Vincitore del premio Hugo per il miglior romanzo breve in 1983.

Nominato per il premio Nebula per il miglior romanzo breve in 1983.

Joanna Russ

Anime

Privata d’altri banchetti
invitai me stessa…

Emily Dickinson

Questa è la storia della badessa Radegunde e di ciò che accadde quando vennero i norvegesi. Non la racconto come mi fu raccontata, ma come la vidi io, perché allora ero un bambino e la badessa mi teneva come fattorino prediletto, anche se la vecchia e severa madre guardiana, Cunigunt, che era sopravvissuta alla precedente badessa, diceva che io stavo più nell’abbazia che fuori, e che era uno scandalo. Ma la badessa si limitava a rispondere con fare mite: — Cara Cunigunt, uno scandalo a sette anni? — e così la buttava in scherzo, perché sapeva com’era odiosa la mia nuova matrigna, e mio padre non si curava di me, e io non avevo fratelli né sorelle. Dovete capire che scherzare e chiamare gli altri «caro» e «cara» era un suo modo di fare: sotto ogni punto di vista era una donna eccezionale. La precedente badessa, Herrade, aveva scoperto che Radegunde, che le era stata affidata perché l’allevasse, aveva grandi doti, e perciò l’aveva mandata nel meridione per farla studiare, e questo non era mai successo prima da noi. Si racconta che la badessa Herrade aveva trovato Radegunde nel suo studio, intenta a leggere, sembrava, un grande volume miniato; la bambina l’aveva tirato giù dal leggio e sedeva sul pavimento tenendolo sulle ginocchia; si succhiava il pollice e con l’altra mano girava le pagine come se leggesse davvero.

— Piccola — disse la badessa Herrade, che era una donna gentile, — che cosa stai facendo? — Immagino le sembrasse divertente che Radegunde, a due anni, fingesse di leggere quel volume, il più grosso e il più bello dell’abbazia, che pure aveva molti più libri di qualunque altro monastero o convento che abbia mai sentito parlare: ne aveva ben quaranta, ricordo. E del resto, la piccola Radegunde non lo stava rovinando.

— Leggo, madre — rispose la bambina.

— Oh, leggi? — disse sorridendo la badessa. — Allora spiegami cosa stai leggendo — e indicò la pagina.

— Questa — disse Radegunde, — è una D maiuscola circondata da fiori e tante altre cose belle, per mostrare che Dominus, il Signore, è la cosa più grande e più bella, e fa crescere ogni cosa e l’abbellisce; e dice Domine da nobis pacem, che significa «Donaci la pace, Signore».

La badessa incominciò ad allarmarsi, ma chiese soltanto: — Chi te l’ha mostrato? — Pensava che Radegunde avesse sentito qualcuno leggere le parole, o l’avesse chiesto alle suore, di nascosto.

— Nessuno — rispose la bambina. — Devo continuare? — E lesse pagine e pagine in latino, spiegando cosa significavano le parole.

La storia non è tutta qui; ma dirò soltanto che, dopo molte preghiere, la badessa Herrade mandò la figlia adottiva molto lontano, a sud, addirittura a Poitiers, dove un tempo santa Radegunde aveva governato un’abbazia, e alcuni dicono persino a Roma; e laggiù Radegunde imparò tutto ciò che si può imparare, perché tutto il sapere del mondo è rimasto conservato in quei luoghi. Radegunde ritornò quando ormai era una donna, e assistette la badessa durante le sua ultima malattia, e diventò badessa a sua volta. Dicono che i grandi della Chiesa, laggiù al sud, avrebbero voluto tenerla tra loro, perché era un prodigio di pietà e di sapienza, e là la vita era sicura e comoda, e meno disagevole di quanto sia qui; ma lei diceva che i cieli grigi e gli inverni piovosi del suo luogo natale erano un richiamo per la sua anima. Mi raccontò spesso la storia, quando ero piccolo: mi disse che s’era mostrata testarda e decisa, e aveva sofferto tanto la nostalgia della sua patria che alla fine l’avevano rimandata indietro, pensando che una vita dura nel fango d’un villaggio del nord sarebbe stata una buona cura per un’anima tanto ribelle.

— E così fu — mi diceva, accarezzandomi la guancia o tirandomi un orecchio. — Vedi come sono umile adesso? — Perché dovete capire che tutti quei discorsi sulla sua giovinezza ribelle di vent’anni prima erano una specie di scherzo tra di noi. — Non farlo anche tu — mi diceva, e ridevamo insieme; e io ridevo tanto all’idea di diventare un pio e dotto monaco che mi tenevo i fianchi e non riuscivo a parlare.

Era buona con tutti. Conosceva tutte le lingue, non soltanto la nostra, ma anche l’irlandese e le lingue che si parlano al nord e al sud, e anche il latino e il greco, e tutte le altre del mondo, e le sapeva anche leggere e scrivere. Sapeva curare le malattie, sia con i sistemi delle vecchie, con le erbe e le mignatte, sia con i libri. E non si era mai vista una donna più pia! Certuni parlano male di lei, adesso che non c’è più; e dicevano che era troppo allegra per essere una buona badessa, ma lei rispondeva: — L’allegrezza è i fiori di Dio — e quando d’inverno una volta il vento le storse la cuffia e le scoprì i capelli grigi (successe mentre c’ero anch’io, e vidi le facce scandalizzate delle suore che erano con lei) si limitò a rimetterla a posto con un sorriso, e disse: — Vento sfacciato! Dimostri di avere forza più grande di quella di noi stolti umani, perché ti viene da Dio. — E questo commento fece sorridere le suore.

Nessuno l’aveva mai vista arrabbiata. Qualche volta si spazientiva, ma bonariamente, come se avesse la mente altrove. L’aveva in Paradiso, pensavo, perché l’ho vista pregare per ore, o gettarsi in ginocchio, in mezzo alla palude, mentre guardava le anatre selvatiche che volavano verso sud, con le mani giunte e una sorta di grande gioia sul viso; e un momento dopo si rialzava, si guardava l’abito infangato e gridava, un po’ dispiaciuta e un po’ ridendo: — Oh, cosa mi dirà la suora lavandaia? Sono incorreggibile! Bimbo caro, non dirlo a nessuno: racconterò che sono caduta. — E poi si copriva la bocca con la mano, arrossiva e rideva ancora di più. — Sono davvero incorreggibile! Dico le bugie!

In paese pensavano fosse una santa, naturalmente. Allora eravamo tutti felici, o almeno adesso mi sembra così: eravamo fortunati e sani, e felici di averla tra noi, a brillare come un grande falò che ci riscaldava tutti, anche quelli che non capivano perché la vita sembrava così bella. C’erano meno malattie; il cibo era migliore; persino il clima era mite; e la gente non litigava come aveva fatto prima di lei, e come fa di nuovo adesso. E non credo, considerando quello che successe alla fine, che tutto questo fosse soltanto la fantasia di un bambino che aveva trovato la madre, perché lei era come una madre; le raccontavo tutti i pettegolezzi e facevo le commissioni per lei, quando potevo, e lei mi chiamava Piccolo Messaggero in latino; ed ero più felice di quanto sia mai stato.

E poi, un giorno apparvero sul nostro fiume quelle terribili prore rostrate.

Ero con lei quando venne l’annuncio, nella stanza principale della torre dell’abbazia, dopo che il primo fuoco dell’anno era stato acceso nel grande camino; credevamo d’essere al sicuro perché non si erano mai visti tanto a sud, e ormai la stagione era troppo avanzata perché un navigatore di buon senso si trovasse nelle nostre acque. L’abbazia ospitava in quei giorni tre preti irlandesi che impallidirono quando la giovane suor Sibihd corse a dare l’annuncio, piangendo e torcendosi le mani; e uno dei preti esclamò qualcosa in latino che significa «Dio ci protegga!» perché ci avevano raccontato del terribile sacco del monastero di San Colombano, quando tutti erano fuggiti con i manoscritti preziosi o si erano nascosti nei boschi; ed era per questo che padre Cairbre e gli altri due avevano deciso di «girare il mondo» perché (mi aveva spiegato tutto la badessa, dato che io non sapevo il latino) è così che dicono gli irlandesi quando devono lasciare la loro terra natale per andare altrove.

— Dio protegge le nostre anime, non i nostri corpi — disse vivacemente la badessa Radegunde. Aveva parlato con i preti nella loro lingua o in latino, ma questo lo disse nella nostra, anche alle donne che erano venute a lavorare dal villaggio, perché capissero. — Padre Cairbre, conduci i tuoi amici e le suore più giovani nei corridoi sotterranei; suor Diemud, spalanca le porte agli abitanti del villaggio: metà di loro cercheranno rifugio dietro le mura dell’abbazia e gli altri fuggiranno nella palude. Tu, Piccolo Messaggero, vai nelle cantine con le ragazze. — Ma io non ci andai, e la badessa non se ne accorse: si era alzata subito per andare a guardare da una delle feritoie. E anch’io. Avevo sempre creduto che le grandi navi dei norvegesi salissero sulla terraferma, con le gambe, suppongo, e rimasi un po’ deluso nel vedere che dopo aver risalito il nostro fiume restavano in acqua come le altre navi, e gli uomini venivano a riva con piccole barche e le tiravano in secco tra la sabbia e il fango. Poi la badessa ripeté l’ordine: — Presto! Presto! — E prima che qualcuno capisse cosa stava succedendo, uscì dalla stanza. Io guardai dalla finestra della torre; in quel tumulto nessuno si curava di me. Là sotto, gli orti e i giardini dell’abbazia erano pieni di gente che calpestava i filari delle erbe e le rose della badessa, e trascinava grandi tronchi per sbarrare la porta nel muro di pietra che circondava l’abbazia (e non era un muro molto alto, per la verità), e Radegunde correva tra la folla e gridava: Fate questo! Fate quello! Tu, fermati! Tu, vai! e cose del genere.

Poi arrivò alla porta e accennò a suor Oddha, la portinaia, di scostarsi (la vecchia suora si buttò addirittura in ginocchio per supplicarla), e tutto questo, dovete capire, mi sembrava meraviglioso. Non avevo idea del pericolo come non l’avrebbe avuta un cagnolino. Ci fu un po’ di trambusto alla porta: credo che gli uomini con i tronchi cercassero di sbarrarle il basso. E la badessa Radegunde trasse dallo scollo della veste il crocifisso d’argento che aveva portato da Roma, e l’agitò spazientita sotto il naso di quelli che avrebbero voluto trattenerla. E così, naturalmente, la lasciarono passare.

Mi acquattai nel mio angolo accanto alla finestra, aspettandomi che il crocifisso della badessa facesse discendere la folgore di Dio su tutti quegli uomini alti e biondi che sfidavano il nostro Salvatore e la legge e che, si diceva, portavano le corna sulla testa, anche se loro non le avevano (e più tardi scoprii che non è vero, i norvegesi non le portano). Speravo che la badessa, o nostro Signore, aspettasse ancora un po’ prima di annientarli, perché volevo vederli bene prima che morissero tutti, capite? Rimasi un po’ deluso, perché portavano le brache e i gambali come gli uomini comuni, e anche i mantelli, anche se alcuni avevano spade e scuri e c’era un mucchio di scudi rotondi sulla spiaggia. Ma i capelli lunghi erano bellissimi, e i colori sgargianti dei vestiti, e i mostri che spuntavano dalle prue delle navi erano splendidi e spaventosi, anche se si capiva benissimo che erano soltanto dipinti come le figure dei libri della badessa.

Pensai che Dio mi aveva concesso un’edificazione sufficiente e che ormai poteva annientare gli empi stranieri.

Ma non lo fece.

Invece, la badessa si avviò tutta sola verso quegli uomini feroci, sulla riva sassosa del fiume, con calma come se andasse a fare una scampagnata con le sue ragazze. Cantava una canzoncina, una melodia graziosa che ripetei molti anni dopo, e un uomo che aveva viaggiato molto mi disse che era una ninnananna norvegese. Allora non lo sapevo: ma quei terribili uomini biondi, che avevano alzato la testa stupiti nel vedere una donna sola che usciva dall’abbazia (la porta dietro di lei era sbarrata, adesso), incominciarono a bisbigliare tra loro. Vidi lo sguardo della badessa girare in fretta dall’uno all’altro (spesso noi dicevamo che era capace di dire cosa si nascondeva nell’anima, con una sola occhiata), e poi raccolse la gonna con una mano, e si avviò tra i sassi verso uno degli uomini, più vecchio degli altri come seppi poi, anche se al momento non riuscivo a vederlo bene, e gli disse, nella sua lingua:

— Benvenuto, Thorvald Einarsson; che cosa ci fai tu, buon agricoltore, tanto lontano da casa tua, quando le messi sono mature e sul mare stanno arrivando le grandi tempeste dell’autunno? — (Forse vi domanderete come capissi quello che diceva, perché non sapevo il norvegese: la verità è che padre Cairbre, il quale non era sceso in cantina, stava guardando dalla mia stessa finestra, mentre io sbirciavo più in basso, e ripeteva ogni parola a quelli che erano presenti nella stanza, e che tacevano tutti.)

Vidi che i pirati erano confusi, nel sentirla parlare nella loro lingua, e ancora di più perché ne aveva chiamato uno di loro per nome; alcuni indietreggiarono e tracciarono strani segni nell’aria, e altri brandirono le scuri o le spade e corsero verso la badessa. Ma quel Thorvald Einarsson alzò la mano perché si fermassero e rise di cuore.

— Riflettete! — disse. — Non è una magia, ma soltanto astuzia… chi poteva evitare di sentire il mio nome, quando tutti voi non avete fatto altro che gridare «Thorvald Einarsson, aiutami con questo remo!», «Thorvald Einarsson, ho i gambali fradici fino alle ginocchia!», «Thorvald Einarsson, questo fiume è freddo come un inverno di Fimbul!»

La badessa Radegunde annuì e sorrise. Poi sedette sulla riva del fiume. Si grattò dietro un orecchio, come l’avevo vista fare quando era immersa nei suoi pensieri. Poi disse (e sono sicura che il dialogo si svolse a voce alta, apposta perché potessimo sentirlo anche noi dall’abbazia):

— Buon amico Thorvald, sei intelligente come diceva il figlio di tua sorella, Ranulf, dal quale ho imparato il norvegese quando ero a Roma; e per dimostrarti che era proprio lui, ti dirò che giurava sempre per il suo cavallo grigio, Piedezoppo, e aveva un impedimento della favella, e non riusciva a pronunciare i suoni come facciamo noi, e perciò ti chiamava «Torvald». Non è così?

Allora non me ne rendevo conto perché ero soltanto bambino, ma con quel discorso la badessa rivendicava i diritti dell’ospitalità dall’uomo, e per caso o per ispirazione aveva scelto il più intelligente tra quei ladroni, perché lui rispose:

— lo non sono il capo. Qui non ci sono capi.

