Prego, entrate in un altro mondo. Un mondo futuro in cui è fin troppo facile essere considerati anormali. Lou Arrendale è un isolato, uno di quei soggetti che i medici definiscono autistici. Finché la multinazionale farmaceutica per cui lavora lo mette di fronte a un traumatico dilemma: sottoporsi a un esperimento rivoluzionario o perdere il posto e disperdersi nel caos. Il problema di quelli come Lou è molto semplice: rinunciare all’unico contatto con il mondo esterno o accettare la cura e trasformarsi in uomini qualunque, nuovi schiavi di una personalità prefabbricata e servile?

Elizabeth Moon

La velocità del buio

A Michael, che mi è stato di perenne conforto con il suo coraggio e la sua allegrìa; a Richard, il cui amore e il cui aiuto hanno reso il mio lavoro due volte più leggero; e a tanti genitori di bambini autistici, nella speranza, che anch’essi trovino conforto nella diversità.

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Domande, sempre domande… e non aspettavano nemmeno le risposte, poi. No, affollavano domande su domande, eternamente.

E ordini. Si poteva scegliere solo tra "Lou, questo cos’è?" e "Lou, dimmi cos’è questo". Un vaso. Sempre lo stesso vaso. Un vaso, brutto, noioso e privo di qualsiasi connotato interessante.

Ma se non vogliono ascoltarmi, perché dovrei parlare?

Non sono tanto sciocco da dire queste cose a voce alta. Tutto ciò che dà qualche valore alla mia vita l’ho guadagnato imparando a non dire mai quello che penso e dire invece quello che loro vogliono sentire.

In questo ufficio, dove vengo giudicato e consigliato ogni quadrimestre, la psichiatra non è meno sicura di tutti i suoi predecessori che tra noi esiste una linea di demarcazione. Questa sua certezza mi dà fastidio, ecco perché cerco di guardarla meno che posso, cosa non del tutto priva di pericoli. Come i colleghi che l’hanno preceduta, la dottoressa pensa che io dovrei sforzarmi di guardarla di più. Le lancio un’occhiata.

Disinvolta e professionale, la dottoressa Fornum alza un sopracciglio e scuote la testa in modo abbastanza accentuato. Le persone autistiche non comprendono questi gesti, così dice il libro. Io l’ho letto, perciò so cos’è che non capisco.

Quello che ancora non sono riuscito a intuire è l’estensione di ciò che loro non capiscono. Loro, le persone normali, le persone reali: quelle che hanno la laurea e siedono dietro le scrivanie in comode poltrone.

Ci sono alcune cose che lei non sa. Per esempio, che io so leggere. Pensa che io ripeta le parole a pappagallo: non sa che possiedo un lessico ricco. Ogni volta che mi domanda dove lavoro, e io le rispondo che lavoro presso un’azienda farmaceutica, mi chiede se so cosa significhi farmaceutica. Crede che io ripeta la parola a pappagallo. Sa benissimo che io lavoro al computer, che sono andato a scuola, ma non riesce a capire che ciò è incompatibile con il fatto che io sia semianalfabeta e riesca a stento a spiccicare qualche parola, come crede lei.

Mi parla come si parlerebbe a un bambino piuttosto tardo. Non le va che io usi parole difficili (così le chiama): vuole che mi limiti a dire ciò che voglio dire.

Io vorrei dire che la velocità del buio è interessante quanto la velocità della luce e forse è ancora maggiore, e chi riuscirà a stabilirla?

Vorrei parlare della gravità: se esiste un mondo su cui essa sia il doppio di quella che è sulla Terra, il vento generato da un ventilatore sarebbe più forte a causa della maggiore densità dell’aria, e quindi farebbe volar via il mio bicchiere insieme col tovagliolo? O la gravità maggiore farebbe aderire di più il bicchiere al tavolo, tanto che il vento non riuscirebbe a smuoverlo?

Vorrei dire che il mondo è grande, pauroso e folle, ma anche bello e immobile in mezzo a un uragano.

Vorrei dire che io so quel che mi piace e quel che voglio, mentre lei non lo sa, e non desidero amare o volere ciò che vuole lei.

La dottoressa non vuol sapere cosa voglio dire: vuole che io dica quello che dice l’altra gente. "Buon giorno, dottoressa Fornum." "Sto bene, grazie." "Certo, posso aspettare, non mi dà fastidio."

Davvero non mi dà fastidio. Quando lei risponde al telefono io posso guardarmi intorno e osservare le cose luccicanti che la dottoressa non sa di avere nell’ufficio. Posso muovere la testa avanti e indietro così che la luce ammicchi sulla copertina lucida di un libro sullo scaffale. Ma se lei nota che io muovo la testa avanti e indietro scriverà un appunto sulla mia cartella… potrebbe anche smettere di parlare al telefono e dirmi di star fermo. Perché si chiamano movimenti stereotipati se li faccio io e stiramenti per rilassare il collo se li fa lei. Io li faccio per divertirmi a vedere la riflessione della luce spegnersi e riaccendersi col mio ondeggiare.

La dottoressa Fornum non fa che ripetermi che Ognuno sa questo e Ognuno fa quello, ma io non credo che tutte le altre persone siano uguali e comunque sono autistico, non cieco, e so che le persone sanno e fanno cose differenti. Nei parcheggi le macchine sono di forme, colori e dimensioni diverse. Alla televisione diversi canali trasmettono cose diverse, e questo non succederebbe se le persone fossero tutte uguali.

Quando lei rimette giù il ricevitore e mi guarda, il suo viso assume una certaria. Non so come la chiamerebbero gli altri, ma io la chiamo un’aria da "Io sono reale, vera". Quell’aria significa che lei è reale e conosce le risposte e io sono qualcosa di meno. Non completamente reale, anche se sento benissimo le irregolarità del sedile della sedia dove sono seduto. Una volta, prima di sedermi, ho messo sul sedile una rivista; ma la dottoressa mi ha detto che non ce n’era bisogno. Lei è reale, così crede, e perciò sa meglio di me quello di cui ho bisogno oppure no.

Ora mi chiede notizie della mia vita sociale.

Non le piace la mia risposta. Le dico che corrispondo mediante Internet col mio amico Alex in Germania e col mio amico Ky in Indonesia, ma lei corruga la fronte. — Parla dei tuoi rapporti con persone non virtuali — ammonisce.

— Frequento le persone con le quali lavoro — dico, e allora lei annuisce e parla delle bocce, del minigolf, del cinema e della branca locale dell’Associazione autistici.

Ma giocare alle bocce mi fa dolere la schiena e il minigolf è roba da bambini e non da adulti, per quanto a me non piacesse nemmeno quando ero bambino. Mi piaceva il tiro a segno col laser, ma quando lo dissi alla dottoressa al nostro primo incontro lei annotò "Tendenze violente". Ci volle parecchio tempo perché la smettesse di sottoponili a test su queste mie pretese tendenze alla violenza, però sono sicuro che quell’annotazione non l’ha mai cancellata.

Le dico che sono stato al cinema tre volte e lei mi domanda com’erano i film. Io ne ho letto le recensioni, quindi posso raccontarle le loro trame. Non mi piacciono molto neanche i film, ma devo pur avere qualcosa da dire alla dottoressa… la quale finora non si è mai accorta che la mia conoscenza delle trame deriva dalla lettura delle recensioni.

M’irrigidisco per prepararmi alla prossima domanda, che mi irrita sempre moltissimo. La mia vita sessuale non riguarda la dottoressa. Lei è l’ultima persona alla quale parlerei di una mia eventuale ragazza. D’altra parte la Fornum non si aspetta che ne abbia una, vuole solo accertarsi che non l’abbia, e questo mi dà fastidio ancora di più.

Finalmente è finita. Ci rivedremo al prossimo controllo, dice lei, e io dico: — Grazie, dottoressa Fornum. — Lei risponde: — Bravo — come se io fossi un cane ammaestrato.

Fuori fa caldo, e sto camminando troppo in fretta. Devo perciò rallentare e pensare alla musica.

La dottoressa dice che dovrei imparare ad amare la musica che piace all’altra gente; ma è proprio questo che faccio. So che c’è gente che ama Bach e Schubert, e non è autistica: noi autistici non siamo tanto numerosi da poter far funzionare teatri d’opera e sale da concerti solo per noi. Però per la dottoressa l’"altra gente" significa "la maggioranza della gente". Io penso al quintetto La trota e la musica fluisce nella mia mente. La mia respirazione diventa regolare e il mio passo va a tempo.

La chiave scivola nella serratura dello sportello della macchina con la massima facilità, adesso che ho la musica giusta. Il sedile è piacevolmente tiepido e il vello che lo ricopre è soffice e comodo. Dapprima mi contentavo di un vello artificiale, ma appena ho ricevuto il primo stipendio mi sono comprato una vera pelle di pecora.

Mentre vado al lavoro lascio che la musica mi accompagni attraverso gli incroci, i semafori, gli ingorghi. Infilo i cancelli del campus, come lo chiamano. Il nostro edificio è a destra: mostro la mia tessera al guardiano del parcheggio e mi fermo nel mio spazio preferito. Ho sentito persone che lavorano in altri edifici lamentarsi perché non riescono a parcheggiare nei posti che preferiscono, ma qui da noi questo non succede mai: nessuno prenderebbe mai il mio posto, né io prenderei mai quello degli altri. Dale è alla mia destra e Linda alla mia sinistra; di fronte ho Cameron.

Sono ancora irritato con la dottoressa Fornum come succede ogni quadrimestre, perciò non vado subito a lavorare ma mi dirigo alla nostra palestra. Rimbalzare mi farà bene, mi fa sempre bene. Non c’è nessuno, perciò appendo il cartello alla porta e metto su la musica adatta.

Nessuno viene a interrompermi mentre rimbalzo. La spinta energica del trampolino seguita da una sospensione senza peso mi fa sentire leggero, mi rilassa e mi rasserena. Quando sento ritornarmi la concentrazione rallento i rimbalzi e infine scendo dal trampolino.

Nessuno m’interrompe nemmeno mentre mi dirigo verso la mia scrivania. Credo che ci siano anche Linda e Bailey, ma non ci faccio caso. Più tardi possiamo andare insieme a mangiare, ma non adesso. Adesso sono pronto a lavorare.

I simboli sui quali lavoro appaiono confusi e privi di significato a molta gente. È difficile spiegare ciò che faccio, però io so che si tratta di un lavoro importante perché mi pagano abbastanza da potermi permettere un appartamento e un’automobile, mentre la ditta mi fornisce la palestra e le visite quadrimestrali della dottoressa Fornum. Fondamentalmente io identifico schemi, andamenti: alcuni hanno nomi bizzarri e molte persone non riescono facilmente a riconoscerli, mentre per me è facilissimo. L’unica cosa di cui devo preoccuparmi è d’imparare il modo migliore per descriverli, così da renderli chiari anche agli altri.

Indosso gli auricolari e scelgo una musica. Per questo particolare lavoro Schubert è troppo fiorito; Bach invece è perfetto, i suoi schemi limpidi e complessi rispecchiano quelli di cui ho bisogno. Lascio che la parte della mia mente che genera e identifica gli schemi si concentri su questa particolare ricerca, e allora è come vedere cristalli di ghiaccio formarsi sulla superficie di un’acqua immota: una dopo l’altra le strutture di ghiaccio crescono, si ramificano, s’intrecciano… e a me non resta che fare attenzione e badare che lo schema rimanga simmetrico o asimmetrico a seconda delle esigenze di ogni singola ricerca.

Quando la vista comincia ad annebbiarmisi, mi lascio andare sullo schienale della poltrona. Ho lavorato per cinque ore filate e non me ne sono accorto. Al di sopra della mia scrivania una banderuola ondeggia pigramente nella corrente del sistema di ventilazione. Soffio e dopo un momento comincia a girare più in fretta, in un occhieggiare di viola e d’argento nella luce. Decido di accendere il mio ventilatore, così che tutte le girandole, banderuole e spirali possano mettersi in moto contemporaneamente, colmando il mio ufficio di luccichii tremolanti.

Quasi subito però sento Bailey che dal vestibolo chiama: — Chi vuole una pizza? — Ho immediatamente una gran fame. Spengo il ventilatore, do un ultimo sguardo ai bagliori multicolori che si vanno arrestando ed esco nell’atrio. Una breve occhiata ai visi dei miei amici mi fa capire subito chi verrà e chi no. Non abbiamo bisogno di parlare, ci conosciamo molto bene.

Entriamo nella pizzeria alle nove circa: io, Linda, Bailey, Eric, Dale e Cameron. Anche Chuy voleva venire, ma qui i tavoli hanno solo sei posti e nessuno di noi vuol sedersi da solo a mangiare a un altro tavolo. Noi ci fermiamo sempre allo stesso tavolo, e ci sistemiamo secondo un ordine stabilito: Dale, per esempio, ha all’occhio un tic che infastidisce Linda, perciò lei siede dove non può vederlo. Io penso invece che sia divertente, quindi mi metto alla sinistra di Dale e così ho l’impressione che lui mi strizzi l’occhio.

La gente che lavora qui ci conosce. Anche quando altri clienti ci fissano troppo a lungo a causa del modo in cui ci muoviamo o parliamo (o non parliamo), non ci rivolgono mai quelle occhiate ostili che mi sono visto lanciare in altri ristoranti. Linda si limita a indicare sul menù quello che desidera, oppure talvolta scrive l’ordinazione su un foglietto, così non la seccano mai con domande.

Stasera il nostro tavolo preferito non è stato ancora sparecchiato. Aspettiamo, cercando di avere pazienza, mentre Ciao-Sono-Sylvia (così è stampato su una targhetta che lei porta sul petto) fa cenno a un inserviente di sgombrare tutto. A me la cameriera è simpatica e riesco perfino a ricordarmi di chiamarla Sylvia senza guardare la targhetta. Ciao-Sono-Sylvia ci sorride sempre e cerca di aiutarci. In questo locale non veniamo mai il giovedì, perché quel giorno la cameriera di servizio è Ciao-Sono-Joan. Lei non ha simpatia per noi e si mette a brontolare appena ci vede. Certe volte uno di noi va a ordinare per tutti: l’ultima volta che lo feci io, Ciao-Sono-Joan disse a uno dei cuochi, mentre me ne andavo: — Almeno non si è portato dietro tutti quegli altri picchiatelli. — Sapeva che la sentivo, voleva che la sentissi. In questo locale è l’unica che ci tratta così.

Questa sera però ci sono solo Ciao-Sono-Sylvia e Tyree, che sta raccogliendo le stoviglie e le posate sudicie come se la cosa non lo disturbasse. Tyree non porta targhetta perché è addetto solo alle pulizie.

— Mi sbrigo subito — dice. — State tutti bene?

— Benissimo — risponde Cameron. Sta dondolandosi appena tra la punta e il calcagno dei piedi. Lo fa sempre un poco, ma osservo che stavolta si dondola a un ritmo leggermente più affrettato del solito.

Guardo una scritta pubblicitaria della birra che occhieggia contro la vetrina. S’illumina in tre segmenti separati, rosso e verde alle estremità e poi blu nel mezzo; quindi si spegne e ricomincia. Acceso il rosso, acceso il verde, acceso il blu, poi accesi tutti e tre, poi spenti, poi di nuovo acceso il rosso eccetera. Lo schema è ridicolmente semplice e i colori non sono molto gradevoli (il rosso per esempio è troppo arancione), però è sempre uno schema da considerare.

— Il loro tavolo è pronto — dice Ciao-Sono-Sylvia, e io cerco di non sobbalzare mentre distolgo gli occhi dalla scritta della birra.

Prendiamo posto intorno al tavolo nel solito modo e sediamo. Ordiniamo le stesse cose che mangiamo sempre ogni volta che veniamo qui, perciò ci vuol poco a fare le ordinazioni. Aspettiamo l’arrivo del cibo senza parlare, perché ognuno di noi, a modo suo, si sta adeguando alla situazione. Siccome sono reduce dalla visita alla dottoressa Fornum, osservo più acutamente del solito i dettagli del procedimento. Linda sta picchiettando le dita sulla parte convessa del suo cucchiaio secondo uno schema complesso che renderebbe un matematico beato quanto sta rendendo beata lei. Io continuo a guardare la scritta della birra con la coda dell’occhio, e così fa anche Dale. Cameron sta agitando il minuscolo dado di plastica che tiene in tasca, abbastanza discretamente da non farsi notare da chi non lo conosca, ma io vedo il movimento ritmico della sua manica. Anche Bailey guarda la scritta della birra. Eric si è tolto di tasca la sua penna multicolore e sta disegnando piccole figure geometriche sulla tovaglietta di carta. Dapprima in rosso, poi in viola, poi in azzurro, poi in verde, poi in giallo, poi in arancione; quindi si torna al rosso. A Eric piace quando il cibo arriva proprio alla fine di una delle sue sequenze di colore.

Questa volta le bevande arrivano quando lui è al giallo, e le pizze quando è all’arancione. Il viso di Eric si rilassa.

A noi è vietato parlare fuori del campus dei lavori che svolgiamo; ma Cameron sta ancora dondolandosi sulla sedia con aria impaziente quando abbiamo quasi finito di mangiare: è evidente che vuole informarci del problema che ha risolto. Mi guardo intorno. Nessun tavolo accanto al nostro è occupato. — Procedi — dico.

Cameron estrae dalla tasca un prospetto e lo spiega sul tavolo. Ci è vietato anche portar fuori documenti dal campus, per paura che possano cadere in mani sbagliate, però è una cosa che facciamo tutti. Molte volte è arduo parlare, mentre è tanto più facile scrivere ciò che si vuole spiegare o fare un disegno.

Sul prospetto riconosco gli schemi che Cameron ha collegato con una ricursione parziale che ha l’eleganza sobria di molte delle sue soluzioni. Tutti quanti li guardiamo e facciamo cenno di sì con la testa. — Molto bello — dice Linda. Le sue mani accennano un movimento di lato. Se fossimo al campus agiterebbe le braccia a mulinello, ma qui lei cerca di non farlo.

— Davvero — assente Cameron, e rimette in tasca il prospetto.

So che questo scambio di opinioni tra noi non piacerebbe alla dottoressa Fornum. Lei avrebbe voluto che Cameron spiegasse il prospetto, benché il suo significato sia chiaro a tutti noi; avrebbe voluto che noi facessimo domande, commentassimo, parlassimo del lavoro. Invece non c’è proprio nulla di cui parlare: tutti noi abbiamo visto perfettamente qual era il problema e sappiamo che la soluzione di Cameron è ottima sotto tutti i punti di vista. Qualunque altra aggiunta sarebbe solo fiato sprecato, e tra noi questo proprio non è necessario.

— Io mi stavo chiedendo quale sia la velocità del buio — dico abbassando gli occhi. Tutti si volgeranno a me, anche se per poco, e non voglio vedermi addosso i loro sguardi.

— Non ha una velocità — risponde Eric. — È solo uno spazio dove non c’è la luce.

— Cosa succederebbe se uno mangiasse una pizza in un mondo con una gravità maggiore di uno?

— Non lo so — dice Dale con aria preoccupata.

— La velocità della non conoscenza — commenta Linda.

Cerco d’interpretare ciò che lei ha voluto dire e ci riesco. — La non conoscenza si espande più velocemente della conoscenza — dico. Linda sorride e fa cenno di sì con la testa. — Quindi la velocità del buio potrebbe essere maggiore di quella della luce. Se davvero deve esserci sempre buio intorno alla luce, il buio deve trovarsi là prima della luce.

— Adesso voglio andare a casa — dice Eric. La dottoressa Fornum probabilmente vorrebbe che io gli domandassi se si è annoiato, ma io so che non lo è: vuole andare a casa perché è l’ora del suo programma favorito in TV. Ci salutiamo e io ritorno al campus. Voglio guardare ancora le mie girandole e le mie spirali occhieggiare per un poco, prima di tornare a casa a dormire.

Io e Cameron siamo in palestra e ci scambiamo qualche parola mentre rimbalziamo sui trampolini. Abbiamo fatto molto buon lavoro negli ultimi giorni e ci stiamo rilassando.

Joe Lee entra e io guardo Cameron. Joe Lee ha solo ventiquattro anni e sarebbe stato uno di noi se non gli fossero stati fatti i trattamenti che sono stati sviluppati troppo tardi per aiutarci. Lui pensa di essere uno di noi perché sa che lo sarebbe stato e possiede alcune delle nostre caratteristiche: infatti, per esempio, è molto bravo nelle astrazioni e nelle incursioni, gli piacciono alcuni dei nostri giochi, gli piace la nostra palestra. Però è assai più bravo nell’abilità d’interpretare i pensieri e le espressioni: i pensieri e le espressioni dei normali, intendo. Non sa farlo bene con noi, che siamo dopo tutto i suoi affini più stretti.

— Ciao, Lou — mi dice. — Ciao, Cam. — Vedo Cameron irrigidirsi. Lui odia sentir accorciare il suo nome e lo ha detto parecchie volte a Lee, che però se ne dimentica perché passa troppo tempo con i normali.

— Avete sentito? — domanda Joe Lee, e continua senza aspettare una risposta. — Qualcuno sta elaborando una procedura per annullare l’autismo. Pare abbia funzionato con i ratti e adesso la stanno provando sui primati. Scommetto che tra non molto voi ragazzi potrete diventare normali come me.

Joe Lee ha sempre detto che lui è uno di noi, ma le sue parole rivelano chiaramente che non lo ha mai creduto davvero. Noi siamo "voi ragazzi" e i normali sono "come me".

Cameron si acciglia e posso quasi sentire il groviglio di parole che gli gonfia la gola e che gli rende impossibile parlare. Parlerò io.

— Quindi tu ammetti di non essere uno di noi — dico, e Joe Lee sobbalza mentre il suo viso assume un’espressione che, mi hanno detto, significa "essere contrariati".

— Come puoi dire una cosa simile, Lou? Sai bene che è solo il trattamento…

— Se tu restituisci l’udito a un bambino sordo, lui non apparterrà più alla categoria dei sordi — dico. — E se fai questo abbastanza presto, lui non sarà stato mai sordo. — La mia voce adesso si è fatta fredda e meccanica. Da come la sento io potrebbe sembrare che sono adirato, invece ho solo paura, paura di non farmi capire. — Tu sei stato curato prima che nascessi, Joe. Non hai vissuto neanche un giorno come uno di noi.

— Ti sbagli — dice lui, interrompendomi. — Dentro sono proprio come voi, tranne che…

— Tranne ciò che ti rende diverso dagli altri, quelli che chiami normali — dico io, interrompendo a mia volta. La signorina Finley, una delle mie terapiste, mi dava schiaffetti sulle mani quando interrompevo. Io però non posso sopportare che Joe continui a dire cose che non sono vere. — Tu potevi sentire e interpretare il linguaggio dei suoni, hai imparato a parlare normalmente. I tuoi occhi vedevano normalmente.

— Sì, ma il mio cervello lavora come il vostro.

Scuoto la testa. Joe Lee dovrebbe saperlo, glielo abbiamo spiegato tante volte. I problemi che noi abbiamo con la vista, l’udito e gli altri sensi non dipendono dai singoli organi ma dal cervello. Quindi il cervello di chi non ha i nostri problemi non lavora allo stesso modo del nostro.

— Però io faccio lo stesso lavoro…

Neanche questo è vero, anche se lui lo crede. Le soluzioni di Joe sono lineari; talvolta possono essere davvero efficaci, ma talvolta… Vorrei dire questo, ma taccio perché lui sembra così irritato e addolorato.

— Venite, su — dice dopo un poco. — Venite a fare uno spuntino con me, tu e Cam. Offro io.

— Non posso, ho un appuntamento — dice Cameron. Sospetto che abbia appuntamento con un suo amico giapponese col quale gioca a scacchi. Joe Lee si volge a guardarmi.

— Spiacente — mi ricordo di dire. — Io ho una riunione. — Sento il sudore scorrermi sulla schiena e spero che Joe Lee non mi domandi quale riunione. Se dovessi rispondergli con una bugia mi sentirei depresso per giorni e giorni.

Gene Crenshaw sedeva su una vasta poltrona a un capo del tavolo; Pete Aldrin, come gli altri, sedeva su una comune sedia lungo uno dei lati. Era tipico, pensò Aldrin: lui convocava riunioni perché così poteva far vedere quanto era importante nella sua poltrona. Era la terza riunione in quattro giorni, e Aldrin aveva sulla scrivania un sacco di lavoro arretrato che non riusciva a smaltire a causa delle riunioni. Gli altri si trovavano nella stessa situazione.

L’argomento del giorno era la negatività che regnava nell’ambiente di lavoro: per negatività s’intendeva qualunque disaccordo con Crenshaw. Tutti dovevano invece "afferrare la visione" (la visione di Crenshaw) e concentrarsi su di essa tralasciando qualunque altra cosa. Inutile fare appello alla democrazia: loro erano uomini d’affari, non membri di un partito. Crenshaw ripeté questa dichiarazione diverse volte, poi si riferì come esempio al gruppo di Aldrin, noto nell’ambiente come sezione A, come a un modello di scarso funzionamento.

Aldrin si sentì bruciare lo stomaco e salire in bocca un sapore amaro. La sezione A aveva una produttività impeccabile, e nella sua cartella personale c’erano parecchi encomi che lo dimostravano. Come poteva Crenshaw pensare che non funzionasse?

Prima che lui potesse obiettare, Madge Demont parlò. — Vedi, Gene, in questo dipartimento abbiamo sempre fatto un lavoro di gruppo. Adesso arrivi tu e ignori completamente la tecnica di lavoro comunitario che abbiamo adottato e che va bene per noi…

— Io sono un capo nato — dichiarò Crenshaw. — Il mio profilo mostra che sono strutturato per essere un capitano, non un membro dell’equipaggio.

— Il lavoro di gruppo è sempre importante — disse Aldrin. — Anche i capi devono imparare come lavorare con gli altri…

— Non è questa la mia specialità — rispose Crenshaw. — Io sono particolarmente capace d’ispirare gli altri e fornire loro una guida ferma.

La sua capacità, pensò Aldrin, era di fare il tiranno senza averne guadagnato il diritto, ma Crenshaw era fortemente raccomandato dalle alte sfere. Tutti loro sarebbero stati licenziati molto prima di lui.

— I tuoi dipendenti devono rendersi conto che non hanno alcuna particolare importanza per la nostra compagnia — riprese Crenshaw rivolto a lui. — È loro dovere uniformarsi, dedicarsi a eseguire il lavoro che sono pagati per fare…

— Noi abbiamo un obbligo contrattuale — ribatté Aldrin. — Secondo i termini del contratto, dobbiamo fornire loro un ambiente lavorativo favorevole alle loro peculiarità.

— E lo facciamo, no? — sbottò irritato Crenshaw. — E con grande spesa, anche. Palestra privata, sistema sonoro, parcheggio, ogni genere di giocattoli… Io sono certo che anche ad altri bravi lavoratori piacerebbe avere una palestra privata; invece fanno il loro lavoro senza lamentarsi.

— Lo fa anche la sezione A — puntualizzò Aldrin. — Il loro indice di produttività…

— È adeguato, ammettiamolo. Ma se impiegassero il loro tempo a lavorare senza perderlo a baloccarsi, potrebbe migliorare di molto.

Aldrin sentì un gran calore salirgli al collo. — La loro produttività non è soltanto adeguata, Gene, è straordinaria. I dipendenti della sezione A, presi uno per uno, sono più produttivi dei membri di qualsiasi altro dipartimento…

— Pete, io so che hai un fratello maggiore affetto da autismo — lo interruppe Crenshaw con voce falsamente gentile. — Comprendo i tuoi sentimenti, ma devi renderti conto che siamo nel mondo reale e non all’asilo. I tuoi problemi familiari non possono influenzare la politica aziendale.

Aldrin avrebbe tanto voluto afferrare la brocca dell’acqua e lanciarla sulla testa di Crenshaw, ma non era il caso. Nulla avrebbe potuto convincerlo che le sue ragioni per ergersi a campione della sezione A non avevano nulla a che vedere col fatto che aveva un fratello autistico. Anzi: al principio aveva quasi rifiutato di lavorare là a causa di Jeremy. Ricordava la sua infanzia contristata dalle collere incoerenti del fratello e dal ridicolo di cui lo coprivano i compagni perché aveva un fratello "pazzo e cretino". Quando aveva lasciato la sua casa, aveva giurato che sarebbe vissuto solo tra persone sane e normali per tutta la vita.

Adesso invece era proprio la differenza tra Jeremy e gli uomini e le donne della sezione A che lo rendevano pronto a difenderli. Talvolta gli era ancora difficile osservare quello che avevano in comune con Jeremy e non rabbrividire; però, lavorando con loro, si sentiva meno colpevole per il fatto che non vedeva Jeremy e i suoi genitori più di una volta l’anno.

— Ti sbagli, Gene — disse a Crenshaw. — Se cercherai di togliere alla sezione A gli elementi di supporto, costerai alla compagnia una perdita di produttività maggiore del guadagno. Noi dipendiamo dalle loro abilità uniche: gli algoritmi di ricerca e l’analisi degli schemi elaborati da loro hanno ridotto i passaggi dalle materie prime al prodotto finito in modo tale da renderci superiori alla competizione…

— Io non lo credo. È tuo dovere mantenere i tuoi dipendenti all’apice della produttività, Aldrin. Vedremo se ne sarai capace. — Seguì una pausa. — Inoltre — riprese Crenshaw — è usato un nuovo studio pubblicato da un laboratorio europeo: ancora sperimentale, ma promettente.

— Un nuovo trattamento?

— Sì. Non ne so molto, tuttavia se si dimostrasse efficace sarebbe interessante. Pare sia capace di rendere normali gli autistici. Se i tuoi dipendenti fossero normali non avrebbero bisogno di tanti lussi.

— Se fossero normali, non potrebbero svolgere il loro lavoro — replicò Aldrin.

— Ma almeno non dovremmo più coccolarli come stiamo facendo.

— In che cosa consiste il trattamento? — chiese Aldrin.

— Oh, credo si tratti di una combinazione tra potenziamenti neurologici e nanotecnologia. — Crenshaw abbozzò un sorrisetto perfido. — Perché non ti documenti, Pete, e me ne fai un rapporto? Se la cosa si dimostrasse valida, potremmo perfino acquistare i diritti al trattamento per il Nordamerica.

Aldrin comprese di essere caduto nella trappola: sarebbe stato lui ad apparire colpevole agli occhi della sezione A se le cose si fossero messe male per loro.

— Sai bene che non puoi costringere nessuno a sottomettersi a una cura — disse, sentendosi scorrere il sudore lungo la schiena. — È contrario ai diritti civili della gente.

— Non posso immaginare che a qualcuno piaccia trovarsi in quelle condizioni — disse Crenshaw. — E se a qualcuno piace, sarebbe giustificabile chiedergli di sottoporsi a visita psichiatrica. Chi preferisce essere malato…

— Loro non sono malati - disse Aldrin.

— Handicappati, allora, che tuttavia preferiscono un trattamento speciale a una cura. Ciò farebbe supporre che soffrano di squilibrio mentale, il che costituisce un valido motivo di licenziamento.

Aldrin lottò di nuovo col desiderio di lanciare contro la testa di Crenshaw qualche oggetto contundente.

— Il trattamento potrebbe anche essere utile a tuo fratello.

Era troppo. — Fammi il favore di lasciare in pace mio fratello — sibilò Aldrin tra i denti.

— Su, su, non volevo affliggerti — lo consolò l’altro continuando a sorridere. — Era solo un’idea… — Gli fece un cenno pacificatore e si volse alla prossima vittima. — Adesso, Jennifer, parliamo di quelle scadenze che il tuo gruppo non sta rispettando…

Cosa poteva fare Aldrin? Niente. Cos’avrebbe potuto fare chiunque? Niente. Uomini come Crenshaw salivano in alto perché erano fatti così… almeno a quanto pareva.

2

Il signor Crenshaw è il nuovo dirigente di sezione. Il signor Aldrin, il nostro capo, lo ha accompagnato da noi il primo giorno. Non mi è piaciuto, perché ha la stessa voce falsamente cordiale di un insegnante di educazione fisica che avevamo alla scuola media. Lui pensava che insegnare a noi fosse inutile e sciocco, date le nostre limitazioni, e noi lo odiavamo tutti. Io non odio il signor Crenshaw, ma non provo alcuna simpatia per lui.

Oggi, andando al lavoro, mi fermo a un semaforo rosso a un incrocio; davanti a me c’è un furgoncino blu notte con targa della Georgia. La luce passa al giallo e il furgoncino parte sparato. Prima che io possa pensare "Non farlo!", due altri veicoli saettano dalla direzione opposta, un altro furgone beige con una striscia marrone e un’automobile avana, e il furgone più grande sbatte in pieno contro la fiancata del furgoncino. Il fracasso è spaventoso, i due veicoli girano su se stessi, vetri rotti volano dappertutto… Vorrei sparire entro me stesso, chiudo gli occhi.

Il silenzio torna lentamente, interrotto dai claxon delle macchine che non sanno perché il traffico si è fermato. Apro gli occhi: il semaforo è verde. La gente è uscita dalle automobili, i guidatori dei veicoli coinvolti nell’incidente stanno parlando.

Il codice della strada dice che una persona coinvolta in un incidente deve fermarsi e prestare assistenza; ma io non sono stato coinvolto e ci sono anche troppe persone a dare assistenza. Così do un’occhiata alle mie spalle e lentamente aggiro la scena dell’infortunio. Non sto facendo niente di male: con l’incidente non c’entro e se mi fermassi arriverei tardi al lavoro.

Quando arrivo al campus sono ancora scosso, perciò invece di andare in ufficio vado prima in palestra. Metto su la Polka e Fuga da Schwanda lo Zampognaro, perché ho bisogno di fare grandi rimbalzi per calmarmi. Sono già più rilassato quando entra il signor Crenshaw con la faccia lucida e arrossata.

— Be’, be’, Lou — dice. La sua voce è incerta, come se volesse suonare gioviale mentre in realtà è irritato. — Ti piace molto la palestra, eh?

— Sì, mi piace — rispondo.

— Hai bisogno di qualcosa che qui manca?

— No. — Mi servono tante cose che qui mancano, come cibo, acqua e un posto dove dormire, ma lui intende se mi manca qualcosa di quanto dovrebbe essere in questa palestra e che invece non vi si trova.

— Hai bisogno di quella musica?

Quella musica. Laura mi ha insegnato che quando la gente mette "quello" davanti a un nome implica un certo atteggiamento rispetto al nome stesso. Sto cercando d’immaginare quale atteggiamento abbia il signor Crenshaw rispetto alla musica quando lui continua, come succede spesso, senza aspettare che io risponda.

— È difficile cercar di mantenere un simile assortimento di musiche — dice. — Sarebbe più semplice se accendeste la radio e basta.

— La radio non va bene — rispondo. La sua faccia s’indurisce e capisco che sono sembrato brusco. Cerco di spiegare. — La musica deve adattarsi a me e deve essere quella giusta per produrre l’effetto giusto; e poi dev’essere solo musica strumentale, senza intervento di voce umana. Questo vale per tutti noi. Abbiamo tutti bisogno del tipo di musica che accontenti le nostre esigenze.

— Sarebbe molto bello se tutti potessimo avere la musica che più ci piace — dice il signor Crenshaw. — Ma la maggior parte della gente… — Dal suo tono si capisce che "la maggior parte della gente" per lui significa "la gente normale"… — … la maggior parte della gente si deve accontentare di quello che c’è.

— Capisco — dico, ma in realtà non capisco affatto. Chiunque potrebbe portarsi un player e qualche disco e mettere auricolari quando lo sente, proprio come facciamo noi. — Noi però… noi, gli autistici, gli handicappati… abbiamo bisogno della musica giusta.

Adesso è arrabbiato davvero, ha la faccia contratta e ancora più rossa e lucida. — Benissimo — dice. Ma in realtà vuol dire che deve lasciarci sentire la nostra musica, però se potesse cambierebbe la situazione. Il nostro contratto basta a impedirglielo? Devo chiederlo al signor Aldrin.

Mi occorre altro tempo per calmarmi, e quando finalmente mi siedo alla scrivania vedo che è passata un’ora e quarantasette minuti da quando avrei dovuto cominciare a lavorare. Mi tratterrò dopo l’ora di uscita per recuperare.

Il signor Crenshaw ritorna all’ora di uscita e mi trova a lavorare. Apre la porta senza bussare. Non so quanto tempo è rimasto qui prima che io lo notassi, ma sono sicuro che non ha bussato. Quando dice. — Lou! — io sobbalzo e mi volto.

— Cosa stai facendo? — domanda.

— Lavoro — dico. Cos’altro dovrei fare, lì?

— Lasciami vedere — dice, e si ferma alle mie spalle. Sento i nervi arricciarmisi sotto la pelle: odio avere qualcuno dietro di me. — Questa cos’è? — Indica una linea di simboli separati dai blocchi superiori e inferiori da una riga vuota.

— Dovrà essere il tratto di unione tra questo — indico il blocco superiore — e questo. — Indico il blocco inferiore.

— E quelli cosa sono?

Davvero non lo sa? Allora forse s’irriterà ancora di più quando si accorgerà che io sospetto la sua ignoranza.

— È il terzo livello di un sistema di sintesi a tre livelli.

— Oh, vedo — dice con voce grondante di sarcasmo. Crede forse che io stia mentendo?

— Questo sistema a tre livelli verrà inserito nei codici di produzione — spiego, costringendomi a rimanere calmo. — Così saremo sicuri che l’utente finale potrà definire i parametri di produzione ma non potrà trasformarli in qualcosa di dannoso.

— E tu capisci queste cose? — domanda.

— Sì — rispondo.

— Bene — dice, in un tono falso come quello della mattina. — Hai cominciato tardi oggi — aggiunge.

— Perciò sono rimasto oltre l’orario — spiego. — Ero in ritardo di un’ora e quarantasette minuti. Ho lavorato durante la pausa del pranzo: trenta minuti. Perciò dovrò rimanere per un’altra ora e diciassette minuti.

— Sei onesto — dice, chiaramente sorpreso.

— Sì — rispondo. Non mi volto a guardarlo, non desidero vedere la sua faccia. Dalla porta lancia l’ultima parola.

— Le cose non possono continuare così, Lou. Devono cambiare.

Nove parole. Nove parole che mi fanno rabbrividire dopo che la porta si è chiusa.

Accendo il ventilatore e nell’ufficio cominciano a turbinare riflessi ammiccanti. Continuo a lavorare per un’ora e diciassette minuti. Questa volta non provo la tentazione di trattenermi. È mercoledì, e ho da fare.

Fuori il tempo è abbastanza caldo, un poco umido. Guido con cautela verso casa, mi cambio e mangio una fetta di pizza fredda.

Una delle cose di cui non parlo mai con la dottoressa Fornum è la mia vita sessuale. Lei non crede che io ne abbia una perché quando mi chiede se ho una ragazza o un ragazzo io dico di no. Non mi domanda mai altro, e a me va bene, perché non voglio parlare di quell’argomento con lei.

Mentre finisco la pizza penso a Marjory. Marjory non è la mia compagna, ma io vorrei che fosse la mia ragazza. L’ho incontrata alla scuola di scherma, e questa è un’altra cosa di cui non parlo alla dottoressa. Se si preoccupava delle mie tendenze alla violenza quando le avevo detto del tiro a segno laser, l’idea che io maneggi armi bianche le procurerebbe una crisi isterica. Non dico nulla alla dottoressa di Marjory perché lei allora mi farebbe domande alle quali non voglio rispondere. Così ho due grandi segreti, le spade e Marjory.

Dopo mangiato salgo in macchina per andare a lezione di scherma, in casa di Tom e Lucia; e ci sarà anche Marjory. Vorrei chiudere gli occhi e pensare a lei, ma sto guidando e non è prudente. Penso invece alla musica, alla corale della Cantata n.39 di Bach.

Tom e Lucia hanno una grande casa con un cortile recintato sul retro, molto vasto. Non hanno bambini, benché siano più anziani di me. Hanno molti amici e otto o nove di loro di solito si riuniscono là per praticare la scherma. Non so se Lucia abbia detto a qualcuno, all’ospedale dove lavora, che lei pratica la scherma o che talvolta invita alcuni pazienti a venire da lei per impararla. Credo che l’ospedale non approverebbe. Io non sono l’unica persona sottoposta a supervisione psichiatrica che vada da Tom e Lucia per imparare a battersi con le armi bianche. Una volta glielo domandai e lei rise e disse: — Quello che non si sa non fa male.

Sono cinque anni che pratico la scherma qui. Ho aiutato Tom a pavimentare la zona destinata alla scherma e a costruire, in una stanza sul retro, la rastrelliera dove appendiamo le nostre armi. Io non voglio avere le mie nell’automobile o a casa, perché so che farebbe paura a qualcuno. Tom mi ha detto tante volte che è importante non spaventare nessuno. Ecco perché lascio tutto il mio equipaggiamento in casa di Tom e Lucia, e tutti sanno che il secondo scompartimento a sinistra sulla parete è mio, e anche la mia maschera ha il suo posto abituale nel ripostiglio.

Prima di tutto faccio gli esercizi di stiramento: non li trascuro mai, e Lucia dice che sono un modello per gli altri. Don, per esempio, li fa raramente e poi si lamenta perché gli viene il mal di schiena o gli capita uno stiramento muscolare.

Poi vado a indossare la mia giacca di pelle con le maniche tagliate all’altezza dei gomiti e la mia gorgiera di metallo. Prendo la maschera con dentro i guanti che metto in tasca. Stacco con cura la spada e lo stocco dalla rastrelliera.

Arriva Don di corsa come al solito, tutto sudato e con la faccia rossa. — Ciao, Lou — dice. Io mi faccio da parte perché possa prendere le sue armi dalla rastrelliera. Lui è normale e potrebbe portare la spada in automobile se volesse, senza far paura a nessuno, ma è molto distratto. La dimentica sempre ed è costretto a farsi prestare le armi dagli altri, così Tom gli ha detto di lasciare le sue cose qui.

Esco nel cortile. Marjory non è ancora arrivata. Cindy e Lucia stanno per cominciare un incontro alla spada e Max si sta mettendo l’elmetto di acciaio. Non credo che a me piacerebbe portarne uno; risuonerebbe troppo quando qualcuno lo colpisse.

Viene fuori anche Dan, con portamento spavaldo, la spada sotto il braccio. Si sta abbottonando il suo bel farsetto di pelle. A volte vorrei averne uno anch’io, ma credo che per me sia meglio preferire le cose semplici.

— Hai fatto gli stiramenti? — gli domanda Lucia.

Lui fa spallucce. — Quanto basta.

Lei scuote il capo. — Affari tuoi. — Lei e Cindy danno inizio all’incontro. Mi piace guardarle e rendermi bene conto di quanto stanno facendo. Sono così veloci che fatico a seguirle, ma questo succede anche alle persone normali.

— Ciao, Lou — dice Marjory dietro di me. Mi sento tutto caldo e leggero, come se la gravità fosse diminuita. Per un istante chiudo gli occhi. Lei è bellissima, ma mi è difficile guardarla.

— Ciao, Marjory — dico voltandomi. Lei mi sorride e ha il viso lucido. In principio mi turbava il fatto che quando la gente è molto felice il suo viso diventi lucido, perché anche quando va in collera la gente ha il viso lucido, e io non riuscivo mai a capir bene quale dei due sentimenti provassero. I miei genitori hanno cercato tante volte di spiegarmi la differenza, e alla fine io ho concluso che il modo migliore per orientarsi è fare attenzione alla posizione delle sopracciglia e degli angoli degli occhi. Il viso di Marjory è quello di una persona felice. Lei è felice di vedermi e io sono felice di vederla.

— Ciao, Marj — dice Don, e anche il suo viso è lucido: lui pure pensa che lei sia bella. Io so che quanto provo si chiama gelosia, l’ho letto in un libro. È un sentimento cattivo, e significa che posso diventare invadente. Mi tiro indietro, cercando di essere più discreto, e Don si fa avanti. Marjory però guarda me, non lui.

— Vuoi giocare? — chiede Don, dandomi un colpetto col gomito: vuol dire se voglio esercitarmi con lui. All’inizio non lo capivo, ma adesso sì. Annuisco col capo e ci troviamo un posto per batterci.

Ci giriamo intorno, eseguendo una serie di finte e parate, poi vedo il suo braccio cadere lungo il fianco. Anche questa è una finta? Comunque è un’apertura, e io con una stoccata lo colpisco al petto.

— Mi hai preso — dice lui. — Però il braccio mi fa male davvero.

— Mi dispiace — mi scuso. Lui rotea la spalla, poi di colpo balza in avanti e avventa un affondo contro il mio piede. Non è la prima volta che lo fa, così salto all’indietro e non mi lascio toccare. Continuiamo l’incontro, ma dopo che io l’ho colpito altre tre volte lui fa un sospirone e dice che è stanco. Io sono contento di smettere: preferisco parlare con Marjory.

Lei adesso è seduta accanto a Lucia, che si sta riposando e le sta mostrando delle fotografie. La fotografia è il suo hobby. Mi tolgo la maschera e guardo le due donne; il viso di Marjory è più ovale di quello di Lucia. Don si mette tra me e lei e comincia a parlare.

— Ci stai interrompendo — dice Lucia.

— Oh, spiacente — dice lui, ma rimane dove sta.

— E inoltre stai in mezzo come un palo — continua lei. — Fa’ il piacere di toglierti da davanti agli altri.

Don si volta a guardarmi, sbuffa e si sposta di lato. — Non avevo visto Lou — si scusa.

— Io sì — dice Lucia, e torna a mostrare le foto a Marjory. Don di tanto in tanto la interrompe con commenti. Alla fine Lucia chiude l’album e lo mette sotto la sedia.

— Vieni, Don — dice. — Vediamo come te la cavi con me. — Don fa spallucce e la segue verso uno spazio libero.

— Siediti, Lou — mi invita Marjory. Io siedo sulla sedia lasciata libera da Lucia. — Com’è andata la tua giornata? — chiede Marjory.

— Ho assistito a un incidente — racconto. Lei non mi fa domande, mi lascia parlare. Adesso che ne parlo con lei mi sembra meno accettabile il fatto che me ne sia andato in quel modo dalla scena dell’incidente, ma non volevo far tardi al lavoro.

— Sono cose spiacevoli — commenta lei. Ha una voce calda, distensiva: non una di quelle voci professionalmente rassicuranti, solo una voce gentile e gradevole alle mie orecchie.

Vorrei raccontarle del signor Crenshaw, ma ecco che arriva Tom e mi domanda se voglio fare un incontro. Mi piace battermi con lui. È alto quasi come me, e benché sia più anziano è molto in forma. Di tutto il gruppo, è lo schermidore più bravo.

— Ho visto il tuo incontro con Don — dice. — Eludi i suoi trucchi molto bene, però lui sta peggiorando. Quindi fammi il piacere di esercitarti con qualcuno degli elementi migliori ogni settimana: con me, con Lucia, con Cindy o con Max. Almeno con due di noi per volta, va bene?

"Almeno" vuol dire "non meno di". — D’accordo — dico. Ambedue abbiamo due armi, la spada e lo stocco. La prima volta che cercai di usare due lame non facevo che batterle l’una contro l’altra. Poi cercai di tenerle parallele: in quel modo non s’incrociavano, ma a Tom era facile batterle da parte tutt’e due. Adesso invece so come impugnarle a differenti angolature e altezze.

Giriamo l’uno intorno all’altro, prima in un senso e poi nell’altro. È come una danza: passo, passo, stoccata, parata, passo. Tom dice sempre che non bisogna seguire uno schema nell’attacco, che bisogna essere imprevedibili; ma l’ultima volta che l’ho visto battersi con un altro di noi, mi è sembrato di distinguere uno schema nel suo modo di attaccare apparentemente casuale. Se riesco a restargli fuori portata abbastanza a lungo, forse riuscirò a distinguerlo di nuovo.

Di colpo mi sorge nella mente la musica del balletto Romeo e Giulietta di Prokofiev. I miei movimenti si accordano col suo ritmo e rallentano. Anche Tom rallenta. E adesso posso vederlo, il lungo schema che lui ha elaborato, perché nessuno può mantenere a lungo uno schema davvero irregolare. Continuo a muovermi a tempo con la mia musica e contemporaneamente in sintonia con l’avversario, parando i suoi assalti e osservando le sue parate. Così di colpo so ciò che lui vuol fare, e senza pensarci tiro una botta rovescia e lo colpisco a un lato della testa. Il colpo mi si ripercuote nella mano e nel braccio.

— Ben fatto! — dice Tom. La musica s’interrompe. — Diamine! — esclama scuotendo la testa.

— Ho colpito troppo duro, mi dispiace — dico.

— No, no, è stato un colpo stupendo, dritto attraverso la mia guardia. Non mi è stato possibile nemmeno abbozzare una parata. — Dietro la maschera sta sorridendo beato. — Te l’ho detto che vai migliorando di continuo. Ricominciamo.

La luce occhieggia lungo le lame di Tom, ambedue alzate nel saluto. Per un momento mi abbaglia il suo brillio, la velocità della danza della luce.

Poi ricomincio a muovermi nel buio al di là della luce. Quanto è veloce il buio? L’ombra non può essere più veloce della cosa che la proietta, ma non tutto il buio è ombra… o no? Questa volta non sento musica ma vedo uno schema di luci e ombre che scivolano e ammiccano, archi e spirali di luce su uno sfondo oscuro.

Sto danzando al bordo della luce quando sento un contraccolpo sulla mia mano e nello stesso tempo il colpo della lama di Tom sul mio petto. Dico: — Ben fatto! — quasi all’unisono con lui e ambedue facciamo un passo indietro. Ci siamo uccisi a vicenda.

— Ahi! — Mi volto e vedo Don che si piega in avanti premendosi una mano contro la schiena. Zoppica verso le sedie, ma Lucia ci arriva prima e siede di nuovo accanto a Marjory. Don si ferma, sempre piegato in avanti. Adesso non ci sono più sedie libere, visto che sono arrivati altri schermidori. Infine Don si accoccola sul lastricato, grugnendo e gemendo.

— Dovrò smetterla con questo sport — dice. — Sto diventando troppo vecchio.

— Non sei vecchio, sei pigro — replica Lucia. Non capisco perché si mostri sempre così aspra con Don. Lui è un amico: non è giusto dire cose cattive a un amico, tranne che per scherzo. Don detesta fare gli stiramenti e si lamenta di continuo, ma rimane sempre un amico.

— Vieni, Lou — dice Tom. — Ci siamo ammazzati a vicenda; adesso voglio la rivincita. — Le parole potrebbero esprimere collera, ma la sua voce è gentile e vedo che sorride. Alzo di nuovo le mie armi.

Questa volta Tom fa una cosa che non ha mai fatto: carica. Non sapendo cosa fare, mi giro, defletto la sua spada con la mia e cerco di tirare un affondo con lo stocco. Ma lui si sta muovendo troppo rapidamente, quindi lo manco. Tom alza lo stocco, esegue un allungo e mi colpisce alla sommità della testa.

— Toccato! — dice.

— Come hai fatto? — chiedo.

— È il colpo segreto che riserbo per i tornei — risponde Tom spingendo indietro la maschera. — Qualcuno lo inflisse a me dodici anni fa e io tornai a casa e mi allenai finché non riuscii a farlo bene… adesso però lo uso solo per le gare. Ma tu sei pronto per impararlo. Non è poi tanto difficile. Il trucco è uno solo.

— Ehi, non ho visto bene! — grida Don dall’altra parte del cortile. — Fallo di nuovo!

— Qual è il trucco? — domando.

— Lo dovrai capire da te. Te l’ho fatto vedere, no? Sarò felice se imparerai il mio colpo, ma la dimostrazione che te ne ho fatto basta e avanza.

— Tom, a me però non l’hai mostrato bene. Rifallo — dice Don.

— Tu non sei pronto — risponde Tom. — Dovrai guadagnartelo. — Adesso sembra in collera, come prima Lucia. Cos’ha fatto Don per farli irritare?

Mi tolgo la maschera e vado vicino a Marjory. Dall’alto vedo le luci che si riflettono nei suoi capelli. Mi chiedo cosa si proverebbe a toccarli.

— Prendi il mio posto — dice Lucia. — Voglio fare un altro incontro.

Mi siedo, molto conscio della vicinanza di Marjory. — Oggi non ti batti? — chiedo.

— No, dovrò andarmene presto. La mia amica Karen arriva all’aeroporto e devo andare a prenderla. Sono passata di qui solo per vedere… qualcuno.

Vorrei dirle che sono felice che l’abbia fatto, ma le parole mi restano in gola. — Da dove viene Karen? — domando alla fine.

— Da Chicago. È andata a far visita ai genitori. — Si volge a guardarmi. — Ti fermi molto qui, stasera?

— Non molto — dico. Se lei se ne va, io tornerò a casa.

— Vuoi venire all’aeroporto con me? Poi ti riporterei qui per prendere la tua macchina. Però farai un po’ tardi, l’aereo arriva alle dieci e un quarto.

Andare in auto con Marjory? Sono così sorpreso e felice che per un lungo istante non riesco a muovermi. — Sì — dico. — Sì. — Sento un gran caldo alla faccia.

Mentre andiamo all’aeroporto guardo dal finestrino. Mi sento leggero come se potessi fluttuare nell’aria. — Quando si è felici sembra che la gravità si riduca — dico.

— Leggeri come piume? — Marjory sorride. — È così che ci si sente?

— Non proprio come una piuma, piuttosto come un palloncino — dico.

— Conosco questa sensazione — annuisce lei. Però non dice che si sente così adesso. Io non so come si sente. Le persone normali lo capirebbero, ma io non posso. Più la conosco, più cose non capisco di lei. Non so neppure perché Tom e Lucia sono così cattivi con Don.

— Tom e Lucia sembravano irritati con Don — dico. Marjory mi lancia uno sguardo in tralice.

— Don a volte è una viperetta — risponde.

Don non è una vipera: è una persona. Le persone normali si esprimono così, cambiando il significato delle parole all’improvviso, eppure si capiscono. Io so, perché qualcuno me lo ha detto anni fa, che "vipera" certe volte vuol dire "persona cattiva". Ma se una persona è cattiva e uno vuol dire che è cattiva, perché non lo dice? Perché la chiama "vipera"?

Io però più che altro vorrei sapere perché Tom e Lucia sono in collera con Don. — Ce l’hanno con lui perché non fa gli stiramenti? — domando.

— No. — Adesso anche Marjory sembra irritata e io mi sento desolato. Cosa ho fatto? — Lui è… certe volte è proprio maligno, Lou. Fa dell’umorismo a spese di altri, e non fa ridere nessuno.

Un isolato dopo lei aggiunge a bassa voce: — Fa dell’umorismo su di te, e a noi questo non piace.

Non so cosa dire. Don scherza su tutto, anche su Marjory. A me non piacciono i suoi scherzi, ma non reagisco. Avrei dovuto farlo? Marjory torna a guardarmi e capisco che vuole che io dica qualcosa. Ma cosa?

— I miei genitori dicevano che arrabbiarsi con una persona non la fa comportare meglio — dico infine.

Marjory fa un suono buffo; non so cosa significhi. — Lou, a volte penso che tu sia un filosofo.

— No — dico. — Non sono abbastanza intelligente per essere un filosofo.

Marjory fa di nuovo quel suono.

Siamo arrivati all’aeroporto. Marjory si ferma al parcheggio a breve termine e ci dirigiamo al terminale.

Quando sono solo, mi diverto a vedere i cancelli automatici aprirsi e chiudersi, ma questa sera non ci faccio caso. Marjory si ferma a leggere il cartello degli arrivi e delle partenze. Io ho già visto il volo che dobbiamo aspettare: da Chicago, atterraggio previsto per le 10.15, porta diciassette.

All’entrata di sicurezza per gli arrivi mi sento un poco inquieto. So come si fa, me lo hanno insegnato i miei genitori e l’ho fatto altre volte. Bisogna vuotare le tasche di tutti gli oggetti metallici e metterli in un canestrino, poi si aspetta il proprio turno e si passa sotto un arco. Se nessuno mi fa domande, la cosa è facile. Ma se mi parlano non sempre posso sentir bene ciò che mi dicono: qui c’è troppo rumore, troppi echi rimbalzano in questo ambiente cavernoso.

Marjory passa per prima: mette la borsetta sul nastro trasportatore e le chiavi nel canestrino. Passa sotto l’arco e nessuno le dice niente. Io metto le mie chiavi, il portafogli e il portamonete nel canestrino e passo sotto l’arco. Tutto tranquillo. L’uomo in uniforme mi guarda mentre riprendo le mie cose e me le rimetto in tasca. Mi volto verso Marjory che aspetta qualche metro più in là. Ma l’uomo parla.

— Posso vedere il suo biglietto, per favore? E un documento d’identità?

Un brivido freddo mi scuote. Sono entrate diverse altre persone prima di me e lui non ha chiesto niente a nessuno. E poi non c’è bisogno di un biglietto per entrare nella parte dell’aeroporto riservata agli arrivi; il biglietto si esibisce solo all’entrata riservata alle partenze.

— Non ho un biglietto — dico.

— E un documento d’identità? — insiste l’uomo. Mi fissa e la sua faccia comincia a diventare lucida. Tiro fuori il portafogli e lo apro allo scomparto riservato alla carta d’identità. Lui le dà un’occhiata e poi torna a guardarmi. — Se non ha un biglietto, cosa sta facendo qui? — domanda.

Sento il mio cuore battere forte e un gran calore alla nuca. — Io… io… io…

— Parli, su — dice l’uomo accigliandosi. — O forse è balbuziente?

Io so che non sarò capace di parlare per diversi minuti, ormai. Frugo nel taschino della camicia e tiro fuori un cartoncino che tengo sempre lì. Lo porgo all’uomo che lo legge.

— Autistico, eh? Però lei prima parlava: un secondo fa mi ha risposto. Chi deve incontrare?

Marjory si è mossa e sta arrivando alle spalle dell’uomo. — Qualcosa non va, Lou?

— Non s’impicci, signora — la zittisce l’uomo senza guardarla.

— Quest’uomo è un mio amico — dice lei. — Dobbiamo incontrarci con una persona che arriverà col volo tre-otto-due alla porta diciassette. Non ho sentito suonare l’allarme… — Nella sua voce si sente una vibrazione di collera.

Adesso l’uomo si volge a guardarla e sembra rilassarsi. — Quest’uomo è con lei?

— Sì. C’è qualche problema?

— No, signora… lui sembrava solo un po’ strano. Credo che questo… — alza il cartoncino che ha ancora in mano — spieghi tutto. Ma se è con lei…

— Io non sono la sua guardiana — dice Marjory con lo stesso tono che ha usato quando ha definito Don "una viperetta". — Lou è mio amico.

L’uomo alza le sopracciglia e fa una smorfia; poi mi restituisce il cartoncino e si volta. Io mi allontano con Marjory, che cammina con un passo un po’ troppo veloce. Non diciamo nulla finché non arriviamo al salone d’aspetto per le porte da quindici a trenta.

Dalle grandi finestre si vede la pista che scintilla di luci: luci verdi e rosse sulle punte delle ali degli aeroplani, file di luci quadrate e più opache lungo i loro fianchi, a indicare dove sono i finestrini, fari dei piccoli veicoli che tirano i carrelli dei bagagli. Luci ferme e luci ammiccanti.

— Adesso puoi parlare? — chiede Marjory mentre io guardo le luci.

— Sì. — Posso sentire il suo calore… lei mi è molto vicina. Socchiudo gli occhi un momento. — Vedi, talvolta rimango confuso. — Indico un aereo che si sta dirigendo verso una porta. — È quello il nostro?

— Credo di sì. — Fa un passo di lato e adesso mi sta davanti. — Stai bene?

— Sì. Sai… certe volte mi succede così. — Mi imbarazza il fatto che mi sia accaduto stasera, la prima volta che sono solo con Marjory. Ricordo quando mi succedeva al liceo, le volte che volevo parlare con qualche ragazza che non voleva parlarmi. Adesso anche Marjory se ne andrà? Potrei prendere un taxi per tornare da Tom e Lucia, ma non ho molto denaro con me.

— Sono contenta che tu stia bene — dice lei, e poi la porta si apre e la gente comincia a uscire dall’aeroplano. Lei cerca con gli occhi Karen e io guardo lei. Eccola: Karen è una donna piuttosto anziana, dai capelli grigi. Presto siamo di nuovo fuori e in macchina, diretti a casa di Karen. Io siedo zitto sul sedile posteriore e ascolto Marjory che parla con l’amica: le loro voci fluiscono e mormorano come acqua sulle rocce. Non posso seguire ciò che dicono, parlano troppo in fretta per me e poi non conosco le persone e i luoghi di cui parlano. Ma sono felice lo stesso, perché posso guardare Marjory senza bisogno di dover parlare.

Quando torniamo alla casa di Tom e Lucia, dov’è la mia macchina, Don se n’è andato e gli ultimi schermidori si stanno congedando. Io ricordo che non ho riposto le mie armi e la maschera ed esco in cortile per prenderle, ma Tom mi dice che sono state già rimesse al loro posto. Non sapeva precisamente quando io e Marjory saremmo tornati e non voleva lasciare la mia roba fuori al buio.

Saluto Tom, Lucia e Marjory e mi dirigo verso casa.

3

Il mio schermo sta lampeggiando quando arrivo a casa. È il codice di Lars: vuole che esamini la mia e-mail. È tardi e non vorrei rischiare di non svegliarmi in orario e non arrivare in tempo al lavoro domani mattina. Lars però sa che il mercoledì io vado a lezione di scherma e di solito non mi chiama mai. Deve trattarsi di qualcosa d’importante.

Accendo e trovo il suo messaggio. Mi ha inviato un articolo ritagliato da un giornale: parla di una ricerca sulla reversione dei sintomi di tipo autistico nei primati adulti. Lo leggo in fretta, col cuore che mi batte furiosamente. Oggi è diventata comune la reversione dell’autismo genetico nel neonato o di una lesione cerebrale che abbia dato luogo a sindromi di tipo autistico nei bambini piccoli; però mi avevano detto che per me era troppo tardi. Se l’articolo dice la verità, invece, non è troppo tardi. Proprio alla fine l’autore dell’articolo istituisce questa connessione, stabilendo l’ipotesi che la ricerca si potrebbe applicare agli esseri umani e suggerendo ulteriori indagini.

Mentre leggo, altre icone si accendono sullo schermo: il logo della società autistica locale, quello di Cameron e quello di Dale. Allora anche loro hanno saputo questa notizia. Per il momento li ignoro e continuo a leggere. Anche se qui si parla di cervelli come il mio, questo non è il mio campo e non riesco a capire come si pensa che funzioni il trattamento. Gli autori continuano a riferirsi ad altri articoli dove i procedimenti vengono spiegati più diffusamente. Ma quegli articoli non sono accessibili: non a me e non stanotte. Io non so cosa sia "il metodo di Ho e Delgracia". Non so neppure il significato di molti vocaboli, e il mio dizionario non li riporta.

Quando guardo l’orologio, è passata mezzanotte. Devo andare a letto, devo dormire. Spengo lo schermo, carico la sveglia; nella mia mente i fotoni corrono dietro al buio ma non lo raggiungono mai.

Al campus il giorno dopo siamo tutti riuniti dell’atrio, senza guardarci in viso. Tutti sanno.

— Credo sia un’impostura — dice Linda. — Non è possibile che funzioni.

— Ma se funzionasse… — suggerisce Cameron — se funzionasse, potremmo essere normali.

— Io non voglio essere normale — si oppone Linda. — Io sono così, e sono felice. — Ma non ha un’aria felice: ha un’aria cupa e decisa.

— Anch’io — dice Dale. — Anche se funziona per le scimmie, cosa significa? Le scimmie non sono persone, sono più primitive di noi. Le scimmie non parlano. — La sua palpebra vibra più del solito.

— Noi già comunichiamo meglio delle scimmie — dice Linda.

— A me però piacerebbe non dover farmi vedere da un psichiatra ogni quadrimestre — dice Cameron.

Penso alla dottoressa Fornum: sarei tanto più felice se non dovessi andare da lei. E lei, sarebbe felice di non dovermi vedere?

— Lou, e tu che ne dici? — chiede Linda. — Tu già vivi in parte nel loro mondo.

Ma tutti noi lo facciamo, noi che abbiamo un lavoro e conduciamo una vita indipendente. Linda però non ama far nulla con gente che non sia autistica, e già prima ha detto che secondo lei io non dovrei farmela col gruppo di schermidori di Tom e Lucia o con la gente della mia Chiesa. Se sapesse quali sono i miei sentimenti verso Marjory, probabilmente direbbe cose cattive.

— Io me la cavo abbastanza bene. Non capisco perché dovrei cambiare. — Sento che la mia voce è più dura del solito, e vorrei che questo non mi accadesse quando sono turbato. Non sono in collera e non mi va di avere la voce di uno in collera.

— Vedi? — dice Linda rivolta a Cameron, che distoglie lo sguardo.

— Devo lavorare — dico, e vado nel mio ufficio dove accendo il ventilatore e guardo le lucine colorate girare e ammiccare. Vorrei rimbalzare un po’, ma non voglio essere in palestra nel caso arrivasse il signor Crenshaw. Mi sento il petto oppresso e non riesco a interessarmi al problema al quale sto lavorando.

Mi chiedo come sarebbe essere normale. Allorché uscii dalla scuola mi costrinsi a non pensarci più; adesso, quando mi ritorna in mente, mi affretto a scacciare l’idea. Ora però… cosa significherebbe non doversi preoccupare che la gente pensi che sono matto quando balbetto o quando non posso rispondere e devo scrivere sul mio taccuino? Cosa significherebbe non dover portare sempre in tasca quel mio cartoncino? Essere in grado di vedere e sentire tutto? Sapere cosa pensa la gente solo interpretando la sua espressione?

L’insieme di simboli su cui sto lavorando di colpo mi appare del tutto privo di significato.

È questo forse? È per questo che le persone normali non fanno il mio tipo di lavoro? Dovrei scegliere tra questo lavoro che so fare tanto bene o essere normale? Mi guardo intorno, e le girandole e le spirali di colpo mi annoiano. Non fanno che girare su se stesse: sempre lo stesso schema ripetuto all’infinito. Spengo il ventilatore. Se è questo essere normali, non mi piace.

Ecco che i simboli riacquistano vita, significato e io mi tuffo nel lavoro.

Quando torno a emergere è passata l’ora del pranzo. Ho mal di testa per essere rimasto fermo troppo a lungo e per non aver mangiato. E non ho neppure fame, ma so che devo mangiare. Vado nel cucinino annesso alla nostra ala e prendo la mia scatola di plastica dal frigorifero: contiene carne affumicata e frutta.

Mangio una mela e qualche chicco d’uva, mordicchio la carne. Il mio stomaco non reagisce bene. Mi piacerebbe andare in palestra, ma ci trovo Linda e Chuy e torno indietro.

Il pomeriggio pare trascinarsi all’infinito. Esco in stretto orario e mi dirigo verso la mia macchina. Nella mia mente c’è una musica tutta sbagliata, acuta e stridente. Vedo uscire anche gli altri, e tutti mostrano segni di tensione. Nessuno parla. Entro in macchina e parto.

È difficile guidare bene col caldo che fa e con la musica sbagliata nella mente. La luce rimbalza dal parabrezza, dalle guarnizioni di metallo, dai parafanghi: ci sono troppi bagliori lampeggianti. Quando arrivo a casa la testa mi fa più male che mai e tremo dal nervosismo. In camera da letto chiudo la porta e le finestre e tolgo i cuscini dal letto. Poi mi corico, mi ammucchio sopra i cuscini e spengo la luce.

Anche questa è una cosa che non ho mai detto alla dottoressa Fornum: lei scriverebbe chissà quante annotazioni sul fatto, io lo so. Rimango sdraiato nel buio, la pressione leggera e soffice pian piano calma la mia tensione e la musica sbagliata che ho nella testa si acquieta. Mi sembra di galleggiare in un silenzio morbido e buio…

Alla fine sono pronto ad avere di nuovo pensieri e sentimenti. Sono triste; e non ho il diritto di esserlo. Mi ripeto tutto ciò che mi direbbe la dottoressa Fornum. Sono in buona salute, ho un lavoro che mi frutta una buona paga, ho un posto dove vivere, abiti e cibo. Ho un raro permesso per possedere un’automobile privata, così che non sono obbligato a viaggiare con qualcun altro o a prendere i mezzi pubblici affollati e rumorosi. Sono fortunato.

Eppure continuo a essere triste. Mi sforzo come posso, ma non è mai abbastanza. Porto gli stessi vestiti degli altri, dico le stesse cose nelle stesse occasioni: buon giorno, ciao, come stai, sto bene, buona notte, per favore, grazie, prego. Rispetto il codice della strada, obbedisco alle regole. Nel mio appartamento ci sono mobili comuni, e la mia musica non tanto comune la suono piano o uso gli auricolari. Ma non è abbastanza. Per quanto mi sforzi, la gente normale continua a volere che cambi, che diventi come loro.

Credevo di essere al sicuro vivendo da solo, vivendo come tutti gli altri. E invece non lo sono.

Sotto i cuscini sto ricominciando a tremare. Vedo di nuovo le etichette che mi porto addosso, le etichette che hanno affollato la mia cartella da quando ero bambino: diagnosi primaria, autismo; deficienze nell’integrazione sensoriale; deficienze nei processi auditivi; deficienze nei processi visivi; mancanza di sensibilità tattile.

Uno del nostro gruppo una volta disse che tutti i bambini nascono autistici, e noi ridemmo nervosamente. Non si poteva negarlo, ma era pericoloso dirlo.

Un bambino neurologicamente normale impiega anni per imparare a integrare l’insieme degli stimoli forniti dai sensi in un concetto coerente del mondo. Io affrontai quel compito esattamente come ogni altro bambino, solo che a me ci volle molto di più… e posso ammettere che l’organizzazione dei dati sensoriali per me non è un processo normale nemmeno oggi. Dapprima venni colpito da un autentico bombardamento di stimoli sensoriali scatenati e promiscui, quindi mi proteggevo da un sovraccarico di sensazioni mediante il sonno e la disattenzione.

Leggendo i testi voi potreste pensare che solo i bambini handicappati neurologicamente si comportano così, invece tutti i bambini gestiscono la loro esposizione agli stimoli chiudendo gli occhi, distogliendo lo sguardo o semplicemente addormentandosi quando il mondo comincia a sopraffarli. Col tempo imparano a organizzare un blocco di dati e poi un altro, imparano che certi schemi di eccitazione retinica segnalano determinati eventi nel mondo visibile, che certi schemi di eccitazione auditiva segnalano una voce umana… e poi quali cose dice questa voce.

Per me, per un individuo autistico, questo processo impiega un tempo assai maggiore. I miei genitori me lo spiegarono quando fui cresciuto abbastanza da capire: per qualche ragione i miei nervi infantili avevano bisogno che uno stimolo persistesse molto a lungo prima che io potessi interpretarlo. Sia io che loro fummo abbastanza fortunati per il fatto che erano state elaborate tecniche adatte a procurare ai miei neuroni segnali della durata adatta. Invece di essere biasimato per la mia "mancanza di attenzione" (questo era l’atteggiamento più comune), mi vennero forniti stimoli che ero "capace" d’interpretare.

Ricordo il tempo (prima che fossi sottoposto al programma d’insegnamento primario di apprendimento del linguaggio con l’assistenza del computer) in cui i suoni che uscivano dalla bocca della gente per me erano confusi e incomprensibili come e più del muggito di una mucca. Potevo distinguere pochissime consonanti, perché non duravano abbastanza a lungo. La terapia mi fu di aiuto: il computer allungava i suoni finché fossi in grado di udirli, e pian piano il mio cervello imparò a captare anche segnali più brevi. Non tutti, però. Anche oggi, se una persona parla molto velocemente, io non riesco a capirla per quanto mi concentri.

Prima era molto peggio. Prima della terapia assistita dal computer, i bambini come me potevano non imparare alcun linguaggio. Verso la metà del Ventesimo secolo, i terapisti pensavano che l’autismo fosse una malattia mentale, come la schizofrenia. Mia madre aveva letto un testo scritto da una donna alla quale avevano detto che era stata lei a rendere malato di mente il figlio. L’idea che gli autistici possano diventare malati di mente, comunque, è persistita quasi fino ai tempi nostri. Ecco perché devo farmi visitare periodicamente dalla dottoressa Fornum: perché lei si assicuri che non sto sviluppando qualche malattia mentale.

Mi chiedo se il signor Crenshaw pensi che sono pazzo. Sarà per questo che la sua faccia diventa lucida quando parla con me? Ha paura? Non credo che il signor Aldrin abbia paura di me… di nessuno di noi. Ci parla come se fossimo persone normali. Invece il signor Crenshaw mi tratta come se fossi un animale ostinato che lui deve ammaestrare. Spesso io ho paura, ma adesso, dopo questo periodo di riposo sotto i cuscini, mi pare di non averla più.

Quel che vorrei davvero è andar fuori a guardare le stelle. I miei genitori mi portavano a fare il campeggio nel Sudovest; ricordo quando stavo sdraiato all’aperto e guardavo tutte quelle belle configurazioni che continuavano, una dopo l’altra, all’infinito. Quanto vorrei vedere ancora le stelle. Mi facevano sentire calmo quando ero bambino, mi mostravano un universo ordinato, in cui io potevo essere una piccolissima parte di un immenso disegno. Quando i miei genitori mi spiegavano a quale grande distanza la luce aveva viaggiato per raggiungere i miei occhi (migliaia, milioni di anni) mi sentivo consolato, anche se non posso dire perché.

Da qui non posso vedere le stelle. I fanali nel parcheggio accanto al nostro palazzo sono lampade al sodio che emettono una luce giallastra e fanno sembrare torbida l’aria, così che le stelle non possono apparire attraverso il nero opaco del cielo. Solo la Luna e poche stelle molto luminose vi si mostrano.

Talvolta solevo andare in campagna e trovare un posto da dove si potevano vedere le stelle; ma non è facile. Se parcheggio in una strada secondaria e spengo i fari dell’automobile, qualcuno potrebbe venirmi a sbattere contro perché non mi vede. Ho provato a parcheggiare a lato della strada o in qualche sentiero in disuso che porta a un casale disabitato, ma qualcuno che abita nelle vicinanze può vedermi e chiamare la polizia. E allora la polizia può arrivare e chiedermi perché sto lì fermo a notte alta. Non capiscono il mio desiderio di vedere le stelle: dicono che è una scusa. Così non faccio più nulla del genere: cerco invece di risparmiare abbastanza denaro da poter andare in vacanza in qualche posto dove ci sono ancora le stelle.

È strana la faccenda della polizia. Alcuni di noi hanno con essa più fastidi degli altri. Jorge, che è cresciuto a San Antonio, mi dice che se non sei ricco, sano e bianco la polizia crede che tu sia un criminale. Lui è stato fermato molte volte mentre cresceva: non ha imparato a parlare fino ai dodici anni, e anche allora non parlava molto bene. Così i poliziotti pensavano che fosse ubriaco o avesse preso qualche droga.

A me questo non è mai successo, però certe volte mi hanno fermato senza ragione, come ha fatto l’altro giorno la guardia all’aeroporto. Io mi spavento molto quando qualcuno mi parla duramente, e spesso non riesco a rispondere, Quando mi chiedono se ho un documento d’identità, so che dovrei dire: — Ce l’ho in tasca. — Ma se cercassi di tirar fuori il portafogli, i poliziotti potrebbero spaventarsi a loro volta e uccidermi. La signorina Sevier al liceo ci disse che la polizia pensa che noi portiamo coltelli o pistole in tasca e che a volte hanno ucciso gente che cercava di mostrare i documenti.

Un poliziotto che venne a parlare con la nostra classe al liceo diceva che la polizia era lì per aiutarci, e che solo le persone che avevano fatto qualcosa di male dovevano aver paura di loro. Jean Brouchard disse allora quello che io stavo pensando, che era difficile non aver paura di persone che ti urlavano contro e ti minacciavano; che anche se non avevi fatto nulla di male, vedere un omone che ti agitava una pistola davanti poteva spaventare chiunque. Il poliziotto diventò rosso in faccia e disse che quell’atteggiamento non era corretto. Non lo era nemmeno il suo, ma io questo non lo dissi.

Però il poliziotto che abita nel mio condominio è sempre stato gentile con me. Si chiama Daniel Bryce, ma mi ha detto di chiamarlo Danny. Mi saluta ogni volta che mi vede, e io gli rispondo. Una volta mi ha fatto i complimenti per come tengo pulita la mia macchina. Non l’ho mai sentito urlare contro nessuno. Non so cosa pensa di me, tranne il fatto che gli piace la pulizia della mia auto. Non so se sa che sono autistico. Perciò cerco di non aver paura di lui, perché non ho mai fatto niente di male; però nonostante tutto un poco di paura ce l’ho.

Ho cercato di guardare qualche film poliziesco alla TV, ma mi sono spaventato ancor peggio. I poliziotti sembrano sempre stanchi e arrabbiati, e pare che ciò sia normale e giusto. Io non devo mai comportarmi impulsivamente nemmeno quando sono in collera, ma loro possono. E questo non è giusto. Non c’è simmetria.

Però non voglio nemmeno essere ingiusto verso Danny Bryce. Quando lui mi sorride, anch’io sorrido. Quando mi saluta gli rendo il saluto. Cerco di far finta che la pistola che porta sia un giocattolo, così da non aver troppa paura quando mi è vicino e da non cominciare a sudare. Lui potrebbe allora pensare che io abbia fatto qualcosa di male.

Sotto le coperte e i cuscini adesso sono proprio sudato, anche se sono calmo; così mi alzo, riaggiusto il letto e faccio una doccia. È tardi, sono le nove passate quando esco dal bagno e mi rivesto. Ho fame. Metto l’acqua a bollire e faccio cuocere un po’ di tagliatelle.

Il telefono squilla e io sobbalzo. Il telefono mi sorprende sempre, e io sobbalzo sempre quando sono sorpreso.

È il signor Aldrin. Mi si stringe la gola. Per un bel po’ non riesco a parlare, ma lui non insiste, aspetta. Lui capisce.

Io invece non capisco. Lui fa parte dell’ambiente d’ufficio, prima non mi ha mai chiamato a casa. Mi sento in trappola. Lui è il mio principale. Mi può dire cosa devo fare, ma solo sul lavoro. Mi sembra sbagliato sentire la sua voce a casa, al telefono.

— Io… io non mi aspettavo una sua chiamata — dico.

— Lo so — risponde. — Ti ho chiamato a casa perché ti volevo parlare fuori dell’ufficio.

Mi si serra lo stomaco. — Per quale ragione? — chiedo.

— Lou, devi sapere una cosa prima che il signor Crenshaw ti chiami. Esiste un trattamento sperimentale che può cancellare l’autismo negli adulti.

— Lo so — dico. — Ne ho sentito parlare, lo hanno provato con le scimmie.

— Sì, ma quell’articolo di giornale è vecchio di più di un anno; ci sono stati… dei progressi. La nostra compagnia ha acquistato il programma di ricerca. Crenshaw vuole che tutti voi proviate il nuovo trattamento. Io non sono d’accordo con lui: penso sia troppo prematuro e credo sia sbagliato chiedervelo. O almeno bisognerebbe lasciarvi la scelta. Lui però è il mio superiore e non posso impedirgli di parlarvi.

Se non può impedirglielo, a che scopo mi chiama? Questa è una di quelle manovre alle quali si dedicano le persone normali quando vogliono fare appello alla tua simpatia mentre fanno qualcosa di male, ma solo perché non riescono a evitarlo?

— Io voglio aiutarvi — dice il signor Aldrin. Ricordo i miei genitori dire che voler fare qualcosa non era lo stesso che farla. Perché lui non dice semplicemente: "Vi aiuterò"?

— Credo che voi abbiate bisogno di un avvocato, qualcuno che vi aiuti a negoziare con Crenshaw — continua. — Qualcuno più in gamba di me. Potrei trovarne uno per voi.

Penso che lui non voglia essere il nostro avvocato; credo abbia paura che Crenshaw lo licenzi. Ed è giusto, perché Crenshaw può licenziare chiunque di noi. Combatto con la mia lingua ostinata per spiccicare le parole. — Non dovrei… non vorrei… credo… credo che dovremmo trovare noi la persona adatta.

— Davvero? — domanda, e sento il dubbio nella sua voce.

— Posso chiedere al Centro — dico.

— Forse sarebbe meglio — annuisce. Segue una lunga pausa. Poi riprende, a voce più alta: — Lou, se dovessi avere delle difficoltà a trovare la persona giusta… se vuoi il mio aiuto, fammelo sapere. Io voglio il tuo bene, lo sai.

No che non lo so. So che lui è stato sempre gentile e paziente con noi, ma non so se davvero voglia il nostro bene. Come farebbe a sapere in cosa consiste? Gli farebbe piacere se sposassi Marjory? Cosa sa di tutti noi fuori dell’ambiente di lavoro?

— Grazie — dico, una risposta sicura e convenzionale adatta a tutte le occasioni. La dottoressa Fornum sarebbe fiera di me.

— Allora va bene — dice lui. Anche queste sono parole convenzionali, che non significano nulla. — Chiamami se hai bisogno di qualcosa. Aspetta, ti do il mio numero… — Enuncia alcune cifre che il mio telefono registra, ma che tanto io terrei ugualmente a memoria; per me i numeri sono facili. — Arrivederci, Lou — conclude. — Cerca di non preoccuparti.

Cercare è un conto, farlo è un altro. Appendo il ricevitore e torno alle mie tagliatelle che ormai sono scotte. Ma non me ne importa, non mi dispiacciono: sono più tenere.

Penso al signor Crenshaw che vorrebbe imporci il trattamento. Non credo che sia autorizzato a farlo: ci sono leggi che riguardano noi e la ricerca medica. Non so esattamente in che cosa consistano, ma non credo che possano permettergli di farlo. Il signor Aldrin dovrebbe saperne più di noi su questo punto: lui è un manager. Eppure sembra convinto che Crenshaw sia in grado di fare ciò che desidera o che intenda tentare di farlo.

Mi è difficile prendere sonno.

Venerdì mattina Cameron mi dice che il signor Aldrin ha chiamato anche lui. Ha chiamato tutti. Il signor Crenshaw invece non ha ancora detto niente a nessuno di noi. Io ho una strana sensazione nello stomaco, come di nausea. È un sollievo sedermi davanti al computer e dedicarmi al lavoro.

Per tutto il giorno non succede nulla, e il mio lavoro procede bene. Dopo il pranzo, Cameron mi dice che la locale società per l’autismo ha stabilito una riunione al Centro per parlare del programma di ricerca. Lui ci va, e pensa che dovremmo andarci tutti. Per questo sabato io non avevo fatto progetti, tranne la pulizia della macchina; e comunque vado al Centro quasi tutti i sabati mattina.

La mattina dopo quindi mi reco al Centro a piedi. È una passeggiata lunga, ma non fa molto caldo e camminare mi fa bene.

Al Centro trovo non solo i miei compagni di lavoro ma anche molti di noi che vivono in diversi punti della città. Parecchi di loro si fanno vedere raramente. Io ho notato che i più anziani di noi, quelli più handicappati, vengono più spesso degli altri; i giovani, che sono come Joe Lee, non vengono quasi mai.

Il Centro tuttavia non è soltanto per gli autistici: vediamo molta gente con altri tipi di handicap, specialmente durante i fine settimana. Io non so quali siano precisamente i loro handicap. Non mi piace pensare a tutte le cose che possono guastarsi nel meccanismo degli esseri umani.

Alcuni hanno un atteggiamento amichevole e parlano con noi. Oggi Emmy mi viene subito incontro. È più piccola di statura di me, ha capelli neri e lisci e occhiali dalle lenti spesse. Non so perché non si sia mai fatta operare agli occhi e chiederglielo non è educato. Emmy sembra sempre in collera. Le sue sopracciglia sono perpetuamente aggrottate, ai lati delle labbra ha piccoli noduli di muscoli rigidi e piega gli angoli della bocca sempre all’ingiù. — Tu hai una ragazza — mi dice.

— No — rispondo.

— Sì. Me l’ha detto Linda. Lei non è una di noi.

— No — ripeto io. Marjory non è la mia ragazza (non ancora) e non voglio parlare di lei con Emmy. Linda non avrebbe dovuto dire nulla a Emmy, e certo non avrebbe dovuto parlarle di questo. Io non ho mai detto a Linda che Marjory era la mia ragazza, perché non è vero.

— Dove vai a giocare con le spade c’è una ragazza… — insiste Emmy.

— Non è una ragazza — la correggo. — È una donna e non è la mia ragazza. — Non ancora, penso. Sento un gran caldo alla nuca pensando a Marjory e all’espressione del suo viso la settimana scorsa.

— Linda dice che lo è. Ma lei è una spia, Lou.

— Cosa vuoi dire? Perché "spia"?

