grazie al taglio preciso di una vibrolama che lei si tolse di tasca) la mercenaria chiuse lo scatolone e lo sigillò con un nastro adesivo.

— Adesso ottantuno virgola quarantacinque chili di tritoni nel nostro contenitore per merci — disse. Quando anche quell’operazione fu terminata si trovarono con quattro contenitori (i tre scatoloni e il cilindro) il cui peso era lo stesso di prima.

— Vuole essere così gentile da dirmi cosa diavolo stiamo facendo? — la esortò Ethan.

— Trasformiamo un problema piuttosto difficile in uno molto più facilmente risolvibile. Ora. invece di un contenitore per merci spaziali il cui contenuto potrebbe farci incriminare per omicidio, dobbiamo soltanto liberarci di uno uno dentro cui c’è un’ottantina di chili di tritoni storditi.

— Ma non ci siamo ancora liberati del cadavere — obiettò lui, indicando uno degli scatoloni. Guardò le acque colme di bollicine. — Stai pensando di rimettere là dentro una parte dei tritoni? — domandò, incerto. — Potranno riprendere a nuotare, svenuti come sono?

— Ma niente affatto! — esclamò Quinn, stupita dalla sua ignoranza. — Questo sbilancerebbe il sistema. L’entrata-uscita della biomassa è calcolata con estrema precisione. Lo scopo di questa operazione è invece quello di far combaciare le registrazioni dei computer. In quanto al cadavere… fra poco vedrai.

— Tutto fatto? — disse il tecnico quando li vide entrare dal portello nel salone di controllo, seguiti dalla barella fluttuante su cui il contenitore e i tre scatoloni erano fissati con qualche giro di nastro.

— No, non proprio — rispose Quinn. — Quand’ero a metà lavoro mi sono accorta di aver portato con me un contenitore troppo piccolo. Dovrò tornare qui più tardi. Senti, dammi la ricevuta, così mi fermo all’Assimilazione e gli lascio questa roba a tuo nome. Del resto devo passare di là in ogni caso, per vedere Teki.

— Oh, sicuro, benissimo — annuì il tecnico, soddisfatto. — Ti ringrazio. — Inserì i dati nel computer, registrò qualcosa su un dischetto e glielo diede. La comandante Quinn se lo mise in tasca e salutò l’amico.

— Bene — mormorò accigliata quando la porta a pressione si chiuse con un lieve sibilo alle loro spalle. Sul suo volto c’era il primo segno di stanchezza che Ethan avesse visto in lei. — Dell’ultimo, atto di questa faccenda devo occuparmene io personalmente. — Notando l’espressione perplessa di lui, aggiunse: — Avrei potuto lasciare che fosse Dale a mandare il tutto giù al Reparto Vendite, ma avevo l’orribile dubbio che arrivasse un’ordinazione dell’ultimo minuto dalla Passeggiata dei Viaggiatori, e che Dale aprisse una scatola per mandargli un po’ di tritoni…

— I turisti chiedono questo cibo? — domandò Ethan.

Lei gli gettò un’occhiata. — Non esattamente. Di solito i tritoni che vengono serviti agli stranieri appaiono nel menu sotto la voce Zampe di Rana Fresche, importate dalla Terra. Così diventano una pietanza piuttosto cara.

— E questo è… uh, etico?

Quinn scrollò le spalle. — Devono pur fare il loro guadagno. Le specialità rare di provenienza terrestre hanno sempre successo coi ricchi turisti. E anche se i kliniani li apprezzano, in realtà ormai ne hanno fin sopra i capelli e non è facile vendere a loro i tritoni in sovrappiù. Ma l’ufficio del Bio-controllo rifiuta di sostituire i mangia-alghe con un altro sistema, dato che questo modo di riciclare l’ossigeno è economico e funziona perfettamente. I tritoni sono un sottoprodotto e nient’altro.

I due risalirono a cavalcioni del cilindro e fluttuarono via lungo il corridoio. Ethan guardò il profilo della femmina mercenaria seduta davanti a lui. Doveva cercare di sapere qualcosa…

— Che razza di progetto genetico è? — domandò, all’improvviso. — Questo complotto di Millisor, voglio dire. Lei non ne sa di più?

La mercenaria gli elargì uno sguardo pensoso. — Genetica umana. Ma a dire la verità io non so quasi niente. Conosco qualche nome, qualche parola in codice. Dio solo sa cosa si propongono di ottenere. Dei Mostri, forse. O magari vogliono allevare superuomini. Il governo cetagandano è sempre stato in mano a un branco di militaristi molto aggressivi. Forse vogliono allevare un esercito di super-soldati in vasche di crescita, un po’ come fate voi athosiani, e conquistare l’universo o qualcosa del genere.

— Non è probabile — replicò Ethan. — Non un esercito, comunque.

— Perché no? Una volta ottenuto il tipo genetico desiderato lo si può clonare all’infinito, servendosi di replicatori uterini. È solo questione di avere l’attrezzatura sufficiente.

— Oh, sicuro, lei può produrre una gran quantità di bambini… anche se occorrono risorse economiche non indifferenti, migliaia di tecnici ben addestrati e grandi centri di riproduzione. Ma credo che lei non abbia capito che questo è solo l’inizio della spesa. E non è niente, paragonato a ciò che costa allevare questi bambini. Su Athos la cosa assorbe buona parte del prodotto planetario lordo. Nutrirli, alloggiarli, l’educazione, il vestiario, le cure mediche… a noi occorre un grande sforzo economico solo per mantenere stabile la popolazione, figuriamoci quando si parla di aumentarla. Nessun governo potrebbe tassare i cittadini quanto basta per allevare un esercito inizialmente non specializzato e del tutto improduttivo.

Elli Quinn inarcò un sopracciglio. — Strano, detto così. Sugli altri mondi gli esseri umani nascono a milioni, e questo non impoverisce necessariamente l’economia. Al contrario.

Distratto da quel ragionamento Ethan si stupì. — Dice davvero? Ma io non vedo come possano fare. Voglio dire, le spese di laboratorio per portare un feto dall’ovulo al parto sono molto alte, mi creda. Nel suo calcolo dev’esserci qualcosa di sbagliato.

Nello sguardo di lei si accese una scintilla ironica. — Ah, ma sugli altri mondi le spese di laboratorio non pesano sul governo. I loro laboratori funzionano gratis.

Ethan sbatté le palpebre. — Che assurdo punto di vista retrogrado! Gli athosiani non accetterebbero mai un incarico non pagato. Le femmine gravide non ottengono forse un credito da doveri sociali, come compenso della loro prestazione fisiologica?

— Penso che questo rientri nel cosiddetto lavoro non pagato delle casalinghe, anche quando si tratta di donne che lavorano — rispose lei, in tono seccato. — E la produzione di bambini generalmente supera la domanda. Per quanto riguarda il sesso non ci sono crumiri a mettere in crisi la ditta fornitrice di pargoletti.

Ethan era sempre più stupito. — Ma la maggior parte delle donne non sono militari combattenti, allora, come lei? Ci sono uomini fra i Dendarii?

Lei rise forte, poi abbassò la voce per non attrarre gli sguardi dei passanti. — I quattro quinti dei Dendarii sono uomini. E in quanto alle mie colleghe, tre su quattro svolgono mansioni tecniche, non combattenti. Queste percentuali sono all’incirca le stesse su tutti i pianeti umani, salvo in posti come Barrayar dove le forze armate non hanno donne neppure negli uffici.

— Ah — disse Ethan. Dopo una pausa, sconcertato, aggiunse: — Lei è un caso atipico, allora. — L’idea che s’era fatta delle Regole di Comportamento Femminile andava modificata, dunque…

— Caso atipico. — Lei ci rifletté un momento, poi sbuffò. — Già, suppongo che tu mi abbia definito bene.

Passarono in una galleria dove c’erano porte tutte etichettate UFFICIO ECOLOGICO — RICICLAGGIO. Mentre proseguivano in altri corridoi Ethan tirò fuori la sua carota e cominciò a mangiarla, non senza aver strappato via le radichette e le foglie che si mise in tasca, dopo un’occhiata alla perfetta pulizia del marciapiede.

Stava masticando l’ultimo boccone quando arrivarono a una porta su cui era scritto: ASSIMILAZIONE — STAZIONE B e sotto: SOLO PERSONALE AUTORIZZATO.

Nel vasto locale vivamente illuminato dove Quinn lo precedette. Ethan vide file di scaffali su cui erano allineate costose quanto incomprensibili attrezzature elettroniche. Al centro, un bancone da laboratorio gli apparve più familiare perché ospitava il necessario per le analisi organiche. Alcune decine di condotti forniti di portelli d’accesso ognuno di un colore-codice diverso costellavano la parete di fondo. Quella di destra era completamente nascosta da un grande macchinario d’aspetto strano, collegato ad altre apparecchiature tramite un intreccio di tubi; Ethan non si provò neppure a ipotizzare le sue funzioni.

Un paio di gambe in pantaloni verde-pino con una striscia azzurro-cielo sporgevano orizzontalmente fra alcune condutture, al livello del suolo. Una voce acuta stava mugolando parole incomprensibili. Dopo qualche altro grugnito selvaggio ci fu un clangore, a cui seguì il gemito di un meccanismo sigillante; le gambe si agitarono e il loro proprietario si alzò in piedi.

Si trattava di una femmina alta e robusta, con guanti di plastica lunghi fino al gomito, e fra le mani stringeva un oggetto metallico non identificabile lungo circa trenta centimetri che gocciolava di liquido scuro dall’odore disgustoso. F. Helda diceva la targhetta sul taschino sinistro della sua tuta Ecologia — Sorveglianza. La sua faccia arrossata, contorta dall’ira, spaventò Ethan mentre sbraitava ancora: — … incredibile stupidità di questi stranieri mangiafango, che non sanno neppure… — Vide i due appena entrati e s’interruppe. I suoi occhi si strinsero, e con espressione ancor più irritata e minacciosa li interpellò: — E voi chi siete? Non dovreste essere qui. Non sapete leggere?

Sul volto di Quinn c’era una smorfia di disappunto. Subito però si riprese e sorrise cordialmente. — Ho portato giù l’ultima raccolta di tritoni del Controllo Atmosferico. Dale Zeeman mi ha chiesto di fargli questo favore, visto che passavo di qui.

— Zeeman dovrebbe fare il suo lavoro con le sue mani — sbottò la femmina della Sorveglianza Biologica. — invece di affidarlo a una straniera ignorante. Gli farò rapporto, per questo…

— Guardi che io sono della stazione, nata e cresciuta qui — la informò la mercenaria con voce secca. — Mi chiamo Quinn, Elli Quinn Sono passata a salutare mio cugino Teki… lo conoscerà, lavora in questo dipartimento. In effetti, credevo di trovarlo qui, a quest’ora.

— Ah — disse la femmina, non troppo placata. — Suo cugino è nella Stazione A, questa mattina. Ma non la consiglio di andare a disturbarlo proprio adesso; stanno ripulendo i filtri. Non credo che avrà tempo da perdere in chiacchiere finché il sistema non sarà rimesso in funzione. Tuttavia l’orario di lavoro non ò il momento più adatto alle visite personali, se mi permette una…

— E quell’affare, cosa diavolo è? — interruppe la sua ramanzina Quinn, accennando col capo all’oggetto grondante liquame.

Le mani della Sorvegliante F. Helda si strinsero su quella torturata forma metallica come se volessero strangolarla. La sua ostilità verso i visitatori non autorizzati lottò contro il desiderio di sfogare l’indignazione per quella sconcezza, e perse. — È l’ultimo regalo che mi ha fatto la Passeggiata dei Viaggiatori. Lei sa fino a che culmine d’ignoranza criminale possono arrivare i turisti, ma perfino gli analfabeti non hanno scuse quando le regole gli vengono spiegate per olovideo! Questa era una bomboletta d’ossigeno di emergenza, finché qualche bastardo imbecille non l’ha gettata in uno scarico riservato ai rifiuti organici. Ma la cosa incredibile è che quel maniaco deve averla appiattita con un martello, per riuscire a farla passare dalla fessura. Grazie a Dio è rimasta incastrata in una curva della tubatura d’acciaio, perché più avanti avrebbe potuto spaccare quella di plastica. La stupidità di certa gente è incredibile!

F. Helda attraversò il locale a passi lunghi e gettò l’oggetto in una cesta, insieme ad altri rifiuti evidentemente non-organici. — Odio i mangiafango — brontolò. — Vengono a portare la loro sporcizia nello spazio, del tutto incuranti di quanto ci costi liberarcene, stupidi come animali… — Si tolse i guanti melmosi, che gettò nella spazzatura, asciugò le gocce rimaste al suolo con un piccolo aspiratore sonico, spruzzò del disinfettante qua e là, e andò a un lavandino per lavarsi le mani con metodica energia.

Quinn le indicò gli scatoloni di plastica verde ancora a bordo della barella. — Posso aiutarla a togliere di mezzo questa roba? — si offrì, con aria amichevole.

— Era assolutamente inutile che Zeeman li mandasse giù in anticipo — disse la sorvegliante ecologica. — Adesso ho una sepoltura, fra cinque minuti, e il degradatore è già programmato per ridurre la salma a semplici molecole organiche e mandare il tutto alla Sezione Idroponica. I tritoni dovranno aspettare. Voi due potete prendere e andarvene, e quando vedete Dale Zeeman ditegli che… — Il rumore della porta che si apriva la interruppe.

Una mezza dozzina di abitanti della stazione vestiti di bianco entrarono con aria lugubre al seguito di un carrello antigravità, su cui stava una bara coperta da una stuoia di fiori sintetici. Quinn accennò a Ethan di spostare accanto a una parete il loro carico e i due si sedettero in disparte, per lasciare spazio alla piccola silenziosa processione. La sorvegliante ecologica F. Helda si aggiustò la tuta e ricompose i suoi lineamenti in un mesto sorriso di partecipazione.

I kliniani si fermarono in semicerchio attorno al feretro, davanti al quale uno di loro pronunciò un breve discorso. Anche se la loro religione era insondabile per Ethan, il saluto ai defunti aveva qualcosa di universale e quelle parole sarebbero andate bene anche a un funerale athosiano. Forse le altre società umane della galassia non erano così diverse dalla sua, pensò lui.

— Desiderate vedere un’ultima volta il caro estinto? — li interrogò F. Helda.

I kliniani scossero il capo. Un uomo di mezz’età borbottò: — Per me è già anche troppo fargli un funerale. — Una donna di mezz’età in piedi accanto a lui lo azzittì con un gesto indignato.

— Desiderate assistere alla sepoltura? — volle sapere F. Helda nello stesso tono doverosamente formale.

— Nossignora, non ci tengo affatto — disse l’uomo di mezz’età. E quando la donna al suo fianco lo fissò con disapprovazione, irritata da quella mancanza di rispetto, le disse con fermezza: — Io ho assistito Nonno durante cinque trapianti. Quand’era vivo ho fatto per lui il servo e l’infermiere. Stare qui a guardarlo mentre va a concimare l’orto non aggiungerà niente al mio karma, dolcezza.

La famiglia uscì senza dir altro, e la sorvegliante ecologica tornò al suo precedente atteggiamento professionale-aggressivo. Aprì la bara, spogliò il cadavere — un uomo molto anziano — e gettò i suoi vestiti nel corridoio, dove presumibilmente sarebbero stati raccolti da un inserviente. Tornata nel laboratorio consultò un file di dati su uno schermo, indossò guanti e grembiule di plastica, storse la bocca in una smorfia di disgusto e attaccò il corpo dell’estinto con un coltello a vibrolama. Ethan osservò con interesse professionale mentre una mezza dozzina di organi artificiali insanguinati venivano gettati in una vaschetta: un cuore di plastica, alcune sezioni di arterie, un osso d’alluminio, un ginocchio di metallo cromato, un rene di fibra rossa. La bacinella fu vuotata in un cassone, e quindi F. Helda portò quel che restava del corpo alla grossa macchina sulla destra della stanza.

La sorvegliante ecologica sganciò le flange superiori di un largo portello, lo aprì e usò il telecomando per alzare il carrello antigravità fino a quell’altezza; poi inclinò il pianale, attese che il corpo nella bara biodegradabile che lo conteneva fosse scivolato dentro — ci fu un debole tonfo, all’interno — e richiuse subito il portello. Fatto ciò la femmina premette alcuni pulsanti, causando l’accensione di un display. La macchina ronzò e mormorò e fremette a un ritmo pacato che suggeriva l’idea di un’operazione normale in corso.

Mentre F. Helda era così occupata, dall’altra parte della stanza Ethan azzardò un sussurrò: — Cosa sta succedendo là dentro?

— Il corpo viene sciolto nei suoi componenti e la biomassa finisce nell’ecosistema della stazione — sussurrò Quinn in risposta. — In genere gli organismi animali, come i tritoni in sovrappiù, sono mandati nelle vasche di crescita delle colture proteiche, dove si ottiene la carne (di manzo, di maiale, di pollo, di pesce) per l’alimentazione umana. Ma c’è una specie di pregiudizio sul fatto di usare i cadaveri per lo stesso scopo. Residui di ostilità contro il cannibalismo, suppongo. Così, perché la tua bistecca di maiale non ti ricordi spiacevolmente la faccia della Zia Neddie, i corpi umani vengono sciolti in componenti ancor più piccoli e mandati a nutrire le verdure. Una scelta puramente estetica, visto che tutto finisce in circolazione e ripassa mille volte nel sistema, ma la logica e i sentimenti umani sono due cose diverse.

La carota era diventata piombo nel suo stomaco. — Ma se ora lei vuole liberarsi così anche di Okita…

— Forse il mese prossimo mangerò solo roba d’importazione — sussurrò Quinn. — Ora taci.

F. Helda li interpellò in tono ostile: — Cosa siete rimasti a fare, voi due? — Guardò Ethan. — Lei non deve tornare al suo lavoro?

Quinn batté una mano sugli scatoloni verdi. — Devo riportare questa barella dove l’ho presa.

— Ah — disse la sorvegliante ecologica. Fece un sospiro, borbottò qualcosa fra sé, si fece dare da Quinn il dischetto che le aveva consegnato Dale, e poi batté un nuovo codice di programmazione sul pannello di comando del bio-degradatore. Andò a prendere un trattore a mano, aspettò che Quinn avesse tolto il nastro che fissava il carico sulla barella e prelevò uno dei tre scatoloni verdi. Poi spalancò di nuovo il largo portello della macchina. L’oggetto fu sollevato davanti all’apertura, e F. Helda lo spinse dentro con le sue mani robuste. Dalle viscere del degradatore provenne un lungo cupo ronzio. Al primo scatolone seguì subito il secondo, con rapida efficienza. Quindi la sorvegliante ecologica si occupò del terzo, quello etichettato con 100,62 kg di peso. Ethan trattenne il respiro.

Il contenuto del terzo scatolone arrivò sul fondo della macchina con un tonfo assai più forte dei precedenti.

— Cosa diavolo… — mormorò F. Helda, e tornò verso il portello. La comandante Quinn sbarrò gli occhi, e la sua mano destra si spostò istintivamente verso la fondina dello storditore, vuota.

— Ehi, non è uno scarafaggio quello? — esclamò Ethan, cercando disperatamente di imitare l’accento dell’inglese che si parlava su Stazione Kline.

F. Helda girò su se stessa. — Dove?

Ethan indicò un angolo della stanza, dalla parte opposta rispetto al bio-degradatore. Sia la sorvegliante ecologica che la comandante Quinn andarono a ispezionare. F. Helda si mise in ginocchio e passò un dito lungo la fessura fra il bordo inferiore di un pannello e il pavimento. — È sicuro di averlo visto? — domandò.

— È stato un movimento rapido — mormorò lui. — Sono veloci, quegli insetti…

— Qui dentro non c’è mai stato uno scarafaggio da quando ci lavoro io — disse la femmina, accigliata come se quella novità fosse colpa sua. — Può darsi che lei abbia un bruscolo in un occhio, ecco cosa penso, caro signore.

Ethan si strinse nelle spalle e non osò dir altro.

— Comunque, meglio chiamare la Disinfestazione — brontolò F. Helda, rialzandosi. Tornando indietro premette, di passaggio, il pulsante di avvio del bio-degradatore. Poi andò ad accendere un videotelefono e compose un numero. — Adesso potete andarvene, voi e la vostra barella. Cosa c’è in quel contenitore giallo?

Quinn aprì il coperchio. — Tritoni anche qui. Roba scelta, però. Ne vuole un paio?

— Naah, mia madre me li faceva a pranzo e a cena. Li detesto.

Dieci secondi dopo erano in corridoio. Mentre fluttuavano verso la periferia della stazione a cavalcioni del contenitore, la comandante Quinn disse: — Mio Dio, dottore, la tua è stata un’ispirazione geniale… oppure avevi visto davvero uno scarafaggio?

— No, è stata la prima cosa che mi è venuta in mente. E quella femmina sembrava il tipo di persona che odia gli insetti.

— Puoi scommetterci. — Gli occhi di lei scintillarono divertiti quando annuì.

— Hanno dei problemi con gli scarafaggi, qui? — domandò Ethan.

— Non più che in tutti gli altri posti colonizzati dall’uomo. Ma certi tipi di scarafaggi mutanti, sopravvissuti a ogni insetticida, mangiano perfino il rivestimento dei cavi elettrici e causano corti circuiti. Pensa al pericolo d’incendio su una stazione spaziale e capirai perché F. Helda si è messa in agitazione a quel modo.

Quinn controllò il suo orologio. — Mio Dio, dobbiamo riportare questa barella e il contenitore al Molo 32. — Ridacchiò fra sé. — Tritoni freschi, tritoni di prima scelta, chi vuol comprare i miei tritoni?… Ma perché liberarsene? Dopotutto sono ottimi.

La mercenaria fece compiere al loro mezzo di trasporto una brusca svolta a destra in una traversa, facendo quasi cadere Ethan, e accelerò. Dopo un centinaio di metri fermò la barella davanti a una porta la cui targa diceva: MAGAZZINI REFRIGERATI — INGRESSO 297-C.

Nell’interno, dietro un bancone, una giovane impiegata grassoccia sedeva a guardare un olovisore, mangiucchiando scaglie di proteine fritte che tirava fuori da una confezione.

— Vorrei affittare una cella frigorifera — disse la mercenaria.

— Questo impianto è solo per i cittadini della stazione, signora — rispose la giovane femmina, dopo uno sguardo invidioso alla linea snella e al volto attraente di Elli Quinn. — Se lei si rivolge al suo albergo, sulla Passeggiata dei Viaggiatori troverà un…

Quinn estrasse di tasca una carta d’identità e la sbatté sul bancone. — Una di quelle piccole da due metri cubi potrà bastare. E vorrei anche uno scatolone di plastica. Pulito, mi raccomando.

La giovane impiegata guardò la carta d’identità. — Ah, oh. — Sparì nel retro del magazzino e tornò qualche minuto dopo con un carrello fluttuante su cui c’era uno scatolone di plastica.

La mercenaria firmò con l’impronta del pollice sullo schermo di un computer, poi tornò accanto a Ethan.

— Vediamo di stenderli con ordine, eh? Voglio che il cuoco resti favorevolmente impressionato quando li tirerà fuori.

Distesero i tritoni bene in fila, uno strato sopra l’altro. La giovane impiegata guardò per qualche secondo, storse il naso e ritornò alla sua trasmissione olovisiva, apparentemente un film girato sulla superficie di un pianeta molto simile alla Terra.

Avevano fatto giusto in tempo, vide Ethan: alcune delle loro vittime anfibie si stavano già risvegliando. Si sentiva quasi più dispiaciuto per loro di quanto lo era stato per Okita. L’impiegata venne a prelevare lo scatolone e lo portò via.

— Non soffriranno a lungo, vero? — chiese Ethan mentre uscivano, gettando uno sguardo dietro di sé.

La comandante Quinn sbuffò. — Io ci farei la firma, per una morte così rapida. Andranno nel più grande frigorifero dell’universo… lo spazio esterno. Credo proprio che li porterò all’ammiraglio Naismith, più tardi, quando le cose si saranno risolte.

— Le cose — le fece eco Ethan. — Già. Penso che lei ed io dovremo fare due chiacchiere su queste cose. — E le sue labbra si strinsero testardamente.

Quelle di lei si piegarono in un sorriso. — Faccia a faccia, cuore a cuore — assentì cordialmente.

CAPITOLO SESTO

Dopo aver riportato la barella nello scomparto del pronto soccorso del Molo 32, la comandante Elli Quinn condusse Ethan lungo vari corridoi secondari della stazione fino a un albergo dove aveva una camera non molto più spaziosa della sua. L’albergo, credette di capire Ethan, si trovava in una zona interna della Passeggiata dei Viaggiatori, anche se non gli era parso d’aver attraversato il quartiere riservato ai turisti. Durante il percorso Quinn lo aveva fatto restare indietro, o l’aveva parcheggiato senza preavviso in una traversa intanto che lei andava avanti a esplorare, oppure l’aveva preceduto camminando con fare noncurante a braccetto con un’amica da lei incontrata per strada, gesticolando allegramente con la mano libera. Ethan poteva solo augurarsi che la mercenaria sapesse ciò che stava facendo.

Ad ogni modo gli parve che Elli Quinn fosse convinta di averlo portato con successo in una specie di base sicura, perché quando furono in albergo chiuse la porta si rilassò visibilmente, scalciò via le scarpe, si tolse la blusa e andò subito ad accendere la consolle dei servizi in camera.

— Ecco qua. Vera birra — disse, porgendogli un bicchiere colmo di liquido ambrato dove aveva versato un paio di pillole prese dal suo medikit dendarii. — È roba d’importazione.

L’odore accrebbe la salivazione di Ethan, ma invece di portarsi il bicchiere alle labbra lo guardò insospettito. — Le spiace se chiedo cosa ci ha messo dentro?

— Vitamine. Guarda… vedi? — Quinn fece uscire altre due pillole dallo stesso tubetto, se le gettò destramente in bocca e le ingoiò accompagnandole con una lunga sorsata della sua birra. — Qui puoi considerarti al sicuro, per il momento. Mangia, bevi, datti una lavata, fai quello che ti pare.

Lui gettò un’occhiata speranzosa verso il bagno. — Il doppio uso non sarà registrato da qualche computer del riciclaggio? E se qualcuno facesse domande?

Lei alzò gli occhi al cielo. — Al massimo potranno pensare che la comandante Quinn sta intrattenendo un amico nella sua camera. Questi sono affari miei, e nessuno oserà certo ficcare il naso. Rilassati.

Le implicazioni di quell’intimità erano tutt’altro che rilassanti, ma Ethan era arrivato al punto che avrebbe rischiato la vita per una rasatura; il suo mento ispido era pericolosamente vicino a fingere prerogative di padre a cui egli non aveva alcun diritto.

Il bagno, ahimé, non aveva un’altra uscita che desse nel corridoio. Lui cedette e andò a lavarsi, portando con sé la birra. Se Millisor e Rau non avevano trovato il modo di spremergli informazioni utili molto probabilmente non ci sarebbe riuscita neppure la comandante Quinn, qualunque cosa gli avesse messo nella birra.

La faccia stravolta che lo guardò dallo specchio lasciò Ethan stupefatto e inorridito. Rigonfia, molliccia, pelle come carta vetrata, occhi iniettati di sangue e cerchiati di nero. Sembrava un criminale reduce da una nottata di bagordi. Se si fosse presentato sul lavoro in quelle condizioni, nessun cliente avrebbe permesso che un individuo così losco si occupasse del suo bambino. Fortunatamente qualche minuto di lavoro col rasoio a vibrazioni e con un pelle-schiuma gli restituirono un aspetto da persona civile, soltanto stanco, e non depravato. C’era perfino uno scomparto per il lavaggio a secco, che ripulì i suoi indumenti mentre lui si faceva la barba e glieli restituì un po’ umidi ma profumati.

Venti minuti dopo, quando uscì dal bagno, trovò la comandante Quinn semisdraiata sull’unica sedia della stanza e coi piedi nudi poggiati sul ripiano di uno scaffale. La mercenaria aprì gli occhi e gli accennò di sistemarsi sul letto gonfiabile. Ethan si distese nervosamente, spostando il cuscino per stare un po’ sollevato; ma non c’era altro posto in cui sedersi. Sul ripiano che fungeva da comodino accanto al letto lo aspettavano un’altra birra e un vassoio di fast-food, anonime confezioni fornite dai distributori della stazione. Lui cercò di non pensare agli impianti che riciclavano tutto, perfino i cadaveri, e di convincersi che quello era cibo e basta.

— Dunque — disse Elli Quinn, — sembra che ci siano interessi peculiari accentrati su quel carico di materiale biologico che Athos ha ordinato all’estero. Supponiamo che tu cominci da qui.

Ethan inghiottì il boccone che stava masticando e fece appello alla sua risolutezza. — No. Ci scambieremo le informazioni. Supponiamo che lei cominci da qui. — Quella sua pretesa di assumere una posizione di forza produsse nella mercenaria l’ironico sollevarsi di un sopracciglio, e lui aggiunse debolmente: — Se non le spiace.

Quinn si passò una mano sulla faccia; anche lei era stanca. — E va bene. — Fece una pausa per mangiare un boccone di sandwich. — La vostra ordinazione di materiale biologico fu trasmessa, a quanto mi risulta, alla squadra genetica del laboratorio principale di Casa Bharaputra. La squadra lavorò un paio di mesi buoni su questa fornitura, circondata da strette misure di sicurezza. Questo servì probabilmente a salvare parecchie vite, in seguito. Il materiale fu quindi spedito con una nave mercantile non-stop fino a Stazione Kline. dove dovette sostare due mesi in un magazzino in attesa dell’arrivo della nave del censimento diretta ad Athos. Si trattava di nove grosse scatole da imballaggio refrigerate, di colore bianco. — La mercenaria le descrisse nei particolari, e ricordò perfino alcuni dei numeri di serie. — È questo ciò che avete ricevuto?

Ethan accennò di sì, accigliato.

Lei continuò: — All’incirca nel periodo in cui questa fornitura lasciava Stazione Kline sulla nave diretta ad Athos, Millisor e i suoi uomini arrivarono sul Gruppo Jackson. La loro incursione nei ben protetti laboratori di Casa Bharaputra fu un vero e proprio raid militare, eseguito con notevole abilità professionale. — Le sue labbra si contrassero in una smorfia con cui esprimeva un giudizio personale d’altro genere. — Millisor e la sua squadra travolsero l’opposizione armata dei sorveglianti di Casa Bharaputra e se ne andarono, facendo saltare in aria il laboratorio e tutto il suo contenuto. Nel contenuto era compresa la squadra genetica, alcuni innocenti clienti, e le registrazioni tecniche del lavoro fatto sul vostro materiale. Io presumo che abbiano investito un po’ del tempo di cui disponevano interrogando il personale di Bharaputra, prima di eliminarlo, perché vennero a sapere parecchie cose. Fatto questo, dopo una sosta nelle vicinanze durante la quale uccisero la moglie di un genetista e gli bruciarono la casa. Millisor e compagni scomparvero dal pianeta del Gruppo Jackson. Poco tempo dopo fecero la loro comparsa qui, sotto false identità, mossi dallo scopo di bloccare le nove casse prima che ripartissero per Athos, ma erano in ritardo di tre settimane.

«Nel frattempo io ero arrivata sul Gruppo Jackson, fornita di informazioni molto frammentarie. Senza immaginare i fatti accaduti feci in giro qualche innocente domanda su una richiesta commerciale pervenuta da Athos. Gli agenti di Casa Bharaputra, che stavano ancora cercando di capire come avesse fatto Millisor a sparire così in fretta, piombarono su di me come falchi. Per fortuna alla fine riuscii a convincerli che io non avevo niente a che fare coi cetagandani. In effetti, al momento sono convinti che io stia lavorando per loro.

— Il bharaputrani?

Il suo sorriso si spense in una smorfia. — Già. Mi hanno assoldata per rintracciare e assassinare Millisor e la sua squadra. Questa è stata una fortuna, perché avrebbero potuto lasciarmi andare e mettermi alle calcagna i loro killer, contando che io li portassi fino al bersaglio. Invece mi hanno fatto l’onore di mettermi sul loro libro paga. E stanotte ho fatto una parte del lavoro per cui mi hanno assunta. Saranno molto compiaciuti di me. — Ebbe un sospiro e bevve un sorso di birra. — Tocca a te, dottore. Cosa c’era in quelle scatole, da causare la morte di tanti innocenti?

— Nulla, glielo assicuro! — Ethan scosse il capo, sbalordito. — Materiale biologico costoso, certo, ma non al punto che qualcuno possa voler uccidere per averlo. Il Consiglio della Popolazione di Athos aveva ordinato 450 colture ovariche vive, ovvero il tessuto che produce le cellule uovo fertilizzando le quali…

— So come nascono i bambini, sì — mormorò lei.

— Dovevano essere garantite esenti da difetti genetici, e prelevate da almeno venti diversi esseri umani di sesso femminile appartenenti alla razza bianca. Non erano state richieste altre caratteristiche. Il lavoro di una settimana al massimo, per una squadra di genetisti come quella di cui ha parlato lei. Semplice routine. Invece, ciò che noi abbiamo ricevuto era spazzatura! — Ethan le descrisse il contenuto di quei refrigeratori con fervore sempre più indignato, finché lei lo interruppe.

— E va bene, dottore! Va bene, ti credo. Ma ciò che partì dal Gruppo Jackson non era affatto spazzatura, bensì qualcosa di molto speciale. Qualcuno, di conseguenza, ha intercettato il vostro materiale in qualche punto del tragitto e lo ha sostituito con degli avanzi di macelleria…

— Avanzi piuttosto strani, se ci pensa un momento — cominciò Ethan in tono perplesso, ma lei stava già parlando.

— Chi è questo qualcuno, e dove e quando ha agito? Tu non sei, e io neppure… anche se suppongo che tu debba accontentarti della mia parola. E ovviamente non si tratta di Millisor, a cui sarebbe piaciuto ma non c’è riuscito.

— Millisor sembra pensare che sia stato questo Terrence Cee… chiunque o qualunque cosa sia.

Lei sospirò. — Chiunque-o-qualunque-cosa-sia ha avuto tutto il tempo per fare quello che voleva fare. Può aver agito prima della partenza del materiale dal Gruppo Jackson, o sul mercantile in viaggio da là per Stazione Kline, o in qualsiasi momento prima che qui arrivasse la nave del censimento per Athos… Santo cielo, hai un’idea di quante astronavi attraccano a Stazione Kline in due mesi? O di quanti trasbordi può aver avuto quel materiale, quello originario, una volta spedito su altre rotte? Non c’è da meravigliarsi se il colonnello Millisor si sta rovinando la digestione con queste ipotesi. Io ho avuto una copia degli arrivi e delle partenze da questa stazione, ma dubito che possa servire a qualcosa. Comunque… — La mercenaria prese un minicomp dallo scaffale e registrò una breve nota.

Ethan approfittò di quella pausa per chiedere: — Cos’è una moglie?

La mercenaria per poco non si strangolò con la sua birra. Per quanto tenesse di continuo il bicchiere in mano, notò lui, il livello del contenuto diminuiva molto lentamente. — Già, dimenticavo che voi athosiani… be’, una moglie è il partner in un matrimonio, la compagna femmina di un uomo. Il partner maschio è chiamato marito. I matrimoni sono di molti generi, ma quello più comune in questa regione dello spazio umano prende la forma di un contratto legale, economico e genetico il cui scopo basilare resta quello di produrre e allevare dei figli. Mi sono fatta capire?

— Credo di sì — disse lentamente lui. — Sembra un po’ come l’unione di due coniugi alternativi designati. — Ethan assaporò il suono di quella parola: — Marito. Su Athos, maritare è un verbo che significa unire le risorse. Come associarsi in affari. — Questo implicava che il marito mantenesse la femmina durante la gestazione? In tal caso questo cosiddetto metodo organico nascondeva costi che facevano apparire economici quelli di un centro di riproduzione, pensò lui soddisfatto.

— Maritare, eh? Comincio a pensare che la vostra lingua non deriva poi molto dall’inglese, dopotutto — borbottò Quinn. — Avete ancora il verbo ammogliarsi?

— No. Cosa significa?

— La stessa cosa ma fatta dal punto di vista mascolino. Prendere moglie. Immagino che dal vostro vocabolario siano sparite parecchie parole.

— L’evoluzione linguistica accompagna l’evoluzione sociale — annuì Ethan. Esitò. — Questo genetista a cui hanno bruciato la casa… lui e sua, uh, moglie, avevano dei figli?

— Un bambino piccolo, che però in quel momento era alla nursery. A scuola, insomma. Una fortuna, dato che senza dubbio Millisor non avrebbe esitato a torchiare anche lui come fece con sua madre prima di ucciderla… la donna era incinta, fra l’altro. — Quinn affondò rabbiosamente i denti in una tavoletta proteica.

Ethan scosse il capo, frustrato. — Ma perché tutto questo? Perché, perché, perché?

Lei ebbe un sorrisetto triste. — Ci sono momenti in cui mi sembri davvero un uomo normale… no, scusa, è una battuta stupida — aggiunse in fretta, quando Ethan la guardò con aria offesa. — Già Perché. Proprio la domanda a cui io devo dare una risposta. Millisor sembra convinto che il materiale prodotto dai laboratori Bharaputra fosse veramente destinato ad Athos, benché il tempo necessario a produrlo e il fatto che sia stato rubato facciano pensare che non fosse affatto la cosa richiesta da voi. Ora, se non altro, nei mesi scorsi io ho imparato che se Millisor è convinto che una cosa sta in un certo modo, molto probabilmente ha ragione. Di conseguenza: perché quel materiale veniva spedito su Athos? Cosa c’è su Athos che nessun altro pianeta ha?

— Niente — disse Ethan, con sicurezza. — Siamo una società piccola, basata sull’agricoltura, senza una produzione che valga la pena d’essere commercializzata all’estero. Trovandoci in fondo a un corridoio di transito non siamo su una rotta di balzo verso altri posti. E non abbiamo mai dato fastidio a nessuno.

— Niente — ripeté lei. — Consideriamo come scenario tattico un pianeta per cui non avere niente sarebbe un pregio… Godete di una certa tranquillità, e nessuno viene a ficcare il naso da quelle parti, suppongo. A parte questo, L’unica altra cosa che vi distingue è la vostra fisima di riprodurvi nel modo più difficile. — Quinn bevve un sorso di birra. -Tu dici che Millisor ha ventilato l’ipotesi di attaccare e distruggere i vostri centri di riproduzione. Parlami un po’ di questi centri.

Ethan non aveva bisogno d’essere molto stimolato per illustrarle con entusiasmo il suo amato lavoro. Le descrisse Sevarin. le attività che vi si svolgevano e la dedizione dei tecnici e dei medici che le portavano avanti. Le spiegò il sistema economico basato sul credito da doveri sociali, dal quale uscivano padri qualificati. Poi cambiò discorso bruscamente quando s’accorse che si stava addentrando nelle difficoltà personali che gli avevano fin’allora impedito di avere un figlio. Quella femmina stava riuscendo a farlo parlare con strana facilità… di nuovo si chiese cosa gli avesse messo nella birra.

Elli Quinn si appoggiò allo schienale della sedia e per qualche secondo fischiettò fra i denti. — Al momento, questo dannato furto ancora non lo capisco. In quanto al resto, però, la teoria che mi attira è quella dell’uovo del cuculo. Si accoppierebbe bene a quella di Millisor: la tattica del topo di fogna.

— L’uovo di chi?

— L’uovo del cuculo. Non avete cuculi su Athos?

— No… Sono rettili?

— Il cuculo è un uccello di origine terrestre. Non ha niente di speciale, salvo la biasimevole caratteristica di deporre le uova nei nidi degli altri uccelli lasciando così a loro il tedioso compito di allevare la sua prole. Ora lo si trova nella galassia soltanto sotto forma di riferimento letterario, dato che per qualche miracolo nessuno è mai stato così idiota da esportarlo su altri pianeti. Non è poi un volatile così astuto, dato che tutte le bestie più disgustose della Tena sono riuscite a trovare il modo di seguire l’uomo nello spazio, a dispetto di ogni sforzo. Comunque, tu hai capito cosa voglio dire quando parlo di tattica del cuculo, no?

Ethan corrugò le sopracciglia, annuendo. — Sabotaggio — sussurrò. — Sabotaggio genetico. Quei criminali progettavano di impiantare i loro mostri nella nostra società, senza che ci accorgessimo di… — S’interruppe e scosse il capo. — No, un momento. Non sono stati i cetagandani a mandarci quei contenitori refrigerati. Uh… topi, ha detto? Ma anche se loro avessero voluto subentrare in un progetto dei bharaputrani. noi abbiamo il modo di identificare i geni difettosi e… — Tacque di nuovo, incapace di vedere la fine anche di quel ragionamento.

— Però, nei contenitori spediti dal Gruppo Jackson poteva esserci del materiale rubato da quel progetto di ricerca cetagandano. Questo spiegherebbe l’accanimento con cui Millisor cerca di ritrovarlo, o di distruggerlo.

— Può darsi, ma… perché il Gruppo Jackson vorrebbe farci questo? O agisce così solo perché è nemico di Cetaganda?

— Ah… mmh. Tu cosa sai del Gruppo Jackson?

— Non molto. È un pianeta, hanno laboratori biologici, e due anni fa la Casa Bharaputra ha risposto a una lettera del Consiglio della Popolazione che chiedeva un preventivo per questa fornitura di materiale biologico. Anche una dozzina di altre ditte ha risposto.

— Sì. Be’, la prossima volta fate le ordinazioni a Colonia Beta.

— Colonia Beta ci ha chiesto il prezzo più alto.

Lei si passò le dita sulla mandibola, distrattamente. Ethan pensò alle bruciature di un raggio al plasma. — Può darsi, però otterrete quello per cui avrete pagato… Ma non voglio prenderti in giro. In realtà puoi avere un servizio tecnico altrettanto buono da una Casa del Gruppo Jackson, se la paghi abbastanza. Vuoi un clone della tua persona, fatto crescere in vasca fino alla maturità fisica, giovane e forte, per trasferire il tuo cervello nel suo corpo? Si può fare, col 50% di probabilità che l’operazione uccida te, e il 100% di probabilità che uccida… lui, se un clone appena tirato fuori da una vasca può essere già considerato una persona umana. Nessun genetista betano farebbe un lavoro del genere; là i cloni hanno tutti i diritti civili. Casa Bharaputra è invece nota per questo tipo di servizio.

— Ah — disse Ethan, con una smorfia. — Su Athos, clonare è uno dei Sette Peccati Capitali.

Lei inarcò un sopracciglio. — Ah, sì? Quale peccato?

— La vanità.

— Non sapevo che la vanità fosse un peccato… oh. be’. Il punto è che se qualcuno avesse offerto a Casa Bharaputra abbastanza soldi, loro avrebbero riempito quelle nove scatole di… di tritoni morti. O di super-soldati bio-modificati alti due metri e mezzo, o di qualsiasi cosa gli fosse stata richiesta. — Quinn tacque, e bevve la sua birra.

— Allora, quale sarà la nostra prossima mossa? — domandò baldanzosamente lui.

La mercenaria si mordicchiò un labbro.

— Non lo so. Io non avevo pianificato la morte di Okita, cerca di capirmi. Non ho l’ordine di intervenire attivamente in questo affare… al contrario, le mie istruzioni sono di osservare. Professionalmente parlando, nel salvarti io ho commesso un errore. Avrei dovuto assistere alla tua dipartita, prenderne nota con rammarico, e poi spedire un rapporto cifrato all’ammiraglio Naismith.

— E lui, uh, le farà passare dei guai per questo? — domandò nervosamente Ethan, mentre in lui lampeggiava la visione paranoica di quell’ammiraglio che ordinava severamente a Quinn di restaurare l’equilibrio originario mandandolo a raggiungere Okita.

— Naah. Anche lui si permette degli errori professionali, a volte. Questo è pericoloso; un giorno o l’altro si farà ammazzare. Ma finora è riuscito a far andare dritte le cose, perché sa come farsi baciare dalla Dea Bendata. — Quinn spazzò via l’ultima confezione fast-food dal vassoio, vuotò il bicchiere di birra e si alzò in piedi. — Il dovere mi chiama. È adesso che devo tenere d’occhio Millisor. Se qui su Stazione Kline ha degli agenti di cui non so nulla, mettendosi a cercare te e Okita dovrebbero uscire dall’ombra. Tu puoi dormire qui. Non devi lasciare la stanza.

Di nuovo imprigionato, anche se più comodamente. — Ma i miei abiti, il mio bagaglio, la mia stanza… — La sua Camera Turistica Economica, che continuava a costargli soldi. — Io ho un incarico da svolgere, per conto del mio governo.

