La guerra, ci insegna l’autore, non è mai una cosa piacevole. E in una guerra che dura 1200 anni, le probabilità di sopravvivenza sono prossime a zero. Iniziata nel 1997, la guerra contro la razza extraterrestre dei Taurani si trascina avanti pesantemente, un secolo dopo l’altro. I soldati che la combattono viaggiano tra le stelle a velocità prossime a quelle della luce, e invecchiano soltanto di pochi mesi ad ogni viaggio, mentre i secoli si susseguono rapidamente sulla Terra: una Terra che ad ogni licenza diventa sempre più irriconoscibile.

Il soldato Mandella inizia come fuciliere: è di leva, non ama né la vita militare né il modo con cui gli alti comandi trattano lui, i suoi compagni e in sostanza anche il nemico. Ma, nonostante queste sue avversioni, il semplice espediente di non farsi uccidere in qualche scaramuccia o in qualche esercitazione (assai più pericolose che non i veri combattimenti) lo porta a diventare maggiore, a capo di qualche… secolo. E parallelamente all’inglorioso svolgersi della Guerra Eterna, vediamo i cambiamenti della società terrestre in 1200 anni: i mutamenti di abitudini e di prospettive culturali, estrapolati da Haldeman in modo quanto mai plausibile. Un grande romanzo, che ha giustamente meritato i massimi premi della fantascienza.

Joe Haldeman

Guerra eterna

PARTE PRIMA

Soldato Mandella

1

— Questa sera vi mostreremo otto sistemi per uccidere un uomo senza far rumore. — Il tizio che aveva parlato era un sergente che dimostrava al massimo cinque anni più di me. Quindi, se aveva ucciso un uomo in combattimento, senza far rumore o meno, doveva averlo ucciso quand’era ancora in fasce.

Io conoscevo già ottanta sistemi per ammazzare la gente, ma in genere erano assai rumorosi. Mi sistemai ben diritto sulla sedia, assunsi un’espressione di educata attenzione e mi addormentai a occhi aperti. Quasi tutti gli altri fecero altrettanto. Avevamo imparato che non c’era mai niente di importante nelle lezioni serali.

Il suono del proiettore mi svegliò e rimasi desto mentre un breve nastro esemplificava gli "otto sistemi senza far rumore". Alcuni degli attori dovevano essere stati sottoposti al lavaggio del cervello, perché ci lasciavano la pelle per davvero.

Quando il nastro finì, alzò la mano una ragazza che stava in prima fila. Il sergente le rivolse un cenno con la testa, lei si alzò e si mise in posizione di "riposo". Non era niente male, ma un po’ abbondante intorno al collo e alle spalle. Si diventa tutti così, quando si porta in giro, per un paio di mesi, uno zaino pesante.

— Signore — (dovevamo chiamare "signore" i sergenti, fino alla fine dell’addestramento) — quasi tutti quei sistemi, per la verità, mi sembrano… un po’ scemi.

— Per esempio?

— Per esempio, uccidere un uomo colpendolo alle reni con un attrezzo per scavare trincee. Voglio dire, quando mai, in realtà, si ha solo un attrezzo per scavare trincee, e neanche una pistola o un coltello? E perché non dargli semplicemente una botta in testa?

— Potrebbe avere l’elmo, in testa — disse il sergente, in tono ragionevole.

— E poi, probabilmente i taurani non li hanno neanche, i reni!

Il sergente scrollò le spalle. — Probabilmente non li hanno. — Era l’anno 1997 e nessuno aveva mai visto un taurano; non si erano mai trovati pezzi di taurano più grossi di un cromosoma bruciacchiato. — Ma la loro chimica organica è simile alla nostra, e dobbiamo presumere che siano creature altrettanto complesse. Devono avere delle debolezze, dei punti vulnerabili. Spetta a voi scoprire quali sono.

"Questa è la cosa che più conta. — E il sergente puntò un dito contro lo schermo. — Quegli otto forzati ci hanno lasciato la pelle per il vostro bene, perché impariate a uccidere i taurani, e perché riusciate a farlo, sia che disponiate di un laser da un megawatt o di una limetta di carta smerigliata per le unghie."

La ragazza tornò a sedersi, ma non aveva l’aria molto convinta.

— Altre domande? — Nessuno alzò la mano.

— Okay. At-tenti! — Noi ci alzammo barcollando e lui ci guardò con aria d’attesa.

— Fatti fottere, signore — risuonò il solito coro stanco.

— Più forte!

— Fatti fottere, signore! - Era uno dei motti meno ispirati dell’esercito, per tener su il morale.

— Così va meglio. Non dimenticate, domani ci saranno le manovre prima dell’alba. Rancio alle 0330, prima formazione alle 0400. Chi viene beccato a letto dopo le 0340 ci rimette un gallone. Rompete le righe.

Tirai su la chiusura lampo della tuta e mi avventurai nella neve per andare allo spaccio, a farmi una tazza di soia e una fumata. Sono sempre stato in grado di tirare avanti con cinque o sei ore di sonno, e quello era l’unico momento in cui potevo starmene in pace, fuori dell’esercito per un pochino. Per qualche minuto guardai il giornale facsimile. Un’altra nave era stata fatta fuori, dalle parti del settore di Aldebaran. Era successo quattro anni fa. Stavano allestendo una flotta per la rappresaglia, ma ci sarebbero voluti altri quattro anni per portarla sul posto. Nel frattempo, i taurani sarebbero riusciti a sprangare tutti i pianeti portale.

Tornai in camerata: tutti gli altri erano già in branda e l’illuminazione centrale era spenta. L’intera compagnia era sempre stanca morta, da quando eravamo tornati dalle due settimane d’addestramento sulla Luna. Scaraventai i vestiti nell’armadietto, controllai l’elenco e scoprii che ero nella branda 31. Accidenti, proprio sotto al riscaldamento.

Mi infilai oltre la tenda, cercando di far meno rumore possibile per non svegliare la persona accanto a me. Non riuscivo a vedere chi fosse, ma non me ne importava niente. Mi infilai sotto la coperta.

— Sei in ritardo, Mandella — sbadigliò una voce. Era la Rogers.

— Scusa se ti ho svegliato — mormorai.

— Di niente. — Lei mi sgattaiolò vicino e si appiccicò a me: eravamo come due cucchiai in un cassetto. Era calda e ragionevolmente morbida. Le battei una mano sul fianco, in quello che speravo fosse un gesto fraterno. — ’Notte, Rogers.

— Buonanotte, stallone. — Mi ricambiò il gesto, approfondendo la cosa.

Perché ti capitano sempre quelle stanche quando tu ne hai voglia, e quelle vogliose quando sei stanco tu? Mi prestai all’inevitabile.

2

— Benone, mettiamoci un po’ di schiena! Squadra della longarina! Muoversi… muovete un po’ quelle chiappe!

Verso mezzanotte era arrivato un fronte d’aria calda e la neve si era trasformata in nevischio. La longarina di permaplastica pesava due quintali, ed era una rogna maledetta maneggiarla, anche quando non era coperta di ghiaccio. Eravamo in quattro, due ad ogni estremità, e trasportavamo quella trave con dita intirizzite. C’era la Rogers, con me.

— Acciaio! — strillò il tipo che stava dietro di me, per spiegare che gli stava sfuggendo la presa. Non era d’acciaio, ma era abbastanza pesante per spaccarti un piede. Tutti lasciammo andare, e schizzammo via. La longarina ci innaffiò di poltiglia nevosa e di fango.

— Accidenti a te, Petrov — disse la Rogers — perché non ti fai sbattere nella Croce Rossa o qualcosa del genere? Questo cazzo di arnese non è mica così pesante. — In generale, le ragazze erano un po’ più circospette di noi, in fatto di linguaggio. La Rogers invece non aveva peli sulla lingua.

— Benone, muovetevi un po’, voi con la longarina… Squadra collante! Presto! Presto!

I nostri due addetti al collante arrivarono di corsa, facendo dondolare i secchi. — Sbrighiamoci, Mandella. Mi si staccano le palle dal gelo.

— Anche a me — disse la ragazza, con più partecipazione che logica.

— Uno… due… issa! — Sollevammo di nuovo la longarina e avanzammo barcollando verso il ponte. Era già completato per tre quarti. Sembrava che il Secondo plotone sarebbe riuscito a batterci. Non me ne sarebbe importato un accidente, ma c’era il fatto che il plotone che finiva per primo il suo ponte se ne tornava indietro in volo. Per tutti gli altri, sei chilometri e mezzo di scarpinata nella palta, e niente riposo prima del rancio.

Mettemmo a posto la longarina, la lasciammo cadere con un tonfo, e sistemammo le morse che dovevano tenerla fissata ai supporti. La femmina incollatrice della nostra squadra cominciò a versare il collante prima ancora che l’avessimo ben fissata. Il suo compagno stava aspettando dall’altra parte. La squadra incaricata della pavimentazione stava aspettando ai piedi del ponte: ognuno di loro teneva sopra la testa come un ombrello un pezzo di leggera, robusta permaplastica. Loro erano asciutti e puliti. Mi chiesi, a voce spiegata, che cavolo avessero fatto per meritarselo, e la Rogers suggerì un paio di possibilità colorite ma improbabili.

Stavamo per ritornare a piazzarci vicino all’altra longarina, quando il comandante dell’esercitazione (si chiamava Dougelstein, ma noi lo chiamavamo "Benone"), suonò il fischietto e urlò: — Benone, soldati maschi e femmine, dieci minuti di sosta. Fumate se avete da fumare. — Si infilò la mano in tasca e fece scattare il comando che riscaldava le nostre tute.

La Rogers e io ci sedemmo sull’estremità della longarina, e io tirai fuori il mio portaerba. Avevo un mucchio di sigarette d’erba, ma ci avevano ordinato di non fumarle prima del rancio serale. L’unico tabacco che avevo era un mozzicone di sigaro lungo otto centimetri. Lo accesi sul fianco della scatola: non era poi troppo cattivo, dopo le prime due o tre boccate. La Rogers ne tirò una boccata anche lei, tanto per mostrarsi socievole, ma fece una smorfia e me lo restituì.

— Andavi a scuola quando ti hanno arruolato? — mi chiese.

— Già. Avevo appena preso un diploma in fisica. Volevo prendere l’abilitazione all’insegnamento.

Lei piegò la testa, pensierosa. — Io studiavo biologia…

— Calza col tipo. — Schivai una manciata di fanghiglia. — Fin dove sei arrivata?

— Sei anni. Maturità scientifica e poi specializzazione tecnica. — Fece strisciare uno stivale per terra, rivoltando una palata di fango e di neve impoltigliata che aveva la consistenza di latte condensato semigelato. — Perché cazzo mai doveva capitare una cosa simile?

Io alzai le spalle. Quella frase non aveva bisogno di una risposta, men che meno della spiegazione che continuava a darci la FENU: l’élite intellettuale e fisica del pianeta che partiva per difendere l’umanità dalla minaccia dei taurani. Merda di soia. Era solo un grosso esperimento, per vedere se riuscivamo a indurre i taurani a impegnarsi in qualche azione al suolo.

"Benone" suonò il fischietto con due minuti d’anticipo, come del resto era da prevedere, ma la Rogers, io e gli altri due addetti alla longarina riuscimmo a starcene seduti ancora per un minuto, mentre le squadre collante e pavimentazione finivano di coprire quella che avevamo già piazzata. Si gelava in fretta, a starsene lì seduti con le tute spente, ma restammo inattivi per una questione di principio.

In realtà non aveva nessun senso, farci addestrare al freddo. Era la tipica logica sfasata dell’esercito. Sicuro, ci sarebbe stato freddo, dove ci mandavano, ma non un freddo da neve o da ghiaccio. Quasi per definizione, un pianeta portale restava sempre a un grado o due dallo zero assoluto — dato che le collapsar non irradiano — e se senti un brivido di gelo vuol dire che sei un uomo morto.

Dodici anni prima, quando io avevo dieci anni, avevano scoperto il balzo tra le collapsar. Lancia un oggetto contro una collapsar a velocità sufficiente, e l’oggetto ti schizza fuori in qualche altra parte della galassia. Non c’era voluto molto tempo per calcolare la formula che prediceva dove sarebbe uscito: l’oggetto viaggia lungo la stessa "linea" (che in realtà è una linea geodetica einsteiniana) che avrebbe seguito se non ci fosse stata di mezzo la collapsar, fino a quando non arriva a un altro campo di collapsar, e allora ricompare, respinto con la stessa velocità con cui si era avvicinato al primo campo. Tempo impiegato nel viaggio tra le due collapsar… esattamente zero.

Questo aveva comportato un sacco di lavoro per i fisici matematici, che erano stati costretti a ridefinire la simultaneità, e poi a fare a pezzettini la relatività generale e a ricostruirla daccapo. E aveva reso felici gli uomini politici, perché adesso potevano spedire a Fomalhaut un’astronave carica di coloni, spendendo meno di quanto costasse una volta spedire un gruppetto di uomini sulla Luna. C’era una quantità di gente che gli uomini politici preferivano vedere su Fomalhaut, a realizzare una gloriosa avventura, anziché a fomentare guai in patria.

Le astronavi erano sempre accompagnate da una sonda automatizzata che le seguiva a una distanza di qualche milione di chilometri. Sapevamo tutto dei pianeti portale, pezzettini di detriti cosmici che turbinavano intorno alle collapsar: la funzione della sonda consisteva nel ritornare indietro a informarci, nel caso che un’astronave fosse andata a sbattere contro un pianeta portale a 0,999 della velocità della luce.

Una catastrofe di questo genere non era mai capitata, ma un brutto giorno una sonda era ritornata indietro da sola, zoppicando. I dati erano stati analizzati, ed era saltato fuori che l’astronave dei coloni era stata inseguita da un altro veicolo spaziale ed era stata distrutta. Il fattaccio era successo dalle parti di Aldebaran, nella costellazione del Toro, latino Taurus, ma poiché "Aldebaraniani" era un po’ lungo da pronunciare, i nemici erano stati battezzati "Taurani".

A partire da quella volta, le astronavi dei coloni si erano messe in viaggio protette da una scorta armata. Spesso la scorta annata si metteva in viaggio da sola, e alla fine il Gruppo Colonizzazione venne abbreviato in FENU, Forza Esplorativa delle Nazioni Unite. Con l’accento su Forza.

Poi qualche genio dell’Assemblea Generale aveva deciso che bisognava piazzare un’armata di fanti e fare la guardia ai pianeti portale delle collapsar più vicine. E questo portò alla Legge per la Coscrizione Elitaria del 1996, e alla creazione dell’esercito più elitario in tutta la storia della guerra.

E perciò adesso noi eravamo lì, cinquanta uomini e cinquanta donne, con quoziente d’intelligenza superiore a 150, e fisico dotato di salute e di forza fuori del comune, a trascinarci elitariamente nel fango e nella neve impoltigliata del Missouri centrale, a meditare sull’utilità della nostra bravura nel costruire ponti su mondi dove l’unico fluido che si può trovare è qualche pozzanghera stazionaria di elio liquido.

3

Circa un mese dopo, partimmo per l’addestramento finale: le manovre sul pianeta Caronte. Sebbene si stesse avvicinando al perielio, era comunque lontano dal Sole più del doppio di Plutone.

L’astronave tradotta era un "vagone bestiame" convertito, costruito in origine per trasportare duecento coloni, piante e animali vari. Ma non pensate che ci fosse molto spazio, solo per il fatto che noi eravamo soltanto cento. Quasi tutto il posto in più era occupato da una massa di reazione extra, artiglieria e servizi logistici.

Il viaggio richiese in tutto tre settimane: metà ad accelerare a due gravità, metà a decelerare. La nostra velocità massima, quando intersecammo rombando l’orbita di Plutone, si aggirava intorno a un ventesimo della velocità della luce… non abbastanza perché la relatività infilasse tra noi la sua testolina complicata.

Tre settimane passate portandosi addosso un peso doppio del normale… non è precisamente un picnic. Facevamo qualche esercizio con molta prudenza tre volte al giorno e restavamo il più possibile in posizione orizzontale. Comunque, rimediammo parecchie fratture ossee e serie slogature. Gli uomini dovevano portare sospensori speciali per evitare di spargere sul pavimento pezzi d’organi staccati. Era pressoché impossibile dormire: si avevano incubi di soffocare e di venire quasi stritolati, e bisognava rotolarsi periodicamente da una parte e dall’altra, perché il sangue non ristagnasse e non provocasse piaghe da decubito. Una ragazza si era ridotta così male per la stanchezza che poco mancò continuasse a dormire per tutto il tempo, mentre una costola le sfondava la pelle e schizzava fuori.

Io ero già stato nello spazio parecchie altre volte, e così, quando finalmente la smettemmo di decelerare e andammo in caduta libera, per me fu soltanto un sollievo. Ma certuni non c’erano mai stati, a parte il viaggio per andare ad addestrarci sulla Luna, e furono presi da vertigini improvvise e perdita del senso dell’orientamento. Noialtri che non stavamo male continuavamo a pulire, fluttuando qua e là negli alloggiamenti, armati di spugne e di aspiratori per risucchiare i globuli parzialmente digeriti del "Concentrato ad alto contenuto di proteine e a basso residuo, con sapore di carne bovina" (soia).

Ci godemmo uno splendido panorama di Caronte, mentre scendevamo dall’orbita. Comunque, non c’era molto da vedere. Era semplicemente una sfera fioca, biancastra, con qualche chiazza. Atterrammo a circa duecento metri dalla base. Un trattore a cingoli pressurizzato uscì e si agganciò al traghetto, così non fummo costretti a infilarci nelle tute. Sferragliando ci dirigemmo verso l’edificio principale: uno scatolone di plastica grigiastra senza connotati particolari. Dentro, le pareti erano dello stesso colore squallido e scialbo. Il resto della compagnia era seduto ai banchi, a chiacchierare. C’era un posto libero vicino a Freeland.

— Jeff… va un po’ meglio? — Era ancora un po’ pallido.

— Se gli dèi avessero destinato l’uomo a sopravvivere in caduta libera, lo avrebbero equipaggiato con una glottide di ghisa. — Sospirò, pesantemente. — Va un po’ meglio. Muoio dalla voglia di una fumatina.

— Già.

— Mi è sembrato che tu l’abbia presa bene. Avevi viaggiato nello spazio quando frequentavi la scuola, no?

— Tesi sulla saldatura nel vuoto, sicuro. Tre settimane in orbita intorno alla Terra. — Mi sedetti e per la millesima volta allungai la mano per prendere il mio portaerba. E quello continuava a non esserci. L’Impianto Ambiente non voleva aver niente a che fare con la nicotina e il catrame.

— L’addestramento è già stato uno strazio — mugugnò Jeff. Ma questa merda…

— At-tenti! — Ci alzammo in piedi, straccamente, a gruppetti di due e di tre. La porta si aprì ed entrò un maggiore. Mi irrigidii un tantino. Era l’ufficiale di rango più elevato che avessi mai visto. Aveva una fila di nastrini cuciti alla tuta, compreso un nastrino purpureo indicante che era stato ferito in combattimento, nel vecchio esercito americano. Doveva essere stato in quella faccenda dell’Indocina, che comunque era sbollita prima che io nascessi. Ma non sembrava poi tanto vecchio.

— Seduti, seduti. — Fece un cenno con la mano. Poi si piantò i pugni sui fianchi e squadrò la compagnia, con un sorrisetto sulle labbra. — Benvenuti su Caronte. Avete scelto una bellissima giornata per atterrare, fuori la temperatura è estiva, otto virgola quindici gradi assoluti. Si prevedono scarsi cambiamenti per i prossimi due secoli o giù di lì. — Alcuni di noi risero a mezza bocca. — È meglio che vi godiate il clima tropicale qui a Base Miami: godetevelo finché potete. Qui siamo al centro dell’emisfero illuminato dal sole, e quasi tutto l’addestramento si svolgerà sull’emisfero buio. Da quelle parti, la temperatura è freschina: due virgola zero otto gradi assoluti.

"Sarà bene che consideriate tutto l’addestramento compiuto sulla Terra e sulla Luna come un esercizio elementare, ideato per darvi una discreta possibilità di sopravvivere su Caronte. Qui dovrete ripassare tutto il vostro repertorio: utensili, armi, manovre. E vi accorgerete che, a queste temperature, gli utensili non funzionano come dovrebbero, e le armi non vogliono saperne di sparare. E la gente si muove con mooolta prudenza."

Studiò la tabella che aveva in mano. — Per ora, siete quarantanove donne e quarantotto uomini. Due morti sulla Terra, uno congedato per motivi psichiatrici. Dopo aver letto lo schema del vostro programma d’addestramento, francamente sono sorpreso che ce l’abbiate fatta in tanti.

"Ma tanto vale vi dica subito che non sarò scontento se anche solo cinquanta di voi, la metà, supereranno questa fase finale. E l’unico modo per non superarla è morire. Qui. L’unico modo in cui qualcuno ritorna sulla Terra, me compreso, è dopo un turno di combattimento.

"Completerete il vostro addestramento entro un mese. Da qui andrete alla collapsar Stargate, a mezzo anno-luce di distanza. Resterete nella colonia di Stargate 1, il più grosso pianeta portale, fino all’arrivo dei rincalzi. C’è da sperare che l’attesa non duri più di un mese: un altro gruppo deve arrivare qui non appena ve ne sarete andati.

"Quando lascerete Stargate, vi trasferirete vicino a qualche collapsar d’importanza strategica, vi creerete una base militare, e se sarete attaccati combatterete il nemico. Altrimenti, terrete la base fino a nuovo ordine.

"Nelle ultime due settimane qui, il vostro addestramento consisterà nel costruire esattamente una base dello stesso tipo di questa, nell’emisfero buio. Là sarete completamente isolati da Base Miami: niente comunicazioni, niente evacuazioni mediche, niente rifornimenti. Prima che le due settimane siano trascorse, il vostro sistema difensivo verrà messo alla prova da un attacco ad opera di sonde teleguidate. Saranno armate."

Avevano speso tutto quel danaro per noi solo per ammazzarci in addestramento?

— Tutti i membri del personale permanente, qui su Caronte, sono combattenti veterani. Quindi, tutti noi abbiamo dai quaranta ai cinquant’anni. Ma sono convinto che possiamo farcela a starvi dietro. Due di noi staranno sempre con voi e vi accompagneranno almeno fino a Stargate. Si tratta del capitano Sherman Stott, vostro comandante di compagnia, e del sergente Octavio Cortez, vostro primo sergente. Signori?

Due uomini seduti in prima fila si alzarono con gesti sciolti e si girarono verso di noi. Il capitano Stott era un po’ più piccolo del maggiore, ma pareva uscito dallo stesso stampo: faccia dura e liscia come la porcellana, un mezzo sorriso cinico, un centimetro esatto di barba che incorniciava il mento largo; e dimostrava trent’anni al massimo. Al fianco portava una grossa pistola, del tipo a polvere da sparo.

Il sergente Cortez era un’altra storia: un racconto dell’orrore. Aveva la testa rapata e di forma assurda, appiattita da una parte, dove era stato evidentemente asportato un pezzo di calotta cranica. La faccia era molto scura, segnata da rughe e cicatrici. Gli mancava metà dell’orecchio sinistro, e i suoi occhi erano espressivi quanto i pulsanti di una macchina. Aveva una combinazione di baffi e di barba, sistemata in modo da sembrare che un magro bruco bianco gli stesse attorcigliato attorno alla bocca. Su chiunque altro, il suo sorriso da ragazzino sarebbe apparso simpatico, ma mi parve l’essere più brutto e dall’aria più carogna che avessi mai visto. Comunque, se non gli guardavi la testa e prendevi in considerazione solo il metro e ottantatré inferiore della sua persona, poteva passare per la pubblicità "dopo la cura" di un centro per culturisti. Né Stott né Cortez portavano nastrini. Cortez aveva un piccolo laser tascabile, appeso di traverso a un sostegno magnetico sotto l’ascella sinistra. Il laser aveva un’impugnatura di legno allisciata e logorata dall’uso.

— Ora, prima di affidarvi alle cure premurose di questi due signori, permettetemi di avvertirvi ancora:

"Due mesi fa su questo pianeta non c’era anima viva, soltanto l’equipaggiamento abbandonato qui dalla spedizione del 1991. Una squadra di quarantacinque uomini ha vissuto e lottato qui per un mese, per costruire questa base. Ventiquattro, più della metà, sono morti durante i lavori. Questo è il pianeta più pericoloso sul quale gli uomini abbiano mai tentato di vivere, ma i posti dove andrete voi saranno eguali a questo, o anche peggio. I vostri quadri cercheranno di tenervi in vita per il prossimo mese. Ascoltateli… e seguite il loro esempio: tutti loro sono sopravvissuti, qui, più a lungo di quanto dovrete fare voi. Capitano?" Il capitano tornò ad alzarsi, mentre il maggiore usciva.

— At-tenti! - Le ultime due sillabe furono come un’esplosione, e tutti noi balzammo in piedi.

— Ora vi dirò una cosa, una volta sola, quindi farete bene ad ascoltare attentamente — ringhiò lui. — Qui noi siamo in combattimento, e in combattimento c’è una sola punizione per la disobbedienza e l’insubordinazione. — Si strappò dal fianco la pistola e la strinse per la canna, come una clava. — Questa è una pistola automatica modello 1911 dell’esercito, calibro 45, ed è un’arma primitiva ma molto efficiente. Il sergente e io siamo autorizzati a usare le armi per uccidere, al fine di imporre la disciplina. Non costringeteci a farlo, perché lo faremo. Lo faremo. - Rimise a posto la pistola. La chiusura automatica della fondina fece udire uno scatto secco, in un silenzio di morte. — Tra me e il sergente Cortez, abbiamo ucciso più persone di quante ce ne siano in questa stanza. Abbiamo combattuto entrambi nel Vietnam dalla parte degli americani ed entrambi siamo entrati nella Guardia Internazionale delle Nazioni Unite più di dieci anni fa. Ho rinunciato a un avanzamento al grado di maggiore per avere il privilegio di comandare questa compagnia, e il primo sergente Cortez ha rinunciato al grado di vicesergente maggiore, perché siamo entrambi combattenti, e questa è la prima situazione di combattimento dopo il 1987.

"Tenete bene in mente quanto vi ho detto mentre il primo sergente vi insegna più dettagliatamente quali saranno i vostri doveri sotto questo comando. Se ne occupi lei, sergente." Girò sui tacchi e uscì a grandi passi. L’espressione della sua faccia non era cambiata di un millimetro, durante l’intera arringa.

Il primo sergente si mosse come una pesante macchina con una gran quantità di cuscinetti a sfere. Quando la porta si richiuse con un sibilo, girò ponderosamente su se stesso per fronteggiarci e disse: — Riposo, seduti — con tono sorprendentemente gentile. Sedette su un tavolo, che scricchiolò, ma lo resse.

— Ora, il capitano parla in modo da spaventarvi e io ho una faccia che fa spavento, ma tutti e due lo facciamo per il vostro bene. Voi lavorerete a stretto contatto con me, quindi farete bene ad abituarvi a questa cosa che ho qui penzolante davanti al mio cervello. Probabilmente non vedrete molto il capitano, se non alle manovre.

Si toccò la parte piatta della testa. — E a proposito di cervello, il mio ce l’ho ancora quasi tutto, nonostante gli sforzi in contrario dei cinesi. Tutti noi vecchi veterani arruolati nella FENU siamo dovuti passare attraverso gli stessi criteri di selezione che sono serviti per arruolare voi in base alla Legge di Coscrizione Elitaria. Quindi sospetto che tutti voi siate svegli e duri… ma tenete presente che il capitano e io siamo svegli e duri ed esperti.

Sfogliò l’elenco, senza guardarlo veramente. — Ora, come ha detto il capitano, durante le manovre c’è un solo provvedimento disciplinare. Pena capitale. Ma normalmente noi non dobbiamo uccidervi, se disobbedite: Caronte ci risparmia il disturbo.

"Nelle camerate, sarà un’altra storia. Non ci interessa molto quel che fate là dentro. Grattatevi l’uccello tutto il giorno e scopate tutta la notte, per noi non fa nessuna differenza… Ma una volta che vi mettete le tute e uscite fuori, pretendiamo una disciplina da fare invidia a un centurione. Ci saranno delle situazioni in cui basterà un solo atto da stupidi per ammazzarci quanti siamo.

"Comunque, la prima cosa che dobbiamo fare è sistemarvi negli scafandri da combattimento. L’armiere vi sta aspettando in camerata; vi sistemerà uno alla volta. Andiamo."

4

— Ora, so bene che sulla Terra vi hanno spiegato quello che può fare uno scafandro da combattimento. — L’armiere era un ometto parzialmente calvo, e non portava i gradi sulla tuta. Il sergente Cortez ci aveva detto di chiamarlo "signore", perché era tenente. — Però ci tengo a insistere su un paio di punti, e magari ad aggiungere qualcosa che i vostri istruttori sulla Terra non hanno chiarito bene o non potevano sapere. Il vostro primo sergente ha consentito a prestarsi per la dimostrazione. Sergente?

Cortez sgusciò fuori dalla tuta e salì sul piccolo podio dove stava ritto uno scafandro da combattimento, aperto come un’ostrica a forma d’uomo. Il sergente vi si infilò a ritroso, insinuò le braccia nelle maniche rigide. Si udì uno scatto, e lo scafandro si chiuse con un sospiro. Era verde vivo, con il nome CORTEZ stampigliato in lettere bianche sull’elmo.

— Mimetizzazione, sergente. — Il verde sbiadì, diventò bianco, poi grigio sporco. — È una buona mimetizzazione per Caronte e per quasi tutti i vostri pianeti portale — disse Cortez, e sembrava che parlasse da un pozzo profondo. — Ma ci sono parecchie altre combinazioni possibili. — Il grigio si chiazzò e si ravvivò in una combinazione di verdi e di marroni: — Giungla. — Poi si uniformò in un ocra chiaro: — Deserto. — Marrone scuro, più scuro, poi un nero fondo e opaco: — Notte o spazio.

— Molto bene, sergente. A quanto ne so, questa è la sola caratteristica dello scafandro che sia stata messa a punto dopo il vostro addestramento. Il comando è intorno al polso sinistro, e ammetto che è scomodo. Ma quando riuscite a trovare la combinazione giusta, è facile inserirla.

"Ora, sulla Terra non avete fatto molti addestramenti con gli scafandri. Non volevamo che vi abituaste a usarli in un ambiente amico. Lo scafandro da combattimento è l’arma personale più mortale che sia mai stata costruita, ma chi l’adopera può ammazzarsi per imprudenza con estrema facilità. Si giri, sergente.

"Esempio. — L’armiere batté le dita su di una grossa protuberanza quadrata tra le spalle. — Pinne di scarico. Come sapete, lo scafandro fa di tutto per mantenervi a una temperatura confortevole, quali che siano le condizioni meteorologiche esterne. Il materiale dello scafandro è l’isolante più perfetto che si potesse trovare, compatibilmente alle esigenze meccaniche. Perciò queste pinne diventano calde, in particolare in rapporto alle temperature dell’emisfero buio, quando disperdono il calore del corpo.

"È sufficiente che vi appoggiate con la schiena a un macigno di gas congelato: qui in giro ce n’è in abbondanza. Il gas sublimerà, disperdendosi più rapidamente di quanto possa farlo attraverso le pinne: fuggendo, premerà contro il "ghiaccio" circostante e lo frantumerà… e in un centesimo di secondo circa, vi troverete con l’equivalente d’una bomba a mano che vi esplode proprio sotto al collo. Non ve ne accorgerete neanche.

"Le variazioni sul tema hanno ucciso undici persone, nei due ultimi mesi. Ed esse stavano semplicemente costruendo un gruppo di baracche.

"Immagino vi rendiate conto della facilità con cui i waldo, i servomeccanismi, possono uccidere voi o i vostri compagni. Qualcuno vuole stringere la mano al sergente? — L’armiere si interruppe, si avvicinò e gli afferrò il guanto. — Lui ha molta pratica. Fino a quando non ce l’avrete anche voi, siate estremamente prudenti. Potreste grattarvi perché sentite prurito e finireste per spezzarvi la schiena. Ricordate, la reazione è semilogaritmica: una pressione di due chili sviluppa una forza di cinque; tre chili, una forza di dieci; quattro, ventitré; cinque, quarantasette. Molti di voi possono esercitare una stretta superiore ai cinquanta chili. Teoricamente, con questa forza amplificata, potreste spezzare in due una trave d’acciaio. In realtà, distruggereste il materiale dei vostri guanti, e almeno qui su Caronte morireste molto in fretta. Sarebbe una gara tra la decompressione e il congelamento rapido. Qualunque dei due la vincesse, morireste egualmente.

"Anche i waldo delle gambe sono pericolosi, sebbene l’amplificazione sia meno esagerata. Fino a quando non sarete davvero esperti, non cercate di correre né di saltare. Probabilmente inciampereste, e questo significa che altrettanto probabilmente morireste.

"La gravità di Caronte è tre quarti di quella normale della Terra, quindi non è poi tanto male. Ma su un mondo veramente piccolo, come la Luna, potreste spiccare un balzo correndo e non ridiscendere per venti minuti, continuando semplicemente a veleggiare sull’orizzonte. Magari andando a sbattere contro una montagna alla velocità di ottanta metri al secondo. Su di un piccolo asteroide, sarebbe una cosa da niente raggiungere la velocità di fuga e partire per un giro non programmato nello spazio intergalattico. È un modo molto lento di viaggiare.

"Domattina, cominceremo a insegnarvi come si fa a restare vivi dentro questa macchina infernale. Per il resto del pomeriggio e della serata, vi chiamerò uno alla volta per adattarvi gli scafandri. È tutto, sergente."

Cortez andò alla porta e girò lo zipolo che faceva entrare l’aria nel portello stagno. Una fila di lampade a infrarossi si accese per impedire all’aria di gelare nell’interno. Quando le pressioni furono eguali, chiuse lo zipolo, sbloccò la porta ed entrò, bloccandola alle sue spalle. La pompa ronzò per circa un minuto, evacuando il vano stagno; poi lui uscì e bloccò la porta esterna.

Era un meccanismo molto simile a quelli sulla Luna.

— Prima voglio il soldato semplice Ornar Almizar. Voialtri potete andare in cerca delle vostre brande. Vi chiamerò con l’altoparlante.

— Ordine alfabetico, signore?

— Sì. Circa dieci minuti l’uno. Se il tuo nome comincia per Z, tanto vale che vada a letto.

Quella era la Rogers. Probabilmente stava proprio pensando al letto.

5

Il sole era un aspro punto bianco, direttamente sulla verticale. Era molto più luminoso di quanto mi aspettassi: poiché eravamo a ottanta unità astronomiche di distanza, era luminoso solo la seimilaquattrocentesima parte di quanto lo era visto dalla Terra. Comunque, irradiava ancora all’incirca la luce di un potente lampione.

— La luce è considerevolmente più forte di quella che avrete su un pianeta portale. — La voce del capitano Stott crepitò nel nostro orecchio collettivo. — Rallegratevi, perché così potrete vedere dove mettete i piedi.

Eravamo schierati in fila indiana sul marciapiedi di permaplastica che collegava la camerata con la baracca delle provviste. Per tutta la mattina ci eravamo esercitati a camminare al coperto, e questo non era molto diverso, a parte lo scenario esotico. Sebbene la luce fosse abbastanza fioca, potevi vedere chiaramente fino all’orizzonte, poiché non c’era di mezzo un’atmosfera. Un precipizio nero che pareva troppo regolare per essere naturale si stendeva da un orizzonte all’altro, e passava a circa un chilometro da noi. Il suolo era nero come l’ossidiana, cosparso di chiazze di ghiaccio bianco o azzurrognolo. Accanto alla baracca delle provviste c’era una montagnola di neve in un bidone con la scritta OSSIGENO.

Lo scafandro era abbastanza comodo, ma ti dava la sensazione strana di essere contemporaneamente una marionetta e il burattinaio. Tu eserciti l’impulso di muovere la gamba, e lo scafandro lo raccoglie e lo ingrandisce, e ci pensi lui, a muoverti la gamba.

— Oggi ci limiteremo a camminare intorno all’area della compagnia, che nessuno lascerà. — Il capitano non portava la sua pistola calibro 45, a meno che non la tenesse come portafortuna dentro allo scafandro, ma aveva un dito laser, come tutti noi. E il suo probabilmente era collegato.

Tenendoci a un intervallo di circa due metri l’uno dall’altro, scendemmo dalla permaplastica e seguimmo il capitano sulla roccia liscia. Camminammo prudentemente per circa un’ora, allontanandoci a spirale, e finalmente ci fermammo, dopo essere arrivati al limite esterno del perimetro.

— Ora fate molta attenzione, tutti quanti. Andrò fino a quella lastra di ghiaccio azzurro. — Era un lastrone molto grande, a una ventina di metri di distanza. — E vi mostrerò qualcosa che farete bene a imparare, se ci tenete a restare vivi.

Il capitano si incamminò con una dozzina di passi sicuri. — Per prima cosa devo scaldare una roccia… giù i filtri. — Io premetti il pulsante sotto l’ascella e il filtro scivolò al suo posto, sopra il mio trasformatore d’immagini. Il capitano puntò il dito verso una roccia nera grande più o meno come una palla da pallacanestro, e lanciò contro di essa una breve raffica. Il bagliore fece rotolare sopra di noi e più oltre un’ombra lunghissima del capitano. La roccia si schiantò in un mucchio di schegge nebulose.

— Queste qui non impiegano molto tempo a raffreddarsi. — Si fermò e ne raccolse un pezzo. — Questa probabilmente è venti o venticinque gradi. State a vedere. — Gettò la roccia "calda" sul lastrone di ghiaccio. Quella slittò, pattinò in giro in un ghirigoro pazzesco e schizzò via lateralmente. Il capitano gettò un’altra scheggia, che si comportò allo stesso modo.

— Come sapete, voi non siete perfettamente isolati. Queste rocce hanno più o meno la temperatura delle suole dei vostri stivali. Se cercherete di stare in piedi su una lastra d’idrogeno, vi capiterà la stessa cosa. Solo che la roccia è già morta.

"La ragione di questo comportamento è che la roccia crea un contatto liscio con il ghiaccio, una minuscola pozzanghera d’idrogeno liquido, e scivola a un’altezza di poche molecole sopra il liquido, su un cuscino di vapore d’idrogeno. Di conseguenza, in rapporto al ghiaccio, la roccia e voi diventate come un cuscinetto a sfere senza attrito, e non è possibile stare in piedi, senza un attrito sotto agli stivali.

"Dopo che avrete vissuto nello scafandro per un mese o più, dovreste essere in grado di sopravvivere a una caduta, ma per ora non ne sapete abbastanza. State a vedere."

Il capitano si fletté e balzò sul lastrone. I piedi slittarono via, e lui si contorse e si girò su se stesso a mezz’aria, atterrando sulle mani e sulle ginocchia. Sdrucciolò via e si fermò in piedi sul terreno gelato.

— L’importante è impedire che le pinne di scarico entrino in contatto con il gas gelato. In confronto al ghiaccio sono calde come una fornace, e un contatto provocato da un peso qualsiasi produce un’esplosione.

Dopo la dimostrazione, camminammo in giro per un’altra ora o giù di lì e ritornammo agli alloggiamenti. Superato il vano stagno, dovemmo continuare a camminare in giro per un po’, in modo che gli scafandri arrivassero alla temperatura ambiente. Qualcuno si avvicinò e accostò l’elmo al mio.

— William? — Aveva il nome MCCOY stampigliato sulla visiera.

— Ciao, Sean. Qualcosa di speciale?

— Mi stavo giusto chiedendo se avevi qualcuno con cui dormire stanotte.

Giusto: me ne ero dimenticato. Lì non c’era l’assegnazione delle brande. Ciascuno si sceglieva il compagno. — Sicuro, voglio dire, uh, no… no, non l’ho ancora chiesto a nessuno. Sicuro, se vuoi…

— Grazie, William, ci vediamo dopo. — La guardai allontanarsi e pensai che, se qualcuno era capace di dare un’aria sexy a uno scafandro da combattimento, quella doveva essere Sean. Ma per la verità, non ci riusciva neanche lei.

Cortez decise che ci eravamo scaldati abbastanza, e ci accompagnò nella sala scafandri, dove, camminando a ritroso, li infilammo ai loro posti e li agganciammo alle piastre di ricarica. (Ogni scafandro aveva un pezzettino di plutonio capace di fornirgli energia per parecchi anni, ma eravamo tenuti a farli funzionare il più possibile con le batterie a carburante.) Dopo un po’ di trambusto, tutti riuscimmo ad agganciare, e ricevemmo il permesso di uscirne fuori: novantasette pulcini nudi che sgusciavano da uova color verde vivo. Era freddo - tutto, l’aria, il pavimento e specialmente gli scafandri — e ci precipitammo piuttosto disordinatamente verso gli armadietti.

Infilai tunica, calzoni e sandali e continuai ad aver freddo. Presi la gavetta e mi misi in fila per la soia. Tutti quanti saltellavano per scaldarsi.

— C-che f-freddo, non ti pare, M-Mandella? — Questa era la McCoy.

— Non voglio neanche pensarci. — Smisi di saltellare e mi massaggiai il più energicamente possibile, mentre tenevo la gavetta con una mano. — È freddo almeno quanto lo era il Missouri.

— Ugh… vorrei… che avessero messo… qualche fottuto riscaldamento… in questo posto. — A risentirne gli effetti più degli altri sono sempre le donne piccole. La McCoy era la più minuta della compagnia, una bambola dal vitino di vespa che arriva appena a un metro e mezzo.

— Hanno attaccato il condizionatore d’aria. Ormai non ci vorrà molto.

— Vorrei… essere… un pezzo d’uomo… grande e grosso… come te.

Ma io ero contento che non lo fosse.

6

Subimmo la prima perdita il terzo giorno, mentre imparavamo a scavare le buche.

Con un simile quantitativo di energia accumulato nelle armi di un soldato, non sarebbe molto pratico scavare una buca nel suolo gelato con piccone e badile. Comunque, si potrebbero lanciare bombe a mano per tutto il giorno senza ottenere altro che depressioni poco profonde… perciò il metodo abituale consiste nel praticare un foro nel terreno con il laser a mano, buttarci dentro una carica a orologeria dopo che si è raffreddato e, idealmente, riempire la buca con qualcosa. Naturalmente, non ci sono molti pezzi di roccia a disposizione, su Caronte, a meno che tu non abbia già scavato una buca, con l’esplosivo, nei pressi.

L’unica difficoltà in questa procedura consiste nell’allontanarsi. Per mettersi al sicuro, ci dissero, bisogna essere dietro qualcosa di veramente solido, o trovarsi almeno a cento metri di distanza. Hai a disposizione circa tre minuti dopo avere sistemato la carica, ma non puoi scappare via di corsa. È troppo pericoloso, su Caronte.

L’incidente avvenne mentre stavamo facendo una buca veramente profonda, del tipo che occorre per un grosso bunker sotterraneo. Dovevamo aprire una buca con l’esplosivo, e poi scendere sul fondo del cratere e ripetere la procedura varie volte, fino a quando non fosse profonda a sufficienza. Dentro al cratere adoperavamo cariche a cinque minuti, ma il tempo era appena sufficiente: bisognava andare piano, quando si risaliva all’orlo del cratere.

Tutti, più o meno, avevamo aperto una doppia buca: tutti tranne io e tre altri. Credo che fossimo i soli che prestarono veramente attenzione, quando la Bovanovitch si mise nei guai. Tutti noi eravamo a duecento metri buoni di distanza. Con il mio trasformatore d’immagini attivato a circa quaranta, la vidi scomparire oltre l’orlo del cratere. Poi, riuscii soltanto ad ascoltare la sua conversazione con Cortez.

— Sono sul fondo, sergente. — Le normali comunicazioni radio venivano sospese, durante le manovre come quella: erano autorizzati a trasmettere solo Cortez e l’allievo in azione.

— Bene, portati al centro e sposta i detriti. Prendila con calma. Non c’è bisogno di precipitarsi fino a quando non avrai strappato la linguetta.

— Sicuro, sergente. — Ci giungevano piccoli echi di rocce tintinnanti: gli stivali di lei facevano da conduttori del suono. Per parecchi minuti non disse niente.

— Trovato il fondo. — Sembrava un po’ ansimante.

— Ghiaccio o roccia?

— Oh, è roccia, sergente. Quella roba verdastra.

— Usa una regolazione bassa, allora. Uno virgola due, dispersione quattro.

— Accidenti, sergente, ci metterò un’eternità.

— Sicuro, ma dentro quella roba ci sono cristalli idrati… riscaldala troppo in fretta e potrai creare delle fratture. Allora dovremmo lasciarti lì dentro, ragazza. Morta e insanguinata.

— Okay, uno virgola due, dispersione quattro. — L’orlo interno del cratere si illuminò di guizzi rossi: il riflesso della luce del laser.

— Quando sarai arrivata a una profondità di circa mezzo metro, portalo a dispersione due.

— Ricevuto. — Impiegò esattamente diciassette minuti, di cui tre a dispersione due. Potevo immaginare quanto fosse anchilosato il braccio con cui sparava.

— Adesso riposati per qualche minuto. Quando il fondo del foro non sarà più luminoso, arma la carica e buttagliela dentro. Poi esci camminando, capito? Ne hai tutto il tempo.

— Capito, sergente. Camminando. — Aveva un tono nervoso. Be’, non capita spesso di doversi allontanare in punta di piedi da una bomba a tachioni da venti microton. Per qualche minuto ascoltammo il suo respiro.

— Ecco che va. — Un lieve suono strisciante: la bomba che scivolava in basso.

— Adagio e calma, adesso. Hai cinque minuti.

— S-sì. Cinque. — I passi della ragazza cominciarono, lenti e regolari. Poi, dopo che ebbe cominciato a salire il pendio, i suoni divennero meno regolari, un po’ più frenetici. E con solo quattro minuti a disposizione…

— Merda! — Un lungo rumore raschiante, poi acciottolii e tonfi. — Merda, merda.

— Cosa succede, soldato?

— Oh, merda. — Silenzio. — Merda!

— Soldato, se non vuoi che ti faccia fucilare, dimmi che cos’è successo!

— Io… merda, sono incastrata. Una fottuta frana… merda… Fate qualcosa! Non posso muovermi, merda, non posso muovermi, non posso, non posso…

— Silenzio! A che profondità?

— Non riesco a muovere, merda, queste fottute gambe. Aiutatemi!…

— E allora, maledizione, adopera le braccia… spingi! Puoi muovere una tonnellata con ogni mano. — Tre minuti.

Ella smise di imprecare e cominciò a mormorare, in russo, credo, con voce sommessa e monotona. Stava ansimando, e si sentivano le pietre che rotolavano via.

— Sono libera. — Due minuti.

— Vai, più in fretta che puoi. — La voce di Cortez era piatta, imperturbabile.

A meno novanta secondi lei comparve, strisciando, oltre l’orlo. — Corri, ragazza… È meglio che tu corra. — Lei corse per cinque o sei passi e cadde, sdrucciolò per qualche metro e si rialzò, riprendendo a correre; cadde ancora, tornò a rialzarsi…

Sembrava che andasse molto svelta, ma aveva coperto soltanto trenta metri quando Cortez disse: — Bene, Bovanovitch, buttati a pancia a terra e resta immobile. — Dieci secondi, ma lei non aveva sentito, o voleva solo arrivare un po’ più lontana, e continuò a correre, a grandi balzi imprudenti, e proprio quando era al punto culminante di un balzo vi furono un lampo e un rombo, e qualcosa di grosso la colpi sotto al collo, e il suo corpo decapitato roteò nello spazio, lasciando dietro di sé una spirale rosso-nera di sangue che si congelava all’istante e scendeva dolcemente al suolo: una scia di polvere cristallina che nessuno disturbò quando raccogliemmo le pietre per coprire la cosa dissanguata che giaceva alla sua estremità.

Quella sera Cortez non ci fece lezione, non comparve neanche per il rancio. Noi eravamo tutti molto educati l’uno con l’altro, e nessuno aveva paura di parlarne.

Io andai in branda con la Rogers — tutti andarono in branda con un buon amico — ma lei voleva solo piangere, e pianse così a lungo, così disperatamente che fece piangere anche me.

7

— Squadra A… muoversi! — E noi dodici avanzammo in una fila irregolare verso il bunker simulato. Era a circa un chilometro di distanza, in fondo a un percorso a ostacoli accuratamente preparato. Potevamo muoverci in fretta, poiché quasi tutto il ghiaccio era stato rimosso dal campo, ma nonostante i dieci giorni di esperienza non ce la sentivamo di andare a un’andatura più svelta di un trotto tranquillo.

Io portavo un lanciagranate carico con bombe da esercitazione di un decimo di microton. Tutti avevamo le dita laser regolate a zero virgola zero otto, dispersione uno: poco più di una lampada tascabile. Era un attacco simulato… il bunker e il suo difensore robot costavano troppo perché si potesse pensare di adoperarli una volta e poi buttarli via.

— Squadra B, seguiteli. Comandanti di squadra, prendete il comando.

Ci avvicinammo a un gruppo di macigni che si trovavano circa a metà strada, e la Potter, il mio comandante di squadra, disse: — Fermatevi e mettetevi al coperto. — Ci raccogliemmo dietro le rocce e aspettammo la Squadra B.

A malapena visibili negli scafandri anneriti, i dodici, uomini e donne, ci passarono accanto con un fruscio. Non appena furono lì al sicuro, si avviarono verso sinistra, fuori della nostra visuale.

— Fuoco! — Cerchi rossi di luce danzarono più avanti, dove il bunker era appena visibile. La portata massima di quelle granate da esercitazione era cinquecento metri; ma io speravo di avere fortuna, perciò puntai il lanciagranate sull’immagine del bunker, lo tenni inclinato a un angolo di quarantacinque gradi e feci partire una salva di tre colpi.

Il bunker rispose al fuoco prima ancora che le mie granate arrivassero a terra. I suoi laser automatici non erano più potenti di quelli che adoperavamo noi, ma un colpo diretto avrebbe disattivato il trasformatore d’immagini, lasciandoci ciechi. Il bunker stava sparando a casaccio, senza neppure avvicinarsi ai macigni dietro i quali stavamo nascosti.

Tre lampi fulgidissimi, come magnesio, ammiccarono simultaneamente a trenta metri dal bunker. — Mandella! Credevo che tu sapessi maneggiare quel coso!

— Accidenti, Potter… arriva a mezzo chilometro soltanto. Quando saremo più vicini, lo colpirò giusto sul tetto, tutte le volte.

— Sicuro. — Io non replicai. Non sarebbe stata in eterno al comando della squadra. E poi, non era stata una cattiva ragazza, prima che il potere le desse alla testa.

Poiché il granatiere è l’assistente del comandante di squadra, io ero collegato alla radio della Potter, e potevo sentire la Squadra B che parlava con lei.

— Potter, qui è Freeman. Perdite?

— Qui Potter… no, sembra che stiano concentrando il fuoco su di voi.

— Già, ne abbiamo perduti tre. Adesso ci troviamo in una depressione a ottanta, cento metri più avanti di voi. Possiamo coprirvi, quando siete pronti.

— Okay, cominciate. — Uno scatto sommesso: — Squadra A, seguitemi. — La Potter sgusciò fuori del riparo della roccia e accese il faro color rosa pallido sotto il suo accumulatore. Io accesi il mio e uscii per correre al suo fianco, mentre il resto della squadra si apriva a ventaglio. Nessuno sparò mentre la Squadra A ci copriva con il suo fuoco.

Tutto quel che riuscivo a sentire era il respiro della Potter e il sommesso scricchiolio dei miei stivali. Non riuscivo a vedere molto, e perciò, con un colpo di lingua, alzai il trasformatore d’immagini fino a un’intensificazione pari al logaritmo di due. L’immagine diventò un po’ confusa, ma adeguatamente luminosa. Sembrava che il bunker avesse inchiodato a dovere la Squadra A: venivano arrostiti mica male, quelli. Rispondevano al fuoco esclusivamente con i laser. Dovevano avere perduto il granatiere.

— Potter, qui Mandella. Non dovremmo cercare di distogliere un po’ il fuoco dalla Squadra B?

— Non appena riuscirò a trovare una copertura adatta. Qualcosa in contrario, soldato? — lei era stata promossa caporale giusto per la durata dell’esercitazione.

Tagliammo verso destra e ci sdraiammo dietro un lastrone di roccia. Quasi tutti gli altri trovarono un riparo nelle immediate vicinanze, ma alcuni dovettero sdraiarsi per terra.

— Freeman, qui Potter.

— Potter, qui è Smith. Freeman è fuori uso; Samuels è fuori uso. Siamo rimasti solo in cinque. Copriteci un po’, in modo che possiamo arrivare…

— Ricevuto, Smith. — Click. - Aprite il fuoco, Squadra A. La B è nei guai.

Sbirciai oltre lo spigolo della roccia. Il mio cercabersaglio diceva che il bunker era a circa trecentocinquanta metri di distanza, ancora abbastanza lontano. Puntai in alto il lanciagranate e ne sparai tre, poi lo abbassai di un paio di gradi e ne lanciai altre tre. Le prime passarono oltre il bersaglio mancandolo di una ventina di metri; poi la seconda salva divampò direttamente davanti al bunker. Cercai di mantenere quell’angolazione e lanciai quindici granate, il resto del caricatore, in quella direzione.

Avrei dovuto accovacciarmi dietro la roccia per ricaricare, ma volevo vedere dove sarebbero finite le mie quindici bombe, e perciò tenni gli occhi fissi sul bunker mentre tendevo il braccio all’indietro per sganciarmi dalle spalle un altro caricatore…

Quando il laser colpì il mio trasformatore d’immagini, ci fu un bagliore rosso così intenso che parve attraversarmi gli occhi e rimbalzare sulla parete interna del cranio. Dovettero passare solo pochi millesimi di secondo, prima che il trasformatore si sovraccaricasse e si spegnesse, ma l’immagine residua, verde viva, mi bruciò gli occhi per parecchi minuti.

Poiché ero ufficialmente "morto", la mia radio si spense automaticamente; e io dovevo restare dov’ero fino alla fine della finta battaglia. Senza altre percezioni sensoriali che il tocco della mia pelle (che era dolorante, dove aveva sfolgorato il trasformatore d’immagini) e il ronzio nelle orecchie, mi sembrò un tempo spaventosamente lungo. Alla fine, un elmo urtò contro il mio.

— Tutto a posto, Mandella? — La voce della Potter.

— Mi dispiace, sono morto di noia venti minuti fa.

— Alzati e prendi la mia mano. — Obbedii; strascicando i piedi, tornammo agli alloggiamenti. Dovemmo impiegare più di un’ora. Lei non disse altro, per tutto il percorso — quello è un sistema un po’ scomodo per comunicare — ma dopo che fummo entrati dal vano stagno e ci fummo scaldati un po’, mi aiutò a togliermi la tuta. Mi preparai a una blanda ramanzina, ma quando lo scafandro si aprì, prima ancora che i miei occhi si riabituassero alla luce, lei mi afferrò per il collo e mi piantò un bacio umido sulla bocca.

— Bel tiro, Mandella.

— Eh?

— Non hai visto? No, naturalmente… l’ultima salva, prima che venissi colpito… quattro centri diretti. Il bunker ha deciso che era stato messo fuori combattimento, e tutto quello che abbiamo dovuto fare è stato camminare per il resto del percorso.

— Magnifico. — Mi grattai la faccia, sotto gli occhi, e si staccarono dei pezzi di pelle secca. La Potter ridacchiò.

— Dovresti vederti. Sembri…

— Tutto il personale a rapporto in sala riunioni. — Era la voce del capitano. Di solito, erano cattive notizie.

La Potter mi consegnò tunica e sandali. — Andiamo. — La sala riunioni, che era anche la sala rancio, era appena in fondo al corridoio. Sulla porta c’era una fila di pulsanti per dare il "presente"; schiacciai quello sotto il mio nome. Quattro nomi erano coperti da strisce d’adesivo nero. Andava bene, quattro soltanto. Non avevamo perduto nessuno, durante le manovre di quel giorno.

Il capitano era seduto sulla pedana rialzata, il che almeno significava che non dovevamo passare per la solita stupida procedura dell’at-tenti! La sala si riempì in meno di un minuto. Lo squillo d’un campanello indicò che tutti erano presenti all’appello.

Il capitano Stott non si alzò. — Ve la siete cavata abbastanza bene, oggi. Non è rimasto ucciso nessuno, contrariamente a quello che mi aspettavo. Da questo punto di vista avete superato le mie previsioni, ma da tutti gli altri avete fatto schifo.

"Sono lieto che abbiate saputo badare a voi stessi, perché ognuno di voi rappresenta un investimento di oltre un milione di dollari, e un quarto di vita umana.

"Ma in questa battaglia simulata contro un robot molto stupido, trentasette di voi sono riusciti a mettersi sul raggio laser e a farsi ammazzare in modo simulato, e poiché i morti non hanno bisogno di cibo, voi non avrete bisogno di cibo per i prossimi tre giorni. I caduti di questa battaglia avranno diritto solo a due litri d’acqua e a una razione di vitamine al giorno."

Sapevamo che non era il caso di lanciare gemiti o altro, ma c’erano espressioni abbastanza disgustate, soprattutto sulle facce con le ciglia strinate e un rettangolo di pelle scottata, color rosa carico, intorno agli occhi.

— Mandella.

— Signore?

— Tu sei il più bruciacchiato di tutti. Il tuo trasformatore d’immagine era regolato sul normale?

Oh, merda. — No, signore. Logaritmo di due.

— Vedo. Chi era il tuo comandante di squadra per le esercitazioni?

— Facente funzioni di caporale Potter, signore.

— Soldato Potter, sei stato tu a ordinargli di usare l’intensificazione dell’immagine?

— Signore, io… non ricordo.

— Non ricordi. Bene, come esercizio per la memoria, puoi unirti ai morti. Va bene così?

— Sì, signore.

— Bene. I morti faranno un ultimo pasto questa sera, e a partire da domani, niente razioni. Qualche domanda? — Probabilmente intendeva scherzare. — Bene. Rompete le righe.

Scelsi il rancio che sembrava promettere il maggior contenuto di calorie, e portai il mio vassoio vicino alla Potter.

— Che razza di gesto donchisciottesco. Comunque, grazie.

— Di niente. Tanto, già intendevo perdere qualche chilo. — Io non riuscivo proprio a vedere dove avesse del peso di troppo.

— Io conosco un buon esercizio — dissi io. Lei sorrise senza alzare gli occhi dal vassoio. — Hai qualcuno, per questa notte?

— Avevo pensato di chiedere a Jeff…

— Allora sarà meglio che ti sbrighi. Sta sbavando dietro a Maejima. — Bene, era la verità. Ci sbavavano tutti.

— Non lo so. Magari dovremmo risparmiare le forze. Il terzo giorno…

— Andiamo. — Le grattai leggermente con un’unghia il dorso della mano. — Non siamo stati insieme dopo il Missouri. Magari ho imparato qualcosa di nuovo.

— Magari. — lei alzò la testa verso di me, con aria furba. — Okay.

In effetti, era lei che aveva imparato un trucco nuovo. Lo chiamava il cavatappi francese. Non volle dirmi, però, chi glielo aveva insegnato. Mi sarebbe piaciuto stringergli la mano, a quel tipo. Quando avessi recuperato le forze.

8

Le due settimane di addestramento intorno a Base Miami ci costarono undici vite. Dodici, se contate anche Dahlquist. Credo che dover passare il resto della tua vita su Caronte, senza una mano e senza le due gambe, sia più o meno come morire.

Foster fu schiacciato da una frana e Freeland ebbe un’avaria allo scafandro che lo fece congelare prima che avessimo il tempo di portarlo dentro. Quasi tutti gli altri erano tipi che non conoscevo altrettanto bene. Ma ci dispiacque per tutti. E quelle morti sembravano solamente spaventarci, anziché indurci alla prudenza.

E poi via, nell’emisfero buio. Un apparecchio ci portò là a gruppi di venti e ci scaricò accanto a un mucchio di materiale da costruzione, graziosamente immerso in uno stagno di elio II.

Adoperammo i grappini per tirar fuori il materiale dallo stagno. Non è prudente andarci dentro a guado, perché quella roba ti si arrampica addosso ed è difficile capire cosa ci sia sotto: potresti mettere un piede su un lastrone di idrogeno e non avere la fortuna occorrente.

Io avevo proposto che cercassimo di far evaporare lo stagno con i nostri laser, ma dieci minuti di fuoco concentrato non bastarono ad abbassare decentemente il livello dell’elio. E non bolliva neanche: l’elio II è un "superfluido", e quel po’ d’evaporazione che c’era, avveniva regolarmente, su tutta la superficie. Niente punti più caldi, e quindi niente bollicine.

Non dovevamo usare le luci, per "non venire avvistati". C’era il chiarore delle stelle, in abbondanza, con il trasformatore d’immagini alzato al logaritmo di tre o di quattro, ma ogni fase d’amplificazione comportava una perdita dei dettagli. Al logaritmo di quattro il paesaggio appariva come un rozzo quadro monocromatico, e non riuscivi a leggere i nomi sugli elmi degli altri, a meno che non fossero proprio davanti a te.

Comunque, il paesaggio non era molto interessante. C’era una mezza dozzina di crateri di media grandezza aperti dalle meteore (tutti esattamente con lo stesso livello di elio II) e una vaga impressione di piccole montagne appena oltre l’orizzonte. Il terreno accidentato aveva la consistenza d’una ragnatela gelata: ogni volta che posavi il piede, sprofondavi di un centimetro, con uno scricchiolio sinistro. Finiva per darti ai nervi.

