In un mondo sovrappopolato, che cercava spazio vitale nella giungla, l’Organizzazione Ecologica Internazionale sterminav sistematicamente dei voraci insetti che rendevano inospitali quelle zone. Uomini come Joha Martinho e i suoi aiutanti usavano bombole schiumogene mortali e nuove armi a vibrazione per ripulire l’inferno verde del Mato Grosso. Ma, per ragioni sconosciute, le aree già disinfestate completamente incominciarono a essere di nuovo assalite dagli insetti malgrado le impenetrabili barriere. Dalla giungla si sentirono strane storie… insetti divenuti enormi… creature dalle sembianze umane, ma i cui occhi avevano quel particolare scintillio degli insetti.

Frank Herbert

Il cervello verde

CAPITOLO PRIMO

Sembrava il figlio bastardo di un indio Guarani e di qualche contadina dell’altopiano sertao che avesse cercato di dimenticare la schiavitù del si­stema encomendero,«mangiando il ferro», che nel loro linguaggio significava amoreggiare attraverso le sbarre di un cancello.

Reggeva il suo personaggio in modo perfetto, sal­vo quando, attraversando le più estese radure del­la giungla, allentava il controllo su se stesso.

Allora la sua pelle tendeva ad assumere delle sfumature verdi che lo confondevano con lo sfondo di foglie e piante rampicanti, tanto da dare un effetto spettrale alla camicia grigia, ai pantaloni laceri, all’immancabile cappello di paglia sfilacciato e ai sandali di cuoio grezzo con suole ricavate da vecchi copertoni.

Questi cedimenti si facevano sempre meno fre­quenti man mano che si allontanava dalle sorgenti del Paranà, il retroterra sertao di Goyaz, abitato in prevalenza da uomini come lui, con capelli neri con frangia e lummosi occhi scuri.

Nel momento in cui raggiunse il villaggio bandeirante, aveva acquisito un controllo quasi com­pleto sull’effetto delle sue trasformazioni camaleontiche.

Ora era fuori della fitta vegetazione e imboccava i sentieri battuti di terra rossa che si snodavano attorno ai piccoli appezzamenti di terreno della nuo­va colonizzazione. A modo suo sapeva che stava per avvicinarsi a un posto di controllo bandeirante e con un gesto quasi umano toccò la cedula de graicias al sacar,il certificato di razza bianca infilato con cura sotto la camicia. Di tanto in tanto, quando gli esseri umani erano ancora lontani, si esercitava a pronun­ciare ad alta voce il nome che si era scelto: Antonio Raposo Tavares.

La sua voce risuonava leggermente stridula, con toni discordanti, ma sapeva che non avrebbe destato sospetti. Gli era già accaduto. Gli indios Goyaz era­no famosi per le strane inflessioni della loro parlata. Anche i contadini che gli avevano offerto un tetto e del cibo la notte precedente, parlavano allo stesso modo. Quando le loro domande si erano fatte più insistenti, si era accovacciato sui gradini di una del­le loro abitazioni e aveva suonato il qena,il flauto degli indiani delle Ande, che portava sempre con sé dentro una sacca di pelle. Suonare il flauto era un gesto simbolico della regione. Quando un Guarani avvicinava il flauto al naso e cominciava a suonare, voleva dire che la conversazione era finita. I conta­dini, alzando le spalle, si erano allontanati.

Camminando con una certa pesantezza e controllan­do attentamente le articolazioni delle gambe, si era trascinato nei pressi di una zona fittamente abitata. Poteva scorgere in lontananza le cime rosso scuro dei tetti e le vetrate scintillanti di una torre bandeirante con macchine volanti che atterravano e decol­lavano. La scena faceva stranamente pensare a un alveare.

Per un attimo si sentì sopraffatto dagli istinti che sapeva di dover padroneggiare. Quegli istinti avreb­bero potuto impedirgli di superare la dura prova che lo attendeva. Si scostò dal sentiero battuto per non incrociare esseri umani e ripassò mentalmente le re­gole che garantivano la sua vera identità. I suoi pen­sieri scavarono nel più profondo del suo essere: Sia­mo schiavi verdi soggetti alla grande totalità.

Riprese la strada in direzione del posto di con­trollo bandeirante. Ora aveva assunto un’aria servile che lo aiutava a difendersi dagli sguardi fissi degli umani che gli passavano accanto. La sua specie co­nosceva molte caratteristiche del comportamento umano e aveva ben presto imparato che il servili­smo era un ottimo camuffamento.

In quel momento il sentiero battuto lasciava il po­sto a una strada asfaltata a due corsie, ai lati della quale scorrevano stretti marciapiedi costruiti sopra i fossati. A sua volta questa strada, curvando, si im­metteva in un’autostrada a quattro carreggiate dove persino i marciapiedi erano asfaltati. Qui le macchi­ne terrestri e le macchine volanti erano più numero­se e il flusso del traffico pedonale era aumentato.

Fino a quel momento non aveva attirato l’atten­zione dei passanti. Poteva tranquillamente ignorare le occasionali occhiatine degli indigeni, mentre non si sarebbe lasciato sfuggire gli sguardi penetranti. Solo quelli infatti avrebbero rappresentato un pe­ricolo; ma fino ad allora non ne aveva captati. L’aria servile gli faceva da scudo.

Il sole era già alto e il calore del giorno comincia­va a scendere sulla terra, sollevando dai rifiuti, sparsi ai lati del sentiero, un’umidità fetida che si mescolava agli odori della traspirazione degli umani che lo circondavano. C’era una tale acidità nell’aria, che improvvisamente si trovò a pensare con nostal­gia ai profumi a lui familiari del retroterra di Goyaz. E oltre agli odori della pianura c’era qualcosa nel­l’aria che lo riempiva di un impercettibile senso di angoscia. Era qui dove si concentravano maggior­mente i veleni per insetti.

Ora gli umani erano tutti attorno a lui, vicini e incalzanti, costretti ad avanzare sempre più lenta­mente man mano che si avvicinavano all’ingorgo del posto di controllo.

Il movimento in avanti si arrestò.

Ora l’avanzata non era altro che un trascinarsi e fermarsi, un trascinarsi e fermarsi…

Era giunto il momento della grande prova, che or­mai nessuno poteva evitare. Rimase in attesa, con la pazienza tipica di un indio. A causa del caldo soffo­cante, il suo respiro si era fatto più profondo. Ne re­golò il ritmo con quello degli umani intorno a lui per potersi armonizzare con loro. Gli indios delle Ande non respiravano profondamente qui nelle pia­nure.

Si trascinava e si fermava.

Si trascinava e si fermava.

Ora poteva vedere il posto di controllo.

Severi e meticolosi bandeirantes, avvolti in man­telli bianchi con elmetti, guanti e stivali in materia­le sintetico, erano allineati in doppia fila all’om­bra di un camminamento di mattoni che condu­ceva alla città. Poteva scorgere la luce accecante del sole che illuminava la strada oltre il passaggio inter­no, dove la gente si precipitava una volta superata la grande prova.

La vista di quella zona libera oltre il muro suscitò in lui un’intensa inquietudine, che riuscì istantaneamente a dominare. Non era il momento di lasciarsi turbare. Ogni parte di sé doveva stare all’erta per nascondere qualsiasi moto di sofferenza.

Si trascinò e …si trovò tra le mani del primo bandeirante: un tipo alto e biondo, dalla carnagione rosea e gli occhi azzurri.

«Va’ avanti! Alla svelta!» disse.

Una mano inguantata lo condusse verso due bandeirantes ritti sul lato destro della fila.

«Nome?» chiese una voce alle sue spalle.

«Antonio Raposo Tavares», rispose con voce stri­dula.

«Distretto?»

«Goyaz.»

«Gli devi riservare un trattamento speciale», fe­ce il biondo gigante. «Viene sicuramente dalla re­gione interna.»

Ora si trovava nelle mani dei due bandeirantes. Uno gli infilava una maschera sul viso e l’altro un sacco di plastica addosso. Dal sacco pendeva un tubo che andava a congiungersi con un’appa­recchiatura posta nella strada oltre il corridoio.

«Doppia scarica!» fece uno dei bandeirantes.

Un’esalazione di gas blu gonfiò il sacco: sopraf­fatto dalla angosciosa necessità di aria pura, tirò un profondo e affannoso respiro attraverso la ma­schera.

Agonia!

Il gas gli attraversò ogni parte del corpo, provo­candogli profonde fitte di dolore.

Non dobbiamo cedere, pensò, dobbiamo tenere duro.

Ma era un dolore lancinante che lo stava ucci­dendo. Ogni fibra del suo corpo stava per cedere.

«Adesso basta», fece il bandeirante che reggeva il sacco.

Gli sfilarono il sacco e la maschera, quindi lo sospinsero giù per il corridoio, verso la luce del sole.

«Su, alla svelta! Non ostacolare il passaggio!»

Gli era rimasto addosso l’odore del gas velenoso. Era una prova che non si aspettava. Non l’avevano preparato a quel veleno; era pronto ad affrontare le radiazioni, le vibrazioni soniche e i vecchi pro­dotti chimici… ma non il gas velenoso.

Come uscì nella strada, la luce del sole lo in­vestì. Svoltò a sinistra e percorse un vicolo fian­cheggiato da bancarelle di frutta dove grassi mer­canti contrattavano coi clienti o se ne stavano in attesa con aria vigile dietro le loro mercanzie.

Sembrava che la frutta gli facesse cenni allet­tanti, promettendo rifugio ad alcune parti del suo corpo, ma il suo subconscio conosceva la vacuità di quel pensiero. Facendo appello alle poche forze che gli rimanevano, scansò un gruppetto di comprato­ri e avanzò fra le bancarelle.

«Vuoi comprare arance fresche?» Una mano scu­ra e untuosa gli avvicinò due arance al viso. «Aran­ce fresche giunte dalla campagna, mai state a con­tatto di un insetto.»

Cercò di evitare la mano, ma l’odore delle arance era irresistibile.

Allontanatosi dalle bancarelle, svoltò in un’angu­sta strada laterale al termine della quale vide in lontananza, alla sua sinistra, l’allettante vegetazio­ne dell’aperta campagna, la zona libera oltre la città.

Si diresse verso il verde, accelerando l’andatura e calcolando mentalmente il tempo che aveva anco­ra a disposizione. Sapeva che presto sarebbe acca­duto. Aveva gli abiti intrisi di veleno, ma l’aria pura filtrava attraverso il tessuto… il pensiero di una probabile vittoria fungeva da antidoto.

Possiamo ancora farcela!

Il verde si faceva sempre più vicino, alberi e fel­ci allineati lungo la sponda del fiume. Udì il gor­goglio dell’acqua che scorreva, respirò l’odore del­la terra bagnata. Vide un ponte brulicante di traf­fico pedonale che giungeva dalle strade confluenti.

Non c’era altra via… si unì alla calca, evitando per quanto possibile qualsiasi contatto. I legamenti del­le gambe e della schiena cominciavano a cedere, sa­peva che sarebbe bastato un semplice urto, un even­tuale scontro per rimuovere interi lembi di pelle.

Superata la prova del ponte, vide alla sua destra un sentiero battuto che dalla strada scendeva fino al fiume. Si mosse in quella direzione, andando a sbattere contro un uomo che assieme a un altro trasportava un maiale imprigionato in una rete. Un pezzo di pelle gli si staccò dalla coscia destra e se la sentì scendere giù per la coscia, attraverso i pan­taloni.

Il tizio col quale si era scontrato per poco non lasciò cadere il maiale. «Attento!» urlò.

«Maledetti ubriaconi!» fece eco il suo compagno.

I due uomini, attratti dai grugniti e dalle contor­sioni del maiale, si girarono verso la bestia.

Approfittò di quell’attimo di distrazione per al­lontanarsi e, imboccato il sentiero battuto, si tra­scinò verso il fiume.

In quel punto, l’acqua ribolliva per l’effetto del­l’aerazione proveniente dai filtri della chiusa, pro­vocando una densa schiuma in superficie.

Alle sue spalle uno dei due uomini disse: «Non credo che fosse ubriaco, Carlos. Aveva la pelle sec­ca e calda. Forse stava male».

Udì le loro parole e accelerò l’andatura. Il pezzo di pelle mimetica si era staccato del tutto ed era scivolato fino al polpaccio. I muscoli delle spalle e della schiena si smembravano, minacciando il suo equilibrio.

Il sentiero scorreva attorno a un cumulo di terric­cio e, fiancheggiato da una parete di felci e cespu­gli, si inoltrava in una galleria. Era sicuro di trovar­si lontano dalla vista dei due uomini. Strinse i pan­taloni nel punto in cui la pelle si staccava dalla gamba e attraversò lentamente la galleria.

Giunto all’uscita, scorse la sua prima ape abnor­me. Era morta, essendo passata attraverso i filtri di aerazione sprovvista di difesa contro i gas vele­nosi. L’ape era un tipo di farfalla dalle ali iride­scenti con sfumature gialle e arancione. Giaceva su una foglia verde illuminata da un raggio di sole.

Proseguì il suo lento cammino dopo essersi im­presso nella memoria la forma e i colori dell’inset­to. La sua specie aveva considerato le api come un possibile mezzo, tuttavia c’erano molti inconvenien­ti. Un’ape non poteva comunicare con gli esseri umani e questi ultimi dovevano immediatamente ascoltare la voce della ragione, altrimenti ogni sorta di vita sarebbe cessata.

Gli giunse il fruscio di qualcuno che avanzava di corsa giù per il sentiero. Passi pesanti calpesta­vano il terreno.

Sono inseguito?

Perché? Sono stato scoperto?

Una sensazione di panico si impadronì di lui e al tempo stesso gli procurò una nuova carica di energia. Ma era costretto a procedere sempre più lentamente. Presto la sua sarebbe stata soltanto una lenta e strisciante avanzata. I suoi occhi scru­tavano fra il verde alla disperata ricerca di un na­scondiglio.

Una sottile apertura oscurava la fitta parete di felci alla sua sinistra. Piccole impronte di piedi con­ducevano fino all’entrata… dei bambini, pensò. Si fece strada fra le felci e si trovò in un viottolo che fiancheggiava l’argine del fiume. Due aeroplanini, rossi e blu, giacevano abbandonati per terra. Bar­collando, premette un piede sul terrapieno.

Il viottolo portava vicino a una parete di terric­cio scuro ornata di piante rampicanti e, curvando bruscamente, terminava all’imboccatura di una ca­verna poco profonda. Altri giocattoli giacevano ab­bandonati nell’oscurità della caverna.

Si piegò sulle ginocchia e prese a strisciare fra i giocattoli verso quella sospirata frescura, quindi rimase lì ad aspettare.

D’un tratto, il rumore dei passi si fece più distin­to ed egli poté udire delle voci.

«Si è diretto verso il fiume. Credi che avesse in­tenzione di buttarsi?»

«Chi lo sa? Sono sicuro però che stesse male.»

«Guarda qui! Qualcuno deve essere passato di qui di recente!»

Le voci gli giungevano sempre più confuse, me­scolate al gorgoglio dell’acqua sottostante.

I due uomini si stavano allontanando giù per il sentiero. Non avevano scoperto il suo nascondiglio. Perché l’avevano inseguito? Sapeva di non aver fat­to male a quell’uomo. Sicuramente non nutrivano sospetti nei suoi confronti.

Comunque non era il momento di fare conget­ture. Si armò di coraggio per portare a termine il suo compito. Mise in azione tutte le sue energie e prese a scavare il terreno. Scavò sempre più in pro­fondità, gettando la terra alle sue spalle e fuori del­la caverna per simulare un crollo delle pareti. Sca­vò dieci metri in profondità prima di fermarsi.

La sua riserva di energie era sufficiente per lo stadio successivo. Si girò sulla schiena e cominciò a disseminare le parti morte della schiena e delle gambe deponendo l’ape regina e il suo sciame sul terriccio al di sotto della sua chitina. Dagli orifizi della coscia, fuoriusciva la secrezione bavosa, il ri­vestimento verde, che si sarebbe indurita in una co­razza protettiva.

Aveva vinto: le parti essenziali erano sopravvis­sute.

Ora la cosa più importante era il tempo, circa venti giorni per poter accumulare nuove energie, af­frontare la metamorfosi e disperdersi.

Presto ci sarebbero stati migliaia di esseri come lui, ognuno con il suo rivestimento mimetico e un certificato di identità; ognuno con un aspetto umano.

Tutti uguali a lui.

Ci sarebbero stati altri posti di controllo, ma non così severi; altre barriere, ma meno numerose.

Tale duplicato dell’essere umano si era dimostra­to soddisfacente. La suprema integrazione della sua specie aveva scelto bene. Aveva imparato molto stu­diando la natura degli schiavi nell’altopiano sertao. Ma era così difficile capire le creature umane. Persino quando veniva loro concessa una libertà limi­tata, era quasi impossibile comunicare con loro. La loro suprema integrazione escludeva qualsiasi pos­sibilità di contatto.

E rimaneva sempre insoluta la questione princi­pale: come poteva una qualsiasi suprema integrazio­ne permettere il verificarsi di una catastrofe che stava per colpire l’intero pianeta?

Com’era complicata la natura degli esseri umani, bisognava dimostrar loro… forse in modo dramma­tico, la condizione di schiavitù in cui si trovavano. L’ape regina si agitava fra il fresco terriccio, inci­tata all’azione dalle sue api guardiane. Il contatto unificativo attraversò tutte le parti del corpo alla ricerca di quelle superstiti, distribuendo forze. Questa volta avevano imparato nuovi sistemi per sfuggire all’attenzione degli esseri umani. Gli scia­mi successivi avrebbero fatto buon uso di questa conoscenza. Alla fine uno di loro si sarebbe messo in contatto con la città situata nei pressi del Rio delle Amazzoni, dove sembrava avesse origine la di­struzione totale.

Uno di loro doveva farlo.

CAPITOLO SECONDO

Nuvole di fumo color pastello galleggiavano nell’a­ria del cabaret. Ognuna, che fungeva da contrasse­gno, si alzava da un orifizio situato al centro di ciascun tavolo: qui un viola pallido, di fronte un rosa delicato come la pelle di un neonato, là un verde che ricordava la garza indiana tessuta con erbe della pampa. Erano le nove di sera e il caba­ret A’Chigua, il migliore di Bahia, aveva appena ini­ziato lo spettacolo. Un suono di campane tintin­nanti aveva intonato le prime note di un ritmo sen­suale, dando il via a un gruppo di ballerini in posa, ciascuno avvolto in un costume stilizzato raffigu­rante una formica. Le finte antenne e le mandibole ondeggiavano attraverso le nuvole di fumo.

I clienti abituali dell’A’Chigua occupavano dei bassi divani. Le donne, splendenti di colori tropica­li vivaci come fiori della giungla, sedevano di fron­te agli uomini vestiti di bianco e qua e là, come punti interrogativi, spiccavano le candide uniformi dei bandeirantes. In questa zona Verde, i bandeirantes potevano rilassarsi e divertirsi dopo aver presta­to servizio nella giungla Rossa o alle barriere.

Un cicaleccio continuo in una dozzina di lingue diverse aleggiava nel locale.

«Stasera mi è capitato un tavolo rosa. È il colore del seno delle donne, non è vero?» «Così ho co­sparso il formicaio con una schiuma insetticida e l’ho vuotato completamente… era pieno di formi­che come quelle della Piratininga. Dovevano essere dieci o venti miliardi.»

La dottoressa Rhin Kelly era rimasta in ascolto per una ventina di minuti, la sua attenzione era sempre più attratta dalle tensioni e dagli stati d’a­nimo di cui era carica l’atmosfera.

«Già, il nuovo metodo di disinfestazione…» fece un bandeirante seduto a un tavolo alle sue spalle che stava affrontando il problema dei superstiti «… contro gli insetti più resistenti. L’operazione di ripulitura finirà con l’essere un lavoraccio manua­le, proprio come in Cina, dove sono costretti a uc­cidere gli ultimi insetti con le mani».

Rhin udì il suo compagno rigirarsi sul divano e pensò: Deve aver sentito. Levò lo sguardo al di so­pra della colonnina di fumo color ambra e incon­trò gli occhi a mandorla del suo accompagnatore. Lo vide sorridere e pensò, come aveva già fatto al­tre volte, che questo dottor Travis Huntington Chen-Lhu era un «personaggio» veramente distinto.

Era alto, con un viso squadrato dalla carnagio­ne olivastra, sormontato da una massa di capelli ta­gliati corti, ancora neri nonostante la sessantina. Si piegò verso di lei e bisbigliò: «Non c’è modo di evitare le chiacchiere, eh?»

Lei scosse il capo, domandandosi forse per la de­cima volta come mai una persona di riguardo co­me il dottor Chen-Lhu, direttore di zona dell’Orga­nizzazione Internazionale di Ecologia, avesse insi­stito ad accompagnarla là quella sera, la sua pri­ma sera a Bahia. Non si faceva illusioni sul motivo per cui l’avesse invitata a lasciare Dublino: senza dubbio aveva un problema da risolvere che richie­deva l’intervento dei servizi di spionaggio dell’OIE. Come al solito, il problema avrebbe finito con l’im­plicare la manipolazione di qualcuno. Chen-Lhu glie­ne aveva accennato brevemente quel giorno stesso. Ma doveva ancora pronunciare il nome dell’uomo che lei avrebbe attirato con l’inganno.

«Si dice che certe piante muoiano per mancanza di impollinazione.» Adesso era una donna alle sue spalle che parlava e Rhin si irrigidì. Una conversa­zione pericolosa, quella.

Ma il bandeirante dietro di lei disse: «È meglio se tieni la bocca chiusa, bambola. Parli come quel­la signora che hanno pizzicato a Itabuna».

«Quale signora?»

«Una che distribuiva volantini dei Carsonites, proprio nel villaggio oltre la barriera. La polizia l’ha bloccata prima che potesse sbarazzarsi di una ventina di opuscoli. Gran parte del materiale è sta­to recuperato in tempo prima che potesse diffon­dersi, sai come vanno a finire queste cose, special­mente là, vicino alla zona Rossa.»

Del chiasso, proveniente dall’entrata, disturbò l’atmosfera del locale. Si udì una voce che gridava: «Johnny, ehi Johnny! Fortunato te!»

Rhin e gli altri clienti volsero lo sguardo in dire­zione delle voci e Rhin notò che Chen-Lhu fingeva indifferenza. Vide che anche i bandeirantes erano rimasti fermi ai loro posti come bloccati da una for­za misteriosa.

Ritto davanti a loro c’era un bandeirante che por­tava, attaccato al risvolto della giacca, un distintivo d’oro da capogruppo, raffigurante una farfalla. Rhin lo studiò con improvviso interesse e notò che era un uomo di media statura, dalla carnagione scura e dai capelli neri ondulati; era tarchiato, ma si muoveva con una certa agilità. Il suo corpo, che sprigionava forza, contrastava col viso magro e ari­stocratico, dominato da un naso sottile con una gibbosità pronunciata. Evidentemente i suoi ante­nati annoveravano senhores de engenho.

Rhin lo definì «di una bellezza brutale». Anco­ra una volta notò l’atteggiamento indifferente di Chen-Lhu e pensò: Ora capisco perché siamo qui.

Quel pensiero la rese stranamente consapevole del proprio corpo. Provò una momentanea sensa­zione di repulsione per il suo ruolo, mentre pensa­va: Mi sono data da fare e mi sono venduta per essere qui in questo momento. E che cosa mi ri­mane? Nessuno voleva le prestazioni professionali di Rhin Kelly, entomologo. Ma Rhin, una bellezza irlandese, era una donna che traeva piacere da «al­tre» sue prestazioni… questa Rhin Kelly era molto richiesta.

Se non mi piacesse questo lavoro, forse non l’o­dierei tanto, pensò.

Sapeva di non passare inosservata in quel luogo pieno di donne indigene dalla pelle scura. Aveva i capelli rossi, gli occhi verdi, la carnagione delicata punteggiata di lentiggini. In quel locale, vestita con un abito lungo che si armonizzava col colore dei suoi occhi e con un distintivo dorato dell’OIE ap­puntato sul petto, in quel locale, rappresentava il tipo esotico.

«Chi è quell’uomo all’ingresso?» chiese.

Un sorriso simile al soffio di una leggera brezza increspò i lineamenti finemente cesellati di Chen-Lhu. Lanciò uno sguardo verso l’entrata. «Quale uo­mo, mia cara? Ce ne sono almeno… sette.»

«Smettila di fingere, Travis.»

Gli occhi a mandorla si posarono su di lei, quin­di ruotarono verso il gruppo che sostava all’entrata. «È Joao Martinho, jefe degli Irmandades e figlio di Gabriel Martinho.»

«Joao Martinho», fece lei. «Deve essere quello di cui mi hai parlato, che dovrebbe aver carta bian­ca per ripulire la Piratininga.»

«Ha già avuto il denaro, mia cara. Per Johnny Martinho, è ciò che conta di più.»

«Quanto?»

«Ah, che donna pratica», disse lui. «Si sono spar­titi cinquecentomila cruzados.» Chen-Lhu si appog­giò allo schienale del divano, aspirò l’aroma pun­gente dell’incenso che si levava dalla colonnina di fumo del loro tavolo. Pensò: Cinquecentomila! Sa­ranno sufficienti per distruggere Johnny Martinho… se riesco a dimostrare le mie ragioni contro di lui. E con Rhin, come potrei fallire? Questo branco di idioti di Bahia sarà ben felice di accogliere una don­na affascinante come Rhin. Sì, avremo presto il no­stro capro espiatorio: Johnny Martinho, il capita­lista, il gran senhor addestrato dagli yankee.

«Negli ambienti di Dublino il nome di Joao Mar­tinho è famoso», disse Rhin.

«Ah sì?» fece lui. «Che cosa dicono?»

«Hanno parlato dei problemi sorti nella Pirati­ninga, è stato fatto il suo nome e quello di suo pa­dre.»

«Ah, capisco.»

«Circolano delle strane voci», osservò lei.

«Le trovi di cattivo augurio?»

«No, semplicemente strane.»

Strane, pensò lui. Quella parola gli provocò un momentaneo senso di sconforto, in quanto riecheg­giava il messaggio inviatogli dal suo paese, che lo aveva spinto a richiedere l’intervento di Rhin. La sua strana indolenza nel risolvere il problema sta sollevando inquietanti interrogativi. Il significato della parola e della frase era piuttosto palese. Chen-Lhu aveva captato l’impazienza che traspariva da quel messaggio: la scoperta di una catastrofe, che si profilava in Cina, poteva verificarsi da un mo­mento all’altro. E sapeva che non si fidavano di lui per via di un suo antenato di razza bianca. Disse abbassando il tono della voce: «Strano non è il ter­mine più adeguato per descrivere i bandeirantes che infestano di nuovo le zone Verdi.»

«Ho udito delle storie assurde», mormorò lei, «laboratori segreti dei bandeirantes… esperimenti illegali di mutamento…»

«Avrai notato, Rhin, che la maggior parte dei rap­porti su insetti strani, giganteschi, proviene dai ban­deirantes. Questa è l’unica stranezza secondo te.»

«È logico», fece lei, «i bandeirantes si trovano in prima linea, dove queste cose possono accadere.»

«Non mi dirai che tu, un entomologo, credi a que­ste assurdità», ribatté lui.

Rhin alzò le spalle, sentendosi stranamente per­versa. Travis aveva ragione, naturalmente; doveva essere così.

«Logico», proseguì Chen-Lhu, «strumentalizzare le più assurde dicerie per fomentare la paura detta­ta dalla superstizione fra i contadini tabareus: que­sta è l’unica logica, suppongo.»

«Così vuoi che mi lavori questo capo bandeirante», fece lei. «Che cosa dovrei scoprire?»

Dovrai scoprire quello che ti dirò io, pensò. Inve­ce disse: «Che cosa ti fa pensare che questo Martinho sia il tuo obiettivo? È un’informazione avuta a Dublino?»

«Oh», rispose lei, riuscendo a controllare uno scatto d’ira. «Non avevi un particolare motivo di far­mi venire qui. Il mio fascino era una ragione più che sufficiente!»

«L’hai detto!» Si volse e fece cenno a un came­riere che si avvicinò al tavolo. Subito dopo il came­riere si fece strada tra il gruppetto che stazionava all’entrata e parlò con Joao Martinho.

Il bandeirante lanciò una rapida occhiata a Rhin, quindi si volse per incontrare lo sguardo di Chen-Lhu. Questi fece un cenno col capo.

Alcune donne simili a farfalle di stoffa si erano unite al gruppo di Martinho. Lo sguardo dei loro oc­chi pesantemente truccati sembrava provenire da cavità sfaccettate.

Martinho si staccò dal gruppo e si diresse verso il tavolo contrassegnato dal fumo color ambra. Accennò un inchino a Chen-Lhu. «Il dottor Chen-Lhu, suppongo», disse. «Piacere di conoscerla. Come può l’OIE privarsi del suo direttore che si concede que­sto genere di distrazioni?» Con un gesto abbracciò l’atmosfera di frenetica tensione che regnava nell’A’Chigua.

E Martinho pensò: Ecco… gli ho manifestato i miei pensieri in modo che non possa fraintendermi.

«Mi concedo un po’ di svago», disse Chen-Lhu. «Un breve relax per dare il benvenuto a un nuovo membro del nostro staff.» Si alzò dal divano e ab­bassò lo sguardo su Rhin. «Rhin, ti presento il senhor Joao Martinho. Johnny, questo è il dottor Rhin Kelly di Dublino, il nostro nuovo entomologo.»

Intanto Chen-Lhu pensava: Questo è un nemico. Non devo commettere errori. È un nemico. È un nemico. È un nemico.

Martinho accennò un inchino. «Encantado.»

«Lieta di conoscerla, signor Martinho. Ho sentito parlare delle sue prodezze… persino a Dublino.»

«Persino a Dublino», ripeté lui. «Sono sempre stato favorito dalla sorte, ma mai come in questo momento.» La fissò con una intensità sconcertante, mentre si domandava quali compiti speciali le fos­sero stati affidati. Era l’amante di Chen-Lhu?

Il silenzio fu interrotto dalla voce di una donna seduta a un tavolo dietro Rhin: «I serpenti e i rodi­tori stanno esercitando una sempre crescente pres­sione sulla civilizzazione. L’ho letto nel…»

Qualcuno la zittì.

«Travis», disse Martinho, «francamente non capi­sco come possa una donna così affascinante essere chiamata dottore.»

Chen-Lhu fece un risolino forzato. «Attento, John­ny. Il dottor Kelly è il mio nuovo direttore setto­riale.»

«Un direttore itinerante, spero», ribatté Martinho.

Rhin lo guardò con freddezza; ma era una falsa freddezza. La franchezza di Martinho la eccitava e la spaventava al tempo stesso. «Sono stata messa in guardia circa il linguaggio adulatorio dei latini», disse. «È una caratteristica che si trasmette di pa­dre in figlio, mi hanno detto.»

La sua voce aveva assunto un tono gutturale che indusse Chen-Lhu a sorridere fra sé. Ricorda, questo è il nemico, pensò. «Vuole unirsi a noi, Johnny?»

«Mi evita la sfrontatezza di imporre la mia pre­senza. Tuttavia, come vede, sono accompagnato da alcuni dei miei bandeirantes.»

«Sembrano molto occupati», disse Chen-Lhu e fe­ce un cenno verso l’entrata, dove un gruppo di don­ne sfarfalleggiavano attorno agli amici di Martinho, meno uno. Donne e bandeirantes si stavano accomo­dando a un grande tavolo contrassegnato col fu­mo blu.

L’uomo rimasto solo distolse lo sguardo da Mar­tinho e lo posò sui suoi compagni attorno al tavolo, quindi si rivolse nuovamente verso Martinho.

Rhin lo studiò attentamente: capelli grigio cenere, faccia da ragazzo vecchio, deturpata da una cicatrice di acido che gli solcava la guancia sinistra. Le ricor­dava il sacrestano della sua parrocchia di Wexford.

«Ah, quello è Vierho», disse Martinho. «Lo chia­miamo il Padre. Non ha ancora deciso chi deve pro­teggere… i nostri fratelli Irmandades o il sottoscrit­to. Forse io ne ho maggior bisogno.» Fece un cenno in direzione di Vierho, quindi si volse e sedette vi­cino a Rhin.

Apparve un cameriere che depose sul tavolo un ca­lice trasparente colmo di una bevanda color oro, da cui spuntava un tubo di vetro.

Martinho lo ignorò continuando a fissare Rhin. «Allora, gli irlandesi sono pronti a unirsi a noi?»

«Unirsi a voi?»

«Sì, nella ricerca di un nuovo equilibrio ecolo­gico.»

La donna lanciò un’occhiata a Chen-Lhu che ri­mase impassibile, quindi rivolse nuovamente l’atten­zione su Martinho. «Anche gli irlandesi, come i cana­desi e i nordamericani, sono riluttanti, preferisco­no attendere.»

Martinho parve infastidito dalla risposta. «Voglio dire… che l’Irlanda ne valuta sicuramente i vantag­gi», disse. «Da voi non ci sono serpenti. Ciò deve…»

«Ciò è qualcosa che Dio ha fatto per mano di san Patrizio», ribatté Rhin. «Non riesco a immaginare che voi bandeirantes siate fatti della stessa pasta.» Lo disse in tono stizzito e se ne pentì immediata­mente.

«Avrei dovuto avvertirla, Johnny», si intromise Chen-Lhu. «Ha un temperamento irlandese.» E pen­sò: Sta recitando la commedia tutto a mio vantaggio, questo verme.

«Già», fece Martinho. «Se Dio non ha ritenuto di doverci sbarazzare degli insetti, forse sbagliamo nel cercare di farlo con le nostre mani.»

Rhin gli lanciò un’occhiata piena di sgomento.

Chen-Lhu soffocò uno scatto d’ira. Questo verme sta tentando di abbindolare Rhin per attirarla dalla sua parte. Deliberatamente!

«Il mio governo non riconosce l’esistenza di Dio», disse Chen-Lhu. «Forse se il buon Dio dovesse intro­durre uno scambio di ambasciate…» Batté la mano sul braccio di Rhin, e notò che stava tremando. «Co­munque, l’OIE è convinta che in capo a dieci anni la lotta sarà estesa fino a nord del confine del Rio Grande.»

«È questa la convinzione dell’OIE? O non è piut­tosto quella della Cina?»

«Di entrambe», affermò Chen-Lhu.

«Anche se il Nord America si oppone?»

«Suppongo che si lascerà persuadere.»

«E l’Irlanda?»

Rhin si sforzò di sorridere. «Gli irlandesi», disse, «sono notoriamente un popolo irragionevole.» Al­lungò la mano per prendere il suo drink, ma in quel momento la sua attenzione fu attratta da un bandeirante vestito di bianco, ritto di fronte a lei.

Martinho balzò in piedi e si inchinò nuovamente a Rhin. «Dottor Kelly, mi permetta di presentarle uno dei miei fratelli Irmandades, padre Vierho.» Quindi si rivolse al suo compagno: «Questa bellezza, stimato padre, è un direttore settoriale.»

Vierho fece un breve cenno col capo e con aria im­pacciata sedette a una estremità del divano, vicino a Chen-Lhu. «Encantado», mormorò.

«Sono poco mondani i miei Irmandades», disse Martinho, riprendendo il suo posto accanto a Rhin. «Sono certo che preferirebbero esser fuori a ucci­dere formiche.»

«Johnny, come sta suo padre?» chiese Chen-Lhu.

Senza distogliere gli occhi da Rhin, Martinho ri­spose: «La questione del Mato Grosso lo tiene mol­to occupato.» Fece una pausa. «Ha degli occhi in­cantevoli.»

Ancora una volta Rhin rimase sconcertata dalla sua disinvoltura. Sollevò il calice contenente il suo drink e disse: «Cos’è questa roba?»

«Ah, quello è idromele brasiliano. Lo assaggi. Nei suoi occhi ci sono dei puntini luminosi che si into­nano al colore dorato del suo drink.»

Rhin evitò di replicare. Avvicinò il bicchiere alle labbra e assaporò la bevanda. Quando colse lo sguar­do di Vierho fisso su di lei, si fermò col tubo di ve­tro vicino alle labbra.

«I suoi capelli sono proprio di quel colore?» chie­se Vierho.

Martinho scoppiò a ridere e disse in tono sorpreso e stranamente affettuoso: «Ah, Padre!»

Rhin assaporò il suo drink cercando di mascherare una sensazione di disagio; trovò che aveva un sapore delicato, dolce come l’aroma di certi fiori, con una punta di amaro.

«Ma sono veramente di quel colore?» insistette Vierho.

Chen-Lhu si sporse in avanti. «Molte ragazze irlan­desi hanno i capelli rossi, Vierho. Rispecchiano un temperamento selvaggio.»

Rhin posò il bicchiere sul tavolo, meravigliandosi delle sue stesse emozioni. Sentiva che fra Vierho e il suo capo si era instaurato un certo cameratismo e si rammaricava di esserne esclusa.

«Quali sono i suoi programmi, Johnny?» chiese Chen-Lhu.

Martinho lanciò un’occhiata a Vierho, quindi si ri­volse a Chen-Lhu e lo fissò con durezza. Per quale motivo questo funzionario dell’OIE mi rivolge una si­mile domanda, qui e in questo momento? si doman­dava. Chen-Lhu deve essere a conoscenza dei miei programmi. Non potrebbe essere altrimenti. «Mi sorprende che non ne abbia sentito parlare», rispo­se. «Oggi pomeriggio ho fatto un’ulteriore offerta per assicurarmi la Serra Dos Parecis.»

«Dove si trova il grosso insetto della Mambuca», mormorò Vierho.

Un improvviso impeto d’ira rabbuiò i lineamenti di Martinho. «Vierho!» esclamò.

Rhin fissò prima l’uno e poi l’altro. Uno strano si­lenzio era calato sul gruppo. Lo avvertì simile a un fremito per tutto il corpo. C’era in quel silenzio qual­cosa di spaventoso, persino di erotico… che la tur­bava profondamente. Captò la reazione del suo cor­po e ne ebbe una repulsione violenta. Sapeva che questa volta non era in grado di individuarne la vera causa. Poteva solo pensare: Ecco perché Chen-Lhu mi ha mandata a chiamare: per attirare questo Joao Martinho e manipolarlo a dovere. Lo farò, ma ciò che mi turba maggiormente è la certezza che ne trarrò piacere.

«Ma, capo», fece Vierho, «sai bene quel che han­no detto su…»

«Lo so», ringhiò Martinho. «Sì, lo so!»

Vierho annuì con espressione contrita. «Hanno detto che…»

«Che esistono insetti mutanti, lo sappiamo», pro­seguì Martinho. E pensò: Perché Chen-Lhu mi ha co­stretto a questa rivelazione? Per vedermi litigare con uno dei miei uomini?

«Insetti mutanti?» chiese Chen-Lhu.

«Abbiamo visto quello che abbiamo visto», tagliò corto Vierho.

«Ma quella ‘cosa’, come viene descritta, è una im­possibilità materiale. Non può che essere il prodotto di qualche superstizione, ne sono certo», insistette Martinho.

«Veramente, capo?»

«Comunque, qualunque cosa sia, siamo in grado di affrontarla», dichiarò Martinho.

«Di che cosa state parlando?» chiese Rhin.

Chen-Lhu si schiarì la voce. Lascia che ora scopra fino a che punto si spingerà il nemico, pensò. La­scia che si accorga della perfidia di questi bandeirantes. Poi, quando le avrò spiegato che cosa deve fare, non si tirerà certo indietro.

«C’è in giro una storia», disse Chen-Lhu.

«Una storia!» sogghigno Martinho.

«Delle chiacchiere, allora», si corresse Chen-Lhu. «Sembra che alcuni bandeirantes di Diogo Alvarez asseriscano di aver visto, nella Serra Dos Parecis, una mantide lunga tre metri.»

Vierho, teso in volto, si piegò verso Chen-Lhu. La cicatrice che gli solcava la guancia era impallidita. «Lo sa, senhor, che Alvarez ha perduto sei uomini prima di abbandonare la serra? Sei uomini! E…»

Vierho si interruppe all’apparire di un uomo tar­chiato dalla carnagione scura che indossava una tuta da lavoro piena di macchie. Si fermò alle spalle di Martinho e rimase in attesa.

Poi il nuovo venuto si chinò su Martinho e gli bi­sbigliò qualcosa all’orecchio.

Rhin riuscì a captare solo alcune parole (parlavano a voce molto bassa in un dialetto incomprensibile del retroterra), un accenno alla Plaza, la piazza cen­trale… folla.

Martinho si umettò le labbra e chiese: «Quando?»

Ramon si raddrizzò e disse alzando leggermente il tono della voce: «Proprio adesso, capo.»

«Nella Plaza?»

«Sì, a meno di un isolato da qui.»

«Di che cosa si tratta?» chiese Chen-Lhu.

«Di una pulce», fece Martinho.

«Una pulce?»

«Così dicono.»

«Ma questa è zona Verde», osservò Rhin sgo­menta.

Martinho si alzò e si allontanò dal divano.

Mentre alzava lo sguardo sul capo bandeirante, il viso di Chen-Lhu tradiva una certa preoccupazione.

«La prego di scusarmi, signorina», disse Martinho.

«Dove sta andando?» chiese lei.

«C’è un lavoro da sbrigare.»

«Una pulce?» insistette Chen-Lhu. «È sicuro che non si tratti di un errore?»

«Nessun errore, senhor», fece Ramon.

«Ma non esiste un modo per evitare questi incon­venienti?» chiese Rhin. «Ovviamente si tratta di un clandestino che è riuscito a infiltrarsi nella zona Verde, nascosto in qualche carico, oppure…»

«Forse no», replicò Martinho. Poi si rivolse a Vierho. «Raduna gli uomini. Avrò particolarmente bisogno di Thome per il camion e di Lon per mano­vrare le luci.»

«Subito, capo.» Vierho balzò in piedi e attraversò il locale per unirsi agli altri Irmandades.

«Che cosa significa… forse no?» chiese Chen-Lhu.

«Si tratta di quelle stranezze cui lei si rifiuta di credere», disse Martinho, poi si rivolse a Ramon: «Unisciti a Vierho, per favore.»

«Sì, capo.» Ramon fece dietrofront con una pre­cisione quasi militare, e si mosse sulla scia di Vierho.

«Vuole spiegarsi, per favore?» disse Chen-Lhu.

«Secondo la descrizione si tratta di un insetto, lun­go quasi mezzo metro, che spruzza acido», fece Martinho.

«Impossibile», ribatté Chen-Lhu.

Rhin scosse il capo. «È assolutamente improba­bile che una pulce…»

«È uno scherzo dei bandeirantes», affermò Chen-Lhu.

«Come vuole lei, senhor», disse Martinho. «Ha visto la cicatrice sulla guancia di Vierho? Anche quel­lo è il risultato di uno scherzo.» Si volse e si inchinò a Rhin. «Mi perdona, senhorita?»

Rnin si alzò. Una pulce lunga quasi mezzo metro? Adesso le ritornavano alla mente gli strani racconti uditi nella sua fanciullezza. Si sentiva turbata, come in preda a una sensazione di irrealtà. C’erano dei li­miti alla materia. Cose simili non potevano esistere. Oppure sì? Adesso era soprattutto un entomologo. Erano subentrate la logica e l’esperienza. Quella fac­cenda poteva essere provata o smentita nel giro di pochi minuti. A meno di un isolato da qui, aveva detto l’uomo. Nella Plaza. E sicuramente Chen-Lhu non le avrebbe permesso di liberarsi così in fretta di Martinho. «Veniamo con lei, naturalmente», disse.

«Naturalmente», fece eco Chen-Lhu, alzandosi.

Rhin si avvicinò a Martinho e lo prese a braccet­to. «Signor Martinho, per piacere, mi mostri que­sta fantastica pulce.»

Martinho pose una mano su quella di Rhin e provò una elettrizzante sensazione di calore. Che donna conturbante! «Preferirei di no», disse. «Lei è così attraente e se penso a quello che l’acido di…»

«Non ci facciamo influenzare dalle chiacchiere», intervenne Chen-Lhu. «Vuole farci strada, Johnny?»

Martinho sospirò. Le persone incredule sono così ostinate… tuttavia gli si profilava l’opportunità di far giungere alle alte sfere la inconfutabile prova di ciò che la maggior parte dei bandeirantes già co­nosceva. Sì, il direttore di zona Chen-Lhu sarebbe venuto. Doveva venire. Con riluttanza Martinho gli offrì il braccio di Rhin. «La invito a seguirmi, ma per favore, senhor, tenga lontana la nostra affasci­nante Rhin Kelly. A volte le chiacchiere degenerano in una brutta avventura.»

«Useremo le necessarie precauzioni», disse Chen-Lhu. Lo scherno nella sua voce era fin troppo evi­dente.

Gli uomini di Martinho si erano già avviati verso l’uscita. Si girò e li seguì a lunghi passi, ignorando i clienti del locale che in silenzio lo seguivano con lo sguardo.

Rhin, nel dirigersi verso la strada con Chen-Lhu, rimase colpita dall’apparecchiatura che i bandeiran­tes portavano sulle spalle. Non sembravano uomini sottomessi con l’inganno, eppure doveva essere co­sì. Non poteva essere altrimenti.

CAPITOLO TERZO

La strada era qua e là illuminata dalle lanterne blu e bianche appese ai carretti degli schiavi. Una fiu­mana multicolore di persone nei costumi nazionali e regionali, si dirigeva verso la Plaza, dopo aver oltre­passato l’A’Chigua.

Martinho accelerò il passo, guidando i suoi uomini fra la calca. Al loro passaggio la gente si faceva da parte mormorando.

«È Joao Martinho coi suoi Irmandades.»

«…quelli della Piratininga con Benito Alvarez.»

«Joao Martinho…»

Nella Plaza, un autocarro bianco dei bandeirantes Hermosillo aveva i fari puntati sulla fontana. Altri autocarri e numerose auto della polizia sostavano in mezzo al passaggio. Da come si presentava, il ca­mion degli Hermosillo doveva essere appena ritor­nato dal retroterra. I parafanghi estensibili erano ancora sporchi di terra. Nella capsula anteriore si potevano chiaramente distinguere delle incrostazio­ni di terra: una striscia netta che scorreva tutt’intorno al veicolo. Evidentemente l’autocarro era sta­to utilizzato per scavare un campo.

Martinho seguì la traiettoria dei fari e, accompa­gnato dai suoi uomini, si diresse verso la fila di po­liziotti e bandeirantes che trattenevano la folla. «Dov’è Ramon?» chiese.

Vierho gli si fece più vicino. «Ramon è andato a prendere l’autocarro con Thome e Lon. Capo, non vedo la pulce.»

«Guarda là», fece Martinho indicando la fontana.

