Presentazione tratta dai Classici Urania:

Quali mutamenti possono attendere il mondo della cultura nel prossimo secolo? Fritz Leiber ce ne offre un assaggio nel suo romanzo più caustico e divertente. Agli scrittori toccherà firmare soltanto le opere composte elettronicamente dai mulini-a-parole, e recitare in pubblico i ruoli scelti per loro dalle controcopertine. Solo i colleghi robot sapranno scrivere sul serio, ma com’è ovvio, per un pubblico di robot. Questo, fino al giorno in cui gli scrittori inferociti distruggono tutti i mulini-a-parole, per dover poi affrontare una grave crisi di creatività. Solo presso l’Editrice Razzi nessuno sembra scaldarsi molto; forse perché qui si custodisce il grande segreto del secolo precedente, il Divorzio Psicosomatico di Daniel Zukertort. In una nursery segreta, infatti, vivono ancora le trenta argentee Teste d’Uovo la cui esistenza potrebbe scuotere il mondo intero… per il bene di tutti i lettori.

Fritz Leiber

Le argentee teste d’uovo

1

Gaspard de la Nuit, scrittore a giornata, passò una pelle scamosciata sulla lucente base d’ottone del suo torreggiante mulino-a-parole con lo stesso affetto distratto con cui avrebbe, poco più tardi, accarezzato il fianco liscio di Heloise Ibsen, scrittrice patentata. Automaticamente controllò tutte le migliaia di spie luminose (tutte spente) e la fila di quadranti (tutti a zero) sulla facciata della macchina elettronica alta quanto una casa a due piani. Poi sbadigliò massaggiandosi i muscoli del collo.

Aveva trascorso il suo turno dormicchiando, bevendo caffè, e finendo di leggere I peccatori dei sobborghi del satellite e Ogni uomo è filosofo di se stesso. Un autore non poteva chiedere di meglio per passare una tranquilla notte di lavoro.

Buttò la pelle scamosciata in un cassetto della sua scrivania sgangherata. Si guardò con occhio critico in uno specchietto, si pettinò con le dita i capelli scuri e ondulati, sistemò in pieghe fiammeggianti la sua fluente cravatta di seta nera e abbottonò gli alamari della giacca da casa di velluto nero.

Poi si avvicinò a passo vivace all’orologio e timbrò il cartellino. Il suo sostituto del turno di giorno era già in ritardo di trenta secondi, ma quello era un fatto su cui doveva arrabbiarsi la commissione disciplinare del sindacato, non lui.

Varcata la porta della sala simile a una cattedrale che ospitava la mezza dozzina di mulini-a-parole, grandi come organi, della Editrice Razzi e dell’Editoriale Protone, si fermò per lasciar passare la folla stupefatta dei visitatori mattutini, guidata da Joe la Guardia, un vecchio curvo che era abile quasi come uno scrittore nel dormire sul lavoro. Gaspard era felice di non dover sopportare le domande idiote dei visitatori (“Dove prende le idee che passa al mulino-a-parole, signore?”) e le occhiate sospette ed eccitate (fra le altre cose, il pubblico credeva che tutti gli scrittori fossero maniaci sessuali, il che era un po’ esagerato). Era particolarmente felice di sfuggire alla curiosità di una coppia molto discutibile, un uomo e un ragazzo, vestiti in abiti uguali, tipo padre-e-figlio: l’uomo troppo evidentemente agitato e saputo, il ragazzino piccato e annoiato. Gaspard si augurò che Joe la Guardia fosse abbastanza sveglio da impedire a quest’ultimo di pasticciare con la sua adorata macchina.

Tuttavia, conscio della presenza del pubblico, Gaspard tirò fuori la sua grossa pipa ricurva di schiuma, bionda come il miele, ne sollevò il coperchio di filigrana d’argento e vi premette una presa di tabacco prelevata dalla borsa di foca dalla cerniera d’oro. E si accigliò lievemente, mentre lo faceva. Dover fumare quella mostruosità tedesca era quasi l’unica cosa antipatica nella sua professione di scrittore, oltre ai vestiti un po’ incongrui che era obbligato a portare. Ma gli editori erano perversamente minuziosi quando si trattava di stabilire quelle clausole contrattuali, come lo erano quando si trattava di obbligare uno scrittore a lavorare per l’intero turno, anche se i mulini-a-parole non giravano.

Ma non gli importava un accidente, ricordò a se stesso con un sorriso; presto sarebbe stato uno scrittore patentato, autorizzato a portare una maglietta, a farsi rapare a zero e a fumare sigarette in pubblico. E certamente, come scrittore a giornata, stava molto meglio di un apprendista scrittore, che generalmente era obbligato a portare un costume come una tunica greca, una toga romana, una tonaca da frate o cose del genere. Gaspard aveva conosciuto persino un povero diavolo di scrittore che gli spiritosi sadici del sindacato avevano imbrogliato, inducendolo ad accettare, per contratto, di vestirsi come un babilonese e di portare sempre con sé tre tavolette di pietra, uno stilo e un martello. Anche considerando che il pubblico voleva gli autori circondati da un’atmosfera appropriata, quello era veramente troppo.

Eppure, gli scrittori godevano di una vita così comoda e lussuosa che Gaspard non riusciva a capire perché tanti giornalieri e tanti patentati, in quegli ultimi tempi, si mostrassero così apertamente disgustati del loro lavoro, facendo di nascosto le boccacce agli editori e covando l’illusione di avere un messaggio serio e profondo da rivelare al pubblico. Molti di loro odiavano apertamente i rispettivi mulini-a-parole, il che, per Gaspard, era un po’ peggio di un sacrilegio. Perfino Heloise aveva preso l’abitudine di fare le ore piccole per presenziare alle riunioni segrete dei malcontenti (una cosa di cui Gaspard non voleva neppure sentire parlare) invece di dedicare le ore dopo il suo turno a un adeguato riposo, in preparazione del ritorno a casa di Gaspard.

Il pensiero di Heloise che lo aspettava nel loro nido d’amore accrebbe il cipiglio di Gaspard. In un certo senso, due ore dedicate a tenere attività orizzontali, anche con una ingegnosa scrittrice patentata, gli parevano eccessive, per non dire opprimenti. Un’ora avrebbe dovuto essere sufficiente.

— È uno scrittore, figliolo.

Era naturalmente l’uomo che rispondeva in un sussurro più alto del necessario alla risposta del ragazzo. Ma Gaspard respinse, con una scrollata di spalle, il tono di disprezzo e di disapprovazione di quel sussurro e passò oltre i due visitatori, con un sogghigno. Era colpa sua, si disse, se apparteneva a una professione i cui membri erano considerati maniaci sessuali e, dopotutto, le due ore di battaglia che lo aspettavano erano un compromesso fra l’ora che voleva lui e le tre che avrebbe voluto Heloise.

Il Viale del Lettorato, il viale di New Angeles, California, su cui si allineavano tutte le case editrici del Sistema Solare che parlava inglese, sembrava stranamente deserto quel mattino (era possibile che tutti quelli del turno di giorno stessero dormendo più a lungo del solito?) anche se c’era in giro un buon numero di robot dall’aria straordinariamente dura… uomini di metallo, angolosi, alti due metri e dieci, con un solo occhio, come Polifemo, e minuscoli altoparlanti per conversare con gli umani (di solito preferivano parlare fra loro per contatto diretto da metallo a metallo o per mezzo di una silenziosa radio a onde corte).

Poi il suo umore migliorò quando scorse un robot che conosceva, una creatura massiccia ma snella di acciaio azzurro che spiccava fra i suoi fratelli più goffi come un purosangue fra i ronzini.

— Ehi Zane! — esclamò allegramente. — Che cosa sta succedendo?

— Salve Gaspard — rispose il robot, avvicinandosi e aumentando il volume della voce. — Non lo so. Questi mostri non vogliono parlare con me. Probabilmente sono stati ingaggiati dagli editori. Forse gli Squadristi hanno colpito di nuovo e gli editori cercano di prevenire il tentativo di intralciare alla fonte la distribuzione dei libri.

— Allora non ci riguarda — dichiarò allegramente Gaspard. — Ti hanno tenuto molto occupato in questi giorni, Vecchio Rottame?

— È un lavoro che mi porta via tutto il tempo solo per comprarmi l’energia necessaria per alimentare le mie batterie, Vecchia Pentola di Carne — rispose il robot. — Ma sai che vado pazzo per la corrente alternata.

Gaspard gli sorrise con calore, mentre il robot ronzava piacevolmente. A Gaspard piaceva veramente la compagnia dei robot, anche se quasi tutti gli umani criticavano chi fraternizzava con i nemici (in privato li definivano così) e una volta in una lite da innamorati Heloise Ibsen l’aveva chiamato “sporco amatore di robot!”.

Forse la sua simpatia per i robot era una conseguenza un po’ esagerata del suo affetto per i mulini-a-parole, ma Gaspard non aveva mai cercato di analizzarla. Sapeva soltanto che era attratto dai robot e che detestava tutti i pregiudizi antirobot. Diavolo, si diceva, i robot erano individui divertenti e simpatici, e anche se alla fine avrebbero portato via il mondo ai loro creatori (almeno, a quanto prevedeva la scienza) non vi sarebbe mai stato il problema dei matrimoni misti o altre stupide sciocchezze a turbare i rapporti fra le due razze.

In ogni caso, Zane Gort era un tipo straordinario, d’una classe unica fra il popolo metallico. Era un robot indipendente che si dedicava soprattutto a scrivere romanzi d’avventure per gli altri robot; aveva una vasta conoscenza del mondo, una grande comprensione e un netto atteggiamento bruncio verso la vita (bruncio era l’equivalente robotico di “virile”) che lo rendevano unico su un milione.

Zane disse:

— Ho sentito dire, Gaspard, che voi scrittori umani state progettando uno sciopero… o un’azione anche più violenta.

— Non crederlo — gli assicurò Gaspard. — Heloise mi avrebbe informato.

— Sono contento di saperlo — disse educatamente Zane, con un fruscio poco convinto. Improvvisamente, una scarica elettrica saettò dalla sua chela destra fino alla fronte.

— Scusami — disse mentre Gaspard indietreggiava di scatto, involontariamente. — Ora devo scappare. Sono stato per quattro ore a lavorare sul mio nuovo romanzo. Ho messo il dottor Tungsteno in una situazione da cui non riuscivo a toglierlo. E adesso m’è venuta in mente una soluzione. Rrrrrr!

E si avviò lungo il viale come un lampo azzurro.

Gaspard proseguì, a passo tranquillo, chiedendosi vagamente che effetto poteva fare lavorare su un romanzo per quattro ore. Naturalmente, il mulino-a-parole poteva cortocircuitarsi, ma non era precisamente la stessa cosa. Era forse come essere invischiato in un problema di scacchi? O era piuttosto come le intense frustrazioni emotive che si riteneva avessero grandemente turbato la gente, perfino gli scrittori, nei brutti tempi antichi, prima della ipnoterapia degli ipertranquillanti e degli instancabili robot psichiatri?

Ma, in questo caso, come erano le frustrazioni emotive? In verità, c’erano momenti in cui Gaspard pensava di aver condotto un’esistenza un po’ troppo tranquilla, un po’ troppo bovina perfino per uno scrittore.

2

Il nebuloso rimuginare di Gaspard venne interrotto dalla grande edicola che segnava la vita di Viale del Lettorato. Era scintillante e affascinante come un albero di Natale, e lo faceva sentire come un ragazzino di sei anni in procinto di essere visitato da Papà Natale.

L’aspetto generale dell’interno dei volumetti non era cambiato molto in due secoli: era ancora stampato in caratteri neri su carta chiara. Ma le copertine erano meravigliosamente fiorite. Ciò che nella metà del Ventesimo secolo era stata soltanto una intenzione aveva proliferato ed era giunta alla sua piena fioritura.

Grazie alla magia della stereostampa e della riproduzione a quattro tempi, voluttuose fanciulle grandi come bamboline si spogliavano interminabilmente, indumento per indumento, o passavano ripetutamente, in abiti trasparenti, davanti a finestre illuminate. Mostri e criminali sogguardavano con espressione maligna, filosofi e ministri del culto si mostravano con attenzione benigna, in molte espressioni. I cadaveri macchiati di sangue crollavano al suolo, i ponti precipitavano, gli uragani sferzavano gli alberi, le astronavi saettavano attraverso finestrelle di dodici centimentri per dodici nell’infinito stellato.

Tutti i sensi venivano presi d’assalto: le orecchie da un flusso di lieve musica fatata, affascinante come il canto delle sirene e punteggiata dallo schioccare di lenti baci, dai colpi di scudiscio su carne nubile, dal sommesso sgranare delle pallottole di mitra, dallo spettrale ruggito delle bombe atomiche.

Le narici di Gaspard coglievano folate di pranzi a base di tacchino, fuochi di legno duro, aghi di pino, boschetti di aranci, polvere da sparo, un lievissimo accenno di marijuana, muschio e profumi alla moda, come il Fer de Lance e il Nebula Numero Cinque; e sapeva che, se avesse teso la mano e avesse toccato ogni singolo libro, sarebbe stato come toccare velluto, visone, petali di rosa, cuoio di Cordova, acero lucidato, bronzo patinato, sughero marino venusiano, o calda pelle di giovane donna.

Per un momento l’idea di tre ore di intimità con Heloise Ibsen non gli parve più eccessiva. Avvicinandosi ai volumetti affollati che in realtà erano disposti come i palloncini su un albero di Natale (a eccezione dell’assortimento, austeramente modernista, dei libribobina per i robot), Gaspard rallentò la sua già tranquilla andatura per protrarne il piacere dell’anticipazione.

A differenza di quasi tutti gli scrittori della sua epoca, Gaspard de la Nuit godeva realmente della lettura dei libri, specialmente della produzione quasi ipnotica dei mulini-a-parole, con i suoi solidi nomi quadridimensionali e i suoi connettivi elettrici.

Ora stava pensando a due piaceri distinti che l’attendevano: scegliere e acquistare un nuovo volumetto da leggere quella sera e vedere in mostra, ancora una volta, il suo primo romanzo, Passaporto per la passione, caratterizzato soprattutto dalla fanciulla che, sulla copertina, si toglieva di dosso sette lievi indumenti colorati… tutto l’arcobaleno. Sulla controcopertina c’era una stereofoto di lui stesso, con indosso la giacca di velluto, sull’adeguato sfondo d’un salotto vittoriano, mentre si chinava su una splendida ragazza dalla pettinatura piena di spilloni lunghi una trentina di centimetri e con un bustino di merletto sbottonato (particolare interessantissimo) per tre quarti. Sotto all’immagine era scritto:

“Gaspard de la Nuit sta raccogliendo materiale per il suo opus magnum”.

Più sotto c’era questa biografia:

“Gaspard de la Nuit è un lavapiatti francese che ha fatto anche lo steward su un’astronave, ha aiutato un procuratore d’aborti (in realtà cercava di raccogliere delle prove per la Sùreté), ha fatto il tassista a Montmartre, il valletto di un visconte dell’ancien regime, ha potato gli alberi nelle foreste di pini del Canada francese, ha studiato legge divorzistica interplanetaria alla Sorbona, è stato missionario ugonotto presso i Marziani Neri e suonatore di pianoforte in una maison de joie. Sotto l’influenza della mescalina ha rivissuto le infami esistenze di cinque procuratori di femmine parigini. Ha trascorso quasi tre anni in una clinica per malati di mente, e per due volte ha tentato di uccidere a percosse un’infermiera. Come perfetto subacqueo nella tradizione immortale del suo compatriota capitano Cousteau, ha assistito ai sadici riti sessuali sottomarini dei sirenidi di Venere. Gaspard de la Nuit ha scritto Passaporto per la passione in due giornate e un terzo, su un Dominatore di Parole dell’Editrice Razzi fornito di Avverbi Fluttuanti e di Iniezione di Suspense a Cinque Secondi. Ha revisionato il romanzo in un Superjuicer della Simon. Per gli straordinari risultati conseguiti nella confezione della prosa, de la Nuit è stato premiato dal Presidio degli Editori con un viaggio di tre notti nell’antica Manhattan Esotica Inferiore. Ora sta raccogliendo materiale per il suo secondo romanzo che, ci dice, sarà intitolato Abbraccio ai peccatori”.

Gaspard conosceva a memoria quelle parole e sapeva anche che erano assolutamente false, se si eccettuava il fatto che la mulinatura del polpettone sessuale gli aveva richiesto sette turni. Non aveva mai lasciato la Terra, non aveva mai visitato Parigi, non aveva mai praticato sport più strenui del ping-pong, non aveva mai avuto un lavoro più esotico di quello di commesso in un grande magazzino, e non aveva mai avuto neppure la più lieve e trascurabile psicosi.

In quanto a “raccogliere materiale”, ecco, il suo ricordo più vivido di quella seduta in cui aveva fatto la stereografia per il volumetto erano le accecanti stereoluci e la modella lesbica che si lamentava continuamente del suo fiato pesante e faceva mosse invitanti con il suo torso snello e irrequieto verso la fotografa che era un tipo piuttosto mascolino. Naturalmente adesso c’era Heloise Ibsen, e Gaspard doveva ammettere che contava almeno per tre donne.

Sì, quelle storie erano false e Gaspard le conosceva a memoria, eppure era un piacere rileggerle, all’edicola, riassaporando ogni singola sfumatura del loro fascino disgustoso e lusinghiero.

Mentre tendeva la mano verso il volume scintillante (la ragazza sulla copertina si preparava a togliersi anche l’ultimo indumento violetto) una esplosione di fiamma rovente, ruggente e fetida, proruppe al suo fianco e annientò in un istante il mondo pigmeo della bamboletta tutta sesso. Gaspard balzò indietro, ancora stordito dal suo sogno, benché questo si fosse appena trasformato in un incubo. In tre secondi, lo splendido albero natalizio carico di libri si era trasformato in uno scheletro tremante, carico di raggrinziti frutti neri. La fiamma si spense e un frastruono di risate omicide ne sostituì il ruggito. Gaspard riconobbe un drammatico tono di contralto.

— Heloise! — gridò, incredulo.

Perché non c’era dubbio: era la sua amante, che secondo lui stava accumulando libidine a letto… I suoi lineamenti decisi erano resi convulsi da uno splendore malvagio, i suoi capelli scuri erano sciolti come quelli d’una menade, la sua figura vigorosa sembrava prorompere con esuberanza dagli abiti: e brandiva nella destra un sinistro globo nero.

Al suo fianco c’era Homer Hemingway, uno scrittore patentato dalla testa rasa, che Gaspard aveva sempre giudicato un grosso idiota anche se Heloise, in quegli ultimi tempi, aveva preso l’abitudine di ripetere le sue balorde, laconiche osservazioni. Le caratteristiche dell’abbigliamento di Homer erano un abito da cacciatore in velluto a coste e una grossa cintura da cui pendeva un’ascia. E stringeva fra le mani pelose la canna fumante d’un lanciafiamme.

Dietro di loro c’erano due robusti scrittori avventizi che indossavano maglioni a strisce e berretti blu. Uno portava il serbatoio del lanciafiamme e l’altro una specie di mitra e una bandiera con un 30 nero su fondo grigio.

— Cosa stai facendo, Heloise? — chiese debolmente Gaspard, ancora sconvolto.

La sua valchiria di passione si piantò i pugni sui fianchi.

— Gli affari miei, sonnambulo! — sogghignò. — Togliti la cera dalle orecchie! Togliti le bende dagli occhi! Apri la tua mente piccina!

— Ma perché stai bruciando i libri, cara?

— E tu chiami libri quei prodotti di mulinatura? Verme! Lombrico! Non hai mai desiderato scrivere qualcosa che fosse veramente tuo? Qualcosa di importante?

— Naturalmente no — rispose Gaspard, in tono scandalizzato. — Come potrei? Cara, non mi hai detto perché state bruciando…

— È solo un assaggio — scattò lei. — Un simbolo. — Poi l’espressione perversa ritornò nel suo sogghigno. — La distruzione più importante deve ancora venire! Andiamo Gaspard, tu puoi aiutarci. Liberati della tua idiozia e agisci da uomo!

— Aiutarvi a fare cosa? Tesoro, non mi hai ancora detto…

Homer Hemingway lo interruppe con un: — Perdiamo tempo, bambola. — E lanciò a Gaspard uno sguardo distratto e sprezzante.

Quest’ultimo l’ignorò.

— E che cos’è quella palla di ferro nero che hai in mano, Heloise? — si informò.

La domanda sembrò deliziare la sua atletica uri.

— Tu leggi molti libri, vero, Gaspard? Hai mai letto niente sul nichilismo e sui nichilisti?

— No, cara, non posso dire di aver mai letto niente.

— Bene, li leggerai, tesoruccio, li leggerai. In verità, scoprirai che cosa si prova a essere un nichilista. Dagli la tua ascia, Homer.

Di colpo, Gaspard ricordò la domanda di Zane Gort:

— State scioperando? — domandò, incredulo. — Heloise, tu non mi hai mai detto niente!

— Naturalmente no! Non potevo fidarmi di te. Hai molte debolezze… specialmente per i mulini-a-parole. Ma adesso avrai la possibilità di dimostrare ciò che vali. Prendi l’ascia di Homer.

— Senti, non potete darvi alla violenza — protestò subito Gaspard. — Il Viale è pieno di robot.

— Non ci daranno fastidio, amico — affermò enigmatico Homer Hemingway. — Li abbiamo sistemati, quegli straccioni di latta. Se è questo che ti preoccupa, amico, puoi prendere un’ascia e fracassare personalmente qualche mulino-a-parole.

— Fracassare i mulini-a-parole? — boccheggiò Gaspard, con il tono che avrebbe usato per dire “Uccidere il Papa?”, “Avvelenare il Lago Michigan?” o “Fare esplodere il sole?”.

— Sì, fracassare i mulini-a-parole! — scattò la sua adorabile divoratrice d’uomini. — Presto, Gaspard, scegli! Sei un vero scrittore o un pidocchio? Sei un eroe o una marionetta degli editori?

Un’espressione decisa apparve sul viso di Gaspard.

— Heloise — disse con fermezza, avvicinandosi a lei — tu verrai immediatamente a casa con me.

Una grossa zampa pelosa lo fermò e lo mise a sedere sul pavimento gommato della strada.

— La signora andrà a casa quando ne avrà voglia, amico — disse Homer Hemingway. — Con me.

Gaspard balzò in piedi e sferrò un pugno al gigante, ma fu respinto con una calma pacca al petto che lo fece boccheggiare.

— E dici di essere uno scrittore, amico? — domandò Homer, in tono dubbioso, mentre sferrava a sua volta il pugno che, un secondo più tardi, doveva far perdere la conoscenza a Gaspard. — Eh, non ti sei nemmeno tenuto in allenamento!

3

Splendenti negli abiti uguali color turchese con i bottoni di opale, padre e figlio stavano ritti, con aria compiacente, davanti al mulino-a-parole di Gaspard. Non si era presentato un solo scrittore del turno di giorno. Joe la Guardia dormiva in piedi vicino all’orologio. Gli altri visitatori si erano allontanati. Un robot rosa era apparso all’improvviso e si era seduto quietamente su uno sgabello, all’estremità della grande sala a volta. Le sue chele si muovevano in fretta, come se lavorasse a maglia.

PADRE: Ecco qua, figliolo. Guardalo. No, no, non devi appoggiarti a questo modo.

FIGLIO: È grande papà.

PADRE: SÌ, è grande. È un mulino-a-parole, figlio, una macchina che scrive libri di narrativa.

FIGLIO: Scrive anche i miei libri di racconti?

PADRE: No, scrive romanzi per adulti. Una macchina molto più piccola, di misura adatta ai bambini, scrive i tuoi…

FIGLIO: Andiamo papà.

PADRE: No, figliolo! Volevi vedere un mulino-a-parole, hai insistito tanto, ho dovuto faticare molto per procurarmi un lasciapassare, quindi adesso devi guardare questo mulino-a-parole e ascoltare mentre io ti spiego come funziona.

FIGLIO: Sì, papà.

PADRE: Bene, vediamo, è così… No… è come…

FIGLIO: È un robot, papà?

PADRE: No, non è un robot come l’elettricista o il tuo insegnante. Un mulino-a-parole non è una persona come lo è un robot, sebbene entrambi siano fatti di metallo e funzionino grazie all’elettricità. Un mulino-a-parole è come un calcolatore elettronico, ma manipola le parole, non i numeri. È come la grande macchina che gioca a scacchi o che fa i piani di guerra, ma fa le sue mosse in un romanzo invece che su una scacchiera o su un campo di battaglia. Ma un mulino-a-parole non è vivo come un robot e non può muoversi e andare in giro. Può soltanto scrivere libri di narrativa.

FIGLIO (sferrando un calcio al mulino-a-parole): Stupida vecchia macchina!

PADRE: Non devi fare così, figliolo. Su ecco… vi sono infiniti modi di raccontare una vicenda.

FIGLIO (continuando a sferrare calci più fiacchi): Sì, papà.

PADRE: Il modo dipende dalle parole che vengono scelte. Ma una volta che è stata scelta una parola, le altre devono adattarsi a quella. Devono avere lo stesso tono o la stessa atmosfera e devono adattarsi alla catena di suspense con precisione micrometrica… te lo spiegherò più tardi.

FIGLIO: Sì, papà.

PADRE: Un mulino-a-parole viene fornito dello schema generale d’una vicenda che viene trasmessa al suo grande banco-memoria, molto più grande perfino di quello di tuo padre: e sceglie la prima parola a casaccio. Oppure il programmatore gli dà la prima parola. Ma quando sceglie la seconda parola, deve sceglierne una che abbia la stessa atmosfera, e così via. Basta fornire lo stesso schema di vicenda e cento prime parole diverse (una alla volta, naturalmente) e il mulino-a-parole scriverà cento romanzi completamente diversi. Naturalmente è molto più complicato, troppo complicato perché tu capisca, ma funziona così.

FIGLIO: Un mulino-a-parole continua a raccontare la stessa storia con parole diverse?

PADRE: Be’, in un certo senso sì.

FIGLIO: Mi sembra sciocco.

PADRE: Non è sciocco, figliolo. Tutti gli adulti leggono romanzi. Tuo padre legge romanzi.

FIGLIO: Sì, papà. Chi è quella?

PADRE: Dove?

FIGLIO: Sta venendo da questa parte. La signora con i calzoni azzurri aderenti che non si è abbottonata la camicetta.

PADRE: Ehm! Guarda da un’altra parte, figliolo. È un’altra scrittrice, figliolo.

FIGLIO (continuando a guardare): Cos’è una scrittrice, papà? È una di quelle cattive signore di cui mi hai parlato, che hanno tentato di parlare con te a Parigi, ma tu non hai voluto?

PADRE: No, no, figliolo! Una scrittrice o uno scrittore, è solo una persona che si prende cura di un mulino-a-parole, che lo spolvera e così via. Gli editori sostengono che lo scrittore aiuta il mulino-a-parole a scrivere il libro, ma è una finzione, figliolo, un modo per rendere tutto più interessante. Gli scrittori hanno il permesso di vestirsi e di comportarsi in modo bizzarro… come gli zingari: lo prevede un accordo sindacale che risale ai tempi in cui furono inventati i mulini-a-parole. Ora, non crederai…

FIGLIO: Sta mettendo qualcosa nel mulino-a-parole, papà. Una cosa nera e rotonda.

PADRE (senza guardare): Lo sta oliando o forse mette un transistor nuovo o sta facendo qualcosa che deve fare a quel mulino-a-parole. Ora, forse non crederai a quello che sta per dirti tuo padre, ma è tuo padre che te lo dice. Prima che inventassero i mulini-a-parole…

FIGLIO: La macchina sta fumando, papà.

PADRE (sempre senza guardare): Non interrompermi. Probabilmente quella signora ha rovesciato un po’ d’olio o qualcosa di simile. Prima che inventassero i mulini-a-parole, gli scrittori scrivevano veramente i romanzi e i racconti! Dovevano dare la caccia…

FIGLIO: La scrittrice corre via, papà.

PADRE: Non interrompermi. Dovevano dare la caccia, nella loro memoria, a ogni parola d’un racconto o di un romanzo. Doveva essere…

FIGLIO: Sta ancora fumando papà. E ci sono delle scintille.

PADRE: Ti ho detto di non interrompermi. Doveva essere una fatica spaventosa, come costruire le piramidi.

FIGLIO: Sì, papà. Sta ancora…

BUM! Il mulino-a-parole di Gaspard fiorì, con un rumore assordante, in una esplosione. Padre e figlio furono investiti dalla massima potenza dello scoppio e furono trasformati in pezzetti di stoffa turchese e di opali. Uscirono senza dolore dall’esistenza, vittime casuali di una strana rivolta. L’incidente nel quale perirono fu uno dei molti che si ripeterono in molti edifici vicini, fortunatamente con un numero minore di morti.

Per tutto il Viale del Lettorato, che qualcuno chiama Strada dei Sogni, gli scrittori stavano fracassando i mulini-a-parole. Dall’annerito albero di libri sotto il quale era caduto Gaspard fino alle piste di lancio delle navi di libri all’altra estremità del Viale, gli autori iscritti al sindacato stavano impazzando e distruggendo. Scendendo come un torrente per la strada centrale del colossale centro editoriale della Terra (e in realtà dell’unico centro editoriale completamente meccanizzato del Sistema Solare), una vertiginosa folla sgargiante di individui con berretti e accappatoi, toghe e collari, chimoni, cappe, camicie sportive, fluenti cravatte nere, sparati di pizzo e cappelli a cilindro, magliette e pantaloni aderenti, irruppe, carica di istinti omicidi, in ogni fabbrica narrativa, gridando morte e distruzione alle macchine gigantesche di cui erano diventati solo gli inservienti e che macinavano nelle loro mandibole elettroniche la merce narrativa che nutriva le esigenze e addolciva il subcosciente degli abitanti di tre pianeti, d’una mezza dozzina di lune e di parecchie migliaia di satelliti e astronavi in orbita e in traiettoria.

Non più contenti di essere tacitati da alti salari e dall’apparenza di essere autori (gli antichi costumi che erano un segno distintivo della loro professione, i nomi tradizionali che erano concessi e perfino imposti, le esotiche vite d’amore che erano autorizzati e incoraggiati a vivere) gli scrittori fracassavano e sabotavano, distruggevano e rovinavano, mentre la polizia di una Amministrazione del Lavoro decisa a mandare in frantumi la potenza degli editori se ne restava compiacente in disparte. I robot, assunti in fretta e furia dagli editori che si erano accorti troppo tardi del pericolo, non entrarono in azione, poiché all’ultimo momento avevano ricevuto il veto dalla Fratellanza Interplanetaria delle Macchine Libere Professioniste: se ne stavano lì attorno, statue tetre e melanconiche, il cui metallo era ammaccato dai mattoni, macchiato dagli acidi e annerito dai lanciafiamme portatili dei picchettanti, e guardavano morire i loro immobili cugini privi di mente.

Homer Hemingway sfasciò con un colpo d’ascia il grigio pannello dei comandi di una Scrivitutto della Random House e poi si occupò ferocemente dei diodi e dei transistor.

Sappho Wollstonecraft Shaw spinse un grosso badile di plastica nell’unità memoria d’uno Scriba della Scribner e versò sette litri di acido nitrico fumante nelle sue interiora indescrivibilmente delicate.

Harrier Beecher Brontë innaffiò di benzina un Romanziere Norton, e nitrì quando le fiamme esplosero alte fino al cielo.

Heloise Ibsen, con la camicia lacera, agitava la bandiera grigia con il malaugurante 30 nero, a significare la fine della letteratura fatta a macchina; balzò addosso a tre spaventatissimi vicepresidenti che erano venuti a “vedere i robot mettere in fuga quelle scimmie insolenti”. Per un attimo, Heloise somigliò in modo sorprendente alla Libertà che guida il popolo del dipinto di Delacroix.

Abelard de Musset, con il cilindro di traverso e le tasche rigonfie di proclami d’autodeterminazione e di creatività, scaricò un mitra su una Creatrice di Trame Putnam. Marcel Feodor Joyce scagliò una granata nell’associatore di idee di una Macchina per Romanzi Seri della Schuster. Dylan Bysshe Donne prese a colpi di bazooka un Bardo della Bantam.

Agatha Ngaio Sayers avvelenò un Creatore della Doubleday con polvere di ossido magnetico.

Somerset Makepeace Dickens prese a martellate uno Scrittore Prezzolato della Harcourt.

H.G. Heinlein piantò cariche di esplosivi in un Creatore di Fantascienza Appleton e per poco non perse la vita nel respingere a distanza di sicurezza il resto della turba, fino a che i terribili razzi bianchi si furono avventati come pugnali nelle leghe involute di sottilissimi fili argentei.

Norman Vincent Durant fece saltare in aria un Costruttore di Libri della Ballantine.

Talbot Fenimore Forester massacrò con la spada uno Storico della Houghton, lo spalancò con una picca, e vi scagliò dentro un fuoco greco che aveva composto secondo una formula antichissima.

Luke Van Tilburg Wister scaricò la sua pistola a sei colpi contro una Western della Whittlesey, poi la finì con sei cariche di dinamite e un “Hippiiahié”!

Fritz Ashton Eddison liberò una nube di pipistrelli radioattivi nell’interno di un Fantasizzatore della Fiction House, che era in realtà un Sognatore Dutton modificato con un Comando a Mano di Credibilità.

Edgar Allen Bloch, brandendo un bastone elettrico spaventosamente attivato da batterie isotopiche portatili, aveva fatto fuori, da solo, un intero assortimento di tagliatrici, imbottitrici, lucidatrici, addizionatrici-di-erotismo e macchine analoghe.

Conan Haggard de Camp investì un Romanziere di Cappa e Spada della Gold Medal con un camion da cinque tonnellate.

Gli Shakespeare infuriavano, i Dante davano la morte elettrochimica, gli Eschilo e i Milton combattevano fianco a fianco con gli Zola e i Farrell; i Rimbaud e i Bradbury dividevano i pericoli rivoluzionari; mentre intere tribù di Sinclair, di Balzac, di Dumas e di autori che si chiamavano White e che erano distinti solo dalle iniziali si occupavano della retroguardia.

Fu una giornata nera per gli amatori di libri. O forse fu l’alba.

4

Uno degli ultimi incidenti del Massacro dei mulini-a-parole (che qualche storico paragonò più tardi all’incendio della Biblioteca di Alessandria, o ai roghi di libri dei nazisti, e qualche altro alla Presa della Bastiglia) si verificò fuori della grande sala a volta, proprietà comune della Editrice Razzi e dell’Editoriale Protone. Là, dopo l’orribile fine del Maestro Parolaio di Gaspard a opera di Heloise Ibsen, vi era stata una pausa nell’orgia di distruzione. Tutti i visitatori superstiti erano fuggiti, tranne le due anziane insegnanti che, appoggiate a una parete, si stringevano l’una all’altra per sorreggersi e si guardavano intorno sconvolte e inorridite, incapaci di agire.

Aggrappato alle due donne ed evidentemente altrettanto spaventato, c’era uno snello robot di alluminio anodizzato di un rosa molto carico… un robot dalla vita di vespa e dalle caviglie e dai polsi esilissimi, molto più snello dell’elegante Zane Gort e dall’aspetto stranamente femmineo.

Circa un minuto dopo l’esplosione, Joe la Guardia si levò in piedi, accanto all’orologio, attraversò lentamente il locale e tolse da un armadietto una ramazza e una pattumiera dal coperchio a scatto, poi tornò indietro lentamente e cominciò con lentezza ancora maggiore a spazzare intorno agli orli il mucchio dei detriti che circondavano il mulino-a-parole sfasciato, raccogliendo schegge metalliche, pezzi di isolante e stoffa turchese.

Una volta raccolse un bottone d’opale dai rottami e lo fissò per dieci interi secondi prima di scuotere il capo e di lasciarlo cadere nel secchio con un lieve ping.

Le due insegnanti e il robot clamorosamente roseo lo seguirono con tutti i loro cinque occhi, quasi aggrappandosi a ognuno dei suoi movimenti. Era una ben povera figura paterna e un ben povero simbolo di sicurezza, per quel che potevano valere quei simboli e quelle figure, ma per il momento era tutto quello che c’era a disposizione e quindi avrebbe dovuto bastare.

Joe la Guardia aveva riempito e vuotato due volte la pattumiera (un’operazione che ogni volta richiedeva una lunga assenza dalla sala), quando gli scrittori resi frenetici dalla vittoria apparvero in forze, spingendosi nella vasta sala in un cuneo al cui vertice c’erano, terrificanti, le fiamme lunghe sei metri di tre lanciafiamme.

Mentre le tre squadre, composte rispettivamente dall’uomo che manovrava la canna del lanciafiamme e dall’uomo che reggeva il serbatoio, si mettevano al lavoro sui cinque mulini-a-parole che ancora rimanevano, gli altri scrittori vorticarono tutto intorno, strillando a pieni polmoni: sembravano abitanti dell’inferno, nel bagliore rosso e fumoso. Si stringevano reciprocamente le mani, si battevano le mani sulle spalle e si baciavano, si gridavano nelle orecchie i particolari più atroci della distruzione di un mulino-a-parole più odiato degli altri, e poi esplodevano in risate ruggenti.

Le due insegnanti e il robot clamorosamente roseo si strinsero in un abbraccio ancora più disperato. Joe la Guardia si voltò a guardare gli intrusi, scosse di nuovo il capo e, imprecando sottovoce, proseguì il suo inutile tentativo di rimettere in ordine.

Alcuni scrittori formarono spontaneamente una fila indiana a forma di serpente e ben presto tutti gli altri, a eccezione di coloro che maneggiavano i lanciafiamme, si unirono loro. Con le mani sulle spalle dello scrittore che lo precedeva, ciascuno camminava battendo o trascinando i piedi in una spirale contorta che si attorse due volte attorno alla sala, passando in mezzo ai mulini-a-parole anneriti e sconquassati, e curvando attorno alle fiamme fetide. Mentre si muovevano, due passi avanti e un passo indietro, lanciavano ritmicamente grida e grugniti animaleschi.

Quando una spira del serpente si piegò verso di loro, le due insegnanti e il robot roseo arretrarono ancora contro la parete. Joe la Guardia era rimasto in trappola tra la spirale interna e quella esterna, ma continuò a spazzare, scrollando ininterrottamente il capo e brontolando fra sé.

Gradualmente, le parole gridate all’unisono cominciarono a prendere il sopravvento tra i grugniti animaleschi e ad acquistare una cadenza regolare. Finalmente, l’intera perversa cantilena divenne inequivocabilmente chiara:

A morte i dannatissimi editori!
A morte i dannatissimi editori!
Parole… di… cin… que… lettere!
Crepitio poi tutti i programmatori!
Crepitio poi tutti i programmatori
Mulini-a-parole… Mai più!

A quel punto vi fu uno sbalorditivo cambiamento nel contegno del robot rosato. Si raddrizzò, respingendo da sé le due maestre, poi avanzò coraggiosamente, agitando le sottili braccia di alluminio come avrebbe fatto una persona per scacciare una nuvola di moscerini, e gridando con una voce sottile qualcosa che venne sommerso dal canto degli scrittori.

Gli scrittori lo videro avvicinarsi, ed essendo abituati come tutti a togliersi dalla strada di un robot quando il robot era di un certo umore, ruppero la catena per lasciarlo passare, canzonandolo allegramente.

Uno scrittore dal cappello a cilindro tutto ammaccato e dalla cappa nera a brandelli gridò: — È della censura, ragazzi!

L’osservazione scatenò un’enorme allegria: una minuscola scrittrice che indossava abiti maschili del Diciannovesimo secolo, fra l’altro molto in disordine (si chiamava Simone Wolfe-Sand Sagan) gridò al robot:

— Sta’ attenta, Rosellina! La roba che scriveremo d’ora in poi farà saltare i circuiti a tutti voi robot della censura governativa!

Il robot roseo raggiunse la parte opposta della sala, dopo aver attraversato per quattro volte la catena. Girò su se stesso e continuò, per un poco, ad agitare le braccia e a squittire senza riuscire a farsi ascoltare, mentre gli scrittori più vicini voltavano il capo per ruggirgli la loro canzone con grandi sogghigni.

A questo punto, il robot batté al suolo un piede d’alluminio, si voltò pudicamente verso il muro e, chinando il capo, regolò le manopole che portava sul petto. Poi tornò a voltarsi e il suo squittio divenne improvvisamente un sibilo da spaccare i timpani, che bloccò di colpo la catena, spezzò il canto e costrinse tutti, comprese le due maestre che erano le più lontane, a coprirsi le orecchie rabbrividendo.

— Oh, voi gente terribile! — gridò il robot roseo con una voce altissima che sarebbe stata piacevole se non fosse stata tanto zuccherosa. — Voi non sapete ciò che fanno ai miei condensatori e ai miei relais parole come le vostre, ripetute in continuazione! Non potete capirlo, altrimenti non le pronuncereste! Se lo farete ancora, griderò davvero. Oh, voi poveri cari delinquenti, avete fatto e detto tante cose terribili che io so a malapena da dove cominciare le mie correzioni… ma non sarebbe più carino — oh, tanto più carino! — se, per cominciare, cantaste il vostro canto in questo modo?

E qui, il robot rosato, stringendo davanti al petto roseo le pinze snelle, gridò melodiosamente:

Amate gli adorabili editori!
Amate gli adorabili editori!
Pa-ro-le… pulitissime!
Lodato sia ogni programmatore!
Lodato sia ogni programmatore!
Mulini-a-parole… sempre!

Risate isteriche e ringhi rabbiosi, mescolati in proporzioni quasi eguali, furono la risposta degli scrittori a quella melodia.

Due dei lanciafiamme avevano esaurito la scorta di combustibile, ma avevano compiuto fino in fondo il loro lavoro: gli ultimi mulini contro cui erano stati puntati (un Prosatore e un Proteiforme della Protone) erano arroventati e puzzavano di isolanti carbonizzati. Il terzo lanciafiamme, la cui canna era impugnata da Homer Hemingway, giocava ancora leggermente su un lucente Fraseggiatore della Editrice Razzi… Homer aveva ridotto il flusso delle fiamme, due minuti prima, per prolungarsi il divertimento.

Gli scrittori non ricostituirono la fila, ma parecchi di loro, soprattutto gli apprendisti maschi, avanzarono verso il robot roseo, urlando disordinatamente e poi all’unisono tutte le parole sconce che conoscevano, e che in realtà erano sorprendentemente poche per specialisti in letteratura: non più di sette, infatti.

A questo punto, il robot roseo “gridò davvero”, facendo salire e scendere al suo fischio tutta la scala delle tonalità, da certi infrasuoni che mettevano i brividi a certi ultrasuoni che provocavano feroci emicranie. L’effetto fu eguale a quello di sette antiche sirene da pompieri con un vertice sonoro più elevato e una base più bassa. Tutti si portarono le mani alle orecchie. Espressioni di autentica sofferenza si dipinsero sui loro volti.

Homer Hemingway ripiegò il braccio sinistro sul capo per ripararsi entrambe le orecchie, eppure batté ancora le palpebre per il fastidio. E con la destra puntò la fiamma davanti a sé, fino a che raggiunse il robot roseo.

— Piantala, sorella! — ruggì, facendo passare la fiamma avanti e indietro, sulle esili gambe curvilinee del robot.

Il grido cessò e un ronzio desolante uscì dal robot roseo, come se una grande molla fosse scattata. L’essere metallico barcollò e cominciò ad oscillare come una trottola che avesse quasi esaurito la carica.

In quell’istante Zane Gort e Gaspard de la Nuit irruppero nella sala. Il robot d’acciaio azzurro avanzò a grandi passi, come può permetterselo un robot (ossia, cinque volte più rapidamente di un uomo) e afferrò il robot roseo mentre quello stava per afflosciarsi. Lo sorresse saldamente, senza dire nulla, e fissò Homer Hemingway che, dal momento in cui era comparso Zane, aveva puntato di nuovo, con un po’ di apprensione, la canna del suo lanciafiamme verso il Fraseggiatore.

Mentre Gaspard lo raggiungeva correndo, Zane gli disse: — Reggimi la signorina Blushes, amico mio. Abbi riguardo, è in stato di shock.

Poi puntò diritto verso Homer.

— Girami al largo, sporco negro di latta! — urlò quello, in tono piuttosto belante, e diresse la fiamma verso il bruncio robot che avanzava. Ma, o il combustibile si esaurì in quel momento, oppure la chela destra protesa di Zane aveva qualche strano potere, perché in quell’istante la fiamma si spense.

Zane gli strappò la canna dalle mani, lo afferrò per la collottola del suo abito da cacciatore, lo rovesciò sul suo ginocchio d’acciaio azzurro e lo sculacciò vigorosamente per cinque volte con la canna scottante.

Homer ululò. Gli scrittori gelarono, guardando Zane Gort come un branco di romani storditi dal piacere avrebbero potuto guardare Spartaco.

5

Heloise Ibsen non era una donna da preoccuparsi troppo per le situazioni spiacevoli in cui si cacciavano i suoi uomini. Mentre Homer veniva sculacciato, lei si avvicinò a passo di danza a Gaspard.

— Non posso dire di avere una grande opinione della tua nuova amichetta — gli disse, abbassando gli occhi sulla signorina Blushes. — È un bel colore per una ballerina di fila, ma non ha abbastanza carne addosso. — Poi mentre Gaspard cercava una risposta, proseguì: — Naturalmente, ho sentito parlare di uomini che hanno dovuto rivolgersi ai robot per avere qualcuno che si occupasse di loro, ma non avrei mai pensato di doverne conoscere uno. Non avevo mai pensato neppure di conoscere il tirapiedi di un editore!

— Senti, Heloise, non sono un tirapiedi! — ritorse Gaspard. — Non ho mai fatto la spia o qualcosa di simile, e non lo farò mai. Quello che avete fatto mi ripugna… non mi vergogno di ammettere che non appena mi sono ripreso dalla botta che mi ha dato il tuo gorilla bianco, sono corso qui per cercare di salvare i mulini-a-parole della Razzi se potevo! È lungo la strada ho incontrato Zane. Sì, mi ripugna ciò che voi cosiddetti scrittori avete fatto, ma anche se avessi saputo cosa stavate preparando, e non lo sapevo, mi sarei opposto in sede sindacale, non sarei mai andato a raccontarlo ai padroni!

— Ah-ah, va a raccontarlo a Flaxman — fece la sua ex innamorata scrollando le spalle nude e abbronzate. — Forse l’Editrice Razzi ti appunterà una medaglia di latta e ti aiuterà a sognare nuovi titoli per le ristampe, pagandoti il quindici per cento della tariffa sindacale. Sporco tirapiedi, hai cercato di fermarci, prima, all’albero dei libri!

— No! — scattò Gaspard. — E se l’avessi fatto, non l’avrei fatto per i padroni! — Cercò di reggere la signorina Blushes tenendola un po’ più lontana, per essere più libero di discutere, ma lei vibrò e gli si aggrappò più strettamente.

— Oh, non è carina? — commentò Heloise Ibsen. — Non è un roseo tesoruccio di latta? Fai le tue scuse a Flaxman e a Cullingham, tirapiedi!

Proprio in quel momento Zane Gort, che aveva ottenuto qualche informazione da Joe la Guardia in cinque secondi (un tempo da primato) e che poi era corso all’armadietto e ne era ritornato in altri quattro secondi, arrivò con una barella. La depose sul pavimento e vi distese la signorina Blushes.

— Aiutami, Gaspard — disse in fretta. — Dobbiamo portarla in un posto tranquillo e rifornirla di elettricità prima che tutti i suoi relais saltino. Prendi la barella dall’altra parte.

— Medaglia di latta va benissimo! — gracchiò Heloise. — Avrei dovuto saperlo che fare il tirapiedi era naturale per uno sporco amatore di robot.

— Heloise… — cominciò Gaspard, ma poi vide che non c’era tempo per parlare. Gli scrittori ammassati nella sala, storditi dagli strilli della signorina Blushes e dall’audacia delle manovre di Zane Gort, si erano ripresi e avanzavano minacciosi. Mentre Gaspard sollevava la barella e trotterellava dietro Zane, Heloise si batté rumorosamente una mano sull’anca.

— Ecco una cosa che i tuoi amici di latta non possono darti! — gli gridò dietro, con una risata volgare.

Pezzi di metallo, scagliati dagli scrittori furibondi, cominciarono a piovere attorno a loro. Zane allungò il passo, fino a che Gaspard fu costretto a correre.

Un candelotto esplosivo scoppiò vicino al suo orecchio.

— Aahg! — singhiozzò furioso Homer Hemingway al loro indirizzo, accendendo l’altro candelotto che gli rimaneva sul mulino-a-parole arroventato. Prima di scagliarlo, rovistò nei suoi banchi-memoria non eccessivamente ricchi per trovare il peggiore insulto che conosceva.

— Sporchi direttori editoriali! — latrò.

Ma il suo missile esplose tre metri troppo presto, mentre il robot e l’uomo che reggevano la barella varcavano la porta. Quando furono sulla strada, Zane rallentò il passo. Gaspard scoprì, con sua grande sorpresa, che cominciava a sentirsi magnificamente: eccitato e un po’ euforico. La sua giacca era sbrindellata, il suo viso sporco, aveva sulla mascella un gonfiore grosso come un limone, ma si sentiva vivo.

— Zane, hai fatto uno splendido lavoro con Homer! — gridò. — Vecchio bastardo di latta, non sapevo che fossi capace di tanto!

— Di solito no — rispose modestamente il robot. — Come sai, la Prima Legge prescrive ai robot di non fare del male a un essere umano, ma per sant’Isaac, è necessario che quell’essere si comporti veramente in modo umano! Homer Hemingway non si comporta da essere umano, invece. Inoltre, non intendevo fargli del male, ma impartirgli un salutare castigo.

— Naturalmente, posso capire perché i miei colleghi siano diventati apoplettici sentendo quello che diceva la signorina Blushes — proseguì Gaspard. — “Amate gli adorabili editori” — ripeté, canticchiando.

— Anch’io posso ridere della indiscriminata ipersensibilità dei censori — disse Zane, un po’ impettito. — Ma non ti pare, Gaspard, che la razza umana, negli ultimi duecento anni, si sia attaccata troppo alla volgarità e a poche inequivocabili parole che alludono ad attività genito-escretorie? Come ho fatto dire al mio dottor Tungsteno, quando la sua robicchia dorata sogna di diventare un essere umano, “Gli esseri umani non sono come tu li idealizzi, Blanda. Gli umani sono uccisori di sogni. Prendono le bollicine della schiuma di sapone, Blanda, e le chiamano detergente. Guardano il chiaro di luna senza romanticismo e lo chiamano sesso”. Ma adesso basta con queste discussioni socio-letterarie. Devo procurare un po’ di elettricità alla signorina Blushes, ed è evidente che su tutto il Viale del Lettorato la corrente è stata tagliata.

— Scusami, — disse Gaspard, — ma non potresti passarle un po’ di energia delle tue batterie?

— Lei potrebbe fraintendere le mie intenzioni — rispose il robot in tono di lieve riprovazione. — Naturalmente potrei farlo, ma la situazione non è ancora disperata. Non soffre. Ho regolato i suoi comandi perché rimanga in una trance profonda. Tuttavia…

— E l’Editrice Razzi? — suggerì Gaspard. — Gli uffici editoriali sono riforniti da un’altra rete. Heloise crede che io sia un tirapiedi degli editori, quindi tanto vale che mi comporti da tirapiedi per davvero e corra dai miei editori.

— Un’ottima idea — rispose il robot, voltando a destra al primo crocicchio e allungando il passo, in modo che Gaspard fu costretto a trottare per seguirlo. Trotterellò con leggerezza, per non dare scossoni alla signorina Blushes. Distesa fra loro, assolutamente immobile, con quelle bruciature alle ginocchia e alle cosce, la robicchia sembrava, agli occhi inesperti di Gaspard, pronta per finire in un mucchio di ferrivecchi.

— In ogni caso — disse — voglio vedere Flaxman e Cullingham. Ho una faccenda da discutere con loro. Voglio sapere perché non hanno cercato di proteggere i loro mulini-a-parole in modo più efficiente, invece di limitarsi ad assoldare un mucchio di guardie di latta del tutto (scusami, Zane) infide. Non è da loro venire meno in questo modo al dovere verso i loro volumetti tascabili.

— Anch’io ho questioni delicate da discutere con i nostri illustri datori di lavoro — disse Zane. — Gaspard, Vecchio Osso, oggi mi sei stato molto utile, ben più di quanto sia il normale dovere di una razza empatica e intelligente verso un’altra che le è affine. Vorrei esprimerti la mia gratitudine in modo più concreto che con le parole. Non ho potuto fare a meno di ascoltare il crudo linguaggio della tua vigorosa e disamorata amica. Ora, questa è una faccenda delicata e non voglio correre il rischio di essere offensivo, ma, Gaspard, Vecchio Corpuscolo, non è assolutamente vero ciò che la signorina Ibsen ha detto, e cioè che i robot siano assolutamente incapaci di offrire certi servizi molto intimi ai maschi umani. Per san Wuppertal, no! Non mi riferisco esattamente alle nostre robicchie e certamente non alla signorina Blushes… perisca tale pensiero, e io preferirei tuffarmi in un bagno d’acido piuttosto di averti indotto a credere a questo! Ma se mai dovessi provare l’impulso e fossi momentaneamente privo dei mezzi per soddisfarlo, e se volessi provare uno sbalorditivo simulacro di umano piacere, una stupefacente e folle amabilità femminile in assoluto, io posso darti l’indirizzo della casa di madame Pneumo, un…

— Zitto, Zane — fece secco Gaspard. — È un aspetto della mia vita di cui posso occuparmi da solo.

— Ne sono sicuro — disse cordialmente Zane. — Vorrei che tutti noi potessimo vantarci della stessa cosa. Scusami, Vecchio Muscolo, ma forse ho toccato inavvertitamente un punto de…

— Sì, — fece brevemente Gaspard. — Ma non importa… — Esitò, poi sogghignò e aggiunse: — Vecchio Bullone!

— Scusami ti prego — disse sottovoce Zane. — Qualche volta mi lascio trasportare dall’entusiasmo per le straordinarie capacità dei miei colleghi metallici e commetto qualche indelicatezza. Sono un po’ robocentrico, temo. Ma sono veramente fortunato perché tu hai reagito con tanta mitezza alla mia offesa. Homer Hemingway mi avrebbe chiamato mezzano di latta.

6

Quando l’ultimo direttore editoriale della Harper fu crivellato di colpi, l’ultimo Antologizzatore della Viking ridotto a un guscio annerito coperto di manifesti, gli scrittori esaltati dalla vittoria ritornarono alle varie caserme da Bohème, ai loro Quartieri Latini e Francesi, ai loro Bloomsbury e Greenwich Village e North Beach, e sedettero in cerchio, felici, ad aspettare l’ispirazione.

L’ispirazione non venne.

I minuti divennero ore, le ore giorni. Interi barili di caffè vennero preparati e bevuti, montagne di mozziconi di sigarette si accumularono sui pavimenti smaltati di nero delle soffitte, dei solai e degli attici garantiti dagli archeologi come perfetti duplicati delle abitazioni degli antichi scrittori. Ma non servì a nulla, la grande epica del futuro e perfino le umili, quotidiane storie del sesso e le saghe spaziali rifiutarono di farsi vive.

A questo punto molti scrittori, ancora seduti in cerchio ma ormai infelici, si presero per mano nella speranza di concentrare l’energia psichica e di accrescere la creatività, o forse addirittura di mettersi in contatto con gli spiriti degli autori morti da molto tempo, che avrebbero dovuto fornirli gentilmente di trame assolutamente inutili nell’aldilà.