— Tu non devi neppure avvicinarti a un chilometro dalla tua stanza d’albergo! — Quinn sbuffò spazientita. — Mancano otto mesi al giorno in cui dovrai imbarcarti per tornare su Athos, giusto? Ti propongo questo: tu mi aiuti nella mia missione, e io ti aiuterò con la tua. Se fai quello che ti dico potresti perfino vivere abbastanza da portarla a termine.

— Sempre presumendo — disse Ethan, di malumore, — che il Ghem-colonnello Millisor non le offra per i suoi servizi più di quanto la stanno pagando Casa Bharaputra e l’ammiraglio Naismith.

Lei infilò le scarpe, poi si gettò sulle spalle la blusa bianca e grigia, un indumento pieno di tasche che sembravano aver contenuto cose troppo pesanti per quella stoffa. — Voglio sprecare il fiato per segnalarti un fatto, athosiano: ci sono cose che il denaro non può comprare.

— Quali, mercenaria?

Sulla porta Quinn si fermò e le sue labbra si curvarono lievemente, malgrado la freddezza dello sguardo.

— Gli errori professionali.

Il primo giorno della sua semi-volontaria detenzione Ethan lo trascorse dormendo, per smaltire la stanchezza, il terrore, e il cocktail biochimico delle 24 ore precedenti. Fece torpidamente ritorno alla coscienza una prima volta mentre la comandante Quinn attraversava la stanza in punta di piedi, ma non gli parve che l’atteggiamento di lei fosse sospetto e richiuse gli occhi.

La seconda volta che si svegliò, molto più tardi, trovò la mercenaria addormentata sul pavimento in pantaloni e camicia, con la blusa arrotolata sotto la testa. Gli occhi della femmina si socchiusero per seguirlo quando lui scese dal letto per andare nel bagno.

Il secondo giorno, tentando la maniglia della porta, scoprì che la comandante Quinn non lo chiudeva dentro a chiave durante le lunghe ore in cui stava assente. Un po’ sorpreso andò avanti e indietro nel corridoio deserto dell’albergo per una ventina di minuti, cercando di spremersi il cervello su qualche progetto razionale che non comprendesse l’eventualità di cadere nelle mani di Millisor, i cui uomini lo stavano senza dubbio cercando per tutta la stazione. Il ronzio di un robot delle pulizie che girava l’angolo lo indusse a rientrare precipitosamente in camera, col cuore in gola. Forse non c’era niente di male nel lasciare che la femmina mercenaria lo proteggesse ancora un po’ di tempo.

Il terzo giorno aveva recuperato abbastanza chiarezza di mente da preoccuparsi di ogni aspetto della pericolosa situazione in cui si trovava, anche se non gli era tornata energia fisica sufficiente per far qualcosa in merito. Di malumore cominciò a leggere un testo di storia galattica sullo schermo della consolle di comunicazione. La biblioteca dell’albergo era ben fornita di libri e film.

Alla fine del giorno successivo si rese dolorosamente conto di quant’era inadeguata la cultura che si stava facendo, e che fino a quel momento consisteva in due libri di storia galattica molto generale e riassuntiva (una storia delle esplorazioni, e una storia del commercio interstellare) un manuale alberghiero per turisti in visita a Cetaganda, che comprendeva anche una storia di quel pianeta, e un film olovideo intitolato Naufragio sul Pianeta dell’Amore, su cui era inciampato per caso in un momento in cui era troppo stordito per spegnerlo e guardare qualcos’altro. Vivere con le donne non generava soltanto strani problemi negli uomini, ma a quanto pareva anche stranissimi comportamenti. Quanto gli restava prima che le irradiazioni telepatiche, o qualunque cosa emanasse la comandante Quinn, cominciassero a far agire in quel modo anche lui? Avrebbe spalancato d’improvviso la camicetta davanti a lui. esibendo la sua ipertrofia mammaria, allo scopo di fissare "l’impronta" nella sua mente, come mamma anatra sui pulcini appena usciti dall’uovo? O gli avrebbe conficcato in corpo la sua vibrolama. se lui avesse avuto (o non avesse avuto) una reazione ormonale causala dalla sua vicinanza?

Ethan scosse il capo, frustrato, e maledisse la timidezza che lo aveva indotto a restare in cabina nei due mesi di viaggio fino a Stazione Kline. Mantenere la purezza di mente e di propositi era positivo, ma restare ignorante significava prendere la scorciatoia per l’inferno; se la sua anima doveva essere sacrificata sull’altare della necessità, per Dio il Padre, il bene di Athos meritava questo ed altro. Coraggiosamente mise da parte il pudore e continuò a leggere.

Nella sua discesa spirituale, lo stato psichico opposto al nirvana era l’eccitazione euforica, e il sesto giorno l’aveva raggiunta.

— Cosa diavolo sta facendo quel Millisor, là fuori? — domandò alla comandante Quinn durante una delle sue brevi soste nella camera d’albergo.

— Al momento non sta facendo nulla di ciò che avevo sperato — ammise lei. Depose sullo scaffale le forbicine con cui s’era tagliata le unghie dei piedi e si mise un paio di calze rosse. Aveva appena acquistato diversi articoli in un grande magazzino, fra cui qualcosa anche per lui. — Non ha notificato la sparizione di Okita alle autorità della stazione, e non ha contattato il tuo albergo per sapere se ti hanno visto, anche se probabilmente lo sta facendo sorvegliare. Non ha convocato altro personale a me sconosciuto, il che tuttavia non esclude che ce ne sia. dato che i cetagandani hanno un consolato qui. Non ha prenotato posti su navi in partenza, e per ora non sembra intenzionato a lasciare la stazione. La cura che sta mettendo nel tutelare la sua copertura fa anzi pensare che progetti di restare qui per qualche tempo. L’altra settimana ero convinta che avrebbe cercato di penetrare sulla nave del censimento arrivata da Athos, nell’ipotesi che tu fossi venuto qui portando con te quel materiale per restituirlo al mittente. Ma adesso è chiaro che sta aspettando qualcos’altro. E deve trattarsi di una cosa importante, se rinuncia perfino a indagare sulla misteriosa scomparsa di uno dei suoi dipendenti.

Ethan andò nervosamente avanti e indietro; la sua voce si alzò. — Quanto tempo ancora dovrò restare segregato qui dentro?

Lei scrollò le spalle. — Finché non interviene qualche fatto nuovo, suppongo. — Ebbe un sorrisetto aspro. — E qualcosa accadrà, presumo, anche se non dalla nostra parte. Millisor e Rau e Setti hanno perlustrato di persona tutti settori della stazione che potevano raggiungere senza dare nell’occhio, ma continuano ad aggirarsi con molta insistenza soprattutto nei corridoi intorno al Riciclaggio. Dapprima non riuscivo a capire perché. Gli indumenti di Okita, che io avevo esaminato con uno scanner, risultavano privi di microspie. Ma non poteva essere questo. Comunque li ho spediti all’ammiraglio Naismith, per farli analizzare. Alla fine mi sono ricordata che vicino al Riciclaggio ci sono le vasche per la crescita delle sostanze proteiche. Credo che Okita avesse una microtrasmittente di qualche genere impiantata nel corpo; alcuni governi hanno questa procedura standard con chi passa attraverso le prigioni, per poter localizzare un individuo in ogni momento. Qualcuno rischierà di spaccarsi un dente sul suo petto di pollo, nei prossimi giorni. Spero che non sia un turista, altrimenti l’oggetto verrà consegnato al gestore del ristorante ed esaminato… con tanti saluti al nostro delitto perfetto. — Si alzò e aprì l’armadio. — Millisor non ha ancora tratto le deduzioni giuste, comunque; lui e gli altri due sono dei grandi divoratori di bistecche.

Ethan cominciava ad averne fin sopra i capelli della verdura e dei sandwich al formaggio vegetale. E di quella stanza, e della tensione, dell’indecisione e del senso d’impotenza. E soprattutto della comandante Quinn, e della sfacciataggine con cui gli dava ordini, come se lui fosse un povero sciocco incapace di agire…

— Io ho soltanto la sua parola sul fatto che le autorità della stazione non possono aiutarmi — sbottò all’improvviso. — Non sono stato io a sparare a Okita. Non ho fatto niente, io! Lo stesso Millisor non ha niente di personale contro di me… è lei che ha una sua guerra privata contro quella gente. Millisor non avrebbe mai pensato che io sono un agente di qualcuno, se Rau non avesse trovato la microspia che lei aveva messo in quel proiettore. È stata lei a trascinarmi in questa situazione sempre più profondamente, per usarmi nei suoi giochi di spionaggio.

— Guarda che Millisor ti sarebbe piombato addosso in ogni caso — gli fece notare Quinn.

— Sì, ma mi sarebbe bastato convincerlo che Athos non ha il materiale che lui sta cercando. Un semplice interrogatorio col penta rapido gli sarebbe bastato, se lei non si fosse intromessa destando i suoi sospetti. All’inferno, sarei disposto ad andare da lui per invitarlo a perquisire i nostri centri di riproduzione se è questo che vuole, e così si persuaderebbe che Athos non ha niente a che fare con le manovre dei suoi avversari e ci lascerebbe in pace.

Lei inarcò un sopracciglio, vezzo che Ethan trovava sempre più irritante. — Credi davvero che potresti arrivare a un accordo con lui? Personalmente, preferirei far visitare casa mia da un branco di cani affamati.

— Se non altro lui è un uomo — sbottò Ethan.

Lei scoppiò a ridere. I sentimenti accesi di Ethan arrivarono al punto di ebollizione. — Per quanto tempo pretende di tenermi isolato qui dentro, si può sapere? — le domandò ancora.

La mercenaria lo fissò per qualche istante. Il suo sorriso si dileguò. Strinse le palpebre. — La porta di questa stanza non è chiusa a chiave — gli disse con voce calma. — Puoi andartene quando vuoi. A tuo rischio, naturalmente. Se farai una brutta fine mi dispiacerà, tuttavia io potrò cavarmela anche senza di te.

Lui rallentò il suo frenetico andirivieni. — Lei sta bluffando. Non ha nessuna intenzione di lasciarmi andare. Ormai io so troppe cose.

Quinn rimise nell’armadio la camicia che stava tirando fuori e si passò una mano sulla mandibola. Nello sguardo con cui lo esaminò non c’era alcuna espressione, come se stesse calcolando a occhio il suo peso e le conseguenze che ci sarebbero state immettendo una biomassa extra nei sistemi di riciclaggio della stazione. Quando parlò, la sua voce era fredda e ostile come quella di F. Helda. — Io direi invece che tu non sai niente, egregio. Neppure di te stesso.

— Lei non vuole che io parli di Okita alle autorità della stazione, è così? Questo metterebbe a repentaglio il suo prezioso collo, anche se ad accusarla di omicidio sarebbe la sua stessa gente…

— Non credo che il mio collo sia in pericolo. Ovviamente la polizia non potrà ignorare ciò che ho fatto con quel cadavere… sempre che tu possa dimostrargli che sono stata io a uccidere Okita e che tu esca senza conseguenze da un processo per omicidio, cosa che dubito, dal momento che ci sono testimoni pronti a giurare che sei stato mio complice nell’eliminazione del cadavere.

— E allora? Cosa potrebbero fare, scacciarmi da Stazione Kline? Questa non sarebbe una punizione, sarebbe un premio!

Nelle pupille di lei, fra le palpebre strette, ci fu una luce sprezzante. — Se uscirai da questa stanza, athosiano, non aspettarti di avere da me altro aiuto e comprensione. Io non ho tempo per i chiacchieroni che non hanno il fegato di fare le cose fino in fondo.

Ethan capì che per lei questo era un insulto rovente. Decise di prenderlo come tale. — E io non ho tempo da perdere con una presuntuosa, intrigante, insopportabile… femmina! — esclamò.

Lei gli mostrò la porta con un gesto di sfida, stringendo le labbra. Ethan capì di aver avuto lui l’ultima parola. Aveva in tasca la sua carta di credito, le scarpe ai piedi, i vestiti addosso. Con una smorfia irosa raggiunse la porta, a testa alta. Nella schiena gli corse un brivido d’attesa per il raggio di uno storditore o qualcosa di peggio. Non ci fu niente.

C’era un gran silenzio nei corridoi, dopo che la porta si fu chiusa alle sue spalle con un sussurro d’aria compressa. Avere l’ultima parola, si chiese, era proprio ciò che voleva? E tuttavia… sì, preferiva affrontare Millisor, Rau, e lo spettro di Okita insieme a loro piuttosto che tornare a testa bassa nella sua prigione e chiedere scusa a Quinn.

Determinazione. Decisione. Azione. Questo era l’unico modo per risolvere i problemi. Non voltar loro le spalle e nascondersi. La cosa giusta era uscire da lì e affrontare Millisor faccia a faccia. A passi lunghi si avviò verso le scale.

Quando attraversò l’atrio del piccolo albergo e uscì in strada, dopo un cenno di saluto all’impiegata al banco, stava camminando con andatura normale ed aveva già revisionato la sua precedente linea di condotta a favore di una più prudenziale: avrebbe chiamato Millisor da un video telefono pubblico, per sondare la possibilità di un accordo e studiare le sue intenzioni prima di esporsi personalmente. Gli sarebbe convenuto essere astuto. Ad esempio, non era necessario tornare al suo albergo. Poteva benissimo abbandonare il suo piccolo bagaglio, acquistare un biglietto su una nave in partenza — per Colonia Beta? — ma solo all’ultimo momento, in modo da salire a bordo senza preavviso, e così si sarebbe lasciato alle spalle quella pericolosa banda di agenti segreti e di assassini. Prima che lui facesse ritorno a Stazione Kline, da lì a qualche mese, loro sarebbero andati a darsi la caccia a vicenda all’altro capo della galassia.

Scese di un paio di livelli rispetto all’albergo di Quinn ed entrò in una cabina di comunicazione pubblica. La sua carta di credito fu accettata senza difficoltà.

Pronunci il numero a voce, prego, lo invitò la scritta olografica in lettere verdi che apparve a schermo.

— Vorrei mettermi in contatto con un turista, attualmente ospite di un albergo: il Ghem-colonnello Luyst Millisor — disse al computer. Ripeté il nome lettera per lettera. La sua voce, notò soddisfatto, non tremava minimamente.

La persona da lei richiesta non è nel registro delle presenze di Stazione Kline fu la risposta olografica, in lettere rosse.

— Ma cosa… è partito, allora? — Millisor se n’era andato, e la comandante Quinn l’aveva tenuto chiuso in camera per tutto quel tempo nascondendogli questa informazione. — Posso sapere se è salito su una nave in partenza, e per quale destinazione? Millisor, Luyst. Ethan sillabò di nuovo il nome.

La persona da lei richiesta non è nel registro dei viaggiatori partiti da Stazione Kline negli ultimi 12 mesi lo informò il computer.

— Mmh, uh… vorrei mettermi in contatto col capitano Rau. Erre-a-u. Non conosco il nome di battesimo.

La persona da lei richiesta non è nel registro…

— Allora Setti, anche lui un turista. Esse-e-ti-ti-i.

La persona da lei richiesta non è nel registro…

Per un momento Ethan ebbe l’impulso assurdo di chiedere se almeno Okita era conosciuto. Ritirò la carta e si alzò, senza saper cosa fare. Poi finalmente capì: Luyst Millisor non era il nome che il cetagandano aveva dato al suo arrivo. E tuttavia lì su Stazione Kline doveva pure usarne uno, se voleva che la sua carta di credito funzionasse. Sfortunatamente lui non aveva il minimo indizio di quale poteva essere. Vicolo cieco.

Cercando di radunare le idee uscì, e si avviò sul marciapiede del largo corridoio. Avrebbe potuto tornare al suo albergo, supponeva, e lasciare che fosse Millisor a trovare lui. Ma se poi avesse avuto una possibilità di accordarsi, o comunque di scambiare due parole da persone civili, senza che i compagni di Okita volessero vendicare la sua morte, questo era tutto da vedere.

La vista dei passanti, fra cui numerosi turisti dall’eleganza spesso bizzarra, non lo distraeva molto dalla sua concentrazione. Ma due facce che stavano venendo verso di lui ci riuscirono. Si trattava di una coppia di uomini di corporatura robusta, vestiti di grigio, il cui volto era ricoperto di disegni scintillanti che celavano ogni millimetro di pelle. Quello di sinistra era basato sul rosso, con un complicato arabesco di sottili striature arancione, nere e verdi, nelle quali c’era evidentemente un significato. L’altro era di prevalenza azzurro, con ghirigori bianchi e neri che delineavano gli occhi, il naso e la bocca. I due erano profondamente assorti in conversazione e non guardavano nessuno. Ethan si spostò sull’interno del marciapiede e li osservò, affascinato e divertito.

Fu solo quando i due furono praticamente alla sua altezza, sul punto di passare oltre, che lo sguardo di Ethan riuscì a distinguere i loro lineamenti sotto quei disegni colorati. D’un tratto ricordò che sapeva, dalle sue recenti letture, cosa significava quel complicato makeup. Erano maschere di rango usate dai ghem-lord cetagandani.

Nello stesso momento il capitano Rau si girò, e i suoi occhi incontrarono quelli di Ethan. La bocca dell’uomo, nella sua maschera azzurra, si aprì in un’imprecazione stupefatta, e subito la sua mano destra scattò ad afferrare qualcosa nell’interno della giacca, sotto l’ascella. Ethan, dopo un momento di confusione e di paralisi, corse via più svelto che poté.

Dietro di lui crepitò una scarica d’energia. Il lampo dell’arma — per Dio il Padre, un distruttore neuronico! — fiammeggiò sopra la sua testa. Ethan si girò a guardare, sbandando. Rau aveva sbagliato la mira soltanto perché Millisor gli aveva fatto alzare quell’arma micidiale colpendogli un braccio. I due persero qualche secondo gridandosi qualcosa a vicenda, ma subito dopo cominciarono a inseguirlo. Ora Ethan ricordava più chiaramente quanto spietati e amorali sapevano essere quei cetagandani.

Senza esitare si tuffò a testa in avanti dentro il tubo di un ascensore antigravità, e mentre il languido campo d’energia lo sollevava lui accelerò la salita nuotando freneticamente come un salmone in una cascata, aiutato in questo dai pioli della scaletta d’emergenza. I passeggeri che urtò in quella sua energica ascesa protestarono e lo insultarono, indignati.

Balzò fuori al piano di sopra, corse a destra e a sinistra, si gettò in un secondo pozzo antigravità, e poi in un terzo e in altri ancora, continuando a guardarsi indietro in preda al terrore. Fuggì attraverso l’interno di un grande magazzino pieno di clienti, poi in una zona di lavori in corso del tutto deserta — VIETATO L’INGRESSO AI NON ADDETTI AI LAVORI — svoltò, salì, scese e cambiò ancora direzione. D’un tratto si rese conto d’essere lontano dalla Passeggiata dei Viaggiatori, perché le porte a cui passava davanti, che nel ghetto dei turisti avevano scritte e proibizioni in più lingue, lì erano quasi tutte anonime.

Alla fine barcollò dentro una specie di stanza di sgombero piena di utensili da lavoro, si gettò a sedere al suolo e giacque lì senza fiato. Gli sembrava di aver perso i suoi inseguitori. In quanto a lui, che si fosse perso era sicuro.

CAPITOLO SETTIMO

Amareggiato e confuso, restò seduto su un mucchio di stracci per più di un’ora dopo che il cuore ebbe smesso di pulsargli nelle tempie e il suo respiro ansante si fu placato. Dunque nascondersi e sfuggire i problemi non era il modo di risolverli? E qualsiasi iniziativa era meglio che marcire nella camera-cella d’albergo agli ordini di quella femmina mercenaria? Cupamente Ethan meditò su quant’era facile per un uomo riesaminare la sua posizione morale dopo aver sentito crepitare sulla testa l’infernale scarica di un distruttore neuronico. Girò lo sguardo nella penombra dello sgabuzzino in cui s’era rifugiato. Se non altro la prigione di Quinn aveva un bagno.

Ora non gli restava altro che rivolgersi alle autorità della stazione. Rimettersi in contatto con Quinn era da escludersi, questo la mercenaria l’aveva chiarito senza equivoci, ed era inutile che lui s’illudesse ancora di poter fare una pace separata con quei pazzoidi cetagandani. Ethan batté leggermente la nuca sulla parete metallica alcune volte, per sottolineare quei pensieri e rafforzare la fiducia nelle sue capacità; poi si alzò dal mucchio di stracci e guardò se in quello sgabuzzino c’era qualcosa di utile.

Un armadietto pieno di tute da lavoro gli ricordò improvvisamente che i suoi abiti lo etichettavano come uno straniero, ma a quel pensiero ne seguì un altro assai più allarmante: possibile che Quinn gli avesse piazzato addosso una microspia? Non sarebbe stata la prima volta, e le opportunità non le erano certo mancate. Si spogliò completamente e sostituì gli indumenti athosiani con una tuta rossa e un paio di stivali appena un po’ larghi per lui. Erano di una gomma dura che gli irritava la pelle dei piedi, ma non osò tenere neanche i calzini. Quel travestimento gli sarebbe servito solo per il tempo di sgattaiolare — prima individuare, e poi sgattaiolare — fino al più vicino posto di polizia della stazione. Non era un furto. Alla prima opportunità avrebbe restituito la tuta e gli stivali.

Scivolò fuori dal piccolo locale — dopo aver memorizzato il numero della porta per esser certo di ritrovare i suoi abiti, più tardi — e svoltò a sinistra in un corridoio deserto cercando d’imitare l’andatura ferma e tranquilla di un operaio della stazione diretto al lavoro. Oltrepassò due donne in tuta azzurra che si portavano dietro un carrello antigravità, e che sembravano avere troppa fretta per far caso a lui. Ethan non ebbe il coraggio di fermarle e chiedere loro la strada. Nei suoi abiti da turista avrebbe potuto farlo, ma un operaio kliniano avrebbe dovuto sapere dov’era la stazione di polizia. La sua domanda le avrebbe insospettite ancor più del suo accento.

Si stava chiedendo se era davvero saggio sentirsi tranquillo, in base all’assunzione che se lui non sapeva dov’era non lo sapevano neanche i suoi nemici, quando un grido e un tonfo seguiti da altri rumori confusi gli fecero alzare lo sguardo. Poco più avanti, a un incrocio, due carrelli antigravità s’erano scontrati con violenza. Ci furono grida e imprecazioni e qualcuno fece un goffo tentativo di afferrare il carico, ma la pila di fragili cassette che era su uno dei veicoli si rovesciò al suolo. Nel corridoio echeggiò un ciangottio assordante; palle di piume gialle esplosero nell’aria da uno dei contenitori fracassati e saettarono qua e là, rimbalzando sulle pareti.

Una donna cominciò a gridare: — La gravità! Aumenta la gravità! — Ethan riconobbe la voce, con un sussulto. Era quella robusta sorvegliante ecologica in tuta verde e azzurra, Helda qualcosa, dell’Ufficio Riciclaggio. Stava indicando verso la parete accanto a lui, rossa in faccia per l’indignazione. — La Gravità! Svegliati, razza di idiota, non vedi che stanno scappando? — lo accusò l’indisponente femmina. Si tirò fuori dal mucchio delle cassette rovesciate e barcollò verso di lui, ansando.

Mentre Ethan lottava con la coscienza per decidere se aveva il dovere etico di rinunciare al travestimento e prestare la sua assistenza di medico — le altre tre persone coinvolte nell’incidente erano ancora sedute al suolo e si lamentavano a gran voce, benché sembrassero in grado di alzarsi — Helda lo fece spostare dalla parete, spalancò un pannello e girò un interruttore a manopola. Gli spaventatissimi uccelli canori squittirono ancor più forte quando il loro sbatter d’ali cominciò a essere inutile, mentre la gravità li risucchiava al suolo. Ethan si sentì piegare di colpo le ginocchia quando il suo peso corporeo raddoppiò, e si ritrovò ad annaspare abbracciato alla sorvegliante ecologica, entrambi impegnati a non cadere dolorosamente sul marciapiede.

— Oh, Dio, ancora tu! — sbottò Helda. — Avrei dovuto immaginarlo. Che stai facendo qui? Sei di servizio?

— No — gracidò Ethan.

— Bene. Allora puoi aiutarmi a recuperare questi dannati volatili, prima che spargano il virus della toxoplasmidosi in tutta la stazione. Muoviti!

Ethan conosceva già la toxoplasmidosi. una malattia sub-virale poco contagiosa che attaccava l’RNA, e volonterosamente tenne dietro alla femmina, sulle mani e sulle ginocchia, alla cattura dei dieci o dodici isterici uccelli ora inchiodati al suolo dal loro peso. Solo quando l’ultimo di essi fu ricacciato nella cassetta e il coperchio aggiustato con la cintura di Helda, la sorvegliante ecologica si decise a prendere atto dei gemiti delle vittime umane dello scontro, ora distese al suolo e per nulla soddisfatte dell’espediente col quale lei aveva risolto la situazione. Quando la femmina ebbe riportato le piastre gravitazionali del pavimento di quella sezione allo 0,8 G standard, Ethan si sentì d’un tratto così leggero che avrebbe potuto volare, per il sollievo.

Una delle vittime era un uomo con l’uniforme verde-pino e azzurro-cielo come quella di Helda. Aveva sulla fronte un taglio da cui gli ruscellava sangue su tutta la faccia. Ethan lo diagnosticò a colpo d’occhio vistoso ma superficiale. Un paio di minuti di pressione sui vasi sanguigni intorno alla ferita — non ad opera delle sue mani; lui aveva toccato gli uccelli — avrebbe fermato la perdita di sangue senza problemi. Gli altri due pallidi adolescenti arrivati a bordo dell’altro carrello, uno maschio e l’altra femmina — l’occhio ormai esperto di Ethan l’aveva immediatamente identificata come tale — vacillarono in piedi e guardarono con orrore la faccia del ferito, evidentemente convinti di averlo ammazzato.

Ethan, stringendo le mani a pugno per ricordare a se stesso che non doveva toccare niente, mise nella sua voce una brusca autorità da adulto e istruì il ragazzo su come improvvisare un tampone e medicare la ferita. La femmina stava piagnucolando di avere un polso fratturato ma, visto come lo muoveva, Ethan avrebbe scommesso tutti i suoi dollari betani che l’articolazione era intatta. Nel frattempo Helda, tenendo le mani a pugno come lui, era andata ad aprire con un gomito un pannello trasparente della parete e stava convocando i soccorsi. Il primo pensiero della sorvegliante ecologica fu per una squadra di decontaminazione del suo dipartimento, il secondo per la Sicurezza della Stazione, e da ultimo ma senza molta convinzione si decise a chiamare anche un meditec per i feriti.

Sollevato, Ethan rifletté che non tutto il male veniva per nuocere. Invece di dover vagare chissà per quanto tempo in cerca della Sicurezza della Stazione, questa stava per venire da lui. Avrebbe potuto affidarsi alle loro mani e lasciare che fossero le autorità a occuparsi di tutti i suoi problemi.

Ad arrivare per prima fu la squadra di decontaminazione. I portelli stagni del settore furono chiusi, e gli addetti cominciarono a ripassare le pareti, il soffitto e la pavimentazione con aspiratori sonici, sterilizzatori a raggi X e potenti disinfettanti.

— Descrivi tu l’incidente alla Sicurezza, Teki — ordinò Helda al suo assistente, mentre entrava nella vettura antigravità sigillata che la squadra di decontaminazione aveva portato con sé. — E accertati che questi giovani malandrini abbiano una bella multa salata.

I due adolescenti assunsero un’espressione costernata, non molto rassicurati dal segreto cenno di complicità con cui Teki cercò di rassicurarli.

— Allora cosa aspetti? Andiamo — disse Helda a Ethan.

— Eh? Mmh… — Grugniti e monosillabi potevano mascherare il suo accento, ma non consentivano di domandare informazioni. Ethan azzardò un: — Andiamo dove?

— In quarantena, naturalmente.

In quarantena? E per quanto? Quelle parole dovevano essergli sfuggite di bocca involontariamente, perché l’uomo della decontaminazione che gli era venuto accanto per farlo entrare nel carrello rispose, placando le sue preoccupazioni:

— Ti daremo soltanto un colpetto e una ripulita da capo a piedi. Se hai un impegno urgente potrai telefonare di là. Noi confermeremo che il ritardo non è colpa tua.

Ethan fu sul punto d’informare il tecnico che lui era uno straniero nei guai, ma la pressione della sua mano gli fece capire che le misure di quarantena avrebbero avuto comunque la precedenza sulle sue necessità personali. Si lasciò spingere dentro la vettura a bolla, e sedette di fronte alla sorvegliante ecologica dipingendosi un sorrisetto inespressivo sulla faccia.

Lo sportello fu chiuso e sigillato, isolando l’interno dai rumori del corridoio, e la vettura a bolla fluttuò via. Mentre Ethan guardava fuori attraverso l’abitacolo trasparente, seccato di aver dovuto andarsene in quel modo, sopraggiunsero due veicoli della Sicurezza con a bordo gli agenti in uniforme nera e arancione. Se anche avesse gridato loro che voleva essere interrogato, dubitava che avrebbero potuto sentirlo.

— Non toccarti la faccia — gli raccomandò Helda distrattamente, voltandosi a dare un ultimo sguardo alla scena dell’incidente. Tutto sembrava ormai sotto controllo; la squadra di decontaminazione si stava occupando dei carrelli e delle cassette di volatili, e i portelli stagni di quel settore erano stati riaperti.

Ethan le mostrò i suoi pugni chiusi perché capisse che sapeva già cosa fare.

— Sembra che tu sappia cosa fare, se c’è pericolo di contaminazione — gli concesse Helda scontrosamente, girandosi di nuovo verso di lui. Si appoggiò allo schienale — Per un momento avrei detto che eri diventato sordo dall’ultima volta che ti ho visto, o che Moli e Portelli avevano assunto un handicappato di troppo.

Ethan scrollò le spalle. Nella vettura cadde il silenzio. Il silenzio si prolungò. Lui si schiarì la gola. — Di che si trattava? — domandò, con un cenno del capo all’indietro verso la zona dell’incidente.

— Un paio di ragazzi stupidi che giocavano a guerre stellari con un carrello antigravità. I loro genitori mi sentiranno. Se uno vuole il brivido della velocità, prende una vettura e si cerca un settore deserto, I carrelli da carico servono per lavoro. O stavi parlando degli uccelli?

— Gli uccelli.

— Un carico condannato. Avresti dovuto sentire le urla del comandante di quel mercantile, quando glieli abbiamo sequestrati. Come se lui avesse il diritto di spargere epidemie in tutta la galassia. Ma avrebbe potuto capitare di peggio. — La femmina sospirò. — Avrebbe potuto trattarsi di mucche.

— Mucche? — mormorò Ethan.

Lei sbuffò. — Un’intera dannata mandria di mucche vive, dirette su un pianeta del Sesto Quadrante per l’allevamento e la riproduzione. Piene di germi patogeni dalle corna alla coda. Sono stata costretta a tagliarle a pezzi per farle passare nello sportello del degradatore. Il lavoro più sporco e faticoso che tu abbia mai visto. Le abbiamo ridotte in atomi, comunque, su questo puoi scommetterci. Subito i proprietari hanno fatto causa alla stazione, per danni. — Nei suoi occhi ci fu un lampo. — E hanno perso. — Dopo un momento aggiunse: — Odio il sudiciume e i germi.

Ethan annuì ancora, sperando di apparirle ragionevole e comprensivo. Quella femmina robusta e dall’aria minacciosa era l’ultima persona della stazione di cui avrebbe desiderato la compagnia, a parte Millisor e Rau. Con una persona simile all’Ufficio Riciclaggio, c’era da temere che perfino gli esseri umani ammalati, scoperti a bordo di navi in transito, fossero resi innocui per i loro simili con sistemi altrettanto spicci.

— Allora, che state facendo voi dei Moli e Portelli? L’avete poi ripulita quella porcheria al Molo 13? — gli domandò d’un tratto Helda.

— Ah, be’… — Ethan si schiarì la gola.

Lei corrugò le sopracciglia. — Che ti succede? Hai il raffreddore?

Ethan non avrebbe osato ammettere che le sue mucose ospitavano un virus. — Ho un po’ di abbassamento di voce. Mal di gola — bofonchiò.

— Ah. — La femmina si appoggiò allo schienale con aria delusa. Poi. visto che ora il peso della conversazione ricadeva tutto sulle sue spalle, si guardò attorno in cerca di qualche argomento. — Bah. Quello sì che è uno spettacolo disgustoso — disse, indicando il marciapiede con un pollice. Ethan guardò fuori ma non vide niente, a parte un paio di kliniani di passaggio. — Viene da chiedersi con che coraggio i suoi la lascino uscire di casa.

— Chi? — balbettò Ethan, colto del tutto di sorpresa.

— Quella ragazza. La cicciona.

Lui si girò a guardare indietro. L’obesità della femmina in oggetto era così minima che lui l’avrebbe a stento diagnosticata tale, e non faceva che aggiungere qualche cuscinetto in più alle sue naturali sporgenze fisiche.

— Può darsi che sia un carattere genetico non modificabile nel solito modo — suggerì in tono mite.

— Ha. Questa è soltanto una patetica scusa per la mancanza di autodisciplina. Probabilmente quella svergognata si alza la notte per rimpinzarsi di costose leccornie importate dall’esterno. — Helda scosse il capo. — Ripugnanti porcherie straniere. Non si sa neanche dove le fabbrichino. Io, invece, mangio soltanto verdure prodotte dalle nostre buone vasche idroponiche, ed evito quelle carni ad alto contenuto proteico, troppo grasse, il cui impatto sul colesterolo è micidiale… — E proseguì in una verbosa dissertazione sui saggi metodi con cui teneva sotto controllo i suoi processi digestivi, finché l’auto a bolla giunse a destinazione e si fermò.

Ethan attese che Helda fosse uscita prima di sganciare la cintura di sicurezza. Poi scivolò giù dal sedile e cautamente mise fuori la testa.

L’aria del settore d’isolamento per le malattie infettive aveva un odore di laboratorio che lo riempì di nostalgia per il centro di riproduzione di Sevarin. Deglutì saliva; il pensiero d’essere così lontano da casa sua gli aveva fatto venire un groppo in gola.

— Da questa parte, egregio. — Un tecnico ecologico in tuta sterile gli accennò di precederlo. Altri due tecnici stavano già ripassando l’auto a bolla con gli sterilizzatori a raggi X. Dal parcheggio delle vetture Ethan fu indirizzato in fondo al corridoio, a una specie di spogliatoio, mentre il tecnico lo seguiva sterilizzando le invisibili impronte delle sue scarpe con un aspiratore sonico.

Mentre Ethan si spogliava, il tecnico lo obbligò a leggere una targa con le istruzioni per la doccia di decontaminazione, quindi infilò i suoi stivali e la rossa tuta da operaio in uno scomparto di vetro per il lavaggio sterilizzante, mugolando: — Niente biancheria intima? Che razza di gente!

Il documenti di Ethan e la sua carta di credito erano in una tasca della tuta, e nel vederla inondata da getti di liquido gli sfuggì un’imprecazione lamentosa. Ma ormai era inutile protestare. Si fece la doccia per i dieci minuti prescritti, si asciugò, sternuti più volte a causa del sapone disinfettante che gli aveva irritato le mucose, e infine uscì nello spogliatoio e attese, nudo come un verme, per quello che gli parve un tempo interminabile. Stava meditando sulla possibilità di spaccare a calci lo scomparto di lavaggio, che non voleva saperne di aprirsi per restituirgli le sue cose, e di andarsene insalutato ospite, quando il tecnico in tuta bianca fece ritorno.

Lo scomparto giunse al termine del suo ciclo e si aprì. Il tecnico mise la tuta rossa ancora umida e le scarpe su una panca, tirò fuori un hypospray e quando gli ebbe fatto l’iniezione nel braccio disse: — Puoi proseguire. Seconda a destra. Prima di andartene fermati alla Registrazione. È dall’altra parte. — Gli volse le spalle e sparì nel locale attiguo.

Ethan frugò nella tuta. Il suo portafoglio era ancora lì, asciutto e intatto. Sospirò di sollievo, si rivestì, raddrizzò le spalle per trovare il coraggio di fare una piena confessione a chi aveva ora l’incarico di registrarlo, e seguendo la poco decifrabile indicazione del tecnico uscì dalla parte opposta a quella a cui era entrato.

Stava pensando d’essersi perduto in qualche altro posto "vietato ai non addetti" quando vide una porta aperta, e un locale dove dietro un banco c’era un impiegato che si occupava di numerosi terminali e altre attrezzature interfacciale coi computer della stazione. In quel momento il giovanotto che era stato sul carrello dei volatili gialli, Teki, un po’ pallido e con un vistoso bendaggio di plastica bianca sulla fronte, lo raggiunse a passi svelti e arrivò alla porta insieme a lui. Sulla soglia si fermò con un sorrisetto esitante, e accennò a Ethan di entrare per primo. La corpulenta Helda era già lì, in piedi davanti al bancone, con le braccia conserte e l’aria impaziente.

L’accidiosa femmina gratificò Teki di uno sguardo freddo. — Era l’ora che ti staccassi da quel telefono. Credevo che tu avessi detto alla tua amichetta dai capelli ritinti di non chiamarti durante l’orario di lavoro.

— Non era Sara — rispose Teki, pazientemente. — Era una mia parente, e per questioni di lavoro. — Poi, per dirigere altrove l’attenzione di Helda, le indicò Ethan. — Ecco qua il nostro aiutante.

Ethan era rimasto indietro, ma visto che lo stavano guardando si avvicinò di malavoglia al bancone dell’impiegato. Si chiedeva da dove avrebbe dovuto cominciare, per rendere logica e accettabile la sua storia. Avrebbe voluto che Helda non fosse lì ad ascoltare.

— Uh, bene — disse l’impiegato in tuta verde e azzurra che si occupava delle registrazioni. — Mi fornisca la tessera assicurativa, prego. — E tese una mano verso Ethan.

Voleva un qualche genere di documento usato dai lavoratori della stazione, suppose lui. Trasse un profondo respiro, si fece coraggio, guardò la sorvegliante ecologica che lo scrutava accigliata, e lasciò perdere la confessione in favore di un: — Ehm, uh… in questo momento non ce l’ho qui…

L’espressione di Helda si fece ancor più disgustata. — Dovresti portarla sempre con te sul lavoro, tuta rossa. Come ti chiami?

— Ma ora sono fuori servizio — si difese Ethan disperatamente. — L’ho lasciata nell’altra tuta. — Se fosse riuscito a lasciarsi alle spalle quella terribile femmina, sarebbe andato dritto dalla Sicurezza della Stazione…

Helda agitò severamente un dito verso di lui.

Teki intervenne prima che potesse aprir bocca: — Avanti, Helda, lascialo respirare. Dopotutto è qui perché ha voluto aiutarci con quei dannati uccelli, no? — Detto questo prese Ethan sottobraccio, rivolse un cenno d’intesa all’impiegato, il quale passò ad occuparsi d’altro con una scrollata di spalle, e lo condusse alla porta. — Puoi andare a prendere la tua tessera assicurativa e portarla qui più tardi, con comodo.

— Questa è una procedura irregolare — fece notare Helda dal banco, rivolta all’impiegato. Ma lui scosse il capo e accennò a Ethan che poteva andarsene.

— Non far caso a Helda — disse Teki mentre si separava da lui davanti alla camera degli sterilizzatori UV, l’ultimo locale a chiusura stagna all’uscita del reparto d’isolamento. — Non è sempre stata così insopportabile. Prima che suo figlio se ne andasse dalla stazione per emigrare fra i mangiafango di un pianeta, era più sopportabile… anche se non per lui. evidentemente. Non ti ha neanche ringraziato per il tuo aiuto, scommetto, eh?

Ethan scosse il capo.

— Be’, io ti ringrazio — disse Teki, toccandosi la fronte. La porta della camera degli sterilizzatori UV si richiuse sul suo sorriso.

— Arrivederci — mormorò Ethan. uscendo dell’altra parte. Si guardò attorno. Era in un corridoio della stazione, identico a migliaia d’altri. Si passò una mano sulla faccia, chiuse un attimo gli occhi per placare le sue sofferenze spirituali, poi fece un sospiro e s’incamminò in una direzione a caso.

Due ore dopo stava ancora camminando in una direzione a caso, con il dubbio frustrante d’essere già passato più volte negli stessi posti. Gli uffici della Sicurezza della Stazione, che sulla Passeggiata dei Viaggiatori erano frequenti quanto invisibili, nei settori abitati soltanto dai kliniani sembravano non esserci affatto; oppure da quelle parti usavano targhe meno universalmente comprensibili e lui li stava oltrepassando senza accorgersene. Quando un’altra vescica gli si formò sui piedi, irritati dalla gomma di quegli stivali, Ethan imprecò sottovoce e proseguì zoppicando.

Ciò che vide guardandosi attorno all’incrocio successivo gli risollevò il morale. Su quelle porte le targhe avevano di nuovo scritte in più lingue, solide serrature a combinazione e gli avvertimenti di "vietato l’ingresso" dedicati ai turisti. Si avviò da quella parte. Un altro incrocio, un altro portello stagno, e si trovò in una strada assai frequentata. Non distante da lì, accanto a una fontana, c’era una mappa stradale di quei settori.

— Dunque… tu sei qui — mormorò, seguendo l’olovideo con un dito. Luci colorate gli bagnarono il polpastrello. Il più vicino posto della Sicurezza era a cinquanta metri da lì. Ethan si girò a raffrontare la mappa con l’aspetto di quella strada. Il suo albergo si trovava al livello inferiore. L’albergo di Elli Quinn era due livelli più in alto, poco più lontano. Ansiosamente si domandò dove fosse quello in cui i due cetagandani l’avevano interrogato. Non molto distante, poteva starne certo. Pregò Dio il Padre di salvarlo dagli incontri indesiderati e s’avviò sul marciapiede, guardandosi attorno in cerca di uomini dalla faccia dipinta o femmine brune in uniforme grigia e bianca.

SICUREZZA — STAZIONE KLINE diceva l’insegna luminosa sopra il chiosco circolare dalle pareti di vetro, attraversato verticalmente da un pozzo antigravità. Ethan salì sulla terrazza soprelevata su cui sorgeva, entrò nel chiosco e si accorse che dall’interno si aveva una visuale completa della strada. Computer e consolle di comunicazione riempivano il piccolo locale. Un agente della Sicurezza sedeva coi piedi sulla scrivania davanti ai monitor, e mangiucchiava qualcosa da una confezione sorvegliando con sguardo pigro il traffico di auto a bolla e di pedoni.

Una femmina della Sicurezza, si corresse Ethan con un gemito interiore. Giovane, scura di capelli, con indosso quell’uniforme quasi-militare arancione e nera aveva una generica somiglianza con la comandante Quinn.

Ethan si schiarì la gola. — Ehm, uh… mi scusi, lei è di servizio?

L’agente femmina sorrise. — Ahimè, sì. Da quando mi infilo questa uniforme ed esco di casa per iniziare il mio turno, sono al servizio del pubblico. Quando smonto, però, e per sua informazione ciò accade alle 24.00, sono soltanto al servizio di me stessa — aggiunse in tono incoraggiante. — Conosco un posto dove fanno ottime polpettine di tritone. Le piacciono?

— Uh, no… grazie — rispose Ethan. Le restituì un sorriso nervoso, incerto. Quello di lei si fece abbagliante. Lui riesumò la domanda che s’era preparato. — Lei ha saputo qualcosa di un tizio che ha sparato con un distruttore neuronico, questa mattina, in una strada della Passeggiata dei Viaggiatori?

— Dio, sì. Ne stanno parlando anche giù ai Moli e Portelli?

— Be’… — Ethan ricordò di avere una tuta rossa; questo stava generando qualche altro malinteso imprevisto. — Senta, io non sono un cittadino di Stazione Kline.

— Questo l’avevo capito dal suo accento — annuì cordialmente lei. Mise giù i piedi dalla scrivania e vi poggiò un gomito, sostenendosi il mento con la mano. Lo guardò con espressione comprensiva. — È dura emigrare dal pianeta natale per andare a lavorare qua e là per la galassia, eh? Oppure lei è stato abbandonato qui da qualche nave?

— Uh… né l’una né l’altra cosa. — Visto che lei continuava a sorridere, Ethan fece altrettanto. Quel comportamento così gravido di contatto personale faceva parte del rituale di comunicazione fra i sessi? Né Quinn né la sorvegliante ecologica Helda avevano usato segnali facciali tanto intensi, ma Quinn aveva ammesso di essere atipica, e la sorvegliante ecologica sembrava non appartenere all’ambiente ecologico della razza umana.

La bocca stava cominciando a fargli male. — Senta, circa quella sparatoria…

— Ah. Lei ha parlato con qualcuno che ha assistito al fatto? — Un po’ dell’atteggiamento intimo della femmina si dissolse, e sedette in posizione meno rilassata. — Stiamo cercando dei testimoni.

