Anna Heymes, moglie di un alto funzionario parigino, dopo un intervento di chirurgia estetica soffre di crisi di amnesia e di terribili allucinazioni. Alla ricerca della sua identità e del suo vero volto, incontra Paul, il giovane commissario che sta indagando sull’atroce omicidio di tre ragazze turche impiegate in un laboratorio clandestino. Paul ha chiesto l’aiuto di un poliziotto in pensione dal passato turbolento, Jean-Louis Schiffer, creando così una coppia eccentrica ma tenacissima.

Inizia così una vera e propria discesa agli inferi: un viaggio nei labirinti della mente dei protagonisti, ma anche in un mondo popolato da feroci assassini e trafficanti di immigrati , oltre che da bande terroriste che vanno dai guerriglieri no-global ai Lupi grigi turchi.

Jean-Christophe Grangé

L’impero dei lupi

Per Priscilla

UNO

1.

«Rosso.»

Anna Heymes si sentiva sempre più a disagio. L’esperimento non presentava alcun pericolo, ma l’idea che si potesse leggere a ogni istante nel suo cervello la turbava profondamente.

«Blu.»

Era distesa su un tavolo d’acciaio, al centro di una sala immersa nella penombra, la sua testa inserita nel foro centrale di una macchina bianca e circolare. Proprio sopra il suo viso c’era uno schermo inclinato sul quale venivano proiettati dei piccoli quadrati. Lei doveva semplicemente riconoscere i colori.

«Giallo.»

Una flebo colava lenta nel suo braccio sinistro. Il dottor Eric Ackermann le aveva brevemente spiegato che si trattava di un liquido di contrasto che permetteva di localizzare gli afflussi di sangue al cervello.

Si susseguirono altri colori. Verde. Arancio. Rosa… Poi lo schermo si spense.

Anna restò immobile, le braccia lungo il corpo, come in un sarcofago. Distingueva, a qualche metro sulla sua sinistra, il chiarore vago, acquatico, di una cabina vetrata dove c’erano Eric Ackermann e Laurent, suo marito. Immaginava i due uomini di fronte ai monitor a scrutare l’attività dei suoi neuroni. Si sentiva spiata, depredata, come violata nella sua intimità più segreta.

La voce di Ackermann risuonò nell’auricolare fissato al suo orecchio:

«Molto bene, Anna. Ora i quadrati si animeranno. Tu dovrai semplicemente descrivere i loro movimenti. Utilizzando una sola parola ogni volta: destra, sinistra, alto, basso…»

Subito le figure geometriche cominciarono a spostarsi, formando un mosaico screziato, fluido e morbido come un banco di piccoli pesci. Nel microfono collegato all’auricolare disse:

«Destra.»

I quadrati risalirono verso il bordo superiore dello schermo.

«Alto.»

L’esercizio durò diversi minuti. Lei parlava con una voce lenta, monocorde, si sentiva vinta dal torpore; il calore dello schermo accresceva quella pesantezza. Non avrebbe tardato a piombare nel sonno.

«Perfetto», disse Ackermann. Ora ti sottoporrò una storia, raccontata in diverse maniere. Ascolta attentamente ciascuna versione.

«Cosa devo dire?»

«Niente. Ascolta e basta.»

Dopo qualche secondo, una voce femminile risuonò nell’auricolare. Il discorso era pronunciato in una lingua straniera; sonorità asiatiche forse, o orientali.

Breve silenzio. La storia ricominciò, in francese. Ma la sintassi non era rispettata: verbi all’infinito, articoli senza accordo, preposizioni sbagliate…

Anna tentò di decrittare questo linguaggio sgangherato ma intanto era già cominciata un’altra versione. Adesso c’erano parole assurde che si infilavano nelle frasi… Cosa significava tutto ciò? D’un tratto il silenzio riempì i suoi timpani, sprofondandola ancor più nell’oscurità del cilindro.

Dopo un po’ il medico riprese:

«Test successivo. Per ogni nome di paese dimmi la capitale.»

Anna cercò di annuire quando il primo nome risuonò al suo orecchio:

«Svezia.»

Senza riflettere disse:

«Stoccolma.»

«Venezuela.»

«Caracas.»

«Nuova Zelanda.»

«Auckland. No, Wellington.»

«Senegal.»

«Dakar.»

Ogni capitale le veniva in mente con naturalezza. Le sue risposte erano semplici riflessi, ma lei era felice di quei risultati; dunque la sua memoria non era totalmente perduta. Cos’è che Ackermann e Laurent vedevano sui loro schermi? Quali zone si stavano attivando nel suo cervello?

«Ultimo test», avvertì il neurologo. «Appariranno dei volti. Tu identificali ad alta voce, il più rapidamente possibile.»

Aveva letto da qualche parte che un semplice segno — una parola, un gesto, un dettaglio visivo — scatenava il meccanismo della fobia; quello che gli psichiatri chiamano il segnale dell’angoscia. Segnale: il termine era perfetto. Nel suo caso, la sola parola «volto» era sufficiente a provocare il malessere. Immediatamente si sentiva soffocare, il suo stomaco diventava pesante, le sue membra si anchilosavano — e quel raschiare che le bruciava la gola…

Sullo schermo apparve un volto di donna, in bianco e nero. Riccioli biondi, labbra corrucciate, neo di bellezza sopra la bocca. Facile:

«Marilyn Monroe.»

Alla fotografia fece seguito un’incisione. Sguardo tenebroso, mascella quadrata, capelli ondulati:

«Beethoven.»

Un viso rotondo, liscio come una bomboniera, solcato da due occhi a mandorla.

«Mao Tse-Tung.»

Anna era stupita di riconoscerli così facilmente. Ne seguirono altri: Michael Jackson, la Gioconda, Albert Einstein… Aveva l’impressione di contemplare le proiezioni lucenti di una lanterna magica. Rispondeva senza esitazione. Il suo turbamento già diminuiva.

Ma all’improvviso, un ritratto la tenne in scacco; un uomo d’una quarantina d’anni, l’espressione ancora giovanile, gli occhi prominenti. Il biondo dei capelli e delle sopracciglia gli dava un’aria indecisa, da adolescente.

La paura la attraversò, come un’onda elettrica. Quei tratti risvegliavano in lei una reminiscenza che però non richiamava alcun nome, alcun ricordo preciso. La sua memoria era in un tunnel oscuro. Dove l’aveva già vista quella faccia? Un attore? Un cantante? Un lontano conoscente? L’immagine lasciò il posto a un volto allungato con due occhialini rotondi. Con la bocca secca disse:

«John Lennon.»

Apparve Che Guevara, ma Anna implorò:

«Eric, aspetta.»

Il carosello continuò. Scintillò un autoritratto di Van Gogh dai colori aciduli. Anna prese lo stelo del microfono:

«Eric, per favore!»

Le immagini continuarono a scorrere. Anna sentiva i colori e il calore riflettersi sulla sua pelle. Dopo una pausa Ackermann domandò:

«Cosa c’è?»

«Chi è quello che non ho riconosciuto?»

Nessuna risposta. Gli occhi chiari di David Bowie vibrarono sullo schermo. Lei si alzò e disse più forte:

«Eric, ti ho fatto una domanda: chi era?»

Lo schermo si spense. In un secondo i suoi occhi si abituarono all’oscurità. Vide il suo riflesso nel rettangolo obliquo del monitor: livido, ossuto. Il viso di una morta.

Alla fine, il medico rispose:

«Era Laurent, Anna. Laurent Heymes, tuo marito.»

2.

«Da quanto tempo soffri di queste amnesie?»

Anna non rispose. Era quasi mezzogiorno: era stata sottoposta a esami per tutta la mattina. Radiografie, tomografie, risonanze e, per finire, tutti quei test nella macchina circolare… Si sentiva svuotata, spossata, perduta. E quell’ufficio non aggiustava certo le cose: una stanza stretta, senza finestre, troppo illuminata, dove, negli armadi metallici e persino sul pavimento, si accatastavano disordinatamente dei dossier. Sui muri c’erano stampe che raffiguravano cervelli, crani rasati con linee di perforazione che sembravano fustellature. Proprio quello che ci voleva per lei…

Eric Ackermann ripeté:

«Da quanto tempo, Anna?»

«Più di un mese.»

«Sii precisa. Tu ti ricordi la prima volta, non è vero?»

Certo che se ne ricordava: come avrebbe potuto dimenticarlo?

«Era il 4 febbraio scorso. Un mattino. Uscivo dal bagno. Ho incrociato Laurent nel corridoio. Era pronto per andare in ufficio. Mi ha sorriso. Mi sono spaventata: non capivo chi fosse.»

«Del tutto sconosciuto?»

«Sì, per un secondo. Poi, nella mia testa tutto si è sistemato.»

«Descrivimi esattamente quello che hai provato in quell’istante.»

Lei scosse le spalle, un gesto d’indecisione sotto lo scialle nero e oro:

«Era una sensazione strana, fugace. Come l’impressione di aver già vissuto qualche cosa. Il malessere è durato solo il tempo di un lampo», disse schioccando le dita. «Poi tutto è tornato normale.»

«Cosa hai pensato in quel momento?»

«Che fosse colpa della stanchezza.»

Ackermann annotò qualcosa sul blocco posato davanti a lui, poi riprese:

«Ne hai parlato a Laurent quel mattino?»

«No. Non mi è parso così grave.»

«Quando è sopraggiunta la seconda crisi?»

«La settimana dopo. Ce ne sono state parecchie, una dopo l’altra.»

«Sempre di fronte a Laurent?»

«Sì.»

«E tu finivi sempre per riconoscerlo?»

«Sì. Ma giorno dopo giorno, lo scatto verso la normalità mi è sembrato… Non so… Mi è sembrato sempre più lento ad arrivare.»

«È stato allora che gliene hai parlato?»

«No»

«Perché?»

Lei accavallò le gambe, posò le sue mani fragili sulla gonna di seta scura — due uccelli dalle piume pallide:

«Mi pareva che parlargliene avrebbe aggravato il problema. E poi…»

Il neurologo alzò gli occhi; i suoi capelli rossi si riflettevano nei suoi occhiali:

«E poi?»

«Non è una cosa facile da annunciare al proprio marito. Lui…»

Sentiva la presenza di Laurent, in piedi dietro di lei, appoggiato ai mobili metallici.

«Laurent diventava per me un estraneo.»

Il medico sembrò percepire il suo turbamento; preferì cambiare discorso:

«Questo problema di riconoscimento lo riscontri anche con altri visi?»

«Talvolta, esitò lei. Ma è molto raro.»

«Di fronte a chi, ad esempio?»

«Con i negozianti del quartiere. E anche sul lavoro. Non riconosco dei clienti abituali.»

«E i tuoi amici?»

Anna fece un gesto vago:

«Non ho amici.»

«La tua famiglia?»

«I miei genitori sono morti. Ho solamente qualche zio e qualche cugino nel Sud-Ovest. Non vado mai a trovarli.»

Ackermann scrisse ancora; i suoi tratti non tradivano alcuna reazione. Sembravano stampati nella resina.

Anna detestava quell’uomo: un amico di famiglia di Laurent. Veniva qualche volta a cena da loro, ma restava, in ogni circostanza, di una freddezza glaciale. Certo, a meno che non si parlasse dei suoi ambiti di ricerca: il cervello, la geografia cerebrale, il sistema cognitivo umano. Allora cambiava tutto, si lasciava trasportare, si esaltava, faceva ampi gesti con quelle sue lunghe zampe rosse.

«Dunque è il viso di Laurent che ti pone i problemi più grossi?» riprese lui.

«Sì. Ma è anche il più vicino. Quello che vedo più spesso.»

«Soffri di altri disturbi della memoria?»

Anna si morse il labbro inferiore. Ancora una volta esitò:

«No.»

«Problemi di orientamento?»

«No.»

«Disturbi nell’eloquio?»

«No.»

«Hai difficoltà a effettuare certi movimenti?»

Lei non rispose, poi abbozzò un debole sorriso:

«Pensi all’Alzheimer, vero?»

«Verifico, tutto qui.»

Era la prima malattia alla quale Anna aveva pensato. Si era informata, aveva consultato delle enciclopedie mediche: il mancato riconoscimento dei volti era uno dei sintomi del morbo di Alzheimer.

Con il tono che si usa per calmare un bambino, Ackermann aggiunse:

«Non hai assolutamente l’età. E in ogni modo l’avrei visto dai primi esami. Un cervello colpito da una malattia neurodegenerativa ha una morfologia molto particolare. Ma devo porti tutte queste domande per fare una diagnosi completa, capisci?»

Non attese la risposta e ripeté:

«Hai difficoltà a effettuare dei movimenti o no?»

«No.»

«Disturbi del sonno?»

«No.»

«Nessun torpore inspiegabile?»

«No.»

«Emicranie?»

«Nessuna.»

Il medico chiuse il suo blocco e si alzò. Ogni volta era la stessa sorpresa. Era alto quasi un metro e novanta per una sessantina di chili. Era come un palo, sul quale il camice bianco sembrava steso, più che indossato.

Era di un rosso totale, bruciante; i suoi capelli crespi, mal tagliati, erano colore del miele scuro; la pelle era disseminata di grani color ocra, persino sulle palpebre. Il viso era spigoloso e gli occhiali dalla montatura metallica, sottili come lame, lo rendevano ancora più affilato.

Questa fisionomia sembrava metterlo al riparo dal tempo. Era più vecchio di Laurent, una cinquantina d’anni circa, ma sembrava ancora un ragazzo. Le rughe si erano disegnate sul suo volto senza colpirne l’essenziale: quei tratti d’aquila, aguzzi, indecifrabili. Solo i segni dell’acne scavavano le sue guance e davano profondità alla sua pelle, al suo passato.

Fece qualche passo nello spazio minuscolo dell’ufficio, in silenzio. I secondi passavano. Non resistendo più, Anna chiese:

«Santo cielo, cos’è che ho?»

Il neurologo scosse un oggetto metallico che aveva in tasca. Delle chiavi, senza dubbio; ma fu come un campanello che diede inizio al suo discorso:

«Lascia che prima ti spieghi l’esame che abbiamo appena fatto.»

«Sarebbe ora.»

«La macchina che abbiamo utilizzato è una videocamera a positroni. È quella che noi chiamiamo “Petscan”. Questo apparecchio si basa sulla tecnologia della tomografia a emissione di positroni: la TEP. Permette di osservare in tempo reale le zone di attività del cervello, localizzandone le concentrazioni sanguigne. Ho voluto procedere con te a una sorta di revisione generale. Verificare il funzionamento di alcune grandi zone cerebrali di cui si conosce bene la localizzazione. La visione. Il linguaggio. La memoria.»

Anna pensò ai differenti test. I quadrati colorati; le storie raccontate in diverse maniere; i nomi delle capitali. Non aveva difficoltà a situare ogni esercizio in questo contesto, ma ormai Ackermann era lanciato:

«Il linguaggio, ad esempio. Tutto si svolge nel lobo frontale, in una regione a sua volta divisa in sottosistemi, destinati rispettivamente all’ascolto, al lessico, alla significazione, alla prosodia…» e parlando puntava l’indice sulla sua testa. «È l’associazione di queste zone che ci permette di comprendere e di utilizzare la parola. Grazie alle differenti versioni del mio piccolo racconto, ho sollecitato nella tua testa ciascuno di questi sistemi.»

Non la smetteva di andare avanti e indietro nella piccola stanza. Le stampe appese al muro apparivano e scomparivano a seconda dei suoi movimenti. Anna scorse uno strano disegno che rappresentava una scimmia colorata dotata di una grande bocca e di mani giganti. Malgrado il calore dei neon, sentiva i brividi lungo la schiena.

«E allora?» Chiese lei.

Ackermann aprì le mani in un movimento che voleva essere rassicurante:

«Allora va tutto bene. Linguaggio. Visione. Memoria. Ogni area si è attivata normalmente.»

«Salvo quando mi hai mostrato il ritratto di Laurent.»

Ackermann si sporse sulla scrivania e ruotò lo schermo del suo computer. Anna vi scorse l’immagine digitalizzata di un cervello. Una sezione di profilo, verde luminescente; l’interno era assolutamente nero.

«Ecco il tuo cervello mentre osservavi la fotografia di Laurent. Nessuna reazione. Nessuna connessione. Un’immagine piatta.»

«E questo cosa vuol dire?»

Il neurologo si rialzò e sprofondò nuovamente le mani nelle tasche. Gonfiò il torace in una posa teatrale: era il grande momento del verdetto.

«Credo che tu soffra di una lesione.»

«Una lesione?»

«Che tocca specificatamente la zona di riconoscimento dei volti.»

Anna era stupefatta.

«Esiste una zona dei… volti?»

«Sì, un dispositivo neuronale specializzato in questa funzione, situato nell’emisfero destro, nella parte ventrale del temporale, nella sezione posteriore del cervello. Questo sistema è stato scoperto negli anni Cinquanta. Alcune persone che erano state vittime di un incidente vascolare in questa regione non riconoscevano più i volti. Ora, grazie al “Petscan”, noi l’abbiamo localizzata con una precisione ancora maggiore. Sappiamo ad esempio che quest’area è particolarmente sviluppata nei “fisionomisti”, nei tipi che sorvegliano l’entrata dei locali notturni o dei casinò.»

«Ma io riconosco la maggior parte delle facce», tentò di argomentare lei. «Durante il test, ho identificato tutti i ritratti…»

«Tutti tranne quello di tuo marito. E questa è una pista seria.»

Ackermann unì gli indici di entrambe le mani sulle sue labbra, in un segno di ostentata riflessione. Quando non era gelido diventava enfatico:

«Noi possediamo due tipi di memoria. C’è quello che impariamo a scuola e quello che apprendiamo nella nostra vita personale. Queste due memorie non fanno lo stesso cammino nel cervello. Io penso che tu soffra di un problema di connessione tra l’analisi istantanea dei volti e la loro comparazione con i tuoi ricordi personali. C’è una lesione che sbarra la strada a questo meccanismo. Tu puoi riconoscere Einstein, ma non Laurent, che appartiene ai tuoi archivi privati.»

«E… è curabile?»

«Certo. Noi sposteremo questa funzione in una parte sana della tua testa. È uno dei vantaggi del cervello: la sua plasticità. Per questo dovrai sottoporti a una rieducazione: una sorta di allenamento mentale, degli esercizi regolari sostenuti da farmaci adatti.»

Il tono grave del neurologo era in contrasto con la buona notizia.

«Dov’è il problema?» chiese Anna.

«Nell’origine della lesione. Qui, devo confessarlo, mi fermo. Non abbiamo alcun segno di tumore, nessuna anomalia neurologica. Non hai subito nessun trauma cranico, né incidenti vascolari che abbiano privato di irrigazione questa parte del cervello. Occorre fare delle nuove analisi, più profonde, al fine di perfezionare la diagnosi.»

«Quali analisi?»

Il medico si sedette dietro la sua scrivania. Il suo sguardo imperturbabile si fermò su di lei:

«Una biopsia. Un infinitesimo prelievo di tessuto corticale.»

Anna ci impiegò qualche secondo a comprendere, poi una vampata di terrore le montò al viso. Si volse verso Laurent, ma lo vide lanciare uno sguardo d’intesa ad Ackermann. La paura lasciò il posto alla rabbia: erano complici. Il suo destino era segnato; senza dubbio già dalla mattina.

Le parole tremarono sulle sue labbra:

«Non se ne parla neanche.»

Il neurologo sorrise per la prima volta. Un sorriso confortante, nelle intenzioni, ma che appariva completamente artificiale:

«Non devi avere nessuna apprensione. Praticheremo una biopsia stereotassica. Si tratta di una semplice sonda che…»

«Nessuno toccherà il mio cervello.»

Anna si alzò e si avvolse nello scialle; ali da corvo foderate d’oro. Laurent prese la parola:

«Non devi prenderla così. Eric mi ha assicurato che…»

«Tu sei dalla sua parte?»

«Noi siamo tutti dalla tua parte», assicurò Ackermann.

Lei arretrò, per meglio inquadrare i due ipocriti.

«Nessuno toccherà il mio cervello», ripeté con voce decisa. «Preferisco perdere completamente la memoria o crepare della mia malattia. Non rimetterò mai più piede qui.»

All’improvviso, presa dal panico, urlò:

«Mai più, avete capito?»

3.

Corse lungo il corridoio deserto, scese precipitosamente le scale, poi si fermò di colpo sulla soglia dell’edificio. Sentì il vento freddo richiamare il sangue sotto la sua pelle. Il cortile era inondato di sole. Ad Anna parve che quel chiarore estivo, senza calore e senza foglie sugli alberi, fosse stato congelato per meglio conservarlo.

Dall’altra parte del cortile, Nicolas, l’autista, la scorse e uscì dalla berlina per aprirle la portiera. Anna gli fece segno di no con la testa. Con la mano tremante, cercò nella borsa una sigaretta, l’accese, poi assaporò il gusto acre che le riempiva la gola.

L’istituto Henri-Becquerel raggruppava diversi edifici di quattro piani, che inquadravano un giardino punteggiato di alberi e di cespugli fitti. Sulle facciate smorte, grigie o rosa, erano affissi avvertimenti minacciosi: VIETATO ENTRARE SENZA AUTORIZZAZIONE; STRETTAMENTE RISERVATO AL PERSONALE MEDICO; ATTENZIONE PERICOLO.

Anche i più piccoli dettagli le sembravano ostili in quel fottuto ospedale.

Aspirò ancora una boccata di sigaretta, a pieni polmoni; il gusto del tabacco bruciato la calmò, come se in quel minuscolo braciere avesse gettato tutta la sua collera. Chiuse le palpebre, sprofondando nello stordimento del profumo.

Dei passi dietro di lei.

Laurent la oltrepassò senza degnarla di uno sguardo, attraversò il cortile poi aprì la portiera posteriore dell’auto. Si mise ad aspettarla, battendo sull’asfalto il tacco del mocassino lucidato, il viso contratto. Anna gettò la sua Marlboro e lo raggiunse. Si lasciò scivolare sul sedile in pelle. Laurent fece il giro della vettura e si sedette al suo fianco. Finita questa manovra silenziosa, l’autista partì e scese la rampa del parcheggio con una lentezza da vascello spaziale.

Davanti alla sbarra bianca e rossa dell’ingresso c’erano diversi soldati che montavano la guardia.

«Vado a recuperare il mio passaporto», disse Laurent. Anna si guardò le mani: tremavano ancora. Trasse dalla borsa un astuccio per la cipria e si osservò nello specchio ovale. Sembrava quasi che si attendesse di scoprire dei segni sulla sua pelle, come se lo sconvolgimento interiore avesse avuto la violenza di un pugno. E invece no, aveva lo stesso viso liscio e regolare di sempre, lo stesso pallore di neve, inquadrato da capelli neri tagliati alla Cleopatra; gli stessi occhi un po’ a mandorla, blu scuro, le cui palpebre si abbassavano lentamente, con la pigrizia di un gatto.

Scorse Laurent che tornava, piegato nel vento, con il bavero del cappotto alzato. E a un tratto sentì il calore di un’onda. Il desiderio. Lo guardò ancora: il suoi riccioli biondi, gli occhi sporgenti, quella preoccupazione che gli corrugava la fronte… Con mano incerta si premette contro il corpo le falde del cappotto. Un gesto da bambino timoroso, cauto, che mal si conciliava con la sua potenza di alto funzionario. Come quando ordinava un cocktail e descriveva pizzico per pizzico le dosi che desiderava. O come quando, le spalle alzate, metteva le mani giunte in mezzo alle gambe per manifestare il freddo o l’imbarazzo. Era quella fragilità che l’aveva sedotta; quelle piccole incrinature, quelle debolezze che contrastavano con il suo reale potere. Ma chi amava ancora in lui? Di cosa si ricordava?

Laurent si sedette di nuovo al suo fianco. La barra si alzò. Al passaggio, egli rivolse un saluto ostentato agli uomini armati. Questo gesto rispettoso irritò nuovamente Anna. Il suo desiderio svanì e domandò con durezza:

«Perché tutti questi sbirri?»

«Militari», rettificò Laurent. «Sono dei militari.»

La macchina si immise nel traffico. Piazza Generale Leclerc, a Orsay, era minuscola e ordinata con cura. Una chiesa, un municipio, un negozio di fiori: ogni elemento si stagliava nettamente.

«Perché quei militari?» insistette lei.

Laurent rispose con un tono distratto:

«È per via dell’Ossigeno-15.»

«Di cosa?»

Lui non la guardava, le sue dita tamburellavano sul vetro.

«L’Ossigeno-15. Il tracciante che ti hanno iniettato nel sangue per l’esame. È un prodotto radioattivo.»

«Fantastico.»

Laurent si girò verso di lei; la sua espressione si sforzava di essere rassicurante, ma le sue pupille tradivano l’irritazione:

«Non è pericoloso.»

«Ed è perché non è pericoloso che ci sono tutte queste guardie?»

«Non fare la scema. In Francia tutte le operazioni che implicano l’uso di materiale nucleare sono supervisionate dal CEA, il Commissariato per l’Energia Atomica. E chi dice CEA dice militari, tutto qui. Eric è obbligato a lavorare con l’esercito.»

Anna si lasciò scappare un sogghigno. Laurent si irrigidì:

«Cosa c’è?»

«Niente. Ma dovevi proprio trovare l’unico ospedale di Francia dove ci sono più uniformi che camici bianchi.»

Lui alzò le spalle e si concentrò sul paesaggio. La vettura filava già sull’autostrada, sul fondo della valle della Bièvre. Foreste scure, brune e rosse; saliscendi a perdita d’occhio.

Le nuvole erano di ritorno; in lontananza, una luce bianca faticava ad aprirsi il cammino tra i vapori bassi del cielo. Poi, all’improvviso, un sole velato prese il sopravvento e infiammò il paesaggio.

Viaggiarono per più di un quarto d’ora prima che Laurent riprendesse:

«Devi avere fiducia in Eric.»

«Nessuno toccherà il mio cervello.»

«Eric sa quello che fa. È uno dei migliori neurologi d’Europa…»

«E un amico d’infanzia. Me lo hai ripetuto mille volte.»

«È una fortuna essere seguiti da lui. Tu…»

«Non sarò la sua cavia.»

«La sua cavia?» disse scandendo le sillabe. «La-sua-cavia? Ma di cosa parli?»

«Ackermann mi osserva. La mia malattia lo interessa, tutto qui. Quel tipo è un ricercatore, non un dottore.»

Laurent sospirò:

«Stai delirando. Veramente, tu sei…»

«Fuori di testa?» Anna fece calare come una cortina di ferro la sua risata senza gioia. «Non è certo uno scoop.»

Questo scoppio di lugubre allegria aumentò la collera del marito:

«E allora cosa vuoi fare? Vuoi aspettare a braccia conserte che il male guadagni terreno?»

«Nessuno ha detto che la malattia avanzerà.»

Lui si agitò sul sedile.

«È vero. Scusami. Dico delle fesserie.»

Il silenzio riempì nuovamente l’abitacolo.

Il paesaggio assomigliava sempre di più a un fuoco di erbe umide. Rossastro, cupo, attraversato da brume grigie. I boschi si stendevano contro l’orizzonte, prima indistinti, poi, man mano che la macchina si avvicinava, prendevano la forma di artigli insanguinati, di cesellature fini, di arabeschi neri…

Di tanto in tanto appariva un paese con il suo classico campanile di campagna. Poi un serbatoio dell’acquedotto, bianco, immacolato, vibrò nella luce fremente. Si stentava a credere di essere solo a qualche chilometro da Parigi.

«Vedremo.»

«Ti accompagnerò. Dedicherò il tempo che ci vorrà. Noi siamo con te, capisci?»

Il «noi» contrariò Anna: Laurent associava ancora Ackermann alla sua benevolenza. Ormai si sentiva più una paziente che una moglie.

All’improvviso, in cima alla collina di Meudon, Parigi apparve in un’esplosione di luce. Tutta la città, dispiegando i suoi tetti infiniti e bianchi, si mise a brillare come un lago gelato irto di cristalli, di brina, di zolle di neve, mentre gli edifici del quartiere della Défense sembravano alti iceberg. Tutta la città bruciava al contatto con il sole, sfavillante di luce.