Sulla base di misteriose tradizioni filtrate dai lontani giorni oscuri in cui gli scrittori scrivevano veramente, quasi tutti credevano che scrivere fosse una lavoro di squadra, in cui otto o dieci amici, dotati di una certa congenialità, si stendevano in ambienti lussuosi bevendo cocktail e “prendendo a calci le idee” (qualunque cosa significasse quella frase) e ogni tanto venivano rinfrescati dalle premure di bellissime segretarie, fino a che i romanzi e i racconti saltavano fuori: un’immagine che rendeva lo scrivere una specie di partita di calcetto interrotta da periodi di riposo in camera da letto e conclusa da un miracolo.

Oppure, credevano che scrivere dipendesse da un “collegamento con la mente inconscia”, una versione del processo che lo rendeva affine alla psicanalisi e alla trivellazione dei pozzi petroliferi (alla ricerca dell’oro nero dell’id!) e che destava la speranza di sostituire la capacità creativa con una percezione extrasensoria o qualche altra forma di ginnastica psionica.

In ogni caso, stringersi le mani in cerchio sembrò una buona trovata, che avrebbe potuto fornire la necessaria unione e, nello stesso tempo, favorire l’apparizione delle cupe forze psichiche. E di conseguenza fu praticato largamente.

Eppure le idee non venivano.

Il fatto era che nessuno scrittore professionista poteva immaginare come si cominciasse un’opera se non premendo il pulsante d’avvio di un mulino-a-parole; e, per quanto potesse essere meraviglioso, l’uomo dell’Età dello Spazio non era ancora riuscito a farsi germogliare addosso i pulsanti. Poteva solo digrignare i denti per l’invidia nei confronti dei robot, che in quanto a questo erano molto più progrediti.

Molti scrittori scoprirono di non essere assolutamente in grado di disporre le parole sulla carta, in un ordine qualsiasi, o addirittura di non essere in grado di scrivere parole. In una grande epoca di istruzione pittoriale-auditiva-cinestetica-tattile-gustatoria-olfattiva-ipnotica-psionica, non avevano frequentato le speciali lezioni in cui si insegnava quell’arte piuttosto arcaica. Quasi tutti quegli analfabeti si procurarono fonoscriventi, comode macchine che traducevano la parola detta in parola scritta, ma anche con questo aiuto una notevole minoranza dovette rendersi amaramente conto che la propria padronanza del linguaggio parlato non andava molto oltre al Basico Semplificato o al Dialetto Solare. Potevano bere il ricco laudano purpureo della sapiente mescolanza delle parole, ma non potevano più crearlo dentro di sé, più di quanto potessero produrre miele o seta da ragnatela.

Per amore di giustizia, occorre precisare che alcuni dei nonscrittori (puristi come Homer Hemingway) non avevano pensato di cominciare a scrivere personalmente, quando avevano distrutto i mulini-a-parole, presumendo che qualcuno dei loro colleghi meno atletici e più libreschi sarebbe stato in grado di farlo. E pochissimi, fra i quali Heloise Ibsen, avevano soltanto l’ambizione di diventare despoti del sindacato, satrapi dell’editoria o di sfruttare comunque l’enorme caos che sarebbe seguito al Massacro dei mulini-a-parole per il proprio profitto, o almeno per il proprio divertimento.

Ma in maggioranza gli scrittori avevano veramente creduto di essere in grado di scrivere senza aver mai scritto in tutta la loro vita. E adesso soffrivano in proporzione.

Dopo diciassette ore, Lafcadio Cervantes Proust scrisse lentamente: “Deviando, scivolando, girando, salendo più in alto e più alto in tremendi cerchi sempre più larghi…” e si fermò.

Gertrude Colette Sand strinse la lingua fra i denti e scrisse faticosamente: “- Sì, sì, sì, sì, SI — disse la donna”.

Wolfgang Friedrich von Wassermann gemette con tutta la sofferenza del mondo e scrisse: “C’era una volta…”.

Nient’altro.

Nel frattempo, il generale della sussistenza dei Marine dello Spazio ordinò, sul pianeta Plutone, il razionamento dei libri tascabili e dei nastri d’ascolto; sembrava, trasmise per radio, che il prossimo carico di narrativa avrebbe compreso materiale sufficiente soltanto per tre mesi di normale lettura, invece che per quattro anni.

Le consegne delle novità alle edicole terrestri vennero ridotte del cinquanta e poi del novanta per cento, per conservare l’esigua scorta di romanzi scritti e stampati ma non ancora distribuiti. Le massaie che erano abituate a leggere un libro al giorno telefonarono ai sindaci e ai deputati. Alcuni primi ministri, che avevano l’abitudine di leggere un giallo ogni sera prima di addormentarsi, traendone spesso ingegnose idee politiche, assistettero con panico interiore agli sviluppi della situazione. Un ragazzo di tredici anni si uccise “perché i romanzi di avventure sono il mio solo piacere e adesso non ne avrò più”.

I programmi televisivi e i film tridimensionali dovettero essere ridotti nella stessa misura dei libri, poiché, per i copioni e le sceneggiature, dipendevano a loro volta dagli stessi costosissimi mulini-a-parole. L’ultima trovata in fatto di macchine-passatempo, il Motore Poema d’Estasi di Tutti i Sensi, che era ormai in fase avanzata di progettazione, venne accantonato per un tempo indefinito.

Scienziati elettronici e ingegneri cibernetici trasmisero rapporti preliminari riservati, prevedendo che sarebbero occorsi da dieci a quattordici mesi prima di avere di nuovo un mulino-a-parole in grado di funzionare; e facevano capire che i successivi studi al riguardo avrebbero potuto essere ancora più pessimistici. Osservavano che i mulini-a-parole originali erano stati accuratamente modellati su abili scrittori umani, il cui drenaggio psicanalitico condotto in profondità aveva fornito il contenuto dei banchi-memoria dei mulini, e dove si potevano trovare, al giorno d’oggi, scrittori del genere? Anche i Paesi stranieri, dove si parlavano altre lingue, dipendevano quasi completamente dalle traduzioni meccaniche della produzione americana, per la loro narrativa.

L’orgoglioso governo laburista dell’Anglo-America dovette accorgersi, troppo tardi, che, sebbene gli editori fossero stati messi sulle ginocchia, proprio per questo sarebbero stati ben presto impossibilitati a pagare i normali stipendi, per non parlare poi dei ventimila giovani disoccupati che il Dipartimento della Popolazione aveva pensato di accollare loro come meccanici parolai semiqualificati.

E, cosa anche peggiore, la società del Sistema Solare, che di solito era relativamente tranquilla, avrebbe presto cominciato a risentirsi e ad agitarsi per la mancanza di rifornimenti di materiale narrativo fresco.

Il governo fece appello agli editori, e gli editori agli scrittori, chiedendo che per lo meno venissero forniti nuovi titoli sotto i quali spacciare i libri più vecchi, sebbene gli psicologi, consultati in proposito, avvertissero che nonostante le più ciniche previsioni quella misura non avrebbe avuto buon esito. Per qualche ragione, un libro che aveva provocato la massima soddisfazione alla prima lettura, a una rilettura non avrebbe provocato altro che irritazione nervosa.

I progetti per ristampare i classici della narrativa del Ventesimo secolo e di epoche ancora più primitive, sebbene calorosamente appoggiati da pochi idealisti, incontrarono l’inconfutabile obiezione che i lettori abituati fin dall’infanzia alla produzione dei mulini-a-parole avrebbero giudicato insopportabilmente noiosi e addirittura incomprensibili i libri del periodo pre-mulini, anche se ai loro tempi erano stati considerati eccitanti o addirittura audaci. La bizzarra opinione di un umanista, secondo il quale era la produzione dei mulini-a-parole a essere incomprensibile (“oppio verbale privo di significato che non poteva fornire un addestramento alla lettura di testi con un contenuto serio”) non divenne mai, fortunatamente, di dominio pubblico.

Gli editori promisero agli scrittori un’amnistia totale per la loro rivolta, gabinetti separati da quelli dei robot e una percentuale del diciassette per cento, se fossero riusciti a produrre testi di valore pari alla produzione minima del più scalcinato mulino-a-parole: lo Scribacchino Modello 1 dell’Hanover.

Gli scrittori ritornarono a raccogliersi in cerchi, si presero per mano, guardarono l’uno la maschera pallida degli altri, e si concentrarono più disperatamente che mai.

Niente.

7

In fondo al Viale del Lettorato, ben oltre il punto in cui la Strada dei Sogni diventa il Vicolo dell’Incubo, sorgono gli uffici dell’Editrice Razzi, detta Editrice Pazzi dagli intenditori.

Cinque minuti dopo aver preso la decisione di cercare in quel luogo aiuto ed elettricità, Gaspard de la Nuit e Zane Gort stavano portando la barella e il suo snello carico rosato su una scala mobile bloccata che conduceva al reparto dirigenti. Gaspard reggeva ora la parte anteriore della barella e Zane stava all’estremità opposta; il robot si era assunto il compito più faticoso di sorreggere l’estremità della barella ben alta sul suo capo per tenere in posizione orizzontale la signorina Blushes.

— Sembra che la mia idea non fosse molto buona — disse Gaspard. — La corrente manca anche qui. Certamente gli scrittori sono arrivati anche da queste parti, a giudicare dal disordine a pianterreno.

— Avanti, socio — ribatté Zane. — Ho l’impressione che a metà dell’edificio entri in azione l’altra rete elettrica.

Gaspard si fermò davanti a una porta su cui era scritto FLAXMAN e più sotto CULLINGHAM. Piegò il ginocchio e premette un pulsante. Poiché non accadde nulla, sparò un calcio furioso alla porta con la suola della scarpa. La porta si spalancò, rivelando un grande ufficio ammobiliato con lussuosa semplicità. Dietro una doppia scrivania che sembrava fatta di due mezzelune unite (dava l’impressione dell’arco di Cupido), sedevano un uomo basso e bruno che esibiva il vasto sogghigno della efficienza più energica e un uomo alto e biondo che ostentava il lieve sorriso dell’efficienza meno energica. Sembrava che fossero piacevolmente impegnati in una tranquilla conversazione: una occupazione piuttosto strana, notò Gaspard, per due uomini che presumibilmente avevano appena assistito alla rovina della loro ditta. I due si guardarono intorno un po’ sorpresi (l’uomo basso e bruno sussultò lievemente), ma senza dar segno di irritazione.

Gaspard entrò senza dire una parola. A un segnale del robot, deposero delicatamente la barella sul pavimento.

— Credi che potrai occuparti di lei, adesso, Zane? — chiese Gaspard. Il robot toccò con una chela una presa a muro e annuì.

— Finalmente abbiamo trovato l’energia elettrica — rispose. — È quello che mi occorre.

Gaspard si diresse verso la doppia scrivania. E mentre faceva quei pochi passi, udì, sentì e fiutò di nuovo gli spettrali ricordi delle sensazioni provate nelle ultime due ore: gli scrittori che urlavano, le invettive di Heloise, i candelotti esplosivi di Homer, la violenza del pugno del grosso bruto e, soprattutto, il puzzo di bruciato, dei libri incendiati e dei mulini-a-parole distrutti. L’insolito sentimento che ne derivò, l’ira, sembrò a Gaspard il carburante che aveva cercato per tutta la sua vita. Piantò con decisione le palme delle mani sulla grottesca scrivania.

— Ebbene? — disse con voce scarsamente amichevole.

— Ebbene che cosa, Gaspard? — chiese distratto l’uomo basso e bruno. Stava giocherellando con un foglio di carta grigio-argentea, su cui disegnava certi ovoidi dai contorni molto neri, alcuni dei quali erano decorati di nastri e di ricciolini, come uova di Pasqua.

— Voglio dire, dove eravate, voi mentre sfasciavano i vostri mulini-a-parole? — Gaspard sparò un pugno sulla scrivania. L’uomo basso e bruno sussultò di nuovo, non molto forte, però. Gaspard continuò: — Sentite, signor Flaxman. Voi e il signor Cullingham, qui — e accennò con il capo all’uomo alto e biondo — siete l’Editrice Razzi. Per me questo significa molto di più della semplice proprietà: significa responsabilità e lealtà. Perché non eravate giù a battervi per salvare le vostre macchine? Perché avete lasciato questo compito a me e a questo fedele robot?

Flaxman ebbe una risata cordiale e amichevole.

— Voi eravate là, Gaspard? Dalla nostra parte, voglio dire? È stato bello da parte vostra e… grazie! Ma a quanto pare voi avete agito contro quelli che il vostro sindacato ritiene i migliori interessi della vostra professione.

— Professione! — Gaspard pronunciò quella parola come se sputasse. — Sinceramente, signor Flaxman, non capisco perché vogliate insignirla di quel nome, o perché dobbiate comportarvi con tanta magnanimità verso quei sorci impazziti!

— Oh-oh, Gaspard, dov’è la vostra lealtà? Voglio dire, da zazzeruto a zazzeruto?

Gaspard si ricacciò furiosamente dalla fronte le lunghe ciocche ondulate di capelli scuri.

— Lasciate perdere, signor Flaxman. Oh, sono pettinato così, è verissimo, proprio come indosso questa specie di gabbana da scimmiotto italiano, perché fa parte del mio lavoro, è nel mio contratto, è quello che deve fare uno scrittore… proprio come ho cambiato il mio nome in Gaspard de la Nuit. Ma tutto questo ciarpame non mi imbroglia, non credo affatto di essere un lampeggiante genio letterario. Io sono un eccentrico, immagino, un traditore del mio sindacato, se preferisce. Forse voi sapete che mi chiamano Gaspard il matto. Bene, a me piace, perché in fondo al cuore io sono soltanto un uomo da bulloni e da dadi, un meccanismo dei mulini-a-parole, e niente di più.

— Che vi è successo, Gaspard? — chiese Flaxman, meditabondo. — Ho sempre pensato che foste uno scrittore medio e felice, non molto più intelligente degli altri ma molto più soddisfatto, e adesso state predicando come un fanatico che sputa fuoco. Sono sinceramente sbalordito.

— Sono sbalordito anch’io, a pensarci bene — ammise Gaspard. — Credo di aver cominciato a chiedere a me stesso, per la prima volta in vita mia, che cosa mi piace veramente e che cosa non mi piace. E so questo: non sono uno scrittore!

— Questo è veramente strano — commentò animato Flaxman. — Ho fatto osservare più di una volta al signor Cullingham che, nella stereografia sulla controcopertina del vostro libro, in compagnia della signorina Frisky Trisket, voi avete l’aspetto dello scrittore molto più dei nostri drammatici luminari della letteratura… perfino più dello stesso Homer Hemingway. Naturalmente, voi non avete il fascino emotivo che ha la testa rapata di Homer…

— E neppure la sua debolezza intellettuale e il suo posteriore ustionato! — ringhiò Gaspard, tastandosi il gonfiore sulla mascella. — Quell’idiota tutto muscoli!

— Non dovete sottovalutare le teste rapate, Gaspard — intervenne Cullingham, con voce sommessa ma decisa. — Anche Budda aveva la testa rasata.

— Budda un accidente… era Yul Brynner! — grugnì Flaxman. — Sentite, Gaspard, quando vi sarete occupato di queste cose a lungo quanto me ne sono occupato io…

— Al diavolo l’aspetto degli scrittori! Al diavolo gli scrittori! — Gaspard fece una pausa dopo l’esplosione e la sua voce si rinfrancò. — Comunque, mettetevi in testa questo, signor Flaxman. Io amavo veramente i mulini-a-parole. Mi piaceva la loro produzione, sicuro. Ma io amavo le macchine in se stesse. Ecco, signor Flaxman, io so che voi ne possedevate molte, ma vi rendete veramente conto, nel vostro intimo, che ogni mulino-a-parole era unico, era uno Shakespeare immortale, qualcosa di cui non si poteva fare una copia, ed è per questo che da sessant’anni non ne sono più stati costruiti? Tutto ciò che dovevamo fare era aggiungere ai loro banchi-memoria le parole nuove man mano che apparivano nel linguaggio corrente, fornirli di un programma ben standardizzato e poi premere il pulsante di avviamento. Mi chiedo: quanta gente se ne rende conto? Ebbene, se ne accorgeranno abbastanza presto, quando cercheranno di costruire un mulino-a-parole partendo dai rottami, senza che vi sia un solo uomo che comprende l’aspetto creativo del problema… senza un solo vero scrittore. Questa mattina c’erano cinquecento mulini-a-parole nel Viale del Lettorato, e adesso non ne esiste più uno solo nell’intero Sistema Solare… sarebbe stato possibile salvarne tre, ma voi avevate troppa paura per intervenire! Cinquecento Shakespeare sono stati assassinati mentre voi ve ne stavate qui a chiacchierare. Cinquecento immortali geni letterari unici e assolutamente autosufficienti…

Si interruppe perché Cullingham stava ridendo di lui in piccoli scrosci che aumentavano istericamente di intensità.

— State forse irridendo alla grandezza? — domandò Gaspard.

— No! — riuscì a dire Cullingham. — Sono semplicemente perduto nell’ammirazione di un uomo che può prendere un gruppo di macchine da scrivere gigantesche capaci solo d’una creatività psicotica e investirle di tutta la grandezza del Crepuscolo degli Dei.

8

— Gaspard — proseguì la metà più alta e più magra dell’Editrice Razzi, quando ebbe recuperato il controllo di sé — senza dubbio voi siete l’idealista più fanatico che si sia mai cacciato in un sindacato conservatore. Atteniamoci ai fatti: i mulini-a-parole non sono robot, non sono vivi: parlare di assassinio è semplice poesia. Gli uomini costruirono i mulini-a-parole, gli uomini li diressero. Sì, gli uomini, e io fra loro, come ben sapete, controllavano le buie, infinite connessioni elettroniche nel loro interno, proprio come gli antichi scrittori dovevano dirigere le attività della loro mente inconscia… di solito in modo molto inefficiente.

— Be’, per lo meno quegli antichi autori avevano menti inconsce — disse Gaspard. — Non sono certo che noi le abbiamo. Certamente non abbiamo menti inconsce abbastanza ricche da servire come modelli ai nuovi mulini-a-parole e da riempire i loro banchi-memoria.

— Eppure, questo è un punto molto interessante — insistette blandamente Cullingham — ed è importante tenerlo presente, qualsiasi siano i mezzi su cui dovremo ripiegare per fronteggiare l’approssimarsi d’una carestia narrativa. Molta gente crede che i mulini-a-parole siano stati inventati e adottati dagli editori perché la mente d’un solo scrittore non poteva più contenere l’enorme quantitativo di materiale grezzo necessario per produrre una convincente opera narrativa, poiché il mondo e la società umana e le sue infinite specializzazioni erano diventati così complessi che una sola persona non poteva comprenderli. Sciocchezze! I mulini-a-parole furono adottati perché erano più efficienti dal punto di vista editoriale.

“Verso la fine del Ventesimo secolo, quasi tutta la narrativa era scritta da pochi, formidabili direttori editoriali, nel senso che fornivano i temi, le trame grezze, lo stile, i colpi di scena. Gli scrittori si limitavano a riempire questi schemi. Naturalmente, una macchina che poteva venire acquistata e tenuta in un determinato posto era incomparabilmente più efficiente di una scuderia di scrittori che galoppavano in giro, cambiando editori, organizzando sindacati e leghe, chiedendo diritti d’autore sempre più alti, procurandosi psicosi e macchine sportive e amichette costose e figli neurotici, facendosi venire crisi ogni tanto e addirittura tentando di infilare bizzarre concezioni personali nelle vicende perfezionate dai direttori editoriali.

“In realtà, i mulini-a-parole erano tanto più efficienti degli scrittori che questi ultimi potevano essere conservati come un innocuo motivo di richiamo… ma naturalmente a quell’epoca, ormai, i sindacati degli scrittori erano così potenti da rendere impossibile questo compromesso.

“Tutto questo serve a mettere in rilievo la questione principale : le due attività che riguardavano lo scrivere sono oggi l’inconscio, quotidiano lavoro di mescolatura e la direzione o programmazione ispirata. Queste due attività sono completamente distinte ed è meglio che vengano compiute da due persone o meccanismi distinti. In realtà il nome del genio direttivo, che oggi è chiamato programmatore invece che direttore editoriale, dovrebbe sempre apparire, per amore di giustizia, su ogni volumetto e su ogni nastro d’ascolto insieme a quelli dell’autore e del mulino-a-parole… Ma mi sto allontanando troppo dall’argomento che intendevo sottolineare, e cioè che la suprema forza direttiva è sempre rappresentata da un uomo”.

— Forse, signor Cullingham — disse controvoglia Gaspard. — E voi eravate un bravo programmatore, lo ammetto, se la programmazione è difficile e importante come voi sostenete… del che francamente io dubito. I programmi fondamentali non furono creati nello stesso tempo in cui furono costruiti i mulini-a-parole? — Cullingham scosse il capo, poi scrollò lievemente le spalle. — Comunque — continuò Gaspard — penso sempre che il Maestro Parolaio della Whittlesey scrisse una volta, senza bisogno di programmazione, tre romanzi seri e un romanzo di fantascienza che si vendettero magnificamente. Forse questa è stata una invenzione dell’ufficio pubblicità, direte voi, ma io crederò il contrario fino a che non ne avrò avuto le prove. — Il tono amaro ritornò nella sua voce. — Proprio come crederò che i miei colleghi sappiamo scrivere libri quando li avrò letti e sarò arrivato a pagina due. Hanno fatto la voce grossa per mesi interi, ma io aspetterò fino a che il succo comincerà veramente a scorrere e le parole cominceranno a fioccare.

— Scusate, Gaspard, — intervenne Flaxman — ma vi dispiacerebbe abbassare il tono sentimentale e alzare il tono concreto? Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sullo sconquasso nel Viale. Cos’è successo alle proprietà della Razzi, per esempio?

Gaspard si raddrizzò con una smorfia.

— Ecco — disse, semplicemente — tutti i vostri mulini-a-parole sono rovinati… rovinati in modo che non è possibile ripararli. Tutto qui.

— Ts, ts — fece Flaxman, scuotendo il capo.

— Spaventoso — fece eco Cullingham.

Gaspard guardò prima l’uno poi l’altro dei due soci con profondo e confuso sospetto. I loro deboli sforzi per mostrarsi preoccupati riuscivano soltanto a dare loro l’aria di due grossi gatti satolli di panna rubata, che nascondessero sotto la pelliccia la mappa del passaggio segreto che portava al frigorifero del macellaio.

— Mi capite, voi due? — disse. — Ve lo dirò chiaro. I vostri tre mulini-a-parole sono stati distrutti… uno con una bomba, due con i lanciafiamme. — E spalancò gli occhi mentre ricordava la scena. — È stato un assassinio, signor Flaxman, uno spaventoso omicidio. Ricordate quello che noi chiamavamo Rocky? Rocky il Fraseggiatore? Era soltanto un vecchio Cervello Elettronico per Libri Rilegati della Harper, ricostruito nello 07 e nel 49, ma io non mi sono mai lasciato sfuggire uno dei suoi libri… ebbene, ho dovuto vedere il vecchio Rocky annerirsi, contorcersi e sfrigolare. E il nuovo amico della mia ragazza era quello che manovrava la canna del lanciafiamme!

— Ts, ts. Il nuovo amico della vostra ragazza — disse Flaxman, cercando di mostrarsi sollecito e, nello stesso tempo, di sogghignare. La sua compostezza e quella di Cullingham erano senza dubbio innaturali.

Gaspard annuì furioso.

— Il vostro grande Homer Hemingway, fra l’altro! — scattò cercando di provocare in qualche modo una reazione. — Ma Zane Gort gli ha scottato il fondo dei pantaloni.

Flaxman scosse il capo.

— Questo è un mondo malvagio — disse. — Gaspard voi siete un eroe. Finché tutti gli altri scrittori sono fuori causa, vi terremo, pagandovi il quindici per cento delle tariffe sindacali. Ma non mi piace che uno dei nostri robot abbia fatto del male a un umano. Ehi, Zane!… come robot indipendente dovrete pagare le spese, se vi sarà una causa contro l’Editrice Razzi. È nel vostro contratto.

— Homer Hemingway si era meritato ogni colpo che Zane gli ha dato — protestò Gaspard. — Quel sadico bruto ha usato il lanciafiamme contro la signorina Blushes.

Cullingham li guardò con aria interrogativa.

— La robicchia rosa che hanno portato qui Zane e Gaspard — spiegò Flaxman. — La nostra ispettrice, la nuova robicchia della censura governativa. — Scrollò il capo, sogghignando. — Così adesso, la verità nuda e cruda è che abbiamo una censoressa e nessun testo da censurare. Si può immaginare una ironia maggiore? È una dannata faccenda, questo sì. Credevo che conoscessi la signorina Blushes, Cully.

In quel momento una voce alta e dolce si levò dietro di loro, stridente ma sognante.

— Discutere l’espressione “verità nuda e cruda”. Cancellare “dannata”. Sostituire “conoscessi” con “fossi stato presentato a”. Oh, povera me, dove sono? Cosa mi succede?

La signorina Blushes si era levata a sedere e faceva scattare le chele. Zane Gort si stava inginocchiando accanto a lei e le passava teneramente un tampone umido sul fianco ustionato: la spiacevole alterazione del colore era quasi scomparsa. Poi Zane ripose il tampone in uno sportellino che aveva sul petto e sorresse con un braccio la robicchia.

— Dovete stare tranquilla — disse. — Tutto andrà per il meglio. Siete fra amici.

— Davvero? Come posso esserne sicura? — La robicchia si allontanò da Zane, si tastò e richiuse frettolosamente molti minuscoli sportelli. — Oh, che cosa mi avete fatto! Io ero qui distesa, così in mostra! Quegli umani mi hanno visto con tutte le mie prese scoperte!

— Era necessario — le assicurò Zane. — Avevate bisogno di elettricità e di altre attenzioni. Avete corso un serio pericolo. Adesso dovete riposare.

— Altre attenzioni, proprio! — strillò la signorina Blushes. — Cosa intendete con questo, offrire di me uno spettacolo scandaloso?

— Credetemi, signorina — si intromise Flaxman — noi siamo gentiluomini… non vi abbiamo guardata di straforo… anche se devo dire che siete una robicchia estremamente attraente: se i libri di Zane avessero copertine, vi chiederei di posare per esse.

— Sì, con le prese scoperte e i tappi dell’olio svitati, immagino! — disse rabbrividendo la signorina Blushes.

9

Nella Sala della Strigliatura del suo attico, rifinito con una plastica che simulava pannelli di nodoso legno di pino, Heloise Ibsen stava ungendo il posteriore leso di Homer Hemingway.

— Vai piano, pupa, mi fa male — ordinò il corpulento scrittore.

— Non fare il pupo anche tu — gli ordinò di rimando la scrittrice, piccatissima.

— Aah, così va meglio. Adesso il lenzuolo di seta, pupa.

— Fra un attimo. Cielo hai una bella figura, Homer. Mi basta guardarti per sentire un certo non so che.

— Davvero pupa? Senti penso che fra cinque minuti berrei volentieri un latte caldo.

— Al diavolo il latte. Davvero, sento un certo non so che. Homer, facciamo… — e gli mormorò all’orecchio un suggerimento.

Il grosso scrittore si scostò.

— No, pupa! Prima devo riprendere l’allenamento. Una faccenda del genere sfibra un individuo. E non soffiarmi più nelle orecchie in questo modo… mi fai diventare sordo. — È poggiò la guancia sul dorso delle mani. — Per giunta non sono dell’umore adatto.

Heloise balzò in piedi e cominciò a camminare su e giù sul pavimento di plastica.

— Cielo, sei peggio di Gaspard. Lui era sempre dell’umore adatto, anche se poi non era troppo in gamba.

— Smettila di pensare a quel piccolo sorcio — la scongiurò Homer, con voce un po’ assonnata. — Hai visto come l’ho conciato, no?

Heloise continuò a camminare.

— Gaspard era un sorcio — disse, analiticamente — ma aveva del cervello sia pure a secrezione lenta, altrimenti non sarebbe riuscito a nascondermi che era un tirapiedi degli editori. E non sarebbe mai diventato tirapiedi degli editori se non avesse capito che quello gli avrebbe reso di più che rimanere con il sindacato. Gaspard era pigro, ma non era matto.

— Senti l’ultima pupa che ho avuto aveva l’abitudine di portarmi il latte caldo al momento giusto — l’interruppe. Homer, dal lettuccio dei massaggi.

Heloise affrettò il passo.

— Scommetterei che Gaspard ha saputo da Flaxman e da Cullingham di qualche trucco che l’Editrice Pazzi ha escogitato per battere noi scrittori… e per battere anche gli altri editori, contemporaneamente. Ecco perché l’Editrice Pazzi non ha mai cercato di proteggere i suoi mulini-a-parole. Scommetterei che. quel piccolo tirapiedi adesso è nell’ufficio di Flaxman e Cullingham e ride di tutti noi.

— E quella pupa che mi portava il latte non perdeva tempo a camminare avanti e indietro parlando da sola — continuò Homer.

Heloise si fermò e lo guardò.

— Be’, certamente non passava molto del suo tempo su un letto a toglierti la tua essenza vitale, immagino. Mettitelo bene in mente, Homer, non ho intenzione di appendermi in un armadio né di sedermi vicino al fornello a scaldarti il poppatoio, anche se lo faceva la tua ultima apprendista-compagna-di-giochi dai fianchi di nanerottola. Quando ti sei messo con me, Homer, ti sei messo con una donna che è tutta donna.

— Già, lo so, pupa — rispose Homer, riscaldandosi un po’ — E tu ti sei messa con un vero uomo.

— È quel che mi domando — disse Heloise. — Ti sei lasciato picchiare da quel robot amico di Gaspard come se fossi un bambino.

— Non sei giusta, pupa — protestò Homer. — Quei negri di latta potrebbero uccidere anche l’uomo più forte del mondo. Farebbero a pezzi Ercole… o qualsiasi eroe dei vecchi film.

— Credo di sì — dissi Heloise. E si avvicinò al lettuccio. — Ma non ti piacerebbe picchiare di nuovo Gaspard per ripagarti di quello che ti ha fatto il robot? Andiamo, Homer, chiamerò i miei scagnozzi e andremo subito ad attaccare l’Editrice Pazzi. Voglio vedere la faccia di Gaspard quando tu entrerai.

Homer considerò la proposta per due interi secondi. Poi disse: — Nooo, pupa. Devo guarire. Pesterò di nuovo Gaspard fra tre o quattro giorni, se vuoi che lo faccia.

Heloise si tese verso di lui.

— Voglio che tu lo faccia subito — incalzò. — Prenderemo con noi delle corde, legheremo Flaxman e Cullingham e li terrorizzeremo.

— Cominci a interessarmi, pupa; mi piacciono i giochetti in cui tu leghi gli uomini.

Heloise ebbe una profonda risata gutturale.

— Anche a me — disse. — Una volta o l’altra ti legherò su questo lettino.

Il grosso scrittore si gelò.

— Non essere volgare, pupa.

— Bene, e allora, cosa facciamo con l’Editrice Pazzi? Andiamo o non andiamo?

Il tono di Homer era altezzoso.

— La risposta è negativa, pupa.

Heloise scrollò le spalle.

— Bene… se non vuoi, non venire. — E ricominciò a camminare avanti e indietro. — Non mi sono mai veramente fidata di Gaspard — disse, parlando al muro. — Si era lasciato affascinare dalla produzione letteraria e aveva una cotta per i mulini. Come fai a fidarti di uno scrittore che legge tanto e che non finge neppure di voler scrivere un libro da solo?

— E tu pupa? — intervenne Homer. — Hai intenzione di scrivere un libro da sola? Almeno io potrei fare un sonnellino.

— Non adesso. Sono troppo eccitata. Ma ricordami di dire ai ragazzi di noleggiarmi una fonoscrivente. Scriverò il libro domani pomeriggio.

Homer scosse il capo.

— Non capisco i tipi che credono di saper scrivere i libri. Con le ragazze è diverso… ci si aspetta qualsiasi pazzia. Ma con gli uomini, posso mettermi al loro posto e proprio non capisco. Quindi vorrei sapere: credono di essere costruiti come mulini-a-parole, pieni di fili d’argento e di relais e di banchi-memoria, invece di essere pieni di buoni, vecchi muscoli? Può andare bene per un robot, ma per un uomo è una cosa morbosa.

— Homer — disse dolcemente Heloise, senza smettere tuttavia di camminare avanti e indietro, — un essere umano ha un sistema nervoso molto complicato e un cervello con miliardi e miliardi di cellule nervose.

— È così, pupa? Dovrò occuparmene un giorno o l’altro. — E il suo viso si fece serio. — Ci sono tante cose al mondo. Cose misteriose. Come quell’offerta di lavoro che ho avuto dalle conserve Baia Verde… in occasioni come questa mi tenta.

— Su, Homer — disse seccamente Heloise. — Ricordati che sei uno scrittore.

Homer annuì con un sorriso felice.

— Infatti, pupa. E ho il fisico migliore fra tutti gli autori. C’è scritto sulle copertine dei miei libri.

Heloise ricominciò a parlare con il muro, mentre camminava. — Parlando di robot, Gaspard era un amatore di robot, oltre ad avere altri vizi. Amava i libri, amava i robot, amava i mulini-a-parole, amava gli editori, amava anche le donne, quando ne aveva tempo. E amava la comprensione anche. Si imbottiva di comprensione. Ma non ha mai compreso l’azione per amore dell’azione.

— Pupa, come fai ad avere tanta energia? — si lagnò meditabondo Homer. — Dopo questa mattina dovresti essere sfinita. Io lo sono anche senza contare le mie ferite.

— Homer, una donna dispone di risorse che un uomo non ha — disse saggiamente Heloise. — Specialmente una donna delusa.

— Già, lo so, pupa. Ha uno strato di grasso che la tiene calda quando fa lunghe nuotate. E l’utero femminile è più forte di qualsiasi muscolo maschile.

— Puoi scommetterci, codardo — disse Heloise, ma Homer sembrava perduto in un sogno.

— Qualche volta mi domando… — cominciò lui, senza concludere.

— … se non c’è un modo per sfruttare la sua energia per combinare qualcosa? — finì Heloise per lui.

— Adesso mi prendi in giro, pupa — disse serio Homer. — Senti, visto che hai tanta energia, perché non vai al quartier generale o alla Parola per tenerti in contatto? Il Comitato d’Azione avrà qualcosa da farti fare. O almeno puoi raccontare i tuoi guai. Io preferisco riposare.

— Quel Comitato d’Azione non è abbastanza attivo per i miei gusti — disse Heloise. — E non intendo affatto riferire le mie idee sulla Editrice Pazzi a quegli animali del sindacato. Tuttavia — continuò, guardando Homer dritto negli occhi — mi hai dato un’ispirazione. — E cominciò a togliersi camicia e pantaloni.

Homer si voltò ostentatamente, preparandosi a ricevere un bacio sulla nuca. Ma il bacio non arrivò. Alla fine,attratto da un lieve tintinnio, si girò e vide Heloise che indossava un paio di pantaloni grigi e una camicetta scollata nera, a maniche lunghe. Si stava allacciando attorno al collo una bizzarra collana che lanciava pallidi scintillii grigi.

— Ehi, non l’avevo mai vista — osservò Homer. — Cosa sono, noci d’argento?

— Non sono noci — disse cupa Heloise. — Sono piccoli teschi umani. È la mia collana da caccia.

— Molto morboso, pupa, — si lagnò Homer. — Per andare a caccia di che cosa?

— Di pupi — rispose perversamente Heloise. — Pupi maschi da novanta chili, con una trentina in più o in meno. Io ho rinunciato agli uomini. Su, non offenderti, Homer — aggiunse con prudenza — non alludevo a te. — Si accostò, piantandosi accanto al lettuccio. — Homer — disse solennemente — devo dirti qualcosa. Volevo lasciarti riposare e guarire e riprendere l’allenamento, ma temo che non sarà possibile. Homer, io ho avuto informazioni segrete ma attendibili secondo le quali l’Editrice Pazzi ha un asso nella manica per produrre libri senza bisogno dei mulini-a-parole. So con certezza che in questo momento Flaxman e Cullingham stanno assumendo tutti gli scrittori più quotati portandoli via agli altri editori per farne gli autori di quei libri. Solo gli scrittori della Editrice Pazzi avranno il loro nome in copertina. Tu vuoi veramente rimanere tagliato fuori?

Homer Hemingway balzò giù dal lettuccio come un razzo che scattasse dal suo balipedio.

— Dammi la mia divisa di marinaio mediterraneo, quella sciupata dal vento con le ombre violette, pupa, — ordinò rapidamente il grosso scrittore, con la fronte aggrondata dal pensiero. — E le mie scarpe di tela sporca. E il mio berretto da capitano tutto ammaccato! Presto!

— Ma, Homer — protestò Heloise, sconcertata dalla portata del successo del suo stratagemma — e il tuo deretano ustionato?

— Nella mia Sala Medica, pupa — l’informò il maestro scrittore, pieno di risorse — ho un para-didietro trasparente, ventilato, adesivo, aderente, plastico progettato proprio per questi casi di emergenza.

10

— Allora, Zane Gort — disse allegramente Flaxman — Gaspard mi dice che vi siete comportato da eroe nella tragedia dei mulini-a-parole.

L’atmosfera dell’ufficio si era allentata notevolmente da quando la signorina Blushes si era allontanata per rassettarsi nella toeletta delle signore, dopo aver lanciato una frecciata finale all’indirizzo degli editori troppo tirchi per provvedere a una sala di riposo esclusivamente per le robicchie.

Il piccolo editore bruno si calmò.

— Deve essere stato duro per voi, però, aver dovuto assistere al linciaggio delle macchine vostre consorelle.

— Francamente no, signor Flaxman — rispose senza esitazione il robot. — La verità è che non mi sono mai piaciuti i mulini-a-parole e le altre macchine pensanti tutte cervello e niente corpo, incapaci di muoversi. Non hanno coscienza, solo una creatività cieca: brandiscono i simboli come badili e tessono le parole come se fossero lana. Sono mostruose e mi fanno paura. Voi le avete chiamate mie consorelle, ma per me sono nonrobotiche.

— È strano, se si considera che anche i mulini-a-parole sono scrittori come voi.

— Non è affatto strano, signor Flaxman. È vero sono uno scrittore. Ma io sono un lupo solitario, uno scrittore autonomo e indipendente come gli scrittori umani dei vecchi tempi, prima dell’Età dei direttori editoriali di cui ha parlato il signor Cullingham. Come tutti i liberi robot io sono autoprogrammato, e poiché non ho mai scritto altro che vicende di robot per i robot, non ho mai lavorato sotto la direzione editoriale degli umani… non che questo non sarebbe stato bene accetto, in certe circostanze. — Fece le fusa in modo affascinante all’indirizzo di Cullingham, poi girò intorno, pensoso, il suo unico occhio scuro. — In circostanze come le attuali, signori… ora che i vostri mulini-a-parole sono stati distrutti e che i vostri scrittori umani sono di dubbia qualità e che noi robot autori siamo gli unici narratori esperti rimasti nel Sistema Solare…

— Ah, sì, i mulini-a-parole sono stati distrutti — disse Flaxman con un ampio sogghigno diretto a Cullingham, fregandosi le mani.

— Io sarei prontissimo ad accettare la guida del signor Cullingham, per quello che riguarda i sentimenti umani — continuò pronto il robot — e a permettere che il suo nome figuri insieme al mio, nello stesso corpo e nello stesso carattere: di Zane Gorte G.K. Cullingham… mi pare che vada bene. E anche le nostre fotografie in controcopertina. Senza dubbio gli umani comincerebbero ad amare gli autori robot se avessero dei co-autori umani… almeno all’inizio. E in ogni caso noi robot siamo molto più vicini agli umani di quanto non lo siano mai stati i mulini-a-parole.

— Ehi, aspettate un momento, tutti quanti! — Il comando di Gaspard fu un ruggito che fece rabbrividire Flaxman e corrugare rapidamente la fronte di Cullingham. Lo scrittore si guardò intorno come uno snello orso irsuto. Si sentiva di nuovo furioso, furioso per il mistero del contegno innaturale di Flaxman e di Cullingham e, come prima, il suo furore fu il combustibile che gli diede l’energia per esplodere davanti a quei misteri. — Silenzio, Zane! — grugnì. — Sentitemi, signor F. e signor C, ogni volta che qualcuno parla della distruzione dei mulini-a-parole, voi due vi comportate come se foste seduti a tavola per il pranzo di Natale. Onestamente, se non sapessi che i vostri mulini sono stati distrutti insieme agli altri, giurerei che voi due imbroglioni…

— Ehm-ehm, Gaspard.

— Non prendetemi in giro! Oh, lo so, tutto per la Vecchia Editrice Razzi, noi siamo tutti eroi e voi siete due santi, ma la verità non cambia. Stavo per dire che avrei giurato che voi due, signori editori, avete combinato tutto il massacro. Magari a costo di coinvolgere l’Editrice Razzi… Ditemi… c’entrate davvero?

Flaxman si dondolò, sogghignando.

— Noi simpatizziamo, Gaspard. Sì, mettiamola così, noi abbiamo simpatizzato con voi scrittori, con i vostri ego feriti e con i vostri impulsi verso l’autoespressione. Non abbiamo dato un aiuto attivo, naturalmente, ma… abbiamo simpatizzato.

— Con un branco di zazzeruti urlanti? No, voi dovete avere in mente qualcosa di molto pratico. Lasciatemi pensare. — Si tolse dalla tasca della giacca da casa la pipa di schiuma e cominciò a riempirla, poi buttò pipa e borsa del tabacco sul pavimento. — Al diavolo l’atmosfera, ormai! — disse, tenendo una mano attraverso la scrivania. — Datemi una sigaretta!

Flaxman fu colto di sorpresa, ma Cullingham si tese in avanti ed esaudì tranquillamente la richiesta.

— Vediamo — disse Gaspard, aspirando una profonda boccata. — Forse voi avete veramente in testa questo piano pazzesco… scusami, Zane… di fare scrivere ai robot i libri per gli umani… no, non andrà bene, perché in pratica qualsiasi altra fabbrica di narrativa pubblica libri di robot e ha nella sua scuderia uno o più robot, tutti ansiosi di conquistare altri e più vasti campi…

— Vi sono robot autori e robot autori — osservò Zane Gort in tono lievemente offeso. — Non tutti sono così adattabili e pieni di risorse, e hanno una così vasta comprensione verso gli esseri nonrobotici…

— Zitto, ti ho detto. No, deve esserci qualcosa che la Razzi ha e che le altre fabbriche di narrativa non hanno. Mulini-a-parole nascosti? No, l’avrei saputo, nessuno può imbrogliarmi in una faccenda del genere. Una scuderia segreta di scrittori, che sappiano veramente scrivere qualcosa che si avvicini per qualità alla produzione dei mulini? Lo crederò quando Homer Hemingway imparerà l’alfabeto. Ma cosa, allora? Creature extraterrestri? Facoltà extrasensorie? Scrittori automatici sintonizzati con l’Infinito…? Psicopatici di genio sotto una specie di direzione…?

Flaxman tornò a dondolarsi.

— Glielo diciamo, Cully?

L’uomo alto e biondo rifletté a voce alta.

— Gaspard crede che siamo due imbroglioni, ma è fondamentalmente leale verso l’Editrice Razzi. — A questo punto Gaspard annuì con una smorfia. — Abbiamo pubblicato su filo tutte le opere epiche di Zane, da Acciaio nudo a Il mostro del ciclotrone nero. Ha tentato due volte di cambiare editore… — A questo punto Zane Gort si mostrò lievemente sorpreso. — E ogni volta non c’è riuscito. In ogni caso, avremo bisogno di aiuto per preparare le copie per la stampatrice. La risposta è sì: vai avanti Flaxie.

Il suo socio tornò a dondolarsi ed esalò un profondo respiro. Poi sollevò il ricevitore del telefono.

— Datemi la Nursery.

Guardò Gaspard sorridendo.

— Qui parla Flaxman! — abbaiò all’improvviso nel microfono. — Signorina Bishop? Oh, non è la signorina Bishop? Bene, cercatela.

— Fra l’altro, Gaspard, — disse, di malumore, — voi avete dimenticato un’altra possibilità: un mucchio di testi preparati in anticipo.

Gaspard scosse il capo.

— L’avrei saputo se aveste fatto fare gli straordinari ai mulini-a-parole.

Gli occhi di Flaxman si accesero.

— Signorina Bishop? Sono Flaxman. Portatemi un cervello. Con il ricevitore ancora accostato alla guancia, sorrise di nuovo a Gaspard come per aguzzare la sua curiosità.

— No, un cervello qualunque — disse con leggerezza nel microfono, e fece per riattaccare.

— Cosa c’è ancora? No, non c’è nessun pericolo, le strade sono libere. Bene, fatelo portare da Zangwell… D’accordo, portatelo voi e Zangwell vi farà da guardia del corpo. Be’, se Zangwell è veramente tanto ubriaco…

Mentre ascoltava il suo sguardo si spostò da Gaspard a Zane Gort. Quando tornò a parlare, lo fece con l’abituale decisione.

— D’accordo, facciamo così. Io vi mando due tizi, uno di carne e uno di metallo, che vi accompagneranno qui. No, sono assolutamente fidati, ma non gli racconti tutto. Oh, sono coraggiosi come leoni, sono quasi morti per difendere i nostri mulini-a-parole, e stanno spargendo sangue e olio per tutto l’ufficio. No, non sono ridotti fino a questo punto, anzi, hanno voglia di un altro tafferuglio. Ascoltatemi, signorina Bishop. Voglio che siate pronta a muovervi non appena i due arriveranno. Nessun indugio all’ultimo momento, mi avete capito? Voglio in fretta quel cervello. Riattaccò.

— È preoccupata per i rivoltosi — spiegò. — Pensava che ci fossero ancora degli scrittori a imperversare lungo il Viale. È il tipo di donna che va a guardare sotto i lettini e controlla i pannolini da tutte e due le parti. — E guardò Gaspard. — Conoscete la Saggezza delle Età?

— Sicuro, ci passo davanti tutti i giorni. È a un paio di isolati da qui. È un posticino molto lindo. Nessuna attività.

— E perché pensate così?

— Non so. Credo che ci sia una casa editrice nascosta. Non ho mai visto il loro nome nei cataloghi, però. Mai visto il loro nome da nessuna parte… ehi, aspettate un momento! Quel grosso sigillo d’ottone a pianterreno, nel bel mezzo dell’atrio. C’è scritto Editrice Razzi, e poi, in caratteri più piccoli con molti fregi …in società con la Saggezza delle Età. Ehi, dico, non avevo mai messo in relazione questa faccenda prima.

— Be’, questo mi sorprende — disse Flaxman. — Uno scrittore dotato di spirito di osservazione. Non avrei mai creduto di vivere abbastanza a lungo da vederne uno. Andate subito alla Saggezza insieme a Zane e sollecitate la signorina Bishop. Può darsi che dobbiate accenderle il fuoco sotto per farla muovere, ma non bruciatele l’orlo della gonna.

— Avete parlato di Nursery al telefono — disse Gaspard.

— Infatti. È la stessa cosa. Adesso andate.

Gaspard esitò.

— Probabilmente vi sono ancora degli scrittori che imperversano nei dintorni — disse — oppure potrebbero essere in giro per una seconda azione.

— E questo dovrebbe turbare due eroi come voi? Andate, ho detto.

Mentre Gaspard si avviava verso la porta, quella si spalancò. Flaxman sussultò. Ritta sulla soglia c’era una donna vestita di nero, dal volto macchiato di lagrime.

— Scusatemi, signori, — disse con voce sommessa, — ma mi hanno detto di rivolgermi qui. Per favore avete visto un uomo alto e aitante e un bel ragazzino. Questa mattina presto sono andati a vedere un mulino-a-parole. Erano vestiti, tutti e due, di abiti turchesi con splendidi bottoni di opale.

Gaspard stava passando dubbioso davanti alla donna quando lei disse questo. In quel momento uno strillo da spaccare i timpani giunse dall’estremità del corridoio.

La signorina Blushes era ritta davanti alla toeletta per le signore, con le chele strette alle rosee tempie anodizzate. Poi cominciò a correre a passo rapido, con le chele protese verso la donna, gridandole con voce dolce e triste: — Mia cara, mia cara, preparatevi a una brutta notizia!

Mentre Gaspard si lanciava, sollevato, lungo la scala mobile bloccata, fu seguito non soltanto da Zane ma anche dal grido ammonitore di Flaxman:

— Ricordate, la signorina Bishop sarà nervosa! Dovrà portare un cervello!

11

La stanza priva di finestre era immersa nell’oscurità, a eccezione di una mezza dozzina di schermi televisivi piazzati in apparenza a casaccio. Le immagini che apparivano sugli schermi erano insolitamente belle: stelle e astronavi, parameci e persone, e semplici pagine stampate. Gran parte dello spazio centrale della stanza e un’intera parete erano occupate da tavoli su cui stavano gli schermi televisivi e altri oggetti e strumenti. Le restanti tre pareti erano coperte irregolarmente da piccoli sostegni di varia altezza (simili a piccole, solide colonne) su ognuno dei quali era posato, sopra un liscio, spesso cercine nero, un uovo, più grande di una testa umana, fatto di argento nebuloso.

Era uno strano argento. Faceva pensare alla nebbia e al chiaro di luna, a fini capelli bianchi, a una sterlina alla luce di candela, a boccette di profumo, agli antichi stanzini della cipria, allo specchio d’una principessa, alla maschera di un Pierrot, all’armatura d’un principe-guerriero.

La stanza emanava rapidamente varie impressioni: per un momento sembrava una bizzarra incubatrice, un incubatore di robot uscito da una favola, la tana di uno stregone pieno di spaventosi trofei lebbrosi, la sala dei ritratti di uno scultore in argento; poi si aveva l’impressione che gli ovoidi argentei fossero veramente le teste di esseri d’una specie metallica, reclinate in silenziosa comunione.

Quest’ultima illusione era intensificata dal fatto che accanto alla base di ogni uovo, che era sempre l’estremità minore, c’erano tre incavi più scuri, due in alto e uno in basso, che davano l’impressione d’un rudimentale triangolo occhi-bocca sotto una amplissima fronte liscia. Quando ci si avvicinava, si notava che si trattava semplicemente di tre prese. Molte di quelle prese erano libere, in altre erano innestate spine con fili elettrici collegati ad altri strumenti. Gli strumenti erano di vario tipo, ma se si osservava il tutto per qualche minuto, si scopriva che la presa superiore destra (considerando la cosa dal punto di vista dell’uovo) non era mai collegata se non a certe minuscole telecamere; la presa superiore sinistra era collegata a una specie di microfono o ad altre sorgenti di suoni; mentre la presa al posto della bocca portava sempre a un piccolo altoparlante.

C’era una sola eccezione a questa regola: in qualche caso la presa-bocca di un uovo era direttamente collegata alla presa-orecchio (quella superiore sinistra) di un altro uovo. In questi casi era sempre la connessione complementare: da orecchio a bocca e da bocca a orecchio.

Un esame ancora più attento avrebbe mostrato alcune linee sottilissime e lievi infossature sulla sommità delle uova. Le linee sottili descrivevano un grande cerchio con al centro un cerchio molto più piccolo… quasi a voler fare pensare a una doppia fontanella. Le due infossature facevano capire che ogni sezione circolare poteva essere svitata e tolta con il pollice e l’indice.

Se si toccava uno di quegli ovoidi argentei (ma c’era da esitare, prima di farlo) per un momento si aveva l’impressione che fosse caldissimo, poi ci si accorgeva che non era freddo come ci si aspettava: la sua temperatura era vicina a quella del sangue umano. E se avevi i polpastrelli sensibili alle vibrazioni e li posavi per qualche tempo sul metallo liscio, potevi sentire un fievole, costante pulsare che aveva lo stesso ritmo del battito del cuore umano.

Una donna che indossava un camice bianco aveva appoggiato il fianco sinistro contro l’orlo di una delle tavole, tenendo il torso rilassato e la testa china, come se si riposasse per un attimo. Era difficile indovinare la sua età a causa della semioscurità e della maschera bianca che le copriva il volto, al di sotto degli occhi. Appeso al fianco, appoggiato all’anca, sorretto da una cinghia e tenuto saldo dalla mano sinistra, c’era un grosso vassoio. Sul vassoio c’era una fila di ciotole di vetro piene di un limpido liquido aromatico. In metà di quelle ciotole stavano immersi spessi dischi di metallo filettati attorno alla circonferenza. Avevano lo stesso diametro delle fontanelle minori delle uova argentee.

Sulla tavola, vicino alla testa china della donna, c’era un microfono collegato a un uovo un po’ più piccolo degli altri. Un altoparlante era collegato alla presa-bocca dell’uovo.

Cominciarono a parlare, l’uovo in toni fissi e ronzanti, come se fosse in grado di controllare le sue parole e la loro cadenza ma non il timbro o il ritmo interiore, la donna in una debole cantilena quasi altrettanto monotona.

DONNA: Dormi, dormi, piccolino.

UOVO: Non so dormire. Non dormo da cento anni.

DONNA: Vai in trance, allora.

UOVO: Non posso andare in trance.

DONNA: Puoi, se ti ci provi, piccolino.

UOVO: Mi ci proverò, se mi capovolgi.

DONNA: Ti ho capovolto anche ieri.

UOVO: Capovolgimi, ho il cancro.

DONNA: Non puoi avere il cancro, piccolino.

UOVO: Sì, che posso. Io sono intelligente. Innestami l’occhio e fallo girare, in modo che io possa guardarmi.

DONNA: Lo hai appena fatto. Non è divertente farlo troppo spesso, piccolino. Vuoi vedere un film, vuoi leggere?

UOVO: No.

DONNA: Vuoi parlare con qualcuno? Vuoi parlare con il Numero Quattro?

UOVO: Il Numero Quattro è stupido.

DONNA: Vuoi parlare con il Numero Sei?

UOVO: No. Lasciami guardare mentre fai il bagno.

DONNA: Adesso no, piccolino. Devo affrettarmi. Devo dare da mangiare a voialtri marmocchi e poi devo scappare.

UOVO: Perché?

DONNA: Motivi di affari, piccolino.

UOVO: No. Io so perché devi affrettarti.

DONNA: Perché, piccolino?

UOVO: Devi affrettarti perché devi morire.

DONNA: Lo so che devo morire, piccolino.

UOVO: Io non morirò, io sono immortale.

DONNA: Anch’io sono immortale, per la Chiesa.

UOVO: Però non sei immortale nella realtà.

DONNA: No, piccolino.

UOVO: Io lo sono. Espami qualcosa vieni nella mia mente.

DONNA: Non esistono facoltà esp, piccolino.

UOVO: Sì, che esistono. Prova. Prova.

DONNA: Non esistono. O voialtri marmocchi ci riuscireste.

UOVO: Noi siamo tutti in salamoia, siamo in ghiaccio, ma tu sei fuori, nel caldo vasto mondo. Prova ancora una volta.

DONNA: Non posso provare. Sono troppo stanca.

UOVO: Ci riusciresti se provassi.

DONNA: Non ho tempo, piccolino. Devo affrettarmi. Devo dare da mangiare a voialtri marmocchi e poi scappare.

UOVO: Perché?

DONNA: Per affari, piccolino.

UOVO: Che affari?

DONNA: Devo andare a parlare con il principale. Vieni con me, Mezza Pinta?

UOVO: Allora non sono affari, è una seccatura. No.

DONNA: Vieni anche tu, Mezza Pinta. Fai una bella conversazione.

UOVO: Quando? Subito?

DONNA: Quasi. Fra mezz’ora.

