Per chi viaggia tra le stelle a velocità relativistiche ci sono strani modi per mantenere il contatto con l’umanità.

Vincitore dei premi Hugo, Nebula e Locus per il miglior racconto breve in 1982.

John Varley

Lo spacciatore

Le cose cambiano, e Ian Haise se l’aspettava. Tuttavia vi sono certe costanti, imposte dalla funzione e dall’uso. Ian le cercava, e sbagliava di rado.

Il campo giochi non somigliava molto a quelli che aveva frequentato da piccolo. Ma i campi giochi vengono creati per divertire i bambini. Ci sarà sempre qualcosa su cui dondolarsi, qualcosa su cui scivolare, qualcosa su cui arrampicarsi. Lì cerano tutte queste cose, e molto di più. In parte era fittamente alberato. C’era una piccola piscina. Alle strutture stazionarie si aggiungevano abbaglianti statue di luce che apparivano e sparivano. C’erano anche gli animali: rinoceronti pigmei ed eleganti gazzelle che arrivavano al ginocchio. Sembravano innaturalmente docili, e non mostravano paura.

Ma soprattutto, nel campo giochi c’erano i bambini.

A Ian i bambini piacevano.

Sedette su una panchina di legno al limitare degli alberi, nell’ombra, e li guardò. Ce n’erano quelli neri come caramelle di liquirizia animate, e c’erano quelli bianchi come coniglietti, e quelli bruni con i capelli ricci, e altri bruni con gli occhi obliqui e i capelli neri e lisci e alcuni che erano bianchi ma così abbronzati da sembrare più bruni di quelli bruni.

Ian si concentrò sulle bambine. Aveva provato con i maschi, molto tempo prima, ma era stato inutile.

Guardò per lunghi istanti una bambina nera, cercando di indovinarne l’età. Pensò che avesse otto, nove anni. Troppo piccola. Un’altra doveva averne tredici, a giudicare dalla camicetta. Era una possibilità, ma Ian l’avrebbe preferita più giovane. Meno sofisticata, meno sospettosa.

Finalmente trovò una ragazzina che gli piaceva. Era bruna di carnagione, ma con i capelli sorprendentemente biondi. Dieci anni? Forse undici. Comunque era abbastanza giovane.

Si concentrò su di lei e fece la cosa strana che faceva sempre quando aveva scelto quella giusta. Non sapeva bene che cosa fosse, ma di solito funzionava. Di solito bastava guardarla e tenere gli occhi fissi su di lei, dovunque andasse e qualunque cosa facesse, senza lasciarsi distrarre. Infatti, dopo qualche minuto la bambina alzò la testa, si guardò intorno, e i suoi occhi incontrarono quelli di Ian. Lo fissò per un momento, poi riprese a giocare.

Ian si rilassò. Forse ciò che faceva non era niente di speciale. Aveva notato, con le donne adulte, che se una attirava la sua attenzione tanto che incominciava a fissarla, quasi sempre quella alzava gli occhi da ciò che stava facendo e ricambiava lo sguardo. Sembrava che il sistema non fallisse mai. Parlando con altri uomini aveva scoperto che era un’esperienza comune. Sembrava quasi che sentissero il suo sguardo. Le donne gli avevano detto che era assurdo, o che era una semplice reazione a qualcosa visto perifericamente da persone allenate a captare i segnali sessuali. Era soltanto un’osservazione inconscia che penetrava nella coscienza: non era qualcosa di misterioso come l’ESP.

Forse era così. Comunque, Ian era abilissimo in quella specie di contatto oculare. Molte volte aveva notato le bambine massaggiarsi la nuca o curvare le spalle mentre le osservava. Forse avevano sviluppato una sorta di ESP e non lo riconoscevano per ciò che era.

Adesso si limitava a osservarla. Sorrideva, e perciò ogni volta che la bambina alzava la testa per guardarlo (e lo faceva sempre più spesso) vedeva un uomo dall’aria amichevole e dai capelli leggermente grigi, con il naso spezzato e le spalle poderose. Anche le mani erano forti. Le teneva strette sulle ginocchia.

Dopo un po’ la bambina incominciò a muoversi nella sua direzione.

Nessuno, osservandola, avrebbe detto che veniva verso di lui. Probabilmente neppure lei se ne rendeva conto. Lungo il percorso, trovava ragioni per fermarsi a fare una capriola, o saltare sulle stuoie elastiche o rincorrere un branchetto d’oche starnazzanti. Ma veniva verso di lui, e sarebbe finita sulla panchina, al suo fianco.

Ian si guardò intorno. Come prima, c’erano pochi adulti nel campo giochi. Evidentemente le nuove tecniche di condizionamento avevano ridotto il numero dei violenti e degli anormali, al punto che i genitori si sentivano tranquilli e lasciavano che i figli si divertissero liberamente, senza supervisione. Gli adulti presenti si occupavano dei fatti loro. Nessuno l’aveva degnato di una seconda occhiata quando era arrivato.