Ethan decise d’essere prudente. — Ah… e perché?

— Per precisare l’imputazione nei confronti dello sparatore, l’uomo che abbiamo arrestato. Naturalmente costui afferma che è stato un incidente, un colpo partito per caso mentre mostrava l’arma a un suo amico. Ma l’informatore che ha telefonato per segnalarci il fatto ha dichiarato che costui stava prendendo di mira un uomo, il quale è fuggito illeso. L’informatore però non si è più sentito, e i cosiddetti testimoni oculari che si trovavano nelle vicinanze sono i soliti chiacchieroni: tutti con qualcosa di drammatico da raccontare, però quando si viene al sodo finiscono per ammettere che in quel momento stavano guardando da un’altra parte, o non erano ancora usciti da questo o quel locale, e insomma non ce n’è uno che sappia dire dove puntava quel dannato distruttore neuronico. — Fece un sospiro. — Ora, se dimostrassimo che l’individuo ha sparato a qualcuno, potremmo condannarlo e farlo deportare. Ma se è stato solo un incidente, tutto quello che possiamo fare è sequestrargli l’arma illegale, appioppargli una forte multa e lasciarlo andare. E questo dovremo farlo entro le prossime dodici ore, se l’accusa di tentato omicidio non potrà essere elevata nei suoi confronti.

Rau arrestato dalla Sicurezza? Il sorriso di Ethan si allargò. — E quel suo amico?

— Se venisse fuori qualcosa potrebbe essere accusato di complicità, ovviamente. Tuttavia non aveva armi addosso al momento del nostro intervento, cosicché a suo carico non c’è nulla.

Millisor dunque era a piede libero, se lui aveva interpretato bene le parole dell’agente femmina. Il sorriso di Ethan si spense. E così anche quel Setti, che lui non aveva mai visto e che non avrebbe potuto riconoscere neppure sbattendogli addosso. Si schiarì la gola.

— Io mi chiamo Urquhart.

— Io Lara — rispose l’agente della Sicurezza.

— Bel nome — disse automaticamente Ethan. — Però…

— Era il nome di mia nonna — gli confidò lei. — Io credo che restare legati ai nomi di famiglia dia il senso della continuità, non le sembra? A meno che uno non abbia la sfortuna di innamorarsi di una che ha una madre di nome Steirilla, com’è successo anni fa a un mio amico. Quando hanno avuto una bambina lui ha deciso di chiamarla Illa.

— Ecco… non era esattamente questo che stavo dicendo.

Lei inclinò la testa. — E cosa?

— Mi scusi, ma non capisco.

— Voglio dire: cos’è che stava dicendo, allora?

— Ehm…

— … quhart — finì lei. Agitò una mano. — Non è poi un brutto nome, Emquhart. Ne ho sentiti di peggio. Non credo che lei dovrebbe farsi venire un complesso. Oppure quand’era bambino la prendevano in giro per questo?

Lui restò a guardarla a bocca aperta, con la testa completamente vuota. Ma prima che il percorso della conversazione potesse diventare ancor più contorto, un’altra agente della Sicurezza, anch’essa femmina ma alquanto più anziana di lei, arrivò giù con l’ascensore antigravità che collegava il chiosco ai livelli superiori e inferiori. Emerse dal pozzo con andatura rapida e autoritaria.

— Guarda di non socializzare troppo sul lavoro, caporale… non è la prima volta che mi costringi a dirtelo — brontolò, passandole accanto per andare ad aprire un armadietto. — Mettiti il cinturone, abbiamo una chiamata.

L’agente giovane indirizzò smorfie buffe alla schiena della collega, e sussurrò a Ethan: — Alle 24.00, allora, d’accordo? — Si alzò in piedi, poi assunse un atteggiamento più professionale quando l’altra tirò fuori dall’armadietto due cinturoni a cui erano appese grosse fondine. — È una cosa seria, signora?

— Dobbiamo unirci a una caccia all’uomo, in corso al Livello C7 e C8. Un prigioniero è scomparso dal Reparto Detenzione.

— È evaso?

— Non mi è stato detto "evaso". Mi è stato detto solo "scomparso" — L’agente anziana ebbe una smorfia acida. — Quando Echelon insiste con questa sua terminologia strana, la situazione mi piace poco. Il detenuto è quel mangiafango arrestato stamattina per possesso illegale di un distruttore neuronico. Io ho guardato quell’arma, e una cosa posso dirtela: è una pistola militare, ed è stata usata molto spesso. — Consegnò alla collega uno dei due grossi storditori, controllò la carica del suo e si allacciò il cinturone.

— Roba militare, dici? La cosa puzza, allora. — La caporale esaminò la sua uniforme allo specchio, si rassettò i capelli con cura e poi diede anche lei uno sguardo alla carica della sua pistola.

— Proprio così, e non poco. Scommetterei un mese di paga che lui e quell’altro tipo sono due agenti di qualche servizio militare, due spie, con tanto di documenti falsi.

— Dovrei averci fatto l’abitudine, ma non è così. Quei rompitasche impestano le stazioni spaziali peggio dei topi. Pensi che abbiano dei complici o siano soltanto in due?

— Spero che non siano un’intera banda. È gente imprevedibile, violenta, capace di tutto, che mette in pericolo la sicurezza di chiunque si trovi coinvolto nelle loro attività. E quando tu li arresti per aver infranto la legge, ecco che qualche ambasciata subito protesta e qualcuno paga uno stuolo di avvocati per tirarli fuori dai guai, mentre qualche altro mangiafango fa di tutto per confondere le prove a loro carico e chiudere la bocca ai testimoni… — L’agente più anziana fece segno a Ethan di uscire dalla porta. — Senta, lei, se non è una cosa urgente vada via e torni più tardi. Qui dobbiamo chiudere. — Si rivolse alla caporale: — Tu resta incollata a me, chiaro? Niente atti eroici.

— Sì, signora.

Pochi secondi dopo Ethan era di nuovo fuori, sulla balconata che circondava il chiosco, mentre le due agenti femmina si affrettavano via sul marciapiede. La bruna agente di nome Lara si girò a dargli un ultimo sguardo, vide il suo esitante cenno di saluto e sorrise gaiamente, agitando le dita di una mano verso di lui.

Tre corridoi e l’ascensore antigravità in fondo alla Passeggiata dei Viaggiatori. Su per due livelli. Alcune svolte in una zona poco frequentata fino all’albergo di Quinn. L’odore ormai familiare del corridoio, la porta in fondo a destra. Ethan si umettò nervosamente le labbra e bussò.

Nessuna risposta. Bussò ancora.

Si girò a guardare verso l’atrio, chiedendosi se…

La porta scivolò di lato con un soffio d’aria compressa. Il suo sollievo si spense alla vista del robot delle pulizie, che gli girò attorno con un ronzio indifferente e si allontanò. La stanza era pulita e vuota, anonima come se nessuno l’avesse mai occupata.

— Ma dove può essere andata? — domandò Ethan a voce alta, battendo un pugno sullo stipite per sfogare la frustrazione.

Con sua sorpresa, il robot delle pulizie si fermò. — Signore o signora, la prego di riformulare la sua richiesta — disse una voce, da una griglia della sua carrozzeria di plastica bianca.

Ethan si accostò al robot, ansiosamente. — La comandante Quinn… la persona che occupava questa camera, dov’è andata?

— Signore o signora, il cliente che occupava la camera a lei ora assegnata ha lasciato libera la camera suddetta alle ore undici zero-zero. Per ulteriori lamentele sullo stato della camera lei può rivolgersi a questa unità.

Alle undici del mattino? Doveva essere andata via pochi minuti dopo che lui era uscito, calcolò Ethan. — Oh, Dio il Padre…

— Signore o signora — lo interpellò educatamente il robot, la prego di riformulare la sua richiesta.

— Non stavo parlando con te — brontolò Ethan, passandosi una mano fra i capelli. All’improvviso si accorse di avere le lacrime agli occhi.

Il robot estruse un aspiratore sonico e ripulì qualche traccia di polvere lasciata dalle sue scarpe. — Signore o signora, ha altre lamentele da rivolgere a questa unità?

— No, no…

La macchina girò su se stessa e ronzò via lungo il corridoio.

Giù per due livelli, attraverso tre corridoi. Su per gli scalini della balconata. Le agenti della Sicurezza non erano ancora tornate. Il chiosco era chiuso e vuoto.

Ethan tornò accanto alla fontana, a cinquanta metri da lì. e attese. Stavolta avrebbe detto subito chi era alle autorità della stazione, senza tergiversare. Se Rau, sparandogli, aveva rivelato d’essere sul lato sbagliato della legalità, lui doveva di conseguenza essere sul lato giusto. Questo ragionamento sembrava logico. E in tal caso lui non doveva aver niente da temere dalla Sicurezza.

Tuttavia, se quella gente non era riuscita a trattenere Rau nel loro Reparto di Detenzione, quante probabilità avevano di ricatturarlo? Quell’individuo doveva essere esperto nel suo mestiere di spia, oltreché spietato e deciso a tutto. Ethan si sforzò d’ignorare quella riflessione, attribuendola alle paure astutamente impiantate in lui da Quinn. La Sicurezza della Stazione gli offriva le migliori possibilità. In effetti, ora che aveva irrevocabilmente offeso Quinn, la Sicurezza era la sua unica possibilità.

— Dottor Urquhart? — Una mano gli calò su una spalla.

Ethan sobbalzò come a un colpo di pistola e girò su se stesso. — Chi è lei? Che cosa vuole?

Il giovanotto biondo che gli si era avvicinato fra le aiuole intorno alla fontana lo guardò con aria di scusa. Era di altezza media, snello e robusto, vestito in uno stile a lui non familiare: camicia lunga senza maniche, larghi pantaloni allacciati alle caviglie con dei nastri, stivali di pelle d’aspetto rigonfio e floscio. — Mi perdoni. Se lei ò il dottor Ethan Urquhart di Athos, io l’ho cercata in tutta la stazione.

— Perché?

— Speravo che lei potesse aiutarmi. La prego, signore, non se ne vada… — Il giovanotto allungò una mano per fermarlo, mentre Ethan indietreggiava. — Lei non mi conosce, lo so, ma ho una richiesta urgente da fare al pianeta Athos. Lasci che mi presenti: io mi chiamo Cee, Terrence Cee.

CAPITOLO OTTAVO

Dopo un momento di sbalordito silenzio, Ethan si guardò attorno. Nessuno li stava osservando; il giovanotto biondo che lo aveva avvicinato era solo, o almeno non aveva complici nelle vicinanze. — Che cosa vuole da Athos? — gli domandò, vincendo l’impulso di allontanarsi di corsa.

— Rifugio, signore — disse l’altro. — Perché io sono un fuggiasco, non c’è dubbio su questo. — La tensione dipingeva di una luce falsa e ansiosa il suo sorriso. Il modo in cui Ethan si ritraeva davanti a lui lo rese ancor più allarmato e supplichevole. — Sull’elenco dei passeggeri della nave del censimento c’era solo il suo nome, e lì ho letto che lei è l’ambasciatore del suo pianeta all’estero. Lei può offrirmi asilo politico, non è così?

— Io… io… — Ethan alzò le mani per tenerlo lontano. — Quello è soltanto un titolo che il Consiglio della Popolazione ha pensato di attribuirmi all’ultimo momento, perché non sapevano cos’avrei trovato qui fuori. Ma io non sono un diplomatico, io sono un medico.

Cercò di calmarsi e guardò il giovanotto, che lo fissava come se volesse aggrappargli addosso. Con una parte della sua attenzione notò in lui i segni della stanchezza fisica. La faccia attraente di Cee aveva una sfumatura grìgia, gli occhi erano iniettati di sangue, e qualche tremito percorreva le sue mani lisce ed eleganti. D’un tratto Ethan fu colpito da un dubbio orribile. — Senta, uh… non mi sta per caso chiedendo di proteggerla dal Ghem-colonnello Millisor, vero?

Cee annuì senza esitare.

— Ehi, no… no, aspetti. Lei non capisce. Io qui sono un turista, un viaggiatore di passaggio. Non ho nessuna ambasciata o niente del genere. Voglio dire, le ambasciate hanno impiegati e guardie, una intera organizzazione per la sicurezza dei cittadini del loro paese e la tutela dei loro diritti, mentre invece io non…

Cee ebbe un sorrisetto incredulo. — L’uomo che ha eliminato Okita, un sicario addestrato e pericoloso, ha davvero bisogno di tutto questo apparato?

Ethan restò a bocca aperta, troppo stupito da quel malinteso per riuscire a rispondere.

Cee continuò: — Loro sono in molti. Millisor ha a disposizione le risorse dell’intero Cetaganda contro di me… e io sono solo. L’unico rimasto, L’unico superstite. Ormai non ò più questione di se riusciranno a uccidermi, ma di quando. — Le sue mani ben strutturate si aprirono in un gesto di supplica. — Io ero sicuro di aver fatto perdere le mie tracce a quella gente, e mi illudevo che avrei potuto trovare un passaggio su un’astronave diretta molto lontano da qui. ma… l’ultima via di fuga che mi restava è stata sbarrata da quel vampiro di Millisor. un cacciatore di uomini assetato di sangue… — La bocca del giovanotto si torse in una smorfia amara. — Non mi lasceranno scampo. Io la prego, signore, mi dia asilo politico.

Ethan si schiarì nervosamente la gola. — Ah. uh… cosa intende con "cacciatore di uomini", esattamente?

— È così che lui vede se stesso. — Cee scrollò le spalle. — Per Millisor, perfino i delitti più feroci sono atti di eroismo compiuti al servizio di Cetaganda, in base al principio che qualcuno deve fare anche i lavori sporchi… lui stesso lo pensa con grande convinzione. Ed è orgoglioso di ciò che fa. Ma non ha avuto il fegato di fare personalmente il suo lavoro sporco su di me. Nel profondo della sua anima meschina quell’uomo mi odia e mi teme più dell’inferno… ah! Come se i suoi piccoli segreti personali fossero più importanti o più vergognosi di quelli degli altri. Come se a me importasse qualcosa dei suoi segreti, o della sua anima.

Ethan stava cercando, vanamente, di capire cosa ci fosse dietro quelle dichiarazioni piuttosto oscure. Qualcosa c’era. Ma gli sarebbe piaciuto che la conversazione restasse più sul concreto. — Insomma, lei chi è? Anzi, cosa è?

Il giovanotto fece un passo indietro, mentre il suo sguardo si faceva improvvisamente sospettoso e guardingo. — Asilo politico. Prima mi garantisca asilo politico, e poi potrete avere tutto.

— Uh? In che senso?

Sul volto di Cee la disperazione tornò a sostituire il sospetto. La speranzosa eccitazione con cui aveva avvicinato Ethan per chiedergli aiuto lasciava il posto a una truce amarezza. — Già, capisco. Lei mi vede come mi vedono loro. Una mostruosità biologica messa insieme con pezzi di cadavere, un essere non del tutto umano partorito da un utero artificiale. Ebbene… — Sospirò, risolutamente. — Sia pure. Ma prima di morire io mi vendicherò sul capitano Rau. Questo l’ho giurato a Janine. fosse l’ultima cosa che farò.

Ethan riiletté sull’unica cosa abbastanza comprensibile di quel discorso, e con tutta la dignità che poté trovare disse: — Se per "utero artificiale" intende un replicatore uterino, sappia che io stesso sono stato incubato nove mesi in un replicatore, e che questo metodo di gestazione è lecito e giusto quanto l’altro. Di più, anzi. Così la prego di non definire "non del tutto umane" le mie origini, o il lavoro a cui ho dedicato la mia vita.

Un po’ della confusione che lui sentiva di avere nella testa era leggibile anche sulla faccia di Cee. E perché no, del resto? La miseria pensò Ethan con acida soddisfazione, ama la compagnia.

Il giovanotto — il ragazzo, in realtà, perché la tensione e la stanchezza gli aggiungevano qualche anno, mentre doveva essere più giovane di Janos — parve sul punto di dire qualcos’altro, poi scosse il capo, gli volse le spalle e si allontanò.

La necessità, rifletté ad un tratto Ethan, era il replicatore uterino dell’inventiva. — Aspetti! — esclamò. — Farò in modo che Athos le dia asilo politico! — Per quanto stava nei mezzi di cui disponeva avrebbe potuto promettergli anche la remissione dei peccati e la salvezza eterna, visto che le sue possibilità di offrirgli l’una o l’altra cosa si equivalevano. Ma Cee tornò subito verso di lui, così ribollente di speranza che quell’emozione sembrava schizzar fuori come un vapore dai suoi occhi azzurri. — Solo a un patto — proseguì Ethan. — Lei dovrà dirmi cosa ne ha fatto delle colture ovariche che il Consiglio della Popolazione aveva ordinato ai Laboratori di Casa Bharaputra.

Stavolta fu Terrence Cee a restare a bocca aperta per lo stupore. — Vuol dire che Athos non le ha ricevute?

— Nossignore.

L’imprecazione che scaturì fra i denti del giovanotto biondo fece voltare un paio di turiste indignate, ma lui non se ne accorse neppure. — Millisor! Dev’essere stato lui a rubarlo! Ma… no, come avrebbe potuto… non sarebbe riuscito a…

Ethan gli accennò di abbassar la voce e scosse il capo. — Credo che il colonnello Millisor non c’entri con quel furto, infatti. A meno che lei non pensi che mi abbia interrogato per ben sette ore, e in modo molto sgradevole, solo per convincermi che lui era estraneo al fatto.

È quasi un sollievo vedere qualcun altro agitato e confuso come me, pensò Ethan. Questo aveva l’effetto di renderlo più freddo e lucido, per reazione, e lui aveva bisogno d’essere freddo e lucido. Cee espresse uno stupore teatrale allargando le braccia.

— Ma, dottor Urquhart… se voi non avete quelle colture, e gli uomini di Millisor non le hanno, e neppure io le ho… dove sono finite?

Ethan sentì che finalmente capiva quella frase di Elli Quinn sul fatto che era stanca di stare sulla difensiva. Lui non ne poteva più d’essere un giocattolo in balia di eventi messi in moto da altri. Aggredisci la realtà, prendila a calci pensò selvaggiamente, accorgendosi che il più piccolo seme di risolutezza sbocciato nel suo cuore poteva fiorire in un poderoso albero capace di resistere agli scrolloni di ogni bufera. Il sorriso che rivolse all’attraente giovanotto biondo fu tranquillo. Cee era più snello di Janos, ma gli somigliava davvero. Anche nell’incarnato pallido, e nel colore dei capelli. Ma la bocca di Cee non assumeva quella piega petulante che a volte guastava l’espressione di Janos, quand’era irritato o stanco.

— Supponiamo di mettere insieme ciò che sappiamo e di scoprirlo — propose Ethan. — Che ne pensa?

Cee alzò lo sguardo su di lui (era qualche centimetro più basso) e domandò: — Lei è davvero un agente segreto del suo governo?

— In un certo senso — annuì Ethan, riflettendo che fra i suoi doveri di rappresentante di Athos all’estero poteva benissimo esserci anche quello, — lo sono, sì.

Terrence Cee annuì. — Allora sarà un piacere, signore. — Trasse un lungo respiro. — In questo caso mi occorrerà una certa quantità di tyramina. Ho usato l’ultima che avevo per sondare Millisor, tre giorni fa.

La tyramina era un aminoacido legato a un certo numero di attività chimiche del cervello, ma Ethan non aveva mai saputo che la si potesse usare anche come droga della verità. — Le serve… a cosa? — domandò, perplesso.

— Per la mia telepatia — spiegò Cee, sottovoce.

La strada, le piante e la fontana si fecero evanescenti intorno a Ethan. che aveva l’impressione d’essere sospeso nell’aria. — Tutte le teorie sulla psionica sono state definitivamente scartate molti secoli fa, prima ancora dei viaggi spaziali — sentì dire dalla sua voce, come di lontano. — Non c’è mai stato un potere mentale chiamato telepatia.

Terrence Cee si toccò la fronte in un gesto che gli fece pensare a un paziente che descrivesse la sua emicrania.

— Adesso c’è — disse semplicemente.

Accecato dalla luce dell’alba di una nuova era, Ethan guardava negli occhi il giovane che aveva davanti. — Senta, noi siamo in mezzo alla pubblica strada — disse alla fine, con voce rauca, — in uno dei luoghi meno intimi e più monitorati che esistano nella galassia. Prima che il colonnello Millisor e quel pazzoide di Rau saltino fuori da dietro una siepe, non sarebbe meglio trovare un posto, uh, più tranquillo per fare due chiacchiere?

— Ah. Oh, sì, naturalmente, signore. Lei ha senza dubbio una base sicura. È nelle vicinanze?

— E… mmh, la sua non va bene?

Il giovanotto biondo sorrise e annuì. — Finché le autorità della stazione non indagheranno troppo sui miei documenti.

Ethan lo invitò a fargli strada con un gesto, e Cee si avviò. "Base sicura" decise Ethan dopo un po’, doveva essere un termine usato dagli agenti segreti per indicare il posto in cui si nascondevano, perché il giovanotto lo accompagnò fino a un albergo molto economico dove alloggiavano i lavoratori stranieri che si fermavano alla stazione con un permesso di soggiorno, in attesa di trovare una sistemazione migliore. Nell’atrio c’era un certo traffico di clienti, in genere operai e fattorini, o al più impiegati e tecnici le cui funzioni Ethan non poteva neppure immaginare, come ad esempio le due femmine dai vestiti coloratissimi e con facce coperte da un makeup innaturale quasi-cetagandiano, che dapprima accostarono lui e Cee con fare cordiale e poi sbuffarono insulti incomprensibili in tono sprezzante allorché loro si affrettarono ad allontanarsi.

L’alloggio di Cee era praticamente il gemello della Camera Turistica Economica di Ethan, poco pulito e così stretto che in due ci si muoveva a stento. Non senza una certa preoccupazione lui s’era chiesto se il fuggiasco cetagandano stesse leggendo la sua mente… in apparenza non era così, visto che non aveva dato segno d’intuire in anticipo le sue risposte né d’accorgersi dell’errore che faceva affidandosi a lui.

— Se ho capito bene — disse Ethan, — i suoi poteri mentali sono intermittenti.

— È così, infatti — rispose Cee. — Se la mia fuga in direzione di Athos fosse andata come avevo programmato all’inizio, non ne avrei fatto uso mai più. Suppongo che ora il vostro governo domanderà di avere i miei servizi, come pagamento per la protezione che mi date.

— Questo non saprei dirglielo. Vedremo — rispose onestamente Ethan. — Ma se lei possiede davvero un talento psi sarebbe un peccato non farne più uso. Voglio dire, potrebbe avere delle applicazioni in molti campi socialmente utili.

— Anche inutili, mi creda — mormorò aspramente Cee.

— Pensi alla medicina pediatrica… che aiuto sarebbe nella diagnosi su pazienti pre-verbali! I neonati non possono rispondere a domande tipo: dove ti fa male? Cosa ti senti? O per le vittime di colpi apoplettici, o per quelli rimasti paralizzati dopo incidenti che li hanno resi incapaci di comunicare, prigionieri dei loro corpi! Nel nome di Dio il Padre… — L’entusiasmo di Ethan si stava scaldando. — Lei potrebbe diventare un benefattore dell’umanità!

Terrence Cee sedette pesantemente sullo sportello dell’armadio, che abbassato si trasformava in una sedia. Nei suoi occhi c’era una luce di stupore e incomprensione; poi strinse le palpebre, insospettito. — È molto più facile che gli altri mi vedano come una minaccia. Nessuno di quelli che conoscono il mio segreto mi ha mai proposto di usarlo altro che nel campo dello spionaggio.

— Be’… queste persone erano spie, o militari?

— Ora che ci penso, sì. Per la maggior parte.

— Mi sembra ovvio, allora. Quella gente non pensava a sfruttare il suo talento in modo davvero pratico, ma soltanto nel ristretto campo di loro competenza.

Cee gli diede un’occhiata scrutatrice e la sua bocca si curvò in un sorrisetto. — Spero che lei abbia ragione, signore. — Il suo atteggiamento si fece meno rigido, un po’ della tensione che gli bloccava la muscolatura si sciolse, ma i suoi occhi azzurri restarono fermi e attenti su di lui. — Dottor Urquhart, lei si rende conto che io non sono un essere umano? Io sono una costruzione genetica artificiale, un composito proveniente da una dozzina di sorgenti, con l’aggiunta di un organo di senso che nessun uomo ha mai avuto, un organo incuneato nel mio cranio come un granchio in una buca. — E curvò le dita di una mano a imitare la forma di un mollusco.

— Be’, mmh… i biologi che hanno fabbricato il suo corpo, se vogliamo usare questo termine, dove hanno preso i geni? Da altri uomini, voglio supporre — domandò Ethan.

— Oh, sì. Esseri umani selezionati con cura. — Gli occhi di Cee si persero in qualche visione del passato, non molto piacevole a giudicare dalla sua smorfia ostile.

— Tuttavia — gli fece notare Ethan, — se lei risale all’indietro di, mi lasci fare il conto, quattro generazioni, ogni essere umano è un composito di sedici diverse sorgenti. Che li chiami antenati o con qualsiasi altro nome, sono sempre la stessa cosa. Il suo miscuglio di geni è stato meno casuale, tutto qui. Ora, io conosco la genetica. Se lasciamo da parte quel nuovo organo che ha menzionato, io posso garantirle che la sua mescolanza genetica per quanto peculiare non può essere anormale. Non è questo il test della sua umanità.

— E allora qual è il test dell’umanità di un individuo?

— Be’… lei ha il libero arbitrio, questo è ovvio, altrimenti non si sarebbe opposto ai suoi creatori. Ne consegue che lei non è un robot di carne, bensì un figlio di Dio il Padre, destinato a vivere finché Lui vorrà per poi rispondere a Lui dei suoi peccati — gli fece il predicozzo Ethan.

Se avesse spalancato un paio d’ali e preso il volo davanti a lui, Terrence Cee non avrebbe potuto guardarlo con uno sbalordimento maggiore. Sembrava proprio che quei fatti, così palesi e ovvii, non gli si fossero mai presentati alla mente.

Si piegò in avanti, protendendosi verso Ethan. — Cosa sono io per lei, allora, se non sono un mostro?

Lui si passò una mano sul mento e rifletté qualche istante. — Tutti noi restiamo Suoi figli agli occhi del Padre, per quanto possiamo credere d’essere orfani. Lei è mio fratello, naturalmente.

— Naturalmente, dice? — mormorò Cee. Si strinse le braccia al petto e chinò la testa, scosso da un tremito. Quando sbatté le palpebre, più volte, fu per schiarirsi la vista offuscata dalle lacrime che gli avevano improvvisamente riempito gli occhi. Se le asciugò con un polsino della blusa, quasi rabbiosamente, e il suo volto avvampò di vergogna. — Dannazione — mugolò, — l’arma segreta dei militari, la super-spia, l’uomo sopravvissuto a tutti i suoi simili e sfuggito a quelli che gli davano la caccia. Com’è riuscito a farmi piangere? Non mi succedeva da molti anni. — Strinse i pugni e aggiunse, con voce rauca: — Se dovessi scoprire che lei mi ha mentito, giuro che la uccido!

Dette da un altro uomo avrebbero potuto essere soltanto parole, ma la luce fredda che ci fu negli occhi azzurri di Cee fece capire a Ethan che stava dicendo la semplice verità. — Senta, adesso lei è molto stanco — disse per placarlo, allarmato da quell’atteggiamento così emotivo. Per Cee non fu facile ritrovare l’autocontrollo, tuttavia ci provò, lavorando sulla respirazione come uno yogi. Ethan vide che sul minuscolo comodino da notte c’era un fazzoletto e glielo diede perché si asciugasse la faccia. — Credo che guardare il mondo attraverso gli occhi di Millisor, se è questo che lei ha fatto ultimamente, abbia avuto un brutto effetto psicologico su di lei.

— Vedo che lei ha capito questa situazione — mormorò Cee annuendo. — Io sono andato dentro e fuori dalla sua mente fin da quando questa cosa — e allargò ancora le dita di una mano a imitare la forma di un granchio, — si è sviluppata del tutto dentro la mia testa, all’età di tredici anni.

— Un’esperienza spiacevole, già — disse Ethan. senza pensarci. — Come annusare della spazzatura.

Sorpreso, Cee si lasciò sfuggire una risata che per ritrovare la padronanza di sé gli servì meglio della respirazione. — Come ha fatto a saperlo?

— Io non so niente su come funziona la sua telepatia, ma conosco quell’individuo — Ethan si mordicchiò pensosamente le labbra. — Lei è giovane. Quanti anni ha? — domandò all’improvviso.

— Diciannove anni standard.

Non c’era alcuna sfida adolescenziale in quella risposta. Cee stava soltanto esponendo un fatto, come se la sua giovinezza non fosse mai stata un periodo in cui s’era sentito contrapposto agli adulti. La consapevolezza della sua diversità raggelò un momento Ethan, come la vista della cima di un iceberg. — Ah-ehm… spero che non le dispiaccia raccontarmi qualcosa di lei, adesso. Parlando nelle mie vesti di Ufficiale addetto all’Immigrazione, se posso dire così.

Il lavoro dei genetisti, gli spiegò Terrence Cee, era stato basato su una mutazione della glandola pineale. Come quella donna di razza mista, povera e deforme, un’emigrante senza radici che si faceva passare per strega e chiromante, fosse giunta all’attenzione del Dr. Faz Jahar, Cee non l’aveva mai saputo. Ad ogni modo la sedicente strega era stata tolta dalla misera baraccopoli in cui viveva, e portata nel laboratorio universitario di quel giovane medico dalle insolite ambizioni. Jahar conosceva qualcuno che conosceva qualcuno che aveva rapporti con un Ghem-lord d’alto rango dell’esercito, e così era riuscito a farsi ascoltare da un personaggio potente disposto ad assistere a una dimostrazione delle strane facoltà da lui scoperte nella donna. Si trattava di poteri allo stadio molto larvale, e tuttavia la dimostrazione aveva avuto successo. Il Dr. Jahar era così riuscito ad ottenere il finanziamento dei militari per le sue ricerche. La strega-chiromante era svanita nei meandri di qualche installazione segreta, e nessuno dei parenti che vivevano in quel misero sobborgo l’aveva mai più rivista, né viva né morta.

Il racconto di Cee s’era fatto freddo e distaccato, ordinato, come se avesse fatto pratica raccontandolo a chissà quanti altri fino alla noia. Ethan non sapeva se quell’eccessiva dimostrazione di autocontrollo fosse più snervante dell’atteggiamento emotivo e passionale di poco prima, ma cercò di ascoltare con attenzione.

Il complesso genetico della donna dai poteri telepatici era stato isolato e fatto riprodurre in vitro, venti generazioni in cinque anni di lavoro per raffinare e potenziare queir insieme. I primi tre esseri umani ad averlo inserito nei loro cromosomi erano morti prima d’essere estratti dai replicatori uterini, e quei cromosomi ulteriormente selezionati erano stati introdotti in altre cellule-uovo fecondate. Altri quattro erano morti durante la prima infanzia, uccisi da un tumore cerebrale non operabile, ed i cinque successivi, pur sopportando in qualche modo l’organo estraneo al resto del loro tessuto cerebrale, erano stati soppressi da Jahar dopo aver sviluppato orripilanti deformità fisiche collegate a quella presenza anomala nel cranio.

— La sto mettendo a disagio? — domandò Cee, interrompendosi per scrutare la sua espressione.

Seduto su un angolo del letto gonfiabile, Ethan era per la verità un po’ pallido. Si schiarì la voce. — No… no, vada avanti.

I prodotti di quella matrice genetica — Ethan li avrebbe chiamati bambini, ma evidentemente per qualcuno non erano stati tali — mostravano tuttavia grandi progressi dal punto di vista che interessava a Jahar. Il medico aveva continuato gli esperimenti in vitro e messo in crescita altri feti nei replicatori uterini. Le imperfezioni fisiche erano state eliminate. Il feto L-X-10 Terran-C era stato il primo della nuova serie a sopravvivere all’infanzia, anche se diverse caratteristiche ritenute importanti erano state eliminate a favore della perfezione fisica. I militari, che stavano perdendo la pazienza, avevano infatti chiarito che esseri grotteschi dalla testa deforme non erano molto utili come agenti segreti. I risultati dei test preliminari effettuati sul bambino erano stati ambigui, deludenti. Le sovvenzioni al laboratorio erano state tagliate. Ma Jahar, dopo tutti quegli anni di lavori e di sacrifici (di sacrifici umani, lo corresse Ethan, disgustato) aveva rifiutato di arrendersi.

— Quando ripenso alla mia infanzia — disse Cee. — posso dire che Jahar fu una specie di padre per me, a suo modo. Lui credeva in me… o meglio, credeva nel suo lavoro, personificato in me. Quando non ebbe più le sovvenzioni dell’esercito per le governanti e i tecnici e tutto il resto, dovette cedere una parte del laboratorio a dei ricercatori che si occupavano di guerra batteriologica. Ma gli restavano ancora abbastanza soldi per continuare a occuparsi di me e di Janine, e proseguì i suoi studi e i test mentali.

— Chi è Janine? — domandò Ethan dopo un momento, vedendo che Cee taceva.

— J-9-X Ceta-G era… mia sorella, si potrebbe anche dire — rispose Cee sottovoce. Il suo sguardo non cercava quello di Ethan. — Lei e io condividevano molti geni, oltre a quelli dell’organo ricevitore derivato dalla glandola pineale. Dei venti neonati che uscirono dai replicatori uterini in quella generazione, Janine fu l’unica superstite oltre a me. O forse era mia moglie. Non so se Jahar intendesse farci accoppiare per avere una prima coppia umana, anche se le fertilizzazioni in vitro gli andavano benissimo… comunque incoraggiava il sesso fra noi già quando avevamo sette od otto anni di età. Vivevamo tuttavia in una base dell’esercito, ed eravamo sempre sottoposti all’autorità dei militari. Però, a differenza di me, Janine non frequentava la scuola per gli agenti dei servizi segreti. Millisor pensava a lei come a una specie di potenziale ape regina in un futuro alveare di spie. Inoltre aveva delle fantasie sessuali su loro due… in realtà abusava di lei, con la complicità di Jahar, a cui occorreva il suo appoggio. Anche in età pre-puberale Janine era molto femminile e provocante. — Cee tacque, con sollievo di Ethan, a cui non interessava un resoconto dettagliato delle predilezioni sessuali di Millisor.

Le fortune del Dr. Faz Jahar avevano avuto una brusca impennata verso l’alto quando Terrence Cee era giunto alla pubertà. Il completarsi della crescita dell’encefalo e i cambiamenti nel suo equilibrio ormonale avevano infine attivato l’organo, fin’allora chiuso in un frustrante silenzio. Le capacità telepatiche di Cee erano divenute dimostrabili con test precisi, ripetibili, affidabili.

C’erano delle limitazioni. L’organo poteva essere portato in condizioni di ricettività elettrica soltanto con l’ingestione di grosse dosi di un aminoacido chiamato tyramina. La ricettività diminuiva man mano che l’organismo di Cee metabolizzava l’eccesso della sostanza e tornava al suo originale equilibrio biochimico. Il raggio della telepatia era al massimo poche centinaia di metri, in condizioni ottimali. La ricezione veniva bloccata da qualsiasi barriera che interferisse con il campo elettrico del cervello il cui segnale si volesse intercettare.

Alcune menti potevano essere ricevute e comprese con più chiarezza di altre; il 10 o 12% dei soggetti erano invece ricevibili a stento e indecifrabili, anche se Cee si avvicinava a loro fino al contatto fisico. Questo sembrava essere un problema di compatibilità fra l’emittente e il ricevente, perché alcune menti che per Cee erano informi e muschiose nel loro contenuto (l’input sensoriale, la subvocalizzazione, la normale corrente di pensiero) risultavano perfettamente leggibili a Janine, e viceversa.

La presenza di troppi individui fra l’emittente e il ricevente creava un’interferenza dovuta al sovrapporsi dei segnali. — È come essere a una riunione in cui tutti parlano a voce alta — disse Cee, — e sforzarsi di isolare una conversazione singola.

Il Dr. Jahar aveva catechizzato Terrence Cee fin da bambino sui suoi doveri patriottici, sulla vita onorata che lo attendeva al servizio di Cetaganda, e dapprima lui era stato felice, perfino orgoglioso di essere un’arma segreta dell’esercito. La stessa cosa valeva anche per Janine, soprattutto perché quando era diventata preziosa per i militari Millisor aveva dovuto smetterla di abusare di lei. Le prime incrinature nelle certezze di Cee erano apparse quando aveva cominciato a conoscere meglio la mentalità degli ufficiali e del personale della Sicurezza che li circondava. Era una conoscenza inevitabile quanto compieta, date le sue facoltà. — Il loro aspetto esterno era diverso da quello interno — spiegò Cee. — Ma i peggiori erano così corrotti che credevano sinceramente d’essere bravi patrioti, persone oneste e pulite. Solo chi ha un fondo di bontà capisce grazie ad esso d’essere malvagio, e si tormenta. In quei giorni ho appreso che dietro il caldo sorriso di un padre che torna a casa ad abbracciare la moglie e i figli può esserci un carnefice, o un uomo che assiste impassibile ad ogni crudeltà.

Quei dubbi s’erano aggravati negli anni successivi, ad ogni incarico che il controspionaggio assegnava a Terrence ed a Janine.

— L’errore di Millisor, quello decisivo — disse Cee pensosamente, — fu di farci presenziare all’interrogatorio di intellettuali cetagandani dissidenti, sospetti di aver complottato contro il regime. Io non avevo mai conosciuto persone simili.

Cee aveva cominciato l’addestramento militare con insegnanti molto qualificati. Si era parlato di utilizzarlo come agente sul campo, in missioni non pericolose oppure in altre abbastanza importanti da giustificare che la sua preziosa persona fosse messa a repentaglio. Nessuno aveva mai accennato alla possibilità di ammetterlo fra i Ghem-lord, la ristretta classe nobiliare che controllava le forze armate e governava in pratica Cetaganda, i pianeti conquistati e le basi militari nei sistemi solari più o meno sottomessi.

La telepatia di Cee non gli apriva un’analoga finestra anche verso il subconscio dei soggetti esaminati. Gli unici ricordi che lui poteva leggere e "vedere" erano quelli che una persona portava alla superficie della sua mente per esaminarli lei stessa. Questo aveva fatto decidere i superiori di Cee che usarlo nei compiti di spionaggio attivo (monitorando la mente di soggetti inconsapevoli della sua presenza) era uno spreco del suo prezioso tempo. Gli interrogatori organizzati erano assai più efficienti. Cee e Janine erano così diventati assidui frequentatori delle prigioni, in specie quelle dov’erano alloggiati i detenuti politici.

— È sorprendente quante cose si imparano sulla patria che ami quando cominci a conoscere i suoi nemici — disse Cee. — Finche si trattava di criminali, o di stranieri, era facile. Ma quando senti la presenza di una mente libera, istruita, saggia… ed entrando in una stanza vedi un povero essere nudo e coperto di piaghe disteso su un tavolo, cominci a chiederti perché i tuoi compagni di lavoro l’hanno ridotto così.

— La capisco benissimo — annuì Ethan, con un brivido.

Era stata Janine, probabilmente, la prima a vedere i loro creatori come loro padroni e carcerieri. Il desiderio di fuggire, ancora mai espresso a voce, aveva cominciato ad andare avanti e indietro fra Terrence e Janine quando i loro poteri mentali erano attivi nello stesso tempo. Entrambi avevano preso a mettere da parte pasticche di tyramina, sottraendole al laboratorio. La loro risoluzione di fuggire era stata alimentata e infine perfezionata in un piano concreto, nel più assoluto silenzio.

La morte del Dr. Faz Jahar era stata un incidente. Cee tornò ad accalorarsi nel tentativo di convincerne Ethan, che gli aveva fatto qualche domanda in merito. Forse la loro fuga sarebbe stata più facile se non avessero cercato di distruggere il laboratorio, per mettere fine alle ricerche, e di portare via con loro i quattro bambini dell’ultima generazione di esperimenti. Cee era sicuro che questo avrebbe complicato le cose. Ma Janine (sapendo che Jahar aveva poca memoria e quindi molte registrazioni) era stata molto decisa sul fatto che non dovevano lasciare niente di utilizzabile. Quando lui e la ragazza erano stati assegnati in pianta stabile agli interrogatori dei prigionieri politici. Cee aveva smesso di discutere con lei su quella parte del piano.

Se solo Jahar non avesse cercato di salvare i suoi appunti e le colture genetiche, non sarebbe morto quando il laboratorio era saltato in aria. Se solo uno dei bambini non si fosse messo a piangere, l’uomo di guardia al cancello di servizio non si sarebbe accorto di loro.

Se solo non avessero cominciato a correre verso il furgone, forse lui non avrebbe sparato. E in seguito, benché fossero riusciti a fuggire con una piccola astronave, tutto sarebbe andato diversamente se avessero scelto un altro corridoio di balzo, un altro pianeta, un’altra società, e altre false identità sotto cui vivere.

La freddezza della narrazione di Cee tornò a farsi glaciale e la sua voce piatta, vuota di emozioni come se quei fatti riguardassero qualcun altro. Era come se cercasse di filtrare via il contenuto di sofferenza dai suoi ricordi appiattendoli in un resoconto lineare, salvo che a tratti, inconsciamente, qualche piccolo gesto anomalo rivelava la tensione. Ethan si accorse che si stava mangiucchiando le unghie, un vizio che credeva di aver sconfitto da anni, e incrociò le braccia sul petto.

Se solo quel giorno Cee non avesse lasciato l’appartamento per andare a lavorare allo spazioporto, dove assumevano scaricatori a giornata. Se solo non fosse tornato dieci minuti prima, per trovare aperte le botteghe dove la paga ricevuta gli avrebbe permesso di fare un po’ di spesa. Se solo il capitano Rau fosse arrivato dieci minuti più tardi. Se solo Janine non fosse uscita di corsa in strada per avvertirlo, gettandosi fra lui e il distruttore neuronico del cetagandano… Se solo. Se solo. Se solo.

Cee aveva scoperto in sé la gelida follia del combattente votato alla morte durante la lotta per riconquistare il corpo di lei, per impedire che le preziosissime cellule umane in cui era racchiuso il segreto della telepatia cadessero nelle mani di Millisor. Era poi trascorsa una giornata intera prima che Cee riuscisse a congelare il cadavere di Janine in un contenitore criogenico, troppo tardi per impedire la completa morte cerebrale anche se il distruttore neuronico avesse lasciato qualcosa di lei.

Ma lui non aveva smesso di sperare. Tutta la sua forza di volontà s’era concentrata su un solo ossessionante scopo: fare soldi il più in fretta possibile per riportare in vita Janine. Terrence Cee, a cui non era importato nulla del denaro finché la ragazza viveva, e che aveva soltanto desiderato vivere una vita onesta insieme a lei, s’era messo a usare nel modo più criminoso e sottile i suoi poteri mentali per ammassare il denaro che adesso gli serviva. Abbastanza denaro per condurre un uomo ed un contenitore criogenico sul Gruppo Jackson, dove c’erano laboratori biologici assai evoluti, e dove si diceva che il denaro potesse comprare tutto.

Ma non c’era denaro che potesse riportare in vita una persona uccisa da un distruttore neuronico. Gli erano state gentilmente suggerite delle valide alternative: l’onorevole cliente desiderava un perfetto clone della sua defunta sposa? Pagandola, era possibile produrre una copia così identica che nessuno l’avrebbe mai distinta dalla Janine originale. Non avrebbe dovuto neppure aspettare diciassette anni perché il clone arrivasse alla maturità; in vasca, la crescita poteva essere molto accelerata.

Anche la personalità della copia poteva essere ricreata con un sorprendente grado di somiglianza, affidandola a ben pagati esperti… magari la si poteva perfino migliorare, se c’erano aspetti dell’originale che non avevano molto soddisfatto i gusti dell’onorevole cliente. Il clone non si sarebbe certo lamentato della differenza.

— Tutto ciò che mi occorreva per riaverla fra le mie braccia — disse Cee, — era una montagna di soldi, e la capacità di persuadere me stesso che la menzogna era verità. — Fece una pausa. — La montagna di soldi ce l’avevo.

Cee tacque e restò in silenzio, a lungo. Dopo qualche minuto Ethan si agitò, a disagio come un estraneo ad una veglia funebre.

— Non vorrei che pensasse che le sto facendo pressione — disse alla fine, — ma credo che lei sia sul punto di spiegarmi il nesso fra questi fatti e le 450 colture ovariche vive che Athos ordinò ai laboratori di Casa Bharaputra. È così? — E rivolse a Cee un sorriso conciliante, sperando che non decidesse di cambiare discorso per nascondergli le sue responsabilità nella faccenda, dopo avergliele ormai fatte sospettare.