Impiegammo quasi tutta la giornata per tirar fuori la roba dallo stagno. Dormicchiammo a turno: si poteva dormire in piedi, seduti, oppure sdraiati a pancia in giù. Io non dormivo bene in nessuna di quelle posizioni, e perciò non vedevo l’ora che il bunker fosse costruito e pressurizzato.

Non potevamo costruirlo sottoterra, perché si sarebbe riempito di elio II, perciò la prima cosa da fare era costruire una piattaforma isolante, un sandwich di permaplastica e vuoto a tre strati.

Io facevo funzioni di caporale, con una squadra di dieci uomini. Stavamo trasportando gli strati di permaplastica sul posto scelto per la costruzione — due uomini ce la facevano facilmente a portarne uno — quando un "mio" uomo scivolò e cadde sul dorso.

— Accidenti, Singer, stai attento a dove metti i piedi. — Avevamo avuto un paio di morti in quel modo.

— Scusami, caporale. Ho inciampato.

— Già, ma stai attento. — Si rialzò, tutto a posto, e lui e il suo compagno collocarono la lastra e tornarono indietro per prenderne un’altra.

Tenni d’occhio Singer. Pochi minuti dopo, stava praticamente barcollando, e non è facile riuscirci in quello scafandro corazzato e cibernetico.

— Singer! Dopo aver messo giù la lastra, voglio darti un’occhiata.

— Okay. — Finì faticosamente il suo compito e poi arrivò ondeggiando.

— Fammi dare un’occhiata alle letture. — Aprii lo sportello che aveva sul petto per vedere il monitor medico. La temperatura era di due gradi troppo alta; la pressione sanguigna e il ritmo cardiaco erano entrambi elevati. Non fino alla linea rossa, comunque.

— Ti senti male o qualcosa del genere?

— Diavolo, Mandella. Mi sento okay, solo un po’ stanco. Da quando sono caduto ho un po’ di vertigini.

Spinsi con il mento la combinazione del medico. — Doc, qui Mandella. Vuoi venire qui per un minuto?

— Sicuro. Dove sei? — Agitai il braccio e lui lasciò lo stagno e arrivò.

— Qual è il problema? — Gli mostrai le letture di Singer.

Lui sapeva cosa volevano dire anche tutti gli altri quadranti e ammennicoli vari, perciò impiegò un po’ di tempo. — A quel che posso dire io, Mandella… scotta soltanto.

— Diavolo, questo potevo dirlo anch’io — fece Singer.

— Forse è meglio che tu gli faccia dare un’occhiata dall’armiere. — Due di noi avevano fatto un corso accelerato di manutenzione degli scafandri. Erano i nostri "armieri".

Con un colpo di mento chiamai Sanchez e gli chiesi di venire subito con la cassa degli attrezzi.

— Fra un paio di minuti, caporale. Sto trasportando una lastra.

— Bene, mettila giù e vieni qui subito. — Cominciavo a sentirmi a disagio. Mentre lo aspettavamo, il medico e io guardammo meglio lo scafandro di Singer.

— Uh-oh — disse Doc Jones. — Guarda qui. — Girai intorno a Singer e guardai quello che mi indicava. Due delle pinne dello scambiatore di calore si erano piegate e deformate.

— Cosa c’è? — chiese Singer.

— Sei caduto sullo scambiatore di calore, giusto?

— Sicuro, caporale… proprio così. Non deve funzionare più tanto bene.

— Credo che non funzioni per niente - fece Doc.

Arrivò Sanchez con la sua cassetta diagnostica e gli spiegammo cos’era successo. Lui guardò lo scambiatore di calore, poi vi innestò un paio di spine e ottenne una lettura digitale sul piccolo monitor portatile. Non sapevo che cosa stesse misurando, ma risultò zero con otto decimali.

Sentii un clic sommesso. Sanchez aveva attivato con un colpo di mento la mia frequenza personale. — Caporale, questo qui è spacciato.

— Cosa? Non puoi rabberciare quello stramaledetto coso?

— Forse… forse ci riuscirei, se potessi smontarlo. Ma non c’è la possibilità…

— Ehi! Sanchez? — Singer parlava sulla frequenza generale. Trovato cos’è che non va? — Ansimava.

Clic. - Tienti addosso i pantaloni, uomo, ci stiamo lavorando. Clic. - Non durerà fino a quando avremo pressurizzato il bunker. E non posso lavorare sullo scambiatore di calore dall’esterno dello scafandro.

— Hai uno scafandro di ricambio, no?

— Ne ho due, del tipo taglia universale. Ma non c’è il posto per… ehi, dico…

— Giusto. Vai a scaldarne uno. — Diedi un colpo di mento all’interruttore generale. — Stai a sentire, Singer. Dobbiamo tirarti fuori da quel coso. Sanchez ha uno scafandro di scorta, ma per fare lo scambio, dobbiamo costruirti attorno una casa. Capito?

— Uh-uh.

— Senti, faremo una cabina con te dentro, e la collegheremo all’unità ambiente. In questo modo potrai respirare mentre ti cambierai.

— Mi sembra molto compis… compil… plicato.

— Avanti, vieni con me…

— Mi riprendo subito uomo, lasciami solo riposare…

Lo afferrai per il braccio e lo guidai sul sito della costruzione. Lui camminava a zig-zag. Doc gli prese l’altro braccio, e tra tutti e due gli impedimmo di cadere.

— Caporale Ho, qui il caporale Mandella. — La Ho era la responsabile dell’unità ambiente.

— Vattene, Mandella, ho da fare.

— Avrai da fare ancora di più. — Le spiegai il problema, in fretta. Mentre il suo gruppo si affrettava ad adattare l’unità (per questo, bastavano solo un tubo per l’aria e un riscaldatore) feci portare dalla mia squadra sei lastre di permaplastica, per poter costruire una grossa cabina attorno a Singer e allo scafandro di scorta. Avrebbe avuto l’aria di un’enorme cassa da morto, un metro quadrato per sei metri di lunghezza.

Deponemmo lo scafandro sulla lastra che sarebbe stata il pavimento della bara. — Okay, Singer, andiamo.

Nessuna risposta.

— Singer, andiamo.

Nessuna risposta.

— Singer! — Lui stava lì, in piedi. Doc Jones controllò i dati.

— È andato, uomo. Ha perso i sensi.

La mia mente turbinò. Poteva esserci posto per un’altra persona, dentro la cabina. — Dammi una mano, su. — Presi Singer per le spalle e Doc lo prese per i piedi. Lo stendemmo cautamente alla base dello scafandro vuoto.

Poi mi sdraiai anch’io, sopra lo scafandro. — Okay, chiudete.

— Senti, Mandella, se c’è qualcuno che deve entrare lì dentro, quello sono io.

— Vai a farti fottere, Doc. È compito mio. È uno dei miei uomini. — Suonava tutto sbagliato. William Mandella, il giovane eroe.

Quelli alzarono la lastra, di taglio — aveva due aperture per i tubi d’uscita e d’entrata dell’unità ambiente — e cominciarono a saldarla alla tavola di fondo con un sottile raggio laser. Sulla Terra avremmo usato semplicemente il collante, ma lì l’unico fluido era l’elio, che ha un sacco di proprietà interessanti, ma decisamente non è adesivo.

Dopo dieci minuti circa eravamo completamente murati dentro. Sentivo l’unità ambiente che ronzava. Accesi la luce del mio scafandro, per la prima volta da quando eravamo atterrati nell’emisfero notturno, e il chiarore fece danzare delle chiazze purpuree davanti ai miei occhi.

— Mandella, qui è Ho. Resta nella tua tuta almeno due o tre minuti. Stiamo pompando dentro aria calda, ma torna indietro trasformata in liquido. — Per un po’, restai a guardare le chiazze purpuree che svanivano.

— Okay, è ancora freddo, ma puoi farcela. — Feci scattare il mio scafandro. Non si aprì completamente, ma non faticai molto a sgusciarne fuori. Era ancora abbastanza freddo da staccarmi la pelle dalle dita e dal deretano, mentre ne uscivo.

Dentro quella specie di bara, dovetti strisciare a piedi in avanti per raggiungere Singer. Via via che mi allontanavo dalla mia lampada, si faceva rapidamente più buio. Quando feci scattare lo scafandro di Singer, una zaffata di fetore caldissimo mi investì in piena faccia. Nella luce fioca, aveva la pelle paonazza e piena di macchie. La respirazione era superficiale, e vedevo le palpitazioni del cuore.

Per prima cosa sganciai i tubi dell’evacuazione — una faccenda molto sgradevole — e poi i biosensori; e quindi ebbi il problema di estrargli le braccia dalle maniche.

Farlo da soli è molto facile. Ti giri e ti rigiri da una parte e dall’altra, e le braccia vengono fuori. Ma farlo dall’esterno è tutta un’altra faccenda: dovevo girargli il braccio e poi infilare sotto la mano e muovere di conserva il braccio dello scafandro… e ci vuole molta forza per una simile manovra.

Quando fui riuscito a tirargli fuori un braccio, tutto diventò più facile; mi limitai ad avanzare strisciando, misi i piedi sulle spalle dello scafandro, e lo tirai per il braccio già libero. Lui scivolò fuori dall’involucro, come un’ostrica che esce dal guscio.

Aprii lo scafandro di scorta e con un mucchio di spinte e strattoni riuscii a infilargli dentro le gambe. Agganciai i biosensori e il tubo d’evacuazione anteriore. L’altro avrebbe dovuto metterselo da solo: è troppo complicato. Per l’ennesima volta, mi dissi che era una fortuna non essere nato femmina; le donne devono portare due di quegli stramaledetti cateteri, invece di uno solo più un semplice tubo.

Lasciai le braccia di Singer fuori dalle maniche. Lo scafandro sarebbe stato comunque inutile per qualunque genere di lavoro: i waldo devono venire adattati su misura a ogni individuo.

Singer sbatté le palpebre. — Man… della. Dove… cavolo…

Glielo spiegai, adagio, e lui sembrò capire quasi tutto. — Adesso devo chiuderti, quindi infilarmi nello scafandro. Dirò alla squadra di tagliare l’estremità di questo scatolone e poi ti tirerà fuori. Capito?

Egli annuì. Era uno strano spettacolo: quando annuisci o scrolli le spalle dentro a uno scafandro, quel gesto non comunica affatto il suo significato.

Mi infilai nel mio scafandro, agganciai tutto quello che c’era da agganciare e con un colpo di mento attivai la frequenza generale. — Doc, credo che si stia riprendendo. Adesso tirateci fuori di qui.

— Provvediamo. — Era la voce della Ho. Il ronzio dell’unità ambiente fu sostituito da un cicalio, poi da una pulsazione. Evacuavano la cabina per evitare un’esplosione.

Un angolo della saldatura diventò rovente, poi incandescente, e un luminoso raggio cremisi entrò, come una lancia, passando a una trentina di centimetri dalla mia testa. Mi rannicchiai per scostarmi il più possibile. Il raggio risalì lungo la saldatura e intorno ai tre spigoli, fino al punto di partenza. L’estremità della cabina cadde, lentamente, trascinando dietro di sé filamenti di permaplastica sciolta.

— Mandella, aspetta che torni a indurirsi.

— Non sono tanto stupido, Sanchez.

— Ecco, vai. — Qualcuno mi gettò una fune. Così sarebbe andata molto meglio che se avessi dovuto trascinarlo fuori da solo. Feci passare un lungo tratto sotto le braccia di Singer, e poi glielo annodai dietro al collo. Quindi mi trascinai fuori per aiutare gli altri a tirare, il che era sciocco… c’era già una dozzina di persone pronte a cominciare.

Singer ne venne fuori sano e salvo, e si stava addirittura tirando su a sedere, quando Doc Jones andò a leggergli i dati. Tutti venivano a chiedermi com’era andata e a congratularsi con me, quando all’improvviso la Ho disse: — Guardate! — e tese il braccio verso l’orizzonte.

Era un’astronave nera, che arrivava a tutta velocità. Ebbi appena il tempo di pensare che non era giusto, che non dovevano attaccarci fino agli ultimi giorni, e l’astronave ci arrivò sopra la testa.

9

Ci buttammo tutti al suolo, istintivamente, ma l’astronave non attaccò. Accese i razzi frenanti e scese, atterrando sui pattini. Poi si girò slittando e venne a fermarsi vicino al sito della costruzione.

Tutti avevano già capito, e se ne stavano lì intorno, vergognandosi, quando dall’astronave uscirono due figure chiuse negli scafandri.

Una voce ben nota gracchiò sulla frequenza generale. — Ognuno di voi ci ha visti arrivare, e non uno di voi ha fatto fuoco con il laser. Non sarebbe servito a niente, ma avrebbe almeno dimostrato un po’ di spirito combattivo. Avete a disposizione una settimana o meno prima che si faccia sul serio, e siccome il sergente e io saremo qui, io pretendo che dimostriate un po’ più di volontà di vivere. Facente funzione di sergente Potter.

— Qui, signore.

— Sceglimi dodici persone per caricare. Abbiamo portato cento piccole robosonde per allenarvi al tiro al bersaglio, in modo che abbiate almeno qualche possibilità di combattere quando arriverà un bersaglio vivo.

"Adesso muovetevi. Abbiamo solo trenta minuti, prima che l’astronave ritorni a Miami."

Io controllai, e in realtà rimase per una quarantina di minuti.

Avere lì il capitano e il sergente in realtà non cambiava di molto la situazione: eravamo egualmente abbandonati a noi stessi: quei due si limitavano a osservare.

Una volta sistemato il pavimento, bastò un giorno soltanto per completare il bunker. Era un rettangolo grigio, privo di aperture, a parte la bolla del vano stagno e quattro finestre. Sul tetto era montato un laser da un megawatt, girevole. L’operatore — non era possibile chiamarlo "cannoniere" — stava su un sediolo e stringeva con entrambe le mani gli interruttori del tipo detto "a uomo morto". Il laser non avrebbe sparato, finché lui avesse stretto uno degli interruttori. Se li avesse mollati, il laser si sarebbe puntato automaticamente su qualunque oggetto aereo in movimento e avrebbe sparato a volontà. All’intercettazione primaria e al puntamento provvedeva un’antenna alta un chilometro, montata accanto al bunker.

Era l’unico sistema che avesse qualche probabilità di funzionare, dato che l’orizzonte era così vicino e i riflessi umani erano così lenti. Non era possibile ricorrere all’automazione completa, perché in teoria potevano anche avvicinarsi astronavi amiche.

Il computer di puntamento poteva scegliere anche tra dodici bersagli che comparissero simultaneamente, sparando per primi a quelli più grossi. E li avrebbe centrati tutti e dodici nello spazio di mezzo secondo.

L’installazione era parzialmente protetta dal fuoco nemico a mezzo di un efficiente strato ablativo che copriva tutto, tranne l’operatore umano. Ma d’altra parte, quelli erano interruttori del tipo "a uomo morto". Un uomo solo, lassù, a vegliare sugli ottanta che stavano dentro. Nell’esercito sono bravissimi, con questo tipo di aritmetica.

Quando il bunker fu completato, una metà di noi rimase sempre lì dentro (ci sentivamo molto bersagli) e si faceva a turno a far funzionare il laser, mentre l’altra metà usciva per le manovre.

A quattro chilometri circa dalla base c’era un grosso "lago" di idrogeno ghiacciato; una delle nostre manovre più importanti consisteva nell’imparare a muoverci su quella roba pericolosissima.

Non era troppo difficile. Non potevi starci sopra in piedi, quindi dovevi sdraiarti sul ventre e slittare.

Se avevi qualcuno che ti dava la spinta iniziale, mettersi in moto non costituiva un problema. Altrimenti, dovevi brancicare con le mani e con i piedi, spingendoti con tutta la forza possibile, fino a quando cominciavi a muoverti, a piccoli balzi. Una volta messo in moto, continuavi ad andare fino a quando c’era ghiaccio. Potevi sterzare un po’ premendo forte mano e piede dalla parte giusta, ma in quel modo non ce la facevi a rallentare e a fermarti. Quindi la cosa migliore era non andare troppo forte e mettersi in modo che non fosse l’elmo a subire l’urto al momento dell’arresto.

Facemmo tutto quello che ci avevano fatto fare nell’emisfero di Miami: esercitazioni con le armi, demolizione, schemi d’attacco. Lanciammo anche le sonde verso il bunker, a intervalli irregolari. E così, dieci o quindici volte al giorno, gli operatori dovevano dimostrare la loro abilità lasciando andare le maniglie non appena si accendevano le luci che segnalavano il nemico in avvicinamento.

Feci anch’io un turno di quattro ore, come tutti gli altri. Ero nervoso, fino al primo "attacco", quando mi resi conto che in realtà era una cosa da niente. La luce si accese, io lasciai andare gli interruttori, il cannone si puntò, e quando la sonda fece capolino sopra l’orizzonte… zzt! Un bel tocco di colore, quel metallo fuso spruzzato a pioggia nello spazio. Per il resto, non era molto emozionante.

Quindi nessuno di noi era preoccupato per l’imminente "esercitazione finale", perché si pensava che fosse più o meno la stessa cosa.

Il tredicesimo giorno, Base Miami attaccò con due missili simultanei che saettarono da due punti opposti dell’orizzonte, alla velocità di circa quaranta chilometri al secondo. Il laser disintegrò il primo senza la minima difficoltà, ma il secondo arrivò a otto chilometri dal bunker, prima di venire centrato.

Noi stavamo tornando dalle manovre, ed eravamo a circa un chilometro dal bunker. Non avrei visto niente, se non avessi guardato proprio in quella direzione, al momento dell’attacco.

Il secondo missile grandinò direttamente sul bunker in una pioggia di frammenti fusi. Undici pezzi arrivarono a segno, e in base a quanto potemmo ricostruire in seguito, questo fu quanto accadde:

La prima a rimetterci la pelle fu Maejima, la tanto desiderata Maejima; era dentro al bunker, fu colpita alla schiena e alla testa e morì immediatamente. Con l’abbassarsi della pressione, l’unità ambiente scattò al massimo. Friedman stava proprio di fronte alla griglia del condizionatore d’aria, e venne scaraventato contro la parete opposta con tanta forza che perse i sensi: morì di decompressione, prima che gli altri potessero infilarlo nel suo scafandro.

Tutti gli altri riuscirono a muoversi barcollando in quella bufera e a infilarsi negli scafandri, ma quello di Garcia era stato bucato da una scheggia, e fu come se non lo avesse neppure messo.

Prima che noi arrivassimo, avevano spento l’unità ambiente e stavano già saldando le falle nelle pareti. Un uomo stava cercando di ricomporre la poltiglia irriconoscibile che era stata Maejima. Lo sentivo singhiozzare e vomitare. Garcia e Friedman li avevano già portati fuori, per seppellirli. Il capitano prese il comando della squadra riparazioni. Il sergente Cortez condusse in un angolo l’uomo che singhiozzava e tornò da solo a pulire i resti di Maejima. Non ordinò a nessuno di aiutarlo, e nessuno si offrì volontario.

10

A titolo di esercitazione finale, ci caricarono senza cerimonie a bordo di un’astronave — Earth’s Hope, la stessa che ci aveva portati a Caronte — e ci spedirono a Stargate a poco più di una gravità.

Il viaggio sembrò interminabile, circa sei mesi di tempo soggettivo, e anche molto noioso, ma non fu duro come quello che ci aveva portati a Caronte. Il capitano Stott ci fece ripassare oralmente l’addestramento, giorno per giorno, e quotidianamente facevamo esercizi vari, fino a ridurci come stracci.

Stargate 1 era come l’emisfero buio di Caronte, solo un po’ peggio. La base su Stargate 1 era più piccola di Base Miami, solo un poco più grande di quella che avevamo costruito sull’emisfero notturno, e dovemmo lavorare più di una settimana per aiutare ad ampliare la postazione. La squadra che era già lì fu molto contenta di vederci: specialmente le due donne, che avevano l’aria un po’ sovraffaticata.

Eravamo tutti affollati nella piccola sala mensa, dove il vicemaggiore Williamson, responsabile di Stargate 1, ci comunicò qualche notizia sconcertante:

— Mettetevi tutti comodi. Però scendete dai tavoli, sul pavimento c’è tutto il posto che volete.

"Ho un’idea chiara di quello che avete passato durante l’addestramento su Caronte. Non dirò che sia stata fatica sprecata. Ma là dove siete diretti, le cose saranno molto differenti. Molto più calde."

Fece una pausa, per darci il tempo di capire bene.

— Aleph Aurigae, la prima collapsar che sia stata scoperta, ruota intorno alla stella normale Epsilon Aurigae, in un’orbita della durata di ventisette anni. Il nemico ha una base operativa, non su un regolare pianeta portale di Aleph, bensì su un pianeta in orbita intorno a Epsilon. Non sappiamo molto sul conto di quel pianeta; solo che compie un giro intorno a Epsilon ogni 745 giorni, è grande circa tre quarti della Terra, e ha un’albedo di 0,8, il che significa che è probabilmente coperto di nubi. Non possiamo dire con esattezza che temperatura abbia, ma a giudicare dalla sua distanza da Epsilon, probabilmente è assai più caldo della Terra. Naturalmente, non sappiamo se dovrete lavorare… combattere nell’emisfero illuminato o in quello buio, all’equatore o ai poli. È estremamente improbabile che l’atmosfera sia respirabile… comunque, resterete dentro ai vostri scafandri.

"Adesso voi sapete esattamente quel che ne so io sul posto dove siete diretti. Qualche domanda?"

— Signore — fece Stein con voce strascicata — adesso sappiamo dove stiamo andando… qualcuno sa che cosa dovremo fare quando ci saremo arrivati?

Williamson scrollò le spalle. — Questo dovranno deciderlo il vostro capitano… e il vostro sergente, e il comandante della Earth’s Hope, e il computer logistico dell’astronave. Noi non disponiamo ancora di dati sufficienti per estrapolare una linea d’azione. Potrebbe trattarsi di una battaglia lunga e sanguinosa; potrebbe trattarsi semplicemente di andare a raccogliere i cocci. È concepibile che i taurani abbiano intenzione di avanzare proposte di pace — Cortez sbuffò, a questo punto — e in tal caso voi farete semplicemente parte del nostro spiegamento di forze, del nostro potere contrattuale. Guardò Cortez con aria mite. — Nessuno può dirlo con sicurezza.

Quella notte l’orgia fu divertente, ma era un po’ come cercare di dormire nel bel mezzo di una chiassosa festa sulla spiaggia. L’unico posto abbastanza ampio perché potessimo dormirci tutti era la sala mensa; drappeggiarono qua e là alcune coperte per ricavare degli angoletti intimi, poi scatenarono i diciotto maschi di Stargate, affamati di sesso, sulle nostre donne, che erano condiscendenti e promiscue secondo la tradizione militare (e in ossequio alla legge) ma che avrebbero desiderato soprattutto poter dormire sul terreno solido.

I diciotto uomini si comportarono come se fossero costretti a provare tutte le permutazioni possibili, e la loro prestazione fu impressionante, dal punto di vista strettamente quantitativo, voglio dire. Quelli di noi che tenevano il conto dirigevano un gruppo di plauditori per acclamare i membri più dotati. Credo che sia la parola adatta.

La mattina dopo — e così tutte le altre mattine che passammo su Stargate 1 — scendemmo barcollando dal letto e ci infilammo negli scafandri, per uscire a lavorare alla costruzione dell’"ala nuova". Stargate era destinata a diventare il quartier generale tattico e logistico della guerra, con migliaia di persone in servizio permanente, difeso da mezza dozzina di incrociatori pesanti della classe della Hope. Quando cominciammo noi, c’erano solo due baracche e venti persone: quando ce ne andammo, le persone erano sempre venti, le baracche quattro. Il lavoro era quasi uno scherzo, in confronto a quello nell’emisfero buio di Caronte, perché avevamo luce in abbondanza, e passavamo sedici ore al coperto ogni otto ore di lavoro. E non c’erano attacchi di missili a titolo d’esame finale.

Quando ci riportarono con le scialuppe alla Hope, nessuno era troppo entusiasta di andarsene (anche se alcune delle femmine più richieste dichiararono che erano contente di avere finalmente un po’ di riposo). Stargate era l’ultima missione facile e sicura prima di prendere le armi contro i taurani. E come aveva fatto osservare Williamson il primo giorno, non esisteva la possibilità di prevedere come sarebbero andate le cose.

In maggioranza, non eravamo neppure troppo entusiasti dell’idea di fare un balzo da collapsar a collapsar. Ci avevano assicurato che non ce ne saremmo neanche accorti, che saremmo stati per tutto il tempo in caduta libera.

Io non ne ero convinto. Quando studiavo fisica, avevo seguito i soliti corsi sulla relatività generale e sulle teorie della gravitazione. A quell’epoca conoscevamo solo pochissimi dati diretti… Stargate era stata scoperta quando frequentavo le elementari; ma il modello matematico sembrava abbastanza chiaro.

La collapsar Stargate era una sfera perfetta con un raggio di circa tre chilometri. Era eternamente sospesa in uno stato di collasso gravitazionale, il che significava che la sua superficie precipitava verso il suo centro a una velocità molto prossima a quella della luce. La relatività la puntellava, o almeno le dava l’illusione di esserci… nel modo in cui tutta la realtà diviene illusoria e dipendente dall’osservatore, quando studi la relatività generale. Oppure il buddismo. O quando vieni arruolato.

Comunque, ci sarebbe stato un punto teorico nello spazio-tempo in cui un’estremità della nostra astronave si sarebbe trovata appena al di sopra della superficie della collapsar, e l’altra estremità a un chilometro di distanza (secondo il nostro sistema di coordinate spaziotemporali). In un qualunque universo ragionevole, questo avrebbe causato tensioni che avrebbero fatto a pezzi l’astronave, e noi saremmo stati solo un nuovo milione di chili di materia degenerata che andava a far parte della superficie teorica: chili destinati a precipitare a capofitto nel niente per il resto dell’eternità o a cadere verso il centro in un trilionesimo di secondo. Fate la vostra puntata, signori, e scegliete il sistema di coordinate vincente.

Comunque, avevano ragione loro. Partimmo da Stargate 1, effettuammo qualche correzione di rotta e poi precipitammo, semplicemente, per circa un’ora.

Poi suonò una campana e noi sprofondammo nei cuscini, sotto una decelerazione costante a due gravità. Eravamo arrivati in territorio nemico.

11

Stavamo decelerando a due gravità da circa nove giorni quando la battaglia ebbe inizio. Distesi nelle nostre cuccette, depressi e storditi, sentimmo due tonfi leggeri: i missili che venivano lanciati. Circa otto ore più tardi, l’altoparlante gracchiò: — A tutto l’equipaggio, attenzione. Qui è il comandante. — Qumsana, il pilota, era solo tenente, ma aveva il diritto di farsi chiamare comandante a bordo dell’astronave, dove era superiore di grado a tutti noi, persino al capitano Stott. — Potete ascoltare anche voi burbe giù nella stiva.

"Abbiamo appena impegnato il nemico con due missili a tachioni da cinquanta gigatoni, e abbiamo distrutto tanto il vascello nemico quanto un altro oggetto che esso aveva lanciato approssimativamente tre microsecondi prima.

"Il nemico ha cercato di raggiungerci durante le ultime 179 ore, tempo dell’astronave. Al momento dello scontro, il nemico si muoveva a una velocità di poco superiore alla metà di quella della luce, relativamente ad Aleph, e si trovava a sole trenta unità astronomiche dalla Earth’s Hope. Si muoveva a 0,47 e relativamente a noi, e quindi saremmo stati coincidenti nello spazio-tempo — (speronati!) — in poco più di nove ore. I missili sono stati lanciati alle 0719, tempo dell’astronave, e hanno distrutto il nemico alle 1540: entrambe le bombe a tachioni sono esplose a meno di mille chilometri dagli oggetti nemici.

"I due missili erano di un tipo il cui sistema di propulsione era già di per se tesso una bomba a tachioni tenuta a stento sotto controllo. Acceleravano a un ritmo costante di 100 gravità, e stavano viaggiando a velocità relativistica nel momento in cui la vicinanza della massa dell’astronave nemica li ha fatti esplodere.

"Non prevediamo ulteriori interferenze da parte di vascelli nemici. La nostra velocità, rispetto ad Aleph, sarà pari a zero tra altre cinque ore; allora cominceremo la traiettoria di ritorno, che richiederà ventisette giorni." Lamenti generali e imprecazioni avvilite. Tutti lo sapevamo già, naturalmente; ma non ci tenevamo a sentircelo ricordare.

E così, dopo un altro mese di ginnastica e di esercitazioni logistiche, a due gravità costanti, potemmo dare la prima occhiata al pianeta che stavamo per attaccare. Gli invasori venuti dallo spazio, sissignori.

Era una falce bianca, accecante, che ci aspettava a due unità astronomiche da Epsilon. Il comandante aveva identificato l’ubicazione della base dei nemici da cinquanta unità astronomiche di distanza; e ci eravamo avvicinati in un ampio arco, tenendo tra noi e loro la massa del pianeta. Questo non significava che ci stessimo avvicinando furtivamente, anzi, tutto il contrario, dato che i nemici lanciarono tre attacchi fallimentari: ma ci metteva in una posizione difensiva più forte. Fino a quando non fossimo dovuti scendere sulla superficie, cioè. Allora solo l’astronave e il suo equipaggio della Flotta Stellare sarebbero stati ragionevolmente al sicuro.

Poiché il pianeta ruotava piuttosto lentamente — una rotazione ogni dieci giorni e mezzo — un’orbita "stazionaria" per l’astronave doveva essere a 150.000 chilometri. Questo dava un senso di sicurezza all’equipaggio dell’astronave, con 9000 chilometri di roccia e 140.000 chilometri di spazio tra la Hope e i nemici. Ma questo comportava un secondo di divario nelle comunicazioni tra noi a terra e il calcolatore da combattimento dell’astronave.

Una persona aveva tutto il tempo di morire mentre quell’impulso di neutrini viaggiava in su e in giù.

I nostri ordini, che erano piuttosto vaghi, ci imponevano di attaccare la base e di impadronircene, cercando di danneggiare al minimo l’equipaggiamento nemico. Dovevamo catturare almeno un nemico vivo. Tuttavia, in nessun caso dovevamo lasciarci prendere vivi. E la decisione non veniva affidata a noi: un impulso speciale del computer da combattimento, e il pezzettino di plutonio che avevi nel generatore di corrente si sarebbe scisso con tutta la sua efficienza dello 0,01%, e di te non sarebbe rimasto altro che del plasma caldissimo in rapida espansione.

Ci legarono con le cinture di sicurezza a bordo di sei ricognitori (un plotone di dodici per ciascuno) e ci lanciarono dalla Earth’s Hope a otto gravità. Ogni ricognitore doveva seguire una rotta accuramente randomizzata per arrivare al punto del rendez-vous, a 108 chilometri dalla base. Contemporaneamente vennero lanciate altre quattordici sonde automatiche, per confondere il sistema antiastronavi del nemico.

L’atterraggio andò quasi alla perfezione. Un solo ricognitore subì lievi danni (per un colpo esploso a poca distanza, parte del materiale ablativo su un lato dello scafo si disperse bollendo: comunque ce la fece ad atterrare e a tornare indietro, mantenendosi a bassa velocità finché rimase nell’atmosfera).

Noi zigzagammo e guizzammo e arrivammo per primi al punto del rendez-vous. C’era solo una piccola difficoltà: il punto si trovava sotto quattro chilometri d’acqua.

Mi pareva quasi di sentire il computer che, a 140.000 chilometri di distanza, digrignava i suoi congegni pensanti, rimuginando su quel nuovo dato. Noi procedemmo esattamente come se stessimo atterrando sul terreno solido: razzi frenanti, caduta, fuori i pattini, urto contro l’acqua, sobbalzo, e poi giù.

Forse la logica consigliava di continuare, e atterrare sul fondo, dato che il ricognitore aveva una linea aerodinamica, e dopotutto l’acqua è solo un fluido come tanti altri; ma lo scafo non era abbastanza resistente per reggere alla pressione di una colonna d’acqua di quattro chilometri. Con noi, sul ricognitore, c’era il sergente Cortez.

— Sergente, dica a quel computer di fare qualcosa! Altrimenti finiremo…

— Oh, piantala, Mandella. Abbi fiducia nel Signore. — La parola "Signore" in bocca a Cortez aveva sempre l’iniziale minuscola.

Si udì una specie di sospiro gorgogliante, e poi un altro, e poi un lieve aumento della pressione contro la mia schiena indicò che il ricognitore stava risalendo. — Sacche di galleggiamento? — Cortez non si degnò di rispondere, o forse non lo sapeva neanche lui.

Era proprio così. Risalimmo fino a dieci o quindici metri dalla superficie e ci fermammo lì sospesi. Oltre l’oblò potevo vedere la superficie, lassù, che scintillava come uno specchio d’argento martellato. Mi chiesi che cosa si provasse a essere un pesce e ad avere un tetto ben definito sopra il mondo.

Vidi un altro ricognitore che si tuffava. Causò una grande nube di bolle e di perturbazioni e poi precipitò, di coda, per un breve tratto, prima che grosse sacche si gonfiassero di colpo sotto le ali a delta. Poi risalì ondeggiando più o meno fino al nostro livello, e restò lì.

— Qui è il capitano Stott. Ascoltate attentamente. C’è una spiaggia, a circa ventotto chilometri dalla vostra posizione attuale, nella direzione in cui si trova il nemico. Procederete fino alla spiaggia con i ricognitori, e di lì provvederete a organizzare l’attacco contro la posizione taurana. — Quello era un miglioramento spettacoloso avremmo dovuto percorrere a piedi solo ottanta chilometri.

Facemmo sgonfiare le sacche, ci sparammo alla superficie e la sorvolammo in formazione spiegata, a bassa quota, in direzione della spiaggia. Impiegammo parecchi minuti. Mentre il ricognitore si fermava scricchiolando, sentii le pompe che ronzavano, per rendere la pressione interna della cabina eguale a quella atmosferica esterna. Prima ancora che il ricognitore avesse smesso di muoversi, il portello d’uscita accanto alla mia cuccetta si aprì. Rotolai fuori sull’ala dell’apparecchio e balzai al suolo. Dieci secondi per trovare un riparo… corsi sulla ghiaia verso il più vicino "filare d’alberi", un groviglio contorto di arbusti alti e sparsi, di un verde azzurrognolo. Mi buttai in mezzo ai rovi e mi voltai a guardare i ricognitori che ripartivano. Le sonde automatiche che erano rimaste si innalzarono lentamente fino a una quota di un centinaio di metri, e poi si dispersero in tutte le direzioni, con un rombo da scardinare le ossa. I veri ricognitori tornarono a scivolare lentamente sott’acqua. Magari era una buona idea.

Non era un mondo terribilmente attraente, ma certo sarebbe stato più facile muoversi lì che nell’incubo criogenico in cui ci avevano addestrati. Il cielo era un fulgore uniforme, argenteo e opaco, che si fondeva completamente con la foschia sull’oceano, al punto che era impossibile indicare dove finiva l’acqua e incominciava l’aria. Onde minute lambivano la spiaggia di ghiaia nera, troppo lentamente e graziosamente in quella gravità che era solo tre quarti di quella terrestre. Anche da cinquanta metri di distanza, l’acciottolio di miliardi di sassi fatti rotolare dalla risacca risuonava foltissimo nelle mie orecchie.

La temperatura dell’aria era 79 gradi centigradi: non era abbastanza caldo per far bollire il mare, sebbene la pressione atmosferica fosse inferiore a quella terrestre. Spirali di vapore salivano rapidamente verso il cielo dalla battigia dove acqua e terra si congiungevano. Mi chiesi come avrebbe fatto a sopravvivere un uomo, lì, senza lo scafandro. L’avrebbe ucciso prima il calore oppure il basso tenore d’ossigeno (la pressione parziale era un ottavo di quella normale della Terra)? Oppure lì c’era qualche microrganismo mortale che li avrebbe battuti entrambi sul tempo?

— Qui è Cortez. Muovetevi tutti, raccoglietevi attorno a me. — Era ritto sulla spiaggia, un po’ alla mia sinistra, e agitava in cerchio la mano sopra la testa. Mi avviai verso di lui, passando tra gli arbusti. Erano fragili, inconsistenti, e sembravano paradossalmente secchi in quell’aria carica di vapore. Non avrebbero offerto certamente un buon riparo.

— Avanzeremo in direzione 0,05 radianti a est di nord. Il Plotone Uno all’avanguardia. Due e Tre seguono a venti metri di distanza, a sinistra e a destra. Il Sette, il plotone del comando, al centro, venti metri dietro il Due e il Tre. Il Cinque e il Sei alla retroguardia, in un fianco chiuso, semicircolare. Tutto chiaro? — Sicuro, eravamo capaci di seguire quella manovra a "punta di freccia" anche da addormentati. — Okay, muoviamoci.

Io ero nel Plotone Sette, il "gruppo del comando". Il capitano Stott mi ci aveva messo non perché mi spettasse d’impartire qualche comando, ma perché avevo studiato fisica.

Il gruppo del comando era, ipoteticamente, il posto più sicuro, protetto com’era dagli altri sei plotoni; venivi assegnato a quello perché, per ragioni tattiche, era meglio che sopravvivessi un po’ più a lungo degli altri. C’era Cortez, per dare gli ordini. C’era Chavez, per rimediare ai difetti di funzionamento degli scafandri. C’era il medico anziano, Doc Wilson (l’unico medico che avesse effettivamente una laurea in medicina), e c’era anche Theodopolis, il radiotecnico: era il nostro legame col capitano, che aveva deciso di restare in orbita.

Poi c’eravamo noialtri, che eravamo stati assegnati al gruppo del comando grazie a specializzazioni o attitudini che normalmente non sarebbero state considerate di indole "tattica". Di fronte a un nemico completamente ignoto, non si poteva mai sapere cosa potesse rivelarsi importante. Perciò io ero lì perché, in tutta la compagnia, ero quello che era arrivato più vicino alla laurea in fisica. La Rogers rappresentava la biologia. Tate la chimica. La Ho era in grado di ottenere un punteggio perfetto nei test Rhine di percezione extrasensoriale, in qualunque momento. Bohrs era un poliglotta, capace di parlare ventun lingue correntemente, idiomaticamente. La facoltà eccezionale di Petrov stava nel fatto che, secondo gli esami, non aveva nella sua psiche una sola molecola di xenofobia. Keating era un abile acrobata. Debby Hollister — detta Lucky, "fortunata" — possedeva una straordinaria capacità di far danaro, e anch’ella aveva un potenziale Rhine costantemente molto elevato.

12

Quando ci mettemmo in marcia, usammo la combinazione mimetica "giungla" sui nostri scafandri. Ma quella che passava per una giungla, in quei tropici anemici, era troppo rada: e noi sembravamo una banda di sgargianti arlecchini che sfilassero in mezzo a un bosco. Cortez ci ordinò di passare al nero, ma neanche quello andava bene, perché la luce di Epsilon arrivava in modo uniforme da tutte le parti del cielo, e non c’erano ombre, eccettuate le nostre. Finalmente optammo per la mimetizzazione del tipo deserto, color duna.

Il paesaggio cambiò gradualmente mentre marciavamo verso nord, allontanandoci dal mare. Gli steli spinosi — immagino che potrei chiamarli alberi — divennero meno numerosi, ma più grossi e meno fragili; alla base di ognuno di essi c’era una massa aggrovigliata di viticci dello stesso colore verdazzurro, che si espandeva in un cono appiattito del diametro d’una decina di metri. Sulla cima di ogni albero c’era un delicato fiore verde, grande quando la testa di un uomo.

A cinquanta chilometri dal mare, cominciò a spuntare l’erba. Sembrava che rispettasse i diritti di proprietà degli alberi, e lasciava una fascia di terreno spoglio intorno ad ogni cono di viticci. Sul limitare di una di quelle radure, l’erba cresceva sotto forma di timida stoppia verdazzurra, e poi, via via che si allontanava dall’albero, diventava più folta e più alta, fino a quando, in certi punti, ci arrivava alla spalla, là dove la distanza tra un albero e l’altro era eccezionalmente ampia. L’erba aveva una sfumatura più chiara e più verde degli alberi e dei viticci. Cambiammo il colore degli scafandri, passando al verde vivo che avevamo usato su Caronte per ottenere il massimo della visibilità. Finché ci tenevamo in mezzo all’erba più fitta, eravamo discretamente mimetizzati.

Coprivamo oltre venti chilometri al giorno, euforici compravamo dopo avere trascorso dei mesi a due gravità. Fino al secondo giorno, l’unico esemplare della fauna che vedemmo fu una specie di verme nero, grosso un dito, con centinaia di zampe ciliate che sembravano le setole d’uno spazzolino. La Rogers disse che ovviamente dovevano esserci in giro animali più grossi, altrimenti gli alberi non avrebbero avuto motivo di avere le spine. Perciò stavamo doppiamente in guardia, aspettandoci guai da parte tanto dei taurani quanto degli "animali più grossi" non meglio identificati.

Il Secondo plotone, quello della Potter, era all’avanguardia: la frequenza generale era riservata a lei, poiché era probabile che sarebbe stato il suo gruppo ad avvistare per primo gli eventuali guai.

— Sergente, qui Potter — sentimmo tutti. — Movimento più avanti.

— Buttatevi a terra, allora!

— Già fatto. Non credo che ci vedano.

— Primo plotone, portarsi alla destra del Secondo. State giù. Quarto, portarsi a sinistra. Avvertitemi, quando sarete in posizione. Sesto plotone, restare indietro e vigilare la retroguardia. Quinto e Terzo, avvicinarsi al gruppo del comando.

Due dozzine di persone uscirono frusciando dall’erba per unirsi a noi. Cortez doveva aver ricevuto conferma dal Quarto plotone.

— Bene. E voi del Primo?… Okay, benissimo. Quanti sono?

— Noi ne vediamo otto. — La voce della Potter.

— Bene. Quando do l’ordine, aprite il fuoco. Sparate per uccidere.

Sergente… sono solo animali.

Potter… Se hai sempre saputo che aspetto ha un taurano, avresti dovuto dircelo. Sparare per uccidere.

— Ma ci serve…

— Ci serve un prigioniero, ma non possiamo scortarlo per quaranta chilometri fino alla sua base e tenerlo d’occhio mentre combattiamo. Chiaro?

— Sì, sergente.

— Okay. Voi del Settimo, cervelloni e tipi strambi; andremo avanti a guardare. Quinto e Terzo, accompagnateci per proteggerci.

Strisciammo tra l’erba alta un metro, e arrivammo dove quelli del Secondo plotone si erano sparsi in fila, pronti a sparare.

— Io non vedo niente — disse Cortez.

— Avanti, un po’ sulla sinistra. Verdiscuri.

Erano solo di pochissimo più scuri dell’erba. Ma quando avevi visto il primo, riuscivi a vederli tutti: si muovevano lentamente, una trentina di metri più avanti.

— Fuoco! — Cortez sparò per primo. Poi dodici scie cremisi schizzarono e l’erba avvizzì, annerì, scomparve, e gli esseri sobbalzarono convulsamente e morirono mentre cercavano di disperdersi.

— Cessate il fuoco, cessate il fuoco! — Cortez si alzò. — Abbiamo bisogno che ci resti qualcosa… Secondo plotone, seguitemi. Avanzò a grandi passi verso i corpi fumanti, con il dito-laser puntato diritto davanti a sé, simile a un’oscena bacchetta da rabdomante che lo attirasse verso quella carneficina… Mi sentii stringere la gola, e capii che tutti i sadici nastri d’addestramento, tutte le morti orribili durante le esercitazioni non erano bastati a prepararmi a quella improvvisa realtà… che anch’io avevo una bacchetta magica, e potevo puntarla verso un essere vivente e trasformarlo in un pezzo fumante di carne semicotta; io non ero un soldato di professione, non avevo mai voluto esserlo, avrei preferito non doverlo essere mai…

— Okay, Settimo, venite avanti. — Mentre ci stavamo avviando, uno degli esseri si mosse, con un lieve brivido, e Cortez passò sopra di esso il raggio del laser, con un gesto quasi negligente. Il raggio aprì uno squarcio profondo un palmo nel corpo della creatura, che morì, come le altre, senza emettere un suono.

Erano meno alti di noi umani, ma più tozzi. Erano coperti d’una pelliccia verdescura, quasi nera… riccioli bianchi, là dove il pelame era stato strinato dal laser. Sembrava avessero tre gambe e un braccio solo. L’unico ornamento delle teste irsute era una bocca, un umido orificio nero, pieno di piatti denti neri. Erano assolutamente ripugnanti, ma il particolare peggiore non era costituito da una diversità, bensì da una somiglianza… Dove il laser aveva squarciato una cavità interna, si riversavano all’esterno globi venati e lucidi, lattei, e grovigli di organi, e il loro sangue era rosso scuro.

— Rogers, dai un’occhiata, taurani o no?

La Rogers si inginocchiò accanto a uno degli esseri sbudellati e aprì una cassetta piatta di plastica, piena di scintillanti ferri chirurgici. Scelse un bisturi. — C’è un modo per scoprirlo. — Doc Wilson stava a guardare al di sopra della sua spalla, mentre lei incideva metodicamente la membrana che ricopriva parecchi organi.

— Ecco. — Sollevò una massa fibrosa e nerastra tra due dita, in una parodia di schizzinosità, data quell’armatura.

— Allora?

— È erba, sergente. Se i taurani sono erbivori e respirano l’aria, certamente hanno trovato un pianeta straordinariamente simile al loro. — Gettò via la massa nerastra. — Sono animali, sergente, solo fottuti animali.

— Non so — disse Doc Wilson. — Solo perché camminano a quattro zampe, o forse a tre, e mangiano l’erba…

— E va bene, controlliamo il cervello. — La Rogers ne trovò uno che era stato colpito alla testa e scrostò dalla ferita i tessuti superficiali carbonizzati. — Guarda un po’.

Era quasi osso massiccio, lei tirò e scarruffò i peli sulla testa di un altro. — Ma che cosa diavolo ha, come organi sensoriali? Niente occhi, né orecchi, né… — Si rialzò. — In quella fottuta testa non c’è altro che una bocca e dieci centimetri di cranio: e per proteggere un bel niente.

— Se potessi scrollare le spalle, le scrollerei — disse il dottore. Questo non dimostra niente… non è necessario che un cervello abbia l’aspetto d’un gheriglio di noce ammuffito e che sia piazzato dentro alla testa. Magari quel cranio non è osso, magari è quello il cervello, una specie di griglia di cristalli…

— Già, ma quel fottuto stomaco è al posto giusto, e se quelli non sono intestini sono disposta a mangiarmi…

— Sentite — fece Cortez — questo è molto interessante, ma a noi basta sapere se questi cosi sono pericolosi, e poi dobbiamo andare avanti. Non possiamo star qui a…

— Non sono pericolosi — cominciò la Rogers. — Non…

— Medico! Doc! - Qualcuno che era rimasto con la fila dei tiratori agitò le braccia. Doc si avviò di corsa, seguito da tutti noi.

— Cos’è successo? — Mentre correva, Doc si era sganciato la cassetta del pronto soccorso dalle spalle.

— È la Ho. Ha perso i sensi.

Doc spalancò lo sportello del monitor biomedico della Ho. Non ebbe bisogno di guardare molto a lungo. — È morta.

— Morta? — fece Cortez. — Cosa diavolo…

— Un minuto solo. — Doc innestò una spina nel monitor e trafficò con alcuni quadranti della sua cassetta. — Qui sono registrate tutte le letture dei dati biomedici di tutti quanti, per le ultime dodici ore. Sto tornando indietro, dovrei riuscire a… ecco!

— Cosa?

— Quattro minuti e mezzo fa… deve essere successo quando avete aperto il fuoco… Gesù!

— Allora?

— Emorragia cerebrale massiccia. Nessun… — Guardò i quadranti. — Nessun… preavviso, nessuna indicazione di qualcosa fuori dell’ordinario; pressione sanguigna alta, polso elevato, ma normale date le circostanze… niente che… indichi… — Si chinò e aprì lo scafandro della morta. I fini lineamenti orientali erano distorti in una smorfia orribile, con le gengive scoperte. Un fluido viscido scorreva dalle palpebre abbassate, e da ognuno degli orecchi scendeva ancora un rivoletto di sangue. Doc Wilson tornò a chiudere lo scafandro.

— Non ho mai visto niente di simile. È come se le fosse scoppiata una bomba dentro al cranio.

— Oh, merda — disse la Rogers. — La Ho aveva la sensibilità extrasensoriale, no?

— Esatto. — Cortez sembrava pensieroso. — Bene, ascoltate tutti. Comandanti dei plotoni, controllate i vostri effettivi e vedete se qualcuno manca o sta male. Nessun altro, nel Settimo?

— Io… io ho un mal di testa terribile, sergente — disse Lucky.

Altri quattro avevano tremendi mal di testa. Uno di loro affermò di possedere una leggera sensibilità extrasensoriale. Gli altri non lo sapevano.

— Cortez, mi sembra che sia evidente — disse Doc Wilson. — Dovremo girare alla larga da questi… mostri, e soprattutto non dobbiamo far loro del male. Non possiamo rischiare, con cinque persone esposte a quello che, a quanto pare, ha ucciso la Ho.

— Certamente, maledizione, non ho bisogno che me lo venga a dire un altro. Faremmo meglio a muoverci. Ho appena riferito al capitano quello che è successo: è d’accordo che faremmo bene ad allontanarci da qui al più presto possibile, prima di accamparci per passare la notte. Riprendiamo la formazione e continuiamo nella stessa direzione. Quinto plotone, passate all’avanguardia; Secondo, tornate alla retroguardia. Tutti gli altri, come prima.

— E la Ho? — chiese Lucky.

— Ci penserà l’astronave.

Percorso mezzo chilometro, ci furono un lampo e un tuono rombante. Dove prima c’era la Ho, si levò una nuvola luminosa e vaporosa a forma di fungo, che ribollì e si dissolse contro lo sfondo del cielo grigio.

13

Ci fermammo per passare la "notte" — in realtà il sole sarebbe tramontato solo dopo altre settanta ore — in cima a una piccola altura, a una decina di chilometri dal punto dove avevamo ucciso gli alieni. Ma non erano loro gli alieni, rammentai a me stesso… lo eravamo noi.

Due plotoni si disposero in cerchio intorno agli altri, e noi ci lasciammo cadere esausti. Ad ognuno spettavano quattro ore di sonno e poi due ore di servizio di sentinella.

La Potter venne a sedersi vicino a me. Con il mento, feci scattare la sua frequenza.

— Ciao, Marygay.

— Oh, William. — Attraverso la radio, la sua voce era rauca e crepitante. — Dio, è così orribile.

— Adesso è passato…

— Io ne ho ucciso uno, al primo istante. Gli ho sparato diritto nel… nel…

Le posai una mano su un ginocchio. Il contatto causò un ticchettio di plastica, e io tirai indietro la mano; negli occhi avevo visioni di macchine che si abbracciavano, si accoppiavano. — Non devi sentirti responsabile, Marygay: se una colpa esiste è… è… di tutti noi… in parti eguali, ma con una tripla porzione per Cor…

— Voi soldati piantatela di chiacchierare e dormite. Siete tutti e due di guardia fra due ore.

— Okay, sergente. — La voce di Marygay era triste e stanca in modo insopportabile. Avevo l’impressione che, se avessi potuto toccarla, avrei assorbito quella tristezza come un filo assorbe la corrente, ma tutti e due eravamo prigionieri nel nostro mondo di plastica…

— Buonanotte William.

— ’Notte. — È quasi impossibile eccitarsi sessualmente dentro a uno scafandro, con il tubo dell’evacuazione e tutti i sensori di cloruro d’argento che ti pungolano, ma fu proprio quella la reazione del mio corpo all’impotenza emotiva: forse a causa del ricordo di sonni più piacevoli in compagnia di Marygay, forse a causa del pensiero che in mezzo a tutta quella morte poteva venire presto la morte individuale, si alzò la gru della procreazione per un ultimo tentativo… pensieri deliziosi. Mi addormentai e sognai che ero una macchina, e imitavo le funzioni della vita, e avanzavo goffamente nel mondo, cigolando e sferragliando, e la gente era troppo educata per dire qualcosa, ma mi rideva alle spalle, e l’omino piccolo piccolo che stava seduto dentro alla mia testa, e tirava le leve e le barre e scrutava i quadranti, era esasperato e collezionava quelle offese in vista del giorno in cui…

— Mandella… sveglia, maledizione, è il tuo turno!

Mi trascinai al mio posto, al perimetro del campo, a fare la guardia Dio sapeva per che cosa… ma ero così stanco che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Finii per allungare la lingua per prendere una compressa di stimolante, pur sapendo che l’avrei pagata più tardi.

Per oltre un’ora restai seduto lì, a scrutare il mio settore, a sinistra, a destra, vicino, lontano, e la scena non cambiava mai, non c’era neppure un alito di vento che smuovesse l’erba.

Poi all’improvviso l’erba alta si aprì e uno degli esseri a tre zampe apparve davanti a me. Alzai il dito, ma non sparai.

— Movimento!

— Movimento!

— Gesù Cri… ce n’è uno proprio…

— Non sparate! Cribbio, non sparate!

— Movimento.

— Movimento. — Guardai a sinistra e a destra, e fin dove potevo vedere io, ogni sentinella del perimetro aveva davanti a sé uno di quegli esseri ciechi e sordi.

Forse la droga che avevo ingerito per star sveglio mi rendeva più sensibile a quello che essi facevano. Mi si aggricciò il cuoio capelluto, e sentii nella mente una cosa informe, la sensazione che si prova quando qualcuno ha detto qualcosa e tu non hai sentito bene, vorresti rispondere, ma non c’è più la possibilità di invitarlo a ripetere ciò che ha detto.

L’essere sedette sulle zampe posteriori, appoggiandosi in avanti sull’unica anteriore. Un grosso orso verde con un braccio rinsecchito. La sua energia penetrava nella mia mente, come una ragnatela di terrori notturni, cercando di comunicare con me, o forse di distruggermi, non lo sapevo.

— Bene, tutti voi al perimetro, indietreggiate, adagio. Non fate movimenti rapidi… Qualcuno ha il mal di testa o qualcosa del genere?

— Sergente, qui è Hollister. — (Lucky.) — Stanno cercando di dire qualcosa… riesco quasi a… no, è soltanto… Tutto quello che riesco a captare è che loro ci giudicano, ci giudicano… ecco, strani. Non hanno paura.

— Vuoi dire che quello che hai davanti non ha…

— No, la sensazione proviene da tutti: pensano tutti la stessa cosa. Non mi chieda come faccio a saperlo, lo so e basta.

— Forse pensano che è stato divertente, quello che hanno fatto alla Ho.

— Forse. Non sento che siano pericolosi. Provano solo curiosità nei nostri confronti.

— Sergente, qui è Bohrs.

— Sì.

— I taurani sono qui almeno da un anno… forse hanno imparato a comunicare con questi… orsacchiotti troppo cresciuti. Magari ci spiano, e trasmettono…

— Non credo che sarebbero comparsi, se fosse così — disse Lucky. — Quando vogliono, possono benissimo nascondersi in modo che noi non li vediamo.

— Comunque — disse Cortez — se sono spie, ormai il danno è fatto. Non credo che sarebbe molto geniale prendere qualche iniziativa contro di loro. So che tutti voi vorreste vederli morti per quello che hanno fatto alla Ho, e anch’io la penso allo stesso modo, ma è meglio che siamo prudenti.

Io non volevo vederli morti, ma avrei preferito non averli visti per niente. Camminavo lentamente a ritroso, verso il centro del campo. L’essere non sembrava disposto a seguirmi. Forse sapeva benissimo che eravamo circondati. Adesso stava strappando l’erba con l’unico braccio e la masticava.

— Okay, tutti voi comandanti di plotone, svegliate gli altri, e fate l’appello. Fatemi sapere se qualcuno sta male. Dite ai vostri che ci mettiamo in marcia fra un minuto esatto.

Non so che cosa si fosse aspettato Cortez, ma naturalmente gli esseri ci seguirono. Non ci circondavano: ma ce n’erano sempre venti o trenta che ci seguivano. Non erano sempre gli stessi, però. Qualcuno se ne andava saltellando e ne arrivavano altri che si univano al corteo. Era evidente che loro non si sarebbero stancati.

Il sergente ci autorizzò a prendere una compressa di stimolante a testa. Altrimenti, non ce l’avremmo fatta a marciare neanche per un’ora. Una seconda pillola mi sarebbe andata benissimo, dopo che la prima smise di fare effetto, ma l’aspetto matematico della situazione lo escludeva: eravamo ancora a trenta chilometri dalla base nemica, quindici ore di marcia a dir poco. E anche se con quelle compresse potevi restare sveglio e pieno d’energia per cento ore, le aberrazioni della capacità di giudizio e delle percezioni crescevano in progressione a palla di neve (ossia a valanga) dopo la seconda ora, fino a quando, in extremis, prendevi sul serio le allucinazioni più bizzarre, e magari rimanevi a esitare per ore prima di decidere se dovevi fare colazione o no.

Sotto l’effetto degli stimolanti artificiali, la compagnia marciò con grande energia per le prime sei ore; alla settima rallentò, e dopo nove ore e diciannove chilometri si arrestò esausta. Gli orsacchiotti non ci avevano mai persi di vista e, secondo Lucky, non avevano mai smesso di "trasmettere". Cortez decise che ci saremmo fermati per sette ore: ogni plotone avrebbe montato la guardia per un’ora intorno al perimetro. Non ero mai stato così felice di essere nel Settimo plotone, perché montammo di guardia per l’ultimo turno, e riuscimmo a farci sei ore di sonno ininterrotto.

Nei pochi istanti in cui rimasi sveglio, dopo essermi finalmente sdraiato, mi giunse il pensiero che la prossima volta che avrei chiuso gli occhi sarebbe potuta essere l’ultima. E in parte per i postumi dell’effetto della droga, in parte per gli errori di quella giornata, mi accorsi che non me ne importava un accidente.

14

Il nostro primo contatto con i taurani ebbe luogo durante il mio turno di guardia.

Gli orsacchiotti erano ancora là, quando mi svegliai e diedi il cambio a Doc Jones. Si erano ridisposti nella formazione originaria, uno davanti ad ogni sentinella. Quello che sorvegliava me, sembrava un po’ più grosso degli altri, ma per il resto era identico. Intorno al punto in cui stava seduto, tutta l’erba era già stata strappata, perciò di tanto in tanto doveva fare sortite a sinistra o a destra. Ma poi tornava sempre a sedersi davanti a me… a fissarmi, avrei detto, se avesse avuto gli occhi.

Eravamo lì uno di fronte all’altro da un quarto d’ora circa, quando rombò la voce di Cortez:

— Tutti quanti, svegliatevi e nascondetevi!

Obbedii all’istinto: mi buttai al suolo e mi rotolai in mezzo all’erba più alta.

— Vascello nemico sulla verticale. — La voce di Cortez era quasi laconica.

Per l’esattezza, non era proprio sulla verticale, ma stava passando un po’ più a est di noi. Si muoveva lentamente, a un centinaio di chilometri orari, e sembrava un manico di scopa circondato da una bolla di sapone sudicia. L’essere che stava all’interno aveva un aspetto un poco più umano degli orsacchiotti, ma comunque non era un prodigio di bellezza neppure lui. Feci scattare il mio amplificatore d’immagini fino a quaranta logaritmo di due per vederlo un po’ meglio.

Aveva due braccia e due gambe, ma la vita era così sottile che avresti potuto cingerla con le due mani. Sotto quel vitino di vespa c’era una grande struttura pelvica a ferro di cavallo, larga un metro, dalla quale pendevano due lunghe gambe scarne, apparentemente prive di giuntura al ginocchio. Al di sopra del vitino il corpo si allargava di nuovo in un torace di misura non inferiore all’enorme bacino. Le mani sembravano sorprendentemente umane, a parte il fatto che erano troppo lunghe e troppo poco muscolose. E avevano troppe dita. Niente spalle e niente collo. La testa era un’escrescenza d’incubo che spuntava come un gozzo dal petto massiccio. Due occhi che sembravano mucchietti di uova di pesce, un ciuffo di fiori di granturco al posto del naso, e un foro rigidamente aperto che poteva essere la bocca, situata in basso, dove ci sarebbe dovuto essere il pomo d’Adamo. Evidentemente, la bolla di sapone offriva condizioni ambientali ideali, perché quello non portava assolutamente nulla, eccetto la sua pelle increspata, che sembrava cuoio tenuto immerso troppo a lungo nell’acqua bollente, e poi tinto di un arancione pallido. "Egli" non aveva organi genitali esterni, ma neppure niente che facesse pensare a ghiandole mammarie. Quindi optai per il pronome maschile, per difetto.

Ovviamente, o non ci vedeva oppure pensava che facessimo parte del branco degli orsacchiotti. Non si voltò neppure una volta a guardarci, e continuò nella stessa direzione in cui eravamo avviati noi, radianti 0,05 a est di nord.

— Potete tornare a dormire, adesso, se ci riuscirete dopo aver visto quel coso. Si parte alle 0435. — Quaranta minuti.