— Lei lavora all’università. Dove fanno quelle ricerche, sai. — Mi lancia un’occhiataccia, come se fossi io a fare quelle ricerche. Si tratta di ricerche sugli handicap fisici e mentali; ma i ricercatori, come dicevano sempre i miei genitori, si preoccupano più di pubblicare rapporti per ottenere sovvenzioni che di curarsi degli handicappati. La nostra società comunque esige che i ricercatori dicano chi sono e a che scopo s’incontrano con noi, e non permette che siano presenti alle nostre riunioni.

Anche Emmy lavora all’università come custode; forse per questo sa che Marjory lavora lì.

— Tanta gente lavora all’università — dico. — E non tutti sono impegnati in quelle ricerche.

— Lei è una spia, Lou — ripete Emmy. — S’interessa solo alla tua diagnosi, non alla tua persona.

Mi sento un gran vuoto dentro: sono sicuro che Marjory non è una ricercatrice, ma la mia certezza non è assoluta.

— Per lei tu sei un anormale — insiste Emmy. — Un soggetto. — Sulla sua bocca "soggetto" suona osceno, ammesso che io capisca il significato di "osceno". Penso al nuovo trattamento: quelli che lo subiranno prima ne saranno i soggetti, proprio come le scimmie sulle quali è stato tentato da principio.

— Questo non è vero — dico. Ma posso sentire il sudore sprizzarmi dalle ascelle e dal collo, e provo il lieve tremito di quando mi sento minacciato. — E comunque, lei non è la mia ragazza.

— Sono contenta che tu non sia stupido del tutto — dice Emmy.

Vado alla riunione perché se la evitassi Emmy parlerebbe con gli altri di Marjory e di me. È difficile ascoltare il conferenziere che parla del protocollo della ricerca e delle sue implicazioni. Non riesco a fare attenzione a quanto dice. Non stavo pensando a Marjory quando Emmy mi ha abbordato, ma adesso non posso smettere di pensare a lei.

Marjory ha simpatia per me. Ne sono certo. E sono certo che le piaccio per me stesso, il Lou che si esercita alla scherma con il gruppo, il Lou che ha invitato ad andare con lei all’aeroporto mercoledì scorso. Lucia ha detto che piacevo a Marjory e Lucia non mente.

Ma ci sono diversi modi di farsi piacere qualcuno o qualcosa. A me per esempio piace il prosciutto come cibo; ma non mi curo di quel che pensa il prosciutto quando lo mangio. E se io piacessi a Marjory come dice Emmy… come una cosa, come un soggetto, come l’equivalente di un boccone di prosciutto? Se le piacessi più di altri soggetti di ricerca perché sono calmo e di buon carattere?

Non mi sento affatto calmo e di buon carattere. Vorrei picchiare qualcuno.

Il consulente che parla non dice nulla più di quello che abbiamo già letto nell’articolo. Non può spiegare il metodo, non sa a chi bisognerebbe rivolgersi per avere ulteriori schiarimenti. Non sa nemmeno che la compagnia per la quale lavoro ha acquistato il protocollo di ricerca. Forse non lo sa. Io non dico niente.

Dopo la riunione gli altri desiderano restare e parlare del nuovo procedimento, ma io me ne vado in fretta. Voglio andare a casa e pensare a Marjory senza Emmy attorno. Non voglio pensare a Marjory come ricercatrice. Voglio pensare a lei seduta accanto a me nell’automobile, al suo profumo, ai riflessi di luce nei suoi capelli e anche a come tira di scherma.

È più facile pensare a Marjory mentre faccio pulizia alla mia automobile. Tolgo il coprisedile di pelle di pecora e lo scuoto bene; lo stendo sul cofano e spolvero i sedili con una spazzola, poi passo l’aspirapolvere sul pavimento. Il rumore dell’apparecchio mi disturba, ma così si fa più presto e non respiro tanta polvere. Pulisco il parabrezza dall’interno, facendo attenzione agli angoli, poi i finestrini e gli specchietti. I negozi vendono prodotti speciali per pulire le macchine, ma il loro odore mi dà la nausea, perciò adopero solo uno straccio e acqua.

Rimetto il coprisedile a posto e lo assicuro bene. Adesso la mia automobile è tutta pulita, pronta per la domenica mattina. Per andare in chiesa prendo l’autobus, ma mi rallegra pensare alla mia macchina pulita e in abito da festa per la domenica.

Faccio la doccia in fretta, poi vado a letto e penso a Marjory. Nei miei pensieri lei si muove ininterrottamente eppure sta sempre immobile. Le espressioni sul suo viso permangono abbastanza a lungo perché io possa interpretarle. Quando mi addormento, lei mi sorride.

4

Dalla strada Tom guardava Marjory Shaw e Don Poiteau attraversare il cortile. Lucia pensava che Marjory si stesse affezionando a Lou Arrendale, e invece eccola lì insieme a Don. Va bene che Don le aveva tolto di mano lo zaino, ma… se lui non le piaceva, perché non se l’era ripreso?

Sospirò, facendosi scorrere una mano tra i capelli piuttosto radi. Lui adorava la scherma, gli piaceva avere allievi, ma il peso dei continui intrighi del gruppo, i suoi complicati intrecci di simpatie e antipatie, lo stancavano sempre più man mano che avanzava negli anni. Avrebbe voluto che la casa sua e di Lucia fosse un posto in cui i giovani potessero raggiungere il loro pieno potenziale fisico e morale, ma certe volte gli pareva di avere intorno una masnada di eterni adolescenti. Presto o tardi tutti ricorrevano a lui con i loro lamenti, i loro rancori, le loro sensibilità offese.

Oppure andavano da Lucia: per lo più le donne. Le sedevano accanto fingendo d’interessarsi ai suoi ricami o alle sue fotografie, e sfogavano le loro pene. Lui e Lucia passavano ore a discutere quello che andava succedendo, quale appoggio dare a chi ne aveva bisogno, come porgere aiuto senza assumersi responsabilità troppo gravose.

Mentre Don e Marjory si avvicinavano, Tom notò che lei era irritata. Don, al solito, non se ne accorgeva: parlava in fretta agitando avanti e indietro lo zaino della ragazza nel suo entusiasmo per quanto le andava dicendo. Quei due erano un perfetto esempio di ciò che accadeva continuamente, pensò Tom. Prima di sera, era certo che avrebbe saputo da Marjory cos’aveva fatto Don per mandarla in collera, e da Don avrebbe sentito che Marjory non aveva per lui un briciolo di comprensione.

— Lui deve tenere per forza le sue cose sempre esattamente allo stesso posto — stava dicendo Don.

— Perché è ordinato — rispose Marjory. Il tono duro della sua voce faceva capire che era molto irritata. — Non ti piace l’ordine?

— Non mi piace l’ossessione — disse Don. — Tu, mia cara, sei versatile: parcheggi sia da una parte che dall’altra della strada e porti abiti diversi. Lou porta gli stessi vestiti una settimana via l’altra… puliti, certo, ma insomma… e quanto alla fissazione su dove riporre le sue cose…

— Tu le hai messe al posto sbagliato e Tom te le ha fatte togliere, non è vero? — chiese la ragazza.

— Già, perché se no Lou ci sarebbe rimasto male — disse Don in tono imbronciato. — Non è giusto…

Tom vedeva benissimo che Marjory avrebbe voluto sgridare Don. Anche lui. Ma sgridare Don non serviva mai a niente. Per otto anni Don aveva avuto una brava e buona ragazza che aveva cercato di instillargli un po’ di giudizio, però alla fine aveva dovuto rassegnarsi.

— Anche a me piace che l’ambiente sia in ordine — intervenne Tom cercando di parlare con calma. — È tutto molto più semplice quando ognuno sa dove trovare le sue cose. E poi, lasciare la propria attrezzatura un po’ qua e un po’ là può essere ossessionante quanto volerla sempre allo stesso posto.

— Su, su, Tom: essere smemorati è esattamente l’opposto di essere ossessionati. - Non sembrava nemmeno irritato, solo divertito, come se Tom fosse stato un ragazzino ignorante. Tom si chiese se Don si comportasse così anche sul posto di lavoro. Se lo faceva, si spiegava perché cambiasse impiego tanto di frequente.

— Non biasimare Lou per le mie regole — disse. Don fece spallucce ed entrò in casa per prendere il suo equipaggiamento.

Pochi minuti di pace… Tom sedette accanto a Lucia che aveva cominciato gli stiramenti. Marjory si mise dall’altra parte di Lucia e si piegò in avanti, cercando di toccarsi le ginocchia con la fronte.

— Lou dovrebbe venire stasera — disse Lucia dando un’occhiata in tralice a Marjory.

— Mi chiedevo se non lo abbia disturbato chiedendogli di venire con me all’aeroporto — osservò la ragazza.

— Oh, non credo — la rassicurò Lucia. — Direi anzi che era molto contento. È successo qualcosa?

— No. Abbiamo incontrato la mia amica e io poi ho riaccompagnato qui Lou, nient’altro. Don ha detto qualcosa sulla sua attrezzatura…

— Oh, Tom gli aveva fatto riporre un mucchio di cose, e Don si stava preparando a buttare tutto sulle rastrelliere come capitava. Tom gliele ha fatte disporre in ordine. Don lo ha visto fare tante volte che ormai dovrebbe farlo a occhi chiusi, ma… è inutile, non vuole imparare. Adesso che non sta più con Helen, sta ritornando il ragazzotto confusionario che era anni fa. Quanto vorrei che si decidesse a crescere.

Tom ascoltava senza metter bocca. Finì gli esercizi e si alzò proprio mentre Lou arrivava svoltando l’angolo di casa.

Tom guardava Lou che stava eseguendo gli stiramenti: metodico come sempre, preciso. Alcuni potevano giudicare Lou monotono, Tom invece lo trovava estremamente interessante. Trent’anni prima, non avrebbe mai potuto condurre una vita normale: cinquant’anni prima avrebbe passato la vita in un’istituzione. Ma i miglioramenti nell’intervento precoce, nei metodi d’insegnamento e nelle tecniche specifiche di apprendimento guidato gli avevano conferito l’abilità di trovare un buon lavoro, di condurre una vita indipendente e di inserirsi nel mondo normale quasi alla pari.

Era un miracolo di adattamento, e secondo Tom anche un poco triste. Persone più giovani di Lou, nate con lo stesso handicap neurologico, potevano venir curate perfettamente con la terapia genetica nei primi anni di vita. Non dovevano affrontare le faticose terapie che Lou aveva padroneggiato con tanta pena e fatica.

E adesso lui era lì e si esercitava alla scherma. Tom ricordò per quanto tempo era sembrato che la scherma di Lou potesse essere soltanto una parodia della scherma autentica. A ogni stadio di sviluppo lui aveva dovuto affrontare gli stessi inizi lenti ed estenuanti e i progressi altrettanto lenti e ancora più estenuanti… nei passaggi dal fioretto alla spada, dalla spada allo stocco, dall’arma singola alle combinazioni di fioretto e daga, spada e daga, stocco e daga e così via.

Si era impadronito di ciascuna tecnica per puro sforzo, non per talento innato. Eppure, ora che aveva acquisito le capacità fisiche, le attitudini mentali che costavano anni di esercizio agli altri schermidori sembravano diventargli familiari in pochi mesi.

Tom intercettò lo sguardo di Lou e gli fece cenno di avvicinarsi. — Ricorda quel che ti ho detto: da ora in poi dovrai esercitarti solo con i migliori.

— Certo — assentì Lou, ed eseguì il saluto. Lui e Tom si girarono intorno. Tom cambiava direzione, parava, sfalsava, inquartava e fingeva di abbassare la guardia, ma Lou non perdeva una battuta. C’era uno schema nei suoi movimenti, oltre alla risposta a quelli di Tom? Tom non avrebbe saputo dirlo. Ma sempre più spesso vedeva che Lou era vicino a penetrare la sua guardia… e ciò significava, pensò Tom, che lui stesso stava seguendo uno schema e che Lou lo aveva identificato.

— Analisi degli schemi — disse a voce alta, proprio nel momento in cui la lama di Lou eludeva la sua e lo toccava al petto. — Avrei dovuto capirlo!

— Mi dispiace — si scusò Lou. Lo diceva quasi sempre, e assumeva un’aria imbarazzata.

— No, mi hai toccato legittimamente — disse Tom. — Stavo cercando di capire cosa stavi facendo, invece di concentrarmi sull’incontro. Tu stai usando l’analisi degli schemi, vero?

— Sì — disse Lou. La sua voce esprimeva una certa sorpresa, e Tom si chiese se non stesse pensando: "Perché, non è questo che fanno tutti?".

— Io non sono in grado di farlo in tempo reale — spiegò Tom. — A meno che qualcuno usi uno schema proprio elementare.

— Quello che faccio non è giusto, allora? — chiese Lou.

— È giustissimo, se sei capace di farlo — rispose Tom. — Inoltre è la caratteristica del bravo schermidore… o anche del bravo giocatore di scacchi. Tu giochi a scacchi?

— No.

— Be’… allora vediamo se riesco a mantenere la mia attenzione fissa sull’incontro e prendermi la rivincita. — I due ricominciarono, ma Tom trovò difficile concentrarsi. A un certo punto gli parve di trovare una falla nella guardia di Lou e attaccò, ma solo per sentire sul suo petto il colpo di un altro tocco.

— Diamine, Lou, se continui a fare così, dovrò promuoverti ai tornei — disse, scherzando solo a metà. Lou s’irrigidì. — L’idea non ti garba?

— Io… io non credo che dovrei tirar di scherma in un torneo — rispose Lou.

— Dipende solo da te. — Tom eseguì di nuovo il saluto e si chiese perché Lou si era espresso in quel modo. Non aver voglia di entrare nelle competizioni era un conto, pensare che non avrebbe dovuto farlo era un altro. Se Lou fosse stato normale, avrebbe potuto partecipare ai tornei già da tre anni. Tom cercò di pensare solo all’incontro e di rendere i suoi attacchi più casuali.

Infine però gli mancò il fiato e dovette fermarsi, ansimando. — Ho bisogno di un intervallo, Lou. Vieni qui e rivediamo… — Lou lo seguì e sedette sul muretto che bordava il cortile mentre Tom prendeva una delle sedie. Osservò che Lou era sudato, ma non aveva affatto il respiro affannoso.

Tom infine si ferma, ansimando, e si dichiara troppo stanco per continuare. Mi conduce in disparte mentre altri due salgono sulla pedana. Il suo respiro è molto affannoso, tanto che lo costringe a spaziare le parole, così lo capisco meglio. Sono contento che lui mi creda tanto bravo.

— Ma guarda… tu non hai ancora il fiatone. Va’ a fare un altro incontro, così io mi riposo un poco e poi potremo parlare.

Guardo Marjory che siede accanto a Lucia; avevo visto che lei mi osservava mentre mi battevo con Tom. Adesso lei ha abbassato gli occhi e ha la faccia rosea. Mi si serra lo stomaco, ma mi alzo e mi avvicino a lei.

— Ciao, Marjory — dico.

Lei alza gli occhi e mi offre un sorriso radioso. — Ciao, Lou — risponde. — Come ti va, stasera?

— Bene — dico. — Vorresti… vuoi fare un incontro con me?

— Ma certo. — Si china a raccogliere la maschera e se la infila. Anch’io rimetto la mia e adesso posso guardarla senza esser visto; il mio cuore riprende a battere normalmente.

Cominciamo con una ricapitolazione di sequenze dal manuale di scherma di Saviolo: passo passo, avanti e indietro, ci giriamo intorno e ci esploriamo. L’incontro è insieme rituale e conversazione. Io compenso le sue stoccate con le mie parate e le sue parate con le mie stoccate. I movimenti di Marjory sono più morbidi e meno scattanti di quelli di Tom. Giro, passo, domanda, risposta, il nostro è un dialogo in acciaio al ritmo di una musica che mi risuona nella mente.

La tocco quando lei fa una mossa che non mi aspetto. Non volevo colpirla. — Mi dispiace — dico. La mia musica esita e tace. Faccio un passo indietro.

—  No… era un buon colpo — dice lei. — Non avrei dovuto abbassare la guardia…

— Ti ho fatto male?

— No… continuiamo.

Vedo lampeggiare i suoi denti dietro la maschera: un sorriso. Saluto e lei risponde; riprendiamo la danza. Cerco di muovermi con cautela e attraverso il tocco delle lame sento che lei è più ferma, più concentrata… si muove più in fretta. Io mantengo lo stesso ritmo; lei mi tocca sulla spalla. Dopo di ciò cerco di seguire il suo tempo, in modo che l’incontro duri il più a lungo possibile.

Anche troppo presto però sento che il suo respiro si fa più pesante. Marjory è pronta a smettere e a riposare. Ci ringraziamo a vicenda e ci stringiamo la mano. Mi sento felice.

— È stato bello — dice lei. — Però io dovrei smetterla di cercare scuse per non esercitarmi. Se non avessi trascurato tanto i miei pesi non mi farebbe così male il braccio.

— Io mi esercito ai pesi tre volte alla settimana — dico.

— Lo dovrei fare anch’io — dice lei. — E avevo l’abitudine di farlo, ma adesso ho un nuovo impegno che mi sta divorando tutto il tempo.

Probabilmente è la ricerca di cui parlava Emmy.

— Davvero? Che impegno? — domando, e rimango quasi senza respiro in attesa della risposta.

— Sai, il mio campo sono i sistemi di segnalazione neuromuscolari — dice Marjory. — Stiamo lavorando su possibili terapie per alcune malattie genetiche neuromuscolari che si sono rivelate non suscettibili alle terapie genetiche.

Io annuisco: — Come la distrofia muscolare? — chiedo.

— Sì, quella è una — dice Marjory. — È da lì, anzi, che è nato il mio interesse per la scherma.

— Come mai?

— Anni fa stavo andando a una riunione interdipartimentale e passai per un cortile dove Tom stava dando una dimostrazione di scherma. Vedi, fino allora io avevo pensato alle funzioni muscolari da un punto di vista medico, non dal punto di vista di chi esercita i muscoli… Così rimasi lì a guardare gli schermidori e a pensare alla biochimica delle cellule muscolari, quando Tom all’improvviso mi chiese se mi sarebbe piaciuto provare. Credo avesse interpretato la mia aria assorta per interesse alla scherma, mentre invece io stavo osservando la muscolatura delle gambe.

— Pensavo che tu avessi cominciato all’università — dico.

— Ero all’università, infatti. Ero una studentessa allora.

— Oh… e ti sei sempre interessata ai muscoli?

— In un certo senso, sì. Adesso però la ricerca si sta orientando sempre più verso il campo neuromuscolare… o piuttosto ci si stanno orientando i nostri datori di lavoro. Sai, non sono io a dirigere le ricerche. — Mi guarda negli occhi a lungo; io devo distogliere i miei perché non riesco a sostenere le mie sensazioni. — Spero che non ti sia dispiaciuto accompagnarmi all’aeroporto, Lou. Mi sentivo più al sicuro in tua compagnia.

Mi sento arrossire. — Io non… non mi sono sentito… — M’interrompo e inghiotto. — Sono stato contento di venire con te — dico, riprendendo il controllo della mia voce.

— Ne sono stata contenta anch’io — dice Marjory.

Non dice altro. Sediamo vicini, e vorrei tanto rimanere così tutta la notte, se fosse possibile. Mi guardo intorno. Max, Tom e Susan si stanno battendo due contro uno. Don si è seduto su una sedia dall’altra parte del cortile: mi sta fissando, ma distoglie gli occhi quando lo guardo.

Tom salutò con la mano Max, Susan e Marjory che se ne stavano andando insieme. Quando si voltò, Lou era ancora lì.

— C’è una ricerca — disse. — Una ricerca nuova. Forse un trattamento.

Tom percepì più l’imbarazzo e la tensione nella voce di Lou che il significato delle sue parole. Lou aveva paura: usava quel tono solo quando era inquieto.

— È ancora allo stadio sperimentale o è arrivata a quello operativo?

— È sperimentale… ma loro, all’ufficio, vogliono… il mio capo ha detto… vogliono che io mi ci sottoponga.

— A un trattamento sperimentale? Strano. Di solito non sono disponibili ai privati.

— È… vedi… è qualcosa che è stata sviluppata al centro di Cambridge — spiegò Lou, e la sua voce era ancora più meccanica e incolore. — Adesso è di loro proprietà. Il mio capo dice che il suo capo vuole che tutti noi la proviamo. Lui non è d’accordo, ma non riesce a cambiare la situazione.

Tom provò un forte desiderio di prendere a pugni qualcuno. Lou era spaventato: qualcuno stava facendo il prepotente con lui. E Tom era suo amico: ciò gli conferiva una certa responsabilità nella faccenda.

— Sai come funziona il trattamento? — chiese.

— Ancora no. — Lou scosse la testa. — Ne ho avuto notizia per posta elettronica la settimana scorsa. Alla società per l’autismo hanno tenuto una riunione, ma nemmeno loro ne sanno molto… Il signor Aldrin… il mio supervisore… dice che può essere applicata e il signor Crenshaw… il suo capo… vuole che noi la proviamo.

— Non possono costringervi a sottoporvi a cure sperimentali, Lou: è contro la legge.

— Ma loro potrebbero licenziarmi…

— Stanno minacciando di farlo se non collaborate? Non è permesso! — Credeva davvero che non fosse permesso? All’università non lo era, ma il settore privato era diverso. Però… diverso fino a quel punto? — Lou, tu hai bisogno di un avvocato — disse.

— No… sì… non lo so. Sono preoccupato. Il signor Aldrin ha detto che dovevamo cercare aiuto… forse un avvocato…

— E ha ragione. — Tom pensò se dare a Lou qualcosa d’altro a cui pensare lo avrebbe aiutato o no. — Senti, poco fa ti ho parlato di tornei…

— Oh, non sono abbastanza bravo — disse subito Lou.

— E invece lo sei. E io stavo pensando che forse affrontare un torneo potrebbe aiutarti con quest’altro problema… — Tom cercò di mettere ordine nei suoi pensieri e di spiegare chiaramente perché pensava che quella fosse una buona idea. — Se alla fine sarai costretto a fare causa ai tuoi datori di lavoro, sarà un poco come un incontro di scherma. La fiducia in te stesso che puoi ricavare dalla scherma ti aiuterebbe anche in altri generi d’incontri.

— Quando c’è un torneo?

— Il prossimo torneo locale si svolgerà tra un paio di settimane — disse Tom. — Un sabato. Tu potresti venire con noi: io e Lucia ti accompagneremmo per farti coraggio e assicurarci che incontri persone come si deve.

— Perché, ci sono anche persone poco perbene?

— Certo. Ci sono persone poco perbene dappertutto, e alcune di loro riescono a intrufolarsi anche nel campo della scherma. La maggior parte degli schermidori, però, sono gente simpatica. E tu potresti divertirti. — Non doveva insistere troppo, anche se si sentiva sempre più sicuro che Lou dovesse entrare più a fondo nel mondo normale… ammesso che si potessero chiamare normali dei gruppi impegnati in rievocazioni storiche. Be’, nella loro vita quotidiana erano normali, solo che si divertivano a indossare costumi di fantasia e a far finta di uccidersi l’un l’altro con armi bianche.

— Io non ho un costume — disse Lou, abbassando lo sguardo sulla sua vecchia giacca di pelle con le maniche tagliate.

— Oh, ti troveremo qualcosa — lo rassicurò Tom. A Lou probabilmente sarebbe andato bene qualcuno dei suoi costumi. Ne aveva tanti. — Ci penserà Lucia.

— Non sono sicuro — disse Lou.

— Be’, la settimana prossima mi farai sapere se vuoi provare. Se no, ci saranno altri tornei in seguito.

— Ci penserò — decise Lou.

— Bene. E a proposito dell’altro problema… Sarebbe bene che cercassi informazioni su quali sono i tuoi diritti secondo la legge con un poco di anticipo — disse Tom. — Io di questo non ne so molto. So che le leggi sono cambiate diverse volte, ma nulla nel mio lavoro ha a che fare con soggetti umani, perciò non conosco la situazione legale odierna. A te serve un esperto.

— Temo che costerebbe molto — disse Lou.

— Forse — assentì Tom. — Anche questa è una cosa che è bene sapere. Certamente il Centro potrà fornirti questa informazione.

— Grazie — disse Lou.

Tom lo guardò andar via, calmo, controllato: a volte faceva un po’ paura pur nella sua innocuità. La sola idea che qualcuno potesse fare esperimenti su Lou gli dava la nausea. Lou era Lou, ed era a posto così com’era.

In casa Tom trovò Don sdraiato sul pavimento sotto il ventilatore da soffitto. Come al solito stava arringando Lucia che ricamava e aveva sul viso una chiara espressione di insofferenza. Don vide Tom e si volse a lui.

— Così davvero credi che Lou sia pronto per una competizione, eh?

Tom annuì. — Ci hai sentiti? Sì, lo credo. È migliorato moltissimo. Si batte con i migliori di noi e si mostra all’altezza.

— Ma la tensione potrebbe essere eccessiva per uno come lui — disse Don.

— Uno come lui… cioè autistico?

— Già. Loro non sopportano la folla, il chiasso e cose del genere, no? Lou è un bravo ragazzo, ma io penso che non dovresti spingerlo a battersi in pubblico. Non ce la farà.

Tom inghiottì la prima risposta che gli venne alle labbra e chiese invece: — Ricordi il tuo primo torneo, Don?

— Be’, sì… Ero troppo giovane… Fu un disastro.

— Infatti. Rammenti cosa mi dicesti dopo il primo incontro?

— No… non proprio. So che andò male… Mi persi d’animo.

— Mi dicesti che non eri riuscito a concentrarti per via della gente che ti si muoveva intorno.

— Sì, be’, ma sarebbe peggio per una persona come Lou.

— Don… come potrebbe Lou perdere in modo più disastroso di te?

Don diventò scarlatto. — Be’, io… lui… sarebbe peggio per lui. Perdere, intendo. Per me…

— Andasti in un cantuccio, bevesti sei birre e vomitasti dietro un albero — gli ricordò Tom. — Poi ti mettesti a piangere e dicesti che era il giorno più brutto della tua vita.

— Ero giovane — ripeté Don. — E in quel modo mi sfogai, e dopo non ci pensai più… Lou invece ci rimuginerebbe sopra.

— Mi fa piacere vedere che ti preoccupi per lui — commentò Lucia, e Tom ebbe un brivido sentendo la pesantezza del sarcasmo che vibrava nella sua voce.

Don fece spallucce. — Certo che mi preoccupo — disse. — Lui non è come noi…

— Giusto — approvò Lucia. — È uno schermidore più bravo di molti di noi e un uomo migliore di qualcun altro.

— Diamine, Lucia, sei proprio di cattivo umore — disse Don, in quel tono scherzoso che adottava quando non stava affatto scherzando.

— E tu non me lo rendi migliore — tagliò corto lei ripiegando il ricamo. Si alzò e scomparve prima che Tom potesse dire qualcosa. Naturalmente Don lanciò a Tom uno sguardo complice, invitandolo a condividere con lui un’opinione sulle donne che Tom era ben lontano dall’avere.

— Lucia è per caso in menopausa? — chiese Don.

— No — rispose Tom. — Stava solo esprimendo le sue opinioni. — Erano anche le sue, ma come poteva dirlo? Perché Don non si decideva a crescere e a piantarla di creare problemi? — Senti… sono stanco e domani ho lezione presto.

— Certo, certo, capisco che tu voglia riposare.

Non lo capiva affatto, invece, perché rimase a parlare per un altro quarto d’ora. Tom chiuse la porta e spense la luce prima che Don potesse pensare a qualche altra cosa da dire e tornasse indietro, come faceva spesso. Tom aveva in bocca un sapore amaro. Don era stato un ragazzo simpatico ed entusiasta, anni prima, e lui certo avrebbe dovuto essere in grado di aiutarlo a svilupparsi in una persona migliore e più matura di quello che era diventato. A cosa servivano, se no, gli amici più anziani?

— Non è colpa tua — disse Lucia dall’atrio. — Lui sarebbe peggiore di com’è, se tu non avessi avuto qualche influenza su di lui.

— Ti sembra? — disse Tom. — Io credo invece…

— Sei un insegnante nato, Tom, ma non devi continuare a credere che sia tuo dovere salvare tutti i tuoi allievi da se stessi. Il male che si fanno con le loro mani non è colpa tua.

— Questa sera accetto tutto quello che dici — mormorò Tom. Lucia, illuminata di spalle dalla luce della camera da letto, era circondata da un alone quasi magico.

— Solo quello che dico? — lo provocò lei, e si aprì la vestaglia.

Non mi sembra coerente da parte di Tom chiedermi di nuovo di partecipare a un torneo quando io sto parlando di un trattamento sperimentale per l’autismo. Ci rifletto mentre torno a casa. È chiaro che sto migliorando nella scherma e che sono in grado di affrontare con successo i migliori schermidori del gruppo… ma cosa c’entra questo col trattamento o con i miei diritti legali?

Quelli che si battono nelle competizioni le prendono sul serio. Desiderano vincere. Io non sono sicuro di voler vincere, benché mi piaccia comprendere i loro schemi di combattimento e trovare i punti in cui insinuare un attacco. Forse Tom pensa che dovrei desiderare di vincere? Forse pensa che ho bisogno di voler vincere nella scherma così da desiderare di vincere anche in tribunale?

Ma le due cose non sono connesse. Uno può desiderare di vincere in un gioco o desiderare di vincere una causa senza volere tutt’e due le cose.

In che cosa si somigliano? Ambedue sono competizioni: qualcuno vince e qualcuno perde. Per me tirare di scherma è più divertente quando gli avversari collaborano, cercando di divertirsi insieme. Mettere un colpo a segno per me non significa vincere ma solo condurre il gioco nel modo migliore.

Però io vorrei far piacere a Tom. Quando l’ho aiutato a preparare la pedana per gli incontri e le rastrelliere per l’equipaggiamento, lui è stato contento. Per me è stato come riavere accanto mio padre nei suoi momenti migliori. Vorrei far contento Tom di nuovo, ma non so se partecipare a un torneo avrà questo risultato. E se mi battessi male e perdessi? Lui non resterebbe deluso?

Potrebbe essere divertente battermi con gente mai conosciuta prima, gente di cui non conosco gli schemi. Gente normale che non saprà che io non sono normale. O forse Tom glielo dirà? No, non credo.

Sabato prossimo andrò al planetario con Eric e Linda. Il sabato seguente è il terzo del mese, e io impiego sempre il terzo sabato del mese per una pulizia a fondo del mio appartamento. Il torneo ci sarà il sabato dopo, e per quel giorno non ho fatto alcun progetto.

Tornato a casa, scrivo "Torneo di scherma" sul calendario al quarto sabato del mese. Penso se sia il caso di telefonare a Tom, ma è tardi e poi lui mi ha detto di fargli sapere qualcosa la settimana prossima. Così appiccico al calendario il promemoria: "Dire di sì a Tom".

5

Siamo a venerdì pomeriggio, ma il signor Crenshaw ancora non ha detto nulla circa il trattamento sperimentale. Forse il signor Aldrin si è sbagliato, o forse è riuscito a persuadere il suo capo a lasciarci in pace. Su Internet si vanno svolgendo un sacco di discussioni, per lo più nelle nostre chat-line, ma nessuno sembra sapere se e quando si sia deciso di passare a esperimenti sugli esseri umani.

Io non ho detto nulla di ciò che ci ha comunicato il signor Aldrin. Lui non si è raccomandato di non parlarne, ma a me sembra giusto così. Se il signor Crenshaw ha cambiato idea, lui certo andrà in collera. Già sembra in collera anche adesso, comunque, ogni volta che viene a controllare il nostro lavoro.

Al planetario proiettano il documentario Esplorazione dei pianeti esterni e dei loro satelliti. È già qualche giorno che lo danno, e ciò significa che non ci sarà molta folla, anche se oggi è sabato. Io vado presto, alla prima proiezione che è sempre quella meno affollata, anche nei giorni di pienone. Infatti solo un terzo dei posti è occupato, così io, Eric e Linda possiamo avere un’intera fila tutta per noi.

La parte più noiosa dello spettacolo è la lunga introduzione, dove si parla di quanto sapevamo cent’anni fa, cinquant’anni fa eccetera. A me interessa sapere ciò che sappiamo oggi, non ciò che è stato detto ai miei genitori quando andavano a scuola. Che differenza fa se in passato si credeva che ci fossero canali su Marte?

Finalmente il programma abbandona la storia e viene al presente. Le ultime foto dei pianeti esterni trasmesse dalle sonde spaziali sono spettacolari; le riprese in alta quota mi danno l’impressione di stare per cadere dal mio sedile nel pozzo gravitazionale di un pianeta dopo l’altro. Oh, quanto vorrei essere lì. Da piccolo, quando vidi per la prima volta documentali di gente nello spazio, desiderai essere un astronauta; ma so che è impossibile. Anche se mi sottoponessi al nuovo trattamento chiamato "Lungavita" e potessi vivere abbastanza a lungo, rimarrei sempre autistico. Mia madre diceva sempre: "Non piangere sulle cose che non puoi cambiare".

Il documentario non mi dice nulla che non sapessi già, però mi piace lo stesso. Dopo lo spettacolo sento fame: è già passata la mia solita ora di pranzo.

— Potremmo mangiare qualcosa — dice Eric.

— Io vado a casa — rispondo. — Ho della buona carne a casa, e mele che non si manterranno fresche ancora a lungo.

Eric annuisce e se ne va.

La domenica vado in chiesa. L’organista suona Mozart prima che cominci il servizio, e la musica s’intona perfettamente al cerimoniale del rito. Il coro canta una gradevole antifona di Rutter. Rutter non mi piace quanto Mozart, però almeno non mi fa dolere la testa.

Lunedì fa più fresco: tira una brezzolina fredda di nordest. La temperatura non è abbastanza bassa da dover mettere un maglione o una giacca, ma si capisce ormai che il peggio dell’estate è passato.

Martedì fa di nuovo caldo. Tutti i martedì io vado a fare la spesa. I supermercati sono meno affollati il martedì, anche se esso coincide con il primo del mese.

Quando ero bambino, ci dicevano che presto i supermercati sarebbero spariti, che tutti avrebbero ordinato la spesa su Internet e l’avrebbero ricevuta a domicilio; ma non è andata così. Ci sono ancora posti che ricevono le ordinazioni e fanno le consegne in questo modo, ma dalle nostre parti i negozi adibiti alla spesa in rete sono scomparsi uno dopo l’altro. Mia madre comunque diceva che per me era importante l’esperienza di andare a far compere.

Quando le persone nei supermercati fanno la spesa da sole, spesso hanno un’aria preoccupata e concentrata, e ignorano chi sta loro intorno. La mamma mi ha insegnato l’etichetta sociale del mercato, e adesso la padroneggio con sufficiente disinvoltura nonostante il rumore e la confusione. Siccome nessuno si sogna di fermarsi a chiacchierare con estranei, tutti evitano il contatto visivo e quindi è facile guardarli di sottecchi senza che loro se ne offendano. Però è cortesia guardare per un momento negli occhi la persona che prende il tuo denaro o la carta di credito. È educato inoltre fare qualche commento sul tempo, anche se la persona che si ha accanto nella fila ha detto quasi la stessa cosa, ma tanto nessuno ci fa caso.

Certe volte io mi chiedo quanto sono normali le persone normali, e ciò mi capita più spesso del solito nei supermercati. Quando ci tenevano lezioni di pratica della vita quotidiana, c’insegnavano a fare una lista e a passare direttamente da una corsia all’altra acquistando uno dopo l’altro tutti gli articoli di cui avevamo preso nota. Il nostro insegnante ci consigliava di controllare prima i prezzi sui giornali, piuttosto che paragonare i costi dei vari articoli tirandoli fuori dagli scaffali direttamente nel supermercato. Lui ci diceva, e io lo credevo, che ci stava insegnando il modo in cui la gente normale fa la spesa.

Ma all’uomo che blocca la corsia di fronte a me non è stata fatta questa lezione. Sembra una persona normale, eppure sta tirando fuori uno per uno i vasetti di varie marche di sughi per pasta, confrontando i prezzi e leggendo le etichette. Dietro di lui una donnetta dai capelli grigi e con gli occhiali sta cercando di esaminare lo stesso scaffale sbirciando di lato. Credo che lei voglia uno dei vasetti che stanno dalla mia parte, ma l’uomo si è messo di mezzo e la donna non vuole disturbarlo. Io nemmeno. Ha la faccia imbronciata, è accigliato e quasi torvo. Probabilmente è irritato. Io e la donna dai capelli grigi sappiamo che una persona che ha quell’aspetto potrebbe fare una scenata se disturbata.

Di colpo l’uomo alza gli occhi e coglie il mio sguardo. Arrossisce e sembra ancor più irritato. — Lei avrebbe potuto dire qualcosa! — sbotta tirando da parte il suo carrello e bloccando ancor di più la donna dai capelli grigi. Io le sorrido e mi sposto; lei gli gira intorno col carrello e finalmente posso passare.

— Ma è idiota — sento l’uomo brontolare. — Perché non li fanno tutti dello stesso formato?

Mi astengo dal rispondergli, benché ne senta la tentazione. Se la gente parla, si aspetta che qualcuno ascolti. A me hanno insegnato a far attenzione e ad ascoltare quando mi parlano, e mi sono addestrato a farlo quasi sempre. Ma in un supermercato spesso la gente non si aspetta una risposta e magari si arrabbia se uno risponde. Quell’uomo è già abbastanza in collera. Mi sento battere il cuore.

Adesso davanti a me ci sono due bambini che ridacchiano e tirano fuori dallo scaffale pacchetti di condimenti. Una giovane donna in jeans si volta da poco più in là e strilla: — Jackson! Misty! Smettetela! — Io sobbalzo. Lo so che lei non sta parlando con me, ma il suo tono di voce basta a farmi rabbrividire. Uno dei bambini, proprio accanto a me, si mette a strepitare e l’altro dice: — No! — La donna, col viso contratto dalla collera, si precipita verso di loro passandomi vicino. Sento uno dei bambini frignare, ma non mi volto. Vorrei dire: — State buoni, state buoni — ma non sono affari miei. Non sta bene dire a estranei di star buoni se non si è un genitore o un insegnante. Adesso sento altre voci, prevalentemente femminili. Qualcuno sgrida la donna con i bambini. Io sgattaiolo in una corsia laterale, col cuore in tumulto.

Arrivo in una corsia dove sono esposte diverse marche di vino e mi rendo conto che ho oltrepassato la corsia che volevo. Guardo con precauzione da tutte le parti prima di tornare indietro.

Io vado sempre nel reparto delle spezie, sia che ne abbia bisogno o no. Quando non c’è gente… e oggi non ce n’è… mi soffermo e mi permetto di assaporare le fragranze. Posso sentire il gradevole miscuglio di profumi delle spezie e delle erbe aromatiche, che coprono perfino gli odori dei detersivi e quello di gomma americana di alcuni bambini non lontani. Canella, cumino, chiodi di garofano, maggiorana, noce moscata… perfino i nomi sono deliziosi. Mia madre in cucina adoperava sia spezie che erbe e mi lasciava odorarle tutte. Alcune in verità non mi piacevano, ma per la maggior parte sapevano di buono. Oggi mi serve il chili, e non ho bisogno di cercarlo: so dove si trova sullo scaffale, una scatoletta bianca e rossa.

Mi sento di colpo madido di sudore: Marjory è proprio davanti a me, ma non mi ha notato perché sta osservando qualcosa con molta attenzione. Ha aperto un contenitore di spezie… quale, mi chiedo, finché una corrente d’aria mi porta l’inconfondibile fragranza dei chiodi di garofano. I miei preferiti. Mi volto in fretta e cerco di concentrarmi sugli scaffali di colori da pasticceria, frutta candita e articoli per la decorazione di torte. Non capisco perché li abbiano messi nella stessa corsia delle spezie, ma stanno lì.

Lei mi vedrà? E se mi vede, mi parlerà? O dovrei essere io a parlarle? Mi sento la lingua gonfia. Qualcuno mi si sta avvicinando. Sarà lei o qualcun altro? Se davvero stessi meditando di far spese non mi volterei. Però non ho nessun bisogno di decorazioni da torte o di ciliegie candite.

— Ciao, Lou — dice la voce di Marjory. — Vuoi fare un dolce?

Mi giro a guardarla. Non l’ho mai vista tranne che in casa di Tom e Lucia o nell’automobile quando siamo andati all’aeroporto. Non l’avevo mai vista prima in questo supermercato. Non è questo lo sfondo che le si addice… o forse lo è, ma io non lo sapevo. — Stavo solo guardando — dico. Mi è difficile parlare. Odio il sudore che ancora mi sprizza dai pori.

— Quella roba ha dei bei colori — dice lei con voce non molto interessata… ma almeno non si è messa a ridere. — Ti piace la torta di frutta candita?

— No — rispondo, inghiottendo il grosso nodo che ho in gola. — Credo… credo che i suoi colori siano più belli del sapore. — Ho usato la parola sbagliata: i sapori non sono belli o brutti… ma ormai è troppo tardi per scegliere un altro termine.

Lei annuisce con espressione seria. — Anch’io la penso così. La prima volta che ho mangiato la torta di frutta candita, quando ero piccola, mi aspettavo che avesse un sapore speciale perché era così bella e variopinta. Invece… non mi piacque.

— Fai… fai spesso la spesa qui? — chiedo.

— Di solito no — risponde Marjory. — Ma sto andando a casa di un’amica che mi ha chiesto di comprare qualcosa per lei. — Mi guarda, e di nuovo mi rendo conto di quanto sia difficile parlare. È difficile perfino respirare, e mi sento tutto appiccicoso per il sudore che mi gocciola giù per la schiena. — Tu invece vieni qui regolarmente?

— Sì — dico.

— Allora forse mi sai dire dove posso trovare il riso e la carta di alluminio — chiede lei.

Per un momento la mia mente si svuota, poi ricordo. — Il riso è a metà della corsia tre. E la carta di alluminio è nella diciotto…

— Oh, per favore — dice lei sorridendo — fammeli vedere. Ho l’impressione di essere andata in giro qui intorno per almeno un’ora.

— Farteli vedere? Ah… accompagnarti. — Per un istante mi sono sentito sbalestrato: ma naturalmente è questo che lei voleva dire. — Vieni — la invito, girando il mio carrello e prendendomi un’occhiataccia da parte di una donna con un carrello straripante di roba. — Scusi — le dico, ma lei mi sorpassa senza rispondere.

— Ti vengo dietro, così non daremo fastidio a nessuno — propone Marjory.

Io annuisco e mi dirigo prima verso il riso che è più vicino, visto che siamo nella corsia sette. Marjory mi segue e sapere questo mi dà un senso di calore alla schiena, come se la illuminasse un raggio di sole. Sono contento che lei non possa vedere la mia faccia: sento un gran calore anche lì.

Mentre Marjory passa in rassegna le confezioni di riso… riso in sacchetti, in scatole, a grani lunghi e corti, integrale e in combinazione con altre cose, e lei non sa con precisione quale tipo di riso le serve… io la guardo. Ha le ciglia molto lunghe e quasi nere. I suoi occhi hanno screziature di diversi colori intorno all’iride, e ciò li rende più interessanti.

La maggior parte degli occhi hanno più di un colore, spesso diverse sfumature di uno stesso colore: gli occhi azzurri possono essere insieme azzurro chiaro e azzurro scuro, o azzurro e grigio, o azzurro e verde, e a volte possono avere perfino qualche screziatura marrone. La maggior parte della gente non ci fa caso. La prima volta che andai a chiedere la mia carta d’identità, il modulo a un certo punto chiedeva di che colore avessi gli occhi. Io cercai di descrivere tutti i colori dei miei occhi, ma lo spazio non era sufficiente. L’impiegato mi disse di scrivere "castani", e io lo feci, ma non è quello l’unico colore dei miei occhi. È solo il colore che la gente vede perché non guarda veramente gli occhi degli altri.

Mi piacciono gli occhi di Marjory perché sono i suoi occhi e perché mi piacciono tutti i colori che hanno. Mi piacciono anche tutti i colori dei suoi capelli. Probabilmente lei scrive "castani" nei moduli che richiedono il colore dei suoi capelli, ma essi hanno tanti colori differenti, più ancora dei suoi occhi. Sotto le luci del supermercato ne hanno meno che alla luce del giorno… per esempio perdono le sfumature color mogano, ma io so che ci sono.

— Ecco qui — dice, scegliendo una scatola di riso a grani lunghi e a cottura rapida. — E adesso cerchiamo l’alluminio! — Sorride.

Le restituisco il sorriso. Le faccio da guida alla corsia diciotto, che verso la metà ospita piatti di plastica, rotoli di pellicola, carta oleata e carta di alluminio.

— Fatto — dice Marjory. Ha fatto più in fretta a scegliere la carta che a scegliere il riso. — Grazie, Lou, sei stato proprio bravo.

Devo indirizzarla alla cassa veloce? Credo di sì, lei ha detto di avere fretta. Gliela indico, e lei annuisce.

— Adesso devo correre, Lou — dice. — Avevo appuntamento con Pam per le sei e un quarto. — Sono le 18.07: se Pam abita lontano, Marjory farà tardi.

— Arrivederci — la saluto, e la guardo mentre si allontana in fretta lungo la corsia, evitando agilmente gli altri compratori.

— Così questa è lei — dice qualcuno dietro di me. Mi volto: è Emmy. Sembra arrabbiata, come al solito. — Non è poi così bella.

— Io credo che sia bella — dico.

— Si capisce — dice Emmy. — Sei arrossito.

Mi sento ardere la faccia. Può darsi che sia arrossito, ma Emmy non doveva dirlo. Non è educato fare commenti in pubblico sull’espressione di qualcuno. Non rispondo.

— Suppongo penserai che lei è innamorata di te — insiste Emmy con voce ostile. Io posso capire che lei pensa sia vero ciò che ha detto e pensa anche che io mi sbagli, cioè che Marjory non sia affatto innamorata di me. Mi dispiace che Emmy pensi questo, ma sono anche contento di aver capito il significato di ciò che lei pensa da quello che ha detto e da come lo ha detto. Anni fa non lo avrei compreso.

— Non saprei — rispondo mantenendo la voce bassa e calma. Poco lontano da noi, una donna si è fermata con una mano su un pacco di piatti di plastica e ci guarda. — Tu non sai quello che penso — dico a Emmy — e non sai nemmeno quello che pensa lei. Stai cercando di leggere nella nostra mente e questo è sbagliato.

— Tu credi di essere tanto furbo solo perché lavori con i computer e la matematica — replica Emmy. — Ma non sai proprio nulla della gente.

So che la donna più in là nella corsia si sta avvicinando e ci ascolta. Mi sento inquieto. Noi non dovremmo parlare così in pubblico, non dovremmo farci notare. Dovremmo confonderci con l’altra gente, sembrare persone normali. Ma se cerco di dire questo a Emmy, lei si arrabbierà ancora di più. Potrebbe perfino alzare la voce. — Devo andare — dico. — Ho fatto tardi.

— Per che cosa, per un appuntamento? — domanda lei. Pronuncia la parola "appuntamento" più forte delle altre e con un’inflessione pesantemente interrogativa: questo significa che vuol essere sarcastica.

— No — dico con voce calma. Se rimango calmo lei forse mi lascerà in pace. — Devo guardare la TV. Guardo sempre la TV il… — Di colpo la mia mente si vuota: non riesco a ricordare in che giorno della settimana ci troviamo. Mi volto, come se avessi finito la frase. Emmy scoppia in una risata aspra, ma non dice altro che io possa sentire. Ritorno in fretta allo scaffale delle spezie e prendo la mia confezione di chili. Vado alle casse e vedo che ci sono file dappertutto.

Nella mia ci sono davanti a me cinque persone, tre donne e due uomini: uno ha capelli chiari e quattro li hanno scuri. Un uomo ha un pullover celeste, quasi dello stesso colore di una scatola che ha nel carrello. Cerco di pensare solo ai colori, ma c’è troppo rumore e le luci del supermercato fanno sembrare i colori diversi da come sono in realtà… cioè, da come sono alla luce del giorno. Anche il supermercato fa parte della realtà. Le cose che non mi piacciono fanno parte della realtà proprio come le cose che mi piacciono.

Però è più facile pensare alle cose che mi piacciono piuttosto che alle altre. Pensare a Marjory e al Te Deum di Haydn mi rende felice; invece se mi permetto di pensare a Emmy, anche per un istante, la musica diventa stridula e sgradevole e io ho voglia di scappare. Fisso la mia mente su Marjory, come fosse una pratica di lavoro, e la musica danza, lieta e spensierata.

— Quella è la sua ragazza?

M’irrigidisco e faccio per voltarmi. È la donna che stava guardando me ed Emmy: si trova dietro di me nella fila. I suoi occhi luccicano sotto il neon del supermercato, il rossetto le si è seccato agli angoli delle labbra in crosticine di un arancione scuro. Mi sorride, ma il suo non è un bel sorriso: è duro e si limita alla bocca. Non dico nulla e lei riprende a parlare.

— Non ho potuto fare a meno di notarvi. La sua amica era talmente irritata. Lei è un po’… diversa, vero? — Mette in mostra un po’ più di denti.

Non so cosa rispondere. Ma dovrei dire qualcosa, altra gente nella fila ci sta guardando.

— Non vorrei essere scortese — insiste la donna, strizzando gli occhi. — Solo che… ho notato il modo in cui lei parlava.

La vita di Emmy è la vita di Emmy. Non è la vita di questa donna. Lei non ha il diritto di sapere cosa c’è in Emmy che non va… ammesso che ci sia qualcosa.

— Dev’essere dura per gente come voi — dice la donna. Volge la testa, fissa le persone della fila che ci stanno guardando e fa un risolino. Non so cosa trovi di buffo in questa situazione. Io non credo ci sia nulla di buffo. — Gestire un rapporto è già difficile per il resto di noi — continua la donna, che adesso non sorride più. Ha invece la stessa espressione della dottoressa Fornum quando mi sta spiegando qualcosa che vuole farmi fare. — Per voi dev’essere peggio.

L’uomo dietro di lei ha in viso una strana espressione, ma non potrei dire se è d’accordo con la donna o no. Vorrei che qualcuno le dicesse di star buona. Se glielo dicessi io, sarebbe scortesia.

— Spero di non averla disturbata — insiste lei a voce più alta, alzando le sopracciglia. Sta aspettando che io le dia la risposta giusta.

Io penso che non ci sia una risposta giusta. — Io non la conosco — dico, mantenendo la mia voce molto bassa e calma. Ciò che voglio dire è: "Io non la conosco e non voglio parlare di Emmy o Marjory o di argomenti personali con qualcuno che non conosco".

La faccia della donna si contrae, e io mi volto in fretta. Dietro di me sento un — Però! — soffocato, e ancora più dietro una voce maschile che mormora: — Le sta bene. — Credo sia l’uomo dietro la donna, ma non voglio volgermi a guardare. Prima di me adesso ci sono solo due persone: io tengo gli occhi fissi in avanti senza vedere nulla in particolare e cerco di sentire di nuovo la musica, ma non ci riesco. Non sento altro che rumori.

Quando esco, il caldo e l’umidità sembrano più opprimenti di quando sono entrato. Sento tanti, troppi odori: delle confezioni di dolcetti buttate via, delle bucce di frutta, dei deodoranti e dei profumi della gente, dell’asfalto rovente, dei tubi di scarico delle macchine. Appoggio i miei sacchetti sul cofano dell’auto mentre apro lo sportello per salire.

— Ehi — dice qualcuno. Sobbalzo e mi volto: è Don. Non mi aspettavo di vederlo qui. Non mi aspettavo di vedere neanche Marjory. Mi chiedo se altri colleghi della scuola di scherma facciano la spesa qui. — Ciao, amico — dice lui. Porta una camicia di maglia a righe e calzoni scuri. Non ho mai visto Don vestito così: quando viene da Tom porta o una T-shirt e i jeans o il costume.

— Ciao, Don — saluto. Non desidero parlare con lui, anche se è un amico. Fa troppo caldo e devo portare la mia spesa a casa e riporla. Prendo il primo sacchetto e lo metto sul sedile posteriore.

— È qui che vieni a far la spesa? — chiede lui. È una domanda sciocca, visti i sacchetti delle cose che ho acquistate. O pensa che le abbia rubate?

— Vengo tutti i martedì — dico.

Assume un’espressione disapprovante. Forse pensa che martedì non sia un giorno adatto per fare la spesa… ma allora lui cosa ci fa qui? — Verrai a esercitarti alla scherma domani? — domanda.

— Sì — dico. Carico l’ultimo sacchetto e chiudo lo sportello posteriore.

— Andrai a quel torneo? — Mi sta guardando in un modo da farmi desiderare di distogliere gli occhi dai suoi.

— Sì — rispondo — ma adesso devo andare a casa. Il latte dovrebbe essere mantenuto a una temperatura di cinque gradi o meno, e qui nel parcheggio ce ne saranno più di trenta. Il mio latte potrebbe rovinarsi.

— Segui un’autentica routine, eh? — dice Don.

Non concepisco cosa potrebbe essere una routine falsa.

— Fai le stesse cose tutti i giorni?

— Non le stesse cose tutti i giorni — spiego — ma piuttosto le stesse cose negli stessi giorni.

— Oh, davvero? Bene, ci vediamo domani, ragazzo metodico — dice, e scoppia a ridere. È una risata strana, come se Don non si stesse divertendo affatto. Io apro lo sportello ed entro in auto; lui non aggiunge altro e non se ne va. Quando accendo il motore si stringe nelle spalle, una contrazione brusca come se qualcosa lo avesse punto.

— Arrivederci — dico io educatamente.

— Già, ciao. — Rimane ritto lì mentre io parto. Nello specchio retrovisore lo vedo rimaner fermo finché non svolto nella strada. Dopo la svolta torno a guardare e vedo che Don non c’è più.

Il mio appartamento è più calmo che fuori, ma non è completamente silenzioso. Sotto di me il poliziotto Danny Bryce ha la TV accesa e sta seguendo un programma di quiz. Al piano di sopra la signora Sanderson sta trascinando sedie nella cucina: lo fa tutte le sere. Sento anche il ticchettio della mia sveglia e il ronzio del computer. Entrano anche rumori da fuori: lo sferragliare di un treno, il rombo attenuato del traffico, voci dal cortile.

Quando sono depresso mi è difficile ignorare i rumori. Se metto la mia musica, essa li coprirà, ma i rumori resteranno sempre lì, come giocattoli spinti sotto un tappeto. Ripongo in frigo le cose deperibili, dopo aver asciugato con cura l’esterno del contenitore del latte; poi metto la mia musica. Molto piano, non devo disturbare i vicini. È Mozart, e di solito non manca di fare il suo effetto. Sento infatti la tensione abbandonarmi pian piano.

Non so perché quella donna mi abbia rivolto la parola: non avrebbe dovuto farlo. Un supermercato è terreno neutrale, non si parla con gli estranei. Io ero al sicuro finché lei non mi ha notato; ma se Emmy non avesse parlato così forte, la donna non avrebbe fatto attenzione a noi. È stata lei a dirlo. Io già non avevo molta simpatia per Emmy, ma adesso mi sento davvero turbato se penso a ciò che lei ha detto e a ciò che ha detto quella donna.

I miei genitori dicevano che non avrei dovuto biasimare la gente quando notava che io ero diverso. Quindi non dovrei biasimare Emmy: dovrei invece osservare me stesso e pensare a quanto è successo.

Ma non desidero farlo. Io non ho fatto nulla di male. Avevo bisogno di fare la spesa, quindi ero al supermercato per il giusto motivo. Mi stavo comportando bene: non parlavo con estranei e non parlavo a voce alta con me stesso. Non prendevo nelle corsie più spazio di quello che mi spettava. Marjory è mia amica, perciò non era sbagliato da parte mia parlare con lei e aiutarla a trovare il riso e la carta di alluminio.

È stata Emmy a sbagliare. Ha parlato a voce troppo alta e per questo si è fatta notare dalla donna. Ma anche così, la donna avrebbe dovuto badare ai fatti suoi. E se Emmy ha parlato a voce troppo alta, non è stata colpa mia.

6

Ho bisogno di sapere se ciò che provo è quello che le persone normali provano quando sono innamorate. Quando andavo a scuola, durante le lezioni di lettere abbiamo letto alcune storie su persone innamorate, ma gli insegnanti dicevano sempre che non erano realistiche. Io non ho mai capito in che senso erano poco realistiche, tuttavia non ho mai chiesto spiegazioni perché la cosa non m’interessava. Secondo me erano sciocchezze. Il signor Nelson, che insegnava igiene, diceva che era tutta una questione di ormoni e che non dovevamo fare stupidaggini. Le sue descrizioni dell’incontro sessuale, poi, mi facevano desiderare di non aver nulla fra le gambe, come i bambolotti. Non riuscivo a immaginare di dover mettere questo in quella. Inoltre i termini usati per indicare gli organi sessuali erano brutti, sia quelli colloquiali sia quelli scientifici. E la descrizione dell’atto somigliava più che altro a qualcosa di penoso. L’idea di quella vicinanza così intima, di dover respirare il fiato di un’altra persona, di sentirsi addosso l’odore del suo corpo… era disgustosa. Le docce in comune erano già abbastanza sgradevoli. Tutto l’argomento mi faceva venir voglia di vomitare.

Allora era repellente. Adesso… il profumo dei capelli di Marjory, quando ci incontriamo, mi fa desiderare di avvicinarmi di più a lei. Anche se lei usa un detersivo profumato per i suoi indumenti, anche se usa un deodorante con un odore di cipria, c’è qualcosa… però l’idea continua a sembrarmi spaventosa. Ho visto fotografie, so com’è fatto un corpo femminile. Quando ero a scuola, i ragazzi si scambiavano piccoli video di donne nude che danzavano e di uomini e donne che facevano sesso. Diventavano tutti rossi e sudati mentre lo facevano, e le loro voci cambiavano, diventavano simili a quelle degli scimpanzè nei documentari sulla natura. In principio volevo vedere quei video, per imparare qualcosa (i miei genitori non avevano niente di simile a casa), ma erano noiosi e tutte le donne avevano un’aria piuttosto incollerita o spaventata. Io pensavo che se si fossero divertiti avrebbero dovuto avere un’espressione felice.

Io non vorrei mai far diventare qualcuno spaventato o incollerito; la paura e la collera sono emozioni molto sgradevoli. Il signor Neilson diceva che era normale avere impulsi sessuali, ma non spiegava cosa fossero, o almeno non in modo che io potessi capire. Il mio corpo si sviluppava come quello degli altri ragazzi; ricordo come rimasi sorpreso quando vidi i primi peli neri crescermi sul basso ventre. Il nostro insegnante ci aveva parlato dello sperma e delle uova e di come le cose crescono dai semi. Quando vidi quei peli, pensai che qualcuno avesse piantato dei semi per farli crescere, ma non capivo come potesse essere accaduto. Mia madre mi spiegò che era la pubertà e mi esortò a non fare sciocchezze.

Non mi è mai stato chiaro di quale genere di sentimenti mi parlavano: sembrava quasi che un corpo potesse essere insieme freddo e caldo o una mente sentirsi felice e triste. Quando vedevo le foto delle ragazze nude, certe volte il mio corpo provava impulsi, ma l’unica sensazione della mia mente era disgusto.

Ho visto Marjory tirare di scherma e so che le piace, ma non sorride sempre. Dicono che un viso sorridente è un viso felice… ma forse non è vero? Forse a lei quello piacerebbe?

Arrivo a casa di Tom e Lucia e lei dalla cucina mi dice di uscire in cortile. Ancora non è arrivato nessuno.

Tom sta rifacendo il filo a una delle sue spade. Io comincio i miei stiramenti. Da quando i miei genitori sono morti, lui e Lucia sono l’unica coppia che conosco che sia stata sposata per tanto tempo, e siccome i miei genitori non ci sono più non posso chiedere a loro cos’è il matrimonio.

— A volte tu e Lucia sembrate arrabbiati l’uno con l’altro — dico, spiando il viso di Tom per capire se questo discorso non gli piace.

— Le persone sposate ogni tanto litigano — dice lui. — Non è facile star vicino a qualcuno per tanti anni.

— Però… — Non so come esprimermi. — Se Lucia è in collera con te… e se tu sei in collera con lei… questo vuol dire che non vi amate più?

Tom sembra esterrefatto, ma poi ride… di un riso un poco nervoso. — No, Lou, ma è difficile da spiegare. Noi ci amiamo, e continuiamo ad amarci anche quando siamo in collera. L’amore è dietro la collera, come un muro dietro una tenda o la terra quando ci passa sopra un temporale. Il temporale si dilegua e la terra è sempre là.

— Ma se c’è un temporale — dico — talvolta la terra s’inonda o una casa viene trascinata via.

— Sì, e talvolta, se l’amore non è abbastanza forte o la rabbia è troppo grande, le persone smettono di amarsi. Ma a me e a Lucia questo non succede.

Mi chiedo come fa a esserne sicuro. Lucia è sembrata in collera molte volte negli ultimi tre mesi. Tom allora come fa a sapere che lei lo ama ancora?

— Le persone a volte passano dei brutti momenti per un po’ di tempo — riprende Tom, come se mi avesse letto nel pensiero. — Ultimamente Lucia ha avuto noie sul lavoro; poi, la notizia che volevano costringerti a sottoporti a un trattamento l’ha irritata ancora di più.

Non avevo mai pensato che le persone normali avessero noie sul lavoro. Che tipo di noie possono avere? Non credo possano essere perseguitate da un signor Crenshaw che voglia far provare loro delle cure che non desiderano fare. E allora?

— È spiacevole quando Lucia è in collera — dico.

Tom esclama: — Lo puoi dire forte! — Io so che questo non significa che io devo urlare ciò che ho detto, però mi pare sempre sciocco usare questi termini invece di dire chiaramente "Hai ragione".

— Ho riflettuto sul torneo — cambio argomento. — E ho deciso…

Marjory esce in cortile. Lei attraversa sempre la casa, benché alcuni di noi usino invece la porticina laterale. Mi chiedo come mi sentirei se Marjory fosse arrabbiata con me. A me fa sempre male quando la gente va in collera con me, anche se si tratta di persone poco simpatiche. Però se Marjory andasse in collera con me mi sentirei ancora più male di quanto mi succedeva coi miei genitori.

— Cos’hai deciso? — chiede Tom. Poi alza gli occhi e vede Marjory. — Ah. Allora?

— Mi piacerebbe provare — dico.

— Oh, — dice Marjory — hai deciso di partecipare al torneo, Lou? Bravo!

— Certo, ma adesso Lou dovrà sentire la mia arringa numero uno — dice Tom. — Va’ a prendere la tua roba, Marjory, non devi distrarlo.

Infatti, ora che Marjory è rientrata in casa, è più facile ascoltare Tom.

— Prima di tutto, da adesso fino alla data del torneo, devi esercitarti più che puoi: ogni giorno, se possibile. Se non puoi venire qui, almeno fai gli stiramenti, la ginnastica e il controllo della punta a casa.

Non credo di poter venire ogni giorno a casa sua. Quando potrei fare il bucato o la spesa o lavare la macchina?

— Esercitati in ogni momento libero, però sta’ attento a non stancarti troppo — dice Tom. — Poi, una settimana prima, controlla tutto il tuo equipaggiamento. So che lo mantieni in buone condizioni, ma è bene controllare sempre. Lo faremo insieme. Hai una seconda spada?

— No… devo ordinarne una?

— Sì, se te la puoi permettere… altrimenti posso prestartene una delle mie.

— Posso ordinarla. — Non rientrava nelle mie previsioni, ma ho abbastanza denaro in questo momento.

— Bene. Il tuo equipaggiamento dev’essere controllato, pulito e pronto da trasportare. Il giorno prima del torneo ti riposerai, perché devi rilassarti. Va’ a passeggio, fa’ quello che ti pare.

— Non potrei rimanere a casa?

— Sì, ma un leggero esercizio ti farebbe meglio. Mangia bene e va’ a letto all’ora solita.

Sarà un po’ complicato seguire il programma esposto da Tom e fare tutte le altre cose che devo fare.

— Senti… qui tu terrai lezione anche altre sere oltre al mercoledì?

— Per gli studenti che intendono partecipare a un torneo, sì — dice Tom. — Vieni ogni giorno tranne il martedì, che è la serata speciale mia e di Lucia.

— Io il martedì faccio la spesa — dico, arrossendo. Mi chiedo cosa si prova ad avere una serata speciale.

Marjory, Lucia e Max arrivano dalla casa. — Basta con i consigli — ci interrompe Lucia. — Finirai col fargli paura. E non dimenticare il modulo d’iscrizione.

— Il modulo d’iscrizione! — esclama Tom dandosi uno schiaffo sulla fronte; lo fa ogni volta che dimentica qualcosa. Si precipita in casa. Dalla porticina laterale entrano Susan, Don e Cindy.

Tom ritorna con un modulo che devo riempire e firmare.

La prima parte è facile: nome, indirizzo, numero di telefono, età, altezza e peso. Non so cosa scrivere nello spazio che porta l’intestazione "personaggio".

— Oh, non te ne preoccupare — dice Tom. — Questo è per quelli che vogliono recitare una parte.

— In una commedia? — domando.

— No. Per un giorno fingono di essere un personaggio inventato da loro, un personaggio storico. Be’, direi più che altro pseudo storico.

Quando parlavo di personaggi inventati ai miei insegnanti loro si turbavano e facevano annotazioni nella mia cartella. Vorrei domandare a Tom se le persone normali fanno spesso di queste cose, ma non vorrei che si offendesse.

Lui continua: — Tu però non hai bisogno di assumere un travestimento, Lou, a meno che per un giorno non desideri essere qualcun altro.

Io non voglio essere qualcun altro. È già abbastanza duro essere Lou.

Salto tutti gli spazi relativi al personaggio che non desidero diventare e alla fine leggo lo Scarico di responsabilità. È un paragrafo che porta questo titolo, ma non so cosa significhi esattamente. Firmandolo dichiaro di rendermi conto che la scherma è uno sport pericoloso e che qualunque lesione io possa soffrire nel corso degli incontri non è colpa degli organizzatori del torneo; quindi essi non incorrono in alcuna responsabilità legale a tale proposito. Dichiaro inoltre di voler rispettare le regole dello sport e di attenermi al giudizio degli arbitri, il quale è inappellabile.

Firmo il modulo e lo consegno a Tom che lo dà a Lucia. Lei sospira e lo fa scivolare nel suo cestino da lavoro.

Il giovedì sera di solito guardo la TV, ma Tom mi ha detto di esercitarmi più che posso in vista del torneo, quindi mi cambio e vado a casa sua e di Lucia. Mi sembra strano percorrere questa strada il giovedì. Osservo il colore del cielo e delle foglie sugli alberi più acutamente di quanto faccia di solito. Tom mi conduce subito in cortile e mi dice di cominciare a fare gioco di gambe e poi esercizi di particolari combinazioni di assalti e parate. Ben presto inizio ad avere il respiro affannoso. — Bene così — dice lui. — Continua. Ti sto facendo fare esercizi che puoi ripetere a casa tua, dal momento che probabilmente non potrai venire qui tutte le sere.

Non viene nessun altro. Dopo mezz’ora Tom mette la maschera e cominciamo a esercitarci in ripetizioni lente e accelerate delle stesse figure, più e più volte. Non era questo che mi aspettavo, però capisco di quale utilità mi saranno questi allenamenti. Me ne vado alle 20.30 e sono troppo stanco per connettermi a Internet quando arrivo a casa. È molto più faticoso esercitarsi in continuazione piuttosto che fare incontri a turno.

Faccio una doccia e mi trovo addosso parecchi lividi nuovi. Sono esausto e irrigidito, ma sono anche contento. Il signor Crenshaw ancora non ha detto nulla di quel nuovo trattamento. Marjory ha detto "Bravo!" quando ha saputo che intendevo partecipare a un torneo. Tom e Lucia non sono arrabbiati l’uno con l’altro, o almeno non abbastanza da smettere di essere sposati.

Il giorno dopo faccio il bucato, ma il sabato dopo le pulizie vado di nuovo da Tom e Lucia per un’altra lezione. La domenica sono molto meno stanco e irrigidito di quanto fossi il venerdì. Lunedì ho un’altra lezione supplementare. Martedì vado a fare la mia spesa come al solito. Mercoledì vado normalmente a lezione. Marjory non c’è; Lucia dice che è andata fuori città e mi dà degli indumenti speciali per il torneo. Tom mi dice di non venire il giovedì perché sono abbastanza allenato.

Venerdì mattina alle 8.53 il signor Crenshaw ci convoca tutti e dice di avere un annuncio da fare. Sento lo stomaco contrarsi.

— Siete tutti molto fortunati — inizia. — Nella difficile congiuntura economica in cui ci troviamo, francamente io sono molto sorpreso che questo sia anche lontanamente possibile, ma in effetti… voi avrete la possibilità di provare una terapia d’avanguardia che non vi costerà nemmeno un centesimo. — Le sue labbra abbozzano un largo e falso sorriso e la sua faccia è lucida per lo sforzo a cui si sta sottoponendo.

Deve pensare che noi siamo davvero stupidi. Lancio un’occhiata a Cameron, poi a Dale, a Chuy, gli unici che posso vedere senza voltare la testa. Anche loro mi guardano.

Cameron dice: — Vuole alludere alla terapia sperimentale elaborata a Cambridge e di cui si parlava in "Nature Neuroscience" una settimana fa?

Crenshaw impallidisce e inghiotte. — Come fate a saperlo?

— Era su Internet — spiega Chuy.

— È… è… — Crenshaw s’interrompe e ci guarda accigliato, ma poi contorce la bocca di nuovo in un sorriso. — Comunque, c’è una nuova terapia che voi avete la possibilità di provare senza nessuna spesa.

— Io non la voglio — dice Linda. — Non ho bisogno di una terapia, sto bene come sto. — Mi volto a guardarla.

Crenshaw si fa rosso. — Voi non state bene — replica a voce più alta e più aspra. — Voi non siete normali. Siete autistici, handicappati, siete stati assunti con condizioni speciali…

Segue una pausa.

— Dovete adattarvi — riprende Crenshaw. — Non potete aspettarvi di godere di privilegi speciali per sempre, non quando esiste una terapia che può farvi diventare normali. La palestra, gli uffici individuali, la musica, e quelle decorazioni assurde… potete diventare normali e allora non ci sarà bisogno di quella roba. È antieconomica. È ridicola. — Si gira come per andarsene, poi torna a voltarsi. — Deve finire! — esclama, poi se ne va.

Ci guardiamo in silenzio e solo dopo qualche minuto Chuy dice: — Bene, ci siamo.

— Io non voglio quella terapia — dice Linda. — Non possono impormela per forza.

— Forse sì — osserva Chuy. — Non lo sappiamo con sicurezza.

Nel pomeriggio ognuno di noi riceve una lettera stampata su carta. La lettera dice che a causa della difficile congiuntura economica e della necessità di diversificarsi e rimanere competitivo, ogni reparto deve ridurre il personale. Gli impiegati che prendono parte attiva in protocolli di ricerca sono esenti da possibile licenziamento. Agli altri saranno offerte ottime buonuscite se si dimetteranno spontaneamente. La lettera non dice chiaro e tondo che dobbiamo accettare il trattamento o perdere il lavoro, ma io penso che il suo significato sia quello.

Il signor Aldrin viene nella nostra sede nel tardo pomeriggio e ci convoca nell’atrio.

— Non sono riuscito a fermarli — dice. — Ci ho provato. — Io ricordo di nuovo il commento di mia madre: "Provare non è fare". Il signor Aldrin sembra depresso. — Mi dispiace davvero — ripete, e se ne va.

— Dovremmo parlarne — dice Cameron. — Qualunque cosa vogliamo, dovremmo parlarne. E parlare anche con qualcun altro: un avvocato, per esempio.

— La lettera dice che non dobbiamo discuterne fuori dell’ufficio — obietta Bailey.

— La lettera è concepita per farci paura — ribatto io.

— Dobbiamo parlarne — ripete Cameron. — Stasera dopo il lavoro.

— Io faccio il bucato il venerdì sera — dico.

— Domani al Centro…

— Dovrò andare fuori, domani — dico. Tutti mi guardano e io distolgo gli occhi. — C’è un torneo di scherma — aggiungo. Resto un po’ sorpreso che nessuno mi domandi chiarimenti.

— Ne parleremo noi e domanderemo al Centro — decide Cameron. — Poi ti riferiremo.

— Io non voglio parlare — dice Linda. — Voglio essere lasciata in pace. — Se ne va. È turbata. Siamo tutti turbati.

Entro nel mio ufficio e guardo lo schermo del computer. È lì che sono racchiusi gli schemi che io devo analizzare o creare, ma oggi l’unico schema che vedo mi si sta chiudendo intorno come una trappola, è un mare di tenebra che si raduna da ogni parte più in fretta di quanto io possa analizzare.

Mi concentro su quanto devo fare oggi e domani. Tom mi ha detto come prepararmi e lo farò.

Tom fermò la macchina nel parcheggio della casa dove abitava Lou. Come aveva previsto, Lou era pronto e lo aspettava fuori, con tutto il suo equipaggiamento, tranne le spade, ordinatamente riposto in uno zaino. Appariva teso, ma riposato: evidentemente aveva seguito i suoi consigli, aveva mangiato e dormito normalmente. Portava il costume che Lucia aveva scelto per lui, e non sembrava trovarcisi molto a suo agio.

— Pronto? — disse Tom.

Lou si guardò intorno e rispose: — Sì, Buongiorno, Tom. Buongiorno, Lucia.

— Buongiorno a te — disse Lucia, e Tom le lanciò una rapida occhiata. Avevano già bisticciato a proposito di Lou: Lucia era pronta a fare a pezzi chiunque gli desse il minimo fastidio, mentre Tom pensava che Lou fosse capace di risolvere i piccoli problemi da solo.

Lou prese posto nel sedile posteriore e durante la strada non disse nulla. Un bel contrasto con i chiacchieroni ai quali lui era abituato, pensò Tom. A un tratto però Lou gli chiese: — Ti sei mai domandato quale sia la velocità del buio?

— Eh? — Tom stava pensando alla sua ultima pubblicazione, che forse aveva bisogno di qualche revisione.

— Vedi, noi abbiamo dei valori per la velocità della luce — spiegò Lou. — Ma la velocità del buio…

— Il buio non ha velocità — disse Lucia. — È solo un’assenza di luce, non esiste di per sé.

— Io credo… io credo che forse esista — azzardò Lou.

Tom guardò Lou nello specchietto retrovisore: sembrava un poco triste. — Hai idea di quanto potrebbe esser veloce? — Lucia gli lanciò un’occhiata: a lei non piaceva che Tom seguisse Lou nei meandri di certi suoi ragionamenti, ma lui non vedeva che male ci fosse.

— Siccome si trova dove la luce non è ancora arrivata, dovrebbe essere più veloce… visto che è sempre già lì quando si fa luce.

— Ma potrebbe anche non muoversi affatto, visto che è già lì — disse Tom.

— Tu credi davvero che il buio sia qualcosa di reale? — domandò Lucia girandosi a metà.

— "Il buio è un fenomeno naturale caratterizzato dall’assenza di luce" — citò Lou. — Lo diceva il mio testo di scienze quando andavo a scuola: ma come definizione in realtà non spiega molto. L’insegnante diceva che il cielo notturno sembra buio tra le stelle, ma che invece c’è luce… le stelle diffondono luce in tutte le direzioni, quindi la luce c’è o noi non potremmo vederle.

— Se per metafora noi assumessimo che la conoscenza è la luce e l’ignoranza è il buio, allora potrebbe sembrare che il buio, cioè l’ignoranza, abbia davvero un’esistenza reale, non sia solo una mancanza di conoscenza. Si potrebbe definirla una specie di volontà d’ignoranza. E questo aiuterebbe a capire certi politici.

— Se ricorriamo alle metafore — disse Lucia — potresti anche dire che una balena simboleggia il deserto o che qualunque cosa ne significa un’altra.

— Non ti senti bene? — chiese Tom.

— Sono irritata, e tu sai perché — rispose lei.

— Chiedo scusa — disse Lou da dietro.

— Perché? — domandò Lucia.

— Non avrei dovuto parlare della velocità del buio. Ti ho fatta irritare.

— Non sei stato tu a irritarmi, ma Tom.

La macchina continuò la sua corsa in un silenzio imbarazzato. Quando raggiunsero il parco dove si doveva tenere il torneo, Tom si affrettò ad accompagnare Lou alla convalida dell’iscrizione e poi al controllo dell’equipaggiamento. Lucia si allontanò per andare a parlare con certi suoi amici, e Tom sperò che le facessero passare il cattivo umore che deprimeva sia lui che Lou.

Dopo mezz’ora, però, Tom si rilassò in quell’atmosfera di cameratismo generale. Conosceva quasi tutti, lì, le conversazioni che si svolgevano intorno a lui vertevano su argomenti familiari. Lou sembrava abbastanza a suo agio e salutava senza imbarazzo le persone alle quali lo presentava. Tom gli fece fare qualche breve esercizio di riscaldamento e quasi subito arrivò il momento di andare alle pedane per il primo incontro.

— Adesso ricorda: il miglior modo di accumulare punti è attaccare subito — ricapitolò Tom. — Il tuo avversario non conosce il tuo stile di combattimento e tu non conosci il suo, ma tu sei rapido. Penetra nella sua guardia e toccalo, o almeno provaci. Come minimo, questo lo scombussolerà…

— Salve, gente — disse la voce di Don alle loro spalle. — Sono appena arrivato… lui non ha combattuto ancora?

Ci mancava solo Don per disturbare la concentrazione di Lou. — No, sta per cominciare adesso. Aspetta un momento e sono da te. — Tom tornò a rivolgersi a Lou. — Andrai benone, Lou. Ricorda anche questo: devi segnare tre punti su cinque, perciò non ti preoccupare se il tuo avversario ti toccherà. Potrai ancora vincere. E ascolta l’ar… — Ma era venuto il momento, e Lou si volse per entrare sulla pedana circondata da una corda. Di colpo Tom si sentì gelare dalla paura. E se aveva spinto Lou in un’impresa superiore alle sue capacità?

Lou appariva goffo come durante le prime lezioni. La sua posa tecnicamente era corretta, ma sembrava rigida e artificiale: non l’atteggiamento disinvolto di chi è pronto a battersi.

— Te lo avevo detto — commentò Don a voce abbastanza bassa. — È troppo difficile per lui… farà…

— Sta’ zitto — ordinò Tom. — Può sentirti.

Sono pronto anche prima che arrivi Tom. Ho indossato il costume che Lucia ha messo insieme per me, ma mi sento strano a portarlo in pubblico: non sembra un vestito normale. Le calze alte e aderenti mi arrivano al ginocchio e le larghe maniche della camicia si gonfiano alla brezza. Anche se i colori sono quieti, marrone, avana e verde scuro, non credo che il signor Aldrin o il signor Crenshaw mi approverebbero se mi vedessero.

Tom è puntuale come sempre e quindi non devo aspettare molto. Il viaggio fino al parco mi ha turbato, perché Tom e Lucia hanno di nuovo bisticciato. Anche se Tom dice che non c’è da preoccuparsene, io me ne preoccupo e ho l’impressione che il loro disaccordo sia in qualche modo colpa mia; però non so come o perché.

Arrivati al parco, Tom parcheggia sull’erba. Ci sono parecchie altre macchine e io ne conto i colori e i tipi. La maggior parte della gente porta costumi, e tutti sono strani come il mio o peggio. Un uomo porta un grande cappello piatto tutto coperto di piume. Vorrei contare i colori, ma i costumi ne hanno troppi. Mi piacciono i mantelli che sono di un colore fuori e di un altro all’interno. Quando si muovono danno l’impressione di una girandola.

Subito andiamo a un tavolo dove una donna con un abito lungo registra i nostri nomi e ci dà piccoli dischi di metallo con un buco nel mezzo. Lucia tira fuori di tasca un nastrino verde e me lo dà. — Infilalo in questo — dice — e appenditelo al collo. — Poi Tom mi conduce a un altro tavolo dove un uomo con calzoncini rigonfi controlla il mio nome su un’altra lista.

— Il tuo turno è alle dieci e un quarto — dice. — Il cartellone è lì. — Indica una tenda a righe gialle e verdi.

Il cartellone è composto di grossi pezzi di cartone tenuti insieme da nastro adesivo, con righe per scriverci i nomi, solo che per la maggior parte non c’è scritto niente. Solo le righe di sinistra sono tutte riempite e lì trovo il mio nome e quello del mio primo avversario.

— Adesso sono le nove e mezza — dice Tom. — Diamo un’occhiata in giro e poi troviamo un posto dove fare qualche esercizio.

Allorché arriva il mio turno ed entro nella pedana, ho il cuore che mi batte e le mani che tremano. Non so cosa sto facendo lì. Non dovrei esserci, non ne conosco lo schema. Intanto il mio avversario attacca e io paro. Non è una buona parata, sono stato troppo lento, ma lui non mi ha toccato. Tiro un respiro profondo e mi concentro sui movimenti dell’altro, sui suoi schemi.

Lo tocco un paio di volte, però lui non sembra accorgersene. Ne sono sorpreso, ma Tom mi ha detto che certe volte una persona non si accorge di un tocco, forse perché è troppo eccitata, specialmente se è al suo primo incontro. Perciò, mi ha detto Tom, è importante che io colpisca con fermezza. Ci riprovo, e siccome questa volta il mio avversario mi si stava avventando addosso, lo colpisco con troppa forza. Lui ci rimane male e parla con l’arbitro, ma questi dice che è colpa sua perché il suo attacco era troppo precipitoso.

Alla fine succede che ho vinto l’incontro. Sono senza fiato, e non solo per il combattimento. Mi sento strano, leggero, ma non della leggerezza che provo quando sono vicino a Marjory. È perché mi sono battuto con una persona che non conoscevo o perché ho vinto?

Tom mi stringe la mano. Ha la faccia lucida e la voce entusiasta. — Ce l’hai fatta, Lou. Sei stato bravissimo…

— Sì, sei stato bravo — lo interrompe Don. — E sei anche stato piuttosto fortunato. Devi stare attento alle parate di terza, Lou. Avevo già notato che non le usi abbastanza di frequente, e quando lo fai è come se telegrafassi le tue intenzioni in anticipo…

— Don… — dice Tom, ma Don continua.

— … e quando qualcuno si butta alla carica non dovresti lasciarti sorprendere…

— Don, Lou ha vinto. Ed è stato molto bravo, perciò smettila. — Tom ha la fronte aggrottata.

— Sì, sì, lo so che ha vinto, ha avuto fortuna al primo incontro, ma se vuol continuare a vincere…

— Don, va’ a prenderci qualcosa da bere. — Adesso Tom sembra irritato.

Don batte le palpebre, stupito, tuttavia prende i soldi che Tom gli porge. — Oh… va bene. Torno subito.

Non mi sento più leggero, ma pesantissimo. Ho fatto troppi errori.

Tom mi sorride. — Lou, il tuo è stato uno dei migliori primi combattimenti che io abbia mai visti — dice. Credo voglia farmi dimenticare ciò che ha detto Don, ma io lo ricordo. Don è mio amico e stava cercando di aiutarmi.

— Io… non ho fatto quello che tu mi avevi detto di fare. Mi avevi detto di attaccare subito…

— Quello che hai fatto ha funzionato: questa è l’unità di misura qui.

— Sì, ma se avessi fatto ciò che mi avevi consigliato…

— Lou, stammi a sentire. Sei stato molto, molto bravo. Perciò hai vinto. E se il tuo avversario avesse accusato i colpi ricevuti onestamente, avresti vinto molto prima.

— Ma Don ha detto…

Tom scuote la testa. — Dimentica quello che ha detto Don. La prima volta che Don partecipò a un torneo, perse la testa al primo incontro. Completamente. Poi si afflisse tanto per aver perso che non combinò più nulla per tutto il resto del torneo, non partecipò nemmeno al girone di ritorno per i perdenti…

— Bene, grazie tante! — esclama Don. È ritornato con tre barattoli di acqua minerale; ne lascia cadere a terra due. — Credevo che ci tenessi davvero a non urtare i sentimenti altrui… — Se ne va con il terzo barattolo. Vedo che è molto arrabbiato.

Tom sospira. — Be’… peccato. Ma non ti preoccupare, Lou. Sei stato bravo. Probabilmente oggi non vincerai… i novellini non vincono mai, tuttavia hai dimostrato padronanza di te stesso e notevole abilità, e io sono fiero che tu faccia parte del nostro gruppo.

— Don però è andato in collera — dico, seguendo con gli occhi Don che si allontana. Penso che Tom non avrebbe dovuto parlarmi in quel modo del suo primo torneo. Tom raccoglie i barattoli e me ne offre uno. Beviamo.

— Sì, ma Don… è Don — dice Tom. — È una cosa che fa sempre, l’hai visto. — Non sono certo di sapere quello che Tom vuol dire: che Don parla alla gente degli errori che ha commessi o che va in collera facilmente?

— Io credo che lui stia cercando di essermi amico e di aiutarmi — rispondo. — Anche se a lui piace Marjory, e piace anche a me. Don probabilmente vorrebbe piacerle, mentre lei pensa che lui sia una vipera.