La folla era stata fatta indietreggiare ed era dispo­sta in cerchio a una cinquantina di metri dalla fon­tana centrale che si ergeva maestosa con un gioco di getti d’acqua luminosi. Di fronte alla folla scorreva un muretto circolare, le cui mattonelle formavano un mosaico raffigurante varie specie di uccelli bra­siliani. All’interno di questo anello, si elevava un’aiuola verde di circa venti metri di diametro, al centro della quale era situata la vasca della fonta­na. Tra la decorazione a mosaico e la fontana l’aiuola presentava qua e là chiazze gialle di erba brucia­ta. Martinho indicò le macchie una per una.

«Acido», mormorò Vierho.

I fari si spostarono bruscamente per illuminare un movimento dietro il getto d’acqua nel bordo del­la fontana. Un sibilo attraversò la folla come un’im­provvisa folata di vento.

«Eccola», fece Martinho. «Adesso lo scettico fun­zionario dell’OIE dovrà crederci.»

Aveva appena finito di parlare quando uno spruz­zo luccicante proveniente dalla creatura si inarcò sull’aiuola.

«Ihhh, uhhh», urlò la folla.

Martinho percepì un debole lamento alla sua sini­stra. Si girò e vide che un medico veniva diretto ver­so il carro degli Hermosillo. Nel farsi strada tra la calca, teneva la borsa sollevata sul capo.

«Chi è stato colpito?» chiese Martinho.

Un poliziotto alle sue spalle rispose: «Si tratta di Alvarez. Ha cercato di catturare quella… cosa, ma aveva con sé soltanto uno scudo protettivo e un fu­cile a gas. Lo scudo non era sufficientemente gran­de per ripararlo dalla rapidità degli spruzzi. La pul­ce lo ha colpito a un braccio».

Vierho diede uno strattone alla manica di Martinho e indicò in direzione della folla alle spalle del poli­ziotto. Rhin Kelly e Chen-Lhu stavano avanzando tra i curiosi che, riconosciuto il distintivo dell’OIE, si facevano da parte.

Rhin, agitando la mano, urlò: «Senhor Martinho… quella cosa, è incredibile. Come minimo è lunga set­tantacinque centimetri. Deve pesare tre o quattro chili».

«Non credono ai propri occhi», osservò Vierho.

«Ci faccia passare, per favore», chiese Chen-Lhu al poliziotto che poco prima aveva parlato di Alvarez.

«Come? Oh… Sì, signore.» La fila di poliziotti si separò.

Chen-Lhu si fermò accanto al capo bandeirante, lanciò un’occhiata a Rhin, quindi si volse nuovamen­te a Martinho. «Eppure, continuo a non crederci. Non so che cosa darei per toccare con mano quella… cosa.»

«Che cosa non crede?» chiese Martinho.

«Penso che si tratti di una specie di automa. Non ti pare, Rhin?»

«Deve essere così», rispose lei.

«Quanto vuole scommettere?» incalzò Martinho.

«Diecimila cruzados.»

«Per favore, tenga lontano l’affascinante dottor Kelly.» Poi si rivolse a Vierho: «Come mai non si vede ancora Ramon con l’autocarro? Vallo a cercare. Voglio il nostro schermo di vetro e il fucile a gas».

«Capo!»

«Muoviti. E procurati anche una provetta di gros­se dimensioni.»

Vierho sospirò e si allontanò per eseguire l’ordine.

«Secondo lei cos’è quella cosa?» chiese Chen-Lhu.

«Non sta a me dirlo.»

«Vuole insinuare che si tratti di una di quelle cose che soltanto i bandeirantes hanno veduto?»

«Non smentisco ciò che i miei stessi occhi hanno veduto.»

«Quello che non mi spiego è come mai a noi non sia mai capitato di imbatterci in simili esemplari», meditò Chen-Lhu a voce alta.

Martinho soffocò a fatica uno scatto d’ira. Questo buffone, qui al sicuro nella zona Verde, osa mettere in dubbio quello che i bandeirantes hanno effettiva­mente veduto.

«Non trova che la mia osservazione sia giusta?»

«Dobbiamo ritenerci fortunati solo per il fatto di aver salva la vita», borbottò Martinho.

«Qualsiasi entomologo le direbbe che quella cosa è un’impossibilità materiale», fece Rhin.

«La materia non può sostenere una simile struttu­ra con quel genere di attività», affermò Chen-Lhu.

«Condivido l’opinione di voi entomologi», disse Martinho.

Rhin lo fissò stupita. Rimase sorpresa del suo rab­bioso cinismo. Attaccava, ma nello stesso tempo non rimaneva sulle difensive. Agiva come se fosse vera­mente convinto che quell’essere straordinario, là nel­la fontana, fosse in effetti un insetto gigantesco. Ma poco prima, al cabaret, aveva ragionato diversamente.

«Ha visto cose simili nella giungla?» domandò Chen-Lhu.

«Non ha notato la cicatrice sul viso di Vierho?»

«Che cosa può dimostrare una cicatrice?»

«Abbiamo visto… quello che abbiamo visto.»

«Ma un insetto non può raggiungere simili pro­porzioni!» protestò Rhin. Concentrò lo sguardo su quell’oscura creatura che si agitava lungo il bordo della fontana, al di là della cortina d’acqua.

«Così sembra», ribatté Martinho. Quindi ripensò alle voci che gli erano giunte dalla Serra Dos Parecis. Una mantide lunga tre metri. Sapeva come controbattere simili affermazioni. Rhin… la scien­za avevano ragione. Gli insetti non potevano assu­mere una simile struttura fisica. Era possibile che quelle cose fossero degli automi? Chi avrebbe po­tuto costruirle? E per quale motivo?

«Devono essere creature meccaniche», asserì Rhin.

«Tuttavia l’acido è autentico», osservò Chen-Lhu. «Guarda quelle chiazze gialle sull’aiuola.»

Martinho dovette ammettere che la sua basilare esperienza lo costringeva a convenire con Rhin e Chen-Lhu. Si era persino rifiutato di credere all’esi­stenza della mantide gigantesca. Sapeva che le chiac­chiere spesso degeneravano. Quel giorno nella zona Rossa c’erano praticamente solo i bandeirantes. E non si poteva certo negare che molti di loro fossero ignoranti, superstiziosi, attratti dal denaro e facil­mente suggestionabili. Scosse il capo. Eppure lui stes­so era presente quel giorno in cui Vierho era stato investito dall’acido. Aveva visto… quello che aveva visto. E adesso, quella creatura là nella fontana.

Il cigolio delle ruote degli autocarri lo riportò alla realtà. Il rumore si faceva sempre più stridulo. La folla indietreggiò per permettere all’autocarro di Ramon di fare marcia indietro e di accostarsi a quello degli Hermosillo. Lo sportello posteriore si aprì e Vierho saltò giù non appena il motore si spense.

«Capo», chiamò. «Perché non utilizziamo l’auto­carro? Ramon potrebbe avvicinarlo il più possibile alla…»

Martinho gli fece cenno di tacere, quindi si rivolse a Chen-Lhu. «Il camion non ha sufficiente manovra­bilità. Ha visto come sono veloci i movimenti di quella cosa.»

«Non mi ha ancora detto che cosa ne pensa», fe­ce Chen-Lhu.

«Glielo dirò quando avrò visto quella cosa dentro una provetta», rispose Martinho.

Vierho gli si accostò e disse: «Ma con il carro po­tremmo…»

«No! Il dottor Chen-Lhu vuole un esemplare in buo­no stato. Procurati delle bombe schiumogene. Ci andiamo a piedi.»

Vierho sospirò, quindi, alzando le spalle, si avviò verso la parte posteriore del carro e scambiò qual­che parola con un compagno. Questi cominciò a pas­sargli il materiale.

Martinho si rivolse al poliziotto che aiutava a trattenere la folla. «Può far avere un messaggio a quelle auto là in sosta?» disse.

«Certamente, signore.»

«Voglio che spengano i fari. Non vorrei rimanere abbagliato mentre sto lavorando. Mi capisce?»

«Comunico subito il messaggio, signore.» Si girò di scatto e andò a dare ordini a un funzionario in fondo alla fila.

Martinho si precipitò verso il camion, prese un fucile a gas ed esaminò il caricatore. Quindi lo estras­se e ne prese uno dalla rastrelliera fissata alla por­tiera del camion. Inserì il nuovo caricatore e lo esa­minò. «Lascia qui la provetta finché non avremo im­mobilizzato quella… cosa», disse. «Verremo a pren­derla in seguito.»

Vierho fece scivolare all’esterno lo schermo pro­tettivo: uno scudo di vetro temperato di due centimetri di spessore, resistente agli acidi, montato su un carrello a due ruote e manovrabile a mano. In una fessura laterale era stato infilato il fucile.

Dal camion un bandeirante porse due tute protet­tive: due strati di una fibra di vetro grigio-argentea rivestita di un tessuto sintetico resistente agli acidi.

Martinho ne infilò una e controllò le chiusure ermetiche. Vierho indossò l’altra.

«Thome potrebbe aiutarmi con lo scudo», fece Martinho.

«Non ha molta esperienza, capo.»

Martinho annuì e prese a controllare le bombe schiumogene e l’equipaggiamento supplementare, quindi appese degli altri caricatori nella rastrelliera dello scudo.

Tutto fu eseguito in silenzio e con la massima ra­pidità, con quell’abilità conseguita dopo una lunga esperienza. La folla dietro l’autocarro aspettava in silenzio, un’attesa carica di tensione. Solo un leggero brusio circondava il camion.

«È ancora là nella fontana, capo», fece Vierho. Impugnò il manico dello schermo protettivo e lo di­resse verso le piastrelle che decoravano il pavimento. La ruota destra si fermò sulla figura di un condor dipinta in una gradazione di blu.

Martinho ripose il fucile nella fessura e disse: «Sa­rebbe più semplice se dovessimo limitarci a soppri­merla».

«Quelle cose sono veloci come una saetta», os­servò Vierho «È una faccenda che non mi piace, capo. Se lo scudo non dovesse ripararci…» Si toccò la manica della tuta. «Questa qui diventerebbe co­me una carta assorbente.»

«Dobbiamo manovrare lo scudo con molta atten­zione.»

«Farò del mio meglio, capo.»

Martinho studiò la creatura, immobile sul bordo della fontana, dietro la cortina d’acqua e disse: «Va’ a prendere una torcia elettrica. Forse riusciamo ad abbagliarla».

Vierho bloccò lo scudo e si precipitò verso il ca­mion. Riapparve dopo pochi minuti con una torcia appesa alla cintura della tuta.

«Andiamo», ordinò Martinho.

Vierho allentò il freno dello scudo e avviò il mo­tore che emise un debole ronzio. Spostò di due tac­che la leva di comando e lo scudo avanzò lentamen­te, sollevandosi per superare il cerchio di mattonel­le in rilievo, quindi si fermò nell’aiuola.

Uno spruzzo di acido scaturì dalla creatura e schizzò sull’erba a dieci metri da loro. Un fumo bian­castro si levò dall’aiuola e, sospinto da una leggera brezza, si dissolse alla loro sinistra.

Martinho notò la direzione della brezza e ordinò a Vierho di girare lo scudo controvento.

Un altro getto di acido ricadde vicino a loro, qua­si alla stessa distanza.

«Sta cercando di dirci qualcosa, capo», scherzò Vierho.

Lentamente le si avvicinarono, attraversando una chiazza di erba ingiallita.

Un ulteriore spruzzo d’acido si levò dal bordo del­la fontana.

Vierho spostò il carrello all’indietro. L’acido schiz­zò il vetro e scivolò sulla parte anteriore del carrel­lo. Un odore acre li investì.

Un mormorio concitato si levò dalla folla radunata attorno alla Plaza.

«Sono pazzi a rimanere così vicini», fece Vierho. «Se quella cosa dovesse attaccare…»

«Qualcuo le sparerebbe addosso», ribatté Martinho. «E sarebbe la fine della pulce.»

«La fine di un esemplare per le ricerche del dottor Chen-Lhu», proseguì Vierho, «e addio ai dieci­mila cruzados».

«Sì», proseguì Martinho, «non dobbiamo dimen­ticare la ragione per cui corriamo un simile rischio».

«Non penserai che lo faccia per divertimento», disse Vierho e spostò in avanti lo scudo di un altro metro.

Una nuvola di vapore si addensò nel punto in cui l’acido era ricaduto.

«Ha intaccato il vetro!» esclamò Vierho in tono sbalordito.

«Dall’odore sembra acido ossalico», affermò Mar­tinho. «Deve essere anche più potente. Fa’ attenzio­ne, adesso. Non dobbiamo mancare il bersaglio.»

«Perché non provi con una bomba fumogena?»

«Vierho!»

«Ahhh, sì, l’acqua.»

La creatura cominciò a scivolare lungo la fontana alla loro destra. Vierho girò lo scudo per difendersi dal nuovo attacco. La creatura si fermò, quindi re­trocesse.

«Aspetta un momento», disse Martinho. Studiò la creatura attraverso un punto nitido del vetro.

Si spostava avanti e indietro, chiaramente visibile sullo sfondo oscuro della folla. Aveva le stesse ca­ratteristiche del suo piccolo omonimo, esattamente come una caricatura potrebbe evidenziarle. Le se­zioni del suo corpo erano sorrette da zampe nervate ricoperte di ispida peluria. Le antenne, rigide e ba­gnate sulla punta, brillavano alla luce dei fari. D’un tratto sollevò la proboscide e schizzò una gran quan­tità di liquido in direzione dello scudo.

Martinho si abbassò di scatto. «Dobbiamo avvici­narci ancora», disse, «non dobbiamo darle il tempo di riprendersi, dopo averla stordita».

«Con che cosa è caricato il fucile, capo?»

«Con una miscela speciale: solfuro diluito e su­blimato corrosivo in una capsula di butile che a con­tatto dell’aria si condensa. Voglio fare in modo che le zampe si aggroviglino.»

«Mi auguro che tu abbia anche qualcosa per ot­turare il foro della proboscide.»

«Muoviti, vecchio mio», lo esortò Joao.

Vierho avvicinò a sé lo scudo e si sporse per scru­tare attraverso la nube provocata dall’acido.

La pulce gigante saltò lateralmente, si girò, sfrec­ciò a destra lungo il bordo della fontana. D’un trat­to fece un giro su se stessa e spruzzò un abbondante getto d’acido nella loro direzione. Il liquido, illumi­nato dai fari dei camion, scintillava come una casca­ta di gioielli.

Vierho riuscì a stento a spostare lo scudo per di­fendersi da questo ulteriore attacco. «Al diavolo i diecimila cruzados!» brontolò. «Non mi va di ri­schiare la pelle in questo modo. Non siamo dei toreri, noi.»

«Questo non è un toro, fratello. Non ha le corna.»

«Ti dirò che preferirei avesse le corna.»

«Stiamo perdendo tempo in chiacchiere», fece Martinho. «Avviciniamoci ancora, d’accordo?»

Vierho spinse in avanti lo scudo fino ad arrivare a soli due metri dalla creatura. «Spara!» sibilò.

«Un colpo solo», disse Martinho. «Non dobbiamo danneggiare l’esemplare. Il dottor Chen-Lhu lo vuole intatto.»

E pensò: Anch’io lo voglio.

Puntò il fucile contro la creatura, ma questa bal­zò prima sull’aiuola, poi ritornò sul bordo della fon­tana. Un urlo si levò dalla folla.

Martinho e Vierho si acquattarono per osservare la loro preda che continuava a saltare avanti e in­dietro sull’aiuola.

«Perché diavolo non si ferma un momento?» fe­ce Martinho.

«Capo, se dovesse saltare sotto lo scudo, saremmo rovinati. Che cosa aspetti? Falla fuori!»

«Devo essere sicuro di centrarla.»

Fece oscillare il fucile da una parte e dall’altra, se­guendo i movimenti dell’instancabile insetto. Ogni volta sfuggiva alla loro visuale per spostarsi sempre più verso destra. Improvvisamente si girò e sfrecciò verso il lato opposto attorno al bordo della fontana. Ora l’intera cortina d’acqua li separava dalla preda, ma i fari ne avevano seguito la ritirata e potevano segnalarne la posizione. In quel momento Martinho fu colto dal sospetto che la cosa stesse cercando di attirarli in un tranello. Sollevò lo schermo visivo della tuta e si asciugò la fronte con la mano sinistra. Era madida di sudore. La notte era calda, sebbene lì, vicino alla fontana, ci fosse una frescura carica di umidità, mescolata all’odore amarognolo dell’acido.

«Siamo nei guai», mormorò Vierho. «Con la fon­tana di mezzo, come faremo a catturarla?»

«Andiamo», disse Martinho. «Se rimane dov’è, faccio uscire un’altra squadra. Allora non potrà sfuggirci.»

Vierho prese a manovrare lo scudo lateralmente attorno alla fontana. «Sono ancora dell’idea che avremmo dovuto utilizzare il camion», affermò.

«Troppo grande e ingombrante», replicò Martinho. «Inoltre avrebbe potuto spaventarla tanto da indurla a cercare riparo fra la folla, mentre così può pensare di avere una via di scampo.»

«Sono d’accordo con te, capo.»

In quel momento la pulce gigante sfrecciò verso di loro, poi si fermò e strisciò all’indietro tenendo la proboscide rivolta verso lo scudo. Sembrava un ber­saglio sicuro, ma la grande quantità di acqua che sgorgava fra la bestia e Martinho impedì a quest’ul­timo di sparare.

«Abbiamo il vento alle spalle, capo», osservò Vierho.

«Lo so. Speriamo che non le salti in mente di spruzzare acido in questo momento. Il vento ce lo farebbe ricadere sulla schiena.»

La pulce si ritrasse in una zona in cui la struttura superiore della fontana la riparava dalla luce acce­cante dei fari. Andava avanti e indietro nella zona buia, un movimento oscuro attraverso la cortina di acqua.

«Capo, ho idea che quella cosa non rimarrà lag­giù a lungo.»

«Tieni lo scudo un momento», disse Martinho. «Credo che tu abbia ragione. Dobbiamo sgombrare la piazza. Se le saltasse in mente di assalire la folla, qualcuno potrebbe farsi del male.»

«Hai detto una cosa giusta.»

«Vierho, prendi la torcia e vedi di abbagliarla, nel frattempo mi sposterò sulla destra e cercherò di colpirla a distanza.»

«Capo!»

«Hai un’idea migliore?»

«Almeno spingiamo il carrello più avanti, là nel­l’aiuola. Così non saresti troppo vicino se…»

Ancora nascosta all’ombra della fontana, la pulce balzò sull’aiuola.

Vierho alzò la torcia e un fascio di luce bianco-azzurra inondò la creatura. «Dio mio, capo! Ammaz­zala.»

Martinho fece roteare il fucile per puntarlo nella nuova direzione, ma la fessura dello scudo gli bloc­cò il movimento a metà. Imprecò e afferrò la leva di comando, ma, prima che potesse girare lo scudo, una sezione dell’aiuola, illuminata a giorno dalla lu­ce della torcia, si sollevò dietro la pulce come una botola. Una sagoma nera, sormontata da qualcosa che sembrava una testa tricorne, emerse parzialmen­te dal buco con un suono simile a uno stridulo ri­chiamo.

La pulce sfrecciò oltre la sagoma misteriosa e scomparve nel buco.

Adesso la folla urlava, un frastuono assordante mi­sto a rabbia, paura ed eccitazione selvaggia riempi­va l’atmosfera della Plaza.

Ciononostante, Martinho poté udire la voce di Vie­rho che recitava una preghiera, quasi una cantilena: «Santa Maria, Madre di Dio…»

Martinho cercò di spinger lo scudo verso la crea­tura nascosta nel buco, ma Vierho, che invece voleva retrocedere, glielo impedì. Lo scudo fece un giro su se stesso e i due rimasero allo scoperto, mentre là nell’aiuola la sagoma nera si sollevava di un altro mezzo metro. Martinho poteva vederla distintamen­te immersa nel chiarore della torcia: la cosa asso­migliava a un gigantesco cervo volante, alto più di un uomo e con tre corna.

Disperatamente, Martinho sfilò il fucile e lo puntò contro la sagoma mostruosa.

«Capo, capo, capo!» insisteva Vierho.

Martinho puntò l’arma e fece partire una scarica in direzione della creatura.

La miscela velenosa la investì in pieno e l’avvolse.

La creatura, con la gigantesca mole contorta per l’effetto dello spruzzo, esitò, quindi emerse ulterior­mente dalla tana con un grido stridulo simile a un grugnito che risuonò distintamente al di sopra delle urla della folla.

All’improvviso un silenzio agghiacciante scese sul­la Plaza, mentre la creatura enorme sovrastava la folla… un mostro corazzato verde, nero e luccicante, con una mole che superava di un metro quella di un uomo.

Martinho poté udire un suono, uno strano gorgo­glio simile a quello della fontana, ma più distinto.

Con cautela puntò nuovamente il fucile contro la testa tricorne e in dieci secondi svuotò il caricatore. Il mostro si impennò minaccioso e parve lottare con­tro la nube appiccicosa di gas, quindi indietreggiò e scomparve nella sua tana.

«Capo, andiamocene da qui», insisteva Vierho. «Per favore, capo.» Girò lo scudo in modo che fun­gesse da barriera tra loro e l’insetto gigantesco. «Per favore», ripeté, tentando di far retrocedere Mar­tinho con lo scudo.

Martinho prese un altro caricatore, lo infilò nel fucile e con la mano sinistra afferrò una bomba schiu­mogena. Era come svuotato di qualsiasi emozione, ma sentiva impellente la necessità di attaccare quel mostro e di ucciderlo. Fece per lanciare la bomba quando si accorse che il carrello era come inchiodato al terreno. Alzò lo sguardo e scorse una massa com­patta di liquido che dalla creatura mostruosa si ri­versava sul carrello.

«Scappa!» urlò Vierho.

Fecero un balzo indietro, trascinando via lo scudo.

Non appena si trovarono fuori bersaglio, l’attacco cessò. Martinho si fermò e guardò indietro. Sentiva Vierho tremante accanto a sé. L’oscura creatura sta­va lentamente scomparendo nella sua tana. Era la ritirata più minacciosa a cui Martinho avesse mai assistito. Dai suoi movimenti trapelava chiaramen­te l’intenzione di ritornare all’attacco. In breve scom­parve dalla vista e la sezione dell’aiuola si chiuse dietro di essa.

Come se quello fosse stato un segnale, le grida del­la folla si alzarono tutt’intorno alla Plaza. Martinho poteva captare la paura nelle voci della gente anche se non riusciva a distinguere le parole.

Sollevò lo schermo visivo della tuta e rimase in ascolto. Gli giungevano parole simili a grida acute, frasi spezzettate: «È un insetto mostruoso?» «Hai udito le voci che giungono dalla costa?» «L’intera regione rischia di essere infestata!» «…al convento del Monte Ochoa… l’orfanotrofio…»

La stessa domanda veniva continuamente ripetuta in ogni angolo della Plaza: «Che cos’era?» «Che cos’era?» «Che cos’era?»

Martinho avvertì la presenza di qualcuno alla sua destra, si volse e scorse Chen-Lhu con gli occhi fissi nel punto in cui la forma nera era scomparsa. Non c’era traccia di Rhin Kelly.

«Sì, Johnny», disse Chen-Lhu. «Che cos’era?»

«Sembrava un enorme cervo volante», rispose Martinho, sorpreso della calma che traspariva dalla sua stessa voce.

«Era più alto di un uomo», mormorò Vierho. «Capo… quelle voci sulla Serra Dos Parecis…»

«Ho udito la folla parlare del Monte Ochoa e del­l’orfanotrofio», fece Martinho. «Di che cosa si trat­ta?»

«Rhin è andata a fare delle indagini per suo con­to», spiegò Chen-Lhu. «Si sentono delle voci molto preoccupanti. Sto facendo sgombrare la piazza e di­sperdere la folla.»

«A che cosa si riferiscono le voci?» chiese Mar­tinho.

«Deve essere successa una tragedia sulla costa e anche al convento del Monte Ochoa, all’orfanotro­fio.»

«Che tipo di tragedia?»

«È ciò che Rhin sta cercando di scoprire.»

«Ha visto quella cosa là nell’aiuola», chiese Martinho. «Ora non avrà più dubbi circa le nostre re­lazioni di questi ultimi mesi.»

«Ho visto un automa che spruzzava acido e un uomo mascherato da cervo volante», disse Chen-Lhu. «Sarei curioso di sapere se lei era al corrente di que­sta simulazione.»

Vierho imprecò sommessamente.

Martinho fece una pausa per soffocare un improv­viso impeto d’ira e si limitò a dire: «Non mi è parso affatto un uomo mascherato». Scosse il capo. Non poteva permettere che l’emozione gli annebbiasse la ragione, non era il momento. Gli insetti non possono raggiungere quelle dimensioni. La forza di gravità… Di nuovo scosse il capo. Allora che cos’era? «Do­vremmo almeno prelevare dei campioni di acido là nell’aiuola», disse. «Ed esaminare attentamente il buco.»

«Ho già incaricato il nostro Servizio di Sicurez­za», dichiarò Chen-Lhu, mentre meditava su come avrebbe steso il rapporto per i suoi superiori dell’OIE e quello speciale per il suo governo.

«Non ha notato come sembrava dissolversi nel buco quando l’ho colpito con lo spruzzo?» chiese Martinho. «Il veleno può essere doloroso, Travis. Un uomo avrebbe urlato.»

«Un uomo in una tuta protettiva», disse Chen-Lhu. Cominciò ad avere dei dubbi sul conto di Martinho. La sua perplessità sembrava genuina. Pazienza. In ogni modo l’incidente si sarebbe dimostrato utile. Questo, Chen-Lhu l’aveva capito.

«Ma è uscito di nuovo dalla tana», disse Vierho. «L’ha visto con i suoi occhi.»

Improvvisamente un suono simile a un lamento riecheggiò lugubremente fra la folla che veniva al­lontanata dalla Plaza.

Martinho si volse e chiamò: «Vierho».

«Sì, capo?»

«Va’ a prendere le carabine dal camion.»

«Subito, capo.» Vierho attraversò di corsa l’aiuola e si diresse verso l’autocarro, ora parcheggiato in una zona scoperta e attorniato da un gruppo di bandeirantes.

Martinho notò che gli uomini di Alvarez erano i più numerosi; c’erano anche gli Hermosillo e i Junitza.

«Che cosa vuole fare con la carabina?» chiese Chen-Lhu.

«Vado a dare un’occhiata in quel buco.»

«I miei uomini saranno qui da un momento al­l’altro. Meglio aspettarli.»

«Ci vado adesso.»

«Martinho, le dico che…»

«Lei non è un rappresentante del governo brasi­liano, dottore. Sono stato incaricato dal mio gover­no di portare a termine un determinato compito e lo farò comunque.»

«Martinho, se lei distrugge la prova di…»

«Lei non si trovava in prima linea, dottore, ma era al sicuro nelle retrovie, mentre io mi stavo gua­dagnando il diritto di guardare in quel buco.»

I lineamenti di Chen-Lhu si irrigidirono per l’ira, ma egli si impose di non ribattere finché non fosse riuscito a controllare la sua voce. Quindi disse: «In tal caso verrò con lei».

«Come vuole.»

Martinho si girò e notò che i bandeirantes stavano sfilando le carabine dalla rastrelliera dell’autocar­ro. Vierho le prese e riattraversò l’aiuola.

Un negro di alta statura, completamente calvo e con il braccio destro al collo, gli si mise di fianco. Indossava un’uniforme bianca da bandeirante, con il distintivo dorato da caposquadra sulla spalla destra. I suoi grossi lineamenti erano tirati in una smorfia di sofferenza.

«Ecco Alvarez», disse Chen-Lhu.

«Già.»

Chen-Lhu si mise di fronte a Martinho e con un mesto sorriso in armonia con il tono della sua voce, disse: «Johnny, non dobbiamo litigare. Lei sa per­ché l’OIE mi ha inviato in Brasile».

«Lo so. La Cina ha già portato a termine il pro­gramma di ricerca di un nuovo equilibrio ecologico.»

«Non ci rimangono che le api abnormi adesso, Johnny… non una sola creatura che diffonda malattie o che si nutra del cibo destinato agli esseri umani.»

«Lo so, Travis. So anche che lei è qui per facili­tare il nostro lavoro.»

Chen-Lhu aggrottò la fronte captando un tono di paziente incredulità nella voce di Martinho. «Esat­tamente», disse.

«Allora perché non permette ai nostri osservatori o a quelli dell’ONU di andare loro stessi a control­lare?»

«Johnny! Certamente non ignora le sofferenze pa­tite dal mio popolo sotto il dominio degli imperiali­sti bianchi. Tra la nostra gente c’è chi è convinto che il pericolo sia ancora latente. Vedono spie ovunque,»

«Ma lei è un uomo di mondo, è un uomo intelli­gente, eh, Travis?»

«Certamente! La mia bisnonna era inglese, una Travis-Huntington. L’apertura mentale è sempre sta­ta una caratteristica della nostra famiglia.»

«Strano che il suo paese le accordi fiducia», os­servò Martinho. «Lei è in parte un imperialista bian­co.» Si volse per salutare Alvarez. «Ciao, Benito. Mi dispiace per il tuo braccio.»

«Ciao, Johnny.» La voce di Alvarez era profonda e tonante. «Dio mi ha protetto. Guarirò presto.» Lanciò un’occhiata alle carabine, quindi si volse nuo­vamente a Martinho. «Ho udito il Padre richiedere delle carabine. Che cosa hai intenzione di fare?»

«Devo guardare in quel buco, Benito.»

Alvarez accennò un rigido inchino a Chen-Lhu. «Lei non si oppone, vero, dottore?»

«Vorrei oppormi, ma non ne ho l’autorità», ri­spose Chen-Lhu. «Il suo braccio è ferito gravemen­te? Le manderò uno dei miei medici a dargli un’oc­chiata.»

«Il braccio guarirà», tuonò Alvarez.

«Vuole veramente sapere se sei davvero ferito», si intromise Martinho.

Chen-Lhu lo guardò con aria interrogativa, ma fece finta di nulla.

Vierho porse una carabina al suo capo, dicendo: «Capo, allora andiamo?»

«Perché il buon dottore dovrebbe dubitare che io sia ferito?» chiese Alvarez.

«Gli sono giunte delle strane voci», spiegò Martinho.

«Quali voci?»

«Che noi bandeirantes stiamo infestando di nuovo le zone Verdi per prolungare il nostro lavoro e che alleviamo strani insetti in laboratori segreti.»

«Che stupidaggini!» brontolò Alvarez.

«E di quali bandeirantes si tratterebbe?» chiese Vierho. Guardò cupamente Chen-Lhu, quindi imbrac­ciò la carabina come se volesse puntarla contro il funzionario dell’OIE.

«Vacci piano, Padre», fece Alvarez. «Le voci sono sempre molto vaghe, non fanno mai nomi.»

Martinho volse lo sguardo nel punto in cui la gi­gantesca figura del cervo volante era scomparsa. Trovava più allettante il dialogo con Chen-Lhu e con i suoi compagni dell’idea di dover andare a perlu­strare la tana del mostro. L’aria della sera era cari­ca di un senso di oscura minaccia… di isterismo. E ciò che gli pareva più strano era la sua riluttanza ad agire di fronte a tutti. Era come la tregua dopo un’ardua battaglia.

È una specie di guerra, disse fra sé.

In Brasile stavano ormai lottando da otto anni. In Cina la lotta era durata ben ventidue anni. E, se­condo l’opinione dei cinesi, il Brasile ce l’avrebbe fatta in dieci anni. Per un attimo il pensiero che po­tesse durare ventidue anni, vale a dire altri quattor­dici, lo fece rabbrividire. Una fatica mostruosa.

«Dovete ammettere che stanno accadendo strane cose», disse Chen-Lhu.

«Già», convenne Alvarez.

«Perché nessuno sospetta i Carsonites?» insinuò Vierho.

«Una domanda intelligente, Padre», disse Alvarez. «I Carsonites possono contare su numerosi appoggi esterni… tutte le nazioni alleate: Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Europa.»

«Paesi che non hanno mai avuto grossi fastidi con gli insetti», osservò Vierho.

Stranamente, adesso era Chen-Lhu che protesta­va: «No, le nazioni alleate non sono realmente in­teressate, ma soddisfatte di vederci occupati in que­sta lotta».

Martinho annuì. Sì, la stessa cosa l’avevano detta i suoi compagni al tempo in cui studiava in Nord America. Non se ne curavano minimamente. «Ades­so vado a dare un’occhiata in quel buco», annunziò.

Alvarez prese la carabina di Vierho e se la mise a tracolla sulla spalla sana, quindi impugnò la ma­novella del carrello. «Vengo con te, Johnny.»

Martinho guardò Vierho e notò un’espressione di sollievo sul suo viso. Si rivolse ad Alvarez. «E il tuo braccio?»

«Non preoccuparti, me ne rimane un altro.»

«Travis, si metta dietro di noi», disse Martinho.

«I miei uomini sono appena arrivati», fece Chen-Lhu. «Aspettate un momento, propongo di accer­chiare il luogo. Dirò loro di portare gli scudi.»

«Lo trovo saggio, Johnny», approvò Alvarez.

«Ci avviamo lentamente», aggiunse Martinho. «Padre, va’ all’autocarro e di’ a Ramon di guidarlo fino al bordo dell’aiuola. Poi fa’ in modo che i fari del carro Hermosillo siano puntati sull’aiuola.»

«Subito, capo.»

«Non manderete all’aria tutto?» disse Chen-Lhu.

«Anche noi siamo ansiosi di scoprire che cosa c’è là dentro», rispose Alvarez.

«Andiamo», intimò Martinho.

Chen-Lhu girò a destra e si affrettò verso un trat­tore dell’OIE che stava sopraggiungendo lentamente da una strada laterale. La folla ostacolava il passag­gio e non voleva essere allontanata dalla Plaza.

Alvarez girò la manovella e lo scudo cominciò a strisciare sull’aiuola. «Johnny, perché il dottore non sospetta i Carsonites?» chiese a voce bassa.

«Controlla la rete di spionaggio migliore del mon­do», rispose Martinho. «Se non lo sa lui.» Così di­cendo teneva lo sguardo fisso su quella sezione di aiuola, quel luogo misterioso di fianco alla fontana.

«Tuttavia, quale migliore sistema di sabotarci se non screditando i bandeirantes?»

«È vero, ma non credo che Travis Chen-Lhu com­metterebbe un simile errore.» E pensò: Strano co­me quel pezzo di aiuola attragga e ripugni al tempo stesso.

«Spesso questioni di lavoro ci hanno messi l’uno contro l’altro, Johnny. Ma non dimentichiamo di avere un nemico comune.»

«Quale nemico?»

«Un nemico che si nasconde nella giungla, nei prati della savana e nei sottosuolo. I cinesi ci hanno impiegato ventidue anni…»

«Hai motivo di sospettarli?» Martinho, guardando il suo compagno, notò sul suo viso un’espressione torva. «Non ci metteranno al corrente delle loro sco­perte.»

«I cinesi sono affetti da paranoia. Ne avevano la predisposizione ancora prima di venire in urto con il mondo occidentale e quest’ultimo non ha fatto che evidenziare la loro malattia. Sospettare i cinesi? No, non ci penso nemmeno.»

«Io sì», ribatté Martinho. «Io sospetto di chiun­que.» Al suono della sua stessa voce fu colto da un improvviso senso di malinconia. Era vero: sospetta­va di chiunque, persino di Benito, di Chen-Lhu… e dell’affascinante Rhin Kelly. Disse: «Spesso penso ai vecchi insetticidi, a come gli insetti si rafforzavano sempre più, malgrado, o a causa dei veleni».

Un suono alle loro spalle richiamò l’attenzione di Martinho. Pose una mano sulla spalla di Alvarez, fermò il carrello e si volse.

Era Vierho seguito da un carretto carico di attrez­zi. Martinho notò un grosso piede di porco, un vo­luminoso cappuccio sicuramente destinato ad Alva­rez e pacchi di esplosivo al plastico.

«Capo… ho pensato che ci fosse bisogno di questi», disse Vierho.

Martinho fu pervaso da un sentimento di affetto nei confronti del Padre, tuttavia disse bruscamente: «Tieniti alle nostre spalle, hai capito?»

«Certo, capo.» Porse il cappuccio ad Alvarez. «È per lei, capo Alvarez; questo le eviterà altri incon­venienti.»

«Ti ringrazio, Padre», disse Alvarez. «Ma prefe­risco sentirmi libero nei movimenti. D’altra parte ho talmente tante ferite che una in più non farà gran differenza.»

Martinho si guardò attorno e vide che altri scudi stavano avanzando attraverso l’aiuola. «Presto», dis­se. «Dobbiamo arrivare per primi.»

Alvarez manovrò la leva di comando e lo scudo si mise in moto.

Vierho andò a mettersi di fianco al suo capo e mormorò a bassa voce: «Capo, sono appena giunte notizie allarmanti dalla costa. Sembra che qualche creatura abbia divorato le palafitte di un magazzino facendolo crollare. Pare ci siano alcuni morti. La po­polazione è sconvolta».

«Ne ho udito parlare da Chen-Lhu», disse Martinho.

«Non è questo il posto?» si intromise Alvarez.

«Ferma lo scudo», ordinò Martinho. Fissò il ter­reno, alla ricerca delle tracce lasciate in precedenza dallo scudo. «È qui», disse. Allungò la carabina a Vierho e aggiunse: «Passami il piede di porco… e una carica di esplosivo».

Vierho gli porse un pacco di esplosivo al plastico provvisto di detonatore, il genere di ordigno solita­mente usato nelle zone Rosse per far saltare i nidi de­gli insetti.

Martinho calò la visiera protettiva e prese il piede di porco. «Vierho, rimani qui e vedi di coprirmi. Benito, puoi maneggiare la torcia?»

«Certo, Johnny.»

«Capo, non hai intenzione di usare lo scudo?»

«Non c’è tempo.» Si mosse prima che Vierho po­tesse ribattere. La luce della torcia rischiarava il ter­reno davanti a lui. Si inginocchiò, fece scorrere la punta della sbarra sull’erba e cominciò a scavare. La sbarra colpì ripetutamente il suolo, quindi affondò nel vuoto. Improvvisamente urtò contro qualcosa e Martinho fu pervaso da un fremito di eccitazione. «Padre, quaggiù.»

Vierho si chinò, imbracciando la carabina. «Che cosa c’è, capo?»

«Qualcosa là sotto!»

Vierho puntò l’arma e fece partire due colpi.

Un rumore simile a un violento raschio giunse da sotto l’aiuola. Qualcosa era scoppiato.

Vierho sparò ancora. Le pallottole, esplodendo, provocarono un suono curioso simile a un tonfo.

Si udì un furioso gorgoglio, come se là sotto ci fos­se un banco di pesci intenti a cibarsi in superficie.

Silenzio.

Altre torce lampeggiarono sull’aiuola. Martinho alzò lo sguardo e vide un cerchio di scudi attorno a lui… uniformi dell’OIE e dei bandeirantes.

Concentrò nuovamente lo sguardo sulla sezione di aiuola. «Padre, ho intenzione di aprire la botola. Tienti pronto.»

«Certo, capo.»

Martinho mise un piede sotto la sbarra per far le­va sul terreno e lentamente sollevò la botola. Sem­brava saldata con una sostanza gommosa che si al­lungava in sottili filamenti. Dalla zaffata di solfuro e sublimato corrosivo Martinho capì che la sostanza gommosa non era altro che il contenuto della capsu­la sparata col fucile a gas. Dopo l’ultimo poderoso colpo, la botola si spalancò e ricadde sull’aiuola.

Alla luce delle torce Martinho poté scorgere una massa di acqua scura. Aveva l’odore del fiume.

«Sono venuti dal fiume», osservò Alvarez.

Chen-Lhu si avvicinò a Martinho e disse: «Sem­bra che gli individui mascherati siano fuggiti. Tutto procede per il meglio». E pensò: Ho fatto bene a impartire ordini a Rhin e l’ho fatto nel momento più opportuno. Dobbiamo far saltare la loro organizza­zione. Questo capo bandeirante, educato tra gli im­perialisti yankee, è un nemico. È uno di quelli che cercano di distruggerci. Non può esserci altra spie­gazione.

Martinho ignorò lo scherno nella voce di Chen-Lhu; era troppo esausto per poter reagire. Si sollevò e si guardò attorno. L’aria era ferma come se da un momento all’altro dovesse scatenarsi qualche sorta di calamità. Un gruppetto di osservatori, pro­babilmente pubblici funzionari, sostava al di là del­la cerchia di guardie, la folla invece era stata sospin­ta nelle strade adiacenti.

Da una strada laterale sopraggiunse a gran velo­cità una camionetta rossa. I finestrini luccicavano al­la luce dei proiettori e i fanali si accendevano e si spegnevano quando rasentava passanti e altri vei­coli. Alcuni poliziotti le aprivano la strada. Marti­nho riconobbe l’insegna dell’OIE sul cofano ante­riore. L’auto si arrestò sobbalzando ai margini del­l’aiuola e ne uscì Rhin Kelly.

Aveva indossato la tuta da lavoro dell’OIE. Sotto le luci della Plaza, il verde della tuta dava l’impres­sione di una chiazza d’erba scolorita dal sole.

Attraversò in fretta l’aiuola, con gli occhi fissi su Martinho; intanto pensava: Deve essere utilizzato per i nostri scopi, quindi scaricato. È un nemico. Non ci sono più dubbi.

Martinho la osservava avvicinarsi, ammirando la grazia e la femminilità del suo portamento accentua­te dalla semplice foggia dell’uniforme.

Si fermò davanti a lui e gli parlò con voce rau­ca e affannosa: «Senhor Martinho, sono venuta a salvarle la vita».

Lui scosse il capo, incredulo. «Cosa…»

«Si sta scatenando il finimondo!» spiegò lei.

Martinho poté udire degli spari in lontananza.

«La folla è in tumulto», riprese Rhin. «Si è ar­mata.»

«Che cosa diavolo sta succedendo?» chiese lui.

«Stanotte ci sono stati dei morti», rispose Rhin. «Donne e bambini fra gli altri. È crollata una pa­rete della collina dietro il Monte Ochoa, rivelando la presenza di numerose tane.»

Vierho disse: «L’orfanotrofio…»

«Sì», proseguì Rhin. «L’orfanotrofio e il con­vento situati sul Monte Ochoa sono stati travolti. La colpa è dei bandeirantes. Sa cosa si dice su…»

«Parlerò con questa gente», la interruppe Mar­tinho. Si sentì oltraggiato al pensiero di essere mi­nacciato da coloro che aveva sempre protetto. «È un’assurdità! Non abbiamo fatto nulla per…»

«Capo», intervenne Vierho. «Non si può ragionare con la folla in preda al panico.»

«Due uomini della squadra Lifcado sono già sta­ti linciati», disse Rhin. «L’unica via di scampo per lei è di fuggire immediatamente. I vostri autocarri sono a portata di mano.»

Vierho lo prese per un braccio. «Dobbiamo seguire il suo consiglio, capo.»

Martinho rimase in silenzio, ascoltando le infor­mazioni che i bandeirantes si scambiavano fra loro: «La folla… colpa nostra… orfanotrofio…»

«Dove possiamo andare?» chiese Martinho.

«I tumulti sembrano localizzati…», disse Chen-Lhu. Si interruppe e rimase in ascolto: le urla della folla si erano fatte più distinte. «Vada a casa di suo pa­dre, a Cuiaba, e si porti dietro la sua squadra. Gli al­tri possono rifugiarsi nelle zone Rosse.»

«Perché dobbiamo…»

«Rhin la raggiungerà non appena avremo esco­gitato un piano di azione.»

«Devo sapere dove trovarla», fece Rhin, pren­dendo la palla al balzo. E pensò: La casa di suo padre, già. Deve essere il centro di… là o nel Goyaz, come sospetta Travis.

«Ma non abbiamo fatto nulla», protestò Martinho.

«La prego», insistette Rhin.

Vierho lo tirò per un braccio.

Martinho trasse un profondo sospiro. «Padre, rag­giungi i tuoi compagni. Sarete più al sicuro nella zo­na Rossa. Userò il camioncino per andare a Cuiaba. Devo discutere questa faccenda con mio padre, il prefetto. Qualcuno deve mettersi in contatto con le alte sfere e farsi sentire.»

«Sentire cosa?» si intromise Alvarez.

«Il lavoro… deve essere sospeso… momentanea­mente», disse Martinho. «È necessario svolgere varie indagini.»

«È pazzesco», tuonò Alvarez. «Chi vuoi che dia ascolto a quelle fesserie?»

Martinho provò a deglutire, aveva la gola secca. L’aria della notte era fredda… opprimente, le urla della folla inferocita erano sempre più vicine. I poliziotti e i militari non sarebbero riusciti a trat­tenerla a lungo.

«Non ti ascolteranno», mormorò Alvarez, «nem­meno se hai ragione».

Le urla della folla sottolinearono la verità che trapelava dalle sue parole. Martinho sapeva che gli uomini al potere non avrebbero ammesso alcun er­rore. Erano al potere in quanto erano state fatte determinate promesse. Se quelle promesse non ve­nivano mantenute qualcuno avrebbe fatto da ca­pro espiatorio.

Forse è già stato trovato, pensò Martinho.

Lasciò che Vierho lo conducesse agli autocarri.

CAPITOLO QUARTO

Era una caverna che sovrastava le scure e umide rocce di una gola del fiume di Goyaz. All’interno, profondi pensieri pulsavano in un cervello intento ad ascoltare una radio, dalla quale la voce di un umano riferiva le notizie del giorno: disordini a Bahia, bandeirantes linciati, pronto intervento di pa­racadutisti per restaurare l’ordine…

La radio, una piccola transistor portatile, emet­teva fastidiosi suoni raschianti che riecheggiavano nella caverna, disturbando le funzioni sensoriali del cervello, ma le notizie degli umani dovevano essere ascoltate… almeno fino a quando le batterie lo avessero permesso. Forse più tardi, si sarebbero po­tute usare le cellule biochimiche, ma le conoscenze del cervello in materia di meccanica erano molto li­mitate. Di teoria ne aveva assimilata parecchia dai manuali abbandonati nella zona Rossa, ma la pra­tica era un’altra cosa.

Per qualche tempo aveva avuto a disposizione un televisore portatile, ma la sua autonomia era stata ridotta e ora non funzionava più.

Le notizie terminarono e la radio cominciò a tra­smettere della musica. Il cervello lanciò dei segnali allo strumento che si interruppe; quindi, in quel si­lenzio così a lungo sospirato, cominciò a pensare, a pulsare.

Era una massa di circa quattro metri di diametro e di mezzo metro di altezza e riconoscendosi in una «Suprema Integrazione» svolgeva il suo ruolo con vigilanza passiva, eppure era non poco contrariato di fronte alle necessità che lo tenevano ancorato in quella caverna rifugio.

Una maschera sensoriale mobile che poteva spo­starsi e flettersi a piacere — per assumere ora la for­ma di un disco, ora di un tubo membranoso e addi­rittura per simulare il volto gigantesco di un umano — giaceva, simile a un berretto, sulla superficie del cervello. I suoi organi sensoriali erano diretti ver­so la luce grigia dell’alba che filtrava dall’imboc­catura della caverna.

