Il tema della città è stato più volte sfruttato in fantascienza, da quelle volanti di James Blish a quelle del lontano futuro di Clifford Simak. Ma nessuno, prima di John Shirley, aveva esplorato con tanta efficacia il mito della città vivente, organismo tipico del XX secolo e dintorni. Se le città hanno davvero un’anima, è possibile che sia maligna? E ammesso che si tratti di organismi senzienti, è concepibile che il rock sia l’equivalente della loro musica delle sfere? Lo scoprirà il lettore in questo thriller metropolitano ante-litteram, il libro che alla fine degli anni Settanta consacrò John Shirley come uno dei più promettenti autori di fantascienza moderna.

John Shirley

La musica della città vivente

Prologo

Nello studio di registrazione, la ragazza si aggiustò la cuffia sulle orecchie e fece un cenno al tecnico. Questi, che si trovava dall’altro lato della cabina di vetro, annuì e premette il pulsante che avrebbe fatto risentire diverse ore di musica registrata.

Il primo pezzo, un rock duro improvvisato (in uno stile comunemente definito angoscia rock), era stato registrato qualche settimana prima. La ragazza era la cantante solista della band. Era la prima volta che sentivano i nastri dopo il mixaggio: per prima cosa avevano dovuto racimolare i soldi per pagare l’affitto dello studio. La ragazza non aveva ancora un contratto per incidere il disco. Forse, non l’avrebbe mai avuto.

Si chiamava Sonja Pflug, ma il suo nome d’arte era Catz Wailen. Ormai tutti la chiamavano Catz, persino quelli della sua famiglia. Catz ascoltò il nastro per due minuti, e poco alla volta le labbra le si piegarono agli angoli, rughe le solcarono la fronte. Si agitò sullo sgabello. Non riusciva a mettersi comoda su quello sgabello di plastica, lì nello studio. Era tesa, e la sua tensione cresceva di secondo in secondo. Continuando ad ascoltare il nastro, scosse piano la testa. Batté sul vetro che separava la sala registrazione dalla sala controllo, e il tecnico fermò il nastro. Catz abbassò un interruttore e parlò nel microfono dell’intercom.

— Si sente una voce che parla sotto la musica. Non è roba che abbiamo inciso noi. Non mi sembra qualcuno del gruppo. Non riesco a capire cosa dice. Che cavolo è? Una voce… Che accidenti significa, uomo? Eh? E dai. Sarà un cb o qualche altra puttanata del genere che è riuscita a filtrare nell’isolamento acustico dello studio. Oh, insomma, se vogliamo toglierla dai nastri bisognerà identificarla con precisione, se no come facciamo a levarla? Dobbiamo scoprire su che frequenza parla, e che cavolo vorrebbe… Senti, l’aria è impregnata di trasmissioni, radio e tv e microonde, e ci penetrano di continuo, di nascosto… C’è l’etere che ci gira attorno, ne parlavano gli scienziati dei vecchi tempi, ed è diventato il medium ideale per le cose più insipide. Okay? Insomma, alla nostra musica si deve essere mischiato qualcuno che faceva una trasmissione idiota, magari la pubblicità della birra. Lo sento. C’è sul serio. Mixa, remixa. Voglio sentirlo meglio, capire cos’è, se è una radio o che altro, se è un fottuto radioamatore col suo numero di chiamata… Ci ha rovinato il nastro… Oh, okay? L’hai isolato? Si sente bene? Okay… Adesso…

Catz si rimise la cuffia, fece segno al tecnico di far partire il nastro.

E la voce sul nastro, che adesso si udiva benissimo sopra il tuono della musica, disse: — Ciao, Catz. — E poi rise. Una risata folle. — Spero che tu mi senta chiaramente. Gli altri, qui, hanno avuto i loro alti e bassi nel far sentire le loro voci nel tuo mondo. I morti non hanno laringe. Per lo meno, non la possediamo dal vostro punto di vista, perché dal nostro… — S’interruppe per ridere. Nella voce c’era sempre una punta d’isterimo.

— Scusa. Ogni volta che penso ai punti di vista mi viene da ridere, per via di quello che è successo. Per come vedo le cose adesso. E per come le vedevo allora. Prima della Grande Spazzata. Prima che vedessi la grande mente. La grande mente è la mente di tutti. Ma ora devo organizzarmi per te. Ho camminato… Camminato?… Sì perché io ho un corpo, dove mi trovo adesso. Dal tuo punto di vista, non ho corpo. Organizzarmi. Devo entrare nello stato d’animo giusto per raccontarti questa storia, perché… Devo raccontarla dal… ehm… dal punto di vista del tuo mondo. Sono giorni che cammino e ci penso, che rivivo tutto nella mente, che torno indietro a guardarmi… indietro nel tempo, intendo: perché giocare con le parole?… a guardarmi mentre vivo tutto questo. Per rivedere tutto con chiarezza. Ho un sacco di tempo per rivedere con chiarezza, perché resterò vicino al tuo mondo per altre quaranta ore relative. Sono quasi nel tuo mondo, ma non completamente. Mi trovo leggermente spostato di fase, capisci? Sono qui per via di Città e degli altri. Li aiuto tutti. Sono legati fra loro, in un punto o nell’altro della catena. Le supermenti di ogni città che si uniscono in un unico fulcro comune… New York, San Francisco, Los Angeles… Però quella di Los Angeles è così disgregata, frammentaria, aggressiva… Tutte le città, tutte, unite fisicamente. È un bel posto, ed è un posto orribile, questo grande serbatoio mentale. Sei bella, Catz. Non credo di avertelo mai detto. Sei bella. Avrei sempre voluto dirtelo. Ma pensavo che ti saresti messa a ridere, che avresti risposto che ero sdolcinato, oppure cieco. Mi avresti preso in giro. Ma adesso le cose sono diverse. Adesso posso dirti che ti amo.

“E posso dirti perché ho fatto quello che ho fatto. Perché ti ho lasciata andare a Chicago. Lo sapevo che saresti entrata in contatto con la mente che è Chicago. Su un livello o sull’altro, ho sempre saputo cosa sarebbe successo. Adesso io servo a uno scopo, Catz.

“Cristo, Catz, sei bella. Riesco a vedere in te, nel tuo campo di energia. Vedo il punto focale dove si trova il tuo… come lo chiamavano?… centro di coscienza. Lo vedo risplendere in te come risplende un arco in un tubo a gas rarefatto.

“Spero che tu riesca a riconoscere la mia voce. Sto usando una specie di psicocinesi per creare le onde sonore esatte. Spero di sembrarti sempre io. È un po’ come fare il ventriloquo fra una dimensione e l’altra, più o meno. Mi senti? Sono Stu! E se no, chi potrebbe essere, giusto?”

Catz si tolse la cuffia. Fece un cenno al tecnico. Il tecnico fermò il nastro. Catz, pallida, gli occhi sbarrati, restò a fissare il quadro di comando. Si alzò, prese la borsetta, ne tolse un flacone di medicinali. Ingoiò un calmante e una boccata d’aria. “È proprio lui”, pensò.

Tornò allo sgabello, afferrò la cuffia. Se la rimise in testa. Esitò. Restò immobile un minuto, per convincersi che doveva andare fino in fondo. Fece un segnale al tecnico, e si mise ad ascoltare.

— Voglio che tu mi capisca, Catz. Che capisca perché non potevo venire con te. Perché ho lasciato fare a Città quello che ha fatto.

“È buffo, ma il tempo non significa niente per chi possiede un corpo etereo. Una volta imparate le strade del labirinto, si può viaggiare in una direzione o nell’altra. Possiamo assistere alla nostra nascita. Io, invisibile, mi sono sistemato accanto al letto d’ospedale di mia madre e mi sono visto nascere! Mi sono visto crescere. Voglio tornare indietro a rivedere tutto. A essere di nuovo testimone, testimone oggettivo. Ti racconterò questa storia, anche se tu l’hai vissuta quasi tutta. Spero di poterla dire dall’inizio alla fine sul tuo nastro. Comincerò con quella sera al club, la seconda sera della tua tournée a San Francisco. Eri appena rientrata da Chicago. La sera che ti ho chiesto di frugare con le tue doti psi l’uomo che volevo assumere come buttafuori. Sto entrando nello stato d’animo necessario. Lo sento. La terza persona. Io sono la terza persona, sì.”

La voce rise. Catz trasalì. Una voce leggermente folle.

— Più o meno, era il dieci maggio del 1991. Nella cara, vecchia San Francisco… Quella che era allora San Francisco, prima dei cambiamenti, della Spazzata, e… non importa. Buffo. Non molto tempo fa, relativamente al mio senso soggettivo del tempo, mi sono trovato al centro di un’esplosione che faceva parte della Spazzata. Una casa mi è scoppiata addosso. Non ho provato dolore. Mi è piaciuto. È stato come fare il bagno in un mare agitato. Ma c’era anche un senso di orrore…

“Adesso mi sono organizzato. Torno indietro. Ellis Street. Il club Anestesia. Il mio club, a dispetto di tutto quello che ne dicevano. Il Chronicle ha scritto: ‘…Zero per cento se cercate un’atmosfera umana ed estetica, cento per cento se cercate un frastuono interminabile, scazzottature, tipi eccentrici, prostitute e delinquenti’. All’inferno il Chronicle. Era il mio club, e io lo amavo…”

Catz ascoltava. Dentro, le sembrava di sciogliersi. Il sudore le imperlava la fronte. Sullo sfondo, dietro la voce senza corpo, la sua band gemeva e vibrava e urlava l’angoscia rock: una sonorità ridotta all’essenziale, una musica rabbiosa e veloce, come l’eco di un treno della metropolitana che entrasse in stazione.

La voce sul nastro raccontò una storia.

UUUNOOO!

Erano le dieci di sabato sera, il che significa che il club era pieno al massimo. Ma non era semplicemente pieno, era tumescente. La gente quasi usciva dalle finestre, il che andava benissimo a Stuart Cole. Il club viveva degli incassi extra della folla straripante del sabato. Però, purtroppo, lui doveva anche assumere, e peggio ancora pagare, tre (uno due tre) buttafuori per quell’unica serata. E Cole, per il momento, aveva trovato un solo buttafuori, già distrutto, con le nocche spellate. Ne stava cercando altri due. Sino ad allora, avevano rifiutato l’offerta due ex lottatori, un ex berretto verde e un tipo nerboruto. A quanto pareva, volevano uscire di lì con la faccia intatta. L’Anestesia godeva di una certa reputazione…

Cole stava preparando un Chiodo Arrugginito e pensando ai buttafuori quando notò l’uomo con gli occhiali da sole. Lo notò come gli occhi di chiunque notano un galleggiante in mezzo alle onde: una cosa solida in un liquido in movimento. Le folle sono liquide, percorse da correnti e mulinelli. Le persone sono cose morbide, fatte più che altro d’acqua, e quando si spostano creano un movimento ondulatorio, senza strappi improvvisi. Invece, quell’uomo era una nave rompighiaccio: duro, implacabile, anche se con una sua grazia particolare. Non era enorme, e nemmeno troppo solido, ma aveva un’aria d’inflessibilità. Di resistenza.

Il buttafuori ideale.

Soppesandolo, Cole decise che non era ricco: il suo impermeabile nero di stile militaresco era strappato in due punti e senza cintura, e il cappello nero a falde larghe che gli scendeva sul viso stava perdendo ogni forma. Gli occhiali da sole scuri sembravano nuovi, riflettevano le luci che danzavano sulla sfera a specchi appesa sopra la pista da ballo. “Forse è un poliziotto in incognito”, pensò Cole. O forse, peggio ancora, un vigilante. I vigi avevano promesso di fare piazza pulita delle prostitute con tutta una serie di incursioni, e lì dentro le prostitute non mancavano.

L’uomo aveva una faccia squadrata, pallida, senza segni particolari; però tozza, un po’ come un viso umano scavato nel marmo. Il mento, tagliato in due da una fossetta, sporgeva molto più in fuori del naso rincagnato. I capelli erano corti, riccioluti, con sfumature d’un blu-nero metallico. Era sul metro e settantacinque, di corporatura media. Ma quella sua aria da grattacielo incrollabile prometteva una forza irresistibile.

Cole restò a guardarlo, pensando: “Attento a chi assumi…”. A San Francisco, non si potevano correre rischi con un maniaco qualsiasi preso dalla strada. Doveva essere il tipo giusto di maniaco…

Cole restò a guardarlo senza dare nell’occhio. Lasciò Bill Wallach a versare da bere e finse di voler controllare gli impianti sul palco, pensando che da lì avrebbe visto meglio l’uomo.

È così, raddrizzando microfoni e spostando fili senza nessun bisogno, Cole guardò. L’uomo con gli occhiali a specchio era fermo all’ombra del distributore di sigarette, ai margini della folla. Impassibile, osservava. Cole avrebbe voluto potergli vedere gli occhi.

Lo sguardo di Cole tornava di continuo sulle labbra dell’uomo. Erano labbra esangui, serrate, tirate all’indietro, e non si muovevano mai, nemmeno di un millimetro. Catz venne sul palco a chiedergli se l’impianto era a posto, e perché diavolo stava armeggiando con la cinghia di una chitarra…? — La sto, ehm, sistemando, Catz. Senti, credi che potresti tenere d’occhio quel tizio vicino al distributore di sigarette? Quello con gli occhiali a specchio. O è pericoloso, o è il buttafuori perfetto. Voglio saperlo. Non voglio andare a offrirgli un lavoro se non so che è a posto, che non è un maledetto infiltrato dei vigi…

Catz scrollò le spalle, annuì, e i suoi capelli corti, venati d’argento, danzarono attorno al suo viso vorace come la frangia di una tenda; i suoi occhi dorati si socchiusero, segno che lei voleva fare una domanda. Cole fece di no con la testa e tornò dietro il banco, ad aspettare il rapporto di Catz.

La band salì sul palco. Quando ebbero accordato e sistemato e acceso gli strumenti, Cole premette l’interruttore che fermava il nastro della disco music e urlò nel microfono del banco: — Zinnone e genitaluomini, CATZ WAILEN! — Metà della gente sulla pista da ballo urlò, e l’altra metà rise. Tutti mormorarono ansiosamente. Anche quelli a cui Catz non piaceva avevano sentito storie sul suo conto.

Catz, accordando la chitarra, si chinò a mormorare qualcosa a una cameriera. La ragazza annuì e si fece strada verso Cole tra la marea di mani protese.

— Catz mi ha detto di dirti che il rapporto è nelle parole della canzone. Di cosa diavolo stava parlando?

— Te lo spiego dopo — rispose Cole, anche se non aveva nessuna intenzione di spiegarglielo. La cameriera riempì il vassoio di bicchieri e ripartì per dar da bere agli assetati, e Cole aspettò. “Il rapporto è nelle parole della canzone?” Rabbrividì. Era uno dei pochi in grado di capire il senso dei testi di Catz. Perché la conosceva da anni? Forse. Ma anche perché tra loro esisteva affinità. Molti non sapevano che Catz improvvisava le parole cantando, le componeva sul momento. Ogni sera erano diverse. Per questo era raro che fossero in rima.

La band era pronta, sistemata, elettrificata, in attesa. Era un gruppo di cinque persone, un gruppo di angoscia rock. e Catz era la leader. Catz strizzò gli occhi quando si accesero le luci del palco, poi diede un colpetto sul microfono per vedere se funzionava e abbaiò alla folla: — CHIUDETE IL BECCO!

Cole non aveva mai visto un altro cantante capace di ottenere risultati concreti a quel modo.

Quella sera, il pubblico era particolarmente rumoroso. Fracassava bicchieri, lanciava bottiglie di gomma, rideva e strillava. Il rumore avrebbe continuato a salire d’intensità; entro mezzanotte, la folla avrebbe sguazzato nel proprio tuono, un unico urlo gigantesco che avrebbe fatto tremare le pareti. Solo che Catz, una donna piccola, sottile, fragile, col collo lungo, aveva detto chiudete il becco.

E quelli avevano chiuso il becco.

Era miracoloso: era scesa la quiete. Qualche colpo di tosse, una risata sottovoce, i clic degli accendini. Il locale pieno di fumo fu percorso qua e là da un bagliore: qualcuno accendeva uno spinello, in attesa della musica. La gente sulla pista da ballo si preparò, rilassò il corpo, pronta a lanciarsi nel ritmo del primo pezzo.

Quella calma era innaturale; tutti attendevano che finisse. L’attesa fu più che soddisfatta quando la band si lanciò nel primo brano. Un’esplosione improvvisa di suoni, di frastuoni elettrici. La prima chitarra attaccò un a solo potente: sembrava un argano senz’olio che tentasse, ululando, di sollevare una tonnellata di rottami metallici.

Il tuono del basso unificava i gemiti degli altri strumenti, ne faceva una forza d’urto compatta, così come le viti tengono assieme un carrarmato lanciato alla carica. Catz mise giù la chitarra ritmica e iniziò a cantare. Cole, teso, decifrò le parole:

Porci da due soldi, ruffiani, imbroglioni,
siete obsoleti, siete obsoleti
donne sempre pronte a urlare,
uomini sempre pronti a sbavare,
siete obsoleti, siete obsoleti
non c’è più posto per voi sulla strada
anche i vostri trucchi sono obsoleti.
Perché la strada è stanca,
stanca di tutto, stanca di voi,
stanca del piscio e delle Cadillac,
e la notte sarà chiara, il giorno buio
quando la città camminerà,
quando ciò che è suo reclamerà…

La chitarra solista si lanciò in un lungo “a solo”, ritraendo la gioventù nel linguaggio dell’elettricità. Catz danzò, in cento variazioni, gli ultimi spasimi della falena bruciata dalla fiamma della candela. Catz tirò un calcio nel sedere del bassista e rise e aprì ad arco le braccia e balzò in aria a più di un metro, girò su se stessa, tirò un altro calcio al ragazzo della chitarra solista mentre scendeva, chiuse di colpo le ginocchia, batté le mani, atterrò sul palco, tracciò percorsi serpentini col collo, agitò il sedere e le spalle in una doppia provocazione, e non perse mai il ritmo.

Batteria e basso tacquero, in drammatica attesa. I grandi occhi d’oro di Catz si spalancarono ancora di più. Il sudore le aveva appiccicato alla testa i capelli color platino. Il suo viso perse ogni incertezza, e lei accennò all’uomo con gli occhiali a specchio; poi cantò:

La città si alza e cammina,
reclama ciò che è suo,
gli indù e le loro incarnazioni,
Catz e le sue chitarre,
Zeus un cigno per Leda…
A volte il mondo prende la forma degli dei
a volte gli dei prendono forma d’uomini
a volte gli dei camminano sulla Terra come mortali…
E stanotte la città si è alzata,
ha camminato,
e noi siamo tutti obsoleti…

Catz urlava fuori nota, quasi senza seguire la musica, e il pubblico non aveva nessuna idea di che cosa stesse dicendo. Però l’adoravano. Perché lei dava la sensazione di credere in tutto quello che cantava.

La canzone salì d’intensità, come fanno le guerre, la sfera di vetro sfaccettato girò proiettando frammenti di luce, bottiglie di gomma volarono nell’aria, il fumo si avvolse a spirale, e Catz fissò intensamente Cole (e Cole desiderò non essere un quarantaduenne con la pancetta) e disse nel microfono: — Questa parte della canzone… Ehi, porci, mi state ascoltando? — La folla, rabbiosamente felice, rispose con un urlo. — Okay! Figli di vacca, questa parte della canzone racconta una storia in dieci parti, come un libro con dieci capitoli. Io vi dirò il numero di ogni capitolo e voi dovrete capire da soli quello che succede visualizzando l’architettura invisibile della musica, e se non ci riuscite andate a farvi fottere, quindi state attenti per Dio! — Catz respirò a fondo, la band si fermò, l’urlo della folla divenne un mormorio, e lei cantò: — UU NOO! — La chitarra solista si lanciò in un riff strangolato, e a Cole sembrò di vedere se stesso e l’uomo con gli occhiali a specchio assieme sulla strada.

Lei urlò: — DUEEE! — Entra di prepotenza il basso e fabbrica l’immagine dell’uomo con gli occhiali a specchio su uno schermo televisivo.

— TRRRRE! — La batteria elabora l’immagine di vigilantes che sparano alla cieca tra gli spettatori di un concerto rock.

— QUAAATTRO! — Il sintetizzatore fa tremare i loro cervelli con immagini sonore sub e ultrasoniche, immagini di Catz e Cole sanguinanti su un pavimento di legno, circondati da uomini che ridono.

— ZINQUEE! — La chitarra ritmica porta la visione di Cole e Catz che fanno l’amore.

— ESSSEI! — Le due chitarre, ruggendo assieme, creano contrasti di luce e ombra, fanno intravedere Cole sdraiato su un letto, con un proiettile nella gamba; al suo fianco, Catz sta preparando le valigie.

— ESSETTE! — La batteria evoca l’immagine di Cole che indietreggia quando un amico gli sbatte la porta in faccia.

— OTTTTTo! — L’organo mostra a Cole se stesso chiuso in carcere.

— NOVVEY! — Cole si vede nudo davanti a uno specchio. Si sta sfregando gli occhi.

— DIECCIII! — Tutti gli strumenti si fondono in un unico accordo, evocando la visione di Cole scosso dagli spasmi, solo in un corridoio, mentre sputa sangue…

La canzone terminò di colpo. Cole dovette correre in bagno. Dopo aver rimesso si sentì un po’ meglio. Si versò da bere per scacciare gli ultimi residui di disorientamento. “Perché mi ha fatto vedere tutte quelle cose?”

Cole tornò dietro il baco e ricominciò a lavorare: una specie di yoga per recuperare la calma. Catz lanciò la band in un altro pezzo.

Lo sconosciuto con gli occhiali a specchio osservava pensoso il palco. Era l’unico a non muoversi al ritmo delia musica. Persino i baristi schioccavano le dita. Ma lo sconosciuto se ne stava lì a guardare e basta. E non si muoveva.

Cole lavorò al banco, nutrì il mostro insaziabile dalle mille bocche che il banco di legno tratteneva a stento: lui versava liquore nella gola del mostro, e le sue bocche ne chiedevano ancora… A intervalli regolari, i terminali dell’Interfondo installati lungo il banco accettavano le carte di credito offerte dai clienti, mostravano se il cliente o la cliente aveva un conto in attivo, trasferivano istantaneamente il denaro dal conto del cliente a quello del proprietario del locale, verificavano l’operazione sul pannello di controllo a cifre digitali…

Come accadeva almeno una volta per sera, qualcuno mise sul banco, al posto della carta di credito dell’Interfondo, denaro contante. Era un vecchio con una gran criniera di capelli bianchi e sporchi e occhi azzurri, acquosi. — Dove sono i tuoi soldi, nonno? — disse Cole. — I soldi veri. La carta del Tif.

— Porca miseria, questi sono i soldi veri. Quella merda di carta è solo…

— Sì, sì, lo so come la pensi, ma noi qui non vendiamo più niente in contanti, fratello. Nessuno vende più in contanti. Non ci pigli nemmeno una birra, con questi. Per un caffè, un liquore, o quello che vuoi, devi avere la carta del Tif… Non so come facciate a cavarvela voialtri che usate i soldi. In città saranno rimasti tre negozi al massimo che li accettano ancora. Il Trasferimento Istantaneo di Fondi…

— Va’ a farti fottere! — abbaiò il vecchio, che si leccò le labbra secche raccogliendo i soldi. — Tanto qui la musica fa schifo!

Uscì. — Mi spiace, nonno! — gli urlò dietro Cole, depresso. “C’è qualcuno che proprio non riesce ad adattarsi”.

Cole era talmente preso dal lavoro che gli altri numeri di Catz volarono in un lampo. Catz annunciò un intervallo e scese subito dal palco. Cole fece ripartire il nastro della disco e versò da bere a Catz. Lei bevve d’un fiato il suo martini dry doppio, e Cole gliene servì altri due. Catz era iperattiva, tremava, come le succedeva sempre dopo un’esibizione. Quando cantava, dava tutta se stessa, febbrilmente.

— Hai sentito? — gli chiese poi.

Cole si protese sul banco, piantò i gomiti sul legno e il mento sulle mani e chiese: — E che razza di senso dovrebbe avere la roba che hai cantato?

— Credevo che all’università ti fossi specializzato in poesia, Stu — disse lei, prendendolo un po’ in giro.

— E allora? Io voglio sapere se posso assumere un tizio come buttafuori, e tu mi rispondi stanotte la città si è alzata, ha camminato, e fregnacce del genere.

— Hai ricevuto le visioni psi che ti ho trasmesso?

— Sì, ma non le ho capite bene.

— Be’, nemmeno io. Vuoi sapere se puoi fidarti di quel tizio? — Catz rise. — Un tizio, lo chiami. Fidarsi, dici. Cristo! Sì, potresti fidarti di quel tizio. Potrebbe farti da babysitter, se tu avessi dei figli, oppure potrebbe fare la guardia ai tuoi soldi, o buttare fuori i rompiscatole da qui. Se accettasse, stai sicuro che non ti fregherebbe. Solo che non accetterebbe. Non ha tempo per sciocchezze del genere. Ha le sue cose da fare, e solo una notte per farle… A ogni modo, non è una persona. Non capisci? È la città. Tutta intera. La città immersa nel sonno, che sogna e s’incarna in un corpo, fratello. Chiaro? È la Gestalt di questo posto, di questa fottuta città, racchiusa in un uomo solo. A volte il mondo prende la forma degli dei e gli dei prendono forma d’uomini. A volte. Questa volta… quell’uomo è un’intera città, e non sto parlando per metafora.

Lo disse senza esitazioni. Lo avesse detto chiunque altro, Cole si sarebbe messo a ridere. Nessuno può dare un’occhiata a uno sconosciuto e conoscerlo come se avesse trascorso con lui tutta la vita. Nessuno tranne Catz. Catz possedeva un dono. Una volta, un ricercatore della Duke University le aveva offerto valanghe di soldi se avesse accettato di sottoporsi a test sulla percezione extrasensoriale. Ma Catz aveva rifiutato. Catz vede solo quando lo vuole, quando l’intuizione le dice che è il momento giusto. Quindi, Cole sapeva di potersi fidare del suo giudizio: era il giudizio del suo dono. E così Cole seppe chi era lo sconosciuto. Ed ebbe paura.

Catz tornò sul palco. D’improvviso, il club Anestesia parve soffocante. Il fumo della droga e il fumo delle sigarette e la miriade di uomini esagitati afferrarono Cole alla gola. Era sul punto di stare male. Disse a Bill di badare al banco e uscì.

Si fermò sul marciapiede, respirò l’aria frizzante della primavera.

Non riusciva a stare fermo. L’energia in eccesso lo costringeva a passeggiare in su e in giù davanti al locale.

Non era uscito solo per prendere una boccata d’aria. Era uscito per accertarsi di qualcosa.

Guardò la città.

Il traffico era intenso: gente in cerca di prostitute da due soldi, ragazzi in macchina. I clacson gemevano e ululavano, i fari abbagliavano, i ragazzi urlavano frasi senza senso dai finestrini delle auto. Qualcuno tirò una bottiglia a Cole. La bottiglia rimbalzò sul muro alla sua destra. — Stronzo — mormorò lui, distratto. I piani dei palazzi erano stratificazioni di luce: l’azzurro chiaro dei televisori nei soggiorni bui. il bianco accecante dei bagni, le luci multicolori dei party. Insegne rosa al neon reclamizzavano i locali porno, e una brezza lieve smuoveva la sporcizia accumulata nelle grondaie.

— Fratello, posso chiederti un piacere…

Cole lanciò al barbone la sua carta dell’Interfondo, restò a guardarlo mentre raggiungeva la cabina del Tif all’angolo, mentre inseriva la carta di credito nel terminale. — Non più di un dollaro o ti rompo il muso! — urlò Cole. Il barbone, senza sorridere, gli restituì la carta. Adesso aveva un dollaro sul suo conto, poteva permettersi mezzo litro di vino.

Il barbone trottò via. Cole infilò le mani nelle tasche dei calzoni, fece una smorfia. Il grembiale che portava ancora svolazzava al vento. Dal locale all’angolo uscivano fumi putridi, e l’odore di vino rancido e di pizza ancora più rancida, quella che vendevano a cinquanta centesimi al taglio. Il marciapiede ospitava prostitute, qualche punk, accattoni, e una donna che portava a passeggio un barboncino con la sinistra infilata nella borsa, probabilmente serrata sul calcio di una pistola.

Dal club continuava a uscire la disco music. Catz non aveva ancora attaccato la seconda parte dello spettacolo. Cole sorrise, ricordando le discussioni sulla disco che aveva avuto con lei. Catz diceva che ormai erano solo i computer a produrre disco music, sulla base di studi psicologici, di rilevamenti di tendenza, per cui la disco risultava conforme allo status quo, cioè era uno strumento della repressione, un sedativo sociale che aiutava a mantenere l’ordine esistente. Il rock ’n ’roll come forma di potere. E Cole si metteva a ridere e ribatteva che ogni tipo di musica popolare riflette lo status quo o il desiderio di esserne parte, e che lui cercava solo di mandare avanti il club secondo i gusti dei clienti. Due volte l’anno faceva svolgere un’indagine dalle cameriere, per esempio chiedeva che genere di musica preferissero ascoltare i clienti negli intervalli dello spettacolo dal vivo, e quasi tutti volevano la disco. Era per quello che Cole ogni tanto poteva ingaggiare band strane, band radicali come quella di Catz Wailen; perché giungeva a compromessi in altre cose. E perché la maggioranza dei gruppi che ingaggiava erano gruppi normalissimi, band che eseguivano i pezzi alla moda. Ma Catz rispondeva che lui faceva il ruffiano con una mentalità fascista, e aggiungeva: — In ultima analisi, mio caro Cole, tu sei un collettivista. Vai matto per la volontà del popolo. Io sono un’individualista. — E Cole ribatteva qualcos’altro e le discussioni non finivano mai, continuavano a girare su se stesse come la disco music.

La disco s’interruppe quando Catz urlò nel microfono: — Spegnete subito quella musicaccia idiota! — La sua voce amplificata risuonò su e giù per la strada. Le puttane risero, la gente accelerò il passo.

La musica di Catz aggredì la strada, fece vibrare i lampioni. Cole aveva la mano contro un lampione, sentì il basso vibrare nella colonna d’acciaio. Assalito dal desiderio di sfuggire per un po’ al rumore, di sottrarsi al tono d’accusa della voce di Catz che quella sera sembrava diretto, sotto sotto, proprio a lui, Cole si allontanò dal club. Le mani in tasca, passeggiò in direzione sud, fermandosi ogni tanto a parlare con qualcuno, con gli sfaccendati che alla luce dei lampioni tessevano discorsi grandiosi, discorsi inutili… Cole che annuisce e dice: — Sul serio? Mi pare una buona idea, se riesci a trovare il capitale — quando Mario gli racconta che sta per avere un successo bestiale nel campo dell’abbigliamento perché la sua vecchia ha inventato i jeans senza fondelli, i jeans che sul sedere hanno un pezzo di stoffa trasparente, e così gli basterà trovare qualcuno disposto a investire per farla finita coi debiti. E Cole che dice: — Ti è sempre piaciuto guardare i sederi, Mario. — Gli altri ridono: filippini di Mission Street che hanno voglia di menare le mani. Cole offre sigarette, rifiuta l’offerta di Mario di diventare il finanziatore della sua fabbrica di jeans, finge di tirare una boccata dallo spinello che qualcuno gli offre, e infine se ne va.

Parla col nero dal piede deforme che lavora al negozio di film porno iridi, guarda gli ultimi visori che gli mostrano coiti ripresi dal vero, osserva con scarso interesse gli schermi su cui passano i film: le figure, nella moltitudine di accoppiamenti, si fondono in un unico grumo di carne. Pensandoci, sospetta di essere andato a trovare il nero perché sperava di provare un po’ di desiderio, magari anche solo una briciola, davanti ai riti olografici di fertilità. Così, per controllare, per vedere se le cose sono cambiate. E invece no, nessun desiderio, nemmeno una mezza erezione… Ride cortesemente davanti alla catasta di vecchi libri che il nero, sogghignando, gli mostra nella stanza sul retro. Nessuno legge più libri pornografici. Vanno solo le riviste e i trivisori e i film e i multistimolatori. — Sono cinque anni che tengo qui questi fottuti libri. Pensavo che li avrei venduti — dice il vecchio, tornando in negozio col suo passo claudicante. — Venduti un corno. Be’, almeno quest’inverno posso bruciarli se mi tolgono di nuovo il riscaldamento. In merda anche il razionamento dei combustibili.

Cole disse che era d’accordo e tornò in strada. Superò tre prostitute nere. L’unica che non lo conosceva gli fece l’offerta di rito: — Vuoi venire con me? — Le altre due finsero, per scherzo, di volerlo sedurre, e Cole finse interesse. — Ma voi non chiedete abbastanza, signore. Per gambe così belle io non pago meno di 737.000 crediti. Però non posso farvi una cosa del genere. Quelli delle tasse vi spellerebbero vive.

— Merda. Io ci sto per un bicchiere gratis nella tua fogna.

— In una fogna non ti servono da bere, puttana.

— Volevo dire in quel meraviglioso locale pubblico di tua proprietà, tesoro.

— Tesoro, eh? Meraviglioso locale pubblico, eh? Se fai un salto a mezzanotte, per un complimento del genere ti offro un brandy e tutto quello che vuoi.

Le altre si unirono immediatamente alle lodi. — Ne ho sentito parlare su Bon Appetit. Ehi, uomo, ma io ho visto di recente la tua foto su una rivista, giuro.

— Dove?

— Su Overview.

— Già. Legge sempre qualche stronzata — disse una delle altre, accendendosi uno spinello.

— L’articolo diceva che sei un uomo tutto d’un pezzo, Cole. E tu raccontavi certe cose che faranno schiattare qualche testa di cavolo di vigilante.

— Cioè? Non ricordo. Un tizio mi ha fatto delle domande e io ho risposto e poi me ne sono dimenticato. Non avrei dovuto lasciarmi intervistare.

— Dicevi che i vigi lavorano per ì delinquenti più grossi che vogliono mettere le mani sulle puttane, solo che il sindacato delle puttane non li ha lasciati fare, e allora quelli hanno assunto i vigi per dare una lezione alle puttane, e che fanno finta di sentirsi offesi nel loro senso morale ma in realtà vogliono solo diventare pro…

— Ha maledettamente ragione — disse una delle tre, ma Cole non capì quale. Era preso dalle preoccupazioni. A Oakland, i vigi avevano distrutto a furia di bombe incendiarie un club solo perché il proprietario lasciava entrare le prostitute…

Cole disse: — Ci vediamo più tardi, signore — e s’incamminò, tirando calci ai rifiuti sparsi per terra di un bidone della spazzatura rovesciato. Uno scarafaggio grande come un topo gli corse sullo stivale; Cole lo lanciò lontano, rabbioso. L’insetto andò a sbattere sul parabrezza di una Mini-Cad elettrica.

Cole raggiunse una cabina telefonica con lo schermo per le videonotizie, sedette sullo sgabello di metallo, inserì la carta di credito nel foro, impostò sulla tastiera il codice delle riviste. Sullo schermo sopra il telefono apparve l’indice delle riviste disponibili, e lui scelse il numero del maggio 1991 di Overview. Apparve l’indice della rivista. Cole batté sulla tastiera il numero di pagina che gli interessava.

TRE UOMINI E TRE NIGHTCLUB

Ho trascorso tre sere a parlare coi proprietari di tre club, e ho scoperto tre sfaccettature differenti della stessa città. Venerdì sono andato a trovare Billy Russiter, proprietario dell’elegante Carlton di…

Cole fece una smorfia d’impazienza. Premette il pulsante di scorrimento veloce finché non trovò la parte dell’articolo dedicata al club Anestesia.

…il particolarissimo senso dell’umorismo di Stuart Cole si svela in pieno nel nome del locale e nel suo arredamento. Tutti noi, naturalmente, andiamo al bar per anestetizzarci, per calmare il dolore con l’alcol e con la distrazione di uno spettacolo, per perderci tra la folla. Il club è (o meglio era, prima che quasi tutti i mobili venissero distrutti e la vernice fosse graffiata via) dipinto e arredato in modo da ricordare una corsia d’ospedale. La fila centrale di tavoli è costituita di letti singoli da ospedale, solo che al posto dei materassi ci sono ripiani di legno; qua e là spuntano piedistalli per fleboclisi, armadietti di medicinali, e alle pareti sono appesi diagrammi clinici. Ovviamente, molto dell’effetto, compreso il bianco delle pareti, si perde quando le luci si abbassano e un gruppo attacca a suonare sul piccolo palco…

Stu Cole è un uomo di mezz’età, forse più giovane di quanto non sembri, invecchiato dalle difficoltà della vita e dai molti lavori difficili che ha svolto. Sta perdendo i capelli, e la sua espressione cortese non riesce a nascondere le rughe di preoccupazione.

Cole aggrottò la fronte poi cominciò a leggere l’intervista.

Overview: — Sei giunto qui da New York City, dieci anni fa?

Cole: — Vivevo a New York da otto anni, sì. Però sono nato nella zona costiera. Sono cresciuto a Oakland e Berkeley. Ho una grande affinità con la Costa. Ho sempre sognato San Francisco, ed erano sogni molto vividi!, anche dopo sei anni di residenza a New York. Probabilmente è per questo che sono tornato.

Overview: — Cosa facevi a New York?

Cole: — È una domanda troppo generica. Se vuoi sapere come facevo a sopravvivere, allora… Be’, ho iniziato come checca.

Overview: — Una prostituta di sesso maschile?

Cole: — Già. Volevi un’intervista sincera, giusto? In genere andavo con vecchi gay, ma mi è capitata anche qualche coppia eterosessuale. Io non ero particolarmente gay, ma se mi pagavano riuscivo a cavarmela piuttosto bene. Però era una vita grama. Ho smesso quando un tale mi ha piantato sotto la pioggia, nel cortile dietro una stazione ferroviaria di Queens. Mi ha sbattuto fuori dalla macchina mentre mi stavo rivestendo. Ho vinto una borsa di studio e sono andato all’università.

Overview: — E so che ti sei laureato con la lode ma hai rifiutato la laurea. Perché?

Cole: — Pensavo che la laurea fosse una cosa elitaria, inutile, che serve solo ad allontanarti dall’uomo comune. Io non volevo allontanarmi dall’uomo comune. Mi sono sempre sentito, come dire?… alienato, forse, dalla gente, e questo non ha fatto che accrescere il mio bisogno di appartenere a qualcuno, a qualcosa. Per cui, probabilmente, per tutta la vita ho cercato solo una situazione che mi desse la sicurezza di appartenere. Avevo bisogno di una famiglia. Non ho mai avuto rapporti stretti coi miei genitori. Mia sorella chissà dov’è finita. Adesso, tutto quello che ho è il mio club, e la mia… be’, sì, tutta quanta questa fottuta città.

Overview: — Strano. La gente che abita a San Francisco ha uno spiccatissimo senso di appartenere alla città. Qualcuno è addirittura fanatico su questo punto.

Cole: — Credo di essere fanatico anch’io. Fanatico… Ma non nel senso di pensare o così, o niente. C’è un sacco di gente che dà fuori di testa perché la città è piena di turisti. Per me i turisti fanno parte dell’ambiente. La sopravvivenza della città dipende da loro. Da un certo punto di vista, questa è una città unica perché è terribilmente compressa. Voglio dire, quasi tutti vivono su questa minuscola penisola, su queste colline ripide. Il che significa che le comunità latine e le comunità nere e i filippini e i cinesi e i giapponesi e i gay, gay da per tutto, e gli arabi e gli indiani e i bianchi della media borghesia si sfiorano di continuo, che i diversi ghetti si fondono l’uno nell’altro. Per cui si crea un forte senso di comunità, credo.

Overview: — Avverto una certa incertezza nel tuo modo di parlare, Stu. Sembra quasi che oscilli tra il linguaggio dell’uomo della strada e il linguaggio del laureato…

Cole (ride): — Be’, c’è educazione ed educazione. Per quanto mi riguarda, ho scoperto che l’educazione della strada è più utile. Comunque sì, penso di essere uno strano miscuglio. Ho conosciuto parecchie persone che appartengono a quella che i giornali chiamano malavita, un sacco di artisti e fotografi… Probabilmente cerco solo di entrare a fondo in questa città, in tutte le sue parti. Dieci anni fa, quando ho assunto una marea d’impegni, quando mi sono indebitato fino al collo per dare vita al club, forse cercavo di trovare un terreno neutrale per entrare in contatto con la città nella sua totalità. Per un po’ il club è rimasto identico a tanti altri, ma io avevo bisogno di modificarlo. Ma lo sai che qui vengono i tipi più diversi di persone? Voguer, neo-punk, transessuali, cibernetici, la gente più perbene che uno possa incontrare e i peggiori relitti…

Overview: — Però mi sembra che tu te lo stia cercando, coi programmi che offri. Show multimedia, artisti di cabaret, gruppi soul, gruppi rock, complessi jazz, band da hit parade… E adesso Catz Wailen…

Cole: — Catz la conosco da tanto tempo. All’inizio di ogni decennio è destino che spunti qualcuno come lei. Per ripulire l’atmosfera. Negli anni Sessanta ci sono stati Bob Dylan e Lou Reed e Hendrix, negli anni Settanta Patti Smith, negli anni Ottanta John Lydon…

Overview: — La metti in una compagnia molto illustre.

— Sporco bastardo — mormorò fra sé Cole, e si costrinse a continuare a leggere.

Cole: — Se lo merita di stare in compagnia con gente del genere. È…

Overview: — Qualche anno fa sei spuntato alla ribalta della vita politica cittadina, e poi sei scomparso.

Cole: — Oh, ho scritto qualche petizione, le ho fatte circolare, ho raccolto firme per i referendum, ho pubblicato qualche articolo, ho sostenuto un candidato… Non molto…

Overview: — Però correva voce che volessi presentarti per le elezioni del consiglio comunale.

Cole: — Ho preso in considerazione l’idea e ho concluso che non avevo troppe possibilità. Comunque sì, penso che m’interessino la vita politica e l’amministrazione della città, cose un po’ al di là dell’industria dello spettacolo. Probabilmente m’identifico con San Francisco. I problemi della città sono i miei problemi.

Overview: — Però hai sollevato un certo scandalo quando hai cercato di far passare la proposta che per gli affari di minore importanza si continuasse a usare denaro contante.

Cole: — Gli intrighi dell’Uee spaventano la gente.

Overview: — E di cosa avrebbe paura la gente?

Cole: — Del potere dell’organizzazione. Ci tiene tutti sotto i piedi perché controlla il modo in cui facciamo i nostri affari. E una situazione pericolosa. Prova a immaginare, tanto per fare un esempio, che la criminalità organizzata acquisti il controllo del Tif tramite l’Uee. Dato che tutte le transazioni avvengono per via elettronica, e dato che gli strumenti elettronici si possono comandare anche a distanza, potrebbero impossessarsi illegalmente di denaro, oppure… Ma non credo di dover entrare nei particolari.

Overview: — So che il tuo è uno di quei locali che hanno ricevuto un avvertimento dai vigilantes.

Cole: — Sì. Mi hanno incollato l’avvertimento sulla porta. Mi ci sono volute due ore per tirarlo fuori. Ma si sbagliano. Non è vero che io ho perdonato la prostituzione. Non l’ho nemmeno condannata. La gente è quello che è. Le prostitute esisteranno sempre. Adesso che la prostituzione è una cosa semi-legale, come fumare l’erba, che esiste un sindacato, è tutto molto più sicuro. Questo nuovo puritanesimo è assurdo, uomo. È sospetto.

Overview: — Come sarebbe a dire, sospetto?

Cole: — Sarebbe a dire che quella gente è troppo ben organizzata. Attaccano i vizi che rendono un sacco di soldi, il gioco, la prostituzione, ma non attaccano i nuovi programmi del governo per la distribuzione gratuita della droga, che servono solo a tenere calma una marea di drogati. Penso che lavorino per qualcuno che fa già i soldi col vizio e che vuole farne ancora di più…

Lo schermo si spense. Restò solo la scritta: DEPOSITATE I DOLLARI IN FONDI TIF PER ALTRI DIECI MINUTI. Cole scrollò le spalle e uscì dalla cabina. Tornò al club, riflettendo.

I rumori che provenivano dai bar si alzavano e si abbassavano al suo passaggio. Era una sera dolce, tiepida. Arrivò nei pressi dell’Anestesia. La voce amplificata di Catz echeggiava tra gli edifici tutt’attorno. Cole ripensò alle immagini psi che lei gli aveva trasmesso. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena.

Si fermò davanti all’ingresso del club. La band aveva smesso di suonare, per permettere a Catz di recitare una delle sue poesie. Cole restò ad ascoltare la città, ad analizzare i suoni. Guardò, studiò le sue impressioni. Ciò che stava cercando era lì. Era la presenza della città, la Gestalt superiore che armonizzava ogni diversità, la relazione invisibile fra il vetro rotto di una finestra e l’antenna di una limousine, il rapporto insondabile fra l’odore del vino vomitato e il profumo di un negozio di fiorista… La presenza che solo un idiota non avrebbe cercato. Perché comprendendo quella presenza, apprendendone gli attributi, in genere si riusciva a capire se dietro l’angolo era nascosta una gang micidiale, oppure se stava per scoppiare un incendio nel palazzo in cui si abitava. Magari si fuggiva d’improvviso da un certo posto, senza sapere perché; quello lo si scopriva il giorno dopo, leggendo i giornali, E quella presenza era lì, in quel momento. Ma se lo sconosciuto era davvero ciò che Catz diceva…

Poi Cole capì. La presenza era lì dov’era lui, fuori. Ma la personalità, la strana intelligenza che presiedeva ai rumori dell’attività cittadina, era smorzata, quasi assente. Localizzata. Per strada si avvertiva appena. Perché la personalità della città era dentro, racchiusa in un uomo che aspettava nel suo club. Dentro, con un cappello logoro e occhiali a specchio.

Cole annuì fra sé.

“Cercavo di trovare un terreno neutrale per entrare in contatto con la città nella sua totalità.”

Cole entrò nel suo club.

Eccolo lì. Non ebbe nessuna difficoltà a individuare l’uomo con gli occhiali a specchio.

Catz gli stava parlando, vicinissima, come fossero vecchi amici. Cole si fece strada tra la folla, gli occhi puntati sullo sconosciuto. Voleva parlargli, disperatamente; non aveva idea di cosa gli avrebbe detto.

Si fermò a un metro di distanza, fissò la propria immagine riflessa nelle lenti dell’uomo. Catz parlava dolcemente, le labbra vicine all’orecchio dell’uomo; i ritornelli ripetuti all’infinito della disco music impedivano a Cole di udire la voce di Catz. Una dozzina di domande si presentarono all’improvviso nella mente di Cole. Sembravano tutte idiote. Ma voleva chiedere: — Città, dove hai nascosto mia sorella Pearl? È alcolizzata e non la vedo da otto mesi. Credo che sia morta, oppure che si trovi a Oakland. Oakland non è la morte, però è senz’altro il coma. — E poi: — Città, non esiste un posto migliore dell’appartamento di due stanze nel quartiere Mission dove io possa vivere? — E: — Città, perché il mio migliore amico doveva morire sulla statale sotto le ruote di un semirimorchio? Hai qualcosa contro quelli che fanno l’autostop? — E: — Città, perché mi hai fatto comperare questo night-club quando tutti i miei amici mi consigliavano di presentarmi candidato alla carica di consigliere comunale? — Ma Cole non disse nessuna di queste cose. Fissò le lenti a specchio degli occhiali e, assurdamente, gli venne voglia di piangere. Si tolse il grembiale e lo gettò a terra. Per quella sera non l’avrebbe più usato, decise.

Una cameriera si avvicinò a parlare a Città. La disco si abbassò un attimo e Cole udì: — Quelli del tavolo cinque vorrebbero offrirvi da bere, signore. — Città annuì e la seguì nella foresta di giacche di scintiplastic e ghette zebrate verso il tavolo cinque, dove sedevano quattro voguer dall’espressione vacua, disperatamente ansiosi di divertirsi. La donna indossava un vestito di frammenti di vetro, gli uomini abiti trasparenti di plastica intrecciata, con gli orli di neon azzurri e rossi; uomini e donna portavano pennacchi di piume di struzzo e cinture di pelle di leopardo. Quell’estate, era chic vestire animali in via d’estinzione.

Città era a una dozzina di metri dai quattro voguer. Cole lo vide scomparire per un attimo tra la folla. Quando si era infilato nella calca umana, indossava ancora il cappello e l’impermeabile logoro; dieci secondi dopo, riapparve con una scintillante camicia di rete metallica, una fusciacca di seta rossa, ghette di raso giallo, niente cappello, stivaletti a punta di colore scuro, e gli stessi occhiali con la montatura in metallo nero e lenti a specchio.

Catz aveva ragione. Una città camminava fra gli uomini.

Catz restò alle spalle di Città, lo ascoltò parlare con il gruppo al tavolo. Cole non vedeva il viso di Città, ma capiva, dalle espressioni di fascino orripilato dei quattro snob, che Città stava parlando con loro. Catz rideva. Cole si avviò verso il tavolo; e più si avvicinava, più forte diventava la disco music, per quanto lui si allontanasse dagli altoparlanti…

Normalmente, mentre lavorava al banco non sentiva la musica diffusa dagli altoparlanti alti due metri che circondavano la pista da ballo. Aveva imparato a escludere la musica. Chiunque avesse prestato attenzione, per ore e ore, ai soliti brani disco incisi sui nastri da novanta minuti, era destinato a una crisi isterica, oppure al coma. La perfezione meccanica del ritmo incessante, l’evocazione di emozioni senza la minima emozione, l’inesorabilità ipnotica di mille variazioni sugli stessi giri armonici: la sostanza labirintica della paranoia.