A Tom l’acqua va di traverso e lo fa tossire. Quando si è ripreso chiede: — A te piace Marjory? Nel senso che ti è simpatica o qualcosa di più?

— Mi piace moltissimo — dico. — Vorrei… — Ma non posso dire a voce alta ciò che vorrei.

— Marjory ha avuto una brutta esperienza con un uomo che somigliava a Don — spiega Tom. — Don spesso si comporta come si comportava lui e naturalmente a Marjory questo non va. È naturale perciò che preferisca te.

— Marjory mi ha raccontato che una volta Don ha detto qualcosa di poco gentile su di me.

— E questo ti ha irritato? — domanda Tom.

— No… a volte le persone parlano così perché non capiscono. I miei genitori me lo dicevano sempre. Io credo che Don spesso non capisca.

Tom beve un lungo sorso della sua acqua. Sulla pedana è cominciato un altro incontro; noi ci allontaniamo. — Quello che dobbiamo fare adesso — dice Tom — è andare a far registrare la tua vittoria. Poi dovrai prepararti per il prossimo incontro.

All’idea del prossimo incontro mi rendo conto di essere stanco e di sentire i lividi dove il mio avversario mi ha colpito. Vorrei andare a casa e ripensare a tutto ciò che è accaduto, ma c’è ancora da combattere e Tom vuole che io rimanga e finisca il torneo.

7

Mi sto battendo contro il mio secondo avversario. Questo secondo incontro è tutto diverso dal primo, perché non è a sorpresa. L’uomo prima portava un cappello simile a una pizza con piume; adesso porta una maschera che sul davanti è trasparente invece di avere un reticolato metallico. Quel tipo di maschera costa molto. Tom mi ha detto che il mio avversario è molto bravo ma onesto: riconoscerà sempre i colpi ricevuti. Vedo chiaramente la sua espressione: sembra quasi sonnolento, ha le palpebre calate sugli occhi azzurri.

L’arbitro lascia cadere il fazzoletto; il mio avversario mi sferra un assalto fulmineo e sento il suo tocco sulla spalla. Alzo una mano. L’espressione sonnolenta dell’uomo non significa che sia lento. Vorrei chiedere a Tom cosa fare, ma devo rimanere concentrato sul combattimento.

Questa volta ci giriamo intorno. La spada dell’uomo balza in avanti così rapida che sembra sparire… poi ricompare toccandomi il petto. Non so come faccia il mio avversario a muoversi così in fretta; io mi sento rigido e goffo. Ancora un altro tocco e perderò l’incontro. Mi lancio all’attacco e sento la mia spada contro la sua: ho parato con successo stavolta. Ancora e ancora… e infine avvento una stoccata e la mano mi dice che ho toccato. Subito l’uomo fa un passo indietro e alza una mano. — Sì — dice. Lo guardo: sta sorridendo. Non ce l’ha con me perché l’ho toccato.

Di nuovo ci giriamo intorno, in una girandola di attacchi e parate. Comincio a distinguere il suo schema, che è rapidissimo ma comprensibile. Lui però mi tocca per la terza volta prima che io possa mettere a profitto la mia scoperta.

— Grazie — mi dice l’uomo. — È stato un bel combattimento.

— Hai fatto un bel lavoro, Lou — dice Tom. — Probabilmente lui vincerà il torneo: lo vince quasi sempre.

— L’ho toccato una volta — dico.

— Sì, un bel colpo. E sei andato vicino a toccarlo diverse volte.

— Abbiamo finito ora? — chiedo.

— No — risponde Tom. — Hai perso solo un incontro, perciò adesso sei nel girone di quelli che hanno vinto una volta e dovrai sostenere almeno un altro incontro. Ti senti a posto?

— Sì — dico. Mi manca un po’ il fiato e sono stanco del rumore e del movimento, però non ho più tanta voglia di andare a casa come prima.

— Vuoi mangiare qualcosa? — chiede Tom.

Scuoto la testa. Vorrei trovare un posto tranquillo dove sedere.

Tom mi guida attraverso la calca. Diverse persone che non conosco mi stringono la mano o mi danno colpetti sulla spalla e dicono: — Sei stato bravo! — Io vorrei che non mi toccassero, ma so che lo fanno amichevolmente.

Lucia siede sotto un albero con una donna che non ho mai visto. Batte una mano a terra e io so che significa "siedi qui". Mi siedo.

— Gunther ha vinto, ma Lou lo ha toccato una volta — dice Tom.

La donna sconosciuta batte le mani. — Benone! — esclama. — Praticamente nessuno riesce a toccare Gunther al primo combattimento.

La donna è più alta e più grossa di Lucia; porta un costume di fantasia con la gonna lunga. Tiene nelle mani un piccolo telaio e le sue dita vanno avanti e indietro. Sta tessendo una stretta striscia di tessuto con un disegno geometrico in bianco e marrone. Lo schema è semplice ma io non avevo mai visto nessuno tessere, e così la guardo con attenzione finché non ho capito come fa la donna a lavorare quel disegno.

— Tom mi ha detto di Don — dice Lucia lanciandomi un’occhiata. Rabbrividisco. Non voglio ricordare quanto era in collera. — Tutto bene? — domanda.

— Tutto bene — rispondo.

— Don il superuomo? — domanda l’altra donna a Lucia.

Lucia fa una smorfia. — Già. Si comporta davvero come un cretino, a volte.

— Cos’ha combinato di nuovo?

Lucia mi guarda. — Oh… niente di nuovo. Ha parlato a vanvera come al solito.

Sono lieto che lei non abbia spiegato. Non credo che Don sia cattivo come deve averlo definito Tom. Mi sento infelice all’idea che Tom sia ingiusto con qualcuno.

Tom ritorna e mi dice che ho un altro incontro alle 13.45. — Ti batterai con un altro novellino — aggiunge. — Ha perso il suo incontro questa mattina presto. Tu dovresti mangiare qualcosa. — Mi tende un panino imbottito di carne. Ha un buon profumo e io ho fame. Ne assaggio un boccone e il sapore mi piace, perciò lo mangio tutto.

Nel terzo incontro, il mio avversario è tutto vestito di nero con guarnizioni rosse e porta anche lui una di quelle maschere col davanti trasparente. Non si muove bene: è lento e non conclude mai un assalto. Agita la spada avanti e indietro senza mai avvicinarsi. Lo tocco una volta e lui non lo riconosce; lo tocco una seconda volta più duramente e stavolta lo riconosce. Dalla sua espressione si vede che è preoccupato e irritato. Io mi sento piuttosto stanco, ma so che posso vincere se voglio.

Non è bello far andare in collera la gente, però mi piacerebbe vincere. Gli giro intorno e lui reagisce con troppa lentezza. Lo tocco un’altra volta. Vedo che ha la bocca semiaperta e la fronte aggrottata. Non è bello far sì che la gente si senta stupida. Rallento di parecchio, ma lui non ne approfitta. Il suo schema di combattimento è molto semplice, come se avesse imparato solo due parate e due attacchi. Però è noioso star qui a scambiarsi colpi senza costrutto. Siccome lui non cerca nemmeno di combinare qualcosa, io esco in tempo da una delle sue deboli parate e vado a fondo. Toccato. L’uomo diventa rosso in faccia e dice un sacco di brutte parole. So che dovrei stringergli la mano e ringraziarlo, ma lui se n’è già andato. L’arbitro si stringe nelle spalle.

— Bravo — dice Tom. — Ho visto che rallentavi per offrirgli una possibilità… peccato che l’idiota non sapesse cosa farsene. Adesso capisci perché non mi va che i miei studenti partecipino ai tornei troppo presto. Quello non era pronto.

Non era pronto davvero.

Quando vado a far convalidare la mia vittoria vedo che ora faccio parte di un gruppo che ha un record di 2:1. Solo otto non hanno subito alcuna sconfitta. Adesso mi sento molto stanco, ma non voglio deludere Tom e perciò non mi ritiro. Il mio nuovo incontro avviene quasi subito, con una donna alta e bruna, che porta un semplice costume azzurro cupo e una maschera con il frontale di rete. Attacca immediatamente e dopo pochi colpi il primo tocco è suo. Io tocco a mia volta, poi lei, poi di nuovo io. Il suo schema di combattimento non è facile da scoprire. Sento gli spettatori commentare che il nostro è un bel combattimento. Mi sento di nuovo leggero e felice. Poi avverto il tocco della donna sul petto e l’incontro è finito. Non me ne dispiace: sono proprio stanco e sudato.

— Buon combattimento! — dice lei, e mi stringe il braccio.

— Grazie — rispondo.

Tom è contento di me, lo vedo da come sorride. C’è anche Lucia: non mi ero accorto che era venuta a vedermi. I due si tengono a braccetto e io mi sento ancora più contento. — Vediamo a che punto della classifica ti trovi adesso — dice lui.

— Classifica?

— Tutti gli schermidori sono classificati a seconda dei risultati ottenuti — mi spiega. — I novellini hanno una classifica a parte. Credo che tu abbia conseguito un buon punteggio. Ci sarà ancora qualche altro incontro, ma penso che i novellini ormai abbiano finito tutti.

Questo non lo sapevo. Sul cartellone il mio nome è al diciannovesimo posto, ma nell’angolo in basso a destra, dove c’è l’elenco di quelli che hanno gareggiato per la prima volta, il mio nome è al primo posto. — Lo sapevo! — dice Tom. — Claudia… — Una delle donne intente a scrivere nomi sul cartellone si volta. — I novellini hanno finito tutti?

— Sì… è questo Lou Arrendale? — chiede guardandomi.

— Sì — rispondo. — Sono Lou Arrendale.

— Per un principiante lei è stato davvero bravo — si complimenta.

— Grazie — rispondo.

— Ecco la sua medaglia — dice lei aprendo un cassetto e tirando fuori un sacchettino di pelle con qualcosa dentro. — Oppure può aspettare e riceverla alla cerimonia della premiazione. — Non sapevo che avrei ricevuto una medaglia: credevo ne ricevesse una solo la persona che avesse vinto tutti gli incontri.

— Purtroppo dobbiamo ripartire — dice Tom.

— Allora… eccola qui. — Mi consegna il sacchetto, che mi sembra di pelle autentica. — E buona fortuna per la prossima volta.

— Grazie — dico.

Non so se deve aprire il sacchetto, ma Tom dice: — Vediamo… — e allora tiro fuori la medaglia. È un pezzo di metallo rotondo con una spada in rilievo e un buco accanto all’orlo. La ripongo nel sacchetto.

Durante la strada verso casa ricostruisco ciascun incontro nella mia mente. Posso ricordarli in ogni dettaglio e riesco perfino a rivederli al rallentatore, specialmente quello con Gunther, così la prossima volta (mi sorprende sapere che ci sarà una prossima volta e che desidero ripetere ancora quell’esperienza) potrò far meglio contro di lui.

Comincio a capire perché Tom pensava che partecipare al torneo mi avrebbe fatto bene, in caso dovessi affrontare il signor Crenshaw. Sono andato in un posto dove nessuno mi conosceva e ho gareggiato come una persona normale. Non c’era bisogno che vincessi il torneo per rendermi conto di aver ottenuto un buon risultato.

Appena a casa, mi tolgo gli abiti che Lucia mi ha prestato: sono bagnati di sudore. Lei mi ha detto di non lavarli, perché hanno bisogno di un trattamento speciale; devo invece appenderli ad asciugare e riportarli da loro mercoledì, quando andrò di nuovo a lezione. Non mi piace l’odore che hanno, preferirei ridarli indietro stasera o domani, ma Lucia ha detto mercoledì. Così li appendo allo schienale del divano in salotto e vado a fare la doccia.

L’acqua calda mi è particolarmente gradita. Ho addosso qualche segno blu: lividi lasciati da qualcuno dei colpi che ho subito. Dopo indosso la tuta più morbida che ho. Ho un gran sonno, ma prima devo vedere se i miei compagni mi hanno mandato qualche notizia della loro riunione.

Ho ricevuto e-mail sia da Cameron che da Bailey. Cameron dice che hanno parlato ma non hanno preso nessuna decisione. Bailey dice che alla riunione hanno partecipato tutti tranne me e Linda, e che hanno chiesto a uno dei consulenti del Centro quali fossero le regole sulla sperimentazione umana. Il consulente se ne informerà.

Vado a letto presto.

Lunedì e martedì non abbiamo ulteriori notizie dal signor Crenshaw o dall’azienda. Forse quelli che dovrebbero somministrare il trattamento non sono pronti a provarlo sugli esseri umani, o forse il signor Crenshaw non è ancora riuscito a persuaderli. Vorrei saperne di più: mi sento come mi sentivo al torneo prima che iniziasse il primo incontro. La non conoscenza decisamente sembra più rapida della conoscenza.

Vado a rileggere l’articolo di giornale che mi hanno mandato per e-mail, ma continuo a non capire la maggior parte dei termini tecnici. Anche cercandone la definizione, non capisco quali effetti abbia il trattamento e come faccia a ottenerli. Dopo tutto non sono obbligato a comprendere certi argomenti, non rientrano nel mio campo.

Ma qui si tratta del mio cervello e della mia vita, perciò voglio capire. Quando cominciai a tirare di scherma, non capivo nemmeno quella. Non sapevo perché dovessi tenere il fioretto in un certo modo o perché dovessi disporre i piedi in maniera che formassero un angolo retto; non conoscevo nessuno dei termini tecnici, non sapevo come si eseguivano le mosse. Non mi aspettavo di diventare un bravo schermidore, pensavo che il mio autismo me lo avrebbe impedito, e da principio è stato proprio così. Adesso invece ho partecipato a un torneo e mi sono battuto contro persone normali. Non ho vinto, ma sono stato il più bravo tra i principianti.

Forse anche a proposito del cervello posso imparare più di quel che conosco adesso. Non so se ne avrò il tempo, ma ci proverò.

Mercoledì riporto il costume a Lucia. Lei lo prende e io vado nella stanza dove si trovano i nostri equipaggiamenti. Tom è già in cortile e io lo raggiungo. Fa freddo ma non c’è un alito di vento. Tom sta facendo gli stiramenti e io lo imito. Domenica e lunedì ero tutto irrigidito, ma adesso mi sono sciolto e uno solo dei lividi fa ancora male.

Arriva Marjory.

— Stavo raccontando a Marjory come sei stato bravo al torneo — spiega Lucia dietro di lei. Marjory mi sorride.

— Non ho vinto, però — dico. — E ho commesso degli errori.

— Hai vinto due incontri e la medaglia dei principianti — ribatte Lucia. — Non hai commesso poi tanti errori.

— Simon è rimasto sbalordito — dice Tom. Adesso si è seduto e sta ripassando la lama della sua spada con la carta vetrata per eliminare eventuali intaccature. Io tasto la mia, ma non ci trovo nulla. — Parlo dell’arbitro, sai: ci conosciamo da anni. Lo ha colpito specialmente il modo in cui ti sei comportato quando quel tizio non ha riconosciuto di essere stato colpito.

— Ma tu mi avevi detto di comportarmi così — dico.

— Be’, sai, non succede spesso che i miei allievi seguano tutti i miei consigli — spiega Tom. — E dimmi, adesso che è passato qualche giorno, ti è piaciuto il torneo?

— Sì, in alcune parti mi è piaciuto molto. — Era un piacere, in effetti, ma anche una sfida: solo che non so descrivere questo miscuglio di sentimenti. — Certe volte provo piacere a fare cose nuove — dico.

Qualcuno sta aprendo la porticina: è Don. Di colpo sento una certa tensione in cortile.

— Ciao — saluta lui seccamente.

Io gli sorrido, ma lui non ricambia.

— Ciao, Don — dice Tom.

Lucia tace e Marjory lo saluta con un cenno.

— Prendo solo le mie cose — spiega lui, ed entra in casa.

Lucia lancia un’occhiata a Tom che si stringe nelle spalle. Marjory mi si avvicina.

— Vuoi fare un incontro? — chiede. — Stasera posso trattenermi poco. Ho da lavorare.

— Certo — dico io. Mi sento di nuovo leggero.

Adesso che mi sono battuto al torneo, mi sento molto rilassato a battermi qui. Non penso a Don, penso solo a Marjory. Di nuovo mi pervade la sensazione che toccare la sua lama somigli molto a toccare lei: che attraverso l’acciaio io possa sentire i suoi movimenti, perfino i suoi stati d’animo. Vorrei che l’incontro si prolungasse, perciò rallento un poco, non cerco di mettere a segno colpi, in modo da continuare così il più possibile.

Finalmente lei fa un passo indietro; ha il respiro affannoso. — È stato divertente, Lou, ma non ce la faccio più. Devo riprender fiato.

— Grazie — dico.

Ci sediamo l’uno a fianco dell’altro: siamo affannati tutti e due. Io accordo il ritmo del mio respiro al suo e mi sento più leggero che mai.

Don esce da casa portando le sue armi in una mano e la maschera nell’altra. Mi lancia un’occhiataccia e se ne va con passo rigido e affrettato. Tom esce di casa anche lui e allarga le braccia stringendosi nelle spalle.

— Ho cercato di farlo ragionare — dice a Lucia. — Lui si ostina a credere che io lo abbia insultato a bella posta, al torneo. Inoltre si è piazzato al ventesimo posto, parecchio dopo Lou. Anche questo è avvenuto per colpa mia, così adesso andrà a prendere lezioni da Gunther.

— Oh, non durerà — commenta Lucia allungando le gambe. — Don non sopporterà la disciplina.

— Si è offeso per causa mia? — domando.

— Si è offeso perché il mondo non accetta di adeguarsi supinamente ai suoi capricci — dice Tom. — Tra un paio di settimane Don sarà di nuovo qui, vedrai, facendo finta che non sia avvenuto niente.

— E tu lo riprenderai? — chiede Lucia con una certa asprezza.

Di nuovo Tom si stringe nelle spalle. — Se si comporterà bene, sì. Capita che le persone crescano, Lucia.

— Alcune di loro certo crescono, ma storte — ribatte lei.

Arrivano Max, Susan, Cindy e gli altri, tutti insieme, e tutti parlano con me. Non li ho visti al torneo, ma loro mi hanno visto. Mi sento imbarazzato per non averli notati, ma Max mi spiega la situazione.

— Non volevamo disturbarti, avresti potuto perdere la concentrazione. In occasioni del genere uno non vuole avere intorno più di una persona, massimo due — dice. Questo può essere vero solo se anche altra gente trova difficile concentrarsi. Io non sapevo che loro la pensavano così: credevo che volessero sempre intorno a sé un mucchio di gente.

Se le cose che mi hanno detto sul conto mio non sono tutte vere, forse anche le cose che mi hanno detto sulle persone normali non sono tutte attendibili.

Faccio un incontro con Max e poi uno con Cindy e vado a sedere accanto a Marjory finché lei dice che deve andare. Le porto lo zaino fino alla macchina. Mi piacerebbe passare più tempo con lei, ma non so come poterlo fare. Se incontrassi qualcuna come lei… qualcuna che mi piacesse… a un torneo, e lei non sapesse che sono autistico, sarebbe più facile chiedere a quella persona di venire a cena con me? Cosa risponderebbe quella persona? Cosa risponderebbe Marjory se glielo chiedessi? Rimango ritto accanto alla macchina dopo che lei si è seduta alla guida e vorrei aver già detto quelle parole ed essere in attesa della sua risposta. La voce rabbiosa di Emmy mi risuona nelle orecchie. Io non credo a ciò che ha detto, non credo che Marjory mi veda solo come un possibile soggetto di ricerca. Però non sono nemmeno tanto sicuro del contrario da poterle chiedere di uscire con me.

Marjory mi guarda e di colpo mi sento pietrificare dalla timidezza. — Buona sera — dico.

— Arrivederci — dice lei. — Alla prossima settimana. — Accende il motore e io indietreggio.

Torno in cortile e siedo accanto a Lucia. — Se una persona chiede a un’altra di andare a cena con lei — domando — e la persona alla quale lo chiede non vuole andarci, la persona che chiede ha modo di accorgersene prima di chiedere?

Lucia non risponde per un periodo di circa quaranta secondi, poi dice: — Se una persona si comporta in modo amichevole con un’altra, potrebbe esser contenta di ricevere una simile richiesta pur senza desiderare di accettarla. Oppure quella sera potrebbe avere qualche altra cosa da fare. — Fa una pausa. — Hai mai chiesto a qualcuno di cenare con te, Lou?

— No — dico. — L’ho chiesto solo alle persone con cui lavoro, quelli che sono come me. Questo è diverso.

— Vero — annuisce lei. — Stai pensando di chiedere a qualcuno di uscire con te?

Mi si serra la gola e non posso parlare, ma Lucia non insiste: si limita ad aspettare.

— Stavo pensando di chiederlo a Marjory — dico finalmente a bassa voce. — Ma non vorrei disturbarla.

— Non credo che la disturberesti, Lou — risponde Lucia. — Non so se verrebbe a cena con te, però non credo proprio che sarebbe seccata dalla tua richiesta.

A casa quella sera, e quando vado a letto, penso a Marjory che siede a tavola davanti a me. Ho visto scene come questa alla TV. Ma non sono ancora pronto a chiedere.

Giovedì mattina esco di casa e guardo la mia macchina. Ha un aspetto strano: tutt’e quattro le gomme sono appiattite a terra. Non capisco. Le ho comprate solo pochi mesi fa, e quando faccio benzina controllo sempre la pressione. Non capisco come abbiano fatto a sgonfiarsi. Ho solo una ruota di scorta, e benché tenga in macchina una pompa a pedale so che non posso gonfiare tre gomme abbastanza in fretta. Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Sento già il sudore gocciolarmi lungo le costole.

— Cosa succede, amico? — È Danny Bryce, il poliziotto che abita nel mio palazzo.

— Ho le gomme sgonfie — dico. — Non so perché. Le ho controllate l’altro giorno.

Si avvicina. È in uniforme. Odora di menta e limone e la sua uniforme profuma di pulito. Ha le scarpe lucidissime. Sulla camicia ha una targhetta color argento su cui è scritto il suo nome DANNY BRYCE in nero.

— Qualcuno le ha squarciate — spiega. Ha l’aria seria ma non è in collera.

— Squarciate? — Ho letto di simili cose, ma a me non era mai accaduto. — Perché?

— Malignità — risponde lui, chinandosi a guardare. — Sì. Decisamente è un atto di vandalismo.

Dà un’occhiata anche alle altre macchine, ma nessuna di loro ha le gomme sgonfie. — No, l’unica danneggiata è la tua. Qualcuno ce l’ha con te?

— Ancora no, oggi non ho visto ancora nessuno. Il signor Crenshaw si arrabbierà con me — dico. — Farò tardi al lavoro.

— Non avrai che da riferirgli quel che è successo — mi tranquillizza lui.

Il signor Crenshaw si arrabbierà ugualmente, penso, ma taccio. Non bisogna contraddire un poliziotto.

— Chiamerò la polizia per te — dice. — Manderanno qualcuno…

— Ma io devo andare al lavoro — ribatto. Sento che sto sudando ancora di più. Non so cosa fare. Non conosco l’orario dei mezzi pubblici, anche se so dove si fermano. Dovrei trovare un orario. E dovrei anche chiamare l’ufficio, però non so se sarà già arrivato qualcuno.

— Devi davvero denunciare l’accaduto, sai — dice il signor Bryce molto serio. — E poi puoi chiamare il tuo capo e informarlo…

Non conosco il numero dell’ufficio del signor Crenshaw. Penso che se lo chiamo, lui non farà altro che prendersela con me. — Lo chiamerò dopo — decido.

Dopo solo sedici minuti arriva un’auto della polizia e Danny Bryce rimane con me, invece di andare al lavoro. Io mi sento meglio con lui, qui. Dall’auto esce un uomo in calzoni avana e giacca sportiva marrone. Non ha una targhetta col nome. Il signor Bryce gli va incontro e io sento l’altro uomo chiamarlo Dan.

I due mi si avvicinano. — Lou, questo è l’agente Stacy — fa le presentazioni il signor Bryce sorridendomi. Guardo l’altro uomo. È più basso del signor Bryce, e più magro; ha capelli neri e lisci che odorano di qualcosa di oleoso e profumato.

— Mi chiamo Lou Arrendale — dico. La mia voce suona strana, come succede quando sono spaventato.

— Quando ha visto per l’ultima volta la sua macchina? — chiede l’agente.

— Alle nove e quarantasette di ieri sera — rispondo. — Lo so per certo, perché ho guardato l’orologio.

Lui digita qualcosa sul suo palmare.

— Parcheggia sempre nello stesso posto?

— Di solito sì, ma non sempre — spiego. — Il parcheggio non ha posti numerati e certe volte qualcuno si è già messo qui quando ritorno dal lavoro.

— Lei è tornato dal lavoro alle nove e quarantasette di ieri sera?

— No, signore — dico. — Sono tornato dal lavoro alle cinque e cinquantadue e poi sono andato… — Non voglio dire "a lezione di scherma". Se lui pensasse che c’è qualcosa di male nella scherma? O in me che imparo la scherma? — Sono andato a casa di amici — dico invece.

— Questi amici li visita spesso?

— Sì, tutte le settimane.

— C’erano altre persone lì?

Naturale che c’erano altre persone. Perché dovrei andare a far visita a qualcuno se lì ci fossi soltanto io? — C’erano i miei amici che vivono in quella casa — dico. — E altre persone che non abitano in quella casa.

L’agente socchiude gli occhi e lancia un’occhiata al signor Bryce. Non capisco cosa significhi quell’occhiata. — Ah… e lei conosce queste altre persone? Quelle che non abitano nella casa? C’era un ricevimento?

Troppe domande, e non so a quale rispondere per prima. "Queste altre persone…" Lui si riferisce alle persone in casa di Tom e Lucia che non erano Tom e Lucia? "Quelle che non abitano nella casa…" Ma la maggior parte della gente non abita in quella casa. Tra i miliardi di persone che ci sono al mondo soltanto due vivono in quella casa e ciò rappresenta… meno di un milionesimo dell’uno per cento.

— Non c’era un ricevimento — rispondo, perché questa era la domanda più facile.

— Io so che tu esci ogni mercoledì sera — dice il signor Bryce. — Certe volte porti uno zaino… io pensavo che andassi in palestra.

Se i poliziotti parleranno con Tom e Lucia, verranno a sapere della scherma. Devo parlarne ora. — Vado… vado a lezione di scherma — dico. Odio quando mi viene da balbettare.

— Scherma? Non ti ho mai visto con i fioretti — commenta il signor Bryce con aria piuttosto sorpresa e interessata.

— Io… io tengo il mio equipaggiamento in casa dei miei amici — spiego. — Loro sono anche i miei istruttori. Non mi va di avere le mie cose nell’automobile o in casa.

— Così… lei è andato in casa di amici a lezione di scherma — dice l’altro poliziotto. — Da quanto tempo prende queste lezioni?

— Da cinque anni.

— Così chiunque volesse danneggiare la sua macchina lo saprebbe? Saprebbe dove lei va il mercoledì sera?

— Forse sì… — Ma in realtà non lo credo. Penso che se qualcuno voleva danneggiare la mia auto, doveva sapere dove abito e non dove vado quando esco.

— Lei va d’accordo con quelle persone?

— Sì. — Questa mi pare davvero una domanda sciocca. Non avrei continuato ad andare da Tom e Lucia per cinque anni se loro non fossero persone simpatiche.

— Avrei bisogno dei loro nomi e numeri di telefono.

Glieli fornisco, benché non capisca a cosa gli servono. La mia auto è stata danneggiata qui e non a casa di Tom e Lucia.

— Probabilmente si tratta di un vandalo — dice l’agente. — Questo è un quartiere abbastanza calmo, ma dall’altra parte del fiume cose del genere succedono in continuazione. Qualche ragazzino avrà pensato di spingersi fin qui, tanto per cambiare. E magari qualcosa lo avrà spaventato prima che si desse da fare anche con altre macchine. — Si volge al signor Bryce. — Se ci saranno altri danni fammelo sapere, d’accordo?

— Certo.

Il palmare dell’agente fischia ed emette una striscia di carta. — Ecco, per lei: rapporto, numero del caso, agente investigatore, tutto ciò che le serve per la denuncia all’assicurazione. — Mi porge il foglietto. Mi sento sciocco: non ho idea di cosa farne. Poi l’agente se ne va.

Il signor Bryce mi guarda. — Lou, sai chi chiamare per le gomme?

— No… — Sono più preoccupato per il lavoro che per le gomme. Se non posso usare la macchina ci sono sempre i mezzi pubblici, ma se perdo il lavoro a causa dei ritardi non mi rimane più nulla.

— Devi metterti in contatto con l’assicurazione e trovare qualcuno che rimpiazzi le gomme.

Cambiare le gomme sarà una bella spesa. Ma come farò ad andare in un’officina con le ruote tutte sgonfie?

— Vuoi aiuto?

Non so cosa dire e non so nemmeno cosa fare. Certo ho bisogno di aiuto.

— Se non hai mai fatto una denuncia all’assicurazione, la cosa potrebbe sembrarti complicata. Ma non voglio essere indiscreto se non hai bisogno di me.

— Non ho mai fatto una denuncia — dico. — Ho bisogno d’imparare come si fa.

— Allora andiamo a casa tua e colleghiamoci con l’assicurazione — decide lui. — Ti farò vedere come si fa.

Per un istante non posso né parlare né muovermi. Portare qualcuno nel mio appartamento? Nel mio spazio privato? Ma ho davvero bisogno che qualcuno mi mostri come si fa una denuncia. Il signor Bryce sta cercando di aiutarmi: non mi aspettavo che lo facesse.

M’incammino in silenzio, ma dopo qualche passo ricordo che avrei dovuto dire qualcosa. Il signor Bryce è ancora ritto vicino alla mia macchina. — È gentile da parte sua — dico.

Le mie mani tremano mentre apro la porta di casa, e l’ambiente dove avevo creato tanta serenità mi sembra adesso colmo di tensione e di paura. Accendo il computer e mi collego con la compagnia di assicurazioni. Il sistema sonoro comincia a trasmettere Mozart. Lo spengo. Avrei bisogno della musica, ma non so cosa ne penserebbe il signor Bryce.

— Bel posticino — dice lui alle mie spalle. Ho un leggero sobbalzo, benché sappia che lui è lì. Adesso si muove di fianco, dove posso vederlo: così è meglio. — Ora ciò che devi fare è…

— Dire al mio capo che farò tardi — lo interrompo. — Devo far questo prima di tutto.

Devo trovare l’indirizzo elettronico del signor Aldrin nel sito Web della compagnia per cui lavoro. Gli espongo la situazione semplicemente.

"Farò tardi perché sono state tagliate le gomme della mia auto ed è venuta la polizia. Arriverò appena potrò."

Il signor Bryce non guarda lo schermo mentre digito il messaggio. Mi riporto alla rete pubblica e dico: — Fatto.

— Bene. Allora senti. Se sei in contatto con un’agenzia locale, cerca il suo sito, altrimenti mettiti in contatto direttamente con la compagnia.

Lo faccio subito, perché non ho un agente locale. Navigo tra il "servizio clienti", le "polizze auto" eccetera e infine mi fermo su "denunce". Sullo schermo compare un modulo.

— Bravo! — esclama il signor Bryce, e sembra un po’ sorpreso.

— È molto chiaro — dico. Digito il mio nome e indirizzo, il numero della polizza ricavato dal mio file personale, la data, e scrivo "sì" nella casella che chiede se l’incidente è stato notificato alla polizia.

Seguono altre caselle che non capisco. — Qui devi scrivere il numero del rapporto dell’incidente registrato dalla polizia — spiega il signor Bryce indicandomelo sul foglietto che mi ha dato l’agente. — Questo è il numero di codice dell’agente investigativo, da scrivere qui, e questo il suo nome da scrivere - continua. Poi devo scrivere "con parole mie" il resoconto dell’incidente che non ho visto. La sera ho parcheggiato la mia macchina e la mattina dopo tutt’e quattro le gomme erano state tagliate. Il signor Bryce dice che va bene così.

Adesso che ho compilato la denuncia dovrò trovare qualcuno che mi cambi le gomme.

— Non posso dirtelo io, chi chiamare — mi spiega il signor Bryce. — L’anno scorso avemmo un pasticcio e dei tizi accusarono la polizia di prendere bustarelle da officine di servizio. — Io non so cosa significhi "bustarelle". Mentre scendiamo, la gerente dello stabile, signora Tomasz, ci ferma e dice che conosce lei un’officina affidabile. Me ne dà il numero. Come fa a sapere quanto è successo? Forse mi ha sentito parlare nel parcheggio? L’idea mi disturba un poco.

— Ti darò un passaggio per la stazione della metropolitana — dice il signor Bryce. — Non posso accompagnarti al lavoro perché altrimenti farei troppo tardi anch’io.

È già molto gentile a darmi un passaggio. Si sta comportando come un amico. — Grazie, signor Bryce — dico.

Lui scuote la testa. — Ti avevo già detto di chiamarmi Danny, Lou. Siamo vicini di casa.

— Grazie, Danny — dico.

Lui sorride e apre lo sportello della sua macchina. Vedo che è molto pulita, come la mia. Danny accende la radio; la musica è troppo forte e con un ritmo troppo marcato, e mi fa rabbrividire. Non mi piace, però mi piace non dover andare a piedi alla stazione della metropolitana.

Sia la stazione che i treni sono affollati e chiassosi. Mi è difficile rimanere abbastanza calmo e concentrato da leggere i cartelli che mi dicono quale biglietto comprare e quale treno aspettare.

8

È molto strano vedere il campus dalla stazione e non dal viale e dal parcheggio. Invece di mostrare il mio pass alla guardia stazionata all’entrata delle automobili lo mostro alla guardia dell’entrata che sta davanti alla stazione della metropolitana. Larghi marciapiedi bordati di aiole portano all’edificio dell’amministrazione. I fiori sono gialli e arancione con molti boccioli: i colori brillano alla luce del sole. Davanti all’amministrazione devo mostrare il pass a un’altra guardia.

— Perché non ha parcheggiato al suo solito posto? — mi domanda. Sembra irritato.

— Qualcuno ha tagliato le gomme della mia macchina — dico.

— Brutto guaio — commenta, e abbassa gli occhi a guardare il suo tavolo. Forse sarà deluso perché non ha nessuna ragione d’irritarsi. — Qual è la strada più breve da qui all’edificio Ventuno? — domando.

— Attraversi questo edificio, giri dietro il Quindici, poi passi davanti alla fontana con una donna nuda su un cavallo. Da lì potrà vedere il suo parcheggio.

Fa molto caldo e io sono sudato quando arrivo al nostro edificio e infilo la mia chiave magnetica nella serratura del portone. All’interno però c’è fresco e penombra e posso rilassarmi. Vado direttamente nel mio ufficio e accendo il ventilatore mettendolo al massimo.

Il computer è acceso come sempre e porta l’icona di un messaggio. Lo leggo:

Chiama appena arrivi.

Firmato: sig. Crenshaw, interno 2313.

Allungo la mano verso il telefono, che però suona prima che possa alzare il ricevitore.

— Ti avevo detto di chiamare appena arrivato in ufficio — dice la voce del signor Crenshaw.

— Sono appena arrivato — dico.

— Sei passato dall’ingresso principale venti minuti fa — obietta lui, con voce molto irritata. — Nemmeno a te ci dovrebbero volere venti minuti per arrivare da lì al tuo edificio.

Dovrei dire che mi dispiace, ma non è vero. Non so quanto tempo ho impiegato per percorrere la distanza dall’ingresso al mio edificio e non so neanche quanto in fretta avrei dovuto camminare se avessi affrettato il passo. Ma faceva troppo caldo per affrettarsi. Mi sento salire un calore alla nuca.

— Non mi sono fermato per via — protesto.

— E cos’è quella scusa su una gomma sgonfia? Non sei capace di cambiare una gomma? Sei in ritardo di due ore.

— Quattro gomme — dico. — Qualcuno mi ha tagliato tutt’e quattro le gomme.

— Quattro! Suppongo tu abbia denunciato il fatto alla polizia — esclama.

— Sì.

— Ma potevi aspettare a farlo fino a dopo il lavoro — dice lui. — Oppure potevi chiamare da qui.

— Il poliziotto era lì — spiego.

— Era lì? Qualcuno era presente mentre la tua macchina veniva danneggiata?

— No… — Lottando contro l’impazienza e la rabbia della sua voce io cerco d’interpretare il senso delle sue parole che sembrano più un brusio collerico che un discorso dotato di significato. È difficile scegliere una risposta adatta. — Si tratta del poliziotto che abita nel mio palazzo. Lui ha visto le gomme e ha chiamato un altro poliziotto. Mi ha detto lui cosa dovevo fare.

— Avrebbe dovuto dirti di venire al lavoro — lo critica Crenshaw. — Non c’era ragione che tu ti trattenessi. Dovrai rimediare al tempo perduto, sai.

— Lo so. — Mi chiedo se lui deve rimediare al tempo perduto quando gli succede di ritardare.

— E sta’ attento a non calcolare il tempo supplementare come straordinario — dice tagliando la comunicazione. Non ha detto che gli dispiaceva per le mie gomme. In questi casi si usa un’espressione convenzionale, come "peccato" o "che guaio"; invece, benché sia una persona normale, lui non ha detto niente del genere. Forse perché non gli dispiace affatto e non ha alcuna simpatia da esprimere. Io ho dovuto imparare a usare espressioni convenzionali anche quando non esprimevano il mio pensiero, perché ciò fa parte dell’inserirsi nell’ambiente, dell’andare d’accordo. Qualcuno ha mai preteso che il signor Crenshaw imparasse a inserirsi nell’ambiente, ad andare d’accordo?

Sarebbe ora di pranzo, anche se sono indietro col lavoro. Provo un senso di vuoto allo stomaco. Sto per dirigermi verso il cucinino dell’ufficio quando mi rendo conto di non aver portato il pranzo. Devo averlo lasciato da qualche parte quando sono tornato nel mio appartamento per la denuncia dell’incidente all’assicurazione. Lo scomparto frigorifero con sopra le mie iniziali è quindi vuoto. Lo avevo vuotato ieri.

C’è una macchina che vende cibarie nell’edificio accanto al nostro, ma il cibo è immangiabile. Se si tratta di sandwich, gli ingredienti di cui sono imbottiti sono tutti mescolati insieme e grondanti di maionese o altre salse. Roba rossa, roba verde, carne tritata insieme con altri condimenti. Anche se io ne aprissi uno e raschiassi via la maionese, il suo odore e il suo sapore resterebbero. Quanto ai dolci, le ciambelle e i cornetti, sono appiccicosi e lasciano macchie disgustose nei contenitori di plastica quando si tirano fuori. Mi si contrae lo stomaco solo a pensarci.

Potrei andar fuori a comprare qualcosa, benché di solito nessuno di noi esca all’ora di pranzo, ma la mia macchina è a casa, inutilizzabile con le sue gomme sgonfie.

— Hai dimenticato il pranzo? — mi chiede Eric. Io sobbalzo. Non ho ancora parlato con nessuno dei miei colleghi.

— Qualcuno ha tagliato le gomme della mia automobile — spiego. — Così ho fatto tardi. Il signor Crenshaw è arrabbiato con me. Ho lasciato a casa il pranzo per distrazione. La mia macchina è a casa.

— Hai fame?

— Sì, ma non voglio comprare roba dalle macchine.

— Chuy deve uscire adesso — dice Eric.

— A Chuy non piace che qualcuno vada in macchina con lui — interviene Linda.

— Però posso parlargli — dico io.

Chuy acconsente a comprare qualcosa per il mio pranzo. Siccome non va in nessun negozio di alimentari, dovrò accontentarmi di qualcosa che troverà per strada. Quando ritorna mi porta qualche mela e una salsiccia dentro un panino. Le mele mi piacciono, ma la salsiccia no: non amo i pezzetti di carne mescolati insieme che ha dentro. Comunque non è disgustosa come certe altre cose, e io ho fame, così la mangio senza pensarci troppo.

Sono le 16.16 quando mi ricordo di non aver chiamato nessuno per sostituire le gomme alla mia macchina. Consulto le pagine gialle in rete e vedo che contengono i nomi e gli indirizzi delle officine, così faccio una lista e comincio a chiamare quelle più vicine a casa mia. Una dopo l’altra, tutte mi dicono che è troppo tardi per fare qualcosa oggi.

Uno dei loro impiegati mi dà un suggerimento. — La cosa più svelta da fare è comprare quattro gomme montate e sostituirle a quelle rotte lei stesso, una alla volta. — Ma costerebbe parecchio denaro acquistare quattro gomme montate, e poi come potrei fare a portarle a casa? Non posso chiedere a Chuy un altro favore così presto.

È come uno di quei problemi da risolvere in cui ci sono un uomo, una gallina, un gatto e un sacco di becchime da una parte del fiume e un battello con due soli posti di cui un uomo può servirsi per trasportare all’altra riva se stesso, le sue bestie e il sacco. Naturalmente senza lasciare il gatto con la gallina o la gallina col becchime. Io ho quattro gomme squarciate e una gomma di scorta. Se metto all’auto la ruota di scorta e porto quella rotta al negozio delle gomme, loro possono aggiustarla e io posso riportarla indietro, montarla e portare al negozio l’altra ruota danneggiata; e così via. Mi basterebbe avere tre gomme nuove per poter guidare l’auto al negozio portando l’ultima gomma tagliata.

La rivendita di gomme più vicina è a un chilometro e mezzo da casa mia. Non so quanto mi ci vorrà a farvi rotolare la ruota bucata… certo più di quanto ci vorrebbe con una gomma sana. Ma questa è l’unica soluzione che mi viene in mente.

Il negozio rimane aperto fino alle nove. Se lavoro le due ore supplementari stasera e riesco ad arrivare a casa per le otto, allora sarò In grado di portare la ruota al negozio prima che chiudano. E domani, uscendo dal lavoro in orario, potrò portarcene altre due.

Arrivo a casa alle 19.43. Apro il cofano della macchina e tiro fuori la ruota di scorta. Ho imparato a cambiare una gomma quando frequentavo l’autoscuola, ma da allora non ne ho mai più cambiata una. In teoria è semplice, ma ci metto parecchio tempo. Il martinetto è difficile da mettere in posizione, e la macchina si solleva lentamente. Quando infine riesco a estrarre la ruota danneggiata e a mettere al suo posto quella di scorta sono senza fiato e fradicio di sudore. So che i bulloni devono essere stretti in un certo ordine, ma non lo ricordo esattamente; il mio istruttore diceva che era importante stringerli come si deve. Intanto sono le otto passate e comincia a farsi buio…

— Ehi!

Mi raddrizzo di scatto e al momento non riconosco la voce o la figura alta e scura che sta correndo verso di me. La figura rallenta.

— Oh… sei tu, Lou. Temevo che fosse il vandalo venuto a combinare altri danni. Cos’hai intenzione di fare, comprare una nuova serie di ruote?

È Danny. Sento tremarmi le ginocchia dal sollievo. — No. Questa è la ruota di scorta. Ho intenzione di metterla, poi portare la ruota danneggiata a una rivendita di gomme e fargliene adattare una nuova. Poi tornerei qui e cambierei un’altra ruota danneggiata con quella riparata. E domani potrei ripetere l’operazione.

— Ma… avresti potuto chiamare qualcuno e fartele cambiare tutt’e quattro. Perché hai scelto la soluzione più faticosa?

— Perché nessuno poteva servirmi prima di domani o dopodomani, così hanno detto. Un uomo mi ha suggerito di comprare una serie di gomme montate e cambiarle io stesso, se volevo un lavoro svelto. Così io ci ho pensato e ho ricordato la ruota di scorta. Ho immaginato come poter cambiare le gomme da me e risparmiare tempo e denaro, e ho deciso di cominciare a farlo appena arrivato a casa…

— Sei appena arrivato?

— Stamattina ho fatto tardi al lavoro, così ho dovuto reintegrare il tempo perduto. Il signor Crenshaw era molto arrabbiato con me.

— Sì, ma in questo modo ti ci vorranno diversi giorni. E comunque il negozio chiude tra meno di un’ora. Pensi di prendere un tassi?

— No, vado a piedi facendo rotolare la ruota. — La ruota con la sua gomma flaccida sembra mi prenda in giro: è già stato abbastanza duro farla rotolare da una parte.

— Vai a piedi? — Danny scuote la testa. — Non ce la farai mai, amico. Meglio metterla nella mia auto. Ti darò un passaggio. Peccato non poterne portare due… Ma aspetta, possiamo.

— Io non ho due gomme di scorta — dico.

— Puoi adoperare la mia, abbiamo ruote di dimensioni uguali. — Questo non lo sapevo. Noi non abbiamo né la stessa marca né lo stesso modello di automobile, e macchine diverse spesso non hanno le ruote di grandezza uguale. Lui come poteva saperlo? — E ricordati di serrare i bulloni opposti… non a fondo!… e poi i rimanenti. Poi serra a fondo, sempre gli opposti a coppie, va bene? Tu mantieni così bene la tua automobile che probabilmente non hai mai avuto bisogno di sapere questo.

Mi chino a serrare i bulloni. Dopo ciò che mi ha detto, ricordo esattamente che me lo aveva detto anche il mio istruttore. È uno schema anche questo, uno schema semplice. Mi piacciono gli schemi simmetrici. Appena ho finito vedo Danny di ritorno con la sua ruota di scorta. Guarda l’orologio.

— Dovremo sbrigarci — dice. — Ti dispiace se la prossima la cambio io? Ho molta più pratica di te.

— No, non mi dispiace — rispondo. Non sto dicendo l’intera verità. Se davvero lui ha ragione e io potrò avere due gomme nuove stasera, questo mi sarà di grande aiuto; però Danny si sta introducendo a forza nella mia vita, mi sta mettendo fretta, mi fa sentire lento e stupido. E questo mi dispiace. Lui però si sta comportando come un amico. Sta cercando di aiutarmi. È importante essere riconoscenti quando uno ci aiuta.

Alle 20.21 ambedue le ruote di scorta sono montate nel retro della mia macchina, che ha un aspetto buffo con le gomme anteriori a terra e quelle posteriori gonfie. Le ruote inservibili sono nel portabagagli dell’auto di Danny e io sono seduto accanto a lui. Di nuovo lui accende la radio e una musica violentemente ritmica mi scuote i nervi. Vorrei balzar fuori, i suoni sono troppo rumorosi e sono sbagliati. Danny mi parla, ma io non riesco a capire ciò che dice: i suoni e la sua voce si confondono.

Quando arriviamo alla rivendita di gomme, lo aiuto a portare le ruote sgonfie nel negozio. L’impiegato mi guarda quasi senza espressione. Prima che io possa cominciare a spiegargli cosa voglio, lui scuote la testa.

— È troppo tardi — dice. — Non possiamo cambiare gomme a quest’ora.

— Ma siete aperti fino alle nove — obietto.

— Il negozio sì; ma non cambiamo gomme così tardi. — Guarda verso la porta del negozio, dove un uomo dinoccolato in calzoni blu scuro e camicia avana con un taschino sta appoggiato allo stipite e si sta pulendo le mani con uno straccio rosso.

— Non sono potuto arrivare prima — spiego. — E comunque voi siete aperti fino alle nove.

— Senta, signore — dice l’impiegato. Ha sollevato un angolo della bocca, ma non in un sorriso e nemmeno in un mezzo sorriso. — Gliel’ho detto: è arrivato troppo tardi. Anche se volessimo metterle gomme nuove alle ruote, dovremmo trattenerci qui fino a dopo le nove. E scommetto che lei non si trattiene fino a tardi solo per finire un lavoro che qualche idiota le ha appiccicato all’ultimo momento.

Apro la bocca per dire che io ho davvero fatto tardi al lavoro ed è per questo che sono arrivato tardi qui, ma Danny ha fatto un passo avanti. L’uomo dietro il bancone di colpo si raddrizza e pare allarmato; comunque Danny sta guardando l’uomo accanto alla porta.

— Ciao, Fred — dice con voce lieta, come se avesse incontrato un amico. Ma in sottofondo c’è uno strano filo di acciaio nella sua voce. — Come te la passi di questi tempi?

— Ah… bene, signor Bryce. Mi mantengo pulito.

A me non pare. Ha macchie nere sulle mani e le unghie sporche; anche i suoi calzoni e la camicia sono macchiati.

— Bravo Fred, bravo. Guarda, a questo mio amico hanno vandalizzato la macchina ieri notte. E ha dovuto far tardi al lavoro perché era arrivato tardi stamattina. Io speravo proprio che tu potessi dargli una mano.

L’uomo alla porta guarda quello dietro il bancone e le loro sopracciglia vanno su e giù. Poi l’uomo dietro il bancone si stringe nelle spalle. — Dovrai chiudere tu — dice; poi si rivolge a me. — Suppongo lei sappia che genere di gomme vuole.

Certo che lo so. Ho comprato gomme qui solo pochi mesi fa, perciò so cosa dire.

Sono le 21.17 quando io e Danny ce ne andiamo con due ruote rimesse a nuovo. Fred le fa rotolare fuori e le mette nel portabagagli della sua macchina. Io mi sento stanchissimo. Non so perché Danny mi stia aiutando. Non mi piace l’idea della sua ruota di scorta sulla mia macchina; è una cosa sbagliata, come un pezzo di pesce in uno spezzatino di carne. Quando arriviamo a casa lui mi aiuta a montare le gomme nuove al posto delle ruote anteriori della mia auto e a mettere le due ruote ancora sgonfie nel portabagagli. Solo allora mi rendo conto che domani mattina potrò andare in macchina al lavoro e a mezzogiorno potrò sostituire tutt’e due le gomme tagliate.

— Grazie tante — dico. — Adesso posso usare l’auto.

— Certo che puoi — dice Danny e sorride, un sorriso autentico stavolta. — Ascolta un suggerimento: cambia posto alla tua macchina. Mettila verso il retro del parcheggio.

— Buona idea — dico. Sono talmente stanco che mi costa molto dirlo.

— Por nada - risponde Danny, mi fa un cenno di saluto ed entra in casa.

Salgo in macchina. L’aria è un poco stantia, ma il sedile è a posto. Sto tremando un poco. Accendo il motore e poi la musica… la mia musica… e lentamente faccio marcia indietro, giro di fianco alle altre macchine e vado a fermarmi al posto che Danny mi ha indicato. È vicino alla sua auto.

Stento ad addormentarmi, anche se sono così stanco, o forse proprio a causa di questo. Mi fanno male le gambe e la schiena. Continuo a pensare di udire rumori e a svegliarmi di soprassalto. Infine metto di nuovo la mia musica, Bach stavolta, e finalmente mi addormento cullato dalla sua armonia.

Al mattino faccio colazione, mi preparo il pranzo ed esco. Per le scale incontro Danny.

— A mezzogiorno farò sostituire le gomme tagliate — gli dico. — Ti restituirò la ruota di scorta stasera.

— Non c’è fretta — risponde. — Oggi non userò la macchina.

Io però gli restituirò la ruota ugualmente, perché non la voglio sulla mia auto. È una stonatura perché non è la mia.

Arrivo al lavoro con cinque minuti di anticipo e trovo nell’atrio il signor Crenshaw e il signor Aldrin che parlano. Il signor Crenshaw mi guarda. Ha gli occhi lucidi e duri. Non mi piace guardarli, ma non abbasso i miei.

— Niente gomme a terra oggi, Arrendale?

— No, signor Crenshaw — dico.

— La polizia ha poi trovato quel vandalo?

— Non lo so. — Vorrei andare nel mio ufficio, ma c’è lui di mezzo e io dovrei spingerlo da parte. Questo non è educato.

— Chi è l’agente che si occupa del caso? — chiede il signor Crenshaw.

— Non ricordo il suo nome, ma ho scritte qui le sue specificazioni — dico tirando fuori di tasca il portafogli.

Il signor Crenshaw alza le spalle e scuote la testa. La sua fronte si è aggrottata. — Lascia stare — dice, poi si volge al signor Aldrin. — Vieni, andiamo nel mio ufficio a parlarne con comodo. — Si volta e il signor Aldrin lo segue. Adesso posso andare in ufficio.

Non so perché il signor Crenshaw abbia chiesto il nome del poliziotto e poi non abbia voluto guardare la carta che quello mi ha data. Vorrei chiedere al signor Aldrin di spiegarmelo, ma se n’è andato anche lui. Non so perché il signor Aldrin, che è una persona normale, segua dappertutto il signor Crenshaw in quel modo. Forse ne ha paura? Le persone normali possono avere paura l’una dell’altra? E se è così, che vantaggio c’è a essere normali?

Espello queste idee dalla mia mente per mettermi al lavoro.

A mezzogiorno porto le ruote in un’altra officina vicino al campus e le lascio per far sostituire le gomme danneggiate. Ho scritto di che tipo e di che dimensioni le voglio e porgo il biglietto all’impiegata dietro il banco. È una donna della mia età con capelli corti e neri; porta una camicetta avana con una targhetta ricamata in rosso che dice: SERVIZIO CLIENTI.

— Grazie — dice lei, e mi sorride. — Non sa quanta gente viene qui senza la minima idea di che tipo di gomme vuole e quanta confusione fa.

— Ma è facile scriverlo — dico.

— Già, ma loro non ci pensano. Vuole aspettare o ritornare dopo?

— Ritornerò dopo — rispondo. — Fino a che ora siete aperti?

— Fino alle nove, ma può tornare anche domani.

— Tornerò prima delle nove — dico. La donna fa passare la mia carta di credito nella macchinetta apposita e scrive sul buono d’ordine: "Pagamento anticipato".

— Ecco la sua copia — dice. — Non la dimentichi… per quanto, uno che è tanto furbo da scriversi il tipo di gomme che gli servono è certo anche abbastanza furbo da non perdere le ricevute.

Ritorno alla macchina sentendomi più sollevato. È facile ingannare la gente e far pensare loro che sono uguale agli altri in incontri di questo genere. Se poi all’altra persona piace parlare, come a quella donna, è ancora più agevole. Io non devo fare altro che dire poche frasi convenzionali, sorridere ed è fatta.

Il signor Crenshaw si trova di nuovo nel nostro atrio quando ritorno al campus, tre minuti prima della fine della pausa di un’ora per il pranzo. Gli si contrae il viso quando mi vede, non capisco perché. Si volta quasi subito e se ne va, senza parlarmi. Talvolta quando le persone non parlano è perché sono in collera, ma io non so cosa possa aver fatto per farlo irritare. Va bene che sono arrivato tardi due volte negli ultimi tempi, ma nessuna delle due volte per colpa mia. La prima volta non ho causato io l’incidente automobilistico, e la seconda volta non ho rovinato io le mie gomme.

È difficile concentrarmi nel lavoro.

Arrivo a casa alle 19.00 con le gomme nuove su tutt’e quattro le ruote e le ruote di scorta mia e di Danny nel portabagagli. Decido di fermarmi di nuovo accanto alla macchina di Danny, anche se non so se lui sia a casa. Se le due macchine sono vicine, sarà più facile trasferire la ruota di scorta dalla mia alla sua.

Busso alla sua porta. — Sì? — risponde la sua voce.

— Sono Lou Arrendale — dico. — Ho la tua ruota in auto.

Sento i suoi passi che si avvicinano alla porta. — Lou, te l’avevo detto, non c’era bisogno di tanta fretta. Tuttavia grazie. — Apre la porta. Sul pavimento del suo appartamento c’è la stessa moquette screziata di marrone, beige e ruggine che ho anche nel mio; io però l’ho coperta con qualcosa che non mi faccia male agli occhi. Danny ha un grande schermo TV grigio scuro; gli altoparlanti sono blu e sono scompagnati. Ha un divano marrone a quadratini più scuri: lo schema è regolare, ma non va d’accordo con la moquette. Una giovane donna è seduta sul divano. Porta un vestito a disegni gialli e verdi su fondo bianco, che stona sia con la moquette che con il divano. Danny la guarda. — Lyn, devo andare a prendere la mia ruota di scorta dalla macchina di Lou.

— Bene. — La donna sembra indifferente e guarda il tavolino basso. Mi chiedo se sia la ragazza di Danny.

Danny dice: — Lyn, questo è Lou che abita nell’appartamento sopra il mio. Ieri ha preso in prestito la mia ruota.

— Ciao — mi saluta lei guardandomi e subito riabbassando gli occhi.

— Ciao — rispondo io, e guardo Danny che va alla scrivania a prendere le chiavi della macchina. Il ripiano della scrivania è molto ordinato, con solo una cartella portacarte e un telefono.

Scendiamo e andiamo al parcheggio. Io apro il portabagagli della mia macchina e Danny prende la sua ruota. Apre il portabagagli della sua auto, la mette dentro e richiude.

— Grazie per l’aiuto — dico.

— Nessun problema — risponde lui. — Sono contento di averti potuto aiutare. E grazie per avermi riportato la ruota così presto.

— Oh, prego — dico. Non mi sembra giusto dire solo "prego" quando lui è stato tanto cortese con me, ma non so cos’altro dire.

Lui rimane a guardarmi per un po’ senza parlare, poi conclude: — Be’, ci vediamo — e se ne va. Naturale che ci vedremo, visto che abitiamo nella stessa casa. Ma forse quelle parole volevano dire che lui non desiderava rientrare nel palazzo insieme a me. Allora perché non l’ha detto chiaro e tondo, se era questo che voleva dire? Ritorno alla mia macchina e aspetto finché non sento il portone del palazzo aprirsi e chiudersi.

Se accettassi il trattamento, capirei tutte queste cose? Era forse a causa della donna nel suo appartamento? Se Marjory venisse a farmi visita, forse non vorrei che Danny tornasse a casa insieme a me? Non lo so. Certe volte il motivo per cui le persone normali fanno le cose mi sembra ovvio, ma altre volte non riesco proprio a capirlo.

Finalmente rientro anch’io in casa. Metto una musica calmante: i preludi di Chopin. Verso due tazze d’acqua in un pentolino e apro un pacchetto di pasta e verdura. Appena l’acqua bolle vi getto il contenuto del pacchetto e mescolo come dicono le istruzioni. Mi piace vedere le verdure agitarsi nell’acqua che bolle.

Talvolta però mi stancano queste verdure che si agitano stupidamente.

9

Tutti i venerdì faccio il bucato, così da avere libero il fine settimana. Ho due cestini per i panni, uno per quelli bianchi e uno per quelli colorati. Tolgo le lenzuola dal letto e la federa dal cuscino e le metto nel cestino della roba bianca. Gli asciugamani vanno nell’altro cestino. Mia madre adoperava due cestini di plastica celeste per dividere i panni; ne chiamava uno bianco e uno scuro, e questo non mi piaceva. Io uso un cestino di vimini verde scuro per i panni colorati e uno di vimini non tinto per i panni bianchi.

Prendo l’esatto numero di spiccioli dalla scatola dove ripongo le monete, più uno di riserva in caso che uno di essi non faccia funzionare la macchina. Mi faceva andare in collera il fatto che una moneta perfettamente regolare non mettesse in funzione la macchina. Mia madre allora m’insegnò a prendere sempre una moneta in più. È inutile arrabbiarsi per cose da poco, mi diceva.

Mi metto in tasca le monete, ficco la scatola del detersivo nel cestino chiaro e lo metto sopra quello scuro. La luce dovrebbe sempre andare sopra al buio: è una questione di equilibrio.

Mi fisso in mente un preludio di Chopin e scendo in lavanderia, Come sempre il venerdì sera ci trovo solo la signorina Kimberly. È vecchia, con capelli grigi crespi; mi chiedo se pensi al trattamento per prolungare la vita o se sia troppo anziana per sottoporvisi. Porta calzoni di maglia leggera verde chiaro e una camicetta a fiori, il suo abbigliamento solito quando fa caldo.

— Buonasera, Lou — mi dice. Ha già completato il suo bucato e sta mettendo i panni lavati nell’asciugatrice di sinistra. Adopera sempre quella.

— Buonasera, signorina Kimberly — saluto io.

— Hai avuto una buona settimana? — chiede. Me lo domanda sempre, ma non so se le importa davvero che io abbia avuto o no una buona settimana.

— Mi hanno tagliato le gomme — dico.

Lei smette di infilare i panni nell’asciugatrice e mi guarda. — Qualcuno ti ha tagliato le gomme? Dove? Qui o al lavoro?

Non so perché questo faccia differenza. — Qui — dico. — Quando sono uscito giovedì mattina avevo tutt’e quattro le gomme a terra.

Lei sembra turbata. — Proprio qui nel nostro parcheggio? Io credevo che questo fosse un posto sicuro!

— È stata una grossa noia — dico. — E ho fatto tardi al lavoro.

— Ma… vandali! Qui! — Sul suo viso c’è un’espressione che prima non vi avevo mai vista: qualcosa come un misto di paura e di disgusto. Poi la signorina assume un’aria irritata e mi guarda come se avessi fatto qualcosa di male. Io distolgo gli occhi. — Dovrò trasferirmi — dice.

Non capisco: perché pensa di doversi trasferire a causa delle mie gomme tagliate? Nessuno potrebbe tagliare le sue perché non ne ha: non possiede un’automobile.

— Hai visto chi è stato? — domanda. Ha lasciato una parte dei suoi panni penzolanti dal bordo della macchina.

— No — dico. Prendo i panni bianchi dal loro cestino e li metto nella lavatrice di destra; poi aggiungo il detersivo, misurandolo con cura perché sarebbe uno spreco usarne troppo, ma d’altra parte le mie cose non verrebbero pulite se ne usassi troppo poco. Infilo le monete nella fessura, chiudo lo sportello, regolo la macchina per il lavaggio caldo, risciacquo freddo, ciclo regolare e premo il tasto START. Nella macchina si produce come un tonfo e l’acqua gorgoglia attraverso le valvole.

— È terribile — commenta la signorina Kimberly. Sta mettendo il resto della sua roba nell’asciugatrice e le tremano le mani. Io tolgo i panni colorati dal loro cestino e li metto nella lavatrice di mezzo. — Queste cose vanno bene per gente come te — dice lei.

— Cos’è che va bene per gente come me? — chiedo. La signorina non mi ha mai parlato così prima d’ora.

— Tu sei giovane e sei un uomo — spiega. — Non hai preoccupazioni.

Non capisco. Secondo il signor Crenshaw io non sono giovane: sono abbastanza vecchio da aver giudizio. E sono certo un uomo, ma non comprendo perché questo giustifichi il massacro delle mie gomme.

— Io non volevo che mi tagliassero le gomme — dico, parlando lentamente perché non so cos’ha in mente la signorina.

— Naturale che non lo volevi — mi tranquillizza lei in fretta. Di solito la sua pelle appare pallida e giallastra sotto il neon della lavanderia, ma adesso sulle sue guance sono apparse due macchie rosse. — Tu però non devi preoccuparti che qualcuno ti salti addosso. Uomini.

Guardo la signorina e non riesco a immaginare che qualcuno possa saltarle addosso. Ha i capelli grigi e abbastanza radi da far vedere il rosa del cranio, ha molte rughe e macchie scure sulle braccia. Vorrei chiederle se parla sul serio, ma so che è serissima. Non ride nemmeno di me quando faccio cadere qualcosa.

— Mi dispiace che lei sia preoccupata — dico versando detergente nella lavatrice piena di panni colorati. Infilo le monete nella fessura. La porta dell’asciugatrice si chiude con fragore: io l’avevo dimenticata del tutto nel cercare di comprendere le angosce della signorina Kimberly, così sobbalzo e una delle monete mi cade nella lavatrice. Adesso dovrò tirar fuori tutto per cercarla, e il detersivo si spargerà sulla macchina e sul pavimento. Sento un ronzio nella testa.

— Grazie, Lou — dice la signorina. La sua voce si è fatta più calma e più calda. Sono sorpreso: non mi aspettavo di aver detto la cosa giusta. — Cosa c’è che non va? — domanda mentre io comincio a togliere i panni dalla macchina, scuotendoli perché il detersivo vi ricada dentro.

— Ho fatto cadere una moneta nella macchina — dico.

Lei mi si sta avvicinando. Io non voglio che mi venga accanto. Porta un profumo troppo acuto e dolciastro.

— Lascia stare, usane un’altra. Poi tirerai fuori la moneta perfettamente pulita insieme ai panni — mi dice.

Rimango immobile un istante con i panni in mano. Posso lasciare la moneta nella macchina? Sì, ne ho un’altra in tasca. Lascio cadere la mia roba e tiro fuori la moneta. La infilo nella fessura, chiudo lo sportello, regolo la lavatrice e premo START. Di nuovo il tonfo e il gorgogliare dell’acqua. Mi sento strano. Credevo di capire la signorina Kimberly prima, quando era la solita vecchia signora che faceva il bucato il venerdì sera come me. Credevo di averla capita pochi minuti fa, almeno abbastanza da comprendere che era sconvolta per qualche ragione. Ma lei ha pensato a una soluzione del mio problema immediatamente, mentre io ritenevo che fosse ancora troppo turbata. Come ha fatto a immaginare la soluzione? È forse qualcosa che la gente normale fa abitualmente?

— È più facile fare così che togliere i panni — spiega lei. — In questo modo non sporchi nulla e poi non devi far la fatica di ripulire. Io porto sempre con me un po’ di monete extra a scanso di guai. — Fa una risatina malinconica. — Con l’avanzare dell’età, a volte le mani mi tremano. — Fa una pausa e mi guarda: mi rendo conto che aspetta qualcosa da me.

— Grazie — le dico.

Ho detto di nuovo la cosa giusta: lei mi sorride.

— Sei un caro ragazzo, Lou; mi dispiace per le tue gomme — dice, e guarda l’orologio. — Ho delle telefonate da fare. Tu resti qui? Badi all’asciugatrice?

— Rimango qui giù — dico — ma non in questa stanza, è troppo rumorosa. — Gliel’ho già detto altre volte, quando lei mi chiedeva di tener d’occhio la sua roba.

La signorina Kimberly esce e anch’io vado nell’atrio.

Il pavimento della lavanderia è di un brutto cemento grigio, un poco in discesa verso un grosso canale di scolo coperto posto sotto le macchine. Quello dell’atrio è di mattonelle, ognuna a righe in due toni di verde e beige. Ogni mattonella è un quadrato di trenta centimetri di lato; l’atrio è largo cinque quadrati e lungo quarantacinque quadrati e mezzo. La persona che ha disposto le mattonelle le ha messe in modo che le righe s’incrocino reciprocamente… cioè, ogni mattonella è disposta in modo che le sue righe formino un angolo di novanta gradi con le strisce della mattonella vicina. La maggior parte delle mattonelle sono messe nell’uno o nell’altro di due sensi, ma otto di esse sono disposte in senso capovolto rispetto alle altre.

Mi piace guardare questo pavimento e pensare a quelle otto mattonelle. Quale schema poteva essere completato solo disponendo le otto mattonelle in quel modo? Finora sono riuscito a immaginare tre schemi possibili. Una volta cercai di parlarne con Tom, ma lui non è in grado di vedere gli schemi nella sua mente come succede a me. Io allora feci un disegno su un foglio di carta, però ben presto mi accorsi che lui si annoiava. Non è educato annoiare la gente, così non gliene ho parlato più.

Io comunque trovo il pavimento dell’atrio di un interesse inesauribile.

Sento la centrifuga di una delle lavatrici cambiar rumore e torno in lavanderia. So che per arrivare alla lavatrice mi ci vuole esattamente il tempo che impiega la centrifuga a fermarsi. È come un gioco fare l’ultimo passo mentre la centrifuga compie l’ultimo giro. L’asciugatrice di sinistra sta ancora brontolando. Io prendo i miei panni bagnati e li metto nell’asciugatrice di destra. L’ho appena caricata e controllato che nella lavatrice non sia rimasto niente quando anche la seconda lavatrice finisce il suo ciclo.

Tolgo la mia roba anche da questa macchina e in fondo trovo la mia moneta tutta lucida e pulita. La intasco, metto i panni nell’asciugatrice, inserisco le monete e accendo.

La signorina Kimberly ritorna proprio nel momento in cui l’asciugatrice con la sua roba si arresta. Mi sorride. Porta un piatto con sopra alcuni biscotti. — Grazie, Lou — dice, e mi porge il piatto. — Prendine qualcuno. So che ai ragazzi… volevo dire ai giovanotti come te… piacciono i biscotti.

Ne porta quasi tutte le settimane. A volte alcuni tipi di biscotti che lei fa non mi piacciono molto, ma non glielo dico. Questa sera sono biscottini al limone, che mi piacciono moltissimo: ne prendo tre. La signorina mette il piatto sul tavolo pieghevole e tira fuori il suo bucato dall’asciugatrice mettendolo direttamente nel cestino: non ripiega i panni quaggiù. — Quando avrai fatto riportami il piatto, Lou — chiede. Aveva detto la stessa cosa la settimana scorsa.

— Grazie, signorina Kimberley — dico.

— Di nulla, di nulla — risponde lei, come sempre. Finisco i biscotti, lascio cadere le briciole nel cestino della spazzatura e ripiego i miei panni prima di salire in casa. Lascio il piatto alla signorina Kimberley e vado nel mio appartamento.

Il sabato mattina io vado al Centro. Uno dei consulenti è a nostra disposizione dalle 8.30 alle 12.00, e una volta al mese c’è un programma speciale. Oggi non c’è programma, ma quando arrivo vedo Maxine, una consulente, andare verso il suo studio. Bailey non mi ha detto se è a lei che hanno parlato la settimana scorsa. Penso se sia il caso di parlarle, ma qualcuno entra da lei prima che io abbia potuto prendere una decisione.

I consulenti sanno come trovarci assistenza legale o un appartamento, ma non so se saranno capaci di capire il problema che dobbiamo affrontare adesso. Loro c’incoraggiano sempre a fare tutto il possibile per diventare più normali. Ora, credo, diranno che dovremmo desiderare questo nuovo trattamento anche se è troppo pericoloso da tentare mentre si trova ancora alla fase sperimentale. Una volta o l’altra io dovrò parlare con qualcuno qui, ma sono contento che un altro mi abbia preceduto. Non devo farlo per forza adesso.

Sto guardando il cartellone degli annunci con le notizie delle riunioni dei vari gruppi che si radunano al Centro quando Emmy mi si avvicina. — Bene, come va la tua ragazza?

— Io non ho una ragazza — rispondo.

— Io l’ho vista — insiste lei. — Lo sai che l’ho vista. Non dire bugie.

— Tu hai visto una mia amica — dico. — Non la mia ragazza. Un’amica può diventare la propria ragazza quando acconsente a esserlo, ma lei non ha acconsentito. — Non sono proprio onesto e questo non è bello, però io continuo a non voler parlare con Emmy di Marjory.

— Tu gliel’hai domandato? — continua lei.

— Non desidero parlare di lei con te — dico, e mi volto per andarmene.

— Perché sai che ho ragione — dice Emmy e mi gira intorno, piantandosi di nuovo di fronte a me. — Lei è una di quelle persone che si definiscono normali e ci usano come cavie. Tu stai sempre appiccicato a loro, Lou, e questo non è bene.

— Non so cosa tu voglia intendere — dico. Io vedo Marjory solo una volta alla settimana, perciò come si può dire che sto "appiccicato" a lei? Se venissi al Centro tutte le settimane e ci trovassi Emmy, questo significherebbe che sto appiccicato a lei? L’idea mi disgusta.

— Sono mesi che non partecipi a nessuno degli eventi speciali — insiste lei. — Il tuo tempo lo passi con i tuoi amici normali. - Pronuncia "normali" come una parolaccia.

Non ho partecipato a nessuno degli eventi speciali da mesi perché non m’interessano. Una conferenza su come educare i figli? Ma io non ho figli. Un ballo? La musica che vi suonerebbero non è quella che piace a me. La presentazione di un corso per ceramisti? Io non voglio confezionare oggetti di creta. Adesso che ci penso, mi rendo conto che ormai il Centro offre davvero pochissime cose che m’interessino. Fa comodo per incontrare altri autistici, ma non tutti sono come me, e trovo più persone che condividano i miei interessi : Internet o in ufficio. Cameron, Bailey, Eric, Linda… tutti andiamo al Centro per incontrarci prima di andare da qualche parte, ma è solo un’abitudine. Non abbiamo davvero bisogno del Centro tranne di tanto in tanto per parlare con i consulenti.

— Se vai in cerca di ragazze, dovresti cominciare da quelle che ti somigliano — torna alla carica Emmy.

Guardo il suo viso che porta tutti i segni fisici della collera: la pelle arrossata, gli occhi strizzati e troppo scintillanti, la bocca squadrata, i denti quasi digrignanti. Non so perché sia sempre così arrabbiata con me e non so perché le importi che io vada al Centro oppure no. Non credo comunque che lei mi somigli. Emmy non è autistica. Non conosco il suo handicap e non m’interessa.

— Non sono in cerca di ragazze — dico.

— Allora è lei che cerca te?

— Ho detto che non desidero parlare di questo con te — ripeto. Mi guardo intorno e non vedo nessuno che conosco. Pensavo che Bailey sarebbe venuto stamattina, ma può darsi che lui si sia accorto prima di me di quello che io ho capito solo oggi. Magari non è venuto perché si è reso conto di non aver bisogno del Centro. E io non voglio restar qui ad aspettare che Maxine sia libera.

Faccio per andarmene, ma Emmy ha ancora qualcosa da dire. — Dove credi di andare? — domanda. — Sei appena arrivato. Non pensare di poterti sottrarre ai tuoi problemi, Lou!

Posso sottraimi a lei, però. Non posso sfuggire al lavoro o alla dottoressa Fornum, ma posso sfuggire a Emmy. Pensando a questo sorrido, e lei si fa ancora più rossa in faccia.

— Cos’hai da sorridere?

— Sto pensando a una musica — dico. Questa è una scusa sempre plausibile. Non voglio guardare Emmy con quella faccia rossa, lucida e rabbiosa. Lei mi sta piantata davanti come volesse costringermi ad affrontarla, ma io guardo a terra. — Penso sempre a una musica quando qualcuno va in collera con me — aggiungo. Questo spesso è vero.

— Oh, sei impossibile! — lei scatta, e si allontana a passi pesanti. Mi chiedo se abbia qualche amico, perché non la vedo mai con altra gente. È triste, ma io non posso farci nulla.

Fuori tutto sembra più tranquillo, benché il Centro si trovi in una strada molto frequentata. Non ho alcun progetto. Se non passo la mattinata di sabato al Centro, non so con precisione cosa fare. Il bucato l’ho fatto, e le pulizie di fino al mio appartamento anche. I testi dicono che noi autistici non ce la caviamo bene con le incertezze e i cambiamenti di programma. Di solito queste cose non mi disturbano, ma questa mattina mi sento incerto. Mi ha disturbato tutto il parlare che Emmy ha fatto di Marjory.

Vorrei vederla adesso. Vorrei che potessimo fare qualcosa insieme, o che io potessi anche solo guardarla parlare con qualcun altro. Me ne accorgerei se le piacessi? Credo di piacerle. Tuttavia non so se le piaccio molto o un poco. Non so se le piaccio come un uomo piace a una donna o come un bambino piace a una persona adulta. Non so come fare a capirlo. Se fossi normale lo capirei, credo. Le persone normali devono capirlo, altrimenti non potrebbero mai sposarsi.

La settimana scorsa a quest’ora ero al torneo. Mi stavo divertendo. Preferirei trovarmi di nuovo lì piuttosto che qui; anche con tutto quel rumore, quell’affollamento, quegli odori. Era un posto dove mi trovavo a mio agio: qui non mi ci trovo più. Sto cambiando, credo, o piuttosto sono già cambiato.

Decido di tornare a piedi a casa, anche se è lontana. Fa più fresco adesso, e in alcuni giardini lungo la strada si vedono già sbocciare fiori autunnali. Il ritmo dei miei passi allevia la tensione e mi rende più facile ascoltare la musica che ho scelto per accompagnare la mia passeggiata. Vedo altre persone con gli auricolari: stanno ascoltando musica registrata o trasmessa. Mi chiedo se quelle senza auricolari stanno ascoltando la propria musica mentale o camminano senza musica.

Sono quasi arrivato a casa quando mi ferma un profumo di pane fresco. Trovo in una traversa una piccola panetteria e compro un filoncino di pane appena sfornato. Accanto alla panetteria c’è un fioraio la cui vetrina espone masse di fiori viola, gialli, azzurri, bronzo, rosso cupo. Quei colori trasmettono molto più che lunghezze d’onda di luce: irradiano gioia, orgoglio, tristezza, consolazione. Me ne sento quasi sopraffare.

Registro quei colori e quelle forme e porto a casa il pane annusando la sua fragranza e combinandola con i colori accanto ai quali passo. C’è una casa dietro un cortile che ha un rosaio rampicante tutto fiorito lungo la facciata: anche attraverso il cortile mi giunge il suo profumo.

È passata una settimana ormai, e né il signor Aldrin né il signor Crenshaw hanno più detto niente sul trattamento. Non ci sono giunte altre lettere. Sarebbe bello se ciò significasse che qualcosa non funziona nel progetto e che loro ci hanno rinunciato, ma non credo proprio che se ne siano dimenticati, anzi. Il signor Crenshaw sembra sempre così collerico, sia nell’aspetto che nella voce. La gente collerica non dimentica le ingiurie, perché il perdono dissolve la collera, questo era l’argomento del sermone domenicale. La mia mente non dovrebbe divagare durante il sermone, ma spesso mi annoio un poco e penso ad altre cose. La collera e il signor Crenshaw mi sembrano argomenti correlati.

Lunedì tutti noi riceviamo l’avviso che dobbiamo riunirci sabato prossimo. Non ho voglia di perdere il mio sabato, ma non sembra possano esserci scuse valide per non partecipare. Adesso vorrei aver aspettato per parlare a Maxine al Centro, ma è troppo tardi.

— Credi che dobbiamo andare davvero? — domanda Chuy. — Ci licenzieranno se non andiamo?

— Non lo so — dice Bailey. — Io comunque voglio sapere cosa faranno, perciò ho deciso di andare.

— Andrò anch’io — annuncia Cameron. Io annuisco, e così fanno anche gli altri. Linda pare molto infelice, ma dopo tutto lei ha sempre un’aria infelice.

— Guarda… ehm… Pete… — La voce di Crenshaw trasudava affabilità ipocrita, e Aldrin notò che gli riusciva difficile ricordare il suo nome. — Tu credi, lo so bene, che io sia un bastardo dal cuore di pietra, ma il fatto è che la compagnia finanziariamente non è in buone acque. La produzione aerospaziale è necessaria, però sta divorando profitti in un modo che non crederesti.

"Ah, non lo crederei?" pensò Aldrin. A parer suo quella era stata una stupidaggine: i vantaggi che si ricavavano dagli impianti a bassa gravità e a gravità zero erano peggio che annullati dalle spese e dagli inconvenienti che comportavano. Ci si poteva arricchire benissimo giù sulla Terra, e lui non avrebbe mai votato per l’impegno aerospaziale se gli avessero concesso il diritto di voto.

— I tuoi ragazzi sono fossili, Pete, renditene conto. Gli autistici più vecchi di loro erano da buttar via al novanta per cento. E non mi citare quella donna, come si chiamava, quella che disegnava mattatoi o che altro…

— La Grandin — mormorò Aldrin, ma Crenshaw non sentì.

— Una su un milione, e io nutro il massimo rispetto per chi sa innalzarsi al di sopra delle proprie menomazioni come fece lei. Quella donna però rimane un’eccezione. La maggior parte di quegli altri poveri bastardi erano esseri inutili. Non per colpa loro, lo ammetto… ma insomma non erano buoni a nulla, né per sé né per gli altri, a dispetto di quanto si spendeva per curarli. E se i dannati psicologi avessero mantenuto il loro monopolio della categoria, i tuoi ragazzi si sarebbero trovati nelle stesse condizioni di quei poveracci. La loro fortuna è stata che a un certo punto hanno cominciato a curarli i neurologi e i behavioristi. Comunque, diciamolo chiaro e tondo: non sono normali.

Aldrin non disse nulla: tanto Crenshaw non lo avrebbe ascoltato. Crenshaw prese il suo silenzio per approvazione e continuò a vele spiegate.

— Infine si sono resi conto di dove stava precisamente il danno e hanno cominciato a metterci rimedio nella prima infanzia… ecco perché i tuoi ragazzi sono fossili, Pete. Sono naufraghi fra il triste passato e il brillante futuro. Non stanno né di qua né di là. Non è giusto.

Nella vita ben poche cose erano giuste, e Aldrin non credeva che Crenshaw fosse abilitato a parlare di giustizia.

— Adesso dirai che loro possiedono certi talenti unici e meritano tutti i costosi accessori che garantiamo loro perché producano. Potevi aver ragione cinque anni fa, Pete, forse anche due anni fa, ma adesso le macchine sono arrivate a prestazioni straordinarie, come succede sempre. — Alzò un opuscolo. — Scommetto che non ti tieni al corrente della letteratura sull’intelligenza artificiale, vero?

Aldrin prese l’opuscolo senza guardarlo. — Le macchine non sono mai state capaci di fare quel che fanno loro — disse.

— C’è stato un tempo in cui le macchine non potevano addizionare due più due — ribatté Crenshaw. — Adesso però tu non assumeresti qualcuno solo per addizionare colonne di cifre con carta e matita, no?

Solo durante un’interruzione della corrente elettrica: le imprese minori trovavano profittevole assumere come contabili persone che all’occorrenza potessero fare addizioni con carta e matita. Ma era inutile menzionare questo fatto.

— Davvero adesso le macchine potrebbero sostituirli? — chiese Aldrin.

— Facilissimamente — affermò Crenshaw. — Be’… non proprio tanto facilmente ora come ora. Ci sarà bisogno di nuovi computer e di un software estremamente sofisticato… ma poi per farli funzionare basterà l’elettricità. Non ci vorranno più tutti quegli stupidi extra di cui i tuoi ragazzi godono.

L’elettricità però bisognava pagarla in continuazione, mentre gli extra per i "suoi ragazzi" erano stati ammortizzati da molto tempo: un’altra cosa di cui Crenshaw non voleva sentir parlare.

— Supponiamo che tutti loro si sottoponessero al trattamento e questo avesse successo… verrebbero comunque sostituiti da macchine?

— Un problema alla volta, Pete, un problema alla volta. Ciò che io voglio è quel che è bene per la compagnia. Se i tuoi ragazzi potranno fare il lavoro come le macchine e costare meno di esse, allora non intendo certo licenziare nessuno. Tieni presente però che noi dobbiamo tagliare le spese… è assolutamente necessario. In questo mercato, l’unico modo di procurarsi investimenti è mostrare la massima efficienza. E quella palestra privata e quegli uffici individuali… nessun azionista li chiamerebbe segni di efficienza.

Parecchi azionisti non consideravano segni di efficienza nemmeno i privilegi di cui godevano i grandi capi, e Aldrin lo sapeva benissimo. Ma non lo disse.

— Allora, Gene, veniamo al sodo… — Era un’audacia chiamare Crenshaw per nome, ma Aldrin in quel momento si sentiva audace. — O loro acconsentono a sottoporsi al trattamento, nel qual caso tu potresti continuare a tenerli nella compagnia, o troverai un modo per costringerli a lasciarsi buttar fuori… legge o non legge.

— La legge non può costringere un’azienda a fallire — disse Crenshaw. — Noi perderemo le facilitazioni fiscali, ma dopo tutto queste sono una parte talmente esigua del nostro bilancio che praticamente non contano. Però, se loro acconsentissero a rinunciare ai loro extra e a comportarsi come impiegati normali, io non insisterei sul trattamento… anche se proprio non riesco a capire perché dovrebbero rifiutarlo.

— Insomma cosa vuoi che faccia? — domandò Aldrin.

Crenshaw sorrise. — Finalmente stai cominciando a vedere le cose dal lato giusto, Pete. Desidero che tu spieghi chiaramente al tuo personale come sta la situazione. In un modo o nell’altro, loro devono smettere di essere un peso per l’azienda: rinunciare ai loro privilegi adesso o sottoporsi al trattamento e rinunciarvi dopo, se davvero è solo l’autismo che rende quei privilegi necessari per loro. Oppure… — Si passò l’indice attraverso la gola. — Non possono permettersi di ricattare la compagnia. Non esiste una legge in questa nazione che noi non possiamo aggirare o far cambiare. — Si lasciò andare sullo schienale della poltrona e si mise le mani sotto la testa. — Non siamo privi di risorse… anzi.

Aldrin si sentì nauseato. Quella era una cosa che aveva saputo da quando era diventato adulto, ma non si era mai innalzato a un tale livello da poterla dire a voce alta… e così era riuscito a tenerla nascosta anche a se stesso.

— Cercherò di spiegare loro tutto questo — disse a voce bassa.

— Pete, devi piantarla di cercare e cominciare ad agire - ribadì Crenshaw. — Tu non sei né stupido né pigro, io lo so. Il tuo unico guaio è che non hai… la grinta.

Aldrin annuì e fuggì dall’ufficio di Crenshaw. Filò dritto in bagno e si lavò le mani con cura… ma si sentiva ancora sporco. Pensò di licenziarsi, di dare le dimissioni. Mia aveva un buon lavoro e per il momento non volevano ancora bambini. Avrebbero potuto farcela per un poco col solo stipendio di lei.