La stava avvertendo che quelli non erano i suoi uomini e che non poteva controllarli, capite? E lei si grattò di nuovo dietro l’orecchio e si alzò. Come se non sapesse che cosa fare, incominciò ad aggirarsi dall’uno all’altro di quegli individui impacciati (alcuni arretrarono e tracciarono di nuovo segni nell’aria, e altri sguainarono i coltelli) e riprese a canticchiare la canzoncina, camminando lentamente, più curva e vecchia e inferma di quanto noi l’avessimo mai vista, una donna piccola e indifesa vestita di nero in mezzo a tutti quegli uomini feroci. Un giovane pirata le strappò la cuffia dalla testa, mentre gli passava vicino, e la lasciò con i corti capelli grigi scoperti nel vento; gli altri risero, e il giovane gridò:

— Nonna, non ti vergogni?

— Perché, buon amico? Di che cosa? — chiese la badessa in tono mite.

— Sei sposata con il tuo Cristo — disse lui, tenendo la cuffia dietro la schiena. — Ma il tuo sposo non può difenderti neppure dalla vergogna di restare con la testa scoperta! Se fossi sposata con me, invece…

Ci furono grandi risate. La badessa Radegunde attese che finissero. Poi si grattò la testa scoperta e accennò a voltarsi, ma all’improvviso si girò di nuovo verso il giovane, e la vecchiaia e l’infermità le caddero di dosso come un mantello. Sembrava più alta e maestosa, come se dentro le ardesse un grande fuoco. Lo guardò direttamente in faccia. Ciò che fece noi tutti l’avevamo già visto, naturalmente, ma loro no, e non avevano mai sentito quella voce grandiosa e solenne con la quale a volte ci leggeva le Scritture o ci parlava della collera di Dio. Credo che il giovane si spaventasse, nonostante la sua audacia. E oggi so quel che allora non sapevo: che i norvegesi ammirano soprattutto il coraggio e che, per essere franchi, tutti apprezzano una bella storia, soprattutto se si svolge davanti ai loro occhi.

— Nipote! — La sua voce sembrava la grande campana di Dio, e credo che la sentissero tutti, fino alla palude. — Piccolo nipote, tu credi che il Creatore del Mondo, che ha fatto le stelle e la luna e il sole e i nostri corpi, e l’alternarsi delle stagioni e la terra su cui stiamo, sì, persino la merda nella tua pancia… credi che un essere simile abbia un grande palazzo nel cielo dove tiene le sue mogli e vada a sbatterle come faresti tu o come farebbe il re dei turchi? Non disonorare l’intelligenza della madre che ti ha partorito! Noi siamo le serve di Dio, non le sue spose, e se diciamo alle nostre sciocche ragazze che sono sposate al Cristo, lo diciamo per fargli capire che non devono scappar via per sposare Otto il contadino o Ekkehard il maniscalco, ma continuare la loro opera come hanno promesso. Se dicessi loro che sono sposata a un’Idea, non mi capirebbero, come non mi capisci tu.

(A questo punto padre Cairbre, alla finestra, borbottò in tono di protesta).

Poi la badessa si tolse dal collo il crocifisso d’argento e lo mise nella mano del giovane e disse: — Dallo a mia madre, con la mia pietà. Deve strapparsi i capelli, al pensiero di avere un figlio simile.

Ma il giovane lasciò cadere a terra il crocifisso. Era rosso in faccia e ansimava.

— Raccoglilo — disse più gentilmente la badessa. — Raccoglilo, ragazzo: non ti farà alcun male e non è magico. È soltanto argento puro ben lavorato: ti renderà ricco. — Quando vide che lui non si decideva, e anzi portava la mano al coltello, schioccò tra sé la lingua con fare materno (o almeno credo, perché agitò una mano come faceva sempre quando schioccava la lingua) e s’inginocchiò, esagerando un po’ la difficoltà del movimento, credo, e disse a gran voce: — Allora mi chinerò io, mi chinerò. — E sì rialzò: gli porse il crocifisso e disse: — Prendilo. Per me andranno bene anche due fuscelli legati con uno spago.

Il giovane gridò, con voce spezzata: — Mia madre è morta e tu sei una strega! — Fulmineamente, strinse un braccio intorno al collo della badessa e le puntò il coltello alla gola. Thorvald Einarsson ruggì: — Thorfinn! — Ma la badessa disse soltanto, con voce chiara: — Lascialo fare. Ho svergognato quest’uomo ma non intendevo farlo. Ha diritto d’essere in collera.

Il giovane la lasciò e le voltò la schiena. Ricordo che mi chiesi se quegli stranieri erano capaci di piangere. Più tardi sentii dire (e giuro che la badessa doveva saperlo, chissà come, o l’aveva intuito, perché sebbene non fosse una strega sapeva sondare un uomo fino a scoprire le piaghe nascoste, e molto in fretta) che la madre del giovane aveva avuto fama di adultera, e che nessuno voleva riconoscerlo come figlio. Tra i norvegesi, una cosa è avere quella che la badessa chiamava una concubina, e in tal caso non disprezzano i figli di quelle donne, come facciamo noi, ma è molto diverso quando una donna sposata ha più di un uomo. Era il caso di Thorfinn; immagino che per questo fosse andato vichingo. Ma tutto ciò lo seppi più tardi; ciò che vidi allora, con il naso appena al di sopra del davanzale della finestra, fu che la badessa infilò il crocifisso sull’impugnatura della spada del giovane, come se ci tenesse a regalarglielo, capite, e poi si avviò verso un punto vicino al muro dell’abbazia, ma lontano dai norvegesi. Credo volesse che andassero da lei. La vidi sollevare le gonne come una contadina, sedersi a gambe incrociate e dire a voce alta:

— Venite! Chi vuole mercanteggiare con me?

Alcuni andarono, ridendo, e le sedettero intorno.

— Tutti! — disse lei, invitandoli a gesti.

— E perché dovremmo venire tutti? — disse uno che era più lontano.

— Perché altrimenti perdereste un buon affare — rispose la badessa.

— Perché dovremmo mercanteggiare quando possiamo prendere ciò che vogliamo? — chiese un altro.

— Perché avrete soltanto la metà — disse la badessa. — Il resto non lo troverete.

— Saccheggeremo l’abbazia — disse un terzo.

— Metà del tesoro non è nell’abbazia — disse lei.

— Allora dov’è?

La badessa si batté l’indice sulla fronte. I pirati si stavano avvicinando, a due o tre per volta. In seguito ho sentito dire che i norvegesi amano gli indovinelli, e quello era una specie di enigma: la badessa li divertiva.

— Se è nella tua testa — disse Thorvald, che s’era fermato dietro gli altri, in piedi e a braccia conserte, — possiamo tirarlo fuori, no? — E toccò l’impugnatura del coltello.

— Se mi spaventi, mi confonderò e non ricorderò più nulla — disse con calma la badessa. — Inoltre, vuoi giocare quel vecchio gioco? Hai visto come ha funzionato l’ultima volta. Mi meraviglio di te, fratello della madre di Ranulf.

— Allora contratterò — disse Thorvald con un sorriso.

— E gli altri? — disse Radegunde. — Tutti o nessuno: decidete voi se volete risparmiarmi guai e pericoli e diventare ricchi. — E voltò loro le spalle. Gli uomini si avviarono lungo la riva del fiume e confabularono abbassando le voci, così non li sentimmo più. Padre Cairbre, che era vecchio e miope, gridò: — Non li sento! Cosa stanno facendo? — E io dissi prontamente: — Io ho gli occhi buoni, padre Cairbre — e lui mi sollevò perché vedessi. Apparvi alla finestra proprio nel momento in cui la badessa Radegunde era rivolta verso la torre. Si batté la mano sulla bocca. Poi si avviò alla porta e chiamò (con una voce che avevo imparato a rispettare, per timore degli sculaccioni): — Piccolo Messaggero, scendi! Vieni subito da me! E porta con te padre Cairbre.

Io ero felice. Non immaginavo che lo facesse per cercare di proteggermi, se qualcosa fosse andato male. Il mio unico pensiero era che avrei visto tutto da vicino. Così, semisoffocato, passai tra la folla nella stanza della torre, calpestando piedi e gonne, e ogni due secondi dovevo ripetere: — Ma devo andare! La badessa mi vuole! — E intanto lei, là fuori, gridava come un’imperatrice: — Lasciate passare il bambino! Fate largo al bambino! Lasciate passare il prete irlandese! — fino a che io, spingendo e protestando, arrivai fino al muro (nessuno, naturalmente, aveva intenzione di aprirci la porta), e ci fu un grande trambusto e finalmente qualcuno portò una scala a pioli. Io passai subito, ma il vecchio prete ci mise più tempo, sebbene il muro fosse basso, come ho già detto, perché i costruttori non si erano decisi a trasformare l’abbazia in una vera e propria fortezza.

Fuori era molto meglio, lontano da tutta la gente, e io corsi soddisfatto dalla badessa; lei disse soltanto: — Stammi vicino, qualunque cosa succeda — e immediatamente distolse l’attenzione da me. Padre Cairbre aveva impiegato tanto tempo a uscire che gli stranieri avevano finito di consultarsi e stavano tornando indietro, tutti venti o trenta, verso l’abbazia e la badessa Radegunde, e verso di me. Vidi che padre Cairbre tremava. Avevano un aspetto truce, visti da vicino, con quei lunghi capelli spettinati e gli strani abiti sgargianti. Ricordo che avevano un odore diverso dal nostro; ma non ricordo quale, dopo tutti questi anni. Poi la badessa si rivolse a loro nella loro strana lingua, così bizzarramente leggera e cantilenante sulle loro labbra barbute, e quindi disse qualcosa in latino a padre Cairbre, e lui annunciò, con voce tremante:

— Questo è il prete, padre Cairbre, che ripeterà le nostre contrattazioni nella nostra lingua perché la mia gente possa sentirle. Non posso trattare alle sue spalle. E questo è il mio figliolo adottivo, che mi è molto caro, e che ora, credo, può soddisfare la curiosità. — (Io mi sforzavo di stare eretto come un uomo, ma di nascosto mi aggrappavo con una mano alla gonna della badessa: dunque era di questo che ridevano gli stranieri!) Il discorso continuò, ma io lo riferirò come se avessi compreso il norvegese, perché sarebbe tedioso ripetere tutto due volte. La badessa Radegunde disse: — Allora volete contrattare?

Tutti gli stranieri annuirono, con l’aria di pensare: — Dopotutto, perché no?

— E chi parlerà per voi? — chiese la badessa.

Si fece avanti un uomo: riconobbi Thorvald Einarsson.

— Ah, sì — disse la badessa in tono asciutto. — Il gruppo non ha capi. Il gruppo senza capi è d’accordo? Manterrà l’impegno? Non voglio traditori, non voglio uomini che mancano alla parola!

Vi fu un borbottio generale. Thorvald (com’era grande e grosso, visto da vicino!) disse in tono conciliante: — Io non navigo con uomini del genere. Incominciamo.

Sedemmo tutti quanti.

— Ora — disse Thorvald Einarsson, inarcando le sopracciglia, — se conosco bene come vanno queste cose, incnT,ineerai tu. E se non sbaglio, incomincerai dicendo che siete molto poveri.

— Ma no — rispose la badessa. — Noi siamo ricchi. — Padre Cairbre gemette e un gemito generale gli rispose oltre le mura dell’abbazia. Soltanto la badessa e Thorvald Einarsson sembravano imperturbabili: era come se stessero facendo un gioco che nessun altro capiva. La badessa continuò: — Siamo molto ricchi. Là dentro c’è molto argento, molto oro, molte perle, molte stoffe ricamate e molti tessuti fini, molte sculture di legno, e molti libri con oro sulle pagine e gemme sulle copertine. Tutto questo è vostro. Ma abbiamo di più e di meglio: erbe e medicine, sistemi per impedire che il cibo vada a male, e la conoscenza per guarire i malati; tutto questo è vostro. E abbiamo di più e di meglio anche di questo: abbiamo la conoscenza del Cristo e la perfetta comprensione dell’anima, e anche queste sono vostre, se volete; non dovete far altro che accettarle.

Thorvald Einarsson alzò la mano. — Ci accontentiamo dei primi — disse. — E magari un po’ dei secondi. Così è più pratico.

— E sciocco — disse la badessa educatamente. — Come al solito. — Ancora una volta ebbi l’impressione stranissima che quei due stessero giocando un gioco che gli altri neppure immaginavano. Lei soggiunse: — C’è una cosa che non potrete avere, ed è la più preziosa di tutte.

Thorvald Einarsson la guardò con aria interrogativa.

— La mia gente. La loro sicurezza mi è cara più di me stessa. Non dovrete torcere loro neppure un capello, per nessuna ragione. Pensateci: potrete entrare abbastanza facilmente nell’abbazia con le armi, ma quelli là dentro hanno una gran paura di voi, e alcuni degli uomini sono armati. In una grande folla, anche un esperto guerriero si trova impacciato. Scivolerete e vi cadrete addosso senza volerlo e senza sapere ciò che fate. Date ascolto al mio consiglio. Perché fare i macellai quando potrete ricevere il tesoro come i re, senza dover far nulla? E poi ne avrete ancora altrettanto, quando vi condurrò ai nascondigli. Una montagna di tesori degni di un conte. Pensateci! E rinunciare a tutto questo per gli schiavi, metà dei quali si ammaleranno e moriranno prima che arriviate a casa… e che dovrete sfamare, se vorrete che servano a qualcosa. Vergogna a quelli di voi che non accettano i buoni consigli! Immaginate cosa direte alle vostre mogli e alle vostre famiglie: ecco alcune miserabili pezze di stoffa con macchie di sangue che non si cancellano, ecco perle e gemme ridotte in polvere nel combattimento, ecco un ricamo strappato che era intero fino a quando qualcuno non l’ha calpestato durante la battaglia, e avevo preso diversi schiavi ma sono morti di malattia, e ho sbattuto una suora giovane e graziosa, e volevo portarla con me, ma si è buttata in mare. E si, c’era ben di più, e tutto intero, ma abbiamo deciso di non prenderlo. Era troppo disturbo, vedete.

Era un discorso pittoresco, e i norvegesi si divertivano. Radegunde alzò la mano.

— Gente! — gridò in tedesco, e soggiunse: — Scorridori del mare, ascoltate ciò che vi dico: lo ripeterò nella vostra lingua. — (E così fece.) — Gente, se i norvegesi ci combattono, non difendetevi, ma fracassate tutto! Donne, prendete i vostri coltelli da cucina e fate a pezzi le stoffe preziose! Uomini, con le asce e i martelli distruggete gli altari e le sculture di legno! E tutti quanti, sbriciolate le perle e spaccate le gemme sui pavimenti! Rompete le bottiglie del vino! Calpestate gli oggetti d’oro e d’argento e rendeteli informi! Strappate i libri miniati! Staccate dai muri gli arazzi e bruciateli!

«Ma — continuò con voce improvvisamente blanda, — se questi uomini saranno così saggi da accettare i nostri doni, ammucchiamo tutto ciò che abbiamo ai loro piedi, senza nascondere nulla, perché i loro parenti ammirino con stupore la splendida ricchezza che porteranno, anche se a noi non resteranno altro che i nostri muri spogli.

Se qualcuno aveva mai dubitato che la badessa Radegunde fosse ispirata da Dio, ogni dubbio dovette dileguarsi in quel momento: chi poteva resistere al vigore ardente del suo primo discorso, o all’unzione benevola del secondo? I norvegesi erano rimasti a bocca aperta. Vidi che le guance di padre Cairbre erano rigate di lacrime. Poi Thorvald disse: — Badessa…

S’interruppe. Ritentò, ma s’interruppe di nuovo. Poi si scosse, come per liberarsi da un incantesimo, e disse:

— Badessa, i miei uomini sono senza donne da molto tempo.