Invece, in quel momento Cole ascoltava. La musica lo avvicinava maggiormente a Città.

E più si avvicinava al tavolo, più la musica gli esplodeva nelle orecchie. I quattro voguer si erano alzati, stavano urlando. La voce del nastro ripeteva: GIRATE IN TONDO NON VI DOVETE MAI FERMARE/ATTENTI ALL’UOMO CHE IL RASOIO STA PER AFFILARE/GIRATE IN TONDO NON VI DOVETE MAI FERMARE/ATTENTI AL SUONO DEL RASOIO DA AFFILARE/GIRATE IN TONDO…

Le parole, composte dal computer come la musica, erano tutte lì, si ripetevano sino allo sfumare del brano.

Arrivò al tavolo. Città aveva smesso di parlare coi quattro, li stava osservando. Sotto il suo sguardo, uno dei voguer tolse dallo stivale alto fino al ginocchio un agopugnale e lo infilò nel petto sgargiante di un altro voguer. Il destinatario di quel dono freddo e sottilissimo tremò e urlò e cadde all’indietro, precipitò su un altro voguer che stava tentando di violentare la moglie dell’uomo che aveva estratto l’agopugnale. La donna martellava la testa e le spalle dello stupratore con una bottiglia di gomma. Catz e i clienti guardavano, sogghignando. Con espressione leggermente seccata, Rich il buttafuori mise fine alla scena scaraventando all’esterno tutti e quattro.

Città si girò verso Cole. Non indossava più quegli abiti scintillanti: adesso portava un completo nero con camicia bianca e cravatta blu, come Cole. Città s’avviò alla porta. Cole lo seguì senza fare domande, senza esitare un solo istante. Catz fece segno alla band di chiudere lo spettacolo con qualche brano strumentale e uscì con loro.

Quando Città arrivò sul marciapiede, si verificò un incidente fra cinque auto, come se il traffico si prostrasse davanti a lui nella genuflessione del metallo lacerato. Un frammento di paraurti cromato sfiorò la testa di Cole, andò a seppellirsi nella parete di mattoni. Nella notte esplodeva l’elettricità della tensione urbana. Città guardò il groviglio di automobili, annuì, s’incamminò. Passando sui corpi dei quattro voguer che continuavano a lottare e a sanguinare sul marciapiedi, Catz e Cole seguirono Città. Si tennero dietro di lui, sulla sua sinistra, guardandolo dall’angolo degli occhi.

Alle loro spalle, un furgoncino Ford Stomper azzurro, una Volkswagen gialla thug, una Ford Falcon color oro del ’69, una Lincoln Continental bianca a elettricità e un maggiolino Vw rosso erano aggrovigliate inestricabilmente, giunte a quel matrimonio mortale da cinque direzioni diverse: un pentagramma di metallo contorto, gomme ridotte a brandelli, benzina che s’incendiava, frammenti di vetro e carne tinta di rosso.

Dal petto di Città, come costante sottofondo, usciva la musica del nastro disco, idiota, interminabile, ripetitiva, una cianografia audio della topografia urbana.

La musica composta dal computer echeggiava fra i muri e faceva tremare le vetrine dei negozi e strappò un sospiro a Cole. Catz fischiettava al ritmo della disco, saltellava, tirava calci ai bidoni della spazzatura.

Cole sussurrò a Catz, che adesso canticchiava e stava chiudendo la cerniera lampo della giacca di pelle nera: — Cos’ha detto ai voguer da renderli così furibondi?

Lei rise. — All’uomo col coltello ha detto che il suo migliore amico, quello che è stato pugnalato, fa l’amore con sua moglie. L’uomo col coltello ha colpito il suo migliore amico perché sono amanti, e quindi avrebbe dovuto andare a letto soltanto con lui, e invece lo ha tradito con sua moglie.

— Ho afferrato l’idea. E il violentatore?

— Il violentatore era fratello della vittima. È tutta una vita che desidera la sorella. Città gli ha spiegato che la sorella ha avuto rapporti col fratello maggiore ma che lui la disgusta, e che continua a prenderlo per il naso e si diverte un mondo a vedere quanto lui la desideri, ma non gli permetterebbe mai di toccarla.

— E loro hanno capito che era la verità. Non hanno mai messo in dubbio la sua parola.

— No, non l’hanno messa in dubbio. Città è indiscutibile come una nube di temporale. Tu dubiti di lui?

— No. Sono qui, non vedi? Ma dove stiamo andando? Perché lui è qui stasera? Perché si è incarnato tra di noi? E come ha fatto?

— Vuole conoscersi dall’esterno. Un motivo abbastanza naturale. Si sta studiando, prova i riflessi, indaga, assapora, e si difende. Come? L’inconscio collettivo ha posseduto e trasmutato un uomo. Lui rende tutto vero, risolve tensioni, dà un senso ai drammi della vita portando i destini al loro epilogo.

— Parli per enigmi solo per tormentarmi. Ti piace vedermi confuso, Catz.

— Lieto di conoscerti, sai come mi chiamo?/Confonderti è la natura del gioco che amo.

Era il momento più intenso della sera di sabato. Tutti camminavano verso una loro destinazione, e con gli occhi della mente vedevano solo quella destinazione, e ben poco d’altro. Le destinazioni sono come carote che danzano davanti agli occhi dei somari. Così, nessuno si accorse che Città emetteva disco music senza avere una radio o un registratore.

In lontananza, i lineamenti severi delle strade convergevano in una patina di veli ammalianti, rifrazioni di luci al neon, di insegne, di lampioni, di metallo; scintillii diffusi in una nube di fumo di sigarette, vapori che uscivano da tombini, e ossido di carbonio.

Il vento tiepido recava odori di cibo e di rifiuti. Cole si sentiva male.

Ed era nervoso. La città gli sembrava vivida in modo innaturale: i suoi suoni; i ragazzi che fischiavano, gli stantuffi che gemevano, le macchine che ansavano. Tutto troppo forte.

Mal di testa e nausea contribuivano a farlo sentire uno straccio. Soprattutto, avrebbe voluto che l’orribile disco music s’interrompesse. Ma l’idea di lasciare Città non lo sfiorò nemmeno.

Stavano attraversando Chinatown, e metà delle insegne si erano trasformate in ideogrammi enigmatici. La salita si fece più ripida, il mal di testa di Cole più insistente. Giunti in cima alla collina, si fermarono ad ammirare l’orizzonte. Le luci che delimitavano l’orizzonte sembravano esili raggi che uscissero dai fori di una scheda per computer. Città scrutò l’orizzonte. Il diagramma angolare delle luci si rifletté nelle lenti dei suoi occhiali, e la sua bocca si aprì leggermente a sussurrare un nome incomprensibile.

Risate infantili echeggiarono sulla sinistra. Città si diresse da quella parte, verso una stradina buia. La spazzatura si ammucchiava sui marciapiedi, davanti alle porte sul retro di drogherie cinesi, tra un gran fetore di pesce e verdure marce.

Proseguirono in fretta, in silenzio, per quindici isolati, uscirono da Chinatown, scesero lungo una collina ripida. Adesso si trovavano in un quartiere residenziale di case vittoriane alte e arroganti, vicinissime l’una all’altra.

Città si arrestò di colpo, si girò a contemplare le case sulla sinistra. L’urlo della disco si ridusse a un sussurro.

Si spalancarono le porte di tre case adiacenti. Ne uscirono cinque persone: una coppia da ognuna delle due case più vicine, una vecchia dalla casa più lontana. Avevano tutti un aspetto florido. Corsero giù per gli scalini di legno, divorarono i sentieri bui, si precipitarono verso Città, Cole e Catz immobili sotto un lampione. Cole guardò Città, rimase stupefatto. Città indossava un vestito grigio di taglio tradizionale, scarpe marroni tirate a lucido, costose.

Le due coppie erano composte di persone di mezza età dell’alta borghesia. Un uomo e una donna con visi squadrati, da tedeschi, i capelli grigio-neri tagliati corti. L’uomo portava un cravattino nero mezzo slacciato; quasi senza rendersene conto, se lo stava aggiustando. L’altra coppia era in pigiama e vestaglia: l’uomo grassoccio e sulla via della calvizie, la bocca spalancata sotto i baffi, correva nervosamente sul marciapiede in ciabatte; la moglie fissava Città da dietro lenti spesse; i suoi capelli grigio-topo erano raccolti in una retina. La quinta persona, una donna anziana, indossava una vestaglia bianca, un accappatoio azzurro frusto, ciabatte, e una retina per capelli ornata da rose rosse di plastica. Nella destra stringeva una torcia elettrica, nella sinistra una piccola pistola nichelata. I suoi occhi cerchiati di borse erano scuri, avevano un’espressione amara. Fu lei a parlare per prima.

— Quale sarebbe l’emergenza? — Si girò a guardare la sua casa, quasi si aspettasse di vederla divorata dalle fiamme. — Ho sentito… — Aggrottò la fronte.

L’altra donna in vestaglia disse con voce tremula: — Tu cos’hai sentito? Noi abbiamo sentito qualcuno urlare: «Emergenza! Correte in strada!». Gridava talmente forte che stavano per scoppiarmi i timpani. Dio, credevo che fosse un allarme della difesa civile…

— Sì, sì, anche noi abbiamo sentito la stessa cosa — intervenne l’uomo con un leggero accento tedesco. — Era una voce dal tono ufficiale. «Emergenza! Tutti in strada!» — Si girarono a fissare Città, in attesa di una spiegazione.

— Volete rivedere i vostri bambini stanotte? — Era la prima volta che Cole sentiva parlare Città. Una voce fredda ma risonante. Il viso di Città era cambiato di nuovo. La stessa mascella forte, ma adesso il suo naso era adunco, le labbra serrate nell’espressione querula di un burocrate con una certa autorità. Stessi occhiali opachi. Con un gesto deciso, ufficiale, infilò la mano nella tasca interna della giacca, estrasse un lungo portafogli nero, l’aprì, mostrò un distintivo da vice-ispettore della polizia di San Francisco.

— I nostri… bambini? — chiese la donna più anziana, cercando di nascondere l’ansia.

— Sì. Se mi seguite subito. Lasciate pistola e torcia elettrica nella cassetta della posta e venite con me.

— Adesso? A quest’ora? — chiese la matrona in abito nero.

Città annuì e indicò la strada dietro di loro.

Cole si girò e restò stupito davanti ai due tassi che attendevano, i fari accesi e le portiere spalancate. Non li aveva sentiti arrivare.

I visi dei due autisti erano nascosti dall’ombra.

Non ci furono altre discussioni. Salirono tutti sui tassi. La vecchia si accomodò sul sedile anteriore del tassi di Cole; le due coppie salirono sull’altro. La disco music che usciva da Città, seduto accanto a Cole, era dolce e lontana. Cole sospettava che la vecchia non la sentisse.

Catz si trovava alla destra di Città. Città spinse Cole contro la portiera. Il braccio di Cole era premuto contro il fianco di Città, un fianco duro e freddo come il granito. Il gomito di Città, appoggiato all’anca di Cole, pesava come una sbarra di ferro. Città era inerte, guardava fisso davanti a sé. Cole riuscì a vedere da vicino, per la prima volta, gli occhiali di Città.

Le stanghette non poggiavano sulle orecchie di Città. Erano lunghe solo un centimetro, un centimetro e mezzo, e affondavano direttamente nelle tempie, fondendosi con carne e ossa. La montatura delle lenti opache si univa alla pelle sopra le orbite, impedendo a Cole di vedere gli occhi. Ammesso che esistessero occhi dietro le lenti. Gli occhiali non avevano ponte. Tra le due lenti, la montatura affondava nella pelle e nella cartilagine del naso. Gli occhiali facevano parte del suo cranio.

Nessuno aveva dato un indirizzo all’autista. E l’autista non aprì bocca, nemmeno una volta. Sembrava che sapesse già dove andare. Cole riusciva appena a intravedere il profilo della sua testa. Il trassametro non era scattato; registrava ancora zero.

Le luci dei lampioni scivolavano via veloci. L’auto, una Sabo brasiliana che andava ad alcol di canna da zucchero, correva sull’asfalto quasi in perfetto silenzio. La donna sul sedile anteriore singhiozzava, e Cole la sentì mormorare: — Marie…

I tassi si fermarono uno dietro l’altro, e tutti scesero.

Si trovavano ad Hyde Street, a qualche isolato dal club Anestesia, nel quartiere di Tenderloin, paradiso della prostituzione.

Senza attendere di essere pagati, i due tassisti ripartirono. L’uomo coi baffi si strinse nella vestaglia e restò a guardare i due tassi, stupefatto. La sua sorpresa si mutò in apprensione quando scoprì che il poliziotto con gli occhiali se n’era andato e lo aveva lasciato su un angolo di strada a mezzanotte, in pigiama, circondato da prostitute e invertiti e da Catz e Cole che, ne era sicuro, gli sarebbero saltati addosso da un momento all’altro…

Cole gli batté sulla spalla, uscì in un sorriso che sperava rassicurante ma che probabilmente era solo sciocco. Cole sentiva il bisogno di spiegarsi. Ma sarebbe stato inutile cercare di spiegare che il nero col cappello bianco a falde larghe e gli occhiali a specchio, il nero che stava parlando con un protettore nero, era il “poliziotto” che li aveva portati lì, che poi non era per niente un poliziotto ma un uomo che non era un uomo a cui Catz aveva dato il nome di Città. Inutile.

Quindi: — Come vi chiamate, signore? — chiese Cole, amabilmente.

— Chester Jones, e voglio informarvi che sono avvocato, e che se questo è un maledetto…

— In nome di Cristo, ma perché ci troviamo qui? — l’interruppe l’uomo più anziano, quello vestito di nero.

Cole si girò, vide Città scomparire nel vecchio palazzo col protettore.

Cole era abbandonato a se stesso. — Io sono… ah… l’agente investigativo Dubois — mentì. — Lavoro… lavoro in incognito. In quanto a quello che facciamo qui… — Esitò. Cosa facevano lì? Andò a casaccio: — Siamo qui per ricongiungervi ai vostri figli.

— Il mio Roy? Lo avete visto? Roy Jones? È… — cominciò il signor Jones. — È un ragazzo alto, pallido…

— Il mio Roy! Il mio Roy! — strillarono le prostitute, ridacchiando. Una nera con parrucca bionda e lustrini sugli occhi batté il palmo contro il palmo di una ragazza bianca con parrucca nera e occhi tinti di scuro. A turno, le due prostitute imitarono l’atteggiamento pensoso del signor Jones, agitando le mani e canticchiando: — Il mio Roy, ee! Il mio caro Roy, ee!

La signora col vestito da sera nero, ignorando le prostitute, chiese a Cole: — Lucilie Schmidt? — Gli si avvicinò, lo implorò con gli occhi. — L’avete vista?

— Ah, vedrete che sistemeremo la sua situazione, signora — rispose Cole, che non sapeva che altro dire. Poi si tirò vicino Catz. — Catz, fammi una lettura psi. Hai idea di cosa vuole fare con questa gente? Insomma, se i loro figli si sono dati alla prostituzione, a cosa serve…

— Li farà riconciliare coi genitori, in un modo o nell’altro. O se ne tornano coi genitori e aggiustano tutto, oppure mettono fine al rapporto in un altro modo, cioè lo distruggono per sempre. A lui non importa. Quello che conta è sistemare le cose, in una maniera o nell’altra. Sta solo mettendo alla prova le sue connessioni. Non vuole formulare giudizi morali. Le prostitute fanno parte di una città. Lui non ha niente in particolare contro le prostitute.

— Ehi, ma hai mai sentito che una puttana, anche di quelle più giovani, torni a casa così, sui due piedi? Specialmente con tutte le altre che ti stanno a guardare? Quando io facevo la checca, non…

— Merda. Non ti ricordi quando facevi il ladro, Stu, quando vivevi con quegli idioti nella Cinquantatreesima di New York? Non c’erano dei momenti che ti sentivi così a pezzi, così distrutto, che se i tuoi genitori ti fossero spuntati davanti in quei dieci minuti avresti accettato di tornare con loro solo per vincere la solitudine? Giusto? Non hai mai vissuto momenti del genere?

— Sì. Certo. Erano momenti che venivano così, ogni tanto. E se mio padre avesse scelto il minuto giusto… Ah, capisco. E immagino che Città sappia qual è il momento migliore. Ma perché si prende il disturbo di…

— Se vuoi capire come funzionano le reazioni chimiche, devi mescolare gli elementi che reagiscono meglio — lo interruppe Catz, indicandogli le scale. Città stava scendendo, e davanti a lui c’era una ragazzina.

— Mamma, che madonna ci fai tu qui? — chiese la ragazza, arrivando in strada. Era piccola, grassoccia e bionda: indossava calzoni e camicetta attillati, portava le trecce, e il trucco era scarso. Cercava di darsi l’aspetto della studentessa universitaria. I clienti ne andavano pazzi.

Fissò suo padre. La madre le corse incontro e Lucilie si arrese all’abbraccio, lanciando occhiate di scusa alle altre prostitute, roteando gli occhi… Però, due minuti più tardi, rifiutò di sciogliersi dalla madre. Stava piangendo, e sussurrava rabbiosamente: — Piantatela, stronze! — alle passeggiatrici che ridevano. Il padre se ne stava rigidamente in disparte, pronto a scaricare sulla figlia la rabbia che gli si leggeva in viso, quando Città, tornato nei panni del poliziotto, disse: — Questo vostro atteggiamento così duro è fuori luogo. Nel 1986, voi avete pagato cinquemila dollari a un ragazzo che aveva una Chevrolet blu. Ricordate perché avete sborsato quei soldi?

Schmidt guardò in faccia Città. Di fronte all’implacabilità della città di San Francisco racchiusa in un solo uomo, era inutile negare.

Il viso di Schmidt, che fino a quell’attimo era un monumento di durezza, un concentrato di risentimento nei confronti della figlia, si sciolse in lacrime. L’uomo gettò le braccia attorno alla moglie e alla figlia.

Il signore e la signora Jones aspettavano, tenendosi per mano sotto un lampione.

— Non vorrete dirci che il nostro ragazzo si trova qui… — cominciò il signor Jones.

— Quel bar — ribatté Città, indicando il Back Door Club, mezzo isolato più a nord. — Vostro figlio si prostituisce, si vende per la droga. Adesso è lì dentro. Andate…

— Città protese una mano e toccò Jones sulla spalla. Jones rabbrividì, si strinse alla moglie.

— Mi sento strano — mormorò, accarezzandosi la spalla. — Come se qualcosa fosse entrato in me…

— Roy non vi resisterà. La mia autorità è con voi. Abbracciatelo, e lui vi seguirà. È pronto ad arrendersi. Toccatelo, ma non dite nulla e non giudicatelo mai.

— Non posso entrare là dentro come se fossi un tipo da marciapiede — obiettò Jones. — Sono avvocato. Sono l’avvocato della Ivory Meats, ed è un lavoro che comporta una certa responsabilità verso l’immagine della ditta, e… e se quello è un locale da passeggiatrici, be’, io non scenderò fra le passeggiatrici…

— Per strada ci passeggiamo tutti — disse Città. — Oppure voi siete capace di volare? Forza, andate.

Lentamente, il signore e la signora Jones s’incamminarono lungo la strada. Stringendosi nelle vestaglie, scomparvero oltre la porta d’ingresso del Back Door Club.

Era l’una di notte. Il traffico era scarso, la strada quasi deserta, le loro voci cominciavano a echeggiare. Poi: — Marie! — urlò la donna più anziana, seduta sugli scalini. Balzò in piedi, corse tra il gruppo di prostitute stupefatte. Un isolato più in giù, una figura snella si girò a guardare.

— Marie! — gridò la vecchia, correndo goffamente verso la figura.

Marie si mise a correre nella direzione opposta. Il suo gemito risuonò fioco nel ruggito della città: — Va’ a farti fottere! Lasciami in pace!

Aveva mezzo isolato di vantaggio sulla madre, e la distanziava sempre di più. Città annuì, in modo quasi impercettibile. Il suolo tremò per un attimo. Marie inciampò, e cadde a viso in giù, restò stordita una trentina di secondi, il tempo sufficiente perché sua madre la raggiungesse.

Il protettore nero col doppiopetto di velluto verde scese di corsa dalle scale e puntò l’indice sul petto di Città. — E tu chi cazzo credi di essere, stronzo? Eh? Dov’è quell’altro tizio, quello col cappello bianco? — Città non rispose. Il nero si aggiustò gli occhiali scuri: lenti a specchio che fissavano altre lenti a specchio, riflettendo all’infinito le stesse immagini. — Stai cercando di fottermi o cosa? Tu non sei un porco di poliziotto. Ho sistemato tutto coi ragazzi e questo non fa parte dell’affare. Ehi, sto parlando con te, stronzo. Se perdo quelle pollastre perdo duecento bigliettoni a… — S’interruppe.

Boccheggiò. Balbettò qualcosa.

Il braccio proteso, il palmo della mano all’ingiù, le dita divaricate, Città innaffiò l’asfalto di denaro. Biglietti da cento dollari piovevano dalla sua mano, si materializzavano nello spazio fra un dito e l’altro, scendevano, verdi e fruscianti, sul marciapiede e sulla strada. I riflessi automatici ebbero il sopravvento. Nessuno si mise a discutere il fenomeno.

Il protettore e le prostitute si chinarono a quattro zampe per raccogliere i soldi. Catz, ridendo, si unì al rito. Cole prese un biglietto di banca e lo studiò. Era vero. Se lo infilò in tasca. Quando Città abbassò il braccio e smise di far piovere denaro, sul marciapiede c’erano almeno diecimila dollari. Il Tif aveva reso inutile il denaro in quasi tutti i campi, ma gli uffici dell’Interfondo accreditavano sulle carte di credito il denaro contante. Una delle prostitute, una messicana col rossetto di un rosso luminescente e un’immensa parrucca bionda, decise di circuire la fonte di tanta abbondanza. Abbracciò Città e gli infilò una mano tra le gambe. Cole seguì le sue dita che frugavano. Città non si mosse. La donna gli palpò l’inguine. E si ritrasse, orripilata. — È… eh… è come… — balbettò. — È tutto… — Si coprì la bocca con una mano, girò sui tacchi, corse su per le scale, svanì nel palazzo.

Stavano tornando il signore e la signore Jones. Fra i due c’era un ragazzo magro.

Piangevano tutt’e tre. Per tre motivi diversi. Il signor Jones piangeva perché era l’avvocato di una fabbrica di carne in scatola di proprietà della mafia che serviva da copertura per lo spaccio della droga e suo figlio era un prostituto, e per quanto il signor Jones facesse ogni sforzo non riusciva proprio a ricordare la differenza importante che correva tra le loro due professioni. E la moglie piangeva per suo figlio e il figlio piangeva per la sua eroina.

Più in giù, Marie stava lottando con sua madre. Rotolavano avvinghiate sul marciapiede, si tiravano calci e pugni, ed erano tutt’e due in lacrime. Cole, automaticamente, si avviò verso di loro. Lo accompagnava la disco music, parodia elettronica di una marcia funebre, sempre più forte al suo avvicinarsi. Quando aveva quasi raggiunto Marie e la madre, la disco gli risuonava nelle orecchie col fragore di un tuono, e una delle due figure scure sul marciapiede non si muoveva più. L’altra stava sollevando un braccio in aria, lo lasciava ricadere con tutta la sua forza sul corpo immobile della madre. — Marie… — mormorò Cole.

Poi udì delle urla spaventate alle sue spalle.

La disco music s’interruppe di colpo.

Cole girò su se stesso, corse verso Città e Catz.

Tre berline gialle avevano formato una U, circondando i gradini del palazzo dove il protettore, le prostitute e Catz si stavano ancora riempiendo le tasche di soldi. Città, a gambe divaricate, fissava i fanali delle auto.

Un taxi, imperscrutabile come quello che aveva portato lì Cole, corse via con i Jones, gli Schmidt, e i loro figli. Svoltò a sinistra, girò un angolo, scomparve.

Catz si stava mettendo in piedi, sbatteva gli occhi alla luce dei fari. Cole raggiunse gli altri.

Dalla berlina più vicina stava scendendo un uomo. Stringeva in mano una pistola.

— Catz, buttati giù! — urlò Cole. — Sono vigilantes, stupida!

Sei uomini, il viso coperto da calze di nylon che li rendevano simili a cariatidi rosee, stavano spingendo contro il muro le prostitute e il loro uomo. Il protettore cercò di salvarsi mostrando manciate di denaro; uno dei vigilantes gli tirò un calcio nello stomaco. Quando il negro si piegò in due, un altro vigilante lo colpì al cranio col calcio della pistola. Vellutoverde si accasciò a faccia in giù.

Una delle donne stava urlando: — Ehi, non fate paura a nessuno, stronzi!

Una pistola sparò, fumo rosso ed echi rabbiosi; il ginocchio destro della prostituta esplose. La donna cadde. Le altre si chinarono su di lei, bestemmiando, piangendo.

Cole, lontano una decina di metri, rallentò, si tenne nascosto nell’ombra. I vigilantes non si erano ancora accorti di lui perché facevano troppo rumore da soli: toccavano le passeggiatrici che urlavano, ridendo. Quattro uomini erano entrati nel palazzo per tirare fuori le altre prostitute. Avevano intenzione di ucciderle tutte, subito. Una macchina della polizia stava per entrare nella strada, ma appena vide la berlina gialla, senza targa, dei vigilantes, si tolse di mezzo. I poliziotti potevano sempre dire di aver ricevuto una chiamata e non aver visto niente.

Due degli uomini col le calze di nylon stavano urlando a Città. Uno gli diede un pugno d’avvertimento, o meglio, tentò; poi restò a massaggiarsi la mano ferita, mentre il suo amico tirava un colpo sul viso di Città con la canna della pistola. Città era immobile, fermo come un albero. Indossava di nuovo l’impermeabile e il cappello di feltro. E gli occhiali a specchio.

Il più piccolo dei due, di colpo, sparò al plesso solare di Città. Tre volte. Città sobbalzò leggermente, ma gli effetti dei colpi su di lui si fermarono lì. Se ne stava immobile con le mani sui fianchi, e poi aprì la bocca…

Da quella bocca spalancata uscì il suono d’una sirena. Cole si coprì le orecchie con le mani. Le finestre accanto a lui tremarono violentemente; la sporcizia depositata sui vetri si disperse in nuvole scure. Era una sirena d’allarme, che dalla gola di Città risuonava cinquanta volte più forte del solito. La polizia doveva arrivare. Non potevano fingere di non aver sentito una sirena del genere.

I vigilantes, le mani sulle orecchie, corsero alle loro macchine.

La berlina di fronte a Città fece marcia indietro fino al marciapiede del lato opposto, si fermò di colpo, ripartì, caricò in avanti. Ci fu uno scontro frontale con Città. L’auto sobbalzò, rimbalzò all’indietro. Il motore urlava. Città era ancora in piedi. Però scrollò la testa, come per schiarirsi le idee. Da sotto il risvolto dei pantaloni cominciò a uscirgli del sangue che si raccoglieva nelle scarpe, e sanguinava anche dalla bocca. L’ululato della sirena si fece leggermente gorgogliante, ma non diminuì d’intensità. Le prostitute approfittarono della perplessità dei vigilantes. Si misero a correre, superarono Cole, sparirono dietro l’angolo. Tenendosi vicina al muro, trasalendo al suono della sirena, Catz raggiunse Cole, gli occhi puntati sulle auto dei vigilantes. Cole la fece entrare in un portone buio.

La macchina che aveva colpito Città fece di nuovo retromarcia. Il motore tossì, si spense. Un’altra auto si lanciò a marcia indietro, superò Cole sulla sinistra. Lui cercò qualcosa da tirare, qualcosa per fermarla. Ma la berlina riuscì ad accelerare per un intero isolato prima di scagliarsi contro Città. Questa volta, Città si scansò all’improvviso, e l’auto lo sfiorò e andò a fracassarsi nell’angolo dove la scala in cemento si univa alla facciata del palazzo, tutta di mattoni… La macchina girò su se stessa, sbatté il parafango contro il muro. Ci fu una caduta di cemento, un sibilo di vapore dal radiatore. Poi, a parte un ticchettio del motore, scese la calma più completa.

La calma più completa, per cinque secondi. Finché non cominciò a ululare una sirena della polizia, sempre più vicina.

L’auto in panne riuscì a ripartire, si lanciò dietro la terza macchina che era già lontana mezzo isolato e fuggiva a tutta velocità.

Cole guardò Città. Città, riverso sul marciapiede a qualche metro da lui, era un ammasso sanguinante di carne e vestiti. Il suo corpo martoriato non aveva quasi più nulla d’umano. Cole alzò gli occhi sul profilo di San Francisco, aspettandosi di vederlo deformarsi e crollare, ma la città era solida come sempre. Quindi, era idiota mettersi a piangere.

Cole guardò la pozza di sangue rosso scarlatto che si protendeva verso la strada.

Le due berline stavano girando l’angolo.

In quel momento, vedendo il sangue di Città che scorreva veloce, sicuro, sull’asfalto, Cole capì che i vigilantes non ce l’avrebbero fatta.

Lo capì anche Catz, che scoppiò a ridere.

I lampioni che sbarrarono la strada alle auto gialle non si piegarono come gomma. Schizzarono in basso come mossi da una mano rabbiosa, e i vetri si fracassarono sull’asfalto con uno stridio furibondo. Bloccarono ogni via d’uscita alle due berline. Sei degli otto vigilantes superstiti balzarono fuori dalle auto e si misero a correre, presi dal panico. Bestemmiando, si tolsero le calze di nylon. I due che, fianco a fianco, scapparono verso sud vennero fermati quasi simultaneamente dagli artigli di metallo che sbucarono dall’asfalto. Dapprima Cole pensò che fossero immense dita di metallo nero. Guardando meglio, scoprì che si trattava di quattro grosse tubature: esplosero con uno scatto secco sui due uomini, come una gigantesca trappola per topi. Li maciullarono all’istante. Quando Cole si girò a guardare gli altri quattro, erano morti anche loro. Grosse scintille blu uscivano ancora dai cavi che coprivano i cadaveri sussultanti.

Il terreno fu scosso da un brivido. Sotto l’unica berlina ancora in movimento, due tubature esplosero dall’asfalto, spruzzando attorno detriti neri e polvere bluastra. Con uno stridio raccapricciante, le tubature s’infilarono nella coppa dell’olio, aggredirono il motore, lacerarono i parafanghi, spinsero il motore fuori a metà dal cofano squarciato. Volarono via frammenti di metallo contorto, seguiti dal vapore e dal fumo che zampillarono dal muso accortocciato. L’auto s’inclinò sul metallo che l’aveva impalata, le ruote anteriori girarono, impotenti, sospese a un metro dal suolo; il serbatoio esplose, uccidendo il veicolo in una vampata rossa striata di nero.

Uno degli uomini era stato fatto a pezzi; l’altro era volato fuori dal parabrezza all’impatto delle tubature e adesso, assurdamente, abbracciava i meccanismi divorati dalle fiamme, nel punto in cui prima si trovava il cofano.

Punte contorte di acciaio gli uscivano dalla schiena.

Un fumo nero, oleoso, saliva ondeggiando verso l’alto, distorceva i visi che guardavano dalle finestre, li rendeva simili a maschere demoniache.

Le sirene erano sempre più vicine. A loro si unì il clangore delle autopompe.

Cole scoppiò a ridere con Catz.

Corsero fuori bambini, ad ammirare il disastro. Cole s’immerse nel silenzio. Pensava che fosse ora di tornare a casa.

— Stanotte posso restare da te? — chiese Catz. Assieme, senza fretta, si avviarono, fendendo la folla che usciva da bar e case.

— Che cavolo succede, Cristo santo? — chiese un uomo in bicicletta, un messicano. Cole scrollò le spalle, lo ignorò.

— Sicuro, Catz, sarò felice di ospitarti — disse Cole. — Ho un divano-letto.

— Qui c’è uno che è finito in marmellata, uomo! — urlò qualcuno alle loro spalle.

Cole si girò a guardare: sul marciapiede, gli occhiali di Città erano intatti, li fissavano.

— Sì, sarebbe grande — stava dicendo Catz. — Forse possiamo guardare la tivù o fare qualcos’ altro. — Cole si fece strada tra la folla che guardava qualcuno steso sul marciapiede, scavalcò il corpo della madre di Marie e proseguì, senza voltarsi indietro.

— Sicuro — disse Cole. — Ho la tivù a cavo, Catz. Dovrebbe esserci qualcosa. — Scrollò le spalle. — Non è ancora troppo tardi per guardare la televisione.

E così fecero. Guardarono un cane che doveva impersonare Kennedy in uno sceneggiato.

E più tardi restarono seduti nel più completo silenzio davanti alla finestra a guardare le luci della città, finché, all’alba, le luci si spensero; e un nuovo giorno scese sul paesaggio urbano.

DUEEE!

Cole, incredulo, fissava la comunicazione. Era fermo sulla porta del suo appartamento in un mostruoso, piovoso, ventoso lunedì mattina di maggio, e leggeva e rileggeva la comunicazione arrivata con la posta. — E doveva proprio arrivare di lunedì — mormorò. Passò le dita sulla gialla scheda perforata, coi fori che sembravano finestre di un orizzonte sterminato. Le lettere stampate elettronicamente, rosse, imperiose, intimavano: VI PREGHIAMO DI VERSARE LA SOMMA DI 300.000 DOLLARI A FAVORE DELL’lNTERFONDO. RIMETTERLI A J. SALMON, UFFICIO ESAZIONI ELETTRONICHE. CAUSALE: CANONI DI NOLEGGIO ARRETRATI…

— Canoni di noleggio arretrati — ripeté Cole. Il sapore di caffè che aveva in bocca (lo stomaco gli bruciava, non avrebbe dovuto bere caffè a stomaco vuoto) era nauseante. “Il sapore della putrefazione”, pensò, e sputò nella pattumiera in corridoio.

Stringendo la scheda, rientrò nell’appartamento, chiuse la porta. Attento a ogni gesto, mise la scheda sul televisore pieno di polvere. Si chinò sul notiziatore installato sul fianco della tivù, premette l’interruttore, aspettò che la tivù si scaldasse, poi diede un’occhiata alla pagina di giornale apparsa sullo schermo… Il presidente approva i tempi massimi richiesti dal Tif… Cole fece scorrere in fretta la pagina, fermandosi su frammenti di notizie… sarà tempo fino a novembre 1994 per passare al Sistema Monetario Elettronico, anche se i governatori della Louisiana e Washington hanno protestato, chiedendo più tempo… Il senatore Wiley sostiene che è stato concesso tempo a sufficienza, dato l’alto numero di città che già usano il Trasferimento Istantaneo… risoluzione delle Nazioni Unite per reperire i fondi per la Rete Elettronica Monetaria del Villaggio Globale…

E poi il notiziatore si spense. E Cole ammiccò, stupito. Guardò la spina, ma era inserita nella presa. Apparve un’altra immagine, un disegno animato, Disegnetti sconci, un programma di pornografia elementare per bambini: un organo genitale maschile stilizzato, indipendente dal corpo ma dotato di gambette proprie, rincorreva una vagina altrettanto mobile. Cole spense il televisore, restò a guardare le immagini dei due organi sessuali in movimento frenetico che svanivano. “E che cavolo?” pensò. Premette di nuovo l’interruttore, accese il notiziatore. — Cosa cavolo è successo alle notizie? — borbottò. Non apparve nessuna notizia. Invece, sullo schermo si formarono lettere elettroniche: SERVIZIO NOTIZIE SOSPESO CAUSA MANCATO PAGAMENTO CANONI ARRETRATI UEE…

— Figli di puttana! — urlò, e spense l’apparecchio prima che Disegnetti sconci facesse in tempo a riapparire.

Arrivò al telefono. Le sue dita premettero automaticamente la tastiera. Restò a guardare, impaziente, furibondo, il piccolo schermo, aspettando che si materializzasse l’immagine del suo avvocato.

— Ufficio di Arthur Topp. Posso esservi utile? — chiese la voce di un ragazzo. Doveva essere il segretario, nonché amante, di Art.

— Sì… — rispose Cole, fissando lo schermo spento, mentre i suoi sospetti si facevano sempre più atroci. — Devo parlare con Art. Sono Stu Cole.

— Preferite parlare senza immagine, signore? — Il ragazzo sembrava irritato. Era una villania chiamare senza mostrarsi, mentre rientrava nei diritti del destinatario della chiamata lasciare spento lo schermo.

— No, no, però… il mio apparecchio non funziona. Dovrò farlo aggiustare.

— Capisco.

Una pausa, un clic. — Stu? Dov’è la tua immagine? Hai paura di sembrarmi troppo brutto il lunedì mattina? — La voce di Topp, senza video.

— Lo schermo non funziona più. Me l’ha scollegato l’Uee. Mi hanno scollegato anche il notiziatore. Cercano di spaventarmi per costringermi a pagare. Tra un po’ mi toglieranno anche l’audio.

— Mamma Uee ce l’ha con te, eh?

— Senti, sarebbe una battuta sarcastica o cosa? Credi che non esistano legami tra la compagnia telefonica e il Tif? Sarebbe impossibile…

— Okay. Allora, devi soldi all’Uee?

— Sì. Io… No! No, sono loro che dicono che gli devo dei soldi. È per questo che ho bisogno di te.

— A me devi ancora qualcosa — disse Topp, in tono più divertito che serio.

— Uh-huh. Ti pago, ti pago subito, e per questa faccenda ti do metà onorario in anticipo. Senti, si tratta di canoni di noleggio.

— Oh. — Nella voce di Topp c’era una nota di disperazione. — Quello.

— Stammi a sentire, non è impossibile opporsi…

— Se vuoi arrivare fino alla corte federale… Ma ci vorrà tempo. Un sacco di tempo. Sono presi fino al collo da tutte le denunce che sono piovute dopo quella faccenda di terrorismo nucleare in Oregon.

— Cosa? E chi è stato denunciato? Non hanno mai arrestato il colpevole, quindi come possono…

— Hanno denunciato il governo perché l’Fbi se lo sarebbe lasciato sfuggire sotto il naso. Hanno denunciato il governo per negligenza. Voglio dire, le famiglie di duecentomila persone circa… Famiglie disseminate in tutta la nazione, parenti. È stupido che prendano in considerazione le denunce, perché sanno già che se concederanno risarcimenti a qualcuno stabiliranno un precedente, e sanno che lo stesso tizio, o un altro con le stesse idee, lo rifarà. Un’altra città, magari la nostra, finirà nel fungo dell’atomica solo perché un idiota al secondo anno di università riuscirà a fabbricarsi da solo una bomba atomica e cercherà di ricattare…

— Okay, okay… La metteranno a tacere, questa faccenda. Comunque, noi dovremo ben cominciare da qualche parte…

— Ma senti un po’ — lo interruppe Topp, con fretta eccessiva — una città intera, tutta quanta la città di Salem, nell’Oregon, è scomparsa, è soltanto un cratere, e la stessa cosa potrebbe succedere qui, merda. E logico che si verificherebbe un trauma sociale, e persino la corte federale cerca un capro espiatorio, e siccome l’Fbi è un bersaglio molto comodo…

— Parli di questa storia solo perché non vuoi parlare dei canoni di noleggio! — urlò rabbiosamente Cole. — Piantala.

— Come vuoi tu.

Silenzio. Si udiva soltanto una scarica dall’altoparlante sotto il piccolo schermo rettangolare. Lo schermo si trovava sopra l’apparecchio telefonico in plastica rossa.

Poi Topp disse: — Non posso. Tu e io lo sappiamo che i canoni di noleggio sono una maledetta palla, un trucco di quelli dell’Uee per mettersi in tasca…

— Sì. Questo non m’importa. Sono abituato a pagarmi le protezioni. Però a me hanno chiesto di pagare gli arretrati tutti in un colpo… Insomma, agli altri offrono una possibilità, anni di dilazione. A me chiedono gli arretrati per tutto il tempo che ho usato gli impianti Tif… E lo sai perché?

— Perché? — chiese Topp, anche se lo sapeva già. Cole lo immaginava intento a fumare una sigaretta.

— Perché io lascio entrare le puttane nel mio club e quelle se ne fregano delle tasse e della protezione, e l’Uee vorrebbe metterci le mani sopra. E invece loro non vogliono lasciarsi irreggimentare.

— Stai dicendo cose pericolose. Sembra quasi che siano una banda di delinquenti, Cristo. — Topp lo stava avvertendo che probabilmente il suo telefono era sotto controllo dell’Uee, che lo stavano ascoltando.

— Mettila un po’ come vuoi — disse Cole. — È per questo che ce l’hanno con me, mi avevano già avvertito… E sanno che sono stato io a scrivere la petizione in cui si chiedeva che i negozi più piccoli potessero continuare a usare denaro contante, e sanno che sono stato io a…

— Porco giuda, Cole!

— Non credere che io debba star zitto, Topp! Lo sanno già. Se mi stanno ascoltando, non racconto niente di nuovo.

— Okay. Lo sanno che sei stato tu a scrivere il manifesto contro la rivoluzione monetaria elettronica. — La voce di Topp era stanca.

Cole esitò. Gli era venuta un’idea nuova. — Topp, ti hanno…?

— Solo minacce.

— Allora non accetti di difendermi?

— No, a meno che non voglia farmi espellere dall’ordine.

— Non vorrai dirmi che è una cosa legale, uomo. Non possono…

— Senti, i giudici di qui hanno anche loro un conto in banca, e l’Uee può sempre trovare una scusa per rovinare quelli che non stanno al gioco. Dalle nostre parti, non potresti mai avere una sentenza equa. E, come ti ho detto, la corte federale è impegnata fino al collo per mesi. Potresti rivolgerti al… ehm… — Topp tacque, poi, esitando: — Be’, senti… Ecco…

— Hai deciso che è meglio non darmi consigli? — chiese Cole, amaro.

— Ho un pranzo che mi aspetta. Un pranzo di lavoro importantissimo.

— Già. Ci avrei scommesso. Spero che ti vada tutto di traverso — ruggì Cole, interrompendo la comunicazione.

Soprappensiero, prese un sigaro da un armadietto a fianco del telefono, lo accese, se lo infilò tra i denti e si mise a fumare, infilandosi le mani nelle tasche dei calzoni. Raggiunse il divano e, lo sguardo perso nel nulla, si sedette.

Il divano rosso, coi cuscini logori sistemati di sbieco, tagliava un angolo del soggiorno. Cole aveva di fronte il televisore portatile, spento. La stanza era completamente bianca, coi pannelli per l’illuminazione incassati nel soffitto bianco. Gli unici elementi decorativi erano le fotografie scattate da Cole: foto della città. Di Città. Cole era un fotografo dilettante.

— Non venderò la mia macchina fotografica — mormorò, guardandole. — La mia Nikon, no. Prima venderò il club. — Tirò una boccata di fumo e disse: — Piantala di parlare da solo, idiota. — Poi rise.

Sulle pareti erano disseminate più di trenta fotografie in bianco e nero, disposte in modo da ricordare la suddivisione in quartieri della città. Quasi tutte erano panoramiche aeree estremamente dettagliate, prese dall’elicottero per turisti.

La città come circuito elettronico.

— Non venderò nemmeno il club. Vadano a farsi fottere, quei bastardi — disse a voce piuttosto alta. E si grattò la testa nel punto in cui stava perdendo i capelli, fece una smorfia quando avvertì la presenza di un foruncolo, serrò la bocca grande, forte. Per un attimo, si preoccupò. Pensò che stava invecchiando, che stava mettendo pancia, che aveva l’abitudine di parlare da solo; pensò a Pearl, si chiese se dovesse assumere un detective per trovarla, ma poteva permettersi un detective? E pensò all’avviso dell’Uee. — Quando? — chiese a nessuno.

Si alzò, arrivò al televisore, prese in mano la scheda… IL SERVIZIO A FAVORE DEL CLUB ANESTESIA HA TERMINE DAL 24 APRILE E NON RIPRENDERÀ FINCHÉ IL PAGAMENTO NON VERRÀ EFFETTUATO. — Dal ventiquattro aprile. Lo sanno che non posso trovare tutti quei soldi — mormorò. — E i prestiti bancari li controllano loro. “Smettila di parlare da solo” pensò.

— Hai fatto tutti gli sforzi possibili per non pensare a me, e riconosco che ci stai riuscendo con un successo non indifferente — disse qualcuno, ma non c’era nessuno.

— Cosa? Merda! — esclamò Cole. Si irrigidì, intrecciò le braccia sul petto come a difendersi. Si guardò attorno: nessuno. Finché i suoi occhi non scoprirono il viso sullo schermo del televisore.

Il televisore era spento. Però si vedeva qualcuno. Una linea bianca salì dal basso, cancellò l’immagine. Poi, l’immagine riapparve: la testa e le spalle di un uomo. La testa parlava.

— Città…

— Preferisci scordarti di me? — chiese il viso sullo schermo in bianco e nero.

— Vorrei dimenticare quello che è successo… Non te — rispose Cole. Aveva alzato le ginocchia sotto il mento, le teneva serrate con le braccia. Fissava il viso sicuro che appariva sul televisore: occhiali a specchio, tratti duri. Un busto di pietra incompleto. Il viso freddo dell’uomo che aveva visto travolto da un’automobile. La supermente della città.

— Ti sarebbe stato abbastanza difficile dimenticare, se fossi uscito — disse Città. — Avresti sentito le chiacchiere della gente. Se fossi arrivato fino in fondo alle notizie che leggevi prima, avresti trovato un articolo sulle “indagini” della polizia relative agli omicidi di sabato sera. Agli uomini che ho ucciso.

— Shh! — sibilò, istintivamente, Cole.

— Non ci stanno ascoltando — ribatté Città. — Non possono. — Le sue labbra sembravano muoversi con un secondo di ritardo rispetto alle parole che Cole udiva. — Qui, io sono parte di tutto — disse Città. — Tranne l’Uee. È come un cancro nel mio corpo. — La bocca dura si piegò in una smorfia. — Ma faccio in modo che loro non possano sentirmi…

— Ehi… — Cole si rilassò leggermente, appoggiò il sigaro su un posacenere, si protese. — Se qui dentro entrasse qualcun altro mentre tu mi parli… insomma… ti vedrebbe?

— Certo. Non sono un’allucinazione. Però non correre fuori a chiamare qualcuno. Sparirei, non mi vedresti più nemmeno tu. Io voglio parlare soltanto con te e Catz.

— Okay — disse Cole, e la sua voce risuonò fredda, meccanica, alle sue stesse orecchie. — Devo chiamare Catz?

— No. Avrà mie notizie più tardi… Adesso voglio farti vedere qualcosa. — L’immagine sul televisore cambiò. Adesso lo schermo mostrava (ripresi dall’alto, da un angolo del soffitto) quattro uomini seduti attorno a un tavolo, in un ufficio elegante, con le finestre di cristallo. — Riconosci l’uomo che si trova a capotavola, Cole? — L’immagine di Città era scomparsa, ma la sua voce giungeva chiara, con tutto il calore umano e l’amicizia del disco che scandisce i minuti per il servizio telefonico dell’ora esatta.

Cole guardò l’uomo seduto a capotavola: un tipo robusto, florido, con occhiali dalle lenti spesse e capelli bianchi (probabilmente un parrucchino) e lunghe basette bianche.

— Rufe Roscoe. Il gangster.

— Si. E gli altri?

Il tipo coi capelli pelo di carota e le lentiggini e la smorfia da idiota era…

— Salmon. L’avvocato del Tif.

— Sì. Non conosci gli altri?

— No.

— Allora stai a sentire…

Altre voci uscirono dall’altoparlante della tivù. Salmon stava dicendo: — … Rusk ci ha venduto la sua parte al prezzo a cui l’aveva acquistata per la faccenda delle tasse! Boswell ha guadagnato il quattro per cento, col che arrivavamo al quarantadue per cento, dopo di che abbiamo…

— Lascia perdere — lo interruppe Roscoe, impaziente.

— Adesso quanto abbiamo?

Salmon sorrise. — Il cinquatatré per cento.

— Splendido! — disse Roscoe, anche se il suo viso non rifletteva nessuna passione per il bello. Sembrava che avesse appesa ucciso qualcuno e ne fosse felice.

— Però… — iniziò Salmon, esitante.

Roscoe si protese in avanti.

Salmon disse: — …c’è questo Topp che parla un po’ troppo col procuratore distrettuale. Hanno una mezza idea di denunciarci: acquisizione illegale di azioni, forse violazione della legge anti…

— Il procuratore distrettuale… — l’interruppe Roscoe. Lo disse a voce molto bassa, ma Salmon, attento, si fermò subito. Roscoe si appoggiò all’indietro sulla poltrona. — Il procuratore distrettuale è vecchio. Se gli venisse un attacco cardiaco nessuno resterebbe sorpreso. Io conosco un dottore… Be’, lo faremo sparire. E magari anche Topp.

— Sospetto, signore, che sarebbe meglio limitarci a spaventare Topp. Se comincia a sparire troppa gente di un certo gruppo…

— Okay. Se sa che controlliamo la maggioranza delle azioni del Tif, tornerà con la coda fra le gambe… — Roscoe sorrise, guardò distrattamente fuori dalla finestra…

L’immagine scomparve, fu sostituita da Città.

— Come hai fatto a riprendere quella scena? — chiese Cole.

— Roscoe ha la mania di registrare tutto. Un po’ come Nixon e i nastri della Casa Bianca, solo che Roscoe non ha imparato niente dagli errori di Nixon. Comunque, registra le riunioni perché quelli del sindacato criminale attaccano un collega solo quando sanno di poter salvare le loro schifose code nude, e Roscoe è convinto che se tiene registrazioni audiovisive inconfutabili di quello che combinano assieme, se anche gli altri tentassero di deporre contro di lui in segreto, con la protezione dell’Fbi, potrebbe sempre rovinarli tutti. Gli altri membri del suo clan lo sanno, e la cosa serve da deterrente contro il tradimento. Provvede lui stesso a caricare e scaricare la cinepresa. I nastri li tiene chiusi in una camera di sicurezza.