Ma chi si sarebbe preso cura dei suoi ragazzi? Non Crenshaw, certamente. Aldrin scosse la testa guardandosi allo specchio. Stava solo ingannando se stesso se s’illudeva di poterli aiutare. Poteva provarci, ma… chi altri della sua famiglia poteva permettersi di pagare le rette dell’istituto dove viveva suo fratello? E se lui avesse perduto il lavoro?

Cercò di ricordare i suoi contatti: Betty alle Risorse umane, Shirley alla Contabilità. All’ufficio legale non conosceva nessuno. Erano le Risorse umane che si occupavano dei diritti legali degli impiegati aventi necessità particolari; l’ufficio legale interveniva solo in caso di necessità.

Il signor Aldrin ha invitato tutta la sezione a cena. Ci troviamo quindi alla pizzeria, e siccome il nostro gruppo è troppo numeroso per un tavolo solo, sediamo a due tavoli riuniti nella parte sbagliata della sala.

Non mi sento a mio agio col signor Aldrin seduto a tavola con noi, ma non so cosa farci. Lui sorride molto e parla molto. Adesso pensa che quella del trattamento sia una buona idea, dice. Non vuole influenzarci indebitamente, ma crede che il trattamento ci porterebbe beneficio. Io mi sforzo di pensare al sapore della pizza e di non ascoltarlo, ma è difficile.

Poi il signor Aldrin si rilassa un poco. Si fa portare un’altra birra e assume un tono più incerto, più simile a quello dell’uomo che ho conosciuto finora. — Ancora non capisco però la ragione di tanta fretta — dice. — Il costo della vostra palestra e delle altre cose è davvero minimo… una goccia nel mare, se si paragona ai profitti che ci fa guadagnare la vostra sezione. Dello spazio non ne abbiamo bisogno. E poi non ci sono ormai al mondo abbastanza autistici come voi da rendere il trattamento proficuo, quando pure dovesse funzionare perfettamente per tutti voi.

— Secondo le stime recenti, ci sono milioni di autistici solo negli Stati Uniti — dice Eric.

— Sì, ma…

— Il costo dei servizi sociali per tale popolazione, includendo gli istituti di cura per i più handicappati, viene valutato a vari miliardi all’anno. Se il trattamento avesse successo, quel denaro potrebbe essere risparmiato…

— Ma il mercato non sosterrebbe l’impatto di una simile massa di nuovi lavoratori — dice il signor Aldrin. — Inoltre parecchi di loro sono troppo anziani. Jeremy… — S’interrompe di colpo e il suo viso si fa lucido e rosso. È irritato o imbarazzato? Non lo so. Tira un respiro profondo. — Mio fratello — spiega. — È troppo anziano per poter trovare un lavoro, adesso.

— Lei ha un fratello autistico? — domanda Linda, e lo guarda in viso per la prima volta. — Non ce lo aveva mai detto. — Improvvisamente io mi sento nudo, esposto. Credevo che il signor Aldrin non potesse scrutare nella nostra testa, ma se ha un fratello autistico può sapere di noi più di quanto io pensassi.

— Io… non credevo che fosse importante. — Ha ancora il viso rosso e lucido e io penso che non stia dicendo la verità. — Jeremy è più anziano di tutti voi e vive in un istituto…

— Lei ci ha mentito — dice Cameron. Ha stretto le palpebre e sembra in collera. Il signor Aldrin si volge a lui con uno strano scatto della testa.

— Io non…

— Ci sono due tipi di bugie — dice Cameron. Sono sicuro che sta citando qualcosa che gli è stato detto. — La bugia di commissione che attesta una cosa non vera di cui chi parla sa che non è vera; e la bugia di omissione la quale omette di dichiarare una cosa di cui chi parla sa che è vera. Lei ha mentito quando non ci ha detto che suo fratello era autistico.

— Io sono il vostro capo, non il vostro amico — scatta il signor Aldrin. Si è fatto ancora più rosso. Prima aveva detto che era nostro amico. Stava mentendo allora o sta mentendo adesso? — Voglio dire… questa faccenda non ha niente a che vedere col lavoro.

— È la ragione per cui lei voleva essere il nostro supervisore — dice Cameron.

— Assolutamente no. In un primo tempo io non volevo diventare il vostro supervisore.

— In un primo tempo. — Linda lo sta ancora guardando in viso. — Dopo, qualcosa è cambiato. Forse suo fratello?

— No. Voi non somigliate molto a mio fratello. Lui è… molto handicappato.

— Lei vuole il trattamento per suo fratello? — chiede Cameron.

— Io… non lo so.

Nemmeno quest’affermazione ha il suono della verità. Cerco d’immaginare il fratello del signor Aldrin, questa sconosciuta persona autistica. Se il signor Aldrin pensa che suo fratello sia molto handicappato, cosa pensa di noi? Come sarà stata la sua fanciullezza?

— Scommetto che lo vuole — dice Cameron. — Se lei crede che sia una buona idea per noi, deve credere che possa aiutare anche lui. Forse pensa che se riesce a convincerci a sottoporci a esso, la compagnia la ricompenserà facendo curare suo fratello? Lei si sarà dimostrato un bravo ragazzo e le daranno una caramella?

— Quello che dici non è giusto — dice il signor Aldrin alzando la voce. La gente si sta voltando a guardarci. Vorrei che non fossimo qui. — Lui è mio fratello, naturalmente io desidero aiutarlo come posso, ma…

— Il signor Crenshaw le ha forse detto che se ci convinceva suo fratello poteva avere il trattamento?

— Io… non è questo… — I suoi occhi vagano qua e là, la sua faccia cambia colore. La sua espressione esprime sforzo, lo sforzo d’ingannarci in modo convincente. Il mio testo diceva che le persone autistiche sono credulone e facili da raggirare perché non afferrano le sfumature della comunicazione. Ma io non credo che la menzogna sia una sfumatura, credo che mentire sia davvero una brutta cosa. Mi dispiace che il signor Aldrin ci stia mentendo, ma sono contento che non riesca a farlo bene.

— Se veramente non c’è un mercato abbastanza vasto per questo trattamento dell’autismo, a cos’altro può servire? — domanda Linda. Vorrei che non avesse riportato la discussione all’argomento di prima, ma non c’è rimedio. Il signor Aldrin si rilassa un poco.

Io ho un’idea, ma ancora non è chiara. — Il signor Crenshaw dice che sarebbe disposto a continuare a farci lavorare senza trattamento se noi rinunciassimo ai nostri extra, vero?

— Sì, perché lo chiedi?

— Dunque… lui vorrebbe avere ciò che noi autistici siamo bravi a fare senza le cose in cui non siamo bravi.

Il signor Aldrin aggrotta la fronte, gesto che dimostra la sua confusione. — Suppongo di sì — dice. — Però non capisco cosa questo abbia a che fare con il trattamento.

— Il profitto deve scaturire da qualche particolare del procedimento originale — dico. — Non per il fatto che cura l’autismo… non esistono più bambini nati come siamo nati noi, almeno in questo paese. Non ci sono abbastanza di noi. Però qualcosa che noi facciamo è tanto insostituibile che se le persone normali potessero farlo, ciò renderebbe il trattamento profittevole. — Penso a quel momento, nel mio ufficio, in cui per qualche tempo il significato dei simboli, le splendide complessità dello schema dei dati si cancellarono e mi lasciarono confuso e desolato. — Lei ci osserva lavorare ormai da anni: deve sapere cos’è.

— È la vostra abilità nella matematica e nell’analisi degli schemi, lo sai.

— No… lei ha detto che secondo il signor Crenshaw il nuovo software potrebbe sostituirci in quello. Quindi dev’essere qualche altra cosa.

— Io ancora vorrei sapere qualcosa di più su suo fratello — dice Linda.

Aldrin chiude gli occhi, tagliando il contatto. Una volta mi rimproverarono per aver fatto la stessa cosa. Poi li riapre. — Voi siete… implacabili — dice. — Non volete desistere.

Lo schema che si va formando nella mia mente, la configurazione di ombre e di luci che si spostano e si girano attorno comincia a coagularsi. Ma non abbastanza: mi servono altri dati.

— Ci spieghi il denaro — domando ad Aldrin.

— Cosa devo spiegare?

— Il denaro. In che modo la compagnia fa abbastanza denaro per pagarci?

— È… molto complicato, Lou. Non credo che potresti capire.

— Per favore, provi a farlo. Il signor Crenshaw sostiene che costiamo troppo, che i profitti ne soffrono. Ma da dove provengono davvero i profitti?

10

Il signor Aldrin mi guarda a occhi spalancati. Infine parla: — Non so che dire, Lou, perché non so esattamente in che cosa consista il trattamento o quali potrebbero esserne gli effetti se venisse applicato a persone che non sono autistiche.

— Non può nemmeno…

— E poi… poi non credo che dovrei parlare di questo argomento. Aiutare voi è un conto… — Finora non ci ha aiutati: mentirci non significa esserci d’aiuto. — Ma fare supposizioni su qualcosa che non esiste, pensare che la compagnia abbia in mente qualche attività a largo raggio che potrebbe… che si potrebbe considerare come… — S’interrompe e scuote la testa senza concludere la frase. Noi lo fissiamo tutti. I suoi occhi luccicano come se lui stesse per piangere.

— Non sarei dovuto venire — dice dopo un poco. — È stato un grave errore. Pagherò la cena, ma adesso devo andarmene.

Spinge indietro la sedia e si alza. Lo vedo passare alla cassa. Nessuno di noi dice parola finché non lo vediamo uscire dalla porta della pizzeria.

— È pazzo — dice Chuy.

— Ha paura — corregge Bailey.

— Ma non ci ha aiutati davvero — dice Linda. — Non so perché si sia disturbato…

— Suo fratello — dice Cameron.

— Qualcosa che noi abbiamo detto lo ha turbato molto più del signor Crenshaw o di suo fratello — deduco io.

— Lui sa qualcosa che non vuole farci sapere. — Linda con un gesto brusco getta all’indietro i capelli.

— Non vuole saperlo neanche lui — dico io. Non so perché penso questo, ma lo credo davvero. Si tratta di qualcosa che noi abbiamo detto. Ho bisogno di capire cos’era.

— C’era qualcosa tempo addietro, all’inizio del secolo — dice Bailey. — In una rivista scientifica, qualcosa su come far diventare le persone quasi autistiche in modo che lavorassero di più.

— Era una rivista scientifica o una rivista di fantascienza? — chiedo.

— Era… ma aspetta, la ritroverò. Conosco qualcuno che sa di cosa si tratta.

— Non impostare la ricerca dall’ufficio — dice Chuy.

— Perché? Oh… sì — annuisce Bailey.

— Domani pizza di nuovo — dice Linda. — Venire qui è normale.

Apro la bocca per dire che il martedì è il mio giorno per fare la spesa, ma la richiudo. Questa faccenda è più importante della spesa; ne posso fare a meno per una settimana o farla un altro giorno.

— Ognuno di noi guardi cosa può trovare sull’argomento — dice Cameron.

A casa, invio un’e-mail a Lars. Dove si trova lui è molto tardi, ma lo trovo ancora sveglio. Vengo a sapere che la ricerca originale è stata fatta in Danimarca, ma che l’intero laboratorio, con l’attrezzatura e tutto, è stato acquistato e la base della ricerca adesso è stata spostata a Cambridge. La relazione che io lessi qualche settimana fa era basata su una ricerca condotta più di un anno prima. Il signor Aldrin aveva ragione. Lars pensa che la maggior parte del lavoro da fare per rendere i trattamenti compatibili con gli esseri umani sia stata già fatta, e insinua qualcosa su esperimenti condotti in segreto dai militari. Questa è una sua mania: Lars vede esperimenti segreti condotti dai militari dappertutto.

Martedì al lavoro non ci parliamo affatto tranne che per augurarci il buongiorno o il buon pomeriggio. Dopo il lavoro ritorniamo alla pizzeria. — Due sere di seguito! — dice Ciao-Sono-Sylvia. Non riesco a capire sé ne è contenta o no. Prendiamo il nostro solito tavolo al quale ne accostiamo un altro in modo che ci sia posto per tutti.

— E allora? — dice Cameron dopo che abbiamo fatto le ordinazioni. — Cos’abbiamo trovato?

Riferisco al gruppo quel che mi ha detto Lars. Bailey ha trovato il testo del vecchio articolo, il quale chiaramente appartiene alla fantascienza e non alla scienza. Non avevo mai saputo che le riviste scientifiche pubblicassero anche fantascienza, ma pare che lo abbiano fatto solo per un anno.

— Si supponeva che questo trattamento facesse sì che le persone si concentrassero totalmente sul loro lavoro e non perdessero tempo in altre cose — dice Bailey.

— Il signor Crenshaw crede che noi perdiamo tempo? — domando.

Bailey annuisce.

— Noi però non perdiamo tanto tempo quanto ne perde lui andando sempre in giro con una faccia rabbiosa — dice Chuy.

Ridiamo tutti, ma sottovoce.

— L’articolo dice in che modo funzionava il trattamento? — chiede Linda.

— All’incirca — dice Bailey. — Ma non sono certo che l’ipotesi si basi su un principio davvero scientifico. E poi l’articolo risale a decine e decine di anni fa. Quel che allora si credeva che funzionasse può essersi rivelato fasullo più tardi.

— Loro non vogliono persone autistiche come noi — dice Eric. — Volevano… o la storia dice che volevano… doti e concentrazione da fenomeno vivente, ma senza effetti secondari. Se ci paragoniamo a fenomeni viventi, noi certo perdiamo parecchio tempo… anche se non quanto crede il signor Crenshaw.

— Anche le persone normali perdono un sacco di tempo in attività non produttive — dice Cameron. — Almeno quanto noi, se non di più.

— E cosa ci vorrebbe per fare un fenomeno vivente di una persona normale senza i problemi accessori? — domanda Linda.

— Non lo so — dice Cameron. — Tanto per cominciare, la persona dovrebbe essere già parecchio intelligente, e brava a fare qualcosa. Poi dovrebbe desiderare di fare quella cosa a esclusione di qualsiasi altra.

— Infatti, non servirebbe a niente se la persona volesse far qualcosa che non è brava a fare — dice Chuy. Io immagino una persona decisa a diventare musicista e che sia stonata e priva di senso del ritmo: ridicolo! Vediamo tutti il lato buffo della cosa e ridiamo.

— Ma alla gente davvero capita di voler fare qualcosa che non sa fare? — chiede Linda. — Alla gente normale, intendo. — Una volta tanto non ha pronunciato il termine normale come se fosse una parolaccia.

Restiamo tutti pensosi per un poco, poi Chuy dice: — Io avevo uno zio che voleva diventare scrittore. Mia sorella, che legge un sacco, diceva che lui proprio non ne era capace. Era pessimo, insomma. Era invece molto dotato per il lavoro manuale, ma voleva scrivere.

— Ecco le pizze — dice Ciao-Sono-Sylvia mettendo giù i piatti fumanti. Sorride, ma ha l’aria stanca e non sono ancora le sette.

— Grazie — dico, e lei fa un cenno di saluto e se ne va.

— Qualcosa che impedisca alla gente di distrarsi — Bailey torna all’argomento principale. — Qualcosa che renda loro gradevoli le cose giuste.

— La distraibilità è determinata dalla sensibilità sensoriale a ogni livello di elaborazione, e dalla forza dell’integrazione sensoriale — recita Eric. — Queste cose le ho lette. In parte è innata. Il circuito del controllo dell’attenzione si sviluppa assai presto nella vita del feto, ma può venir compromesso da danni ricevuti più tardi…

Provo un senso di nausea, come se qualcosa stesse assalendo il mio cervello in quel momento, ma ignoro quella sensazione. Ciò che ha causato il mio autismo risiede nel passato e io non posso cancellarlo. Ora l’importante non è pensare a me, ma riflettere sul problema.

Per tutta la vita mi hanno detto che sono stato fortunato a nascere nel momento adatto per godere dei benefici degli interventi precoci volti a minimizzare il mio handicap. Sono stato fortunato perfino a nascere troppo presto per la cura definitiva, perché… così dicevano i miei genitori… dover faticare mi ha dato l’occasione di dimostrare la mia forza di carattere.

Ma cos’avrebbero detto se quel trattamento fosse stato disponibile quando io ero bambino? Avrebbero preferito che io fossi di carattere forte o che fossi normale? E accettare il trattamento avrebbe potuto per caso significare che non avevo forza di carattere? O avrei trovato altri ostacoli da sormontare?

Sto ancora pensando a queste cose il pomeriggio seguente, mentre mi cambio e mi dirigo a casa di Tom e Lucia per la lezione di scherma. Che qualità abbiamo noi, da cui altri potrebbero trarre profitto, a parte qualche casuale talento da fenomeno vivente? La maggior parte dei comportamenti autistici ci vengono presentati come handicap, non come capacità. Siamo asociali, manchiamo di abilità comunicativa, siamo deficitari nel controllo dell’attenzione… Non faccio che continuare a ritornare incessantemente su questo pensiero. È difficile riflettere dal punto di vista di una persona normale, ma io sento che questo problema del controllo dell’attenzione è il nucleo dello schema, come un buco nero al centro di un vortice spazio-temporale.

Sono arrivato un po’ presto, ancora nessuna macchina è parcheggiata fuori. In casa, Tom e Lucia stanno ridendo di qualcosa. Nel vedermi entrare mi sorridono, contenti e rilassati. Mi chiedo come sarebbe avere sempre qualcuno in casa, qualcuno col quale ridere. Quei due non ridono sempre, ma paiono felici più spesso del contrario.

— Come stai, Lou? — chiede Tom, come al solito.

— Bene — rispondo. Vorrei chiedere a Lucia qualche chiarimento di tipo medico, ma non so se sia educato da parte mia e non so come cominciare. Trovo un altro argomento. — La settimana scorsa mi hanno tagliato le gomme della macchina.

— Oh, no! — dice Lucia. — Che disastro!

— È successo nel parcheggio del mìo palazzo — spiego. — La macchina stava al solito posto e le ruote erano tutt’e quattro a terra.

Tom fischia. — Una bella spesa — commenta. — C’è molto vandalismo nella tua zona? E hai denunciato la cosa alla polizia?

Alla prima di queste domande non so rispondere. — L’ho denunciata — dico. — Nel mio palazzo abita un poliziotto, e lui mi ha spiegato come fare.

— Bene — dice Tom.

— Il signor Crenshaw si è arrabbiato perché sono arrivato tardi al lavoro — continuo.

— Il nuovo dirigente? — chiede Tom.

— Sì. A lui non piace la nostra sezione… non gli piacciono le persone autistiche.

— Ah, probabilmente lui è… — attacca Lucia, ma Tom le lancia un’occhiata e lei non continua.

— Non capisco perché tu creda che a lui non piacciono gli autistici — dice Tom.

Mi rilasso. È tanto più facile parlare con Tom quando lui fa domande in forma indiretta. Non so perché, ma le domande sembrano meno minacciose.

— Lui dice che noi non dovremmo aver bisogno di un ambiente speciale — spiego. — Dice che costa troppo e quindi non dovremmo avere la palestra e… le altre cose. — Mi ricordo di non aver mai descritto a Tom e a Lucia le facilitazioni di cui godiamo sul lavoro.

— Ma questo… — Lucia fa una pausa, guarda Tom e poi riprende: — Questo è ridicolo. Ciò che lui pensa non ha importanza. La legge afferma che i datori di lavoro sono obbligati a fornire ai lavoratori handicappati un ambiente favorevole.

— Finché siamo produttivi come gli altri impiegati — dico. È difficile parlare di questo, mi fa paura. Sento che la gola mi si stringe e che la mia voce ha un suono aspro e meccanico. — E finché le nostre condizioni sono conformi alle categorie diagnostiche contemplate dalla legge…

— L’autismo è una condizione chiaramente più che conforme — dice Lucia. — E sono sicura che siete produttivi, o non vi avrebbero tenuti tanto a lungo.

— Lou, il signor Crenshaw minaccia forse di licenziarvi? — chiede Tom.

— No… non esattamente. Vi ho parlato di quel trattamento sperimentale. Non l’hanno più menzionato per un poco, ma adesso loro… il signor Crenshaw, la compagnia… vogliono che noi ci sottoponiamo a esso. Ci hanno spedito una lettera, in cui si diceva che gli impiegati facenti parte di un protocollo di ricerca erano immuni dai tagli di personale. Il signor Aldrin ha parlato col nostro gruppo. Dovremo tenere una riunione sabato prossimo. Io pensavo che non avrebbero potuto costringerci a sottoporci al trattamento, ma secondo il signor Aldrin il signor Crenshaw può abolire la nostra sezione e rifiutarsi di riassumerci per qualche altro lavoro perché non sappiamo far altro. Secondo lui possono far questo perché non sarebbe un licenziamento ma solo un cambiamento nella configurazione della compagnia.

Tom e Lucia sembrano ambedue molto in collera, hanno i visi contratti e la pelle lucida. Non avrei dovuto parlare di quelle cose, non era il momento adatto.

— Bastardi - commenta Lucia. Poi mi guarda e il suo viso cambia, si distende. — Lou… Lou, ascolta. Non sono arrabbiata con te. Sono arrabbiata con la gente che ti fa del male o non ti tratta bene… non con te, mai con te.

— Non avrei dovuto dirvi questo — mi scuso, ancora incerto.

— Sì che avresti dovuto — ribatte lei. — Noi siamo tuoi amici e dovremmo saperlo se qualcosa non va nella tua vita, in modo da poterti aiutare.

— Lucia ha ragione — dice Tom. — Gli amici devono aiutarsi reciprocamente. Come hai fatto tu quando ci hai aiutati a costruire le rastrelliere.

— Quelle le usiamo tutti — obietto. — Il mio lavoro invece riguarda solo me.

— Sì e no — dice Tom. — Il tuo problema è individuale, ma ha un interesse generale. Potrebbe riguardare ogni handicappato che lavori in qualsiasi altro posto. Cosa succederebbe se una ditta decidesse che una persona su una poltrona a rotelle non ha bisogno di rampe? A voi serve un legale, Lou. Non avevi detto che il Centro poteva trovarvene uno?

— Prima che arrivino gli altri, Lou, perché non ci dici qualcosa di più su questo signor Crenshaw e sui suoi piani? — chiede Lucia.

Mi accomodo sul sofà e cerco di riferire la storia più chiaramente che posso.

— Esiste un trattamento che loro… cioè qualcuno… ha usato su scimmie adulte — comincio. — Io non sapevo che le scimmie potessero essere autistiche, ma il fatto è che queste scimmie autistiche sono diventate più normali dopo aver ricevuto il trattamento. Adesso il signor Crenshaw vuole che lo facciamo anche noi.

— E voi non volete? — domanda Tom.

— Io non capisco come funzioni o in che modo possa migliorare le nostre condizioni — dico.

— Il tuo dubbio è ragionevole — approva Lucia. — Sai chi ha condotto la ricerca, Lou?

— Non ne ricordo il nome — dico. — Un mio amico mi spedì un’e-mail sull’argomento alcune settimane fa. Mi mandò un articolo e io lo lessi, ma non ne capii un gran che. Non ho studiato mai quel genere di argomenti.

— Hai ancora l’articolo? — chiede lei. — Posso domandare informazioni in proposito.

— Davvero?

— Certo. Almeno al dipartimento potranno dirmi se i ricercatori sono considerati persone affidabili o no.

— Noi avevamo avuto un’idea — dico.

— Noi chi? — domanda Tom.

— Io e le persone con le quali lavoro.

— Gli altri autistici?

— Sì. — Chiudo gli occhi un momento per calmarmi. — Il signor Aldrin ci ha invitati a mangiare una pizza. Ha bevuto birra. Ha detto che non credeva ci fosse profitto sufficiente nel curare autistici adulti… siccome oggi si curano feti e neonati, noi siamo gli ultimi in queste condizioni, almeno in questo paese. Così noi ci siamo chiesti perché erano tanto interessati a sviluppare il trattamento e cos’altro esso potesse fare. Vedete, la cosa somiglia a qualche analisi di schema che mi è capitato di fare. C’è uno schema, che però non è l’unico. Oppure si può pensare di star generando uno schema mentre in realtà se ne generano diversi altri e uno di essi può rivelarsi utile o no, a seconda del problema al quale dovrà essere applicato. — Alzo gli occhi e vedo che Tom mi sta guardando con un’espressione strana. Ha la bocca semiaperta.

Scuote la testa come scrollandola. — Quindi… voi pensate che loro abbiano in mente qualche altra applicazione, qualche scopo di cui voi siete solo un aspetto?

— Può darsi — dico cautamente.

Tom lancia un’occhiata a Lucia che annuisce. — Può darsi davvero — dice. — Provare questo trattamento su di voi fornirebbe loro molti altri dati, e allora… Lasciatemi pensare…

— Io credo che la cosa abbia a che fare con il controllo dell’attenzione — continuo. — Tutti abbiamo modi diversi di percepire gli impulsi sensoriali e… e di stabilire le priorità dell’attenzione. — Non sono sicuro di aver usato i termini giusti, ma Lucia annuisce con vigore.

— Il controllo dell’attenzione… naturalmente. Se si potesse manipolarlo nella genesi e non con mezzi chimici, sarebbe tanto più facile sviluppare una forza-lavoro estremamente motivata.

— Nello spazio — dice Tom.

Mi sento confuso, ma Lucia annuisce di nuovo.

— Già. Per far lavorare la gente nello spazio, il grande problema è fare in modo che si concentri, che non si distragga. Gli impulsi sensoriali lassù non sono quelli ai quali noi siamo abituati, quelli scelti dalla selezione genetica. — Non so come lei faccia a capire cosa sta pensando Tom. Mi piacerebbe tanto leggere nella mente degli altri in questo modo. Lucia mi sorride. — Lou, credo che tu sia inciampato in qualcosa di grosso. Procurami quell’articolo e io mi darò da fare.

Mi sento a disagio. — Io non dovrei parlare del mio lavoro fuori del campus — dico.

— Ma non stai parlando del lavoro — rettifica lei. — Stai parlando del tuo ambiente di lavoro… è diverso.

Mi chiedo se il signor Aldrin sarebbe d’accordo.

Qualcuno bussa alla porta e smettiamo di parlare. Io sono sudato anche senza tirare di scherma. I primi ad arrivare sono Dave e Susan. Raduniamo le nostre cose e usciamo nel cortile posteriore.

Poi arriva Marjory, e mi sorride. Io di nuovo mi sento più leggero dell’aria. Don non è venuto. Suppongo sia ancora in collera con Tom e Lucia perché non si sono comportati da amici con lui.

Sto facendo un combattimento con Dave quando sento un rumore dalla strada e poi un sibilo di gomme che stridono nella corsa. Ignoro il rumore e continuo il mio attacco, ma Dave si ferma e io lo colpisco un po’ duramente al petto.

— Chiedo scusa — dico.

— Non ti preoccupare — dice lui. — Pare sia successo qualcosa: non hai sentito niente?

— Sì — rispondo, e cerco di ripercorrere la sequenza dei rumori. Un tonfo, un tintinnio, uno stridore e un rombo. Cosa può essere stato?

— Meglio andare a controllare — dice Dave.

Anche gli altri sono usciti a vedere; li seguo nel cortile anteriore. Alla luce del fanale nell’angolo posso vedere qualcosa che luccica sul marciapiedi.

— È la tua macchina, Lou — dice Susan. — Il parabrezza.

Mi sento gelare.

— La scorsa settimana sono state le gomme… che giorno era, Lou?

— Giovedì — rispondo. Mi trema la voce.

— Giovedì. E adesso questo… — Tom guarda gli altri e loro lo guardano. Posso capire che tutti stanno pensando alla stessa cosa, ma non so quale sia. Tom scuote la testa. — Credo che dovremo chiamare la polizia. Odio interrompere l’allenamento, ma…

— Ti accompagno io a casa, Lou — propone Marjory. Si è avvicinata, è dietro di me. Sobbalzo nel sentire la sua voce.

Tom chiama la polizia perché, spiega, il fatto è avvenuto davanti a casa sua. Mi passa il telefono dopo un poco e una voce annoiata chiede il mio nome, indirizzo e numero telefonico, e il numero di targa della mia macchina.

Poi la voce chiede un’altra cosa, ma le parole si accavallano e non riesco a distinguerle. — Mi dispiace… — dico.

La voce ripete, più alta, separando meglio le parole. Stavolta capisco.

— Ha qualche idea su chi possa aver fatto questo?

— No — dico. — Però qualcuno mi ha tagliato le gomme la settimana scorsa.

— Oh? — Adesso la voce ha assunto un tono interessato. — Ha denunciato il fatto?

— Sì.

— Ricorda il nome dell’agente venuto a investigare?

— Ho un suo biglietto: un momento solo… — Metto giù il ricevitore e tiro fuori il portafogli. Estraggo il biglietto e leggo il nome dell’agente, Malcolm Stacy, e il numero del rapporto.

— In questo momento lui non è qui, ma metterò questo rapporto sulla sua scrivania. Ora… ci sono testimoni?

— Ho sentito il rumore, ma non ho visto nulla. Eravamo nel cortile sul retro.

— Peccato. Be’, manderemo qualcuno, però ci vorrà un po’ di tempo. Lei rimanga lì.

Quando l’auto di pattuglia finalmente arriva sono quasi le dieci di sera. Siamo tutti seduti in soggiorno, stanchi dell’attesa. Io mi sento in colpa, anche se non c’entro con l’incidente: non sono stato io a rompere il parabrezza e a dire agli altri di rimanere. Il poliziotto è una donna di nome Isaka, piccola, bruna e di modi molto asciutti. Penso creda che il misfatto è troppo poco importante per disturbare la polizia.

Esamina la mia automobile, le altre automobili e la strada e sospira. — Be’, qualcuno le ha rotto il parabrezza e qualcuno le ha tagliato le gomme la settimana scorsa, perciò concluderei che questo è un problema suo, signor Arrendale. Deve aver fatto arrabbiare sul serio qualcuno, e probabilmente sa chi è, se solo ci pensa un poco. Com’è la sua situazione nell’ambiente di lavoro?

— Ottima — dico senza riflettere. Tom fa un gesto. — Ho un nuovo superiore, ma non credo che il signor Crenshaw vada rompendo parabrezza o tagliando gomme. — Non riesco proprio a crederlo, anche se è in collera con me.

— Oh? — dice lei, prendendo nota.

— Era irritato perché sono arrivato tardi al lavoro dopo il danno alle gomme — spiego. — Ma non credo che lui vorrebbe rompermi il parabrezza. Può sempre licenziarmi.

Lei mi guarda ma non mi chiede altro. Si rivolge invece a Tom. — Avevate un party?

— No, era sera di allenamento per un club di scherma — dice lui.

Vedo il collo della poliziotta tendersi. — Scherma? Con armi?

— È uno sport — spiega Tom, e vi è tensione anche nella sua voce. — Abbiamo avuto un torneo due settimane fa, e tra qualche settimana ce ne sarà un altro.

— Qualcuno si è mai fatto male?

— Qui mai. Abbiamo rigorose misure di sicurezza.

— Vengono le stesse persone tutte le settimane?

— Di solito sì, ma succede che qualcuno salti l’allenamento di tanto in tanto.

— E questa settimana?

— Be’, Larry non è venuto… è a Chicago per affari. E non è venuto neanche Don.

— Ci sono stati problemi con i vicini? Proteste per rumori, roba del genere?

— No. — Tom si passa le mani tra i capelli. — Questo è un quartiere tranquillo e noi abbiamo un buon rapporto con i vicini. Non ci sono stati mai neppure vandalismi.

— Però il signor Arrendale ha subito due episodi di vandalismo in meno di una settimana… Questo è significativo. — La donna aspetta ma nessuno dice nulla. Infine lei si stringe nelle spalle e continua.

— Ragioniamo. Se l’auto del vandalo procedeva nella stessa direzione in cui sono parcheggiate le macchine, il guidatore avrebbe dovuto fermarsi e scendere per rompere il parabrezza. Se invece procedeva nella direzione opposta, il guidatore avrebbe potuto sporgersi e colpire il parabrezza con una mazza, diciamo, o gettarvi contro un sasso. Poi poteva ripartire prima che chiunque di voi si affacciasse sul davanti della casa.

— Capisco — dico io. Adesso che la donna ha descritto l’incidente posso anche visualizzarlo. Ma perché?

— Lei deve avere qualche idea su chi può avercela con lei — insiste la poliziotta, che sembra irritata con me.

— Non importa quanto può essere arrabbiata una persona contro qualcuno — dico — è sempre sbagliato rompere le cose. — Sto riflettendo, ma l’unica persona di mia conoscenza che se la prenda perché pratico la scherma è Emmy. Comunque Emmy non ha un’automobile e non credo sappia dove abitano Tom e Lucia. D’altra parte non credo che Emmy mi romperebbe il parabrezza. Piuttosto verrebbe in casa e parlerebbe a voce troppo alta e direbbe cose scortesi a Marjory.

— Verissimo — dice la poliziotta. — È sbagliato rompere le cose, ma la gente lo fa lo stesso. Chi è arrabbiato con lei?

Se le parlo di Emmy, questa donna combinerà guai a Emmy e lei combinerà guai a me. E poi io sono sicuro che non è stata Emmy. — Non lo so — rispondo. Sento un movimento dietro di me, quasi una pressione. Credo sia Tom, ma non ne sono certo.

— Agente, può permettere agli altri di andare? — domanda Tom.

— Oh, certo. Nessuno ha visto niente, nessuno ha sentito niente… cioè, avete sentito qualcosa, ma non avete veduto nulla… vero?

Tra mormoni di "no", "io no" e "se solo mi fossi mosso più in fretta" gli altri se ne vanno uno dopo l’altro. Rimangono Tom, Lucia e Marjory.

— Se lei è il bersaglio, e sembra proprio che lo sia, allora il vandalo sapeva che lei sarebbe stato qui stasera. Quanta gente sa che lei viene qui il mercoledì?

Emmy non sa quale giorno io dedichi alla scherma. Il signor Crenshaw non sa nemmeno che io la pratico.

— Tutti quelli che vengono ad allenarsi qui — risponde Tom per me. — Forse qualcuno che era al torneo… per Lou è stato il primo. Al tuo posto di lavoro lo sanno, Lou?

— Io non ne parlo molto — dico, ma non spiego perché. — Però non ricordo di aver detto a nessuno dove vado ad allenarmi. Ma forse ne ho parlato…

— Bene, è chiaro che dovremo appurarlo, signor Arrendale — dice l’agente. — Queste faccende possono approdare a misfatti peggiori. Lei dovrebbe stare attento. — Mi porge un foglio di carta con il suo nome e numero. — Chiami me o Stacy se le viene in mente qualcosa.

Quando l’auto della polizia se ne va, Marjory ripete: — Sarò felice di accompagnarti a casa, Lou, se vuoi.

— No, voglio andare con la mia auto — dico. — Dovrò farla riparare, e dovrò anche rimettermi in contatto con l’assicurazione. Non saranno contenti.

— Vediamo se ci sono vetri sul sedile — dice Tom, e apre lo sportello della macchina. La luce scintilla sui frammenti di vetro sparsi sul cruscotto, sul pavimento e sul coprisedile di pelle di pecora. Mi si solleva lo stomaco. La pelle doveva essere calda e soffice, e adesso avrà dentro schegge taglienti. La tolgo e la scuoto nella strada. I frammenti di vetro producono piccoli tintinnii cadendo sull’asfalto. Ma non sono sicuro che la pelle sia del tutto libera dal vetro: tra il pelo possono esserne rimasti altri frammenti come minuscoli coltelli nascosti.

— Non puoi guidare l’auto in queste condizioni, Lou — dice Marjory.

— Dovrà comunque andare a farsi mettere un parabrezza nuovo — obietta Tom. — I fari sono a posto; Lou può guidare se va piano.

— Posso almeno arrivare a casa — dico. — Guiderò con cautela. — Metto la pelle di pecora sul sedile posteriore e mi siedo al posto di guida.

A casa, più tardi, ripenso alle cose che Tom e Lucia hanno detto, facendole scorrere come un’audio nella mia mente.

— Secondo me — ha detto Tom — il tuo signor Crenshaw preferisce guardare alle tue limitazioni piuttosto che alle tue possibilità. Dovrebbe invece considerare te e la tua sezione come risorse da incrementare.

— Io non sono una risorsa, sono una persona — dico io.

— Certo, Lou, ma una grande azienda considera i suoi lavoratori come risorse o inconvenienti. Un impiegato che ha bisogno di qualcosa di diverso dagli altri può essere visto come un inconveniente… perché esige più risorse per produrre la stessa quantità di lavoro. È un modo superficiale di considerare le cose, ma è il punto di vista di molti manager.

— Vedono solo quello che non va — dico.

— Sì. Possono anche vedere quanto vali come risorsa, però quello che vogliono è solo la risorsa, senza gli inconvenienti.

— I manager veramente buoni — ha detto Lucia — sono quelli che aiutano le persone a migliorare. Se un lavoratore fa bene una parte del suo lavoro e non tanto bene un’altra parte, il manager in gamba lo aiuta a migliorare nelle aree deficitarie… ma solo fino al punto in cui ciò non danneggi le sue capacità, a causa delle quali il lavoratore è stato assunto.

— Però se un nuovo sistema di computer può far di meglio…

— Questo non importa. Vedi, Lou, una macchina o un’altra persona potrebbe magari fare quello che fai tu e forse farlo più in fretta e meglio… e allora? Tuttavia c’è una cosa che nessuno può fare meglio di te, ed è essere te.

— Ma a me cosa serve se non ho un lavoro?

— Lou, tu sei una persona… un individuo che non somiglia a nessun altro. È questo l’importante, non che tu abbia un lavoro o no.

— Io sono un autistico — dico. — Questo sono. Devo avere qualcosa… Se mi licenziano, cos’altro posso fare?

— Tanta gente perde il lavoro e poi ne trova un altro. Puoi farlo anche tu, se necessario. E se lo vorrai. Puoi scegliere il cambiamento, se vuoi, non è indispensabile che tu lo subisca. È come nella scherma: puoi essere quello che stabilisce lo schema o quello che lo segue.

Faccio scorrere quest’audio diverse volte, cercando di accordare i toni di voce alle espressioni così come le ricordo. Loro mi hanno ripetuto di trovarmi un avvocato, ma io non sono pronto a parlare con una persona che non conosco. È difficile spiegare ciò che sto pensando e ciò che è accaduto. Voglio risolvere questo problema per conto mio.

Se non fossi stato quel che sono, cosa sarei stato? Qualche volta ci ho pensato. Se avessi trovato facile capire ciò che la gente dice, avrei desiderato ascoltare di più? Avrei imparato a parlare con maggiore scioltezza? E a causa di ciò avrei potuto avere più amici, forse diventare popolare? Cerco d’immaginarmi da bambino, come un bambino normale che chiacchiera allegramente con la famiglia, gli insegnanti e i compagni. Se fossi stato quel bambino, invece di me, avrei imparato la matematica altrettanto facilmente? E le immense e complicate strutture della musica classica mi sarebbero apparse così chiare fin dalla prima audizione? Ricordo la prima volta che sentii la Toccata e Fuga in Re Minore di Bach… la gioia intensa che provai. Sarei stato in grado di fare il lavoro che faccio? E se no, quale altro lavoro sarei stato in grado di fare?

Tutti i testi che ho letto sulla mia condizione sono d’accordo su un punto, e cioè sulla permanenza dei miei handicap, come li chiamano. Gli interventi precoci possono migliorare i sintomi, ma il problema centrale rimane. Io sentivo quel problema centrale giorno dopo giorno, come se avessi nel mezzo del mio essere un grosso masso rotondo, una presenza pesante e imbarazzante che influenzava qualunque cosa facessi o cercassi di fare.

Ma se non ci fosse stata?

Non avevo letto più nulla sul mio autismo dopo essere uscito da scuola. Non ho studiato chimica, biochimica o genetica… Lavoro per un’azienda farmaceutica ma di farmaci so pochissimo. Conosco solo gli schemi, le configurazioni che scorrono attraverso il mio computer, quelle che identifico e analizzo e quelle che mi chiedono di creare.

Non so come le altre persone imparano cose nuove, ma il mio modo d’imparare funziona bene per me. Quando avevo sette anni i miei genitori mi comprarono una bicicletta e cercarono d’insegnarmi ad andarci. Volevano che prima di tutto ci sedessi sopra e pedalassi mentre loro la guidavano; solo in seguito avrei dovuto guidarla io. Io ignorai i loro consigli. Era chiaro che la guida era la cosa più importante, e la più difficile, perciò avrei dovuto imparare quella come prima cosa.

Così guidai la bicicletta intorno al cortile, imparando come il manubrio sussultava, si contorceva e sobbalzava mentre la ruota anteriore passava sull’erba e sulle pietre. Poi vi salii a cavalcioni mantenendo i piedi a terra e guidai la bicicletta intorno in quel modo, manovrando il manubrio, facendola cadere e rialzandola. Infine provai la bicicletta lungo la discesa del nostro vialetto d’ingresso, guidandola a zigzag con i piedi in aria ma pronto a fermarmi. Solo dopo di ciò provai a pedalare, e non caddi mai.

Tutto sta nel sapere da dove cominciare. Se si comincia dal punto giusto e si segue la strada giusta, si arriva al risultato voluto.

Se voglio capire quali effetti può avere questo trattamento che renderà ricco il signor Crenshaw, allora devo sapere come lavora il cervello… come lavora veramente. È come il manubrio della bicicletta, è lui che guida tutta la persona. E devo imparare anche cosa sono i farmaci e come funzionano.

Tutto ciò che ricordo del cervello dai giorni di scuola è che è fatto di materia grigia e adopera un sacco di glucosio e di ossigeno. Io volevo che il mio cervello fosse come un computer, qualcosa che lavorasse bene da solo e non facesse errori.

I testi dicevano che il problema dell’autismo era centrato nel cervello, e ciò mi faceva sentire come un computer guasto, qualcosa che bisognava distruggere o rimandare in fabbrica. Tutti gli interventi, tutti gli anni di formazione e di apprendistato erano come software programmati apposta perché un computer malfunzionante lavorasse bene. Ma ciò non è possibile, e non lo è stato nemmeno nel caso mio.

11

Stanno accadendo troppe cose, e troppo in fretta. Sembra quasi che la velocità degli eventi superi quella della luce, ma io so che questo non è oggettivamente vero. "Oggettivamente vero" è una definizione che trovai in uno dei testi on-line che cercavo di leggere. Il testo diceva anche che "soggettivamente vera" è l’impressione che una cosa produce su un individuo. Io adesso ho l’impressione che troppe cose stanno avvenendo tanto in fretta che quasi non si riesce a percepirle. Stanno avvenendo prima che se ne possa prendere coscienza, nel buio che è sempre più veloce della luce perché arriva sempre prima.

Siedo davanti al computer tentando di scoprire uno schema in questa situazione. Scoprire schemi, configurazioni, è la mia capacità maggiore. La fede negli schemi, nell’esistenza degli schemi è apparentemente il mio credo, è parte di ciò che sono.

Quando ero bambino trovai in biblioteca un libro che parlava solo di proporzioni, dalle più piccole alle più grandi. Pensai che era il miglior libro che ci fosse in giro. Non capivo come facessero gli altri bambini a preferire libri privi di struttura, che raccontavano storie di complicati sentimenti e desideri umani. Perché doveva essere più importante leggere la vicenda di un ragazzino immaginario che entrava a far parte di una squadra di calcio altrettanto immaginaria anziché imparare come le stelle marine e le stelle del cielo potevano rientrare nelle stesse configurazioni?

Quello che ero allora pensava che astratti schemi numerici fossero più importanti di astratti schemi di relazioni. I grani di sabbia sono reali, le stelle sono reali. Sapere quali legami li univano mi dava un senso di calore, di sicurezza. Le persone che mi circondavano erano abbastanza difficili, a volte perfino impossibili, da interpretare. I personaggi dei libri mi confondevano ancor peggio.

Quello che sono ora continua a pensare che se le persone fossero numeri sarebbero più facili da capire. Però quello che sono ora sa che le persone non hanno la minima somiglianza coi numeri. Le persone sono persone, complesse e mutevoli, e si combinano in modo diverso tra di loro da un giorno all’altro… perfino da un’ora all’altra. Neppure io sono un numero. Io sono il signor Arrendale per il poliziotto venuto a investigare il danno alla mia macchina e Lou per Danny, benché anche Danny sia un poliziotto. Sono Lou lo schermidore per Tom e Lucia, Lou l’impiegato per il signor Aldrin e Lou l’autistico per Emmy al Centro.

Mi fa venire le vertigini pensare a questo, perché dentro io mi sento una persona sola, non tre o quattro o una dozzina. Io sono lo stesso Lou, quando rimbalzo sul trampolino o sono seduto nel mio ufficio o mentre sto ascoltando Emmy o esercitandomi con Tom o guardando Marjory e sentendo in me quel calore e quel senso di leggerezza. Le impressioni si muovono su di me come la luce e l’ombra su un paesaggio in un giorno di vento. Le colline rimangono le stesse, sia che si trovino nell’ombra delle nuvole o al sole.

Nelle immagini delle nuvole che corrono attraverso il cielo io ho visto uno schema… nuvole che si formano da una parte e si dissolvono nel cielo chiaro dall’altra, dove le colline formano una cresta.

Penso agli schemi nel nostro gruppo di schermidori. Secondo me, è chiaro che chiunque mi abbia rotto il parabrezza questa sera sapeva dove trovare il preciso parabrezza che voleva rompere. Sapeva che io ero lì e sapeva qual era la mia macchina.

Quando penso alle persone che conoscono di vista la mia auto e poi alle persone che sanno dove vado tutti i mercoledì pomeriggio le possibilità si restringono. L’evidenza si contrae fino a diventare una punta che indica un nome. È un nome impossibile, è il nome di un amico. Gli amici non rompono i parabrezza dei loro amici. E poi lui non ha motivo di essere in collera con me, anche se lo è con Tom e Lucia.

Deve trattarsi di qualcun altro. Anche se io sono bravo nell’individuare schemi, anche se ho riflettuto a fondo su questo problema, non posso fidarmi del mio ragionamento quando si tratta di come agisce la gente. Io non capisco le persone normali, perché troppo spesso non si adattano a uno schema razionale. Dev’essere per forza qualcun altro, qualcuno che non è un amico, qualcuno che prova antipatia per me ed è arrabbiato con me. Ho bisogno d’individuare quest’altro schema, lasciando da parte lo schema più ovvio che è impossibile.

Pete Aldrin stava esaminando l’ultimo organigramma della compagnia. Fino a quel momento i licenziamenti erano solo sporadici, non tanto numerosi da attirare l’attenzione dei media, ma almeno metà dei nomi che conosceva non si trovavano più sulla lista. Presto sarebbero cominciate a correre le voci. Betty alle Risorse umane… ha chiesto il pensionamento anticipato. Shirley alla Contabilità…

Il fatto era che lui doveva dare l’idea di essere d’aiuto a Crenshaw, qualunque cosa facesse. Finché pensava di opporglisi, il gelido nodo di paura che gli si formava nello stomaco gli impediva di prendere qualunque iniziativa. Non osava scavalcare Crenshaw. Non sapeva nemmeno se il capo di Crenshaw fosse consapevole dei suoi piani o se questi fossero unicamente farina del sacco di Crenshaw. Non osava confidarsi con nessuno degli autistici: come sapere se capivano l’importanza di mantenere il segreto?

Era sicuro però che Crenshaw non avesse comunicato i suoi progetti ai piani alti. Lui voleva esser considerato un risolutore di problemi, un dirigente lungimirante, uno che governava il suo piccolo impero con efficienza. Non avrebbe fatto domande, non avrebbe chiesto permessi. Il suo piano poteva trasformarsi in un incubo di pubblicità negativa se fosse trapelato; qualcuno dei massimi dirigenti avrebbe potuto accorgersene. Crenshaw però contava sul fatto che non ci fosse alcuna pubblicità, che non ci fossero rivelazioni o pettegolezzi. E ciò non era ragionevole, anche se lui faceva il bello e il brutto tempo nella sua divisione.

E se Crenshaw fosse caduto e Aldrin avesse dato l’impressione di averlo aiutato, allora anche lui avrebbe perso il posto.

Cosa ci sarebbe voluto per trasformare l’intero settore A in un gruppo di soggetti di ricerca? Avrebbero dovuto assentarsi dal lavoro: per quanto tempo? Ci si aspettava che per la loro assenza utilizzassero i periodi di ferie e licenze per malattia, o la compagnia avrebbe concesso una licenza speciale? E se si rendeva necessaria questa licenza, quale influenza avrebbe avuto sui loro stipendi? E sulla loro anzianità di servizio? E come sarebbe stata organizzata la contabilità della sezione… gli autistici sarebbero stati pagati dalla sezione stessa o dall’ufficio Ricerca?

Crenshaw si era forse già messo d’accordo con le Risorse umane, con la Contabilità, con l’ufficio legale, con l’ufficio Ricerca? E che tipo di accordi aveva presi? Non voleva usare il nome di Crenshaw per il momento: voleva vedere che reazione avrebbe suscitato con domande fatte così, in generale.

Shirley era ancora alla Contabilità e Aldrin la chiamò. — Ricordami di quali scartoffie avrò bisogno se qualcuno venisse trasferito a un’altra sezione — esordì. — Lo detraggo dal mio bilancio immediatamente o no?

— I trasferimenti sono stati congelati — annunciò Shirley. — La nuova dirigenza… — Aldrin la sentì trattenere il fiato. — Non hai ricevuto il memorandum?

— Non credo — disse Aldrin. — Dunque… se abbiamo un impiegato che desidera partecipare a un protocollo di ricerca, non possiamo limitarci a trasferire il suo centro di costo alla Ricerca e basta?

— Santo cielo, no! — esclamò Shirley. — Tim McDonough, il capo della Ricerca, ti leverebbe la pelle e l’appenderebbe al muro. — Dopo una pausa chiese: — Quale protocollo di ricerca?

— Qualche nuovo medicinale — rispose lui.

— Ah. Be’, se hai un impiegato che ha di queste fisime, dovrà partecipare come volontario. Il compenso è di cinquanta dollari al giorno per protocolli che richiedono la residenza in clinica e venticinque dollari al giorno per gli altri, con un minimo di duecentocinquanta dollari. Naturalmente coloro che risiedono in clinica ricevono anche vitto, alloggio e medicinali. Io non farei mai la cavia per qualche medicinale a questo prezzo, ma il comitato etico dice che i volontari non devono ricevere incentivi finanziari.

— Be’… però essendo impiegati continuerebbero a ricevere i loro salari?

— Solo se continuassero a lavorare o se dedicassero alla Ricerca il loro periodo di ferie — dichiarò Shirley.

Aldrin si chiese cosa progettasse di fare Crenshaw per gli stipendi e i compensi della Ricerca. Chi finanziava i protocolli? E perché lui non aveva pensato prima a tutto questo? — Grazie, Shirley — si ricordò di dire.

— Buona fortuna — rispose lei.

Quindi, supponendo che il trattamento funzionasse, Aldrin si rese conto di non avere idea di quanto sarebbe durato. Il dato era forse nelle carte che Crenshaw gli aveva fornito? Le trovò e le rilesse con cura. Se Crenshaw non aveva preso qualche accordo particolare per far finanziare dalla Ricerca i salari del settore A, allora stava cercando di trasformare impiegati tecnici anziani in cavie di laboratorio malpagate. E anche se fossero usciti dalla riabilitazione entro un mese (la stima più ottimistica dello schema) ciò avrebbe fatto risparmiare un sacco di soldi. Controllò le cifre. Sì, sembrava un mucchio di soldi, ma in realtà non lo era in paragone ai rischi legali che la compagnia avrebbe corso.

Lui non conosceva nessun pezzo grosso della Ricerca. Tornò alle Risorse umane… Betty era andata… cercò di ricordare qualche altro nome. Paul. Debra. Paul figurava sull’organigramma, Debra no.

— Cerca di sbrigarti — disse Paul. — Finisco domani.

— Finisci?

— Sì, faccio parte di quel famoso dieci per cento — spiegò Paul, e Aldrin percepì la collera nella sua voce. — No, la compagnia non sta perdendo quattrini; no, la compagnia non sta tagliando il personale; succede solo che non ha più bisogno dei miei servigi.

Dita di ghiaccio corsero lungo la spina dorsale di Aldrin. Lui avrebbe potuto trovarsi al posto di Paul nel giro di un mese… no, quel giorno stesso, se Crenshaw si fosse accorto di quanto stava facendo.

— Ti pago un caffè — disse.

— Già, come se mi servisse qualcosa per tenermi sveglio la notte — commentò Paul.

— Paul, senti. Ho bisogno di parlarti, e non al telefono.

Un lungo silenzio, poi: — Oh. Anche tu?

— Ancora no. Allora, caffè?

— Sicuro. Alle dieci e mezza alla tavola calda?

— No, facciamo un pranzo anticipato… alle undici e mezza — decise Aldrin e riappese. Aveva le mani sudate.

— Dunque qual è il grande segreto? — chiese Paul. La sua faccia era totalmente inespressiva. Sedeva ingobbito a un tavolo nel mezzo della tavola calda.

Aldrin avrebbe scelto piuttosto un tavolo d’angolo, ma poi ricordò un film di spionaggio che aveva visto. I tavoli d’angolo potevano essere monitorati. Anzi, a quel che ne sapeva lui, Paul poteva portare un… un microfono. Provò un urto di nausea.

— Andiamo, non sto registrando niente — disse Paul sorseggiando il caffè. — Ma ci noteranno sicuramente se continui a guardarmi a bocca aperta. Diamine, che razza di segreto devi avere.

Aldrin sedette facendo debordare il caffè dalla tazza. — Sai che il mio nuovo capodivisione fa parte delle scope nuove…

— Roba vecchia — disse Paul con voce annoiata.

— Si chiama Crenshaw.

— Un fortunello. E ha una grossa reputazione.

— Sì, be’… ricordi la sezione A?

— Gli autistici, certo. — Paul si fece più attento. — Ce l’ha con loro?

Aldrin annuì.

— È stupido — dichiarò Paul. — Non che Crenshaw non lo sia, ma… la cosa è stupida sul serio. Le nostre facilitazioni fiscali dipendono da loro. E poi, la pubblicità…

— Lo so — disse Aldrin. — Ma lui non ascolta. Dice che costano troppo.

— Secondo lui tutti, lui escluso, costano troppo. E allora, cosa vuol fare, licenziarli? Abbassargli lo stipendio?

— Vuole costringerli a presentarsi volontari per un protocollo di ricerca che riguarda la sperimentazione sugli esseri umani.

Paul fece tanto d’occhi. — Ma stai scherzando! Non può fare una cosa del genere!

— Può. — Dopo una pausa Aldrin continuò: — Dice che non esiste legge che la compagnia non possa eludere.

— Sarà anche vero, ma… non possiamo fregarcene della legge e basta. Sperimentazione umana, eh? Di che si tratta, di qualche medicinale?

— No, di un trattamento per autistici adulti. Si suppone che li renda normali. Pare che abbia funzionato con le scimmie — spiegò Aldrin.

— Non parli sul serio. — Paul aveva sbarrato gli occhi ancora di più. — Accidenti! Stai parlando sul serio! Crenshaw che cerca di trasformare le nostre galline dalle uova d’oro fiscali in cavie per la sperimentazione umana! Ma ne verrà fuori un incubo pubblicitario… qualcosa che potrebbe costare miliardi alla compagnia!

— Questo lo sai tu e lo so anch’io, però Crenshaw vede le cose a modo suo.

— Chi può aver approvato la cosa ai piani alti?

— Che io sappia, nessuno — disse Aldrin facendo mentalmente gli scongiuri. Era la verità, però, perché lui non si era informato.

Paul aveva perso completamente l’aria imbronciata. — A quell’idiota il potere ha dato alla testa — disse. — Crede di poter combinare una cosa del genere e guadagnare punti su Samuelson.

— Samuelson?

— Anche lui scopa nuova. Ma non ti tieni al corrente di quel che succede?

— No. Non sono bravo in queste cose — disse Aldrin.

Paul annuì. — Io pensavo di esserlo, ma questa lettera di licenziamento prova che non lo ero. Comunque: Samuelson e Crenshaw sono entrati qui come rivali. Samuelson ha tagliato i costi di lavorazione senza suscitare commenti da parte della stampa… benché io pensi che questo stato di cose non durerà. Crenshaw dunque deve credere che gli riuscirà un triplo colpaccio: procurarsi dei volontari che avranno troppa paura del licenziamento per lamentarsi in caso qualcosa andasse storto, portare a termine la manovra per conto proprio senza che nessun altro lo sappia e poi accaparrarsi il merito. E se tu non fai qualcosa, Pete, condividerai la sua fine.

Aldrin aveva altre domande da fare. — Ascolta, io non so come lui renderà conto del loro tempo se gli autistici accettano il trattamento. Speravo di avere notizie più precise sul lato legale… può Crenshaw fare in modo che ci si sottopongano cumulando insieme le ferie e le licenze per malattia? Quali sono le regole per gli impiegati speciali?

— Be’, tanto per cominciare ciò che lui si propone di fare è illegale da cima a fondo. Prima di tutto, se la Ricerca ha il minimo sentore che non avrà a che fare con volontari autentici succederanno guai. Loro devono fare i conti con i federali, e figurati se vorranno affrontare una dozzina d’imputazioni per aver contravvenuto all’etica professionale e alle leggi sul lavoro protetto. Poi, se gli autistici si assenteranno dal loro lavoro per più di trenta giorni… e sarà così, no? — Aldrin annuì e Paul continuò: — Allora non si potrà più parlare di ferie, e ci sono regolamenti appositi per le licenze e gli anni sabbatici, specie se si tratta d’impiegati appartenenti alle categorie speciali. Non si può far perdere loro l’anzianità, né il salario… — Paul picchiettò un dito sulla tazza del caffè. — Oh, il reparto Contabilità darà fuori di matto. Non abbiamo alcuna classificazione di costi che contempli impiegati che non lavorino e ricevano ugualmente stipendio pieno. Senza contare che la produttività del tuo reparto andrà al diavolo.

— Ci avevo pensato — mormorò Aldrin.

Paul fece una smorfia ironica. — Tu puoi davvero inchiodare quel tipo — disse. — Io lo so che non posso riavere il mio lavoro, non stando le cose come stanno, ma… mi piacerebbe sapere cosa succederà.

— Avrei intenzione di agire alla chetichella — disse Aldrin. — Capisci… naturalmente sono preoccupato per il mio lavoro, ma questo non è tutto. Lui pensa che io sia stupido, codardo e pigro, tranne quando gli lecco gli stivali, e allora pensa solo che sono un leccapiedi nato. Ho intenzione di brancolare in giro, fingendo di aiutarlo in modo da far scoprire le sue intenzioni.

Paul si strinse nelle spalle. — Non è il mio stile. Io personalmente mi metterei a gridarlo dai tetti. Ma tu sei tu, e se per te va bene così…

— Allora… con chi potrei parlare alle Risorse umane allo scopo di organizzare le licenze per loro? E cosa mi dici dell’ufficio legale?

— Il tuo è un cammino tortuoso e ti prenderà del tempo. Perché non parlare a qualcuno dei grossi calibri? Portati dietro anche tutti i tuoi deficienti, per rendere più drammatica la scena.

— Non sono deficienti, sono autistici — ribatté Aldrin automaticamente. — E io non so cosa succederebbe se sapessero quanto è illegale la situazione in cui vogliono metterli. Sarebbe giusto farglielo sapere, ma se poi si rivolgessero alla stampa o qualcosa del genere? Allora davvero sarebbero guai seri.

— E allora vacci da solo. Potrebbero perfino piacerti le altezze rarefatte della piramide manageriale. — Paul rise un po’ troppo forte, e Aldrin si chiese se non avesse aggiunto qualcosa al caffè.

— Non saprei — disse. — Non credo che mi lascerebbero andare tanto in alto. E Crenshaw verrebbe a saperlo se chiedessi un appuntamento, e poi ricordi quel memorandum sulla catena di comando?

— Ecco quello che ci meritiamo per aver assunto un generale in pensione come dirigente — mormorò Paul.

Ma ormai il locale si stava vuotando, e Aldrin pensò che doveva andare.

Non aveva idee molto chiare sul da farsi. Sperava ancora che forse la Ricerca troncasse il nodo, così lui non avrebbe più dovuto far niente.

Crenshaw gli fece abbandonare l’idea nel tardo pomeriggio. — Bene, ecco il protocollo di ricerca — disse, sbattendo un cubo dati e un fascio di stampati sulla scrivania di Aldrin. — Non capisco perché gli servano tutti questi esami preliminari: ecotomografia, santo cielo, risonanza magnetica eccetera eccetera… Ma loro dicono che ne hanno bisogno e non sono io a dirigere la Ricerca. — Si capiva chiaramente che sottintendeva non ancora.

— Prenota i tuoi ragazzi per le visite e mettiti d’accordo con Barr alla Ricerca per organizzare gli appuntamenti per gli esami.

— Appuntamenti? — chiese Aldrin. — E se s’incrociano con il normale orario di lavoro?

Crenshaw si accigliò, poi fece spallucce. — Diavolo, saremo generosi: non gli faremo rimettere in pari il tempo.

— E per quanto riguarda la Contabilità? Quale centro di costo…

— Per amor del cielo, Pete, limitati a occuparti della faccenda! — Crenshaw era diventato rosso scarlatto. — Cerca di cominciare a risolvere problemi, non a farli spuntar fuori!

— Sta bene — disse Aldrin. Non poteva indietreggiare, stava dietro la sua scrivania; ma dopo un istante Crenshaw fece dietro-front e se ne andò. Risolvere problemi! Li avrebbe risolti, ma non sarebbero stati quelli di Crenshaw.

Non so cosa sono in grado di capire e cosa non capisco nell’illusione di capirlo. Consulto il più elementare testo di neurobiologia che riesco a trovare sulla rete, esaminando prima il glossario. Non mi piace sprecare tempo a trovare definizioni se posso impararle prima. Il glossario è pieno di termini mai visti prima… ce ne sono centinaia. E non capisco neppure le definizioni.

Devo cominciare da un livello ancora più basso.

Un testo di biologia per studenti di liceo: questo dovrebbe essere al mio livello. Esamino il glossario: i termini li conosco, benché molti non li abbia più incontrati da anni. Solo un decimo circa sono nuovi per me.

Comincio il primo capitolo e non incontro difficoltà, anche se molte cose sono diverse da come le ricordavo. Me lo aspettavo, del resto, e la cosa non mi disturba. Finisco il testo prima di mezzanotte.

La sera dopo non guardo il mio spettacolo abituale ma cerco un testo universitario. È troppo semplice, dev’essere stato scritto per studenti che non hanno studiato biologia al liceo. Cerco qualcosa di livello più alto, buttandomi a indovinare. I testi di biochimica mi confondono: devo imparare la chimica organica. Ne cerco un testo su Internet e ne scarico i primi capitoli. Leggo di nuovo fino a tardi, e leggo venerdì dopo il lavoro e mentre faccio il bucato.

Sabato abbiamo la riunione al campus. Non mi aspettavo di trovarlo affollato nel fine settimana quasi come in una giornata lavorativa normale.

Trovo le macchine di Cameron e di Bailey già lì quando arrivo; gli altri non ci sono ancora. Trovo la sala della riunione. Ha pareti tappezzate in finto legno e moquette verde. Contiene due file di sedie con sedili e schienali imbottiti di stoffa rosa fronteggianti una parete della sala. Sulla porta c’è una persona che non conosco, una donna giovane: porta in mano una scatola di cartone contenente targhette con nomi. Ha una lista con piccole fotografie. Mi guarda e dice il mio nome. — Ecco, questa è la sua — dice tendendomi una targhetta fornita di clip. La tengo in mano. — La metta — mi invita lei. Non mi piacciono queste clip, mi tirano la camicia; comunque metto la targhetta ed entro.

Gli altri stanno seduti sulle sedie. Su ognuna di quelle vuote c’è una cartella con un nome sopra. Trovo la mia. Non ne sono contento: mi hanno piazzato in prima fila a destra. Potrebbe essere maleducato da parte mia cambiare posto. Do un’occhiata alla fila e vedo che ci hanno disposti in ordine alfabetico dal punto di vista di chi ci parlerà stando di fronte a noi.

Quando siamo arrivati tutti sediamo in silenzio per due minuti e quaranta secondi. Poi sento la voce del signor Aldrin. — Sono tutti qui? — chiede alla donna sulla porta. Lei risponde di sì.

Lui entra. Ha l’aria stanca ma sembra normale. Porta una camicia di maglia e calzoni e scarpe avana. Ci sorride, ma il suo è solo un mezzo sorriso.

— Sono contento di vedervi tutti qui — dice. — Tra pochi minuti il dottor Ransome vi spiegherà su cosa si basa questa ricerca. Nelle vostre cartelle ci sono questionari sulla vostra storia sanitaria: per favore, riempiteli mentre aspettate. E firmate anche la clausola di riservatezza.

I questionali sono semplici, a multipla scelta piuttosto che con spazi vuoti da riempire. Ho quasi finito il mio quando la porta si apre ed entra un uomo in camice bianco, col nome DR RANSOME ricamato in rosso sul taschino. Ha capelli grigi ricciuti e occhi azzurri luccicanti. Il suo viso sembra troppo giovane per quei capelli grigi. Anche lui ci sorride.

— Benvenuti — dice. — Sono contento di conoscervi. Ho saputo che siete tutti interessati a questo test clinico, eh? — Non aspetta una nostra risposta. — Sarò breve — continua. — Oggi del resto parleremo solo di quanto riguarda il protocollo, degli appuntamenti per gli esami e così via. Prima di tutto lasciate che vi esponga in breve la storia di questa ricerca.

Parla molto in fretta, consultando un taccuino. Ci spiega delle ricerche sull’autismo, a cominciare dall’inizio del secolo, con la scoperta di due geni associati con disturbi di tipo autistico. Poi passa alla ricerca odierna, sempre cominciando dall’inizio, col lavoro del primo ricercatore sull’organizzazione sociale e la comunicazione tra primati che ha portato alla fine a questo possibile trattamento.

— Questo non è che un breve inquadramento della materia — dice. — Probabilmente è anche troppo per voi, ma dovete scusare il mio entusiasmo. Ne troverete una versione semplificata nelle vostre cartelle, diagrammi inclusi. Essenzialmente ciò che ci proponiamo di fare è normalizzare il cervello autistico e poi rieducarlo in una versione potenziata e più rapida dell’integrazione sensoriale infantile, in modo che la nuova architettura funzioni come si deve. — Fa una pausa, beve qualche sorso d’acqua e continua. — Tanto basta per questa prima riunione. Riceverete gli appuntamenti per gli esami… anche questi dati li troverete nelle cartelle… In seguito ci saranno altri incontri con il personale medico. Consegnate i questionali e gli altri documenti alla signorina alla porta. Se verrete accettati nel protocollo ne sarete informati. — Si volta e se ne va prima che io o qualunque altro possiamo pensare a qualcosa da dire.

Il signor Aldrin si alza e si rivolge a noi. — Consegnate a me i questionari riempiti e firmate la clausola di riservatezza… e non vi preoccupate: nel protocollo sarete accettati tutti.

Non è questo che mi preoccupa. Finisco il questionario, firmo la clausola, consegno tutto al signor Aldrin e me ne vado senza parlare con gli altri. Ho sprecato quasi tutta la mattinata di sabato e voglio tornare alle mie letture.

Ritorno a casa con tutta la rapidità permessa dai limiti di velocità e ricomincio a leggere appena rientrato nell’appartamento. Non mi fermo per fare le pulizie generali in casa e alla macchina, la domenica non vado in chiesa. Faccio stampate di due capitoli da portare con me al lavoro lunedì e martedì, in modo da poterli leggere durante la pausa pranzo. Assimilo le informazioni in forma chiara e organica, i vari schemi disposti ordinatamente in paragrafi, capitoli e sezioni. Nella mia mente c’è posto per tutto.

Per il mercoledì seguente mi sento pronto per chiedere a Lucia cosa dovrei leggere allo scopo di capire come lavora il cervello. Ho fatto i test on-line in biologia prima e seconda, biochimica prima e seconda e chimica organica teorica prima. Ho dato di nuovo un’occhiata al testo di neurologia, del quale adesso capisco molto di più, ma non sono sicuro che sia quello più adatto a me. Non so quanto tempo mi rimanga e non voglio sprecarlo con il testo sbagliato.

Mi sorprende il fatto che io non mi sia dedicato prima a questo lavoro. Quando ho cominciato a tirare di scherma, ho letto tutti i libri sulla scherma che Tom mi aveva raccomandato e ho guardato tutti i video che potevano essermi d’aiuto. Quando faccio qualche gioco al computer, leggo tutto quel che posso sull’argomento.

Eppure prima di adesso non mi ero mai proposto d’imparare quanto potevo circa il modo di lavorare del mio cervello: non so perché. So che all’inizio tutto mi sembrava molto strano, ed ero quasi sicuro che non sarei stato in grado di assimilare quello che dicevano i testi. Invece mi è stato facile. Credo che avrei potuto prendere una laurea in questo argomento se ci avessi provato; ma i miei consiglieri mi dissero tutti di scegliere matematica applicata e io seguii il loro consiglio. Loro mi dicevano di cosa ero capace e io gli credevo. Non pensavano che io avessi il tipo d’intelligenza necessaria per dedicarmi a un lavoro scientifico. Forse si sbagliavano.

Mostro a Lucia la lista che ho stampato di tutti i testi che ho letto e i risultati conseguiti nei test di valutazione. — Adesso ho bisogno di sapere quale altro testo leggere — dico.

— Lou… mi vergogno di dire che sono sbalordita. — Lucia scuote la testa. — Tom, viene a vedere! In una settimana Lou ha fatto tutto il lavoro necessario per prendere un diploma in biologia.

— Non proprio — lo correggo io. — Io ho studiato una cosa sola, mentre per il diploma in biologia bisogna studiare botanica e altre cose…

— Io veramente stavo pensando alla profondità dei tuoi studi e non alla loro ampiezza — dice lei. — Lou, hai capito davvero la sintesi organica?

— Non so — rispondo. — Non ho fatto nessuna prova in laboratorio. Ma lo schema della sintesi è chiarissimo, il modo in cui gli elementi si uniscono tra loro…

— Lou, mi sai dire perché alcuni gruppi si attaccano a un anello di carbonio adiacente a essi e altri invece devono saltare un carbonio o due?

È una domanda sciocca, penso. È ovvio che il posto al quale i gruppi si attaccano dipende dalla loro configurazione e dalla carica che portano. Le vedo chiarissime nella mia mente, le configurazioni informi con intorno la nuvola della carica positiva o negativa. Ma non dirò a Tom che la domanda è sciocca. Ricordo i paragrafi del testo che spiegavano il fenomeno, ma credo lui voglia sentirmi esprimere con parole mie. Così mi spiego il più chiaramente possibile, senza ricorrere nemmeno a una frase del testo.

— E hai imparato tutto questo dopo aver letto il testo… quante volte?

— Una — dico. — Ma alcuni paragrafi due volte.

— Diavolo — esclama Tom. — Lucia… hai idea di come lavorino duramente tanti studenti per imparare questa roba?

Ma imparare non è duro; è il non imparare che è duro. — È facile vedere queste cose nella propria mente — dico. — E i testi avevano illustrazioni.

— Straordinaria memoria visiva — mormora Lucia.

— Anche con le illustrazioni e con le animazioni in video, la maggior parte degli studenti passa i suoi guai con la chimica organica — mi spiega Tom. — E tu ne hai imparata tanta leggendo testi una volta sola… Lou, tu ci hai imbrogliati. Sei un genio.

— Può trattarsi di un’abilità parziale — dico. Il termine che Tom ha applicato a me mi fa paura. Se lui pensa che io sia un genio, forse non vorrà più farmi esercitare con il gruppo.

— Abilità parziale un corno — insiste Lucia. Pare irritata, e io mi sento piccolo piccolo. — Oh, Lou, non ce l’ho con te… Ma il concetto di abilità parziale è così… antiquato. Ognuno di noi ha punti di forza e debolezze; ognuno di noi ha capacità che si estendono in un campo e non in un altro. Studenti di fisica che prendono voti altissimi in meccanica guidano un’automobile come cani, e così via.

— Comunque io credo che dipenda tutto dalla memoria — dico, ancora inquieto. — Io posso imparare a memoria con grande facilità.

— Spiegare le cose con parole tue non significa imparare a memoria — mi corregge Tom. — Conosco il testo che hai trovato on-line… Sai, Lou, non mi hai mai chiesto cosa faccio per vivere.

Sobbalzo: è vero. Non gli ho mai chiesto che lavoro faccia, non mi viene mai in mente di chiedere alla gente che lavoro fa. Ho conosciuto Lucia alla clinica, perciò so che è medico; ma Tom?

— Che lavoro fai?

— Insegno all’università — dice. — Ingegneria chimica.

— Sei un insegnante? — chiedo.

— Già. Ho due corsi per laureandi e un corso per quelli che aspirano al dottorato. Perciò so cosa pensano gli alunni della chimica organica. E so come ne parlano gli alunni che la capiscono rispetto a quelli che non la capiscono.

— Così tu credi che io la capisca davvero?

— Lou, si tratta della tua mente. Pensi di capirla?

— Credo di sì, ma non sono sicuro di aver ragione.

— Anch’io credo di sì. E non ho mai conosciuto nessuno che l’abbia imparata tanto a fondo in meno di una settimana. Ti hanno mai sottoposto a un test d’intelligenza, Lou?

— Sì. — Non desidero parlarne. Mi hanno sottoposto a test di tutti i tipi, dove si trattava per lo più d’indovinare cosa volesse chi aveva inventato il test medesimo.

— E ti hanno comunicato i risultati, o li hanno comunicati solo ai tuoi genitori?

— Non li hanno comunicati nemmeno ai miei genitori — dico. — Mia madre ne fu irritata. Le dissero che non volevano deludere le sue aspettative sul mio conto. Però ci assicurarono che sarei stato in grado di prendere un diploma.

— Lou, chi ha i tuoi risultati scolastici e quelli dei tuoi test clinici? — domanda Lucia.

— Non lo so — rispondo. — Forse… le scuole della mia città? I dottori? Io non ci sono più ritornato da quando i miei genitori sono morti.

— Chiunque li abbia, tu adesso dovresti essere in grado di farteli dare. Se vuoi, naturalmente.

Altra cosa alla quale non avevo mai pensato. Le persone hanno l’abitudine di richiedere i propri attestati scolastici e le cartelle cliniche dopo che sono cresciute e se ne sono andate? Io però non so se desidero sapere esattamente cosa c’è scritto in quegli attestati. E se dicessero di me più male di quanto ricordo?

— Comunque — continua Lucia — credo di sapere qual è il testo che ti conviene leggere ora. È un po’ vecchiotto, ma non contiene nessun errore, anche se le nostre conoscenze si sono ampliate molto da allora. Si intitola Funzioni del cervello, di Cego e Clinton. Io ne ho una copia, credo. — Esce dalla stanza e io cerco di pensare a tutto ciò che hanno detto lei e Tom. È troppo: la mia testa ronza di pensieri come fotoni rapidissimi che mi rimbalzano contro le pareti del cranio.

— Ecco, Lou — dice Lucia porgendomi un libro. È pesante, un grosso volume di carta con una copertina di tela. Il titolo e i nomi degli autori sono stampati in oro su un rettangolo nero sul dorso. È passato davvero molto tempo dall’ultima volta che ho visto un libro di carta. — A quest’ora probabilmente si troverà anche on-line, ma non so dove. Io lo comprai quando cominciai a studiare medicina. Dagli un’occhiata.

Apro il libro. La prima pagina è bianca. La seconda reca il titolo, gli autori: Betsy R. Cego e Malcolm R. Clinton, poi uno spazio vuoto e in fondo il nome dell’editore e una data. Ancora un’altra pagina col titolo e i nomi degli autori. Poi una pagina col titolo Prefazione. Comincio a leggere.

— Quella puoi saltarla, e anche l’introduzione — dice Lucia. — Voglio vedere se il testo vero e proprio ti è comprensibile.

Perché gli autori avrebbero dovuto mettere nel libro qualcosa che la gente può non leggere? A cosa servono la prefazione e l’introduzione? Non voglio discutere con Lucia, ma a me sembra che dovrei leggere per prime quelle parti proprio perché vengono prima. Per ora comunque sfoglio le pagine finché trovo il capitolo 1.

Non è di difficile lettura, e lo capisco bene. Quando alzo gli occhi, dopo una decina di pagine, Tom e Lucia mi stanno guardando. Mi sento arrossire. Li avevo completamente dimenticati nel leggere. Non è educato dimenticarsi della gente.

— Tutto bene, Lou? — chiede Lucia.

— Mi piace — dico.

— Splendido. Portatelo a casa e tienilo per tutto il tempo che vuoi. Per e-mail ti trasmetterò qualche altro riferimento che so che si trova on-line. Ti va?

— Grazie — dico. Vorrei continuare a leggere, ma sento da fuori uno sportello d’auto che sbatte e so che è venuto il momento di dedicarmi alla scherma.

12

Gli altri arrivano in gruppo, entro un paio di minuti. Ci trasferiamo nel cortile sul retro, facciamo gli esercizi di stiramento, poi indossiamo giubbetto e maschera e cominciamo a tirare di scherma. Tra un incontro e l’altro Marjory si siede accanto a me. Sono felice quando siede accanto a me. Mi piacerebbe toccare i suoi capelli, ma non lo faccio.

Non parliamo molto. Io non so cosa dire. Guardo Marjory battersi con Lucia: lei è più alta di Lucia, ma Lucia è più brava. Questa sera ambedue indossano giubbetti bianchi, e ben presto quello di Marjory ha piccole macchie brune dove Lucia ha toccato.

Sto ancora pensando a Marjory quando comincio a battermi con Tom. Sto seguendo gli schemi di Marjory e non quelli di Tom, che quindi subito mi uccide due volte.

— Non ti stai concentrando — mi riprende.

— Chiedo scusa — dico.

Tom sospira. — So che hai tanti pensieri, Lou, ma una delle ragioni per cui pratichiamo questo sport è proprio quella di dimenticare per un poco le nostre preoccupazioni.

— È vero. — Smetto di pensare a Marjory e mi concentro su Tom e sulla sua arma. Adesso posso distinguere il suo schema, che è lungo e complicato, e sono in grado di parare i suoi assalti. Basso, alto, alto, basso, manrovescio, basso, alto, basso, basso, manrovescio… Tom esegue un manrovescio ogni quinta posizione, variandone l’approccio. Adesso posso prepararmi per il manrovescio, girando su un tallone e poi facendo un passetto in diagonale. Attaccare in linea obliqua, diceva uno dei vecchi maestri, mai direttamente. Infine stabilisco la serie che mi piace di più e colpisco Tom in pieno.

— Ahi! — dice lui. — Pensavo di aver elaborato uno schema che non saresti riuscito a identificare…

— Esegui un manrovescio ogni quinta posizione — dico.

— Alla malora — dice Tom. — Riproviamo…

Questa volta il manrovescio arriva in nona posizione, poi in settima. Osservo che Tom lo esegue sempre in una posizione di numero dispari. Metto alla prova la mia supposizione per una serie più lunga, limitandomi ad aspettare. Ecco, infatti: nove, sette, cinque, poi di nuovo sette. Allora io rifaccio il passetto in diagonale e colpisco di nuovo.

— Non era in quinta posizione — dice lui, piuttosto a corto di fiato.

— No… ma era un numero dispari — gli spiego io.

— Non riesco a pensare abbastanza in fretta — dice Tom. — Non so battermi e pensare insieme. Tu come fai?

— Tu ti muovi, ma lo schema no — spiego. — Lo schema, quando lo vedo io, è immobile. Così è più facile tenerlo a mente, perché non si sposta.

— Non ho mai considerato la cosa da questo punto di vista — dice Tom. — E allora tu come progetti i tuoi assalti? In modo che non seguano uno schema?

— Oh, lo seguono — gli garantisco. — Ma io posso passare da uno schema a un altro… — Vedo che non mi segue e cerco di spiegarmi meglio. — Quando tu vai in macchina da qualche parte, ci sono molte strade che puoi percorrere… molti schemi tra i quali scegliere. Se ne segui uno, e una delle strade contemplate in quello schema è sbarrata, ne prendi un’altra e passi di conseguenza a uno schema diverso, no?

— Tu vedi le strade come schemi? — dice Lucia. — Io le vedo come stringhe… e passare dall’una all’altra per me è sempre complicato.

— Quanto a me, non faccio che perdermi — interviene Susan. — Se non ci fosse il trasporto pubblico non arriverei mai da nessuna parte.

— Quindi tu puoi tenere in mente diversi schemi di assalti e passare come niente dall’uno all’altro?

— Per lo più, però, io reagisco agli attacchi del mio avversario mentre ne analizzo lo schema — dico.

— Questo spiega molto sul modo in cui hai imparato quando hai incominciato a tirare di scherma — dice Lucia. Sembra felice. Non capisco perché questo la faccia sentire felice. — Nei primi incontri, non avevi tempo d’identificare gli schemi… e non avevi acquistato abbastanza abilità da batterti e pensare insieme, vero?

— Vedi… è difficile ricordarmene — dico. Mi sento a disagio con questi discorsi, con altra gente che cerca di capire come il mio cervello funziona… o non funziona.

— Oh, non importa. Adesso sei un bravo schermidore… ma di solito la scherma s’impara in modo diverso.

Il resto del pomeriggio passa rapidamente. Mi batto con diversi altri del gruppo; negli intervalli siedo accanto a Marjory, se lei non è impegnata. Ascolto i rumori che vengono dalla strada ma non sento nulla. Di tanto in tanto passa qualche automobile, però tutto sembra normale, almeno dal cortile. Quando esco, la mia macchina è intatta, il parabrezza non è rotto e le gomme non sono a terra. L’assenza di danni c’era prima che i danni si verificassero… se qualcuno fosse venuto a vandalizzare la mia auto, il danno si sarebbe verificato dopo, proprio come il buio e la luce. Prima c’è il buio, poi arriva la luce.

— La polizia ti ha fatto sapere nulla circa il parabrezza? — chiede Tom. Siamo tutti fuori, nel cortile anteriore.

— No — dico. Non voglio pensare alla polizia stasera. Marjory mi è vicina e sento il profumo dei suoi capelli.

— Hai riflettuto su chi potrebbe essere stato? — domanda ancora Tom.

— No — rispondo. Non voglio pensare nemmeno a quello, non con Marjory vicina.

— Lou… — Si gratta la fronte. — Tu devi pensarci. Ti sembra plausibile che la tua macchina sia stata danneggiata due volte di seguito da estranei?

— Non è stato nessuno del nostro gruppo — dico. — Voi siete miei amici.

Tom abbassa gli occhi, poi li alza a guardarmi. — Lou, penso che dovresti considerare… — Le mie orecchie non vogliono sentire ciò che dirà dopo.

— Eccoti qui! — lo interrompe Lucia. Interrompere qualcuno non è educato, ma io sono contento dell’interruzione. Lucia mi ha portato il libro e me lo porge dopo che ho messo lo zaino nel portabagagli. — Fammi sapere come ti sembra.

Alla luce del fanale all’angolo della strada il libro è di un grigio opaco e la copertina è ruvida sotto le mie dita.

— Cosa leggi di bello, Lou? — domanda Marjory. M’irrigidisco. Non desidero parlare della ricerca con lei. Non voglio che mi dica che la conosceva già.

— Cego e Clinton — spiega Lucia, come se fosse quello il titolo.

— Diamine! — dice Marjory. — Buon per te, Lou.

Torno a casa guidando con cautela, più conscio del solito dei raggi e delle pozze di luce che incontro, riflessi nella strada dai fanali e dalle vetrine illuminate. Entro ed esco dal buio… e ho l’impressione di andare più veloce al buio.

Tom scosse il capo mentre l’auto di Lou si allontanava. — Non so proprio… — disse, e s’interruppe.

— Stai pensando quello che penso anch’io? — domandò Lucia.

— Mi pare l’unica possibilità — annuì Tom. — Non mi piace pensarlo, è difficile credere che Don possa esser capace di un misfatto tanto serio, ma… chi altri potrebbe essere? Lui conosce Lou, potrebbe trovare facilmente il suo indirizzo; certo sa quando ci esercitiamo nella scherma e conosce la macchina.

— Alla polizia non hai detto nulla — osservò Lucia.

— No. Pensavo che Lou avrebbe fatto questa ipotesi, e dopo tutto si tratta della sua macchina. Non ho creduto bene impicciarmi. Adesso però… vorrei aver parlato e detto a Lou chiaro e tondo di guardarsi da Don. Lui immagina ancora che quello sia suo amico.

— Lo so. — Lucia scosse la testa. — Lui è così… be’, non so se sia lealtà o forza dell’abitudine. Una volta amico, sempre amico… e poi…

— Potrebbe anche non essere stato Don. Lo so, lui è stato una spina nel fianco e un fastidio per parecchio tempo, però prima non aveva mai fatto nulla di violento. E stasera non è successo nulla.

— La notte non è ancora passata — disse Lucia. — Se accadesse qualcosa d’altro, dovremo parlare alla polizia… per amore di Lou.