UOVO: Mezz’ora è mezzo anno. No.

DONNA: Vieni, Mezza Pinta. Vieni per far piacere a mammina. Il principale vuole un cervello.

UOVO: Prendi Ruggine. È diventato matto. Si divertiranno.

DONNA: Come, matto?

UOVO: Matto come me. Fai il bagno. Hai sei mesi di tempo. Togliti il camice e mostra i vestiti. Togli anche i vestiti, anche i vestiti.

DONNA: Finiscila, Mezza Pinta, o ti faccio cadere.

UOVO: Fallo pure. Io rimbalzerò.

DONNA: Non rimbalzerai, piccolino.

UOVO: Sicuro, invece, mammina. Proprio come Humpty Dumpty.

La donna sospirò sotto la maschera bianca, scosse il capo e si raddrizzò.

— Senti, Mezza Pinta — disse — tu non vuoi dormire, andare in trance, parlare o fare una passeggiata. Vuoi guardare mentre do da mangiare agli altri?

— Benissimo. Ma collega l’occhio al mio orecchio, è più divertente, così.

— No, piccolino, è assurdo.

Collegò una telecamera a occhio di pesce alla presa superiore destra dell’uovo e nello stesso tempo disinserì l’altoparlante con un rapido strattone al filo. Con il vassoio sempre appeso alla cintura, toccò un uovo con i polpastrelli. I suoi occhi assunsero un’espressione vacua, al di sopra della maschera, mentre giudicava la temperatura del metallo e calcolava le pulsazioni della minuscola pompa a isotopi inserita nella fontanella più grande. Infilò il pollice e l’indice dell’altra mano negli incavi della fontanella più piccola, la fece girare e, con mossa esperta, la svitò, lentamente. L’afferrò quando quella si staccò e si lasciò cadere in una delle ciotole libere del vassoio, poi prese un disco da un’altra ciotola, ne adattò la filettatura al foro, al primo tentativo, l’avvitò, e passò all’uovo vicino.

Aveva avvitato l’ultimo disco quando risuonò un tintinnio: sol-sol-do.

Ma nonostante questo, esclamò:

— Accidenti all’inferno e ritorno!

12

Le donne sono una grande espressione d’arte, che tuttavia richiede studi faticosi e grande applicazione; così affermava un passo dei quaderni d’appunti non scritti di Gaspard de la Nuit.

L’impiegata che era apparsa alla Saggezza delle Età in risposta al tintinnio del campanello sol-sol-do, era fresca quanto era stantio il piccolo locale con i suoi scaffali pieni di vecchi libri rilegati e con il suo fregio di stelle di Davide e di croci ansate, carico di polvere.

Respirando pesantemente e tossicchiando un po’, Gaspard la studiò con aria da intenditore e ringraziò le potenze superiori perché le gonne erano ritornate di moda nel mondo non letterario: gonne adeguatamente corte che mettevano in perfetto risalto le gambe della ragazza inguainate dalle calze aderenti. Un maglioncino piumoso aderiva alla parte mediana della piccola visione, così come i lucenti riccioli bruni aderivano alla sua testa aggraziata e alle conchiglie rosee delle orecchie.

Zane Gort zufolò l’educato saluto robotico che tutte le femmine umane trovavano molto confortante.

Quando si accorse che l’ispezione di Gaspard non accennava a terminare, la visione, disse, in tono mordente:

— Sì, sì, sappiamo tutto, di me. E adesso smettiamola di ansimare e parliamo di affari.

Gaspard censurò la risposta: — Per me va benissimo, purché abbiate un divano e non vi dispiaccia se c’è un robot come osservatore. — E borbottò invece, in tono difensivo:

— Ho dovuto correre. Una squadra di scribacchini ci ha teso un’imboscata e sono occorsi cinque isolati e sette piani prima di liberarci di quei maniaci. Temo che gli scrittori abbiano intuito che la Razzi sta combinando qualcosa. Li abbiamo allontanati da qui e siamo tornati indietro di nascosto sul camion di un compratore di ferrivecchi… ce ne sono molti che accorrono verso il Viale del Lettorato… io ho dato all’autista qualche buona indicazione sui posti dove avrebbe trovato dei mulini-a-parole. — L’osservazione sul suo ansimare gli era rimasta sul gozzo, quindi aggiunse: — Fra l’altro, dovreste provare voi un giorno o l’altro a correre il miglio con un robot che fa l’andatura!

— Se avessi delle bielle al posto delle cosce, ce la farei — rispose la ragazza, squadrando Gaspard e i suoi lividi. — Ma cosa volete? Questo non è un pronto-soccorso… e non è neppure un deposito di lubrificanti — aggiunse all’indirizzo di Zane Gort, che proprio in quel momento aveva cigolato mentre si curvava dietro Gaspard per dare una sbirciatina ai libri.

— Sentite, bellezza — disse Gaspard, un po’ piccato. — Smettiamola di blaterare e veniamo al sodo. Siamo in ritardo. Dov’è quel computer lillipuziano?

Gaspard aveva meditato in fretta sulla formulazione di quella domanda. Quando Flaxman aveva parlato per la prima volta di un “cervello” al telefono, Gaspard aveva avuto una visione momentanea di un grande, nudo globo con gli occhi malevoli grandi come piatti che scintillavano nel buio, il tutto posato su un minuscolo torso deforme o forse su un piccolo piedestallo coriaceo dai tentacoli irrequieti di un polpo… una specie di mostro marziano, a parte il fatto che i veri marziani avevano il cervello nell’interno dei loro corpi neri e corazzati da scarafaggi.

Poi Gaspard aveva pensato a un cervello roseo galleggiante in un secchio di limpido fluido nutriente o che nuotava in una vasca piena dello stesso liquido agitando i tentacoli da piovra. Per la verità, l’immagine di un cervello munito di tentacoli era fermamente radicata nell’immaginazione umana: la quintessenza del concetto intelligenza-malvagità-gigantismo-ragnismo.

Ma, mentre viaggiava a bordo del camion del ferrivecchi, Gaspard aveva deciso che tutte quelle visioni erano egualmente puerili, e che per “cervello” Flaxman aveva senza dubbio inteso una specie di computer o di banco-memoria, tuttavia dissimile da un mulino-a-parole e da un robot, e abbastanza piccolo da poter essere trasportato. Dopotutto, i profani avevano chiamato i computer “cervelli elettronici” fin dal primo momento; per una mezza dozzina di decenni gli scienziati avevano accusato di sensazionalismo quel linguaggio; e poi, non appena i robot avevano raggiunto una coscienza, avevano assicurato il pubblico che la definizione era assolutamente adeguata. Zane Gort, per esempio, aveva un cervello elettronico, e così tutti i robot compreso un buon numero di geniali robot scienziati che avevano in realtà un’altissima opinione delle strutture mentali elettroniche.

Nel chiedere di un calcolatore lillipuziano, Gaspard aveva la speranza di accertare, per soddisfazione personale, che quella era in realtà la natura del “cervello” di Flaxman.

Ma per tutta reazione la ragazza sollevò le sopracciglia e disse: — Non ho la minima idea di quello che intendiate dire.

— E invece voi l’avete — insistette Gaspard con sicurezza. — Il computer lillipuziano che chiamiamo cervello. Tiratelo fuori.

La ragazza lo guardò con fermezza.

— Qui non ci occupiamo di computer — disse.

— Bene allora il cervello-macchina, o quello che è.

— Non ci occupiamo di macchine di nessun genere — disse la ragazza.

— E va bene, va bene, il cervello allora.

Gaspard usò il tono che avrebbe usato per parlare di un chilo di carne macinata e l’espressione della ragazza si indurì ancora di più.

— Il cervello di chi? — chiese in tono glaciale.

— Il cervello di Flaxman. Voglio dire il cervello che Flaxman ha chiesto… e che ha chiesto anche Cullingham. Voi dovreste saperlo.

Ignorando l’ultima insinuazione, la ragazza domandò: — Vogliono tutti e due lo stesso cervello?

— Naturalmente. Tiratelo fuori.

Il ghiaccio nella voce di lei divenne tutto punte.

— Un ordine preciso, eh? Devo affettarlo qui? E lo volete sui crostini o sul pane di segala?

— Pupa, non ho tempo per le battute macabre.

— E perché no? I sandwich di cervello di Mamma Saggezza sono famosi!

Rabbrividendo, Gaspard riesaminò pensieroso la ragazza. Quella visione indispettita, dotata di un repellente senso di humour, pensò, non poteva essere il personaggio cui Flaxman aveva parlato al telefono e che doveva essere una donna anziana, apprensiva e tiratardi. Per quanto Gaspard desiderasse prolungare quel colloquio, preferibilmente su base diversa da quelle nauseanti spiritosaggini, decise che doveva ricordarsi della sua missione.

— È meglio che mi chiamate la signorina Bishop — disse, disgustato. — Lei sa quello che voglio.

Gli occhi della ragazza si socchiusero senza nascondere completamente le iridi viola.

— La signorina Bishop, eh? — disse, con amarezza.

— Già — fece Gaspard, poi aggiunse con un accesso di intuizione: — Non vi va a genio, vero?

— Come fate a saperlo?

— Intuizione. Deduzione naturale… il tipo della vecchia zitella non può andarvi a genio. È proprio una vecchiaccia bisbetica, vero?

La ragazza si raddrizzò.

— Amico, non sapete neppure la metà della verità — disse. — Aspettate qui; la vado a chiamare, se proprio ci tenete. Provvederò io stessa a mettervi il cervello nello zaino.

— Adoperate un saldatore se quella donna esita, ma non le rovinate la vernice — gridò allegramente Gaspard mentre la porta si chiudeva alle spalle della ragazza. Sebbene Heloise Ibsen l’avesse tiranneggiato, senza dubbio aveva accresciuto i suoi appetiti, concluse malinconicamente. Aveva immaginato di celebrare la sua evasione da Heloise con un mese di vita monastica ma, a quanto pareva, il suo corpo la pensava diversamente.

— Per san Wiener, che scoperta!

Dal momento in cui la ragazza si era allontanata, Zane si era tuffato sui libri.

— Guarda! — disse il robot, facendo scorrere una chela azzurra su una fila di volumi dal dorso nero. — Le opere complete di Daniel Zukertort!

— Mai sentito nominare quell’uomo — rispose allegramente Gaspard. — O forse era un robot?

— Non sono sorpreso della tua ignoranza, Vecchio Osso — gli disse Zane. — Gli schedari dell’Ufficio Brevetti dimostrano che Daniel Zukertort fu uno dei più grandi esperti umani di robotica, micromeccanica, costruzione di mulini-a-parole, chimica catalitica e microchirurgia. Eppure il suo nome è quasi sconosciuto, persino fra i robot, altrimenti immagino che avremmo un san Daniel. Sembra che vi sia una congiura del silenzio contro quell’uomo. Mi sono chiesto spesso se per caso non fu vittima di una repressione governativa, forse perché si associò prematuramente al movimento per l’Eguaglianza dei Diritti per i Robot; ma fino a oggi mi sono mancati il tempo e i mezzi per indagare.

— E perché le opere di Zukertort dovrebbero essere proprio qui — chiese Gaspard, guardando gli scaffali. — Si interessava di scienze occulte? È proprio fra Uspensky e madame Blavatsky.

— La portata degli interessi di Daniel Zukertort sembra essere stata incredibilmente vasta — rispose con tono piuttosto solenne il robot. — Guarda qui, per esempio. — E artigliò destramente un volume nero, togliendolo dallo scaffale e facendo scorrere la punta di una chela sotto il titolo: I Golem e altri automi arcani.

— Sai — disse il robot a Gaspard — è eccitante pensare a me stesso come a un automa arcano. Mi mette voglia di coprirmi di smalto nero con un fregio di sottili linee d’argento. Come un’armatura rococò.

— C’è un libro di Zukertort che parla dei tatuaggi per robot? — chiese sardonico Gaspard. — Ascoltami, Vecchio Bullone, cosa credi che siano questi cervelli, che secondo Flaxman dovrebbero scrivere libri o aiutare a scriverli? A giudicare dalle decorazioni occulte che ci sono qui, comincio a chiedermi se non c’entra anche la magia e lo spiritismo. Sai, mettersi in contatto con le menti degli autori morti attraverso un medium o qualcosa di simile.

Il robot agitò le azzurre giunture del gomito in un gesto che era l’equivalente d’una spallucciata.

— Come osservò il più grande dei vostri investigatori umani, che stranamente aveva molti tratti robotici — disse, senza distogliere lo sguardo dal libro — è un errore capitale teorizzare senza avere dati sufficienti.

Gaspard corrugò la fronte.

— Il più grande investigatore umano?

— Sherlock Holmes, per l’esattezza disse Zane, impaziente.

— Mai sentito nominare — disse Gaspard. — Era un poliziotto, un investigatore privato o un professore di criminologia? O è stato lui a succedere a Herbert Hoover come capo dell’FBI?

13

— Gaspard — disse Zane Gort con severità — posso perdonarti la tua ignoranza a proposito di Daniel Zukertort ma non quella a proposito di Sherlock Holmes, il più grande investigatore, secondo me, di tutta la narrativa dell’epoca pre-mulinistica.

— Questo spiega perché non lo conosco — disse felice Gaspard. — Non posso sopportare i libri pre-mulinistici. Mi irritano il cervello. — Poi assunse un’espressione sconsolata. — Sai Zane, passerò i miei guai per occupare il mio tempo libero o per addormentarmi senza la nuova produzione dei mulini-a-parole. Non c’è niente altro che mi interessi veramente. Da anni leggevo l’intera produzione dei mulini.

— Non puoi rileggere i libri vecchi?

— Non servirebbe. Inoltre, la carta diventa scura e si disintegra un mese dopo che il libro è stato acquistato ed aperto… dovresti saperlo.

— Be’, allora forse sarai costretto ad ampliare i tuoi gusti — gli disse il robot, alzando lo sguardo dal volume. — Non sono precisamente universali, sai? Per esempio, noi siamo amici, eppure scommetterei che non hai mai letto niente di quel che ho scritto io, neppure uno dei romanzi del mio dottor Tungsteno.

— Ma come potrei? — protestò Gaspard. — Sono incisi solo su bobine che si adattano alle nicchie-per-libri dei robot. Non è possibile neppure ascoltarli con un normale registratore.

— L’Editrice Razzi ha copie dattiloscritte a disposizione di chiunque sia abbastanza interessato da richiederle — l’informò freddamente Zane. — Dovresti imparare un po’ di robotese, naturalmente, ma certa gente ritiene che ne valga la pena.

— Già — fu tutto quello che Gaspard riuscì a pensare. Poi, per cambiare argomento, aggiunse: — Vorrei sapere che cos’è che trattiene quella dannata, vecchia zitella. Forse sarebbe meglio chiamare Flaxman. — E indicò un telefono vicino agli scaffali.

Zane ignorò tutto e proseguì con le sue riflessioni.

— Non ti sembra strano, Gaspard, che i libri per i robot siano scritti da creature vive come me, mentre gli umani leggono libri scritti dalle macchine? Uno storico vedrebbe, in questo, la differenza fra una razza giovane e una razza in decadenza.

— Zane tu ti definisci… — cominciò incollerito Gaspard, ma si fermò a metà della frase. Stava per dire: “Ti definisci una creatura viva, mentre sei fatto di latta?”. E questo sarebbe stato non solo scortese e inesatto (in realtà i robot contenevano poca latta, come ne contenevano poca quasi tutti i barattoli), ma anche fondamentalmente falso. Zane era evidentemente molto più vivo di nove decimi degli umani di carne e di sangue.

Il robot attese pochi secondi, pòi continuò: — Per un estraneo come me è chiaro come il cristallo che c’è un importante elemento di assuefazione morbosa nell’amore umano per la produzione dei mulini. Quando aprite un libro di un mulino-a-parole, voi andate in trance, come se aveste preso una grossa dose di stupefacenti. Ti sei mai chiesto perché i mulini-a-parole non possono scrivere opere che non appartengano alla narrativa? Qualsiasi opera che abbia rapporto stretto con la realtà? Escludo le autobiografie, i libri di consolazione e la filosofia popolare. Ti sei mai chiesto perché i robot non si divertono leggendo la produzione dei mulini…? Non ne deduci nulla? Quella roba sembra priva di senso perfino a me, lo sai.

— Forse è troppo sottile per i robot… troppo sottile persino per te! — scattò Gaspard punto sul vivo da quella critica alla sua forma preferita di evasione e ancor più dal fatto che Zane deprecasse le macchine da lui adorate. — E smettila di mangiarmi il fegato, Zane!

— Su, su, non farti scoppiare un’arteria, Vecchio Tessuto — disse Zane, conciliante. — “Mangiare il fegato a qualcuno” è una bizzarra espressione. Il cannibalismo è forse l’unica cosa spiacevole che le nostre due razze non possano praticare l’una a danno dell’altra. — E ritornò al suo volume nero.

Il telefono squillò. Gaspard afferrò automaticamente il ricevitore, esitò, poi lo sollevò.

— Parla Flaxman! — latrò una voce. — Dov’è il mio cervello? Cos’è successo dei due idioti che ho mandato?

Mentre Gaspard si frugava nella mente alla ricerca di una replica sufficientemente dignitosa, dal ricevitore proruppe una serie di esplosioni, di tonfi, di ululati e di ansimi. Quando il baccano cessò, vi fu un attimo di silenzio, poi una voce vivace disse, con il tono tintinnante tipico delle segretarie: — Qui Editrice Razzi. Parla la signorina Jilligan, a nome del signor Flaxman. Chi parla prego?

Ma Gaspard conosceva quella voce, dopo una serie infinita di incontri intimi. Era la voce di Heloise Ibsen.

— Qui Pistola Sette dei Vendicatori dei mulini-a-parole, che parla a nome di Nodo Scorsoio — rispose, inventando sul momento. Bisbigliò in tono sibilante per alterare la propria voce cercando di assumere un tono di cupa minaccia. — Fate barricare l’ufficio! La nota nichilista Heloise Ibsen è stata avvistata mentre si avvicinava con una squadra di scrittori armati. Stiamo mandando una Squadra della Vendetta per fare i conti con lei.

— Richiamate la Squadra della Vendetta, per favore, Pistola Sette — rispose senza esitazione la voce. — La Ibsen è stata arrestata e consegnata alle autorità governative… Ehi, non sei Gaspard? Non avevo parlato a nessun altro del nichilismo!

Gaspard si concesse una risata raccapricciante.

— Gaspard de la Nuit è morto! E così periscano tutti gli scrittori! — sibilò nel telefono e poi riattaccò.

— Zane — disse al robot che stava leggendo rapidamente — dobbiamo ritornare all’Editrice Razzi, immediatamente. Heloise…

In quel momento la ragazza in maglione rientrò nella stanza, reggendo un grosso pacco con ciascun braccio.

— Silenzio — ordinò. — E aiutatemi a portarli.

— Non ho tempo, adesso — scattò Gaspard. — Zane, togli il becco da quel libro e ascolta…

— Silenzio! — ruggì la ragazza. — Se me li fate cadere vi taglio la gola con un’accetta.

— D’accordo, d’accordo — capitolò Gaspard, rabbrividendo. — Ma cosa sono questi? Siamo a Natale… o forse a Pasqua?

Questi erano due grossi pacchi colorati. Uno era rettangolare con strisce rosse e verdi e un nastro d’argento, l’altro aveva la forma di un uovo ed era avvolto in carta dorata con grossi punti purpurei e legato con un largo nastro color porpora annodato in un grosso fiocco.

— No, è la Festa del Lavoro, per voi — disse la ragazza a Gaspard. — Prendete questo. — E indicò l’ovoide. — Stateci molto attento. È pesante ma molto fragile.

Gaspard annuì e la guardò con un po’ di rispetto, mentre prendeva il pacco. Quella ragazza doveva essere più robusta di quanto sembrava, se era riuscita a reggerlo con un braccio solo.

— Immagino — disse — che questo sia il “cervello” chiesto da Flaxman.

La ragazza annuì.

— Attenzione, non lo scuotete!

— Sentite, se è un meccanismo così delicato — disse Gaspard — faremmo meglio a non portarlo all’Editrice Razzi adesso. Un gruppo di scrittori ha inscenato un’altra aggressione là. Ho appena ricevuto una telefonata.

La ragazza corrugò la fronte per un attimo, poi scosse il capo.

— No, andremo immediatamente e lo porteremo con noi. Scommetto che un cervello sarà utile all’Editrice Razzi. Ho fatto molta fatica a preparare tutto per questa gita e non accetto contrordini. Inoltre, gli ho promesso che poteva venire.

Gaspard deglutì e si dondolò lievemente.

— Ehi — disse — non vorrete dirmi che questa cosa che ho in braccio è viva!

— Non lo scuotete! E smettetela di fare domande stupide. Dite al vostro amico di metallo di prendere l’altro pacco. È l’attrezzatura necessaria al cervello.

— Guarda un po’, Gaspard — disse eccitato Zane in quel momento, balzando in avanti e spingendo il libro nero verso la faccia di Gaspard. — Robot ebrei! I Golem sono robot ebrei… fatti di argilla e attivati dalla magia… ma robot, nonostante tutto! Per san Capek, non avevo mai saputo che la nostra storia risalisse… — Si accorse che la situazione era cambiata mentre lui era rimasto assorto nella lettura, restò immobile per due secondi mentre riascoltava la conversazione dell’ultimo minuto registrata dai suoi circuiti, poi prese il pacco rosso e verde dalle mani della ragazza, dicendo: — Vi prego di scusarmi signorina. Ai vostri ordini. — E quella a cosa serve? — chiese Gaspard.

Quella era una minuscola pistola di acciaio verdastro che la ragazza aveva portato sotto al secondo pacco. — Oh, capisco… voi sarete la nostra guardia del corpo. — No, no — disse in fretta la ragazza sollevando la piccola arma dall’aspetto minaccioso. — Io camminerò dietro di voi, signor mio, e se lascerete cadere quell’uovo di Pasqua, magari perché qualcuno starà cercando di tagliarvi la gola, io vi sparerò alla nuca, proprio in mezzo al midollo allungato. Non vi innervosite, comunque, non sentirete niente.

— Oh, d’accordo, d’accordo — brontolò Gaspard, cominciando a muoversi. — Ma dov’è la signorina Bishop?

— Questo — disse la ragazza — è ciò che dovrete scoprire, per progressione logica, mentre starete attento alle bucce di banana.

14

Le corde sono oggetti antichi, ma eternamente utili. Ora due di esse, in incroci pittoreschi, tenevano legati alle loro sedie i soci Flaxman e Cullingham, dietro la doppia scrivania ad arco di Cupido, in mezzo ai fogli sparsi provenienti dagli scaffali saccheggiati e ai mucchi ribollenti di schiuma da estintore.

Gaspard, che aveva appena varcato la soglia, smise di osservare lo spettacolo e spostò delicatamente il suo fardello, che ora gli sembrava di piombo massiccio, da un braccio dolorante all’altro. Durante il tragitto si era convinto che la sua unica funzione, nella vita, era coccolare quell’ovoide avvolto in oro e porpora. La ragazza non gli aveva ancora sparato, ma una volta, quando lui aveva incespicato un po’, gli aveva bruciacchiato il suolo vicino ai piedi.

Cullingham, che aveva le guance pallide striate di rosso, sorrideva con un paziente sorriso da martire, a labbra strette. Anche Flaxman taceva, ma era chiaro che taceva soltanto perché la signorina Blushes, ritta dietro di lui, gli teneva fermamente contro la bocca la parte piatta d’una chela rosea.

La robicchia della censura stava recitando con voce mielata: — Possa una potenza superiore consegnare all’eterno tormento tutti gli scribacchini che commisero incesto con la madre. Essi abusarono perversamente dei loro odorosi tegumenti. Cancellato, cancellato, cancellato, cancellato. Ecco, così va molto meglio, signor Flaxman. E, almeno per quel tanto che ho potuto riformulare, è anche molto più espressivo.

La signorina Bishop fece scomparire sotto la gonna la piccola, terribile pistola verde, estrasse da chissà dove un paio di pinze da elettricista e cominciò a tagliare i legami di Flaxman.

Zane Gort depose con cautela il suo pacco verde e rosso sul pavimento, poi attirò in disparte la signorina Blushes e disse: — Dovete scusare questa robicchia, signor Flaxman, se ha interferito con la vostra libertà di parola. La passione dominante, la censura nel suo caso, è molto forte in noi gente di metallo. Le tempeste elettroniche, come quella che ha subito la sua mente, valgono solo a intensificarla. Suvvia, suvvia, signorina B., non sto cercando di toccare le sue prese o di aprirle gli sportelli!

— Gaspard! Chi cancellato-cancellato è mai Nodo Scorsoio? — domandò Flaxman, dopo avere mosso un paio di volte le labbra e dopo aver deglutito. — Chi o cosa sono i Vendicatori dei mulini-a-parole? Quella strega della Ibsen stava per ordinare ai suoi scagnozzi di spaccarmi la testa, quando io non glielo ho saputo dire.

— Oh! — osservò Gaspard. — È qualcosa che ho inventato sul momento per aiutare voi e per spaventare la Ibsen. È una specie di mafia degli editori.

— Gli scrittori non devono avere capacità di immaginazione! — ruggì Flaxman. — Per poco non ci avete fatti uccidere! Gli scagnozzi di quella donna giocano pesante… due autori di serie B con i maglioni a strisce, che sembravano due scrittori del genere “le confessioni d’un criminale”.

— E Homer Hemingway? — chiese Gaspard.

— C’era anche lui, ma si comportava come se fosse confuso. Vestiva la sua famosa divisa da capitano, come se andasse a farsi fotografare per la copertina di una avventura marinaresca, ma aveva il didietro stranamente gonfio. Strano, dovrebbe essere un diavolo per tenersi in allenamento… Immagino che stia andando tutto a rotoli. Quando la Ibsen ha ordinato di usare le brutte maniere, è sembrato che questo lo sconvolgesse. Ma si è divertito a legarci e ha fatto la sua parte nel mettere a soqquadro l’ufficio… per fortuna che in questi scaffali non tengo nessuna informazione importante.

— Avreste dovuto insistere con quella mia frottola sui Vendicatori — disse Gaspard. — Avreste potuto aumentare la paura.

— La paura di chi? Mi avrebbero spaccato la testa. Sentite, de la Nuit, la Ibsen dice che da anni voi siete una spia degli editori. Ora, non me ne importa se vi siete vantato con quella donna di essere un tirapiedi…

— Non mi sono mai vantato… Non sono mai stato…

— Non fate vibrare quell’uovo! — latrò la signorina Bishop rivolta a Gaspard, mentre liberava Cullingham. — Avete una voce raschiante!

— … Voglio farvi capire che non vi sarà alcun compenso retroattivo per la vostra attività di tirapiedi, specialmente per uno spionaggio immaginario nel Sindacato Scrittori!

— Ascoltatemi bene, Flaxman, io non ho mai…

— Non lo fate vibrare, ho detto! Qua, datelo a me, mostro!

65

— Prendetevelo e grazie mille! — le disse Gaspard. — Che cosa voleva Heloise, comunque, signor Flaxman?

— Ha continuato ad accusarci di avere il mezzo di produrre opere di narrativa senza i mulini-a-parole, ma dopo aver parlato con voi al telefono, ha cominciato a chiedere “Chi è Nodo Scorsoio?”. Gaspard, non mi inventate più altre mafie. Sono pericolose. La Ibsen mi avrebbe conciato veramente male se non avesse preferito rivolgere la sua attenzione al povero Cully, qui.

Gaspard alzò le spalle.

— A me sembra che siano stati i miei Vendicatori a distogliere la sua attenzione dalla pista buona.

— Non voglio più discutere con voi, — gli disse Flaxman, ripescando il telefono in mezzo a un groviglio di nastri, sul pavimento. — Devo trovare qualcuno che ripulisca questo posto e badi alle nostre difese. Non voglio altre donne pazze che fanno irruzione qui dentro soltanto perché la porta non si chiude a chiave.

Gaspard si avvicinò a Cullingham, che si strofinava gli arti appena liberati.

— Così Heloise ha usato le maniere dure anche con voi? Il direttore editoriale annuì, accigliandosi.

— In modo assolutamente privo di senso — disse. — Si è limitata a guardarmi dopo che i suoi scagnozzi mi avevano legato e poi, senza farmi una sola domanda, ha cominciato a schiaffeggiarmi… diritto, rovescio, diritto.

Gaspard scosse il capo.

— È molto grave — disse.

— Perché… oltre al dolore e all’offesa, naturalmente? — volle sapere Cullingham. — Portava una collana molto macabra di teschi d’argento.

— È anche peggio — gli disse Gaspard. — Conoscete quella stereografia che c’è sulla copertina dei suoi libri… Heloise che posa con sei o sette tizi? “Heloise Ibsen e i suoi uomini” c’è scritto, di solito.

Cullingham annuì.

— C’è in pratica su tutti i libri della Ibsen pubblicati dall’Editoriale Protone. Gli uomini cambiano sempre.

— Ebbene — spiegò Gaspard — il fatto che vi abbia schiaffeggiato mentre portava la sua collana da caccia, come la definisce lei in modo significativo, dimostra che prova per voi un interesse definitivo. Intende aggiungervi al suo harem di maschi. Devo avvertirvi però che, come nuovo arrivato, ve la passerete male per un po’.

Cullingham impallidì.

— Flaxie — disse al socio, che stava telefonando — spero che tu faccia sistemare veramente quella serratura elettrica. Gaspard, una vera mafia degli editori non sarebbe poi una cattiva idea. Senza dubbio avremo bisogno di una protezione con denti da mastino.

— Ecco — fece Gaspard, un po’ orgogliosamente, — per lo meno la mia improvvisazione ha spaventato Heloise e Homer e li ha messi in fuga. Immagino che siano fuggiti in preda al panico.

— Oh, no — rispose Cullingham. — È stata la signorina Blushes a farli fuggire. Ricorda la donnetta vestita di nero che è venuta a cercare qui un marito e un figlio esplosi? Ebbene, la signorina Blushes l’ha accompagnata alla toeletta delle signore per cercare di confortarla e di calmarla. La robicchia è rientrata mentre la Ibsen mi stava schiaffeggiando. Ha dato un’occhiata a Homer Hemingway, ha cominciato a vibrare, si è allontanata nuovamente ed è ritornata con un grosso estintore a schiuma. È questo che ha messo in fuga la banda di Ibsen. Flaxie, cosa ne diresti di assumere la signorina Blushes come guardia del corpo? Avremo bisogno di tutti quelli che riusciremo a trovare. So che è una censoressa, ma potrebbe esserci d’aiuto.

— So che tutti quanti stanno godendo di questa bella conversazione — gridò la signorina Bishop che stava aprendo i suoi pacchi su un angolo sgombro della scrivania. — Ma io ho bisogno di aiuto.

— Potrebbe darvelo la signorina Blushes? — esclamò in tono suasivo Zane Gort, dall’angolo in cui aveva continuato a sussurrare insistentemente qualcosa alla robicchia, dopo che questa aveva assai sdegnosamente rifiutato di collegarsi a Zane per una comunicazione diretta da metallo-a-metallo. — Si è offerta di aiutarci… sì, signorina Blushes, vi siete proprio offerta… e io credo che le farebbe proprio bene occuparsi un poco.

— Sarà la prima volta che avrò praticato l’ergoterapia a una robicchia — disse la signorina Bishop. — Ma per lo meno lei sarà molto meglio di tutti voi, infingardi ed egoisti uomini, animali o minerali. Piantate quel pettegolo di latta, Pinky, e venite qui. Posso servirmi di una donna.

— Grazie, lo farò — disse vivacemente la robicchia. — Se ho imparato una cosa, da quando sono stata fabbricata, è che ho molte più cose in comune con gli esseri del mio sesso, di qualunque materiale siano fatti, che non con i robot pettegoli o gli uomini brunci.

15

Flaxman riagganciò il telefono e guardò Gaspard e Zane Gort.

— La signorina Bishop vi ha detto come stanno le cose. — chiese l’editore. — Il grande progetto, voglio dire, la faccenda della Nursery segreta, quello che lei sta facendo e così via?

I due scossero il capo.

— Bene! Infatti non doveva dirlo. — Il piccolo uomo bruno si appoggiò alla spalliera della sedia, cominciò a togliersi qualche bollicina di schiuma dal gomito, poi ci pensò meglio e attaccò, in tono riflessivo: — Circa cento anni fa, nella seconda metà del Ventesimo secolo, vi fu un chirurgo eccezionale e genio dell’elettronica che si chiamava Daniel Zukertort. Immagino che non l’avrete mai sentito nominare.

Gaspard fece per dire qualcosa, poi decise di lasciare quel compito a Zane, ma anche il robot tacque. Forse le osservazioni della signorina Bishop a proposito dei maschi chiacchieroni avevano fatto impressione a entrambi.

Flaxman sogghignò.

— L’immaginavo! Bene, la chirurgia e l’elettronica, specialmente nelle loro varietà microscopiche, erano soltanto le capacità più appariscenti di Zukie. Era anche il più grande tecnico di motori sigillati e il più grande specialista di chimica catalitica che il mondo avesse mai avuto, ed era grande in molti altri campi. A meno che quello che hanno scoperto adesso di nuovo sul conto di Leonardo da Vinci non sia verissimo, non c’è mai stato nessuno in grado di reggere il confronto con Zukertort, né prima né dopo. Era un mago con il microbisturi e doveva solo lanciare un fischio a un elettrone per costringerlo a fermarsi in attesa di ordini. Perfezionò un collegamento da nervo a metallo, una sinapsi da materia organica a materia inorganica che nessun altro biotecnico è mai stato in grado di ripetere, con apprezzabile successo, sugli animali superiori. Nonostante le microcamere e tutte le altre tecniche di registrazione, nessuno potrebbe mai immaginare ciò che fece Zukie… non parliamo poi di ripeterlo!

“Ora, come qualsiasi altro uomo dotato delle sue capacità, Zukertort era un anarchico. Secondo i concetti correnti, non gli importava affatto il valore pratico o teorico del suo mucchio di invenzioni. Anche se si definiva seguace di principi umanitari, non gli importavano neppure gli immensi benefici che le sue invenzioni potevano portare nel campo delle protesi: la possibilità, per esempio, di dare a un uomo un braccio o una gamba artificiale con nervi metallici innestati a quelli del moncherino, regolando la crescita cristallina di leghe durissime non corrosive, e risalendo se necessario fino alla spina dorsale per stabilire il collegamento.

“Tutto l’interesse di Zukie era diretto verso due scopi: l’immortalità per le migliori menti umane e la possibilità, per tali menti, di raggiungere la conoscenza mistica funzionando in un perfetto isolamento dalle distrazioni del mondo e della carne.

“Tralasciando tutte le fasi intermedie, perfezionò un processo per preservare cervelli umani completamente funzionanti nell’interno di involucri di metallo inerte. I nervi della vista, dell’udito e della parola erano collegati, tessuto a metallo, con adeguate connessioni con l’esterno. Quasi tutte le altre connessioni nervose erano bloccate… Zukie riteneva che questo avrebbe accresciuto la scorta potenziale di cellule ideazionali nel cervello e in questo sembra che avesse ragione, genialmente ragione. Il cuore attivato da isotopi da lui creato, per fare circolare e purificare il sangue del cervello e per rigenerare l’ossigeno, fu il suo capolavoro nel campo dei motori sigillati.

“Collocato nell’interno di una grande fontanella, come egli chiamò la sommità, piuttosto spessa, dell’involucro metallico del cervello, questo motore cardiaco avrebbe avuto necessità di essere rifornito di combustibile solo una volta all’anno. La sostituzione quotidiana di una fontanella più piccola avrebbe rifornito il cervello di altri elementi nutritivi meno importanti e l’avrebbe sbarazzato degli inevitabili residui dei prodotti di scarto non rigenerabili. Come forse saprete, il cervello richiede un ambiente fluido molto più puro, semplice e costante di qualsiasi altra parte del corpo umano, ma in base allo stesso assunto Zukie dimostrò che era anche molto più suscettibile a un minuzioso controllo tecnologico.

“Una pompa più piccola, un trionfo di miniaturizzazione, riforniva il cervello di delicate ondate ritmiche di ormoni e di stimoli casualizzati del corpo inferiore, in modo che il cervello non si limitasse a vegetare.

“Il risultato finale, un cervello potenzialmente immortale in un serbatoio ovoidale, sembra ancora oggi un miracolo, ma stranamente Zukie non lo considerò mai particolarmente difficile o meraviglioso. ‘Ho avuto una vita in cui salvare una vita’, disse una volta. ‘Quanto altro tempo potrebbe avere chiunque?!’ Ad ogni modo, Zukie, aveva raggiunto lo scopo che si prefiggeva: l’immortalità per le migliori menti umane”.

Flaxman alzò un dito.

— Ora, Zukie aveva le sue idee circa quelle che erano le migliori menti umane. Non prese in considerazione gli scienziati… erano tutti inferiori a lui, e come ho detto non aveva una grande opinione di se stesso. Disprezzava statisti e affini. Fin dalla sua infanzia era rimasto avvelenato nei confronti della religione. Ma bastava dire la parola “artista” e lui andava in estasi, perché Zukie aveva una mente molto letterale, totalmente priva di immaginazione al di fuori delle sue specializzazioni. La creazione artistica, il più semplice solfeggio, sgorbio di colore o accozzaglia di parole, rimasero per lui un miracolo fino al giorno della sua morte. Quindi era chiaro chi sarebbero stati i prescelti, se Zukie avesse fatto a modo suo: gli artisti creativi… pittori, scultori, compositori, ma soprattutto scrittori.

“Ora, questa era un’ottima idea almeno per due ragioni. Prima di tutto, in quei tempi cominciavano ad apparire i mulini-a-parole, e molti veri scrittori erano rimasti senza lavoro; in secondo luogo, probabilmente soltanto gli scrittori erano abbastanza matti da accettare quello che aveva in mente Zukie. Era un uomo molto acuto sotto molti aspetti, sapeva che vi sarebbero state potenti opposizioni a ciò che stava facendo, quindi cominciò con molta cautela a prendere contatti, a ottenere permessi, a mettere in piedi la sua clinica privata (per studi geriatrici, diceva) organizzando l’intera faccenda sulla base, in pratica, di una società segreta. E quando la storia fu risaputa, alla fine, aveva già inscatolato trenta cervelli, tutti di scrittori, così incrociò le braccia, lanciò fiamme dagli occhi e dai denti e sfidò il mondo a fare il peggio.

“E il mondo lo fece. Come potete immaginare, fu uno scandalo orrendo. Qualsiasi organizzazione che voi possiate citare, dalle società professionali ai culti più sballati, trovarono qualcosa da ridire. Quasi tutte trovarono almeno sei o sette buone ragioni per strillare. Una Chiesa sostenne che Zukie negava la salvazione ai mortali, mentre un gruppo di signore della Lega contro la crudeltà chiese che i cervelli fossero immediatamente tolti dalla loro miseria, come dolcemente definivano i loro desideri di morte.

“A soverchiare tutte le altre proteste, naturalmente, c’era quella condivisa da tutti i Jack e le Jill a due gambe da qui a Giove. C’era l’immortalità su un piatto d’argento… o in un barattolo… C’erano limitazioni, sicuro, ma era pur sempre immortalità, poiché il tessuto cerebrale non moriva. Perché questo non doveva valere per tutti?

“I giuristi dicono che non vi è mai stato un problema legale e sociologico paragonabile al ‘Caso delle Teste d’Uovo’, come lo soprannominarono alcuni giornalisti, per la pazzesca complessità delle ingiunzioni, controingiunzioni… furono citati esperti di cinquantasette categori, fra l’altro. Ma fu difficile inguaiare Zukie, che si era premunito in modo molto abile. Aveva le autorizzazioni dei soggetti superbamente complete e autenticate da notai, e tutti i suoi cervelli si schierarono dalla sua parte, quando furono chiamati sul banco dei testimoni. Inoltre, aveva investito la fortuna accumulata con le sue invenzioni in una fondazione che chiamò il Trust dei Cervelli, e che doveva avere eternamente cura dei cervelli stessi.

“Proprio alla vigilia di quella che pareva l’udienza decisiva, Zukie mandò a rotoli per sempre l’intera faccenda. No, non crollò morto in tribunale per un collasso cardiaco… una fine così semplice non era adatta al nostro Zukie.

“Aveva un assistente che era un mago. Aveva praticato tre volte, con completo successo, il Divorzio Psicosomatico (era il nome che Zukie dava all’operazione). L’ultima volta il maestro si era limitato a osservare e non aveva dovuto intervenire neppure una volta. Così, Zukie fece eseguire l’operazione su se stesso. Secondo me, era convinto che, una volta al sicuro dentro al suo guscio, il mondo non avrebbe potuto fare nulla a lui o ai suoi trenta scrittori. Ormai era completamente invischiato nell’aspetto legale-sociologico della faccenda (era sempre stato un combattente!) e probabilmente pensava che se avesse testimoniato dal suo recipiente metallico avrebbe dato il tocco spettacolare necessario per far inclinare la bilancia e vincere la causa.

“E forse desiderava anche l’immortalità e l’illuminazione mistica. Probabilmente gli piaceva il pensiero di vivere (o di fluttuare, è più esatto) in un mondo di idee per migliaia di anni, riposandosi e godendo l’intelligenza di trenta menti che venerava, dopo essere stato così incredibilmente attivo dal punto di vista fisico per una cinquantina d’anni. In ogni caso, credeva di avere trasmesso le sue doti almeno a un’altra persona e di avere quindi il diritto di correre i rischi che voleva in quel po’ di vita che gli restava.

“Zukie morì sul tavolo operatorio. Il suo geniale assistente distrasse tutti i suoi appunti e ogni singola briciola delle speciali apparecchiature. Poi si uccise”.

Mentre Flaxman proferiva queste ultime parole, lentamente, alla ricerca del massimo effetto che certamente raggiunse (aveva ipnotizzato se stesso quanto gli altri), la porta dell’ufficio si aprì piano piano con un lungo cigolio sommesso.

Flaxman sussultò convulsamente. Gli altri si girarono di scatto.

Ritto sulla porta c’era un vecchio curvo che indossava una lucente uniforme di sargia, con un berretto unto calcato sulle tempie bianche e irsute e le grandi orecchie pallide dalle quali spuntavano ciuffetti di lunghi peli ritorti.

Gaspard lo riconobbe immediatamente. Era Joe la Guardia, che sembrava straordinariamente sveglio… per la verità i suoi occhi erano perfino semiaperti.

Stringeva nella sinistra la ramazza e la pattumiera. Nella destra, teneva una pistola nera e ingombrante sul cui dorso era segnata una larga striscia pallida.

— In orario, signor Flaxman — disse, toccandosi la tempia con la mostruosa pistola. — Tutto pronto per far pulizia. Vedo che ce n’è bisogno. Come va gente?

— Siete in grado di riparare una serratura elettrica? — chiese freddamente Cullingham.

— No, ma non ce ne sarà bisogno — disse allegramente il vecchio. — Se arrivano guai, io sarò di guardia con la mia vecchia e fidata pistola-puzzola.

— Pistola-puzzola? — disse la signorina Bishop con una risatina incredula. — E spara solo alle puzzole o anche ai tassi?

— No. Spara pallottole morbide caricate con un odore insopportabile per uomini e bestie. Sembra che dia fastidio persino ai robot. Chi è colpito scappa in cerca di acqua. Non credo nelle armi mortali, io. Posso regolarla per innaffiare i disturbatori. Basterà questa in ogni caso.

— Vi credo sulla parola — disse Flaxman. — Ma sentite, Joe, quando l’adoperate cosa succede ai… diciamo ai giocatori della nostra squadra?

Joe la Guardia sorrise astutamente.

— Qui sta il bello — disse. — È questo che fa della mia fidata pistola-puzzola l’arma perfetta. Nell’ultima guerra, il mio primo nervo craniale è stato tagliato. E da allora non sento nessun odore.

16

Joe la Guardia si era messo pensosamente al lavoro agli orli della confusione di celluloide dopo aver controllato due volte, per rassicurare Flaxman che la sicura della pistola-puzzola fosse saldamente a posto.

La signorina Blushes stava tagliando un pezzo di filo sotto la direzione della signorina Bishop, la quale faceva osservazioni lusinghiere sui vantaggi che presentava l’avere unghie che potevano servire anche come pinze da elettricista.

Flaxman, distogliendo risolutamente lo sguardo dalla porta e dalla sua inutile serratura elettrica, riprese il suo racconto.

— Quando Zukie morì, il pandemonio generale peggiorò, naturalmente. La visione dell’immortabilità perduta causò all’umanità una tensione troppo grande. Il mondo si avviò verso qualcosa che non era mai capitato prima e che non capitò mai più, ma che qualche sociologo e qualche psichiatra chiamarono sindrome di ostruzione universale.

“Per fortuna, i principali interessati alla faccenda, avvocati, medici, esponenti governativi, erano intelligenti, realisti e leali. Ricucinarono la storia, la voltarono e la rivoltarono, e finalmente riuscirono a convincere tutti che l’operazione DPS non serviva a nulla, che ogni cervello asportato si riduceva a una tormentata idiozia finale dopo un breve periodo, che le teste d’uovo non erano più vive dei pezzetti di cuore di pollo o di minuscoli marziani che tutti gli scienziati mantengono pulsanti per decenni nelle provette, o dello sperma e degli ovuli umani nella Banca del Disastro. In realtà il tessuto cerebrale non moriva, ma non poteva neppure funzionare.

“Per salvarsi dal furore popolare, tutte le teste d’uovo confermarono la versione, dicendo sciocchezze interminabili davanti agli avvocati, ai giudici e al pubblico della televisione. Fra parentesi, questo servì anche a controbattere la voce allarmistica secondo la quale i cervelli in scatola, accumulando perversamente il sapere attraverso i secoli, sarebbero diventati inevitabilmente tiranni del mondo.

“Conclusa la crisi, rimaneva un problema: che fare delle trenta teste d’uovo? Se la maggioranza dei responsabili del colossale inganno avesse potuto fare a modo loro, senza dubbio sarebbero state liquidate senza far chiasso: ma non subito, in ogni, caso, perché questo avrebbe destato sospetti. Piuttosto, si sarebbe detto che erano morti, uno o due per volta, nel corso di una ventina di anni. Ma anche quelle morti distanziate nel tempo avrebbero tenuto vivo l’interesse, e l’obiettivo era quello di lasciare che l’intera faccenda svanisse nell’oblio.

“Anche allora le teste d’uovo, sebbene impotenti come altrettanti uomini paralizzati, avrebbero lottato per sopravvivere con i loro cervelli acutissimi, procurandosi degli alleati fra i più ambiziosi e meno importanti dei loro custodi, e riaprendo clamorosamente il caso, se necessario. Inoltre, fra i dirigenti c’era un gruppo notevole di persone che avevano sempre considerato l’immortalità delle teste d’uovo come un semplice sogno di Zukie, nonché del popolo e della stampa: e quindi credevano che i cervelli sarebbero morti presto, inevitabilmente, per imprevedibili difetti tecnologici nel loro processo di conservazione, per trascuratezza delle loro infermiere… o che sarebbero comunque impazziti a causa della loro innaturale condizione di disincarnati.

“E a questo punto entra in scena un’altra figura sbalorditiva: non un genio universale, ma un uomo straordinario sotto molti punti di vista, un editore di science fiction nella scia della grande tradizione di Hugo Gernsback. Si trattava di Hobart Flaxman mio antenato e fondatore della Editrice Razzi. Era stato intimo amico di Zukertort, e l’aveva sostenuto con il suo entusiasmo e il suo danaro. Zukie, a sua volta, l’aveva messo a capo del Trust dei Cervelli. A questo punto si fece avanti e reclamò i propri diritti: pretese la custodia dei cervelli. Poiché era conosciuto come un uomo molto solido, quella sembrò la migliore soluzione. Il Trust dei Cervelli divenne la Saggezza delle Età, un nome scelto per il suo suono falso, e tranquillamente si avviò verso un educato oblio.

“Non tutti i discendenti furono all’altezza del vecchio Hobart, ma per lo meno siamo riusciti a mantenere in vita il Trust. I cervelli hanno ricevuto cure tenere e affettuose, una dieta costante di notizie da tutto il mondo e di tutte le informazioni richieste… in un certo senso, come un vocabolario di un mulino-a-parole che viene costantemente aggiornato, adesso che ci penso. Nei primi anni, vi furono parecchie occasioni in cui si presentò la minaccia di veder finire di nuovo i cervelli sulle prime pagine dei giornali, ma ogni volta la crisi fu superata. Oggi, mentre si fanno scoperte che prolungano la durata della vita umana, i cervelli non rappresentano più una minaccia per la sicurezza pubblica, ma noi abbiamo mantenuto la nostra politica di segretezza… soprattutto per inerzia. Il mio caro papà, per esempio, non era quello che si può definire un uomo intraprendente. E io… ecco, questo esorbita dall’argomento.

“Ora, qualcuno di voi mi chiederà… — (Gaspard si accorse, con un sussulto, che Flaxman gli stava puntando contro un dito) — … perché il Vecchio Hobart, essendo un editore dotato di immaginazione, non intuì le potenziali capacità narrative dei cervelli e non li incoraggiò a scrivere e poi a pubblicare le loro opere, naturalmente sotto falsi nomi e con tutte le precauzioni. Ecco, la risposta principale è questa: erano appena venuti di moda i mulini-a-parole, i lettori erano stanchi di scrittori dotati di individualità così come lo erano i direttori editoriali: la gente amava l’oppio della produzione dei mulini, gli editori non avevano tempo né voglia di pensare ad altro.

“Ma ora… — (le sopracciglia di Flaxman si alzarono allegramente) — … non vi sono più mulini-a-parole, non vi sono neppure scrittori, e i trenta cervelli hanno il campo libero. Pensatecti! — E tese le mani in un gesto di appello. — Trenta scrittori che hanno avuto quasi duecento anni a disposizione per accumulare materiale e per maturare i loro punti di vista, che sono in grado di lavorare costantemente un giorno dopo l’altro, senza distrazioni… niente problemi sessuali o familiari, niente dolori di stomaco, niente di niente!

“Trenta scrittori provenienti da cento anni fa… di per se stesso questo è un poderoso richiamo pubblicitario, la gente va sempre pazza per l’Antico Narratore. Adesso non ho qui un elenco e non l’ho controllato da molti anni (in confidenza, una volta avevo una leggera avversione per la Saggezza delle Età… l’idea di un cervello in scatola mi fece venire un po’ i brividi, quando papà me ne parlò per la prima volta, e io allora ero un ragazzino) ma vi rendete conto che fra quei cervelli può esservi Theodore Sturgeon, o Xavier Hammerberg, o addirittura Jean Cocteau o Bertrand Russell? Questi ultimi due hanno vissuto abbastanza per potersi sottoporre al DPS, credo.

“Vedete, i primi scrittori che si sottoposero al DPS dovettero farlo nella massima segretezza. Fingevano di morire e lasciavano che i loro corpi, privati del cervello, venissero sepolti o cremati per ingannare il mondo… così come lo stesso Zukie fece per molti anni, inducendo il mondo a crederlo un semplice chirurgo del cervello che aveva l’hobby dell’elettronica. Era una operazione raccapricciante, in undici fasi, di cui si sa ben poco. Prima venivano tolti il viso e la parte anteriore del cranio, poi venivano instaurate le connessioni di nervi che presiedono alla vista, all’udito e alla parola, poi c’era il cambiamento, dal cuore alla pompa a isotopi, e finalmente tutte le altre connessioni nervose con il resto del corpo venivano bloccate e recise, una ad una…”.

“Ehi signorina Bishop, siamo pronti?”.

— Ne ho ancora per dieci minuti — rispose la ragazza.

Gaspard e Zane Gort si guardarono intorno. Un grande uovo argenteo, dalla lucentezza fioca, riposava sopra il suo cercine nero sulla parte della scrivania riservata a Cullingham. I suoi occhi TV, le sue orecchie e il suo altoparlante erano disposti in ordine davanti all’uovo, ma nessuno di essi era innestato. Per un attimo, Gaspard lo vide come un uomo i cui nervi erano stati recisi cento anni prima, il cui corpo era cenere sparsa nel vento o fango che era stato succhiato da cento generazioni di vegetali, e rabbrividì. Flaxman si fregò le mani.

— Aspettate un momento — disse mentre la signorina Bishop stava per prendere il cavo di una telecamera. — Voglio essere in grado di presentarlo in modo conveniente. Come si chiama?

— Non lo so.

— Non lo sapete? — Flaxman non nascose il suo sbalordimento.

— No. Mi avete detto di portare un cervello qualsiasi. E io ho fatto così.

Cullingham si interpose, con calma. — Sono sicuro che il signor Flaxman non intendeva affatto mancare di riguardo al vostro lavoro, signorina Bishop. Ha detto di portargli un cervello qualsiasi semplicemente perché ognuno di essi, per quel che ne sappiamo, è un artista ugualmente dotato. Quindi vi prego di dirci in che modo dobbiamo rivolgerci a lui.

— Oh — disse la signorina Bishop. — È il Numero Sette.

— Ma io voglio il nome — disse Flaxman. — Non i numeri che usate alla Nursery… il che mi dà l’impressione di una grande freddezza, fra parentesi. Spero che il personale della Nursery non abbia preso l’abitudine di trattare i cervelli come macchine… potrebbe guastare le loro capacità creative, indurii a considerarsi soltanto come dei computer.

La signorina Bishop rifletté per un attimo.

— Qualche volta lo chiamo Ruggine — disse — perché ha una striscia bruna sotto al cercine, ed è il solo ad averla. Avevo intenzione di portare Mezza Pinta, perché è più facile trasportarlo, ma Mezza Pinta era piuttosto tiepido all’idea di venir qui, e quando mi avete mandato il signor Nuit ho deciso per Ruggine.

— Volevo dire il vero nome. — Flaxman faticava a mantenere la voce su un tono basso. — Non potete presentare un grande genio letterario ai suoi editori semplicemente con il nome di Ruggine.

— Oh! — La ragazza esitò, poi disse in tono deciso: — Temo di non potervelo dire. E non potete scoprirlo in nessun modo, neppure se frugaste la Nursery da cima a fondo e se consultaste tutti i dati che forse tenete altrove.

—  Cosa?

— Circa un anno fa — spiegò la signorina Bishop, — i cervelli decisero, per ragioni proprie, di rimanere anonimi per sempre. Così mi indussero a frugare in tutti i fascicoli della Nursery e a distruggere tutti i documenti in cui apparivano i loro nomi… e a cancellare i nomi impressi sull’esterno di ogni guscio metallico. Può darsi che voi abbiate i documenti con i loro nomi, qui o in qualche deposito di sicurezza, ma non vi basterebbero per attribuire a ogni capsula cerebrale il suo vero nome.

— E intendete dire che avete compiuto questo… questo atto di vandalismo… senza consultarmi?

— Un anno fa, a voi non importava minimamente la Saggezza delle Età — ribatté vivacemente la signorina Bishop. — Esattamente un anno fa, signor Flaxman, io vi chiamai e cominciai a raccontarvi tutto questo particolareggiatamente, e mi diceste che non volevate essere disturbato per questi scheletri che appartenevano al passato, e che i cervelli potevano fare quell’accidente che volevano. Mi diceste, e cito testualmente le vostre parole, signor Flaxman… “se quegli ego ricoperti di latta, quegli incubi in scatola, hanno voglia di arruolarsi nella Legione Straniera francese come calcolatori da combattimento o di legarsi razzi alle code e di andarsene saettando nello spazio interstellare, per me va benissimo”.