Cee gli gettò un’occhiata penetrante, poi si passò le mani sulle tempie in un gesto stanco e frustrato. Alla fine disse: — L’ordinazione di Athos arrivò al reparto genetico dei laboratori di Casa Bharaputra mentre io mi trovavo là, a discutere con loro sulle possibilità di riportare in vita Janine. Teoricamente questo era possibile. La difficoltà stava nei danni subiti dal cervello, ma purtroppo la loro diagnosi sul corpo di lei mi tolse ogni illusione. Ero presente per caso quando li sentii parlare di Athos… non avevo mai sentito nominare quel pianeta. Ne trassi l’impressione che fosse un posto isolato e lontano, tranquillo, e pensai che se fossi andato laggiù forse avrei potuto lasciarmi alle spalle per sempre il mio passato e la gente come Millisor. Così, dopo che i resti mortali di Janine furono cremati… — deglutì, con espressione sofferente, evitando lo sguardo di Ethan, — lasciai il Gruppo Jackson e mi imbarcai su una rotta destinata a far sparire le mie tracce. Mi sono perfino procurato un lavoro qui su Stazione Kline. per mascherare la mia identità intanto che aspettavo un’astronave diretta su Athos.

«Sono arrivato qui soltanto cinque giorni fa. Per abitudine ho controllato subito i registri dei viaggiatori in transito, alla ricerca di eventuali cetagandani. E ho scoperto che Millisor alloggiava qui da tre mesi facendosi passare per un commerciante di oggetti d’arte e di artigianato. Dapprima avvicinarlo senza che i suoi uomini mi individuassero è stato un problema, ma poi gli sono arrivato a distanza abbastanza breve da potergli leggere la mente con una certa chiarezza. Ho scoperto così che lui e gli altri stavano frugando in tutta la stazione per cercare lei e Okita. Il loro proposito è quello di rintracciare me, ovviamente, ma con un uomo in meno hanno delle difficoltà. Non riescono neppure a coprire tutti i moli dove ci sono navi passeggeri in partenza o in arrivo. Questo è un vantaggio di cui devo ringraziare lei, dottor Urquhart. Posso chiederle come è riuscito a eliminare Okita?

Ethan rifiutò di lasciarsi distrarre. — Lei cos’ha avuto a che fare con il lavoro dei Laboratori Bharaputra sull’ordinazione di Athos? — chiese, inchiodandogli addosso in via sperimentale uno sguardo fermo e inespressivo.

Cee si umettò le labbra. — Niente. Millisor pensa che io c’entri per qualcosa, lo so. Temo di avergli lasciato credere che sia così, tanto per dargli una falsa pista.

— Guardi che io non sono ingenuo come posso sembrarle — disse cortesemente Ethan. Cee ebbe un gesto come a dire che non l’aveva mai pensato. — Si dà il caso che io abbia saputo, da un’altra fonte molto attendibile, che la squadra genetica principale di Casa Bharaputra ha lavorato per ben due mesi su un’ordinazione che avrebbe potuto essere soddisfatta in una settimana. — Indicò la misera cameretta intorno a loro. — Noto anche che lei sembra aver già speso altrove la sua montagna di denaro. — Raddolcì la voce ancor di più. — Li ha incaricati di ricavare delle colture ovariche dal corpo di sua moglie, invece di farla clonare, quando ha capito che la clonatura non le avrebbe restituito la persona che lei era? E li ha pagati per spedire queste colture ad Athos, con l’idea di seguirle sul nostro pianeta?

Cee deglutì saliva. Agitò una mano come per cercare qualche scusa, ma infine sussurrò soltanto: — Sì, signore.

— Colture ovariche contenenti il complesso di geni della glandola pineale mutata?

— Sì, signore. La sua eredità genetica, inalterata. — Cee abbassò gli occhi al suolo. — Lei amava i bambini. Sperava di averne da me, appena fossimo stati certi d’essere al sicuro, prima che Rau spegnesse anche quel sogno. Perciò… quella era ormai la sola cosa. l’unica cosa al mondo che io potessi fare per lei. Qualsiasi altra cosa, come ad esempio un clone, l’avrei fatto meramente per me. Riesce a capirlo, signore?

Ethan, commosso, annuì. In quel momento sarebbe stato disposto a rimbeccare senza esitare qualsiasi fondamentalista athosiano che avesse affermato che la fissazione di Cee per la sua femmina era disgustosa e preistorica, indegna di un uomo dalla mente libera. Quel sentimento inaspettato, così radicale, gli diede un brivido. E tuttavia s’era tanto immedesimato nelle parole di Cee da sentirlo, quasi, come un sentimento suo…

Il cicalino della porta emise un ronzio secco.

I due uomini balzarono in piedi. Cee si portò una mano sotto la blusa in cerca di un’arma nascosta e lo guardò allarmato. Ethan aveva il fiato mozzo.

— Qualcuno sa che lei è qui? — sussurrò Cee.

Ethan scosse il capo. Ma aveva promesso a quel giovanotto la protezione di Athos, per quel che valeva. — Apro io — si offrì. — Lei, uh… mi copra — aggiunse, mentre l’altro cominciava a obiettare. Cee annuì e si trasse da parte, tenendosi pronto.

Ethan sfiorò il pulsante. Il battente scivolò di lato con un sibilo.

— Buongiorno, ambasciatore Urquhart. — La bruna femmina in attesa fuori dalla porta gli elargì un sorrisetto. — Ho sentito dire che l’ambasciata athosiana è disposta ad assumere guardie, impiegati ed esperti in spionaggio. Non cercate oltre. Elli Quinn è qui, tutte e tre le cose in una sola persona. Faccio anche sconti speciali per salvare e togliere dai guai stranieri in difficoltà su Stazione Kline, purché l’offerta mi pervenga prima di mezzanotte. — E dopo un momento aggiunse: — Mancano cinque minuti, perciò hai tutto il tempo di invitarmi a entrare.

CAPITOLO NONO

— Ancora lei! — esclamò Ethan, incredulo di vederla lì. Poi le implicazioni di ciò che la mercenaria aveva detto lo colpirono, e la gratificò di uno sguardo ostile. — Dove mi ha appiccicato la microspia, stavolta?

— Nella tua carta di credito — rispose lei senza esitare. — Era l’unica cosa che ti portavi anche a letto. Si appoggiò allo stipite della porta e sporse la testa, per guardare dentro oltre le spalle di Ethan. — Non vuoi presentarmi al tuo nuovo amico? È il minimo che puoi fare, dopo avermi trasmesso la sua triste storia.

Ethan mugolò alcune parole sottovoce.

— Proprio così — annuì Quinn. — E devo dire che tu sei il miglior specchietto per le allodole che abbia mai visto, anche se quelli che hai catturato stamattina nel Settore Verde erano canarini. Ma oggi hai invischiato una preda assai più ricercata.

— Credevo che lei non sapesse cosa farsene dei "chiacchieroni che non hanno il fegato di fare le cose fino in fondo" — disse freddamente Ethan.

Lei ebbe un sogghigno astuto. — Be’, non prendertela tanto per una semplice osservazione. In realtà stavo cercando un modo per farti uscire da sotto il mio letto. Mi ha fatto piacere vedere che sai dimostrare una certa iniziativa.

Le labbra di Ethan si piegarono in una smorfia. Era sicuro che lo stesse prendendo in giro. Ma finché la mercenaria avesse tenuto il piede davanti alla fessura la porta avrebbe rifiutato di uscire dal muro. Si fece indietro e le accennò di entrare, di malavoglia.

Terrence Cee aveva ancora una mano sotto il bordo della blusa. — È un’amica? — gli domandò, teso.

— Io non ho amiche femmine — disse brusco Ethan.

— È un po’ timido con le ragazze, tutto qui — commentò Elli Quinn, dirigendo un sorriso abbagliante sul suo nuovo bersaglio.

Terrence Cee, notò Ethan con un vago disgusto, mostrava la stessa stupida attrazione che tutti i maschi non-athosiani rivelavano nei confronti della comandante Quinn; ma con suo sollievo parve subito riprendersi dalla reazione glandolare e la scrutò da capo a piedi con occhi simili al mirino di una pistola. Lo sguardo di Quinn prese le misure del giovanotto biondo con la stessa rapidità e, benché Cee fosse stato svelto a fingere di grattarsi il petto con la mano, lei inarcò un sopracciglio per comunicargli che sapeva benissimo cos’aveva sotto la blusa. Ethan sospirò. Era destino che quella mercenaria fosse sempre un passo più avanti di lui?

Mentre la porta si richiudeva con un sospiro. Quinn tirò giù un altro sportello-sedia e si sedette con le mani sulle ginocchia, visibilmente lontane dalla fondina e dall’arsenale che aveva celato addosso. — Racconta al tuo amico chi sono, Ambasciator-Dottor Urquhart.

— Perché? — grugnì Ethan.

— Oh, avanti, sii gentile. Dopotutto mi devi un favore o due.

— Cosa? — sbottò lui, agitando un dito mentre cercava il fiato per esprimere la sua indignazione. Ma Quinn lo precedette.

— Proprio così. Se io non avessi telefonato a mio cugino Teki per chiedergli di tirarti fuori dal Reparto Quarantena saresti ancora là, senza documenti, innocente quanto i canarini che hai aiutato a catturare ma prigioniero come loro. O avevi davvero la stupida illusione che raccontando chi sei alla Sicurezza (dopo esserti fatto pescare travestito da operaio, mentre in giro c’è un evaso collegato come te a una sparatoria e ad altri fatti molto strani) ti avrebbero scortato con tutti gli onori alla prima astronave per Colonia Beta?

— Senta, non è certo per merito suo che…

— Be’, devi a me se oggi eri abbastanza libero da fare la conoscenza col signor Cee. Perciò presentami.

Ethan decise di non darle la soddisfazione di replicare e scrollò le spalle, sempre più indignato da quella sfacciataggine. — Si presenti da sola — disse.

La bruna annuì e si volse a Terrence Cee, incapace di celare sotto la sua studiata indifferenza una certa eccitazione.

— Io mi chiamo Elli Quinn. Ho il grado di comandante nella Libera Flotta dei Mercenari Dendarii, e in questo periodo lavoro per il servizio informazioni della Flotta. Ho l’ordine di osservare l’attività del Ghem-colonnello Millisor e del suo gruppo, e di scoprire cosa stanno cercando di fare e perché. Grazie al qui presente ambasciatore Urquhart, oggi ho finalmente saputo tutto. — I suoi occhi neri brillavano di soddisfazione.

Terrence Cee li guardava entrambi con aria molto insospettita. Questo irritò Ethan, dopo tutti gli sforzi che aveva fatto per ammorbidire il giovanotto e indurlo a fidarsi di lui.

— Lei per chi lavora? — volle sapere Cee.

— Prendo gli ordini dall’ammiraglio Miles Naismith.

Cee ebbe un gesto d’impazienza. — Per chi lavora lui, allora?

Ethan si chiese perché non gli fosse mai venuto in mente di fare quella domanda.

La comandante Quinn si schiarì la gola. — Una delle ragioni per cui certe persone assoldano mercenari, invece di esporre personalmente se stesse oppure altri loro agenti, è che queste certe persone non desiderano esser coinvolte. E allorché l’ammiraglio Naismith manda in missione un suo agente, deve tenere presente che costui o costei non è immune né al penta-rapido né ai calci nelle costole.

— In altre parole, lei non sa per chi lavora.

— Proprio così.

Terrence Cee strinse le palpebre. — Io riesco a pensare a un’altra ragione per assoldare dei mercenari. Come agisce un governo quando vuole un riscontro esterno sul funzionamento dei suoi servizi segreti? Perciò… chi mi dice che lei non stia lavorando per i cetagandani?

Ethan ansimò, inorridito da quell’ipotesi abbastanza logica.

— Lei pensa davvero che i superiori di Millisor ricorrano a questi metodi per sapere se è un traditore, o un incapace, o se merita una promozione? — Quinn parve divertita all’idea. — Gli auguro di no, perché dall’ultimo rapporto che ho spedito Millisor e Rau non ne vengono fuori esattamente come due mostri di efficienza. — Dal modo in cui la mercenaria si teneva nel vago, Ethan capì che non aveva intenzione di reclamare per sé l’eliminazione di Okita. La sua generosità mancò di riempirlo di gratitudine.

— La sola garanzia che posso offrirle, signor Cee, è un mio giudizio personale sulle inclinazioni dell’ammiraglio Naismith: lui non accetterebbe mai un contratto coi cetagandani.

— I mercenari non possono permettersi di rifiutare un contratto, a volte anche per una misera paga — disse Cee. — Hanno sempre molto bisogno di lavorare, e non gli interessa sapere per chi.

— Non è esatto. I mercenari che desiderano vivere abbastanza da riscuotere la loro paga, per quanto misera, devono essere in gamba. Chi comanda dei mercenari in gamba non può essere uno sciocco. E solo a uno sciocco non interessa sapere per chi lavora. Vero, nel nostro ambiente esistono degli individui senza morale, degli avventurieri a cui va bene tutto, o degli psicopatici… ma non nello staff dell’ammiraglio Naismith.

Ethan si trattenne a stento dal dire che lui avrebbe preso con un grano di sale quell’ultima affermazione.

— Veniamo ora al motivo per cui ho deciso di parlarle. — Ormai lanciata, la bruna dimenticò il suo atteggiamento non minaccioso e si alzò in piedi, andando avanti e indietro nell’esiguo spazio accanto al letto. — Signor Cee, ciò che io sono in grado di offrirle è un posto sicuro e un buon lavoro nella Libera Flotta dei Mercenari Dendarii. Basandomi soltanto sulle sue capacità telepatiche, purché siano effettive, io posso garantirle il grado iniziale di tenente nel Servizio Informazioni. Forse qualcosa di più, data la sua esperienza, ma comunque un grado da ufficiale. Se lei è stato addestrato fin dall’infanzia al controspionaggio militare, perché non mettere a frutto questa sua istruzione? Fra i Dendarii lei non sarà soggetto a nessun regime tirannico o struttura di potere come i Ghem-lord. Farà carriera solo con le sue capacità. E per quanto diverso lei pensi d’essere, troverà dei compagni a volte perfino più strani di lei…

— Non ne dubito — mugolò Ethan.

— … gente nata da donne come da replicatori uterini, persone provenienti da habitat che hanno mutato alcune loro caratteristiche umane. Uno dei nostri capitani più stimati, ad esempio, è un ermafrodita betano.

Agitava le braccia, annuiva con enfasi, se avesse potuto si sarebbe messa a volare come un angelo, pensò Ethan, per meglio promuovere la sua causa.

— Potrei farle notare, comandante Quinn, che il signor Cee ha già chiesto asilo politico al pianeta Athos.

Lei non si sprecò neppure a fare del sarcasmo. — Sì, lei ha chiesto protezione, signor Cee — disse subito. — Se è Millisor che teme, quale posto migliore che in mezzo a un esercito?

C’era il fatto, fu costretto a riflettere Ethan, che la comandante Quinn appariva molto avvenente quando si arrossava in viso e si eccitava così. Pochi uomini giovani, su Athos, avevano quel genere di avvenenza. E i non-athosiani trovavano attraenti le femmine… sbirciò Cee, senza parere, e fu sollevato nel vedere che appariva freddo e analitico. Notevole. Lo stesso Ethan, se tutta quella passione fosse stata diretta su di lui, avrebbe potuto sentirsi tentato di firmare l’ingaggio. Chissà se i Dendarii avevano bisogno di un medico-chirurgo?

— Suppongo — disse seccamente Cee, — che prima di assumermi il suo ammiraglio mi interrogherebbe.

— Be’ — lei si strinse nelle spalle. — Direi di sì.

— Con una droga della verità, senza dubbio.

— Ah… questa è la prassi con tutti i nuovi dipendenti del Servizio Informazioni. Nonostante la sincerità dei soggetti è possibile che qualcuno abbia ricevuto un "impianto’", materiale o psichico, senza saperlo.

— Un esame completo in tutti i sensi, dunque.

Lei sospirò un assenso. — Noi disponiamo dell’attrezzatura per tutti i test fisici e mentali, ovviamente. Se fosse necessario.

— E sapete come usarla. Se fosse necessario.

— Quella a cui presumo si stia riferendo, non la usiamo con la nostra gente. Solo con gli estranei.

— Signora — Cee si toccò la fronte. — quando questa cosa è attivata, io sono il più estraneo che lei abbia mai visto.

Un po’ dell’energia nervosa della mercenaria si spense, e per la prima volta mostrò i sintomi del dubbio. — Ah. Mmh.

— E se decidessi di non unirmi a voi… lei cosa farà allora, comandante Quinn?

— Oh, be’… — disse lei con un’aria che a Ethan parve quella di una gatta che stesse fingendo di non inseguire il topo. — Lei non è ancora fuori da Stazione Kline. Millisor è sempre in giro a darle la caccia. Io sono in erado di farle un favore o due…

Era un’offerta sincera, o dietro di essa si nascondeva la minaccia di consegnarlo ai suoi avversari?

— In cambio, lei può darmi altre informazioni su Millisor e sui servizi di controspionaggio cetagandani. Così avrò almeno qualcosa da riportare all’ammiraglio Naismith.

Ethan immaginò la gatta che orgogliosamente depositava il topo morto ai piedi del suo padrone.

Cee doveva aver visualizzato sospetti dello stesso genere, perché in tono sarcastico chiese: — La mia salma in un sacco di plastica servirebbe allo scopo?

— L’ammiraglio Naismith non è la persona che lei crede, glielo assicuro — disse Quinn.

Cee sbuffò. — Cosa ne sapete voialtri ciechi di quel che c’è davvero nella mente degli altri? Potete forse dire di conoscere a fondo qualcuno? Quando io la guardo, cieco come sono adesso ai suoi pensieri, cosa ne so di lei?

Costretta su quel piano retorico certo non molto pratico dal suo punto di vista, Quinn esitò. — Be’, non è esattamente con occhi ciechi che tutti noi giudichiamo gli altri — disse infine. — Noi soppesiamo le azioni e le parole, senza fermarci alle apparenze esterne. Facciamo le nostre ipotesi, per quanto in parte basate sulla fantasia. E poi decidiamo se fidarci o meno di una persona. — Si volse a Ethan con aria d’attesa e lui annuì, per onestà, anche se non aveva alcuna voglia di appoggiare le argomentazioni della mercenaria.

Cee scartò quelle parole con un gesto secco. — Sia le azioni che le parole possono mentire, o non fornire indizi sulla realtà. Io ho visto persone oneste servire passivamente dei criminali, convinte d’essere nel giusto. Quando dico che è cieca, lei non capisce fino a che punto lo è. — Andò verso la finta finestra e guardò l’ologramma del panorama silvestre, poi si girò di nuovo. — Io devo sapere. Devo sapere. — Li guardò entrambi, come se davanti a lui ci fosse un muro di tenebra in cui non vedeva niente. — Procuratemi un po’ di tyramina. Poi parleremo. Quando potrò sapere chi siete realmente.

Ethan si chiese se il disappunto che sentiva di avere sulla faccia fosse lo specchio di quello sulla faccia di Quinn. Si scambiarono un’occhiata, senza alcun bisogno della telepatia per intuire i pensieri dell’altro: Quinn era senza dubbio preoccupata dei suoi segreti e delle procedure del Servizio Informazioni Dendarii; lui, be’… era destino che Cee prima o poi scoprisse quale errore aveva fatto rivolgendosi a lui per essere protetto. Ma forse era meglio così. Ethan ebbe un sospiro di rimpianto al pensiero di dover rinunciare all’immagine di sé che aveva creato per gli occhi di Cee. Ma uno sciocco lo era due volte se cercava di nasconderlo. — D’accordo, per me sta bene — concesse in tono lugubre.

Quinn si stava mordicchiando un labbro con espressione assente. — Questo è obsoleto — mormorò. — Stando così le cose, ora dovranno cambiare tattica… ma Millisor sapeva già tutto questo. E il resto sono soltanto fatti miei, personali. — Si volse a Cee. — Come vuole.

Il giovanotto la guardò stupito. — Lei è d’accordo?

Quinn storse la bocca in una smorfia. — È la prima volta che il signor ambasciatore athosiano e io ci troviamo d’accordo su qualcosa, non è vero? — Inarcò un sopracciglio verso Ethan, che bofonchiò: — Umpf.

— A me occorre della tyramina pura — disse loro Cee. — Voi sapete dove trovarla?

— Oh, qualsiasi farmacia dovrebbe tenerne un poco — disse Ethan. — Ha un uso medicinale abbastanza esteso anche fuori Athos, da quanto ho letto nelle riviste di…

— C’è un problema, se bisogna per forza rivolgersi a una farmacia — lo interruppe bruscamente Cee, come irritato da quell’ipotesi.

Quinn annuì subito, con un sospiro. — Già, è ovvio.

— È ovvio cosa? — domandò Ethan.

— Ora capisco perché Millisor agisce sotto le spoglie di un commerciante — disse la mercenaria. — Si è dato molta pena per inserirsi nella rete commerciale computerizzata, senza preoccuparsi troppo di cercare tracce collegate alla presenza di turisti e lavoratori stranieri. Mi chiedevo perché, e quale misterioso motivo lo inducesse a buttare via soldi per iscriversi alla Camera di Commercio. — Nei suoi occhi neri brillava una luce soddisfatta.

— Ah, sì? — disse Ethan, perplesso.

— È una trappola, vero? — domandò Quinn a Cee.

Il giovanotto ebbe un cenno d’assenso.

La mercenaria spiegò a Ethan: — Millisor ha chiesto dei servizi alla rete commerciale computerizzata. Scommetto che se qualcuno, qui su Stazione Kline, acquista un medicinale che contiene una pur minima percentuale di tyramina, sulla sua consolle di comunicazione arriva automaticamente un messaggio. Dopodiché lui manda Rau, o Setti, o magari un impiegato della Camera di Commercio, a controllare se si tratta di un falso allarme. Oh, sì. Molto logico. Del resto, sono professionisti.

Quinn andò a sedersi e per qualche momento rifletté, grattandosi uno dei candidi incisivi superiori con un’unghia. Anche lei era una ex-mangiatrice di unghie, diagnosticò Ethan riconoscendosi in quel gesto.

Poi la bruna rialzò lo sguardo. — Forse ho il modo di aggirare questo ostacolo — mormorò.

Ethan non aveva mai pensato che un giorno gli sarebbe successo di lavorare a un posto d’ascolto di spionaggio, e trovava affascinante quella tecnologia. Terrence Cee si mostrava assai più distaccato, certo perché non era nuovo a esperienze simili e all’uso di strane attrezzature. I Dendarii, evidentemente, si basavano molto su oggetti micro-miniaturizzati di produzione betana. Soltanto la necessità d’interfacciarsi con gli occhi e le mani dell’uomo faceva sì che il terminale di controllo, appoggiato sul tavolino davanti a Cee e ad Ethan, avesse le dimensioni di un libro tascabile.

L’immagine inquadrata nel piccolo schermo olovisivo (una galleria all’altro capo di Stazione Kline, con negozi e passanti) tendeva a sobbalzare in un modo che disorientava lo sguardo, poiché la telecamera era mimetizzata in uno degli orecchini a forma di fiore fissati ai lobi degli orecchi di Elli Quinn. Ma con un po’ di concentrazione e dopo una mezzora di pratica Ethan riusciva a lasciarsi assorbire dalla scena che si svolgeva in quel settore. La camera d’albergo di Cee, dove aveva trascorso la notte, svanì dalla sua percezione, anche se il giovanotto biondo seduto accanto a lui poteva distrarlo con la sua presenza.

— Niente può andare male, se tu fai esattamente ciò che ti ho detto e ti comporti in modo normale — stava spiegando Quinn a suo cugino Teki, che quel mattino appariva fresco e riposato. Elegante nella linda uniforme verde-pino e azzurro-cielo. Teki non sospettava che la mercenaria stesse trasmettendo altrove la sua immagine. Il bendaggio bianco che il giorno prima gli ornava la fronte era stato sostituito da una striscia di plastica trasparente. Ethan notò che non c’era rossore o irritazione intorno ai bordi del taglio, già ben rimarginato.

— Non dimenticare che è l’assenza del segnale a indicare che tutto va annullato — continuò Quinn. — Io sarò nelle vicinanze, per ogni eventualità, ma tu non guardare mai direttamente verso di me; solo con la coda dell’occhio. Se non mi vedrai alzare una mano nel segno di "tutto bene’" sulla balconata, tornerai subito dentro e restituirai la roba al farmacista, dicendogli che hai sbagliato e che volevi l’altra medicina, il, uh…

— Tryptophan — mormorò Ethan. — Contro l’insonnia.

— Il tryptophan — continuò Quinn. — contro l’insonnia. Poi vai al lavoro come al solito. Non cercare di metterti in contatto con me. Passerò io più tardi a prendere la roba.

— Elli, questa faccenda ha qualcosa a che fare con l’individuo che mi hai chiesto di far uscire dalla quarantena ieri mattina? — volle sapere Teki. — Hai promesso che mi avresti raccontato tutto al momento giusto.

— Non è ancora il momento giusto.

— Stai lavorando per i Mercenari Dendarii, è così?

— Sai bene che sono in ferie.

Teki sorrise. — Sei innamorata di qualcuno di qui, allora? Se non altro è un progresso, rispetto al nanerottolo che viaggiava con te l’anno scorso.

— L’ammiraglio Naismith — disse rigidamente Quinn, — non è un nanerottolo. È una persona di bassa statura. E io non sono mai stata innamorata di lui, razza di ficcanaso cialtrone. Ammiro la sua intelligenza, tutto qui. — L’immagine oscillò quando scosse la testa con un sospiro spazientito. — È un professionista, capisci?

Teki mugolò qualcosa, scettico. — E va bene, ma se questa non è una cosa che stai facendo per il nanerottolo. di che si tratta? Non starai arrotondando la paga col commercio di droga o qualche altra strana illegalità, vero? Io sono sempre felice di farti un favore, ma non se questo deve costarmi il lavoro, dolcezza.

— Sei dalla parte della legge e del bene, te lo assicuro — disse Quinn, dandogli un colpetto nelle costole. — Ma se non ti metti subito in marcia farai tardi al tuo prezioso lavoro. Coraggio.

— E va bene. — Teki scrollò le spalle, senza prendersela. — Ma più tardi dovrai raccontarmi tutto, siamo intesi? — Si girò a guardare la galleria. — Comunque. se è tutto così legale e morale e giusto, perchè continui a dirmi che niente può andare male?

— Perché niente deve andare male — disse Quinn fra i denti, in una via di mezzo fra una minaccia e una preghiera, e gli fece cenno di avviarsi.

Pochi minuti dopo s’incamminò nella stessa direzione in cui era scomparso Teki. Ethan e Cee furono condotti in una lenta passeggiata davanti alle vetrine dei negozi. Soltanto un movimento cauto che consentì alla telecamera d’inquadrarlo li informò che il cugino della comandante Quinn era ancora in vista. Quando lei si fermò su una balconata riuscirono a scorgerlo; il giovanotto era entrato in una farmacia e stava aspettando il suo turno. Quinn si spostò fino a poterlo vedere attraverso la porta e poi regolò il microfono direzionale che aveva fra i capelli, regolandolo per oltrepassare la voce di un video che proponeva ai clienti un nuovo farmaco contro la nausea in assenza di peso.

— Dovrò farla arrivare dal magazzino — stava dicendo il farmacista, non abbiamo molte richieste di questa sostanza. Vediamo… — Batté qualcosa su una tastiera e guardò uno schermo. — Le sono state consigliate le pasticche da mezzo grammo, o quelle da un grammo?

— Uh… quelle da un grammo, mi sembra — rispose Teki.

— Bene, le ho richieste — disse l’uomo, e si girò verso il tubo della spedizione pneumatica. Ci fu una lunga pausa. Il farmacista bofonchiò tra i denti e batté ancora sulla tastiera. Lo sportello trasparente del tubo non si aprì. Il computer emise alcune note musicali. Il farmacista scosse il capo e introdusse di nuovo l’ordinazione.

— La trappola di Millisor al lavoro? — mormorò Ethan a Cee.

— È probabile. Un ritardo, per dare a uno di loro il tempo di intervenire. Spero di sbagliarmi, ma…

— Mi spiace, signore — disse il farmacista a Teki. — Sembra che in magazzino ci sia qualche intoppo. Se vuole accomodarsi lì, vado a prelevare le pillole personalmente. Ci vorranno pochi minuti.

Quinn si piegò sulla balaustra e controllò la ripresa della microcamera-orecchino con un minuscolo schermo da polso. Eseguì uno zoom trasmettendo a Ethan e Cee un’inquadratura del farmacista, che stava tirando fuori un catalogo o qualcosa del genere da sotto il banco. L’uomo soffiò via uno strato di polvere e uscì da una porta sul fondo, sfogliando le pagine.

Teki fece un sospiro e si gettò a sedere su un comodo divano, voltandosi a cercare Quinn con lo sguardo. Lei spostò l’inquadratura su un piccolo scaffale pieno di contraccettivi bisex, pillole gialle che avevano effetto per un mese. Anche la scena del depliant sullo scaffale era bisex, e tale che Ethan arrossì per l’imbarazzo. Sapeva che gli uomini e le femmine facevano quella cosa, ma vederlo esposto così… gettò un’occhiata di traverso a Cee, il quale non mostrava però la minima reazione. Ethan riportò fermamente lo sguardo sullo schermo olografico. Il giovanotto biondo era senza dubbio abituato a cose simili, dato che per sua stessa ammissione aveva vissuto in intimità con una femmina per parecchi anni. Probabilmente non vedeva nulla di sbagliato in quella cosa. Ethan desiderò che Quinn la smettesse d’interessarsi a quelle imbarazzanti specialità farmaceutiche.

— Topi — mormorò la mercenaria. — Sono svelti, dannazione.

L’inquadratura della microcamera si allargò di nuovo, e dopo un attimo di disorientamento Ethan vide che nella farmacia era entrato un altro cliente. Altezza media, abito grigio, compatto come una bomba… Rau.

Il cetagandano rallentò il passo, si voltò a guardare il banco dietro cui al momento non c’era nessuno, diede una lunga occhiata a Teki e poi gli voltò le spalle con indifferenza, comportandosi come un cliente qualsiasi. Fermo davanti allo scaffale dei contraccettivi si girò verso la porta, guardò fuori e vide Quinn dall’altra parte della galleria, appoggiata alla ringhiera. La bruna mercenaria doveva avergli elargito uno dei suoi sorrisi più abbaglianti, comprese Ethan, perché le labbra dell’uomo si curvarono in un involontario sorriso di risposta. Subito dopo, tuttavia, il cetagandano diede la schiena alla porta e a quella presenza che rischiava di distrarlo troppo.

Due minuti dopo il farmacista riapparve dal retro, salutò con un cenno del capo il nuovo cliente, mostrò a Teki una confezione di compresse con aria soddisfatta e si fece consegnare la sua carta di credito. Il computer la inghiottì e ne esaminò il contenuto, senza problemi e senza ritardi, quindi la restituì con l’accompagnamento di alcune soddisfatte note musicali.

Quando Teki uscì in strada, con la scatoletta in mano, Quinn non era più sulla balconata ma passeggiava davanti ai negozi. Invece di prender atto della cosa e di rientrare nel negozio, come Ethan gli stava "telepaticamente" gridando, il giovanotto si avviò con aria pigra e casuale nella galleria, gettando attorno occhiate nervose. Alla fine decise di sedersi su una panchina fra alcuni sempreverdi in vaso, davanti alla fontana, a una dozzina di metri dalla farmacia. Rau era uscito venti secondi dopo di lui, dopo aver acquistato qualcosa (o forse niente) con sorprendente rapidità, ma non s’era allontanato molto. Quando la mercenaria si volse per far inquadrare la scena dalla microcamera. Ethan vide che il cetagandano aveva introdotto un dischetto in un lettore e, con lo schermo in mano, si stava sedendo proprio sulla stessa panchina di Teki, a un metro di distanza da lui. L’individuo si concentrò sulla lettura. Quinn continuò a muoversi lentamente da una vetrina all’altra.

Se pure Teki aveva notato Rau (dopotutto era la seconda volta che veniva accostato, e Rau aveva l’aspetto di uno straniero) doveva avere ben altre preoccupazioni per la testa. Poco dopo il giovanotto consultò l’orologio da mignolo, probabilmente pensando al suo lavoro e irritato da quel ritardo. Ma invece di eseguire le istruzioni continuò a guardare Quinn, come in disperata attesa del segnale di via libera che lei avrebbe dovuto fargli con la mano. La bruna mercenaria seguitò a ignorare ostentatamente la sua esistenza. Alla fine, con sollievo di Ethan, Teki si alzò e cominciò a tornare verso la farmacia.

— Ehi, signore — lo chiamò Rau, con un sorriso. — Ha dimenticato qui il suo pacchetto! — E glielo indicò con un gesto cortese.

— Se il regno dei cieli è dei poveri di spirito, tu diventerai vice-presidente del Paradiso, Teki — mormorò fra i denti Quinn, che teneva il microfono direzionale puntato su di loro. — La presidenza me la sono già accaparrata io, fidandomi di te.

— Oh, guarda… grazie, molto gentile. — Teki raccolse la confezione dalla panchina e restò lì un momento con l’aria di non sapere cosa farsene. Rau annuì e tornò al suo schermo tascabile. Teki borbottò qualcosa fra sé e con passi decisi andò dritto verso la farmacia.

— Senta, mi scusi — disse al farmacista, mentre entrava, — ma è la tyramina oppure il tryptophan, che va bene contro l’insonnia?

— Il tryptophan, direi — rispose il farmacista. — Ma lei non mi ha parlato dell’insonnia, altrimenti le avrei detto…

— Lo so, abbia pazienza. Quello che volevo era il tryptophan.

Ci fu un breve ostile silenzio. Il farmacista si spolverò il camice con gesti ostentati. — Una confezione di tryptophan — disse infine. — Questa l’abbiamo in negozio, fortunatamente. Se mi consegna un momento la carta di credito, le rimborso la differenza.

— Non è stata una completa perdita di tempo — disse Quinn, togliendosi gli orecchini e riponendoli con cura nei piccoli vani imbottiti entro il coperchio del monitor. — Se non altro abbiamo la conferma che Millisor si attendeva questa mossa, e che il capitano Rau è molto solerte nella sorveglianza che hanno organizzato. Non che io ne dubitassi, comunque.

Rimise al suo posto anche il piccolo microfono direzionale, chiuse il coperchio e s’infilò il monitor in una tasca della blusa.

Poi abbassò uno sportello-sedia anche per sé e sedette vicino al tavolo estraibile di Terrence Cee. — Suppongo che uno di loro pedinerà Teki per una settimana, adesso, anche se Rau si è bevuto la scenetta della sostituzione. I cetagandani sono pignoli e sospettosi. Meglio così. Pensandoci bene, quella di farli stancare con un po’ di lavoro inutile può essere una buona tattica. Se Teki non fa la sciocchezza di venirmi a cercare, per ora tutto va bene.

Non quanto credi tu pensò Ethan, gettando un’occhiata in tralice al profilo di Terrence Cee. Il giovanotto era parso rinfrancato quando sembrava che avrebbero potuto avere la tyramina. Adesso era di nuovo taciturno e sospettoso, e si teneva sulle sue.

A parte la sua infelice promessa di offrire protezione a Cee, Ethan sapeva di non poter uscire da quell’intrigo finché Millisor fosse stato una minaccia per Athos. E anche se i loro scopi erano del tutto diversi e separati — quelli di Cee, quelli di Quinn e i suoi — risolvere in qualche modo la situazione avrebbe richiesto l’unione delle loro forze.

— Suppongo che potrei rubare un po’ di tyramina — disse senza entusiasmo Quinn, evidentemente conscia della freddezza di Cee. — Stazione Kline non è il luogo più adatto per rubare in un negozio, dato il continuo monitoraggio… — Tacque, rimuginando su qualche altra possibilità.

— C’è un motivo particolare per cui lei deve usare tyramina pura? — domandò all’improvviso Ethan. — Oppure basta che lei abbia nella circolazione sanguigna qualche milligrammo di tyramina, assunta in qualsiasi forma?

— Non lo so — rispose Cee. — Noi abbiamo sempre usato pasticche di tyramina pura.

Ethan corrugò le sopracciglia. Andò alla consolle di comunicazioni della camera, chiamò a schermo un indice e poi cominciò a battere sulla tastiera una lista di voci.

— Che stai facendo? — domandò Quinn sporgendosi verso di lui.

— Una prescrizione dietetica, per Dio il Padre — disse Ethan, con un sogghigno eccitato. — La tyramina si trova anche in molti alimenti, sa? Se lei si attiene a un menu che possa fornirle una certa concentrazione della sostanza… Millisor non può aver messo sotto controllo tutte le rivendite di generi alimentari al minuto e all’ingrosso della stazione, no? E non c’è niente d’illegale nell’andare a fare semplicemente la spesa. Probabilmente lei dovrà rivolgersi ai fornitori di cibi d’importazione per molte di queste cose… non credo che il distributore di questa camera possa offrire qualcosa di apprezzabile.

Quinn prese la lista che uscì dalla stampante, la lesse e inarcò le sopracciglia. — Tutta questa roba?

— Tutto ciò che lei può procurarsi.

— Il dottore sei tu. — La mercenaria scrollò le spalle e si alzò. Ebbe un sorrisetto ironico. — In ogni caso al signor Cee non farà male metter su qualche chilo.

Dopo un paio d’ore, durante le quali Ethan e Cee non trovarono niente da dirsi per ingannare l’attesa, Elli Quinn fece ritorno all’albergo con due grosse borse.

— Mi sono fatta aiutare da un’amica — disse, poggiandole sul tavolo. — Io ho già mangiato qualcosa. Questo è tutto per lei, signor Cee.

Il giovanotto biondo non parve molto entusiasta del cibo che la mercenaria cominciò a tirare fuori.

— Vedo che lei ha comprato molta roba — osservò Ethan.

— Non mi hai detto quanta avrei dovuto comprarne — ribatte Quinn. — Comunque, Cee non deve far altro che mangiare e bere finché la sua telepatia non comincia a funzionare. — Schierò come soldati le bottiglie di vino bianco, Borgogna e Champagne d’importazione, lo sherry, e i bulbi di birra chiara e scura. — O finché non perisce nel tentativo. — Intorno ai liquori dispose una forma di formaggio giallo di Escobar, un duro formaggio bianco di Sergyar, due qualità di aringhe sott’olio, una dozzina di tavolette di cioccolato, dei vasetti di sottaceti e altre cose ancora. — A meno che non vomiti tutto. — concluse.

L’unico prodotto delle vasche di crescita di Stazione Kline erano i cubetti di fegato di pollo, nella confezione autoriscaldante. Ethan pensò a Okita e scosse il capo quando Cee lo invitò ad assaggiarli. Prese qualcosa dagli articoli d’importazione, e imprecò fra i denti nel vedere le etichette col prezzo.

Quinn sospirò, con un sorrisetto aspro. — Sì, avevi ragione dicendo che non avrei trovato molto fra i prodotti nostrani. Hai un’idea di quanto sia diventato poco spiegabile il mio conto spese? — Guardò Terrence Cee, oltre le bottiglie e le confezioni sigillate che riempivano il tavolo. — Buon appetito.

La mercenaria si tolse le scarpe e si distese sul letto gonfiabile di Cee. con le inani intrecciate dietro la nuca e un’espressione di grande interesse sulla faccia. Ethan tolse il sigillo di plastica a una bottiglia da un litro di vino bianco, e dispose volonterosamente nel poco spazio libero le posate e i piatti usa-e-getta forniti dal distributore della camera.

Cee annusò con espressione dubbiosa i formaggi, sedette a tavola di fronte a lui e domandò: — Dottor Urquhart, è sicuro che questo metodo funzionerà?

— No — ammise lui con franchezza, — però mi sembra un esperimento abbastanza innocuo per l’organismo, se consideriamo che lei non sta assumendo sostanze pericolose.

Dal letto provenne un borbottio ironico. — La scienza è una cosa meravigliosa, no? — disse Elli Quinn.

CAPITOLO DECIMO

Tanto per far compagnia a Cee, Ethan mangiò alcuni cubetti di fegato di pollo, qualche sottaceto e un po’ di cioccolato; poi si lasciò convincere ad assaggiare i vini. Il chiaretto era aspro e scadente malgrado il prezzo, ma il Borgogna gli parve ben invecchiato e lo Champagne (come dessert) risultò all’altezza della sua fama. La leggerezza di cui si sentiva preda lo avvertì poi che quell’assaggio era già andato troppo in là. Si chiedeva come reggesse allo sforzo Cee, che seduto di fronte a lui mangiava e beveva doverosamente tutto ciò che poteva.

— Comincia a sentire qualcosa? — gli domandò Ethan. ansiosamente. — Vuole che le apra questo vasetto di aringhe? Ancora un po’ di formaggio piccante? Un bicchiere di birra?

— Un’insalata di pillole anti-nausea? — propose Quinn, premurosa. Ethan la guardò con disapprovazione. Cee rifiutò le loro offerte con un gesto e si pulì la bocca, deglutendo un ultimo boccone.

— Sono sazio, grazie — disse. Si massaggiò la nuca e il collo, e dal suo grugnito diagnosticò un incipiente mal di capo. — Dottor Urquhart, lei è certo che neppure una parte delle colture ovariche ricevute da Athos erano quelle spedite da Casa Bharaputra?

Ethan aveva l’impressione di aver risposto un milione di volte a quella domanda. — Ho aperto il contenitore io stesso, e in seguito ho esaminato il materiale ricevuto dagli altri centri. Non si trattava neanche di colture, ma di semplici pezzi di ovaie e carne morta.

— Janine…

— Se la sua, uh, donazione d’organi è stata usata per produrre cellule-uovo…

— È stata usata. Tutte e due le ovaie.

— … in tal caso non era nei contenitori. Neppure una frazione.

— Io stesso ho assistito al confezionamento dei pacchetti sigillati — disse Cee. — Ero presente quando i contenitori sono stati spediti, al reparto merci dello spazioporto, sul Gruppo Jackson.

— Questo restringe, anche se di poco, il tempo e il luogo dov’è avvenuta la sostituzione — disse Quinn. — Può essere accaduto qui su Stazione Kline, nei due mesi che il materiale ha trascorso in magazzino. Ciò lascia, se ricordo bene, uh, 426 astronavi di cui andrebbe riesaminata la lista dei passeggeri e il carico. — Sospirò. — Un lavoro, sfortunatamente, oltre le mie possibilità.

Cee versò del Borgogna in un bicchiere di plastica e bevve ancora. — Oltre le sue possibilità, o semplicemente di nessun interesse per lei?

— Mmh… e va bene, entrambe le cose. Voglio dire, se io volessi davvero rintracciare quel carico potrei aspettare che sia Millisor a fare il lavoro e limitarmi a tenerlo d’occhio. Ma l’interesse delle colture ovariche sta soltanto nel fatto che contengono un materiale genetico il quale, se ho capito bene, è anche nelle sue cellule. Una manciata di capelli o una provetta del suo sangue potrebbero bastarmi. Oppure, per fare meglio le cose, un po’ di… — Tacque, lasciando che Cee capisse a quale altro tipo di prelievo stava alludendo.

Il giovanotto cambiò discorso. — Io non posso aspettare che Millisor rintracci quelle colture. Appena lui e la sua squadra avranno finito i loro controlli sui passeggeri arrivati di recente, sapranno che io sono qui su Stazione Kline.

— Lei ha ancora un certo margine di tempo — osservò Quinn. — Sono certa che i cetagandani sprecheranno delle giornate dietro quel povero innocente di Teki, per scoprire se lei lo contatta. Forse si annoieranno al punto di rinunciare e andranno via da qui — si augurò, — risparmiandomi così di completare un lavoro antipatico per conto di Casa Bharaputra.

Cee si volse a Ethan. — Athos non vuole il materiale che ha ordinato e pagato?

— Ci abbiamo rinunciato. Ritrovarlo significherebbe risparmiare la spesa di un’altra ordinazione, ma temo di non vedere dove starebbe il nostro guadagno se Millisor venisse a cercare quelle ovaie su Athos, seguito da un esercito e con propositi di genocidio nella mente. È così ossessionato dal timore che qualcuno possa averle, che… in realtà vorrei potergli consegnare io stesso quella dannata roba, per assicurarmi che Athos si liberi di lui una volta per tutte. — Allargò le mani verso Cee. — Mi scusi, ma le cose stanno così.

Cee sorrise mestamente. — Non si scusi per la sua onestà, dottor Urquhart. — In tono più teso continuò: — Ma lei deve capire che non possiamo permettere che quel complesso genetico cada nelle loro mani. La prossima volta saranno molto più sottili nell’assicurarsi che i telepati siano schiavi fedeli dei Ghem-lord, e non ci sarà limite all’uso corrotto e mostruoso che sapranno farne.