— Hai ragione, naturalmente — sbadigliò Tom. — Speriamo però che non succeda niente e che si tratti solo di coincidenze.

Arrivato a casa, porto su il libro e lo zaino. Passando davanti all’appartamento di Danny non odo nessun suono. Metto il mio giubbetto da scherma nel cesto dei panni sudici e porto il libro sulla scrivania. Alla luce della lampada la copertina è azzurro pallido, non grigia.

Lo apro, e senza Lucia a dirmi di saltare leggo tutte le pagine fin dal principio. Le dediche, la prefazione, scritta da un certo Peter J. Bartleman che era stato professore di Betsy R. Cego quando lei studiava medicina e risvegliò in lei un duraturo interesse per lo studio delle funzioni cerebrali. Lo stile mi sembra poco scorrevole. La prefazione spiega di cosa tratta il libro, perché gli autori lo hanno scritto e poi ringrazia molta gente e diverse compagnie per il loro aiuto. Mi sorprende trovare tra di esse il nome della compagnia per la quale lavoro. Aveva fornito assistenza per i metodi di calcolo.

I metodi di calcolo sono quelli che la nostra sezione sviluppa. Guardo di nuovo la data del copyright. Quando questo libro è stato scritto io ancora non lavoravo là.

Mi domando se qualcuno di quei vecchi programmi esiste ancora.

Consulto il glossario alla fine e scorro in fretta le definizioni. Adesso conosco circa la metà di esse. Quando comincio il primo capitolo, che espone la struttura cerebrale, comprendo tutto. Il cervello, il cervelletto, l’amigdala, l’ippocampo… appaiono in numerosi diagrammi e in sezioni verticali, orizzontali e oblique. Non avevo mai visto tuttavia un diagramma che mostrasse le funzioni delle diverse aree cerebrali, e quindi lo studio con cura. Mi chiedo come mai il principale centro del linguaggio parlato sia nella parte sinistra del cervello, mentre nella parte destra c’è un’area perfettamente efficiente che elabora gli stimoli auditivi. Perché specializzarsi fino a questo punto? Mi chiedo se i suoni sentiti da un orecchio vengano percepiti più come linguaggio dei suoni sentiti dall’altro. I livelli di elaborazione degli stimoli visivi sono altrettanto difficili da capire.

Ma nell’ultima pagina di quel capitolo trovo una frase talmente straordinaria che non posso far altro che fermarmi a contemplarla: "Essenzialmente, e a parte le funzioni fisiologiche, il cervello umano esiste per analizzare e generare schemi".

Mi si mozza il respiro, mi sento prima gelare e poi ardere. È questo che io faccio. Se davvero questa è la funzione essenziale del cervello umano, allora io non sono un handicappato ma una persona normale.

Non è possibile. Tutto ciò che conosco mi dice che io sono il diverso, l’handicappato. Rileggo la frase più e più volte, cercando di farla combaciare con quanto so.

Infine continuo la lettura per il resto del paragrafo. "L’analisi degli schemi e la loro creazione può essere difettosa, come in alcune malattie mentali, dando come risultato analisi errate o schemi generati sulla base di ’dati’ non corretti; però anche nelle più severe deficienze cognitive queste due attività sono caratteristiche del cervello umano… e anche di cervelli molto meno sofisticati di quello umano. I lettori interessati a tali funzioni negli esseri non umani dovrebbero consultare i seguenti riferimenti."

Quindi forse io sono normale e handicappato… normale nel percepire e nel generare schemi, ma i miei schemi sono errati?

Continuo a leggere, e quando finalmente smetto, sentendomi nervoso ed esausto, sono quasi le tre del mattino. Sono arrivato al capitolo 6: Trasformazione matematica del processo visivo.

Sto già cambiando. Pochi mesi fa non sapevo di amare Marjory. Non sapevo di poter tirare di scherma in un torneo con estranei. Non sapevo di essere in grado di imparare la biologia e la chimica come invece ho fatto. Non sapevo di poter cambiare fino a questo punto.

Una delle persone del centro di riabilitazione dove passavo tante ore da bambino diceva spesso che gli handicap sono il modo con cui Dio dà agli uomini la possibilità di dimostrare la propria fede. Io non concepisco Dio in questo modo. Non credo che Dio faccia succedere brutte cose allo scopo d’incrementare la crescita spirituale delle persone. Sono i cattivi genitori che fanno questo, diceva mia madre. I cattivi genitori rendono le cose difficili e penose per i loro figli e poi dicono che lo fanno per aiutarli a crescere. Crescere e vivere sono cose già tanto dure di per se stesse, quindi i bambini non hanno bisogno che gliele rendano peggiori. Io credo che questo sia vero anche per i bambini normali. Ho visto bambini piccoli imparare a camminare: faticano, e cadono molte volte. Dai loro visi si vede che la cosa non è facile. Sarebbe stupido caricarli di mattoni per render loro la cosa ancora più ardua. E se questo è vero per l’imparare a camminare, allora io credo sia vero anche per altre cose che interessano il crescere e l’imparare.

Si suppone che Dio sia un buon genitore, il Padre. Perciò io non credo che voglia renderci le prove più dure di quanto già sono. Non credo che io sia autistico perché i miei genitori avevano bisogno di una prova o perché ne avevo bisogno io. Credo che sia come se io fossi un bambino e un sasso mi cadesse sopra e mi rompesse una gamba. Ciò che ha causato questo è stato un accidente. Dio non lo ha prevenuto, ma nemmeno lo ha cagionato.

Io credo che il mio autismo sia stato un accidente, ma ciò che ne faccio esprime ciò che sono. Così diceva mia madre.

Questo è ciò che credo la maggior parte del tempo. Ma a volte non ne sono tanto sicuro.

È una mattina grigia, con nuvole basse. La luce lenta non ha ancora scacciato del tutto il buio. Preparo il sacchetto del pranzo, prendo Cego e Clinton e scendo. Posso leggere durante l’intervallo.

Le mie gomme sono a posto, il parabrezza nuovo è intatto. Forse la persona che non mi è amica si è stancata di danneggiarmi la macchina. Apro lo sportello, metto il sacchetto e il libro sul sedile del passeggero ed entro. La musica del mattino che preferisco per guidare sta già suonando nella mia mente.

Quando giro la chiave dell’accensione non succede niente. L’auto non parte. Non c’è alcun suono tranne il leggero clic della chiave che gira. So cosa significa questo: la batteria è morta.

La musica nella mia testa tace. La mia batteria non era morta ieri sera. L’indicatore del livello di carica era normale.

Esco e vado ad aprire il cofano. Appena lo sollevo qualcosa mi balza contro. Barcollo e quasi cado sul marciapiedi.

Si tratta di un giocattolo da bambini, un diavoletto a molla, che sta al posto in cui dovrebbe stare la batteria. La batteria è sparita.

Farò tardi al lavoro e il signor Crenshaw si arrabbierà. Richiudo il cofano sul motore senza toccare il giocattolo. Non mi piacevano i diavoletti a molla quando ero bambino. Devo chiamare la polizia e l’assicurazione, ripercorrere tutta la noiosa trafila. Guardo l’orologio. Se mi affretto ad andare alla stazione della metropolitana posso prendere un treno per il campus, così non farò tardi.

Prendo il sacchetto del pranzo e il libro, richiudo la macchina e mi avvio in fretta verso la stazione. Ho nel portafogli le carte dei due poliziotti che si sono occupati del mio caso: li chiamerò dal campus.

Sul treno affollato la gente tiene gli occhi fissi su un punto indeterminato e non guarda mai negli occhi gli altri viaggiatori. Non è che siano tutti autistici: sanno in qualche modo che non è appropriato avere contatti di sguardi sul treno. Alcuni leggono. Anch’io apro il libro e leggo cosa dicono Cego e Clinton sul modo in cui il cervello elabora i segnali visivi.

Mi affascinano gli scambi d’informazioni che ciclicamente si svolgono fra gli strati dell’elaborazione visiva. Non mi ero mai reso conto che una cosa tanto interessante avvenisse dentro la testa delle persone normali: credevo che si limitassero a guardare le cose e a riconoscerle automaticamente. Pensavo che i miei processi visivi fossero difettosi, invece (se interpreto l’informazione correttamente) sono soltanto lenti.

Arrivato alla fermata del campus oramai so dove andare e ci metto meno tempo a raggiungere il nostro edificio. Sono in anticipo di tre minuti e venti secondi. Il signor Crenshaw è di nuovo nell’atrio, ma non mi rivolge la parola. Si fa da parte. Io dico: — Buon giorno, signor Crenshaw — perché è educato, e lui grugnisce qualcosa che non si capisce bene. Se avesse avuto il mio terapista della dizione parlerebbe enunciando più chiaramente.

Metto il libro sulla scrivania e torno nell’atrio per andare a portare il mio pranzo nella cucinetta. Adesso il signor Crenshaw è sulla porta e guarda il parcheggio. Si volta e mi vede. — Dov’è la tua automobile, Arrendale? — domanda.

— A casa — dico. — Ho preso la metropolitana.

— Dunque tu puoi prendere il mezzo pubblico — commenta, e ha la faccia un po’ lucida. — Non hai veramente bisogno di un parcheggio speciale.

— I treni sono molto affollati e rumorosi — spiego. — Qualcuno mi ha rubato la batteria stanotte.

— Una macchina è solo una continua fonte di problemi per qualcuno come te — commenta ancora lui accostandosi. — Gente che non abita in zone sicure, con parcheggi custoditi, davvero non dovrebbe esibire il possesso di automobili.

— Non è mai successo nulla fino a poche settimane fa — rettifico. Non capisco perché desidero discutere con lui. A me discutere non piace.

— Sei stato fortunato. Adesso però sembra proprio che qualcuno ce l’abbia con te, no? Tre episodi di vandalismo. Ma almeno stavolta non sei arrivato in ritardo.

— Sono arrivato in ritardo una volta sola a causa dei vandalismi — dico.

— Non è questo il punto — ribatte. Mi chiedo quale sia il punto, a parte la sua antipatia per me e per i miei compagni. Dà un’occhiata alla porta del mio ufficio. — Sarà meglio che tu ritorni al lavoro — dice. — O meglio, che cominci a lavorare… — Adesso guarda l’orologio dell’atrio. Sono in ritardo di due minuti e diciotto secondi. Senza più rispondere, torno nel mio ufficio e chiudo la porta. Non ho intenzione di rimettermi in pari con i due minuti e diciotto secondi, non è colpa mia se sono in ritardo. Mi sento un poco agitato.

Richiamo il lavoro di ieri e i bellissimi schemi tornano a snodarmisi in mente. Un parametro segue l’altro, facendo passare lo schema da una struttura all’altra con fluidità impeccabile. Quando torno ad alzare la testa è passata un’ora e undici minuti. Il signor Crenshaw non sarà più qui adesso, non si trattiene mai tanto a lungo. Vado nell’atrio a prendere un po’ d’acqua. L’atrio è vuoto, ma vedo il segno sulla porta della palestra: c’è dentro qualcuno. Non m’importa.

Scrivo le parole che dovrò dire, poi chiamo la polizia e chiedo del primo poliziotto che si è occupato di me, il signor Stacy. Quando è in linea, sento dei rumori di fondo: altre persone stanno parlando.

— Sono Lou Arrendale — mi presento. — Lei venne da me quando le gomme della mia macchina furono tagliate. Mi disse di chiamare…

— Sì, sì — dice lui. Mi sembra impaziente, come se non mi stesse realmente ascoltando. — L’agente Isaka mi ha informato del parabrezza la settimana dopo, ma non abbiamo avuto il tempo di approfondire le indagini…

— La notte scorsa mi hanno rubato la batteria — spiego. — E qualcuno ha messo al posto della batteria un giocattolo.

— Cosa?

— Questa mattina la mia automobile non voleva partire. Ho guardato nel cofano e qualcosa mi è balzata contro. Era un diavoletto a molla che qualcuno aveva messo dove doveva stare la batteria.

— Rimanga lì, manderò qualcuno… — dice.

— Non sono a casa — spiego. — Sono al lavoro. Il mio superiore si sarebbe arrabbiato se avessi fatto tardi un’altra volta. La macchina è a casa.

— Capisco. Dov’è il giocattolo?

— Nel cofano — rispondo. — Non l’ho toccato. Ho solo richiuso.

— La faccenda non mi piace — dice Stacy. — Qualcuno davvero non le vuol bene, signor Arrendale. Una volta passi, ma… lei non ha nessuna idea di chi potrebbe essere il vandalo?

— L’unica persona che conosca e che ce l’abbia con me è il mio capo, il signor Crenshaw — dico. — A lui sono antipatici gli autistici. Vuole che proviamo un trattamento sperimentale…

— Ci sono dunque altri autistici nel posto dove lavora?

Mi rendo conto che non può saperlo. — La nostra sezione è costituita solo da autistici — dico. — Però non credo che il signor Crenshaw farebbe una cosa del genere. Benché a lui non piaccia che noi abbiamo un permesso speciale per guidare e un parcheggio tutto per noi. Pensa che dovremmo prendere la metropolitana come tutti gli altri.

— Ehm. E tutti i vandalismi hanno preso di mira la sua macchina.

— Sì. Ma lui non sa nulla del fatto che io tiro di scherma.

— C’è altro?

Non desidero lanciare false accuse. Farlo è sbagliato; ma non voglio nemmeno che la mia macchina subisca altri danni. Mi fa perdere tempo, confonde i miei orari e poi costa denaro.

— C’è qualcuno al Centro, Emmy Sanderson, che pensa sia sbagliato da parte mia avere amici normali — dico. — Però lei non sa dove si riunisce il mio circolo di scherma. — Io non credo veramente che sia stata Emmy, tuttavia lei e il signor Crenshaw sono le uniche persone che si siano arrabbiate con me negli ultimi tempi. Ma lo schema appare sbagliato, sia per lei che per il signor Crenshaw.

— Emmy Sanderson — dice lui, ripetendo il nome. — E lei non crede che sappia dove vi radunate per tirare di scherma?

— No. — Emmy non è mia amica, comunque io non credo che abbia fatto quelle cose. Don è mio amico e io non voglio credere che le abbia fatte.

— Non è più probabile che il nostro vandalo sia qualcuno che fa parte del circolo di scherma? Lì c’è qualcuno col quale lei non va d’accordo?

Di colpo mi sento tutto sudato. — Quelli sono miei amici — dico. — Gli amici non fanno del male agli amici.

Stacy grugnisce e non capisco cosa voglia dire il suo grugnito. — Ci sono amici e amici. Mi parli delle persone che fanno parte di quel gruppo.

Gli parlo prima di Tom e Lucia e poi degli altri; lui si annota i nomi.

— Erano tutti lì in queste ultime settimane?

— Non tutti ogni settimana. — Gli dico quelli che riesco a ricordare. — E Don è passato a un altro istruttore, perché si è offeso con Tom.

— Con Tom? Non con lei?

— No. — Non so come riferire l’accaduto senza criticare degli amici, e criticare gli amici è sbagliato. — Don certe volte scherza, ma è mio amico — dico. — Si è offeso con Tom perché Tom mi ha parlato di una cosa che Don aveva fatto molto tempo fa, e Don non voleva che me la dicesse.

— Qualcosa di brutto? — chiede Stacy.

— Eravamo a un torneo — racconto. — Don venne da me dopo un incontro e mi disse cosa avevo fatto di sbagliato e Tom, il mio istruttore, gli disse di lasciarmi in pace. Don cercava di aiutarmi, ma Tom pensava che non fosse così. Tom disse che io ero stato molto più bravo di Don al suo primo torneo, Don lo sentì e andò in collera con Tom. Dopo non ha voluto più far parte del nostro gruppo.

— Ehm. Ho l’impressione che questo sia più che altro un motivo per tagliare le gomme del suo istruttore. Dovremo controllare, però. Se le viene qualche altra idea, me la comunichi. Manderò qualcuno a prendere il giocattolo: vedremo di riuscire a ricavarne qualche impronta digitale, se sarà possibile.

Dopo aver riattaccato, mi siedo e penso a Don, ma non è piacevole. Penso a Marjory, invece.

Marjory ha detto a Lucia che io le piaccio? Questa è un’altra cosa che la gente normale fa, penso. Loro sanno quando a qualcuno piace un’altra persona, e quanto; non devono avere dubbi. Fa parte della loro abilità a leggere la mente degli altri, a sapere quando uno scherza e quando fa sul serio, a sapere quando una parola è usata nel suo senso letterale e quando è usata in altri sensi. Quanto vorrei sapere con sicurezza se piaccio a Marjory. Lei mi sorride e mi parla con gentilezza: ma lo farebbe ugualmente, credo, anche se avesse per me solo un poco di simpatia. È una persona di modi gentili.

Ricordo le accuse di Emmy. Ma le allontano dalla mia mente. Marjory è mia amica, me lo ha detto, e io devo crederle se davvero le sono amico.

Accendo il ventilatore per mettere in moto le mie girandole e spirali. Ne ho bisogno: sto respirando troppo in fretta e mi sento il collo bagnato di sudore. È a causa dell’automobile, a causa del signor Crenshaw, a causa del fatto che ho dovuto chiamare la polizia. Non a causa di Marjory.

Dopo qualche minuto la funzionalità del mio cervello torna all’analisi e alla creazione di schemi. Ma non lascio tornare la mia mente a Cego e Clinton. Lavorerò per una parte dell’intervallo del pranzo onde pareggiare il tempo che mi ci è voluto per parlare col signor Stacy, ma non i due minuti e diciotto secondi che il signor Crenshaw mi ha fatto perdere.

Immerso nella bellezza e complessità degli schemi, non ne emergo per il pranzo fino alle 13.28.17.

La musica nella mia mente è il Concerto per violino n.2 di Bruch. A casa ne ho quattro interpretazioni diverse. Una risale al Ventesimo secolo ed è la più vecchia, ma è ancora la migliore.

Questa musica rende più agevole distinguere alcuni tipi di schemi piuttosto che altri. Bach ne mette in risalto la maggior parte, ma non quelli che sono… l’unica definizione che mi viene in mente è "ellittici". Le lunghe ondate di questa musica, che oscurano gli schemi a favo illuminati da Bach, mi aiutano a trovare e costruire le lunghe, asimmetriche componenti che trovano riposo nella fluidità.

È una musica oscura. Sentirla mi dà l’impressione di lunghe scie ondulanti di tenebra, come nastri nerazzurri agitati dal vento di notte, oscurando e rivelando le stelle. Ora morbida, ora più alta, ora il violino solista con l’orchestra che alita nello sfondo e ora in crescendo, col violino che naviga sull’orchestra come un nastro su una corrente d’aria.

Credo che sarebbe la musica giusta anche per leggere Cego e Clinton. Mangio in fretta e carico il timer del mio ventilatore. In questo modo gli ammiccamenti e i barbagli della luce mi faranno sapere quando sarà il momento di rimettermi al lavoro.

Cego e Clinton parlano di come il cervello elabora bordi, angoli, consistenze, colori e di come le informazioni scorrono avanti e indietro attraverso le stratificazioni del processo visivo. Io non sapevo che c’era una zona separata per l’identificazione dei visi, benché i riferimenti che gli autori citano risalgano al Ventesimo secolo. Non sapevo che l’abilità di riconoscere un oggetto visto da angolazioni diverse è fortemente deficitaria in un cieco nato che riguadagni la vista più tardi.

Molto spesso gli autori parlano di cose che mi hanno dato fastidi gravi mettendole in relazione con l’esser nati ciechi o aver subito un trauma cranico per incidenti, embolie o aneurismi. Quando la mia faccia non diventa strana come quella delle persone normali allorché provano una forte emozione, questo vuol dire che il mio cervello non riesce a elaborare i cambi di espressione?

Un lieve ronzio: il ventilatore si è messo in funzione. Chiudo gli occhi, aspetto tre secondi e li riapro. La stanza è piena di colori e movimenti, spirali e girandole sono tutte in moto, riflettendo la luce in tanti scintillii mutevoli. Metto da parte il libro e torno al lavoro. L’oscillazione regolare dei bagliori mi calma: ho sentito persone normali chiamarla caotica, ma non è vero. È invece uno schema regolare e prevedibile, e mi è costato settimane per renderlo così. Credo ci siano metodi più facili per farlo, ma io ho dovuto regolare ognuna delle parti mobili finché non si muoveva alla velocità giusta in rapporto a quella delle altre.

Suona il telefono. Non mi piace che il telefono suoni, mi distrae da quel che sto facendo e all’altro capo ci sarà qualcuno che si aspetterà che io cominci subito a parlare. Tiro un respiro profondo. Dico: — Qui Lou Arrendale.

— Ah… parla l’agente Stacy — dice la voce. — Ascolti… abbiamo mandato qualcuno al suo appartamento. Mi ripeta di nuovo il numero di targa dell’auto.

Glielo recito.

— Uhm. Bene, avrò bisogno di parlare con lei di persona. — Segue una lunga pausa. — Io penso che lei possa essere in pericolo, signor Arrendale. Chiunque stia facendo questo non è davvero una persona perbene. Quando i nostri ragazzi hanno cercato di tirar fuori quel giocattolo, c’è stata una piccola esplosione.

— Esplosione!

— Già. Per fortuna i nostri ragazzi sono stati prudenti. La faccenda non gli piaceva, così avevano chiamato la squadra esplosivi. Ma se lei avesse preso il giocattolo, ci avrebbe rimesso un paio di dita… o la cosa avrebbe potuto esploderle in faccia.

— Vedo. — Potevo davvero vedere tutto, visualizzarlo perfettamente. Ero stato sul punto di tendere la mano e prendere il giocattolo… e se lo avessi fatto… Di colpo mi sento gelare, le mani cominciano a tremarmi.

— Dobbiamo davvero prendere questa persona. A casa del suo istruttore di scherma non c’è nessuno…

— Tom insegna all’università — dico. — Ingegneria chimica.

— Questo ci aiuta. E sua moglie?

— Lucia è medico — rispondo. — Lavora all’ospedale. Lei davvero pensa che questa persona voglia farmi del male?

— Vuole sul serio causarle dei guai — dice il poliziotto. — E il vandalismo sembra diventare sempre più violento. Lei può venire alla stazione di polizia?

— Non posso allontanarmi da qui fino a dopo il lavoro, o il signor Crenshaw si arrabbierà con me. — Se qualcuno vuole farmi del male, non voglio che altri se la prendano con me.

— Manderemo qualcuno, allora — decide il signor Stacy. — In quale edificio si trova? — Glielo dico, gli spiego da quale porta entrare e quale strada fare per arrivare al nostro parcheggio, e lui continua: — Saremo lì entro mezz’ora. Abbiamo delle impronte digitali, dovremo prendere le sue per paragonarle con le altre. Le sue impronte dovrebbero essere dappertutto nella macchina… poi ultimamente lei l’ha fatta riparare, quindi ci saranno impronte di altri. Ma se ne troviamo alcune che non risultino essere sue o degli operai che hanno lavorato all’auto… avremo qualcosa di solido su cui basarci.

Mi chiedo se devo informare il signor Aldrin o il signor Crenshaw che sta arrivando la polizia per parlarmi. Ho idea che il signor Crenshaw si arrabbierà per questo. Il signor Aldrin pare non vada in collera con tanta facilità. Chiamo il suo ufficio.

— La polizia sta venendo per parlarmi — dico. — Mi rimetterò in pari con il tempo perso.

— Lou! Cos’è successo? Che hai fatto?

— È a causa della mia macchina — dico.

Prima che possa spiegarmi meglio, lui riprende a parlare, in fretta. — Lou, non dire nulla. Ti troveremo un avvocato. Qualcuno si è fatto male?

— Non si è fatto male nessuno — dico, e lo sento tirare un sospirone.

— Bene, questo è già qualcosa.

— Quando ho aperto il cofano, non ho toccato l’oggetto.

— Quale oggetto? Di cosa stai parlando?

— Della… della cosa che qualcuno mi ha messo nella macchina. Sembrava un giocattolo, un diavoletto a molla.

— Aspetta… aspetta. Mi stai dicendo che la polizia viene a causa di qualcosa che è successo a te, qualcosa che ha fatto qualcun altro? Non qualcosa che hai fatto tu?

— Io non l’ho toccato — ripeto. Le parole che lui ha detto mi filtrano nel cervello lentamente, una dopo l’altra; l’eccitazione nella sua voce mi ha impedito di sentirle con chiarezza. In un primo tempo lui ha creduto che io avessi fatto qualcosa di brutto, qualcosa capace di far venire la polizia. Quest’uomo che ho conosciuto fin da quando ho cominciato a lavorare qui… ha creduto che io potessi aver fatto qualcosa di brutto. Mi sento scosso.

— Chiedo scusa — dice il signor Aldrin prima che io possa parlare. — Ti ho dato l’impressione… devo averti dato l’impressione… sono balzato alla conclusione che tu avessi fatto qualcosa di sbagliato. Mi dispiace. So che non faresti mai cose del genere. Però continuo a pensare che hai bisogno di un avvocato della compagnia mentre parli con la polizia.

— No — rispondo. Mi sento gelido e amaro; non voglio esser trattato come un bambino. Credevo di essere simpatico al signor Aldrin. Se invece non gli sono simpatico, allora il signor Crenshaw, che è molto peggiore, deve odiarmi sul serio. — Non voglio un avvocato, non ne ho bisogno. Non ho fatto nulla di sbagliato. Qualcuno ha vandalizzato più volte la mia auto.

— Più di una volta?

— Sì — dico. — Due settimane fa mi hanno tagliato tutt’e quattro le gomme. È stato allora che sono arrivato al lavoro tardi. Il mercoledì seguente, poi, mentre ero a casa di un amico, qualcuno mi ha fracassato il parabrezza. Anche allora ho chiamato la polizia.

— A me però non l’hai detto, Lou — mi rimprovera il signor Aldrin.

— No… pensavo che il signor Crenshaw si sarebbe irritato. Questa mattina la mia macchina non voleva mettersi in moto. La batteria era sparita e al suo posto c’era un giocattolo. Io sono venuto a lavorare e ho chiamato la polizia. Quando loro sono andati a guardare, il giocattolo aveva sotto dell’esplosivo.

— Dio mio, Lou, questo… avresti potuto restare ferito. È orribile! Hai nessuna idea su chi… ma no, naturalmente no. Ascolta, vengo subito.

Riappende prima che io possa dirgli di non venire. Adesso sono troppo eccitato per lavorare. Ho bisogno di un po’ di tempo in palestra. Non c’è nessun altro. Metto la musica adatta e comincio a rimbalzare sul trampolino. La musica mi solleva, mi alleggerisce.

Quando Aldrin arriva, mi sento più disteso. Sono sudato e ho addosso l’odore del sudore, ma non sono più scosso o impaurito.

Aldrin sembra preoccupato e vuole avvicinarsi a me più di quanto io desideri. Non voglio nemmeno che lui mi tocchi. — Stai bene, Lou? — chiede. La sua mano continua ad annaspare come volesse battermi qualche colpetto sulla spalla.

— Sto bene — rispondo.

— Ne sei sicuro? Io credo davvero che dovremmo avere qui un avvocato, e forse tu dovresti andare alla clinica…

— Non mi sono fatto male — ripeto. — Sto benissimo. Non ho bisogno di farmi visitare da un dottore e non voglio un avvocato.

— Ho lasciato detto all’entrata di far venire qui la polizia — dice lui. — Ho dovuto anche riferire al signor Crenshaw. — Aggrotta la fronte. — Era in riunione. Lo avviseranno quando uscirà.

Suona il campanello della porta. Gli impiegati che lavorano in questo edificio hanno tutti la chiave magnetica: solo i visitatori adoperano il campanello. — Vado io — dice il signor Aldrin. Io non so se andare in ufficio o restare nell’atrio. Resto nell’atrio e guardo il signor Aldrin andare alla porta. L’apre e dice qualcosa all’uomo che è comparso sulla porta. Non posso distinguere se è lo stesso uomo al quale ho già parlato finché lui non si avvicina, e allora lo riconosco subito: è lui.

13

— Salve, signor Arrendale — dice lui tendendo la mano. Io tendo la mia, benché le strette di mano non mi piacciano. So che è il gesto appropriato. — C’è qui un posto dove possiamo parlare?

— Il mio ufficio — dico, e faccio strada. Non ho mai visitatori, quindi c’è una sola sedia. Vedo che il signor Stacy guarda le mie girandole, spirali e altre decorazioni. Non so cosa possa pensarne. Il signor Aldrin mormora qualcosa al signor Stacy ed esce. Io non siedo perché non è educato sedere quando le altre persone stanno in piedi; ma il signor Aldrin torna con una sedia che riconosco per una di quelle del cucinino. La mette giù nello spazio tra la mia scrivania e gli scaffali, poi va a mettersi davanti alla porta.

— Lei è? — chiede Stacy rivolgendosi a lui.

— Pete Aldrin; sono il supervisore di Lou. Non so se lei capisce… — Aldrin mi lancia un’occhiata che non riesco a interpretare, e Stacy annuisce.

— Ho già parlato una volta con il signor Arrendale — dice. Ancora una volta rimango sbalordito per come lo fanno, per il modo in cui si passano informazioni senza pronunciare parole. — Non voglio trattenerla.

— Ma io… penso che Lou abbia bisogno…

— Signor Aldrin, il signor Arrendale non ha nulla da temere. Noi stiamo cercando di aiutarlo, di fare in modo che quel pazzo non gli faccia del male. Ora, se lei avesse un posto sicuro dove lui possa restare per pochi giorni, mentre noi cerchiamo di localizzare il vandalo, questo ci sarebbe di aiuto, ma altrimenti… non credo proprio che gli serva una balia mentre parlo con lui. Naturalmente, dipende dal signor Arrendale… — Il poliziotto mi guarda. Vedo qualcosa nel suo viso che potrebbe essere un sorriso, ma non ne sono sicuro. È un’espressione ambigua.

— Lou è una persona di grandi capacità e che noi apprezziamo molto — dice il signor Aldrin. — Io volevo solo…

— Assicurarmi che venga trattato come si deve. Lo capisco. Ma deve decidere lui.

Adesso mi guardano tutti e due, e io mi sento impalato da quelle due paia di occhi. So che il signor Aldrin vuole che io gli dica che può rimanere; ma lui vuol rimanere per le ragioni sbagliate e io non desidero che resti. — Andrà tutto bene — lo tranquillizzo. — La chiamerò se avrò bisogno di lei.

— Aspetto fuori, allora. — Esce e io sento i suoi passi risuonare nel corridoio. Entra nel cucinino e sento l’altra sedia scricchiolare. Evidentemente ha deciso di rimanere lì.

Il poliziotto chiude la porta del mio ufficio e siede nella sedia che Aldrin ha portato per lui. Io siedo nella mia poltrona. L’uomo si guarda intorno.

— Le piacciono le cose che girano, vero?

— Sì — dico. Mi chiedo quanto tempo rimarrà. Dovrò rimettere in pari il tempo perso.

— Ora le spiegherò alcune cose sui vandali — dice. — Ce ne sono di diversi tipi. C’è quello… di solito un ragazzino, che vuole solo provocare danni. Così taglia una gomma o rompe un parabrezza o porta via un segnale stradale… tanto per fare casino, e non sa e non si cura di sapere a chi fa il danno. Poi c’è quella cosa che noi chiamiamo rigurgito. Succede una rissa in un bar che poi continua fuori, e allora si ammaccano le automobili del vicino parcheggio; oppure c’è una folla per strada, qualcuno comincia a fare il matto e di colpo anche gli altri si mettono a infrangere vetrine e a rubare roba. Tra loro c’è gente che abitualmente non è violenta… che poi magari si scandalizza per come si è comportata in mezzo alla folla. — Fa una pausa e mi guarda. Io annuisco, so che lui vuole da me una risposta.

— Lei vuol dire che alcuni vandali non hanno intenzione di danneggiare una persona in particolare.

— Esatto. C’è l’individuo che gode a far danni ma senza conoscere la vittima; e c’è l’individuo che di solito non fa danni ma si trova coinvolto in una situazione violenta. Ora, quando noi ci troviamo di fronte a un episodio di vandalismo… come la faccenda delle sue gomme… che chiaramente non è un rigurgito, immediatamente pensiamo all’individuo a cui piace far danni, e che è il tipo di vandalo più comune. Se qualche altra macchina avesse avuto le gomme tagliate nel suo stesso quartiere nelle settimane seguenti, noi avremmo supposto che qualche monellaccio si stava divertendo a modo suo. Molto seccante ma non pericoloso.

— Anche costoso, per i proprietari delle automobili — dico.

— Certo, e per questo l’azione è illegale. C’è però un terzo tipo di vandalo, e quello è pericoloso: il vandalo che se la prende con una persona in particolare. Tipicamente questa persona comincia con qualcosa che provoca danni ma non è dannosa… come tagliare le gomme. A questo punto alcune di queste persone si fermano, soddisfatte di una singola vendetta; e allora tutto può ancora andar bene. Ma altri non si accontentano, e a questo punto bisogna cominciare a preoccuparsi. Nel suo caso noi vediamo il taglio delle gomme, relativamente non violento, seguito dalla rottura del parabrezza, azione più violenta, e infine l’ancora più violento piazzamento di una piccola carica di esplosivo in un punto dove poteva farle del male. Ogni incidente è venuto a costituire un incremento di violenza. Ecco perché noi temiamo per la sua incolumità.

Io mi sento come se stessi fluttuando in una sfera di cristallo, non connessa con alcuna cosa esterna. Non mi percepisco in pericolo.

— Lei può ritenersi al sicuro — continua Stacy, leggendomi di nuovo nella mente — ma ciò non significa che lei sia al sicuro. L’unico modo per lei di trovarsi al sicuro è di vedere dietro le sbarre il picchiatello che la perseguita.

Ha detto "picchiatello" con tanta naturalezza: mi chiedo se è questo che pensa anche di me.

Legge di nuovo nei miei pensieri. — Spiacente, non avrei dovuto adoperare quel termine… probabilmente termini del genere lei ne avrà sentiti abbastanza. È questo che mi fa infuriare: lei è qui, buon lavoratore e brava persona e quello… quella persona cerca di farle del male. Cosa gli duole?

"Non l’autismo" vorrei dire, ma taccio. Non credo che un autista si comporterebbe in quel modo, però non li conosco tutti e potrei sbagliarmi.

— Voglio solo che lei sappia che stiamo prendendo la cosa sul serio — dice lui. — Anche se al principio non ci siamo mossi molto in fretta. Quindi adesso parliamo chiaro. Il bersaglio dev’essere proprio lei. Ha mai sentito citare il vecchio detto sugli atti ostili?

— No.

— Una volta è un incidente, due volte è una coincidenza, ma tre volte è un atto ostile. Perciò se qualcosa che può essere diretta solo contro di lei accade per tre volte, è il momento di arguire che qualcuno ce l’ha con lei.

Ci penso su per un momento. — Ma… se si tratta di un atto ostile, era così anche la prima volta, vero? Non era un incidente.

Lui sembra sorpreso, aggrotta la fronte, sporge le labbra. — Be’… Già, ha ragione, tuttavia lei non lo sa che è una prima volta finché non accadono le altre e solo allora si può riconoscere che appartengono alla stessa categoria.

— Comunque se accadono tre incidenti veri uno potrebbe pensare che si tratta di atti ostili… e sbagliare.

Lui mi guarda fisso, scuote la testa: — In quanti modi si può sbagliare? — chiede. — E in quanti si può aver ragione?

In un istante mi si presenta nella testa il calcolo bell’e fatto: le decisioni formano un arazzo dove gli incidenti sono arancione, le coincidenze sono verdi, gli atti ostili sono rossi. Tre incidenti, e per ognuno le possibilità di vero o falso, con tre teorie di verità, a seconda del valore assegnato a ogni azione. E un filtro a monte per la selezione dell’incidente. È con questo tipo di problemi che ho a che fare tutti i giorni, solo che di solito sono di ben altra complessità.

— Ci sono ventisette possibilità diverse — dico. — E di queste una sola è corretta, se per correttezza dobbiamo intendere che tutt’e tre le parti del detto siano vere, che il primo incidente sia davvero un incidente, il secondo davvero una coincidenza e il terzo davvero un atto ostile. Anche un’altra può essere corretta ma è diversa: quella che ammette tutti e tre gli incidenti come azioni ostili.

Lui mi contempla a bocca aperta. — Ma come…? Ha fatto il conto così, a mente?

— È un esercizio di permutazioni: non è difficile, la formula me l’hanno insegnata a scuola.

— Dunque c’è solo una possibilità su ventisette che la mia ipotesi sia giusta? Sciocchezze. Non sarebbe un detto popolare se non fosse vero in più casi del… del quattro per cento, no? Qui c’è qualcosa che non va.

Le sue mancanze di logica e di preparazione matematica sono penosamente evidenti. — Tuttavia il concetto di verità dipende dallo scopo — continuo io. — Una possibilità su ventisette corrisponde a una possibilità di errore del novantasei virgola tre per cento sul valore di tutto l’enunciato. Ma in nove casi… un terzo del totale… l’ultimo incidente è un atto ostile, il che fa scendere la possibilità di errore, rispetto all’incidente finale, al sessantasette per cento. E poi ci sono diciannove casi in cui l’atto ostile può verificarsi… come primo, secondo o ultimo incidente o come combinazione di essi. Diciannove su ventisette equivale al settanta virgola trentasette per cento: questa è la probabilità che un atto ostile si sia verificato in almeno uno dei tre incidenti. Presumere un atto ostile rimane errato nel ventinove virgola sessantatré per cento dei casi, che però equivale a solo un terzo del totale. Quindi, se è importante stare in guardia contro probabili atti ostili, cioè se per lei è più importante scoprire un atto ostile che evitare di sospettarlo quando non lo è, allora è più conveniente sospettare che si sia verificato un atto ostile quando si esaminano tre incidenti che sono in relazione tra di loro.

— Santo cielo, ma lei parla sul serio — dice lui e scuote la testa. — Non sapevo che lei fosse un genio della matematica.

— Io non sono un genio — comincio, ma mi fermo subito. Non è opportuno dirgli che simili calcoli sono semplici, alla portata di ogni ragazzino di scuola. Se lui non è capace di farli, potrebbe restarci male.

— Insomma, lei sostiene che dando retta a quel vecchio detto io sbaglierei comunque un sacco di volte?

— Dal punto di vista matematico, il vecchio detto che ha citato non può esser vero più volte di quelle che ho calcolate. È un detto, non una formula. E solo le formule sono valide in matematica. Nella vita reale dipenderà da come lei sceglie gli incidenti da correlare. — Cerco di spiegarmi. — Supponga che io metta una mano sulla vernice fresca perché non ho fatto caso al cartello che mi avvisava. E che nello stesso giorno mi cada un uovo per terra e infine inciampi in una sconnessura del marciapiedi. Dovrei chiamare il terzo di questi incidenti un atto ostile?

— No, perché è chiaro che è trascuratezza da parte sua. Vedo. Ma mi dica, se il numero di incidenti collegati aumenta, la percentuale di errore diminuisce?

— Naturalmente, se lei sceglie gli incidenti giusti.

Scuote di nuovo la testa. — Allora torniamo a lei e vediamo di focalizzarci sugli incidenti giusti. Qualcuno ha tagliato le gomme della sua macchina la notte di mercoledì di due settimane fa. Ora, ogni mercoledì lei va a casa di un amico per tirare di scherma. Cos’è, un combattimento con le spade o cosa?

— Non si tratta di spade autentiche — dico. — Servono solo per lo sport.

— Bene. Le tiene nella macchina?

— No. Le tengo in casa di Tom. Anche altri lo fanno.

— Quindi il motivo non può essere stato il furto. E la settimana seguente il suo parabrezza è stato rotto mentre lei si stava esercitando. Di nuovo il danno è stato inflitto all’automobile, e questa volta il luogo dove stava la sua automobile dimostra che il vandalo sapeva dove lei va il mercoledì. E il terzo danneggiamento è stato compiuto la notte di un mercoledì, fra l’ora in cui lei è tornato a casa dall’esercitazione di scherma e l’ora in cui si è alzato la mattina. I tempi mi suggeriscono che gli incidenti sono connessi con il gruppo che pratica la scherma.

— A meno che il vandalo non sia qualcuno che ha libere solo le notti di mercoledì — dico.

Lui mi fissa a lungo. — Mi pare che lei non voglia fronteggiare la possibilità che qualcuno che fa, o faceva, parte del suo gruppo, abbia del rancore verso di lei.

Ha ragione. Non voglio pensare che le persone con cui ho passato tanto tempo per tanti anni abbiano antipatia per me. Lì mi sentivo al sicuro. Tutti sono miei amici. Vedo lo schema che il signor Stacy vuol farmi vedere… lo avevo già immaginato… ma è impossibile.

— Io non… — Mi si chiude la gola e sento nella testa un senso di pressione: ciò significa che non potrò parlare con facilità per un po’. — Non è… giusto… dire… una cosa… quando… non si… è sicuri… che è vera.

— Lei non vuole pronunciare false accuse — dice Stacy.

Annuisco senza dir nulla.

Lui sospira. — Signor Arrendale, tutti abbiamo persone alle quali non piacciamo. Lei non deve essere per forza un cattivo soggetto perché qualcuno la prenda in odio. E prendere precauzioni per evitare che qualcuno le faccia del male non la fa diventare un cattivo soggetto. Se in quel gruppo c’è qualcuno che ha rancore verso di lei, a torto o a ragione, può anche darsi che quella persona non sia il vandalo. Questo lo so. Non ho nessuna intenzione di sbattere qualcuno in galera solo perché ha antipatia per lei. Però nemmeno voglio che lei venga ucciso perché questa minaccia non è stata presa sul serio.

Ma io proprio non riesco a immaginare che qualcuno… Don… stia cercando di uccidermi. Che io sappia, io non ho fatto mai del male a qualcuno. E la gente non uccide per sciocchezze.

— A mio parere, la gente uccide per ogni sorta di ragioni sciocchissime — dice Stacy.

— No — balbetto. Le persone normali hanno ragioni per ciò che fanno, ragioni importanti per cose importanti e ragioni da poco per cose da poco.

— Sì — afferma lui con voce decisa. Si vede che crede a ciò che dice. — Non tutti sono così, naturalmente. Ma colui che ha messo quel giocattolo cretino nella sua macchina, con l’esplosivo… non è una persona sana di mente a parer mio, signor Arrendale. E la mia professione mi ha fatto conoscere bene il tipo di persona che uccide. Padri che rompono la testa a un figlio perché ha preso un pezzo di pane senza permesso… mogli e mariti che afferrano un’arma nel mezzo di una discussione su chi ha scordato di comprare lo zucchero. Io non credo che lei sia tipo da fare accuse avventate. A sua volta lei pensi che noi investigheremo con cura su tutto ciò che ci dirà e che ci fornirà una base su cui lavorare. La persona che se la sta prendendo con lei potrebbe prendersela con qualcun altro in seguito.

Non desidero parlare, ho la gola talmente stretta che mi duole. Ma se tutto ciò dovesse accadere a qualcun altro…

Penso a quello che ho da dire e a come dirlo quando lui chiede: — Mi dica qualcosa di più sul gruppo degli schermidori.

A questo posso rispondere e lo faccio. Stacy chiede ancora come ci esercitiamo, quando la gente viene, cosa fa, quando se ne va.

Descrivo la casa di Tom, il cortile, la stanza dove riponiamo l’attrezzatura. — Le mie cose occupano sempre lo stesso posto.

— Quanti di voi ripongono le loro cose in casa di Tom?

— Oltre a me? Due — rispondo. — Anche alcuni altri, quando devono partecipare a tornei, ma solo tre di noi regolarmente. Gli altri due sono Don e Sheraton.

— Perché? — domanda Stacy con calma.

— Sheraton viaggia molto per lavoro. E una volta ha subito un furto nel suo appartamento e gli hanno rubato un’intera serie di armi bianche. Don… — La gola minaccia di chiudermisi ancora una volta, ma continuo: — Don non faceva che dimenticarsi le sue cose e chiedere quelle degli altri in prestito, e alla fine Tom gli disse di lasciarle in casa sua.

— Don. Si tratta dello stesso Don del quale mi ha parlato per telefono?

— Sì — dico. Ho i muscoli completamente irrigiditi.

— Faceva già parte del gruppo quando lei è arrivato?

— Sì.

— Quali sono i suoi amici nel gruppo?

Io pensavo che tutti fossero miei amici. Emmy diceva che era impossibile, perché loro erano normali e io no. Io però lo pensavo. — Tom — rispondo. — Lucia. Brian. M-Marjory…

— Lucia è la moglie di Tom, vero? Chi è questa Marjory?

Sento il sangue salirmi al viso. — Lei… lei è una persona che… che è mia amica.

— È la sua ragazza? La sua amante?

Le parole fuggono dalla mia testa, spariscono. Di nuovo muto, scuoto il capo.

— Una persona che lei vorrebbe fosse la sua ragazza?

Impietrisco. Lo vorrei? Certo. Oso sperarlo? No. Non posso muovermi, non posso parlare. Non voglio vedere l’espressione del signor Stacy, non voglio sapere cosa pensa. Vorrei solo fuggire.

— Vorrei esprimere un’ipotesi, signor Arrendale — dice Stacy. — Supponiamo che a lei piaccia davvero questa donna, questa Marjory…

Questa Marjory, come se lei fosse un oggetto, non una persona. Il solo pensiero del suo viso, dei suoi capelli, della sua voce mi riempie di calore.

— E lei è piuttosto timido… be’, è normale in un uomo che non ha avuto molte relazioni, come credo lei non ne abbia avute. E forse Marjory ha simpatia per lei o forse prova piacere a essere ammirata. E quest’altra persona… forse Don, forse un altro… si irrita per questa simpatia. Magari Marjory piace anche a lui. Comunque, lui vede qualcosa che non gli va instaurarsi tra voi due. La gelosia è un motivo molto comune di comportamenti violenti.

— Io… non voglio… che lui… sia il vandalo — riesco a dire con voce strozzata.

— Le è simpatico?

— Lo conosco… penso… pensavo… di conoscerlo… — Ondate di nausea mi travolgono spegnendo il calore del pensiero di Marjory. Ricordo i momenti in cui Don parlava, rideva, scherzava.

— Il tradimento fa sempre male — dice Stacy come un prete che reciti i Dieci comandamenti. Ha tirato fuori il suo palmare e lo sta usando.

Posso vedere qualcosa di oscuro che incombe su Don, come una nube temporalesca su un paesaggio assolato. Vorrei disperderla, ma non so come fare.

— Quando finisce di lavorare? — domanda Stacy.

— Di solito esco alle cinque e trenta — dico. — Ma oggi ho perso tempo a causa di ciò che è accaduto alla mia auto. Devo rimettermi in pari.

Lui aggrotta la fronte. — Lei deve rimettere in pari il tempo che perde parlando con me?

— Naturalmente.

— Il suo principale non mi sembrava tanto puntiglioso — commenta Stacy.

— Non si tratta del signor Aldrin — dico. — Io rimetterei in pari il tempo in ogni caso, ma è il signor Crenshaw che si arrabbia se pensa che non lavoriamo abbastanza duro.

— Ah, vedo — dice. Il suo viso diventa molto rosso. — Sospetto che non troverò simpatico il signor Crenshaw.

— A me non piace — ammetto. — Però io ho il dovere di fare comunque del mio meglio.

— Ne sono sicuro — dice lui. — A che ora pensa di uscire oggi, signor Arrendale?

Guardo l’orologio e cerco di fare i miei calcoli. — Se ricomincio a lavorare adesso, potrò uscire alle sei e cinquantatré — rispondo. — C’è un treno che parte dalla stazione del campus alle sette e quattro, e se mi sbrigo potrò prenderlo.

— Lei non andrà in treno — mi informa Stacy. — Le organizzeremo un passaggio. Non mi ha sentito quando ho detto che siamo preoccupati per la sua incolumità? Non ha qualcuno col quale stare per pochi giorni? Sarà meglio che lei non rimanga nel suo appartamento.

Scuoto la testa. — Non conosco nessuno — dico. Non sono mai stato in casa di nessuno da quando ho lasciato casa mia: sono sempre rimasto nel mio appartamento o in un albergo. Ma adesso non ho voglia di andare in albergo.

— Stiamo cercando questo Don, ma non è facile localizzarlo. Il suo datore di lavoro dice che non lo vede da diversi giorni, e a casa sua non c’è. Lei sarà al sicuro qui per qualche ora, credo, ma non se ne vada senza farcelo sapere, capito?

Annuisco. È più facile che discutere. Ho l’impressione che tutto questo stia avvenendo in un film o in uno spettacolo, non nella vita reale. Non somiglia a nulla di quanto mi abbiano mai detto.

La porta si apre all’improvviso e io ho un gran sobbalzo. È il signor Crenshaw e sembra di nuovo arrabbiato.

— Lou! Cos’è questa cosa che sento, che hai guai con la polizia? — Si guarda intorno e s’irrigidisce vedendo il signor Stacy.

— Sono il tenente Stacy — si presenta il poliziotto. — Il signor Arrendale non è in nessun guaio. Io sto investigando un caso nel quale lui è la vittima. Le ha detto delle gomme tagliate, no?

— Sì… — Il rosso sulla faccia del signor Crenshaw va e viene. — Lo ha detto. Ma è quella una ragione sufficiente per mandare un agente anche qui?

— No, quella no — dice Stacy. — Tuttavia i due atti di vandalismo seguenti, compreso l’ordigno esplosivo piazzato nella sua macchina, sono una ragione più che sufficiente.

— Un ordigno esplosivo? — Il signor Crenshaw torna a impallidire. — Qualcuno sta cercando di far del male a Lou?

— Noi crediamo di sì — dice Stacy. — Siamo preoccupati per l’incolumità del signor Arrendale.

— Chi crede che sia il colpevole? — Il signor Crenshaw non aspetta risposta, ma continua a parlare. — Lou sta facendo dei lavori importanti per noi; forse un nostro competitore vuole sabotarli…

— Non lo penso — dice Stacy. — Gli indizi puntano a qualcuno che non ha alcun rapporto con l’ambiente di lavoro del signor Arrendale. Sono certo comunque che anche lei consideri importante proteggere un prezioso collaboratore. La sua compagnia ha un alloggio per ospiti o qualche altro posto dove il signor Arrendale potrebbe abitare per qualche giorno?

— No… Voglio dire, lei pensa che la minaccia sia seria?

Il poliziotto socchiude gli occhi. — Lei è il signor Crenshaw, vero? La riconosco dalla descrizione del signor Arrendale. Se qualcuno togliesse la batteria dalla sua macchina e la sostituisse con un attrezzo destinato a esplodere quando lei aprisse il cofano, lei considererebbe questa una minaccia seria?

— Dio mio — dice il signor Crenshaw. Io so che non sta chiamando il signor Stacy il suo Dio: è solo un modo di esprimere sorpresa. Poi guarda me e la sua espressione si fa dura. — Cosa sei andato combinando, Lou, perché qualcuno cerchi di ucciderti? Tu conosci la politica aziendale: se vengo a sapere che ti sei imbrancato con elementi criminali…

— Lei sta parlando a vanvera, signor Crenshaw — lo interrompe Stacy. — Il signor Arrendale non ha fatto proprio nulla di male. Noi sospettiamo anzi che il colpevole possa essere qualcuno che è geloso delle doti del signor Arrendale… che vorrebbe vederlo meno capace.

— Qualcuno che non sopporta i suoi privilegi? — chiede il signor Crenshaw. — La cosa si spiegherebbe. Io ho sempre detto che il trattamento speciale di cui gode questa gente avrebbe suscitato reazioni da parte di quelli che non l’hanno. Noi abbiamo lavoratori che non vedono per quale ragione questa sezione dovrebbe avere un proprio parcheggio, una palestra, un impianto stereo e un cucinino.

Guardo il signor Stacy, il cui viso si è indurito. Il signor Crenshaw ha detto qualcosa che lo ha fatto arrabbiare, ma cosa? Quando parla la sua voce è strascicata e al tempo stesso tagliente, un tono che (me lo hanno insegnato) esprime forte disapprovazione.

— Ah, sì… il signor Arrendale mi aveva detto che lei deplorava le misure di sostegno per i lavoratori handicappati.

— Non è del tutto vero — si corregge il signor Crenshaw. — Si deve vedere se sono davvero necessarie o no. Rampe, passaggi riservati eccetera sono un conto, ma altre cosiddette misure di sostegno sono lussi e basta…

— E lei che è tanto esperto conosce bene la differenza tra le due cose, vero? — domanda Stacy. Il signor Crenshaw arrossisce di nuovo. Guardo Stacy che non sembra affatto impaurito.

— Io conosco i bilanci — risponde il signor Crenshaw. — Non esiste legge che possa costringerci a fallire per viziare certa gente che crede di aver bisogno di… di giocattoli come questi… — Indica le girandole sulla mia scrivania.

— Già, specie se si pensa che costeranno almeno un dollaro e trenta — dice Stacy. — A meno che non le compriate da aziende che lavorano per la Difesa. — Ma questo è assurdo. Le aziende che lavorano per la Difesa non vendono girandole, vendono missili, mine e aeroplani. Cerco di spiegarmi come mai Stacy, che sembra una persona istruita tranne che nelle permutazioni, suggerisca di comprare girandole da un’azienda che lavori per la Difesa. O è tutto uno scherzo?

— Ma non è questo il punto — sta dicendo Stacy quando riprendo ad ascoltare. — Se lei dovesse abolire questa sezione… con quanti impiegati, sedici, venti?… tra il pagamento a tante persone delle liquidazioni e della parte del sussidio di disoccupazione che spetta all’azienda, finirebbe col perdere un sacco di soldi. Per non parlare della perdita della sua posizione come datore di lavoro per questa classe di disabilità, che le procura grosse facilitazioni fiscali.

— Lei che ne sa di questo? — chiede il signor Crenshaw.

— Anche il nostro dipartimento ha lavoratori handicappati — dice Stacy. — E ogni volta che qualche saputello vien fuori con l’idea di sbarazzarcene per risparmiare, gli dimostriamo con documenti alla mano che licenziandoli perderemmo denaro.

— Voi siete pagati con i soldi delle tasse — ribatte il signor Crenshaw, e gli vedo pulsare le vene della fronte. — Non dovete preoccuparvi di profitti e perdite. Siamo noi che dobbiamo guadagnare i soldi per pagarvi il salario.

— E sono sicuro che questo non vi fa dormire la notte — dice Stacy, e anche le vene della sua fronte pulsano. — Adesso se vuole scusarmi, devo parlare col signor Arrendale.

— Lou, dovrai rimettere in pari il tempo perduto — dice il signor Crenshaw, e si precipita fuori sbattendo la porta.

Guardo Stacy che scuote la testa. — Che tipo. Da noi c’era un sergente così, meno male che si è trasferito a Chicago. Farebbe bene a cercarsi un altro lavoro, signor Arrendale. Quello vuole sbarazzarsi di lei a tutti i costi.

— Io non lo capisco — dico. — Io… tutti noi lavoriamo duro qui. Perché ce l’ha tanto con noi?

— Perché è un figlio di puttana avido di potere — dice Stacy. — Quelli lì non fanno che cercar di fare bella figura facendo fare brutte figure agli altri. Purtroppo per lui, adesso a lei è capitato quest’altro guaio.

— Ma questo non porta danno a lui, se mai a me — dico.

— Già, però adesso il suo signor Crenshaw avrà a che fare con me… e troverà che la sua arroganza non fa molto effetto sulla polizia.

Non sono molto sicuro che questo sia esatto. Il signor Crenshaw è anche la compagnia, e la compagnia ha molta influenza in città.

— Torniamo ai nostri incidenti — dice Stacy — così potrò lasciarla in pace. Ci sono state altre circostanze, anche di poco conto, che possano indicare l’esistenza di malanimo contro di lei da parte di Don?

Sembra sciocco, ma gli riferisco del momento in cui Don si era messo tra me e Marjory a casa di Tom, e di Marjory che lo aveva chiamato una vipera, anche se questo non era vero.

— Quindi a me sembra che lo schema delle cose sia che gli altri suoi amici cercavano di proteggerla da Don, facendogli capire che a loro non piaceva come lui la trattava, no?

Non avevo considerato le cose da questo punto di vista. Quando lui me lo dice, vedo lo schema chiarissimo e mi chiedo come mai non me ne ero accorto prima. — Lui ci sarà rimasto male — dico. — Avrà pensato che io ero trattato in modo diverso da lui, e… — M’interrompo, colpito all’improvviso da un altro schema che non avevo notato in precedenza. — È come con il signor Crenshaw — aggiungo. C’è tensione nella mia voce, ma la scoperta è eccitante. — Lui prova antipatia per me per la stessa ragione. — M’interrompo di nuovo, cercando di riflettere a fondo. Allungo una mano e accendo il ventilatore. Le girandole mi aiutano a pensare quando sono eccitato.

— Sono tutti schemi di persone le quali non credono che noi abbiamo davvero bisogno di misure di sostegno e le guardano di malocchio. È questa combinazione di far bene e di avere le facilitazioni che desta la loro collera. Io sono troppo normale… — Guardo Stacy che sta sorridendo e annuendo. — No, è sciocco — dico. — Io non sono normale. Né adesso né mai.

— A lei può sembrare così — dice lui. — Ma io la vedo guidare un’automobile, sbrigare ottimamente il suo lavoro, innamorarsi, partecipare a tornei di scherma…

— Soltanto a uno, finora — preciso.

— Va bene, soltanto a uno. Io vedo anche un sacco di persone che funzionano peggio di lei, signor Arrendale, e altre che funzionano altrettanto bene senza facilitazioni. Ora, io so che le facilitazioni sono necessarie e fanno perfino risparmiare denaro, ma c’è chi non la pensa così. È come mettere un cuneo sotto la gamba zoppa di un tavolo… perché non avere un tavolo solido e con le gambe tutte uguali? C’è chi percepisce quel cuneo come una minaccia contro di sé… e lo prende in odio.

— Non vedo in cosa io possa costituire una minaccia per Don o per il signor Crenshaw — dico.

— Può non esserlo, personalmente; e non credo che nemmeno le facilitazioni di cui gode lo siano. Ma ci sono persone che non accettano responsabilità, che hanno bisogno di biasimare gli altri per quello che non va nelle loro vite. Don probabilmente pensa che se lei non ricevesse un trattamento preferenziale, lui avrebbe successo con quella donna.

Vorrei che usasse il suo nome, Marjory. Non mi piace che la chiami "quella donna".

— La quale probabilmente non lo vorrebbe comunque, ma Don preferisce gettare il biasimo su di lei… se davvero c’è lui dietro questi vandalismi. — Dà un’occhiata al suo palmare. — Dalle informazioni che abbiamo raccolto su di lui, l’uomo ha avuto una serie di lavori di basso profilo. A volte li piantava lì, a volte lo licenziavano. Non ha credito. Può darsi che veda in se stesso un fallito e cerchi qualcuno su cui sfogarsi.

Io non avevo mai pensato che le persone normali dovessero trovare una ragione per i loro fallimenti. Non avevo mai pensato che subissero fallimenti.

— Manderemo qualcuno a prenderla, signor Arrendale — dice Stacy. — Chiami questo numero quando desidera andare a casa. — Mi porge una carta. — Non metteremo nessuno di guardia qui, il vostro apparato di sicurezza è buono… però mi creda, sia prudente.

È duro rimettersi al lavoro dopo che lui se n’è andato, ma io mi concentro e riesco a fare parecchio prima che venga l’ora di andarmene e chiamare per il passaggio.

Pete Aldrin tirò un respiro profondo dopo che Crenshaw fu uscito dal suo ufficio furibondo contro quel "pallone gonfiato" di poliziotto che era andato a interrogare Lou Arrendale. Prese il telefono e chiamò l’ufficio Risorse umane. Chiese di un certo Bart, il cui nome gli era stato suggerito da Paul: un impiegato giovane e inesperto che certo sarebbe ricorso all’aiuto di qualcuno per avere spiegazioni. — Bart, ho bisogno di licenze per l’intera sezione A: i miei ragazzi stanno per essere coinvolti in un programma di ricerca.

— Di cosa si tratta? — domandò Bart.

— Del primo esperimento su esseri umani di un nuovo prodotto concepito per autistici adulti. Il signor Crenshaw considera questa una massima priorità per il nostro dipartimento, perciò ti sarei davvero grato se ti spicciassi a ottenermi per la sezione una serie di congedi a tempo indeterminato. Sarebbe meglio così, credo, perché non sappiamo quanto tempo ci vorrà per l’esperimento…

— Per tutti gli impiegati? E subito?

— Può darsi che entrino nella ricerca a scaglioni, ma non ne sono sicuro. Te lo farò sapere dopo che avranno firmato il consenso informato. Ma ci vorranno almeno trenta giorni…

— Non vedo come…

— Ecco il codice di autorizzazione. Se hai bisogno della firma del signor Crenshaw…

— Ma non è…

— Grazie — disse Aldrin, e riattaccò. Poteva immaginare Bart sbalordito e allarmato che si precipitava dal suo supervisore per domandargli cosa doveva fare. Aldrin tirò un altro respiro profondo e chiamò Shirley alla Contabilità.

— Ho bisogno di prendere accordi per il deposito degli stipendi degli impiegati della sezione A direttamente nelle loro banche, mentre loro si troveranno in congedo a tempo indeterminato…

— Pete, te l’ho già detto, non è così che funziona la cosa. Devi avere un nullaosta speciale…

— Il signor Crenshaw considera questa una massima priorità. Ho il codice di autorizzazione per il progetto e posso avere la sua firma…

— Ma come dovrei fare a…

— Non puoi limitarti a dire che loro stanno lavorando in una sede decentrata? Così non si dovrebbero introdurre variazioni nei bilanci dei dipartimenti.

La sentì digrignare i denti a quella proposta. — Potrei anche farlo se tu mi dicessi qual è questa sede decentrata.

— Edificio quarantadue del campus principale.

Un istante di silenzio, poi: — Ma quella è la clinica, Pete. Che imbroglio stai meditando? Vuoi raddoppiare i compensi degli impiegati della ditta facendoli apparire anche come soggetti di ricerca?

— Io non sto meditando nessun imbroglio — disse Aldrin con l’atteggiamento più dignitoso che poté. — Io sto solo cercando di varare un progetto al quale il signor Crenshaw tiene moltissimo. Gli impiegati non raddoppieranno nulla se avranno solo gli stipendi e non i compensi.

— Ho i miei dubbi su questo punto — commentò Shirley. — Ma vedrò cosa posso fare.

— Grazie — disse Aldrin, e riappese di nuovo. Sentiva il sudore scorrergli lungo la schiena. Shirley non era una novellina: doveva sapere perfettamente che la sua richiesta era completamente sballata, e avrebbe avuto parecchio da ridire.

Risorse umane, Contabilità… rimanevano l’ufficio legale e l’ufficio Ricerca. Aldrin frugò tra le carte che Crenshaw gli aveva lasciato fino a trovare il nome dello scienziato che dirigeva il protocollo. Liselle Hendricks… notò che non si trattava dell’uomo che era stato mandato a parlare con i volontari. Il dottor Ransome compariva nella lista semplicemente come membro dell’equipe tecnica.

— Dottoressa Hendricks — disse pochi minuti dopo — sono Pete Aldrin, del dipartimento Analisi. Sovrintendo alla sezione A, dalla quale provengono i suoi volontari. Ha già pronti i moduli del consenso informato?

— Di cosa sta parlando? — chiese la dottoressa. — Se vuol mettersi in contatto con il reclutamento di volontari, si colleghi con l’interno tre-trentasette. Io non ho nulla a che fare con certe questioni.

— Ma lei è la dirigente del protocollo, no?

— Sì… — Aldrin poteva immaginare il viso stupito della donna.

— Ebbene, io mi stavo giusto domandando quando avrebbe spedito i moduli del consenso informato per i volontari.

— Ma perché dovrei mandarli a lei? — chiese la Hendricks. — È il dottor Ransome che deve incaricarsene.

— Vede, il fatto è che i volontari lavorano tutti qui — disse Aldrin. — Mandare i moduli a me sarebbe più semplice.

— Tutti nella stessa sezione? — La dottoressa Hendricks sembrava più sbalordita di quanto Aldrin si sarebbe aspettato. — Questo non lo sapevo. La cosa non vi creerà dei problemi?

— Oh, li risolverò — la rassicurò Aldrin forzandosi a emettere un risolino astuto. — Il fatto è che i miei impiegati non hanno preso tutti una ferma decisione in proposito. Io sono certo che lo faranno, sa, tra una cosa e l’altra, ma comunque…

La voce della dottoressa Hendricks si fece aspra. — Cosa significa quel "tra una cosa e l’altra"? Lei non starà per caso facendo pressione sui volontari? Sarebbe una violazione dell’etica…

— Oh, io non mi preoccuperei per questo, se fossi in lei — disse Aldrin. — Naturalmente nessuno può essere costretto a collaborare, non stiamo parlando di costrizioni, ma questi sono tempi difficili dal punto di vista economico. Il signor Crenshaw dice…

— Ma… ma… — La donna quasi sputacchiava.

— Perciò, se lei potesse spedirmi subito quei moduli, mi farebbe un vero favore — concluse Aldrin, e riappese. Poi chiamò subito un altro Bart, quello che Crenshaw gli aveva detto di contattare.

— Quando si sbrigherà ad avere quei moduli del consenso informato? — domandò. — E i tempi del programma sono stati stabiliti? Ha parlato con la Contabilità circa il problema degli stipendi? Si è messo in contatto con l’ufficio Risorse umane?

— Ehm… no. — Bart sembrava troppo giovane per essere importante, ma probabilmente era stato assegnato a quel posto da Crenshaw. — Pensavo solo… sa, il signor Crenshaw ha detto che lui… la sua sezione… si sarebbe presa cura dei dettagli. Mi pareva che il mio unico dovere fosse di assicurarmi che i volontari si qualificassero per il protocollo qui da me. I moduli del consenso non credo siano stati ancora compilati…

Aldrin sorrise tra sé e sé. La confusione di Bart era un vantaggio in più: qualunque dirigente sarebbe stato giustificato nello scavalcare un simile sciocco. Gli forniva la scusa buona per chiamare la dottoressa Hendricks. Se fosse stato fortunato… e su quel punto si sentiva fortunato… nessuno avrebbe capito chi dei due aveva chiamato per primo.

Adesso il problema era quando contattare qualcuno dei piani alti. Lui avrebbe preferito farlo quando i pettegolezzi avessero raggiunto un livello sufficiente, ma non aveva idea di quanto tempo ci avrebbero impiegato. Fino a quando Shirley o la dottoressa Hendricks avrebbero tenuto per sé le preoccupanti notizie che lui aveva fornite loro senza far nulla? E allorché si fossero decise ad agire, cos’avrebbero fatto? Se fossero corse subito da qualcuno dei massimi dirigenti, sarebbe stata questione di ore prima che lo scandalo scoppiasse; ma se avessero aspettato un giorno o due, ci sarebbe voluta probabilmente una settimana.

Il suo stomaco si contrasse. Aldrin masticò due compresse di antiacido.

14

Venerdì la polizia mi ha accompagnato al lavoro. La mia auto era stata rimorchiata alla stazione di polizia per essere esaminata: mi dicono che potrò riprenderla in serata. Il signor Crenshaw non è venuto nella nostra sezione. Io faccio ottimi progressi nel progetto di cui mi occupo.

La polizia manda una macchina per riportarmi a casa, ma prima passiamo a comprare una batteria nuova. Al deposito, firmo diverse carte e un meccanico monta la batteria nuova nella mia auto. Uno dei poliziotti si offre di venire con me a casa, ma io non credo di aver bisogno del suo aiuto. Lui mi dice che il mio appartamento è sotto sorveglianza.

Dentro, la mia macchina è sporca, piena di polvere. Vorrei pulirla, ma prima devo andare a casa. La strada dal deposito è più lunga di quella che percorro tornando dal lavoro, però non mi perdo. Parcheggio vicino all’auto di Danny e salgo al mio appartamento.

Per ragioni di sicurezza non devo lasciare il mio appartamento, ma è venerdì sera e ho bisogno di fare il bucato. La lavanderia è nel mio stesso edificio, quindi penso di essere al sicuro: dopo tutto qui abita anche Danny, e Danny è un poliziotto. Non uscirò dal palazzo, ma farò il bucato.

Metto la biancheria nel cestino della roba bianca e in quello della roba colorata, prendo il detersivo e guardo attraverso lo spioncino prima di aprire la porta. Non c’è nessuno, naturalmente. Esco, richiudo la porta a chiave e scendo.

Carico i panni in due lavatrici diverse e le metto in azione. Ho portato con me Cego e Clinton e siedo su una delle sedie di plastica accanto al tavolino per ripiegare il bucato. Mi piacerebbe portarla nell’atrio, ma sulla parete c’è un cartello che dice: AGLI INQUILINI È STRETTAMENTE PROIBITO PORTARE SEDIE FUORI DELLA LAVANDERIA. Non mi piace questa sedia, ha un orribile colore azzurro verdastro, ma standoci seduto almeno non la vedo.

Ho letto otto pagine quando arriva la vecchia signorina Kimberley col suo bucato. Io non alzo la testa, non desidero parlare. La saluterò se lei mi rivolgerà la parola.

—  Salve, Lou — dice. — Leggi?

— Salve. — Non rispondo alla sua domanda, perché lei può ben vedere che sto leggendo.

— Cosa leggi? — chiede avvicinandosi. Chiudo il libro tenendo il dito tra le pagine, così che lei possa vedere la copertina.

— Diamine, che librone! — commenta. — Non sapevo che ti piacesse leggere, Lou.

Io non capisco le regole sull’interrompere. Per me è sempre maleducazione interrompere le altre persone, mentre le altre persone non sembrano credere sia maleducato da parte loro interrompere me.

— Sì, talvolta — dico, senza distogliere gli occhi dal libro perché spero lei capisca che non voglio smettere di leggere.

— Sei in collera con me per qualche cosa? — chiede la signorina.

Adesso sono un poco in collera perché lei non vuole lasciarmi leggere in pace, ma non sarebbe gentile dirglielo.

— Di solito sei tanto amichevole e adesso hai portato quel librone così grosso: non è possibile che tu lo stia leggendo veramente…

— Sì che lo sto leggendo — dico, offeso. — Me lo ha prestato un’amica mercoledì sera.

— Ma è… sembra un libro molto difficile — ribatte lei. — Riesci davvero a capirlo?

La signorina è come la dottoressa Fornum: non crede che io sia capace di far molto.

— Sì, lo capisco — dico. — Sto leggendo in che modo le parti del cervello che elaborano la percezione visiva integrano gli impulsi discontinui per creare un’immagine stabile, come su uno schermo TV.

— Impulsi discontinui? — domanda lei. — Come quando l’immagine balla?

— In un certo senso — dico. — I ricercatori hanno identificato l’area del cervello dove l’immagine ballerina viene stabilizzata.

— Be’, io non vedo l’utilità pratica della faccenda — commenta lei caricando la lavatrice. — Io sono ben contenta di lasciare che il mio organismo lavori senza bisogno che ci guardi dentro. — Misura il detersivo, lo versa, inserisce le monete e si ferma prima di spingere il tasto di avviamento. — Lou, non credo sia sano tutto questo preoccuparti di come lavora il cervello. La gente può impazzirci sopra, sai.

No che non lo sapevo. Non avrei mai pensato che sapere troppo circa il lavoro del mio cervello potesse condurmi alla pazzia. Ma non credo che questo sia vero. Però non penso che lei mi crederebbe se le dicessi che non è vero. Non desidero spiegare nulla, così apro di nuovo il libro. Lei sbuffa e sento i suoi tacchi ticchettare sul pavimento quando se ne va.

Quando ero a scuola, c’insegnavano che il cervello era come un computer, solo non altrettanto efficiente. I computer non fanno errori se sono costruiti e programmati come si deve, il cervello sì. Da ciò io trassi l’idea che tutti i cervelli, anche quelli normali e figuriamoci poi il mio, sono computer di livello inferiore.

Questo libro invece spiega che il cervello è infinitamente più complesso di qualsiasi computer, e che anche il mio cervello è normale sotto molti rispetti. La mia visione dei colorì è normale; la mia acutezza visiva è normale. Cosa non è normale? Solo una piccolezza… credo.

Il libro parla di variazioni nell’abilità a captare brevi stimoli transitori. Io ricordo i giochi al computer che mi aiutavano a udire e poi ripetere consonanti come la p e la t e la d, specialmente quando erano accompagnate da altre consonanti. Mi facevano fare anche esercizi con gli occhi, ma io ero così piccolo che non li ricordo.

Guardo i visi appaiati nell’illustrazione che valuta la discriminazione dei lineamenti sia per posizione che per tipo. A me quei visi paiono tutti uguali: posso solo distinguere (con l’aiuto del testo) che quei due hanno gli stessi occhi, lo stesso naso e la stessa bocca, solo che uno li ha come allargati, più distanti dagli altri lineamenti. Se fossero in movimento, come sul viso di una persona vera, io non distinguerei nemmeno quello. Si suppone che ciò implichi qualche deficienza nella speciale parte del cervello che sovrintende al riconoscimento dei visi.

Le persone normali sono davvero capaci di tante discriminazioni? Se è vero, non c’è da meravigliarsi che siano capaci di riconoscersi reciprocamente con tanta facilità, anche a distanza e con abiti differenti.

Questo sabato non abbiamo una riunione al campus. Vado al Centro, ma il consulente di turno è ammalato. Guardo e memorizzo il numero del Patrocinio gratuito che compare sulla bacheca, ma non desidero chiamarlo. Non so cosa ne pensino gli altri. Dopo qualche minuto torno a casa e mi rimetto a leggere il mio testo, però prima faccio pulizia nel mio appartamento e nella macchina. Decido di gettar via la vecchia pelle di pecora, perché contiene ancora minuscoli frammenti di vetro, e comprarne una nuova. Quella nuova ha un forte odore di pelle ed è più morbida di quella vecchia. Domenica vado in chiesa molto presto, onde avere più tempo per leggere.

Lunedì arriva una nota per ciascuno di noi, comunicandoci le date e le ore degli esami preliminari: ecotomografia, risonanza magnetica, visita generale, colloquio con lo psicologo, esami psicologici. La nota dice che possiamo assentarci dal lavoro per gli esami senza penalità. La cosa mi conforta, non mi piaceva l’idea di rimettere in pari tutte le ore che ci vorranno per tanti test. Il primo, la visita generale, è per lunedì pomeriggio. Andiamo tutti alla clinica. A me non piace farmi toccare dagli estranei, ma so come ci si deve comportare nelle cliniche. L’ago per cavare il sangue non fa male, però non capisco cosa c’entrino il mio sangue e l’orina col modo in cui funziona il mio cervello. Nessuno mi spiega mai niente.

Martedì ho la risonanza magnetica. Il tecnico continua a ripetermi che è indolore e che non devo aver paura quando la macchina mi farà passare nel cassone chiuso. Comunque io non ho paura, non sono claustrofobico.

Dopo il lavoro ho bisogno di fare la spesa, perché martedì scorso m’incontrai con gli altri del nostro gruppo a casa mia. So che devo fare attenzione a Don, ma non credo che lui davvero voglia farmi del male, comunque. A quest’ora probabilmente si sarà pentito di quanto ha fatto… ammesso che sia davvero lui il vandalo. E poi, questo è per me il giorno della spesa. Mi guardo intorno nel parcheggio per vedere se ci sono intrusi. Ma no, le guardie del campus sono molto efficienti.

Al supermercato mi fermo più vicino che posso a un fanale, in caso si sia fatto buio quando uscirò. Ci sono pochi clienti in giro, quindi faccio presto a esaurire la mia lista di cose da acquistare. Ho troppa roba per usare la cassa rapida, così mi accodo alla fila più breve di una cassa normale.

Quando esco è già l’imbrunire, ma non è proprio buio, e l’aria è fresca. Mi spingo davanti il carrello che sobbalza sul selciato. Arrivo alla macchina, apro lo sportello e comincio a caricare i sacchetti delle derrate con cura: cose pesanti come scatole di detersivo e barattoli sul pavimento dove non possono cadere; pane e uova sul sedile posteriore.

Sento spostarsi il carrello alle mie spalle. Mi volto e non riconosco il viso dell’uomo in giacca scura… almeno non subito, ma poi mi accorgo che è Don.

— È colpa tua. È tutta colpa tua se Tom mi ha sbattuto fuori — dice. La sua faccia è tutta contratta, con i muscoli che sporgono come nodi. I suoi occhi fanno paura, non voglio vederli e allora guardo altre parti del suo viso. — È colpa tua se Marjory mi ha scaricato. Fa schifo vedere in che modo le donne si fanno incantare da quella faccenda dell’handicap. Tu probabilmente ne hai a dozzine, tutte irretite da quell’aria indifesa che ti dai. — Alza la voce in un falsetto stridente, come se volesse imitare qualcuno. — "Povero Loù, non può farci niente" e "Povero Lou, ha bisogno di me" — dice. — I fenomeni da baraccone dovrebbero accoppiarsi con i fenomeni da baraccone, se proprio è necessario che si accoppino. La sola idea di te che te la fai con una donna normale mi fa vomitare dal disgusto.

Non riesco a dir nulla. Credo che dovrei essere impaurito, e invece quello che provo non è paura ma pena, una pena così grande che ne sento il peso dappertutto. Don è normale, avrebbe potuto diventare tante cose, avrebbe potuto far tanto così facilmente! Perché ci ha rinunciato per ridursi così?

— Non è colpa mia — dico infine.

— Col cavolo non lo è! — ribatte. Si avvicina di più. Il suo sudore ha un odore strano. Non so cosa sia, ma lui deve aver mangiato o bevuto qualcosa che gli ha dato quell’odore. Ha il colletto della camicia slacciato. Guardo in basso: le sue scarpe sono scorticate e una è senza lacci. Essere in ordine è importante, non ci si fa notare e si produce una buona impressione. In questo momento Don si fa notare e non produce una buona impressione, ma nessuno se ne accorge. Vedo la gente che si dirige verso il supermercato o verso le proprie macchine senza far caso a noi. — Tu sei un animale, Lou… capisci quello che dico? Sei un animale e dovresti stare in uno zoo!

So che Don sta dicendo cose prive di senso, ma mi sento ferito dalla forza dell’odio che avventa contro di me. Mi sento anche sciocco per non aver riconosciuto prima questo suo lato. Ma lui era mio amico, mi sorrideva, cercava di aiutarmi. Come avrei potuto accorgermene?

Si toglie di tasca la mano destra e vedo la nera canna di un’arma puntata verso di me. L’esterno della canna brilla un poco alla luce, ma l’interno è buio come lo spazio. Il buio sta per inghiottirmi.

— Tutta quella boiata delle misure di sostegno… diavolo, non fosse per te e per i tuoi pari il resto del mondo non starebbe precipitando in un’altra depressione. Io avrei la carriera che dovrei avere, non questo lavoraccio da quattro soldi che mi è toccato.

Non so che lavoro Don faccia, ma non credo che le sue difficoltà economiche siano colpa mia. Non credo che potrebbe avere la carriera che vuole se io fossi morto. I datori di lavoro vogliono persone pulite ed educate, che lavorino duro e non creino problemi. Don è sudicio e in disordine, dice cose scortesi e non ama lavorare.

Di colpo si fa avanti, mi avvicina la mano con l’arma. — Entra nell’automobile — dice, ma io sono già in movimento. Il suo schema di attacco è semplice, facile da riconoscere, e d’altra parte lui non è rapido e forte come pensa di essere. La mia mano gli afferra il polso mentre lo sporge e lo sbatte da una parte. Il rumore dell’arma che esplode non somiglia al rumore delle armi in TV. È più forte e più minaccioso e desta echi. Io non ho un’arma, ma l’altra mia mano lo colpisce forte all’altezza del diaframma. Don si piega in due e dalla bocca gli esce uno sbuffo di fiato puzzolente.

— Ehi! — urla qualcuno. — Polizia! — urla qualcun altro. Si sentono strilli. Appare di colpo un mucchio di gente che si getta su Don. Io barcollo e sto per cadere quando mi urtano; qualcuno mi afferra per un braccio e mi fa girare, spingendomi contro la fiancata dell’auto.

— Lasciatelo stare, lui è la vittima — dice un’altra voce. È il signor Stacy. Non so cosa stia facendo qui. Mi guarda accigliatissimo. — Signor Arrendale, non le avevamo detto di stare attento? Perché non è andato subito a casa dopo il lavoro? Se Dan non ci avesse avvertiti che dovevamo tenerla d’occhio…

— Pensavo… di essere stato attento. — È difficile parlare in mezzo a tanto fracasso. — Ma avevo bisogno di far la spesa e questo è il mio giorno per farla. — Solo allora ricordo che anche Don lo sapeva, che già un’altra volta l’ho visto qui di martedì.

— Lei ha una fortuna sfacciata — dice Stacy.

Don è a terra bocconi, due uomini sono inginocchiati sopra di lui. Gli hanno tirato le mani dietro la schiena e gli mettono le manette. Don sta emettendo rumori strani, sembra che pianga. Quando lo tirano su vedo che piange davvero. Le lacrime gli scorrono sulla faccia rigando lo sporco. Mi dispiace per lui. Io mi sentirei malissimo a piangere così, davanti a tutti.

— Bastardo! — mi dice vedendomi. — Mi hai teso un agguato!

— Non ti ho teso nessun agguato — replico. Vorrei spiegargli che io non sapevo che i poliziotti fossero qui, anzi che loro ce l’hanno con me perché non sono rimasto a casa, ma lo stanno già portando via.

— Quando dico che è gente come lei che ci complica la vita, non mi riferisco agli autistici — dice Stacy — ma alla gente che non vuol prendere le precauzioni più comuni. — Sembra ancora in collera.

— Avevo bisogno di fare la spesa — ripeto.

— Come doveva fare il bucato venerdì scorso?

— Sì — dico — e poi non è ancora buio.

— Poteva chiedere a qualcuno di far la spesa per lei.

— Non saprei a chi chiederlo — dico.

Mi guarda stranamente e scuote il capo.

Non conosco la musica che mi è esplosa nella testa, e non capisco cosa sto provando. Vorrei rimbalzare sul trampolino per calmarmi, ma qui non c’è posto per farlo. Non voglio entrare in macchina e tornare a casa.

Continuano tutti a chiedermi come mi sento. Alcuni hanno lampadine che mi piantano in faccia. Continuano a suggerirmi aggettivi come "sconvolto" o "atterrito". Io non mi sento affatto sconvolto. Mi sentii davvero sconvolto quando morirono i miei genitori, disperato e abbandonato, ma adesso non mi sento così. Mentre Don mi minacciava avevo paura, ma più che altro mi sentivo sciocco, triste e arrabbiato.

Adesso in verità mi sento molto vivo e molto confuso. Nessuno indovina che io possa sentirmi felice ed eccitato. Qualcuno ha cercato di uccidermi e non ci è riuscito. Sono ancora vivo. Vorrei correre e saltare e gridare, ma so che non è appropriato. Vorrei abbracciare Marjory, se fosse qui, e baciarla, ma questo è assolutamente inappropriato.

Mi chiedo se le persone normali reagiscono alla scampata morte sentendosi sconvolte, tristi e depresse. È difficile immaginare che non si sentano invece sollevate e felici, ma non posso esserne sicuro. Forse loro credono che le mie reazioni dovrebbero essere differenti perché sono autistico: non ne sono certo e perciò non desidero dir loro come mi sento in realtà.

— Non credo che lei dovrebbe guidare per andare a casa — dice Stacy. — Lasci che sia uno dei nostri ad accompagnarla, eh?

— Ma io posso guidare — dico. — Non sono affatto disturbato. — Voglio essere solo nella macchina con la mia musica. E poi non c’è più pericolo: Don adesso non può più farmi del male.

— Signor Arrendale — dice il tenente mettendo la testa vicina alla mia — lei può pensare di essere tranquillo, ma chiunque abbia avuto un’esperienza come la sua dev’essere disturbato per forza. Lei non può essere in grado di guidare bene. Dovrebbe lasciare il volante a qualcun altro.

Ma io so che posso guidare normalmente, quindi scuoto la testa. Lui si stringe nelle spalle e dice: — Più tardi qualcuno si farà vivo da lei per raccogliere la sua testimonianza. Forse io, forse un altro agente. — Poi se ne va e pian piano la folla si dilegua.

Quando arrivo a casa non sono ancora le sette. Non so quando verrà un poliziotto. Chiamo Tom per informarlo di quanto è accaduto, perché lui conosce Don e io non conosco nessun’altra persona da chiamare. Lui dice che arriverà subito da me. Io non ho bisogno che lui venga, ma lui vuol venire.

Quando arriva, ha un aspetto molto turbato. Ha le sopracciglia molto ravvicinate e molte rughe sulla fronte. — Lou, stai bene?

— Benissimo — dico.

— Davvero Don ti ha assalito? — Non aspetta che io risponda ma continua a precipizio: — Non riesco a crederci… avevamo parlato di lui alla polizia…

— Tu hai parlato al tenente Stacy di Don?