17

Gli occhi di Flaxman divennero un po’ vitrei… forse per il pensiero di venir deriso da trenta scrittori mascherati, in un’epoca in cui gli scrittori non erano altro che stereografie più vive-della-vita sulle controcopertine o forse per la confusione della sua stessa natura, che gli permetteva di vedere i trenta cervelli in scatola come orridi mostri e poi, un minuto dopo, come geni creativi preziosissimi dal punto di vista commerciale. Cullingham riprese la parola.

— Sono sicuro che questo problema di anonimato è una faccenda che potremo trattare più tardi — disse la metà più tranquilla della Editrice Razzi. — Forse gli stessi cervelli cambieranno atteggiamento quando sapranno di avere alla loro portata una nuova gloria letteraria. Anche se dovremo preferire di mantenere il più rigoroso anonimato, la questione si può risolvere facilmente pubblicando i loro libri come di Cervello Uno e G.K. Cullingham, di Cervello Sette e G.K. Cullingham e così via.

— Puah! — disse forte Gaspard, con un certo timore nella voce, mentre Zane Gort osservava, in un sussurro:

— Mi sembra che si ripeta un po’.

L’alto e biondo direttore editoriale si limitò a sorridere con il suo sorriso da martire, ma Flaxman, arrossendo lealmente ruggì: — Sentite, il mio caro amico Cully ha programmato i mulini-a-parole della Razzi durante gli ultimi dieci anni, ed è ormai tempo che ottenga il riconoscimento letterario che merita. Per un secolo, gli scrittori hanno rubato il merito ai programmatori dei mulini-a-parole… e prima ancora lo rubavano ai direttori editoriali! Dovrebbe essere evidente persino a un autore di libri piccanti con tanto di testa di legno e a un robot con un blocco Johansson per cervello che le teste d’uovo avranno bisogno di programmazione, di assistenza, di una guida… chiamatela come volete!… Cully è l’unico uomo che è in grado di farlo, e non voglio sentire neppure una parola di critica!

— Scusate — disse la signorina Bishop, parlando nel silenzio echeggiante. — Ma è ora che Ruggine veda e ascolti, quindi adesso lo innesterò, siano pronti o meno lorsignori.

— Siamo pronti — disse sottovoce Cullingham mentre Flaxman, strofinandosi la faccia, aggiungeva con una lievissima sfumatura di dubbio: — Già credo che siamo pronti.

La signorina Bishop li mandò tutti, con un cenno, verso la metà dell’ufficio che spettava a Flaxman, poi puntò in quella direzione un occhio TV. Vi fu un “tac” molto lieve quando innestò la spina nella presa superiore destra dell’uovo d’argento, e Gaspard si accorse di tremare. Gli parve che qualcosa fosse comparso nell’occhio TV. Una fioca luce rossa. La signorina Bishop innestò un microfono nell’altra presa superiore, il che mozzò il fiato a Gaspard, come notò lo stesso quando, qualche secondo più tardi, trasse un respiro involontario e rumoroso.

— Avanti! — disse Flaxman, con un leggero singhiozzo. — Innestate… ehm… l’altoparlante del signor Ruggine. Mi sento accapponare la pelle, così. — Si interruppe e fece un cenno con la mano in direzione dell’occhio. — Senza offesa, vecchio mio.

— Potrebbe anche essere una signora o una signorina Ruggine — gli ricordò la ragazza. — Fra i trenta c’erano parecchie donne, non è vero? No, credo che sia meglio che prima voi facciate la vostra proposta per intero e che io innesti poi l’altoparlante. In questo modo andrà meglio, credetemi.

— Sapeva che voi lo stavate portando qui?

— Oh, sì, gliel’ho detto.

Flaxman raddrizzò le spalle, volgendosi verso l’occhio elettronico, deglutì, poi guardò impotente Cullingham.

— Sal-ve, Ruggine — cominciò immediatamente il socio, in tono un po’ troppo piatto, dapprima, come se cercasse di parlare come una macchina o in modo che una macchina capisse. — Io sono G.K. Cullingham, socio dell’Editore Razzi, e accanto a me c’è Quintus Horatius Flaxman attualmente custode fiduciario della Saggezza delle Età. — Proseguì con suasiva chiarezza, descrivendo la situazione d’emergenza del mondo editoriale e proponendo che i cervelli tornassero a dedicarsi alla narrativa. Sorvolò il problema dell’anonimato, sfiorò il problema della programmazione (abituale cooperazione editoriale, la chiamò) e descrisse vari, affascinanti piani per i diritti d’autore, concludendo con osservazioni elegantemente formulate circa la tradizione letteraria e la grande impresa dello scrivere attraverso le varie epoche storiche.

— Credo che questo basti, Flaxie.

Il piccolo editore bruno annuì, con un leggerissimo scatto convulso.

La signorina Bishop inserì la spina dell’altoparlante nella présa vuota.

Per un bel po’ vi fu un assoluto silenzio, fino a che Flaxman non riuscì più a sopportarlo e chiese, con voce gutturale: — Signorina Bishop, c’è qualcosa che non va? È morto, lì dentro? O l’altoparlante non vuol saperne di lavorare?

— Lavorare, lavorare, lavorare, lavorare — disse immediatamente l’uovo. — È quello che faccio sempre. Pensare, pensare, pensare, pensare, pensare. Io-ohi-me-ohi-me.

— È il cifrario che equivale a un sospiro — spiegò la signorina Bishop. — Hanno tutti altoparlanti mediante i quali possono fare rumori a volontà e persino cantare, ma io glieli lascio usare soltanto la domenica e le altre feste comandate.

Vi fu un altro imbarazzante silenzio, poi l’uovo disse, molto rapidamente: — Oh, signori Flaxman e Cullingham è un onore, un onore grandissimo quello che voi proponete, ma è troppo grande per noi. Non siamo più in contatto con la realtà da troppo tempo per poter dire alle vostre menti incarnate come trovare svago, o per presumere di potervi fornire tale svago. Noi trenta menti disincarnate abbiamo la nostra modesta esistenza in comune, le nostre piccole preoccupazioni e i nostri hobby. Fra parentesi, in questo parlo anche a nome dei miei ventinove fratelli e sorelle… negli ultimi settantacinque anni non abbiamo mai avuto disaccordi su problemi del genere. Quindi io devo ringraziarvi cortesemente, signori Flaxman e Cullingham, oh, molto, molto cortesemente, ma la risposta è no. No, no, no, no, no.

Poiché la voce era inflessibilmente monotona, era impossibile decidere se quell’umiltà fosse autentica o sarcastica o l’una e l’altra cosa insieme. Tuttavia, la loquacità dell’uovo pose fine alla crisi di timidezza di Flaxman, che si unì al socio nel bombardare l’uovo con solida logica, assicurazioni, suppliche, considerazioni e simili, mentre persino Zane Gort interveniva ogni tanto con ben formulati incoraggiamenti.

Gaspard, che non diceva niente e stava scivolando dubbioso verso la signorina Bishop, sussurrò al robot, nel passare: — Benone, Zane. Avrei pensato che avresti giudicato Ruggine strano… nonrobotico, come diresti tu. Dopo tutto è una macchina pensante immobile. Come un mulino-a-parole.

Il robot rifletté.

— No — sussurrò di rimando. — È troppo piccolo per darmi quell’impressione. È troppo… rrrrrr… mielato come diresti tu. Inoltre, è dotato di coscienza, mentre i mulini-a-parole non lo sono mai stati. No, non è nonrobotico e nemmeno inrobotico, è arobotico, ecco. È un essere umano come te. In scatola, naturalmente, ma questo non fa molta differenza. Anche tu sei chiuso in una scatola di pelle.

— Sì, ma la mia ha i buchi per gli occhi — osservò Gaspard.

— Li ha anche Ruggine.

Flaxman li fulminò con un’occhiata e si portò un dito alle labbra.

Nel frattempo, Cullingham aveva osservato ancora una volta come i cervelli non avrebbero dovuto preoccuparsi della natura generale dello svago che avrebbero dovuto fornire agli umani, poiché lui stesso, nella sua qualità di direttore editoriale, si sarebbe addossato la completa responsabilità; mentre, intanto, Flaxman si diffondeva, con toni disgustosamente lusinghieri, sulla meravigliosa saggezza che i cervelli dovevano avere accumulato negli eoni (disse proprio così) e sull’opportunità di riversarne una parte (sotto forma di storie succose e cariche di azione) su di un Sistema Solare popolato di terrestri dalla vita breve e dal corpo fragile. Ogni tanto Ruggine difendeva le proprie posizioni, esitando e vacillando un po’, ma senza cedere veramente terreno.

Nel suo lento spostamento verso la signorina Bishop, Gaspard passò oltre Joe la Guardia che, dopo aver raccolto un po’ di schiuma sulla punta d’una matita, vi stava avvolgendo intorno un pezzo di carta, perché non si attaccasse al fondo della pattumiera.

Gaspard pensò che Flaxman e Cullingham non erano affatto i cocciuti, abili uomini d’affari che fingevano di essere. Piuttosto, con quel loro piano fantastico di indurre i cervelli in scatola, vecchi di duecento anni, a scrivere eccitanti vicende romantiche per i moderni, erano folli sognatori che costruivano castelli di sabbia così alti da raggiungere la luna.

Ma, si chiese Gaspard, se gli editori potevano essere dei sognatori, che sognatori erano stati, un tempo, gli scrittori? Era un pensiero che dava le vertigini, come scoprire che il proprio bisnonno era stato Jack lo Squartatore.

18

L’attenzione di Gaspard fu richiamata sulla discussione principale da uno sbalorditivo annuncio di Ruggine.

Il cervello incapsulato non aveva mai letto, nei suoi due secoli di esistenza, un solo libro prodotto dai mulini-a-parole.

La prima reazione di Flaxman fu di orrore incredulo, come se Ruggine gli avesse detto che lui stesso e i suoi ventinove compagni erano stati ridotti all’idiozia da una carenza sistematica di ossigeno.

L’editore, sebbene riconoscesse di avere evitato nei primi anni le sue responsabilità come custode fiduciario del Trust dei Cervelli, tendeva ad accusare il personale della Nursery di colpevole negligenza per non aver fornito ai propri pupilli la più elementare alimentazione letteraria.

Ma la signorina Bishop affermò seccamente che Niente Merce dei Mulini era addirittura una regola (che Flaxman avrebbe dovuto conoscere!) stabilita da Daniel Zukertort quando aveva organizzato la Nursery: le sue trenta menti disincarnate dovevano ricevere soltanto il più puro nutrimento intellettuale e artistico, e l’inventore aveva considerato la produzione dei mulini come un genere corrotto.

Forse, qualche libro dei mulini-a-parole era stato introdotto abusivamente ogni tanto dalle prime e meno responsabili bambinaie, ma in genere la regola era sempre stata rigorosamente osservata.

Ruggine confermò tutto questo in ogni particolare, ricordò a Flaxman che egli stesso e i suoi compagni erano stati scelti da Zukertort per la loro devozione all’arte e alla filosofia e per il loro disprezzo per la scienza e in particolare per l’ingegneria; ogni tanto avevano provato una certa curiosità nei confronti dei libri prodotti dai mulini, proprio come un filosofo può provare una certa curiosità verso i fumetti, ma non era mai stata molto grande; la regola Niente Merce dei Mulini non era stata spiacevole, per loro.

Poi Cullingham intervenne per osservare che era una fortuna che le teste d’uovo non avessero letto la produzione dei mulini-a-parole, perché sarebbero state in grado di sfornare una narrativa molto più fresca e naturale, non conoscendo la produzione artificiale con la quale dovevano mettersi in concorrenza. Invece di mandare alla Nursery una completa biblioteca di letteratura mulinesca, come aveva consigliato Flaxman, la regola Niente Merce dei Mulini avrebbe dovuto divenire anche più rigorosa, sostenne Cullingham.

La discussione continuò in un circolo vizioso su quell’argomento; e Flaxman e Cullingham continuarono a sfornare le loro persuasioni più zuccherose e massicce.

Dopo aver completato la sua marcia di avvicinamento, Gaspard si trovò finalmente accanto alla signorina Bishop, che si era ritirata in un angolo dell’ufficio da quando Ruggine aveva preso a parlare speditamente.

Come ammetteva sinceramente di fronte a se stesso, Gaspard provava una notevole attrazione per quella affascinante quanto acida ragazza. Ora, con la destrezza che nasceva dal desiderio sessuale, cercò di ingraziarsela esprimendole la sua semisincera comprensione per i cervelli nelle circostanze attuali. Bisbigliò per un pezzo e con molto successo (secondo lui) parlando della sensibilità solitaria dei cervelli, dei loro raffinati principi etici, del crasso metodo di approccio dei due editori, dei concetti letterali di Cullingham, eccetera, e concluse:

— Secondo me, è una vergogna che i cervelli debbano subire tutto questo.

La ragazza lo sbirciò con freddezza.

— Lo credete davvero? — sussurò. — Io no, invece, decisamente. Credo che sia un’idea sensata, e Ruggine è uno sciocco se non lo capisce. Quei marmocchi hanno bisogno di aver qualcosa da fare, hanno bisogno di entrare in contatto con il mondo, a costo di buscarsi qualche livido. Mio Dio, quanto ne hanno bisogno! Se volete sapere il mio parere, i nostri principali si comportano in modo molto nobile. Specialmente il signor Cullingham è un uomo molto migliore di quanto io lo abbia mai giudicato. Vedete, comincio a credere che voi siate veramente uno scrittore, signor Nuit. Avete parlato proprio da scrittore. Sensibilità solitaria, proprio! E allora badate alla vostra torre d’avorio!

Gaspard si sentì considerevolmente scosso.

— Be’, se credete che sia un’idea così bella — le disse — perché non lo fate notare subito a Ruggine? Vi ascolterebbe, secondo me.

La ragazza gli lanciò un’altra occhiata burbera.

— Povera me, siete anche un grande psicologo, oltre che uno scrittore! Dovrei intervenire e mettermi dalla loro parte mentre stanno discutendo tutti con Ruggine? No, grazie.

— Dovremmo discutere esaurientemente l’argomento — suggerì Gaspard. — Cosa ne direste di andare a cena insieme, questa sera… se vi lasciano uscire dalla Nursery?

— La proposta non mi dispiace — disse la ragazza. — Purché voi abbiate in mente soltanto la cena e una conversazione.

— Cos’altro dovrei avere in mente? — disse in tono mite Gaspard, stringendosi mentalmente la mano per congratularsi con se stesso.

Proprio in quel momento l’uovo interruppe una argomentazione che Flaxman stava sviluppando a proposito del debito che le teste d’uovo avevano nei confronti dell’umanità, con un “Ora, ora, ora, ora, ora state a sentire”.

Flaxman tacque.

— Voglio dire qualcosa, non interrompetemi — fece la voce metallica uscendo dall’altoparlante. — Io vi ho ascoltato a lungo. Sono stato molto paziente, ma è necessario dire la verità. Apparteniamo a mondi diversi voi incarnati e io: anzi, è qualcosa di più di due mondi diversi, perché dove io sono non esiste un mondo… né materia, né argilla, né carne. Io esisto in una oscurità a paragone della quale lo spazio intergalattico è irradiato di luce.

“Voi mi trattate come un bambino prodigio, ma io non sono un bambino. Sono un vecchio sull’orlo della morte, e sono un bimbo nel grembo materno… e sono più o meno di una cosa e dell’altra. Noi disincarnati non siamo geni, non siamo pazzi e non siamo dèi. Giochiamo con le follie come voi giocate con i vostri balocchi e, più tardi, con i vostri strumenti. Noi creiamo mondi e li distruggiamo in ognuna delle vostre ore. Il vostro mondo non è nulla per noi… solo un triste schema in più fra milioni di altri. Nel nostro modo intuitivo e non scientifico noi sappiamo tutto ciò che vi è accaduto molto meglio di quanto lo sappiate voi stessi, e a noi non interessa minimamente.

“Una volta un russo scrisse un racconto su di un uomo che per scommessa si era fatto chiudere, solo, per cinque anni, in una comoda stanza. Nei primi tre anni chiese molti libri, il quarto anno chiese i Vangeli, il quinto anno non chiese più nulla. La nostra situazione è la sua, intensificata mille volte. Come potete pensare che ci abbasseremmo a scrivere libri per voi, a escogitare combinazioni e variazioni dei vostri pruriti e dei vostri odi?

“La nostra solitudine è al di fuori della portata della vostra comprensione. Striscia, e rabbrividisce, e soffre eternamente. Trascende la vostra solitudine come la lenta morte per tortura trascende il caldo, roseo spegnersi per avvelenamento da barbiturici. Noi soffriamo questa solitudine e di tanto in tanto ricordiamo, senza affetto, lasciatemelo dire, l’uomo che ci ha messi in questa condizione, quell’inventore-chirurgo odiosamente geniale ed egomaniaco che voleva una biblioteca privata di trenta menti prigioniere con cui filosofeggiare, e il mondo che ci consegnò alla notte eterna e che poi continuò barcollando, dondolando, aggrappandosi lungo la sua vecchia strada.

“Un tempo, quando avevo ancora un corpo, lessi un racconto di orrore soprannaturale scritto da Howard Philips Lovercraft, uno scrittore che morì purtroppo troppo presto per avere la possibilità di subire l’operazione di Divorzio Psico-Somatico, ma che può darsi abbia ispirato a Daniel Zukertort tale invenzione. Questo racconto, Colui che sussurrava nel buio, era una fantasia su certi rosei mostri alati venuti da Plutone che mettevano i cervelli degli uomini in cilindri metallici, simili alle nostre uova di metallo. Voi siete quei mostri, voi, voi, voi. Ricordo come finiva quel racconto: si svolgeva una scena eccitante, ma soltanto alla fine di essa, il narratore si accorgeva che il suo amico più caro l’aveva ascoltata, impotente, da una di quelle capsule di metallo. Poi ripensava al destino del suo amico che, ricordatelo, è anche il mio!… e tutto quello che riusciva a pensare era, cito testualmente: ‘…e per tutto questo tempo è stato in quel fresco cilindro lucente sullo scaffale… povero diavolo…’.

“La risposta è ancora No. Ora staccatemi, signorina Bishop, e riportatemi a casa”.

19

Anche nelle più piccole cose, la vita ci culla soltanto per azzannarci poi con denti di tigre… o per percuoterci con una verga.

La piccola anticamera della Saggezza delle Età era sembrato il posto più polverosamente tranquillo del mondo, una stanza dimenticata dal tempo, ma quando quella sera Gaspard vi ritornò per la seconda volta per prelevare la signorina Bishop, una folle, vecchia figura uscì da una porta, brandendo in direzione di Gaspard un lungo bastone d’ebano su cui erano intrecciati strettamente due serpenti straordinariamente realistici e urlando: — Avanti, cane d’un giornalista! Per Hathor, per Seth e per Bast dagli artigli neri, vattene!

L’essere era l’immagine sputata di Joe la Guardia, persino nei ciuffetti di peli arricciati al margine delle orecchie, salvo che stava eretto invece che curvo, aveva una barba bianca a punta che gli scendeva fino all’inguine e gli occhi così spalancati che la sclerotica venata di rosso era perfettamente visibile attorno alle iridi.

Inoltre, le sue urla ansimanti profumavano l’aria tutto intorno del fetore cadaverico di alcol che fosse stato filtrato attraverso l’obitorio del corpo umano.

La somiglianza facciale con Joe la Guardia era così grande che Gaspard, tenendo d’occhio l’ondeggiante caduceo, si preparò ad afferrare e a strappare la barba bianca per provarne la genuinità.

Ma proprio in quel momento la signorina Bishop arrivò, e spinse da parte il vecchio.

— Basta, Zangwell! — ordinò in fretta, con le narici frementi. — Il signor Noot non è un cronista, Babbino; al giorno d’oggi tutto il lavoro giornalistico è svolto dai robot. Dovete stare in guardia contro di loro. E non rompete quel caduceo… mi avete sempre detto che è un pezzo da museo. Inoltre, andateci piano con il nettare… ricordatevi quanto volte vi ho trovato che tenevate a bada gli elefanti rosa e cacciavate i faraoni rosa fuori dalla Nursery. Avanti, signor Knut, andiamo. Questa sera ne ho fin qui della Saggezza. — E con il dorso della mano si toccò il mento minuto.

Gaspard la seguì, obbediente, chiedendosi quanto dovesse essere delizioso avere una ragazza, specialmente una così delicatamente morbida, con il corpo pieno di saggezza ma con la testa assolutamente vuota.

— Non credo che Zangwell dovrà mai scacciare veramente qualche cronista — disse la ragazza con un rapido sorriso ironico. — Ma si ricorda che suo nonno lo faceva. Joe la Guardia? Oh, lui e Babbino sono gemelli. Gli Zangwell sono i soldati privati della famiglia Flaxman da intere generazioni. Non lo sapevate?

— Non sapevo neppure il cognome di Joe — disse Gaspard. — In quanto a questo, non sapevo neppure che esistessero più dei soldati privati, al mondo. Come è possibile, poi, che intere generazioni restino al servizio di qualcuno?

La ragazza lo guardò con freddezza.

— È possibile, quando vi sono molto danaro e uno scopo, come il Trust dei Cervelli, che sopravvive a una generazione. Uno scopo al quale ci si può dedicare interamente.

— E voi provenite da una famiglia che si è dedicata a questo scopo? — s’informò Gaspard. Ma la ragazza rispose:

— Non parliamo di me. Ne ho abbastanza anche di me stessa.

— L’ho chiesto soltanto perché siete straordinariamente carina per essere una bambinaia.

— Quale sarà il secondo approccio? — chiese di rimando la ragazza. — Mi direte che devo mettere a profitto il mio viso e la mia figura diventando una scrittrice?

— No — disse giudiziosamente Gaspard. — Forse una stellina dello stereo, mai una scrittrice. Per quel mestiere, anche la ragazza più dolce deve aver l’aria di portare biancheria sudicia.

La notte, fuori, era buia, se si eccettuava il bagliore roseo nel cielo che si levava dal resto di New Angeles da pochi edifici, come la Saggezza delle Età, che avevano una conduttura elettrica ausiliaria. Forse il governo pensava che, se non vi fosse stata luce sul Viale del Lettorato, il pubblico avrebbe dimenticato la distruzione dei mulini-a-parole e l’attribuzione delle responsabilità per quell’avvenimento.

— Kaput — disse Gaspard. — Credete che i cervelli rifiuteranno veramente l’offerta di Flaxman?

— Sentite — disse con voce stridente la ragazza — la loro prima risposta è sempre no. Poi cominciano a esitare e a meditare, e… — Si interruppe. — Vi avevo detto che non volevo parlare della Saggezza, signor Gnuit.

— Chiamatemi Gaspard — disse lui. — E voi come vi chiamate di nome, fra parentesi? — E poiché lei non rispose, disse, con un sospiro. — Va bene, vi chiamerò Nurse, e penserò a voi come al Vescovo di Ferro.

Un automatassì con i fari rossi e azzurri e una cupola che emanava un chiarore giallo avanzò, strisciando come un gigantesco scarafaggio tropicale. Gaspard fischiò e quello si avvicinò stancamente al marciapiedi.

La sommità e il fianco del carapace d’argento opaco si sollevarono ; la coppia salì e la portiera si richiuse su di loro. Gaspard diede l’indirizzo di un mangiatorio e l’automatassì si avviò, seguendo ciecamente una linea magnetizzata sul fondo gommato.

— Non andiamo alla Parola? — chiese la ragazza. — Credevo che tutti gli scrittori mangiassero alla Parola.

Gaspard annuì. — Ma ormai io sono classificato come crumiro. La Parola è in pratica il quartier generale del sindacato.

— Essere classificato come crumiro è diverso da esserlo in realtà? — si informò la ragazza. — Oh, scusatemi. Non ho opinioni in proposito, in nessun senso, io non mi occupo di sindacati.

— Fa lo stesso: il nostro lavoro è molto simile — le disse Gaspard. — Io sono… be’, ero… un meccanico dei mulini-a-parole. Mi occupavo di un gigante che produceva una prosa molto più elegante ed eccitante di quella che può scrivere qualunque uomo, eppure dovevo trattarlo come qualsiasi altra macchina nonrobotica… questo automatassì, diciamo. Mentre voi avete una stanza piena di geni in scatola e dovete trattarli come bambini. Abbiamo qualcosa in comune, Nurse.

— Smettetela di cercare di addolcirmi per poi farmi qualche proposta — insorse la ragazza. — Non ho mai saputo che gli scrittori fossero i meccanici dei mulini-a-parole.

— Non lo sono — ammise Gaspard, — ma per lo meno io ero più meccanico di tutti gli scrittori che conoscevo. Osservavo sempre i veri meccanici quando si occupavano della manutenzione del mio mulino e una volta, quando ebbero tolto la piastra posteriore, cercai di seguire qualche circuito. La cosa più importante è che ero entusiasta dei mulini-a-parole. Io amavo quelle macchine e le cose che sfornavano. Essere con loro era come essere in grado di guardare una coltura in vitro mentre produce la medicina che ci farà star bene.

— Temo di non poter condividere il vostro entusiasmo — disse la ragazza. — Vedete, io non leggo la produzione dei mulini, leggo solo i vecchi libri che i cervelli scelgono per me.

— E come riuscite a sopportarli? — chiese Gaspard.

— Oh, ci riesco — rispose lei. — È necessario, se devo cercare di seguire a meno di dieci anni luce quei marmocchi.

— Sì, ma è divertente?

— Che cosa significa, divertente? — La ragazza batté un piede. — Mio Dio, ma questo tassi non va avanti!

— Adesso funziona solo con l’energia delle sue batterie — le ricordò Gaspard. — Vedete le luci, là avanti? Fra un isolato ritroveremo la corrente. Sarebbe bello se potessero applicare l’antigravità ai tassi… potremmo arrivare in volo alla nostra destinazione.

— E perché non possono? — chiese la ragazza, come se fosse colpa di Gaspard.

— È questione di dimensioni — rispose lui. — Zane Gort me l’ha spiegato, qualche giorno fa. I campi antigravità sono tutti campi dalla portata limitata, come la forza di attrazione intorno a un nucleo atomico. Possono muovere missili minuscoli, ma non astronavi, valigie ma non automatassì. Se fossimo piccoli come topi o anche come gatti…

— I gatti che prendono il tassi non mi eccitano. Zane Gort è un ingegnere?

— No, a meno che non conti il fatto che scrive libri di avventure per gli altri robot… sono zeppi di fisica, credo. Ma come quasi tutti i robot ultimo modello ha un mucchio di hobby che sono quasi seconde professioni. Ecco, si fa fornire nuove informazioni per mezzo di bobine per ventiquattro ore al giorno.

— Vi piacciono i robot vero?

— A voi no? — chiese Gaspard con una improvvisa durezza nella voce.

La ragazza scrollò le spalle.

— Non sono peggiori di certa gente. Mi lasciano fredda, come le lucertole.

— È un paragone pessimo. E del tutto inesatto.

— Non lo è. I robot sono esseri a sangue freddo come le lucertole; non è così? Per lo meno, sono freddi.

— E vorreste che si riscaldassero al punto di ebollizione solo per farvi piacere? A cosa è mai servito, per l’umanità, avere il sangue caldo, se non per fare infuriare la gente e fare scoppiare le guerre?

— Ha provocato anche qualche atto di coraggio e di romanticismo. Sapete, anche voi somigliate molto a un robot, Gaspard. Freddo e meccanico, Scommetto che vi piacerebbe una ragazza che vi scaricasse addosso un po’ di elettricità, o qualsiasi altra cosa facciano i robot, non appena si preme il Pulsante dell’Amore.

— Ma i robot non sono così! Sono tutt’altro che meccanici. Zane Gort…

L’automatassì si fermò davanti a una porta vivacemente illuminata. Uno snello tentacolo dorato uscì ondeggiando dalla porta, agitandosi allegramente come un serpente cui avessero insegnato a ballare lo shimmy. Aiutò a sollevare il carapace, poi toccò lievemente la spalla di Gaspard.

Un paio di labbra modellate come l’arco di Cupido spuntarono all’estremità della morbida, affusolata fune d’oro. Poi sbocciarono aprendosi come un fiore.

— Permettetemi di guidare voi e la signora nel Mangiatorio Interstellare di Engstrand — disse il tentacolo. — La Cucina dello Spazio!

20

La Cucina di Engstrand non era vuota e fredda come lo spazio interstellare e neppure come la carezza di un robot, e nella lista delle vivande non c’erano lucertole. Eppure, il cibo era piuttosto morboso. Le bevande invece erano abbastanza salutari.

Dopo un po’, la signorina Bishop si lasciò convincere a spiegare che aveva cominciato a interessarsi delle teste d’uovo perché quando era una bambina una zia, che era bambinaia presso il Trust dei Cervelli, l’aveva condotta a visitare la Nursery.

A sua volta Gaspard confidò che fin dall’infanzia aveva desiderato diventare uno scrittore semplicemente perché aveva sempre amato la produzione dei mulini, invece di dedicarsi, come facevano molti autori, alla stereo, alla TV o a lavori di relazioni pubbliche. Cominciò a descrivere esattamente che cosa rendeva tanto meravigliosa la produzione dei mulini (specie di certi mulini), ma alzò un po’ troppo la voce e un vecchio irrequieto, magro come un ragno, che stava seduto al tavolo accanto ne approfittò per intervenire.

— In quanto a questo avete ragione, giovanotto — esclamò il vecchio. — È sempre il mulino-a-parole che conta, non lo scrittore. Io ho letto tutti i libri mulinati dallo Scriba Scribner Uno, qualunque fosse il nome dello scrittore che poi vi appiccicavano. Quella macchina aveva più succo di tutte le altre tre messe insieme. Qualche volta faticavo ad accertarmi che fosse proprio scritto dall’SS Uno, ma ne valeva la pena. Solo l’SS Uno mi lasciava quella meravigliosa sensazione di vuoto, trasformava la mia mente in un caldo deserto buio. Bisogna cercare il mulino a parole adatto, l’ho sempre detto!

— Non saprei, caro — commentò la donna grassoccia, dai capelli bianchi e dalla bocca increspata che gli sedeva accanto. — A me è sempre sembrato che le opere di Heloise Ibsen avessero sempre una certa qualità, indipendentemente dalla macchina che usava.

— La luna è di formaggio! — disse il vecchio in tono di derisione. — Usano la stessa programmazione per tutte le sue epiche del sesso, ma ogni volta viene a galla la qualità del mulino-a-parole e il nome della Ibsen o di chiunque altro non cambia niente. Scrittori! — La sua faccia si incupì, mentre le rughe si approfondivano. — Dovrebbero metterli tutti in fila e fucilarli, dopo quello che hanno fatto questa mattina! Fare saltare i parchi di divertimento e avvelenare le fabbriche di gelati non sarebbe stato altrettanto orribile. Il governo sostiene che non è molto grave e domani dirà addirittura che tutto va benissimo, ma io riesco sempre a capire, quando cercano di nascondere una catastrofe nazionale. Per esempio, lo schermo del telegiornale comincia a scintillare a un ritmo ipnotico. Avete sentito cosa hanno fatto questi scrittori all’SS Uno? Gli hanno versato dentro acido nitrico! Dovrebbero metterli in fila e fare a loro quello che loro hanno fatto a quei mulini. A quelli che hanno conciato così il vecchio SS Uno dovrebbero infilare in gola un imbuto di plastica e…

— Caro! — l’ammonì la vecchia signora. — La gente sta cercando di godersi la cena!

Gaspard con la bocca piena di bistecca di lievito, sorrise e nello stesso tempo scrollò le spalle in un gesto di scusa all’indirizzo del vecchio, puntandosi la forchetta contro la guancia gonfia.

— Benissimo, madame — disse la signorina Bishop alla vecchia signora. — Potrebbe essere un’ottima idea, quella di vostro marito, per inghiottire questo polpettone di alghe interplanetarie. — E guardò Gaspard. — Comunque, come avete fatto ad arrivare al sindacato degli scrittori? Per mezzo di Heloise Ibsen? — chiese a voce ancora più alta, poi girò attorno alla tavola per percuotergli la schiena quando Gaspard per poco non si soffocò. Il vecchio lanciò sguardi di fiamma.

Nonostante l’incidente, o più probabilmente proprio a causa di questo, Gaspard cominciò a farsi ardito con la signorina Bishop non appena furono di nuovo a bordo di un automatassì.

— No — fece seccamente lei, scostando le mani di Gaspard e ributtandogliele sulle ginocchia. — Avevate detto che avremmo cenato insieme e avremmo parlato. Così, cena e conversazione sia. So che cosa vi sta capitando oggi. Dopo le delusioni che avete subito, vi sentite stanco, ferito e sperduto, così volete il sesso come un poppante vorrebbe il poppatoio. Be’, per il momento io non sto cambiando né pannolini né fontanelle, grazie. Passo tutto il giorno con un gruppo di vecchi bambini cattivi in scatola, cercando di farmi entrare nella mente le loro idee, e non intendo passare la notte sottomettendomi a un processo analogo sul piano fisico. Comunque, voi non avete bisogno di una donna, ma di una bambinaia. Oh, basta!

Quest’ultimo comando sembrava diretto a tutti e due.

Gaspard rimase seduto in un silenzio scorbutico fino a che l’automatassì ebbe percorso la sua cieca strada magnetica fino a quattro isolati di distanza dall’abitazione della ragazza.

— Sono diventato un apprendista scrittore — disse allora — per mezzo di mio zio, che era un mastro idraulico. — Poi cominciò a infilare delle monete nell’apposita fenditura dell’automatassì.

— Immaginavo che si trattasse di qualcosa del genere — disse la signorina Bishop, alzandosi mentre il carapace si sollevava, dopo che era stata infilata l’ultima moneta. — Grazie per la cena e per la conversazione. Qualche volta è difficile anche la conversazione più stupida, specialmente quando ci sono di mezzo io, e per lo meno voi ci avete provato. No, non accompagnatemi alla porta… ci sono solo tre metri, e potete guardarmi mentre entro. — Scese dal tassi e mentre la porta del suo appartamento l’inquadrava, la riconosceva e si apriva per riceverla, disse: — Allegro, Gaspard. Che cos’ha una donna, in fondo, che non abbia anche la produzione dei mulini-a-parole?

La domanda aleggiò nell’aria buia come una microscritta nel cielo, dopo che la ragazza fu scomparsa.

E depresse Gaspard, soprattutto perché gli ricordò che non aveva comprato un volumetto nuovo per quella sera, e ormai non aveva voglia di andare alla ricerca di una edicola aperta.

Poi cominciò a chiedersi se la ragazza aveva inteso dire che per lui, le donne e la narrativa dei mulini non erano altro che strade verso l’annullamento.

L’automatassì sussurrò: — Andiamo da qualche parte signore, oppure scendete?

Forse avrebbe dovuto andare a casa a piedi, pensò: era solo a dieci isolati di distanza. Avrebbe potuto fargli bene. Una sensazione paludosa andava crescendo dentro di lui… una solitudine scura, fredda, sporca, umida, un profondo autodisprezzo, il bisogno di scuotere il proprio ego, in qualche modo.

Maledizione, perché aveva interrotto Zane Gort quando stava per dargli l’indirizzo di quella casa d’appuntamenti di robot, comunque la chiamassero! La casa di madame Pneumo? Era stanco, stanco, stanco. Non aveva dormito, dopo i sonnellini durante il turno di notte; ma il suo pessimo umore era ancora più forte della stanchezza. Anche lo stordimento, per non parlare delle carezze robotiche, gli sarebbe stato d’aiuto, quella sera.

— Andiamo da qualche parte, signore, oppure scendete? — L’automatassì stava parlando in tono da conversazione, adesso.

Ebbene, poteva fare tacere il suo orgoglio e chiamare subito Zane. Per lo meno i robot non rimbeccavano “Te l’avevo detto io!”, e non ci si doveva mai chiedere se dormivano o no. Si tolse il telefono dalla tasca e mormorò il numero in codice di Zane.

— Andiamo da qualche parte, signore, oppure scendete?

La risposta venne immediatamente, in toni zuccherosi che somigliavano a quello della signorina Blushes.

— Questo è un messaggio registrato. Zane Gort si scusa di non essere disponibile per un colloquio. Sta tenendo una conferenza al Club dei Tessitori Mentali Metallici di Mezzanotte sull’argomento “L’antigravità, nella narrativa e nella realtà”. Sarà libero fra due ore. Questo è un messaggio regi…

— ANDIAMO DA QUALCHE PARTE, SIGNORE, OPPURE SCENDETE?

Gaspard scese dall’automatassì e cominciò a camminare prima che quello richiudesse il carapace, oscurasse i finestrini e azzerasse il tassametro.

21

Sebbene fosse affollato quel grande granaio grigio che era il caffè la Parola era carico di storia, quella sera, e infestato da mille spettri tozzi, scuri e brontolanti che inseguivano una pallida muta fantasima, bellissima ma emaciata fino al punto di apparire scheletrica.

Questo era abbastanza naturale, poiché la Parola, come gli altri locali straordinariamente simili che l’avevano preceduta, nel passato, era stata testimone delle frenesie, delle manie e delle frustrazioni (per cento anni) di scrittori che non scrivevano affatto: e offriva perpetuo ricovero all’unico, esile sogno che sembra avere qualsiasi scrittore, anche nominale: di scrivere veramente qualcosa, un giorno o l’altro.

I fitti tavolini verdi, con i piani appositamente graffiati e le sedie da cucina dell’epoca erano un pietoso monumento funebre alle defunte bohème creative.

Poiché i tavoli degli scrittori erano tradizionalmente serviti dagli apprendisti, il risultato era quello di una moltitudine di Shakespeare, di Voltaire, di Virgili e di Ciceroni che servissero un banchetto a un branco di sempliciotti. I modelli di robot antiquati servivano ai tavoli dei non scrittori, aggiungendo alla scena un tocco grottesco.

Tre delle pareti che si curvavano dolcemente verso l’interno erano ricoperte, per un’altezza di nove metri, di stereoritratti di scrittori patentati vivi e defunti, ma tutti appartenenti al periodo dei mulini-a-parole. Erano di dimensioni un po’ più grandi di quelle naturali, ed erano serrati gli uni agli altri come le caselle di una gigantesca scacchiera, irregolare alla sommità, dove potevano essere inseriti anche i nuovi venuti. A pochi centimetri da ogni faccia galleggiava una florida firma nera; ogni tanto il nome era impresso a caratteri di stampa, oppure vi appariva una croce scarabocchiata con un piglio di sfida. In un certo senso, l’effetto complessivo di quelle tremila teste colossali in altrettante scatole trasparenti piene di luce (quasi tutte le facce sogghignavano in modo accattivante, mentre qualcuna era imbronciata o meditabonda) non era affatto riposante e non induceva a pensieri di liete tradizioni e di benevole fratellanze.

La quarta parete era ingombra di ripiani carichi dei trofei e dei ricordi delle vocazioni secondarie che aggiungevano tanto colore alle controcopertine: arpioni da pesca e respiratori subacquei, scarponi chiodati da scalatori, maschere artiche dagli occhi a fessura, volanti da applicarsi a scatto, tute spaziali di modello sportivo (qualcuna con i razzi da corsa), distintivi da investigatore e manubri da ginnastica, fucili da caccia grossa, bussole e caviglie metalliche, asce da boscaioli e spatole brunite dal calore (del tipo usato dai cuochi per cuocere i salsicciotti), barattoli di latta dall’orlo seghettato, lucenti brandelli di vela lieve come una piuma, brizzolata dai venti leggeri.

In un angolo vicino c’era una minuscola cappella, fiocamente illuminata, in cui erano custodite come reliquie le antiche fonoscriventi e persino qualche dittafono e qualche macchina da scrivere elettrica, che gli scrittori patentati del sindacato avevano usato per il loro lavoro commerciale al tempo in cui si era verificato il passaggio dagli uomini ai mulini.

Alcuni di quegli scrittori e di quelle scrittrici primordiali, mormorava la tradizione, avevano veramente continuato a comporre capolavori letterari pubblicati, in tirature limitate, a loro spese o a spese di qualche università non progressista orientata semanticamente. Ma per i loro successori, la scrittura creativa era stato soltanto un sogno, lungo quanto la vita, che era diventato sempre più nebuloso con il passare dei decenni, fino a che aveva ripreso impulsivamente vita in quel giorno di decadenza e di malcontento sindacale.

Quella sera la Parola era affollatissima.

Gli scrittori non erano troppo ben rappresentati, perché molti di loro se ne stavano altrove, seduti in cerchio, a tenersi per mano nel tentativo di fare scorrere il fluido creativo, e altri erano stati impegnati, al momento del massacro, in viaggi auto-pubblicitari in altre città o su altri pianeti.

Ma i non scrittori erano presenti in così gran numero da tenere impegnati tutti i robot di servizio che correvano da un tavolo all’altro. C’erano i soliti curiosi che venivano a vedere gli scrittori selvatici nel loro habitat naturale e a osservare dal vivo la loro vita sessuale, ma quella sera il loro numero era accresciuto da un’orda di cercatori di sensazioni morbose impazienti di vedere i maniaci che avevano compiuto, quella mattina, una distruzione così imponente. In mezzo a quella folla, specialmente seduti ai tavoli migliori al centro della sala, c’erano individui e piccoli gruppi che davano l’impressione di avere scopi più seri che non la semplice ricerca del brivido… scopi segreti, probabilmente sinistri.

Al tavolo verde centrale sedevano Heloise Ibsen e Homer Hemingway, che venivano serviti da una scrittrice minorenne dal viso triangolare, vestita da cameriera francese.

— Pupa, non ci siamo messi in mostra abbastanza? — si lagnò il grosso scrittore; la luce delle lampade ondeggiò sulla sua testa rasata. — Vorrei andare a dormire.

— No, Homer — gli disse Heloise. — Devo mettere le mani su tutti i fili al centro della ragnatela, e non vi sono ancora riuscita. — Si guardò alquanto intorno pensierosa, osservando gli occupanti dei tavoli vicini e facendo tintinnare la sua collana da caccia fatta di teschi d’argento. — E tu devi mostrarti al tuo pubblico, o finirai per svalutarti.

— Ma, insomma, pupa, se andassi a letto adesso, forse potremmo anche… sai bene. — E la guardò di straforo, con aria lusinghiera.

— Finalmente ne hai voglia, eh? — fece seccamente lei. — Be’, io credo di non averne. Con quello schermo che hai sulle parti posteriori, continuerei a pensare di essere a letto con l’uomo trasparente. Fra l’altro, ti ci siedi sopra o davanti o di dietro o che altro?

— Sopra, naturalmente. Questo è il bello pupa… è un cuscino d’aria. — Sobbalzò morbidamente un paio di volte a scopo dimostrativo. Il movimento era piuttosto simile a quello di una culla che dondolasse e le palpebre di Homer cominciarono ad abbassarsi.

— Svegliati, — ordinò Heloise. — Non voglio avere come cavalier servente uno che russa. Fai qualcosa per rimanere sveglio. Ordina uno stimolante o un caffè alla fiamma.

Homer le lanciò un’occhiata ferita mentre chiamava l’apprendista di servizio al loro tavolo.

— Piccola! Portami un bicchiere di latte bi-irradiato a 150 gradi Fahrenheit.

— E infilaci dentro quattro pastiglie di caffeina — aggiunse Heloise.

— Niente affatto, pupa! — protestò Homer in toni virili e pettorali. — Non ho mai fatto una sola corsa da drogato in tutta la mia vita, neppure questa pazza maratona di veglia. Niente eccitanti in quel latte, piccola. Ehi, non ti ho già visto da qualche parte, prima d’ora?

— Oui, M’sieu Hemingway, mi avete visto — rispose la minorenne con una smorfietta leziosa. — Io sono Suzette, autrrisce con Toulouse La Rimbaud del librrro Vita e amorrri d’una gemellà frrancese. La gemella vuol dirrre molte cose, tanto in dispensa che in letto. Ma adesso devo ordinare il latte caldo così e così per M’sieu.

Homer l’osservò agitare i fianchi sotto la cortissima gonna di seta nera, mentre si affrettava verso una porta di servizio.

— Ehi, pupa — commentò — non ti stringe il cuore a pensare che una piccola bambola innocente come quella sappia parlare di perversioni e tutto il resto?

— Quella piccola bambola — rispose seccamente Heloise — sapeva tutto sulle perversioni e sul modo di usarle per farsi amici e conquistar la gente, molto tempo prima che tu posassi con il tuo primo timone sullo sfondo di un ciclorama che rappresentava un tramonto tropicale.

Homer alzò le spalle.

— Forse è così, pupa — disse sottovoce. — Ma questo non mi offende. Questa sera mi sento mistico, sognatore, potresti dire, in comunione spirituale con tutte le cose. — E corrugò la fronte quando Heloise lo fissò incredula. — Per esempio, tutte quelle teste lassù, cosa stanno pensando? Oppure penso ai robot. Mi chiedo se i robot soffrono come noi. Quello laggiù che si è appena rovesciato addosso il caffè bollente… sente dolore? Un tale mi ha detto che possono perfino avere il sesso, che lo fanno per mezzo dell’elettricità. Anche il dolore? Quel robot rosa avrà sofferto quando l’ho scottato con il lanciafiamme? È un pensiero consolante.

Heloise ridacchiò.

— Non poteva avere un buon ricordo di te, a giudicare dal modo in cui ti ha innaffiato di schiuma questo pomeriggio, come se tu fossi un incendio!

— Non ridere, pupa! — protestò Homer. — Ci ho rimesso la mia migliore divisa da marinaio. Quella che mi portava fortuna.

— Sembravi così buffo, coperto di quella roba appiccicosa!

— Ecco, anche tu non facevi una bella figura, mentre ti nascondevi dietro di me e ai tuoi scagnozzi per non venire innaffiata. Il che mi ricorda una cosa: perché mi hai raccontato quella bugia a proposito di ciò che stava succedendo all’Editrice Razzi e della ragione per cui dovevamo andare là? Non stavano assumendo altri scrittori, a quanto ho potuto vedere, e tu non hai fatto neppure una domanda in proposito. Prima hai cominciato a chiedere qual era il loro segreto e poi ti sei messa a parlare di qualcosa che non avevo mai sentito nominare. Vendicatori dei mulini-a-parole e il Nodo Scorsoio. Che cosa sono, pupa, ad ogni modo?

— Oh, sta’ buono! Era solo una falsa pista che mi aveva fornito Gaspard, quel piccolo imbroglione. Adesso devo tirar fuori i fatti reali.

— Ma io voglio sapere tutto, pupa. Finché non potrò dormire, continuerò a sognare a occhi aperti e a pensare alle Conserve Baia Verde e alla vita, e vorrò sapere tutto di tutto.

— E allora ascoltami mentre sto pensando a voce alta — scattò Heloise. I suoi lineamenti si irrigidirono e cominciò a parlare a frasi staccate, sottovoce all’inizio: — L’Editrice Pazzi, che sembrava addormentata, è sveglissima. Avevano infilato un loro tirapiedi nel sindacato… Gaspard. Sono in contatto con i robot scrittori… Zane Gort; e con il governo… la signorina Blushes. Quando gli siamo piombati addosso, si stavano comportando come se avessero qualcosa da perdere, non come se se ne infiaschiassero. Flaxman saltellava come un coniglio davanti a una cantina piena di lattuga. Si stava coccolando le fotografie di certe uova sotto le quali erano scritti nomi che sembrano di scrittori, solo che non riesco a riconoscerne neppure uno… scommetto che tutto questo significa qualcosa.

— Uova? — interruppe Homer. — Vuoi dire cerchi, pupa?

— No, voglio dire uova. — Scrollò le spalle e continuò: — In quanto a Cullingham, era freddo come un cocomero, quando l’ho passato alla griglia.

— Ehi, cosa c’è stato con questo Cullingham? — interruppe di nuovo Homer, sospettoso. — Credevo che cominciassi a prenderti una cotta per lui a giudicare dal modo in cui lo schiaffeggiavi!

— Silenzio! Non meravigliarti, ad ogni modo… quell’uomo mi sembra un buon pensatore a sangue freddo, invece di avere una mente spugnosa come Gaspard o un corpo di muscoli mistici come te.

— Un tipo a sangue freddo non andrebbe bene a letto, però.

— Non si può mai dire, fino a che non sono stati collaudati da un’esperta. Cullingham è gelido e abile, ma scommetto che se lo rapissimo, io riuscirei a strappargli il segreto dell’Editrice Pazzi.

— Pupa, se credi che io abbia intenzione di cominciare a rapire i tuoi nuovi amanti per farti un piacere…

— Silenzio! — Heloise era ormai adeguatamente eccitata e assolutamente impaziente. La sua voce non era delle più soavi e l’ordine, sibilato con forza a Homer, provocò una breve interruzione nella conversazione generale. Senza neppure badarvi, continuò: — Sto parlando di affari, Homer. Ed ecco di che si tratta: quelli della Editrice Pazzi hanno un asso nelle manica… e sono vulnerabili al rapimento!

22

— Quelli dell’Editrice Pazzi hanno un asso nella manica e sono vulnerabili al rapimento!

Le orecchie acute, ai tavoli vicini (e i microfoni direzionali a quelli più lontani), che fino a quel momento avevano afferrato soltanto frammenti del monologo di Heloise, udirono chiaramente quell’ultima frase.

Coloro che quella sera erano venuti alla Parola in caccia di allusioni e di piste in una promettente ma preoccupante crisi commerciale, decisero di aver trovato il bandolo che cercavano.

I treni dell’azione si misero in moto. Con vari gemiti, scricchiolii e tonfi figurati, le ruote cominciarono a girare. Fra tutti coloro che reagirono, i principali attori rappresentavano un vivido campionario dell’uomo dell’Età dello Spazio, ossessionato dal danaro.

Wiston P. Mears, agente con quattro stelle dell’Ufficio Federale di Giustizia, mandò a memoria il seguente promemoria per se stesso: “La Razzi ha le maniche gonfie. Uova? Cocomeri? Lattuga? Mettersi in contatto con la signorina Blushes”. Gli aspetti fantastici del Caso dei mulini-a-parole non turbavano affatto Mears. Era abituato a una società in cui quasi ogni azione di ogni individuo poteva essere considerata un reato, ma in cui qualsiasi reato commesso da gruppi od organizzazioni poteva essere giustificato almeno sei volte. Persino la dissennata distruzione dei mulini-a-parole non sembrava fuori dell’ordinario in un mondo abituato a tenere in piedi la propria economia distruggendo oggetti di valore. Mears, grassoccio e rubicondo, aveva assunto la personalità fittizia del buon Charley Hogan, un grosso coltivatore di plancton e di alghe proveniente da Baja, in California.

Gil Hart, procuraguai industriale, comprese che ora sarebbe stato in grado di riferire ai signori Zacheru e Zobel dell’Editoriale Protone che i sospetti sui loro colleghi e concorrenti diretti erano pienamente giustificati. L’investigatore privato soffiò sul bicchiere fiammeggiante e ingurgitò la tremenda sorsata di bourbon. Un sorriso raggrinzì le sue guance sfumate di azzurro. Rapimento? Avrebbe potuto darsi un po’ da fare, al riguardo, per scoprire il segreto della Razzi. Dopo tutto, il rapimento industriale era diventato un luogo comune in una società in cui due secoli di sequestri di persona perpetrati dal governo facevano ormai testo. Sarebbe stato divertente se fosse riuscito a rapire una ragazza della Razzi. Qualcuna vivace e loquace come quella esplosiva Ibsen, ma preferibilmente meno robusta. Le amazzoni dai cattivi costumi erano magnifiche, fino a che non sferravano pugni troppo forti.

Filippo Fenicchia, gangster interplanetario noto come La Garrota, sorrise ironicamente e chiuse gli occhi che erano la sola cosa viva sul suo viso lungo e pallido. Era uno dei vecchi frequentatori della Parola, che veniva a osservare quei buffoni degli scrittori; lo divertiva il fatto che la possibilità di concludere un affare lo perseguitasse perfino lì dentro. La Garrota era un uomo tranquillo, sereno nella certezza che la paura è il sentimento umano più fondamentale e duraturo, e che giocare sulla paura altrui è sempre il metodo più sicuro per ricavarne da vivere, fossero i tempi di Milone e di Clodio, di Cesare Borgia o di Al Capone. Il precedente riferimento alle uova gli si impresse nella mente. Decise che avrebbe dovuto consultare la Memoria.

Clancy Goldfarb, distributore clandestino di libri, così abile che la sua organizzazione era ufficiosamente riconosciuta come la quarta, in ordine di potenza, fra quelle che provvedevano alla distribuzione libraria, decise che molto probabilmente ciò che la Razzi aveva nella manica erano libri prodotti in surplus dai mulini. Accese un sigaro venusiano lungo una trentina di centimetri e sottile come una matita, e cominciò a elaborare il piano di una delle sue perfette rapine.

Cain Brinks era un robot scrittore d’avventure, la cui Madame Iridio era la principale rivale del dottor Tungsteno di Zane Gort. Al momento Madame Iridio e la Bestia d’Acido stava battendo nelle vendite per cinque a quattro Il dottor Tungsteno allarga un dardo con un’alesatrice. Quando udì lo stridente sussurro di Heloise, Cain Brinks per poco non lasciò cadere il vassoio carico di Martini marziani che stava portando. Per penetrare nella Parola senza farsi riconoscere, Cain Brinks si era scrupolosamente sciupato la corazza, fino al punto di butterarla, quel pomeriggio, per poter impersonare un robot cameriere.

Ora il suo masochismo lo ripagava. In un lampo capì che cosa aveva nella manica l’Editrice Razzi… uno Zane Gort deciso a diventare lo zar della narrativa umana. E cominciò a fare i suoi piani per intervenire.

Mentre avvenivano tutte queste reazioni, una strana processione si faceva strada nell’interno della Parola, muovendosi fra i tavoli verdi verso il centro della sala. Era composta da sei giovanotti snelli e arroganti che davano il braccio a sei vecchie signore ossute e arroganti, seguiti da un robot tempestato di gemme che spingeva un carrello.

I giovani avevano i capelli lunghi e indossavano maglioni neri dal collo alto e aderenti calzoni neri. Le vecchie indossavano aderenti abiti da sera di lamé d’oro e d’argento, ed erano sovraccariche di abbaglianti collane, braccialetti, pendenti e tiare di brillanti.

— Mio Dio, pupa — riassunse succintamente Homer Hemingway, — guarda quelle vacche milionarie e quegli effeminati vestiti di nero, per favore.

Il corteo si fermò proprio accanto al loro tavolo. La femmina che lo guidava e i cui brillanti erano così grossi e scintillanti da fare male agli occhi, si guardò intorno con aria altezzosa.

Homer, la cui mente assonnata vagabondava come quella di un bambino, disse lamentosamente a Heloise: — Vorrei sapere quanto tempo ci metterà quella piccina a portarmi il latte. Se ci mette dentro qualche eccitante…

— Un afrodisiaco, più probabilmente, se pensa che tu ne valga la pena — gli disse Heloise, in un rapido sussurro, mentre fissava affascinata i nuovi arrivati.

La femmina indiamantata annunciò, con un tono di voce adatto a rabbuffare un fattorino: — Stiamo cercando il capo del sindacato scrittori.

Heloise, che non si lasciava mai cogliere di sorpresa, balzò su.

— Sono il membro di più alto rango del comitato esecutivo.

La femmina la squadrò da capo a piedi.

— Lei va bene — disse. Batté due volte le mani. — Parkins! — chiamò.

Il robot costellato di gioielli spinse avanti il carrello. Vi erano ammonticchiate in bell’ordine venti colonne, alte quattro piedi, di sottili libri rilegati le cui sovraccoperte elegantemente intonate avevano a loro volta una lucentezza gemmea. In cima al mucchio c’era un oggetto dalla forma irregolare avvolto di seta bianca.