— Possono davvero allevare esseri umani privi di libero arbitrio? — domandò Ethan, con un brivido. La vecchia frase "È un abominio agli occhi di Dio il Padre" sembrava riempirsi di un significato molto reale e inquietante. — Devo ammettere che l’idea non mi piace affatto, seguendola fino alle sue logiche conclusioni. Macchine di carne, capaci di…

Quinn lo interruppe, dal letto, in un tono che Ethan cominciava a riconoscere come il prodotto di un pensiero assai rapido: — A me sembra che il genio sia ormai uscito dalla bottiglia, sia che Millisor ritrovi o non ritrovi quel materiale. Millisor pensa in termini di operazione da controspionaggio, per semplice abitudine di lavoro. Lo cerca con tanto accanimento solo per assicurarsi che nessun altro lo abbia. Ma ora che Cetaganda ha ottenuto un certo risultato scientifico, dimostrando che è possibile, è solo questione di tempo prima che qualcun altro lo replichi. Dieci anni, venti al massimo. Quando i cetagandani avranno schiere di telepati con cui schiacciare l’opposizione al loro regime, ci saranno già eserciti di telepati liberi che si opporranno ad essi. — Il suo sguardo scrutò Cee come se cercasse qualche punto del suo corpo da cui prelevare subito un po’ di preziose cellule.

— E cosa le fa pensare che al servizio del suo ammiraglio Naismith farei qualcosa di meglio di quando lavoravo per i cetagandani?

Quinn si schiarì la gola. Il telepate le stava leggendo nella mente fin da quando aveva cominciato a far domande, comprese Ethan, e lei se ne rendeva conto.

— In questo caso, spedisca un campione del suo tessuto organico a tutti i governi della galassia, se preferisce. — Ebbe un sogghigno lupesco. — Millisor sarà richiamato in patria per riscuotere il prezzo del suo fallimento, lei avrà avuto la sua vendetta, e Athos tornerà ad essere un posto privo d’interesse per tutti. Mi sembra una soluzione rapida ed efficiente.

— Una soluzione da cui nascerebbero cento razze di schiavi? — disse Cee. — Cento minoranze di mutanti, temute e odiate, o controllate da regimi dittatoriali con tutti i mezzi ritenuti necessari dai loro padroni? Schiavi alla catena… o esseri umani destinati a fuggire in eterno, sempre incalzati da chi li teme troppo per consentire che esistano?

Ethan non aveva mai immaginato di trovarsi all’incrocio di eventi decisivi per la storia umana. Il guaio di quella posizione, scoprì, era che in qualsiasi direzione uno guardasse vedeva davanti a sé un pendio scivoloso, un percorso incontrollabile verso lo strano genere di futuro in cui avrebbe dovuto vivere. Non era mai stato così ansioso di pregare, né così incerto se questo sarebbe servito a qualcosa.

Cee scosse il capo e bevve ancora. — Per me, io ne ho abbastanza. Non voglio più saperne. Tre anni fa ho camminato nel fuoco, ma lo facevo solo per Janine.

— Ah — disse Quinn. — Janine.

Il giovanotto la fissò con occhi duri. Non era per niente ubriaco, comprese Ethan. — Lei vuole la sua libbra di carne, mercenaria. Le faccio il prezzo, allora. Mi trovi Janine.

Quinn storse le labbra. — Ciò che ne resta, vuol dire, nelle colture che gli athosiani hanno ordinato come spose-in-vitro? È un problema. Si arrotolò una ciocca di capelli intorno a un dito. — Lei si rende conto, suppongo, che la mia missione qui è finita. Ho già fatto il mio lavoro. Potrei metterla fuori combattimento con lo storditore lì dove si trova, prelevarle un campione di tessuto e sparire prima che lei si svegli.

Cee si agitò, a disagio. — E allora?

— Gliel’ho detto perché lei capisca i fatti.

— Cosa vuole da me? — la sfidò Cee, rabbiosamente. — Pretende che io mi fidi di lei?

Quinn strinse le labbra. — Lei non si fida di nessuno. Non lo ha mai fatto. Però si aspetta che gli altri si fidino di lei.

— Ah — disse Cee. annuendo seccamente. — Si riferisce a questo.

— Lei dica ad altri una sola parola di questo — sorrise Quinn a denti stretti, — e io organizzerò per la sua persona un’uscita di scena ancor più completa di quella di Okita

— I suoi segreti e quelli del suo ammiraglio non hanno il minimo interesse per me — disse Cee rigidamente. — Sono cose poco rilevanti in questa situazione, comunque.

— Sono rilevanti per me — borbottò Quinn, ma gli concesse un cenno d’assenso, accettando la sua implicita assicurazione che avrebbe rispettato il silenzio.

Tutti i peccati che Ethan aveva commesso o contemplato gli balzarono alla mente, fuggendo dalle stanze del suo passato in cui li aveva chiusi e nascosti. Capiva bene da cosa nasceva la minaccia di Quinn. Ed evidentemente questo suo sentimento non sfuggì a Cee, perché il giovanotto biondo distolse lo sguardo dalla mercenaria e si girò verso di lui.

All’improvviso Ethan si sentì spaventosamente nudo. Tutte le cose a cui avrebbe voluto evitare di pensare sembravano affollarsi nella sua testa. L’affascinante bellezza fisica di Cee, ad esempio, la sua personalità intelligente e nervosa, quei meravigliosi occhi azzurri… Ethan maledisse il debole che aveva per i ragazzi biondi e snelli, e distolse a stento la mente dalle immagini di un rapporto sessuale. Dopo essersi visto nudo nelle sue fantasie erotiche, Cee non si sarebbe più lasciato ingannare dalla sua distaccata aria professionale da medico. Ethan invidiò disperatamente l’indifferenza e l’autocontrollo di Quinn.

Ma poteva fare di peggio. Poteva pensare a quanto fragile era la protezione di Athos che lui doveva teoricamente fornire a Cee, come ricompensa per tutte le cose che il telepatc gli aveva rivelato. Quanto si sarebbe sentito tradito e in pericolo Cee, dopo aver capito che l’asilo politico di Athos consisteva nelle chiacchiere di uomo incapace perfino di proteggere se stesso? Ethan arrossì, ancor più vergognoso di prima, e abbassò lo sguardo sul pavimento.

Stava per lasciare Cee all’eccitante vita avventurosa dei Mercenari Dendarii ancor prima di aver avuto la possibilità di parlargli di Athos… i mari azzurri, le tranquille cittadine, l’ordinata vita sociale, le fattorie nelle regioni terraformate. e oltre quei confini le zone desertiche coi loro affascinanti aspetti climatici e le bizzarre comunità di Emarginati… i saggi, anche se scostanti, eremiti che si davano alla contemplazione, i fuorilegge… Ethan immaginò se stesso mentre conduceva Cee in barca sulla costa della Provincia Meridionale, per mostrargli i recinti sommersi degli allevamenti di pesce di suo padre (Cetaganda aveva mari?) gli operai abbronzati dal riflesso dell’acqua salmastra, il duro lavoro sotto il sole caldo, e la birra fresca bevuta di sera sotto un pergolato.

Cee ebbe un fremito, come un uomo che si distogliesse con uno sforzo da un sogno indotto dalla droga. — Ci sono mari su Cetaganda, sì — mormorò, — ma io non li ho mai visti. Ho sempre vissuto nei corridoi, nei laboratori, nelle prigioni.

Il rossore di Ethan si estese al collo e agli orecchi. Si sentiva trasparente come vetro.

Quinn, che lo guardava, ridacchiò senza alcuna allegria per comunicargli che capiva perfettamente. — Signor Cee, credo che il suo talento non le procurerà molti inviti ai ricevimenti della buona società.

Il giovanotto parve tirarsi fuori dal bozzolo dei pensieri altrui con uno sforzo di volontà. Ethan ne fu sollevato.

— Se potete dare asilo politico su Athos a me, dottor Urquhart, perché non prendere anche l’eredità di Janine? E se non potete proteggervi da Millisor, perché suppone di…

Il sollievo di Ethan abortì. Ma ormai mentire sarebbe stato assurdo. — Io non riesco ancora a immaginare come uscire vivo da questo guaio — ammise, sconfortato. — figuriamoci come tirarne fuori lei. — Diede uno sguardo a Quinn. — Ma non ho intenzione di gettare la spugna. Il mio lavoro non è finito.

La mercenaria alzò un dito a indicare che accusava il colpo. — Potrei farvi notare, signori, che prima di pensare a cosa fare con quel materiale genetico bisogna scoprire se esiste ancora e dove lo hanno portato. Ora, in questa dannata equazione sembra che manchi un elemento. Cerchiamo di restringere il campo d’indagini. Se Millisor non ha quel carico, chi può averlo?

— Chiunque abbia scoperto di cosa si trattava — rispose Cee. — Governi planetari rivali. Organizzazioni criminali. Flotte di mercenari indipendenti.

— Badi a chi mette nello stesso mazzo, Cee — brontolò Quinn.

— Casa Bharaputra sapeva di che si trattava — suggerì Ethan.

Quinn sorrise a mezza bocca. — E loro appartengono a due di quelle tre categorie, essendo sia un governo privato sia un’organizzazione criminale… ahem. Scusate i miei pregiudizi. Sì, alcune persone di Casa Bharaputra sapevano probabilmente anche quello che lei, Cee, non ha voluto dir loro. Ma ormai costoro sono morti e sepolti. A quanto ho capito io, Casa Bharaputra non sa più quale uovo aveva covato. I dirigenti con cui ho parlato non mi hanno certo messo a parte dei fatti loro, però devo presumere che se avessero saputo quant’erano importanti quelle colture mi avrebbero chiesto di mettere nelle loro mani Millisor vivo, per poterlo interrogare, invece di ordinarmi esplicitamente la sua eliminazione fisica. — Inarcò un sopracciglio verso Cee. — Lei ha senza dubbio conosciuto la loro mentalità meglio di me. Pensa che il mio ragionamento regga?

— Sì — ammise Cee con riluttanza.

— Stiamo girando in cerchio — fece notare Ethan.

Quinn srotolò la ciocca di capelli. — Già.

— C’è la possibilità che sia intervenuto qualcun altro — disse ancora Ethan. — Un estraneo, giunto per caso a conoscere alcuni fatti. Il capitano di un’astronave. ad esempio, o…

— Senta — brontolò Quinn. — io ho detto di restringere il campo delle possibilità, non di allargarlo! Mi servono informazioni. Fatti. — Si alzò in piedi. Scrutò il giovanotto biondo. — Pensa di aver finito per oggi, signor Cee?

Lui si stava palpeggiando una tempia con aria sofferente. — Sì. l’effetto si è smorzato. Non sento più niente.

Ethan lo guardò preoccupato.

— Sente dolore? È una cosa collegata alla telepatia?

— Sì. Non importa. È sempre così. — Cee andò a sdraiarsi sul letto e si coprì il volto con una mano.

— Cosa pensa di fare? — domandò Ethan a Quinn, che stava uscendo.

— Per prima cosa guarderò se nelle mie trappole per dati è rimasta imprigionata qualche informazione. Poi cercherò di sondare con molta discrezione il personale dei magazzini. In quanto a ciò che il supervisore umano di un sistema automatizzato potrà ricordare di un singolo carico, a sette mesi di distanza dai fatti… Oh, be’. Se non altro avrò scartato una pista. Tu potresti restare qui anche oggi, dottor Urquhart; questo posto è sicuro quanto un altro. — Un cenno del capo gli suggerì in silenzio: E già che ci sei, tieni d’occhio il nostro amico.

Ethan ordinò alla consolle di servizio della stanza tre quarti di grammo di acido acetil-salicilico e un po’ di vitamina B. e mise le due pasticche in mano al giovane telepate.

Cee le ingoiò e si girò di fianco, rivolgendogli un gesto mi-lasci-stare-io-posso-anche-morire che non ebbe certo l’effetto di tranquillizzarlo. Ma dopo una ventina di minuti la sofferente apatia che s’era impadronita di lui lasciò il posto al sonno.

Ethan rimase a vegliarlo e ruminò sulle sue scarse possibilità d’azione. Lui non aveva niente da offrire, o almeno niente di simile al repertorio di trucchi elettronici e di esperienza che Quinn sapeva usare così bene. Tutto ciò che aveva era la crescente convinzione che stessero avvicinando il problema dall’estremità sbagliata.

Il ritorno di Quinn svegliò Ethan, addormentato sul pavimento. Si tirò in piedi e andò ad aprire la porta, sfregandosi gli occhi appiccicosi. I polpastrelli delle dita gli dissero che avrebbe dovuto farsi la barba. Forse Cee poteva prestargli un rasoio, o un po’ di depilatore.

— Dov’è stata fin’ora? Ha trovato qualcosa? — le domandò.

La mercenaria scrollò le spalle. — Millisor continua a mantenere la sua routine di copertura. Rau, come già sappiamo, lavora al suo posto d’ascolto per il monitoraggio delle richieste di tyramina. Potrei fare una chiamata anonima alla Sicurezza della Stazione per rivelare dove si trova, ma se poi evadesse di nuovo dal Reparto Detenzione non saprei più dove andare a cercarlo. In quanto al supervisore del magazzino, è in grado di bere litri di acquavite di marca e di parlare per ore di ciò che ha fatto fino al massimo di una settimana fa, ma oltre questo limite non ricorda nulla. — Lei doveva avergli fatto buona compagnia, a giudicare dal suo alito.

Svegliato dalle loro voci, Cee si tirò a sedere sul letto. Esaminò la situazione, mugolò: — Ah! — e tornò a sdraiarsi, lentamente e sbattendo le palpebre. Dopo un poco si alzò di nuovo. — Che ore sono?

— Le diciannove zero-zero — rispose Quinn.

— Dannazione — Cee si alzò in piedi con cautela. — Ieri era il mio giorno di libertà, ma oggi devo andare al lavoro. Sono nel turno di notte.

— È proprio necessario? — domandò ansiosamente Ethan.

Quinn annuì giudiziosamente. — È meglio che mantenga la sua copertura il più a lungo possibile. Finora ha funzionato bene.

— Quello che devo mantenere è la mia paga — disse Cee, — se voglio comprarmi un biglietto per andar via da questa trappola per topi.

— Io posso pagarle una cabina su una nave passeggeri — offrì Quinn.

— Quella su cui partirà lei, eh? — disse Cee.

— Be’, naturalmente.

Cee scosse il capo e andò nel bagno, con una tuta fra le mani.

Quinn vide la carta di credito del giovanotto, la infilò nella consolle e ordinò al distributore succo d’arancia e caffè. Ethan ripulì il piccolo tavolo per fare un po’ di posto e accettò con gratitudine entrambe le bevande.

Quinn succhiò un sorso di liquido nero e caldo dal bulbo trasparente.

— Be’, il mio pomeriggio non è stato molto proficuo, dottore. E il tuo? Cee ha detto qualcosa di nuovo?

Lo stava dicendo solo per fare conversazione, pensò Ethan. Probabilmente la bruna mercenaria aveva registrato ogni loro sussurro.

— Abbiamo dormito finora — rispose, bevendo il caffè. Era una miscela artificiale dal sapore irriconoscibile, senza dubbio derivata da prodotti innominabili riciclati un milione di volte, ma Ethan rifletté che andava sul conto di Terrcnce Cee e non volle lamentarsi. — Comunque, ho pensato al problema di come rintracciare quel carico. Mi sembra che finora abbiamo affrontato la cosa nel modo sbagliato. Guardi, ad esempio, il genere di materiale che è arrivato su Athos.

— Spazzatura, a quanto hai detto. In tutti gli scatoloni.

— Sì, però…

Tre deboli note musicali, come quelle di un telefono portatile, uscirono da una tasca della blusa bianca e grigia di Quinn. Lei si frugò addosso mormorando: — Cosa diavolo… oh, no. Teki, ti avevo detto di non chiamarmi mai… — Quello che tirò fuori non era però un portatile, ma un minuscolo apparecchio sul cui display palpitava un numero.

— Cos’è? — domandò Ethan.

— Un rintracciatore. Poche persone hanno il mio codice. Non lo si ottiene dai computer della stazione, ma Millisor ha un’attrezzatura che potrebbe… uh, questo però non è il numero telefonico di Teki, neppure quello del suo ufficio.

Quinn andò a sedersi alla consolle di comunicazione e usò ancora la carta di credito di Cee. — Tu non parlare, dottore, e stai fuori dal campo della telecamera.

Compose il numero e la persona che aspettava la sua chiamata apparve subito sulla piastra olovisiva. Si trattava di una femmina giovane dai capelli biondi, vide Ethan, vestita con una tuta azzurra.

— Oh — disse Quinn, sollevata. — Sei tu, Sara. — Le sorrise. — Che c’è di nuovo?

La bionda non rispose al suo sorriso. — Salve, Elli. Teki è lì con te?

Una goccia di caffè uscì dal tubicino quando la mano di Quinn strinse convulsamente il bulbo. Il suo sorriso s’incrinò. — Con me? Ti ha detto che veniva a cercarmi?

Gli occhi di Sara si strinsero.

— Non fare questi giochetti con me, Elli. Puoi riferire a quel signore che io ero alla Felce Azzurra, puntuale come sempre. E che nessuno può farmi aspettare tre ore come una stupida, specialmente dopo che una persona di mia fiducia, non dico chi, lo ha visto insieme a tu-sai-chi.

Guardò la blusa bianca e grigia di Quinn e si accigliò. — Comunque l’ho sempre saputo che gli piacciono le uniformi. Ora devo andare. Ah… già che ci sei, digli pure che una certa festicciola, stasera, non avrà bisogno della sua presenza, perché è una festicciola fra amici. — E mosse una mano verso il pulsante di spegnimento.

— Aspetta, Sara! Non staccare. Teki non è qui con me. Lo giuro! — Quinn, che s’era piegata in avanti come per entrare nell’olovideo, si rilassò quando vide la mano della bionda fermarsi. — Che significa questa storia? L’ultima volta che io ho visto Teki è stato questa mattina, prima che andasse al lavoro. So che poi è andato all’Ufficio Ecologico. Aveva appuntamento con te, oggi pomeriggio?

— Doveva portarmi a cena fuori, e poi a un balletto zero-G, per il mio compleanno. Lo spettacolo è cominciato un’ora fa. — La ragazza fece un respiro per calmarsi, ma era sempre più irritata. — Ho pensato che avesse da fare sul lavoro, e ho telefonato là. Ma mi hanno detto che è uscito alla solita ora.

Quinn guardò l’orologio. — Capisco. — Le sue mani si strinsero sul bordo della consolle. — Hai provato a chiamare casa sua, o qualcuno dei suoi amici?

— Ho chiamato dappertutto. Il tuo numero me l’ha dato tuo padre. — La ragazza si accigliò ancora, sempre insospettita.

— Ah. — Le dita di Quinn tamburellarono sulla fondina del suo storditore, ora sostituito da un modello non militare. — Ah. — Ethan, distratto per un momento dal pensiero che anche Quinn avesse un padre, si sforzò di prestare attenzione.

Lo sguardo di Quinn tornò sulla ragazza bionda inquadrata sullo schermo. La sua voce si fece secca e autoritaria, con una nota dura.

Involontariamente Ethan pensò che quello doveva essere il suo modo di fare in battaglia, da comandante militare. — Hai già informato la Sicurezza della Stazione?

— La Sicurezza della Stazione! — si stupì la ragazza. — Elli, perché dovrei farlo?

— Chiamali subito, e denuncia la scomparsa di Teki. Chiedi che diano subito inizio alla procedura per le persone scomparse.

— Per un giovanotto che è in ritardo a un appuntamento? Elli, li farò ridere. Non è che mi stai prendendo in giro, per caso? — disse Sara, incerta.

— No, sto parlando molto sul serio, credimi. Fatti passare il capitano Arata. Digli che la comandante Quinn appoggia la tua denuncia. Lui non riderà.

— Ma Elli…

— Fallo subito! Io devo andare. Mi rimetterò in contatto con te appena potrò.

L’immagine della ragazza bionda si dissolse in una nevicata brillante. Quinn imprecò sottovoce.

— Cosa sta succedendo? — volle sapere Cee, che in piedi davanti alla porta del bagno si allacciava i polsini della tuta verde che aveva indossato.

— Credo che Millisor abbia prelevato Teki per interrogarlo — disse Quinn. — Se è così, la mia copertura è andata in fumo. Dannazione! Non c’era nessun motivo logico perché Millisor facesse una cosa simile. Ha cominciato a pensare con le gonadi? Questo non sarebbe da lui.

— La logica della disperazione, forse — disse Cee. — La scomparsa di Okita lo ha allarmato molto. E la ricomparsa del dottor Urquhart ancora di più. Lui ha… uh, alcune sue strane teorie sul dottor Urquhart.

— Sulla base delle quali — annuì Ethan. — lei si è dato la pena di venire a cercarmi. Mi spiace di non essere il superagente che lei si aspettava.

Cee lo guardò in modo strano. — Non se la prenda così.

— Io volevo fare pressione su Millisor. — Quinn si mordicchiò un’unghia con uno schiocco udibile. — Ma non fino a questo punto. Non gli ho dato nessun motivo di rapire Teki. Sono certa che non sarebbe successo nulla, se lui avesse seguito alla lettera le mie istruzioni senza cincischiare tanto… ma non avrei dovuto coinvolgere un non-professionista. Perché ho pensato soltanto alla nostra sicurezza? Quel povero Teki non sa neppure cosa gli è piombato addosso.

— Lei non ha avuto nessuno scrupolo anche quando si è trattato di coinvolgere me — le annotò Ethan, rigidamente.

— Tu eri già coinvolto. E inoltre non spettava a me farti da balia, visto che non è certo colpa mia se Athos è nel mirino di questi cetagandani. e… — Fece una pausa e lo guardò stranamente, come Cee poco prima. — Comunque, non devi sottovalutarti — concluse.

— Adesso dove sta andando? — la fermò Ethan allarmato, mentre lei attraversava la stanza.

— Ho intenzione di… — cominciò lei con fermezza. La sua mano, già alzata verso il pulsante della porta, esitò e si riabbassò. — Ho intenzione di pensarci bene.

Si volse e andò avanti a indietro, ai piedi del letto. — Perché lo stanno trattenendo così a lungo? — chiese. Ethan non capì se lo stesse domandando a lui, a Cee o all’aria. — Avrebbero dovuto tirargli fuori tutto quello che sapeva in quindici minuti, provocargli un vuoto di memoria e poi lasciare che si risvegliasse in un’auto a bolla, convinto di aver dormito per tutto il percorso. E nessuno avrebbe sospettato nulla, neppure io.

— Hanno scoperto tutto ciò che io sapevo in quindici minuti — la informò Ethan, — ma non per questo si sono fermati lì.

— Sì, però nel tuo caso avevano buoni motivi per sospettarti, dato che come sai ti avevo regalato una microspia con quel proiettore. Ma addosso a Teki non ho messo niente, proprio perché non volevo fargli correre lo stesso pericolo. Inoltre loro possono sapere chi è Teki esaminando le registrazioni di Stazione Kline fino al giorno della sua nascita. Tu eri un uomo senza passato, o almeno con un passato inaccessibile per i cetagandani, il che dava spazio alle loro fantasie paranoiche.

— Il risultato è stato che ci hanno messo sette ore per convincersi che potevano tranquillamente eliminarmi — disse Ethan.

— Tuttavia — intervenne Cee, — dopo la scomparsa di Okita si sono convinti che lei è un agente capace di resistere con successo a sette ore di interrogatorio. Forse ora sono molto meno disposti a crederci, quando uno gli risponde "io non so niente" anche con una dosa di penta-rapido nelle vene.

— In questo caso — disse cupamente Quinn, — prima riesco a tirare Teki fuori di là, meglio è.

— Mi scusi — disse Ethan, — ma fuori di dove?

— È probabile che si tratti dell’alloggio di Millisor. Dove hanno interrogato te. La loro camera "pulita", dove non ho mai potuto infiltrare una microspia. — Quinn si passò nervosamente una mano fra i capelli. — Come diavolo posso riuscirci? Un attacco frontale a un posto ben difeso, in mezzo a una quantità di innocenti indifesi e nell’ambiente delicato di una stazione spaziale… no, questo non sembra molto pratico.

— Come ha fatto a salvare il dottor Urquhart? — domandò Cee.

— Ho aspettato, con molta pazienza, che lo portassero fuori. Ho aspettato a lungo per avere una buona possibilità d’intervenire con qualche speranza di successo.

— Ho apprezzato molto la sua pazienza — disse Ethan. con serietà. Si scambiarono un sorrisetto rigido.

La mercenaria continuò ad andare avanti e indietro come una tigre in gabbia. — Sono stata preceduta. So che è così. Lo sento. Millisor mi cercherà, attraverso Teki. E Millisor è uno che non ha inibizioni quando si tratta di far parlare la gente. Q.E.D. Quinn Erat Dementis. Mio Dio. Non farti prendere dal panico, Quinn. Cosa farebbe l’ammiraglio Naismith, in questa situazione? — Si fermò, lo sguardo fisso sulla parete nuda.

Ethan immaginò navette da combattimento Dendarii che schizzavano fuori dal punto di balzo, truppe d’assalto in scafandro spaziale, piattaforme antigravità armate con terribili cannoni a plasma che si spostavano nell’aria…

— Mai fare di persona — mormorò Quinn. — quello che un esperto con l’attrezzatura adatta può fare al tuo posto. Questo è ciò che lui direbbe. Judo tattico, dal Manuale del Mago dello Spazio. — Nella sua immobilità c’era il dinamismo della meditazione Zen. Quando si girò, lo sguardo le brillava d’eccitazione. — Sì, questo è proprio ciò che lui farebbe! Astuto piccoletto dalla mente contorta, io ti amo! — La sua mano destra scattò in un saluto militare diretto a una presenza invisibile, poi infilò di nuovo la carta di credito di Cee nella consolle e batté un numero.

Perplesso, Cee gettò un’occhiata interrogativa a Ethan, che si strinse nelle spalle.

Sulla piastra video si materializzò il mezzobusto di un’impiegata dall’aria sveglia in tuta verde-pino e azzurro-cielo. — Pronto Intervento Biocontrollo-Epidemiologia. Buonasera. Cosa possiamo fare per lei? — domandò cortesemente, guardando l’interlocutrice.

— Buonasera. Devo fare rapporto su un sospetto vettore di contagio — disse Quinn, nel suo tono più serio e professionale e con una sfumatura d’urgenza.

— Siamo qui per questo. — L’impiegata girò uno schermo verso di sé e batté qualcosa su una tastiera. — Soggetto umano o animale?

— Umano.

— Visitatore, o cittadino della stazione?

— Visitatore, maschio, adulto. Ma in questo momento è sul punto di trasmettere il contagio a un cittadino di Stazione Kline.

L’impiegata si mostrò subito più interessata. — E la natura del contagio?

— Plasmosi virale Alpha S-D-3.

La mano dell’impiegata si fermò sulla tastiera. — La plasmosi virale Alpha S-D-2 è una necrosi delle mucose epiteliali trasmessa per contatto sessuale, originaria di Varusa Tertius. È questo il contagio a cui si riferisce?

Quinn scosse il capo.

— Questo è un nuovo e più virulento ceppo mutante dei virus che trent’anni fa ha praticamente sterminato la popolazione di un emisfero di Varusa Tertius. Il vaccino per il tipo S-D-3 non è stato ancora bio-programmato, come lei avrà certo saputo… Non ne siete al corrente, lì al Biocontrollo?

L’impiegata aveva sollevato le sopracciglia. — No, signora. — Batté altre cose, furiosamente, e poi si girò a prendere anche una nota scritta che consegnò a qualcuno fuori campo. — E il nome del sospetto vettore del contagio?

— Ghem-lord Harman Dal, un cittadino cetagandano, commerciante di oggetti artistici e artigianali. Ha appena aperto un’agenzia sulla Passeggiata di Viaggiatori, con una licenza avuta dalla Camera di Commercio poche settimane fa. È già venuto in contatto con una dozzina di persone. Non tutte dell’altro sesso, a quanto mi risulta.

Harman Dal, si appuntò Ethan, doveva essere l’altra identità di Millisor.

— Santo spazio — mormorò l’impiegata, — darò inizio alla procedura. Ah… — Fece una pausa, cercando le parole. — Come è venuta a conoscenza della malattia di questo individuo?

Lo sguardo fermo di Quinn si distolse dal volto dell’impiegata per abbassarsi ai suoi piedi, po’ su un angolo lontano della stanza, poi sulle sue mani. Si schiarì la gola. Sarebbe arrossita, se avesse avuto il tempo di trattenere il fiato abbastanza a lungo. — Lei come crede che io ne sia venuta a conoscenza? — disse, alla fibbia della sua cintura.

— Ah. — L’impiegata spalanco gli occhi. — Be’, in questo caso devo informarla che lei ha l’obbligo di presentarsi quanto prima a questo ufficio. Le assicuro che tutti i casi di malattie che riguardano la sfera intima sono mantenuti rigorosamente confidenziali. Lei potrà essere visitata dal nostro primario del Reparto Malattie Infettive, del tutto gratuitamente…

— Voglio sperarlo — annuì Quinn. mostrando un improvviso nervosismo. — Posso venire giù subito? Però senta… temo che se non intervenite con urgenza quel porco di Dal metterà nelle vostre mani tredici pazienti invece di dodici.

— Le assicuro, signora, che il nostro dipartimento sa come occuparsi di questi casi delicati. La prego di appoggiare sullo schermo un suo documento d’identità, in modo che il computer possa leggerlo.

Quinn eseguì, promise ancora di presentarsi immediatamente al Reparto Quarantena, si fece rassicurare sulla riservatezza della cosa, fu ringraziata, e chiuse la comunicazione.

— Ecco fatto, Teki — sospirò. — I soccorsi sono per strada. Io ho firmato col mio nome un atto criminale, ma valeva la pena di pagare questo prezzo.

— Prendere una malattia venerea è contro la legge, qui? — domandò Ethan, perplesso.

— No, ma inoltrare una falsa denuncia contro qualcuno e un falso rapporto per contagio epidemico sono reati ovunque, suppongo. Non puoi mettere in allarme le squadre di pronto intervento e poi sperare di passarla liscia, specialmente se gli hai lasciato le tue generalità… del resto non sarebbe possibile farle muovere con una denuncia anonima. Però preferisco affrontare la legge che un distruttore neuronico tutti i giorni; questo sarebbe assai più micidiale per il mio conto spese.

Cee la stava guardando con stupore. — L’ammiraglio Naismith lo approverebbe?

— Farà coniare una medaglia apposta per decorarmi. — Quinn gli rivolse un sorrisetto allegro, anche se non sembrava affatto tranquilla. — Ora veniamo a noi. Quelli del Pronto Intervento troveranno molta più resistenza di quel che si aspettano dai nuovi pazienti. Meglio che qualcuno fornisca loro un certo tipo di appoggio. Lei sa usare uno storditore, signor Cee?

— Sì, comandante.

Ethan si schiarì la voce e alzò una mano, esitante. — Io ho avuto l’addestramento standard, nell’esercito athosiano — udì se stesso dire, follemente.

CAPITOLO UNDICESIMO

Alla fine fu Ethan, e non Cee, che Quinn scelse per affiancarla in quella che definì "la seconda ondata di questo assalto".

La bruna mercenaria lasciò il telepate appostato agli ascensori antigravità in fondo al corridoio su cui si apriva l’albergo di Millisor. armato con uno dei due storditoli di cui lei disponeva.

— Rimani fuori vista, e spaia su tutti quelli che arrivano da questa parte con atteggiamento sospetto — lo istruì. — E non pensarci troppo prima di premere il grilletto. Con uno storditore puoi sempre chiedere scusa dopo, per i tuoi errori.

A quella frase Ethan inarcò dubbiosamente un sopracciglio, mentre si girava per avviarsi con lei sul marciapiede.

— Non guardarmi così. Non credo che sparerà su una vecchietta, o su un cardiopatico — borbottò Quinn. voltandosi a controllare il nascondiglio di Cee fra le piante in vaso, le proiezioni olografiche e i terminali di comunicazione all’uscita del pozzo antigravità. Ethan vide che gli alberghi della zona, compreso quello di Millisor, erano evidentemente per turisti le cui possibilità economiche superavano le sue.

Entrarono e dopo aver oltrepassato l’atrio si avviarono nel corridoio di sinistra, deserto e silenzioso. Fu in quel momento che una sgradevole pecca del piano d’attacco della mercenaria cominciò a disturbarlo. — Senta, se non dà uno storditore anche a me come posso affiancarla?

— Ne avevo soltanto due — mormorò lei, spazientita. — Ecco, prendi il mio medikit. Tu sarai il medico.

Ethan esaminò con una smorfia la cassettina che s’era staccata dalla cintura, larga un palmo. — E cosa dovrei fare? Sbatterla in testa a Rau prima che lui usi il suo distruttore neuronico?

— Bravo, questo è lo spirito giusto — disse lei, con un brevissimo sorriso. — Se ne avrai l’occasione, certo. Ma Teki avrà bisogno di un antidoto per qualsiasi cosa gli abbiano propinato. Ad esempio quello contro il penta-rapido; lo troverai proprio accanto al penta-rapido stesso. A meno che le cose non degenerino di brutto; in tal caso usa la tua esperienza di medico.

— Ah — annuì Ethan, accontentandosi di questo. Sembrava una linea di condotta razionale.

Stava aprendo bocca per esprimere un’altra valida obiezione quando Quinn lo colpì con una spallata e lo spinse, senza complimenti, nel limitatissimo e inadeguato riparo della nicchia di una porta.

Da un ingresso in penombra all’altra estremità del corridoio, quello che comunicava direttamente coi pozzi antigravità, erano apparse tre figure seguite da una vettura a bolla sigillata sulla cui parte anteriore c’era lo stemma del Biocontrollo-Epidemiologia, una foglia stilizzata in un triangolo rosso di "pericolo".

Passando sotto il primo pannello illuminante del lussuoso corridoio d’albergo — Ethan aveva già riflettuto che qualcuno doveva aver fatto studi accurati sulle reazioni del cervello umano alle lunghezze d’onda, perché quella luce dava al corridoio un aspetto effettivamente "lussuoso" — le tre figure si rivelarono per un robusto agente della Sicurezza della Stazione, e due tecnici della sorveglianza ecologica, uno di sesso maschile e una di sesso femminile.

Una di sesso femminile corpulenta e ossuta, la cui andatura emanava il calore umano e la gentilezza di un bulldozer…

— Per Dio il Padre — ansimò Ethan, — è quell’infernale piantagrane di Helda!

— E tu mantieni la dannata calma — ringhiò Quinn, spingendolo più forte nella nicchia. Era profonda a malapena un palmo, inadatta a celare alla vista una persona adulta e tantomeno due. — Voltagli le spalle e fingi di fare qualcosa di normale. La porta di Millisor è a dieci metri da qui, e non arriveranno fino a noi. Girati, così, ora metti una mano al muro accanto alla mia testa — gli ordinò in fretta. — Appoggiati, tieni la voce bassa e fai come se mi baciassi il collo…

— Cosa devo fare? Questo contatto fisico è poco… è poco…

— Qualcuno direbbe che è molto. Ora chiudi la bocca e ascolta me. E non guardarmi così, o comincerò a ridere… anche se qualche calcolata risatina non guasterebbe per fare scena.

Fingere di fare qualcosa di normale? Appoggiato al corpo di una femmina? Ethan non s’era mai sentito più anormale in vita sua. Lo spazio fra le sue scapole fremeva nell’attesa di un raggio mortale scaturito dalla porta di Millisor, che era sul lato opposto del corridoio. Non vedere quel che stava accadendo lo aiutava solo a immaginare il peggio. Quinn, invece, da sotto il suo braccio sollevato aveva una vista completa del corridoio, senza parlare del fatto che lui la stava proteggendo col suo corpo.

— Soltanto un agente della Sicurezza di scorta? — mugolò Quinn con un lampo negli occhi. — È una fortuna che siamo venuti anche noi.

Alcune note musicali attutite uscirono da una tasca della sua blusa. La mercenaria si affrettò a far tacere il rintracciatore. Poi si contorse per tirarlo fuori di qualche centimetro, abbastanza da vedere il numero apparso sul display. Emise un fischio fra i denti.

— Che succede? — le sussurrò Ethan in un orecchio.

— Questo numero! È la consolle di comunicazione di quel bastardo di Millisor — mormorò lei, alzando l’altra mano fin dietro il collo di Ethan in una carezza realistica. — È riuscito ad avere il mio numero da Teki, dunque. Probabilmente vuole farsi telefonare per registrare la mia immagine e la mia voce… o per ricattarmi. Lasciamo che sudi un po’.

A dieci metri da loro la sorvegliante biologica Helda premette per la seconda volta la piastra della porta di Millisor, controllando qualcosa su uno schermo che aveva in mano. — Ghem-lord Harman Dal… signor Dal, vuole aprire, per cortesia?

Non ci fu risposta.

— Siamo sicuri che sia in casa? — domandò l’altro tecnico.

Helda grugnì un assenso e gli indicò un display sopra la piastra sensibile. Ethan intuì che le strisce di colore dovevano essere un codice, forse imposto dal regolamento per i soccorsi antincendio, perché il tecnico disse: — Ah. E in compagnia, anche. Forse la segnalazione corrisponde al vero.

Helda premette ancora la piastra dell’avvisatore. — Signor Dal, io sono la sorvegliante biologica F. Helda. Le chiedo di aprire subito questa porta, altrimenti lei sarà incriminato per infrazione agli articoli 176-b e 2-a del Regolamento della Sicurezza Interna.

— Almeno diamogli il tempo di rimettersi i pantaloni — disse l’altro tecnico. — Questo dev’essere molto imbarazzante per lui.

— Che sia imbarazzato quanto gli pare — disse seccamente Helda. — Quel mangiafango non può illudersi di fare qui le sue porcherie, appestando tutti i… — Premette ancora la mano sulla piastra, con rabbia.

Quando fu chiaro che dall’interno non intendevano aprire, la donna tirò fuori dalla blusa una chiave universale e la appoggiò sulla fessura della serratura elettronica. Sull’oggetto palpitarono alcune luci. Non accadde niente.

— Mio Dio — disse il tecnico, stupito. — Hanno bloccato il circuito dell’apertura d’emergenza!

— Questa che è una violazione dei regolamenti antincendio — grugnì soddisfatto l’agente della Sicurezza, e batté una nota sul suo minicomp. Al tecnico, che lo interrogava con lo sguardo, spiegò il motivo del suo improvviso buonumore: — Voi del Bio-controllo potete saltare addosso a tutti gli stranieri senza preoccuparvi dei loro diritti civili, ma io devo avere una prova documentata per intervenire, altrimenti rischio il posto. — E sospirò, invidioso.

— Dal, sblocchi subito questa porta! — gridò furiosamente Helda nell’intercom.

— Potremmo tagliargli i servizi in camera, da sotto — suggerì il suo collega. — Quando non avrà più da mangiare e da bere dovrà venir fuori.

Helda strinse i denti. — Io non ho certo intenzione di aspettare tanto, prima che un mangiafango infetto si decida a collaborare con chi protegge questa stazione dai sudicioni come lui. — La femmina raggiunse a lunghi passi un pannello, poco più in là. su cui c’era scritto: SERVIZIO ANTINCENDIO — SOLO PERSONAL AUTORIZZATO, e premette la sua tessera sulla piastra sensibile. Lo sportello si aprì con ubbidienza. Non avrebbe osato restare chiuso, pensò Ethan. Helda premette una lunga serie di tasti luminosi.

Da oltre la porta chiusa della camera di Millisor provenne un sibilo ruggente, accompagnato subito da grida e imprecazioni spaventate. La sorvegliante ecologica sorrise trucemente.

— Cosa sta facendo? — sussurrò Ethan nell’orecchio di Quinn.

Anche la mercenaria stava sorridendo. — Ha azionato il sistema antincendio. Voi avete nebulizzatori d’acqua, o di schiuma ignifuga. Nello spazio non sarebbero efficienti. Qui sigilliamo i locali e pompiamo fuori l’aria. Molto veloce. Niente ossigeno, niente fuoco. Millisor non è stato abbastanza intelligente, o abbastanza stupido, da bloccare le griglie degli aspiratori.

— Uh… ma non è molto spiacevole per chi restasse intrappolato dentro?

— Di norma c’è un rivelatore di presenza, oltre all’allarme per evacuare i locali. Helda li ha disattivati, evidentemente.

La chiave elettronica universale che l’altro tecnico premeva sulla serratura palpitò di luci rosse e mandò un beep. All’interno ci furono altre grida e qualcuno tempestò freneticamente la porta, a pugni e a calci.

— Ora Millisor vuole aprire, ma la sua forza non basta, perché la differenza di pressione glielo impedisce — sussurrò Quinn.

Dopo un intervallo a suo avviso sufficiente come punizione, Helda invertì il flusso dell’aria. La porta si aprì con un pop udibile, e l’aria del corridoio sibilò dentro. Millisor e Rau vacillarono fuori, col naso che buttava sangue e agitando la mandibola nello sforzo di ristabilire la pressione dell’aria nell’orecchio interno.

— Helda non ha neanche dato a questi bastardi la possibilità di far uscire il loro ostaggio — borbottò Quinn. — Fin troppo efficiente…

Millisor ritrovò finalmente il fiato. — Ma siete impazziti? — gridò in faccia ai tre funzionari della stazione. Si rivolse all’agente della Sicurezza: — Io godo di immunità diplomatica! Mi rivolgerò a…

L’agente gli indicò Helda con un pollice. — Qui comanda il Pronto Intervento dei Bio-controllo. Parli con la sorvegliante.

— Come si permette di calpestare così i miei diritti? — gridò Millisor, imbestialito. — Questi locali sono stati legalmente affittati e pagati, e inoltre io ho un passaporto diplomatico di Classe IV. Lei non ha l’autorità di ostacolare la mia libertà personale in nessun caso, salvo che io non venga accusato di reati contro la persona o le proprietà altrui!

Ethan non avrebbe potuto dire se quell’indignazione fosse vera o recitata, e se a parlare fosse il Ghem-colonnello Millisor o l’onesto commerciante Harman Dal.

— I diritti che lei cita riguardano la Sicurezza della Stazione — ribatté Helda, nello stesso tono. — L’emergenza del Bio-controllo li abroga tutti. Ora salite sulla vettura isolante, prego. Senza discutere.

Ethan non poteva più rimanere voltato, perché lui e Quinn dovevano ora fingere d’essere spettatori casuali. Com’era inevitabile, lo sguardo di Rau finì per spostarsi su di loro; subito una mano dell’individuo toccò un braccio del superiore, interrompendo le sue verbose proteste. Millisor girò la testa, e la sua bocca si chiuse di colpo. Ethan trovò qualcosa di orribile in quell’istantanea capacità di controllare la rabbia. Non placata, bensì spinta giù sotto la superficie, conservata per qualche momento futuro. Negli occhi del cetagandano ribollirono turbini di pensieri.

— Ehi — disse l’agente della Sicurezza, mettendo la testa nella stanza appena evacuata. — Qui c’è una terza persona. Un giovanotto legato a una sedia… nudo come un verme.

— Me lo aspettavo, da questi depravati. Siete disgustosi — disse Helda, fulminando Millisor con lo sguardo.

Lo sguardo rimbalzò innocuo come una brezza su quello di Millisor, che continuava a macinare furibondi sospetti fissando Ethan. Rau si agitò nervosamente. La sua mano destra fece per entrare sotto il bordo della giacca, ma sia Millisor che Quinn scossero il capo in un silenzioso non provarci, ciascuno dalla sua diversa prospettiva.

— Quest’uomo non è una faccia nuova. Perde sangue — disse l’agente della Sicurezza entrando nella stanza. Subito però si volse a controllare Millisor e Rau con uno sguardo insospettito, e portò una mano alla fondina dello storditore.

— È il naso — disse Helda da fuori. — È normale, quando si abbassa la pressione atmosferica. Anche se uno sembra uscito da un mattatoio, nessuno è mai morto per un po’ di sangue dal naso.

— Senta, lei, il mio amico è un medico — disse a voce alta Quinn, dirigendosi verso di loro con entusiasmo. — Possiamo essere d’aiuto, se c’è un ferito?

— Sì, può darsi — disse l’agente dalla soglia, con sollievo. — Lei è un medico?

Quinn si voltò a prendere Ethan per mano e poi lo spinse nella stanza, senza smettere di sorridere a Millisor e a Rau. Aveva in pugno il suo storditore, ma lo teneva in modo che soltanto i due cetagandani lo vedessero. L’agente della Sicurezza la ringraziò con un cenno del capo. Helda s’infilò un paio di guanti di plastica con aria in grugnita e quindi entrò nell’alloggio, per vedere coi suoi occhi quella scena scandalosa.