— Dopo la faccenda della bomba. Lou, era evidente che doveva trattarsi di qualcuno del nostro gruppo. Avevo cercato di dirtelo…

Ricordo quando Lucia ci ha interrotti.

— Noi potevamo vederlo — continua Tom. — Era geloso di te a causa di Marjory.

— Mi biasima anche a causa del suo lavoro — lo informo. — Ha detto che sono un animale, che era colpa mia se lui non poteva avere la carriera che voleva, che gente come me non poteva avere amiche come Marjory.

— La gelosia è un conto, danneggiare macchine e far del male alla gente è un altro — dice Tom. — Mi dispiace che tu abbia dovuto subire tanti fastidi. Pensavo che lui ce l’avesse con me.

— Io sto bene — ripeto. — Lui non mi ha fatto niente. Sapevo che aveva antipatia per me, così la scoperta non è stata tanto dolorosa come poteva essere.

— Lou, sei… stupefacente. Io ancora penso che in parte sia colpa mia.

Questo non lo capisco. È stato Don a fare tutto, non è stato Tom a farglielo fare. Come potrebbe essere colpa di Tom, anche in piccolissima parte?

— Se avessi avuto qualche presentimento, se avessi avuto una migliore influenza su Don…

— Don è una persona, non una cosa — dico. — Nessuno può controllare completamente un’altra persona, ed è sbagliato tentare.

Il suo viso si rilassa. — Lou, a volte credo che tu sia il più saggio di noi. Sta bene. Non è stata colpa mia; però mi dispiace ancora che tu abbia dovuto affrontare un’esperienza simile. Anche il processo, poi… non sarà facile per te. Non è mai facile per nessuno che sia coinvolto in un processo.

— Un processo? Perché dovrei subire un processo?

— Non tu: dovrai testimoniare al processo di Don, ne sono certo. Non te lo hanno detto?

— No. — Non so come si deve comportare un testimone in un processo. Non mi è mai piaciuto guardare spettacoli su processi in TV.

— Be’, non succederà tanto presto e avremo tempo di parlarne. Adesso però… c’è qualcosa che io o Lucia possiamo fare per te?

— No, io sto bene. Verrò a esercitarmi domani.

— Ne sono contento. Non avrei voluto che tu ci abbandonassi per paura che qualcun altro nel gruppo cominciasse a comportarsi come Don.

— Non avevo pensato affatto a questo. — Sembra un’idea sciocca, ma poi mi chiedo se il gruppo aveva bisogno di un Don e se qualcuno dovesse calarsi in quel ruolo. Eppure, se una persona normale come Don poteva nascondere quel carico di collera e di violenza, forse tutte le persone normali hanno quella facoltà in potenza. Io non credo di averla.

— Bene. Se però dovessi avere la minima preoccupazione su questo punto, a proposito di chiunque… fammelo sapere subito, per favore. I gruppi sono bizzarri. Io ho fatto parte di gruppi dove, quando qualcuno che era antipatico a tutti se ne andava, immediatamente trovavamo qualcun altro da detestare e si ricominciava daccapo.

— Così ci sono schemi nei gruppi?

— Quello è uno dei tanti. — Sospira. — Spero che non esista nel nostro gruppo, e comunque terrò gli occhi aperti. Chissà come, nel caso di Don non ci siamo accorti di niente.

Suona il campanello. Tom mi guarda con aria interrogativa. — Credo sia un poliziotto — dico. — Il signor Stacy ha detto che avrebbe mandato qualcuno a raccogliere la mia deposizione.

— Allora io posso andare — mi saluta Tom.

Il poliziotto, che è il signor Stacy, siede sul mio divano. Porta calzoni avana e una camicia a quadretti con maniche corte; ha scarpe marroni di pelle ruvida. Appena entrato si è guardato attorno e si capiva che stava notando tutto. Anche Danny guarda nello stesso modo, facendo caso a tutto.

— Ho i rapporti sugli altri episodi di vandalismo, signor Arrendale — dice. — Perciò, se lei mi dirà tutto su quanto è avvenuto questa sera… — Ma è sciocco: lui era lì. Mi ha fatto delle domande e io ho risposto e lui ha scritto sul suo palmare. Non capisco perché sia qui a farmi ripetere tutto daccapo.

— Questo è il mio giorno per andare a fare la spesa — dico. — Io vado a fare la spesa nello stesso supermercato, perché è più facile trovare le cose in un supermercato quando si va lì ogni settimana.

— Ci va alla stessa ora ogni settimana?

— Sì. Vado dopo il lavoro e prima di prepararmi la cena.

— E fa una lista delle cose da acquistare?

— Sì. — È naturale, credo, ma forse Stacy pensa che non tutti facciano una lista. — Però l’ho gettata via quando sono arrivato a casa. — Mi chiedo se lui vorrà che vada a ripescarla dalla spazzatura.

— Oh, non importa. Volevo solo rendermi conto di quanto erano prevedibili i suoi movimenti.

— La prevedibilità è una buona cosa — dico. Sto cominciando a sudare. — È importante avere delle abitudini.

— Certo, naturalmente — annuisce lui. — Ma avere delle abitudini rende più facile localizzarla per qualcuno che voglia farle del male. Ricordi che io l’avevo ammonita in proposito la settimana scorsa.

Io non ci avevo pensato da quel punto di vista.

— Comunque continui, non volevo interromperla. Mi dica tutto.

Mi pare strano avere qualcuno che ascolta con tanta attenzione cose insignificanti come l’ordine secondo il quale faccio le mie spese… ma lui vuole che gli dica tutto. Non so cos’abbia a che fare questo con l’attentato, però io riferisco tutto, come organizzo la mia spesa per evitare di fare giri inutili.

— Poi sono uscito — continuo. — Non era completamente buio, ma nel parcheggio le luci erano accese. Io avevo parcheggiato a sinistra, nell’undicesima fila. — A me piace fermarmi in un posto la cui locazione sia un numero primo, ma questo non lo dico. — Avevo in mano le chiavi e ho aperto la macchina. Ho preso i sacchetti della spesa dal carrello e li ho riposti nel retro. Poi ho sentito il carrello muoversi alle mie spalle e mi sono voltato. Allora Don mi ha rivolto la parola.

M’interrompo, cercando di ricordare quali parole esatte ha adoperato e in che ordine. — Sembrava davvero furioso — dico. — Aveva la voce rauca. Ha detto: "È stata tutta colpa tua. È colpa tua se Tom mi ha buttato fuori". — M’interrompo di nuovo. Don ha detto un sacco di cose molto in fretta e io non sono sicuro di ricordarle tutte nel dovuto ordine. Sarebbe sbagliato riferirle in modo inesatto.

Il tenente Stacy aspetta in silenzio.

— Non sono certo di ricordare tutto esattamente — mi giustifico.

— Non importa — dice lui. — Mi racconti tutto ciò che ricorda.

— Lui ha detto: "È colpa tua se Marjory mi ha scaricato". Tom è la persona che ha organizzato il gruppo di schermidori. Marjory è… le ho parlato di lei la settimana scorsa. Non è mai stata la ragazza di Don. — Mi sento imbarazzato a parlare di Marjory: lei dovrebbe parlare per sé. — Marjory ha simpatia per me in un certo senso, ma… — Questo non posso dirlo. Non so in che modo piaccio a Marjory, se come conoscente o come amico o come qualcosa di più. Se dico "non come un amante" non rischio di dire una cosa vera? Io non voglio che sia vera.

— Mi ha detto: "I fenomeni da baraccone dovrebbero accoppiarsi con fenomeni da baraccone, se è proprio necessario che si accoppino". Era molto arrabbiato. Ha detto che era colpa mia se c’era la depressione e lui non riusciva a trovare un buon lavoro.

— Uhm. — Stacy emette solo un piccolo grugnito e non dice nulla.

— Mi ha detto di entrare in macchina. Ha spinto l’arma verso di me. Non è bene entrare in macchina con un assalitore, lo hanno detto in un programma lo scorso anno.

— Lo ripetiamo tutti gli anni — dice Stacy. — Però c’è sempre gente che lo fa. Sono contento che lei non l’abbia fatto.

— Io potevo vedere il suo schema di attacco — spiego. — Così mi sono mosso: ho parato la sua arma e l’ho colpito allo stomaco. So che è sbagliato colpire qualcuno, ma lui voleva farmi del male.

— Lei ha visto il suo schema di attacco? — chiede Stacy. — Di cosa si tratta?

— Abbiamo fatto parte dello stesso gruppo di schermidori per anni — racconto. — Quando Don spinge il braccio destro in avanti per una stoccata, muove sempre insieme il piede destro e poi sposta il sinistro di lato, quindi sporge il gomito in fuori e tira la stoccata in un giro largo verso destra. Ecco perché sapevo che se gliel’avessi mandata a vuoto e poi avessi tirato la mia stoccata al centro avrei avuto la possibilità di colpirlo prima che lui mi toccasse.

— Ma se lui ha tirato di scherma con lei per anni, come mai non s’è accorto della sua contromossa?

— Non lo so — dico. — Comunque io sono bravo a scoprire schemi nel modo di muoversi delle persone. È così che tiro di scherma. Don non è bravo nel fare questo. Io credo che forse, siccome non avevo in mano un fioretto, lui non ha pensato che avrei usato la stessa contromossa che adopero nella scherma.

— Ehm… Vorrei vederla tirare di scherma — dice Stacy. — L’avevo sempre creduta una faccenda piuttosto effeminata, con quelle divise bianche e quei fili che gli schermidori si trascinano dietro, ma da come la mette lei sembra interessante. Dunque: lui l’ha minacciata con l’arma, lei l’ha spostata con un colpo di mano e quindi l’ha centrato allo stomaco, e poi?

— Poi un sacco di gente si è messa a urlare e delle persone sono balzate su Don. Penso che fossero poliziotti, ma prima io non li avevo visti. — Mi fermo. Il resto lui può sentirlo dagli agenti che erano lì.

— Benissimo. Adesso ritorniamo su qualche particolare… — Mi fa ripetere tutto parola per parola più volte, e ogni volta io ricordo qualche nuovo dettaglio. La cosa mi preoccupa… sto davvero ricordando tutte queste cose o aggiungo dei particolari per far contento il tenente? Ho letto queste cose nel libro. A me sembra di dire la verità, ma a volte questo non è vero. Mentire è sbagliato, io non voglio mentire.

Stacy mi chiede di nuovo del gruppo di scherma: chi aveva simpatia per me e chi non l’aveva; per chi io avevo simpatia e per chi non l’avevo. Io pensavo di avere simpatia per tutti; e pensavo che tutti avessero simpatia per me, fino alla faccenda di Don. Sembra che Stacy desideri che Marjory sia la mia ragazza o la mia amante: continua a chiedermi se ci vediamo. Io sudo più che mai parlando di lei. Ma continuo a dire la verità, che lei a me piace tanto e non faccio che pensare a lei, però noi due non ci vediamo.

Finalmente il tenente si alza. — Grazie, signor Arrendale, per ora basta. Farò trascrivere la sua deposizione e poi lei dovrà venire alla stazione di polizia e firmarla. Poi ci terremo in contatto quando ci sarà il processo.

— Il processo? — chiedo.

— Certo. Come vittima dell’attentato lei sarà un testimone per l’accusa. Ciò le crea dei problemi?

— Il signor Crenshaw si arrabbierà se perdo troppo tempo e trascuro il lavoro — dico. Questo sarà vero se per allora avrò ancora un lavoro. E se non l’avessi più?

— Sono certo che capirà — dice il tenente.

Io sono certo che non capirà, perché non vuol capire.

— C’è una possibilità che l’avvocato di Poiteau venga a patti con il procuratore distrettuale — dice Stacy. — Potrebbe patteggiare una sentenza ridotta contro il rischio di esser trattato peggio in tribunale. Comunque, le faremo sapere. — Si avvia alla porta. — Abbia cura di lei, signor Arrendale. Sono contento che abbiamo preso quel tizio e che lei non abbia subito danni.

— Grazie a lei per l’aiuto — dico.

Dopo che se n’è andato, liscio le grinze dal posto dove si è seduto sul divano e rimetto a posto i cuscini. Mi sento nervoso. Non voglio più pensare a Don e al suo attentato, voglio dimenticarlo. Vorrei che non fosse mai avvenuto.

Mi preparo una cena semplice, un brodo con pasta e verdura, lo mangio e poi lavo la pentola e il piatto. Sono già le otto. Riprendo il libro e comincio il capitolo 17: Integrazioni della Memoria e Controllo dell’Attenzione: Le lezioni del DSPT.

A questo punto trovo i lunghi periodi e la sintassi complicata molto più agevoli da capire. Non costituiscono uno stile lineare ma piuttosto agglomerato o radiale. Vorrei tanto che qualcuno mi avesse insegnato queste cose prima.

Le informazioni che gli autori cercano di fornire sono organizzate secondo un ordine logico. Potrei averlo scritto io, un libro come questo. È bizzarro pensare che una persona come me potrebbe aver scritto un capitolo di un testo sulle funzioni del cervello. Io do l’impressione di esprimermi come un libro quando parlo? È per questo che la dottoressa Fornum parla di "linguaggio affettato"? Ma se lei pensava che io parlassi come un libro, perché non l’ha detto chiaro e tondo?

A questo punto so che DSPT significa "Disturbo da Stress Post-Traumatico" e che produce strane alterazioni nella funzione della memoria.

Mi fa venire l’idea che in questo momento anch’io mi trovo in una condizione post-traumatica, e che venire assalito da qualcuno che voleva uccidermi provoca ciò che gli autori del libro chiamano "trauma", benché io non mi senta molto teso o turbato. Forse la gente normale non si siede a leggere un testo di medicina poche ore dopo aver rischiato di venire uccisa, io invece lo trovo confortante. I fatti sono sempre lì, sempre disposti secondo un ordine logico, descritti da qualcuno che si è dato pena per renderli chiari. Così i miei genitori mi dicevano che le stelle continuavano a risplendere, non offuscate né danneggiate da qualunque cosa avvenisse sul nostro pianeta. A me piace che l’ordine esista da qualche parte, anche se non nelle mie vicinanze.

Come si sentirebbe una persona normale? Ricordo un esperimento che facemmo durante la lezione di scienze nella scuola media. Piantammo semi in vasi tenuti inclinati. Le piante crescevano rivolte alla luce, e non importava quale angolazione dovevano assumere i loro steli. Ricordo che io mi chiesi se qualcuno avesse piantato me in un vaso messo di sghembo, ma la mia insegnante mi disse che non era la stessa cosa.

Io però mi sento proprio così. Mi trovo di sghembo rispetto al mondo, mi sento felice quando gli altri pensano che dovrei sentirmi sconvolto. Il mio cervello ha cercato di crescere verso la luce, ma non ha potuto raddrizzarsi quando è stato raddrizzato il suo vaso.

Se ho ben capito il testo, io ricordo cose come quale percentuale di automobili in un parcheggio sono blu perché presto attenzione ai colori e ai numeri più delle persone normali, le quali non se ne accorgono perché non gliene importa. Mi chiedo a cosa fanno caso quando guardano un parcheggio. Cos’altro c’è da vedere tranne le file delle macchine, tante blu, tante marrone, tante rosse? Cos’è che a me sfugge, come alle persone normali sfugge la bella relazione numerica?

Io ricordo colori, numeri e configurazioni e serie ascendenti e discendenti: tali sono gli elementi che passano più agevolmente attraverso il filtro che la mia elaborazione sensoriale ha messo tra me e il mondo. Essi dunque sono diventati i parametri della crescita del mio cervello, ed è per questo che io vedo tutto… dal processo di fabbricazione dei farmaci alle mosse di un avversario nella scherma… allo stesso modo, come espressioni di uno stesso tipo di realtà.

Mi guardo intorno nell’appartamento e penso alle mie reazioni, al mio bisogno di regolarità, a quanto sono affascinato dai fenomeni che si ripetono in serie e secondo schemi. Ognuno ha bisogno di una certa regolarità; ognuno ama serie e schemi, almeno fino a un certo punto. Io ho saputo questo per anni, ma adesso lo comprendo meglio. Noi autistici ci troviamo a un’estremità della parabola dei comportamenti e delle preferenze umani, e tuttavia non ne siamo separati. Il mio sentimento per Marjory è normale, non autistico. Forse io sono più conscio dei diversi colori dei suoi occhi e dei suoi capelli di quanto lo sarebbe un’altra persona, ma il desiderio di starle vicino è un desiderio da persona normale.

È quasi ora di andare a letto. Quando mi metto sotto la doccia, guardo il mio corpo perfettamente normale: pelle normale, capelli normali, normali unghie delle mani e dei piedi, apparato genitale normale. Certo ci saranno persone normali che preferiscono come me sapone senza profumo, la stessa temperatura dell’acqua, la stessa consistenza nella stoffa degli asciugamani.

Fatta la doccia mi lavo i denti e sciacquo il lavandino. Il mio viso nello specchio è il mio solito viso: è il viso che conosco meglio. La luce irrompe nelle pupille dei miei occhi e porta con sé le informazioni che sono alla portata del mio periplo visivo, porta con sé il mondo; ma quando io guardo il punto dove la luce penetra vedo solo un nero profondo e vellutato. La luce vi penetra e il buio mi scruta di rimando. L’immagine è nel mio occhio e nel mio cervello oltre che nello specchio.

Spengo la luce nel bagno. Vado a letto, e spengo la luce dopo essermi seduto sulla coperta. L’immagine residua della luce arde nel buio. Chiudo gli occhi e vedo la coincidenza degli opposti nello spazio. Prima le parole, e poi le immagini che sostituiscono le parole.

La luce è l’opposto del buio. La pesantezza è l’opposto della leggerezza. La memoria è l’opposto della dimenticanza. Una volta io domandai a mia madre come poteva accadere che io vedessi luce nei miei sogni mentre i miei occhi erano chiusi nel sonno. Perché i sogni non si svolgevano tutti al buio?, chiesi. Lei non lo sapeva. Il libro mi ha informato dell’elaborazione degli stimoli visivi nel cervello, ma a questa domanda non ha risposto.

Mi chiedo perché. Certo qualcuno si sarà chiesto perché i sogni sono pieni di luce anche se noi ci troviamo al buio. Il cervello genera immagini, sì, ma da dove viene la luce che le illumina? Quando sono cieche, le persone non vedono più la luce. Allora la luce nel sogno è una memoria della luce o qualche altra cosa?

Ricordo che una volta qualcuno disse di un altro bambino: "Adora il calcio a tal punto che se gli si aprisse la testa ci si troverebbe uno stadio". Questo successe prima che imparassi che molto di quanto la gente diceva non aveva un significato "letterale". Mi chiesi cosa si sarebbe trovato nella mia testa se qualcuno l’avesse aperta. Lo chiesi a mia madre e lei mi rispose: "Il tuo cervello, caro" e mi mostrò l’immagine di una cosa grigia e grinzosa. Io piansi perché la trovai tanto brutta e non volevo che se ne stesse nella mia testa. Mi sentivo sicuro che nessun altro avesse nella testa una cosa così orribile. Loro avevano stadii o gelati o picnic.

Adesso so che ognuno di noi ha una cosa grigia e grinzosa nella testa, non stadii per il calcio o piscine o la persona amata. Ciò che risiede nella mente non appare nel cervello. In quel momento però quella fu per me l’ennesima prova che io ero fatto in modo sbagliato.

Ciò che ho nella testa ora sono luce e buio e gravità e spazio e spade e supermercati e numeri e persone e schemi tanto belli da farmi venire i brividi in tutto il corpo. Ma ancora non so perché in me ci sono queste configurazioni e non altre.

Il libro risponde a domande concepite da altre persone. Io ho concepito domande alle quali nessuno ha risposto. Avevo sempre pensato che le mie domande fossero sbagliate perché nessun altro le faceva. Forse perché nessuno ci aveva pensato. Forse il buio era arrivato prima. Forse sono io la prima luce a toccare un golfo d’ignoranza.

Forse le mie domande sono importanti.

15

C’è luce, la luce del mattino. Ricordo strani sogni, ma non cosa ho sognato, solo che erano sogni strani. È una giornata luminosa e fresca; quando tocco il vetro della finestra lo sento freddo.

In quest’aria corroborante mi sento più sveglio. I fiocchi di cereali nella tazza hanno una consistenza croccante.

Quando esco, la luce del sole fa scintillare i sassolini del selciato del parcheggio. È la giornata adatta per una musica allegra, vivace. Esamino varie possibilità nella mia mente e la mia scelta si fissa su Bizet. Tocco la mia macchina con cautela, osservando che per quanto Don sia in prigione il mio corpo ricorda il pericolo. Non accade nulla. Le quattro gomme ancora odorano di nuovo. Metto in moto. Per via la musica mi risuona nella mente, vivida come la luce. Penso di andare in campagna a vedere le stelle, questa sera: dovrei poter vedere anche le stazioni spaziali. Poi ricordo che è mercoledì e dovrei andare a lezione di scherma. Era da tempo che non lo dimenticavo. Ho segnato l’impegno sul calendario stamattina? Non lo ricordo.

Nel campus mi fermo al mio solito posto nel parcheggio. Il signor Aldrin è nell’edificio, si trova nell’atrio come se mi stesse aspettando.

— Lou, l’ho visto nel notiziario… stai bene?

— Sì — dico. Dovrebbe essere evidente anche solo a guardarmi.

— Se non ti senti in forma, puoi prenderti una giornata libera.

— No, sto bene — lo rassicuro. — Posso lavorare.

— Be’… se ne sei certo… — Tace come se si aspettasse che io dica qualcosa, ma non riesco a pensare a nulla da dire. — Il notiziario diceva che avevi disarmato l’aggressore, Lou… non credevo che tu sapessi come si fa.

— Ho fatto solo quello che faccio quando tiro di scherma — spiego — anche se non avevo una spada.

— Scherma? — I suoi occhi si allargano, le sue sopracciglia si alzano. — Tu pratichi la scherma? Con spade e armi bianche?

— Sì, vado a lezione di scherma una volta la settimana. — Non so quanto rivelare dell’argomento.

— Non lo avevo mai saputo — dice lui. — Non so niente della scherma, a parte che chi la pratica porta divise bianche e si trascina dietro un sacco di fili elettrici.

Noi non portiamo divise bianche e non usiamo registrare i punti con l’elettricità, ma non me la sento di spiegare questo al signor Aldrin. Voglio riprendere il progetto al quale sto lavorando, e nel pomeriggio abbiamo un altro incontro con l’equipe medica. Poi ricordo quanto mi ha detto il tenente Stacy.

— Probabilmente dovrò andare alla stazione di polizia a firmare una deposizione — dico.

— Benissimo — annuisce il signor Aldrin. — Fa’ quello che devi fare. Sono certo che questo dev’essere stato per te un trauma terribile.

Il mio telefono suona. Penso che forse sarà il signor Crenshaw, perciò non mi affretto a rispondere, ma infine rispondo.

— Signor Arrendale? Sono l’agente Stacy. Senta, potrebbe venire alla stazione questa mattina?

Io non credo che questa sia una domanda autentica. Credo sia come quando mio padre mi diceva: "Tu prendi questo dall’altra parte, eh?" volendo dire: "Prendi questo dall’altra parte". Può essere più cortese dare ordini sotto forma di domande, ma tende a far confondere. — Dovrò chiedere il permesso al mio capo — dico.

— È una richiesta della polizia — spiega Stacy. — Abbiamo bisogno che lei firmi la sua deposizione e qualche altra scartoffia. Dica solo questo.

— Chiamo subito il signor Aldrin — rispondo. — Devo richiamarla?

— No… venga pure quando potrà. Io sarò qui tutta la mattina.

In altre parole, lui si aspetta che io vada qualunque cosa dica il signor Aldrin. Avevo ragione, la sua non era una domanda.

Chiamo l’ufficio del signor Aldrin.

— Pronto, Lou — dice lui. — Come stai? — Me lo aveva già chiesto.

— La polizia vuole che vada alla stazione a firmare la mia deposizione e qualche altro documento — dico. — Vogliono che vada subito.

— Te la senti? Vuoi che qualcuno ti accompagni?

— Sto benissimo — ripeto. — Ma devo andare.

— Naturalmente. Prenditi tutta la giornata.

Fuori, mi chiedo cosa pensi la guardia che mi vede uscire quasi subito dopo essere entrato. Dalla sua faccia non si capisce nulla.

La stazione di polizia è molto rumorosa. Davanti a un bancone lungo e alto c’è una nutrita fila di persone. Mi accodo, ma a un certo punto il signor Stacy esce e mi vede. — Venga — dice. Mi guida in un’altra stanza altrettanto rumorosa occupata da cinque scrivanie tutte coperte di roba. La sua… credo che sia la sua… ha un computer con vari attacchi e un grande schermo.

— Ecco la mia casa — dice, accennandomi una sedia davanti alla scrivania.

La sedia è di metallo grigio e ha sul sedile un sottile cuscino di plastica verde, attraverso il quale si sente lo scheletro della sedia. Regna un odore di caffè stantio, dolcetti da poco prezzo, patate fritte e l’arida puzza d’inchiostro delle stampanti e delle fotocopiatrici.

— Ecco la stampata della sua deposizione — dice Stacy. — La legga tutta, guardi se ci sono errori e, se non ci sono, la firmi.

Tutti quei se mi confondono un poco, ma capisco lo stesso. Leggo in fretta la deposizione, benché mi ci voglia un poco a comprendere che il "querelante" sono io e l’"assalitore" è Don. Non riesco inoltre a capire perché io e Don veniamo chiamati "maschi" e non "uomini" mentre Marjory è una "femmina" e non una "donna". Penso che sia poco gentile chiamarla "una femmina conosciuta da ambedue i maschi in un contesto sociale".

Poi il signor Stacy mi dice che devo firmare una querela contro Don. Non comprendo perché. È contro la legge fare le cose che Don ha fatto, e ci sono le prove che lui le ha fatte. Non dovrebbe importar nulla che io firmi denunce o no. Ma se la legge lo richiede, acconsento a firmarla.

— Cosa succederà a Don se verrà giudicato colpevole?

— Di atti di vandalismo ripetuti e culminanti in un’aggressione con scopi omicidi? Non se la caverà con meno di un PPD — dice Stacy. — Si tratta di un chip cerebrale programmabile atto al controllo della personalità. Lo innestano nel cervello…

— Lo so — dico. Mi sento gelare dentro: almeno io non devo contemplare la possibilità che m’inseriscano un chip nel cervello.

— Non è come si vede negli spettacoli — spiega Stacy. — Niente scintille, niente lampi abbaglianti… l’uomo semplicemente non sarà più in grado di fare certe cose.

Ciò che ho sentito dire… ciò che abbiamo sentito dire al Centro… è che il PPD controlla la personalità e costringe il riabilitando (questo è il termine che preferiscono usare) a fare soltanto ciò che gli vien detto di fare.

— Non potrebbe Don pagare solo le mie gomme e il mio parabrezza? — domando.

— Occorre controllare la recidività — dice Stacy frugando tra un mucchio di stampate. — Tornano a commettere lo stesso crimine, è provato. Proprio come lei non può smettere di essere lei, una persona autistica, così Don non può smettere di essere lui, una persona gelosa e violenta. Se se ne fossero accorti quando era piccolo, be’, allora… oh, eccoci qui. — Tira fuori un foglio. — Questo è il modulo. Lo legga con attenzione, firmi dove c’è la X e metta la data.

Leggo il modulo, che ha sull’intestazione lo stemma civico. In esso si dice che io, Lou Arrendale, faccio denuncia di un sacco di cose alle quali non ho davvero mai pensato. Io credevo che la cosa fosse semplice: Don aveva cercato di spaventarmi e infine aveva cercato di farmi del male. Invece il modulo afferma che io lo sto denunciando per distruzione dolosa di beni, per furto di beni valutati più di $ 250, per aver fabbricato un ordigno esplosivo, per averlo piazzato in una mia proprietà, per aggressione a scopi omicidi con un ordigno esplosivo… — Perché, quel falso giocattolo poteva uccidermi? — chiedo. — Qui dice "aggressione con un’arma letale".

— Gli esplosivi sono un’arma letale. È vero che l’accensione non era programmata bene e quindi l’ordigno non è esploso quando avrebbe dovuto, e la quantità di esplosivo impiegata non conta. Lei avrebbe potuto perdere alcune dita o rimanere sfregiato. A norma di legge è così.

— Io non sapevo che con una sola azione, portar via la batteria e mettere al suo posto un diavoletto a molla, si potesse infrangere più di una legge.

— Non lo sanno nemmeno un sacco di criminali — dice Stacy. — Ma il cumulo dei reati è una cosa comune. Mettiamo che un criminale entri in una casa mentre i proprietari sono assenti e rubi delle cose. C’è una legge che riguarda lo scassinare le porte e un’altra che riguarda il furto.

Però io non ho realmente denunciato Don per aver fabbricato un ordigno esplosivo, perché non ho mai saputo che lo stava fabbricando. Guardo il tenente Stacy: è chiaro che ha una risposta per ogni domanda, quindi non servirebbe a niente discutere. Non mi sembra giusto che una sola azione faccia scaturire quel diluvio di denunce, ma ho sentito parlare altre volte di questo stesso tipo d’ingiustizie.

Il modulo continua a enumerare quanto Don ha fatto in linguaggio meno formale: parla delle gomme, del parabrezza, del furto di una batteria d’automobile valutata $ 262,37, del piazzamento dell’ordigno esplosivo sotto il coperchio del cofano e dell’aggressione nel parcheggio. Con tutte queste azioni descritte in ordine, appare evidente che Don ha davvero fatto tutto ciò, che aveva seriamente l’intenzione di farmi del male e che anche il primo sabotaggio era foriero di conseguenze fatali.

Ma per me capire risulta ancora difficile. Io so ciò che Don ha detto, quali parole ha usato, tuttavia per me non hanno molto senso. Don è un uomo normale. Poteva parlare con Marjory a suo agio, e infatti le parlava. Niente gli impediva di diventare suo amico, niente tranne se stesso. Non è colpa mia se a lei io piaccio. Non è colpa mia averla conosciuta alle lezioni di scherma, perché io ero là già da prima e non l’avevo mai conosciuta finché non è venuta.

— Io non so perché — dico.

— Perché cosa? — chiede Stacy.

— Non so perché Don si sia arrabbiato tanto contro di me — spiego.

Lui piega la testa da un lato. — Ma lui gliel’ha detto — risponde — e lei mi ha riferito quel che ha detto.

— Sì, ma la cosa non ha senso — dico. — A me Marjory piace moltissimo, ma lei non è la mia ragazza. Non l’ho mai portata fuori. Nemmeno lei mi ha portato fuori. Non ho mai fatto nulla che potesse far del male a Don. — Non dico a Stacy che mi piacerebbe uscire con Marjory: lui potrebbe chiedermi perché non lo faccio e io non voglio rispondere.

— La cosa non avrà senso per lei, ma ne ha per me — dice Stacy. — Noi ne vediamo un sacco di cose del genere, casi di gelosia che evolve in rabbia omicida. Lei non doveva far nulla di provocatorio: il delitto era in Don, nel suo intimo.

— Ma dentro, lui è una persona normale — insisto.

— Lui non è dichiaratamente insano di mente, Lou, tuttavia non è normale. Le persone normali non mettono ordigni esplosivi nelle automobili altrui.

— Lei vuol dire che Don è pazzo?

— Questo dovrà deciderlo il tribunale — dice Stacy. — Lou, perché sta cercando di scusarlo?

— Io non… Sono d’accordo, quello che ha fatto è sbagliato, ma avere un chip inserito nel cranio che farà di lui un’altra persona…

Stacy spalanca gli occhi. — Lou, io vorrei che persone come lei… cioè persone che non hanno nulla a che fare con l’amministrazione della giustizia… capissero che cosa sono realmente i PPD. Il chip non farà di Don un’altra persona. Lo farà diventare Don senza l’impulso a far del male alla gente che lo disturba in qualsiasi modo. Così noi non dovremo tenerlo rinchiuso per anni onde evitare che lui commetta di nuovo le stesse cattive azioni… lui non ne commetterà più, contro nessuno. Come pena, è molto più umana di come si usava prima, cioè rinchiudere i criminali per anni insieme ad altri criminali e in un ambiente che serviva solo a farli diventare peggiori. Il chip non gli farà male, non lo trasformerà in un robot. Don potrà vivere una vita normale. L’unica cosa che non potrà fare sarà commettere crimini violenti. Il chip è l’unico rimedio che funzioni, a questo scopo, se escludiamo la pena di morte… e questa, lo ammetto, mi pare un po’ eccessiva per quanto Don ha fatto a lei.

— La cosa continua a non piacermi — dico. — Io non vorrei mai che qualcuno mi mettesse un chip nel cervello.

— I chip si usano anche a scopi terapeutici — mi spiega lui. Questo lo so: so che per certi attacchi non curabili, per il parkinsonismo e per certe lesioni al midollo spinale sono stati sviluppati chip e bypass speciali. Ma quanto al chip che vogliono impiantare su Don, non ne ho un’opinione favorevole.

Eppure è la legge. Il modulo non contiene una parola che non sia vera. Don ha fatto davvero tutte quelle cose. E io ho chiamato la polizia a causa di esse, tranne l’ultima volta, quando il crimine è avvenuto sotto gli occhi della polizia stessa. Alla fine del modulo, fra il testo e la riga per la mia firma, c’è una frase nella quale si dice: io giuro che tutto ciò che è riportato nella deposizione è vero. E a quanto ne so io è proprio vero, e questo dovrà bastarmi. Firmo sulla riga, aggiungo la data e porgo il modulo a Stacy.

— Grazie, Lou — dice lui. — Adesso il procuratore distrettuale desidera vederti per spiegarti cosa succederà in seguito.

Il procuratore distrettuale è una donna di mezza età con capelli neri e grigi molto ricciuti. La targhetta sulla sua scrivania dice: ASS. PD BEATRICE HUNSTON. La sua pelle ha il colore del pan di zenzero. Il suo ufficio è più grande del mio e tutto intorno ha scaffali con libri. Sono libri vecchi, avana con quadrati neri e rossi sui dorsi. Non danno l’impressione che qualcuno li abbia mai letti, e io mi chiedo se siano veri. Sul ripiano della scrivania, che è nera, c’è un calendario automatico.

— Sono lieta che lei sia vivo, signor Arrendale — dice. — È stato davvero fortunato. Mi pare che lei abbia firmato una denuncia contro Donald Poiteau, vero?

— Sì — dico.

— Allora lasci che le spieghi cosa accadrà dopo. La legge dice che il signor Poiteau ha diritto a un processo di fronte a una giuria, se lo desidera. Noi abbiamo abbondanti prove che è lui la persona coinvolta in tutti gli incidenti, e siamo certi che tali prove verranno accettate in tribunale. È però più probabile che l’avvocato di Poiteau gli consigli di venire a un patteggiamento. Lei sa cosa significa?

— No — dico, perché so che lei desidera spiegarmelo.

— Se un imputato non spreca le risorse statali chiedendo un processo, si potrà ridurre la durata della pena che dovrà scontare fino a farla coincidere con il tempo richiesto dall’impianto e dalla programmazione del PPD, il chip. Altrimenti, se fosse condannato, dovrebbe scontare come minimo cinque anni di detenzione. Intanto Poiteau sta assaggiando cosa significa la detenzione, e io penso che accetterà di patteggiare.

— Però potrebbe anche essere assolto — dico.

La donna mi sorride. — Ciò non accade praticamente più — risponde. — Non col tipo di prove che abbiamo. Lei non deve preoccuparsi, quell’uomo non potrà più farle del male.

Io non sono preoccupato… o non lo ero finché lei non ha detto questo. Una volta che Don è stato arrestato non mi sono più preoccupato per causa sua. Se dovesse fuggire ricomincerò a preoccuparmi. Ma per ora non sono preoccupato.

— Se non ci sarà processo, se il suo avvocato accetterà il patteggiamento, allora non ci sarà bisogno che lei sia chiamato — continua lei. — Lo sapremo tra pochi giorni. Se invece Poiteau chiedesse un processo, lei dovrà comparirvi come testimone d’accusa. Ciò significa che dovrà passare del tempo con me o con qualcuno del mio ufficio allo scopo di preparare la sua testimonianza; poi dovrà passare dell’altro tempo in tribunale. Lo capisce?

Capisco quello che lei mi dice. Quello che non dice e che forse non sa è che il signor Crenshaw si arrabbierà moltissimo se mancherò dal lavoro così a lungo. Spero che Don e il suo avvocato non insistano nel volere un processo. — Sì — dico.

— Bene. Tutta la procedura è cambiata negli ultimi dieci anni, grazie all’introduzione del chip PPD; adesso è molto più semplificata. Ci sono meno casi per il tribunale, così vittime e testimoni non perdono tanto tempo. Ci sentiremo, signor Arrendale.

La mattinata è quasi finita quando finalmente me ne vado dalla Centrale. Il signor Aldrin aveva detto che potevo prendermi la giornata libera, ma io non voglio che il signor Crenshaw abbia alcun motivo per arrabbiarsi con me, così torno in ufficio per il pomeriggio. Abbiamo avuto un altro esame, quello dove dobbiamo accoppiare schemi sul computer. In questo siamo tutti molto veloci e quindi finiamo presto. Anche gli altri test sono facili, ma noiosi. Non rimetto in pari il tempo perduto al mattino, perché non dipendeva da me.

Prima di uscire per andare a lezione di scherma guardo il notiziario scientifico alla TV, perché è un programma sullo spazio. Un consorzio di compagnie sta costruendo un’altra stazione spaziale. Vedo un logo che riconosco: non sapevo che la compagnia per la quale lavoro s’interessasse a imprese spaziali. L’annunciatore parla dei miliardi che costerà e dei contributi dei vari soci.

Forse è questa una delle ragioni per cui il signor Crenshaw insiste che c’è bisogno di tagliare le spese. Secondo me è bene che la compagnia voglia investire nello spazio, e vorrei tanto avere la possibilità di andarci. Forse, se non fossi autistico, sarei potuto essere un astronauta o un astronomo. Ma anche se cambiassi adesso, con il trattamento, sarebbe troppo tardi per addestrarmi a quest’altra carriera.

Sarà per questo che certe persone vogliono sottoporsi al trattamento Lungavita per estendere la durata delle loro vite, in modo da intraprendere una carriera che prima non avevano potuto avere. È molto costoso, però: ancora pochissimi possono permetterselo.

Altre tre automobili sono parcheggiate davanti alla casa di Tom e Lucia quando arrivo. C’è anche la macchina di Marjory. Il cuore mi batte più forte. Mi sento a corto di flato, eppure non ho corso.

Lungo la strada sibila un vento freddo. Quando il tempo è così è più facile tirare di scherma, ma diventa piuttosto disagevole sedersi fuori a parlare.

Dentro casa Lucia, Susan e Marjory stanno chiacchierando, però tacciono quando mi vedono entrare.

— Come ti senti, Lou? — chiede Lucia.

— Sto bene — dico, un poco imbarazzato.

— Mi dispiace tanto per quello che Don ha fatto — dice Marjory.

— Non sei stata tu a dirgli di farlo — rispondo. — Non è colpa tua. — Lei dovrebbe saperlo.

— Non volevo dir quello — si scusa. — Solo… sono triste per te.

— Ma io sto bene — ripeto. — Sono qui e non… — Non ho il coraggio di dire "non sono morto". — È una brutta faccenda… pare che vogliano mettergli un chip nel cervello.

— Vorrei sperarlo — dice Lucia. Ha il viso contratto in una smorfia. Susan annuisce e mormora qualcosa che non afferro.

— Lou, sembra che tu non voglia che questo gli succeda — dice Marjory.

— Penso che la cosa faccia paura — dico. — Don ha fatto qualcosa di sbagliato, ma fa paura pensare che lo trasformeranno in un’altra persona.

— Non è così — dissente Lucia, che adesso mi guarda fissa. Lei dovrebbe capirlo, ammesso che qualcuno lo capisca. Lei sa del trattamento sperimentale, sa perché mi disturba tanto l’idea che Don venga costretto a essere qualcun altro. — Lui ha fatto delle cose sbagliate, cose molto cattive. Avrebbe potuto ucciderti, Lou. Lo avrebbe fatto, anzi, se non lo avessero fermato. Se lo facessero diventare una scodella di polentina gli starebbe bene, comunque il chip non ha altro effetto che d’impedirgli di far del male alla gente.

La cosa non è tanto semplice. Proprio come una parola può significare una cosa in un contesto e una cosa diversa in un altro, o cambiare di significato a seconda del tono in cui viene pronunciata, così un’azione può essere benefica o dannosa a seconda delle circostanze. Il chip PPD non conferisce alle persone la facoltà di distinguere meglio ciò che è dannoso da ciò che non lo è; si limita ad annullare la volontà e l’iniziativa di commettere azioni che sono più spesso dannose che benefiche. Ciò significa che impedirà a Don anche di fare qualcosa di buono, talvolta. Perfino io so questo, e sono certo che anche Lucia lo sa, ma lo sta ignorando per qualche ragione.

— Pensare che l’ho lasciato rimanere nel gruppo per tanto tempo! — commenta lei. — Non ho mai pensato che avrebbe potuto fare una cosa del genere. Quella vipera velenosa! Potrei cavargli un occhio con le mie mani!

In un lampo di chiaroveggenza capisco che Lucia sta considerando più i propri sentimenti che i miei, in questo momento. È in collera perché Don l’ha ingannata; pensa che lui l’abbia fatta passare per sciocca, e questo la ferisce profondamente. Lei è orgogliosa della sua intelligenza. Quindi vuole che lui sia punito perché l’ha sminuita… almeno nella consapevolezza che ha di se stessa.

Non è uno stato d’animo particolarmente lodevole, e io non sapevo che Lucia potesse essere così. Forse avrei dovuto capirlo, come lei pensa che avrebbe dovuto capire i lati cattivi di Don? Se le persone normali si aspettano di capire tutto gli uni degli altri, tutti i sentimenti più riposti, come fanno a sopportarlo? Non gli vengono le vertigini?

— Non puoi leggere nelle menti, Lucia — dice Marjory.

— Questo lo so! — Lucia scrolla la testa e muove le mani in piccoli gesti rigidi, agitati. — È solo che… dannazione, odio che mi facciano fare la figura della stupida, e ho l’impressione che Don abbia fatto proprio questo. — Si volge a guardarmi. — Scusami, Lou, sto facendo l’egoista adesso. Quello che importa davvero sei tu e che tu stia bene.

Vedere la sua personalità normale, quella solita, emergere dalla persona incollerita che era un momento fa è come guardare un cristallo formarsi in una soluzione soprassatura. Mi sento meglio adesso che Lucia ha riconosciuto quel che stava facendo e non ha intenzione di farlo nuovamente. Però le ci è voluto più tempo di quanto non impieghi quando analizza il comportamento degli altri. Mi chiedo se le persone normali ci mettano più tempo a guardare in se stessi e a capire cosa sta realmente accadendo di quanto ne impieghiamo noi autistici, o se almeno in questo i nostri cervelli lavorino alla stessa velocità. Mi domando se Lucia ha avuto bisogno delle parole di Marjory per rendersi capace di quell’autoanalisi.

Mi chiedo cosa pensi realmente Marjory di me. Adesso sta guardando Lucia, ma di sottecchi mi lancia qualche occhiata. Come son belli i suoi capelli… mi sorprendo ad analizzarne i colori e il modo in cui la luce li fa risplendere quando muove la testa.

Siedo sul pavimento e comincio i miei stiramenti. Dopo un poco, li cominciano anche le donne. Sono un po’ irrigidito, mi ci vogliono diversi tentativi prima di potermi toccare le ginocchia con la fronte. Marjory ancora non riesce a farlo: i suoi capelli cadono in avanti sfiorandole le ginocchia, ma la sua fronte non arriva a meno di quattro dita di distanza.

Appena finito, mi alzo e vado nel ripostiglio a prendere le mie cose. Tom è fuori con Max e Simon, l’arbitro del torneo. Il cerchio dei faretti mette un cono di luce nel cortile semibuio, con forti ombre all’intorno.

— Ehi, amico — dice Max. — Come stai?

— Bene.

— Ho sentito che hai usato una mossa di scherma con Don — dice. — Avrei voluto vederla.

Non credo che Max avrebbe voluto trovarsi davvero in una situazione simile, qualunque cosa pensi ora.

— Lou, Simon stava chiedendosi se vorresti batterti con lui — interviene Tom. Sono contento che non mi abbia chiesto come sto.

— Certo — dico. — Metto la maschera.

Simon è meno alto di Tom e più magro. Porta un vecchio giubbotto da scherma imbottito, fatto come i giubbotti bianchi usati nelle competizioni formali di scherma, solo che il suo è di un verde slavato. — Grazie — dice. Poi, come se sapesse che mi stavo meravigliando del colore del suo giubbotto, aggiunge: — Mia sorella ne voleva uno verde una volta, per un costume… solo che lei s’intende più di scherma che di tingere indumenti. Quando era nuovo era molto peggio, per fortuna adesso si è stinto.

— Non ne avevo mai visto uno verde — dico.

— Non lo ha mai visto nessun altro — dice. La sua maschera è del tipo normale, bianca ma ingiallita dall’età e dall’uso. Porta guanti marrone. Io indosso la maschera.

— Con quali armi? — domando.

— Quali preferisci? — chiede lui.

Io non ho preferenze: ogni arma o combinazione di armi ha le sue particolarità.

— Provate spada e daga — suggerisce Tom. — Sarà divertente da vedere.

Prendo la mia spada e la mia daga e le manipolo finché non diventano confortevoli… quasi non le sento, e questo va bene. La spada di Simon ha un’ampia coccia a campana, ma la sua daga ha un semplice anello. Se non è molto bravo nelle parate, potrei essere in grado di toccarlo alla mano. Mi chiedo se accuserà i colpi o no. Ma è un arbitro, certo sarà onesto.

Ha una posa rilassata, con le ginocchia appena piegate, l’aria di chi ha tirato di scherma abbastanza spesso da farlo ormai agevolmente. Ci salutiamo e la sua lama vibra nell’aria quando si abbassa. Sento il mio stomaco contrarsi. Non so cosa farà ora. Prima che io possa riprendermi lui allunga una stoccata, una cosa che nel nostro gruppo non facciamo quasi mai, col braccio completamente esteso e una gamba allungata all’indietro. Io evito con una contorsione, parando con la daga e allungando a mia volta una stoccata al di sopra della sua daga… ma lui è veloce, veloce come Tom, e ha già il braccio alzato a parare. Si riprende dall’affondo così in fretta che non posso approfittare di quel breve momento di mancanza di mobilità, e mi fa un cenno con la testa mentre ritorna alla posizione di guardia. — Bella parata — dice.

Il mio stomaco si contrae ancora di più e mi rendo conto che non è paura ma eccitazione. Simon può dimostrarsi più bravo di Tom. Vincerà, ma io imparerò. Si muove di sbieco e io lo seguo. Attacca diverse altre volte, sempre molto velocemente, e io riesco a parare tutti i suoi assalti, ma non attacco a mia volta. Voglio scoprire il suo schema, che è molto variato. Ancora e ancora. Basso alto alto basso basso alto basso basso basso alto alto: anticipo la sua prossima mossa e attacco mentre lui porta di nuovo un colpo basso, e questa volta lui non riesce a parare bene e io lo colpisco appena, di striscio, alla spalla.

— Buono — dice lui facendo un passo indietro. — Eccellente. — Lancio un’occhiata a Tom, che annuisce sorridendo. Max si stringe le mani sollevate sopra la testa e sorride anche lui. Io provo un urto di nausea. Nel momento del contatto io ho visto la faccia di Don e sentito il colpo che gli ho assestato e l’ho visto afflosciarsi a terra. Scuoto la testa.

— Tutto bene? — chiede Tom. Non voglio dir nulla. Non so se desidero continuare.

— Meglio fare una pausa — dice Simon, benché ci siamo battuti solo per un paio di minuti. Mi sento sciocco: so che lo fa per me e non dovrei essere depresso, ma lo sono. Ora ritorna ancora e ancora quell’impressione sulla mia mano, l’afrore del respiro che Don esala dopo il colpo, suono e visione e impressione tutto in una volta. Parte della mia mente ricorda il libro, la discussione sulla memoria, sullo stress e sul trauma, ma per la maggior parte provo solo una gran tristezza, un’aguzza e chiusa spirale di pena, paura e rabbia unite insieme.

Batto le palpebre e lotto per rimettermi, mentre una frase musicale mi attraversa la mente: la spirale si apre e si dilegua. — Sto… bene… — dico. Mi è ancora difficile parlare, ma già mi sento meglio. Alzo la mia spada. Simon fa un passo indietro e alza la sua.

Ripetiamo il saluto. Questa volta il suo attacco è altrettanto veloce ma diverso. Non riesco a distinguere il suo schema e decido di attaccare a mia volta. La sua lama scivola attraverso la mia parata e mi tocca nella parte sinistra dell’addome. — Toccato — dico.

— Mi stai facendo faticare davvero troppo — dice Simon. Sento infatti che ha il respiro affannoso, ma ce l’ho anch’io. — Mi hai quasi colpito quattro volte.

— Ho sbagliato la parata — commento. — Era troppo debole.

— Vediamo se farai di nuovo lo stesso errore — dice lui. Saluta e questa volta io attacco per primo. Non riesco a toccarlo, e i suoi attacchi sembrano più veloci dei miei; devo parare tre o quattro volte prima di vedere un’occasione favorevole. Ma prima che io lo tocchi, lui mi colpisce alla spalla destra.

— È proprio una fatica eccessiva — esclama. — Lou, sei uno schermidore di prim’ordine. Lo avevo già capito al torneo: i novellini non vincono mai e tu hai avuto qualche problema tipico di chi si batte per la prima volta, ma era chiaro che sapevi bene quel che facevi. Hai mai considerato l’idea di dedicarti alla scherma classica?

— No — dico. — Io conosco solo Tom e Lucia…

— Dovresti pensarci su. Tom e Lucia sono istruttori migliori di tanti schermidori da cortile… — Simon sorride a Tom che fa una smorfia. — Ma alcune tecniche classiche potrebbero migliorare il tuo lavoro di gambe. Quest’ultima volta ti ho colpito non perché sono stato più veloce di te, ma perché sapevo esattamente dove mettere il piede per ottenere la massima estensione con la minima esposizione. — Simon si toglie la maschera, appende la spada alla rastrelliera esterna e mi tende la mano. — Grazie, Lou, è stato un bell’incontro. Quando avrò ripreso fiato, forse potremo batterci ancora.

— Grazie — dico io, e gli stringo la mano. La stretta di Simon è più ferma di quella di Tom. Sono anch’io a corto di fiato. Appendo la mia spada, metto la maschera sotto una sedia e mi siedo. Mi chiedo se sono risultato simpatico a Simon o se lui farà come Don e mi prenderà in antipatia in seguito. Mi chiedo se Tom gli ha detto che sono autistico.

16

— Mi dispiace — dice Lucia. È uscita con la sua attrezzatura e siede accanto a me, alla mia destra. — Non avrei dovuto fare quella specie di scenata.

— Io non me la sono presa — dico. Ed è vero, perché adesso so che lei ha capito che era sbagliata e non la ripeterà.

— Bene. Senti… io so che ti piace Marjory e che tu piaci a lei. Non lasciare che questo pasticcio con Don rovini tutto, capito?

— Io non so se piaccio a Marjory in modo speciale — dico. — Don ha detto di sì, ma lei non ha mai detto nulla.

— Lo so. È difficile. Le persone adulte non hanno la mancanza d’inibizioni dei bambini, e in questo modo si creano un sacco di complicazioni.

Marjory esce dalla casa tirando su la lampo del giubbotto da scherma. Sorride a me o a Lucia… non sono sicuro della destinazione… quando la lampo s’inceppa. — Ho mangiato troppe frittelle — si giustifica — o mi sto muovendo troppo poco o cose del genere.

— Qui… — Lucia tende la mano e Marjory si avvicina, così Lucia può liberare la lampo e farla scorrere. Io non sapevo che tendere la mano fosse un segnale per offrire aiuto, pensavo piuttosto che fosse un segnale per chiederlo. Forse sarà l’associazione con la parola "qui".

— Vuoi batterti, Lou? — mi chiede Marjory.

— Sì — dico sentendomi arrossire. Metto la maschera e prendo la spada. — Vuoi che usiamo spada e daga?

— Certo — risponde lei. Indossa la sua maschera e non posso più vedere il suo viso, solo il luccicare dei suoi occhi e dei suoi denti quando parla. Vedo però la sagoma del suo corpo sotto il giubbotto da scherma e mi piacerebbe toccarla, ma so che non è appropriato. Lo sarebbe solo se lei fosse la mia ragazza.

Marjory saluta. Ha uno schema di attacco più semplice di quello di Tom e potrei colpire subito, ma poi l’incontro finirebbe troppo presto. Io paro, vado a fondo, paro di nuovo. Quando le nostre lame si toccano, io posso sentire la sua mano attraverso quel contatto; ci stiamo toccando senza toccarci. Marjory mi aggira, si muove avanti e indietro e io seguo i suoi movimenti. È come una specie di danza, una configurazione di movimenti, eccetto che non c’è musica. Percorro con la mente la musica che conosco, cercando di trovarne una adatta a questa danza. Mi fa una strana impressione cercare di accordare il mio schema a quello di Marjory, non per vincere ma per sentire quel contatto, il tocco delle lame l’una contro l’altra.

Paganini: il Primo concerto per violino in Re maggiore opera 6, terzo movimento. Non è proprio perfettamente adatto, ma è l’accompagnamento migliore di qualsiasi altro mi riesca di ricordare: è maestoso ma veloce, con piccole pause quando Marjory non tiene un ritmo esatto cambiando direzione. Nella mia mente accelero o rallento la musica perché coincida con i nostri movimenti.

Mi chiedo cosa senta Marjory. Mi chiedo se può sentire la musica che sento io. Se ambedue stessimo pensando alla stessa musica, la sentiremmo tutt’e due nello stesso modo? Saremmo in accordo o no? Io sento i suoni come colori su uno sfondo scuro; lei forse potrebbe sentirli come linee scure su fondo bianco, come è stampata la musica.

Il tocco di Marjory spezza la catena dei miei pensieri. — Toccato! — dico, e faccio un passo indietro. Lei annuisce e di nuovo eseguiamo il saluto.

Lessi qualcosa una volta dove il pensiero veniva descritto come luce e il non pensiero come buio. Io sto pensando ad altro mentre ci battiamo, così Marjory ha segnato un punto prima di me. Quindi, se lei non sta pensando ad altre cose, forse questo non pensiero l’ha resa più veloce, ed è quel buio più veloce della luce del mio pensiero?

Il violino si solleva in una configurazione a spirale, lo schema di Marjory s’interrompe e io passo all’attacco nella danza, che ora è un mio assolo, e colpisco.

— Toccata — dice lei, e si trae indietro. Il suo respiro affannoso solleva e abbassa il giubbetto. — Mi hai stancata parecchio, Lou. È stato un incontro lungo.

— Ricominci con me? — chiede Simon. Io vorrei stare di più con Marjory, ma prima ho avuto piacere nel battermi con Simon e desidero rifarlo.

Questa volta la musica comincia alle nostre prime mosse, una musica diversa, la Carmen Fantasia di Sarasate… perfetta per l’agilità felina di Simon che mi gira intorno in cerca di un’apertura, e per la mia assoluta concentrazione. Non avevo mai pensato di poter danzare prima… era una cerimonia sociale e io mi sentivo sempre impacciato e goffo. Adesso, con una lama in mano, mi sento del tutto a mio agio a muovermi a tempo di musica.

Simon è molto più bravo di me, ma ciò non mi disturba. Sono impaziente di vedere cosa potrà fare e cosa potrò fare io. Mi tocca una volta, poi un’altra, poi sono io a toccarlo. — Chi segna di più fino a cinque? — chiede. Annuisco, sono a corto di fiato. Per un poco nessuno di noi due segna un punto, finché io non lo tocco di nuovo, più per fortuna che per abilità. Ora siamo pari. Gli altri ci guardano in silenzio: posso sentire il loro interesse come un gradevole calore sulle mie spalle mentre mi batto. Avanti, di lato, intorno, indietro. Simon conosce ogni mio attacco e vi contrappone i suoi, che io riesco appena a parare. Finalmente lui fa qualcosa che non vedo neppure… la sua lama ricompare a sorpresa proprio mentre io ero sicuro di averla respinta con una parata. Ultimo colpo dell’incontro.

Sono grondante di sudore, benché sia una serata molto fresca. Sono certo di emanarne l’odore e rimango sorpreso quando Marjory mi si avvicina e mi tocca un braccio.

— È stato splendido, Lou! — dice. Mi tolgo la maschera. I suoi occhi scintillano, il suo viso è tutto illuminato dal sorriso.

— Sto sudando — dico.

— Lo credo, dopo un incontro simile — commenta lei. — Che meraviglia! Non sapevo che potessi batterti così.

— Non lo sapevo neanch’io — dico.

— E adesso che lo sappiamo tutti — dice Tom — dobbiamo farti partecipare a più tornei. Tu cosa ne pensi, Simon?

— Lou è più che pronto. I più abili schermidori dello stato possono essere in grado di vincerlo, ma una volta che lui si sarà abituato a superare il nervosismo da torneo darà anche a loro filo da torcere.

— Allora, ti piacerebbe venire con noi a un altro torneo, Lou? — chiede Tom.

Mi sento gelare. Credo che loro pensino di far qualcosa di buono per me, ma io ricordo che Don si era arrabbiato con me proprio a causa del torneo. E se poi qualcuno dovesse arrabbiarsi con me a ogni torneo e per causa mia finisse per farsi mettere un chip PDD? Di quanti guai potrei essere la causa?

— Occupano tutta la giornata di sabato — dico.

— Sì, e certe volte anche tutta la domenica — dice Lucia. — Per te è un problema?

— Io… io vado in chiesa la domenica — dico.

Marjory mi guarda. — Non sapevo che tu andassi in chiesa, Lou — dice. — Be’, potresti partecipare solo di sabato… o ci sono problemi anche con i sabati?

Non ho alcuna risposta pronta. Non credo che capirebbero se parlassi loro di Don. Mi stanno guardando tutti e io mi sento confuso. Non desidero che vadano in collera con me.

— Il prossimo torneo nelle vicinanze ci sarà dopo il Rendimento di Grazie — annuncia Simon. — Non c’è bisogno di prendere una decisione questa sera. — Mi guarda con espressione bizzarra. — Ti preoccupa il fatto che qualcuno possa di nuovo non accusare i colpi, Lou?

— No… — Sento che la gola mi si chiude e abbasso le palpebre per calmarmi. — Si tratta di Don — dico. — Lui andò in collera al torneo. Fu per quello, credo, che lui… finì per deprimersi tanto. Io non voglio che questo avvenga a qualcun altro.

— Non fu per colpa tua — dice Lucia, ma pare irritata. È questo che succede, penso: la gente si irrita per causa mia, anche se non si irrita con me. Non c’è bisogno che sia colpa mia perché io sia motivo di collera.

— Capisco cosa vuoi dire — dice Marjory. — Tu non vuoi causare fastidi, vero?

— Sì.

— E non puoi essere sicuro che nessuno si arrabbierà con te.

— Sì.

— Ma… Lou… le persone si arrabbiano con altre persone anche senza ragione. Don era arrabbiato anche con Tom. Altra gente può essere arrabbiata con Simon; io so che c’è stato chi si è arrabbiato con me. Sono cose che succedono. Purché una persona sia certa di non far nulla di male, non può stare a preoccuparsi continuamente che qualcuno possa arrabbiarsi con lei.

— Forse la cosa non ti dispiace quanto a me — dico.

Lei mi lancia un’occhiata che, ne sono certo, significa qualcosa ma non so quale. Lo saprei se fossi normale? Come fanno le persone normali a imparare cosa significano quelle occhiate?

— Forse no — dice lei. — Io avevo l’abitudine di pensare che fosse sempre colpa mia e me ne affliggevo di più. Ma questo è… — S’interrompe e capisco che sta cercando un modo di esprimersi educato. Lo so perché spesso mi è capitato di parlare lentamente mentre cerco un modo educato di esprimermi. — È difficile stabilire quanto ci si deve affliggere per cose del genere — conclude.

— Già — dico io.

— Il vero problema sono le persone che credono che tutto sia colpa degli altri — dice Lucia. — Quelli che biasimano gli altri per le loro mancanze, e ci si arrabbiano.

— Certe volte però l’irritazione è giustificata — commenta Marjory. — Non dico nel caso di Don e Lou. Lou non ha fatto niente di male. Era tutta colpa della gelosia di Don. Ma io vedo cosa sta a cuore a Lou: lui non vuole essere causa di guai per nessuno.

— Oh, non lo sarà mai, non è il tipo — dice Lucia lanciandomi a sua volta un’occhiata; un’occhiata diversa da quella che mi ha lanciato Marjory. Neppure questa so cosa significhi.

— Lucia, perché non fai un incontro con Simon? — dice Tom. Lo guardiamo tutti.

Lucia ha la bocca semiaperta. La richiude con fermezza. — Benissimo — dice. — Da tanto tempo non ne facciamo. Che ne dici, Simon?

— Piacere mio — dice lui sorridendo.

Guardo Lucia e Simon. Lui è più bravo di lei, ma non sta segnando tutti i punti che potrebbe. È evidente che si sta battendo con una competenza adattata al livello di quella di Lucia, non facendo uso di tutta la sua abilità. È gentile da parte sua. Io sono conscio della vicinanza di Marjory, dell’odore delle foglie secche, dell’aria fresca sulla mia nuca. Si sta davvero bene.

Alle nove comincia a far freddo sul serio. Rientriamo tutti e Lucia ci fa una cioccolata calda, la prima di quest’anno. Gli altri stanno parlando; io siedo con la schiena contro un puf di pelle verde e cerco di ascoltare mentre guardo Marjory. Lei usa molto le mani mentre parla. Un paio di volte le sventola in un modo che a me avevano insegnato fosse sintomo di autismo. Ho visto altra gente far questo, e mi sono sempre chiesto se fossero parzialmente autistici.

Adesso stanno parlando di tornei, di chi ha vinto, di chi ha perso, di chi era l’arbitro e di come la gente si comportava. Non riesco a registrare i nomi, non conosco quella gente. Il mio sguardo passa da Marjory a Simon a Tom a Lucia a Max e a Susan, cercando di seguire chi sta parlando e quando, ma non riesco ad anticipare quando uno sta per fermarsi e un altro sta per cominciare, anche perché ogni tanto ci sono delle pause e talvolta qualcuno comincia quando un altro sta ancora parlando.

Gradualmente comincio a notare che tutti s’interrompono quando parla Simon e lasciano a lui l’iniziativa della conversazione. Simon non interrompe quasi mai, ma nessuno interrompe lui. Uno dei miei insegnanti diceva che la persona che parlava indicava la persona che doveva parlare dopo di lei guardandola. A quell’epoca io di solito non potevo notare dove guardasse qualcuno a meno che non vi soffermasse gli occhi a lungo. Adesso invece posso seguire gli sguardi. Simon guarda quasi tutti. Max e Susan guardano sempre prima Simon. Tom guarda Simon la metà del tempo; Lucia circa un terzo del tempo.

Ma tutto succede molto in fretta, e io non capisco come loro possano insieme partecipare alla conversazione e al tempo stesso seguire tutte le interazioni.

Mi rendo conto che Marjory mi guarda e sento un gran calore al viso e al collo. Le voci degli altri si confondono e perdo la concentrazione. Vorrei nascondermi nell’ombra, ma non c’è ombra. Abbasso gli occhi. Cerco di ascoltare la sua voce, però lei non parla molto.

A un certo punto Simon dice che deve andare e si alza. Si alzano anche Tom e Max. Anch’io. Simon stringe la mano a Tom e dice: — Mi sono divertito. Grazie per l’invito.

Tom dice: — Sei sempre il benvenuto.

Max tende la mano e dice: — Grazie per essere venuto, è stato un onore.

Simon gliela stringe e dice: — Anche per me.

Io non so se porgere la mano o no, ma Simon me la porge e io la stringo, benché sia un gesto che non mi piace: è così privo di senso. Poi dice: — Grazie, Lou, sono stato lieto d’incontrarmi con te.

— Anch’io — dico.

Simon mi dà un colpetto al braccio col dito. — Spero che tu cambi idea a proposito dei tornei — dice. — È stato un piacere.

— Grazie — dico io.

Mentre Simon esce, Max dice: — Anch’io devo andare — e Susan si alza. Devo andare anch’io. Li guardo: i loro visi sembrano tutti amichevoli, ma così sembrava anche il viso di Don. Se uno di loro fosse in collera con me, come farei a capirlo?

Giovedì abbiamo avuto la prima riunione informativa con i dottori, e abbiamo potuto rivolgere loro domande. Ci sono due dottori, Ransome con i suoi capelli grigi e ricciuti e Handsel, con capelli neri lisci che sembrano incollati alla sua testa.

— Il trattamento è reversibile? — domanda Linda.

— Be’… no. Gli effetti che produce sono stabili.

— Così se non ci piacessero non potremmo ritornare alla nostra personalità normale?

Le nostre personalità non sono normali, tanto per cominciare, ma io non lo dico. Linda lo sa quanto me: forse stava scherzando.

— Ehm… no, probabilmente. Ma non vedo perché…

— Perché dovremmo volerlo? — dice Cameron. Ha il viso teso. — A me piace come sono adesso. Non so se mi piacerà quello che diventerò.

— Non dovrebbe essere molto diverso — spiega Ransome.

Ma ogni differenza è una differenza. Io non sono la stessa persona che ero prima che Don cominciasse a perseguitarmi. Non solo ciò che lui ha fatto, ma i miei incontri con gli agenti di polizia mi hanno cambiato. Ho saputo cose che prima non sapevo, e la conoscenza cambia la gente. Alzo una mano.

— Sì, Lou — dice Ransome.

— Non capisco in che modo il trattamento possa non cambiarci — dico. — Se renderà normali le nostre elaborazioni sensoriali, cambierà la quantità e la qualità degli stimoli registrati e cambierà le nostre percezioni e il nostro modo di elaborarle…

— Sì, ma tu… la tua personalità… rimarrà la stessa, almeno all’incirca. Ti piaceranno le stesse cose, avrai le stesse reazioni…

— E allora il cambiamento a cosa serve? — chiede Linda. — La sua voce suona irritata, ma io so che è più preoccupata che irritata. — Ci dicono che vogliono che noi cambiamo, in modo da non aver bisogno delle misure di sostegno che ci servono ora… ma se non ne avremo più bisogno, ciò significa che le nostre preferenze saranno diverse… o no?

— Io ho impiegato tanto tempo per imparare a sopportare il sovraccarico degli stimoli — dice Dale. — E se poi uno degli effetti del trattamento sarà che non riuscirò a registrare le cose che dovrei? — Il tic all’occhio sinistro è più accentuato che mai.

— Non credo che avverrà nulla di simile — risponde il dottore. — I primatologi hanno constatato solo cambiamenti positivi nell’interazione sociale.

— Io non sono un maledetto scimpanzè! — Dan sbatte la mano sul tavolo.

Il dottore sembra sbigottito. Ma perché dovrebbe sorprendersi per il fatto che Dale sia rimasto urtato? A lui piacerebbe se presumessero il suo comportamento basandosi sugli studi dei primatologi circa gli scimpanzè? O forse le persone normali fanno proprio questo, vedono se stesse come somiglianti agli altri primati? Non posso crederlo.

— Nessuno sta insinuando che tu lo sia — dice il dottore in tono di leggera disapprovazione. — C’è solo il fatto che… loro sono il miglior modello che abbiamo. E dopo il trattamento hanno dimostrato di avere personalità riconoscibili, con cambiamenti solo nelle deficienze sociali…

Una diapositiva si accende sullo schermo. — Questo è lo schema della normale attività del cervello quando sceglie una faccia conosciuta su una foto di diverse facce — spiega. Si vede il profilo grigio di un cervello con piccole macchie verdi scintillanti. Grazie alle mie letture, riconosco alcune delle localizzazioni… no, riconosco la diapositiva. È l’illustrazione 16.43.d, dal capitolo 16 Funzioni del cervello. - E questo… — La diapositiva cambia. — Questo è lo schema di attività di un cervello autistico durante il medesimo compito. — Altro profilo grigio con piccole macchie verdi scintillanti. Illustrazione 16.43.c dallo stesso capitolo.

Cerco di ricordare le didascalie del libro. Non credo che il testo dicesse che la prima diapositiva raffigurava la normale attività del cervello quando si sceglie un volto conosciuto in una foto di gruppo. Credo si trattasse invece della normale attività del cervello quando vede un volto noto. Un composito di… ecco, ora ricordo. Nove volontari maschi e sani scelti tra studenti universitari secondo un protocollo approvato dal comitato di ricerca…

È già comparsa un’altra diapositiva. Altro profilo grigio, altre macchie scintillanti, questa volta azzurre. La voce del dottore continua a ronzare. Anche questa illustrazione la riconosco. Cerco di ricordare quel che diceva il libro e insieme di ascoltare il dottore, ma non ci riesco.

Alzo la mano. Il dottore s’interrompe e domanda: — Sì, Lou?

— Non potremmo avere una copia di queste illustrazioni, per riesaminare tutto più tardi? Sono cose difficili da afferrare tutte in una volta.

Lui si acciglia. — Non credo sia una buona idea, Lou. La ricerca è brevettata e quindi molto confidenziale. Se vuoi saperne di più, puoi chiedere a me o al tuo consulente ciò che vuoi e guardare ancora le diapositive, benché non credo possano dirti molto… — fa un risolino — visto che non sei un neurologo.

— Ho letto qualcosa in materia — dico.

— Davvero? — La sua voce si fa strascicata. — Cos’hai letto, Lou?

— Alcuni libri. — All’improvviso non voglio dirgli quale libro sto leggendo, e non so perché.

— Sul cervello?

— Sì… volevo capire come funzionava prima che voi lo cambiaste con il trattamento.

— E… lo hai capito?

— È molto complicato — dico. — Come il calcolo in parallelo, solo anche peggio.

— Hai ragione, è molto complicato — dice. Pare soddisfatto. Penso sia contento che io non abbia detto di aver capito. Mi chiedo cosa direbbe se sapesse che ho riconosciuto quelle illustrazioni.

Cameron e Dale mi guardano. Anche Bailey mi lancia un’occhiata. Vorrebbero sapere cosa so. Ma il fatto è che nemmeno io so ancora bene cosa so… e cosa può significare nel presente contesto.

Smetto di pensare al libro e ascolto, cercando di memorizzare le diapositive che vanno e vengono. Certo non afferro tutto, ma credo di riuscire a registrare abbastanza dati da poterli confrontare con il libro più tardi.

Infine sulle diapositive cominciano a comparire non più profili di cervelli ma molecole. Non le riconosco, non compaiono nel testo di chimica organica; però riconosco un gruppo ossidrile qua e un gruppo amminico là.

— Questo enzima regola l’espressione genica del fattore undici della crescita neurale — dice il dottore. — Nei cervelli normali è parte di un ciclo di feedback che interagisce con i meccanismi di controllo dell’attenzione, in modo da creare un’elaborazione preferenziale di segnali socialmente importanti… questa è una delle cose che a voi autistici creano problemi.

Ha rinunciato a far finta che siamo qualcosa di diverso da casi clinici.

— Fa parte del trattamento per neonati autistici e per altri casi di sviluppo cerebrale difettoso. Il nuovo trattamento vi ha introdotto delle modifiche in modo che possa influire sulla crescita neurale di un cervello adulto.

— Così che noi possiamo fare attenzione alla gente? — chiede Linda.

— No, no… noi sappiamo che questo già lo fate. Non siamo certo come quegli idioti della metà del Ventesimo secolo che credevano che gli autistici ignorassero l’altra gente. No, vi aiuterà a badare ai segnali sociali: espressioni del viso, variazione nei toni di voce, sfumature gestuali, questo genere di cose.

— Ma le persone non devono venire addestrate… come si fa con i ciechi… a interpretare i nuovi dati?

— Naturalmente. Ecco perché il trattamento comprende anche una fase di addestramento. Incontri sociali simulati usando volti generati dal computer… — Altra diapositiva, questa volta rappresentante un gruppo di persone sedute in circolo; una parla e le altre ascoltano con attenzione. Poi un negozio di abbigliamento con qualcuno intento a parlare con una commessa. Poi un ufficio affaccendato con qualcuno che parla al telefono. Tutto ha un’aria molto normale e molto noiosa. Il dottore non mostra alcuna diapositiva di persone che partecipino a un torneo di scherma o che stiano parlando alla polizia dopo aver subito un’aggressione in un parcheggio. L’unica diapositiva con un poliziotto raffigura un agente con un sorriso fisso sulla faccia che indica qualcosa col braccio a un’altra persona con un buffo cappello e uno zaino e in mano un libro dal titolo Guida turistica.

Sono scene artificiose, tutte, e i personaggi hanno proprio l’aria di essere stati generati dal computer. Noi dunque dovremmo diventare persone normali e autentiche e loro si aspettano che impariamo a diventarlo da queste figure irreali, immaginarie, poste in situazioni artificiose, studiate. Il dottore e i suoi soci presumono di sapere in quali evenienze ci troveremo e quali problemi dovremo affrontare e quindi c’insegneranno a reagire nelle circostanze immaginate da loro. Non sanno, il dottore e i suoi soci, che io avrei avuto bisogno d’imparare a trattare con un avversario che al torneo si rifiutava di riconoscere i colpi ricevuti e con un rivale geloso che mi minacciava e voleva farmi del male, e con vari agenti di polizia che ricevevano denunce di vandalismi e attentati.

Do un’occhiata all’orologio. La seconda parte della seduta sta per concludersi e sono passate quasi due ore. Il dottore chiede se abbiamo domande da fare. Io abbasso gli occhi. Le domande che vorrei fare non sono appropriate a una riunione come questa, e poi comunque non credo che lui mi risponderebbe.

— Quando pensate di cominciare il trattamento? — chiede Cameron.

— Vorremmo cominciare col primo soggetto… chiedo scusa, paziente… il più presto possibile. Tutto potrebbe esser pronto per la settimana prossima.

— Quanti ne trattereste insieme? — domanda Bailey.

— Due. Vorremmo trattarne due alla volta con una distanza di tre giorni tra i gruppi. Così l’equipe medica primaria potrebbe concentrarsi esclusivamente sui suoi pazienti durante i primi giorni più critici.

— E se invece aspettaste che i primi due completassero il trattamento per vedere se funziona? — chiede Bailey.

Il dottore scuote la testa. — No, è meglio trattare l’intero gruppo entro un tempo relativamente breve.

— Si può arrivare alla pubblicazione più presto — mi ascolto dire.

— Come? — domanda il dottore.

Gli altri mi stanno guardando. Io abbasso gli occhi.

— Se noi ci sottoponiamo al trattamento subito e tutti insieme, voi potrete descriverlo e far pubblicare le vostre relazioni più in fretta. Altrimenti ci vorrebbe un anno e più. — Guardo brevemente il dottore in viso. Ha le guance rosse e lucide.

— Non è questo il motivo — dice a voce un po’ troppo alta. — È solo che i dati sono confrontabili più agevolmente se i soggetti sono separati da un piccolo spazio di tempo. Voglio dire, supponiamo che accada qualcosa che cambi la situazione tra il periodo d’inizio e fine del trattamento ai primi due… qualcosa che riguardi il resto di voi…

— Quale cosa, un fulmine a ciel sereno che ci renda normali? — domanda Dale. — Temete che noi ci ammaliamo di normalità galoppante così da diventare soggetti inadatti al trattamento?

— No, no — dice il dottore. — Pensavo più a cambiamenti di politica…

Mi chiedo quali siano le idee del governo in proposito. Ma i governi pensano? Sta forse per succedere qualcosa, qualche nuovo regolamento o mutamento di orientamenti politici, che possa rendere impossibile questa ricerca entro pochi mesi?

Su questo punto posso informarmi quando tornerò a casa. Se ne domandassi a quest’uomo, non credo che mi darebbe una risposta onesta.

Quando usciamo camminiamo fuori tempo gli uni rispetto agli altri. Di solito abbiamo un modo di combaciare, di conformarci alle particolarità reciproche, quando ci muoviamo in gruppo. Adesso ci muoviamo senza armonia. Posso percepire la confusione, la collera. Nessuno parla. Io non parlo. Non voglio parlare con questi che sono stati i miei colleghi più stretti per tanti anni.

Tornati al nostro edificio, ognuno di noi si affretta a dirigersi verso il proprio ufficio. Io siedo e allungo una mano verso il ventilatore. Ma mi fermo e poi mi domando perché mi sono fermato.

Non voglio lavorare. Voglio pensare a ciò che quelli vogliono fare del mio cervello e a quello che veramente significa. Significa più di quanto loro dicano. E ogni cosa che dicono ha significati nascosti.

I testi mi dicono che il mio cervello funziona molto bene, perfino così com’è, e che è assai più facile rovinare le funzioni del cervello che restaurarle. Se le persone normali riescono davvero a fare tutto ciò che si sostiene facciano, sarebbe bello avere le loro stesse capacità; ma io non sono sicuro che le abbiano.

Non sempre riescono a capire perché gli altri fanno ciò che fanno. Questo appare evidente quando discutono delle loro ragioni, delle loro motivazioni. Una volta io sentii una persona dire a un bambino: — Tu fai questo solo per farmi arrabbiare. — E invece era chiaro che il bambino lo stava facendo perché gli piaceva farlo, non si curava per nulla dell’effetto della sua azione sull’adulto. Anche a me è capitato di non curarmi di alcune cose, perciò posso riconoscere questo atteggiamento negli altri.

Il mio telefono squilla. — Lou, sono Cameron. Vuoi venire a cena a mangiare una pizza?

— È giovedì — dico. — Alla pizzeria ci sarà Ciao-Sono-Jean.

— Io, Chuy e Bailey ci andiamo lo stesso, per parlare. Linda non viene. Dale non viene.

— Io non so se desidero venire — dico. — Ci penserò. Quando vorreste andare?

— Alle cinque — dice lui.

— Ci sono posti dove non è bene parlare di questo — dico.

— La pizzeria non è uno di quei posti — dice Cameron.

— Molta gente sa che andiamo lì.

— Sorveglianza? — chiede Cameron.

— Sì. Ma è bene andare lì, perché ci andiamo spesso. Poi c’incontreremo altrove.

— Al Centro.

— No — dico io, pensando a Emmy. — Non voglio andare al Centro.

— Tu piaci a Emmy — dice Cameron. — Lei non è molto intelligente, però le piaci.

— Non stiamo parlando di Emmy — dico.

— Stiamo parlando del trattamento — dice Cameron. — Io non so dove andare eccetto al Centro.

Penso a diversi posti, ma sono tutti pubblici. Non possiamo parlare di questo argomento in posti pubblici. Infine dico: — Potreste venire nel mio appartamento. — Non ho mai invitato Cameron nel mio appartamento… non ci ho mai invitato nessuno.

Lui rimane a lungo in silenzio. Neppure lui mi ha mai invitato a casa sua. Finalmente dice: — Io verrò. Non so cosa faranno gli altri.

— Io verrò a cena con voi — decido.

Non posso lavorare. Accendo il ventilatore e girandole e spirali si mettono in moto, ma i bagliori ammiccanti e luccicanti non mi calmano. Non riesco a pensare ad altro che al trattamento che incombe su di noi. È come l’immagine di un’ondata oceanica che torreggia su qualcuno ritto su una tavola da surf. Il surfista esperto potrà sopravvivere, ma l’inesperto verrà schiacciato. Come faremo a cavalcare quest’onda?

Scrivo e stampo il mio indirizzo e l’itinerario per arrivare a casa mia partendo dalla pizzeria. Guardo sulla mappa della città per essere sicuro di non sbagliare.

Alle cinque spengo il ventilatore, mi alzo ed esco dall’ufficio. Per ore non ho combinato nulla di utile. Mi sento cupo e pesante. Fuori fa freddo e rabbrividisco. Entro nella mia macchina, consolato dalle quattro gomme sane, dal parabrezza intatto e dal motore che si accende appena giro la chiave. Ho spedito alla mia compagnia di assicurazione una copia del rapporto della polizia, come mi hanno consigliato.

Alla pizzeria il nostro tavolo abituale è libero; sono arrivato prima degli altri. Siedo. Ciao-Sono-Jean mi lancia un’occhiata e distoglie gli occhi. Un momento dopo arriva Cameron, seguito da Chuy, Bailey ed Eric. La tavola sembra asimmetrica con soli cinque di noi. Chuy sposta la sua sedia verso un’estremità, anche noi ci spostiamo un poco: adesso i posti sono simmetrici.

Vedo la pubblicità della birra con il suo schema di accendi-e-spegni, ma questa sera mi dà fastidio. Guardo altrove. Siamo tutti nervosi. Io devo picchiettare con le dita sulla mia gamba e Chuy gira il collo a destra e a sinistra, a destra e a sinistra. Il braccio di Cameron si muove: sta manipolando il suo dado di plastica nella tasca. Appena abbiamo ordinato, Eric tira fuori la sua penna multicolore e comincia a fare i suoi disegnini.

Vorrei che fossero qui anche Dale e Linda, sembra strano essere senza di loro. Allorché il cibo arriva mangiamo in silenzio. Abbiamo quasi finito quando io mi schiarisco la gola. Tutti mi guardano e poi distolgono gli occhi.

— Talvolta le persone hanno bisogno di un posto dove parlare — dico. — Talvolta si può parlare a casa di qualcuno.

— Si potrebbe parlare in casa tua? — domanda Chuy.

— Si potrebbe — dico.

— Non tutti sanno dove abiti — obietta Cameron. Neppure lui, quanto a questo.

— Qui c’è l’indirizzo e l’itinerario — dico. Tiro fuori di tasca i foglietti preparati e li metto sul tavolo. Uno alla volta, ognuno prende il suo.

— Certe persone devono alzarsi presto — dice Bailey.

— Adesso non è tardi — dico.

— Certe persone dovranno andarsene prima delle altre se le altre si trattengono fino a tardi.

— Lo so — dico.

17

Nel parcheggio del mio palazzo c’è posto per tutte le macchine dei miei visitatori, perché la maggior parte dei residenti non possiede automobili.

Aspetto nel parcheggio fino all’arrivo degli altri, poi li precedo su per le scale. Tutti quei piedi fanno rumore sui gradini; non sapevo che avrebbero fatto tanto rumore. Danny apre la porta.

— Oh… ciao, Lou. Mi chiedevo chi fosse.

— Sono miei amici — dico.

— Bene, bene — annuisce Danny. Non chiude la porta. Io non so cosa voglia. Gli altri mi seguono alla mia porta, io l’apro e li faccio entrare.

È così strano avere altra gente nell’appartamento. Cameron si aggira intorno e infine sparisce nel bagno. Lo posso sentire là dentro. È come quando vivevo in una residenza di gruppo: non mi piaceva molto. Alcune cose dovrebbero essere private: non è piacevole sentire qualcun altro nel bagno. Cameron scarica e io sento l’acqua scorrere nel lavandino; poi lui esce. Chuy mi guarda e io annuisco. Anche lui va nel bagno. Bailey sta guardando il mio computer.

— Io non ne ho uno a casa — dice. — Adopero il palmare per collegarmi con il computer del mio ufficio.

— A me piace avere questo — dico.

Chuy ritorna nel soggiorno. — E adesso?

Cameron mi guarda. — Lou, tu stai leggendo documenti su questo argomento, vero?

— Sì. — Vado a prendere Funzioni del cervello dallo scaffale dove lo ripongo. — Una mia… un’amica mi ha prestato questo libro. Mi ha detto che per cominciare era il migliore.

— È la donna di cui parla Emmy?

— No, un’altra. È medico. È sposata con un uomo che conosco.

— È medico del cervello?

— Non lo so.

— Perché ti ha dato il libro? Le hai chiesto chiarimenti sul trattamento?

— Le ho chiesto un testo sulle funzioni cerebrali. Voglio sapere cosa vogliono fare dei nostri cervelli.

— Chi non ha studiato non sa nulla di come lavora il cervello — dice Bailey.

— Nemmeno io lo sapevo finché non ho cominciato a leggere — mi oppongo. — Solo quello che ci avevano insegnato a scuola, e non era molto. Ma volevo imparare.

— Lo hai fatto? — chiede Cameron.

— Ci vuole molto tempo per imparare tutto ciò che si sa sul cervello — dico. — Adesso io conosco più di quanto sapessi prima, ma non so se ho imparato abbastanza. Vorrei sapere quali effetti loro pensano che il trattamento abbia e per quali eventuali cause possa non funzionare.

— È complicato — dice Chuy.

— Tu sai qualcosa delle funzioni del cervello? — chiedo.

— Non molto. La mia sorella maggiore era medico, prima che morisse. Io cercai di leggere qualcuno dei suoi testi quando lei andava a scuola di medicina. Allora io vivevo a casa con la mia famiglia. Avevo solo quindici anni, però.

— Vorrei sapere se tu credi che loro possano fare ciò che dicono di poter fare — dice Cameron.