Quell’abbagliamento la gettò in uno stupore muto; superarono il ponte di Sèvres, poi attraversarono Boulogne-Billancourt, senza una parola.

Quando furono nei pressi della Porte de Saint-Cloud, Laurent domandò:

«Ti lascio a casa?»

«No, al lavoro.»

«Mi avevi detto che avresti preso una giornata di ferie.»

La voce aveva assunto una sfumatura di rimprovero.

«Pensavo che sarei stata più stanca», mentì Anna. «E non voglio lasciare da sola Clothilde. Il sabato, il negozio è preso d’assalto.»

«Clothilde, il negozio…», ripeté lui con tono sarcastico.

«E allora?»

«Veramente questo lavoro… Non è alla tua altezza.»

«Alla tua, vorrai dire.»

Laurent non rispose. Forse non aveva neppure sentito l’ultima frase. Tendeva il collo per vedere cosa succedeva davanti a loro; sulla tangenziale il traffico era bloccato.

Con aria impaziente, ordinò all’autista di aprirsi un varco. Nicolas comprese il messaggio. Prese dal portaoggetti un lampeggiatore magnetico e lo piazzò sul tetto della macchina. Con un urlo di sirena, la Peugeot 607 si liberò del traffico e riprese velocità.

Nicolas non alzò più il piede dall’acceleratore. Le dita sprofondate nello schienale del sedile davanti, Laurent seguiva ogni colpo di volante, ogni scarto della macchina. Sembrava un bambino concentrato davanti a un videogioco. Anna rimaneva sempre stupita nel vedere che, malgrado i suoi studi e il suo incarico di direttore del Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni, Laurent non aveva mai dimenticato l’eccitazione del lavoro sul campo, il fascino della strada. «Povero sbirro», pensò lei.

Porte Maillot, lasciarono la tangenziale e presero l’avenue des Ternes; l’autista spense finalmente la sirena. Anna entrava nel suo universo quotidiano. La rue du Faubourg-Saint-Honoré e i riflessi delle sue vetrine; la sala Pleyel e le sue ampie vetrate, al primo piano, dove si agitavano ballerine di fila, le arcate in mogano della boutique Mariage Frères, dove lei comprava i suoi tè rari.

Prima di aprire la portiera, Anna, riprendendo la conversazione là dove la sirena l’aveva interrotta, disse:

«Non è un semplice lavoro, lo sai. È il mio modo di restare in contatto con il mondo esterno. Per non rimanere sempre sepolta nel nostro appartamento.»

Uscì dall’auto e si sporse ancora verso di lui:

«È così, oppure è il manicomio, capisci.»

Si scambiarono un ultimo sguardo e, in un batter d’occhio, furono di nuovo alleati. Mai lei avrebbe usato la parola «amore» per indicare la loro relazione. Era una complicità, una condivisione che andava al di là del desiderio, della passione, delle fluttuazioni imposte dai giorni e dall’umore. Delle acque calme, sotterranee, che si mescolavano in profondità. Allora si comprendevano, senza bisogno di parole…

Di colpo lei ritrovò la speranza. Laurent l’avrebbe aiutata, l’avrebbe amata, l’avrebbe sostenuta. L’ombra sarebbe diventata ambra. Lui chiese:

«Passo a prenderti questa sera?»

Lei fece sì con la testa mentre lui le mandava un bacio, poi si diresse verso la Maison du Chocolat.

4.

Il campanello della porta tintinnò come se lei fosse stata una normale cliente. Bastò quella nota familiare per riconfortarla. Si era presentata per quel lavoro il mese precedente, dopo aver visto l’annuncio nella vetrina: allora lei cercava solo di distrarsi dalle sue ossessioni, ma qui aveva trovato qualcosa di meglio.

Un rifugio.

Un cerchio che confinava le sue angosce.

Le due del pomeriggio; il negozio era deserto. Clothilde doveva aver approfittato del momento di calma per recarsi nel magazzino.

Anna attraversò la sala. Il negozio assomigliava a una scatola di cioccolatini oscillante tra il bruno e l’oro. Al centro, il banco principale troneggiava come un’orchestra, con i suoi classici fondenti e al latte: cremini, baci, tris… A sinistra, il blocco di marmo della cassa ospitava gli «extra», i piccoli capricci che ci si concedeva all’ultimo istante, al momento di pagare. A destra le gelatine di frutta, le caramelle, i torroni: tante variazioni sul medesimo tema. Sopra, sugli scaffali, c’erano ancora altre dolcezze che brillavano, avviluppate nei sacchetti di carta trasparente i cui riflessi cangianti accendevano la golosità.

Anna notò che Clothilde aveva preparato la vetrina di Pasqua. Cestini intrecciati con dentro uova e galline di ogni misura; case di cioccolato dal tetto in caramello sorvegliate da maialini in pasta di mandorle; pulcini che andavano in altalena, in un cielo di narcisi di carta.

«Sei qui? Fantastico. Sono appena arrivate le scorte.»

Clothilde spuntò dal montacarichi, in fondo alla sala, azionato da una ruota e da un argano all’antica, che permetteva di tirar su le casse dal parcheggio di square du Roule. Saltò giù dalla piattaforma, scavalcò le scatole impilate e si piazzò davanti ad Anna, radiosa e affannata.

Nel giro di qualche settimana, Clothilde era diventata uno dei suoi punti di riferimento. Ventotto anni, nasino rosa, ciocche biondo-castano che scendevano a tendina davanti agli occhi. Aveva due figli, un marito che lavorava in banca, una casa col mutuo e un destino tracciato con riga e squadra. Viveva dentro una certezza di felicità che sconcertava Anna. Stare vicino a quella giovane donna era al tempo stesso rassicurante e irritante. Lei non poteva credere neppure un secondo a quel quadretto senza crepe e senza sorprese. In quel credo c’era una sorta di ostinazione, di menzogna accettata. E comunque, un tale miraggio era per lei inaccessibile: a trentun anni, Anna non aveva figli e aveva sempre vissuto nel disagio, nell’incertezza e nella paura del futuro.

«Oggi è infernale. Non ci si ferma un attimo.»

Clothilde prese un cartone e si diresse verso il retro del negozio. Anna si gettò lo scialle sulla spalla e la imitò. Il sabato l’affluenza era tale che dovevano approfittare delle minime pause per preparare nuovi vassoi.

Entrarono nel retro, un stanza cieca di dieci metri quadri. Lo spazio era già ostruito da mucchi di imballi e da fogli di carta a bolle.

Clothilde posò la scatola e spostò i capelli con un soffio, portando avanti il labbro inferiore:

«Non ti ho neppure chiesto: com’è andata?»

«Mi hanno fatto esami tutta la mattina. Il dottore ha parlato di una lesione.»

«Una lesione?»

«Una zona morta del mio cervello. La zona dove si riconoscono i volti.»

«Pazzesco. Si cura?»

Anna posò ciò che aveva in mano e ripeté meccanicamente le parole di Ackermann:

«Sì, dovrò seguire una cura. Esercizi di memoria e farmaci per spostare questa funzione in un’altra parte del mio cervello. Una parte sana.»

«Fantastico!»

Clothilde sfoggiava un sorriso smagliante, come se avesse appena ricevuto la notizia della completa guarigione di Anna. Raramente le sue espressioni erano adatte alle situazioni e tradivano spesso una profonda indifferenza. In realtà, Clothilde era impermeabile alle disgrazie altrui. La tristezza, l’angoscia, l’incertezza scivolavano su di lei come gocce d’olio su una tela cerata. Tuttavia, in quel momento, parve accorgersi della gaffe appena fatta.

Il campanello della porta le venne in soccorso.

«Vado io», disse girando i tacchi. «Siediti, torno subito.»

Anna spostò alcuni cartoni e si sedette su uno sgabello. Cominciò a disporre su di un vassoio dei Romeo, cioccolatini quadrati al caffè fresco. La stanza era satura degli effluvi stordenti del cioccolato. Alla fine della giornata, i loro vestiti, il loro stesso sudore esalavano quell’odore e la loro saliva era carica di zucchero. Si raccontava che i camerieri dei bar si ubriacassero solo respirando i vapori degli alcolici. Chissà, forse le commesse delle cioccolaterie ingrassavano per la sola vicinanza con i dolciumi.

Anna non aveva preso un grammo. In realtà, lei non prendeva mai un grammo. Mangiava come se stesse prendendo la purga e il cibo stesso sembrava diffidare di lei. I glucidi, i lipidi e le altre fibre le passavano accanto…

Mentre allineava i cioccolatini, le tornavano alla mente le parole di Ackermann. Una lesione. Una malattia. Una biopsia. No: non si sarebbe mai lasciata macellare. E soprattutto non da quel tipo, con i suoi gesti freddi e il suo sguardo da insetto.

D’altra parte, lei non credeva alla sua diagnosi.

Non poteva crederci.

Per la semplice ragione che lei gli aveva detto solo una minima parte della verità.

A partire dal mese di febbraio, le sue crisi erano state molto più frequenti di quanto non avesse confessato. Ora, le sue amnesie la coglievano in ogni momento, in qualsiasi contesto. A cena con gli amici; dal parrucchiere, nei negozi durante le compere. All’improvviso, negli ambienti più familiari, Anna si trovava circondata da sconosciuti, da visi senza nome.

La stessa natura di queste alterazioni era cambiata.

Non si trattava più solo di vuoti di memoria, di zone opache, ma anche di allucinazioni terrificanti. I volti si intorbidivano, tremavano, si deformavano sotto i suoi occhi. Le espressioni, gli sguardi si mettevano a oscillare, a fluttuare, come in fondo all’acqua.

Certe volte le erano sembrate figure di cera bollente: fondevano e sprofondavano in loro stesse, facendo smorfie demoniache. In altri casi, i lineamenti vibravano, trepidavano, fino a sovrapporsi in diverse espressioni simultanee. Un grido. Una risata. Un bacio. Tutto ciò era rinchiuso in una stessa fisionomia. Un incubo.

Per la strada, Anna camminava con gli occhi bassi. Nelle serate mondane parlava senza guardare il suo interlocutore. Diventava un essere fuggitivo, tremante, impaurito. Gli «altri» le rimandavano soltanto l’immagine della sua propria follia. Uno specchio di terrore.

Anche a proposito di Laurent lei non aveva descritto esattamente le sue sensazioni. In verità, il suo malessere non era mai completamente concluso, mai totalmente risolto dopo una crisi. Ne rimaneva sempre una traccia, una scia di paura. Come se lei non riconoscesse del tutto suo marito; come se una voce le mormorasse: «È lui, ma non è lui.»

La sua impressione profonda era che i tratti di Laurent fossero cambiati, che fossero stati modificati con un’operazione di chirurgia estetica.

Assurdo.

Questo delirio trovava un contrappunto ancora più assurdo. Se suo marito le appariva come un estraneo, un cliente del negozio risvegliava invece in lei una reminiscenza familiare, lancinante. Era certa di averlo già visto da qualche parte… Non avrebbe saputo dire né dove né quando, ma la sua memoria si accendeva alla sua presenza: un vero fremito elettrostatico. Ciononostante, la scintilla non aveva mai dato seguito a un ricordo preciso.

L’uomo veniva una o due volte la settimana e comprava sempre gli stessi cioccolatini: dei jikola, cubetti ripieni di pasta di mandorle, molto simili ai dolci orientali. D’altro canto, si esprimeva con un accento che poteva essere arabo. Aveva una quarantina d’anni ed era sempre vestito allo stesso modo: jeans e giacca di velluto consumata, abbottonata fino al collo, come un eterno studente. Anna e Clothilde l’avevano soprannominato «Signor Velluto».

Ogni giorno aspettavano la sua visita. Era la suspense e l’enigma che animava lo scorrere delle ore al negozio. Spesso si perdevano in ipotesi. L’uomo era un amico d’infanzia di Anna, o un vecchio flirt; o, al contrario, un corteggiatore furtivo che aveva scambiato con lei qualche sguardo durante un cocktail…

Anna ora sapeva che la realtà era più semplice. Quella reminiscenza non era altro che una delle allucinazioni provocate dalla sua lesione. Non doveva più soffermarsi su ciò che vedeva, su ciò che provava di fronte ai volti, perché non possedeva più un sistema coerente di riferimenti.

La porta del retro si aprì. Anna sussultò e si accorse che i cioccolatini stavano fondendosi tra le sue dita. Nell’inquadratura della porta apparve Clothilde, che da sotto le sue ciocche sussurrò: «È qui.»

Il Signor Velluto era già vicino ai jikola.

«Buongiorno», si affrettò a salutarlo Anna. «Cosa desidera?»

«Due etti, come al solito.»

Lei scivolò dietro al banco centrale, prese una pinza, un sacchetto di carta trasparente e cominciò a mettervi dentro i cioccolatini. Contemporaneamente, attraverso le ciglia abbassate, fece scorrere uno sguardo sull’uomo. Come prima cosa vide le sue scarpe, in pelle rovesciata, poi i jeans troppo lunghi, che si pieghettavano a fisarmonica, e infine la giacca di velluto, color zafferano, sulla quale l’usura disegnava vaste aree prive di coste d’un arancio lucido.

Infine si arrischiò a scrutare il suo volto.

Era una faccia rude, quadrata, incorniciata da capelli irti e castani. Era piuttosto un volto da contadino che un viso fine da studente. Le sue sopracciglia erano aggrottate in un’espressione di contrarietà o persino di collera repressa.

Tuttavia, Anna l’aveva già notato, quando le sue palpebre si aprivano, rivelavano lunghe ciglia femminili e occhi color malva dai contorni d’un nero dorato, come il dorso di un calabrone che sorvola un campo di viole scure. Dov’è che aveva già visto quello sguardo?

Posò il sacchetto sulla bilancia.

«Fa undici euro.»

L’uomo pagò, prese i cioccolatini e si girò. Un secondo dopo era già fuori.

Suo malgrado, Anna lo seguì fino alla soglia; Clothilde la raggiunse. Guardarono la sua sagoma attraversare rue du Faubourg-Saint-Honoré poi dileguarsi in una limousine nera, dai vetri scuri, con targa straniera.

Loro restarono piantate là, sullo scalino, come due statue, nella luce del sole.

«Allora?» chiese infine Clothilde. «Chi è? Continui a non saperlo?»

L’auto sparì nel traffico. A mo’ di risposta Anna mormorò:

«Hai una sigaretta?»

Clothilde tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto stropicciato di Marlboro Light. Anna inalò la sua prima boccata, ritrovando la calma del mattino, nel cortile dell’ospedale. Con un tono scettico Clothilde dichiarò:

«C’è qualcosa che non quadra nella tua storia.»

Anna si girò, il gomito in aria, la sigaretta alzata come un’arma:

«Cosa?»

«Ammettiamo che tu abbia conosciuto quel tipo e che lui sia cambiato. Okay.»

«E allora?»

Clothilde fece schioccare le labbra producendo un suono di lattina stappata:

«Perché lui non ti riconosce?»

Anna guardò le macchine sfilare sotto il cielo smorto, con le chiazze di luce che zebravano le carrozzerie. Al di là vide la facciata in legno di Mariage Frères, le vetrate fredde del ristorante La Marée e il placido guardamacchine che non smetteva di osservarla.

Le sue parole si confusero nel fumo azzurrognolo:

«Pazza. Sto diventando pazza.»

5.

Una volta la settimana Laurent cenava con i «camerati» di sempre.

Era un rituale infallibile, una sorta di cerimoniale. Quegli uomini non erano amici d’infanzia, né membri di un particolare circolo. Non condividevano alcuna passione comune. Semplicemente appartenevano alla stessa corporazione: erano sbirri. Si erano conosciuti a livelli diversi e adesso erano giunti, ciascuno nel proprio campo, in cima alla piramide.

Anna, come le altre mogli, era rigorosamente esclusa dai loro incontri; e quando la cena si svolgeva nel loro appartamento dell’avenue Hoche, lei era pregata di andare al cinema.

Tuttavia, tre settimane prima, Laurent le aveva proposto di partecipare alla riunione successiva. Dapprima lei aveva rifiutato, tanto più che suo marito aveva aggiunto, col suo tono da infermiere: «Vedrai che questo ti distrarrà.» Poi aveva cambiato idea; in fondo era curiosa di incontrare i colleghi di Laurent, di osservare altri profili di funzionali. Dopo tutto, non ne conosceva che un solo modello: il suo.

Non aveva rimpianto la decisione. Nel corso di quella serata aveva scoperto uomini duri ma appassionanti, che parlavano tra loro senza tabù né riserve. In quel gruppo si era sentita come una regina, sola donna a bordo, davanti alla quale quei poliziotti rivaleggiavano nel raccontare aneddoti, scontri a fuoco e segreti.

Dopo quella prima sera, aveva partecipato a ogni cena e aveva imparato a conoscerli meglio. A cogliere i loro tic, i loro punti di forza — e anche le loro ossessioni. Quelle cene offrivano una vera fotografia del mondo della polizia. Un mondo in bianco e nero, un universo di violenza e di certezze, al tempo stesso caricaturale e affascinante.

I partecipanti, salvo qualche eccezione, erano sempre gli stessi. Nella maggior parte dei casi, era Alain Lacroux che guidava la conversazione. Alto, magro, verticale, sulla cinquantina abbondante, sottolineava la fine di ogni frase dando un colpo con la forchetta o scuotendo il capo. Persino il suo accento meridionale contribuiva a quest’arte della finzione, del cesello. In lui, tutto cantava, ondeggiava, sorrideva — nessuno avrebbe immaginato le sue reali responsabilità: dirigeva la sottosezione degli Affari criminali di Parigi.

Pierre Carcilli era il suo opposto. Piccolo, grassoccio, oscuro, borbottava in continuazione, con una voce lenta che aveva virtù quasi ipnotiche. Era quella voce che aveva sopito le diffidenze e aveva strappato confessioni ai criminali più duri. Carcilli era corso. Occupava un posto importante alla DST, la Direzione della sorveglianza del territorio.

Jean-François Gaudemer non era né verticale né orizzontale: era una roccia compatta, massiccio, testardo. All’ombra di una fronte alta e ariosa, i suoi occhi erano d’un nero dal quale sembrava potessero nascere tempeste. Quando parlava lui, Anna tendeva sempre le orecchie. I suoi intenti erano cinici, le sue storie sconvolgenti, ma di fronte a lui si provava una sorta di riconoscenza; la sensazione ambigua che un velo si levasse scoprendo la trama nascosta del mondo. Era il capo dell’OCTRIS, l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. L’uomo della droga in Francia.

Ma il preferito di Anna era Philippe Charlier. Un colosso di un metro e novanta, strizzato nei suoi vestiti firmati. Soprannominato dai colleghi «il Gigante Verde», aveva una faccia da pugile, larga come una pietra, bordata da baffi e da capelli sale e pepe. Parlava troppo forte, rideva come un motore a scoppio e, prendendolo per la spalla, costringeva il suo interlocutore ad ascoltare le sue barzellette.

Per capirlo serviva un vero repertorio di metafore salaci. Diceva «un osso nelle mutande» al posto di «erezione», parlava dei suoi capelli crespi chiamandoli «peli dei coglioni» e quando raccontava le sue vacanze a Bangkok sintetizzava: «Portarsi la moglie in Thailandia è come portarsi la birra da casa per andare a Monaco.»

Anna lo trovava volgare, inquietante, ma irresistibile. Emanava una potenza bestiale, qualcosa di intensamente «sbirro». Era difficile immaginarlo in un posto diverso da un ufficio mal illuminato a strappare confessioni ai sospetti. O sul campo, a dirigere uomini armati di fucili d’assalto.

Laurent le aveva rivelato che, nel corso della sua carriera, Charlier aveva ammazzato a sangue freddo almeno cinque uomini. Il suo terreno di manovra era il terrorismo. DST, DGSE, DNAT: indipendentemente dalla sigla sotto la quale si era battuto, egli aveva sempre condotto la stessa guerra. Venticinque anni di operazioni clandestine, di atti di forza. Quando Anna chiedeva maggiori dettagli, Laurent respingeva la domanda con un gesto: «Sarebbe soltanto la punta dell’iceberg.»

Quella sera, la cena si svolgeva proprio da lui, in avenue de Breteuil. Un appartamento haussmaniano, dai parquet lucidati, pieno di oggetti coloniali. Per curiosità, Anna aveva sbirciato nelle stanze accessibili: nessuna traccia d’una presenza femminile; Charlier era uno scapolo convinto.

Erano le ventitré. I commensali erano allungati in una posizione rilassata da fine pasto, nell’alone di fumo dei sigari.

In quel marzo 2002, qualche settimana prima delle elezioni presidenziali, ognuno avanzava previsioni e ipotesi, immaginando i cambiamenti che sarebbero intervenuti in seno al Ministero degli interni a seconda del candidato eletto. Sembravano tutti pronti per una battaglia più grande, senza essere certi di parteciparvi.

Philippe Charlier, seduto vicino ad Anna, le disse sottovoce:

«Quanto rompono con le loro storie da sbirri! La sai quella dello svizzero?»

Anna sorrise:

«Me l’hai raccontata sabato scorso.»

«E quella delle tre ragazze che si confessano?»

«No.»

«Ci sono tre ragazze che vanno a confessarsi. La prima dice al prete: “Padre, ho peccato, ho visto il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati gli occhi con l’acqua santa”, le dice il prete. Entra nel confessionale la seconda e dice: “Padre, ho peccato, ho toccato il sesso del mio fidanzato.” “Vai all’acquasantiera e lavati le mani con l’acqua santa.” Mentre le prime due sono lì che fanno le sacre abluzioni, la terza inizia a confessarsi, ma dopo un attimo la vedono arrivare di corsa vicino all’acquasantiera: “Largo, largo ragazze, devo fare i gargarismi!”»

Ci impiegò un attimo a capirla, poi scoppiò a ridere. Le barzellette del poliziotto non superavano mai l’altezza delle mutande, ma avevano il merito di essere inedite. Rideva ancora quando il viso di Charlier si confuse. Di colpo i suoi tratti persero definizione; la sua faccia ondeggiò letteralmente.

Anna distolse gli occhi e li posò sugli altri invitati. Anche i loro tratti tremavano, si storcevano, formavano un’onda di espressioni contraddittorie, mostruose, mescolando le carni, le risate, le urla…

Fu scossa da uno spasmo. Si mise a respirare a bocca aperta.

«Qualcosa non va?» si preoccupò Charlier.

«Ho… Ho caldo. Vado a rinfrescarmi.»

«Vuoi che ti indichi?…»

Lei posò la mano sulla sua spalla e si alzò:

«No, grazie, faccio da sola. Ora va meglio.»

Camminò rasente il muro, appoggiandosi sullo spigolo del camino, urtando un carrello e provocando un’onda di tintinnii…

Passata la soglia, lanciò uno sguardo dietro di sé: il mare di maschere era ancora là. Una sarabanda di grida, di rughe in fusione, di carni tormentate che spuntavano dalla massa per inseguirla. Superò la porta trattenendo un urlo.

L’ingresso non era illuminato. I cappotti appesi disegnavano forme inquietanti, le porte socchiuse rivelavano raggi d’oscurità. Anna si fermò davanti a uno specchio incorniciato d’oro antico. Contemplò la sua immagine: un pallore da carta velina, una fosforescenza da spettro. Si afferrò le spalle che tremavano sotto la maglia di lana nera.

All’improvviso, nello specchio apparve un uomo dietro di lei.

Non lo conosce; non era alla cena. Si gira per vederlo in faccia. Chi è? Da dove è arrivato? Il suo aspetto è minaccioso; qualcosa di distorto, di sfigurato si posa sul suo viso. Le sue mani brillano nell’ombra come due armi bianche…

Anna indietreggia. Sprofonda in mezzo ai cappotti appesi. L’uomo avanza. Lei sente gli altri che parlano nella stanza vicina; vorrebbe gridare, ma la sua gola è come tappezzata di cotone in fiamme. Il viso è ormai a qualche centimetro da lei. Un’immagine nello specchio le attraversa gli occhi, un segnale d’oro offusca le sue pupille…

«Vuoi che ce ne andiamo?»

Anna soffocò un gemito: era la voce di Laurent. Immediatamente, il viso ritrovò il suo aspetto familiare. Sentì due mani che la sostenevano e capì che era svenuta.

«Santo cielo», chiese Laurent, «cos’hai?»

«Il mio cappotto. Dammi il mio cappotto», ordinò lei liberandosi dalle sue braccia.

Il malessere non svaniva. Non riusciva a riconoscere del tutto suo marito. Era ancora convinta di una cosa: sì, quei tratti erano trasformati, era un viso modificato, che celava un segreto, una zona opaca…

Laurent le porse il suo montgomery. Tremava. Certo, aveva paura per lei, ma anche per sé. Temeva che i suoi compagni afferrassero la situazione: uno dei più alti responsabili del Ministero degli interni aveva una moglie matta.

Lei si infilò nel cappotto e assaporò il contatto con la fodera. Avrebbe voluto fuggire, sparire per sempre…

Nel salone risuonavano scoppi di risa.

«Vado a salutarli anche per te.»

Sentì dei toni di rimprovero, poi nuove risate. Anna lanciò un’ultima occhiata allo specchio. Un giorno, ben presto, di fronte a quell’immagine si sarebbe domandata: «Chi è?»

Laurent riapparve. Lei mormorò:

«Portami via. Voglio rientrare. Voglio dormire.»

6.

Ma il male la inseguiva anche nel sonno.

Da quando erano cominciate le crisi, Anna faceva sempre lo stesso sogno. Immagini in bianco e nero che sfilavano a un ritmo incerto, come in un film muto.

Ogni volta era la stessa scena: dei contadini dall’aria affamata attendevano, di notte, sul marciapiede di una stazione; arrivava un treno merci, in una nuvola di vapore. Si apriva una paratia. Appariva un uomo, pettinato a caschetto, e si sporgeva per prendere una bandiera che qualcuno gli porgeva; lo stendardo recava un segno strano: quattro lune disposte in forma di rosa dei venti.

L’uomo si raddrizzava, alzando le sopracciglia nerissime. Arringava la folla, faceva sventolare la banderuola nell’aria, ma le sue parole non si sentivano. Al loro posto si levava una sorta di trama sonora: un mormorio atroce, composto di sospiri e di singhiozzi di bambini.

Il mormorio di Anna si mescolava allora a quel coro di lamenti strazianti. Rivolgendosi a quelle giovani voci, chiedeva: «Dove siete?», «Perché piangete?»

Come risposta, il vento spazzava il marciapiede della stazione. Le quattro lune, sulla bandiera, si mettevano a splendere come fosforo. La scena piombava nell’incubo più assoluto. Il mantello dell’uomo si dischiudeva, rivelando una cassa toracica nuda, aperta, svuotata; poi una burrasca sbriciolava il suo volto. La pelle si sgretolava, come cenere, a partire dalle orecchie, scoprendo muscoli neri e sporgenti…

Anna si svegliò di soprassalto.

Gli occhi aperti nell’oscurità, non riconobbe niente. Né la camera. Né il letto. Né il corpo che dormiva al suo fianco. Le ci volle qualche secondo per familiarizzarsi con quelle forme estranee. Appoggiò la schiena al muro e s’asciugò il viso, coperto di sudore.

Perché quel sogno tornava ancora? Che rapporto aveva con la sua malattia? Era certa che si trattasse di un’altra faccia del male; un’eco misteriosa, un contrappunto inspiegabile alla sua degenerazione mentale. Nel buio chiamò:

«Laurent?»

La schiena girata, suo marito non si mosse. Anna lo prese per la spalla:

«Laurent, dormi?»

«Non più, adesso.»

«Posso… posso farti una domanda?»

Lui si sollevò a metà e sprofondò la testa nel cuscino:

«Ti ascolto.»

Anna abbassò la voce, i singhiozzi del sogno le risuonavano ancora in mente:

«Perché…» esitò, «perché non abbiamo figli?»

Per un attimo non si mosse niente. Poi Laurent scostò le lenzuola e si sedette sul bordo del letto, voltandole di nuovo la schiena. Di colpo il silenzio sembrava carico di tensione, di ostilità.