— È stupido. Il rischio che la polizia se ne impossessi senza la sua autorizzazione è più grave di ciò che vuole prevenire. È proprio dai idioti conservare quei nastri. Se i poliziotti ricevessero dalla magistratura l’ingiunzione di aprire la camera di sicurezza…

— Sì — disse Città. — Per fortuna non lo capisce. È fanatico delle proprie idee e maledettamente testardo. Crede di essere infallibile.

— Allora perché non fai vedere questi nastri al questore capo, sul suo televisore?

— È venduto all’Uee. E poi, non potrei comunicare con lui. Mi sarebbe molto difficile. Penserebbe di stare impazzendo. Tu… In un certo senso è come se tu mi evocassi. Non ho problemi a raggiungerti. A ogni modo, come unica prova i nastri non funzionerebbero, perché noi ce li saremmo procurati in maniera illegale. Prove acquisite illegalmente.

— Già. Perché dovremmo rubarle. E a questo punto sarebbe difficile convincere la polizia a chiedere un’ingiunzione… Ehi, ma come hai fatto a proiettarmi un nastro che Roscoe tiene chiuso in camera di sicurezza?

— In questo momento il nastro è sul videoregistratore. Roscoe lo stava guardando, studiava le facce dei suoi complici in cerca di indizi di tradimento… è un altro dei motivi per cui registra le riunioni… e lo hanno interrotto. Ha lasciato il videoregistratore acceso. Io ho fatto scorrere il nastro all’indietro e poi l’ho rimandato avanti. Te l’ho trasmesso qui via collegamento elettronico. L’alimentazione…

— Ma questo è un televisore!

— No, è una parte di me. Un televisore è un canale d’uscita per la città. Un neurone del mio cervello. I mezzi che uso per trasformare l’immagine in impulsi elettronici che poi faccio passare nei cavi d’alimentazione e trasmetto al tuo apparecchio… be’, sono troppo complicati per spiegarli in due parole. E non mi resta molto tempo per parlare con te. Comunque, è una forma di telecinesi. Manipolo i segnali elettronici col pensiero. Di notte, ho a mia disposizione l’energia di ogni accumulatore cerebrale della città. Il cervello immagazzina elettricità. Quando la gente dorme, io riesco ad assorbirla… Di giorno ho solo l’energia di quelli che dormono durante il giorno. Pochi, quindi ho una potenza limitata. Anche se mi vengono in soccorso quelli che guardano la televisione, dato che in genere anche quello è un modo di dormire… Io sono il totale delle percezioni inconsce di ogni cervello della città. E sono anche Rufe Roscoe, sono il qualcosa di autodistruttivo che è in lui.

Città s’interruppe, mentre Cole cercava di assorbire quelle informazioni.

Poi Città chiese: — Perché pensi che abbia scelto te, Cole?

— Perché?

— Perché… in questo momento non stai urlando di terrore. Sei nervoso, ma non disorientato. Quasi tutti resterebbero orripilati se apparissi loro così, se parlassi direttamente, se raccontassi queste cose. Tu comprendi istintivamente la Grande Realtà Urbana. Le geometrie segrete della città.

— Huh… Se lo dici tu.

— E poi, Cole, le tue pareti sono coperte di miei ritratti.

Cole sorrise. Città, no.

— Già… — cominciò Cole, allontanando lo sguardo dallo schermo. — Quindi immagino che tu… che tu voglia che io… faccia qualcosa per te. Giusto?

— Bisogna fermarli.

— Quei delinquenti? — Cole guardò la scheda perforata dell’Uee e annuì. — Il club è la mia unica ragione di vita.

— Sì. Quei delinquenti…

“Solo i delinquenti?” si chiese Cole.

— Forse — disse — potrei assoldare qualcuno che penetri nella camera di sicurezza e rubi i nastri. Se non la polizia, almeno i giornali potrebbero usarli come prova…

Città scosse la testa. — No. Nessuno riuscirebbe a entrare senza il mio aiuto. Tu ce la faresti, ma ti ucciderebbero subito se avessi i nastri. Per prima cosa, incoraggeremo le divisioni all’interno della loro organizzazione. Che si scannino a vicenda. I nastri li useremo solo dopo averli indeboliti. Li tireremo fuori quando avremo trascinato l’Uee in tribunale. Li passeremo ai giornali, metteremo le giurie contro di loro. Quando sarà il momento, te li farò avere. Ma ci sono altre cose da fare prima. E devi farle tu.

Cole scosse la testa.

Città annuì, cupo.

Cole scosse violentemente la testa. — Ehi, posso aiutarti nei tuoi piani, posso trovare gente che… che faccia quello che vuoi. Ma non sono in grado di farlo io. Non sono mica James Bond, amico. Sono giù di forma.

— Tu sei l’unico con cui io possa lavorare. Tu e quella donna. E forse nemmeno lei. Vedremo.

— Cosa diavolo posso fare, io?

— Un sacco di cose, con la mia assistenza. Hai visto cos’è successo ai vigilantes. Ai cosiddetti vigilantes.

Cole meditò. Prese il sigaro dal posacenere, lo riaccese, soffiò nubi di fumo purpureo. — Mi porteranno via il club — disse, per autoconvincersi. — E io non ho nient’altro. Quindi, se mi uccidono, chi se ne frega? — Però la mano gli tremava, e la cenere cadde troppo presto dalla punta del sigaro.

Un momento dopo, si sentì stordito. Come gli era successo quando era più giovane, quando si gettava in affari da solo.

— Credevo di avercela fatta — commentò. — Dieci anni fa, quando ho comperato il club. Credevo che sarebbe stato facile. E invece, ogni settimana una lotta continua solo per…

— Cole — lo interruppe Città — io posso aiutarti a fermarli. Posso far accadere cose che ti saranno senz’altro utili. Ma solo di notte. Ricordalo. Di giorno posso parlarti… qualche volta.

— Capisco.

— Stasera porta qui la donna, alle sette.

— Catz? Ma forse deve suonare…

— Verrà. Con te riesco a parlare attraverso la tecnologia, ma con lei ho un legame parapsichico più forte. È una sensitiva. Ci sarà utile, almeno per un po’.

— Come sarebbe a dire, per un po’?

Città ignorò la domanda. — Stasera lascia il club al tuo vice. Tu e Catz dovete comperare maschere e pistole. Andate al Pyramid Building. Salite al diciottesimo piano. Ci saranno delle guardie. Le sistemeremo.

La paura si arrampicò nella gola di Cole. Il senso di vertigine era scomparso. Il suo cuore era di piombo; e, sullo schermo della mente, si vide con un bersaglio a cerchi concentrici attaccato al petto. Si schiarì la gola, riuscì a dire: — Senti, non sono pronto a uccidere. Non ancora. Proprio non me la sento.

— Non dovrai uccidere… non ancora — disse Città, e la sua voce era dura. L’immagine sullo schermo tremò, svanì… e riapparve, leggermente più confusa. — Non posso restare in contatto con te ancora per molto, Cole. Quindi stammi a sentire. Stasera io sarò con te. Non potrò manifestarmi fisicamente, a meno che non trovi l’ospite perfetto, la persona giusta da possedere…

Qualcosa di gelido e bruciante come il ghiaccio secco fece rabbrividire la schiena di Cole. L’ospite perfetto…

Città, con voce sempre più fioca, proseguì: — Devo andare. Stasera sarò con te. La donna mi sentirà, e tu saprai. Però non posso ucciderli, non ancora. Fanno parte dell’organizzazione, li sostituirebbero con altri. Dobbiamo scacciare dalla città quella cosa… Anche soltanto l’Uee è…

— Non so — mormorò Cole. — Non so se sia desiderabile, ammesso che sia possibile…

Fino a quel momento, la voce di Città era rimasta calma; adesso esplose in un urlo di rabbia, accompagnata da un fischio acuto, uno stridio doloroso che fece sobbalzare Cole. — È il burattinaio che vuole reggere i fili di tutti, Cole. Il Tif è una malattia mascherata da progresso! Stasera porta qui la donna.

E lo schermo si spense.

Cole restò a fissare lo schermo vuoto. Riusciva solo a pensare a qualcosa che, nella voce di Città, lo turbava. Quando Città aveva detto che il Tif era un burattinaio, che si trattava di un’enorme cospirazione, a Cole era tornata in mente la voce che aveva udito in un’altra occasione. Una voce sentita al telefono quando, per scherzo, lui e Catz avevano composto il numero del partito nazista americano e, sogghignando, erano rimasti ad ascoltare i deliri verbali sul comunismo ebreo, sulla cospirazione dei neri omosessuali. La voce del nazista aveva un tono di irragionevolezza inattaccabile… lo stesso tono di Città.

Però Cole sapeva già che avrebbe fatto quanto Città gli aveva chiesto.

Cole guardò le foto appese alla parete. Non avrebbe mai potuto abbandonare la città.

— Se ci aiuterà lui, a cosa servono le pistole? — chiese Catz.

Sedevano vicini sul sedile anteriore di una macchina presa a noleggio. Fra le tenebre. In mezzo a loro, sul sedile di vinile, c’era un sacchetto di carta, ben chiuso. Conteneva due .38 e due maschere di gomma.

— Hai sentito anche tu — ribatté Cole, guardando l’orologio. Il discorsetto di Città era stato talmente breve che non avevano avuto il tempo di fargli domande. Città si era limitato a snocciolare istruzioni dal televisore.

— Però non l’ha spiegato. Che bisogno c’è delle pistole, voglio dire.

— E perché ci sono guardie armate, e anche gli uomini in sala riunioni potrebbero essere armati. Roscoe lo sarà senz’altro. E Città non può fare niente per noi. Quindi, dovremo usare le pistole per spaventarli…

— Agitargliele sotto il naso? Tutto qui?

— Speriamolo.

Le mani di Cole erano serrate sul volante di fibra di vetro, e quando lui staccò i palmi per asciugarsi il sudore sui pantaloni si udì un risucchio.

— Non mettiamo nemmeno in dubbio la sua realtà — notò lei. Non c’era allarme nell’osservazione.

Cole annuì. — È curioso. Però, probabilmente è per questo che ci ha scelti… Noi due, uh… siamo come… — cercava disperatamente le parole.

— Mutazioni urbane? Aborigeni metropolitani? I selvaggi non si spaventano quando odono la voce degli spiriti della natura.

— Forse è così — concesse Cole. Si rendeva conto che stavano discutendo di concetti astratti solo per distogliere l’attenzione dai rischi che stavano per correre. Guardò l’orologio. Il suo cuore tremò. — È ora — disse.

Catz si protese sul sedile posteriore, spostò su quello anteriore una grossa borsa in finta pelle che conteneva, nascosto in uno scomparto, un registratore a cassette. — Spero sia vero che le impronte vocali sono diverse per ogni persona. Altrimenti, tutto questo… — sistemò le maschere nella borsa, infilò il braccio nella tracolla — …potrebbe essere inutile.

Con gesti fatalistici, Cole infilò la pistola carica nella tasca interna della giacca. L’arma venne a trovarsi contro il suo muscolo pettorale sinistro, a calcio all’insù. Per nascondere il rigonfiamento, Cole si gettò sulla spalla sinistra l’impermeabile. Catz infilò la sua pistola nella borsa. E scesero dall’auto. Tutt’e due indossavano, sopra vestiti normali, tute militari.

Il rumore che le portiere fecero sbattendo parve troppo forte. Cole sobbalzò. Ricomponendosi, s’incamminò nella tiepida sera di maggio verso l’ingresso del Pyramid Building. — Diciottesimo piano — mormorò fra sé.

La strada era deserta. Si trovavano in un quartiere d’affari, praticamente morto dopo l’orario di chiusura degli uffici. Le voci della strada giungevano, deboli, da Market Street, qualche isolato più avanti. Una macchina si avvicinò, parve rallentare mentre raggiungeva Cole, e lui dovette fare uno sforzo per non mettersi a correre. Ma la macchina proseguì, girò l’angolo, scomparve.

E poi giunsero davanti all’ingresso dell’edificio. Cole si fermò, guardò in alto.

L’edificio a forma di piramide, alto e stretto, era privo di vita. Solo tre finestre al diciottesimo piano erano illuminate.

Cole guardò Catz, deglutì. Catz gli diede uno strattone al braccio. Assieme superarono le porte a vetri.

Una guardia in uniforme, armata, si trovava accanto all’ascensore. Ma aveva la schiena girata. Cole seguì la direzione dello sguardo della guardia. L’uomo fissava, a bocca spalancata, i due estintori appesi alla parete del corridoio che partiva sulla destra dell’ascensore. Gli estintori gettavano schiuma a pieno ritmo. I becchi sussultavano per la pressione, i cilindri di metallo vibravano contro la parete con un clangore monocorde. La guardia (che continuava a guardare gli estintori impazziti e che non si era accorta di Cole e Catz) s’incamminò lungo il corridoio scuotendo la testa, perplessa. Badando a schivare lo spruzzo di schiuma, protese le mani sui boccagli, cercò un interruttore per spegnere i due arnesi…

Cole e Catz, le mani sui calci delle pistole, corsero all’ascensore. La porta si spalancò immediatamente. Lanciarono un’occhiata alla guardia, ma era ancora girata di schiena. Salirono in ascensore, e a Cole parve di sentire il cuore di Catz che batteva all’unisono col suo. Quando la porta si chiuse, tutt’e due, contemporaneamente, lasciarono andare il fiato. Non dovettero nemmeno premere la tastiera. Il pulsante del diciottesimo piano si accese da solo, e l’ascensore cominciò a salire.

— Grazie, Città — sussurrò Cole, senza aspettarsi risposta.

Ma dall’altoparlante a fianco della tastiera uscì la voce di Città: — Mettetevi le maschere. Di sopra ce ne sono altri. Due guardie regolari e due gorilla, rispettivamente in corridoio e nell’ufficio interno. Le guardie sanno che è entrato qualcuno non autorizzato. Tengono d’occhio il quadrante dell’ascensore, e la guardia a pianterreno dovrebbe avvertirli quando arriva qualcuno. Quindi, è probabile che abbiano estratto le pistole. Io li terrò impegnati, ma state pronti a usare le pistole. Cercate di disarmarli senza far rumore.

Tirarono fuori le maschere di gomma (facce da vagabondi tristi, più o meno) e le infilarono. Immediatamente, a contatto della gomma, la pelle di Cole cominciò a sudare, a prudere.

Sotto quel viso irreale, la realtà era claustrofobica e appiccicosa.

Cole estrasse la pistola. La porta dell’ascensore si spalancò.

TR-RRRE!

Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante. Tutti e due indossavano un’uniforme. L’uomo in piedi stava piangendo. — Ehi, non è come sembra, amico! — disse, girandosi verso l’ascensore. — La pistola ha sparato da sola… — Poi vide le loro maschere.

Alzò l’arma e fece fuoco.

Cole e Catz si erano già appiattiti contro un lato dell’ascensore. Cole era paralizzato dall’indecisione: rispondere al fuoco? Chiudere la porta dell’ascensore? Arrendersi?

Ma Catz sparò un colpo, e la guardia si piegò in due, con un proiettile nello stomaco. Restò a contorcersi sulla moquette, ai loro piedi, invocando il nome di chissà chi.

“Cristo, Cristo” pensò Cole. “In tivù muoiono subito.”

L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia. Era pallidissimo. Accanto a lui, come per dimostrargli comprensione, il berretto che gli era caduto di testa dondolava leggermente.

Cole alzò la pistola, uggiolò sottovoce, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra.

Catz abbassò la pistola di Cole e chiese: — Cosa stai facendo?

— Cercavo di… di non farlo troppo… — cominciò Cole, esitante.

— Non volevo colpirlo allo stomaco. Ho mirato alle gambe. Potrebbe anche cavarsela. Lasciagli una possibilità.

— Pensi che sia stato… uh… Città a… far sparare la pistola della guardia?

Catz non ebbe il tempo di rispondere. Vennero attaccati su due fronti. Davanti a loro, due uomini robusti, quasi calvi, in completo nero, puntarono due .45. Erano usciti dalla sala d’attesa annessa alla sala riunioni. Stavano già premendo il grilletto, ma le armi non spararono. I due si chinarono a guardare le pistole, stupefatti. Da destra arrivò, scivolando lungo il corridoio, un autoguardiano, uno di quei robot dal cervello non troppo complicato apparsi sul mercato nel 1979 e che servivano da guardiani notturni per magazzini e supermercati. — Fermi lì dove siete e non muovetevi per nessun motivo — disse la voce, materna e imperiosa, che uscì dalla testa globulare, cromata, del robot. Le sue braccia, simili al tubo di un aspirapolvere, terminavano in due paia di pinze con gli angoli smussati. Le braccia si spalancarono, circondarono i due uomini, sempre più perplessi. Il robot ripeté la litania del: — Fermi lì dove siete… — il che scatenò le proteste del gorilla più alto. — Ehi, che cazzo credi di fare, idiota, non sai che dovresti… — Venne interrotto quando gli sforzi frenetici del suo collega per liberarsi dal robot misero in azione, sulla testa dell’autoguardiano, un lampeggiatore stroboscopico. A distanza così ravvicinata, il lampo di luce accecò momentaneamente i due uomini.

Cole e Catz strizzarono gli occhi per allontanare le macchie di colore che danzavano sulle loro retine.

I due uomini prigionieri dell’autoguardiano continuarono a lottare, a cercare di liberarsi, bestemmiando e scuotendo la testa, come se bastasse quello a far scomparire la cecità. Una lampadina rossa cominciò ad accendersi e spegnersi sul petto cilindrico del robot, e i due gorilla si misero a sussultare: il computer stava trasmettendo loro piccole scariche elettriche. Poi i due precipitarono a terra, esausti e confusi. Uno cominciò a piangere. Da un foro che si apriva nel punto di congiunzione tra la testa e il petto della macchina uscì del gas. I due gorilla, ridendo come bambini isterici per aver respirato gas esilarante, si lasciarono trascinare via lungo il corridoio…

Di fronte a loro, oltre la porta spalancata della sala d’aspetto, Cole vide che veniva aperta la porta della sala riunioni. — Che cavolo succede? — urlò qualcuno, per il momento ancora invisibile. — Guardate che qui stiamo cercando di…

Cole avrebbe voluto girare sui tacchi e scappare, ma Catz (che probabilmente si stava godendo tutta la faccenda) balzò avanti, la pistola spianata, e con la mano libera si aggiustò la maschera sul viso. — Torna subito dentro! — urlò, fingendo un tono di voce secco.

Cole le corse dietro. La stanza danzava attorno ai fori per gli occhi della maschera, appiccicosi di sudore. Nel naso aveva il puzzo della gomma.

L’uomo fermo sulla soglia, le mascelle spalancate in un’espressione di stupore, indietreggiò freneticamente, inciampò, rotolò a terra sul sedere enorme. Catz e Cole lo seguirono di corsa nella stanza, agitando le pistole.

Qualcuno urlò: — Merda! Vogliono rapirci!

In sala riunioni c’erano cinque uomini, compreso l’idiota terrorizzato che era caduto. Cole riconobbe soltanto Rufe Roscoe e il suo avvocato, Salmon.

Due dei presenti non sembravano assolutamente spaventati: Roscoe e un tizio che, a giudicare dal taglio di capelli di moda a New York, non doveva essere di San Francisco. Un uomo dal viso olivastro, con borse nere sotto gli occhi e un sorriso gentile, da uomo d’affari, che gli fioriva sulle labbra da pesce.

Cole ricordava bene la parte che doveva recitare. — Okay — disse a Salmon, sperando di sembrare abbastanza duro — allora, chi devo uccidere? Tutti quanti, o solo quello di cui abbiamo parlato?

Il tipo che non era di San Francisco lanciò un’occhiata calma, ma piena d’interrogativi, a Salmon. Vedendolo di profilo, Cole lo riconobbe: Gullardo, l’ambasciatore della mafia. Aveva visto una sua foto di profilo in un articolo. Sotto la maschera, Cole sorrise. Ai capoccia del sindacato criminale nazionale avrebbe dato molto fastidio un’irruzione a un incontro a cui partecipava uno dei loro. Benissimo.

Cole alzò la pistola, la puntò su Gullardo. — Vuoi che lo uccida o no? — chiese a Salmon.

— Co… Eh… No!

— Hai cambiato idea? — chiese Cole. E fu in quel momento che la pistola sparò.

Cole fissò l’arma, stupito.

Non aveva premuto il grilletto. Ma Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue.

— Merda, Città! — disse Cole, indietreggiando.

Si girò, corse via. Catz lo seguì, urlando qualcosa che non riuscì a capire. Quando superò la porta, nel legno si scavò un foro, e qualche scheggia lo colpì alla guancia.

La porta dell’ascensore li attendeva spalancata. Catz e Cole si gettarono nell’ascensore, si appiattirono contro la parete. Un altro proiettile colpì il muro quasi all’altezza del soffitto, a pochi millimetri dalla testa di Cole. — Cristomadonnasantissima — esclamò Cole, automaticamente. La porta dell’ascensore si chiuse. Qualcosa sbatté dall’altra parte con uno spang metallico. Poi l’ascensore cominciò a scendere. Diciassettesimo piano… dodicesimo… ottavo… quinto…

— Fermati al primo piano, Città! — urlò Cole. — Facci uscire lì, poi prendiamo le scale, se no a pianterreno ci saranno le guardie ad aspett…

Ma l’ascensore superò il primo piano e si aprì a pianterreno. Catz e Cole si accucciarono. Catz sparò una raffica alla cieca. Contro nessuno. I proiettili s’infilarono nel cristallo della porta d’ingresso, disegnarono una complicata ragnatela d’incrinature.

La guardia non si vedeva. Cole, cauto, seguì Catz fuori dall’ascensore. Sulla loro sinistra, sei metri più in giù lungo il corridoio, la guardia che aveva visto entrando era riversa a faccia in giù. Accanto a sé aveva un estintore. Il becco si alzava dalla moquette verso il suo viso, e il boccaglio…

— Gli ha perforato l’occhio! — gemette Cole, disgustato.

Impulsivamente, corse in corridoio, provò le porte degli uffici finché non ne trovò una aperta, tre uffici più in giù. Dentro, sulla scrivania, un telefono. Cole premette il pulsante di chiamata del centralino, ricordandosi di spegnere lo schermo perché nessuno potesse vedere chi stava parlando. — Ma cosa fai? — chiese Catz. — Dobbiamo andarcene subito di qui!

— Sto chiamando un’ambulanza… — disse Cole.

Il centralino non rispose. Al suo posto, la voce di Città: — Taglia la corda immediatamente, Cole. Posso bloccare le loro chiamate solo per poco tempo…

— Qui c’è della gente ferita — disse Cole, in tono acuto, stridulo — gente che ha bisogno di…

— Ha bisogno di morire — disse la voce di Città, una voce fredda ed echeggiante come una strada del centro in una mezzanotte d’inverno. — Meno testimoni ci sono, meglio è. L’Uee dovrà sistemare le cose, per non correre il rischio che durante le indagini saltino fuori i suoi rapporti con Gullardo. Lo porteranno via, fingeranno che sia stato ucciso altrove…

Cole, ribollente di rabbia, sbatté la mano sul pulsante che interrompeva la comunicazione.

Catz lo aspettava, agitata, in corridoio.

A passi rigidi, Cole seguì Catz sull’auto…

Qualche isolato più a sud si tolsero maschere e tute militari, e Cole si asciugò il sudore dal viso. — Penso che quella maledetta gomma mi farà vomitare anche l’anima — mormorò.

Catz guidava in silenzio.

Cole le chiese, perché aveva bisogno di sentirla parlare: — Credi che arriverà la polizia?

— No. Città bloccherebbe le telefonate alla polizia. A ogni modo, non credo che quelli dell’Uee vogliano sbirri tra i piedi finché non si saranno liberati di Gullardo. Se è morto.

— È quello… — Lo stomaco di Cole si contorceva. Inghiottì bile. — È quello che ha detto Città… al telefono… Non mi ha lasciato chiamare un’ambulanza…

Fra loro, nell’aria, c’era qualcosa che spaventava tutti e due: una verità non detta: Città aveva mentito.

— Le cose non sono andate… esattamente come ci aveva detto… — mormorò Cole alla fine.

Sulla difensiva, anche se non stava difendendo se stessa, Catz ribatté: — Stu, concedigli qualche debolezza. Non può controllare tutto. Non è mica Gesù Cristo in persona. Deve improvvisare anche lui, seguire gli sviluppi della situazione. — Chissà perché, ma parve quasi che lei difendesse Città per risparmiare la sensibilità di Cole, per impedirgli di lasciarsi prendere dal panico.

— Non sono stato io a premere il grilletto — disse Cole, con voce funebre. — Città non doveva…

— Cosa? — Catz si girò a guardarlo, dimenticandosi di guidare. Cole, istintivamente, schiacciò col piede un pedale del freno che non esisteva quando passarono col rosso a un semaforo.

Quasi a metà dell’incrocio, lei frenò e fece marcia indietro. La strada era praticamente deserta, a eccezione di poche figure in ombra che s’intravedevano dietro le finestre dai vetri affumicati di un bar semibuio, sulla via in discesa alla loro destra.

— Non gli ho sparato io. Non ho premuto il grilletto. È stato Città a far partire il colpo.

— Be’, forse… — Catz tagliò corto con le ipotesi. Il semaforo era passato al verde. Lei premette l’acceleratore. La macchina ripartì all’indietro. — Ehi!

Catz frenò, l’auto si arrestò.

— Eri ancora in retromarcia — disse Cole, accennando un sorriso. — Per non restare in mezzo all’incrocio hai dovuto fare marcia indietro e ti sei…

— Oh! — Lei sorrise timidamente, inserì la prima, si rilassò quando la macchina scattò avanti. — Oh, già. — Esitò. — Comunque, forse Città non sapeva che c’era anche Gullardo, e ucciderlo era l’unico modo di risolvere la situazione. Però… uomo, non capisco proprio perché fosse necessario…

Cole si accorse di sedere rigidamente, di avere la schiena che gli tremava. Fece uno sforzo cosciente per rilassarsi, e tutto il suo corpo ebbe un sussulto. Si appoggiò alla portiera, premette il pulsante che faceva abbassare il finestrino, respirò l’aria fresca. — Ho bisogno di un goccio.

— O forse… — proseguì lei, tormentando il labbro inferiore con gli incisivi — forse sei stato tu a premere il grilletto. I nervi. Non puoi essere sicuro che non si sia trattato di un incidente, del dito che è scattato da solo…

Cole corrugò la fronte. Forse era stato lui, forse non era stato Città.

Non era stato a fare cosa? pensò furiosamente. — A uccidere — mormorò ad alta voce, per abituarsi all’idea, al suono della parola.

— Sarà meglio che ti ci abitui — disse Catz.

— Non mi piace che tu mi legga la mente quando non te lo chiedo — disse lui, dolcemente.

— Scusa. Mi è arrivata un’emanazione così, per caso.

— Sì. Giusto. Sicuro. Merda.

— Senti, non prendertela con me, Stu. Non è con me che ce l’hai.

— E come cazzo fai a sapere con chi ce l’ho? — La voce di Cole tremava; il suo sguardo era perso nel vuoto. — A meno che tu non mi stia leggendo la mente.

— No. Non posso nemmeno farlo tutte le volte che vorrei, tra l’altro. So con chi ce l’hai perché ti conosco. E lo vedo dal modo in cui ti stringi le mani, come se dovessi tenerle ferme per impedirti di prenderti a pugni, pirla. Ammettilo, hai un debito personale da pagare. Però non gettarlo sulle mie spalle, perché io non ho nessuna intenzione di dividere i tuoi sensi di colpa. Piantala con le menate.

— E tu piantala di usare certi termini. Non è da te. Tu sei una persona educata.

— Vedi? Adesso mi fai la censura. Ti sfoghi su di me perché ti fa comodo. Non venire a dire a me quello che sono e quello che non sono, Stu.

Cole stava tremando. Cercò di frenarsi, non ci riuscì. Aveva l’impressione che avrebbe continuato a tremare fino a mandare in pezzi l’automobile. Si sentiva teso, soffocato. — Lasciami giù qui — disse all’improvviso. — Arrivo a piedi al club. Ho bisogno di muovermi, di pensare. Ci vediamo al club.

Lei fermò la macchina di colpo. — Magari ci vediamo al club.

Cole scese, si portò sul marciapiedi.

Catz ripartì prima che lui riuscisse a chiudere la portiera. L’automobile schizzò via, la portiera sbatté secca, come se anche la macchina fosse arrabbiata.

Cole si guardò attorno. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.

Era a Polk Street. Respirò a pieni polmoni e rabbrividì. La notte gli pareva più fredda del normale.

Una donna alta, dai capelli chiarissimi, vestita da normalissima segretaria, stava arringando un gruppetto composto da quattro prostitute sotto i vent’anni. — Non m’importa se non ci credete. Ve ne accorgerete da sole. Datemi retta. Il sindacato è l’unica cosa che alla lunga possa proteggervi dai vigi, e dai poliziotti e da tutti quelli che cercano di fottervi. Non potete starvene qui a darla via al primo che passa senza pensare di rischiare… — La donna era una rappresentante del sindacato prostitute.

Cole si allontanò. Oltrepassando un’osteria, fu investito dal soffio di aria tiepida che usciva dall’apertura per la ventilazione: esalava odori di birra e vino e fumo d’erba e tabacco, mischiati alle voci di ubriachi litigiosi che urlavano per farsi sentire nel fracasso generale.

Superò un negozio di dischi/nastri/videocassette aperto tutta notte, vagò nella sua pozzanghera di luci multicolori, nel frastuono della sua musica. Stava attraversando un quartiere quasi completamente omosessuale. Era un quartiere accogliente, pieno di risate e d’affetto. I gay, in genere, accettavano tutti, e a volte lui entrava in un bar gay per vedere uomini che flirtavano con uomini, donne che flirtavano con donne, per guardare uomini che carezzavano uomini e… Gli piaceva il senso di comunione totale delle loro carezze, la loro spontaneità, la loro gioiosa ribellione. Ai gay non importava che ancora nel 1991 molta gente li disapprovasse, specialmente il movimento neopuritano. Infrangevano barriere, creavano legami proibiti per il semplice gusto di celebrare il minimo comun denominatore del piacere, il sesso. Cole aveva rimpianto più di una volta la propria eterosessualità. Talora immaginava che, se fosse riuscito a raggiungere il livello di amore comunitario dei gay, avrebbe riscoperto il fuoco della propria sessualità.

Oltrepassò un gruppo di travestiti, ascoltò distrattamente la loro conversazione: — …Be’, signorina Cosa, senti un po’, tesoro, ma ti ha dato di volta il cervello a tingerti i capelli di quel colore? Oggi il verde non lo porta più nessuno, e poi andrà a finire che le macchine ti scambieranno per un semaforo e ti passeranno sopra.

Cole sorrise debolmente. Non funzionava. Stava cercando di perdersi nella città. E non funzionava. Era il dolore che sentiva dentro a isolarlo.

E camminava troppo in fretta. Raggiungeva di continuo la gente (uomini barbuti in jeans e stivali militari, gay in tenuta da motociclisti coi pantaloni senza fondo, coppie e trii e gruppi di otto o dieci persone che si passavano spinelli e ridevano e si raccontavano battute oscene senza senso) che aveva davanti sul marciapiede, doveva superare tutti, aprirsi un varco. Un travestito gli lanciò un’occhiata furibonda e gli disse: — Ehi, ragazzina, non camminarmi sui tacchi, queste puttane di scarpe le ho appena comperate.

— Scusa — mormorò Cole, continuando disperatamente ad avanzare.

Il cuore gli batteva velocissimo.

Stava cercando di lasciare indietro le immagini… cercava di reprimerle… e le rivedeva all’infinito.

Sulla moquette c’era un uomo. Era morto, perdeva sangue. E, chino su di lui, c’era un altro uomo che stringeva una pistola fumante.

Entrò nel bar più vicino, si fece strada a colpi di gomito tra la folla al banco, e urlò: — Un bourbon liscio! — al barista. Il barista, un finocchio piccolo, avvizzito, che s’era tinto troppe volte i capelli, si leccò le labbra e mostrò la lingua a Cole.

Il jukebox stava suonando un pezzo dolce di Amanda Lear… Il barista guardò negli occhi di Cole, e capì. Scrollò le spalle, gli versò da bere. Gli versò una dose doppia. Cole si trasferì col bicchiere in un séparé d’angolo, vuoto; sedette, bevve, rabbrividì al gusto forte del liquore, tremò per lo sforzo di allontanare…

E non ci riuscì.

L’uomo era riverso sullo stomaco, gemeva come un bambino preso a schiaffi, cercava di fermare con le mani il fiume di sangue che gli usciva dalla pancia…

— Città… — disse, roco, Cole, a niente, a nessuno.

Cole alzò la pistola, sparò alla testa dell’uomo. Ancora. Ancora. Due proiettili mancarono il bersaglio. Uno colpì la guardia alla spalla destra…

— Città! — uggiolò Cole, i denti serrati, gli occhi chiusi.

Gullardo piombò giù. Aveva la gola lacerata, sputava sangue…

— Città! — urlò Cole, e riaprì gli occhi.

— Tutto bene, ragazzina? — Un ometto con la barbetta a punta e un solo orecchino gli sorrise debolmente. Qualcun altro si avvicinò al tavolo: un travestito, scoprì Cole, indifferente. Trangugiò il liquore in tre sorsate, rabbrividendo, e si alzò.

— Ragazza mia, hai una cera orribile — disse il travestito quando Cole lo superò. — Sarà meglio che tu vada a casa e…

— Sì — disse Cole. — Sì, grazie. È proprio quello che voglio fare. Vado a casa. — Uscì, strizzando gli occhi.

S’incamminò per strada alla cieca, mormorando scuse, respirando pesantemente, quasi senza accorgersi che oltrepassava discoteche gay, cinema gay, poliziotti gay che si tenevano per mano mentre pattugliavano, negozi di olovisori gay. e ristoranti gestiti da gay. Marciò furiosamente senza una direzione.

Alla fine si fermò, si scosse. Si riempì i polmoni d’aria e riprese il controllo di sé. Era in centro, dalle parti dell’Embarcadero Center; macchine a gasolio correvano alla sua destra, i grattacieli si ergevano duri e freddi e tozzi alla luce dei lampioni. I marciapiedi erano quasi deserti. Alla sua sinistra, qualcuno era coricato in un portone buio.

Cole si tese. La figura scura riversa sotto il portone aveva occhiali da sole a specchio, un cappello logoro e un lungo impermeabile. Dall’altezza del suo ventre usciva una musica in sordina…

— Città? — sussurrò Cole, avvicinandosi. Si chinò sulla forma dormiente. — Città? — L’uomo sotto il portone puzzava di vomito e di vino. Gli occhi di Cole si abituarono al buio. Fissò il viso dell’uomo: gli occhiali gli pendevano sul naso, di traverso. Dormiva, russando piano. Un messicano con la faccia da falco devastata dall’acne. La musica usciva da una radiolina portatile, semi nascosta nell’ansa del braccio. Era una stazione rock che andava e veniva, fra continue scariche.

Cole fece per allontanarsi, completamente deluso.

— Come ti senti, Cole?

La voce di Città, alle sue spalle.

Cole si girò di nuovo verso la figura che dormiva, le ginocchia sotto il mento, all’ombra del portone. L’uomo continuava a russare.

— Città?

— Sì, Cole. — La voce proveniva dalla radio, più forte della musica.

Cole si riavvicinò al portone, si chinò davanti alla radio, parlò piano per non svegliare l’ubriaco. — Città… sono fritto. Sto male.

— Come mai? Perché, Cole? — chiese la radio. E la musica, in attesa di una risposta, riprese il sopravvento.

— Sono disgustato. Mi viene da vomitare di disgusto. È strano… All’inizio non stavo troppo male. Sarò stato sotto choc, immagino. Poi ho cominciato a tremare, mi è piombato tutto addosso. Ho ucciso quell’uomo. L’abbiamo ucciso tu e io, tutt’e due. Mi hai mentito. E la guardia… Forse Gullardo doveva morire, forse se lo meritava… Merda! La sua gola squarciata… Ma quella guardia non sapeva niente di questa faccenda.

— Era sotto droga, Cole. Quella guardia era un paranoico drogato. Avrebbe ucciso chiunque fosse uscito dall’ascensore.

— Ammesso che sia vero, doveva pur esserci un altro modo di neutralizzarlo, anziché…

— Doveva esserci, ma non c’era. — La voce di Città era più alta, più stridente. L’ubriaco si agitò e gemette nel sonno.

— Senti, io non posso fare cose del genere, non posso… non posso prendermene la responsabilità. Non posso giudicare quella gente e ammazzarla. Non mi piace come sta andando questa situazione, non mi piace quello che sento… — Cole s’interruppe per schiarirsi la gola. Stava singhiozzando. Le macchine ululavano alle sue spalle. Guardò lungo i due lati del marciapiedi: non arrivava nessuno.

— Doveva succedere, Cole. Doveva verificarsi questo momento di presa di coscienza di te stesso. All’inizio stai male, hai paura, sei disorientato, poi ti riconosci, riconosci il tuo ruolo, e capisci.

— No, uomo. Io non capisco proprio niente.

— Cole, non sei stato tu a sparare. Sono stato io. Forse ti ho usato per farlo. Tu eri il mio veicolo. Ma la scelta, la responsabilità, sono mie…

— Però io ho il diritto di scegliere, o almeno dovrei averlo, se voglio o non voglio essere il tuo fottuto veicolo…

— Uh-uh. No, Stu, questa scelta è stata fatta molto tempo fa. Tu sei stato scelto, ma al tempo stesso ti sei offerto volontario. Hai accettato di diventare parte di me, di essere il mio agente, molto prima di vedermi nel tuo club. E adesso una domanda importante, Stu: io cosa sono? Cosa credi che sia?

Cole esitò. — Sei… l’inconscio della città. L’inconscio collettivo, solidificato in una sola mente. Almeno, questo è quello che dice Catz.

— Abbastanza vero. Ma allora, rifletti, quali sono le implicazioni della cosa? Io realizzo i desideri frustrati di tutta la gente di questa città. In cuor loro, hanno paura del Tif e dell’Uee e della computerizzazione del mondo e del decentramento della città. Hanno paura degli uomini che si servono di questi strumenti per assumere gradualmente il potere assoluto. Nonostante il condizionamento che li spinge ad accettare tutto questo a livello conscio, inconsciamente vogliono opporsi. E hanno creato me per poter lottare, e scelto te come mio agente fisico. Sono stati loro, Stu, a uccidere Gullardo. Sono stati loro a uccidere i vigi per strada. E tu sei sempre stato a favore di un governo collettivo, di un’espressione collettiva delle personalità. Tu sei sempre stato dalla loro parte, Cole. Adesso stai semplicemente eseguendo i loro ordini. Tu sei il bambino, e loro la tua famiglia.

Cole rifletté. L’idea funzionava, gli andava bene. Era un’ottima giustificazione razionale. Poco importava che Città avesse o meno ragione dal punto di vista morale. L’importante era che Cole possedeva una giustificazione per le cose che aveva fatto quella sera. Il sangue non macchiava più soltanto le sue mani. La responsabilità era condivisa con tutti coloro che vivevano attorno a lui. E chi poteva giudicarlo? Si sentì più leggero. Rabbrividì, ma questa volta di sollievo.

— Okay — disse.

— Ci saranno momenti — disse Città — che tu dubiterai di loro, e di me, e vorrai lasciarci. Forse succederà stasera stessa, più tardi. Ma adesso sai come affrontare questi momenti. Passerà. Non permettere che nessuno faccia leva sul tuo senso di colpevolezza morale, Cole.

A chi stava alludendo Città? A Catz?

La radio gracidò, ricominciò a trasmettere musica idiota. Città se n’era andato.

Ma adesso la sua presenza era lì, foltissima nell’ammasso di edifici che circondavano Cole.

Cole riprese a camminare, sorridente, sollevato. Si sentiva libero. La tensione era scomparsa. Pensò al suo club e svoltò l’angolo, diretto da quella parte: verso l’Anestesia.

Gli venne in mente che s’era incamminato verso il club così come i pensieri s’incamminano verso la piena comprensione di un’idea, o verso un ricordo che si vuole rivivere. La città era una mente enorme, una matrice di idee, di concetti compressi nel cemento e nell’asfalto; e lui era il centro di coscienza che percorreva quella mente, che sfiorava un’idea (un punto della città) e poi un’altra. I nomi delle vie sistemati in bell’ordine, sfumando l’uno nell’altro, erano come i percorsi delle libere associazioni d’idee.

Si sentì, più che mai, parte della mente di Città.

— Ehi, Stu! — Alzò gli occhi, vide Catz ferma davanti al club Anestesia. Sorrise, la salutò col braccio. Lei parve sollevata. Lo raggiunse, lo prese per mano, e assieme entrarono nel clamore del club. Come per muto accordo, parlarono di tutto, di qualsiasi cosa; tranne che di Città e dei morti del Pyramid Building.

Andarono nella stanza sul retro, e Cole versò due birre. Parlarono di musica, e del pubblico, e riuscirono quasi a dimenticare.

Però, nella voce di Catz c’era un leggero tono d’accusa. Combatteva con se stessa, per impedirsi di parlare di quello che era successo. Cole sentì tornare il disgusto di sé. “La faccenda non è in mano mia” si disse. “Per me hanno deciso tutto quelli che vivono in città.”

Si alzò, si stiracchiò, disse che doveva mettersi a lavorare. Catz annuì, fissando il pavimento. Cole rientrò nel locale.

Per due ore si perse nel lavoro. Versò da bere e nutrì il mostro dalle mille bocche; lavò bicchieri e tenne d’occhio gli incassi e pulì il banco; fece partire e ripartire la disco computerizzata e studiò carte d’identità e buttò fuori gli attaccabrighe e finse di ascoltare aneddoti che il fracasso non gli lasciava sentire; versò da bere, da bere, da bere.

A volte faceva tutte queste cose una dopo l’altra, eseguiva in cinque minuti una serie di lavori a velocità record; rimbalzava avanti e indietro dal banco come una palla da biliardo che rotolasse sul tappeto verde, contro le sponde. Un sollievo enorme. Riusciva a essere una parte funzionante del grande congegno della città notturna, e si sentiva a proprio agio.

Versò da bere, lubrificò gli ingranaggi della Grande Macchina del Sabato Sera, senza mai perdere d’occhio il suo regno fumoso, dominato da una sfera a specchi.

Lo squillo del registratore di cassa, l’acciotolio della lavastoviglie, i barriti animaleschi dei clienti: tutto si fondeva in un mare tempestoso di suoni.

Era il capitano del club Anestesia. Era il primario che somministrava l’oblio in siringhe a forma di bicchiere, e poteva benissimo dimenticarsi la guardia che si contorceva sulla moquette e l’italiano con la gola squarciata al diciottesimo piano di un palazzo progettato per sopravvivere ai terremoti… Riusciva a scordarsene anche per mezz’ora di seguito. E poi gli tornava in mente che è stata tutta quanta la città a premere il grilletto; io ho solo eseguito l’ordine.

Ma, di tanto in tanto, rivedeva davanti a sé il palazzo piramidale, ed era diverso; somigliava alla piramide stampata sui vecchi biglietti da un dollaro, quella con sopra un occhio enorme, fisso.

“Appena capiranno che Salmon non li ha traditi” pensò “verranno a cercarmi. Sarò uno dei primi sulla loro lista di sospettati. Sanno che ho motivi per odiarli.”

Quindi, non restò sorpreso quando alle dieci, dopo che la banda di Catz aveva suonato per un’ora, due uomini in abito grigio entrarono e si avviarono, decisi, verso il banco. Quello più anziano aveva occhiali con le lenti gialle, e il suo viso affilato sembrava ancora più piccolo per le cicatrici da ustioni che aveva sulle guance. L’altro era più giovane, più basso, di carnagione scura, con occhi castani e capelli neri; probabilmente un messicano.

Cole fece loro segno di avvicinarsi all’estremità del bar, dove la folla era meno fitta, e quando i due lo raggiunsero capì di aver commesso un errore: avrebbe dovuto ignorarli finché non l’avessero costretto a interessarsi a loro. Comportandosi come se li stesse aspettando, si era compromesso.

L’uomo con le cicatrici disse: — Cole? Drummond — e indicò se stesso con un cenno quasi impercettibile del pollice. Poi accennò al tizio che sedeva al suo fianco. — Il sergente Hulera. — Drummond gli mostrò il portafoglio col distintivo della polizia.

Hulera, che anche muovendo le labbra riusciva a conservare un’ombra di sorriso, chiese: — Ci stavate aspettando? Qualcuno vi ha avvertito?

— Cosa? Uh… — Non balbettare, si disse Cole. — No, cavoli, no. Però so riconoscere un poliziotto quando lo vedo. E siccome voi non siete quelli che di solito fanno servizio di pattuglia qui, ho pensato che voleste parlare con me. Ecco tutto.

Drummond parve soddisfatto della risposta. Ma Hulera chiese: — E per caso sapete perché vogliamo parlare con voi?

— Oh, piantala con questi giochetti — disse Drummond, irritato. — Non è mica scemo… Cole, sapete niente dei ragazzi che ci hanno rimesso le penne nel palazzo della Cracker Bank? È successo solo poche ore fa.

— Ragazzi? — chiese Cole, fingendosi annoiato. — Volete dire ragazzini?

— Voglio dire guardie. Una ha fatto una fine piuttosto brutta.

— Una fine mostruosa, per la madonna — intervenne Hulera. Scosse la testa, il sorriso scomparve. — Gli hanno infilato il boccaglio di un estintore nell’occhio.

— Uh… Che razza di modo di morire. — Cole deglutì per cercare di riprendere il controllo. — E come diavolo è successo? — chiese, con un sorriso che si rese conto doveva sembrare la smorfia di un ubriaco.

— Questo volevamo chiederlo a voi — disse Hulera con aria da istrione.

— A me? E perché?

— Ci hanno detto che dovete un sacco di soldi a quella gente. Un sacco. A quelli del diciottesimo piano — rispose Drummond.

Cole si sentiva penetrare dallo sguardo di Drummond. Il poliziotto stava esaminando al microscopio ogni minima variazione nell’espressione di Cole.

— Sentite, Drummond — ribatté Cole — è ovvio che mi sarei levato dai pasticci se fossi andato da loro e avessi infilato qualcosa nell’occhio della guardia. Lampante. Insomma, è logico che dev’essere stato un maniaco. Insomma, se questo cosiddetto debito mi avesse fatto uscire di testa, e non voglio dire che non mi dia fastidio, se avessi perso i cinque minuti e fossi andato a far fuori tutti, credete che adesso potrei starmene qui a fare tranquillamente il mio lavoro, a poche ore di distanza?

— Come fate a sapere che sono passate poche ore? — disse Hulera, giulivo. Nei suoi occhi si accese la luce di trionfo dell’ingenuità.

— Cristo, Hulera — ringhiò Drummond con l’angolo della bocca — gliel’ho detto io qualche secondo fa. E sta’ attento.

Hulera scrollò le spalle, si leccò le labbra, puntò lo sguardo su Cole.

— Vi dispiacerebbe venire con voi al commissariato di polizia, signor Cole? — chiese Drummond.

— Mi dispiacerebbe sì. A meno che non abbiate un mandato di arresto.

— Possiamo averlo entro domani mattina — disse Hulera.

Si abbassarono le luci. Era cominciato il numero di Catz. Dovettero urlare tutt’e tre per farsi sentire al di sopra della musica.

Cole era contento che l’illuminazione fosse scarsa. Drummond non poteva più vedere perfettamente il suo viso. Era sicuro che il terrore che lo stava assalendo (niente lo spaventava più della prospettiva di finire in galera) si riflettesse in chissà quale angolo del suo viso.

— Dovrete procurarvi un mandato — disse Cole. — Io ho un locale da mandare avanti, e con quel debito che mi pende sulla testa resterò qui ad assicurarmi che renda tutto il denaro possibile, potete scommetterci l’anima…

— Una scusa molto debole, amico — disse Hulera, protendendosi in avanti. La sua voce era dura come l’acciaio.

— Porca miseria, Hulera, è un’ottima scusa — urlò Drummond al suo collega. Poi fece un cenno a Cole. — A domani. — E guidò fuori dal bar un Hulera terribilmente accigliato.

Cole si versò da bere.

— Un comportamento sospetto — mormorò fra sé, sorseggiando il liquore e fissando i poliziotti. — Dovevo andare con loro. Forse dovrei rincorrerli e rispondere a tutte le domande. Chi se ne frega.

La sua attenzione si soffermò sulla figura riflessa nella vetrina del club, fra insegne al neon che si accendevano e si spegnevano; una figura vaga, sovrapposta alle immagini dei clienti che popolavano il club. Era visibile solo quando il colore delle insegne passava dal giallo al rosso. Rosso: era Città, col suo impermeabile, il cappello lacero, gli occhiali a specchio.

Cole si guardò attorno. Città non c’era (se non a livello macroscopico). Di lui restava soltanto quel riflesso. Un riflesso che nessuno proiettava. Lo guardò. Città lo stava fissando e scuoteva la testa. — Alludi ai poliziotti? — gli chiese. — Devo andare a parlare con loro?

Città scrollò la testa, ammiccò, svanì.

Cole si rimise al lavoro. Quando terminò di suonare, Catz lo raggiunse al banco. — Ho sentito la voce di Città nei microfoni del palco — gli disse. — Mi ha parlato.

Il gelo scese nel cuore di Cole. — Vuole farci fare qualche altra cosa…

Lei annuii. — Ha detto che devi andare al telefono a gettoni.