— Non lo so — rispondo. — Volevo controllare quel che il dottore stava dicendo oggi. Non sono sicuro che dicesse la verità. Le diapositive che ha mostrato sono come le illustrazioni di questo libro… — Lo mostro. — Lui ha detto che significavano qualcosa di diverso. Questo non è un testo recente, e le cose cambiano. Ho bisogno di trovare nuove illustrazioni.

— Facci vedere le illustrazioni — dice Bailey.

Apro il libro al punto dove si parla delle attività del cervello e lo depongo su un tavolino basso. Tutti guardano. — Qui dice che questa illustrazione mostra l’attività del cervello quando qualcuno vede un viso umano — dico. — Io penso che somigli esattamente alla diapositiva che secondo il dottore mostrava cosa succede quando si vede un viso conosciuto in una folla.

— Infatti è la stessa — dice Bailey dopo un istante.

— Le sagome hanno le stesse proporzioni e le macchie colorate sono agli stessi posti. Se non è la stessa illustrazione, è una copia.

— Forse per i cervelli normali lo schema di attivazione è lo stesso — dice Chuy.

A questo non avevo pensato.

— Lui ha detto che la seconda diapositiva raffigurava un cervello autistico che guardava un viso conosciuto — dice Cameron. — Il libro invece dice che riproduce lo schema di attivazione quando si guarda il fotomontaggio di un viso sconosciuto.

— Non capisco cosa sia un fotomontaggio — domanda Eric.

— È una faccia generata dal computer usando lineamenti di diverse facce reali — gli spiego.

— Se è vero che lo schema di attivazione per cervelli autistici che guardano un viso conosciuto è uguale a quello di cervelli normali che guardano un viso sconosciuto, allora qual è lo schema di attivazione autistico quando si guarda un viso ignoto? — chiede Bailey.

— Io ho avuto sempre dei problemi a riconoscere gente che si supponeva conoscessi — dice Chuy. — Mi ci vuole sempre più tempo degli altri per familiarizzarmi con i visi della gente.

— Sì, però lo fai — dice Bailey. — Tu riconosci tutti noi, no?

— Sì — dice Chuy. — Ma mi ci è voluto molto tempo, e prima vi riconoscevo dalla voce, dalla taglia eccetera.

— Il punto è che adesso ci riconosci, e questo è l’importante. Anche se il tuo cervello riconosce in modo diverso, almeno lo fa.

— Una volta mi dissero che il cervello può aprirsi diverse strade per fare la stessa cosa — dice Cameron.

— Come quando qualcuno ha un incidente e rimane disabile, e allora gli danno quel farmaco che non ricordo e lo fanno addestrare, e lui può imparare di nuovo a fare quel che faceva prima, ma usando un’altra parte del cervello.

— Questo lo dissero anche a me — dico. — Io chiesi perché non dessero quel farmaco anche a me, ma mi risposero che con me non avrebbe funzionato. Però non mi spiegarono perché.

— E questo libro lo spiega? — chiede Cameron.

— Non lo so. Ancora non l’ho letto tutto — dico.

— È difficile? — domanda Bailey.

— In alcuni punti sì, ma non tanto quanto credevo io — rispondo. — Però ho cominciato leggendo prima altre cose. Questo mi ha aiutato.

— Quali? — chiede Eric.

— Alcuni dei corsi che tengono su Internet — spiego. — Biologia, anatomia, chimica organica, biochimica. — Lui mi fissa, io abbasso gli occhi. — Non sono difficili come sembrano.

Nessuno dice parola per diversi minuti. Io sento il loro respiro e loro possono sentire il mio.

— Io mi sottoporrò al trattamento — dice all’improvviso Cameron. — Voglio farlo.

— Perché? — domanda Bailey.

— Voglio essere normale — dice Cameron. — L’ho sempre desiderato. Odio essere diverso. È troppo difficile, ed è troppo difficile fingere di essere come gli altri quando non lo si è. Ne sono stanco.

— Ma non sei orgoglioso di ciò che sei? — Il tono di Bailey rende chiaro che sta citando lo slogan del Centro: "Noi siamo orgogliosi di ciò che siamo".

— No — dice Cameron. — Fingevo di esserlo. Ma in verità… cosa siamo da doverne essere orgogliosi? Io desidero non dover sforzarmi sempre così duramente di apparire normale. Voglio essere normale e basta.

— Essere normale ti sembra tanto una gran cosa?

— Essere normale è essere come gli altri. — Il braccio di Cameron sobbalza e lui fa spallucce con violenza: a volte questo lo ferma. — Questo… questo stupido braccio… Sono stanco di doverlo sempre nascondere. — La sua voce si è alzata di molto, e io mi chiedo se s’irriterà di più in caso gli chiedessi di abbassarla. — Comunque io mi sottoporrò al trattamento e voi non potete impedirmelo.

— Io non sto cercando d’impedirtelo — dico.

— Linda non lo farà — annunciò Bailey. — Dice che lascerà il lavoro.

— Io non capisco perché gli schemi devono essere gli stessi — dice Eric, che sta guardando il libro. — Non è sensato.

— Cosa non lo è?

— Che gli schemi di attivazione dei cervelli normali per i visi sconosciuti siano uguali a quelli dei cervelli autistici per i visi conosciuti.

— Le persone normali prestano più attenzione alle facce — dice Chuy.

— Le persone normali si occupano degli altri — dice Cameron. — Ecco perché io voglio essere normale.

— Le persone normali hanno a cuore le persone normali — dice Eric. — E gli autistici hanno a cuore gli autistici.

— Non è proprio vero — ribatte Cameron, e si guarda intorno. — Guardate noi. Eric sta disegnando sagome con le dita, Bailey si sta mordendo le labbra, Lou si sta sforzando talmente di sedere composto che sembra fatto di legno e io agito il mio dado che lo voglia o no. Voi accettate che io agiti il dado che ho in tasca, ma non vi occupate di me. Quando la scorsa primavera ho avuto l’influenza, nessuno di voi mi ha chiamato o mi ha portato da mangiare.

Non dico nulla. Non c’è nulla da dire. Io non ho chiamato e non ho portato cibo perché non sapevo se Cameron voleva che lo facessi. Credo non sia giusto da parte sua lagnarsene ora. Non sono sicuro del resto che le persone normali chiamino sempre e portino sempre cibo quando qualcuno sta male. Guardo gli altri. Nessuno di loro guarda Cameron. A me è simpatico Cameron, sono abituato a lui. Che differenza c’è tra avere simpatia per qualcuno ed essere abituati a lui? Non lo so con chiarezza, e questo non mi piace.

— Neppure tu ti occupi di noi — obietta infine Eric. — È più di un anno che non ti fai vedere alle riunioni del Centro.

— Già, è vero — ammette Cameron. — Continuo a vedere… non so come esprimermi… quelli più anziani, quelli che sono peggio di noi. I giovani no: adesso li curano tutti appena nascono o prima. Quando avevo vent’anni era diverso. Ma adesso… noi siamo gli unici del nostro genere. Gli autistici più anziani, quelli che non hanno avuto neppure l’addestramento che abbiamo avuto noi… non mi piace vedermeli intorno. Mi incutono la paura di tornare indietro, di diventare come loro. E non abbiamo più nessuno da aiutare, perché autistici giovani non ce ne sono più.

— Tony — dice Bailey guardandosi le ginocchia.

— Sì, Tony. Lui è il più giovane e ha… quanto, ventisette anni? È l’unico sotto i trenta. Tutti gli altri più giovani al Centro sono… diversi.

— A Emmy piace Lou — dice Eric. Io lo guardo. Non so cosa voglia dire.

— Se fossi normale, non dovrei più andare dallo psichiatra — dice Cameron. Penso alla dottoressa Fornum e mi dico che non vederla più è quasi una ragione sufficiente per sottoporsi al trattamento. — Potrei sposarmi senza certificato di stabilità. Avere bambini.

— Tu vuoi sposarti — dice Bailey.

— Sì — annuisce Cameron. La sua voce è alta di nuovo, ma non più tanto alta, e il suo viso è rosso. — Voglio sposarmi. Voglio avere bambini. Voglio abitare in una casa normale in un quartiere normale e viaggiare sui trasporti pubblici e vivere il resto della mia vita come una persona normale.

— Anche se non sarai più la stessa persona? — chiede Eric.

— Certo che sarò la stessa persona — si oppone Cameron. — Però sarò normale.

Io non sono sicuro che questo sia possibile. Quando penso ai vari modi in cui io non sono normale, non riesco a immaginare di essere normale e di rimanere la stessa persona. L’essenza di questo trattamento è di cambiarci, di renderci altri da noi, e certo ciò coinvolge anche la personalità, il sé.

— Lo farò da solo se non vorrà farlo nessun altro — insiste Cameron.

— La decisione è tua — dice Chuy.

— Sì — mormora Cameron — sì.

— Mi mancherai — dice Bailey.

— Puoi venire anche tu — propone Cameron.

— No. Non ancora, comunque. Voglio saperne di più.

— Ora vado a casa — dice Cameron. — A loro lo dirò domani. — Si alza e io vedo la sua mano nella tasca che manipola il dado, su e giù, su e giù.

Non ci salutiamo, non ne abbiamo bisogno tra di noi. Cameron esce e chiude piano la porta alle sue spalle. Gli altri mi guardano e poi distolgono gli occhi.

— A certe persone non piace ciò che sono — dice Bailey.

— Certe persone sono diverse da ciò che altre persone credono — dice Chuy.

— Cameron era innamorato di una donna che non era innamorata di lui — dice Eric. — Lei gli disse che tra loro non avrebbe mai funzionato. Successe quando lui era al liceo. — Mi chiedo come fa Eric a saperlo.

— Emmy dice che Lou è innamorato di una donna normale che gli rovinerà la vita — dice Chuy.

— Emmy non sa di cosa parla — protesto. — Emmy dovrebbe occuparsi dei fatti suoi.

— Cameron pensa che quella donna potrebbe amarlo se lui fosse normale? — chiede Bailey.

— Lei ha sposato un altro — spiega Eric. — Cameron pensa che potrebbe innamorarsi di qualcuna che potrebbe ricambiarlo. Credo che questa sia la ragione per cui vuole il trattamento.

— Io non lo farei per una donna — commenta Bailey. — Se lo farò, lo farò per me. — Mi chiedo cosa direbbe se conoscesse Marjory. Se io fossi certo che il trattamento mi facesse amare da Marjory, acconsentirei? Quest’idea mi mette a disagio: l’allontano.

— Io non so che effetto faccia la normalità. Le persone normali non sembrano sempre felici. Forse essere normali è brutto quanto essere autistici. — La testa di Chuy si agita, su e giù, su e giù.

— Io vorrei provare — dice Eric. — Ma vorrei anche poter tornare indietro al mio vecchio io, se la cosa non funzionasse.

— Non si può — dico. — Ricordi ciò che il dottor Ransome ha detto a Linda? Una volta che si sono formate le connessioni tra i neuroni, esse restano formate a meno che un accidente o qualcosa del genere non rompa la connessione.

— È questo ciò che vogliono fare, istituire nuove connessioni?

— E cosa ne sarà di quelle vecchie? — Bailey agita le braccia. — Non succederà qualcosa come quando le cose vanno in collisione? Confusione? Caos?

— Non lo so — dico. Di colpo mi sento inghiottito dalla mia ignoranza, una non-conoscenza così vasta. Da tanta vastità potrebbero sgorgare tante cattive conseguenze. Poi mi torna in mente una foto scattata da un telescopio basato su una stazione spaziale: l’immensa oscurità illuminata dalle stelle. Anche la bellezza, dunque, può scaturire dall’ignoto.

— Io credo che dovrebbero spegnere i circuiti che stanno lavorando adesso, costruire nuovi circuiti e poi attivare questi ultimi. In questo modo solo le connessioni valide dovrebbero lavorare.

— E i ricordi? — domanda Chuy. — Cancellerebbero i ricordi?

— In che modo? — domanda Bailey.

— I ricordi sono immagazzinati nel cervello. Se spengono i circuiti, i ricordi si cancelleranno.

— Forse no. Non ho letto ancora i capitoli sulla memoria — dico io. — Li leggerò tra poco, ci sono quasi arrivato. — Qualche nozione sulla memoria è già stata discussa nel libro, ma ancora non ne capisco abbastanza. — Inoltre, quando uno spegne un computer non si perde tutta la memoria.

— La gente non è conscia durante le operazioni, però non perde la memoria — dice Eric.

— Ma non ricorda l’operazione, e poi ci sono dei farmaci che interferiscono con la formazione dei ricordi — dice Chuy. — E se possono interferire con la formazione dei ricordi, forse possono rimuovere i vecchi ricordi.

— Questa è una cosa che si può cercare on-line — suggerisce Eric. — Lo farò io.

— Rimuovere le connessioni e crearne di nuove è come l’hardware — dice Bailey. — Imparare a usare le connessioni nuove è come il software. È già stato abbastanza difficile imparare il linguaggio la prima volta. Non voglio passare di nuovo per una simile esperienza.

— I bambini normali imparano più in fretta — dice Eric.

— Però impiegano sempre anni — dice Bailey. — A noi parlano di sette-otto settimane di riabilitazione. Questo magari basterà per uno scimpanzè, ma uno scimpanzè non parla.

— Non è che prima non abbiano mai commesso errori — dice Chuy. — Sul conto nostro si credevano ogni sorta di cose sbagliate. Potrebbe essere sbagliata anche questa.

— Adesso si sa di più sulle funzioni cerebrali — li informo. — Ma non si sa tutto.

— Non mi piace far qualcosa senza sapere cosa accadrà — dice Bailey.

Chuy ed Eric non dicono nulla ma sono d’accordo. Anch’io sono d’accordo. È importante conoscere le conseguenze prima di agire. A volte le conseguenze non sono evidenti.

Anche le conseguenze del non agire spesso non sono evidenti. Se io non mi sottoporrò al trattamento, le cose non resteranno le stesse: me lo ha provato Don, con i suoi vandalismi e il suo attentato contro di me. Non importa cosa io faccia, non importa quanto prevedibile io cerchi di rendere la mia vita, essa continuerà a non essere più prevedibile del resto del mondo… che è caotico.

— Ho sete — dice Eric all’improvviso. Si alza. Anch’io mi alzo e vado in cucina. Prendo un bicchiere e lo riempio d’acqua. Lui fa una smorfia nell’assaggiarla: allora ricordo che lui beve acqua minerale. Ma io non ho la marca che preferisce.

— Ho sete anch’io — dice Chuy. Bailey tace.

— Vuoi acqua? — chiedo. — È tutto ciò che ho, a parte una bottiglia di succo di frutta. — Spero che non mi chieda succo di frutta, è quello che preferisco per colazione.

— Voglio acqua — dice. Bailey alza una mano. Riempio altri due bicchieri d’acqua e li porto in soggiorno.

Mi sembra tanto strano avere gente nel mio appartamento. Lo spazio sembra più piccolo e l’aria più densa. I colori cambiano a causa dei colori che i miei ospiti indossano e di quelli che sono loro stessi.

Mi chiedo di colpo come sarebbe se io e Marjory vivessimo insieme: che impressione mi farebbe vederla occupare spazio qui in soggiorno, in camera da letto, nel bagno. A me non piaceva la residenza di gruppo dove sono vissuto appena lasciata la mia casa. Il bagno odorava di estranei, anche se lo pulivamo tutti i giorni. E c’erano cinque dentifrici diversi, cinque preferenze diverse per lo shampoo, il sapone e il deodorante.

— Lou, stai bene? — Bailey sembra preoccupato.

— Stavo pensando a… qualcosa — dico. Non voglio pensare che potrebbe non piacermi Marjory nel mio appartamento, che forse me lo renderebbe sgradevole, che potrebbe sembrarmi affollato o rumoroso o puzzolente.

Cameron non è al lavoro. È dove gli hanno detto di andare per dare inizio al trattamento. Linda non è al lavoro. Io non so dove sia. Vorrei piuttosto preoccuparmi di dove Linda può essere che pensare a quanto sta accadendo a Cameron. Conosco Cameron com’è adesso… com’era due giorni fa. Riconoscerò la persona col viso di Cameron che emergerà dal trattamento?

Oggi ci dicono qualcosa di più sulla procedura.

— Le ecotomografie di base ci permettono di mappare le vostre funzioni cerebrali individuali — spiega il dottore. — Vi assegneremo cose da fare durante l’esame per identificare in che modo il vostro cervello elabora le informazioni. Quando lo confronteremo con quello di un cervello normale, sapremo come modificare il vostro…

— Non tutti i cervelli normali sono uguali — obietto.

— Si somigliano, comunque — dice lui. — Le differenze tra i vostri cervelli e una media tra parecchi cervelli normali sono ciò che desideriamo modificare.

— Quale effetto avrà questo sulla mia intelligenza? — chiedo.

— Non dovrebbe averne nessuno. L’intera nozione di un’intelligenza centrale è stata smentita praticamente del tutto nel secolo scorso, con la scoperta della modularità dell’elaborazione… è questo che rende la generalizzazione così difficile… e siete stati voi autistici che in un certo modo avete provato come si possa essere molto intelligenti in matematica, diciamo, e molto al di sotto della media nel linguaggio espressivo.

"Non dovrebbe averne" non ha lo stesso significato di "non ne avrà". Io non so con precisione quale grado d’intelligenza possiedo, ma so che non sono uno sciocco e non voglio esserlo.

— Se ti preoccupi della tua abilità nell’analisi degli schemi — mi tranquillizza lui — sappi che non è quella la parte del cervello sulla quale influirà il trattamento. Sarà piuttosto un conferire a quella parte del tuo cervello un accesso a dati nuovi, dati socialmente importanti, senza che tu devi sforzarti per acquisirli.

— Come le espressioni facciali — dico.

— Sì, cose del genere. Ricognizione dei visi, espressioni facciali, sfumature dei toni della voce nel linguaggio… e una spintarella nell’area del controllo dell’attenzione, in modo che ti sia più facile notare quei particolari e ti sia piacevole farlo.

— Piacevole? Intendete collegare quel processo ai liberatori interni delle endorfine?

Lui di colpo si fa rosso. — Se vuoi dire che avrai degli orgasmi nel trovarti in mezzo alla gente, assolutamente no. Ma gli autistici non trovano gradevoli le interazioni sociali, e il trattamento le renderà se non altro meno minacciose. — Io non sono bravo nell’interpretare le sfumature tonali della voce, ma so che il dottore non mi sta dicendo tutta la verità.

Se loro possono controllare il livello di piacere che noi possiamo ottenere dall’interazione sociale, allora possono controllare anche il livello di piacere che la gente normale trae da essa. Penso agli insegnanti nelle scuole… se fossero in grado di controllare il piacere che gli allievi traggono dagli altri allievi… facendoli diventare tutti autistici così che preferiscano studiare anziché chiacchierare… Penso al signor Crenshaw, con sezioni piene di lavoratori che ignorano tutto tranne il lavoro.

Mi si annoda lo stomaco e mi sale in bocca un gusto amaro. Se dicessi che percepisco queste possibilità, cosa mi succederebbe? Due mesi fa, mi sarei lasciato sfuggire tutto quanto avevo pensato, tutto quanto mi preoccupava; adesso sono più prudente. Il signor Crenshaw e Don mi hanno insegnato la prudenza.

— Non devi diventare paranoico, Lou — dice il dottore. — Per quelli che si trovano al di fuori delle correnti principali della società è una perpetua tentazione pensare che gli altri complottino contro di loro, ma questo genere di pensieri non è salubre.

Sto zitto. Penso alla dottoressa Fornum, al signor Crenshaw e a Don. A gente come loro non piaccio io e non piacciono quelli come me. A volte persone che non amano me e quelli come me possono cercare di farmi veramente del male. Sarebbe stata paranoia se io fin dal principio avessi sospettato che era stato Don a tagliarmi le gomme? Non credo. Sarebbe stata corretta identificazione di un pericolo.

— Tu devi aver fiducia in noi, Lou, perché il trattamento funzioni. Posso darti qualcosa che ti rilassi…

— Io non sono nervoso — mi oppongo. E non lo sono davvero. Sono contento di me perché ho riflettuto su quello che lui andava dicendo e ne ho scoperto il significato nascosto, benché quel significato recondito mi avverta che lui mi sta manipolando. Se lo so, la manipolazione in un certo modo fallisce. — Sto cercando di capire, ma non sono nervoso.

Lui si tranquillizza. — Vedi, Lou, questo è un argomento molto complicato. E tu sei un uomo intelligente, ma non ti trovi nel tuo campo. Ci vogliono anni di studio per capirlo veramente. Una conferenza affrettata e magari qualche consultazione sui siti Internet non possono farti fare molta strada. Anch’io, se volessi fare quel che fai tu, non combinerei nulla. Quindi, perché non lasci a noi di fare il nostro lavoro come tu fai il tuo?

Perché è il mio cervello e la mia personalità che voi volete cambiare. Perché non mi state dicendo tutta la verità, e io non sono sicuro che abbiate a cuore i miei migliori interessi… o perfino i miei interessi, quanto a questo.

— Quel che io sono è importante per me — dico.

— Vuoi dire che ti piace essere autistico? — Il disprezzo rende un po’ aspra la sua voce: il dottore non può immaginare nessuno che desideri essere come me.

— A me piace essere me — dico. — L’autismo è parte di quello che sono, non è la mia intera personalità. — Spero che questo sia vero, che io sia qualcosa di più che la mia diagnosi.

— Perciò, se ci sbarazziamo dell’autismo, tu sarai la stessa persona, solo non più autistica.

Lui spera che ciò sia vero; può anche darsi che creda di credere che sia vero; ma non crede con ferma fede che sia vero. La paura che non sia vero esala da lui come l’afrore della paura fisica.

Ciò che mi terrorizza di più è che loro potrebbero… e certamente lo vorranno… pasticciare con la mia memoria, non solo con le connessioni correnti. Devono sapere al pari di me che tutta la mia esperienza passata parte da una prospettiva autistica. Cambiare le connessioni non può cambiare questo, ed è questo che ha fatto di me ciò che sono. E se perderò il ricordo di questo, di chi sono, allora avrò perduto tutto ciò per cui ho lavorato e che ho costruito in trentacinque anni di vita. Non voglio perderlo. Non voglio ricordare le cose solo come si ricorda ciò che si è letto nei libri; non voglio che Marjory diventi come un’immagine vista su uno schermo TV. Io voglio conservare i sentimenti che accompagnano i ricordi.

18

La chiesa in cui vado ha una funzione di prima mattina, senza musica, e una funzione alle 10.30 con musica. A me piace arrivare presto e rimanere seduto nel silenzio, guardando la luce entrare dai vetri multicolori delle finestre. Ancora una volta, dunque, oggi siedo nella quiete della chiesa e penso a Don e a Marjory.

Non dovrei pensare a Don e a Marjory, ma a Dio. Fissate la mente su Dio, diceva un sacerdote che veniva qui, e non potrete sbagliarvi. Però è difficile fissare la mente su Dio quando l’immagine scolpita nella mia mente è quella della canna della pistola di Don. La sua estremità era rotonda e nera come un buco nero. Ne sentivo l’attrazione come se il buco, l’apertura, possedesse una massa capace di attirarmi all’interno, nel buio eterno. La morte. Il nulla.

Non so cosa viene dopo la morte. Le Scritture mi dicono una volta una cosa, una volta un’altra. Alcuni sostengono che tutti i giusti saranno salvati e andranno in Cielo e altri dicono che il Cielo è riservato solo agli Eletti. Io non immagino il Cielo come qualcosa che si possa descrivere. Quando cerco di pensarci, come ora, lo vedo come una fantasmagoria di luci, intricata e bellissima, come le foto che gli astronomi prendono con i telescopi spaziali o traggono dalle immagini trasmesse da loro, ogni colore una diversa lunghezza d’onda.

Ma adesso, dopo l’attentato di Don, io vedo il buio, più veloce della luce, che fluisce dalla canna della pistola per attirarmi al suo interno, al di là della luce, per sempre.

Sono vivo, però. Sono nella luce. Il buio questa volta non è stato più veloce. Tuttavia io mi sento inquieto, come se mi stesse dando la caccia avvicinandosi sempre più dietro di me, dove non posso vederlo.

Siedo in fondo alla chiesa, ma dietro di me c’è uno spazio aperto. Di solito non mi disturba, però oggi vorrei che lì ci fosse un muro.

Cerco di concentrarmi sulla luce, sul movimento lento dei raggi colorati che si accorciano e scivolano all’indietro man mano che il sole si alza. In un’ora la luce si muove a una distanza che tutti possono vedere, ma in realtà non è la luce che si muove, è il pianeta. Me ne dimentico e uso il modo di parlare comune proprio come tutti gli altri, e provo un brivido di gioia ogni volta che ricordo che la Terra si muove.

Si muove entrando nella luce e uscendo fuori di essa. È la nostra velocità e non la velocità della luce o del buio che crea i nostri giorni e le nostre notti. Fu la mia velocità o quella di Don a portarci ambedue nel buio dove lui voleva farmi del male? È stata la mia velocità a salvarmi?

Cerco di nuovo di pensare a Dio e la luce indietreggia abbastanza da illuminare la croce di ottone sul suo piedistallo di legno. Il bagliore del metallo giallo contro le ombre viola che gli fanno da sfondo è così meraviglioso che per un istante mi manca il fiato.

In questo luogo la luce è sempre più veloce del buio; la velocità del buio non importa.

— Eccoti qui, Lou!

La voce mi sorprende. Sobbalzo ma riesco a sorridere alla donna dai capelli grigi che mi porge un volantino con il testo della funzione. Di solito mi rendo conto meglio del tempo che passa e della gente che arriva. Anche lei mi sorride.

— Non volevo spaventarti — dice.

— Non importa — la rassicuro. — Stavo solo pensando.

Adesso mi sono riscosso e osservo la gente che arriva. Il vecchio che cammina con due bastoni e siede in prima fila. Soleva venire con sua moglie, ma lei è morta quattro anni fa. Le tre vecchie che vengono sempre insieme e siedono in terza fila a sinistra. La gente continua ad arrivare, a gruppi di due o tre o quattro o a uno a uno. Vedo la testa dell’organista sparire dietro l’organo. Poi comincia la musica.

Mia madre diceva che era sbagliato andare in chiesa solo per la musica, ma questa non è la sola ragione che mi spinge ad andarci. Ci vado per imparare a essere una persona migliore. Però la musica è una delle ragioni per cui frequento questa chiesa. Oggi è ancora il turno di Bach (il nostro organista ama Bach) e la mia mente afferra senza sforzo le molte fila dello schema e le segue nello svolgersi della composizione.

Sentire la musica così, dal vivo, è diverso dal sentire una registrazione. Mi fa sentire più consapevole dello spazio in cui ci troviamo: sento il suono rimbalzare dalle pareti formando armonie che sono peculiari di questo ambiente. Ho sentito Bach anche in altre chiese e la sua musica forma sempre armonie e mai disarmonie. Questo è un grande mistero.

La musica s’interrompe. Sento un mormorio dietro di me: il clero e il coro si stanno mettendo in fila. Apro il libro degli inni e trovo il numero dell’inno che accompagna la processione. L’organo riattacca suonando la prima frase e poi le voci si levano. Io leggo le parole e canto come meglio posso.

Dopo l’inno c’è una preghiera che recitiamo tutti. Ne conosco le parole a memoria, le ho conosciute fin da quando ero piccolo. Un’altra ragione per cui frequento questa chiesa è la prevedibilità e l’ordine delle funzioni. Posso pronunciare le parole note senza inciampo, posso esser pronto a sedere o alzarmi o inginocchiarmi, parlare o cantare o ascoltare senza sentirmi impacciato e goffo. Quando vado in altre chiese mi preoccupo più di fare la cosa giusta al momento giusto che di Dio. Qui la routine mi aiuta ad ascoltare meglio ciò che Dio vuole che io faccia.

A casa leggo le letture in anticipo, sul calendario che la chiesa distribuisce ogni anno. Oggi però, quando si arriva alla lettura del Vangelo, vedo che c’è stato un cambiamento: invece di un passo di Matteo ce n’è uno di Giovanni. Seguo sul volantino il passo che il sacerdote legge a voce alta. È la storia dell’uomo che giaceva presso la piscina di Bethesda, l’uomo che voleva guarire ma non aveva nessuno che lo calasse nella piscina. Gesù gli chiese se davvero voleva esser guarito.

A me era sempre sembrata una domanda sciocca. Perché mai l’uomo avrebbe dovuto sostare presso la piscina se non voleva essere guarito? Perché avrebbe dovuto lamentarsi di non aver nessuno che lo calasse nell’acqua se non voleva essere guarito?

Ma Dio non fa domande sciocche. Quindi la domanda non può essere sciocca, e allora cosa significa?

Il nostro sacerdote comincia la predica. Sto ancora cercando d’indovinare quale significato possa avere una domanda in apparenza sciocca quando la sua voce fa eco ai miei pensieri.

— Perché Gesù chiede all’uomo se vuole esser guarito? Non è un nonsenso? L’uomo giace lì in attesa di una possibilità di guarigione… Certo che vuole esser guarito!

Esatto, penso io.

— Se Dio non sta cercando di farci uno scherzo o dicendo sciocchezze, allora cosa significa quella domanda: "Vuoi essere guarito?". Guardate dove troviamo quell’uomo: accanto a una piscina nota per i suoi poteri curativi, dove "un angelo viene e agita l’acqua di tanto in tanto…" e gli ammalati devono calarsi nell’acqua quando si agita. Dove, in altre parole, gli ammalati sono dei pazienti pazientissimi in attesa che la cura si manifesti. Sanno, perché gliel’hanno detto, che il modo di guarire è calarsi nell’acqua quando questa si agita. Non aspettano altro… Si trovano in quel luogo a quell’ora in cerca non solo di guarigione, ma di una guarigione che si verifichi in quel modo particolare.

"Nel mondo di oggi noi potremmo dire che sono come le persone le quali credono che un certo medico, uno specialista di fama mondiale, possa guarirle dal cancro. Vanno quindi all’ospedale dove quel medico esercita, vogliono essere curate da lui, perché sono sicure che solo così potranno riacquistare la salute.

"Così il paralitico si concentra sulla piscina, sicuro che il solo aiuto di cui ha bisogno sia di essere calato nell’acqua al momento giusto.

"La domanda di Gesù, dunque, stimola l’uomo a considerare se davvero vuole star bene o se vuole la particolare esperienza di entrare nella piscina. Se potesse venir guarito senza di essa, accetterebbe la guarigione?

"Alcuni predicatori hanno discusso questa storia come un esempio di paralisi indotta, paralisi isterica… se l’uomo vuol restare paralizzato, tale resterà. Io invece credo che la domanda posta da Gesù prenda di mira un problema cognitivo, non un problema emotivo. Può l’uomo liberarsi dai paraocchi? Può accettare una guarigione che non è quella che si aspetta? Una guarigione che comincerà dentro di lui e farà più che risanargli le gambe e la schiena, una guarigione che passerà dallo spirito e dalla mente al corpo?"

Mi chiedo cosa direbbe l’uomo se non fosse paralitico ma autistico. Andrebbe anche lui alla piscina per guarire? Cameron lo farebbe. Ma io non credo di aver bisogno di essere guarito, non dall’autismo. Altra gente vuole che io guarisca, non io in persona. Mi chiedo se quell’uomo aveva una famiglia che magari era stanca di portarlo in giro in una lettiga. Mi chiedo se aveva genitori che dicevano: "Il meno che puoi fare è cercare di guarire" o una moglie che diceva: "Su, tenta, male non ti può fare" o bambini scherniti dagli altri bambini perché il loro padre non poteva camminare. Mi chiedo se altre persone che andavano in quella piscina non lo facessero perché loro volevano guarire ma perché la loro gente voleva che guarissero e smettessero di essere dei pesi.

Da quando i miei genitori sono morti io non sono un peso per nessuno. Il signor Crenshaw crede che io sia un peso per la compagnia, ma io so che non è vero. Non sto accanto a una piscina pregando che mi ci calino dentro. Sto piuttosto cercando di evitare che mi ci buttino. Ammesso poi che sia una piscina che porta la guarigione, cosa che non credo.

— … così la domanda che dobbiamo porci oggi è: vogliamo davvero il potere dello Spirito Santo nelle nostre vite o stiamo solo fingendo? — Il sacerdote ha detto molte cose che non ho sentito; ma questa la sento e rabbrividisco.

— Stiamo seduti accanto alla piscina in attesa di un angelo che agiti le acque, in attesa paziente ma passiva, mentre accanto a noi sta Dio pronto a darci la vita eterna se solo desideriamo aprire le mani e i cuori e prendere il suo dono?

"Credo che molti di noi stiano facendo proprio questo. Credo che tutti noi lo facciamo, in un’occasione o in un’altra; ma proprio adesso molti di noi siedono, aspettano e si lamentano perché nessuno li cala nell’acqua quando arriva l’angelo. — Fa una pausa e fa scorrere lo sguardo sulla congregazione. — Guardatevi intorno, ogni giorno, in ogni luogo, guardate negli occhi tutti quelli che incontrate. Perché questa chiesa può essere importante nella vostra vita, ma Dio dovrebbe essere più importante… ed Egli è dovunque, sempre, in tutti e in ciascuno. Chiedetevi: "Voglio essere guarito?" e, se non potete rispondervi di sì, cominciate a chiedervi perché non lo volete. Perché io sono certo che Dio sta accanto a ognuno di voi, rivolgendovi questa domanda nelle profondità dell’anima vostra, pronto a guarirvi se sarete pronti a essere guariti.

Resto a guardare il sacerdote e quasi dimentico di alzarmi in piedi e di recitare il Credo.

Dunque la domanda non era sciocca. Io voglio essere guarito? E da che?

L’unico sé che conosco è questo sé, la persona che sono adesso, lo specialista di bioinformatica autistico, schermidore e innamorato di Marjory.

Cos’avrebbe fatto Gesù se l’uomo gli avesse risposto: "No, non voglio essere guarito, sono contento come sono"? Se avesse risposto: "In me non c’è niente che non va, ma i miei parenti e amici mi hanno costretto a venire"?

Forse, anche in questo caso, Gesù avrebbe continuato a pensare che l’uomo aveva bisogno di alzarsi e di camminare.

Forse Dio pensa che io sarei migliore se non fossi autistico. Forse vuole che io mi sottoponga al trattamento.

Di colpo mi sento gelare. Qui mi sono sentito accettato… accettato da Dio, dal sacerdote e dalla congregazione, almeno per la maggior parte. Dio non respinge il cieco, il sordo, il paralitico, il pazzo. Questo mi hanno insegnato e questo io credo. Ma se mi sbagliassi? E se Dio volesse che io fossi qualcosa di diverso da quello che sono?

Siedo durante il resto della funzione. Per la Comunione non mi alzo, e uno dei diaconi mi chiede se sto bene. Annuisco. Lui non sembra convinto, ma mi lascia in pace. A funzione conclusa aspetto finché non sono usciti tutti e poi esco anch’io. Il sacerdote è ancora fuori dalla porta, sta parlando con un diacono. Mi sorride.

— Salve, Lou. Come stai? — Mi stringe la mano, brevemente perché sa che il gesto non mi è gradito.

— Non so se voglio essere guarito — dico.

Lui assume un’aria preoccupata. — Lou, non stavo parlando per te… per quelli che sono come te. Stavo parlando di guarigione spirituale. Sai che noi ti accettiamo come sei…

— Voi sì — dico — ma Dio?

— Dio ti ama come sei e come diventerai — dice il sacerdote. — Mi dispiace se qualcosa nelle mie parole ti ha ferito…

— Non mi sento ferito — dico. — È solo che non capisco. …

— Vuoi che ne parliamo? — chiede.

— Non adesso — dico. Ancora non so bene cosa penso, perciò non desidero chiedere finché non mi sentirò sicuro.

— Tuttavia, Lou, per favore… non lasciare che nessuna delle cose che ho detto si frapponga fra te e Dio.

— Questo non succederà — lo rassicuro. — È solo che… devo riflettere. — Me ne vado e lui mi lascia andare. Questa è un’altra cosa che mi piace della mia chiesa. Nessuno è invadente, nessuno ti soffoca con la scusa di farti del bene.

Torno indietro e mi avvicino al sacerdote. Lui aspetta che io parli.

— Non so perché lei abbia letto quel passo questa settimana — dico. — Non era nel calendario.

— Ah — fa lui, e sorride appena. — Lo sai che il vangelo di Giovanni non appare mai sul calendario? È come un’arma segreta che noi sacerdoti tiriamo fuori quando pensiamo che la nostra congregazione ne abbia bisogno.

Io lo avevo notato, ma non avevo mai chiesto perché.

— Ho scelto quel passo per oggi, a causa di… Lou, tu sei informato di quanto succede in questa parrocchia?

— No — dico.

— Allora forse non sai che ultimamente si sono uniti a noi molti parrocchiani provenienti da un’altra chiesa, dalla quale si sono allontanati perché c’era stato un grosso litigio.

— Un litigio in chiesa? — Mi sento contrarre lo stomaco. È sbagliatissimo litigare in chiesa.

— Queste persone erano molto irritate e avvilite quando sono venute da noi. Io sapevo che ci sarebbe voluto del tempo perché guarissero da quel trauma — continua il sacerdote. — Ho dato loro tempo. Ma loro sono ancora arrabbiati e continuano a discutere, sia con la gente della loro vecchia chiesa sia con gente della nostra congregazione.

Io cerco di orientarmi nella situazione. — Allora lei ha parlato di voler essere guariti perché loro portano discordia?

— Sì. Dovevo cercare di farglielo capire. Voglio che si rendano conto che insistere sempre nelle solite vecchie dispute non è il modo migliore per lasciare che Dio agisca nelle loro vite e porti loro la guarigione. — Il sacerdote scuote la testa, abbassa gli occhi un momento e poi torna a guardarmi. — Lou, mi sembri ancora un poco turbato. Sei sicuro di non potermi dire perché?

Non desidero parlargli adesso del trattamento, ma è peggio non dire la verità qui in chiesa che in qualunque altro luogo.

— Lei ha detto che Dio ci ama e ci accetta come siamo. Poi però ha detto che la gente dovrebbe cambiare, dovrebbe accettare la guarigione — dico. — Ma se veniamo accettati quali siamo, forse è così che dovremmo essere. Se invece dobbiamo cambiare sarebbe sbagliato essere accettati quali siamo.

Lui annuisce. Non so se questo significhi che approva il mio modo di esporre il problema o se pensa che dovremmo cambiare. — Io davvero non intendevo ferire te quando ho tirato quella freccia, Lou, e me ne dispiace. Ho sempre creduto che tu fossi una persona ben adattata e contenta entro i limiti che Dio ha posto alla tua vita.

— Non credo sia stato Dio — dico. — I miei genitori dicevano che era un incidente. Ma se è stato Dio, allora sarebbe errato cambiare, no?

Il sacerdote pare sorpreso.

Continuo: — Però tutti hanno sempre voluto che io cambiassi quanto e come potevo, che io diventassi il più normale possibile, e se questo è bene, allora non possono credere che i limiti… l’autismo… vengano da Dio. È questo che non riesco a capire. Devo sapere quale delle due ipotesi è la vera.

— Ehm… — Il sacerdote si dondola sui calcagni e per un lungo istante guarda lontano. — Non ho mai considerato la questione da questo punto di vista, Lou. In verità, se si pensa agli handicap come letteralmente mandati da Dio, allora aspettare accanto alla piscina è l’unica risposta sensata. Non si butta via qualcosa che Dio ti ha dato. Ma d’altra parte io sono d’accordo con te. Non riesco a vedere un Dio che vuole che la gente nasca con handicap.

— Quindi io dovrei desiderare di guarirne, anche se non esiste cura?

— Credo che noi dobbiamo volere quel che Dio vuole; solo che la maggior parte delle volte non sappiamo cosa sia — dice lui.

— Lei lo sa — dico.

— Solo in parte. Dio vuole che noi siamo onesti, cortesi, e che ci aiutiamo l’un l’altro. Ma se Dio voglia che cerchiamo qualsiasi benché minima possibilità di cura per i nostri mali… questo non lo so. Forse è giusto farlo solo se la cosa non ostacola il nostro progresso quali figli di Dio, suppongo. Poi ci sono mali che non è umanamente possibile curare, e allora il meglio che possiamo fare è sopportarli. Santo cielo, Lou, mi hai sottoposto un problema davvero difficile! — Mi sorride, ed è un vero sorriso che gli illumina gli occhi e tutta la faccia. — Saresti stato uno studente interessante in seminario.

— Non avrei potuto andarci — dico. — Non posso nemmeno imparare le lingue…

— Non ne sono proprio sicuro — obietta. — Rifletterò molto su quanto mi hai detto, Lou. Se vorrai riparlarne.

Ciò significa che per ora non desidera parlarne oltre. Gli dico — Buon giorno — e me ne vado.

L’autobus è in ritardo, per cui non l’ho perduto. Aspetto all’angolo della strada e ripenso alla predica. Poca gente prende il bus di domenica, così mi trovo un sedile isolato e guardo fuori gli alberi, tutti bronzo e rame nella luce autunnale. Quando ero piccolo le foglie ancora diventavano rosse e oro, ma quegli alberi sono morti e quelli che abbiamo adesso, se cambiano colore, ne assumono uno più spento.

In casa ricomincio a leggere. Vorrei finire Cego e Clinton prima di domani mattina. Sono certo che mi chiameranno per parlarmi del trattamento e chiedermi la mia decisione. Non sono pronto a prendere una decisione.

— Pete — disse una voce che Aldrin non riconobbe. — Sono John Slazik. — La mente di Aldrin diventò di gelo, il suo cuore si fermò e poi cominciò a pulsare violentemente. Era il generale a riposo John Slazik, in quel momento direttore generale della compagnia.

Aldrin ebbe un singulto, quindi ritrovò la voce. — Sì, signor Slazik. — Un istante dopo pensò che forse avrebbe dovuto dire "Sì, generale", ma ormai era tardi.

— Senti mi stavo giusto chiedendo cosa puoi dirmi a proposito del progettino di Gene Crenshaw. — La voce di Slazik era profonda, calda e liquida come un buon brandy e altrettanto potente.

Aldrin poteva sentire il calore diffonderglisi nelle vene. — Sì, signore. — Cercò di mettere ordine nei suoi pensieri. Non si era aspettato una chiamata dal direttore generale in persona. Fece, come meglio poté, una relazione che includeva la ricerca, la sezione degli autistici, la necessità di tagliare le spese, la sua preoccupazione che il piano di Crenshaw potesse avere conseguenze negative sia per la compagnia che per gli impiegati autistici medesimi.

— Vedo — disse Slazik. Aldrin trattenne il fiato. Poi Slazik continuò con la stessa voce calma e strascicata: — Mi dispiace un poco che tu non sia ricorso a me immediatamente. Va bene che sono nuovo da queste parti, però mi piacerebbe davvero molto sapere cosa bolle in pentola prima che la patata bollente mi finisca in faccia.

— Mi dispiace, signore — si scusò Aldrin. — Non lo sapevo. Stavo cercando di lavorare entro la catena di comando…

— Uhm… — Un lungo sospiro. — Be’, capisco il tuo punto di vista, ma il fatto è che a volte capita… di rado ma capita… che uno cerchi di salire un gradino e rimanga col piede in aria, e allora gli conviene sapere quando è il momento di scavalcarli, i gradini. E questo era proprio il momento in cui la cosa sarebbe stata utile… a me.

— Mi dispiace, signore — ripeté Aldrin, col cuore che galoppava.

— Be’, penso che dopo tutto siamo arrivati in tempo — disse Slazik. — Per lo meno la faccenda non è giunta ai media. Mi ha fatto piacere sentire che ti sei preoccupato per il benessere dei tuoi ragazzi almeno come per quello della compagnia. Spero che tu ti renda conto, Pete, che io non permetterei mai nessuna azione illegale o immorale contro i nostri impiegati o i soggetti di ricerca. Sono davvero sorpreso e dispiaciuto che uno dei miei subordinati abbia cercato di fare il fesso in questo modo. — Durante l’ultima frase la voce strascicata s’indurì e assunse il gelo dell’acciaio. Involontariamente Aldrin rabbrividì.

Poi la voce ritornò normale. — Ma questo non è problema tuo. Pete, noi ci troviamo in alto mare con quei tuoi ragazzi. Gli hanno promesso un trattamento e li hanno minacciati di licenziarli, e adesso tu devi salvare la situazione. L’ufficio legale manderà qualcuno a raddrizzare le cose, ma io desidero che tu li prepari.

— Qual è la situazione adesso, signore? — chiese Aldrin.

— È ovvio che il loro posto di lavoro non è in pericolo, se vogliono mantenerlo — disse Slazik. — Qui non si costringe nessuno a fare il volontario; non siamo nell’esercito e questo io lo capisco, anche se qualcun altro non lo capisce. Non dovranno accettare il trattamento per forza. Se però vorranno sottoporvisi, bene. A stipendio intero e senza perdita di anzianità.

Aldrin avrebbe voluto sapere cosa ne sarebbe stato di Crenshaw e di lui stesso, ma non osò.

— Adesso chiamerò Crenshaw per un’intervista — riprese Slazik. — Non parlarne con nessuno, tranne che per rassicurare la tua sezione. Capito?

— Sì, signore.

— Niente pettegolezzi con Shirley della Contabilità o con Bart delle Risorse umane, intesi?

Ad Aldrin mancò il fiato. Quante cose sapeva Slazik? — Sì, signore.

— Dovremo vederci di persona, Pete, quando questa grana sarà risolta.

— Sì, signore.

— Se potrai imparare a sbrigartela un po’ meglio con le complicazioni del sistema, la tua dedizione alla compagnia e al personale… e anche la tua coscienza dei pericoli di certe iniziative per le nostre pubbliche relazioni… potrebbero esserci molto utili. — Slazik riattaccò prima che Aldrin potesse dire qualcosa.

Aldrin tirò un respiro profondo, che gli parve il primo da parecchio tempo. Poi si diresse verso la sezione A.

Non ho più visto Cameron da quando ci ha lasciati la settimana scorsa. Non so quando potrò vederlo ancora. Non mi piace vedere il posto vuoto della sua macchina davanti alla mia. Non mi piace non sapere dov’è e come sta.

I simboli sullo schermo che guardo sono privi di significato, e questa è una cosa che non mi è mai successa. Accendo il ventilatore. Il movimento delle girandole e i bagliori della luce riflessa mi fanno dolere gli occhi. Spengo il ventilatore.

Ho letto un altro libro ieri sera, e vorrei non averlo letto.

Il libro dice che gli autistici tendono a ruminare eccessivamente su questioni filosofiche astratte quasi nello stesso modo in cui lo fanno alcuni psicotici. Facendo riferimento ad altri testi i quali sostengono che gli autistici non hanno un vero senso della propria identità personale, dice che non mancano di autodefinizione, ma che essa è limitata e determinata da regole.

Mi dà un senso di nausea pensare a questo, al chip che metteranno nel cervello di Don e a quanto sta succedendo a Cameron.

Se la mia autodefinizione è limitata e determinata da regole, se non altro è la mia autodefinizione e non quella di qualcun altro. A me piacciono i peperoni sulla pizza e non mi piacciono le acciughe. Se mi costringeranno a cambiare, continueranno a piacermi i peperoni e non le acciughe? E se coloro che mi cambieranno volessero farmi piacere le acciughe… potrebbero farlo?

Il libro sulle funzioni cerebrali dice che le preferenze sono il risultato d’interazioni tra elaborazioni innate degli stimoli e condizionamenti sociali. Se la persona che vuole farmi piacere le acciughe non ha avuto successo con il condizionamento sociale e ha accesso alla mia elaborazione degli stimoli, allora potrebbe rendermi le acciughe gradevoli.

Ricorderò allora che le acciughe non mi piacciono… non mi piacevano?

Il Lou che non ama le acciughe sarà scomparso, e il nuovo Lou che le ama esisterà senza passato. Ma il mio sé è anche il mio passato, e questo include le mìe preferenze a proposito delle acciughe.

Se i miei bisogni verranno soddisfatti, fa differenza di che bisogni si tratterà? C’è differenza tra l’essere una persona che ama le acciughe o una che non le ama? Se ognuno amasse le acciughe o ognuno non le amasse, che differenza farebbe?

Per le acciughe, molta. Se ognuno amasse le acciughe, molte più acciughe morirebbero. Per le persone che vendono acciughe, molta. Se ognuno amasse le acciughe, quelle persone farebbero molti più soldi vendendole. Ma per me, il me che sono ora o il me che potrei diventare, che differenza farebbe? Sarebbe più o meno salubre, più o meno piacevole, più o meno intelligente da parte mia amare le acciughe? Io ho visto altra gente a cui piacciono o non piacciono le acciughe e ho visto che la cosa non incide molto sulla loro personalità. Sotto molti rispetti non importa quali cose piacciano alla gente, quali colori, quali sapori, quale musica.

Chiedermi se desidero essere guarito è come chiedermi se voglio farmi piacere le acciughe. Non riesco a immaginare cosa significherebbe per me amare le acciughe, quale gusto sentirei ad averle in bocca. Gente che ama le acciughe mi dice che hanno un gusto gradevole; gente normale mi dice che essere normale dà una bella sensazione. Ma non possono descrivere quel gusto e quella sensazione in un modo che abbia senso per me.

Ho davvero bisogno di essere guarito? A chi faccio male se non sarò guarito? A me, però solo se mi sentissi a disagio essendo quello che sono, mentre io non mi sento a disagio tranne quando gli altri dicono che non sono uno di loro, che non sono normale. Si suppone che agli autistici non importi ciò che gli altri pensano di loro, ma non è vero. A me importa, e mi ferisce che la gente provi antipatia per me perché sono autistico.

Perfino i fuggiaschi che scappano con null’altro che gli abiti che hanno indosso non perdono i loro ricordi. Possono essere confusi e spaventati, ma hanno sempre se stessi come termine di paragone. Forse non assaggeranno mai più i cibi che amavano, ma possono ricordare quanto erano buoni. Forse non rivedranno mai più la terra che conoscevano, ma possono ricordare di averci vissuto. Possono giudicare se la loro vita è migliore o peggiore paragonandola con le proprie memorie.

Io vorrei sapere se Cameron ricorda il Cameron che era, se pensa che la terra dove ha messo piede è migliore di quella che ha lasciato.

Questo pomeriggio avremo di nuovo una riunione per discutere gli effetti del trattamento. Chiederò chiarimenti su questo.

Guardo l’orologio. Sono le 10.37.18 e finora non ho combinato niente. Ma non voglio portare a termine il progetto al quale sto lavorando. È il progetto di un venditore di acciughe e non il mio.

19

Il signor Aldrin viene nel nostro edificio. Bussa alla mia porta e dice: — Per favore, esci. Voglio parlare a tutti voi nella palestra. — Il mio stomaco si annoda. Lo sento bussare alle altre porte. Escono tutti, Linda e Bailey e Chuy ed Eric e gli altri, e ci dirigiamo verso la palestra con facce contratte dall’inquietudine. La palestra è abbastanza grande da contenerci tutti. Forse vogliono che cominciamo subito il trattamento? A prescindere da quanto possiamo decidere?

— La questione è complicata — inizia il signor Aldrin. — Ci penseranno altri a spiegarvela più dettagliatamente, ma io tengo a dirvi una cosa adesso, subito. — Ha l’aria eccitata e non tanto triste come era pochi giorni fa. — Ricordate quando dissi che pensavo fosse sbagliato da parte loro cercare di costringervi a sottoporvi al trattamento? Quando vi chiamai al telefono?

Lo ricordo, e ricordo anche che lui non fece niente per aiutarci e più tardi ci disse che avremmo dovuto acconsentire per il nostro bene.

— La compagnia ha deciso che il signor Crenshaw non ha agito bene — dice il signor Aldrin. — Perciò vuole sappiate che non ci sono minacce al vostro lavoro, qualunque sia la decisione che prenderete. Potrete rimanere come siete e lavorare qui con le stesse misure di sostegno che avete ora.

Devo chiudere gli occhi: è troppo, non riesco a sopportarlo. Contro il buio delle palpebre si formano sagome multicolori, luccicanti di gioia. Non sarò obbligato a farlo. E se la compagnia ha deciso di rinunciare al trattamento, non dovrò neanche decidere se lo desidero o no.

— E Cameron? — domanda Bailey.

Il signor Aldrin scuote la testa. — Mi dicono che ha già iniziato il trattamento — dice. — Non credo che si possa interrompere a questo punto. Ma verrà risarcito in pieno…

Questa è una grossa sciocchezza. Come si può risarcire qualcuno al quale avete cambiato il cervello?

— Per quanto riguarda il resto di voi — dice il signor Aldrin — se volete sottoporvi al trattamento, la compagnia ve lo fornirà come aveva promesso.

Non era stato promesso, ma minacciato; però non lo dico.

— Non perderete nulla quanto a stipendio e anzianità di servizio durante la durata del trattamento e successiva riabilitazione.

— Quindi sarà volontario? Interamente volontario? — chiede Linda senza alzare gli occhi.

— Interamente, sì.

— Non capisco per quale ragione il signor Crenshaw abbia cambiato parere — dice lei.

— Non è stato proprio lui a cambiare parere — spiega Aldrin. — Altre persone… al di sopra di lui… hanno deciso che il signor Crenshaw ha commesso uno sbaglio.

— Cosa gli accadrà ora? — domanda Dale.

— Non lo so — dice il signor Aldrin. — Io non devo parlare con nessuno di quanto può accadere, e nemmeno lo so, quanto a questo.

Io penso che se il signor Crenshaw continuerà a lavorare per la compagnia troverà un altro modo per procurarci fastidi. Perché se la compagnia può invertire la sua politica fino a questo punto in un senso, con un dirigente diverso potrà invertirla di nuovo nel senso opposto, proprio come un’automobile che può andare in qualsiasi direzione a seconda di chi la guida.

— Al vostro incontro di questo pomeriggio con l’équipe medica assisteranno anche rappresentanti del nostro ufficio legale e del Patrocinio gratuito che è emanazione del vostro Centro — dice il signor Aldrin. — Probabilmente anche qualche altra persona. Tuttavia voi non dovrete prendere alcuna decisione immediata. — Di colpo sorride, un sorriso completo che investe bocca, occhi, guance e fronte. Tutte le linee del suo viso dimostrano che in questo momento lui è davvero contento e rilassato. — Adesso sono tranquillo — dice. — E sono felice per voi.

Questa è un’altra espressione che non ha senso. Nessuno può provare un sentimento al posto della persona che lo prova. Il signor Aldrin non può essere felice per me; sono io che devo essere felice per me, altrimenti il sentimento non può essere reale. A meno che luì non voglia dire che è felice perché pensa che noi saremo contenti di non essere costretti a sottoporci al trattamento; e allora "sono felice per voi" significa "sono felice perché adesso le circostanze sono a vostro favore".

Il cercapersone del signor Aldrin squilla e lui si scusa ed esce. Un momento dopo affaccia la testa alla porta della palestra e dice: — Devo andare. Ci vediamo questo pomeriggio.

La riunione è stata trasferita in una sala più grande. Il signor Aldrin è sulla porta quando arriviamo, e altri uomini e donne ben vestiti sono già nella sala e si aggirano intorno al tavolo. Anche qui ci sono alle pareti pannelli di legno, ma autentico, e una moquette verde sul pavimento. Le sedie sono dello stesso tipo, ma la stoffa delle imbottiture è color oro opaco a disegni verdi simili a piccole margherite. Sul davanti c’è un grande tavolo con gruppi di sedie alle due estremità, e sulla parete di fondo c’è un immenso schermo. Sul tavolo ci sono due pile di cartelle. Una ne contiene cinque e l’altra quante bastano perché ognuno di noi ne abbia una.

Come prima noi ci sediamo e gli altri seguono lentamente il nostro esempio. Il dottor Ransome lo conosco; il dottor Handsel non è qui. C’è invece un altro dottore, una donna piuttosto anziana; porta una targhetta con scritto il suo nome, L. HENDRICKS. È lei a parlare per prima. Ci dice che si chiama Hendricks, che è a capo del gruppo di ricerca e che desidera avere solo soggetti volontari. Poi siede. Si alza un uomo in abito scuro e ci dice che il suo nome è Godfrey Arakeen, avvocato, che fa parte della divisione legale della compagnia e che non dobbiamo preoccuparci di niente.

Io ancora non sono preoccupato.

Parla dei regolamenti governativi circa l’assunzione e il licenziamento di lavoratori handicappati. Io non sapevo che la compagnia ricevesse delle agevolazioni fiscali per averci dato lavoro; l’avvocato fa sembrare che il nostro valore per la compagnia risieda proprio nelle facilitazioni di cui siamo fonte piuttosto che nel nostro lavoro. Dice che il signor Crenshaw avrebbe dovuto informarci del nostro diritto a parlare con il difensore civico della compagnia. Si alza un altro uomo e Arakeen lo presenta: si chiama signor Vanagli, e lui ci dice che se abbiamo una qualunque noia sul lavoro dobbiamo andare a parlarne con lui.

Ha gli occhi più vicini al naso di quelli di Arakeen, e il disegno della sua cravatta è orribile: losanghe azzurre e oro disposte come gradini che salgono e scendono. Non credo che potrei parlare con lui dei miei fastidi. Lui comunque non rimane: ci saluta e se ne va.

Poi una donna pure in abito scuro ci dice di essere l’avvocato del Patrocinio gratuito che di solito lavora con il nostro Centro, e di trovarsi lì per tutelare i nostri diritti. Si chiama Sharon Beasley e ha una faccia larga e amichevole e capelli morbidi e ondulati che le arrivano alle spalle; ma non sono lucenti come quelli di Marjory. Ci dice che il signor Arakeen è qui per proteggere la compagnia e che, benché lei non abbia dubbi sulla sua onestà e sincerità (qui Arakeen si muove sulla sedia e stringe la bocca come se stesse per arrabbiarsi), noi comunque abbiamo bisogno di qualcuno che sia dalla nostra parte e lei è quella persona.

— Adesso dobbiamo mettere in chiaro quale sia la situazione per quanto riguarda voi e il protocollo di ricerca — dice Arakeen quando la signora Beasley si siede. — Uno del vostro gruppo ha già cominciato il trattamento, e al resto di voi è stata promessa un’opportunità di tentarlo. — Io penso ancora che era una minaccia, non una promessa, ma non interrompo. — La compagnia intende mantenere questa promessa, e perciò se qualcuno di voi deciderà di partecipare al protocollo sperimentale può farlo. Riceverete lo stipendio intero, ma non il compenso dovuto ai soggetti di ricerca, perché sarete considerati come impiegati in altra sede. La compagnia coprirà tutte le spese mediche. — Fa una pausa e si rivolge al signor Aldrin. — Pete, ora puoi distribuire quelle cartelle.

Ogni cartella ha un nome sulla copertina, su un’etichetta, e un’altra etichetta porta scritto: PRIVATO E CONFIDENZIALE — NON VA RIMOSSO DA QUESTO EDIFICIO.

— Come vedrete — dice Arakeen — qui troverete la descrizione dettagliata di ciò che la compagnia farà per voi, sia che decidiate di partecipare alla ricerca o no. — Ne porge una anche alla signora Beasley, che l’apre subito e comincia a leggere. Io apro la mia.

— Se deciderete di non partecipare, a pagina sette, paragrafo uno, troverete che non perderete né il lavoro né l’anzianità di servizio né le misure di sostegno adeguate alla vostra situazione speciale. Continuerete a lavorare esattamente come ora.

Mi chiedo se è vero. E se il signor Crenshaw avesse avuto ragione e ci fossero veramente computer abili a fare ciò che facciamo noi? Nel futuro la compagnia potrebbe cambiare politica, anche se ora non lo fa. Noi potremmo perdere il lavoro.

— Sta dicendo che avremo il lavoro vita natural durante? — chiede Bailey.

Arakeen ha una strana espressione. — Io… non ho detto questo.

— Quindi se la compagnia tra pochi anni dovesse giudicare che non rendiamo abbastanza denaro per essa, noi potremmo ancora perdere il lavoro.

— La situazione potrebbe venir rivalutata alla luce di future condizioni economiche, certo — dice Arakeen. — Ma per ora non anticipiamo situazioni del genere.

Mi chiedo quanto durerà quel "per ora".

La signora Beasley si drizza sulla sedia. — Io credo che il posto di lavoro deve essere garantito per un certo periodo — dice. — Specialmente pensando alla preoccupazione dei nostri clienti e alle precedenti minacce illegali del vostro manager.

— Di quelle minacce la dirigenza ignorava tutto — obietta Arakeen. — Non vedo perché dovremmo…

— Dieci anni — dice lei.

Dieci anni è un periodo piuttosto lungo. Il viso di Arakeen si arrossa. — Non credo…

— Allora state progettando di licenziarli entro un certo tempo?

— Non ho detto questo — dice lui. — Ma non si possono fare previsioni a così lunga scadenza. Nessuno può impegnarsi in una simile promessa.

— Sette — insiste lei.

— Quattro — contratta lui.

— Sei.

— Cinque.

— Cinque con un’adeguata liquidazione — conclude lei.

Lui alza le mani con le palme in fuori. Non so cosa significhi questo gesto. — Sta bene — dice. — Possiamo discutere i dettagli più tardi, no?

— Naturalmente — dice lei. Gli sorride, ma solo con le labbra.

— Bene, allora — dice Arakeen. — Il vostro posto di lavoro è garantito per cinque anni, nelle stesse condizioni, sia che decidiate di partecipare al protocollo o no. La scelta sta a voi. Intanto vi annuncio che dal punto di vista medico tutti siete stati giudicati abilitati a sottoporvi al trattamento.

Tace, ma nessuno dice nulla. Io rifletto. Tra cinque anni io sarò sulla quarantina, e a quarant’anni non sarà facile trovare un altro lavoro. E d’altra parte mancherà ancora parecchio tempo prima di potersi mettere a riposo.

Arakeen dice: — Vi daremo un po’ di tempo per leggere il contenuto della cartella. Nel frattempo io e la signora Beasley discuteremo di alcuni dettagli legali, ma resteremo qui per rispondere a eventuali domande. In seguito, la dottoressa Hendrìcks e il dottor Ransome vi daranno le informazioni mediche previste per oggi, anche se non ci si aspetterà da voi alcuna decisione circa il protocollo.

Leggo il materiale nella cartella. Alla fine c’è un foglio di carta con uno spazio per la mia firma. Dice che ho letto e compreso tutti i documenti della cartella e che accetto di non parlarne a nessuno fuori della sezione, tranne che al difensore civico e all’avvocato del Patrocinio gratuito. Per ora non firmo.

Si alza il dottor Ransome e di nuovo presenta la dottoressa Hendricks. Lei comincia subito a dirci quello che abbiamo già sentito. Io lo so già, quindi non le presto molta attenzione. Ciò che desidero sapere viene dopo, quando lei spiega quel che accadrà in effetti al nostro cervello.

— Senza allargare il vostro cranio, noi non possiamo introdurvi nuovi neuroni — dice. — Dobbiamo invece continuare a bilanciarne il numero, in modo che ci sia la giusta quantità di tessuto neurale atto a stabilire le giuste connessioni. Durante la sua maturazione, il cervello fa questo spontaneamente: noi perdiamo molti dei neuroni che avevamo all’inizio, se essi non formano connessioni… ed è bene che sia così.

Alzo la mano e lei annuisce. — Toglierete del tessuto dal cervello per far posto al nuovo?

— Non materialmente: si tratta di un meccanismo biologico, in realtà, chiamato riassorbimento…

Cego e Clinton avevano descritto il fenomeno del riassorbimento durante lo sviluppo. I neuroni superflui spariscono, riassorbiti dall’organismo, un processo controllato dai meccanismi di ritorno che fanno parzialmente uso dei dati sensoriali. Come modello intellettuale è affascinante. In fondo, però, la dottoressa sottintende che loro si propongono di riassorbire parte dei neuroni che io possiedo adesso, da adulto. E questo è diverso. I neuroni che ho adesso fanno tutti qualcosa di utile per me. Alzo di nuovo la mano.

— Sì, Lou? — Questa volta a parlare è il dottor Ransome. La sua voce è un po’ inquieta. Credo pensi che io faccio troppe domande.

— Dunque voi distruggerete una parte dei nostri neuroni per lasciar spazio alla nuova crescita?

— Non si tratta esattamente di distruzione — risponde lui. — È un processo complicato, Lou. Non so se potreste capirlo.

— Noi non siamo stupidi — brontola Bailey.

— Io so cosa significa riassorbimento — dice Dale. — Significa che del tessuto sparisce e viene sostituito da tessuto nuovo. Se l’organismo riassorbe neuroni, quelli spariscono.

— Suppongo che la cosa si possa descrivere così — dice Ransome, lanciandomi un’occhiataccia. Mi biasima per aver dato il via alla discussione, credo.

— Ma è vero — dice la dottoressa Hendricks. Non ha l’aria inquieta ma eccitata, come uno che aspetta di montare su un carosello favorito. — Noi riassorbiamo i neuroni che hanno stabilito connessioni sbagliate e facciamo crescere neuroni che stabiliranno le connessioni giuste.

— Una cosa andata è andata — dice Dale. — Questa è la verità. Dite la verità. — Sta diventando molto nervoso, il tic del suo occhio è parecchio accentuato. — Quando qualcosa è andato, la cosa giusta potrebbe non crescere.

— No! — dice Linda a voce alta. — No, no, no! Non il mio cervello. Non farete a pezzi il mio cervello. Non buono, non buono!

— Non si tratta di fare a pezzi il cervello di nessuno — rettifica la dottoressa Hendricks. — Si tratta di aggiustamenti… i nuovi collegamenti neurali crescono e niente cambia.

— Tranne il fatto che non saremo più autistici, se tutto va bene — dico io.

— Infatti. — Ora la dottoressa Hendricks sorride, come se avessi detto la cosa giusta. — Tu resterai come sei, solo che non sarai più autistico.

— Ma io sono autistico — dice Chuy. — Non so come fare a essere qualcun altro. Dovrei ricominciare daccapo, come un neonato, e crescere di nuovo, per essere qualcun altro.

— Be’, non proprio — dice la dottoressa. — La maggior parte dei neuroni non vengono toccati, solo alcuni, pochi alla volta, quindi potrete fondarvi sul vostro passato. Naturalmente dovrete reimparare alcune cose, dovrete sottoporvi a una riabilitazione… questo si trova nel pacchetto del consenso informato, che il vostro avvocato vi spiegherà… ma tutto è a spese della compagnia. Non dovrete pagar nulla.

— Lungavita — dice Dale.

— Chiedo scusa? — dice la dottoressa.

— Se devo ricominciare daccapo, voglio più tempo per diventare quell’altra persona, per vivere. — Dale è il più anziano di noi, ha dieci anni più di me, anche se non li dimostra. — Voglio Lungavita — ripete, e io mi rendo conto che sta parlando del trattamento antietà noto col nome commerciale di Lungavita, appunto.

— Ma questo è assurdo — esclama Arakeen prima che la dottoressa possa rispondere. — Aggiungerebbe… un mucchio di soldi alle spese già alte del protocollo.

Dale chiude strettamente gli occhi, ma la palpebra dell’occhio col tic continua a vibrare anche così. — Se per questo reimparare si dovesse impiegare più tempo di quel che credete voi… magari anni… io voglio più tempo da vivere come persona normale. Quanto ne ho vissuto da autistico. Di più. — Il suo viso si rilassa e lui apre gli occhi. — Aggiungete Lungavita e io accetto il trattamento. Senza Lungavita me ne vado.

Mi guardo intorno. Tutti stanno fissando Dale, anche Linda. Cameron avrebbe potuto fare una cosa del genere, ma non Dale. Lui è già cambiato. Io so che anch’io sono già cambiato. Siamo autistici, ma cambiamo. Forse non abbiamo bisogno del trattamento per cambiare ancora di più, forse perfino per diventare normali.

Ma intanto che penso a questo e a quanto tempo ci vorrebbe, alcuni paragrafi del libro mi tornano alla mente. — No — dico. Dale si volge a guardarmi. — Non è una buona idea. Questo trattamento manipola i neuroni e lo fa anche Lungavita. Questo trattamento è sperimentale; nessuno sa se funziona davvero.

— Noi sappiamo che funziona — dice la dottoressa Hendricks. — È solo…

— Lei non sa con sicurezza se funziona con gli esseri umani — la interrompo, anche se interrompere è da maleducati. Lei mi ha interrotto per prima. — Ecco perché avete bisogno di noi o di gente come noi. Non è una buona idea sottoporsi ad ambedue i trattamenti. Nella scienza, si cambia una variabile alla volta.

Arakeen pare sollevato. Dale non dice nulla, ma chiude gli occhi di nuovo. Non so cosa stia pensando. So come mi sento io: incerto.

— Io voglio vìvere più a lungo — dice Linda. — Voglio vivere più a lungo e non cambiare.

— Io non so se voglio vivere più a lungo o no — dico. Parlo lentamente, ma nemmeno la dottoressa Hendricks m’interrompe. — Se diventassi qualcuno che non mi piace, a cosa mi servirebbe vivere più a lungo? Prima voglio sapere cosa diventerò, poi potrò decidere se voglio vivere più a lungo oppure no.

Dale annuisce.

— Credo che dovremmo decidere sulla base di questo trattamento e basta. Nessuno sta cercando di costringerci. Possiamo pensarci sopra.

— Ma… ma… — balbetta Arakeen — dite che volete pensarci sopra? E per quanto tempo?

— Per quello che ci vorrà — dice la dottoressa Beasley. — Avete già un soggetto che si sta sottoponendo al trattamento; sarebbe prudente trattare gli altri soggetti a intervalli, comunque, per vedere come si mettono le cose.

— Io non dico che voglio sottopormici — dice Chuy. — Ma potrei considerare la cosa con più favore… se ne facesse parte anche Lungavita. Magari non nello stesso tempo, ma più tardi.

— Io ci penserò — dice Linda. È molto pallida. — Ci penserò, e vivere più a lungo mi fa sembrare il trattamento più accettabile, però non lo desidero realmente.

— Neppure io — approva Eric. — Non voglio che qualcuno mi cambi il cervello. Si cambia il cervello ai criminali e io non sono un criminale. Un autistico è diverso dagli altri, ma non è cattivo. Non è sbagliato essere diversi. Certe volte è duro, ma non è sbagliato.

Io non dico nulla. Non sono sicuro di ciò che vorrei dire. Tutto sta succedendo troppo in fretta. Come faccio a decidere? Come posso scegliere di diventare qualcun altro che non conosco e non posso prevedere? Il cambiamento avviene comunque, ma non è colpa mia se non l’ho scelto.

— Io lo voglio — dice Bailey. Chiude le palpebre con forza e parla così, con gli occhi serrati e la voce molto tesa. — È uno scambio… per il signor Crenshaw che ci ha minacciati e per il rischio che il trattamento non funzioni e che noi si possa star peggio. Credo che Lungavita sia necessario per bilanciare la situazione.

Guardo i dottori Hendricks e Ransome che stanno sussurrando tra di loro e gesticolando. Credo stiano già pensando in che modo possano interagire i due trattamenti.

— È troppo pericoloso — conclude Ransome. — Non possiamo assolutamente praticare i due trattamenti contemporaneamente. — Mi guarda. — Lou aveva ragione. Anche se avrete in seguito un trattamento antietà, adesso non potete farlo.

— Parlerò di questo al consiglio di amministrazione — dice Arakeen con più calma. — Dobbiamo sentire altri pareri, sia legali che sanitari. Ma se vi ho compresi, alcuni di voi stanno chiedendo che il trattamento antietà faccia parte del pacchetto… in futuro, naturalmente… come condizione della partecipazione, giusto?

— Sì — dice Bailey, e Linda annuisce.

— Sta bene, riferirò al consiglio. Credo che dirà di no, ma comunque chiederò.

— Tenga in mente che questi impiegati non hanno acconsentito al trattamento; hanno solo accettato di pensarci — dice la dottoressa Beasley.

— D’accordo. — Arakeen annuisce. — Mi aspetto però che tutti voi manteniate la vostra parola. Pensateci veramente, riflettete bene.

— Io non mento — dice Dale. — Voi non mentite a me. — Si alza con una certa rigidezza. — Venite, abbiamo da lavorare — dice rivolto a noi.

Nessuno dice nulla, né gli avvocati né i dottori e nemmeno il signor Aldrin. Lentamente noi ci alziamo. Io mi sento incerto, un po’ turbato. Faremo bene ad andarcene così? Ma appena mi muovo e comincio a camminare mi sento meglio. Più forte. Ho paura ma sono anche felice. Mi sento leggero, come se la gravità fosse diminuita.

Fuori nel corridoio giriamo a sinistra per andare agli ascensori. Quando arriviamo al punto dove l’atrio si allarga per accoglierli, vediamo il signor Crenshaw ritto proprio là. Regge una scatola di cartone con tutt’e due le mani. La scatola è piena di cose che non vedo, ma al di sopra di tutto c’è un paio di scarpe da corsa. Sono di una marca molto costosa che ricordo di aver visto su un catalogo di articoli sportivi. Due uomini con la camicia celeste delle guardie della compagnia gli stanno al fianco, uno per lato. Lui spalanca gli occhi quando ci vede.

— Cosa state facendo qui? — chiede a Dale che è un poco più avanti di noi. Fa un passo verso di lui e i due uomini in uniforme gli mettono ognuno una mano sul braccio. Lui si ferma. — Voi dovreste trovarvi nel G-28 fino alle quattro del pomeriggio; questo non è nemmeno l’edificio giusto.

Dale non rallenta neanche, gli passa davanti senza dir parola.

La testa del signor Crenshaw gira come quella di un robot e poi si raddrizza. Poi mi vede e mi fulmina con gli occhi. — Lou! Ma cosa sta succedendo qui?

Io vorrei sapere cosa sta facendo lui con una scatola nelle mani e la scorta delle guardie, ma non sono tanto maleducato da chiederglielo. Il signor Aldrin ha detto che non dobbiamo più preoccuparci del signor Crenshaw, quindi io non sono obbligato a rispondergli quando lui mi parla con quel tono offensivo. — Ho molto lavoro da fare, signor Crenshaw — dico. Le sue mani fanno un movimento convulso, come se lui volesse gettar via la scatola e afferrarmi, ma non lo fa e io lo sorpasso seguendo Dale.

Tornati nel nostro edificio, Dale parla. — Sì, sì, sì — dice. E poi, più forte: — Sì, sì, sì!

— Ci dicono che dobbiamo desiderare di essere normali — dice Chuy — e poi di amare noi stessi così come siamo. Se uno vuol cambiare, vuol dire che qualche parte di quello che è non gli piace. Fare due cose contraddittorie è impossibile.

— È quello che ci dicono le persone normali. Ci chiedono di fare una cosa impossibile… ma noi non dobbiamo pensare che tutto ciò che dicono le persone normali sia vero.

— Però non è nemmeno interamente menzogna — dice Linda.

— Non interamente menzogna, non interamente verità — aggiunge Dale.

Questo è evidente, ma prima io non avevo mai pensato che è davvero impossibile che una persona voglia cambiare e al tempo stesso sia contenta di rimanere com’è. Non credo che nessuno di noi ci abbia pensato, prima che lo dicessero Dale e Chuy.

— Ho cominciato a riflettere in casa tua — dice Dale. — Mi ha aiutato.

— Se il trattamento non funziona — dice Eric — sarà ancora più costoso per la compagnia prendersi cura di… ciò che succederà.

— Non so come stia andando Cameron — dice Linda.

— Lui voleva essere il primo — dice Chuy.

— Sarebbe meglio se potessimo andare uno alla volta e vedere cos’accade agli altri — dice Eric.

— La velocità del buio sarebbe minore — dico. Tutti mi guardano. Ricordo che non ho mai parlato loro della velocità del buio e di quella della luce. — La velocità della luce nel vuoto è di trecentomila chilometri al minuto secondo — spiego.

— Io mi chiedo — dice Linda — se, siccome gli oggetti cadono più in fretta quando sono più vicini alla Terra, e questo è dovuto alla gravità, la luce viaggi più in fretta vicino a una gravità enorme come quella di un buco nero.

Non avevo mai saputo che Linda s’interessasse alla velocità della luce. — Non lo so — rispondo. — Ma i libri non parlano mai della velocità del buio. Qualcuno mi ha detto che non ne ha, che è solo assenza di luce, però io credo che dovrà pure arrivare dov’è.

Tutti tacciono per un istante, poi Dale dice: — Se Lungavita può rendere il tempo più lungo per noi, forse qualcosa può aumentare la velocità della luce.

Eric dice: — Vado in palestra — e se ne va.

Linda ha il viso contratto e la fronte corrugata. — La luce possiede una velocità. Anche il buio dovrebbe avere una velocità. Gli opposti sono equivalenti in tutto tranne che nella direzione.

Questo non lo capisco. Aspetto.

— I numeri positivi e quelli negativi sono uguali tranne che per la direzione — dice Linda lentamente. — Piccolo e grande sono ambedue espressioni di dimensione, ma in direzioni opposte. Andare e tornare si riferiscono alla stessa strada, ma in direzioni opposte. Così la luce e il buio sono opposti, ma uguali nella stessa direzione. — Allarga di colpo le braccia. — È questo che amo dell’astronomia — dice. — Ci sono tante cose là fuori, tante stelle, tante distanze. C’è dal nulla al tutto.

Non sapevo che Linda amasse l’astronomia. Lei è sempre sembrata la più remota di noi, la più autistica. Però io so cosa vuol dire. Anch’io amo le serie, da piccolo a grande, da vicino a lontano, dal fotone di luce che entra nella mia pupilla, vicinissima a me, al luogo dal quale è partito, ad anni luce di distanza attraverso l’universo.

— Mi piacciono le stelle — continua Linda. — Voglio… volevo… lavorare con le stelle. Mi dissero di no. Dissero: "La tua mente non lavora nel modo giusto. Solo poche persone possono fare questo". Ma io sapevo che era questione di matematica e sapevo di essere brava in matematica; però mi lasciarono troppo a lungo nelle classi inferiori e quando finalmente arrivai nelle classi giuste dissero che era troppo tardi. E così decisero che dovevo fare matematica applicata e studiare i computer. Perché con i computer c’erano opportunità di lavoro. L’astronomia non è roba pratica, mi spiegarono. Ma se vivessi più a lungo, allora non sarebbe più troppo tardi.

Non avevo mai sentito Linda parlare tanto di sé. Adesso ha il viso più colorito e i suoi occhi hanno uno sguardo più fermo.

— Non sapevo che ti piacessero le stelle — dico.

— Le stelle sono lontane l’una dall’altra — dice. — Non devono toccarsi per conoscersi. Risplendono l’una sull’altra da lontano.

Io sto per dire che le stelle non si conoscono reciprocamente, che non sono vive, ma qualcosa mi fa tacere. Ho letto in un libro che le stelle sono composte di gas incandescenti e in un altro libro che il gas è materia inanimata. Forse quel libro si sbagliava. Forse le stelle sono fatte di gas incandescenti eppure sono vive.

Linda mi guarda, mi fissa negli occhi. — Lou… tu ami le stelle?

— Sì — rispondo. — E la gravità e la luce e lo spazio e…

— Betelgeuse — dice lei. Sorride e di colpo l’atrio diventa luminoso. Non mi ero accorto che fosse buio prima. Il buio era qui in precedenza, ma infine è arrivata la luce. — Rigel. Antares. Luce e colori. Lunghezze d’onda… — Le sue mani ondeggiano nell’aria e io so che stanno mimando gli schemi che le lunghezze d’onda e le frequenze compongono.

— Binarie — dico io. — Nane brune…

Il viso di Linda si rilassa. — Oh, quelle sono roba vecchia. Chu e Sanderly ne hanno riclassificate molte… — S’interrompe. — Lou… io credevo che tu passassi tutto il tuo tempo con le persone normali… fingendo di essere normale.

— Vado in chiesa — dico. — Frequento un club di scherma.

— Scherma?

— Armi bianche — spiego, ma lei continua a non capire. — È una specie di gioco. Cerchiamo di colpirci l’un l’altro.

— Ma perché? — chiede lei. — Se tu ami le stelle…

— Mi piace anche la scherma — dico.

— Con gente normale — dice lei.

— Sì, mi piacciono.

— È difficile… — dice lei. — Io frequento il planetario. Cerco di parlare con gli scienziati che vengono, ma… la lingua mi s’inceppa. Posso capire che loro non vogliono parlare con me. Si comportano come se io fossi stupida o pazza.

— Le persone che conosco io non sono malaccio — dico. Ma mi sento colpevole di averlo detto, perché Marjory è più di "non malaccio". Tom e Lucia sono qualcosa di meglio di "non malaccio". — Tranne uno che ha cercato di uccidermi.

— Ha cercato di ucciderti? — dice Linda. Sono sorpreso che non lo sappia, ma ricordo di non avergliene mai parlato. Forse lei non guarda i notiziari.

— Ce l’aveva con me — spiego.

— Perché sei autistico?

— Non esattamente… ma… sì. — Su cosa si basava, infatti, l’odio di Don se non sul fatto che io, un disabile, un falso normale, avevo più successo di lui nel suo mondo?

— Era malato — dice Linda enfaticamente. Si stringe nelle spalle e si volta. — Stelle… — dice.

Vado nel mio ufficio, pensando alla luce, al buio e alle stelle, e allo spazio intermedio che è pieno della luce che emana da loro. Come può esserci buio nello spazio quando esso rigurgita di stelle? Se noi possiamo vedere le stelle, ciò significa che c’è luce. E i nostri strumenti che scorgono anche la luce invisibile la registrano in grandi masse indistinte… è dappertutto.

Non capisco perché la gente parli dello spazio come di un posto oscuro e freddo, inospitale. È come se non uscissero mai fuori la notte a guardare il cielo. Il luogo dove c’è l’autentico buio è fuori della portata dei nostri strumenti, è agli estremi confini dell’universo, dove il buio è arrivato prima. Ma la luce lo raggiungerà.

Non sapevo che Linda amasse le stelle, che desiderasse studiare astronomia. Forse voleva anche andare nello spazio, come volevo io. No, come voglio. Se il trattamento funzionasse, forse potrei… Il solo pensiero m’impietrisce, mi gela di felicità… e poi devo muovermi. Mi alzo e mi stiro, ma non basta.

Eric sta scendendo dal trampolino quando entro nella palestra. Stava rimbalzando al suono della Quinta Sinfonia di Beethoven, che però è troppo forte per quello su cui voglio pensare. Eric mi saluta con un cenno e io cambio musica, facendo scorrere le varie possibilità finché mi fermo sulla suite orchestrale della Carmen. Sì, è la musica adatta.

Ho bisogno di questa effervescenza, di questa esplosione di ebbrezza. Rimbalzo sempre più in alto, sento la deliziosa leggerezza della caduta libera prima di avvertire la compressione dei muscoli, ugualmente meravigliosa, che si preparano a darmi lo slancio per rimbalzare ancora più in alto. Gli opposti sono la stessa cosa in direzioni diverse. Azione e reazione. Gravità e… non so quale sia l’opposto di gravità, ma l’elasticità del trampolino ne crea uno. Numeri e schemi mi volteggiano nella mente, formandosi, sciogliendosi, riformandosi.

Ricordo quando avevo paura dell’acqua, della sua instabilità, di come ondeggiava e si spostava appena la toccavo. Ma ricordo la gioia esplosiva di quando finalmente riuscii a nuotare, di quando mi resi conto che l’acqua continuava a essere instabile, però io potevo ugualmente stare a galla e muovermi nella direzione che preferivo. Ricordo quando avevo paura della bicicletta, della sua imprevedibilità e mancanza di equilibrio; e poi la stessa gioia quando imparai a guidarla, a usare la mia volontà per vincere la sua tendenza al caos. Anche adesso ho paura, più di prima, perché capisco di più… potrei perdere tutti gli adattamenti che mi sono costruito e allora non mi rimarrebbe niente… ma se riesco a cavalcare quest’onda, questa bicicletta biologica, allora sarò incomparabilmente più ricco.

Le mie gambe si stancano. Eseguo rimbalzi sempre più bassi, più bassi ancora, e infine mi fermo.

La compagnia non vuole renderci sciocchi e inefficienti, non vuole distruggere la nostra mente: vuole usarla.

Io non voglio essere usato. Voglio essere io a usare la mia mente per quello che desidero fare.

Penso che potrei voler provare questo trattamento. Non devo farlo per forza, non ne ho bisogno: sto bene anche come sono. Ma credo di cominciare a desiderarlo perché forse, se cambierò, se sarà secondo la mia idea e non quella di altri, allora forse potrò imparare ciò che desidero e fare ciò che voglio. Non si tratta di una cosa soltanto, ma di tutte le cose insieme, di tutte le possibilità. "Non sarò lo stesso" mi dico, abbandonando il conforto della gravità, volando fuori delle sue certezze nell’incertezza della caduta libera.

Uscendo dalla palestra mi sento più leggero in ambedue i modi, ancora in gravità meno che normale, ancora più pieno di luce che d’ombra. Ma la gravità ritorna quando penso di dire ai miei amici cosa mi dispongo a fare. Credo che a loro non piacerà più di quanto piaccia agli avvocati del Centro.