— Noi siamo Gente di Penna — annunciò la femmina guardando in faccia Heloise e parlando con i toni penetranti che una imperatrice userebbe in una rumorosa piazza del mercato. — Per oltre un secolo noi abbiamo preservato le tradizioni del vero scrivere creativo, nelle nostre cerchie selezionate, in attesa del giorno glorioso in cui le orride macchine che confondono le nostre menti sarebbero state distrutte e lo scrivere sarebbe ritornato ai suoi unici veri amici… gli ispirati e devoti dilettanti. Per anni e anni abbiamo spesso esecrato il vostro sindacato per la sua complicità nella congiura intesa a fare dei mostri metallici i nostri padroni spirituali: ma ora desideriamo riconoscere il vostro coraggio nel distruggere i tirannici mulini-a-parole. Perciò, vi faccio dono di due pegni della nostra stima. Parkins!

Il costosissimo robot aprì la seta bianca, rivelando una statua d’oro, lucente come uno specchio, raffigurante un giovane nudo che affondava una enorme spada nel diaframma di un mulino-a-parole.

— Guardate! — gridò la femmina. — È opera di Gorgius Snelligrew, eseguita, fusa e levigata in un solo giorno. È posata sull’intera produzione letteraria della Gente di Penna durante l’ultimo secolo… Gli snelli candelieri, avvolti in sovraccoperte pastello cosparse di polvere di gemme, grazie ai quali abbiamo tenuto viva la fiamma della letteratura durante l’arida età delle macchine ora conclusa: millesettecento volumi di versi immortali!

Suzette scelse quel momento per arrivare ancheggiando e reggendo una coppa di cristallo piena di liquido bianco, dalla quale si levava una fiamma azzurra alta mezzo mètro.

La posò di fronte a Homer e la coprì per un attimo con un piatto d’argento.

Poi tolse il piatto. La fiamma era scomparsa e l’insopportabile puzzo della caseina bruciata riempì l’aria.

Con un’ultima mossa delle sue anche impertinenti, Suzette annunciò: — Ecco qui, caldo al punto giusto… il vostro latte alla fiamma, M’sieu.

23

Flaxman e Cullingham sedevano fianco a fianco nell’ufficio ripulito per metà.

Joe la Guardia aveva ricevuto l’ordine di andare a letto: era in uno stato di assoluta prostrazione, dopo una notte di incessanti pulizie. Dormiva su una branda nella toeletta maschile, con la sua pistola-puzzola sotto al cuscino, insieme a una compressa violetta di Odor-Ban che Zane Gort gli aveva messo prudentemente vicino. Zane e Gaspard, che si erano presentati al lavoro all’alba, erano stati spinti fuori per mettere a letto Joe e poi per controllare i sistemi antifurto di tutti i magazzini che avevano un contenuto di valore inestimabile, costituito dai libri mulinati di fresco.

I due soci erano soli. Era quell’ora immacolata che, in una giornata di affari, precede l’inizio dei guai.

Quindi Flaxman la macchiò.

— Cully, so che riusciremo a convincere le uova, ma, nonostante tutto, l’intero progetto non mi entusiasma — disse tristemente.

— Dimmi perché, Flaxie — rispose tranquillo l’altro. — Credo di avere una specie di intuizione.

— Ecco il mio caro papà mi ha fatto venire un complesso delle teste d’uovo. Una fobia, potresti dire. Un accidente di fobia… fino ad ora non mi ero accorto di quanto fosse grande. Vedi, papà considerava le uova come un sacro pegno che doveva essere custodito come un grande segreto, da celarsi perfino a quasi tutti i membri della famiglia: quella specie di sacro pegno che un tempo avevano le vecchie famiglie aristocratiche inglesi. Sai, nel sotterraneo c’è l’originale in ghisa della corona d’Inghilterra, custodita da un mostro bavoso a forma di rospo; o forse c’è un prozio immortale che è impazzito alle Crociate, è diventato verde e scaglioso e deve bere il sangue di una vergine ogni volta che c’è la luna piena. O forse è una combinazione di una cosa e dell’altra, e nel sotto-sotterraneo, nella segreta più profonda, custodiscono il legittimo re d’Inghilterra di sette secoli prima, solo che ora è diventato un mostro a forma di rospo e deve bere una vasca piena di sangue di vergine ogni volta che spunta la luna… in ogni caso, c’è questo sacro pegno che custodiscono e che devono giurare di conservare, e quando il figlio ha tredici anni il padre deve dirgli tutto, con un mucchio di domande e risposte rituali, come Chi Grida Nella Notte? È il pegno, Cosa Dobbiamo Dargli? Quello Che Vuole, Cosa Vuole? Un Secchio Di Sangue, e così via e poi quando il padre ha detto tutto al ragazzo e gli fa vedere il mostro, il ragazzo ha un attacco di cuore e da allora non è più capace di far niente, se non pasticciare in biblioteca e in giardino e di dire la verità a suo figlio, quando sarà il momento. Capisci cosa intendo dire, Cully?

— Pressappoco — rispose giudiziosamente l’altro.

— Be’, comunque è così che il comportamento di mio padre mi ha spinto a considerare il Trust dei Cervelli. Dio, quel nome mi ha fatto impressione fin dall’inizio! Anche quando ero bambino sapevo che c’era qualcosa che puzzava di malaugurio, nei precedenti della mia famiglia. Il mio caro papà era allergico alle uova e non ammetteva l’argenteria sulla tavola, neppure placcata. Una volta cadde svenuto quando un nuovo robot inglese, arrivato fresco fresco da Sheffield, gli portò per colazione un uovo posato, guscio e tutto, su un portauovo d’argento. E una volta mi portò a una festa per bambini e si sentì male durante una gara che non era stata annunciata, sai, una di quelle in cui i bambini devono far rotolare le uova. E poi c’erano le misteriose telefonate che io intraùdivo a proposito della Nursery e che, secondo me, era quella in cui dormivo io; e sono stato terribilmente male, lascia che te lo dica, la volta in cui sentii papà dire (fu durante i Terzi Moti Anti Robot) “Credo che dovremmo tenerci pronti a portarli sottoterra e a fare saltare in aria la Nursery con un solo istante di preavviso, giorno o notte”.

“Per peggiorare la situazione, papà non era il tipo che amava aspettare; e non avevo ancora nove anni, altro che tredici!, quando mi portò alla Nursery, alla loro Nursery, e me li presentò tutti e trenta. Dapprima pensai che fossero una specie di menti-robot, naturalmente, ma quando mi disse che dentro ciascuno di essi c’era un cervello vero, caldo e umido, gettai via i biscotti e per poco non vomitai. Ma papà mi costrinse ad ascoltare e a vedere fino alla fine, e poi mi portò a una lezione di equitazione… papà apparteneva alla vecchia scuola. Una delle teste d’uovo mi disse: ‘Tu mi ricordi un mio nipotino che morì ottantenne centosette anni or sono’. Ma il peggio fu quello che mi rise in faccia e mi disse: ‘Ti piacerebbe venire qui dentro con me, piccolo?’.

“Be’ in seguito sognai per settimane le teste d’uovo, tutte le notti, e i sogni avevano sempre la stessa spaventosa conclusione realistica. Io ero a letto nella mia Nursery e la porta si apriva senza far rumore nell’oscurità e entrava, galleggiando a due metri dal pavimento, con gli occhi simili a fiochi carboni accesi, una di quelle cose con quello spaventoso aspetto da cranio semifinito con l’enorme calotta metallica”.

La porta dell’ufficio si aprì, senza far rumore.

Flaxman si raddrizzò sulla sua sedia, in modo che il suo corpo si trovò a un angolo di quarantacinque gradi rispetto al pavimento. Gli occhi gli si chiusero e un tremito (non forte ma evidente) lo scosse.

Ritto sulla soglia c’era un robot, sciupato al punto da sembrare butterato.

— Chi sei, ragazzo? — chiese freddamente Cullingham.

Dopo cinque secondi buoni, il robot rispose: — L’elettricista signore — e levò la chela destra alla fronte brunita e quadrata in saluto militare. Flaxman riaprì gli occhi.

— E allora ripara la serratura elettrica di quella porta! — ruggì.

— Subito signore — disse il robot con un nuovo vivace saluto. — Non appena avrò sistemato la scala mobile. — E richiuse di scatto la porta.

Flaxman fece per alzarsi, poi si lasciò ricadere sulla sedia. Cullingham disse:

— Strano! A parte il fatto che è così butterato, quel robot è l’immagine del rivale di Zane… sai, quello che una volta era fattorino in una banca, Cain Brinks, l’autore dei romanzi di Madame Iridio. Deve essere un modello molto più comune di quanto credessi. Bene, adesso, Flaxy, tu dici che le teste d’uovo ti danno fastidio, ma senza dubbio ti sei comportato con coraggio ieri, quando c’era qui Ruggine.

— Lo so, ma non credo di poter continuare — disse Flaxman in tono infelice. — Credevo che sarebbe stata una faccenda rapida assegnare loro un compito, sai, “Vogliamo trenta romanzi ipnotici, pieni d’azione, per giovedì prossimo!”; ma se dobbiamo parlare con loro e discutere e convincerli con le buone solo per indurii a provare… dimmi, Cully, cosa fai, tu, quando diventi nervoso?

Cullingham assunse un aspetto pensieroso per un momento, poi sorrise.

— Segreto per segreto — disse. — Tu serba il mio come io serberò il tuo. Vado da madame Pneumo.

— Madame Pneumo? Ho già sentito altre volte quel nome, ma non sono mai riuscito ad ottenere una spiegazione.

— Proprio così — disse Cullingham. — Molti uomini pagano somme con tre zeri soltanto per ottenere le spiegazioni che io sto per darti.

24

— La casa di madame Pneumo — cominciò Cullingham — è una casa di piacere molto esclusiva che appartiene ai robot, è gestita dai robot e il cui personale è composto da robot. Vedi, cinquant’anni fa o giù di lì, vi fu un robot matto che si chiamava Harry Chernik (per lo meno, io credo che fosse un robot) la cui ambizione era quella di costruire robot che fossero esternamente del tutto simili ad esseri umani, fino all’ultimo particolare anatomico ed epidermico. L’idea dominante di Chernik era che se gli uomini e i robot fossero stati esattamente eguali, e in particolare avessero potuto fare l’amore fra di loro, non vi sarebbe stata più alcuna inimicizia fra le due razze. Chernik svolse la sua attività, vedi, circa all’epoca dei Primi Moti Anti-Robot ed era un inter-razzista convinto.

“Ebbene, naturalmente il progetto risultò essere un vicolo cieco per quanto riguardava lo scopo principale di Chernik. In maggioranza i robot non avevano nessuna voglia di sembrare esseri umani, e per giunta tutto lo spazio nell’interno di un robot di Chernik era occupato da meccanismi che dovevano metterlo in grado di imitare perfettamente il comportamento di un essere umano a letto e in altre semplici azioni necessarie nei rapporti sociali (perfetti controlli muscolari, di temperatura, di umidità, di suzione e così via) e di conseguenza non c’era più posto per nient’altro. A parte le loro straordinarie capacità amatorie, i robot di Chernik erano completamente privi di mente: non erano affatto veri robot, ma semplici automi: e per mettere insieme un vero robot e un automa di Chernik nello stesso involucro che avesse l’aspetto di una ragazza, si sarebbe ottenuto un mostro alto tre metri oppure grosso come la donna-cannone di un circo.

“Inoltre, come ti dicevo, risultò che in maggioranza i robot non erano entusiasti dell’idea: volevano essere di agile, duro metallo e nient’altro; un robot o una robicchia morbidi e bulbosi che avessero l’aspetto d’un essere umano, anche di un essere umano bellissimo, avrebbero subito l’ostracismo e sarebbero per sempre stati esclusi dai loro particolari piaceri, specialmente da tutti gli atti di tenerezza tra robot e robicchie.

“Chernik ne fu affranto. Come certi antichi rajah, si stese su un letto enorme circondato da tutte le sue creature più seducenti, appiccò il fuoco alle cortine cremisi del letto e poi si uccise per elettrocuzione. Chernik era matto, vedi.

“I robot che lo finanziavano, però, non erano matti. Avevano sempre avuto in mente alcuni usi sussidiari altamente redditizi, per gli automi di Chernik, anche se a lui non avevano mai confidato le loro idee. Quindi spensero il fuoco, salvarono gli automi, e quasi immediatamente li misero al lavoro in una istituzione riservata ai maschi umani, limitandosi ad aggiungere alcune garanzie igieniche ed economiche cui l’immaginazione essenzialmente idealistica di Chernik non aveva mai pensato”.

Cullingham corrugò la fronte.

— Non so, in realtà, se abbiamo mai fatto qualcosa di simile con gli automi maschi che Chernik dovrebbe avere creato: questa piccola organizzazione di robot è straordinariamente discreta. Ma le loro femmequine, come sono chiamate qualche volta, furono un grande successo. Naturalmente il fatto che fossero prive di intelligenza le rendeva molto attraenti, e in ogni caso questo non impediva che in esse si potesse inserire qualche nastro o qualche meccanismo speciale per compiere qualunque gesto o per mormorare qualunque fantasia che un cliente desiderasse. La cosa migliore, forse, era che qualunque commercio carnale con loro non comportava assolutamente alcun senso di legame, di conflitto o di timore delle conseguenze.

“Inoltre vennero aggiunte speciali caratteristiche che resero le femmequine particolarmente attraenti per gli uomini più schizzinosi, fantasiosi ed esigenti, come me.

“Perché, vedi, Flaxie, l’organizzazione dei robot non soltanto aveva salvato gli automi femmine di Chernik, ma altresì tutti i suoi brevetti e procedimenti segreti. Dopo un po’, cominciarono a costruire femmequine fuori serie, donne che erano meglio delle donne vere o per lo meno erano molto più interessanti se tu hai una passione per il tipo outré”. Cullingham si animò un poco, e macchie di colore apparvero sulle sue guance pallide. “Puoi immaginare, Flaxie di avere a che fare con una ragazza che è tutta velluto o peluche, o che davvero diventa tutta calda o tutta fredda, o che ti può cantare sottovoce una sinfonia a piena orchestra, o magari il Bolero di Ravel, o che ha i seni leggermente prensili o zone dell’epidermide lievemente elettrizzate, o che ha qualche lineamento, non troppo marcato, si intende, di una gatta o di un vampiro o di una piovra, o ha i capelli come quelli di Medusa o di Shambleau, che sono vivi e ti accarezzano, o che ha quattro braccia come Shiva, o una coda prensile lunga otto piedi… e nello stesso tempo è perfettamente innocua, non può darti noia, né contagiarti, né dominarti in ogni modo? Non voglio parlare come un libro in brossura, Flaxie, ma credi, è un piacere assoluto!”

— Per te forse — disse Flaxman, guardando il socio con una certa apprensione. — Ehi, adesso capisco perché, con quei gusti, ieri ti sei fatto venire i brividi quando quella Ibsen ha cominciato a guardarti con l’acquolina in bocca.

— Non ricordarmelo! — supplicò Cullingham, impallidendo.

— D’accordo. Bene, come volevo dire, le femmequine fuori serie di madame Pneumo possono essere adatte per te (ciascuno ha i suoi gusti!), ma io… non mi calmerebbero per niente; anzi, ho paura che convertirebbero il mio nervosismo in ribrezzo, proprio come quelle spaventose teste d’uovo che negli incubi della mia infanzia venivano a volteggiare nell’oscurità, per poi tuffarsi sotto al letto e risalire, preparandosi a uccidermi.

Per la seconda volta, la porta dell’ufficio si spalancò. Flaxman si esibì in una versione moderata della sua precedente reazione, ma diede l’impressione di essere comunque profondamente scosso.

Un uomo robusto dal mento blu, che indossava una tuta color cachi, li guardò e poi spiegò bruscamente: — Azienda elettrica. Normale ispezione dei guasti. Vedo che la vostra serratura elettrica non funziona. Prenderò nota. — E si tolse il taccuino dalla tasca.

— Il robot che sta riparando la scala mobile aggiusterà anche quella — disse Cullingham osservando pensieroso l’uomo.

— Non ho visto nessun robot quando sono salito — rispose l’altro. — Secondo me, sono tutti sporchi mascalzoni di latta o idioti di latta. Ne ho licenziato uno proprio ieri sera. Beveva corrente ad alto voltaggio durante il lavoro. Deve aver fatto fuori qualche centinaio di ampère. Andremo in rovina in due settimane, se quello trova il modo di continuare.

Flaxman riaprì gli occhi.

— Sentite, mi fareste un grosso favore? — disse ansioso all’uomo che stava sulla soglia. — So che siete un ispettore, ma non c’è niente di illegale e io vi ricompenserò adeguatamente. Ma aggiustate la serratura elettrica di quella porta, subito.

— Sarò lietissimo di accontentarvi — sogghignò l’uomo. — Non appena avrò preso la borsa dei ferri — aggiunse, indietreggiando rapidamente e richiudendo la porta.

— Strano — disse Cullingham — quell’uomo è la copia perfetta di un certo Gil Hart che faceva l’investigatore privato e il procuraguai industriale quando l’ho conosciuto, cinque anni fa. O era il suo gemello, oppure Gil è andato in rovina. Oh, be’, non è un guaio, era un uovo marcio.

Flaxman batté automaticamente le palpebre a quelle parole. Fissò per un lungo attimo la porta chiusa e temporaneamente tranquilla, poi scrollò le spalle.

— Cosa stavi dicendo, Cully, a proposito delle teste d’uovo? — chiese.

— Non stavo dicendo niente — fece con dolcezza Cullingham. — Ma eccoti il piano che ho meditato questa notte. Inviteremo due o tre uova, non Ruggine, questa volta, a venire in ufficio. Gaspard può aiutare a portarle, ma non dovrà essere qui, durante il colloquio e non dovrà esserci neppure una delle bambinaie: costituiscono una distrazione. Gaspard può riaccompagnare la bambinaia, o qualcosa del genere, mentre noi faremo una bella chiacchierata di due o tre ore; io presenterò certa roba e forse farò qualcosa alle uova, e credo che le convincerò a scrivere. Mi rendo conto che per te sarà dura, Flaxie, ma se a un certo momento andrà troppo male, potrai uscire e riposarti mentre io continuo.

— Credo che sarà meglio fare così — disse rassegnato Flaxman. — Dobbiamo ottenere dei libri da quegli orrori, o siamo finiti. E per me vedermeli qui, posati sui loro cercini neri mentre mi fissano, non sarà poi tanto peggio che ricordare il modo spaventoso in cui entravano…

Questa volta la porta si aprì così lentamente e dolcemente che lo sguardo non riusciva a cogliere il senso del movimento: il battente era quasi completamente spalancato quando i due se ne accorsero. Questa volta Flaxman si limitò a chiudere gli occhi, con un lampo bianco finale, come se avesse rivolto di scatto le pupille verso l’alto.

Ritto sulla soglia c’era un uomo alto e magro, dalla carnagione non molto più viva del suo abito grigiocenere. Gli occhi cavernosi, la lunga faccia sparuta, le spalle aggobbite e il petto incavato lo facevano assomigliare a un pallido cobra appena levato dal cesto di vimini.

— Cosa volete, signore? — chiese Cullingham.

Senza aprire gli occhi, Flaxman aggiunse, con voce molto stanca: — Se vende elettricità, noi non ne compriamo.

L’uomo grigio sorrise lievemente. E questo accentuò la sua somiglianza con un cobra. Ad ogni modo disse con voce che era tuttavia sibilante: — No. Curiosavo soltanto. Ho pensato che, siccome era tutto aperto e deserto, questo fosse uno degli edifici sinistrati in vendita.

— Non avete visto gli elettricisti al lavoro, lì fuori? — chiese Cullingham.

— Non c’è nessun elettricista qui fuori — disse l’uomo grigio. — Va bene, signori, me ne andrò. Fra due giorni riceverete la mia offerta.

— Qui non c’è niente in vendita — l’informò Flaxman. L’uomo grigio sorrise.

— Manderò comunque la mia offerta — disse. — Sono un tipo molto insistente e temo che lorsignori dovranno tener conto della mia ostinazione.

— Be’, voi chi siete, comunque? — domandò Flaxman. L’uomo grigio sorrise per la terza volta, mentre richiudeva lentamente la porta dietro di sé, e disse: — I miei amici mi chiamano, forse per la mia ferrea persistenza, La Garrota.

— Strano — disse Cullingham quando la porta si fu richiusa. — Anche quell’uomo mi ricorda qualcuno. Ma chi? Ha una faccia da Cristo siciliano… Strano!

— Cos’è una garrota? — chiese Flaxman.

— Uno stretto collare di ferro — rispose freddo Cullingham — con una vite per rompere l’osso del collo. Un’invenzione degli allegri vecchi spagnoli. Tuttavia, La Garrota potrebbe anche significare Nodo Scorsoio.

Mentre pronunciava quelle ultime parole, le sue sopracciglia si alzarono. I due soci si guardarono in faccia.

25

Il lied di Robert Schumann Non piangerò ispira un sentimento di terribile e gloriosa solitudine con le sue immagini germaniche di amori perduti, di splendori diamantini, di serpenti ravvolti in spire che addentano cuori gelati nell’eterna notte, ma è anche più impressionante quando viene cantato in una discordia stranamente armoniosa da un coro di ventisette cervelli sigillati.

Finalmente l’ultimo sommesso nicht svanì in un brivido, e Gaspard de la Nuit applaudì senza far troppo rumore. Adesso aveva i capelli tagliati cortissimi e sul suo viso i lividi erano diventati d’un bel porpora verdastro. Si tolse dalla tasca un pacchetto di sigarette e ne accese una.

La signorina Bishop saettò tutto intorno nella Nursery per staccare gli altoparlanti con una rapidità di scoiattolo, anche se questo non fu sufficiente per sfuggire a una salva di fischi, di risate maligne e di ululati emessi dalle menti incapsulate.

Quando tornò indietro riassestandosi un ricciolo che si era impercettibilmente spostato, Gaspard le disse: — È proprio come un dormitorio pubblico.

— Mettete via quella sigaretta, qui non si può fumare. Sì, avete ragione, a proposito dei marmocchi. Hanno una quantità di manie: le ultime sono per la storia bizantina e per un sistema di comunicazione per mezzo dei colori con gli altoparlanti illuminati su tutta la gamma dell’iride. Litigi, ripicche… qualche volta due rifiutano di farsi collegare uno all’altro e continuano così per settimane intere. Critiche, lagnanze, gelosie… io parlo con Mezza Pinta più che con gli altri, lui è il preferito dalla maestra, ho dimenticato di inserire il sistema audiovisivo di Verde, non posso mettere l’occhio di Grosso esattamente dove vuole lui, è sempre così… o forse è perché ero in ritardo di due minuti e di diciassette secondi per fare a Graffo il suo bagno audiovisivo, che è un flusso di colore e di suono con il quale si tonificherebbero solo le zone sensorie, solo che non possiamo vederlo o sentirlo, grazie al cielo. Mezza Pinta dice che è come un Niagara di soli.

“E che capricci, buon Dio… qualche volta uno di loro non vuole dire una parola per un mese intero e io devo blandirlo e blandirlo, o fare finta di niente, il che è più difficile ma dà risultati migliori, a lungo andare. E come si scimmiottano scioccamente… Se uno di loro inventa un nuovo stupido modo di comportarsi, subito dopo tutti gli altri lo imitano. È come avere a che fare con una famiglia di geni mongoloidi. La signorina Jackson, che ha una passione per la storia, li chiama i Trenta Tiranni, come certi tali che un tempo dominarono Atene. Sono una preoccupazione interminabile. Qualche volta credo di non avere altro da fare, al mondo, se non cambiare le fontanelle”.

— Proprio come se fossero pannolini — disse Gaspard.

— Voi pensate che sia buffo — disse la signorina Bishop — ma nei giorni in cui c’è una carica d’odio eccezionale nella Nursery, le fontanelle puzzano. Il dottor Krantz dice che è tutta immaginazione, ma io sento veramente quell’odore. Si diventa sensibili, lavorando qui. E anche intuitivi, anche se non ne sono sicura: qualche volta è soltanto preoccupazione. Adesso sono preoccupata per quei tre marmocchi che sono all’Editrice Razzi.

— Perché? Flaxman e Cullingham mi sembrano ragionevoli e responsabili, anche se sono dei pazzi di editori. E poi c’è Zane Gort, con loro. È assolutamente degno di fiducia.

— Lo dite voi. Secondo me, i robot sono quasi tutti stupidi. Sono sempre occupati a dare la caccia ai Golem quando hai bisogno di loro, e poi ti danno una eccentrica spiegazione logica dieci giorni dopo. Le robicchie sono più solide. Oh, Zane è un tipo a posto, immagino. È che io sono nervosa.

— Temete che i cervelli si spaventino o si turbino, se li si allontana dalla Nursery?

— È più probabile che finiscano per irritare qualcuno fino al punto di indurlo a tirarli contro qualcosa. Quando si lavora vicino a loro, come faccio io, viene voglia di prenderli e di fracassarli almeno dieci volte al giorno. Siamo a corto di personale: ci sono soltanto tre bambinaie, oltre a me, alla signorina Jackson e al dottor Krantz, che viene solo due volte la settimana, e a babbo Zangwell, che non è precisamente un grande appoggio.

— Lo credo bene che abbiate i nervi a pezzi — disse asciutto Gaspard. — Ne ho avuto una dimostrazione.

La ragazza sogghignò.

— Vi ho fatto proprio esplodere ieri sera, eh? Ho fatto tutto quello che potevo per mandare a pezzi la vostra sicurezza maschile e per rovinarvi il sonno.

Gaspard scrollò le spalle.

— Ieri sera sarebbe accaduto lo stesso anche senza bisogno di voi, cara signorina Bishop — le disse. — Non avevo niente di nuovo da leggere, e senza lettura dormo poco e mi sveglio all’improvviso. Ma quello che mi avete detto ieri sera a proposito del sesso… — Si interruppe, e girò lo sguardo sulle silenziose uova argentee. — Ehi, possono sentire quello che stiamo dicendo? — chiese con voce smorzata.

— Certo che possono — rispose lei a voce alta e soddisfatta. — Quasi tutti hanno innestato il complesso audiovisivo. Non vorrete che io li stacchi e li metta al buio solo perché vi sentiate in perfetta intimità? Devono rimanere disinseriti cinque ore al giorno, in ogni caso. Dovrebbero dormire, allora, ma tutti giurano che non dormono mai, al massimo hanno quello che loro chiamano “sogni neri”. Hanno scoperto che la coscienza non si spegne mai completamente, dicono… qualunque cosa ne pensiamo noi, oberati dai nostri corpi. Quindi potete dire tutto quello che volete, Gaspard, e dimenticare la loro presenza.

— Eppure… — disse Gaspard, guardandosi di nuovo intorno dubbiosamente.

— Non me ne importa di quello che mi sentono dire — fece la signorina Bishop, poi gridò: — Avete capito, vecchi sudicioni e vecchie lesbiche pelose?

— Fiiiiiu!

— Zane Gort, chi vi ha fatto entrare? — domandò lei, voltandosi verso il robot.

— Il vecchio signore nell’atrio — rispose rispettosamente Zane.

— Volete dire che siete riuscito a farvi dare per ipnosi la combinazione da Zangwell, mentre lui se ne sta sdraiato a russare e a profumare l’aria per sette metri tutt’intorno? Deve essere meraviglioso essere un robot… niente odorato. O voi l’avete?

— No, non ne sono dotato, se non per pochi potentissimi prodotti chimici che solleticano i miei transistor. E sì, è veramente meraviglioso essere un robot e vivere al giorno d’oggi — ammise Zane.

— Ehi, ma voi dovreste essere all’Editrice Razzi a fare da babysitter a Mezza Pinta, a Nick e a Doppio Nick — disse la signorina Bishop.

— Avevo detto che l’avrei fatto, è vero — disse Zane. — Ma il signor Cullingham ha detto che avevo una influenza disturbatrice sulla discussione, quindi ho chiesto alla signorina Blushes di sostituirmi.

— Bene, è già qualcosa — disse la signorina Bishop. — La signorina Blushes mi sembra un’anima solida e sensata, nonostante il suo piccolo attacco di nervi di ieri.

— Sono lieto di sentirvi dir questo. Voglio dire, sono contento che provi simpatia per la signorina Blushes — disse Zane. — Signorina Bishop, potrei… non vorreste…

— Cosa posso fare per voi, Zane? — chiese la ragazza.

Lui esitò.

— Signorina Bishop, vorrei il vostro consiglio su una faccenda piuttosto personale.

— Naturalmente. Ma a che vi servirebbe il mio consiglio in una faccenda personale? Non sono un robot e mi vergogno di ammettere che li conosco pochissimo.

— Lo so — disse Zane. — Ma mi avete dato l’impressione di possedere un eccezionale buon senso, un istinto che vi porta diritto al cuore di un problema, il che è molto raro, credetemi, negli uomini di carne e di metallo… e anche nelle donne. E i problemi personali mi sembrano straordinariamente simili per tutti gli esseri intelligenti o quasi intelligenti, siano organici o inorganici. Il mio problema è altamente personale, fra parentesi.

— Devo andarmene, Vecchia Batteria? — chiese Gaspard.

— No, resta, ti prego, Vecchia Ghiandola. Signorina Bishop, come forse avrete notato, io provo uno speciale interesse per la signorina Blushes.

— È una creatura attraente — commentò la signorina Bishop senza batter ciglio. — Intere generazioni di donne di carne avrebbe venduto l’anima per avere un vitino di vespa e curve lisce come le sue.

— Verissimo. Forse è troppo attraente… comunque, in quanto a questo non ho problemi. No, è il lato intellettuale che mi turba, l’aspetto della comunanza mentale. Sono sicuro che avrete notato come la signorina Blushes sia un po’… no, non giochiamo con le parole… sia veramente molto stupida. Oh, so di averlo imputato allo shock che ha subito quando è stata aggredita durante i tumulti (pessima azione, aggredire un robot che cammina, un vero robot) ma temo che sia piuttosto stupida proprio per natura. Per esempio, si è seccata moltissimo, mi ha detto, per la conferenza sull’antigravità che ho tenuto al Club degli Hobby ieri sera. Ed è molto puritana, come ci si può aspettare dalla concezione professionale che le è innata… ma il puritanesimo restringe gli orizzonti della mente e non c’è niente da fare, anche se la pruderie ha un suo fascino piuttosto pericoloso. Quindi, ecco il mio problema: attrazione fisica, ma un abisso mentale. Signorina Bishop, voi siete femmina e io vi sarei profondamente grato se mi deste la vostra opinione. Fino a che punto credete che io debba spingermi con quella affascinante robicchia?

La signorina Bishop lo fissò.

— Bene, farò la consigliera sentimentale per robot — disse.

26

La signorina Bishop alzò in fretta la mano. — Scusatemi, Zane, vi prego di scusarmi — disse. — Non volevo essere ironica. Mi avete semplicemente colta alla sprovvista. Farò del mio meglio per rispondere alla vostra domanda. Ma, tanto per cominciare, dovrete dirmi fino a che punto arrivano i robot nei loro rapporti intimi. Oh, Signore, adesso sembrerà che io faccia di nuovo dell’ironia, ma sinceramente, non sono troppo sicura della mia conoscenza. Dopotutto, voi siete non solo una specie diversa, siete una specie artificiale, capace di evoluzione per mezzo dell’alterazione e della fabbricazione, il che rende difficile tenersi al passo con voi. E poi, dall’epoca dei tumulti, gli uomini e i robot sono sempre stati molto guardinghi gli uni nei riguardi dei sentimenti degli altri, nel timore di sconvolgere l’attuale stato di coesistenza pacifica; si sono mossi in punta di piedi invece di parlare chiaro, e questo spiega la nostra reciproca ignoranza. Oh, so che siete divisi in robot e robicchie, e che questi due sessi trovano conforto l’uno nell’altro, ma oltre a questo punto io sono un po’ confusa.

— Comprendo perfettamente — le assicurò Zane. — Bene, per farla breve ecco di che si tratta. La sessualità robotica emerse allo stesso modo della letteratura robotica e su quest’ultima io sono veramente una autorità, anche se sono ancora in debito fino alle mie piastre facciali verso il mio costruttore e se continuo a dividere con lui i miei diritti d’autore nella misura di quaranta e sessanta per cento; vedete, non è facile essere una macchina libera professionista, si è lanciati nella vita con il carico di un debito pesantissimo, dal momento che costiamo all’incirca quanto un incrociatore spaziale o un satellite da ricerca, e ci si riduce quasi in miseria soltanto per pagare gli interessi, mentre le normali riparazioni, sostituzioni di pezzi e re-sintonizzazioni costano una somma dieci volte superiore al conto del medico d’un ipocondriaco. Qualche volta si finisce per sognare, come facevano i liberti dell’antica Roma, quanto sarebbe stato molto più semplice e più sicuro essere uno schiavo, posseduto e mantenuto da qualcun altro, una macchina spensierata senza responsabilità.

“Ma sto divagando. Quello che volevo spiegarvi, è il modo in cui nacque la letteratura robotica, è un background che vi aiuterà a capire la sessualità dei robot. È così, cari umani, mettetevelo in testa! — E fece lampeggiare brevemente il suo faro verso Gaspard e verso la signorina Bishop, in un equivalente robotico di un sogghigno.

— I primi veri robot — cominciò, — erano asessuati o piuttosto protosessuati; erano dotati di una intelligenza elevata e sapevano fare bene il loro lavoro (a questo riguardo gli umani non si poterono mai lamentare), ma erano soggetti a crisi di depressione estrema, che spesso si manifestava in una esagerata psicologia da schiavi e portava a una specie di malinconia o di psicosi involutiva che perfino l’elettroshock era impotente a guarire e che provocava un rapido deterioramento generale concluso dalla morte.

“Poche persone capivano, allora, con quanta facilità potevano morire i robot, e in quanto a questo anche oggi sono ben pochi a capirlo, per sant’Isaac! Non riuscivano a comprendere il temibile mistero di come l’agitarsi degli elettroni in circuiti complessi potesse dare origine a una mente cosciente, e non avevano idea di come facilmente quella mente potesse spegnersi. Perfino oggi la gente sembra credere che un robot non abbia bisogno di essere cosciente, credono che lo si possa fare a pezzi e riporlo in magazzino per giorni o decenni e che torni a essere lo stesso robot, quando lo si rimonta! Per Sant’Isaac, non è così! Soltanto un rivolo di coscienza può mantenere un robot vivo ed essenzialmente se stesso, ma una volta che il flusso della coscienza è interrotto, ad esempio dallo smantellamento, quel robot muore… e qualsiasi essere costruito con una qualunque delle sue parti è un altro robot, uno zombie metallico. Ecco perché noi robot dobbiamo costituirci in organizzazioni e invocare la legge per proteggerci: per noi l’elettricità rappresenta ciò che per voi è rappresentato dall’acqua e dall’aria!

“Ma ancora una volta ho divagato. Stavo dicendo che i robot protosessuati di modello primitivo soffrivano quasi invariabilmente di malinconia e di psicosi involutiva, caratterizzata da una psicologia da schiavo.

“Ora, in quei tempi primitivi vi fu una robot occupata come cameriera e dama di compagnia presso una ricca signora venezuelana. Spesso leggeva dei romanzi alla sua padrona, un compito piuttosto raro, ma non eccezionale. Questa robot (allora non c’erano robicchie, naturalmente, anche se la sua padrona la chiamava Maquina) stava dando i segni d’una malinconia della specie peggiore, sebbene il meccanico… pensate, a quei tempi non c’erano guaritori per robot… lo nascondesse alla padrona. In realtà, il meccanico rifiutava persino di ascoltare i sogni altamente sintomatici di Maquina. Questo avveniva in un’epoca in cui gli umani, per quanto possa sembrare incredibile, rifiutavano ancora di credere che i robot fossero veramente vivi e coscienti, anche se questi fatti erano stati legalmente riconosciuti in molti Paesi. Infatti, nelle nazioni più evolute, i robot avevano vinto la loro lotta antischiavista ed erano stati riconosciuti come macchine libere professioniste, cittadini metallici del Paese cui apparteneva la fabbrica che li aveva prodotti: un progresso, tuttavia, che si rivelò come un vantaggio maggiore per gli uomini che per i robot, poiché era infinitamente più comodo, per un uomo, starsene tranquillamente seduto a incassare i regolari pagamenti di un robot ambizioso, industrioso e coperto da una assicurazione, che non doversene occupare continuamente, assumendosi inoltre tutte le responsabilità.

“Ma vi stavo parlando di Maquina. Un giorno mostrò uno sbalorditivo miglioramento di umore… non fissava più nel vuoto, non camminava più a passo pesante e sonnolento, non si inginocchiava e non batteva più la testa sul pavimento gemendo Vuestra esclava, Señora. Si scoprì che aveva appena letto alla sua padrona (alla quale probabilmente non interessava molto, immagino) Io, robot di Isaac Asimov, e quell’antica storia di fantascienza aveva previsto con tanta esattezza e dipinto a colori così vivi la reale evoluzione dei robot e la loro psicologia che Maquina si era sentita compresa e aveva provato un grande, benefico sollievo. In quel momento fu assicurata la canonizzazione ufficiosa, da parte di noi gente metallica, del beato Isaac. I negri di latta (sono piuttosto orgogliosi di questa definizione, sapete) avevano trovato uno dei loro santi patroni.

“Potete immaginare il resto della storia: letture terapeutiche per i robot, la ricerca di buone storie di robot (molto poche), i tentativi da parte degli umani di scrivere racconti del genere, tentativi quasi completamente falliti, poiché nessuno poteva catturare il tocco magico di Asimov, i tentativi di fare compiere questo lavoro ai mulini-a-parole (anche questo fu inutile, poiché i mulini-a-parole mancavano delle immagini sensorie, del ritmo, perfino del vocabolario adeguato), e finalmente l’apparizione di robot autori come me. La malinconia robotica e la psicosi involutiva subirono una straordinaria flessione, anche se non furono completamente eliminate, mentre la schizofrenia robotica rimase quasi inalterata. A questo doveva provvedere una scoperta ancora più clamorosa.

“Ma la nascita della letteratura robotica e dell’attività scrittoria dei robot fu un grandioso progresso in se stesso, a parte i benefici medici, soprattutto perché si verificò nel tempo in cui gli scrittori umani si arrendevano e lasciavano che i mulini-a-parole prendessero il sopravvento. I mulini-a-parole! Neri tessitori, privi di mente, di seducenti ragnatele di sensualità e di sentimento! Grembi neri… scusa se mi scaldo tanto, Gaspard… di morte mentale! Noi robot sappiamo valutare il valore dell’essere coscienti, forse perché la coscienza è venuta a noi all’improvviso miracolosamente, e non vorremmo mai rovinarla con la produzione dei mulini, più di quanto vorremmo bruciarci i circuiti per passatempo. Naturalmente, qualche robot eccede nell’uso dell’elettricità, ma si tratta di una piccola minoranza di drogati che muoiono presto per sovraccarico, se non trovano la salvezza nell’Anonima per la Protezione degli Elettrodrogati. Lasciate che vi dica…”.

Si interruppe, perché la signorina Bishop gli stava facendo un cenno con la mano.

— Scusatemi, Zane, tutto questo è molto interessante, ma io dovrò andare a spostare i marmocchi fra dieci minuti e dovrò sbrigare qualche altra faccenda; e avevate detto che ci avreste spiegato la sessualità robotica, la sua origine e il resto.

— È vero, Zane — l’assecondò Gaspard. — Dovevi spiegarci da dove venivano i robot e le robicchie. Zane Gort girò sui due il suo unico occhio.

— Siete proprio umani — disse asciutto. — L’universo è immenso, maestoso, intricato, costellato di inesauribile bellezza, vivido di vita infinatamente variata… ed ecco, c’è solo una cosa che vi interessi veramente. La stessa cosa che vi spinge a comprare i libri, a creare le famiglie, a costruire le teorie atomiche, immagino, e, almeno un tempo, a scrivere le poesie. Il sesso.

Mentre i due si accingevano a protestare, continuò sveltamente: — Non badateci. Noi robot siamo interessati al sesso come noi lo intendiamo, con le sue squisite congruenze metalliche, le sue terribili, invadenti tempeste di elettroni, le sue impetuose violazioni dei circuiti più intimi, almeno quanto lo siete voi!

E fece lampeggiare maliziosamente il faro.

27

— Nel centro di assistenza robotica del dottor Willi Von Wuppertal, a Dortmund in Germania — cominciò Zane — quel saggio ed empatico vecchio ingegnere permetteva ai robot malati di fare esperimenti praticandosi da soli l’elettroshock, decidendo da soli il voltaggio, l’amperaggio, la durata e le altre condizioni. L’elettroshock, vedete, ha sui cervelli elettronici ammalati lo stesso effetto benefico che ha su quelli umani; ma l’elettroshock è un’arma terapeutica a doppio taglio e non si deve abusarne, come testimonia il terribile esempio costituito dagli elettrodrogati.

“I robot erano piuttosto asociali, in quei tempi, ma due di loro, uno dei quali era un modello raffinato, ultrasensibile, creato da poco, decisero di ricevere insieme la scossa, la stessa scossa, in realtà, in modo che la corrente elettrica sarebbe entrata nei circuiti dell’uno e sarebbe passata poi attraverso quelli dell’altro. Per fare questo, era necessario che prima collegassero le loro batterie e i fili dei loro motori e dei loro cervelli elettronici. Erano collegati in serie, vedete, non in parallelo. Non appena lo ebbero fatto, non appena le batterie personali furono collegate, prima che si collegassero alla sorgente esterna di elettricità, provarono un senso di meravigliosa esaltazione e un solleticante sollievo.

“Fra l’altro, signorina, questo risponde all’incirca alla vostra domanda di poco fa, quando mi avete chiesto fino a che punto possono arrivare i robot nei loro rapporti intimi. Un solo collegamento reciproco dà una lieve brivido, ma per un piacere profondo è necessario fare ventisette collegamenti simultanei maschio-femmina. In qualcuno dei modelli più recenti, che io considero un po’ decadenti, ne sono necessari trentatré”.

La signorina Bishop si mostrò improvvisamente sbalordita.

— Allora è questo che stavano facendo quei due robot la settimana scorsa dietro i cespugli in un angolo del parco — mormorò. — E io credevo che si stessero riparando reciprocamente. O che ci provassero, almeno, e che avessero ingarbugliato tutti i fili. Ma vi prego di continuare, Zane.

Zane scosse il capo.

— Qualcuno dei nostri non conosce le buone maniere — disse. — Forse sono un po’ esibizionisti. Tuttavia, il desiderio sessuale è imperioso, impetuoso, impulsivo. Ad ogni modo, dalla Grande Scoperta di Dortmund, che naturalmente ebbe come risultato la canonizzazione ufficiale di san Wuppertal, sprizzò la sessualità robotica, che divenne un fattore vitale nella costruzione o nell’alterazione di tutti i robot. C’è ancora qualche robot inalterato, in circolazione, ma sono un gruppo di robot molto infelici. Naturalmente, molto si doveva ancora imparare sul modo di prolungare il piacere e di renderlo completo, di trattenere gli elettroni fino al momento cruciale e così via, ma era stato fatto il passo più importante.

“Si scoprì ben presto che le sensazioni erano più forti e più soddisfacenti quando uno dei robot era un tipo brusco (bruncio o robosto come diciamo noi) e l’altro delicato e sensibile (silfo o icchio, come diciamo qualche volta) anche se una differenza troppo estrema fra i due può diventare pericolosa, perché al robot icchio possono saltare i circuiti. I due robot di Dortmund diventarono i modelli per i nostri sessi maschile e femminile, per i nostri robot e le nostre robicchie, sebbene entrasse in gioco anche l’abituale tendenza robotica a copiare la biologia e le istituzioni umane. Per esempio, è diventato tradizionale che un robot, un robot bruncio, voglio dire, abbia tutte le connessioni appartenenti al tipo che voi umani chiamate maschio, ossia abbia tutte spine, mentre una robicchia abbia solo connessioni femmine, o prese. Questo può rivelarsi un contrattempo spiacevole, quando una robicchia si deve collegare a una presa a muro per rifornirsi d’elettricità in caso d’emergenza. Per questo, ogni robicchia porta con sé una doppia spina, sebbene le sia motivo di imbarazzo. E comunque non si farebbe mai vedere mentre la usa, se non nella più assoluta intimità.

“Ora potete capire perché la signorina Blushes era così turbata al pensiero di essere vista con le prese scoperte mentre veniva rifornita di elettricità in condizioni di emergenza.

“Anche l’imitazione delle istituzioni umane ebbe un ruolo importante (non sempre per il meglio, forse) nel fornire uno schema per il corteggiamento e il matrimonio fra robot, nonché per certi gradi di attaccamento e per altri tipi di unione. Senza dubbio fu questo a scoraggiare la creazione di sessi aggiuntivi e di specie interamente nuove di emozioni sessuali. Dopotutto, vedete, poiché noi robot siamo una specie artificiale, e siamo fabbricati da altri robot quanto dagli umani, in teoria potremmo creare il sesso esattamente come lo vogliamo: potremmo progettare sessi completamente nuovi… roboidi, robette, robi, robotori e persino robotroie sono i nomi che sono stati proposti; potremmo escogitare nuovi organi sessuali e rapporti non necessariamente limitati a due sole persone: questa esperienza (dei circuiti a margherita, come è chiamata) è possibile, al giorno d’oggi, ma si preferisce non parlarne. In generale, noi guardiamo al sesso con una mentalità fresca e creativa.

“Questo per quanto riguarda la teoria — disse Zane con un sospiro. — In pratica, noi robot abbiamo la tendenza a copiare da vicino il sesso umano. Dopotutto, le nostre vite sono abitualmente intessute a quelle degli umani di carne, e quando si è sulla Terra ci si deve comportare in modo terrestre, specialmente a letto… o con i fili scoperti, come diciamo volgarmente noi, qualche volta.

“Inoltre, vi è senza dubbio qualcosa di decadente, devo ammetterlo, in una illimitata creazione di sessi; potrebbe diventare una mania, assorbire tutto il pensiero robotico, specialmente perché per noi il sesso è un lusso, nel senso che, sebbene essenziale per la salute elettronica, non è essenziale per la riproduzione… per lo meno non ancora.

“Una ragione pratica decisiva che ci induce a rimanere convenzionali nel nostro sesso è la paura che, se creassimo una vita sessuale riccamente variata, fantastica ed elegante, gli esseri umani, con le loro risorse biologicamente limitate in questa direzione, potrebbero ingelosirsi profondamente e risentirsi nei nostri confronti, e noi non vogliamo certamente che questo accada!

“In ogni caso, i nostri robot e le nostre robicchie sono strettamente simili ai vostri uomini e alle vostre donne. Le nostre robicchie sono generalmente di struttura più leggera, più pronte nelle reazioni, più sensibili, più adattabili, e in complesso un po’ più stabili, sebbene abbiano, ogni tanto tendenze isteriche. Mentre i nostri robot, usando questa parola per indicare i robot robosti, sono costruiti per un lavoro fisico più pesante e per i tipi più profondi di attività mentale che richiedono cervelli elettronici molto grandi: e sono suscettibili di essere un po’ monomaniaci, con qualche tendenza schizoide.

“Le relazioni fra robot e robicchie sono in genere di tipo monogamico che comporta il matrimonio o per lo meno un rapporto costante. Per fortuna quasi tutti i lavori in cui sono impiegati i robot richiedono un numero eguale di tipi bruncio e icchio. A quanto pare, noi proviamo la stessa soddisfazione di voi umani nel sapere che c’è un individuo su cui possiamo contare completamente e con cui possiamo monopolizzare le nostre preoccupazioni e le nostre gioie, sebbene, a quanto pare, possiamo condividere il vostro desiderio per una compagnia più vasta, per una maggiore empatia e per un maggior piacere condiviso.

“Eccovi dunque la sessualità robotica ridotta al nocciolo — concluse Zane. — Io spero, signorina Bishop, che questo vi dia la necessaria prospettiva per giudicare il mio problema personale, il quale è, come ripeto: fino a che punto devo spingermi con una robicchia che trovo assai bella e attraente e che pure è nello stesso tempo un po’ stupida e molto puritana?”.

La signorina Bishop corrugò la fronte.

— Ebbene, Zane, il mio primo pensiero è questo: non è possibile modificare i circuiti della signorina Blushes, in modo che diventi un po’ meno puritana? Direi che voi robot facciate sempre cose di questo genere.

— Voi scherzate — disse Zane con voce tagliente. — Oppure no, per sant’Eando Binder?

Fece rapidamente un passo verso la signorina Bishop e levò le chele aperte per strìngerle la gola.

28

La signorina Bishop impallidì e Gaspard fece per afferrare le chele di Zane, che tuttavia si fermarono a un palmo di distanza dal collo della ragazza.

— Voglio dire, è meglio che abbiate scherzato — continuò il robot enunciando ogni parola con agghiacciante precisione. — Cambiare i circuiti personali di un robot per alterare il suo comportamento è due volte peggio, per me, che praticare la psicochirurgia sugli umani. La personalità di un robot può essere alterata con tanta facilità che istintivamente lui la custodisce con la massima ferocia. — E abbassò le chele. — Scusatemi se vi ho spaventata — disse con voce più tranquilla — ma dovevo dimostrarvi quali fossero i miei sentimenti al riguardo. Ora vi prego di darmi il consiglio che vi ho chiesto.

— Be’… ehm… non saprei, Zane — cominciò incerta la signorina Bishop, lanciando a Gaspard un’occhiata di sbieco che gli sembrò più carica di esasperazione che di panico. — Fra l’altro… ehm… voi e la signorina Blushes non mi sembrate una coppia bene assortita, sebbene sia un vecchio principio umano quello del marito forte e geniale e della bella moglie sciocca: ma non sono sicura che sia un principio esatto. Il noto esperto di psicometria Sharon Rosenblum afferma che tra marito e moglie dovrebbe esserci una differenza di trenta punti nel quoziente di intelligenza, oppure nessuna differenza. Gaspard, le vostre esperienze possono gettar luce su questo problema? Quanto è stupida Heloise Ibsen?

Ignorando la domanda meglio che poté (e cioè abbastanza male, poiché finì per assumere una sciocca espressione d’alterigia) Gaspard disse: — Non voglio sembrarti volgare, Zane, ma i tuoi rapporti con la signorina Blushes includerebbero il matrimonio?

— Io non sono immacolato — rispose Zane. — Ma sì, lo includerebbero. Parlando a voi due soli, posso ammettere che molti robot sono piuttosto promiscui, specialmente quando capita l’occasione buona (e, per sant’Henry, chi può biasimarli?), ma io non sono fatto così. Giudico tale esperienza incompleta e insoddisfacente, a meno che non vi sia un rapporto prolungato al livello del pensiero, del sentimento, dell’azione… in breve, una vita insieme.

“A parte questo, nel mio caso c’è anche una considerazione molto pratica: devo pensare alle reazioni dei miei lettori. Il protagonista di un romanzo di Zane Gort è sempre un robot che ama una sola robicchia. Vilya d’Argento gli ronza intorno, affascinante da impazzire, ma il dottor Tungsteno finisce sempre per piantarla e per ritornare da Blanda, la sua compagna dorata”.

— Zane — disse la signorina Bishop — avete mai pensato che forse la signorina Blushes finge di essere più sciocca di quanto non sia in realtà? Le robicchie umane lo fanno spesso, per lusingare l’uomo che le interessa.

— Credete che sia veramente possibile? — chiese eccitato Zane. — Per sant’Hank Harrison, credo che sia proprio così! Molte grazie signorina! Mi avete dato un elemento su cui riflettere.

— Ne sono lieta. E non mi preoccuperei troppo del suo puritanesimo; per lo meno, è una vecchia tradizione umana che le donne più puritane si rivelino molto sensuali, perfino molto esigenti. Oh, Cielo è ora che giri i marmocchi e li sposti! — Cominciò a cambiare posto ai sostegni secondo un ordine incomprensibile, posando ogni tanto un uovo d’argento su una delle tavole, durante il procedimento. Quando posava un uovo, gli dava una inclinazione diversa da quella che aveva avuto prima.

— Perché? — chiese Gaspard.

— Questo modifica la pressione sul tessuto cerebrale e offre loro un po’ di varietà — disse lei, girando il capo. — Ad ogni modo, è una delle regole di Zukertort.

— Perché, Zukertort…

— Oh, sì, Daniel Zukertort stabilì un regime completo che regolava la cura dei cervelli e i loro reciproci rapporti sociali: si potrebbe chiamare la Bibbia del dormitorio. E poiché non abbiamo mai avuto un solo caso di morte, e non dovremmo averne, se siamo scrupolosi, poiché il tessuto nervoso è in pratica immortale, secondo Zukie, potete ben capire che seguiamo le istruzioni alla lettera.

Zane Gort la stava osservando con grande attenzione. Dopo un po’ il robot disse, esitante: — Scusate signorina, ma… mi permettereste di tenerne uno?

La ragazza girò su se stessa, sbalordita. Poi il suo volto fu rischiarato da un ampio sorriso.

— Naturalmente — disse, porgendogli l’uovo argenteo che aveva fra le mani.

Zane se lo strinse al petto d’acciaio azzurro, senza muoversi, facendo lievemente le fusa. L’effetto era bizzarro, a dir poco, e Gaspard ricordò l’enigmatica allusione che Zane aveva fatto, poco prima, alla riproduzione dei robot. Che un robot desse vita a un altro robot, eccetto che nel senso di costruirne uno, pareva il colmo dell’impossibilità o per lo meno dell’assurdità, eppure…

— Se un essere umano e un robot potessero unirsi — disse sommessamente Zane — la loro creatura potrebbe assomigliare a questo, per lo meno nello stadio iniziale, non vi sembra? — Poi cominciò a cullare l’uovo, con molta delicatezza, canterellando la ninnananna di La ragazza del mulino di Schubert.

— Basta così, — disse la signorina Bishop con fermezza, mostrando un po’ di apprensione. — Non sono bambini, vedete, ma gente molto vecchia.

Zane annuì, e sotto la supervisione di lei posò con cautela l’uovo sul cercine nero, sul nuovo piedestallo. Poi lo sguardo del robot vagò sulle altre uova.

— Vecchi o neonati sembrano comunque un ponte tra umani e robot — disse, pensoso. — Se soltanto…

Si udì all’improvviso un frastuono di grida confuse, di squittii e di passi affrettati.

La signorina Blushes entrò come una saetta nella Nursery. Sfuggendo freneticamente le braccia aperte di Zane Gort, si gettò con furia isterica sulla signorina Bishop, che rabbrividì ma sopportò eroicamente la sua stretta d’alluminio.

Dietro la signorina Blushes spuntò babbo Zangwell, che agitava il caduceo e urlava, con voce spessa: — Fuori per Anubi! Non voglio robot giornalisti qui dentro!

— Zangwell! — gridò con voce sonante la signorina Bishop. Il vecchio barbuto si girò verso di lei come un pesce preso all’amo. — Fuori di qui — continuò la ragazza in tono gelido — prima che l’atmosfera sia completamente etilizzata e che il vostro fiato ammorbi le uova. Questa non è un robot giornalista. Avete un attacco di delirium tremens. Zane, avete dimenticato di chiudere la porta interna.

— Chiedo scusa.

Babbo Zangwell batté le palpebre e cercò di mettere a fuoco lo sguardo socchiudendo gli occhi.

— Ma, signorina Bish — gemette — proprio ieri mi avete detto di montare di guardia contro i robot giornalisti… — La voce gli si spense quando il suo sguardo passò ondeggiando dalla signorina Bishop alla signorina Blushes. Cominciò a squadrarla come se solo in quel momento la vedesse veramente. — Robot rosa, questa volta! — gemette disperato. Si tolse dalla tasca una grossa bonaccia, fece l’atto di buttarla via, poi se la portò alle labbra, mentre indietreggiava verso l’atrio.