Poiché il pianeta era avvolto in una coltre opaca di nubi, dallo spazio era stato impossibile vedere com’era fatta e quanto era grande la base nemica. Conoscevamo solo la sua posizione, così come conoscevamo la posizione in cui sarebbero dovuti atterrare i ricognitori. E quindi era facile che anche la base fosse sott’acqua, oppure sotto terra.

Ma alcune delle sonde automatiche erano ricognitori, non soltanto esche; e durante i loro attacchi fasulli contro la base, una era riuscita ad avvicinarsi abbastanza per scattare una foto. Il capitano Stott trasmise via radio una pianta del posto a Cortez, l’unico che avesse un visore nello scafandro, quando arrivammo a cinque chilometri dalla posizione "radio" della base. Ci fermammo, e Cortez chiamò i comandanti dei plotoni, insieme ai membri del Settimo, per conferire. Arrivarono balzelloni anche due orsacchiotti. Noi ci sforzammo di non badare alla loro presenza.

— Okay, il capitano ha trasmesso alcune foto del nostro obiettivo. Ora disegnerò una mappa: voi comandanti dei plotoni copiatela. — Quelli presero blocchi e stili dalle tasche dei "calzoni", mentre Cortez srotolava una grande stuoia di plastica. Le diede una scrollata per randomizzare le eventuali cariche residue, e accese lo stilo.

— Dunque, noi arriviamo da questa direzione. — Tracciò una freccia sul fondo del foglio. — Per prima cosa incontreremo questa fila di baracche, probabilmente alloggi o bunker, ma chi diavolo può sapere… Il nostro obiettivo iniziale consiste nel distruggere questi edifici… l’intera base si trova sul terreno piatto: non abbiamo possibilità di arrivarle addosso di sorpresa.

— Qui Potter. Perché non possiamo saltarle addosso?

— Sicuro, potremmo farlo, e ci ritroveremmo completamente circondati e fatti a pezzi. Prendiamo le baracche.

"E dopo averle prese… tutto quello che posso dirvi è che dovremo decidere sul momento. In base alla ricognizione aerea, possiamo immaginare la funzione di un paio di edifici soltanto… e la faccenda puzza. Magari finiremmo per sprecare un sacco di tempo a demolire l’equivalente dello spaccio truppa, e per ignorare un enorme computer logistico solo perché ha l’aspetto… d’una discarica di rifiuti, o qualcosa del genere."

— Qui Mandella — dissi io. — Non c’è una specie di spazioporto? Mi sembra che dovremmo…

— Arriverò anche a questo, dannazione. C’è un cerchio di baracche tutto intorno al campo, e perciò da qualche parte dovremo pur sfondare, per passare. Questo è il posto più vicino, e c’è meno pericolo di tradire la nostra posizione prima che passiamo all’attacco.

"Non c’è niente, in tutta la base, che abbia effettivamente l’aspetto di un’arma. Ma non vuol dir niente; in ognuna delle baracche si potrebbe nascondere con tutta facilità un laser da un gigawatt.

"Ora, a cinquecento metri circa dalle baracche, al centro della base, arriveremo a questa grande struttura a forma di fiore. — Cortez tracciò un grosso disegno simmetrico che pareva il contorno di un fiore con sette petali. — Che cosa diavolo sia, io lo so quanto voi. Tuttavia ce n’è una soltanto, quindi non dovremo danneggiarla più del necessario. Il che significa… che la faremo a pezzi, se io la riterrò pericolosa.

"Ora, per quanto riguarda il tuo spazioporto, Mandella… non c’è e basta. Niente.

"Quell’incrociatore che la Hope ha fatto fuori, probabilmente era stato lasciato in orbita, così come abbiamo dovuto fare noi con la nostra astronave. Se loro hanno qualcosa di equivalente a un ricognitore o a missili automatici, allora o non li tengono qui, o li hanno nascosti molto bene."

— Qui Bohrs. E allora con che cosa ci hanno attaccati, mentre stavamo scendendo dall’orbita?

— Vorrei tanto saperlo, soldato.

"Ovviamente, non abbiamo nessun metodo per poter stimare quanti sono, almeno direttamente. Le foto del ricognitore non mostrano neppure un taurano a terra nella base. Non significa niente, perché questo è un ambiente alieno anche per loro. Indirettamente, però… contiamo il numero dei manici di scopa, di quei cosi volanti.

"Le baracche sono cinquantuno, e ognuna ha al massimo un manico di scopa. Davanti a quattro baracche non ne è parcheggiato nessuno, però ne abbiamo localizzati quattro in varie altre parti della base. Forse questo significa che ci sono cinquantuno taurani, uno dei quali si trovava lontano dalla base quando la foto è stata scattata."

— Qui Keating. Oppure cinquantun ufficiali.

— Esatto… magari ci sono cinquantamila fanti chiusi in ognuno di quegli edifici. È impossibile dirlo. O magari ci sono solo dieci taurani, ognuno con cinque manici di scopa a disposizione, da usare a seconda dell’umore.

"Abbiamo un elemento a nostro favore: le comunicazioni. Loro evidentemente adoperano una modulazione di frequenza di radiazione elettromagnetica di qualche megahertz."

— Radio!

— Giusto, chiunque tu sia. Identificatevi, quando parlate. Perciò è possibile che loro non riescano a captare le nostre comunicazioni a base di neutrini. Inoltre, immediatamente prima del nostro attacco, la Hope sgancerà una bella bomba sporca, a fissione: la farà esplodere negli strati superiori dell’atmosfera, esattamente sopra la base. Questo li costringerà a servirsi per qualche tempo di comunicazioni in linea di visuale; e anche quelle saranno piene zeppe di scariche.

— E perché non… qui Tate… perché non gli sganciano la bomba proprio sulle ginocchia? Ci risparmierebbero un sacco di…

— Questa osservazione non merita neppure una risposta, soldato. La risposta, comunque, è che potrebbero farlo. E augurati che non lo facciano. Se liquidano la base, lo faranno per la sicurezza della Hope. Dopo che avremo attaccato, e probabilmente prima che siamo abbastanza lontani perché la cosa abbia importanza.

"Possiamo impedire che questo succeda solo se facciamo un buon lavoro. Dobbiamo ridurre la base in condizioni tali che non possa più funzionare. E nello stesso tempo, dobbiamo lasciarla intatta il più possibile. E prendere un prigioniero."

— Qui Potter. Vuol dire almeno un prigioniero.

— Volevo dire quello che ho detto. Uno solo. Potter… sei esentata dal comando del tuo plotone. Manda qui Chavez.

— Bene, sergente. — Il tono di sollievo, nella sua voce, era inequivocabile.

Cortez continuò con la sua pianta e le istruzioni. C’era un altro edificio la cui funzione era ovvia: in cima aveva una grande antenna girevole a forma di piatto. Dovevamo distruggerla non appena i granatieri fossero arrivati a tiro.

Il piano d’attacco era molto elastico. Il nostro segnale d’inizio sarebbe stato il lampo della bomba a fissione. Nello stesso tempo, parecchie sonde automatiche sarebbero state mandate a convergere sulla base, e in questo modo avremmo potuto vedere a cosa ammontavano le loro difese antiastronavi. Avremmo tentato di ridurne l’efficienza senza distruggerle completamente.

Subito dopo la bomba e le sonde automatiche, i granatieri avrebbero disintegrato una fila di sette baracche. Attraverso la breccia, tutti si sarebbero precipitati nella base… e quello che sarebbe successo dopo, nessuno poteva immaginarlo.

Idealmente, saremmo dovuti andare da un’estremità della base all’altra, distruggendo certi obiettivi ed eliminando tutti i taurani tranne uno. Ma era molto improbabile che il piano si realizzasse, poiché si basava sul fatto che i taurani opponessero scarsa resistenza.

D’altra parte, se i taurani avessero dimostrato fin dall’inizio un’evidente superiorità, Cortez avrebbe impartito l’ordine di disperderci. Ognuno aveva un diverso punto cardinale verso cui dirigersi… ci saremmo avviati in tutte le direzioni, e i superstiti dovevano presentarsi al rendez-vous circa quaranta chilometri a est della base. Lì avremmo predisposto un nuovo attacco, dopo che la Hope avesse provveduto ad ammorbidire un po’ la base.

— Un’ultima cosa — gracchiò Cortez. — Magari alcuni di voi la pensano come la Potter, magari la pensano così alcuni dei vostri uomini… che dovremmo andarci piano, senza trasformare l’operazione in un bagno di sangue. La pietà è un lusso, una debolezza che non possiamo permetterci in questa fase della guerra. Tutto quello che sappiamo sul conto dei nemici è che hanno ucciso settecentonovantotto esseri umani. Non hanno dimostrato il minimo riguardo quando si è trattato di attaccare i nostri incrociatori, e sarebbe da sciocchi aspettarsi che lo dimostrino proprio ora, in questa prima operazione al suolo.

"Sono loro i responsabili della fine di tutti i vostri camerati morti durante l’addestramento, e della Ho, e di tutti gli altri che moriranno sicuramente oggi. Io non posso capire come si possa pensare di risparmiarli. Ma questo non fa la minima differenza. Conoscete gli ordini e, che diavolo, tanto vale che lo sappiate: a tutti voi è stata impartita una suggestione postipnotica, che io farò scattare per mezzo di una frase, immediatamente prima dell’inizio della battaglia. Vi faciliterà il lavoro."

— Sergente…

— Silenzio. Abbiamo poco tempo: tornate ai vostri plotoni e istruiteli. Ci muoviamo tra cinque minuti.

I comandanti dei plotoni ritornarono dai loro uomini, lasciando lì Cortez e noi dieci… più tre orsacchiotti che ci giravano intorno e ci venivano di continuo fra i piedi.

15

Percorremmo gli ultimi cinque chilometri con molta prudenza, tenendoci fra l’erba più alta e attraversando di corsa le radure, qua e là. Quando arrivammo a cinquecento metri dal posto in cui doveva essere la base, Cortez portò avanti il Terzo plotone a compiere una ricognizione, mentre noialtri ci sdraiavamo a terra.

La voce di Cortez ci giunse attraverso la frequenza generale: — È più o meno come ce l’aspettavamo. Avanzate in fila, strisciando. Quando avrete raggiunto il Terzo plotone, seguite il vostro comandante di squadra verso destra o verso sinistra.

Obbedimmo e alla fine ci trovammo con una fila di ottantatré persone, disposte in una linea approssimativamente perpendicolare alla direzione dell’attacco. Eravamo nascosti molto bene, a parte la dozzina di orsacchiotti che spiccavano lungo tutta la linea, masticando erba.

Nella base non c’era segno di vita. Tutte le costruzioni erano di un bianco lucente, uniforme, e non avevano finestre. Le baracche che costituivano il nostro primo obiettivo erano grandi uova lisce, semisepolte, distanti una sessantina di metri l’una dall’altra. Cortez ne assegnò una ad ogni granatiere.

Eravamo divisi in tre squadre: la Squadra A consisteva del plotone due, quattro e sei; la Squadra B dei plotoni uno, tre e cinque; e il plotone del comando era la Squadra C.

— Fra meno di un minuto… Filtri abbassati! Quando dico "fuoco", granatieri, sparate sui rispettivi bersagli. Dio vi aiuti se li mancate.

Ci fu un suono che parve il rutto di un gigante, e un torrentello di cinque o sei bolle iridescenti si innalzò dalla costruzione a forma di fiore. Le bolle si sollevarono a velocità crescente fino a quando furono praticamente fuori di vista: sfrecciavano verso sud, passandoci sopra la testa. Il suolo si illuminò improvvisamente, e per la prima volta dopo molto tempo vidi la mia ombra, lunghissima, e puntata verso nord. La bomba era esplosa in anticipo. Ebbi appena il tempo di pensare che l’anticipo non faceva una grande differenza: avrebbe comunque causato il caos nelle comunicazioni dei nemici…

— Sonde automatiche! — Un veicolo arrivò sibilando, all’incirca all’altezza degli alberi, e una bolla si levò nell’aria per andargli incontro. Quando entrarono in contatto, la bolla scoppiò e la sonda esplose in un milione di minuscoli frammenti. Ne arrivò un’altra dalla direzione opposta, e subì la stessa sorte.

— Fuoco! - Sette lampi abbaglianti di granate da 500 microtoni, e un foltissimo, prolungato spostamento d’aria che avrebbe sicuramente ucciso un uomo non protetto.

— Alzate i filtri. — Una caligine grigia di fumo e di polvere. Zolle di terra che cadevano con il rumore di pesanti gocce di pioggia.

— Ascoltate:

Scozzesi, che con Wallace il sangue versaste;

Scozzesi, che già Bruce più volte seguitaste,

Siate ora benvenuti al letto insanguinato

O alla vittoria!

Lo ascoltai appena, perché stavo cercando di seguire quello che succedeva contemporaneamente dentro alla mia testa. Sapevo che era semplicemente suggestione post-ipnotica, e ricordavo addirittura la seduta, là nel Missouri, in cui me l’avevano imposta: ma questo non serviva a renderla meno impellente. La mia mente vacillava, sotto il peso dei fortissimi pseudo-ricordi: i taurani, grandi grossi e irsuti (completamente diversi da quel che, adesso, sapevamo fossero in realtà) che andavano all’arrembaggio di un’astronave dei coloni, e trangugiavano vivi i bambini piccoli, mentre le madri assistevano, urlando di terrore (i coloni non portavano mai con sé i bambini piccoli, che non avrebbero resistito all’accelerazione), e poi violentavano le donne, causandone la morte, con gli enormi falli purpurei e venati (era ridicolo che potessero provare desiderio per esseri umani), abbrancavano gli uomini e strappavano brani di carne dai loro corpi ancora vivi e li inghiottivano (come se potessero assimilare le proteine aliene)… cento dettagli macabri e orrendi, ricordati nitidamente come gli eventi di un attimo prima, ridicolmente esagerati e assurdi dal punto di vista logico. Ma mentre la mia mente conscia rifiutava quelle sciocchezze, molto più in fondo, nell’animale addormentato in cui custodiamo le nostre vere motivazioni e la nostra morale, qualcosa provava sete del sangue alieno, nella certa convinzione che la cosa più grande che un uomo potesse fare era quella di morire uccidendo uno di quegli orribili mostri…

Sapevo che erano tutte stronzate, e maledicevo gli uomini che si erano presi delle libertà tanto oscene con la mia mente, ma intanto digrignavo i denti e mi sentivo le guance immobilizzate in un ghigno spastico, nella bramosia del sangue… Un orsacchiotto mi venne davanti: sembrava frastornato. Feci per alzare il mio dito laser, ma qualcun altro mi batté sul tempo: la testa dell’essere esplose in una nuvola di schegge d’osso grigio e di sangue.

Lucky gemette, lamentosamente: — Sporchi… luridi, bastardi, fottuti. — I laser lampeggiarono, incrociandosi, e tutti gli orsacchiotti caddero morti.

— State attenti, maledizione — urlò Cortez. — Mirate a quei cosi fottuti… non sono giocattoli!

"Squadra A, muovetevi… nei crateri, per coprire la B."

Qualcuno aveva cominciato a ridere e a singhiozzare. — Che cazzo ti è preso, Petrov? - Era strano sentire Cortez usare quel tono.

Mi girai su me stesso e vidi Petrov, dietro di me e sulla mia sinistra: giaceva in una buca poco profonda, e scavava freneticamente con tutte e due le mani, gridando e gorgogliando.

— Merda! — disse Cortez. — Squadra B! Dieci metri oltre i crateri, mettetevi giù, e in fila. Squadra C… nei crateri insieme alla A.

Mi alzai e coprii quei cento metri in dodici balzi amplificati. I crateri, in pratica, erano abbastanza grandi per nasconderci un ricognitore: avevano diametro d’una decina di metri. Balzai verso il fianco opposto della buca e atterrai accanto a un tale che si chiamava Chin. Non girò neanche la testa quando io atterrai, e continuò a scrutare la base, in cerca di qualche segno di vita.

— Squadra A… dieci metri più avanti della Squadra B, giù in fila. — Mentre Cortez finiva di dare l’ordine, l’edificio davanti a noi ruttò, e una quantità di bolle ne uscì, spargendosi a ventaglio verso le nostre linee. Quasi tutti le videro arrivare e si buttarono giù: ma Chin si stava alzando proprio in quel momento per correre avanti, cosicché andò a sbattere contro una di esse.

La bolla gli sfiorò la parte superiore dell’elmo e scomparve con un lieve schiocco. Chin arretrò di un passo e cadde riverso oltre l’orlo del cratere, lasciando dietro di sé un arco di sangue e di materia cerebrale. Privo di vita, a braccia aperte, scivolò in fondo al pendio, scavando il terriccio col buco perfettamente simmetrico, dove la bolla aveva indiscriminatamente portato via plastica, capelli, pelle, osso e cervello.

— Fermi tutti. Comandanti dei plotoni, riferite le perdite… ricevuto… ricevuto, ricevuto… ricevuto, ricevuto, ricevuto… ricevuto. Ci sono tre morti. Non ce ne sarebbe stato neanche uno se foste stati giù. Quindi, tutti a terra, quando sentite che quella roba parte. Squadra A, completare l’avanzata.

Quelli completarono la manovra senza alcun incidente. — Okay. Squadra C, correre dove stava… Fermi tutti! Giù!

Eravamo già tutti quanti schiacciati a terra. Le bolle passarono oltre, in un arco regolare, a circa due metri dal suolo. Passarono tranquillamente sopra le nostre teste e, a parte una che trasformò un albero in un mucchio di stuzzicadenti, scomparvero in lontananza.

— B, correte più avanti della A di dieci metri. C, prendete il posto della B. Granatieri B, vedete se riuscite a beccare il Fiore.

Due granate straziarono il terreno a trenta o quaranta metri dalla struttura. In una buona imitazione del panico, quella cominciò a eruttare un fiume ininterrotto di bolle… Comunque, nessuna passò a meno di due metri dal suolo. Noi ce ne stavamo curvi, aggobbiti, e continuavamo ad avanzare.

All’improvviso, una crepa apparve nell’edificio e si allargò, fino a raggiungere le dimensioni di una grossa porta. I taurani ne uscirono brulicando.

— Granatieri, cessate il fuoco. Squadra B, fuoco laser a sinistra e a destra… impedite che si disperdano. A e C, avanzare al centro.

Un taurano morì cercando di passare a corsa attraverso un raggio laser. Gli altri restarono dov’erano.

Quando si indossa uno scafandro, è molto difficile correre e nello stesso tempo tenere giù la testa. Bisogna andare da una parte all’altra, come un pattinatore che comincia l’esercizio; altrimenti finisci in volo. Almeno uno dei nostri, qualcuno della Squadra A, balzò troppo in alto e fece la stessa fine di Chin.

Mi sentivo molto intrappolato e bloccato, con una muraglia di fuoco laser da ogni parte e un soffitto basso che significava morte certa. Ma nonostante tutto mi sentivo felice, euforico, perché avevo finalmente la possibilità di uccidere qualcuno di quei perversi mangiabambini. E sapendo che erano tutte balle.

I taurani non opponevano una vera resistenza, a parte le bolle, che del resto erano abbastanza inefficaci, ed evidentemente non erano state ideate come armi antiuomo; e non si ritiravano neppure nell’edificio. Si aggiravano mulinando, ed erano all’incirca un centinaio; ci guardavano avvicinarci. Sarebbe bastato un paio di granate per farli fuori tutti, ma credo che Cortez ci tenesse a prendere un prigioniero.

— Okay, quando dico "via", ci porteremo sui loro fianchi. La Squadra B cesserà il fuoco… Il Secondo e il Quarto plotone a destra, il Sesto e il Settimo a sinistra. La Squadra B marcerà in avanti, in riga, per chiuderli dentro… Via!"

Noi ci lanciammo verso sinistra. Non appena il fuoco del laser cessò, i taurani partirono, correndo in gruppo su una rotta di collisione con il nostro fianco.

— Squadra A, a terra e sparate! Non tirate fino a quando non siete sicuri della mira… se sbagliate potreste uccidere uno dei nostri. E per Dio, salvatemene uno!

Era uno spettacolo terrificante, quell’orda di mostri che veniva verso di noi. Correvano a grandi balzi — le bolle li schivavano — ed erano tutti eguali a quello che avevamo visto volare, prima, sul manico di scopa: tutti nudi, e protetti da una sfera semitrasparente che avvolgeva il loro corpo e si muoveva insieme a loro. L’ala destra cominciò a sparare, mirando agli individui che si trovavano alla retroguardia del branco.

Improvvisamente un raggio laser sfolgorò attraverso i taurani, dall’altra parte: qualcuno aveva mancato il bersaglio. Ci fu un urlo orribile, e io guardai in fondo alla riga: vidi qualcuno, mi pare fosse Perry, che si contorceva per terra, con la mano destra stretta sul moncherino fumante del braccio sinistro, tranciato appena sotto il gomito. Il sangue gli colava fra le dita, e lo scafandro, con i circuiti mimetici scombinati, continuava a passare dal nero al bianco alla giungla al deserto al verde al grigio. Non so per quanto tempo continuai a guardare — il tempo sufficiente perché il medico si precipitasse accanto a lui per prestargli soccorso — ma quando rialzai gli occhi, i taurani mi erano quasi addosso.

Il mio primo tiro fu a casaccio, troppo alto, ma sfiorò la parte superiore della bolla protettiva del primo taurano. La bolla scomparve e il mostro incespicò e cadde a terra, sussultando spasmodicamente. Dal foro della bocca gli uscì una schiuma, prima bianca, poi striata di rosso. Con un ultimo sussulto si irrigidì e si contorse rovesciandosi all’indietro, quasi a ferro di cavallo. Il suo lungo urlo, un sibilo acutissimo, si interruppe quando i suoi camerati lo calpestarono, passandogli sopra. Detestai me stesso per il mio sorriso.

Fu un massacro, sebbene la nostra ala fosse numericamente inferiore: uno contro cinque. I taurani continuavano a venire avanti senza esitare, anche quando dovevano superare la barriera di corpi e di pezzi di corpi che si accumulava, parallela al nostro fianco. Il suolo, in mezzo, era viscido di sangue taurano — tutti i figli di Dio hanno l’emoglobina — e come era avvenuto nel caso degli orsacchiotti, le loro viscere sembravano proprio viscere, al mio occhio inesperto. Il mio elmo riverberava di una risata isterica, mentre li facevamo a pezzi sanguinolenti, e quasi non sentii Cortez gridare.

— Cessate il fuoco… ho detto cessate il fuoco! Maledizione! Catturate un paio di quei bastardi, non possono farvi niente.

Smisi di sparare e feci quello che fecero tutti gli altri. Quando il primo taurano scavalcò il mucchio fumante di carne davanti a me, mi tuffai per placcarlo, per abbrancargli le gambe esili.

Era come abbracciare un grande pallone viscido. Quando cercai di trascinare il taurano a terra, schizzò fuori dalle mie braccia e continuò a correre.

Riuscimmo a fermarne uno, ricorrendo al semplice espediente di ammucchiare sopra di lui mezza dozzina di persone. Nel frattempo gli altri avevano attraversato di corsa il nostro fronte, ed erano diretti verso la fila di grandi serbatoi cilindrici che, come aveva detto Cortez, erano probabilmente magazzini. Alla base di ognuno di essi si era aperta una porticina.

— Il nostro prigioniero l’abbiamo preso - urlò Cortez. — Uccidete!

I taurani erano a cinquanta metri da noi e correvano forte: erano bersagli difficili. I laser si avventarono intorno a loro, guizzando alti e bassi. Uno cadde tagliato in due, ma gli altri, una decina, continuarono a correre, e arrivarono quasi alle porticine prima che i granatieri cominciassero a sparare.

I lanciagranate erano ancora carichi di bombe a 500 microtoni, ma bisognava centrare in pieno i taurani: lo spostamento d’aria sarebbe servito soltanto a farli volar via, illesi dentro le loro bolle.

— Gli edifici! Fate fuori quei fottuti edifici! — I granatieri alzarono la mira e spararono, ma le bombe riuscirono soltanto a bruciacchiare l’esterno candido delle strutture, fino a quando, per caso, una finì dentro a una porta. L’edificio si spaccò nettamente: le due metà schizzarono via, e una nube di macchinari volò in aria, accompagnata da un’immensa fiamma pallida che si increspò e scomparve in un istante. Poi tutti gli altri mirarono alle porte, eccettuato un po’ di tiro a segno contro alcuni taurani, non tanto per colpirli quanto per tenerli lontani e impedire che entrassero. Sembrava che avessero una fretta maledetta.

Nel frattempo, noi cercavamo di centrare i taurani con i laser, mentre quelli correvano a zig-zag e spiccavano balzi, cercando di entrare negli edifici. Avanzammo, stringendoci attorno a loro per quanto ci era possibile senza correre il rischio di venir colpiti dalle granate: tuttavia eravamo ancora troppo lontani per poter mirare bene.

Comunque, li stavamo centrando uno dopo l’altro, e riuscimmo a distruggere quattro dei sette edifici. Poi, quando erano rimasti due alieni soltanto, l’esplosione ravvicinata di una granata ne scaraventò uno a pochi metri dalla porta. Quello si buttò dentro, e parecchi granatieri spararono le loro salve contro di lui: ma mirarono troppo corto oppure le granate esplosero senza far danni contro i fianchi della struttura. Le bombe cadevano tutto intorno, facendo un frastuono infernale, ma all’improvviso il baccano venne sommerso da un grande sospiro, come se un gigante stesse inalando l’aria: e dove prima c’era l’edificio adesso c’era una densa nube cilindrica di fumo che rimpiccioliva nella stratosfera, diritta come se fosse stata tracciata con la riga. L’altro taurano si era trovato esattamente alla base del cilindro: vedevo i pezzi del suo corpo che volavano. Un secondo più tardi, lo spostamento d’aria ci investì: rotolai irresistibilmente, come una girandola, andai a sbattere contro il mucchio di taurani morti e ruzzolai dall’altra parte.

Mi rimisi in piedi e per un secondo fui preda del panico, quando vidi che il mio scafandro era coperto di sangue… Quando mi resi conto che era sangue alieno, mi tranquillizzai: ma continuai a sentirmi immondo.

— Prendete quel bastardo! Prendetelo! - In quella confusione, il taurano prigioniero si era liberato e adesso correva verso l’erba folta. Un plotone s’era lanciato all’inseguimento, e perdeva terreno: ma poi arrivarono correndo tutti quelli della Squadra B e gli tagliarono la strada. Mi avviai anch’io, a balzelloni, per prendere parte al divertimento.

Aveva quattro dei nostri addosso, e intorno c’era un cerchio d’una cinquantina di persone che assistevano alla lotta.

— Disperdetevi, maledizione! Potrebbero essercene altri mille che non aspettano altro che di vederci concentrati in un posto solo. Ci disperdemmo, brontolando. Ma intimamente eravamo sicuri che non ci fossero altri taurani vivi su tutta la faccia del pianeta.

Cortez si avvicinò al prigioniero, mentre io indietreggiavo. All’improvviso i quattro uomini crollarono in mucchio addosso a quell’essere… Persino dalla distanza a cui mi trovavo, riuscii a vedere la schiuma che gli usciva dal foro della bocca. La sua bolla era scoppiata. Suicidio.

— Accidenti! — Cortez era arrivato lì. — Levatevi da quel bastardo. — I quattro uomini si rialzarono e si scostarono, e Cortez, con il laser, affettò il mostro in una dozzina di brandelli frementi. Uno spettacolo consolante.

— Non importa, tanto ne troveremo un altro… Riprendete tutti la formazione a punta di freccia! Andiamo all’assalto del Fiore.

Bene, assaltammo il Fiore, che evidentemente era rimasto senza munizioni (stava ancora ruttando, ma non ne usciva più neanche una bolla), ed era vuoto. Corremmo avanti e indietro per rampe e corridoi, con il dito laser puntato, come bambini che giocassero ai soldati. Non c’era nessuno.

La stessa mancanza di reazione la trovammo anche nell’installazione dell’antenna, il "Salame", e in venti altri edifici principali, e nelle quarantaquattro baracche perimetrali ancora intatte. Dunque: avevamo conquistato dozzine di edifici, quasi tutti adibiti a funzioni incomprensibili, ma non avevamo realizzato la nostra missione principale, che consisteva nel catturare un taurano perché gli xenologi potessero divertirsi a fare esperimenti. Oh, be’, potevano prendersi tutti i pezzi e i frammenti che volevano. Era già qualcosa.

Quando avemmo finito di rastrellare l’ultimo centimetro quadrato della base arrivò un ricognitore con il vero gruppo esplorativo, formato da scienziati. Cortez disse: — Bene, finiamola — e l’ossessione ipnotica svanì.

All’inizio fu molto brutto. Parecchi dei nostri, come Lucky e Marygay, quasi impazzirono per il ricordo del massacro moltiplicato per cento. Cortez ordinò a tutti di prendere una compressa di sedativo: due per i più sconvolti. Io ne presi due senza bisogno che mi venisse ordinato specificamente.

Era stato effettivamente un massacro, un macello indiscriminato… dopo che avevamo messo fuori uso l’arma antiastronave, non avevamo più corso il minimo pericolo. I taurani non sembravano avere la più vaga concezione del combattimento individuale. Noi ci eravamo limitati a imbrancarli come bestiame e a macellarli: e quello era stato il primo incontro tra l’umanità e un’altra specie intelligente. O magari era stato il secondo incontro, contando anche gli orsacchiotti. Che cosa sarebbe potuto accadere, se ci fossimo messi tranquilli e avessimo cercato di comunicare? Ma avevamo ricevuto tutti lo stesso trattamento.

Dopo quell’episodio, trascorsi molto tempo cercando di convincermi che non ero stato io colui che aveva fatto così allegramente a pezzi quegli esseri terrorizzati e in fuga. Nel Ventesimo secolo, avevano stabilito, tra la soddisfazione generale, che la frase: "Io ho solo eseguito gli ordini" non costituiva una giustificazione adeguata per una condotta disumana… Ma che cosa puoi fare, quando gli ordini provengono da quel burattinaio che è l’inconscio?

La cosa peggiore era l’impressione che forse le mie azioni non erano poi tanto inumane. Solo poche generazioni prima, i miei antenati avrebbero fatto la stessa cosa, anche ai loro simili, senza bisogno del condizionamento ipnotico.

Ero schifato della specie umana, schifato dell’esercito e inorridito alla prospettiva di dovere vivere con me stesso per un altro secolo o giù di lì… comunque, c’era sempre il lavaggio del cervello.

Un’astronave con l’unico taurano superstite era riuscita a fuggire, perché la massa del pianeta l’aveva riparata dal fuoco dell’Earth’s Hope mentre si precipitava nel campo della collapsar Aleph. Era corso a casa, pensavo, dovunque fosse, a riferire quello che potevano fare venti uomini con le armi portatili, a cento esseri che fuggivano a piedi, disarmati.

Sospettavo che, la prima volta che gli umani avrebbero incontrato i taurani in un combattimento a terra, avrebbero incontrato una resistenza di tipo ben diverso. E non mi sbagliavo.

PARTE SECONDA

Sergente Mandella

(2007-2024 d.C.)

16

Paura? Oh, sì, avevo paura… e chi non l’avrebbe avuta? Solo uno sciocco, un suicida o un robot. O un ufficiale di carriera.

Il vicemaggiore Stott camminava avanti e indietro, dietro al piccolo podio nella sala assemblea-mensa-palestra dell’Anniversary. Avevamo fatto il nostro balzo finale da collapsar a collapsar, da Tet-38 a Yod-4. Stavamo decelerando a una gravità e mezzo, e la nostra velocità relativa, rispetto a quella collapsar, era piuttosto rispettabile: 0,90 c. Ci stavano inseguendo.

— Vorrei che vi decideste a rilassarvi un momento e a fidarvi del computer dell’astronave. Il vascello taurano, comunque, non arriverà a tiro per altre due settimane e se continuerete a tremare per due settimane, né voi né i vostri uomini sarete in condizioni di combattere quando verrà il momento. La paura è una malattia contagiosa. Mandella!

Stava sempre attento a chiamarmi "Sergente" Mandella davanti alla compagnia. Ma tutti i presenti a quella riunione erano comandanti di squadra o più: non c’era neanche un soldato semplice in tutto il mazzo. Perciò lasciava perdere i gradi. — Sì, signore.

— Mandella, lei è responsabile dell’efficienza psicologica e non soltanto fisica degli uomini e delle donne della sua squadra. Presumendo che fosse conscio del problema del morale a bordo di questa astronave, e presumendo anche che la sua squadra non sia immune… lei che cosa ha fatto?

— Per quanto riguarda la mia squadra, signore?

Mi fissò per un istante interminabile. — Certo.

— Ne abbiamo parlato, signore.

— E siete arrivati a qualche conclusione sensazionale?

— Con tutto il rispetto, signore, credo che il problema principale sia evidente. I miei sono chiusi in questa nave, diavolo, come tutti quanti, da quattordici…

— Ridicolo. Ciascuno di noi è stato adeguatamente condizionato contro le pressioni del sovraffollamento, e gli uomini arruolati hanno il privilegio di fraternizzare. — Era un modo molto delicato di dirlo. — Gli ufficiali devono osservare l’astinenza, eppure noi non abbiamo il problema del morale.

Se pensava davvero che i suoi ufficiali osservassero l’astinenza, avrebbe fatto meglio a fare una lunga chiacchierata con il tenente Harmony. Ma forse lui intendeva se stesso e Cortez. Aveva ragione al cinquanta per cento, probabilmente. Cortez era piuttosto amico del caporale Kamehameha.

— I terapeuti hanno rafforzato il vostro condizionamento a questo riguardo — continuò Stottf — mentre lavoravano per cancellare il condizionamento all’odio… tutti sanno la mia opinione al riguardo… e magari hanno ordini discutibili, ma sono esperti.

"Caporale Potter. — La chiamò con il grado per ricordare a tutti la ragione per cui non era stata promossa come gli altri. Troppo tenera. — Ne hai "parlato" anche tu con i tuoi?"

— Ne abbiamo discusso, signore.

Il vicemaggiore era capace di lanciare "occhiatacce miti" alla gente. Lanciò occhiatacce miti a Marygay fino a quando lei si decise a continuare.

— Non credo che il sergente Mandella giudicasse imperfetto il condiz…

— Il sergente Mandella è capace di parlare da solo. Voglio la tua opinione. Le tue osservazioni. — Lo disse in modo da far capire che non le voleva affatto.

— Ecco, neanch’io credo che il difetto stia nel condizionamento, signore. Non abbiamo difficoltà a vivere insieme. E che tutti sono spazientiti, stanchi di continuare a fare le stesse cose, da settimane e settimane.

— Allora sono ansiosi di combattere? — Non c’era sarcasmo, nella sua voce.

— Vogliono uscire dall’astronave, signore, uscire dalla routine.

— E usciranno dall’astronave — disse Stott, concedendosi un sorrisetto meccanico. — E allora probabilmente saranno altrettanto impazienti di ritornarci.

Continuò su questo tono, tra botta e risposta, per un bel pezzo. Nessuno se la sentiva di tradurre in parole il fatto fondamentale che i nostri, uomini e donne, avevano avuto a disposizione più di un anno per rimuginare sulla futura battaglia, e potevano diventare solo più apprensivi. E adesso c’era un incrociatore taurano che ci seguiva, e accorciava le distanze… avremmo dovuto affrontarlo prima che mancasse un mese all’assalto al suolo.

Già la prospettiva di arrivare al pianeta portale e di giocare ai soldati era abbastanza brutta. Ma almeno hai una possibilità di influenzare la tua sorte, in un combattimento al suolo. Ma quello schifo di starsene seduti dentro a un guscio, a far parte del bersaglio, mentre l’Anniversary giocava una partita matematica con l’astronave taurana… Essere vivo un nanosecondo e morto un nanosecondo dopo, perché qualcuno ha sbagliato a sistemare il trentesimo decimale… quello mi dava fastidio. Ma provare a dirlo a Stott? Alla fine, dovetti ammettere che non stava facendo la scena. Non riusciva proprio a capire che differenza ci fosse tra la paura e la vigliaccheria. E il fatto che fosse stato appositamente condizionato ad adottare quel punto di vista (e ne dubitavo), o che fosse soltanto matto, e basta, non aveva importanza.

Adesso stava tenendo Ching sui carboni accesi, la solita vecchia scena. Io gualcivo tra le dita l’organigramma che ci aveva consegnato.

Conoscevo quasi tutti i reduci del massacro di Aleph. Nel mio plotone, gli unici nuovi erano Demy, Luthuli e Heyrovsky. Nella compagnia (scusatemi, la "Forza d’Attacco") avevano complessivamente venti rincalzi per i diciannove che avevano perduto nell’incursione su Aleph. Un’amputazione, quattro morti e quattordici psicopatici, vittime di un condizionamento troppo zelante all’odio.

Non riuscivo a mandare giù quel "20 mar 2007" in fondo all’organigramma. Ero nell’esercito da dieci anni, sebbene soggettivamente sembrassero meno di due. La dilatazione temporale, è chiaro. Anche con i balzi tra le collapsar, viaggiare da stella a stella divora il calendario.

Dopo questa incursione, probabilmente avrei potuto congedarmi e farmi mettere in pensione a paga piena… se fossi sopravvissuto all’incursione, e se non avessero cambiato i regolamenti a nostro danno. Veterano con vent’anni di servizio, e venticinque anni di età.

Stott era arrivato alla conclusione quando bussarono alla porta: un colpo solo e molto forte. — Avanti — disse lui.

Un guardiamarina che conoscevo di vista entrò con fare disinvolto e consegnò a Stott un foglio di carta senza dire una parola. Restò lì mentre Stott leggeva, insaccandosi giusto con l’esatta misura di insolenza. Tecnicamente, Stott non faceva parte della gerarchia cui lui apparteneva; e del resto, nella Marina, Stott era antipatico a tutti.

Stott restituì il foglio al guardiamarina e lo fissò senza guardarlo.

— Avvertite le vostre squadre che le manovre evasive preliminari avranno inizio alle 2010, tra cinquantotto minuti. — Non aveva guardato l’orologio. — Per le 2000 tutti dovranno essere nei gusci antiaccelerazione. At-tenti!

Ci alzammo e, senza entusiasmo, scandimmo in coro: — Fatti fottere, signore. — Ci sentimmo molto idioti.

Stott uscì dalla sala a grandi passi. Il guardiamarina gli andava dietro, con un sorrisetto maligno.

Girai l’anello sulla posizione 4, il canale del mio vicecomandante di squadra, e dissi: — Tate, qui Mandella. — Nella sala, tutti gli altri facevano come me.

Dall’anello uscì una voce metallica. — Qui Tate. Cosa succede?

— Chiama gli uomini e digli che dobbiamo essere nei gusci per le 2000. Manovre evasive.

— Merda. Ci avevano detto che mancavano ancora parecchi giorni.

— Penso che sia capitato qualcosa di nuovo. Forse il commodoro ha avuto un’idea brillante.

— Il commodoro può ficcarsela dove dico io. Sei su in salone?

— Già.

— Mi porti una tazza quando arrivi, okay? Con un po’ di zucchero.

— Okay. Venite giù tra una mezz’ora.

— Grazie. Comincio a rastrellarli.

C’era un movimento generale in direzione del distributore di soia. Mi misi in fila dietro il caporale Potter.

— Cosa ne dici, Marygay?

— Io sono solo un caporale, sergente. Non mi pagano per…

— Sicuro, sicuro. Ma dicevo sul serio.

— Be’, non è necessario che sia una faccenda molto complicata. Magari il commodoro vuole semplicemente che proviamo di nuovo i gusci.

— Ancora una volta, prima di quella buona.

— Uhm-uhm. Forse. — Lei prese una tazza e ci soffiò sopra. Aveva un’aria preoccupata; una sottile linea verticale le bisecava lo spazio tra le sopracciglia. — O magari i taurani avevano già un’astronave che ci aspettava da queste parti. Mi sono chiesta spesso perché non fanno come facciamo noi a Stargate.

Scrollai le spalle. — Stargate è un’altra faccenda. Ci vogliono sette o otto incrociatori in movimento continuo, per coprire gli angoli d’uscita più probabili. Noi non possiamo permetterci di coprire più di una collapsar, e non possono permetterselo neanche loro.

— Non lo so. — Marygay non disse più niente, mentre riempiva la tazza. — Magari siamo andati a finire nel loro equivalente di Stargate. O magari hanno dieci volte più astronavi di noi. O cento volte. Chi lo sa?

Io riempii e zuccherai due tazze e ne tappai una. — Impossibile saperlo. — Tornammo a uno dei tavoli, stando attenti alla soia, che nell’alta gravità tendeva a schizzare via.

— Forse Singhe sa qualcosa — disse lei.

— Forse sì. Ma per arrivare fino a lui dovrei passare attraverso la Rogers e Cortez. E Cortez mi salterebbe alla gola, se provassi a disturbarlo in questo momento.

— Oh, io a Singhe posso arrivarci direttamente. Noi… — Mi guardò con aria molto seria, mentre le spuntava qualche fossetta. Noi abbiamo fatto amicizia.

Sorseggiai un po’ di soia bollente e cercai di darmi un tono indifferente. — È per questo che sei sparita mercoledì notte?

— Dovrei controllare il mio elenco — disse Marygay, e sorrise. — Mi pare che lui sia il lunedì, mercoledì e venerdì nei mesi con la erre. Perché? Disapprovi?

— Be’… accidenti, no, naturalmente no. Ma… ma lui è un ufficiale! Un ufficiale di Marina!

— È distaccato presso di noi, e quindi fa parte dell’esercito. Marygay girò l’anello e disse: — Elenco. — E a me: — E tu e la piccola, graziosa Miss Harmony?

— Non è la stessa cosa. — lei bisbigliava nell’anello un numero.

— Sì che lo è. Ci tenevi a farlo con un ufficiale. Depravato. — L’anello belò due volte. Occupato. — Com’è?

— Discreta. — Cominciavo a riprendermi.

— E poi, il guardiamarina Singhe è un perfetto gentiluomo. E per nulla geloso.

— Non lo sono neanch’io — dissi. — Se mai ti facesse soffrire, dimmelo, e gli spaccherò il gnigno.

Lei mi sorrise, al di sopra della tazza. — Se il tenente Harmony facesse soffrire te, dimmelo e le spaccherò il grugno io.

— D’accordo. — Ci stringemmo solennemente la mano.

17

I gusci antiaccelerazione erano una novità, installata mentre noi riposavamo e facevamo rifornimento a Stargate. Ci consentivano di utilizzare la nave a livelli più vicini a quelli della sua efficienza teorica, quando il motore a tachioni la lanciava ad un’accelerazione superiore alle venticinque gravità.

Tate mi stava aspettando nel vano gusci. Gli altri della squadra giravano qua e là, parlando. Gli diedi la sua soia.

— Grazie. Scoperto qualcosa?

— Purtroppo no. Solo che quelli della Marina non sembrano spaventati, e questo è il loro show. Probabilmente è solo un’esercitazione.

Tate ingollò un po’ di soia. — Diavolo. Per noi comunque è lo stesso. Startene lì seduto a farti schiacciare fin quando sei mezzo morto. Dio, come odio queste cose.

— Oh, non lo so. Potrebbero servire a rendere obsoleta la fanteria, e allora potremmo tornarcene tutti a casa.

— Sicuro. — Arrivò il medico e mi fece l’iniezione.

Attesi fino alle 1950 e poi urlai alla squadra: — Andiamo. Spogliatevi ed entrate nei gusci.

Il guscio somiglia a una tuta spaziale flessibile. Almeno, all’interno è fatto in modo molto simile. Ma invece della piccola unità ambiente, c’è un tubo che entra in cima all’elmo e due che escono dai calcagni, oltre ai due tubi di evacuazione. I gusci sono sistemati a contatto di gomito su leggere cuccette antiaccelerazione: arrivare al tuo è un po’ come muoverti su un gigantesco piatto di spaghetti color oliva.

Quando le spie nel mio elmo mi indicarono che tutti erano nel guscio, premetti il pulsante per allagare il vano. Non potevo vederla, naturalmente, ma immaginavo la soluzione celeste — glicole etilenico e qualcosa d’altro — che saliva schiumando attorno a noi e sopra di noi. Il materiale della tuta, fresco e asciutto, si afflosciò, toccando ogni punto della mia pelle. Sapevo che la mia pressione interna saliva rapidamente per controbilanciare la crescente pressione esterna del fluido. L’iniezione serve proprio a quello: a impedire alle cellule di finire spiaccicate tra il diavolo e il pallido mare azzurro. Però lo sentivi egualmente. Quando il mio manometro indicò 2 (pressione esterna equivalente a una colonna d’acqua della profondità di due miglia nautiche), mi sentivo nello stesso tempo stritolato e gonfio. Alle 2005 la gravità era arrivata a 2,7 e non aumentava. Quando cominciarono le manovre, alle 2010, non sentii la differenza, ma mi sembrò di vedere l’ago che fluttuava un pochino, e mi chiesi quale accelerazione ci volesse per causare quello scondinzolio appena visibile.

Il difetto più grave del sistema è che, ovviamente, chiunque venisse sorpreso fuori del guscio quando l’Anniversary arriva a venticinque gravità si trasformerebbe in marmellata di fragole. Perciò a pilotare e a combattere deve provvedere il computer tattico dell’astronave… che del resto provvede sempre a fare quasi tutto: però è simpatico avere un sovrintendente umano.

Un altro piccolo problema è che, se l’astronave viene danneggiata e la pressione cade, tu esplodi come un melone scaraventato per terra. Se quella che cede è la pressione interna, muori schiacciato in un microsecondo.

Ci vogliono dieci minuti, più o meno, per depressurizzarsi, e altri due o tre per districarti e rivestirti. Non è che tu possa saltare in piedi e cominciare subito a combattere. Solo quattro persone conservano un minimo di mobilità mentre tutti gli altri sono prigionieri dei gusci: quelli della Squadra manutenzione dell’astronave. In pratica, si portano in giro l’intero apparato della camera d’accelerazione, e le loro tute sono veicoli da venti tonnellate. E persino loro devono starsene fermi in un posto, mentre la nave fa manovra.

L’accelerazione finì alle 2038. Si accese una luce verde e con un colpo di mento premetti il pulsante per depressurizzare.

Marygay e io ci stavamo vestendo. I fumi residui del fluido pressurizzante mi davano uno sgradevole senso di vertigine e un po’ di nausea.

— Com’è successo? — Indicai una striatura d’un violaceo acceso che le andava dal seno destro all’anca sinistra.

— È la seconda volta — disse Marygay, pizzicandosi rabbiosamente la pelle. — La prima è stata alla schiena… credo che il guscio non mi aderisca bene: fa le grinze.

— Forse sei dimagrita.

— Che furbo.

Da quando ci avevano adattato gli scafandri, a Stargate, l’assunzione di calorie e gli esercizi fisici erano stati rigorosamente controllati. Non si può usare uno scafandro da combattimento se la sensorpelle, all’interno, non aderisce come uno strato d’olio.

Un altoparlante soffocò il resto dei commenti di Marygay. "A tutto il personale. Attenzione… Tutto il personale dell’esercito, dal grado 6 in su e tutto il personale della marina dal grado 4 in su si presentino in sala istruzioni alle 2130. Attenzione…".

Ripeté la comunicazione due volte. Io andai a sdraiarmi per qualche minuto, mentre Marygay mostrava il livido, nonché il resto della sua persona, al medico e all’armiere. Per la cronaca, non mi sentivo minimamente geloso.

Il commodoro cominciò a parlare. — Non c’è molto da dire, e quel che c’è da dire non è molto divertente.

"Sei giorni fa, il vascello taurano che ci insegue ha lanciato un missile automatico. L’accelerazione iniziale era dell’ordine di ottanta gravità. — Fece una pausa. — Dopo aver proseguito per circa un giorno, ha portato l’accelerazione, improvvisamente, a centoquarantotto gravità. — Gemito collettivo. — Ieri, altro balzo, a 203 gravità. È superfluo aggiungere che è un’accelerazione doppia rispetto a quella dei missili nemici in occasione del nostro ultimo scontro.

"Abbiamo lanciato una salva di missili automatici, quattro, per intersecare quelle che il computer ha previsto essere le quattro più probabili traiettorie future del missile nemico. Uno l’ha azzeccata, mentre noi stavamo effettuando le manovre evasive. Abbiamo stabilito il contatto con l’arma taurana e l’abbiamo distrutta a circa dieci milioni di chilometri da qui."

Praticamente era alla porta accanto. — L’unico dato incoraggiante che abbiamo appreso dal computer è quello rilevato nell’analisi spettroscopica dell’esplosione. Non è stata più potente di quelle osservate in passato, quindi si può dedurre che, se non altro, i loro progressi in fatto di esplosivi non sono paragonabili a quelli in fatto di propulsione. O che forse i taurani non ritenevano necessaria una carica maggiore.

"Questa è la prima manifestazione di un effetto molto importante, che in precedenza aveva interesse solo per i teorici. Dimmi, soldato — fece, puntando il dito verso la Negulesco. — Quanto tempo è passato da quando abbiamo combattuto per la prima volta contro i taurani, ad Aleph?"

— Dipende dal sistema di coordinate — rispose lei, diligentemente. — Per me sono circa otto mesi, commodoro.

— Esattamente. Però voi avete perduto nove anni a causa della dilatazione temporale, mentre manovravamo tra i balzi da collapsar a collapsar. Dal punto di vista tecnologico, poiché non abbiamo effettuato ricerche e sviluppi importanti, durante quel periodo… il vascello nemico viene dal nostro futuro! — Si interruppe per lasciare che la frase facesse l’effetto dovuto.

"Man mano che la guerra continua, questo effetto diverrà sempre più pronunciato. Tuttavia, neppure i taurani hanno modo di rimediare alla relatività, e perciò la cosa tornerà a nostro beneficio più o meno nello stesso numero di casi in cui tornerà a beneficio loro.

"Per il momento, tuttavia, siamo noi a operare in condizioni di svantaggio. E lo svantaggio diventerà sempre più grave via via che l’astronave inseguitrice dei taurani si avvicinerà. Loro possono semplicemente superarci come potenza di fuoco.

"Saremo costretti a ricorrere a schivate folli. Quando arriveremo a cinquecento milioni di chilometri dall’astronave nemica, tutti si infileranno nei gusci e dovremo affidarci al computer logistico, che ci sottoporrà a una rapida serie di cambiamenti randomizzati di direzione e di velocità.

"Sarò molto franco. Finché i taurani dispongono di un missile più di noi, possono finirci. Non ne hanno lanciati altri, dopo il primo. Forse stanno aspettando… — E si asciugò nervosamente la fronte. — O forse ne avevano uno solo. In questo caso, saremo noi a superarli come potenza di fuoco.

"Comunque, tutti dovranno essere nei gusci entro dieci minuti dal segnale. Quando ci troveremo a un miliardo di chilometri dal nemico, voi dovrete mettervi accanto ai rispettivi gusci. Quando saremo a meno di cinquecento milioni di chilometri, voi dovrete esserci dentro, e tutti i compartimenti verranno allagati e pressurizzati. Non potremo stare ad aspettare nessuno.

"Questo è quanto avevo da dire. Vicemaggiore?"

— Parlerò ai miei più tardi, commodoro. Grazie.

— In libertà. — E nessuna di quelle stupidaggini tipo: "Fatti fottere, signore". La Marina le considerava poco dignitose. Ci mettemmo sull’attenti, tutti eccettuato Stott, fino a che il commodoro non fu uscito dalla sala. Poi qualche altro marinaio ripeté: "In libertà" e ce ne andammo. Io andai in sala sottufficiali a cercare un po’ di soia, un po’ di compagnia, e magari anche qualche informazione.

Non sentii altro che ipotesi più o meno oziose, perciò presi la Rogers e andai a letto. Marygay era sparita di nuovo, forse con la speranza di estorcere qualche notizia a Singhe.

18

Il promesso incontro con il vicemaggiore ebbe luogo la mattina dopo. Ripeté più o meno quanto aveva detto il commodoro, nei termini tipici della fanteria e con la sua voce monotona. Mise in risalto il fatto che tutto quello che sapevamo delle forze di terra dei taurani era che, siccome la loro efficienza astronautica era migliorata, era molto probabile che questa volta fossero in grado di tenerci testa meglio dell’ultima volta.

Questo sollevava una questione interessante. Otto mesi (o nove anni) prima, noi avevamo un vantaggio enorme: i taurani sembravano non capire quello che succedeva. Bellicosi com’erano nello spazio, ci eravamo aspettati che al suolo fossero degli autentici unni. Invece, in pratica s’erano messi in fila per farsi scannare. Uno era riuscito a scappare, e presumibilmente aveva descritto ai suoi simili l’idea del combattimento all’antica.

Ma naturalmente questo non significava che la notizia fosse arrivata per forza di cose anche a quelli lì, i taurani che facevano la guardia a Yod-4. L’unico modo a noi noto per comunicare a velocità superiori a quella della luce consiste nel portare fisicamente il messaggio attraverso balzi successivi da collapsar a collapsar. E non c’era modo di sapere quanti balzi ci fossero tra Yod-4 e la base centrale taurana… perciò questi di Yod-4 potevano essere passivi come gli ultimi che avevamo incontrati, sì, ma potevano anche avere fatto esercitazioni tattiche di fanteria per circa un decennio. Lo avremmo scoperto quando fossimo arrivati sul posto.

Io e l’armiere stavamo aiutando la mia squadra a infilare quelli della Manutenzione nei loro scafandri da combattimento, quando passammo il limite dei mille milioni di chilometri e dovemmo correre a metterci in posizione vicino ai gusci.

Avevamo all’incirca cinque ore da far passare prima di doverci infilare nei nostri bozzoli. Io feci una partita a scacchi con Rabi e persi. Poi la Rogers guidò il plotone in una serie di vigorosi esercizi ginnici, probabilmente per far dimenticare la prospettiva di dover stare semischiacciati dentro ai gusci per almeno quattro ore. Al massimo ci eravamo rimasti per due ore soltanto.

Dieci minuti prima di arrivare ai cinquecento milioni di chilometri, noi comandanti di squadra provvedemmo a far ingusciare tutti. Dopo otto minuti eravamo tutti chiusi e allagati, in balia dei capricci del computer logistico… o al sicuro tra le sue braccia, a seconda dell’umore.

Mentre me ne stavo lì supercompresso, un pensiero sciocco si impadronì del mio cervello e continuò a girare e a girare come una corrente elettrica in un superconduttore. Secondo il formalismo militare, la conduzione di una guerra si divide in due precise categorie: tattica e logistica. La logistica deve provvedere a spostare le truppe, a sfamarle e a fare praticamente tutto, tranne combattere, la qual cosa spetta alla tattica. E adesso stavamo combattendo, ma non avevamo un computer tattico a guidarci all’attacco e alla difesa, bensì un enorme, superefficiente, pacifista commesso alimentarista cibernetico, il computer logistico, segnatevi bene questa parola, logistico.

L’altra parte del mio cervello, forse un po’ meno esasperata, ribatteva che non aveva importanza il nome dato a un computer: è un mucchio di cristalli-memoria, di banchi logici, dadi e bulloni… Se lo programmi per essere Ghengis Khan, un computer tattico, anche se il suo compito abituale consiste nel seguire il mercato azionario o controllare la conversione dei rifiuti organici.

Ma l’altra voce era ostinata, e diceva che, in base a quel tipo di ragionamento, un uomo era un ciuffo di capelli e un po’ d’osso e di carne tigliosa: non importa che genere d’uomo è, e se gli insegni a dovere, puoi prendere un monaco zen e trasformarlo in un guerriero assetato di sangue.

E allora cosa diavolo sei tu, cosa siamo noi, cosa sono io, rispose l’altra parte. Uno specialista saldatore a vuoto, amante della pace, insegnante di fisica, arraffato dalla Legge della Coscrizione Elitaria e riprogrammato per diventare una macchina per uccidere. Tu, io ho ucciso, e mi è anche piaciuto.

Ma quella era ipnosi, condizionamento motivazionale, risposi a me stesso. Adesso non lo fanno più.

E l’unica ragione per cui non lo fanno più, dissi io, è che sono convinti che ucciderai meglio senza. È logico.

A proposito di logica, il problema originale era: perché mandano un computer logistico a fare un lavoro da uomo? O qualcosa del genere… e via daccapo.

La luce verde si accese, e io spinsi automaticamente l’interruttore con il mento. La pressione scese a 1,3, e finalmente mi resi conto che voleva dire che eravamo vivi e che avevamo vinto la prima schermaglia.

Avevo ragione solo in parte.

19

Mi stavo allacciando la cintura della tunica quando il mio anello mi fece il solletico, e lo alzai per ascoltare. Era la Rogers.

— Mandella, vai a controllare il vano 3. È successo qualcosa: Dalton ha dovuto depressurizzarlo dalla Centrale.

Il vano 3… era la squadra di Marygay! Mi precipitai nel corridoio a piedi nudi e arrivai sul posto proprio mentre aprivano la porta dall’interno della camera a pressione e cominciavano a uscire sparpagliati.

Il primo a uscire fu Bergman. Lo afferrai per un braccio. — Cosa diavolo succede, Bergman?

— Eh? — Mi guardò, ancora stordito, come tutti quelli che uscivano dalla camera. — Oh, sei tu, Mandella. Non lo so. Cosa intendi dire?

Mi infilai oltre la porta, senza mollarlo. — Siete in ritardo, avete depressurizzato in ritardo. Che cos’è successo?

Egli scrollò la testa per schiarirsela. — In ritardo? Come, in ritardo? In ritardo di quanto?

Guardai il mio orologio, per la prima volta. — Non troppo… Gesù Cristo. — Uh, siamo entrati nei gusci alle 0520, no?

— Sì, credo di sì.

Ancora non vedevo Marygay tra le figure che si muovevano tra le file di cuccette e i grovigli di tubi. — Uhm, eravate in ritardo solo di un paio di minuti… ma dovevamo stare sotto pressione per quattro ore soltanto, magari meno. Sono le 1050.

— Uhm. — Bergman scrollò di nuovo il capo. Lo lasciai, passai di nuovo dalla porta e raggiunsi Stiller e Demy.

— Tutti in ritardo, allora — disse Bergman. — Quindi non ci sono difficoltà.

— Uh… — Inutile insistere. — Giusto, giusto… Ehi, Stiller! Hai visto…

Dall’interno: — Medico! Medico!

Stava uscendo qualcuna che non era Marygay. La spinsi bruscamente da parte, mi tuffai oltre la porta, andai a sbattere contro qualcuno e raggiunsi Struve, l’assistente di Marygay, che stava accanto a un bozzolo e parlava, forte e in tono concitato, nel suo anello.

— … e sangue Dio sì che ne abbiamo bisogno…

Era Marygay ancora distesa dentro al guscio ed era…

— … ho sentivo da Dalton…

… coperta da uno strato uniforme e lucente di sangue su ogni centimetro quadrato…

— … quando lei non è uscita…

… cominciava con un grosso livido in alto vicino alla clavicola e continuava giù tra i seni fino a quando superava il sostegno dello sterno…

— … mi sono avvicinato e ho aperto…

… e poi si apriva in uno squarcio che diventava più profondo mentre scendeva lungo il ventre e dove si fermava…

— … sì, è ancora…

… pochi centimetri al di sopra del pube sporgeva un cappio di budella ricoperto dalla membrana…

— … okay, anca sinistra. Mandella…

Marygay era ancora viva, il cuore palpitava, ma la testa striata di sangue penzolava inerte, gli occhi erano rivoltati e si vedevano solo due fessure bianche, e bollicine di schiuma rossa apparivano e scoppiavano all’angolo della bocca ogni volta che esalava un respiro fievole.

— … tatuato sull’anca sinistra. Mandella! Svegliati! Girala e guarda qual è il suo gruppo sanguigno…

— Gruppo zero Rh negativo. Dannazione!… Scusa. Zero negativo. — Non avevo visto quel tatuaggio diecimila volte?

Struve comunicò l’informazione e io mi ricordai all’improvviso dell’astuccio del pronto soccorso che portavo alla cintura, lo sganciai e cominciai a frugarlo.

Arrestare l’emorragia… proteggere la ferita… trattamento antishock: era quel che diceva il manuale delle istruzioni. Ne avevo dimenticato uno, dimenticato uno… liberare le vie respiratorie. Lei respirava, se era questo che intendevano. Come si fa ad arrestare l’emorragia o a proteggere la ferita con una miserabile benda a pressione, quando la ferita è lunga quasi un metro? Il trattamento antishock: quello potevo praticarlo. Tirai fuori la fiala verde, gliela appoggiai contro il braccio e premetti il bottone. Poi posai il lato sterile della benda, molto delicatamente, sopra gli intestini esposti, e le passai la fascia elastica sotto la schiena, la regolai su una tensione quasi zero e la fissai.

— Puoi fare qualcosa d’altro? — chiese Struve.

Mi scostai. Mi sentivo impotente. — Non lo so. A te viene in mente qualcosa?

— Non sono un medico più di quanto non lo sia tu. — Guardò la porta e strinse il pugno, gonfiando il bicipite. — Dove diavolo sono? Hai la morph-plex in quell’astuccio?

— Sì, ma qualcuno mi ha detto di non usarla per le lesioni interne…

— William?

Marygay aveva gli occhi aperti, e cercava di alzare la testa. Mi precipitai a tenerla giù. — Tutto a posto, Marygay. Il medico sta arrivando.

— Cosa… tutto a posto? Ho sete. Acqua.

— No, tesoro, non posso darti dell’acqua, per un po’, almeno. Non potevo dargliela, se doveva finire in chirurgia.