20

Il signor Aldrin viene a dirci che la compagnia non accetta di fornirci il trattamento Lungavita per ora, benché non è escluso… e lui tiene a sottolineare che questa è solo una possibilità… che acconsenta ad assistere quelli di noi che vorranno sottoporvisi dopo il presente trattamento, se esso avrà successo. — È troppo rischioso sottoporsi contemporaneamente a tutti e due — spiega. — E poi se qualcosa non dovesse funzionare la sua durata sarebbe più lunga.

Credo che dovrebbe dirlo chiaro e tondo: se il trattamento dovesse causare danni maggiori, noi subiremmo un grosso peggioramento delle nostre condizioni e la compagnia dovrebbe mantenerci più a lungo. Ma io so che le persone normali non parlano mai chiaro.

Non parliamo tra di noi dopo che lui è uscito. Gli altri mi guardano, ma nessuno dice niente. Spero che Linda accetti comunque il trattamento. Lei mi chiede se sono sicuro di ciò che faccio. Non sono sicuro, sono soltanto abbastanza sicuro. Poi chiamo il signor Aldrin e glielo dico. Anche lui chiede se sono sicuro. — Sì — dico, e poi chiedo: — Lo farà anche suo fratello? — Ho pensato spesso anche al fratello.

— Jeremy? — Pare sorpreso. — Non lo so, Lou. Dipende da quanto numeroso sarà il gruppo. Non so poi se accetterebbero anche estranei. In questo caso potrei chiederglielo. Se lui potesse vivere da solo, essere più felice…

— Non è felice? — domando.

Il signor Aldrin sospira. — No, Lou, non è felice. È molto… molto handicappato. I dottori… e i miei genitori… ha bisogno di molte cure e non ha mai imparato a parlare bene. — Credo di capire. Suo fratello è nato troppo presto, prima del trattamento che ha aiutato me e tanti altri. Probabilmente Jeremy si trova nelle condizioni in cui mi trovavo io quando ero piccolo.

— Spero che il nuovo trattamento sia efficace — dico. — E spero che possa far qualcosa anche per lui.

Il signor Aldrin emette un suono che non capisco, quindi risponde con voce rauca: — Grazie, Lou. Sei… sei un uomo buono.

Non sono un uomo buono. Sono solo un uomo come lo è anche lui, ma sono contento che lui pensi che sono buono.

Tom, Lucia e Marjory sono riuniti in salotto quando arrivo. Stanno parlando del prossimo torneo. Tom mi guarda.

— Lou… hai deciso?

— Sì — dico. — Lo farò.

— Bene. Dovrai riempire questo modulo di partecipazione…

— No, non parlavo di questo. — Mi rendo conto che lui non poteva sapere che mi stavo riferendo ad altro. — Non parteciperò a quel torneo… — Parteciperò mai ad altri tornei? Il mio io futuro vorrà ancora tirare di scherma? Si può tirare di scherma nello spazio? Sarebbe difficile, penso, in caduta libera.

— Ma avevi detto… — dice Lucia, poi il suo viso cambia, appare come appiattito dalla sorpresa. — Oh… vuoi dire… che hai deciso di accettare il trattamento?

— Sì — rispondo. Guardo Marjory. Sta guardando Lucia. Poi guarda me, poi ancora Lucia. Non ricordo se ho parlato a Marjory del trattamento o no.

— Quando? — chiede Lucia.

— Comincerò lunedì — spiego. — Ho molto da fare. Dovrò trasferirmi in clinica.

— Stai male? — chiede Marjory, che è diventata pallida. — Qualcosa non va?

— Non sono malato — dico. — C’è un trattamento sperimentale che può farmi diventare normale.

— Normale! Ma, Lou, tu stai benissimo come sei. A me tu piaci come sei. Non c’è bisogno che tu diventi esattamente come gli altri. Chi ti ha messo in testa questa idea? — Sembra in collera. Non so se lo sia con me o con qualcuno che secondo lei mi ha detto che devo cambiare. Ma le dirò tutto.

— È cominciato perché il nostro capo il signor Crenshaw voleva eliminare la nostra unità — dico. — Lui sapeva di questo trattamento, e diceva che avrebbe fatto risparmiare denaro.

— Ma questa… questa è costrizione. È illegale. Non può fare una cosa simile…

È davvero arrabbiata adesso, le sue guance diventano alternativamente rosse e poi pallide. Ciò mi fa desiderare di abbracciarla. Ma non sarebbe appropriato.

— È cominciato così — dico. — Però tu hai ragione: lui non ha potuto fare ciò che diceva di voler fare. Il signor Aldrin, il nostro supervisore, ha trovato il modo di fermarlo. — Io ne sono ancora sorpreso. Ero sicuro che il signor Aldrin non ci avrebbe aiutati. Ancora non capisco cos’abbia fatto per ostacolare il signor Crenshaw e fargli perdere il posto ed essere scortato dalle guardie con le sue cose in una scatola. Riferisco ciò che ha detto il signor Aldrin e gli avvocati nella riunione. — Adesso però io voglio cambiare — concludo.

Marjory tira un respiro profondo. Questo mi piace molto: il davanti della sua camicetta si tende. — Perché? — domanda con voce più calma. — Non è a causa di… a causa di… di noi? Di me?

— No — rispondo. — Non è a causa di te. È a causa di me.

Le sue spalle si afflosciano, non so se per sollievo o tristezza. — Allora a causa di Don? È per colpa sua che fai questo, perché ti ha convinto che ti manca qualcosa essendo come sei?

— Non è per colpa di Don… o almeno non solo… — Eppure è evidente, penso, e mi chiedo come faccia Marjory a non capirlo. Era lì quando la guardia all’aeroporto mi fermò e io rimasi senza parole e lei dovette aiutarmi. Era lì quando dovevo parlare con l’agente di polizia e mi si bloccò la lingua e Tom dovette aiutarmi. Non mi piace essere quello che ha sempre bisogno di aiuto. — Si tratta di me — spiego. — Voglio non avere problemi all’aeroporto e talvolta con altra gente, quando mi è difficile parlare e tutti mi guardano. Voglio andare in posti e imparare cose che non sapevo di poter vedere e imparare…

Il viso di Marjory cambia di nuovo, si rilassa, e la sua voce è più calma. — In cosa consiste questo trattamento, Lou? Cosa accadrà?

Apro la cartella che ho portato. Non dovremmo parlare del trattamento, perché è brevettato e sperimentale, ma secondo me questa non è una buona idea. Se qualcosa dovesse andar male, è bene che qualcuno al di fuori della compagnia ne sappia qualcosa. Non ho detto a nessuno che portavo via la cartella e nessuno mi ha fermato.

Comincio a leggere, ma Lucia m’interrompe quasi subito.

— Lou… adesso riesci a capire questa roba?

— Sì… credo di sì. Dopo Cego e Clinton, sì.

— Perché non lasci che legga io, allora? Posso comprendere meglio di che si tratta se vedo le parole. Poi possiamo parlarne.

Non c’è nulla di cui parlare in realtà. Io sono deciso a tentare il trattamento. Ma porgo a Lucia la cartella, Marjory le si avvicina e cominciano a leggere insieme. Guardo Tom. Lui alza le sopracciglia e scuote la testa.

— Sei un uomo coraggioso, Lou. Lo sapevo già, ma questo… Io non so se avrei il fegato di lasciare che qualcuno trafficasse con il mio cervello.

— Ma tu non ne hai bisogno — dico. — Tu sei normale. Sei un professore titolare. Hai Lucia e questa casa. — Non posso dire altre cose che penso, che lui è a suo agio con il proprio corpo, che vede e sente e gusta e annusa e prova sensazioni come gli altri, così che la sua realtà può coincidere con la loro.

— Pensi che tornerai da noi? — mi chiede Tom. Sembra triste.

— Non lo so — dico. — Spero che continuerò ad amare la scherma, perché è divertente, ma non lo so.

— Hai tempo di rimanere, stasera?

— Sì — dico.

— Allora usciamo. — Si alza e mi fa strada verso il ripostiglio. Lucia e Marjory restano in salotto a leggere. Nel ripostiglio Tom mi parla. — Lou, sei certo che non stai facendo questo perché sei innamorato di Marjory? Perché vuoi essere un uomo normale per lei? Sarebbe una nobile azione, ma…

Mi sento caldo dappertutto. — Non lo faccio per lei. Lei mi piace. Desidero toccarla e stringerla e… fare cose che non sono appropriate. Ma questo è… — Allungo una mano e tocco la rastrelliera dove sono appese le armi, perché di colpo sto tremando e ho paura di cadere. — Le cose non rimangono uguali — dico. — Io non sono lo stesso. Non posso evitare di cambiare. Questo… è solo un cambiamento più affrettato. E io l’ho scelto.

— "Temi il cambiamento e ti distruggerà; abbraccia il cambiamento e ti farà più grande" — dice Tom con la voce che usa per le citazioni. Non so cosa stia citando. Poi continua con la sua voce normale e con una piccola vena di scherzo: — Allora scegli le tue armi: se non verrai qui per un po’ di tempo, voglio essere sicuro di prendermi la mia batosta questa sera.

Io prendo le armi e la maschera e ho già infilato il giubbotto quando ricordo che non ho fatto gli stiramenti. Siedo nel patio e comincio. Lì fa più freddo, il lastricato sotto di me è duro e gelido.

Tom mi siede di fronte. — Io i miei li ho fatti, ma farne di più fa bene, specie quando uno sta diventando vecchio — dice. Quando si piega per appoggiare il viso sul ginocchio, vedo che i capelli in cima al capo gli si stanno diradando e che c’è parecchio grigio in essi. — Cosa farai dopo aver subito il trattamento?

— Mi piacerebbe andare nello spazio — dico.

— Tu…? Lou, tu non smetti mai di sorprendermi. Non sapevo che volessi andare nello spazio. Quando hai cominciato a desiderarlo?

— Quando ero piccolo — dico. — Ma sapevo di non poterlo fare. Sapevo che non era appropriato.

— Quando penso allo spreco… — dice Tom, piegando di nuovo la testa per appoggiare il viso sull’altro ginocchio. — Lou, questa tua decisione mi preoccupava molto, ma adesso penso che hai fatto bene a prenderla. Il tuo potenziale è troppo alto perché tu debba restare impacciato da un handicap per il resto della tua vita. Però farà soffrire Marjory il fatto che tu finirai per staccarti da lei.

— Non voglio far soffrire Marjory — dico. — Non credo che finirò per staccarmi da lei.

— Lo so. Lei ti piace molto… no, tu l’ami, è chiaro. Ma, Lou… tu stai per subire un grande cambiamento. Non sarai la stessa persona.

— Comunque lei mi piacerà sempre… no, l’amerò sempre — dico. Non avevo pensato che diventare normale mi rendesse questo più difficile o addirittura impossibile. E non capisco perché Tom lo creda.

— Sono certo che sarà così, Lou, ma non sarà la stessa cosa. Non è possibile che lo sia. Vedi, se io perdessi un piede potrei ancora tirare di scherma, ma i miei schemi dovrebbero cambiare, no?

Non mi piace pensare che Tom perda un piede, ma capisco quello che vuoi dire. Annuisco.

— Così, se tu subirai un enorme cambiamento in ciò che sei, allora la configurazione che si è creata fra te e Marjory cambierà. Può darsi che voi due vi avviciniate di più o può darsi che vi allontaniate.

Adesso so ciò che non sapevo pochi minuti fa, che io avevo nutrito un profondo e nascosto desiderio riguardo Marjory, il trattamento e me. Avevo sperato che se fossi diventato normale avremmo potuto essere normali insieme, sposarci e avere bambini e vivere una vita normale.

— Non sarà la stessa cosa, Lou — ripete Tom da dietro la maschera. Vedo lo scintillio dei suoi occhi.

— Non può esserlo.

Tirare di scherma è la stessa cosa e non lo è. Gli schemi di Tom sono sempre più chiari per me ogni volta che c’incontriamo, ma i miei schemi… non riesco a tenerli a fuoco. La mia attenzione oscilla. Marjory verrà fuori? Vorrà battersi con me? Cosa staranno dicendo, lei e Lucia, del contenuto della cartella? Quando mi concentro posso colpire Tom, ma poi perdo la concentrazione ed è lui a colpire me. Quando Lucia e Marjory arrivano, io e Tom ci siamo giusto fermati per riprendere fiato. Nonostante la notte sia molto fresca, siamo sudati.

— Bene — dice Lucia. Io aspetto, ma lei non aggiunge altro.

— A me sembra pericoloso — commenta Marjory.

— Armeggiare con il riassorbimento neurale e poi con la rigenerazione…

— Ci sono troppe possibilità che finisca in un disastro — spiega Lucia. — Inserzione virale di materiale genetico bene, una tecnologia vecchia e sperimentata. Nanochirurgia per le cartilagini, contenimento dell’infiammazione, benissimo. Ma quel pasticciare con le mutazioni dei geni… e quel trafficare col midollo per la rigenerazione delle ossa… e poi…

Lucia continua a enumerare procedimenti di cui non so e non capisco nulla, ma non voglio sentire altre ragioni per avere paura.

— Comunque dopo tutto la decisione è tua — conclude.

— Sì — dico, e guardo Marjory. Non riesco a vietarmelo.

— Lou… — Poi lei scuote la testa e io so che non dirà quello che stava per dire. — Vuoi batterti? — chiede.

Non voglio battermi, voglio sedere accanto a lei. Voglio toccarla. Voglio andare a cena con lei e coricarmi con lei. Ma tutto ciò non posso farlo, non ancora. Mi alzo e rimetto la maschera.

Quel che sento quando la sua lama tocca la mia non posso descriverlo. È la sensazione più forte che io abbia mai provata. Sento il mio corpo vibrare e reagire in un modo che non è appropriato ma è stupendo. Vorrei che tutto ciò continuasse in eterno e vorrei smettere e prenderla tra le braccia. Rallento, così da non toccarla troppo presto e perché l’incontro possa durare.

Potrei però ancora chiederle se vuol venire a cena con me. Potrei farlo prima o dopo il trattamento. Forse.

Giovedì mattina. Tempo freddo e ventoso, con nuvole grigie che corrono attraverso il cielo. Mentre attraverso il parcheggio della compagnia verso il nostro edificio il vento m’investe. Sento un’automobile dietro di me e mi volto. È quella di Linda, che parcheggia al suo solito posto. Esce senza guardarmi.

Alla porta inserisco la mia chiave magnetica e apro il battente. Lo tengo aperto e aspetto Linda. Lei ha sollevato lo sportello del portabagagli e sta tirando fuori uno scatolone. È come quello che aveva il signor Crenshaw.

Non ho pensato a portare una scatola per metterci le mie cose. Mi chiedo se riuscirò a trovarne una durante la pausa pranzo. Mi chiedo se Linda ha portato una scatola perché ha deciso di accettare il trattamento.

La tiene sotto il braccio e cammina in fretta, col vento che le getta all’indietro i capelli. Il suo viso sembra diverso, nudo e scolpito come quello di una statua, sgombro di paure e di ansie.

Mi passa davanti reggendo la scatola e io la seguo all’interno dell’edificio. Bailey è nell’atrio.

— Hai una scatola — dice a Linda.

— Pensavo che potesse servire a qualcuno — spiega Linda. — L’ho portata per questo.

— Io ne porterò una domani — dice Bailey. — Lou, te ne vai oggi o domani?

— Oggi — rispondo. Linda mi guarda e mi tende la scatola. — Mi può servire — dico, e lei me la dà senza incontrare i miei occhi.

Entro nel mio ufficio. Ha un’aria già estranea come l’ufficio di un altro. Sposto il piccolo ventilatore che fa muovere le girandole e le spirali, poi lo riporto dov’era. Siedo sulla mia poltrona e mi guardo intorno. L’ufficio è lo stesso, ma io non sono la stessa persona.

Guardo nei cassetti della mia scrivania e non trovo altro che una vecchia pila di manuali per l’aggiornamento del sistema. Era vietato stamparli, ma è più agevole leggere le cose scritte sulla carta. Tutti usavano i miei manuali. Non voglio lasciare queste copie vietate qui mentre io sarò in clinica. C’è anche una copia del Manuale degli impiegati. Tiro fuori tutto e metto il Manuale degli impiegati sopra agli altri manuali. Non so cosa fare con questa roba.

Nel cassetto di fondo c’è una vecchia decorazione con dei pesci che tenevo appesa finché il pesce più grande non si deformò. Adesso la superficie lucente dei pesci è coperta di piccole macchie nere. La tiro fuori e la getto nel cestino della carta straccia, rabbrividendo ai piccoli tintinnii che emette.

Nel cassetto centrale tengo penne colorate e un piccolo contenitore di plastica con degli spiccioli per la macchina che vende le bibite. Mi metto in tasca il contenitore e metto le penne sulla scrivania. Guardo gli scaffali. Contengono informazioni sui progetti, schedari, tutte cose di proprietà della compagnia. Non dovrò toccar nulla, lì. Tolgo dal soffitto le girandole e le spirali cominciando da quelle che non sono le mie favorite, quelle gialle e argento, quelle arancioni e quelle verdi.

Sento nell’atrio la voce del signor Aldrin che parla con qualcuno. Apre la mia porta.

— Lou, ho dimenticato di ricordare a tutti di non portar via dal campus qualunque materiale relativo al vostro lavoro. Se avete materiale del genere, riunitelo ed etichettatelo spiegando che deve andare in archivio.

— Sì, signor Aldrin — dico.

— Verrai al campus domani?

— Non credo — dico. — Non voglio cominciare un lavoro che poi lascerei incompiuto. Entro oggi avrò sgomberato tutto, qui.

— Bene. Hai ricevuto la lista dei preparativi raccomandati?

— Sì.

— Bene. Io… — Getta un’occhiata alle proprie spalle, poi entra nel mio ufficio e chiude la porta. Mi sento di colpo nervoso. — Lou… — il signor Aldrin esita, si schiarisce la gola e guarda altrove. — Lou, io… io voglio dirti che mi dispiace per quanto è avvenuto.

Non so quale risposta si aspetti. Non dico nulla.

— Io non avrei mai voluto… se le cose fossero dipese da me, nulla sarebbe cambiato…

Si sbaglia. Tutto sarebbe cambiato. Don sarebbe ugualmente andato in collera con me. Io mi sarei ugualmente innamorato di Marjory. Non so perché stia dicendo questo: lui dovrebbe sapere che le cose cambiano, sia che uno lo voglia sia che non lo voglia. Uno può giacere accanto a una piscina per mesi e anni pensando all’angelo che deve scendere, prima che qualcuno gli chieda se vuole esser guarito.

L’espressione sulla faccia di Aldrin mi ricorda come mi sono sentito tante volte. Mi rendo conto che ha paura. Lui ha spesso paura di qualcosa. Fa male aver paura per molto tempo, io lo so. Vorrei che non avesse quell’espressione, perché mi fa sentire che dovrei far qualcosa in proposito e non so cosa fare.

— Non è colpa sua — dico. Lo vedo rilassarsi. Era la cosa giusta da dire. Pure, è troppo facile. Io posso dirla, ma questo la rende vera? Le parole possono essere sbagliate. Le idee possono essere sbagliate.

— Vorrei essere sicuro che tu davvero sei… che davvero vuoi il trattamento — dice. — Nessuno più ti fa pressione…

Si sbaglia di nuovo, benché possa aver ragione nel dire che adesso la compagnia non ci costringe più. Ma adesso che io so che il cambiamento è inevitabile, adesso che so che è possibile, la pressione dentro di me cresce come l’aria gonfia un pallone o la luce pervade lo spazio. La luce non è passiva, preme contro qualunque cosa tocchi.

— È la mia decisione — dico. Intendo che io ho deciso, che sia giusto o sbagliato. Anch’io posso sbagliare.

— Grazie, Lou — dice il signor Aldrin. — Tu… voi tutti… significate molto per me.

Non so cosa voglia dire quel "significate molto per me". Letteralmente potrebbe voler dire che noi conteniamo molto significato che lui può ricevere da noi, ma non credo sia questo che il signor Aldrin intende. Comunque non chiedo spiegazioni. Sono ancora un po’ a disagio quando penso a tutte le volte che ci ha parlato. Non dico nulla. Dopo 9,3 secondi lui fa un cenno col capo e si volta per andar via. — Abbi cura di te — dice. — Buona fortuna.

Osservo che non dice "spero che tutto vada bene". Non so se lo faccia per ragioni di tatto o se pensi che tutto possa non andar bene. Esce nell’atrio e sento i suoi passi allontanarsi. Mi rilasso e tiro un respiro profondo. Finisco di togliere le mie girandole, spirali e decorazioni preferite. L’ufficio appare nudo, mentre la mia scrivania è ingombra. Non so se tutto entrerà nella scatola di Linda. Forse riuscirò a trovare un’altra scatola. Meglio sbrigarsi. Appena metto piede nell’atrio vedo Chuy alla porta che si dà da fare per tenerla aperta e infilarci dentro diverse scatole. Gli tengo aperto il battente.

— Ne ho portata una per ciascuno — dice. — Per risparmiare tempo.

— Linda ne ha portata una che sto adoperando io — spiego.

— Forse a qualcuno ne serviranno due — dice. — Tu puoi averne una se ti serve.

— Me ne serve una — dico. — Grazie.

Prendo una scatola più grande di quella portata da Linda e torno nel mio ufficio. Metto i manuali in fondo perché sono più pesanti, poi le penne tra i manuali e un lato della scatola, poi il ventilatore e infine le mie girandole, spirali e decorazioni. Penso al vento fuori. Sono leggere, potrebbero volar via.

Nell’ultimo cassetto trovo l’asciugamano che adopero per asciugarmi i capelli quando ho camminato dal parcheggio a qui nella pioggia. Lo ripiego e lo metto sulla scatola a riparare tutto il resto. Prendo su la scatola, nella quale è entrato tutto. Adesso sto facendo quello che ha fatto il signor Crenshaw: porto una scatola con dentro le mie cose fuori del mio ufficio. Se qualcuno mi guardasse, forse gli ricorderei lui, tranne che accanto a me non ci sono guardie. Io e il signor Crenshaw non ci somigliamo. Questa è la mia scelta; non credo che lui se ne sia andato di sua scelta. Mentre mi avvicino alla porta Dale esce dal suo ufficio. Mi apre il battente.

Fuori, le nuvole sono più spesse e la giornata sembra più scura e più fredda. Forse pioverà. Il vento è alle mie spalle e mi spinge. Vado alla mia macchina e giro dalla parte del passeggero. Metto a terra la scatola e con un piede tengo fermo l’asciugamano che il vento vorrebbe portar via. Apro lo sportello e metto sul sedile la scatola. Mi chiedo se devo tornare dentro, ma sono sicuro di aver portato via tutto. Non desidero mettere da parte il materiale relativo al mio ultimo lavoro perché sia riposto in archivio. Non voglio più vedere quel lavoro.

Però vorrei vedere ancora Dale, Bailey, Chuy, Eric e Linda. Una prima goccia di pioggia gelida mi cade sulla guancia, poi un’altra. Scuoto la testa e torno all’edificio. Apro la porta. Tutti gli altri sono nell’atrio, alcuni portano scatole colme e altri stanno lì e basta.

— Volete andare a mangiare? — chiede Dale.

— Sono soltanto le dieci e dodici — dice Chuy. — Non è óra di pranzo. Io sto ancora lavorando. — Lui non ha una scatola, Linda non ha una scatola. Sembra strano che quelli di noi che non se ne vanno abbiano portato le scatole per gli altri.

— Potremmo andare alla pizzeria più tardi — propone Dale. Ci guardiamo.

— Potremmo andare da qualche altra parte più tardi — dice Chuy.

— No, alla pizzeria — dice Linda.

Non diciamo altro. Io penso che non andrò.

Mi sembra molto strano guidare in un’ora mattutina in un giorno feriale. Ritorno a casa e parcheggio in uno spazio molto vicino all’entrata. Porto la scatola nel mio appartamento. Il palazzo è molto silenzioso. Metto la scatola nell’armadio a muro, dietro le scarpe.

L’appartamento è ordinato e tranquillo. Ho lavato le stoviglie della colazione prima di uscire, come faccio sempre. Mi tolgo di tasca il contenitore di plastica con gli spiccioli e lo metto sopra i cestini dei panni da lavare.

Ci hanno detto di portare tre cambi d’indumenti. Posso prepararli adesso. Non so che tempo farà e se avremo bisogno di abiti da passeggio oltre agli abiti da casa. Prendo la valigia dall’armadio e prendo le prime tre camicie di maglia dal secondo cassetto, poi tre cambi di biancheria e tre paia di calzini. Quindi due paia di calzoni avana e un paio di calzoni blu. E una felpa blu, in caso facesse freddo.

Ho uno spazzolino da denti, un dentifricio e una spazzola nuovi che tengo per le emergenze, ma non ne ho mai avute. Questa non è un’emergenza, comunque se li impacchetto adesso dopo non dovrò pensarci più. Metto lo spazzolino da denti, il dentifricio, il pettine, la spazzola, il rasoio e il sapone da barba nel borsello apposito e ripongo tutto in valigia. Consulto di nuovo la lista che ci hanno consegnata. È tutto qui. Allaccio le cinghie della valigia, poi la chiudo con la lampo e la metto via.

Il signor Aldrin aveva detto di contattare la banca, il gerente del palazzo e gli amici che eventualmente potrebbero preoccuparsi. Ci ha dato una dichiarazione da consegnare alla banca e al gerente. Lì si spiega che saremo assenti per un incarico temporaneo affidatoci dalla compagnia, che i nostri stipendi continueranno a essere versati in banca e che la banca s’incaricherà dei nostri pagamenti. Trasmetto la dichiarazione alla mia banca.

Scendo le scale. La porta dell’appartamento della gerente è chiusa, ma all’interno sento il ronzio di un aspirapolvere. Suono il campanello e il ronzio s’interrompe. Non sento rumore di passi, ma la porta si apre.

— Signor Arrendale. — La signora Tomasz, la gerente, pare sorpresa. Non si sarebbe aspettata di vedermi a metà mattina in un giorno feriale. — Non sta bene? Ha bisogno di qualcosa?

— Devo assentarmi per un incarico affidatomi dalla compagnia per cui lavoro — dico. Avevo provato questo discorso per esser certo di pronunciarlo scorrevolmente. Le porgo la dichiarazione. — Ho incaricato la banca di pagare l’affitto. Lei può contattarla se non dovesse farlo.

— Oh! — La donna prende il foglio e prima di leggerlo mi guarda. — Ma… resterà assente a lungo?

— Non lo so con precisione — rispondo — ma tornerò. — Non so nemmeno questo, però non voglio che lei si preoccupi.

— Non se ne va perché quell’uomo le ha tagliato le gomme nel parcheggio e poi l’ha assalita?

— No — dico. Non so perché lei pensi questo. — È un incarico speciale.

— Io rimasi tanto inquieta, ma tanto — dice la signora Tomasz. — Volevo salire per dirle… per dirle quanto mi dispiaceva, ma lei, sa… lei è sempre molto riservato.

— Sto bene — dico.

— Lei ci mancherà — dice. Non capisco come questo possa essere vero, dato che per la maggior parte del tempo nemmeno mi vede.

Quando torno nel mio appartamento vedo che è già arrivata la risposta automatica della banca. Dice che il messaggio è stato ricevuto, che il manager mi risponderà quanto prima e grazie per averci contattati.

Decido di scendere e andare a piedi al piccolo forno per il pranzo: avevo visto il cartello che offriva panini su ordinazione il giorno che avevo comprato là il pane. Il negozio non è affollato, ma non mi piace la musica che la radio trasmette: è troppo forte e ritmata. Ordino un panino al prosciutto. Fa un freddo eccessivo per mangiarlo fuori, così ritorno a casa e lo mangio nella mia cucina.

Potrei chiamare Marjory. Potrei portarla a cena questa sera o domani sera o sabato sera, se lei accettasse. Conosco i suoi numeri di telefono, sia sul lavoro che a casa. Appendo intanto le girandole e le spirali nel mio appartamento dove cominciano a girare per la corrente d’aria che filtra dalle vecchie finestre. I lampi di luce colorata che si riflettono sulle pareti sono riposanti e mi aiutano a pensare.

Se la chiamo e lei viene a cena con me, perché lo farebbe? Forse perché le piaccio, forse perché si preoccupa per me e forse perché le dispiace per me. Ma io non so con certezza se lo farebbe perché le piaccio. Per avere lo stesso sentimento in direzioni opposte, io dovrei piacerle come lei piace a me. Altrimenti non si avrebbe uno schema simmetrico.

Di che cosa potremmo parlare? Delle funzioni cerebrali lei non sa più di quanto ne sappia io adesso. Non è il suo campo. Ambedue tiriamo di scherma, ma non credo che potremmo parlare di scherma tutto il tempo. E non credo che lei s’interessi allo spazio; come il signor Aldrin, sembra lei pensi che il lavoro che si fa lì sia uno spreco di denaro.

Se torno… se il trattamento funziona e io divento come gli altri uomini nel cervello come nel corpo… lei mi piacerà come mi piace adesso?

O Marjory è un altro caso della piscina con l’angelo… e io l’amo perché credo sia l’unica che posso amare?

Mi alzo e metto su la Toccata e Fuga in Re minore di Bach. La musica costruisce un complicato panorama di valli e montagne e grandi golfi di aria fresca e ventosa. Amerò ancora Bach quando tornerò, se tornerò?

Per un istante il terrore mi ghermisce in tutto l’essere e precipito nel buio, più velocemente di quanto qualsiasi luce possa raggiungermi, ma la musica si alza sotto di me, mi solleva come un’onda oceanica e io non ho più paura.

Venerdì mattina. Vorrei andare al lavoro, ma nel mio ufficio non c’è niente da fare, e non c’è niente da fare nemmeno nel mio appartamento. La conferma della banca è arrivata.

Mi chiedo se devo mettermi in contatto con gli altri, ma decido di no. Non desidero parlare con loro. Non sono abituato ad avere un giorno così, una vacanza non pianificata, e non so cosa fare. Potrei andare a vedere un film o leggere un libro, però sono troppo nervoso per questo. Potrei andare al Centro, ma non mi va neanche questo.

Lavo i piatti della colazione e li ripongo. Di colpo l’appartamento è troppo silenzioso, troppo grande e vuoto. Non so dove andrò, ma devo andare da qualche parte. Metto in tasca il portafogli e le chiavi ed esco. Esco con soli cinque minuti di ritardo rispetto ai giorni lavorativi.

Anche Danny sta scendendo le scale. Mi dice: — Ciao, Lou, come va? — tutto d’un fiato. Penso che abbia fretta e non abbia voglia di parlare. Gli dico "ciao" e niente di più.

Fuori il tempo è nuvoloso e freddo, ma in questo momento non piove. C’è vento, però non quanto ieri. Mi dirigo alla mia macchina ed entro. Non giro la chiave di avviamento, perché ancora non so dove andrò. Prendo la mappa dallo scompartimento del cruscotto e l’apro. Potrei andare al grande parco fuori città a guardare le cascate. Molta gente va a farci camminate in estate, ma credo che di giorno il parco sia aperto anche d’inverno.

Un’ombra cade sul finestrino. È Danny. Abbasso il vetro.

— Stai bene? — mi chiede. — Qualcosa non va?

— Oggi non vado al lavoro — rispondo. — Sto decidendo dove andare.

— Allora è tutto a posto — dice. Sono sorpreso: non sapevo che s’interessasse tanto a me. E se è così, forse vorrà sapere che sto per andarmene.

— Sto per andarmene — annuncio.

Il suo viso cambia espressione. — Ti trasferisci? A causa di quel mascalzone? Ma ormai non può più farti del male, Lou.

È interessante che sia lui che la gerente abbiano subito pensato che volessi andar via a causa di Don.

— No, non mi trasferisco — spiego. — Però starò fuori per diverse settimane. C’è un nuovo trattamento sperimentale e la mia compagnia vuole che lo provi.

Danny sembra preoccupato. — La tua compagnia… ma tu vuoi provarlo? Stanno cercando di costringerti?

— No, è una decisione mia — dico. — Ho deciso io di sottopormici.

— Be’… allora… Spero che tu abbia ricevuto buoni consigli.

— Sì — dico, ma non dico da chi.

— Quindi hai il giorno libero? O te ne vai oggi? Quando ti verrà somministrato quel trattamento?

— Oggi non devo lavorare. Ho sgomberato ieri il mio ufficio. Il trattamento viene somministrato alla clinica del campus dove lavoro, ma in un edificio differente. Comincerà lunedì. Oggi non ho nulla da fare e pensavo di andare a Harper Falls.

— Abbi cura di te, Lou. Spero che ti vada tutto bene. — Danny picchia sul tetto della macchina e si allontana.

Non capisco con chiarezza cosa lui spera che mi vada bene. La gita a Harper Falls o il trattamento? Non so nemmeno perché abbia picchiato sul tetto della macchina. So però che non m’incute più paura, un altro cambiamento che mi è capitato da solo.

Al parco pago il biglietto e mi fermo nel parcheggio. Cartelli indicano i diversi itinerari: ALLE CASCATE, 290,3 METRI. BUTTERCUP MEADOW, 1,7 KM. ITINERARIO JUNIOR 1,3 KM. L’itinerario junior e il sentiero completamente accessibile sono asfaltati, ma il sentiero per le cascate è inghiaiato. M’incammino, e le mie scarpe fanno scricchiolare i sassolini. Non c’è nessuno. Gli unici suoni sono quelli della natura.

Gli alberi ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, che giacciono a terra fradice per la pioggia di ieri. Sotto di me posso vedere foglie rosse risplendere perfino in una giornata come questa, su aceri che sopravvivono in questa zona più fresca.

Mi sento rilassato. Agli alberi non importa se sono normale o no. Non importa nemmeno alle rocce e al lichene. Loro non fanno differenza tra un essere umano e un altro, e questo è riposante. Qui non sono obbligato a pensare a me stesso.

Mi fermo per sedermi su una roccia e lascio penzolare le gambe. Se qualcuno dicesse agli ultimi aceri che potevano cambiare e vivere felici in un clima più caldo, loro avrebbero scelto di farlo? E se poi questo avesse significato la perdita di quelle foglie trasparenti che diventano di un colore così stupendo ogni anno?

Tiro un respiro profondo e annuso le foglie bagnate, il muschio sulle rocce, i licheni, le rocce stesse, la terra… Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili agli odori, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica in un gatto o in un cane.

Ascolto i fievoli rumori del bosco che si sentono perfino oggi, con le foglie umide ormai quasi tutte cadute e giacenti silenziose a terra. Alcune, poche, sono ancora sui rami e si agitano al vento. Ali si agitano, e sento il cinguettio di un uccello che non si vede. Alcuni testi dicono che gli autistici sono troppo sensibili ai rumori di fondo, ma nessuno si lamenta di questa caratteristica negli animali.

Tuttavia qui nessuno di quelli che si lamentano è presente. Io ho tutta la giornata per godermi le mie sensazioni eccessive e sregolate, caso mai non dovessi più averle tra una settimana. Spero però che godrò quelle che avrò allora, quali che siano.

Mi chino e tocco con la lingua la pietra, il muschio, i licheni e poi, chinandomi ancora di più, le foglie bagnate alla base della roccia. Poi la corteccia di una quercia (amara, pungente) e quella di un pioppo (dapprima insapore, poi dolciastra).

Scendo il lieve pendio… trovo una felce da toccare con la lingua… ha solo una foglia ancora verde e non ha sapore. E le cortecce di altri alberi, per la maggior parte non li conosco ma posso dire che sono diversi dalle loro configurazioni. Ognuno ha un sapore lievemente differente, indescrivibile, un odore lievemente differente, un differente sentore al tatto nella corteccia, che è più ruvida o più liscia sotto le mie dita. Il rumore della cascata, dapprima un rombo sordo, si dissolve nei molti suoni che lo compongono: il boato della cascata principale che martella le rocce al di sotto, gli echi di quel boato che si trasformano in scrosci, il trillo degli spruzzi e delle cascatelle, il quieto sgocciolare delle perle di umidità che si staccano dalle foglie delle felci bruciate dal gelo.

Guardo l’acqua che cade cercando di distinguerne ogni parte individuale, le masse apparenti che convergono sull’orlo e poi cadono separandosi… Cosa proverebbe una goccia nello scivolare su quel bordo di roccia per cadere nel nulla? L’acqua non ha mente, non può pensare, ma la gente… la gente normale… scrive di fiumi veementi e di onde furiose come se non credesse a questa impassibilità.

Una sbavatura di vento mi porta uno spruzzo sul viso. Alcune gocce hanno sfidato la gravità e si sono innalzate nel vento, ma non per ritornare da dove erano venute.

Sto quasi per pensare alla mia decisione, all’ignoto che mi aspetta, all’impossibilità di tornare indietro, però oggi non voglio pensare. Voglio provare tutte le sensazioni che posso per serbarle nella memoria, se avrò memorie in quel futuro inconoscibile. Mi concentro sull’acqua, cercando di percepirne gli schemi, l’ordine nel caos e il caos nell’ordine.

Lunedì, nove e ventinove. Sono nella clinica, che si trova all’estremità opposta del campus rispetto alla sezione A. Siedo su una poltroncina tra Dale e Bailey.

Le poltroncine sono di plastica grigio chiaro con imbottiture di tweed azzurro, verde e rosa sullo schienale e sul sedile. Dall’altra parte della stanza c’è un’altra fila delle medesime poltroncine. Le pareti sono a strisce in due toni di grigio fino a una certa altezza, e poi sono state rifinite in color avorio. Di fronte a noi ci sono due quadri; uno rappresenta un paesaggio con campi verdi e una collina sullo sfondo, l’altro un mazzo di papaveri in un bricco di rame. All’estremità opposta della stanza c’è una porta. Non so dove conduca, non so se è da essa che dovremo passare.

Il mio stomaco è un grumo di gelo in un grande spazio vuoto. Mi sento la pelle come se qualcuno l’avesse tirata troppo.

Quando cerco d’immaginare il futuro… il resto di questo giorno, domani, la settimana prossima, il resto della mia vita… mi par di guardare nella pupilla del mio occhio e vedo solo il nero rispondere al mio sguardo. È il buio che si trova già lì prima che la luce arrivi, ignoto e inconoscibile prima di quell’arrivo.

La non conoscenza viene prima della conoscenza; il futuro viene prima del presente. Da questo momento passato e futuro sono uguali ma in opposte direzioni; però io sto andando da quella parte e non da questa.

E quando ci arriverò, la velocità della luce e quella del buio saranno uguali.

21

Luce. Buio. Luce. Buio. Luce e buio. Affilatura di luce sul buio. Movimento. Rumore. Ancora rumore. Movimento. Freddo, caldo, rovente, luce, buio, ruvido e liscio, freddo, troppo freddo e dolore e caldo e buio e niente dolore. Ancora luce. Movimento. Rumore, rumore più alto e troppo alto, una mucca che muggisce. Movimento, sagome contro la luce, puntura, caldo ritorno al buio.

Luce è giorno. Buio è notte. Giorno è alzati adesso è tempo di alzarsi. Notte è stai giù sta’ calmo dormi. Alzati adesso, siedi, tendi le braccia. Aria fredda. Tocco caldo. Alzati adesso, sta’ ritto. Freddo ai piedi. Vieni su cammina. Cammina a posto lucente freddo odore paura. Posto per bagnare o sporcare, posto per pulirsi. Tendi le braccia, qualcosa scivola sulla pelle. Scivola sulle gambe. Aria fredda dappertutto. Entra in doccia, stringi ringhiera. Ringhiera fredda. Rumore pauroso, rumore pauroso. Non essere sciocco. Sta’ fermo. Cose picchiano, tante cose picchiano, bagnato scivola troppo freddo poi caldo poi troppo caldo. Va bene adesso, va bene. No, non va bene. Sì, sì, sta’ fermo. Cosa che succhia, cosa che scivola dappertutto. Pulito, adesso pulito. Ancora bagnato. Ora di uscire, sta’ ritto. Strofinare dappertutto, adesso pelle calda. Indossa vestiti. Indossa calzoni, indossa camicia, infila pantofole. Ora di camminare. Reggi questo. Cammina.

Posto per mangiare. Ciotola. Cibo in ciotola. Prendi cucchiaio. Cucchiaio in cibo. Cucchiaio in bocca. No, tieni cucchiaio dritto. Cibo tutto andato. Cibo caduto. Fermati. Riprova. Riprova. Riprova. Cucchiaio in bocca, cibo in bocca. Cibo gusto cattivo. Mento bagnato. No, non sputarlo. Riprova. Riprova. Riprova.

Sagome che si muovono gente. Gente viva. Sagome che non si muovono non vive. Camminando sagome cambiano. Sagome non vive cambiano poco. Sagome vive cambiano molto. Sagome di gente hanno in cima un posto bianco. Gente dice indossa vestiti, indossa vestiti, sii buono. Buono è dolce. Buono è caldo. Buono è lucente bello. Buono è sorriso è nome per parti faccia mosse da questa parte. Buono è voce felice è nome per suono come questo. Suono come questo è parlare. Parlare dice cosa fare. Persone ridono è miglior suono. Sei bravo, essere bravo è buono. Buon cibo è buono per te. Vestiti sono buoni per te. Parlare è buono per te.

Gente più di uno. Gente è nomi. Usare nomi è buono per te, voce felice, lucente bello, anche dolce. Uno è Jim, buon giorno ora di alzarsi e vestirsi. Jim è faccia scura, luccica in cima testa, mani calde, parlare forte. Più di uno è due è Sally, adesso ecco la colazione puoi farlo da solo non è buono? Sally è faccia pallida, capelli bianchi in cima testa, parlare non forte. Amber è faccia pallida, capelli neri in cima testa, parlare non forte come Jim, più forte di Sally.

Ciao Jim. Ciao Sally. Ciao Amber.

Jim dice alzati. Ciao Jim. Jim sorride. Jim felice che ho detto Ciao Jim. Alzati, va’ in bagno, usa toletta, togli vestiti, va’ in doccia. Prendi in mano cosa a rotella. Jim dice bravo e chiude porta. Giro cosa a rotella. Acqua. Sapone. Acqua. Buona sensazione. Tutte sensazioni buone. Apri porta. Jim sorride. Jim felice fatto doccia da solo. Jim regge asciugamano. Prendi asciugamano. Strofina dappertutto. Asciutto. Asciutto sa di buono. Mattina sa di buono.

Indossa vestiti, cammina a colazione. Siedi a tavolo con Sally. Ciao Sally. Sally sorride. Sally felice che ho detto Ciao Sally. Guarda intorno dice Sally. Guarda intorno. Più tavoli, altra gente. Conosco Sally. Conosco Jim. Conosco Amber. Non conosco altra gente. Sally chiede Hai fame. Dico sì. Sally sorride. Sally felice che ho detto sì. Ciotola. Cibo in ciotola è cereale. Dolce in cima è frutta. Mangia dolce in cima, mangia cereale, di’ Buono, buono. Sally sorride. Sally felice che ho detto Buono. Felice perché Sally felice. Felice perché dolce è buono.

Amber dice ora di andare. Ciao Amber. Amber sorride. Amber felice che ho detto Ciao Amber. Amber cammina a stanza da lavoro. Io cammino a stanza da lavoro. Amber dice siedi qui. Io siedo qui. Tavolo davanti. Amber siede altro lato. Amber dice ora di fare gioco. Amber mette cosa su tavolo. Amber chiede Cos’è questo. È azzurro. Io dico azzurro. Amber dice Azzurro è colore, cos’è la cosa? Voglio toccare. Amber dice non toccare solo guardare. Cosa ha forma strana, sgualcita. Azzurra. Io triste. Non sapere è non buono, non buono per te, niente dolce, niente lucente bello.

Non essere depresso, dice Amber. Sta bene, sta bene. Amber tocca scatola di Amber. Poi dice Puoi toccare. Io tocco. È parte di vestito. È camicia. È troppo piccola per me. Troppo piccola. Amber ride. Bravo, sei bravo, ecco dolce, è una camicia ed è proprio troppo piccola per te. Camicia di bambola. Amber prende camicia di bambola e mette giù altra cosa. Pure forma strana, sgualcita nera. Non toccare, solo guardare. Se cosa sgualcita azzurra è camicia per bambola, cosa sgualcita nera altra cosa per bambola? Amber tocca. Cosa diventa più piatta. Due cose sporgono sotto, una cosa sporge sopra. Calzoni. Dico Calzoni per bambola. Amber fa grande sorriso. Bravo, davvero bravo. Una cosa dolce per te. Tocca la scatola di Amber.

Ora di pranzo. Pranzo è cibo in giornata fra colazione e cena. Ciao Sally. Sembra buono Sally. Sally è felice che dico questo. Cibo è appiccicoso tra fette di pane e frutta e acqua da bere. Cibo sa di buono in bocca. Cibo è buono Sally. Sally è felice che dico questo. Sally sorride. Bravo, sei davvero bravo. Simpatica Sally. Sally gentile.

Dopo pranzo c’è Amber e striscio su pavimento seguo la linea o sto ritto con piede alzato poi altro piede alzato. Amber pure striscia. Amber sta su un piede, cade. Rido. Ridere è buono. Amber ride. Bravo, sei molto bravo. Simpatica Amber.

Dopo strisciare su pavimento c’è altro gioco su tavolo. Amber mette cose su tavolo. Non so nomi. Niente nomi, dice Amber. Guarda questo: Amber tocca cosa nera. Trovane un’altra, dice Amber. Guardo le cose. Un’altra cosa uguale. Tocco. Amber sorride. Bravo, bravo. Amber mette insieme cosa nera e cosa bianca. Fa’ così, dice Amber. Paura. Non so. Sta bene, sta bene, dice Amber. Sta bene non sapere. Amber non sorride. Non bene. Trovo cosa nera. Guardo. Trovo cosa bianca. Metto insieme. Adesso Amber sorride. Bravo.

Amber mette insieme tre cose. Fa’ così, dice Amber. Io guardo. Una cosa è nera, una è bianca con parte nera, una è rossa con parte gialla. Guardo. Metto giù cosa nera. Trovo cosa bianca con parte nera, metto giù. Poi trovo cosa rossa con parte gialla, metto giù. Amber tocca la scatola di Amber. Poi Amber tocca le cose di Amber: rosso in mezzo, dice. Guardo. Ho sbagliato. Rosso in fine. Lo muovo. Bravo, sei bravo, dice Amber. Davvero un buon lavoro. Felice. Godo far felice Amber. Essere felici insieme, buono.

Altre persone arrivano. Una con camice bianco, vista prima, non conosco nome tranne dottore. Una uomo con maglione di molti colori e calzoni avana.

Amber dice Salve dottore a persona in camice bianco. Dottore parla ad Amber, dice Questo è suo amico, sulla lista. Amber mi guarda, poi guarda altro uomo. Uomo guarda me. Non è felice, anche con sorriso.

Uomo dice Ciao Lou sono Tom.

Ciao, Tom, dico. Lui non dice Bravo. Tu sei dottore, dico.

Dottore ma non medico, dice Tom. Non so cosa è dottore ma non medico.

Amber dice Tom è sulla tua lista, per farti visita. Tu lo conoscevi prima.

Prima di che? Tom non sembra felice. Tom sembra molto triste.

Non conosco Tom, dico. Guardo Amber. È sbagliato non conoscere Tom?

Hai dimenticato tutto di prima? chiede Tom.

Prima di che? La domanda mi disturba. Quello che conosco è adesso. Jim, Sally, Amber, il dottore, dov’è la camera da letto, dov’è il bagno, dov’è il posto dove si mangia, dov’è la stanza da lavoro.

Va tutto bene, dice Amber. Ti spiegheremo dopo. Va tutto bene. Stai facendo grandi progressi.

Meglio andare adesso, dice il dottore. Tom e il dottore se ne vanno.

Prima di che?

Amber dispone un’altra fila di cose e dice Fa’ anche tu così.

— Gliel’avevo detto che era troppo presto — disse la dottoressa Hendricks, una volta tornata con Tom in corridoio. — Gliel’avevo detto che non l’avrebbe riconosciuta.

Tom Fennell tornò a guardar dentro dalla finestra che permetteva di vedere senza essere visti. Lou… o la cosa che era stata Lou… sorrideva alla terapista che stava lavorando con lui e prendeva un blocchetto da aggiungere allo schema che andava copiando. Dolore e rabbia invasero Tom nel ricordare lo sguardo vacuo, il sorriso privo di significato che aveva accompagnato il suo "Ciao, Tom".

— Per ora lo confonderemmo se solo cercassimo di spiegargli tutto — disse la Hendricks.

Tom ritrovò la voce, anche se non sembrava la sua. — Voi dottori… ma avete la benché minima idea di quello che avete fatto? — Si teneva immobile con uno sforzo enorme. Avrebbe voluto strangolare la persona che aveva distrutto il suo amico.

— Certo. Lui sta facendo davvero dei grandi progressi. — La dottoressa Hendricks pareva indecentemente fiera di se stessa. — La settimana scorsa non era in grado di fare ciò che sta facendo adesso.

Progressi, eh? Star seduto lì a copiare la disposizione di una fila di blocchetti, secondo Tom, non si poteva definire esattamente "fare grandi progressi". Non quando lui ricordava con tanta chiarezza le sbalorditive capacità di Lou. — Ma… ma l’analisi e la creazione di schemi erano un suo dono speciale…

— Ci sono stati cambiamenti profondi nella struttura del suo cervello — disse la dottoressa. — Altri cambiamenti si stanno ancora verificando. È come se il suo cervello fosse tornato indietro in età… in un certo senso come se fosse ridiventato il cervello di un bambino. Grande plasticità, grande capacità di adattamento.

Il tono compiaciuto di lei lo urtava. Era evidente che la donna non aveva dubbi sulla giustezza di ciò che aveva fatto. — Quanto tempo ci vorrà perché maturi? — domandò.

La dottoressa Hendricks non si strinse nelle spalle, ma fu come se lo avesse fatto. — Non lo sappiamo. Pensavamo… dovrei piuttosto dire avevamo la speranza… che con la combinazione di tecnologia genetica e nanotecnologia, più l’accelerazione della crescita neurale, la fase di riabilitazione sarebbe stata più breve, più somigliante a quella constatata nel trattamento somministrato agli animali. D’altra parte il cervello umano è incommensurabilmente più complesso…

— Questo avreste dovuto saperlo fin dal principio! — A Tom non importava che il suo tono fosse di accusa. Si chiese come stessero gli altri, cercò di ricordare quanti ce n’erano stati. Nella stanza aveva visto solo altri due uomini che lavoravano con i loro terapisti. Gli altri stavano bene o no? Non sapeva neanche come si chiamassero.

— È vero. — L’ammissione della dottoressa lo irritò ancor di più.

— Cosa stavate pensando…

— Di aiutare. Stavamo pensando solo di aiutare. Guardi… — Indicò la finestra e Tom guardò.

L’uomo con la faccia di Lou… ma non con la sua espressione… completò il suo schema e alzò gli occhi con un sorriso alla terapista che gli sedeva davanti. Lei parlò… Tom non poté sentire le parole attraverso il vetro, ma poté vedere la reazione di Lou, una risata allegra e uno scuotere la testa appena abbozzato. Un gesto così incongruo da parte di Lou, così stranamente normale che a Tom si mozzò il fiato.

— I suoi rapporti sociali sono già più normali. Il paziente è facilmente motivato da segnali sociali, gli piace stare in compagnia. Sta sviluppando una personalità davvero affascinante, benché a questo punto sia ancora infantile. Si stanno normalizzando anche le sue elaborazioni degli stimoli sensoriali: l’estensione delle sue preferenze quanto a temperature, strutture, sapori eccetera è adesso entro limiti normali. Il suo uso del linguaggio è ogni giorno migliore. Man mano che le sue funzioni si ristabiliscono noi andiamo abbassando le dosi di ansiolitici.

— Ma i suoi ricordi…

— Ancora su questo non si può dir niente. La nostra esperienza nel restituire i ricordi perduti alla popolazione psicotica suggerisce che le due tecniche che usiamo sono efficaci… fino a un certo punto. Abbiamo effettuato registrazioni multisensoriali, capisce, e queste verranno reinserite. Per ora ne abbiamo bloccato l’accesso con un agente biochimico specifico… è brevettato, perciò non mi chieda nemmeno di che si tratta… che filtreremo via nelle prossime settimane. Vogliamo avere la sicurezza di poter contare su un substrato di elaborazione e integrazione sensoriale completamente solido prima di far questo.

— Così lei non sa se sarà in grado di restituirgli la sua vita passata?

— No, ma nutriamo delle speranze. E dopo tutto il paziente non starà peggio di chi perde la memoria a causa di un trauma. — Quello che avevano fatto a Lou si poteva davvero chiamare trauma, pensò Tom. La dottoressa Hendricks continuò: — Dopo tutto una persona può adattarsi e vivere la propria vita anche senza memoria del proprio passato, purché riesca a riacquistare le facoltà che gli permettono di funzionare indipendentemente e di relazionarsi alla società.

— Cosa mi dice delle sue capacità cognitive? — riuscì a dire Tom con voce quasi calma. — Mi sembrano molto compromesse in questo momento, e Lou prima possedeva un’intelligenza quasi geniale.

— Questo proprio non lo credo — disse la dottoressa. — Secondo i nostri test aveva in effetti un’intelligenza al di sopra della media, quindi anche se dovesse perdere dieci o venti punti non vedrebbe messe in pericolo le sue possibilità di condurre una vita indipendente. Però il paziente non era un genio, assolutamente no. — La sicurezza sussiegosa della sua voce, quel gelido deprezzamento del Lou che Tom aveva conosciuto gli sembrarono peggiori di una crudeltà deliberata.

— Lei lo conosceva prima? Conosceva qualcuno di loro? — domandò.

— No, naturalmente no. Li ho incontrati una volta, ma non sarebbe stato opportuno da parte mia conoscerli personalmente. Ho però i risultati dei loro test, e le interviste e le registrazioni dei ricordi sono tuttora in possesso dell’equipe psichiatrica della riabilitazione.

— Era un uomo straordinario — disse Tom. Guardò il volto della donna e non ci vide altro che orgoglio di quanto stava facendo e impazienza per essere stata interrotta. — Spero che tornerà a esserlo.

— Per lo meno non sarà autistico — concluse lei, come se questo giustificasse ogni cosa.

Tom stava per dire che l’autismo dopo tutto non era la cosa peggiore del mondo, ma tacque. Era inutile discutere con una persona come la dottoressa, almeno non lì e non in quel momento, e comunque ormai per Lou era troppo tardi. Quella donna rappresentava per Lou la migliore speranza di recupero… il pensiero gli provocò un brivido involontario.

— Lei dovrebbe tornare quando il paziente starà meglio — disse ancora la dottoressa Hendricks. — Allora potrà apprezzare al suo giusto valore il lavoro che abbiamo realizzato. La chiameremo. — Lo stomaco di Tom si sollevò a quell’idea, ma lo doveva a Lou.

Fuori, Tom si chiuse il cappotto e infilò i guanti. Lou sapeva che era inverno? Nell’ala riservata a lui e ai suoi compagni Tom non aveva visto finestre che si affacciassero all’esterno. Quel pomeriggio grigio che si avviava all’imbrunire, con il cielo chiuso e le strade coperte di fanghiglia sudicia, si intonava al suo umore.

Maledisse la ricerca medica per tutta la strada fino a casa.

Sono seduto a un tavolo e davanti a me c’è un’estranea, una donna in camice bianco. Ho l’impressione di essere stato qui molto a lungo, ma non so perché. È come pensare a qualche altra cosa quando guidi e di colpo trovarti a una ventina di chilometri di distanza senza sapere per dove sei passato.

È come riprendersi da uno stordimento. Non so bene dove sono e cosa sto facendo.

— Chiedo scusa — dico — devo aver perso il filo per un momento. Potrebbe ripetere, per favore?

Lei mi guarda stupita, poi i suoi occhi si spalancano.

— Lou, ti senti bene?

— Mi sento benissimo — dico. — Magari sarò un poco confuso.

— Sai chi sei?

— Naturalmente — dico. — Sono Lou Arrendale. — Non so perché la donna pensi che non sappia il mio nome.

— Sai dove ti trovi?

Mi guardo intorno. Lei porta un camice bianco; la stanza ha l’aria di essere un ambiente tipico di una clinica o di una scuola. Non ne sono sicuro.

— Non esattamente — dico. — Qualche genere di clinica?

— Sì — dice lei. — Sai che giorno è oggi?

Di colpo mi rendo conto di non sapere che giorno sia. C’è un calendario sulla parete, e un grande orologio, ma benché il mese indicato sia febbraio, non mi pare giusto. Il mio ultimo ricordo è di una giornata d’autunno.

— No — dico. Sto cominciando a sentirmi impaurito. — Cosa è successo? Mi sono ammalato, ho avuto un incidente o che cosa?

— Hai avuto un’operazione al cranio — spiega lei. — Ricordi qualcosa in proposito?

No. C’è una nebbia densa nella mia testa quando cerco di pensarci, una nebbia scura e pesante. Mi tasto il capo. Non fa male. Non avverto alcuna cicatrice. I miei capelli ci sono tutti.

— Come ti senti? — domanda la donna.

— Terrorizzato — dico. — Voglio sapere cos’è avvenuto.

Sono stato in piedi e ho camminato, mi dicono, per un paio di settimane: andavo dove mi dicevano, sedevo dove mi dicevano. Adesso sono conscio di questo: ricordo la giornata di ieri, benché i giorni precedenti siano nebulosi.

Nel pomeriggio sono sotto trattamento fisioterapico. Sono rimasto a letto per settimane, senza poter camminare, e questo mi ha indebolito. Adesso mi vado rinforzando.

È noioso camminare avanti e indietro nella palestra. C’è anche una serie di gradini con una ringhiera, per esercitarsi a salire e scendere le scale, ma anche questo ben presto diventa noioso. Missy, la mia fisioterapista, suggerisce che giochiamo a palla. Io non ricordo come si fa, ma lei mi dà una palla e mi chiede di lanciargliela. Lei sta seduta a poca distanza. Le lancio la palla e lei me la rilancia. È facile. Mi sposto all’indietro e le lancio di nuovo la palla. Anche questo è facile. Missy mi mostra un bersaglio con un campanello che dovrà squillare se faccio centro. È facile centrarlo da tre metri; da sei metri sbaglio poche volte, poi lo centro sempre.

Anche se non ricordo molto del passato, ho l’impressione che non trascorrevo il tempo lanciando una palla a qualcuno e facendomela rilanciare. Un vero gioco alla palla, se persone vere lo praticano, dovrebbe essere più complicato di così.

Questa mattina mi sono svegliato riposato e più forte. Ho ricordato la giornata di ieri e il giorno prima e qualcosa del giorno ancora prima. Mi sono vestito prima che l’inserviente, Jim, venisse a controllarmi; e sono sceso in sala da pranzo senza bisogno che nessuno m’indicasse dov’era. La colazione è noiosa: ci sono solo cereali caldi o freddi, banane e arance. Quando si sono ordinati cereali caldi con banane o con arance, oppure cereali freddi con banane o con arance la scelta è esaurita. Guardandomi intorno ho riconosciuto diverse persone, benché mi ci sia voluto un minuto per rammentare i loro nomi: Dale, Eric, Cameron. Li conoscevo da prima. Anche loro erano nel gruppo che si sottoponeva al trattamento. Ce n’erano anche altri: mi chiedo dove siano.

— Santo cielo, mi piacerebbe qualche frittella — ha detto Eric quando mi sono seduto al tavolo. — Sono così stanco di mangiare sempre le stesse cose.

— Forse potremmo domandarne altre — ha detto Dale, ma voleva dire "tanto non servirà a niente".

— Probabilmente questa roba è salutare — ha supposto Eric. Faceva dell’ironia e abbiamo riso tutti.

Io non sapevo con precisione cosa volevo, ma certo non volevo i soliti cereali e la solita frutta. Mi passavano per la mente vaghi ricordi di cibi che mi erano piaciuti. Mi chiedevo cosa ricordassero gli altri. Sapevo di conoscerli in qualche modo, ma non in quali circostanze.

Siamo tutti sottoposti a svariate terapie nella mattinata: rieducazione al discorso, rieducazione cognitiva, rieducazione alla vita quotidiana. Ho ricordato, benché con scarsa chiarezza, di aver percorso questa routine per parecchio tempo.

Questa mattina mi è sembrata incredibilmente noiosa. Domande su domande e istruzioni su istruzioni. Lou, cos’è questo? Una ciotola, un bicchiere, un piatto, una brocca, una scatola… Lou, metti il bicchiere giallo nel cestino azzurro… o il fiocco verde sulla scatola rossa, o fa’ una costruzione con i blocchetti o qualche altra cosa ugualmente inutile. La terapista aveva un modulo sul quale faceva delle annotazioni. Ho cercato di leggerne l’intestazione, ma è difficile leggere le lettere capovolte. Credo però che una volta lo facessi senza difficoltà. Ho letto le etichette sulle scatole invece: MANIPOLAZIONI PER LA DIAGNOSTICA: SERIE 1, MANIPOLAZIONI PER LA RIEDUCAZIONE ALLA VITA QUOTIDIANA: SERIE 2.

Ho fatto scorrere lo sguardo per la stanza. Non stavamo facendo tutti le stesse cose, ma stavamo tutti lavorando insieme a un terapista personale. Tutti i terapisti indossavano camici bianchi, ma tutti avevano anche abiti colorati sotto i camici. All’estremità opposta della stanza c’erano dei tavoli sui quali stavano quattro computer. Mi sono chiesto perché non li adoperiamo mai. Adesso ho ricordato, più o meno, cosa sono i computer e cosa potevo fare io con essi. Sono scatole colme di parole, numeri e illustrazioni, ed è possibile fare in modo che rispondano a domande. Preferirei molto che fosse una macchina a rispondere alle domande piuttosto che dover essere io a farlo.

— Potrei adoperare il computer? — chiedo a Janis, la mia terapista del discorso.

Lei è parsa sbigottita. — Usare il computer? Per fare che?

— Quel che stiamo facendo è noioso — spiego. — Tu continui a rivolgermi domande sciocche e a dirmi di fare cose sciocche e troppo facili.

— Lou, ma è per aiutarti. Abbiamo bisogno di controllare il tuo livello di comprensione… — Mi guarda come se fossi un bambino o uno stupido.

— Conosco le parole di tutti i giorni; è questo che vuoi sapere?

— Sì, ma non le conoscevi quando ti sei svegliato — dice lei. — Guarda, se vuoi posso passare a un livello più avanzato… — Tira fuori un altro libretto che contiene dei test. — Vediamo se sei pronto per questo; ma se dovesse essere troppo difficile non te ne preoccupare…

Devo accoppiare delle parole alle illustrazioni corrispondenti. Lei legge le parole e io guardo le illustrazioni. È facilissimo; finisco in un paio di minuti. — Se mi lasciassi leggere le parole farei più presto — dico.

Lei sembra di nuovo molto sorpresa. — Sai leggere le parole?

— Ma certo — rispondo, meravigliato per la sua sorpresa. Sono un adulto, e gli adulti sanno leggere. Provo però una sensazione di disagio dentro di me… un vago ricordo di non essere stato capace di leggere le parole, di lettere che erano segni senza senso, solo sagome come altre sagome… — Non sapevo leggere, prima?

— Sì, ma non hai letto subito, dopo… — dice lei. Mi porge un’altra lista e la pagina d’illustrazioni. Le parole sono brevi e semplici: albero, bambola, casa, automobile, treno. Poi mi porge un’altra lista, questa di animali, poi ancora un’altra di attrezzi. Sono tutte facili.

— Allora mi sta tornando la memoria — dico. — Rammento queste parole e queste cose…

— Pare davvero così — annuisce lei. — Vuoi che facciamo qualche prova di comprensione della lettura?

— Certo — dico.

Mi porge un libriccino smilzo. Il primo paragrafo è una storia di due ragazzini che giocano a baseball. Le parole sono facili; le sto leggendo a voce alta, come lei mi ha chiesto di fare, quando di colpo mi sento come due persone che leggano le stesse parole e ci trovino due diversi significati. Mi interrompo.

— Che c’è? — chiede lei dopo che sono rimasto in silenzio abbastanza a lungo.

— Io… io non so — dico. Mi pare buffo. Non intendo buffo nel senso che faccia ridere, ma nel senso che è strano. Una metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché Bill ha rotto la sua mazza e non vuole ammetterlo; l’altra metà del mio io capisce che Tim è arrabbiato perché suo padre gli ha regalato la mazza. La domanda sotto la storia chiede perché Tim è arrabbiato. Io non conosco la risposta… insomma, non ne sono sicuro.

Cerco di spiegarlo alla terapista. — Tim non voleva una mazza per il suo compleanno, voleva una bicicletta. Quindi poteva essere arrabbiato per questa ragione, o poteva essere arrabbiato perché Bill aveva rotto la mazza che suo padre gli aveva regalata. Non so quale delle due ragioni sia la vera: la storia non fornisce informazioni sufficienti.

Lei guarda il libriccino. — Uhm. La pagina dei punteggi dice che la risposta giusta è la C, ma io capisco il tuo dubbio. Sei stato bravo, Lou. Hai identificato due sfumature di significato diverse. Passa a un’altra prova.

Scuoto la testa. — Voglio riflettere su questa faccenda — dico. — Non capisco quale delle due metà del mio io sia il mio nuovo io.

— Ma Lou… — dice lei.

— Chiedo scusa. — Mi alzo in piedi. So che non è educato far questo, ma so anche che è necessario. Per un istante la stanza sembra più luminosa, con i contorni profilati nettamente da linee brillanti. È difficile valutare le profondità; urto contro un angolo del tavolo. La luce si affievolisce, i contorni diventano indistinti. Io mi sento malfermo, sbilanciato… ed ecco che mi trovo raggomitolato al suolo, sostenendomi al tavolo.

Il bordo del tavolo è solido sotto la mia mano; è fatto di un materiale che non è legno, ma ne riproduce le nervature. I miei occhi possono vedere le nervature, ma la mia mano può sentire la struttura che non è quella del legno. Percepisco l’aria che passa attraverso il sistema di ventilazione della stanza e l’aria che entra nel mio sistema respiratorio e ne esce, il mio cuore che batte e le membrane dei miei timpani… come faccio a sapere che sono membrane?… che vibrano nella corrente dei suoni. Odori mi assalgono: il mio sudore acre, il detersivo usato per pulire il pavimento, il dolciastro dei cosmetici usati da Janis.

Era stato così quando mi ero svegliato per la prima volta. Adesso lo ricordo: avevo ripreso coscienza assalito da ogni parte da un bombardamento d’impressioni sensoriali, annegandovi, impotente a trovare qualcosa di stabile, qualcosa che mi liberasse da quel sovraccarico. Ricordo di aver lottato per ore e ore per ricavare un senso dalle configurazioni di luce e ombra, di colore e timbro e risonanza e odori e sapori e consistenze…

È un pavimento di mattonelle di vinile grigio pallido con screziature di un grigio più scuro; è un tavolo di materiale sintetico con nervature che imitano il legno; è la mia scarpa che sto fissando, cercando di eliminare dalla mia coscienza l’attraente struttura del tessuto di canapa e vedendola come una scarpa con sotto il pavimento. Mi trovo nella stanza delle terapie. Sono Lou Arrendale che una volta era Lou Arrendale l’autistico e adesso è Lou Arrendale lo sconosciuto. Il mio piede nella mia scarpa è sul pavimento è sulle fondamenta è sul terreno è sulla superficie di un pianeta è nel sistema solare è nella galassia è nell’universo è nella mente di Dio.

Alzo gli occhi e vedo il pavimento allungarsi fino alla parete; ondeggia e si stabilizza, si estende piatto come i muratori lo hanno costruito, ma non perfettamente piatto; eppure ciò non importa, perché viene chiamato piatto per convenzione. Io faccio in modo che sembri piatto. Questo significa piatto. Non è un concetto assoluto, un piano: una cosa piatta è solo abbastanza piatta.

— Stai bene? Lou… per favore, rispondimi!

Io sto bene abbastanza. - Sto benissimo — dico a Janis. Bene significa "abbastanza bene" non "perfettamente bene". Lei sembra sbigottita. Le ho fatto paura. Non volevo farle paura. Quando s’incute spavento a qualcuno, bisognerebbe rassicurarlo. — Chiedo scusa — dico. — È stato solo uno di quei momenti.

Janis si rilassa un po’. Io mi siedo, poi mi alzo. Le pareti non sono proprio diritte, ma sono abbastanza diritte.

Io sono abbastanza Lou. Il Lou di prima e il Lou di adesso. Il Lou di prima che mi regala tutti i suoi anni di esperienza, esperienza che non sempre riusciva a capire, e il Lou di adesso che valuta, interpreta, comprende. Io possiedo tutti e due… sono tutti e due.

— Devo star solo per un poco — dico a Janis. Lei sembra di nuovo preoccupata. So che si preoccupa per me; so che non approva per qualche ragione.

— Tu hai bisogno dell’interazione umana — mi spiega.

— Lo so — dico. — Ma ce l’ho per ore e ore al giorno. In questo momento ho bisogno di esser solo per comprendere a fondo ciò che è accaduto.

— Parlamene, Lou — mi esorta lei. — Dimmi cos’è accaduto.

— Non posso — dico. — Mi è necessario un po’ di tempo… — Faccio un passo verso la porta. Il tavolo cambia forma mentre lo costeggio; cambia forma il corpo di Janis; le pareti e la porta ondeggiano verso di me come ubriachi in una commedia… dove l’ho vista? Come faccio a saperlo? Come posso ricordare questo e venire a patti anche con questo pavimento che è solo abbastanza piatto, ma non veramente piatto? Con uno sforzo rendo di nuovo piatte pareti e porta; la tavola elastica torna a riassumere la forma rettangolare che io dovrei vedere.

— Ma Lou, se hai problemi con la percezione sensoriale, i dottori potrebbero dover regolare di nuovo le dosi di…

— Starò benone — la rassicuro senza guardarmi indietro. — Ho solo bisogno di una pausa. — Argomento finale: — Ho bisogno di andare al bagno.

So… ricordo da chissà dove… che quanto è avvenuto implica l’integrazione sensoriale e l’elaborazione degli stimoli visivi. Camminare è strano. So che sto camminando, sento le mie gambe muoversi senza difficoltà. Ma ciò che vedo è una successione di movimenti bruschi, una serie di passaggi da una posizione a un’altra. Ciò che sento è un rumore di passi e un’eco di passi che rimbalzano da una parete all’altra.

Il Lou di prima mi dice che non era così, non lo era più da quando era molto piccolo. Il Lou di prima mi aiuta a focalizzarmi sulla porta del bagno degli uomini e a passarci attraverso, mentre il Lou di adesso fruga ansiosamente tra ricordi di conversazioni udite e libri letti nel tentativo di trovare qualcosa che lo aiuti.

Il bagno degli uomini è tranquillo, non c’è nessuno. Bagliori di luce ammiccano ai miei occhi dalle sagome lisce e curvilinee degli impianti sanitari di ceramica bianca, dalla rubinetteria e dai tubi di metallo lucido. In fondo ci sono due cubicoli; entro in uno di essi e chiudo la porta.

Il Lou di prima osserva le mattonelle del pavimento e delle pareti e vorrebbe calcolare il volume dell’ambiente. Il Lou di adesso vuole sprofondare in un nido buio e caldo e non emergerne fino al mattino.

Ma è mattina. È ancora mattina e noi… io… non abbiamo ancora pranzato. La persistenza degli oggetti. Ciò di cui ho bisogno è la persistenza degli oggetti. Il Lou di prima lesse qualcosa su questo argomento in un libro… un libro che ha letto, un libro che io non ricordo bene, però lo ricordo… e adesso mi torna in mente. I neonati non l’hanno, ma l’acquistano col tempo. Le persone cieche dalla nascita, se viene loro ridonata la vista, non riescono ad acquistarla: vedono i tavoli passare da una sagoma all’altra a seconda del punto di vista da cui li guardano.

Io non sono cieco dalla nascita. Il Lou di prima aveva acquisito la persistenza degli oggetti nella sua elaborazione degli stimoli visivi. Posso averla anch’io. L’avevo anzi, finché non ho cercato di leggere quella storia…

Posso sentire il battito del mio cuore rallentare e ridiventare regolare. Mi chino in avanti e guardo le mattonelle del pavimento. In realtà non m’importa di quale formato siano e del calcolo dell’area del pavimento o del volume dell’ambiente. Potrei calcolarli se fossi intrappolato qui e mi annoiassi, ma in questo momento non mi sto annoiando. Sono confuso e preoccupato.

Non so cosa sia successo. Ho avuto un’operazione al cervello? Ma non ho cicatrici, non mi hanno rasato alcuna parte dello scalpo. È stato un caso di emergenza?

L’emozione mi pervade: paura e poi collera, e con essa la bizzarra sensazione che mi sto gonfiando e poi sgonfiando. Quando sono arrabbiato, mi sento più alto e le altre cose paiono più piccole; quando sono impaurito mi sento più piccolo e le altre cose paiono più grandi. Mi balocco con queste emozioni ed è davvero strano percepire il minuscolo cubicolo cambiare dimensioni intorno a me. Non è possibile che le cambi davvero. Ma se fosse così, come farei a saperlo?

Una musica m’inonda la mente all’improvviso, una musica di pianoforte. Dolce, scorrevole, costruita in frasi ordinate… Chiudo gli occhi e di nuovo mi rilasso. Mi sovviene un nome: Chopin. Uno studio… no, lascia fluire la musica, non pensare.

Faccio scorrere le mani su e giù per le braccia, per sentire la struttura della pelle, l’elasticità della peluria. È un gesto calmante, ma non c’è bisogno che continui a farlo.

— Lou! Sei qui? Stai bene? — È Jim, l’inserviente che per tanti giorni si è preso cura di me. La musica si dilegua ma posso sentirla fluire ancora sotto la mia pelle. Mi distende.

— Sto bene — rispondo. Sento che la mia voce è calma. — Avevo solo bisogno di una pausa, tutto qui.

— Meglio che tu venga fuori, amico — dice lui. — Di là stanno cominciando a dare i numeri.

Sospiro, mi alzo e apro la porta. La persistenza degli oggetti le fa conservare la sua forma mentre esco; le pareti e il pavimento rimangono piatti com’è loro dovere, e l’ammiccare della luce sulle superfici che la riflettono non mi disturba. Jim mi sorride. — Allora tutto bene, amico?

— Benone — dico. Il Lou di prima amava la musica. Adoperava la musica per conservare il proprio equilibrio… Mi domando quanta della musica amata dal Lou di prima potrò ancora ricordare.

Janis e la dottoressa Hendricks stanno aspettando nel corridoio. Sorrido a tutt’e due. — Sto benissimo — ripeto. — Davvero avevo solo bisogno di andare al bagno.

— Ma Janis dice che sei caduto — dice la dottoressa.

— Oh, è stato solo un problema di poca importanza — spiego. — Stavo leggendo una storia piuttosto confusa, e riflettere su quella confusione… mi ha confuso le sensazioni, comunque adesso è tutto passato. — Guardo su e giù per il corridoio per assicurarmene. Tutto a posto. — Vorrei parlarle di quanto è accaduto in realtà — dico alla dottoressa. — Mi hanno parlato di operazioni al cranio, ma non ho alcuna cicatrice visibile. E ho bisogno di sapere cosa sta succedendo nel mio cervello.

Lei sporge le labbra e poi annuisce. — Sta bene. Uno dei consulenti ti spiegherà tutto. Intanto posso dirti che il tipo di chirurgia praticato in questo momento non implica lo scavare grossi buchi nel cranio della gente. Janis, fissa un appuntamento per Lou. — Poi la dottoressa se ne va.

Non credo che mi sia molto simpatica. Sento che è una persona che ama tenersi i suoi segreti.

Quando il mio consulente, un allegro giovanotto con una vistosa barba rossa, mi spiega cosa mi hanno fatto, per poco non mi viene un colpo. Come ha potuto il Lou di prima accettare una cosa simile? Vorrei acciuffarlo e scuoterlo, ma adesso lui è me. Io sono il suo futuro come lui è il mio passato. Io sono la luce scagliata nell’universo e lui è l’esplosione da cui sono stato generato. Non dico nulla di questo al consulente, che è un tipo pratico e probabilmente penserebbe che sono pazzo. Continua ad assicurarmi che sono in buone mani e che si prenderanno cura di me; vuole che stia calmo e tranquillo. All’esterno io sono calmissimo e tranquillissimo. All’interno sono diviso tra il Lou di prima, che sta cercando di capire come è stato tessuto il motivo della sua cravatta, e il mio io odierno, che vorrebbe tanto scuotere il Lou di prima e ridere in faccia al consulente e dirgli che non intendo assolutamente trovarmi nelle mani di nessuno e avere chi si prenda cura di me. Queste cose sono ormai alle mie spalle. È troppo tardi per essere al sicuro nel modo in cui lui intende la sicurezza, e mi prenderò cura di me da solo.

Sono disteso a letto con gli occhi chiusi e penso a questa giornata. Di colpo mi trovo sospeso nello spazio, nel buio. Molto lontano occhieggiano minuscole schegge di luce multicolore. So che sono stelle, e quella nebbia luminosa è probabilmente una galassia. Comincia una musica… è ancora Chopin. Una musica lenta, pensosa, malinconica. Qualcosa in mi minore. Poi fa irruzione un’altra musica, che mi dà altre sensazioni: possiede più struttura e più forza, e si alza sotto di me come un’ondata oceanica, solo che questa ondata è fatta di luce.

I colori cambiano. So, senza analizzare la mia certezza, che sto correndo verso quelle stelle lontane, velocemente, sempre più velocemente, finché l’onda di luce mi proietta fuori e io volo a velocità ancora più vertiginosa, come una percezione oscura, verso il centro dello spazio e del tempo.

Quando mi sveglio sono più felice di quanto sia mai stato e non so perché.

La prossima visita che Tom mi fa, lo riconosco e ricordo che è stato già qui. Ho tante cose da dirgli, tante cose da chiedergli. Il Lou di prima pensa che Tom lo abbia conosciuto meglio di qualunque altra persona al mondo. Se potessi vorrei lasciare che il Lou di prima salutasse Tom, ma ormai questo non si può più fare.

— Usciremo di qui tra pochi giorni — dico. — Ho già parlato alla gerente del mio appartamento. Farà riattaccare la corrente e il resto e rimetterà tutto in ordine.

— Stai proprio bene? — chiede lui.

— Benissimo — lo rassicuro. — Grazie per essere venuto a farmi visita tante volte; mi dispiace di non averti riconosciuto da principio.

Tom sembra depresso, posso vedere che ha gli occhi pieni di lacrime e ne è imbarazzato. — Non era colpa tua, Lou.

— No, ma so che tu eri preoccupato per me — dico. Il Lou di prima poteva non averlo saputo, ma io lo so. Posso vedere che Tom è un uomo che ama profondamente i suoi amici e immagino come si è sentito quando non sono riuscito a riconoscerlo.

— Hai già deciso cosa farai? — domanda.

— Volevo chiederti cosa si deve fare per iscriversi a una scuola serale — dico. — Vorrei tornare all’università.

— Buona idea — approva lui. — Io posso certo aiutarti per l’iscrizione. Cos’hai intenzione di studiare?

— Astronomia — dico. — Oppure astrofisica. Non so quale delle due, ma certo qualcosa di simile. Mi piacerebbe andare nello spazio.

Adesso Tom sembra un po’ triste, e mi accorgo che il sorriso che mi rivolge è forzato. — Spero che tu ottenga tutto quello che vuoi — dice. Poi, come se non volesse essere invadente, aggiunge: — La scuola serale non ti lascerà molto tempo per la scherma.

— Non credo — dico. — Dovrò vedere come si metteranno le cose. Ma verrò a farti visita, se per te va bene.

Pare sollevato. — Ma certo, Lou. Non voglio perderti di vista.

— Andrà tutto bene — dico.

Lui mi guarda un po’ in tralice e poi scuote la testa. — Sai, penso proprio che ce la farai. Davvero lo penso.

Epilogo

Quasi non riesco a crederci, benché tutto ciò che ho fatto negli ultimi sette anni avesse un unico scopo, questo. Sono qui, seduto alla mia scrivania a prendere i miei appunti, e la scrivania si trova in un’astronave e l’astronave si trova nello spazio e lo spazio è pieno di luce. Il Lou di prima si stringe al cuore le serie e danza dentro di me come un bambino felice. Io fingo una maggiore austerità nella mia tuta da lavoro, però so che un sorriso mi solleva un angolo della bocca. Tutti e due udiamo la stessa musica.

Il codice d’identificazione della mia tessera personale riporta i miei titoli accademici, il mio gruppo sanguigno, il mio nullaosta di segretezza… ma non fa alcuna menzione del fatto che ho passato quasi quarant’anni della mia vita bollato come persona disabile, come autistico. Qualcuno lo sa, naturalmente; il clamore pubblicitario che esplose quando la compagnia fece un tentativo (fallito) di commercializzare un trattamento per il controllo dell’attenzione dei lavoratori portò a tutti noi più notorietà di quanta ne volessimo. Bailey in particolare fu per i media il boccone più appetitoso. Io non avevo saputo quale cattivo esito avesse avuto per lui il trattamento finché non consultai gli archivi dei notiziari. Non ci hanno mai più permesso di rivederlo.

Mi manca Bailey. Non era giusto ciò che gli avvenne, e spesso me ne sentivo colpevole, anche se davvero non era affatto colpa mia. Mi mancano Linda e Chuy: speravo che accettassero di sottoporsi al trattamento quando avessero constatato come aveva guarito me; ma Linda non ha deciso di farlo se non l’anno scorso, dopo che io ho conseguito il dottorato. Chuy non ha mai voluto. L’ultima volta che l’ho visto mi ha ripetuto che è sempre contento di restare com’è. Mi mancano Tom e Lucia e Marjory e gli altri miei amici del circolo di scherma, che mi aiutarono tanto nei primi anni della mia guarigione. So che il Lou di prima amava Marjory, ma dentro di me non si mosse nulla la prima volta che la guardai dopo l’uscita dalla clinica. Dovevo scegliere, e… come il Lou di prima… scelsi di andare avanti, di rischiare il successo, di trovare nuovi amici, di essere quello che sono adesso.

Là fuori c’è il buio: il buio del quale ancora non sappiamo nulla. È sempre lì che aspetta, e in questo senso arriva sempre prima della luce. Il Lou di prima soffriva per il fatto che la velocità del buio fosse maggiore di quella della luce. Adesso invece io ne sono felice, perché ciò significa che correndo dietro alla luce non arriverò mai alla fine.

Adesso sono io a porre le domande.

Ringraziamenti

Tra le persone che più mi sono state d’aiuto nelle ricerche per questo libro ci sono bambini e adulti autistici e le loro famiglie, che per anni hanno comunicato con me, di persona o per iscritto o mediante Internet. Durante il periodo di gestazione del libro ho preso le dovute distanze dalla maggior parte di queste fonti (togliendo il mio nome dalle liste di posta elettronica e di news group eccetera) allo scopo di salvaguardare la loro privacy. Siccome la mia memoria è tutt’altro che buona, non è probabile che elementi atti a identificare quelle persone siano tornati a emergere dopo anni di mancati contatti. Una di loro, però, ha voluto rimanere in rapporto con me mediante e-mail; sarò sempre in debito con lei per la generosità che ha dimostrato nel discutere problemi relativi all’invalidità, all’inclusione e alla percezione di persone non autistiche. Essa tuttavia non ha (ancora) letto il mio libro, quindi non è responsabile di alcuna sua parte.

Tra le persone che hanno scritto opere su questo argomento, devo la massima riconoscenza a Oliver Sacks, i cui numerosi testi di neurologia portano l’impronta non solo del sapere ma anche della carità, e a Temple Grandin, la cui conoscenza di prima mano del fenomeno autistico mi è stata preziosa, oltre a essermi specialmente accessibile dato il mio interessamento di una vita al comportamento animale. I lettori che volessero procurarsi maggiori notizie sull’autismo possono consultare la bibliografia che compare nel mio sito Web.

J. Ferris Duhon, avvocato di grande esperienza per quanto riguarda la legislazione sul lavoro, mi ha aiutato a immaginare un ambiente legale ed economico in cui vengono stabiliti determinati principi per l’impiego di persone classificate come handicappate; tutte le altre eventuali implausibilità legali sono da addebitare a me, non a lui. J.B., J.H., J.K. e K.S. mi hanno fornito una visione dall’interno della struttura societaria e delle politiche di grandi multinazionali e di enti di ricerca; per ovvie ragioni hanno preferito quindi mantenere l’anonimato. David Watson è stato il mio consulente per la scherma, le associazioni che si dedicano a rievocazioni storiche e il protocollo dei tornei. Ripeto ancora che ogni inesattezza nei campi suddetti è da addebitare a me e non agli esperti del cui aiuto mi sono giovata.

La mia editor, Shelly Shapiro, ha saputo adoperare a mio beneficio le giuste dosi di fermezza e di licenza; e il mio agente Joshua Bilmes mi ha sostenuto con la sua fiducia nella mia abilità a portare a termine questo lavoro.

FINE