A Ian andava bene così. Rendeva molto più facile ciò che intendeva fare. Aveva pronta una buona scusa, naturalmente: ma sarebbe stato imbarazzante trovarsi alle prese con le domande che i tutori della legge rivolgono agli uomini soli di mezza età che ronzano intorno ai campi da gioco.

Per un momento si chiese, con sincera preoccupazione, com’era possibile che i genitori di quei bambini potessero sentirsi tanto fiduciosi, anche tenendo conto del condizionamento mentale. Dopotutto, nessuno veniva condizionato se prima non aveva fatto qualcosa. Presumibilmente, ogni giorno spuntavano nuovi maniaci. Ed erano eguali a tutti gli altri fino a quando non davano prova d’essere diversi compiendo un atto demente.

Qualcuno avrebbe dovuto parlare seriamente a quei genitori, pensò.

— Chi sei?

Ian aggrottò la fronte. Non aveva undici anni, sicuramente, ora che la vedeva da vicino. Forse non aveva neppure dieci anni. Forse ne aveva soltanto otto.

Otto anni sarebbero andati bene? Esaminò l’idea con la solita cautela, si guardò di nuovo intorno per scoprire se qualcuno l’osservava incuriosito. Non vide nessuno.

— Mi chiamo Ian. E tu?

— No. Non ho chiesto il tuo nome. Chi sei?

— Vuoi dire che cosa faccio?

— Sì.

— Sono uno spacciatore.

La bambina ci pensò sopra e sorrise. Aveva i denti permanenti, affollati in una mascella minuta.

— Vendi le droghe?

Ian rise. — Brava — disse. — Devi leggere molto. — La bambina non disse nulla, ma si vedeva che era lusingata.

— No — disse lui. — Quello è un vecchio tipo di spacciatore. Io sono dell’altro tipo. Ma lo sapevi, vero? — Quando le sorrise lei scoppiò in un risolino e mosse le mani in quei gesti senza scopo che sono tipici delle bambine. Ian pensò che doveva sapere bene d’essere carina, ma non aveva idea del suo erotismo proibito. Era un seme maturo di sessualità pronto ad esplodere. Il suo corpo era un abbozzo ossuto, un’intelaiatura sulla quale costruire una donna.

— Quanti anni hai? — le chiese.

— È un segreto. Cos’hai fatto al naso?

— Me lo sono rotto molto tempo fa. Scommetto che hai dodici anni.

La bambina ridacchiò, poi annuì. Undici, quindi. E appena compiuti.

— Vuoi una caramella? — Ian si frugò nella tasca e tirò fuori un sacchetto di carta a righe bianche e rosa.

Lei scosse la testa con aria solenne. — La mamma mi ha detto di non accettare caramelle dagli sconosciuti.

— Ma io non sono uno sconosciuto. Sono Ian, lo spacciatore.

La bambina ci pensò sopra. Mentre lei esitava, Ian pescò nel sacchetto ed estrasse una caramella al cioccolato, così grossa e soffice da essere quasi oscena. L’addentò, s’impose di masticare. Odiava i dolciumi.

— E va bene — disse la bambina, tendendo la mano verso il sacchetto. Ian lo tirò indietro, e lei lo guardò con aria d’innocente stupore.

— Mi è venuta in mente una cosa — disse lui. — Non conosco il tuo nome. Quindi siamo davvero sconosciuti.

La bambina stette al gioco, quando vide che gli brillavano maliziosamente gli occhi. Lui si era allenato, e gli riusciva sempre bene.

— Mi chiamo Radiant. Radiant Shiningstar Smith.

— Un nome bellissimo — disse lui, pensando che i nomi erano molto cambiati. — Per una bimba tanto carina. — S’interruppe e inclinò la testa. — No. Non credo. Tu sei Radiant… Starr. Con due r. La capitana Radiant Starr, della Pattuglia Stellare.

Per un momento la bambina restò dubbiosa, e Ian si chiese se aveva sbagliato nel giudicarla. Forse, in realtà, era Mizz Radiant Faintingheart Belle, o Mrs. Radiant Motherhood. Ma aveva le unghie un po’ sporche, per esserlo.

La bambina gli puntò contro l’indice ed emise uno squittio muovendo il pollice avanti e indietro. Ian si portò una mano sul cuore e si lasciò cadere di traverso sulla panchina, e lei scoppiò a ridere. Ma continuava a tenergli puntata contro l’arma.

— E fai in fretta a darmi la caramella, o ti sparo ancora.

Nel campo giochi era un po’ più buio, adesso, e c’era meno folla. La bambina gli stava seduta accanto sulla panchina e faceva dondolare le gambe. I piedi nudi non toccavano terra.

Sarebbe diventata molto bella. Glielo vedeva in viso, chiaramente. In quanto al corpo… chi poteva saperlo?

A lui, comunque, non importava niente.