Radegunde lo guardò con aria sorpresa. Sembrava non riuscisse a credere a ciò che aveva udito. Squadrò il pirata, perplessa, e poi gli girò intorno come per misurarlo. Lo fece più volte, guardando ogni parte di quel corpo colossale mentre lui diventava sempre più rosso. Finalmente indietreggiò, lo squadrò ancora una volta e, con le braccia conserte come una contadina, annunciò a gran voce, in norvegese e in tedesco:

— Cosa? Hanno perso l’uso delle mani?

A suo modo era irresistibile. I norvegesi risero. I nostri risero. Rise persino Thorvald. E risi anch’io, sebbene non sapessi di cosa stavano ridendo tutti. L’ilarità si smorzò, e poi ricominciò dietro le mura dell’abbazia, irresistibilmente, e si spense ancora e ancora ricominciò. La badessa attese fino a quando i norvegesi smisero di ridere e poi gridò in tedesco per imporre silenzio, fino a che si sentì solo qualche risatina qua e là. Poi disse:

— Questi bravi uomini… padre Cairbre, riferiscilo alla gente… questi bravi uomini mi perdoneranno la mia sciocca battuta. In verità non volevo dar scandalo od offendere qualcuno; ma l’ilarità fa bene, assesta le acque del corpo, come dicono i medici. E i miei sanno che non sempre sono solenne e buona come dovrei. Anzi, sono una grande peccatrice e causa di scandalo. Thorvald Einarsson, siamo d’accordo?

L’omaccione (che non era divertito quanto gli altri, posso assicurarvelo!) guardò i suoi e sembrò capire quello che voleva sapere. Disse: — Entrerò con cinque uomini per vedere che cosa avete. Lasceremo andare quella povera gente nel cortile, ma non quelli che stanno dentro l’abbazia. Poi cercheremo ancora. Le porte saranno chiuse e sorvegliate dai miei; se ci sarà qualche tradimento, il patto non avrà più valore.

— Verrò con voi — disse Radegunde. — È molto giusto e la mia presenza calmerà la gente. Vederci insieme li rassicurerà, e capiranno che non succederà niente di male. Sei un uomo buono, Torvald… perdonami, ti ho chiamato come faceva tanto spesso tuo nipote. Vieni, Piccolo Messaggero, resta con me.

«Aprite la porta! — gridò poi. — Non c’è pericolo! — E con i cinque uomini (uno era il giovane Thorfinn che aveva inveito contro di lei) attendemmo mentre i grandi tronchi venivano rimossi. All’interno c’era poco spazio, ma la gente si ritrasse alla vista dei terribili guerrieri e ci aprì un varco.

Mi voltai indietro. I norvegesi erano entrati e s’erano fermati appena all’interno del muro, ai due lati della porta, con le spade sguainate e gli scudi imbracciati. La folla si aprì più lentamente per lasciarci passare quando raggiungemmo la torre principale, mentre la badessa ripeteva di continuo: — State calmi, state calmi. Va tutto bene — e si rivolgeva a questo e a quello chiamandoli per nome. Fu molto più difficile quando la gente soffocò le grida nel sentire i grossi tronchi che si chiudevano con un rombo di tuono, e noi eravamo vicinissimi alla scala: le sentii dire qualcosa in quella strana lingua straniera; sembrava una frase di scusa. Qualcosa che probabilmente significava: — Mi dispiace, ma dobbiamo attendere. — Sembrò che passasse un secolo prima che la scala si sgombrasse in parte, e io capii ciò che aveva inteso la badessa quando aveva parlato dell’impaccio causato dalla gente: un uomo poteva mulinare l’arma in mezzo alla folla, ma non molto, e probabilmente avrebbe finito per cadere addosso a qualcuno. Raggiungemmo la grande sala con l’enorme crocifisso di legno dipinto e quello piccolo di oro e perle, e i drappi scarlatti ricamati di fili d’oro, dietro i quali avevo giocato tante volte ai briganti prima di scoprire cosa fossero i briganti veri: quegli uomini alti e spaventosi, i cui occhi luccicavano di avidità nel vedere ciò che immaginavano avesse ogni villaggio. Quasi tutte le suore erano rimaste nella grande sala; ma era meno affollata, perché tutti si erano raccolti intorno alle pareti all’ingresso dei norvegesi. Le ragazze più giovani erano tutte in un angolo, terrorizzate (si sentiva l’odore, come si può sentire sempre), e quando il giovane Thorfinn andò per prendere il piccolo crocifisso d’oro e di perle, suor Sibihd gridò con voce alta e spezzata: — È il corpo di nostro Signore! — e spiccò un balzo, staccandolo dalla parete prima che lui potesse afferrarlo.

— Sibihd! — esclamò la badessa, con una voce brusca come non l’avevo mai sentita. — Rimettilo al suo posto, o sentirai il peso della mia mano, ti assicuro!

Ecco, è strano, no?, che una giovane donna abbastanza disperata per non temere la morte per mano d’un pirata norvegese si spaventasse per la minaccia di qualche schiaffo della sua badessa? Ma la gente è così. Suor Sibihd rimise il crocifisso al suo posto (e il giovane Thorfinn lo prese) e arretrò in mezzo alle suore, singhiozzando: — Quello sconsacra il nostro Dio!

— Sciocca! — esclamò la badessa. — Dio solo può consacrare o sconsacrare: l’uomo non può. Quello è un pezzo di metallo.

Thorvald disse qualcosa a Thorfinn, bruscamente, e quello riappese controvoglia il crocifisso al gancio, con un’espressione truce che sembrava dire: nessuno mi dà mai quello che voglio. Non successe niente altro di particolare nella grande sala o nello studio della badessa o nei magazzini, e neppure nelle cucine. I norvegesi erano taciturni e tenevano le mani sulle spade, ma la badessa continuava a parlare con calma in entrambe le lingue. Ai nostri diceva: — Vedete? Va tutto bene, ma dovete stare fermi e zitti. Dio ci proteggerà. — Il suo viso era sereno e tranquillo, e io pensavo che era una santa, perché aveva salvato suor Sibihd e noi tutti.

Ma quella atmosfera pacifica, naturalmente, non durò. Era inevitabile che qualcosa andasse male, in mezzo a quella folla; ancora oggi non so che cosa accadde. Eravamo in un angolo del lungo refettorio, il posto dove mangiano in un’abbazia le suore o i frati, quando qualcosa mi spinse contro il muro e io caddi, quasi soffocato dal peso della badessa che mi gravava addosso. La testa mi risuonava e da tutte le parti c’era un vociare tremendo, bestemmie e grida, un tumulto spaventoso come se i muri stessero andando a pezzi e crollassero addosso a tutti. Sentii la badessa che ripeteva bisbigliando qualcosa in latino, al mio orecchio. C’erano suoni sordi e flaccidi, più tremendi del resto, e oggi so che era il rumore che fa l’acciaio mentre penetra nella carne. Tutto questo apparve continuare per l’eternità: e poi ebbi l’impressione che il pavimento fosse bagnato. Infine venne il silenzio. Sentii la badessa Radegunde che si sollevava. Disse:

— Dunque è così che lavate i pavimenti, nel nord. — Quando alzai la testa della canne e vidi che cosa intendeva, vomitai nell’angolo. Poi lei mi prese tra le braccia e mi tenne con la faccia sul suo seno in modo che non vedessi, ma era inutile, perché avevo già visto: tutti quelli stesi a terra con le budella di fuori, come mucchi di pesci morti, il vecchio Walafrida con il manico di una scure che gli spuntava dal petto, seduto a occhi chiusi in una tale calca di cadaveri che non era neppure caduto disteso, e la giovane apicoltrice del villaggio, Uta, che era sempre così allegra, stesa riversa con le lunghe trecce e la veste intrisa di rosso e una grande macchia sul ventre. Respirava in fretta e aveva gli occhi sbarrati. Quando le passammo accanto, il suono del suo respiro cessò.

La badessa disse in tono mite: — I suoi sono molto pericolosi, conte Spaccabudella.

Thorvald Einarsson ci urlò qualcosa e la badessa rispose a voce bassa: — Perdonami, mio buon amico. Hai protetto me e il bambino, e te ne sono grata. Ma nulla tradisce la conoscenza del tedesco come una parola che morde, non è così? E dovevo essere sicura.

Allora ricordai che l’aveva chiamato Torvald e gli aveva rammentato il figlio della sorella, in modo che lui si sentisse in dovere di proteggerci se fosse successo qualcosa. Ma adesso l’avrebbe fatto infuriare, pensai, e chiusi gli occhi. Invece Thorvald rise e disse, in uno strano tedesco: — Non ho fatto altro che difendere te e il tuo cucciolo. Non sei riconoscente?

— Oh, moltissimo, ti ringrazio — disse la badessa, con lo stesso calore che avrebbe usato per una suora che le avesse portato una rosa dal giardino, o per un’altra che avesse copiato bene il suo lavoro, o quando io le portavo una notizia, oppure se Ita la cuoca preparava una buona minestra. Ma Thorvald non sapeva che quel calore era per tutti, e quindi sembrava soddisfatto. Ormai eravamo arrivati nel giardino, e l’aria era meno irrespirabile; la badessa mi mise giù, sebbene tremassi; e mi aggrappai alla sua gonna gualcita e incrostata di sangue. Lei disse: — Oh, mio Dio, che bucato ci hai imposto! — Si avviò verso il portone, e Thorvald Einarsson si mosse per seguirla. Senza voltarsi indietro, lei disse: — Non insistere, Thorvald, non c’è motivo di rinchiudermi. Ho quarant’anni e non posso certo fuggire nella palude, con i miei reumatismi e i dolori alle ginocchia e la mia gente che ha tanto bisogno di me.

Ci fu un momento di silenzio. Vidi un’espressione strana passare sulla faccia dell’uomo. Disse sottovoce:

— Non ho parlato, badessa.

Lei si voltò, sorpresa. — Hai parlato. Ti ho sentito.

Thorvald disse in tono strano: — Non ho parlato.

Certe volte i bambini capiscono al volo quando qualcosa non va e sanno rimediare; ricordo che dissi, molto in fretta: — Oh, a volte lei fa così. La mia matrigna dice che la vecchiaia le confonde le idee. — E poi chiesi: — Badessa, posso andare dalla mia matrigna e da mio padre?

— Sì, certo — disse lei. — Su corri, Piccolo Messaggero… — E poi s’interruppe, guardò nell’aria come se vi vedesse qualcosa che noi non potevamo vedere. Quindi disse, con molta dolcezza: — No, mio caro, è meglio che resti qui con me. — E allora capii, come se l’avessi visto con i miei occhi, che non dovevo andare dalla mia matrigna e da mio padre perché erano morti.

Lei era così, qualche volta.

Per un po’, sembrò che fossero morti tutti. Non mi sentivo addolorato o spaventato, ma credo che lo fossi, perché avevo in mente una sola idea: sarei morto anch’io se avessi perso di vista la badessa. Perciò la seguii dovunque. Lasciavano che andasse di qua e di là a confortare la gente, soprattutto Sibihd, che era impazzita e non faceva altro che dondolarsi e gemere; ma verso l’imbrunire, quando l’abbazia era stata ormai spogliata dei suoi tesori, Thorvald Einarsson portò me e la badessa nello studio dov’era rimasto soltanto un pagliericcio, e sprangò la porta dall’esterno. La badessa mi disse:

— Piccolo Messaggero, ti piacerebbe andare a Costantinopoli, dove sta il sultano turco e ci sono le cupole d’oro e tutti i pagani splendenti? Perché è là che quest’uomo mi porterà per vendermi.

— Oh, sì! — dissi io. E poi chiesi: — Ma porterà anche me?

— Certo — rispose la badessa, e non ne parlammo più. Poi entrò Thorvald Einarsson e disse:

— Thorfinn chiede di te. — Più tardi scoprii che stavano aspettando che morisse: nessun altro dei norvegesi era stato ferito, ma un contadino aveva sfondato il petto di Thorfinn con un’ascia, e si pensava che sarebbe morto prima dell’indomani mattina. La badessa disse:

— È una buona ragione per andare? — E soggiunse: — Voglio dire, mi odia. La collera per la mia presenza non lo farà peggiorare?

E Thorvald rispose: — La gente di qui dice che sei capace di assistere i malati e guarirli. È vero?

— No, affatto, per quello che ne so — disse la badessa Radegunde. — Ma se loro lo credono, forse questo li tranquillizza e li fa star meglio. I cristiani sono sciocchi quanto gli altri popoli, lo sai. Verrò, se vuoi — e benché vedessi che era pallida per la stanchezza, si alzò in piedi. Devo aggiungere che indossava la semplice veste marrone di una delle contadine, perché la sua era a lavare; ma per me aveva la stessa maestà di sempre. E anche per Thorvald, credo.

Thorvald chiese: — Pregherai per lui o lo maledirai?

— Io non prego, e non maledico mai nessuno. Assisto e basta — disse la badessa, e soggiunse: — Oh, lascialo venire, altrimenti urlerà da spaccarti gli orecchi. — E si riferiva a me, perché ero pronto a gridare come un pazzo se avessero cercato di allontanarmi da lei.

Avevano messo Thorfinn nella cappella, un piccolo locale di pietra dove ormai non era rimasto altro che una semplice croce di legno, troppo priva di valore perché valesse la pena di rubarla. Era steso ad occhi chiusi vicino all’altare, su uno strato di pellicce, e aveva la faccia cinerea. Ogni volta che respirava si sentiva una specie di gorgoglio, un suono flebile e sottile; e quando mi avvicinai capii il perché. Nel petto del giovane c’era un grande squarcio rosso da cui spuntavano schegge rosa acuminate, e nello squarcio si vedeva qualcosa che sobbalzava e si abbassava, sobbalzava e si abbassava. Era il suo cuore che batteva. Dalla bocca gli usciva una bava di sangue. Non so, naturalmente, che cosa dicessero perché parlavano in norvegese; ma vidi che cosa facevano e poi ne sentii parlare molto, più tardi, fra la badessa e Thorvald Einarsson. Perciò lo racconterò come se lo sapessi.

La prima cosa che fece la badessa fu fermarsi all’improvviso sulla soglia e portarsi le mani alla bocca, come in un gesto d’orrore. Poi gridò furiosamente alle due guardie:

— Volete far morire il vostro compagno di freddo e di umidità? È così che vi trattate fra di voi? Portate qui un po’ di fuoco, e qualche panno di lana da mettergli addosso! No, non altre pelli, idioti, ma lana che aderisca addosso e assorba l’umidità. Presto, andate!

Uno degli uomini ribatté stizzito: — Non prendiamo ordini da te, nonna.

— Ah no? — disse la badessa. — Allora mi toglierò questa veste di lana e la metterò addosso al ragazzo, e me ne starò qui seduta tutta la notte, nuda e flaccida e vecchia come sono! Che cosa dirà lo spirito di questo giovane quando entrerà nel Valhall? Che i suoi amici non hanno voluto cedergli una piccola parte del loro bottino per aiutarlo a lottare per la vita? È questo il vostro cameratismo? Sbrigatevi, o mi spoglierò e vi svergognerò entrambi per il resto della vostra vita!