Si sfregò la faccia e poi disse:

«Dobbiamo tornare da Ackermann.»

«Cosa?»

«Gli telefonerò. Prenderemo un appuntamento all’ospedale.»

«Perché dici così?»

Da sopra la spalla buttò là:

«Hai mentito. Ci hai raccontato che non soffrivi di disturbi della memoria. Che c’era solo quel problema con i volti.»

Anna capì di aver fatto una gaffe. Di Laurent vedeva soltanto la nuca, i suoi vaghi riccioli, la sua schiena stretta, ma indovinava il suo abbattimento e anche la sua collera.

«Cosa ho detto?» arrischiò lei.

Laurent ruotò di qualche grado:

«Tu non hai mai voluto figli. Era la condizione che hai posto per sposarmi.» Alzò la voce, levando la mano sinistra. «La sera stessa del nostro matrimonio mi hai fatto giurare che non ti avrei mai chiesto quello. Sei fuori di testa, Anna. Bisogna reagire. Bisogna fare quegli esami. Capire cosa sta succedendo. Dobbiamo fermare tutto questo! Merda!»

Anna si raggomitolò all’altro capo del letto:

«Dammi ancora qualche giorno. Ci deve essere un’altra soluzione.»

«Quale soluzione?»

«Non so. Qualche giorno. Per favore.»

Lui si allungò di nuovo e ficcò la testa sotto le lenzuola:

«Chiamerò Ackermann mercoledì prossimo.»

Inutile ringraziarlo: Anna non sapeva neppure perché gli aveva chiesto un rinvio. A cosa serviva negare l’evidenza? Il male si stava impossessando, neurone dopo neurone, di ogni regione del suo cervello.

Scivolò sotto le coperte, ma a una buona distanza da Laurent, e rifletté su quell’enigma dei figli. Perché aveva chiesto un tale giuramento? Quali erano le sue motivazioni all’epoca? Non aveva nessuna risposta. La sua stessa personalità le stava diventando estranea.

Risalì fino al suo matrimonio. Era stato otto anni prima. Allora lei aveva ventitré anni. Di che cosa si ricordava veramente?

Un castello a Saint-Paul-de-Vence, delle palme, delle distese d’erba ingiallite dal sole, delle risate di bambini. Chiuse gli occhi, cercando di ritrovare le sensazioni. Un girotondo si allungava come un’ombra cinese sulla superficie di un prato. Insieme vedeva delle trecce di fiori, delle mani bianche…

All’improvviso, una sciarpa di tulle ondeggiò nella sua memoria; il tessuto svolazzò davanti ai suoi occhi, disturbando il girotondo, smorzando il verde dell’erba, intercettando la luce con i suoi movimenti bizzarri.

La stoffa si avvicinò, al punto che poteva sentirne la trama sul viso, poi si arrotolò intorno alle sue labbra. Anna aprì la bocca in una risata, ma le maglie le sprofondarono in gola. Respirò, e il velo le si incollò violentemente al palato. Non era più tulle: era garza.

Garza chirurgica, che la asfissiava.

Urlò nella notte; il suo grido non produsse alcun suono. Aprì gli occhi: si era addormentata. La sua bocca era schiacciata contro il cuscino.

Quando sarebbe finito tutto ciò? Si tirò su e sentì ancora il sudore sulla pelle. Era quello il velo vischioso che aveva provocato la sensazione di soffocamento.

Sì alzò dal letto e si diresse verso il bagno adiacente alla stanza. A tastoni trovò la maniglia e richiuse la porta prima di accendere la luce. Premette l’interruttore poi si girò verso lo specchio sopra il lavabo.

La sua faccia era coperta di sangue.

Strisce rosse sulle fronte; croste nascoste sotto gli occhi, vicino alle narici, intorno alle labbra. All’inizio credette di essersi ferita. Poi si avvicinò allo specchio: era solo sangue dal naso. Cercando di asciugarsi nel buio si era impiastricciata col suo stesso sangue. La sua maglietta ne era intrisa.

Aprì il rubinetto dell’acqua fredda e tese la mano, inondando il lavandino con un turbine rosastro. Fu posseduta da un’idea: quel sangue rappresentava una verità che tentava di strapparsi dalle sue carni. Un segreto che la sua coscienza rifiutava di riconoscere, di formalizzare, e che fuggiva dal suo corpo in forma di fluidi organici.

Ficcò la faccia sotto quel getto di freschezza, mescolando singhiozzi e trecce traslucide. Nello scrosciare dell’acqua non cessava di mormorare:

«Ma cos’è che ho? Cosa?»

DUE

7.

Una piccola spada d’oro.

Lui la vedeva così nei suoi ricordi. In realtà, lo sapeva, era un semplice tagliacarte di rame, con l’impugnatura cesellata alla maniera spagnola. Paul, otto anni, l’aveva appena rubato nel garage di suo padre e si era rifugiato nella sua camera. Si ricordava perfettamente l’atmosfera di quel momento. Le imposte chiuse. Il calore schiacciante. La quiete della siesta.

Un pomeriggio d’estate come tanti altri.

Se non fosse che quelle poche ore avevano sconvolto la sua vita per sempre.

«Cosa nascondi nella mano?»

Paul chiuse il pugno; sua madre era sulla soglia della stanza.

«Fammi vedere cosa nascondi.»

La voce era calma, solamente tinta di curiosità. Paul strinse le dita. Lei avanzò nella penombra, attraversando i raggi di sole che filtravano dalle persiane; poi si sedette sul bordo del letto e gli aprì dolcemente la mano:

«Perché hai preso il tagliacarte?»

Lui non le vedeva il viso, immerso nell’ombra:

«Per difenderti.»

«Difendermi da chi?»

Silenzio.

«Difendermi da papà?»

Lei si sporse verso di lui. Il suo volto apparve in una linea di luce; la faccia tumefatta, chiazzata di ematomi; uno dei due occhi, con il bianco pieno di sangue, lo fissava come un oblò. Ripeté:

«Difendermi da papà?»

Muovendo il capo, lui annuì. Ci fu un attimo di sospensione, una immobilità, poi lei lo abbracciò, come un’onda quando si frange. Paul la respinse; non voleva lacrime, nessun gesto di pietà. La sola cosa che contava era lo scontro che ci sarebbe stato. Il giuramento che aveva fatto a sé stesso, la sera prima, quando suo padre, completamente ubriaco, aveva picchiato sua madre fino a lasciarla svenuta sul pavimento della cucina. Quando il mostro si era girato e l’aveva visto lì, tremante, nel vano della porta, lo aveva avvertito: «Tornerò. Tornerò e vi ucciderò tutti e due!»

Allora Paul si era armato e ora attendeva il suo ritorno con la spada in mano.

Ma l’uomo non era tornato. Né l’indomani né il giorno successivo. Per un caso di cui solo il destino conosceva il segreto, Jean-Pierre Nerteaux si era fatto ammazzare la notte stessa in cui aveva proferito quelle minacce. Il suo corpo era stato scoperto due giorni più tardi, dentro al proprio taxi, vicino ai depositi petroliferi del porto di Gennevilliers.

All’annuncio dell’omicidio, Françoise, la moglie, aveva reagito in maniera strana. Invece di andare subito a identificare il cadavere, aveva voluto recarsi sul luogo della scoperta per verificare che la Peugeot 504 fosse intatta e che non ci fossero problemi con la compagnia dei taxi.

Paul si ricordava anche dei più piccoli dettagli. Il viaggio in autobus fino a Gennevilliers; il borbottare di sua madre frastornata; la sua stessa apprensione di fronte a un avvenimento che non comprendeva. Tuttavia, appena scorta la zona dei depositi, era stato colto da meraviglia. Corone d’acciaio giganti si alzavano nei terreni brulli. In mezzo alle rovine di cemento spuntavano erbacce e arbusti. Aste d’acciaio arrugginivano come cactus di metallo.

Un vero paesaggio western, simile ai deserti che riempivano i fumetti della sua biblioteca.

Sotto un cielo in fusione, la madre e il bambino avevano attraversato le zone di stoccaggio. Al fondo di quelle terre abbandonate, avevano scoperto la Peugeot, mezza sprofondata nelle dune grigie. Paul aveva captato ogni segno che fosse all’altezza dei suoi otto anni. Le uniformi dei poliziotti, le manette scintillanti al sole; le spiegazioni a bassa voce; i meccanici, le mani nere nella luce bianca, che si agitavano intorno alla macchina…

Gli era occorso un po’ per comprendere che suo padre era stato pugnalato al volante. Ma solo un secondo per scorgere, attraverso la porta posteriore socchiusa, le lacerazioni nello schienale del sedile.

L’assassino si era accanito sulla sua vittima attraverso il sedile.

Quella visione aveva colpito il bambino rivelandogli la segreta coerenza dell’evento. Due giorni prima aveva desiderato la morte di suo padre, si era armato, poi aveva confessato il suo piano criminale alla madre. Tutto ciò aveva assunto il valore di una maledizione: una forza misteriosa aveva realizzato il suo desiderio. Non era lui che aveva impugnato il coltello, ma era proprio lui che aveva ordinato, mentalmente, l’esecuzione.

A partire da quel momento, non si ricordava più di niente. Né della sepoltura, né delle lacrime di sua madre, né delle difficoltà finanziarie che avevano segnato la loro quotidianità. Paul era concentrato unicamente su quella verità: lui era il solo colpevole.

Il grande mandante del massacro.

Molto più tardi, nel 1987, si era iscritto alla facoltà di diritto della Sorbona. A forza di lavoretti, aveva accantonato abbastanza denaro per affittare una camera a Parigi e per tenersi a debita distanza da sua madre, che non la smetteva più di bere. Addetta alle pulizie in un grande magazzino, lei esultava all’idea che suo figlio diventasse avvocato. Ma Paul aveva altri progetti.

Con la laurea in tasca, nel 1990 Paul era entrato nella scuola per ispettori di Cannes-Ecluse. Due anni più tardi ne era uscito, primo in graduatoria, e aveva potuto scegliere uno dei posti più ambiti dalle matricole della polizia: l’Ufficio centrale per la repressione del traffico illecito di stupefacenti. Il tempio dei cacciatori di droga.

La sua strada sembrava tracciata. Quattro anni in un ufficio centrale o in una brigata d’élite, poi ci sarebbe stato il concorso interno per commissarii. Prima dei quarant’anni, Paul Nerteaux avrebbe ottenuto un posto di prestigio al Ministero degli interni, in place Beauvau, sotto gli stucchi dorati della Grande Maison. Un successo folgorante per un bambino cresciuto, come si dice, in un «ambiente difficile».

In realtà, Paul non si interessava a quella scalata. La sua vocazione di poliziotto aveva altre basi, sempre legate al suo senso di colpa. Quindici anni dopo la spedizione al porto di Gennevilliers, egli era ancora ossessionato dal rimorso; il suo cammino era guidato dalla sola volontà di lavare la propria colpa, di ritrovare un’innocenza perduta.

Per dominare le sue angosce, aveva dovuto inventarsi delle tecniche personali, dei metodi di concentrazione segreti. Da quella disciplina aveva tratto la lezione necessaria per diventare un poliziotto inflessibile. Nell’«azienda» egli era odiato, temuto o ammirato, ma mai amato. Perché nessuno capiva che la sua intransigenza, la sua voglia di riuscire erano una ringhiera, un parapetto. Il solo modo di controllare i suoi demoni. Nessuno sapeva che nel cassetto della sua scrivania lui conservava ancora, a destra, un tagliacarte in rame…

Strinse le mani al volante e si concentrò sulla strada.

Come mai stava scavando in tutta quella merda? Forse era l’influenza di quel paesaggio intriso di pioggia? O perché era domenica, giorno di morte tra i vivi?

Da una parte e dall’altra dell’autostrada, non vedeva che i solchi nerastri dei campi. La stessa Enea dell’orizzonte assomigliava a un ultimo solco che si apriva sul nulla del cielo. Il quella regione non poteva avvenire alcunché, se non una lenta immersione nella disperazione.

Lanciò un’occhiata alla carta posata sul sedile del passeggero. Doveva lasciare l’autostrada Al per prendere la statale in direzione di Amiens. Poi avrebbe preso la dipartimentale 235, e dopo dieci chilometri sarebbe arrivato a destinazione.

Per cacciare le idee oscure, focalizzò i suoi pensieri sull’uomo verso il quale si stava dirigendo; sicuramente il solo poliziotto che non avrebbe mai voluto incontrare. Aveva fotocopiato integralmente il suo dossier all’Ispettorato generale dei servizi e avrebbe potuto recitare a memoria il suo curriculum vitae…

Jean-Louis Schiffer, nato nel 1943, a Aulnay-sous-Bois, nel dipartimento Seine-Saint-Denis. In assonanza con la prima o la seconda parte del suo cognome, soprannominato, secondo le circostanze, «il Cifra» o «il Fer». Il Cifra per la sua inclinazione a prelevare percentuali sugli affari che trattava; il Fer per la sua reputazione di sbirro implacabile — e anche per i suoi capelli argentati, che portava lunghi e serici.

Abbandonati gli studi, nel 1959, Schiffer è mobilitato in Algeria, nei monti Aurès. Nel 1960 raggiunge Algeri, dove entra nei servizi segreti, membro attivo dei DOP, i Distaccamenti operativi di protezione.

Nel 1963 ritorna in Francia con il grado di sergente. Entra allora in polizia. Dapprima come agente di quartiere, poi, nel 1966, come investigatore alla Brigata territoriale del sesto arrondissement. Si distingue subito per il suo senso innato della strada e per il gusto dell’infiltrazione. Nel maggio 1968 si getta nella mischia e si confonde con gli studenti. In quel periodo porta la coda di cavallo, fuma hashish e annota, con discrezione, i nomi dei capi politici. Durante gli scontri della rue Gay-Lussac salva persino un poliziotto antisommossa da una pioggia di blocchetti di porfido.

Primo atto di coraggio.

Prima menzione.

Le sue prodezze non si fermano. Reclutato nella Brigata criminale nel 1972, viene promosso ispettore e moltiplica i gesti eroici, senza temere né gli scontri a fuoco né le zuffe. Nel ’75 riceve una medaglia al valore. Tuttavia, nel 1977, dopo un breve passaggio alla Brigata di ricerca e intervento, la celebre «antigang», è brutalmente cambiato. Paul aveva scovato il rapporto dell’epoca, firmato dal commissario Broussard in persona. Il poliziotto aveva annotato sul margine, a penna: «ingestibile.»

Schiffer trova il suo vero territorio di caccia nel decimo arrondissement, alla Prima divisione di polizia giudiziaria. Rifiutando tutte le promozioni e gli spostamenti, per quasi vent’anni si impone come l’uomo del quartiere Ovest, facendo regnare l’ordine e la legge nel perimetro racchiuso tra i grandi boulevard, la Gare de l’Est e la Gare du Nord, coprendo una parte del Sentier, il quartiere turco e altre zone di forte immigrazione.

Durante quegli anni, egli controlla una rete di informatori, limita le attività illegali — gioco, prostituzione, droga — intrattiene rapporti ambigui, ma efficaci, con i capi di ciascuna comunità. Nello stesso tempo raggiunge un tasso record di successi nelle sue inchieste.

Secondo un’opinione consolidata presso le alte sfere, è a lui e solo a lui che si deve la calma relativa in quella parte del decimo arrondissement dal 1978 al 1998. Jean-Louis Schiffer beneficia persino, fatto eccezionale, di un prolungamento del servizio dal 1999 al 2001.

Nel mese d’aprile di quell’ultimo anno, il poliziotto va ufficialmente in pensione. Al suo attivo: cinque decorazioni, tra cui una al merito, duecentotrentanove arresti e quattro persone uccise in scontri a fuoco. A cinquantotto anni, non ha mai avuto altro grado che quello di semplice ispettore. Un uomo da strada, da campo, che ha regnato su un solo, unico territorio. Ecco il lato Fer.

Il lato Cifra inizia nel 1971, quando lo sbirro viene sorpreso a malmenare una prostituta di rue de la Michodière, nel quartiere della Madeleine. L’inchiesta dell’IGS, associata a quella della buoncostume, finisce in fretta. Nessuna lucciola vuole testimoniare contro l’uomo dai capelli d’argento. Nel 1979 si registra una nuova denuncia. Si mormora che Schiffer faccia pagare la sua protezione alle puttane della rue de Jérusalem e della rue Saint-Denis.

Nuova inchiesta, nuovo fallimento. Il Cifra sa guardarsi le spalle.

Gli affari seri cominciano nel 1982. Al commissariato Bonne-Nouvelle si volatilizza uno stock di eroina, frutto dello smantellamento di una rete di trafficanti turchi. Il nome di Schiffer è su tutte le bocche. La polizia lo mette sotto esame. Ma un anno più tardi ne esce pulito. Nessuna prova, nessun testimone.

Nel corso degli anni si sommano altri sospetti. Percentuali estorte nel giro del racket; commissioni prelevate sul gioco e le scommesse clandestine; intrallazzi coi negozianti del quartiere; sfruttamento della prostituzione… È evidente che lo sbirro mangia su tutto, ma nessuno riesce a metterlo in difficoltà. Schiffer controlla il proprio settore, e lo tiene stretto. Persino gli investigatori dell’IGS devono fare i conti con il mutismo dei suoi colleghi poliziotti.

Agli occhi di tutti, il Cifra è prima di tutto il Fer. Un eroe, un campione dell’ordine pubblico dallo stato di servizio prestigioso.

Tuttavia, nell’ottobre 2000, un’ultima sbavatura lo fa cadere. Il corpo di un clandestino turco, Gazil Hemet, viene scoperto sui binari della Gare du Nord. Il giorno prima, Hemet, sospettato di traffico di droga, è stato arrestato dallo stesso Schiffer. Accusato di «violenze volontarie», il poliziotto sostiene di aver liberato il sospetto prima che scadessero i termini della custodia cautelare, fatto decisamente insolito per lui.

Hemet è morto sotto i suoi colpi? L’autopsia non fornisce alcuna risposta chiara — il TGV delle 8 e 10 ha stritolato il cadavere. Ma una controperizia medico-legale chiama in causa delle «lesioni» misteriose sul corpo del turco, lesioni che potrebbero indicare atti di tortura. Questa volta sembrerebbe che per Schiffer debbano aprirsi le porte del carcere.

Invece, nell’aprile 2002, l’accusa rinuncia ancora una volta. Cos’è successo? Di quali appoggi può beneficiare Jean-Louis Schiffer? Paul aveva interrogato gli ufficiali dell’Ispettorato generale dei servizi incaricati dell’inchiesta. Non avevano voluto rispondere: erano semplicemente nauseati. Senza contare che, qualche settimana più tardi, Schiffer li aveva personalmente invitati a un «brindisi di commiato».

Un porco, un marcio.

Ecco la schifezza che Paul si apprestava a incontrare.

La bretella di uscita verso Amiens lo richiamò alla realtà. Lasciò l’autostrada e prese la statale. Fatto qualche chilometro vide apparire il cartello LONGÈRES.

Paul prese la dipartimentale e raggiunse in fretta il paese. Superò il centro senza rallentare, poi scorse una nuova strada che scendeva al fondo di una valle umida. Passando accanto all’erba alta, brillante di pioggia, ebbe una sorta di illuminazione: di colpo capiva perché, sulla strada che lo portava da Schiffer, aveva pensato a suo padre.

A suo modo, il Cifra era il padre di tutti gli sbirri. Mezzo eroe e mezzo demonio, egli incarnava il meglio e il peggio, il rigore e la corruzione, il Bene e il Male. Una figura fondatrice, un universo che Paul, suo malgrado, ammirava, proprio come, dal fondo del proprio odio, aveva ammirato il padre violento e alcolizzato.

8.

Quando Paul scorse l’edificio che cercava, ci mancò poco che scoppiasse a ridere. Con il suo muro di cinta e i suoi due campanili a forma di torrette, la casa di riposo dei funzionari di polizia di Longères sembrava ispirarsi a una prigione.

Dall’altra parte del muro, l’analogia si accentuava ancora. Il cortile era chiuso tra i tre corpi principali disposti a ferro di cavallo, attraversati da gallerie dalle arcate scure. Alcuni uomini che sfidavano la pioggia per giocare a bocce indossavano tute che li facevano assomigliare ai detenuti di qualsiasi prigione del mondo. Non lontano di là, tre agenti in uniforme, che sicuramente facevano visita a un parente, potevano recitare alla perfezione la parte dei secondini.

Paul assaporava l’ironia della situazione. L’ospizio di Longères, finanziato dal fondo pensionistico e assicurativo della polizia, era la più importante casa di riposo per poliziotti. Accoglieva agenti e ufficiali, a condizione che non soffrissero «di alcuna malattia psicosomatica dovuta all’etilismo». Ora scopriva che quella celebre oasi di pace, con i suoi spazi cintati e la sua popolazione tutta maschile, era praticamente un carcere come tanti altri. Pensò: «Ritorno al mittente.»

Paul raggiunse l’entrata dell’edificio principale e spinse una porta a vetri. Un atrio quadrato, molto scuro, si apriva su una scala che prendeva luce da una finestrella di vetro smerigliato. Regnava un calore da serra, soffocante, nel quale stagnavano sentori di medicinale e di urina.

Si diresse verso una porta a due battenti, alla sua sinistra, da dove usciva un forte odore di cibo. Era mezzogiorno. I pensionanti dovevano essere a tavola.

Vide un refettorio dalle pareti gialle e dal pavimento ricoperto di linoleum rosso sangue. C’erano lunghi tavoli in acciaio, allineati; i piatti e le posate erano disposti con cura; i pentoloni di minestra fumavano. Tutto era pronto, ma la sala era deserta.

Dalla stanza vicina veniva del rumore. Paul si diresse verso la fonte del baccano, sentendo le suole che sprofondavano nel pavimento coagulato. Ogni dettaglio contribuiva all’intorpidimento generale; ci si sentiva invecchiare a ogni passo.

Superò la soglia. Una trentina di pensionati, in piedi, con indosso informi tute da ginnastica, gli voltavano la schiena, concentrati su un televisore. «Petit Bonheur ha appena sorpassato Bartók…» Sullo schermo si vedevano cavalli al galoppo.

Paul si avvicinò e scorse, in un’altra stanza alla sua sinistra, un vecchio seduto da solo. Istintivamente tese il collo per osservarlo meglio. Ammosciato, curvo sul suo piatto, l’uomo, con la punta della forchetta, punzecchiava una bistecca.

Paul dovette arrendersi all’evidenza: quel relitto era il suo uomo.

Il Cifra e il Fer.

Il poliziotto dai duecentotrentanove arresti.

Attraversò la nuova sala. Alle sue spalle il telecronista continuava a urlare: «Petit Bonheur, sempre Petit Bonheur…» Rispetto alle ultime foto che Paul aveva potuto vedere, Jean-Louis Schiffer era invecchiato di vent’anni.

I suoi lineamenti regolari erano smagriti, tesi sulle ossa come su un telaio; la pelle, grigia e screpolata, pendeva, soprattutto sul collo, e ricordava le scaglie di un rettile; i suoi occhi, un tempo azzurro cromo, erano appena percepibili sotto le palpebre abbassate. L’ex poliziotto non portava più i capelli lunghi che lo avevano reso celebre, ora erano tagliati praticamente a spazzola; la nobile chioma d’argento aveva lasciato il posto a un cranio di latta.

Il suo corpo, ancora robusto, era inghiottito da una tuta sportiva blu, il cui collo si allargava sulle spalle con due ali ondulate. Accanto al suo piatto, Paul vide una pila di tagliandi delle scommesse sui cavalli. Jean-Louis Schiffer, la leggenda della strada, era diventato il bookmaker di una banda di agenti del traffico in pensione.

Come aveva potuto immaginare di farsi aiutare da una simile carcassa? Ma era troppo tardi per tornare indietro. Paul sistemò la cintura, la pistola e le manette, e si dipinse in volto l’espressione dei momenti importanti — sguardo dritto e mascelle serrate. Nel frattempo, gli occhi di ghiaccio si erano già posati su di lui. Quando egli fu a qualche passo, l’altro, senza preamboli, buttò lì:

«Sei troppo giovane per essere dell’IGS.»

«Capitano Paul Nerteaux, polizia giudiziaria, decimo arrondissement.»

Aveva pronunciato la frase con un tono militare che subito rimpianse, ma il vecchio aggiunse:

«Rue de Nancy?»

«Rue de Nancy.»

La domanda era un complimento indiretto: a quell’indirizzo si trovava il SARIJ, il servizio giudiziario del quartiere. Schiffer aveva riconosciuto in lui l’investigatore, il poliziotto di strada.

Paul prese una sedia, lanciando un’occhiata involontaria agli scommettitori, ancora appostati davanti al televisore. Schiffer seguì il suo sguardo e si lasciò sfuggire una risata:

«Passi una vita a sbattere le canaglie in galera per ottenere cosa alla fine? Di ritrovarti tu stesso al gabbio.»

Portò alla bocca un pezzo di carne. Sotto la pelle le mascelle entrarono in azione, come ingranaggi ben oliati. Paul dovette rivedere il suo giudizio, il Cifra non era poi così spento. Bastava soffiare su quella mummia per spazzarne la polvere.

«Cosa vuoi?» disse l’uomo dopo aver ingoiato il boccone.

Paul utilizzò il suo tono più modesto:

«Sono venuto a chiederle un consiglio.»

«A proposito di cosa?»

«A proposito di questo.»

Tirò fuori dalla tasca del giaccone una busta in carta da pacchi che posò a fianco dei tagliandi delle scommesse. Schiffer spostò il piatto e aprì l’involucro senza fretta. Ne estrasse una decina di fotografie a colori.

Guardò l’altro e chiese:

«Cos’è?»

«Un volto.»

Passò alle immagini successive. Paul commentò:

«Il naso è stato tagliato con un taglierino. O con un rasoio. Le lacerazioni e gli sfregi sulle guance sono state fatte con lo stesso strumento. Il mento è stato limato. Le labbra tagliate con le forbici.»

Schiffer tornò alla prima fotografia, senza dire una parola.

«Prima di tutto quello», continuò Paul, «ci sono state le botte. Secondo il medico legale, le mutilazioni sono state effettuate dopo la morte.»

«Identificata?»

«No, le impronte non hanno dato risultati.»

«Età?»

«Circa venticinque anni.»

«Causa finale del decesso?»

«Abbiamo una vasta scelta. Le botte. Le ferite. Le bruciature. Il corpo era nello stesso stato della faccia. In linea di massima, ha subito più di ventiquattr’ore di torture. Aspetto i dettagli. È in corso l’autopsia.»

Il pensionato alzò le palpebre:

«Perché mi mostri questo?»

«Il cadavere è stato trovato ieri, all’alba, vicino all’ospedale Saint-Lazare.»

«E allora?»

«Era il suo territorio. Lei ha passato più di vent’anni nel decimo arrondissement.»

«Questo non fa di me un medico legale.»

«Io penso che la vittima sia un’operaia turca.»

«Perché turca?»

«In primo luogo per il quartiere. E poi per i denti. Ha delle otturazioni in oro che si fanno solo in Medio Oriente. Vuole sapere i nomi delle leghe?»

Schiffer piazzò nuovamente il piatto davanti a sé e riprese il suo pasto.

«Perché operaia?» chiese dopo aver masticato a lungo.

«Le dita», replicò Paul. «Le estremità sono piene di cicatrici. È tipico di certi lavori di cucito. Ho verificato.»

«La sua segnalazione corrisponde a qualche avviso di scomparsa?»

Il pensionato faceva finta di non capire.

«Nessun avviso di scomparsa», rispose Paul con pazienza. «Nessuna richiesta di ricerca. È una clandestina, Schiffer. È una che in Francia non ha stato civile. Una donna che nessuno verrà mai a cercare. La vittima ideale.»

Il Cifra terminò la sua bistecca lentamente. Poi abbandonò le posate e tornò alle foto. Questa volta, inforcò un paio di occhiali. Guardò ogni immagine per diversi secondi, osservando con attenzione le ferite.