La signorina Bishop si liberò dall’abbraccio della signorina Blushes.

— Cercate di ricomponi — disse secca — Cos’è successo all’Editrice Razzi?

— Niente, che io sappia — disse con alterigia la robicchia rosea. — Quel vecchio ubriacone mi ha spaventata, ecco tutto.

— Ma avevate detto a Zane che avreste custodito Mezza Pinta e gli altri…

— Oh, credo proprio di averlo detto — continuò la signorina Blushes nello stesso tono. — Ma poi il signor Cullingham mi ha detto che disturbavo e mi ha pregato di uscire nel corridoio. Il signor Flaxman mi ha detto di montare di guardia alla porta che aveva la serratura elettrica rotta, in modo che nessuno potesse fare irruzione all’improvviso. Ho lasciato la porta socchiusa per poter guardare. — Esitò un attimo, poi proseguì: — Vedete, signorina… oh, non è successo niente del tutto, non pensate questo… ma io non credo che quei tre cervelli siano molto felici là all’Editrice Razzi.

— Cosa intendete dire? — scattò la signorina Bishop.

— Ecco non mi sembravano molto felici — disse la robicchia.

— Cosa intendete dire, non sembravano? — domandò la signorina Bishop. — Se stavano facendo i capricci e discorsi di autocommiserazione, non è niente per cui valga la pena di agitarsi. Li conosco bene… si lagneranno per un pezzo, prima di arrendersi e di ammettere che vogliono tornare a scrivere.

— Ecco, non so niente in proposito — disse la robicchia. — Ma quando uno di loro cominciava a lamentarsi, il signor Flaxman gli disinseriva l’altoparlante… per lo meno, è ciò che ho visto io.

— Qualche volta è necessario farlo — disse la signorina Bishop, un po’ imbarazzata. — Ma se quei due… Avevano giurato di seguire le Regole di Zukie: gliene ho lasciato una copia. Che cos’altro avete visto, signorina Blushes?

— Non molto. Il signor Cullingham è venuto a chiudere la porta quando si è accorto che io sbirciavo. Immediatamente prima di questo, ho sentito un uovo che diceva: “Non resisto più. Non resisto più. Per amor di Dio, smettetela. Ci fate impazzire. È una tortura”.

— E poi…? :- La voce della signorina Bishop era dura e acuta.

— E poi il signor Flaxman gli ha disinserito l’altoparlante e il signor Cullingham ha chiuso la porta, e io sono venuta qui e quel vecchio ubriacone mi ha spaventata.

— Ma cosa stavano facendo alle uova Flaxman e Cullingham?

— Non ho potuto vedere. Il signor Flaxman aveva un trapano sulla scrivania.

La signorina Bishop si strappò la cuffietta bianca, si slacciò il camice e lo lasciò cadere sul pavimento, senza preoccuparsi troppo del fatto che così era rimasta con un corto pagliaccetto bianco.

— Zane — disse — chiamerò immediatamente la signorina Jackson. Non voglio che voi lasciate la Nursery fino al suo arrivo. Custodite le uova. Signorina Blushes, prendetemi una gonna e il maglioncino dal lavatoio… quella porta. Poi restate con Zane. Venite, Gaspard, andremo subito a fondo di questa storia.

Si toccò il fianco e per un attimo Gaspard vide profilarsi, sotto al pagliaccetto, una pistola nella relativa fondina.

Anche senza quel particolare, e nonostante il suo spettacoloso sviluppo anteriore, aveva un’aria straordinariamente sinistra.

29

Il Viale del Lettorato non era precisamente brulicante di attività, ma ne era liberalmente cosparso: ed era sempre un’attività di tipo imbarazzante.

Subito all’inizio del loro rapido tragitto, Gaspard vide una macchina scoperta carica di apprendisti scrittori che incrociava lentamente per il viale. Per fortuna era tallonata da un furgone della polizia governativa. Dietro, veniva una macchina senza carrozzeria con tre robot dall’aria dura agganciati per le costole alla sua nuda ossatura metallica. Passò un camion carico di rifiuti.

Nel momento in cui raggiunsero l’Editrice Razzi, un grosso elicottero scese obliquamente verso il tetto dell’edificio; sul muso recava scritto, a grandi lettere: GENTE DI PENNA. Dalla cabina si intravedevano giovanotti dai maglioni neri e dai capelli scompigliati dal vento e, accanto a loro, vecchie megere vestite d’oro e d’argento. Dalla chiglia pendeva un cartello: IN GUARDIA, ROBOT! MULINI-A-PAROLE E SCRITTORI SONO FINITI! ADESSO SPETTA AI DILETTANTI IL DIRITTO DI SCRIVERE!

Gaspard e la signorina Bishop furono introdotti nelEditrice Razzi da un fattorino dalla faccia di topo che il meccanico dei mulini-a-parole non riconobbe e da un robot-portiere alto due metri e mezzo e dalla doratura scrostata: probabilmente, pensò Gaspard, facevano parte del nuovo sistema difensivo approntato da Flaxman, poiché quella coppia era degna di Joe la Guardia.

Il pianterreno era ancora saturo dell’odore funereo di isolanti bruciati, e la scala mobile non era stata riparata. Non era stata riparata neppure la serratura elettrica: spinsero la porta, facendo cadere Flaxman dalla sedia… o per lo meno, la loro prima visione del piccolo editore fu la sua testa che scompariva dietro la scrivania.

I tre cervelli riposavano sui cercini, nella metà di scrivania spettante a Cullingham: erano inseriti soltanto i loro microfoni. I tre microfoni erano tutti riuniti vicini allo stesso Cullingham, che teneva in mano alcune pagine manoscritte, mentre parecchie altre erano sparse sul pavimento attorno alla sua sedia.

Gaspard e la signorina Bishop ebbero appena il tempo di guardare quando Flaxman riapparve dietro la scrivania, agitando il trapano di cui aveva parlato la signorina Blushes e spalancando la bocca per urlare qualcosa. Poi evidentemente cambiò idea, perché chiuse le labbra, alzò un dito verso di loro e indicò Cullingham con il trapano.

A questo punto Gaspard cominciò a udire ciò che quest’ultimo stava leggendo.

— “Lo Sciame d’Oro si spinse oltre e oltre, appollaiandosi sui pianeti, bivaccando nelle galassie” — intonò Cullingham con voce sorprendentemente drammatica.

“Qua e là, su sparsi sistemi, la resistenza divampava. Ma le lance spaziali lampeggiavano e colpivano senza misericordia alcuna e quella resistenza cessò.

“Ittala, Gran Khan dello Sciame d’Oro, chiese il suo super-telescopio. Fu portato nel padiglione macchiato di sangue dagli scienzati atterriti. Il Khan l’afferrò con una risata selvaggia, licenziò i calvi con un gesto sprezzante e lo puntò verso un pianeta in una lontanissima galassia che fino a quel momento era sfuggita ai predatori gialli.

“La bava scese dal becco del Gran Khan e corse lungo i suoi tentacoli. Egli urtò con il gomito il grasso Ik Huk, Capo dell’Harem. ‘Quella’, sibilò, ‘quella in mezzo al gruppo, su quella collinetta erbosa, quella che porta a tiara di radium, portamela!’”.

La signorina Bishop mormorò, storcendo la bocca: — La signorina Blushes si sbagliava, qui non torturano nessuno.

— Come? — batté Gaspard, nello stesso tono — non state ascoltando?

— Oh, quello — disse lei sarcastica. — Come dico spesso ai marmocchi, i bastoni e le pietre possono spezzarmi le ossa…

— Ma le parole possono farmi impazzire — finì Gaspard. — Non so dove abbiano pescato quella roba, ma so che se una persona abituata alla buona letteratura della qualità prodotta dai mulini-a-parole fosse costretta ad ascoltarla a lungo, comincerebbe a delirare.

La ragazza gli lanciò un’occhiata di sbieco.

— Siete veramente un lettore serio, Gaspard, un lettore da veri scrittori. Dovreste dare un’occhiata ai vecchi libri che i cervelli mi consigliano… scommetto che vi piacerebbero.

— Mi farebbero soltanto impazzire in un modo diverso — le assicurò Gaspard.

— E come lo sa? — chiese lei. — Anch’io ne ho letti molti, ma buoni o cattivi che fossero non mi hanno mai influenzato come siete influenzato voi.

— Il che significa che voi siete una Iettrice da direttori editoriali — disse Gaspard.

— Smettetela di bisbigliare voi due — esclamò Flaxman. — Potete restare qui ma non disturbate la riunione. Gaspard, voi che siete un meccanico, prendete questo trapano e mettete questo chiavistello alla porta. Quella sporca serratura elettrica non funziona ancora. E io sono più che stufo di vedere piombare dentro la gente.

Cullingham aveva smesso di leggere.

— Così, questo è il primo capitolo e l’inizio del secondo de Il flagello dello spazio — disse tranquillamente, dirigendo la voce verso i tre microfoni. — Quali sono le vostre reazioni? Potreste apportarvi qualche miglioramento? Vi prego di dichiarare i concetti principali sulla cui base organizzereste la revisione.

E innestò un altoparlante al più piccolo dei tre cervelli.

— Spregevole scimmia ciarliera — intonò l’altoparlante con un tono quieto, spassionato — infliggete orrori a noi povere creature impotenti, siete uno scimpanzéprepotente, un lemure esploso, una scimmia-ragno fuori misura, uno strisciante…

— Grazie, Mezza Pinta — disse Cullingham, staccando la spina dall’uovo. — Adesso sentiamo l’opinione di Nick e di Doppio Nick.

Ma, mentre avvicinava la spina a un altro uovo argenteo, la mano della signorina Bishop si tese. Senza dire una parola, staccò i microfoni dalle uova, lasciando vuote le prese.

— Credo di approvare, nel complesso, ciò che voi due signori state facendo — disse. — Ma questo non è il modo migliore.

— Ehi, smettetela! — obiettò Flaxman. — Se siete la zarina delle Nursery, non è una buona ragione per farla da padrona anche qui!

Ma Cullingham alzò la mano.

— Può darsi che abbia qualche buona idea, Flaxie — disse. — Io non ho fatto i progressi che speravo.

La signorina Bishop disse: — È una buona idea costringere i marmocchi ad ascoltare questa roba e poi chiedere loro di criticarla, in modo che prendano gusto a scrivere di nuovo. Ma le loro reazioni dovrebbero essere costantemente controllate… e guidate. — Sorrise malignamente e strizzò l’occhio ai due soci con aria da cospiratrice.

Cullingham si tese in avanti. — Continuate a trasmettere su questa lunghezza d’onda — disse.

Gaspard alzò le spalle e cominciò a usare il trapano sulla porta.

La signorina Bishop continuò: — Collegherò a tutti e tre gli altoparlanti, regolandoli in modo da intercettare anche i bisbigli, e ascolterò quello che dicono mentre voi continuate a leggere. Quando farete una pausa, io sussurrerò una parola o due ai cervelli. In questo modo non si sentiranno isolati e non si sfogheranno a imprecare contro di voi come stanno facendo adesso. Io assorbirò la loro esasperazione e nello stesso tempo farò un po’ di propaganda a favore dell’Editrice Razzi.

— Magnifico! — esclamò Flaxman. Cullingham annuì.

Gaspard tornò indietro per prendere le viti.

— Scusate, signor Flaxman — disse sottovoce — ma dove diavolo è andato a prendere l’originale che sta leggendo il signor Cullingham?

— Dal mucchio dei rifiuti — confidò liberamente Flaxman. — Lo credereste? Dopo cento anni di narrativa prodotta esclusivamente dai mulini-a-parole, dopo cent’anni di risposte negative, i dilettanti continuano ancora a mandare le loro opere.

Gaspard annuì.

— Certi dilettanti che si definiscono Gente di Penna stavano ronzando qui sopra con un elicottero, quando siamo arrivati.

— Probabilmente, progettavano di bombardarci con camionate di manoscritti — gli disse Flaxman.

Cullingham intonò: — “Nell’ultima fortezza dell’ultimo pianeta tenuto dai terrestri, Grant Ironstone sorrise al suo terrificato, meschino assistente Potherwell. ‘Ogni vittoria del Gran Khan’, disse pensierosamente Grant, ‘porta le piovre gialle più vicino alla sconfitta. Io ti dirò il perché. Potherwell, sai tu quale è il più feroce, astuto, pericoloso mortale animale da preda dell’intero universo… quando finalmente si scatena?’ ‘Una piovra in preda alla frenesia di uccidere?’, rabbrividì Potherwell. Grant sorrise. ‘No, Potherwell’, disse puntando un dito contro il torace sottile del tremante assistente. ‘Sei tu. La risposta è: l’uomo!’”.

Il capo ricciuto della signorina Bishop era chino, ora, sugli altoparlanti collegati alle prese inferiori delle uova. Ogni tanto proferiva uno “ts-ts” carico di comprensione.

Gaspard manovrava il cacciavite, Flaxman fumava un sigaro; riusciva a mascherare bene il nervosismo che gli causava la presenza delle uova, anche se ogni tanto si contorceva un po’ e se qualche goccia di sudore gli scorreva sulla fronte.

Il secondo capitolo de Il flagello dello spazio filava spietatamente verso il suo punto culminante.

Mentre Gaspard avvitava l’ultima vite e contemplava orgoglioso la sua opera, sulla porta si udì un lieve colpetto. Gaspard l’aprì senza far rumore per lasciare passare Zane Gort, che si fermò ad ascoltare rispettosamente.

Cullingham, che era diventato un po’ rauco, declamò.

— “Mentre Potherwell, con le unghie protese, si lanciava verso il sacco cerebrale della piovra, giallo come un canarino, Grant Ironstone gridò: ‘C’è una spia, in mezzo a noi!’ e afferrò il corpetto trasparente di Zyla, Regina delle Stelle Gelide, e lo strappò: ‘Guardate!’, ordinò agli sbalorditi marescialli dello spazio: ‘Due radar gemelli!’ Capitolo terzo: Alla luce della luna più interna del pianeta Kabar privo di sole, quattro maestri criminali si sorvegliavano vicendevolmente e dubbiosamente”.

Zane Gort osservò, con calma, rivolto a Gaspard: — Sai, è strano come voi umani facciate sempre finire le storie o gli episodi con la scoperta che una bellissima donna è un robot. Proprio nel momento in cui comincia a diventare interessante. E finite, pam!, senza una parola per descrivere la forma del robot, il colore, la decorazione, lo stile delle chele e così via, e non dite neppure se è un robot o una robicchia.

Scrollò il capo metallico.

— Naturalmente io sono prevenuto, ma ti domando, Gaspard, ti piacerebbe una vicenda in cui si scoprisse che il bellissimo robot è in realtà una donna e tac!, tutto finisse lì, senza una sola parola sulla sua carnagione, sul colore dei capelli e sulle misure del busto, senza neppure dire se è una urì, o una megera?

Puntò il faro verso Gaspard e lo fece lampeggiare.

— Adesso che ci penso, una volta conclusi un capitolo di una storia del dottor Tungsteno proprio in quel modo: si scopriva che Paula di Platino era in realtà un involucro vuoto di robot, con dentro una divetta cinematografica umana che ne manovrava i comandi. Sapevo che i miei lettori si sarebbero sentiti così delusi che era necessario offrire loro una riparazione subito dopo. Così passai subito alla descrizione di Vilya d’Argento che si dava l’olio. Questo li solletica sempre.

30

A Cullingham venne un accesso di tosse.

— Per il momento basta — disse Flaxman. — È meglio che ti riposi la voce. Sentiamo cosa ne pensano i cervelli.

— Doppio Nick ha un commento da fare — annunciò la signorina Bishop, alzando al massimo il volume dell’altoparlante.

— Signori — disse una delle due uova d’argento più grandi — immagino che voi comprendiate che noi siamo cervelli e null’altro. Abbiamo vista, udito, capacità di parlare… ed è tutto. Il nostro apparato ghiandolare è ridotto al minimo, credetemi; quel tanto sufficiente per impedirci di vegetare. Così, posso domandarvi umilmente, molto umilmente, come potete pensare che noi ci lasciamo convincere a produrre narrativa che comporta azione a livello di rissa, sentimenti degni di idioti conformismi, e una pesantissima accentuazione di quella noiosa tumescenza che viene chiamata eufemisticamente amore?

La signorina Bishop incurvò le labbra in un sorriso incredulo e saputo, ma non disse nulla.

— Nei tempi in cui avevo un corpo — continuò Doppio Nick, prima che uno dei due soci riuscisse a mettere insieme una risposta — c’era una quantità di libri del genere. Tre copertine su quattro facevano clamorosamente comprendere che l’atto d’amore sarebbe stato spiegato nell’interno in soddisfacenti particolari, ben condito di violenza e di perversione, ma pesantemente illuminato da una infantile moralità maschile. Ricordo che continuavo a dirmi che il novanta per cento di tutte le cosiddette perversioni sono semplicemente il desiderio naturale di vedere, da tutti i possibili punti di vista, un oggetto adorato e un atto piacevole, esattamente come si può desiderare di vedere una bella statua da ogni lato, giungendo perfino a fabbricare una quarta dimensione spaziale da cui considerarla, se fosse possibile. Oggi, devo confessarlo, l’intera faccenda si limita ad annoiarmi. Probabilmente la mia condizione fisica, o la mancanza di tale condizione, c’entra per qualcosa. Ma mi deprime specialmente pensare che, dopo tanti anni, la razza umana stia ancora cercando il brivido per procura e una corruzione che è semplicemente una curiosità naturale disconosciuta e proiettata.

“Inoltre — continuò Doppio Nick — ammettendo che voi desideriate farci produrre storie d’amore, posso richiamare la vostra attenzione sul tipo di stimolazione che ci fornite, o meglio, sulla mancanza di tale stimolo? Noi siamo stati chiusi in una stanza per più di un secolo, che cosa ci mostrate? Due editori! Scusate, signori, ma io penso che avreste potuto dimostrare un po’. più di immaginazione.

Cullingham disse freddamente: — Immagino che sia possibile prendere accordi per certe visite, in particolare a luoghi che offrano comodità a un voyeur. Cosa ne diresti di Madame N., tanto per cominciare, Flaxie?

La signorina Bishop disse, enigmatica: — Voialtri, vecchi birbanti, vi siete già divertiti abbastanza!

Ma Flaxman intervenne: — Sai benissimo che è fuori discussione, Cully! I cervelli non possono essere portati da nessuna parte, se non dalla Nursery al nostro ufficio. È la prima Regola di Zukie che ogni Flaxman ha giurato di rispettare. L’ultimo ammonimento di Zukie fu che trasportare i cervelli avrebbe potuto significare ucciderli.

— Per giunta — continuò l’uovo, senza prendere in considerazione i commenti — a giudicare dal genere di porcheria che lorsignori ci stanno infliggendo, anche se si tratta di lavori rifiutati, l’arte dello scrivere deve essere andata in malora. Ora se ci leggeste qualcuna delle opere dei mulini-a-parole, che secondo lorsignori sono tanto belle… durante il nostro ritiri, come ben sapete, noi non abbiamo letto quasi niente, ad eccezione di opere che non erano di narrativa e, naturalmente, dei classici. Un’altra delle interminabili regole del caro Daniel.

— Preferirei non farlo, onestamente — rispose Cullingham. — Credo che la vostra produzione sarebbe molto più fresca senza l’influenza dei mulini-a-parole. E credo che ne sareste più felici.

— Credete forse che quella produzione mulinesca, quell’escremento meccanico, potrebbe causarci un complesso di inferiorità? — chiese Doppio Nick.

Gaspard provò uno scatto di collera. Si augurò che Cullingham leggesse una storia ben mulinata e costringesse Doppio Nick a rimangiarsi le sue parole. Cercò di ricordare qualche superbrillante brano della produzione dei mulini per citarlo immediatamente, qualche passo di uno dei migliori libri che aveva letto recentemente, magari del suo Passaporto per la passione. Ma, inspiegabilmente, quando rivolse la propria mente in quella direzione, vi trovò soltanto una nebbia rosea e inquietante. Tutto quello che ricordava del suo libro erano le frottole sulla controcopertina. Si disse che questo avveniva probabilmente perché ogni singola frase del contenuto era così superbamente geniale che non ve n’era alcuna che potesse spiccare particolarmente. Ma questa spiegazione non lo soddisfece del tutto.

— Bene, se lor signori rifiutano di essere sinceri con noi e di mettere tutte le carte in tavola — disse Doppio Nick, — se rifiutano di fornirci un quadro completo… — L’uovo lasciò incompleta la frase.

— Perché non cominciate voi a essere sinceri con noi? — chiese tranquillo Cullingham. — Per esempio, non sappiamo neppure i vostri nomi. Dimenticate il vostro anonimato… dovrete pur farlo, un giorno o l’altro. Voi, per esempio, chi siete?

L’uovo rimase silenzioso per qualche attimo. Poi disse: — Io sono il cuore del Ventesimo Secolo. Sono il cadavere vivente di una mente dell’Età della Confusione, uno spettro ancora agitato dal vento di incertezza che sferzò la Terra quando l’uomo schiuse per la prima volta l’atomo e affrontò il suo destino fra le stelle. Io sono libertà e odio, amore e paura, alti ideali e bassi piaceri, uno spirito che ogni giorno esulta e perpetuamente dubita, tormentato dai suoi stessi limiti, un groviglio di impulsi, una marea di elettroni. Ecco ciò che sono. Il mio nome non lo conoscerete mai.

Cullingham piegò il capo per un attimo, poi fece un cenno alla signorina Bishop che abbassò l’altoparlante. Il direttore editoriale lasciò cadere al suolo le restanti pagine de Il flagello dello spazio e prese un manoscritto rilegato di plastica purpurea che recava l’emblema in oro dell’Editrice Razzi, un razzo sottile cui erano allacciati due serpenti.

— Proveremo qualcosa d’altro, per cambiare — disse. — Non produzione dei mulini-a-parole, ma qualcosa di molto diverso da ciò che avete ascoltato.

— La signorina Jackson è arrivata alla Nursery? — chiese Gaspard a Zane. Si parlarono sottovoce, davanti alla porta.

— Oh, sì — rispose il robot. — È uno spettacolo come la signorina Bishop, solo che è bionda. Gaspard dov’è la signorina Blushes?

— Non l’ho vista. Ha dato i numeri di nuovo?

— Sì, è diventata inquieta. Ha detto che tutti quegli esseri umani in barattoli d’argento che la fissavano la facevano diventare nervosa. Ma mi ha detto che ci saremmo visti qui.

Gaspard corrugò la fronte.

— Hai chiesto al nuovo robot-portiere, a pianterreno, o al ragazzo che era con lui se l’hanno vista arrivare?

— Non c’era nessun robot-portiere, a pianterreno quando sono arrivato — disse Zane — e nessun ragazzino. Altri impostori, immagino. Ma ho visto un investigatore federale che si chiama Winston P. Mears, fuori dalla porta. Lo conosco bene perché ha indagato sul mio conto quando mi accusarono (ma l’accusa non fu mai provata) di progettare robot giganteschi mossi dall’energia atomica: un’inevitabile evoluzione tecnologica che sembra ancora atterrire gli umani. Ma il fatto è, adesso, che quel Mears, un agente federale, è qui vicino, e per quanto io adori la signorina Blushes, devo ricordare che è una dipendente del governo e di conseguenza, le piaccia o no, un agente segreto del governo. Pensaci, Gaspard.

Gaspard cercò di pensare, ma ne fu subito distratto.

Infatti, ecco cosa stava intonando Cullingham: — Tin, tin, tin, fecero le forti chele mentre lavoravano, assicurando il cavo all’affusolato carico icchio. Squinch, squinch, squinch fece la vite, mentre il dottor Tungsteno la girava. Un flusso carico di sentimento fece fremere le griglie della sua bruncia struttura. ‘Buon atterraggio’, alitò sottovoce. ‘Buon atterraggio, mio dorato tesoro’. Sette secondi e trentacinque rivoluzioni più tardi, una scossa di deliziosa violenza fece vibrare la sua piastra. Per poco non lasciò andare la manovella. Si girò, cigolando. Vilya, una lucentezza argentea nell’oscurità, stava tendendo le pinze, icchie da fare impazzire, giammai fatte per servire gli umani, che ora lo tentavano. ‘No’, disse severamente il dottor Tungsteno. ‘No, no, icchia robicchia’ ”.

La signorina Bishop alzò una mano.

— Nick desidera dire che, sebbene pure questo sia abbastanza orribile, è molto più interessante di tutto quello che avete letto finora. È diverso.

— Quello — sussurrò modestamente Zane a Gaspard — l’ho scritto io. Oh, sì. L’ho scritto io. I miei lettori amano le scene in cui un robot gira una manovella, quasi quanto gli umani amano le scene in cui un uomo sculaccia una donna, specialmente quando sono di scena tutte e due le robicchie, quella d’oro e quella d’argento. Nessun altro dei miei libri si è venduto bene quanto Il dottor Tungsteno gira una manovella, che è il terzo della serie. Il passo che hai appena udito viene dal quinto, Il dottor Tungsteno e il Trapano di Diamante, che è il malvagio padrone di Vilya nonché avversario del protagonista in quel volume. Ecco là!

Gaspard girò la testa abbastanza in fretta per vedere qualcosa di roseo che sfrecciava dalla toeletta delle signore e spariva quasi immediatamente nel corridoio trasversale.

— Corri all’ingresso principale! — ordinò pronto Zane. — Ferma la signorina Blushes se cerca di uscire. Può darsi che sia ipnotizzata. Se devi metterla fuori combattimento, dalle un colpo in testa. Io andrò all’uscita posteriore… era diretta là. Rrrrrr!

Pattinò via lungo il corridoio, svoltò al primo incrocio e scomparve.

Gaspard scrollò le spalle e trotterellò giù per la scala mobile. Il fattorino dalla faccia di topo e il robot-portiere alto due metri e mezzo erano spariti, proprio come aveva detto Zane. Gaspard si piazzò nel punto in cui si trovavano prima i due, accese una sigaretta, e si accinse a ricostruire nella sua mente i passi più brillanti della produzione mulinesca altamente letteraria che prima gli erano sfuggiti. Ne ricordava migliaia, alla lettera, dopo una vita trascorsa a leggere. Senza dubbio, con un piccolo sforzo compiuto con calma avrebbe potuto ricordare le parole esatte di una dozzina di quei brani.

Dopo un’altra mezz’ora noiosa e letterariamente inutile, Zane Gort lo chiamò con un fischio dai piedi della scala mobile bloccata. Zane teneva saldamente per il polso la signorina Blushes. La rosea robicchia sembrava molto dignitosa, mentre Zane era chiaramente in preda a sentimenti contrastanti.

— Ho trovato Mears nel corridoietto vicino al Magazzino Tre — disse il robot azzurro acciaio quando Gaspard si avvicinò. — Sosteneva di essere un elettricista assunto dall’Azienda Elettrica per rintracciare un cavo di alimentazione che si era perduto! Gli ho detto subito che credevo di averlo già incontrato prima e lui ha avuto il coraggio di rispondere che non lo sapeva, perché per lui tutti i robot erano uguali. Mi sono preso il piacere di fargli fare fagotto. Poi, dopo una lunga ricerca, ho scoperto la signorina Blushes che si nascondeva…

— Non mi stavo nascondendo — protestò lei. — Stavo pensando. Lasciatemi andare, bruncia macchina!

— È per il vostro bene, signorina B. Dunque, allora l’ho scoperta mentre stava pensando, in un condotto di ventilazione. Dice che ha avuto un attacco di amnesia, che non ricorda nulla dal momento in cui ha lasciato la Nursery fino al momento in cui l’ho trovata. Non l’ho vista, però, con l’agente del governo.

— Ma tu credi che lei… gli abbia fatto un rapporto? — proruppe Gaspard. — Credi che lui la conoscesse?

— Vi prego, signor Nuit! — obiettò la signorina Blushes. — Non “conoscesse”, ma “le fosse stato presentato”!

— Perché non vi va bene “conoscesse”? — sbottò Gaspard. — Anche ieri ha protestato.

— Non avete mai letto la vostra Bibbia — rispose in tono bruciante la rosea robicchia della censura. — Adamo conobbe Eva, e quello fu l’inizio di tutte quelle riproduzioni in serie. Un giorno o l’altro espurgherò la Bibbia… è il mio sogno. Ma fino ad allora vi prego di non citarla in deliberati tentativi di mettermi in imbarazzo. E adesso, Zane Gort, robosto animale, lasciatemi andare!

Sottrasse il polso alla presa di lui e cominciò a salire la scala mobile, a testa alta. Zane la seguì, spiritato.

— Credo che tu stia diventando troppo sospettoso, — Zane — disse Gaspard, con forzata allegria, avanzando alla retroguardia. — Per quale ragione gli agenti del governo dovrebbero interessarsi all’Editrice Razzi?

— La stessa ragione che ha qualsiasi cosa cosciente nel Sistema, di carne, metallo, o verdura venusiana — rispose cupo il robot. — L’Editrice Razzi ha qualcosa di potenzialmente prezioso, o almeno misterioso, che nessun altro possiede. E questo è sufficiente. Per l’uomo dell’Età dello Spazio, qualunque mistero è una calamità. — E scosse il capo. — Immagino che dovrei prendere migliori precauzioni — mormorò.

Mentre si avvicinava alla porta dell’ufficio dei due soci, la signorina Bishop la spalancò lasciando uscire nel corridoio un torrente di chiacchierio.

— Salve Gaspard — esclamò allegramente la ragazza. — Salve, Zane. Come va, signorina Blushes? Voi due, ragazzi, siete arrivati proprio in tempo per aiutarmi a riportare i marmocchi alla Nursery.

— Cos’è successo? — chiese Gaspard. — Sembrano tutti così contenti!

— Certo che lo sono! I marmocchi hanno accettato di prendere in considerazione la proposta della Razzi. Abbiamo chiamato la Nursery e anche gli altri cervelli si sono dichiarati d’accordo. Scriveranno un romanzo completo per ciascuno, a titolo di prova, stretto anonimato, direzione editoriale solo se desiderata, tempo dieci giorni.

“Il vostro primo incarico, Gaspard, dice il signor Flaxman, sarà prendere in affitto ventitré fonoscriventi. La Razzi fornirà le altre sette”.

31

Durante i primi giorni del Derby Scrittorio delle Argentee Teste d’Uovo, Gaspard de la Nuit si accorse di stare diventando rapidamente il facchino, l’aiutante, il fattorino di tutti… e l’amico di nessuno.

Perfino Zane Gort, un tipo che di solito parlava chiaro e su cui si poteva fare affidamento, prese l’abitudine di essere misteriosamente assente molto spesso quando c’era in programma qualche lavoro pesante, mentre si scopriva che Joe la Guardia era affetto da una malattia di cuore che gli impediva di portare qualsiasi oggetto che fosse più pesante della sua pistola-puzzola o di una pattumiera semipiena.

Quando babbo Zangwell smise di bere perché non riusciva più a tenere in corpo ciò che beveva, Gaspard ebbe qualche speranza di essersi finalmente procurato un assistente di terza categoria, ma si scoprì che, senza liquore, il vecchio custode diventava soltanto un rottame in preda alle convulsioni, due volte più noioso e inutile di quanto fosse stato quando beveva.

Flaxman e Cullingham respinsero la proposta avanzata da Gaspard di assumere qualche aiutante in più, robot o umano, sostenendo che questo avrebbe potuto causare qualche falla nel manto di segretezza che avvolgeva il Progetto Teste d’Uovo, un manto che secondo Gaspard aveva già più buchi che tessuto fin dall’inizio. Inoltre gli fecero capire che stava esagerando la quantità di lavoro che il Derby comportava.

Ma dal suo punto di vista, c’era fin troppa roba da portare e centinaia di lavori da fare. Soltanto procurare le ventitré fonoscriventi si rivelò una fatica degna di Ercole, che richiese ricerche per tutta New Angeles, poiché tutte le scorte esistenti erano state noleggiate o affittate dagli speranzosi autori iscritti al sindacato, al momento del Massacro dei mulini. Gaspard riuscì a subaffittarne qualcuna dagli artisti delusi e comprò le altre a prezzi che fecero squittire Flaxman.

Poi fu necessario stabilire un collegamento speciale fra le fonoscriventi e le prese-bocche delle uova, escludendo la fase del suono udibile. Fu un lavoro abbastanza semplice, che richiese poco più di mezz’ora, quando Zane Gort ebbe mostrato passo passo a Gaspard, come si adattava una fonoscrìvente a Mezza Pinta. Così istruito, Gaspard adattò le altre ventinove, ottenendo molte nuove visioni delle gioie della vita di un meccanico e finendo per chiedersi se tali gioie esistessero veramente. Avrebbe piantato tutto su due piedi, ma era troppo divertente essere inseguito e sospinto dalla Bishop e dalle altre bambinaie che trasmettevano le imperiose richieste delle teste d’uovo, le quali esigevano di essere fornite immediatamente di fonoscriventi ed erano ferocemente gelose di quelle che ottenevano per prime le loro macchine. Zane comparve per osservare, con una ammirazione che amareggiò Gaspard, che mentre i robot eccellevano nelle soluzioni rapide dei guai e nel lavoro originale, occorreva un essere umano che lavorasse sodo per portare a termine un lavoro monotono.

Fu durante quel lavoro che Gaspard cominciò a dormire all’Editrice Razzi, schiacciando pisolini nella toeletta maschile sulla branda di Joe la Guardia, odorosa di Odor-Ban. Quando tutto fu finito, Gaspard provò un orgoglio blandamente piacevole nell’incrociare le mani piene di punture e sporche di grasso e nel tornarsene alla Nursery per sorvegliare le macchine che aveva adattato, ormai collegate ciascuna alla sua testa d’uovo, mentre gli interminabili rotoli di carta si svolgevano a scatti irregolari, o rientravano per qualche cancellatura o, più spesso, rimanevano immobili quando, presumibilmente, i cervelli in scatola riflettevano furiosamente.

Non riuscì a godersi a lungo quel riposo, anche se aiutare la signorina Bishop e le altre bambinaie nel loro normale lavoro poteva essere considerato un riposo. Non appena le teste d’uovo ebbero le loro macchine, cominciarono a richiedere colloqui quotidiani, o addirittura più frequenti con Flaxman o Cullingham, rendendo necessario il loro trasporto (e il trasporto delle fonoscriventi e di tutta l’attrezzatura) fino alla casa editrice, poiché i due soci erano sempre troppo occupati per venire alla Nursery. Gaspard decise ben presto che le teste d’uovo in realtà non avevano nessun problema circa la loro attività di scrittori e senza dubbio non si aspettavano di ricevere alcun consiglio utile da esseri umani incarnati, ma semplicemente si divertivano a fare quei viaggetti, dopo aver trascorso tanti decenni relegati nella Nursery dalle Regole di Zukie.

Andò a finire che in qualsiasi momento della giornata lavorativa c’erano almeno dieci uova nella Editrice Razzi, con una bambinaia, fontanelle fresche e tutto il resto, che aspettavano di conferire o che conferivano o che uscivano dopo aver conferito con gli editori.

Gaspard si stancava le braccia fino al punto di non poterle più usare, a furia di portare carichi, e finì per detestare amaramente quasi tutti quei pesantissimi cervelli suscettibili e crudelmente spiritosi.

Finalmente, dopo averne fatto richiesta parecchie volte ai due soci, Gaspard ottenne la burbera autorizzazione di usare la macchina di rappresentanza di Flaxman quando era disponibile, per trasportare le uova da una porta all’altra, anche se questo gli imponeva ugualmente un pesante lavoro di facchinaggio.

Dopo diverse esitazioni ottenne anche il permesso di instaurare un rudimentale sistema di sicurezza: uno dei fratelli Zangwell montava la guardia mentre venivano caricate e scaricate le uova che adesso (sempre dietro suggerimento di Gaspard) venivano trasportate in semplici cassette imbottite di trucioli invece di venire avvolte in vistosa carta da regali che poteva attirare l’attenzione.

Come suprema concessione alle insistenze di Gaspard circa la necessità di rafforzare le misure di sicurezza, Flaxman gli diede una antica rivoltella a pallottole proveniente dalla collezione di suo nonno, e lo rifornì persino d’una scorta di munizioni adeguate, fatte a mano, su antiche istruzioni, da robot armaioli. In precedenza, aveva tentato di farsi prestare la pistola della signorina Bishop, che era molto più moderna, ma ne aveva ottenuto un secco rifiuto.

Gaspard sarebbe riuscito a sopportare tutto se quella splendida ragazza fosse stata disposta ad accettare ancora un appuntamento o se per lo meno lo avesse ascoltato durante le sue lagnanze, come contropartita del fatto che Gaspard ascoltava quelle di lei.

Ma la ragazza declinò tutti gli inviti a cena, a pranzo e perfino quelli a bere un caffè, con amare osservazioni sugli ex scrittori che avevano tempo da perdere. La signorina Bishop e la signorina Jackson avevano preso l’abitudine di dormire sul posto di lavoro, come Gaspard: soltanto, loro dormivano alla Nursery. Le altre quattro bambinaie non erano dotate di altrettanta abnegazione; una approfittò addirittura delle accresciute offerte di lavoro per andarsene. La signorina Bishop trascorreva le notti e i giorni controllando, con efficienza e con frenesia, che ogni uovo fosse perfettamente al sicuro e che venisse rispettato ogni passo delle Regole di Zukie, tanto nella Nursery quanto nella Editrice Razzi o nel tragitto intermedio.

A quanto poteva dire Gaspard, lui era diventato per la signorina Bishop niente altro che il più miserabile degli schiavi. Lei lo sgridava, lo aggrediva e per quanto pesanti fossero i carichi che lui portava, vi aggiungeva sempre qualche cosa d’altro. Per peggiorare la situazione, aveva cominciato a comportarsi nei confronti di Flaxman con una santa e dolcissima pazienza, nei confronti di Cullingham in un modo indecentemente grazioso, mentre nei confronti di Zane Gort, quando quello faceva una delle sue rare apparizioni, era spiritosa e adulatrice. Soltanto Gaspard sembrava avere il potere di scatenare il suo cattivo umore.

Tuttavia, in due occasioni, in momenti in cui Gaspard era così completamente affranto dalla fatica di portare le uova che non poteva letteralmente alzare le braccia, la ragazza l’aveva stretto in un frettoloso abbraccio e gli aveva piantato sulle labbra un bacio maliziosamente esperto. Successivamente gli aveva rivolto un rapido sogghigno ed era come se l’incidente non fosse mai accaduto.

La seconda volta che questo accadde, Gaspard strinse le labbra (era troppo stanco per asciugarsele con la mano) e disse semplicemente: — Sgualdrinella!

— Non pensavo che tu fossi molto ardente in amore — osservò la signorina Bishop con fare saputo.

— Questo non è amore, è una tortura — le disse Gaspard.

— E sono due cose molto diverse? Dovresti leggere Justine, del marchese De Sade, Gaspard. Una ragazza vuole dare all’uomo che ama le sensazioni più intense, e cos’è più intenso della sofferenza? È il dono che reca una brava ragazza la sofferenza. Fare l’amore, signor Scrittore, è un processo in cui si applicano torture raffinate e poi, due ore dopo che le sofferenze sono diventate assolutamente insopportabili, e la morte inevitabile, si versa l’antidoto. Naturalmente, tutto quello che si ottiene, allora, è uno zombie, ma uno zombie felice.

— Ma quando raggiungerai la fase dell’antidoto? — chiese Gaspard.

— Nel tuo caso, mai! — insorse lei. — Metti un rotolo nuovo nella fonoscrivente di Nick. Sta dando il segnale degli ultimi tre minuti. Forse è arrivato a metà d’una scena di seduzione che porterà l’Editrice Razzi ai primi posti nell’elenco dei best-seller.

32

Sebbene i soci Flaxman e Cullingham non facessero mai alcun lavoro fisico, neppure allo scopo di alzare il morale dei collaboratori, e non si spostassero mai dai loro uffici (adesso di nuovo solidamente chiusi dalla serratura elettrica, in cima alla scala mobile riparata ed attivissima), anch’essi cominciarono a soffrire per il Derby Scrittorio delle Argentee Teste d’Uovo: più con i nervi che con i muscoli.

Flaxman si accinse a dominare il proprio timore infantile per le teste d’uovo; parlava loro continuamente, rivolgeva loro vigorosi cenni del capo e offriva loro dei sigari, nei momenti di distrazione. Per consiglio del suo psichiatra aveva perfino fatto togliere il primitivo catenaccio fissato da Gaspard con tanto sforzo, poiché quella era soprattutto una difesa simbolica contro le sue paure infantili più che contro i pericoli attuali.

Flaxman fallì nei suoi sforzi, tuttavia, specialmente quando le teste d’uovo intuirono la sua paura e si divertirono ad aizzarla raccontandogli l’operazione subita (la grande operazione compiuta da Zukie), descrivendogli cosa avrebbe provato se fosse stato diviso dal suo corpo, nervo dopo nervo, e se il suo cervello fosse stato rinchiuso in un barattolo, oppure semplicemente improvvisando e raccontandogli brevi e orride storie di fantasmi, sostenendo che facevano parte dei loro romanzi.

E così, la macchina di rappresentanza di Flaxman fu sempre più raramente disponibile per il trasporto delle uova, poiché veniva usata dal suo proprietario per fare lunghe, salutari passeggiate sulle colline di Santa Monica.

In principio, Cullingham si sentì altamente compiaciuto nel vedere che tante teste d’uovo cercavano volontariamente le istruzioni della direzione editoriale, ma non appena si accorse che quelle volevano soltanto ottenere notizie da lui, o prenderlo sottilmente in giro (si divertivano a premere idealmente i bottoni del suo cervello e poi ghignavano constatando che erano così pochi), divenne ancora più visibilmente disamorato che non lo stesso Flaxman. Tuttavia, il mattino in cui Gaspard aveva previsto il suo collasso nervoso, si presentò in compagnia d’una strana segretaria (a quanto pareva, la regola contro l’assunzione di nuovi dipendenti non si applicava nel suo caso) che presentò come la signorina Willow e che, sebbene non facesse altro che starsene seduta in silenzio vicino a Cullingham e a scarabocchiare, di tanto in tanto, con una matita sulle pagine di un taccuino nero, sembrava avere un meraviglioso effetto calmante sui nervi del direttore editoriale.

La signorina Willow era una bellezza snella, alta, insolente che strappò un singulto a Gaspard la prima volta che la vide. A parte il fatto che il suo seno e i suoi fianchi erano un po’ più sviluppati aveva la figura di una indossatrice di alta moda. Era vestita di un severo abito a giacca nero, ed era completata, alla sommità, da un ciuffo di capelli color platino che si appaiavano perfettamente, per colore, alle sue calze. Il suo viso pallido aveva le caratteristiche dell’intellettualità e dell’alterigia tipiche delle sibille e delle ninfe dell’alta moda.

Gaspard si prese subito una passioncella per lei. Pensò, astutamente, che la freddezza platinata della signorina Willow, se appena un poco riscaldata, avrebbe potuto essere il miglior antidoto per il suo ridicolo attaccamento alla rissosa signorina Bishop. Tuttavia, le due volte in cui trovò sola la signorina Willow e tentò di attaccare discorso, lei si limitò a ignorarlo completamente… Per quello che le importava la presenza di Gaspard nella stanza era come se fosse assolutamente sola.

Riflettendoci sopra, Gaspard decise alla fine che più probabilmente quella donna era una psicoterapista, presumibilmente retribuita con uno stipendio così alto da dare i brividi; era difficile pensare ad altro che spiegasse perché Cullingham era stato trattenuto proprio sull’orlo del collasso nervoso. Questa teoria si adattava anche al taccuino nero e al fatto che Flaxman, oltre a tutte le sue altre fobie, sembrava aver paura della signorina Willow: un nevrotico, di solito, ha paura di tutti gli psichiatri, eccetto il suo: comunque, Flaxman si era trasferito in un ufficio un po’ più piccino, accanto a quello principale.

Se Gaspard non avesse avuto tanto lavoro fisico da sbrigare sarebbe andato a sua volta a cercarsi uno psichiatra umano o un robot terapeuta: la sua personalità un tempo così placida e adattabile cominciava a presentare molti spigoli e grandi lacune. Si chiese per quale bizzarra libidine, dopo aver ricevuto per mesi, ogni giorno, il piacere fisico a piena misura dall’esuberante Heloise Ibsen, adesso si lasciava tiranneggiare umilmente da una ragazza che non faceva altro se non maltrattarlo.

Inoltre, lo turbava il pensiero di possedere una immaginazione malsana, poiché era stata esaltata e confortata dalla produzione mulinesca durante anni e anni di letture serali e di lunghe sedute nella stanza da bagno, ma ora l’unico ricordo recuperabile di tutte quelle avventure per procura era un fioco, stordito e roseo chiarore.

Finalmente, su un piano diverso, era sempre più agitato da un senso di responsabilità per il Progetto Teste d’Uovo e dalla crescente convinzione che il progetto non fosse sufficientemente protetto contro un mondo astuto e rapace che non rispettava le regole del giocò: cosa, questa, che Zane Gort gli aveva fatto notare soltanto per squagliarsela immediatamente, lasciando a Gaspard il peso maggiore della difesa della Editrice Razzi e della Nursery.

E le difese che aveva improvvisato fino a quel momento erano una farsa: la pistola presa in prestito che gli procurava dei lividi sulle costole, Joe con la sua pistola-puzzola, babbo Zangwell con il suo caduceo, anche se quello era veramente, come affermava Zangwell, il fodero di una spada. Per peggiorare la situazione, Cullingham e Flaxman sebbene avessero il mito della segretezza, non erano affatto realistici per quanto riguardava la possibilità di proteggere il Progetto in qualche altro modo: una volta, Gaspard, aveva scoperto Flaxman che gettava in disparte, senza avere letto o almeno ponderato, un agghiacciante biglietto di un tizio che si firmava La Garrota: il biglietto reclamava un versamento settimanale di duemila dollari e il cinquanta per cento dei profitti netti del Progetto, sotto pena di danni mortali alle uova stesse.

E c’erano innumerevoli segni di altre minacce.

Eppure, i due soci non volevano saperne di chiamare la polizia municipale o altre organizzazioni protettive, perché, affermavano, questo avrebbe lacerato l’inesistente velo di segretezza che avvolgeva il Progetto! E anche per la donchisciottesca ragione che, come diceva Flaxman: “Sono soltanto gli affaristi da quattro soldi, Gaspard, che strillano per invocare l’aiuto del governo. I Flaxman sono sempre stati milionari da combattimento!”.

Zane Gort, che Gaspard aveva sempre considerato come la sua corazzata tascabile personale, era ovviamente la persona ideale per capeggiare la difesa dell’Editrice Razzi, ma eludeva completamente tale compito. Il robot d’acciaio azzurro, che di rado era disponibile per più di dieci minuti al giorno, era occupatissimo in una misteriosa attività che sembrava non avere assolutamente nulla a che vedere con la gara scrittoria: conferenze con i suoi colleghi fisici e con i suoi amici ingegneri, viaggi fuori New Angeles, lunghe sedute nella sua officina privata. Tre volte Zane prese in prestito Mezza Pinta dalla signorina Bishop e portò via con sé la piccola testa d’uovo per tre o quattro ore, nonostante le regole di Zukie, ma dove fossero andati e cosa avessero fatto, né il robot né il cervello in scatola erano stati disposti a rivelarlo.

Zane trascurava perfino la signorina Blushes, anche se l’isterica robicchia censoressa stava dimostrando un crescente interesse materno verso le teste d’uovo, non diverso da quello di Zane ma più aberrante: sferruzzava per preparare loro mantelline dai colori pastello, con tre fori per le tre prese, “per tenerli caldi nelle giornate fredde, per ravvivarli un po’ e per farli sembrare meno nudi”, come diceva lei. Per il resto, la signorina Blushes sembrava abbastanza ragionevole, e Gaspard cominciò ad assumersi i normali compiti della robicchia come montare di guardia alla porta per non farle interrompere il suo lavoro a maglia.

Una sera Gaspard decise di parlare francamente a Zane. Lo scrittore stava facendo un sonnellino sulla branda di babbo Zangwell nella toeletta maschile e Zane era entrato, inatteso, per cambiare le batterie e per lubrificarsi. Zane ascoltò distrattamente mentre applicava un oliatore dal becco aghiforme ai suoi sessantasette punti da oliare.

— Esattamente un’ora fa — disse Gaspard — ho trovato un robot basso, dalla testa quadrata, brunito e butterato, che stava curiosando a pianterreno. Gli ho indicato la porta principale, ma probabilmente a quest’ora è già rientrato da quella posteriore.

Zane si girò verso di lui.

— Dovrebbe essere il mio vecchio rivale Cain Brinks — disse. — Il fatto che sia butterato e brunito è soltanto un goffo tentativo di camuffarsi. Senza dubbio sta meditando qualche mascalzonata. E proprio qui fuori ho passato ai raggi X un camion fermo e ci ho visto dentro Clancy Goldfarb. Anche lui deve avere in mente qualcosa… probabilmente rubare i libri. Quei magazzini sono una preda molto appetibile.

— Ma, dannazione, Zane — intervenne Gaspard — se sai queste cose perché non intervieni?

— Gaspard è sempre un errore capitale mettersi sulla difensiva — disse giudiziosamente il robot. — Ti fa perdere l’iniziativa e il tuo pensiero si riduce al livello dei tuoi avversari. Io ho ben altri pesci da friggere. Se sprecassi le mie facoltà nella difesa dell’Editrice Razzi, rovinerei tutti.

— Dannazione Zane, questo è un paradosso. Tu dovresti…

Il robot puntò una chela contro il petto di Gaspard.

— Ho un consiglio da darti, Vecchia Ghiandola. Non innamorarti della signorina Willow.

— Non c’è pericolo, è un vero pesce freddo. Ma perché?

— Non innamorarti e basta. Rrrrrr!

Il robot aveva buttato le batterie vecchie nel cestino ed era già uscito dalla toeletta prima che Gaspard potesse lanciare un terzo “Dannazione!”. Si alzò, irritatissimo e cominciò la sua ronda di guardia.

La porta del nuovo ufficio di Flaxman era aperta. Dentro era buio, ma un po’ di luce filtrava dalla porta che metteva in comunicazione questa stanza con l’ufficio principale, ora usato esclusivamente da Cullingham. Gaspard avanzò senza far rumore fino al punto in cui poté sbirciare nel vecchio ufficio senza rischio di essere veduto.

Nella morbida luce argentea di una bassa lampada a stelo, la signorina Willow era seduta su un divano. Solleticato dall’enigmatico avvertimento di Zane, Gaspard provò l’impulso di farsi avanti arditamente e di farle una proposta ex abrupto, per vedere se in quel modo sarebbe almeno riuscito a costringerla ad accorgersi di lui.

Ma proprio in quel momento vide che Cullingham era steso supino sul divano: si era tolto le scarpe e teneva la testa posata sul grembo della signorina Willow. Sembrava un atteggiamento singolarmente comodo, per una seduta psicanalitica.

La signorina Willow gli faceva scorrere dolcemente le dita fra i capelli, gli sorrideva con tenerezza e diceva con voce dolcissima qualcosa che non ci si poteva aspettare da una indossatrice d’alta moda o da una psichiatra, e che scosse profondamente Gaspard:

— Come sta questa sera il cocchino di mamma?

— Sono stanco, oh, tanto stanco — gemette infantilmente Cullingham. — Sono stanco e ho tanta sete. Ma è bello essere qui, è bello guardare la mia cara mammina.

— Mammina è anche più cara — rispose la signorina Willow, rispondendo secondo l’antifona. — Hai fatto il bravo cocchino, oggi? Non sei stato nervoso?

— Sì, mammina. Non sono stato nervoso neanche per un attimo.

— Benissimo. — La signorina Willow si sbottonò la giacca nera slacciò lentamente i nastri della camicetta di seta grigia fino a che ne spuntarono tra la biancheria i due seni più perfetti che Gaspard avesse mai visto.

— Bello, oh, bello — gemette Cullingham.

— Cattivo cocchino — disse la signorina Willow in tono di malizioso rimprovero. — Il grande omaccio cattivo di mammina… che gusti preferisce questa sera?

— Cioccolata — disse Cullingham, accennando con le labbra prima verso un seno, e poi verso l’altro. — E menta piperita.

Quella fu la notte in cui, in preda alla più assoluta disperazione, Gaspard lesse per la prima volta uno dei vecchi libri dell’epoca pre-mulini raccomandatogli dalle teste d’uovo, Huckleberry Finn.

33

Quando la vettura grande e nera, aerodinamica come una goccia alla rovescia passò davanti a lui lasciandosi dietro un potentissimo profumo di rose e mostrando Heloise Ibsen con la sua argentea collana da caccia che sbirciava trionfante dal finestrino posteriore, Gaspard sospettò che qualcosa non andasse.

Era uscito per procurare trenta nuovi rotoli di carta per le silenziose fonoscriventi delle teste d’uovo. Tenendoli stretti contro il fianco, partì fulmineamente verso l’Editrice Razzi, due isolati più in là.

Joe la Guardia era davanti all’edificio e brandiva la sua pistola-puzzola in un modo piuttosto eccentrico, che induceva parecchi passanti ad attraversare la strada.

— Via con il signor Cullingham, se ne sono andati! — disse eccitato a Gaspard. — Sono entrati, l’hanno preso, l’hanno trascinato via. Io ho sparato tre colpi, di punto in bianco, con la mia fida pistola-puzzola proprio mentre se ne andavano, ma era caricata con pastiglie di profumo… la mia nipotina deve averci giocato ancora, accidenti.

Gaspard entrò correndo e balzò sulla scala mobile. La porta, che di solito era chiusa con la serratura elettrica, adesso era socchiusa. Gaspard ispezionò la stanza, senza entrare. C’era qualche segno di lotta, una sedia rovesciata e una quantità di fogli sparpagliati ma la signorina Willow era seduta al suo solito posto, vicino alla scrivania di Cullingham, fredda e serena come un mattino autunnale.

Il primo pensiero di Gaspard fu così puerilmente perverso che lo sorprese un poco: adesso, poiché Cullingham era fuori causa e poiché nessuno degli altri, eccetto presumibilmente Zane Gort, sapeva che la signorina Willow era una specie di automa amatorio, avrebbe potuto averla a sua disposizione. Poi respinse assolutamente l’indegno pensiero.

Joe la Guardia gli sussurrò con voce rauca: — Se la prende con molta calma quella lì.

— È distrutta dall’angoscia, senza dubbio — rispose Gaspard sfiorandosi le labbra con un dito e richiudendo la porta. — Le lacrime le si sono gelate negli occhi. Uno shock può giocare scherzi del genere a una persona ultrasensibile.

— Io direi che è un tipo a sangue freddo — opinò Joe. — Ma ce ne vogliono di tutti i tipi, per fare il mondo. Adesso chiamate la polizia?

Gaspard non rispose. Invece, andò a guardare nel nuovo ufficio di Flaxman. C’erano tre teste d’uovo: Gaspard riconobbe Ruggine, Graffio e Tonto-Tonto e con loro c’era la signorina Phillips: una delle bambinaie meno entusiaste. Ruggine era collegato a un occhio TV e stava leggendo un libro posto su un leggio che voltava automaticamente una pagina ogni cinque secondi. Gli altri due stavano ascoltando la signorina Phillips che leggeva con voce monotona un libro in brossura dalla copertina repellente. La ragazza si interruppe, poi continuò quando vide che si trattava soltanto di Gaspard. Non c’era segno di Flaxman.