— Bene, prendi i panni dalla sua parte del bottino — disse quello che aveva la voce bassa, e l’altro corse fuori. Poco dopo c’era un fuoco acceso nel camino; e l’uomo portò un panno di lana color ruggine («Della mia parte di bottino» disse uno dei due a voce alta, sebbene fosse uno dei colori meno costosi, non come il blu e il rosso) e la badessa lo drappeggiò leggermente addosso al giovane, accostandoglielo con cura ai fianchi ma senza muoverlo. Non sembrava che Thorfinn soffrisse, ma il colorito non migliorò. Ma poi aprì gli occhi e disse con un filo di voce, come uno spettro, un bisbiglio esile e gorgogliante come il suo respiro:

— Tu… vecchia strega. Ma ti ho battuto… alla fine.

— Sì, mio caro? — chiese la badessa. — Come?

— Il tesoro — disse lui, — per i miei parenti. E finalmente sono vissuto da uomo. Ho combattuto… e ho avuto una donna… quella con i grossi seni, Sibihd… Le piacesse o no. È stato bello.

— Già, Sibihd — disse la badessa in tono mite. — Sibihd è impazzita. Non ascolta nessuno e non parla con nessuno. Sta seduta e si dondola e geme e si sporca e non vuol mangiare, anche se inghiotte quando la si imbocca con un cucchiaio.

Il giovane cercò di aggrottare la fronte. — Stupida — disse finalmente. — Stupide suore. Le bestie fanno così.

— Davvero? — chiese la badessa, come se per lei fosse un’idea nuova. — Questo è molto strano. Perché non ho mai sentito che un papero faccia un occhio nero all’oca o le dia una botta in testa con una pietra o le pianti un coltello nella pancia, quando ha finito. Quando Dio mette nei loro cuori il desiderio, l’oca si acquatta e il papero arriva di corsa. E una cagna in calore balza dalla finestra se le chiudi la porta. Poveri stolti! Perché non vi siete accampati a tre ore da qui, più a valle, e non avete aspettato? In meno d’una settimana tutte le giovani spose del villaggio sarebbero venute la notte di nascosto a vedere com’erano gli stranieri. Sì, e anche molte nubili e persino qualcuna delle mie ragazze. Ma non potevate aspettare, vero?

— No — disse il giovane, con l’ombra d’un tono baldanzoso. — Meglio… così.

— Così — disse lei. — Oh, sì, mio caro, la vecchia nonna sa bene com’è. Il piacere per il tempo di contare fino a tre o quattro, e il resto è divertente come far rotolare un pietrone su per un pendio.

Thorfinn sorrise, un sorriso spettrale. — Sei una puttana, nonna.

La badessa incominciò ad accarezzargli la fronte. — No, nipotino — disse. — Ma non tutto il latino è quello dei padri della Chiesa, sai, per quanto siano grandi. Si possono trovare molte cose negli strani libri scritti da autori vissuti molti secoli prima della nascita di nostro Signore. Ascolta. — E si piegò verso di lui e disse, a voce bassa:

«Danzatrice siriana, con quale incanto
fai ondeggiare le membra sinuose,
semiubriaca nella taverna fumosa,
lasciva e sguaiata,
con i lunghi capelli legati all’indietro
alla moda greca, e fai schioccare
le nacchere tra le dita…

Il giovane era troppo debole e non fece altro che guardarla sorpreso. Allora la badessa disse:

— Mi sembra un dio chi può sederti accanto e parlarti; quando ti sono vicina il mio spirito si spezza, il mio cuore trema, la mia voce si spegne, e non posso neppure parlare. Ardo sotto la pelle e non posso vedere; c’è un rombo nei miei orecchi e io sudo come per la febbre; divengo più pallida dell’erba tagliata e mi sento completamente trasformata: e so che la Morte mi è venuta vicina.

Il giovane disse, in tono spaventato: — Nessuno prova tutto questo.

— Sì, invece — disse la badessa.

E lui, allarmato: — Stai cercando di uccidermi!

— No, mio caro. Non voglio, semplicemente, che tu muoia vergine.

Era strano, il fatto che lui dicesse così e continuasse a tenere la mano che aveva afferrato attraverso il panno di lana. Lei gli accarezzò la testa e il giovane bisbigliò: — Salvami, vecchia strega.

— Farò del mio meglio — disse la badessa. — Tu farai del tuo meglio non parlando, e io non tormentandoti più, e tutti e due cercheremo di dormire.

— Prega — disse Thorfinn.

— Bene — disse lei. — Ma ho bisogno d’una sedia. — E le guardie, forse perché vedevano che lui le teneva la mano, portarono uno dei grandi scranni di legno dell’abbazia, che erano troppo semplici e pesanti per portarli via, credo. Allora la badessa Radegunde sedette e chiuse gli occhi. Thorfinn parve addormentarsi. Mi avvicinai a lei, sul pavimento; probabilmente mi addormentai quasi subito, perché all’improvviso mi accorsi che una luce grigia entrava nella cappella, il fuoco si era spento, e qualcuno stava scuotendo Radegunde che dormiva ancora sul seggio, con la testa piegata da un lato. Era Thorvald Einarsson, e gridava eccitato nel suo strano tedesco: — Donna, come hai fatto? Come hai fatto?

— Che cosa? — domandò la badessa con voce impastata. — È morto?

— Morto? — esclamò il norvegese. — È guarito! Guarito! Il polmone è risanato e la ferita si è chiusa e le costole rotte si sono saldate! Persino i muscoli del petto stanno incominciando a rimarginarsi!

— Bene — disse la badessa, ancora semiaddormentata. — Lasciami in pace.

Thorvald la scosse di nuovo, e lei ripeté: — Oh, lasciami dormire! — Questa volta il norvegese la sollevò in piedi di peso e lei gridò: — La mia schiena, la mia schiena! Oh, per tutti i santi, i miei reumatismi! — E nello stesso istante una voce sofferente, sotto il panno di lana, una voce sofferente ma di un uomo, non di uno spettro, disse qualcosa.

— Sì, ti sento — disse la badessa. — Vuoi diventare subito seguace del Cristo Bianco, in questo momento. Ma, Domine noster, ti prego di far capire a queste teste cocciute che ho bisogno d’una tinozza d’acqua calda con dentro la menta romana! Sono troppo vecchia per dormire tutta la notte su una seggiola, e sono indolenzita dalla testa ai piedi.

La voce di Thorfinn divenne più forte.

— Riferiscigli — disse in tedesco la badessa Radegunde a Thorvald, — che non lo battezzerò e non lo assolverò fino a che non sarà cambiato. Quel ragazzino vuole soltanto qualcuno più potente del vostro dio Odin o del vostro dio Thor, che lo tolga dai guai alla prossima occasione. Chiedetegli questo: adotterà Sibihd come sorella? La pulirà quando s’insozza e l’imboccherà e le cingerà le spalle con il braccio, parlandole con affetto e gentilezza fino a quando sarà guarita? Il Cristo non cancella i nostri peccati solo perché li commettiamo daccapo; e questo è ciò che vuole e che voi tutti volete, un Dio che dona e dona e dona, ma Dio non dona: Dio prende e prende e prende. Toglie tutto ciò che non è Dio fino a quando non resta altro che Dio, e nessuno di voi lo capirà! Non esiste la remissione dei peccati; esiste soltanto il cambiamento, e Thorfinn deve cambiare prima che Dio lo accetti.

— Badessa, sei molto eloquente — disse Thorvald con un sorriso. — Ma perché tutto questo non glielo dici tu?

— Perché sono tutta dolorante — rispose Radegunde. — Oh, fatemi immergere nell’acqua calda! — E Thorvald la sostenne mentre lei usciva zoppicando. Quella mattina, dopo che ebbe fatto il bagno caldo (mi lasciarono stare davanti alla porta, quando piansi e gridai) incominciò a curare Sibihd, prima cullandola fra le braccia e parlandole per dirle che adesso era al sicuro e promettendole che presto i norvegesi se ne sarebbero andati; e poi, quando Sibihd si calmò un poco, la condusse a passeggiare nel bosco, con Thorvald che ci scortava per assicurarsi che non scappassimo via, e la piccola, bruna suor Hedwic, che era sempre rimasta con Sibihd ad assisterla. La badessa camminava per un po’ sotto il mite sole d’autunno, e poi sollevava verso l’alto il viso di Sibihd, toccandola gentilmente sotto il mento, e diceva: — Vedi? Il cielo di Dio c’è ancora — e poi: — Guarda, ecco gli alberi del buon Dio; non sono cambiati — e le diceva che il mondo era come prima e che Dio era ancora misericordioso, anche se alcune altre anime avevano raggiunto i beati ed erano più felici ad attenderci lassù in Paradiso di quanto noi avremmo potuto esserlo o illuderci di esserlo sulla povera Terra. Suor Hedwic teneva la mano di Sibihd. Nessuno mi prestava più attenzione che se fossi stato un cane, ma ogni volta che la povera suor Sibihd vedeva Thorvald si ritraeva, e si capiva benissimo che Hedwic non sopportava di guardarlo; ogni volta che lo scorgeva distoglieva il viso, chiudeva con forza gli occhi e si mordeva il labbro inferiore. Era una giornata serena, quasi calda, come capitano a volte in autunno, e la badessa trovò qualche fiorellino azzurro ritardatario in un angoletto riparato vicino a un tronco, e lo mise nelle mani di Sibihd, dicendo che Dio aveva fatto tante cose belle. Suor Sibihd aveva abbastanza presenza di spirito per tenere stretti i fiori, ma teneva gli occhi fissi, e sarebbe inciampata e caduta se Hedwic non l’avesse guidata.

Suor Hedwic disse timidamente: — Forse soffre perché è stata contaminata, badessa. — Aveva l’aria di vergognarsi molto. Per un momento la badessa guardò con occhi acuti la giovane suor Hedwic e poi ia povera Sibihd. Quindi disse:

— Cara figlia Sibihd e cara figlia Hedwic, ora vi dirò qualcosa di me stessa che non ho mai detto ad anima viva eccettuato il mio confessore. Sapete che da giovane studiai ad Avignone, e poi fui mandata a Roma, per imparare di più? Ebbene, ad Avignone lessi molto i nostri padri della Chiesa, ma anche i poeti pagani, perché ha detto giustamente Ermenrich di Ellwagen, come il letame sparso su un campo l’arricchisce perché dia un maggiore raccolto, così è impossibile produrre l’eloquenza divina senza gli scritti immondi dei poeti pagani. Ciò è vero, ma anche pericoloso; tuttavia io non la pensavo così perché ero molto orgogliosa e credevo che se le poesie pagane non mi facevano nessuna impressione, era così perché avevo ricevuto il dono della castità da Dio stesso, e disprezzavo i piaceri sensuali e coloro che ne erano tentati. Avevo dimenticato, capite, che la castità non viene donata una volta per tutte come un anello nuziale che vien messo per non essere mai tolto; è invece un giardino che ogni giorno dev’essere sarchiato, innaffiato e potato, altrimenti ben presto rimangono soltanto rovi e sterpi.

«Come ho scoperto, le parole dei poeti non mi tentavano, perché le parole sono soltanto segni sulla pagina e non hanno altra vita che quella che prestiamo loro. Ma a Roma non c’erano soltanto i vecchi libri, figlie mie; c’era ben di peggio.

«C’erano le statue. Ora, dovete capire che non sono come quelle che potete immaginare leggendo i nostri libri, come san Giovanni o la Madonna; gli antichi erano così abili nel lavorare la pietra che era come una magia. Tu stai davanti al marmo e trattieni il respiro, aspettandoti che si muova e parli. Non sono affatto statue, ma donne e uomini nudi e bellissimi. È una città piena di dei marini che versano l’acqua, figlia Sibihd e figlia Hedwic, di atleti che lanciano il disco, di corridori e lottatori e giovani imperatori e favoriti dei re: ma non camminano per le strade come uomini veri, perché sono tutti di pietra.

«C’era un Apollo, tutto nudo, e sapevo che non avrei neppure dovuto guardarlo, ma trovavo sempre qualche scusa con le mie compagne per passargli accanto: e quella statua, sebbene fosse lontana tre miglia dal luogo dove abitavo, mi attirava come per magia. Oh, era così bello! Più bello di qualunque giovane che oggi viva in Germania o in tutto il mondo, credo. E allora ricordai tutti i vecchi amori dei poeti pagani: Didone ed Enea, e Venere e Marte presi nella rete, l’amore della luna, Diana, per il pastore adolescente… e pensai che se la mia statua avesse preso vita, avrebbe pronunciato le dolcissime parole d’amore dei vecchi poeti, e sarebbe stato un essere saggio e valoroso, e quale donna avrebbe saputo resistergli?

A questo punto la badessa si fermò e guardò suor Sibihd, ma Sibihd continuava a fissare il vuoto e a tenere in mano i fiorellini azzurri. Invece suor Hedwic chiese, premendosi la mano sul cuore:

— Tu pregavi, badessa?

— Pregavo — disse Radegunde in tono solenne. — Ma le mie preghiere si trasformavano in qualcosa d’altro. Chiedevo d’essere liberata dalla tentazione che era nella statua, e allora, naturalmente, dovevo pensare alla statua, e mi dicevo che dovevo fuggire come la ninfa Dafne, per corazzarmi e ripararmi in una pianta di alloro; ma sembrava che i miei piedi fossero già radicati al suolo, e solo all’ultimo minuto riuscivo a fuggire e a riprendere le preghiere. Ma ogni volta diventava più difficile, e finalmente venne il giorno che non fuggii più.

— Tu, badessa? — esclamò Hedwic, sconvolta. Thorvald, che ci sorvegliava da una certa distanza, aveva l’aria sorpresa. Io ero molto soddisfatto: mi piaceva vedere che la badessa sbalordiva la gente, era uno dei suoi doni, e a sette anni non conoscevo la lussuria, sapevo soltanto che qualche volta mi faceva piacere toccare le mie cosine quando dovevo spander acqua: e questo cosa c’entrava con le statue che si animavano o con le donne che si trasformavano in piante d’alloro? A me interessava di più la pazza Sibihd, come succede ai bambini; non sapevo che cosa avrebbe potuto fare, o se dovevo averne paura, o che cosa avrei provato se fossi ammattito anch’io. Ma la badessa rideva dolcemente dello stupore di Hedwic.

— Perché io no? — chiese. — Ero giovane e sana, e non avevo una speciale grazia di Dio più di quanta ne abbiano le galline e le mucche! Ardevo tanto di desiderio per quel giovane, bellissimo eroe (perché così lo vedevo nella mia mente, come può fare una donna con un uomo che ha incontrato qualche volta per la via) che il suo pensiero mi tormentava nel sonno e nella veglia. Mi sembrava che a causa dei miei voti non avrei potuto darmi ad Apollo di mia volontà. Perciò sognavo che mi prendeva contro il mio volere e… oh, era un piacere squisito!

A questo punto Hedwic diventò tutta rossa e si coprì il viso con le mani. Vidi che Thorvald sogghignava, mentre ci sorvegliava da una certa distanza.