Il ritmico pulsare di una vescica laterale pompava nel cervello un liquido scuro e viscoso. Insetti senza ali strisciavano sulla superficie membranosa, ispezionando, riparando e alimentando dove era ne­cessario.

Sciami di insetti volanti si ammucchiavano negli anfratti della caverna, alcuni dei quali producevano acidi per ottenere il loro fabbisogno di ossigeno, altri digerivano, altri ancora rifornivano energia ai muscoli atti a pompare.

La caverna era permeata di un odore amarogno­lo di acido.

Gli insetti volavano dentro e fuori nella luce del­l’alba. Alcuni si fermavano per compiere piroette, oscillare e ronzare per stimolare gli impulsi del cer­vello; altri emettevano modulati striduli nel ripor­tare notizie; altri ancora si raggruppavano o si alli­neavano; altri formavano motivi complessi con va­riazioni di colore o agitavano le antenne nei modi più complicati.

Giunse la squadra da Bahia: «Piogge abbondanti… terreno bagnato; crollati i covi della nostra po­stazione d’ascolto. Un osservatore è stato scoperto e attaccato, ma un caposquadra lo ha tratto in salvo aprendogli un varco attraverso il fiume. In quel pun­to una delle strutture dei ponti è crollata. Non ab­biamo lasciato tracce del nostro operato, tuttavia gli umani ci hanno avvistati. Quelli che non sono riusciti a mettersi in salvo sono stati soppressi. Tra gli umani ci sono state molte perdite».

Numerosi morti tra gli umani, rifletté il cervello. Allora le notizie trasmesse dalla radio erano esatte.

Era un disastro.

Ora il cervello richiedeva una maggior quantità di ossigeno; gli insetti specializzati si riversarono su di esso; il ritmo di pompaggio aumentò di velocità.

Gli umani si crederanno attaccati, pensò il cer­vello. Allora metteranno in atto i loro meccanismi di difesa. Riuscire a penetrare in quei meccanismi col pacato ragionamento sarà difficilissimo, se non impossibile.

Chi può ragionare con una mente irrazionale?

Gli umani erano estremamente difficili da capire, coi loro valori religiosi e i loro modelli di accumu­lazione.

Gli «affari» erano ciò che i libri definivano i loro modelli di accumulazione, ma al cervello sfuggiva il vero significato della parola. Il denaro non era com­mestibile, non sembrava contenere energie, inoltre era fatto di un materiale per nulla resistente. Le taipe,le case degli umani più poveri, fatte di graticcio e di fango, avevano maggior consistenza.

Eppure gli umani erano avidi di denaro. Quella roba doveva essere importante, proprio come la lo­ro concezione della divinità, qualcosa simile a una suprema integrazione, la cui essenza e localizzazione erano impossibili a definirsi. Era tutto troppo com­plicato.

Il cervello sentiva che in qualche luogo doveva esistere la fonte originaria del pensiero che riuscisse a spiegare queste cose, ma gliene sfuggiva il modello.

Allora pensò come fosse strana questa struttura vitale, questo trasferimento di energia intera per creare visioni immaginarie, che in realtà erano schemi e progetti, e che a volte si smarrivano per strada. Come era curiosa, misteriosa e anche bella la scoperta dell’essere umano, le cui fattezze erano state copiate e adattate a uso di altre creature. Com’era ammirevole e sublime questa manipolazio­ne dell’universo che esisteva solo entro i confini dell’immaginazione, senza riscontro reale.

Per un attimo il cervello si sottopose a una pro­va, cercando di simulare le emozioni umane. La pau­ra e l’unità dello sciame… solo quello poteva capire. Ma i mutamenti, il tipo di paura chiamata odio, i riflessi stimolati dalla vescica laterale… questi erano più difficili da capire.

Il cervello non aveva mai preso in considerazione l’idea di essere stato una volta parte di un essere umano e quindi soggetto a tali emozioni. Questo pensiero irritante lo aveva sempre evitato. Ora il cervello era solo un sosia di quello umano, più grande e più complesso. Nessun sistema circolatorio umano poteva sostenere le necessità di nutrimen­to che lui richiedeva. Nemmeno il più semplice si­stema sensoriale umano poteva soddisfare la sua sete di informazione.

Era semplicemente il Cervello,una parte funzionale del sistema del super-alveare, ora più impor­tante persino delle api regine.

«Quale classe sociale umana è stata sterminata?» chiese.

La risposta gli giunse in tono stridulo: «Lavoratori, femmine, umani immaturi e qualche regina sterile».

Femmine e umani immaturi, pensò il cervello. Nel­lo schermo della sua consapevolezza prese forma un’antica maledizione indiana. Di fronte a simili eccidi, la reazione umana sarebbe stata violenta. Si imponeva un’azione immediata.

«Quali notizie dai nostri messaggeri penetrati nel­le barriere?» domandò il cervello.

La risposta fu: «Sconosciuta la posizione segre­ta dei messaggeri».

«Deve essere individuata. I messaggeri devono re­stare nascosti fino a nuovo ordine. Informateli im­mediatamente.»

Operai specializzati si allontanarono per esegui­re l’ordine.

«Dobbiamo catturare degli esemplari umani più vari», ordinò il cervello. «Dobbiamo trovare un ca­po vulnerabile tra loro. Inviate osservatori, messag­geri e unità d’azione. Fate pervenire notizie il più presto possibile.»

Quindi il cervello rimase in ascolto, controllando che i suoi ordini venissero eseguiti e i messaggi trasmessi anche a lunghe distanze. Fu pervaso da un vago senso di frustrazione; sentiva delle necessi­tà che non riusciva a spiegarsi. Sollevò la maschera sensoriale e la depose su alcuni paletti di sostegno, formò gli occhi e li concentrò sull’imboccatura del­la caverna.

Pieno giorno.

Ora doveva solo attendere.

L’attesa era la parte più difficile dell’esistenza.

Il cervello cominciò a esaminare questo pensie­ro, considerando possibili alternative al processo di attesa, immaginando proiezioni di crescita fisica.

Tali pensieri produssero una specie di caos in­tellettivo che mise in allarme l’intero sciame. Gli insetti presero a ronzare furiosamente intorno al cervello, proteggendolo, alimentandolo, formando fa­langi di guerrieri.

Questa iniziativa preoccupò il cervello.

Il cervello sapeva che cosa aveva spinto lo sciame all’azione: proteggere il fulcro dell’alveare era un istinto di sopravvivenza radicato in tutte le specie. Il cervello si rendeva conto che le primitive unità dello sciame non potevano cambiare quel concetto. Eppure dovevano abituarsi al cambiamento. Dove­vano acquisire elasticità di ingegno e capacità di as­suefarsi a nuove idee, affrontando ogni situazione co­me una «cosa» unica.

Devo continuare a insegnare e a imparare, pen­sò il cervello.

Ora desiderava ricevere notizie dagli osservatori in­viati a est. Aveva urgente bisogno di informazioni da quella zona, per completare i frammenti di notizie raccolte dagli appostamenti d’ascolto. Da lì poteva giungere una prova indispensabile per impedire al­la razza umana di tuffarsi a capofitto nella distru­zione totale.

Lo sciame a poco a poco ridusse la sua attività mentre il cervello allontanava quegli angosciosi pen­sieri.

Nel frattempo aspetteremo, disse fra sé il cervel­lo.

E si pose il problema di una lieve modifica gene­tica in una vespa priva di ali per migliorare il siste­ma di produzione d’ossigeno.

Il senhor Gabriel Martinho, prefetto della Barriera del Mato Grosso, passeggiava su e giù per lo studio mormorando fra sé, mentre da un’angusta finestra filtravano gli ultimi raggi di sole. Di quando in quan­do si fermava per fissare suo figlio Joao che sedeva su un divano di pelle di tapiro posto sotto uno dei tanti scaffali che ricoprivano le pareti della stanza.

Martinho senior era un uomo mingherlino dalla carnagione scura, con i capelli grigi e gli occhi ca­stani infossati che si aprivano sopra un naso aquili­no, una bocca sottile e un mento appuntito. Indos­sava un abito nero démodé che si confaceva alla sua posizione. La camicia di un bianco candido spic­cava sotto il nero dell’abito. Ai polsi portava dei gemelli d’oro che brillavano ogni volta che agitava le braccia.

«Sono diventato oggetto di scherno», disse in to­no angosciato.

Joao assimilò l’affermazione in silenzio. Dopo aver assistito per un’intera settimana agli scoppi d’ira di suo padre, Joao aveva imparato ad apprezzare l’u­tilità del silenzio. Guardò la sua bianca uniforme da bandeirante, i pantaloni infilati negli stivali di cuoio, tutto perfettamente in ordine, mentre i suoi uomini si davano da fare nella Serra Dos Parecis, per porta­re a termine un’ispezione preliminare.

Nella stanza cominciava a farsi buio, una rapida oscurità tropicale affrettata da densi nuvoloni am­massati lungo l’orizzonte. La luce del tramonto proiet­tava ombre color blu scuro; lampi provocati dall’afa squarciavano il pezzetto di cielo visibile attraverso l’alta finestra, e a tratti inondavano lo studio di una luminosità abbagliante. Seguiva in lontananza il brontolio del tuono. Le luci si accesero in ogni stanza abitata; un’illuminazione giallastra riempì lo studio.

Il prefetto si fermò di fronte a suo figlio. «Perché, proprio da mio figlio, stimato capo degli Irmandades, devo sentire queste stupidaggini da Carsonites?»

Joao fissava il pavimento in mezzo ai suoi stivali. La lotta nella Plaza di Bahia, la fuga dalla folla in­ferocita, tutto questo sembrava lontano un’eternità, come se appartenesse al passato di qualcun altro. Oggi nello studio di suo padre aveva assistito a un susseguirsi di importanti personaggi politici… saluti garbati al figlio Joao e sommesse consultazioni con suo padre.

Il, vecchio stava lottando per suo figlio, Joao lo sapeva, ma Martinho padre poteva solo lottare nel modo che gli era più congeniale: coi soliti metodi clientelari, assicurandosi appoggi con manovre sotto­banco, scambiando favori e raccomandazioni, radu­nando forze politiche quando si rendeva necessario. Non una volta aveva preso in considerazione i dub­bi e i sospetti di Joao. Gli Irmandades, Alvarez e i suoi Hermosillos, chiunque avesse avuto a che fare con la Piratininga, da questo momento era malvisto dalle autorità. Occorreva porre riparo agli erro­ri commessi.

«Arrestare la ricerca del nuovo equilibrio ecolo­gico?» mormorò il vecchio. «Ritardare la Marcha para Oeste? Sei impazzito? Perché credi che occupi questa posizione? Io! Un discendente dei fidalgoes i cui antenati governarono una delle prime capitanias! Noi non siamo bugres,i cui avi furono protetti da Rui Barboso, eppure i caboclos mi chiamano ‘Pa­dre dei Poveri’. Non ho acquisito questo appellativo con la stupidità.»

«Padre, se solo…»

«Sta’ zitto! Ho anch’io qualcosa che bolle in pen­tola. Tutto finirà nel migliore dei modi.»

Joao sospirò. Provava vergogna per la sua posizio­ne in quel momento. Il prefetto era sul punto di di­mettersi prima di quella circostanza; il suo cuore era malato. E adesso turbarlo in quel modo… Ma lui insisteva nell’essere così cieco!

«Indagare, dici tu», proseguì il vecchio. «Indaga­re su che cosa? In questo momento vogliamo evita­re indagini e allontanare qualsiasi sospetto. Il go­verno, grazie all’intervento dei miei amici, è pro­penso a credere che tutto sia normale. Sono disposti a incolpare i Carsonites della tragedia di Bahia.»

«Non hanno prove», disse Joao. «Lo hai ammesso tu stesso.»

«In questi tempi le prove non sono determinan­ti», ribatté suo padre. «Ciò che conta è allontanare i sospetti da noi stessi. Dobbiamo guadagnare tempo. D’altra parte è proprio il genere di cose che i Carso­nites potrebbero aver fatto.»

«Ma potrebbe non essere così», obiettò Joao.

Il vecchio fece finta di non aver udito. «Proprio la settimana scorsa», disse, gesticolando. «Il giorno prima che tu arrivassi qui come un fulmine a ciel sereno, proprio quel giorno parlai con i contadini di Lacuia su richiesta del mio amico il ministro del­l’Agricoltura. Lo sai che la gentaglia mi rise in faccia? Dissi che questo mese avremmo esteso le zone Verdi di diecimila ettari. Scoppiarono a ridere. Dissero: ‘Persino tuo figlio non ci crede!’ Adesso capisco che cosa volevano dire. È una pazzia fermare la marcia a occidente.»

«Hai visto i rapporti da Bahia?» disse Joao. «Gli investigatori dell’OIE…»

«L’OIE! Quell’astuto cinese dalla faccia insignifi­cante. È più bahiano lui di un vero bahiano. E quel­la femmina dottore che va a ficcare il naso dapper­tutto. La sua mae de santo,la sua sidaga… quello che si dice su di lei, te lo raccomando. Solo ieri, è stato detto…»

«Non voglio sapere.»

Il vecchio tacque e lo fissò. «Ahhh?»

«Ahhh!» gli fece eco Joao. «Che cosa vuoi insi­nuare?»

«Semplicemente Ahhh!»

«È molto bella», fece Joao.

«Me lo hanno detto. Molti uomini hanno goduto di quella bellezza… così si dice.»

«Non lo credo!»

«Joao», disse il prefetto, «ascolta un vecchio che attraverso l’esperienza ha acquisito la saggezza. È una donna pericolosa. Appartiene anima e corpo all’OIE, una organizzazione che spesso interferisce nei nostri affari. Tu, tu sei un empreiteiro,un noto imprenditore, la cui abilità e successo professionale hanno suscitato non poche invidie in alcuni ambien­ti. Quella donna dovrebbe essere un dottore degli insetti, ma da come si comporta si direbbe che ab­bia molteplici attività. Alcune di queste, ahh…»

«Adesso basta, padre!»

«Come vuoi tu.»

«Dovrebbe raggiungermi qui tra breve e non vo­glio che il tuo attuale atteggiamento nei suoi con­fronti…»

«Potrebbe ritardare la sua venuta», disse il pre­fetto.

Joao lo fissò. «Perché?»

«Martedì scorso, il giorno successivo alla tua av­ventura di Bahia, è stata inviata nell’altopiano Goyaz. Penso la sera stessa o il mattino seguente, non ha importanza.»

«Eh?»

«Naturalmente sarai al corrente delle ragioni che l’hanno spinta laggiù… quelle voci circa una base segreta bandeirante. Sta ficcando il naso laggiù… se è ancora viva.»

Joao alzò il capo di scatto. «Come?»

«Al quartier generale dell’OIE di Bahia, si dice che sia… scomparsa. Forse un incidente. Sembra che lo stesso Travis-Huntington Chen-Lhu sia in procinto di andare alla ricerca di questo dottore in gonnella. Che cosa ne dici?»

«Sembrava molto affezionato a lei quando li ho avvicinati a Bahia, ma questa storia su…»

«Affezionato? Oh, sì, certamente.»

«Hai una mente diabolica, padre.» Martinho tras­se un profondo sospiro. Il pensiero di quella delizio­sa creatura, sola in qualche luogo sperduto dell’entroterra, abitata soltanto da creature della giungla, morta o ferita provocò in lui una nauseante sensazio­ne di vuoto.

«Forse vuoi marciare a occidente alla ricerca del­la ragazza?»

Joao ignorò lo scherno e rispose: «Padre, questa crociata deve essere immediatamente interrotta, fino a che non abbiamo scoperto che cosa non funziona.»

«Se hai ragionato in questo modo anche a Bahia, allora non posso biasimarli per averti voltato le spal­le», replicò il prefetto. «Forse, quella folla…»

«Sai che cosa è successo nella Plaza!»

«Sciocchezze, nient’altro che sciocchezze. Ora tut­to questo deve finire. Non devi fare nulla che distur­bi l’equilibrio, te lo ordino!»

«La gente non sospetta più i bandeirantes», obiet­tò Joao con amarezza.

«Alcuni sospettano ancora di voi. Perché non do­vrebbero, se ciò che ho udito dalle tue stesse labbra è un esempio del vostro modo di pensare?»

Joao studiò la punta dei suoi lustri stivali neri. Trovava che la loro nitida superficie fosse in qualche modo simbolica della vita di suo padre. «Mi dispiace di averti procurato un dispiacere, padre», disse. «A volte mi pento di essere un bandeirante, ma», alzò le spalle, «se non lo fossi, come potrei sapere le cose che ti ho raccontato? La verità è…»

«Joao!» esclamò suo padre con voce vibrante. «Mi stai forse facendo capire che hai insudiciato il nostro nome? Hai pronunciato un falso giuramento nel momento in cui hai costituito la squadra degli Irmandades?»

«Non è andata esattamente così, padre.»

«Ah, sì? Allora come?»

Joao sfilò il distintivo dalla tasca interna della giacca e lo rigirò fra le dita. «Ci credevo… allora. Eravamo riusciti a creare api abnormi per riempire certe lacune ecologiche. Era… una Grande Crociata. Ci credevo. Come d’altronde ci credevano i cinesi. Pensavo: Solo ciò che è utile deve sopravvivere! Fa­cevo sul serio. Ma questo succedeva alcuni anni fa, padre. In seguito sono giunto alla conclusione che non siamo in grado di distinguere ciò che è utile.»

«È stato un errore da parte mia farti studiare nel Nord America», disse suo padre. «Mi pento di averlo fatto. Sì… sono io l’unico colpevole. Là hai assimilato queste eresie da Carsonites. Non mi sento di biasi­mare i nordamericani se si rifiutano di unirsi a noi nella ricerca di un nuovo equilibrio ecologico. Loro non hanno milioni di bocche da sfamare come noi. Ma mio figlio!»

Joao cercò di difendersi: «Là nella giungla Rossa si vedono delle cose difficili da spiegare. Le piante non sono ammalate e la frutta è…»

«Una condizione puramente temporanea», disse suo padre. «Daremo forma a delle api che possano soddisfare qualunque necessità si presenti. Gli inset­ti distruttori ci rubano il pane di bocca. È molto semplice, devono morire ed essere rimpiazzati da al­tre creature utili all’uomo.»

«Gli uccelli stanno morendo, padre!»

«Dobbiamo salvarli! Esistono svariate specie di uccelli nelle nostre riserve. Procureremo loro nuovi alimenti.»

«Alcune piante si sono già estinte per mancanza di impollinazione naturale.»

«Le piante utili sono ancora vive!»

«E che cosa accadrà», chiese Joao, «se gli insetti riusciranno ad aprirsi un varco nelle nostre barrie­re prima di aver ripopolato l’ambiente con predatori naturali? Che cosa accadrà allora?»

Martinho padre agitò il dito sotto il naso di suo figlio. «Queste assurdità devono finire! Non voglio sentire altro! Hai capito?»

«Per favore calmati, padre.»

«Calmarmi? Come posso calmarmi di fronte… a questo? Ti nascondi come un criminale comune! Di­sordini a Bahia e Santarem e…»

«Basta, padre!»

«Lasciami finire. Lo sai che cosa hanno detto i contadini della Lacuia? Hanno asserito di aver visto i bandeirantes infestare di nuovo le zone Verdi per prolungare il loro lavoro, ecco che cosa hanno detto.»

«È assurdo!»

«Certo che è assurdo. Ma è una normale conse­guenza di certi discorsi disfattisti, proprio come quelli fatti oggi da mio figlio. E le contrarietà che si presentano non fanno che convalidare tali calunnie.»

«Contrarietà?»

«Sì, contrarietà!» Il prefetto Martinho si volse, raggiunse la scrivania quindi ritornò sui suoi passi e si fermò di fronte a suo figlio. «Naturalmente ti riferisci alla Piratininga.»

«Tra le altre cose.»

«I tuoi Irmandades si trovavano laggiù.»

«Non ci è sfuggita nemmeno una pulce, te lo as­sicuro!»

«Eppure, una settimana fa, la Piratininga era una zona Verde. Oggi…» Puntò l’indice sulla scrivania. «Hai letto il rapporto. È infestata! Infestata!»

«Non posso controllare ogni bandeirante del Mato Grosso», dichiarò Joao. «Se loro…»

«L’OIE ci ha concesso sei mesi per fare piazza pu­lita», disse Martinho padre. Sollevò le mani con le palme rivolte verso l’alto. «Sei mesi!» ripeté col volto arrossato dall’ira.

«Se tu andassi dai tuoi amici al governo e li con­vincessi che…»

«Convincerli? Proporre loro di commettere un sui­cidio politico? Ai miei amici? Lo sai che l’OIE sta minacciando di disporre un embargo tutt’intorno al Brasile, come hanno fatto col Nord America?» Ab­bassò le mani. «Puoi immaginare le pressioni eserci­tate su di noi? Puoi immaginare quello che mi toc­cherà sentire sui bandeirantes, e in special modo su mio figlio?»

Joao strinse il distintivo nel palmo della mano fino a farsi male. Il dialogo con suo padre era diventato insopportabile, non avrebbe resistito un giorno di più in quella casa. Desiderava essere con i suoi uomini a organizzare la lotta nella Serra Dos Parecis. Da troppo tempo suo padre si occupava di politica per poter cambiare mentalità, e Joao lo capì con un senso di nausea. Alzò gli occhi sul vecchio. Se almeno non fosse stato così eccitabile; si preoccupava del suo cuore malato. «Ti stai agitando senza motivo», disse.

«Agitarmi?» Il prefetto si curvò sul figlio con le narici dilatate. «Abbiamo già superato due limiti: la Piratininga e il Tefe. C’è della terra là. Ti rendi conto? E non ci sono uomini per coltivarla e render­la produttiva.»

«La Piratininga non era esattamente una barriera, padre. L’abbiamo già ripulita…»

«Già! E abbiamo guadagnato terreno quando ho annunciato che mio figlio e il terribile Benito Alvarez hanno ripulito la Piratininga. Come ti spieghi che la zona è ancora infestata e che si deve ripulire da capo?»

«Non me lo spiego.» Joao si rimise in tasca il di­stintivo. Non era possibile ragionare con suo padre, questo lo aveva capito fin da principio. Un senso di frustrazione gli fece tremare le mandibole. Eppure il vecchio doveva convincersi! Qualcuno doveva con­vincersi! Qualcuno della statura politica di suo pa­dre doveva intervenire presso i dirigenti del Bureau, costringerli ad ascoltare.

Il prefetto ritornò alla scrivania e sedette. Prese un antico crocefisso, un prezioso oggetto che il gran­de Aleihadinho aveva intarsiato nell’avorio. Lo prese in mano evidentemente per riacquistare la serenità, ma i suoi occhi si spalancarono e luccicarono. Len­tamente posò il crocefisso sulla scrivania, senza di­stogliere lo sguardo dall’oggetto. «Joao», bisbigliò.

Il suo cuore, pensò Joao. Balzò in piedi e si pre­cipitò al suo fianco. «Padre, che cosa c’è?»

Il vecchio fece un cenno con la mano tremante.

Tra la corona di spine, sul volto eburneo agoniz­zante, lungo i muscoli tesi del corpo di Cristo, stri­sciava un insetto. Era del colore dell’avorio e asso­migliava nella forma a uno scarafaggio, ma aveva una frangia di zampe sottili che spuntava dalle ali e dal torace; le antenne, straordinariamente lunghe, erano orlate di peluria.

Il vecchio Martinho prese un rotolo di carta per schiacciare l’insetto, ma Joao lo trattenne con una mano. «Aspetta. È un tipo di insetto piuttosto inso­lito. Non ne ho mai visti come questo. Dammi una torcia, dobbiamo scoprire dove va ad annidarsi.»

Il prefetto bofonchiò, trasse dal cassetto della scrivania una piccola torcia tascabile e la porse a suo figlio.

Joao illuminò l’insetto e lo scrutò. «Com’è stra­no», disse. «Guarda come si armonizza col colore dell’avorio.»

L’insetto si fermò e puntò le antenne verso i due uomini.

«Ultimamente sono accaduti fatti strani», prose­guì Joao. «Sembra che un insetto come questo sia stato avvistato il mese scorso nei pressi di uno dei villaggi della barriera. Si trovava all’interno della zona Verde… in un sentiero che costeggia un fiume. Ti ricordi il rapporto? Lo hanno scoperto due conta­dini mentre seguivano un uomo malato.» Guardò suo padre. «Come tu sai, fanno molta attenzione alle malattie, nelle nuove zone Verdi. Sono scoppiate delle epidemie… e c’è dell’altro.»

«Non vedo il nesso», ribatté suo padre. «Senza insetti portatori di germi, le malattie dovrebbero es­sere meno diffuse.»

«Forse», convenne Joao, ma dal tono della sua voce era chiaro che non ci credeva. Volse nuovamen­te lo sguardo sullo strano insetto che strisciava sul crocefisso. «Non credo che i nostri esperti di eco­logia abbiano una preparazione adeguata. E non mi fido dei consulenti cinesi. Nel loro linguaggio tecni­co ci descrivono i vantaggi derivanti dall’eliminazio­ne degli insetti nocivi, ma non ci permettono di ispe­zionare le zone Verdi. Scuse, sempre scuse. Ho idea che siano in difficoltà e non desiderino farcelo sa­pere.»

«Sciocchezze», brontolò Martinho senior. Dal suo tono Joao capì che non ci teneva a difendere la sua posizione. «Sono uomini d’onore, salvo poche ecce­zioni che non nomino. Il loro modo di vivere si avvi­cina di più al nostro socialismo che al decadente capitalismo del Nord America. Il guaio è che tu tendi a vederli con gli occhi di coloro che hanno provve­duto alla tua istruzione.»

«Scommetto che è un insetto che ha subito una metamorfosi spontanea», disse Joao. «Sembra quasi che questi insetti appaiano in seguito a un preciso piano… trovami qualcosa per catturare questa crea­tura, poi portala in laboratorio.»

Il vecchio Martinho rimase fermo vicino alla sedia. «Dove dirai di averlo trovato?»

«Qui, naturalmente.»

«Allora non esiterai a esporci ulteriormente allo scherno, non è vero?»

«Ma padre…»

«Non riesci a immaginare quello che diranno? Una singolare specie di insetto. Strano che sia stato trovato proprio in casa sua. Forse li sta allevando per infestare nuovamente le zone Verdi.»

«Adesso sei tu che stai farneticando, padre. La metamorfosi è un processo abbastanza comune nelle specie di insetti minacciati da agenti esterni. E non possiamo negare che lo siano: veleni, vibrazioni alle barriere, trappole. Dammi il contenitore, non posso perdere d’occhio questa creatura.»

«Allora dirai dove l’hai trovato?»

«Non posso fare altrimenti. Dobbiamo setacciare l’intera zona alla ricerca dei nidi. Potrebbe essere… un fatto accidentale naturalmente, ma…»

«Oppure vuoi deliberatamente crearmi una situa­zione imbarazzante.»

Joao alzò lo sguardo e scrutò il volto del padre. C’era questa possibilità, naturalmente. Il prefetto aveva dei nemici. Per esempio i Carsonites, dei fana­tici che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di rag­giungere il loro scopo. Tuttavia…

Joao prese una decisione. Fissò nuovamente l’in­setto immobile sul crocefisso. Suo padre doveva con­vincersi e adesso sapeva di aver l’argomento adatto per fare leva sulla sua testardaggine. «Guarda questa creatura», lo esortò.

Con riluttanza, il vecchio posò lo sguardo sull’in­setto.

«I nostri primi veleni», disse Joao, «uccideva­no gli insetti più deboli e selezionavano quelli immuni all’azione degli insetticidi. Rimanevano solo questi da allevare. I veleni che usiamo ora, almeno in parte, non danno via di scampo… e le vibrazioni mortali alle barriere…» Alzò le spalle. «Eppure que­sto è una specie di scarafaggio, padre, e in qualche modo si è infiltrato attraverso le barriere. Ti mostro qualcosa». Estrasse un fischietto di metallo dal ta­schino del gilet. «Un tempo questo aggeggio provo­cava la morte di innumerevoli scarafaggi. Non do­vevo far altro che sintonizzarlo sul loro spettro di assorbimento.» Avvicinò il fischietto alle labbra, ci soffiò dentro, muovendo per tutto il tempo l’estre­mità.

Nessun suono udibile da orecchio umano uscì dallo strumento, ma le antenne dello scarafaggio vi­brarono.

Joao si tolse il fischietto di bocca.

Le antenne smisero di vibrare.

«Vedi, è rimasto fermo», fece notare Joao. «È uno scarafaggio e dovrebbe essere attratto da que­sto fischietto, invece non si è mosso. Io credo, padre, che ci siano segni evidenti di un’intelligenza diabo­lica in questi insetti. Sono lungi dall’estinguersi… e ho idea che stiano cominciando a reagire.»

«Intelligenza diabolica, puah!» esclamò suo padre.

«Devi credermi», riprese Joao. «Nessuno dà ascol­to a noi bandeirantes quando raccontiamo quello che abbiamo visto. Ridono, dicono che soffriamo di allucinazioni. E che prove abbiamo per convincerli? Dicono che sono tutte storie, roba da dare in pasto agli ignoranti… ai contadini superstiziosi… e allora cominciano a dubitare e a sospettare di noi.»

«E ne hanno motivo, secondo me.»

«Non credi a tuo figlio?»

«Che cosa ha fatto mio figlio per convincermi?» Adesso suo padre era soltanto il prefetto. Ritto di fronte a lui lo guardava con freddezza.

«Il mese scorso nel Goyaz», disse Joao, «il bandeirante Antonil Lisboa ha perduto tre uomini che…»

«Cose che capitano.»

«Furono uccisi dall’acido formico e dall’olio di copahu.»

«Evidentemente facevano un incauto uso dei loro veleni. Può capitare che alcuni trascurino di…»

«No! L’acido formico era particolarmente potente, altamente concentrato, identico a quello di certi insetti. Gli uomini ne erano inzuppati.»

«Vuoi insinuare che insetti come questo…» il pre­fetto indicò la creatura immobile sul crocefisso, «che insetti cieci come questo…»

«Non sono ciechi.»

«Non intendevo ciechi alla lettera, ma privi di in­telligenza», sottolineò il prefetto. «Non puoi seria­mente affermare che queste creature attacchino gli esseri umani uccidendoli.»

«Resta da definire con esattezza in che modo fu­rono uccisi quegli uomini. L’unica prova che abbia­mo sono le ferite lasciate dall’acido sui corpi. Ma ci sono stati altri decessi, padre, uomini dispersi e voci su strane creature che attaccano i bandeirantes. Ogni giorno che passa siamo sempre più convinti che…» Tacque nel vedere lo scarafaggio strisciare dal crocefisso sulla scrivania. Notò che era diventato più scuro, quasi marrone e si mimetizzava col color legno della scrivania. «Per favore, dammi un con­tenitore.»

Lo scarafaggio raggiunse il bordo della scrivania e si fermò. Le antenne si spostavano prima all’indietro, poi in avanti.

«Ti darò il contenitore se mi prometti che sarai discreto nel tuo rapporto circa il luogo del ritrova­mento», disse il prefetto.

«Padre, io…»

D’un tratto lo scarafaggio saltò in mezzo alla stanza, si lanciò verso la parete e strisciando su di essa scomparve in una fessura di fianco alla finestra.

Joao accese la torcia per far luce nel buco che ave­va inghiottito l’insetto. Poi attraversò la stanza e lo esaminò. «Da quanto tempo esiste questo buco?»

«Da anni. Una crepa nelle muratura… a causa di un terremoto avvenuto molti anni fa, prima che tua madre morisse.»

Joao si diresse a lunghi passi verso la porta, attra­versò un corridoio col soffitto ad arcata, discese una rampa di scale di pietra, aprì una porta che dava in una angusta anticamera, la percorse e attraverso un cancello di ferro battuto si trovò nel giardino esterno. Accese la torcia e diresse la luce azzurra su una zona del muro, sotto la finestra dello studio.

«Joao, che cosa stai facendo?»

«Il mio lavoro, padre.»

Guardò indietro e vide che suo padre lo aveva se­guito e si era fermato appena oltre il cancello del giardino. L’attenzione di Joao si spostò nuovamente sul muro esterno dello studio e con la torcia rischia­rò le pietre sotto la finestra. Poi si chinò e, facendo scorrere la luce lungo il terreno, scrutò attentamen­te dietro le zolle, cancellando tutte le ombre.

L’operazione di ricerca si spostò sulla terra incol­ta, ritornò nel fitto dei cespugli e quindi sull’aiuola.

Joao udì i passi di suo padre che si avvicinava.

«L’hai trovato?»

«No.»

«Dovevi lasciarmelo schiacciare.»

Joao si drizzò, alzò il capo per scrutare lungo le tegole del tetto e la grondaia. Era buio pesto tutto intorno, l’unica fonte di illuminazione era costituita dalla luce proveniente dalla finestra dello studio più quella della torcia.

Un suono stridulo, quasi fastidioso all’udito, ruppe il silenzio intorno a loro. Giunse dal giardino ester­no che fiancheggiava la strada e il muretto di ce­mento. Anche quando cessò, Joao ebbe la netta sen­sazione che fosse rimasto sospeso nell’aria. Gli ri­cordava il grido caratteristico dei predatori della giungla. Un brivido gli attraversò la spina dorsale. Si volse verso il viale dove aveva parcheggiato il suo aerocarro e lo illuminò con la torcia.

«Che strano suono», fece suo padre. «Io…» si interruppe per fissare l’aiuola. «Che cos’è?»

Sembrava che l’aiuola si fosse messa in movimen­to e si spostasse verso di loro come un’onda che si infrange sulla spiaggia. Ormai la massa scura li aveva tagliati fuori dell’ingresso della casa. Era ancora lontana una decina di passi, ma si muoveva rapida­mente.

Joao afferrò il braccio di suo padre. Parlò con cal­ma per non allarmare ulteriormente l’anziano geni­tore, debole di cuore. «È necessario raggiungere il carro, padre. Dobbiamo scavalcarli.»

«Scavalcare che cosa?»

«Sono insetti simili a quello che abbiamo appena visto, padre… milioni di insetti. Ci stanno attaccan­do. Forse non sono nemmeno scarafaggi. Forse si tratta di un esercito di formiche. Dobbiamo a tutti i costi raggiungere l’aerocarro. Là ho l’equipaggia­mento adatto per affrontarli. Saremo al sicuro là dentro: è un carro bandeirante, padre. Devi fuggi­re con me, hai capito? Ti aiuterò, ma fa’ attenzione a non inciampare e cadere su di loro.»

«Capisco.»

Si misero a correre; tenendo stretto suo padre per un braccio, Joao si faceva strada con la torcia.

Speriamo che il suo cuore regga, pregava mental­mente il giovane.

L’ondata di insetti stava per sommergerli, quando improvvisamente si spostò da un lato, aprendo un sentiero che si chiuse dietro i due uomini in fuga.

Una quindicina di metri più avanti apparve nel­l’ombra la sagoma bianca dell’aerocarro.

«Joao… il cuore», boccheggiò il vecchio.

«Ce la puoi fare, più in fretta!» Quasi lo sollevò di peso per percorrere gli ultimi metri che li separa­vano dall’aerocarro.

Raggiunsero la portiera dello scompartimento po­steriore adibito a laboratorio. Joao la spalancò, girò l’interruttore della luce sulla parete sinistra e allun­gò una mano per afferrare un fucile a gas e un cappuccio. Si fermò e guardò l’interno del veicolo rischiarato dalla luce gialla.

Seduti sulle panche c’erano due uomini, all’appa­renza indiani sertao, con gli occhi lucenti, i capelli neri con la frangia che spuntava dai cappelli di pa­glia. Potevano essere due gemelli, tanto erano iden­tici: avevano lo stesso abito grigio, gli stessi sandali e la stessa sacca di pelle a tracolla. Insetti simili a scarafaggi strisciavano attorno a loro, sulle pareti dell’aerocarro, sugli strumenti e le fiale.

«Che cosa diavolo?» sbottò Joao.

Uno dei due personaggi sollevò un flauto qena,poi parlò con voce stridula e stranamente modulata, ac­compagnando le parole con un gesto. «Entrate. Non vi faremo del male, se obbedite.»

Joao si accorse che suo padre si afflosciava e lo prese fra le braccia. Come era leggero! Il vecchio re­spirava affannosamente, il suo volto era mortalmen­te pallido e la fronte madida di sudore.

«Joao», bisbigliò. «Mi duole… il petto.»

«La medicina», si agitò Joao, «dov’è la medici­na?»

«Casa», rispose il vecchio, «scrivania».

«Sembra che stia morendo», osservò uno degli indiani.

Tenendo sempre stretto il padre fra le braccia, Joao si volse di scatto verso l’indiano urlando: «Non so chi siate voi due e per quale motivo abbiate fatto entrare questi insetti qui dentro, so solo che mio pa­dre sta morendo e ha bisogno di aiuto. Andatevene fuori dei piedi!»

«Obbedite o morirete tutti e due», intimò l’india­no col flauto. «Entrate.»

«Ha bisogno della sua medicina e di un dottore», insistette Joao. Non gli piacque il modo in cui l’in­diano maneggiava il flauto; gli fece pensare che in realtà si trattasse di un’arma.

«Dove sente male?» chiese l’altro indiano guar­dando suo padre con curiosità. Il respiro del vecchio si era affievolito.

«È il cuore», rispose Joao. «Lo so che voi con­tadini…»

«Niente contadini», lo interruppe quello col flau­to. «Il cuore?»

«Pompa», disse l’altro.

«Pompa», ripeté quello col flauto. Si alzò dalla panca posta di fronte al laboratorio e fece un gesto verso il basso. «Metti qui… padre.»

L’altro si alzò dalla panca e gli si mise di fianco.

Nonostante fosse preoccupato per la vita del pa­dre, Joao rimase colpito dallo strano aspetto della coppia di indiani, con quei volti scavati da rughe sottili simili a squame e quegli occhi neri straordina­riamente luccicanti. Si erano drogati con qualche narcotico della giungla?

«Metti qui tuo padre», ripeté quello col flauto. Di nuovo indicò la panca. «Un aiuto si può…»

«Ottenere», concluse l’altro.

«Ottenere», gli fece eco quello col flauto.

Joao concentrò lo sguardo sulla moltitudine di insetti striscianti sulla parete. Erano identici a quello trovato nello studio. Identici.

Il respiro del vecchio si stava facendo sempre più corto, sempre più affrettato. Joao lo avvertiva con­tro il suo petto.

Sta morendo, pensò in preda alla disperazione.

«Un aiuto si può ottenere», ripeté l’indiano col flauto. «Se obbedisci non ti faremo del male.» Sol­levò il flauto e lo puntò su Joao. «Obbedisci.»

Il gesto non poteva essere frainteso. Quello stru­mento era una vera e propria arma.

Lentamente Joao salì sull’aerocarro, si avvicinò alle panche e con estrema delicatezza distese suo padre sulla superficie imbottita.

L’indiano col flauto gli fece cenno di indietreggia­re e lui obbedì.

L’altro si chinò sul vecchio e gli sollevò una palpe­bra. Joao notò, con sua grande meraviglia, che c’era una certa disinvoltura professionale in quel gesto. L’indiano sollevò la camicia del prefetto sino al dia­framma, gli tolse la cintura e gli allentò il colletto. Premette un dito, tozzo e scuro, sull’arteria del collo.

«Molto debole», gracchiò.

Joao lanciò un’altra occhiata all’indiano, meravi­gliandosi che un uomo delle foreste dell’altopiano sertao si comportasse come un medico.

«Ospedale», convenne l’indiano.

«Ospedale?» chiese quello col flauto.

L’altro rispose con un acuto sibilo.

«Ospedale», disse quello col flauto.

Quel fischio acuto! Joao fissò l’indiano chino su suo padre. Gli tornò alla mente il suono udito poco prima in giardino.

Quello col flauto gli batté sulla spalla e gli ordinò: «Tu passa davanti e manovra questo…»

«Veicolo», disse quello di fianco al padre di Joao.

«Veicolo», fece eco quello col flauto.

«Ospedale?» riprese Joao.

«Ospedale», rispose quello col flauto.

Joao lanciò un’altra occhiata a suo padre. Il vec­chio non dava segni di vita. L’altro indiano si accin­geva a legarlo alla panca in vista dell’imminente de­collo. Nonostante il suo aspetto da selvaggio, sembra­va molto competente.

«Obbedisci», intimò quello col flauto.

Joao aprì il portello della cabina anteriore e sci­volò all’interno seguito dall’indiano armato, mentre alcune gocce di pioggia cominciavano a bagnare il parabrezza. Si sedette al posto di comando e chiuse il portello. L’abitacolo rimase al buio. I portelli di sicurezza si chiusero con un colpo sordo. Accese le luci del cruscotto e notò che l’indiano si era acquat­tato là dietro col flauto puntato contro la sua schie­na. Una specie di cerbottana, pensò Joao. Probabil­mente lancia frecce avvelenate.

Joao schiacciò il bottone d’accensione e, mentre attendeva che le turbine acquistassero velocità, si allacciò la cintura di sicurezza. L’indiano, ancora rannicchiato alle sue spalle, ne era sprovvisto ed era perciò esposto a eventuali sobbalzi provocati da un brusco decollo.

Joao girò gli interruttori di comunicazione situa­ti in un angolo del cruscotto e guardò dentro il pic­colo schermo in cui si proiettava l’immagine di una parte del laboratorio. Le portiere posteriori erano aperte, suo padre giaceva legato alla panca e l’altro indiano gli sedeva accanto. Chiuse le portiere per mezzo di un comando idraulico.

Le turbine raggiunsero il massimo della velocità.

Joao spense le luci e innestò il comando idrosta­tico.

Il velivolo si staccò da terra di soli dieci centimetri, Joao tirò a sé la cloche e il muso si drizzò verso l’alto. Virò a sinistra, si elevò di altri due metri per acqui­stare velocità, quindi si diresse verso le luci di un viale.

L’indiano gli parlò all’orecchio: «Gira verso quella montagna laggiù». Allungò la mano e fece un cenno a destra.

La clinica Alejandro si trova ai piedi della collina, pensò Joao. Sì, è quella la direzione giusta.

Sterzò nella direzione indicata e sorvolò una strada che intersecava il viale illuminato.

Con noncuranza diede un altro colpo alla cloche; il velivolo si sollevò di un altro metro e aumentò di velocità. Contemporaneamente azionò l’apparecchio di ascolto comunicante col compartimento posteriore e girò la chiavetta dell’amplificatore posto sotto la panca su cui giaceva suo padre.

Il fonorilevatore, capace di amplificare il suono provocato da uno spillo tanto da farlo rimbombare come una cannonata, emise solo un lontano sibilo e una specie di raschio. Joao aumentò il volume del­l’amplificatore. Lo strumento avrebbe dovuto tra­smettere i battiti del cuore del moribondo nella cabina.

Non udì alcun suono eccetto quel sibilo, quel ra­schio.

Mio padre è morto, pensò Joao. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Quei selvaggi me l’hanno uc­ciso.

Nello schermo del cruscotto notò che l’indiano, là dietro, aveva messo una mano sulla schiena del vec­chio e sembrava che la stesse massaggiando. Il suo­no ritmico e raschiante accompagnava il movimento.

Joao fu assalito dall’ira. Per un attimo pensò di lasciarsi precipitare: suicidandosi avrebbe provocato la morte di quei due folli.

Il carro volante si stava avvicinando alla periferia della città. A sinistra si snodavano delle strade di circonvallazione che si immettevano in un ampio viale. Era una zona occupata da villette con giardi­no, ciascuna col proprio tetto d’atterraggio.

Joao sorvolò la zona e si diresse verso il viale. Alla clinica, già, pensò. Ma è troppo tardi.

Dal compartimento posteriore non giungevano i battiti del cuore di suo padre, soltanto quel raschio lento e ritmico e, adesso che prestava maggior at­tenzione, gli sembrava di udire anche un ronzio simi­le al verso della cicala.

«Là, sulla montagna», disse l’indiano dietro di lui, allungando la mano per indicare a destra.

La mano era illuminata dalle luci del cruscotto e Joao vide che la pelle del dito, ricoperta di squame, si muoveva. In quel movimento riconobbe una certa specie di insetti dotati di numerose zampe.

Gli scarafaggi!

Il dito era composto da molteplici insetti uniti tra loro che si muovevano all’unisono!

Joao si volse e fissò l’indiano negli occhi. Adesso capiva perché erano così luccicanti; erano composti da migliaia di piccole sfaccettature.

«Ospedale, là», disse la creatura, indicando con il dito.

Joao ritornò ai comandi e si sforzò di mantenere la calma. Non erano indiani… non erano nemmeno esseri umani. Erano insetti… specie di alveari dalla forma umana, organizzati in modo da assumere le sembianze dell’uomo.

Quella scoperta gli fece sorgere numerosi interro­gativi. Come facevano a sostenere il loro peso? Come si nutrivano e in che modo respiravano?

Come potevano parlare?

Adesso, qualsiasi preoccupazione personale dove­va essere subordinata all’impellente necessità di in­formare il governo e di fornire la prova della sua scoperta ai ricercatori dei laboratori governativi.

Persino la morte di suo padre doveva essere su­bordinata a questo imperativo, adesso. Joao sapeva che doveva catturare una di queste creature. Accese la radio trasmittente per segnalare la sua posizione alla base. Speriamo che alcuni dei miei uomini siano in ascolto, pregò mentalmente.

«Ancora più a destra», gracchiò la creatura alle sue spalle.

Joao corresse la rotta.

La voce… quel suono stridulo, raschiante. Ancora, Joao si chiese come quella creatura potesse simu­lare la voce umana.

Joao guardò alla sua sinistra. La luna era già alta e illuminava una fila di torri bandeirantes. La prima barriera.

Presto il carro volante avrebbe superato la zona Verde per entrare nella Grigia, quella (nel progetto di Nuova Colonizzazione) del terreno agricolo più povero, quindi, al di là di essa, la grande zona Ros­sa, che si estendeva attraverso il Goyaz e all’interno del Mato Grosso fino alle pendici delle Ande, dove si radunavano squadre di lavoratori provenienti dal­l’Ecuador. Joao scorse davanti a sé le luci sparse del­le fattorie e al di là il buio.

Il carro stava acquistando troppa velocità, ma Joao non osava rallentare; i due indiani potevano inso­spettirsi.

«Devi volare più alto», gli intimò la creatura.

Joao azionò la pompa di dislocamento, il muso si sollevò e il veicolo si librò a trecento metri di al­tezza.

Si profilarono in lontananza altre torri bandeirantes, l’una vicino all’altra. Joao ricevette i segnali della barriera sul quadrante del cruscotto. Lanciò un’occhiata al suo guardiano; le vibrazioni prodotte dalla barriera non sembravano avere alcun effetto sulla creatura. Guardò fuori del finestrino laterale. Nessuno laggiù gli avrebbe intimato di fermarsi, questo lo sapeva. Era un carro bandeirante diretto nella zona Rossa… con la radio trasmittente sempre in contatto con la base. Lo avrebbero preso per un caposquadra diretto nella zona Rossa per un lavoro in appalto, che chiamava a raccolta i suoi uomini. Se i guardiani della barriera avessero riconosciuto la sua onda di chiamata, ciò avrebbe confermato la sua supposizione.