Ethan s’avvicinò ansiosamente alla preda di Millisor e cercò di capire in che condizioni fosse. L’agente della Sicurezza si chinò invece accanto alla sedia e toccò con un brontolio di stupore il nudo fil di ferro che era stato usato per legare le caviglie di Teki. L’avevano attorcigliato con un paio di pinze, facendogli sanguinare la pelle. I vestiti e gli oggetti personali del giovanotto erano sul letto, disposti come Ethan ricordava di aver visto i suoi dopo che erano stati esaminati in cerca di microspie. Anche i suoi polsi erano assicurati ai braccioli con un giro di filo di ferro, stretto altrettanto spietatamente. Il sangue gli era colato dal naso fin sul petto e sull’inguine. La testa di Teki ciondolava stupidamente, ma il giovanotto aveva gli occhi spalancati e sorrideva con innaturale allegria. Ridacchiò, quando l’agente della Sicurezza gli toccò le caviglie. L’uomo indietreggiò stupito, quindi scosse minacciosamente il capo e tirò fuori il minicomp. agitandolo verso di lui come fosse un’arma. — Questa storia non mi piace, amico. Qui c’è qualcosa di molto, molto strano. Come ti chiami?

Helda, sbucando alle spalle di Ethan, si fermò di colpo. — Signore Iddio che mi proteggi… Teki! Io l’ho sempre saputo che eri uno scriteriato capace di tutto, ma questo oltrepassa ogni…

— Io sono fuori servizio — le comunicò Teki con voce impastata ma dignitosa. — E non ho intenzione di lasciarmi offendere da te fuori dell’orario di lavoro. Anzi, andrò subito via. — Il giovanotto si agitò lottando contro i legami, e altre gocce di sangue gli colarono sui piedi.

La sorvegliante biologica restò ammutolita quando poté vedere meglio ciò che aveva davanti, ma il suo silenzio non durò a lungo. — Che diavolo significa tutto questo?

— È drogato, dottore? — domandò l’agente della Sicurezza a Ethan, inginocchiato accanto a Teki. — Con cosa? Secondo lei si tratta di una faccenda privata di questa gente che gli è sfuggita di mano, o di qualcosa per cui devono essere incriminati? — Le sue grosse dita attendevano speranzose sulla tastiera del minicomp.

— È evidente che lo hanno drogato e torturato, agente — dichiarò Ethan senza mezzi termini, aprendo il medikit di Quinn. — Inoltre ci troviamo di fronte a un sequestro di persona. — Nella scatola c’era un bisturi a vibrolama; un tocco, e i fili di ferro alle caviglie tintinnarono al suolo. — Quest’uomo è stato rapito.

— A scopo di libidine?

— Ne dubito.

Il suono della voce di Ethan distrasse Helda, che si girò di scatto a guardarlo. — Tu non sei un medico — si sbalordì la femmina. — Tu sei quel filibustiere dei Moli e Portelli. Che diavolo stai facendo qui? Il mio ufficio si aspetta ancora delle spiegazioni da te!

Teki esplose in una risata stridula a quelle parole, facendo cadere la spugnetta sterile con cui Ethan gli disinfettava una caviglia. — Povera Helda, quanto poco sai degli esseri umani che sfiorano la tua grigia vita! Lui è davvero un dottore! — esclamò. Si piegò verso Ethan, rischiando di rovesciare la sedia, e in tono da cospiratore sussurrò: — Non lasciarle mai capire, per nessuna ragione, che tu sei un athosiano, o le scoppierà un’arteria e quello sarà il suo ultimo attacco di bile. Helda odia Athos. — Annuì con enfasi teatrale e poi, esausto, lasciò ciondolare di lato la testa.

Helda rimuginò quelle parole. — Un athosiano? Cos’è, una specie di scherzo? — Guardò Ethan in attesa di una risposta.

Assorbito nel suo lavoro lui accennò col capo a Teki. — Lo domandi a lui. In questo momento è pieno di siero della verità. — Il cugino di Quinn aveva le pulsazioni accelerate, e le mani e i piedi freddi, ma non era in stato di shotk. Gli liberò anche i polsi. Era pronto a sostenerlo, però il giovanotto non cadde in avanti, anzi si alzò in piedi con le sue forze. — Comunque, signora, per sua informazione io sono il dottor Ethan Urquhart di Athos. Ambasciatore dottor Urquhart, in missione per conto del Consiglio della Popolazione del mio pianeta.

Non si era aspettato di impressionare molto quell’indisponente femmina, ma con sua sorpresa Helda si fece indietro e sbarrò gli occhi, pallida in viso. — Ah, sì? — disse con voce piatta.

— Te l’avevo detto di non dirglielo. Doc — lo rimproverò Teki. — Dopo che suo figlio scappò di casa, come ti ho raccontato l’altro giorno. Helda rimase sola. Il ragazzo se l’era squagliata su una nave diretta ad Athos, lasciando detto che non ne poteva più di lei e di tutte le altre donne del mondo. Helda cercò di contattarlo per posta spedendogli dei video… ma la censura athosiana rimanda indietro tutte le immagini dove appaiono delle donne. Finora non è riuscita ad avere una parola da lui. — Teki ricominciò a ridere stupidamente. — Scommetto che è felice come un topo nel formaggio.

Ethan ebbe una smorfia al pensiero di poter essere trascinato in una lite di famiglia. L’agente della Sicurezza stava annuendo con interesse professionale.

— Fuggito di casa, eh? Quanti anni aveva il ragazzo?

— Trentadue — rispose Teki.

— Ah, be’. — L’uomo ebbe un gesto come a dire che la faccenda non lo riguardava più.

— Tu… lei dispone di un antidoto a questo cosiddetto siero della verità, dottore? — chiese gelidamente Helda. — In tal caso voglia per cortesia somministrarlo. Poi risolveremo gli altri aspetti della cosa giù al Reparto Quarantena.

Ethan rallentò il lavoro sulle caviglie di Teki. Le parole gli uscirono di bocca come lame di coltello: — Dove lei possiede poteri dittatoriali, e dove io… — Alzando la testa incontrò lo sguardo ostile della sorvegliante ecologica. Il tempo si fermò. — Dove io…

Il tempo accelerò di colpo. — Comandante Quinn! — chiamò Ethan.

La bruna mercenaria entrò subito nella stanza preceduta da Millisor e da Rau, tenuti sotto tiro dal suo storditore, ed Ethan si alzò in piedi. Si sentiva in preda all’impulso folle di correre avanti e indietro dando pugni alle pareti, o di strapparsi manciate di capelli dalla testa, o di afferrare quella femmina per il petto della sua blusa bianca e grigia e scuoterla fino a farle battere i denti. Le parole gli scaturirono in un flusso eccitato.

— Io ho cercato di dirglielo, ma lei non si è mai fermata un momento ad ascoltarmi. Immagini di essere l’agente di qualcuno, o quello che le pare, qui su Stazione Kline. e di volersi impadronire delle colture ovariche spedite ad Athos. Immagini di dover prendere l’improvvisa decisione di sostituire quei tessuti congelati con altro materiale. E noi sappiamo che la decisione è stata improvvisa, perché se lei l’avesse programmata avrebbe portato con sé delle colture autentiche e nessuno avrebbe mai saputo e indagato sulla sostituzione. Giusto? Allora dove, dove, nel nome di Dio il Padre, andrebbe a prendere 450 ovaie umane? No, neppure 450: trecento e ottantotto, più sei ovaie di mucca. Io dico che neanche sul suo Manuale del Mago dello Spazio c’è scritto da quale cilindro tirarle fuori, comandante Quinn.

La bruna mercenaria aprì la bocca, la richiuse, e assunse un’aria molto pensosa. — Vai avanti, dottore.

Millisor aveva lasciato cadere la sua maschera indignata da Harmon Dal e, come dimentico dello storditore di Quinn, fissava Ethan con rapita attenzione. Rau spiava il suo capo in attesa di qualche segnale che gli desse l’ordine di agire. L’altro sorvegliante ecologico aveva un’aria disinteressata e spazientita. L’agente della Sicurezza, benché sorpreso da quel secondo e non meno imprevisto risvolto della situazione, sembrava deciso a mettere a verbale ogni parola pronunciata in quella stanza.

Ethan continuò: — Dimentichi le 426 astronavi sospette. Segua al contrario la rotta di una sola nave, quella del censimento galattico, quando ancora era attesa qui nella sua rotta verso Athos. Metodo, motivo e opportunità, per i Nove Peccati Capitali! Chi ha accesso a ogni locale e ogni cassetto di Stazione Kline? Chi può andare dentro e fuori da un magazzino senza che nessuno faccia domande? Chi si vede passare davanti ogni giorno le salme dei defunti… cadaveri metà dei quali sono di sesso femminile, e da cui nessuno noterà mai la scomparsa di pochi grammi di tessuto, perché i corpi vengono biodegradati subito dopo il prelievo? Ma questi cadaveri femminili non erano abbastanza, eh, Helda, per sostituire l’intero insieme delle colture ovariche prima che la nave del censimento partisse per Athos. Vero? Ecco perciò le ovaie di mucca, gettate frettolosamente nel mucchio tanto per fare numero, e le scatole piene solo in parte, e la scatola vuota. — Ethan fece una pausa, ansimando.

— Lei è un folle! — rantolò Helda. La sua faccia era impallidita ancor di più, ma ora stava diventando paonazza. Gli occhi ostili di Millisor la stavano divorando. Quinn la guardava come un essere umano di fronte a una visione ultraterrena. Le dita dell’agente della Sicurezza erano inchiodate alla tastiera del minicomp in una sorta di stupefatta paralisi.

— Non folle quanto lei — disse Ethan. — Cosa sperava di ottenere?

— Domanda inutile — sbottò Millisor. — Noi sappiamo a cosa mirava. Non si faccia ingannare dalle apparenze, e le domandi chi l’ha pagata e dove ha mandato le… — Un secco gesto dello storditore di Quinn gli ricordò che era stato retrocesso dal rango di interrogatore a quello di prigioniero.

— Voi dovete andare tutti al Reparto Quarantena e…

— È finita, Helda — disse Ethan. — Scommetto che se scendessi giù al Riciclaggio troverei da qualche parte un sigillatore per pacchi postali.

— Oh, sicuro — lo informò volonterosamente Teki. — Lo usiamo per sigillare oggetti ritenuti contaminati e immagazzinarli in attesa di ulteriori analisi. È sotto il tavolo dove sezioniamo gli oggetti organici troppo voluminosi prima d’introdurli nel degradatore. Io l’ho usato per sigillare un paio di scarpe, una volta. Ho anche cercato di sigillare globi d’acqua da gettare nei pozzi antigravità, ma non ci sono riuscito perché…

— Chiudi la bocca. Teki! — protestò disperatamente Helda.

— Questo è niente. Pensa che Vernon ha sigillato dei topi bianchi e li ha spediti…

— Basta con queste chiacchiere insulse — grugnì Millisor da un angolo della bocca, esasperato. Teki si calmò e sedette, sbattendo le palpebre.

Ethan allargò le mani e fronteggiò Helda senza ostilità, scuotendo la testa. — Perché ha fatto questo? Io devo capire.

L’ostilità concentrata nell’atteggiamento della femmina esplose in parole quasi a dispetto della sua volontà. — Perché? Lei ha anche il coraggio di chiedermi il perché? Quando ho visto sull’etichetta qual era il contenuto delle scatole ho deciso che se non volevate delle madri, voi bastardi snaturati nemici delle donne, allora non avreste avuto nessuna madre. Neppure i ventri di metallo che vi partoriscono contronatura. E poiché avevate bisogno di ordinare altrove le colture ovariche ho giurato che avrei fermato anche la prossima ordinazione, e la successiva, e quella dopo ancora, finché… — Stava rantolando, adesso. Soffocava di rabbia? No, comprese Ethan: il suo vanaglorioso trionfo intellettuale s’era trasformato in veleno dentro di lei, in lacrime cocenti. — Finché non sarei riuscita a costringere Simmi a fuggire da quel pianeta, condannato all’estinzione, e allora lui avrebbe capito il suo sbaglio e sarebbe tornato a casa per vivere con una donna. E ho giurato a me stessa che stavolta non avrei criticato la sua scelta e non le avrei torto un capello, e anche la sciocca più vanitosa mi sarebbe andata bene. Ma non potevo sopportare il pensiero che i miei nipoti sarebbero nati fra i mangiafango di quel mondo di depravati, di soli uomini, posto che meritino d’essere chiamati uomini… — Helda ingoiò le lacrime e si erse rigidamente, fronteggiandoli con aria di sfida, rossa in faccia e ansimante, con un filo di saliva sulle labbra dopo quello sfogo.

Ethan pensò che ora capiva come un giovane soldato con la testa imbottita di propaganda poteva sentirsi quando, alla sua prima esperienza di combattimento, si trovava davanti la faccia odiata del suo nemico. Poco prima, in un momento di furore eroico, lui s’era gloriato della possibilità di colpire quella femmina, gli era parso di aver sempre saputo che a minacciare Athos era stata una di quelle creature maligne e subdole. Ma le cose non erano così semplici, e adesso lui si trovava lì con tutti i pezzi di quel rompicapo fra le mani, senza voler colpire nessuno. E per nulla eroico.

— Per il Cristo degli Spazi — mormorò l’agente della Sicurezza, che aveva finalmente fatto i suoi conti. — Allora devo arrestare una della Sorveglianza Ecologica?

Teki ridacchiò. L’altro tecnico, chiaramente colto di sorpresa dalla confessione di Helda, aveva l’aria di non sapere se dire la sua opinione o restare in disparte e rendersi invisibile.

— Ma cosa ne hai fatto delle altre? — Millisor si piegò verso di lei, a denti stretti.

— Le altre cosa? — tirò su col naso Helda.

— Le colture ovariche congelate che hai tolto da quei contenitori diretti ad Athos — spiegò Millisor, sillabando le parole come se stesse parlando a un animale che forse, pazientemente interrogato, poteva essere in grado di rispondere come un essere umano.

— Oh, quelle. Le ho buttate via.

Sulle tempie del cetagandano pulsavano vene e capillari. Ethan avrebbe potuto dire di quant’era salita la sua pressione. Sembrava avere anche qualche difficoltà a respirare. — Stupida puttana — ansimò. — Stupida puttana, tu non sai cos’hai fatto…

La risata di Quinn li colse di sorpresa, facendoli voltale stupiti. Se l’ammiraglio Naismilh fosse qui, si divertirebbe un mondo.

L’autocontrollo del Ghem-colonnello cedette, alla fine. — Maledetta cagna senza cervello! — gridò gettandosi su Helda, e le artigliò le mani alla gola. Il raggi degli storditori di Quinn e dell’agente della Sicurezza s’incrociarono, e il robusto cetagandano si afflosciò al suolo.

Rau si fece indietro, scuotendo la testa e mugolando fra sé: — Oh, merda, merda, merda…

— Resistenza all’arresto… — batté l’agente della Sicurezza sul minicomp, e fece una pausa per precisare l’accusa. — No. Tentata aggressione a una funzionaria della Sorveglianza Ecologica che espletava i suoi compiti…

Rau scivolò verso la porta.

— Non dimentichiamo l’evaso dal Reparto Detenzione — disse subito Quinn. — Sarà meglio non lasciarlo allontanare, agente. — Indicò Rau. — È lui l’individuo che state cercando da due giorni, dopo la sua fuga dal C-9. E scommetto che se perquisite questo alloggio troverete armi e attrezzature militari che la dogana di Stazione Kline non ha mai consentito d’importare.

— Prima viene la quarantena — disse l’altro sorvegliante ecologico, dopo un’occhiata alla collega ormai emotivamente svuotata.

— Ma senza dubbio l’ambasciatore Urquhart vorrà sporgere denuncia per il furto e la distruzione di beni appartenenti ad Athos — fece presente Quinn. — perciò chi deve arrestare chi?

— Tutti noi andremo al Reparto Quarantena, dove potrò tenervi sotto controllo finché non avrò chiarito ogni aspetto della situazione — disse fermamente l’agente della Sicurezza. — Chi è evaso dal C-9 scoprirà che fuggire dalla quarantena è un’altra cosa.

— Questo è vero — mormorò Quinn.

Rau ricominciò a imprecare fra i denti quando altri due agenti della Sicurezza apparvero sulla porta, sbarrandogli la sola via di fuga. La stanza sembrò all’improvviso troppo affollata. Ethan non aveva visto il robusto funzionario della Sicurezza chiamare rinforzi, ma evidentemente doveva averlo fatto ancor prima di entrare. La sua stima per quell’uomo in apparenza lento e indeciso salì di qualche grado.

— Sì, signore? — chiese uno dei nuovi venuti.

— Ve la siete presa comoda — disse l’agente della Sicurezza. — Perquisite quell’uomo. — Indicò Rau. — Poi darete una mano a scortare tutti alla Quarantena. Questi tre sono accusati di aver portato e sparso un contagio. Quello lì è l’uomo evaso dal C-9 e indagato per altri reati. Questa funzionaria è stata accusata di furto da quest’uomo, il quale indossa una tuta della stazione senza apparente giustificazione e nel contempo afferma che quel giovanotto del Bio-controllo è stato rapito. E ho una lista di accuse lunga da qui ai moli da notificare all’individuo disteso sul pavimento, quando si sveglierà. Questi tre hanno bisogno di cure mediche, anche se non urgenti…

Ricordando i suoi doveri, Ethan si avvicinò a Teki e gli applicò a un braccio l’hipospray con l’antidoto del penta-rapido. Si sentì quasi triste per il giovanotto, quando il suo sorriso vacuo ma tranquillo fu sostituito dall’espressione di chi si sveglia con un forte mal di capo. Nel frattempo la squadra della Sicurezza stava estraendo ogni genere di misteriosi oggetti dalle tasche di Rau, che non faceva resistenza.

— E l’attraente signora in uniforme bianca e grigia, che sembra saperla lunga sugli affari di tutti quanti, sarà trattenuta come testimone finché non avrò accertato le sue responsabilità — concluse l’agente della Sicurezza. — Ma… ehi, dov’è andata?

CAPITOLO DODICESIMO

Nel Reparto Quarantena Rau tenne dietro alla lettiga su cui era disteso il suo superiore ancora privo di sensi, sopportando tutte le ispezioni fisiche e le analisi pretese dal Bio-controllo senza una parola di protesta. In effetti non aveva più aperto bocca da quando avevano lasciato l’albergo sotto pesante scorta, ma era rimasto accanto a Millisor con una sorta di cupa fedeltà, come un cane che rifiutasse di allontanarsi dalla bara del padrone.

Ethan non poteva immaginare quali esami si richiedessero per rivelare la plasmosi virale Alpha S-D-2 — o la sua mitica mutazione 3 — ma dall’espressione tetra che vide sulla faccia di Rau suppose che non fossero stati molto gradevoli.

Si sarebbe sentito meglio se Rau avesse mostrato almeno un minimo di fair play. Lo sguardo che c’era negli occhi del cetagandano quando lo riportarono in sala d’attesa per far entrare lui fu invece amichevole come una lama di coltello.

Seguendo fuori l’inserviente Ethan fu condotto in un ufficio per un colloquio con due agenti della Sicurezza, l’uomo robusto che aveva eseguito gli arresti all’albergo e un ufficiale femmina che sembrava essere il suo diretto superiore. A metà del colloquio i due furono raggiunti da un terzo funzionario della Sicurezza, che si presentò come il capitano Arata, un eurasiatico magro e nervoso con lisci capelli neri, faccia pallida e occhi acuti come aghi, che parlava poco e ascoltava molto.

Il primo impulso di Ethan, che si sentiva tentato d’essere franco e dire tutto, si smorzò subito allorché dovette pensare al problema della sparizione di Okita. Prudentemente decise che non avrebbe fatto il minimo accenno a quell’individuo, se non ci fosse stato costretto. Gli esperimenti genetici cetagandani e i tragici fatti culminati nella fuga dei loro due telepati divennero, sotto quelle tre paia d’occhi kliniani sicuramente molto interessati alle manovre politiche altrui, la vaga notizia che "un’ordinazione di colture ovariche per Athos era stata sostituita, sul Gruppo Jackson, con del materiale genetico rubato su Cetaganda". Ethan evitò con cura di menzionare Terrence Cee. Questo avrebbe potuto rendere le cose troppo complicate…

— In questo caso — disse la funzionaria della Sicurezza, — la sorvegliante biologica F. Helda ha fatto un favore ad Athos, agli effetti pratici, anche se involontariamente. Ha impedito che materiale genetico alterato fosse introdotto nella vostra società.

La funzionaria, comprese Ethan, stava cercando obliquamente di fargli pressione perché lui lasciasse cadere le accuse contro Helda, risparmiando così uno scandalo imbarazzante a una stazione la cui economia si basava sul traffico di merci e di viaggiatori. Ripensò alle dimensioni dei loro magazzini, e alla quantità di navi che attraccavano continuamente ai moli. Capire che quella gente stava sudando come lui lo fece sentire meglio, al punto che passò subito all’offensiva.

I tre funzionari assunsero un atteggiamento di fredda cortesia, dicendosi disposti a collaborare. Questo significava che la mezza dozzina di infrazioni commesse da Ethan, ed elencate con precisione burocratica dall’agente che aveva eseguiti gli arresti, potevano esser lasciate evaporare in considerazione del fatto che lui rappresentava Athos, anche se la presentazione delle sue credenziali di ambasciatore non era stata richiesta da Stazione Kline (e non era avvenuta). Nessun altro vandalismo come quello perpetrato dalla sorvegliante ecologica F. Helda, gli fu assicurato, sarebbe stato permesso. La sorvegliante ecologica F. Helda, che ormai aveva una certa età, avrebbe avuto il pensionamento anticipato senza che ci fossero altre pretese di Athos o conseguenze legali. L’ambasciatore Urquhart non avrebbe più dovuto preoccuparsi del Ghem-lord Harmon Dal, o colonnello Millisor che fosse, poiché lui e i suoi assistenti erano già in lista per la deportazione a bordo della prima nave disponibile, con l’accusa di rapimento, presentazione di false generalità e sospetta truffa (accuse, queste ultime, per cui la Camera di Commercio s’era già costituita parte civile).

— A proposito, signor ambasciatore — intervenne il capitano Arala, — lei ha idea di dove si trovino gli altri due dipendenti di questo Ghem-lord?

— Vuol dire che non avete ancora arrestato quel, uh, come si chiama. Setti? — domandò Ethan.

— Ci stiamo lavorando — disse Arata. Il suo volto inespressivo e controllatissimo non diede a Ethan alcun indizio sul significato di quella frase.

— Suppongo che farà meglio a domandarlo al colonnello Millisor. quando riprenderà i sensi. In quanto all’altro dipendente, forse potrà avere sue notizie da… mmh. quella mercenaria…

— La comandante Elli Quinn? — domandò Arata.

— Può darsi — annuì Ethan, con indifferenza.

— E dove si trova la comandante Quinn, signor ambasciatore?

Ethan sospirò. — Se ò andata via così in fretta, presumo che la sua nave stesse partendo. Era in ferie. Probabilmente farà ritorno alla flotta dei Mercenari Dendarii. dovunque sia in questo momento. — Portandosi dietro senza dubbio il suo nuovo acquisto, Cee. Quanto tempo il giovane telepate sarebbe sopravvissuto, ora che aveva perso del tutto i suoi sogni e i suoi scopi? Più di quanto era destinato a sopravvivere quando aveva Millisor alle calcagna, ammise Ethan per onestà. Che vada pure. Faccia come vuole.

Anche Arata ebbe un sospiro. — Una creatura scivolosa come un’anguilla — borbottò. — Quanto al fatto che se ne sia andata, vedremo. Mi deve ancora qualche spiegazione.

A quel punto Ethan vide che il colloquio era terminato e si alzò. La funzionaria lo accompagnò solo fino alla porta del suo ufficio. — La ringrazio per la sua gentile collaborazione, signor ambasciatore. Se c’è qualcosa che Stazione Kline potrà fare per rendere più gradevole la sua permanenza, la prego di informarci.

Non gli era stato detto altro di Helda, e poiché adesso lui era un diplomatico decise che chiedere qualcosa di più del pensionamento anticipato (la sua testa in un blocco di plastiglax, ad esempio) sarebbe stato poco diplomatico.

Nel corridoio che conduceva al portello stagno di quel settore Ethan rallentò il passo. — Ora che ci penso, capitano Arata, c’è qualcosa che potreste fare per me.

— Davvero? Mi fa piacere.

— Il colonnello Millisor è sotto sorveglianza, no? Quando si sarà svegliato, potreste concedermi di parlargli per qualche minuto?

Arata lo scrutò con aria speculativa. — Se vuole seguirmi vedrò cosa posso fare, signore.

Ethan fu condotto dal capitano della Sicurezza attraverso la sezione amministrativa e oltre due portelli stagni, di nuovo nel Reparto Quarantena. Qui incontrarono un meditec che stava uscendo giusto allora da una camera dalle pareti trasparenti. Il meditec accese un pannello INGRESSO CONSENTITO sopra la porta della camera e cominciò a togliersi la tuta isolante. All’interno una guardia armata della Sicurezza mandò fuori da uno scomparto un rotolo di indumenti, in un sacchetto che il meditec gettò in un cestone con altra roba destinata alla lavanderia.

— Quali sono le condizioni del vostro paziente? — gli domandò Arata.

Il meditec guardò i gradi del suo interlocutore. — È sveglio e ha recuperato l’orientamento. Accusa qualche tremito dovuto al trauma dello storditore, e un certo mal di capo. Le analisi rivelano che soffre inoltre di ipertensione cronica, di una gastrite dovuta presumibilmente al lavoro stressante, di un inizio di degenerazione epatica pre-cirrotica, e di una prostata ingrossata che fra qualche anno dovrà farsi operare. In breve, è in uno stato di salute normale in un uomo della sua età. Quello che non ha è la plasmosi virale Alpha S-D-2, né la 3, né la 29 o qualsiasi altro numero. Il suo apparato genitale è tatuato, come usa fra i cetagandani, ma non ammalato. Qualcuno ci ha inoltrato un falso allarme, capitano, con quel rapporto di qualche ora fa, e spero che scoprirete chi è stato. Io non ho tempo per giochetti così stupidi e costosi.

— Ci stiamo lavorando — disse il capitano Arata.

La camera fu aperta ed Ethan seguì il suo accompagnatore fino all’ingresso di quella successiva. Qui Arata accennò alla guardia di restare fuori dalla porta ma invece di fare lo stesso entrò con Ethan, fermandosi un passo oltre la soglia in educato ma risoluto atteggiamento d’attesa. Lui rifletté che chiedergli di uscire sarebbe stato inutile; la stanza era sicuramente monitorata.

Avvicinandosi al letto su cui giaceva Millisor, sveglio e vestito con un semplice camice verde sotto cui doveva essere nudo, Ethan notò con sollievo che aveva cinghie di sicurezza chiuse intorno ai polsi e alle caviglie. Il cetagandano s’era limitato a voltare la testa verso di loro. Teneva le mani incrociate sul petto, rilassato come se avesse già completamente accettato il fatto d’essere legato e in arresto, ma scrutava Ethan con un sardonico distacco. Questo ebbe l’effetto di farlo sentire un codardo, come un goffo turista che osasse avvicinare un predatore feroce ormai messo ai ceppi da cacciatori ben più esperti e coraggiosi di lui.

— Uh, buon pomeriggio, colonnello Millisor — lo salutò Ethan, piuttosto incongruamente.

— Buon pomeriggio, dottor Urquhart. — Il cetagandano gli rivolse un ironico cenno del capo a mo’ di inchino. Appariva esente da qualsiasi animosità personale: un professionista, come Quinn. Del resto non aveva mostrato alcuna animosità personale verso di lui neppure quando aveva ordinato la sua esecuzione.

— Io, uh… volevo essere completamente e definitivamente sicuro, prima della sua deportazione, che lei abbia capito che Athos non ha mai ricevuto, e non riceverà mai, materiale genetico proveniente dal Gruppo Jackson — disse Ethan.

— Le probabilità sembrano far propendere per questa ipotesi — gli concesse Millisor. — Nonostante ciò io dubito di tutto. È una questione di logica.

Ethan soppesò quella dichiarazione. — Incontrare la verità così all’improvviso deve sembrarle insopportabile, allora. Specialmente una verità dove c’è molta follia umana e assai poca logica.

Millisor lo guardò con aria di compatimento. — Lei ha una filosofia difettosa, Urquhart. Io non ho mai conosciuto nessuno disposto a regalarmi la verità; al massimo la sua versione della verità. — Strinse le palpebre, — Dunque, cosa ne pensa di Terrence Cee, ora che lo ha conosciuto?

Ethan s’irrigidì, allarmato. — Di chi sta parlando?

— Andiamo, Urquhart, so benissimo che si trova qui. Posso sentire l’odore della sua presenza, nella situazione tattica. Lo ha trovato attraente, lei, da autentico athosiano? Ma non c’è bisogno d’essere athosiani per apprezzarlo… e per essere apprezzati da lui. Sa, in passato ho avuto modo di notare che il suo, uh, dono, funziona in due direzioni per quel che riguarda certe emozioni… come se lui fosse contagiato da quelle altrui.

Era un pensiero sgradevole, al momento, soprattutto perché Ethan non poteva negare di aver trovato Cee molto attraente. Si volse a mezzo. Millisor stava ora guardando con interesse Arata, forse in attesa delle reazioni dell’ufficiale della Sicurezza alla piega che aveva preso la conversazione. Ethan cercò subito di tagliare ogni accenno di Millisor alla lista di fatti e nomi che lui aveva tenuto segreti: — Non mi è ancora accaduto di parlare del signor Cee con… con loro. E non ho alcuna voglia di farlo. Questo, nel caso che lei se lo stia domandando.

Millisor inarcò le sopracciglia, stupito. — Come favore a me?

— Come favore a loro — lo corresse lui.

Il cetagandano accettò quella dichiarazione col beneficio del dubbio, almeno a giudicare dal suo cenno del capo. — Ma Cee è su Stazione Kline. Dove, esattamente, Urquhart?

Ethan scosse il capo. — Non lo so, mi creda. Se lei preferisce pensare che questa è una bugia, è un problema suo.

— Allora lo sa la sua amichetta, la mercenaria. Perciò la domanda resta la stessa: dov’è quella donna?

— Non è la mia amichetta! — esclamò Ethan, inorridito. — Io non ho niente a che fare con la comandante Quinn. Quella femmina lavora da sola. Se lei ha dei problemi con la comandante Quinn, se la prenda con lei, non con me!

Arata, senza muovere neppure un muscolo del viso, s’era fatto più attento.

— Al contrario — disse Millisor. — Quinn ha tutta la mia ammirazione. Molte cose che prima non avevo capito mi sono adesso chiare. Se potessi la assumerei al mio servizio.

— Uh… non credo che lei sia disponibile.

— Tutti i mercenari hanno l’etichetta col prezzo. Forse non in denaro. Prestigio, potere, piacere.

— No, guardi — disse con sicurezza Ethan — Il suo ammiraglio è ostile a voi cetagandani, e Quinn sembra innamorata di lui. Io ho già visto questo fenomeno nell’esercito di Athos… adorazione di certi ufficiali che i subordinati vedono come eroi. Alcuni ufficiali abusano di questo vantaggio, altri no. Non so a quale categoria il suo ammiraglio appartenga, ma non credo che voi riuscireste a interessarla altrettanto.

Arata annuì in silenzio, con aria comprensiva.

— Anch’io conosco quel comportamento — sospirò il Ghem-lord. — Be’, peccato. — Il suo grugnito, indifferente e distaccato, costrinse Ethan a chiedersi perché si fosse lasciato indurre a prendere le difese di Quinn e della sua fedeltà ai Dendarii. Che Millisor stesse cercando di farlo avvicinare a lui per afferrarlo? Ma aveva le gambe saldamente assicurate al letto.

— Le confesso una cosa, Urquhart: lei mi lascia perplesso — proseguì il cetagandano. — Se lei non era d’accordo con Cee per cospirare ai nostri danni, allora poteva essere soltanto la sua vittima. Non riesco a capire che guadagno lei veda nel proteggere quell’uomo, dopo il brutto scherzo che stava cercando di fare ad Athos.

— Lui non voleva fare niente di male ad Athos. Voleva soltanto emigrare là. Non è certo un delitto. E da quanto ho visto finora di questa parte della galassia, devo dire che lo capisco. Io stesso ho una gran voglia di tornarmene in patria.

Le sopracciglia di Millisor si sollevarono fin quasi all’attaccatura dei capelli, uno dei pochi gesti che gli erano concessi. — Perdio! Comincio davvero a credere che lei sia lo sciocco ingenuo che proclamava d’essere, Urquhart! Eppure credevo che lei avesse capito cos’hanno fatto al materiale da voi ordinato.

— Sì. Cee ha chiesto che il fornitore ci spedisse materiale ovarico prelevato da sua moglie. Un po’ macabro, forse, dato che si trattava di un cadavere. Ma considerando chi lo ha allevato, c’è da stupirsi che non sia molto più strano.

Millisor lo guardò un attimo, incredulo, e poi scoppiò a ridere. Ethan non trovava nulla di divertente in quella situazione. Guardò il Ghem-lord, a disagio.

Millisor si calmò e scosse il capo. — Lasci che le presenti due fatti, allora. Due fatti ormai obsoleti, visto che la mentecatta colpevole di aver aperto i contenitori su questa stazione ha ormai compiuto il suo stupido sabotaggio. Uno: il complesso genetico, uh, del quale stiamo parlando… — gettò uno sguardo ad Arata, — era recessivo, e non sarebbe riapparso nel fenotipo finché non fosse stato presente in entrambe le metà del genotipo, ovvero l’ovulo femminile e uno spermatozoo maschile. Due: ogni singolo ovulo prodotto dalle colture destinate ad Athos conteneva il meccanismo per produrre l’altra metà del complesso genetico. Rifletta su questo, dottor Urquhart.

Ethan corrugò le sopracciglia.

Nella prima generazione, le nuove colture ovariche avrebbero fornito le loro caratteristiche recessive, nascoste e non attivate, ai bambini — e ben presto, dato il ritmo a cui morivano le vecchie colture, a tutti i bambini — nati su Athos. Ma soltanto allorché la seconda generazione avesse raggiunto la pubertà l’organo telepatico funzionante sarebbe apparso in una metà (statisticamente) della popolazione, dall’unione del genotipo attivato maschile con il genotipo recessivo delle colture. Nella terza generazione, metà della popolazione restante sarebbe passata dalla telepatia latente a quella effettiva, e così via, poiché la maggioranza telepatica avrebbe continuato a trasmettere il genotipo attivato a metà della minoranza non-telepatica dimezzandola a ogni generazione.

Ma per allora anche tutti i non-telepatici avrebbero portato quei geni nelle loro cellule, potenziali padri di figli telepatici. L’intera popolazione di Athos sarebbe stata quindi permeata con quel complesso genetico, ormai impossibile da sradicare anche con estese operazioni di chirurgia microcellulare.

Dati quei meccanismi di riproduzione obbligati, la domanda Perché Athos? trovava quindi la sua risposta. Naturalmente Athos. Soltanto Athos.

L’audacia, la perfezione, la bellezza — e l’enormità — del complotto di Cee mozzò il fiato a Ethan. Tutte le tessere del mosaico cadevano al posto, ciascuna provando l’evidenza dell’altra con la chiarezza di un calcolo matematico. C’era da credere che Cee fosse orgoglioso di come aveva speso la sua montagna di denaro.

— Ora chi è che trova insopportabile incontrarsi all’improvviso con la verità? — lo derise Millisor.

— Oh — disse Ethan con un fil di voce.

— La cosa più insidiosa di quel piccolo mostro è il suo fascino — proseguì il cetagandano, guardandolo con intensità. — Lo abbiamo costruito così proprio a questo scopo, quando ancora non sapevamo che i limiti del suo talento l’avrebbero reso poco adatto come agente sul campo. Anche se. visti i guai che ha saputo darci in seguito, di talenti ne aveva fin troppi. Ma non bisogna pensare che il fascino sia una virtù, dottore. Lui è pericoloso, se non altro perché non prova la minima lealtà verso l’umanità dalla quale è uscito, e di cui non fa più parte…

Ethan si chiese se in quel contesto poteva interpretare: Umanità = Cetaganda.

— … essendo non più un uomo ma un virus, che vuole trasformare l’intero universo a sua immagine e somiglianza, un pezzo dopo l’altro. Sicuramente lei capisce che un contagio di questo genere richiede contromisure energiche. Ma la nostra è soltanto la violenza controllata della chirurgia. Lei non deve farsi convincere dalla propaganda del virus. Per quanto pieni di difetti, noi non siamo i macellai che lui vuol farci apparire.

Le mani di Millisor si girarono, nelle cinghie, aprendosi in un gesto di supplica. — Ci aiuti. Lei deve aiutarci.

Scosso, Ethan guardò l’uomo avvolto in quel camice spiegazzato. — Senta, mi spiace di… — Per Dio il Padre, stava davvero chiedendo scusa a Millisor? — No, colonnello. Vede, io ho parlato con Okita. Posso capire che un uomo diventi un killer. Ma un killer che si annoia a fare il suo lavoro?

— Okita è solo uno strumento. Il bisturi del chirurgo.

— Allora il vostro governo trasforma un uomo in una cosa. — Una citazione antica passò nella mente di Ethan: Dai loro frutti li conoscerai…

Millisor strinse le palpebre. Non insisté nelle sue argomentazioni, e dopo un breve sguardo ad Arata domandò: — Cos’ha fatto al sergente Okita, dottor Urquhart?

Anche lui gettò un’occhiata al capitano della Sorveglianza, seccato che quel nome fosse stato riportato in ballo. — Io non gli ho fatto niente. Magari ha avuto un incidente. Oppure ha disertato. — O forse, considerato il destino ultimo di Okita, era più esatto dire "dessertato"… Ethan scacciò quei pensieri morbosi. — In ogni caso, io non posso aiutarla. Anche se volessi tradire Cee per consegnarlo a voi (è questo che mi sta chiedendo, no?) non so assolutamente dov’è.

— Neppure dove sta andando? — suggerì Millisor.

Ethan scosse il capo. — Può esser diretto dovunque, per quello che ne so. Cioè: dovunque ma non su Athos.

— Ahimè, è vero — mormorò Millisor. — Fino ad oggi Cee era legato a quel materiale genetico. Se io fossi riuscito ad averlo avrei potuto mettermi a sedere, e lui sarebbe venuto da noi. Ora che le colture sono state distrutte, e che non sarà possibile da parte nostra attirarlo con qualcosa di analogo, Cee è libero di portare avanti una nuova variante della sua trama nefasta chissà dove. — Il cetagandano sospirò. — Chissà dove…

Il Ghem-colonnello, ricordò risolutamente Ethan a se stesso, era legato e impotente. Lui era libero di muoversi; spettava a lui mettere fine al colloquio prima che quell’astuta spia gli tirasse fuori altre informazioni.

Nella sua ritirata strategica Ethan si fermò un momento quando fu a metà strada verso la porta. — La lascio con un’ultima considerazione su cui riflettere, colonnello: se lei avesse usato questi modi così ragionevoli la prima volta che ci siamo incontrati, invece di fare quello che ha fatto, forse mi avrebbe convinto, e le avrei dato ciò che voleva.

Le mani di Millisor si chiusero a pugno e tesero i loro legami, alla fine.

Fu così che Ethan fece ritorno alla sua camera d’albergo, quella che lui aveva preso il giorno del suo arrivo a Stazione Kline e mai più occupata da allora. Poteva ringraziare la fortuna che l’aveva indotto a pagare in anticipo, perché i suoi effetti personali erano ancora tutti dove li aveva lasciati. Fece il bagno, si rase, diede una ritoccata ai capelli, indossò finalmente abiti di sua proprietà e mangiò una leggera colazione ordinata al distributore della stanza.

Con il bicchiere di caffè sintetico in mano sedette a riflettere. Aveva buttato via due settimane — doveva controllare la data, aveva perso la cognizione del tempo — in quell’avventura, prima come specchietto per le allodole di Quinn. poi come bersaglio mobile di Millisor e oggetto delle manovre di Terrence Cee. Tutti lo avevano usato come una pallina da ping-pong, e cosa ne aveva ricavato? Un utile insegnamento? Una volta che avesse restituito la tuta rossa e gli stivali. non gli sarebbe rimasto altro souvenir che quanto aveva appreso. Tirò fuori la carta di credito e la esaminò. L’invisibile microspia di Quinn era presumibilmente ancora lì, e attiva. Se avesse detto quel che pensava di lei, avrebbe fatto fremere uno dei suoi orecchini a forma di fiore? Comunque, una persona che parlava alla sua carta di credito avrebbe senza dubbio messo a disagio chi gli stava accanto, anche lì su Stazione Kline.

Si distese stancamente sul letto, solo per scoprire che i suoi nervi erano troppo tesi per addormentarsi. Era giorno, o notte? E avevano un senso quei termini su Stazione Kline? Lui non avrebbe saputo dire se aveva conservato il ritmo del suo fuso orario di Athos, o se l’aveva perso già prima di sbarcare sulla stazione. Sentiva il bisogno di alzare la faccia sotto la pioggia, o di un freddo vento polare che gli spazzasse via le ragnatele dal cervello. Avrebbe potuto aprire l’aria condizionata, ma l’odore del deodorante chimico non sarebbe cambiato.

Dopo un’ora trascorsa a rivedere tutti gli avvenimenti di quei giorni, e ad immaginare ciò che avrebbe potuto dire e fare se fosse stato più accorto (o più duro, o più pronto alla risposta salace, o più affascinante) rinunciò disgustato, si vestì e uscì dall’albergo. Se dormire gli era impossibile, avrebbe almeno cercato di occupare il suo tempo con qualcosa di utile. Athos stava pagando quattrini sonanti per ogni minuto della sua missione.

Tornò al Livello della Passeggiata dei Viaggiatori, dov’erano quasi tutti i consolati e le ambasciate, e cominciò a fare una ricerca seria delle case produttrici di materiale biologico. Quasi tutti i pianeti più progrediti offrivano qualcosa. Su Colonia Beta c’erano diciannove diverse possibilità, fra ditte private e governative, e l’Università di Silica offriva un’interessante possibilità di scelta fra le donazioni genetiche di persone di talento, con ampie garanzie.

Benché contrario ad accettare senza riserve i suggerimenti di Quinn su qualsiasi cosa, Ethan rifletté che Colonia Beta sembrava la destinazione migliore. Non sarebbe rimasto deluso, gli assicurò la femmina che operava all’interfaccia computerizzato nell’atrio. Lui uscì convinto di aver finalmente fatto un buon lavoro. E si sentiva fiero anche per un altro motivo; aveva trattato con quella femmina come avrebbe fatto con un uomo. Poteva riuscirci, dopotutto; non era affatto difficile.

Fece ritorno in albergo per mangiare un boccone, poi sedette alla consolle di comunicazione per vedere quanto gli sarebbe costato un biglietto di andata e ritorno per Colonia Beta.

Il percorso più diretto era via Escobar, e ciò gli avrebbe offerto la possibilità di esaminare altri potenziali fornitori senza aggravare di una spesa extra il Consiglio della Popolazione. Almeno metà dei consiglieri gli avrebbero fatto i loro complimenti, qualunque fosse stata la sua scelta tecnica.

Prese finalmente le decisioni più importanti, la stanchezza cominciò a farsi sentire. Ethan si distese sul letto per un sonnellino di cinque minuti.

Parecchie ore più tardi un ronzio insistente del videotelefono lo trascinò fuori dalla palude di un sogno confuso. Il suo piede destro rifiutò di svegliarsi, piegato a un angolazione anomala, e gli fremette di un solleticante torpore quando si alzò per andare a sfiorare il pulsante "Ricezione".

Sulla piastra olovisiva si materializzò la faccia di Terrence Cee. — Dottor Urquhart?

— Ah. Non mi aspettavo di rivederla. — Ethan si sfregò gli occhi cisposi e sedette per entrare nel campo della telecamera. — Credevo che non sapesse più cosa farsene dell’asilo politico di Athos, visto che i suoi grandi traguardi sono ormai finiti in fumo. Un individuo materialista come lei è sicuramente più adatto all’ambiente dei mercenari, comunque. Le consiglio di esaminare l’offerta della comandante Quinn.

Cee ebbe una smorfia, mostrandosi chiaramente a disagio. — In effetti sto per partire — disse con voce rauca. — Volevo parlarle un’ultima volta per… per chiederle scusa. Possiamo vederci al Molo C-8 fra, diciamo, una mezzora?

— Be’, se proprio ci tiene. — Ethan annuì. — Ha intenzione di partire con Quinn, allora, per unirsi ai Mercenari Dendarii?

— Per il momento non posso dire altro. Mi scusi. — L’immagine di Cee si dissolse in una nevicata luminosa e la comunicazione s’interruppe.