— E poi — disse la badessa, come se non avesse visto né l’una né l’altra, — mi prese la tremenda paura che Dio mi punisse mandando uno stupratore che avrebbe usato illecitamente di me, come avevo sognato che facesse il mio Apollo, e temevo che allora non avrei neppure voluto resistergli e avrei provato i piaceri della vile lussuria, e da allora sarei stata una puttana e una falsa monaca. Questa paura mi tormentava e mi attraeva. Incominciai a guardare furtivamente i giovani per le vie, senza che le mie sorelle se ne accorgessero; e mi domandavo: sarà lui? Oppure lui? O lui?

«E poi accadde. Mi ero attardata staccandomi dalle altre al banchetto d’un venditore di meloni, e non pensavo ad Apollo o agli eroi bellissimi, ma soltanto alla cena in convento, quando vidi le mie compagne sparire dietro l’angolo. Affrettai il passo per raggiungerle, e sbagliai a svoltare. Mi trovai all’improvviso in una viuzza stretta, e in quel momento un giovane mi afferrò per la veste e mi gettò a terra! Vi chiederete perché facesse una simile pazzia; ma come seppi più tardi, a Roma vi sono prostitute che sfoggiano il nostro abito per soddisfare gli appetiti degli uomini così depravati da… bene, ecco, non so come dirlo! Vedendomi sola aveva pensato che fossi una di loro e che sarei stata lieta di trovare un cliente e un po’ di spasso. Quindi il suo comportamento aveva una spiegazione.

«Dunque ero lì a terra con quel giovane, mandato per vendetta da Dio, pensavo, che cercava di fare esattamente ciò che per notti e notti avevo sognato che facesse la mia statua. E sapete, non era affatto come nei miei sogni! I sassi sotto la schiena, tanto per cominciare, facevano un male terribile. E invece di squagliarmi per il piacere, urlavo a perdifiato per il terrore e gli sferravo calci mentre quello cercava di sollevarmi le gonne, e pregavo Dio che quel pazzo non mi spezzasse le ossa nella sua furia!

«Le mie grida fecero accorrere molta gente, e il giovane fuggì via. Così mi rialzai senza altri danni che la schiena indolenzita e una storta al ginocchio. Ma la cosa più strana fu che, sebbene guarissi per sempre dal desiderio lussurioso per il mio Apollo, cominciai ad essere tormentata da una paura nuova… la paura di aver desiderato lui, quello stolto giovane dall’alito fetido e con un dente mancante… e sentivo strani brividi e fremiti che erano un po’ desiderio e un po’ timore e un po’ disgusto e vergogna e tante, tante altre cose: e non somigliava affatto alla bramosia ardente che avevo provato per il mio Apollo. Andai a vedere ancora una volta la statua, prima di lasciare Roma, e mi sembrò che mi guardasse con tristezza, come per dire: non dare la colpa a me, povera ragazza; io sono soltanto un pezzo di marmo. E quella fu l’ultima volta che fui tanto orgogliosa da credere che Dio mi avesse prescelta per un dono speciale come la castità, o per uno speciale peccato; e smisi di credere che venir gettata a terra e malmenata avesse qualcosa a che vedere con il mio peccato, per quanto avessi confuso le due cose nella mia mente. Oserei dire che non l’hai trovato molto piacevole ieri, vero?

Hedwic scrollò la testa. Piangeva in silenzio. Poi disse: — Grazie, badessa — e la badessa l’abbracciò. Sembravano tutte e due più serene; ma poi all’improvviso Sibihd mormorò qualcosa, a voce così bassa che nessuno poté sentire cosa diceva.

— Il… — bisbigliò, e poi lo disse, ma era ancora un sussurro: — Il sangue.

— Quale, cara? Il tuo sangue? — chiese Radegunde.

— No, madre — disse Sibihd, e incominciò a tremare. — Il sangue. Su noi tutti. Walafrid e… e Uta… e suor Hildegarde… e tutti straziati e sventrati. E nessuno di noi aveva fatto nulla, ma io lo sentivo addosso a me, e i bambini urlavano perché venivano calpestati, e quei demoni erano usciti dall’inferno anche se non avevamo fatto niente e… e… capisco, madre, tutto il resto, ma non lo dimenticherò mai, mai, oh, Gesù Cristo, è tutto intorno a me adesso, oh, madre, il sangue!

Poi suor Sibihd cadde in ginocchio sulle foglie e incominciò a urlare; non si coprì la faccia come aveva fatto suor Hedwic, ma guardava fisso davanti a sé con gli occhi sbarrati come se fosse cieca o vedesse qualcosa che noi non potevamo vedere. La badessa s’inginocchiò e l’abbracciò, la cullò e disse: — Sì, sì, cara, ma siamo qui; ora siamo qui; ormai è tutto passato. — Ma Sibihd continuò a urlare, tappandosi gli orecchi come se l’urlo fosse di un’altra e lei non volesse sentirlo.

Thorvald, mi parve, sembrava un po’ a disagio. Chiese: — Il vostro Cristo non può guarirla?

— No — rispose la badessa. — Si può guarire solo annullando il passato. E questa è l’unica cosa che Lui non fa mai. Ora Sibihd è all’Inferno e dovrà ritornarvi molte volte prima di poter dimenticare.

— Non sarebbe una buona schiava — disse il norvegese, lanciando un’occhiata a suor Sibihd, che adesso taceva e aveva ripreso a guardare fissamente davanti a sé. — Non dovrai temere che qualcuno la voglia.

— Dio è misericordioso — disse con calma la badessa Radegunde.

Thorvald Einarsson disse: — Badessa, io non sono un uomo malvagio.

— Per essere un uomo buono — disse la badessa, — frequenti pessime compagnie.

Lui rispose rabbiosamente: — Non sono stato io a scegliere i miei compagni! Ho avuto sfortuna!

— E noi ne abbiamo avuta ancora di più, credo — disse la badessa.

— La fortuna è la fortuna — commentò Thorvald stringendo i pugni. — Capita a certa gente e non ad altri.

— Come voi siete capitati qui — disse Radegunde in tono mite. — Sì, sì, capisco, Thorvald Einarsson: si può dire che la fortuna sia opera di Thor o di Odin, ma devi sapere che la nostra sventura è stata opera vostra e non di qualche dio. Voi siete la nostra sfortuna, Thorvald Einarsson. È vero che tu non sei malvagio come i tuoi amici, perché quelli uccidono per il piacere di farlo mentre tu lo fai senza sentimenti, come se mietessi il grano. Forse oggi hai visto un po’ del grano che hai falciato. Se avessi l’anima di un uomo, non saresti andato vichingo, fortuna o non fortuna, e se la tua anima fosse ancora più grande, avresti cercato di fermare i tuoi compagni, così come ora io ti parlo sinceramente nonostante la tua collera, e come lo stesso Cristo disse la verità e venne crocifisso. Se tu fossi una bestia non potresti infrangere la legge di Dio, e se fossi un uomo non vorresti farlo; ma non sei né l’uno né l’altro, e questa fa di te una specie di mostro che contamina tutto ciò che tocca senza conoscerne la ragione, ed è perciò che non ti perdonerò mai fino a quando non sarai divenuto un uomo, un uomo vero con una vera anima. In quanto ai tuoi amici…

A questo punto Thorvald Einarsson diede uno schiaffo alla badessa, con la mano aperta, e la fece cadere. Sentii l’esclamazione d’orrore di suor Hedwic, e dietro di noi suor Sibihd incominciò a gemere. Ma la badessa rimase a terra, massaggiandosi la mascella e sorridendo lievemente. Poi disse:

— Oh, ho ricominciato? Mi vergogno di me. Hai ragione di arrabbiarti, Torvald; nessuno riesce a sopportarmi quando parlo così, e meno di tutti me stessa; è una tale noia. Tuttavia, sembra che non riesca a trattenermi; sono troppo abituata ad essere la badessa Radegunde, questo è chiaro. Ti prometto che non ti tormenterò più; ma tu, Thorvald, non dovrai mai più picchiarmi, perché se lo farai dovrai pentirtene.

Il norvegese avanzò d’un passo.

— No, no, mio caro uomo — disse allegramente la badessa, — non era una minaccia. Come potrei minacciarti? Voglio dire soltanto che non ti racconterò più storielle, che il mio spirito appassirà, e diventerò noiosa come tutte le altre donne. Confessalo: io sono la cosa più interessante che tu abbia mai incontrato da molti anni, e con la mia lingua affilata ti ho divertito più degli skaldi alla corte di Norvegia. E io so molte più storie e leggende di loro, più di chiunque altro in tutto il mondo, perché ne invento di nuove quando le vecchie si logorano.

«Vuoi che ti racconti una storia, ora?

— Del tuo Cristo? — chiese Thorvald, con la collera ancora sul volto.

— No — disse lei. — Di uomini e donne viventi. Rispondimi, Torvald, voi uomini che cosa volete da noi donne?

— Essere uccisi dalle vostre chiacchiere — disse lui, e vidi che era ancora un po’ in collera, ma la stava buttando in scherzo.

La badessa rise allegramente. — Molto spiritoso! — disse, rialzandosi e spolverandosi le foglie dalla gonna. — Sei un uomo molto intelligente, Torvald. Thorvald, scusami: continuo a dimenticarlo. Ma in quanto a ciò che gli uomini vogliono dalle donne, se lo chiedessi ai giovani, strizzerebbero l’occhio e si scambierebbero gomitate nelle costole. Tuttavia s’ingannano. Quello è solo il corpo che chiama un altro corpo. Vogliono qualcosa di molto diverso, e lo vogliono con tanta intensità che ne hanno paura. Perciò pretendono che sia qualunque altra cosa: piacere, comodità, una serva in casa. Sai in realtà che cosa vogliono?

— Che cosa? — domandò Thorvald.

— La madre — disse Radegunde. — Come la vogliono anche le donne. Tutti vogliamo la madre. Mentre camminavo davanti a te sulla riva del fiume, ieri, facevo la parte della madre. Tu non facesti niente, perché non sei un giovane sciocco; ma io sapevo che prima o poi uno di voi, così tormentato dalla nostalgia da odiarmi per questo, si sarebbe rivelato. Ed è stato così: Thorfiin, con i suoi pensieri confusi tra le streghe e le nonne e chissà che altro. Sapevo che potevo fargli paura e, per suo tramite, potevo far paura a molti di voi. Quello è stato l’inizio della mia contrattazione. Nel vostro paese voi norvegesi avete troppo del padre e non avete abbastanza della madre; ed è per questo che sapete morire così bene e uccidere così bene gli altri… e vivete così male, così male.

— Ecco che ricominci — disse Thorvald; ma credo che desiderasse comunque ascoltare.

— Perdonami, amico — disse la badessa. — Voi siete uomini coraggiosi; non lo nego. Ma conosco le vostre saghe, e tutte parlano di combattimenti e battaglie; e dopo, niente felicità paradisiaca, ma la fine del mondo: tutti, persino gli dei, finiranno divorati dal lupo Fenris e dal serpente di Midgaard! Che peccato, morire valorosamente solo perché la vita non merita d’essere vissuta! Gli irlandesi sono più furbi. Gli irlandesi pagani erano eroi, con le loro regine che spesso li guidavano in battaglia; e padre Cairbre, che Dio accolga la sua anima, appena due giorni fa si lamentava che il popolino irlandese sta empiamente trasformando in una dea la Madre di Dio. Costruiscono forse santuari in onore di Cristo nostro Signore, e lo pregano? No! Loro pregano nostra Signora delle Rocce e nostra Signora del Mare e nostra Signora del Bosco e nostra signora di questo e di quello, da un capo della loro terra all’altro. E persino qui, soltanto quelli dell’abbazia parlano di Dio Padre e del Cristo. Nel villaggio, se qualcuno è malato o preoccupato, prega: Madre Santissima, salvami! e Maria Virgo, intercedi per me; e Madonna benedetta, acceca mio marito; e Nostra Signora, conserva le mie messi, e cosi via, e lo dicono gli uomini e le donne. Tutti abbiamo bisogno della madre.

— Anche tu?

— Più di tanti altri — rispose la badessa.

— E io?

— Oh, no — disse la badessa Radegunde, fermandosi all’improvviso, perché mentre parlava c’eravamo incamminati verso il villaggio. — No, ed è ciò che subito mi ha attratto a te. L’ho visto in te, e ho capito che eri il capo. Sono i seguaci che fanno il capo, lo sai, e i tuoi compagni ti hanno fatto capo, anche se forse tu non lo sai. Ciò che tu vuoi è… come posso dirlo? Sei un uomo intelligente, Thorvald, forse il più intelligente che abbia mai incontrato, ancor più dei dotti che ho conosciuto in gioventù. Ma la tua intelligenza non ha ricevuto nutrimento: è un’intelligenza del mondo e non dei libri. Tu vuoi viaggiare e conoscere la gente e i suoi costumi, e luoghi strani, e che cosa è accaduto agli uomini e alle donne del passato. Se mi porterai a Costantinopoli, non lo farai per ricavare un prezzo vendendomi, ma soltanto per andare là; hai scelto di andar per mare perché questa smania ti prudeva dentro, e alla fine non l’hai più sopportata: lo so.

— Allora sei una strega — disse lui senza sorridere.

— No, ho soltanto visto la tua faccia quando parlavi di quella città — disse la badessa. — E corre voce che da giovane passassi molto tempo a Goteborg, oziando e guardando con meraviglia le navi e i mercati quando avresti dovuto essere invece nella tua fattoria.

Poi disse: — Thorvald, io posso nutrire la tua intelligenza. Sono la donna più sapiente del mondo. So tutto… tutto! So più dei miei maestri; l’invento o mi viene nella mente così, non so come, ma è reale… reale! E ne so più di chiunque altro. Portami via da qui, come schiava se vuoi, ma anche come amica, e andiamo a Costantinopoli a vedere le cupole d’oro, e i muri intarsiati d’oro, e il popolo così ricco che neppure puoi immaginarlo, e tutta la città così dorata che sembra in fiamme, e dipinti alti come un muro, inseriti nei muri e tutti formati di gemme che non hanno eguali, più rosse della rosa più rossa, più verdi dell’erba, e di un azzurro che fa impallidire il cielo!

— Sei veramente una strega — disse Thorvald, — e non la badessa Radegunde.

Lei disse, lentamente: — Sto dimenticando, credo, come si fa ad essere la badessa Radegunde.

— Allora non ti curerai più di loro — disse il norvegese, e indicò suor Hedwic, che continuava a guidare la barcollante suor Sibihd.

Il viso della badessa era calmo e mite. — Mi curo di loro — disse. — Non picchiarmi, Thorvald, mai più, e sarò per te una buona amica. Cerca di tenere a freno i tuoi uomini peggiori e lascia liberi tutti i miei, o almeno più che potrai… io li conosco e ti indicherò quelli che potrete portar via causando minori sofferenze a loro e ad altri… e io nutrirò la tua curiosità e la tua intelligenza fino a quando non riconoscerai più questo vecchio mondo, per la meraviglia: te lo giuro sulla mia vita.