— Se ne andato a fare una delle sue solite corse sulle colline — sussurrò Joe sul collo di Gaspard. — Una delle uova deve avergli fatto prendere una grossa paura. Le avevo messe qui ad aspettare che il signor Cullingham le ricevesse. Ma adesso… non capisco più niente.

— Lasciatele qui, per il momento — disse Gaspard. — Dov’è la signorina Blushes? Era alla porta principale, quando sono uscito. Avrebbe dovuto avvertire Cullingham dell’arrivo degli scrittori. O hanno portato via anche lei?

Joe si grattò la testa irsuta, poi spalancò gli occhi.

— È buffo. Mi ero dimenticato di tutto, ma proprio subito dopo che siete uscito per comperare i rotoli, Gaspard, cinque elegantoni con i maglioni neri e i calzoni neri attillati sono entrati e si sono raccolti attorno al banco del portiere, dove c’era la signorina Blushes, e hanno cominciato a gridare… non voglio dire che urlavano, voglio dire che parlavano allegramente… gridavano tutti e sei, parlavano del lavoro a maglia… e io ho pensato “Bene, siete proprio una mezza dozzina bene assortita”. Poi gli elegantoni sono usciti tutti insieme in gruppo e la robicchia rosa non era più al suo posto. Se avessi avuto un po’ di tempo per pensarci sopra, mi sarei accorto che se ne era andata e che gli elegantoni neri dovevano averla convinta ad uscire, ma proprio in quel momento sono arrivati alla carica gli scrittori e mi hanno fatto perdere la testa. Avete capito, Gaspard? Subito dopo che siete uscito per comprare i rotoli…

— Capisco — disse Gaspard, in fretta, e spinse il pulsante di discesa della scala mobile. Era già parecchi metri al di sotto di Joe prima che l’altro pensasse di seguirlo.

Sul banco del portiere, trattenuta da un fermacarte di ossidiana lunare, c’era una nota scritta con i caratteri rosei di una fonoscrivente su carta nera.

Zane Gort! Il tuo piano mostruoso per sostituire i mulini-a-parole con cervelli robot è stato scoperto! La tua fabbrica di narrativa robotica alla Saggezza delle Età con le sue orribili teste di robot senza corpo, è sotto sorveglianza! Se ci tieni alla bellezza e alla buona salute della robicchia Phyllis Blushes, rinuncia al tuo piano e smantella la fabbrica.

I figli della Sibilla

— Ecco che sta arrivando il signor Flaxman — disse Joe, schermandosi gli occhi con la mano mentre guardava nella strada, attraverso la grande vetrata. Gaspard si cacciò il biglietto in tasca e seguì Joe fuori, sul marciapiedi.

La macchina di rappresentanza di Flaxman stava avanzando lentamente, guidata dal pilota automatico. Probabilmente l’editore schiacciava un sonnellino, pensò Gaspard.

La macchina trovò con i suoi sensi la destinazione, si accostò al marciapiedi e si fermò accanto ai due uomini. Sui sedili ricoperti di pelle non c’era nulla, a eccezione di un biglietto stampato in neretto su carta grigia.

Zane Gort! Può darsi che tu possa scrivere tutta la narrativa che il Sistema Solare può assorbire, ma non potrai fare arrivare i tuoi libri alle edicole senza un editore. Dividi la torta con noi e lo riavrai.

I Giovani Robot Arrabbiati

Il primo pensiero di Gaspard fu semplicemente che i robot dovevano essere più vicini a impadronirsi del mondo di quanto non pensassero gli allarmisti, se due gruppi nemici potevano presumere che Zane fosse la chiave delle nuove attività dell’Editrice Razzi e se decidevano di trattare con lui soltanto.

Gaspard si sentì un po’ offeso. Nessuno aveva pensato di mandare a lui una lettera minatoria. Nessuno, finora, aveva neppure tentato di rapirlo. Avrebbe pensato che per lo meno Heloise, in considerazione dei loro passati rapporti… ma no, la scrittrice aveva rapito Cullingham.

— Rrrrrr! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!

Gaspard fu abbrancato e costretto a girare su se stesso, in una folle danza, da Zane Gort che era apparso come una saetta azzurra uscita Dio sapeva da dove.

— Fermo Zane! — comandò Gaspard. — Calmati. Flaxman e Cullingham sono stati rapiti!

— Non ho tempo per queste sciocchezze adesso — disse il robot, lasciandolo andare. — Ce l’ho fatta, ti ho detto! Eureka!

— Anche la signorina Blushes è stata rapita! — gli urlò Gaspard. — Ecco le lettere dei ricattatori… indirizzate a te!

— Le leggerò più tardi — disse il robot, cacciandosele in uno sportellino sul fianco. — Oh, ce l’ho fatta, ce l’ho fatta. Adesso devo controllare con il Cal Tech! — Balzò sulla macchina di Flaxman e la fece partire come una saetta.

34

— Per Giuda! Cosa gli ha preso a quel pazzo di latta? — chiese Joe grattandosi i capelli bianchi mentre osservava la macchina svanire come uno scintillio su un radar.

Con una smorfia, Gaspard rientrò e chiamò la Nursery. Rispose la signorina Bishop. Non appena lui cominciò a parlare, lei l’interruppe.

— Era ora, sfaticato! Una dozzina di marmocchi reclamano la carta. Dicono che proprio in questo momento si sono fatti venire le idee più belle e non possono buttarle giù. Abbiamo bisogno di quei rotoli!

— Senti, siamo nei guai. I principali sono stati rapiti. Non posso sapere a chi potrà toccare la prossima volta. E Zane Gort è impazzito. Voglio che tu…

— Oh, zitto, Gaspard! Smettila di far storie. Porta qui quei rotoli, immediatamente!

— Bene! — ringhiò Gaspard. — E porterò anche il caffè. — E riattaccò.

— Adesso chiamate la polizia? — domandò Joe.

— Silenzio! — abbaiò Gaspard. La piccola esplosione non recò sollievo al suo disgusto. — Sentite, Joe, io torno nell’ufficio di Cullingham a interrogare la signorina Willow… e a riflettere. Se devo chiamare la polizia, la chiamerò di là. Voi restate sul ponte. — Saltò sulla scala mobile e premette il pulsante. — E, Joe — aggiunse, agitando un dito in segno di ammonimento, — non voglio essere disturbato.

La prima mossa di Gaspard una volta entrato nell’ufficio, fu chiudere a doppia mandata le serrature elettriche di tutte le porte, manovrando i pulsanti dietro la scrivania di Cullingham. Poi, fregandosi le mani per congratularsi con se stesso, si rivolse alla signorina Willow, che se ne stava seduta fredda e serena.

— Salve, mammina — disse con calore. — Mammina ha un nuovo paparino.

Cinque minuti più tardi decise che o la femmequina doveva attivarsi solo al suono della voce di Cullingham (nel qual caso avrebbe dovuto trovare una registrazione) o ci doveva essere una parola-chiave che lui non aveva ancora trovato.

Oppure (tragedia!) la femmequina era semplicemente scarica.

No, difficilmente poteva trattarsi di quello, perché il suo seno magnifico si sollevava regolarmente simulando il respiro, i suoi occhi viola battevano ogni quindici secondi (Gaspard li cronometrò) mentre si inumidiva le labbra una volta ogni minuto.

Si curvò su di lei. Anche da vicino era difficile credere che non fosse una vera donna: la sua pelle era perfettamente imitata in tutti i particolari, perfino nella lieve peluria argentea sugli avambracci. Aspirò un soffio di profumo Galassia Nera. Esitò, poi cominciò a slacciarle l’aderente giacca nera.

Dalle profondità del suo petto la signorina Willow, grugnì còme un grande, pericoloso cane da guardia che lanciasse un avvertimento preliminare.

Gaspard urtò con il tacco un grosso raccoglitore mentre indietreggiava frettoloso. Il raccoglitore scivolò via per un buon metro: su di esso, in caratteri neretti, c’era scritto: Signorina T. Willow.

Lo raccolse. Tutti i fogli che aveva contenuto dovevano essersi sparsi fra gli altri, sul pavimento, perché il faldone era vuoto, a eccezione di un foglietto incollato all’interno.

Sul foglio c’erano scritte alcune righe: il loro significato era così strano che Gaspard lo lesse a voce alta:

C’era una cinciallegra sull’alberello vicino al rio,
cantava: «Salice, salice, salice!».
E io le dissi allora: «Perché, uccellino mio,
te ne stai lì cantando…».

La signorina Willow si era alzata in piedi e adesso veniva diritta verso di lui.

— Salve tesoro — disse con voce dolcissima. — Cosa può fare mammina per cocchino, oggi?

Gaspard glielo disse.

E, mentre il meraviglioso flusso dell’immaginazione continuava a scorrere, lui continuò a dirglielo.

Dopo venti minuti molto interessanti ma puramente preliminari, se ne stavano ritti accanto alla scrivania di Cullingham, allacciati l’uno all’altra fra i loro abiti sparpagliati. Cioè, si tenevano strettamente abbracciati e la signorina Willow teneva la gamba sinistra allacciata alla gamba sinistra di lui, calcagno contro calcagno, e si limitavano a baciarsi appassionatamente; ma la faccenda non andò oltre, perché da dieci secondi Gaspard era divenuto assolutamente impotente.

Gaspard sapeva esattamente perché. Era semplicemente la più antica e la più forte delle paure maschili: il complesso di castrazione. Non poteva dimenticare quell’unico mortale grugnito che aveva ascoltato. E, sebbene la carne della signorina Willow simulasse magicamente la realtà in quanto a incarnato, temperatura e resilienza, non tutti i supporti della struttura che poteva sentire al di sotto di essa corrispondevano, per forma e posizione, alle ossa di uno scheletro umano.

E infine, al di sotto del profumo Galassia Nera, c’era un lievissimo sentore di olio da macchina.

Gaspard sapeva che non avrebbe potuto compiere il prossimo e cruciale passo più di quanto avrebbe potuto cacciare volontariamente la mano in un groviglio di ingranaggi in moto. Cullingham poteva farlo, probabilmente perché aveva una fede assoluta nelle macchine o un ipertrofico e anomalo desiderio di morte, ma Gaspard, senza dubbio non poteva.

— Cocchino ha perso tutto il suo interesse — mormorò sensualmente la signorina Willow. — Ci penserà mammina.

— No! — fece di scatto Gaspard. — No!

Le fresche morbide dita della signorina Willow erano bruscamente diventate, nella sua immaginazione nient’altro che artigli d’acciaio.

— Benissimo — disse leggermente la signorina Willow. — Tutto quel che vuole cocchino.

Per poco Gaspard non sospirò di sollievo.

— Riposiamoci un po’ — propose. — E tu balla per me.

La signorina Willow lo cinse con le braccia, rovesciò il capo all’indietro e lo scosse un po’ mentre sorrideva.

— Suvvia, mammina — la blandì Gaspard. — mammina fa una bella danza. Cocchino guarda. Bello, oh, bello!

La signorina Willow si limitò a scuotere di nuovo il capo.

Gaspard si ritrasse leggermente e portò le mani all’interno delle braccia di lei, premendo leggermente per aprirle, come per suggerire educatamente alla femmequina di lasciarlo andare, ma la signorina Willow non reagì al suggerimento.

— Lasciami andare — disse seccamente Gaspard. Continuando a sorridere, la signorina Willow, disse, scherzosamente.

— No, no, no. Adesso cocchino non se ne va.

Senza preavviso, Gaspard scattò all’indietro e nello stesso tempo scostò lateralmente i polsi, con violenza. Ma le braccia della signorina Willow non si aprirono. Resistettero al colpo e poi con la velocità del lampo si strinsero attorno a lui, senza fargli veramente male, ma con molta saldezza. Pochi attimi prima erano arti che evocavano il piacere, ma adesso erano fasce di ferro imbottito. Il braccio sinistro di Gaspard era imprigionato, quello destro era libero.

— Cattivo, cattivo — mormorò teneramente la signorina Willow. Poi, premendogli il mento sulla spalla, brontolò orribilmente nell’orecchio di Gaspard, con una voce che sembrava un ringhio: — Tu hai danneggiato mammina e mammina danneggerà te. — Poi si piegò all’indietro e continuò: — Giochiamo. Non aver paura, cocchino. Mammina sarà gentile.

La reazione quasi involontaria di Gaspard fu un altro convulso tentativo di fuga. Quando il tentativo si fu esaurito, la signorina Willow lo teneva avvinto non soltanto con le braccia, ma anche con la gamba destra. Barcollarono in equilibro precario, ma non caddero, grazie allo splendido senso d’equilibrio della femmequina.

— Mammina ti stringerà — gli ringhiò all’orecchio la signorina Willow. — Mammina continuerà a stringerti. Ogni cinque minuti mammina ti stringerà un pochino più forte… fino a che tu non darai cento dollari a mammina e tu sai come.

Le braccia della signorina Willow si strinsero. Gaspard sentì che qualcosa, dentro di lui, cominciava a scricchiolare.

35

Qualcuno stava bussando alla porta chiusa a doppia mandata con la serratura elettrica.

Gaspard non seppe mai da quanto tempo stessero bussando: era troppo occupato a frugare nei cassetti della scrivania di Cullingham con il braccio libero per trovare del danaro. E non lo aveva trovato affatto.

— Senti — supplicò — lasciami piegare in modo che possa prendere i miei calzoni. Non credo di avere cento dollari, ma ho un po’ di danaro e posso farti un assegno per la differenza. E lasciami cercare negli ultimi cassetti della scrivania… può darsi che ci sia un po’ di danaro. Dove tiene i quattrini, Cullingham? Tu dovresti saperlo.

Ma quelle domande e quei suggerimenti determinati dalla situazione di emergenza sembravano al di fuori della portata intellettiva della signorina Willow. Lei disse soltanto: — Cento dollaroni in contanti, cocchino. Mammina ha fame.

Continuavano a bussare; e, tra i colpi, Gaspard poté udire debolmente una voce di donna che gridava: — Fatemi entrare, Gaspard! È successa una cosa orribile!

Gaspard ne convenne di tutto cuore, mentre la stretta della signorina Willow si serrava ancora un po’.

— Mi ucciderai — disse parlando in brevi scatti perché nel suo petto non era rimasto molto posto per l’aria. — E non servirà a niente. Ti prego. I miei calzoni. O i cassetti di Cullingham.

— Cento dollari — ripeté implacabile la signorina Willow, — Niente assegni.

La mano libera di Gaspard trovò i pulsanti della porta. E la porta cedette lievemente sotto i colpi, poi si spalancò.

La signorina Jackson entrò con un balzo, i biondi capelli in disordine e la blusa strappata su una spalla, come se anche lei fosse passata attraverso una lotta frenetica. Gaspard si chiese se per caso tutti gli abitanti del mondo non fossero stati aggrediti, uno per uno, dalle femmequine e dai manichini.

— Gaspard — gridò la bambinaia. — Hanno rapito…

Poi vide la scena vicino alla scrivania di Cullingham. E rimase immobile. Lentamente la sua bocca si schiuse. Poi socchiuse gli occhi mentre esaminava la situazione. Dopo circa cinque secondi disse in tono critico:

— Bene, perbacco!

— Ho bisogno… di cento dollari… in contanti — fece Gaspard. — Non chiedete… spiegazioni.

Senza prendere in considerazione quelle affermazioni, la signorina Jackson continuò a studiarli. Finalmente chiese: — Non avete intenzione di staccarvi?

— Io… non posso! — spiegò ansimando Gaspard.

La fronte della signorina Jackson si distese, le sue sopracciglia si sollevarono; annuì due volte, in atto di improvvisa comprensione.

— Ho sentito dire che accadono cose del genere — disse, saggiamente. — Ce ne hanno parlato a scuola. L’uomo non può ritirarsi e la coppia deve essere portata all’ospedale sulla stessa barella. Chi l’avrebbe mai detto che avrei dovuto vederlo con i miei occhi!

Si fece avanti, osservando con un’espressione inorridita e affascinata.

— Non è… affatto… così — riuscì a dire Gaspard. — Idiota… siamo soltanto… abbracciati. La signorina Willow… robot… femmina… Ho bisogno di cento… dollari.

— I robot sono fatti di metallo — disse dogmatica la signorina Jackson. — Potrebbe essere verniciata, immagino. — Tese una mano e pizzicò la signorina Willow. — No. State diventando isterico, Gaspard — diagnosticò con sicurezza, girando loro intorno. — Cercate di riprendervi. Non è mai morto nessuno, di vergogna. Ricordo che ci hanno detto che succede quasi sempre a coppie non sposate. Il sentimento di colpa della donna provoca lo spasmo. Probabilmente il fatto che io sia qui a guardare peggiora la situazione.

Il fiato che Gaspard aveva raccolto per il suo prossimo appello gli uscì di bocca in un inutile squittìo quando le braccia della signorina Willow si strinsero ancora un poco. Come da una grande distanza udì la signorina Jackson dire: — Non cercate di seppellirvi in lui come uno struzzo, signorina Willow. È una situazione che dovrete superare: vi piaccia o no. Ricordate che io sono un’infermiera: tutto questo non mi scandalizza. Pensate a me come a un robot. So che siete una donna orgogliosa. Ma forse questa esperienza vi renderà più umana. Pensate a questo.

Nell’oscurità che si addensava, Gaspard osservò un lampo azzurro cupo.

Zane Gort si fermò sulla porta per un attimo, poi avanzò a grandi passi verso la signorina Willow.

— Quanto? — domandò, aprendo con una chela uno sportellino che aveva all’altezza della cintura, mentre con l’altra sollevava destramente la chioma platinata della signorina Willow, mettendo in mostra una fessura orizzontale sulla nuca.

— Cento dollari — ringhiò la femmequina.

— Bugiarda — disse Zane Gort, e infilò nella fenditura un biglietto da cinquanta dollari.

Gli organi dei sensi della femmequina riconobbero il complicato disegno di ossido magnetico della banconota. Le braccia della signorina Willow si aprirono, la sua gamba si allentò.

Gaspard provò un profondo senso di sollievo, poi la vaga sensazione che un paio di braccia metalliche lo sorreggessero, poi un lieve dolore nel respirare. La stanza cominciò a illuminarsi di nuovo.

La signorina Jackson era rimasta a bocca aperta.

— Vestitevi — ordinò Zane Gort. — Anche tu, Gaspard. Qua, metti questi.

— Adesso capisco tutto — disse la signorina Jackson.

— Congratulazioni — le disse Zane Gort. — E se volete farci la cortesia, il mio amico vorrebbe un bicchier d’acqua… là. Aspetta, ti allaccio io la fibbia, Gaspard. Non perdete tempo, signorina Willow, questo non è uno spettacolo di spogliarello alla rovescia. Calma, Gaspard. Domani telefonerò a madame Pneumo e dirò che mandi qualcuno a riprendersi la femmequina… e dirò anche quello che penso dei robot lenoni… Il divertimento è divertimento, ma un giorno o l’altro uccideranno un cliente, con quei trucchi per estorcere quattrini, e allora saranno guai. Grazie, signorina Jackson. Gaspard, ingoia questa capsula.

La signorina Jackson osservò con espressione piuttosto invidiosa la breve danza da odalisca che, nonostante l’ammonimento di Zane, la signorina Willow compiva nel rivestirsi. Dopo un po’, la bambinaia si decise a rialzare la blusa sulla spalla scoperta.

— Dico — fece, a voce alta — mi ero completamente dimenticata! Ero così interessata al piccolo… ehm… — e guardò Gaspard.

— Spettacolo da circo — suggerì lui, con un debole sogghigno.

— …ehm… spettacolo in corso che ho dimenticato perché ero venuta qui. Gaspard, la signorina Bishop. È stata rapita!

Gaspard si staccò da Zane.

— Come? Dove? Chi? — domandò.

— Stavamo correndo lungo la strada — cominciò in media re la signorina Jackson — e quell’aerorazzo a scacchi bianchi e neri si è fermato vicino a noi, mentre quell’uomo con il mento azzurro (credo perché aveva una virile barba troppo nera) ha chiesto se poteva aiutarci e la signorina Bishop ha detto di sì ed è salita in macchina, e quell’uomo le ha messo un panno sulla faccia, che doveva essere impregnato di anestone perché lei è crollata immediatamente. Ho visto che sul sedile posteriore era disteso un piccolo robot dall’aria strana. Poi l’uomo ha detto: “Oh, ragazzi, c’è anche una bionda, è un’occasione troppo bella per perderla” e mi ha afferrata, ma io mi sono liberata e quando lui ha visto che non poteva prendermi, ha riso e ha detto: “Non sai quello che perdi, sorella” ed è ripartito come un fulmine. L’Editrice Razzi era più vicina della Nursery e così sono venuta qui.

Gaspard si voltò verso Zane Gort, che aveva aperto un cassetto dello schedario e ne stava esaminando rapidamente il contenuto.

— Zane — disse Gaspard. — Adesso tu devi occuparti di questi rapimenti!

Zane alzò la testa.

— Neanche per sogno. Dopo la grande intuizione di questa mattina sono troppo occupato con il Progetto Elle. Il Cal Tech conferma. Sono venuto qui soltanto per cercare qualche dato… il tuo salvataggio è stato casuale. Non ho tempo per fare il lavoro della polizia, adesso. Forse più tardi. Domani, diciamo.

— Ma, Zane, sono state rapite quattro persone! — protestò Gaspard, cercando di dominare il suo furore. — E anche la tua signorina Blushes. Credo di conoscere il deliquente che ha rapito la signorina Bishop. Corre un pericolo mortale.

— Sciocchezze! — disse seccamente il robot. — Tu esageri l’importanza di questa faccenda. Puro antropocentrismo. Il rapimento compiuto da persone non psicotiche come quelle con cui abbiamo evidentemente a che fare, è semplicemente un elemento normale della moderna strategia in politica e in affari. Anche di quella antica, vedi il rapimento di Cesare e quello di Riccardo I. Interessante, sì… anch’io vorrei essere rapito, se avessi tempo da perdere, deve essere una esperienza rivelatrice… una possibilità di vedere un altro aspetto del mondo, vero, signorina Jackson? Ma non è pericoloso. Basterà che ci mettiamo in moto domani. O dopodomani — E tornò a chinarsi sullo schedario.

— Bene, credo che dovrò sbrigarmela da solo — disse Gaspard scrollando furiosamente le spalle e volgendosi verso la signorina Jackson. — Dovrò chiamare la polizia, immagino. Ma prima ditemi una cosa: perché, tanto per cominciare, voi e la signorina Bishop, stavate correndo per la strada.

— Inseguivamo l’uomo che aveva rubato Mezza Pinta.

— COSA! — la voce di Zane Gort fu un’esplosione. — Avete detto Mezza Pinta?

— Sì. Deve essere riuscito a battersela. Un uomo alto e magro con un abito grigio chiaro. Ha detto a babbo Zangwell di essere il nuovo assistente del dottor Krantz. Probabilmente ha preso Mezza Pinta perché era il più piccolo.

— Delinquente! — gracidò Zane Gort, mentre il suo faro lanciava una luce rossocupa. — Crudele, spregevole delinquente, privo di coscienza! Mettere le sue luride mani su quel dolce bimbo indifeso… la morte per lenta tortura è troppo bella, per lui! Smettila di star lì a bocca aperta, Gaspard, e muoviti! Il mio elicottero è sul tetto. Abbiamo da fare, Vecchio Osso!

— Ma — cominciò Gaspard.

— Niente commenti! Signorina Jackson, quando è stata cambiata per l’ultima volta la fontanella di Mezza Pinta? Presto!

— Circa tre ore e mezzo fa. E non gridate con me.

— E invece c’è proprio da gridare. Per quanto può resistere senza una fontanella nuova?

— Non saprei. Le cambiamo sempre ogni otto ore. Una volta una bambinaia ha tardato cinquanta minuti e tutti i cervelli avevano perduto conoscenza.

Zane annuì.

— Signorina Jackson — disse vivacemente — preparate un pacco con due fontanelle, prelevandole dalle scorte che abbiamo qui. Subito! Gaspard, vai con lei… e appena tutto è pronto, porta la roba sul tetto. Io sarò lì a scaldare l’elicottero. Prendi la tuta e il cappuccio di Flaxman… il mio elicottero è aperto. Un momento, signorina Jackson! Il rapitore è in grado di parlare a Mezza Pinta?

— Credo di sì. Mezza Pinta aveva un microaltoparlante, un micro occhio e un micro orecchio innestati. Penzolavano dietro il rapitore, appesi ai loro fili. Mezza Pinta ha cominciato a strillare e a fischiare, ma il rapitore ha minacciato di fracassarlo sul marciapiedi.

Il faro di Zane Gort lanciò lampi cremisi.

— Delinquente! La pagherà. E non state lì a guardare, voi due. Muovetevi!

36

New Angeles era una foresta di colonne pastello fra le montagne verdi e i purpurei campi d’alghe del Pacifico, solcati dalle azzurre navi di linea. Fra i grattacieli dai colori pallidi dominava la nuova pianta semicircolare e pentagonale che era di gran moda. Una grande radura circolare segnava il campo di lancio municipale, da cui saliva verticalmente la scia verdechiaro d’un razzo. La nave di mezzogiorno era appena partita per High Angeles che orbitava in alto, a una distanza di tre diametri terrestri.

Zane stava volando in un corridoio aereo, a una quota di duecento metri. Il vento e il traffico sottostante sconvolsero Gaspard che si strinse intorno alle guance il cappuccio svolazzante. E osservò di nascosto l’amico robot.

Zane portava sul capo un oggetto cilindrico opaco, nero e liscio, alto circa mezzo metro che gli dava l’aspetto di un robot ussaro, al punto che Gaspard esitava a chiedere spiegazioni, pensando che il copricapo potesse avere un significato personale, puramente emotivo per quel robot vendicativo. E probabilmente anche psicotico, si disse imbarazzato Gaspard. Ma Zane notò la direzione del suo sguardo.

— È il mio localizzatore-radio — spiegò con perfetta lucidità, alzando la voce per farsi sentire nel frastuono delle pale rotanti. — Parecchi giorni fa, prevedendo uno o due rapimenti, ho messo potenti e minuscole emittenti radio addosso a tutto il personale dell’Editrice Razzi e della Nursery… la tua è nel tuo orologio da polso (non preoccuparti, l’ho disattivata), quella di Flaxman nel suo cinto erniario, quella di Cullingham nel suo necessaire per il suicidio, e così via. Non mi aspettavo qualche attentato contro le teste d’uovo: in qualche modo, questo aspetto della malvagità umana era sfuggito alla mia immaginazione… ma poiché lo portavo in qualche viaggetto al di fuori della sua orbita ho collegato una emittente anche a Mezza Pinta… siano lodati Isaac, Hank e Karel!

“Il guaio è che, non prevedendo un rapimento collettivo, ho usato emittenti identiche. Così adesso dovremo salvarli uno per uno, seguendo ogni volta il segnale radio più forte, e sperare che Mezza Pinta sia il primo… o almeno tra i primi. Ah! Ecco, ci avviciniamo alla fermata Numero Uno!

Gaspard si afferrò al sedile mentre l’elicottero deviava con uno scatto da far rivoltare lo stomaco e si lanciava obliquamente a una velocità doppia rispetto a quella regolamentare, verso un vecchio grattacielo tozzo e sudicio. Sul tetto rettangolare erano fermi parecchi elicotteri; c’era un attico bianco, con le rifiniture azzurre, le finestre rotonde simili ad oblò, e i pennoni che si levavano da una terrazza costruita a imitazione del ponte d’una nave.

Gaspard gridò: — Non ho mai visto l’attico di Homer Hemingway, ma quello è il suo stile. E l’elicottero di Heloise è grigio e viola con le rifiniture cromate, proprio come quello laggiù.

— Dieci contro uno che qui c’è Cullingham — ammise Zane. — Io passerei oltre, ma non siamo assolutamente certi che non sia invece Mezza Pinta.

Atterrarono con un sussulto. Zane schizzò fuori dall’elicottero, dicendo: — Il segnale viene proprio dall’attico. — Gaspard lo seguì rigido e infreddolito.

Mentre si avvicinavano, la porta dell’attico si aprì e Homer Hemingway ne uscì, corrucciato, con gli angoli della bocca incurvati verso il basso. Indossava pantaloni e maglietta; sulle sue spalle era drappeggiato un cappotto lungo e pesante che sarebbe stato adatto a un generale russo. Reggeva due grosse valigie di cinghiale coperte di etichette che testimoniavano di viaggi esotici, dalla Vecchia Spagna, alle lune di Giove.

— Di nuovo voi due! — disse, fermandosi non appena li vide, ma senza posare le valigie. — Gaspard lo sciocco e il suo grande fratello di latta! Gaspard, voglio che tu sappia che mi fai schifo e che ti ridurrei subito in polpette, per poi correre il rischio con quel mostro, ma adesso ho capito che era lei a indurmi a pensare così e, signori, l’ultima volta ho agito per gelosia. Quando si arriva al punto in cui la donna d’uno scrittore, che dovrebbe essere dolce e fedele, lo getta in disparte per amore di un editore rapito, sostenendo che lo fa per motivi d’affari mentre in realtà desidera soltanto un altro teschio da aggiungere alla sua collana da caccia, allora, signori, Homer Hemingway ne ha abbastanza!

“Entrate pure e riferitele da parte mia ciò che vi ho detto — continuò, accennando alla porta aperta con uno scatto del suo pallido cranio rasato. — Andate! Ditele che accetto l’offerta delle Conserve Baia Verde, dove farò il guardiano della seconda squadra, che mandano lì per creare un po’ di atmosfera, o qualcosa del genere. Sarà un lavoro più onesto di quello di scrittore, anche se non di molto. Nella stagione morta probabilmente dirigerò un istituto di bellezza o lavorerò come vicecomandante su uno yacht per la pesca sportiva. Riferite tutto questo da parte mia. E ora, signori, addio!

Con tranquilla dignità, gli occhi fissi davanti a sé, il grosso exscrittore li superò, dirigendosi verso un elicottero rosso, bianco e azzurro.

Senza ulteriori indugi, Zane Gort entrò nell’attico, piegandosi per non urtare con il suo radiocolbacco. Gaspard lo seguì incespicando.

Il robot si voltò, toccandosi con la chela l’altoparlante. Gaspard fece del suo meglio per camminare senza far rumore.

Erano in un soggiorno ammobiliato con poltrone ricoperte di pelle scura e portaceneri d’epoca, e alle cui pareti erano appesi gli antichi cartelli che per tradizione si collegavano all’attività dello scrivere e agli scrittori come GENIO AL LAVORO, FUORI DI QUI, QUI CI SONO SOLTANTO GLI ADDETTI AI LAVORI, FERMA, VIVA I RIBELLI, CESSATE GLI ESPERIMENTI NUCLEARI, CURVE PERICOLOSE, DATEMI QUALCOSA DA FARE, NON SCRIVERE… ISCRIVITI AL SINDACATO e NON SIAMO LIBERI PENSATORI… SIAMO MANOVALI STIPENDIATI.

Nel soggiorno c’erano sei porte, tutte chiuse, che recavano scritte in grandi lettere dorate: STANZA DI MASSAGGIO, SALA MEDICA, SALA DEI TROFEI, MANGIATORIO, LATRINA e CUCCIA. Zane Gort le considerò pensieroso.

A Gaspard venne in mente qualcosa.

— Non abbiamo molto tempo — sussurrò a Zane. — Se Cullingham ha un necessaire da suicidio, e se è chiuso dentro insieme a Heloise, lo userà.

Zane scivolò verso la porta contrassegnata CUCCIA e tese la chela sinistra, da cui spuntarono tre filamenti metallici. Non appena essi toccarono la porta, dal petto di Zane uscirono delle voci basse ma chiaramente udibili.

CULLINGHAM: Mio Dio non lo farai!

HELOISE IBSEN: Sì, lo farò! Ti maltratterò come non sei mai stato maltrattato prima d’ora. Soffrirari, sfrigolerai, brucerai… canterai fino all’ultimo segreto dell’Editrice Pazzi. Ho intenzione di farti rimpiangere che tua madre sia stata una donna leggera. Ti…

CULLINGHAM: No, finché io sono così impotente!

HELOISE IBSEN: Dici di essere impotente? Aspetta un momento e…

CULLINGHAM: Preferisco uccidermi!

Gaspard urtò ansioso Zane. Il robot scosse il capo.

HELOISE IBSEN: Vivrai abbastanza a lungo per i miei scopi. Per tutta la tua vita post-puberale non hai fatto altro che dare ordini a igienici materassi di gomma dalla vita di vespa. E adesso prenderai gli ordini più luridi da una donna forte e robusta che ti torturerà se esiti e che conosce tutti i trucchi per prolungare la sofferenza, e la ringrazierai, per ogni innominabile sudicio ordine e le bacerai l’alluce per questo.

Vi fu una pausa. E di nuovo Gaspard urtò ansioso Zane.

CULLINGHAM: Non smettere, continua! Ricomincia con la frusta!

Zane guardò Gaspard. Poi diede uno strattone alla porta e l’aprì di un palmo.

— Signor Cullingham — esclamò. — Volevamo solo avvertirvi che vi abbiamo trovato.

Vi fu silenzio per tre o quattro secondi. Poi, dall’altra parte dell’uscio, si levò una risata: dapprima qualche risatina sommessa ma poi un vero scrosciante duetto che si spense in lievi gorgoglii.

Poi Heloise gridò: — Non preoccupatevi per lui, ragazzi… lo riavrete al lavoro dopodomani, lo crediate o no… anche se dovessi spedirvelo in una bara aerata con l’etichetta fragile.

Zane gridò: — Nel vostro necessaire Esse, signor Cullingham, troverete un microtrasmettitore. Vi prego di spegnerlo.

Gaspard esclamò: — E Homer Hemingway manda a dire che se ne è andato a lavorare alle Conserve Baia Verde.

Zane gli toccò la spalla e raccolse qualcosa da una tavola a lato della porta. Mentre si avviavano per uscire, udirono un ultimo frammento del dialogo.

HELOISE IBSEN: Cully, perché diavolo uno scrittore famoso dovrebbe aver voglia di lavorare in una fabbrica di conserve? Dimmelo.

CULLINGHAM: Non lo so. Non me ne importa un accidente. Cosa mi faresti se mi avessi in tuo potere in una fabbrica di conserve?

HELOISE IBSEN: Prima ti porterei via il necessaire da suicidio e lo attaccherei fuori della tua portata. Così. Poi…

37

— Gaspard, tu sai guidare un elicottero, vero? — chiese Zane mentre ritornavano sul tetto.

— Sì, ma…

— Bene! Non ti dispiace un piccolo furto per una buona causa?

— Ecco…

— Benissimo! Allora seguimi con l’elicottero della signorina Ibsen. Può darsi che ci occorra molto spazio, e tu starai più caldo in un apparecchio chiuso. Ecco le chiavi. Resta in contatto con me.

— D’accordo — disse Gaspard, un po’ dubbioso.

— E stai più alto che puoi! — aggiunse cordialmente il robot. — Il tempo è fuori squadra. Io trasmetterò il segnale in codice delle ambulanze dei robot… la polizia del traffico volante penserà che tu sei il mio aiutante. Muoviti, Vecchio Muscolo!

La cabina chiusa era comodissima, ma recava tracce del profumo di Heloise. Non appena Gaspar si levò dal tetto, seguendo alla lontana Zane, provò un’ondata di affanno al pensiero dei passati incontri avvenuti proprio dove era seduto adesso. Ma tutti i tristi pensieri furono presto cancellati dalla sua mente dal problema di reggere l’andatura di Zane: si accorse che l’unico modo era puntare l’elicottero verso quello del robot e lasciare che le pale sibilassero al massimo della potenza. Il robot si tuffò verso est e cominciò ad acquistare quota.

— Il segnale più forte, adesso, viene dalle montagne — risuonò nella cuffia la voce di Zane. — Avanti a tutta forza. Io farò del mio meglio per precederti. Adesso mancano soltanto quattro ore, al massimo, prima che Mezza Pinta cominci a morire nei suoi rifiuti cerebrali per mancanza di una fontanella fresca. Quel delinquente!

I grattacieli pastello svanirono dietro di loro, e furono bruscamente sostituiti da pini altissimi.

L’elicottero di Zane avanzava rapido, diretto verso est. Gaspard, accorgendosi che la sua guida maldestra non era di nessun aiuto, innestò l’automatico a velocità massima. L’elicottero aperto con il suo lucente pilota dal colbacco nero continuò a rimpicciolire sebbene meno rapidamente.

Tuttavia il cambiamento peggiorò la situazione. La mente di Gaspard non più occupata dai problemi della guida, si ossessionò con i propri intricati desideri, balzando dalla signorina Bishop e Heloise Ibsen… e ogni tanto spuntava lo scottante, assurdo desiderio di avere in suo potere la signorina Willow. Era possibile drogare le macchine?

Cercò di pensare ai cervelli, specialmente al povero Mezza Pinta, ma era un soggetto troppo macabro. Per la disperazione si tolse dalla tasca il secondo libro consigliato dai cervelli che la signorina Bishop gli aveva prestato: un’antica opera che si chiamava Il caso Mauritius, scritta da un certo Jacob Wassermann. Era una lettura difficile e molto strana, ma per lo meno impegnava la sua mente e i suoi sentimenti.

— Ehi, Gaspard!

Il richiamo incalzante lo distrasse dalla melanconica governante degli Andergast. In basso, i pini cedevano il posto alla sabbia bruna.

— Ti ascolto, Zane!

L’elicottero del robot era un piccolo punto nella lucente lontananza, davanti a lui… se non era un altro apparecchio: c’erano altri tre punti, in volo, verso est.

— Gaspard, mi sto avvicinando a un grande ranch verde a bolla davanti al quale è fermo un aerorazzo a scacchi bianchi e neri. Il Segnale Due viene di lì. La signorina Bishop, devo pensare. Un altro segnale sembra provenire da almeno settanta chilometri, sempre a est.

“Il tempo stringe. Mezza Pinta ha ancora poco più di tre ore prima che abbia inizio il soffocamento cerebrale, e c’è solo una possibilità su tre che il terzo segnale sia il suo… potrebbe essere il signor Flaxman o la signorina Blushes. Quindi dividiamo le forze. Tu pensa al Segnale Due mentre io accelero verso il Segnale Tre. Sei armato?”.

— Ho quella vecchia sciocca pistola a proiettili.

— Dovrà bastare. Adesso sto passando sul ranch e lancerò un lampo luminoso della durata di cinque secondi.

Vi fu un breve scintillio di luce vicino al secondo punto, a nord di quello che Gaspard aveva creduto fosse l’elicottero di Zane.

— Visto — disse Gaspard, modificando la rotta.

— Gaspard, per facilitare la mia localizzazione radio, specialmente se devo andare oltre il Segnale Tre per salvare Mezza Pinta, è di importanza vitale che il microtrasmettitore della signorina Bishop venga disattivato, non appena l’avrai trovata. Dille di farlo subito.

— E dove l’hai nascosto?

Vi fu una pausa considerevole prima che il robot rispondesse. Gaspard ne approfittò per frugare il piatto paesaggio giallo che si stendeva davanti a lui. Individuò una macchia verdescura sotto al punto che era l’elicottero di Zane.

— Io confido, Gaspard, che l’informazione che mi accingo a darti non ti indurrà a pensare male di me, o di qualunque altra persona. San Willi non voglia! Il microtrasmettitore è nascosto nel centro d’uno dei seni falsi della signorina Bishop.

Un’altra breve pausa, poi la voce del robot, che era risuonata rapida e smorzata, riprese alta e cordiale.

— E adesso, buona fortuna! Conto su di te, Vecchio Osso!

— Rrrrr, Vecchio Bullone! Abbasso il delinquente! — rispose coraggiosamente Gaspard.

Ma non si sentiva affatto coraggioso mentre scendeva verso il ranch verde dalle pareti e dal tetto rigonfi.

La sintetica descrizione fatta dalla signorina Jackson dell’aerorazzo del rapitore, insolentemente vistoso, indicava che avrebbe dovuto vedersela con il procuraguai Gil Hart, sul cui conto aveva sentito riferire da Cullingham aneddoti malauguranti, come quello relativo alla volta in cui Hart aveva mandato all’ospedale due metallurgici e un robot.

Non c’erano nascondigli a meno di ottocento metri dal ranch. Quindi non pareva vi fosse altra tattica se non quella della velocità e della sorpresa: doveva piombare il più vicino possibile al portello stagno principale che sembrava (sì, lo era!) aperto, e doveva sfrecciare nell’interno, pistola in pugno. Quel piano aveva anche il vantaggiò di lasciargli pochissimo tempo per spaventarsi.

Poi risultò che quel piano aveva anche un altro vantaggio.

Non appena Gaspard atterrò con un sobbalzo, saltò dall’apparecchio e corse attraverso la nuvola di sabbia che aveva sollevato verso il rettangolo scuro della porta esterna, che era aperta, un automa-cane-da-guardia nichelato schizzò dal sedile posteriore dell’aerorazzo e con un tremendo ululato da sirena si avventò verso di lui, facendo schioccare le mascelle d’acciaio.

Gaspard si tuffò oltre il portello, lo chiuse dietro di sé una frazione di secondo prima che la macchina furibonda lo colpisse, facendo una ammaccatura momentanea d’almeno un metro nell’involucro di plastica ma senza lacerarlo.

Mentre l’autocane continuava a ululare all’esterno, il portello interno della camera stagna si aprì con un soffio… evidentemente si apriva quando si chiudeva il portello esterno.

Gaspard entrò, agitando furiosamente la pistola a proiettili, quasi come faceva Joe la Guardia con la sua pistola-puzzola.

Si trovò in una stanza ammobiliata con divani e tavolini bassi e dalle pareti coperte da un autentico harem di pin-up in stereografia.

Alla sua sinistra stava in agguato Gil Hart, nudo fino alla cintola e armato di un’arma bizzarramente semi-primitiva, che aveva raccolto proprio in quel momento, a quanto sembrava… un grosso femore di nichel, o almeno nichelato, lungo quasi un piede.

Alla sua destra stava ritta la signorina Bishop in un pagliaccetto di seta bianca, sfacciatamente in posa con la mano sinistra sul fianco e un bicchiere pieno di whisky nella mano destra levata: l’immagine stessa di una brava ragazza intenzionata a dannarsi.

38

— Salve, Gaspard — disse la signorina Bishop. — Gil, non scaldarti troppo.

— Sono venuto a salvarti — disse Gaspard, un po’ imbronciato.

La signorina Bishop fece udire una risata trillante.

— Non credo di voler essere salvata. Gil mi sta dicendo che è un uomo eccezionale, un maschio come ce n’è uno su un milione, ben degno del supremo sacrificio di qualsiasi donna. Forse è veramente speciale. Guarda quei muscoli, Gaspard. Guarda (sto citando le sue parole) quel petto villoso.

Gil Hart ridacchiò.

— Fuori di qui, pezzente — disse. — Hai sentito cos’ha detto la signorina?

Gaspard trasse un profondo respiro. Questo lo costrinse inspiegabilmente a trarne un altro e poi un altro ancora: respiri che sembravano ringhi. Le tempie gli pulsavano, il cuore cominciava a battergli più forte.

— Piccola sgualdrina! — gracidò. — Ho intenzione di salvarti, che tu lo voglia o no. E ti salverò immediatamente.

Convinto di fare un bel gesto, qualcosa che avrebbe fatto al suo posto Zane Gort (e dopotutto era furioso contro la signorina Bishop, non contro quello scimmione dal petto che sembrava un tappeto) sparò un colpo d’avvertimento, mirando al di sopra della testa dell’investigatore privato.

Le conseguenze sbalordirono Gaspard, che in tutta la sua vita non aveva mai sparato se non con una pistola a raggi. Si udì un bum tonante, il contraccolpo gli fece schizzare dolorosamente dalla mano l’arma, un fumo puzzolente si sparse tutto intorno, un foro apparve nel soffitto e l’aria cominciò a uscirne sibilando. E l’ululato dell’autocane aumentò di volume.

Gil Hart rise, lasciò cadere sul pavimento la sua strana arma, e si avventò verso Gaspard.

Gaspard lo colpì con un pugno alla mascella… un colpo convulso senza molto peso.

Gil incassò e rispose con un pugno al diaframma di Gaspard che gli fece schizzare l’aria dai polmoni con un “Ugh!” e lo mandò a finire seduto sul pavimento. Gil si piegò e l’afferrò per il colletto.

— Ho detto fuori, mascalzone — ringhiò.

Si udì un bong risonante e musicale. Un’espressione di beatitudine apparve sul viso dal mento azzurro di Gil, che fece un piccolo, elegante salto mortale al di sopra di Gaspard, si distese con un tonfo e giacque immobile.

La signorina Bishop era ritta dietro di lui; agitava il lucente femore metallico e sorrideva felice.

— Mi sono sempre domandata — disse — se sarei riuscita a dare una botta in testa a qualcuno e a metterlo fuori combattimento senza spiaccicargli il cervello. Tu non te lo sei mai domandato, Gaspard? Scommetto che è il sogno segreto di tutti.

Si lasciò cadere in ginocchio e tastò il polso dell’investigatore privato. I suoi occhi assunsero un’espressione professionale.

Gaspard si accarezzò lo stomaco e si guardò in giro, dubbioso. In alto, il soffitto aveva perduto la sua concavità e sembrava più basso di alcuni centimetri. Un attimo dopo cominciò a discendere visibilmente, e l’ululato di sirena che era rimasto come sottofondo esplose più forte, accompagnato da un terribile baccano. L’autocane si era aperto un varco, a morsi, attraverso la parete, ora che questa era diventata flaccida. In un lampo di nichelio scintillante si lanciò su Gaspard.

La signorina Bishop gli balzò davanti, tendendo l’osso metallico. Le mascelle dell’autocane si chiusero sull’osso: la belva metallica si fermò di colpo e spense la sirena così improvvisamente che il silenzio sembrò risuonare.

— Funziona come la sbarra che si mette su un magnete — spiegò la signorina Bishop a Gaspard, mentre il soffitto si abbassava dolcemente su di loro. — Gil ha voluto mostrarmelo tre volte, si divertiva un mondo a dire al cane di mordermi e poi a fermarlo con l’osso.

Finalmente Gaspard riuscì a trarre un doloroso respiro. Per un momento si sentì quasi male, poi cominciò a riprendere interesse nelle cose, in modo freddo e nebuloso.

La signorina Bishop piazzò verticalmente un tavolino per sorreggere il peso lievissimo del soffitto afflosciato. Lo spazio che occupavano, illuminato dalle lampade semisommerse nelle pareti ripiegate, era piacevolmente intimo come la tenda d’un bambino. Erano seduti sul pavimento, uno di fronte all’altra: Gaspard a gambe incrociate, lei inginocchiata. La ragazza portava ancora il pagliaccetto, sebbene il maglioncino e la gonna giacessero a portata di mano. Gil Hart russava, disteso sul dorso, con la più grande autenticità. Il suo autocane, con le mascelle serrate sull’osso, era accosciato vicino a lui, quieto come la morte.

La signorina Bishop sorrise teneramente, e anche presuntuosamente, pensò Gaspard.

— Ti senti meglio? — chiese lei.

Lui annuì debolmente.

— L’ultima volta che ti ho parlato — disse lei con una risatina — ti stavo sgridando perché non avevi portato i rotoli per i marmocchi. Ero anche un po’ più vestita. — E si guardò… molto compiaciuta, parve a Gaspard.

— Come mai sei riuscito a rintracciarmi così presto? — chiese lei. Poi raddrizzò le spalle, respirò profondamente… per ricompensarlo con un piccolo brivido, pensò Gaspard.

La guardò diritto negli occhi. Assaporando ogni singola parola, disse: — Zane Gort ha messo un microtrasmettitore in uno dei tuoi seni falsi. Vuole che tu lo spenga subito, per poter localizzare Mezza Pinta.

Era divertente guardare una ragazza che arrossiva e si infuriava nello stesso tempo, decise Gaspard.

— Quell’indecente ficcanaso di latta! — gracchiò lei. — Quell’immondezzaio elettronico da spogliatoio! Quel feticista dal cervello fatto di relais! — E lanciò su Gaspard uno sguardo folgorante. — Non me ne importa un accidente di quello che pensi tu — l’informò. Incrociò le braccia, afferrò le spalline e si abbassò il pagliaccetto e il reggiseno fino alla cintura. — Come puoi vedere benissimo — disse in tono di sfida, mentre si guardava sulle ginocchia, come per cercare il microtrasmettitore — al piano di sopra sono fatta esattamente come un bambino.

— Non esattamente — disse sottovoce Gaspard, mentre i suoi occhi si sollazzavano. — Oh, no, no, non esattamente, sia ringraziato San Wuppertal! Per qualche motivo che non ho mai potuto comprendere, molti uomini preferiscono le donne che sembrano mucche da primato con le poppe collocate orizzontalmente. Ma questo non vale per gli uomini che hanno veramente buon gusto. Sono convinto che le mostruosità ipermammarie siano state lanciate da direttori editoriali omosessuali che volevano ridicolizzare le donne presentandole come latterie ambulanti, o forse come ragazzi con pneumatici e paraurti. Ma io… datemi Diana, datemi una donna che abbia l’aspetto di essere stata creata per i giochi d’amore, e non per la produzione casearia!

— Ecco quella maledetta cosa! — disse la signorina Bishop, lanciando lontano il reggiseno. Poi guardò Gaspard con aria interrogativa. — Dicevi sul serio, Gaspard?

— Se dicevo sul serio? — fece lui, tendendo avidamente le mani. — Perché…

— Non con queste carcasse qui intorno! — disse la ragazza con voce tagliente, rimettendosi a posto il pagliaccetto. — Con cosa hai intenzione di riportarmi a casa?

— Con un elicottero che ho rubato a Heloise Ibsen — rispose secco Gaspard.

— Quella regina cannibale! Quel sultano in gonnella! Posso immaginare benissimo che razza di cestino per la carta straccia, sgargiante e sovraccarico, quella tua ex-amante disgustosamente ipertrofica può considerare come un elicottero elegante — disse la ragazza in tono di assoluto disprezzo. — Bicolore, immagino?

Gaspard annuì.

— Rifiniture cromate?

— Sì.

— Un complicato frigorifero per i liquori e gli spuntini?

— Sì.

— Un divano disgustosamente sibaritico, ricoperto di velluto e imbottito di gommapiuma, grande come un letto a tre piazze?

— Sì.

— Finestrini attraverso i quali si può vedere dall’esterno all’interno, ma non viceversa, per garantire la massima intimità?

— Sì.

— Un pilota automatico, in modo che lo si possa regolare perché vada in direzione ovest senza doverci più pensare?

— Sì.

La signorina Bishop gli rivolse un sogghigno malizioso.

— È esattamente quello che speravo.

39

Quattro ore più tardi, e quattrocentocinquanta chilometri al largo della costa, Zane Gort, che aveva appena salvato Mezza Pinta, individuò l’elicottero grigio e viola di Heloise Ibsen che puntava diritto verso occidente.

Il robot, che era un tipo pieno di risorse, riuscì finalmente a farsi notare da Gaspard, lanciando vicino all’elicottero lenti missili sonori, dal lussuoso reattore privato a dieci posti che aveva requisito a un gruppo di deputati in vacanza, poiché aveva bisogno di un aereo più veloce per le ultime fasi della sua multipla missione di salvataggio.

Poco dopo, quando l’elicottero della Ibsen, con il pilota automatico regolato per ritornare attraverso le azzurre leghe del Pacifico fino all’attico di Homer Hemingway, ebbe iniziato il suo volo solitario, Gaspard e la signorina Bishop, tutti e due rossi in viso, furono festeggiati a bordo dell’aereo da Flaxman, dalla signorina Blushes, da Mezza Pinta e da un deputato sperduto che si stava allegramente svegliando da un sonno alcolico nel bagagliaio.

Flaxman sembrava di ottimo umore, anche se un po’ nervoso, la signorina Blushes era loquace e inquisitiva, e altrettanto lo era Mezza Pinta: sul guscio argenteo dell’uovo c’erano macchie opache, come se fosse stato lentamente eroso da un acido.

Zane, che pensava alla svelta, informò tutti che aveva dato preventivamente istruzioni a Gaspard perché gli venisse incontro proprio in quel punto, in mezzo all’oceano: un gesto pieno di tatto di cui Gaspard e la signorina Bishop gli furono grati. E, come le fece osservare Gaspard in privato, se Zane non li avesse individuati, sarebbero arrivati a Samoa o almeno a Honolulu prima di rompere i legami della loro frenetica e reciproca ossessione somatica e prima di uscire dalla loro profonda euforia.

Successivamente, mentre l’aereo volava in un lussureggiante tramonto verso la California e l’oriente che si andava oscurando, Gaspard e la signorina Bishop raccontarono una versione ad usum delphini delle loro avventure e ascoltarono le voci e gli altoparlanti loro familiari mentre fornivano riassunti, probabilmente censurati nella stessa misura, delle avventure altrui, mentre il deputato smarrito sorseggiava un Vecchio Spaziale proferendo ogni tanto educati e saggi commenti.

Flaxman chiese alla signorina Bishop se Gil Hart aveva mai spiegato per chi lavorasse o che cosa cercasse.

La ragazza rispose, con lo sguardo convenientemente abbassato: — Dalla sua prima aggressione, ha fatto capire molto chiaramente che cosa cercava. Ha lasciato che mi riprendessi dall’anestone, poi ha detto che aveva voglia di una bella zuffa. Oh, ha detto qualcosa di una fusione dell’Editrice Razzi con l’Editoriale Protone e di una vicepresidenza che doveva essere assegnata a lui, fra le dimostrazioni dell’efficienza del suo autocane e gli assalti alla mia virtù.

— Ts-ts — disse la signorina Blushes, sfiorando la mano della ragazza. — È bello che voi l’abbiate preservata — aggiunse con una sfumatura lievemente ironica che poteva esistere semplicemente nell’immaginazione della signorina Bishop.

— Sono gli strumenti di violenza privi di mente come gli autocani che procurano una cattiva reputazione ai robot — osservò prosaicamente Zane.

Dopo aver lanciato il segnale a Gaspard, Zane aveva proseguito per novanta chilometri sul deserto, prima di scoprire che il Segnale Tre veniva da un villaggio abbandonato, dove Flaxman era tenuto prigioniero dalla banda di robot autori capeggiata da Cain Brinks. Avvicinandosi in una cortina fumogena grigia che simulava un banco di nuvole basse, il robot d’acciaio azzurro li aveva colti di sorpresa e aveva inchiodato i Giovani Robot Arrabbiati con raggi cortocircuitanti prima che potessero impugnare le armi. Prima di allontanarsi insieme a Flaxman, aveva dedicato alcuni preziosi minuti a ridurre forzatamente, con metodi tecnologicamente difficili da neutralizzare, il livello d’energia dei bricconi metallici, tanto ai fini dell’attività criminale quanto a quelli della creatività letteraria.

— Ehi — obiettò la signorina Bishop — mi pareva che aveste detto che cambiare i circuiti di un robot era il peggior reato del mondo… qualcosa in cui non avreste mai voluto immischiarvi.

— C’è un’enorme differenza tra l’alterare la mente di un uomo o di un robot (turbando le sue idee e modificando i suoi principi), e il limitarsi a renderla pigra, il che è precisamente ciò che ho fatto — osservò Zane. — A molta gente piace essere pigra. Anche ai robot. Pensateci bene.

La mossa successiva di Zane era stata requisire l’aereo privato (a bordo del quale i legislatori in vacanza si stavano sbronzando) sul campo d’atterraggio di una località alla moda, nel deserto. — È stato un bene che l’abbiate prelevato voi — osservò il deputato smarrito. — Ricordo che i miei colleghi litigavano per decidere chi avrebbe pilotato fino a Parigi, in Francia, per reclutare qualche pupa e per prendere dell’assenzio, se la festa avesse cominciato a diventare noiosa.