— Perché? — Cole lasciò cadere lo straccio per pulire il banco. — Stasera è stato abbastanza. Non posso sopportare niente di più. Uh-uh. È stato abbastanza per dieci anni.

Ma andò al telefono.

Davanti all’apparecchio senza schermo, raccolse il ricevitore, s’infilò un dito nell’altro orecchio per eliminare in parte il frastuono della disco, e si mise in ascolto. Immediatamente, più forte del segnale di libero, si udì la voce di Città: — Non parlare con la polizia se puoi evitarlo. Cercherò di gettare i sospetti su una banda rivale. I Tongs, magari. Loro, quelli di Roscoe, hanno la tua voce registrata su videonastro. Sono riuscito a bloccare la telecamera, ma non la registrazione audio. Per cui, se vai al commissariato, potrebbero identificarti… Adesso devi recarti al Memorial Auditorium. C’è un concerto dei Prima Lingua. I vigilantes vogliono dare una lezione al gruppo perché si è rifiutato di associarsi al loro sindacato musicisti. Andremo a orecchio, vedremo di sfruttare le possibilità che ci si offriranno. Va’ all’uscita sud e ti farò entrare. Parti subito.

— Ehi, senti, sono stufo di fare le cose così, a orecchio — cominciò Cole in tono stridulo. — Avevi detto che non sarebbe successo niente a nessuno, e invece ci sono… — abbassò la voce, si guardò alle spalle — …ci sono dei morti in quel palazzo, e due come minimo non dovevano morire. Come minimo. Non c’era motivo di uccidere la guardia con l’estintore, Città. Potevi semplicemente stordirla, oppure… — La voce di Cole si spense. Il telefono gli rimandava solo il suo segnale monotono. Aveva la netta sensazione… — Città? — …che Città non fosse più all’apparecchio.

Scagliò il ricevitore di plastica contro la tastiera, restò a guardarlo rimbalzare e penzolare per aria, appeso al cordone di metallo, come un orribile pendolo.

Catz era al suo fianco, gli porgeva la giacca. — Ho già detto a Bill di sostituirti — disse. — La band continuerà senza di me. Al diavolo.

Cole si mosse lentamente per prendere la giacca. In lui c’erano tre diverse stratificazioni di paura. La prima era la paura di essere ucciso o fatto prigioniero. La seconda era paura per il night club e, contemporaneamente, paura per la sorte di Catz. La terza stratificazione era il terrore che provava accorgendosi di non avere nessuna scelta quando giungeva il momento di fare quanto Città gli diceva…

S’infilò la giacca e seguì Catz fuori dal locale.

L’uscita sud dell’Auditorium era chiusa con una catena; non c’era nessuno a sorvegliarla. Ma Città aveva aperto i due lucchetti che la bloccavano, e Cole dovette semplicemente sfilare la catena dalle maniglie della porta. Questa era chiusa anche dall’interno, e resisteva ai colpi di Cole. Catz disse: — Tirati indietro. — Cole si tirò indietro. Sentì due scatti metallici. Quando riprovò a spingere, la porta era aperta.

La spalancò, e i due entrarono decisi nel caldo e nel fumo dell’Auditorium. Si trovavano in un corridoio all’esterno dei gabinetti. Il corridoio di cemento vibrava al ritmo del basso e delle percussioni della band che si stava esibendo sul palcoscenico dall’altra parte della parete… Non erano soli. Li avevano visti entrare.

Punk e seguaci dell’angoscia rock erano allineati lungo le due pareti in un disordine studiato. I punk indossavano abiti fatti da loro stessi, ornati alla rinfusa da catene, gioielli, ninnoli, gingilli, autoadesivi, distintivi vari; i loro vestiti (simili come stile senza che ce ne fossero due identici) erano accozzaglie di parti che facevano a pugni tra loro, a riflettere il disgusto per gli abiti di produzione industriale e la moda computerizzata. Gli angosciari indossavano soprattutto uniformi (andava bene ogni tipo d’uniforme, ma quelle da carcerato erano le preferite) oppure tuniche bianche da ospedale. C’era anche un pizzico di vestiti in gomma, in pelle nera, in metallo cromato, qualche fascia da trapianto, qualche voguer sgargiante. Fumavano sigarette, erba e stick di alcaloidi. Guardarono Cole e Catz con indifferenza, ma in qualche espressione Cole lesse rispetto: — Quelli sono entrati gratis — ridacchiò qualcuno. — Mica dev’essere stato facile forzare la porta.

Punk dai capelli foltissimi, i visi rozzamente tatuati con inchiostro di china a rappresentare il simbolo del dollaro, teschi e simboli anarchici, si avviarono verso l’uscita sud; gli angosciari, torvi e depressi, le mani infilate in tasca, gli occhi tristi sotto le fronti uniformemente fasciate di nero e la capigliatura corta, non si mossero. Le ragazze punk, tutte a seno nudo, con gli anelli infilati nei capezzoli che riflettevano la luce, risero e indicarono Cole con la testa. — È un po’ vecchio per stare qui, no? — si chiesero, storpiando a bella posta le vocali. Cole sentì come un dolore al petto.

Con un sorriso arrogante, Catz prese Cole per il braccio e lo guidò sulla destra verso l’ingresso dell’Auditorium più vicino al palco. Alle loro spalle, i punk urlavano agli amici che stazionavano all’esterno, offrivano l’ingresso gratuito attraverso l’uscita sud.

Catz era piuttosto nota; probabilmente l’avrebbero riconosciuta se non fosse stato per la maschera domino di plastica e il trucco diabolico che le nascondevano quasi tutto il viso. Indossava una calzamaglia con un foro da cui sporgeva il seno destro, una giacca marrone da pilota e calzoni aderenti di pelle nera. I capelli erano diritti sulla testa, cosicché lei sembrava, nell’insieme, un ritratto dipinto da un paranoico. Aveva il tipico aspetto da punk, il che la rendeva un po’ fuori moda. In genere, i punk erano relitti al di sopra della trentina.

Superarono un corridoio spettrale, con luci azzurre; tirarono calci a flaconi vuoti di plastica, a pacchetti di sigarette, a siringhe del tipo distribuito dal governo; svoltarono a sinistra ed emersero nel teatro. Si fermarono al limitare della folla fittissima, a una dozzina di metri da cinque dei monumentali altoparlanti sulla destra del palco. Gli altoparlanti erano talmente grandi da poter contenere due uomini ciascuno. Il tuono heavy-metal li avviluppò, li trascinò nelle sue correnti di suono totale, li costrinse a nuotare…

Catz si muoveva in quell’elemento (il ruggito folle di un concerto di angoscia rock è un elemento a sé, un oceano in miniatura di suono palpabile; musica che si può sentire a livello fisico, una seduzione sonora che scuote le membra, scompiglia i capelli con la forza della sua pressione, fa battere spasmodicamente i denti) con la sicurezza di un falco che voli tra l’infuriare dei venti.

Cole era raggiante di ammirazione per lei.

Come un gigantesco drago arenato sulla spiaggia, la folla si muoveva all’unisono, formava un unico corpo agitato da sinuosità da rettile: un’enorme massa multicellulare che fremeva al massaggio imperioso del rock ’n ’roll, una pelle multicolore (cinquantamila facce fuse l’una nell’altra) che vibrava di vita, che si nutriva della prodigiosa amplificazione ritmicamente elargita dalla band.

I musicisti, vestiti rispettivamente da santi gnostici, maghi iniziati e alchimisti, indossavano arcani costumi in rosso-nero-argento. Il cantante solista portava solo una fascia di tela grezza che gli cingeva i fianchi e, sul petto esile grondante di sudore, era tracciato a fuoco il Simbolo, il simbolo cabalistico del caos, la croce la cui base si trasforma in falce. I suoi occhi da gatto (lenti a contatto verdi gli allargavano le pupille) emanavano un’intelligenza aliena. Si agitava masochisticamente sotto le sferzate del ritmo singhiozzante di basso e batteria; eseguiva una coreografia bizzarra, spontanea quanto lo schioccare d’una frusta e al tempo stesso attentamente studiata, e ogni passo faceva parte di un rito d’invocazione del voodoo urbano… Nelle interviste, il cantante dei Prima Lingua aveva sempre ripetuto che i loro strumenti parlavano la “Prima Lingua”, il linguaggio dei tempi precedenti Babele, il linguaggio degli angeli. Era l’unica band di rock occulto che avesse ancora un certo successo, anche se il genere era stato iniziato più di dieci anni prima dalla Blue Öyster Cult.

Il cantante, che sfoggiava il nome d’arte di Blue Drinker, intonò con quella sua aria sfottente:

Le sei gambe del cadavere vivente
Che invade con lame di
ghiaccio la pace della morte
E le sue sei lingue che annunciano imminente
Di un Cristo elettrico il ritorno a nuova sorte…

E in quel momento ebbe inizio lo show luminoso. Nel turbinio di fumo sospeso sul pubblico, i raggi laser si accesero, rossi e acuminati come l’inevitabilità della morte, intrecciandosi e cozzando in una ragnatela di colori, pulsando secondo un codice diabolico; colori fondamentali, rivoli eterei d’acciaio incandescente e filamenti di luce, tutto al ritmo della musica. Sempre sincronizzati con la musica, con la prima e l’ultima eco di un rimbombo della batteria, con ogni gemito di uno spunto della chitarra solista; accendendosi in perfetta sintonia col coro arcano del sintetizzatore, col lamento funebre del basso. Le luci erano in funzione della musica, attivate dal computer con lo scarto di un millesimo di secondo rispetto al suono. Il computer sapeva, nell’attimo in cui la musica cresceva, che era giunto il momento di far partire l’olografia; i raggi laser si spezzarono, si rifransero, si soffusero, e presero forma come la creta sul tornio, seguendo le configurazioni del grande campo elettromagnetico proiettato da fonti nascoste nel soffitto.

E la folla eccitata, acclamante, ipnotizzata, coi visi rivolti verso l’alto come onde di un mare agitato dalla tempesta, vide una bestia grande quanto un cacciatorpediniere. Era una cosa mostruosa, subumana: un uomo a sei gambe che strisciava come un aracnide sul ventre striato, e nella sua enorme testa deforme splendevano sei occhi dai colori mistici, e la bopca priva di labbra si apriva a svelare le sbarre di una prigione da cui i carcerati guardavano con occhi spenti…

Gigantesca, tridimensionale, apparentemente solida, la cosa nuotò nel fumo emesso dalla folla, si mosse al ritmo frenetico ma esatto dei Prima Lingua, mentre tutt’attorno gli edifici olografici esplodevano in geyser di polvere, seppellivano gli abitanti della città che scappavano urlando…

L’immagine olografica mosse i suoi arti squamosi, lanciò strilli orribili al ritmo della musica (e il tuono che giungeva dal palco sembrò immobilizzare quegli strilli, ricrearli di nuovo e di nuovo, secondo per secondo), devastò la città che la circondava. E Blue Drinker, mentre il suo viso cadaverico esprimeva l’apoteosi del dolore, recitò prodigiosamente un brano biblico: — …e ho visto un’altra bestia uscire dalla Terra, e aveva due corna come un capro e parlava la lingua dei draghi…

Al mostro olografico spuntarono due corna, e dalla sua bocca uscirono fiamme.

— …e causa grandi meraviglie, sicché fa scendere dai cieli il fuoco sulla Terra alla presenza degli uomini…

L’immagine olografica mostrò il fuoco che pioveva sulla bestia e sulle sue vittime.

— …e fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla fronte…

E le persone che si muovevano nell’ologramma, cadute in ginocchio ad adorare la bestia che sputava fuoco, ricevettero sulla fronte un marchio di numeri; e sul palco si accese, sopra la testa di Blue Drinker, una luce a fluorescenza, e sulla sua fronte apparve qualcosa che sino ad allora era invisibile: 666.

Catz batté i piedi, estasiata; Cole rise.

Cole si avvicinò di più alla ragazza e le urlò all’orecchio: — Dove sono i vigilantes che dovremmo fermare? E cosa cavolo facciamo se li vediamo?

Catz si limitò a stringersi nelle spalle. Cole non capì se si trattasse di una risposta, oppure se lo faceva semplicemente perché non riusciva a sentirlo.

La band proseguiva nel suo sound frenetico: una falange di carri armati che avanzavano sul campo di battaglia. I giri melodici erano precisi e impeccabili, ma amplificati e arrangiati con tale asprezza da farli sembrare, a un orecchio non esperto, un semplice caos di rumori. Però, come un carrarmato sembra, a prima vista, niente di più che una macchina sgraziata destinata a produrre morte, così la musica, studiata nelle sue varie componenti, si rivelava composta di un’infinità di parti perfettamente studiate e fuse l’una con l’altra. Una grande macchina musicale.

L’ampio Auditorium, costruito per ospitare fino a 55.000 persone, era dominato dall’immensa pista da ballo, in quel momento affollata sin quasi alle pareti su cui si affacciavano le poltrone della galleria. Attorno ai bordi della pista da ballo c’era un margine, molto ristretto, tenuto libero per l’eventualità di un incendio e sorvegliato da dozzine di guardiani e buttafuori. Qua e là scoppiavano risse, venivano lanciate bottiglie, esplodevano bombe lacrimogene, sicché il locale aveva più che mai l’aria di un campo di battaglia.

Sotto la galleria si aprivano tre cancelli che portavano agli ingressi principali. Dai cancelli entrò di corsa un drappello di uomini tutti vestiti con blue jeans e camicie azzurre, coi tratti del viso deformati da calze di nylon. Alcuni erano armati di pistole, altri di manichette “I vigilantes” comprese Cole, stupefatto. Lo spettacolo gli aveva fatto quasi dimenticare lo scopo per cui era lì.

Si voltò a guardare lo spazio libero attorno alla pista da ballo. I guardiani se n’erano andati tutti all’improvviso, come obbedendo a un segnale convenuto.

Urla e movimenti frenetici ai margini della folla indicava i punti in cui i vigilantes si stavano aprendo il cammino. Cole vide scoccare le scintille dai manganelli elettrici.

Catz, cautamente, lo prese per mano e lo guidò verso la fascia esterna di pubblico, verso i vigi. Ma furono costretti a lottare contro una corrente troppo forte: la folla, come un’ameba distolta dal sonno, si spostava in avanti, si allontanava dalla minaccia che aveva alle spalle, correva verso il palco e le uscite laterali.

Gli spettatori in prima fila, schiacciati contro il palco, balzarono freneticamente su, ed erano troppo numerosi perché gli inservienti riuscissero a fermarli. La band, ignorando gli angosciari e i punk che si accalcavano tutt’attorno, che correvano sul palco, si mise a suonare, come per scherzo, un pezzo di Aaron Dunbar, L’iperattivo:

Dio è morto e io voglio il suo posto
Sarò il padre divino del cosmico avamposto!
Tutti
Sono schiavi del piacere
Tutti
Sono spinti a possedere
E l’unico modo per sfuggire alla povertà
È fare dell’universo una sacra proprietà…
Dio è morto e io voglio il suo posto…

I vigi sparavano a casaccio sulla folla, quel tanto che bastava per farla diventare una mandria impazzita, per spingerla verso il palco…

— Stanno cercando di far schiacciare la band dalla folla! — urlò Catz, incredula.

Il gruppo continuava a suonare, e i visi dei musicisti erano cupi. La musica era sospesa su di loro come un mostro invisibile. Blue Drinker non smetteva di agitarsi, con movenze sempre più folli. Sembrava che si divertisse un mondo nel caos creato dai suoi nemici.

Catz e Cole si ripararono dietro un pilastro di cemento. La folla ondeggiava di continuo da destra a sinistra. Chi cadeva veniva calpestato.

I vigi misero in funzione le manichette e avanzarono verso il nucleo della folla terrorizzata.

Sul soffitto, l’immagine olografica stava cambiando…

Si abbassò, scese dalle travi metalliche del soffitto fin sopra gli spettatori. Giunse così vicina che, nonostante il panico, nessuno poté ignorarla.

Adesso l’immagine era quella di un vigilante, con la schiena decorata da stelle rosse, azzurre e bianche, che stava strangolando Blue Drinker…

“Questa è opera di Città” pensò all’improvviso Cole.

I vigi alzarono la testa, esitanti, stringendo in mano manganelli o pistole o manichette o corpi contundenti.

La folla rallentò il ritmo della fuga, guardò in su per scrutare l’immagine proiettata sul soffitto: adesso era un enorme ritratto tridimensionale di Lance Galveston, il capo del sindacato criminale. Lo riconobbero quasi tutti. E Blue Drinker, sul palco, scoppiò in una risata e fece segno alla band di continuare. La grande macchina dell’heavy-metal rock non si fermò.

Le manichette dei vigilantes avevano smesso di spruzzare schiuma. I vigi che le avevano usate abbassarono gli occhi, le guardarono, confusi.

L’immagine di Lance Galveston girò su se stessa, fissò la folla. Era un vecchio col viso rugoso e gli occhi gialli. Le sue mani tremanti slacciarono la patta dei calzoni… e Galveston urinò sulla folla. Alle sue spalle, ologrammi di vigilantes ridevano e ammiccavano.

E la musica, col suo messaggio non verbale sempre più forte, sempre più marziale, eccitò ulteriormente il pubblico…

All’unisono, la folla si girò, e, spronata dai messaggi visivi di Città, attaccò. I vigilantes indietreggiarono, caddero, corsero verso le uscite in cerca di rifugio. Qualcuno si voltò, si mise a sparare all’impazzata; una, due, tre persone tra la folla precipitarono a terra, ma tutti gli altri continuarono ad avanzare, calpestarono chi era caduto, misero le mani su chi stava sparando, li abbatterono, li linciarono in un’orgia catartica. Una rabbia repressa troppo a lungo, il risentimento inconscio per ciò che i vigi rappresentavano, scoppiarono, si proiettarono all’esterno. A uno a uno, i vigilantes vennero catturati e massacrati…

Cole corse dietro a Catz. Superarono un archivolto, percorsero un corridoio, arrivarono all’uscita sud, furono all’aperto.

Il rombo del traffico sembrava solo un debole mormorio, inconsistente, dopo le ondate di suono che li avevano travolti.

Corsero fianco a fianco nel parcheggio, evitando le automobili che si lanciavano, isteriche, sulla strada. Catz distanziò Cole: la ragazza stava correndo verso un gruppo di vigilantes in fuga, a una cinquantina di metri di distanza. L’aria della sera devastò i polmoni di Cole; le sue orecchie gemevano ancora per l’amplificazione della band.

Raggiunse Catz. Il panorama di macchine immobili si trasformò in una serie di prospettive metalliche. Cole sbuffava, il viso era in fiamme per lo sforzo.

Davanti a loro, sull’altro lato di una vecchia Cadillac nera, tre uomini si stavano ammucchiando nella cabina di guida di un camioncino Datsun azzurro, col cassone coperto da un tettuccio bianco da camper. Un modello del ’79. I fari del camioncino si accesero, il motore partì.

Correndo a testa bassa, Catz si lanciò verso il cassone del veicolo. La portiera posteriore era aperta: probabilmente i vigi avevano portato con sé altra gente, che adesso abbandonavano. Catz non ebbe difficoltà a saltare a bordo. Cole, ormai senza fiato, la seguì debolmente, cominciò a scavalcare la sponda. Era metà dentro e metà fuori quando il camioncino ebbe un sussulto e partì, scaraventandolo quasi sull’asfalto. Ma Catz lo afferrò per il colletto e lo tirò su a strattoni. Cole sbatté violentemente la tibia contro un cric, si sbucciò la gamba, lanciò un urlo di rabbia. Il retro del camioncino era scuro, ma se gli uomini che stavano in cabina di guida si fossero girati, probabilmente avrebbero visto i due passeggeri clandestini.

Cole, avanzando su mani e ginocchia indolenzite, seguì Catz sul metallo freddo del cassone.

Si fermarono in un angolo sotto il finestrino posteriore della cabina di guida: lì potevano accucciarsi sui due lati del finestrino e non essere visti.

Non avevano nemmeno un’arma. Cole tastò con le mani fra le tenebre, e le sue dita si strinsero su una sbarra di metallo.

Svoltando di continuo con stridio di gomme, il camioncino correva veloce. Fu un viaggio breve, forse cinque minuti. Il cric risuonava beffardamente.

Il veicolo rallentò, il rumore del cric diminuì, il rombo del motore diventò un ronzio sommesso. Il camioncino infilò un sentiero e si fermò. Il motore si spense. Cole si irrigidì nell’attesa, strinse forte la sbarra di metallo, attento a non muoverla per non urtare accidentalmente qualcosa. Trattenne il fiato. “È una follia” pensò. “Catz è pazza.” Le portiere del veicolo sbatterono, e la testa di Cole, ancora appoggiata sotto la cabina di guida, fu percorsa da vibrazioni dolorose.

“Forse non guarderanno qui dietro” pensò.

Udì il suono di passi che si allontanavano dal camioncino e si rilassò leggermente, si sentì più al sicuro… Finché una figura scura apparve davanti a loro e puntò direttamente sul viso di Cole il raggio accecante di una torcia elettrica.

QUAAAATTRO!

Cole serrò le dita sulla sbarra di metallo e aspettò che l’uomo con la torcia e la pistola, che avanzava verso di loro a testa bassa, gli fosse sopra nei confini tenebrosi del cassone. Il viso dello sconosciuto, illuminato dal basso, ricordava una scultura mostruosa: e allora Cole diede uno strappo alla sbarra, facendo ricorso a tutto il suo peso. E urlò quando la sua mano si rifiutò di seguirlo, e perse l’equilibrio e cadde sulla schiena, dolorante. La sbarra era inchiodata al pavimento; era la maniglia della calotta di protezione dell’albero di trasmissione.

Cole pensò che non c’era proprio niente di buffo; allora, perché diavolo il vigilante si era messo a ridere?

Il braccio destro gli doleva paurosamente; forse gli era andato fuori posto qualche osso della spalla. Se avesse avuto una bocca, il braccio avrebbe urlato quando il vigilante lo piegò per costringere Cole a coricarsi sullo stomaco. Poi gli serrò i polsi con un paio di manette.

Con la coda dell’occhio, Cole vide Catz scattare. Ci fu un bang, un tonfo metallico; le figure avvinghiate sul pavimento bestemmiarono.

A viso in giù, Cole poteva soltanto ascoltare e tentare di strisciare via. Fiutò il puzzo della benzina, della gomma dei pneumatici, del sudore del vigilante. Sentì in bocca il sapore acido del proprio terrore. Il raggio di luce danzò follemente nello spazio ristretto, poi si spense.

Catz uggiolò. Il vigilante grugnì, trionfante.

“Forse, se resto qui e non mi muovo più, si dimenticheranno di me” pensò Cole.

La torcia si riaccese, e poco dopo un secondo raggio di luce si unì al primo. Un altro uomo (o una donna molto grossa? La voce era acuta) era immobile dietro il camioncino, con la torcia in mano, e diceva: — Stupido, dovevi farli uscire uno dopo l’altro, non salire tu. Potevano romperti la testa.

“E gliel’avrei rotta di sicuro, se quella sbarra non mi avesse fregato” pensò Cole.

— Chiudi il becco — mugugnò il vigilante vicino a Cole. Respirava affannosamente, e il suo volto era quello di un feto gigantesco, sotto il nylon: approssimativo, incompleto. L’uomo stava trascinando via qualcosa.

Trascinava via Catz. “Come se fosse un sacco della spazzatura” pensò Cole, e le lacrime gli bruciarono gli occhi.

Senza riflettere, spinto da una furia improvvisa, rotolò sulla schiena e tirò un calcio al vigilante. Lo colpì alla gamba.

— Merda! — urlò l’uomo, vacillando all’indietro.

Poi altre persone salirono sul camioncino. Cole venne sollevato, trasportato fuori, nell’aria della sera, per il colletto e le caviglie. Gli venne la nausea. — Città… — mormorò debolmente, mentre gli sconosciuti lo trasportavano lungo un sentiero, oltre una porta.

— Cos’ha detto? — chiese qualcuno alle sue spalle.

— Credo che abbia detto “pietà” — rispose qualcun altro, aggiungendo: — Tsk tsk tsk. — Cole e Catz si trovarono in una casa. Lasciarono cadere Catz su un divano nero.

“Città!” Ma forse lì l’influenza di Città poteva essere meno forte; dopo tutto, erano a Oakland, dall’altra parte della baia, a sud di San Francisco. Erano lontani dal cuore di Città, e forse lontani dalla sua forza. Però il viaggio non era stato lungo, l’Auditorium doveva essere abbastanza vicino. E all’Auditorium, Città li aveva aiutati.

Lasciarono cadere Cole per terra, sulla pancia. L’impatto gli svuotò i polmoni. Boccheggiò. Tossì, respirò furiosamente, riprese fiato, anche se fu costretto a ingoiare una boccata di polvere dal tappeto verde.

Una serie di stivali gli sfilò davanti al naso. Ci furono brevi scoppi di risa, ed esplosioni di rabbia più lunghe. — Sta’ lontano dalla finestra, maledetto idiota! — e: — Ehi, va’ a farti fottere, ai nostri vicini non gliene importa un… — e: — Sì, però c’è una fetente macchina della polizia che fa servizio di pattuglia qui, e quei ragazzi non… — e: — Chiudete il becco tutti quanti!

Catz era stesa sul divano alla destra di Cole. Lentamente, col braccio che urlava, lui si girò sul fianco sinistro finché non riuscì a vedere il divano. Era un vecchio divano di vinile, pieno di bruciature di sigaretta. Dalla sua posizione sul pavimento, Cole riusciva a intravedere solo il braccio destro di Catz, inerte, e la curva dei suoi fianchi. Gli venne in mente, per la prima volta, che poteva anche essere già morta.

“Potrebbe essere già morta.”

— Senti, dobbiamo tenere su queste calze per tutta la notte o cosa? — chiese qualcuno.

Una voce di donna rispose: — Logico, idiota. Dobbiamo tenerle finché non ci saremo liberati di questi due. Forse potremmo bendarli.

— Aspettiamo di sentire cosa vuole Salmon.

— Chi l’ha detto? — domandò la donna.

— Ehi, uh, merda, tanto di qui non usciranno vivi, potrebbero anche vederci in faccia. Inutile che stiamo attenti a quello che diciamo quando…

— Senti, stronzo, qui potrebbe succedere di tutto. A ogni modo, forse vorrà tenerli in ostaggio, il che significa che prima o poi potrebbe doverli liberare. E poi questi due…

— Ma adesso che quest’imbecille ha fatto il nome di Sa…

— Ehi, che razza di storia idiota vorresti farmi bere? Non ci credo a queste fesserie. Dovremmo…

— Ehi, è una di quelle ragazzine punk!

— Ehi, ha una tetta fuori!

Cole era nauseato.

— Ehi, non possiamo portarcela in camera da letto per qualche mi…

Cole stava malissimo.

— State a sentire, sono tre settimane che Salmon non mette nemmeno un centesimo sul mio fottuto conto, e finché non mi paga io…

Cole starnutì, sollevò una nube di polvere.

— Ehi, l’abbiamo trovato al telefono. Ha saputo della merda che è successa all’Auditorium, ma non ha idea di come sia andata la faccenda degli ologrammi… Dice di scoprire tutto quello che possiamo su questi due e poi portarli a dare un’occhiata ad Alcatraz dal punto di vista dei pesci. — Risate. — Dice di tenere le calze, per adesso. — Grugniti. Qualcuno afferrò Cole per le manette, lo tirò in piedi di colpo. Lui dovette mordersi la lingua per impedirsi di urlare quando le manette gli affondarono nei polsi e il braccio ferito ricevette un altro strattone. Stordito, traballante, si guardò attorno. Una casa con pochi mobili, nuova ma squallida. E una trentina di loro, in piedi sulle soglie, seduti a un tavolo di legno nel cucinotto, appoggiati alle pareti prive di decorazioni. Due vigilantes gli stavano davanti, in attesa di un segnale, leggermente protesi verso di lui, i muscoli contratti. Tutti portavano calze di nylon, con macchie scure di vapore attorno alla bocca. E tutti avevano i lineamenti stravolti dalle calze, come se tenessero i visi premuti contro i vetri di finestre invisibili.

Accanto a lui, sul divano, giaceva Catz, il braccio che ciondolava, senza manette. Qualcuno le aveva tolto la maschera di plastica. Respirava regolarmente, e il pugno che serrava il cuore di Cole diminuì la stretta. “È viva.”

Mentre lui la guardava, gli occhi della ragazza si aprirono. Ma Catz restò immobile, si finse ancora svenuta.

Cole alzò lo sguardo sull’uomo davanti a lui…

— Okay — disse la donna.

Certo, i primi pugni fecero molto male. I primi cinque o sei. Ripensandoci in seguito, non riuscì mai a esserne sicuro, ma probabilmente pianse e cercò di fuggire. Qualcuno lo teneva fermo da dietro. Dopo ogni pugno, gli fecero una domanda. Sulla sua tempia destra si abbatté un thump, si trasformò in un ruggito incandescente che echeggiò all’infinito nella sua testa. — Nel portafogli c’è scritto Stu Cole, e uno dei ragazzi conosce il tuo club. E sappiamo che non ti piace quello che stiamo cercando di fare. Allora, com’è che ci hai fregati a quel concerto? — (Cole non rispose.)

Sulla sua guancia sinistra, un crunch che diffuse in tutto il suo corpo una ragnatela di dolore. Gli parve di essere fatto di vetro. — Cosa c’entri tu con quegli ologrammi e con quei fottuti angosciari che ci sono saltati addosso? — (Cole non rispose.)

Sulla sua bocca, un whump osceno e la sensazione del sangue che zampillava dalle labbra squarciate, che gli scendeva sulla camicia. — Perché sei saltato sul camioncino? Volevi scoprire dove ci riuniamo?

— No — farfugliò Cole, sputando sangue. In bocca aveva il sapore di una spiaggia inquinata dal petrolio quando la marea è bassa. — Ho sbagliato camioncino. Cercavo quello di un amico. Il panico. — “Questa non la berranno mai” pensò.

Di nuovo thunk sulla bocca, il rumore di un dente che si spezzava, la testa che gli rimbombava. — E vorresti che credessimo a merdate del genere? Non funziona. Avanti, fesso. Perché sei saltato sul camioncino?

Cole non rispose.

Thud-thud al suo plesso solare, due volte di seguito. I polmoni gli si svuotarono completamente. Si piegò su se stesso di scatto, e la testa gli sbatté contro il ginocchio.

— Ti ho chiesto cosa madonna ci facevi sul nostro camioncino — disse il viso appiattito.

Cole non aveva fiato per una risposta. Cadde in ginocchio. La stanza era piena di fiocchi di neve luminosi, purpurei. Chiuse gli occhi. Li serrò.

Per un momento, forse per diversi momenti, gli parve di volare in un’oscurità scintillante. Poi un suono lo riportò all’autocoscienza. Catz stava urlando. Cole guardò: la stavano picchiando.

La picchiavano con una bottiglia.

Una donna (Cole ne scorgeva vagamente il profilo sotto la tuta da lavoro: una donna robusta, ma probabilmente giovane) stringeva i capelli di Catz nel pugno guantato, li torceva. E un uomo massiccio al suo fianco tirava calci con lo stivale, colpiva Catz al torace.

— Ehi! — urlò Cole. — Cosa… Cosa volete sapere?

— Lo immaginavo che così avremmo attirato la sua attenzione — disse uno degli uomini, girandosi da Catz verso Cole.

Le luci si spensero.

Le tenebre svanirono alla stessa velocità con cui erano scese: dalle prese di corrente uscirono scintille, dagli zoccoli si alzarono fiamme che avvilupparono le pareti.

Figure scure schizzarono via.

Cole, che era in ginocchio, si rizzò in piedi. Si udì un clic, e le manette che gli serravano i polsi si aprirono. — Città… — mormorò Cole, riconoscente, le labbra sporche di sangue.

Frammenti dei discorsi sconclusionati dei vigi lo raggiunsero mentre avanzava barcollando verso Catz…

— Checcavolo…

— Che accidenti è successo al…

— Merda, forse è…

— Cristo, non vedo niente…

— Potrebbero essere gli amici di…

— Ha preso fuoco, vediamo di…

— Sembra un incendio da corto circuito…

— All’inferno, piantiamoli qui…

— No, portiamoli con…

Cole tentò di sollevare Catz; un dolore mostruoso gli morse il braccio. La vista gli si confuse. La rimise sul divano. Il buio si riempì di fumo. Qualcuno, correndo, lo gettò a terra. Cadde sul fianco destro. Le fiamme erano sempre più alte; il loro calore gli asciugava il sudore delle guance. Bagliori irregolari illuminavano la stanza; le tenebre erano percorse da scintillii rossi e azzurri. Quasi tutti i vigi erano scomparsi. Due stavano correndo verso l’uscita laterale, tossivano. — Catz… ehi… — disse Cole, tirandola per il braccio. Aveva la gola intasata di fumo. La ragazzo non si mosse. — Catz, Città ha dato fuoco alla casa per liberarci… Dobbiamo uscire anche noi, se no bruciamo vivi! — Il sangue che gli saliva in bocca rendeva confuse le sue parole.

Catz gemette, si ritrasse. Cominciò a tossire, spalancò gli occhi. Si mise una mano sulla bocca. Cole l’aiutò ad alzarsi. Gli lacrimavano gli occhi per il fumo, le fiamme gli mordevano i piedi, il sudore che gli scendeva lungo tutto il corpo evaporava immediatamente. Assieme, avanzarono verso la porta. La porta era un rettangolo mostruosamente giallo oscurato dal fumo, tremolante per il gran calore. Catz gli lasciò andare la mano. Cole, convinto che quel gesto significasse che la ragazza poteva seguirlo da sola, balzò avanti. La vicinanza delle fiamme gli fornì energie: la forza del terrore.

Pensava che Catz fosse alle sue spalle.

Superò di corsa il cucinotto in penombra, uscì dalla porta laterale, si gettò dietro i cespugli, boccheggiò all’aria fresca della notte. Sul davanti della casa, due camioncini stavano partendo. Qualcuno passò di corsa, urlando, sul sentiero. Diversi uomini si accalcarono in una berlina. Sul marciapiede, impassibili, un nugolo di neri osservava la scena.

Cole si guardò disperatamente attorno. Catz non c’era. — Catz! — urlò, roco, e come un automa si avviò verso la casa in fiamme.

Due uomini uscirono dall’ingresso principale, reggendo un fagotto. Cole si nascose dietro l’angolo di un garage e restò a guardare. E capì, scrutando il profilo della figura che i due reggevano (legata, ma estremamente battagliera), che si trattava di Catz. Gli uomini trasportarono Catz in garage, e lui indietreggiò.

Tossì. Cercò freneticamente un’arma. Ma proprio in quel momento, dalla porta aperta del garage uscirono i fasci di luce di due fari d’automobile. Si accese un motore. Una berlina azzurra divorò il sentiero, arrivò in strada, svoltò. Portava via Catz, lontano da lui.

— Sei sicuro, eh? — chiese Cole al viso grinzoso del direttore del motel, un nero.

— Sicuro che sono sicuro. La tivù funziona benissimo — rispose l’altro. — Ma perché hai questa fregola di guardare la televisione? Secondo me dovresti farti vedere da un dottore, figliolo. Madonna, hai una faccia che sembra ci sia passato sopra un camion. Vuoi che ti trovi qualche ben…

— No! — urlò Cole. Il nero ebbe un’espressione di stupore e paura; Cole fece uno sforzo. — No, ho fretta. Intervistano un mio amico per l’ultimo notiziario della notte, e gli ho promesso di guardarlo. Poi mi darò una ripulita. Sono andato a sbattere contro un lampione.

— Però io non posso lasciarti salire solo per guardare la tivù. Devo farti pagare la stanza, anche se ti fermi cinque minuti — disse il direttore, scrollando le spalle.

— Sì, sì, okay…

Il vecchio nero prese la carta di credito di Cole e la inserì nel terminale. Guardò le cifre che apparvero sul piccolo schermo, annuì leggermente, gli restituì la carta.

Cole restò lì, impaziente, bilanciando il peso del corpo da un piede all’altro, finché il vecchio, dai movimenti estremamente lenti, gli portò la chiave. Numero sette.

Cole afferrò la chiave e corse fuori. Col fianco che gli doleva (forse gli avevano rotto qualche costola), con le labbra che ricominciavano a sanguinare, Cole controllò i numeri delle porte finché non trovò il sette. Infilò ansiosamente la chiave nella serratura. Si aprì al primo tentativo, e un gemito di sollievo gli uscì dalla bocca. Entrò nella stanza buia, odorosa di muffa; lasciò la porta aperta e la chiave infilata nella serratura. Immediatamente, si avvicinò al televisore, inserì la carta dell’Interfondo nella fessura, e l’apparecchio si accese.

— Città! — urlò Cole allo schermo. — E dai, parlami!

Non c’erano immagini a rispondergli.

— Lo so che mi stati ascoltando! — gridò. — Porca miseria, fatti vedere!

Il rettangolo azzurro-bianco fu scosso da brividi allettanti. Però, niente.

— Città! Fatti vedere, parlami, se no io me ne vado da San Francisco! Me ne vado e racconto tutto al National Enquirer!

E Cole aspettò.

Niente.

Passò da canale a canale. Notiziari, pornografia, quiz, Panoramica delle esecuzioni capitali. L’ora della disciplina dei bambini con James Bondage… E Città non c’era. Tornò sul canale libero.

Catz.

Cole aspettò, agitò i pugni, si chiese dove l’avessero portata. In lontananza risuonavano le sirene delle pompe antincendio, dirette alla casa in fiamme, tre isolati più a nord.

Cole, in piedi, oscillava, fremeva, si agitava come un’antenna televisiva sotto un vento troppo forte.

— Città! — gemette, con voce sempre più roca.

E poi: sullo schermo, un busto bidimensionale, scuro, coi tratti cupi, inflessibili.

— Città… Perché non hai liberato anche lei? Perché non hai fermato quella macchina?

— Ho deciso di non servirmi più della donna.

— Cosa? Perché?

— Non mi è fedele.

— Ma sei… Cosa? Se è stata lei a convincermi a uscire stasera! Ha fatto tutto quello che volevi farle…

— No… Io posso arrivare dentro di lei, ai suoi pensieri. Non si fida di me. Ha fatto quello che ha fatto per te. È convinta di proteggerti. Non voglio che resti con te. Posso proteggerti io.

— Sarebbe lei a proteggermi? E da che cosa?

Città non rispose.

— La libereremo — disse Cole, a labbra serrate.

— No.

La bocca di Cole si spalancò. Lui fissò lo schermo, senza capire. — No — ripeté, scuotendo la testa. — No? Senti, insomma… Non c’è bisogno che tu ti serva di lei. Basta che le salvi la pelle e che la lasci… che la lasci andare per i fatti suoi.

— Non posso. Adesso non ne ho la forza. Stasera ho usato troppe delle mie risorse. Sono debole.

E l’immagine scomparve.

— Bugiardo. Maledetto fottuto bugiardo — disse Cole allo schermo vuoto. Girò sui tacchi, uscì, raggiunse il telefono. Chiamò un taxi.

Però Cole aspettò sino al giorno successivo prima di fare una mossa. Aveva passeggiato su e giù per il suo appartamento tutta notte, fumando un sigaro dopo l’altro, finché non sentì in bocca il fetore di una marmitta, finché la stanza non fu invasa dal puzzo di fumo rancido. Si era avvicinato al telefono sei o sette volte per chiamare Bill, con l’idea di assoldare qualche gorilla per liberare Catz. Ogni volta, raggiunto il telefono, le sue dita iniziavano automaticamente a premere la tastiera; poi, appena riceveva il segnale di libero dall’altra parte, interrompeva il contatto. Perché, se davvero Città era deciso a escludere dalla partita Catz, avrebbe potuto fermare Cole. Di notte, aveva l’energia necessaria. Di giorno, Città non poteva fermarlo.

— Forse in questo momento la stanno picchiando — si diceva Cole. — La stanno torturando.

Alle due di notte mormorò: — Forse la stanno picchiando e violentando.

Alle tre gemette, con voce insolitamente stridula: — Forse la stanno tagliando a pezzettini.

Alle quattro pianse.

Alle cinque cominciò a bere. Cole non beveva spesso, ma quando ci si metteva si vendicava dei periodi d’astinenza. Si vendicava dei periodi d’astinenza: un’espressione perfetta. Beveva sempre per rabbia contro qualcuno. Come se il fatto di smorzare la propria autocoscienza servisse, in qualche modo, a cancellare dal mondo i suoi nemici.

Alle sette aveva il vomito e barcollava. Comunque, cercò di mandare giù un altro gin-and-tonic. Non riuscì a correre fino in bagno, per cui dovette vomitare nel lavandino della cucina.

Chino sulla porcellana bianca, scosso dai conati, invocando il nome di Catz, pensò: “Dio m’aiuti, mi sono innamorato”.

Dopo un po’, la testa gli si schiarì quel tanto che gli bastava per fare del caffè. Gli tremava la mano; si bruciò con l’acqua calda che scendeva dal rubinetto. Bevve quattro tazze di caffè.

Quando sollevò il braccio, si morse la lingua al dolore che gli correva nella carne ferita.

Il combattimento tra caffeina e alcol gli fece venire un mal di testa da campionato. Si cambiò d’abito; fece un bagno, cercando di mascherare le ferite sul viso. Dopo una prima occhiata, stette bene attento a non guardarsi più nello specchio.

Poi chiamò Salmon.

— Il signor Salmon vuole vedere con chi sta parlando — disse la segretaria, di cui si udiva la voce ma non si vedeva l’immagine. Sembrava una donna di una certa età.

— Mi spiace. Il mio schermo è partito. Non riceve e non trasmette. Il signor Salmon sa perché. Nemmeno io posso vedere lui, se questo vi consola. Comunque ditegli che lo ha chiamato Stu Cole e che è per la faccenda dei suoi ragazzi al concerto. — Lo fecero aspettare venti minuti.

Cole pensò: “Forse stanno venendo qui.” Aveva una pistola nascosta nell’armadio, in una scatola da scarpe.

Si avvicinò alla finestra. La strada sembrava normale. Manifesti sui muri di mattoni, come adesivi-ricordo sulla valigia di un giramondo. Bambini messicani che giocavano su un lato della strada; sul lato opposto, un gruppo di ragazzi neri che camminavano e cantavano.

Un invertito e il suo protettore erano fermi alla cabina dell’Interfondo all’angolo.

— Allora? Cole? — La voce di Salmon, dal telefono.

Cole lasciò la finestra, tornò di corsa al telefono. Per abitudine, mentre parlava continuò a fissare lo schermo, anche se era spento. — Salmon? Senti, non mi conosci, o comunque non ci siamo mai incontrati, però…

— So chi siete. Che accidenti volete?

— So per chi lavori tu e per chi lavorano i vigi. E loro hanno fra le mani qualcuno, e ormai immagino che avrai capito a chi alludo. — Cole si accorse vagamente che qualcuno stava salendo le scale del palazzo in cui abitava.

— Avete le idee un po’ confuse, amico. Stiamo indagando sul conto dei vigilantes, e posso assicurarvi che prestissimo…

— Piantala con questa farsa! — urlò Cole. Ogni sillaba gli infilò un ago nelle tempie.

Ci fu un attimo di silenzio. — Salmon? Sei ancora lì? Mi senti?

— Sì… Insomma, signor Cole, se vorrete spiegarmi cosa volete da me sarò lieto di…

— Stronzo, non credere di imbrogliarmi. Se pensi… — Cole s’interruppe bruscamente, si mise ad ascoltare i passi che risuonavano sulle scale. C’erano diverse paia di piedi che si muovevano con una frettolosità strana.

— Va’ a farti fottere, Salmon — urlò Cole allo schermo, e corse all’armadio. Spalancò l’armadio mentre qualcuno tirava un calcio tremendo alla porta d’ingresso. Il catenaccio saltò ma, a giudicare dal tintinnio metallico e dalle bestemmie che si udirono, la catena resistette. Si udì un altro colpo contro la porta. Cole frugò nella scatola da scarpe sul fondo dell’armadio, trovò la pistola, l’alzò esattamente nel momento in cui l’uomo col viso coperto da una calza si girava, incorniciato tra le foto della città appese alla parete del soggiorno, a guardare Cole.

Sia lui che l’intruso erano armati.

Però Cole aveva la pistola puntata, mentre il braccio destro dell’altro penzolava lungo il fianco.

— Ho un’ottima mira — mentì Cole — e ti tengo sotto tiro. Quindi, fermo lì. E se i tuoi amici entrano ti sparo. — I movimenti che s’intuivano alle spalle dell’uomo cessarono immediatamente.

Lo sconosciuto s’immobilizzò, fissò Cole, da sotto la calza, con quel suo viso senza occhi.

— Senti… uh… — Cole sperò che l’altro non notasse quanto gli tremava la mano. — Uh… Posso fare un’ipoteca sul club, mettere assieme un po’ di soldi. Possiamo trattare, che ne dici? Racconta… ai tuoi capi che pagherò per farla liberare.

— Perché non chiami la polizia? — Le labbra, distorte dalla calza rosa, sembravano lumache senza guscio.

— Molto divertente — disse Cole, con una smorfia per il dolore che sentiva nella testa. — La polizia la controllate voi.

— Purtroppo le tue finanze non ti permettono di racimolare i soldi che renderebbero interessante l’idea di non ucciderla. Ci avevamo pensato anche noi. Stasera un pezzo grosso farò un discorso molto serio con lei, dopo di che te la restituiremo. Per posta. Ci vorranno quattro pacchi prima che tu la riabbia tutta intera. — Alle spalle dell’uomo, qualcuno rise. L’uomo, come incoraggiato, si tese, e le sue mani si strinsero sulla pistola appoggiata alla gamba destra fasciata dai blue-jeans.

“Dovrei ucciderlo” pensò Cole. “Ma con quanti altri omicidi posso farla franca?”

— Dimmi dov’è e non ti ucciderò. Tutto qui — disse Cole.

— Perché non vai a prendertela? È ancora dove l’hai vista l’ultima volta.

— L’ultima volta l’ho vista per strada. Su una macchina. — A Cole cominciava a fare male il braccio; allora strinse la pistola anche con l’altra mano, tenendola rigidamente protesa.

— Le autopompe sono arrivate subito. I vigili del fuoco sono vicini. L’incendio non era un granché. Tutto il retro della casa è intatto. E siccome lì abbiamo delle scorte di materiale, siamo tornati. La ragazza è lì… Ce ne siamo andati prima che arrivasse la polizia di Oakland e siamo tornati cinque minuti dopo che se n’era andata. Semplicissimo.

— Allora la polizia di Oakland non è al vostro servizio? — chiese Cole, fingendo indifferenza.

— Idiota! — sibilò qualcuno.

Una buona informazione. Poteva essergli utile: la polizia di Oakland era pulita. Ma allora, perché si riunivano proprio a Oakland? Forse perché in quei quartieri miserabili nessuno badava a quel che facevano i vicini.

— Okay — disse Cole. — Torna in corridoio. Prima butta la pistola a terra. — L’arma cadde sul pavimento. Il vigi indietreggiò lentamente, scomparve dietro l’angolo del corridoio esterno. — Di sopra ho degli amici armati! — urlò Cole, mentendo. — Sparite di qui!

Li sentì scendere le scale.

Quando fu certo che non si trovassero più al suo piano, raggiunse una finestra, la scavalcò, scese la scala antincendio, arrivò in un vicolo cieco, lo traversò, s’infilò nella finestra fracassata di un edificio abbandonato. Nella penombra, avanzò tra i detriti finché non trovò una porta che dava sull’esterno, mezza scardinata. Giunto in strada, si mise a correre.

ZINQUEE!

“E spicciati.” Aveva preso la macchina di Bill. Correva come un pazzo sotto la pioggia, con un’indifferenza assoluta alla scivolosità del fondo stradale.

La pioggia aveva cominciato a scendere due minuti dopo che lui era uscito di casa. Era bagnato fradicio quando era andato a svegliare il suo vice e gli aveva semplicemente chiesto le chiavi della macchina, promettendogli di spiegargli tutto più tardi. Bill era troppo distrutto e insonnolito per mettersi a discutere.

Cole si agitò sul sedile, irrequieto. Aveva i pantaloni umidi, la camicia gli si attaccava alla schiena. Il riscaldamento della Chevy Swift era acceso, i finestrini chiusi, e la pioggia che gli bagnava i vestiti cominciava a condensarsi in vapore, rendendo torrido l’abitacolo della macchina. Sentiva l’odore umidiccio dei suoi capelli, il puzzo di cenere stantia che usciva dal posacenere. Sulla lingua aveva un sapore disgustoso di sigaro. Il mal di testa era scomparso, sostituito da un irritante bruciore allo stomaco.

Le strade erano bagnate, nere, vitree, membranose, quasi organiche nella lucentezza della pioggia.

La vecchia berlina a due porte, col cofano ammaccato che ogni tanto sobbalzava perché era tenuto chiuso da un pezzo di filo metallico, s’infilò sulla rampa d’accesso della superstrada. Cole passò da una corsia all’altra, gli occhi puntati sui pannelli di controllo della guida elettronica che si erano accesi appena aveva imboccato la superstrada. Il sistema di guida elettronica non era ancora installato in città, e meno di metà delle auto in circolazione erano predisposte, per cui l’uso ne era facoltativo. Cole era esausto per la mancanza di sonno, gli dolevano gli occhi; decise di affidarsi alla guida automatica per raggiungere Oakland. Abbassò un interruttore e si appoggiò all’indietro sul sedile, lasciando che il volante guidasse da solo. Gli era ancora difficile abituarsi alla vista del volante che girava senza che lui lo toccasse, del pedale del freno che si premeva da sé quando l’auto che lo precedeva rallentava…

La Swift superò le cabine di pedaggio, si avviò verso le corsie gratuite, si lanciò sul ponte. Nel mattino piovoso, il mare che si stendeva sotto Bay Bridge era una distesa di giada increspata, troppo antica e sterminata per lasciarsi domare da un potenza. Pareva quasi che il mare aspettasse l’inevitabile terremoto per poter irridere, per l’ultima volta, gli artifici della civiltà.