— Perché tutto questo sangue? — disse lei con un filo di voce. Lasciò ricadere la testa all’indietro. — Sono stata cattiva.

— Deve essere stata la tuta — dissi io, rapidamente. — Ricordi le grinze, l’altra volta?

Lei scosse il capo. — La tuta? — Impallidì di colpo e vomitò, debolmente. — Acqua… William, per piacere.

Una voce autoritaria, alle mie spalle: — Prendi una spugna o un pezzo di stoffa intriso d’acqua. — Mi voltai e vidi Doc Wilson con due portabarella.

— Il primo mezzo litro femorale — disse, a nessuno in particolare, mentre guardava sotto la benda a pressione. — Segui il tubo d’evacuazione per un paio di metri e taglialo. Vedi se ha passato del sangue.

Uno degli infermieri piantò un ago lungo dieci centimetri nella coscia di Marygay e cominciò a trasfonderle il sangue da un sacco di plastica.

— Scusate il ritardo — disse Doc Wilson con voce stanca. — C’è molta richiesta. Cosa dicevi della tuta?

— La Potter aveva già avuto due lesioni di poco conto. La tuta non aderisce a dovere, sotto l’effetto della pressione fa le grinze.

Quello annuì distrattamente, mentre le controllava la pressione sanguigna. — Qualcuno mi dia… — Qualcuno gli porse un tovagliolo di carta sgocciolante acqua. — Uh, le avete dato qualcosa?

— Una fiala di Anti-shock.

Doc Wilson appallottolò il tovagliolo di carta e lo mise nella mano di Marygay. — Come si chiama? — Glielo dissi.

— Marygay, non possiamo darti dell’acqua da bere, ma puoi succhiare questo. Adesso ti punterò negli occhi una luce intensa.

Mentre le guardava la pupilla chiese: — Temperatura? — e uno della sanità lesse un numero sulla cassetta degli indicatori e ritirò una sonda. — Ha passato sangue?

— Sì. Un po’.

Doc Wilson posò delicatamente la mano sulla benda a pressione. — Marygay, puoi girarti un po’ sul fianco destro?

— Sì — disse lei lentamente, e puntellò il gomito per far leva. No — disse allora, e si mise a piangere.

— Su, su — fece lui distrattamente, e le spinse il fianco, quanto bastava per guardarle la schiena. — Solo una ferita — borbottò. Ma ha perso un sacco di sangue.

Premette due volte il lato del suo anello, e se l’accostò all’orecchio, scuotendolo. — C’è qualcuno a bottega?

— Harrison, a meno che lo abbiano chiamato da qualche parte.

Si avvicinò una donna, e in un primo momento non la riconobbi, così pallida e scarmigliata, con la tunica chiazzata di sangue. Era Estelle Harmony.

Doc Wilson alzò la testa. Altri clienti, dottor Harmony?

— No — fece lei con voce spenta. — L’addetto alla manutenzione aveva una doppia amputazione traumatica. È vissuto solo pochi minuti. Adesso lo tengono artificialmente in funzione per utilizzarne gli organi per i trapianti.

— E tutti gli altri?

— Decompressione esplosiva. — La Harmony fiutò l’aria. — Posso fare qualcosa, qui?

— Sì, un minuto solo. — Doc Wilson riprovò con l’anello. — Dio lo maledica. Sai dov’è Harrison?

— No… be’, forse potrebbe essere in Chirurgia B, se c’è qualche difficoltà a tenere in efficienza il cadavere. Ma credo che sia tutto a posto.

— Già, bene, diavolo se come…

— Finito! — disse l’infermiere con il sacco del sangue.

— Un altro mezzo litro per via femorale — disse Doc Wilson. — Estelle, ti spiace prendere il posto di uno degli infermieri, qui, e preparare la ragazza per la chirurgia?

— No, almeno avrò qualcosa da fare.

— Bene… Hopkins, va’ su a bottega e porta giù una lettiga e un litro, uhm, due litri di fluorocarbonio isotonico con lo spettro primario. Se sono Merck, sopra ci sarà scritto "spettro addominale". Trovò un lembo della manica che non era macchiato di sangue e ci si asciugò la fronte. — Se trovi Harrison, mandalo in Chirurgia A e digli che prepari la sequenza anestetica per un intervento addominale.

— E portiamo la ragazza in Chirurgia A?

— Giusto. Se non riesci a pescare Harrison, di’ a qualcuno.

E puntò il dito nella mia direzione. — Questo qui, per portare su la paziente all’A; tu vai avanti e prepari la sequenza.

Prese la borsa e guardò nel suo interno. — Potremmo cominciare la sequenza già qui — borbottò. — Ma diavolo, senza parametadone… Marygay? Come ti senti? Lei stava ancora piangendo.

— Mi fa… male.

— Lo so — disse Doc Wilson dolcemente. Rifletté per un secondo poi disse a Estelle: — È impossibile stabilire esattamente quanto sangue ha perduto. Può darsi che lo abbia passato sotto la pressione. E ce n’è un po’ che ristagna nella cavità addominale. Dato che è ancora viva, non credo che l’emorragia sotto pressione sia durata molto. Spero che non ci siano lesioni cerebrali.

Toccò il manometro collegato al braccio di Marygay. — Controlla la pressione sanguigna, e se pensi che sia il caso, dalle cinque centimetri cubi di vasocostrittore. Vado a darmi una ripulita.

Doc Wilson chiuse la borsa. — Hai qualche vasocostrittore, oltre alla fiala pneumatica?

Estelle controllò nella sua borsa. — No, solo la fiala d’emergenza… uh… sì, ho il dosaggio controllato sul vasodilatatore.

— Okay, se devi usare il vasocostrittore e la pressione sale troppo in fretta…

— Le do il vasodilatatore a due centimetri cubi per volta.

— Bene. È un sistema da matti, ma… bene. Se non sei troppo stanca, vorrei che mi assistessi nell’operazione, di sopra.

— Sicuro. — Doc Wilson salutò con un cenno del capo e se ne andò.

Estelle cominciò a fare spugnature al ventre di Marygay con alcool isopropilico. Aveva un odore freddo e pulito. — Qualcuno le ha fatto l’Antishock?

— Sì — dissi io. — Circa dieci minuti fa.

— Ah. Ecco perché Doc era preoccupato… no, hai fatto benissimo. Ma l’Antishock contiene un po’ di vasocostrittore. Altri cinque centimetri cubi potrebbero essere una dose eccessiva. — Continuò a pulire, in silenzio, alzando gli occhi quasi continuamente per controllare l’indicatore della pressione sanguigna.

— William? — Era la prima volta che Estelle dava segno di conoscermi. — Questa don… uhm, Marygay, è la tua amante? La tua amante regolare?

— Infatti.

— È molto carina. — Un’osservazione straordinaria: il corpo di Marygay era sventrato e incrostato di sangue, la faccia tutta macchiata, dove io avevo cercato di asciugare le lacrime. Immagino che solo un dottore, una donna o un innamorato fosse capace di vedere oltre tutto questo e di riconoscere la bellezza.

— Sì, davvero. — Marygay aveva smesso di piangere e teneva gli occhi chiusi, mentre succhiava le ultime gocce d’acqua dalla carta appallottolata.

— Posso darle un altro po’ d’acqua?

— Okay, lo stesso di prima. Non troppo.

Andai nel vano degli armadietti a prendere un tovagliolo di carta. Adesso che i fumi del liquido pressurizzante si erano dileguati, potevo sentire l’odore dell’aria. Non era l’odore giusto. Olio da macchina e metallo bruciato, come l’odore di un’officina per la lavorazione dei metalli. Pensai che avessero sovraccaricato il condizionatore dell’aria. Era già successo, la prima volta che avevano usato le camere antiaccelerazione.

Marygay prese l’acqua senza aprire gli occhi.

— Avete intenzione di mettervi insieme, quando tornerete sulla Terra?

— Probabilmente — dissi io. — Se ci torneremo, sulla Terra. Abbiamo ancora una battaglia.

— Non ci saranno più battaglie — disse Estelle, con voce inespressiva. — Vuoi dire che non l’hai saputo?

— Che cosa?

— Non sai che l’astronave è stata colpita?

— Colpita? — (E allora, come facevamo a essere ancora vivi?)

— Esatto. — Estelle riprese a pulire Marygay. — I vani della Squadra quattro. E il vano armature. A bordo dell’astronave non è rimasto un solo scafandro da combattimento… e non possiamo combattere in mutande.

— Cosa… I vani della squadra? E cos’è successo a quelli che c’erano dentro?

— Nessun superstite.

Trenta persone. — Chi erano?

— Tutto il Terzo plotone. La Prima squadra del Secondo plotone.

Al-Sadat, Busia, Maxwell, Negulesco. — Mio Dio.

— Trenta morti, e non si ha la più vaga idea di quello che è successo. Non si sa neanche se può ricapitare da un momento all’altro.

— Non è stato un missile automatico?

— No, li abbiamo colpiti tutti. E anche il vascello nemico. Non si è registrato niente di niente, su nessuno dei sensori, solo blam! e un terzo della nave è andato distrutto. È già stata una fortuna che non si sia trattato del motore o dell’impianto ambiente. — Io non l’ascoltavo neanche. Penworth, LaBatt, Smithers. Christine e Frida. Tutti morti. Ero stordito.

Estelle prese dalla borsa un rasoio a lama libera e un tubo di gel. — Fai il gentiluomo e guarda dall’altra parte — disse. — Oh, anzi. — Intrise nell’alcool un quadrato di garza e me lo porse. — Renditi utile. Puliscile la faccia.

Mi misi all’opera e Marygay, senza aprire gli occhi, disse: — Che sollievo. Cosa fai?

— Il gentiluomo. E mi rendo utile…

— A tutto il personale: attenzione. A tutto il personale… Non c’erano altoparlanti nella camera a pressione, ma potevo sentire chiaramente quello del vano degli armadietti, oltre la porta. — Tutto il personale dal grado 6 in su, se non direttamente occupato in attività di emergenza medica o manutenzione, si presenti immediatamente in sala assemblee.

— Devo andare, Marygay.

Ella non disse niente. Non sapevo neppure se avesse sentito l’annuncio.

— Estelle. — Mi rivolsi direttamente a lei, e al diavolo il gentiluomo. — Ti dispiace…

— Sì. Ti farò sapere, non appena saremo in grado di dire qualcosa.

— Bene.

— Andrà tutto per il meglio. — Ma la sua espressione era cupa, preoccupata. — Adesso vai — disse sottovoce.

Quando arrivai nel corridoio, l’altoparlante stava ripetendo l’annuncio per la terza volta: Nell’aria c’era un odore nuovo, e non ci tenevo a sapere cosa fosse.

20

Mentre mi avviavo verso la sala raduno mi ricordai di come ero conciato, e mi infilai nella toeletta vicino alla sala sottufficiali. Il caporale Hamehameha si stava spazzolando frettolosamente i capelli.

— William! Cosa t’è successo?

— Niente. — Aprii un rubinetto e mi guardai nello specchio. Avevo tutta la faccia e la tunica incrostate di sangue secco. — È stata Marygay, il caporale Potter, la sua tuta… be’, evidentemente faceva una grinza, uhm…

— Morta?

— No, ma quasi, uhm, la portano in chirurgia… — Non adoperare l’acqua calda. Il sangue non andrebbe più via.

— Oh. Giusto. — Usai l’acqua calda per lavarmi la faccia e le mani, e ripulii la tunica con quella fredda. — La tua squadra era solo due vani più in là dopo quella di Al, no?

— Sì.

— Hai visto cos’è successo?

— No. Sì. Non quando è successo. — Per la prima volta notai che piangeva: grosse lacrime le rotolavano lungo le guance e le cadevano dal mento. La voce era calma, controllata. Si tirò rabbiosamente i capelli. — È un caos.

Mi avvicinai a lei e le posai la mano sulla spalla. — Non toccarmi! — scattò lei e mi spostò la mano con un colpo di spazzola. — Scusami. Andiamo.

Sulla porta mi sfiorò leggermente il braccio. — William… — Mi guardò con aria di sfida. — Sono contenta che non sia toccata a me. Capisci? È l’unico modo di vedere le cose.

Lo capivo, ma non sapevo se ci fosse davvero da essere contenti.

— Posso riassumere la situazione molto brevemente — disse il commodoro con voce tesa. — Se non altro perché ne sappiamo pochissimo.

"All’incirca dieci secondi dopo che avevamo distrutto il vascello nemico, due oggetti, molto piccoli, hanno colpito l’Anniversary nella parte centrale. In base alle deduzioni, poiché gli oggetti non erano stati avvistati e noi conosciamo i limiti dei nostri apparecchi di rilevamento, sappiamo che si muovevano a una velocità superiore ai nove decimi di quella della luce. Vale a dire, più esattamente, che il loro vettore di velocità perpendicolare all’asse dell’Anniversary era superiore a nove decimi della velocità della luce. Si sono infilati oltre ai campi repulsori."

Quando l’Anniversary si muove a velocità relativistiche, genera due potenti campi elettromagnetici: uno centrato a cinquemila chilometri dall’astronave, e l’altro a circa diecimila chilometri, entrambi allineati sulla direzione del moto del veicolo spaziale. I campi sono mantenuti in funzione da un effetto da autoreattore: raccogliere l’energia del gas interstellare mentre noi ci muoviamo.

Qualunque cosa che possa costituire un pericolo (vale a dire tutto ciò che è abbastanza grande perché lo si possa vedere con una buona lente d’ingrandimento), passa attraverso il primo campo e ne esce con una foltissima carica negativa sulla superficie. Quando entra nel secondo campo, viene allontanato dalla direttrice dell’astronave. Se l’oggetto è troppo grosso per poterlo rispedire via in questo modo, noi possiamo percepirlo a una distanza molto superiore, e manovrare per evitarlo.

— Ritengo sia superfluo farvi notare che si tratta di un’arma formidabile. Quando l’Anniversary è stata colpita, la nostra velocità rispetto al nemico era tale che coprivamo una distanza pari alla nostra lunghezza ad ogni decimillesimo di secondo. Inoltre, ci stavamo muovendo a balzi erratici, con un’accelerazione laterale in costante cambiamento, completamente randomizzata. Perciò gli oggetti che ci hanno colpiti dovevano essere guidati, non semplicemente mirati. E il sistema di guida era incorporato nell’arma, poiché non c’era più un solo taurano vivo, quando siamo stati colpiti. E tutto questo in un involucro non più grosso di un ciottolo.

"Voi siete quasi tutti troppo giovani per ricordare il termine trauma del futuro. Negli Anni Settanta, certuni pensavano che il progresso tecnologico era così rapido che la gente, la gente normale, non era in grado di tenergli testa; non aveva il tempo di abituarsi al presente prima che il futuro gli piombasse addosso. Un certo Toffler creò il termine trauma del futuro per descrivere la situazione. — Il commodoro sapeva assumere anche toni accademici. — Noi ci troviamo in una situazione fisica molto simile a questo concetto teorico. Il risultato è stato una catastrofe. Una tragedia. E come abbiamo detto durante la nostra ultima riunione, non c’è possibilità di rimediare. La relatività ci blocca nel passato dei nemici; la relatività li fa scendere dal nostro futuro. Possiamo solo augurarci che la prossima volta la situazione risulti invertita. E ciò che possiamo fare per contribuire a realizzarlo è ritornare a Stargate, e poi alla Terra, dove forse gli specialisti riusciranno a dedurre qualcosa, ed a ideare una specie di controarma, in base al tipo di danno che queste hanno causato.

"Ora, noi potremmo attaccare dallo spazio il pianeta portale dei taurani, e magari anche distruggere la base, senza usare voi della fanteria. Ma credo che sarebbe un grossissimo rischio. Potremmo… venire abbattuti da un’arma identica a quella che ci ha colpiti oggi, e allora non torneremmo mai a Stargate con informazioni che considero d’importanza vitale. Potremmo inviare una sonda automatica con un messaggio per specificare le nostre deduzioni circa questa nuova arma nemica… ma sarebbe insufficiente. E la FENU si ritroverebbe tecnologicamente molto arretrata.

"Abbiamo perciò stabilito una rotta che ci farà passare intorno a Yod-4, in modo da tenere la collapsar, per quanto è possibile, tra noi e la base taurana. Eviteremo il contatto con il nemico, e torneremo a Stargate il più presto possibile."

Incredibilmente, il commodoro si sedette e si passò le dita sulle tempie. — Tutti voi siete almeno comandanti di squadra o di sezione e quasi tutti avete ottimi precedenti in combattimento. E spero che almeno alcuni di voi firmeranno per la rafferma, allo scadere dei due anni. Coloro che lo faranno verranno probabilmente nominati tenenti, e avranno un primo, vero comando.

"È a costoro che vorrei parlare per qualche minuto, e non come vostro… come uno dei vostri comandanti, ma semplicemente come ufficiale più alto in grado e consigliere.

"Non è possibile prendere decisioni di comando semplicemente valutando la situazione tattica e seguendo la linea d’azione che causerà maggiori danni al nemico con un minimo di morti e di danni per i nostri. La guerra moderna è diventata una cosa molto complessa, soprattutto durante l’ultimo secolo. Le guerre non si vincono semplicemente vincendo una serie di battaglie, ma grazie a una complessa interrelazione fra vittoria militare, pressioni economiche, manovre logistiche, accesso alle informazioni del nemico, posizioni politiche… dozzine, letteralmente dozzine di fattori."

Io ascoltavo, ma l’unica cosa che mi arrivava al cervello era che un terzo dei nostri amici erano stati uccisi meno di un’ora prima, e il commodoro se ne stava là seduto a tenerci una lezione di teoria militare.

— Quindi, qualche volta bisogna rinunciare a una battaglia vittoriosa per contribuire a vincere la guerra. Ed è precisamente quello che faremo.

"Non è stata una decisione facile. Anzi, è stata probabilmente la più difficile di tutta la mia carriera militare, perché, almeno in apparenza, può sembrare una vigliaccheria.

"Il computer logistico calcola che avremmo circa sessantadue probabilità di successo su cento, se tentassimo di distruggere la base nemica. Purtroppo, avremmo solo trenta probabilità di sopravvivenza su cento… poiché alcuni dei piani che porterebbero al successo comportano la necessità di andare a sbattere con l’Anniversary contro il pianeta portale alla velocità della luce.

"Mi auguro che nessuno di voi deva mai trovarsi costretto a fare una scelta del genere. Quando torneremo a Stargate, con ogni probabilità mi manderanno davanti alla corte marziale per viltà di fronte al nemico. Ma ritengo, in tutta sincerità, che le informazioni che si possono ottenere mediante un’analisi dei danni subiti dall’Anniversary siano più importanti della distruzione di una base taurana. — Il commodoro si drizzò sulla seggiola. — Più importanti della carriera di un soldato."

Dovetti reprimere l’impulso di ridere. Certamente, la "viltà" non aveva niente a che vedere con la sua decisione. Certamente, lui non era animato da un sentimento primitivo e antimilitare come la volontà di vivere.

La Squadra manutenzione era riuscita a rattoppare l’enorme squarcio nella fiancata dell’Anniversary e a ripressurizzare quella sezione. Impiegammo il resto della giornata a ripulire, naturalmente senza toccare le preziose prove per le quali il commodoro era disposto a sacrificare la carriera.

Il peggio fu scaraventare nello spazio i cadaveri. Non fu troppo orribile, comunque, se non quando si trattava di maneggiare quelli cui era scoppiata la tuta.

Il giorno dopo, appena smontai, andai nella cabina di Estelle.

— È inutile che tu vada a vederla, adesso. — Estelle sorseggiava il suo drink: una mistura di alcool etilico, di acido citrico e d’acqua, con una goccia di un estere che aveva approssimativamente l’aroma della scorza d’arancio.

— È fuori pericolo?

— No, per un paio di settimane. Lascia che ti spieghi. — Depose il bicchiere e appoggiò il mento sulle dita intrecciate. — In circostanze normali, la ferita sarebbe stata ordinaria amministrazione. Dopo averle sostituito il sangue perduto, avremmo semplicemente cosparso di qualche polverina magica la cavità addominale e l’avremmo richiusa. In un paio di giorni sarebbe stata di nuovo in piedi.

"Ma così ci sono delle complicazioni. Nessuno è mai stato ferito, prima d’ora, dentro a una tuta a pressione. Finora non è saltato fuori niente d’insolito. Ma per qualche giorno dobbiamo sorvegliare attentamente le sue viscere.

"E poi, eravamo molto preoccupati per la peritonite. Sai che cos’è la peritonite?"

— Sì. — Be’, vagamente.

— Perché una parte dell’intestino si è lacerata sotto la pressione. Non abbiamo potuto optare per la profilassi normale perché una quantità di… uhm, contaminazione ha urtato il peritoneo sotto pressione. Per stare sul sicuro, abbiamo dovuto sterilizzare tutto quanto, la cavità addominale e l’intero apparato digerente dal duodeno in giù. Poi, naturalmente, abbiamo dovuto sostituire tutta la flora intestinale normale, che era morta, con una coltura. Anche questa è una procedura abituale, ma di solito non vi si fa ricorso, a meno che la lesione sia molto grave.

— Capisco. — Provavo un po’ di nausea. I dottori non si rendono conto che in generale noi preferiamo non pensare a noi stessi come a dei sacchi animati di pelle, pieni di cose oscene.

— E questa è già di per sé una buona ragione per non andarla a vedere per un paio di giorni. Il ricambio della flora intestinale ha un effetto molto violento sull’apparato digerente… non è pericoloso, dato che è tenuta costantemente sotto osservazione. Ma è stancante e… be’, imbarazzante.

"Con tutto questo, lei sarebbe completamente fuori pericolo, se la situazione clinica fosse normale. Ma stiamo decelerando a una gravità e mezzo, e i suoi organi interni sono stati sbatacchiati qua e là anche troppo. Tanto vale dirtelo: se superiamo le due gravità, lei morirà."

— Ma… ma dovremo superare le due gravità, nella fase finale di avvicinamento! Cosa…

— Lo so, lo so. Ma solo fra un paio di settimane. C’è da sperare che per allora sia sistemata.

"William, fattene una ragione. È già un miracolo che sia sopravvissuta fino all’intervento chirurgico. È molto probabile che non ce la faccia ad arrivare viva sulla Terra. È doloroso: per te è qualcosa di speciale, capisco. Ma ci sono stati già tanti morti… dovresti abituarti all’idea, a rendertene conto."

Buttai giù una lunga sorsata del mio drink, identico al suo, a parte l’acido citrico. — La metti giù dura.

— Forse… no. Sono solo realista. Ho l’impressione che ci aspettino altre morti e altri dolori.

— Non per me. Non appena rimettiamo piede a Stargate, io ritorno borghese.

— Non esserne troppo sicuro. — La solita, vecchia discussione. I buffoni che ci hanno arruolati per due anni sono capacissimi di arruolarci per quattro o…

— O per sei o per venti o per tutta la guerra. Ma non lo faranno. Provocherebbero un ammutinamento.

— Non lo so. Se possono condizionarci a uccidere a un dato segnale, possono condizionarci a fare qualunque cosa. Anche a firmare la rafferma.

Era agghiacciante.

Più tardi cercammo di far l’amore, ma tutti e due avevamo troppe cose cui pensare.

Andai a vedere Marygay per la prima volta circa una settimana dopo. Era sciupata, dimagrita, e sembrava molto confusa. Doc Wilson mi assicurò che era solo per via dei medicinali: non avevano trovato traccia di lesioni cerebrali.

Ella era ancora a letto, e veniva nutrita per fleboclisi. Io cominciavo a guardare nervosamente il calendario. Sembrava che ogni giorno segnasse qualche miglioramento, ma se fossimo arrivati alla collapsar mentre era ancora a letto, non avrebbe avuto una sola possibilità di cavarsela. Non riuscivo a strappare qualche parola incoraggiante a Doc Wilson o a Estelle: dicevano che dipendeva tutto dalla capacità di recupero di Marygay.

Il giorno prima della spinta, la trasferirono dal suo letto alla cuccetta antiaccelerazione di Estelle, nell’infermeria. Era lucida e ormai si nutriva per via orale, ma non ce la faceva ancora a muoversi da sola, a una gravità e mezzo.

Andai a trovarla. — Hai saputo del cambiamento di rotta? Dobbiamo passare da Aleph-9 per tornare a Tet-38. Altri quattro mesi in questo maledetto guscio. Ma altri sei anni di paga da zona di combattimento quando torneremo sulla Terra.

— Bene.

— Ah, pensa a tutte le cose splendide che potremo…

— William.

Dovetti lasciar perdere. Non sono mai stato molto abile a mentire.

— Non cercare di farmi coraggio. Parlami della saldatura nel vuoto, della tua infanzia, di qualunque cosa. Non prendermi in giro dicendomi che tornerò sulla Terra. — Girò la faccia verso la parete. — Ho sentito i dottori che parlavano nel corridoio, una mattina: credevano che dormissi. Ma era semplicemente una conferma di quello che sapevo già, che avevo capito dal modo in cui si comportavano tutti.

"Allora dimmi: sei nato nel Nuovo Messico nel 1975. E poi? Sei rimasto nel Nuovo Messico? Eri bravo a scuola? Avevi degli amici, o eri troppo bravo, come me? Quanti anni avevi quando sei andato a letto per la prima volta con una ragazza?"

Continuammo per un po’ su questo tono, impacciati. Mentre parlavamo mi venne un’idea, e quando lasciai Marygay andai subito a cercare il dottor Wilson.

— Le diamo cinquanta probabilità su cento di sopravvivere, ma è un giudizio arbitrario. Nessuno dei dati pubblicati su questo genere di cose corrisponde esattamente.

"Comunque, è certo che le sue probabilità di sopravvivenza sono tanto migliori quanto è minore l’accelerazione che deve sopportare.

"Certamente. Per quello che vale. Il commodoro farà manovrare il più dolcemente possibile, ma saranno pur sempre quattro o cinque gravità. E tre potrebbero essere già troppe: non lo sapremo finché non sarà finita."

Annuii, impaziente. — Sì, ma credo esista un sistema per esporla a un’accelerazione inferiore a quella cui saremo sottoposti tutti noi.

— Se hai inventato uno schermo antiaccelerazione — disse Doc Wilson, sorridendo — farai bene a precipitarti a brevettarlo. Potresti venderlo per una cifra enorme…

— No, Doc, in condizioni normali non servirebbe a molto: i nostri gusci funzionano meglio, e sono basati sugli stessi principi.

— Spiegati.

— Mettiamo Marygay dentro a un guscio e allaghiamo…

— Aspetta, aspetta. Assolutamente no. Le è capitato quel che le è capitato proprio per colpa di un guscio che aderiva male. E questa volta, dovrà adoperare il guscio di qualcun altro.

— Lo so, Doc, mi lasci spiegare. Non è necessario che il guscio le calzi bene, purché gli attacchi del sistema ambiente funzionino. Il guscio non dovrà essere pressurizzato dall’interno, perché lei non dovrà essere sottoposta a quella pressione di migliaia di chilogrammi per centimetro quadrato dal fluido esterno.

— Non sono sicuro di seguirti.

— È solo un adattamento di… ha studiato fisica, vero?

— Un po’, alla facoltà di medicina. Era il corso in cui riuscivo peggio, dopo il latino.

— Ricorda il principio di equivalenza?

— Ricordo che c’era qualcosa che si chiamava così. Aveva a che fare con la relatività, no?

— Uh-uh. Significa che… non c’è differenza tra il trovarsi in un campo gravitazionale e il trovarsi in una struttura accelerata equivalente… Significa che quando l’Anniversary passa a cinque gravità, l’effetto su di noi è lo stesso ce se fosse ferma su un grosso pianeta, con una gravità superficiale di cinque g.

— Mi sembra ovvio.

— Forse sì. Vuol dire che a bordo nella nave nessun esperimento potrebbe indicarle se sta accelerando o se sta semplicemente fermo su un grosso pianeta.

— Sicuro che c’è. Potresti spegnere i motori e se…

— Oppure potrebbe guardare fuori, sicuro. Ma io mi riferivo a esperimenti in condizioni di laboratorio, isolato.

— Va bene. Lo accetto. E allora?

— Conosce la legge di Archimede?

— Sicuro, la falsa corona… È questo che mi ha sempre colpito, nella fisica: fanno un gran chiasso sulle cose più ovvie, e poi quando si arriva a quelle difficili…

— La Legge di Archimede afferma che quando si immerge qualcosa in un liquido, l’oggetto riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato.

— È logico.

— E questo vale per qualunque tipo di accelerazione o di gravità… In una nave lanciata a cinque gravità, l’acqua spostata, se è acqua, pesa cinque volte di più dell’acqua normale a una gravità.

— Sicuro.

— Quindi, se mette a galleggiare qualcuno in una vasca d’acqua, in modo che non abbia peso, continua a non averne anche quando l’astronave arriva a cinque gravità.

— Un momento, figliolo. Fin qui ci sono arrivato. Ma non funzionerebbe.

— Perché no? — Provai la tentazione di dirgli di occuparsi di pillole e di stetoscopi e di lasciare la fisica a me, ma fu un bene che mene stessi zitto.

— Cosa succede quando lasci cadere una chiave inglese a bordo di un sommergibile?

— Un sommergibile?

— Esatto. Anche quelli funzionano in base al principio di Archimede…

— Uhg! Ha ragione. Gesù. Non ci avevo pensato.

— La chiave inglese cade sul pavimento, esattamente come se il sommergibile non fosse privo di peso. — Doc Wilson guardò nel vuoto, battendo una matita sulla scrivania. — Quello che hai descritto è un sistema molto simile a quello che adoperiamo per curare i pazienti con gravi lesioni alla pelle… ustioni, per esempio… sulla Terra. Ma non offre nessun appoggio agli organi interni, a differenza dei gusci antiaccelerazione, perciò nel caso di Marygay non servirebbe a niente…

Mi alzai per andarmene. — Mi scusi se le ho fatto perdere…

— Fermati un momento. Forse potremmo sfruttare in parte la tua idea.

— E cioè?

Neanch’io ci avevo pensato bene. Naturalmente, il solito modo con cui usiamo i gusci per Marygay non andrebbe bene. — Preferivo non pensarci. Occorre un bel po’ di condizionamento ipnotico per starsene lì sdraiati con il fluorocarbonio ossigenato che ti entra a forza da tutti gli orifici naturali del corpo e da uno artificiale. Toccai la valvola innestata proprio sopra l’osso dell’anca.

— Già, è ovvio, la farebbe a pezzi… cioè, lei intende dire, la bassa pressione…

— È esatto. Non avremo bisogno di migliaia di atmosfere per proteggerla contro un’accelerazione in linea retta a cinque gravità; servono solo per tutte quelle sterzate e schivate… Adesso chiamo la Manutenzione. Scendi nel vano della tua squadra: adopereremo quello. Dalton ti raggiungerà lì.

Mancavano cinque minuti all’ingresso nel campo della collapsar, e io cominciai la sequenza dell’allagamento. Marygay e io eravamo soli, nei gusci; la mia presenza non era necessaria perché all’allagamento e allo svuotamento poteva provvedere il Controllo. Ma è meglio esagerare in fatto di precauzioni, e poi ci tenevo a essere lì.

Era molto meno orribile della procedura normale: non c’era la solita sensazione di essere schiacciati e di scoppiare. All’improvviso ti trovavi pieno di quella roba dall’odore di plastica (non te ne accorgevi, al primo momento, quando si precipitava dentro a sostituire l’aria nei polmoni); e poi c’era una leggera accelerazione, e poi stavi respirando di nuovo l’aria, in attesa che il guscio si aprisse. E poi staccare i cavi e aprire le chiusure lampo e uscire fuori…

Il guscio di Marygay era vuoto. Mi avvicinai e vidi del sangue.

— Ha avuto un’emorragia. — La voce di Doc Wilson echeggiava, sepolcrale. Mi voltai, con gli occhi che mi bruciavano, e lo vidi appoggiato alla porta. Orribilmente, inspiegabilmente, sorrideva.

— Proprio come avevamo previsto. La sta curando il dottor Harmony. Si rimetterà presto.

21

Dopo una settimana, Marygay camminava; dopo due "fraternizzava" e dopo sei fu dichiarata completamente guarita.

Dieci lunghi mesi nello spazio: esercito, esercito, esercito dal principio alla fine. Ginnastica, corvée prive di senso, lezioni obbligatorie… Si arrivò addirittura a parlare di rimettere in auge la lista dei posti letto, come all’addestramento, ma non ne fecero niente, forse per timore che ci ammutinassimo. Una nuova compagnia ogni notte non sarebbe andata bene per quelli che si erano sistemati in coppie più o meno stabili.

Tutte quelle scemenze, tutta quell’insistenza sulla disciplina militare, mi davano un gran fastidio, soprattutto perché avevo il sospetto che indicassero che l’esercito non aveva alcuna intenzione di lasciarci andare. Marygay diceva che la mia era un’ossessione paranoide: facevano così solo perché non c’era altro sistema per mantenere l’ordine per dieci mesi.

La conversazione, in genere, a parte i soliti mugugni contro l’esercito, verteva sulle ipotesi: quanto poteva essere cambiata la Terra, e che cosa avremmo fatto dopo esserci congedati. Saremmo stati abbastanza ricchi: ventisei anni di paga, tutti in una volta. E con gli interessi composti, i 500 dollari che ci dovevano per il primo mese d’arruolamento erano diventati più di 1500.

Arrivammo a Stargate verso la fine del 2023, data di Greenwich.

La base era cresciuta enormemente nei diciassette anni da quando eravamo partiti per la campagna di Yod-4. Adesso era un edificio grande quanto Tycho City, e ospitava quasi diecimila persone. C’erano settantotto incrociatori della classe dell’Anniversary o più grossi ancora, destinati a partecipare alle incursioni contro i pianeti portale tenuti dai taurani. Altri dieci montavano la guardia a Stargate, e due erano in orbita, in attesa che venissero preparati gli equipaggi e i contingenti di fanteria. Un’altra nave, la Earth’s Hope II, era tornata dal combattimento e aveva aspettato a Stargate un altro incrociatore, per il ritorno.

Aveva perso due terzi del personale, e sarebbe stato antieconomico rimandare un’astronave sulla Terra con sole trentanove persone a bordo. Trentanove borghesi.

Scendemmo sul pianeta con due ricognitori.

Il generale Botsford (il quale era soltanto maggiore quando l’avevamo conosciuto su Caronte, che allora era solo due baracche e ventiquattro tombe) ci ricevette in una sala per conferenze elegantemente arredata. Camminava avanti e indietro davanti a un enorme cubo olografico delle operazioni. Io riuscivo appena a distinguere le etichette, e mi stupiva vedere quanto fosse lontana Yod-4… ma naturalmente le distanze non contano, con i balzi da collapsar a collapsar. Avremmo impiegato dieci volte di più per arrivare ad Alpha Centauri, che era praticamente alla porta accanto, ma che non è una collapsar.

— Voi sapete… — disse, a voce troppo alta; e poi l’abbassò a un tono discorsivo. — Voi sapete che potremmo distribuirvi in altre forze d’attacco e farvi ripartire immediatamente. La Legge sulla Coscrizione Elitaria è stata cambiata: è stata estesa a cinque anni di servizio soggettivo, anziché a due.

"Non vi faremo uno scherzo simile ma, accidenti, non capisco proprio perché almeno alcuni di voi non vogliano restare sotto le armi. Un altro paio di annetti, e gli interessi composti vi renderebbero ricchi per tutta la vita. Sicuro, avete subito gravi perdite… ma era inevitabile: eravate i primi. Adesso tutto sarà più facile. Gli scafandri da combattimento sono stati perfezionati, conosciamo meglio le tattiche dei taurani, le nostre armi sono più efficienti… non c’è motivo di aver paura."

Sedette a capotavola e guardò lungo il suo asse, senza vedere nessuno. — I miei ricordi di combattimento risalgono a più di mezzo secolo fa. Per me era una cosa esaltante, entusiasmante. Devo essere un tipo molto diverso da voi.

O avere dei ricordi molto selettivi, pensai io.

— Comunque, lasciamo perdere. Posso offrirvi un’alternativa, che non comporta l’obbligo di combattere direttamente.

"Siamo a corto di istruttori qualificati. Anzi, potremmo dire che non ne abbiamo neanche uno… perché, idealmente, l’esercito vorrebbe che tutti gli istruttori fossero reduci da combattimenti.

"Voi avete avuto come istruttori i veterani del Vietnam e del Sinai, il più giovane dei quali aveva quarant’anni, quando avete lasciato la Terra. Ventisei anni fa. Perciò abbiamo bisogno di voi e siamo disposti a pagarvi bene.

"Se accettate di diventare istruttori, l’esercito vi offrirà il grado di tenente. Può essere sulla Terra, sulla Luna a paga doppia, su Caronte a paga tripla, o qui a Stargate a paga quadrupla. Inoltre, non è necessario che decidiate su due piedi. Farete tutti un viaggetto sulla Terra, gratis… vi invidio. Io non ci sono tornato da vent’anni, probabilmente non ci tornerò mai… E così potrete avere la soddisfazione di ritornare borghesi. Se non vi piacerà, non avrete altro da fare che entrare in una qualunque sede della FENU per uscirne come ufficiali. E con la libertà di scegliere l’assegnazione.

"Vedo che alcuni di voi sorridono. Penso che dovreste rimandare il giudizio. La Terra non è più come l’avete lasciata."

Si tolse dalla tunica un cartoncino e lo guardò con un mezzo sorriso. — Quasi tutti avete diritto a un accredito di quattrocentomila dollari, tra paga accumulata e interessi. Ma la Terra è sul piede di guerra, e naturalmente sono i cittadini della Terra che pagano le spese, con le tasse. Il vostro reddito vi colloca nella categoria che paga il novantadue per cento d’imposta. I trentaduemila dollari che vi restano potranno durarvi tre anni, se starete molto attenti a come li spendete.

"Poi dovrete cercarvi un lavoro, e l’unico lavoro per cui siete stati addestrati è questo. Non ce ne sono molti altri disponibili: la popolazione terrestre ha superato i nove miliardi, e i disoccupati sono cinque o sei miliardi. E la vostra preparazione è in ritardo di ventisei anni.

"Tenete presente, inoltre, che i vostri amici e le vostre amiche adesso hanno ventisei anni più di voi. Molti dei vostri parenti saranno morti. Immagino che vi sentirete molto soli.

"Ma per informarvi meglio sul conto della Terra, cedo la parola al sergente Siri, che è appena arrivato da laggiù. Sergente?"

— Grazie, generale. — Ebbi l’impressione che ci fosse qualcosa che non andava, nella sua faccia; e poi mi accorsi che aveva il fondo tinta e il rossetto. Le sue unghie erano lisce mandorle bianche.

— Non so da dove cominciare. — Il sergente si succhiò il labbro superiore e ci guardò aggrottando la fronte. — Le cose sono tanto cambiate, da quando ero bambino.

"Ho ventitré anni, e quindi non ero ancora nato, quando voi siete partiti per Aleph… Be’, tanto per cominciare, quanti di voi sono omosessuali? — Nessuno. — In verità, non mi sorprende. Io lo sono, però. — E non stava scherzando. — E credo che lo siano circa un terzo degli abitanti dell’Europa e dell’America settentrionale; ancora di più in India e nel Medio Oriente. Meno nell’America meridionale e in Cina.

"Quasi tutti i governi incoraggiano l’omosessualità, mentre le Nazioni Unite sono ufficialmente neutrali. L’incoraggiano soprattutto perché è l’unico metodo sicuro di controllo delle nascite."

La faccenda mi sembrava un po’ speciosa. Nell’esercito ti prelevano un campione di sperma, lo surgelano, e poi ti praticano la vasectomia. Un sistema assolutamente sicuro.

Quando studiavo, al campus c’erano parecchi omosessuali che sostenevano quell’argomento. E magari il metodo funzionava, a modo suo: mi sarei aspettato che la Terra avesse ben più di nove miliardi di abitanti.

— Quando sulla Terra mi hanno annunciato che avrei dovuto parlare con voi, ho fatto qualche ricerca, soprattutto leggendo i vecchi facsimili e le riviste.

"Molte delle cose di cui avevate paura, non si sono verificate. La fame, per esempio. Anche senza bisogno di sfruttare tutta la terra coltivabile e il mare, riusciamo a dar da mangiare a tutti, e potremmo provvedere anche a un numero doppio di persone. La tecnologia alimentare e la distribuzione imparziale di calorie… Quando voi avete lasciato la Terra c’erano milioni di persone che morivano lentamente di fame. Oggi non ce ne sono più.

"Eravate preoccupati per il crìmine. Ho letto che non si poteva girare per le strade di New York o di Londra o di Hong Kong senza una guardia del corpo. Ma adesso che tutti sono più istruiti e meglio assistiti, e che la psicometria è abbastanza progredita da identificare un delinquente potenziale all’età di sei anni, e da sottoporlo a un’efficace terapia correttiva… be’, il crimine è in costante declino da una ventina d’anni. Probabilmente, oggi nel mondo vengono commessi meno reati gravi di quanti se ne commettessero ai vostri tempi in una sola grande città…"

— Tutto questo va benissimo — interruppe in tono burbero il generale, facendo capire chiaramente che non andava bene affatto. — Ma non collima in modo esatto con quello che ho sentito dire io. Cos’è che chiama "reati gravi"? E gli altri reati?

— Oh, omicidio, aggressioni, violenza carnale: tutti i reati gravi contro la persona. Sono diminuiti enormemente. I reati contro la proprietà, piccoli furti, vandalismi, residenza illegale, questi sono ancora…

— Cosa diavolo è la "residenza illegale"?

Il sergente Siri esitò e poi disse, pudicamente: — Una persona non deve privare gli altri di uno spazio vitale acquisendo illegalmente delle proprietà.

Alexandrov alzò la mano. — Vuol dire che la proprietà privata non esiste più?

— Certo che esiste. Io… io ero proprietario del mio appartamento, prima di venire arruolato. — (Per qualche ragione inspiegabile, sembrava che l’argomento lo imbarazzasse. Nuovi tabù?) — Però ci sono dei limiti.

Luthuli: — E cosa fate ai criminali? A quelli colpevoli di gravi reati? Fate ancora la cancellazione del cervello, ai criminali?

Il sergente Siri sembrò lieto di cambiare argomento: — Oh, no. È considerato molto primitivo. Barbarico. Imprimiamo in loro una personalità nuova e sana; poi vengono reorientati e la società li assorbe senza pregiudizi. Funziona benissimo.

— Ci sono prigioni? — chiese Yukawa.

— Immagino che si potrebbe chiamare prigione un centro correzionale. Fino a quando non hanno terminato la terapia e non vengono rilasciati, gli individui vi vengono trattenuti contro la loro volontà. Comunque, si può osservare che sono finiti lì dentro a causa di un cattivo funzionamento di tale loro volontà.

Io non avevo in progetto di darmi a una vita criminale, perciò lo interrogai su quello che mi preoccupava di più. — Il generale ha detto che più di metà della popolazione campa di elemosine, e che noi non riusciremmo a trovare un lavoro. E allora?

— Non conosco l’espressione "elemosine". Immagino voglia alludere ai disoccupati che ricevono il sussidio governativo. È vero, il governo provvede a noi… io non avevo mai avuto un impiego, prima di venire arruolato. Ero compositore.

"Non vi rendete conto che il problema della disoccupazione cronica ha due facce? Al mondo e alla guerra potrebbero provvedere tranquillamente un miliardo di persone, due miliardi al massimo. Ciò non significa che gli altri se ne stiano in ozio.

"Ogni cittadino ha la possibilità di studiare gratuitamente fino a un massimo di diciotto anni… di cui quattordici obbligatori. Questo e la libertà dalla necessità di cercarsi un lavoro hanno causato una fioritura di attività culturali e artistiche su di una scala che non ha precedenti nella storia dell’umanità… Oggi ci sono più artisti e scrittori di quanti ne siano vissuti durante i primi duemila anni dell’èra cristiana. E le loro opere hanno un pubblico più ampio e più istruito di quanto fosse mai stato possibile in passato."

Valeva la pena di pensarci sopra. Rabi alzò la mano. — Avete già prodotto uno Shakespeare? Un Michelangelo? Il numero non è tutto.

Siri si scostò i capelli dagli occhi con un gesto tipicamente femminile. — Non è una domanda equa. Spetta ai posteri fare paragoni del genere.

— Sergente, quando abbiamo parlato, prima — disse il generale — non mi ha detto che abitava in un edificio che sembrava un enorme alveare, e che nessuno poteva vivere in campagna?

— Be’, signore, è vero che nessuno può abitare su terreni potenzialmente agricoli. E dove abito io, anzi dove abitavo, nel Complesso Atlanta, avevo sette milioni di vicini in quello che, tecnicamente, si potrebbe chiamare un edificio unico… ma non è che ci sentissimo troppo stretti. E si poteva scendere con l’ascensore quando si voleva, e passeggiare nei campi, arrivare anche fino al mare, volendo…

"Bisogna esserci preparati, ecco. Quasi tutte le città non sono più gli agglomerati caotici di edifici che c’erano una volta. Quasi tutte le grandi città sono bruciate durante i grandi disordini per la situazione alimentare nel 2004, prima che le Nazioni Unite si assumessero in proprio il compito di produrre e distribuire il cibo. I pianificatori delle città di solito hanno ricostruito secondo criteri moderni, funzionali.

"Parigi e Londra, per esempio, dovettero venire ricostruite completamente. E quasi tutte le altre capitali del mondo, sebbene Washington sia sopravvissuta. Tuttavia, è solo una massa di monumenti e di uffici: quasi tutti vivono nei complessi circostanti, Reston, Frederick, Columbia."

Poi Siri nominò varie città e cittadine — tutti volevano avere notizie della loro — e in generale sembrava che le cose andassero molto meglio di quanto avessimo previsto.

In risposta a una domanda indelicata, Siri disse che non si truccava solo perché era omosessuale: lo facevano tutti. Io decisi che mi sarei comportato da eccentrico, e mi sarei tenuto la mia faccia.

Ci unimmo ai superstiti della Earth’s Hope II e prendemmo quell’incrociatore per tornare sulla Terra, mentre gli specialisti studiavano le avarie dell’Anniversary. Il commodoro dovette presentarsi a una commissione d’inchiesta ma, a quanto venimmo a sapere, non finì davanti a una corte marziale.

La disciplina era molto allentata, durante il viaggio di ritorno. In quei mesi lessi trenta libri, imparai a giocare a Go, tenni un corso non ufficiale di fisica elementare — e non aggiornata — e mi legai ancora di più a Marygay.

22

Io non ci avevo pensato molto, ma ovviamente sulla Terra eravamo delle celebrità. Al Capo, il Segretario Generale ci accolse uno per uno, personalmente — era un vecchietto piccolo piccolo e nero nero che si chiamava Yakubu Ojukwu — e c’erano migliaia, forse milioni di spettatori, affollati il più vicino possibile al campo d’atterraggio.

Il Segretario Generale tenne un discorso alla folla e ai giornalisti; poi gli ufficiali della Earth’s Hope II blaterarono le stupidaggini prevedibili, mentre noi stavamo lì, più o meno pazientemente, in quel caldo tropicale.

Prendemmo un grosso elicottero per Jacksonville, dov’era l’aeroporto internazionale più vicino. La città era stata effettivamente ricostruita secondo i criteri che ci aveva descritto Siri. Non si poteva fare a meno di sentirsi impressionati.

Da lontano ci sembrò una montagna grigia, un cono lievemente irregolare, che saliva all’orizzonte e a poco a poco diventava più grande. Stava in mezzo a quella che sembrava un’interminabile coperta a patchwork di campi coltivati, e dozzine di strade e di ferrovie vi convergevano. L’occhio vedeva le strade, fini fili bianchi su cui strisciavano insetti infinitesimali, ma il cervello si rifiutava di integrare quell’informazione in una stima della grandezza di quel coso. Non poteva essere così grosso!

Continuammo ad avvicinarci, mentre le correnti ascensionali ci facevano ballare un po’, fino a quando l’edificio parve diventare un muraglione grigiochiaro che nascondeva completamente la visuale da una parte. Ci avvicinammo ancora e riuscimmo malapena a scorgere dei puntolini, che erano esseri umani; un puntolino era su un balcone, e forse agitava le braccia.

— Non possiamo avvicinarci di più — disse il pilota, nell’altoparlante — senza restare inseriti nel sistema di guida urbano. In tal caso, atterreremmo sul tetto. L’aeroporto è a nord. — Ci inclinammo in virata, attraverso l’ombra della città.

L’aeroporto non mi meravigliò molto. Era il più grande che avessi mai visto, ma di modello convenzionale: un terminal centrale come il mozzo d’una ruota, con le monorotaie che si stendevano per un chilometro o più fino ad altri terminal più piccoli, dove gli aerei caricavano e scaricavano. Scavalcammo completamente i terminal, atterrammo vicino a un aereo di linea stratosferico della Swissair, e andammo a piedi dall’elicottero all’aereo. C’erano i cordoni, lungo il percorso, ed eravamo circondati da una folla plaudente. Con sei miliardi di persone che campavano di sussidi di disoccupazione, non credo che avessero fatto molta fatica a mettere insieme una folla per una circostanza del genere.

Avevo una paura terribile che ci facessero subire altri discorsi, ma salimmo diritti a bordo. Steward e hostess ci portarono sandwich e bevande, mentre la folla veniva dispersa. E non ci sono parole per descrivere un sandwich d’insalata di pollo e una birra fresca dopo due anni di merda riciclata.

Mr Ojukwu ci spiegò che ci avrebbero portato a Ginevra, al Palazzo delle Nazioni Unite, dove quella sera saremmo stati onorati dall’Assemblea Generale. O messi in mostra, pensai io. Ci disse che molti di noi erano attesi dai parenti, a Ginevra.

Mentre prendevamo quota sopra l’Atlantico, l’acqua mi parve di un verde innaturale. Mi incuriosii e presi nota mentalmente di chiederlo alla hostess, ma poi capii da solo la ragione. Era una fattoria. Quattro grandi zattere (dovevano essere enormi, ma non sapevo a che quota ci trovassimo) si muovevano lentamente sulla superficie verde, in tandem, e ognuna lasciava una scia nerazzurra che svaniva lentamente. Prima che atterrassimo venni a sapere che erano alghe tropicali, coltivate come mangime per il bestiame.

Ginevra era un unico edificio, simile a Jacksonville, ma sembrava più piccola, forse per effetto delle montagne naturali che la circondavano. Era coperta di neve, e aveva una sua sommessa bellezza.

Camminammo per un minuto nella neve turbinante — era meraviglioso non trovarsi continuamente a "temperatura ambiente" — per arrivare a un elicottero che ci portò sul tetto dell’edificio; poi giù in ascensore, su un marciapiede mobile, giù con un altro ascensore, un altro marciapiede mobile, poi giù per un ampio corridoio fino alla Thantstrasse 281B, stanza 45, esattamente l’indirizzo che mi avevano dato. Il mio dito si accostò al campanello; avevo quasi paura.

Mi ero adattato abbastanza bene all’idea che mio padre era morto — l’esercito ci aveva dato queste notizie a Stargate — e non mi turbava molto la prospettiva di vedere mia madre diventata improvvisamente ottantaquattrenne. Poco mancò che me ne andassi in cerca di un bar per stordirmi, ma tirai diritto e premetti il pulsante.

La porta si aprì subito. Mia madre era più vecchia, ma non molto cambiata: qualche ruga in più e i capelli bianchi anziché grigi. Ci guardammo in faccia per un secondo e poi ci abbracciammo, e io provai sollievo e sorpresa nell’accorgermi che ero felice di vederla e di stringerla.

Ella mi tolse il mantello e mi spinse nel soggiorno dell’appartamento, e lì ebbi un vero trauma. Mio padre era là in piedi, sorridente ma serio, con l’inevitabile pipa in mano. Provai uno scatto di rabbia contro l’esercito che mi aveva comunicato erroneamente la sua morte… e poi capii che non poteva essere mio padre, dato che sembrava identico a come lo ricordavo dal tempo della mia infanzia.

— Michael? Mike?

Egli rise. — E chi, se no, Willy? — Mio fratello minore, ormai anziano. Non l’avevo più visto dal 1993, quando ero partito per il college. Lui allora aveva sedici anni; due anni dopo era andato sulla Luna con la FENU.

— Ti sei stancato della Luna? — chiesi, stringendogli la mano.

— Eh? Oh… no, Willy, ogni anno passo un mese o due sulla Terra. Non è più come una volta. — Ai tempi in cui avevano incominciato i reclutamenti per la Luna, era inteso che avresti fatto un solo viaggio di ritorno. Il carburante costava troppo caro perché ci fossero dei pendolari.

Sedemmo tutti e tre intorno a un tavolino di marmo, e Mamma passò le sigarette alla droga.

— Sono cambiate tante cose — dissi io, prima che cominciassero a farmi domande sulla guerra. — Raccontatemi tutto.

Mio fratello agitò le mani e rise. — Una bella pretesa! Hai a disposizione un paio di settimane? — Evidentemente faticava a farsi un’idea di come dovesse comportarsi con me. Ero suo nipote, o che cosa? Certo non ero più suo fratello maggiore.

— Comunque, non è a Michael che devi chiederlo — disse Mamma. — I lunatici parlano della Terra più o meno come le vergini parlano del sesso.

— Oh, Mamma…

— Con entusiasmo e ignoranza.

Accesi la sigaretta e aspirai una lunga boccata. Era stranamente dolce.

— I lunatici vivono sulla terra poche settimane all’anno, e passano metà del tempo a dirci come dovremmo far andare avanti le cose.

— Può darsi. Ma durante l’altra metà del tempo osserviamo. Obiettivamente.

— Ecco che arriva il numero dell’obiettività del mio Michael. lei sì appoggiò alla spalliera della poltrona e gli sorrise.

— Mamma, tu sai… oh, diavolo, lasciamo perdere. Willy ha tutto il resto della vita per capirci qualcosa. — Tirò una boccata della sigaretta, e notai che non aspirava il fumo. — Parlaci un po’ della guerra. Abbiamo saputo che hai fatto parte della forza d’attacco che ha combattuto i taurani. Faccia a faccia.

— Già. Non è stato gran che.

— Giusto — disse Mike. — Ho sentito dire che i taurani si sono comportati… da vigliacchi.

— Non esattamente. — Scossi la testa, per schiarirmi le idee. La marijuana mi metteva sonno e mi stordiva. — Era come se non avessero capito cosa succedeva. Sembrava un tiro a segno. Loro si mettevano in fila, e noi gli sparavamo.

— Com’è possibile? — chiese Mamma. — Il telegiornale disse che avevate perduto diciannove dei vostri.

— Hanno detto che sono stati uccisi in diciannove? Non è vero.

— Non ricordo, esattamente.

— Be’, abbiamo effettivamente perduto diciannove persone, ma solo quattro sono state uccise, e nella prima parte della battaglia, prima che ci rendessimo conto di come funzionavano le loro difese. — Decisi di non parlare del modo in cui era morto Chin. Sarebbe stato troppo complicato. — Degli altri quindici, uno è stato colpito da uno dei nostri laser. Ha perso un braccio, ma è sopravvissuto. Tutti gli altri… hanno perso la ragione.

— Cosa? Un’arma dei taurani? — domandò Mike.

— I taurani non c’entrano affatto! È stato l’esercito. Ci avevano condizionati a uccidere tutto quello che si muoveva, una volta che il sergente avesse fatto scattare il condizionamento con alcune parole chiave. Quando i nostri ne venivano fuori, non ce la facevano a sopportare il ricordo. L’idea di essere stati dei macellai. — Scrollai il capo con violenza, un paio di volte. La droga mi faceva fin troppo effetto.

— Sentite, scusatemi. — Mi alzai in piedi, un po’ a fatica. — Sono in piedi da venti…

— Ma certo, William. — Mamma mi prese per il gomito e mi pilotò in una camera da letto e promise di svegliarmi in tempo per i festeggiamenti della sera. Il letto era scandalosamente comodo, ma avrei dormito anche in piedi, appoggiato a un albero nodoso.

La stanchezza, la droga e una giornata troppo intensa; Mamma dovette svegliarmi spruzzandomi dell’acqua in faccia. Mi guidò davanti a un armadio e mi indicò due vestiti come i più adatti all’occasione. Scelsi quello color mattone — l’azzurro-polvere non mi andava — mi feci la doccia e la barba, rifiutai di truccarmi (Mike, che era imbellettato come una bambola, si offrì di aiutarmi); poi mi armai con il foglio delle istruzioni che spiegava come dovevo fare per arrivare all’Assemblea Generale, e me ne andai.

Lungo il percorso mi persi due volte, ma ad ogni crocicchio c’erano dei piccoli computer che fornivano le indicazioni in quattordici lingue.

L’abbigliamento maschile, secondo me, aveva fatto veramente un notevole passo indietro. Dalla vita in su non era tanto male: blusa aderente a collo alto e una corta cappa; ma poi c’era un’alta cintura che non serviva a niente, e dalla quale pendeva un pugnaletto ingemmato, buono forse per aprire le lettere; e poi i pantaloni che si gonfiavano in grandi pieghe e finivano rimboccati dentro a lucidi stivali di cuoio sintetico, a tacco alto, che arrivavano fin quasi al ginocchio. Se avessi avuto anche un cappello piumato, sono sicuro che Shakespeare mi avrebbe ingaggiato a prima vista.

Le donne andavano un po’ meglio. Incontrai Marygay davanti alla sala dell’Assemblea Generale.

— Mi sento completamente nuda, William.

— Però ti sta bene. Comunque, è la moda. — Quasi tutte le donne giovani che avevo incontrato indossavano abiti simili: una semplice camicia con grandi finestre rettangolari, ai lati, dalle ascelle all’orlo. L’orlo finiva dove cominciava l’immaginazione. Per quanto riguardava la difesa del pudore, quelle camicie richiedevano movimenti molto cauti e una grande fiducia nell’elettricità statica.

— Hai già visto la sala? — disse Marygay, prendendomi per un braccio. — Entriamo, Conquistador.

Varcammo le porte automatiche e io mi fermai di colpo. La sala era così grande che a entrarci si aveva l’impressione di essere all’aperto.

La pianta era circolare, e aveva un diametro superiore ai cento metri. Le pareti salivano per sessanta o settanta metri buoni, fino a una cupola trasparente, che ricordavo di avere visto durante l’atterraggio, e sulla quale danzavano e turbinavano vortici grigi di neve. Le pareti erano rivestite di piastrelle di ceramica a mosaico, dai colori sobri: migliaia di figure che rappresentavano cronologicamente le conquiste dell’umanità. Non so per quanto tempo rimasi lì a contemplarle.

Attraversammo la sala e raggiungemmo gli altri duri veterani che stavano prendendo il caffè. Era sintetico, ma sempre meglio della soia. Con mio grande disappunto, venni a sapere che il tabacco, ormai, veniva coltivato raramente sulla Terra: addirittura, a scelta delle autorità locali, era fuori legge in certe zone, per conservare la terra coltivabile. Quello che si poteva trovare costava carissimo e di solito faceva schifo, perché veniva coltivato da dilettanti negli orticelli o addirittura sui balconi. L’unico tabacco buono era quello lunare e aveva un prezzo, be’, astronomico.

La marijuana era abbondante e costava pochissimo. In certi paesi, come gli Stati Uniti, era gratuita: prodotta e distribuita dallo stesso governo.

Ne offrii una sigaretta a Marygay, e lei la rifiutò. — Bisogna che mi ci abitui un po’ per volta. Ne ho fumata una, prima, e per poco non mi ha stesa.

— Anche a me ha fatto lo stesso effetto.

Un vecchio in uniforme entrò nella sala: sul petto aveva una sgargiante macedonia di nastrini, e le spalle erano appesantite ciascuna da cinque stelle. Sorrise benignamente quando una metà dei presenti scattò in piedi. Io mi sentivo troppo borghese, e restai seduto.

— Buonasera, buonasera — disse lui, facendo segno di sedersi. — Sono felice di vedervi qui. Felice di vedere che siete tanti. — Tanti? Un po’ più della metà del numero con cui avevamo incominciato.

— Sono il generale Gary Manker, capo di stato maggiore della FENU. Fra cinque minuti entreremo lì — e accennò con la testa in direzione della sala dell’Assemblea Generale. — Ci sarà una breve cerimonia. Poi sarete tutti liberi di prendervi il meritato riposo: oziate per qualche mese, andate a vedere il mondo, fate quello che volete. Purché teniate alla larga i giornalisti.

"Prima che ve ne andiate, però, vorrei dirvi qualcosa a proposito di quello che avrete voglia di fare dopo questi mesi, quando vi sarete stancati di stare in vacanza, quando comincerete ad essere a corto di danaro… — Come era prevedibile, era la stessa solfa che il generale Botsford ci aveva ammannito a Stargate. — Avrete bisogno di trovare un lavoro, e questo è l’unico lavoro che avrete la certezza di ottenere."

Il generale se ne andò dopo averci annunciato che un suo aiutante sarebbe arrivato di lì a pochi minuti per intrupparci e portarci sul podio. Nell’attesa ci divertimmo a discutere i meriti della rafferma.

Saltò fuori che l’aiutante era una donna giovane e bella che non faticò molto a metterci allegramente in ordine alfabetico (sembrava che dei militari non avesse un’opinione più elevata della nostra) e a condurci in sala.

I delegati delle prime due file avevano lasciato a noi i loro banchi. Io mi sedetti nel posto riservato alla rappresentanza del Gambia e ascoltai, un po’ a disagio, i vari episodi di eroismo e di sacrificio. Il generale Manker esponeva i fatti in modo quasi sempre giusto, però adoperava delle parole leggermente inesatte.