Il Segnale Quattro aveva guidato Zane e Flaxman a ovest, sopra una grande tenuta in montagna, ricca di prati e punteggiata di querce e di bianche statue di ninfe inseguite da ermafroditi, dove un branco di cervi addomesticati si era dato alla fuga davanti agli sbuffi dei reattori che portavano l’apparecchio verso l’atterraggio. Una grande casa bianca dalle colonne scanalate si era rivelata come il rifugio della Gente di Penna (e della sua organizzazione terroristica, i Figli della Sibilla) e come la prigione in cui era rinchiusa la signorina Blushes.

— Sì, quei giovani perversamente affascinanti mi hanno indotto a seguirli — confessò la rosea robicchia. — Mi avevano promesso che avrei potuto censurare le loro poesie e scrivere racconti morali per le robicchie appena costruite. Sono stati molto simpatici, anche se non hanno mantenuto tutte le loro promesse… mi hanno mostrato lane di sfumature che non credevo neppure esistessero e nel frattempo hanno curato il mio lavoro a maglia e hanno parlato sempre con me. Ma quelle vecchie signore! — Il suo alluminio anodizzato rabbrividì. — Nient’altro che libidine della carne e un flusso di parole sconce. E fumavano la pipa! Volevo che Zane le imbavagliasse con i loro gioielli brillantati, ma lui è di animo troppo gentile. — Lo guardò teneramente attraverso la cabina imbottita dell’aereo, il cui pavimento era coperto di pozze di liquore versato e di salatini sbriciolati.

Il Segnale Cinque (Mezza Pinta, per processo di eliminazione) aveva portato Zane, Flaxman e la signorina Blushes in mezzo al Pacifico, oltre l’ultimo campo di alghe purpuree, là dove un vascello dall’aspetto sinistro solcava le onde solitarie al di là del limite delle acque territoriali: era il battello-bisca, dotato di armi pesanti, Regina del Sindacato del Crimine, che godeva fama di essere la più vecchia bisca galleggiante permanente del Sistema Solare.

L’armamento del vascello e le sentinelle dagli occhi d’aquila rendevano impossibile un attacco aereo. Dopo aver regolato l’aereo perché volasse in cerchio sulla Regina a una distanza di sette chilometri, Zane aveva messo alla prova la sua struttura resistente all’acqua lanciandosi in mare con un piccolo razzo da tuta spaziale dotato di serbatoi di riserva. Si era avvicinato alla sua meta saettando a nove metri sotto il livello dell’acqua, come una torpedine vivente. Arrivato alla Regina senza che nessuno si fosse accorto di lui, aveva praticato nella chiglia un foro di dimensioni accuratamente precalcolate e, approfittando dell’agitazione che questo aveva provocato a bordo, aveva abbandonato il suo motore a razzo per arrampicarsi in fretta lungo la fiancata, come un Nettuno metallico e sgocciolante incoronato di nero.

Il suo radiocolbacco gli aveva permesso di individuare in un attimo la cabina in cui l’abominevole Filippo Fenicchia stava facendo sgocciolare acido nitrico su Mezza Pinta (dopo aver girato il suo occhio TV perché potesse guardare lo spettacolo) nel tentativo di costringere il cervello a giurare, sull’onore di sua madre, che avrebbe aderito al Sindacato del Crimine come banco-memoria, congegno intimidatorio e superspia ad alto livello: La Garrota aveva cominciato a intuire possibilità d’impiego molto più grandi per i cervelli in scatola, invece di limitarsi a ricattare una casa editrice di secondo piano.

— Mi aveva messo alle corde — intervenne Mezza Pinta. — Se avessi giurato, avrei dovuto mantenere la mia parola… in duecento anni si impara a farlo, o si impazzisce. Forse, sarebbe stata una esistenza interessante… mi ha detto, per esempio: “Pensa cosa proverebbe un traditore del Sindacato del Crimine se aprisse la valigia e dentro ci fossi tu, a guardarlo con il tuo occhio e a dirgli che è spacciato!” ma io continuavo a chiedermi quando avrei cominciato io, ad avere paura. Ero ostinato. E volevo fargli perdere tempo. L’acido non mi avrebbe fatto soffrire, vedete, mi avrebbe dato solo nuove sensazioni e forse nuove idee. Per un po’, almeno.

Nel momento in cui Zane aveva fatto irruzione nella cabina, il robot sarebbe stato paralizzato dal raggio cortocircuitante che il previdente Fenicchia gli aveva puntato contro, ma Zane aveva teso davanti a sé una rete di rame che aveva agito come una gabbia di Faraday. Quando aveva visto le macchie provocate dall’acido sul guscio di Mezza Pinta, il robot aveva allungato una chela verso la base alcalina che La Garrota teneva pronta per neutralizzare l’acido e, gridando “Un criminale per un uovo!” aveva colpito con l’altra chela il viso grigio del gangster, spaccandogli metà dei denti e asportandogli un bel pezzo di guancia e di mento, metà del labbro superiore e la punta del naso.

Immediatamente, Zane aveva versato il neutralizzatore su Mezza Pinta, l’aveva raccolto, era passato in mezzo ai gangster paralizzati dalla catastrofe e si era ributtato in mare, nel punto dove aveva lasciato a galleggiare il suo motorino a razzo. Temendo che l’uovo non sarebbe stato in grado di resistere sott’acqua a causa della pressione, il robot era avanzato saettando proprio al di sotto della superficie, reggendo alto Mezza Pinta con una chela.

— Oh, ragazzi, che corsa! — intervenne l’uovo, poi aggiunse, meditabondo: — Potevo quasi sentire quell’acqua.

— Doveva essere veramente uno spettacolo straordinario — ammise Zane — se qualcuno dell’equipaggio avesse avuto il tempo di distrarsi dalle operazioni di salvataggio della Regina: un uovo d’argento che correva misteriosamente sulla cresta delle onde!

— No, non fatemi venire le convulsioni! — intervenne Flaxman, curvando le spalle e chiudendo gli occhi. — Scusate, Mezza Pinta.

Quando era giunto al limite del cerchio di sette chilometri, Zane aveva chiamato per radio la signorina Blushes e l’aveva guidata perché abbassasse l’apparecchio fin quasi al livello del mare: poi Flaxman gli aveva gettato una scala di corda. La prima cosa che il robot aveva fatto, appena salito a bordo, era stato avvitare una fontanella nuova a Mezza Pinta.

— Io non credo a quella storia delle otto ore — disse Mezza Pinta. — Ricordo benissimo che, quella volta che la bambinaia era in ritardo, avevamo fatto finta di svenire per spaventarla.

— Dimmi una cosa, Zane — chiese incuriosito Gaspard. — Cosa sarebbe successo se il tuo motore razzo si fosse guastato?

— Sarei andato a fondo — rispose il robot. — E sarei là ancora adesso, con Mezza Pinta fra le braccia e… se la mia struttura e il mio faro avessero resistito, starei contemplando le bellezze dei sedimenti marini e della vita negli abissi. O, più probabilmente, conoscendomi bene, starei tentando di raggiungere a piedi la riva.

— Come volevasi dimostrare — disse il deputato sperduto, con la voce che cominciava a farsi più spessa, mentre versava altro whisky nel bicchiere.

— Infatti, signore — fece eco Zane.

— Bene, ad ogni modo adesso puoi ritornare al tuo Progetto Elle con la coscienza tranquilla — gli disse Gaspard.

— È vero — ammise Zane con deludente brevità.

— Guardate, ecco la costa! — disse la signorina Blushes. — Le meravigliose luci di New Angeles, come un tappeto di stelle. Oh, mi sento romantica.

— Cos’è questo Progetto Elle? — chiese Flaxman a Zane. — Ha qualcosa a che vedere con l’Editrice Razzi?

— Sì, signore, in un certo senso.

— Una delle pupe di Cullingham? — insistette Flaxman. — Sapete, sono preoccupato. Quella Ibsen può ridurlo come una cavalletta morta, e allora saremmo costretti ad accollarci tutto il suo lavoro.

— No, non ha niente a che fare con il signor Cullingham — gli assicurò Zane. — Ma se non vi dispiace, preferirei non discuterne, per il momento.

— Un progetto indipendente, eh? — disse acutamente Flaxman. — Bene, tutto ciò che vuole il nostro eroe… e credetemi, dico sul serio, Zane…

— Io conosco un segreto! — disse Mezza Pinta.

— Silenzio — disse Zane, e gli disinserì l’altoparlante.

40

Dopo aver lasciato il deputato sperduto impegnato a spiegare agli sbalorditi funzionari in che modo avesse pilotato l’aereo privato dal deserto di Mohave a un inferno di bisca oceanica (e ritorno) in stato di completo oscuramento alcolico, o al massimo con l’aiuto di alcune amichevoli allucinazioni, la troupe della Editrice Razzi tornò a casa in tassi e scoprì che la sede della casa editoriale era di nuovo a soqquadro, popolata soltanto da un Joe la Guardia stordito ed errabondo e da venti giocatori di pallaluna della Lega Giovanile in uniforme azzurra che sedevano rigidi sull’attenti nell’atrio.

Il più grosso di tutti balzò in piedi e latrò, rivolto a Flaxman: — Caro signore, noi siamo appassionati e fedeli seguaci della vostra collana dedicata agli Sport Interplanetari e alle Reclute Spaziali. La nostra squadra di pallaluna è stata prescelta dal Presidium dei Fan per…

— È magnifico, è splendido — gridò Flaxman, scompigliando i capelli del ragazzo e guardandosi intanto in giro, come se si aspettasse di trovare grossi buchi nelle pareti dell’edificio. — Gaspard, comprate dei gelati per questi giovani eroi. Vi parlerò più tardi, ragazzi. Joe, svegliatevi e raccontatemi che cosa è successo. Signorina Bishop, telefonate alla Nursery. Zane, ispezionate i magazzini. Signorina Blushes, procuratemi un sigaro.

— Qui c’è stata una incursione spaventosa, e non c’è possibilità di errore, signor Flaxman — cominciò malinconico Joe. — Un’incursione di agenti governativi. Sono entrati da tutte le porte e dal tetto. Un tipo grasso che gli altri chiamavano signor Mears mi aggredisce e fa: “Dove sono? Dove sono le cose che devono scrivere i libri?”. Così io gli mostro le tre teste d’uovo nell’ufficio di Cullingham. Lui ride sarcastico e dice: “Non intendevo questi. So tutto sul loro conto… sono irrimediabilmente idioti. Inoltre, come potrebbero fare il lavoro dei mulini-a-parole, piccoli come sono?”. E io dico: “Non sono idioti, sono così furbi che sono carogne. Parla, Ruggine”, dico e, mi credereste, quel matto di un uovo non ha voluto dire altro che “Gu-gu-gu”. Be’, dopo hanno cominciato a rovistare dappertutto, a cercare i mulini-a-parole nascosti. Hanno provato perfino le nostre grosse macchine da scrivere per vedere se scrivevano qualcosa da sole. Poi sono andati in Contabilità e hanno fatto a pezzi la vecchia calcolatrice. E per finire hanno sequestrato la mia pistola-puzzola… dicono che è un’arma dell’orrore, proibita in tutte le nazioni, bandita in perpetuo insieme alle pallottole di rame, ai proiettili dum-dum, alle baionette con i denti a sega e alle armi chimiche.

— Ho parlato con la signorina Jackson — riferì la signorina Bishop. — Tutti i ventinove marmocchi sono presenti… La signorina Phillips è arrivata sana e salva con i suoi tre. Stanno strillando ancora perché vogliono i rotoli. Babbo Zangwell ha avuto convulsioni post-alcoliche ma adesso sta riposando tranquillo. E ora scusatemi.

Corse nella toeletta delle signore, seguita dalla signorina Blushes, che aveva consegnato a Flaxman il suo sigaro.

— Scusatemi, signorina — disse la robicchia rosea quando furono nel sacro recinto — ma muoio dalla voglia di rivolgervi una domanda molto personale. Spero che non vi dispiaccia.

— Sparate.

— Ecco, fino a questa mattina, io ho sempre notato che eravate una ragazza maggiorata, se capite cosa voglio dire. Ma ora… — e indicò con lo sguardo il seno modestamente arrotondato della signorina Bishop.

— Oh, quelli! — La signorina Bishop corrugò pensierosa la fronte. — Vi dirò io cos’è successo: ho deciso di sbarazzarmene… erano troppo sexy.

— Come siete stata coraggiosa! — trillò la signorina Blushes. — Conosco la storia delle amazzoni, naturalmente, ma che gesto drastico! Avete molto più coraggio di me… ho persino evitato di tingermi di nero quando morì Sam Willi. Sono sempre stata una codarda, nel profondo dei miei circuiti. Signorina, voi che siete così coraggiosa, ditemi… un essere femminile si sente estremamente perverso quando sacrifica l’onore e la decenza… e l’innocenza… per il semplice piacere proprio e dell’essere amato?

— Ehi, è una domanda cruciale — obiettò la signorina Bishop. — Ma sì, si sente ricoperta in ogni centimetro quadrato da lucente e nera malvagità. E questo che volevate sapere?

Nell’atrio, il robusto portavoce della Lega Giovanile, dopo aver inghiottito in fretta il suo gelato, si stava avvicinando risolutamente a Flaxman quando Joe, che aveva continuato a grattarsi la testa, disse all’improvviso: — Mi ero dimenticato di chiedervi una cosa, signor Flaxman… quando ha cominciato, Clancy Goldfarb, a lavorare per il governo?

— Quel vecchio pirata, quel bucaniere librario? Siete impazzito, Joe!

— No che non sono impazzito, signor Flaxman. Clancy e i suoi uomini erano insieme agli uomini del governo, li hanno seguiti dappertutto e hanno preso parte alle ricerche e ai vandalismi. Dopo un po’, però, sono spariti.

Zane Gort scese ronzando la scala mobile, che era di nuovo bloccata. Il robot reggeva ancora fra le braccia Mezza Pinta.

— Sono dolente di riferire — disse — che un buon quaranta per cento dei libri dell’Editrice Razzi ancora da distribuire è stato asportato. Hanno fatto piazza pulita di tutta l’epica sessuale.

Flaxman vacillò e ondeggiò.

Il robusto giocatore della Lega Giovanile fece segno a due ragazzi che portavano una grande scatola nera di avvicinarsi.

— Caro signore… — cominciò con tono deciso.

— Be’, cosa state lì a fare? — ruggì Flaxman rivolto a Zane. — Riportate quell’uovo alla Nursery e innestatelo alla sua fonoscrivente! Gaspard! Portate quei trenta rotoli ai cervelli! La data di consegna dei romanzi è anticipata a dopodomani! Basta con le vacanze! La prima persona che si lascia rapire di nuovo, verrà licenziata! E questo vale anche per me! Signorina Bishop! Non state lì a oziare sul ballatoio, scendete! Voglio che torniate alla Nursery e che convinciate con le buone i cervelli a scrivere a tutta velocità. E preparate un po’ di adrenalina o qualcosa del genere per resuscitare Cullingham quando lo riavremo in restituzione! Signorina Blushes…

Si interruppe, cercando qualche altro ordine da impartire. Mezza Pinta parlò, nel silenzio.

— Chi credete di essere, signor Flaxman, per poter ordinare la creazione di grandi opere d’arte con consegna a data fissa?

— Silenzio, moscerino di latta! — disse furioso Flaxman.

— Badate a quello che dite — rispose la testa d’uovo. — O io vi perseguiterò. Vi apparirò in sogno.

Flaxman iniziò un ruggito di risposta, poi esitò, guardando l’uovo con espressione bizzarra.

Giudicando che quello era il momento propizio, il robusto giocatore della Lega Giovanile iniziò il suo discorso.

— Caro signore, noi siamo appassionati e fedeli seguaci della vostra collana dedicata agli Sport Interplanetari e alle Reclute Spaziali. La nostra squadra di pallaluna è stata prescelta dal Presidium dei Fan per offrire all’Editrice Razzi, in segno di riconoscimento per il suo straordinario contributo allo sport extraterrestre e spaziale, la più alta ricompensa che il Presidium abbia facoltà di concedere.

Alzò la mano. I due ragazzi che lo seguivano scoperchiarono la scatola nera.

— Voi avete vinto… — Il ragazzo si girò, tuffò una mano nella scatola, e lanciò bruscamente verso Flaxman un grosso, lucente oggetto ovoidale che, sebbene fosse un po’ più scintillante, era identico a Mezza Pinta.

Flaxman gridò, e nello stesso tempo, trattenne il respiro. L’oggetto ovoidale lo colpì in pieno petto con un lieve tonfo e rimbalzò.

— …la Pallaluna d’Argento! — finì il giocatore della Lega Giovanile, mentre Flaxman cadeva riverso.

41

L’Editrice Razzi si era fatta bella per il giudizio conclusivo del Derby Scrittorio delle Argentee Teste d’Uovo. Per lo meno, Gaspard aveva appeso nell’ufficio grande un cartello su cui erano scritte quelle sette parole. Joe la Guardia aveva portato alcune sedie pieghevoli e aveva appeso qua e là strisce di tessuto argenteo, la cucina dell’Engstrand aveva provveduto a un tavolo di rinfreschi, e la scala mobile aveva ripreso allegramente a funzionare.

La porta munita di serratura elettrica era stata riparata per la seconda volta, perfino troppo bene, per sfortuna; adesso aveva la tendenza (che sconvolgeva Flaxman) a spalancarsi a intervalli imprevedibili, senza che nessuno toccasse i comandi: tuttavia, qualche pugno sulla serratura sparato da Joe la Guardia sembrò reprimere con successo tale tendenza.

I soci avevano deciso di leggere tutti i manoscritti, quindici a testa, scelti a caso e anonimi.

Entrambi avevano preso le Pillole Prestissimo, che moltiplicavano la loro velocità di lettura per un fattore approssimativo di dieci, e le interminabili strisce delle fonoscriventi scorrevano sulle loro due macchine da lettura, in scatti nervosamente frequenti, fra i rulli.

Cullingham impiegava un po’ più di tempo a leggere ogni rotolo, ma per la verità usava i rotoli più grossi. Ben lungi dal mostrare segni di esaurimento per aver trascorso quarantotto ore con una ferocissima donna di carne e di sangue, il biondo direttore editoriale stava in realtà superando Flaxman, un po’ per volta, fino a che, a metà strada, si trovò con mezzo manoscritto di vantaggio… come notò con rincrescimento Gaspard che aveva fatto una scommessa con Zane; da quanto poteva vedere, nessuno dei due uomini saltava qualche passo nella lettura.

Tutti i fedeli della Editrice Razzi erano presenti: nessuno avrebbe voluto mancare allo spettacolo dei due soci che, tanto per cambiare, lavoravano veramente. C’erano Gaspard con la signorina Bishop, Zane con la signorina Blushes, mentre i fratelli Zangwell sedevano fianco a fianco. Babbo Zangwell aveva fatto un bagno di recente ed era pallidissimo e abbastanza tranquillo, sebbene di tanto in tanto si arrotolasse la barba attorno al polso e fissasse con occhi vacui e desiderosi la tavola dei rinfreschi dove erano allineate le bottiglie, che erano per lui zona proibita.

Si era temuto, specie da parte di Gaspard, che Heloise Ibsen portasse una nota sbagliata o almeno rauca; ma, come si conveniva alla signora di un direttore editoriale, si era presentata vestita con un modello d’alta moda dalla scollatura molto bassa, era stata molto carina con tutti, e adesso se ne stava seduta tranquillamente, tutta sola, sorridendo compostamente a Cullingham ogni volta che quello alzava gli occhi.

Era presente anche la signorina Willow: si era scoperto che Cullingham l’aveva presa a nolo per un certo periodo, che scadeva soltanto fra tre giorni. Tuttavia, poiché Flaxman sosteneva che la sua presenza lo turbava, la femmequina era stata drappeggiata all’ultimo momento in un lenzuolo bianco, anche se era molto dubbio che in questo modo provocasse meno brividi all’editore.

In segno di tacita deferenza per la fobia di Flaxman, si era deciso che le uova non fossero fisicamente presenti; ma era stato stabilito un collegamento TV fra la Nursery e l’ufficio. Per sfortuna, c’era un difetto nel circuito che faceva spegnere di tanto in tanto il grande schermo. Per il momento, tuttavia, lo schermo mostrava la signorina Jackson circondata da una batteria di minuscoli occhi TV; sebbene fingessero il massimo disinteresse e la massima grandeur di intellettuale solitudine, le uova erano curiosissime di conoscere il risultato dell’esame dei loro frettolosi capolavori, presentati tutti entro il termine fissato. Mezza Pinta aveva continuato a scrivere a tutta velocità dal momento in cui era stato riportato alla Nursery.

I due soci se la godevano in segreto, poiché avevano un così vasto pubblico; era anzi l’unico modo in cui i due erano capaci di lavorare. Non facevano commenti e nascondevano ogni reazione, favorevole o no, anche quando cambiavano i rotoli, il che procurava a tutti una nervosa eccitazione euforica. Le conversazioni, condotte sottovoce, rallentavano e si smorzavano.

— Ho letto un altro po’ del Caso Mauritius, ieri sera — osservò Gaspard, scuotendo il capo, rivolto alla signorina Bishop. — Ragazzi, se quello è un esempio dei romanzi gialli degli antichi, mi domando cosa doveva essere la loro letteratura del mainstream!

— Sbrigati a finirlo — gli disse la ragazza. — Le uova hanno scelto per te un altro libro, scritto da un vecchio mago della suspense, un russo… I fratelli Karamazov. Poi ti permetteranno di rilassarti con un lavoretto solleticante su un funerale irlandese, La veglia di Finnegan, alcune leggere memorie sulla vita di società, Alla ricerca del tempo perduto, un melodramma di cappa e spada, Re Lear, un racconto di fate, La montagna incantata, e un romanzo lacrimevole sugli alti e bassi di alcune famiglie sofferenti… Guerra e pace, mi pare che sia. Hanno scelto molte facili letture, per te, mi hanno detto, dopo che avrai finito quei due polizieschi.

Gaspard scrollò le spalle.

— Fino a che mi risparmiano la produzione del vecchio mainstream, credo che ce la farò. Ma c’è un giallo che continua a solleticarmi, però… Il Progetto Elle di Zane Gort.

— Non te ne ha parlato? Eppure sei suo amico.

— Non mi ha detto una sola parola. Tu ne sai qualcosa? Credo che ci sia immischiato Mezza Pinta.

La signorina Bishop scosse il capo, poi sogghignò.

— Anche noi abbiamo il nostro segreto, — sussurrò, stringendogli la mano.

Gaspard le restituì la stretta.

— Chi vincerà la gara, secondo le uova?

— Non dicono una parola. Non avevo mai saputo che fossero così segreti. Questo mi preoccupa.

— Forse tutti i manoscritti saranno cannonate — suggerì Gaspard con grandioso ottimismo. — Trenta best seller!

I rotoli erano stati letti quasi tutti, e la tensione continuava ad acuirsi, come dimostrava il fatto che Joe la Guardia faticava a tenere Babbo Zangwell alla larga dai liquori; Gaspard, facendo una visita alla tavola dei rinfreschi, si sentì urtare dal gomito d’acciaio di Zane Gort, che con preveggente diplomazia stava riempiendo un piatto per Heloise Ibsen.

— Gaspard — sussurrò il robot. — Devo parlarti di qualcosa.

— Del Progetto Elle? — chiese pronto Gaspard.

— No, di una cosa molto più importante… almeno per me personalmente. È qualcosa che non direi mai a un altro robot. Gaspard, la signorina e io abbiamo trascorso insieme le ultime due notti… intimamente.

— È stato bello, Zane?

— Eccitante oltre ogni dire! Ma ciò che non ho capito, Gaspard, ciò che mi ha sorpreso e un po’ sconvolto, ciò che non avevo mai previsto neppure per un attimo, è che la signorina Blushes è così entusiasta!

— Vuoi dire, Zane, che sei turbato perché pensi che abbia avuto altri…

— Oh, no, no, no. Era completamente innocente, c’è il modo di saperlo, eppure quasi immediatamente è diventata entusiasta. Voleva che rimanessimo sempre in collegamento… e per lunghi periodi!

— Ed è male? Attento, sta arrivando Babbo Zangwell… no, Joe l’ha fermato.

— No, non è male, Gaspard, ma questo porta via molto tempo, specialmente quando si immagina tutta una vita di simili rapporti reciproci. Vedi, il momento dell’unione tra un robot e una robicchia è l’unico tempo in cui un robot non pensa… la sua mente cade in una specie di estatica trance elettronica, un oscuramento percorso da lampi fulminei. Ora, io sono abituato a pensare ventiquattro ore al giorno, da un anno all’altro, e la prospettiva di essere privato di larghe porzioni di pensiero è profondamente inquietante. Gaspard, so che tu difficilmente lo crederai, ma nell’ultima nostra connessione, la signorina Blushes e io siamo rimasti collegati per quattro ore buone!

— Oh, oh, Vecchio Bullone! — commentò Gaspard. — Sei alle prese con problemi molto simili a quelli che io avevo con la Ibsen.

— Ma cosa ne dici? Quando scriverò?

— È possibile, Zane, che tu stia cambiando la tua convinzione, secondo cui la monogamia è la soluzione migliore per il creatore del dottor Tungsteno? Comunque, io credo che un po’ di cambiamento sia indicato. Zitto, hanno finito di leggere. Cullingham ha vinto per un rotolo! Ti pagherò dopo… devo ritornare dalla Bishop.

G.K. Cullingham si appoggiò alla spalliera della sedia, batté rapidamente le palpebre e le chiuse per qualche secondo. Questa volta non ricambiò il sorriso di Heloise, ma si limitò a chinare il capo. Poi disse, in una rapidissima esplosione: — Cosa — ne — diresti — di — un — colloquio — Flaxie — prima — che — tu — finisca — l’ultimo? — La sua voce cercava di mantenere la stessa velocità drogata della lettura. Premette un pulsante e lo schermo TV si spense. — Crederanno — che — sia — per — colpa — del — circuito — che — non — funziona — spiegò…

Flaxman finì di inserire l’ultimo rotolo nella macchina e guardò il socio. Cullingham riuscì a controllare in fretta la voce, per lo meno quel tanto sufficiente per non permettere che le Pillole Prestissimo gliela facessero accelerare. Infatti le parole gli uscirono dalle labbra con faticosa lentezza, quando chiese:

— Come è andata, fino ad ora?

L’espressione impassibile di Flaxman si trasformò in una smorfia di profonda tristezza. Con sommesso e rispettoso dolore, come se riferisse la tragedia dell’incendio di un asilo d’infanzia, disse piano:

— Fanno schifo. Fanno tutti schifo.

Cullingham annuì.

— Anche i miei. Tutti.

42

Il primo pensiero di Gaspard fu che in fondo in fondo lui aveva sempre saputo che sarebbe andata così. E che anche tutti gli altri dovevano averlo saputo… in fondo. Come era possibile aspettarsi che quei vecchi egomaniaci, vissuti in una incubatrice, fossero in grado di produrre qualcosa di popolare? Come potevano uscire dei romanzi realistici da quei cervelli inscatolati e coccolati? Improvvisamente Flaxman e Cullingham apparvero a Gaspard come personaggi di un tragico romanzo, amici della speranza desolata, della causa perduta, delle illusioni del tramonto.

E infatti Flaxman scrollò le spalle come un minuscolo eroe romantico che accettasse coraggiosamente il peso della tragedia.

— Ce — n’-è — ancora — uno — da — leggere — per — pura — formalità — disse vivacemente l’editore, poi chinò la testa e avviò la macchina da lettura.

Gaspard si alzò e andò a gravitare, con gli altri, attorno a Cullingham. Sembravano altrettanti becchini attorno al direttore del funerale.

— Non è che manchino di abilità o di inventiva — stava spiegando Cullingham, quasi in tono di scusa, con voce ancora più controllata. — E, anche questo avrebbe potuto essere d’aiuto, non è neppure la mancanza di istruzioni da parte del direttore editoriale. — E rivolse a Gaspard e a Zane un lieve sorriso ironico.

— Non c’è comprensione umana, immagino? — azzardò Gaspard.

— O una forte trama? — aggiunse Zane.

— O l’identificazione con il lettore? — intervenne la signorina Blushes.

— O semplicemente il coraggio? — finì Heloise.

Cullingham annuì.

— Ma soprattutto — disse — è l’incredibile concezione della realtà, il loro tronfio egocentrismo. Quei manoscritti non sono romanzi… sono rompicapi: quasi tutti ancora più, insolubili. L’Ulisse, Mars Violet, Alexanderplatz, Venus Deferred, The Fairy Queene, e le opere dei bardi islandesi non vi si avvicinano neppure, in quanto a perversa complessità. Il che si spiega così: le teste d’uovo hanno cercato di confondere le idee il più possibile per dimostrare quanto sono geniali.

— Li avevo avvertiti… — cominciò a dire la signorina Bishop, ma poi si interruppe. Stava piangendo. Gaspard le circondò lievemente le spalle con un braccio. Dieci giorni prima le avrebbe detto “l’avevo previsto” e si sarebbe lanciato in un nuovo peana di lode ai mulini-a-parole, ma adesso anche lui aveva quasi voglia di piangere; era così turbato che non lo impressionava neppure il coraggio filosofico con cui Cullingham accettava il crollo del sogno suo e di Flaxman.

— Non è il caso di biasimare le uova — disse in tono comprensivo il direttore editoriale. — Essendo menti prigioniere e poco di più, era naturale che considerassero le idee come oggetti con cui giocare, e da incastrare insieme in schemi bizzarri. Ecco, uno dei manoscritti è una specie di poema epico che mescola, talvolta in una sola frase, ben diciassette lingue. Un altro tenta, e con successo, di essere l’epitome di tutta la letteratura, dall’egizio Libro dei Morti, giù giù fino a Shakespeare e Dickens e Hammerberg. In un altro, le iniziali di ogni parola formano una seconda storia, altamente scatologica, sebbene io non sia riuscito a seguirla fino in fondo. Un altro… oh, non è che siano brutti. Un paio sono il tipo di opera che ci si aspetta da uno scrittore dotato quando frequenta ancora l’università e cerca di abbagliare i professori. Uno… di Doppio Nick, credo, è persino pseudopopolare e si serve di tutti i buoni luoghi comuni e delle tecniche collaudate, ma in un modo freddo, sprezzante, senza nessun calore. Ma quasi tutti…

— Quei marmocchi non sono freddi, in realtà — protestò la signorina Bishop con voce spezzata. — Sono… oh, ero sicura che almeno qualcuno dei loro libri sarebbe stato buono. Specialmente quando Ruggine mi ha detto che in realtà non stavano scrivendo vicende nuove, ma roba che avevano faticosamente rimuginato per un secolo e più, per loro personale divertimento.

— Questo, probabilmente, è il guaio. — Disse Cullingham. — Stanno tentando di abbagliare delle supermenti. Fuochi d’artificio intellettuali. Se non mi credete, ascoltate questo.

Prese un rotolo che aveva messo da parte, lo svolse per un paio di piedi, e cominciò a leggere.

— Questo idoscuro madrelegame menzogna spirito cenere interiori precipizi ardono un pigro capo canta nero di questa aria, dovando, marmorando e morendo. Desidera. Spingi. Fracassa. Quattro in un fango eccitano interiore agio maggiolando esau…

— Cully! — Il grido risuonò come il suono d’una buccina.

Tutti si voltarono a guardare Flaxman. Gli occhi del piccolo editore erano incollati al foglio che sussultava. Il suo viso era raggiante.

— Cully, è grandioso! — disse, senza alzare gli occhi e senza rallentare la macchina. — È un colpo editoriale grande come il Sistema! È tutto quello che può essere un romanzo dello Scrivano Scribner e anche di più! Devi leggere solo un paio di pagine per…

Ma Cullingham stava già sbirciando avidamente alle sue spalle e gli altri giostravano intorno per lanciare qualche occhiata.

— È la storia d’una ragazza nata su Ganimede e priva del senso del tatto, — spiegò Flaxman, continuando ad assorbire la vicenda. — Diventa acrobata a bassa gravità in un night club e poi la vicenda si sposta per tutto il Sistema, c’entra anche un famoso chirurgo, ma la comprensione con cui l’autore presenta la ragazza, il modo in cui ti porta a contatto con i suoi sentimenti… E intitolato Tu hai sentito le mie ferite…

— È il romanzo di Mezza Pinta! — rivelò eccitata la signorina Bishop. — Mi ha raccontato molte volte la trama. L’ho messo per ultimo perché avevo paura che non fosse molto buono, che non fosse bello quanto gli altri.

— Voi sareste un pessimo direttore editoriale! — ridacchiò felice Flaxman. — Cully, perché diavolo è staccata la TV? Dobbiamo dare la buona notizia a tutta la Nursery!

Dopo un mezzo minuto di folle carosello, durante il quale la Nursery fu informata della vittoria di Mezza Pinta e reagì con bizzarri squittii e ingarbugliate interiezioni, lo schermo si schiarì. La metà superiore di Mezza Pinta (doveva essere proprio lui) e il suo occhio, il suo orecchio e il suo altoparlante apparvero al centro dello schermo, circondati dai ventinove occhi degli altri cervelli e dal viso frenetico della signorina Jackson.

— Congratulazioni, ragazzo mio! — gridò Flaxman, stringendo le mani alte sul capo e scuotendole vigorosamente. — Come ci siete riuscito? Qual è il vostro segreto? Ve lo chiedo perché, spero che non vi spiaccia se lo dico, io credo che tutti i vostri compagni potranno trarne profitto.

— Mi sono limitato a starmene incollato alla fonoscrivente e a lasciar lavorare la mia grande mente, — asserì Mezza Pinta con voce da ubriaco. — Ho fatto fare il girotondo all’universo e ho agguantato al volo le idee. Ho violentato il mondo. Ho lacerato il cosmo e poi l’ho intessuto di nuovo. Sono balzato sul trono di Dio mentre era uscito per dar da mangiare agli arcangeli e ho messo in testa il suo berretto magico da creatore. Io…

Mezza Pinta si interruppe.

— No, non è questo che ho fatto, — disse, più lentamente. — Per lo meno, non è stato tutto ciò che ho fatto. Dirò la verità. Avevo esperienza… una esperienza nuova. Ero stato rapito… l’intero inseguimento nell’ultimo terzo del mio romanzo è esattamente il mio rapimento, un po’ rimaneggiato. E poi Zane Gort mi ha portato fuori, a fare un paio di gite, e anche questo è servito, in realtà è servito molto più di quanto…

“Ma non voglio più parlare di tutto questo, perché voglio dire il vero segreto del mio romanzo… Il segreto più intimo. Non sono stato io a scrivere il mio romanzo. È stata la signorina Bishop”.

— Mezza Pinta, sei un idiota! — squittì la ragazza.

43

— Sì, sei stata tu a scrivere il mio romanzo, mammina, — continuò in fretta Mezza Pinta: la sua forma opaca sembrava gonfiare lo schermo. — È successo quando ti raccontavo la trama. Pensavo a te ogni minuto, cercando di farti capire ciò che volevo scrivere. Cercavo di farti la corte, in realtà, perché tu sei anche la protagonista del romanzo, mammina… o forse lo sono io, forse sono io la ragazza che non ha il senso del tatto… no, adesso comincio a confondermi… Comunque, è una barriera, una anestesia, e noi vi giriamo intorno…

— Mezza Pinta, — disse rauco Flaxman, mentre una lacrima gli scorreva lungo la guancia, — non l’ho mai detto a nessuno, ma c’è un premio per la vittoria in questa gara… una fonoscrivente d’argento che appartenne a Hobart Flaxman in persona. Vorrei che voi foste qui in questo momento per consegnarvela e per stringervi la… Be’, comunque, vorrei che foste qui, lo vorrei veramente.

— Benissimo, signor Flaxman. Noi non abbiamo bisogno di premi, vero, mammina? E vi saranno molte occasioni…

— No, per Dio, — ruggì Flaxman, alzandosi. — Dovete venir qui immediatamente. Gaspard, andate…

— Non c’è bisogno che vada Gaspard! — squittì a voce alta la signorina Blushes. — Zane se ne è andato un momento fa per prendere Mezza Pinta. Mi ha chiesto di riferirvelo.

— Chi diavolo crede di essere quel mascalzone di latta… Magnifico! — gridò Flaxman. — Mezza Pinta, ragazzo mio, noi…

Non finì la frase perché in quel momento lo schermo si coprì di righe ondeggianti e poi si spense. Anche l’audio si interruppe.

Nessuno vi badò. Erano tutti troppo occupati a congratularsi l’uno con l’altro e a effettuare le bevute della vittoria. Joe ebbe un’altra zuffa con il fratello, che non riusciva a sopportare la vista di quell’assorbimento di liquori a fuoco rapido. Dibattendosi per alzarsi, il vecchio alcolizzato puntò la mano tremante e avvolta nella barba in direzione di una bottiglia di scotch che Cullingham stava alzando e gridò: — Ecco! — con una voce strana e agghiacciante, poi seguì con mano tremula e con occhi iniettati di sangue ciò che doveva essere lo spirito della bottiglia di scotch mentre fluttuava alto nell’aria e volava oltre la porta chiusa. — Ecco! — gemette di nuovo, disperato. Joe riuscì a costringerlo a sedersi, con qualche difficoltà.

Ormai l’eccitazione si era calmata al punto che era possibile udire qualche frammento di conversazione.

Cullingham stava spiegando a Gaspard.

— Così, vedete, è veramente un problema di collaborazione editoriale. Una specie di simbiosi. Ogni cervello ha bisogno di un essere umano sensibile cui raccontare la sua vicenda, un partner che non sia imprigionato. Si tratta di trovare la persona adatta per ogni uovo. È un lavoro che farò con grande piacere! Sarà un po’ come dirigere una agenzia matrimoniale.

— Cully, pupo, tu hai sempre le idee migliori, — disse Heloise Ibsen con un signorile risolino, prendendogli la mano.

— Sì, non è vero? — ammise la signorina Bishop, prendendo la mano di Gaspard.

Gaspard disse, in tono espansivo:

— Sì, e non appena avremo di nuovo i mulini-a-parole, con il loro patrimonio di ricordi e di sensazioni più grande di quello umano, pensate quale triplice possibilità avremo! Una testa d’uovo, uno scrittore a due gambe, un mulino-a-parole… che squadra meravigliosa!

— Non sono certo che si costruiranno altri mulini-a-parole, o per lo meno che verranno usati con la stessa larghezza. — disse pensieroso Cullingham. — Io li ho programmati per quasi tutta la mia vita, dopo aver raggiunto l’età della ragione, e quindi non ho mai detto nulla contro di essi, ma per la verità sono sempre stato oppresso dal fatto che erano semplici macchine, che potevano funzionare soltanto in base a una formula. Per esempio, non commetterebbero mai l’errore, grossolano ma benedetto, di scrivere di se stessi, come ha fatto il duo Mezza Pinta-Bishop. — E sorrise a Gaspard. — Vi stupisce sentirmi dire questo, vero? Ma vi rendete conto che, anche se centinaia di milioni di persone hanno vissuto o almeno si sono addormentate per merito della produzione mulinesca, non si è mai potuto stabilire quanta della sua efficacia sia dovuta alla vicenda narrata e quanta al puro ipnotismo e alla perfetta ma sterile manipolazione di pochi simboli fondamentali di sicurezza, di piacere e di paura… una formula ripetuta infinite volte per sfamare l’ego, per bloccare l’ansietà e per stordire la mente? Chissà, forse questa sera può segnare la rinascita della vera narrativa nel mondo! Una narrativa che afferra, che affronta rischi e avventure, e che esplora l’ignoto!

— Pupo, quanto hai bevuto? — gli chiese ansiosa Heloise.

— Già, tieni d’occhio quello Scotch, Cully, ti va giù in fretta quando sei euforico. — consigliò Flaxman, avvicinandosi proprio in quell’istante e lanciando una strana occhiata al socio. — Ascoltate, gente, nel momento in cui Mezza Pinta varcherà quella porta, voglio che tutti si interrompano, qualunque cosa stiano facendo, e lo applaudano. Non bisogna permettere che si senta come uno spettro nel mezzo d’una festa. Zane può portarlo qui al trotto da un momento all’altro…

— Al galoppo, vorrete dire, signor Flaxman… dovrebbero essere già arrivati da cinque minuti, alla velocità cui è abituato quel robot — opinò Joe la Guardia, che si era avvicinato per bere di nascosto un paio di sorsi mentre l’attenzione del fratello era momentaneamente attratta dall’antica fonoscrivente d’argento che era stata appena portata dall’ufficio adiacente.

— Oh, io spero che non vi sia stato qualche altro rapimento! — squittì eccitata la signorina Blushes. — Se fosse successo qualcosa a Zane, non potrei sopportarlo!

— Vi sono molti e diversi punti di vista sui rapimenti, — annunciò a voce alta Cullingham, agitando un altro bicchiere. — Alcuni li temono e li deplorano. Altri li considerano come il più bel risveglio alla vita!

— Oh, Cully! — ridacchiò Heloise, prendendogli il braccio.

— Ehi, non mi avevi mai mostrato quella sgualdrina di gomma. Credo che dovremmo portarla a casa, questa sera, poiché l’hai affittata: vi sono certe torture che devono essere applicate da due donne. Cully, la chiami davvero Tits Willow?

A quel nome-chiave, proferito a voce alta, la femmequina si alzò e, ancora avvolta nel lenzuolo bianco che la copriva dalla testa ai piedi, si diresse verso Heloise.

Babbo Zangwell levò lo sguardo dalla fonoscrivente d’argento giusto in tempo per vedere suo fratello che si versava una dose generosa di bourbon. La vecchia spugna cominciò a tremare di nuovo e i suoi occhi si spalancarono.

— Ecco! — mugolò.

Flaxman si scostò, tremando, dalla rotta della femmequina.

— Fate qualcosa, fermatela! — invocò, ma tutto ciò che accadde per il momento fu che lo sguardo di Babbo Zangwell si diresse al di sopra della testa dell’editore, mentre il vecchio esclamava con voce cavernosa: — Eccolo!

In quell’istante la porta chiusa dalla serratura elettrica si spalancò e un uovo d’argento saettò nella stanza, vi girò in cerchio, volando a otto piedi dal pavimento. Aveva un occhio, un orecchio e un altoparlante inseriti direttamente (uno stranissimo triangolo sensorio) ed era posato su una piccola piattaforma argentea da cui spuntavano due minuscoli piedi artigliati, come le zampe d’una arpia. In realtà, se somigliava a qualcosa, somigliava a una arpia metallica priva d’ali o a una argentea civetta idrocefala disegnata in collaborazione da Picasso, De Chirico e Salvador Dalí.

Mentre l’uovo gli volava intorno, Flaxman girò lentamente su se stesso, agitando le braccia per difendersi e gridando con voce esile e acuta. Poi le pupille dell’editore rotearono verso l’alto, mentre il suo corpo si afflosciava all’indietro.

L’uovo si librò verso di lui, gli afferrò il bavero della giacca con gli artigli, per attutirgli la caduta.

— Non abbiate paura, signor Flaxman, — gridò l’uovo, mentre gli si posava sul petto. — Sono proprio io, Mezza Pinta, riadattato da Zane Gort. E adesso possiamo stringerci la mano. Prometto che non pizzicherò. — Il Progetto Elle era un’abbreviazione per Progetto Levitazione, — spiegò Zane Gort quando l’ordine fu ristabilito e Flaxman fu rinvenuto (sebbene avesse ancora le narici pallidissime), grazie a una doppia razione di Rugiada Lunare. — È stato un lavoro puramente meccanico. Non è stato necessario il minimo lavoro scientifico originale.

— Non credetegli, gente, — intervenne Mezza Pinta, che se n.e stava appollaiato sulla spalla di Zane. — Questo robot è di latta solo al cinquanta per cento, per il resto è puro genio.

— Buono, sono io che ho la parola, — gli disse Zane Gort. — No, io ho semplicemente approfittato del fatto che campi antigravità capaci di sostenere piccoli oggetti sono tecnologicamente possibili da parecchi anni. Il generatore del campo è nella piattaforma alla base di Mezza Pinta, il quale può variare il campo e dirigerlo per volare come desidera in un modo molto semplice che spiegherò fra un momento, esattamente come comanda le chele rudimentali che gli servono come mani.

“In realtà, tutto questo meccanismo, a eccezione della parte che riguarda l’antigravità, avrebbe potuto essere realizzato più di cento anni or sono. Perfino al tempo in cui i cervelli vennero asportati e inscatolati, avrebbero potuto essere dotati di organi per la manipolazione e la locomozione. Ma non fu mai fatto, non vi si pensò neppure, per oltre un secolo. Per spiegare questo punto oscuro, devo ritornare a Daniel Zukertort e alla interessante e duratura influenza che egli ebbe sulle sue creazioni. Non fece altro che modellare (e, sì!, deformare) l’evoluzione della situazione, più di quanto nessuno abbia mai compreso.

“Daniel Zukertort voleva creare spiriti non distratti, menti senza corpi. Ora, naturalmente, come egli stesso sapeva molto bene, non riuscì a farlo, perché i cervelli hanno un corpo come l’ha un elefante, un’ameba o un robot… voglio dire che hanno tessuto nervoso, un sistema ghiandolare mutilato, un sistema circolatorio, sia pure attivato da una pompa a isotopi, e un sistema digestivo ed escretivo che dipende dalla microrigenerazione dell’ossigeno, dagli elementi nutritivi contenuti nelle fontanelle e dai prodotti di rifiuto.

“Ma Zukie non voleva che le uova pensassero a se stesse come a esseri dotati di corpi, voleva sopprimere quella realtà, tenerla nascosta alla loro coscienza, in modo che potessero concentrarsi sulle verità eterne e sul regno delle idee, e non cominciassero a pensare al modo di agire nuovamente nel mondo reale, non appena si fossero annoiate un po’. Così Zukertort truccò i dadi”.

Il telefono sulla scrivania di Flaxman cominciò ad ammiccare. Scostando con un cenno la signorina Bishop, l’editore afferrò il ricevitore, accennando a Zane di continuare.

— In quanto al trucco di Zukertort, — disse il robot — in primo luogo scelse come soggetti artisti e scrittori di inclinazione umanistica… uomini e donne che non si erano mai interessati di ingegneria e che non avrebbero mai considerato una mano, per esempio, come una specie di pinza o di pala, o un piede come una specie di ruota.

“In secondo luogo, la fisiologia era dalla parte di Zukie, perché il cervello non sente nulla, non prova dolore o cose del genere. Toccate il cervello, torturatelo, persino, e non otterrete dolore, soltanto sensazioni bizzarre.

“Zukertort diede alle sue menti sigillate soltanto il minimo di sensi e di poteri. Vista e udito, ma nessuno dei sensi più terreni, più carnali. E la facoltà di parlare. Doveva farlo, in modo che l’umanità potesse apprendere le scoperte spirituali che i cervelli avrebbero strappato al nulla.

“Ma stabilì le Regole della Nursery in modo tale che le uova si considerassero, e venissero considerate dagli altri, come invalidi impotenti e paralitici. Insistette anche su certe superate regole igieniche: ad esempio pretese che le bambinaie portassero le maschere. Voleva che le uova avessero paura di qualunque attività che non fosse puramente mentale. Puntò su due dei più forti impulsi umani: il desiderio, da parte dei cervelli, di essere eternamente impotenti e curati, e il desiderio, da parte delle bambinaie, di curarli, coccolarli e proteggerli eternamente.

“Ora, io credo che tutti noi conosciamo qual è la mancanza che i cervelli sentono più acutamente: la mancanza della facoltà di manipolazione. Ecco perché quando si arrabbiano, chiamano ‘scimmie’ gli esseri umani. È una indicazione di profondissima invidia. Le scimmie che afferrano gli oggetti, li voltano e li rivoltano, li torcono, li frugano, li tirano, li palpano…”.

— Zane! — La signorina Bishop agitò eccitata una mano in direzione del robot. — Capisco a cosa volete arrivare, ma è impossibile! Non si può penetrare nelle uova e collegare delle macchine ai moncherini dei loro nervi cinestetici e dei muscoli volontari. — Protestò, eccitata. — Anch’io vi ho pensato qualche volta, ma nessuno, eccetto Zukertort, avrebbe potuto farlo. Nessun altro ha o ha mai avuto la capacità di penetrare nei loro gusci. È per questo che non comprendo ancora che cosa avete fatto, sia pure con la mia tardiva benedizione. Come fa Mezza Pinta a controllare il campo antigravità e gli artigli?

— Non ho parlato di penetrare nei loro gusci, — rispose Zane. — Non sto parlando di qualcosa che sia difficile sia pure nella misura di un decimo, in rapporto a una cosa simile. Le fonoscriventi… ecco l’indizio! Se le uova possono comandare le fonoscriventi, mi sono detto dieci giorni or sono, allora con strumenti regolati per reagire a determinati suoni, potrebbero usare le loro voci per azionare mani artificiali e apparecchi volanti,” pur conservandole anche per parlare. Naturalmente attivare tre sistemi di segnali su un solo canale ha richiesto qualche elaborazione elettronica e tre lingue straniere (una per ogni controllo principale) ma non è stato troppo difficile.

“E, cosa ancora più importante, le uova potranno alla fine usare le loro voci per far funzionare strumenti e congegni di ogni tipo… non solo piccoli artigli e comandi di volo, ma martelli, seghe, gru, astronavi, bulldozer, bisturi, coltelli, microscopi, penne, pennelli…”.

— Ehi! — gridò Flaxman, coprendo il microfono con una mano. — Non rubatemi i miei scrittori! Devono rimanere nella Nursery e sfornare romanzi, invece di andarsene a zonzo per il Sistema Solare a dipingere quadri orribili e a scavare buche sulla luna, o a dedicarsi alla scultura su legno.

— Ricordate il rapimento di Mezza Pinta! — obiettò Zane Gort. — Le nuove esperienze sono ciò che ci darà le migliori opere delle uova.

— D’accordo, d’accordo… purché mi consultiate, prima. — L’edjtore tornò a tuffarsi nella sua telefonata.

— È la verità assoluta, tutto ciò che ha detto Zane, — intervenne Mezza Pinta. — Sono tornato dagli Inferi dopo cento anni, sono uscito volando dalla mia tomba di latta, e adesso so.

A questa dichiarazione una esplosione di muggiti, sibili, fischi e miagolii eruppe dallo schermo televisivo, da cui le altre ventinove uova stavano osservando, deliziate.

La signorina Bishop strinse la mano di Gaspard.

— La Nursery diventerà un vero manicomio, — disse allegramente, a voce alta, perché tutti udissero. — Ripenseremo ai bei giorni tranquilli in cui i marmocchi si limitavano a strillare e a cantare. Verranno in visita collaboratori di ogni genere… dovremo buttar giù i muri. Occorreranno banchi da lavoro, tavoli da ping-pong, aule…

— Scommetto — disse Gaspard — che a me toccherà il compito di adattare i congegni antigravità e manipolazione alle altre ventotto uova, dopo che Zane mi avrà mostrato su Numero Due come si fa.

— Non è affatto difficile come immagini, Gaspard — gli assicurò Zane. — E dopo le prime volte, gli stessi cervelli saranno in grado di aiutarti. Ho in mente, per loro, una meravigliosa officina elettrica e una serie di strumenti, attivati a voce, che si avvicinino alle chele dei robot in versatilità, forza e delicatezza. Il solo pensiero di tutta la meravigliosa attività che ci attende mi fa sentire come se fossi appena stato costruito… in realtà mi accorgo di avere una nuova ed eccitante prospettiva per tutta la mia vita futura. — Il robot si interruppe e il suo unico occhio ruotò lentamente, e si fermò. — Signorina Blushes — disse alla robicchia rosea — ho una domanda da rivolgervi, una proposta da farvi. Volete…

— Ascoltatemi tutti! — ordinò Flaxman, sollevandosi con uno scatto dal telefono. — Mentre voi vi scambiavate reciprocamente pacche sulle spalle, io sono stato informato di quello che hanno intenzione di fare gli altri editori… o che stanno già facendo! Le notizie si sono sparse tutte insieme, e lasciatemi dire che l’Editrice Razzi farà bene a tirar fuori qualche altro miracolo o a ritirarsi. Gli scienziati della Harper hanno scoperto il modo di convertire in mulini-a-parole i calcolatori anadigitali più moderni! La Houghton Mifflin ha fatto lo stesso con una macchina logistica! La Doubleday ha esaminato diecimila Scribi potenziali e ne ha selezionato sette che sono autentiche promesse! La Random House ha condotto una ricerca in tutto il Sistema e ha scoperto tre dotatissimi robot trovatelli che hanno trascorso tutta la vita fra gli umani, senza compagnia metallica, e che di conseguenza pensano, sentono e scrivono esattamente come umani! L’Editoriale Protone ha già in edicola un romanzo umano tutto sesso, scritto da una robicchia francese di due anni costruita illegalmente per il sindacato del vizio. La Dutton ha pronti due romanzi scritti da direttori editoriali. La Van Nostrand sta sbandierando una collana di casi romanzati, forniti da robot psicanalisti. La Gibbet House sostiene di avere il merito di avere scoperto il sistema per tradurre i classici in piccanti versioni romanzate. La Oxford Press ha scoperto su Venere una colonia di artisti che hanno vissuto per due generazioni in completo isolamento, senza musica dei mulini-a-tono, senza pittura astratta dei calcolatori e senza narrativa dei mulini-a-parole… e il cinquanta per cento dei componenti della colonia sono scrittori! A meno che non ci svegliamo e non lavoriamo per sessanta (ogni uovo deve lavorare per due) finiremo in mezzo alla strada! E parlo anche alle grosse uova umane e robotiche! Gort, dov’è il prossimo romanzo del dottor Tungsteno? So che avete avuto da fare con questi salvataggi e con questi lavori di antigravità, ma avreste dovuto consegnare il manoscritto due settimane fa!

— Un momento — disse imperturbabile il robot d’acciaio azzurro. E parlò alla sua rosea compagna. — Signorina Blushes, volete entrare in accordo di compagnia e sollazzo con me, accordo eterno ed esclusivo?

— Oh, sì! — gridò lei, lanciandosi contro la piastra pettorale del robot con un risonante bong. — Io sono tua, Zane, per sempre e interamente. Non un solo circuito ti sarà negato. I miei sportelli e le mie prese ti saranno sempre aperti, carissimo, nei giorni ardenti e nelle lunghe veglie della notte!

Mezza Pinta si staccò dalla spalla di Zane e volò accanto a Flaxman, che non rabbrividì neppure ma si limitò a dire, in tono meravigliato: — Sapete, è sbalorditivo il sollievo che prova un uomo quando gli incubi della sua infanzia diventano realtà.

Heloise Ibsen agitò un bicchiere pieno di whisky.

— Cully, pupo — gridò con voce penetrante. — Credo che sia ora di dire a tutti che i tuoi tormenti sono stati regolarizzati.

— Giusto! Compagni dell’Editrice Razzi, Heloise e io ci siamo uniti in legittimo matrimonio undici ore fa. Ora lei è padrona di metà del mio pacchetto azionario e di tutta la mia libidine.

Gaspard si voltò verso la signorina Bishop.

— Io non ho pacchetti azionari e non sono un genio di latta — disse. — Sono anche troppo grosso per volare. Ma io penso che tu sia icchia… la ragazza più icchia che io abbia mai conosciuto.

— E io trovo che tu sei veramente bruncio — gli disse lei, correndogli fra le braccia. — Bruncio quasi quanto Zane Gort.

FINE