Cole si girò a guardare dal finestrino posteriore. Sotto un velo di nebbia si alzavano le torri perlacee della città; in quella prospettiva misteriosa, somigliavano ai bastioni affilati di una città straniera, esotica. Sentì una fitta al cuore quando scorse la mole del Pyramid Building, ricordando un uomo steso sulla moquette che gemeva nell’agonia.

Poi tornò a guardare avanti. Cominciavano già ad apparire i profili di Berkeley e Oakland. Infilò la mano nella tasca della giacca, la lasciò riposare sul calcio della pistola. — E adesso, cosa faccio? — si chiese. — Gli dico che li ammazzerò tutti? Ma chi potevo portare con me? La polizia di Oakland, forse… No, avrei dovuto spiegare… Comunque, se è l’unico modo per liberarla…

Il motore della macchina tossì, come per dire: Smettila, di parlare da solo, Cole, lo trovo imbarazzante.

— Non ho nessun altro con cui parlare — disse Cole.

Parlare da soli è una brutta abitudine, rispose il motore a ronzii e rombi. Quindi parla con me.

— Oh, merda! — disse Cole. La stanchezza lo stava portando all’allucinazione. E poi c’era la preoccupazione per Catz, il cercare di accettare ciò che aveva visto. Gli uomini uccisi. Affrontare tutte quelle cose lo aveva portato quasi al limite estremo, un limite a cui non giungeva da parecchi anni, cioè da quando aveva smesso di prendere dosi eccessive di droga.

“Merda, non voglio impazzire” pensò. Poi, però, gli venne in mente che forse non si trattava solo di sue fantasie. Durante il giorno Città non poteva fermarlo, ma era in grado di mettersi in contatto con lui. E una macchina, dopo tutto, è solo una parte mobile di una città, come una cellula sanguigna nel corpo di un uomo. E attraverso la macchina… Parla con me.

— No — disse Cole, poi si mise a ridere.

Rilassati. Ripensa a quello che stai facendo, disse il sospiro del vento sull’auto, disse il movimento dei pistoni.

“È un’allucinazione o è Città?” si chiese Cole. “O sono tutt’e due le cose?”

La macchina lo aveva ingoiato. Lo stava portando via contro la sua volontà. Lo teneva chiuso nel suo ventre d’acciaio e lo portava verso chissà quale garage sotterraneo, dove avrebbe trascorso un’eternità di cemento. Dopo tutto, il volante girava da solo. L’auto possedeva una volontà propria. Lui si sentì in trappola, fuso col sedile di vinile, oppresso dai finestrini incombenti…

Con un grugnito di rabbia, Cole si rizzò a sedere, si scosse. Abbassò il finestrino, lasciò che l’aria fredda lo colpisse in viso. Un brivido, e il senso di disorientamento svanì. Chiuse il finestrino, lasciando aperto uno spiraglio per far circolare l’aria, e accese la radio per distrarsi. Dalla radio uscì una sovrapposizione infernale di voci, finché non riuscì a sintonizzarla su un notiziario: — …a questo punto, diviene non solo logico ma inevitabile che il servizio postale adotti al cento per cento, con l’eccezione dei pacchi, naturalmente, la trasmissione elettronica di messaggi stampati. L’attuale sessanta per cento non è efficiente. Uniformità significa risultati migliori, per cui diventa necessario richiedere l’installazione obbligatoria di terminali dati multipli in ogni casa che presuma di ricevere posta. I vantaggi sono di gran lunga superiori agli svantaggi. Ovviamente, battere la lettera su una tastiera in casa vostra, lettera che viene trasmessa all’istante, o mentre la scrivete o quando l’avete finita, a seconda…

Cole cambiò stazione. — Fine della posta tradizionale, eh? — mormorò, passando di canale in canale. — Ma a me piace aprire le lettere.

Passando nella banda d’onda della modulazione di frequenza, captò la frase: — … Vigilantes che dovrebbero essere… — Dopo qualche difficoltà, riuscì a sintonizzarsi su quella stazione. — Ma se questi uomini e donne non sono al servizio della comunità, e già ci hanno dimostrato di essere molto peggiori dei Robin Hood che pretenderebbero di essere, allora cosa sono? La loro comparsa di ieri sera a un concerto rock, e la carneficina che è seguita, mi sembrano molto sospette. Come giornalista, semplicemente non posso accettare la scusa, incisa su un nastro anonimo pervenuto alla nostra stazione, che il concerto rappresentasse un “un punto focale di corruzione e degradazione”, dopo di che vengono citati i Disordini Punk e Rock dell’81. Storielle piuttosto esili! Venendo a conclusioni più solide, abbiamo saputo che il gruppo dei Prima Lingua ha rifiutato di aderire al sindacato musicisti rock che, come sanno anche i bambini, è gestito dal crimine organizzato. Ma allora, i vigilantes sono una diramazione della mafia?

— Senti senti! — disse Cole, annuendo.

L’auto uscì dalla superstrada, e lui spense la radio. Se non si fosse messo al volante, la macchina si sarebbe fermata: era di nuovo in una zona sprovvista di guida elettronica.

Cole tolse la guida automatica, si mise al volante. Imboccò l’uscita con la scritta SAN PEDRO BOULEVARD. Proseguì per un chilometro e mezzo, continuando a mordersi un labbro nonostante il dolore che sentiva. Avvicinandosi all’isolato dove avrebbe dovuto svoltare per raggiungere il covo dei vigilantes, le ferite che gli avevano inflitto cominciarono a dolergli, a pulsare, come un avvertimento. — Reazione psicosomatica — si disse.

Ecco lì la strada. Svoltò. Il respiro suonava affannoso alle sue stesse orecchie. Guidò con la sinistra. La destra era infilata in tasca, copriva di sudore il calcio freddo della pistola.

La popolazione di Oakland era quasi tutta nera. I cartelloni pubblicitari che qua e là si alzavano a fianco di palazzi o case in costruzione ritraevano neri col sorriso del piccolo borghese, neri che fumavano o bevevano birra o danzavano al ritmo della disco. Alcuni dei cartelloni più nuovi, ricoperti da un vetro spesso, ospitavano frenetici ologrammi di giovani neri che ballavano alla musica trasmessa dalla stazione radio pubblicizzata.

Visi neri, meno allegri di quelli ritratti sugli enormi cartelloni, lo fissarono con stolida curiosità da finestre, da gruppi fermi davanti a rivendite di liquori. Cole superò due chiese evangeliche abbandonate, costruite alla bell’e meglio, “La sacra chiesa rock di Gesù Cristo Nostro Signore re della pregiera” (“preghiera” scritto senza h) e “La chiesa hard core di Gesù sotto i sacri auspici di Dio”. Sorrise. Il sorriso si mutò in una smorfia quando vide il motel dove aveva parlato a Città. — Città… — sussurrò. — Dormi… oppure aiutami.

E apparve la casa. Due bambini neri coi capelli ricci, fermi sul marciapiede opposto, guardavano la facciata carbonizzata dell’edificio, le orbite vuote delle finestre. Cole superò la casa. Il suo cuore correva più in fretta dei pistoni della Chevy. Si fermò mezzo isolato più in giù, davanti a un’altra rivendita di liquori. “Catz è lì” pensò febbrilmente. “Le sono vicino.”

Restò seduto in macchina, scosso dai brividi.

“Spicciati” pensò. “Fa’ presto.”

Scese dalla macchina, la destra sulla pistola che aveva in tasca, sbatté la portiera con la sinistra e si avviò verso la casa.

Cosa poteva fare? Ma proseguì, tenendosi all’ombra di un motel dal tetto sporgente. Forse poteva raccontare alla polizia che lì era in corso un’operazione anti-droga, e sarebbero intervenuti… No, prima che si muovessero avrebbero chiesto conferma, e sarebbero trascorsi giorni.

Non gli restava altro da fare che tentare di introdursi nella casa da un’entrata laterale o dal retro, prendere qualcuno alla sprovvista, puntargli la pistola alla testa, chiedere in cambio la vita di Catz. In tivù, cose del genere funzionavano.

Un suicidio. Ma non si fermò.

Quando era ancora a dieci metri dalla casa, si fermò. Aveva visto qualcosa di anomalo in un passaggio pedonale, stretto e pieno di frammenti di vetro, fra due palazzi molto alti. Restò a guardare. Stava osservando se stesso, e l’altro Cole gli sorrise.

La figura indossava abiti diversi, ma era senz’altro lui… a parte la strana espressione. Gli venne in mente il termine doppelgänger. Cole guardò su e giù, sui due lati della strada. Non c’era nessuno. Entrò nel passaggio pedonale. Fissò lo sguardo sull’immagine, quasi si aspettasse di vederla svanire come un miraggio. Continuò a camminare, calpestando sterco di cane e cartoni inzuppati d’acqua. Giunse a un paio di metri dall’apparizione. L’immagine non svanì. Gli sorrideva, divertita. Ma, così da vicino, riusciva a vederle attraverso. Era trasparente, come un ologramma da due soldi.

— Credevo che questa storia fosse finita quando ho aperto il finestrino dell’automobile — disse Cole. Però non aveva la sensazione di vivere un’allucinazione. Quella cosa era lì di fronte a lui, un po’ vaga ma indiscutibile, parte del paesaggio quanto lo è il fumo dei camini.

Lo spettro (perché pensava che fosse uno spettro) rise. Cole ebbe l’impressione che lo spettro ridesse a pieni polmoni, ma la voce (indiscutibilmente la sua voce) gli giunse in un sussurro roco. — Cole, vecchio mio, dovresti vedere la tua faccia. Be’, naturalmente la vedrai, quando le nostre prospettive si capovolgeranno.

La cosa rise follemente. Cole tese una mano, la lasciò scorrere sulla vernice scrostata della parete di legno che aveva a fianco, per entrare in contatto con qualcosa di tangibile. “Se è un’allucinazione” pensò “dovrebbe apparirmi ovunque io guardi.” Così si girò a fissare la parete dipinta di grigio, cercò il miraggio di se stesso negli strati di polvere dello zoccolo. L’immagine non apparve lì. Quando voltò di nuovo la testa, la figura era al suo solito posto. Si vedeva soltanto lì. Cole si sentì traversare da un brivido freddo di déjà-vu, che spazzò via la sua incredulità. D’improvviso, quella scena gli parve giusta, esatta. Inevitabile.

— È strano — disse il Cole trasparente, una mano sul risvolto della giacca — ma ricordo benissimo quello che stai pensando adesso. Ricordo che ho guardato la parete per vedere se si trattava di un’allucinazione, e il déjà-vu, e praticamente, nel ricordo, è come se questa esperienza la stessi vivendo io, però… però la vivo un po’ di sbieco, come in un sogno. Mi segui?

Cole annuì debolmente. Seguiva.

— Anzi — continuò il suo doppelgänger — ricordo quello che ti sto dicendo adesso… Lo sento come una specie di pre-eco prima di dirlo. Il che è strano, dato che ti sto parlando dei fenomeni… Insomma… — Ridacchiò, spalancò gli occhi. In quello sguardo c’era una traccia di follia. — Insomma… Lo sapevo che avrei detto quello che sto dicendo, visto che l’avevo già vissuto nei tuoi panni… quando me ne stavo lì a guardare me, dal punto di vista dell’io che tu sei in questo momento, e volevo… Be’, quando sono venuto qui per parlarti, per metterti in guardia, avevo intenzione di cercare deliberatamente di dire qualcosa di diverso da quello che sto dicendo, e invece sono qui a dire “cercare deliberatamente di dire qualcosa di diverso da quello che sto dicendo”, ed è questa la frase che volevo modificare, perché sapevo, dato che l’avevo già ascoltata quando ero te, che l’avrei detta… Insomma, è una specie di circuito strano e pazzesco, no? Deliziosamente pazzesco. Però tu non sei pazzo, Cole; io sono vero. Sono persino, uh, solido… ma non nel tuo mondo. Io esisto solo in parte nel tuo mondo. Sono fisicamente solido qui, nella dimensione dell’essere urbano assoluto, ma dal tuo…

— Hai detto che devi mettermi in guardia?

— Oh, eh… Ricordo che me l’hai chiesto… Insomma, ricordo quando tu… quando io… quando ero te, e mi sono spazientito e ho chiesto a me stesso di…

— Lascia perdere! — esclamò Cole.

— È esattamente questo che hai detto! — sorrise l’apparizione. — “Lascia perdere!” hai detto! Sì, subito dopo che io ho detto “mi sono spazientito e ho chiesto a me stesso di…”

— Senti — disse Cole, disperato, sommerso da ondate continue di déjà-vu — dimmi da cosa devi mettermi in guardia…

Ma in qualche modo, quando lo spettro annuì e gli trasmise il messaggio che era venuto a trasmettere, lui riuscì a prevedere ognuna delle sue parole, a sistemarla in una casella.

— Cole, non entrare in quella casa. Sono qui per dirti questo. Tu ti trovi a un incrocio del tempo e io dovevo venire a consigliarti la direzione giusta da prendere. Il che sembra una cosa idiota, dato che io ho già superato questo momento quando ero te, e so quale direzione sceglierai… D’altra parte, è vero che ho scelto quella diramazione, quella particolare possibilità, perché io sono venuto a metterti in guardia. Io. Tu? Deliziosamente folle, il paradosso. Credo che “paradosso” sia il termine…

— Ma perché non dovrei entrare nella casa dei vigi? — chiese Cole, fissando con orrore crescente l’espressione contorta, infantile, sul suo viso. Il suo viso da morto?

— Perché… ah, heh!… Mmm. Okay, pensaci (ricordo di avertelo già detto). Stamattina eri stanco; se no ti saresti chiesto come mai quel vigilante non ha esitato un secondo a farti sapere dove dovrebbe trovarsi Catz. Ovviamente voleva solo che tu venissi qui. Questa casa ha ricevuto troppa pubblicità, anche se si è trattato solo di vigili del fuoco. Quelli non corrono rischi del genere, stupido. Hanno spostato il loro quartier generale; anzi, lo hanno diviso in tre posti diversi. Lì dentro ci sono tre uomini armati che ti aspettano. Per ucciderti.

Cole non restò sorpreso. “Idiota” pensò. “Hai accettato la loro carta di credito senza controllare il conto corrente.”

— Ma allora dov’è Catz? E cosa ne sarà di noi? E com’è che ho assunto il tuo aspetto? E poi…

— Guarda, ti dico dov’è Catz — lo interruppe lo spettro, con un sorriso idiota. — Però non posso dirti tutto il resto perché non te l’ho detto quando tu eri me. Ricordo di non averlo detto, quindi non posso proprio. Non è deliziosamente…

— Dove madonna è?

— A Berkeley, al tremilaquattrocentoventidue della Quarta, dalle parti dell’università. Ci sono quattro vigi che stanno giocando a carte. Catz è chiusa in un armadio. Non si aspettano di vederti arrivare, ma sono armati. Ti direi di cercare aiuto, ma non lo cercherai, perché sei frenetico, se non ricordo male… Oh, ma non posso dirtelo perché…

Cole girò le spalle a se stesso e corse via lungo il passaggio pedonale, mentre lo spettro gli gridava: — Lo sapevo che saresti scappato quando ho detto “Non posso dirtelo perché…”. Cole!

Tornò in macchina.

Guidò alla velocità massima consentita per la sopravvivenza. Gli si mise alle calcagna una macchina della stradale, ma la seminò all’uscita per Berkeley. Guidava furiosamente, teneva il clacson premuto per far scansare i pedoni. Infilò tutte le scorciatoie della zona verde, residenziale, di Berkeley.

Si lanciò in un sentiero col fondo a ghiaia, scansò miracolosamente un bambino in bicicletta che cadde e andò a sbattere contro un cancello. Fra lo stridio delle ruote, si avventurò nella zona universitaria. Passò col semaforo rosso alla Terza, svoltò nella Quarta senza mettere la freccia, lacerò il silenzio della strada a settanta chilometri l’ora, scrutando febbrilmente i numeri civici. Si affidava alla velocità per lasciare indietro il terrore. Il terrore delle implicazioni di ciò che era accaduto, il terrore della sua furia.

Presto.

Ed ecco la casa: facciata bianca con decorazioni rosse, stile pseudospagnolo, un giardino moribondo delimitato da eucalipti. Una Buick azzurra sul retro. Accostò a destra ma non si prese il disturbo di parcheggiare la macchina, la lasciò quasi in mezzo alla strada. Impaurito all’idea di fermarsi a pensare, schizzò fuori dall’automobile, si lanciò verso la casa. Il sole era alto sopra la baia, a sud, e un raggio di fotoni gli sfiorò il punto in cui il suo cranio era nudo. Odore di foglie di eucalipto, di hamburger che cuocevano.

“Spicciati.”

Corse sul retro della casa, sperò che nessuno stesse guardando da una finestra. Un cortile squallido, un garage di legno in rovina, una vecchia Volkswagen arrugginita. “Non importa, sbrigati. Sbrigati.”

Corse su per la scala sul retro. Gli scalini di cemento non facevano rumore, ma ci fu un suono enorme come un colpo di pistola quando lui spalancò con un calcio la porta. Estraendo la pistola di tasca (“a quest’ora dovevi già averla in mano, stupido”) si guardò attorno. Qualcuno stava alzando la testa dalla stufa (e sembrava che si muovesse con una lentezza assurda, innaturale, come il replay di un goal in televisione; era come se Cole fosse entrato nella dimensione totale della frenesia, tanto da agire su coordinate di pensiero e di tempo più veloci di quelle degli altri), e Cole gli balzò addosso, gli puntò la pistola in viso, premette il grilletto. Immediatamente dopo il colpo (e Cole intuì vagamente che l’uomo precipitava a terra, gli occhi incrociati a fissare il foro che si era scavato sulla sua fronte) entrò a passo di carica nella stanza attigua, sparò ai tre uomini che si erano alzati stupefatti, lenti, formando parole che non ebbero il tempo di uscire dalle loro labbra prima che lui li abbattesse. Era talmente vicino che gli sarebbe stato difficile sbagliare il bersaglio. Eppure, l’uomo alla sua sinistra restò semplicemente colpito alla spalla, cadde a terra, rotolò su se stesso, si nascose dietro uno scaffale da libreria piuttosto profondo. Infilò la destra nella giacca, in cerca della pistola. E la velocità innaturale abbandonò Cole. Gli parve di rallentare, mentre i vigilantes acceleravano: due si agitavano nell’agonia, secondo i tempi normali, e il terzo puntava la pistola. Cole si gettò sulla sinistra, ma adesso gli era difficile muoversi. Si sentiva come avviluppato da una membrana gelatinosa. Piombò sul pavimento mentre il proiettile del vigi fracassava la finestra alle sue spalle. Era atterrato sul braccio ferito, e il dolore gli rendeva difficile usare la pistola. La destra era inutilizzabile. Qualcuno stava correndo verso la casa. La porta si spalancò. Entrarono due uomini: un nero e un bianco con i capelli scuri e gli occhiali da sole. Le loro pistole erano puntate.

La porta dell’armadio si aprì. Ne uscì Catz, strizzando gli occhi. Immediatamente, la ragazza si gettò sulla pistola lasciata cadere da uno dei due uomini sotto il tavolo da gioco. La stanza era invasa dal fumo delle pistole. Il vigi dietro la libreria sparò di nuovo, ma mancò Cole: la ferita alla spalla gli rovinava la mira. Cole tentò di riprendere controllo del braccio, perse l’arma in un attacco di confusione e stanchezza. Catz se ne stava in ginocchio… Mirava a lui? No, sparava alle sue spalle, ai due uomini che stavano entrando nella stanza. E uno dei due sparò un colpo che s’infilò per sbaglio nella libreria e uccise il vigilante ferito.

Esplosioni laceranti scossero la stanza. I due vigi appena entrati precipitarono a terra. Uno, colpito alla gamba, lasciò cadere la pistola, bestemmiò, si rizzò in piedi sulla gamba buona, si girò, corse fuori.

Cole guardò Catz. Un’apparizione spettrale: pallida, il viso sporco di sangue, l’occhio destro nero, i capelli arruffati, le mani tremanti che continuavano a stringere la pistola. Era in ginocchio. Il suo viso registrò stupore e orrore e trionfo, tre emozioni in tre secondi. Poi la ragazza lasciò cadere l’arma. Cole si piegò in due, distrutto, annientato dall’allentarsi improvviso della tensione.

Catz lo aiutò a rimettersi in piedi, e assieme uscirono dalla porta posteriore, scesero barcollando le scale, respirarono un’aria più fresca. Corsero all’auto. Le sirene della polizia erano sempre più vicine; dalle porte delle case, la gente li guardava, ammiccava alla luce del sole.

Cole si abbandonò dietro il volante, si lasciò spingere via da Catz. Si affidò alla sua calma. Lei si mise alla guida e lui si appoggiò alla portiera, mezzo addormentato, pensando: “Speriamo di arrivare dall’altra parte del ponte e di scaricare la macchina prima che tutti quelli che ci hanno visto diano il numero di targa alla polizia”.

Apparentemente, nessuno decise di descrivere la loro auto alla polizia. Raggiunsero senza la minima difficoltà l’appartamento del bassista di Catz, a San Francisco. Il bassista era fuori città per qualche giorno.

Lì, si addormentarono l’uno nelle braccia dell’altra.

— Erano ore che mi davo da fare per liberarmi. Sciogliere le corde non è stato difficile. Ma non riuscivo a decidere quale fosse il momento migliore per saltare fuori — disse Catz. — Aspettavo che si addormentassero.

— Me l’ero immaginato — disse Cole. L’argomento lo metteva a disagio.

Se ne stavano seduti in un caffè all’angolo della via. Il sole tremolava sopra l’ultimo piano di un grattacielo; la città era sospesa fra giorno e tramonto. Avevano dormito quasi tutto il giorno su un materasso pieno di protuberanze nell’appartamento di Castro Street; si erano svegliati quasi simultaneamente due ore prima, scoprendo di essere ancora abbracciati. Prima, fra loro non era mai esistita una vicinanza fisica. E mentre Catz, con stupore di Cole, sembrava voler restare in quella posizione, lo stringeva stretto stretto, Cole si sentiva imbarazzato. E gli si era addormentato il braccio. Ma adesso, ripensandoci, ribolliva di felicità.

Si erano lavati, medicati le ferite come potevano, avevano fatto colazione con pane e burro, ed erano venuti lì.

Adesso, sotto la luce azzurrastra che filtrava dal vetro polveroso accanto al tavolo pieno di tazze, il profilo di Catz era irregolare ma sublime. Sedeva col gomito sul tavolo, il mento un po’ spigoloso sul palmo della mano, il naso leggermente adunco perfettamente stagliato contro le ombre alla sua sinistra, gli occhi incavati intenti a scrutare paesaggi interiori. Le contusioni la rendevano ancor più carina, decise Cole: il trucco istrionico di un’artista dell’angoscia rock. Indossava una giacchetta dai risvolti enormi, e i suoi piccoli seni sodi erano nudi.

Gli occhi di Cole indugiavano sulle ferite sul seno di Catz.

Lei aveva un’espressione di sdegno regale, e le unghie dipinte di nero e il rossetto nero conferivano alla sua posa una certa autorità.

Se ne stavano lì immobili da troppo tempo. Cole intuiva fra loro un disagio crescente. Tanto per fare qualcosa, sorseggiò il cappuccino e cercò di sembrare sicuro e disinvolto, come Catz. Non voleva parlare di ciò che era successo quel mattino. Però non gli veniva in mente nient’altro, e doveva dire qualcosa. Qualsiasi cosa per smorzare il senso di oppressione, di attesa, che si gonfiava tra loro.

“Succederà qualcosa” pensò Cole.

— Uhh… Ehi, sai, non riesco… — cominciò, incespicando sulle parole — non riesco a… a ricordare le facce degli uomini che abbiamo visto… quelli di stamattina… e invece dovrei ricordarmele… insomma, sono i primi che vediamo senza quelle stupide calze. Però… È buffo, è come se avessi continuato ad accumulare velocità per tutto il mattino, ad accelerare mentre cercavo di trovarti, e… è successo tutto così in fretta. Non li ricordo. Sarebbe stato lo stesso se avessero indossato le calze, perché per me i loro visi erano soltanto macchie rosa… Il che, non so come dire, è una cosa schifosa. Perché, insomma, se stai per… — abbassò la voce — uccidere qualcuno, dovresti almeno vederlo in faccia. Moralmente, io…

— Io la vedo in maniera opposta — disse lei, allontanando i suoi dubbi con un lieve cenno del capo. Continuò a parlare senza distogliere gli occhi dalla strada. — Sono rimasti col viso coperto finché non mi hanno portata lì e lasciata in quell’armadio tutta notte. Per cui non li ho mai visti, e non li ho guardati troppo bene quando abbiamo… Stamattina. Però non voglio sapere che faccia avessero. Non voglio ricordarlo.

— Io non voglio toccare mai più una pistola — disse Cole.

Catz scrollò le spalle. — Dimmi come hai fatto a trovarmi.

— Te l’ho raccontato a colazione.

— Ero ancora sconvolta. Non credo di aver capito bene.

— Okay… — E così, guardando la gente che dava spettacolo fuori, percorrendo con gli occhi il viale sempre più affollato, Cole le raccontò degli uomini che si erano presentati al suo appartamento, del suo colloquio con il doppelgänger.

Quando ebbe terminato, lei annuì, seria.

Cole rise. — Non vuoi dire: “Sei pazzo! Quello spettro era un’allucinazione!”?

Catz lo fissò, un po’ sorpresa. — No. E perché dovrei dirlo? Mi hai trovata, no? Se non fosse vero, come avresti fatto? Dev’essere vero. Comunque, io sono abituata a cose del genere. Per me… — è agitò la mano in direzione della finestra — …questo mondo è trasparente. A volte riesco a vedere oltre le cose… Oggi non riesco a ricevere molto, ma ieri notte sentivo che saresti venuto a liberarmi. Non sapevo quando, ma ero sicura che prima o poi saresti arrivato.

In quel momento, Cole si chiese se lei non stesse intercettando i suoi pensieri. Arrossì, cercò di leggere l’espressione della ragazza. Aveva visualizzato l’immagine di loro due che facevano l’amore. Catz guardò fuori dalla finestra, battendo con una mano sull’orlo della tazzina da caffè. No, aveva detto che non riusciva a ricevere molto, decise Cole, sollevato. Il suo dono era incostante.

Un fracasso dietro il banco, alle spalle di Cole… Un cameriere disse: — Porcogiuda! — e si chinò a raccogliere i vetri rotti. Il locale cominciava a essere affollato; i clienti della sera erano apparsi come per magia. Macchinette a vapore, complesse riproduzioni in cromo e legno lucido di apparecchiature più arcaiche, sputavano una schiuma bianca nei caffè; una donna coi capelli corti, striati d’arancione e d’azzurro, accettava le carte di credito dell’Interfondo che poi, con efficienza automatica, inseriva nei terminali. — Grazie — diceva, scrutando lo schermo elettronico. — Grazie — senza nessuna vivacità. — Grazie — restituendo una carta di credito. — Grazie — inserendo una carta nel terminale, premendo pulsanti, guardando lo schermo, restituendola. — Grazie… Grazie… Grazie…

I tavoli della minuscola stanza erano affollati di angosciari che uscivano da un locale nuovo, il club Sordità (poco più in su lungo la strada cosparsa di neon), e di voguer che portavano al guinzaglio animali dagli occhi dolci, animali in via d’estinzione, col pelo ornato da riproduzioni placcate in oro di carte di credito.

Fuori, si mischiavano angosciali, voguer, qualche cinese dal viso cupo, turisti. Ecologisti con basco, trecce, jeans con toppe di cuoio e simboli solari cosparsi di diamanti artificiali vendevano erba e opuscoli inneggianti al ritorno alla natura. — Perché vivono in città se vogliono tornare alla natura? — mormorò Cole.

Passò, ridendo, un gruppo di angosciali in uniformi da carcerati. Uno restava indietro rispetto agli altri, rallentato dalla palla in miniatura legata da una catena alla sua caviglia destra.

Cole guardò Catz. Tra loro, la tensione riprendeva a crescere. La ragazza s’infilò un paio di occhiali scuri e, all’improvviso, si alzò, stiracchiandosi. Cole si mise la vecchia giacca nera da motociclista e, assieme, uscirono nella sera.

Il cielo andava imporporandosi, le poche nuvole sfilacciate avevano contorni viola. Contro l’orizzonte, la Coit Tower era un gigantesco simbolo fallico. Tenendosi vicini, cominciarono a fendere la folla in continuo movimento. Un gruppetto di turisti giapponesi fotografò Catz, e lei cacciò fuori la lingua quando l’obiettivo scattò. I giapponesi sorrisero, deliziati. Neon e luci puntiformi lasciavano scie allucinogene nella visione periferica di Cole, insegne giganti formavano strati di luminosità accecante. Cole cominciò a rilassarsi, a sentirsi al proprio posto. Le insegne della lunghissima fila di club nudo-dal vivo-sesso-bestialità-masochismo-dal vero sembravano parlargli in un codice subverbale che gli era familiare; le insegne erano disposte secondo una sorta di contrapposizione estetica con la rete di fili dei tram che s’incrociavano sopra le loro teste. Dai pantografi dei tram elettrici scoccavano scintille, ogni volta che un tram superava l’intreccio di fili di un incrocio.

Stormi di gabbiani sbattevano nervosamente le ali, alti sulla città, volando in cerchio al di sopra degli edifici in gruppi compatti, come elementi di un mobile di Calder.

I frequentatori abituali della strada (angosciari, voguer, ecologisti, prostitute) sfilavano su e giù lungo i marciapiedi affollati, mettendosi in mostra nei loro piumaggi sfarzosi, e in lontananza, come in un caleidoscopio, si fondevano gli uni negli altri. A Cole vennero in mente i demoni giapponesi.

Proprio in quel momento, un cartellone a scritte elettroniche cominciò a trasmettere: VENITE A… TROVARCI ALLA… TORRE DI GIADA… UNA CENA INDIMENTICABILE… PER CHI INDOSSA… L’ELEGANZA DELLA GIADA…

La tensione fra loro due era scesa, e Cole cominciava a sentirsi quasi allegro (anche se doveva bloccare dalla mente le immagini di visi confusi che esplodevano in fontane di sangue, dell’uomo con gli occhi incrociati sul foro di proiettile che gli trapassava la fronte).

Ma quando Catz gli prese la mano, rabbrividì. E quando capì che lei lo stava guidando al suo appartamento, le mani di Cole si riempirono di sudore.

Giunti in fonfo alla collina (dopo aver traversato Chinatown, la sua cacofonia di odori, le finestre da cui s’intravedevano oggetti d’avorio e giada, e dopo aver incrociato diecimila paia di occhi a mandorla), Catz si fermò di colpo, scostandolo leggermente col braccio. Cole si girò a guardarla con aria interrogativa, cercando di mascherare l’apprensione. Ma fu lei a chiedere: — Cosa c’è, Stu?

— Niente — rispose lui, cupo, e pensò: “Oh, Cristo, sta cominciando a leggermi nel pensiero”.

— No, sul serio.

Cole scrollò le spalle con foga esagerata. — Uh… non so, Catz. Probabilmente sono preoccupato per Città… Ho paura che ci chiami… È quasi notte. E tu… Senti, te l’ho detto che non ha voluto aiutarmi a liberarti da quei mostri.

— Non me ne importa. Me l’aspettavo. Anzi, credo che mi abbia messo i bastoni fra le ruote quando stavo correndo fuori da quella casa con te, e che abbia fatto in modo che i vigi mi prendessero. Ha ragione: non mi fido di lui. È l’inconscio di centinaia di migliaia di persone estremamente fallibili, Stu. Tu credi che la gente di questa città sia del tutto sana di mente? Ma nemmeno per idea. Sotto ognuno di quei crani placidi si nasconde un nido di vipere. Quand’ero ragazzina, andavo in overdose di acido… e stavo benissimo, solo che a un certo punto perdevo il controllo cosciente di me e non capivo più dov’ero e finivo con l’essere dominata dall’inconscio. E siccome il mio inconscio era pieno di ostilità, combinavo un macello continuo…

Lui la fissò. Dovette alzare la voce, per superare lo stridio di un tram che si stava arrampicando lungo la salita ripida. — Allora perché gli hai obbedito? Perché ci hai aiutati?

— Lo sai perché. Città te l’ha spiegato — rispose lei, seria seria — anche se di questo non mi hai parlato.

Cole fu lieto che, nell’addensarsi di tenebre, lei non riuscisse a vedere il rossore che gli nasceva in viso.

— Merda, mi comporto come un adolescente spaventato — mormorò.

Lei rise un attimo. — Sei così buffo quando parli da solo.

Nel tono di Catz non c’era ironia, ma lui si sentì ferito. Imbizzarrito, allontanò gli occhi.

— Penso che dovresti lasciare San Francisco — disse. — Potrebbe ucciderti.

— Forse me ne andrò — disse lei. — Devo ammetterlo… sono spaventata anch’io. Di solito faccio finta di non esserlo, ma con te non voglio fingere. — La sua voce era stranamente tenera. — Io… Ieri notte, in quell’armadio, credevo di impazzire. Non mi hanno violentata, ma avevo paura che lo facessero. Non voglio trovarmi di nuovo nella stessa situazione. È stupido. Voglio andarmene via con la mia banda. Ma tu non puoi restare qui. Lui ti possiede… troppo. Tra un po’ non riuscirai più ad agire di testa tua, Stu. Devi andartene anche tu.

Cole scrollò le spalle, impotente. — Non credo di poter stare lontano da qui. Non per molto… Non so.

Il semaforo passò al verde. La scritta all’incrocio disse AVANTI, e così s’incamminarono. Traversarono la strada. Sul lato opposto c’era un negozio di articoli da regalo. Dietro la vetrina polverosa, una zingara in legno che leggeva la fortuna. La statuetta, rotta, si trovava in quella vetrina da almeno vent’anni. Quando passarono davanti al vetro, Catz s’irrigidì all’improvviso, stringendo spasmodicamente la mano di Cole. Poi si fermò, restò a fissare la bambolina di legno, quel viso di vecchia rugosa corroso dal tempo che sorrideva malignamente verso di loro. — La testa — mormorò convulsamente Catz. — Prima… prima non era girata da questa parte. Ma quando le sono passata davanti, si è voltata a guardarmi. L’ho visto con la coda dell’occhio…

Il minuscolo volto da zingara li scrutava maliziosamente. Cole ricordò che sì, la testa della statuetta era girata dall’altra parte, pochi secondi prima.

— Forse il meccanismo interno ha ricominciato a funzionare. Le vibrazioni delle macchine o qualcosa del genere — azzardò, senza nessuna convinzione.

Accelerando il passo, quasi trascinandosi dietro Cole, lei si voltò e disse: — Balle! È Città. Lo sento. Mi sta tenendo d’occhio. Quello era solo un avvertimento. Un segno. Si sta risvegliando. Mi segue. — Le si spezzò la voce. — Oh, all’inferno!

Corsero via, sulla strada sempre più buia. Cole si fermò vicino a un ingresso della metropolitana rapida Zona Baia. Impaziente, Catz si tolse gli occhiali, gli lanciò un’occhiata interrogativa.

— Sta arrivando un treno diretto a sud — disse Cole, fissando di sottecchi il terreno.

Catz parve divertita. — E come fai a saperlo? Non hai mica consultato gli orari.

Cole provò un brivido. Come faceva a saperlo? Guardò l’angolo della strada. — Sta arrivando un autobus per Mission Street.

Catz seguì il suo sguardo. Due secondi dopo, da dietro l’angolo spuntò un autobus elettrico. Il cartello della destinazione diceva MISSIONI.

Catz lo guardò. Cole si sentiva strano. Freddo tutt’attorno al corpo. E non si sentiva più i piedi. Non poteva avere freddo sul serio, la serata era tiepida, però aveva i piedi intorpiditi. Come se si stessero fondendo nell’asfalto. Cole si mise a batterli finché un minimo di sensibilità non gli tornò nelle piante dei piedi. Poi, alzò gli occhi. — Adesso — disse — da dietro l’angolo sta arrivando un camion. E dietro c’è un nero su una Harley. — E un mastodontico camion giallo rombò accanto a loro, seguito a ruota da un nero su una motocicletta argentea.

Catz continuò a fissare Cole, orripilata.

Fu in quel momento che il telefono nella cabina accanto a loro squillò.

La porta della cabina, che era di quelle di vecchio tipo, si aprì. Il telefono cadde dalla forcella e si mise a oscillare, come in un gesto di richiamo. Meccanicamente, Cole s’avviò verso la cabina, per afferrare il ricevitore.

Catz balzò avanti, si frappose tra lui e la cabina, lo bloccò mettendogli le mani sul petto. — Non rispondergli. Lo sai che è lui. Non… non adesso. È lui, si sta risvegliando… e vuole farti diventare una parte di sé. Perché diavolo pensi di aver previsto quali veicoli sarebbero spuntati da dietro l’angolo? E la metropolitana?

Cole era intontito. Si mise a parlare da solo. — Tutti i macchinari di questo mondo sono collegati fra loro — mormorò, guardandosi attorno, comprendendo. — Da linee elettriche, cavi telefonici, da una gigantesca rete elettronica. Le tubature… — Chiuse gli occhi. E la vide, nell’oscurità infinita dietro gli occhi chiusi: una sovrapposizione luminosa, blu-bianca sullo sfondo del buio screziato: la grande infinita cianografia dei canali elettrico-neurali della città, gli edifici collegati fra loro e i punti focali, il nucleo della centrale per la produzione d’energia, il…

Riaprì gli occhi, stupefatto. Una sensazione strana sul viso. Capì che Catz lo aveva schiaffeggiato. Si lasciò guidare da lei all’ingresso della metropolitana. — Vieni — disse Catz. — Vieni. — Lei lo trascinava per la mano: lui la seguì passivamente, estraneo a se stesso, immerso in un sogno. Scesero fra luci vivissime e piastrelle bianche, immacolate. Con una carta di credito dell’Interfondo, Catz acquistò due biglietti dal computer alla parete e li mostrò, dalla parte delle strisce magnetiche, all’occhio elettronico del cancelletto. L’occhio li lasciò passare.

Ancora lontano dalla realtà, sognante, Cole si lasciò portare sul treno d’acciaio lucido. Le porte si chiusero automaticamente alle loro spalle. S’incamminarono sulla moquette pulitissima, sedettero sotto un grande finestrino. Gli altri passeggeri chiacchieravano tranquillamente o leggevano giornali. Trascorsa l’ora del rientro dagli uffici, c’erano appena una dozzina di persone sul treno diretto a sud.

Cole prese nota di quelle cose con attenzione ma con distacco, come se tutto ciò che aveva attorno, compresi i passeggeri e il treno stesso, fossero solo elementi minuscoli ma funzionali della grande macchina urbana.

Il continuum urbano della metropolitana si mise in azione. Il treno partì e, con una remota sensazione di piacere per il funzionamento perfetto della macchina che lo avviluppava, Cole si mise a contare le luci che esplodevano come lampi nel tunnel. E ascoltò il clic ritmico delle ruote, il sospiro della pressione dell’aria alle svolte…

Un poco più tardi, Cole si risvegliò improvvisamente dal sogno di cianografie interminabili e mappe complesse. Si guardò attorno, nervoso. Si sentiva solo e sperso, disorientato, e capì di essere ormai oltre la portata di Città.

Fu un sollievo scoprire accanto a sé Catz. La ragazza teneva le gambe sollevate, i talloni degli stivali sul sedile davanti, e fumava una sigaretta fatta a mano.

— Sul metrò non si dovrebbe fumare — disse Cole, con un sorriso.

Lei gli restituì un sorriso smorto. — Allora cosa vuoi farmi, porcone?

La mano di Cole scivolò su quella della ragazza. La pelle di Catz era calda e umida, sembrava aderire alla sua.

Lui avvertiva ancora una leggera sensazione di freddo. — Dove… dove stiamo andando?

— Questo è il treno in direzione sud di cui parlavi tu, baby. È quello che passa nel nuovo tunnel sotto le colline di Berkeley, lo sapevi? È una linea che funziona solo da un mese. Arriva fin quasi a San José. È un viaggio lungo, però… Città non può arrivare così lontano, penso.

Cole annuì. — Mi sono sentito scivolare via da Città. Mi sorprende che non abbia fermato il treno. Forse per fermarlo avrebbe dovuto ucciderci. Forse…

Lei scosse la testa. — No. Poteva bloccarci alle fermate regolari. Bastava che impedisse al treno di ripartire. Ma può esserci un altro motivo. Per esempio, fose sa… — Catz lo guardò con la coda dell’occhio — che tu tornerai.

Cole respirò profondamente. — Mi sento strano.

— Una crisi d’astinenza.

— Cosa?

— Niente… Ehi, quando hai avuto quelle precognizioni sul traffico e tutto il resto, c’era di mezzo quel tuo duplicato? Quell’immagine che hai visto a Oakland? È stata l’immagine a darti le informazioni?

Cole scosse la testa, fissando le luci del tunnel. Il mormorio del treno era calmo, regolare. — No, non credo. È stato come se stessi guardando attraverso gli occhi di qualcun altro. Oppure come vedere dietro un angolo col periscopio. Una ripresa televisiva dall’alto. Non è che vedessi avanti nel tempo… Era come se gli edifici fossero diventati quasi… trasparenti.

— Queste balle non me le bevo…

— Non ti sto raccontando bugie…

— No, questo lo so. Ti credo. Voglio dire che la situazione è molto brutta. Si è proprio impadronito di te…

Cole cambiò immediatamente argomento. — Ma cosa credi che fosse quella cosa che ho visto? Quel “duplicato”?

— Non lo so — rispose lei, depressa. La sigaretta si era spenta. La riaccese, scrutò con una smorfia le tracce di rossetto nero sulla cartina bianca. — Forse era, uh, una proiezione di te stesso, delle tue doti latenti. Le tue intuizioni proiettate in una specie di visione.

L’idea non gli pareva esatta. — Uh-uh. Però… Più che altro sembrava uno spettro.

Catz rise nervosamente. — Be’, è impossibile. Tu non sei morto, fratello.

— No — disse Cole. Ma pensò: “Non sono ancora morto. Forse lo sarò presto. Molto presto”.

Aveva ragione.

— Non so — disse Cole, rigidamente seduto sull’orlo del letto che cigolava. — Forse dovrei tornare. Devo andare fino in fondo a questa faccenda. Gli ho obbedito dal primo momento, ed è un po’ come se mi fossi… be’, impegnato. Mi sento solo, lontano dalla città. Gesù, sono anni che non me ne allontano. Non…

— Già, hai paura di startene lontano dal tuo paparino — disse Catz. — Ma c’è anche qualcos’altro.

Si chinò su di lui, intrecciò le dita nei suoi capelli, disse dolcemente: — Tu, fratello, sei nervoso per qualcos’altro.

Cole, involontariamente, si ritrasse da lei. Gli arrivava alle narici l’odore del suo sudore, l’aroma del suo corpo. Ne era intossicato. Ma sentiva la schiena fredda e rigida. — Senti, perché siamo venuti qui? — Allargando le braccia, indicò la stanza del vecchio hotel Santa Cruz. L’aria sapeva vagamente di muffa e salmastro. La tappezzeria ingiallita si staccava dalle pareti, era ammuffita negli angoli. Il letto di ottone, un relitto, cigolava a ogni minimo movimento. — Forse per te è meglio stare lontana da San Francisco. Ma non per me. Io non dovrei essere qui. Ho un club da mandare avanti, Catz.

— Scuse, scuse… — miagolò lei.

— Senti, non…

— Quanto tempo è? — lo interruppe Catz, facendo sforzi terribili perché la domanda non sembrasse troppo importante.

— Quanto tempo è cosa?

— Non fare il timido — ribatté lei, fredda.

Lui esitò. — Un paio d’anni.

Catz chiuse gli occhi. Sorrise. Eccccoci qui. Adesso sono sulla tua lunghezza d’onda.

Cole deglutì per soffocare un’esclamazione di paura. Il suo dono…

— Ah… — disse lei, con quel suo sorriso di denti acuminati. — Ah. Ti sei scoperto impotente… — Cole sobbalzò a quella parola — … l’ultima volta. È stato con una prostituta nera. Hai paura di essere ancora impotente. Hai paura di essere troppo vecchio per me. Hai paura che io possa usarti chissà come perché non riesci a capire perché dovresti piacermi. — Catz riaprì gli occhi. — Te lo dirò io perché mi piaci, Stu. Tu mi hai offerto la mia prima possibilità al tuo club, anni fa, e lo sapevi già che ci sarebbe voluto un sacco di tempo per creare un pubblico per quello che facevo, e per un po’ hai continuato a perderci soldi. Però sei andato avanti lo stesso perché t’importava di me e capivi la mia musica e la mia poesia. Sei l’unico uomo che io conosca che le capisce sul serio. Ma non è soltanto gratitudine. Sono anni che tu mi dai una scossa. — A quell’espressione, rise. — È vero, Stu. Io ti amo. Città aveva ragione. L’unico motivo per cui ti ho seguito in tutta questa storia con lui è che volevo proteggerti.

— Senti, non… insomma, non riesco… sono, uh…

— All’inferno Città. Sì, sei un po’ grassottello, hai la pancia. Sei tanto. Comunque, a me gli uomini piacciono morbidi. Sono più dolci. Senti, vedo benissimo le tue paure, Stu. Piantala di cercare di nasconderle.

Cole si sentiva le guance in fiamme. — Non… Ehi…

— Però adesso ti stai arrabbiando perché ti leggo un pochettino la mente. Proprio non posso impedirmelo, quando mi sento così vicina a te. Però stammi a sentire. Se pensi che questa sia un’invasione della tua privacy, posso lasciar perdere le tue, hum, immagini mentali, le istantanee della tua ansietà e cose del genere. Puoi tenertele solo per te. Guarderò soltanto le tue… sensazioni. Mentalmente, posso sperimentarne almeno una parte. Sensazioni interne ed esterne. È un po’ come un fenomeno di risonanza. Così potremo essere veramente vicini, Stu.

Lui gonfiò le guance. — Ho la sensazione che tu stia cercando di dirmi qualcosa. — Si mise a fissare il tappeto lacero sotto i suoi piedi.

— Forse. Se è l’unico modo per raggiungerti… — Catz si chinò ancora di più su di lui. Le labbra della ragazza bruciavano sul collo di Cole.

E lui schizzò quasi via dal letto.

Catz lo rimise dolcemente giù, scosse la testa, seria. — Rilassati, Stu.

— Non ci riesco. — Cole tremava. La tensione fra loro due aveva raggiunto la punta massima. A lui sembrava di essersi rinchiuso in se stesso, di osservare quella scena attraverso occhi miopi. — Non riesco proprio a farcela, Catz. Uh… Non vorrei deluderti. Chiaro?

Lei roteò gli occhi. — Ancora non capisci — disse. La dolcezza sincera della sua voce lo spinse a guardarla, grato. — Puoi rilassarti, Stu, perché io non mi aspetto niente da te. Non dobbiamo fare poi tanto l’amore. Voglio solo stringerti e toccarti. Non dobbiamo… non dobbiamo fare troppo di niente. Io voglio solo… — gesticolò, impaziente. — Insomma, staremo nudi, okay, ma non è necessario che ci sia una grande elaborazione. Capito? Non ho bisogno che tu entri in me. Se hai voglia di regalarmi un orgasmo, benissimo, è per questo che Dio ha dato a te mani e lingua e a me una clitoride. Ma non importa. Vedi, stupido, io ti amo. Quindi, non importa.

Cole esalò un lungo sospiro, e qualcosa dentro di lui si rilassò. Si sentiva vivo, più cosciente di sé, fuso in comunione con lei. Senza pensare, tese la mano e spense la luce. La stanza si fece più buia, ma una luce fredda continuava a entrare dalla finestra semichiusa alle loro spalle. Quel tanto che bastava per vedere Catz; ed era abbastanza scuro perché lui non avesse una coscienza precisa del proprio corpo.

Lei si era tolta stivali e giacca, stava emergendo dai pantaloni. Tornò un pizzico di tensione quando, le mani tremanti, le dita che scivolavano sui bottoni di plastica, lui si spogliò, sistemando poi i vestiti su una sedia con più cura di quanto non fosse necessario.

Poi si girò, scivolò fra le braccia di lei. Fu facile. Catz era solida ma morbida, la sua pelle liscia ma magnetica. Cole si sentì percorso da un altro livello di rilassamento, da un’altra piacevolissima carica elettrica, e avvertì una sensazione strana al ventre. Abbassò gli occhi, sorpreso. Il suo pene eretto premeva senza esitazioni contro le labbra umide del sesso di lei. Le gambe di Catz abbracciarono le sue natiche, e quando le loro labbra si incontrarono lei diede il via a una pressione ritmica, evocatrice. Il suo monte di Venere palpitava contro il pene di lui. Un brivido corse sulle loro labbra, e Cole si scoprì a esplorare il corpo di lei con le mani, a esplorarlo senza pensieri o coscienza.

— Vedi? — disse lei dolcemente, sussurrando nel suo orecchio, percorrendogli la schiena con le dita. — Dovevi solo rilassarti. Rilassati del tutto, e vedrai che finirai in un altro posto, fratello. Rilassati, rilassati, e vedrai che ti succederanno un sacco di cose piacevoli… Stu…

Naturalmente, aveva ragione Catz.

ESSEI!

Il mattino dopo, mentre Catz dormiva, Cole si guardò nello specchio lurido, a grandezza naturale, del bagno. — Non sono poi tanto male — disse. — Niente affatto male. — Canticchiando, fece la doccia.