— D’accordo — disse lui, e soggiunse: — Ma con la fortuna che ho io, la tua vita sarà altrove, chiusa in uno scrigno in vetta a una montagna, come quella del troll della leggenda; oppure tu morirai di vecchiaia mentre stiamo ancora navigando.

— Sciocchezze — disse la badessa. — Sono una donna mortale e sana, e ho ancora tutti i miei denti, e ho intenzione di fare collezione di molte altre rughe.

Thorvald tese la mano e lei la prese; poi il norvegese disse, scuotendo meravigliato la testa: — Se ti vendessi a Costantinopoli, in meno di un anno ne diventeresti la regina.

La badessa rise allegramente, e io gridai, spaventato: — Anch’io! Porta anche me — e lei disse: — Oh, sì, non dobbiamo dimenticare il Piccolo Messaggero — e mi prese in braccio.

L’uomo alto e terribile, con la faccia vicina alla mia, disse in quel suo strano tedesco cantilenante:

— Bambino, ti piacerebbe vedere le balene che saltano nel mare aperto e le foche che latrano sugli scogli? E rupi così alte che un gigante non ne toccherebbe la cima neppure tendendo le braccia? E il sole che splende a mezzanotte?

— Sì — dissi io.

— Ma sarai schiavo — disse lui, — e forse sarai maltrattato e dovrai sempre fare quello che ti ordinano. Questo ti piacerebbe?

— No! — gridai con foga, al sicuro tra le braccia della badessa. — Combatterò!

Thorvald rise fragorosamente e mi spettinò i capelli, con troppa forza, pensai, e disse: — Non sarò un cattivo padrone, perché ho il nome di Thor Barbarossa, che è forte e svelto in battaglia, ma anche bonario, e lo sono anch’io. — E la badessa mi mise giù, e così tornammo verso il villaggio, mentre Thorvald e la badessa Radegunde parlavano degli splendori del mondo e suor Hedwic diceva sottovoce: — È una santa, la nostra badessa è una santa, a sacrificarsi così per il bene della sua gente — e sempre, dietro di noi come un ricordo, venivano i singhiozzi soffocati e dementi di suor Sibihd, che era all’Inferno.

Quando ritornammo venimmo a sapere che Thorfinn stava meglio e che i norvegesi sarebbero ripartiti l’indomani mattina. Thorvald fece portare un secondo pagliericcio nello studio della badessa, e quella notte dormì sul pavimento accanto a noi. Forse penserete che i suoi uomini ridessero, perché, la badessa era vecchia; ma io credo che fosse stato con una delle donne giovani prima di venire da noi. Ne aveva l’aria. Non c’erano lenzuola o coperte per la badessa, ma soltanto un vecchio mantello marrone bucato, e io e lei ce l’eravamo avvolto addosso quando Thorvald entrò e si buttò fischiettando sull’altro pagliericcio. Poi disse:

— Domani, prima di partire, mi mostrerai il tesoro della vecchia badessa.

— No — disse lei. — Quel patto non è stato mantenuto.

Thorvald stava giocherellando con il coltello; passò il pollice sul filo. — Posso costringerti.

— No — rispose in tono paziente la badessa. — E ora voglio dormire.

— Dunque non hai paura della morte? — chiese lui. — Bene! È ciò che deve fare una donna coraggiosa, come cantano gli skaldi, e non deve muoversi neppure quando una spada affilata le taglia le ciglia. Ma se puntassi questo coltello non contro la tua gola, ma contro quella del tuo ragazzetto? Allora me lo diresti in fretta!

La badessa si girò, voltandogli le spalle, sbadigliò e disse: — No, Thorvald, perché tu non lo faresti. E se lo facessi, ti disprezzerei perché dimostreresti d’essere un vigliacco mancatore di parola e per questa ragione non te lo direi. Buonanotte.

Il norvegese rise e riprese a fischiettare per un po’. Quindi disse:

— Era tutto vero?

— Tutto che cosa? — chiese la badessa. — Oh, la statua. Sì, ma non ci fu nessun aggressore. Quello l’ho aggiunto alla storia per consolare la povera suor Hedwic.

Thorvald sbuffò, deluso. — La storia! Tu racconti menzogne, badessa.

Radegunde si tirò sulla testa il vecchio mantello marrone e chiuse gli occhi. — L’ha aiutata.

Poi ci fu un silenzio, ma sembrava che il norvegese non riuscisse a stare tranquillo. Si spostò come se la paglia gli desse fastidio, e si girò di nuovo. Finalmente sbottò: — Ma che cosa accadde?

La badessa si sollevò a sedere. Chiuse gli occhi e disse: — Forse nella tua testa di uomo non passa neppure l’idea che una vecchia si stanca, e che trattare con la gente è un lavoro difficile, o forse non pensi neppure che sia un lavoro. Bene!

«Non accadde niente, Thorvald. Deve succedere qualcosa solo se questo sbatte quell’altra, o se uno dà una botta in testa a qualcun altro? Io desideravo la mia statua con tanta follia che decisi di trovarmi un vero amante umano; ma quando alzai gli occhi dalle mie fantasie agli uomini veri di Roma, e mi sturai gli orecchi per ascoltare ciò che dicevano, mi resi conto che era una cosa completamente, eternamente impossibile. Oh, quei figli cadetti con il loro torvo odio invidioso per i ricchi, e i ricchi con il naso all’aria perché si credevano molto importanti grazie al loro stupido denaro, e la timidezza dei preti verso i loro superiori, e l’orgoglio di questi, e l’odio degli artigiani per i contadini, e i contadini costretti a lavorare come bestie da mattino a notte, e metà degli uomini che vedevo picchiavano le loro mogli, e gli altri pensavano solo a derubare qualche povera ragazza del suo denaro o della sua verginità o dell’uno e dell’altra… ce n’era abbastanza per spegnere qualunque fuoco! E le donne facevano meno male solo perché avevano meno potere di farne, o almeno così mi sembrava allora. Perciò accantonai tutto, come si accantona qualunque delusione. Gli uomini non sono tanto cattivi quando si smette di pretendere che siano dei: ma non sono fatti per me. Se questo stato è castità, allora uno stomaco debole è temperanza, credo. Ma qualunque cosa sia, ce l’ho, e questo chiude la faccenda.

— Tutti gli uomini? — chiese Thorvald Einarsson con la testa da una parte, e io pensai che avesse bevuto, anche se sembrava sobrio.

— Thorvald — disse la badessa, — non so immaginare che cosa possa volere da questo relitto d’un corpo anziano: ma se desideri le mie rughe e i miei seni flaccidi e i miei fianchi magri e avvizziti, fai ciò che vuoi in fretta e poi, per amor del cielo, lasciami dormire. Sono stanca morta.

Lui disse, a voce bassa: — Devo aver potere su di te.

La badessa allargò le mani in un gesto rassegnato. — Oh, Thorvald, Thorvald, sono una donna debole e ultraquarantenne! Dov’è il potere? Tutto ciò che posso fare è parlare!

Thorvald disse: — Ecco. Ecco come fai. Parli e parli e parli e tutti fanno ciò che vuoi tu: l’ho visto!

Radegunde lo fissò bruscamente. — Sta bene. Se devi. Ma se fossi in te, norvegese, preferirei andare a letto con mia madre. Ricordalo quando mi alzerai le sottane.

Queste parole lo fermarono. Imprecò sottovoce, si girò sul fianco e ci voltò le spalle. Poi infilò il coltello nel bordo del suo pagliericcio, per un po’. Finalmente lo mise sotto la stoffa arrotolata che usava come cuscino. Noi non avevamo un cuscino, e così cercai di farmene uno con l’orlo del mantello, ma non ci riuscii. Poi pensai che il norvegese aveva paura di Dio che agiva per mezzo di Radegunde, e pensai a suor Hedwic che aveva cambiato colore e mi chiesi perché. Quindi pensai alle balene che saltavano, e alle foche che dovevano essere come grossi cani perché latravano, e poi le foche balzarono sulla terraferma e corsero al mio pagliericcio e mi leccarono con grandi, gelide lingue d’acqua, e io rabbrividii e sussultai, e mi svegliai.

La badessa Radegunde s’era alzata (era il suo calore che mi mancava) e si stava aggirando per la stanza. Muoveva un passo e si fermava, e le sue gonne frusciavano leggermente. Stava attenta a non toccare Thorvald che dormiva. Nella camera c’era una luce fioca che proveniva dalle braci, ancora accese sotto le ceneri nel camino, ma non filtrava un filo di luce dalle imposte della finestra, chiuse per non far entrare il freddo. Vidi la badessa inginocchiarsi sotto la semplice croce di legno appesa nello studio e la sentii pronunciare qualche parola in latino; pensai che pregasse. Ma poi disse a voce bassa:

— Non invoco Apollo e le Muse, perché sono cose sorde e vane. Ma lo sei anche tu, Uomo Trafitto, sordo e vano.

Si alzò e riprese a camminare avanti e indietro. Adesso, ripensandoci, mi spaventa, perché era notte alta e non c’era nessuno che la sentisse, tranne me, ma credeva che fossi addormentato; eppure continuò con quella voce bassa e calma come se fosse pieno giorno e lei stesse spiegando qualcosa a qualcuno, come se affiorassero tante cose che erano nei suoi pensieri da molti anni. Ma in quel momento non ci trovai nulla di allarmante, perché pensavo che forse erano cose che facevano tutte le badesse; e del resto non sembrava arrabbiata o spaventata; era calma come se discutesse il ricavato dell’allevamento d’api dell’abbazia (come l’avevo sentita fare varie volte) o i conti della cantina (e l’avevo sentita fare anche questo) e non era per nulla preoccupante. Perciò ascoltai mentre continuava ad aggirarsi al buio per la stanza. E disse:

— Parlo, parlo, parlo, e sempre a me stessa. Ma nessuno può abbandonare i micetti e i cagnolini: sarebbe una crudeltà. E l’essere la badessa Radegunde mi dà almeno qualcosa da fare. Però sono stanca della buona badessa Radegunde: ho indossato Radegunde ogni mattina della mia vita come se fosse una veste, e ho dovuto sentir lodare tutto il giorno quella stupida creatura! Radegunde è una vera santa, Radegunde non si arrabbia mai, non è mai avida o invidiosa, la buona Radegunde si sacrifica per gli altri, e sempre quel parlare, parlare, parlare che mi ribolle nella testa, senza nessuno che ascolti o capisca, senza nessuno che risponda! No, neppure nel sud, soltanto una riga qua e una là, e tutte scritte dai morti. Sentivano ciò che io sento? Che il mondo è un enorme asilo d’infanzia pieno di litigi per i giocattoli, dove i bambini mi considerano una specie di dea benevola perché non voglio le loro bambole e i loro pezzetti di paglia e i loro cavallucci fatti di legnetti legati insieme?

«Poveretti, se sapessero! È cosi facile essere temperati quando non si apprezza nulla, essere buoni quando non si ama nulla, essere intrepidi quando la vita non è meglio della morte. Ed è così facile far progetti quando il successo non ha importanza.

«Non resterebbero sorpresi, mi domando, se sapessero quali erano i miei veri pensieri quando Thorfinn mi aveva puntato il coltello alla gola? Curiosità! Ma lui non lo avrebbe fatto, naturalmente: fa tutto ciò che fa per mettersi in vista. E loro penserebbero che sono due volte santa, perché non temo la morte.

«E allora perché non ti uccidi, empia suor Radegunde? È la tua religione a impedirtelo? Oh, vuoi dire i sacri pozzi, e gli alberi sacri, e i santi benedetti con le loro reliquie, e la stupidità che ha fatto vergognare suor Hedwic, e le promesse di salvezza che hanno fatto impazzire la povera Sibihd quando il corpo santissimo del suo Signore non l’ha protetta e l’amore benedetto della beata Vergine Maria non ha distolto un solo coltello? Ciarpame! Foglie e stecchi e canne che noi spazziamo via dai nostri pavimenti quando si accumulano troppo. Come se la santità avesse a che fare con tutto questo. Come se ogni luogo non fosse sacro come ogni altro, e ogni cosa non fosse santa come ogni altra, dalla merda nella pancia di Thorfinn ai sassi per terra. Come se tutti i luoghi e le cose non fossero nubi poste davanti ai nostri occhi deboli, per impedire che veniamo accecati dallo splendore eterno, dal fulgore che ci circonda, il torrente di luce che è tutto ed è in tutto! È questo che mi trattiene dal gettarmi nel fiume, ma non mi parla mai e non mi dice cosa fare, e per esso il bene e il male sono la stessa cosa… no, è qualcosa di diverso dal bene e dal male: è semplicemente… quindi non è Dio. Questo lo so.

«Quindi, gente, la vostra Radegunde è una strega o un demone? È piena d’orgoglio oppure è umile? Forse è una strega. Una volta, molto tempo fa, confessai al vecchio Gerbertus che potevo vedere a grande distanza chiudendo gli occhi, e glielo dimostrai, e lui pianse per me e mi diede grandi penitenze esclamando: “Se viene da sé può essere un dono di Dio, figliola, ma molto più probabilmente è opera di un demonio, quindi non farlo!” E allora pregammo e gli dissi che il potere mi aveva abbandonata, per tranquillizzare quel povero vecchio, ma non era vero, naturalmente. Potevo ancora vedere la Turchia con la stessa facilità con cui vedevo lui, e luoghi molto più lontani; gli uomini tozzi e selvaggi delle pianure sui loro cavalli, e gli strani uomini alti, ancora più lontani, con le loro grandi città e gli occhi bizzarri, con le palpebre oblique, e poi i mari con le grandi terre selvagge e le città piene d’oro più di Costantinopoli, e ancora altra acqua fino a quando si ritorna a casa, perché il mondo è un globo come dicevano gli antichi.

«Ma con il passare degli anni ho smesso. Radegunde non ne aveva mai il tempo, credo. E poi, quando aprivo quella porta c’erano soltanto figure, come in un libro, e dopo un po’ le avevo viste tutte e non m’interessavano più. È l’altra porta quella che mi attrae, quando si socchiude e si affacciano cose strane, come Ranulf, il figlio della sorella di Thorvald, e il nome del suo cavallo. È una buona porta, ma è molto pesante; dopo un po’ si richiude sempre. Dovrò essere sul letto di morte perché si apra completamente, credo.

«Il volpone dorme. È il più intelligente, finora; c’è qualcosa in lui, tanto che a volte quasi gli si può parlare. Ma è sempre un volpone, per la maggior parte. Forse col tempo…

«Vediamo: si, dorme. E la cagnolina Sibihd dorme, anche se fra poco farà un brutto sogno, credo, e il gattino Thorfinn dorme, pieno di paura come quando è sveglio, con gli artigli che entrano ed escono dalle zampette, per timore che qualcosa lo strangoli nel sonno.