Poi ci chiamarono su, uno a uno, e il dottor Ojukwu consegnò ad ognuno una medaglia d’oro che doveva pesare un chilo. Poi ci tenne un discorsetto sull’umanità unita nella causa comune, mentre le olocamere ci inquadravano con discrezione, a turno. Una visione ispiratrice per quelli che assistevano allo spettacolo da casa. Quindi uscimmo, sfilando tra scrosci d’applausi che mi sembrarono piuttosto opprimenti.

Avevo chiesto a Marygay, che non aveva parenti in vita, di venire a stare con me. C’era una gran folla intorno all’ingresso principale della sala, e quindi ce la filammo dall’altra parte, prendemmo il primo ascensore che trovammo, salimmo parecchi piani e ci perdemmo completamente su una successione di marciapiedi mobili e di altri ascensori. Poi ricorremmo ai piccoli computer dei crocicchi per trovare la strada di casa.

Avevo parlato a Mamma di Marygay e le avevo detto che probabilmente l’avrei portata con me. Si salutarono con calore, e Mamma ci sistemò in soggiorno con un paio di drink e poi andò a preparare la cena. Mike ci raggiunse.

— Troverete la Terra spaventosamente noiosa — disse, dopo i convenevoli d’uso.

— Non saprei — dissi io. — La vita, sotto le armi, non è precisamente affascinante. Qualunque cambiamento sarà…

— Non riuscirai a trovare un lavoro.

— Non nel campo della fisica, lo so: ventisei anni sono più o meno come un’èra geologica…

— Non riuscirai a trovare nessun lavoro.

— Be’, avevo pensato di ricominciare gli studi, magari di andare avanti… — Mike scuoteva il capo.

— Lascialo finire, William. — Marygay si agitò, inquieta. — Penso che sappia qualcosa che noi non sappiamo.

Mio fratello finì di bere e fece roteare il ghiaccio sul fondo del bicchiere, guardandolo fisso. — esatto. Vedete, la Luna è tutta della FENU, borghesi e militari, e ci divertiamo a scambiarci le notizie.

— È un vecchio passatempo militare.

— Uh-uh. Be’, ho sentito dire qualcosa sul vostro conto… — Fece un ampio gesto. — Sul conto di voi veterani, e mi sono preso la briga di controllare. Era proprio vero.

— Lieto di saperlo.

— Sì, immagino. — Mike depose il bicchiere, tirò fuori una sigaretta alla marijuana, la guardò e la rimise nel pacchetto. — La FENU è pronta a ricorrere a qualunque mezzo, meno che il rapimento, per riavervi tutti quanti. Sono loro che controllano la Commissione Collocamento, e potete essere sicuri che verrete giudicati poco qualificati o troppo qualificati per qualunque possibilità d’impiego che vi si offrisse. Eccetto che nell’esercito.

— È sicuro? — chiese Marygay. Ormai ne sapevamo troppo, tutti e due, per protestare che non potevano fare una cosa simile.

— Sicurissimo. Ho un amico nella divisione lunare della Commissione Collocamento. Mi ha mostrato la circolare: è redatta in modo molto elegante. Ma dice: "Non sono assolutamente ammesse eccezioni."

— Magari quando uscirò dalla scuola…

— Non ci entrerai mai, nella scuola. Non ce la farai mai a superare quel labirinto di criteri di qualificazione e di numeri chiusi. E se provassi a insistere, ti diranno che sei troppo vecchio… diavolo, io non potrei entrare in un corso di laurea alla mia età, e…

— Già, ho afferrato l’idea. Io ho due anni più di te.

— Esatto. Quindi la scelta è questa: o vivere per tutta la vita col sussidio di disoccupazione o tornare nell’esercito.

— Non se ne parla neanche — disse Marygay. — Sussidio di disoccupazione.

Mi dichiarai d’accordo. — Se cinque o sei miliardi di persone ce la fanno a campare decentemente senza una professione, posso farcela anch’io.

— Loro ci sono cresciuti dentro — disse Mike. — E non è detto che sia quella che tu chiameresti una vita decente. In generale, fanno i perdigiorno, fumano droga e guardano l’olovisione. Ricevono giusto il vitto sufficiente per controbilanciare le calorie consumate. Carne una volta la settimana, persino nella Categoria A.

— Non sarebbe una novità — dissi io. — Per quel che riguarda il vitto, almeno… È esattamente così che ci davano da mangiare nell’esercito.

"In quanto al resto, come hai appena detto tu, Marygay e io non ci siamo cresciuti, dentro. Non passeremmo il tempo a starcene seduti mezzi rimbecilliti dalle droghe a guardare l’olovisione tutto il giorno."

— Io dipingo — disse Marygay. — Ho sempre desiderato mettermi tranquilla e imparare a dipingere veramente bene.

— E io posso continuare a studiare fisica, anche senza rincorrere una laurea. E potrei darmi alla musica o mettermi a scrivere o… — Mi girai verso Marygay. — O a fare qualcuna delle cose di cui ci ha parlato il sergente a Stargate.

— Entrerete a far parte del Nuovo Rinascimento — disse Mike, con voce piatta, accendendo la pipa. Era tabacco e aveva un profumo delizioso.

Probabilmente notò il mio sguardo avido. — Oh, sono proprio un pessimo ospite. — Tirò fuori delle cartine dalla borsa e arrotolò una sigaretta con mosse esperte. — Ecco qui. Marygay?

— No, grazie… se procurarselo è difficile come dicono, non voglio riprendere l’abitudine.

Mike annuì e riaccese la pipa. — Non è mai servito a niente. È meglio abituarsi a rilassarsi senza ricorrere al tabacco. — Si rivolse a me. — L’esercito vi teneva a corto di sigarette per paura del cancro?

— Sicuro. — Non sarebbe stato simpatico morire in un modo così poco militare. Accesi la sottile sigaretta. — Molto buono.

— Migliore di quello che potrai procurarti sulla Terra. Anche la marijuana lunare è meglio. Non stordisce tanto.

Mamma entrò e venne a sedersi. — La cena sarà pronta fra pochi minuti. Ho sentito che Michael ha ricominciato a fare paragoni ingiusti.

— Perché ingiusti? Con la marijuana terrestre, bastano un paio di sigarette per ridurti a uno zombie.

— Correzione: ti ci riduci tu. È perché non ci sei abituato.

— Okay, okay. E un figlio non deve contraddire sua madre.

— No, quando ha ragione lei — disse Mamma, stranamente senza allegria. — Be’, ragazzi, vi piace il pesce?

Parlammo della fame che avevamo, un argomento abbastanza tranquillo, per un paio di minuti, e poi sedemmo davanti a un’enorme aragosta rossa alla griglia, servita su un letto di rìso. Era il primo pasto come si deve che io e Marygay facevamo dopo ventisei anni.

23

Come tutti gli altri, il giorno dopo fui intervistato dall’olovisione. Fu un’esperienza esasperante.

Commentatore: — Sergente Mandella, lei è uno dei militari più decorati della FENU. — (Verissimo, a Stargate ci avevano dato una manciata di nastrini a testa.) — Lei ha partecipato alla famosa campagna di Aleph, il primo vero contatto con i taurani, ed è appena ritornato da un attacco contro Yod-4.

Io: — Be’, non si può dire che…

Commentatore: — Prima di parlare di Yod-4, sono sicuro che al nostro pubblico interesserebbe moltissimo una sua impressione personale dei nemici, poiché è uno dei pochissimi che li ha incontrati faccia a faccia. Hanno un aspetto orribile, vero?

lo: — Be’, sì. Immagino che abbiate visto le foto. Quello che non mostrano, però, è il tipo di pelle. È scagliosa e ruvida come quella di una lucertola, però è arancione pallido.

Commentatore: — Che odore hanno? — Odore?

Io: — Non ne ho la minima idea. Dentro a uno scafandro si sente solo il proprio odore.

Commentatore: — Ah, ah, capisco. Quel che voglio sapere da lei, sergente, è quello che ha provato la prima volta che ha visto i nemici… Aveva paura di loro, era disgustato, infuriato o cosa?

— Be’, avevo paura, la prima volta, ed ero disgustato. Soprattutto la paura… ma prima della battaglia, quando un taurano ci è passato in volo sopra la testa. Durante la battaglia, eravamo sotto l’influenza di un condizionamento d’odio… ci avevano condizionati sulla Terra, e poi hanno fatto scattare la suggestione con una frase chiave… E io non sentivo altro che un furore artificiale.

— Li disprezzava… e non ha avuto pietà.

— Giusto. Li abbiamo assassinati tutti, sebbene non tentassero neppure di reagire. Ma quando ci hanno liberati dal condizionamento… be’, non riuscivamo a credere di esserci comportati da macellai. Quattordici dei nostri sono impazziti e tutti gli altri hanno tirato avanti per settimane a tranquillanti.

— Ah — fece il commentatore, con aria distratta, e guardò a lato per un momento. — Lei personalmente quanti ne ha uccisi?

— Quindici, venti… non lo so. Come ho detto, non eravamo padroni di noi. È stato un massacro.

Per tutta l’intervista, il commentatore mi era sembrato un po’ tardo, tendente a ripetersi. E quella sera scoprii il perché.

Marygay e io guardammo l’olovisione insieme a Mike. Mamma era uscita per farsi mettere qualche dente falso (pareva che i dentisti di Ginevra fossero migliori di quelli americani). La mia intervista era in un programma intitolato Pot-pourri, fra un documentario sulle culture idroponiche lunari e il concerto d’un tale che affermava di saper suonare la Doppia fantasia in la maggiore di Telemann con l’armonica. Mi chiesi se ci fosse qualcun altro, a Ginevra o in tutto il mondo, sintonizzato su quel programma.

Be’, il documentario sulle culture idroponiche era interessante e il suonatore d’armonica era un virtuoso, ma la mia intervista era uno schifo.

Commentatore: — Che odore hanno?

Io (fuori campo): — Orribile, una combinazione di verdura marcia e di zolfo. Il fetore penetra attraverso i tubi di scarico dello scafandro.

Mi aveva fatto parlare tanto per registrare un’ampissima gamma di suoni, e con un lavoretto di montaggio aveva ricavato le risposte che voleva lui alle sue domande.

— E come diavolo ha fatto? — chiesi a Mike quando la trasmissione finì.

— Non prendertela con lui — disse Mike, mentre guardava il musicista che, quadruplicato, suonava quattro diverse armoniche. Tutti i mass-media sono censurati dalla FENU. Sono dieci, dodici anni che la Terra non ha più notizie obiettive della guerra. È già tanto che non abbiano messo un attore al tuo posto e non gli abbiano dettato le battute.

— E sulla Luna va meglio?

— Per quanto riguarda le trasmissioni pubbliche, no. Ma poiché lì tutti sono legati alla FENU, è abbastanza facile scoprire quando mentono spudoratamente.

— Ha tagliato completamente la parte sul condizionamento.

— È comprensibile. — Mike alzò le spalle. — Hanno bisogno di eroi, non di automi.

L’intervista di Marygay venne trasmessa un’ora dopo, e anche con lei avevano fatto la stessa cosa. Ogni volta che aveva detto qualcosa contro la guerra o contro l’esercito, sullo schermo appariva un piano d’ascolto della donna che l’intervistava, e che annuiva con aria saggia mentre, fuori campo, una perfetta imitazione della voce di Marygay snocciolava una serie di stupidaggini.

La FENU ci pagava vitto e alloggio per cinque giorni a Ginevra, ed era un posto buono come un altro per cominciare l’esplorazione della nuova Terra. La mattina dopo ci procurammo una guida, che era un libretto spesso un centimetro, e prendemmo l’ascensore per il pianterreno, decisi ad arrivare fino al tetto senza farci sfuggire niente.

Il pianterreno era uno strano miscuglio di storia e d’industria pesante. La base dell’edificio copriva una buona parte di quella che era stata un tempo la città di Ginevra, e parecchi degli antichi edifici erano stati conservati.

In generale, però, era tutto baccano e trambusto: grossi camion che arrivavano dall’esterno, spargendo nuvole di neve; chiatte che sbattevano rombando contro i pilastri del molo (il fiume Rodano passa in mezzo a quella grande distesa); c’erano persino alcuni piccoli elicotteri che trafficavano di qua e di là, coordinando le operazioni e tenendosi alla larga dai sostegni e dalle travature che reggevano il cielo grigio del primo piano, quaranta metri più su.

Era una meraviglia, e saremmo rimasti a guardare per ore e ore, ma saremmo morti congelati in pochi minuti, con quelle cappe leggere che avevamo addosso, in quel vento e in quel freddo. Decidemmo che saremmo tornati un altro giorno, vestiti in modo più pesante.

Il piano di sopra veniva chiamato primo piano, contrariamente alla logica di noi americani. Marygay mi spiegò che in Europa lo hanno sempre numerato in quel modo. (Era buffo: ero stato a un migliaio di anni-luce dal Nuovo Messico, ma quella era la prima volta che avevo attraversato l’Atlantico). Era il cervello dell’organismo, dove stavano i burocrati e gli analisti del sistema e i loro aggeggi criogenici.

Ci fermammo in un grande atrio silenzioso che, stranamente, aveva odore di vetro. Una parete era occupata da un enorme cubo olovisivo che mostrava l’organigramma di Ginevra: un’esile piramide arancione con decine di migliaia di nomi collegati da linee, dal sindaco che stava in vetta fino agli "addetti alla sicurezza dei corridoi" che stavano alla base. I nomi si spegnevano e venivano sostituiti da altri, quando qualcuno moriva o veniva licenziato o promosso o retrocesso. Era una forma lucente e mutevole, e sembrava il sistema nervoso di una creatura fantastica. E in un certo senso, ovviamente, lo era.

Nella parete di fronte al cubo olovisivo c’era una vetrata affacciata su una grande sala: una targa la indicava come KONTROLLEZIMMER. Dietro la vetrata c’erano centinaia di tecnici, in file e colonne ben ordinate, ognuno con la sua console e un olovisore semipiatto circondato da quadranti e interruttori. La sala aveva un’atmosfera elettrica, indaffarata; quasi tutti avevano una cuffia con microfono incorporata, e parlavano con altri tecnici mentre scarabocchiavano su una tabella o manovravano gli interruttori; altri pestavano sui tasti della console, con la cuffia penzolante dal collo. C’erano pochissimi posti vuoti, e i loro proprietari se ne andavano in giro con aria d’importanza. Un distributore automatico di caffè percorreva lentamente una fila, per poi svoltare in quella seguente.

Attraverso il vetro si sentiva appena un lieve brusio, ma all’interno doveva esserci un baccano d’inferno.

Nell’atrio c’erano solo altre due persone, e le sentimmo dire che andavano a vedere "il cervello". Le seguimmo per un lungo corridoio fino a un’altra vetrata, più piccola in confronto a quella affacciata sulla Sala Controllo: dava sui computer che facevano funzionare Ginevra. L’unica illuminazione era costituita dalla fioca, fredda luce azzurra proveniente dalla sala sottostante.

La sala del computer era relativamente piccola, in confronto; più o meno come due campi da tennis. Gli elementi dei computer erano scatoloni grigi di varia grandezza, collegati da un labirinto di gallerie di vetro ad altezza d’uomo che avevano portelli a intervalli regolari. Evidentemente, quel sistema consentiva di accedere a un elemento per volta, per le riparazioni, mentre il resto della sala veniva mantenuto a una temperatura prossima allo zero assoluto, che favoriva la superconduttività.

Sebbene non ci fosse l’attività nervosa della sala controllo, e il frenetico trambusto del piano terreno, nella sua staticità la sala computer era più impressionante. Dava la sensazione di poteri immensi e inconoscibili saldamente imbrigliati: un tempio dell’ordine e dell’intelligenza.

Gli altri due visitatori ci dissero che a quel piano non c’era nient’altro di interessante, solo sale di riunione e uffici, e funzionari indaffarati. Tornammo all’ascensore e salimmo al secondo piano, che era il principale centro commerciale.

Lì la guida ci fu molto utile. La galleria era formata da centinaia di negozi e di mercati "all’aperto", disposti a griglia su una pianta rettangolare, con marciapiedi mobili che si intrecciavano e delimitavano i blocchi in cui erano radunati i negozi dello stesso tipo. Andammo sul corso principale, che era una capricciosa ricostruzione di un villaggio medievale. C’era una chiesa barocca, il cui campanile, grazie a un’illusione olografica, saliva fino al terzo e al quarto piano. Mosaici a muro con scene religiose primitive, ciottoli disposti in motivi complicati, una fontana con l’acqua che sgorgava dalle fauci dei mostri… Comprammo un grappolo d’uva da un fruttivendolo all’aperto (l’illusione svanì quando ritirò un biglietto con le calorie e timbrò il mio libretto annonario) e ci incamminammo lungo gli stretti marciapiedi di mattoni. Ci piacque moltissimo. Ero felice che la Terra avesse ancora il tempo, l’energia e le risorse per realizzare cose del genere.

C’era una scelta vastissima di oggetti e di servizi, e noi avevamo una quantità di danaro, ma avevamo perduto l’abitudine di fare acquisti, credo, e non sapevamo per quanto tempo sarebbe durato il nuovo patrimonio.

(Avevamo effettivamente un patrimonio, nonostante quello che ci aveva detto il generale Botsford. Il padre della Rogers era un avvocato fiscalista formidabile, e lei aveva passato parola: dovevamo pagare le tasse solo per la percentuale stabilita per il nostro reddito medio annuo. Così io mi ritrovavo con 280.000 dollari.)

Saltammo il terzo piano, che era riservato quasi tutto alle comunicazioni, perché l’avevamo girato e rigirato tutto il giorno prima, quando eravamo andati a fare le interviste. Io provai la tentazione di andare a scambiare due parole con il tale che mi aveva combinato lo scherzetto delle dichiarazioni, ma Marygay mi convinse che sarebbe stato inutile.

La montagna artificiale di Ginevra è fatta a gradini, come una torta nuziale: i primi tre piani e il pianterreno hanno un diametro di circa un chilometro e un’altezza di circa cento metri: dal quarto al trentaduesimo piano l’altezza è circa la stessa, ma il diametro è più o meno la metà. I piani dal trentatré al settantadue formano il cilindro superiore, circa 300 metri di diametro per 120 d’altezza.

Il quarto piano, come il trentatreesimo, è un parco: alberi, ruscelli, animaletti. Le pareti sono trasparenti, e quando c’è bel tempo vengono aperte, e il "cornicione", che è anche il tetto del terzo piano, è piantato a fitta foresta. Riposammo per un po’ accanto a un laghetto, guardando la gente che nuotava e gettando pezzetti d’uva ai pesciolini.

Qualcosa mi aveva turbato, subliminalmente, da quando eravamo arrivati a Ginevra; e all’improvviso, circondato da tutta quella gente simpatica, capii di cosa si trattava.

— Marygay — dissi — qui nessuno è infelice.

Ella sorrise. — Chi potrebbe essere triste in un posto come questo? Tutti i fiori e…

— No, no… Intendo dire in tutta Ginevra. Hai visto qualcuno che avesse l’aria insoddisfatta di come vanno le cose? Che…

— Tuo fratello…

— Sicuro, ma anche lui è forestiero. Volevo dire i commercianti e quelli che lavorano e quelli che oziano.

Lei assunse un’aria pensierosa. — Non ci avevo fatto caso. Forse è vero.

— Non ti sembra strano?

— È insolito… ma… — Gettò nell’acqua un chicco intero, e i pesciolini si dispersero. — Ricordi quello che ha detto il sergente omosessuale? Diagnosticano e correggono i tratti antisociali già nella prima infanzia. E quale persona razionale non sarebbe felice, qui?

Io sbuffai. — Metà di costoro sono disoccupati, e l’altra metà svolge dei lavori artificiosi, che sono inutili o che una macchina potrebbe fare assai meglio.

— Ma tutti hanno abbastanza da mangiare, e una quantità di cose di cui occuparsi. Ventisei anni fa non era così.

— Forse — dissi. Non avevo voglia di discutere. — Immagino che abbia ragione tu. — Comunque, la cosa mi infastidiva.

24

Passammo il resto di quel giorno e tutto il giorno seguente alla sede delle Nazioni Unite (in pratica la capitale del mondo) che occupava il cilindro superiore di Ginevra. Ci sarebbero volute parecchie settimane per vedere tutto. Diavolo, sarebbe stata necessaria una settimana intera solo per visitare il Museo dell’Uomo. Ogni paese ha il suo reparto, con un negozio che vende i prodotti tipici, e qualche volta anche un ristorante che serve i piatti caratteristici. Avevo temuto che le identità nazionali venissero sommerse, che quel nuovo mondo fosse abbondante in fatto di ordine e scarso in fatto di varietà. Ero lieto di essermi sbagliato.

Marygay e io fissammo un itinerario di viaggio mentre visitavamo le Nazioni Unite. Decidemmo di ritornare negli Stati Uniti e di trovare un posto dove stabilirci, e poi rimetterci di nuovo in viaggio per un paio di mesi.

Quando mi rivolsi a Mamma chiedendole consiglio su come dovevo fare per trovare un appartamento, mi sembrò stranamente imbarazzata, come a suo tempo il sergente Siri. Mi disse che avrebbe visto cosa si poteva trovare a Washington, dove sarebbe ritornata il giorno dopo; mio padre aveva lavorato là, e Mamma non aveva ritenuto di trasferirsi dopo ch’egli era morto.

Chiesi a Mike la ragione di quella riluttanza a parlare di alloggi, e lui disse che era una conseguenza degli anni caotici trascorsi tra le rivolte per il cibo e la Ricostruzione. Allora le abitazioni non erano sufficienti; la gente era costretta a vivere a due famiglie per stanza, persino nelle nazioni che erano state ricche. La situazione era instabile e alla fine erano entrate in scena le Nazioni Unite, prima con una campagna propagandistica, e poi con il condizionamento di massa, imponendo l’idea che era una virtù vivere in un’abitazione piccola il più possibile, e che era peccaminoso già desiderare vivere soli o in un’abitazione molto spaziosa. E così nessuno ne parlava.

Molti avevano ancora un residuo di condizionamento, sebbene fossero stati disintossicati oltre un decennio prima. In molti ambienti sociali era giudicato scorretto, imperdonabile o troppo ardito parlare di simili cose.

Mamma ritornò a Washington e Mike sulla Luna, e Marygay e io restammo a Ginevra ancora per un paio di giorni.

Scendemmo dall’aereo all’aeroporto Dulles e prendemmo la monorotaia per Rifton, la città satellite dove abitava Mamma.

Era piacevolmente piccola, dopo Ginevra, sebbene si estendesse su di un’area molto più vasta. Era un simpatico miscuglio di edifici di tipo diverso, quasi tutti a pochi piani, circondati dagli alberi e disposti intorno a un lago. Tutte le costruzioni erano collegate a mezzo di marciapiedi mobili con l’edificio più grande, una cupola dove c’erano i negozi, le scuole e gli uffici. Lì trovammo una guida che ci disse come dovevamo fare per arrivare a casa di Mamma, un duplex sul lago.

Avremmo potuto salire sul marciapiede mobile coperto, ma invece andammo a piedi, costeggiandolo, nella buona aria fredda che odorava di foglie cadute. Al di là della plastica la gente scivolava via sul suo marciapiede, evitando scrupolosamente di guardarci.

Mamma non venne ad aprire la porta, ma scoprimmo che non era chiusa a chiave. Era un appartamentino comodo, molto spazioso in confronto alle cabine delle astronavi, e pieno di mobili del Ventesimo secolo. Mamma dormiva in camera da letto, e Marygay e io ci sedemmo in soggiorno e leggemmo, per un po’.

All’improvviso ci fece trasalire un forte attacco di tosse: veniva dalla stanza da letto. Corsi a bussare all’uscio.

— William? Non sapevo… — Tossendo. — Vieni avanti, non sapevo che fossi…

Era semisdraiata sul letto, con tanti cuscini, la luce accesa, circondata da varie panacee. Aveva un aspetto orribile: era pallidissima, tutta rughe.

Accese una sigaretta drogata, che sembrò calmare la tosse. — Quando sei entrato? Non sapevo…

— Solo pochi minuti fa… Da quando ce l’hai… Da quando sei ammalata…

— Oh, è solo qualcosa che devo aver preso a Ginevra. Mi rimetterò in un paio di giorni. — Ricominciò a tossire, bevve un po’ di denso sciroppo rosso da una bottiglia. Tutte le sue medicine sembravano del tipo comune, commerciale.

— Hai chiamato un dottore?

— Un dottore? Santo cielo, no, Willy. Loro non… non è grave… Non…

— Non è grave? — A ottantaquattro anni. — Per amor di Dio, Mamma.

Andai al telefono, in cucina, e con qualche difficoltà riuscii a mettermi in contatto con l’ospedale.

Nel cubo si formò una ragazza dall’aria scialba, sulla ventina. — Infermiera Donalson, servizio pubblico. — Aveva un sorriso fisso, un’aria di sincerità professionale. Ma, se è solo per questo, sorridevano tutti.

— Mia madre ha bisogno di un medico. Ha un…

— Nome e numero, prego.

— Bette Mandella. — Dettai il nome lettera per lettera. — Quale numero?

— Quello del servizio medico, naturalmente — sorrise la ragazza.

Chiamai Mamma e le chiesi qual era il suo numero. — Dice che non lo ricorda.

— Non importa, signore. Troverò lo stesso il fascicolo. — Spostò il suo sorriso a una tastiera che aveva accanto a sé, e batté qualcosa.

— Bette Mandella? — disse, mentre il sorriso diventava interrogativo. — E lei è suo figlio? Sua madre deve avere passato gli ottant’anni.

— Per favore. È una storia lunga. E mia madre ha veramente bisogno di un medico.

— È uno scherzo?

— Cosa vorrebbe dire? — Ancora una tosse strangolata, dalla camera da letto, ancora peggio. — Davvero… può essere una cosa molto grave, bisogna…

— Ma, signore, Mrs. Mandella ha avuto una classificazione di priorità zero fin dal 2010.

— E cosa diavolo vorrebbe dire?

— Si-gno-re… — Il sorriso si indurì.

— Senta. Faccia finta che io arrivi da un altro pianeta. Che cos’è una "classificazione di priorità zero"?

— Un altro… oh! Io la conosco! — Guardò fuori campo, verso sinistra. — Sonya… vieni un secondo. Non indovineresti mai chi… — Un’altra faccia comparve nel cubo: una bionda svampita il cui sorriso era identico a quello dell’altra infermiera. — Ricordi? Sul giornale di stamattina?

— Oh, sicuro — fece la bionda. — Uno dei soldati… ehi, questo è grande, proprio grande. — La testa si ritirò.

— Oh, Mr Mandella — disse la prima infermiera, in tono espansivo. — Non mi sorprende che lei sia confuso. In realtà è molto semplice.

— E allora?

— Fa parte del Servizio Assistenza Medica Universale. Tutti vengono classificati, al compimento del settantesimo anno di età. Arriva automaticamente da Ginevra.

— E cosa classifica? Che cosa significa? — Ma l’orribile verità era già evidente.

— Be’, stabilisce l’importanza della persona e il livello di trattamento cui ha diritto. La classe tre è come per tutti; la classe due è lo stesso, a parte certi trattamenti di prolungamento della vita…

— E la classe zero non ha diritto a nessuna cura.

— Esatto, Mr Mandella. — E nel suo sorriso non c’era un barlume di pietà o di comprensione.

— Grazie. — Tolsi la comunicazione. Marygay era dietro di me e piangeva in silenzio, a bocca aperta.

Trovai una bombola d’ossigeno per alpinisti in un negozio d’articoli sportivi, e riuscii persino a procurarmi un po’ di antibiotici al mercato nero, per mezzo di un tale che scovai in un bar di Washington. Ma Mamma non era più in grado di reagire a una cura improvvisata da un dilettante. Visse ancora quattro giorni. Quelli del crematorio avevano lo stesso sorriso fisso.

Cercai di parlare con Mike, ma la compagnia dei telefoni non mi permise di effettuare la chiamata fino a quando non ebbi firmato un contratto e rimesso un assegno di 25.000 dollari. Dovetti farmi trasferire il credito da Ginevra. Le pratiche portarono via mezza giornata.

Finalmente riuscii a parlare con lui. Senza preamboli:

— Mamma è morta.

Per una frazione di secondo, le onde radio salirono fino alla luna, e dopo un’altra frazione di secondo ritornarono. Mike trasalì, poi chinò il capo lentamente. — Non mi sorprende. Ogni volta che tornavo sulla Terra, negli ultimi dieci anni, mi chiedevo se l’avrei trovata ancora. Nessuno di noi aveva abbastanza danaro per tenerci in contatto. — A Ginevra ci aveva spiegato che una lettera dalla Luna alla Terra costava 100 dollari di tariffa postale… più 5000 di tasse. Serviva a scoraggiare le comunicazioni con quello che le Nazioni Unite consideravano un branco di anarchici sfortunatamente indispensabili.

Ci commiserammo a vicenda per un po’, poi Mike disse: — Willy, la Terra non è un posto per te e per Marygay; ormai l’avete capito. Venite sulla Luna, dove si può ancora avere una personalità. Dove non buttiamo fuori dal portello la gente quando arriva a settant’anni.

— Dovremmo rientrare nella FENU.

— È vero, ma non dovreste più combattere. Dicono che hanno bisogno di voi come istruttori. E tu potresti studiare, a tempo perso, metterti al corrente dei progressi della fisica… e magari, più tardi, passare alla ricerca.

Parlammo ancora un po’, per un totale di tre minuti. Mi furono restituiti 1000 dollari.

Marygay e io ne parlammo per tutta la notte. Forse la nostra decisione sarebbe stata diversa se non fossimo stati lì, circondati dalla vita e dalla morte di Mamma: ma quando arrivò l’alba, la bellezza fiera, ambiziosa e perfetta della cittadina di Rifton era diventata sinistra, malaugurante.

Facemmo le valigie, trasferimmo il nostro conto alla Credit Union di Tycho e prendemmo la monorotaia per il Capo.

25

— Nel caso che vi interessi, non siete i soli veterani che sono venuti a reingaggiarsi. — L’ufficiale addetto al reclutamento era un tenente muscoloso di genere imprecisato. Gettai mentalmente in aria una moneta, e venne croce: femmina.

— Secondo le ultime notizie, ce ne sono stati già altri nove — disse con la sua voce da tenore rauco. — E tutti hanno optato per la Luna… Magari ci troverete qualcuno dei vostri amici. — Passò attraverso la scrivania due semplici moduli. — Firmateli e sarete di nuovo nell’esercito. Con il grado di secondo tenente.

Il modulo era una semplice richiesta di venire assegnati al servizio attivo; in realtà la FENU non ci aveva mai mollati, perché la legge sulla coscrizione era stata estesa, ed eravamo semplicemente in licenza indefinita. Scrutai attentamente il foglio.

— Qui non ci sono le garanzie che ci avevano promesso a Stargate.

— Quali garanzie? — lei aveva quel sorriso meccanico che era così tipico della Terra.

— Ci avevano garantito la scelta dell’incarico e della sede. Su questo contratto non c’è niente.

— Non sarà necessario. La FENU…

— Io lo ritengo necessario, tenente. — Restituii il modulo. Lo restituì anche Marygay.

— Lasciatemi controllare. — Quella lasciò la scrivania e sparì in un ufficio. Rimase al telefono per un po’, e poi sentimmo ticchettare una stampatrice.

Ci riportò gli stessi due fogli, con una clausola aggiunta a macchina sotto i nostri nomi:

GARANTITI SEDE SCELTA (LUNA) E INCARICO SCELTO (SPECIALISTA ISTRUTTORE DI COMBATTIMENTO).

Ci fecero una scrupolosa visita medica e ci adattarono degli scafandri da combattimento nuovi. La mattina dopo prendemmo il primo servizio navetta per l’orbita, ci godemmo per qualche ora la gravità zero mentre trasferivano il carico su una navetta a tachioni, e poi sfrecciammo verso la Luna e scendemmo alla Base Grimaldi.

Sulla porta dell’Alloggio Ufficiali in Transito, qualche spiritoso aveva scarabocchiato: "Lasciate ogni speranza, o voi che entrate." Trovammo un cubicolo per due persone e cominciammo a cambiarci per il rancio.

Due colpi all’uscio. — Posta, signori.

Aprii la porta e il sergente che aveva bussato salutò. Lo fissai per un secondo e poi ricordai che ero un ufficiale e ricambiai il saluto. Mi consegnò due fax, identici. Ne diedi uno a Marygay. I nostri cuori dovettero fermarsi simultaneamente:

**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**

IL PERSONALE SOTTO ELENCATO:

Mandella William 2°TEN (11 575 278) COCOM D COMP GRIATRNS

Potter Marygay 2°TEN (17 386 907) COCOM B COMP GRIATRNS

È RIASSEGNATO A:

2°TEN Mandella: PLCOM 2 PL FDATHETA STARGATE

2°TEN Potter: PLCOM 3 PL FDATHETA STARGATE

PER: comando plotone fanteria nella campagna di Tet-2.

IL PERSONALE SOPRA ELENCATO SI PRESENTI IMMEDIATAMENTE AL BATTAGLIONE TRASPORTO GRIMALDI PER VENIRE TRASPORTATO ALLA NUOVA SEDE.

DA STARGATE TACCBD-1298-8684-1450/4 dicembre 2024 SG ETO: il Comandante FDACOM

**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**ORDINI**

— Non hanno perso tempo, vero? — disse amaramente Marygay.

— Deve essere un ordine generale. Il Comando della Forza d’Attacco è lontano da qui diverse settimane-luce. Non possono neppure sapere che ci siamo arruolati di nuovo.

— E la nostra… — Marygay non finì la frase.

La garanzia. — Be’, ci hanno dato davvero l’incarico che avevamo scelto. Nessuno aveva garantito che l’avremmo tenuto per più di un’ora.

— È uno schifo.

Scrollai le spalle. — È l’esercito. — Ma avevo due sensazioni inquietanti:

Che avessimo sempre saputo quello che sarebbe successo.

Che stavamo tornando a casa.

PARTE TERZA

Tenente Mandella

(2024-2389 d.C.)

26

— Un sistema svelto e sporco. — Stavo guardando il sergente del mio plotone, Santesteban, ma parlavo a me stesso. E chiunque altri mi stesse a sentire.

— Già — disse lui. Bisogna farcela nei primi due minuti, o si è fregati. — Era molto laconico. Drogato.

Il soldato semplice Collins mi si avvicinò insieme alla Halliday. Quelle due si tenevano ancora per la manina, quasi senza rendersene conto. — Tenente Mandella? — La sua voce si spezzò. — Possiamo avere un minuto? Un minuto solo?

— Un solo minuto — dissi io, troppo bruscamente. Dobbiamo partire fra cinque, mi dispiace.

Mi era difficile guardare quelle due insieme, adesso. Nessuna aveva la minima esperienza di combattimento. Ma sapevano tutti: che avevano pochissime probabilità di rivedersi ancora. Si accasciarono in un angolo e si scambiarono mormorii e carezze meccaniche, senza passione, persino senza conforto. La Collins aveva gli occhi lucidi, ma non piangeva. La Halliday era tetra, stordita. In condizioni normali, era di gran lunga la più carina delle due, ma tutto il fuoco in lei si era spento, e aveva lasciato un guscio ben fatto ma opaco.

Mi ero abituato alle femmine omosessuali, nei mesi passati da quando avevamo lasciato la Terra. Avevo persino smesso di risentirmi per la perdita di compagne potenziali. Però gli uomini che si mettevano insieme mi davano ancora i brividi.

Mi spogliai ed entrai a ritroso nello scafandro, aperto davanti a me come un’ostrica. Quelli nuovi erano maledettamente più complicati, con tutti quei nuovi sistemi biometrici e servizi antitrauma. Ma valeva la pena di averli addosso, nel caso il nemico ti dovesse spaccare un pochino. Te ne tornavi a casa con una buona pensione e la protesi dell’eroe. Stavano parlando addirittura della possibilità di rigenerare le braccia e le gambe perdute. Sarebbe stato opportuno che si sbrigassero presto, prima che il pianeta Paradiso si riempisse di gente ridotta ai minimi termini. Paradiso era il nuovo pianeta ospedale, centro di riposo e di ricreazione.

Finii la sequenza di assestamento e lo scafandro si chiuse da sé. Digrignai i denti per prepararmi al dolore che non veniva mai, quando i sensori interni e i tubicini interni dei fluidi entravano nel corpo. Grazie a dei bypass neurali condizionati, ci si sentiva solo lievemente frastornati. Meglio quello che la sofferenza di mille piccole ferite.

Intanto la Collins e la Halliday si stavano infilando negli scafandri, e gli altri erano già quasi a posto: andai nell’area di vestizione del Terzo plotone, per salutare di nuovo Marygay.

Ella aveva già lo scafandro addosso, e veniva verso di me. Accostammo gli elmi, invece di servirci della radio. C’era più intimità.

— Come va, tesoro?

— Tutto bene — disse lei. — Ho preso la pillola.

— Già, questi sono tempi felici. — Anch’io avevo preso la mia: doveva rendere ottimisti senza interferire con la capacità di giudizio. Sapevo che molti di noi probabilmente ci avrebbero lasciato la vita, ma non ne ero molto rattristato. — Dormi con me, stanotte?

— Se saremo ancora qui tutti e due — disse lei, in tono neutro. — Dovrò prendere una pillola anche per quello. — Cercò di ridere. Per dormire, voglio dire. I nuovi come vanno? Ne hai dieci, vero?

— Dieci, sicuro. Vanno bene. Drogati, a un quarto di dose.

— L’ho fatto anch’io, per cercare di tenerli un po’ su.

In effetti, Santesteban era l’unico reduce di guerra del mio plotone, a parte me. I quattro caporali erano nella FENU da un po’, ma non avevano mai combattuto.

L’altoparlante che avevo nello zigomo crepitò e il comandante Cortez disse: — Due minuti. Mettete in fila i vostri uomini.

Ci dicemmo addio e io tornai a sorvegliare il mio gregge. A quanto pareva, tutti si erano infilati gli scafandri senza difficoltà, perciò li misi in fila. Aspettammo parecchio.

— Bene, caricateli. — Alla parola "caricateli" il portellone davanti a me si aprì (intanto la zona vestizione era già stata svuotata dell’aria) e io guidai i miei, uomini e donne, dentro l’astronave d’assalto.

Quelle astronavi nuove erano brutte come il peccato. Un’intelaiatura aperta, con delle morse per tenerti a posto, laser girevoli a poppa e a prua, e piccole centrali a tachioni sotto i laser. Tutto automatizzato. La macchina ci avrebbe deposti a terra al più presto possibile e poi sarebbe schizzata via per andare ad assalire il nemico. Era un apparecchio automatico, da usare una volta e poi buttare via. Il veicolo che sarebbe venuto a raccoglierci, se fossimo sopravvissuti, era lì vicino, ed era molto più bello.

Ci fissammo con i morsetti e l’astronave d’assalto si lanciò dalla Sangre y Victoria con due guizzi gemelli dei reattori. Poi la voce della macchina cominciò un breve conto alla rovescia, e noi scendemmo con un’accelerazione di quattro gravità.

Il pianeta, cui nessuno si era preso la briga di dare un nome, era un pezzo di roccia nera, senza una stella normale abbastanza vicina per dargli un po’ di colore. All’inizio fu visibile solo perché la sua massa nascondeva la luce delle stelle che gli stavano dietro, ma via via che ci avvicinavamo potemmo scorgere sottili variazioni nell’oscurità della sua superficie. Stavamo per scendere sull’emisfero opposto a quello su cui si trovava l’avamposto taurano.

La nostra ricognizione aveva scoperto che il loro campo era al centro di una piatta piana lavica, del diametro di parecchie centinaia di chilometri. Era molto primitivo in confronto alle altre basi taurane che la FENU aveva incontrato, ma non sarebbe stato possibile arrivargli addosso di sorpresa. Dovevamo piombare sull’orizzonte a una quindicina di chilometri, con quattro astronavi che convergevano simultaneamente da direzioni diverse, decelerando pazzamente, con la speranza di cadergli giusto sulle ginocchia e di cominciare a sparare. Non c’era niente, lì, per nascondersi.

Non ero preoccupato, naturalmente. In modo del tutto astratto, ero solo un po’ pentito di avere preso la pillola.

Ci mettemmo sull’orizzontale a circa un chilometro dalla superficie e avanzammo molto più rapidamente della velocità di fuga di quel pianeta, correggendo continuamente la rotta per non volare via. La superficie rotolava sotto di noi in una confusione grigioscura; diffondevamo un po’ di luce: il chiarore pseudo-cerenkov prodotto dal nostro ugello a tachioni, che guizzavano fuori dalla nostra realtà per passare in una realtà tutta loro.

Lo sgraziato trabiccolo saettò e sobbalzò avanzando per una decina di minuti; poi all’improvviso si accese il reattore anteriore e subimmo un forte strattone, dentro i nostri scafandri: ci parve che i globi oculari cercassero di schizzare fuori delle orbite, a causa della rapida decelerazione.

— Prepararsi all’eiezione — disse la meccanica voce femminile della macchina. — Cinque, quattro…

I laser dell’astronave cominciarono a sparare, lampi di un millisecondo che congelavano il terreno sottostante in un sussultante moto stroboscopico. Era un caos sconvolto e butterato di crepacci e di rocce nere sparse qua e là, pochi metri sotto ai nostri piedi. E noi stavamo cadendo, lentamente.

— Tre… — L’astronave non andò oltre. Ci fu un lampo troppo luminoso, e io vidi l’orizzonte abbassarsi di colpo quando la coda della nave si inclinò… e poi urtò il terreno, e noi rotolammo, orribilmente, sparpagliandoci, pezzi di persone e di macchina. Poi, roteando, scivolammo e ci fermammo tra gli scossoni, e io cercai di liberarmi, ma la mia gamba era inchiodata sotto la mole della nave: un dolore atroce e uno scricchiolio secco quando la trave mi schiacciò la gamba; il fischio stridulo dell’aria che sfuggiva dallo scafandro squarciato; poi l’impianto antitrauma si accese, snick, altro dolore e poi più nessun dolore, e io rotolai via, con il moncone della gamba che lasciava una scia di sangue congelato, nero e lucente, sulla roccia nera e opaca. Sentii sapore d’ottone e una nebbia rossa nascose tutto, poi diventò marrone come l’argilla e poi come il terriccio, e io persi i sensi, mentre la pillola mi faceva pensare: Non è poi andata tanto male…

Lo Scafandro è fatto in modo da salvare la maggior parte del corpo di chi lo porta. Se perdi una parte d’un braccio o di una gamba, uno dei sedici diaframmi affilati come rasoi si chiude intorno all’arto con la forza d’una pressa idraulica, prima che tu abbia il tempo di morire di decompressione esplosiva. Poi l’impianto antitrauma cauterizza il moncherino, sostituisce il sangue perduto e ti riempie di antishock e di liquido euforizzante. Perciò muori felice oppure, se i tuoi camerati ti tirano avanti e vincono la battaglia, alla fine ti riportano su, al pronto soccorso dell’astronave.

Mentre io dormivo avvolto in una coltre nera, vincemmo quel round.

Mi risvegliai all’infermeria. Era affollata. Io ero al centro d’una lunga fila di cuccette, ognuna delle quali ospitava qualcuno salvato per tre quarti (o anche meno) dagli impianti dello scafandro. Eravamo completamente ignorati dai due dottori dell’astronave, che stavano sotto la luce viva accanto ai tavoli operatori, assorti nei loro riti cruenti. Se guardavi socchiudendo gli occhi in quella luce viva, avevi l’impressione che il sangue sulle loro tuniche verdi fosse grasso, i corpi fasciati fossero strane macchine morbide che essi stavano riparando. Ma le macchine gridavano nel sonno e i meccanici borbottavano frasi tranquillizzanti mentre manovravano gli attrezzi sporchi. Io guardavo e dormivo e mi svegliavo in posti sempre diversi.

Alla fine mi svegliai in un’infermeria regolare. Ero imbragato con le cinghie, venivo alimentato per fleboclisi, e avevo gli elettrodi dei biosensori attaccati un po’ dappertutto, ma non c’era personale medico in giro.

Nella stanzetta c’era solo un’altra persona, ed era Marygay, che dormiva nella cuccetta accanto alla mia. Aveva il braccio destro amputato appena sopra il gomito.

Non la svegliai; restai a guardarla a lungo, cercando di districare i miei sentimenti; cercai di escludere l’effetto delle droghe psicotrope. Nel guardare il suo moncherino, non riuscivo a provare né pietà né ripugnanza. Cercai di impormi prima una reazione, poi l’altra, ma non accadde niente. Era come se lei fosse sempre stata così. Erano le droghe, il condizionamento, l’amore? Avrei dovuto aspettare, per scoprirlo.

Ella aprì gli occhi all’improvviso e capii che era sveglia da un po’, e aveva voluto lasciarmi il tempo di pensare. — Ciao, giocattolo rotto — mi disse.

— Come… Come stai? — Domanda intelligente.

Marygay si portò un dito alle labbra e mi mandò un bacio, in un gesto che le era abituale. — Stordita, stupido. Sono felice di non essere più un soldato. — Sorrise. — Te lo hanno detto? Ci portano a Paradiso.

— No. Sapevo però che ci portavano lì o sulla Terra.

— Paradiso sarà meglio. — Qualunque posto sarebbe stato meglio. — Vorrei che ci fossimo già.

— Quanto? — domandai. — Quanto ci vuole prima che ci arriviamo?

Lei si girò e guardò il soffitto. — E chi lo sa. Non hai parlato con nessuno?

— Mi sono appena svegliato.

— C’è una nuova direttiva: prima non si erano presi il disturbo di parlarne. La Sangre y Victoria ha ordini per quattro missioni. Dobbiamo continuare a combattere fino a quando le avremo svolte tutte e quattro. O fino a quando non avremo subito tali perdite da non essere praticamente in grado di continuare.

— E sarebbero?

— Non lo so. Abbiamo perso già un buon terzo degli effettivi. Ma adesso siamo diretti verso Aleph-7. A caccia di mutande. — Era il nuovo termine in gergo per un tipo d’operazione il cui scopo principale consisteva nel rastrellare manufatti taurani, e prigionieri, se possibile. Cercai di pensare da dove potesse venire quel termine, ma l’unica spiegazione che trovai era veramente idiota.

Bussarono alla porta, e il dottor Foster entrò a passo di carica, facendo svolazzare le mani. — Ancora in letti separati? Marygay, pensavo proprio che stessi molto meglio. — Foster era un tipo a posto. Una farfalletta fiammeggiante, ma aveva un atteggiamento di divertita tolleranza per l’eterosessualità.

Esaminò prima il moncherino di Marygay, poi il mio. Ci cacciò in bocca i termometri, in modo che non potessimo parlare. Poi parlò lui, in tono serio e brusco.

— Non ho intenzione di indorarvi la pillola. Siete tutti e due imbottiti fino alle orecchie di fluido euforizzante, e le mutilazioni che avete subito non vi daranno fastidio fino a quando non smetterò di darvi quella roba. Per mia comodità, vi terrò drogati fino all’arrivo a Paradiso. Ho ventuno amputati di cui occuparmi. E non siamo in grado di occuparci di ventun casi psichiatrici.

"Godetevi la vostra serenità, finché l’avete. Specialmente voi due, dato che probabilmente vorrete restare insieme. Le protesi che vi metteranno a Paradiso funzioneranno benissimo, ma ogni volta che tu guarderai la gamba meccanica di lui, e tu il braccio meccanico di lei, comincerete a pensare, tutti e due, che l’altro è più fortunato. Continuerete a rievocare ricordi dolorosi… è probabile che in meno di una settimana finirete per detestarvi. Oppure potrete conservare una specie di torvo amore reciproco per il resto della vostra vita.

"O magari riuscirete a trascenderlo. A darvi reciprocamente forza. Solo, cercate di non ingannare voi stessi, se poi vi accorgerete che non funziona."

Controllò i termometri e prese un appunto sul taccuino. — Il dottore queste cose le sa, anche se vi pare un po’ strambo, con la vostra mentalità antiquata. — Mi tolse il termometro dalla bocca e mi diede una lieve pacca sulla spalla. Poi, imparzialmente, fece lo stesso con Marygay. Quando fu arrivato sulla porta, disse: — Andremo in inserzione in un campo collapsar fra circa sei ore. Una delle infermiere vi porterà alle vasche.

Andammo nelle vasche, tanto più comode e sicure dei vecchi gusci individuali antiaccelerazione, e piombammo nel campo collapsar di Tet-2, cominciando immediatamente le pazzesche manovre evasive a cinquanta gravità che ci avrebbero protetti dagli incrociatori nemici quando saremmo sgusciati fuori nei pressi di Aleph-7, un microsecondo più tardi.

Com’era prevedibile, la campagna di Aleph-7 fu un fallimento sconsolante, e la nostra astronave se ne allontanò zoppicando, con due campagne all’attivo e un totale di cinquantaquattro morti e di trentanove invalidi, per dirigersi su Paradiso. C’erano solo dodici soldati ancora in grado di combattere, ma non scalpitavano precisamente per farlo.

Ci vollero tre balzi da una collapsar all’altra per arrivare a Paradiso. Nessuna astronave ci andava mai direttamente dopo una battaglia, anche se qualche volta il ritardo costava delle vite in più. Era l’unico posto, oltre alla Terra, che i taurani non dovevano assolutamente trovare.

Paradiso era un delizioso mondo incontaminato, simile alla Terra… cioè, a quello che sarebbe stata la Terra se gli uomini l’avessero trattata con comprensione e non con avidità. Foreste vergini, spiagge bianche, deserti intatti. Le poche dozzine di città si fondevano perfettamente nell’ambiente (una era completamente sotterranea), oppure erano fiere affermazioni dell’ingegnosità umana: Oceanus, in una barriera corallina, con sei braccia d’acqua sopra il tetto trasparente; Boreas, sulla vetta spianata di una montagna nelle desolate zone polari; e la favolosa Skye, un’enorme località di villeggiatura, volante, che si spostava da un continente agli altri, sospinta dagli alisei.

Sbarcammo, come tutti gli altri, nella città della giungla, Threshold. Ospedale per tre quarti, è di gran lunga la maggiore città del pianeta, ma dall’alto, scendendo dall’orbita, era impossibile vederla. L’unico segno di civiltà era una breve pista che apparve all’improvviso, una piccola traccia bianca che appariva insignificante accanto alla maestosa foresta pluviale che si estendeva da oriente, e all’immenso oceano che dominava l’altro orizzonte.

Quando si arrivava sotto la copertura arborea, si vedeva molto meglio la città. I bassi edifici di pietra locale e di legno sorgevano fra i tronchi del diametro di tre metri; erano collegati da discreti viottoli pavimentati di sassi, e c’era un’ampia passeggiata che arrivava fino alla spiaggia. La luce del sole scendeva a sprazzi tra le fronde, e nell’aria c’era un miscuglio di dolci aromi della foresta e di odore salmastro.

Venni a sapere in seguito che la città si estendeva su un’area di oltre 200 chilometri quadrati, e che si poteva prendere la metropolitana per andare dove si voleva, se la distanza era troppa per venire coperta a piedi. L’ecologia di Threshold era scrupolosamente equilibrata, in modo che esteriormente somigliava a una giungla, ma tutti i fattori pericolosi e fastidiosi erano stati eliminati. Un potente campo pressore teneva fuori i grossi predatori e tutti gli insetti che non erano indispensabili per la vita delle piante.

Zoppicando o trascinandoci, a seconda dei casi, entrammo nell’edificio più vicino, che era l’ufficio accettazione dell’ospedale. Il resto dell’ospedale era sottoterra: trenta piani. Ognuno di noi venne visitato, e ci assegnarono le stanze. Cercai di ottenerne una a due letti per me e Marygay, ma non erano attrezzati.

L’"anno terrestre" era il 2189. Quindi io avevo 215 anni. Dio, che vecchio rudere. Qualcuno faccia circolare il piattino… No, non era necessario. Il dottore che mi visitò, mi disse che la mia paga arretrata sarebbe stata trasferita dalla Terra a Paradiso. Con gli interessi composti, poco mancava che fossi miliardario. Mi disse anche che su Paradiso avrei trovato molti modi di spendere il mio miliardo.

Si occuparono per primi dei feriti più gravi, e quindi passarono parecchi giorni prima che mi operassero. Poi mi svegliai nella mia stanza e mi accorsi che mi avevano innestato una protesi sul moncherino: una struttura articolata di metallo lucido, che, al mio occhio inesperto, era esattamente identica allo scheletro d’una gamba e di un piede. Mi faceva venire i brividi a guardarla, dentro alla sacca trasparente piena di fluido, con i fili che ne uscivano e sparivano dentro a una macchina ai piedi del letto.

Entrò un assistente. — Come sta, signore? — Provai la tentazione di dirgli che lasciasse perdere il "signore": questa volta non ero più nell’esercito e avevo intenzione di restarne fuori. Ma forse sarebbe stato bene che quel tipo continuasse a pensare che gli ero superiore in grado.

— Non so. Fa un po’ male.

— Le farà un male dell’accidente: aspetti che comincino a crescere i nervi.

— I nervi?

— Sicuro. — L’assistente manovrava la macchina e leggeva i quadranti dall’altra parte. — Come potrebbe avere una gamba, senza i nervi? Resterebbe sempre immobile.

— Nervi? Vuol dire nervi veri? Vuol dire che potrò semplicemente pensare "muoviti" e la gamba si muoverà?

— Ma certo. — Mi guardò un po’ sorpreso, e riprese a manovrare i comandi.

Che meraviglia. — Le protesi hanno fatto senza dubbio un progresso enorme — dissi.

— Le pro… che?

— Sa bene, arti artificiali…

— Oh… Già, come nei libri. Gambe di legno, uncini e simili.

E come diavolo aveva fatto, quello, a ottenere un impiego? — Sicuro, protesi. Come quel coso all’estremità del mio moncherino.

— Senta, signore. — L’assistente depose la cartella clinica su cui stava scarabocchiando. — Lei è stato lontano molto tempo. Quella lì diventerà una gamba, precisa identica all’altra, salvo per il fatto che non si potrà rompere.

— E usano lo stesso sistema anche per le braccia?

— Sicuro, per tutti gli organi. — E ricominciò a scrivere. — Fegato, reni, stomaco, tutto quanto. Stanno lavorando ancora sui cuori e sui polmoni, e quindi per ora dobbiamo usare surrogati meccanici.

— Fantastico. — Anche Marygay sarebbe ritornata intera.

L’assistente alzò le spalle. — Può darsi. È un sistema in uso da prima che nascessi io. Lei quanti anni ha, signore?

Glielo dissi, e lui fischiò. — Accidenti. Deve esserci stato dentro fin dal principio. — Aveva un accento stranissimo. Tutte le parole erano giuste, ma la pronuncia era tutta sbagliata.

— Sicuro. Ho preso parte all’attacco a Epsilon. Aleph-zero. — Avevano cominciato a indicare le collapsar con le lettere dell’alfabeto ebraico, in ordine di scoperta, ma poi avevano esaurito tutte le lettere quando quelle dannate stelle avevano cominciato a spuntare da tutte le parti. Così adesso aggiungevano i numeri alle lettere: l’ultima che avevo sentito era che erano arrivati a Yod-42.

— Caspita, storia antica. E com’era a quei tempi?

— Non lo so. Meno affollamento. Si stava meglio. Sono tornato sulla Terra, un anno fa… diavolo, un secolo fa. Dipende dal modo di vedere le cose. Era così orribile che sono tornato ad arruolarmi, capisce? Un mucchio di zombie, senza offesa.

L’assistente alzò le spalle. — Io non ci sono mai stato. Quelli che vengono di là sembra che ne abbiano nostalgia. Magari adesso le cose vanno meglio.

— Come, lei è nato su un altro pianeta? Su Paradiso? — Non c’era da meravigliarsi se non riuscivo a identificare il suo accento.

— Nato, cresciuto e arruolato. — Si rimise la penna nel taschino e ripiegò la cartella clinica fino alle dimensioni di un portafoglio. — Sì, signore. Sono un angelo della terza generazione. È il miglior pianeta di tutta la EE.N.U. — Lo disse proprio "Effe-E-Enne-U", e non "Fenu" come avevo sempre sentito dire io.

— Adesso devo scappare, tenente. Ho altri due monitor da controllare entro un’ora. — Uscì dalla porta, a ritroso. — Se ha bisogno di qualcosa, lì sul comodino c’è un campanello.

Un angelo della terza generazione. I suoi nonni erano arrivati dalla Terra, probabilmente quando io ero un giovanottello di cento anni. Mi chiesi quanti altri mondi avessero colonizzato, mentre io voltavo le spalle. Se perdi un braccio, te ne fai crescere uno nuovo?

Sarebbe stato piacevole sistemarmi e vivere un anno per ogni anno che passava.

L’assistente non aveva scherzato, quando aveva predetto che avrei sofferto dolori terribili. E non solo per colpa della gamba nuova, sebbene bruciasse come olio bollente. Perché i nuovi tessuti attecchissero, avevano dovuto rivoluzionare la resistenza del mio organismo alle cellule estranee: il cancro mi spuntò in una mezza dozzina di posti, e fu necessario curarli separatamente, dolorosamente.

Mi sentivo assai malconcio, ma era affascinante guardare la gamba ricrescere. I fili bianchi si trasformarono in vasi sanguigni e in nervi, dapprima penzolanti e un po’ lenti; poi andavano a posto, mentre la muscolatura cresceva attorno all’osso metallico.

Mi ero abituato a vederla ricrescere, e quindi lo spettacolo non mi nauseava. Ma quando Marygay venne a trovarmi, fu un colpo. Lei aveva ripreso a camminare prima che avesse cominciato a crescerle la pelle sul braccio nuovo: e sembrava un modello anatomico ambulante. Comunque, superai il trauma, e lei prese l’abitudine di venirmi a trovare qualche ora, tutti i giorni, per fare qualche partita, o quattro chiacchiere; o semplicemente se ne stava lì seduta a leggere, mentre il braccio le ricresceva lentamente dentro allo stampo di plastica.

Dopo una settimana che mi era cresciuta la pelle, portarono via la macchina e tolsero l’involucro della gamba nuova. Era bruttissima, priva di peli e di un biancore cadaverico, ed era rigida come un bastone metallico. Ma funzionava, a modo suo. Potevo reggermi e camminare, trascinando i piedi.

Mi trasferirono in ortopedia per la "rieducazione dell’arto": un modo come un altro per chiamare una lenta tortura. Ti legano a una macchina che flette contemporaneamente la gamba vecchia e quella nuova. La nuova resiste.

Marygay era nella sezione vicina, a farsi torcere metodicamente il braccio. Per lei doveva essere anche peggio; era grigia in volto e aveva l’aria sofferente, quando il pomeriggio ci incontravamo per salire alla superficie e prendere il sole tra le ombre mobili delle fronde.

L’unico passatempo emozionante — emozionante per le nostre sensibilità smussate dai combattimenti — lo potevamo trovare nell’acqua meticolosamente sorvegliata.

Devono sempre spegnere il campo pressore per un secondo, ogni volta che atterra un’astronave, altrimenti rimbalzerebbe sull’oceano. Ogni tanto, in quel varco, riesce ad infilarsi qualche animale, ma gli animali terrestri pericolosi sono troppo lenti per farcela. Per gli animali marini la faccenda è diversa.

Il padrone incontrastato degli oceani di Paradiso è un gran brutto signore che gli angeli, in un momento d’originalità, avevano battezzato "squalo". Ma quello sarebbe stato capace di mangiarsi per colazione un branco di squali terrestri.

Quello che riuscì a entrare era uno squalo bianco di grandezza media, che da giorni stava sbattendo ostinatamente contro il campo pressore, esasperato dalla presenza di tutta quella proteina che sguazzava all’interno. Per fortuna, c’è una sirena d’allarme che suona due minuti prima che il campo pressore venga richiuso, e perciò in acqua non c’era nessuno quando lo squalo passò a razzo. Così a razzo che per poco non andò ad arenarsi sulla spiaggia, spinto dalla furia dell’attacco insensato.

Lo squalo era dodici metri di muscoli flessibili con una coda tagliente come un rasoio a un’estremità e una collezione di zanne, lunghe un braccio, dall’altra. Gli occhi erano grandi globi gialli, montati su peduncoli che sporgevano dalla testa per oltre un metro. La bocca era così grande che, quando l’apriva, un uomo poteva starci comodamente dentro in piedi: una sensazionale foto ricordo per i suoi eredi.

Non potevano certamente spegnere il campo pressore e aspettare che la bestiaccia se ne andasse. E così il Comitato per la Ricreazione organizzò una battuta di caccia.

Io non ero troppo entusiasta dell’idea di offrirmi come antipasto a un pesce gigante, ma Marygay da ragazzina aveva praticato la pesca subacquea, in Florida, e la prospettiva l’emozionava. Io accettai di starci quando seppi come avrebbero fatto: sembrava un sistema abbastanza sicuro.

Si dice che quegli squali non attacchino mai la gente a bordo delle barche. Due persone, che evidentemente avevano più fiducia nei racconti dei pescatori di quanta ne avessi io, erano arrivate fino all’orlo del campo pressore con una barca a remi, armate esclusivamente d’una mezzena di bue. L’avevano scaraventata in acqua, e in un lampo era arrivato lo squalo.