Era vestita un po’ di questo e un po’ di quello, portati addosso qua e là senza molti riguardi per i concetti di pudore che Ian nutriva ancora. Molti bambini non avevano addosso nulla. Era stato un po’ uno shock, quand’era arrivato. Adesso s’era quasi abituato, ma pensava ancora che fosse un’imprudenza, da parte dei genitori. Credevano davvero che il mondo fosse tanto sicuro, per permettere che una ragazzina undicenne frequentasse un luogo pubblico praticamente nuda?

Rimase ad ascoltarla mentre gli parlava dei suoi amici, quelli che detestava e quei pochi, uno o due, che adorava letteralmente; ma l’ascoltava soltanto con una parte dell’attenzione.

E interveniva soltanto con «uhm» e «uh-uh» al momento giusto.

Era carina, non si poteva negarlo. Sembrava dolce come lo è sempre una bambina di quell’età, che può essere dolcissima e velenosa come un serpente a sonagli, quasi nello stesso momento. Aveva la capacità di mostrare calore umano, ma soltanto in superficie. Sotto sotto, si curava soprattutto di se stessa. La sua fedeltà doveva essere qualcosa di transitorio, concesso facilmente e dimenticato con la stessa facilità.

E perché no? Era giovanissima. Era perfettamente normale che fosse così.

Ma lui avrebbe osato toccarla?

Era pazzesco. Era demenziale come gli dicevano tutti. Funzionava così di rado. Perché doveva funzionare con lei? Ian si sentiva oppresso dal peso della sconfitta.

— Ti senti bene?

— Uh? Io? Oh, sicuro. Mi sento benissimo. La tua mamma non sarà in pensiero per te?

— Non devo rientrare ancora per ore ed ore. — Per un momento, lei assunse un’aria così da adulta che Ian quasi credette alla bugia.

— Bene, mi sono stancato di stare qui seduto. E non ci sono più dolci. — Ian la guardò. Quasi tutta la cioccolata le era finita in un grande cerchio intorno alla bocca, tranne nei punti dove s’era pulita graziosamente sulla spalla o sul braccio. — Cos’è, quello laggiù?

Lei si voltò.

— Quella? È la piscina.

— Perché non andiamo là? Ti racconterò una bella storia.

La promessa di una bella storia non bastò per impedirle di immergersi nell’acqua. Ian non sapeva se era un bene o un male. Sapeva che era una ragazzina sveglia, e leggeva, e aveva una forte immaginazione. Ma era anche attiva. L’attrazione era troppo forte, per lui. Sedette lontano dall’acqua, sotto un cespuglio, e la guardò nuotare in compagnia degli altri tre bambini che erano rimasti nel parco nonostante l’ora tarda.

Forse sarebbe tornata da lui, e forse no. Non avrebbe cambiato in alcun modo la sua vita, ma forse avrebbe cambiato la vita di lei.

La bambina emerse, sgocciolante e infinitamente più pulita, dall’acqua torbida. Indossò di nuovo i suoi straccetti, per quel che potevano servire, e tornò da lui rabbrividendo.

— Ho freddo — gli disse.

— Ecco. — Ian si tolse la giacca. La bambina gli guardò le mani mentre gliel’avvolgeva addosso, e si tese a toccargli la spalla.

— Devi essere molto forte — commentò.

— Abbastanza. Lavoro parecchio, perché sono uno spacciatore.

— Cos’è esattamente uno spacciatore? — chiese lei, soffocando uno sbadiglio.

— Siediti sulle mie ginocchia e te lo dirò.

Glielo disse, ed era una storia bellissima alla quale nessuna bambina dotata di spirito avventuroso poteva resistere. Ian aveva studiato bene quella storia, l’aveva perfezionata, l’aveva ripetuta molte volte al registratore fino a quando aveva trovato i ritmi e le cadenze più adatti, fino a quando aveva trovato le parole giuste… parole non troppo difficili, ma piene di sostanza e di fuoco.

Ancora una volta si sentì incoraggiato. La bambina era stanca, quando lui aveva incominciato, ma poco a poco la sua attenzione s’era ridestata. Poteva darsi che nessuno le avesse mai raccontato una storia in quel modo. Era abituata a sedersi davanti a uno schermo, mentre una storia veniva imposta ai suoi occhi e ai suoi orecchi. Era una novità, poter interrompere per fare domande, e ottenere le risposte. Persino la lettura non era così. Era la tradizione orale dei narratori di storie, e poteva ancora ipnotizzare l’ennesima generazione dell’era elettronica.

— È magnifica — disse lei, quando fu sicura che era finita.

— Ti è piaciuta?

— Sì, moltissimo. Credo che anch’io vorrò diventare una spacciatrice, quando sarò grande. È una storia bellissima.

— Be’, non è proprio la storia che volevo raccontarti. Ti ho solo spiegato cosa significa essere uno spacciatore.

— Vuoi dire che hai un’altra storia da raccontare?