Joao Martinho aveva appena portato a termine con successo un contratto in appalto nella Serra dos Parecis. Tutti i bandeirantes lo sapevano.

Joao sospirò. Vide il fiume Sào Francisco illumi­nato dalla luce argentea della luna serpeggiare alla sua sinistra, mentre piccoli corsi d’acqua si snoda­vano come fili dalle pendici dei colli.

Devo trovare il nido: è là dove mi stanno portan­do, disse fra sé Joao.

Per un attimo pensò di accendere la radio rice­vente, ma se i suoi uomini avessero cominciato a lanciare messaggi… No. Le creature si sarebbero in­sospettite e avrebbero potuto reagire con violenza.

Se non rispondo, i miei uomini si accorgeranno che c’è qualcosa che non va, pensò. Mi seguiranno.

Sempre che qualcuno sia in ascolto.

«Dove stiamo andando?» chiese Joao.

«Molto lontano», rispose l’indiano.

Joao si preparò a un lungo viaggio. Devo essere paziente, pensò. Paziente come un ragno in attesa di fianco alla ragnatela.

Le ore trascorrevano velocemente: due, tre… quat­tro.

Nient’altro che la giungla rischiarata dalla luna scorreva sotto di loro. La luna era bassa all’orizzonte, vicina al tramonto. Stavano sorvolando l’in­terno della zona Rossa dove, all’inizio, erano stati impiegati potenti insetticidi con risultati disastrosi. Là erano state scoperte le prime metamorfosi ab­normi.

Il Goyaz.

Rhin Kelly avrebbe dovuo trovarsi laggiù, secondo le informazioni di suo padre.

Il Goyaz: ecco la regione che avevano riservato per l’assalto finale, usando barriere mobili se l’ac­cerchiamento si fosse rivelato insufficiente.

«Quando atterriamo?» chiese Joao.

«Presto.»

Joao innescò la carica di emergenza che, una volta esplosa, avrebbe separato il compartimento frontale da quello di coda. Le ali della capsula e i motori a razzo lo avrebbero catapultato nella zona bandeirante.

Con i due «esemplari» là dietro, si augurò Joao.

Alzò lo sguardo per scrutare l’orizzonte. Era un autocarro che brillava al chiaro di luna laggiù a de­stra? Non poteva esserne certo… eppure gli sembra­va così.

«Presto?»

«Avanti», gracchiò la creatura. Il suono stridulo della sua voce lo fece rabbrividire.

Joao disse: «Mio padre…»

«Ospedale per… padre… avanti.»

Presto sarebbe stata l’alba. Joao vide la prima trac­cia di luce lungo l’orizzonte. La notte era trascorsa velocemente. Si domandò se il suo guardiano gli avesse iniettato a sua insaputa qualche sostanza ca­pace di fargli perdere la nozione del tempo. No, non era possibile. Si sentiva sveglio, pronto per qualsiasi evenienza. Non poteva permettersi di lasciarsi anda­re alla stanchezza e alla noia, doveva aguzzare lo sguardo per individuare le segnaletiche scarsamente visibili nella notte buia e tendere l’orecchio per cap­tare tutto ciò che poteva su quelle straordinarie crea­ture. Fu investito dall’odore acuto dell’acido ossalico.

Come si coordinavano fra loro tutte quelle unità di insetti?

Sembrava che avessero una coscienza, oppure era anche quella una simulazione? Che cosa avevano al posto del cervello?

Ormai era giorno. In lontananza apparve il pla­teau del Mato Grosso: un calderone di liquido gri­gio che ribolle sul tetto del mondo. Joao guardò dal finestrino in tempo per scorgere l’ombra lunga del carro volante che rimbalzava attraverso una radura: tetti di lamiera luccicavano sullo sfondo dello spiaz­zo erboso… un deposito abbandonato, oppure il barracao di una fazenda vicino alla frontiera del caffè. Un posto simpatico per costruirvi un magazzino; si ergeva di fianco a un corso d’acqua ed era circon­dato da terreno fertile e rigoglioso.

Joao conosceva quella regione; immaginò di rico­prirla col reticolo della carta topografica: essa si estendeva per cinque gradi di latitudine e sei di lon­gitudine. Una volta la zona era occupata da fazendas isolate e coltivata da indigeni indipendenti e da branco sertanistos schiavizzati dal sistema encomendero della piantagione. I genitori di Benito Alvarez erano originari di quella zona. C’erano foreste equa­toriali fitte di alberi di legno duro, savane, piccoli corsi d’acqua con gli argini ricoperti di una vege­tazione lussureggiante. Qua e là, vicino alle sorgen­ti dei fiumi, giacevano abbandonati da tempo i resti di un impianto elettrico come quello delle casca­te di Paulo Afonso, entrambi sostituiti dall’energia atomica e solare.

Ecco cos’era: il sertao Goyaz, una regione ancora selvaggia e inesplorata a causa degli insetti e delle malattie. Là si estendeva l’ultima roccaforte dell’e­misfero occidentale, brulicante di insetti, in attesa che una moderna tecnologia tropicale la trasportas­se nel ventunesimo secolo.

I rifornimenti per i bandeirantes impegnati nel­l’assalto sarebbero giunti via Sāo Paolo per mezzo di trasporti aerei e terrestri; quindi su antiquati tre­ni diesel fino a Itapira, su battelli fluviali fino a Bahus e tramite aerocarri fino a Registo e Leopoldina sull’Araguaya.

Una volta espugnata, la regione si sarebbe presto ripopolata; la gente vi avrebbe fatto ritorno dai tuguri dei sobborghi metropolitani e dalle zone agri­cole della Nuova Colonizzazione.

Un’improvvisa raffica di vento scosse il velivolo e Joao tornò bruscamente alla realtà, prendendo co­scienza della sua situazione. Lanciò una rapida oc­chiata all’indiano rannicchiato dietro di lui, attento, vigile… paziente come l’indio di cui aveva assunto le sembianze. La presenza di quella «cosa» era diven­tata insopportabile e Joao si trovò a dover lottare per respingere un senso crescente di repulsione.

La moderna tecnologia della capsula contrastava fortemente con quell’assurda creatura-insetto. Che diritto aveva di starsene là in quella cabina, volando tranquillamente su quella zona dove i suoi simili re­gnavano sovrani?

Joao osservava la foresta che scorreva come un enorme fiume verde, la zona da mata. Sapeva che la regione brulicava di insetti: lombrichi che scavano nella terra umida, vermi nascosti nelle radici delle savane, scarafaggi, vespe dai pungiglioni simili a frecce, mosconi consacrati al culto Xango delle fo­reste, pulci, sfecidi, braconidi, calabroni, termiti bianche, emitteri, leucischi rossi, tripetidi, formiche, pidocchi, moscerini, acari, farfalle esotiche, tarme, mantidi… e innumerevoli metamorfosi abnormi di tutte quelle specie di insetti.

Lo sapeva con certezza.

Sarebbe stata una battaglia dura da combattere a meno che non fosse già perduta in partenza.

Non devo indugiare su questi pensieri… non anco­ra, pensò. Per rispetto a mio padre.

Le mappe dell’OIE mostravano la regione in diver­se gradazioni di rosso. Attorno al rosso scorreva una linea grigia con sfumature rosa che indicava una zona dove una o due specie di insetti resistevano a ogni sorta di insetticidi e a tutte le trappole mecca­niche e alle allettanti esche dell’arsenale dei bandeirantes.

Un reticolo di carta topografica sarebbe stato posto su questa regione e ogni migliaio di ettaro quadrato ceduto in appalto a squadre di disinfesta­tori indipendenti.

Noi bandeirantes siamo una specie di ultimi pre­datori, pensò Joao. Non c’è da meravigliarsi se que­ste creature ci imitano.

Ma ne valeva veramente la pena? chiese a se stes­so. Non stiamo forse oltrepassando i limiti?

«Là», disse la creatura dietro di lui. Allungò la mano-alveare per indicare una ripida scarpata appe­na visibile nella luce grigia del mattino. Sullo sfon­do, un fitto velo di nebbia faceva pensare che nelle vicinanze ci fosse un fiume nascosto dalla vegetazio­ne della giungla.

Proprio quello che fa al caso mio, pensò Joao. Saprò ritrovare questo luogo abbastanza facilmente.

Premette con un piede la levetta di sgancio, libe­rando una densa nuvola di fumo colorato allo scopo di lasciare una traccia sul terreno e nella foresta per il raggio di un chilometro. Contemporaneamen­te iniziò il conto alla rovescia dei cinque secondi che mancavano all’esplosione e al conseguente sgan­ciamento della capsula.

La separazione avvenne con un tremendo boato e Joao ebbe l’impressione che la creatura là dietro si fosse schiacciata contro la paratia del comparti­mento posteriore.

Estrasse le semiali, alimentò i motori a razzo e virò a sinistra. Adesso il compartimento sganciato planava lentamente verso terra autocompensato dal­le pompe dei comandi idrostatici.

Ritornerò, padre, pensò Joao. Sarai sepolto tra amici e parenti.

Bloccò i controlli della capsula e si volse per af­frontare il suo guardiano.

Il fiato gli si mozzò in gola.

La paratia posteriore brulicava di insetti raggrup­pati attorno a qualcosa di bianco giallastro che pul­sava. La camicia grigia e i pantaloni erano laceri, ma gli insetti li stavano già riparando con fili pro­dotti dalla loro secrezione. Attaccata alla superficie pulsante c’era una specie di vescica giallo scuro e più sotto… uno scheletro composto di numerosi in­setti che si articolava in modo a lui familiare.

Sembrava uno scheletro umano, ma scuro di co­lore e chitinoso.

Davanti ai suoi occhi la cosa stava riprendendo la sua forma originaria: lunghe antenne orlate di peluria che si muovevano in avanti e all’indietro e si intrecciavano; un insetto sopra l’altro, frange di zampe sottili che si accavallavano.

La cerbottana era scomparsa e la sacca di pelle giaceva in un angolo della cabina; rimanevano gli occhi della «cosa» che lo fissavano dalle loro oscu­re cavità; la bocca stava prendendo forma.

La vescica gialla si contrasse e dalla bocca ancora incompleta uscì un suono. «Devi ascoltare», grac­chiò la voce.

Joao deglutì spasmodicamente, si lanciò sui co­mandi e li sbloccò. La capsula fece un giro su se stessa.

Udì dietro di sé un ronzio assordante, un rumore che sembrava gli penetrasse in ogni parte del corpo e lo scuotesse violentemente. Sentì che qualcosa gli strisciava sul collo. La schiacciò con una mano. Im­mediatamente pensò alla fuga. In preda a una vio­lenta agitazione, scrutò il suolo sottostante alla ri­cerca di una radura per un atterraggio di fortuna. In quel mentre, vide un altro aerocarro che gli vo­lava accanto sul quale spiccava il distintivo della sua squadra.

Vide anche un gruppo di tende e le bandierine verdi e arancione dell’OIE che sventolavano di fian­co a esse. Oltre la radura si poteva intravedere la curva di un fiume.

Joao si lanciò in picchiata verso le tende.

Qualcosa gli punse la guancia. Altre cose gli stri­sciavano tra i capelli, mordendogli e pungendogli la cute. Disperatamente Joao puntò in direzione di uno spazio aperto, cercando di evitare le tende. Ades­so il vetro della cabina era brulicante d’insetti e gli impediva la visuale. Mormorando una preghie­ra, Joao tirò la barra di comando e sentì che la cap­sula perdeva quota, toccava il suolo slittando e girando su se stessa. Prima che il motore si spe­gnesse tirò la levetta a scatto per rimuovere la ca­lotta, sganciò la cintura di sicurezza e fu catapultato fuori del velivolo. Atterrò lungo disteso sul suolo della savana.

Girò più volte su se stesso, con gli occhi serrati, sentendo le punture degli insetti che come aghi ar­roventati gli trafiggevano le parti esposte del corpo. Sentì che alcune mani lo afferravano e gli spruzzavano in viso una sostanza gelatinosa per proteggerglielo.

Udì il suono di una voce a lui familiare, benché camuffata dal cappuccio, che gridava: «Correte! Da questa parte… presto!» Era Vierho.

Udì lo sparo di un fucile a gas: Whoosh!

E ancora.

E ancora.

Altre mani lo rivoltarono sul dorso. Lo spray ge­latinoso gli colpì la schiena. Una massa di liquido che odorava di neutralizzatore si riversò sul suo corpo.

Gli giunse uno strano rumore, una specie di tonfo, e una voce che esclamava: «Madre di Dio! Guarda un po’ qua!»

CAPITOLO QUINTO

Joao si drizzò a sedere, si tolse la maschera di gela­tina dal volto e si guardò intorno. Nuvole di insetti si addensavano sopra un aerocarro Irmandades.

Una voce disse: «Li hai ammazzati tutti nella cap­sula?»

«Tutto quello che si muoveva.» La risposta era roca, incerta, come quella di una persona sopraffatta dall’emozione.

«Qualcosa può essere ancora utilizzato?»

«La radio è distrutta.»

«Già. È la prima cosa che attaccano.»

Joao riconobbe i suoi Irmandades. Ne contò set­te: Vierho, Thome, Ramon, Pietr, Lon…

La sua attenzione fu attirata da un gruppetto di persone assiepate al di là dei suoi uomini; tra loro c’era Rhin Kelly. Aveva i capelli arruffati, il volto striato di sporco e lo fissava con uno sguardo vitreo.

Poi vide sulla destra la capsula del suo aerocarro, già calata in una fossa perimetrale, cosparsa di schiu­ma e di insetticida spray. Seguì con lo sguardo la linea della fossa e vide che circondava una zona di terra battuta con le tende nel mezzo. Al di là c’era la savana. Ritti di fianco a lui, c’erano due uomini in uniforme dell’OIE, con in mano delle bombole a spray.

Joao volse di nuovo l’attenzione a Rhin, cercando di ricordarla come l’aveva incontrata all’A’Chigua.

Adesso indossava una semplice uniforme da campo dell’OIE, chiazzata di fango rosso scuro. Il suo sguar­do non era affatto invitante. «Vedo che esiste una punizione ideale per questo… traditori», disse.

Joao rimase colpito dal tono isterico della sua vo­ce e impiegò un secondo per penetrare il significato delle sue parole. Traditori?

A poco a poco prese coscienza dell’aspetto lacero e inzaccherato delle uniformi dell’OIE.

Vierho si avvicinò, lo aiutò a mettersi in piedi e gli allungò un panno per togliersi di dosso la gelati­na. «Capo, che cosa sta succedendo?» chiese. «Ab­biamo ricevuto il tuo segnale, ma tu non hai risposto al nostro.»

«Ti dirò più tardi», disse con voce sommessa nel constatare l’atteggiamento ostile di Rhin e compagni nei suoi confronti. Rhin appariva prostrata e febbri­citante.

Mentre i suoi uomini gli toglievano di dosso gli in­setti morti, sentiva il dolore provocato dalle pun­ture attutirsi per l’effetto del neutralizzatore.

«Di chi è quello scheletro nella capsula?» chiese uno dell’OIE.

Prima che Joao potesse rispondere, Rhin disse: «Morte e scheletri non dovrebbero rappresentare nulla di nuovo per Joao Martinho, traditore della Piratininga!»

«Non sono altro che dei pazzi!» esclamò Vierho.

«I suoi insetti le si sono rivoltati contro, non è così?» fece Rhin con sarcasmo. «Quello scheletro, è ciò che rimane di uno di voi, eh?»

«Che cosa significano questi discorsi sugli schele­tri?» chiese Vierho.

«Il tuo capo lo sa perfettamente», rispose Rhin.

«Vuole essere così gentile da fornirmi delle spie­gazioni?» chiese Joao.

«Non è necessario», replicò lei. «Lo faranno i suoi amici laggiù.» Indicò un punto al di là della savana dove si iniziava la giungla.

Joao seguì la traiettoria del suo braccio e vide una fila di uomini con l’uniforme bandeirante che sosta­vano con aria indifferente all’ombra della giungla, circondati da nuvole di insetti. Sfilò il binocolo dal collo di uno dei suoi uomini e mise a fuoco le imma­gini. «Padre», chiamò.

Vierho si avvicinò massaggiandosi la guancia punta da un insetto.

Joao mormorò qualcosa all’orecchio di Vierho e gli passò il binocolo in modo che potesse vedere lui stesso quei volti solcati da rughe sottili, quel lucci­chio straordinario degli occhi.

«Accidenti!» esclamò Vierho.

«Ha riconosciuto i suoi amici?» chiese Rhin.

Joao la ignorò.

Vierho passò il binocolo a un altro Irmandades. I due ricercatori dell’OIE che erano rimasti in ascolto si avvicinarono e volsero lo sguardo in direzione del­le figure che spiccavano nell’ombra della giungla.

Uno dei due si fece il segno della croce.

«Che cosa c’è in quella fossa?» chiese Joao.

«Gelatina», rispose l’uomo. «Tutto ciò che era ri­masto per neutralizzare gli insetti.»

«Non li fermerà», asserì Joao.

«Eppure li ha fermati», ribatté l’uomo.

Joao annuì. Cominciava a nutrire dei sospetti sul­la loro posizione in quel luogo. Guardò Rhin. «Dottor Kelly, dov’è finito il resto dei suoi uomini?» Con un’occhiata, passò in rassegna il personale dell’OIE. «Sono certo che il corpo dei ricercatori dell’OIE sia composto da più di sei uomini.»

Rhin strinse le labbra e rimase in silenzio.

Più Joao la guardava e più le appariva sofferente. «Allora?» insistette. Lanciò un’occhiata alle tende e si accorse che erano piuttosto malconce. «Il vostro equipaggiamento? Gli autocarri? Il laboratorio?»

«Strane domande, le sue», disse Rhin, ma dal suo tono beffardo trapelava una nota d’incertezza, e d’isterismo. «A circa un chilometro da qui, nel fit­to della giungla», indicò alla sua sinistra, «c’è il rottame di un autocarro con la maggior parte del nostro… equipaggiamento, come lei lo definisce. Le bobine dell’autocarro sono state distrutte dall’acido prima ancora che ci accorgessimo che qualcosa non funzionava. Anche il rotore di sollevamento… tutto».

«Acido?»

«Dall’odore sembrava acido ossalico, ma dall’effet­to poteva essere acido cloridrico», spiegò uno dei suoi compagni, un biondo nordico con una brucia­tura da acido proprio sotto l’occhio destro.

«Raccontate dall’inizio», incitò Joao.

«Eravamo bloccati qui, in questo luogo…» s’inter­ruppe per guardarsi attorno.

«Otto giorni fa», proseguì Rhin.

«Già», disse il giovane biondo. «Ci hanno distrut­to la radio, l’autocarro… sembravano pulci gigante­sche. Sono in grado di spruzzare acido a una distan­za di quindici metri.»

«Come quella che avete visto nella Plaza di Bahia?» chiese Joao.

«Ci sono tre esemplari morti in provetta, nel nostro laboratorio da campo», disse Rhin. «È una vera e propria organizzazione, una cooperativa di alveari. Guardi lei stesso.»

Joao si umettò le labbra con aria pensierosa.

«Ho udito parte di quello che ha detto ai suoi uo­mini», riprese Rhin. «Non penserà che noi le cre­diamo?»

«Che voi mi crediate o no, non ha importanza», replicò Joao. «Come siete arrivati fin qui?»

«Abbiamo abbandonato l’autocarro e ci siamo fat­ti strada fin qui usando un mezzo di fortuna», spie­gò il biondo. «Li abbiamo tenuti a bada per un po’, quindi siamo fuggiti portandoci dietro tutto quello che potevamo del nostro equipaggiamento. Abbiamo scavato una trincea attorno al nostro accampamento, l’abbiamo cosparsa di insetticida in polvere, gelatina spray e per finire di olio copahu… ed eccoci qui.»

«In quanti siete?» chiese Joao.

«Eravamo in quindici nell’autocarro», rispose Rhin. Fissò Joao, studiando le sue reazioni. Il suo atteggia­mento, le sue domande, tutto faceva supporre che fosse in buona fede. Si sforzò di meditare su questa ipotesi, ma la sua mente era troppo confusa, non riusciva a coordinare le idee. Fin dal primo attacco, aveva avuto la netta sensazione che nelle punture de­gli insetti ci fosse qualcosa di molto simile a una droga. Purtroppo il loro laboratorio non era suffi­cientemente attrezzato per scoprire di quale sostan­za si trattasse.

Joao si massaggiò la nuca. Le punture degli inset­ti cominciavano a farsi sentire. Passò in rassegna i suoi uomini controllando le loro condizioni fisiche, l’equipaggiamento di ognuno, contò quattro fucili a gas e vide che portavano a tracolla dei caricatori di riserva.

E c’era la sua capsula al sicuro nella trincea. Forse l’insetticida a spruzzo, di cui era cosparsa la cabina, aveva danneggiato i circuiti di controllo; rimaneva pur sempre l’aerocarro là nella savana.

«Cerchiamo di farci strada fino al carro», disse.

«Il vostro aerocarro?» chiese Rhin guardando la savana. «Penso che sia ormai fuori uso, bandeirante», aggiunse con una risata isterica. «Sono certa che d’ora innanzi ci saranno sempre meno traditori. Vi state intrappolando con le vostre stesse mani.»

Joao si volse di scatto per guardare il carro Irmandade e vide che si stava inclinando sul fianco si­nistro. «Padre!» urlò. «Tommy! Vince! Andate…» S’interruppe nel vedere l’aerocarro sprofondare ul­teriormente.

«L’avverto», disse Rhin, «stia lontano dal bordo della fossa, se prima non ha spruzzato l’insetticida dall’altro lato. Il loro getto d’acido può raggiungere anche quindici metri di distanza… come può vede­re», fece un cenno verso l’aerocarro, «l’acido corro­de il metallo e persino la plastica».

«Lei è pazza», disse Joao, «perché non mi ha av­vertito immediatamente? Avremmo potuto…»

«Avvertirla?»

L’uomo biondo disse: «Dottor Kelly, forse avrem­mo…»

«Taci, Hogar», lo interruppe lei, lanciandogli una occhiata. «Piuttosto, va’ a vedere come sta il dottor Chen-Lhu.»

«Travis? È qui?» chiese Joao.

«È, arrivato ieri con un collega che purtroppo è morto quasi subito», rispose Rhin. «Ci stavano cer­cando e sfortunatamente per loro ci hanno trovati. Credo che il dottor Chen-Lhu non sopravviverà fino a domattina.» Guardò il suo collega. «Hogar!»

«Sissignora», fece l’uomo e, alzando le spalle, si diresse verso le tende.

«Abbiamo perso otto uomini per colpa dei suoi so­ci, bandeirante», disse Rhin. Guardò lo sparuto grup­po degli Irmandades. «La morte di otto di voi… tra­ditori, non sarebbe sufficiente per ripagare la vita dei miei uomini!»

«Lei è pazza da legare», replicò Joao sentendo sorgere dentro di sé un’ira furibonda. Chen-Lhu era lì… morente? Poteva aspettare, per prima cosa c’era del lavoro da sbrigare.

«La smetta di fare la commedia, bandeirante», disse Rhin. «Li abbiamo visti i suoi amici, laggiù. Abbiamo visto i suoi ‘compagni di gioco’ e adesso è tutto chiaro: eravate troppo avidi e il gioco vi è sfuggito di mano.»

«Lei non può accusare i miei Irmandades, non ne ha le prove», dichiarò Joao. Si rivolse a Thome: «Tommy, tieni d’occhio questi pazzi. Non permetterere loro di intralciare il nostro lavoro». Prese un fucile a gas e delle cartucce di riserva, poi fece un cenno a tre uomini armati. «Voi, venite con me.»

«Capo, che cosa hai intenzione di fare?» chiese Vierho.

«Salvare il salvabile dall’aerocarro», rispose Joao.

Vierho sospirò, prese fucile e cartucce e fece se­gno agli altri di rimanere con Thome.

«Andate pure a farvi ammazzare», disse Rhin. «Non crediate che ve lo impediremo.»

Joao si trattenne a stento dal rivolgerle una se­rie di ingiurie. Gli doleva fortemente il capo e non aveva voglia di litigare. Si diresse verso il bordo della trincea, il più vicino possibile all’aerocarro, spruzzò una nube d’insetticida sull’erba al di là della fossa, quindi fece cenno agli altri di seguirlo e balzò oltre la fossa.

In seguito Joao non volle più ripensare a quei mo­menti vissuti nella savana. Avevano superato la trincea da appena venti minuti che già dovettero ritirarsi nell’isola di tende. Joao e i suoi tre compa­gni erano stati colpiti dall’acido e avevano riportato gravi ustioni. E avevano tratto in salvo solo una piccola parte del materiale che giaceva nell’aerocarro, per lo più cibo. Non avevano potuto ricupe­rare la trasmittente.

L’attacco giunse da tutte le parti, da creature na­scoste tra l’alta erba. La schiuma insetticida servì a immobilizzarli solo temporaneamente. Nessuna sostanza velenosa sparata col fucile sembrò avere altro effetto che intontire le creature. L’attacco eb­be fine soltanto quando gli uomini si misero in sal­vo dietro le trincee.

«È evidente che quei mostri hanno distrutto per prima cosa le nostre apparecchiature radio», bal­bettò Vierho. «Come potevano saperlo?»

«Non cerco di indovinare», rispose Joao. «Non muoverti mentre ti curo le ferite.»

Vierho aveva una guancia e una spalla gravemente ustionate dall’acido e i suoi abiti cadevano a bran­delli.

Joao gli spalmò dell’unguento sulle ferite, quindi si avvicinò a Lon. L’uomo, che stava già perdendo la pelle della schiena, aspettava pazientemente di es­sere curato.

Rhin venne in aiuto di Joao con rotoli di garza sterilizzata e numerosi cerotti, ma si rifiutò di par­lare, persino di rispondere alle più semplici domande.

«Ne ha ancora di questa pomata?»

Silenzio.

«Ha preso dei campioni di acido?»

Silenzio.

«Come sta Chen-Lhu?»

Silenzio.

Joao si scoprì il braccio sinistro colpito dall’acido in tre punti e vi spalmò la pomata neutralizzante, quindi coprì le ferite con delle larghe strisce di ce­rotto.

«Dove sono gli esemplari di pulce che avete cat­turato?»

Silenzio.

«Lei è stupida, disonesta e megalomane», sbottò Joao senza scomporsi. «E non mi provochi troppo.»

Il volto della donna si sbiancò e i suoi occhi verdi lampeggiarono, ma non aprì bocca.

Joao provava un dolore acuto al capo, il braccio gli pulsava e gli pareva che i suoi occhi non riuscisse­ro a distinguere bene i colori. Il silenzio della donna lo esasperava, eppure provava una strana sensazione di distacco, come se quel sentimento d’ira non fosse il suo. «Si comporta come una che voglia essere violentata», disse. «Desidera che l’affidi ai miei uo­mini? Le assicuro che non aspettano altro.» Mentre parlava le sue parole gli suonavano strane… come se avesse voluto dire qualcos’altro senza esserne ca­pace.

Il volto di Rhin era in fiamme. «Come osa!» strillò.

«Ah, adesso le va di parlare», disse Joao. «Andia­mo, non sia melodrammatica. Non ho intenzione di darle questa soddisfazione.» Scosse il capo; non era esattamente ciò che voleva dire.

Rhin lo fissò sdegnata. «Lei è un insolente…»

«Dica quello che vuole», la interruppe il giovane, «tanto i miei uomini non avranno il piacere della sua compagnia».

Dal silenzio che seguì trapelava un senso di lon­tananza, di separazione, e a Joao parve addirittu­ra che Rhin fosse diventata più piccola. Prese co­scienza di un rumore lontano, come una specie di muggito, o forse era solo lui che lo sentiva. «Quel rumore», disse.

«Capo?» chiese Vierho alle sue spalle.

«Cos’è quel rumore?»

«È il fiume, capo.» Indicò un masso di roccia scura che si ergeva in lontananza al di sopra della giungla. «C’è un baratro laggiù e, quando soffia il vento, il rumore arriva fin qui. Senti, capo…»

«Che cose c’è» Joao provò un impeto d’ira nei confronti di Vierho. Non poteva parlare chiaramente?

«Devo dirti qualcosa.» Lo guidò verso il biondo nordico che sostava presso l’entrata di una tenda.

Joao guardò Rhin. Gli aveva voltato le spalle e rimaneva in piedi a braccia conserte. La sua posa rigida e severa aveva un che di ridicolo. Joao re­presse a stento una risata e si lasciò condurre dal giovanotto. Come si chiamava? Ah, sì, Hogar.

«Questo signore qui», Vierho indicò Hogar, «dice che la dottoressa è stata punta dagli insetti».

«La prima sera», bisbigliò Hogar.

«Da allora non è più la stessa», fece Vierho. «Nel­la testa, capisci? Dobbiamo adattarci ai suoi umori.»

Joao si passò la lingua sulle labbra aride.

«Gli insetti che l’hanno punta erano simili a quel­li che hanno assalito lei», precisò Hogar.

Si sta prendendo gioco di me! pensò Joao.

«Voglio vedere Chen-Lhu», disse Joao. «Adesso.»

«Il dottor Chen-Lhu è molto grave», rispose Ho­gar. «Credo che stia morendo.»

«Dov’è?»

«Nella tenda.»

«È cosciente?»

«Sì, ma non è assolutamente in condizioni di…»

«Sono io che do gli ordini qui!» scattò Joao.

Hogar e Vierho si scambiarono una strana oc­chiata.

Vierho disse: «Capo, forse…»

«Vado a trovare Chen-Lhu adesso.» Così entrò nella tenda.

All’interno il luogo era buio e gli ci vollero alcu­ni istanti per abituare gli occhi all’oscurità. Hogar e Vierho lo seguirono nella tenda.

«La prego, signor Martinho», disse Hogar.

«Capo, forse più tardi…» mormorò Vierho.

«Chi c’è là?» La voce era bassa ma controllata e giungeva da una branda sistemata in un angolo della tenda.

Joao vide una figura umana distesa sulla branda, la macchia bianca di una fasciatura e riconobbe, nella penombra, il volto di Chen Lhu. «Sono Joao Martinho», disse.

«Ah, Johnny», mormorò Chen-Lhu alzando leggermente il tono della voce.

Hogar si inginocchiò vicino a lui e disse: «La pre­go, dottore, non deve stancarsi troppo».

C’era uno strano accento di familiarità nelle sue parole, ma Joao non riuscì a spiegarsene la ragione.

Si avvicinò alla branda e guardò Chen-Lhu. Le sue guance erano scavate come dopo un lungo digiuno e gli occhi sembravano immersi in due oscure cavità.

«Johnny», disse Chen-Lhu in un bisbiglio, «allora siamo salvi».

«Non siamo salvi», rispose Joao.

«Ahhh male, molto male», mormorò Chen-Lhu. «Allora moriremo tutti insieme, eh?» E pensò: Quale ironia! Io e il mio capro espiatorio presi nella stessa trappola. Che futilità!

«C’è ancora speranza», intervenne Hogar.

Joao scorse Vierho farsi il segno della croce e pensò: Stupido ignorante!

«Quando c’è vita, eh?» disse Chen-Lhu. Guardò Joao. «Sto morendo Johnny, ma parte del mio pas­sato mi sfugge.» E pensò: Moriremo tutti, qui e nel mio paese… anche loro moriranno. Fame o ve­leni, che differenza fa?

Hogar guardò Joao e disse: «Senhor, la prego, lo lasci in pace».

«No», si oppose Chen-Lhu, «rimanga. Ho alcune cose da dirgli».

«Non deve stancarsi, dottore», insistette Hogar.

«Che cosa importa, ormai?» mormorò Chen-Lhu. «Abbiamo marciato a occidente, eh, Johnny? Vorrei poterci ridere su!»

Joao scosse il capo. La schiena gli doleva e prova­va un fastidioso formicolio alle braccia. Improv­visamente l’interno della tenda parve rischiararsi.

«Ridere?» bisbigliò Vierho. «Madonna santa!»

«Vuole sapere perché il mio governo non ha fat­to entrare i vostri osservatori?» chiese Chen-Lhu. «Che ironia! La Grande Crociata ha avuto l’esito opposto nel mio paese. Il suolo sta diventando sem­pre più sterile. Non c’è rimedio che tenga: fertiliz­zanti, prodotti chimici, niente.»

Joao non capiva che cosa volesse dire. Sterile? Sterile?

«Andiamo incontro alla più grande carestia che la storia abbia mai descritto», asserì Chen-Lhu.

«Per via della mancanza di insetti?» chiese Vierho.

«Naturalmente!» rispose Chen-Lhu. «Cos’altro è cambiato? Abbiamo spezzato gli anelli-chiave della catena ecologica. Sappiamo anche quali… ma ades­so è troppo tardi.»

Suolo sterile, pensava Joao. Un’idea molto inte­ressante, ma in quel momento gli doleva troppo il capo per meditarci su.

Vierho, angosciato dal silenzio di Joao, si chinò su Chen-Lhu e disse: «Perché il suo popolo non am­mette il fatto, in modo da avvertire gli altri prima che sia troppo tardi?»

«Non sia sciocco», esclamò Chen-Lhu con una sfumatura di autoritarismo nella voce. «Siamo di­sposti ad arrenderci su tutti i fronti, ma perdere la faccia, mai! Ve lo rivelo perché sto morendo e perché sono certo che anche voi non sopravviverete a lungo.»

Hogar si alzò e si allontanò dalla branda come se temesse qualche contagio.

«Vede, avevamo bisogno di un capro espiatorio», spiegò Chen-Lhu. «È per questo motivo che sono venuto qui… per trovarlo. Stiamo lottando per qual­cosa molto più importante delle nostre vite.»

«Potete sempre incolpare i nordamericani», disse Hogar in tono amaro.

«Abbiamo già esaminato questa possibilità», di­chiarò Chen-Lhu. «Ma non c’è via d’uscita. Abbiamo fatto tutto da noi stessi, capisce? No… l’unica solu­zione era di trovare qui un capro espiatorio. Gli inglesi e i francesi ci avevano procurato parte dei veleni. Li abbiamo esaminati a fondo, ma senza suc­cesso. Anche i russi ci avevano aiutati… ma nel lo­ro paese la questione del nuovo equilibrio ecologi­co non è stata risolta in modo globale… soltanto fino alla linea degli Urali. Ci avrebbero dimostrato di avere gli stessi problemi e… capisce? Avremmo fatto una pessima figura.»

«Perché i russi non hanno comunicato nulla?» chiese Hogar.

Joao guardò Hogar, pensando: Parole senza sen­so, parole senza senso.

«I russi stanno silenziosamente estendendo la linea degli Urali nella zona Verde», disse Chen-Lhu. «Stanno infestando di nuovo, capisce? No… avevo dato disposizioni di trovare un nuovo insetto, tipica­mente brasiliano, che avrebbe distrutto gran parte dei raccolti… e di questo fatto avremmo incolpato… chi? Forse qualche bandeirante.»

Incolpare i bandeirantes, pensò Joao. Già, tutti si scagliano contro i bandeirantes.

«La cosa più divertente», riprese Chen-Lhu, «è quello che si vede nelle vostre zone Verdi. Sapete a che cosa alludo?»

«Lei è diabolico», esclamò Vierho con rabbia.

«No, sono soltanto un patriota», ribatté Chen-Lhu. «Non vi interessa sapere che cosa ho visto nelle vo­stre zone Verdi?»

«Parli, maledizione!» scattò Vierho.

«Ho visto i segni della stessa carestia che si è abbattuta sulla mia nazione», disse Chen-Lhu. «Frut­ti più piccoli, raccolti più poveri, foglie secche, pian­te avvizzite. Presto ve ne accorgerete tutti.»

«Allora si fermeranno prima che sia troppo tardi», affermò Vierho.

Che assurdità, pensò Joao. Chi mai si ferma prima che sia troppo tardi?

«Lei è un ingenuo, mio caro», replicò Chen-Lhu. «I vostri governanti non sono diversi dai nostri: ciò che più conta per loro è la conservazione del potere. Non si accorgeranno di nulla finché sarà troppo tardi.»

Joao si chiese come mai l’interno della tenda si fosse improvvisamente oscurato; la pelle gli bruciava e il capo gli girava come se avesse bevuto troppo. Una mano gli toccò la spalla. Abbassò lo sguardo sulla mano, poi risalì su per il braccio fino a… un volto: Rhin. Aveva gli occhi pieni di lacrime.

«Joao… senhor Martinho, sono stata una sciocca», disse.

«Hai ascoltato tutto?» chiese Chen-Lhu.

«Già», rispose lei.

«Che peccato», esclamò Chen-Lhun. «Avevo spe­rato di conservarti qualcuna delle tue illusioni… per un breve lasso di tempo, comunque.»

Che conversazione bizzarra, pensò Joao. E che stra­na persona questa Rhin. Strana anche questa tenda, con la traversa che mi gira attorno e sta per venirmi addosso.

Qualcosa si abbatté sul suo capo.

Sono caduto, pensò. Non è strano?

L’ultima cosa che udì prima di piombare nell’inco­scienza fu la voce spaventata di Vierho che grida­va: «Capo!»

In sogno vide Rhin che volteggiava su di lui di­cendo: «Non è questo il momento di discutere su chi deve dare gli ordini». E ancora in sogno le ri­volse uno sguardo cattivo pensando come fosse odiosa, nonostante la sua bellezza.

Qualcuno disse: «Che differenza fa? Tanto fra poco saremo tutti morti».

E un’altra voce aggiunse: «Guarda, guarda que­sto qui. Rassomiglia a Gabriel Martinho, il prefetto».

Joao si sentì sprofondare in un abisso dove il suo volto, chiuso in una morsa d’acciaio, era costretto a guardare nel monitor della sua cabina di pilotaggio. Lo schermo mostrava un gigantesco cervo volante col volto di suo padre. Udì un ronzio simile al verso della cicala e una voce che diceva: «Non agitarti. Non agitarti…»

Si svegliò col desiderio di urlare, ma si accorse che nessun suono gli usciva dalla gola. Il suo cor­po era bagnato di sudore e Rhin gli sedeva accanto asciugandogli la fronte. Appariva pallida e dimagrita e aveva gli occhi infossati. Per un attimo si chiese se questa Rhin dal volto emaciato fosse parte di un sogno; lo guardava dritto negli occhi, eppure non aveva l’aria di notare il suo risveglio.

Fece per parlare, ma aveva la gola troppo secca.

Quel movimento attirò l’attenzione di Rhin che si curvò su di lui e lo fissò; poi prese una borraccia e gli versò alcune gocce d’acqua in gola.

«Che cosa…» mormorò con voce roca.

«Anche lei, come me, è stato punto da un in­setto il cui veleno contiene una droga», spiegò Rhin. «Adesso cerchi di non sforzarsi.»

«Dove?»

Lei lo guardò intuendo il significato più ampio della domanda.

«Siamo tuttora in trappola», rispose, «ma ades­so pare che ci sia una possibilità di cavarcela».

Dal suo sguardo Rhin capì la domanda che le sue labbra non riuscivano a formulare.

«La sua capsula», disse. «Alcuni circuiti sono sta­ti seriamente danneggiati, ma Vierho sta tentando di sostituirli. Ora deve rimanere calmo.» Gli control­lò il polso, gli infilò un termometro in bocca e dopo poco lo lesse. «La temperatura è normale», dichia­rò. «Ha avuto in passato disturbi cardiaci?»

Istantaneamente pensò a suo padre, ma la doman­da non riguardava lui. «No», mormorò.

«Mi sono rimaste alcune trasfusioni energetiche. Potrei fargliene una, se non è debole di cuore», sug­gerì Rhin.

«La prego», fece lui.

«Introdurrò l’ago in una vena della gamba», dis­se. Quindi si curvò su una cassetta vicino alla branda da cui prese un involucro scuro e piatto, sollevò le lenzuola e cominciò la trasfusione del liquido energe­tico nella vena.

Joao avvertì una trafittura nella gamba sinistra; era ancora assopito e tutto gli sembrava così re­moto.

«Ecco come abbiamo riportato Chen-Lhu in vi­ta», continuò Rhin, tirando giù le lenzuola.

Travis non è morto, pensò. Intuì che si trattava di un fatto estremamente importante, ma gliene sfug­giva il motivo.

«Era qualcosa di più di una droga», spiegò Rhin, «la sostanza che ha avvelenato me e Chen-Lhu. L’ha scoperta Vierho nell’acqua».

«Acqua?»

Rhin credette che volesse bere e gli avvicinò la borraccia alle labbra. «Due giorni dopo il nostro ar­rivo, scavammo un pozzo in una delle tende», rac­contò. «Un’infiltrazione del fiume, naturalmente. L’ac­qua era carica di veleni, in parte nostri. Vierho sen­tì che l’acqua aveva un sapore amaro e, dopo averla analizzata, scoprimmo che conteneva un’altra sostan­za: un allucinogeno capace di produrre una reazione molto simile alla schizofrenia. Escludo che sia sta­ta mescolata all’acqua da esseri umani.»

Joao sentì che il liquido gli infondeva nuove ener­gie. Un crampo simile alla morsa della fame gli atta­nagliava lo stomaco. «Allora sono stati… ‘quelli’», commentò.

«È probabile», rispose Rhin. «Abbiamo allestito un laboratorio rudimentale. La resistenza a questo allucinogeno varia a seconda dell’individuo. Hogar sembra esserne immune, il suo organismo invece è privo di difese contro tale droga.» Gli controllò nuo­vamente il polso. «Si sente più forte?»

«Sì.»

Adesso i crampi gli stringevano i muscoli della co­scia… un dolore ritmico e acuto.

«Abbiamo analizzato lo scheletro nella capsula», riprese Rhin. «Una cosa sconcertante. Assomiglia in modo impressionante allo scheletro umano, a ecce­zione della spina dorsale e di piccoli fori… presu­mibilmente dove si attaccavano gli insetti per artico­larlo. È leggero come una piuma, ma molto resisten­te. L’affinità con la chitina è piuttosto evidente.»

Joao meditò su questo fatto, aspettando che le nuo­ve energie introdotte nel suo corpo si accumulasse­ro. Man mano che i minuti passavano, si sentiva sempre più forte. Ecco che cosa era accaduto nel frattempo: avevano riparato la capsula e analizza­to lo scheletro.

«Quanto tempo sono rimasto qui?» chiese.

«Quattro giorni», rispose Rhin. Lanciò un’occhia­ta all’orologio da polso. «Quattro giorni esatti.»

Joao captò una nota di forzata contentezza nella sua voce. Che cosa nascondeva? Stava per dare una risposta alla domanda, quando un fruscio di tessu­to e un breve lampo di luce gli preannunciarono la visita di qualcuno.

Dall’apertura della tenda emerse Chen-Lhu. Dal­l’ultima volta che lo aveva visto, appariva terribil­mente invecchiato. La pelle del suo volto era grin­zosa e cascante, le guance erano incavate. Cammina­va con grande cautela. «Vedo che il paziente è sve­glio», disse.

Joao rimase sorpreso dalla robustezza della sua voce… come se tutte le energie fisiche dell’uomo si fossero incanalate in un’unica direzione.

«Gli sto facendo una trasfusione energetica», gli comunicò Rhin.

«Ottima idea», fece Chen-Lhu. «Non ci rima­ne molto tempo. Glielo hai detto?»

«Soltanto che abbiamo riparato la capsula.»

Certe cose si devono dire con delicatezza, pensò Chen-Lhu. Con molta delicatezza. Da un temperamen­to latino ci si possono aspettare strane reazioni.

«Stiamo programmando un tentativo di fuga con la capsula», lo informò Chen-Lhu.

«Non è possibile», affermò Joao. «La capsula non può sollevarsi con più di tre persone a bordo.»

«Esatto, trasporterà tre persone», proseguì Chen-Lhu. «Ma non sarà necessario che le sollevi; in ef­fetti non potrebbe.»

«Che cosa intende dire?»

«Il suo atterraggio è stato disastroso; uno dei pattini è danneggiato e il serbatoio è rotto. Gran par­te del carburante era andato perduto, prima ancora che scoprissimo il danno. C’è anche il problema dei comandi: non sono in buone condizioni nonostante la perizia del Padre.»

«Rimane il fatto che può trasportare solo tre per­sone», insistette Joao.

«Visto che non siamo in grado di trasmettere un messaggio, possiamo portarlo», disse Rhin.

Brava ragazza, pensò Chen-Lhu. Attese che Joao assimilasse il concetto.

«Chi?» chiese Joao.

«Io stesso», rispose Chen-Lhu. «Unicamente per attestare la rovina del mio paese e avvertire la vo­stra gente prima che sia troppo tardi.»

Le parole di Chen-Lhu gli riportarono alla mente un’intera conversazione udita nella tenda: Hogar, Vierho… Chen-Lhu che blaterava su… su…

«Suolo sterile», disse Joao.

«Il suo popolo deve sapere prima che sia troppo tardi», affermò Chen-Lhu. «Per questo motivo io sarò uno dei passeggeri. E Rhin per il fatto che…» Alzò debolmente le spalle. «Diciamo per cavalleria e inoltre perché è piena di risorse.»

«E fanno due», disse Joao.

«Con lei fanno tre», concluse Chen-Lhu e rimase in attesa dell’esplosione.

Invece Joao disse semplicemente: «Ma non ha al­cun senso».

Sollevò il capo e guardò il suo corpo disteso sulla branda. «Quattro giorni qui e…»

«Ma lei è il solo ad avere… entrature politiche», disse Rhin. «È in grado di farsi ascoltare.»

Joao lasciò ricadere il capo sulla branda. «Persino mio padre non mi ascolterebbe!»

La sua asserzione provocò un sorprendente silen­zio. Rhin alzò lo sguardo su Chen-Lhu, quindi fissò Joao.

«Lei pure ha delle amicizie autorevoli, Travis», disse Joao. «Probabilmente più influenti delle mie.»

«E forse no», obiettò Chen-Lhu. «D’altra par­te, lei è l’unico che abbia visto da vicino la creatura, il cui scheletro ci porteremo dietro. Lei è un testi­mone oculare.»

«Siamo tutti testimoni oculari.»

«Abbiamo sottoposto la questione ai voti», disse Rhin. «I suoi uomini insistono.»

Joao guardò prima l’uno, poi l’altra e fece no­tare: «Ciò non toglie che dobbiamo lasciare dodi­ci uomini in questo posto. Che cosa ne sarà di lo­ro?»

«Soltanto otto, adesso», mormorò Rhin.

«Chi?»

«Hogar», rispose lei. «Thome della sua squadra, più due dei miei aiutanti: Cardin e Lewis.»

«Come?»

«C’è un oggetto che assomiglia a un flauto qena», spiegò Chen-Lhu. «La creatura nella capsula ne ave­va uno.»

«Una cerbottana», disse Joao.