Tornato in camera da letto, respirò nostalgicamente gli aromi delle lunghe ore di sesso della notte prima. Catz, già vestita, era seduta sull’orlo del letto. — Forza — gli disse, battendo impaziente il piede. — Vestiti, Stu. Andiamo.

— Cos’è tutta questa frenesia? — chiese Cole, lanciandole una salvietta.

Lei l’afferrò al volo e, pensosa, se l’avvolse attorno alla mano. — Stanotte ho fatto un sogno mostruoso. Ho visto delle cose. Collegate a quello che avevo visto, cantando, la prima sera che Città è venuto al club. Dobbiamo lasciare la zona della baia. Andare a New York o da qualche altra parte…

— Sei matta?

— Sto dicendo sul serio.

— Dovremmo piantare tutto e andarcene?

— Esatto. La nave sta affondando, vecchio mio. Ieri ci è mancato poco che tu non riuscissi a uscire da San Francisco. Lui non voleva che tu gli sfuggissi.

— Poteva fermarmi.

— Ha cercato di scoraggiarti… Ma sapeva che saresti tornato. Andiamocene!

— Dopo tutto quello che abbiamo fatto? Dopo aver ucciso? Adesso non potrei proprio ritirarmi, Catz.

Lei si mosse sul letto, si girò a guardarlo. A disagio sotto quell’esame, Cole cominciò a vestirsi. Si infilò i vestiti senza fare attenzione, e dovette riabbottonarsi la camicia. Dopo di che, lei chiese: — Hai deciso?

— Non posso andarmene. Mi spiace. — Non gli venne in mente di chiedersi perché non potesse andarsene. Un pesce può sopravvivere fuori dall’acqua solo per un minuto o due, e non mette mai in discussione il bisogno che ha di quell’elemento.

— E cosa sei? Una pianta che non si può sradicare? — Catz non stava esprimendo rabbia; era mossa dalla disperazione. Sospirò. — Stu, tesoro, credi che i vigilantes non ti ammazzeranno dopo ieri? Uno è riuscito a scappare. Hai ucciso diversi di quei bastardi, ricordi? Sono morti. E sei stato tu a mandare all’aria…

— Okay — disse Cole, trasalendo.

— Ti ammazzeranno. È semplicissimo.

— Non mi troveranno. Città mi proteggerà.

— Forse. Finché gli sarai utile. Ma stammi a sentire. Sai già che lui non può controllare il Tif e il Tif è sotto il controllo dei suoi nemici, che adesso sono anche tuoi nemici. Ti toglieranno quel poco di soldi che ti resta. E chiuderanno il tuo club. E non puoi nemmeno tornare al tuo appartamento. Ti staranno aspettando.

Cole la fissò. Su di lui scese il terrore, come scende su qualcuno che si accorga che un colpo di pistola gli ha spappolato la mano…

— Gesù — disse piano. Un uomo senza una carta di credito era uno zero. Senza la carta, senza un conto in banca… L’evirazione sociale.

— Comunque… — ribatté all’improvviso, la gola stretta. — Non cambierebbe niente in… in un’altra città. Non avrei soldi nemmeno lì.

— All’inizio no. Però potresti rifarti un conto. Potresti stare con me a… uh, io ho un conto a Chicago. Sono anni che accumulo risparmi. E lì potresti aprire un conto nuovo. So di sicuro che il Tif di Chicago è pulito. È una città che ha troppa esperienza col crimine organizzato. Hanno preso le loro precauzioni fin dall’inizio.

Cole cominciò a passeggiare nella stanza. Le sue mani si muovevano sotto le labbra, quasi cercando di dire ciò che le labbra non riuscivano a trasformare in parole. — Lui… Non è… Merda… Credo che dovrei… — Si passò le dita tremanti nei capelli. Cercava di trovare una scusa razionale, qualcosa che Catz potesse accettare. Perché era così difficile farle capire? Non poteva abbandonare la città. Non adesso. Forse aveva davvero le radici; forse era una pianta che sarebbe morta, lontano dai particolari elementi chimici che formavano il terreno in cui era nata. Il cemento e le prospettive di San Francisco; l’asfalto col sudore sangue vomito lacrime seme di tutte le persone che avevano donato qualcosa per gettare fondamenta mistiche; i fili della corrente elettrica, l’asfalto, le squame d’alluminio; la struttura particolare di torri in vetro e acciaio; le immense signore di legno grigio che ai turisti sembravano solo case vittoriane; il suolo di San Francisco. — Mi chiedi di sradicare la mia identità e trapiantarla da un’altra parte. Ne resterei ucciso.

Catz giocò l’ultima carta. — Preferisci perdere me che Città?

Cole bluffò. — Non è giusto che…

— Col cazzo che non è giusto! Merda! Io ti amo e quelli ti vogliono morto. Ti uccideranno. E lui ti userà e poi ti butterà via come uno stuzzicadenti usato!

— Città non…

— Città ti sta usando!

— Questo non lo sai! — urlò lui, selvaggiamente. Si girò a fissarla. — Non puoi esserne sicura!

Catz scosse la testa. — Perché non ti ha dato una mano quando gli hai chiesto di aiutarti a salvare me? E perché ti ha mentito sul fatto che non bisognava uccidere nessuno?

Cole si sentì invadere da una decisione gelida. Alzò il palmo di una mano verso di lei, in un gesto enfatico. Catz tacque, aspettò. Lui disse: — Lo so. Lo so. Peccato. Un vero peccato. Ti amo. Ti amo, Catz. Probabilmente… probabilmente so che mi sta usando. E so che ti amo. Ma non ho scelta. Ho preso la mia decisione tanto tempo fa. Devo andare sino in fondo. Io non sono stato scelto.

— Mi fai stare male. Scelto. È sempre stata la scusa di terroristi e dittatori e fanatici religiosi, una scusa per vivere l’odio nascosto in fondo. Alla radice, c’è sempre una spinta egoistica. Lo so, adesso stai per dirmi: “Catz, tu non capisci”. Invece capisco, e non accetto. Rifiuto di lasciarmi usare da lui. Sono pronta a collaborare con le menti delle città, quando mi sembra che sia giusto. Ho già avuto rapporti con qualcuna di queste menti. Ho comunicato con New York e con Chicago. Sono vive quanto Città, la tua città. Non sono altrettanto attive, ma hanno piani. Credo che stiano progettando qualcosa… in comune. Esiste un piano comune a tutte le città che… Be’, comunque, se tu…

— Catz…

— Se tu pensi che lui ti stia…

— Catz!

— Cosa?

— Ti ho detto che lo so che mi sta usando. È una cosa interna, qualcosa di connaturato a me. Devo. Okay?

Lei lo fisso, cupa. — No. Non è okay. Non è proprio per niente okay. Tu entrerai a far parte della disco.

— Come? Perché dici una cosa del genere?

— È la differenza basilare fra noi due, fratello. Da certi punti di vista tu sei un eccentrico, un nonconformista, mettila un po’ come preferisci. Però non vuoi esserlo. Tu vuoi appartenere a qualcosa. Tu vuoi fare parte di una comunità ed essere una brava ape dell’alveare…

— Balle, stronza!

— In fondo, uomo, è questo che vuoi essere. Dammi retta. È per questo che hai accettato Città così facilmente. Tu vuoi identificarti. Be’, io non m’identifico con lui… non m’identifico con nessuna massa umana. Ho paura di perdere me stessa nelle masse. Io sono quasi niente, tutti sono quasi niente, ma quel poco che sono mi è molto caro, e non voglio regalarlo a Città. E non sopporto di vedere che una cosa del genere succeda a te. Forse sono gelosa. Ma non posso restarmene calma a vederlo succedere. In ogni caso, penso che mi ucciderebbe. Perché non farei altro che cercare di allontanarti da lui. Senti, è vero che qui si sta frammentando tutto, che abbiamo divisioni ideologiche pazzesche, ma tutto quanto, i neopuritani, i neopunk, è tutto la stessa cosa. Sono soltanto balle, merda. Persino l’angoscia rock. Io non sono una cantante di angoscia rock. È solo un’etichetta che a loro faceva comodo e che mi hanno appiccicato addosso. Io non m’identifico in nessuna di queste cose. Fa tutto parte di questa bella tappezzeria. Il governo ci concede queste cose come valvola di sfugo. Forse li aiuta a reprimerci, come il metadone, come la droga legalizzata. La verità è che tutta quanta questa nazione è talmente uniforme che mi dà il voltastomaco. Non è soltanto per la compudisco o il muzak che vanno da per tutto, mediocrità in scatola, musica sempre uguale, sempre familiare… Sono i palazzi tutti uguali, i condomini, le case fatte con lo stampino. E poi, Dio, i viali! Quei viali pieni di negozi da per tutto! E le vetrine sono tutte uguali, con differenze minime, come se uno dovesse scegliere tra un colore e l’altro di carta igienica. “Signora, abbiamo un bianco pastello, oppure oro del deserto, oppure…” Capisci cosa voglio dire? L’uniformità di massa è un prodotto collaterale del condizionamento al consumismo. È la propaganda sottile delle grandi corporazioni, degli interessi enormi che guidano tutto con la loro efficienza condiscendente, benigna, dolce, liberale, sorridente…

— Ma fare parte di Città non significa questo. Sicuro, c’è una comunità culturale, ma è un fatto volontario, naturale…

— No. È solo che lui te lo fa credere.

Fra loro ci fu un silenzio teso. Lei lo guardava.

— Stai sprecando il tuo tempo — disse Cole.

— Già. Lo vedo. Ormai è troppo tardi, per te… Senti, io me ne vado. A Chicago c’è un tizio che dice che mi produrrà un album, se gli diamo un buon nastro da portare alle compagnie discografiche. Dovremo chiuderci in studio…

— Vuoi fare dischi? Allora chi vuole entrare nella Grande Uniformità? Dovrai venderti ai…

— No. Riuscirò a raggiungere più gente. Insegnerò il non conformismo…

— Ti creeranno una bella immagine stereotipata e stamperanno migliaia di poster con la tua faccia… Lanceranno la Moda Catz Wailen. Sono sicuro che funzionerà.

— Tieniti il sarcasmo sul tuo conto. Non accetto pagamenti del genere. — Catz tremava. — Merda — disse piano.

Poi andò in bagno e aprì il rubinetto del lavandino, perché lui non la sentisse piangere.

Pomeriggio tardi. L’alba del tramonto. Come preludio, il cielo che oscurava i margini frastagliati di nubi gonfie.

Solo nell’aeroporto di San José, Cole restò a guardare il jet di Catz, diretto a Chicago, che accelerava a dispetto della pressione dell’aria, che si alzava in cielo. (No, Cole non era veramente solo; ma la gente che aveva attorno non era una semplice folla di estranei: cosa più importante, non erano di San Francisco. Non erano della città di Cole. Alieni.)

Le dita, affondate nella tasca della giacca, tormentavano il foglio che lei gli aveva lasciato. C’era scarabocchiato sopra il numero di telefono di Chicago… Con Catz era partito tutto il gruppo. Il bassista, un tipo con la faccia da topo, aveva protestato: aveva pagato l’affitto dell’appartamento per tutto il mese successivo. Non gli avrebbero rimborsato una lira. A Catz non era stato difficile convincerlo a lasciare la chiave a Cole.

Poteva darsi che lei avesse torto. Forse non avevano estinto il suo conto corrente. Forse possedeva ancora il club.

— Che Dio me la mandi buona — disse lui, ad alta voce.

Il jet venne assorbito dal banco di nubi più basso. Le nuvole incombevano sull’aeroporto come demoni giganteschi e mostruosi. Catz non c’era più.

Catz era partita e lui si trovava a San José, lontano da Città. Si guardò attorno: estranei, folle di estranei. Era completamente solo.

Soffocando il panico, si girò, corse verso la scala mobile con la scritta USCITA SULLA STRADA. STAZIONE DELLA METROPOLITANA.

Cole guardò lo schermo del Tif nella cabina pubblica con una certa soddisfazione, CONTO CORRENTE ESTINTO, diceva. Non semplicemente CONTO CORRENTE MOMENTANEAMENTE CONGELATO CAUSA MANCATI PAGAMENTI. Non solo SEQUESTRO CAUTELATIVO DEI FONDI DEPOSITATI. Non per lui. Per Stuart Cole, l’anatema usato così di rado: CONTO CORRENTE ESTINTO.

In genere, quella formula la usavano con la gente che finiva in galera.

— Aveva ragione Catz — disse lui, spingendo da parte la porta a soffietto e uscendo in strada. Si fermò all’angolo tra Market e Sutter, all’ombra del tendone di un cinema di “erotismo terapeutico”. L’insegna, spenta, diceva: TERAPIA SOMMINISTRATA DURANTE LE PROIEZIONI/POLTRONE COMPLETAMENTE EQUIPAGGIATE/TERAPEUTI DIPLOMATI. — Diplomati come un asino di Tijuana — borbottò Cole, incamminandosi.

CONTO CORRENTE ESTINTO… Cominciava a risentire dell’impatto di ciò che era accaduto.

Scese lentamente lungo la strada. Ogni passo gli portava una fitta al petto. Il dolore che lo consumava era la pena di essere respinto da un’intera società.

— Perché la gente come me non l’infettano con la lebbra e la spediscono su un atollo deserto? — si chiese a voce alta.

Oltrepassò un relitto umano che russava sotto un portone invaso dalla sera. “Persino gli ubriaconi” pensò Cole “hanno un conto corrente. O per lo meno un numero di assistenza sociale, una licenza d’accattonaggio, un assegno d’invalidità. Io no. Ormai sono al di sotto anche di queste cose.”

Raggiunse una cabina telefonica e si mise ad aspettare, fissandola. Non restò deluso: il telefono si mise a squillare. — Città? — rispose, accorgendosi che un po’ del dolore se ne andava.

— Benny? — disse la voce di un portoricano, all’altro capo del filo. — Hai la roba?

Bestemmiando con tanta rabbia da non capire neppure quali parole stesse usando, Cole sbatté giù il telefono e si allontanò. — Città… — disse. Era quasi un gemito. Si guardò attorno, e le spirali della paura si avvolsero sulla pena di essere respinto.

Città era lontano da lui. Cole si sentì isolato, escluso dal solito rapporto con l’ambiente urbano.

Città lo stava punendo.

“Forse per me è finita. Forse ha trovato qualcun altro, qualcuno migliore di me per questo lavoro. Mi ha abbandonato per sempre.”

Un tram scese rombando lungo la collina alla sua sinistra. Oscillava, faceva nascere scintille dai cavi in alto. Rallentò, si fermò, fece scendere i passeggeri. Poi riprese velocità, corse verso di lui. Era lontano una ventina di metri. Gli sarebbe stato difficile fermarsi in tempo in discesa. Era l’unico modo per sapere, per scoprire come la pensava Città. Cole corse in strada, e un sudore freddo gli inondò la fronte. Aveva paura. Sì, molta. Paura di morire. Ma meglio essere morto che sentirsi escluso, intrappolato come un animale da laboratorio in un vaso di vetro. Si gettò a terra davanti al tram, strinse forte gli occhi, cercò di allontanare lo stridio delle ruote che frenavano coprendosi le orecchie con le mani. I passeggeri urlarono. Cole fiutò l’ozono del motore elettrico del tram. Sotto le sue braccia, l’asfalto tremò all’avvicinarsi delle ruote. L’ombra del veicolo gli fu sopra, metafora della morte.

Poi la strada esplose.

Mentre Cole veniva scaraventato lungo la discesa, rotolando verso destra, intravide una tubatura enorme che schizzava fuori dall’asfalto, frapponendosi tra lui e il tram. Il veicolo andò a sbattere contro la tubatura, deviò di lato. Le ruote posteriori uscirono dai binari. Cole riuscì a fermarsi, smise di rotolare.

Stringendo i denti per il male, appoggiandosi sulle ginocchia sbucciate, si rizzò in piedi. Il tram era uscito dai binari, bloccava di traverso la strada, ma non si era capovolto. Non c’erano feriti gravi. Qualcuno correva verso di lui, e sembrava quasi che i loro visi furibondi precedessero i corpi; altri, pietrificati, fissavano la tubatura delle dimensioni di un uomo che aveva fermato il tram due secondi prima che Cole finisse maciullato.

— Ehi, ehi, ma che madonna di… — urlò l’autista, piombando su Cole.

Alle spalle di Cole, sulla corsia opposta, arrivò un taxi, eseguì una conversione a U, gli giunse a fianco. La portiera dal lato del passeggero si spalancò, invitante. Cole balzò su e il taxi ripartì. Boccheggiando, si accomodò sul sedile anteriore.

Non c’era autista.

— Città… — disse dolcemente Cole. In bocca aveva il sapore salato di lacrime assurde.

Il taxi senza autista continuò la sua corsa. “Dove mi sta portando?” si chiese Cole. Due isolati, e la macchina si fermò. Cole si girò a scrutare il condominio del quartiere Tenderloin che aveva davanti: alto, stretto, di un giallo lurido. Ellis Street rigurgitava di sconosciuti, ma lui non era più solo. Chiudendo gli occhi, sentiva un elicottero decollare dal tetto di un palazzo, sei isolati più a sud. Nel buio dietro le palpebre vedeva le macchine dei pendolari sulle superstrade nord e sud: ogni auto seguiva un ritmo precisissimo, si teneva a una certa distanza dal veicolo che la precedeva, e tutte avevano la stessa velocità; come se tutte quelle macchine, anziché essere guidate da individui indipendenti e capricciosi, seguissero un’unica corrente invisibile. Come se, di nuovo, le automobili fossero cellule sanguigne trasportate dal flusso del sangue. E sentiva i treni del metrò che gli passavano sotto i piedi, le tubature che gorgogliavano e sussurravano lungo i tunnel della metropolitana; lo scintillio enorme dell’energia elettrica nella migliaia di chilometri di cavi; avvertiva il lezzo dei torrenti delle fogne e l’odore repellente dei gas di scarico di migliaia di motori, mischiati al fetore dei vapori di migliaia di fornelli su cui cuoceva cibo. Per Cole, erano profumi sopraffini.

Aprì gli occhi, scese dal taxi.

Trovò l’appartamento controllando le cassette della posta. Il bassista di Catz usava il suo nome d’arte per farsi indirizzare la corrispondenza: I.M. Dedd. Appartamento quattordici. Cole si aprì la strada a calci fra le bottiglie di vino e la carta igienica bagnata di cui era cosparsa l’anticamera lercia. Raggiunse l’ascensore con la gabbia in ferro battuto, che doveva avere almeno cinquant’anni, ed entrò. Chiuse la porta, ignorando il cartello che diceva FUORI SERVIZIO. E l’ascensore che era fermo da tanto tempo si mise in moto, con meccanismi e cavi che gemevano per la ruggine. Scese al secondo piano, sorrise vagamente alla signora uscita per le compere che se ne stava lì sul pianerottolo a fissarlo stupefatta, con una borsa piena di cose che uscivano da tutte le parti. — Quel maledetto aggeggio non funziona da cinque fottuti anni — disse la donna. I suoi occhi umidi lo guardavano come se lui fosse uno scarafaggio di dimensioni umane.

— Non funziona nemmeno adesso — ribatté Cole, superandola. — Non azzardatevi a usarlo. — E subito pensò: “Porco Giuda! Ho attirato troppa attenzione su di me”.

Il corridoio puzzava di urina, muffa e topi. Forse, un tempo la moquette era color terra di Siena; adesso aveva il colore e l’aspetto di un sentiero di campagna invaso dal fango.

Trovò l’appartamento quattordici. La porta era aperta.

Rimise in tasca la chiave ed entrò.

Un monolocale: camera da letto, bagno, cucinotto. Alla parete verde, squamosa, era appeso un poster dei Prima Lingua. Sembrava un enorme cerotto. Non c’era molto di più: una scatola di cartone piena di vestiti sporchi e spiegazzati, una corda di chitarra rotta, lattine di birra vuote, un lettino azzurro-nero con mattoni al posto delle gambe.

In camera da letto, dove il pavimento s’incurvava paurosamente, c’erano un materasso (nudo, pieno di bruciature di sigaretta), una siringa di quelle fornite dal governo, e un televisore… Un vecchio televisore dell’epoca in cui non esistevano ancora notiziatori o ciberterminali. Sul fianco non aveva la fessura per l’introduzione della carta di credito. Qualcuno (Catz?) lo aveva lasciato acceso.

L’audio era a zero. Ma il governatore declamava, con verve muta, davanti a una folla di giornalisti, ondeggiando enfaticamente sui talloni, circondato dai microfoni che costellavano il podio. Cole alzò il volume e sedette sul materasso, i gomiti piantati sulle ginocchia, il mento sui palmi delle mani. Ascoltò distrattamente, in attesa dell’apparizione di Città. Il governatore stava dicendo: — Credo che sia estremamente prematuro, in questo momento, asserire che le città stanno morendo… Anche se è indubbiamente certo che le città stanno cambiando, e in modo del tutto radicale. — Il governatore era un politicante giovane. I suoi capelli, di colore indefinibile, erano impomatati all’indietro; il cravattino, di un oro immacolato, spiccava sul panciotto marrone. — Possiamo attenderci di vedere un incremento, ah, delle tendenze attuali e, come avrete notato… — a quel punto sorrise al giornalista che gli aveva fatto la domanda a cui stava rispondendo — … la tendenza demografica punta a una ridistribuzione della popolazione, a un allontanamento da quelle che in gergo si definiscono “zone calde”. La gente si sta distribuendo su tutto il territorio. La Bell Telephone, che come sempre sa riconoscere, uh… — a quel punto si schiarì la gola, guardò gli appunti — … i cambiamenti apportati dal progresso, sta aprendo un ufficio multiplo che consiste in novanta differenti sedi disseminate nella zona della baia. Ognuna di queste sedi si troverà in casa di uno fra quarantacinque dirigenti e quarantacinque assistenti, e ogni sede sarà dotata di un terminale multiplo.

“Ogni terminale è fornito di videoschermo, ricevitore di microfilm, stampatrice di dati e segmentatore per consultazioni multiple, uh, nonché di molte altre apparecchiature. In pratica, non esiste nessun tipo di lavoro d’ufficio che non si possa eseguire con un terminale multiplo. E tutti i lavori verranno eseguiti più in fretta, visto che risulteranno eliminati gli sprechi di tempo e gli accumuli inutili di scartoffie. In prospettiva, avremo anche un risparmio energetico, dato che sarà eliminata la necessità di spostamenti in macchina per i dipendenti dalla Bell Telephone interessati. I benefici sono senz’altro troppo numerosi perché io li possa elencare tutti.”

Gettò un’occhiata agli appunti. — Ma quali sono le implicazioni di tutto questo? Dato che tutto il lavoro d’ufficio, le previsioni economiche, l’elaborazione di dati, si possono svolgere attraverso i terminali multipli, in collaborazione con il Tif, e dato che questi terminali potrebbero trovarsi, per fare un esempio estremo, dall’altra parte del pianeta e continuare a funzionare perfettamente purché esistano degli operatori, non c’è nessun bisogno che l’industria utilizzi questi, ah, meccanismi per concentrare il proprio personale in una città… Le operazioni di dogana, il trasporto delle merci, la distribuzione del cibo, tutte queste operazioni si vanno sempre più automatizzando… Gli utopisti prevedono per, oh, il prossimo secolo una nazione di villaggi legati fra loro dalla comunicazione elettronica, villaggi lindi e poco affollati, simpatici, più visibili, liberi dai condizionamenti che creano lo squallore… Coloro che oggi vivono grazie a un semplice lavoro fisico potrebbero trovare impieghi adatti a loro nel campo dei pannelli solari e delle fattorie idroponiche. Il sistema che costringe le persone ad ammassarsi nelle città dà l’impressione che esista un sovraffollamento. In realtà, la stragrande maggioranza dello spazio disponibile negli Stati Uniti non viene usato; se la popolazione si ridistribuisse…

— Città — disse Cole, e deglutì. Era successo all’improvviso.

Era apparso Città, il governatore era scomparso. Città era più grande di quanto Cole lo avesse mai visto su uno schermo televisivo; lo riempiva tutto col suo viso di pietra. I suoi occhi opacizzati erano imperscrutabili. — Visto? — chiese Città. — Hai visto?

Cole scosse la testa.

— Hai sentito cos’ha detto — insistette Città. La sua voce era il sibilo di un rettile. — Quelli dei terminali multipli stanno con il Tif, e quel figlio di puttana è una loro creatura. L’hanno in tasca, il governatore. — La voce di Città tremava, genuinamente, di rabbia. — Non era ovvio?

— Sì… — rispose Cole, reticente. — Adesso che mi ci fai pensare, mi è sembrato che facesse troppa pubblicità al decentramento. E, naturalmente, i capoccia dei terminali multipli e il Tif acquisterebbero un monopolio, se la cosa passasse, e tutti dipenderebbero da loro. — Cole parlava sovrappensiero, in tono monotono, e pensava. “È completo e inattaccabile e freddo-ma-umano e perfetto come un eroe del cinema.” Stupefatto, scrutò l’immagine di Città sullo schermo. “Com’è possibile che Catz abbia dubbi su di lui? Com’è possibile che qualcuno dubiti di un viso del genere? Di una Presenza del genere?”

Ma l’attenzione di Cole tornò improvvisamente su Città, quando Città disse: — Vuole ucciderci.

Cole indietreggiò leggermente. — Uh… Chi? Chi vuole uccidere chi?

Città annuì piano. — La rete elettronica. I computer. Il cancro che ho nel petto. Dobbiamo distruggerli… Il Tif, i terminali multipli. Vogliono disseminare la popolazione su tutto il territorio, in proporzione geometrica. Far diventare l’America una specie di alveare enorme, regolare.

— La città ha una sua regolarità — disse Cole, stralunato.

— La regolarità della città nasce dalle mura innalzate dalla competizione, la competizione della libera iniziativa. La città è un mondo dominato dall’attività frenetica; il loro mondo sarà tranquillo, efficiente e annoiato. Con il Tif e i terminali multipli non ci sarà più bisogno delle città. E la criminalità vuole questa uniformità idiota, perché le rende più facile coglierci alla sprovvista, assumere il potere. La delinquenza organizzata, una volta che si è procurata una facciata di legalità, agisce sotto l’alibi dell’ordine…

— Immagino che… sia così — disse Cole, incerto.

— Non mi credi? — Il viso di città si allargò sullo schermo, finché restarono solo gli occhiali, la fronte, e il ponte del naso.

Scosso, Cole piegò la testa all’indietro. — Certo che ti credo… Però non sono proprio sicuro che questa faccenda del grande villaggio renderà, uhm, le cose più facili al crimine. Col decentramento dovranno sparpagliarsi anche loro, lasciare pochi uomini in ogni località. Io ho la sensazione che i terminali multipli possano essere in competizione con il Tif, e…

Città chiese: — Vuoi tradirmi un’altra volta?

Cole rabbrividì all’accusa, distolse gli occhi. — Ehi, guarda che non volevo…

— Con quella donna. Sei scappato. Te ne sei andato in un’altra città. Potevo aver bisogno del tuo aiuto. Hai creduto a quello che ti diceva lei. Cosa farai per noi?

E in quel momento Cole avvertì la presenza della città, meravigliosamente schifosa, dolcemente squallida, flessibile ma infrangibile. Le cianografie dietro le palpebre, i grovigli di energia e i punti di riunione della gente: tutto ardeva nel buio mentale. E, travolto da un senso profondo, indicibile, di appartenenza allo stato puro, di indiscutibile identità, Cole disse: — Daremo battaglia.

Doveva essere una bomba. Esistevano certi punti all’interno di Città che lui poteva a stento raggiungere, così come un uomo non può controllare il funzionamento di ognuno dei suoi organi interni. Città poteva aprire le porte che conducevano al computer, ma non era in grado di distruggerlo. Non come poteva far esplodere una strada o abbattere un lampione. Ma Cole era le mani di Città.

Città gli aveva fornito la bomba. Cole l’aveva trovata in una cassetta di sicurezza di una stazione dell’autobus. Come forma e dimensione sembrava una scatola di cioccolatini, ed era avvolta in carta marrone. Gli stava alla perfezione sotto il braccio. In un angolo la carta era ritagliata, e da lì sporgeva in fuori una manopola nera. Sulla manopola era incisa una lineetta bianca. Girando la manopola in modo che la lineetta risultasse parallela alla X nera disegnata sulla carta, la bomba era innescata per esplodere entro un minuto.

Una bomba piccola ma potente, gli aveva assicurato Città.

Cole si chiese per un attimo chi, quale agente umano l’avesse preparata e chi l’avesse depositata nella cassetta di sicurezza.

Adesso Cole si trovava davanti a un tozzo edificio in pseudogranito nero: la centrale direttiva del Centro Distribuzione Dati del Tif. Per lealtà a Città, nello sforzo di criminalizzare il Tif e di mettere a tacere i propri dubbi, Cole visualizzò il grande computer che si trovava lì sotto come una gigantesca vedova nera artificiale, acquattata tra i cavi del terminale che erano la sua ragantela…

Immaginò di sentire, attraverso l’asfalto sotto i suoi piedi, l’enorme computer che ronzava. Fermo sul marciapiedi, era a pochi metri dal lato sud dell’edificio quasi informe. Si guardò attorno. Indossava un giubbotto di pelle nera, jeans lucidi e scarpe da ginnastica. Niente maschera: sapevano già chi era. All’ombra di un lampione spento, attendeva.

Il marciapiedi si squarciò. La città gli si offriva. Il cemento del marciapiedi si era spezzato con un crac secco ma breve, e adesso il foro si allargava. Frammenti di cemento scivolavano giù, verso il buio, risuonavano su una superficie sconosciuta. Il crepaccio si allargò ancora di più, un altro strato di pavimentazione cedette, e un raggio di luce gialla arrivò all’esterno. Cole si infilò la bomba in tasca, accanto alla pistola (quella pistola che aveva giurato di non toccare mai più). E, dopo aver controllato la strada deserta (erano le due di notte), si mise carponi, si infilò nell’apertura, si lasciò cadere verso la luce gialla della zona proibita. Atterrò in piedi, girò freneticamente la testa, fece per estrarre la pistola. Ma non c’era nessuno. Guardò in su, sorpreso da uno stridio che veniva dall’alto. Il foro nel soffitto si chiuse. S’incamminò lungo il corridoio, verso l’edificio di granito e il centro computer sotterraneo.

Il corridoio era ampio e illuminato a giorno; Cole si sentiva esposto. Ma in giro non c’era nessuno.

Proseguì, si accucciò d’istinto, anche se il fatto di essere accucciato non lo rendeva meno rumoroso o individuabile. Giunto a un incrocio, sporse con cautela la testa dietro i due angoli; e scoprì corridoi deserti.

Luci gialle e pavimenti di mattonelle sulla sinistra, luci gialle e mattonelle sulla destra. Da che parte? Come in risposta, a sinistra si mise a lampeggiare una luce. “Grazie, Città.” Svoltò a sinistra, estraendo la pistola.

Sentiva la città vibrare tutt’attorno, fra risonanze incapsulate e amplificate dal passaggio sotterraneo. — Sono sotto la sua pelle — disse fra sé. E quell’intimità lo ubriacava. Per cui, non si chiese: “Cosa diavolo ci faccio qui?”. Non in quel momento.

Un altro bivio. Una luce gialla lampeggiò a destra. Un cartello alla parete diceva: Cctif; sotto, una freccia rossa puntava a destra. Prese da quella parte. E fece tre passi. E si fermò serrando la mano sulla pistola.

L’autoguardiano correva direttamente verso di lui, leggermente proteso in avanti, con le braccia a stantuffo che si agitavano pigramente. — Città? — disse Cole. L’automa continuò ad avanzare. — Città?

L’autoguardiano lo sfiorò dolcemente e proseguì il cammino. Cole lasciò andare il fiato. — Grazie.

In fondo al corridoio, una massiccia porta di metallo, gli sbarrava la strada. In alto, una finestrella di vetro antiproiettile ricoperto da una rete metallica. Cole affacciò il viso alla finestrella, guardò dall’altra parte, e si maledì per l’eccessiva fiducia in se stesso. Una guardia, con una specie di berrettino grigio da baseball in testa, stava estraendo la pistola dalla fondina. Il viso dell’uomo lo fissava dall’altro lato del vetro.

La porta si mosse, rientrò piano nella parete. Quando la finestrella scomparve, Cole lesse sorpresa sul viso della guardia. Città aveva aperto la porta, e l’uomo era rimasto confuso, stupefatto. Città avrebbe impedito alla pistola della guardia di sparare.

E Cole avrebbe dovuto ammazzare immediatamente quello sconosciuto… Cole esitò, in un’agonia d’indecisione.

La porta era rientrata completamente nella parete. La guardia fissava la propria pistola con stupore raddoppiato: l’arma non funzionava. Dietro l’uomo, un lungo corridoio di metallo e luci: il computer.

Ci fu un attimo di calma assoluta, mentre i due uomini, incerti, si soppesavano. Il corridoio vibrava, ma non c’era nessun vero ronzio. I computer a stato solido non usavano più relè. Erano mostruosamente sileziosi. Banchi sterminati di cromo: silenziosi, freddi, e sicuri di sé. Il silenzio non è d’oro è di cromo.

L’uomo fece un balzo, e Cole puntò la pistola. Ma non sparò: la guardia non gli si era lanciata addosso. Aveva saltato di lato, probabilmente per azionare un allarme. Un allarme che non funzionava. E, quando se ne accorse, la guardia disse: — Merda! — ma non sembrava più sorpresa.

— La mia pistola funziona — disse Cole, puntando l’arma sul petto dell’altro.

La guardia indietreggiò. Fissava la pistola respirando pesantemente. Cole ebbe il tempo di notare che era giovane, robusto e abbronzato; probabilmente nel tempo libero si dedicava al surf. Sembrava anche forte. Socchiudendo minacciosamente gli occhi, l’uomo gli chiese: — Cos’è questa storia? Cosa vuoi fare?

Cole si morse le labbra. Al suo fianco, invisibile, Città ripeteva: uccidilo uccidilo uccidilo uccidilo uccidilo…

— No — disse Cole.

— Cosa? — chiese l’uomo, stupito. Gli tremava la bocca.

— Niente. Ci sono altre guardie, qui dentro?

— Sei. Quasi tutte al piano di sopra, in turno di riposo.

Sei! Città aveva scelto il momento perfetto. — Sdraiati a terra — ordinò Cole.

L’uomo obbedì lentamente. “Quando esploderà la bomba, morirà gente” pensò Cole; poi oltrepassò la guardia, si chinò per sistemare il congegno contro un pannello di cromo. Esitò. La sua mano sinistra tremava sulla manopola.

Esitò… E qualcosa lo colpì da dietro. Ancora una volta, si era fidato troppo di se stesso. Si trovò schiacciato a viso in giù, sotto la guardia. Le dita che stringevano la pistola erano serrate dalla mano dell’altro, che con tutta la sua forza, con tutto il suo peso, con tutta la sua rabbia gli premeva sulla schiena. La guardia tentava di non far muovere Cole, si strappargli l’arma. Freneticamente, Cole premette due volte il grilletto. I colpi spaventarono la guardia, la sua stretta si allentò, e Cole colse l’occasione per liberarsi. Pistola alla mano, balzò in piedi. Si girò, oltrepassò di corsa la porta, si lanciò nel corridoio. Alle sue spalle, urla. Le esplosioni avevano attirato altre guardie; Città avrebbe chiuso la porta d’acciaio, fermando qualcuno degli uomini. Boccheggiante, col sapore del ferro in bocca, i polmoni in fiamme, Cole divorò il corridoio, aggirò angoli al volo. Odiava l’eco dei suoi piedi in corsa.

Lontane, sopra di lui, ululavano sirene.

Svoltò a sinistra, percorse un corridoio, girò a destra. Non capiva più di preciso dove stesse andando. Gli si spalancò davanti una porta. Superò la soglia, fu nell’altra stanza, divorò scalini di cemento. Si trovò nel locale delle caldaie, immediatamente al di sotto del livello stradale. Oltrepassò tubature e condotti rivestiti di gomma, incontrò una scala di metallo, la risalì con molta difficoltà, impacciato dalla pistola. Protese la sinistra verso la ruota che costituiva la serratura di un tombino. Il tombino gli cedette, si aprì con troppa facilità: l’assistenza di Città. Piombò nel buio della notte, fu felice di respirare l’aria fresca, libera. Si trovava in un vicolo dietro l’edificio di granito. Sulla strada lampeggiavano luci, ululavano sirene che seguivano la corsa di fantasmi volanti; urla giungevano da dietro l’angolo. Un paio di fari illuminò, orrendo, il vicolo. L’automobile riempì tutto lo spazio disponibile, si lanciò alla carica contro di lui. Terrorizzato, bestemmiando, cercò un rifugio. Ricerca inutile. La macchina, un’omhra nera sommersa dalla luce dei fari, gli corse incontro. Cole si appiattì contro il muro. L’auto si fermò a una trentina di centimetri da lui. Le luci si spensero. Era solo un taxi vuoto con una portiera spalancata. — Oh, Dio, grazie — sussurrò Cole, e confuso, stanchissimo, andò a sedersi dietro il volante. Era il posto migliore, se no qualcuno si sarebbe accorto che il taxi era senza autista. La portiera si chiuse, la retromarcia si inserì da sola, i fari si accesero, il volante si mise a girare: la macchina indietreggiò lungo il vicolo, arrivò in strada.

Svoltarono a destra. “Andiamo troppo forte” pensò Cole. “A questa velocità è impossibile che non ci notino.” Due macchine della polizia si lanciarono all’inseguimento quasi immediatamente. Il taxi accelerò, passò a un semaforo rosso (sia Cole sia Città sapevano che nessuno stava sopraggiungendo all’incrocio), schizzò via nel viale quasi deserto. Le luci lo sfioravano come meteore, seguite da pozzi d’ombra: luce/buio/luce/buio/yin/yang/yin/yang/luce/buio; e nello specchietto retrovisore, occhi rossi, demoniaci, le luci rotanti delle due macchine della polizia che lo inseguivano fianco a fianco. La voce di Città dalla radio: — Non hai ucciso la guardia e non hai innescato la bomba.

— Te l’avevo detto che non sono un agente segreto — ribatté Cole, ferito dall’accusa implicita di tradimento.

Le auto della polizia guadagnavano terreno. Una terza macchina proveniente da una strada laterale si unì alle prime due. Tra un po’ lo avrebbero costretto a fermarsi.

Intervenne Città. Le auto che lo seguivano rallentarono, quasi si fermarono, cominciarono a tracciare sulla strada assurdi otto, una dietro la coda dell’altra. Giravano e giravano e giravano. Guardandole nello specchietto retrovisore, Cole si mise a ridere. Come l’avrebbero spiegato nei loro rapporti? — Le macchine avevano voglia di ballare, signore — scimmiottò Cole, fissando la scena alle sue spalle, sempre più lontana.

Poi il taxi frenò di colpo. Cole venne scaraventato in avanti, si aggrappò al volante, evitò per un pelo di sbattere la testa. Davanti a lui, due auto della polizia bloccavano la strada, e dai megafoni qualcuno urlava: — Fermo lì dove sei…

La voce amplificata fu sostituita dalla disco music che adesso usciva dai megafoni. Le due macchine cominciarono a rincorrersi testa/coda, tracciando una serie infinita di otto. La canzone che i megafoni diffondevano era un successo dell’anno precedente:

Vieni, baby, giriamo qua e là
Vieni, baby, per tutta la città
Vieni, baby, giriamo qua e là…

Cole, continuando a ridere, lasciò che il taxi svoltasse l’angolo. A una velocità meno frenetica, il taxi lo riportò all’appartamento nel quartiere di Tenderloin.

La risata di Cole conteneva più di un briciolo d’isterismo.

ESSETTEEEE!

Cole sedeva al buio, sulla sommità della città; sedeva in mezzo ai rifiuti, e davanti a lui, sotto la grande finestra panoramica, si stendeva il tappeto delle luci notturne della città. Alla sua destra: uno schermo televisivo con l’audio abbassato, che teneva sempre acceso. Alla sua sinistra: una bottiglia di birra mezza vuota e un sigaro fumato a metà, la cui brace aveva da tempo smesso di ardere. Sul suo grembo: la pistola.

Città lo aveva fatto traslocare nell’appartamento all’ultimo piano di Rackham Arms, vuoto, per meglio sottrarlo alle ricerche della polizia e dei vigi. Era chiaro che avrebbero frugato in ogni posto anche lontanamente in rapporto con Catz Wailen. L’inquilino dell’appartamento era fuori città per l’estate; nessuno aveva fatto domande a Cole, dato che l’inquilino lasciava spesso l’appartamento agli amici. La scorta di cibo e di bevande era abbondantissima: il surgelatore rigurgitava di carne, gli armadietti erano pieni di scatolette. Cole, di fronte a quei mobili lussuosi, al tocco inconfondibile di un arredatore, aveva immediatamente disprezzato lo sconosciuto che viveva lì. Non aveva rispetto per chi non era in grado di decorare da solo la propria casa. Quindi, aveva deciso di trascurare completamente la pulizia, accumulando lattine vuote e cellophane e bottiglie e piatti in ogni angolo del lussuoso appartamento.

Dopo avergli trovato una casa, la presenza di Città era svanita. Cole era solo. Intuiva vagamente la supermente urbana, come una serie di scariche che escano dalla radio; ma non c’era nulla di preciso. Ormai aspettava da tre giorni, senza mai uscire. Aspettava di sentire Città. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata al televisore, sperando di vedere il viso di Città. Ma ormai era sabato, e lui non si era ancora fatto vivo. Gli avvenimenti dell’ultima settimana erano come un sogno nella memoria di Cole. Cominciò a dubitare della realtà del mondo al di là del vetro, il vetro che formava un’intera parete dell’appartamento. Di giorno dormiva; di notte stava sveglio ad attendere.

— Mi sono alzato ad aspettare — si ripeté Cole. — Stupido. Stupido. — Sedeva a gambe incrociate sul tappeto, davanti alla parete di vetro; la stanza era buia, a parte il riverbero azzurrino, mobile, dello schermo televisivo. Il televisore era a colori, ma Cole lo aveva messo sul bianco e nero: i colori lo distraevano, gli facevano sentire l’impazienza di uscire nel mondo. Ormai lui esisteva in un crepuscolo d’attesa.

I suoi pensieri tornavano, con frequenza preoccupante, a Catz.

Aveva chiamato il numero di Chicago che lei gli aveva lasciato. Non era mai in casa. Una volta gli aveva risposto una voce maschile, insonnolita: — Eeh? Oh, è fuori a suonare. Chi parla?

Nel tono dell’uomo c’era una punta di gelosia, il che significava che Cole aveva motivo di essere geloso.

Lanciò un’occhiata al televisore. Jeromey Jeremy, il conduttore del programma Quattro chiacchiere con l’ermafrodito, stava carezzando con una mano una stellina voguer, e con l’altra carezzava il proprio seno. Cole sbadigliò. — Forse — disse alle luci della città — Città mi sta di nuovo punendo. Perché non ho sparato a quella guardia quando lui me l’ha ordinato, il che ha reso impossibile innescare la bomba. Forse lo fa apposta a farmi stare così male. Forse mi ha abbandonato… Ma allora, perché mi avrebbe trasferito qui?

— Già, perché? — chiese la voce di Città dallo schermo.

Cole alzò gli occhi. Il viso di Città riempiva lo schermo. Un’allucinazione da privazione sensoriale? Si morse un dito, e il dolore gli parve molto reale.

Se esiste qualcosa di indiscutibilmente reale, quello è il dolore.

Allora Città era lì con lui, e Cole crollò, improvvisamente stanchissimo. Si accorse che, nelle ore di veglia di quei tre giorni, l’attesa lo aveva tenuto in uno stato di continua tensione.

Si alzò barcollando, batté i palmi delle mani sulle gambe per ristabilire la circolazione del sangue. Raggiunse il televisore, vi restò davanti per un attimo, fissando con un misto di venerazione e risentimento il volto della città; poi si accucciò a fianco dell’apparecchio: non resisteva all’idea di fissare così da vicino Città. “Sono suo” pensò. “Catz aveva ragione.”

— Al Chronicle c’è un tizio. Scrive articoli, a volte fa qualche inchiesta — disse Città. — Si chiama Barnes. Rudolph Barnes.

Cole si aggrappava disperatamente a ogni sillaba di Città, cercava un’inflessione, una punta di approvazione o disapprovazione. La voce di Città era fredda, ma non più del solito. Cole non poteva essere sicuro di nulla.

Città proseguì: — Barnes sa di Rufe Roscoe e dei vigi. Sa anche qualcosa di te. Sa che ti cercano. Sa dei rapporti tra la mafia e il Tif, anche se la cosa non è più un segreto. Comunque ha intenzione di preparare un grosso servizio per una rete televisiva nazionale. Voglio che tu lo veda, che gli telefoni, che vi mettiate d’accordo per incontrarvi. Fa’ attenzione, perché dovrete vedervi domani, di giorno. Barnes riparte da qui domani pomeriggio. Adesso si trova a Santa Cruz, se no vi avrei già messo in contatto. Tornerà a San Francisco domani mattina e ripartirà nel pomeriggio. Avrai a disposizione solo poche ore. Trovalo, raccontagli dei videonastri di Rufe Roscoe e di tutte le altre cose che sai… Parlagli di tutto, tranne che di me. Sarebbe difficile convincerlo, e non voglio manifestarmi a lui. Non esiste un rapporto fra Barnes e me. Non è cittadino di San Francisco…

A Cole parve di leggere disprezzo nel tono di Città.

— …è di New York, ed è fedele alla sua città. Ma trovalo lo stesso, ci aiuterà. Chiama il Chronicle domattina alle nove. E adesso vai a dormire.

— Cit…

Ma il viso era svanito.

Era svanito; però si era manifestato, gli aveva parlato. Stuart Cole pianse di sollievo.

Persino sullo schermo in bianco e nero del telefono pubblico Cole vedeva benissimo che Barnes era un tipo dal viso florido e roseo, con l’aria triste, quasi senza mento, con un naso tozzo e butterato. Però gli occhi erano vivaci, penetranti, e dietro quei suoi pochi capelli, dietro l’aspetto irritato dell’uomo di mezza età, vibrava del talento. Era il tipo adatto per loro.

— Sì? Allora? — chiese Barnes, con voce stridula.

Cole trasse un profondo respiro e rispose d’un fiato: — Sono Cole. Stuart Cole. So che cercate informazioni sul Tif e su Rufe Roscoe, e io so un sacco di cose di questa faccenda.

— Sentite, amico, è domenica — ribatté Barnes, esageratamente irritato. — E io cerco sempre di non lavorare mai, la domenica. Sono qui per una riunione veloce, dopo di che prenderò l’aereo…

— Okay, okay, basta con le provocazioni — disse Cole. — Non ho tempo. — Era chiaro che Barnes si dimostrava seccato solo per saggiare le sue reazioni, per scoprire se Cole era un impostore o no. — Sono chi dico di essere e non mi scoraggio facilmente.

Si mosse volutamente mentre, fissando lo schermo, Barnes lo studiava, lo soppesava senza reticenze. Cole aveva i capelli tagliati secondo una foggia molto tradizionale; nell’armadio dell’appartamento aveva trovato un abito perfettamente serio, portava occhiali con le lenti azzurre. Sarebbe stato perfetto in mezzo a qualsiasi folla. Eppure, era nervoso. Si trovava in una cabina pubblica di Chinatown, e i poliziotti di servizio passavano a intervalli regolari. Un poliziotto particolarmente in gamba, o che magari avesse appena visto la sua foto su un bollettino segnaletico, poteva riconoscerlo da un minuto all’altro.

— Sembrate proprio Cole — disse Barnes.

Cole restò stupefatto. — Avete visto mie fotografie?

— Sicuro. Ci arrivano tutti i bollettini della polizia. Vi ricercano come disperati, amico. Comunque, d’accordo. Datemi le informazioni che dite di avere, e per quanto mi riguarda il vostro conto corrente tornerà come nuovo. Vi faranno credito persino a Fort Knox.

— A Broadway — disse Cole — c’è un ristorante. Da Luigi.

Barnes annuì. — Tra quanto?

— Al più presto possibile. Terrò d’occhio il posto, e se mi sembrerà che non ci sia pericolo entrerò quando vi vedrò arrivare. Non portate niente che possa attirare l’attenzione.

— Okay. Però non pensate che dovrei…

— Chiamare la polizia?

— No. — Barnes sorrise, scoprendo una dentatura irregolare. — No, volevo dire che dovrei portare qualcosa che possa servirmi come prova per l’articolo. Un videoregistratore portatile?

— No. Ci faremmo notare. Quando ci vedremo, ve lo dirò io dove potrete trovare le prove. — Cole interruppe la comunicazione. Lo schermo si spense. Uscì alla luce vivida del sole, strizzando gli occhi. Si era abituato a vivere di notte; il sole gli bruciava gli occhi, li faceva lacrimare. Sbadigliò. Non aveva dormito abbastanza. S’incamminò su per la collina, cercando di darsi l’aria dell’uomo d’affari in cerca di un ristorante cinese.

Camminò in salita tra la folla massiccia del mezzogiorno di domenica, perso in un flusso di turisti lento come la lava. Sulla sinistra, una parata di camicette senza maniche e occhiali da sole; sulla destra, le auto che rombavano, che riempivano l’aria coi clacson. L’aria calda sapeva di sudore, dopobarba, svariati profumi e deodoranti, pesce, e aromi di strane spezie dai negozi di gastronomia cinese. Venditori ambulanti offrivano souvenir e gelati, ripetendo all’infinito la nenia di ogni giorno d’estate a Chinatown: — Un bel gelato fresco!

Sudato, oppresso dal vestito troppo pesante, raggiunse Broadway e si fermò, con un sospiro, all’ombra di un tendone di fronte al ristorante Da Luigi. Le spalle rivolte a una rosticceria, scrutava con finta indifferenza la folla di persone che passavano in un senso e nell’altro sul marciapiedi. Vedeva la porta d’ingresso del ristorante, ma aveva il sole alle spalle, e la luce rendeva bianchissima, impenetrabile, la vetrina. Comunque, Barnes non poteva essere già arrivato.