— Sicuro. — Ian guardò l’orologio. — Ma ho paura che si stia facendo tardi. È quasi buio e tutti sono andati a casa. Forse è meglio che vada anche tu.

La bambina era incerta, tra ciò che doveva e ciò che voleva fare. Il risultato non doveva essere in dubbio, se era veramente ciò che pensava Ian.

— Bene… ma… ma domani tornerò e tu…

Lui stava scuotendo la testa.

— La mia nave riparte domattina — disse. — Non c’è tempo.

— Allora raccontamela adesso! Posso restare fuori fino a tardi. Raccontamela. Ti prego ti prego ti prego.

Ian resistette, astutamente, tossicchiò, protestò, ma alla fine si lasciò convincere. Era molto piacevole. L’aveva presa all’amo come una trota da due chili con una lenza da dieci. Non era sportivo. Ma del resto lui non stava giocando.

E così, finalmente, Ian arrivò alla sua specialità.

Qualche volta avrebbe desiderato che quella storia fosse davvero sua; ma in realtà non sapeva inventarle. Non tentava più di farlo. Invece, plagiava tutte le fiabe e le storie fantastiche che riusciva a trovare. Se possedeva una dote geniale, consisteva nell’adattare alcuni degli elementi perché si adeguassero al mondo che lei conosceva, pur mantenendo la storia su un piano di stranezza sufficiente per affascinarla, e nel modificare il finale per personalizzarlo.

Era una storia meravigliosa. C’erano castelli incantati in vetta a montagne di vetro, caverne sottomarine, flotte di astronavi e cavalieri splendenti in groppa a cavalli che volavano attraverso la galassia. C’erano alieni malvagi, e c’erano alieni buoni. C’erano pozioni drogate. E c’erano mostri squamosi che si avventavano dall’iperspazio per divorare i pianeti.

E in quel turbine giganteggiavano il Principe e la Principessa. Si cacciavano in situazioni terribili e si aiutavano l’un l’altra a venirne fuori.

La storia non era mai la stessa. Ian le osservava gli occhi. Quando vagavano, scartava interi episodi della vicenda. Quando si sgranavano, sapeva quali parti doveva inserire più tardi. La confezionava a misura delle reazioni della bambina.

La bambina era insonnolita. Prima o poi si sarebbe arresa. Ian aveva bisogno che entrasse in uno stato di trance, né sveglia né addormentata. E allora la storia sarebbe finita.

— E per quanto i guaritori s’impegnassero a lungo, non poterono salvare la Principessa. Morì nella notte, lontano dal suo Principe.

La bocca della bambina era atteggiata in una piccola o rotonda. Le storie non dovevano finire cosi.

— È tutto qui? Lei è morta, e non ha mai più rivisto il Principe?

— Ecco, non è proprio tutto. Ma il resto probabilmente non è vero, e non dovrei raccontartelo. — Ian si sentiva piacevolmente stanco. Aveva la gola un po’ indolenzita e la voce era diventata roca. Radiant era un peso caldo sulle sue ginocchia.

— Devi raccontarmelo, sai — disse lei in tono ragionevole. Ian pensò che aveva ragione. Trasse un profondo respiro.

— E sta bene. Ai funerali erano presenti tutti i personaggi più illustri di quella parte della galassia. E tra gli altri c’era il più grande Mago che fosse mai esistito. Si chiamava… ma non devo dirti il suo nome. Sono sicuro che si offenderebbe moltissimo, se te lo dicessi.

«Dunque, questo Mago passò accanto al feretro della Principessa… Il feretro è un…

— Lo so, lo so, Ian. Continua!

All’improvviso aggrottò la fronte e si chinò su di lei. — Cos’è questo? — tuonò. «Perché nessuno me l’ha detto?» Tutti erano molto allarmati. Il Mago era un uomo pericoloso. Una volta, quando certe persone l’avevano insultato, aveva lanciato un sortilegio che aveva girato le loro teste all’indietro, e così erano costrette ad andare in giro con gli specchietti retrovisori. Nessuno sapeva cosa sarebbe stato capace di fare, se si fosse infuriato davvero.

— La Principessa porta la Pietra Stellare — disse. Si raddrizzò, e si guardò intorno come se fosse circondato da idioti. Sicuramente era ciò che pensava, e forse aveva ragione. Perché spiegò loro che cos’era la Pietra Stellare, e che cosa faceva, e nessuno ne aveva mai sentito parlare. E questa è la parte di cui non sono sicuro, perché sebbene tutti sapessero che il Mago era saggio e potente, sapevano anche che era un gran bugiardo.

«Disse che la Pietra Stellare era in grado di catturare l’essenza d’una persona al momento della morte. Tutta la sua sapienza e il potere e la bellezza e la conoscenza e la forza affluivano nella pietra e rimanevano lì per l’eternità.

— In animazione sospesa — mormorò Radiant.