A quel segnale toccò a noi entrare in scena e divertirci. Eravamo ventitré imbecilli, e aspettavamo sulla spiaggia con pinne, maschere, respiratori, e una fiocina a testa. Le fiocine, comunque, erano arnesi formidabili, con propulsione a razzo e testate esplosive ad alto potenziale.

Ci muovemmo, sciabordando, e nuotammo a falange, sott’acqua, verso la bestiaccia che mangiava. Quando ci vide, in un primo momento non ci attaccò. Cercò di nascondere il suo pasto, forse perché non voleva che qualcuno le girasse furtivamente attorno e glielo sgranocchiasse mentre essa si occupava degli altri. Ma ogni volta che cercava di immergersi in acque più profonde, andava a sbattere contro il campo pressore. Era evidente che si stava stufando.

Alla fine, mollò il bue, si voltò con un guizzo e caricò. Un vero spasso. Un attimo prima vedevi lo squalo, grande come il tuo dito mignolo, laggiù all’orlo del campo, e un attimo dopo sembrava già grosso come un uomo e continuava a venire avanti a tutta velocità.

Lo colpirono circa dieci fiocine — la mia no — e lo fecero a brandelli. Ma persino dopo un colpo esperto o fortunato al cervello, che gli fece schizzare via la parte superiore della testa e un occhio, anche con metà della carne e delle budella sparse dietro di lui in una scia sanguinosa, piombò tra le nostre file e serrò le mascelle attorno a una donna, tranciandole nette tutte e due le gambe, prima di ricordarsi di morire.

Riportammo la donna, più morta che viva, sulla spiaggia dove c’era in attesa un’ambulanza. La riempirono di surrogato di sangue e di Antishock e la portarono di volata all’ospedale, dove sopravvisse per poi dover subire la tortura di farsi crescere un paio di gambe nuove. Io decisi che per l’avvenire avrei lasciato la caccia ai pesci agli altri pesci.

Quando la terapia diventò sopportabile, il nostro soggiorno a Threshold fu piuttosto piacevole. Niente disciplina militare, un sacco di roba da leggere e di cose su cui pasticciare. Ma c’era sempre un’ombra, perché era ovvio che non eravamo sgusciati via di mano all’esercito; eravamo solo pezzi d’equipaggiamento rotti, che quelli riparavano per ributtarli nella mischia. Marygay e io dovevamo prestare servizio come tenenti ancora per tre anni.

Ma ci spettavano sei mesi di riposo e di ricreazione, dopo che i nostri nuovi arti vennero dichiarati in perfetto ordine funzionale. Marygay fu dimessa due giorni prima di me, ma mi aspettò.

Anche la mia paga arretrata arrivò: 892.746.012 dollari. Non arrivò sotto forma di balle di banconote, per fortuna: su Paradiso adoperavano un sistema di credito elettronico, e io mi portavo in giro il mio patrimonio in un piccolo calcolatore a lettura digitale. Per comprare qualcosa battevi sui tasti il numero del conto del venditore e l’ammontare della spesa; la somma veniva automaticamente trasferita dal tuo conto al suo. Il calcolatore era grosso quanto un portafoglio, e regolato sull’impronta del tuo pollice.

L’economia di Paradiso era governata dalla presenza continua di migliaia di militari milionari che si riposavano e si ricreavano. Un modesto spuntino costava cento dollari, una stanza per una notte anche dieci volte tanto. Poiché era la FENU che aveva creato Paradiso e ne era proprietaria, quell’inflazione galoppante era un sistema trasparente e semplicissimo per incanalare di nuovo le nostre paghe arretrate nella circolazione economica generale.

Ci divertimmo, ci divertimmo disperatamente. Prendemmo a nolo un aereo e l’attrezzatura da campeggio e ce ne andammo in giro per settimane a esplorare il pianeta. C’erano fiumi gelidi per nuotare, e giungle lussureggianti da attraversare; e praterie e montagne e deserti e desolate terre polari.

Potevamo proteggerci completamente dall’ambiente regolando i nostri campi pressori individuali — dormite nudi nella tormenta! — oppure potevamo affrontare la natura così com’era. Su proposta di Marygay, l’ultima cosa che facemmo prima di ritornare alla civiltà fu di scalare un’alta guglia nel deserto, digiunare parecchi giorni per affinare le nostre sensibilità (o acuire le nostre percezioni, non so bene) e starcene seduti, schiena contro schiena, nel caldo bruciante, a contemplare il languido scorrere della vita.

E poi via, a darci ai bagordi. Facemmo il giro di tutte le città del pianeta, e ognuna aveva il suo fascino particolare, ma alla fine andammo a Skye per trascorrervi quanto ancora restava della nostra licenza.

In confronto a Skye, il resto del pianeta era robetta a buon mercato. Durante le quattro settimane in cui usammo la grande cupola volante dei divertimenti come base, Marygay e io spendemmo un buon mezzo miliardo di dollari a testa. Giocammo d’azzardo — roba da perdere qualche milione di dollari per notte — mangiammo e bevemmo quello che il pianeta aveva di meglio da offrire, e provammo tutti i servizi e tutti i prodotti che non risultavano troppo bizzarri per i nostri gusti antiquati. Avevamo ciascuno un servitore personale, il cui salario era leggermente superiore allo stipendio d’un maggior generale.

Ci divertimmo disperatamente, ho detto. A meno che l’andamento della guerra non cambiasse in modo radicale, le nostre probabilità di sopravvivere per i prossimi tre anni erano microscopiche. Eravamo le vittime straordinariamente sane d’una malattia inguaribile, e cercavamo di vivere in sei mesi le sensazioni di tutta un’esistenza.

Avevamo la consolazione non trascurabile di sapere che, per quanto ci restasse poco da vivere, almeno quel poco l’avremmo vissuto insieme. Non so perché, ma non mi passò mai per la testa che questo potessero togliercelo.

Ci stavamo godendo un pranzetto leggero nel "primo piano" trasparente di Skye, e guardavamo l’oceano che passava sotto di noi, quando un portaordini arrivò con aria indaffarata e ci consegnò due buste: i nostri ordini.

Marygay doveva entrare a far parte d’una compagnia nuova, che si stava formando lì a Paradiso. Io dovevo tornare a Stargate per "indottrinamento e istruzione" prima di prendere il comando.

Per un po’ non fummo capaci di dire niente. — Protesterò — dissi alla fine, con un filo di voce. — Non possono farmi comandante. Non possono.

Lei era ancora ammutolita. Non si trattava semplicemente di una separazione. Anche se la guerra fosse terminata e noi fossimo partiti per la Terra a pochi minuti di distanza l’uno dall’altra, su astronavi diverse, la geometria del balzo tra collapsar e collapsar avrebbe ammucchiato degli anni tra di noi. Quando il secondo fosse giunto sulla Terra, il primo probabilmente sarebbe stato più vecchio di mezzo secolo e ancora più probabilmente sarebbe già morto.

Restammo lì per un po’, senza toccare i cibi squisiti, ignorando la bellezza che ci circondava, consapevoli solo l’uno della presenza dell’altra e dei due fogli che ci separavano, con un abisso immenso e reale come la morte.

Tornammo a Threshold. Protestai, ma quelli risposero ai miei argomenti con delle spallucciate. Cercai di fare assegnare Marygay alla mia compagnia, come mio ufficiale esecutivo. Mi dissero che il mio personale era già stato prescelto. Ribattei che in maggioranza si trattava di gente che non era ancora nata. Comunque era già stato prescelto, insistettero. Sarebbe passato quasi un secolo, dissi io, prima che arrivassi a Stargate. E loro mi risposero che il Comando della Forza d’Attacco programma in termini di secoli.

Non in termini di individui.

Passammo ancora un giorno e una notte insieme. Meno ne parlo e meglio è. Non era solo la perdita dell’amante. Marygay e io eravamo, l’uno per l’altro, l’unico legame con la vita reale, con la Terra degli Anni Ottanta e Novanta. Non l’assurdità perversa e grottesca che dovevamo difendere combattendo. Quando la navetta se la portò via, fu come vedere una bara che calava nella fossa.

Chiesi l’ora al computer e calcolai i fattori orbitali della sua astronave e l’orario di partenza; e scoprii che potevo vederla partire dal "nostro" deserto.

Atterrai sul pinnacolo dove avevamo digiunato insieme e, poche ore prima dell’alba, vidi una nuova stella apparire sull’orizzonte a occidente, sfolgorare e sbiadire mentre si allontanava, e diventare come un’altra stella, poi una stellina fioca, e poi niente. Mi avviai sull’orlo del precipizio e guardai giù, le vaghe onde immobili delle dune, mezzo chilometro più sotto. Mi sedetti, con i piedi penzoloni nel vuoto, senza pensare a niente, fino a quando i raggi obliqui del sole illuminarono le dune nel sommesso chiaroscuro tentatore di un bassorilievo. Per due volte spostai il mio peso, come per buttarmi. Non lo feci, ma non per paura del dolore o della perdita. Il dolore sarebbe stato solo una scintilla di un attimo, e a perderci sarebbe stato soltanto l’esercito. E sarebbe stata la sua vittoria suprema su di me… dopo aver dominato la mia vita per tanto tempo, costringermi a porvi fine.

E questa soddisfazione volevo lasciarla al nemico.

PARTE QUARTA

Maggiore Mandella

(2458-3143 d.C.)

27

Com’era quel vecchio esperimento di cui ci parlavano nelle lezioni di biologia alle superiori? Prendi una planaria e insegnale a uscire a nuoto da un labirinto. Poi riducila in poltiglia e dalla da mangiare a una planaria stupida e, toh!, la planaria stupida è capace anch’essa di uscire dal labirinto.

Io mi sentivo in bocca un saporaccio di maggior-generale.

Per la verità, sospettavo che avessero perfezionato le tecniche, dai tempi in cui studiavo alle superiori. Tenendo conto della dilatazione temporale, avevano avuto a disposizione 450 anni per le ricerche e gli sviluppi.

Non è che per il mio aggiornamento a Stargate tritassero i maggior-generali e me li servissero con salsa olandese. Non mi diedero da mangiare niente per tre settimane, anzi, tranne il glucosio. Glucosio ed elettricità.

Mi rasarono ogni pelo che avevo sul corpo, mi fecero un’iniezione che mi ridusse a uno strofinaccio, mi attaccarono dozzine di elettrodi sulla testa e sul corpo, mi immersero in una vasca di fluorocarbonio ossigenato, e mi collegarono a un CSVA, cioè a un "computer a situazione di vita accelerata". E ci pensò quello a tenermi occupato.

Penso che la macchina abbia impiegato circa cinque minuti per farmi il ripasso di tutto quello che avevo imparato in precedenza in fatto di arti marziali (scusate l’espressione). Poi cominciò a insegnarmi le novità.

Imparai il modo migliore per usare qualunque arma, da una pietra a una bomba nova. E non solo intellettualmente: era appunto quello, lo scopo degli elettrodi. Cinestesi a feedback negativo, controllata ciberneticamente: mi sentivo le armi nelle mani e vedevo come me la cavavo a maneggiarle. E continuavo e continuavo, fino a quando non ci riuscivo alla perfezione. L’illusione della realtà era totale. Usai una lancia insieme a un gruppo di guerrieri Masai, nell’incursione contro un villaggio, e quando abbassai gli occhi vidi che il mio corpo era lungo e nero. Imparai di nuovo a tirare di spada con un uomo dall’aria crudele, vestito in modo strano, in un cortile della Francia del Diciottesimo secolo. Me ne stetti nascosto su un albero con un fucile Sharps e sparai contro uomini in uniforme azzurra che attraversavano strisciando un campo fangoso, in direzione di Vicksburg.

In tre settimane uccisi parecchi reggimenti di spettri elettronici. A me pareva che fosse passato più di un anno, ma il CSVA fa degli scherzi strani al senso del tempo.

L’apprendimento dell’uso di quelle inutili armi esotiche era solo una parte minima dell’addestramento. Anzi, era la parte più rilassante. Perché, quando non ero in cinestesi, la macchina manteneva completamente inerte il mio corpo e mi imbottiva il cervello con i dati e le teorie militari di quattro millenni. E non potevo dimenticare niente! Almeno finché ero in quel barattolo.

Ci tenete a sapere chi era Scipione l’Africano? Io no. La grande luce della Terza guerra punica. "La guerra è il regno del pericolo, e perciò il coraggio, soprattutto, è la prima qualità del guerriero" affermava von Clausevitz. E non dimenticherò mai la sublime poesia di: "L’avanguardia si muove normalmente in colonna con in testa il quartier generale del plotone, seguito da una Squadra laser, la squadra delle armi pesanti, e la Seconda squadra laser; la colonna si affida all’osservazione per proteggersi sui fianchi, salvo quando le condizioni del terreno e della visibilità impongono di inviare sui fianchi piccoli distaccamenti di sicurezza, nel qual caso il comandante dell’avanguardia assegnerà un sergente del plotone…" e così via. È tratto dal Manuale dei Comandanti delle Piccole Unità del Comando della Forza d’Attacco, come se si potesse chiamare manuale — da mano — qualcosa che occupa due intere schede a microfiche, 2000 pagine.

Se ci tenete a diventare esperti ferratissimi ed eclettici di una materia che vi ripugna, arruolatevi nella FENU e iscrivetevi al corso per ufficiali.

Centodiciannove persone, e io ero responsabile per centodiciotto, contando me stesso ma non contando il commodoro, che presumibilmente era in grado di badare a se stessa.

Non avevo incontrato nessuno della mia compagnia durante le due settimane di rieducazione fisica che seguirono la lunga seduta con il CSVA. Prima delle presentazioni dovevo incontrarmi con l’Ufficiale dell’Orientamento Temporale. Chiesi un appuntamento e il suo segretario disse che il colonnello si sarebbe incontrato con me dopo cena al Circolo Ufficiali del Livello Sei.

Scesi presto al Sesto Livello, pensando di cenare un po’ in anticipo, ma non avevano altro che spuntini. Così masticai una specie di fungo che aveva un sapore vagamente simile alle lumache e assorbii il resto delle calorie sotto forma di alcool.

— Maggiore Mandella? — Io ero occupatissimo con la settima birra e non avevo visto avvicinarsi il colonnello. Feci per alzarmi, ma lui mi accennò di restare seduto e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte a me.

— Sono in debito con lei — disse. — Mi ha salvato da almeno metà serata di noia. — Mi porse la mano. — Jack Kynock, per servirla.

— Colonnello…

— Non mi chiami colonnello, e io non la chiamerò maggiore. Noi vecchi fossili dobbiamo… conservare le nostre prospettive, William.

— Per me va benissimo,

Egli ordinò una specie di drink che non avevo mai sentito nominare. — Da dove cominciamo? L’ultima volta che lei è andato sulla Terra è stato nel 2007, secondo i documenti.

— Esatto.

— Non le era piaciuta molto, eh?

— No. — Tutti zombie, robot felici.

— Be’, poi è migliorata. E poi è peggiorata. Grazie. — Un soldato gli portò il drink: un intruglio gorgogliante che sul fondo del bicchiere era verde e si schiariva fino ad arrivare a un color chartreuse in alto. Il colonnello lo sorseggiò. — Poi sono andati meglio, poi peggio, poi… non lo so. Questione di cicli.

— E adesso com’è?

— Be’… non ne sono sicuro. Arrivano fasci di rapporti e roba del genere, ma è difficile setacciare la propaganda. Io non ci sono più tornato da duecento anni. Allora andava piuttosto male. Dipende dai punti di vista.

— Sarebbe a dire?

— Oh, vediamo. C’era parecchio subbuglio. Ha mai sentito parlare del Movimento Pacifista?

— Non mi pare.

— Uhm, il nome trae in inganno. In realtà era una guerra, anzi una guerriglia.

— Credevo di essere in grado di darle nome, grado e numero di matricola di tutti i partecipanti a tutte le guerre, partendo da quella di Troia — dissi, e il colonnello sorrise — ma devono averne lasciata fuori una.

— E per un’ottima ragione, è stata combattuta dai veterani… reduci da Yod-38 e Aleph-40, ho sentito dire. Li avevano congedati tutti insieme ed essi avevano deciso che potevano impadronirsi della FENU, sulla Terra. Hanno avuto un notevole appoggio da parte della popolazione.

— Però non hanno vinto.

— Siamo ancora qui. — Fece roteare il drink e i colorì cambiarono. — In verità, ne so soltanto quello che ho sentito dire. L’ultima volta che sono stato sulla Terra, la guerra era finita, a parte qualche sabotaggio sporadico. E non era precisamente l’argomento ideale per una conversazione.

— Mi sorprende un po’ — dissi io. — Be’, più di un po’. Il fatto che la popolazione della Terra abbia fatto qualcosa… contro la volontà del governo.

Il colonnello rispose con un grugnito che non voleva dire né sì né no.

— E soprattutto una rivoluzione — continuai. — Quando ci siamo stati noi, non si riusciva a convincere nessuno a dire una parola contro la FENU… O contro uno qualunque dei governi locali, in quanto a questo. Erano tutti condizionati fino alle orecchie ad accettare le cose come stavano.

— Ah. Anche questo è ciclico. — Il colonnello si appoggiò alla spalliera della sedia. — Non è una questione di tecnica. Se volesse, il governo terrestre potrebbe controllare tutto… ogni pensiero ed ogni azione di ogni cittadino, dalla culla alla tomba.

"Non lo fanno perché sarebbe fatale. Perché c’è in corso una guerra. Prenda come esempio il suo caso: ha subito qualche condizionamento motivazionale, mentre era nel barattolo?"

Riflettei per un istante. — Se anche fosse, non ne sarei necessariamente informato.

— È vero. In parte è vero. Ma mi creda sulla parola, hanno lasciato stare quella parte del suo cervello. Ogni cambiamento nella sua posizione verso la FENU O questa nuova guerra, o la guerra in generale, deriva esclusivamente dalle sue nuove conoscenze. Nessuno ha pasticciato con le sue motivazioni basilari. E dovrebbe sapere perché.

Nomi, dati, cifre sfrecciarono tintinnando nel labirinto delle mie nuove conoscenze. — Tet-17, Sed-21, Aleph-14. Il Laszlo… — Il Rapporto della Commissione d’Emergenza Laszlo, giugno 2106.

— Esatto. E, per estensione, la sua stessa esperienza su Aleph-1. I robot non sono buoni soldati.

— Lo sarebbero stati — dissi io. — Fino al Ventunesimo secolo. Il condizionamento comportamentistico avrebbe realizzato il sogno dei generali. Avrebbe fatto un esercito con tutte le caratteristiche migliori delle SS, dei pretoriani, dell’Orda d’Oro, degli Arditi di Mosby e dei Berretti Verdi.

Il colonnello rise, alzando il bicchiere. — E poi metta quell’esercito contro una squadra di uomini con i moderni scafandri da combattimento. Finirebbe in due minuti.

— Purché ogni uomo della squadra pensasse a se stesso. E combattesse disperatamente per restar vivo. — I soldati della generazione che aveva causato il rapporto Laszlo erano stati condizionati dalla nascita a conformarsi all’idea che qualcun altro si era fatto del combattente ideale. Facevano un magnifico lavoro collettivo, erano totalmente assetati di sangue, non attribuivano grande importanza alla sopravvivenza personale… e i taurani li avevano fatti a pezzi. Anche i taurani combattevano senza pensare a se stessi. Però lo sapevano fare meglio, ed erano sempre più numerosi.

Kynock riprese il bicchiere e guardò i colori. — Ho visto il suo profilo psicologico — disse. — Prima che venisse qui e dopo la seduta nella vasca. È sostanzialmente lo stesso, prima e dopo.

— È rassicurante. — Feci segno che mi portassero un’altra birra.

— Forse no.

— Come? Dice che non sarei un buon ufficiale? Questo l’avevo detto io fin dal principio. Non sono un capo.

— Giusto in un certo senso, sbagliato in un altro. Vuol sapere cosa dice quel profilo?

Scrollai le spalle. — Non è riservato?

— Sì — disse Kynock. — Ma adesso lei è maggiore. Ha diritto di vedere il profilo di chiunque sia ai suoi ordini.

— Immagino che non riservi molte sorprese. — Ma ero un po’ incuriosito. Quale animale non è affascinato da uno specchio?

— No. Dice che lei è un pacifista. Un pacifista fallito, per la verità, il che le causa una lieve nevrosi. Che lei riesce a sopportare trasferendo sull’esercito il peso della colpa.

La birra era così fredda che mi fece male ai denti. — Anche questa non è una sorpresa.

— Se lei dovesse uccidere un uomo, piuttosto di un taurano, non so esattamente se ne sarebbe capace. Anche se deve conoscere mille modi diversi per farlo.

A questo non seppi cosa rispondere. Il che probabilmente significava che aveva ragione lui.

— E in quanto all’essere un capo, un certo potenziale ce l’ha. Ma andrebbe bene come insegnante o come ministro: potrebbe guidare gli altri grazie all’empatia, alla pietà. Lei desidera imporre agli altri le sue idee, non la sua volontà. E questo vuol dire che ha ragione lei, e che sarebbe un pessimo ufficiale, se non si desse un’assestata.

Provai l’impulso di ridere. — La FENU doveva saperlo, questo, quando mi ha spedito al corso addestramento ufficiali.

— Ci sono altri parametri — disse il colonnello. — Per esempio, lei è adattabile, ragionevolmente intelligente, analitico. Ed è una delle undici persone che ce l’hanno fatta a sopravvivere durante tutta la guerra.

— Sopravvivere è una virtù, in un soldato semplice. — Non resistetti alla tentazione di dirlo. — Ma un ufficiale deve dare esempio di valore. Affondare con la nave. Continuare a passeggiare sul ponte come se nulla fosse, per dimostrare che non ha paura.

Kynock si schiarì la gola. — No, quando è a mille anni luce dal suo rincalzo.

— Comunque, non quadra. Perché mi hanno trascinato qui da Paradiso per offrirmi l’occasione di "darmi un’assestata", quando probabilmente un terzo di quelli che sono qui a Stargate potrebbero diventare ufficiali migliori di me? Dio, la mentalità militare!

— Sospetto che c’entri almeno la mentalità burocratica. Lei ha un’anzianità imbarazzante per un soldato semplice.

— Tutta questione di dilatazione temporale. Ho preso parte a tre sole campagne.

— Non ha importanza. Inoltre, sono sempre due campagne e mezza in più di quanto sopravviva in media un soldato. La propaganda farà probabilmente di lei un eroe popolare.

— Un eroe popolare. — Sorseggiai la birra. — Dov’è John Wayne, adesso che abbiamo veramente bisogno di lui?

— John Wayne? — Il colonnello scosse il capo. — Non sono mai stato nel barattolo, vede. Non sono esperto di storia militare.

— Lasci perdere.

Kynock finì di bere e chiese al soldato di portargli — giuro! — un "rum Antares".

— Be’, io dovrei essere il suo Ufficiale d’Orientamento Temporale. Cosa vuole sapere del presente? Di quello che passa per il presente.

Io pensavo ancora ad altro. — Non è mai stato nel barattolo?

— No, ci vanno solo gli ufficiali destinati al combattimento. Il computer e l’energia che lei ha usato per tre settimane basterebbero a far funzionare la Terra per parecchi giorni. Costa troppo, per noi scaldaseggiole.

— Le sue decorazioni dicono che ha combattuto.

— Combattente onorario. — Il rum Antares era un bicchiere alto e sottile, con un po’ di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia, circondato da filamenti ondeggianti.

— Cos’è quella roba rossa?

— Cannella. Oh, non so che estere, con dentro cannella. Molto buono… Vuole assaggiare?

— No, prenderò un’altra birra, grazie.

— Giù al livello uno, la macchina-biblioteca ha uno schedario di orientamento temporale, che il mio staff aggiorna costantemente. Può interpellarla, se ha qualche domanda specifica. Io voglio soprattutto… prepararla all’incontro con la sua Forza d’Attacco.

— Come? Sono tutti cyborg? Cloni?

Kynock rise. — No, è illegale clonare gli umani. Il problema principale è che lei, ehm, è eterosessuale.

— Oh, ma non è un problema. Sono tollerante.

— Sì, il profilo indica che lei… è convinto di essere tollerante, ma il problema non è esattamente questo.

— Oh. Sapevo già cosa stava per dire. Non i particolari, ma la sostanza.

— Nella FENU vengono arruolati solo individui emotivamente stabili. So che le sarà difficile accettarlo, ma l’eterosessualità è considerata una disfunzione emotiva. Relativamente facile da guarire.

— Se credono di poter guarire me…

— Si calmi, lei è troppo vecchio. — Bevve un sorso, delicatamente. — Non sarà difficile andare d’accordo con loro come immagina…

— Aspetti. Vuol dire che nessuno… che nella mia compagnia sono tutti omosessuali? Tranne me?

— William, sulla Terra sono tutti omosessuali. Tranne un migliaio o giù di lì: reduci e inguaribili.

— Ah — Cosa potevo dire? — Mi sembra un modo drastico per risolvere il problema demografico.

— Forse. Però funziona. La popolazione terrestre è stabile, un po’ al di sotto del miliardo. Quando una persona muore o lascia il pianeta, ne viene attivata un’altra.

— Non "nasce".

— Nasce, sì, ma non nel modo antiquato. Il vecchio termine, ai suoi tempi, era "i bambini in provetta", ma naturalmente non adoperano le provette.

— Be’, è già qualcosa.

— In ogni nido c’è un utero artificiale che si prende cura di una persona per i primi otto o dieci mesi dopo l’attivazione. Quella che lei chiamerebbe nascita avviene in un periodo di giorni; non è l’evento drastico e traumatico di una volta.

Il Mondo nuovo, pensai. — Niente traumi della nascita. Un miliardo di omosessuali perfettamente adattati.

— Perfettamente adattati secondo i criteri terrestri attuali. Io e lei li potremmo trovare un po’ strani.

— È un eufemismo. — Buttai giù il resto della birra. — E lei, lei, uhm… è omosessuale?

— Oh, no — disse Kynock. Mi rilassai. — Per la verità, comunque, non sono più neanche eterosessuale. — Si batté una mano sull’anca, traendone uno strano suono. — Sono stato ferito, ed è risultato che avevo una rara disfunzione del sistema linfatico, e non potevo rigenerarmi. Non sono altro che metallo e plastica dalla cintola in giù. Per adoperare la parola che ha usato lei, sono un cyborg.

Incredibile, come usava dire mia madre. — Oh, soldato — dissi al cameriere — portami uno di quei rum Antares. — Starmene lì seduto in un bar con un cyborg asessuale che probabilmente era l’unica persona normale, oltre me, su tutto quello stramaledetto pianeta.

— Doppio, per favore.

28

Sembravano abbastanza normali, mentre entravano nella sala delle conferenze dove tenemmo il primo raduno, il giorno dopo. Piuttosto giovani e un po’ impettiti.

Quasi tutti erano usciti dal nido solo da sette o otto anni. Il nido era un ambiente isolato e controllato, in cui potevano entrare solo pochi specialisti, pediatri e insegnanti. Quando un individuo lascia il nido all’età di dodici o tredici anni, si sceglie un nome (il cognome è quello del genitore-donatore dal punteggio genetico più alto) ed è a tutti gli effetti legali un adulto in prova, con un’istruzione equivalente a quella che avevo io dopo il primo anno al college. Quasi tutti continuano a studiare per specializzarsi, ma ad alcuni viene assegnato un impiego e cominciano subito a lavorare. Vengono seguiti molto attentamente, e chiunque presenti segni di sociopatia, come ad esempio tendenze eterosessuali, viene spedito in un istituto correzionale. O guarisce, o resta lì fino alla fine dei suoi giorni.

A vent’anni, tutti vengono arruolati nella FENU. In maggioranza, lavorano dietro a una scrivania per cinque anni e poi vengono congedati. Pochi fortunati, circa uno su ottomila, vengono invitati a offrirsi volontari per l’addestramento al combattimento. Rifiutare è "sociopatico", benché significhi una rafferma di altri cinque anni. E le probabilità di sopravvivere per quei dieci anni sono così infinitesimali da essere trascurabili: nessuno, in effetti, è mai sopravvissuto. La possibilità migliore è che la guerra finisca prima dei tuoi dieci anni (soggettivi) di servizio militare. E sperare che la dilatazione temporale metta parecchi anni tra l’una e l’altra delle tue battaglie.

Poiché puoi calcolare di andare in combattimento circa una volta ogni anno soggettivo, e poiché ad ogni battaglia sopravvive una media del 34 per cento, è facile calcolare le probabilità che hai di arrivare vivo allo scadere dei dieci anni. Sono circa due millesimi dell’uno per cento. Oppure, per dirla in un altro modo, prendi una vecchia pistola a sei colpi e gioca alla roulette russa con quattro camere cariche su sei. Se ce la fai per dieci volte di fila, senza decorare la parete di fronte, congratulazioni! Sei un borghese. Poiché nella FENU ci sono circa sessantamila soldati combattenti, si può calcolare che in dieci anni ne sopravvivano 1,2. Io non facevo troppo conto di essere quel fortunato, anche se ero già arrivato a metà strada.

Quanti dei giovani soldati che riempivano l’auditorio sapevano di essere spacciati? Cercavo di abbinare le facce ai fascicoli che avevo studiato per tutta la mattinata, ma era difficile. Erano stati scelti tutti secondo la stessa serie di parametri rigorosi, ed erano straordinariamente simili: alti ma non troppo, muscolosi ma non massicci, intelligenti ma non del tipo che pensa troppo… e la Terra era razzialmente molto più omogenea di quanto fosse stata nel mio secolo. Quasi tutti avevano un’aria vagamente polinesiana. Solo due, Kaybanda e Lin, sembravano rappresentanti puri di tipi razziali. Mi chiesi se gli altri li tormentavano, per questo.

Quasi tutte le donne erano straordinariamente belle, e io non ero certo in condizioni di fare lo schizzinoso. Ero celibe da più di un anno, da quando avevo detto addio a Marygay, lassù in Paradiso.

Mi chiesi se qualcuna di loro potesse presentare qualche traccia di atavismo, o fosse disposta ad assecondare l’eccentricità del suo comandante. "Si fa assoluto divieto ad ogni ufficiale di avere legami sessuali con i suoi subordinati." Un bel modo di dirlo. "La violazione del presente articolo è punibile con la confisca di tutti i fondi e la riduzione al rango di soldato semplice o, se la relazione danneggia l’efficienza in combattimento, con l’esecuzione sommaria." Se tutti i regolamenti della FENU si fossero potuti violare con la disinvoltura e la continuità con cui veniva violato quello, sarebbe stato un esercito molto allegro.

Ma nessuno dei ragazzi mi attirava. Tuttavia, l’aspetto che avrebbero assunto ai miei occhi di lì a un anno, non potevo prevederlo.

— At-tenti! - Era il tenente Hilleboe. Tornò ad onore dei miei nuovi riflessi che non scattassi in piedi anch’io. Nell’auditorio scattarono tutti.

— Sono il tenente Hilleboe e sono il vostro secondo ufficiale di campo. — Una volta, era il grado di Primo Sergente. È un segno inequivocabile: quando un esercito è in circolazione da troppo tempo cominciano a esserci troppi ufficiali.

La Hilleboe si fece avanti, da vero soldato duro, professionista. Probabilmente urlava ordini allo specchio tutte le mattine, quando si faceva la barba. Ma avevo visto il suo profilo e sapevo che era stata in azione una volta sola, e del resto solo per un paio di minuti. Aveva perso un braccio e una gamba, e l’avevano fatta diventare ufficiale, più o meno come era capitato a me, in seguito ai test che avevano fatto nella clinica di rigenerazione.

Diavolo, magari era stata una persona simpaticissima prima di subire quel trauma; era già abbastanza orribile farsi ricrescere un arto, figurarsi due.

Lei stava facendo il tipico discorsetto da sergente, severo ma giusto: non fatemi perdere tempo con le sciocchezze, rispettate la scala gerarchica, quasi tutti i problemi si possono risolvere al quinto grado della scala (capi plotone).

Mi dispiacque di non avere avuto più tempo per parlare con lei. Il Comando della Forza d’Attacco aveva forzato i tempi per spedirci a quella prima adunata — dovevamo salire a bordo dell’astronave il giorno dopo — e io avevo scambiato solo poche parole con i miei ufficiali.

E non era abbastanza, perché era ormai evidente che la Hilleboe, e io avevamo idee piuttosto diverse sul modo di mandare avanti una compagnia. È vero che mandarla avanti era compito suo; io comandavo soltanto. Ma quella donna stava creando una situazione potenziale "buono-cattivo", servendosi della scala gerarchica per isolarsi dagli uomini e dalle donne che le erano subordinati. Io avevo avuto intenzione di essere meno altezzoso, e di dedicare un’ora ogni due giorni ai soldati che volessero venire da me per espormi le loro lagnanze o le loro proposte, senza bisogno dell’autorizzazione dei loro superiori diretti.

Entrambi avevamo ricevuto lo stesso tipo d’informazioni durante le tre settimane trascorse nel barattolo. Era interessante che fossimo arrivati a conclusioni tanto diverse sul comando. La politica della Porta Aperta, per esempio, aveva dato buoni risultati negli eserciti "moderni" dell’Australia e dell’America. Mi sembrava particolarmente appropriata per la nostra situazione, in cui tutti sarebbero rimasti chiusi in gabbia per mesi o addirittura per anni. Avevamo adottato quel sistema a bordo della Sangre Y Victoria, l’ultima astronave militare su cui avevo prestato servizio, e mi era sembrato che servisse a calmare le tensioni.

La Hilleboe li aveva fatti mettere in riposo mentre teneva la sua arringa organizzativa; fra poco li avrebbe sbattuti sull’attenti e avrebbe presentato me. Di cosa potevo parlare? Avevo avuto intenzione di pronunciare qualche frase prevedibile e di spiegare la mia politica della Porta Aperta, e poi di passarli al commodoro Antopol, che avrebbe detto qualcosa a proposito della Masaryk II. Ma avrei fatto meglio a rinviare la spiegazione, e ad avere un lungo scambio di vedute con la Hilleboe: anzi, sarebbe stato meglio se fosse stata lei a presentare quella politica agli uomini e alle donne, per non dare l’impressione che fossimo in disaccordo.

Mi salvò il mio ufficiale esecutivo, il capitano Moore. Arrivò precipitosamente da una porta laterale — andava sempre a precipizio, quello, come una meteora grassoccia — mi lanciò un rapido saluto e mi consegnò una busta contenente i nostri ordini di battaglia. Ebbi un piccolo dialogo, sottovoce, con il commodoro, e lei convenne che non sarebbe stato un gran male dire dove eravamo diretti, anche se, tecnicamente, la truppa "non era tenuta a saperlo".

Una delle cose di cui non ci dovevamo preoccupare, in quella guerra, erano le spie nemiche. Con una buona mano di vernice, un taurano potrebbe riuscire a camuffarsi da fungo ambulante. Ma susciterebbe inevitabilmente qualche sospetto.

La Hilleboe ordinò l’attenti e disse diligentemente che sarei stato un buon comandante; che la guerra l’avevo fatta fin dal principio, e se avevano intenzione di sopravvivere fino alla fine della ferma avrebbero fatto bene a seguire il mio esempio. Non disse che ero un mediocre soldato con una particolare abilità nel venire mancato dai tiri nemici. E neppure che mi ero congedato dall’esercito alla prima occasione e che c’ero ritornato solo perché sulla Terra le condizioni di vita era insopportabili.

— Grazie, tenente. — Presi il suo posto sul podio. — Riposo. — Aprii il foglio che conteneva i nostri ordini. — Ho qui una bella notizia e una brutta notizia insieme. — Quella che cinque secoli prima era una barzelletta, adesso era solo una constatazione. — Questi sono i nostri ordini di combattimento per la campagna di Sade-138. La bella notizia è che probabilmente non combatteremo, non subito, almeno. La brutta notizia è che diventeremo un bersaglio."

A queste parole si agitarono un po’, ma nessuno disse qualcosa o distolse gli occhi da me. Ottima disciplina. O forse era soltanto fatalismo; non sapevo se si facevano un quadro realistico del loro futuro. Della mancanza di un futuro, cioè.

— Abbiamo l’ordine… di trovare il più grande pianeta portale in orbita intorno alla collapsar Sade-138 e di costruirvi una base. Poi resteremo alla base fino a quando non ci daranno il cambio. Almeno due o tre anni, probabilmente.

"In questo periodo, quasi sicuramente verremo attaccati. Come molti di voi probabilmente sapranno, il comando della Forza d’Attacco ha scoperto un certo schema ripetitivo nei movimenti dei nemici da una collapsar all’altra, e si spera di risalirlo, seguendolo a ritroso nel tempo e nello spazio, fino a scoprire il pianeta patrio dei taurani. Per il momento, i nostri possono soltanto inviare forze d’intercettazione, e ostacolare l’espansione nemica.

"In un’ampia prospettiva, è quello che ci hanno ordinato di fare. Saremo una delle varie dozzine di unità d’assalto impiegate nelle manovre di blocco sulla frontiera nemica. Non vi ripeterò mai a sufficienza quanto è importante la nostra missione… se la FENU riuscirà a impedire al nemico di espandersi, potremo circondarlo. E vincere la guerra."

Preferibilmente prima che siamo crepati tutti. — Una cosa voglio che sia chiara: può darsi che veniamo attaccati il giorno stesso dello sbarco, può darsi che occupiamo indisturbati il pianeta per dieci anni e ce ne torniamo a casa. — Fesso chi ci crede. — In ogni caso, ognuno di noi dovrà mantenersi sempre in forma perfetta. Durante il viaggio seguiremo un programma regolare di ginnastica e faremo un ripasso dell’addestramento. Specialmente per quanto riguarda le tecniche di costruzione… dovremo erigere la base e gli impianti difensivi nel più breve tempo possibile.

Dio, cominciavo a parlare da ufficiale. — Qualche domanda? — Non ce ne furono. — Allora vorrei presentarvi il commodoro Antopol. Commodoro?

Il commodoro non cercò neppure di nascondere la propria noia mentre accennava, di fronte a quel branco di terragnoli, le caratteristiche e le prestazioni della Masaryk II. Io avevo imparato quasi tutto ciò che lei diceva per mezzo dell’alimentazione forzata nel barattolo, ma l’ultima cosa che disse colpì la mia attenzione.

— Sade-138 sarà la collapsar più lontana mai raggiunta dagli umani. Non è neppure nella galassia vera e propria, e si trova invece nella Grande Nube di Magellano, a una distanza di circa 150.000 anni-luce.

"Il nostro viaggio richiederà quattro balzi tra collapsar e durerà quattro mesi soggettivi. Le manovre d’inserimento nelle collapsar ci faranno restare indietro di circa trecento anni rispetto al calendario di Stargate, quando saremo arrivati a Sade-138."

Ecco altri settecento anni che se ne andavano, se vivevo abbastanza a lungo per tornare indietro. Non che facesse molta differenza: Marygay era come se fosse morta, ormai, e non esisteva altra persona al mondo che significasse qualcosa per me.

— Come ha detto il maggiore, non dovete lasciarvi illudere da queste cifre. Anche il nemico è diretto verso Sade-138: può darsi che ci arriviamo lo stesso giorno. La parte matematica della situazione è complicata, ma potete crederci sulla parola: sarà una corsa con poco distacco.

"Maggiore, ha altro da aggiungere?"

Feci per alzarmi. — Ecco…

— At-tenti! — urlò la Hilleboe. Dovevo imparare ad aspettarmelo.

— Solo che vorrei incontrarmi con i miei ufficiali, dal grado quattro in su, per qualche minuto. Sergenti dei plotoni, portate le vostre truppe all’Arca di Carico 67 alle 0400 di domattina. Fino a quel momento siete in libertà. Rompete le righe.

Invitai i cinque ufficiali nel mio alloggio e tirai fuori una bottiglia di vero cognac francese. Mi era costata due mesi di stipendio, ma che altro potevo fare del mio danaro? Investirlo?

Distribuii i bicchieri, ma l’Alsever, il dottore, rifiutò. Invece ruppe una piccola capsula, se l’accostò al naso e aspirò profondamente. Poi cercò, senza riuscirci troppo, di nascondere la sua espressione euforica.

— Per prima cosa, affrontiamo l’unico problema personale serio — dissi, versando il cognac. — Sapete tutti che non sono omosessuale?

Un coro misto di sissignore e nossignore.

— Ritenete che questo… complicherà la mia posizione come comandante? Nei confronti della truppa?

— Signore, io non… — cominciò Moore.

Lasciamo perdere il "signore" — dissi io — almeno tra di noi. Quattro anni fa, secondo il mio tempo soggettivo, ero un soldato semplice. Quando non è presente nessuno della truppa, io sono solo Mandella, o William. — Ebbi l’impressione che fosse uno sbaglio, nel momento stesso in cui lo dissi. — Continua pure.

— Ecco, William — continuò Moore — potrebbe essere stato un problema cento anni fa. Tu sai come la pensava la gente, allora.

— Per la verità non lo so. Tutto quel che so del periodo dal Ventunesimo secolo a oggi è la storia militare.

— Oh, be’. Allora era, uhm, era… come dire? — Moore agitò le mani.

— Era un reato — fece laconicamente l’Alsever. — Era il periodo in cui il Consiglio Eugenetico cercava di abituare la gente all’idea dell’omosessualità universale.

— Il Consiglio Eugenetico?

— Fa parte della FENU. Ha autorità esclusivamente sulla Terra. — L’Alsever aspirò profondamente la capsula vuota. — Lo scopo era di impedire alle persone di fare i bambini nel modo biologico. Perché: 1) mostravano una deplorevole mancanza di buon senso nella scelta del partner genetico; e 2) il Consiglio riteneva che le differenze razziali avessero lo spiacevole effetto di dividere inutilmente l’umanità; con un controllo totale delle nascite, in poche generazioni sarebbe invece stato possibile fare in modo che tutti appartenessero a un’unica razza.

Non sapevo che fossero arrivati a tanto. Ma immagino che fosse logico. — E tu approvi? Come medico?

— Come medico? Non ne sono certa. — L’Alsever si tolse dalla tasca un’altra capsula e la rotolò tra pollice e indice, guardando nel vuoto. O fissando qualcosa che noialtri non potevamo vedere. — In un certo senso, semplifica il mio lavoro. Molte malattie non esistono più. Ma non credo che conoscano la genetica come immaginano di conoscerla. Non è una scienza esatta: potrebbero commettere qualche grave errore, e i risultati si vedrebbero solo dopo parecchi secoli.

Si spezzò la capsula sotto il naso e inalò due volte, profondamente. — Ma come donna, sono completamente favorevole. — La Hilleboe e la Rusk approvarono con energici cenni del capo.

— Per non dover sopportare la gravidanza e il parto?

— Anche. — L’Alsever strabuzzò comicamente gli occhi, guardando la capsula, e diede un’ultima fiutata. — Ma soprattutto, è per… non dover… avere un uomo. Dentro di me. Devi capire. È disgustoso.

Moore rise. — Se non hai mai provato, Diana, non puoi…

— Oh, stai zitto. — Lei gli lanciò la capsula vuota, scherzosamente.

— Ma è del tutto naturale — protestai io.

— Sì, e lo è anche saltare sugli alberi da un ramo all’altro. Scavare con un fuscello per dissotterrare le radici. Progresso, mio caro maggiore; progresso.

— Comunque — disse Moore — è stato un reato solo per un breve periodo. Poi è stato considerato una… una …

— Disfunzione guaribile — disse l’Alsever.

— Grazie. E adesso, be’, è così rara che… non credo che gli uomini e le donne abbiano qualche forte idea preconcetta al riguardo, in un senso o nell’altro.

— È solo un eccentricità — disse Diana, in tono magnanimo. — Non è come se mangiassi i bambini.

— Esatto, Mandella — disse la Hilleboe. — Io non provo nessun sentimento diverso nei tuoi confronti, per questa faccenda.

— Io… io… ne sono lieto. — Era magnifico. Cominciavo a rendermi conto che non avevo la più vaga idea di come dovessi comportarmi, socialmente. Quasi tutto il mio comportamento "normale" era basato su un complesso, tacito codice d’etichetta sessuale. Adesso dovevo trattare gli uomini come se fossero donne e viceversa? Oppure trattare tutti quanti come fratelli e sorelle? Era una gran confusione.

Finii il cognac e posai il bicchiere. — Bene, grazie per le vostre, assicurazioni. Quello che volevo chiedervi… Sono certo che avrete tutti qualcosa da fare, gli addii e tutto il resto. Non voglio tenervi prigionieri.

Se ne andarono tutti, tranne Charlie Moore. Insieme decidemmo di prenderci una sbronza monumentale, facendo il giro di tutti i bar e di tutti i circoli ufficiali del settore. Ne girammo dodici e probabilmente saremmo riusciti a girarli tutti, ma poi decisi che era meglio dormire qualche ora prima del raduno del giorno seguente.

L’unica volta che Charlie mi fece delle proposte, lo fece con molta delicatezza. Spero che anche il mio rifiuto fosse altrettanto delicato… ma pensavo che in poco tempo avrei acquisito una notevole pratica.

29

Le prime astronavi della FENU avevano avuto una loro bellezza fragile e delicata. Ma, con le varie migliorie tecnologiche, la resistenza strutturale era diventata più importante della diminuzione della massa (una delle vecchie astronavi si sarebbe piegata su se stessa a fisarmonica, se avesse tentato una manovra a venticinque gravità) e le conseguenze si vedevano nella progettazione: tozza, pesante, dall’aria funzionale. L’unica decorazione era il nome MASARYK II, stampigliato in lettere azzurrocupo sullo scafo color ossidiana.

La nostra navetta passò sopra il nome mentre puntava sul vano di carico, e là c’era un gruppo di uomini e di donne piccolissimi che provvedevano alla manutenzione dello scafo. Prendendoli come punti di riferimento, ci accorgemmo che le lettere erano alte un centinaio di metri buoni. L’astronave era lunga un chilometro (per l’esattezza 1036,5 metri, diceva la mia memoria latente) e larga circa un terzo (319,4 metri).

Ma questo non voleva dire che a bordo ci fosse spazio da ballarci dentro. L’astronave ospitava nel suo ventre sei grossi caccia a tachioni e cinquanta missili robotizzati. La fanteria era rincantucciata in un angolo. "La guerra è il regno dell’attrito" aveva scritto Cadetto von Clausewitz; e io avevo l’impressione che lo avremmo constatato di persona.

Avevamo ancora sei ore prima di entrare nella vasca antiaccelerazione. Scaricai la mia cassetta nella minuscola cabina che sarebbe stata la mia casa per i prossimi venti mesi e me ne andai in giro a esplorare.

Charlie era arrivato prima di me al salone e al privilegio di essere il primo a valutare la qualità del caffè della Masaryk II.

— Bile di rinoceronte — disse.

— Almeno non è soia — dissi io, bevendo una cauta sorsata. Pensai che entro una settimana avrei avuto nostalgia della soia.

Il salone ufficiali era un cubicolo di tre metri per quattro, con pareti e pavimento di metallo, una macchina per il caffè e un lettore di biblioteca. Sei sedie dure e un tavolo con una macchina per scrivere.

— Un posticino allegro, no? — fece Charlie. Batté pigramente il tasto dell’indice generale sulla macchina-biblioteca. — Un sacco di testi sulla teoria militare.

— Benissimo. Per rinfrescarci la memoria.

— Hai fatto domanda tu per l’addestramento da ufficiale?

— Io? No. Ordini.

— Almeno hai una giustificazione. — Batté sul pulsante d’accensione e guardò la luce verde che si spegneva. — Io ho fatto domanda. Non mi avevano detto che effetto avrebbe fatto.

— Già. — Non, si riferiva a problemi sottili, come il peso della responsabilità o cose simili. — Dicono che l’effetto svanisce un po’ alla volta. — Tutte le informazioni che ti trasmettono a forza: un continuo bisbiglio silenzioso.

— Ah, eccovi. — La Hilleboe entrò e ci scambiammo i saluti. Diede una rapida occhiata scrutatrice alla stanza, e fu facile capire che quell’arredamento spartano godeva di tutta la sua approvazione. — Vuole parlare alla compagnia, prima che entriamo nelle vasche antiaccelerazione?

— No, non lo ritengo… necessario. — Per poco non avevo detto "opportuno". L’arte di tenere a guinzaglio i subordinati è difficile e delicata. Mi rendevo conto che avrei dovuto ricordare continuamente alla Hilleboe che non era lei, a comandare.

Oppure avrei potuto scambiarmi i gradi con lei. Lasciarle assaporare le gioie del comando.

— Per favore, raduni tutti i comandanti dei plotoni e ripassi con loro la sequenza dell’immersione. Poi faremo esercitazioni per acquistare una maggiore rapidità. Ma per il momento, ritengo che alla truppa faccia bene qualche ora di riposo. — Soprattutto se avevano i postumi della sbronza come il loro maggiore.

— Sissignore. — La Hilleboe girò sui tacchi e se ne andò. Un po’ stizzita, perché quello che le avevo detto di fare sarebbe stato più propriamente un compito per Riland o la Rusk.

Charlie calò la sua massa grassoccia su una delle sedie durissime e sospirò. — Venti mesi in questa macchina unta e bisunta. Insieme a quella lì. Merda!

— Be’, se sarai cortese con me, non ti farò alloggiare insieme a quella donna.

— D’accordo. Sono il tuo schiavo per l’eternità. A partire, diciamo, da venerdì prossimo. — Guardò nella tazza e decise di non bere i fondi del caffè. — Sul serio, la Hilleboe sarà un problema. Cos’hai intenzione di fare con lei?

— Non lo so. — Anche Charlie si comportava da insubordinato, ovviamente. Ma lui era il mio ufficiale esecutivo, ed era al di fuori della scala gerarchica. Inoltre, un amico dovevo pur farmelo. — Magari si addolcirà, una volta che saremo sotto peso.

— Sicuro.

Tecnicamente, eravamo già sotto peso, perché stavamo avanzando lentamente verso la collapsar di Stargate a una gravità. Ma era solo per la comodità dell’equipaggio: è difficile chiudere le botole in caduta libera. Il viaggio vero e proprio sarebbe incominciato solo quando fossimo entrati nelle vasche.

Il salone era troppo deprimente, e così Charlie e io impiegammo le ultime ore di mobilità per esplorare l’astronave.

Il ponte sembrava una comune centrale di computer: avevano rinunciato al lusso dei videoschermi. Ci fermammo a rispettosa distanza mentre l’Antopol e i suoi ufficiali effettuavano l’ultima serie di controlli prima di calarsi nelle vasche e di affidare i nostri destini alle macchine.

Per la verità c’era un oblò, una bolla di plastica robustissima, in sala navigazione, a prua. Il tenente Williams non aveva niente da fare: la parte preinserzione del suo lavoro era completamente automatizzata. Perciò fu ben lieto di farci da guida.

Batté un’unghia sull’oblò. — Spero che in questo viaggio non dobbiamo servircene.

— Come mai? — chiese Charlie.

— Lo usiamo solo se ci perdiamo. — Se l’angolo di inserzione deviava d’un millesimo di radiante, poteva darsi che noi finissimo dalla parte opposta della galassia. — Possiamo farci un’idea approssimativa della nostra posizione analizzando gli spettri delle stelle più luminose. Come le impronte digitali. Identificatene tre, e possiamo effettuare la triangolazione.

— E poi trovate la collapsar più vicina e ritornate sulla pista giusta — dissi io.

— È proprio quello, il problema. Sade-38 è l’unica collapsar di cui conosciamo l’esistenza nelle Nubi di Magellano. Sappiamo che c’è solo grazie ai dati catturati al nemico. Anche se riuscissimo a trovare un’altra collapsar, nel caso che ci perdessimo nella Nube, non sapremmo come inserirci.

— Magnifico.

— Ma in realtà non saremmo veramente persi — disse Williams, con un’espressione abbastanza perversa. — Potremmo chiuderci nelle vasche, puntare verso la Terra e lanciarci a tutta forza. Ci arriveremmo in circa tre mesi, tempo della nave.

— Sicuro — dissi io. — Ma centocinquantamila anni nel futuro. — A venticinque gravità, puoi arrivare a nove decimi della velocità della luce in meno di un mese. E a partire da quel momento, sei nelle braccia di sant’Albert Einstein.

— Be’, è un inconveniente, sicuro — disse Williams. — Ma almeno scopriremmo chi ha vinto la guerra.

Ti veniva fatto di chiederti quanti soldati avessero tagliato la corda in quel modo. C’erano quarantadue Forze d’Attacco perdute, non si sapeva bene né dove né come. Era possibile che tutte stessero viaggiando nello spazio normale, a una velocità prossima a quella della luce, e che ricomparissero a Stargate o sulla Terra, una dopo l’altra, nei secoli futuri.

Era un sistema comodo per imboscarti, perché, una volta che uscivi fuori dalla catena dei balzi tra collapsar, rintracciarti era praticamente impossibile. Purtroppo, la sequenza dei balzi era preprogrammata dal Comando della Forza d’Attacco; il navigatore umano entrava in scena solo se un errore di calcolo ti mandava a finire in un posto sbagliato, e schizzavi fuori in una parte diversa dello spazio.

Charlie e io andammo a ispezionare la palestra, abbastanza grande per ospitare una dozzina di persone alla volta. Lo pregai di preparare un elenco, in modo che tutti potessero esercitarsi per un’ora al giorno, quando non eravamo nelle vasche.

La sala mensa era solo un po’ più spaziosa della palestra, e anche facendo quattro turni, i pasti si sarebbero consumati spalla a spalla. E il salone della truppa era ancora più deprimente di quello degli ufficiali. Prima che quei venti mesi fossero passati, mi sarei trovato alle prese con un bel problema, per quanto riguardava il morale della truppa.

L’officina dell’armiere era grande quanto la palestra, la mensa e i due saloni messi insieme. Era indispensabile, dato il gran numero delle armi per fanteria che erano state realizzate nel corso dei secoli. L’arma fondamentale era ancora lo scafandro da combattimento, anche se era molto perfezionato rispetto al primo modello in cui mi avevano infilato poco prima della campagna di Aleph-zero.

Il tenente Riland, l’ufficiale armiere, sovrintendeva al lavoro dei quattro subordinati, uno per plotone, che effettuavano un ultimo controllo della sistemazione delle armi. Era probabilmente il compito più importante, se si pensava a quello che poteva succedere, a venticinque gravità, a tutte quelle tonnellate di esplosivi e di sostanze radioattive.

Ricambiai il saluto di Riland. — Tutto a posto, tenente?

— Sissignore, a parte quelle maledette spade. — Da usarsi nei campi di stasi. — Non riusciamo a orientarle in modo che non si pieghino. Speriamo solo che non si spezzino.

Non riuscivo a capire neppure lontanamente i principi che stavano alla base del campo di stasi; l’abisso tra la fisica moderna e il mio diploma nella stessa materia era ampio quanto il tempo che separava Galileo da Einstein. Ma gli effetti li conoscevo.

Niente poteva muoversi a una velocità superiore ai 16,3 metri al secondo all’interno del campo, che era un volume emisferico (sferico nello spazio) del raggio di circa cinquanta metri. All’interno, non esistevano radiazioni elettromagnetiche: niente elettricità, niente magnetismo, niente luce. Dallo scafandro, potevi vedere quello che ti circondava in un monocromatismo spettrale: il fenomeno mi era stato spiegato elegantemente come "trasferimento di fase della quasi-energia filtrante da una realtà tachionica adiacente". Per me, era come se mi avessero parlato del flogisto.

Il risultato, comunque, era che rendeva inutile tutte le armi belliche convenzionali. Persino una bomba nova, dentro al campo, era un pezzo di materia inerte. E qualunque essere, terrestre o taurano, preso dentro al campo senza un adeguato isolamento, sarebbe morto in una frazione di secondo.

All’inizio era parso che avessimo trovato l’arma assoluta. C’erano stati cinque scontri in cui intere basi taurane erano state spazzate via senza perdite umane al suolo. Bastava semplicemente portare il campo vicino ai nemici (quattro soldati robusti potevano farcela, in una gravità di tipo terrestre) e poi guardarli morire mentre scivolavano dentro alla parete opaca del campo. Quelli che trasportavano il generatore erano invulnerabili, eccettuati i brevi periodi durante i quali dovevano spegnerlo per orientarsi.

Ma quando il campo era stato usato per la sesta volta, i taurani si erano preparati. Indossavano tute protettive ed erano armati di lance affilate, con le quali potevano trapassare gli scafandri dei portatori del generatore. Dopo quella volta, i portatori erano sempre andati in giro armati.

Si era avuta notizia di solo altre tre battaglie del genere, sebbene dodici Forze d’Attacco fossero partite con il campo di stasi. Le altre stavano ancora combattendo, o erano ancora in viaggio, oppure erano state annientate. Impossibile saperlo, a meno che tornassero indietro. E non dovevano tornare, se i taurani erano ancora padroni del "loro" territorio: quella era "diserzione davanti al nemico", il che significava la pena capitale per tutti gli ufficiali (anche se correva voce che venivano semplicemente sottoposti al lavaggio del cervello, ricondizionati e ributtati nella mischia).

— Useremo il campo di stasi, signore? — chiese Riland.

— Probabilmente. Non all’inizio, a meno che i taurani non siano già là. Non mi affascina l’idea di vivere dentro a uno scafandro. — E non mi andava neanche l’idea di usare spada, zagaglia e coltello da lancio, anche se con quelle armi avevo spedito nel Valhalla una notevole quantità di illusioni elettroniche.

Diedi un’occhiata all’orologio. — Be’, sarà meglio che scendiamo nelle vasche, capitano, ad assicurarci che siano tutti sistemati. — Avevamo ancora due ore, prima che cominciasse la sequenza dell’inserzione.

La sala delle vasche sembrava un’enorme fabbrica chimica. Aveva un diametro di cento metri abbondanti ed era piena zeppa di ingombranti apparecchiature dipinte di un uniforme grigioscuro. Le otto vasche erano disposte quasi simmetricamente intorno all’ascensore centrale, e la simmetria era guastata dal fatto che una di esse era grande circa il doppio delle altre. Era destinata al comando, per tutti gli ufficiali superiori e gli specialisti.

Il sergente Blazynski uscì da dietro una delle vasche e salutò. Non ricambiai il saluto.

— Cosa diavolo è quello? — In quell’universo grigio, avevo visto una macchia di colore.

— Un gatto, signore.

— Davvero. — E grosso, anche, e color arancione vivo. Sembrava ridicolo, drappeggiato sulle spalle del sergente. — Mi faccia riformulare la domanda: cosa diavolo ci fa qui un gatto?

— È la mascotte della Squadra manutenzione, signore. — Il gatto alzò la testa quanto bastava per soffiare di malavoglia contro di me, poi tornò alla sua flaccida apatia.

Guardai Charlie, e quello scrollò le spalle. — Mi sembra una crudeltà — disse. E al sergente: — Non se lo godrà molto. A venticinque gravità, sarà ridotto a un mucchietto di pelo e di budella.

— Oh, no, signore. Signori. — Il sergente scarruffò il pelo della bestiola, sulle spalle. C’era inserita una presa per il fluorocarbonio, identica a quella che avevo io sopra l’anca. — L’abbiamo comprato in un magazzino di Stargate, già modificato. Ormai ce l’hanno moltissime astronavi, signore. Il commodoro ci ha firmato i moduli.

Be’, ne aveva il diritto; la Squadra manutenzione era agli ordini miei e suoi, congiuntamente. E l’astronave era sua. — Non potevate prendere un cane? — Dio, i gatti li odiavo. Sempre in giro a curiosare.

— No, signore, non si adattano. Non sopportano la caduta libera.

— Avete dovuto fare qualche adattamento speciale? Nella vasca? — chiese Charlie.

— No, signore. Avevamo una cuccetta in più. Magnifico: voleva dire che sarei finito in vasca con quell’animale. — Abbiamo dovuto solo accorciare le cinghie.

"Occorre un tipo di droga diverso per rafforzare le pareti delle cellule, ma era compreso nel prezzo."

Charlie grattò il gatto dietro l’orecchio. Quello fece sommessamente le fusa, ma non si mosse. — Mi sembra stupido. L’animale, voglio dire.

— Lo abbiamo drogato in anticipo. — Non c’era da meravigliarsi che fosse così inattivo: la droga rallenta il metabolismo al punto necessario per mantenere esclusivamente le funzioni vitali.

— Credo sia tutto in regola — dissi io. Forse era utile, per via del morale. — Ma se comincia a venirmi tra i piedi, lo riciclerò personalmente.

— Sì, signore — disse il sergente, visibilmente sollevato, convinto che io non avrei mai fatto una cosa simile a quel delizioso batuffolo di pelo. Mettimi alla prova, amico.

Così avevamo visto tutto. Restava una cosa sola, al di qua dei motori: l’enorme stiva dove attendevano i caccia e i missili, fissati alle massicce imbragature. Io e Charlie scendemmo a dare un’occhiata, ma non c’erano finestre da questa parte del vano stagno. Sapevo che ce n’era una all’interno, ma la camera era a vuoto d’aria, e non valeva la pena di cominciare il ciclo per riempirla e scaldarla solo per soddisfare la nostra curiosità.

Cominciavo veramente a sentirmi in soprannumero. Chiamai la Hilleboe e lei disse che era tutto a posto. Avevamo un’altra ora da far passare: tornammo in salone e facemmo organizzare dal computer una partita di Kriegspieler, che cominciava giusto a diventare interessante quando suonò il preallarme dei dieci minuti.