«No», disse Chen-Lhu. «La loro imitazione è ancora più perfetta. Si tratta di un generatore di vi­brazioni che disgrega le cellule del sangue umano. Da quando lo abbiamo scoperto, stiamo tentando con tutte le nostre forze di tenerli lontani.»

«Adesso comprende che è nostro dovere trasmet­tere questa informazione», sottolineò Rhin.

Su questo non c’è alcun dubbio, pensò Joao.

«Deve esserci qualcun altro, più forte di me, in grado di assicurare il successo di questa missione», dichiarò Joao.

«Tra un paio d’ore sarà in perfetta forma», dis­se Rhin. «Nessuno di noi si trova in condizioni migliori delle sue.»

Joao fissò la luce grigia che filtrava attraverso il soffitto della tenda. Il carburante è scarso, i coman­di sono danneggiati. Hanno intenzione di scendere lungo il fiume, naturalmente. È l’unico mezzo per proteggerci da quelle… cose.

Rhin si alzò. «Deve riposare, per accumulare ener­gie», affermò. «Tra poco le porterò del cibo. Abbia­mo soltanto delle razioni da campo, ma sono molto nutrienti.»

Chissà che fiume sarà, quello, si chiese Joao. L’Itapura, probabilmente. Fece un rapido calcolo, ba­sandosi sulla sua conoscenza della regione e sulle ore di volo impiegate per attraversarla, prima del suo fortunoso atterraggio. Il fiume sarà lungo sette od ot­tocento chilometri. E siamo prossimi alla stagione del­le piogge. Non abbiamo una sola possibilità di ca­varcela.

CAPITOLO SESTO

Le volute disegnate dalla danza degli insetti sul sof­fitto della caverna erano molto gradite al Cervello. Ammirava quei giochi di colori e quei movimenti mentre ne leggeva il messaggio: «Rapporto pervenu­to da ascoltatori appostati nella savana; risponde­re».

Il Cervello lanciò segnali affinché la danza pro­seguisse.

«Tre umani si preparano a fuggire su un picco­lo veicolo», danzarono gli insetti. «Il veicolo non volerà. Cercheranno scampo navigando sul fiume. Che cosa dobbiamo fare?»

Il Cervello indugiò per valutare i dati ricevuti. Gli umani accerchiati erano stati dodici giorni sot­to diretto controllo. Avevano fornito molte informa­zioni sulle loro reazioni provocate dallo stress. Quelle informazioni ampliavano i dati ottenuti dal­lo studio più accurato sugli indigeni. Il sistema per immobilizzare e uccidere gli umani diventava ogni giorno più semplice. Il problema non era tanto come ucciderli ma come comunicare con loro in assenza di timore e di stress da ambo le parti.

Alcuni di loro, come il vecchio dall’aria imponente, avanzavano proposte e suggerimenti e sembravano ragionevoli… ma ci si poteva fidare? Quello era il punto chiave.

Il Cervello sentì un impellente bisogno di dati ef­fettivi sugli umani in modo da controllarli senza che questi si accorgessero di essere osservati. Infatti la scoperta degli appostamenti di ascolto sparsi nella zona Verde aveva sollevato una frenetica attività da parte degli uomini. Avevano usato nuovi tipi di vi­brazioni soniche e nuovi veleni, intensificato i con­trolli alle barriere e rinforzato gli attacchi nelle zone Rosse.

Ma c’era un’altra fonte di preoccupazione: l’ignoto destino di quattro unità penetrate nelle barriere pri­ma della catastrofe di Bahia.

Solo una era ritornata; il suo rapporto era stato: «Siamo diventati dodici. Sei si sono staccati dal gruppo per accerchiare la zona nella quale abbiamo catturato i due capi umani. Di loro non si hanno notizie. Un’unità è stata distrutta. Quattro si sono decomposte per riprodurre altri di noi».

L’eventuale scoperta di quelle quattro unità si ri­velerebbe disastrosa in questo momento, rifletté il Cervello.

Quando sarebbero apparsi i simulacri umani? Di­pendeva dalle condizioni atmosferiche e dalla tem­peratura del luogo, dalla disponibilità di cibo, dai prodotti chimici, dall’umidità. La sola unità che aveva fatto ritorno non era a conoscenza della sorte delle altre quattro.

Dobbiamo trovarle! pensò il Cervello.

I problemi che potevano sorgere da un’azione fuo­ri del suo controllo lo sgomentavano. I simulacri erano un errore. Molte unità simili fra loro avreb­bero attirato l’attenzione, il che si sarebbe rivelato disastroso.

Il fatto che i simulacri fossero inoffensivi, pro­grammati in modo da esercitare una violenza li­mitata non aveva significato nell’attuale circostanza. Che volessero soltanto il permesso di parlare e ragio­nare con i capi umani… ora questo piano serviva a creare solo del pathos.

Il Cervello ripensò con amarezza alle parole del­l’umano di nome Chen-Lhu: «Sconfitta… suolo ste­rile». Questo Chen-Lhu aveva suggerito un sistema per risolvere il problema che avevano in comune, ma quali erano le sue vere intenzioni? Ci si poteva fidare?

Il Cervello interruppe quei pensieri e diresse una domanda al suo sciame: «Quali umani cercheran­no di mettersi in salvo?» Sapeva che era necessario porre particolare attenzione a ogni dettaglio.

L’orientamento dell’alveare tendeva a ignorare i dati individuali. Questa inclinazione era stata l’ori­gine degli errori commessi con i simulacri umani.

Sapeva che all’apparenza il suo problema sem­brava semplice. Ma un’analisi profonda faceva sor­gere le complicazioni delle pressioni emotive. Emo­zioni! Emozioni! La ragione aveva così tante bar­riere da superare!

I messaggeri avevano verificato i dati ricevuti da­gli appostamenti di ascolto, e ora ne riportavano i nomi: «Rhin Kelly, la regina nascosta, e gli uma­ni di nome Chen-Lhu e Joao Martinho».

Martinho, pensò il Cervello, l’umano giunto con l’altra metà dell’aerocarro. Ciò dimostrava la com­plicata affinità del suo alveare con quello degli umani. Poteva esistere un valore in quel rapporto.

Gli insetti, allevati con un coefficiente ripetitivo atto a garantire contatti, rinnovarono la loro pre­cedente domanda.

«Che tipo di contrattacco è richiesto?»

«Messaggio a tutte le unità», fece il Cervello. «Ai tre del veicolo sarà permesso di mettersi in salvo nel fiume. Esercitate una certa resistenza in modo che la nostra opposizione alla fuga sia evidente. De­vono essere seguiti da gruppi di azione in grado di sbarazzarsi di loro qualora si riveli necessario. Non appena i tre avranno raggiunto il fiume, soppri­mete quelli che rimangono.»

Le unità dei messaggeri si raggrupparono sopra il Cervello per imprimere il messaggio con motivi di danza. Decollarono in gruppi compatti, lancian­dosi attraverso l’imboccatura della caverna.

Per pochi minuti il Cervello rimase ad ammirare i colori, quindi allentò gli impulsi sensoriali e si ac­cinse a valutare il problema della prevalente in­compatibilità delle proteine.

Dobbiamo produrre immediati e logici vantaggi che gli umani non possano fare a meno di ricono­scere, pensò il Cervello. Se siamo in grado di dimo­strare la drammaticità di tali vantaggi, riusciremo ancora a far capir loro che l’interdipendenza si svi­luppa in senso circolare, è una matassa imbrogliata, una questione di vita o di morte.

Hanno bisogno di noi e noi di loro… ma l’obbligo di fornire le prove è esclusivamente nostro. E se dovessimo fallire, allora questo sarebbe veramente suolo sterile.

«Presto sarà buio, capo», disse Vierho. «Allora te ne andrai.» Aprì la calotta della capsula e si sporse all’interno.

Joao si trovava a un passo dietro di lui, ancora debole e tormentato da fitte lancinanti alla gamba sinistra causate dal trattamento energetico cui si era sottoposto.

«Ho sistemato viveri e altri rifornimenti d’emer­genza qui sotto il sedile, capo. Ho riempito anche il cassone del retro. Hai a disposizione due fucili a gas con venti caricatori supplementari e una cara­bina. Mi dispiace, ma per la carabina sono rimaste poche munizioni. Sotto l’altro sedile c’è una dozzi­na di bombe schiumogene e là nell’angolo ho fissa­to una serie di bombole a spruzzo. Sono cariche al massimo.» Vierho si drizzò e lanciò un’occhiata alle tende, quindi aggiunse a voce bassa: «Capo, non mi fido del dottor Chen-Lhu. L’ho sentito parlare, quando credeva di morire. Ho l’impressione che…»

«È un rischio che dobbiamo correre», lo rassi­curò Joao. «Senti, vorrei che tu o uno degli altri prendeste il mio posto.»

«Non ne voglio più sentir parlare, capo.» Vierho abbassò nuovamente il tono della voce. «Capo, cammina vicino a me, come se stessimo per salu­tarci.»

Joao esitò un attimo, quindi gli si accostò. Sentì qualcosa di metallico e di pesante scivolargli nella tasca dell’uniforme e sussurrò: «Che cos’è?»

«Apparteneva alla mia bisnonna. È una rivoltel­la, una Magnum 475. Ha cinque pallottole nel ca­ricatore e qui ne ho un’altra dozzina. Non è quello che si dice un’arma ultramoderna, ma contro gli uomini fa ancora il suo dovere.»

Joao commosso deglutì, mentre gli occhi gli si inumidivano di lacrime. Tutti gli Irmandades sape­vano che il Padre si portava sempre dietro quel vec­chio schioppo e che per nessuna ragione al mondo se ne sarebbe mai privato. Il fatto che lo facesse ora significava che era convinto di morire lì.

«Che Dio ti protegga, capo.»

Joao si volse e guardò verso il fiume che scorre­va a cinquecento metri dalla savana. Riusciva a mala pena a intravedere la spiaggia che si estendeva oltre la sponda opposta e la fitta vegetazione illu­minata dai raggi del sole pomeridiano. Laggiù la giungla si elevava in ondate di colori, i suoi marcati contorni spiccavano nella luce uniforme. Varietà di colori che, da un verde scuro lungo la fascia inferiore, sfumavano in un verde salvia in quella supe­riore, intramezzato da chiazze gialle, rosse e ocra. Al di sopra di quelle foglie mosse da una leggera brezza, torreggiava un albero candello pieno di nidi di pipistrelli che facevano tremare i rametti più sottili. A sinistra, un groviglio di liane oscurava una parete di alberi mata-polo.

«La capsula ha solo quindici minuti di autono­mia?» chiese Joao.

«Forse qualcosa di più, capo.»

Se contiamo solo sulla corrente del fiume non ce la faremo mai, pensò Joao.

«Capo, a volte spira un forte vento lungo il fiu­me», fece Vierho.

Maledizione, non si aspetterà che noi andiamo in acqua con quell’aggeggio, pensò Joao. Fissò Vierho e notò sul suo viso tracce di profonda stanchezza.

«Quel vento potrebbe causarvi seri inconvenien­ti, quindi ho utilizzato un gancio della capsula per costruire un aggeggio che stia sotto il pelo del­l’acqua e funga da draga. Si chiama ancora marina e manterrà il muso della capsula contro vento.»

«Ottima idea, Padre.»

E si domandava: Perché recitiamo questa farsa? Siamo tutti destinati a morire qui… qui o sotto le acque del fiume.

Un fiume che si estendeva per sette od ottocento chilometri, con rapide, baratri, cascate, e la stagio­ne delle piogge era imminente. Presto si sarebbe trasformato in un inferno torrenziale. E se anche si fossero salvati, c’erano sempre i nuovi tipi di in­setti, le creature che spruzzavano acido e veleni so­fisticati.

«È meglio che tu stesso gli dia un’altra occhiata, capo», così dicendo Vierho indicò la capsula.

Sì, ha ragione, servirà a distrarmi, a non farmi pensare, considerò Joao. C’era già stato una volta, ma un’altra occhiata non sarebbe stata inutile. Do­po tutto le loro vite dipendevano da quell’aggeggio… almeno per il momento.

Le nostre vite!

Forse c’era una via di scampo, almeno un barlu­me di speranza. In fondo quella era la capsula di un aerocarro della giungla, poteva esser chiusa ermeticamente ed era studiata in modo da affrontare qualsiasi assalto.

Non devo lasciarmi trasportare da inutili speran­ze, pensò.

Tuttavia, si avviò verso la capsula… tutto era pos­sibile.

La vernice bianca della carrozzeria era stata ri­pulita dalle macchie, dalle strisce e dalle incrosta­zioni d’acido. I pattini galleggianti, che normalmen­te si estendevano oltre il muso arrotondato della capsula, erano stati piegati a mano e saldati. For­mavano un basso gradino che portava alle semiali e all’interno della cabina. L’intera capsula era lunga circa cinque metri e mezzo, compresi i due metri del motore a razzo. Il blocco motore, che era inse­rito nella sezione sganciabile dell’aerocarro, era staccato ai due lati. La capsula, anch’essa divisa in sezioni trasversali, era di forma ovale, costituita da due superfici a mezza luna che si aprivano nella paratia posteriore della cabina. La mezza luna di sinistra era un intrico di morsetti serrafili che una volta collegavano la capsula all’aerocarro. La parte destra era chiusa ermeticamente per mezzo di un portello che ora conduceva alla cabina e a uno dei pattini galleggianti.

Joao controllò il portello, si accertò che i morset­ti fossero ben collegati e lanciò un’occhiata al pat­tino galleggiante di destra. Notò che uno squarcio laterale era stato rappezzato con tessuto e butile.

Avvertendo un forte odore di benzina, si chinò e controllò il fondo del serbatoio. Vierho aveva pompato fuori la benzina, tappato il foro all’esterno con una sostanza chimica e all’interno con un pro­dotto a spray, quindi aveva travasato la benzina nel serbatoio.

«Dovrebbe reggere se non subisce urti», osservò Vierho.

Joao annuì, si arrampicò sull’ala sinistra e guar­dò giù nella cabina. L’abitacolo, di circa due metri quadrati e alto due metri e mezzo, comprendeva due sedili di comando e in coda dei cassoni imbot­titi. I finestrini anteriori guardavano sul muso af­fusolato della capsula. Quelli laterali finivano all’al­tezza delle ali sulla parte frontale e si allargavano in coda. Un pannello trasparente di materiale pla­stico magnetico scorreva sopra il compartimento posteriore.

Joao si calò sul sedile di comando di sinistra e prese a controllare i comandi a mano. Notò che erano piuttosto lenti. Nel cruscotto erano stati in­stallati un nuovo indicatore di carburante e un al­tro bottone di avviamento, entrambi contrassegnati da rozze etichette scritte a mano.

«Ho dovuto utilizzare i pezzi che avevo a dispo­sizione, capo. Non c’era molto, ma se non fosse sta­to per l’incoscienza di quelli dell’OIE…»

«Hmm?» fece Joao in tono assente mentre pro­seguiva l’ispezione.

«Quando hanno abbandonato l’autocarro, hanno preso le tende. Io personalmente avrei preso un maggior numero di armi. Comunque dalle tende ho potuto ricavare le funi e le toppe per le ripara­zioni.»

Joao ultimò la verifica dell’indicatore di carbu­rante. «Nel sistema di alimentazione non ci sono le valvole automatiche», disse.

«Non si potevano riparare, capo… in ogni caso non hai molta benzina a disposizione.»

«A sufficienza per mandarci tutti all’inferno…. se non si riesce a controllare.»

«È per questo che ho messo lì quel grosso pul­sante, capo. Te l’ho detto. Va acceso e spento con rapidi scatti, non ci sono problemi.»

«A meno che, per sbaglio, dovessi aspirare troppa benzina.»

«Guarda là sotto, capo: quel pezzetto di legno fa da interruttore. L’ho collaudato con dei conteni­tori infilati sotto il dispositivo di iniezione. Non avrai un’imbarcazione molto veloce… ma piuttosto che niente.»

«Quindici minuti», rifletté Joao.

«È solo un’ipotesi, capo.»

«Lo so, forse basta per centocinquanta chilome­tri se tutto funziona come crédiamo; altrimenti cen­tocinquanta metri… e salteremo per aria.»

«Centocinquanta chilometri», aggiunse Vierho, «non ti bastano nemmeno per essere a metà stra­da dalla civiltà.»

«Non ci sono dubbi.»

«Allora, è tutto pronto?» tuonò Chen-Lhu la cui voce aveva un tono di falsa cordialità.

Joao guardò in basso e vide che l’uomo, appoggia­to all’ala di sinistra, era curvo e aveva un aspetto sofferente. Ebbe il sospetto che quella non fosse altro che una sofferenza simulata.

È stato il primo a riprendersi, pensò, anche se ci ha messo molto a rimettersi in forze. Ma… era in fin di vita. Forse lavoro troppo di immaginazione.

«È pronto o no?» insistette Chen-Lhu.

«Spero di sì», rispose Joao.

«Corriamo dei rischi?»

«Sarà come fare una passeggiatina domenicale», disse Joao in tono ironico.

«Dobbiamo salire a bordo subito?»

Joao volse lo sguardo verso le ombre che si al­lungavano dietro le tende, una varietà di sfumature arancione riflesse dai raggi del sole. Si accorse di respirare faticosamente, senza dubbio la tensione nervosa gli stava giocando brutti scherzi. Provò a tirare un respiro profondo e fu pervaso da una improvvisa calma; certo non era del tutto rilassato, ma libero da qualsiasi sensazione di timore.

Fu Vierho a rispondere: «Fra una ventina di mi­nuti circa, dottore.» Posò una mano sulla spalla di Joao. «Capo, che le mie preghiere ti accompa­gnino.»

«Sei sicuro di non voler prendere il mio posto?»

«Non è più il caso di discuterne, capo.»

Rhin Kelly uscì dalla sua tenda con una borsetta in mano, si diresse verso di loro e andò a mettersi di fianco a Chen-Lhu.

«Fra venti minuti, mia cara», le annunziò lui.

«Non credo di avere diritto a un posto là den­tro», disse Rhin. «Forse è più giusto che un al­tro…»

«Ormai è deciso così», tagliò corto Chen-Lhu quasi con rabbia. È incosciente, pensò, che cosa le salta in mente? «Nessuno ti permetterà di rimane­re qui.» Inoltre, mia cara Rhin, posso aver biso­gno di te per influenzare quel brasiliano. Joao Martinho dovrà essere manipolato con estrema attenzione, e a volte una donna ci riesce meglio di un uomo.

«Rimango del mio parere.»

Chen-Lhu si volse verso Joao. «Forse può convin­cerla lei, Johnny. Sono certo che non vorrà lasciar­la qui.»

Qui o là, non fa molta differenza, pensò Joao, ma disse: «Come ha già detto, la decisione è ormai pre­sa. Ora fareste meglio a salire a bordo e ad allac­ciarvi le cinture di sicurezza.»

«Dove dobbiamo sistemarci?» chiese Chen-Lhu.

«Lei è più pesante, quindi si metta dietro», con­sigliò Joao. «Sarà improbabile che io riesca a de­collare prima di urtare contro la superficie del fiu­me, ma, se così fosse, preferirei che il muso della capsula fosse rivolto verso l’alto.»

«Anch’io devo prendere posto dietro?» chiese Rhin e si rese conto di aver inconsciamento aderi­to alla loro decisione. Perché no, pensò fra sé, non immaginando di dividere il pessimismo di Joao.

«Capo!»

Joao si avvicinò a Vierho che aveva appena finito di controllare i galleggianti.

Rhin e Chen-Lhu intanto si erano diretti verso la fiancata di destra e stavano salendo a bordo.

«Come ti sembra?»

«Ti consiglio di tenere il galleggiante di destra più sollevato rispetto all’altro», fece Vierho. «Avre­sti maggiori probabilità di farcela.»

«Va bene. Manderemo soccorsi non appena pos­sibile», disse Joao ma, pronunciando quelle parole, si rese conto della loro vacuità.

«Certo, capo.» Vierho indietreggiò e preparò un lanciabombe.

Gli altri uscirono dalle tende carichi di armi e cominciarono a sistemarle nel veicolo.

Niente addii, pensò Joao. Sì, è la cosa migliore. Deve sembrare una partenza come le altre, una nor­male routine.

«Rhin, che cosa c’è dentro quella borsa?» chiese Chen-Lhu.

«Oggetti personali… e…», si interruppe, in preda alla commozione, «alcuni di loro mi hanno dato delle lettere da consegnare».

«Ah», fece Chen-Lhu, «un pizzico di sentimenta­lismo che si adatta alla situazione».

«Che cosa c’è che non va?» chiese Rhin con stizza.

«Niente, proprio niente.»

Vierho si diresse nuovamente verso l’estremità dell’ala. «Allora d’accordo, capo: appena ci dai il se­gnale di partenza, formiamo una barriera schiumo­gena lungo tutto il percorso. Dovrebbe tenerli lon­tani quel lasso di tempo che ti occorre per rag­giungere il fiume. Inoltre servirà a rendere il prato più scivoloso.»

Joao annuì e prese a ripassare mentalmente la routine di volo. Nemmeno uno degli interruttori era al suo posto. Il bottone d’avviamento a sinistra anziché a destra, la manetta del gas sporgeva dal cruscotto anziché dal pavimento fra i due sedili. Regolò le alette di compensazione e gli alettoni.

Sulla savana era calato il silenzio che anticipa­va la notte. Il prato che si estendeva davanti a loro era simile a un mare verde. Il fiume, in quel punto, era largo solo una cinquantina di metri: una super­ficie molto limitata, su cui ammarare se la capsula si fosse staccata da terra troppo velocemente. Joao sapeva che a quella latitudine e altitudine l’oscurità non era completa. Avrebbe dovuto scegliere il mo­mento adatto: un minimo di luce per il lancio attra­verso la savana e… sufficiente oscurità per proteg­gerli fino al momento dell’impatto sulle acque del fiume.

In balia di quei maledetti insetti per un raggio di quindici metri, pensò Joao. Dovrò farcela solo su una piccola striscia in mezzo al fiume, se attac­cheranno da riva. E Dio solo sa in quanti altri mo­di possono attaccarci… creature volanti, acquatiche.

«Tenetevi pronti con i fucili a gas non appena siamo in salvo sul fiume», disse. «Nel vederci fug­gire usciranno tutti insieme all’attacco.»

«D’accordo», fece Chen-Lhu. «I fucili sono in questo cassone, vero?»

«Esatto.»

Joao abbassò la calotta e la chiuse ermeticamente.

«In questo tipo di capsula, i portelli si chiudono a scatto automatico, per mezzo di morsetti. Si vedono anche là dietro, di fianco ai finestrini poste­riori.»

«Sistema molto ingegnoso», osservò Chen-Lhu.

«È un’idea di Vierho. È stata adottata in tutte le altre capsule.» Così dicendo volse lo sguardo verso Vierho e lo salutò con un gesto della mano. Questi si allontanò e ritornò al lanciabombe.

Joao accese le luci di atterraggio della capsula.

A quel segnale, tutti i suoi uomini fecero scattare le bombe schiumogene che andarono a ricadere lun­go tutto il percorso che avrebbe compiuto la capsula.

Joao premette il bottone d’avviamento; la spia di sicurezza si accese. Contò tre secondi, la luce si af­fievolì e si spense. Bene, pensò, e spinse a fondo la manetta del gas.

Un boato assordante si alzò dai motori a razzo e, ancor prima che Joao riuscisse ad azionare i freni, la capsula fu catapultata fuori della fossa perimetrale in direzione del fiume. Con un senso di violenta emo­zione, si rese conto di essere sospeso per aria. Tut­tavia aveva l’impressione di non riuscire a controlla­re la capsula; tendeva a oscillare in coda… i galleg­gianti facevano troppa resistenza. Non erano studia­ti per rimanere fuori durante il volo.

Ma non era il momento di pensarci. Joao virò e puntò in direzione di una striscia d’acqua ai margi­ni della quale la savana si fondeva con la giungla. In quel punto il fiume era più profondo, più largo e scorreva verso le colline che si stagliavano sullo sfondo. Quello era il punto più adatto. I galleggianti toccarono il pelo dell’acqua con un rimbalzo mor­bido… Su, giù… spruzzando acqua da entrambi i la­ti… più piano, sempre più piano.

Il muso si abbassò.

Fu solo allora che Joao si ricordò di non poggiare troppo sul galleggiante di destra.

La capsula stava ancora avanzando, ma avvicinan­dosi sempre più alla costa.

Joao trattenne il respiro nella speranza che la ri­parazione reggesse; si aspettava che da un momento all’altro la fiancata destra andasse a sbattere contro la superficie dell’acqua.

La capsula rimase in equilibrio.

«Ce l’abbiamo fatta?» chiese Rhin. «Siamo fuori pericolo?»

«Credo di sì», rispose Joao.

Chen-Lhu gli passò i fucili a gas e disse: «Li abbia­mo colti di sorpresa. Ah, ah! Guardate là dietro!»

Joao si girò quel tanto che la cintura di sicurezza gli permetteva, e guardò oltre la savana. Nel punto in cui si trovavano le tende fluttuava una nuvola grigia da cui uscivano strane protuberanze che si alzavano e si abbassavano.

Fu pervaso da un brivido agghiacciante, quando si rese conto che quella nuvola era formata da miliardi di insetti che si riversavano sull’accampamento.

Un improvviso risucchio colse di sorpresa la cap­sula facendola virare fuori del campo visivo della scena. Joao assecondò il movimento per sottrarsi a quella vista che non poteva più sopportare. Per un attimo la superficie dell’acqua davanti a lui brillò di un bagliore arancione, poi il buio della notte assorbì la scena. Il cielo assunse toni argentei riflessi da una sottile fetta di luna.

Vierho, pensò Joao. Thome… Ramon…

Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

«Oh, mio Dio!» esclamò Rhin.

«Dio, già!» le fece eco Chen-Lhu con rabbia. «Un altro modo per definire i meccanismi del fato!»

Rhin nascose il volto fra le mani. Aveva la sensa­zione di prender parte alle prove di un dramma co­smico, un dramma senza copione o recitazione, sen­za parole o musica, e di cui non conosceva la sua parte.

Dio è brasiliano, pensò Joao, ricordando un vec­chio detto del suo paese: Di notte, Dio perdona i peccati commessi dai brasiliani durante il giorno.

E Vierho diceva sempre: «Confida nella Vergine Maria e vai».

Non avrei potuto aiutarli, pensò, il rischio era trop­po grande.

CAPITOLO SETTIMO

«Avevate detto che il veicolo non avrebbe volato!» disse il Cervello in tono accusatorio.

I suoi organi sensoriali esaminarono a fondo le volute dei messaggeri sospesi sul soffitto della caver­na cercando di captare se quel ronzio afferente tra­smettesse il senso della frase. Ma la configurazione rivelata dalla luce al fosforo emessa dagli insetti ope­rai rimase fissa, immobile come la macchia di stelle che si stagliava all’imboccatura della caverna dietro i messaggeri.

Il Cervello pulsò una richiesta di sostanze chimiche, causando nei suoi insetti infermieri una frene­tica assistenza. Quella era la sensazione più vicina alla costernazione che avesse mai provato. La sua lo­gica definiva quell’esperienza come un’emozione e ne ricercava dei riferimenti paralleli anche mentre con­trollava la sostanza dell’informazione.

Il veicolo ha volato solo per una breve distanza ed è ammarato sul fiume, e ora è lì inattivo, costretto a non utilizzare la sua spinta.

Ma può volare!

Allora il Cervello cominciò a dubitare seriamente dell’informazione ricevuta. L’esperienza era una for­ma di alienazione insita nella natura che l’aveva creata.

«L’asserzione che il veicolo non avrebbe volato è stata fatta direttamente dagli umani», danzarono gli insetti. «Ci siamo limitati a riportare la loro valutazione.»

Era un’affermazione prammatica, prodotta più per completare l’informazione che anticipava il tentativo di fuga, che per difendersi dalle accuse del Cervello.

Quell’azione doveva far parte dell’informazione originale, pensò il Cervello. I messaggeri devono im­parare a non intervenire, ma a riportare tutti i par­ticolari precedentemente valutati. Ma come si può ottenerlo? Sono creature dai riflessi stabili, legate a un sistema di autolimitazione.

Naturalmente i nuovi messaggeri avrebbero dovu­to essere programmati e istruiti.

Con quel pensiero, il Cervello si allontanava sempre più dalla natura dei suoi creatori. Capì allora in che modo «un’azione di mimesi», un semplice rifles­so, si potesse produrre, ma il Cervello, la cosa prodotta-per-riflesso, stava avendo un inevitabile effet­to retrospettivo, che lo portava a modificare i rifles­si originali che lo avevano creato.

«Che cosa dobbiamo fare del veicolo sul fiume?» chiesero i messaggeri.

Con la sua nuova facoltà intuitiva, il Cervello capì in che modo si era formata quella domanda: dal riflesso di sopravvivenza.

L’istinto di sopravvivenza deve essere assecondato, pensò.

«Al veicolo sarà concesso di procedere solo tempo­raneamente», ordinò il Cervello. «Per il momento non si devono dare segni evidenti di attacco, ma dob­biamo predisporre nuovi rinforzi. Uno sciame giova­ne sarà fatto affluire nottetempo nel veicolo. Si deve ordinar loro di infiltrarsi in qualsiasi buco disponibi­le e di rimanere nascosti in attesa di nuovi ordini, senza attaccare assolutamente! Tuttavia devono esse­re pronti a distruggere gli occupanti del veicolo qua­lora si riveli necessario.»

Quindi il Cervello tacque, consapevole che i suoi ordini sarebbero stati trasmessi. E si servì della sua nuova capacità di valutazione, considerandola come un frammento di autonomia. L’esperienza si rivelò sia affascinante sia terrificante, poiché, vivendo al­l’interno della propria essenza, quell’esperienza rap­presentava un elemento capace di produrre sia una dialettica sia un’azione separata.

Decisioni, decisioni consce, pensò il Cervello, pu­nizioni inflitte dalla coscienza alla propria essenza. Esistono decisioni consce capaci di frammentare la propria individualità. Come possono gli umani sop­portare un tale carico di decisioni?

Chen-Lhu appoggiò il capo contro l’angolo formato dal finestrino e la paratia e fissò la fetta di luna alta nel cielo. Aveva il colore del rame fuso.

Un’incrostazione di acido scorreva diagonalmente dal finestrino fino alla parte bombata della carrozze­ria esterna. Chen-Lhu seguì con lo sguardo quella striscia e per un attimo, nel punto in cui finiva il finestrino vicino a lui, gli parve di vedere una fila di puntini piccolissimi simili a tante zanzare che stri­sciavano lungo il finestrino.

In un batter d’occhio svanirono.

Me li sono immaginati? si domandò.

Pensò di avvertire gli altri, ma Rhin aveva avuto un attacco isterico dopo aver assistito alla morte dei compagni ed era ancora molto scossa.

Me li sono immaginati, pensò Chen-Lhu. Non c’è che il chiarore lunare… quei puntini davanti agli occhi, non è il caso di preoccuparsi.

In quel punto il fiume si restringeva e presentava un’ampiezza sei o sette volte superiore all’apertura alare della capsula. Una scura parete di alberi spio­venti fiancheggiava il corso dell’acqua.

«Johnny, accenda un attimo le luci di posizione delle ali», disse Chen-Lhu.

«Perché?»

«Potrebbero individuarci», spiegò Rhin. Rimase colpita dal tono isterico della sua stessa voce. Sono un entomologo, pensò. Qualunque cosa ci sia là fuori, non può essere che un’alterazione di qualche specie conosciuta.

Ma quel ragionamento non le fu di conforto. Si re­se conto che la paura primaria di cui era pervasa aveva suscitato in lei delle sensazioni istintive che contrastavano con la ragione.

«Cerchiamo di non commettere errori», ammonì Chen-Lhu, cercando di controllare la voce. «Chiun­que abbia attaccato i nostri amici… sa dove siamo. Per favore accenda le luci, vorrei avere la conferma dei miei sospetti.»

«Siamo inseguiti, eh?» chiese Joao. Girò l’inter­ruttore.

L’improvviso bagliore rischiarò due caverne piene di insetti svolazzanti… nuvole di insetti dalle ali bianche.

La capsula fu trascinata dalla corrente in un punto in cui il fiume formava un gomito. Le luci illumina­rono la sponda rivelando grovigli di radici a forma di medusa avvinte all’argilla rosso scuro, quindi per l’effetto di un vortice si spostarono, scoprendo un isolotto… giunchi ed erba gigante e folta, occhi che si riflettevano nello specchio dell’acqua.

Joao spense le luci di scatto.

Nell’oscurità che sopraggiunse, i tre udirono il sordo ronzio degli insetti e il ritmico gracidio delle rane… poi, simile a una risposta giunta in ritardo, il verso roco di un branco di scimmie dalla sponda opposta.

Joao aveva la sensazione che la presenza di que­gli animali avesse un significato ben preciso, ma in quel momento gli sfuggiva.

Lungo una striscia di fiume illuminato dalla luna, riuscì a scorgere un gruppo di pipistrelli che sfiora­vano il pelo dell’acqua per dissetarsi.

«Ci stanno seguendo… osservando, aspettando», disse Rhin.

Pipistrelli, scimmie, rane, tutte creature che vive­vano in stretto rapporto con il fiume, pensò Joao. Ma Rhin aveva asserito che l’acqua del fiume era ca­rica di veleni. Che ragione aveva di mentire? Cercò di studiare il suo volto scarno nella pallida luce della luna, ma riuscì a scorgere solo delle ombre.

«Forse ce la faremo», dichiarò Chen-Lhu, «se ter­remo la cabina chiusa ermeticamente e gli aeratori in funzione».

«La apriremo solo di giorno», fece Joao. «Così po­tremo dare un’occhiata in giro e servirci dei fucili, se necessario.»

Rhin strinse le labbra per evitare che tremassero. Appoggiò il capo allo schienale e guardò il cielo at­traverso il pannello trasparente che la sovrastava. Una distesa di stelle punteggiava il cielo e, quando abbassò lo sguardo, poteva ancora vederli, tanti pun­tini luminosi, tremolanti sulla superficie del fiume. Improvvisamente la notte la riempì di una sensazio­ne di solitudine immensa, opprimente che la teneva prigioniera fra le pareti oscure del fiume.

L’aria della notte era permeata degli odori della giungla che nemmeno i filtri di aerazione potevano dissolvere. Ogni respiro era denso di profumi stimo­lanti e ripugnanti al tempo stesso.

Nella sua immaginazione la giungla assunse una dimensione di consapevole malvagità. Avvertiva la presenza di qualcosa di misterioso là fuori nella notte… un’entità pensante capace di inghiottirla senza un attimo di esitazione. La sensazione di realtà con cui la sua mente abbracciava quell’immagine la som­mergeva e la penetrava. Non riusciva a dar forma a quell’immagine, aveva solo proporzioni macroscopiche… eppure era là.

«Johnny, è molto veloce la corrente, qui?» chiese Chen-Lhu.

Domanda intelligente, pensò Joao. Si sporse in avanti per dare un’occhiata al quadrante luminoso dell’altimetro. «L’ago segna ottocentotrenta metri di altitudine», disse. «Se ho calcolato bene la nostra posizione, nei prossimi trenta chilometri il fiume pre­senterà un dislivello di settanta metri.» Fece mental­mente un rapido calcolo. «Posso dirlo solo in modo approssimativo ma la corrente sarà dai sei agli otto nodi.»

«Non ci staranno per caso cercando?» chiese Rhin. «Continuo a pensare…»

«Non crearti illusioni», fece Chen-Lhu. «Non lo credo, ma, se così fosse, sarebbe merito mio. Sapevo dove venire a cercarti, Rhin.» Esitò un attimo, nel dubbio di fornire a Joao troppi indizi. «Solo alcuni dei miei uomini erano a conoscenza del luogo in cui mi sarei recato, e per quale motivo.» Sperò che lei avesse captato il tono di segretezza della sua voce e lasciasse cadere il discorso.

«Sapete come sono giunto fin qui», disse Joao. «Anche se qualcuno volesse cercarmi… da dove po­trebbe cominciare?»

«Ma esiste una possibilità di cavarcela, vero?» chiese Rhin rivelando la disperazione che la portava a credere in una possibile via di scampo.

«La speranza è l’ultima a morire», declamò Chen-Lhu e pensò: Devi calmarti Rhin, quando avrò biso­gno di te, non dovrai essere sopraffatta né dalla pau­ra né dall’isterismo.

Quindi concentrò la mente sulla possibilità di scre­ditare Joao Martinho, nel caso che avessero fatto ri­torno alla civiltà. Naturalmente, per portare a ter­mine il suo piano, sarebbe stato necessario l’aiuto di Rhin. Joao rappresentava il perfetto capro espiato­rio e quella situazione doveva essere risolta su ordinazione, sempre se fosse riuscito a convincere Rhin. In caso contrario sarebbe stato costretto a elimi­narla.

La notte oscurò la caverna prima che il Cervello ricevesse altre informazioni sui tre uomini e il loro veicolo galleggiante. Parte delle notizie dei messagge­ri rivelavano solo le tensioni e le pressioni cui gli umani erano sottoposti. Si rendevano conto, forse in­consciamente, di trovarsi in trappola. I dati ricevuti potevano essere in buona parte accantonati momen­taneamente, ma c’era un problema che necessitava di un’immediata soluzione. Il Cervello aveva il sentore di un’imminente contrarietà che la sua stessa logica non aveva precedentemente valutato.

«Gruppi di azione devono essere immediatamente inviati lungo la rotta del veicolo», ordinò il Cervello, «e rimanere nascosti nella vegetazione adiacente. Devono tenersi pronti a volare sul fiume e a formare una barriera contro eventuali soccorsi aerei.»

Una semiala della capsula andò a sfiorare le pian­te rampicanti lungo la sponda del fiume. Joao, che si era appena assopito, si svegliò, lanciò un’occhiata alle sue spalle e scorse Chen-Lhu vigile e attento.

«È ora del suo turno», fece Chen-Lhu. «Rhin sta ancora dormendo.»

«Abbiamo urtato la sponda altre volte?» mormorò Joao.

«Soltanto sfiorata.»

«Comunque sarebbe opportuno attaccare l’anco­ra… quella costruita da Vierho.»

«Non ci eviterebbe, però, di andare a sbattere con­tro la riva; anzi, potrebbe impigliarsi in qualcosa.»

«Il Padre ha rivestito le marre in modo da evitare tale inconveniente. Adesso abbiamo il vento alle spalle e durerà fino al mattino. Con una draga come questa non possiamo che acquistare velocità.»

«Ma come farà ad attaccarla là fuori?»

«Già…» annuì Joao. «Meglio aspettare fino a do­mattina.»

«Buona idea, Johnny.»

Rhin si agitava senza tregua.

Joao accese le luci di posizione. Due fasci di luce si infiltrarono nel fitto della giungla e andarono a illuminare un gruppo di palme sago che si elevava su una distesa di caña brava. Miriadi di insetti svo­lazzavano lungo le fasce luminose.

«I nostri amici non vogliono proprio abbandonar­ci», mormorò Chen-Lhu.

Joao spense le luci e udì accanto a sé Rhin che re­spirava affannosamente, come se stesse soffocando. Le afferrò un braccio e chiese a bassa voce: «Si sen­te male?»

Ancora nel dormiveglia, Rhin avvertì la sua pre­senza accanto a lei e sentì un estremo bisogno di protezione. Gli si fece più vicina mormorando: «Fa caldo. Mi manca il respiro».

«Sta sognando», bisbigliò Chen-Lhu.

«Ma è vero, fa caldo», disse Joao. Si sentiva in imbarazzo di fronte all’evidente bisogno che Rhin aveva di lui; sapeva che questo divertiva Chen-Lhu.

«Verso l’alba avremo un po’ di refrigerio. Perché non fa un pisolino, Travis?»

«Sì, ha ragione.» Si sdraiò sul cassone domandan­dosi: Dovrò ucciderli? Sono proprio pazzi, Rhin e Johnny… sono così attratti l’uno dall’altra e nello stesso tempo vogliono soffocare il loro sentimento.

La brezza della notte faceva dondolare la capsula. Rhin, ora più tranquilla, aveva appoggiato il capo sulla spalla di Joao e respirava profondamente.

Joao guardava fuori del finestrino.

La luna era calata dietro le colline lasciando al chiarore stellare il compito di proiettare scure om­bre lungo le sponde del fiume. Il flusso continuo di quelle vaghe forme esercitò in Joao un effetto ipno­tico. Le palpebre gli si appesantirono sempre più, finché, al limite della tensione, concentrò la mente su come sarebbe riuscito a rimaner sveglio. Scrutò attraverso il buio della notte.

C’era solo il movimento del fiume e un leggero in­crespamento in superficie.

La notte risvegliava in lui una sensazione di mi­stero. Quel fiume era popolato dalle anime di coloro che l’avevano percorso… e ora da un’altra presenza. Una presenza che riusciva ad avvertire. Il silenzio della notte ne era saturo. Persino le rane non gra­cidavano più.

Dalla giungla gli giunse un latrato. Poi improvvi­samente gli parve di aver udito il suono sordo di un tamburo. Lontano… molto lontano: una vibrazione che percepiva più col corpo che con l’udito. Svanì prima ancora che ne avesse la conferma.

Tutti gli indiani sono scappati dalla zona Rossa. Chi avrebbe potuto usare i tamburi? Devo essermeli immaginati; forse si è trattato delle mie stesse pulsa­zioni, ecco cos’è stato.

Rimase intento all’ascolto, ma udì solo il respiro di Chen-Lhu, profondo e uniforme, e un leggero sospiro di Rhin.

In quel punto il fiume si allargava e la corrente diminuiva la sua spinta.

Trascorse un’ora… un’altra. Il tempo sembrava an­corato alla corrente del fiume. Un profondo senso di solitudine si impadronì di Joao. La capsula che li conteneva sembrava così fragile, inadeguata. Si do­mandò come avesse potuto affidare la sua vita a quella macchina così vulnerabile.

Non ce la faremo mai! pensò.

La voce tonante di Chen-Lhu ruppe il silenzio: «È sicuro che questo fiume sia l’Itacoasa, Johnny?»

«Ne sono certo.»

«Qual è la località più vicina?»

«L’area bandeirante a Santa Maria de Grao Cuyaba.»

«A sette od ottocento chilometri, vero?»

«Circa.»

Joao sentiva che Rhin si muoveva fra le sue brac­cia e si rendeva conto di non essere insensibile alla sua femminilità. Si sforzò di eludere quelle sensazio­ni e concentrò lo sguardo sul fiume: un corso sinuoso, con rapide e baratri; sotto la costante minaccia di quella insopportabile presenza che incombeva so­pra di loro. E c’era un altro pericolo di cui non aveva parlato a Rhin e Travis: quelle acque abbon­davano di pesci cannibali, i piranha.

«Quante rapide ci saranno?» chiese Chen-Lhu.

«Non so di preciso. Otto o nove, forse di più. Di­pende dalla stagione e dalla profondità dell’acqua.»

«Dovremo accendere il motore e superare le rapi­de volando.»

«Quest’aggeggio non ce la farà a decollare e am­marare diverse volte», fece Joao, «per via del gal­leggiante di destra.»

«Vierho ha fatto un buon lavoro. Terrà.»

«Speriamo.»

«È troppo pessimista, Johnny. Non è il miglior modo per affrontare questo viaggio. Quanto ci met­teremo per raggiungere Santa Maria?»

«Sei settimane, se siamo fortunati. Ha sete?»

«Sì, grazie. Quant’acqua abbiamo?»

«Dieci litri… e una piccola riserva nel caso non ci bastasse.»

Joao riprese la borraccia dalle mani di Chen-Lhu e bevve tutto d’un fiato. L’acqua era calda e sgra­devole.

In lontananza, un uccello notturno gridò: «Tuta! Tuta!» un verso simile al suono del flauto.

«Che cos’era?» sibilò Chen-Lhu.

«Un uccello… solo un uccello.»

Joao sospirò. Il verso dell’uccello risuonava in lui come un presentimento, un triste presagio non col­legato alle sue ataviche superstizioni. Guardò nuo­vamente nell’oscurità, scorse l’affascinante luccichio delle lucciole che si rincorrevano lungo la sponda de­stra, respirò l’odore del vento che spirava dalla giungla simile alle esalazioni di un soffio malefico.

Si sentiva oppresso dalla situazione disperata in cui si trovavano. Erano prossimi alla stagione delle piogge, e centinaia di chilometri di cascate e baratri li separavano da qualsiasi fonte di soccorso. E inol­tre erano il facile bersaglio di un’intelligenza crude­le che usava la giungla come arma.

La capsula veniva spinta dall’impeto del fiume.

Joao capì allora come fossero legati alla corrente del fiume che fluiva lentamente verso il mare simile a un nero cordone.

Trascorse un’altra ora… e un’altra ancora.

A destra, in lontananza, i primi chiarori dell’alba. Le scimmie diedero il benvenuto alla luce del giorno con schiamazzi e grida. Il trambusto stimolò gli uc­celli al cinguettio mattutino che riecheggiò da ogni angolo nascosto della foresta: prolungati garriti, mo­dulati squittii, stridii intermittenti.

Lentamente il cielo assunse tonalità prima perla­cee e poi biancastre che illuminarono il mondo che circondava la capsula galleggiante.

Joao guardò verso occidente e non vide che basse colline, una dietro l’altra, ammassate ai piedi della catena montuosa delle Ande. Si rese conto allora di aver già superato il primo ripido pendio del fiume che portava all’altopiano.

La capsula galleggiava dolcemente come un gigan­tesco insetto acquatico, sullo sfondo di alberi ornati dallo sfolgorio di magnifici fiori. Il lento movimen­to della corrente formava dei mulinelli i cui flutti si frangevano contro i galleggianti.

Rhin si svegliò, si ritrasse dalle braccia di Joao e guardò fuori del finestrino. Tra le due alte pareti di alberi il fiume era simile alla navata di una cat­tedrale.

Joao si massaggiò il braccio nel punto in cui il ca­po di Rhin gli aveva rallentato la circolazione san­guigna. Così facendo la osservava. C’era nel suo aspet­to un qualcosa di infantile: i capelli rossi scompi­gliati, un’espressione innocente sul viso.

Rhin sbadigliò, gli sorrise… e si accigliò di colpo nel prendere coscienza della loro situazione. Scosse il capo e si volse a guardare Chen-Lhu.

Il cinese dormiva profondamente. Rhin ebbe l’im­provvisa sensazione che Chen-Lhu simboleggiasse la immagine del suo paese, una grandiosità decaduta. La pelle del viso, porosa e grinzosa, conferiva ai suoi lineamenti un’asprezza che Rhin non aveva mai no­tato. Una peluria ispida e grigia spiccava sul labbro superiore. Rhin si rese conto che Chen-Lhu si tinge­va i capelli. Era un tocco di vanità che non aveva mai sospettato.

«Non c’è un alito di vento», osservò Joao.

«Ma fa più fresco», disse lei. Guardò fuori e notò piccoli ciuffi d’erba rossa avvinti al galleggiante.