— Precisamente. Quando sentirono queste parole, tutti si stupirono. Tempestarono il Mago di domande, ma lui diede poche risposte, e controvoglia. Poi se ne andò in gran fretta. Allora tutti discussero fino a notte inoltrata ciò che aveva detto. Alcuni pensavano che il Mago avesse dato la speranza che la Principessa potesse rivivere. Perciò, se il suo corpo fosse stato ibernato, il Principe, al suo ritorno, forse sarebbe riuscito a trasfondere di nuovo l’essenza nella sua persona. Altri erano convinti che il Mago avesse detto che questo era impossibile e che la Principessa era condannata ad una vita parziale, imprigionata nella pietra.

«Tuttavia l’opinione che prevalse fu questa:

«Probabilmente la Principessa non sarebbe mai ritornata del tutto in vita. Ma la sua essenza poteva fluire dalla Pietra Stellare in un’altra persona, se fosse stato possibile trovarla. Tutti erano d’accordo che doveva trattarsi di una fanciulla: e doveva essere bella, molto intelligente, svelta, affettuosa, buona… oh, l’elenco era lunghissimo. Tutti dubitavano che si potesse trovare una persona così. Molti non volevano neppure cercarla.

«Ma finalmente fu deciso che la Pietra stellare doveva essere affidata a un fedele amico del Principe. Lui avrebbe cercato la fanciulla in tutta la galassia. Se esisteva, l’avrebbe trovata.

«Perciò egli partì accompagnato dalle benedizioni di molti mondi, e giurò di trovare la fanciulla e di darle la Pietra Stellare.

Ian s’interruppe di nuovo, si schiarì la gola e lasciò che il silenzio si prolungasse.

— È tutto? — chiese finalmente Radiant, sottovoce.

— Non è tutto — ammise lui. — Purtroppo ti ho imbrogliata.

— Mi hai imbrogliata?

Ian aprì la giacca che era ancora drappeggiata sulle spalle della bambina, insinuò la mano all’interno senza toccarle il petto ossuto e frugò nella tasca. Estrasse un cristallo. Era ovale, con un lato piatto. E palpitava d’una luce di rubino nel palmo della sua mano.

— Brilla — disse Radiant, guardandolo ad occhi sgranati e a bocca aperta.

— Sì, brilla. Vuoi dire che sei tu.

— Io?

— Sì, prendilo. — Ian glielo porse, e in quel momento lo scalfì con l’unghia del pollice. La luce rossa si riversò nelle mani della bambina, fluì tra le sue dita, sembrò penetrare nella sua pelle. Quando finì, il cristallo continuò a pulsare, ma d’una luce più fievole. Le mani di Radiant tremavano.

— È caldissimo — mormorò lei.

— Era l’essenza della Principessa.

— E il Principe? La sta ancora cercando?

— Nessuno lo sa. Io credo che ci sia ancora, e che un giorno tornerà da lei.

— E allora cosa succederà?

Ian distolse lo sguardo. — Non lo so. Credo, anche se tu sei incantevole e anche se hai la Pietra Stellare, che si struggerà. L’amava moltissimo.

— Io mi prenderei cura di lui — promise Radiant.

— Forse questo servirebbe a qualcosa. Ma ora ho un problema. Non ho il coraggio di dire al Principe che lei è morta. Eppure sento che un giorno la Pietra Stellare l’attirerà a sé. Se verrà e ti troverà… ho paura per lui. Credo che forse dovrei portare la pietra in una parte remota della Galassia, in un luogo dove non potrà mai trovarla. Allora, almeno, non saprà mai. Forse è meglio così.

— Ma io l’aiuterei — disse la bambina, di slancio. — Lo prometto. L’aspetterei e, quando venisse, prenderei il posto della Principessa. Vedrai.

Ian la studiò. Forse l’avrebbe fatto davvero. La guardò a lungo negli occhi, e finalmente lasciò trapelare la sua soddisfazione.

— D’accordo. Allora puoi tenerla.

— Lo aspetterò — disse Radiant. — Vedrai.

Era stanchissima, quasi addormentata.

— Ora dovresti andare a casa — propose Ian.

— Magari potrei sdraiarmi un momento — disse lei.

— Come vuoi. — La sollevò delicatamente e l’adagiò prona a terra. Rimase in piedi a guardarla, poi s’inginocchiò accanto a lei e incominciò ad accarezzarle adagio la fronte. Radiant aprì gli occhi, senza mostrarsi allarmata, e li richiuse. Continuò ad accarezzarla.

Venti minuti dopo lasciò il campo giochi. Solo.

Si sentiva sempre depresso, dopo. Questa volta era anche peggio. Lei era stata anche più dolce di quanto avesse immaginato all’inizio. Chi avrebbe creduto che avesse un cuore così romantico sotto tutto quel sudiciume?

A qualche isolato di distanza trovò una cabina telefonica. Batté il nome di Radiant e il servizio informazioni diede un numero di quindici cifre. Lo chiamò. Tenne la mano sull’occhio della telecamera.

Sullo schermo apparve un volto di donna.