Suo malgrado, Paul abbassò gli occhi verso le fotografie. Vide, al contrario, il foro del naso, appiattito e nero; i tagli che fessuravano il viso; il labbro leporino, violaceo, orrendo.

Schiffer posò il mazzo delle foto e prese uno yogurt. Ne sollevò con precauzione il coperchio prima di immergervi il cucchiaio.

Paul sentiva esaurirsi a gran velocità le sue riserve di calma.

«Ho cominciato il giro», riprese. «I laboratori. I foyer. I bar. Non ho trovato niente. Non è scomparso nessuno. Ed è normale: là nessuno esiste. Sono clandestini. Come identificare una vittima in una comunità invisibile?»

Silenzio di Schiffer; cucchiaiata di yogurt. Paul riprese:

«Nessun turco ha visto niente. O forse non hanno voluto dirmi niente. Per la verità nessuno ha potuto dirmi nulla: per la semplice ragione che nessuno parla francese.»

Il Cifra continuava il suo lavoro con il cucchiaio. Alla fine, si degnò di aggiungere:

«Allora, ti hanno parlato di me.»

«Tutti mi hanno parlato di lei. Beauvanier, Monestier, i luogotenenti. A sentir loro, solo lei può far avanzare questa cazzo di inchiesta.»

Nuovo silenzio. Schiffer si asciugò le labbra con il tovagliolo, poi prese di nuovo il vasetto di plastica.

«Tutto questo è lontano. Io sono in pensione e non ho più la testa per queste cose. Adesso mi dedico alle mie nuove responsabilità», disse indicando i biglietti delle scommesse.

Paul afferrò il bordo della tavola e si sporse:

«L’assassino le ha fatto esplodere i piedi. Le radiografie hanno rivelato più di settanta frammenti ossei conficcati nella carne. Le ha tagliuzzato i seni al punto che le si possono contare le costole attraverso la pelle. Le ha ficcato nella vagina una barra piena di lame di rasoio.»

Sbatté il pugno sul tavolo.

«Non lo lascerò continuare!»

Il vecchio poliziotto inarcò un sopracciglio:

«Continuare?»

Paul si contorse sulla sedia, poi, con un gesto maldestro, tirò fuori i documenti che teneva arrotolati nella tasca interna del suo parka.

A malincuore disse:

«Ce ne sono tre.»

«Tre?»

«La prima è stata scoperta nel novembre scorso. Una seconda in gennaio. E ora questa. Ogni volta nel quartiere turco. Torturate e sfigurate nello stesso modo.»

Schiffer le guardava in silenzio, col cucchiaio sospeso a mezz’aria. Tutt’a un tratto Paul urlò, coprendo il vociare ippico:

«Santo Dio, Schiffer, non capisce? C’è un serial killer nel quartiere turco. Un tipo che se la prende esclusivamente con le clandestine. Donne che non esistono, in una zona che non è nemmeno più Francia!»

Jean-Louis Schiffer posò infine il suo yogurt e rimise i documenti tra le mani di Paul.

«Ce ne hai messo di tempo per venirmi a trovare.»

9.

Fuori era comparso il sole. Le pozzanghere d’argento riaccendevano il grande cortile di ghiaia. Paul andava avanti e indietro davanti alla porta centrale aspettando che Jean-Louis Schiffer avesse finito di prepararsi.

Non c’era altra soluzione; lui lo sapeva, l’aveva sempre saputo. Il Cifra non poteva aiutarlo a distanza. Non poteva dargli consigli dal fondo del suo ospizio, né poteva dargli delle risposte per telefono ogni volta che a Paul mancava l’ispirazione. No. L’ex poliziotto doveva interrogare i turchi assieme a lui, doveva sfruttare i suoi contatti, rivoltare quel quartiere che conosceva meglio di chiunque altro.

Paul ebbe un fremito pensando alle conseguenze di quel passo. Nessuno ne era al corrente; né il giudice né i superiori. E non si sguinzagliava così un porco, noto per i suoi metodi brutali e fuori dai limiti: avrebbe dovuto tenerlo ben stretto alla corda.

Con un calcio, lanciò un sasso in una pozza d’acqua, confondendo la sua immagine riflessa. Cercava ancora di convincersi che la sua idea era stata buona. Come era arrivato fin là? Perché si accaniva su quell’inchiesta fino a quel punto? Perché fin dal primo omicidio si comportava come se la sua intera esistenza dipendesse dall’esito di quell’indagine?

Rifletté un istante, contemplando la sua immagine offuscata, poi dovette ammettere che la sua rabbia aveva un’origine lontana.

Tutto era cominciato con Reyna.

25 marzo 1994

Paul era apprezzato all’Ufficio stupefacenti. Otteneva solidi risultati sul campo, conduceva una vita regolare, ripassava le lezioni per il concorso da commissario — e vedeva persino allontanarsi, al fondo della sua coscienza, quei tagli nella finta pelle del sedile. Il suo carapace di sbirro funzionava come un’armatura stagna contro le vecchie angosce.

Quella sera accompagnava alla prefettura di Parigi un trafficante nordafricano che aveva interrogato per più di sei ore nel suo ufficio di Nanterre. Routine. Ma, giunto al quai des Orfèvres, assistette a una vera rivolta; decine di furgoni scaricavano grappoli di adolescenti urlanti e gesticolanti; sul lungofiume i poliziotti correvano in tutte le direzioni, mentre si sentiva l’urlo delle sirene delle ambulanze che intasavano il cortile dell’ospedale dell’Hôtel-Dieu.

Paul si informò. Una manifestazione contro il contratto di inserimento professionale era degenerata. Si diceva che in Place de la Nation ci fossero stati più di cento feriti tra le file della polizia e diverse decine tra i dimostranti; danni materiali per milioni di franchi.

Paul agguantò il suo indiziato e si sbrigò a scendere nei sotterranei. Se non avesse trovato posto nelle celle, sarebbe dovuto andare alla prigione della Santé o chissà dove, sempre con il suo prigioniero ammanettato al polso.

La casa circondariale lo accolse con il solito baccano, ma spinto a mille. Insulti, urla, sputi: i manifestanti si aggrappavano alle griglie, lanciando ingiurie alle quali i poliziotti rispondevano a colpi di manganello. Riuscì a ingabbiare il suo tipo e fece per andarsene in fretta, per sfuggire al casino e agli sputi.

Stava per svignarsela quando la vide.

Lei era seduta per terra, con le braccia intorno alle ginocchia, e sembrava piena di sdegno per il caos che la circondava. Lui si avvicinò. Lei aveva i capelli neri e diritti, un corpo androgino, un’aria cupa come la musica dei Joy Division uscita direttamente dagli anni Ottanta. Aveva persino una di quelle keffiah a quadri blu che solo Arafat osava ancora portare.

Sotto i capelli dal taglio punk, il viso era di una regolarità stupefacente; una precisione da figurina egizia, scolpita nel marmo bianco. Paul pensò alle sculture che aveva visto in una rivista. Forme naturalmente levigate, al tempo stesso dolci e pesanti, da nascondere nel palmo della mano e da tenere diritte su un dito, in perfetto equilibrio. Dei ciottoli magici, firmati da un artista di nome Brancusi.

Paul negoziò con il secondino, verificò che il nome della ragazza non fosse ancora stato scritto sul registro, poi la portò alla Sezione stupefacenti, al terzo piano. Mentre saliva le scale, fece rapidamente il conto dei suoi punti di forza e dei suoi handicap.

Sul versante punti di forza, era un bel ragazzo; o almeno era quello che gli lasciavano intendere le prostitute che gli fischiavano dietro quando passava nei quartieri caldi in cerca di spacciatori. Aveva capelli da indiano, lisci e neri. Lineamenti regolari e occhi color caffè. Un corpo secco e nervoso, non molto alto, ma rialzato dalla grossa suola degli anfibi. Sarebbe stato una specie di damerino se non avesse avuto cura di sfoggiare sempre uno sguardo duro, studiato davanti allo specchio, e una barba di tre giorni che guastava ad arte quella bella faccina.

Sul versante handicap, non ne vedeva che uno, ma bello grosso: era uno sbirro.

Quando controllò la fedina penale della ragazza, capì che l’ostacolo poteva essere insormontabile. Reyna Brendosa, ventiquattro armi, residente al 32 di rue Gabriel-Péri a Sarcelles, era membro attivo della Lega comunista rivoluzionaria, linea dura; affiliata a un gruppo anarco-insurrezionalista italiano; più volte arrestata per vandalismo, turbamento dell’ordine pubblico e percosse. Una vera bomba.

Paul abbandonò il computer e contemplò ancora una volta la creatura che lo fissava dall’altra parte della scrivania. Quei suoi occhi neri, messi in risalto dall’ombretto scuro, lo picchiavano più duramente dei due spacciatori zairesi che lo avevano pestato a Chateau-Rouge, in una sera di disattenzione.

Lui giocò con la sua carta d’identità, come fanno tutti i poliziotti, e chiese:

«Ti diverte spaccare tutto?»

Nessuna risposta.

«Non c’è nessun altro modo di esprimere le proprie idee?»

Nessuna risposta.

«Ti eccita la violenza?»

Nessuna risposta. Poi, all’improvviso, la voce, grave e lenta:

«La sola vera violenza è la proprietà privata. La spogliazione delle masse. L’alienazione delle coscienze. La peggiore di tutte, quella scritta e autorizzata nelle leggi.»

«Queste idee sono tutte tramontate: non ne sei al corrente?»

«Niente e nessuno potrà impedire lo sgretolamento del capitalismo.»

«E nell’attesa tu ti prenderai tre mesi di galera.»

Reyna Brendosa sorrise:

«Tu giochi a fare il soldatino, ma sei solo una pedina. Se ti soffio sopra, tu sparisci.»

Paul sorrise a sua volta. Non aveva mai provato per una donna un tale miscuglio di irritazione e di fascinazione, un desiderio così violento, ma anche così misto al timore.

Dopo la loro prima notte, lui aveva chiesto di rivederla; lei lo aveva trattato da «sporco sbirro». Un mese più tardi, quando ormai lei dormiva a casa sua tutte le sere, lui le aveva proposto di trasferirsi nel suo appartamento; lo aveva mandato a «farsi fottere». Più tardi ancora, lui aveva parlato di sposarla; lei era scoppiata a ridere.

Si erano poi sposati in Portogallo, vicino a Porto, nel villaggio natale di lei. Prima davanti al sindaco comunista, poi in una piccola chiesa. Un sincretismo di fede, di socialismo e di sole. Uno dei più bei ricordi di Paul.

I mesi successivi erano stati i più belli della sua vita. Non cessava di meravigliarsene. Reyna gli sembrava eterea, immateriale, poi, un attimo dopo, un gesto, un’espressione le conferivano una presenza, una sensualità incredibili, quasi animalesche. Lei poteva passare ore a sostenere le sue idee politiche, a descrivere utopie e citare filosofi di cui lui non aveva mai sentito parlare. E poi, con un solo bacio, ricordargli che era un essere rosso, organico, palpitante.

Il suo alito sapeva di sangue perché non la smetteva mai di mordicchiarsi le labbra. In ogni circostanza sembrava captare la respirazione del mondo, sembrava muoversi con gli ingranaggi profondi della natura. Possedeva una sorta di percezione interna dell’universo; qualche cosa di freatico, di sotterraneo, che la legava alle vibrazioni della Terra e agli istinti del vivente.

Lui amava quella sua lentezza che le conferiva una gravità da rintocco funebre. Amava la sua acuta sofferenza di fronte all’ingiustizia, alla miseria, alla deriva dell’umanità. Amava quella via al martirio che lei aveva imboccato e che elevava a tragedia il loro quotidiano. La vita con sua moglie sembrava un’ascesa, la preparazione all’incontro con un oracolo. Un cammino religioso, di trascendenza e di rigore.

Reyna, ovvero la vita come digiuno… Quella sensazione lasciava presagire quello che sarebbe successo. Alla fine dell’estate del 1994, lei gli annunciò di essere incinta. Lui prese la notizia come un tradimento: gli rubavano il suo sogno. Il suo ideale sprofondava nella banalità della fisiologia e della famiglia. Per la verità, sentiva che sarebbe stato privato di lei. In primo luogo fisicamente, ma anche moralmente. La vocazione di Reyna si sarebbe certamente modificata; la sua utopia si sarebbe incarnata nella sua metamorfosi interiore…

Dopo il parto, nell’aprile del 1995, i loro rapporti si raffreddarono definitivamente. L’uno e l’altra stavano intorno alla figlia come due esseri distanti. Malgrado la presenza del neonato, c’era nell’aria un che di funereo, una vibrazione morbosa. Paul capiva di essere diventato per Reyna oggetto di una totale repulsione.

Una notte, non resistendo più, chiese:

«Non mi desideri più?»

«No.»

«Non mi desidererai mai più?»

«No.»

Esitò, poi pose la domanda fatale:

«Mi hai mai desiderato?»

«No, mai.»

Per essere un poliziotto, non aveva avuto molto intuito su quella storia… Il loro incontro, la loro unione, il loro matrimonio, tutto era stato un bidone, un’impostura.

Una macchinazione il cui solo scopo era stata la bambina.

Per il divorzio bastò qualche mese. Di fronte al giudice, Paul crollò letteralmente. Sentiva una voce rauca risuonare nell’ufficio, ed era la sua; sentiva della carta vetrata attaccargli il viso, ed era la sua stessa barba; galleggiava nella stanza come un fantasma, uno spettro allucinato. Aveva detto di sì a tutto, alimenti e affidamento della bambina, non si era battuto su niente. Se ne fotteva, preferiva meditare sulla perfidia del complotto. Era stato vittima di una collettivizzazione di tipo un po’ particolare… Reyna la marxista si era appropriata del suo sperma. Aveva praticato una fecondazione in vivo secondo il sistema comunista.

La cosa più strana era che lui non riusciva a odiarla. Al contrario, ammirava ancora quell’intellettuale estranea al desiderio. Ne era certo: lei non avrebbe mai più avuto rapporti sessuali. Né con un uomo né con una donna. E l’idea di quella creatura idealista che voleva semplicemente dare la vita, senza passare né attraverso il piacere né attraverso la condivisione, lo lasciava inebetito, senza senso e senza idee.

A partire da quel momento aveva cominciato ad andare alla deriva, come un fiume di acque sporche che cerca il suo mare di fango. Sul lavoro andava sempre peggio. Non metteva più piede nel suo ufficio a Nanterre. Passava la sua vita nei quartieri più malfamati, accanto alla peggiore teppaglia, fumava spinelli a raffica, viveva con i trafficanti e gli sballati, spassandosela con i peggiori rifiuti dell’umanità…

Poi, nella primavera del 1998, aveva accettato di vederla.

Si chiamava Céline e aveva tre anni. I primi weekend erano stati mortali. Parco, giostre, zucchero filato: una noia senza fine. Poi, poco a poco, aveva scoperto una presenza inattesa. C’era una trasparenza nei gesti della bambina, nel suo viso, nelle sue espressioni; un flusso morbido, capriccioso e saltellante, di cui conosceva le vie segrete.

La mano girata verso l’esterno, con le dita strette, per sottolineare qualcosa. Un certo modo di sporgersi in avanti e di concludere quel movimento con una smorfia dispettosa. La voce un po’ arrochita, d’una grana affascinante e singolare, che lo faceva rabbrividire come il contatto con certi o con certe scorze. Sotto la bambina palpitava già una donna. Non sua madre, certo non lei, ma una creatura vispa, vivace, unica.

C’era qualcosa di nuovo sulla terra: Céline esisteva.

Paul cambiò radicalmente ed esercitò con passione il suo diritto a vedere la figlia. Gli incontri regolari con lei lo ristabilirono e ripartì alla conquista della stima di sé stesso. Sognò nuovamente di essere un eroe, un superpoliziotto incorruttibile, lavato da tutto il sudiciume.

Un uomo la cui immagine riflessa avrebbe fatto risplendere lo specchio ogni mattina.

Per la propria remissione scelse il solo territorio che conosceva: il crimine. Dimenticò il concorso da commissario e chiese un posto alla Brigata criminale di Parigi. Malgrado il suo periodo dubbio, nel 1999 ottenne un posto da capitano. Divenne un investigatore accanito, incandescente. E si mise ad aspettare il caso che lo avrebbe condotto ai vertici. Il genere di inchiesta che tutti i poliziotti motivati desiderano: una caccia alla belva, un duello solitario con un nemico degno di questo nome.

Fu allora che sentì parlare del primo corpo.

Una donna rossa di capelli torturata, sfigurata, scoperta sotto un portone vicino al boulevard de Strasbourg, il 15 novembre 2001. Nessun sospetto, nessun movente e, per così dire, nessuna vìttima… Il cadavere non corrispondeva ad alcun avviso di scomparsa. Le impronte digitali non erano schedate. Alla criminale il caso era archiviato. Senza dubbio un storia di puttane e di magnaccia: la rue Saint-Denis era a duecento metri appena. Istintivamente, Paul presagì qualcosa di diverso. Si procurò il dossier: verbale del ritrovamento, rapporto del medico legale, foto del cadavere. Durante le feste natalizie, mentre i suoi colleghi erano con la famiglia e Céline era in Portogallo dai nonni, lui studiò a fondo i documenti. Rapidamente capì che non si trattava di un fatto di prostituzione. Né la diversità delle torture né le mutilazioni al viso avvaloravano l’ipotesi di un pappone. Inoltre, se la vittima fosse stata una passeggiatrice, il controllo delle impronte avrebbe dato qualche risultato, dato che tutte le prostitute del decimo erano schedate.

Decise di sorvegliare attentamente quello che succedeva nel quartiere Strasbourg-Saint-Denis. Non dovette attendere a lungo. Il 10 gennaio 2002, nel cortile di un laboratorio turco in rue du Faubourg-Saint-Denis, veniva scoperto un secondo corpo. Stesso tipo di vittima: rossa, non corrispondente ad alcuna segnalazione; stesse tracce di torture; stessi sfregi sul volto.

Paul si impose la calma, ma era certo di avere la «sua» serie. Dal giudice istruttore responsabile del caso, Thierry Bomarzo, ottenne la direzione dell’inchiesta. Sfortunatamente la pista era già fredda. I ragazzi della pubblica sicurezza avevano alterato la scena del delitto e la polizia scientifica non aveva trovato niente.

Paul avvertì oscuramente che doveva spiare l’assassino sul suo stesso terreno, doveva sprofondarsi nel quartiere turco. Si fece spostare alla polizia giudiziaria del decimo arrondissement e si fece degradare a semplice investigatore del SARIJ, il Servizio di accoglienza e di ricerca investigativa giudiziaria della rue de Nancy. Riannodò i legami con la quotidianità del poliziotto di base e raccolse le denunce delle vedove scippate, dei droghieri vittime di furto, dei vicini litigiosi.

Il mese di febbraio passò così. Paul mordeva il freno. Temeva un nuovo cadavere e al tempo stesso lo sperava. Alternava i momenti di eccitazione e le giornate di completo sconforto. Quando toccava veramente il fondo, andava a raccogliersi sulle tombe anonime delle due vittime, alla fossa comune di Thiais, nel Val-de-Marne.

Là, di fronte ai cippi di pietra che recavano solo un numero, giurava alle due donne di vendicarle, di trovare il pazzo che aveva imposto loro il supplizio. Poi, in un angolo della sua testa, faceva una promessa anche a Céline. Sì: avrebbe preso l’assassino. Per lei. Per sé. Perché tutto il mondo sapesse che lui era un grande poliziotto.

Il 16 marzo 2002, all’alba, era spuntato un nuovo cadavere.

I poliziotti di servizio lo avevano chiamato alle cinque del mattino. I netturbini avevano rinvenuto il corpo in un canale di scolo dell’ospedale Saint-Lazare, un edificio in mattoni abbandonato che si trovava, un po’ arretrato, sul boulevard Magenta. Paul ordinò che nessuno si recasse sul posto prima di un’ora. Prese la giacca e si portò velocemente sulla scena del delitto. Trovò il luogo deserto, senza un agente, senza un lampeggiante che disturbasse la sua concentrazione.

Un vero miracolo.

Avrebbe potuto seguire la scia dell’assassino, entrare in contatto con il suo odore, il suo aspetto, la sua follia… Ma fu una nuova delusione. Si era atteso degli indizi materiali, una messa in scena particolare che fungesse da firma. Ma non trovò che un cadavere abbandonato in un tubo di cemento. Un corpo livido, mutilato, con un volto sfigurato sotto i capelli color della cera.

Paul capì di esser preso tra due silenzi. Il silenzio dei morti e il silenzio del quartiere.

Prima ancora che arrivasse il furgone della polizia, se n’era andato abbattuto, sconfortato. Aveva fatto a piedi tutta la rue Saint-Denis e aveva osservato il risveglio della Piccola Turchia. I commercianti che aprivano i loro negozi; gli operai che correvano alle loro fabbriche; i mille e uno turchi che badavano al loro destino… Allora nacque in lui una certezza: quel quartiere di immigrati era la foresta nella quale si nascondeva l’assassino. Una giungla inestricabile dove si era appena eclissato, dove aveva trovato rifugio e sicurezza.

Solo che Paul non aveva alcuna possibilità di stanarlo.

Gli ci voleva una guida. Uno che facesse chiarezza.

10.

In «abiti civili», Jean-Louis Schiffer aveva un aspetto migliore.

Portava un Barbour verde oliva, un paio di pantaloni di velluto a coste, di un verde più tenero, che ricadevano pesantemente su un paio di grosse scarpe stile Church, lucide come due belle castagne.

Quei vestiti gli conferivano una certa eleganza, senza comunque attenuare la brutalità della sua figura. Tarchiato, torace ampio, gambe arcuate: tutto in quell’uomo traspirava potenza, solidità, violenza. Quel poliziotto poteva certamente incassare il rinculo di un revolver regolamentare, un Manhurin calibro 38, senza muoversi di un centimetro. Meglio ancora: la sua postura implicava già quel rinculo, lo incorporava nella sua andatura.

Come se gli avesse letto nel pensiero, il Cifra alzò le braccia:

«Puoi perquisirmi, piccolo. Non ho preso con me il ferro.»

«Lo spero bene», replicò Paul. «Qui, se lo ricordi bene, c’è un solo poliziotto in attività e quello sono io; e non sono certo il suo “piccolo”.»

Schiffer sbatté i tacchi in una parodia di saluto militare. Paul non abbozzò neppure un sorriso. Gli aprì la portiera, salì a sua volta e partì rapidamente, ricacciando indietro le proprie apprensioni.

Durante il viaggio, il Cifra non disse una parola. Era immerso nel plico di fotocopie del dossier. Di quel dossier, Paul conosceva ogni riga. Sapeva tutto ciò che si poteva sapere sui corpi anonimi che egli stesso aveva battezzato i «Corpus».

Ai confini di Parigi, Schiffer riprese la parola:

«L’analisi della scena del crimine non ha dato risultati?»

«Niente.»

«La scientifica non ha trovato neanche un’impronta, neanche un frammento?»

«Un bel niente.»

«E sui corpi?»

«Ancora meno. Secondo il medico legale, l’omicida li pulisce con un detergente industriale. Disinfetta le ferite, lava loro i capelli, ripulisce le unghie.»

«E le indagini nei dintorni?»

«Gliel’ho già detto. Ho interrogato gli operai, i negozianti, le puttane, gli spazzini di ognuna delle tre zone. Mi sono persino cucinato i barboni. Nessuno ha visto nulla.»

«Il tuo parere?»

«Penso che l’assassino giri in macchina e che abbandoni il corpo appena può, alle prime luci dell’alba. Un’operazione lampo.»

Schiffer girava le pagine. Si fermò sulle fotografie dei cadaveri:

«Per la questione dei volti, ti sei fatto un’idea?»

Paul prese fiato; aveva riflettuto notti intere su quelle mutilazioni:

«Ci sono diverse possibilità. La prima è che l’assassino voglia semplicemente confondere le piste. Quelle donne lo conoscevano e la loro identificazione potrebbe portare a lui.»

«Allora perché non distrugge le dita e i denti?»

«Perché sono delle clandestine e non sono schedate da nessuna parte.»

Il Cifra accettò la spiegazione annuendo con il capo.

«La seconda?»

«Una ragione più… psicologica. Ho letto un sacco di libri sull’argomento. Secondo gli psicologi, quando un omicida distrugge gli organi dell’identificazione è perché conosce le sue vittime e non sopporta il loro sguardo. Allora annienta il loro statuto di esseri umani, le mantiene a distanza trasformandole in puri oggetti.»

Schiffer sfogliò nuovamente il plico.

«Questa roba da strizzacervelli non mi convince molto. Terza possibilità?»

«L’assassino ha problemi con i volti, in generale. C’è qualcosa nei lineamenti di quelle rosse che gli fa paura, che gli ricorda un trauma. Non deve solo ucciderle, deve anche sfigurarle. Secondo me, quelle donne si assomigliano. È il loro viso che fa scattare le sue crisi.»

«Ancora più fumoso.»

«Lei non ha visto i cadaveri», rispose Paul alzando la voce. «Abbiamo a che fare con un malato. Uno psicopatico allo stato puro. Tocca a noi sintonizzarci sulla sua follia.»

«E questo cos’è?»

Aveva aperto un’ultima busta contenente foto di sculture antiche. Teste, maschere, busti. Era stato Paul stesso a ritagliare quelle immagini dai cataloghi dei musei, dalle guide turistiche, da riviste come «Archeologia» o «Il Bollettino del Louvre».

«Un’idea mia», rispose. «Ho notato che i tagli assomigliano a screpolature, a crateri, come fossero dei segni nella pietra. Ci sono i nasi tranciati, le labbra tagliate, le ossa limate, tutte cose che ricordano le tracce dell’usura. Mi sono detto che l’omicida potrebbe ispirarsi a statue antiche.»

«D’accordo, vediamo.»

Paul si sentì arrossire. La sua idea era tirata per i capelli e, malgrado le sue ricerche, non aveva trovato il benché minimo esempio che potesse richiamare, da vicino o da lontano, le ferite dei Corpus. E tuttavia, senza esitazione, disse:

«Forse per l’assassino quelle donne sono delle dee, odiate e rispettate al tempo stesso. Sono sicuro che è turco e che è immerso nella mitologia mediterranea.»

«Tu hai troppa fantasia.»

«Non le è mai capitato di seguire il suo intuito?»

«Non ho mai seguito altro che il mio intuito. Ma credimi: tutte queste storie “psico” è roba troppo soggettiva. Bisogna piuttosto concentrarsi sui problemi tecnici che deve affrontare.»

Paul non era sicuro di capire. Schiffer proseguì:

«Si deve riflettere sul suo modus operandi. Se tu hai ragione, se quelle donne sono davvero delle clandestine, allora sono musulmane. E non delle musulmane di Istanbul, con i tacchi alti. Delle contadine, delle selvagge che camminano rasenti ai muri e non parlano una parola di francese. Per addomesticarle, bisogna conoscerle. E parlare turco. Forse il nostro uomo è il capo di un laboratorio. Un negoziante. O il responsabile di un centro per immigrati. Poi c’è la questione degli orari. Quelle operaie vivono sottoterra, nelle cantine, nei laboratori nascosti. L’assassino le becca quando ritornano in superficie. Quando? Come? Perché queste ragazze selvatiche accettano di seguirlo? È rispondendo a queste domande che risaliremo lungo la sua traccia.»

Paul era d’accordo, ma tutte quelle domande dimostravano soprattutto l’immensità di ciò che ignoravano. Tutto era possibile. Schiffer affrontò un nuovo argomento:

«Suppongo che tu abbia verificato gli omicidi dello stesso genere.»

«Ho consultato il nuovo archivio Chardon. E anche quello dei gendarmi: l’Anacrime. Ho interrogato tutti i ragazzi della Brigata criminale. In Francia non c’è mai stato un affare che ricordasse, neanche da lontano, una paranoia simile. Ho controllato anche in Germania, nella comunità turca. Niente.»

«E in Turchia.»

«Idem. Niente di niente.»