La capsula, a ogni spinta improvvisa della cor­rente, compiva strani zigzag. Il movimento in sé aveva una certa imponenza: giri lenti e prolungati simili a una danza, accompagnata dal ritmo del fiume.

«Sento uno strano odore», fece notare Rhin.

Joao annusò: odore di benzina… appena percetti­bile, un leggero odore di traspirazione… muffa. Sen­za chiedergliene conferma, sapeva che quello era l’odore a cui lei si riferiva. «È muffa», le disse.

«Muffa?» Rhin si guardò attorno, lanciando un’oc­chiata al telone marrone che scorreva lungo i bor­di del soffitto e alle rifiniture cromate del cruscot­to. Appoggiò una mano sulla cloche e la mosse.

Muffa, pensò.

«Siamo prossimi alla stagione delle piogge, vero?» chiese. «Quali saranno le conseguenze?»

«Guai seri», rispose lui. «Il livello dell’acqua si alzerà… si formeranno delle rapide.»

«Perché dovete pensare sempre al peggio?» si in­tromise Chen-Lhu.

«Perché è necessario», fu la secca risposta di Rhin.

Chen-Lhu passò la borraccia a Rhin che la rifiu­tò, sopraffatta da uno strano senso di nausea.

Il veleno contenuto nell’acqua del campo mi ha condizionata a tal punto da provarne repulsione, pensò. Vedere Joao bere la faceva star male. Con quanto gusto beveva! Si girò dall’altra parte.

Joao restituì la borraccia a Chen-Lhu, mentre pen­sava: Strano che si sia svegliato così all’improvviso intromettendosi nel nostro discorso con quel suo tono invadente e presuntuoso. Probabilmente finge­va di dormire, mentre era sveglio e all’erta.

«Credo di aver fame», disse Rhin.

Chen-Lhu estrasse dal cassone tre pacchetti con­tenenti le razioni di cibo e i tre mangiarono in si­lenzio.

Ora Rhin aveva sete… e fu sorpresa nel constatare che Chen-Lhu le porgesse la borraccia prima ancora di avergliela chiesta. Si sentì osservata; era certa che quell’uomo fosse a conoscenza delle sue impressioni, dei suoi pensieri e ne rimase turbata. Bevve con rab­bia e restituì la borraccia al cinese.

Lui sorrise.

«I nostri amici ci hanno abbandonati, a meno che non si siano nascosti sopra il tetto o sotto le ali dove non possiamo scorgerli», osservò Joao.

«Anch’io l’ho notato», disse Chen-Lhu.

Joao percorse con lo sguardo entrambe le sponde.

Nessun movimento.

Nessun suono.

Il sole era già alto nel cielo e aveva ormai dissolto la foschia mattutina.

«Ho l’impressione che sarà una giornata maledet­tamente calda», fece Rhin.

Joao annuì.

Il caldo comincia proprio in un momento ben defi­nito, pensò. Prima non si avverte, poi ti piomba ad­dosso all’improvviso e ti opprime. Sganciò la cintura di sicurezza, spostò il sedile e scivolò nella parte posteriore. Prese ad armeggiare fra i morsetti colle­gati alla chiusura ermetica del portello posteriore.

«Dove ha intenzione di andare?» chiese Rhin. Arrossì nel rendersi conto della domanda sciocca che gli aveva rivolto.

Chen-Lhu non riuscì a soffocare una risatina ironica.

Rhin sentì di odiare l’insensibilità di Chen-Lhu no­nostante lui cercasse di attenuare l’effetto della sua reazione dicendo: «Mia cara, dobbiamo imparare ad assimilare gli aspetti convenzionali del tempera­mento occidentale».

Joao aprì il portello, ne esaminò i cardini, dentro e fuori. Nessun segno di insetti. Si chinò e guardò la superficie piatta che si estendeva fra i due galleg­gianti accanto ai motori a razzo: una piattaforma lun­ga due metri e mezzo e larga un metro circa. Anche lì nessuna traccia di insetti.

Saltò giù e chiuse il portello alle sue spalle.

Appena il portello fu chiuso, Rhin aggredì Chen-Lhu. «Sei proprio insopportabile!» urlò.

«Lo scopri ora, dottor Kelly?»

«È inutile che metti l’accento su quel ‘dottor’, continui a essere insopportabile.»

Chen-Lhu abbassò il tono della voce e disse: «Pri­ma che lui ritorni, abbiamo alcune cosette da mette­re in chiaro. Non c’è tempo da perdere in queste scaramucce. L’OIE ci ha dato degli ordini e noi dobbiamo eseguirli».

«L’unica cosa che rimane da fare ora è di comuni­care la tua confessione alle autorità.»

Lui la fissò. Naturalmente si aspettava una reazio­ne simile, ma doveva trovare un sistema per farle cambiare idea. I brasiliani hanno un detto, pensò e disse: «Quando discuti di lavoro, parla anche di soldi».

«A conta foi paga por mim», replicò Rhin. «Ho già saldato quel conto.»

«Non intendevo dire che devi pagare qualcosa.»

«Intendi dire che vuoi comprarmi?» chiese lei con asprezza.

«Altri l’hanno fatto.»

Rhin gli lanciò un’occhiata piena d’odio. Stava forse minacciando di svelare a Joao la sua attività in seno al servizio spionistico-investigativo dell’OIE? Che faccia pure! Ma non essendo stata del tutto in­formata sullo scopo della sua missione, si sentiva ora disorientata. Dove voleva arrivare Chen-Lhu?

Il cinese sorrise. Il popolo occidentale ha sempre avuto una particolare predisposizione alla cupidigia, pensò. «Non vuoi sapere altro?» chiese.

Il silenzio di lei fu come un tacito consenso.

«Per ora», riprese lui, «ti limiterai a esercitare il tuo fascino su Johnny Martinho e a farlo innamora­re. Deve ridursi al punto da essere disposto a fare qualsiasi cosa per te. Non dovrebbe riuscirti dif­ficile».

L’ho già fatto prima, pensò. Be’… se l’ho fatto, è stato esclusivamente per dovere.

Chen-Lhu, in cuor suo, si sentiva soddisfatto. I mo­delli di vita erano inflessibili. Rhin aveva finito col convincersi, come era sua abitudine.

Il portello alle sue spalle si aprì e Joao si arram­picò nella cabina. «Niente», riferì scivolando sul suo sedile. «Non ho chiuso ermeticamente il portello nel caso in cui uno di voi voglia uscire.»

«Rhin?» fece Chen-Lhu.

Lei scosse il capo, mentre un brivido le correva lungo la schiena. «No.»

«Allora approfitto io dell’occasione», disse Chen-Lhu. Aprì il portello e si lasciò scivolare sul galleg­giante, quindi richiuse il portello.

Rhin era convinta che l’avesse solo accostato per poter orecchiare attraverso la fessura. Guardò dritto davanti a sé seguendo la scia argentea del fiume. La capsula sembrava sospesa in una volta celeste, dove l’aria immobile si gonfiava lentamente, per l’effetto del caldo, fino a scoppiare.

Joao la guardò. «Tutto bene?»

A meraviglia! pensò lei.

«C’è qualcosa che non va», affermò lui. «Vi ho sentiti discutere mentre ero là fuori. Non sono riu­scito ad ascoltare quello che vi siete detti, ma lei parlava in tono collerico.»

Rhin cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. Chen-Lhu stava sicuramente ascoltando. «Io… lui mi stava prendendo in giro.»

«La stava prendendo in giro?»

«Sì.»

«E per quale motivo?»

Rhin girò il capo e studiò le linee morbide delle colline che si ergevano alla sua destra; intravide in lontananza la cima innevata di una montagna con una corona scura di cenere vulcanica. La serenità di quella montagna pervase i suoi sensi.

«È lei la causa.»

Joao abbassò lo sguardo, stupito nel constatare l’imbarazzo che quelle parole provocavano in lui.

In quel silenzio, Rhin prese a cantare a bocca chiu­sa. Aveva una bella voce, e lo sapeva: gutturale, cal­da. La voce era una della sue migliori prerogative.

Joao riconobbe la canzone e si domandò perché mai avesse scelto proprio quella. Era un canto fune­bre indigeno, una tragedia di Lorca adatta per chi­tarra:

Arresta la tua frusta, o Morte,
Non anelo il tuo mare oscuro.
Non sono solito lamentarmi, né implorare,
Ma te lo chiedo come uno che ha svolto la tua stessa opera.
Questo fiume che è tutta la mia vita,
Lascia che scorra tranquillo,
Perché il mio amore ha gli occhi grigi,
Ed è difficile dire addio.

Rhin l’aveva solo canticchiata a bassa voce, ma le parole erano lì, nell’aria.

Joao guardava alla sua sinistra.

In quel punto il fiume era fiancheggiato da file di manghi, il cui fogliame verde scuro era interrotto dal verde più sfumato del vischio tropicale e delle fo­glie pennate delle palme chonta. Al di sopra dei trat­ti diritti del fiume, si libravano due avvoltoi urubu dalle piume bianche e nere. Erano sospesi nel cielo azzurro dalle sfumature acciaio brunito, come dipin­ti su uno sfondo irreale.

L’apparente tranquillità della scena non faceva na­scere in Joao inutili illusioni. Si domandò se quella fosse la tranquillità cui si riferiva la canzone.

Uno stormo di tanagri attrasse la sua attenzione. Volavano in alto sbattendo ritmicamente le lunghe ali di un azzurro scintillante, per poi tuffarsi nel folto della giungla che sembrava inghiottirli.

Sulla sponda di sinistra, il filare di manghi lascia­va il posto a un sentiero erboso che scorreva su un argine di terra rosso scuro costellato di piccole ca­vità.

Il portello si aprì e Joao udì Chen-Lhu arrampicar­si all’interno della cabina. Udì anche il rumore dei morsetti che venivano ricollegati.

«Johnny, ho visto qualcosa muoversi fra gli al­beri dietro quel prato», riferì Chen-Lhu.

Joao concentrò lo sguardo sulla scena. Sì! Qual­cosa fra l’ombra degli alberi… numerose figure che sembravano seguire l’andatura della capsula.

Joao sfilò il fucile a gas che aveva infilato in una fessura del sedile.

«È un tiro troppo lungo», osservò Rhin.

«Lo so. Voglio solo metterli sull’avviso, mantener­li a distanza.»

Armeggiò intorno alla sicura, ma, prima ancora di riuscire a toglierla, le figure lasciarono la zona in ombra per portarsi sulla banchina erbosa illuminata dal sole.

Joao rimase senza fiato.

«Madre di Dio, Madre di Dio…» mormorò Rhin.

Era un gruppo compatto, allineato lungo la spiag­gia. Avevano un aspetto umano, quantunque apparis­sero come esemplari giganti di alcune specie di in­setti: mantidi, scarafaggi, ogni tipo di insetto prov­visto di proboscide pelosa. Quelle specie di umani avevano le sembianze tipiche degli indiani, e gran parte di loro erano simili ai due che avevano rapito Joao e suo padre.

Ma sparsi qua e là, leggermente staccati dal grup­po, c’erano degli esemplari particolari, ben distin­ti: là, uno identico al prefetto, il padre di Joao; accanto a lui… Vierho! e poi via via… gli altri uomini del campo.

Joao infilò il fucile nell’oblò.

«No!» esclamò Rhin. «Aspetti. Guardi i loro oc­chi come sono vitrei. Potrebbero essere i nostri ami­ci… sotto l’effetto di qualche droga o…» si interruppe.

O peggio ancora, pensò Joao.

«È probabile che siano tenuti in ostaggio», fece Chen-Lhu. «L’unico modo per scoprirlo… sarebbe di sparare a uno di loro.» Si alzò e sollevò il co­perchio del cassone. «Ecco una carabina…»

«Non dica sciocchezze!» esclamò Joao. Ritirò il fucile e richiuse l’oblò.

Chen-Lhu contrasse le labbra. Come sono poco realistici questi latini, pensò. Mise al suo posto la carabina e sedette. Si sarebbe potuto scegliere uno di loro come bersaglio e ottenere così valide infor­mazioni, ma forse non era il caso di precipitare le cose. Non ora.

«Non so a voi, ma a me è sempre stato insegnato di non uccidere i propri amici», disse Rhin.

«Naturalmente, Rhin, naturalmente», approvò Chen-Lhu. «Ma sono poi i nostri amici?»

«Fino a quando non ne sarò sicura…»

«Esatto!» disse Chen-Lhu. «E come potremo ac­certarcene?» Indicò in direzione delle figure, ora alle loro spalle, che si potevano scorgere fra gli al­beri e i rampicanti ripresi a fluire lungo la sponda. «Anche quella insegna qualcosa, Rhin… la giungla laggiù. Dovresti imparare anche la sua lezione.»

Doppio senso, doppio senso, pensò Rhin.

«La giungla è una scuola di pragmatismo, di ve­rità assolute. Vuoi chiedere alla giungla che cosa ne pensa del bene e del male? La risposta sarà una sola: ‘Ciò che porta al successo è bene’.»

Mi sta dicendo, in modo subdolo, di esercitare il mio fascino ai danni di Joao Martinho, mentre il poveretto non si è ancora ripreso dal suo stato di shock, d’altronde legittimo, pensò Rhin. Pericoli, violente emozioni e orrore hanno contribuito a crea­re una tale conseguenza.

Scosse il capo, mentre diceva fra sé: Con quale coraggio posso fargli ancora del male?

«Se quelli erano veramente indiani, non capisco perché abbiano macchinato quella messinscena. No, non erano veri indiani, altrimenti, ci avrebbero mi­nacciati dicendo: ‘Ora tocca a voi’. Ma quelle crea­ture… non sappiamo come e cosa pensino.»

Un profondo silenzio calò nella capsula: un isola­mento allucinante reso ancor più opprimente dal caldo e dal flusso ipnotico della vegetazione lungo la sponda.

Chen-Lhu, sdraiato sul cassone, pensava: Lascerò che il caldo e l’inattività facciano il loro effetto, a mio vantaggio.

Joao si fissava le mani. Non si era mai trovato in una situazione in cui sia la paura sia l’ozio lo co­stringessero a una analisi introspettiva. Quell’espe­rienza lo terrorizzava e l’affascinava al tempo stesso.

La paura è il castigo inferto dalla coscienza che si sente costretta a un esame profondo, pensò Joao. De­vo fare qualcosa. Ma che cosa? Dormire, ecco. Ma temeva anche il sonno e i sogni che poteva fare, si­curamente inerenti al dramma che stava vivendo.

Poter avere il cervello vuoto, scevro da qualsiasi incubo! pensò.

Sentiva che in qualche luogo nel suo passato aveva raggiunto un apice di splendore privo di qualsiasi complicazione, un luogo dove non esistevano incer­tezze. Azione… dinamismo… impeto: su tutto questo si era basata la sua vita. Ora, era tutta lì aperta al­l’introspezione, alla riflessione e alla riprova. Ma sen­tiva probabile il verificarsi di una svolta decisiva nel­la sua introspezione, che celava in lui ricordi che po­tevano ingoiarlo.

Rhin appoggiò il capo contro lo schienale e guardò su nel cielo. Presto qualcuno verrà a cercarci, pen­sò. Deve venire… deve… deve.

Si sforzò di concentrare lo sguardo sul cielo, così azzurro… azzurro… azzurro: un’enorme superficie su cui non si poteva scrivere nulla.

I soccorsi potrebbero giungere da un momento al­l’altro, pensò.

Il suo sguardo vagò e andò a posarsi sulle monta­gne che si stagliavano all’orizzonte. Si alzavano e si abbassavano a seconda dei movimenti della corrente che la trasportava attraverso la scia azzurra del fiume.

Ci sono cose alle quali non dobbiamo pensare, altrimenti possiamo essere sopraffatti dall’emozione, pensò. Quelle cose hanno un peso terribile. Sollevò la mano e strinse quella di Joao. Lui non si volse a guardarla, ma la stretta della sua mano fu più si­gnificativa di uno sguardo.

Chen-Lhu notò il movimento e sorrise.

Joao aveva lo sguardo fisso sulla vegetazione lus­sureggiante del litorale. La capsula, trascinata da una corrente tranquilla, si inoltrava fra cortine spioventi di liane. In una insenatura del fiume, torreggiavano scintillanti tre alberi Fernan Sanches: un rosso vio­lento contro il verde del fogliame. Ma lo sguardo di Joao si spostò sull’acqua, in un punto in cui il fiu­me svolgeva la sua azione: la lenta erosione di un groviglio di radici avvinte alla melma della riva.

La sua mano nella mia, pensò. La sua mano nella mia.

La sentiva amica, possessiva, leggermente umida.

La capsula era chiusa in una morsa di caldo sem­pre crescente. Il sole era diventato una palla di fuo­co che si spostava sopra di loro… e lentamente calava dietro le cime delle montagne, a occidente.

Le nostre mani unite… legate, pensò Joao.

Cominciò a pregare per la notte.

Le prime ombre della sera accarezzavano le spon­de del fiume. La notte avanzava dai flutti increspati per raggiungere lentamente le cime fiammeggianti delle montagne.

Chen-Lhu si mosse e si alzò non appena il sole scom­parve dietro i picchi. Vapori color ametista creati dal tramonto formavano una superficie d’acqua di brillante rubino, simile a sangue fluttuante. Ci fu un momento, nel buio della sera, in cui il fiume parve del tutto silente. Quindi la capsula fu avvolta nella notte ovattata.

Questa è l’ora dei timorosi e dei terribili, pensò Chen-Lhu. La notte è il mio tempo… e io non sono un timoroso.

E sorrise al modo in cui le due ombre di fronte a lui si erano unite in un’unica ombra.

Un animale con due schiene, pensò. L’idea lo di­vertì a tal punto che si portò una mano alla bocca per reprimere una risata. Subito dopo parlò: «Ora dormirei, Johnny. Faccia lei il primo turno. Mi sve­gli a mezzanotte».

I piccoli rumori provenienti dalla cabina cessarono momentaneamente, poi ripresero.

Ah, quella Rhin, pensò Chen-Lhu. Un così buono strumento anche quando non vuole esserlo.

CAPITOLO OTTAVO

Il rapporto, sebbene interessante per le sue varia­zioni, aggiunse ben poco alle informazioni generali che il Cervello aveva assorbito in precedenza. L’ap­parizione dei simulacri lungo la riva del fiume aveva suscitato in loro paura e turbamento. C’era da aspet­tarselo. Il cinese aveva dimostrato senso pratico, non condiviso dagli altri due. Questo fatto, aggiunto agli apparenti tentativi del cinese di far innamorare i due giovani, poteva essere molto significativo. Il tempo avrebbe dato i suoi frutti.

Nel frattempo, il Cervello sperimentò qualcosa di simile a un’altra emozione umana: la preoccupa­zione.

I tre nel veicolo venivano trascinati sempre più lontano dalla caverna sul fiume. Il sistema di rap­porto-calcolo-decisione-azione stava subendo ritardi molto significativi.

Gli organi sensoriali del Cervello riesaminarono le volute dei messaggeri sul soffitto della caverna.

Il veicolo si stava avvicinando a una serie di ra­pide. I suoi occupanti avrebbero potuto trovarvi la morte, oppure rinvigorire le loro forze e superarle in volo. Quello rappresentava un elemento di preoc­cupazione da prendere seriamente in esame.

Il veicolo aveva già volato una volta.

Calcolo-decisione.

«Riferite ai gruppi di azione», ordinò il Cervello, «di catturare il veicolo e i suoi occupanti prima che raggiungano le rapide. Devono catturare gli umani vivi, se possibile. Se devono essere sacrificati, l’or­dine è il seguente: il primo a essere preso sia il ci­nese, poi la regina inerme e per ultimo l’altro ma­schio».

Gli insetti sul soffitto danzarono il campione del messaggio ed emisero ronzii modulati per imprimere i vari elementi che lo componevano, quindi decolla­rono nella luce dell’alba attraverso l’imboccatura della caverna.

Azione.

Chen Lhu teneva lo sguardo fisso davanti a sé, os­servando il corso del fiume illuminato dalla luce lu­nare. Increspato dalle linee circolari dei mulinelli, simili a ragnatele, fluiva come un nastro color ar­gento per lunghi tratti diritti.

Dalla parte frontale della cabina giungevano i re­spiri di un sonno profondo, finalmente appagato.

Ora probabilmente non sarò costretto a uccidere Johnny, quello scriteriato, pensò il cinese.

Guardò la luna, attraverso il finestrino laterale e notò che era bassa e prossima al tramonto. La luce bronzea della terra si rifletteva sulla superficie non illuminata della luna e in questa zona buia si deli­nearono i tratti di un volto: Vierho.

È morto, l’amico di Johnny, pensò Chen-Lhu. Quel­lo era un simulacro apparso sulla sponda del fiume. Nessuno può essere scampato alla distruzione dell’ac­campamento. I nostri amici laggiù saranno andati incontro alla sua stessa sorte.

Si chiese allora: Come avrà affrontato la morte, Vierho… come un’illusione o come un cataclisma?

Una domanda vana.

Nel sonno, Rhin si rigirò accostandosi a Joao. «Mmmmm», mormorò.

I nostri amici insetti non aspetteranno a lungo prima di sferrare l’attacco, pensò Chen-Lhu. Natu­ralmente saranno in agguato aspettando il momento giusto e scegliendo il posto più adatto. Dove avrà luogo: in una gola rocciosa, in una insenatura? Dove?

Quel pensiero trasformava ogni ombra della notte in una fonte di pericolo. E Chen-Lhu si stupì di aver permesso alla sua mente di indugiare in simili paure.

Ciononostante rimase all’erta, coi nervi tesi.

Fuori c’era uno strano silenzio, come di attesa, la sensazione di una presenza misteriosa nella giungla.

È un’assurdità, cercò di convincersi Chen-Lhu.

Si schiarì la gola.

Joao si girò sul sedile e avvertì il calore del corpo di Rhin, rannicchiato contro il suo. Respirava som­messamente.

«Travis», bisbigliò.

«Sì?»

«Che ora è?»

«Riposi un altro po’, Johnny. Ha ancora due ore.»

Joao chiuse gli occhi, si appoggiò allo schienale ma non riuscì a riaddormentarsi. Qualcosa nella cabina… qualcosa. C’era qualcosa che richiedeva una ricogni­zione da parte sua.

Muffa.

Era più forte del solito e si mescolava all’odore acre della ruggine.

Quegli odori lo riempirono di malinconia. Gli di­cevano che tutto nella capsula si stava deteriorando e la capsula era un simbolo di civilizzazione. Quegli odori rappresentavano la fragilità umana e una mi­naccia di morte.

Accarezzò i capelli di Rhin pensando: Perché non approfittare adesso di un attimo di felicità? Domani potrebbe essere troppo tardi.

A poco a poco si riaddormentò.

L’alba fu annunciata da uno stormo di pappagalli ciarlieri, nascosti nel fitto della giungla che fiancheg­giava il fiume. Altri uccelli più piccoli si unirono al coro: si udivano trilli, battiti di ali, cinguettii.

Joao udì le grida degli uccelli, come da un’enorme distanza, che a poco a poco lo strappavano dall’asso­pimento. Aprì gli occhi, era sudato e si sentiva stra­namente debole.

Rhin, durante la notte, si era allontanata da lui; dormiva raggomitolata contro la parete della cabina.

Joao guardò la luce bianco-azzurra del nuovo giorno.

Un velo di nebbia nascondeva sia il tratto di fiume a monte sia quello a valle. L’ambiente chiuso della cabina era saturo di umidità soffocante.

Joao aveva la bocca secca e amara. Si drizzò a se­dere e si sporse in avanti per guardare attraverso la curva del parabrezza. La schiena gli doleva e aveva le gambe rattrappite.

«Johnny, non si aspetterà di veder spuntare dei soccorsi», disse Chen-Lhu.

Joao tossì e replicò: «Stavo osservando il tempo. Tra poco cominceranno le piogge».

«Forse.»

Com’è grigio il cielo, pensò Joao, il colore era cupo, plumbeo come quello di una lavagna, scenario ideale per un avvoltoio che, senza un battito d’ali, volteg­giava attraverso le cime degli alberi. Si inclinò mae­stosamente, batté le ali una volta… due volte… e vo­lò verso le vette dei monti.

Joao abbassò lo sguardo e notò che la capsula du­rante la notte si era incagliata in un’isola galleg­giante di tronchi e cespugli. Vide che i tronchi era­no ricoperti di muschio. L’isola doveva essersi for­mata tempo addietro, forse la stagione precedente… no, ancora prima. Il muschio era spesso.

Improvvisamente un vortice staccò la capsula dai tronchi.

«Dove siamo?» chiese Rhin.

Joao si volse e vide che era sveglia, ma evitava di incontrare il suo sguardo.

Che cosa diavolo avrà? pensò. Si vergogna?

«Siamo ancora nello stesso punto, mia cara Rhin», disse Chen-Lhu. «Sul fiume. Hai fame?»

«Sì, molto.»

Mangiarono in silenzio. Joao era sempre più con­vinto che Rhin facesse di tutto per evitarlo. Prima uscì dal portello e rimase a lungo sulla piattaforma galleggiante, quindi si sedette di nuovo, appoggiò la testa allo schienale fingendo di dormire.

Vada al diavolo, disse fra sé Joao. Uscì dalla cabi­na sbattendo il portello alle sue spalle.

Chen-Lhu bisbigliò all’orecchio di Rhin: «Sei sta­ta molto brava ieri sera, mia cara».

Lei parlò senza aprire gli occhi: «Va’ all’inferno!»

«Non credo nell’inferno.»

«E io invece sì?» Aprì gli occhi e lo fissò.

«Certo.»

«Ognuno ci crede a modo proprio», disse lei e richiuse gli occhi.

Per qualche motivo che non riusciva a spiegarsi le sue parole e azioni lo irritavano e non poteva fare a meno di punzecchiarla, rinfacciandole le sue credenze: «Sei una terribile calamità aborigena!»

Lei parlò senza aprire gli occhi: «Ti esprimi co­me il cardinale Newman».

«Non credi nel peccato originale?» la canzonò Chen-Lhu.

«Credo in un certo tipo di inferno», rispose lei guardandolo dritto negli occhi.

«A ciascuno il suo, eh?»

«L’hai detto tu; io no.»

«Anche tu l’hai detto.»

«Davvero?»

«Sì! È così!»

«Stai urlando», fece notare lei.

Chen-Lhu aspettò di riacquistare la calma, quindi bisbigliò: «E di Johnny che cosa ne pensi?»

«È migliore di te.»

Prima che Chen-Lhu potesse ribattere, Joao aprì il portello ed entrò nella cabina.

«Salve, capo!» disse lei sorridendo… un caldo, in­timo, accattivante sorriso.

Joao ricambiò il sorriso e scivolò sul sedile. «An­dremo incontro alle rapide, oggi», annunziò. «Lo sento. Che cosa stava urlando poco fa, Travis?»

«Oh, nulla di importante», rispose Chen-Lhu, ma la sua voce tremava di rabbia.

«Si trattava di una discussione ideologica», disse Rhin. «Travis rimane un ateo incallito fino alla fine. Io invece credo nel paradiso.» Così dicendo accarezzò la guancia di Joao.

«Perché credi che ci stiamo avvicinando alle ra­pide?» domandò Chen-Lhu e pensò: Devo interrom­pere questa conversazione. È una partita pericolo­sa, quella che stai giocando con me, Rhin.

«Innanzitutto, perché la corrente è più veloce», spiegò Joao.

Guardò fuori del finestrino frontale. La natura che li circondava stava assumendo un aspetto diverso. Le colline si avvicinavano sempre più al letto del fiume. Numerosi vortici si staccavano dalle sponde disegnando linee a spirale.

Un gruppetto di scimmie dalla lunga coda cominciò a correre di pari passo con la capsula, emettendo stridule grida tra gli alberi.

«Ogni creatura che vedo là fuori mi suggerisce una domanda: È veramente ciò che sembra?» disse Rhin.

«Quelle sono vere scimmie», ribatté Joao. «Cre­do che ci siano delle creature che i nostri amici non possano imitare.»

Adesso il fiume si restringeva e le colline erano sempre più vicine. Lungo le sponde, giganteschi al­beri di legno duro dai rami contorti lasciavano il posto a file di palme pago,che facevano da sfondo a intrichi di arbusti e liane che caratterizzano la ve­getazione della giungla. A intervalli il verde era in­terrotto da tronchi rosso bruno di guayavilla i cui rami spioventi sfioravano l’acqua.

In una curva del fiume, la capsula colse di sor­presa un uccello dalle piume rosa e dalle lunghe zam­pe che si cibava in una secca. Sbatté le pesanti ali e si alzò in volo, scomparendo dalla vista.

«Allacciatevi le cinture», disse Joao.

«È sicuro che sia necessario?» chiese Chen-Lhu.

«Sì.»

Joao udì scattare le fibbie, allacciò la sua cintura e diede un’occhiata al cruscotto per controllare le modifiche apportate da Vierho nei comandi. Botto­ne d’avviamento… spia luminosa… manetta del gas. Mosse la cloche e si accorse che era piuttosto lenta. Pregò mentalmente che il galleggiante di destra non cedesse e si preparò ad affrontare le rapide.

Giunse un suono, simile al rombo del vento che soffia attraverso gli alberi. La capsula fece un’ampia curva, quindi in un punto dove la corrente era più forte fu trascinata in un vortice e girò più volte su se stessa finché riprese la rotta originaria; là, a non più di un chilometro di distanza, scorsero un agitato ribollire di acqua schiumosa. Il fragore prodotto dal­l’acqua diventava sempre più assordante.

Joao valutò la situazione: una spessa muraglia di alberi si ergeva su entrambe le sponde, il letto del fiume si restringeva e scure pareti di roccia bagnata sovrastavano le rapide. C’era un’unica via di usci­ta: attraversare le rapide.

Era necessario valutare attentamente sia la cor­rente sia la distanza: al momento giusto i galleggian­ti della capsula avrebbero dovuto colpire le onde della corrente contraria, le quali avrebbero aiutato i galleggianti a neutralizzare il loro impatto con la violenza del fiume.

È questo il posto, pensò Chen-Lhu. I nostri amici saranno qui ad aspettarci. Afferrò un fucile a gas e cercò di tener d’occhio entrambe le sponde.

Rhin strinse i braccioli del sedile e si appoggiò contro l’imbottitura dello schienale. Sentì che sta­vano per essere inesorabilmente trascinati nel vor­tice delle acque.

«C’è qualcosa fra gli alberi alla nostra destra», avvertì Chen-Lhu.

Un’ombra oscurò l’acqua che li circondava, mentre bianche sagome svolazzanti presero a radunarsi da­vanti al natante, ostacolando la visuale.

Joao premette il bottone d’avviamento contando: uno, due, tre. Tirò la manetta del gas.

I motori si accesero con un rombo assordante che coprì il rumore delle rapide. La capsula emerse dal­l’ombra attraversando lo schermo degli insetti.

Joao fu costretto a sterzare bruscamente per evi­tare un ammasso di rocce che si elevava nel bacino superiore. Sentendosi schiacciare contro il sedile dalla forza di gravità, diminuì l’accelerazione agendo ripetutamente sulla manetta del gas. Ti prego non esplodere, pregava mentalmente. Ti prego.

«Una rete!» gridò Rhin. «C’è una rete sospesa sul fiume.»

Si ergeva sulle rapide come un serpente grondante d’acqua.

Istintivamente Joao portò la mano sulla manetta del gas spingendola violentemente contro il cruscotto.

La capsula fece un balzo in avanti e sfiorò un ba­cino rilucente d’acqua. Poi la forza della corrente la sospinse verso un’umida parete di rocce. La rete era là, sospesa nel vuoto, quando la capsula si sollevò e i galleggianti affiorarono in superficie.

Su… su…

Joao poteva vedere l’acqua che si frangeva con estrema violenza contro la rete, come se cercasse di evitare l’impatto con l’oscura parete di rocce.

Qualcosa colpì i galleggianti con un suono simile a quello prodotto da uno strappo. Il muso della cap­sula prima affondò, poi, non appena Joao tirò a sé la cloche, fece un balzo in avanti. Strani crepitii scossero il natante; violenti spruzzi d’acqua esplosero tutt’intorno.

Per un breve attimo, Joao notò un movimento lun­go il bordo della scarpata. Una fila di massi tondeg­gianti si staccarono dalla parete e caddero rimbom­bando nell’acqua.

Con un’improvvisa virata, la capsula riuscì a evi­tarli. In quel momento Joao si accorse di essere sospeso per aria. Pur sbandando e serpeggiando, sta­vano prendendo quota. Joao allentò la manetta del gas.

La capsula sfiorò rombando una fila di alberi e fu di nuovo sul fiume. Una collina irta di alberi sfrecciava sotto di loro, mentre più avanti si sten­deva un corso d’acqua lungo e stretto, simile a un getto tumultuoso di olio scuro.

Joao udì la voce di Rhin che diceva: «Stiamo vo­lando! Stiamo volando!»

«Un volo pieno di ispirazione», disse Chen-Lhu.

Joao era così emozionato che le sue mani riusci­vano a mala pena a manovrare i comandi. Vide che il fiume formava un’ampia curva e che, al di là di quella, si apriva un’estensione di terre sommerse.

Fiume scuro… terre sommerse, pensò.

Joao teneva sotto controllo la stabilità del volo. Lanciò un’occhiata a occidente: nuvole scure si ad­densavano all’orizzonte, il cielo era plumbeo e prean­nunciava un temporale. La pioggia si è riversata sui colli, pensò. E ha inondato la pianura. Deve essere accaduto durante la notte.

Si adirò con se stesso per non aver notato prima il cambiamento del colore dell’acqua.

«Che cosa non va, Johnny?» chiese Chen-Lhu.

«Niente.»

Joao spostò la manetta del gas di due tacche, i motori scoppiettarono, poi tacquero. Interruppe completamente l’afflusso del carburante.

Nel tentativo di allontanarsi il più possibile tirò a sé la cloche, sfruttando il vento e la forza d’inerzia. La capsula cominciò a vibrare in coda. Joao inclinò il muso cercando di prolungare il volo il più possibi­le, ma la capsula si comportò come tale, precipitan­do come un sasso.

Il vento al loro passaggio produceva un suono simile a un lugubre sibilo che risuonava nella cabina.

Il fiume piegava a sinistra attraverso altre terre sommerse. Un solco sottile d’acqua tumultuosa de­limitava il corso d’acqua principale. Dolcemente Joao si inclinò in virata, poi riprese la rotta seguendo quella scia. L’acqua scorreva veloce, la capsula cominciò a imbardare e Joao lottò per mantenere il controllo dei comandi.

I galleggianti urtarono con violenza contro la su­perficie dell’acqua, sollevando un’infinità di spruzzi. L’ala destra cominciò a inclinarsi… sempre più in basso.

Joao puntò a sinistra in direzione di un lido di sabbia scura.

«Stiamo affondando», constatò Rhin, con un tono da cui traspariva sorpresa mista a terrore.

«Il galleggiante di destra», disse Chen-Lhu, «ha urtato contro la rete».

Il galleggiante di sinistra grattò il fondale, si fer­mò, fece roteare brevemente quello di destra, finché anche quest’ultimo affondò. Qualcosa gorgogliò sott’acqua, seguito da un’esplosione di bolle in super­ficie. La punta dell’ala destra si trovava a pochi millimetri dal pelo dell’acqua.

Rhin tremante nascose il capo tra le mani.

«E adesso?» fece Chen-Lhu, divertito e turbato al tempo stesso al suono angoscioso della sua stessa voce.

È la fine, pensò. Qui i nostri amici ci sorprende­ranno. Non c’è più speranza.

«Adesso ripariamo il galleggiante», disse Joao.

Rhin sollevò il capo e lo guardò.

«Qui?» chiese Chen-Lhu. «Ahhh, Johnny…»

Rhin premette il dorso della mano sulle labbra, pensando: Joao lo dice per rassicurarmi, perché mi vede disperata.

«Certamente, qui», ribatté bruscamente Joao. «Ora stia zitto e mi lasci pensare.»

Rhin abbassò la mano e disse: «Ce la faremo?»

«Se ce ne danno il tempo», rispose Joao. Sganciò la calotta e la spostò in avanti, slacciò la cintura di sicurezza, guardandosi attorno per tutto il tempo, scrutando l’aria, la giungla, il fiume.

Nessuna traccia di insetti.

Uscì dalla cabina, scivolò sulla superficie obliqua del galleggiante di sinistra e scrutò la giungla al di là della spiaggia: un intrico di rami contorti, liane, piante rampicanti, felci.

«Un esercito di insetti potrebbe essere nascosto là dentro senza che ce ne accorgessimo», bisbigliò Chen-Lhu.

Joao lo guardò. Il cinese era in piedi in fondo alla cabina.

«Come pensa di riparare il galleggiante?» chiese Chen-Lhu.

Rhin gli si mise di fianco aspettando la risposta.

«Ancora non so», rispose Joao. Si volse e seguì con lo sguardo la corrente del fiume.

File di piccole onde sospinte da un soffio di ven­to increspavano l’acqua del fiume e aumentavano man mano che il vento si faceva più forte. Poi il vento cessò di colpo. L’aria e l’acqua oscillavano per l’effetto del caldo misto a umidità. Un calore opprimente irradiava dal metallo della capsula e della spiaggia.

Joao scivolò nell’acqua; era pesante e calda.

«Che cosa ne dice dei pesci cannibali?» chiese Rhin.

«Loro non mi vedono, io non vedo loro», rispo­se Joao. «Così siamo pari.» Fece il giro della cap­sula a guado per dare un’occhiata ai motori a raz­zo. L’odore del gas di scarico era molto forte e una chiazza d’olio galleggiava in superficie. Joao alzò le spalle, si chinò e passò una mano lungo il bordo esterno del galleggiante di destra per esplorare la superficie nascosta.

A un certo punto le sue dita incontrarono uno squarcio frastagliato nel metallo e i frammenti del­la riparazione di Vierho. Joao esplorò il buco e no­tò con angoscia che era molto grosso.

Chen-Lhu si calò sul galleggiante di sinistra con un fucile a gas in mano. «Il danno è molto grave?» si informò.

Joao si raddrizzò e raggiunse a guado la spiaggia. «Abbastanza.»

«Possiamo porvi rimedio?» chiese Chen-Lhu, con voce rauca.

Joao si volse e lo guardò pensando: È spaventato il poveretto!

«Prima dobbiamo tirare il galleggiante fuori dal­l’acqua, poi ne riparleremo», disse Joao. «Comun­que credo che ce la faremo.»

«Come si farà a tirarlo fuori?»

«Useremo le liane… come verricello e i rami co­me rulli.»

Rhin si sporse dal finestrino della cabina. «Quan­to tempo occorrerà?»

«Se siamo fortunati stasera avremo finito.»

«Non ci lasceranno tutto questo tempo», obiettò Chen-Lhu.

«Abbiamo un vantaggio di trenta o quaranta chi­lometri su di loro», disse Joao.

«Ma anche loro possono volare», affermò Chen-Lhu. Sollevò il fucile e lo puntò alla sua destra. «Ec­coli che arrivano.»

Joao si volse di scatto nel momento in cui Chen-Lhu lasciava partire alcuni colpi e vide che l’ampia sventagliata del fucile a gas abbatteva una fila di in­setti svolazzanti, bianchi, rossi e oro, lunghi come il pollice di una mano. Ma dietro a quelli ce n’erano altri… altri… altri…

«Ha ripreso a volare», disse il Cervello in tono di accusa.

I messaggeri, sul soffitto, danzavano e ronzavano i loro rapporti, aprendo la strada a nuovi insetti che, come tanti granelli dorati, volteggiavano nella luce solare proveniente dall’imboccatura della ca­verna.

«Il veicolo è seriamente danneggiato», riferirono i nuovi venuti. «Non è più in grado di galleggiare sul fiume e giace parzialmente sommerso dalle acque. Sembra che gli umani non abbiano subito danni. Gruppi di azione sono già stati condotti sul luogo, ma gli umani hanno opposto resistenza sparando i loro veleni su qualsiasi cosa in movimento. Quali sono le tue istruzioni?»

Il Cervello cercò di acquisire la calma necessaria per calcolare e decidere. Emozioni… emozioni, pen­sò. Le emozioni sono la rovina della logica.

Dati-dati-dati. Era completamente sommerso di da­ti, ma c’era sempre un fattore che gli sfuggiva. Nuo­vi elementi modificavano i dati precedentemente ac­quisiti. Il Cervello era in possesso di molte informa­zioni sugli umani, alcune ottenute mediante osservazione, deduzione e intuizione, altre raccolte dai microfilm disponibili nelle biblioteche allesti­te dagli umani nelle zone Rosse in previsione di un loro ritorno.

I dati rivelavano numerose lacune.

Allora il Cervello fu colto dal desiderio di potersi muovere da solo, per osservare tramite i suoi organi sensoriali tutto ciò che per il momento gli veniva trasmesso dai messaggeri. Quel desiderio provocò un’esplosione di segnali confusi dai centri di control­lo dei muscoli, inattivi e quasi atrofizzati. Numerosi insetti infermieri accorsero sulla superficie del Cer­vello, alimentando le zone in cui si erano formate quelle insolite richieste, contrapponendo additivi ormonali alle frustrazioni che per un momento ave­vano minacciato l’intera struttura.

Ateismo, pensò il Cervello, non appena la serenità chimica si fu ristabilita. Parlano di ateismo e di pa­radiso. Quegli argomenti disorientarono il Cervello. La conversazione, così come gli era stata riportata, era sorta da una discussione che riguardava i model­li di accoppiamento fra gli umani… almeno fra quelli del veicolo.

Gli insetti sul soffitto si innervosirono dovendo ripetere la domanda: quali sono le tue istruzioni?

«Quali sono le mie istruzioni?»

Le mie istruzioni.

Io… me… le mie.

Di nuovo, gli insetti infermieri accorsero.

Il Cervello riacquistò la calma e si meravigliò del fatto che dei pensieri, dei semplici pensieri, potes­sero provocare un simile sconvolgimento. La stessa cosa sembrava accadere anche agli umani.

«Gli umani nel veicolo devono essere catturati vi­vi,» ordinò il Cervello. (E si rese conto che la sua richiesta era puramente egoistica. Aveva parecchie domande da rivolgere al terzetto.) «Radunate tut­ti i gruppi di azione disponibili. Individuate un posto lungo il fiume più adatto di quello precedente e schie­rate una metà dei gruppi di azione. L’altra metà do­vrà attaccare non appena possibile.»

Il Cervello si placò senza congedare i messagge­ri, quindi, come in seguito a un ripensamento, ag­giunse: «Se tutto il resto fallisce, distruggete i cor­pi ma salvate le teste».

Adesso i messaggeri erano liberi e debitamente istruiti. Svolazzarono fuori della caverna nella chiara luce del sole e si librarono sull’acqua rumoreggiante del fiume.

A occidente una nuvola oscurò per un attimo il so­le.

Il Cervello registrò questo fatto, notando che il rumore proveniente dal fiume quel giorno era più forte.

Piogge nell’entroterra, pensò. Questo pensiero su­scitò immagini nella sua memoria: foglie bagnate, rigagnoli nella foresta, aria fredda e umida, piedi che sguazzano nel fango.

Nell’immagine, i piedi apparivano come i suoi e questo il Cervello lo considerò un fatto strano. Ma ormai gli insetti infermieri erano riusciti a ristabi­lire la serenità chimica nel loro assistito e il Cer­vello continuò a considerare ogni dato in suo pos­sesso che riguardava il cardinale Newman. In nes­sun luogo avrebbe potuto raccogliere informazioni dettagliate su questo cardinale Newman.

La riparazione consisteva, all’esterno, di foglie tenute insieme con liane e strisce di tessuto di ten­da e, all’interno, con uno spray coagulante, il con­tenuto di una bombola schiumogena che Joao ave­va fatto esplodere all’interno del galleggiante. Ora la capsula galleggiava sul fiume in senso verticale e Joao, immerso nell’acqua fino alla cintola, ne con­trollava la riparazione.

Sentiva attorno a sé i sibili intermittenti delle sca­riche dei fucili a gas e delle bombole schiumogene. L’aria era pregna dell’odore amarognolo dei veleni. Una schiuma nera e arancione fluiva giù per il fiume, formando delle chiazze che lambivano la riva incu­neandosi fra i resti delle liane utilizzate per issare la capsula. La schiuma trasportava con sé miriadi d’insetti morti.

In un momento di tregua, Rhin si sporse dalla cabina e disse: «Per amore del cielo, quanto ci vor­rà ancora?»

«Sembra che regga», rispose Joao con voce roca.

Si sfregò il collo e le braccia. I fucili e le bombole non avevano neutralizzato tutti gli insetti. La pelle gli bruciava per via delle punture e dei morsi. Quan­do sollevò lo sguardo, notò che anche Rhin aveva la fronte costellata di puntini rossi.

«In tal caso, è meglio squagliarcela», disse Chen-Lhu continuando a osservare il cielo.

Joao, colto da un improvviso capogiro, barcollò e per poco non cadde in acqua. Il corpo gli doleva per la stanchezza. Sollevò a fatica il capo per studiare il cielo. Si stava tingendo di rosso. Forse avevano ancora un’ora di luce a disposizione.

«Per amor del cielo, andiamocene», insistette Rhin.

Joao si rese conto che l’attacco era ricominciato. Si spostò dal galleggiante per portarsi sulla spiaggia e quel movimento fece allontanare la capsula. Rima­se immobile a fissarla notando che il serbatoio era stato riparato; si chiese chi avesse fatto quella ripa­razione.

Ah, sì… Vierho.

La capsula, sospinta dalla corrente, continuava ad allontanarsi da Joao. Era a circa due metri da lui. Allo stremo delle sue forze, egli avanzò di qualche passo, allungò un braccio per afferrare la punta del galleggiante di destra e si lasciò trascinare nell’acqua.

Dal portello uscì una mano che lo afferrò per il colletto. Con l’aiuto di quella mano Joao si issò sul­le ginocchia e scivolò dentro la cabina. Solo allora si accorse che era la mano di Rhin.

Chen-Lhu si dava da fare per ripulire l’abitacolo dagli insetti.

Joao sentì una trafittura alla gamba destra; abbas­sò lo sguardo e vide che Rhin, ai suoi piedi, gli stava applicando un nuovo impacco energetico.

Perché lo sta facendo? si domandò. Improvvisa­mente ricordò: Ah, sì… le punture, i veleni.

«Pensavo che l’ultima applicazione ci avesse resi immuni», disse Joao sorpreso dal suono fievole della sua stessa voce.

«È possibile», annuì lei. «A meno che non ci abbiano iniettato un nuovo tipo di veleno.»

«Credo di essere stato punto un po’ dappertut­to», fece Chen-Lhu. «Rhin, hai chiuso ermeticamen­te il portello?»

«Si.»

«Ho dato una bella spruzzata sotto i sedili e sul cruscotto.» Chen-Lhu mise una mano sotto il braccio di Joao per aiutarlo a sedersi. «Qui, Johnny, al suo posto di comando.»

«Già.» Joao barcollò in avanti e scivolò sul se­dile. Aveva la sensazione che il suo capo poggiasse su della gomma molle. «Siamo trasportati dalla corrente?»