Lontano dalla corrente della folla, si sentiva esposto, troppo visibile. Fermo in piedi, si strusciava le mani sui pantaloni. Era nervoso e spaventato, e se ne accorse, e divenne ancora più nervoso e spaventato per il timore di attrarre chissà quali sospetti. La sua tensione interna saliva paurosamente. Dovette impedirsi parecchie volte di girarsi a guardare dietro le spalle.

Un’auto della polizia percorreva lentamente la strada. Le mani di Cole si strinsero a pugno.

Restò immobile, fingendosi sicuro di sé. L’auto passò, ma il suo nervosismo non fece che aumentare.

Per distrarsi, si mise a pensare a Catz. In quella zona, giorni prima, erano venuti a sedersi in un caffè, ognuno preoccupato per l’altro. Sorrise leggermente, ricordando la notte che era seguita. Non era poi così vecchio…

Ti sta usando, gli aveva detto lei.

Cole non aveva più voglia di pensare a Catz.

Senza nessun motivo particolare, nessun motivo cosciente, si scoprì a guardare due uomini dall’altra parte della strada, sull’angolo vicino al ristorante italiano. Uno aveva una camiciola rosso-azzurra a fiori e una macchina fotografica appesa al collo. Indossava calzoncini da bagno e sandali. Era un uomo robusto, e giovane, e a Cole parve strano che si vestisse a quel modo, come il classico turista di mezza età. Accanto a lui, un uomo alto con occhiali scuri, calzoni a strisce, e una giacca che, come quella di Cole, era troppo pesante per quel clima. C’era qualcosa di strano nella sua posa. Cole lo scrutò meglio. Sembrava che fosse piegato verso sinistra, col fianco destro rivolto a Cole; e la posizione del corpo era talmente inclinata che avrebbe dovuto cadere. Cole restò a guardarlo, il viso puntato sull’uomo; le lenti azzurre nascondevano la direzione del suo sguardo. L’uomo girò leggermente la testa verso destra, a guardare Cole. I suoi occhi si posarono un attimo su Cole, e Cole ebbe l’impressione che l’altro distogliesse lo sguardo troppo in fretta. In quella prospettiva, Cole scoprì che l’altro si appoggiava a un bastone. Ma era un uomo un po’ troppo giovane per usare il bastone, decise. E un terzo uomo si unì ai due.

Il terzo uomo, che indossava un completo blu e occhiali scuri, raggiunse gli altri due con l’atteggiamento del vecchio amico, ma non disse niente. Nemmeno ciao, a meno che non l’avesse detto senza muovere le labbra. E a Cole parve che tutti e tre, a turno, guardassero dalla sua parte.

Ora respirava pesantemente. Il sudore gli scendeva giù per il pomo d’Adamo e il collo. “Chi sono quei tre?”

Cole aveva l’impressione di aver già visto l’uomo col bastone: non dal viso, ma dalla sua corporatura, dal taglio delle spalle, dall’angolatura del mento. Era come uno di quei ricordi vaghi che restano dopo un sogno. Dove l’aveva già visto?

Il bastone. La gamba sinistra rotta. L’uomo stringeva il bastone con l’impaccio di chi ha poca pratica. Muoveva di continuo la mano che lo serrava, insicuro. La gamba sinistra… Uno di quei vigi della casa di Berkeley dove Catz era prigioniera era stato colpito alla gamba sinistra. L’unico che fosse sopravvissuto. L’unico in grado di riconoscere Cole.

Cole si mise a correre verso un taxi che stava svoltando in Sutter Street.

Una donna che spingeva un bambino grassoccio su una carrozzella sbarrò di colpo il cammino a Cole. Lui le volò quasi addosso, si scusò, si spostò di lato; il taxi era scomparso. Qualcuno gli batté sulla spalla. Cole ruotò su se stesso, cercò di estrarre la pistola, già sicuro che lo avrebbero colpito. Barnes gli sorrise. — Un po’ nervosetto, eh? — disse.

Cole guardò verso il ristorante. I tre vigi si erano spostati; li vide incamminarsi, con falsa giovialità, sul passaggio pedonale.

— Lì c’è un taxi che mi aspetta — disse Barnes. — Pensavo che potremmo… — indicò un taxi giallo fermo in strada.

Cole schizzò via verso il veicolo.

Alle sue spalle, qualcuno urlò: — Ehi! — E non era la voce di Barnes. Cole afferrò la maniglia della portiera posteriore del taxi, la spalancò. L’autista disse: — Guarda che ho già un cliente…

— Tutto a posto. Siamo insieme — disse Barnes, accomodandosi vicino a Cole.

— Per favore, parti subito! — disse Cole. A occhi spalancati, guardò il poliziotto che arrivava di corsa da dietro. Pregò che l’autista non vedesse l’agente che agitava le mani per ordinare di fermarsi. Il taxi puntò il muso verso la strada, s’infilò nel traffico incessante di veicoli, passò a un semaforo col giallo, proseguì per Broadway. — Andiamo a… ehm… Coit Tower — disse Cole, scegliendo una destinazione a caso. L’autista annuì.

— Presumo che non fossimo soli — disse Barnes.

Cole annuì. — Forse non lo siamo nemmeno adesso. Ci inseguiranno.

Barnes si lasciò sfuggire un sospiro. — Ragazzo, spero che non siate pazzo.

— Sono pazzo — ribatté, indifferente, Cole. — Ma vi racconterò lo stesso la verità.

— Ma… quelli come hanno fatto a sapere dove trovarci?

Cole ebbe una smorfia. — Questo volevo chiederlo a voi.

Barnes inarcò le sopracciglia. — Forza.

— Be’, il Tif è dappertutto, letteralmente. È qui con noi anche su questo taxi… — Indicò il terminale elettronico del Tif sul cruscotto. — E, uh, secondo voi com’è possibile andare in giro a fare domande, domande pericolose sul loro conto senza attirare l’attenzione?

— Ma come facevano a sapere in che posto ci…? — Barnes fissò Cole, spalancò la bocca. — Il mio videotelefono. Probabilmente è sotto controllo.

Cole annuì. — Probabilmente da molto tempo.

Adesso stavano risalendo colline, aggiravano palazzi, alberi con le foglie annerite dallo smog, diretti al parco della Coit Tower.

Sulla strada battuta dal sole, un taxi li seguiva. Cole si girò a guardarlo per un po’. Dietro l’autista si intravedevano tre figure. — Forse — disse, tornando a guardare in avanti — è meglio che vi dica tutto subito… Per prima cosa, Rufe Roscoe ha registrato su videonastro tutte le riunioni più importanti fatte con i suoi uomini.

Barnes si grattò la fronte rugosa. — Non è una mossa troppo intelligente.

— Lo so. Così pare. Anche se potrebbe avere uno scopo preciso. A ogni modo, tiene i nastri in una camera di sicurezza, e se qualcuno riuscisse a ottenere un’ingiunzione per entrarci, un’ingiunzione firmata dal procuratore distrettuale, si potrebbe smascherare tutta quanta l’organizzazione…

Cole s’interruppe. L’autista li stava osservando nello specchio retrovisore. Il viso rotondo del nero, i suoi occhi duri, infossati, riflettevano un sospetto totale. — Che diavolo state combinando, voi due? — disse in fretta l’uomo. I suoi occhi guizzarono dallo specchietto alla strada, e di nuovo allo specchietto.

— Fatti gli affari tuoi — abbaiò Cole.

Il taxista scosse la testa. — Ehi, voi due avete i soldi per pagare o no? Da come parlate, sembrate matti. L’altra mattina, due tizi che parlavano proprio come voi mi hanno fatto andare alla Coit Tower e mi hanno pestato a sangue e mi hanno costretto a dargli un fottuto orologio che avevo da dodici anni…

— Senti, amico, è improbabile che ti succeda due volte la stessa cosa — ribatté Cole, stanco.

Il taxista fermò. Cole si girò a guardare: anche l’altro taxi si era fermato.

— Pagatemi quello che mi dovete fino adesso, poi io vi porto alla Coit e mi pagate la differenza. Ho una sensazione… Lo capisco sempre quando la carta di credito di qualcuno è scaduta. Me lo sento nella pelle — disse testardamente l’autista.

Barnes grugnì, estrasse la carta di credito dal taschino della camicia da golf mal stirata. Premette il pollice sull’apposito spazio riservato al proprietario della carta, lasciò un’impronta momentanea, e passò la carta all’autista grassoccio. Il nero la infilò nel terminale e aspettò. Il minuscolo schermo disse: CONTO CORRENTE ESTINTO. Cole e Barnes fissarono la scritta, stupefatti.

— Ma ho duemila crediti sul mio conto! — urlò Barnes. — Appena stamattina ho pagato la colazione…

Cole scosse la testa, rassegnato. — Siete condannato. Hanno scoperto i vostri rapporti con me. Mi odiano.

— Senti un po’, amico… — attaccò l’autista, furibondo; ma s’interruppe, restò a guardare dal finestrino posteriore, oltre i due passeggeri. — Chi cazzo sono quegli elementi lì? Ehi, quei bastardi hanno la pistola!

Barnes si gettò sul pavimento del taxi. La mano di Cole corse alla sua pistola. La estrasse e restò a fissarla, chiedendosi se sarebbe stato capace di usarla un’altra volta. Si guardò attorno, disperatamente. Era un banale viale alberato; alti palazzi condominiali, alcuni con le facciate coperte d’edera, sorgevano sui due lati della via. A una finestra c’era un uomo che li guardava; quando il suo sguardo incrociò quello di Cole, tirò le tende. I tre uomini erano forse una decina di metri dietro il taxi, e due cominciavano a correre; l’uomo che si lasciarono alle spalle li seguiva zoppicando appoggiandosi a un bastone. Erano tutti e tre armati.

Conscio che non sarebbe stato capace di usare di nuovo la pistola, Cole la puntò alla testa dell’autista, che aveva gli occhi strabuzzati e sudava, e urlò: — Scendi e taglia la corda!

Il nero obbedì. Scese, gridando: — Vi venga un accidente, figli di puttana senza un centesimo! — Cole balzò sul sedile anteriore, dietro il volante, gettò la pistola sul sedile e mise in marcia. Schiacciando l’acceleratore, fece compiere all’auto un’inversione a U, stringendo i denti sotto la pressione della forza centrifuga, e si gettò contro i tre uomini che adesso si trovavano a tre o quattro metri dal cofano. Uno si lanciò di lato, un altro alzò quella che sembrava una Luger per sparare direttamente al parabrezza. Cole chiuse gli occhi sulla fiammata e sul vetro che andava in frantumi; qualcosa lo colpì alla guancia. Premette fino in fondo l’acceleratore, senza riaprire gli occhi. Due tonfi sulla macchina, le ruote che passavano sopra qualcosa di molle; un altro sparo di lato. Cole sentì il finestrino posteriore sinistro esplodere, udì un gemito dal sedile alle sue spalle. Aprì gli occhi in tempo per vedere l’auto della polizia che si sistemava di traverso sulla strada. Senza riflettere, sterzò sulla destra; qualcuno schizzò via dal marciapiedi; ci fu un colpo spaventoso quando l’auto, sobbalzando, salì sul marciapiedi. Continuando a guidare con le due ruote di destra sul marciapiedi, aggirò la coda della macchina della polizia che bloccava la strada e svoltò l’angolo. Da diverse direzioni cominciarono a ululare sirene…

“Le sirene sono la musica di sottofondo della mia vita” pensò Cole.

La strada correva via a una velocità folle; le auto sulla corsia di sinistra facevano strillare i clacson; le macchine che aveva davanti deviavano a destra e a sinistra, per evitare il veicolo impazzito. Cole teneva il clacson premuto, per avvertire tutti di togliersi di mezzo. Dall’autoradio del taxi uscivano scariche elettriche e un misto di voci. Guidando con una sola mano sul volante, sperando nella buona sorte ogni volta che superava uno stop, Cole ebbe un’idea. Protese la destra verso il microfono dell’autoradio, premette un pulsante e urlò: — Città! Non puoi intervenire materialmente, però riesci a parlarmi! Parla con loro! Non puoi passare informazioni sbagliate alla polizia? Levameli di torno! Fregali! Fa’ finta di essere un operatore della Centrale!

— Sì… — gli rispose una voce familiare, frammista ai messaggi confusi che uscivano dall’autoradio.

E poco dopo l’ululato delle sirene svanì. L’aria che entrava dal parabrezza distrutto lo schiaffeggiava in viso; ai suoi piedi, frammenti di vetro tintinnavano. Cole raggiunse una stazione della metropolitana. Accostò, spense il motore, si appoggiò all’indietro sul sedile, col fiatone, tremante. Il suo corpo era pieno d’adrenalina. Avvertì un capogiro, passò subito. Si ricordò di Barnes. Rise, nervosissimo. — Ehi, ehi, Barnes… Gesù se avevo paura… Però ho guidato da campione, no? Cristo, uno non sa mai di cosa sia capace finché…

S’interruppe. Gli era tornato in mente il colpo che aveva distrutto in finestrino posteriore. E il gemito che aveva udito. Cole non si girò. Semplicemente, non riusciva a costringersi a guardare. — Barnes? — disse, con voce spezzata. — Oh, Dio, mi dispiace. Mi dispiace, Barnes.

Alla fine dovette guardare, perché da un momento all’altro qualcuno poteva lanciare un’occhiata in macchina e vedere il corpo sul sedile posteriore. Il taxi si trovava in un vicolo dietro alla stazione. Ma anche lì poteva passare qualcuno. E forse Barnes aveva bisogno di entrare in ospedale.

Cole si girò a guardare.

La testa di Barnes era spappolata, non esisteva più.

La cosa che lo spaventò maggiormente fu che lo spettacolo della morte violenta non lo faceva più stare male.

Scese dal taxi e s’incamminò, distrutto, esausto, verso la metropolitana.

Cole lasciò che il telefono all’altro capo del filo continuasse a squillare, anche se aveva già squillato almeno trenta volte.

Un clic, una voce insonnolita. — Sì?

Il cuore di Cole sobbalzò. — Oh… Uh… Catz?

— Stu?

— Sì… Perché non accendi lo schermo?

— Oh, uhm… Il video è rotto. Questo telefono sta andando a pezzi.

— Tu mi vedi?

— No…

Cole si chiese se lei non accendesse il video semplicemente per non mostrargli l’uomo che stava nel suo letto.

— Allora, cosa succede? — chiese Catz.

Cole rise senza nessuna allegria. — Non so proprio da dove cominciare. Ehi, mettiti l’auricolare.

— Okay.

Allora era con qualcuno. Se no, gli avrebbe risposto che l’auricolare era inutile. “Non sono affari miei.”

Parlando meccanicamente, in fretta, Cole le raccontò quanto era accaduto da che lei era partita.

Quando ebbe terminato, gli rispose il silenzio.

Alla fine, fu lui a dire: — Be’, e a Chicago come va?

Quando Catz riprese a parlare, lui capì che stava piangendo. — Ti venga un accidente, Stu. Sei chiuso in una gabbia di matti. Adesso metti sotto la gente con la macchina, e ovunque vai ci sono sparatorie, e lui ti ha convinto a mettere bombe che non sai nemmeno cosa faranno. Mi dai la nausea, uomo.

— Sei soltanto irritata — ribatté immediatamente Cole — perché ti ho svegliata alle quattro di notte. Lì da te sono le quattro, no?

— Accidenti a te, Stu.

Nella pausa che seguì, la linea telefonica emise un sibilo.

Finché Cole non disse, travolto dall’amarezza: — Catz, ho una paura fottuta. Ma non posso andarmene. Ho bisogno di te. Ti prego…

— No. Vattene da lì. Lascialo. Ti sta usando. Non voglio che tu perda anche l’ultima briciola di te stesso… È ovvio, no? Insomma, Città ha paura che il concentramento urbano si spezzi, che la gente si sparga per tutta la nazione quando i terminali multipli e il Tif renderanno superato lo stato di cose attuale. Sa che le città sono superate. La faccenda del crimine organizzato gli serve come scusa, ma farebbe esattamente le stesse cose anche se tutto fosse legale. È arrivato il momento che le città muoiano, Stu, e tu devi andartene, uomo, prima di esserne travolto.

— Non posso e non voglio! — urlò Cole, in un sussulto di rabbia. — Ho bisogno di te, ma ho bisogno… — S’interruppe. Un suono strano… il segnale di libero.

OTTTTTO!

L’appartamento puzzava, ingombro com’era di vestiti sporchi, contenitori di cibo e lattine vuote; perversamente, Cole era felice del fetore. Nel suo stato d’animo, ogni ulteriore dato negativo era il benvenuto.

Grazie a Dio, era sera.

Aveva trascorso tre giorni senza dormire un minuto. Era la sera di mercoledì, e lui aveva atteso impaziente che la giornata finisse; non si sentiva più a suo agio quando Città non c’era…

Passeggiava su e giù lungo la parete di vetro, stringendo le mani, fermandosi ogni tanto a dare un’occhiata dal tendaggio… Il sole era proprio tramontato? Sì, sì, era tramontato.

E Cole cominciò a sentirla: un’oscillazione lenta della Presenza, un aumento della frequenza d’onda, qualcosa che gli risaliva nella spina dorsale, che accendeva nella sua testa le immagini delle cianografie: i percorsi neurologici della città sovrapposti ai suoi.

— Cole…

Cole raggiunse il televisore, si accovacciò davanti all’immagine elettronica di Città. — Cole — ripeté Città, come assaporando quel nome. — Stanotte non avventurarti in città; devi riposare. Domani ti aspetta un viaggio. Fuori città.

— No! — Cole si rizzò in piedi, tremante. — No… non valgo più niente… quando mi allontano da te… Credo che andrei in pezzi. Una settimana fa avrei potuto. Ma adesso le cose sono diverse. — Corrugò la fronte, cercando di capire in che senso le cose fossero diverse.

— Adesso siamo più vicini l’uno all’altro, è vero — disse Città, esprimendo ciò che Cole aveva tentato di tradurre in parole. — Ma devi partire, adesso che Barnes è morto. Ti mando a parlare col viceprocuratore distrettuale.

— Io… Senti, non potremmo fare in modo di farlo venire qui? Qui riesco a fare meglio tutto. Sempre. Persino di giorno… L’altro giorno sono riuscito a guidare quell’auto come… come un cascatore professionista. Perché adesso ti sono molto più vicino, e capisco infinitamente meglio quanto le strade e le macchine che corrono per strada siano una parte di te. Invece, fuori città…

Cole si arrese. Città era inflessibile. Inutile discutere.

— Devo… — disse Cole, esitante, allontanando gli occhi dall’espressione di accusa degli occhiali che lo fissavano sullo schermo. — Devo, uh, andare di giorno?

— Temo di sì. Sono le ore migliori per trovarlo. Ho già preso appuntamento a nome tuo. Il viceprocuratore ha l’impressione che tu sia qualcun altro. — Città quasi sorrise. — Un pezzo grosso.

— Ma… — Cole si mise a gesticolare vivacemente: gli era venuta in mente un’obiezione valida a quel viaggio. — Ma io non posso andare all’ufficio del procuratore distrettuale perché ricercato dalla polizia, e con tutto il casino che mi è successo saranno senz’altro state avvertite tutte le autorità di questo stato. Anche se mi mandi sotto falso nome, è probabile che qualcuno mi riconosca. In ogni caso, parlandogli dovrò per forza rivelargli chi sono, per rendere credibile il mio racconto… Bisogna pur poter dimostrare la propria identità, se si vuole che un tribunale accetti una testimonianza.

— Vedo che non segui i notiziari — disse Città.

Cole arricciò il naso. — Non li ho più guardati. Non voglio sentir parlare delle…

— Delle sparatorie? Non devi preoccuparti. Nessuno ne ha parlato. Hanno semplicemente accennato a lotte interne fra bande rivali, una cosa normalissima per tutti. Di te non si è fatta parola. All’interno della polizia, pochi sanno chi sei. Pensaci. Non sono tutti corrotti. C’è gente della stoffa di Barnes sia fra i poliziotti sia fra i giornalisti. Immagina che ti arrestino e che qualcuno del genere ti interroghi e creda alla tua storia, almeno quanto basta per rivolgersi alle autorità federali. Immagina che ci si mette di mezzo l’Fbi… Il Tif non vuole in modo assoluto che tu deponga, che testimoni. I poliziotti che sanno di te hanno ricevuto l’ordine, da domenica scorsa, di spararti a vista, che tu opponga resistenza o meno. Troveranno sempre una scusa.

— Tengono nascosto tutto? Tutti quei morti? — chiese Cole. Ma non era sorpreso.

Città si limitò a fissarlo.

Alla fine, Cole annuì. — Dove e quando?

— Sacramento, palazzo della magistratura di stato, stanza quattro, tre del pomeriggio. Partirai con il treno di mezzogiorno.

— Ma cosa gli racconto?

— Nella stessa cassetta di sicurezza dove hai trovato la bomba ci saranno un biglietto e una valigetta. Dentro c’è la trascrizione di uno degli incontri più importanti registrati da Roscoe, più uno spezzone di videonastro per riscontro. Dovrebbe bastare a metterli in moto, anche se di per sé è tutto materiale inutilizzabile come prova, dato che è stato ottenuto illegalmente.

— Ottenuto come? — chiese Cole, speranzoso. — Voglio conoscere l’uomo che mette la roba nella cassetta di sicurezza, che te la procura. Potremmo aiutarci a vicenda… e parlare.

— No — rispose Città, mentre la sua immagine s’indeboliva. — Non è un uomo. È un autoguardiano. Solo una macchina fredda. Avreste poco in comune.

— Non ne sono certo — mormorò Cole mentre l’immagine di Città svaniva dallo schermo. Solo una macchina fredda.

Cole fu lieto di avere un biglietto di prima classe, con cuccetta. Perché, dal momento in cui si era allontanato dalla portata della coscienza di Città, avvertita solo a livello subliminale ma onnipresente, si era sentito male. Persino lì, nell’ombra oscillante, confortante, della cuccetta, era tormentato. Si girava da un fianco all’altro; un attimo era preda della claustrofobia, l’attimo dopo si sentiva completamente esposto. Soprattutto, si sentiva profondamente solo. Il suo stomaco era un pozzo di dolore; bestemmiò fra sé per tacitare i discorsi inconsulti che gli nascevano dentro, il bisogno a stento domato di urlare: “Fermatevi! Voglio andare a casa! A casa!”.

— Merda — disse ad alta voce, masticandosi un’unghia e fissando gli angoli in penombra del piccolo compartimento — sembro un bambino. — Cercò di trarre conforto dal chirr-click-chirr-click regolare delle ruote del treno a elettricità. Aveva bisogno di bere qualcosa. Doveva restare lucido per il colloquio. Ma gli sarebbe stato utile stordirsi un poco. Soltanto un poco. Il vuoto che avvertiva dentro sembrava risuonare a ogni vibrazione del treno, ricordandogli dolorosamente: Sei in un luogo estraneo, Cole, un luogo estraneo, Cole, un luogo estraneo, Cole…

Si scosse rabbiosamente, gettò i piedi giù dalla cuccetta, aprì la tenda che la chiudeva, avanzò traballando nello stretto passaggio in mezzo alla fila di cuccette. Si avviò verso il vagone bar, pensando: “Solo un bicchierino o due. Qualcuno mi offrirà da bere”.

Nella piattaforma rumorosa, percorsa dall’aria, che univa le due carrozze, incontrò un uomo con la barbetta a punta, pallido in viso, basso e magro. Gli occhi nascosti dagli occhiali attrassero l’attenzione di Cole: le lenti da sole gli ricordavano Città. I capelli dell’uomo erano corti, e ai lati della testa erano stati tagliati in modo da formare con la pelle nuda croci di Malta. Quando Cole entrò nella piattaforma, l’uomo nascose qualcosa nella giacca militare. Cole si fermò a scrutarlo. Fra i due si svolse un dialogo silenzioso, e l’uomo si rilassò. Tolse la mano dal davanti della giacca, permettendo a Cole di vedere il flacone di pastiglie che stringeva con dita pallide. Non si erano mai incontrati, ma si conoscevano già: Cole era l’acquirente, l’altro il venditore. L’istinto della strada aveva permesso a entrambi di identificare l’altro all’istante, anche se erano anni che Cole non prendeva droghe. — Qualcosa da vendere? — chiese Cole, dimenticando per un attimo che non possedeva più un conto corrente.

— Trilithum — rispose l’uomo. — Tranquillanti a effetto ritardato. Quattro creditodollari l’uno.

Cole rifletté. Non aveva conto corrente né soldi, niente.

Però aveva un orologio d’oro che aveva trovato in un cassetto dell’appartamento. Un modello costoso, digitale, con calcolatrice e trasmittente incorporate. — Ho soltanto questo — disse Cole, togliendosi l’orologio e passandolo all’altro.

Il viso dell’uomo non ebbe la minima reazione, ma la sua voce era troppo indifferente quando disse: — Be’, okay. Direi che vale tre pillole. — Anche se sapeva benissimo che ne valeva più di trecento.

Cole scrollò le spalle, annuì. L’uomo gli diede tre trilithum, che Cole sistemò nella scatoletta di plastica del suo ultimo sigaro. Poi tornò indietro, raggiunse il distributore d’acqua, ingoiò tutt’e tre le pillole. Sdraiato sulla cuccetta, si mise a pensare: “Come farò ad arrivare dalla stazione al palazzo della magistratura? Non ho i mezzi per pagare un taxi”.

Restò lì sdraiato, affondato in una deliziosa nebbia di stordimento.

Arrivato, scoprì che dalla stazione si poteva giungere a piedi al palazzo della magistratura, distante poco più d’un chilometro. Insonnolito, andando ogni tanto a sbattere contro le persone, Cole percorse la strada avvolto in una foschia d’intorpidimento. La valigetta penzolava, appena trattenuta da dita molli. Scrutando ripetutamente le targhe delle vie, poi il foglio con l’indirizzo che stringeva nel palmo sudato, raggiunse lentamente il complesso di edifici che ospitavano gli uffici statali.

Come un sonnambulo, Cole per poco non precipitò a terra nell’ufficio della segretaria del viceprocuratore distrettuale. La segretaria lo scrutò da cima a piedi con espressione sdegnata. Cole le sorrise (sperava che fosse un sorriso; i suoi muscoli facciali non funzionavano troppo bene) e farfugliò: — Scusate. Sono un po’ giù di corda. Ho preso… delle pillole per il raffreddore e mi hanno steso.

La donna annuì lentamente. — Sì, succede.

— Volete dire a Faraday che sono arrivato?

— Glel’ho già detto, signore. Vi chiamate Stuart Cole e siete un investigatore speciale della tesoreria di San Francisco, no?

— Sì — rispose Cole, barcollando. Non ricordava di averglielo detto, ma evidentemente lo aveva fatto. Gli scoppiò in testa un’idea: lo spacciatore aveva detto che si trattava di tranquillanti a effetto ritardato. Quindi, con ogni probabilità l’effetto vero cominciava solo in quel momento… Cole disse sottovoce: — Merda impestata. — Sperava di riuscire a cavarsela fino alla fine.

— Forse vorreste sedervi… — cominciò la segreteria, ma la voce che uscì dall’altoparlante nascosto nella sua scrivania disse: — Fatelo entrare.

La segretaria tornò a dedicarsi al suo terminale dati, indicandogli col pollice la porta che c’era alla sua destra.

Cole superò la scrivania con molta incertezza, cercando di orientarsi. Le gambe erano lontane, lontanissime. Gli oggetti ai margini del suo campo visivo sembravano fondersi. Superò la porta ed entrò nell’ufficio di Faraday. L’uomo dietro l’enorme scrivania di cromo e legno sintetico era avvolto nella nebbia. Cole strizzò gli occhi, ma la nebbia s’infittì. Il trilithum. Non riusciva a vedere bene Faraday, ma ebbe l’impressione di un uomo dai tratti angolosi, smilzo, coi capelli neri tagliati alla neopompadour.

— State bene, signor Cole? — chiese Faraday con voce da ragazzino.

— Sì… Ho un brutto raffreddore… Sono stati i medicinali, sapete com’è. Ah… — Cole socchiuse gli occhi, tentando di distinguere il vero Faraday dagli altri due nella proiezione tripla che vedeva. Strizzò gli occhi e si concentrò: i tre Faraday divennero uno solo. Cole avanzò con la grazia di un elefante, gettò la valigetta sulla scrivania di Faraday e, con dita tremanti, riuscì ad aprirla e a estrarre le carte e la scatola con lo spezzone di microfilm; poi mise il tutto sulla scrivania, sotto il naso dell’altro. — Sarà meglio venire subito al sodo — disse. — Non sto bene. Qui avete le prove di… — Cercò le parole. — Della corruzione nella polizia di San Francisco e nella sede di San Francisco del Tif. Anzi, Rufe Roscoe…

— A dire il vero — lo interruppe frettolosamente Faraday — conosco la natura delle vostre accuse. — Si mise a sfogliare la trascrizione della videoregistrazione. Le sue sopracciglia si alzavano e abbassavano di pagina in pagina.

Fu solo molto più tardi che Cole si chiese come facesse Faraday a conoscere la “natura” delle sue accuse.

— Bene — disse Faraday, annuendo per dimostrargli che era doverosamente impressionato dopo quello che a Cole parve un esame terribilmente breve del materiale — tutto questo richiede indagini approfondite. Dedicherò il resto del pomeriggio a questi documenti, e stasera conferirò con i miei collaboratori. Adesso… volete scusarmi? Se devo studiare ciò che mi avete portato, bisognerà che cominci subito; temo di essere terribilmente occupato, in questi giorni. Ah… potete tornare domani?

Cole aprì la bocca per ribattere, poi la chiuse senza aver detto niente. Domani? Significava dover trascorrere un’altra notte e parte di una giornata lontano da Città: una prospettiva agghiacciante. Ma non aveva scelta. Per prendere tempo, lasciò vagare lo sguardo nell’ufficio. Attraverso la nebbia che lo intorpidiva riuscì a vedere un grande schermo di comunicazione e, accanto allo schermo, un armadietto metallico, una macchina, probabilmente.

— Signor Cole?

Cole fissò Faraday, perplesso. — Oh… oh, sì, domani, d’accordo.

Girò di colpo sui tacchi, e per poco, travolto dall’accelerazione, non precipitò sul pavimento. La mancanza di sonno, unita al trilithum, lo aveva reso instabile come una marionetta. Recuperato l’equilibrio, si lanciò verso la porta, la superò, arrivò in sala d’attesa; e si fermò immediatamente. Cosa aveva dimenticato? La valigetta? Poteva riprenderla domani. Qualcos’altro. Si era scordato di stabilire l’ora del loro secondo incontro.

— Signore? — La voce della segretaria, alle sue spalle. Con un che di sprezzante. Probabilmente la donna pensava che lui fosse ubriaco.

Gli venne voglia di ridere. Poteva andare a sederle in grembo e farle sentire il fiato, per assicurarla che non aveva bevuto… Si riprese, scosse violentemente la testa. «Torna dentro e fissa un’ora per l’appuntamento», si disse. Voltandosi con estrema attenzione, traversò le sabbie mobili della moquette, rientrò nell’ufficio del viceprocuratore.

Faraday, fermo davanti alla macchina grigia (inserita nella parete: sporgevano soltanto un’apertura e una fila di comandi), non alzò gli occhi quando lui entrò. Stava inserendo qualcosa nella macchina, e intanto parlava allo schermo sulla sua sinistra. Sullo schermo, intento a fissare Faraday, c’era un viso, ed era il viso di Rufe Roscoe. Roscoe stava dicendo: — Se sei sicuro che arriveranno in tempo, non lasciarti prendere dal panico. Basta far scomparire il materiale… — S’interruppe. A San Francisco, aveva alzato gli occhi sul proprio schermo e aveva visto l’immagine televisiva di Cole accanto a Faraday. — Puttana miseria.

Cole guardava Faraday. Il viceprocuratore distrettuale stava inserendo la trascrizione di Cole nella macchina, che quasi sicuramente era una distruggidocumenti. “Se ne tiene una qui in ufficio” pensò Cole. “L’amico è ben preparato.” — Probabilmente avete intenzione di diventare procuratore… — disse ad alta voce.

Non vide gli uomini che lo afferrarono da dietro, ma lottò tanto da costringere uno a colpirlo alla nuca. E mentre piombava, felice, nell’incoscienza, pensò: “Sono poliziotti, e mi uccideranno”.

NOVVEY!

Le pareti di cemento della cella sembravano risucchiare ogni calore dal suo corpo. Fuori, la serata era calda. Lì, in una cella della prigione di Sacramento, Cole si sentiva esposto a venti polari. Rabbrividì, allacciò il bottone più in alto della camicia. Non gli avevano dato l’uniforme da prigioniero: per organizzare il finto tentativo d’evasione lo volevano in abiti civili, per distogliere l’attenzione dalla sua permanenza in prigione…

Al tramonto, quando si era risvegliato con la testa che gli pulsava follemente, aveva deciso che non l’avevano ucciso solo perché esistevano troppi testimoni che potevano non essere venduti al Tif. Inoltre, non sarebbe stato prudente permettere al medico legale di scoprire che gli avevano sparato mentre era svenuto. Cole era sicuro che intendessero ucciderlo. Normalmente, un prigioniero in stato d’incoscienza veniva portato all’infermeria della prigione. Invece, non volevano che un dottore ritardasse il suo trasferimento a San Francisco.

Seduto sull’orlo della cuccetta lercia, Cole annuì cupamente. Avrebbero inscenato il tentativo di fuga e gli avrebbero sparato il mattino dopo, durante il trasferimento. Logico.

Si avvolse attorno alle spalle tremanti la coperta ruvida e chiuse gli occhi, mettendosi in ascolto dei suoni smorzati della sera di Sacramento che gli giungevano dalla finestrella a sbarre affacciata sulla strada. Lasciò vagare i pensieri, fu cullato dai suoni striduli della città, trovò conforto nella presenza turbinosa di una città tanto simile alla sua, eppure così diversa. Ma anche lì c’era qualcosa che lui riconobbe: un senso di organizzazione invisibile. Cercò di concentrarsi su quella traccia esile…

— Di qui. — Una voce di donna, dalla porta metallica.

Cole guardò la finestrella a sbarre della porta. Non riusciva a vederla bene. Catz?

Balzò in piedi e corse alla porta, lasciando cadere la coperta sul pavimento.

Ma la donna alla porta era una sconosciuta. I capelli, tinti di rosso e uniti a formare due trecce, le ricadevano da un lato, sulla spalla sinistra, nuda. Il vestito aderentissimo, di un verde acceso, lasciava scoperto uno dei seni, su cui riposava languidamente una mano bianca, con le unghie laccate a specchio. Il corpo della donna era pieno; il volto originalissimo, a forma di cuore, scompariva quasi sotto la tinta blu cupo della carnagione. Gli occhi erano nascosti da un paio di occhiali assolutamente opachi; il che era strano perché la sconosciuta era, chiaramente, una prostituta, e le prostitute non nascondono quello che hanno da offrire… Cole sapeva che era una prostituta, e quella sicurezza non nasceva da deduzioni sul vestito e sul trucco (una voguer avrebbe potuto benissimo divertirsi a imitare lo stile puttana), ma dall’osservazione del suo atteggiamento: la donna era seducente e al tempo stesso insolente. In lei c’era un’altra cosa strana: una sorta di autocoscienza flemmatica, una sensazione di dimensioni nascoste. Cole aveva incontrato solo un’altra volta quella combinazione di attributi. In Città. E Città portava occhiali da sole. E Città poteva manifestarsi tanto sotto forma di uomo che di donna.

— Città? — chiese, timidamente.

Lei sorrise, impercettibilmente. Guardare la pelle del suo viso che si muoveva era come vedere una ripresa al rallentatore di una lastra di marmo che si deforma per effetto di un terremoto. Era dura, dura. — Città? — ripeté Cole, quasi convinto che si trattasse di lui.

Lei scosse la testa. — No. — La sua voce era roca, dispettosa, saggia. — Non sono quel posto. Io sono altrove.

— Come… come hai fatto ad arrivare fin qui?

— In questa città posso andare e venire a mio piacimento. Quasi sempre… Anche qui esiste qualche luogo che non posso raggiungere.

— Non sanno che sei qui? — chiese Cole.

— Non sanno che sono qui… Hanno deciso di ucciderti, Cole.

— Lo pensavo… Non si sono presi il disturbo di leggermi i miei diritti. Nessuna telefonata all’avvocato. Immagino che l’unico motivo per cui non mi hanno ancora ammazzato…

— …è che vogliono scaricare la responsabilità su San Francisco, nel caso dovesse andare storto qualcosa — terminò lei, annuendo.

Cole sputò per terra. — Fin dove si estende l’influenza di Roscoe? — chiese.

— In questo stato, fino a Redding. Ma stanno cercando di infiltrarsi nel Tif dappertutto. A volte ci riescono, a volte no. Avranno presto una grossa sorpresa, se gli altri… gli altri posti si organizzano a dovere.

— Cosa vuoi dire?

— Voglio dire morte. Voglio dire incidenti e ferite mortali e arti spappolati. Voglio dire morte per elettricità e annegamenti. E tutto molto efficiente, molto selettivo. Morte alle persone giuste. — Cole era sconvolto dal suo tono neutro. — Ma per arrivare a tanto dobbiamo coordinarci. Temo che il tuo… il tuo Città non collabori con tutti gli altri. È un tipo ossessivo. Si rifiuta di rilassarsi. La tua amica ti aveva avvertito… Lo so perché lei parla con Chicago, e Chicago parla con me.

— Catz? — chiese Cole. Afferrò le sbarre: aveva le mani sudate.

— Sì. Ha un ottimo rapporto con Chicago.

Tante cose si misero a turbinare nella mente di Cole, si fermarono poco per volta, mentre le implicazioni delle frasi apparentemente distratte della donna prendevano forma. E Cole seppe: — Sei Sacramento.

Lei annuì.

— E tutte le grandi città posseggono… menti coscienti di sé? E possono manifestarsi?

— “A volte” è la risposta a tutte e due le domande.

Cole esalò un respiro lungo, affannoso. — Allora… puoi tirarmi fuori di qui?

— Sì, se mi prometti una cosa.

— Sì.

— Promettimi che cercherai di convincere Città a collaborare con noi alla Spazzata. Lui capirà a cosa alludi… Se fosse rimasto maggiormente in contatto con noi, gli avremmo detto che il tuo viaggio era inutile, che Faraday è venduto…

— Te lo prometto.

Con la dolcezza del bacio di un bimbo, la porta della cella si spalancò.

Il corridoio di cemento era deserto, a parte le falene che svolazzavano. Cole seguì la donna, Sacramento, fino a una parete in fondo al corridoio. E, come tagliando fette di un dolce morbido, Sacramento tolse dalla parete blocchi enormi di cemento, che sotto le sue dita parevano diventare porosi, malleabili. Cole cercò di aiutarla e riuscì solo a sbucciarsi le mani. Per lui, la parete era solida come la più solida delle pareti… Metodicamente, lei smantellò la barriera, ammucchiando i blocchi in bell’ordine in un angolo, finché non ebbe scavato una porta in corridoio.

Poi lo guidò nella notte. Un taxi senza autista li portò alla stazione ferroviaria; il treno di mezzanotte stava per partire.

Sacramento lo salutò baciandolo sulla guancia.

La pelle della guancia di Cole bruciava come se lui l’avesse sfregata con del ghiaccio secco.

Catz.

Lo aspettava sul marciapiedi davanti al suo hotel. Erano le quattro del mattino. La presenza di Città stava diminuendo. L’alba stava illuminando la città muovendosi come il braccio di un oscilloscopio radar. Mentre Cole restava a fissarla muto, il chiarore del giorno si faceva sempre più intenso.

Lui scosse la testa.

Era stato liberato dalla prigione, da una trappola che doveva terminare con la sua morte. E Catz era lì, ed era tornato da Città.

Non poteva durare.

“Allora non sprecare un minuto” si disse, e le corse incontro.

Si abbracciarono. La stanchezza, che pochi minuti prima lo faceva barcollare, evaporò alla vista di Catz davanti a lui nel fulgore del sole del primo mattino, con le ombre azzurrastre che si ritraevano attorno a lei e il vapore della rugiada in evaporazione che si alzava dai suoi stivali neri. Adesso, con le braccia piene di lei, gonfiò le gote per lo stupore della miriade di sentimenti che sentiva risvegliarsi… Catz pareva stranamente piccola, magra, fragile, sotto la giacca di cuoio, in contrasto alla statura monumentale che lui ricordava.

Indietreggiò, la tenne davanti a sé a braccia tese, la guardò. Gli occhi marrone-oro di Catz erano enormi, le pupille dilatate dalle ombre che aveva attraversato. I capelli erano in disordine; non era truccata; qualche cicatrice sulla guancia spiccava enormemente sotto la luce, dandole un’aria adorabilmente tragica. Teneva le labbra serrate, come per impedire alla bocca di tremare, forse per non dimostrargli sino in fondo quanto fosse felice di rivederlo. Indossava un vecchio paio di blue-jeans aderenti, un po’ stracciati, e una maglietta sotto la giacca. Sul marciapiedi, accanto a lei, c’era una borsa di stoffa pesante con una scritta in vernice bianca: ANARCHIA.

Catz annuì in direzione dell’hotel. — Possiamo entrare tutt’e due?

— Sì… — Cole si schiarì la gola. Aveva la voce roca. — Sì. A quest’ora non c’è personale di servizio. La porta si apre con una chiave e un’impronta vocale. È un alloggio che mi ha procurato Città. Ma mi servirà solo per un altro mese, perché poi torna il vero inquilino. — Restava lì a fissarla. Il fresco del mattino gli procurava fitte reumatiche alle nocche. Non riusciva a decidersi a spezzare l’incanto incamminandosi verso l’hotel.

Ci pensò lei. Prima disse, con una certa petulanza: — Gesù, e muoviti — poi si chinò a raccogliere la borsa, se l’infilò a tracolla, si rialzò. — Sono distrutta. Ho fatto il viaggio su un fottuto Greyhound. Sono peggiorati da che ero piccola, fratello. Più affollati. Roba da non crederci.

Un brivido di stanchezza riafferrò Cole. Si frugò in tasca per un minuto intero prima di riuscire a trovare la chiave. Assieme, si avvicinarono alla porta a vetri con serratura di cromo. Cole inserì la chiave e disse: — Inquilino. — Un clic. Tolse la chiave, e la porta si spalancò…

Mentre salivano in ascensore, le raccontò come meglio poteva, disfatto dalla stanchezza, l’incontro con Sacramento. Catz restò affascinata dalla descrizione della donna che era l’incarnazione di Sacramento. — Mi piacerebbe conoscerla — disse, quasi con venerazione. — L’apoteosi delle prostitute.

— Da quello che mi ha raccontato, dovresti essere in buoni rapporti con Chicago. Per cui è probabile che riusciresti a entrare in sintonia con Sacramento. Credo che a te si manifesterebbe. — L’ascensore divorava piano dopo piano. Strano trovarsi in una scatola che correva verso l’alto alle quattro e trenta del mattino. — Come hai fatto a sapere dove sto?

— Chicago ha avuto contatti sporadici con Città. A quanto sembra, San Francisco è un lupo solitario… Hai detto che probabilmente riuscirei a entrare in sintonia con Sacramento? Come a dire che è fuori discussione che tu venga con me. Perché dovresti andartene da qui, come se questo buco fosse chissà quale Eden…

— Ehi, piantala con le prediche! — scattò Cole. — Sono giorni che non dormo… A parte quando sono svenuto per un colpo in testa, e non è che sia stata una cosa molto riposante. Ci vedo triplo, e per il momento non sono pronto per le solite discussioni, a nessuna discussione.

Catz si mise a fissare la porta grigia dell’ascensore. Come intimidita dal suo sguardo, la porta si aprì sull’ultimo piano. Cole guidò la ragazza lungo il corridoio, fino all’ingresso del suo appartamento. Eseguirono un altro rituale di apertura elettronica ed entrarono. Catz trattenne il fiato. — Ugh… Rifiuti!

— Scusa. Lo so che puzza. L’ho fatto apposta. Rifletteva il mio stato d’animo. Credo di… — Respirò a fondo. — Sono stato da cani, senza te.

Lei gli sfiorò dolcemente la guancia con un dito, scosse la testa, affettuosa, triste.

Poi lanciò a terra la borsa e si avvicinò alla finestra, per aprire le tende. — No! — urlò Cole. — C’è già il sole!

Catz lasciò cadere la mano dalla tendina, si girò a fissarlo con uno sguardo di repulsione.

— Vedi, è perché… — balbettò lui. — Sono giorni che non dormo; mi fanno male gli occhi. Non voglio che vengano colpiti dalla luce viva… finché non mi sarò riposato.

Lei decise di non discutere quella spiegazione.

— Forza, allora — disse, avviandosi in camera da letto tra i rifiuti sparsi a terra. — Andiamo a dormire. Sono a pezzi.

— Sì — disse Cole, e la seguì, sollevato di aver schivato una discussione. — Sono distrutto anch’io.

Si spogliarono nella camera da letto in penombra, si sdraiarono sulle lenzuola, crogiolandosi nella reciproca compagnia. A Cole sembrava di affondare nel materasso. Insonnolito, restò ad ascoltare Catz, se la tirò vicino. Non vedeva assolutamente niente nel buio dietro le palpebre.

— …Insomma, mi è sembrato strano — stava dicendo la ragazza — che Città mi abbia fatto sapere, attraverso Chicago, dove trovarti. E che non abbia cercato di fermarmi quando sono tornata. Credevo che mi volesse fuori dei piedi, prima… Sembrerebbe quasi che si sia un po’ lasciato andare. Ma forse è una cosa temporanea. Forse ci concede qualcosa perché sta per chiederci molto di più… Oppure sa che non posso fermarmi a lungo. Devo tornare a cercare di concludere il contratto per il disco…

— Tutte ipotesi — mormorò Cole nel cuscino, umido per la vicinanza delle sue labbra spalancate.

— Insomma, per quanto tempo ancora, Stu? — riprese Catz, con uno sbadiglio. — Per quanto tempo puoi andare avanti così? La gente non è fatta per vivere come hai vissuto tu ultimamente, uomo. È una situazione che non può durare, credimi. Tu farai la fine di tutti quegli idioti che si vedono per strada, i poveretti che s’incontrano tanto spesso, gli schizofrenici completamente partiti che urlano a persone che non esistono e discutono coi lampioni e sbattono le braccia come pipistrelli… Insomma, prima o poi dovrà finire. Non puoi restartene qui per sempre. E… continuo a pensare a quello spettro di te stesso che hai visto. Insomma, dove finirà, Stu?

Lui non le rispose. Preferì lasciarle credere che si era addormentato. E un minuto più tardi dormiva sul serio.

Dormirono per tutto il giorno. Quando il tramonto oscurò le finestre, si alzarono, fecero il bagno, indossarono vestaglie da camera pulite. Vestaglie da camera di seta azzurra con le iniziali di uno sconosciuto sul taschino.

Per muto accordo ripulirono l’appartamento. Gettarono bracciate enormi di spazzatura nei tritarifiuti. Cole notò che Catz aveva staccato telefono e televisione. Non disse niente: sentiva Città in attesa dietro le finestre con le tende ancora tirate.

Adesso che era sera, era Catz a non volerle aprire.

La ragazza frugò nella borsa, tirò fuori un mangiacassette e qualche cassetta, ne mise su una, e alzò il volume al massimo.

La cassetta era un’antologia di canzoni di diversi artisti, popolari e sconosciuti, vecchi e nuovi. La musica era una presenza senziente che dava alle pareti una risonanza inedita, viva. Il beat, l’eterno intramontabile beat. In quel momento stavano ascoltando un brano della fine degli anni Ottanta: Puttana dell’altro sesso, degli Odds.

Cosa importa se l’idea ti fa stare male,
Per lei e i suoi trucchetti è tutto uguale.
Io l’ho incontrata in un bar pieno d’attrici
Mi ha portato a casa, mi ha mostrato le cicatrici…

Catz ballava, e intanto Cole versava da bere. Cole era troppo inibito per ballare da sobrio. Un crepuscolo caldo stava scendendo negli angoli del soggiorno, i mobili sembravano avvolti da coperte d’ombra. Cole avvertiva la città pulsare tutt’attorno all’hotel: si sentiva l’asse attorno a cui Città ruotava. Versò di nuovo da bere e guardò Catz. La ragazza aveva la vestaglia aperta, ballava con furore maniacale, era bagnata di sudore. Cole ebbe l’impressione che stesse cercando di assaporare gli ultimi sprazzi di gioventù.

Gli Odds continuavano con la loro musica voloce, dura, affascinante; il cantante stava imitando il tono di voce suadente di un venditore di macchine usate:

È meglio di una ragazza vera
Il doppio calda, il doppio leggera
Fa l’amore persino in un parcheggio
Per un po’ di soldi rischia il peggio
È solo una puttana dell’altro sesso
Mi farà ricco, se non sono fesso
Sarà un po’ strano, ma che grande effetto
Se non fai caso ai peli sul petto.
È solo una puttana dell’altro sesso
Merda, solo una puttana dell’altro sesso…

Cole portò da bere a Catz e sedette a guardarla. Nella penombra, la sua pelle bianca sembrava di un azzurro fosforescente; forte e fragile, con la vestaglia che le svolazzava attorno al corpo, era la regina dei vampiri appena risorta. Cole sorrise la sua approvazione…

La canzone terminò, ne iniziò un’altra. Catz si gettò a sedere sul divano accanto a Cole, reggendo con una mano il bicchiere di scotch e coca, con l’altra carezzando il collo e le spalle di Cole. Muovendosi freneticamente, percorreva con le dita il bracciolo del divano.