Schiffer prese una nuova direzione. Sembrava condurre un vero sopralluogo:

«Hai aumentato le pattuglie nel quartiere?»

«Ci siamo messi d’accordo con Monestier, il capo del commissariato di rue Louis-Blanc. Le ronde sono state rinforzate. Ma discretamente. Meglio non diffondere il panico nella zona.»

Schiffer scoppiò a ridere:

«Ma cosa credi? I turchi sono già al corrente della cosa, tutti.»

Paul glissò su quella frecciata:

«In ogni caso, fino a questo momento abbiamo evitato i media. È la sola garanzia per continuare da solo. Se si comincia a far rumore intorno alla faccenda, Bomarzo mette altri inquirenti nel caso. Per ora è una storia turca e tutti se ne fottono. Ho mano libera.»

«Perché di una questione del genere non si occupa la criminale?»

«Io vengo dalla criminale. Tengo ancora un piede là dentro. Bomarzo mi dà fiducia.»

«E non hai chiesto degli uomini in più?»

«No.»

«Non hai costituito un gruppo di indagine?»

«No.»

Il Cifra si lasciò scappare un sogghigno:

«La vuoi tutta per te, eh?»

Paul non rispose. Con il dorso della mano Schiffer spazzò via un pelucchio dai suoi pantaloni:

«Le tue motivazioni importano poco. Importano poco anche le mie. Lo becchiamo, vedrai.»

11.

Giunto sulla tangenziale, Paul prese verso ovest, direzione Porte d’Auteuil.

«Non andiamo alla Râpée?» si stupì Schiffer.

«Il corpo è a Garches. All’ospedale Raymond-Poincarré. Laggiù c’è un istituto medico-legale incaricato di fare le autopsie per il tribunale di Versailles e…»

«Lo so. Perché là?»

«Questione di discrezione. Per evitare i giornalisti o i profiler dilettanti che stazionano costantemente all’obitorio di Parigi.»

Schiffer sembrava non ascoltarlo più. Osservava affascinato il movimento delle macchine. Di tanto in tanto strizzava gli occhi, come se si stesse abituando a una luce nuova. Assomigliava a un detenuto in libertà condizionale.

Mezz’ora più tardi, Paul passò il ponte di Suresnes e risalì lungo boulevard Sellier per proseguire sul boulevard de la République. Poi attraversò la cittadina di Saint-Cloud e raggiunse i confini di Garches.

Infine, in cima alla collina, apparve l’ospedale. Sei ettari di costruzioni, di sale operatorie e di camere bianche; una vera città, popolata da medici, infermieri e migliaia di pazienti, vittime, per la maggior parte, di incidenti stradali.

Si diresse verso il padiglione Vésale. Il sole era alto e sfiorava e accarezzava le facciate degli edifici in mattoni. Ogni muro proponeva una nuova sfumatura di rosso, di rosa, di crema, come se fossero stati cotti al forno con cura.

Qua e là, lungo i vialetti, si vedevano gruppi di visitatori con fiori e scatole di pasticcini. Camminavano con una rigidità quasi meccanica, come se fossero stati contaminati dal rigor mortis che regnava in quell’area.

Giunsero nel cortile interno del padiglione. L’edificio grigio e rosa, con la sua pensilina sostenuta da minuscole colonne, ricordava un sanatorio o uno stabilimento termale che nascondesse misteriose sorgenti curative.

Entrarono nell’obitorio e seguirono un corridoio piastrellato in ceramica bianca. Quando Schiffer vide la sala d’attesa, domandò:

«Dove siamo?»

Era una cosa da nulla, ma Paul era contento di stupirlo.

Qualche anno prima, l’istituto medico-legale di Garches era stato ristrutturato in maniera molto originale. La prima sala era tinteggiata in turchese; il colore ricopriva indistintamente il pavimento, i muri e il soffitto e annullava così ogni senso della dimensione, ogni punto di riferimento. Il si era immersi in un mare cristallizzato che distillava una limpidezza vivificante.

«I dottori di Garches hanno chiamato un artista contemporaneo, spiegò Paul. Ora noi non siamo più in un ospedale, siamo dentro un’opera d’arte.»

Comparve un infermiere e indicò una porta sulla destra:

«Il dottor Scarbon vi raggiungerà nella sala.»

Lo seguirono e superarono altre stanze. Anch’esse azzurre, anch’esse vuote, sormontate talvolta da un bordo di luce bianca proiettato a qualche centimetro dal soffitto. Nel corridoio c’erano dei vasi di marmo ordinati secondo l’altezza e secondo un digradare di toni pastello: rosa, pesca, giallo, avorio, bianco… Sembrava che ovunque fosse all’opera una strana volontà di purezza.

L’ultima sala strappò al Cifra un fischio d’ammirazione.

Era un rettangolo senza divisioni, di circa cento metri quadri, assolutamente vergine, abitato solo dall’azzurro. A sinistra della porta d’entrata, tre alte vetrate ritagliavano il chiarore dell’esterno. Di fronte a queste tre figure di luce, nel muro opposto si aprivano tre archi come volte d’una chiesa greca. All’interno c’erano blocchi di marmo allineati, anch’essi turchesi, che sembravano spuntare direttamente dal pavimento.

Su uno di essi, un lenzuolo aderiva alla forma di un corpo.

Schiffer si avvicinò a una giara di marmo bianco sistemata al centro della stanza. Pesante e levigata, piena d’acqua, essa evocava un’acquasantiera dalle linee semplici e antiche. Agitata da un motore, l’acqua gorgogliante diffondeva un profumo di eucalipto destinato ad attenuare la puzza dei morti e l’odore del formolo.

Il poliziotto ci immerse le dita.

«Tutto questo non mi ringiovanisce.»

In quel momento si sentirono i passi del dottor Claude Scarbon. Schiffer si girò. I due uomini si squadrarono. A Paul bastò un’occhiata per capire che i due si conoscevano. Aveva chiamato il medico dall’ospizio senza dirgli del suo nuovo collega.

«Grazie di essere venuto, dottore», disse salutandolo.

Scarbon fece un cenno col capo, senza distogliere lo sguardo dal Cifra. Portava un cappotto di lana scura e aveva ancora indosso i guanti di capretto. Era un vecchio smunto. Sbatteva le palpebre continuamente, come se gli occhiali che aveva in punta al naso non gli fossero di alcuna utilità. Da sotto i suoi grossi baffi gallici usciva una voce trascinata da film d’anteguerra.

Paul fece un gesto verso il suo accompagnatore:

«Vi presento…»

«Ci conosciamo», intervenne Schiffer. «Salve dottore.»

Senza rispondere, Scarbon si tolse il cappotto e infilò una casacca appesa sotto una delle volte, poi infilò le mani in un paio di guanti di lattice il cui colore verde pallido si intonava con l’azzurro che li circondava.

Solo allora spostò il lenzuolo. L’odore della carne in decomposizione si spanse nella stanza, tagliando corto su ogni altra preoccupazione.

Suo malgrado, Paul distolse lo sguardo. Quando ebbe trovato il coraggio di guardare, scorse il corpo pesante e bianco, seminascosto dal lenzuolo ripiegato.

Schiffer si era infilato sotto l’arco e si era messo dei guanti chirurgici. Sul suo viso non si leggeva il minimo turbamento. Dietro di lui si staccavano dal muro due candelabri di ferro nero e una croce di legno. Con una voce neutra mormorò:

«OK dottore, può cominciare.»

12.

«La vittima è di sesso femminile, di razza caucasica. Il suo tono muscolare indica che aveva tra i venti e i trent’anni. Piuttosto abbondante. Settanta chili per un metro e sessanta. Se aggiungiamo che aveva i capelli rossi e la carnagione bianca tipica delle rosse, direi che corrisponde, fisicamente, allo stesso profilo delle prime due. Al nostro uomo piacciono così: sulla trentina, rosse, grassottelle.»

Scarbon parlava con un tono monocorde. Sembrava leggere mentalmente le righe del proprio rapporto, righe scolpite nella sua notte insonne,

Schiffer chiese:

«Nessun segno particolare?»

«Del tipo?»

«Tatuaggi. Fori alle orecchie. Segno della fede al dito. Cose che l’assassino non avrebbe potuto cancellare.»

«No.»

«Nerteaux mi ha detto che le dita indicavano un lavoro di cucitrice. Cosa ne pensate?»

Scarbon confermò con un cenno del capo:

«Sono donne che hanno praticato a lungo dei lavori manuali, è evidente.»

«È d’accordo con il lavoro di cucito?»

«È difficile essere veramente precisi. Ci sono tracce di punture nei solchi delle dita. Ci sono anche dei calli tra il pollice e l’indice. Forse sono dovuti all’uso di una macchina da cucire o di un ferro da stiro.»

Alzò lo sguardo al di sopra delle lenti e riprese:

«Sono ben state ritrovate vicino al quartiere del Sentier, no?»

«E allora?»

«Sono operaie turche.»

Schiffer non colse quel tono di sicurezza, continuava a osservare il torace. Suo malgrado, Paul si avvicinò. Vide le lacerazioni nere che si allungavano sui fianchi, sui seni, sulle spalle e sulle cosce. Molte di esse erano così profonde da mostrare il bianco delle ossa.

«Ci parli di queste», ordinò il Cifra.

Il medico scorse rapidamente alcune pagine pinzate.

«Su questa, ho contato ventisette tagli. Alcuni superficiali, alcuni profondi. Si può immaginare che l’assassino abbia intensificato le torture man mano che il tempo passava. Sulle altre due ce n’erano più o meno lo stesso numero.» Abbassò i fogli per osservare i suoi interlocutori. «In generale, tutto ciò che descrivo qui è valido anche per le precedenti vittime. Le tre donne sono state seviziate nella stessa maniera.»

«Con che arma?»

«Un coltello da combattimento, cromato, dotato di una lama seghettata. In diverse ferite si distingue nettamente l’impronta dei denti. Dopo l’esame dei primi due corpi avevo chiesto una ricerca dell’arma sulla base della dimensione e della distanza tra i denti, ma non ha dato alcun risultato. Materiale militare standard, corrispondente a decine di modelli.»

Il Cifra si sporse su altre ferite che si moltiplicavano sul busto, curiose aureole nere che suggerivano dei morsi o dei baci infuocati. Quando Paul aveva notato quel dettaglio sul primo cadavere, aveva pensato al diavolo. Un essere uscito dalla fornace per dilettarsi di quel corpo innocente.

«E questi?» chiese Schiffer tendendo l’indice. «Cosa sono? Dei morsi?»

«A prima vista si direbbero dei succhiotti. Ma ho trovato una spiegazione razionale a questi segni. Penso che l’omicida si serva di una batteria da auto per infliggere loro delle scosse elettriche. Più precisamente, credo che utilizzi le pinze dentate che si usano di solito per collegare i cavi. I segni delle labbra non sono altro che le impronte di queste pinze. Secondo me, bagna il corpo per accentuare le scariche. Ciò spiegherebbe le stigmate nere. Ce ne sono più di una ventina su questa.»

Brandì i suoi fogli.

«È tutto nel mio rapporto.»

Quelle informazioni Paul le conosceva bene; aveva letto e riletto i due primi verbali d’autopsia. Ma ogni volta sentiva la stessa repulsione, il medesimo rigetto. Non c’era alcun modo di provare empatia per una tale follia.

Schiffer si piazzò all’altezza delle gambe del cadavere; i piedi, nero-blu, erano piegati secondo un angolo impossibile.

«E là?»

Scarbon si avvicinò a sua volta, dall’altra parte del corpo. Sembravano due topografi che studiassero i rilievi di una carta.

«Le radiografie sono spettacolari. Tarsi, metatarsi, falangi: tutto è distrutto. Abbiamo contato circa settanta frammenti d’osso conficcati nei tessuti. Nessuna caduta avrebbe potuto provocare danni simili. L’assassino si è accanito su queste membra con un oggetto contundente. Una barra di ferro o una mazza da baseball. Le altre due hanno subito lo steso trattamento. Mi sono informato: è una tecnica di tortura tipicamente turca. La felaka, o il felika, non so altro.»

Con un accento gutturale, Schiffer sputò:

«Al-Falaqua.»

Paul si ricordò che il Cifra parlava correntemente il turco e l’arabo.

«Così, a memoria», proseguì, «posso citarle almeno dieci paesi che praticano questa tortura.»

«Bene. Siamo in pieno esotismo, vero?»

Schiffer risalì verso l’addome. Prese nuovamente una delle mani. Paul vide le dita annerite e gonfie. L’esperto commentò:

«Le unghie sono state strappate con una tenaglia. Le estremità sono state bruciate con l’acido.»

«Che acido?»

«È impossibile dirlo.»

«Non può essere una tecnica post mortem per distruggere le impronte?»

«Se è così, l’omicida ha fallito. I dermatoglifi sono perfettamente visibili. No, penso piuttosto a una tortura supplementare. L’assassino non è il tipo da sbagliare qualcosa.»

Il Cifra aveva posato la mano. La sua attenzione si focalizzava ora sul sesso aperto. Anche il dottore guardava la ferita. I topografi cominciavano ad assomigliare a degli avvoltoi.

«È stata violentata?»

«Non nel senso sessuale del termine.»

Per la prima volta Scarbon esitò. Paul abbassò gli occhi. Vide l’orifizio spalancato, dilatato, lacerato. Le parti interne, grandi labbra, piccole labbra, clitoride, erano voltate verso l’esterno, in un insostenibile rovesciamento di carne. Il medico si raschiò la gola e disse:

«Le ha infilato una specie di manganello tappezzato di lame da rasoio. Le lacerazioni si vedono bene, qui, all’interno della vulva, e là, lungo le cosce. Un vero macello. Il clitoride è sezionato. Le labbra sono tagliate. Ciò ha provocato un’emorragia interna. La prima vittima mostrava esattamente le stesse ferite. La seconda…»

Esitò di nuovo. Schiffer cercò il suo sguardo:

«Cosa?»

«La seconda era diversa. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.»

«Di vivo?»

«Sì, un roditore. Una bestia di quel genere. Gli organi genitali esterni erano morsicati, lacerati, fino all’utero. Pare che dei torturatori abbiano usato questo metodo in America latina…»

Paul si sentiva la testa in una morsa. Conosceva quei dettagli, ma ognuno di essi lo feriva, ogni parola gli dava il batticuore. Macchinalmente, tuffò le dita nell’acqua profumata e si ricordò che il suo compagno aveva fatto il medesimo gesto qualche minuto prima. Le ritirò subito.

«Continui», ordinò Schiffer con voce roca.

Scarbon non rispose immediatamente; il silenzio riempì la sala turchese. I tre uomini sembravano comprendere che non potevano più tirarsi indietro; dovevano affrontare la faccia.

«È la parte più complessa», riprese infine il dottore inquadrando con gli ìndici il volto sfigurato. «Ci sono diversi stadi nella violenza.»

«Si spieghi.»

«Dapprima le contusioni. Il viso non è che un enorme ematoma. L’assassino ha colpito lungamente, selvaggiamente. Forse con un tirapugni. In ogni caso qualcosa di metallico e di più preciso di una barra o di un manganello. Poi ci sono i tagli e le mutilazioni. Queste ferite non hanno sanguinato. Sono state praticate post mortem.»

Ora erano vicinissimi alla maschera dell’orrore. Vedevano le ferite profonde in tutta la loro ferocia e senza la distanza abituale delle fotografie. Vedevano i tagli che attraversavano il viso, che rigavano la fronte e le tempie, i solchi che foravano le guance. Vedevano le mutilazioni: il naso tranciato, il mento smussato, le labbra tagliate…

«Vedete quanto me ciò che ha tagliato, limato, strappato. Quello che è interessante qui, è quanto si è applicato. Ha rifinito l’opera. È la sua firma. Nerteaux pensa che cerchi di copiare…»

«Lo so cosa pensa. E lei cosa pensa?»

Scarbon si tirò indietro, le mani dietro la schiena:

«L’uccisore è ossessionato da questi volti. Per lui rappresentano al tempo stesso una fonte di fascino e di collera. Li scolpisce, li modella, e insieme distrugge il loro carattere umano.»

Schiffer fece con le spalle un movimento che indicava il suo scetticismo.

«Di cosa è morta alla fine?»

«Gliel’ho detto. Emorragia interna. Provocata dal massacro degli organi genitali. Deve essersi svuotata in terra.»

«E le altre due?»

«La prima, anche lei un’emorragia. A meno che il cuore non l’abbia abbandonata prima. La seconda proprio non so. Forse semplicemente di terrore. Si può riassumere dicendo che queste tre donne sono morte per le sofferenze. Per questa stiamo facendo l’analisi del DNA e l’esame tossicologico, ma non penso che daranno più risultati delle volte precedenti.»

Scarbon tirò su il lenzuolo con un gesto secco, troppo frettoloso. Schiffer fece qualche passo prima di riprendere:

«Può dedurre una cronologia dei fatti?»

«Non mi lancerei in un orario dettagliato, ma si può supporre che questa donna sia stata rapita tre giorni fa, cioè giovedì sera. Senza dubbio stava uscendo dal lavoro.»

«Perché?»

«Aveva la pancia vuota. Come le prime due. Le sorprende quando rientrano a casa.»

«Evitiamo le supposizioni.»

Il medico sbuffò irritato:

«In seguito, ha subito da venti a trenta ore di torture, senza sosta.»

«Come può stabilire questa durata?»

«Sì è divincolata. Le legature le hanno bruciato la pelle e sono penetrate nella carne. Le ferite hanno suppurato. Si può risalire al tempo grazie alle infezioni. Da venti a trenta ore: non dovrei sbagliarmi di molto. In ogni caso, a quel ritmo è il limite della tolleranza umana.»

Continuando a camminare, Schiffer scrutava lo specchio azzurrato del pavimento:

«Ha un indizio che potrebbe darci informazioni sul luogo dell’omicidio?»

«Forse.»

Paul intervenne:

«Cosa?»

Scarbon fece schioccare le labbra come se fosse stato un ciak:

«Lo avevo già notato sulle altre due, ma è evidente sull’ultima. Il sangue della vittima contiene delle bolle d’azoto.»

«E questo cosa vuol dire?»

Paul tirò fuori il suo taccuino.

«È abbastanza strano. Potrebbe significare che il corpo è stato sottoposto, ancora in vita, a una pressione superiore a quella che c’è sulla superficie terrestre. Ad esempio la pressione che si trova in fondo al mare.»

Era la prima volta che il medico richiamava quel particolare.

«Io non sono un sub», riprese, «ma il fenomeno è noto. Man mano che ci si immerge, la pressione aumenta. L’azoto contenuto nel sangue si dissolve. Se si risale troppo velocemente, senza rispettare gli intervalli di decompressione, l’azoto ritorna subito allo stato gassoso e forma delle bolle nel corpo.»

Schiffer sembrava molto interessato.

«È quello che è successo alla vittima?»

«Alle tre vittime. Delle bolle d’azoto sono defluite e sono esplose nel loro organismo, provocando delle lesioni e, ben inteso, nuove sofferenze. Non ne sono certo al cento per cento, ma queste donne potrebbero aver avuto un “incidente di immersione”.»

Paul, annotando tutto, domandò ancora:

«Sarebbero state immerse a gran profondità?»

«Non ho detto questo. Secondo uno dei nostri medici che fa il sub, hanno subito una pressione di almeno quattro bar, equivalente a una profondità di circa quaranta metri. Mi sembra un po’ complicato trovare una tale massa d’acqua a Parigi. Penso piuttosto che siano state piazzate in una camera iperbarica.»

Paul scriveva febbrilmente:

«Dove si può trovare questo genere di arnesi?»

«Bisognerebbe informarsi. Ci sono le camere che usano i sub professionisti per la decompressione, ma dubito che ne esistano nell’Ile-de-France. Poi ci sono le camere iperbariche utilizzate negli ospedali.»

«Negli ospedali?»

«Sì. Per ossigenare i pazienti che soffrono di problemi vascolari. Diabete, eccesso di colesterolo… La sovrapressione permette di diffondere meglio l’ossigeno nell’organismo. Ci devono essere quattro o cinque apparecchi di quel tipo a Parigi. Ma non mi vedo il nostro assassino che entra in un ospedale. Sarebbe meglio orientarsi verso l’industria.»

«In quale settore si usa questa tecnica?»

«Non ne ho idea. Cercate: è il vostro lavoro. E, ve lo ripeto, io non sono sicuro di niente. Quelle bolle possono avere una spiegazione completamente diversa. Nel qual caso, non saprei cosa dire.»

Schiffer riprese la parola:

«Sui tre cadaveri non c’è niente che possa darci indicazioni, fisicamente, sul nostro uomo?»

«Niente. Li lava accuratamente. In ogni modo, sono sicuro che li manipola con i guanti. Non ha rapporti sessuali con loro. Non le accarezza. Non le bacia. Non è roba per lui. Lui è piuttosto sul versante clinico. O su quello robotico. Questo assassino è… disincarnato.»

«La sua follia aumenta con gli omicidi?»

«No. Ogni volta le torture sono inflitte con lo stesso rigore. È ossessionato dal male, ma non perde mai le staffe.»

Ebbe un sorriso amaro.

«Un assassino puntiglioso, come dicono i manuali di criminologia.»

«Secondo lei, cos’è che lo fa godere?»

«La sofferenza. La sofferenza pura. Lui le tortura con applicazione, con cura, fino a che non muoiono. È questo dolore che lo eccita, che nutre il suo godimento. Dietro a tutto c’è un odio viscerale per le donne. Per il loro corpo, il loro viso.»

Schiffer si girò verso Paul e sogghignò:

«Decisamente oggi è la giornata degli psicologi.»

Scarbon diventò rosso in viso:

«La medicina legale è sempre psicologia. Le violenze che passano sotto le dita non sono altro che manifestazioni di menti malate…»

Il poliziotto annuì senza smettere di sorridere. Prese i fogli dattiloscritti che l’altro aveva posato su uno dei blocchi.

«Grazie dottore.»

Si diresse verso una porta che si apriva sotto le tre vetrate. Appena la aprì, entrò nella stanza una violenta sventagliata di sole, come un fiotto di latte lanciato in mezzo al blu.

Paul prese un’altra copia del verbale d’autopsia:

«Posso prenderla?»

Il medico lo fissò senza rispondere, poi:

«I suoi superiori sono al corrente di Schiffer?»

Paul si aprì in un largo sorriso:

«Non si preoccupi. È tutto sotto controllo.»

«Mi preoccupo per lei. È un mostro.»

Paul trasalì. Il dottore dichiarò:

«Ha ucciso Gazil Hemet.»

Il nome riaccese i suoi ricordi. Ottobre 2000: il turco maciullato sotto il treno, Schiffer accusato di omicidio volontario. Aprile 2001: l’accusa abbandona misteriosamente l’inchiesta. Con voce gelida replicò:

«Il corpo era a brandelli. L’autopsia non ha potuto provare niente.»

«Sono io che ho fatto la controperizia. Sul volto c’erano ferite atroci. Gli avevano strappato un occhio. Le tempie erano state perforate con punte da trapano.»

Indicò il lenzuolo.

«Niente da invidiare a questo qui.»

Paul sentì le gambe che vacillavano; non poteva ammettere che sull’uomo col quale stava per lavorare gravasse un simile sospetto:

«Il rapporto menzionava solo delle lesioni e…»

«Hanno fatto sparire i miei commenti. Loro lo coprono.»

«Loro chi?»

«Hanno paura. Hanno tutti paura.»

Paul indietreggiò nella luce dell’esterno. Claude Scarbon, togliendosi i guanti elastici, sussurrò:

«Lei sta facendo squadra con il diavolo.»

13.

«Lo chiamano l’Iskele. Pronuncia bene: “is-ké-lé”.»

«Cosa?»

«Si potrebbe tradurre con “imbarcadero” o “molo di partenza”.»

«Di che cosa parla?»

Paul aveva raggiunto Schiffer nella macchina, ma non era partito. Erano ancora nel cortile del padiglione Vésale, all’ombra delle esili colonne. Il Cifra continuò:

«La principale organizzazione mafiosa che controlla i viaggi dei clandestini turchi in Europa. Si preoccupano anche di trovare loro un lavoro e un posto dove dormire. In genere cercano di formare in ogni laboratorio dei gruppi di gente con le stesse origini. Ci sono certe fabbrichette a Parigi che riproducono esattamente un intero villaggio dell’Anatolia.»

Schiffer si fermò, tamburellò sullo sportello del vano portaoggetti, poi riprese:

«Le tariffe sono variabili. I più ricchi si concedono l’aereo e la complicità dei doganieri. Sbarcano in Francia con un permesso di lavoro finto o con un falso passaporto. I più poveri si sobbarcano il tragitto in cargo, attraverso la Grecia, o in camion, attraverso la Bulgaria. In ogni caso, il costo si aggira sui duecentomila franchi. La famiglia, al paese, fa una colletta e raccoglie più o meno un terzo della somma. Poi l’operaio sgobba dieci anni per rimborsare il resto.»

Paul osservava Schiffer, il suo profilo netto contro il vetro illuminato dal sole. Gli avevano parlato a più riprese di quella rete, ma era la prima volta che ne sentiva una descrizione così precisa.

Il poliziotto dalla testa argentata proseguì:

«Non immagini fino a che punto sono organizzati quei tipi. Hanno un registro dove annotano tutto. Il nome, l’origine, la fabbrica e la situazione dei debiti di ogni clandestino. Comunicano per e-mail con i loro corrispondenti in Turchia che mantengono la pressione sulle famiglie. A Parigi loro si occupano di tutto. Si fanno carico di mandare i soldi a casa e di procurare comunicazioni telefoniche a prezzo ridotto. Si sostituiscono alla posta, alle banche, alle ambasciate. Vuoi mandare un gioco ai tuoi bambini? Ti rivolgi all’Iskele. Cerchi un ginecologo? L’Iskele ti dà il nome di un dottore che non badi troppo al tuo permesso di soggiorno. Hai problemi con la tua fabbrica? È ancora l’Iskele che regola la questione. Nel quartiere turco non c’è avvenimento di cui non siano informati o di cui non ci sia traccia nei loro archivi.»

Paul capì dove il Cifra voleva arrivare:

«Credi che siano al corrente anche degli omicidi?»

«Se queste ragazze sono davvero delle clandestine, i loro padroni si sono rivolti prima di tutto all’Iskele. Primo, per sapere cosa succedeva. Secondo, per rimpiazzare le scomparse. Quelle tipe trucidate sono soprattutto una perdita di grana.»

Nella sua mente si fece strada una speranza:

«Pensi che loro abbiano modo di identificare quelle operaie?»

«Ogni dossier comprende una fotografia dell’immigrato. Il suo indirizzo a Parigi. Il nome e i dati del suo datore di lavoro.»

Paul arrischiò un’altra domanda, ma sapeva già la risposta:

«Conosci quei tipi?»

«Il capo dell’Iskele a Parigi si chiama Marek Cesiuz. Tutti lo chiamano Marius. Ha un locale sul boulevard de Strasbourg. Ho visto nascere uno dei suoi figli.»

Gli strizzò l’occhio:

«Cosa ne diresti di partire?»

Paul guardò ancora Jean-Louis Schiffer. Lei sta facendo squadra con il diavolo. Può darsi che Scarbon avesse ragione, ma per il genere di preda a cui dava la caccia non si poteva desiderare compagno migliore.

TRE

14.

Il lunedì mattina Anna Heymes lasciò discretamente il proprio appartamento e prese un taxi in direzione della riva sinistra della Senna. Si ricordava che, raggruppate intorno all’incrocio dell’Odéon, c’erano diverse librerie specializzate in testi di argomento medico.

Entrò in una di esse e guardò tra i libri di psichiatria e di neurochirurgia, in cerca di informazioni sulle biopsie praticate al cervello. Nella sua memoria risuonava ancora la parola pronunciata da Ackermann: «Biopsia stereotassica.» Senza difficoltà scovò delle fotografie e una descrizione dettagliata di quell’intervento.

Vide le teste dei pazienti, rasate, rinchiuse in un’armatura quadrata. Una sorta di cubo di metallo con due viti all’altezza delle terapie e sormontato da un trapano, un vero trapano.