— Sua figlia è al campo giochi, dalla parte sud accanto alla piscina, sotto i cespugli — le disse. Diede l’indirizzo del campo giochi.

— Eravamo tanto in pensiero! Che cosa è… Chi parla…?

Ian riattaccò e si allontanò in fretta.

Quasi tutti gli altri spacciatori pensavano che fosse malsano. Non che avesse importanza. Gli spacciatori erano tolleranti, nei confronti degli altri spacciatori, soprattutto quando si trattava di ciò che uno spacciatore poteva aver voglia di fare a uno che non era di loro. Si rammaricava di aver raccontato ad altri come passava le licenze, ma l’aveva fatto, e adesso doveva sopportare le conseguenze.

E perciò, sebbene se ne infischiassero anche se lui si divertiva a strappare le braccia e le gambe a quelli che non erano spacciatori, erano tutti appena tornati dalla licenza a terra e non potevano lasciarsi sfuggire l’occasione di darsi reciprocamente sui nervi. Lo presero in giro senza misericordia.

— Com’è andata alle altalene questa volta, lan?

— Mi hai portato quel paio di mutandine sporche che ti ho chiesto?

— È stato piacevole? E lei ansimava e sbavava?

— La mia bimba di dieci anni, mi fa venir voglia di tornare a casa…

Ian sopportava tutto stoicamente. Era di pessimo gusto, e lui era il bersaglio, ma per la verità non aveva importanza. Sarebbe finito subito dopo il decollo. Loro non avrebbero mai capito che cosa cercava, ma Ian sentiva di capirli. Odiavano venire sulla Terra. Lì non c’era niente per loro, e forse avrebbero desiderato che ci fosse qualcosa.

E del resto, anche lui era uno spacciatore. Non aveva simpatia per gli altri. Era d’accordo con il sentimento espresso da Marian, subito dopo il decollo. Marian aveva appena concluso la sua prima licenza a terra, dopo il suo primo viaggio. Perciò, naturalmente, era più ubriaca di tutti gli altri.

— Rimbecilliti dalla gravità — disse lei, e vomitò.

Tre mesi per arrivare ad Amity, e tre mesi per tornare. Ian non aveva la più vaga idea di quale fosse la distanza calcolata in miglia: dopo il decimo o l’undicesimo zero la sua mente si arrendeva.

Amity. Merdopoli. Non scese neppure dalla nave. Perché prendersi quel disturbo? Il pianeta era popolato da cosi che sembravano un po’ bruchi da dieci tonnellate e un po’ escrementi verdi. Le toelette erano un’idea rivoluzionaria per gli amitiani, e lo erano anche le gelaterie, i sorbetti, le ciambelle zuccherate e la menta piperita. Gli impianti igienici non avevano mai attecchito, ma i dolciumi sì, e i dessert di lusso di tutte le nazioni della Terra. Oltre a quel carico, c’era una borsa di posta consolante per la desolata ambasciata umana. Il carico per il viaggio di ritorno era una brodaglia grigia che qualcuno, sulla Terra, doveva giudicare tremendamente preziosa, e una borsa di lettere disperate per quelli di casa. Ian non aveva bisogno di leggere le lettere per sapere cosa c’era scritto. Tutte si potevano riassumere allo stesso modo: «Portatemi via da qui!»

Ian rimase accanto all’oblò e guardò una famiglia di amitiani che avanzava pesantemente, scorreggiando, lungo la strada dello spazioporto. Ogni tanto si fermavano per fare qualcosa che sembrava un’ammucchiata collettiva aliena. La strada era marrone. Il terreno circostante era marrone e in lontananza c’erano colline marroni. C’era una foschia marrone nell’aria e il sole era giallo-bruno.

Lui pensò ai castelli in vetta a montagne di cristallo, a Principi e Principesse, a fulgidi cavalli bianchi che galoppavano tra le stelle.

Trascorse il viaggio di ritorno come aveva trascorso quello d’andata: sudando nei tubi ciclopici del motore stellare. Al di là delle paratie metalliche palpitavano energie inimmaginabili. E sulle paratie i minuscoli plasmoidi crescevano e diventavano plasmoidi più grandi. Era un processo troppo lento perché fosse osservabile, ma se fossero rimaste incontrollate, le incrostazioni avrebbero menomato molto presto i motori. Il suo compito consisteva nel grattarle via.

Non tutti erano tagliati per fare l’astrogatore.

E con ciò? Era un lavoro onesto. Ian aveva compiuto la sua scelta molto tempo prima. Si passava la vita a sopportare la gravità, oppure a spacciarla. E quando eri stanco, agguantavi qualche z. Se c’era un codice degli spacciatori, era quello.

I plasmoidi erano rossi e cristallini, a forma di goccia. Quando si staccavano dalle paratie, uno dei lati era piatto. Erano pieni di una luce liquida che sembrava calda come il centro del sole.