Cole aveva mandato giù il secondo scotch quando Catz gli strappò il bicchiere di mano e lo scagliò violentemente contro il bar. Mancò per poco l’abat-jour dalla luce rossa, la loro unica illuminazione. Il bicchiere si ruppe, e Catz rise; Cole capì che si era trattato di un gesto di rabbia. Le prese il bicchiere e lo lanciò contro la porta dell’appartamento, ma il bicchiere non si ruppe. Catz rise, si lasciò scivolare in avanti, sulle spalle di lui, schiacciandolo sui cuscini col proprio peso.

Cole, col cervello un po’ annebbiato dal liquore, aprì la vestaglia, e lei aderì al suo corpo. La metà superiore di Cole era morbida, la metà inferiore si concentrava in un nucleo duro, teso, un nucleo che lei chiuse fra le labbra, mentre le mani di Cole seguivano il percorso dei muscoli sulla schiena di Catz, evocavano elettricità dalla sua spina dorsale. Ci fu un’ondulazione reciproca; i loro muscoli oscillarono impercettibilmente sulla stessa lunghezza d’onda, quasi fondendosi. Lei strinse l’asse di Cole con un compasso: le cosce serrate. E per poco lui non venne. Ma Catz balzò a sedere, e il pene eretto andò a sbattere contro la pancia di Cole, e poi lei si mise a cavalcioni su di lui, si mosse lentamente, si lasciò penetrare. La musica era un coltello ritmico, un tuono di contrappunto, un rombo amplificato, e dietro gli accordi delle corde metalliche della chitarra si udiva il cozzare della spada sullo scudo.

Fare l’amore fu una battaglia in tono minore, e la ferocia si trasformò in amore attraverso il sangue versato. E in effetti lei sentì male, e lui sentì male quando lei non volle fermarsi dopo che lui era venuto, quando la repulsione era forte e il suo membro flaccido; ma l’erezione tornò immediatamente, e il trascorrere del tempo portò un entusiasmo rinnovato, e i suoi movimenti fiacchi si trasformarono in una spinta veloce e la spinta veloce in un ritmo sfrenato e, come in una guerra, ci fu una serie progressiva di esplosioni, e urla di angoscia, e poi restarono immobili, sbuffanti, abbracciati dolcemente.

Dopo i minuti del respiro affannoso e delle dolci esalazioni, si staccarono. Catz si alzò per andare a lavarsi.

Ma non sarebbe stata l’unica volta, quella notte. Cole intuì vagamente che nel loro desiderio convulso di accoppiarsi c’era disperazione, c’era il bisogno di fare tutto il possibile nel tempo che restava.

“Domattina” pensò. “Domattina succederà qualcosa.”

Era quasi mezzanotte quando Catz si vestì e uscì per andare a sistemare gli affari della band; mezzanotte era l’ora di maggior lavoro per le persone che doveva vedere. Cole piombò in un sonno esausto.

Alle dodici e trenta fece un sogno. Sognò che le sue braccia discutevano per stabilire quale delle due dovesse considerarsi padrona delle spalle. E le sue gambe battagliavano per il possesso dei fianchi. Ma fianchi e spalle, strillando, ribatterono di essere padroni della propria anatomia; anzi, dovevano essere loro a dominare gambe e braccia, e non viceversa. Mentre le braccia urlavano che dovevano essere loro a decidere della sorte delle spalle e le spalle gridavano i propri diritti sulle braccia, e gambe e fianchi litigavano per lo stesso motivo, si misero a discutere anche lo stomaco e il sesso. Il sesso sosteneva che l’intero corpo spettava a lui, dato che la riproduzione era senz’altro l’imperativo più importante. Lo stomaco ribatté aspramente che tutto quanto il fisico di Cole doveva diventare stomaco, visto che persino l’ultimo degli imbecilli sapeva che nutrirsi era considerato la priorità numero uno in assoluto.

Solo la testa se ne restò in silenzio.

Cole si svegliò, conscio di essere solo (a parte la presenza della città che ruotava attorno all’albergo, attorno a Cole, l’asse umano), alle due di notte. Era sdraiato sulla schiena. Strizzò gli occhi. Era bagnato di sudore, eppure aveva freddo. Perfettamente sveglio, tutti i suoi sensi erano all’erta. Cosa l’aveva destato? La sensazione di qualcosa che gli strisciava sul braccio destro. Deglutì, respirò tre volte di seguito. Odiava in modo totale i roditori. Forse, a corrergli sul braccio era un topo. O, ancora peggio, un ratto di fogna. E se l’avesse morsicato? Cercando di muovere solo il braccio sinistro, protese la mano, accese la lampada che stava sul pavimento, accanto al materasso. Trattenne il fiato e si girò a guardare, sollevando la sinistra per gettare via la cosa che aveva sul braccio.

Non c’era niente. Soltanto il filo di una lampada, con la spina disinserita dalla presa. Il filo di una delle due lampade. Strano che si trovasse lì sul letto. Sul lenzuolo spiegazzato, spiccava come una vena. A terra, spenta, la lampada da cui il filo usciva. “Ma perché sto qui a fissarlo?” si chiese Cole.

Doveva essere stata Catz a buttarlo sul letto, quando era uscita; forse se l’era trovato fra i piedi.

Ma allora, cosa aveva sentito strisciare sul braccio? Un sogno.

Allontanò il filo dal letto e tornò a sdraiarsi. Si sentiva pesante. Stare coricato era un sollievo. Trascorsero altri quarantacinque minuti prima che riuscisse a riaddormentarsi.

Perse coscienza. Gli parve di sciogliersi nel materasso, di fondersi col liquido che scorreva allegramente nelle tubature sotto le strade di Città. Sopra di lui, diagrammi luminosi, case e uffici si denudarono, furono investiti dal bagliore dei neon, lampeggiarono in una coreografia meccanica…

Qualcosa lo svegliò alle quattro. Il suo braccio destro era imprigionato: il filo della lampada gli serrava il bicipite, e la spina affondava i due poli di rame nella sua spalla. Sembravano i denti smussati di un serpente.

Urlò qualcosa e agitò violentemente il braccio, lanciando via il filo. La pelle era cianotica nel punto in cui il filo lo aveva stretto.

Sulla spalla, dove i poli della spina avevano morso, aveva due contusioni, e lì la pelle era diventata assurdamente, malignamente insensibile. Cercò di sollevare il braccio per vedere meglio i segni lasciati dalla spina, ma l’insensibilità si diffuse per tutto il braccio, gli invase la carne; sicché dovette lasciar ricadere il braccio sul letto. Si è addormentato, tutto qui, si disse.

Tentò con tutte le sue forze di muovere il braccio, ma non si spostava di un millimetro.

Si udì gemere, si costrinse subito a smettere. Si alzò, barcollò, sentì in bocca il sapore della bile. Gli sembrava di cercare di camminare su un jet che si fosse lanciato in picchiata; la forza di gravità lo schiacciava verso il pavimento. Riuscì ad arrivare in bagno anche se il suo corpo era paralizzato. I muscoli gli obbedivano a stento, quasi desiderassero correre da un’altra parte e si sottomettessero con reticenza petulante. Barcollò fino al lavandino, frugò tra le cose di Catz con la sinistra (la destra gli pendeva inerte lungo il fianco, un ammasso di carne morta), aprì un flacone di sonniferi. Ne ingoiò sei, senz’acqua. Poi tornò a letto e spense la luce.

“Mi sono mosso nel sonno e mi sono impigliato nel filo della lampada. Avrò avuto un incubo” si disse. “E adesso sto male. Domattina, quando mi sveglierò, sarà passato tutto.”

Piombò nel sonno come un macigno che rotoli da un precipizio.

Ma, nonostante i sonniferi, si svegliò alle sei. I raggi rossastri del sole entravano di sbieco dallo spazio vuoto fra le tendine.

Cole cercò di mettersi a sedere. Non riusciva a muoversi. Allora si guardò.

Il filo era arrotolato attorno al suo collo. Anzi due fili: uno gli stringeva la vita. Riuscì ad alzare la testa sul cuscino e guardò oltre l’orlo del letto, sulla destra. Il filo che si avvolgeva lentamente attorno alla sua gola correva sul materasso, scendeva dal letto, s’infilava sotto il tavolino di vetro; ma non usciva dalla lampada, come lui credeva. Era stato strappato dalla lampada. L’estremità mozza penetrava direttamente nella presa della parete. Cole sentì qualcosa muoversi, mordergli la nuca all’attaccatura del collo. La cosa si fermò lì, ma non ci fu nessuna scossa.

D’altronde (lo capì ragionando in base a un’obiettività isterica), ormai il suo corpo non avvertiva più sensazioni. Le sue membra erano pesanti, morte, possedute.

Indubbiamente, in quel momento una corrente elettrica molto forte lo attraversava, ma lui non poterva sentirla. Indubbiamente. Senza dubbio. Probabilmente. Così pare. Frasi beffarde, assurde, che risuonavano vaghe nel suo cervello in agonia.

Cole emise un gorgoglio e svenne.

Quando rinvenne, era quasi mezzogiorno. Ma lui non sapeva che ora fosse. Non poteva guardare un orologio o una sveglia, perché non poteva muoversi. Sopra di lui si muovevano cose, strisciavano, avanzavano. Fili, fili neri di impianti elettrici, che scivolavano, che lo avvolgevano sinuosamente. Che lo trasformavano.

Città? Un urlo muto. Città!

Nessuna risposta.

E Catz dov’era? Ma gli aveva detto che sarebbe rimasta fuori fino alla sera del giorno dopo. “Tanto meglio che non sia qui a vedere quello che sta succedendo” pensò Cole. “Tenterebbe di interferire. Ma è inutile opporsi.”

Cole sapeva di stare morendo.

A volte, la follia non è un’aberrazione. A volte è una reazione indispensabile. A volte è l’unica via d’uscita.

Esistono alcuni terrori che non si possono affrontare senza l’aiuto della follia. È sempre stato così, e molti lo hanno detto. È una verità che tutti conoscono. Esistono alcuni terrori…

E uno di questi terrori è la paralisi che avanza poco per volta, il tipo di paralisi che sembra dover durare per sempre. Essere intrappolati sotto il peso di una città; essere sepolti vivi; tramutarsi in pietra; congelare… Pensando, vivendo tutto, avvertendo lo smorzarsi progressivo dell’io.

Cole provò le stesse sensazioni che aveva immaginato di provare se si fosse trovato fra due pareti che si stringevano, schiacciato poco per volta dalle mascelle di un mostro artificiale.

Si chiese se Città potesse almeno togliere il dolore. Se volesse togliere il dolore.

Città non voleva… E il dolore stava arrivando, penetrava la coltre d’intorpidimento, come un autocarro enorme, mostruoso, che sbucasse all’improvviso dalla nebbia fitta; gli si scagliava addosso, ridondante di frastuono, di un’indicibile accelerazione metallica.

Un dolore intensissimo.

Esistono alcuni terrori…

Cole non era in grado di emettere nemmeno un gemito. Ma, dentro, rise. E si chiese, mentre il dolore correva su e giù per la sua spina dorsale, mentre invadeva con forza incontrollabile i suoi nervi, ogni suo nervo, si chiese che fine avesse fatto Pearl. E Catz. E…

Rideva perché era al di là delle urla.

Città…

Un tuono bianco…

Cole si mise a fissare il soffitto, fingendo che racchiudesse il mondo intero.

Era schiacciato sotto il peso di una città, finché non giunse la morte a togliere il peso dalle sue spalle.

Fu la voce di Catz a ridestarlo da quello stato.

Si trovò in piedi vicino al letto, a guardare la ragazza. Non ricordava di essersi alzato. Ricordava che non riusciva a muoversi, che era inchiodato al letto, che si sentiva legare, soffocare, e… cambiare. E poi un caleidoscopio delle cianografie di Città, e tenebre che lo risucchiavano. E adesso era lì, guardava Catz, che se ne stava ferma sulla soglia della camera da letto, sbadigliava, si sfregava gli occhi.

Erano le otto di sera. La stanza era buia, la figura sul letto irriconoscibile.

Chissà chi c’era sul letto, si chiese Cole. — Catz? — disse, e la sua voce fece nascere strani echi. Era una voce e non era una voce. Ridacchiò.

Sul letto c’era qualcuno. Non era Cole e non era Catz.

Catz protese una mano, accese il lampadario.

Cole sbarrò gli occhi. La figura sul letto era trasparente. L’intera stanza (si guardò attorno, meravigliato) era trasparente. E anche Catz era trasparente. Come negli ologrammi da due soldi. Le pareti erano fatte di una nebbia stranamente immobile, attraverso cui riusciva a vedere i fili dell’impianto elettrico e le travi e l’altra stanza e il corridoio esterno… E, oltre il corridoio, la nebbia si infittiva a nascondere tutto il resto. Cole guardò la propria mano. Era solida, era vera. A quanto pareva, l’unica cosa concreta rimasta nel mondo era lui.

E la figura sdraiata sul letto era Cole. Affondava nel materasso, come oppresso da un peso gigantesco. Il che era strano, dato che era semitrasparente, e di conseguenza fragile, inconsistente.

E poi ogni tessera del mosaico andò al suo posto, e Cole capì d’improvviso cento cose, una dopo l’altra, finché non tremò sotto il peso della rivelazione e dovette farsi forza per non crollare. Ecco qui tre delle sue rivelazioni:

1) Lui era morto. Defunto.

2) La figura sul letto era il suo corpo, trasmutato e invasato.

3) Dal suo punto di vista attuale, il punto di vista del nuovo corpo (un corpo astrale?), il mondo era una cosa esile, c’era e non c’era. Il mondo gli si svelava nella sua vera natura di illusione transitoria; ma, dal punto di vista di Catz, era lei a essere vera, mentre Cole era morto. Per lei, a tutti gli scopi pratici, lui era morto.

Queste sono tre. Aggiungiamone una quarta.

4) Non era morto. Era vivo; in un nuovo corpo, in un nuovo stato dell’essere. Solo il vecchio Cole era morto.

Era vivo, e in grado di pensare. Però non era più padrone di sé.

Città aveva ucciso il vecchio Cole. Aveva scelto di possedere il suo corpo, già preparato dai rapporti precedenti fra loro. Il corpo di un uomo posseduto da un’intera città: ecco cosa giaceva sul letto.

Catz stava urlando.

Scuoteva le spalle del Cole defunto, cercava di trasmettergli la vita premendogli le mani sul petto. Ma la sue nocche sanguinavano al minimo urto contro il corpo. Catz se ne accorse e indietreggiò, spalancò la bocca, la coprì con dita tremanti. I suoi occhi sbarrati, vuoti, urlavano che aveva capito.

Il corpo nudo sul letto si era tramutato in pietra.

Ma la pietra, animata da Città, poteva muoversi, piegarsi e incresparsi come pelle. La figura sul letto si mosse. Il letto scricchiolò per il peso enorme. Gli occhi restavano chiusi. La figura si alzò. La sua testa ondeggiava in qua e in là, a destra e a sinistra, come un radar che esplorasse la stanza. Lentamente, la figura s’incamminò verso lo specchio della parete opposta, restò immobile a scrutarsi. I suoi lineamenti duri, decisi, non registrarono il minimo cambiamento. Il viso era quello di Cole, l’espressione quella di Città. Il fu Cole alzò le mani a coprirsi gli occhi; la metà superiore del suo viso, adesso, era nascosta dai palmi aperti. Restò in quella posizione per dieci secondi, mentre Catz, orripilata, se ne stava immobile contro la parete, fissandolo boccheggiante. Poi la figura abbassò le mani, e dove un tempo esistevano gli occhi adesso c’erano occhiali da sole, direttamente incorporati nel tessuto della testa. Città si girò a guardare Catz, riempiendo dell’immagine di lei le lenti a specchio. L’espressione di Catz, un disgusto assoluto, venne riflessa due volte. — Catz! — disse Cole. Lei guardò verso il punto in cui si trovava lui, stupita. A quanto pareva, non riusciva a vederlo; però lo aveva sentito. — Non mi vedi?

— Stu? — chiese lei, incerta. — Riesco quasi… C’è qualcosa, ma…

— Catz… — cominciò Cole, e la ragazza alzò di colpo la testa. Lo aveva sentito.

— Stu!

La figura davanti allo specchio, Città, si voltò a guardare Catz. Cole si sentiva addosso quegli occhi. Avvertiva attorno a sé la Città, come un nuotatore avverte qualcosa degli abissi dell’oceano che lo circondano, anche se nuota nell’acqua bassa vicino a riva: risonanze di profondità enormi, lontane. Le piazze della città che risuonavano al passaggio delle macchine e degli uomini, le urla dei bambini…

Città girò la testa, e la sensazione della totalità urbana si smorzò in sottofondo. Città si avvicinò a Catz, protese una mano fredda verso la sua spalla. — Questo non è il tuo posto — dissero le labbra di ferro, sotto un naso che non respirava e le lenti a specchio.

Lei disse qualcosa: — Auh… auh… op… auh… — e indietreggiò, massaggiandosi le dita nei punti che sanguinavano. Poi si voltò, uscì dalla stanza, e Cole la sentì dire: — Mi spiace, Stu.

Qualcosa di caldo lasciò per sempre Cole. Lo stato in cui si trovava era talmente nuovo da procurargli dolore.

Città si girò verso di lui e gli disse: — Va’ dove vuoi. Percorri i meandri dello spazio e i labirinti del tempo. Ma non interferire col mio lavoro. È giunto il momento della Spazzata…

Splendido, Città oltrepassò porte che nascevano dall’incrocio di un piano di splendore con un altro piano di splendore e lasciò Cole solo, con il mondo intero a sua disposizione.

DIECIII!

Ognuno degli uomini presenti nella sala riunioni aveva quattro preoccupazioni. A dire il vero, in quel momento tre su sette pensavano esclusivamente alla cena: erano le diciannove e trenta di un giovedì. Gli altri quattro pensavano alla cena e anche agli impegni programmati per la serata (uno, l’avvocato, era in preda a una fantasia sessuale, e con la sinistra teneva viva l’erezione sotto i calzoni); con tutto il distacco possibile, pensavano anche al motivo di quella riunione. Erano stanchi di discutere, e l’argomento che si stava trattando era estremamente doloroso. I sabotatori. Non volevano pensare ai sabotatori (qualcuno sosteneva che si trattasse di un uomo solo, ma era impossibile che il semplice proprietario di un club fosse responsabile di un tentativo di strage, dell’omicidio di diversi vigilantes e della manipolazione di ologrammi che aveva interrotto l’“operazione concerto rock”; a parte un’altra mezza dozzina di fatti inspiegabili, compreso il massacro di uomini e vigilantes causato dall’assurda esplosione di tubature e lampioni) perché le implicazioni della cosa li spaventavano. Fino a poco tempo prima, tutto filava alla perfezione… Quindi, la discussione era passata dalle considerazioni retoriche ai battibecchi, alle ripicche petulanti, ai borbottii vaghi, per concludersi con un coro di sospiri e scrollate di spalle. Il problema, in mancanza di dati ulteriori, non aveva soluzione: bisognava accantonarlo.

Rufe Roscoe non era, naturalmente, soddisfatto dei risultati della riunione. Gli pareva di avvertire una singolare mancanza di decisione. I suoi collaboratori erano vaghi, indifferenti. Bastardi vigliacchi. Forse, rifletté, non dovevano più riunirsi in quella stanza con l’aria condizionata, lassù in alto, perfettamente al sicuro in un palazzo antisismico. Era una specie di grembo materno con vista panoramica; troppo comodo, forse. Ventotto anni fa, quando lui aveva iniziato la carriera, le riunioni si tenevano in stanze miserabili, piene del puzzo di sudore e di fumo, coi rumori del tavolo da bigliardo e della roulette che giungevano dalla stanza adiacente; quell’ambiente insicuro era servito, sempre, a ricordare a tutti che avrebbero potuto salire più in alto, essere meno esposti, ed era stata quella la molla che li aveva spinti. Proprio in una stanza di quel genere lui aveva lanciato il piano dell’imbroglio dei computer, il piano che gli aveva fatto guadagnare il primo milione di dollari.

Lì, invece? Pareti dalle tinte delicate, la musichetta che usciva da un altoparlante nascosto, uno svolazzare di nubi oltre le finestre dai vetri polarizzati… Tutti gli uomini riuniti lì, dal primo all’ultimo, si lasciavano cullare da quella gabbia compiacente, erano convinti della propria invulnerabilità, sguazzavano nella certezza che lì nessuno potesse attaccarli (e nessuno si preoccupava dei due individui mascherati che erano penetrati in una stanza identica a quella, sullo stesso piano, e avevano ucciso l’uomo venuto dall’est: erano state prese nuove misure, misure estremamente complicate, e un fatto simile non avrebbe mai potuto ripetersi). Erano sicuri.

La porta della sala riunioni, chiusa a chiave, schizzò via dai cardini e si abbatté sulla minuscola schiena orientale di Fred Golagong, spezzandola in tre punti e uccidendo all’istante Golagong.

Nonostante il panico, Rufe Roscoe pensò: “È quello che ci voleva per questi bastardi vigliacchi…”. Mentre l’uomo apparso sulla soglia (e anche se Roscoe non lo aveva mai incontrato di persona, non era uno sconosciuto: era la figura familiare uscita da un sogno bizzarro e ricorrente) correva avanti, con l’energia e la velocità di una macchina, a fracassare il tavolo. Colpi di pistola esplosero da tre direzioni diverse, uno dal corridoio esterno, e si udirono grida terrorizzate di uomini. Uno solo di quegli strilli era razionale, ed era quello di Rufe Roscoe: — Che cavolo di fine hanno fatto tutte le nostre guardie e i nostri sistemi di allarme? — Il che fu l’ultima cosa che disse in quel particolare ciclo esistenziale, dato che l’uomo con gli occhiali da sole e le braccia massicce come ponti levatoi lo uccise, pochi secondi dopo, con un solo colpo.

C’erano sette uomini da uccidere, ma occorse solo un minuto e mezzo.

La Spazzata era iniziata, e San Francisco stava facendo la sua parte.

Le otto di sera a Phoenix, Arizona. Una serata calda.

Phoenix è una città dove le imprese edilizie scavano di continuo quelle cicatrici del tessuto urbano che gli uomini chiamano cantieri. Costruzione e distruzione, persone che fanno discorsi commossi per commemorare il ciclo eterno di morte e rinascita. Si costruisce il nuovo sulle ceneri del vecchio e via dicendo, le ceneri da cui, presumibilmente, risorge la Fenice.

E, come un assurdo uccello meccanico che alzasse la testa, il robodemolitore sollevò la gru, fece ruotare lentamente la sfera da dieci tonnellate che pendeva dal cavo, proprio come un uccello dal collo molto lungo che spostasse la testa per guardarsi attorno. La macchina aveva nidificato tra le rovine di un edificio colossale, in un buco pieno a metà di calcinacci dalla forma irregolare e travi spezzate.

Nel cantiere deserto, l’edificio, demolito per tre quarti, lasciava a nudo i locali di uno degli ultimi palazzi del Diciannovesimo secolo rimasti in città. Era stato un palazzo meraviglioso, orgoglio della città: un teatro completo di angeli che reggevano le cornici delle finestre e grondaie artistiche, ornamentali. Un palazzo solido, costruito perché la buona pietra e il buon legno durassero in eterno, e avrebbe potuto sopravvivere per un altro secolo, non fosse stato per la cupidigia di un certo imprenditore edilizio… L’architetto che aveva ideato il vecchio edificio, nel 1891 si era arricciato, tutto orgoglioso, i baffi robusti davanti alla stesura definitiva del progetto. Non aveva mai previsto, e nemmeno immaginato, quel giorno, il giorno che il frutto del suo ingegno sarebbe giaciuto distrutto ai piedi di una macchina insensibile, l’assassino.

Ma, come se l’assassino avesse compreso improvvisamente quale patrimonio storico aveva distrutto, come se fosse deciso a vendicare il delitto di cui era stato arma inconsapevole, accese gli occhi elettronici e le luci e trasportò via le sue innumerevoli tonnellate di metallo dal luogo della distruzione, avventurandosi in una stradina laterale poco affollata.

Il demolitore si era risvegliato senza l’aiuto del suo programmatore, e senza istruzioni dal programmatore seguì un percorso ben preciso fra il labirinto di strade secondarie, intasando il traffico, e facendo scattare cinque diversi tipi di allarmi.

Tutti fuggivano davanti alla macchina; nessuno si fermava a discutere l’impossibile.

La destinazione del demolitore distava appena sei isolati: un palazzo nuovissimo, costruito su sei piani esagonali, con vertebre trasparenti fra un piano e l’altro che contenevano scale mobili e ascensori. Era un edificio composto quasi esclusivamente di plastivetro polarizzato e travi di cromalluminio; autosufficiente, sempre illuminato da luci soavi, fiero della propria modernità. Al primo piano di quella struttura superba, tre uomini e due donne stavano discutendo animatamente.

Uno dei cinque, Lou Paglione, continuava a colpire il piano del tavolo col palmo della mano, a sottolineare le sue parole. — Non me ne frega un accidente… — slap! — se quello pensa di essere il capoccia di tutto l’emisfero occidentale… — slap! — Deve sempre fare le cose… — slap! — secondo le… — slap! — procedure stabilite! — slap!

Rialzò la testa, infilò le mani nelle tasche dei calzoni di tweed, compiaciuto di essere al centro dell’attenzione. Probabilmente era l’individuo di aspetto più banale presente nella stanza (spalle strette, pancetta, cranio calvo, occhiali con le lenti spesse, insomma l’aria da professorucolo di scuola media), eppure tutti gli altri visi si girarono verso di lui, in rispettosa attesa.

— Il punto — disse Paglione grattandosi un orecchio — è che a voi potrà sembrare una cosa da niente, ma per me è un fatto enorme. Il signor Rufe Roscoe prende accordi per comunicare, dopo ogni riunione, con tutti i comitati direttivi cittadini. Dice che vuole trasmettere le loro ultime decisioni. Con quelli di noi che sono più vicini come fuso orario dice che parlerà direttamente. Okay! Dà queste istruzioni del cazzo con grande eleganza, con una classe che impedisce di mettersi a discutere… Okay, lasciamo perdere, però lo sa Dio se anche noi non abbiamo le nostre scadenze da rispettare… E poi se ne frega delle sue istruzioni… — Paglione agitò le mani in direzione dello schermo spento. Lo schermo serviva anche da tavolo, e attorno vi erano seduti i cinque direttori dell’Alba Ovest s.p.a., sigla fasulla dietro cui si nascondeva la malavita di Phoenix interessata all’operazione computer.

Una donna (occhi azzurri, cinici; viso da nobile viziata; parrucca bionda a mo’ di serpente arrotolato) si leccò le labbra sottilissime e ribatté: — Sarà meglio ricordarci, Lou, che Rufe Roscoe ha sempre fatto ciò che prometteva. È la prima volta… ed era anche una riunione importante. Non è da lui passarci sopra. E poi c’è il fatto che non riceviamo nessuna risposta dal suo palazzo. Insomma, dovrebbe esserci almeno qualcuno al centralino; invece, neanche quello.

Paglione fece una smorfia, annuì in direzione dello schermo azzurro-grigio. — Quindi, secondo te è andato storto qualcosa. — Ci sono diversi modi di dire è andato storto qualcosa: Paglione lo disse come per intendere: Li hanno attaccati.

— Sono corse voci su certi fatti pazzeschi — azzardò un uomo giovane. — Io, uh, non ci ho creduto; non credo mai alle voci. Però adesso non mi sembrano più così pazzesche… Sto cominciando…

Un suono strangolato gli uscì dalla gola. Il giovanotto fissava il rettangolo buio della finestra alle spalle di Paglione. Paglione si girò a guardare. — Cosa? — disse.

Il vetro della finestra era predisposto per la semiopacità, ma una cosa abbastanza grossa, abbastanza vicina, si sarebbe sempre intravista in silhouette.

— È solo un’ombra — commentò acidamente la donna, distogliendo gli occhi dalla finestra.

Ma Paglione continuò a guardare. La silhouette si ingrandiva di secondo in secondo. Era una forma mostruosa, un gigante scheletrico con un enorme pugno rotondo. Il giovanotto si alzò bruscamente, raggiunse la finestra, programmò il vetro per la trasparenza assoluta.

Paglione non sarebbe diventato il boss locale se non avesse, spesso e volentieri, dato retta al suo istinto. Quindi, non vide nemmeno il demolitore che si scagliava verso la finestra: stava già correndo in corridoio, verso l’ascensore.

Ma il giovanotto e gli altri lo videro, e ciascuno ebbe il tempo di lanciare un urlo.

La macchina era troppo imprevedibile e troppo vicina (e troppo grande) perché la riconoscessero in quell’istante, anche se si stagliava perfettamente contro lo scintillio notturno delle luci della città. Per le quattro persone che restarono nella stanza, era solo lo strumento gigantesco e oscenamente metallico che portava la morte. Prima che avessero il tempo di tirare il fiato per un secondo giro di urla, la stanza esplose: frammenti enormi di vetro e cromalluminio, di sangue e di carne a brandelli, piovvero sulla moquette azzurro cielo dell’ufficio a pianterreno.

Paglione stava scendendo al volo la scala mobile (che, essendo notte, era ferma; ma lui divorava quattro scalini alla volta). Arrivato a pianterreno, schizzò fuori dalle porte a vetro, arrivò nel parcheggio a piastrelle; poi inciampò e cadde quando il terreno sotto i suoi piedi tremò e spezzoni di assassini al silicone gli piovvero attorno. Nemmeno uno dei pezzi di vetro lo colpì in pieno. Paglione si rialzò, urlò qualcosa come: — Aaak, aughk! — e, isterico, fuggì.

Il demolitore stava abbattendo l’edificio con efficienza micidiale. La sua sfera magnetica dilaniava caparbiamente angoli, strutture portanti, squarciava il palazzo con strategia perfetta, quasi fosse in grado di pensare. Dalla sfera stessa uscivano microonde che si trasmettevano alle pareti più resistenti dell’edificio, che ammorbidivano le travature per il colpo successivo. Nel giro di un quarto d’ora, il palazzo che costava milioni di dollari, nato da quattro mesi, si era afflosciato, era precipitato come un castello di carte. L’intera città risuonò a quel crollo.

Uno dei molti pompieri che osservavano, stupefatti, dagli automezzi fermi lì davanti, fischiò piano tra sé e sé. L’uomo al suo fianco sorrise di una soddisfazione strana, sognante. — È come un sogno che ho fatto l’altra notte — disse. — Buffo…

— Sì, l’ho sognato anch’io.

L’autopompa, parte di una minuscola folla di veicoli d’emergenza accorsi alla segnalazione della presenza di un demolitore impazzito, era parcheggiata distante dagli altri; motori e luci erano spente, non c’era autista. Ma, senza autista, il veicolo partì e si spostò al centro della strada, sorprendendo i pompieri che si trovavano sulla piattaforma. Si lanciò verso la figura di un uomo che correva sul marciapiedi. Un uomo piccolo, quasi calvo, col cranio lucido inondato di sudore. L’uomo si guardò alle spalle e disse: — Aaak, aughk! — mentre l’autopompa lo travolgeva. Poi, il boss Paglione rese l’anima, e il demolitore smise di demolire e l’autopompa si fermò e una parte particolare della supermente collettiva di Phoenix ripiombò nel sonno.

Diverse centinaia di migliaia di persone, addormentate o in stato di semitrance davanti al televisore, emisero grugniti di soddisfazione. Non sarebbero mai state in grado di spiegare perché erano talmente orgogliose di sé; non sapevano cosa avessero fatto. Ma l’orgoglio c’era, un nido di parassiti era stato distrutto. Phoenix aveva fatto la sua parte.

E a Chicago… E a Sacramento… E a Portland, Seattle, Boise…

…A Manhattan, un gruppo di uomini dall’espressione cupa si stava recando a una riunione su una limousine blindata. La blindatura servì a ben poco quando la macchina, inspiegabilmente, decise di seguire un percorso di testa sua, lanciandosi nel tunnel Lincoln (cioè in una direzione assolutamente sbagliata) a centotrenta chilometri l’ora, mentre i comandi si rifiutavano di rispondere all’autista, terrorizzato. Fu appena fuori dal tunnel, in una zona più ampia, meno affollata, che si scontrarono frontalmente con un’altra limousine.

In seguito, uno spettatore descrisse l’incidente come “spettacolare”.

La seconda limousine, che a sua volta correva fortissimo e di testa propria, conteneva quattro uomini estremamente importanti di Boston, venuti lì per incontrare gli individui con cui si scontrarono. L’incontro fu consumato nel senso più profondo della parola.

…A Houston c’era una torre. Era più alta dell’Ago Spaziale di Seattle, ma in effetti era stata costruita a imitazione dell’Ago Spaziale. Non era molto diversa: semplicemente più alta, più snella, con più vetro, più moderna, cioè edificata in modo nettamente peggiore. Come l’Ago Spaziale, la cupola sporgeva per offrire una panoramica dell’incredibile profilo di Houston e del Golfo del Messico, compiendo tutto il giro in quarantacinque minuti. Quella sera il ristorante non ruotava. Era chiuso. Ed era deserto, fatta eccezione per i sette uomini e le due donne che sedevano a un tavolo, che bevevano e litigavano, che indicavano di continuo il terminale spento vicino al distributore dello zucchero. Il gruppetto dei nove non sapeva di essere solo: nessuno si era ancora accorto che tutte le guardie e il barista se n’erano andati (così come Roscoe e Paglione non avevano scoperto che i loro uomini erano stati fatti allontanare; erano rimasti solo quelli indiscutibilmente colpevoli). Era stata la città a convincerli ad andarsene.

Uno dei nove di Houston alzò una mano per chiedere silenzio e disse al barista, in tono petulante: — Jude, Cristo santissimo, ma perché mai hai messo in moto il ristorante? Mi viene il mal di mare quando questo maledetto aggeggio gira!

Gli altri, sorpresi, alzarono gli occhi verso le luci della città e scoprirono che, ah sì, il ristorante girava sul serio.

Non ci fu risposta da Jude.

— Ehi! — urlò una donna, aggrottando le sopracciglia. — Ehi… — questa volta piano. — Ehi, che merda succede? — E questo perché aveva cercato di alzarsi ed era caduta: il ristorante aveva accelerato di colpo, facendole perdere l’equilibrio. La donna non riuscì mai a rimettersi in piedi. In pochi secondi, le luci della città diventarono scie di meteoriti, poi una striscia compatta di luce. Ormai all’accelerazione di gravità uno, la cupola della torre ruotava più in fretta di quanto non potessero farla ruotare i suoi motori. Andava sempre più in fretta.

Cominciarono tutti a urlare, ma la torre (vorrei poter dire che era di un bel colore avorio, ma non lo era; peccato, avrebbe dovuto esserlo) era troppo alta sulla città perché le urla (e poi gli strilli di panico e poi i gemiti e poi i rantoli e poi niente) si potessero udire in basso, giungessero alle orecchie della popolazione che dormiva.

È sorprendente quello che una buona forza centrifuga può fare alla carne umana. Un’altra prova del fatto che l’insieme di ossa e muscoli non è poi solido come sembra…

…E a Miami… A Biloxi, Atlanta, Los Angeles, San Diego, Detroit…

— Metà della nazione è spaventata — disse Cole a se stesso — e l’altra metà è stupefatta.

— Già. C’è stato il boom delle conversioni religiose — rispose Cole. Perché Cole non stava parlando con se stesso metaforicamente. Aveva di nuovo incontrato se stesso, il se stesso disincarnato che giungeva da un’altra convergenza temporale; si erano fermati a chiacchierare a un nesso probabilistico.

Ognuno dei due sapeva cosa avrebbe detto l’altro, prima che l’altro parlasse, naturalmente. Eppure, era necessario dirlo, e ascoltare. Era una specie di liturgia.

Un Cole stava andando a vedere la propria nascita. L’altro stava andando a guardare il suo primo incontro con Catz Wailen; stava giusto tornando dall’aver visto la propria nascita (e, mentre andava a vederla, aveva incontrato se stesso che tornava dall’averla vista; è secondo questa logica che vengono concepiti i disegni dei tappeti orientali). Erano fermi sul marciapiedi davanti al club Anestesia, che era stato chiuso. Attorno a loro, la città entrava e usciva dallo stato di trasparenza, correnti temporali si incrociavano e dividevano; le persone che camminavano sui marciapiedi sembravano scie luminose proiettate da uno stroboscopio. I due Cole erano solidi, almeno l’uno agli occhi dell’altro.

— Parlando da Cole a Cole — disse uno dei due, protendendosi in avanti — la neutralità della nostra posizione non ti… non ci infastidisce?

— A volte. È vero che a livello somatico avverto pochissimo di questo piano. Se mi pizzico, sento male; ma se batto la mano sul terreno, per me è solo fanghiglia, anche se per loro è cemento. Per cui, uh, questo implica l’esistenza di un livello che io… che noi possiamo raggiungere e probabilmente raggiungeremo, un livello da cui possiamo interagire con l’ambiente in senso fisico, più pieno.

— Andremo a finire lì — convenne l’altro Cole, grattandosi il ventre nudo. Poi fece una smorfia. — Nessuno di noi due porta vestiti… Però ricordo di aver incontrato me stesso quella volta che dovevo liberare Catz dai vigilantes di Oakland, e queir… uh… io era vestito…

— Oh, in un’altra sequenza temporale relativa tu, io, decidemmo di vestirci. Capisci, i vestiti che indossavi di solito erano talmente vicini al tuo corpo che sono rimasti metapsichicamente impregnati dalle, hum, vibrazioni caratteristiche di ciò che tu e io siamo… È così che i sensitivi riescono, per esempio, a capire dove sono le persone scomparse, a ritrovarle toccando un loro indumento… C’è di mezzo l’assorbimento di elettroni con uno spin caratteristico dei campi elettrici dell’individuo… In ogni modo, possiamo indossare i vestiti che portavamo in vita, nell’altra vita, e saranno trasferiti anche loro sul nostro piano.

— Lo sapevo già — disse l’altro Cole. — Non so perché te l’ho chiesto.

Risero.

Si trovavano in un corridoio temporale la cui prospettiva mostrava il mondo attorno a loro a una velocità di frequenza superiore al normale; per questo, a indicare il passaggio dei pedoni sulle strade, c’erano quegli strani tubi a forma di uomo. Se si fossero trasferiti in un corridoio temporale con una ciclicità di eventi più lenta, avrebbero visto il mondo come lo vedevano altri uomini, un passo umano alla volta, per quanto confuso, refrattario, pluristratificato.

Attorno a loro, diversi tubi stroboscopici a forma d’uomo si erano intersecati, si agitavano dando la sensazione di un’infinità di fili che si unissero a formare un nodo color carne… — Formano gruppi del genere a ogni angolo di strada, in ogni bar, per tutta la città. Stanno discutendo la meccanica della strage dei capimafia — disse Cole a Cole. — Probabilmente finiranno col pensare a un’organizzazione umana potentissima, dotata di una tecnologia sconosciuta, che ha ucciso tutti quanti alla maniera dei vigilantes. Penseranno alla vendetta di un milionario…

— Si è trattato di un’entità umana. Ma non di quella che la gente… crederà… E ora il déjà-vu: sì, è proprio questa la spiegazione che daranno.

— Qui, i déjà-vu non sono sensazioni vaghe. Sono enormi e massicci come un cartellone pubblicitario che ti piombi sulla testa. Onde furiose di acqua gelida.

— Sapevo che l’avresti detto.

— Sapevo che l’avresti detto.

All’unisono risero. Simultaneamente presero strade diverse.

Cole camminava, ridacchiando fra sé, a fianco del proprio corpo posseduto dalla città. La Città che gli stava accanto, reale contemporaneamente su vari piani, usava il corpo abbandonato da Cole come veicolo; ma Cole trovava difficile considerare quella manifestazione di Città come una versione di se stesso, come qualcosa che possedesse ciò che era stato Stu Cole. In parte era per gli occhiali da sole che affondavano in quello che era stato il suo cranio; in parte era per i tratti del viso, duri, spietati come il muso di una locomotiva lanciata in corsa. Città indossava un’uniforme di stoffa ruvida, color cachi, e un cappello floscio. I pantaloni erano stracciati per i muri che aveva abbattuto, per i proiettili che aveva fermato. Cole indossava un comodo abito da passeggio, ed era a piedi nudi. Camminavano assieme per una strada scarsamente illuminata di San Rafael; nel buio, a Cole le cose sembravano quasi solide.

Riflettendo, si disse che non era risentito perché si erano appropriati del suo corpo. Era stato inevitabile; lui si era affidato completamente a Città. E Città non aveva responsabilità particolari. Non più di ogni altro abitante di San Francisco. Era semplicemente una manifestazione fisica delle frustrazioni inconsce che si formavano e deformavano nell’inconscio collettivo.

— Non capisco perché continuino a restare uniti, visto che i loro capi sono morti.

— Bisogno di sicurezza — rispose Città. — Il che è stupido. Non hanno il cervello di capire che i loro capi sono stati uccisi tutti in gruppo perché il fatto di essere uniti li rendeva bersagli più facili. Restano assieme perché pensano che ciò che ha ammazzato i capi vorrà ammazzare anche loro. Hanno ragione. Ma non sarebbe così se si dividessero; e invece, siccome formano un tutto unico, un nucleo cancerogeno, dovrò distruggerli. E lasciare che loro distruggano me…

— Oh? È proprio necessaria, quest’ultima parte?

Città annuì, impercettibilmente. — Come è già successo. Il sangue che feconda.

Cole disse, sognante: — Come quando ti hanno colpito con la macchina e il tuo sangue è corso sulla strada e la strada è esplosa per vendicarti… è un rito.

— Se vuoi. È necessario.

Si stava avvicinando qualcuno: una ragazzina che portava a spasso un terrier. La ragazza e il cane entravano e uscivano dalla trasparenza; i loro organi interni diventavano visibili per un attimo, i percorsi del sangue delineavano i loro corpi. Cole divideva il loro flusso temporale, li osservava in un solo posto per volta, passo dopo passo. Accanto ai due c’era un individuo solido: un uomo adulto, nudo, che piangeva. Un uomo che doveva essere sui trent’anni quando era morto, decise Cole. Superarono Cole e Città sulla destra; la ragazza spalancò gli occhi quando vide Città, ma non disse niente; il cane s’irrigidì, diede uno strattone al guinzaglio, si gettò da parte per allontanarsi il più possibile da Città. La ragazzina non vedeva Cole o l’uomo che aveva accanto. Probabilmente era suo padre, morto da poco. Era il primo spirito incarnato, a parte se stesso, che Cole incontrasse. Ma l’uomo si limitò a un cenno del capo in direzione di Cole, poi riportò gli occhi, tristissimi, sulla ragazzina. — Twyla — gemette. Lei non lo sentì, ma il cane rizzò le orecchie, si liberò, corse via col guinzaglio che strisciava sull’asfalto. La ragazzina si mise a rincorrere il cane, urlando; e il padre che le era invisibile, singhiozzando, la seguì al galoppo.

Cole provò un brivido di freddo. Per la prima volta dopo la propria morte si sentiva infelice. E, con quella sensazione, gli giunse il richiamo di un altro luogo. Quale?

— Hai intenzione di lasciarmi? — chiese Città. Nella sua voce c’era un punta di rimpianto.

— No — rispose Cole dopo un attimo. — Non ti lascerò mai. Mai, finché tu esisterai. Tra una quarantina di anni del loro tempo, la città sarà quasi morta. Il Tif e gli altri sistemi elettronici renderanno possibile il Villaggio Globale. Tutte le comunità saranno piccole, poche centinaia di persone, e prenderà forma un tipo diverso di mente collettiva. E allora tu non esisterai più, non avrai bisogno di me, e io andrò in quell’altro luogo. Adesso, in un certo senso, sono più libero. Viaggerò, dovrò andare a Chicago. Ma sarò sempre qui in un’altra linea temporale, e il primo, relativamente parlando, il primo Cole, che vivrà in sintonia con quella linea temporale, tornerà sempre da te.

Cole aveva parlato dolcemente, rassicurante. Città aveva ascoltato impassibile, continuando a camminare implacabilmente nella sera. Però aveva sentito, Lui e lei e loro, tutti coloro che erano Città, sapevano che fra loro camminava un amico invisibile.

Si fermarono di fronte a una casa stile ranch, col prato ben curato e illuminato: due pastori tedeschi, legati alla catena davanti al portico, ringhiarono. — Dev’essere questo il posto — disse Cole, secco. — Uh… Ti succederà qualcosa, qui?

— Sì. Questa è una parte della mia città. In cantina hanno un arsenale di esplosivi al plastico. Li farò detonare. Puoi entrare a goderti l’esplosione. È un’esperienza fantastica, far parte di un ciclone che non può farti male. Gloriosa.

— Tutte le esplosioni sono gloriose — convenne Cole. — Città… Perché adesso non emani musica?

— La disco? Non è più necessaria. All’inizio mi è servita per attirarti e legarti a me. Ipnosi.

— Vedo — disse Cole (anche se lo sapeva già, a un certo livello). — Ma la vera ragione per cui te l’ho chiesto…

— Vuoi la disco music? — chiese Città. — Sei un sentimentale.

— No. È solo che mi sembra giusto.

Città annuì e s’incamminò sul prato, spettrale e terribile alla luce delle lampade disseminate sull’erba. Irradiava una musica elettronica, estremamente ritmata. Cole, dalla sua nuova prospettiva, vedeva la musica. Le onde sonore s’intrecciavano a formare disegni cubisti che si adattavano perfettamente all’arrangiamento musicale.

Cole lo seguiva a qualche passo di distanza, camminando su piume e nubi.

I cani balzarono su Città non appena l’ebbero a portata di zanne. Un istante dopo, tutt’e due corsero indietro ululando. Perdevano sangue dai denti che si erano spezzati sulla pelle inattaccabile di Città.

La porta si spalancò, e un uomo con la pistola… morì, esattamente un secondo dopo aver sparato, quando Città penetrò col braccio il ventre dell’uomo, come se fosse fatto di cotone.

— Ehi, non riesco ad aprire la porta sul retro! — urlò qualcuno.

— Lascia stare — gridò qualcun altro. Cole seguì Città in casa: il soggiorno era in disordine, puzzava di sudore. Diversi uomini uscivano di corsa dalla stanza, le spalle girate verso loro due; si ammucchiavano quasi l’uno sull’altro sulla scala che scendeva in cantina.

— Quell’affare ha fatto a pezzi Billy! È un fottuto robot!

— Prendete quei maledetti esplosivi… State attenti!

— Inneschiamone qualcuno, poi usciamo dalla finestra della cantina…

— La finestra è chiusa! Non si rompe!

— Ehi, non girare quel…

Cole era a metà della scala quando la casa esplose. Cavalcò le onde d’urto e guardò le macerie che volavano via, che lo attraversavano senza fargli niente. Si chiese se fosse lui a passare attraverso loro, o loro attraverso lui.

Provò piacere nel guardare la cascata di cemento e legno e plastica e polvere e sangue. L’esplosione fu gloriosa.

Epilogo

Catz Wailen si tolse la cuffia. Era sola nello studio di registrazione invaso dalle ombre.

Si strinse la testa fra le mani, tremò per l’improvviso liberarsi della tensione nervosa. Singhiozzò, ma dai suoi occhi non scesero lacrime.

Dopo un po’ si alzò. Con voce spezzata dalla stanchezza, chiese: — Stu? Sei qui con me in questo momento?

Non ci fu risposta. Ma qualcosa sussurrò dagli angoli più bui della stanza. Una corrente d’aria, forse.

Catz si stiracchiò, fece schioccare le nocche delle mani. Poi si sdraiò sul tappeto, e cercò di rilassarsi. La sua bocca era chiusa, ma lei stava chiamando. Chiamava da un punto nascosto nel profondo del suo essere.

— Grazie. Hai gettato un ponte verso di me — disse Stu, dal finestrino del lucernario sopra lo studio. Lei vide il riflesso di lui, ma non c’era nulla a proiettare il riflesso.

Non importava: riusciva a sentirlo. — Oh, Gesù Cristo santissimo, bastardo, idiota, porco, figlio di puttana… — Continuò a quel modo per un po’, e questa volta le lacrime accompagnarono lo sfogo verbale.

Il chiarore di Cole sul finestrino continuò a sorridere debolmente finché Catz non ebbe finito. — Adesso va meglio? — le chiese, quando lei piombò nel silenzio.

— Hai permesso che s’impossessasse di te — disse Catz, secca. Si era messa a sedere, le gambe distese sul tappeto.

— Non ho potuto farci niente — disse Cole. — Ma adesso sono con te. Sono ancora…

— Basta! Vuoi raccontarmi le solite balle tipo sarò-per-sempre-con-te-nello-spirito? Non m’interessano. Non voglio che tu te ne stia sempre qui con me. Continuerei a pensarci. Non ho intenzione di vivere come una monaca di clausura e di continuare a rimpiangere il mollusco che eri, Cole. Sono assolutamente decisa a fare l’amore tutte le volte che mi va, e non voglio che tu te ne stia qui attorno, invisibile, a spiarmi.

Cole rise. Catz, no.

Dopo un po’, Cole disse: — Dovevo raccontartelo.

Nella voce di lei c’era un tono di profonda amarezza, quando rispose: — Oh, capisco.

— Adesso devo tornare a San Francisco.

— Ci avrei scommesso.

— Ti aiuterò nella carriera. Credo di poter…

— Non farmi nessun favore — disse lei. Si alzò e raggiunse in fretta la porta. Uscendo, fece un gesto rabbioso verso il banco di registrazione, premette un pulsante: la musica registrata, la musica della band di Catz, zampillò nella stanza come un’esplosione gloriosa. Catz era scomparsa. Cole si fermò un attimo, ad ascoltare. Poi tornò a un’altra città, a un’altra musica.

FINE