Attraverso le immagini seguì ogni tappa dell’operazione. La punta che forava l’osso; lo scalpello che si insinuava nell’orifizio e che, a sua volta, attraversava la duramadre, la membrana che avvolgeva il cervello; e poi l’ago a testa cava che penetrava nella materia cerebrale. Su una fotografia, dove il chirurgo estraeva la sonda, si distingueva persino il colore rosastro dell’organo.

Qualsiasi cosa, ma non quella.

Anna aveva preso la sua decisione: doveva cercare qualcun altro per effettuare una nuova diagnosi; doveva consultare in fretta un secondo specialista che le proponesse un’alternativa, un trattamento differente.

Si precipitò in una brasserie del boulevard Saint-Germain, si infilò nella cabina telefonica al piano interrato e consultò l’elenco. Dopo diversi tentativi sfortunati presso medici che non erano in studio o che erano pieni di appuntamenti, arrivò infine al qualcuno che le sembrò più disponibile: Mathilde Wilcrau, psichiatra e psicanalista.

La voce della donna era profonda, ma il tono leggero, quasi malizioso. Anna riassunse brevemente i suoi «problemi di memoria» e insisté sull’urgenza del caso. La psichiatra accettò di riceverla subito. Vicino al Panthéon, a cinque minuti dall’Odéon.

Anna ora pazientava in una piccola sala d’aspetto arredata con mobili antichi, lucidi e cesellati, che sembravano usciti direttamente dalla reggia di Versailles. Sola nella stanza, osservava le fotografie incorniciate che decoravano le pareti: immagini di eventi sportivi in contesti estremi.

Su una gigantografia, una persona si staccava dal versante di una montagna appesa a un parapendio; su di un’altra, un alpinista col cappuccio scalava un muro di ghiaccio; in un’altra ancora, un tiratore imbacuccato in una tuta da sci puntava il suo fucile-cannocchiale su un bersaglio invisibile.

«Sono i miei exploit.»

Anna si girò verso la voce.

Mathilde Wilcrau era una donna alta dalle spalle larghe e dal sorriso splendente. Le sue braccia emergevano da sotto il tailleur in un modo brutale, quasi sconveniente. Le sue gambe, lunghe e affusolate, disegnavano curve di potenza. «Tra i quaranta e i cinquanta», stimò Anna, notando le rughe intorno agli occhi. Ma era difficile afferrare quella donna atletica in termini di età, non era una questione di anni, bensì di kilojoul.

La psichiatra si scostò:

«Per di qua.»

L’ufficio era in accordo con l’anticamera; legno, marmo e oro. Anna sentiva però che la verità di quella donna non si collocava in quell’arredamento prezioso, ma piuttosto nelle fotografie delle sue performance.

Si sedettero l’una di fronte all’altra a una scrivania color del fuoco. La dottoressa prese una stilografica e scrisse su di un blocco a quadretti le informazioni abituali. Nome, età, indirizzo… Anna era tentata di mentire sulla propria identità, ma aveva giurato a sé stessa di giocare onestamente.

Mentre rispondeva, osservava la sua interlocutrice. Era colpita dal suo aspetto brillante, ostentato, quasi americano. I suoi capelli biondi ricadevano sulle spalle; e il suo volto ampio e regolare sbocciava intorno a una bocca rossissima e sensuale che attirava lo sguardo. Le fece venire in mente l’immagine di un pasticcino alla frutta, pieno di zucchero e d’energia. Quella donna le ispirava una fiducia spontanea.

«Allora, qual è il problema?» chiese con tono allegro.

Anna si sforzò di essere concisa:

«Soffro di perdite della memoria.»

«Che genere di perdite?»

«Non riconosco più i volti familiari.»

«Tutti i volti familiari?»

«Soprattutto quello di mio marito.»

«Sia più precisa: non li riconosce per nulla? Mai?»

«No. Sono amnesie molto brevi. Per un attimo, il suo volto non mi ricorda niente. Un perfetto sconosciuto. Poi scatta qualcosa. Fino a ora, questi buchi neri duravano qualche secondo appena. Ma adesso mi sembra che stiano diventando sempre più lunghi.»

Mathilde tamburellava sul foglio con la penna, una Mont-Blanc laccata nera. Anna notò che si era tolta con discrezione le scarpe.

«È tutto?»

Esitò:

«A volte mi capita il contrario…»

«Il contrario?»

«Mi sembra di conoscere le facce di persone estranee.»

«Mi faccia un esempio.»

«Mi capita soprattutto con una persona. Da circa un mese, lavoro alla Maison du Chocolat, in rue du Faubourg-Saint-Honoré. C’è un cliente abituale. Un uomo d’una quarantina d’anni. Ogni volta che entra nel negozio io provo una sensazione familiare, ma non riesco mai ad avere un ricordo preciso.»

«E lui cosa dice?»

«Niente. Evidentemente non mi ha mai visto altrove, solo dietro al banco.»

Sotto la scrivania, la psichiatra muoveva le dita dei piedi chiuse nei collant neri. In tutto ciò che faceva c’era una nota allegra, frizzante.

«Riassumendo, lei non riconosce le persone che dovrebbe riconoscere, ma riconosce quelle che non conosce, è così?»

Prolungava le ultime sillabe in maniera singolare, come un vibrato di violoncello.

«Sì, le cose possono essere presentate così.»

«Ha mai provato un buon paio di occhiali?»

Anna divenne furiosa. Sentì salirle al viso un calore acuto. Come poteva prendersi gioco della sua malattia? Prese la borsa e si alzò. Mathilde Wilcrau si affrettò a fermarla:

«Mi scusi. Era una battuta idiota. Rimanga, la prego.»

Anna si bloccò. Quel sorriso rosso la avvolgeva come un alone di benessere. Ogni resistenza scomparve. Si lasciò cadere sulla poltrona.

La psichiatra riprese il suo posto e disse:

«Continuiamo, per cortesia. Le capita di essere a disagio davanti ad altri volti? Voglio dire, quelli che incontra tutti i giorni per strada, nei luoghi pubblici…»

«Sì, ma è una sensazione diversa. Mi prendono… come delle allucinazioni. Sull’autobus, durante le cene, ovunque. Le facce si confondono, si mescolano, formano delle maschere atroci. Non oso più guardare nessuno. Tra un po’ non uscirò più di casa…»

«Quanti anni ha?»

«Trentuno.»

«Da quanto tempo soffre di questi disturbi?»

«Un mese e mezzo circa.»

«E i disturbi sono accompagnati da un malessere fisico?»

«No… cioè, sì. Soprattutto segni di angoscia. Tremori. Il mio corpo diventa pesante. Le membra anchilosate. A volte mi sembra di soffocare. Recentemente mi è sanguinato il naso.»

«In generale il suo stato di salute è buono?»

«Eccellente. Niente da segnalare.»

La psichiatra fece una pausa. Prese a scrivere su di un bloc-notes.

«Soffre di altri disturbi della memoria, ad esempio cose che riguardano episodi del suo passato?»

Anna ci pensò con calma e rispose:

«Sì. Certi ricordi perdono consistenza. Sembrano allontanarsi, svanire.»

«Quali? Quelli che riguardano suo marito?»

Lei si irrigidì contro lo schienale.

«Perché mi chiede questo?»

«Evidentemente è soprattutto il suo viso che provoca le crisi. Forse il passato che condivide con lui le pone dei problemi.»

Anna sospirò. Quella donna la interrogava come se il suo male fosse dovuto ai sentimenti o al subcosciente, come se lei volontariamente ricacciasse indietro una parte della sua memoria. Quella lettura era completamente differente rispetto a quella di Ackermann. Non era forse questo ciò che era venuta a cercare?

«È vero», acconsentì. «I miei ricordi con Laurent si cancellano, spariscono.»

Si fermò, poi riprese con un tono più vivace:

«Da un certo punto di vista è anche logico.»

«Perché?»

«Laurent è al centro della mia vita, della mia memoria. È lui che occupa la maggior parte dei miei ricordi. Prima della Maison du Chocolat, io ero semplicemente una casalinga. La mia sola preoccupazione eravamo noi due.»

«Lei non ha mai lavorato?»

Anna assunse un tono aspro, prendendosi in giro da sola:

«Ho una laurea in legge, ma non ho mai messo piede nello studio di un avvocato. Non ho figli. Laurent è il mio tutto, il mio solo orizzonte…»

«Da quanti anni siete sposati?»

«Otto anni.»

«Avete rapporti sessuali normali?»

«Cosa intende con “normali”?»

«Opachi. Noiosi.»

Anna non colse. Il sorriso si accentuò:

«Stavo di nuovo scherzando. Volevo solo sapere se avete rapporti regolari.»

«Sotto quell’aspetto va tutto bene. Anzi, ho… insomma, provo per lui un desiderio molto forte. Direi sempre più forte. È così strano.»

«Neanche troppo.»

«Cosa intende dure?»

Come risposta ci fu un silenzio.

«Che mestiere fa suo marito?»

«È un poliziotto.»

«Mi scusi?»

«Alto funzionario. Laurent dirige il Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni. Controlla migliaia di rapporti, di statistiche concernenti i problemi della criminalità in Francia. Non ho mai capito bene il suo lavoro, ma ha l’aria di essere qualcosa di importante. È molto vicino al ministro.»

Mathilde riprese, come se tutto quello andasse da sé:

«Perché non avete figli? Ci sono problemi da quel lato?»

«Sicuramente non problemi fisiologici.»

«E allora perché?»

Anna esitò. Le tornò in mente la notte del sabato precedente: l’incubo, le rivelazioni di Laurent, il sangue sul viso…

«Veramente non so. Due giorni fa l’ho chiesto a mio marito. Mi ha risposto che sono io che non ne ho mai voluti. Su questo avrei persino richiesto un giuramento da parte sua. Ma io non me ne ricordo.»

La sua voce sali d’un tono.

«Come posso averlo dimenticato?»

Poi, scandendo le sillabe:

«Io-non-me-ne-ri-cor-do!»

La dottoressa scrisse qualche riga, poi chiese:

«E i suoi ricordi d’infanzia? Svaniscono anche quelli?»

«No. Mi sembrano lontani, ma ben presenti.»

«Ricordi dei suoi genitori?»

«No. Ho perso la mia famiglia molto presto. Un incidente d’auto. Sono cresciuta in collegio, vicino a Bordeaux, sotto la tutela di uno zio. Ora non lo vedo più. Non l’ho mai visto molto.»

«Allora di che cosa si ricorda?»

«Dei paesaggi. Le grandi spiagge delle Landes. Le pinete. Queste visioni restano intatte nella mia mente. Anzi, in questo momento diventano ancora più presenti. Quei paesaggi mi sembrano più reali di tutto il resto.»

Mathilde continuava a scrivere. Anna si accorse che, in realtà, scarabocchiava dei geroglifici. Senza alzare gli occhi, la specialista ripartì all’assalto.

«Come dorme? Soffre d’insonnia?»

«Al contrario. Dormo tutta la notte.»

«Quando fa uno sforzo per ricordare qualcosa, avverte una certa sonnolenza?»

«Sì, una specie di torpore.»

«Mi parli dei suoi sogni.»

«Dall’inizio della malattia faccio un sogno… strano.»

«La ascolto.»

Descrisse il sogno che agitava le sue notti. La stazione e i contadini. L’uomo dal mantello nero. La bandiera con le quattro lune. I singhiozzi dei bambini. Poi la burrasca dell’incubo: il torso vuoto, il viso a brandelli…

La psichiatra fece un fischio d’ammirazione. Anna non era certa di apprezzare quei modi familiari, ma, vicino a quella donna, provava una sensazione di conforto. All’improvviso, Mathilde la gelò:

«Ha consultato qualcun altro, vero?»

Anna trasalì.

«Un neurologo?»

«Io… Cosa glielo fa credere?»

«I suoi sintomi sono piuttosto clinici. Queste amnesie, queste distorsioni fanno pensare a una malattia neurodegenerativa. In questi casi, di solito il paziente preferisce consultare un neurologo. Un medico che localizzi chiaramente la malattia e che la curi con dei farmaci.»

Anna capitolò:

«Si chiama Ackermann. È un amico d’infanzia di mio marito.»

«Eric Ackermann?»

«Lo conosce?»

«Eravamo compagni di corso all’università.»

Anna chiese con ansia:

«Cosa pensa di lui?»

«Un uomo molto brillante. Quale è stata la sua diagnosi?»

«Più che altro mi ha sottoposto a esami. Tomografie. Radiografie. Una IRM.»

«Non ha utilizzato il Petscan?»

«Sì. Abbiamo fatto i test sabato scorso. In un ospedale pieno di soldati.»

«Il Val-de-Grace?»

«No, l’istituto Henri-Becquerel, a Orsay.»

Mathilde annotò il nome in un angolo del foglio.

«Quali sono stati i risultati?»

«Niente di molto chiaro. Secondo Ackermann soffro di una lesione situata nell’emisfero destro, nella parte ventrale del temporale…»

«La zona di riconoscimento dei volti.»

«Esattamente. Lui suppone che si tratti di una necrosi minima. Ma la macchina non l’ha localizzata.»

«Quale sarebbe la causa di questa lesione, secondo lui?»

Anna parlò più in fretta, quelle confessioni la sollevavano:

«Non ne ha idea, per l’appunto. Vuole effettuare dei nuovi esami.»

La sua voce si ruppe.

«Una biopsia per analizzare quella parte del mio cervello. Non so… vuole studiare le mie cellule nervose. Dice che solo a quella condizione potrà mettere a punto un trattamento.»

La psichiatra posò la sua stilografica e incrociò le braccia. Per la prima volta parve considerare Anna senza ironia, senza malizia:

«Gli ha parlato anche degli altri disturbi? Dei ricordi che scompaiono? Dei visi che si mescolano?»

«No.»

«Perché diffida di lui?»

Anna non rispose. Mathilde insistette:

«Perché è venuta a consultarmi? Perché spiattellarmi qui tutte queste cose?»

Anna fece un gesto vago, poi, abbassando le palpebre, disse:

«Mi rifiuto di sottopormi a quella biopsia. Loro vogliono entrare nel mio cervello.»

«Di chi parla?»

«Di mio marito e di Ackermann. Sono venuta da lei sperando che avesse una soluzione diversa. Non voglio che mi si faccia un buco in testa!»

«Si calmi.»

Alzò gli occhi, era sul punto di piangere:

«Posso… posso fumare?»

La psichiatra annuì. Si accese subito una sigaretta. Quando il fumo si dissipò, sulle labbra della sua interlocutrice era tornato il sorriso.

Inspiegabilmente, fu attraversata da un ricordo d’infanzia. Le lunghe camminate lungo i campi, con la sua classe, il ritorno al collegio, le braccia piene di papaveri. Le avevano spiegato che bisognava bruciare i gambi per far durare il colore …

Il sorriso di Mathilde Wilcrau le ricordò quella misteriosa alleanza tra il fuoco e la vivacità dei petali. Dentro quella donna, qualche cosa si era bruciato e manteneva il rosso delle labbra.

La psichiatra fece una nuova pausa, poi, con tono calmo, chiese:

«Ackermann le ha spiegato che un’amnesia può essere provocata anche da uno choc psicologico e non solo da una lesione fisica?»

Anna soffiò il fumo con violenza.

«Vuole dire che… che i miei disturbi potrebbero essere causati da un trauma… psichico?»

«È una possibilità. Un’emozione forte avrebbe potuto determinare una rimozione.»

Si sentì interamente invasa da un’onda di sollievo. Ora sapeva che era venuta proprio per sentire quelle parole; aveva scelto una psicanalista per giungere a una versione puramente psichica della sua malattia. Faticava a dominare l’eccitazione.

«Ma», disse tra due boccate di fumo, «di quello choc me ne ricorderei, no?»

«Non necessariamente. Nella maggior parte dei casi, l’amnesia cancella la propria causa, l’evento fondante.»

«E questo trauma riguarderebbe i volti?»

«Probabilmente sì. I volti e anche suo marito.»

Anna saltò sulla sedia:

«Come sarebbe? Mio marito?»

«A giudicare dai segni che mi descrive, sono questi i suoi due punti di blocco.»

«Quindi, alla base del mio choc emotivo ci sarebbe Laurent?»

«Non ho detto questo. Ma a mio avviso è tutto legato. Lo choc che ha subito, se esiste, ha favorito l’amalgama tra la sua amnesia e suo marito. È tutto quello che posso dire, per il momento.»

Anna restò in silenzio. Fissava la punta incandescente della sua sigaretta.

«Può prendere un po’ di tempo?» riprese Mathilde.

«Prendere tempo?»

«Prima della biopsia.»

«Lei… lei accetterebbe di occuparsi di me?»

Mathilde prese la sua stilo e la puntò verso Anna.

«Può prendere tempo prima di questi esami, sì o no?»

«Penso di sì. Qualche settimana. Ma se i miei disturbi…»

«È disposta a immergersi nella sua memoria attraverso la parola?»

«Sì.»

«È disposta a venire qui in maniera intensiva?»

«Sì.»

«Per tentare tecniche di suggestione come ad esempio l’ipnosi?»

«Sì.»

«Iniezioni di sedativi?»

«Sì. Sì. Sì.»

Mathilde posò la stilo. La stella bianca della Mont-Blanc scintillò:

«Decifreremo la sua memoria, si fidi di me.»

15.

Era al settimo cielo.

Non si era sentita così felice da un sacco di tempo.

La semplice ipotesi che i suoi sintomi fossero causati da un trauma psichico e non da un deterioramento fisico le ridava speranza; in ogni caso poteva supporre che il suo cervello non fosse alterato e non fosse divorato da una necrosi che si spandeva tra le sue cellule nervose.

Sul taxi di ritorno si felicitò ancora con sé stessa per aver effettuato quella svolta. Girava la schiena alle lesioni, alle macchine, alle biopsie. Apriva le braccia alla comprensione, alle parole, alla voce soave di Mathilde Wilcrau… Quel suo timbro così strano le mancava già.

Quando giunse in rue du Faubourg-Saint-Honoré, più o meno verso le tredici, tutto le sembrava più nitido, più preciso. Assaporava ogni dettaglio del suo quartiere. C’erano come delle piccole isole, degli arcipelaghi di specialità che si accostavano l’uno all’altro lungo la strada.

All’incrocio tra la rue du Faubourg-Saint-Honoré e l’avenue Hoche, era la musica a farla da padrona: alle ballerine della sala Pleyel rispondevano le lacche dei pianoforti Hamm, situati proprio di fronte. Poi, tra la rue de la Neva e la rue Daru, spuntava la Russia dei ristoranti moscoviti e della chiesa ortodossa. Infine si accedeva al mondo delle dolcezze: i tè di Mariage Frères, i cioccolatini della Maison du Chocolat; due facciate in legno scuro, due specchi verniciati, che assomigliavano a cornici in un museo dei sapori.

Quando Anna entrò, Clothilde era indaffarata nella pulizia degli scaffali. Ci dava dentro con i vasi in ceramica, con i contenitori in legno, con i piatti di porcellana che con il cioccolato spartivano una tonalità scura, una sfumatura dorata, o semplicemente una certa idea di benessere, di felicità. Una vita comoda, che tintinna e si beve calda…

Clothilde si voltò, in piedi sullo sgabello:

«Eccoti! Mi concedi un’ora? Devo andare ai magazzini Monoprix.»

Andava bene. Anna era scomparsa per tutta la mattina, adesso poteva stare in negozio nell’ora di pranzo. Il passaggio di consegne si fece senza una parola, ma con il sorriso. Anna, armata di uno straccio, riprese subito il lavoro e si mise a strofinare, a lustrare, a pulire con tutta l’energia del suo buon umore ritrovato.

Poi, di colpo, il suo vigore scomparve, lasciandole un buco nero in fondo allo stomaco. Cosa c’era di positivo nella sua visita del mattino? Lesione o choc psicologico, qual era la differenza per il suo stato, per le sue angosce? Che cos’è che Mathilde Wilcrau poteva fare per curarla? Perché avrebbe dovuto farla sentire meno pazza?

Si accasciò dietro al banco principale. Forse l’ipotesi della psichiatra era persino peggiore di quella di Ackermann. L’idea di un evento, di uno choc psicologico che avrebbe provocato la sua amnesia ora rafforzava il suo terrore. Cosa si nascondeva dietro quella zona morta?

C’erano delle frasi che non smettevano di girarle per la testa; quella risposta soprattutto: «I volti, e anche suo marito.» In che modo Laurent poteva essere legato a tutto questo?

«Buongiorno.»

La voce risuonò contemporaneamente al carillon della porta; non ebbe bisogno di alzare gli occhi per sapere che era lui.

L’uomo dalla giacca usurata avanzava con il suo passo lento. In quel momento lei fu assolutamente certa di conoscerlo. Non durò che un attimo, ma l’impressione fu forte e dolorosa come la punta di una freccia. E tuttavia, la sua memoria le negò ogni indizio.

Il Signor Velluto si avvicinò ancora. Nei confronti di Anna, egli non manifestava alcun imbarazzo o alcun interesse particolare. I suoi occhi distratti, d’un blu profondo dai riflessi dorati, sorvolavano le file serrate dei cioccolatini. Perché non la riconosceva? Recitava una parte? Un’idea folle le invase la mente: e se fosse stato un amico, un complice di Laurent incaricato di spiarla, di metterla alla prova? Ma perché?

Di fronte al suo silenzio lui sorrise, poi, con tono disinvolto, disse:

«Credo che prenderò le solite cose.»

«La servo subito.»

Anna si diresse verso il banco, con le mani che le tremavano. Dovette più volte farsi forza per prendere un sacchetto e infilarvi dentro i cioccolatini. Infine posò i jikola sulla bilancia:

«Duecento grammi. Dieci euro e cinquanta, signore.»

Lui le lanciò una nuova occhiata. Già non era più così sicura… Ma in lei restava l’eco dell’angoscia, del malessere. La sorda impressione che quell’uomo, proprio come Laurent, avesse modificato il suo viso, avesse fatto ricorso alla chirurgia estetica. Era il viso che ricordava e non era lui…

L’uomo sorrise di nuovo e posò su di lei i suoi occhi sognanti. Pagò, poi scomparve sussurrando un «arrivederci» appena percettibile.

Anna rimase immobile un lungo momento, pietrificata dallo stupore. Mai la crisi era stata così violenta. Come se ora espiasse tutte le speranze della mattina. Come se, dopo aver creduto di guarire, ora dovesse cadere ancora più in basso. Quello che succedeva ai prigionieri che cercavano di scappare e che, una volta ripresi, si ritrovavano rinchiusi in un buco a chissà quanti metri sottoterra.

Il carillon suonò nuovamente,

«Ciao.»

Clothilde attraversò la sala, inzuppata di pioggia, le braccia cariche di grosse borse. Si eclissò un attimo nel retro, poi riapparve, in una scia di freschezza.

«Cos’hai? Si direbbe che hai visto uno zombie.»

Anna non rispose. La sua bocca era contesa tra la voglia di piangere e quella di vomitare,

«Non va?» insistette Clothilde.

Anna la guardò, stordita. Si alzò e disse semplicemente:

«Devo fare un giro.»

16.

Fuori il temporale aumentava d’intensità. Anna si gettò nella tormenta. Si lasciò trasportare dai turbini del vento, inzuppata dagli scrosci di pioggia. Inebetita, contemplava Parigi che sprofondava, che andava alla deriva sotto le striature grigie. Sopra i tetti, le nubi si susseguivano come onde; l’acqua scorreva a fiumi sulle facciate degli edifici; le teste scolpite sui balconi e sulle finestre sembravano facce di annegati, verdastre, bluastre, inghiottite dai flutti del cielo.

Risalì la rue du Faubourg-Saint-Honoré, poi l’avenue Hoche, a sinistra, fino al parc Monceau. Là, camminò lungo la recinzione nera e oro dei giardini e prese la rue Murillo.

Il traffico era intenso. Le macchine sollevavano rumorosi schizzi d’acqua. I motociclisti nelle loro tute antipioggia filavano come dei piccoli Zorro di gomma. I passanti lottavano contro le raffiche, modellati, sagomati dal vento che appiccicava loro addosso i vestiti come fossero panni umidi su sculture in attesa di essere terminate.

Tutto danzava immerso nei colori bruni, nei neri, nei riflessi brillanti d’un olio scuro, infettati d’argento e d’una luce malata.

Anna seguì l’avenue de Messine, incorniciata da edifici chiari e da alberi massicci. Non sapeva dove i suoi passi la portassero, ma se ne fregava. Camminava per le strade come dentro la sua testa: perdendosi.

Fu allora che lo vide.

Sul marciapiede opposto, una vetrina mostrava un ritratto colorato. Anna attraversò la strada. Era la riproduzione di un quadro. Un viso sconvolto, distorto, pesto, dai colori violenti. Avanzò ancora, come ipnotizzata: quella tela le ricordava, tratto per tratto, le sue allucinazioni.

Cercò il nome del pittore. Francis Bacon. Un autoritratto del 1956. Al primo piano di quella galleria era in corso una sua personale. Qualche porta più in là, a destra, in rue de Téhéran, trovò l’entrata e salì le scale.

Le sale bianche erano separate tra loro da pesanti tendaggi rossi che davano alla mostra un carattere solenne, quasi religioso. Davanti ai quadri si accalcava una folla cospicua. Ciononostante, regnava un silenzio assoluto. Lo spazio era riempito da una sorta di gelido rispetto, un rispetto imposto dalle opere stesse.

Nella prima sala, Anna scorse delle tele alte due metri che rappresentavano tutte lo stesso soggetto: un ecclesiastico seduto su di un trono. Vestito di porpora, egli urlava come se friggesse sulla sedia elettrica. Una volta era dipinto in rosso; un’altra volta in nero; un’altra ancora in blu violetto. Ma c’erano dettagli che tornavano sempre. Le mani strette sui braccioli, già bruciate, come incollate al legno carbonizzato. La bocca urlante, aperta su di un buco che somigliava a una ferita, mentre da ogni parte si alzavano fiamme violacee…

Anna oltrepassò la prima tenda.

Nella stanza seguente, degli uomini nudi, raggomitolati, erano intrappolati da pozze di colore o da gabbie primitive. I loro corpi attorcigliati, deformi, evocavano quelli di bestie selvatiche. O quelli di creature zoomorfe frutto di incroci tra specie molteplici. I loro volti non erano altro che rosoni scarlatti, grugni sanguinanti, facce tranciate. Dietro quei mostri, le pennellate ricordavano le piastrelle di una macelleria o di un mattatoio. Un luogo di sacrificio dove i corpi venivano portati allo stato di carcasse, di masse scorticate, di carogne. Il tratto era sempre tremolante, agitato, come immagini di un documentario ripreso con la macchina a spalla, mosse per la fretta.

Anna sentiva crescere il suo malessere, ma non trovava quello che era venuta a cercare: i volti della sofferenza.

La attendevano nell’ultima sala.

Una dozzina di tele di dimensioni più modeste, protette da cordoni di velluto rosso. Ritratti violenti, lacerati, smembrati: caos di labbra, di nasi, d’ossa o di occhi che cercavano disperatamente la loro strada.

I quadri erano raggruppati in trittici. Il primo, intitolato Tre studi della testa umana, era datato 1953. Facce blu, livide, cadaveriche, che mostravano le tracce delle prime ferite. Il secondo trittico appariva come la naturale continuazione del precedente, raggiungendo un più alto livello di violenza: Studio per tre teste, 1962. Volti bianchi che si sottraevano allo sguardo per risaltare con maggior forza e mostrare le loro cicatrici sotto un cerone da clown. Oscuramente, quelle ferite sembravano voler far ridere, come accadeva nel medioevo quando si sfiguravano i bambini per farne dei pagliacci, dei buffoni senza via d’uscita.