«Sembra di sì», rispose Chen-Lhu.

Joao aveva il fiato grosso. Sentiva l’impacco energetico come una forza lontana che lottava per lui contro la stanchezza. Era tutto sudato, aveva la gola arida e bollente. Il parabrezza, di fronte a lui, era cosparso di macchie rosse e nere dello spray e di residui di schiuma.

«Sono ancora lì», lo informò Chen-Lhu, «sulla spiaggia e più in là ci sono altri gruppi».

Joao si guardò attorno. Rhin era ritornata al suo posto, aveva il fucile a tracolla, la testa appoggiata allo schienale e gli occhi chiusi. Chen-Lhu era in­ginocchiato sul cassone e scrutava la sponda di si­nistra.

D’un tratto Joao ebbe l’impressione che ogni og­getto nella cabina assumesse tonalità grigie e ver­di. Sapeva che quegli oggetti erano di altri colori, ma in quel momento li percepiva soltanto grigi e verdi… persino la pelle di Chen-Lhu… e quella di Rhin.

«I colori… non distinguo più… i colori», mormorò.

«Un parziale daltonismo», fece Chen-Lhu, «può essere un sintomo».

Joao guardò fuori del finestrino di destra e in­travide fra gli alberi un’enorme distesa di vette color grigio e, ancor più su, un sole grigioverde.

«Chiudi gli occhi e rilassati», disse Rhin.

Joao appoggiò il capo allo schienale e lo volse per guardarla.

Rhin aveva messo in disparte il fucile e si stava piegando su di lui. Prese a massaggiargli le tempie. «Scotta», disse rivolta a Chen-Lhu.

Joao chiuse gli occhi. Sentiva le mani di lei, fre­sche e rilassanti. Aveva il cervello offuscato dall’estrema stanchezza… e là, nella gamba destra sen­tiva una fitta martellante: l’impacco energetico.

«Cerca di dormire», mormorò Rhin.

«Rhin, come ti senti?» chiese Chen-Lhu.

«Mi sono applicata un impacco durante la pri­ma tregua», rispose lei. «Le dosi di ACTH sembrano dare un sollievo immediato, sempre se la puntura è superficiale.»

«E, secondo te, Johnny è stato punto più di noi?»

«Là fuori? Ma certamente.»

Joao riusciva a captare solo i suoni confusi delle loro parole, ma ne capiva il significato con una chia­rezza impressionante. Fu stranamente affascinato dai toni contrastanti delle loro voci. Quella di Chen-Lhu era carica di finzione, quella di Rhin rivelava una paura soffocata e un genuino interesse nei suoi riguardi.

Rhin gli accarezzò ancora una volta la fronte, quindi scivolò sul suo sedile. Si passò una mano sui capelli e guardò fuori, verso occidente. Qualcosa si muoveva, sì: un agitato batter d’ali… «cose» che sembravano di dimensioni ancor più grandi. Alzò gli occhi e il suo sguardo raggiunse densi cirricumuli che facevano da aureola agli alberi raggrup­pati sulle colline. Lentamente il tramonto li colorò di rosso. Distolse lo sguardo e lo posò sulla super­ficie d’acqua di fronte a lei.

Il fiume in quel punto compiva una curva a mez­za luna, che trasportava la capsula quasi in direzio­ne nord, quindi si apriva in un corso d’acqua più ampio. Le onde lambivano la sponda con sfumature luminose color malva e argento.

Dalla riva opposta riecheggiò un cupo tubare di piccioni selvatici. Rhin si guardò attorno, ma avver­tì solo immobilità e silenzio.

Il sole calava dietro le vette lontane, mentre pattu­glie notturne di pipistrelli svolazzavano, planavano e si lanciavano in picchiata. Poi al ritmico cinguettio de­gli uccelli subentrarono i suoni della notte: il lontano ruggito di un giaguaro, fruscii, stormir di fronde e un tonfo assai vicino.

E ancora una volta immobilità e silenzio.

Qualcosa che ogni essere vivente della giungla te­me, pensò Rhin.

Una luna color ambra prese ad arrampicarsi su nel cielo. La capsula scivolava lungo il riverbero lunare simile a una libellula gigante in equilibrio sull’ac­qua. Una farfalla notturna si posò sul parabrezza, agitò le ali trasparenti come la filigrana, quindi scomparve.

«Continuano a tenerci sotto controllo», disse Chen-Lhu.

Joao sentiva il calore dell’impacco energetico scor­rergli nelle vene, ma persisteva in lui quel senso di stordimento: come se fossero tante persone in una volta. Dischiuse gli occhi e posò lo sguardo sul sof­fice tappeto luminoso delle colline. Era certo di quel­lo che vedeva, tuttavia una parte di lui si sentiva avvinghiata al telone del soffitto, come se realmente stesse per rintanarsi lì. E la luna era una luna a lui estranea, qualcosa di cui non aveva mai conosciuto l’esistenza, il suo alone formato dalla luce riflessa della terra era troppo grande, il suo spicchio illu­minato dal sole troppo risplendente. Sembrava una luna posticcia su uno scenario dipinto, la cui mae­stosità lo faceva sentire piccolo, come una micro­scopica meteora vagante negli spazi infiniti dell’uni­verso.

Premette forte le palpebre, muovendo a se stesso un rimprovero: non devo lasciarmi trasportare da simili pensieri altrimenti impazzirò! Dio mio! Che cosa mi succede? Si accorse che la capsula era im­mersa in un silenzio opprimente. Rimase teso all’a­scolto per captare anche il più piccolo rumore: il respiro controllato di Rhin, Chen-Lhu che si schia­riva la voce.

Il bene e il male sono opposti creati dall’uomo: esiste solo l’onore. Il pensiero riecheggiò nella sua mente, come se avesse già sentito pronunciare quel­le parole. Sì, quelle erano le parole di suo padre… suo padre, le cui sembianze erano state plagiate per produrne un simulacro, apparsogli sulla riva del fiu­me.

La vita dell’uomo è ancorata tra il bene e il male, pensò.

«Sai, Rhin, questo è un fiume marxiano. Tutto nel mondo scorre come questo fiume. Nella vita qualsiasi cosa cambia continuamente aspetto. Ma nulla può fermare la dialettica; non si dovrebbe mai porre un limite alla dialettica. Non c’è niente di sta­tico. Non c’è mai niente di uguale due volte.»

«Oh, smettila», brontolò Rhin.

«Voi, donne occidentali, non capite l’importanza della dialettica.»

«Perché non lo dici agli insetti?» disse Rhin con ironia.

«Come è ricca questa terra», mormorò Chen-Lhu. «Hai idea della quantità di persone del mio paese che queste terre potrebbero contenere? Naturalmen­te si dovrebbero apportare leggere modifiche: disbo­scamenti, coltivazioni a terrazze… In Cina abbiamo imparato a rendere produttive e abitabili, per milio­ni di persone, estensioni di terre come queste.»

Rhin si rizzò e fissò Chen-Lhu negli occhi. «Ci ri­siamo?»

«Questi stupidi brasiliani non hanno mai imparato a far buon uso delle fortune che hanno. La mia gen­te…»

«Capisco. La tua gente viene qui e mostra loro che cosa si deve fare, è così?»

«Si potrebbe anche fare», disse Chen-Lhu, e pen­sò: Fa’ le tue dovute considerazioni, mia cara Rhin. Quando ti accorgerai che cosa c’è in palio, capirai qual è il prezzo che si può anche pagare.

«E i brasiliani allora, alcuni milioni, ammassati nelle città e negli appezzamenti di terreno della Nuo­va Colonizzazione mentre è in pieno sviluppo la lotta per l’equilibrio ecologico?»

«A poco a poco si stanno abituando allo stato attuale delle cose.»

«Possono solo sopportarlo perché sperano in un futuro migliore!»

«Oh, no, mia cara Rhin, ti sbagli, sei troppo in­genua. Gli uomini al potere possono manipolare la gente per ottenere ciò che ritengono necessario.»

«E che cosa dici degli insetti?» chiese Rhin. «Del­la Grande Crociata?»

Chen-Lhu alzò le spalle. «Li abbiamo sopportati per migliaia di anni… prima.»

«E quelli abnormi, le nuove specie?»

«Intendi dire gli esseri creati dalle mani dei tuoi amici bandeirantes? Quelli li distruggeremo con pia­cere.»

«Non sono convinta che siano stati i bandeirantes a dar vita a quelle… creature là fuori. Sono certa che Joao sia al di fuori di ogni sospetto.»

«Sì?… Allora chi è stato?»

«Forse gli stessi che non vogliono ammettere il fallimento della loro Grande Crociata.»

«Ti assicuro che non è vero!» sbottò Chen-Lhu.

Rhin abbassò lo sguardo su Joao che respirava profondamente. Era possibile? No!

Chen-Lhu si appoggiò contro la paratia pensando: Considera ben bene queste cose, mia piccola cara, e se poi sarai tormentata dai dubbi, mi seguirai co­me un agnellino. Johnny Martinho… che ideale ca­pro espiatorio: addestrato nel Nord America, è di­ventato un burattino senza scrupoli nelle mani de­gli imperialisti! Un uomo privo di pudore, che fa l’amore sotto i miei occhi con una rappresentante dell’OIE. I suoi lo crederanno capace di tutto!

Un impercettibile sorriso mosse le labbra di Chen-Lhu.

Lanciando un’occhiata nel retro, Rhin poté solo vedere i duri e squadrati lineamenti del capo del­l’OIE. È così forte, pensò. E io sono così stanca.

Appoggiò il capo sul petto di Joao, come un bam­bino in cerca di conforto e gli circondò la vita con il braccio sinistro. Com’era febbricitante! D’un trat­to la mano sbatté contro un rigonfiamento, volumi­noso, metallico. Ne tastò i contorni con i polpastrel­li e capì che era… una pistola.

Rhin ritrasse la mano e si drizzò. Per quale motivo porta con sé un’arma di cui non ci ha mai parlato?

Joao continuava a respirare profondamente fin­gendo di dormire. Le parole di Chen-Lhu gli riecheg­giavano nella mente, mettendolo in guardia, spingen­dolo all’azione. Ma era necessario usare molta pru­denza.

Rhin, con lo sguardo fisso sull’acqua, pensava… dubitava. La capsula seguiva la scia luminosa della luna. Miriadi di lucciole danzavano nel buio della foresta. Quell’oscurità le trasmetteva uno strano sen­so di perversione. Joao, riflettendo sulle parole di Chen-Lhu, pensò: Tutto nell’universo scorre come un fiume. Che cosa sto aspettando? Potrei voltarmi e uccidere quel bastardo… oppure costringerlo a confessare tutta la verità. Che parte ha Rhin in tutta questa faccenda? Non mi è sembrata molto tenera con lui. Tutto nell’universo scorre come un fiume.

L’introspezione che ne derivò fu spietata per Joao: fece affiorare timori, inquietudini che si trasforma­rono in terrore. Quelle creature là fuori, pensò, han­no il tempo dalla loro parte. La mia vita è come un fiume, scorre… attimi, ricordi… nulla di eterno, nulla di assoluto.

Si sentiva febbricitante, confuso e il suo stesso battito cardiaco disturbava quelle riflessioni.

Come un fiume.

Non ha alcuna intenzione di confessare al mondo intero il fallimento del suo paese. Ha un piano… e io rappresento lo strumento per realizzarlo.

Il vento della notte soffiava sempre più impetuo­so prima su una semiala e poi sull’altra, costringen­do la capsula a beccheggiare, a rollare. Come l’aria penetrò attraverso i filtri d’areazione, la sua sostan­za corroborante stimolò i centri nervosi di Joao. Distese le gambe, sbadigliando, quindi si mise sedu­to.

Rhin gli toccò un braccio. «Come stai?» C’era in­teresse nella sua voce, ma anche qualcos’altro che Joao non riuscì a individuare. Rinuncia? Vergogna?

«Mi sento ancora… molto caldo», sussurrò.

«Un po’ d’acqua?» disse lei e gli avvicinò la borraccia alle labbra.

Pur sapendola calda, gli parve fresca come appe­na attinta a una sorgente. Parte dell’acqua gli scivo­lò dal labbro inferiore, il che gli confermò lo stato di debolezza in cui si trovava, nonostante l’impacco energetico. Lo sforzo per deglutire fu enorme.

Sono malato, pensò, molto malato… seriamente malato.

Lentamente appoggiò la testa allo schienale e guardò attraverso il pannello trasparente. Concen­trò lo sguardo sulle stelle… tante macchioline acu­minate che sembravano minacciare le nuvole al loro passaggio. Il movimento incessante della cap­sula gli provocava un fastidioso senso di nausea. Abbassò lo sguardo e notò delle piccole luci che flut­tuavano lungo la sponda di destra. «Travis», mor­morò.

«Sì?» fece Chen-Lhu, e si domandò: Da quanto tempo sarà sveglio? Sono stato ingannato dal suo re­spiro. Ho parlato troppo?

«Quelle luci», disse Joao, «quelle luci… laggiù».

«Ah, quelle? Ci hanno seguiti per tutto il tempo, ci sono sempre stati alle calcagna.»

«Quanto è ampio il fiume in questo punto?» chie­se Rhin.

«Circa un centinaio di metri», rispose Chen-Lhu.

«Come fanno a vederci?»

«Come non potrebbero con questa luna?»

«Non sarebbe il caso di sparare un colpo solo per…»

«Risparmiamo munizioni», la interruppe Chen-Lhu. «Dopo un attacco come quello di oggi… be’, non ce la faremmo a sostenerne un altro.»

«Sento qualcosa», fece Rhin, allarmata. «Che cos’è, una rapida?»

Joao si sollevò. Lo sforzo che dovette compiere lo atterrì. Non sarò in grado di manovrare i coman­di, pensò. E dubito che Rhin o Chen-Lhu sappiano farlo.

«Che cos’è?» incalzò Chen-Lhu.

Joao sospirò. «Deve trattarsi di una secca, là a si­nistra.»

Il rumore si faceva sempre più distinto: il ritmi­co lamento dell’acqua che si frangeva contro un ra­mo insabbiato, a poco a poco, si dileguò alle loro spalle.

«Che cosa potrebbe accadere se il galleggiante di destra dovesse andare a sbattere contro una secca?»

«Sarebbe la fine.»

Un improvviso vortice fece roteare la capsula che prese a oscillare avanti e indietro in un lento, incessante pendolare. Piccoli mulinelli si infranse­ro contro i galleggianti e il movimento cessò.

«Farò un turno io stanotte, Travis», disse Rhin.

«Mi domando perché non ci attacchino mai di notte», osservò Chen-Lhu. «È molto strano.»

«Tuttavia, non ci perdono mai di vista», disse Rhin. «Dormi adesso, monterò io la guardia.»

«Come vuoi, ma non far altro.»

«Che cosa vuoi dire?»

«Be’, non dormire, mia cara Rhin.»

«Va’ all’inferno», esplose lei con rabbia.

«Dimentichi che non credo nell’inferno.»

Joao fu svegliato dal lento scrosciare della piog­gia che contribuiva a prolungare il triste grigiore dell’alba. Pigramente la luce aumentò, dando ri­flessi color acciaio alle linee oblique dell’acquaz­zone che si riversava sul verde pallido della giun­gla. Era una pioggia di una violenza monotona che picchiettava sul pannello della capsula e costella­va la superficie del fiume di un’infinità di piccoli crateri.

«Sei già sveglio?» chiese Rhin.

Joao si mise a sedere. Si sentiva riposato e i capogiri erano del tutto scomparsi. «Da quanto tem­po piove così?»

«Da mezzanotte circa.»

Chen-Lhu si schiarì la voce e si avvicinò alle spalle di Joao. «Sono ore non vedo tracce dei nostri amici. Sarà forse perché odiano la pioggia?»

«Io odio la pioggia», disse Joao.

«Che cosa intendi dire?» chiese Rhin.

«Da un momento all’altro questo fiume diventerà un inferno.» Joao guardò a sinistra verso le nuvole che si addensavano basse sopra gli alberi. «E se mai dovessero arrivare i soccorsi, non potrebbero certa­mente vederci», aggiunse.

Rhin si inumidì le labbra. Si sentiva soffocata dal­l’emozione e si rendeva conto di quanto avesse spe­rato in quei soccorsi. «Quanto… quanto durerà la pioggia?» chiese.

«Quattro o cinque mesi», rispose Joao. «Nessuno di voi è uscito?»

«Io», rispose Chen-Lhu.

Joao si voltò e notò che la tuta dell’OIE era piena di macchioline scure.

«Non ho notato nulla là fuori: pioggia, solo piog­gia», disse Chen-Lhu.

Joao sentì un pizzicore alla gamba destra. Si chinò e notò con sorpresa che l’impacco energetico non c’era più.

«Stanotte mi sono accorta che soffrivi di spasmi muscolari», lo informò Rhin, «quindi te l’ho tolto».

«Dovevo dormire profondamente, non mi sono accorto di niente.» Le accarezzò la mano. «Grazie, mia bella infermiera.»

Rhin ritrasse la mano.

Joao la fissò con espressione interrogativa, ma lei si volse e guardò fuori del finestrino.

«Vado… un momento fuori», disse Joao.

«Ti senti abbastanza in forma?» chiese lei. «Eri molto debole.»

«Adesso sto bene.» Si alzò, si diresse verso il por­tello e si lasciò scivolare sulla piattaforma galieggiante. Sentiva la pioggia calda e contemporaneamente fresca bagnargli il viso. Si rannicchiò sulla punta del galleggiante, godendo di quella frescura.

Nella cabina, Chen-Lhu disse: «Perché non sei andata fuori con lui, Rhin?»

«Sei un gran bastardo, Travis.»

«Sei innamorata di lui?»

«Ma che cosa vuoi da me?» disse lei fissandolo con odio.

«La tua cooperazione, mia cara.»

«In che cosa?»

«Vorresti possedere una miniera di smeraldi? O magari di diamanti? Una ricchezza che tu non puoi nemmeno immaginare.»

«In cambio di che cosa?»

«Lo saprai al momento giusto, Rhin. Nel frattempo renderai malleabile il nostro bandeirante.»

Rhin represse uno scatto d’ira e gli voltò le spalle. L’indole dell’uomo è tradita dalla sua conformazione fisica, pensò. Tipi come Chen-Lhu sono capaci di tutto, ti piegano, ti torchiano… ma io non voglio! Non voglio! In fondo Joao è un bravo ragazzo. Ma perché porta in tasca un revolver?

Potrei ucciderla ora e spingere Joao giù dal gal­leggiante, pensò Chen-Lhu. Ma questo natante è dif­ficile da manovrare… e io non sono molto pratico di queste cose.

Rhin lo guardò con espressione distratta.

Non è improbabile che la mia dolce Rhin cambi atteggiamento, pensò Chen-Lhu. Conosco la sua de­bolezza, certo, ma ne devo essere sicuro.

Joao rientrò nella cabina, portando con sé un pia­cevole profumo di umidità, che venne subito annulla­to dal persistente odore di muffa.

Man mano che il tempo passava, la pioggia per­deva la sua impetuosità. La cabina era satura di aria calda e umida. Nuvole, simili a giganteschi batuffoli di cotone color cinerino, sfioravano le cime delle colline che si rispecchiavano sulla superficie del­l’acqua, e innumerevoli gocce di pioggia scivolavano di foglia in foglia come festoni di perle.

La capsula si inclinava e serpeggiava lungo un turbinio d’acqua melmosa su cui affioravano relitti di ogni genere: rami, sterpaglie, ammassi di radici grandi come la capsula, interi strati erbosi, canne e giunchi.

Joao socchiuse gli occhi fantasticando sullo strano cambiamento avvenuto in Rhin. Sapeva che, proprio in virtù del loro legame del tutto casuale, avrebbe dovuto infischiarsene e al massimo buttar lì qualche commento spiritoso. Ma non si sentiva né casuale né spiritoso nei confronti di Rhin. La ragazza aveva toccato qualche corda in lui che il piacere dei sensi non aveva mai sfiorato prima.

È amore? si chiese.

Ma il loro mondo aveva rinunciato al concetto del­l’amore romantico. Esistevano solo la famiglia e l’onore per cui quelle cose erano importanti; tutto il resto comportava il concetto del fare-solo-le-cose-giuste e che di solito significava salvare ciò che era possibile di situazioni che stavano per franare.

Non riusciva ad accostarsi con chiarezza al suo pro­blema. Joao sapeva soltanto che gli era stato creato a poco a poco e che la debolezza fisica in cui si tro­vava non faceva che aumentare la confusione men­tale… inoltre, la loro situazione era senza speranza.

Sto male, pensò. Il mondo intero sta male.

È malato in tanti modi.

Un forte ronzio lo distolse dal suo torpore. Spa­lancò gli occhi e guardò verso l’alto.

«Che cosa c’è?» chiese Rhin.

Joao si portò un dito alle labbra facendole segno di tacere, quindi piegò il capo da una parte.

Chen-Lhu si avvicinò allo schienale di Joao e dis­se: «Un aerocarro».

«Mio Dio, sì!» esclamò Joao, «e vola anche basso». Guardò il cielo sopra di loro e prese a sganciare la calotta, ma venne trattenuto dalla mano di Chen-Lhu.

«Johnny, guardi là!» disse indicando a sinistra.

Joao si volse di scatto.

Dalla riva si stava avvicinando qualcosa che a pri­ma vista sembrava una strana nuvola, grande, com­patta, che si muoveva verso una ben precisa direzio­ne… Un’enorme nuvola formata da migliaia e mi­gliaia di insetti bianchi, grigi e dorati. Si librò a una cinquantina di metri sopra di loro oscurando lo spec­chio d’acqua con la sua ombra.

La nuvola abbracciò tutta la capsula seguendone l’andatura, come una barriera mobile che la nascon­deva da qualunque cosa volasse in cielo.

Non appena Joao capì il significato di quella ma­novra, si volse a fissare Chen-Lhu. Aveva i lineamen­ti alterati dallo shock.

«È una mossa… calcolata», fece Rhin.

«Com’è possibile?» chiese Chen-Lhu. «Com’è pos­sibile? Incredibile.» Nello stesso momento, egli si accorse che Joao lo stava osservando attentamente, era evidente che si rendeva conto delle sue emozio­ni. Il cinese si adirò con se stesso. Non devo mani­festare la mia paura a questi balordi! pensò. Sedette, accennò a un sorriso e scosse il capo. «Addestrare degli insetti», aggiunse, «è incredibile… ma eviden­temente qualcuno l’ha fatto. Ne vediamo i risultati.»

«Ti prego, Dio mio», mormorava Rhin. «Ti pre­go.»

«Oh, smettila con quelle lagne da femminuccia!» esclamò Chen-Lhu. Ma si rese subito conto di aver sbagliato, non era la tattica migliore da adottare con Rhin, e aggiunse: «Devi star calma, mia cara. Lasciarsi andare a isterismi non serve a niente».

Il rombo dei motori si fece più distinto.

«Siete sicuri che sia un aerocarro?» chiese Rhin. «Forse…»

«È un aerocarro bandeirante», disse Joao. «Han­no montato due motori a razzo che possono funzio­nare alternativamente per risparmiare benzina.»

«Credi che stiano sorvolando la zona alla nostra ricerca?»

«Chissà. Comunque, sono al di là delle nuvole.»

«E anche sopra i nostri amici», precisò Chen-Lhu.

La vibrazione sonica dei motori a razzo riecheggiò per le colline. Joao volse il capo per seguire la di­rezione del suono. Giungeva ora, appena percettibi­le, dal corso superiore del fiume e si fondeva col gorgoglio delle acque.

«Chissà se scenderanno a cercarci», fece Rhin.

«Non stanno cercando nessuno», spiegò Joao. «Sono semplicemente passati di qua per caso.»

Rhin sollevò lo sguardo sulla nuvola di insetti. Dal­la sua angolazione e distanza, ogni singolo insetto sembrava fondersi in un altro fino a formare un meccanismo omogeneo.

«Potremmo usare i fucili!» così dicendo Rhin prese un fucile a gas, ma Joao le afferrò un braccio e la fermò.

«Non servirebbe a niente. Il cielo è ancora tutto coperto di nuvole.»

«Senza contare i rinforzi che hanno i nostri cari insetti, certamente superiori alle nostre forze», os­servò Chen-Lhu. «Ci potrei scommettere.»

«Se almeno non ci fossero le nuvole!» esclamò Rhin disperata. «Quando si aprirà… il cielo?»

«Forse nel pomeriggio», disse Joao cercando di usare un tono convincente. «In questo periodo del­l’anno succede sempre così.»

«Se ne stanno andando!» esclamò Rhin puntando l’indice verso gli insetti. «Guardate! Se ne stanno andando.»

Joao seguì con lo sguardo la massa svolazzante che si lanciava verso la sponda di sinistra. La sua ombra l’accompagnò finché, superato il verde degli alberi, si dileguò nella giungla.

«Se ne sono andati, finalmente», disse Rhin.

«Ciò significa che anche l’aerocarro se n’è anda­to», concluse Joao.

Rhin nascose il viso fra le mani, soffocando a fa­tica le lacrime.

Joao le si avvicinò e cominciò ad accarezzarle il collo per confortarla, ma Rhin gli allontanò la mano.

Devi avvicinarlo a te, Rhin, pensò Chen-Lhu, non respingerlo. «Dobbiamo ricordare il motivo per cui ci troviamo qui», disse poi a voce alta. «E anche ciò che dobbiamo fare.»

Rhin si agitò nel sedile, allungò le braccia e trasse un sospiro talmente profondo che i muscoli del petto le si contrassero dal dolore.

«Dobbiamo tenerci occupati», riprese il cinese. «Anche facendo qualcosa di banale, se necessario. È l’unico sistema per evitare… paura, noia, rabbia. Da’ retta a me… ti descriverò un’orgia alla quale ho assistito tempo fa in Cambogia. Eravamo in otto, senza contare le signore: un principe esautorato, un rappresentante ministeriale…»

«Oh, risparmiaci, non ci interessa affatto la tua maledetta orgia!» lo interruppe Rhin.

La carne, pensò Chen-Lhu. Rifugge da qualunque cosa che possa ricordare la sua stessa carne. È cer­tamente questa la sua debolezza. Mi fa piacere con­statarlo.

«Ah sì? Benissimo. Allora raccontaci della dolce vita di Dublino, mia cara Rhin. Adoro le storie di mariti che barattano le mogli, che passano il loro tempo andando a cavallo, incuranti del passato, del presente e del futuro.»

«Sei un uomo veramente spietato!» esclamò Rhin.

«Magnifico! Forse mi odi, Rhin e te lo concedo. In fondo anche l’odio tiene occupati. Ci si può lasciare trasportare da un sentimento come l’odio e pensare a cose più vantaggiose quali la ricchezza e il piacere. Ci sono circostanze invece in cui l’odio può avere la supremazia sul piacere carnale.»

Nell’udire quelle parole, Joao si volse e notò sul viso del cinese un’espressione dura ma controllata. Usa le parole come arma, pensò. La dialettica è una spada che sfodera per attaccare e difendersi, per manovrare la gente a suo piacere. Non lo capisce Rhin? Ma certo, non può capirlo… perché è in suo potere. Chen-Lhu si sta servendo di lei per qualcosa. Per un attimo, Joao rimase stordito dei suoi stessi pensieri.

«Mi sta osservando, Johnny», disse Chen-Lhu. «Che cosa crede di scoprire in me?»

È una partita a due, pensò Joao, e rispose: «Osservo un uomo nel pieno svolgimento del suo lavoro».

Chen-Lhu lo fissò. Non era il tipo di risposta che si aspettava… troppo sottile e penetrante, aperta a qualsiasi interpretazione. Si accorse che era difficile dominare una persona libera da qualsiasi legame. Si può raggirare e piegare a piacere… un uomo che ha sprecato le sue energie, ma se quest’uomo ha resi­stito, conservandole…

«Crede di capirmi, Johnny?» chiese Chen-Lhu.

«No, non la capisco.»

«Veramente? Eppure non sono affatto complicato; è facile capirmi.»

«Questa è una delle affermazioni più complicate che un uomo abbia mai fatto.»

«Mi sta prendendo in giro?» chiese Chen-Lhu e represse un impeto di collera e di sgomento. Joao stava tirando troppo la corda.

«Come potrei fare dell’ironia se non la capisco?» chiese Joao.

«È subentrato qualcosa in lei», disse Chen-Lhu. «Cos’è? Si sta comportando in modo molto strano.»

«Ora ci capiamo a vicenda», affermò Joao.

Mi istiga, pensò Chen-Lhu. Mi sta punzecchiando. E domandò a se stesso: dovrò uccidere questo pazzo?

«Vede, ha ragione lei, è facile riuscire ad ammaz­zare il tempo e a dimenticare i guai.»

Rhin lanciò un’occhiata a Chen-Lhu e vide che le sorrideva. Parlava principalmente nel mio interesse, pensò Rhin. Ricchezza e piaceri: in ciò consiste la ricompensa. Ma qual è il prezzo? Volse lo sguardo su Joao. Sì, gli consegno un bandeirante su un vas­soio d’argento. Gli cedo Joao da utilizzare come cre­de meglio.

Ora la capsula procedeva lentamente e Rhin fis­sava le colline che facevano capolino da dietro le nuvole basse. Perché mi tormento così? pensò. Non ci rimane una sola via di scampo. Abbiamo soltanto questi momenti da vivere e l’opportunità di trarne qualsiasi piacere possibile.

«Non vi sembra di essere un po’ inclinati verso il lato destro?» chiese Joao.

«Forse sì», rispose Chen-Lhu. «Crede che la ri­parazione stia cedendo?»

«Potrebbe darsi.»

«C’è una pompa fra gli attrezzi?»

«Potremmo utilizzare una di quelle bombole», disse Joao.

Rhin concentrò la mente sull’arma che Joao por­tava con sé e disse: «Joao, fa’ che non mi prendano viva, ti prego».

«Ah, che frase da melodramma», esclamò Chen-Lhu.

«La lasci in pace!» replicò Joao. Accarezzò la mano di Rhin, quindi guardò fuori scrutando tutt’intorno. «Perché non si fanno vivi?»

«Si sono scelti un altro posto e ci stanno aspet­tando al varco», disse Rhin.

«Sempre pessimista», osservò Chen-Lhu. «Che cosa potrebbero farci? Il peggio sarebbe se volessero le nostre teste secondo le usanze degli aborigeni di una volta.»

«È proprio di grande aiuto lei», ironizzò Joao. «Mi passi una bombola.»

«Subito, capo», disse Chen-Lhu, in tono beffardo.

Joao prese l’attrezzatura delle pompe a mano, metà di plastica e metà di metallo, raggiunse il portello in coda e scivolò sul galleggiante. Si fermò un attimo per guardarsi attorno.

Non un segno delle creature che sapeva intente a osservarli.

In lontananza, a circa cinque o sei chilometri, intravide fra gli alberi una scarpata a strapiombo su un’ansa del fiume.

Roccia vulcanica, pensò. E il corso del fiume do­vrà attraversarla in qualche modo.

Si chinò sul galleggiante, sbloccò la piastra di ispe­zione e introdusse la pompa. Un sordo gorgoglio rie­cheggiò all’interno del pontone. Accostò la pompa al foro e azionò l’impugnatura a leva. Un sottile getto d’acqua ricadde ad arco sul fiume, un forte odore di veleno fuoriuscì dalla bombola.

Joao udì il grido di un tucano riecheggiare dal fitto della giungla e la voce confusa di Chen-Lhu pro­veniente dalla cabina.

Sarei curioso di sapere di cosa parla quando non ci sono, pensò.

Sollevò lo sguardo in tempo per constatare che la curva del fiume era più larga di quanto pensasse. La corrente stava ora trasportando la capsula lontano dalla scarpata. Il fatto lasciò Joao del tutto indiffe­rente. In questa stagione, pensò, il fiume può ser­peggiare per un centinaio di chilometri e tornare in­dietro di un chilometro dal punto in cui ci troviamo adesso. Improvvisamente udì la voce concitata di Rhin che urlava: «Sei un figlio di puttana!»

Chen-Lhu rispose: «Da tempo nel mio paese non si dà più importanza all’albero genealogico».

La pompa aspirò aria gorgogliando e il rumore co­prì la risposta di Rhin. Joao rimise il tappo nel foro d’ispezione e fece ritorno nella capsula.

Rhin sedeva con le braccia conserte e voltava le spalle a Chen-Lhu. Aveva le guance rosse dall’ira.

Joao infilò la pompa nella sua custodia accanto al portello e abbassò lo sgardo su Chen-Lhu.

«Ho sentito che c’era acqua nel galleggiante», disse il cinese con voce controllata.

Ci avrei scommesso, pensò Joao. Qual è il tuo gioco, dottor Travis-Huntington Chen-Lhu? È un gioco sornione? Punzecchi la gente per divertimento oppu­re c’è qualcosa sotto? Scivolò sul sedile.

La capsula dondolò sotto l’azione di piccoli flutti creati da un vortice, si girò e si portò nuovamente col muso a valle, illuminata da un improvviso rag­gio di sole che faceva capolino da dietro le nuvole. Lentamente grandi chiazze blu squarciarono il cielo plumbeo.

«È uscito il sole, il caro vecchio sole», disse Rhin. «Ora che non ci serve più.» Fu pervasa da un im­provviso desiderio di protezione e appoggiò il capo sulla spalla di Joao. «Presto farà molto caldo», mormorò.

«Se volete restare soli, posso andarmene sul gal­leggiante», commentò Chen-Lhu ironicamente.

«Ignora quel bastardo, Joao», disse Rhin.

Dovrei ignorarlo? si chiese Joao. È questo che vuo­le… che io lo ignori? Come potrei?

I suoi capelli emanavano un profumo di mughet­to così eccitante che minacciava l’autocontrollo di Joao. Trasse un profondo sospiro e scosse il capo. Che cosa c’è in lei… in questa donna così volubile… e così piena di femminilità?

«Hai avuto un sacco di ragazze, non è vero?» chiese Rhin.

Le sue parole gli riportarono alla memoria una serie di immagini… piccoli occhi scuri, dall’espressio­ne furba e distaccata: occhi, occhi, occhi… tutti si­mili fra loro. E vistose figure racchiuse in corpetti attillati o avvolte in bianchi mantelli… ardenti sot­to le sue mani.

«Nessuna ragazza particolare?» insistette Rhin.

Perché fa così? si domandò Chen-Lhu. Sta forse cercando delle giustificazioni, delle ragioni per com­portarsi con lui come vorrebbe?

«Sono stato molto occupato», disse Joao.

«Ne sono convinta», fece lei.

«Che cosa vuoi dire?»

«Be’… nella zona Verde ci sono ragazze mature come il mango. Com’è la tua ragazza?»

Joao alzò le spalle, mentre le spostava la testa per guardarla in volto, ma lei oppose resistenza.

Sollevò lo sguardo verso un punto della mascella di Joao in cui non cresceva la barba. Ha sangue indiano, pensò. Niente barba: sangue indiano. «È bella?» insistette ancora.

«Ci sono molte donne belle», rispose lui.

«Scommetto che è uno di quei tipi bruni, ben do­tati», disse lei. «L’hai portata a letto?»

Joao pensò: Che cosa vuol dire questo? Che siamo tutti uguali?

«Sei un vero signore, ti rifiuti di rispondere», continuò Rhin. Si rizzò, ritornò nel suo cantuccio domandandosi con rabbia la ragione per cui aveva parlato così. Perché mi tormento? Che cosa voglio? Voglio forse tenere Joao Martinho tutto per me? Che vada all’inferno!

«In questo paese si è molto severi con le ragazze», disse Chen-Lhu. «Un sistema ancora patriarcale.»

«Non sei mai stato umano nella tua vita, Travis?» chiese Rhin. «Neanche per una volta?»

«Smettila!» esclamò con rabbia Chen-Lhu, e pen­sò: Questa puttanella! Come osa parlarmi così?

Ah, pensò Joao. Rhin ha toccato il tasto debole.

«Che cosa ti ha reso così inumano, Travis?» chie­se Rhin.

Malgrado quelle parole, Chen-Lhu riuscì a controllarsi e si limitò a dire: «Hai la lingua lunga, mia cara. Peccato che il cervello non sia alla sua altezza».

«È una risposta che non rientra nel tuo stile, Travis», commentò lei sorridendo a Joao.

Ma Joao, che aveva notato il tono alto della loro voce, ripensò a Vierho, il Padre, che sentenziava: «Una persona tende ad alzare la voce quando si sente sola e perché si è staccata da tutto quello che aveva nella vita. Ma non importa quanto si odia la vita, perché la si ama comunque. È come un calde­rone che bolle con dentro tutto ciò che si deve ave­re, ma che scotta le labbra».

D’un tratto Joao si sporse in avanti, afferrò Rhin per le braccia e la baciò, stringendola forte a sé. Solo dopo un breve attimo di esitazione, le labbra di lei, calde e tremanti, risposero al bacio. Subito dopo, Joao si staccò, la sospinse sul sedile e si ac­quattò nuovamente al suo posto.

Non appena riprese fiato, Rhin disse: «Si può sapere che cosa ti ha preso?»

«In ognuno di noi si nasconde un temperamento animalesco», fece Joao.

Prende le mie difese? si chiese Chen-Lhu, rizzan­dosi come un fuso. Non so cosa farmene di simili difese.

Ma Rhin scoppiò a ridere, soffocando la collera di Chen-Lhu, e si protese in avanti per accarezzare la guancia di Joao. «Non l’hai fatto solo per quello, vero?»

E Chen-Lhu pensò: Sta solo facendo il suo dovere. Come recita bene! È un’attrice nata. Sarebbe un peccato doverla uccidere.

CAPITOLO NONO

Come sono inclini a comportamenti incoerenti, que­sti umani, pensò il Cervello. Persino di fronte a pressioni terribili, litigano, amoreggiano e danno troppa importanza a frivolezze.

I messaggi giunsero attraverso la pioggia e la luce del sole che si alternavano all’esterno della caverna. Adesso non c’era più alcuna esitazione nelle diret­tive del Cervello; la decisione essenziale era stata presa: «Catturate oppure uccidete i tre umani nella gola del fiume; risparmiate le teste ‘in vivo’, se è possibile».

Ciononostante i rapporti continuavano ad affluire perché il Cervello aveva ordinato: «Tenetemi infor­mato sulle loro conversazioni».

Tutto quel parlare di Dio, pensava il Cervello. È possibile che un essere del genere esista?

E il Cervello rifletté che senza dubbio le doti na­turali degli umani implicavano un alone di grandez­za che esaltava la banalità delle loro azioni.

È possibile che la banalità sia una specie di co­dice? si domandava il Cervello. Ma come può esse­re…? A meno che in quella incoerenza emotiva, in quei discorsi su Dio ci sia molto di più di quello che appare in superficie.

Il Cervello aveva cominciato a muoversi nel cam­po della razionalità come un pragmatista ateo. Ma adesso nei suoi calcoli cominciavano a farsi strada alcuni dubbi, e il Cervello classificava il dubbio tra le emozioni.

Eppure devono essere fermati, pensò il Cervello. Devono essere fermati a tutti i costi. Il problema è troppo importante… anche per questo affascinante terzetto. Se sono ormai perduti, cercherò di pian­gerli.

Rhin aveva la sensazione di trovarsi in un serbatorio surriscaldato, al centro del quale galleggiava la capsula. La cabina era diventata una cella infer­nale: l’afa mista a umidità le toglieva il respiro. La sensazione sgocciolante della traspirazione, l’odore dei corpi troppo vicini, l’onnipresente tanfo di muf­fa, tutto questo la logorava e la tormentava fino al limite della sopportazione. Non si udiva alcun ani­male muoversi e gridare dalle sponde che scorrevano di fianco a loro.

Soltanto un occasionale insetto volteggiante sulla loro rotta le riportò alla memoria le creature nasco­ste nelle ombre della giungla.

Se non fosse per gli insetti, pensò. Maledetti in­setti! E il calore… maledetto calore!

D’un tratto fu colta da un attacco isterico e si mise a urlare: «Non si può fare qualcosa?» Comin­ciò a ridere come una folle.

Joao la prese per le spalle e la scosse finché lei si abbandonò a una crisi di pianto.

«Vi prego, vi prego, fate qualcosa», supplicava.

Joao le parlò con voce controllata, nel tentativo di darle conforto. «Cerca di calmarti, Rhin.»

«Quei dannati insetti», disse lei.

La voce di Chen-Lhu la rimproverò dal fondo della cabina. «Fammi il piacere di non dimenticare, dottor Kelly, che sei un entomologo.»

«Forse per questo mi sento il cervello pieno di mosche», disse lei. Trovò la sua battuta divertente e ricominciò a ridere. Una scossa del braccio di Joao la fece smettere. Lei gli prese le mani e disse: «Va meglio, adesso, molto meglio. È colpa del caldo».

Joao la guardò negli occhi. «Sei sicura?»

«Sì.» Si liberò della stretta delle sue braccia, si sedette in un angolo e guardò fuori del finestrino.

Lo scorrere veloce delle sponde attirava il suo sguardo in modo ipnotico: due movimenti che si fondevano. Era come il tempo (l’immediato passato mai completamente dimenticato, nessun punto fisso da cui inizia il futuro), tutto quanto mescolato in un unico silenzioso passaggio, in un unico periodo ininterrotto.

Come mai ho scelto questa professione? si doman­dava.

Come in risposta alla sua domanda, le si proiettò nella memoria l’intera sequenza di un fatto accaduto­le durante la fanciullezza e in seguito dimenticato. Aveva sei anni ed era il periodo che suo padre ave­va trascorso nell’America occidentale per scrivere un libro su Johannes Kelpius. Avevano abitato in una vecchia casa di mattoni, le cui mura erano piene di nidi di formiche alate. Suo padre aveva mandato a chiamare un uomo tuttofare per bruciare i nidi, e lei si era messa in disparte a osservare. Ricordava l’odore acuto del cherosene, l’improvvisa fiammata gialla nella luce del sole seguita da nuvole di fumo nero e il vortice di insetti svolazzanti dalle ali color ambra che la avviluppava, freneticamente.

Era corsa a rifugiarsi in casa, urlando, mentre le creature alate le strisciavano intorno, le si ag­grappavano addosso. In casa qualcuno l’aveva pre­sa e portata a viva forza nella stanza da bagno e una voce piena d’ira le aveva ordinato: «Togliti quegli insetti di dosso! Che idea, portarli dentro casa. Vedi di non lasciarne uno solo sul pavimento. Uccidili e gettali nel gabinetto».

Per un momento che le era sembrato eterno, ave­va urlato e battuto i pugni sulla porta chiusa a chia­ve. «Non moriranno! Non moriranno!»

Rhin scosse il capo per scacciare quel ricordo. «Non moriranno», bisbigliò.

«Che cosa?» chiese Joao.

«Niente», rispose lei. «Che ora è?»

«Presto sarà buio.»

Rhin teneva lo sguardo fisso sui litorali che scor­revano, alberi di felci e palme, con l’acqua alta che cominciava a riversarsi attorno ai tronchi. Ma il fiume era ampio e la corrente ancora veloce. Nella luce solare che filtrava attraverso i rami, le parve di vedere dei battiti di ali, dei movimenti rapidi e leggeri. Uccelli, si augurò. Ovunque si trovassero, le cose si muovevano così rapidamente che le pa­reva di vederle solo dopo che se ne erano andate.

A oriente, dense nuvole scure si ammassavano all’orizzonte e lampi silenziosi guizzavano nel cielo. Dopo un lungo intervallo, giunse il rombo del tuo­no, un martellare sordo e continuato.

La pesantezza dell’attesa era sospesa sul fiume e sulla giungla. Le correnti strisciavano attorno alla capsula come serpenti, un movimento melmoso, scu­ro e vellutato, che sospingeva i galleggianti: una spinta e una curva… una spinta, una giravolta e una curva.

È l’attesa, pensò Rhin. Gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Qualcosa non va, mia cara?» chiese Chen-Lhu.

La sua prima reazione fu di scoppiare a ridere, ma non volle lasciarsi trascinare dall’isterismo. «Sei proprio un figlio di puttana», disse. «Qualcosa che non va!»

«Ahhh, vedo che non hai abbandonato il tuo spirito combattivo», osservò Chen-Lhu.

L’ombra grigia e luminosa di una nuvola passò sopra la capsula smorzando tutti i contrasti di co­lore.

Joao osservava una riga di pioggia emergere dal­l’acqua sollevata dalle raffiche del vento. Lampi con­tinuavano a guizzare a intervalli. Il rombo del tuo­no divenne più forte, più distinto e fece spaventare un gruppetto di scimmie urlatrici che giocavano sul­la sponda sinistra. Le loro grida riecheggiarono at­traverso il fiume.

Sull’acqua stava calando l’oscurità. Per un attimo, le nuvole si aprirono a occidente, rivelando un lem­bo di cielo color turchese scuro che sfumava rapi­damente dal giallo in un viola intenso come quello del mantello di un vescovo. L’acqua del fiume sem­brava olio scuro. Nuvole si abbassavano sul tramon­to e, in lontananza, il cielo era squarciato dai rapidi bagliori delle saette.

La pioggia cominciò a ticchettare senza sosta sulla calotta, avvolgendo le sponde in un velo di nebbia color grigio rosato. Poi le tenebre scesero sulla scena.

«Ho paura!» bisbigliò Rhin. «Oh, Dio, che paura!»

Joao non aveva più parole per confortarla. Il loro mondo, quello che stavano vivendo, non aveva più senso; tutto si era trasformato in un flusso primor­diale, indistinguibile dal fiume stesso.

Il gracidio delle rane interruppe il silenzio della notte. Udirono l’acqua sibilare attraverso i canneti. Neppure il più pallido chiarore lunare penetrava at­traverso l’oscurità nuvolosa del cielo. Poi a poco a poco i versi delle rane e i sibili dell’acqua cessarono. La capsula e i tre passeggeri ritornarono in un mondo in cui l’incessante picchiettare della pioggia era interrotto dal lieve sciabordio dell’acqua che sbatteva contro i galleggianti.

«Che strana sensazione, sentirsi inseguiti», disse Chen-Lhu.

Joao rimase colpito da queste parole, come se fossero giunte da una fonte immateriale. Cercò di ricordarsi l’aspetto del cinese, ma nessuna imma­gine prese forma nella sua mente. Si sforzò di fare un commento, ma tutto ciò che riuscì a dire fu: «Non siamo ancora morti».

Grazie, Johnny, pensò Chen-Lhu. Avevo bisogno che mi dicesse una qualsiasi banalità per prefigurar­mi il dopo. Borbottò sommessamente tra sé, pen­sando: La paura è il tributo pagato dalla consapevo­lezza. Non esiste debolezza nella paura… solo nel dimostrarla. Il bene, il male… è tutto molto sogget­tivo, sia con una religione sia senza.

«Credo che dovremmo ancorarci», disse Rhin. «Che cosa accadrebbe se ci imbattesimo nelle rapi­de durante la notte, prima di potercene accorgere? Chi può udire qualcosa col rumore della pioggia?»