Poi la badessa tacque e si avvicinò alla finestra chiusa come se guardasse fuori, e io pensai che stava guardando fuori, veramente, ma non con gli occhi, e vedeva tutta quella gente addormentata, ed era ciò che aveva fatto ogni notte della sua vita per accertarsi che tutti fossero sani e al sicuro. Ma non sapeva che io ero sveglio? Non dovevo cercare di riaddormentarmi prima che se ne accorgesse? Poi mi sembrò che sorridesse nel buio, anche se non potevo vederlo. Disse con lo stesso tono sommesso: — Dormi o vegli, Piccolo Messaggero? Per me è la stessa cosa. Non hai udito niente d’importante, soltanto la sciocca badessa che parla da sola, Radegunde che dice addio a Radegunde, Radegunde che se ne va… non piangere, Piccolo Messaggero, sono ancora qui. Ma, ecco, Radegunde se n’è andata. Io e il norvegese siamo simili sotto un certo aspetto: le nostre menti sono come grandi case con molte stanze chiuse a chiave. Ci affolliamo in poche stanze miserabili, come poveracci, quando potremmo muoverci liberamente in tutte, come principi. È il destino che ha rinchiuso sottochiave gran parte del norvegese… vedi, Piccolo Messaggero, non dico il suo nome neppure sottovoce, perché questo sveglia la gente… ma mi chiedo se a rinchiudere me non fu la stessa Radegunde, lei e il vecchio Gerbertus, al quale credevo, in parte… loro, e gli anni, tutti gli anni in cui ho dovuto essere Radegunde, e fare le cose che faceva Radegunde e fingere di avere i pensieri di Radegunde, e ripetere le innumerevoli, infinite menzogne che Radegunde doveva dire a tutti, e l’assoluta, incredibile solitudine di Radegunde.

Tacque di nuovo. Questa volta mi meravigliai dei discorsi della badessa: diceva che non c’era quando c’era, e che viveva rinchiusa in piccole stanze, mentre l’abbazia era sicuramente la casa più splendida di tutto il mondo, e la più grande, e come poteva sentirsi sola quando tutti le volevano bene? Ma poi lei disse, con voce così bassa che la sentii appena:

— Povera Radegunde! Così stanca di mentire e di ingannare gli uomini e le donne con il collare intorno al collo e l’offerta di un bocconcino se si comportano bene, e una tiratina del guinzaglio che loro neppure notano. E con il norvegese sarà lo stesso: menzogne e adulazioni e tutto un lavoro che non finisce mai e che nessuno vede mai, e alla fine Radegunde si sdraierà come una scimmia in gabbia, debole e sofferente per!a fame, e non si rialzerà più.

«Lasciala morire adesso. Ecco: Radegunde è morta. Radegunde non c’è più. Forse la porta era pesante solo perché lei stava dall’altra parte e la spingeva per non farmi passare. Forse adesso si aprirà completamente. Ho guardato in tutte le direzioni: a est, a nord e a sud, e ad ovest, ma c’è un posto dove non ho mai guardato, e ora lo farò: lontano da questa sfera, in alto. Vediamo…

Smise di parlare, di colpo. Mi stavo addormentando, ma mi svegliò il silenzio. Poi sentii la badessa gemere terribilmente, come colpita a morte; quindi disse, con un bisbiglio così acuto e fremente che mi fece rizzare i capelli: Dove sei? E dopo un momento spalancò le imposte e si affacciò e gridò con tutta la forza della sua voce: Aiutami! Cercami! Oh, vieni, vieni, vieni, o morirò!

Questo svegliò Thorvald. Si alzò, imprecando in norvegese, e si allacciò la cintura della spada e si portò la mano al pugnale: avevo notato che quel gesto piaceva molto ai norvegesi. La badessa taceva. Lui esalò un respiro profondo e andò ad accendere la candela di sego alle braci sotto la cenere del camino. E quando la candela si accese fumando, la mise sulla mensola.

Poi disse in tedesco: — Cosa diavolo c’è, donna! Cos’è successo?

La badessa si voltò. Sembrava che non ci vedesse, come se fosse abbacinata da una gioia troppo grande, come chi ha guardato il sole ed è ancora abbagliato e tutto gli pare cambiato, e il mondo sembrava tutto di Dio e tutto ciò che vi è sembra il Paradiso. Disse sottovoce, cingendosi le spalle con le braccia: — La mia gente. La gente vera.

— Che cosa stai dicendo?

Allora sembrò che la badessa lo vedesse, ma solo come Sibihd aveva visto noi: cioè, non con orrore, come Sibihd, ma come se ci vedesse attraverso qualcosa d’altro, come qualcuno che esce da una visione di beatitudine che ancora gli aleggia intorno. Disse, con la stessa voce sommessa: — Vengono a prendermi, Thorvald. Non è meraviglioso? È da un anno che so che sarebbe accaduto qualcosa, ma non sapevo che sarebbe stata l’unica cosa che desidero al mondo.

Thorvald si cacciò le mani nei capelli. — Chi verrà?

— La mia gente — disse lei, con una risata mormorante. — Non li senti? Io sì. Dobbiamo attendere tre giorni perché vengano da molto lontano. Ma allora… oh, vedrai!

Lui disse: — Hai sognato. Domani partiremo.

— Oh, no — disse semplicemente la badessa. — Non puoi, non sarebbe giusto. Loro mi hanno detto di attendere: hanno detto che se fossi andata via non mi avrebbero trovata.

Thorvald disse: — Sei ammattita. Oppure è un trucco.

— Oh, no, Thorvald — disse lei. — Come potrei ingannarti? Sono tua amica. E tu attenderai questi tre giorni, perché anche tu sei mio amico.

— Sei matta — disse Thorvald, e si avviò verso la porta dello studio, ma la badessa gli si parò davanti e si gettò in ginocchio. Sembrava che l’astuzia l’avesse abbandonata completamente; o forse era stata Radegunde a possedere l’astuzia. Questa era come una bambina. Giunse le mani e le lacrime le traboccarono dagli occhi. Lo supplicò:

— È una cosa da poco, Thorvald, tre giorni appena! E se non verranno, allora andremo dovunque vorrai; ma se verranno non dovrai pentirtene, te lo prometto: non sono come gli abitanti di qui, e quel luogo è molto diverso. È ciò che l’anima desidera, Thorvald!

Il norvegese disse: — Alzati, donna, per amor di Dio!

E lei, con un sorriso spaventato: — Se mi lasci restare, ti mostrerò il tesoro sepolto della vecchia badessa, Thorvald.

Lui indietreggiò, indignato. — Ecco la vecchia strega coraggiosa che non teme la morte! — disse. Si avviò verso la porta, ma la badessa si alzò di nuovo, svelta, come un serpente, e si buttò contro l’uscio.

E gli disse, sempre con quella strana innocenza: — Non picchiarmi. Non spingermi. Sono tua amica!

E lui: — Vuoi dire che hai intenzione di portarmi in giro con un cordone intorno al collo, come se fossi un’oca. Be’, io sono stanco!

— Ma non posso più farlo — disse la badessa, ansimando. — Non posso più farlo, ora che la porta si è aperta. Non posso. — Lui alzò il braccio per picchiarla e la badessa si rannicchiò gemendo: — Non picchiarmi! Non provocarmi! No, Thorvald!

Lui disse: — Allora togliti di mezzo, vecchia strega!

La badessa incominciò a piangere e a singhiozzare. — Una è qui, ma un’altra verrà! Una è sepolta, ma un’altra si leverà! Verrà, Thorvald! — E quindi, con voce bassa, in fretta: — Non spalancare l’ultima porta. Dietro c’è qualcosa che è malvagio, e io ho paura… — Ma si vedeva che il norvegese era furioso e deluso e non voleva ascoltare. La colpì per la seconda volta, e lei cadde di nuovo, ma con un grido disperato, coprendosi la faccia con le mani. Lui tolse il catenaccio alla porta e la scavalcò, e io sentii i suoi passi nel corridoio. Vedevo chiaramente la badessa; allora non mi chiedevo come fosse possibile, con le ombre della candela di sego che quasi nascondevano tutto sulla loro danza ebbra, ma vedevo chiaramente ogni linea della sua faccia come se fosse pieno giorno, e in quella luce vidi Radegunde che ci lasciava.

Siete mai stati alla corte di un grande re o di un conte e avete ascoltato i cantastorie? Certuni sono così esperti nell’arte che non soltanto vi narrano ciò che il personaggio della storia fece o disse, ma esprimono l’azione con la faccia e col corpo, come se fossero davvero quell’uomo o quella donna, e perciò per voi è una grande sorpresa, quando il racconto finisce, perché quasi credete di aver visto la vicenda svolgersi sotto i vostri occhi, ed è come se quell’uomo o quella donna avesse smesso improvvisamente di esistere, perché avete dimenticato che c’erano soltanto un cantastorie e una storia.

Avvenne così con la donna che era stata Radegunde. Non cambiò: aveva ancora i capelli grigi e la faccia grinzosa e il corpo di vecchia nell’abito marrone da contadina, eppure era una sconosciuta, uscita dalla badessa Radegunde come da una veste lasciata cadere sul pavimento. La sconosciuta era insensibile, sebbene le lacrime di Radegunde le scorressero ancora sulle guance, e in lei non c’erano bontà e gioia. Si alzò senza curarsi del suo abito al quale s’erano appiccicate le canne sporche; era come se l’abito fosse un accidente casuale e non la riguardasse. Disse con una voce che non avevo mai sentito, una voce insensibile, come se io non contassi nulla per lei, e neppure Thorvald Einarsson, come se noi due non meritassimo una seconda occhiata:

— Thorvald, voltati.

In fondo al corridoio qualcosa si mosse.

— Ora torna indietro. Qui.

Sentii i passi avvicinarsi. Poi il norvegese grande e grosso entrò goffamente nella stanza, a sussulti, come se ad ogni passo fosse trascinato da una corda. Il sudore gli imperlava la faccia. Disse: — Tu… come?

— Perché è la mia natura — disse lei. — Alza il braccio destro, volpone. Ora il sinistro. Ora abbassali tutti e due. Bene.

— Troll! — disse lui.

— È così — disse lei. — Ora ascoltami, tu. C’è un uomo dentro di te, ma non val la pena di cercarlo; ho provato qualche minuto fa quando ero appena uscita dall’uovo, ed è sepolto troppo profondamente, ma adesso mi sono cresciuti rostro e artigli e non m’importa nulla di lui. È quasi l’alba e i tuoi ragazzi si stanno svegliando; andrai a dir loro che dobbiamo restar qui ancora per tre giorni. Tu conosci i cambiamenti del tempo: inventa qualcosa in modo che ti credano. E non provarti a raccontare a qualcuno ciò che è successo qui stanotte: ti accorgerai che non puoi farlo.

— Uomini… a me — disse Thorvald, e cercò di girare la testa, ma lo sforzo riuscì soltanto a farlo sudare.

Lei inarcò le sopracciglia. — Perché dovrebbero venire? Nessuno ha sentito nulla. Non è successo nulla. Tu uscirai e sarai come al solito e io reciterò la parte di Radegunde. Per tre giorni appena. Poi sarai libero.

Thorvald non si mosse. Si vedeva che restare immobile era un tormento: il sudore grondava e lui si tendeva, e tutti i muscoli si gonfiavano. Lei disse:

— Volpone, fai del male a te stesso. E non provocarmi; non ho nessuna simpatia per te. Uso la mano leggera solo perché mi sembri ancora un po’ meno inumano degli altri; non costringermi a usare una mano più pesante. Per dirla chiaramente: ho appena spezzato il collo di Thorfinn, perché trovo che il cambiamento lo migliori. Non costringermi a fare altrettanto a te.

— Non puoi fare… niente di peggio della morte… — disse Thorvald a stento.

— Ah, no? — disse lei, e dopo un momento lui urlò e si portò le mani agli occhi. Lei disse: — Aprili, aprili; hai di nuovo la vista. — E poi — Non voglio prendermi il disturbo di pensare qualcosa di peggio, come i vermi nelle tue budella. Oppure preferisci che muoiano i tuoi figli e tua moglie? Ora va’.

«E comportati come sempre — soggiunse bruscamente, e il colosso si voltò e uscì. A guardarlo, sarebbe stato impossibile capire che aveva qualcosa di anormale.

Non mi era dispiaciuto veder punito un uomo tanto malvagio, i cui amici avevano ucciso i nostri e avrebbero voluto prenderci come schiavi… però in un certo senso mi dispiaceva per via delle foche che latravano e delle balene… eppure dimenticai davvero tutto nel momento in cui usci, perché avevo terrore di quella persona sconosciuta, o di quel demonio o quello che era, perché sapevo che chiunque ci fosse, in quella stanza con me, non era la badessa Radegunde. E sapevo che era in grado di dire dov’ero e che cosa facevo, anche se non facevo rumore, e non capii che cosa avrei dovuto fare quando le dita mi toccarono la faccia. Era il demonio, che tendeva le mani in fretta e in silenzio.

E sapete, all’improvviso tutto ritornò normale! Non voglio dire che era di nuovo la badessa (avevo ancora molti dubbi al riguardo) ma all’improvviso mi sentivo leggero come l’aria e non c’era niente che avesse molta importanza perché avevo lo stomaco pieno di bollicine di felicità; come se fossi ubriaco, ma era molto più bello. Se la badessa Radegunde era davvero un demonio, che scherzo per la sua gente! E adesso che ci pensavo, non sembrava un demonio cattivo, era il tipo che spaventa più che quello che uccide, a parte Thorfinn, naturalmente, ma del resto Thorfinn era stato molto malvagio. E non era vero che gli angeli del Signore colpivano i malvagi? Quindi forse la badessa era un angelo del Signore e non un demonio; ma se era davvero un angelo, perché non aveva colpito i norvegesi appena arrivati, perché non aveva salvato tutti i nostri? E poi pensai che, angelo o demonio, non era più la badessa, e non mi avrebbe più voluto bene, e se non fossi stato così pieno della sciocca felicità che mi faceva il solletico dentro, quel pensiero mi avrebbe fatto piangere.

Le chiesi: — Il cattivo Thorvald si libererà, demonio?

— No — disse lei. — Neppure se io dormirò.

Io pensai: ma non mi vuole più bene.

— Ti voglio bene — disse la voce strana, ma non era quella della badessa Radegunde, e quindi non aveva significato: ma le dita morbide mi toccarono di nuovo, ed erano gentili, anche se era la gentilezza di un’estranea.

Dormi, dicevano quelle dita.

E così dormii.

Nei tre giorni che seguirono mi divertii molto, segretamente, nel vedere la gente che s’inchinava al demonio e gli baciava le mani e piangeva perché si era venduto per riscattare gli altri. Così aveva raccontato suor Hedwic. Il giovane Thorfinn era uscito di notte per pisciare, e al buio era inciampato in un sasso e si era rotto l’osso del collo, e i nostri erano contenti, ma anche ai suoi compagni sembrava non importasse molto, a parte un giovane che era stato suo amico, credo, e che andava in giro con la faccia lunga. Thorvald mi chiudeva con il demonio nello studio della badessa tutte le notti e se ne andava, così diceva la gente, a trovare una delle donne giovani; ma quelle notti il demonio taceva, e io stavo sdraiato con il formicolio segreto dell’allegria nello stomaco, e non mi preoccupavo di niente.