Anna avanzò ancora. Non riconosceva le sue allucinazioni. Semplicemente era circondata da maschere d’orrore. Le bocche, gli zigomi, gli sguardi volteggiavano, avvitando le loro difformità in spirali insostenibili. Sembrava che il pittore si fosse accanito su quei visi. Li aveva attaccati, tagliuzzati con le armi più affilate. Pennellò, pennellessa, spatola, coltello: aveva aperto tutte le ferite, raschiato le croste, lacerato le guance…

Anna camminava con la testa incassata tra le spalle, piegata dalla paura. Guardava le tele con rapide occhiate, a tratti, con le palpebre che fremevano. Una serie di studi dedicati a una certa «Isabel Rawsthorne» segnava il culmine della crudeltà. La faccia della donna era letteralmente esplosa. Anna indietreggiò, cercando disperatamente un’espressione umana in quell’ammasso di carni. E invece trovava solo frammenti sparsi, bocche-ferite, occhi fuori dalle orbite, occhiaie rosseggianti come tagli.

All’improvviso cedette al panico e fece dietrofront, affrettandosi verso l’uscita. Stava attraversando l’atrio della galleria, quando, posato su un bancone bianco, scorse il catalogo della mostra. Si fermò.

Doveva vederlo, doveva vedere il suo viso.

Sfogliò febbrilmente il volume, vide le fotografie dell’atelier, le riproduzioni delle opere e alla fine trovò un ritratto dello stesso Francis Bacon. Una foto in bianco e nero, dove lo sguardo intenso dell’artista brillava più intensamente della carta argentata.

Anna piazzò bene le sue mani sulle pagine, per affrontarlo.

I suoi occhi erano infiammati, avidi, in una faccia larga, quasi lunare, sostenuta da solide mascelle. Naso corto, capelli ribelli, la fronte come una falesia; così si completava il viso di quell’uomo che sembrava essere fatto apposta per tenere testa ogni mattina alle masse scorticate dei suoi quadri.

Ma fu soprattutto un dettaglio ad attirare l’attenzione di Anna.

Il pittore aveva un’arcata sopraciliare più alta dell’altra. Un occhio da rapace, fisso, stupefatto, spalancato su un punto preciso. Anna capì l’incredibile verità: Francis Bacon assomigliava fisicamente alle sue tele. La sua fisionomia condivideva la loro follia, le loro distorsioni. Era stato quell’occhio asimmetrico a ispirare al pittore le sue visioni deformi? O, al contrario, i quadri avevano finito per sconvolgere il loro autore? In un caso come nell’altro, le opere si fondevano con il volto dell’artista…

Quella semplice constatazione fu come una rivelazione.

Se le deformità delle tele di Bacon avevano un’origine reale, perché le sue allucinazioni non avrebbero dovuto avere anch’esse un fondamento di verità? Perché i suoi deliri non avrebbero potuto originare da un segno, da un dettaglio realmente esistente?

Fu gelata da un nuovo sospetto. E se dal fondo della sua follia lei avesse ragione? Se Laurent, se il Signor Velluto, avessero realmente cambiato volto?

Si appoggiò contro il muro e chiuse gli occhi. Ogni cosa andava al suo posto. Laurent, per un motivo che non riusciva a immaginare, aveva approfittato della sua amnesia per cambiare i propri tratti. Aveva fatto ricorso alla chirurgia estetica per nascondersi all’interno del proprio viso. Il Signor Velluto aveva effettuato la stessa operazione.

I due erano complici. Avevano compiuto insieme un’azione atroce e, per questo motivo, avevano cambiato fisionomia. Ecco perché provava disagio di fronte ai loro volti.

Con un fremito passò sopra a tutte le impossibilità, a tutte le assurdità che quel ragionamento comportava. Sentì semplicemente che stava sfiorando la verità, per quanto demenziale potesse sembrare.

Era il suo cervello contro gli altri.

Contro tutti gli altri.

Corse verso la porta. Sul pianerottolo scorse una tela che prima non aveva notato, proprio alla fine della scala.

Un ammasso di cicatrici che tentavano di sorriderle.

17.

All’inizio dell’avenue de Messine, Anna trovò un caffè-brasserie. Ordinò una Perrier al banco, poi andò direttamente nel seminterrato, alla ricerca delle pagine gialle.

Aveva già vissuto quella scena, quel mattino stesso, quando in boulevard Saint-Germain aveva cercato il numero di uno psichiatra. Forse era una specie di rituale, un atto da ripetere, come il superamento di cerchi iniziatici, di prove ricorrenti, per accedere alla verità…

Sfogliando le pagine gualcite, cercò la categoria «Chirurgia estetica». Non guardò i nomi, ma gli indirizzi. Le occorreva un medico che avesse lo studio lì vicino. Il suo dito si fermò su una riga: «Didier Laferrière, 12, rue Boissy-d’Anglas.» Se ricordava bene, quella strada era vicino alla piace de la Madeleine, cioè a cinquecento metri di là.

Sei squilli, poi la voce di un uomo. Lei chiese:

«Il dottor Laferrière?»

«Sono io.»

La fortuna era dalla sua. Non doveva neppure superare la barriera di una centralinista.

«Le telefono per prendere un appuntamento.»

«Oggi la mia segretaria non c’è. Aspetti…»

Si sentì il rumore della tastiera di un computer.

«Quando desidera venire?»

La voce era strana: morbida, senza timbro. Lei rispose:

«Subito. È un’urgenza.»

«Un’urgenza?»

«Le spiegherò. Mi riceva.»

Ci fu una pausa, un secondo di attesa, carico di diffidenza. Poi la voce ovattata chiese:

«Tra quanto può essere qui?»

«Mezz’ora.»

Anna percepì una traccia di sorriso nella sua voce. Tutta quella fretta aveva l’aria di divertirlo:

«La aspetto.»

18.

«Non capisco. Quale tipo di intervento le interessa alla fine?»

Didier Laferrière era un omino dai capelli crespi e grigi, dai lineamenti neutri che si accordavano perfettamente alla sua voce atona. Un personaggio discreto, dai gesti furtivi, inafferrabili. Parlava come attraverso una parete di carta di riso. Anna capì che doveva forare quel velo se voleva ottenere le informazioni che le interessavano.

«Non mi sono ancora fatta un’idea precisa», replicò lei. «Vorrei innanzi tutto sapere quali sono le operazioni che permettono di modificare un viso.»

«Modificare fino a che punto?»

«In profondità.»

Il chirurgo incominciò con tono da esperto:

«Per effettuare dei miglioramenti rilevanti bisogna lavorare sulla struttura ossea. Ci sono due tecniche principali. Le operazioni di molatura, che mirano ad attenuare i tratti prominenti, e gli innesti ossei, che, al contrario, mettono in risalto certe regioni.»

«Lei come procede, precisamente?»

Laferrière prese ispirazione concedendosi un momento di riflessione. Il suo ufficio era immerso in un’atmosfera da confessionale. Le finestre erano oscurate dalle imposte. Una debole luce accarezzava i mobili di fattura asiatica.

«Per la molatura», riprese lui, «riduciamo i rilievi ossei passando sotto la pelle. Per l’innesto, preleviamo dapprima dei frammenti, in genere sull’osso parietale, alla sommità del cranio, poi li integriamo nelle regioni interessate. Talvolta utilizziamo anche delle protesi.»

Aprì le mani e la voce si addolcì:

«Tutto è possibile. La sola cosa che conta è la sua soddisfazione.»

«Immagino che questi interventi lascino delle tracce, no?»

Egli sorrise brevemente:

«Niente affatto. Noi lavoriamo in endoscopia. Infiliamo delle fibre ottiche e dei microstrumenti sotto i tessuti. Poi operiamo sullo schermo. Le incisioni praticate sono minime.»

«Potrei vedere delle fotografie di quelle cicatrici?»

«Certamente. Ma cominciamo dall’inizio, cosa ne dice? Vorrei che definissimo insieme il tipo di operazione che le interessa.»

Anna capì che quell’uomo le avrebbe mostrato solo fotografie edulcorate, dove non ci sarebbe stata nessuna traccia visibile. Cambiò argomento:

«E il naso? Che possibilità ci sono per il naso?»

Lui aggrottò la fronte, scettico. Il naso di Anna era diritto, stretto, minuto. Niente da cambiare.

«C’è una regione che vorrebbe modificare?»

«Prendo in considerazione tutte le possibilità. Cosa potrebbe fare su questa zona?»

«In questo campo abbiamo fatto grandi passi avanti. Possiamo letteralmente scolpirle il naso dei suoi sogni. Possiamo disegnarne insieme la linea, se vuole. Ho di là un software che consente…»

«Ma l’intervento, in cosa consiste?»

Nella giacca bianca che sostituiva il camice, il medico si agitò.

«Dopo aver ammorbidito tutta questa zona…»

«Come? Rompendo le cartilagini?»

Il sorriso c’era ancora, ma gli occhi stavano diventando inquisitori. Didier Laferrière cercava di svelare le reali intenzioni di Anna.

«Certo, dobbiamo passare attraverso una tappa abbastanza… radicale. Ma tutto avviene sotto anestesia.»

«E dopo, come fa?»

«Disponiamo le ossa e le cartilagini in funzione della linea stabilita. Ripeto, posso offrirle un trattamento su misura.»

Anna non abbandonava la sua pista:

«Un’operazione del genere deve lasciare delle tracce, no?»

«Nessuna. Gli strumenti vengono introdotti dalle narici. Non tocchiamo la pelle.»

«E per i lifting», riprese lei, «che tecnica si utilizza?»

«Sempre l’endoscopia. Tiriamo la pelle e i muscoli grazie a minuscole pinze.»

«Dunque, anche qui nessun segno?»

«Neanche l’ombra di una traccia. Passiamo attraverso il lobo superiore dell’orecchio. È assolutamente invisibile.»

Agitò la mano.

«Dimentichi il problema delle cicatrici: appartiene al passato.»

«E le liposuzioni?»

Didier Laferrière inarcò le sopracciglia:

«Mi ha parlato del viso.»

«Esiste la liposuzione del collo, no?»

«È vero. Ed è una delle operazioni più facili da fare.»

«Provoca delle cicatrici?»

Era la domanda di troppo. Il chirurgo assunse un tono ostile:

«Non capisco, le interessano i miglioramenti o le cicatrici?»

Anna perse la calma. In un secondo, sentì tornarle il panico che l’aveva presa nella galleria. Il calore saliva sotto la sua pelle, dal collo fino alla fronte. In quel momento, il suo viso doveva essere chiazzato di rosso.

Arrivando appena a legare tra loro le parole, mormorò:

«Mi scusi. Sono molto paurosa. Vorrei… Insomma, prima di decidermi, vorrei vedere delle fotografie degli interventi.»

Laferrière raddolcì la voce: un po’ di miele nel tè dell’ombra.

«È fuori discussione. Sono immagini molto impressionanti. Dobbiamo solo preoccuparci dei risultati, capisce? Il resto è affar mio.»

Anna strinse i braccioli della sua sedia. In un modo o nell’altro, doveva strappare al medico la verità.

«Non mi lascerò mai operare se non vedo con i miei occhi quello che mi farete.»

Il medico si alzò con un gesto di scusa:

«Spiacente. Credo che lei non sia psicologicamente pronta per un intervento del genere.»

Anna non si mosse.

«Cos’ha da nascondere?»

Laferrière si bloccò.

«Scusi?»

«Sto parlando delle cicatrici. Mi dice che non ce ne sono. Le chiedo di vedere delle foto di operazioni. Lei rifiuta. Cos’ha da nascondere?»

Il chirurgo si sporse verso di lei, appoggiando le mani a pugno sulla scrivania:

«Io opero più di venti persone al giorno, signora. Insegno chirurgia plastica all’ospedale della Salpètrière. Conosco il mio mestiere. Un mestiere che consiste nel dare un po’ di gioia alle persone rendendo più bello il loro viso, non nel traumatizzarle parlando loro di sfregi o mostrando fotografie di ossa frantumate. Non so cosa lei stia cercando, ma ha sbagliato indirizzo.»

Anna sostenne il suo sguardo:

«Lei è un impostore.»

Lui si drizzò, scoppiando in una risata incredula:

«Cosa?»

«Lei rifiuta di mostrare il suo lavoro. Mente sui risultati. Vuole farsi passare per un mago, ma non è che un’imbroglione come ce ne sono a centinaia nella sua professione.»

La parola «imbroglione» provocò lo scatto sperato. Il viso di Laferrière sbiancò fino al punto di brillare nella penombra. Girò su sé stesso e aprì un armadio dalle ante a persiana. Tirò fuori un classificatore plastificato e lo sbatté violentemente sulla scrivania.

«È questo che vuole vedere?»

Aprì il classificatore sulla prima fotografia. Un viso rivoltato come un guanto, la pelle straziata da pinze emostatiche.

«O questo?»

Mostrò la seconda fotografia: delle labbra rivoltate, una forbice chirurgica sprofondata in una gengiva sanguinante.

«O forse questo?»

Terzo foglio: un martello che piantava uno scalpello all’interno di una narice. Anna si obbligava a guardare, facendo violenza al suo cuore.

Nella foto seguente, un bisturi tranciava una palpebra sopra un occhio tolto dall’orbita.

Sollevò la testa. Era riuscita a intrappolare il medico, ora non doveva fare altro che continuare.

«È impossibile che queste operazioni non lascino alcuna traccia», disse lei.

Laferrière sospirò. Frugò ancora nel mobile, poi posò sul tavolo un secondo classificatore. Con voce stanca commentò la prima immagine:

«La molatura di una fronte. Per via endoscopica. Quattro mesi dopo l’operazione.»

Anna osservò con attenzione il volto operato. Sulla fronte, alla radice dei capelli, si disegnavano tre tratti verticali di quindici millimetri ciascuno. Il chirurgo voltò pagina:

«Prelievo dell’osso parietale, per un innesto. Due mesi dopo l’intervento.»

La foto mostrava una testa con i capelli tagliati a spazzola, sotto i quali si distingueva nettamente una cicatrice rosastra a forma di S.

«I capelli ricoprono in fretta il segno, che poi finisce per scomparire», aggiunse.

Fece schioccare i fogli girandoli:

«Triplo lifting in endoscopia. La sutura è intradermica, il filo riassorbibile. Un mese dopo, non si vede più praticamente niente.»

Le due viste di un orecchio, di fronte e di profilo, si spartivano la pagina. Sulla cresta superiore del lobo, Anna scorse un minuscolo zig-zag.

«Liposuzione del collo», proseguì Laferrière mostrando una nuova foto. Due mesi e mezzo dopo l’operazione. La linea che vediamo qui è destinata a scomparire. È l’intervento che cicatrizza meglio.

Girò ancora una pagina e insistette, con tono provocatorio, quasi sadico:

«E se vuole una panoramica, ecco la radiografia computerizzata di un volto che ha subito un innesto agli zigomi. Sotto la pelle, le tracce dell’intervento restano sempre…»

Era l’immagine più impressionante. Un teschio bluastro, le cui pareti ossee mostravano viti e fessurazioni.

Anna richiuse il classificatore.

«La ringrazio. Era assolutamente necessario che vedessi tutto questo.»

Il medico girò intorno alla scrivania e la osservò intensamente, come se cercasse ancora di scoprire nei suoi lineamenti il movente nascosto di quella visita.

«Ma… ma insomma, non capisco, cosa sta cercando?»

Lei si alzò e infilò il cappotto morbido e nero. Per la prima volta, sorrise:

«Devo innanzitutto giudicare prove alla mano.»

19.

Le due del mattino.

La pioggia, ancora la pioggia; un brontolio, una cadenza, un martellamento continuo. Con i suoi accenti, le sue sincopi, le sue sonorità differenti sui vetri, sui balconi, sui parapetti di pietra.

Anna è in piedi davanti alle finestre del salone. Ha una felpa e i pantaloni della tuta da ginnastica, trema di freddo.

Nell’oscurità, scruta attraverso i vetri la sagoma del platano centenario. Le sembra uno scheletro di corteccia che galleggia nell’aria. Ossa bruciate, segnate da filamenti di licheni, quasi argentati nel riverbero. Artigli nudi che attendono il loro rivestimento di pelle: le foglie della primavera.

Abbassa lo sguardo. Sul tavolo, davanti a lei, ci sono gli oggetti che ha comprato nel pomeriggio, dopo esser stata dal chirurgo. Una piccola torcia elettrica della Maglite; una macchina fotografica Polaroid per foto notturne.

Da più di un’ora, Laurent dorme in camera da letto. Lei è restata al suo fianco, a sorvegliare il suo sonno. Ha spiato i suoi leggeri trasalimenti, gli scatti del corpo che rivelano l’inizio dell’assopimento. Poi ha ascoltato la sua respirazione divenuta regolare, incosciente.

Il primo sonno.

Il sonno profondo.

Lei raduna il materiale. Mentalmente dice addio all’albero lì fuori, a quell’ampia stanza dal parquet venato, ai divani bianchi. E a tutte le sue abitudini legate a quell’appartamento. Se ha ragione, se quello che ha immaginato è reale, allora dovrà fuggire. E cercare di capire.

Risale lungo il corridoio. Cammina con una tale attenzione da arrivare a percepire il respiro della casa: gli scricchiolìi del parquet, il brontolio della caldaia, il brivido delle finestre tormentate dalla pioggia…

Si infila nella camera da letto.

Giunta al letto, posa in silenzio l’apparecchio fotografico sul comodino, poi orienta la torcia verso il pavimento. Le mette la mano davanti, prima di liberare il piccolo fascio alogeno che le sta scaldando il palmo.

Solo allora si china su suo marito, trattenendo il respiro.

Nel raggio della lampada vede il profilo immobile, il corpo disegnato con pieghe morbide sotto le coperte. A quella vista le si chiude la gola. Per poco non desiste, non molla tutto, ma si riprende.

Passa una prima volta il fascio di luce sul viso.

Nessuna reazione: può cominciare.

Da principio, solleva leggermente i capelli e osserva la fronte: non trova nulla. Nessuna traccia delle tre cicatrici viste sulla foto di Laferrière.

Abbassa la torcia verso le tempie; nessun segno. Esplora la parte inferiore del viso, sotto la mascella, sotto il mento: neanche l’ombra di un’anomalia.

Viene colta ancora dal tremore. E se fosse soltanto un altro delirio? Un nuovo capitolo nella storia della sua follia? Si contrae e prosegue il suo esame.

Si avvicina alle orecchie, tocca molto dolcemente il lobo superiore per scrutarne la cresta. Non c’è la minima irregolarità. Gli solleva leggermente le palpebre, alla ricerca di una incisione. Non c’è niente. Scruta le pinne del naso, l’interno delle pareti nasali. Niente.

Ora è madida di sudore. Tenta ancora di attenuare il rumore del suo respiro, ma il fiato le sfugge, dalle labbra, dalle narici.

Le viene in mente un’altra cicatrice possibile. La sutura a S sul cranio. Si rialza, mette lentamente la mano tra i capelli di Laurent, alzando qualche ciocca, puntando la lampada su ogni radice. Non c’è niente. Nessuna fessura. Nessun rilievo irregolare. Niente. Niente. Niente.

Anna reprime i singhiozzi, frugando ora senza precauzione quella testa che la tradisce, che dimostra che lei è pazza, che lei…

Una mano le blocca brutalmente il polso.

«Cosa stai cercando?»

Anna fa un salto indietro. La sua torcia rotola a terra. Laurent intanto si è messo a sedere. Accende la lampada sul comodino ripetendo:

«Cosa stai cercando?»

Laurent scorge la Maglite sul pavimento, la Polaroid sul tavolino:

«Cosa significa questo?» chiede con una smorfia.

Anna, prostrata contro il muro, non risponde. Laurent getta di lato le coperte, si alza e raccoglie la torcia elettrica. Guarda l’oggetto con aria disgustata, poi lo brandisce in faccia a lei.

«Mi stavi osservando, non è vero? In piena notte? Santo Dio: cos’è che cerchi?»

Silenzio di Anna.

Laurent si passa la mano sulla fronte e sbuffa stancamente. Indossa solo i boxer. Apre la porta della cabina armadio; senza una parola prende un paio di jeans e una maglia. Poi esce dalla camera, abbandonando Anna alla sua solitudine, alla sua follia.

Lei si lascia scivolare contro il muro, si raggomitola sulla moquette. Non pensa a niente, non sente niente. Solo i colpi nel suo petto, sempre più forti.

Laurent riappare sulla soglia, ha in mano il cellulare. Sfoggia un curioso sorriso e scuote la testa con compassione, come se, in quei pochi minuti, si fosse calmato, fosse tornato alla ragionevolezza.

Indicando il telefono, con voce dolce dice:

«Andrà meglio. Ho chiamato Eric. Domani ti porto all’istituto.» Si china su di lei, la tira su, poi la conduce lentamente verso il letto. Anna non oppone resistenza. Lui la siede, con precauzione, come se avesse paura di romperla o, al contrario, di liberare da lei qualche forza pericolosa.

«Andrà tutto bene, ora.»

Lei annuisce, fissando la torcia elettrica che lui ha posato sul comodino, vicino all’apparecchio fotografico. Balbetta:

«No, la biopsia no. Niente sonda. Non voglio essere operata.»

«In un primo tempo, Eric effettuerà solo dei nuovi esami. Farà il possibile per evitare il prelievo. Te lo prometto.»

La bacia.

«Andrà tutto bene.»

Le propone un sonnifero.

Lei rifiuta.

«Per favore», insiste lui.

Lei accetta. Lui la infila tra le lenzuola poi si mette al suo fianco, abbracciandola teneramente. Non dice una parola sulla sua inquietudine. Non una riflessione sul proprio sconvolgimento di fronte alla follia definitiva di sua moglie.

Cosa pensa veramente?

Non è forse sollevato di sbarazzarsene?

Ben presto, lei sente il suo respiro, vinto dalla regolarità del sonno. Come può riaddormentarsi in un momento simile? Ma forse sono passate ore… Anna ha perso la nozione del tempo. Con la guancia appoggiata contro il petto di suo marito, ascolta il battito del suo cuore. Le pulsazioni calme di chi non è pazzo, di chi non ha paura.

Sente l’effetto del calmante invaderla a poco a poco.

Un fiore di sonno che sta schiudendosi nel suo corpo…

Ora lei ha la sensazione che il letto lasci la terraferma e vada alla deriva. Galleggia lentamente nelle tenebre. Non c’è nessuna resistenza da opporre, niente da tentare per lottare contro quella corrente. Bisogna solamente lasciarsi portare dall’onda che va…

Si stringe contro Laurent e pensa al platano lucente di pioggia davanti alla finestra del salone. I suoi rami nudi che attendono di riempirsi di germogli e di foglie. Una primavera che si annuncia e che lei non vedrà.

Ha appena vissuto la sua ultima stagione tra gli esseri dotati di ragione.

20.

«Anna? Cosa stai facendo? Arriveremo in ritardo!»

Sotto il getto bollente della doccia, Anna percepiva appena la voce di Laurent. Fissava le gocce che esplodevano ai suoi piedi, assaporando le linee che crepitavano sulla sua nuca e ponendo di tanto in tanto il viso sotto le trecce liquide. Il suo corpo era infiacchito, illanguidito, vinto dalla fluidità dell’acqua. Proprio come il suo spirito, perfettamente docile.

Grazie al sonnifero, era riuscita a dormire qualche ora. Quel mattino si sentiva liscia, neutra, indifferente a ciò che poteva capitarle. La sua disperazione si confondeva con una strana calma. Una sorta di pace lontana.

«Anna? Sbrigati, insomma!»

«Ecco! Arrivo.»

Uscì dalla cabina della doccia e saltò sul tappetino davanti al lavabo. Le otto e mezza: Laurent, vestito, profumato, scalpitava dietro alla porta del bagno. Si vestì rapidamente, indossò l’intimo e poi un vestito nero di lana. Un tubino, firmato Kenzo, che evocava un lutto stilizzato e futurista.

Sembrava fatto apposta per quell’occasione.

Prese una spazzola e si pettinò. Attraverso i vapori della doccia, nello specchio non vedeva che un riflesso offuscato: meglio così.

Nel giro di qualche giorno, di qualche settimana, la sua realtà quotidiana sarebbe stata esattamente come quel vetro opaco. Non avrebbe più riconosciuto nulla né veduto nulla, sarebbe diventata estranea a ciò che la circondava. Non si sarebbe nemmeno più preoccupata della propria demenza e l’avrebbe lasciata distruggere le sue ultime particelle di ragione.

«Anna?»

«Eccomi!»

Sorrise della fretta di Laurent. Paura di arrivare in ritardo in ufficio o ansia di liberarsi della moglie pazza?

Intanto, il vapore stava svanendo dallo specchio. Vide apparire il suo viso, arrossato, gonfiato dall’acqua calda. Mentalmente diede l’addio ad Anna Heymes. E anche a Clothilde, alla Maison du Chocolat, a Mathilde Wilcrau, la psichiatra dalle labbra color papavero…

Si immaginava già all’istituto Henri-Becquerel. Una camera bianca, chiusa, senza contatti con la realtà. Ecco quello che le ci voleva. Era quasi impaziente di mettersi in mani estranee, di abbandonarsi agli infermieri.

Cominciava persino ad adattarsi all’idea di una biopsia, di una sonda che sarebbe scesa lentamente nel suo cervello e avrebbe trovato forse l’origine del suo male. In realtà, se ne fregava di guarire. Voleva semplicemente sparire, evaporare, non disturbare più gli altri…

Anna si stava ancora pettinando, quando tutto si fermò.

Nello specchio, sotto la frangia, aveva notato tre cicatrici verticali. Non poteva crederci. Con la mano sinistra cancellò le ultime tracce di vapore e, con il fiato mozzato, si avvicinò. I segni erano minimi, ma c’erano, allineati sulla sua fronte.

Le cicatrici della chirurgia estetica.

Quelle che aveva cercato invano la notte precedente.

Si morse il pugno per non urlare e si piegò in due, sentendo il ventre sollevarsi in un getto di lava.

«Anna! Ma cosa stai facendo?»

I richiami di Laurent sembravano provenire da un altro mondo.

Scossa dal tremito, Anna si rialzò e scrutò di nuovo il proprio riflesso. Girò la testa e, con un dito, abbassò l’orecchio destro. Trovò la linea biancastra che percorreva la cresta del lobo. Dietro l’altro orecchio scopri lo stesso identico solco.

Indietreggiò, con le due mani appoggiate al lavabo, cercando di dominare il tremore. Poi sollevò il mento, alla ricerca di un altro indizio, la minuscola traccia che avrebbe rivelato un’operazione di liposuzione. Non ebbe difficoltà a trovarla.

In lei si aprì una vertigine.

Una caduta libera fino al fondo del proprio ventre.

Abbassò la testa, diradò i capelli cercando l’ultimo segno: la sutura a forma di S che tradiva un prelievo osseo. Il serpente rosastro la attendeva sul cuoio capelluto, come un rettile intimo, immondo.

Si appoggiò più saldamente per non crollare, ora che la verità stava esplodendo nel suo spirito. Non poteva più levare lo sguardo da sé stessa; con la testa bassa, con le ciocche grondanti, misurava l’abisso nel quale era appena caduta.

La sola persona che aveva cambiato faccia era lei.

22.

«Anna? Santo cielo, rispondimi!»

La voce di Laurent risuonava nel bagno, planava attraverso gli ultimi vapori, raggiungendo l’aria umida dell’esterno attraverso la finestrella aperta. I suoi richiami risuonavano nel cortile del palazzo, inseguendo Anna fin sul cornicione sul quale era appena salita.

«Anna? Aprimi!»

Lei si spostava lateralmente, la schiena al muro, in equilibrio sulla cornice. Le sue scapole sentivano il freddo della pietra; sul suo viso scorreva la pioggia e il vento le appiccicava sugli occhi i capelli gocciolanti.

Evitava di guardare il cortile, venti metri sotto i suoi piedi, e, mantenendo lo sguardo dritto davanti a sé, si concentrava sul muro dell’edificio di fronte.

«APRIMI!»

Sentì il rumore della porta del bagno che cedeva. Un secondo dopo, Laurent era affacciato alla finestra attraverso la quale era fuggita; il suo viso era alterato, gli occhi iniettati di sangue.

In quello stesso momento lei raggiunse il parapetto di un balcone. Afferrò il bordo di pietra, lo scavalcò con un solo movimento e ricadde dall’altra parte, in ginocchio, mentre sul kimono nero che aveva indossato sopra il vestito si apriva uno strappo.