Le vasche di accelerazione avevano una "emivita di guasto" di cinque settimane; ossia c’erano cinquanta probabilità su cento che tu potessi restarci immerso per cinque settimane senza che saltasse una valvola o un tubo e che tu finissi spiaccicato come un verme sotto un tacco. In pratica, doveva capitare un caso d’emergenza eccezionale, per dovere usare le vasche per un’accelerazione superiore alle due settimane. E noi dovevamo starci solo dieci giorni, in quella prima tappa del viaggio.

Cinque settimane o cinque ore, del resto, erano lo stesso, per quanto riguardava quelli che stavano nelle vasche. Quando la pressione saliva a livello operativo, perdevi il senso del tempo. Il corpo e il cervello diventavano come cemento. I sensi non fornivano informazioni, e ti potevi divertire per parecchie ore semplicemente cercando di sillabare il tuo nome.

Perciò non mi sorprese affatto se pareva che non fosse passato neanche un minuto quando mi ritrovai improvvisamente asciutto, formicolante per il ritorno delle sensazioni. Sembrava di essere a un congresso di asmatici in un campo di fieno; trentanove persone e un gatto che tossivano e sternutivano per liberarsi degli ultimi residui del fluorocarbonio. Mentre stavo slacciandomi le cinghe, la porta laterale si aprì, inondando la vasca d’una luce dolorosamente intensa. Il gatto uscì per primo e tutti gli altri si affrettarono a seguirlo. Per salvare la mia dignità, me ne andai per ultimo.

Fuori c’era un centinaio di persone, e tutti si stiracchiavano e si massaggiavano per liberarsi dai crampi. Dignità! Circondato da centinaia di metri quadrati di giovani carni femminee, le guardai in faccia e in preda alla disperazione cercai di risolvere mentalmente un’equazione differenziale di terz’ordine, per inibire il riflesso galante. Era un espediente temporaneo, ma mi servì per arrivare all’ascensore.

La Hillaboe stava urlando ordini e metteva in fila la truppa, e mentre le porte si richiudevano, notai che tutti quelli di un plotone avevano una lividura leggera e uniforme, dalla testa ai piedi. E venti paia di occhi pesti. Avrei dovuto parlarne tanto con la Squadra manutenzione quanto con il servizio medico.

Dopo essermi rivestito.

30

Restammo a una gravità per tre settimane, con qualche breve periodo di caduta libera per controllare la rotta, mentre la Masaryk II descriveva una lunga, stretta ellisse allontanandosi dalla collapsar Resh-10, e ritornava indietro. In quel periodo andò tutto bene: tutti si adattarono alla routine di bordo. Li feci lavorare il meno possibile, e li sottoposi invece a un intenso ripasso dell’addestramento e a parecchia ginnastica… per il loro bene, anche se non ero tanto ingenuo da illudermi che se ne rendessero conto.

Dopo circa una settimana a una gravità, il soldato semplice Rudkoski, l’aiutante del cuoco, aveva improvvisato una distilleria, e produceva otto litri giornalieri di alcool etilico al 95%. Non avevo nessuna intenzione di impedirglielo, dato che la vita a bordo era già abbastanza squallida, e non me ne importava, purché si presentassero sobri in servizio. Ma ero curioso di sapere come riuscisse a dirottare le materie prime dalla nostra ecologia a circuito chiuso, e come facessero i soldati a pagarsi da bere. Perciò mi servii della scala gerarchica a rovescio, incaricando l’Alsever di scoprirlo. Lei lo chiese a Jarvil, che lo domandò a Carreras, che andò a fare quattro chiacchiere con Orban, il cuoco. Saltò fuori che era stato il sergente Orban a organizzare tutto, e che lasciava a Rudkoski la parte più sporca del lavoro: e moriva dalla voglia di vantarsene con qualcuno degno della sua fiducia.

Se qualche volta avessi consumato i pasti insieme alla truppa, avrei capito che stava succedendo qualcosa di strano. Ma la congiura non si estendeva fino al livello degli ufficiali.

Per mezzo di Rudkoski, Orban aveva organizzato un’economia basata sull’alcool. Le cose andavano così:

Ogni pasto includeva un dessert molto ricco di zucchero — gelatina, crema o budino — che tu eri libero di mangiare, se riuscivi a sopportarne il sapore. Ma se era ancora sul tuo vassoio quando lo presentavi allo sportello del riciclaggio, Rudkoski ti dava un gettone da dieci centesimi e rovesciava il dolce zuccherato in una vasca a fermentazione. Aveva due vasche da venti litri, una delle quali "lavorava" mentre si riempiva l’altra.

Il gettone da dieci centesimi era la base di un sistema che ti consentiva di comprare mezzo litro di alcool etilico puro (gusto a scelta) per cinque dollari. Una squadra di cinque persone che saltasse i dessert poteva comprarsi circa un litro alla settimana: abbastanza per una festicciola, ma non abbastanza per costituire un attentato alla salute di tutti.

Quando Diana Alsever mi portò queste informazioni, portò anche una bottiglia di Boiata Rudkoski… "Boiata" intesa alla lettera: era un sapore riuscito male. La bottiglia aveva salito la scala gerarchica perdendo solo due dita di contenuto.

Il sapore era una combinazione spaventosa tra la fragola e i semi di comino. Con la depravazione abbastanza frequente tra le persone che bevono di rado, Diana ne era entusiasta. Mi feci portare un po’ d’acqua ghiacciata, e dopo un’ora lei era completamente partita. In quanto a me, me ne versai un bicchiere e non lo finii.

Quando Diana fu ben avviata sulla strada verso l’oblio, mormorando al proprio fegato un soliloquio rassicurante, all’improvviso alzò la testa e mi fissò con franchezza infantile.

— Tu hai un grosso problema, maggiore William.

— Molto meno grave di quello che avrai tu domani mattina, tenente medico Diana.

— Oh, non proprio. — Si agitò una mano davanti alla faccia, in un gesto ebbro. — Un po’ di vitamine, un po’ di giù… cosio, un centimetro cubo di adren… alina se il resto non serve. Tu… tu… hai un vero… problema.

— Senti, Diana, non vorrai che io…

— Tu hai bisogno… di un appuntamento con quel simpatico caporale Valdez. — Valdez era il consulente sessuale maschile. — Lui ha l’empatia. Ti farà diventare…

— Ne abbiamo già parlato, ti ricordi? Voglio restare come sono.

— Questo vale per tutti. — Diana si asciugò una lacrima che era probabilmente alcool all’uno per cento. — Sai che ti chiamano il Vecchio Investito. No, non così.

Fissò prima il pavimento, poi la parete. — Il Vecchio Invertito, ecco cosa.

Mi ero aspettato di peggio. Ma non tanto presto. — Non me ne importa. Affibbiano sempre un soprannome ai comandanti.

— Lo so ma… — All’improvviso si alzò, barcollando un pochino. — Ho bevuto troppo. Sdraiati. — Mi voltò la schiena e si stiracchiò così forte da farsi scricchiolare le giunture. Poi ci fu il fruscio di una lampo, e lei sgusciò fuori della tunica, la scavalcò e si avviò in punta di piedi verso il mio letto. — Vieni, William. È un’occasione unica.

— Per amor di Dio, Diana. Non sarebbe giusto.

— È tutto giusto — ridacchiò lei. — E poi, sono un dottore. Ho una mentalità clinica; non mi darà fastidio neanche un po’. Aiutami con questo coso. — Dopo cinquecento anni, continuavano a metterli dietro, i fermagli dei reggiseni.

Un gentiluomo di un certo tipo l’avrebbe aiutata a spogliarsi e poi sarebbe uscito con discrezione. Un gentiluomo di un altro tipo si sarebbe precipitato fuori dalla porta. Poiché non appartenevo a nessuna delle due categorie, mi avvicinai, deciso a stare al gioco.

Per fortuna, forse, lei si addormentò prima che avessimo avuto il tempo di cominciare. Restai ad ammirarla a lungo e poi, immensamente imbarazzato, riuscii a raccogliere tutta la sua roba e a rivestirla.

La sollevai dal letto, dolce peso, e poi mi resi conto che se qualcuno mi avesse visto mentre la riportavo nella sua cabina, sarebbe diventata lo zimbello di tutti per il resto della campagna. Chiamai Charlie, gli dissi che avevamo bevuto un po’ e che Diana si era sentita male e gli chiesi se era disposto a venire da me per bere qualcosa o per aiutarmi a riportare a casa la cara dottoressa.

Quando Charlie bussò, lei era innocentemente abbandonata su una sedia, e russava piano.

Charlie la guardò e sorrise. — Medico, cura te stesso. — Gli offrii la bottiglia e un avvertimento. La fiutò e fece una smorfia.

— Che cos’è, vernice?

— Una porcheria che hanno combinato i cuochi. Distillazione sotto vuoto.

Charlie la posò con cautela, come se potesse esplodere. — Prevedo un imminente calo di clienti. Un’epidemia di morti per avvelenamento… Diana ha bevuto davvero questo schifo?

— Be’, i cuochi hanno ammesso che l’esperimento non era riuscito. Gli altri sapori evidentemente sono potabili. Sì, l’ha bevuto e le è piaciuto.

— Bella questa… — Charlie scoppiò a ridere. — Accidenti! Allora, tu la prendi per le gambe e io per le braccia?

— No, senti, prendiamo un braccio per ciascuno. Magari riusciamo a farla camminare.

Diana gemette un po’ quando l’alzammo dalla sedia, aprì un occhio e disse: — Ciao, Charliiie. — Poi richiuse l’occhio e si lasciò trascinare fino alla sua cabina. Lungo il percorso non ci vide nessuno, ma la sua compagna di cuccetta, la Laasonen, era alzata e leggeva.

— Ha proprio bevuto quella roba, eh? — Guardò l’amica con ironia affettuosa. — Qua, lasciate che vi aiuti.

Fra tutti e tre, riuscimmo a metterla a letto. La Laasonen le scostò i capelli dagli occhi. — Aveva detto che era un esperimento.

— È più devota alla scienza di me — disse Charlie. — E ha anche lo stomaco più forte.

Sarebbe stato meglio che non lo avesse detto.

Diana ammise timidamente che non ricordava più niente di quello che era successo dopo il primo bicchiere, e parlando con lei dedussi che era convinta che Charlie fosse sempre stato presente. Il che era un bene, naturalmente. Ma, oh, Diana, mia deliziosa eterosessuale potenziale, permettimi di offrirti una bottiglia di ottimo scotch, la prima volta che arriveremo in porto. Fra settecento anni.

Tornammo nelle vasche per il salto da Resh-10 a Kaph-35. Furono due settimane a venticinque gravità; poi altre quattro settimane di routine a una gravità.

Io avevo annunciato la mia politica della porta aperta, ma in pratica non ne approfittò nessuno. Vedevo pochissimo la truppa, e quelle occasioni erano sempre negative: li interrogavo sul ripasso dell’addestramento, facevo ramanzine, e qualche volta tenevo lezioni. Ed era raro che quelli parlassero in modo intelligibile, se non per rispondere a una domanda diretta.

Quasi tutti conoscevano l’inglese come lingua madre o come seconda lingua, ma in quei quattrocentocinquant’anni era tanto cambiato che li capivo a malapena, soprattutto se lo parlavano in fretta. Per fortuna, durante il primo addestramento avevano imparato tutti l’inglese del Ventunesimo secolo: quella lingua, o dialetto, era la lingua franca temporale, grazie alla quale un soldato del Venticinquesimo secolo poteva comunicare con qualcuno che era stato contemporaneo dei suoi nonni di diciannove generazioni prima. Se l’istituzione dei nonni esisteva ancora.

Pensai al mio primo comandante, il capitano Stott — che avevo odiato cordialmente, insieme con tutto il resto della compagnia — e cercai di immaginare ciò che avrei provato se lui fosse stato un deviante sessuale e se io fossi stato costretto a imparare un’altra lingua per sua comodità.

Quindi avevamo dei problemi di disciplina, sicuro. Ma era già un miracolo che ci fosse la disciplina. Di questo era responsabile la Hilleboe, e per quanto personalmente avessi poca simpatia per lei, dovevo riconoscere che sapeva far filare la truppa.

Quasi tutte le scritte scarabocchiate sulle pareti della nave alludevano a improbabili geometrie sessuali tra il secondo ufficiale di campo e il suo comandante.

Da Kaph-35 balzammo a Sarnk-78, e da lì ad Ayin-129 e finalmente a Sade-138. In generale, i balzi erano di poche centinaia d’anni-luce, ma l’ultimo fu di 140.000, il più lungo da collapsar a collapsar mai compiuto da un veicolo con uomini a bordo.

Il tempo trascorso nel passare da una collapsar all’altra era sempre lo stesso, indipendentemente dalla distanza. Ai tempi in cui avevo studiato fisica io, si pensava che la durata di un balzo fosse esattamente zero. Ma un paio di secoli dopo, avevano effettuato un complicato esperimento con onde guida e avevano dimostrato che in effetti il balzo durava una piccola frazione di un nanosecondo. Non sembra molto, ma avevano dovuto ricostruire la fisica partendo dalle fondamenta già quando avevano scoperto il balzo tra collapsar; e avevano dovuto smontarla di nuovo quando avevano accertato che ci voleva del tempo per andare da A a B. I fisici ne discutevano ancora.

Comunque, noi avevamo problemi più urgenti, quando schizzammo fuori dal campo collapsar di Sade-138 a tre quarti della velocità della luce. Era impossibile accertare, sul momento, se i taurani ci avessero preceduti. Lanciammo una sonda pre-programmata che avrebbe decelerato a 300 gravità e avrebbe dato un’occhiata preliminare in giro. Ci avrebbe avvertiti, se avesse scoperto altre astronavi nel sistema, o tracce di attività taurana su qualcuno dei pianeti della collapsar.

Dopo aver lanciato la sonda, ci chiudemmo nelle vasche e i computer incominciarono una nuova manovra evasiva della durata di tre settimane, mentre l’astronave rallentava. Non era un problema; ma tre settimane sono parecchio lunghe da passare congelati nella vasca. Dopo, per un paio di giorni, ci trascinammo in giro come vecchi invalidi.

Se la sonda ci avesse informati che i taurani erano già nel sistema, saremmo scesi immediatamente a una gravità e avremmo cominciato a usare i caccia e le sonde automatiche, armati di bombe nova. O forse non saremmo vissuti tanto a lungo: qualche volta i taurani ce la facevano a liquidare un’astronave poche ore dopo che era entrata in un sistema. Morire nella vasca forse non era il modo migliore di andarsene.

Impiegammo un mese per ritornare a un paio di unità astronomiche da Sade-138, dove la sonda aveva trovato un pianeta che faceva al caso nostro.

Era un pianeta strano, un po’ più piccolo della Terra, ma più denso. E non era il solito mondo criogenico, come quasi tutti i pianeti portale, sia per il colore che irradiava dal suo nucleo, sia perché la S Doradus, la stella più luminosa di tutta la Nube, era distante solo un terzo d’anno-luce.

La caratteristica più strana del pianeta era la mancanza di geografia. Dallo spazio sembrava una palla da biliardo lievemente danneggiata. Il nostro fisico, il tenente Gim, spiegò quelle condizioni indicando che la sua orbita anomala, quasi da cometa, significava probabilmente che aveva trascorso quasi tutta la sua esistenza da "pianeta vagabondo", andandosene da solo alla deriva nello spazio interstellare. C’erano buone probabilità che non fosse mai stato colpito da una grossa meteora fino a quando non era capitato dalle parti di Sade-138 ed era stato catturato… costretto a coabitare con tutti gli altri detriti cosmici che la collapsar si trascinava intorno.

Lasciammo in orbita la Masaryk II (era in grado di atterrare, ma questo avrebbe limitato la sua visibilità e ridotto il tempo di fuga) e trasportammo sulla superficie il materiale da costruzione servendoci dei sei caccia.

Fu un sollievo uscire dall’astronave, anche se il pianeta non era precisamente ospitale. L’atmosfera era un sottile vento freddo di elio e d’idrogeno: faceva troppo freddo perché, anche a mezzogiorno, qualunque altra sostanza potesse esistervi sotto forma di gas.

"Mezzogiorno" era quando la S Doradus stava allo zenith: una scintilla minuscola, d’uno splendore doloroso. La temperatura scendeva lentamente, di notte, da venticinque gradi Kelvin fino a diciassette… e questo causava dei problemi, perché poco prima dell’alba l’idrogeno cominciava a condensarsi e rendeva tutto così viscido che era impossibile far altro che mettersi seduti e aspettare che finisse. All’alba un fievole arcobaleno dai colori pastello offriva l’unica variazione nella monotonia bianca e nera del paesaggio.

Il terreno era traditore, coperto di pezzetti granulari di gas congelato che si spostavano lentamente, incessantemente nella brezza anemica. Bisognava camminare adagio, barcollando, per restare in piedi: delle quattro persone che morirono durante la costruzione della base, tre furono vittime di semplici cadute.

La truppa non fu soddisfatta della mia decisione di costruire le difese perimetrali e antiastronave prima di montare gli alloggi. Era prevedibile, e del resto avevano due giorni di riposo a bordo della nave per ogni "giorno" sul pianeta… il che non era troppo generoso, devo ammetterlo, poiché i giorni sull’astronave erano di 24 ore, e un giorno sul pianeta era di 38,5 ore da un’alba all’altra.

La base venne completata in meno di quattro settimane, ed era davvero una struttura formidabile. Il perimetro, un cerchio del diametro di un chilometro, era protetto da venticinque laser da un gigawatt che potevano puntare sul bersaglio e sparare automaticamente in un millesimo di secondo, reagendo ad ogni oggetto di grandezza significativa tra il perimetro e l’orizzonte. Questa volta, quando il vento soffiava nella direzione giusta e il suolo era umido per l’idrogeno, i piccoli granuli di ghiaccio si appiccicavano l’uno all’altro, formavano una palla e cominciavano a rotolare. Non arrivavano lontano.

Come protezione preventiva, prima che i nemici arrivassero all’orizzonte, intorno alla base c’era un enorme campo minato. Le mine sepolte esplodevano a una sufficiente distorsione del loro campo gravitazionale locale: bastava un solo taurano a farne esplodere una, se le arrivava a meno di venti metri; anche una piccola astronave a un chilometro di quota l’avrebbe fatta esplodere. Erano 2800, quasi tutte bombe nucleari da 100 microtoni. Cinquanta erano bombe a tachioni, dalla potenza devastatrice. Erano sparpagliate a caso in un cerchio che si estendeva per altri cinque chilometri oltre il limite dell’efficacia dei laser.

All’interno della base avevamo i laser individuali, le granate da un microtone e lanciarazzi multipli a tachioni che non erano mai stati provati in combattimento: ce n’era uno per plotone. Come estrema risorsa, accanto agli alloggiamenti era stato creato il campo di stasi. Dentro la sua cupola grigio-opaca, oltre alle armi paleolitiche per combattere l’Orda d’Oro, avevamo sistemato un piccolo incrociatore, nel caso che dovessimo perdere tutti i nostri mezzi spaziali pur vincendo la battaglia. Dodici persone ce l’avrebbero fatta comunque ad arrivare a Stargate. Era meglio non pensare al fatto che gli altri superstiti avrebbero dovuto restarsene lì fino a quando non fossero sopraggiunti i rincalzi… o la morte.

Gli alloggiamenti e gli uffici amministrativi erano tutti sotterranei, per proteggerli dalle armi in linea di visuale. Ma non andava bene per il morale: c’erano liste d’attesa per tutti i lavori all’aperto, per quanto fossero pesanti o pericolosi. Io non avevo permesso che la truppa uscisse all’aperto durante il tempo libero, un po’ perché era pericoloso, un po’ perché sarebbe stata una scocciatura dal punto di vista amministrativo controllare continuamente l’equipaggiamento in entrata e in uscita e star dietro a quelli che erano fuori.

Alla fine dovetti cedere e permettere che uscissero per qualche ora ogni settimana. Non c’era niente da vedere, tranne la pianura squallida e il cielo (che durante il giorno era dominato dalla S Doradus, e la notte dal fioco ovale della Galassia), ma era sempre meglio che guardare le pareti e i soffitti di roccia fusa.

Uno degli sport preferiti consisteva nell’arrivare fino al perimetro e lanciare palle di neve di fronte ai laser, per vedere qual era la palla più piccola capace di metterli in azione. A me sembrava che come divertimento equivalesse a guardare sgocciolare un rubinetto, ma in fondo non c’era pericolo, perché i laser potevano sparare solo in avanti, e avevamo energia in abbondanza.

Per cinque mesi le cose andarono avanti bene. I problemi amministrativi non erano diversi da quelli che avevamo dovuto affrontare a bordo della Masaryk II. E come trogloditi passivi correvamo meno pericoli di quando balzavamo da una collapsar all’altra, almeno fino a quando non fosse comparso il nemico.

Io feci finta di guardare dall’altra parte quando Rudkoski rimontò la distilleria. Tutto ciò che serviva a rompere la monotonia della vita di guarnigione andava benissimo, e i gettoni non solo provvedevano liquori alla truppa, ma servivano anche a giocare d’azzardo. Fui irremovibile solo su due punti: nessuno poteva uscire all’aperto se non era completamente sobrio, e nessuno poteva vendere prestazioni sessuali. Forse ero troppo puritano, ma comunque rientrava nei regolamenti. L’opinione degli specialisti era divisa; il tenente Wilber, lo psichiatra, era d’accordo con me; i consulenti sessuali Kajdi e Valdez no. Ma probabilmente loro facevano danaro a palate, dato che erano i "professionisti" stabili.

Cinque mesi di routine piacevolmente noiosa, e poi ci fu la faccenda del soldato Graubard.

Per ovvie ragioni, negli alloggiamenti le armi erano proibite. Dato l’addestramento ricevuto da quegli individui, anche una rissa a pugni poteva diventare un duello mortale, e non erano tipi che avessero molta pazienza. Cento persone normali, nelle nostre grotte, dopo una settimana si sarebbero prese reciprocamente per la gola, ma quei soldati erano stati scelti a uno a uno per la loro capacità di sopportarsi a vicenda in un ambiente chiuso.

Comunque, le zuffe c’erano lo stesso. Graubard per poco non uccise il suo ex amante Schon, quando questi gli fece uno sberleffo mentre erano in fila alla mensa. Si buscò una settimana di cella d’isolamento (e lo stesso toccò a Schon che l’aveva provocato) e poi consulenze psichiatriche e corvée di punizione. Poi lo trasferii al Quarto plotone, così non avrebbe visto Schon tutti i giorni.

La prima volta che s’incontrarono in un corridoio, Graubard salutò Schon con un furioso calcio alla gola. Diana Alsever dovette costruirgli una trachea nuova. Graubard ebbe un’altra dose più intensiva di detenzione, consulenza e corvée — diavolo, non potevo trasferirlo a un’altra compagnia - e poi per due settimane si comportò bene. Modificai gli orari di lavoro e dei pasti di quei due, in modo che non venissero mai a trovarsi nella stessa stanza. Ma s’incontrarono di nuovo in un corridoio, e questa volta il risultato fu più equilibrato: Schon ne uscì con due costole fratturate, ma Graubard con un testicolo scoppiato e quattro denti di meno.

Se continuava così, mi sarei ritrovato con una bocca in meno da sfamare.

A norma del Codice Universale di Giustizia Militare, avrei potuto ordinare l’esecuzione di Graubard, poiché, tecnicamente, eravamo in combattimento. Forse avrei dovuto farlo subito. Ma Charlie propose una soluzione più umanitaria, e io l’accettai.

Non avevamo lo spazio sufficiente per tenere Graubard in isolamento per sempre, e sembrava che quella fosse l’unica cosa, umana ma pratica, da fare. Ma a bordo della Masaryk II, che ci stava sopra la testa in un’orbita stazionaria, avevamo spazio in abbondanza. Chiamai l’Antopol, che accettò di occuparsi di Graubard. L’autorizzai a buttare nello spazio quel bastardo, se le avesse causato qualche guaio.

Indicemmo un’assemblea generale per spiegare la situazione, in modo che tutti si imprimessero in mente a dovere la lezione di Graubard. Avevo appena cominciato a parlare, in piedi sul podio di roccia con la compagnia seduta davanti a me e gli ufficiali e Graubard dietro di me, quando quel pazzo decise di uccidermi.

Come tutti gli altri, Graubard faceva cinque ore di addestramento alla settimana nel campo di stasi. Sotto un’attenta supervisione, i soldati si esercitavano ad adoperare le spade e le lance e tutto il resto contro fantocci che rappresentavano i taurani. Non so come, Graubard era riuscito a fregare un’arma, un chakra indiano, che è un disco di metallo con l’orlo tagliente come un rasoio. È un’arma difficile, ma quando hai imparato a usarla, può essere molto più efficiente di un normale coltello da lancio. E Graubard era un esperto.

In una frazione di secondo, Graubard mise fuori combattimento i due che gli stavano ai fianchi — colpendo Charlie alla tempia con una gomitata mentre con un calcio spaccava una rotula alla Hilleboe — si sfilò il chakra dalla tunica e lo lanciò contro di me, tutto in successione. Il chakra aveva già coperto metà della distanza che lo separava dalla mia gola, prima che io reagissi.

Istintivamente tesi la mano per dirottarlo, e giusto per un centimetro non ci rimisi quattro dita. L’orlo affilatissimo mi squarciò il palmo della mano, ma riuscii a deviarlo. E Graubard intanto mi si stava buttando addosso, con i denti snudati in un’espressione che mi auguro di non rivedere mai più.

Forse non si rendeva conto che il Vecchio Invertito in realtà aveva solo cinque anni più di lui; che il Vecchio Invertito aveva riflessi da combattente, e tre settimane di addestramento cinestetico a fecdback negativo. Comunque, la cosa fu così facile che quasi mi fece pena.

Egli girò il piede destro verso l’interno: capii che avrebbe fatto un altro passo e poi avrebbe spiccato un balzo frenetico. Accorciai la distanza che ci divideva e, nel momento in cui staccava entrambi i piedi dal pavimento, gli sferrai un violento calcio laterale al plesso solare. Prima di toccare il pavimento era già svenuto.

"Se lei dovesse uccidere un uomo" mi aveva detto Kynock "non so esattamente se ne sarebbe capace". Più di centoventi persone in quella saletta, e l’unico suono era il costante sgocciolio del sangue dal mio pugno serrato al pavimento. "Anche se deve conoscere mille modi diversi per farlo." Se avessi colpito qualche centimetro più in alto o con un’angolazione leggermente diversa, lo avrei ucciso sul colpo. Ma Kynock aveva avuto ragione: mi mancava l’istinto.

Se l’avessi semplicemente ucciso per legittima difesa, i miei guai sarebbero finiti lì, invece di moltiplicarsi all’improvviso.

Un comandante può chiudere sottochiave uno psicopatico rissoso e poi non pensarci più. Ma con un assassino mancato era diverso. E non avevo bisogno di effettuare un sondaggio per capire che giustiziandolo non avrei migliorato i miei rapporti con la truppa.

Mi accorsi che Diana era in ginocchio davanti a me, e cercava di farmi aprire le dita. — Pensa alla Hilleboe e a Moore — mormorai; e alla truppa: — Rompete le righe.

31

— Non fare l’idiota disse Charlie. Sul livido alla testa si teneva una pezza bagnata.

— Non pensi che deva giustiziarlo?

— Smettila di muoverti! — Diana cercava di accostare le labbra della mia ferita, per poterla chiudere con la vernice. Dal polso in giù, mi sentivo la mano come se fosse un pezzo di ghiaccio.

— Non personalmente, no. Puoi incaricare qualcuno. Scelto a sorte.

— Charlie ha ragione — disse Diana. — Metti in un barattolo dei pezzi di carta con i nomi, e falli estrarre a sorte.

Era un bene che la Hilleboe in quel momento dormisse profondamente sull’altra cuccetta. Non avevo bisogno di sentire la sua opinione. — E se il prescelto rifiuta?

— Puniscilo e incarica un altro — disse Charlie. — Non hai imparato niente nel barattolo? Non puoi abdicare alla tua autorità eseguendo pubblicamente un lavoro… che ovviamente dovrebbe essere assegnato a un altro.

— Qualunque altro lavoro, sì. Ma questo… Nessuno, nella compagnia, ha mai ucciso. Darei l’impressione di passare a qualcun altro il compito di sbrigare il mio sporco lavoro morale.

— Se è così maledettamente complicato — disse Diana — perché non schieri la truppa e non spieghi tutto? E poi gli fai tirare le paglie. Non sono bambini, quelli.

C’era stato un esercito in cui si faceva qualcosa del genere, mi diceva un forte pseudoricordo. La milizia marxista, POUM, durante la guerra civile spagnola, nella prima metà del Ventesimo secolo. Lì obbedivi a un ordine solo se ti veniva spiegato dettagliatamente; e potevi rifiutarti di eseguirlo se non aveva senso. Ufficiali e soldati si sbronzavano insieme, non si facevano mai saluti militari e non usavano titoli. Avevano perso la guerra. Ma i loro avversari non si erano certamente divertiti.

— Finito. — Diana mi posò sulle ginocchia la mano inerte. — Non muoverla per una mezz’ora. Quando comincerà a farti male, allora potrai usarla.

Esaminai attentamente la ferita. — Le linee non corrispondono. Non che io mi lamenti.

— Non ne avresti diritto. A lume di logica, dovresti avere solo un moncherino. Niente impianti di rigenerazione, da questa parte di Stargate.

— Il moncherino potresti avercelo in cima al collo — disse Charlie. — Non capisco perché ti fai tanti scrupoli. Avresti dovuto ammazzarlo subito, quel bastardo.

— Lo so, accidenti! - Charlie e Diana sussultarono, nel sentirmi sbottare a quel modo. — Scusate, diavolo. Sentite, lasciate che sia io a preoccuparmi.

— Perché non parli di qualcosa d’altro, per un po’? — Diana si alzò e controllò il contenuto della borsa. — Ho un altro paziente da visitare. Cercate di non litigare.

— Graubard? — chiese Charlie.

— Esatto. Per assicurarmi che possa salire sul patibolo senza bisogno di aiuto.

— E se la Hilleboe?…

— Dormirà per un’altra mezz’ora. Manderò giù Jarvil, nel caso servisse. — E corse via.

— Sul patibolo… — Non ci avevo pensato. — Come diavolo facciamo a giustiziarlo? Non possiamo farlo al chiuso, per via del morale. Il plotone d’esecuzione sarebbe molto macabro.

— Sbattilo fuori dal portello stagno. Non sei tenuto a far cerimonie, con lui.

— Probabilmente hai ragione. Non ci avevo pensato. — Mi chiesi se Charlie aveva mai visto il cadavere di qualcuno morto in quel modo. — Magari dovremmo semplicemente scaraventarlo nel riciclatore. Tanto ci finirebbe comunque.

Charlie rise. — Così va bene.

— Ma dovremmo tagliarlo un po’. Lo sportello non è molto largo. — Charlie aveva qualche proposta da fare al riguardo. Jarvil entrò e, più o meno, ci ignorò.

All’improvviso la porta dell’infermeria si spalancò. Un paziente su una barella; Diana che gli camminava svelta a fianco, premendo sul petto dell’uomo, mentre un soldato spingeva. Dietro venivano altri due soldati, ma si fermarono sulla porta. — Qui, vicino alla parete — ordinò Diana.

Era Graubard. — Ha tentato di uccidersi — disse Diana, ma quello era evidente. — Il cuore si è fermato. — Graubard aveva fatto un cappio con la cintura che gli pendeva ancora, lenta, attorno al collo.

Alla parete erano attaccati due grossi elettrodi con impugnature di gomma. Diana li afferrò con una mano, mentre con l’altra apriva la tunica del paziente. — Levate le mani dalla barella! — Staccò gli elettrodi, premette con un piede un interruttore, e li accostò al torace di Graubard. Emisero un ronzio sommesso, mentre il corpo tremava e sussultava. Odore di carne bruciata.

Diana scuoteva la testa. — Prepariamoci a incidere — disse a Jarvil. — Fai venire giù Doris. — Il corpo gorgogliava, ma era un suono meccanico, come di un tubo scarico.

Diana spense l’interruttore con il piede e lasciò cadere gli elettrodi, si tolse un anello dal dito e andò a infilare le braccia nello sterilizzatore. Jarvil cominciò a massaggiare il petto dell’uomo con un liquido maleodorante.

Tra le due ustioni lasciate dagli elettrodi c’era un piccolo segno rosso. Impiegai un momento a capire che cos’era. Jarvil lo cancellò. Io mi avvicinai e controllai il collo di Graubard.

— Togliti dai piedi William, non ti sei sterilizzato. — Diana tastò la clavicola del paziente, misurò un poco più sotto e praticò un’incisione, diritta fino alla base dello sterno. Sgorgò il sangue e Jarvil le porse uno strumento che sembrava un grosso tagliabulloni cromato.

Distolsi gli occhi, ma non potei fare a meno di sentire lo strumento che tagliava le costole. Diana chiese retrattori e spugne e così via, mentre io tornavo a sedermi al mio posto. Con la coda dell’occhio la vidi lavorare all’interno della gabbia toracica, massaggiando direttamente il cuore.

Charlie aveva l’aria di sentirsi come mi sentivo io. Esclamò, debolmente: — Ehi, non sfinirti, Diana. — Jarvil aveva portato il carrello del cuore artificiale e stava tendendo due tubi. Diana prese un bisturi e io tornai a distogliere lo sguardo.

Mezz’ora dopo era ancora morto. Spensero la macchina e lo coprirono con un lenzuolo. Diana si lavò il sangue dalle braccia e disse: — Vado a cambiarmi. Torno fra un minuto.

Mi alzai e andai nel suo alloggio, alla porta accanto. Dovevo sapere. Alzai la mano per bussare ma all’improvviso mi fece un male terribile, come se fosse tagliata da una linea sinistra e Diana aprì immediatamente.

— Cosa… oh, vuoi qualcosa per la mano? — Era semivestita ma non ci faceva caso. — Chiedilo a Jarvil.

— No, non è per questo. Cos’è successo, Diana?

— Oh, be’. — Si infilò la tunica dalla testa, e la sua voce risuonò smorzata. È stata colpa mia, credo. L’avevo lasciato solo per un momento.

— E lui ha tentato di impiccarsi.

— Esatto. — Sedette sul letto e mi offrì la sedia. — Ero andata al bagno, e quando sono tornata indietro era morto. Avevo già mandato via Jarvil perché non volevo che la Hilleboe restasse troppo a lungo senza assistenza.

— Ma, Diana… non ha nessun segno sul collo. Nessun livido, niente.

Lei alzò le spalle. — Non è morto impiccato. Ha avuto un attacco cardiaco.

— Qualcuno gli ha fatto un’iniezione. Proprio sul cuore.

Diana mi guardò curiosamente. — Sono stata io, William. Adrenalina. È la procedura abituale.

Quel punto rosso di sangue si forma solo se ti scosti violentemente dal proiettore mentre ti fanno l’iniezione. Altrimenti il medicinale passa attraverso i pori, e non lascia nessuna traccia. — Era morto quando gli hai fatto l’iniezione?

— Dal punto di vista professionale, direi di sì. — Impassibile. — Niente pulsazioni cardiache, polso, respirazione. Pochissimi altri disturbi presentano gli stessi sintomi.

— Già. Capisco.

— È qualcosa… Che succede, William?

O avevo avuto un’improbabile colpo di fortuna, oppure Diana era un’ottima attrice. — Niente. Già, è meglio che vada a farmi dare qualcosa per la mano. — Aprii la porta. — Mi ha risparmiato un sacco di fastidi.

Lei mi guardò dritto negli occhi. — Questo è vero.

In realtà, però, avevo solo scambiato un guaio con un altro. Benché la dipartita di Graubard avesse avuto parecchi testimoni disinteressati, continuava a correre la voce che lo avessi fatto eliminare dalla dottoressa Alsever, perché non ce l’avevo fatta a ucciderlo da solo e non volevo avere la seccatura di un regolare processo davanti a una corte marziale.

Il fatto era che, a norma del Codice Universale di "Giustizia" Militare, Graubard non avrebbe avuto diritto a nessun processo. Bastava che avessi detto: — Tu, tu e tu. Portate fuori quest’uomo e uccidetelo, prego. — E guai al soldato semplice che si fosse rifiutato di eseguire l’ordine.

In un certo senso, i miei rapporti con la truppa migliorarono. Almeno esteriormente, mi mostravano una maggiore deferenza. Ma sospettavo che, almeno in parte, fosse quel tipo meschino di rispetto che si accorda a qualunque carogna che ha dimostrato di essere pericolosa e instabile.

Così il mio nuovo soprannome era Killer. Proprio quando cominciavo ad abituarmi a Vecchio Invertito.

La base si riassestò rapidamente nella solita routine fatta di addestramento e di attesa. Ero quasi impaziente che i taurani si facessero vedere, solo per venirne fuori, in un modo o nell’altro.

I soldati si erano adattati alla situazione molto meglio di me, per ovvie ragioni. Avevano doveri specifici da compiere e parecchio tempo libero per i soliti rimedi militari contro la noia. I miei doveri erano più variati ma mi davano poca soddisfazione, poiché i problemi che arrivavano fino a me erano più o meno del tipo insolubile; quelli che avevano belle soluzioni chiare, senza ambiguità, venivano sbrigati dagli inferiori di grado.

Non avevo mai avuto una gran passione per gli sport e i giochi, ma cominciai a occuparmene sempre di più: era una specie di valvola di sicurezza. Per la prima volta in vita mia, in quell’ambiente teso e claustrofobico, non potevo rifugiarmi nella lettura o nello studio. Perciò tiravo di scherma con gli altri ufficiali, mi sfinivo con le macchine della ginnastica, e tenevo persino una corda per saltare nel mio ufficio. Quasi tutti gli altri ufficiali giocavano a scacchi, ma di solito erano in grado di battermi, e quando vincevo io avevo l’impressione che l’avessero fatto apposta per ingraziarmi. I giochi di parole erano difficili, perché la mia lingua era un dialetto arcaico che gli altri faticavano a manipolare. E io non avevo né il tempo né l’abilità per imparare alla perfezione l’inglese "moderno".

Per un po’ lasciai che Diana mi imbottisse di droghe psicotrope, ma l’effetto cumulativo fu spaventoso: stavo prendendo il vizio in un modo che all’inizio era troppo sottile per spaventarmi. Così lasciai perdere. Provai un po’ di psicanalisi sistematica con il tenente Wilber. Era impossibile. Sebbene lui sapesse tutto sui miei problemi, da un punto di vista accademico, non parlavamo lo stesso linguaggio culturale: quando mi dava consigli sull’amore e sul sesso era più o meno come se io avessi cercato di insegnare a un servo della gleba del Quattordicesimo secolo come doveva fare per entrare nelle grazie del prete e del padrone.

E quella, in fondo, era la radice del mio problema. Ero sicuro che avrei potuto fronteggiare le pressioni e le frustrazioni del comando; essere chiuso in una grotta con quegli individui che qualche volta sembravano poco meno alieni dei nemici; perfino la quasi certezza che tutto sarebbe finito con una morte dolorosa per una causa priva di valore… purché avessi potuto avere con me Marygay. E la sensazione diventava più intensa via via che passavano i mesi.

Il tenente Wilber a questo punto assumeva un’aria severa e mi accusava di romanticizzare la mia situazione. Lui sapeva cos’era l’amore: era stato innamorato anche lui. E la polarità sessuale della coppia non comportava differenze… d’accordo, questo potevo accettarlo; quell’idea era stata molto comune presso la generazione dei miei genitori, benché già presso la mia avesse trovato una prevedibile resistenza. Ma l’amore, diceva Wilber, l’amore era un fiore delicato; era un fragile cristallo; l’amore era una reazione instabile con un periodo di dimezzamento di circa otto mesi. Scemenze, ribattevo io, e lo accusavo di portare dei paraocchi culturali; trenta secoli di società prebellica avevano dimostrato che l’amore era l’unica cosa che poteva durare fino alla tomba e persino oltre, e se lui fosse nato, invece di essere uscito da un guscio, l’avrebbe saputo senza bisogno che glielo dicessi io! A questo punto lui assumeva un un’espressione ironica e tollerante e ripeteva che ero semplicemente vittima di una frustrazione sessuale autoinflitta e di un’illusione romantica.

Ripensandoci, credo che ci divertissimo a discutere in quel modo. Comunque, non mi guarì.

Avevo un nuovo amico che veniva sempre a sedersi sulle mie ginocchia. Era il gatto, che aveva la solita abilità di sfuggire a coloro che amano i gatti e di attaccarsi a quelli che soffrono di sinusite o che non hanno simpatia per quelle bestiole subdole. Comunque avevamo qualcosa in comune, poiché oltre me era l’unico mammifero maschio eterosessuale esistente a distanza ragionevole. Era castrato, naturalmente, ma date le circostanze non faceva molta differenza,

32

Successe esattamente 400 giorni dopo l’inizio dei lavori di costruzione. Ero seduto alla scrivania, a non controllare il nuovo elenco degli incarichi compilato dalla Hilleboe. Il gatto era sulle mie ginocchia, e faceva rumorosamente le fusa sebbene io rifiutassi di coccolarlo. Charlie era stravaccato su una sedia e leggeva qualcosa al visore. Il telefono squillò, ed era il commodoro.

— Sono qui.

— Cosa?

— Ho detto che sono qui. Una nave taurana è appena uscita dal campo della collapsar. Velocità 0,80 c. Decelerazione trenta gravità. Prendere o lasciare.

Charlie era venuto ad appoggiarsi alla mia scrivania. — Cosa? — Io spinsi giù il gatto.

— Quanto ci vuole prima che possiate inseguirla? — chiesi.

— Non appena riattacchi il telefono. — Tolsi la comunicazione e andai al computer logistico, che era il gemello di quello a bordo della Masaryk II, con cui era collegato direttamente. Mentre cercavo di ricavarne qualche cifra, Charlie manovrava il visore.

Il visore era un ologramma di circa un metro quadrato con uno spessore di mezzo metro, programmato per mostrare le posizioni di Sade-138, del nostro pianeta e di qualche altro frammento di roccia del sistema. C’erano punti verdi e punti rossi per indicare le posizioni delle nostre astronavi e di quelle taurane.

Il computer disse che il tempo minimo che i taurani avrebbero impiegato a decelerare e a tornare verso il nostro pianeta sarebbe stato un po’ più di undici giorni. Ovviamente, ci sarebbe voluta accelerazione e decelerazione massima, per quello: e in tal caso li avremmo beccati come una mosca sul muro. Perciò, come noi, avrebbero combinato a casaccio la direzione di volo e il grado di accelerazione. Sulla base di parecchie centinaia di preesistenti documentazioni sul comportamento dei nemici, il calcolatore era in grado di darci una tabella delle probabilità:

Giorni al contatto Probabilità

11: 0,000001

15: 0,001514

20: 0,032164

25: 0,103287

30: 0,676324

35: 0,820584

40: 0,922685

45: 0,993576

50: 0,999369

28,9554 MEDIANA 0,500000

A meno che, naturalmente, l’Antopol e la sua banda di allegri pirati non riuscissero a eliminarla. Le probabilità, come avevo appreso nel barattolo, erano leggermente inferiori al cinquanta per cento.

Ma sia che ci volessero 28,9554 giorni o due settimane, noi che eravamo sul pianeta dovevamo starcene lì a guardare. Se l’Antopol ce l’avesse fatta, non avremmo dovuto combattere, e infine una guarnigione regolare sarebbe venuta a rimpiazzarci; poi noi ci saremmo trasferiti alla prossima collapsar.

— Non s’è ancora mossa. — Charlie aveva regolato il visore alla scala minima: il pianeta era una sfera bianca delle dimensioni di un grosso melone e la Masaryk II era un punto verde sulla destra, alla distanza di circa otto meloni: era impossibile vederli tutti e due suillo schermo contemporaneamente.

Mentre noi guardavamo, un punto verde schizzò fuori dal punto che rappresentava la nave e se ne allontanò. Uno spettrale numero 2 apparve accanto al puntino e una proiezione nell’angolo in basso a sinistra dello schermo l’identificò: 2 — Missile automatico. Altri numeri della proiezione identificavano la Masaryk II un caccia difensivo planetario e quattordici missili automatici planetari difensivi. I sedici veicoli non erano ancora abbastanza distanti l’uno dall’altro per apparire come puntolini separati.

Il gatto mi si strofinò contro le caviglie; lo presi in braccio e lo accarezzai. — Di’ alla Hilleboe di ordinare l’adunata. Tanto vale dirlo subito a tutti.

Gli uomini e le donne non la presero molto bene, e non potevo biasimarli. Tutti c’eravamo aspettati che i taurani attaccassero molto prima, e quando quelli si erano ostinati a non farsi vivi, si era diffusa l’impressione che il Comando della Forza d’Attacco avesse commesso un errore, e che i nemici non sarebbero mai comparsi.

Volevo che la compagnia cominciasse ad addestrarsi sul serio con le armi: da quasi due anni non avevano più usato armi ad alta energia. Perciò attivai le dita-laser e feci distribuire i lanciagranate e i lanciarazzi. Non potevamo fare le esercitazioni dentro la base per timore di danneggiare i sensori esterni e il cerchio difensivo dei laser. Perciò spegnemmo metà del cerchio di laser e ci spingemmo un chilometro oltre il perimetro: un plotone per volta, accompagnato da me o da Charlie. La Rusk teneva d’occhio gli schermi del preavviso. Se qualcosa si fosse avvicinato, lei doveva lanciare un bengala, e il plotone doveva rientrare nel cerchio prima che il veicolo sconosciuto superasse l’orizzonte: in quel momento i laser difensivi sarebbero entrati automaticamente in azione, e oltre a liquidare il veicolo sconosciuto, avrebbero arrostito il plotone entro 0,02 secondi.

Non potevamo sacrificare niente di quel che c’era alla base per servircene come bersaglio, ma non fu un problema. Il primo razzo a tachioni che sparammo scavò una buca lunga venti metri, larga dieci e profonda cinque: i pezzi di roccia che erano volati via ci offrirono una quantità di bersagli, dal doppio della grandezza d’un uomo in giù.

I soldati erano in gamba, molto più di quanto si fossero dimostrati con le armi primitive nel campo di stasi. Il miglior sistema per le esercitazioni con i laser era una specie di tiro al piattello: bastava appaiare due soldati, metterne uno dietro all’altro e fargli lanciare le pietre a intervalli irregolari. Quello che sparava doveva calcolare la traiettoria della pietra e colpirla prima che toccasse il suolo. Avevano un impressionante coordinamento occhi-mano: forse il Consiglio Eugenetico aveva davvero fatto qualcosa di buono. Quasi tutti facevano centro più di nove volte su dieci, con pietre anche piccole come ciottoli. Il sottoscritto, che non era un prodotto dell’ingegneria genetica, riusciva al massimo a far centro sette volte su dieci; eppure avevo avuto molte più occasioni di far pratica.

Erano altrettanto abili nel valutare le traiettorie con il lanciagranate, che era un’arma molto più versatile di quanto non fosse stata in passato. Invece di sparare bombe da un microtone con una carica propulsiva tipo, aveva quattro cariche diverse e una scelta di bombe da uno, due, tre e quattro microtoni. E per il combattimento a distanza ravvicinata, quando usare i laser era pericoloso, la canna del lanciarazzi si poteva staccare, e la si caricava con un magazzino di proiettili "da caccia". Ogni colpo scagliava una nube in espansione di mille minuscole freccette, che a cinque metri erano mortali e a sei si trasformavano in un vapore innocuo.

Il lanciarazzi a tachioni non richiedeva nessuna abilità. Bastava stare attenti che non ci fosse nessuno alle tue spalle, quando sparavi; lo scarico del razzo era pericoloso per parecchi metri. Per il resto, inquadravi il bersaglio nel mirino e premevi il pulsante. Non dovevi preoccuparti della traiettoria: il razzo, a tutti gli effetti, viaggiava in linea retta. In meno di un secondo raggiungeva la velocità di fuga.

Fece bene al morale della truppa uscire a rovinare un po’ il paesaggio con quei nuovi giocattoli. Ma il paesaggio non reagiva. Per quanto le armi fossero fisicamente impressionanti, la loro efficacia sarebbe dipesa da quello che i taurani avrebbero usato in risposta. Anche una falange greca doveva avere un aspetto assai impressionante, ma non se la sarebbe cavata molto bene contro un uomo solo armato di lanciafiamme.

E come succedeva ad ogni scontro, a causa della dilatazione temporale non si poteva sapere che razza di armi avrebbero avuto i taurani. Poteva darsi che non avessero mai sentito parlare del campo di stasi. E poteva darsi che fossero in grado di pronunciare una parola magica che lo faceva scomparire.

Ero fuori con il Quarto plotone a bruciare pietre, quando Charlie mi chiamò e mi pregò di rientrare d’urgenza. Lasciai il comando a Heimoff.

— Un altro? — La scala dello schermo olografico era tale che il nostro pianeta era grande come un pisello, a circa cinque centimetri dalla X che indicava la posizione di Sade-138. Intorno erano sparpagliati quarantuno puntini rossi e verdi: la proiezione identificava il numero 41 come Incrociatore taurano (2).

— Hai chiamato l’Antopol?

— Sicuro. — Charlie prevenne la domanda successiva. — Ci vorrà quasi un giorno perché il segnale arrivi fin lassù e torni indietro.

— Prima non era mai successo. — Ma naturalmente Charlie lo sapeva.

Forse questa collapsar ha un’importanza particolare, per loro.

— È probabile. — Quindi era quasi certo che avremmo combattuto al suolo. Anche se l’Antopol fosse riuscita a liquidare il primo incrociatore, non avrebbe avuto cinquanta probabilità su cento con il secondo. Era a corto di missili automatici e di caccia. — Non vorrei essere al posto dell’Antopol, adesso.

— Lei finirà solo prima.

— Non lo so. Siamo in forma smagliante.

— Questo raccontalo alla truppa, William. — Charlie regolò la scala dello schermo, in modo che inquadrasse due soli oggetti: Sade-138 e il punto rosso che si muoveva lentamente.

La settimana seguente la passammo guardando i punti che si spegnevano. E se sapevi quando e dove guardare, potevi uscire e vedere mentre succedeva: un punto di luce bianca, aspra e accecante, che svaniva in un secondo circa.

In quel secondo, una bomba nova aveva liberato un’energia un milione di volte superiore a quella di un laser da un gigawatt. Formava una stella in miniatura, dal diametro di mezzo chilometro, calda come l’interno di un sole. Consumava tutto ciò che toccava. La radiazione di un’esplosione poco lontana poteva mettere fuori uso, irreparabilmente, il sistema elettronico di un’astronave: due caccia, uno nostro e uno loro, avevano evidentemente subito quella sorte, e adesso stavano allontanandosi dal sistema, alla deriva, a velocità costante, senza più energia.

In altre fasi della guerra avevamo usato bombe nova più potenti, ma la materia degenerata che veniva usata come combustibile era instabile, in quantità notevoli. Le bombe avevano la tendenza a esplodere quando si trovavano ancora a bordo dell’astronave. Evidentemente i taurani avevano lo stesso problema — oppure avevano copiato il processo da noi — perché anche loro erano scesi a bombe nova che utilizzavano meno di cento chili di materia degenerata. E le lanciavano con il nostro stesso sistema: la testata si divideva in dozzine di pezzi quando si avvicinava al bersaglio, e uno solo di quei pezzi era la bomba nova.

Probabilmente ai nemici sarebbero rimaste ancora alcune bombe dopo aver finito la Masaryk II e il suo corteggio di caccia e di veicoli automatici. Quindi era probabile che noi sprecassimo tempo ed energia, esercitandoci con le armi.

Nella mia coscienza si insinuò un pensiero: potevo raccogliere undici persone a bordo del caccia che avevamo nascosto, al sicuro, dietro il campo di stasi. Era preprogrammato per riportarci a Stargate.

Arrivai addirittura a fare mentalmente l’elenco di quegli undici, cercando di pensare a undici persone che per me erano più importanti del resto. E mi accorsi che sei le avrei pescate a caso.

Ma accantonai quel pensiero. Avremmo avuto una possibilità, magari anche maledettamente buona, anche contro un incrociatore armatissimo. Non sarebbe stato facile farci arrivare una bomba nova abbastanza vicina da includerci entro il raggio mortale.

E poi mi avrebbero buttato nello spazio per diserzione. Quindi non era il caso.

Il morale migliorò quando uno dei missili automatici dell’Antopol liquidò il primo incrociatore taurano. Senza contare i veicoli che aveva lasciato per la difesa planetaria, aveva ancora diciotto missili automatici e due caccia. Deviarono in cerchio per intercettare il secondo incrociatore nemico, che ormai era a poche ore-luce di distanza, ma furono inseguiti da quindici missili automatici taurani.

Uno di quei missili centrò la Masaryk II. I veicoli ancillari continuarono l’attacco, ma fu una disfatta. Un caccia e tre missili fuggirono alla massima accelerazione, imbardando sopra il piano dell’eclittica, e non vennero inseguiti. Li seguimmo con interesse morboso, mentre l’incrociatore nemico tornava indietro per combattere con noi. Il caccia era diretto verso Sade-138, per scappare. Nessuno se la sentì di biasimare l’equipaggio. Anzi, inviammo un messaggio, addio e buona fortuna; quelli non risposero, naturalmente, poiché erano chiusi nelle vasche. Ma il messaggio sarebbe stato registrato automaticamente.

I nemici impiegarono cinque giorni a ritornare verso il pianeta e ad assestarsi in un’orbita stazionaria dall’altra parte. Ci preparammo alla prima, inevitabile fase dell’attacco, che sarebbe stata aerea e completamente automatizzata: i loro missili contro i nostri laser. Misi cinquanta dei miei, tra uomini e donne, dentro al campo di stasi, nel caso che uno dei missili ce la facesse a passare. In realtà era un gesto inutile: il nemico poteva semplicemente starsene lì ad aspettare che spegnessero il campo, e arrostirli nello stesso instante in cui svaniva.

Charlie ebbe un’idea bizzarra, che per poco non accettai.

— Potremmo minare tutto.

— Come sarebbe? — feci io. — Questo posto è già minato, per un raggio di venticinque chilometri.

— No, non le mine e il resto. Parlavo della base vera e propria, qui, sottoterra.

— Continua.

— In quel caccia ci sono due bomba nova. — Indicò il campo di stasi, attraverso duecento metri di roccia. — Potremmo farle rotolare fin quaggiù, innescarle, e poi nasconderci tutti quanti nel campo di stasi e aspettare.

In un certo senso era un’idea allettante. Mi avrebbe tolto la responsabilità di prendere decisioni, affidando tutto al caso. — Ma non credo che funzionerebbe, Charlie.

Egli assunse un’espressione offesa. — Io credo di sì.

— No, senti. Perché funzioni, bisogna che tutti i taurani siano all’interno dei raggio mortale, prima che esploda… ma quelli non si precipiteranno tutti qui dentro dopo aver sfondato le nostre difese. Men che meno se la base sembrasse deserta. Sospetterebbero qualcosa, e manderebbero un drappello in avanscoperta. E quando la presenza del drappello avrà provocato lo scoppio delle bombe…

— Ci ritroveremo al punto di partenza, già. E senza la base. Scusa.

Scrollai le spalle. — Era un’idea. Continua a pensare, Charlie. — Dedicai di nuovo la mia attenzione allo schermo, dove continuava l’impari guerra spaziale. Abbastanza logicamente, il nemico voleva liquidare l’unico caccia che ancora restava, prima di cominciare a darsi da fare con noi. Non potevamo far altro che stare a vedere i puntini rossi che giravano intorno al pianeta e cercare di segnare i nostri successi. Fino a quel momento, il pilota era riuscito a togliere di mezzo tutti i missili automatici: i nemici non avevano ancora sguinzagliato i caccia contro di lui.

Avevo lasciato al pilota il comando di cinque dei laser del nostro cerchio difensivo. Ma non potevano servire a molto. Un laser da un gigawatt scagliava un miliardo di chilowatt al secondo a una portata di cento metri. A una quota di mille chilometri, però, il raggio si attenuava a dieci chilowatt. Poteva causare qualche danno, se colpiva un sensore ottico. Almeno poteva creare un po’ di confusione.

— Ci farebbe comodo un altro caccia. O magari sei.

— Usiamo i missili — dissi io. Avevamo un caccia, naturalmente, e il relativo pilota. Poteva darsi che quella fosse la nostra unica speranza, se ci avessero bloccati nel campo di stasi.

— L’altro quanto è lontano? — chiese Charlie, alludendo al pilota del caccia che era scappato. Regolai l’ingrandimento, e il punto verde apparve a destra dello schermo. — Circa sei ore-luce. — Gli restavano due missili automatici, troppo vicini per apparire come puntolini separati sullo schermo: uno l’aveva usato per coprirsi la ritirata. — Non accelera più, ma fila a nove gravità.

— Non potrebbe aiutarci neanche se volesse. — Gli sarebbe occorso quasi un mese per rallentare.

In quel momento, il punto luminoso che indicava il nostro caccia difensivo si spense. — Merda.

— Adesso incomincia il bello. Devo dire alle truppe di prepararsi a uscire?

— No… Di’ che indossino gli scafandri, nel caso che perdessimo aria. Ma ci vorrà un altro po’, immagino, prima che abbiamo un attacco al suolo. — Aumentai di nuovo la scala. Quattro punti rossi stavano già girando intorno al globo per venire verso di noi.

Misi lo scafandro e tornai negli uffici amministrativi per guardare sui monitor i fuochi d’artificio.

I laser funzionarono perfettamente. Tutti e quattro i missili automatici puntarono simultaneamente su di noi e vennero distrutti. Tutte le bombe nova, tranne una, esplosero al di sotto del nostro orizzonte: l’orizzonte visuale era distante circa dieci chilometri, ma i laser erano montati in alto e potevano far centro a una distanza doppia. La bomba esplosa sul nostro orizzonte si era fusa in un bagliore semicircolare che sfolgorò di un bianco brillante per parecchi minuti. Un’ora dopo, splendeva ancora, arancione scuro, e fuori la temperatura del suolo era salita a cinquanta gradi assoluti, fondendo quasi tutta la neve e mettendo allo scoperto un’irregolare superficie grigiocupa.

Anche il successivo attacco finì in una frazione di secondo, ma questa volta i missili automatici furono otto, e quattro arrivarono a meno di dieci chilometri. La radiazione dei crateri luminescenti alzò la temperatura fin quasi a 300 gradi assoluti. Era superiore al punto di fusione dell’acqua, e cominciai a preoccuparmi. Gli scafandri da combattimento andavano bene anche a più di mille gradi, ma i laser automatici avevano bisogno dei superconduttori a temperature bassissime, per agire in fretta.

Chiesi al computer qual era il limite di temperatura dei laser, e quello stampò in chiaro il TR 398-734-009-265, Alcuni Aspetti dell’Adattabilità dell’Artiglieria Criogenica a un Uso in Ambienti a Temperatura Relativamente Elevata. Conteneva una quantità di consigli pratici sul modo in cui potevamo isolare le armi, se avessimo avuto accesso a una officina d’armeria completamente attrezzata. Osservava che il tempo di reazione dei congegni di puntamento automatico aumentava con l’aumento della temperatura, e che al di sopra di una certa, "temperatura critica", le armi non erano più in grado di puntare. Ma era impossibile predire il comportamento delle singole armi: si sapeva solo che la temperatura critica più alta documentata era 790 gradi, e la più bassa 420 gradi.

Charlie guardava lo schermo. La sua voce era inespressiva, attraverso la radio. — Sedici, questa volta.

— Sorpreso? — Una delle poche cose che conoscevamo della psicologia taurana era una certa ossessione per i numeri, in particolare per i numeri primi e le potenze di due.

— Speriamo che non gliene restino ancora trentadue. — Interrogai in proposito il computer: seppe dire soltanto che finora l’incrociatore aveva lanciato un totale di 44 missili automatici e che si sapeva che alcune navi da battaglia taurane ne portavano anche 128.

Avevamo più di mezz’ora prima che i missili arrivassero. Potevo evacuare tutti nel campo di stasi, dove sarebbero stati relativamente in salvo, se una delle bombe nova fosse riuscita a superare il cerchio. In salvo, ma chiusi in trappola. Quanto tempo avrebbe impiegato a raffreddarsi il cratere, se tre o quattro bombe fossero riuscite a passare, per non pensare poi a quello che sarebbe accaduto se fossero passate tutte e sedici? Non sì poteva vivere in eterno dentro uno scafandro da combattimento, sebbene riciclasse tutto con spietata efficienza. Una settimana era sufficiente per demoralizzarti completamente. Due settimane bastavano a spingerti al suicidio. Nessuno aveva mai resistito per tre settimane, dentro a un campo.

Inoltre, come posizione difensiva, il campo di stasi poteva trasformarsi in una trappola mortale. Il nemico aveva tutti i vantaggi, dato che la cupola è opaca: l’unico modo per scoprire come vanno le cose all’esterno è metter fuori la testa. I taurani non avevano bisogno di entrare, muniti di armi primitive, a meno che non fossero impazienti. Potevano saturare la cupola con il fuoco dei laser e aspettare che noi spegnessimo il generatore. E intanto, potevano assediarci scagliando dentro la cupola lance, pietre, frecce… Noi avremmo potuto rispondere al fuoco, ma sarebbe stato inutile.