La terza mattina mi svegliai sobrio. Il demonio, o la badessa (perché di giorno era così simile alla badessa Radegunde che non sapevo più cosa pensare) mi prese per mano e mi condusse da Thorvald, che stava scegliendo gli schiavi da caricare sulle barche dei norvegesi. La gente stava lì, e piangeva e si torceva le mani: e mi sembrava strano perché la badessa aveva promesso di scegliere quelli la cui partenza avrebbe causato minori sofferenze; ma oggi so che una minore sofferenza non significa non soffrire affatto. Il tempo era pessimo, nebbia e pioggia fredda, e alcuni dei compagni di Thorvald gli parlavano con aria acida in norvegese, ma lui rispondeva con allegra sicurezza, prendendo alla leggera il tempo. Il demonio gli andò vicino e gli disse in tedesco, a voce bassa perché nessun altro sentisse: — Ora di’ che andiamo in cerca del tesoro della badessa, e poi vieni con noi nel bosco.

Thorvald parlò ai suoi compagni in norvegese e quelli si accigliarono; ma alla fine venne deciso che altri due venissero con noi, perché il demonio diceva che occorrevano tre uomini per portare il tesoro. Il demonio aveva l’aspetto e la voce della badessa Radegunde, tutta sorrisi, e quelli si lasciarono ingannare. Così ci addentrammo fra gli alberi dietro il villaggio, mentre la pioggia diventava più forte e il terreno incominciava ad ammollarsi sotto i piedi. Non appena il villaggio fu fuori di vista, i due norvegesi rimasero distanziati, ma Thorvald non sembrò notarlo; mi voltai indietro e vidi il primo uomo fermo nel fango, con un piede alzato come un’oca, e il secondo con la testa sollevata e la bocca aperta e la pioggia che vi cadeva dentro. Continuammo a camminare, con la terra che si attaccava alle scarpe, e l’acquazzone che ci infradiciava: Thorvald aveva i capelli incollati alla faccia, e il vecchio mantello marrone s’era appiccicato addosso al corpo del demonio. Poi all’improvviso, il demonio incominciò ad ansimare e si portò la mano al fianco con un grido. Il mantello cadde, e il demonio avanzò barcollando tra gli alberi: non piangeva, ma respirava a fatica. Allora vidi davanti a noi, sotto gli scrosci di pioggia, una specie di splendore fra i tronchi nudi, e quando ci avvicinammo lo splendore divenne più nitido, fino a quando potei vederlo bene: non era come un fuoco nella notte, ma una luce mite e serena, come il sole quando passa attraverso le nubi, dolcemente ma senza forza, come accade spesso all’inizio dell’anno.

E in quello splendore c’era gente, uomini e donne tutti vestiti di bianco, e ci tendevano le braccia, e il demonio corse verso di loro, gridando a gran voce e piangendo, senza badare ai rami degli alberi che gli urtavano il viso e il corpo. A volte cadeva, ma si rialzava in fretta. Quando raggiunse quegli strani esseri loro l’abbracciarono, e io pensai che il sudiciume e il fango cadeva e si staccava senza sporcare gli indumenti candidi. Nessuno di quegli esseri strani disse una parola, e neppure la badessa (allora capii che non era un demonio) ma li sentii parlarsi, li sentii con la mente, anche se non so come fosse possibile e non capivo il senso di ciò che dicevano. Una cosa strana fu che quando mi avvicinai vidi che non stavano sul terreno, come avviene in natura, ma più in alto, all’interno dello splendore, e che le loro vesti bianche erano completamente diverse dalle nostre perché aderivano al corpo, e si vedevano le gambe fino al punto dove si uniscono, persino le gambe delle donne. E alcuni erano come noi, ma moltissimi avevano un colorito più scuro, e sembrava che certuni si fossero spalmati di fuliggine (ne esistono nelle parti lontane del mondo, come scoprii più tardi, e quello è il loro colore naturale) e certuni avevano gli strani occhi obliqui di cui aveva parlato la badessa… ma la cosa più strana non ve la dirò subito. Quando la badessa li ebbe abbracciati e baciati tutti, e tutti ebbero pianto, si voltò a guardarci: Thorvald immobile come se fosse trattenuto da una corda, e io, che non avevo più paura e mi ero avvicinato furtivamente con reverenza, perché c’era una grande gioia che circondava quella gente, come la loro luce, mite come la luce di primavera, ma forte come in una primavera dove l’inverno se n’è andato per sempre.

— Vieni qui, Thorvald — disse la badessa, e dalla sua espressione non si capiva se l’amava o l’odiava. Lui si avvicinò, a scatti, e lei si chinò a toccargli la fronte con le dita; e Thorvald aggricciò le labbra come un cane quando ringhia.

— Come sai — disse la badessa senza alzare la voce, — io ti odio e voglio vendicarmi di te. L’ho giurato a me stessa tre giorni fa, e sono promesse che non s’infrangono facilmente.

Lo vidi ringhiare di nuovo e distogliere gli occhi da lei.

— Tra poco dovrò andare — disse la badessa, impassibile, — perché non potrei restar qui ancora per molti anni semplicemente come Radegunde, e Radegunde non esiste più: nessuno di noi può rimanere qui a lungo con la propria personalità e con il proprio corpo, perché se lo facessimo impazziremmo come Sibihd o ci getteremmo nel fiume e annegheremmo o arresteremmo il nostro cuore perché il vostro mondo ci appare troppo infelice, perverso e brutale. Non possiamo venire in gran numero, perché siamo pochi e non abbiamo molta forza, e abbiamo molte cose da imparare e dobbiamo studiare la vostra gente per poter insegnare e aiutare senza rovinare tutto nella nostra ignoranza. E ignoranti o sapienti che siamo, non possiamo far nulla se la vostra gente non ci aiuta.

«Ecco la mia vendetta — disse la badessa, e Thorvald si torse sotto il tocco delle sue dita, sebbene fossero così lievi. — D’ora in poi non sarai Thorvald il contadino o Thorvald il navigatore, ma Thorvald il Pacificatore, Thorvald l’Odiatore della Guerra, che soffre per lo spargimento del sangue e si angoscia per la crudeltà. Non posso darti una lunga vita, perché questo dono non sono in grado di farlo, ma ti dò questo: fino alla fine dei tuoi giorni, lunghi o brevi, sentirai sempre intorno a te la presenza, come la sento io, e tu saprai che non è né buona né cattiva, come lo so io, e questo ti turberà e ti spaventerà sempre, come spaventa e turba me, e per questo, come per tante altre cose, Thorvald il Pacificatore non avrà mai pace.

«Ora, Thorvald, torna al villaggio e annuncia ai tuoi compagni che sono stata assunta fra i santi, in Cielo. Puoi crederlo, se vuoi. Questa è la mia vendetta.

Poi ritrasse la mano, e Thorvald si voltò e si allontanò da noi come in sogno, tendendo la mano come per sentire la pioggia e incespicando ogni tanto, come chi si ridesta da una visione.

Allora incominciai ad addolorarmi, perché sapevo che lei se ne sarebbe andata con quella gente strana, e mi sembrava che tutto l’amore e la tenerezza e la luce del mondo stessero per lasciarmi. Mi avvicinai a lei, con l’intenzione di saltare segretamente sul luogo splendente e andar via con loro, ma lei mi vide e disse: — Tu non puoi, sciocco Radulphus — e quel tu mi fece soffrire più di ogni altra cosa, e incominciai a piangere.

— Figliolo — disse la badessa, — vieni qui — e piangendo a gran voce mi appoggiai alle sue ginocchia. Sentivo lo splendore intorno a me, luminoso e piacevole e caldo che cancellava ogni affanno, e poi la mano della badessa sui miei capelli.

Lei disse: — Ricordami. E sii… felice.

Annuii. Avrei voluto trovare il coraggio di guardarla in faccia, ma quando alzai gli occhi se ne era già andata con i suoi amici. Non su nel cielo, capite, ma come se si fossero mossi rapidamente a ritroso fra gli alberi, anche se chissà come gli alberi erano ancora dietro di loro, e mentre si muovevano lo splendore e le persone svanirono nella pioggia fino a quando non rimase più nulla.

Poi non piovve più. Non voglio dire che le nubi si aprirono o che si affacciò il sole: voglio dire che un momento prima pioveva e faceva freddo, e un momento dopo il cielo era azzurro e sereno dappertutto, ed era un tempo splendido, assolato, con una brezza adatta per navigare. Avevo la sensazione stranissima che quella gente non fosse tutta d’accordo per compiere quel grande miracolo (era difficile anche per loro) ma che poi avesse deciso che nessuno l’avrebbe creduto più di tutti gli altri miracoli di cui si parla, credo. E sicuramente avrebbe reso più facile il compito di Thorvald quando fosse tornato a fare quegli strani discorsi sui santi e il Paradiso, e infatti fu così.

Ecco, la storia è tutta qui. Lei mi disse: — Sii felice — e io lo sono: ora mi chiamano Radulf il Felice. Ho avuto la mia parte di guai e di malattie, ma c’è sempre dentro di me un piccolo nucleo di calore e di gioia che mi rende tutto più facile, come il fuoco d’un viandante che arde in una notte fredda nella foresta. Quando sono molto addolorato, rammento le sue dita che mi toccavano i capelli, e questo basta per attutire la sofferenza. Quindi forse ho avuto il dono migliore, dopotutto. E lei mi disse anche — Ricordami — e perciò ho ricordato, ogni piccolo particolare, anche se avvenne quando avevo l’età che oggi ha mio nipote, ed è per questo che oggi posso raccontarvi questa storia.

E gli altri? Tre giorni dopo la partenza dei norvegesi, Sibihd ricuperò il senno, e nessuno sapeva come fosse accaduto, anche se io credo di saperlo! In quanto a Thorvald Einarsson, ho saputo che dopo che sua moglie morì in Norvegia andò in Inghilterra e là finì i suoi giorni come frate in un convento, ma non so se questo sia vero o no.

So questo, invece: anche se mi chiamano Radulf il Felice, ci sono ancora tante cose che mi turbano. La badessa Radegunde era un demonio, come dice il prete nuovo? Non posso crederlo, anche se quando gliel’ho chiesto lui ha risposto che metà delle parole di Radegunde erano assurdità, e l’altra metà erano bestemmie. Padre Cairbre, prima che i norvegesi lo uccidessero, ci aveva raccontato molte storie dei Sidhe, cioè del popolo fatato irlandese: quelli lasciano creature scambiate nelle culle degli umani. E per un po’ pensai che Radegunde dovesse essere una donna dei Sidhe, perché sapeva leggere il latino a due anni, ed era un prodigio di sapienza quando era ancora tanto giovane, dato che quelli che i Sidhe lasciano nelle culle degli umani non sono i loro bambini, capite, ma adulti, che hanno centinaia e centinaia d’anni, e alla fine gli altri del popolo fatalo tornano sempre a riprenderseli. Eppure questo non è possibile, perché padre Cairbre diceva anche che i Sidhe sono capricciosi e crudeli e non hanno anima; e la badessa Radegunde e coloro che vennero a prenderla non erano affatto così, anche se lei ruppe il collo a Thorfinn… però può darsi benissimo che Thorfinn se lo rompesse da solo per caso, come pensammo tutti allora, e che lei dicesse a Thorvald che era stata opera sua soltanto per spaventarlo. La badessa Radegunde aveva un’anima, con le gioie e le sofferenze di un’anima, più di tanti di noi, qualunque cosa dica il prete nuovo. Lui non l’ha mai vista, e non ha mai sentito la sua angoscia e la sua solitudine, e non l’ha sentita parlare della luce sfolgorante che ci circonda… e quella luce che cosa può essere se non Dio stesso? Anche se diceva che il crocifisso era una cosa sorda e vana, sicuramente non intendeva Cristo ma soltanto quel pezzo di legno, perché ripeteva sempre alle suore che Cristo era in cielo e non sul muro. E se diceva che la luce non era buona né cattiva, ebbene, un dotto irlandese itinerante mi ha parlato di un santo monaco cristiano, Agostino, il quale ci insegna che tutto ciò che esiste è bene, e che il male è soltanto la mancanza del bene, come un posto vuoto. E se la badessa disse davvero che non c’era un Dio, io affermo che quello era il peccato della disperazione, e anche i santi possono peccare, purché si pentano, e io credo che lei si pentisse, alla fine.

Io mi dico tutto questo, eppure so che la badessa non era una santa: perché i santi sono forse pochi e deboli, come disse lei? No, sicuramente! E poi c’è una cosa che non ho ancora raccontato, un piccolo particolare che forse vi farà ridere e forse non significa nulla, ma comunque ecco qui:

I santi sono calvi?

Quegli esseri biancovestiti avevano le facce giovani, ma erano calvi come uova: non avevano un solo capello sulla testa! Bene, Dio può radere i suoi santi se così Gli piace, immagino.

Ma io so che non era una santa. E poi credo che uccise Thorfinn e che la luce non fosse Dio, e che lei non fosse cristiana e forse neppure umana; e ricordo che per lei Radegunde era soltanto una veste che poteva togliersi a volontà, e che odiava e disprezzava Thorvald, fino a quando fu felice e al sicuro tra la sua gente. O forse era come quel discorso sulla vita in una casa con le stanze chiuse; quando smise d’essere Radegunde, prima tornò una parte di lei, e poi l’altra, la parte gioiosa che non sapeva mentire e tramare, e poi la parte incollerita; e le due parti si riunirono quando fu di nuovo tra i suoi. E poi rinuncio a cercare di ponderare e torno a riscaldarmi l’anima al fuocherello che accese dentro di me, quel luogo caldo e luminoso nel buio pieno di vento.

Ma c’è qualcosa che mi turba anche là, e che non si acquieta con il ricordo del tocco della badessa sui miei capelli. E mi turba sempre di più, via via che invecchio. Fu l’ultima cosa che mi disse, e che non vi ho ancora raccontato, ma lo riferirò adesso. Quando mi ebbe fatto il dono della contentezza, mi sentii così felice che dissi: — Badessa, hai annunciato che volevi vendicarti di Thorvald, ma non hai fatto altro che trasformarlo in un uomo buono. Questa non è una vendetta!

Mi sbalordii della reazione alle mie parole, perché all’improvviso tutto il colore defluì dal suo volto e lo lasciò cinereo. Mi sembrò invecchiata di colpo, come un teschio, sebbene stesse lì tra i suoi nell’amore e nella gioia che si irradiavano da loro con tanta forza che persino io potevo sentirli. Mi rispose: — Non l’ho cambiato. Gli ho prestato i miei occhi, ecco tutto. — Poi guardò alle mie spalle, in direzione del nostro villaggio, dove i norvegesi caricavano sulle barche gli schiavi piangenti, e di tutti i villaggi della Germania e dell’Inghilterra e della Francia dove i poveri sudano dall’alba all’imbrunire perché i grandi signori possano combattersi tra loro, e i castelli assediati dove gli affamati mangiano topi e ratti e a volte si mangiano tra loro, e le donne rapite o violentate e picchiate, le madri che gemono per i loro piccini, e oltre tutto questo il grande, immenso mondo con le sue battaglie che credevo così grandi, e l’infelicità e l’avidità e la paura e l’invidia e l’odio di tutti, eccettuati forse pochi selvaggi, così lontani da noi che è difficile vederli. La badessa mi chiese: — Non è una vendetta? La pensi così, figliolo? — E poi disse, con il tono di chi crede assolutamente, e ha veduto tutta la gente vivere e morire, non per un anno ma per molti anni, non in un luogo ma in tutti i luoghi, e conosce tutto il mondo:

— Pensaci meglio…