Forse accanto a lui c’era Quinn, che gli aveva accennato di tenere la bocca chiusa. Ethan respinse la tentazione di chiamare la Sicurezza e dire al capitano Arata dove poteva trovarla. Lui e Quinn erano pari, adesso; l’aiuto ricevuto aveva pareggiato i guai in cui quella femmina lo aveva trascinato. Il mistero era stato risolto, lei aveva le informazioni tanto desiderate dal suo capo. Che se ne andasse per la sua strada.

Mentre Ethan usciva dall’albergo e si avviava sul marciapiede del corridoio, un uomo che fin’allora era stato seduto accanto alla vasca dei pesci dorati tolse la carta di credito dalla macchinetta che spruzzava nell’acqua briciole di cibo, e venne verso di lui con l’evidente intenzione di fermarlo.

Per un momento Ethan ebbe l’impulso paranoico di voltarsi e fuggire urlando lungo la strada. L’uomo non poteva essere Setti. Non corrispondeva affatto al tipo razziale cetagandano: era alto, di pelle scura, con un gran naso a becco, e indossava un completo di seta rosa gaiamente ricamato.

— Il dottor Urquhart? — domandò educatamente lo sconosciuto.

Ethan mantenne una certa distanza fra loro. Se costui era un’altra dannata spia di qualche genere, giurò a se stesso, l’avrebbe ficcato a testa in giù nella vasca dei pesci dorati. — Sì?

— Mi chiedo se non sarebbe così gentile da farmi un piccolo favore.

— Di che si tratta?

L’uomo tolse da una tasca della giacca rosa un oggettino oblungo, un piccolo proiettore olovideo. — Se le accadesse di rivederlo, vorrei che lei consegnasse questa capsula da messaggi al Ghem-colonnello Luyst Millisor. Il messaggio si attiva introducendo il suo numero di matricola militare.

Nella vasca dei pesci rossi, a testa in giù. — Il colonnello Millisor è stato arrestato dalla Sicurezza di Stazione Kline. Se vuole fargli avere un messaggio, si rivolga a loro.

— Ah. — L’uomo sorrise. — Forse lo farò. Tuttavia, chi può dire dove ci porterà il prossimo giro della grande ruota? Lo prenda ugualmente. Se non le capiterà l’occasione di consegnarlo, lo getti pure via. — Detto questo cercò di mettere il piccolo oggetto in mano a Ethan, che però fu svelto a indietreggiare. Invece di insistere e costringerlo a camminare ancora all’indietro sul marciapiede, l’uomo si fermò e scosse il capo. Appoggiò la capsula sulla panchina che Ethan aveva messo come barriera fra loro. — Lascio la cosa alla sua discrezione, signore. — Gli rivolse un inchino accompagnato da un ampio gesto del braccio, quasi una genuflessione, e si allontanò.

— Non ho intenzione di toccare questo oggetto — disse dietro di lui Ethan con voce piatta. L’uomo si volse a mezzo con un sorrisetto, ed entrò in un ascensore antigravità. — Lo porterò alla Sicurezza! — gridò lui. L’uomo si portò una mano a un orecchio e scosse il capo, sollevandosi nel tubo trasparente. — Io lo… io lo… — Ethan imprecò fra i denti mentre la figura rosa spariva alla vista.

Girò intorno alla panchina, scrutando il piccolo oggetto con la coda dell’occhio. Sembrava innocuo. Alla fine, con un borbottio, si chinò a raccoglierlo. Alla prima occasione l’avrebbe portato al capitano Arata, e qualunque cosa ci fosse dentro se ne sarebbe occupato lui. Guardò l’orologio e si affrettò verso le auto pubbliche.

Dovette prendere una vettura a bolla per farsi portare al Molo C-8. che si trovava in un settore riservato alle navi mercantili sul lato opposto della stazione rispetto alla Passeggiata dei Viaggiatori. Stavolta aveva una mappa con sé, e non si smarrì nelle traverse.

La zona dei moli era molto silenziosa a quell’ora. Un solo ingresso al corridoio estensibile esterno era acceso, collegato a una piccola nave, probabilmente un corriere veloce che affittava anche cabine passeggeri a chi voleva spostarsi in fretta. Quelle astronavi da balzo erano perfino più costose dei grossi transgalattici di linea, ed Ethan rifletté che il conto spese di Quinn doveva essere molto elastico.

Terrence Cee, vestito con la sua tuta verde da operaio della stazione, era seduto su una cassa da imballaggio sul bordo della strada dei moli, completamente solo. Il giovanotto biondo si girò nel sentire i suoi passi sulla rampa di uscita, e quando lui gli fu accanto disse: — È in anticipo di dieci minuti, dottor Urquhart.

Ethan guardò il corridoio estensibile. — Credevo che lei avrebbe cercato un passaggio su un mercantile, o su uno di quei passeggeri che ammucchiano i turisti come sardine. Non immaginavo che lei viaggiasse con questo stile.

— Ero convinto che lei non sarebbe venuto.

— Perché? Forse perché ho scoperto tutta la verità sul materiale che lei voleva mandare ad Athos? — Ethan scrollò le spalle. — Non posso dire che approvo quel che lei cercava di fare. Ma visti gli ovvi problemi che la sua… uh, la sua razza, suppongo di poter dire, avrebbe sofferto nelle vesti di minoranza odiata e temuta, penso di capire.

Un malinconico sorriso illuminò il volto del giovanotto biondo, poi scomparve. — Lei capisce? Sì, è naturale che un athosiano capisca. — Ebbe un cenno col capo. — Forse avrei dovuto dire che speravo che lei non venisse.

Ethan si volse, seguendo la direzione del suo cenno.

Nell’ombra di un grosso carrello sollevatore c’era Elli Quinn. Ma era una Elli Quinn insolitamente sciatta e spettinata. La sua bella blusa non c’era, e indossava solo una maglietta a mezze maniche e i pantaloni dell’uniforme. Anche i suoi stivaletti non c’erano. E inoltre, notò Ethan quando barcollò avanti fuori dall’ombra, la fondina del suo storditore era vuota.

Aveva barcollato avanti perché era stata spintonata da un uomo con l’uniforme arancione e nera della Sicurezza di Stazione Kline. Così l’avevano presa, alla fine. Ethan fu sul punto di ridere. Stare a guardare come se la sarebbe cavata sarebbe stato affascinante…

Il suo buonumore s’inaridì quando poté vedere meglio la pistola che l’individuo robusto dalla faccia inespressiva le puntava alla nuca. Era un letale distruttore neuronico. Un’arma non regolamentare per gli agenti della Sicurezza.

Fu in quel momento che lo scalpiccio sulla strada dei moli lo fece voltare, e vide Millisor e Rau che venivano verso di loro.

CAPITOLO TREDICESIMO

Ethan ed Elli Quinn furono spinti uno accanto all’altra, entrambi nel potenziale raggio di fuoco della parabola con cui terminava la canna del distruttore neuronico, impugnato con truce decisione dall’individuo che portava l’uniforme della Sicurezza. Cee fu invece tenuto sotto tiro dallo storditore di Rau, in disparte. Questo bastò per far capire a Ethan quanto fosse più precaria la loro situazione.

Vista da vicino Quinn appariva ridotta ancora peggio, con un labbro spaccato, pallida e tremante sia per le percosse ricevute che per i postumi di un colpo di storditore. Senza gli stivaletti sembrava più piccola e delicata. Cee si muoveva come un cadavere in cerca di una tomba dove lasciarsi cadere, indifferente, rigido, con gli occhi azzurri vuoti e senza luce.

— Cos’è successo? — sussurrò Ethan a Quinn. — Come sono riusciti a trovarla loro, quando neppure la Sicurezza c’è riuscita?

— Mi ero dimenticata di avere addosso quel dannato rintracciatore — sibilò fra i denti lei. — Avrei dovuto sbatterlo nel primo cestino di rifiuti, quando non mi serviva più. Sapevo che avrebbe potuto compromettermi! Ma Cee mi stava distraendo con le sue chiacchiere, e io avevo fretta e… oh, all’inferno, ormai a che serve… — Si morse un labbro, frustrata, poi se ne pentì e lo leccò teneramente. Il suo sguardo continuava a scrutare i loro avversari, soppesando le possibilità, rifiutando le inevitabili conclusioni, cercando ancora altri sbocchi senza migliore fortuna.

Millisor s’incamminò intorno a loro, rilassato e soddisfatto. — È un piacere vederla qui, dottor Urquhart. Avremmo potuto organizzare due incidenti separati, uno per lei e uno per la comandante Quinn; ma avervi entrambi qui ci offre ora un’opportunità assai più… ghiotta. Per l’efficienza professionale, intendo.

— Perché vuole vendicarsi? — balbettò Ethan. — Noi non abbiamo mai cercato di ucciderla.

— Non sia sciocco — lo rimproverò amichevolmente Millisor. — La vendetta non ha niente a che fare con la professionalità. Voi due morirete per il semplice motivo che sapete troppo. Quant’è banale, vero?

Rau sogghignò aspramente. — Gli dica come, colonnello — lo invitò.

— Ma certo. Io le auguro di cuore che la cosa stimoli il suo senso dell’umorismo, comandante Quinn, perché vorrei davvero andarmene sapendo che lei è morta con il sorriso sulle labbra. — Millisor le indicò i moli. — Osservi, se non le spiace, i tubolari estensibili sulla paratia esterna della stazione. Sigillati a entrambe le estremità, essi costituiscono piccoli compartimenti privati. Proprio il posto adatto che una coppietta col gusto dell’avventura troverebbe stimolante per un amplesso un po’ insolito. Stimolante, ma ahimè sfortunato, perché nel sonno profondo seguito alle loro impegnative effusioni erotiche…

Rau alzò allegramente lo storditore. perché fosse chiaro quanto sarebbe stato inevitabile quel sonno profondo.

— … il corridoio tubolare verrà esteso nello spazio, durante i preparativi per l’aggancio automatico al convogliatore delle merci, nella stiva di una nave da carico. Detta nave trovasi in fase di avvicinamento, ed è attesa al Molo C-12, quello laggiù, dopo che il mio corriere sarà salpato. Ora, perché facciate buona impressione a chi vi scongelerà da quell’imbarazzante posa, mi domando: dovremmo lasciarvi completamente nudi? — Millisor si mostrò seriamente perplesso. — Oppure soltanto nudi dalla vita in giù, per inscenare un amplesso più appassionato e furioso?

— In nome di Dio il Padre — mugolò Ethan inorridito. — Il Consiglio della Popolazione penserà che ho raggiunto gli abissi d’ogni depravazione, per compiere atti sessuali con una femmina!

— Signore Iddio — ansimò sottovoce Quinn, non meno sbigottita. — L’ammiraglio Naismith penserà che mi sono completamente rimbecillita per fare all’amore dentro un tubolare d’attracco, fra tutti i maledetti posti che c’erano.

Lo sguardo di Terrence Cee si girò sulla paratia esterna dei moli, come se cercasse la morte con la stessa disperazione con cui la comandante Quinn vi cercava una via d’uscita. Fece un passo da quella parte. Subito lo storditore di Rau lo prese di mira.

— Illuditi pure, mutante — grugnì Rau. — Non ti lasceremo una sola possibilità. Una mossa sbagliata e sarai portato a bordo in stato d’incoscienza. — I suoi denti si scoprirono in un sorriso. — Ma non vorrai perderti lo spettacolo che i tuoi amici stanno per darci, no?

Le mani di Cee si aprivano e si chiudevano; l’angoscia e la rabbia lottavano per prendere il sopravvento in lui. entrambe impotenti e inutili. — Mi dispiace, dottore — mormorò. — Puntavano un distruttore neuronico alla testa della comandante Quinn, e io sapevo che non stavano bluffando. Ho pensato che forse lei non sarebbe venuto, visto che ce l’aveva con me. Avrei dovuto lasciare che uccidessero una sola persona. Mi dispiace, mi dispiace…

Le labbra di Quinn si piegarono in un sorriso sarcastico; un’altra goccia di sangue uscì dal taglio. — Non è il caso di chiedergli scusa con tanto fervore, Cee. L’avrebbero eliminato anche senza la tua collaborazione.

— Non deve affatto chiedermi scusa — disse Ethan con fermezza. — Probabilmente io avrei fatto lo stesso, al suo posto.

L’uomo col distruttore neuronico accennò a Ethan e a Elli Quinn di muoversi e li scortò fino alla paratia esterna, tenendosi per sicurezza una decina di metri più indietro; poi lungo le piattaforme di carico verso il portello del Molo C-12.

— Chi è questo individuo? — domandò Ethan a Quinn, accennando col capo alle loro spalle. — È lui Setti?

— Già, proprio lui. Avrei dovuto sparargli nella schiena quando ne avevo l’occasione, e riscuotere il denaro che Casa Bharaputra mi aveva promesso — sussurrò la mercenaria con aria disgustata. E aggiunse, pensosamente: — Se io saltassi addosso a questo bastardo, pensi che riusciresti a raggiungere uno di quei corridoi sulla destra prima che Rau ti abbatta con lo storditore?

C’erano cinquanta metri o forse più. e quasi tutti allo scoperto sulla strada. — No — mormorò francamente Ethan.

— Che ne dici di gettarti al riparo in quel tubolare estensibile?

— E poi? Impiccarmi con la cintura dei pantaloni prima che vengano a spararmi?

— E va bene — ringhiò lei con impazienza. — Allora fammi la grazia di un’idea migliore.

Una mano di Ethan si appoggiò sulla tasca destra dei pantaloni e incontrò un piccolo oggetto oblungo. — Forse potremmo guadagnare tempo con questo — disse, tirando fuori la capsula del messaggio.

— Cosa diavolo è quella?

— Pensavo di consegnarla alla Sicurezza. Mentre venivo qui, un uomo mi ha avvicinato per strada e me l’ha voluta lasciare per forza. Ha detto che è un messaggio per Millisor, attivabile soltanto con il suo numero di matricola militare, e che io avrei dovuto dargliela se mi fosse capitata l’occasione di incontrarlo…

Quinn s’irrigidì, e allargò una mano a stringergli un braccio. — Di che colore era?

— Eh?

— Quell’uomo. Il suo colore!

— Rosa. Cioè, aveva un completo rosa.

— Non il vestito, la sua pelle!

— Una sfumatura interessante… color caffè. Insolita ma attraente. Vorrei che Athos consentisse l’importazione di geni della razza africana terrestre, per variare…

— Ehi, tu, cos’hai in mano? Fammi vedere — disse Setti dietro di loro, in tono minaccioso.

— Dammela, dammela! — sussurrò Quinn, strappando il piccolo oggetto dalla mano di Ethan. — Vediamo. 672-191… oh, Dio, era 142 o 124? — Le sue dita si artigliarono sui minuscoli pulsanti della serratura a combinazione, poi esitarono frementi. — 421, e prega. — Si voltò. — È un messaggio per il tuo padrone — esclamò gettando la capsula verso lo stupito cetagandano. che automaticamente alzò la mano libera per afferrarla al volo. — Buttati giù! — gridò subito la mercenaria in un orecchio di Ethan. e gli si aggrappò addosso trascinandolo al suolo accanto a un nastro trasportatore.

Ci fu qualche secondo di silenzio perplesso mentre Setti, con il distruttore neuronico nell’altra mano, esaminava la capsula. Nell’aria davanti a lui s’era materializzata un’immagine olografica. — Un messaggio, eh? Molto bene. Alzatevi, voi due.

— Ah. dannazione — sospirò Quinn. pesando su una spalla di Ethan. — Ho preso un granchio.

Lui si tirò in piedi, lamentandosi. — Cosa diavolo credevi di…

L’improvvisa esplosione li scaraventò dall’altra parte del nastro trasportatore, facendoli rotolare storditi fra i cavi di un argano accanto alla piattaforma di carico. Per qualche momento Ethan non riuscì a sentire né a vedere niente. La sua testa echeggiava come se fosse un tamburo di bronzo, e la vista gli si era oscurata.

— Lo sapevo che non poteva essere un messaggio amichevole — mugolò Quinn soddisfatta annaspando sulla sua schiena. Si puntellò su di lui per alzarsi, cadde, si tirò ancora in piedi e sbandò contro la paratia, sbattendo le palpebre e agitando le mani davanti a sé.

Le sirene d’allarme cominciarono a ululare come bestie impazzite in tutti gli angoli del settore. Le luci gialle d’emergenza si accesero qua e là sui moli (Ethan fu sollevato nell’accorgersi che non era diventato cieco) e in distanza ci furono i tonfi dei portelli stagni che si chiudevano uno dopo l’altro.

Più vicino, meno rumoroso ma assai più allarmante c’era il sibilo, sempre più acuto, dell’aria che stava sfuggendo nello spazio dal portello del tubolare estensibile dinnanzi al punto dove si trovava Setti, danneggiato dall’esplosione. Un turbine di cristalli di ghiaccio si allargava attorno alla falla.

D’istinto Ethan si trascinò in direzione opposta, sulle mani e sulle ginocchia. La gravità artificiale aumentava e diminuiva con effetti sconvolgenti sul suo stomaco, e il vento gli scompigliava i capelli. Girandosi vide che le piastre metalliche della piattaforma di carico erano divelte per un paio di metri. Di Setti non c’era traccia da nessuna parte.

— Per Dio il Padre — mugolò, storditamente, — è proprio un’esperta nel far sparire la gente…

Spinse lo sguardo attraverso il vasto spazio deserto della strada e vide Terrence Cee che correva come un cervo inseguito dagli altri due cetagandani. Non andò lontano, perché Rau si tuffò su di lui e lo fece cadere al suolo. Millisor li raggiunse da dietro, prese la mira per sferrare un calcio alla testa del giovanotto biondo, poi sembrò riflettere che quello era un punto troppo prezioso e lo colpì invece al plesso solare. La loro preda rimase faccia al suolo, senza fiato. Millisor e Rau lo agguantarono ciascuno per un braccio e presero a trascinarlo di peso in direzione del corridoio estensibile con la luce accesa, quello che comunicava con la loro astronave.

Ethan vacillò in piedi e cominciò a correre verso di loro. Non aveva la minima idea di cos’avrebbe fatto dopo averli raggiunti, salvo che tentare di fermarli in qualche modo. Quello era l’unico imperativo. — Dio il Padre — ansimò, — dev’esserci un premio in paradiso per gli stupidi come me…

Aveva il vantaggio di un’angolazione più breve da attraversare, mentre Millisor e Rau erano ostacolati dalle contorsioni della loro preda. Ethan riuscì a balzare davanti all’entrata del tubolare estensibile con qualche metro d’anticipo e la bloccò allargando le braccia e le gambe. Era in posizione perfetta per sferrare un pugno a chi l’avesse aggredito per primo, a parte il grave handicap di doversi difendere senza armi. Aiutatemi, qualcuno pensò. — Non provateci! — disse, raucamente.

Con sua sorpresa i due si fermarono. Rau aveva perduto il suo storditore da qualche parte nella lotta con Cee. ma Millisor estrasse dalla blusa una piccola quanto micidiale pistola ad aghi e gliela puntò addosso. Ethan sapeva che i sottili proiettili ad ago si espandevano al contatto del bersaglio, squarciando come una raffica di rasoi la carne umana. L’autopsia del suo corpo sarebbe stata una faccenda molto sanguinosa…

Terrence Cee si liberò di Rau con una spinta e barcollò fra Ethan e Millisor, spalancando le braccia in un futile gesto di protezione. — No! Lui no!

— Razza d’idiota, credi che io sia obbligato a tenerti in vita solo perché le colture di quella cagna non ci sono più? Mi basta un chilo della tua carne… e sai quale parte di te congelerò? — Millisor rise, inferocito. — Proprio quella che da ragazzo mi davi così poco volentieri, stupido mutante. E adesso muori, perdio! — La mano con cui puntava l’arma oscillò. — Ma cosa… — L’uomo s’inclinò di lato quando i suoi piedi si staccarono dal pavimento metallico, e agitò le braccia per ritrovare l’equilibrio.

Ethan si aggrappò a Cee. Il suo stomaco sembrava fluttuare via indipendentemente dal resto del corpo. Si guardò attorno, sconvolto, e vide Quinn aggrappata alla paratia alquanto lontano da lì, fra il Molo C-12 e il portellone d’ingresso del settore. La mercenaria stava cercando di strappare il coperchio da un largo pannello di comandi.

Il corpo di Millisor ondeggiò a mezz’aria quando l’uomo compensò con mosse esperte l’indesiderata rotazione sul suo asse, e questo lo mise in grado di prendere ancora la mira verso Cee. La comandante Quinn, con un rauco grido, cercò di distrarlo scaraventando verso di loro il coperchio del pannello. L’oggetto roteò nell’aria davanti ai moli, ma ancor prima di aver coperto metà della distanza fu chiaro che avrebbe mancato abbondantemente Millisor. Con un’imprecazione rabbiosa l’individuo puntò la pistola ad aghi…

I moli furono attraversati da una striscia di luce bianca. Per un abbagliante momento Millisor si agitò nel raggio di plasma che l’aveva colpito, incorniciato nell’aureola di quella vampa come un martire assunto al cielo, poi i sensi di Ethan furono aggrediti dal disgustoso puzzo della carne bruciata e dei vestiti e della plastica fusa. Inorridito sbatté le palpebre, per scacciare le immagini retiniche rosse e verdi oltre le quali la forma scura e carbonizzata del Ghem-lord si contorceva in una nuvola di fumo bianco.

La pistola ad aghi era volata via, e Rau lasciò la ringhiera a cui si stava aggrappando per lanciarsi in un vano tentativo di afferrarla. Il cetagandano nuotò freneticamente nell’aria, girandosi da una parte e dall’altra alla ricerca della provenienza di quel nuovo attacco devastante. Il coperchio scagliato da Quinn rimbalzò nella paratia esterna e saettò sopra la testa di Ethan, mancandolo per pochi centimetri.

— Eccolo, lassù! — gridò Cee, che si spingeva con energia da un appiglio all’altro verso il cetagandano superstite. Il giovanotto arrivò accanto a Ethan e gli indicò le passerelle e le scalette sopra la zona interna dei moli. Una figura vestita di rosa alzò un braccio, puntando un’arma contro Rau.

— No, lui è mio! — gridò Cee. E ringhiando con furia animalesca si puntellò su Ethan, usando il suo corpo per proiettarsi in direzione di Rau. — Ti ammazzo, bastardo!

L’unico beneficio che Ethan poté vedere nell’imprudente iniziativa del telepate fu che lui venne spinto con forza in alto, verso la paratia esterna dei moli. Riuscì ad agguantare abilmente il braccio di un argano senza spaccarsi un dito a causa del momento d’inerzia del suo corpo, e mise fine a quel volo pericoloso.

— No, Terrence! — gridò dietro di lui. — Se qualcuno sta sparando ai cetagandani, dobbiamo toglierci di mezzo! — Ma la sua voce fu portata via dal vento. Vento? Si girò verso il portello danneggiato. La falla si stava allargando sempre più; da un momento all’altro avrebbe potuto verificarsi una decompressione esplosiva…

Nel pannello di comandi da cui aveva strappato il coperchio. Quinn stava cercando di accendere le piastre di gravità d’emergenza. Il peso tornava, e Rau e Cee avvinti nella lotta scesero lentamente al suolo. Ethan smise di ondeggiare come una bandiera al vento e si ritrovò a penzolare, benché ancora molto leggero, a una decina di metri d’altezza rispetto ai moli. In fretta scese giù dall’argano e raggiunse la pavimentazione, prima che Quinn facesse la stessa cosa che Helda aveva fatto con gli uccelli fuggiti.

Rau scaraventò sulla strada Cee. più snello e leggero, e mentre il giovanotto rotolava via lui corse verso il tubolare del Molo C-8, collegato con la nave ormeggiata all’esterno. Ma aveva fatto appena due passi quando il suo corpo fiammeggiò e bruciò come un tizzone nei raggi incrociati di armi al plasma, usate non da uno ma da due individui appostati sulle passerelle. Lo sventurato cadde con un tonfo molle, visse ancora qualche orribile istante mentre la sua mandibola scarnificata si apriva in un muto grido, e poi fu scosso solo dai sussulti interni delle ossa che si carbonizzavano. Poco più in là Cee, sulle mani e sulle ginocchia lo guardò a occhi sbarrati, come stupito dalla distanza ormai insuperabile che qualcun altro aveva messo fra lui e la sua vendetta.

Ethan aspettò d’essere certo che quegli uomini non avrebbero sparato a nessun altro prima d’incamminarsi verso il telepate. Gli sconosciuti stavano scendendo lungo una scaletta. Uno era l’uomo in completo rosa che l’aveva avvicinato fuori dall’albergo, l’altro, anche lui nero di pelle, vestiva un abito marrone altrettanto vistoso e ricamato. I due si avvicinarono subito a Quinn, che invece di mostrarsi lieta dell’intervento dei loro salvatori cominciò ad arrampicarsi su per la parete come un ragno spaventato.

Gli individui di pelle nera la agguantarono ciascuno per una caviglia e la tirarono giù senza complimenti, facendole sbattere la testa su una piattaforma di carico. La mercenaria cercò di colpire uno di loro con un calcio in faccia, ma il suo tentativo fu sventato da Abito Marrone e lei precipitò dalla piattaforma, in una caduta che sarebbe stata dolorosa a piena gravità e anche così non fu certo piacevole. Abito Rosa le immobilizzò le braccia dietro la schiena, e Abito Marrone le tolse la voglia di lottare ancora con un pugno nello stomaco che le mozzò il respiro.

Subito dopo, tenendola per le braccia, i due la trascinarono su per una rampa verso la luce gialla di un’uscita d’emergenza, mentre le squadre del controllo-danni della stazione, in tuta pressurizzata, stavano già entrando nel settore da altri portelli.

— Quei due stanno portando via Quinn… la rapiscono! — gridò Ethan a Cee. — Chi sono? Cosa vogliono? — Aiutò il giovanotto a rialzarsi e rimase lì a ballare da un piede all’altro, sgomento e senza sapere cosa fare.

Il telepate li guardò e scosse il capo. — Gente del Gruppo Jackson? Di Casa Bharaputra? Non lo so, ma dobbiamo fermarli!

— Preferibilmente fuori di qui, dove c’è aria da respirare…

Aggrappandosi uno all’altro per non procedere a salti troppo lunghi e incontrollati, I due attraversarono la strada più rapidamente possibile e salirono su per la rampa.

Al compartimento stagno d’emergenza dovettero aspettare per decine di terribili secondi, coi denti stretti e le dita ficcate negli orecchi per proteggere i timpani contro la pressione dell’aria che diminuiva sempre più, mentre il terzetto che li aveva preceduti passava attraverso il ciclo automatico del piccolo locale che comunicava con le zone a minore rischio della stazione. Ethan scoprì che premere tutti i pulsanti, o maledire e prendere a calci in preda al panico i comandi manuali, non serviva ad accelerare il ciclo. Il meccanismo si aprì solo quando i suoi sensori gli diedero le risposte giuste.

I due si gettarono nell’interno e poi dovettero aspettare che la pressione si ristabilisse, mentre i rapitori di Quinn aumentavano il loro vantaggio. Ethan poté riempirsi i polmoni per respirare di sollievo. S’era sbagliato sull’aria della stazione: riciclata o no, aveva il profumo più dolce che lui avesse mai sentito.

— Come diavolo hanno fatto Millisor e Rau — ansimò, nell’attesa che l’indicatore dei minibar raggiungesse la linea verde, — a fuggire dai Reparto Quarantena? Credevo che neppure un virus avrebbe potuto uscire di là.

— Li ha liberati Setti — ansimò in risposta Cee. — Si è presentato dicendo di essere l’agente che li doveva scortare nella stiva di un mercantile ormeggiato ai moli, in attesa della deportazione. O forse era veramente lui ad avere quell’incarico, non lo so. Non credo che Quinn avesse capito fino a che punto erano riusciti a infiltrarsi nell’organizzazione della stazione.

Il portello interno del compartimento stagno si aprì con un sibilo, ed Ethan e Cee corsero nel corridoio all’inseguimento di una preda già scomparsa e dalla quale, disarmati com’erano, sapevano che avrebbero dovuto restare a prudenziale distanza. Al primo incrocio si fermarono, indecisi.

Cee allargò le braccia e girò su se stesso, come se la sua telepatia fosse attiva e stesse cercando di captare qualcosa. — Da questa parte — decise, indicando a sinistra.

— Ne è sicuro?

— No.

I due ripresero a correre. Arrivati all’incrocio successivo furono ricompensati dal suono di una voce femminile che gridava qualcosa, in tono di protesta, dalla traversa di destra. Seguirono quella direzione e da lì a poco videro che il corridoio sfociava in un atrio da cui partiva un pozzo antigravità per le merci.

L’uomo dal vestito di seta marrone aveva spinto Quinn faccia al muro, e le torceva un braccio dietro la schiena. Lei cercava di divincolarsi per attenuare il dolore, ma in quella posizione non aveva possibilità di opporsi.

— Avanti, signora mia — stava dicendo l’uomo dall’abito rosa. — Non farci perdere altro tempo. Dov’è il denaro?

— Se avete fretta non voglio trattenervi, andate pure — ansimò lei con la faccia schiacciata contro il muro. Quella sfacciataggine le costò cara. — Ouch! Razza di… agh! Sentite, vi consiglio di nascondervi nella vostra ambasciata prima che arrivi la Sicurezza. Fra poco sarà pieno di gente, qui, dopo quell’esplosione.

Abito rosa girò su se stesso e alzò la pistola a plasma nel sentire i passi di Ethan e di Cee che arrivavano nell’atrio.

— Si fermi! — disse il telepate afferrando Ethan per un braccio.

— Non sparate, questi due sono amici! — protestò Quinn, lottando per divincolarsi. — Sono amici, vi dico. Non c’è bisogno di sparare, siamo tutti amici, qui!

— È così, ve l’assicuro! — si affrettò a dire Ethan, stordito e confuso ma non al punto di tentare qualcosa contro quelle armi.

— I mercenari che riscuotono soldi per un contratto e poi non lo portano a termine, non hanno amici — grugnì Abito Marrone. — Hanno soltanto eredi.

— Io stavo eseguendo il contratto — replicò Quinn. — Voialtri scalzacani non apprezzate la professionalità. Qui uno non può riempire le strade di cadaveri e correre sotto la protezione di questa o quell’ambasciata. Non può neanche farsi sbattere fuori e dichiarare persona non grata su Stazione Kline, se ci tiene a lavorare da queste parti anche in futuro. Non solo io sono stata costretta a recitare due diversi ruoli, ma ho dovuto restare dietro le quinte, se volevo poter tornare qui un giorno o l’altro. A me piace fare il lavoro con professionalità.

— Hai avuto sei mesi per fare il lavoro con professionalità. Adesso il Barone Luigi rivuole indietro i soldi della Casa — disse Abito Rosa. — Questa è l’unica professionalità che io so apprezzare.

Abito Marrone le strappò un gemito, costringendola ad alzarsi sulle punte dei piedi. — Ouch! Ouch! E va bene, non c’è problema! — La vostra tessera di credito è nel taschino interno della mia blusa. Servitevi da soli.

— E dov’è la tua blusa?

— Me l’ha levata Millisor. È giù ai moli. Auch! No. credetemi, è la verità!

Nei gesti di Abito Marrone ci fu una pausa disgustata. — Potrebbe essere come dice lei — borbottò Abito Rosa.

— Quel settore dei moli è pieno di gente della Sicurezza, a quest’ora — obiettò Abito Marrone. — Potrebbe essere un trucco.

— Sentite, ragazzi, cercate d’essere ragionevoli e di mettervi nei miei panni, uh? — disse Quinn. — Il prezzo del Barone Luigi era metà in anticipo e metà a lavoro finito. E io ho già eliminato Okita. Perciò un quarto della somma mi spetta a buon diritto.

— Noi abbiamo soltanto la tua parola, su Okita. Io non ho visto il corpo — disse Abito Rosa.

— Professionalità, sergente, professionalità.

— Maggiore — la corresse Abito Rosa.

— E sono stata io a far fuori Setti, giù al molo, proprio poco fa. Questo fa metà del lavoro. Dunque siamo pari, mi sembra.

— L’hai fatto fuori con la nostra bomba — disse Abito Marrone.

— Vogliamo litigare su dettagli così meschini? Sentite, noi siamo alleati, si o no?

— Nossignora — grugnì Abito Marrone, storcendole il braccio ancor di più.

Nel corridoio si stavano avvicinando delle voci, e rumori di veicoli e di attrezzature, dalla parte dei moli. Abito Rosa s’infilò la pistola al plasma in una fondina ascellare, sotto la blusa ricamata. — E ora di andare.

— E vuoi passargliela liscia? — domandò Abito Marrone.

Abito Rosa scrollò le spalle. — Metà lavoro l’ha fatto. Diciamo che gliela passiamo liscia a metà. Tu sei mancina o destra, comandante Quinn?

— Destra.

— Saldiamo il conto del Barone sul suo braccio sinistro, e andiamocene.

Abito Marrone lasciò cadere in ginocchio Quinn, le fece allungare il braccio sinistro sul bordo di un grosso vaso da piante e premette con fredda e calcolata energia. Il lieve crack cartilaginoso fu quasi udibile. La mercenaria scivolò al suolo senza un gemito. Per la seconda volta Cee trattenne Ethan dal precipitarsi avanti. I due bharaputrani di pelle nera entrarono nel pozzo antigravità, si diedero una spintarella verso il basso e sparirono.

— Dannazione, credevo che non se ne sarebbero più andati — mugolò Quinn tirandosi a sedere. — L’ultima cosa di cui ho bisogno è che la Sicurezza mi veda con quei due figli di puttana e tragga le sue conclusioni. — Si girò con la schiena contro il vaso, pallida in faccia. — La prossima volta mi farò assegnare a una missione di combattimento. Questo lavoro dei Servizi Segreti non mi piace come mi aveva assicurato l’ammiraglio Naismith.

Ethan si schiarì la gola. — Comandante, lei ha… uh, bisogno di un medico?

La mercenaria cercò di sorridergli. — Forse. E tu?

— Già. — Ethan sedette pesantemente accanto a lei. Gli ronzavano gli orecchi, e le pareti di quell’atrio sembravano pulsare. Ruminò sul commento di lei. — Questo non sarà per caso il suo primo lavoro per il Servizio Segreto, eh?

— L’hai detto.

— La mia solita fortuna. — Ethan poggiò le mani al suolo. Il pavimento antiattrito non gli era mai sembrato così invitante.

— La Sicurezza sta arrivando — osservò lei. Alzò lo sguardo verso Cee. che si protendeva su di loro con ansiosa ma impotente sollecitudine. — Che ne dice di far loro un favore e semplificargli un po’ la scena? Sparisca, signor Cee. Se si allontana con aria indifferente, quella tuta verde la farà arrivare dove vuole. Vada al lavoro, o da qualche altra parte.

— Io… io… — Cee allargò le braccia. — Come potrò mai ripagarvi? Voi due avete fatto molto per me.

Lei si teneva il braccio, con una smorfia. — Non si preoccupi, penserò a qualcosa. Nel frattempo io non ho visto nessun telepate qui attorno, oggi. E tu, dottore?

— Neppure uno — annuì blandamente Ethan.

Terrence Cee scosse il capo, frustrato, gettò uno sguardo verso il corridoio e sparì verso l’alto nel pozzo antigravità.

Quando gli agenti della Sicurezza fecero finalmente la loro comparsa, arrestarono Elli Quinn.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ethan passò attraverso il rivelatore d’armi senza provocare un solo fremito di reazione nei sensori che lo avevano analizzato da capo a piedi fino alla profondità delle ossa, e respirò più liberamente. Il Reparto Detenzione di Stazione Kline era un ambiente spoglio capace di mettere soggezione a chiunque, privo delle sottigliezze della psico-architettura e dei colori studiati per rallegrare i turisti. Se quell’effetto era voluto, certo otteneva il suo scopo. Ethan si sentiva in colpa per il solo fatto d’essere entrato in visita al Settore Minima Sicurezza, dov’erano tenuti i carcerati in attesa di giudizio o ritenuti non pericolosi.

— La comandante Quinn è nell’Infermeria Numero Due, ambasciatore Urquhart — lo informò il secondino incaricato di fargli da guida. — Da questa parte, prego.

Su per un pozzo antigravità, a destra e a sinistra lungo corridoi dalle pareti metalliche non verniciate. La gente che viveva da generazioni in una stazione spaziale, rifletté Ethan, doveva aver finito per sviluppare un senso dell’orientamento molto particolare basato su cose come le differenze di gravità, o di pressione, che caratterizzavano il passaggio da un settore all’altro. Per non parlare della sensibilità a certi dettagli.

La scarsa percezione dei colori poteva rivelarsi un handicap mortale, in un luogo dove gli avvertimenti di cui tenere conto erano molteplici. Le uniformi degli agenti di custodia, come tutti gli abiti da lavoro del personale, avevano un codice di colori ben preciso, e la quantità di arancione e di nero variava a seconda del grado. I semplici secondini avevano tute arancione con poche strisce nere. Quello che lo accompagnava rallentò il passo per rivolgere un formale saluto, che fu restituito distrattamente, a un uomo dai capelli bianchi la cui uniforme non era molto rallegrata dal colore arancio. Uno poteva farsi un’idea di tutte le gerarchie della stazione in base a quel genere di indizi.

Il capitano Arata, che stava uscendo dall’Infermeria Due giusto mentre Ethan e la sua guida arrivavano, esibiva molto nero con fasce arancione solo sul colletto, sulle maniche, e sul lato esterno dei pantaloni. Anche la sua faccia era piuttosto scura.

— Ah, ambasciatore Urquhart. — Il cipiglio fu messo da parte e sostituito con un sorrisetto dal sapore ironico. — È venuto a visitare la nostra avventurosa mercenaria spaziale? Non c’era bisogno che si prendesse il disturbo. Fra poco sarà di nuovo una persona libera, con soddisfazione di tutti i parenti e amici che l’hanno tenuta su di morale in questi giorni. La sua carta di credito è risultata essere qualcosa di stupefacente, sostenuta addirittura da garanzie diplomatiche, e le pene pecuniarie stabilite dal tribunale sono state pagate. Aspetta solo il nulla osta dei medici, per andarsene.

— Sembra che lei non ne sia altrettanto soddisfatto, capitano — osservò Ethan. — Comunque, io ho solo qualche domanda da farle.

— Anch’io — sospirò Arata. — Parecchie. Le auguro di avere più fortuna di me con le risposte. Nelle ultime settimane, quando supponevo che mi frequentasse perché ho un sorriso simpatico, non faceva che risucchiarmi informazioni abbastanza riservate. Ora che sono io a volere informazioni, cosa ottengo? Un sorriso simpatico. — Scosse il capo. — Ma sono certo che la persuaderò a collaborare. Ci sono responsabilità tuttavia, che anche altre persone potrebbero aiutarci a precisare. — E guardò Ethan con aria d’attesa, per chiarire che quella non era soltanto un’allusione.

— Le auguro buona fortuna nella sua indagine — disse Ethan, cordialmente deciso a non essergli d’aiuto neppure un po’. Aveva fatto fronte alle domande della Sicurezza sui terribili eventi accaduti ai moli trincerandosi dietro i suoi privilegi diplomatici, dopo aver lasciato alla prolifica inventiva di Quinn la versione ufficiale dell’intera faccenda. Nell’interrogatorio preliminare, a cui avevano partecipato entrambi, nonostante le sue condizioni fisiche la mercenaria aveva mescolato menzogne e verità, montando una storia abbastanza fantasiosa che tuttavia poteva reggere su tutti i punti verificabili dalla Sicurezza. Nella sua spiegazione, ad esempio, Millisor e Rau stavano cercando di rapirla allo scopo di farle il lavaggio del cervello e trasformarla in un doppio agente, infiltrata fra i Mercenari Dendarii ma in realtà al servizio dei cetagandani. I due killer di Casa Bharaputra, ancora a piede libero, erano stati accusati di tutti i crimini che avevano commesso e di qualcuno con cui non c’entravano niente… come la scomparsa di Okita, il cui cadavere veniva per il momento cercato nello spazio. Buona parte delle energie della Sicurezza erano adesso rivolte al consolato del Gruppo Jackson, che dava rifugio ai due bharaputrani, e si stavano negoziando i termini della loro deportazione. Terrence Cee era rimasto nell’ombra. Ethan non aveva osato aggiungere o sottrarre una parola a quel poco che la Sicurezza sapeva di lui.

— Sfortunatamente per una certa persona — concluse Arata, gratificandolo di uno sguardo acuto come una pistola ad aghi, — io ho inoltrato domanda al tribunale per l’uso del penta-rapido.

Ethan ebbe un sorriso blando. — Spero che non ci siano conseguenze diplomatiche — disse, e si separarono con un cenno del capo.

Il secondino scortò Ethan nel corridoio dell’infermeria. Se non fosse stato per le porte metalliche chiuse da serrature speciali, la corsia dov’era ricoverata Quinn avrebbe potuto essere una comune corsia di ospedale. O meglio, non tanto comune; Ethan cominciava a sentire la mancanza di finestre che si potessero aprire, una delle tante cose che nello spazio gli davano la nostalgia di Athos.

Quinn era seduta davanti a uno schermo e guardava un documentario di produzione straniera, uno dei tanti che arrivavano con ogni nave. Non sentendosela d’intavolare subito l’argomento per cui era venuto lì, Ethan esordì con quel pensiero: — Che ne pensa delle finestre, lei che è cresciuta su una stazione? — le chiese. — Voglio dire, quelle che usano alla superficie di un pianeta, non le cornici che avete qui per metter a loro agio i turisti.

— Mi rendono paranoica — rispose subito lei. — Continuo a guardarmi attorno in cerca di una sfoglia autosigillante per chiuderle. Hai intenzione di chiedermi qualcos’altro, ad esempio come sto?

— Lei ha un buon aspetto — disse distrattamente Ethan, — a parte il braccio fratturato e. le contusioni. Ho già chiesto al medico di guardia. Analgesici per via orale e nessuno sforzo fisico per qualche giorno.

La bruna mercenaria aveva infatti un bell’aspetto. Il suo colorito era sano, e si muoveva con scioltezza, salvo il braccio sinistro immobilizzato. Si alzò in piedi e agitò una mano verso lo schermo per abbassare il volume. Non indossava la tuta gialla degli altri detenuti dell’infermeria, ma i suoi pantaloni bianchi e grigi, anche se non aveva la blusa dell’uniforme e al posto degli stivaletti portava le pantofole. Sul tavolo c’erano oggetti che dovevano esserle stati portati dagli amici e dai parenti.

— Non intendo fare sforzi, anche se il medico si riferiva a quelli che solitamente si fanno in due. — Gli occhi di lei ebbero uno scintillio. — E tu cosa provi oggi per le donne, dottor Urquhart?

— Oh… — Lui si strinse nelle spalle. — Più o meno quello che prova lei per le finestre, temo. Lei pensa che si abituerà alle finestre, o che finiranno per piacerle?

— Perché no? Ma qui tutti mi accusano d’essere una che va a cercare le emozioni forti. — Il suo sorriso vacillò. — Non ho ancora dimenticato il mio primo impatto con la superficie di un pianeta, dopo aver firmato coi Mercenari Dendarii… i Mercenari di Oser, come si chiamavano prima che l’ammiraglio Naismith prendesse il comando. Per tutta la vita avevo sognato di conoscere sulla pelle il vero clima di un pianeta di tipo terrestre. Nebbie di montagna, brezza oceanica, questo genere di cose. I depliant dicevano che quel pianeta aveva un clima "temperato", e io lo presi come sinonimo di "mite". Atterrammo in cerca di carburante nel mezzo di una bufera di neve. Ci volle un anno prima che mi offrissi di nuovo volontaria per una missione su un pianeta.

— Già, lo immagino. — Ethan rise, si rilassò un poco e sedette.

Elli Quinn annuì. — Avete la neve, su Athos? — Senza attendere la risposta proseguì: — Sai cosa trovo attraente in te. e anche un po’ sorprendente? Il fatto che venendo da una società piuttosto chiusa, piuttosto xenofoba, tu riesca a fare uno sforzo d’immaginazione e vedere molte piccole cose della nostra società attraverso gli occhi degli altri.

Lui scrollò le spalle, imbarazzato. — A me è sempre piaciuto vedere cose nuove, scoprire come funzionano le cose. La biologia molecolare lo richiede. Comunque la curiosità non è una cosa proibita dalla nostra teologia.

— Secondo voi athosiani esistono delle virtù carnali?

Ethan sbatté le palpebre, sorpreso dall’insolito accoppiamento di quelle due parole. — Io… non lo so. Così a occhio direi che possono esserci. Forse vengono chiamate con un altro nome. Ma sono sicuro che non ci sono virtù nuove sotto il sole di Athos… né nuovi vizi sotto il vostro. — Prima che Quinn gli facesse osservare che la lontana palla di cenere intorno a cui girava Stazione Kline non era un vero sole, Ethan smise di menare il can per l’aia: — A proposito di cose carnali, io… uh, prima che lei se ne torni dai Mercenari Dendarii vorrei chiederle se… mmh, cioè, avrei quella che lei potrebbe definire una richiesta un po’ insolita. Non si offende se gliene parlo?