Naturalmente, se un uomo fosse rimasto nella base, gli altri avrebbero potuto attendere fuori, dentro la cupola, per la prossima mezz’ora. Se quello non fosse andato a prenderli, avrebbe capito che l’esterno scottava. Formai a colpi di mento la combinazione che mi avrebbe inserito su una frequenza accessibile a tutto il personale dal quinto grado in su.

— Qui il maggiore Mandella. — Suonava ancora come una pessima battuta di spirito.

Spiegai a grandi linee la situazione, e dissi loro di avvertire le truppe che tutti gli effettivi della compagnia erano liberi di trasferirsi nel campo di stasi. Io sarei rimasto e sarei andato a recuperarli se tutto fosse andato bene. Non per magnanimità, naturalmente: preferivo il rischio di venir disintegrato in un nanosecondo a una quasi inevitabile morte lenta sotto la cupola grìgia.

Poi formai la combinazione di Charlie. — Puoi andare anche tu. Provvedo io a tutto, qui.

— No, grazie — disse lui, lentamente. — Preferirei… Ehi, guarda questo.

L’incrociatore aveva lanciato un altro punto rosso, un paio di minuti più indietro degli altri. La proiezione dello schermo l’identificò: era un altro missile automatico. — È strano.

— Bastardi superstiziosi — disse Charlie, senza slancio.

Solo undici persone decisero di raggiungere le cinquanta che avevano avuto l’ordine di andare nella cupola. La cosa non avrebbe dovuto sorprendermi, e invece mi sorprese.

Mentre i missili si avvicinavano, Charlie e io osservavamo i monitor, evitando di guardare lo schermo olografico, tacitamente concordi nel ritenere che era meglio non sapere quando erano a un minuto di distanza, a trenta secondi… E poi, come le altre volte, finì prima che ci rendessimo conto che era cominciato. Gli schermi sfolgorarono bianchissimi, ci fu un brontolio di energia statica, e noi eravamo ancora vivi.

Ma questa volta c’erano quindici buche nuove sull’orizzonte, o ancora più vicino, e la temperatura saliva così rapidamente che l’ultima cifra dell’indicatore era una chiazza amorfa, in movimento. Il numero salì oltre gli 800 e poi cominciò a ridiscendere.

Non avevamo mai visto i missili, durante l’infinitesimale frazione di secondo che i laser impiegavano a puntare e a sparare. Ma poi il diciassettesimo lampeggiò sopra l’orizzonte, zigzagando pazzamente, e si fermò proprio sulla nostra verticale. Per un istante sembrò restare immobile, e poi cominciò a cadere. Metà dei laser l’avevano captato, e sparavano continuamente, ma nessuno poteva mirare: erano tutti bloccati nella precedente posizione di tiro.

Il missile scintillava mentre cadeva, e la lucentezza di specchio del guscio rifletteva il bagliore incandescente dei crateri e il guizzare spettrale del costante, impotente fuoco dei laser. Sentii Charlie trarre un profondo respiro, e il missile scese così vicino che potevi vedere i filiformi numerali taurani incisi sull’involucro e un oblò trasparente, vicino alla punta… poi il motore divampò, e sfrecciò via, all’improvviso.

— Cosa diavolo? — fece Charlie, sottovoce. L’oblò. — Forse era un ricognitore.

— Credo di sì. Quindi non possiamo toccarli, e loro lo sanno.

— A meno che i laser si riprendano. — Non pareva probabile. — È meglio che mandiamo tutti quanti sotto la cupola. E che ci andiamo anche noi.

Egli pronunciò una parola che era un po’ cambiata nel corso dei secoli, ma che aveva ancora un significato inequivocabile. — Non c’è fretta. Vediamo cosa fanno.

Attendemmo per parecchie ore. All’esterno, la temperatura si stabilizzò a 690 gradi — appena inferiore al punto di fusione dello zinco, ricordai assurdamente — e provai i comandi manuali dei laser, ma erano ancora bloccati.

— Ecco che arrivano — disse Charlie. — Altri otto.

Mi avviai verso lo schermo. — Credo che…

— Aspetta! Non sono missili. — La proiezione li identificò tutti e otto con la legenda Trasporto truppe.

— Penso che vogliano prendere la base — disse Charlie. — Intatta.

E magari collaudare nuove armi e nuove tecniche. — Non è un gran rischio per loro. Possono sempre ritirarsi e gettarci una bomba nova sulle ginocchia.

Chiamai la Brill e ordinai di andare a prendere tutti quelli che si trovavano nel campo di stasi, di schierarli con il resto del suo plotone in una linea difensiva intorno ai quadranti nord-est e nord-ovest. Io avrei schierato gli altri sull’altro semicerchio.

— Chissà — fece Charlie. — Forse non dovremmo portare tutti all’aperto. Almeno fino a quando non sappiamo quanti sono i taurani.

Aveva ragione lui. Tenere una riserva, indurre il nemico a sottovalutare le nostre forze. — È un’idea… potrebbero essere solo sessantaquattro, negli otto trasporti. — O centoventotto, o duecentocinquantasei. Sarebbe stato meglio se i nostri satelliti spia avessero posseduto una maggiore capacità di discriminazione. Ma non si può mettere più che tanto, dentro a una macchina grande come un chicco d’uva.

Decisi che i settanta della Brill formassero la nostra prima linea difensiva e ordinai che si schierassero in cerchio nelle trincee preparate all’esterno del perimetro della base. Tutti gli altri sarebbero rimasti sottoterra fino a quando non ci fosse stato bisogno di loro.

Se fosse risultato che i taurani, per superiorità numerica o grazie a una nuova tecnologia, erano in grado di mettere in campo una forza inarrestabile, avrei ordinato a tutti di entrare nel campo di stasi. C’era una galleria che portava dagli alloggiamenti alla cupola, e quelli che si trovavano nella base sotterranea potevano arrivarci sani e salvi. Quelli in trincea si sarebbero dovuti ritirare sotto il fuoco nemico: se qualcuno di loro fosse stato ancora vivo nel momento in cui avrei dato l’ordine.

Chiamai la Hilleboe e dissi a lei e a Charlie di badare ai laser. Se si fossero sbloccati, avrei richiamato la Brill e i suoi; avrei riattivato il sistema di puntamento automatico, e sarei rimasto a godermi lo spettacolo. Ma anche bloccati, i laser potevano essere utili. Charlie segnò i monitor per indicare dove sarebbero andati a puntare i raggi: lui e la Hilleboe potevano farli sparare manualmente, ogni volta che qualcosa si muoveva entro la linea di tiro di un’arma.

Avevamo ancora una ventina di minuti. La Brill stava facendo il giro del perimetro con i suoi, e ordinava di entrare nelle trincee, una squadra alla volta, in modo da creare campi di fuoco incrociati. La chiamai e le dissi di montare le armi pesanti in modo da usarle per incanalare l’avanzata dei nemici verso la linea di tiro dei laser.

Non c’era altro da fare che attendere. Chiesi a Charlie di misurare l’avanzata dei nemici e di tentare di darci un count-down preciso, poi sedetti alla scrivania e presi un blocco, per tracciare uno schema dello schieramento della Brill e vedere se potevo apportare qualche miglioramento.

Il gatto mi saltò sulle ginocchia, miagolando lamentosamente. Non poteva distinguere una persona dall’altra, adesso che eravamo chiusi negli scafandri. Ma nessun altro sedeva mai a quella scrivania. Cercai di accarezzarlo, e lui schizzò via.

La prima riga che tracciai sfondò quattro fogli di carta. Era passato parecchio tempo da quando avevo fatto per l’ultima volta un lavoro delicato stando dentro a uno scafandro. Ricordai che, durante l’addestramento, ci facevano esercitare a controllare i circuiti amplificatori della forza passandoci delle uova dall’uno all’altro. Se ne spaccavano parecchie. Mi chiesi se esistessero ancora le uova, sulla Terra.

Completai lo schema: non sapevo come potevo migliorarlo. In tutte le teorie che mi avevano stipato nel cervello c’erano molti suggerimenti tattici sulle manovre avvolgenti e sugli accerchiamenti, ma dal punto di vista sbagliato. Se a essere circondato eri tu, non avevi molta scelta. Stare lì a combattere. Rispondere prontamente alle concentrazioni di forze del nemico, ma mantenere la flessibilità in modo che il nemico non possa impiegare una diversione per allontanare una parte delle tue forze da qualche sezione prevedibile del tuo perimetro. Utilizzare al massimo l’appoggio aereo e spaziale. Ottimo consiglio. Tieni giù la testa e il mento alto e prega che arrivi la cavalleria. Tieni la tua posizione e non pensare a Dien-bien-phu, ad Alamo e alla battaglia di Hastings.

— Altri otto trasporti truppe — disse Charlie. — Cinque minuti. Il tempo necessario perché gli altri arrivino qui.

Quindi intendevano attaccare in due ondate. Almeno due. Cosa avrei fatto io, al posto del comandante taurano? Non era una domanda troppo assurda: i taurani erano privi d’immaginazione e tendevano a copiare gli schemi umani.

La prima ondata sarebbe stata un attacco suicida, da kamikaze, per ammorbidirci e valutare le nostre difese. Poi la seconda sarebbe stata più metodica, e avrebbe completato il lavoro. O viceversa: il primo gruppo avrebbe avuto a disposizione venti minuti per trincerarsi; poi il secondo l’avrebbe scavalcato e ci avrebbe colpiti duramente in un dato punto… avrebbe sfondato il perimetro e invasa la base.

O forse avevano mandato due gruppi solo perché il due era un numero magico. Oppure erano in grado di lanciare solo otto trasporti truppe alla volta; e sarebbe stato un guaio, perché voleva dire che i trasporti erano grossi. In situazioni diverse i taurani avevano usato trasporti che contenevano da un minimo di quattro soldati a un massimo di centoventotto.

Tre minuti. — Fissai la schiera dei monitor che mostravano varie sezioni del campo minato. Se avevamo fortuna, sarebbero atterrati là, per prudenza. O forse l’avrebbero sorvolato a quota abbastanza bassa da fare esplodere le mine.

Mi sentivo vagamente colpevole. Ero al sicuro nella mia tana, a scarabocchiare, pronto a lanciare ordini. Cosa ne pensavano del loro comandante assenteista quei settanta agnelli votati al sacrificio?

Poi ricordai quello che avevo pensato io del capitano Stott durante la prima missione, quando aveva preferito starsene al sicuro in orbita mentre noi combattevamo al suolo. L’impeto di quel ricordo d’odio fu così forte che dovetti mordermi le labbra per ricacciare la nausea.

— Hilleboe, è in grado di badare al laser da sola?

— Non vedo perché no, signore.

Lasciai cadere la penna e mi alzai. — Charlie, occupati della coordinazione dell’unità: puoi farlo anche meglio di me. Io vado su.

— Non glielo consiglierei, signore.

— Diavolo, William, no. Non fare l’idiota.

— Io non accetto ordini, io li do…

— Non sopravviveresti per dieci secondi, lassù — disse Charlie.

— Correrò gli stessi rischi di tutti gli altri.

— Non hai capito quello che voglio dire. Ti uccideranno loro!

— I nostri? Assurdo. So che non hanno molta simpatia per me, ma…

— Non hai ascoltato le frequenze delle squadre? — No, non parlavano la mia varietà d’inglese, quando comunicavano tra loro. — Pensano che li abbia mandati là fuori per punizione, per vigliaccheria. Dopo che avevi detto loro che erano liberi di andare nella cupola.

— Non è stato così, signore? — fece la Hilleboe.

— Punirli? No, naturalmente no. — Non consciamente. — Li ho mandati su perché mi occorreva… Il tenente Brill non gli ha detto niente?

— No, che io abbia sentito — fece Charlie. — Forse era troppo occupata per sintonizzarsi.

O forse era d’accordo con loro. — Sarà meglio che…

— Là! — urlò la Hilleboe. Il primo trasporto nemico era visibile su uno dei monitor del campo minato; gli altri apparvero dopo un secondo. Arrivavano da tutte le direzioni e non erano neppure distribuiti equamente intorno alla base. Cinque nel quadrante nord-est e uno solo in quello sud-ovest. Trasmisi l’informazione alla Brill.

Ma avevamo previsto esattamente il loro ragionamento: stavano per scendere tutti sul cerchio minato. Uno arrivò abbastanza vicino da fare esplodere uno degli ordigni a tachioni. L’esplosione colpì l’estremità posteriore del veicolo bizzarramente aerodinamico, gli fece compiere una giravolta completa e lo fece precipitare di muso. I portelli laterali si aprirono, e ne strisciarono fuori i taurani. Erano dodici: quattro, probabilmente, erano rimasti dentro. Se tutti gli altri trasporti contenevano sedici soldati, erano numericamente di poco superiori a noi.

Nella prima ondata.

Gli altri sette veicoli atterrarono senza incidenti e, sì, c’erano sedici taurani su ciascuno. La Brill spostò un paio di squadre per conformarsi alla concentrazione delle truppe nemiche, e attese.

I taurani avanzarono rapidi attraverso il campo minato, spiccando balzi all’unisono come robot dalle gambe arcuate e dal torso massiccio, senza variare l’andatura neppure quando uno di loro veniva fatto a pezzi da una mina, il che accadde undici volte.

Quando comparvero all’orizzonte, risultò evidente la ragione di quella distribuzione apparentemente casuale: avevano analizzato in anticipo le linee di avvicinamento che avrebbero offerto loro la massima copertura, grazie ai detriti sollevati dai missili. Ce l’avrebbero fatta ad arrivare a un paio di chilometri dalla base prima che potessimo averli chiaramente sulla linea di tiro. E i loro scafandri avevano circuiti di potenziamento come i nostri: quindi potevano coprire un chilometro in meno di un minuto.

La Brill fece aprire immediatamente il fuoco ai suoi, probabilmente più per tener alto il loro morale che per la speranza di colpire davvero i nemici. Probabilmente qualcuno lo falciarono, anche se era difficile capirlo. Se non altro, i razzi a tachioni facevano una gran scena, trasformando i macigni in ghiaietta.

I taurani risposero al fuoco con qualche arma simile ai razzi a tachioni, o forse esattamente identica. Ma era difficile che facessero centro: i nostri erano al livello del suolo o anche più sotto, e se il razzo non colpiva qualcosa, continuava a procedere in eterno, amen. Comunque colpirono uno dei laser, e la scossa che arrivò fino a noi fu tale da farmi rimpiangere che non ci fossimo rintanati un po’ più giù di venti metri.

I laser da un gigawatt non ci servivano a niente. I taurani dovevano aver calcolato in anticipo la loro linea di tiro, e giravano al largo. Fu una fortuna, perché indusse Charlie a distogliere per un attimo l’attenzione dal monitor dei laser.

— Cosa diavolo…

— Che c’è, Charlie? — Io non distolsi gli occhi dai monitor. Aspettavo che succedesse qualcosa.

— L’astronave, l’incrociatore… è sparito. — Guardai lo schermo olografico. Aveva ragione: le sole luci rosse che restavano erano quelle dei trasporti.

— Dov’è andato? — chiesi, stupidamente.

— Torniamo indietro. — Charlie programmò lo schermo perché tornasse indietro di un paio di minuti, e regolò la scala in modo che nel cubo si vedessero sia il pianeta sia la collapsar. Apparve l’incrociatore, e con esso tre punti verdi. Il nostro "vigliacco", che attaccava l’astronave nemica con due soli missili.

Ma aveva avuto un po’ di aiuto da parte delle leggi della fisica.

Invece di entrare nel campo della collapsar, lo aveva soltanto sfiorato, girandogli intorno, con una traiettoria simile a quella di un sasso scagliato da una fionda. Ne era uscito a nove decimi della velocità della luce, e i missili erano partiti a 0,99 c, puntando diritti verso l’incrociatore nemico. Il nostro pianeta era a circa mille secondi-luce dalla collapsar, e perciò l’astronave taurana aveva avuto solo dieci secondi di tempo per avvistare e fermare entrambi i missili. E a quella velocità, venire colpiti da una bomba nova o da uno sputo era lo stesso.

Il primo missile aveva disintegrato l’incrociatore; l’altro, che lo seguiva a 0,01 secondo, proseguì per piombare sul pianeta. Il caccia mancò il pianeta di poche centinaia di chilometri e schizzò via nello spazio, decelerando al massimo, venticinque gravità. Sarebbe ritornato in un paio di mesi.

Ma i taurani non avevano intenzione di aspettare. Si stavano avvicinando ormai alle nostre linee quanto bastava perché si potesse incominciare a usare i laser; ma erano anche a tiro dei lanciagranate. Un macigno abbastanza grosso poteva ripararli dal fuoco dei laser, ma le granate e i razzi facevano strage.

All’inizio, le truppe della Brill ebbero un vantaggio soverchiante: combattendo dalle trincee, potevano venire colpiti solo da qualche tiro fortunato o da una granata lanciata con eccezionale precisione: i taurani le scagliavano a mano, con una gittata di parecchie centinaia di metri. La Brill aveva perduto quattro uomini, ma sembrava che le forze taurane fossero ridotte a meno della metà degli effettivi con cui erano partite.

Ma poi il terreno era risultato così devastato che in maggioranza i taurani potevano combattere standosene nelle buche. La battaglia rallentò, si ridusse a una serie di duelli individuali con i laser, punteggiata di tanto in tanto dall’intervento delle armi più pesanti. Ma non era il caso di sprecare un razzo a tachioni contro un singolo taurano, quando di lì a pochi minuti sarebbe sopraggiunto un altro contingente di consistenza sconosciuta.

Nel replay olografico c’era qualcosa che mi aveva dato fastidio. E adesso, durante la pausa della battaglia, capii di cosa si trattava.

Quando il secondo missile fosse piombato giù a una velocità prossima a quella della luce, che danni avrebbe causato al pianeta? Mi avvicinai al computer e glielo chiesi: scoprii quale energia sarebbe stata liberata nella collisione, e poi la confrontai con i dati geologici archiviati nella memoria del computer.

Un’energia venti volte maggiore del terremoto più forte mai registrato. Su di un pianeta che era tre quarti della Terra.

Sulla frequenza generale: — A tutti quanti… su! Immediatamente! — Premetti il pulsante che avrebbe ciclato e aperto il portello e la galleria che portava dagli uffici amministrativi alla superficie.

— Cosa diavolo, Will…

— Il terremoto! — Tra quanto? — Muovetevi!

La Hilleboe e Charlie mi furono subito dietro. Il gatto era seduto sulla scrivania, e si leccava, tranquillo. Provai l’impulso irrazionale di metterlo nello scafandro: era in quel modo che lo avevano portato dall’astronave alla base, ma sapevo che non poteva resistere per più di qualche minuto. Poi provai l’impulso più ragionevole di disintegrarlo con il mio dito-laser, ma ormai la porta si era chiusa, e noi stavamo già salendo la scala. Per tutta la salita, e per molto tempo ancora, fui ossessionato dall’immagine di quella bestiola indifesa, intrappolata sotto tonnellate di macerie, a morire lentamente mentre l’aria usciva sibilando.

— Le trincee saranno più sicure? — chiese Charlie.

— Non so — dissi io. — Non mi sono mai trovato in un terremoto. — Forse le pareti della trincea si sarebbero chiuse, stritolandoci.

Mi sorprese trovare tanto buio in superficie. La S Doradus stava tramontando; i monitor avevano compensato la scarsa illuminazione.

Un laser nemico rastrellò la radura alla nostra sinistra, facendo schizzare una pioggia di scintille quando sfiorò il supporto di un gigawatt. Ancora non ci avevano visti. Avevamo deciso, tutti, che saremmo stati più al sicuro nelle trincee, e in tre passi arrivammo alla più vicina.

Lì erano in quattro, tra uomini e donne, e uno era gravemente ferito o morto. Ci calammo, e io alzai l’amplificatore d’immagine al logaritmo di due, per vedere chi erano i nostri compagni di trincea. Eravamo fortunati: uno era un granatiere, e avevano anche un lanciarazzi. Riuscivo a malapena a leggere i nomi sugli elmi. Eravamo nella trincea della Brill, ma lei non si era ancora accorta della nostra presenza. Era all’estremità opposta: sbirciava cautamente oltre l’orlo, e dirigeva due squadre in un’azione di fiancheggiamento. Quando le squadre furono in posizione, al sicuro, tornò indietro. — È lei, maggiore?

— Sì — dissi, guardingo. Mi chiedevo se i nostri compagni di trincea erano fra coloro che volevano la mia pelle.

— Cos’è questa storia del terremoto?

Era stata informata della distruzione dell’incrociatore nemico, ma non dell’altro missile. Glielo spiegai in poche parole.

— Nessuno è uscito dal portello — rispose lei. — Non ancora. Immagino che siano tutti andati nel campo di stasi.

— Già, la distanza era la stessa. — Forse qualcuno era ancora nella base sotterranea, e non aveva preso sul serio il mio avvertimento. Attivai con un colpo di mento la frequenza generale per controllare, e in quel momento si scatenò l’inferno.

Il terreno sprofondò sotto di me e poi risalì, flettendosi: ci colpì con tanta violenza da scagliarci in aria, fuori della trincea. Volammo per parecchi metri, abbastanza in alto per vedere la scacchiera di ovali arancioni e gialli, luminescenti, i crateri formatisi dove si erano fermate le bombe nova. Io atterrai in piedi ma il suolo sussultava e scivolava così forte che era impossibile restare ritti.

Con uno scricchiolio in chiave di basso che potei sentire attraverso lo scafandro, l’arca sgombra sopra la nostra base si sgretolò e sprofondò. Parte del lato inferiore del campo di stasi restò esposta, quando il suolo si fermò: e si assestò al nuovo livello con eleganza altera.

Be’, a parte il gatto, sperai che tutti gli altri avessero avuto il tempo e il buon senso di mettersi al riparo sotto la cupola.

Una figura uscì barcollando dalla trincea più vicina a me, e con un sussulto mi resi conto che non era un essere umano. A quella distanza, il mio laser gli aprì un foro attraverso l’elmo: fece altri due passi e cadde riverso. Un altro elmo si affacciò oltre l’orlo della trincea: ne tagliai netta la parte superiore prima che il taurano potesse alzare la sua arma.

Non riuscivo a orientarmi. La sola cosa che non era cambiata era la cupola a stasi, e appariva identica da qualunque parte la guardassi. I laser da un gigawatt erano tutti sepolti, ma uno si era acceso: un faro luminosissimo che rischiarava una nube turbinante di vapori di roccia.

Evidentemente ero in territorio nemico. Mi avviai sul suolo tremante in direzione della cupola.

Non riuscii a mettermi in contatto con nessuno dei comandanti dei plotoni. Tranne la Brill, erano tutti nella cupola, probabilmente. Potei comunicare con Charlie e la Hilleboe: ordinai a quest’ultima di entrare nella cupola e di stanarli tutti quanti. Se anche la prossima ondata era composta di centoventotto taurani, avremmo avuto bisogno del contributo di tutti.

I tremori del suolo si placarono e io riuscii ad arrivare a una trincea "amica": la trincea dei cuochi, in effetti, poiché c’erano solo Orban e Rudkoski.

— A quanto pare, dovrai ricominciare daccapo con la distilleria, soldato.

— Niente di male, signore. Anche il fegato ha bisogno di un po’ di riposo.

Ricevetti una chiamata dalla Hilleboe e attivai la ricezione con il mento — Signore… qui c’erano solo dieci persone. Gli altri non ce l’hanno fatta.

— Erano rimasti giù? — Mi pareva che avessero avuto tutto il tempo di salire.

— Non so, signore.

— Non importa. Faccia la conta e mi dica quanta gente abbiamo, tutti compresi. — Provai di nuovo la frequenza dei comandanti dei plotoni, e anche questa volta non ottenni risposta.

Per un paio di minuti restammo in attesa del fuoco laser dei nemici, ma non successe niente. Probabilmente aspettavano i rinforzi. La Hilleboe richiamò. — Ne ho trovati solo cinquantatré, signore. Alcuni potrebbero essere svenuti.

— Bene. Dica loro di star fermi fino a… — Poi comparve la seconda ondata: i trasporti ruggirono sopra l’orizzonte, con i reattori puntati verso di noi per decelerare. — Sparate qualche razzo contro quei bastardi! - urlò a tutti la Hilleboe. Ma nessuno era riuscito a tenere stretto un lanciarazzi, quando eravamo stati sbatacchiati di qua e di là. Non c’erano neppure dei lanciagranate, e la distanza era troppo grande perché i laser a mano servissero a qualcosa.

I trasporti erano quattro o cinque volte più grossi di quelli della prima ondata. Uno atterrò a circa un chilometro da noi, fermandosi appena il tempo necessario per scaricare le truppe. Erano più di cinquanta, probabilmente sessantaquattro… moltiplicato otto faceva cinquecentododici. Non ce l’avremmo fatta a ricacciarli.

— Ascoltate tutti, qui è il maggiore Mandella. — Cercai di dare alla mia voce un tono calmo. — Dobbiamo ritirarci subito nella cupola, rapidamente ma con ordine. So che siete sparpagliati un po’ dappertutto in questo inferno. Se appartenete al secondo o al Quarto plotone, restate fermi per un minuto e sparate per coprire il Primo e il Terzo plotone e gli specialisti che si ritirano.

"Primo e Terzo e specialisti, ritiratevi fino a coprire circa la metà della distanza che vi divide dalla cupola, poi mettetevi al coperto e proteggete il Secondo e il Quarto mentre si ritirano. Poi loro arriveranno all’orlo della cupola e copriranno voi mentre percorrerete l’ultimo tratto." Non avrei dovuto usare il verbo "ritirarsi"; nel linguaggio militare non esisteva. Si diceva "azione di sganciamento".

Fu molto più sganciamento che azione. Otto o nove persone sparavano, ma tutte le altre erano in piena fuga. Rudkoski e Orban erano svaniti. Sparai un paio di colpi prendendo la mira con cura, ma senza grandi risultati, poi corsi all’altra estremità della trincea, ne uscii e corsi verso la cupola.

I taurani cominciarono a sparare con i razzi, ma quasi tutti i tiri sembravano troppo alti. Vidi due dei nostri esplodere prima di arrivare a mezza strada: trovai un macigno bello e grosso e mi nascosi. Poi sbirciai fuori e decisi che solo due o tre taurani erano abbastanza vicini da costituire sia pure lontanamente possibili bersagli per i laser, e che era meglio non attirare troppo l’attenzione su di me. Coprii di corsa l’ultimo tratto fino all’orlo dei campo, e mi fermai per rispondere al fuoco. Dopo un paio di colpi, mi accorsi che facevo solo da bersaglio: a quanto potevo vedere, c’era solo un’altra persona che correva ancora verso la cupola.

Un razzo mi sfrecciò accanto, così vicino che avrei potuto toccarlo. Piegai le ginocchia e scattai, ed entrai nella cupola in una posa non esattamente dignitosa.

33

Quando fui dentro, vidi il razzo che mi aveva mancato fluttuare pigramente nella semioscurità, sollevarsi lentamente fino a uscire dalla parte opposta della cupola. Si sarebbe disintegrato nel momento in cui fosse uscito, perché tutta l’energia cinetica che aveva perso rallentando bruscamente a 16,3 metri al secondo sarebbe ritornata sotto forma di calore.

Nove persone giacevano morte, a faccia in giù, appena all’interno del campo. Non era un imprevisto, anche se non si trattava di una di quelle cose che di solito si dicono alle truppe.

Gli scafandri da combattimento erano intatti, altrimenti non sarebbero riusciti ad arrivare fin lì; ma durante quegli ultimi minuti caotici si era danneggiato lo speciale rivestimento isolante che li proteggeva dal campo di stasi. Quindi, non appena erano entrati, ogni attività elettrica dei loro corpi si era arrestata, e questo li aveva uccisi istantaneamente. Inoltre, poiché nessuna molecola nel loro corpo poteva muoversi a una velocità superiore ai 16,3 metri al secondo, si erano immediatamente congelati: la temperatura dei loro corpi si era stabilizzata a 0,426 gradi assoluti.

Decisi di non girarli per vedere i loro nomi. Non ancora. Dovevamo ideare una specie di posizione difensiva prima che i taurani entrassero nella cupola, se avessero deciso di attaccare invece di aspettare.

A gesti, laboriosamente, riuscii a far radunare tutti al centro del campo, sotto la coda del caccia, dove c’erano le armi sulle rastrelliere.

C’erano armi in abbondanza, poiché avevamo previsto di fornire un numero di soldati tre volte maggiore. Dopo aver distribuito a ciascuno uno scudo e una corta spada, tracciai sulla neve una domanda: BRAVI ARCIERI? ALZATE LE MANI. Trovai cinque volontari, e altri tre ne scelsi io, in modo da poter utilizzare tutti gli archi. Venti frecce per arco. Erano le armi a lunga gittata più efficienti di cui potevamo disporre: le frecce erano pressoché invisibili nel lento volo, pesanti e con punte mortali di un cristallo duro come il diamante.

Disposi gli arcieri in cerchio intorno al caccia, le cui pinne li avrebbero protetti parzialmente dai proiettili che fossero arrivati da tergo; tra un arciere e l’altro schierai altre quattro persone: due lancieri, uno armato di "bastone" e uno armato con un’ascia e una dozzina di coltelli da lancio. In teoria, quello schieramento poteva tenere testa al nemico a qualunque distanza, dall’orlo del campo fino al combattimento corpo a corpo.

In pratica, poiché erano seicento contro quarantadue, i taurani potevano entrare con una pietra in ciascuna mano, senza scudi né armi speciali, e ridurci in poltiglia.

Purché sapessero che cos’era un campo di stasi. Sotto ogni altro punto di vista, la loro tecnologia sembrava aggiornata.

Per parecchie ore non accadde nulla. Ci annoiavamo per quanto può annoiarsi chi aspetta di morire. Non potevamo parlare; non c’era niente da vedere tranne l’immutabile cupola grigia, la neve grigia, l’astronave grigia e pochi soldati grigi, tutti identici. Niente da ascoltare, assaporare o fiutare tranne te stesso.

Quelli di noi che ancora provavano qualche interesse per la battaglia sorvegliavano la parte bassa della cupola, in attesa di veder spuntare i primi taurani. Perciò occorse un secondo perché ci rendessimo conto di quello che succedeva, quando incominciò l’attacco. Un nugolo di dardi scese brulicando dall’alto, entrando nella cupola a una trentina di metri dal suolo, diretto verso il centro dell’emisfero.

Gli scudi erano abbastanza grandi perché, piegandosi leggermente, ci si potesse riparare quasi tutto il corpo: quanti videro arrivare i dardi riuscirono a proteggersi senza difficoltà. Quelli che voltavano le spalle o che si erano addormentati accanto all’interruttore, per sopravvivere dovevano affidarsi alla fortuna: non c’era la possibilità di gridare un avvertimento, e un proiettile impiegava solo tre secondi per arrivare dall’orlo al centro della cupola.

Fummo fortunati: i caduti furono solo cinque. Una di essi era un’arciera, la Shubik. Io raccolsi il suo arco e aspettammo: prevedevamo un immediato attacco a terra.

L’attacco non venne. Dopo mezz’ora, feci il giro del cerchio e spiegai a gesti che la prima cosa da fare, se succedeva qualcosa, era toccare la persona alla propria destra: questa avrebbe fatto lo stesso, e così via, lungo tutta la linea.

Forse fu quell’idea a salvarmi la vita. Il secondo attacco con i dardi, un paio d’ore dopo, mi arrivò alle spalle. Mi sentii urtare, urtai a mia volta la persona alla mia destra, mi girai e vidi il nugolo che scendeva. Alzai lo scudo per proteggermi la testa, e i proiettili colpirono un secondo più tardi.

Deposi l’arco per strappare tre dardi dallo scudo, e in quel momento cominciò l’attacco al suolo.

Era uno spettacolo strano, impressionante. Entrarono nel campo in trecento, simultaneamente, quasi spalla a spalla, intorno al perimetro della cupola. Avanzavano al passo: ognuno impugnava uno scudo rotondo, ampio appena a sufficienza per nascondergli il torace massiccio. E scagliavano dardi simili a quelli con cui ci avevano bersagliato prima.

Piazzai lo scudo davanti a me — alla base aveva delle piccole estensioni che servivano a tenerlo ritto — e quando scagliai la prima freccia compresi che avevamo una possibilità di farcela. Colpì un taurano al centro dello scudo, lo trapassò e penetrò nella tuta.

Fu un massacro unilaterale. I dardi non erano molto efficaci, senza il fattore sorpresa, ma quando uno mi passò sopra la testa, arrivando da dietro, mi fece scorrere un lungo brivido tra le scapole.

Con venti frecce uccisi venti taurani. Quelli serravano le file ogni volta che uno di loro cadeva: non era neppure necessario prendere la mira. Quando rimasi senza frecce, provai a rilanciare contro di loro i loro stessi dardi. Ma contro quei piccoli proiettili, i leggeri scudi erano una protezione sufficiente.

Ne uccidemmo più della metà con frecce e lance, prima ancora che arrivassero alla distanza adatta per il corpo a corpo. Sguainai la spada e aspettai. La superiorità numerica era ancora loro: più di tre a uno.

Quando arrivarono a meno di dieci metri, fu il momento di gloria per i nostri armati di chakra. Sebbene quel disco roteante fosse ben visibile e impiegasse più di mezzo secondo per arrivare a segno, quasi tutti i taurani reagirono con la stessa inefficienza, alzando lo scudo per deviarlo. Le pesanti lame temperate e affilate come rasoi tagliarono gli scudi leggeri, come seghe elettriche che affondassero nel cartone.

Il primo scontro corpo a corpo ebbe luogo con i "bastoni", che erano barre metalliche lunghe due metri, terminanti alle estremità in lame a doppio taglio. I taurani avevano un metodo abbastanza agghiacciante, o eroico, a seconda dei punti di vista, per affrontarli. Afferravano semplicemente la lama e morivano. Mentre l’umano cercava di districare l’arma dalla stretta del nemico morto, uno spadaccino taurano, con una scimitarra lunga più di un metro, si faceva avanti e lo uccideva.

Oltre alle spade, avevano una specie di bolo, una lunga corda elastica che terminava con dieci centimetri di qualcosa di simile al filo spinato, e con un piccolo peso per dargli slancio. Era un’arma pericolosa per tutti, amici e nemici: se mancava il bersaglio tornava indietro di scatto, imprevedibilmente, e dove colpiva colpiva. Ma i taurani centravano il bersaglio molto spesso, nascondendosi dietro gli scudi e facendo avvinghiare il filo spinato intorno alle caviglie dei nostri.

Mi misi schiena contro schiena con il soldato Erikson, e lavorando di spada riuscimmo a restare in vita per i minuti che seguirono. Quando i taurani furono ridotti a un paio di dozzine di superstiti, girarono sui tacchi e si avviarono per uscire. Gli scagliammo dietro qualche dardo, colpendone tre, ma non ce la sentivamo di inseguirli. C’era caso che tornassero indietro a ricominciare il massacro.

Eravamo rimasti in piedi in ventotto. Il terreno era coperto da un numero quasi decuplo di taurani morti, ma la cosa non ci diede molta soddisfazione.

Avrebbero potuto ricominciare, con altri trecento. E questa volta l’avrebbero spuntata.

Passammo da un cadavere all’altro, svellendo frecce e lance, e poi tornammo a piazzarci intorno al caccia. Nessuno si prese la briga di recuperare i bastoni. Contai i miei: Charlie e Diana erano ancora vivi (la Hilleboe era stata una delle vittime della tattica taurana del bastone), e così pure due ufficiali specialisti, Wilber e Szydlowska. Rudkoski era ancora vivo, ma Orban s’era buscato un colpo di dardo.

Dopo un giorno d’attesa, cominciammo a pensare che il nemico avesse optato per una guerra di logoramento, anziché ripetere l’attacco al suolo. I dardi continuavano a piovere, non più a sciami, ma a due e a tre e a dieci per volta, e sempre da angolazioni diverse. Noi non potevamo stare sempre all’erta: ogni tre o quattro ore riuscivano a colpire qualcuno.

Dormivamo a turno, due per volta, sopra il generatore del campo di stasi. Poiché stava direttamente sotto il caccia, era il posto più sicuro della cupola.

Di tanto in tanto, un taurano faceva capolino sull’orlo del campo, evidentemente per vedere in quanti eravamo rimasti. Qualche volta scagliavamo una freccia contro di lui, tanto per tenerci in esercizio.

Dopo un paio di giorni, i dardi non piovvero più. Pensai che forse li avevano finiti. O forse avevano deciso di smetterla quando noi ci fossimo ridotti a venti superstiti.

C’era una terza, più probabile, possibilità. Portai uno dei bastoni all’orlo del campo e lo spinsi oltre, un centimetro o giù di lì. Quando lo ritirai, la punta era fusa. La mostrai a Charlie e lui si dondolò avanti e indietro (era l’unico modo per annuire, con uno scafandro addosso): la cosa era già accaduta, una delle prime volte, quando il campo di stasi non aveva funzionato. I taurani l’avevano semplicemente saturato di fuoco laser e adesso aspettavano che ci stufassimo dell’inazione e spegnessimo il generatore. Probabilmente se ne stavano seduti a bordo dei loro trasporti, a giocare all’equivalente taurano del ramino.

Mi sforzai di pensare. Era difficile concentrare la mente su qualcosa, in quell’ambiente ostile, mentre dovevi voltarti indietro ogni due secondi. Era qualcosa che aveva detto Charlie. Proprio ieri. Non riuscivo a rammentare. Allora non avrebbe funzionato: questo era tutto ciò che ricordavo. Poi finalmente ci arrivai.

Chiamai tutti intorno a me e scrissi sulla neve:

PRENDETE BOMBE NOVA DALLA NAVE

PORTATELE AL BORDO DEL CAMPO

SPOSTATE IL CAMPO

Szydlowska sapeva dove trovare gli attrezzi adatti, sul caccia. Per fortuna, avevamo lasciato aperti tutti i portelli prima di attivare il campo di stasi: le serrature erano elettroniche e si sarebbero bloccate. Rastrellammo un assortimento di chiavi inglesi dalla sala macchine e salimmo nella cabina. Lui sapeva come fare a rimuovere la piastra che dava accesso al vano bombe. Lo seguii, strisciando nel tubo largo un metro.

Normalmente, immagino, sarebbe stato buio pesto. Ma il campo di stasi illuminava il vano bombe con lo stesso fioco chiarore senza ombre che c’era all’esterno. Il vano bombe era troppo piccolo per ospitarci entrambi, così io restai a guardare, affacciato all’estremità del tubo.

I portelli avevano anche un comando manuale, e quindi fu facile. Szydlowska girò una manovella e tutto fu a posto. Liberare le due bombe nova dalle imbragature fu un’altra faccenda. Alla fine, lui ritornò in sala macchine a prendere un piede di porco. Ne staccò una e io presi l’altra, e la facemmo rotolare fuori del vano bombe.

Il sergente Anghelov ci stava già lavorando sopra, quando noi due scendemmo. Per armare la bomba bastava svitare la spoletta sulla punta, e infilare qualcosa nell’intercapedine, in modo da far saltare i meccanismi di blocco e le sicure.

Le portammo in fretta e furia sull’orlo, sei persone per bomba, e le posammo una accanto all’altra. Poi facemmo un segnale con le braccia ai quattro in posizione accanto alle maniglie del generatore del campo. Quelli lo sollevarono e percorsero dieci passi nella direzione opposta. Le bombe sparirono, quando l’orlo del campo gli scivolò sopra.

Non ci fu dubbio che le bombe esplosero. Per un paio di secondi, fuori fece caldo quanto all’interno di una stella, e se ne accorse persino il campo di stasi: per un momento un terzo della cupola si illuminò di un rosa cupo, e poi ritornò grigio. Ci fu un lieve senso di accelerazione, come si può provare in un ascensore lento. Questo significava che stavamo scivolando verso il fondo del cratere. Avremmo trovato un fondo solido? Oppure saremmo affondati attraverso la roccia fusa, per restare intrappolati come mosche nell’ambra? Era inutile pensarci. Forse, se fosse accaduto, avremmo potuto aprirci una via d’uscita con il laser da un gigawatt del caccia.

Dodici di noi, almeno.

PER QUANTO TEMPO? scarabocchiò Charlie sulla neve, ai miei piedi.

Era una domanda maledettamente giusta. Io sapevo solo la quantità di energia che liberavano due bombe nova. Non sapevo che razza di sfera infuocata potevano fare, ed era essa a determinare la temperatura al momento della detonazione e la grandezza del cratere. Non conoscevo le capacità termiche della roccia circostante, né il suo punto di ebollizione. Scrissi: UNA SETTIMANA, CHISSÀ? DEVO PENSARCI.

Il calcolatore del caccia avrebbe potuto dirmelo in un millesimo di secondo, ma non parlava. Cominciai a scrivere equazioni sulla neve, cercando di ottenere un massimo e un minimo del tempo che sarebbe occorso perché la temperatura esterna scendesse a 500 gradi. Anghelov, le cui nozioni di fisica erano più aggiornate delle mie, fece i suoi calcoli dall’altra parte del caccia.

La mia risposta diceva da sei ore a sei giorni (anche se, per raffreddarsi in sei ore, la roccia circostante avrebbe dovuto condurre calore come se fosse rame puro) e Anghelov ottenne un minimo di cinque ore e un massimo di quattro giorni e mezzo. Io votai per sei e nessun altro ebbe diritto al voto.

Facemmo del gran dormire. Charlie e Diana giocavano a scacchi scarabocchiando i simboli sulla neve; io non riuscivo a tenere in mente i movimenti dei pezzi. Controllai più volte i miei calcoli, e continuavo a ottenere come risposta sei giorni. Controllai anche i calcoli di Anghelov, e sembravano giusti, ma non cedetti. Non ci avrebbe fatto male restare dentro gli scafandri per un giorno e mezzo in più. Discutemmo giovialmente in concisi segni stenografici.

Eravamo diciannove il giorno che avevamo buttato fuori le bombe. Eravamo ancora diciannove sei giorni dopo, quando mi fermai un attimo, con la mano sull’interruttore del campo. Che cosa ci aspettava là fuori? Sicuramente avevamo ucciso tutti i taurani nel raggio di parecchi chilometri dall’esplosione. Ma poteva esserci stata una forza di riserva molto più lontana, e magari adesso era in paziente attesa sull’orlo del cratere. Però, adesso potevi spingere un bastone attraverso il campo e ritirarlo ancora intero.

Dispersi i miei a intervalli regolari intorno all’area, perché non ci liquidassero tutti con un colpo solo. Poi, pronto a riattivarlo immediatamente se qualcosa fosse andato storto, spensi il campo.

34

La mia radio era ancora sintonizzata sulla frequenza generale: dopo oltre una settimana di silenzio, le mie orecchie furono aggredite da un parlottio chiassoso e felice.

Eravamo al centro di un cratere largo e profondo circa un chilometro. I suoi fianchi erano una lucente crosta nera, screziata di crepe rosse, calda ma non più pericolosa. L’emisfero di terra su cui eravamo noi era sprofondato d’una quarantina di metri buoni nel fondo del cratere, mentre era ancora fuso, perciò adesso ci trovavamo su una specie di piedestallo.

Neppure un taurano in vista.

Ci precipitammo nel caccia, lo chiudemmo, lo riempimmo d’aria fresca e aprimmo gli scafandri. Non mi avvalsi del mio grado per avere il diritto di precedenza nell’uso dell’unica doccia; mi distesi sulla cuccetta antiaccelerazione e aspirai profondamente boccate d’aria che non odoravano di Mandella riciclato.

Il caccia era stato progettato per un massimo di dodici persone, perciò stavamo fuori, a turni di sette, per non esaurire gli impianti ambiente. Io mandai ripetutamente un messaggio all’altro caccia, che era lontano ancora sei settimane, avvertendo che stavamo bene e aspettavamo di venire raccolti. Ero sicuro che avesse almeno sette posti liberi, poiché l’equipaggio normale per una missione di combattimento era formato da tre sole persone.

Era piacevole poter camminare e parlare di nuovo. Sospesi ufficialmente tutte le attività militari per la durata della sosta forzata sul pianeta. C’erano anche diversi superstiti della banda semiammutinata della Brill, ma non mostravano la minima ostilità nei miei confronti.

Giocavamo spesso a una specie di gioco della nostalgia, confrontando le varie epoche che avevamo conosciuto sulla Terra, e chiedendoci come l’avremmo trovata nel futuro in cui saremmo ritornati. Nessuno parlò del fatto che nella migliore delle ipotesi avremmo avuto qualche mese di licenza e poi saremmo stati assegnati a un’altra Forza d’Attacco; un altro giro della ruota.

Ruote. Un giorno Charlie mi chiese di che paese era originario il mio cognome: gli sembrava molto strano. Gli dissi che aveva avuto origine dalla mancanza di un dizionario, e che se fosse stato scritto giusto sarebbe sembrato più strano ancora.

Impiegai una mezz’ora buona a spiegare tutti i particolari. In sostanza, comunque, si riduceva a questo. I miei genitori erano hippies (una specie di subcultura dell’America del tardo Ventesimo secolo, che rifiutava il materialismo e abbracciava un’ampia gamma di strane idee) e vivevano con un gruppo di altri hippies in una piccola comunità agricola. Quando mia madre si era accorta di aspettare un figlio, non aveva voluto sposarsi, perché lo giudicavano convenzionale: sposarsi comportava che la donna assumesse il cognome dell’uomo, per indicare che era sua proprietà. Ma erano inebriati e sentimentali, e avevano deciso di cambiare entrambi il cognome, scegliendone uno identico. Andarono nella città più vicina, e lungo il percorso discussero per decidere quale cognome poteva simboleggiare meglio il legame d’amore esistente tra loro (per poco non mi ritrovai con un cognome assai diverso, e poco diplomatico), e alla fine scelsero Mandala.

Un mandala è un motivo a forma di ruota che gli hippies avevano preso a prestito da una religione straniera, e simboleggiava il cosmo, la mente cosmica, Dio, o non so che altro. Né mia madre né mio padre sapevano come si scrivesse esattamente quella parola, e il magistrato, in città, lo scrisse nel modo che gli sembrava più giusto.

I miei genitori mi avevano poi chiamato William in onore di uno zio ricco, che sfortunatamente era morto povero in canna.

Le sei settimane trascorsero abbastanza piacevolmente: conversavamo, leggevamo, riposavamo. L’altro caccia atterrò accanto al nostro; e aveva nove posti liberi. Riorganizzammo gli equipaggi in modo che ogni caccia avesse a bordo qualcuno capace di rimediare, se la sequenza programmata dei balzi non avesse funzionato a dovere. Io mi assegnai all’altro caccia, nella speranza che avesse qualche libro nuovo. Non ne aveva.

Ci chiudemmo nelle vasche e decollammo simultaneamente.

Finimmo per trascorrere molto tempo nelle vasche, se non altro per non dover vedere sempre le stesse facce tutto il giorno, nell’astronave affollata. Quei periodi aggiunti di accelerazione ci riportarono a Stargate in dieci mesi soggettivi. Naturalmente erano 340 anni (meno sette mesi) secondo l’ipotetico osservatore obiettivo.

C’erano centinaia di astronavi in orbita attorno a Stargate. Brutto segno: con tutta quella gente in coda probabilmente non avremmo avuto nessuna licenza.

Io pensavo che molto probabilmente avrei avuto una corte marziale, comunque, anziché una licenza. Avevo perso l’88 per cento della mia compagnia; e molti erano morti perché non avevano avuto abbastanza fiducia in me da obbedire a un mio ordine, quando era venuto il terremoto. E a Sade-138 eravamo ancora al punto di partenza: adesso là non c’erano taurani, ma neanche la nostra base.

Ricevemmo le istruzioni per l’atterraggio e scendemmo direttamente, senza navette. Allo spazioporto, ci aspettava un’altra sorpresa. Dozzine d’incrociatori erano posati sul campo (un tempo non lo facevano mai, per timore che Stargate venisse colpito), e c’erano anche due incrociatori taurani catturati. Noi non eravamo mai riusciti a prenderne uno intatto.

Sette secoli potevano averci procurato un vantaggio decisivo, naturalmente. Magari stavamo addirittura vincendo.

Entrammo da un portello con la scritta "reduci". Quando l’aria prese a circolare e noi aprimmo gli scafandri, entrò una bellissima, giovane donna con un carrello pieno di tuniche e ci disse, in un inglese dall’accento perfetto, di vestirci e di recarci nella sala delle conferenze, in fondo al corridoio a sinistra.

La tunica dava una strana impressione al tatto: era leggera ma calda. Era la prima cosa che indossavo, a parte lo scafandro da combattimento e la mia pelle, da quasi un anno.

La sala delle conferenze era cento volte troppo grande per noi, che eravamo ventidue. C’era la stessa donna di prima, e ci invitò a farci avanti. Era una cosa sconvolgente: avrei giurato che si era avviata nel corridoio nella direzione opposta, anzi lo sapevo. Ero rimasto affascinato alla vista del suo didietro.

Diavolo, magari adesso avevano i trasmettitori di materia. O il teletrasporto. E lei aveva voluto risparmiarsi la fatica di quei pochi passi.

Ci sedemmo e dopo un minuto un uomo, vestito di una tunica disadorna dello stesso tipo indossato dalla donna e da noi, attraversò il podio, portando sotto le braccia due fasci di grossi taccuini.

Mi voltai indietro e lei era ancora là, in piedi nella corsia. E per complicare le cose, l’uomo era virtualmente il gemello di tutte e due.

L’uomo sfogliò uno dei taccuini e si schiarì la gola. — Questi libri sono per voi, per vostra comodità — disse, anch’egli con accento perfetto. — Non siete tenuti a leggerlo se non volete, perché… siete donne e uomini liberi. La guerra è finita.

Silenzio incredulo.

— Come potrete leggere in questo libro, la guerra è finita duecentoventun anni or sono. Perciò, questo è l’anno duecentoventi. Naturalmente, secondo il vecchio sistema, è il 3138 d.C.

"Voi siete l’ultimo gruppo di soldati che ritorna. Quando ve ne andrete di qui, me ne andrò anch’io. E distruggerò Stargate. Esiste solo come punto di rendez-vous per i reduci e come monumento all’umana stupidità. E alla vergogna. Come potrete leggere voi stessi. Distruggerlo sarà un atto di purificazione."

Smise di parlare e la donna proseguì, senza una pausa. — Mi dispiace per tutto ciò che avete passato, e vorrei poter dire che è stato per una causa giusta, ma come potrete leggere voi stessi, non lo era.

"Anche il patrimonio che avevate accumulato come paghe arretrate e interessi composti, non vale nulla, poiché io non uso più né danaro né credito. E non esiste più un’economia in cui si possano usare queste… cose."

— Come ormai avrete intuito — proseguì l’uomo — io sono, noi siamo cloni di un singolo individuo. Circa duecentocinquant’anni fa, il mio nome era Kalm. Adesso è Uomo.

"Avevo un antenato diretto nella vostra compagnia, il caporale Larry Kalm. Mi rattrista che non sia tornato."

— Io sono più di dieci miliardi di individui, ma una sola coscienza — disse la donna. — Dopo che avrete letto i libri, cercherò di chiarirlo. So che sarà difficile capirlo.

"Nessun altro tipo umano viene attivato, poiché io sono il modello perfetto. Gli individui che muoiono vengono sostituiti.

"Tuttavia vi sono alcuni pianeti su cui gli umani nascono nel modo normale dei mammiferi. Se per voi la mia società fosse troppo aliena, potete recarvi su uno di questi pianeti. Se desiderate partecipare alla procreazione, non vi scoraggerò. Molti veterani mi chiedono di cambiare la loro polarità rendendoli eterosessuali, in modo che si possano inserire più facilmente in quelle società. Questo posso farlo molto facilmente."

Non preoccuparti per me, Uomo: mi basta che mi fai il biglietto.

— Sarete miei ospiti qui a Stargate per dieci giorni, dopodiché verrete condotti dovunque vogliate andare — disse l’uomo. — Vi prego di leggere il libro, nel frattempo. Siete liberi di fare qualunque domanda e di richiedere qualunque servizio. — Si alzarono entrambi e uscirono di scena.

Charlie era seduto accanto a me. — Incredibile — disse. — Loro lasciano… loro incoraggiano… uomini e donne perché facciano di nuovo quello? Insieme?

La femmina Uomo che poco fa era in piedi nella corsia s’era seduta dietro di noi, e rispose prima che io potessi escogitare una risposta ipocrita e ragionevolmente comprensiva: — Non è un giudizio sulla sua società — disse; probabilmente non si rendeva conto che Charlie l’aveva presa come una questione personale. — Ritengo semplicemente che sia necessario, come valvola di sicurezza eugenetica. Nulla indica che sia errata la clonazione di un unico individuo ideale, ma se dovesse risultare che si è trattato di un errore, ci sarà un’adeguata quantità di materiale genetico da cui ripartire.

Gli batté una mano sulla spalla. — Naturalmente, lei non è obbligato a trasferirsi su uno di quei pianeti in cui ci si riproduce. Può restare su uno dei miei. Io non faccio distinzione tra eterosessuali e omosessuali.

Poi salì sul podio per spiegarci dove avremmo alloggiato e dove avremmo mangiato e così via, finché eravamo su Stargate. — Non ero mai stato sedotto da un computer — disse Charlie.

La guerra dei 1143 anni era cominciata per un equivoco ed era continuata perché le due razze erano incapaci di comunicare tra loro.

Quando avevano potuto parlarsi, la prima domanda era stata: — Perché hai cominciato? — E la risposta era stata: — Chi? Io?

I taurani non conoscevano la guerra da millenni, e verso l’inizio del Ventunesimo secolo sembrava che anche l’umanità stesse per rinunciare a quell’istituzione. Ma i vecchi militari erano ancora in circolazione, e molti di loro avevano molto potere. Erano virtualmente padroni del Gruppo Esplorazione e Colonizzazione delle Nazioni Unite, che approfittava delle collapsar appena scoperte per esplorare lo spazio interstellare.

Molte delle prime astronavi avevano subito incidenti ed erano scomparse. Gli ex militari erano sospettosi. Avevano armato i vascelli dei coloni, e la prima volta che avevano incontrato un’astronave taurana l’avevano fatta saltare.

Poi si erano spolverati le medaglie, e il resto era storia.

Comunque, la colpa non era tutta dei militari. Le prove che avevano presentato per addossare ai taurani la responsabilità dei primi incidenti erano ridicole e inconsistenti. Ma nessuno aveva dato retta alle pochissime persone che l’avevano fatto notare.

Il fatto era che l’economia terrestre aveva bisogno d’una guerra, e quella era l’ideale. Offriva un magnifico pozzo senza fondo in cui buttare danaro a palate, ma serviva a unificare l’umanità, anziché a dividerla.

I taurani avevano imparato daccapo la guerra, a modo loro. Non erano mai stati molto efficienti, e a lungo andare avrebbero sicuramente perduto.

I taurani, spiegava il libro, non potevano comunicare con gli umani, perché non avevano il più vago concetto dell’individuo: da milioni d’anni erano cloni naturali. Alla fine, gli incrociatori della Terra avevano avuto equipaggi formati da Uomo, cloni di Kalin, e allora, per la prima volta, le due razze avevano potuto comunicare.

Il libro lo metteva giù come un fatto nudo e crudo. Chiesi a un Uomo di spiegare cosa voleva dire, e cosa c’era di speciale nella comunicazione da cloni a cloni. Lui mi disse che, a priori, non avrei potuto capirlo. Non c’erano parole per spiegarlo, e il mio cervello non sarebbe riuscito ad accogliere i concetti, anche se le parole ci fossero state.

E va bene. Sembrava un po’ strano, ma ero disposto ad accettarlo. Ero disposto ad accettare che il "su" era "giù", se questo significava che la guerra era finita.

Uomo era un’entità piena di delicatezze. Per noi ventidue, si prese la briga di restaurare un piccolo ristorante-taverna e di provvedere al servizio a tutte le ore. (Non vidi mai un Uomo mangiare o bere, e credo che avessero scoperto il sistema per farne a meno). Una sera ero lì seduto a bere birra e a leggere il loro libro, quando Charlie entrò e sedette vicino a me.

Senza preamboli, dichiarò: — Ho intenzione di provare.

— Provare che cosa?

— Donne. Eterosessualità. — Rabbrividì. — Senza offesa… non per niente entusiasmante. — Mi batté sulla mano, con aria distratta. — Ma l’alternativa… Tu hai provato?

— Be’… no, no. — La femmina Uomo era bellissima, ma solo nel senso in cui poteva esserlo un quadro o una statua. Non riuscivo a vederle come esseri umani.

— Non provarlo. — Non si spiegò meglio. — E poi, loro dicono… lui dice, lei dice, che possono tornare a cambiarmi con la stessa facilità. Se non mi piacesse.

— Ti piacerà, Charlie.

— Sicuro, è quel che dicono loro. - Ordinò qualcosa di forte. — Mi sembra contro natura, ecco. Comunque, dato che, ehm, farò il cambio, ti dispiacerebbe se… perché non andiamo su uno stesso pianeta?

— Sicuro, Charlie, sarebbe magnifico. — E lo pensavo davvero. — Hai deciso dove andare?

— Diavolo, non m’importa. Basta andarmene da qui.

— Chissà se Paradiso è ancora…

— No. — Charlie indicò il barista con il pollice. — Ci abita lui.

— Non so. Credo che deva esserci un elenco.

Un uomo entrò nella taverna, spingendo un carrello carico di fascicoli. — Maggiore Mandella? Capitano Moore?

Siamo noi — disse Charlie.

— Questi sono i vostri documenti militari. Spero che li troverete interessanti. Sono stati trasferiti su carta quando la vostra Forza d’Attacco è rimasta la sola che doveva ancora tornare, perché sarebbe stato poco pratico tenere in funzione le normali reti informative per così pochi dati.

Precorrevano sempre le tue domande, anche quando non ne avevi da formulare.

Il mio fascicolo era cinque volte più spesso di quello di Charlie. Probabilmente era più grosso di quello di chiunque altro, poiché a quanto pareva ero l’unico militare sopravvissuto per tutta la durata della guerra. Povera Marygay. — Chissà che razza di rapporto aveva redatto su di me il vecchio Stott. — Aprii il fascicolo.

Fissato alla prima pagina c’era un quadratino di carta. Tutte le altre pagine erano candide, ma quello era ingiallito dal tempo, e si andava sbriciolando agli orli.

La grafia era familiare, troppo familiare anche dopo tanto tempo. La data era di 250 anni prima.

Rabbrividii e mi sentii accecare improvvisamente dalle lacrime. Non avevo mai avuto motivo di credere che lei fosse ancora viva. Ma non avevo mai saputo veramente che fosse morta, prima di vedere quella data.

— William? Che cosa…

— Lasciami stare, Charlie. Per un minuto solo. — Mi asciugai gli occhi e chiusi il fascicolo. Non avrei neppure dovuto leggerlo, quel biglietto. Ora che mi avviavo verso una nuova vita, dovevo abbandonare i vecchi fantasmi.

Ma anche un messaggio dall’oltretomba era una specie di contatto. Riaprii il fascicolo.

11 ottobre 2878

William…

tutto questo è nel tuo fascicolo personale. Ma dato che ti conosco, so che saresti capace di buttarlo via. Voglio essere sicura che tu riceva questo biglietto.

Evidentemente, sono sopravvissuta. Forse sopravviverai anche tu. Raggiungimi.

Ho saputo dalla documentazione che sei andato a Sade-138 e che non tornerai per un paio di secoli. Non è un problema.

Io vado su un pianeta che chiamano Middle Finger, il quinto di Mizar. È a due balzi tra collapsar, dieci mesi soggettivi. Middle Finger è una specie, di riserva per eterosessuali. Lo chiamano "base approvvigionamento controllo eugenetico."

Non importa. C’è voluto tutto il mio danaro, e tutto il danaro di altri cinque veterani, ma abbiamo comprato dalla FENU un incrociatore. E l’usiamo come macchina del tempo.

Quindi io sono una navetta relativistica, e ti aspetto. Non fa altro che allontanarsi di cinque anni-luce da Middle Finger e tornare indietro, molto velocemente. Ogni dieci anni invecchio di circa un mese. Perciò, se tu torni secondo le previsioni e sei ancora vivo, avrò solo ventotto anni quando arriverai qui. Sbrigati!

Non ho mai trovato nessun altro e non voglio nessun altro. Non m’importa se hai novant’anni o trenta. Se non potrò essere la tua amante, sarò la tua infermiera.

Marygay

— Senta, barista.

— Sì, maggiore?

— Conosce un pianeta chiamato Middle Finger? C’è ancora?

— Certo che c’è. Dove dovrebbe essere? — Domanda ragionevole. — Un posto bellissimo. Un pianeta giardino. Certuni non lo considerano abbastanza emozionante.

— Cos’è questa storia? — chiese Charlie.

Porsi al barista il bicchiere vuoto. — Ho appena scoperto dove andremo.

EPILOGO

Da "La Nuova Voce", Paxton, Middle Finger, 24.6

14.2.3143

IL PRIMOGENITO

DI UNA VETERANA

Marygay Potter Mandella (24 Post Road, Paxton) ha dato alla luce venerdì scorso un magnifico maschietto di tre chili.

Marygay si vanta di essere la seconda in ordine di anzianità tra gli abitanti di Middle Finger, poiché è nata nel 1977. Ha combattuto durante quasi tutta la Guerra Eterna, poi ha atteso per 261 anni il suo compagno a bordo della navetta temporale.

Il bimbo, per il quale i genitori non hanno ancora scelto un nome, è nato in casa con l’assistenza di un’amica di famiglia, la dottoressa Diana Alsever-Moore.

FINE