«Ha ragione», approvò Chen-Lhu.

«Va lei a gettare il rampino, Travis?» chiese Joao.

Non c’è debolezza nella paura, solo nel dimostrar­la, pensò Chen-Lhu. Cercò di figurarsi che cosa po­tesse esserci là fuori nel buio… forse una di quelle creature che avevano visto sulla spiaggia. Chen-Lhu si rese conto che anche pochi secondi di incertezza lo avrebbero tradito.

«Penso», disse Joao, «che sia molto più pericoloso aprire il portello di notte che non lasciarsi traspor­tare… e rimanere in ascolto».

«Ci sono sempre le luci delle ali», disse Chen-Lhu. «Cioè, se sentiamo qualche rumore sospetto, pos­siamo individuare da dove proviene.» Mentre par­lava si rendeva conto della vacuità delle sue parole. Sentì un calore fluido increspargli le vene ed esplo­dere in una serie di pulsazioni ritmiche.

Eppure l’ignoto rimaneva là fuori, un luogo pieno di gratificante tranquillità, di una lucentezza sal­damente fissata nella memoria anche in quella oscu­rità.

La paura fa cadere qualsiasi finzione, pensò Chen-Lhu. Sono stato disonesto con me stesso.

Era come se quel pensiero lo scagliasse improv­visamente dietro un angolo, dove verificare la sua immagine morale come riflessa in uno specchio. E lui era contemporaneamente se stesso e la sua imma­gine morale. Quell’improvvisa consapevolezza gli fe­ce balenare nella mente certi ricordi del suo passato che danzavano e ondeggiavano come pezzi di stoffa staccati dal telaio: realtà e illusione nella stessa stoffa.

Poi la sensazione scomparve, lasciandolo spossato e tremante e con un terribile senso di perdita. È una ritardata reazione al veleno degli insetti, pensò.

«Oscar Wilde era un emerito somaro», affermò Rhin. «La vita di qualcuno compensa la morte di qualcun altro. Il coraggio non c’entra.»

Persino Rhin mi difende, pensò Chen-Lhu. Il pen­siero lo riempì d’ira. «Oh, anime semplici, timorate di Dio», disse con ironia. «Tutti voi che pregate: ‘Padre Nostro che sei nei cieli’. Non ci sarebbe un dio senza l’uomo! E dio non saprebbe di esistere se non fosse per l’uomo! Se ci fosse veramente un dio… questo universo sarebbe il suo errore.» Tacque, sor­preso di ritrovarsi ansimante come dopo un enor­me sforzo.

Come in risposta dal cielo, uno scroscio di pioggia batté contro la calotta, poi a poco a poco si spense e riprese l’incessante martellio delle gocce.

«Ecco… ha parlato l’ateo», disse Rhin.

Joao scrutò nell’oscurità, da dove proveniva la voce, sentendosi d’un tratto in collera con Rhin per ciò che aveva detto. Quello sfogo, che aveva fatto ap­parire Chen-Lhu nudo e indifeso, avrebbe dovuto es­sere ignorato anziché sottolineato con un commento. Capì che le sue parole erano servite soltanto a met­terlo ancora più in difficoltà.

Il pensiero gli riportò alla mente un fatto accaduto durante una vacanza con un compagno d’università nell’Oregon orientale. Stavano cacciando una quaglia lungo una staccionata, quando i bracchi pezzati di uno dei suoi ospiti erano balzati su un’altura lan­ciandosi all’inseguimento di uno sparuto coyote. Il coyote, avvistato il cacciatore, aveva svoltato a si­nistra rimanendo intrappolato in un angolo della staccionata.

In quell’angolo, il coyote, simbolo di codardia, aveva aggredito i cani mordendoli e graffiandoli fino a indurii a fuggire con la coda tra le gambe. Joao, impaurito, era rimasto a osservare la scena lascian­dosi scappare l’animale.

Nel ricordare quella scena, il giovane capì che racchiudeva il problema di Chen-Lhu. Qualcosa o qualcuno ha intrappolato quell’uomo in un angolo, pensò.

«Adesso vorrei dormire», disse Chen-Lhu. «Sve­gliatemi a mezzanotte. E, per favore, non distraetevi e rimanete in ascolto.»

Va’ al diavolo, disse fra sé Rhin. E scavalcò il se­dile per gettarsi tra le braccia di Joao, incurante del rumore che faceva.

«Dobbiamo schierare sotto le rapide una parte delle nostre forze», ordinò il Cervello, «nel caso che gli umani sfuggano alla rete come in precedenza. Questa volta non devono avere scampo». E qui il Cervello sottolineò il simbolo della minaccia alla sopravvivenza del superalveare per incitare i mes­saggeri e i gruppi di azione alla estrema vigilanza e aggressività.

«Istruite accuratamente coloro che si dimostrano i meno implacabili», ordinò il Cervello. «Se il vei­colo riesce a sfuggire alla nostra rete e a superare le rapide, tutti e tre gli umani devono essere  sop­pressi.»

I messaggeri dalle ali dorate danzarono la loro conferma sul soffitto, quindi svolazzarono fuori del­la caverna nella luce grigia che precedeva il calare della notte.

Questi tre umani sono dei personaggi interessanti, persino istruttivi, pensò il Cervello, ma adesso de­vono morire. Abbiamo altri umani, dopo tutto… e le emozioni non devono figurare fra le necessità ra­zionali.

Ma questi pensieri non fecero altro che aumentare gli stimoli emotivi che il Cervello aveva da poco as­similato e allarmarono gli insetti infermieri, sempre pronti a rimediare alle insolite domande del loro assistito.

Subito dopo il Cervello allontanò il pensiero dei tre umani sul fiume e cominciò a preoccuparsi della sorte dei simulacri rimasti al di là delle barriere.

La radio non aveva trasmesso la notizia della sco­perta dei simulacri… ma ciò, in realtà, non signifi­cava nulla. Simili notizie dovevano essere taciute. I simulacri sarebbero riapparsi solo dopo essere sta­ti individuati dai loro simili e avvertiti (e ciò do­veva essere fatto al più presto). Il pericolo era gran­de e non rimaneva molto tempo.

L’agitazione del Cervello fece accorrere i suoi as­sistenti che prontamente gli somministrarono dei narcotici. Il Cervello cadde in un dormiveglia letar­gico e sognò di essersi trasformato in una creatura simile agli umani e di percorrere un sentiero imma­ginario con un fucile in mano.

Persino in sogno il Cervello si agitò per tema che il «gioco» gli sfuggisse. E poiché qui gli insetti infer­mieri non potevano soccorrerlo, l’agitazione del Cer­vello continuò.

Joao si svegliò all’alba e trovò il fiume avvolto in un manto di nebbia. Si sentiva le membra rigide e intorpidite e i suoi pensieri erano confusi a causa di una fastidiosa sensazione, sfocata come la nebbia sul fiume. Il cielo aveva il colore del platino.

Emerse in lontananza un’isola celata dal velo spet­trale della nebbia. La capsula, trasportata dalla cor­rente, si mosse velocemente superando cataste di tronchi, cespugli sommersi ed erba piegata a valle che vibrava con la corrente.

Joao si accorse che la capsula si inclinava sul fianco destro. Sapeva di dover uscire a pompare il galleggiante e sapeva di aver sufficiente energia per fare quel lavoro, ma non riusciva a trovare la for­za per muoversi.

«Quando ha cessato di piovere?» risuonò la voce di Rhin.

Chen-Lhu rispose dal fondo della cabina: «Appe­na prima dell’alba». Diede alcuni colpi di tosse, poi disse: «Ancora nessuna traccia dei nostri amici, non è vero?»

«Ci stiamo inclinando a destra», osservò Rhin.

«Me ne sono accorto», fece Chen-Lhu. «Vado fuo­ri io, Johnny. Credo che si debba introdurre il tu­bo della bombola nel galleggiante e azionare l’im­pugnatura a leva.»

Dentro di sé Joao gli fu grato per essersi offerto di compiere quel lavoro.

«Allora, Johnny?»

«Sì… è tutto quello che deve fare», rispose il giovane. «Il foro d’ispezione del galleggiante è prov­visto di una semplice chiusura a scatto.» Si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi. Udì Chen-Lhu usci­re dal portello.

Rhin guardò Joao e notò sul suo volto i segni del­la stanchezza. Gli occhi chiusi cerchiati di scuro sembravano le orbite di un teschio.

Il mio ultimo amante, pensò. Morte.

Il pensiero la confuse e si meravigliò di non pro­vare alcun sentimento verso l’uomo che durante la notte l’aveva amata con passione. Una tristezza post coitum si era impadronita di lei e adesso Joao era semplicemente una particella della realtà che la circondava; dopo averla sfiorata per puro caso, si era fermato a dividere con lei un momento di esplosiva intensità.

Non c’era amore in quel pensiero.

Nemmeno odio.

I suoi sentimenti adesso erano asessuati e clinici come al solito. Il rapporto durante la notte era sta­ta una reciproca esperienza, ma il mattino l’aveva trasformato in qualcosa di insipido.

Si volse e seguì con lo sguardo la corrente del fiu­me.

La nebbia stava dileguandosi. Intravide, a circa due chilometri di distanza, la nera superficie di una roccia lavica che torreggiava sulla giungla simile a una nave fantasma.

Udì il risucchio dell’aria nella pompa e notò che la posizione della capsula si stava gradualmente rie­quilibrando.

Poco dopo Chen-Lhu riapparve portando nella cabina un soffio d’aria umida e fredda. «È quasi freddo, là fuori», disse. «Che cosa dice l’altimetro, Johnny?»

Joao si alzò e guardò il cruscotto. «Seicento e ot­to metri.»

«Secondo lei, quanta strada abbiamo fatto?»

Joao alzò le spalle e rimase in silenzio.

«Circa centocinquanta chilometri?» chiese Chen-Lhu.

Joao guardò gli argini inondati che scorrevano ve­loci, la corrente che lambiva nodose, orrende radici. Si accorse di avere fame. Cercò i pacchetti delle ra­zioni, le distribuì ai suoi compagni, quindi mangiò avidamente.

Una cortina di pioggia sferzò il parabrezza. La cap­sula sbandò e s’inclinò. Un’altra raffica di vento la scosse. Poi riprese la sua rotta attraversando file di piccole onde sollevate dal vento. La spessa cortina di pioggia cancellava sulle sponde tutti i colori della vegetazione. Il vento cessò completamente, ma la piog­gia continuava a cadere così pesantemente che le gocce sembravano dondolare e danzare in senso orizzontale.

Un breve tratto di spiaggia chiazzata di graniti sfrecciò davanti agli occhi di Joao come uno scena­rio surreale. In quel punto il fiume sembrava largo almeno un chilometro; la sua superficie scura e mel­mosa, turgida e ondulata, era cosparsa di cortecce di alberi, grovigli di arbusti e tronchi galleggianti.

D’un tratto la capsula barcollò. I galleggianti sbat­terono, urtarono contro qualcosa sott’acqua e Joao trattenne il respiro nel timore che la riparazione ce­desse.

«Secche?» chiese Chen-Lhu.

Spuntò alla loro sinistra un ceppo di legno che, trasportato dalla corrente, roteava e s’inabissava come una cosa vivente.

Rhin bisbigliò: «Il galleggiante…»

«Sembra che regga», disse Joao.

Un calabrone verde si posò sul parabrezza, agitò le antenne verso di loro e volò via.

«Qualunque cosa ci accada, suscita il loro interes­se», disse Chen-Lhu.

«Quel troncone laggiù… non credi che…» fece Rhin.

«Sono pronto a credere qualsiasi cosa», repli­cò Chen-Lhu.

Rhin chiuse gli occhi e mormorò: «Li odio! Li odio!»

La pioggia stava gradualmente diminuendo. Po­che gocce spruzzavano qua e là la superficie del fiu­me e tamburellavano sulla calotta.

Rhin aprì gli occhi e vide strisce di cielo limpi­do apparire e scomparire dietro le nuvole. «Si sta schiarendo?» chiese.

«Che differenza fa?» disse Chen-Lhu.

Lo sguardo di Joao vagava sull’erba piatta e ba­gnata di una radura apparsa alla loro sinistra. Do­ve finiva l’erba, spuntava la parete umida e verde della giungla.

Una figura fluttuante emerse dalla giungla a cir­ca duecento metri di distanza; continuò ad agitarsi e a fare cenni finché scomparve dalla vista.

«Che cos’era?» chiese Rhin con una nota isterica nella voce.

Nonostante la distanza, a Joao parve che quella fi­gura assomigliasse al Padre. «Vierho?» mormorò.

«Aveva il suo aspetto», rispose Chen-Lhu. «Non pensa…»

«Non penso nulla!»

Ah, pensò Chen-Lhu. Il nostro amico bandeirante sta per crollare.

«Sento un rumore», disse Rhin. «Sembra quello delle rapide.»

Joao tese l’orecchio. Gli giunse un rombo lontano. «Probabilmente è il vento che soffia tra gli alberi», spiegò, pur sapendo che non si trattava del vento.

«Sono le rapide», affermò Chen-Lhu. «Vedete quel­la rupe, laggiù?»

Continuarono a fissare davanti a loro finché raf­fiche di vento avvolsero la rupe con un velo di piog­gia. Violenti scrosci di pioggia sferzavano i fianchi della capsula, si riversavano sulla calotta. Il vento cessò rapidamente, così com’era sorto e la corrente sospinse la capsula in avanti, attraverso un sibilo di pioggia. Poco dopo anche la pioggia cessò e la liscia superficie del fiume, che nascondeva una se­greta turbolenza, si distese come un’esposizione di tavole su uno specchio.

La capsula divenne per Chen-Lhu un minuscolo giocattolo rimpicciolito come per magia e smarrito in un’immensa distesa d’acqua.

Al di sopra di tutto si ergeva la nera facciata della rupe, più reale ogni secondo che passava.

Chen-Lhu mosse lentamente il capo da una parte e dall’altra, angosciato al pensiero di ciò che li aspet­tava sotto quella rupe. Aveva la sensazione di gal­leggiare in una cavità piena d’aria umida che pro­sciugava la vita dal suo corpo. L’aria trasportava un odore di materia organica, l’umido ammucchiarsi di vita e di morte sul suolo della foresta che fiancheg­giava il fiume. Odori putridi lo assalirono; ciascuno trasportava il suo messaggio: «Sono laggiù… in at­tesa».

«La capsula… non potrebbe volare, adesso?» chie­se Chen-Lhu.

«Non credo di riuscire a sollevarla dal fiume», rispose Joao. Si asciugò il sudore dalla fronte, chiu­se gli occhi e come in un incubo rivisse l’intero viag­gio fino a quel momento. I suoi occhi si riaprirono di scatto.

Un silenzio stagnante era sceso sulla cabina.

Il rumore delle rapide era sempre più distinto, ma ancora non si vedeva il ribollire dell’acqua bianca.

In una curva del fiume, uno stormo di tucani dal becco dorato si sollevò da una fila di palme simile a una nuvola furiosa, riempiendo l’aria di strane grida. Poi scomparve e il rumore delle rapide rimase. Si profilava in lontananza la sagoma scura della rupe.

«Abbiamo cinque o sei minuti di autonomia… for­se», disse Joao. «Credo che dovremo affrontare quella curva a motore spento.»

«D’accordo», approvò Chen-Lhu e si allacciò la cintura di sicurezza.

Udito il rumore, Rhin allacciò la sua.

Joao trovò ai suoi lati i fermagli della cintura e li fece scattare al loro posto, quindi esaminò atten­tamente il cruscotto. Mentre pensava alla delicata manovra che doveva compiere, le sue mani comincia­rono a tremare. L’ho già fatta due volte, si disse. Ma quel pensiero non gli diede conforto. Sapeva di es­sere allo stremo delle forze fisiche… e morali.

Dove il corso del fiume curvava, una lieve increspatura della corrente si stese a ventaglio dalla sponda sinistra. L’acqua in quel punto mandava bagliori accecanti.

Joao alzò lo sguardo e vide strisce di cielo azzur­ro attraversare le nuvole. Respirò profondamente, premette il bottone di avviamento e cominciò a con­tare.

La spia luminosa lampeggiò.

Joao allentò la manetta del gas. I motori scoppiet­tarono, poi si accesero con un rombo uniforme. La capsula cominciò ad acquistare velocità barcollando lungo la rotta ondulata. Strani rumori proveniva­no dal galleggiante di destra.

Non riuscirò mai a sollevarla, pensò Joao. Si sentiva come in preda alla febbre e solo vagamen­te padrone dei suoi sensi.

La capsula prese a muoversi pigramente e rumo­rosamente attorno alla curva… e là, a non più di un chilometro di distanza, si ergeva la scura parete di roccia lavica. Il fiume scorreva attraverso una fen­ditura che sembrava prodotta da un’ascia gigantesca. Neri spuntoni di roccia comprimevano l’acqua alla base in un ribollio tumultuoso.

«Geeesù», mormorò Joao.

Rhin gli afferrò un braccio. «Torna indietro! Devi tornare indietro.»

«Non è possibile», disse il giovane. «Non c’è al­tra via d’uscita.» Eppure, la sua mano posata sul­la leva del gas, esitava. Che cosa doveva fare? Pre­mere in avanti e rischiare l’esplosione della cap­sula? Non aveva scelta. Nel baratro, poteva vede­re le onde infrangersi contro invisibili rocce solle­vando nell’aria spruzzi bianchi e dorati. Con un movimento convulso, premette a fondo la leva. Il rom­bo dei motori a razzo soffocò il rumore dell’acqua.

Joao pregava mentalmente che il galleggiante reg­gesse.

D’un tratto la capsula si sollevò dalla rotta e pre­se a sfiorare la superficie dell’acqua più veloce, sem­pre più veloce. In quell’attimo, Joao notò un movi­mento da una parte e dall’altra del baratro. Qualcosa simile a un serpente grondante d’acqua era sospeso sull’entrata della gola.

«Un’altra rete!» urlò Rhin.

Joao guardò la rete con distacco, come una cosa immaginaria, cosciente di non poterla evitare. La capsula, trasportata da un vortice, andò a scivolare in un bacino d’acqua scura e lucente da cui si eleva­va lo sbarramento della rete. Attraverso le fitte ma­glie scorse l’acqua incresparsi di ondate sempre più alte che si frangevano in flussi e riflussi all’interno del baratro.

La capsula andò a sbattere violentemente contro la rete, la tirò strappandola, sfilacciandola. Appena il muso della capsula s’inclinò verso il basso, Joao, trattenuto dalla cintura di sicurezza, si sentì proiet­tare in avanti. Sentì lo schienale del sedile sbatter­gli contro i fianchi. Suoni fragorosi, simili a strido­ri, lacerazioni, gorgoglii, furono seguiti da un im­provviso cedimento.

I motori si fermarono di botto, ingolfati o im­possibilitati ad aspirare benzina. La cabina fu in­vasa dalla violenza dell’acqua.

Joao si aggrappò alla cloche e si guardò in giro. La capsula galleggiava quasi a fior d’acqua roteando su se stessa. Gli sembrava che il mondo gli girasse intorno… scure pareti, la linea verde della giungla, la schiuma dell’acqua in tumulto.

La capsula, sospinta verso destra da una corrente in pendenza, andò a schiantarsi contro il primo con­trafforte a strapiombo sul torrente. Un forte rumo­re, come di uno strappo provocato da un oggetto me­tallico, si mescolò al frastuono che rimbombava nel baratro.

Rhin urlò qualcosa che venne inghiottito dal boato dell’acqua.

Con un balzo, la capsula si staccò dalla parete roc­ciosa, piroettò, imprigionata tra due esplosioni di ondate contrarie. I galleggianti, risucchiati dalla spi­rale di un vortice, furono colpiti lateralmente, sol­levati, inclinati, imprigionati in un movimento fre­netico.

Poi, simile al suono provocato da un’ondata ci­clopica che s’infrange sugli scogli dell’oceano, si udì un rombo assordante e prolungato. Joao intra­vide un enorme scoglio che affiorava dall’acqua. La capsula andò a sbattere contro l’isolotto di roccia e rimbalzò indietro. Joao, sganciato dalla cintura di sicurezza, si trovò riverso sul pavimento tra le braccia di Rhin. Con la mano destra si aggrappò al­la base della cloche. Sopra di lui la calotta si ac­cartocciava; inebetito, la seguì con lo sguardo, men­tre si staccava e scompariva tra i flutti. Vide l’ala si­nistra sfasciarsi contro lo scoglio. La capsula fece una brusca piroetta, rivelando uno squarcio di cielo offuscato e un’altra oscura parete.

Joao pensò: non ce la faremo mai. Nulla può so­pravvivere a questa catastrofe.

Sentì che Rhin gli cingeva la vita con entrambe le braccia e, in preda al terrore, implorava: «Ti prego, falla fermare, falla fermare».

Vide il muso della capsula sollevarsi e abbassar­si, acqua schiumosa attraversare l’apertura prima ricoperta dalla calotta. Vide un fucile a gas balza­re nel fiume attraverso l’apertura e si sentì sempre più schiacciato fra i sedili e il cruscotto. Gli dole­vano le dita della mano che stringeva la cloche. Un movimento brusco della capsula gli fece voltare il capo e vide le braccia di Chen-Lhu avvinte al suo schienale.

Il cinese sentiva il rumore come una diretta pres­sione sui suoi nervi che superava ogni limite di sop­portazione, un ritmo incontrollabile che penetrava nel suo essere dominandolo: una dissonanza assor­dante divenuta discorde nei contrappunti, un maelstrom stridente, scricchiolante, grattante. Aveva la sensazione di essere diventato un ricettore visivo, uditivo, sensitivo, privo di qualsiasi altra funzione.

Rhin premette il viso contro il petto di Joao. Tut­to ciò che percepiva era l’odore del corpo di lui e l’incessante movimento. Sentiva la capsula sollevar­si… su… su… precipitare, girare, roteare. Su. Giù. Su. Giù. Su. Giù. Su. Giù. Come il movimento fre­netico di un rapporto sessuale.

Joao era proteso a percepire immagini: immagini intense e terrificanti. Guardava fisso nel vuoto at­traverso un foro che non c’era; le immagini gli ap­parivano confuse: la corrente impetuosa che aziona un mulino, una scura cavità d’acqua, solidi spruzzi, umide ombre verdi lungo un dirupo. Sentiva la ma­no paralizzata. Le spalle gli dolevano.

Un colpo d’onda melmosa simile alla corazza di una tartaruga, rotolò di fronte all’apertura della ca­bina. Joao sentì la capsula slittare su quella massa viscosa con un movimento che gli dava l’illusione di essere trasportato dolcemente sulla superficie dell’ac­qua. Vide il fiume scomparire dietro sé.

Non ce la fa più, si disse.

Il muso della capsula si stava inabissando sem­pre più. Joao si aggrappò al cruscotto e vide la cresta verde scura di un’onda sollevare il troncone di un’ala… su… su… su.

La capsula andò a sbattere contro l’onda.

Acqua e verde oscurità si riversarono nella cabi­na, come una cascata. Giunse uno stridio di metal­lo. La coda della capsula si abbassò con violenza sull’acqua e Joao, proiettato verso l’alto, poté vedere la pallida luce del mattino. A fatica, tentò di raggiun­gere il sedile, trascinandosi dietro Rhin. Vide Chen-Lhu ancora abbracciato al sedile, e l’acqua che si ri­versava nella cabina dalla fiancata squarciata. La capsula fu sommersa da una massa di acqua tu­multuosa e la coda si schiantò contro gli scogli.

Un raggio di sole accecante!

Joao si volse, semiabbagliato da quella luce e guardò la gola del fiume attraverso lo spazio pri­ma occupato dai motori. Il rumore rombante del­l’acqua, la violenza delle onde gli fecero pensare: Come abbiamo fatto a resistere finora?

Sentì l’acqua alle caviglie, si volse di scatto aspettandosi di vedere un’altra serie di rapide; si ac­corse invece che la capsula era stata trasportata in un ampio specchio d’acqua scura che assorbiva la turbolenza della gola rivelando in superficie so­lo bollicine scintillanti e i solchi delle correnti dei ruscelli convergenti.

La capsula rollò con violenza. Joao barcollò nel­l’acqua aggrappandosi al bordo della cabina di fron­te a ciò che rimaneva dell’ala destra e che ora gal­leggiava a pelo d’acqua.

La voce stranamente pacata di Rhin ruppe il si­lenzio. «Non sarebbe meglio uscire? Stiamo affon­dando.»

Joao cercò di scuotersi di dosso la sua sensazione di distacco, abbassò lo sguardo e la vide seduta al suo posto. Udì Chen-Lhu che cercava a stento di al­zarsi tossendo; lo vide emergere dietro di lei.

Giunse un gorgoglio e un rumore metallico e l’a­la destra si inclinò sotto la superficie.

Con uno strano senso di euforia, Joao si rese con­to che tutti e tre erano ancora vivi… ma la capsula era distrutta. A quel pensiero fu nuovamente assali­to dall’angoscia.

«L’abbiamo pagata cara questa corsa», disse Chen-Lhu, «ma siamo ormai arrivati al capolinea».

«Davvero?» brontolò Joao. Si sentì ribollire dall’i­ra e toccò la tasca che conteneva il vecchio schioppo di Vierho. Quel gesto istintivo, insensato lo fece sorridere.

Come si può pensare di uccidere quelle cose con questo aggeggio? disse fra sé.

«Joao?» chiamò Rhin.

«Sì.» Le fece un cenno col capo, si volse, uscì dal­la cabina e rimase in equilibrio sul bordo della cap­sula a studiare i dintorni. Fu investito da un soffio d’aria umida proveniente dalla gola.

«Questa cosa non rimarrà a galla ancora per mol­to», osservò Chen-Lhu. Si volse per guardare il bara­tro, improvvisamente riluttante ad accettare la realtà.

«Potrei nuotare fino a quel punto laggiù», disse Rhin. «E voi due?»

Chen-Lhu si volse ancora e vide nello specchio d’acqua una striscia di terra scura che si protendeva per circa un centinaio di metri sul fiume: un fragi­le tentacolo, formato di giunchi e fango, sospeso sul­l’acqua; sullo sfondo, un’alta parete di alberi. Lunghe impronte di animali striscianti spiccavano nel fango.

Tracce di coccodrilli, pensò Chen-Lhu.

«Ho visto tracce di coccodrilli», disse Joao. «È meglio restare nella cabina finché ci è possibile.»

Rhin si sentì assalire dal terrore. «Rimarrà a gal­la ancora per molto?» bisbigliò.

«Sì, se non facciamo alcun movimento», rispo­se Joao. «Probabilmente è rimasta dell’aria sotto di noi, forse dentro l’ala e il galleggiante di sinistra.»

«Nessuna traccia di… ‘loro’, qui», disse Rhin.

«Arriveranno fra poco», dichiarò Chen-Lhu, sor­preso dal tono di noncuranza della sua stessa voce.

Joao scrutò la piccola penisola.

La capsula prima fu portata al largo dalla corren­te, poi risospinta da un vortice verso riva finché solo pochi metri separarono la punta dell’ala, par­zialmente sommersa, dalla spiaggia melmosa.

Dove sono quei dannati coccodrilli? si domandò Joao.

«Non è possibile avvicinarsi di più», fece notare Chen-Lhu.

Joao annuì e disse: «Tu va’ avanti, Rhin. Rimani sull’ala finché puoi, ti seguiamo immediatamente». Mise una mano sulla pistola che aveva in tasca e l’aiutò con l’altra mano.

Rhin scivolò sull’ala che si inclinò ancora più giù finché toccò il fondo melmoso.

Chen-Lhu la seguì dicendo: «Andiamo!»

A guado attraversarono il breve tratto di fiume che li separava dalla spiaggia, affondando i piedi nella melma. Joao sentì odore di carburante e vide macchie d’olio che si disegnavano a spirale sull’ac­qua. Raggiunse l’argine di giunchi e fango e si se­dette accanto a Rhin e Chen-Lhu. Fissò lo sguardo sulla giungla.

«Sarebbe possibile ragionare con loro?» chiese Chen-Lhu.

Joao sollevò il fucile a gas e disse: «Questo è l’uni­co argomento che abbiamo». Si assicurò che il ca­ricatore fosse pieno e si volse a guardare ciò che ri­maneva della capsula. Giaceva parzialmente som­mersa con l’ala ancorata nella melma e lambita dal­la corrente che sciabordava attraverso i fori della cabina.

«Pensa che dovremmo tentare di recuperare le armi dalla capsula?» chiese Chen-Lhu. «A che sco­po? Tanto non ci muoveremo da qui.»

Ha ragione, pensò Joao. Si accorse che Rhin, al­le parole di Chen-Lhu, era stata colta da un fremito incontrollabile e le cinse le spalle con un braccio fin­ché il fremito cessò.

«Che simpatica scena domestica», esclamò Chen-Lhu guardandoli, e pensò: Sono l’unica moneta che posseggo, forse i nostri amici saranno disposti a trattare… loro due in cambio della mia salvezza.

Rhin si sentì di nuovo calma. Il braccio di Joao che la cingeva, il suo silenzio le avevano dato sicu­rezza.

È come un abbraccio paterno, pensò.

Chen-Lhu tossì, Rhin lo guardò.

«Johnny», disse Chen-Lhu. «Mi dia il fucile, mi serve per coprirla mentre va a recuperare altre armi dalla cabina.»

«L’ha detto lei stesso», obiettò Joao. «A che sco­po?»

Rhin si liberò dalle braccia di Joao, improvvisa­mente terrorizzata dallo sguardo di Chen-Lhu.

«Mi dia il fucile», ripeté Chen-Lhu con voce piatta.

Che differenza fa? si domandò Joao. Guardò Chen-Lhu dritto negli occhi e vi colse un lampo di ferocia. Buon Dio! Che cosa gli ha preso? Rimase sconvolto dall’influsso malefico del suo sguardo, reso più tor­vo dal taglio allungato degli occhi.

Chen-Lhu sferrò un calcio nel braccio sinistro di Joao e il fucile fu scagliato per aria.

Joao sentì il braccio semiparalizzato e istintiva­mente arretrò nella posizione di difesa dello judo brasiliano. Quasi accecato dal dolore, fece un balzo da un lato per schivare un altro calcio.

«Rhin, il fucile», urlò Chen-Lhu.

La mente di Rhin si rifiutò per un momento di funzionare. Scosse il capo, guardò il punto in cui era caduto il fucile. Era là, con la canna rivolta ver­so il cielo e il calcio conficcato nel suolo fangoso. Il fucile? si chiese. Ebbene sì, a questo punto me ne servirò per fermare un uomo. Afferrò il fucile, lo sollevò ancora col fango attaccato al calcio e lo pun­tò sui due uomini, saltellando di qua e di là come in una danza magica.

Chen-Lhu balzò all’indietro e si chinò.

Joao si drizzò stringendosi il braccio dolorante.

«D’accordo, Rhin», fece Chen-Lhu. «Fallo fuori.»

Provando orrore di se stessa, Rhin vide la canna del fucile spostarsi bruscamente su Joao.

Quest’ultimo fece per sfilare la pistola di tasca, ma si fermò. Dentro di sé non sentiva altro che vuo­to e disperazione. Se vuole uccidermi, che faccia pure, pensò.

Rhin digrignò i denti e puntò il fucile questa vol­ta su Chen-Lhu.

«Rhin», esclamò il cinese muovendosi verso di lei.

Figlio di puttana! pensò lei e premette il grilletto.

Un potente getto di veleno mescolato al contenuto della capsula di butile, investì Chen-Lhu in pieno viso facendolo barcollare. Si dibatté nel vano ten­tativo di liberarsi dalla massa appiccicosa; cadde a terra rotolando e dibattendosi sempre più, man mano che il butile si condensava. Poi i suoi movimen­ti divennero più lenti: un sussulto, una pausa, un sussulto.

Rhin rimase in piedi col fucile puntato su Chen-Lhu finché ebbe svuotato il caricatore, poi si libe­rò dell’arma.

Chen-Lhu fu scosso dall’ultimo spasmodico sus­sulto, quindi giacque immobile. Nessun tratto del suo viso era visibile, era soltanto una massa appicci­cosa grigio-nero-arancione.

Rhin si ritrovò ansimante e cercò di respirare pro­fondamente senza riuscirvi.

Joao le si avvicinò e lei vide che aveva la pistola in mano. Il braccio sinistro gli penzolava inerte lun­go il fianco.

«Il tuo braccio», disse Rhin.

«Rotto», confermò lui. «Guarda fra gli alberi.»

Si volse nella direzione indicata e vide rapidi mo­vimenti nell’ombra. Un soffio di vento agitava le fo­glie e la sagoma di un indiano apparve di fronte alla giungla, come il prodotto di una stregoneria. Gli oc­chi color ebano luccicavano di quella luce sfaccetta­ta, sotto una frangia tagliata dritta. Il volto era stria­to di rosso. Piume scarlatte di pappagallo spuntava­no da un legaccio che gli stringeva il muscolo del braccio sinistro. Indossava un indumento lacero e una sacca di pelle di scimmia gli pendeva dalla vita.

Alla vista di quel simulacro, Rhin fece un balzo nel passato, ricordando la spirale di formiche alate della sua fanciullezza e la nuvola grigia e fluttuante che aveva inghiottito il campo dell’OIE. Si volse verso Joao supplicando: «Joao… Johnny, ti prego, ti prego, uccidimi. Non lasciare che mi prendano».

Joao desiderava fuggire, ma i muscoli si rifiutavavano di obbedire.

«Se mi ami», supplicava lei. «Ti prego.»

Non poté resistere al tono implorante della sua voce. Il revolver si sollevò come di sua spontanea volontà con la canna rivolta verso di lei.

«Ti amo, Joao», sussurrò Rhin e chiuse gli occhi.

Joao si ritrovò con gli occhi pieni di lacrime. Ve­deva il suo volto attraverso un velo di pianto. Devo, pensò. Che Dio mi aiuti, devo farlo. In preda a una violenta agitazione, premette il grilletto.

Il colpo esplose e la pistola rinculò nelle sue mani.

Rhin balzò all’indietro come spinta da una mano gigantesca. Fece mezzo giro su se stessa e tuffò il volto nella melma.

Joao si volse di scatto incapace di guardare e fis­sò la pistola che aveva in mano. Alcuni movimenti fra gli alberi attirarono il suo sguardo. Si asciugò le lacrime e vide una fila di creature che si trasci­navano fuori della foresta. C’erano i due indiani sertao che l’avevano rapito assieme a suo padre… altri indiani delle foreste… il simulacro di Thome, uno dei suoi uomini… un altro uomo magro e avvolto in un abito scuro, coi capelli di un bianco lucente.

Persino mio padre, pensò. Hanno simulato persino mio padre!

Sollevò la pistola e se la puntò al cuore. Non pro­vava rabbia, soltanto un immenso dolore mentre pre­meva il grilletto.

L’oscurità si abbatté su di lui.

CAPITOLO DECIMO

Sognò di essere trasportato, di piangere, di urlare; fu un sogno di violenti proteste, di sfide, di ripulse.

Joao fu svegliato da una luce giallo arancione, men­tre una figura d’uomo, che non poteva essere suo padre, era china su di lui e gli tendeva una mano, dicendo: «Allora guarda la mia mano, se non mi credi!»

Non può essere mio padre, pensò Joao. Io sono morto… anche lui è morto. L’hanno plagiato… mi­mesi, nient’altro.

Joao si trovava in uno stato di shock che gli of­fuscava la mente.

Come mi trovo qui? Si domandava. Scavò nei ricordi e vide se stesso uccidere Rhin col revolver di Vierho, quindi puntare l’arma su di sé.

Qualcosa si muoveva alle spalle della figura che non poteva essere suo padre. Joao spostò lo sguar­do in quella direzione e vide un volto gigantesco largo quasi due metri. In quella insolita luce, il volto appariva triste, occhi brillanti, abbaglianti… enormi occhi con le pupille dentro le pupille. Il volto si girò e Joao notò che aveva uno spessore di non più di due centimetri. Di nuovo la maschera si volse. Gli strani occhi si concentrarono sui piedi di Joao.

Joao si sforzò di guardare in basso, quindi sollevò il capo di scatto e si lasciò cadere all’indietro in preda a un violento tremore. Al posto dei piedi aveva un bozzolo verde bavoso. Sollevò il braccio sinistro, ricordandosi che era rotto; ora lo artico­lava senza provare dolore e vide che la sua pelle aveva le stesse tonalità di verde di quel bozzolo repellente.

«Osserva la mia mano!» esclamò il vecchio ac­canto a lui. «Te lo ordino!»

«Non è ancora completamente sveglio.»

Era una voce tonante, risonante, che scuoteva l’aria attorno a loro e Joao ebbe l’impressione che giungesse da sotto il volto gigantesco.

Che strano incubo è questo? si chiese Joao. So­no all’inferno?

Con una brusca mossa allungò il braccio per af­ferrare la mano protesa.

Era calda… umana.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Scosse il capo per scacciarlo e ricordò… di avere fatto la stessa cosa un’altra volta… in qualche posto. Ma la sua mente si rifiutava di ricordare, c’erano pro­blemi più incalzanti. Quella mano era vera… le sue lacrime erano vere.

«Com’è possibile?» sussurrò.

«Joao, figlio mio», disse la voce di suo padre.

Joao scrutò il volto paterno. Era lui, non v’era alcun dubbio, nei minimi particolari. «Ma… il tuo cuore», fece Joao.

«La mia pompa», fece il vecchio. «Guarda.» Ri­trasse la mano per indicare la schiena. L’abito era stato tagliato e i bordi sembravano trattenuti da una sostanza gommosa. Al centro, uno strato gial­lognolo e oleoso pulsava ritmicamente.

Joao vide le linee delle squame, sottili come ca­pelli, e inorridì.

Così è una copia, un altro dei loro artifici.

Il vecchio gli fu nuovamente di fronte e Joao non poté evitare lo sguardo limpido dei suoi occhi. Que­gli occhi non erano sfaccettati.

«La vecchia pompa non funzionava più e me ne hanno data una nuova», spiegò suo padre. «Serve per pompare il sangue nelle vene. Mi darà la possi­bilità di vivere più a lungo. Che cosa credi che di­ranno i nostri luminari della scienza medica?»

«Sei proprio tu», disse Joao con voce roca.

«In carne e ossa, a eccezione della pompa», ri­spose il vecchio. «Ma tu, che pazzo sei stato! Come ti è saltato in mente di sparare a quella povera don­na e a te stesso!»

«Rhin», mormorò Joao.

«Farvi saltare il cuore e parte dei polmoni, e per di più cadere proprio in mezzo a quel veleno corrosivo spruzzato tutt’intorno. Non solo vi han­no dovuto procurare due cuori nuovi, ma anche un intero apparato circolatorio!»

Joao sollevò le mani e rimase a fissare la pelle color verde. Si sentiva stordito; gli sembrava di vivere un sogno dal quale era incapace di svegliarsi.

«Sono a conoscenza di tecniche scientifiche che nemmeno immaginiamo», disse suo padre. «Non mi sono mai sentito così eccitato da quando ero bam­bino. Non vedo l’ora di tornare indietro e… Joao! Che cosa c’è?»

Joao si alzò di scatto e fissò il vecchio. «Non sia­mo più esseri umani, padre! Non siamo umani se… Non siamo umani!»

«Oh, calmati!» gli ordinò suo padre.

«Se è così… siamo nelle loro mani!» protestò Joao, spostando lo sguardo sul volto gigantesco. «Ci terranno in loro potere!» Si lasciò cadere all’indietro ansimando. «Saremo i loro schiavi», mor­morò.

«Che sciocchezze», tuonò la voce.

«È sempre stato melodrammatico», fece Martinho padre. «Pensa alla sua reazione di fronte agli ultimi avvenimenti sul fiume. Naturalmente, è stata anche colpa tua. Se solo mi avessi dato ascolto, se so­lo avessi avuto fiducia in me.»

«Ora che abbiamo in mano un ostaggio», tuonò il Cervello, «possiamo accordarti la nostra fiducia».

«Fin da quando mi avete ridato la vita, avevate in mano un ostaggio», disse il vecchio.

«Allora non capivo che valore attribuivate al sin­golo individuo», disse il Cervello. «Dopo tutto, noi saremmo pronti a sacrificare qualsiasi unità per salvare l’alveare.»

«Non certo una regina», obiettò il vecchio. «Non sacrifichereste una regina. E tu? Saresti pronto a sacrificare te stesso?»

«Impensabile», mormorò il Cervello.

Lentamente Joao piegò per scrutare sotto la ma­schera da dove proveniva la voce. Vide una massa biancastra di circa quattro metri quadrati con una protuberanza pulsante simile a una vescica gialla­stra. Miriadi di insetti privi d’ali strisciavano sulla sua superficie, all’interno delle sue cavità e sul pa­vimento di pietra della caverna. La maschera fac­ciale si elevava da quella massa vischiosa, sorretta da una dozzina di paletti arrotondati. La superfi­cie squamosa tradiva la loro natura.

Lentamente Joao prese coscienza della realtà. «Rhin?» mormorò.

«La tua donna è salva», tuonò il Cervello. «Tra­sformata come te, ma salva.»

Joao continuava a fissare la massa biancastra che giaceva sul pavimento della caverna. Notò che la voce proveniva dalla vescica.

«Noto che il nostro modo di ribattere alle tue perplessità, attira la tua attenzione», disse il Cer­vello. «Questo è il nostro cervello. È vulnerabile e forte al tempo stesso… proprio come il tuo.»

Joao dovette soffocare un brivido di repulsione.

«Dimmi», fece il Cervello. «Che cos’è secondo te uno schiavo?»

«Io sono uno schiavo, ora», mormorò Joao. «Il tuo schiavo. Ti devo obbedienza, altrimenti potre­sti uccidermi.»

«Ma non hai tentato tu stesso di ucciderti?» chie­se il Cervello.

Joao meditò a lungo su quelle parole.

«Lo schiavo è colui che deve produrre ricchezza per qualcun altro. Esiste una sola vera ricchezza in tutto l’universo e Io te ne ho data una parte. E l’ho donata anche a tuo padre e alla tua donna. Ai tuoi amici. Questa ricchezza è la vita. Siamo forse schiavi perché ti abbiamo prolungato l’esistenza?»

Joao spostò lo sguardo dal Cervello alla maschera, posandolo su quegli occhi brillanti e gli parve di cap­tare in essi una certa espressione di compiacimento.

«Abbiamo salvato e allungato la vita di tutti colo­ro che ti stavano vicino e ti erano cari», tuonò la voce. «Ciò fa di noi i vostri schiavi, non ti pare?»

«Che cosa volete in cambio?» chiese Joao.

«Ah, ah!» esclamò la voce. «È un baratto. Ciò che voi definite affari e di cui non capivo il mecca­nismo. Presto tuo padre partirà per andare a parla­re con gli uomini del suo governo. Sarà il nostro mes­saggero. Noi gli abbiamo dato la vita e questa è la sua ricompensa. Sarà a sua volta nostro schiavo, non è così? Siamo legati l’un l’altro da un vincolo di schiavitù che non può essere spezzato… anche se tenti con tutte le tue forze.»

«È tutto molto semplice, una volta capito il si­gnificato dell’interdipendenza», disse il padre di Joao.

«Capito che cosa?»

«Alcune delle nostre specie una volta vivevano in una dimora verde», tuonò lo voce. «Conosci le di­more verdi, naturalmente.» Il volto gigantesco guar­dò fuori della caverna dove l’alba stava colorando il mondo coi suoi primi tratti grigi. «Anche quel­lo è una dimora verde.» Ancora una volta gli oc­chi brillanti si posarono su Joao. «Per garantire la vita, deve esserci un giusto equilibrio tra l’ambiente naturale e gli organismi viventi che lo popolano: un po’ di questo prodotto chimico, un po’ di quello, un’altra sostanza disponibile quando è necessaria. Quello che oggi è veleno, può rivelarsi l’alimento più pregiato domani.»

«Che cosa ha a che fare tutto questo con la schia­vitù?» chiese Joao in tono petulante.

«La vita si è sviluppata sulla Terra attraverso mi­lioni di anni», tuonò il Cervello. «Talvolta si è evolu­ta dall’escremento velenoso di un altro organismo… e allora quel veleno è diventato necessario. Senza una sostanza prodotta dalle enteridi l’erba della sa­vana laggiù morirebbe… a poco a poco.»

Joao fissava il soffitto roccioso, mentre pensieri diversi gli si accavallavano nella mente. «Il suolo sterile della Cina!» esclamò.

«Precisamente», disse il Cervello. «Senza le so­stanze prodotte dagli… insetti e altri organismi vi­venti, la vostra specie si estinguerebbe. Talvolta è sufficiente anche la minima traccia di una sostan­za, come a esempio la cuprite prodotta dagli aracnidi. A volte tale sostanza deve passare attraverso nu­merose elaborazioni, subire ogni volta una modifi­ca, prima di essere utilizzata dall’ultimo anello del­la catena. Se si spezza la catena biologica è la fine per tutti. Più organismi viventi sono contenuti nel­l’ambiente naturale, più possibilità di vita esistono. La dimora verde più prospera deve racchiudere di­verse forme di vita… il benessere di tutti è diretta­mente proporzionale al numero degli organismi vi­venti.»

«Chen-Lhu», disse Joao, «potrebbe essere d’aiu­to. Potrebbe andare con mio padre e raccontare… Hai salvato Chen-Lhu?»

«Il cinese», disse il Cervello. «Possiamo dire che viva, sebbene lo abbiate trattato con eccessiva crudeltà. Le strutture vitali del suo cervello sono salve, grazie al nostro pronto intervento.»

Joao guardò la massa rigonfia e porosa che giace­va sul pavimento della caverna, poi distolse lo sguar­do.

«Abbiamo le prove da fornire alle autorità», disse il padre di Joao. «Non ci sono dubbi. Nessuno avrà più dubbi. Dobbiamo smettere di uccidere e muta­re gli insetti.»

«Lascia che se la sbrighino loro», fece Joao.

«Diciamo che dovete smettere di suicidarvi», tuo­nò la voce. «I connazionali del vostro amico Chen-Lhu stannno già… ‘riinfestando’, come direste voi. Forse sono ancora in tempo, forse no. In Cina, era­no abili ed esperti… ma ora penso che abbiano bi­sogno del nostro aiuto.»

«Voi sarete i nostri maestri», disse Joao e pen­sò: Rhin… Rhin, dove sei?

«Vogliamo soltanto acquisire un nuovo equili­brio», disse il Cervello. «Sarà interessante da sco­prire. Comunque, avremo tutto il tempo di discuter­ne più tardi. Sei completamente libero di muoverti… e sei in grado di farlo. Soltanto, non avvicinarti trop­po a me: i miei insetti infermieri non lo permettereb­bero. Per ora, puoi andare a raggiungere la tua com­pagna là fuori. C’è un sole splendente stamattina. La­scia che penetri nella tua pelle e nella clorofilla del tuo sangue e produca il suo effetto. E quando torne­rai qui dentro, mi dirai se il sole è tuo schiavo.»

FINE