Era sempre difficile scendere dalla nave. Molti spacciatori non lo facevano mai. Un giorno avrebbe smesso di farlo anche lui.

Per qualche istante rimase fermo a guardare tutto. All’inizio era necessario assorbire tutto passivamente, per abituarsi ai cambiamenti. I grandi cambiamenti non lo preoccupavano. Gli edifici erano soltanto il mobilio del mondo, e non gl’importava come fossero disposti. Ma i piccoli cambiamenti lo preoccupavano a morte. Gli orecchi, per esempio. Pochissime delle persone che vedeva avevano i lobi. Ogni volta che ritornava si sentiva un po’ più simile a uno scimmione caduto dal suo albero. Un giorno sarebbe ritornato e avrebbe scoperto che tutti avevano tre occhi o sei dita, o che alle bambine non piaceva più ascoltare le storie avventurose.

Rimase immobile, esitante, abituandosi al modo in cui la gente si dipingeva la faccia, ascoltando una lingua che sembrava spagnolo, con qualche parola inglese o araba. Prese per il braccio un collega e gli chiese dov’erano. L’uomo non lo sapeva. Perciò lo chiese alla comandante, e lei rispose che erano in Argentina. O almeno, era l’Argentina quando erano partiti.

Le cabine telefoniche erano più piccole. Ian si chiese perché.

C’erano quattro nomi nella sua agenda. Sedette fissando il telefono e domandandosi quale avrebbe dovuto chiamare per primo. I suoi occhi furono attratti da Radiant Shiningstar Smith, e batté quel nome sui tasti. In risposta ebbe un numero e un indirizzo di Novosibirsk.

Controllò l’orario che aveva portato con sé, prima di fare la chiamata, e scoprì che lo shuttle per gli antipodi partiva di lì a un’ora. Poi si asciugò le mani sui calzoni, trasse un profondo respiro, alzò gli occhi e la vide ferma davanti alla cabina telefonica. Si fissarono in silenzio per un momento. Lei vide un uomo molto più basso di quanto ricordasse, ma poderoso, con le mani grandi e le sballe robuste e una faccia butterata che sarebbe stata sgradevole per chiunque non avesse un animo gentile. Lui vide una donna alta, sulla quarantina, e bella esattamente come si aspettava che fosse. La mano del tempo aveva appena incominciato a sfiorarla. Ian pensò che probabilmente aveva qualche problema per conservare la vita snella e si preoccupava per le prime rughe, ma tutto questo non gl’importava. C’era una sola cosa che gl’importava, e prestissimo avrebbe saputo.

— Tu sei Ian Haise, non è vero? — chiese finalmente lei.

— È stata una pura fortuna che mi ricordassi di te — stava dicendo lei. Ian notò la scelta delle parole. Avrebbe potuto dire «coincidenza».

— È stato due anni fa. Stavamo per traslocare di nuovo e stavo scegliendo la roba da portar via quando ho trovato il plasmoide. Non avevo più pensato a te da… oh, dovevano essere quindici anni.

Ian disse qualcosa di vago. Erano in un ristorante, lontano da quasi tutti gli altri avventori, in un separé accanto a una vetrata oltre la quale le astronavi venivano portate avanti e indietro sulle rampe di lancio.

— Spero di non averti causato fastidi — disse lui. Lei alzò le spalle.

— Qualcuno, ma è passato tanto tempo. Non posso certo serbare rancore per tanti anni. E il fatto è che a quel tempo pensavo che ne valesse la pena.

Gli raccontò dello scalpore che aveva causato in famiglia, delle visite della polizia, le domande, le perplessità, l’impotenza conclusiva. Nessuno sapeva cosa pensare di ciò che lei aveva raccontato. Lo avevano identificato abbastanza rapidamente, ma avevano accertato che aveva lasciato la Terra e non sarebbe tornato per molto, molto tempo.

— Non avevo trasgredito nessuna legge — disse Ian.

— È ciò che nessuno riusciva a capire. Dissi che mi aveva parlato e mi avevi raccontato una lunga storia, e io mi ero addormentata. Nessuno mostrava il minimo interesse per la storia. Così non gliela riferii. E non parlai della… della Pietra Stellare. — Lei sorrise. — Per la verità era un sollievo che non l’avessero chiesto. Ero decisa a non dirglielo, ma avevo un po’ paura a nascondere tutto. Pensavo che fossero agenti dei… chi erano i cattivi della tua storia? L’ho dimenticato.

— Non è importante.

— Già. Ma qualcosa lo è.

— Sì.

— Forse dovresti dirmi che cos’è. Forse puoi rispondere all’interrogativo che è rimasto in fondo alla mia mente per venticinque anni, da quando scoprii che quello che mi avevi dato era un’incrostazione di un motore d’astronave.

— Non era altro? — chiese lui guardandola negli occhi. — Non fraintendermi. Non sto dicendo che era qualcosa di più. Sto chiedendo a te se non lo era.

— Sì, credo che fosse qualcosa di più — rispose lei, alla fine.