Adesso Ethan aveva tutta l’attenzione della mercenaria, che lo scrutava con la testa inclinata di lato e un sorrisetto teso. — Come faccio a saperlo, prima che tu dica di che si tratta? Comunque penso di aver sentito proposte di tutti i generi, per quel che vale.

Lui era più vicino alla porta, fuori dalla quale c’era una guardia pronta a intervenire, e inoltre lei sarebbe stata poco propensa a lottare con una mano dietro la schiena, per così dire. Quali guai avrebbe potuto dargli? Ethan decise di andare avanti.

— Io ho già stabilito come e dove eseguire la mia missione e procurarmi le colture ovariche per Athos. Mi recherò su Colonia Beta, come mi ha consigliato lei, dove potrò anche approfittare delle organizzazioni universitarie che offrono complessi genetici di cittadini selezionati… Ho visto il loro catalogo, e lo considero molto attraente.

Lei annuì con educata approvazione e lo guardò, in attesa di quel che avrebbe detto.

— Del resto — continuò Ethan, — niente m’impedisce di cominciare fin d’ora. Parlando cioè di questa scelta di complessi genetici selezionati. Ciò che voglio dire è… a lei farebbe piacere donare un’ovaia al pianeta Athos, comandante Quinn?

Ci fu un momento di sbalordito silenzio. — Per tutte le comete dello spazio — disse lei con voce debole. — Questa ancora non l’avevo mai sentita.

— L’operazione è del tutto indolore — si affrettò a rassicurarla Ethan. — Qui a Stazione Kline c’è un laboratorio che può occuparsi della preparazione e conservazione di queste colture… ho trascorso la mattina da loro, per controllare. Non è una richiesta comune ma rientra nelle loro possibilità. E lei mi ha detto che mi avrebbe aiutato nella mia missione, se io l’avessi aiutata nella sua.

— L’ho detto? Ah. Suppongo di averlo detto…

Un nuovo pensiero colpì Ethan, che ansiosamente chiese:

— Lei ne ha una di cui può fare a meno, sì? Voglio dire, le femmine hanno due ovaie, come gli uomini hanno due testicoli. Lei non ne ha mai donata una prima, o non ha avuto un incidente in combattimento o qualcosa del genere… non le sto chiedendo l’unica che ha, insomma?

— No, sono ancora equipaggiata con tutte le mie parti di ricambio originali. — Quinn rise, ed Ethan fu subito rassicurato. — È solo che mi hai colto di sorpresa. Non è la proposta… non è la proposta che mi aspettavo, dopo che mi hai detto che ti incuriosiscono le esperienze nuove. Temo d’essere inguaribilmente materialistica.

— Non è colpa sua, ne sono certo — disse Ethan, comprensivo. — Essendo femmina e tutto il resto, voglio dire.

Lei aprì la bocca, la richiuse e scosse il capo. — Non si può spremere birra da una vacca — mormorò fra sé. — Be’, senti… — Inalò il fiato, lo lasciò uscire. — Senti… e chi sarebbe a beneficiare della mia, uh, donazione?

— Chiunque scegliesse il suo genotipo — disse Ethan. — In poco tempo la sua coltura sarebbe divisa in sub-colture ospitate in ogni centro di riproduzione di Athos. Fra un anno, di questi tempi, lei potrebbe avere già un migliaio di figli. Io stesso, non appena risolto il problema del mio coniuge alterativo designato, potrei senz’altro… uh… — Senza capire il perché si trovò ad arrossire, sotto lo sguardo improvvisamente allusivo della bruna. — Io preferirei avere tutti i miei figli dalla stessa coltura ovarica, capisce? Per quell’epoca potrei avere già diritto a quattro bambini. Io non ho mai avuto neppure un fratello, sa, proveniente dalla stessa coltura. Questa pratica sembra dare alle famiglie una certa piacevole omogeneità. La diversità nell’uguaglianza… — Si accorse che stava cominciando a balbettare e s’interruppe.

— Un migliaio di figli maschi — ironizzò lei, — e nessuna femmina?

— Be’, no… niente femmine. Non su Athos. — E timidamente aggiunse: — Le figlie femmine sono importanti per una femmina come i figli lo sono per un uomo?

— Diciamo che il pensiero della continuità ha una certa attrattiva — ammise lei. — Nella mia vita professionale, tuttavia, non c’è molto spazio per i figli, maschi o femmine.

— Be’, lei può averne.

— Così pare. — La luce divertita nel suo sguardo aveva lasciato il posto a qualche ombra pensosa. — Però non potrei mai vederli, no? I miei mille figli maschi. Loro non saprebbero neppure chi sono io.

— Lei sarebbe soltanto due iniziali e un numero: EQ-1. Io però… io potrei usare il mio Livello di Sicurezza A con la censura per mandarle, diciamo, un olocubo, un giorno o l’altro… Se questo le interessa, voglio dire. Lei non potrebbe mai venire su Athos, né mandare dei messaggi video… almeno non con la sua faccia. Oppure potrebbe nascondere il suo sesso e oltrepassare la censura con questo stratagemma… — Ethan rifletté che avere a che fare con Quinn e le sue tendenze avventurose gli aveva fatto un brutto effetto, se si lasciava sfuggire di bocca suggerimenti così asociali. Si schiarì la gola.

Negli occhi di lei brillava di nuovo una scintilla maliziosa. — Contrabbandare immagini femminili su Athos, mimetizzandole magari con un paio di baffi… che idea rivoluzionaria.

— Io non sono un rivoluzionario e lei lo sa — replicò Ethan con dignità. Fece una pausa. — Anche se… la mia patria mi apparirà diversa quando sarò tornato. Io non voglio cambiare me stesso e le persone che amo. Non oltre certi limiti, comunque.

Lei si guardò attorno, come se vedesse oltre le paratie metalliche quella che era stata la sua casa, la sua gente, e la distanza che la separava da loro. — I tuoi istinti sono sani, dottor Urquhart, anche se suppongo che questo ormai serva a poco. Il cambiamento è in funzione del tempo, oltreché delle esperienze, e il tempo è una barriera implacabile.

— Una coltura ovarica può sfidare il tempo… per 200 anni o forse più, ora che stiamo perfezionando i nostri metodi di conservazione. Lei potrebbe continuare ad avere figli per molti anni dopo la sua morte.

— Io avrei potuto morire l’altro giorno sul molo. O potrei morire fra un mese, quanto a questo. Chissà cosa mi riserva il futuro.

— Questo vale per tutti.

— Già, ma le probabilità che un mercenario spenga cento candeline sono sei volte inferiori a quelle di qualsiasi altra professione, e non perché noi abbiamo il fiato più corto. La mia assicurazione sulla vita è quella che paga di meno, sa? — Quinn sospirò. — Be’. inutile pensarci. — Le sue labbra si piegarono. — E io che pensavo che Tav Arata avesse una gran faccia di bronzo. Tu li batti tutti, dottor Urquhart.

Ethan curvò le spalle, deluso, mentre le immagini dei quattro figli dai capelli neri e dallo sguardo luminoso svanivano di nuovo nel reame dei sogni irraggiungibili. — Mi scusi. Non avevo l’intenzione di offenderla. Allora io vado. — E si alzò in piedi.

— Non stai cedendo un po’ troppo facilmente? — borbottò lei, senza guardarlo.

Lui si affrettò a sedersi di nuovo. Intrecciò le dita e poi le strinse fra le ginocchia, per impedirsi di tamburellare nervosamente sui braccioli. Cercò di mostrarsi lucido e pratico. — I suoi figli sarebbero allevati con ogni cura. I miei lo sarebbero, senz’altro. Noi conferiamo i permessi di paternità con molta attenzione. Un uomo che non viva secondo la legge può vedersi annullare il diritto di paternità e privare dei figli che ha già, e questa è considerata una vergogna terribile, una disgrazia.

— A me cosa ne viene, però?

Ethan rivoltò quella domanda da tutti i lati. — Niente — ammise infine, onestamente. All’improvviso ebbe l’impulso di offrirle del denaro… dopotutto era una mercenaria. Ma subito l’idea gli sembrò sbagliata, anche se non avrebbe saputo dire perché. Curvò di nuovo le spalle.

— Niente. — Lei scosse lentamente il capo. — Quale donna potrebbe resistere a un simile invito? Ti ho mai detto che uno dei miei hobby è di fare una cosa stupida ogni giovedì?

Lui la guardò senza capire, poi si accorse che stava scherzando.

Lei si portò alle labbra l’ultima unghia non mangiucchiata, ma senza morderla. — Sei sicuro che Athos potrebbe sopportare un migliaio di piccoli Quinn?

— Forse di più, col tempo. Potrebbero vivacizzare il posto… magari migliorare il nostro esercito.

Quinn sembrò divertita da quel pensiero. — Cosa posso dirti? Dottor Urquhart, mi hai convinto.

Lui balzò in piedi e le strinse la mano con entusiasmo.

Ethan prese appuntamento con Elli Quinn telefonandole a casa di suo padre, e poi andò a incontrarla in un bar poco frequentato dai turisti, in una galleria laterale della Passeggiata dei Viaggiatori. La bruna mercenaria era arrivata in anticipo e stava bevendo un liquore azzurro da un calice a forma di fiore, che sollevò un po’ per farsi vedere e un po’ per salutarlo mentre lui s’avvicinava fra i tavolini.

— Come sta? — s’informò subito lui, sedendosi.

Quinn si appoggiò pensosamente una mano sul lato destro dell’addome. — Bene. Avevi ragione, non me ne sono neppure accorta. Non sento niente. Quasi mi dispiace di non avere neppure una cicatrice con cui dimostrare la mia generosità. — Sembrava che dicesse sul serio.

— L’ovaia ha reagito benissimo al trattamento di coltura — le assicurò Ethan. — le cellule si stanno già riproducendo. Fra quarantott’ore saranno pronte per essere surgelate e spedite. E subito dopo, se non ci saranno contrattempi, anch’io partirò per Colonia Beta. Lei quando se ne andrà? — La vaga ipotesi (speranza?) che potessero viaggiare sulla stessa nave gli attraversò la mente.

— Io parto stasera. Prima di trovarmi in altre difficoltà con la polizia della stazione — rispose lei, cancellando le possibilità di conoscerla meglio che Ethan cominciava a figurarsi. Non aveva avuto il tempo di chiederle nulla dei pianeti dove lei era stata nel corso dei suoi viaggi. — Voglio essere molto lontana da qui prima che arrivino dei cetagandani a indagare sulla morte di Millisor. In effetti è più probabile che vadano sul Gruppo Jackson, dove possono sempre trovare qualcuno disposto a raccontargli tutto per denaro… non escluso lo stesso Barone Luigi. Gli auguro di divertirsi, ma io ho altro da fare. — Si appoggiò allo schienale, soddisfatta come una gatta che avesse fatto piazza pulita nella gabbia e si leccasse via dai baffi un’ultima piuma.

— Anch’io conto di non incontrare nessun cetagandano — disse Ethan, — finché è possibile.

— Non dovrebbe esserti troppo difficile. Per tua tranquillità, potrei dirti che dopo la sua fuga dal Reparto Quarantena il Ghem-colonnello Millisor ha mandato un rapporto ai suoi superiori, informandoli che Helda ha distrutto le colture ovariche fatte dai bharaputrani. Questo dovrebbe distogliere da Athos l’interesse del governo di Cetaganda. In quanto a Terrence Cee è un altro paio di maniche, perché lo stesso rapporto conferma la sua presenza qui su Stazione Kline. Almeno, questo è ciò che Millisor e Rau hanno detto in mia presenza giù ai moli, intanto che aspettavamo il tuo arrivo.

«Questa mattina — continuò Quinn, — ho cominciato a lavorare alla mia relazione conclusiva per l’ammiraglio Naismith. Ce n’è abbastanza da dargli da pensare per mesi. Sono felice di non essere io a dover decidere cosa fare con quel materiale. Bene. Per rendere perfetta la mia ultima giornata a Stazione Kline ci mancava soltanto una cosa… e sembra che stia venendo da questa parte giusto ora. — Rivolse un cenno del capo a qualcuno alle spalle di Ethan, e lui si voltò a guardare.

Terrence Cee stava attraversando la galleria verso i tavolini del bar. La sua tuta verde da operaio gli dava un’apparenza comune, ma Ethan notò che quegli occhi azzurri facevano voltare tre o quattro clienti di sesso femminile.

Il giovanotto trovò una sedia e la portò al loro tavolo; annuì verso Quinn e sorrise brevemente a Ethan. — Buon pomeriggio comandante, dottore.

Quinn sembrava felice di vederlo. — Buon pomeriggio, signor Cee. Posso offrirle un drink? Borgogna, sherry, Champagne, birra…

— Un thè nero — disse lui. — Grazie.

Quinn infilò la sua carta di credito in una fessura del tavolo automatico. La stazione, evidentemente, non importava tutti i generi voluttuari. Un thè assai profumato, una varietà nera coltivata nella serra di Stazione Kline, uscì dal distributore in una tazza di cristallo fumante.

Anche Ethan ordinò un thè nero, celando sotto modi noncuranti il lieve disagio che gli dava la vicinanza di Cee. Il telepate non poteva avere più nessun interesse per Athos, a quel punto.

Cee sorseggiò. Ethan sorseggiò. — Bene — disse Quinn. — Me li ha portati?

Cee annuì, bevve un altro sorso e mise sul tavolo tre dischetti, più una scatola sigillata larga la metà di una mano. Il tutto scomparve subito nella blusa di Quinn. All’occhiata interrogativa di Ethan, la mercenaria rispose: — Tutti quanti commerciamo in carne umana, qui, a quanto pare. — Dal che lui comprese che la scatoletta conteneva i campioni di tessuto organico promessi dal telepate.

— Credevo che Terrence venisse con lei, per lavorare coi Mercenari Dendarii — disse Ethan, sorpreso.

— Ho cercato di convincerlo e di costringerlo, ma ahimè… comunque l’offerta resta sempre valida, signor Cee.

Terrence Cee scosse il capo. — Quando sentivo sul collo l’alito di Millisor, mi sembrava quasi la sola possibilità. Lei mi ha aperto una via d’uscita mentre mi vedevo in trappola… e spero di averle dimostrato la mia riconoscenza, comandante Quinn. — Un cenno verso il pacchetto nascosto nella blusa di lei indicò che quella era la forma tangibile della sua gratitudine.

— E più di quanto speravo — annuì seccamente lei. — Se in seguito cambiasse idea, può sempre venire a cercarci. Non so dove saremo, ma lei si faccia indicare un posto agitato, cerchi un piccoletto dalla mente acuta in mezzo ai guai più rognosi che vede e gli dica che la manda Quinn.

— Me lo ricorderò — promise Cee in tono non impegnativo.

— Ad ogni modo, uh… non viaggerò sola soletta. — Quinn ebbe un sogghigno storio. — Ho intrappolato un’altra recluta da cui farmi portare le valigie. Un emigrante volonteroso… deciso a viaggiare dappertutto in cerca di fortuna. Vorrei farglielo conoscere, signor Cee. La cosa che lei apprezzerebbe di questo bravo ragazzo è che ha all’incirca la sua età, la sua altezza, stessa corporatura… capelli biondi, anche. — Alzò il calice a forma di fiore con quel che restava del liquore azzurro. — Confusione sui nostri nemici.

— Le sono grato, comandante — disse Cee, colpito.

— Dove, ah… dove pensa di andare, allora, se non le interessa il lavoro dei mercenari? — gli domandò Ethan.

Cee allargò le mani. — Mi si presentano molte scelte. Troppe, in realtà, e tutte ugualmente vuote di significato… scusatemi. — Fece del suo meglio per ritrovare un’espressione meno lugubre. — Da qualche parte, lontano da Cetaganda. — accennò ancora col capo verso la blusa di Quinn. — Spero che non abbia difficoltà a contrabbandare quel pacchetto. Dovrà surgelarlo in un contenitore termostatico al più presto, però. Uno molto piccolo, magari. Sarebbe prudente che nella lista dei suoi bagagli non apparisse nessun contenitore del genere.

Lei sorrise appena, grattandosi un dente (le sue unghie erano di nuovo ben curate) e mormorò: — Uno molto piccolo, oppure… mmh. Penso di avere la soluzione ideale a questo problema, signor Cee.

Ethan guardò con interesse mentre Quinn deponeva l’enorme scatola bianca per le spedizioni di materiale a temperatura controllata sul bancone dei MAGAZZINI REFRIGERATI — INGRESSO 297-C.

Il tonfo riuscì a distrarre l’attenzione della giovane femmina grassottella dallo schermo su cui si svolgeva un dramma sentimentale. Le immagini svanirono in attesa di un momento migliore, e l’impiegata si tolse l’auricolare.

— Sì. signora?

— Sono venuta a riprendere i miei tritoni — disse Quinn. Si protese verso il computer e infilò la ricevuta di plastica con l’impronta del suo pollice nella fessura rossa sotto lo schermo.

— Oh, sì, mi ricordo di lei — disse l’impiegata. — Una cella refrigerata da due metri cubi. Scatolone di plastica verde. Lo vuole scongelato subito? Occorrono venti minuti.

— Non lo voglio scongelato affatto. Lo spedirò così com’è, grazie — disse Quinn. — Temo che ottanta chili di tritoni non sarebbero molto appetitosi dopo quattro settimane di viaggio a temperatura ambiente.

L’impiegata storse il naso. — Non sarebbero appetitosi a nessuna temperatura.

— La loro possibilità d’essere graditi al palato cresce in ragione del quadrato della distanza dal luogo in cui abbondano. Questa è una legge valida per tutte le sostanze alimentari — sogghignò Quinn.

La porta del corridoio alle loro spalle si riaprì con un sibilo. Ethan e Terrence Cee si tolsero di mezzo quando entrò un carrello antigravità su cui c’era una mezza dozzina di contenitori sigillati, pilotato col telecomando da un sorvegliante ecologico in uniforme verde e azzurra.

— Oh-ho, il Bio-controllo ha la precedenza — disse l’impiegata del magazzino. — Mi scusi, signora.

Ethan accolse con un sorriso l’arrivo del giovanotto. Era Teki, probabilmente appena uscito da uno dei locali del Riciclaggio, dietro l’angolo del corridoio. Teki si accorse di Quinn e di Ethan appena ebbe fatto girare il carrello, e non parve molto entusiasta di vederli. Terrence Cee, che non lo conosceva, si limitò a guardare l’orologio, seccato da quel contrattempo.

— Ah, Teki — disse Quinn, voltandosi. — Più tardi sarei passata a salutarti. Stasera parto. Mi sembra che ti sia ripreso benissimo dalla piccola disavventura delle settimana scorsa.

Teki sbuffò. — Sì, essere rapito e drogato e seviziato da una banda di pazzoidi assassini è proprio quello che io chiamerei una piccola disavventura. Comunque sto bene, grazie.

Un angolo della bocca di Quinn si curvò. — Sara ti ha perdonato per quell’appuntamento mancato?

Teki scrollò le spalle, ma non poté reprimere un sorrisetto. — Be’, sì… quando si è convinta che non avevo una storia con te, alla fine, è diventata molto, uh, affettuosa. — Tornò serio. — Però lo sapevo, dannazione, che stavi lavorando per il piccoletto. Adesso puoi dirmi di cosa si tratta, Elli?

— Sicuro, appena la Sicurezza me ne darà il permesso. Al momento c’è sempre un’indagine in corso.

Teki mugolò. — Non è leale! Me l’avevi promesso!

Lei allargò le braccia in gesto d’impotenza. Il cugino sbuffò, si accigliò, ma alla fine rinunciò a metterle il muso. — Te ne vai, allora? Quando?

— Fra poche ore.

— Ah. — Teki si mostrò alquanto deluso. Guardò Ethan. — Buongiorno, signor ambasciatore. Sa, mi dispiace per quello che Helda ha fatto con la sua roba. Spero che lei non pensi che nel nostro dipartimento siamo tutti così. In questi giorni Helda è assente per malattia… dicono che ha l’esaurimento nervoso. Io fungo da direttore della Stazione B, per adesso — aggiunse con modestia ma orgogliosamente. E le mostrò un polsino della giacca, dove c’erano due bande azzurre invece di una come prima. — Almeno, finché Helda non tornerà.

A un’occhiata più da vicino Ethan vide che la seconda banda azzurra era in realtà un semplice nastro adesivo. — Non preoccuparti — gli disse. — Puoi anche ordinare una blusa da direttore effettivo. Mi è stato assicurato che l’assenza di Helda è di carattere permanente.

— Sul serio? — Teki s’illuminò in viso. — Senta, mi dia il tempo di sbattere fuori questa robaccia… — indicò il carico del carrello, — e sarò da voi. Ce li avete due minuti per venire a bere qualcosa alla Stazione B, no?

— Soltanto due minuti — lo avvertì Quinn. — Non posso stare di più, se voglio salire in orario a bordo della nave.

Teki le accennò che capiva perfettamente. — Venite con me? — li invitò, manovrando il carrello antigravità per aggirare il bancone. L’impiegata aprì la porta sigillata del magazzino e tolse di mezzo alcune scatole di plastica per lasciarli passare.

— Io aspetto la mia roba qui, se non vi spiace — disse Quinn, ma Ethan, curioso di guardare tutto, seguì il giovanotto nell’interno. Terrence Cee era rimasto in disparte coi suoi pensieri, malinconica e solitaria figura, ed Ethan si girò a sorridergli per incoraggiarlo a restare nel gruppo.

— Allora cos’è successo con Helda? — domandò Teki a Ethan. — È vero che ha spedito su Athos una quantità di materiale organico rubato, e addirittura dei pezzi di cadavere?

Ethan annuì. — Ancora non riesco a capire cosa sperasse di ottenere. Non credo che lo sappia neanche lei. Forse ha riempito quelle scatole con altre ovaie perché temeva che avrebbero dovuto passare qualche ispezione… voglio dire, dopo aver buttato via le nostre, come ha confessato, qualunque cosa all’incirca dello stesso peso sarebbe andata bene, visto che in effetti nessuno era autorizzato ad aprire i contenitori salvo il destinatario. In questo modo ci lascia con degli interrogativi in più, che aggiungono mistero a questa assurdità.

Teki scosse il capo, come se fosse ancora incapace di crederci.

— Cos’è questa roba? — domandò Ethan, indicando il carrello fluttuante.

— Generi alimentari contaminati. Oggi, dopo le analisi, abbiamo sequestrato e distrutto l’intero carico, ma questi campioni vanno in magazzino. In caso di procedimenti legali, contestazioni, o per qualsiasi eventualità.

Entrarono in un lungo locale bianco dove neppure il riscaldamento sembrava funzionare bene, con alcune apparecchiature robotizzate e un compartimento stagno. Quella era la superficie più esterna della stazione, comprese Ethan.

Teki batté qualche rapida istruzione su una tastiera, inserì un disco di dati, mise i contenitori in una cassa di plastica ad alta resistenza etichettata con dei colori-codice, e attaccò la cassa al braccio estensibile di un robot. L’apparecchiatura si alzò dal pavimento e fluttuò nel compartimento stagno, che si chiuse e iniziò il ciclo di decompressione.

Il giovanotto premette un pulsante sulla parete, facendo scivolare di lato un pannello dietro cui c’era una finestra panoramica simile a quelle più grandi della Passeggiata dei Viaggiatori. La vista spettacolare della galassia era in parte bloccata dalle sporgenze periferiche della stazione. Era l’equivalente del cortile posteriore di un caseggiato o di un’enorme fabbrica, si disse Ethan, con la differenza che in quella zona c’era un’illuminazione intensa. Teki seguì con attenzione il robot, che uscito dal portello fluttuava nel vuoto lungo una vastissima griglia metallica di gabbie allineate. Quasi tutte le gabbie più vicine erano piene di cassoni sigillati, ma c’era anche merce in semplici sacchi di plastica e altra chiusa entro blocchi di ghiaccio informi.

— Quando Dio ebbe bisogno di un frigorifero, creò l’universo — ridacchiò Teki. — Da queste parti noi l’abbiamo ridotto a una pattumiera, però. Un giorno o l’altro dovremo mandare fuori delle squadre a distruggere tutte le porcherie rimaste qui attorno fin dall’Anno Uno, ma non è che rischiamo di restare a corto di spazio. Tuttavia, se diventerò un dirigente del Riciclaggio, dovrò pensare a una soluzione… responsabilità… finirla con questi sprechi…

Le parole del sorvegliante ecologico sfumarono via dagli orecchi di Ethan mentre la sua attenzione si spostava su un gruppo di contenitori trasparenti che fluttuavano a poca distanza, sotto la griglia. Dentro ogni contenitore sembravano esserci delle scatole rettangolari d’aspetto familiare. Aveva già visto usare piccole scatole uguali quel mattino, nel laboratorio biologico che s’era occupato della donazione di Quinn. Quante erano? Difficile contarle, difficile capirlo. Più di venti, sicuramente. Più di trenta. Da lì poteva vedere bene soltanto gli scatoloni che le contenevano; ce n’erano nove.

— Buttato via — mormorò fra sé. — Buttato… fuori?

Il robot giunse all’estremità della grata, spinse il suo carico in una delle gabbie vuote e la chiuse. L’attenzione di Teki era ancora fissa sull’apparecchiatura al lavoro, e la seguì finché fece ritorno al compartimento stagno. Ethan indietreggiò accanto a Cee, lo prese per un braccio e in silenzio gli indicò gli oggetti che fluttuavano nello spazio. Dapprima il telepate annuì distrattamente, poi guardò meglio. S’irrigidì, sbattendo le palpebre, e corse davanti alla finestra. I suoi occhi sembravano divorare la distanza. Aveva la fronte imperlata di sudore e imprecava fra i denti, a voce così bassa che Ethan riusciva a udirlo a stento. Le sue mani si aprivano e si chiudevano; le appoggiò contro la superficie trasparente.

Ethan strinse più forte il braccio di Cee. — Sono quelle? — sussurrò. — È possibile?

— Posso vedere lo stemma di Casa Bharaputra su un paio di scatole — ansimò Cee. — Ero presente quando le hanno sigillate.

— Helda deve averle portate qui lei stessa — mormorò Ethan. — Per non lasciare nessuna registrazione nei computer inserendo quella massa extra nel sistema di riciclaggio… e le ha buttate via. Intendeva proprio questo, letteralmente, quando lo ha detto. Ma la gravità della stazione non le ha lasciate allontanare molto.

— È possibile che le colture ovariche siano intatte? — domandò Cee.

— Congelate quasi allo zero assoluto… perché no?

I due si guardarono, ciascuno conscio di ciò che stava passando per la mente dell’altro.

— Dobbiamo avvertire Quinn — disse Ethan.

Le mani di Cee lo afferrarono con forza per le spalle. — No! — sibilò. — Lei ha già la coltura coi miei geni. Le ovaie di Janine… quelle appartengono soltanto a me.

— O ad Athos.

— No. — Cee stava tremando, pallido in faccia. I suoi occhi azzurri erano lame di ghiaccio. — Sono mie.

— Ognuna delle due soluzioni — disse Ethan, pesando con cura le parole, — non esclude necessariamente l’altra.

Nel teso silenzio che seguì, il volto di Cee cominciò a illuminarsi di speranza.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Casa. Gli occhi di Ethan erano umidi mentre guardava con ansia fuori dall’oblò della navetta. Riusciva già a distinguere il reticolo dei territori coltivati, e a intravedere le piccole città, le strade e i fiumi? Cumuli di nuvole bianche erano sparsi sopra le insenature e le isole al largo della costa della Provincia Meridionale, screziando la vivida luce del mattino con chiazze d’ombra che rendevano incerto ogni suo riconoscimento. Ma sì. laggiù c’era un’isola a forma di mezzaluna, e nel punto in cui la linea costiera s’incurvava si scorgeva la treccia d’argento di un fiume.

— Terrence, guarda. L’allevamento di pesci di mio padre è in quella piccola baia sulla destra — disse a Cee, seduto accanto a lui. — Proprio sotto quell’isola ricurva come una falce.

La testa bionda di Cee si piegò verso l’oblò. — Sì, la vedo. Ethan.

— Sevarin è più a settentrione, nell’entroterra. Lo spazioporto dove atterreremo e alla periferia della capitale, nel distretto immediatamente a nord di quello. Da qui non si può ancora vedere.

Cee si appoggiò allo schienale, con aria pensierosa. I primi veli d’aria nella stratosfera cominciavano a portare il rombo dei motori nella carlinga. Un inno gioioso, agli orecchi di Ethan.

— Ci sarà un comitato di ricevimento per te, come per gli eroi di guerra? — gli domandò Cee.

— Oh, ne dubito. La mia era una missione segreta, dopotutto. Non segreta nel senso che voi cetagandani potreste dare a questa parola, ma c’era la necessità di non innescare prematuramente il panico e soprattutto di non creare una crisi di sfiducia verso i Centri di Riproduzione. Immagino però che allo spazioporto ci sarà un membro del Consiglio della Popolazione. Vorrei farti conoscere il Dr. Desroches, e anche qualcuno della mia famiglia… Sulla stazione orbitale, mentre tu ti occupavi dei bagagli, ho telefonato a mio padre e lui ha detto che sarebbe venuto. L’ho informato che con me c’è un amico, e lui ha subito chiesto che sia nostro ospite. — aggiunse Ethan, nel tentativo di metterlo a suo agio. Cee sembrava piuttosto nervoso.

Neppure lui era del tutto tranquillo. Come avrebbe potuto spiegare a Janos la presenza di Cee? Durante i due mesi di viaggio da Stazione Kline ad Athos aveva pensato a un centinaio di modi di presentarlo, finché s’era stancato di preoccuparsi. Se Janos fosse stato geloso, o se avesse storto il naso, che si mettesse al lavoro e cominciasse a guadagnarsi il suo stato di coniuge alternativo designato. Questo poteva essere lo stimolo capace di spingerlo a diventare finalmente adulto. Considerato il comportamento di Janos, era difficile che lui vedesse in qualcun altro (e specialmente in un bel ragazzo come Cee) un candidato all’iscrizione nella Fratellanza della Castità. Ethan fece un sospiro.

Cee smise di osservarsi distrattamente le unghie e alzò lo sguardo verso Ethan. — Ma alla fine, quando sapranno tutto, tu sarai giudicato un bravo cittadino di Athos oppure un traditore?

Ethan si girò a controllare il retro del compartimento. Il suo prezioso carico, nove grossi scatoloni bianchi refrigerati, non era stato lasciato agli scossoni della stiva ma assicurato ai sedili con solide cinture di sicurezza. I soli altri passeggeri, l’esperto in statistica, il suo assistente, e tre membri dell’equipaggio della nave del censimento galattico diretti in superficie per una licenza, si erano sistemati sul fondo e parlavano fra loro, fuori portata di udito.

— Vorrei saperlo — disse Ethan. — Ogni giorno prego che vada tutto bene. Non mi mettevo a pregare in ginocchio neppure da bambino, al catechismo, ma ora lo faccio. Non so se servirà a qualcosa.

— Non vorrai cambiare idea e tirarti indietro all’ultimo momento, vero, Ethan? Bada che l’ultimo momento è vicino.

Si avvicinava con la stessa velocità del suolo sotto di loro. Ora stavano attraversando lo strato di nuvole più basso, veli di nebbia che roteavano fuori dall’oblò, scompigliati dal vento del loro passaggio. Ethan pensò all’altro carico, quello che viaggiava insieme al suo bagaglio personale, compresso e nascosto: le 450 colture ovariche da lui acquistate su Colonia Beta allo scopo di poter dimostrare sia ai Cetagandani (se costoro avessero tentato qualcosa nel prossimo futuro) sia al Consiglio della Popolazione, che le originali colture ovariche fornite da Casa Bharaputra non erano state mai più ritrovate.

Cee lo aveva aiutato a fare quello scambio di materiale biologico: ore e ore trascorse nella stiva dell’astronave del censimento a scambiare etichette, a falsificare documenti di carico. O forse era stato lui ad aiutare Cee. Ormai c’erano dentro tutti e due, comunque, insieme e fino al collo.

Ethan scosse il capo. — Era una decisione che qualcuno doveva prendere. Se non io, il Consiglio della Popolazione. Alla lunga ci sono due sole scelte che non comportino il rischio della guerra razziale o del genocidio: o tutto, o niente. Io sono convinto che lei abbia ragione su questo punto. E il comitato… be’, io temo che sarebbero costituzionalmente incapaci di arrivare a un accordo su una decisione così difficile. Tu hai intuito l’inevitabile, e io tremo al pensiero del nostro futuro. Ma anche se mi fa tremare e mi spaventa è un futuro che io devo cercare di raggiungere. Potrebbe perfino essere… interessante.

Se Ethan provava un senso di colpa era per la 451a coltura, la EQ-1, il cui contenitore era sulle sue ginocchia. Se lui non fosse riuscito a portare a termine ciò che aveva progettato, di tutti i bambini che sarebbero nati su Athos la prossima generazione soltanto i suoi figli non avrebbero avuto i geni nascosti, la bomba a orologeria recessiva della telepatia. Ma i suoi nipoti li avrebbero avuti, si ripromise per tranquillizzarsi la coscienza. Alla lunga tutto sarebbe rientrato nella media. Forse lui avrebbe vissuto abbastanza da vederlo succedere; forse avrebbe potuto alimentare e aiutare quel processo.

— Ma ti sei riservato una possibilità di cambiare idea — osservò Cee. Il suo cenno del capo verso il bagaglio di Ethan e la stiva della navetta indicò l’origine del suo disagio.

— Temo d’essere inguaribilmente portato all’economia — si scusò Ethan. — A volte mi viene da pensare che avrei dovuto essere un casalingo. Le colture ovariche betane erano troppo invitanti per rinunciare a procurarmele quand’ero già a metà strada. Ma se riavrò il mio vecchio lavoro, o meglio, se otterrò la direzione di un Centro di Riproduzione, potrà esserci una possibilità… cioè, mi piacerebbe mettere alla prova le mie capacità di ingegnere genetico trasferendo il complesso telepatico nelle culture betane, per poi distribuire queste ultime nei Centri di Riproduzione di Athos. Se riuscissi a farlo in segreto. Ad ogni modo intendo distribuire subito questa coltura, appena avrò la possibilità di farla riprodurre. — Sollevò la scatola contenente la EQ-1 e dopo aver controllato il termostato se la rimise con cura sulle ginocchia. — Ho promesso alla comandante Quinn un migliaio di figli. E come direttore di un Centro di Riproduzione mi spetterà un seggio nel Consiglio. Forse potrò perfino concorrere alla presidenza, un giorno o l’altro.

Nonostante il segreto che aveva circondato la missione di Ethan, nell’atrio dello spazioporto della capitale era in attesa una piccola folla di uomini. La maggior parte, risultò, erano biologi e meditec dei Centri di Riproduzione del Nono Distretto, impazienti di portarsi via le nuove colture. Ethan rischiò d’essere educatamente travolto nella loro fretta di affollarsi intorno ai contenitori refrigerati. Ma c’erano anche il Presidente del Consiglio della Popolazione, il Dr. Desroches, e soprattutto il padre di Ethan.

— Ha avuto delle difficoltà con quelle persone, uh… le femmine? — gli domandò il Presidente.

— Oh… — Ethan tenne stretta la scatola della EQ-1. — Niente che un uomo retto non sappia affrontare, signore.

Desroches sogghignò. — Cosa le avevo detto? — mormorò al Presidente.

Ethan e suo padre si abbracciarono, non una ma più volte, come per rassicurarsi a vicenda sul loro ottimo stato di salute. Suo padre era un uomo alto, con una faccia temprata dal sole e dal vento come quella di un vecchio marinaio. Ethan poté sentirgli addosso l’odore del salmastro, anche sull’abito buono che indossava solo alla festa, e in lui fiottarono catene di piacevoli ricordi.

— Sei un po’ pallido — lo rimproverò l’uomo tenendolo per le spalle, appena poté guardarlo meglio. — Per Dio il Padre, ragazzo, è come riaverti dalla tomba in più di un senso, credimi. — E lo abbracciò di nuovo.

— Be’, sono stato lontano da casa per un anno. — Ethan sorrise. — Stazione Kline non ha un sole e le lampade solari sono proibite; su Escobar sono rimasto appena una settimana; e su Colonia Beta c’è anche troppo sole ma la gente non va quasi mai in superficie, salvo nelle zone protette da schermi ambientali. Sto meglio di quello che il mio aspetto fa pensare, te lo assicuro. In effetti mi sento meglio di quando sono partito. Uh… — Si guardò attorno di nuovo, stavolta senza nascondere la sua perplessità. — Ma dov’è Janos? Possibile che non abbia trovato il tempo di venire? — Quando vide l’espressione accigliata di suo padre, un’improvvisa paura lo fece irrigidire.

L’uomo tossicchiò, non sapendo da dove cominciare. — Mi spiace doverti accogliere con questa notizia, figliolo, ma… tutti siamo stati d’accordo che era meglio dirtelo subito.

Dio il Padre pensò Ethan, Janos ha fatto riparare la mia auto antigravità e si è ammazzato…

— Janos non è in città.

— Non è in città. — Il cuore di Ethan riprese vita a quelle parole.

— Dopo la tua partenza è diventato sempre più scriteriato… Spiri dice che non c’era più nessuno a esercitare un salutare controllo su di lui, anche se io dico che un uomo deve saper controllare se stesso e Janos ha passato da un pezzo l’età in cui uno dovrebbe cominciare a comportarsi da uomo. Spiri e io abbiamo avuto delle discussioni a causa sua, purtroppo, anche se ora è tutto appianato…

L’atrio dell’astroporto sembrava ruotare intorno al centro di gravità di Ethan, proprio sotto il suo stomaco. — Ma cosa è successo?

— Be’… Janos è scappato da casa e se n’è andato nelle Terre Esterne col suo amico Nick, un paio di mesi dopo la tua partenza. Ha detto che non sarebbe più tornato… ha detto che laggiù uno è libero, non ci sono stupide usanze ammuffite, e nessuno che cerca di costringerlo a rispettarle per forza. — Il padre di Ethan ebbe una smorfia malinconica. — Non c’è neanche un futuro, ma di questo a lui non importa nulla, evidentemente. Io gli dò qualche anno, al massimo cinque o sei, e poi vedrai che ne avrà abbastanza di quella sua libertà. Non sarà il primo né l’ultimo ad accorgersene. Ma forse gli occorrerà più tempo che ad altri per capire la ragione. È sempre stato il più testardo di voi ragazzi.

— Ah — disse Ethan con voce molto sottile. Cercò di sentirsi adeguatamente addolorato. Ci provò con tutta la sua forza, piegando in giù gli angoli della bocca. — Be’… — Si schiarì la gola. — Forse non tutto il male vien per nuocere. Alcuni uomini non sono tagliati per la paternità. Meglio che lo capiscano per tempo, e non dopo esser diventati responsabili di un figlio.

Si rivolse a Terrence Cee, e il sorriso che aveva trattenuto sfuggì al suo controllo. — Ora, padre, come ti ho detto per telefono, voglio che tu conosca una persona… ho portato qui un immigrante. Soltanto uno, ma ti assicuro che è un uomo di tutto rispetto. Ha sopportato gravi traversie, prima di cercare qui un approdo sicuro. È stato un buon compagno di viaggio per me, negli ultimi otto mesi, e un vero amico.

Ethan presentò Terrence Cee, e lo snello cetagandano e l’anziano uomo di mare si strinsero la mano. — È un piacere conoscerti, Terrence — disse il padre di Ethan. — Un amico di mio figlio è come un figlio per me. Sono certo che avrai un buon futuro qui su Athos.

L’abituale riserbo di Cee lasciò filtrare un po’ di commozione, e qualcosa di simile al timore. — Sul serio lei pensa che… Grazie. È gentile da parte sua. Grazie, signore.

Due delle tre lune si alzarono insieme quella sera, sul Mare Orientale di Athos. Le lievi onde della risacca mormoravano oltre le dune. Dalla veranda al secondo piano della casa del padre di Ethan si godeva una piacevole vista della baia, nel chiarore lunare. La brezza raffreddò il calore che Ethan s’era sentito salire al volto accostandosi a Cee, così come il buio nascondeva il rossore.

— Vedi, Terrence — gli spiegò, timidamente, — il modo più rapido di guadagnarti il diritto alla paternità, e di avere i figli di Janine, è di dedicare tutto il tuo tempo ai lavori pubblici, finché non avrai abbastanza credito da doveri sociali per ottenere lo stato di coniuge alternativo. Sono molte le attività pubbliche non pagate, dalla riparazione delle strade ai lavori di terraformazione e agli impieghi governativi. In questi potresti mettere a frutto la tua esperienza di altri pianeti. Poi ci sono tutti i servizi di volontariato: l’assistenza agli anziani, gli orfanotrofi, i controlli ecologici, la protezione degli animali, l’intervento nei casi di disastri e calamità, anche se in questi casi intervengono soprattutto le forze armate… insomma, le scelte sono innumerevoli.

— Ma come posso mantenermi intanto che faccio queste cose? — obiettò Cee. — O il mantenimento è compreso?

— No, devi mantenerti da solo. Per acquistare un punteggio come coniuge alternativo designato, il lavoro dev’essere pubblico, cioè separato dalle attività dell’economia di mercato. È come una tassa pagabile in ore lavorative, se vuoi vederla così. Ma credo che, se mi permetti di farlo, potrei mantenerti io. Come vice direttore del Centro di Riproduzione guadagnerò abbastanza da offrirti una vita agiata, e Desroches e il Presidente hanno lasciato capire che potrò avere la direzione del nuovo Centro di Riproduzione delle Montagne Rosse quando avranno finito di costruirlo, l’anno venturo. Per quell’epoca, con un po’ di buona volontà, tu avrai avuto il tuo CAD. Grazie a ciò non solo potrai accudire ai miei figli, ma avrai preso la strada più veloce verso la paternità e in un paio d’anni potrai fare domanda per il tuo primo bambino. — Ethan s’interruppe e fece un sospiro. — Ammetto che non è una vita avventurosa, se la paragoni a quella che ti sei lasciato alle spalle. Occuparsi delle faccende di casa e cambiare i pannolini a un bambino… il bambino di qualcun altro, quanto a questo. Però sarà un buon allenamento per quando avrai la paternità. E ovviamente io sarò felice di fare da coniuge alternativo designato per i tuoi figli.

La voce di Cee uscì dal buio. — L’inferno è avventuroso paragonato al paradiso? Io ho toccato il fondo della disperazione, so cosa si prova laggiù, grazie tante, e non ho alcuna voglia di tornarci per amore dell’avventura. — C’era un amaro sarcasmo in quelle due parole. — Le faccende domestiche e i pannolini non mi spaventano.

Il giovanotto biondo fece una pausa, poi: — Aspetta un momento. Io ho avuto l’impressione che questa faccenda di essere CAD uno dell’altro, a parte la vita in comune, sia come essere una specie di coppia sposata… In questo rapporto è compreso il sesso?

— Be’… — disse Ethan. — No, non necessariamente. In molti casi i CAD sono fratelli, cugini, o addirittura padri o nonni… chiunque sia qualificato per essere un genitore. Benché le coppie di coniugi designati che hanno rapporti sessuali siano la maggioranza. Ma qui tu sei su Athos, dopotutto, e hai davanti a te l’intera vita. Io credo che col tempo ti adatterai alle nostre usanze. In questo caso, non per metterti fretta, ma quando ti sembrerà d’esserti abbastanza adattato vorrei che, uh… me lo facessi sapere. — Ethan preferì non dire altro.

— Per Dio il Padre. — La voce di Terrence era divertita, senza dubbio, ma Ethan aveva davvero creduto di sorprendere il telepate? — Sai una cosa? Penso che potrei adattarmi.

Davanti allo specchio della stanza da bagno Ethan si fermò, prima di spegnere la luce, e studiò la sua faccia. Pensò a Elli Quinn, e alla EQ-1. In una donna, sugli altri mondi, uno non vedeva cifre e grafici bensì i geni dei suoi figli personificati e fatti carne. Così in ogni coltura ovarica di Athos c’era l’impronta di una donna, forse non riconoscibile, certo non riconosciuta, ma innegabilmente radicata lì.

E che aspetto aveva avuto la Dr. Cinthya Jane Baruch, ormai morta da 200 anni, e fino a che punto aveva plasmato Athos, all’insaputa dei Padri Fondatori da cui era stata pagata per creare le loro colture ovariche? Era noto che aveva messo molto di se stessa in quel lavoro. Molte facce di Athos erano modellate sul bagaglio genetico di quella donna. Ethan guardò nella profondità dei suoi occhi, nello specchio. – Salve, madre – sussurrò, e uscì per andare a letto. L’indomani sarebbe cominciato un nuovo lavoro, e un nuovo mondo.

FINE