— Ne sono contento.

— Ho creduto appassionatamente a quella storia per… oh, per anni e anni. Poi ho smesso di crederci.

— All’improvviso?

— No. Gradualmente. Non mi ha fatto soffrire molto. Credo facesse parte del fatto di diventare adulta.

— E ti sei ricordata di me.

— Ecco, questo ha richiesto un certo impegno. Andai da un ipnotista, quando avevo venticinque anni, e ricordai il tuo nome e il nome della tua nave. Sapevi…?

— Sì. Te li avevo detti di proposito.

Lei annuì. Tacquero di nuovo. Quando lei tornò a guardarlo, Ian vide una maggiore comprensione, un atteggiamento meno difensivo. Ma c’era ancora una domanda.

— Perché? — chiese lei.

Ian annuì, e distolse gli occhi, guardò le astronavi. Si augurò d’essere a nordo d’una di esse, a spacciare la gravità. Ma non serviva. Sapeva che non serviva a niente. Per lei era un problema bizzarro, qualcosa da chiarire, una questione in sospeso nella sua vita che l’avrebbe irritata fino a quando non avesse potuto spiegarselo, per dimenticarla.

Al diavolo.

— La speranza di un’avventura sentimentale — disse Ian. Quando la guardò, lei stava scuotendo lentamente la testa.

— Non scherzare con me, Haise. Non sei stupido come sembri. Sapevi che mi sarei sposata, che avrei avuto la mia vita. Sapevi che non avrei abbandonato tutto a causa di una favola semidimenticata di trent’anni fa. Perché?

E come poteva spiegarglielo?

— Che cosa fai? — Ian rammentò qualcosa e formulò la domanda in modo diverso. — Chi sei?

Lei lo guardò, sorpresa. — Sono mistellologa.

Ian allargò le mani. — Non so neppure che cosa sia.

— Ora che ci penso, quando partisti tu la professione non esisteva.

— Ecco, è questo, in un certo senso — disse lui. Si sentiva di nuovo frastornato. — Ovviamente, non avevo modo di sapere che cosa avresti fatto, che cosa saresti diventata, cosa sarebbe stato di te. Puntavo tutto sulla possibilità che mi ricordassi. Perché così… — Ian vide ancora una volta il pianeta Terra che giganteggiava nello spazio, oltre l’oblò. Tanti, tanti anni, eppure erano trascorsi appena sei mesi. Un pianeta pieno di sconosciuti. Non aveva nessuna importanza che Amity fosse pieno di sconosciuti. Ma la Terra era la patria, se pure quella parola aveva ancora un significato per lui.

— Volevo qualcuno della mia età con cui parlare — disse. — Ecco tutto. Non voglio altro che un amico.

Si accorse che lei si stava sforzando di capire. Non poteva capirlo, ma forse ci sarebbe arrivata abbastanza vicina da illudersi di aver compreso.

— Forse ne hai trovata una — disse lei, e sorrise. — Almeno, voglio imparare a conoscerti meglio, considerando tutto lo sforzo e l’impegno che ci hai messo.

— Non è stato un grande sforzo. A te sembra una cosa a lungo termine, ma per me non lo è stata. Ti ho tenuta sulle ginocchia appena sei mesi fa.

— Quanto dura la tua licenza? — chiese lei.

— Due mesi.

— Ti piacerebbe venire a stare per un po’ con noi? In casa nostra c’è posto.

— A tuo marito non dispiacerà?

— Né a mio marito né a mia moglie. Eccoli seduti laggiù: fanno finta di non vederci. — Ian guardò, e incontrò lo sguardo di una donna sulla trentina. Era seduta di fronte a un uomo che aveva l’età di Ian, e che si voltò a guardarlo con un certo sospetto ma senza ostilità. La donna sorrideva; l’uomo si riservava il giudizio.

— Radiant aveva una moglie. Be’, i tempi cambiano.

— Quelle due con le gonne rosse sono della polizia — stava dicendo Radiant. — E anche l’uomo vicino al muro, e l’altro in fondo al bar.

— Ne avevo riconosciuti due — disse Ian. Quando lei lo guardò sorpresa, soggiunse: — I poliziotti hanno sempre quella certa aria. È una delle cose che non cambiano mai.

— Hai incominciato molto tempo fa, non è vero? Scommetto che hai tante storie interessanti da raccontare.

Ian rifletté e annui. — Sì, qualcuna. Credo.

— Dovrei dire a quelli della polizia che possono andarsene. Spero che non ti sia offeso se li avevamo chiamati.

— No, naturalmente.

— Glielo dirò, e poi potremo andare. Oh, e penso che dovrei chiamare i bambini e avvertirli che presto arriveremo a casa. — Lei rise, e gli sfiorò la mano. — Hai visto quante cose possono succedere in sei mesi? Io ho tre figli, e Gillian ne ha due.

Ian alzò la testa, interessato.

— E qualcuna è una bambina?