«ANNA! TORNA INDIETRO!»

Attraverso le colonne della balaustra, scorse suo marito che la cercava con gli occhi. Si alzò, attraversò di corsa la terrazza e girò intorno alla recinzione successiva per attaccare una nuova cornice.

A partire da quel momento tutto divenne folle.

Tra le mani di Laurent si materializzò una ricetrasmittente. Con voce piena di panico urlò:

«A tutte le unità: è fuggita. Ripeto: se la sta filando!»

Qualche secondo più tardi, nel cortile comparvero due uomini. Erano in borghese, ma portavano il bracciale rosso della polizia. Puntarono i loro fucili da guerra nella sua direzione.

Quasi nello stesso momento, una vetrata al terzo piano del palazzo di fronte si aprì. Ne spuntò un uomo con le due braccia tese su di una pistola cromata. Guardò intorno per un po’, prima di individuarla, obiettivo perfetto sulla sua linea di tiro.

In basso risuonò un nuovo galoppo. Altri tre uomini avevano raggiunto i primi due. Tra loro c’era Nicolas, l’autista. Tutti stringevano tra le mani lo stesso fucile mitragliatore dal caricatore ricurvo.

Lei chiuse gli occhi e aprì le braccia per trovare l’equilibrio. Si sentiva abitata da un grande silenzio che annientava ogni pensiero e che le dava una strana serenità. Continuò ad avanzare: le palpebre chiuse, le braccia allargate. Sentiva Laurent che gridava ancora:

«Non sparate! Santo Dio: ci serve viva!»

Riaprì gli occhi. Con un distacco incomprensibile, ammirò la perfetta simmetria del balletto. A destra, Laurent, pettinato con cura, che gridava alla radio tendendo l’indice verso di lei. Di fronte, il franco tiratore, immobile, le mani saldate alla pistola; poteva vederne il microfono fissato vicino alle labbra. In basso, i cinque uomini in posizione di tiro, la faccia alzata, i gesti bloccati.

E nel bel mezzo di quell’esercito: lei. Sagoma di gesso drappeggiata di nero, nella posizione del Cristo in croce.

Sentì la forma curva di una grondaia. S’inarcò in avanti, passò la mano dall’altra parte, poi strisciò sopra l’ostacolo. Qualche metro più in là, una finestra la fermò. Cercò di ricordarsi la configurazione del palazzo: quella finestra dava sulla scala di servizio.

Sollevò il gomito, poi lo sbatté violentemente indietro. Il vetro resistette. Riprese slancio, picchiò ancora, con tutte le sue forze. Il vetro si infranse. Spinse con i piedi e si lasciò cadere all’indietro. La cornice cedette sotto la pressione. Il grido di Laurent la accompagnò nella sua caduta:

«NON SPARATE!»

Ci fu un attimo di sospensione, un’eternità, poi ricadde su una superficie dura. Il suo corpo fu attraversato da una fiamma nera. Una tempesta di colpi. La schiena, le braccia, i talloni andarono a sbattere su spigoli vivi, mentre il dolore esplodeva in mille risonanze dentro di lei. Rotolò su se stessa. Le gambe le passarono sopra la testa. I mento si schiantò sulla cassa toracica e le mozzò il respiro.

Poi fu il nulla.

Da prima il gusto della polvere. Poi quello del sangue. Anna stava riprendendo conoscenza. Rimaneva raggomitolata, in posizione fetale, in fondo a una scala. Alzando gli occhi, vide un soffitto grigio e un globo di luce gialla. Si trovava esattamente dove aveva sperato: nella scala di servizio.

Si attaccò alla ringhiera e si rimise in piedi. Niente di rotto, in apparenza. Trovò solo un taglio lungo il braccio destro: un pezzo di vetro aveva lacerato il tessuto e si era conficcato vicino alla spalla. Era poi ferita alla gengiva; la bocca era piena di sangue, ma i denti sembravano a posto.

Estrasse lentamente il frammento di vetro, poi, con un gesto secco, strappò la parte inferiore del kimono e ne fece una sorta di laccio e di bendatura.

Stava già riordinando le idee. Una rampa l’aveva discesa con la schiena, quel pianerottolo doveva dunque essere quello del secondo piano. I suoi inseguitori non avrebbero tardato a spuntare dal piano terra. Salì gli scalini a quattro a quattro, superando il proprio piano, poi il quarto e il quinto.

La voce di Laurent esplose immediatamente dentro la spirale delle scale:

«Sbrigatevi! Sta raggiungendo l’altro edificio attraverso le mansarde.»

Lei accelerò e raggiunse il settimo piano, ringraziando mentalmente Laurent per l’informazione.

Si gettò nel corridoio delle camere di servizio e corse, incrociando delle porte, delle bacinelle, dei lavabo, poi, infine, un’altra scala. Vi si precipitò, superò di nuovo diversi pianerottoli quando, in un flash, capì il tranello. I suoi inseguitori comunicavano per radio. L’avrebbero attesa alla base di quell’edifico, mentre altri sarebbero spuntati alle sue spalle.

In quello stesso momento sentì alla sua sinistra il rumore di un aspirapolvere. Non sapeva più a che piano si trovava, ma ormai non aveva importanza: quella porta si apriva su un appartamento che, a sua volta, avrebbe dato accesso a nuove scale.

Picchiò contro la porta con tutte le sue forze.

Non sentiva più niente. Né i colpi nella mano, né i battiti nella cassa toracica.

Bussò ancora. Sopra di lei risuonava una cavalcata che si stava avvicinando a gran velocità. Le pareva poi di sentire altri passi risalire dal basso. Si gettò di nuovo sulla porta, usando i pugni come mazze, urlando richieste di aiuto.

Alla fine le aprirono.

Nell’apertura della porta comparve una donnetta con un grembiule rosa. Anna la spinse via con la spalla, e richiuse la porta blindata. Diede due giri di chiave e poi se la ficcò in tasca.

Si girò e vide un’ampia cucina, di un bianco immacolato. Stupefatta, la donna delle pulizie restava appesa alla propria scopa.

Anna le gridò in faccia:

«Non deve aprire per nessun motivo, ha capito?»

La afferrò per le spalle e ripeté:

«Per nessun motivo, d’accordo?»

Dall’altra parte stavano già bussando.

«Polizia! Aprite!»

Anna fuggì attraverso l’appartamento. Prese un corridoio, superò diverse camere. Ci impiegò qualche secondo a capire che quell’appartamento era sistemato come il suo. Girò a destra per cercare il salone. Grandi quadri, mobili di legno rosso, tappeti orientali, divani più larghi che materassi. Doveva ancora girare a sinistra se voleva arrivare in ingresso. Partì di slancio, inciampò in un cane, un grosso e pacifico labrador, poi sbatté contro una donna con l’accappatoio e l’asciugamano in testa.

«Lei… lei chi è?» urlò quella tenendo il suo turbante come una giara preziosa.

Anna per poco non scoppiò a ridere: non era certo una domanda da porle quel giorno. La spinse via, raggiunse l’entrata e aprì la porta. Stava per uscire quando vide, sopra un tavolino di mogano, delle chiavi e un telecomando: il parcheggio. Tutti quegli edifici accedevano allo stesso parcheggio sotterraneo. Prese il telecomando e si gettò nella scala tappezzata di velluto porpora.

Poteva fregarli, se lo sentiva.

Scese direttamente nell’interrato. Il petto le bruciava. La sua gola afferrava l’aria con brevi respiri. Ma il suo piano andava chiarendosi nella sua mente. La trappola degli sbirri sarebbe scattata al piano terra. Nel frattempo lei se ne sarebbe andata passando per la rampa del garage. Quell’uscita si apriva dall’altra parte dell’isolato, in rue Daru. C’era da scommetterci che a quella via non avevano pensato…

Una volta scesa nel parcheggio, senza accendere la luce, attraversò di corsa lo spazio in cemento, in direzione della porta basculante. Stava per usare il telecomando, quando il portone si aprì da solo. Quattro uomini armati stavano scendendo la rampa. Aveva sottovalutato il nemico. Ebbe appena il tempo di nascondersi dietro un auto; le due mani appoggiate al suolo.

Li vide passare, sentì la vibrazione delle loro suole pesanti e ci mancò poco che non scoppiasse in singhiozzi. I quattro frugavano tra le vetture, spazzando il suolo con le torce. Si appiattì contro il muro e si accorse che il suo braccio era tutto appiccicoso di sangue. Il laccio si era allentato. Lo serrò di nuovo, tirandolo con i denti, mentre i suoi pensieri correvano, in cerca d’ispirazione.

Gli inseguitori si stavano allontanando lentamente, frugando, ispezionando, scrutando ogni parcella del perimetro. Ma sarebbero ritornati sui loro passi e avrebbero finito per scoprirla. Si guardò ancora intorno e scorse una porta grigia a qualche metro sulla sua destra. Se la memoria non la ingannava, quell’uscita portava a un palazzo che dava anch’esso sulla rue Daru.

Senza più riflettere, si infilò tra il muro e i paraurti, raggiunse la porta e l’aprì quel tanto che bastava per scivolare al di là. Un istante dopo spuntò in un atrio chiaro e moderno: nessuno. Volò sugli scalini e saltò fuori.

Stava correndo sull’asfalto, assaporando il contatto con la pioggia, quando uno stridore di freni la bloccò di netto. La macchina aveva inchiodato a pochi centimetri da lei, arrivando a sfiorare il suo kimono.

Lei indietreggiò, distrutta, impaurita. L’automobilista abbassò il finestrino e urlò:

«Ehilà, zoccola! Bisogna guardare quando si attraversa!»

Anna non gli badò. Gettava intorno delle brevi occhiate alla ricerca di nuovi sbirri. Le pareva che l’aria fosse satura di elettricità, di tensione, come durante un temporale.

E il temporale era lei.

Il guidatore la superò lentamente.

«Bisogna che tu ti faccia curare, bella mia!»

«Fottiti.»

L’uomo frenò.

«Cosa?»

Anna lo minacciò con l’indice rosso di sangue:

«Togliti di mezzo, t’ho detto!»

L’altro esitò; sulle sue labbra passò un tremito. Sembrava indovinare che c’era qualcosa che non quadrava, che la situazione andava al di là del semplice diverbio da strada. Alzò le spalle e accelerò.

Una nuova idea. Fuggì di corsa verso la chiesa ortodossa di Parigi che si trovava qualche numero più avanti. Ne seguì la recinzione, attraversò il cortile coperto di ghiaia e salì gli scalini che conducevano al portale. Spinse una vecchia porta di legno lucido e si immerse nelle tenebre.

La navata centrale le parve sprofondata nel buio più assoluto, ma in realtà erano le pulsazioni alle tempie che oscuravano la sua vista. Poco a poco iniziò a discernere ori bruniti, icone rossastre, schienali di sedie ricoperti di rame che assomigliavano a tante fiamme stanche.

Avanzò con attenzione e percepì altri bagliori attenuati, discreti. Lì, ogni oggetto contendeva agli altri le poche gocce di luce distillate dalle vetrate, dai ceri, dai lampadari di ferro forgiato. Persino i personaggi degli affreschi sembravano volersi strappare alle loro tenebre per bere un po’ di chiarore. L’intero spazio era aureolato d’una luce d’argento; un chiaroscuro screziato dove la luce e la notte avevano ingaggiato una sorda lotta.

Anna riprese fiato. Il suo petto era consumato dal bruciore. La sua pelle e i suoi vestiti erano madidi di sudore. Si fermò, si appoggiò a una colonna e assaporò la freschezza della pietra. Ben presto le pulsazioni del suo cuore si calmarono. Lì, ogni dettaglio sembrava possedere virtù calmanti: i ceri che vacillavano sui loro candelieri, i volti del Cristo, lunghi, che parevano fusi in pani di cera, le lampade dorate, sospese come frutti lunari.

«Qualcosa non va?»

Si girò e vide Boris Godunov in persona. Un pope gigante, con un abito nero e una lunga barba bianca, inconsciamente, lei si chiese da quale quadro fosse uscito. Con la sua voce baritonale lui ripeté:

«Si sente bene?»

Lei guardò la porta, poi chiese:

«C’è una cripta?»

«Mi scusi?»

Si sforzò di articolare bene ogni parola:

«Una cripta. Una sala per cerimonie funebri.»

Il religioso credette di aver compreso il senso della richiesta. Si dipinse in volto un’espressione di circostanza e rientrò le mani dentro le maniche:

«Chi devi sotterrare, figliola?»

«Me stessa.»

22.

Entrando nel pronto soccorso dell’ospedale Saint-Antoine, capì che l’aspettava una nuova prova. Una prova di forza contro la malattia e la demenza.

I neon della sala d’attesa si riflettevano sui muri piastrellati di bianco e annullavano ogni luce proveniente dall’esterno. Avrebbero potuto essere le otto del mattino come le undici di sera. È calore poi rafforzava quest’impressione di vasca chiusa. Sui corpi si abbatteva una forza soffocante, inerte, come una massa plumbea, carica di odori di disinfettante. Si entrava in una zona di transito tra la vita e la morte, indipendente dalla successione delle ore e dei giorni.

Sui sedili fissati al muro erano ammassati esemplari allucinanti di un’umanità malata. Un uomo dal cranio rasato teneva la testa tra le mani e non la smetteva di grattarsi gli avambracci, depositando sul pavimento una polvere giallastra; il suo vicino, un barbone legato su una sedia a rotelle, insultava le infermiere con una voce gutturale, pregandole nello stesso tempo di rimettergli le budella a posto. Non lontano da loro, una vecchia con indosso un grembiale di carta continuava a spogliarsi mormorando parole incomprensibili ed esibendo un corpo grigio, con pieghe d’elefante e avvolto alla cintura da un pannolone.

Solo un personaggio sembrava normale; restava seduto, di profilo, vicino a una finestra. Tuttavia, quando si girava, mostrava l’altra metà del suo viso, quella incrostata di schegge di vetro e di filamenti di sangue rappreso.

Anna non era né stupita né spaventata da quella corte dei miracoli. Al contrario. Quel bunker le sembrava il luogo ideale per passare inosservata.

Quattro ore prima aveva trascinato il pope nella cripta. Gli aveva detto di essere di origine russa, fervente praticante e gravemente ammalata: voleva essere sepolta in quel luogo sacro. Il religioso si era mostrato scettico, ma l’aveva comunque ascoltata per più di mezz’ora. Così, suo malgrado, le aveva dato protezione mentre gli uomini col bracciale rosso passavano al setaccio il quartiere.

Quando era tornata in superficie la via era libera. Il sangue della sua ferita era coagulato. Ora poteva passare per le strade con il braccio nascosto sotto il kimono, senza attirare troppo l’attenzione. Avanzando a passo di corsa, benediceva Kenzo e le fantasie degli stilisti che permettevano di portare una veste da camera dando semplicemente l’impressione di essere alla moda.

Per più di due ore aveva vagato senza meta, sotto la pioggia, perdendosi tra la folla degli Champs-Elysées. Si era sforzata di non pensare, di non avvicinarsi a quegli abissi che si aprivano nella sua mente.

Era libera, viva.

E questo era già molto.

A mezzogiorno, in piace de la Concorde, aveva preso il metrò. La linea 1, direzione Château de Vincennes. Seduta in fondo a un vagone, aveva deciso, prima ancora di prendere in considerazione la fuga, di ottenere una conferma. Mentalmente aveva passato in rassegna gli ospedali che si trovavano lungo la linea e aveva scelto il Saint-Antoine, vicino alla stazione della Bastille.

Era lì che attendeva da una ventina di minuti quando fece la sua comparsa un medico con una grande busta per radiografie. La posò su di un bancone vuoto, poi si sporse per cercare qualcosa in un cassetto della scrivania. Vedendolo, Anna scattò in piedi:

«Le devo parlare subito.»

«Aspetti il suo turno», rispose lui senza voltarsi e senza neanche guardarla. «La chiameranno le infermiere.»

Anna gli prese il braccio:

«La prego. Devo fare una radiografia.»

L’uomo si girò con aria ironica, ma la sua espressione cambiò non appena la vide.

«È passata all’accettazione?»

«No.»

«Non ha consegnato il suo tesserino del servizio sanitario?»

«Non ce l’ho.»

Il medico la studiò dalla testa ai piedi. Era alto, robusto, scuro di carnagione e portava un camice chiuso e zoccoli dalla suola di sughero. Con la sua pelle abbronzata, la blusa scollata a V su un petto villoso e ornato da una catena d’oro, sembrava il classico playboy della commedia all’italiana. La squadrò senza alcun imbarazzo, con un sorriso da intenditore sulle labbra. Con un gesto indicò il kimono strappato e il sangue coagulato:

«È per il braccio?»

«No. Io… Ho male al volto. Devo fare una radiografia.»

Lui alzò un sopracciglio, si grattò i peli del petto, il crine duro dello stallone.

«È caduta?»

«No. Credo di avere una nevralgia facciale. Non so.»

«O semplicemente una sinusite», disse lui strizzando l’occhio, «in questo periodo ce ne sono un sacco.»

Gettò uno sguardo alla sala e ai suoi pensionanti: il rasato, l’ubriacone, la nonnetta… La solita truppa. Sospirò; a un tratto sembrava disposto a concedersi una piccola tregua in compagnia di Anna.

La gratificò di un ampio sorriso, modello Costa Azzurra, e, con voce calda, sussurrò:

«Adesso la passiamo allo scanner, miss. Una panoramica. Ma prima», disse prendendo la manica strappata, «bendaggio.»

Un’ora dopo Anna era sotto la galleria di pietra che costeggiava i giardini dell’ospedale; il dottore le aveva permesso di attendere là i risultati dell’esame.

Il tempo era cambiato, dardi di sole si diluivano nella pioggia, trasformandola in bruma d’argento dal chiarore irreale. Anna osservava con attenzione il rimbalzare delle gocce d’acqua sulle foglie degli alberi, le pozzanghere scintillanti, i sottili ruscelli che si disegnavano tra la ghiaia e tra le radici nei boschetti. Quel piccolo gioco le permetteva di mantenere ancora il vuoto nella mente e di dominare il panico latente. Niente domande. Non ancora.

Alla sua destra sentì uno scalpiccio di zoccoli. Seguendo i portici della galleria, il medico stava arrivando, con le radiografie in mano. Non sorrideva più, per nulla.

«Avrebbe dovuto parlarmi del suo incidente.»

Anna si alzò.

«Il mio incidente?»

«Cosa le è successo? Roba di macchina, no?»

Lei indietreggiò spaventata. L’uomo scosse la testa incredulo:

«È pazzesco quello che riescono a fare oggi con la chirurgia plastica. Vedendola, non l’avrei mai immaginato…»

Anna gli strappò le lastre dalle mani.

L’immagine mostrava un cranio fessurato, suturato, reincollato in tutti i sensi. C’erano linee nere che rivelavano degli innesti all’altezza della fronte e degli zigomi. Delle fratture intorno all’orifizio nasale tradivano un rifacimento completo del naso, mentre alcune viti agli angoli delle mandibole e delle tempie tenevano ferme delle protesi.

Anna scoppiò in una risata spezzata, in una risata che era un singhiozzo; poi fuggì lungo il portico.

La radiografia sventolava nella sua mano come una fiamma blu.

QUATTRO

23.

Da due giorni percorrevano in lungo e in largo il quartiere turco.

Paul Nerteaux non capiva la strategia di Schiffer. Già dalla domenica sera avrebbero dovuto fare irruzione da Marek Cesiuz, alias Marius, responsabile dell’Iskele, la principale rete di immigrazione clandestina turca. Avrebbero dovuto scrollare il negriero fino a fargli tirare fuori i documenti d’identità delle tre vittime.

E invece, il Cifra aveva voluto riallacciare i rapporti con il «suo» quartiere; aveva voluto — diceva lui — ritrovare le sue tracce. Da due giorni, fiutava, sfiorava, osservava il suo vecchio territorio, senza interrogare nessuno. Solo la pioggia battente aveva permesso loro di rimanere invisibili in macchina, di vedere senza essere visti.

Paul mordeva il freno, ma doveva ammettere che in quarantotto ore aveva imparato sulla Piccola Turchia più di quanto avesse fatto in tre mesi di indagini.

Jean-Louis Schiffer gli aveva da prima mostrato gli annessi disseminati qua e là. Erano andati nel passage Brady, in boulevard de Strasbourg, nel cuore del mondo indiano. Sotto una lunga tettoia vetrata si allineavano botteghe minuscole ed eterogenee e ristoranti oscuri, tappezzati di paraventi; i camerieri imbonivano i passanti, mentre le donne in sari lasciavano la parola al loro ombelico, tra potenti sentori di spezie. Con quel tempo piovoso, quando i rovesci si facevano più intensi esaltando ogni profumo, si sarebbe potuto credere di essere a Bombay in pieno monsone.

Schiffer gli aveva fatto vedere i negozietti che servivano da punto d’incontro agli indi, ai bengalesi, ai pakistani. Gli aveva indicato i capi delle varie confessioni: induisti, musulmani, giainisti, sik, buddisti… In poche parole, gli aveva spiegato in dettaglio quel concentrato di esotismo che, secondo lui, non chiedeva altro se non di diluirsi.

«Tra qualche anno», aveva aggiunto, «saranno i sik a fare il traffico nel decimo arrondissement.»

Poi si erano appostati in rue du Faubourg-Saint-Martin, di fronte ai negozi dei cinesi. Drogherie che sembravano caverne, sature d’odori d’aglio e di zenzero; ristoranti con le tende tirate che si socchiudevano come scrigni di velluto; rosticcerie scintillanti di vetrine e di banconi cromati, colorate da insalate e da frittelle rosolate. Schiffer gli aveva presentato a distanza i principali responsabili della comunità: negozianti per i quali la bottega non rappresentava che il cinque percento della loro vera attività.

«Mai fidarsi di questi stronzi», aveva ringhiato. «Non ce n’è uno che righi diritto. La loro testa è come quella schifezza che mangiano. Piena zeppa di roba tagliata in quattro. Riempita di glutammato per addormentarti il cervello.»

Più tardi ancora, erano tornati sul boulevard de Strasbourg, dove i parrucchieri antillesi e africani contendevano il marciapiede ai grossisti di prodotti cosmetici e ai venditori di oggetti per fare scherzi. Sotto le tettoie dei negozi, gruppi di neri che si riparavano dalla pioggia offrivano un perfetto caleidoscopio delle etnie che bazzicavano per il boulevard. I baoulé, i mbochis e i bete della Costa d’Avorio, i ba congos e i baluba dell’ex Zaire, i bameleke e gli ewondo del Camerun…

Paul era intrigato da quegli africani, sempre presenti e oziosi. Sapeva che la maggior parte di loro erano trafficanti o imbroglioni, ma non poteva impedirsi una certa tenerezza al loro riguardo. La loro leggerezza di spirito, il loro umorismo, quella vita tropicale che imponevano persino all’asfalto lo esaltavano. Erano soprattutto le donne ad affascinarlo. I loro sguardi lisci e neri sembravano avere una complicità misteriosa con i loro capelli lucenti, appena stirati da Afro 2000 o da Royal Coiffure. Delle fate di legno bruciato, delle maschere di raso dagli occhi scuri…

Schiffer gli aveva servito una descrizione più realistica e circostanziata:

«I camerunensi sono i re del falso, banconote, carte di credito. I congolesi lavorano nel campo della roba da vestire: abiti rubati, marchi contraffatti e così via. Quelli della Costa d’Avorio sono specializzati in false organizzazioni benefiche. Trovano sempre il modo di spillare quattrini per gli affamati dell’Etiopia o per gli orfani dell’Angola. Bell’esempio di solidarietà. Ma i più pericolosi sono quelli dello Zaire. Il loro impero è la droga. Regnano su tutto il quartiere. I Blacks sono i peggiori», aveva concluso. «Puri parassiti. Hanno una sola ragione di vita: succhiarci il sangue.»

Paul non replicava a nessuna di quelle riflessioni razziste. Aveva deciso di chiudersi a tutto ciò che non riguardava direttamente l’inchiesta. Mirava solo ai risultati e metteva da parte ogni altra considerazione. D’altronde, continuava ad avanzare con discrezione anche su altri fronti. Aveva incaricato due ispettori della giudiziaria, Naubrel e Matkowska, di seguire la pista delle camere iperbariche. I due avevano già visitato tre ospedali, ma avevano ottenuto solo risposte negative. Ora stavano indagando nell’ambiente di quelli che, a Parigi, lavoravano nelle profondità della terra, in ambienti ad alta pressione, per impedire che la falda freatica inondasse i cantieri. Ogni sera, quegli operai utilizzavano camere di decompressione. Le tenebre, i sotterranei… Paul la sentiva, quella pista. Attendeva un rapporto in giornata.

Inoltre, aveva incaricato un ragazzo della Brigata anticrimine di raccogliere altre guide e altri cataloghi archeologici sulla Turchia. La sera prima, il giovane poliziotto gli aveva fatto una prima consegna a casa sua, in rue du Chemin-Vert, nell’undicesimo arrondissement. Un plico che non aveva ancora avuto il tempo di esaminare, ma che ben presto avrebbe popolato le sue insonnie.

Il secondo giorno erano penetrati nel territorio turco vero e proprio. Quel perimetro era delimitato, a sud, dal boulevard Bonne-Nouvelle e dal boulevard Saint Denis; a ovest dalla rue du Faubourg-Poissonnière e, a est, dalla rue du Faubourg-Saint-Martin. A nord, la rue La Fayette e il boulevard Magenta disegnavano una punta che faceva da cappello al distretto. La spina dorsale del quartiere era il boulevard de Strasbourg, che risaliva fino alla Gare de l’Est e che ai suoi lati vedeva partire una serie di ramificazioni nervose: rue des Petites-Ecuries, rue du Château-d’Eau… Al fondo della stazione del metrò Strasbourg-Saint-Denis batteva il cuore della zona, quello che irrigava quel frammento di Oriente.

Dal punto di vista architettonico, il quartiere non offriva niente di particolare: edifici grigi, vetusti, talvolta restaurati, più spesso decrepiti, che parevano aver vissuto mille vite. La loro topografia era sempre la medesima: al piano terreno e al primo piano c’erano i negozi; al secondo e al terzo i laboratori. I piani superiori, fino al tetto, accoglievano le abitazioni: appartamenti sovraffollati, divisi in due, in tre, in quattro, che dispiegavano la loro superficie come pezzi di carta.

In quelle strade regnava un’aria di transito, un’impressione di passaggio. Molti negozi sembravano votati al movimento, al nomadismo, a un’esistenza precaria, sempre sul chi vive. C’erano bancarelle che vendevano panini da mangiare al volo, sul marciapiede; agenzie di viaggio, per arrivare o per partire; uffici di cambio per comprare gli euro; copisterie per fotocopiare i documenti d’identità… Senza contare le innumerevoli agenzie immobiliari e i cartelli: CEDESI ATTIVITÀ, VENDESI…

In tutti quei segni, Paul scorgeva la potenza di un esodo permanente, di un fiume umano dalla sorgente lontana, che scorreva senza tregua né coerenza in mezzo a quelle vie. E tuttavia, quel quartiere aveva un’altra ragione d’essere: la confezione dei vestiti. Non è che i turchi controllassero quel mestiere, che invece era dominato dalla comunità ebraica del Sentier, ma, a partire dalle grandi migrazioni degli anni Cinquanta, si erano imposti come un anello essenziale della catena. Rifornivano i grossisti grazie alle loro centinaia di laboratori e di operai a domicilio; migliaia di mani che lavoravano per migliaia di ore e che potevano quasi far concorrenza ai cinesi. E in più, i turchi godevano del beneficio dell’anzianità e di una posizione sociale un po’ più legale.

I due poliziotti si erano immersi in quelle strade affollate, agitate, frastornanti. Sacchi, fagotti e vestiti passavano di mano in mano seguendo il movimento dei corrieri e dei camion. Il Cifra gli aveva fatto di nuovo da guida. Conosceva i nomi, i proprietari, le specialità. Enumerava i turchi che erano stati suoi informatori, i fattorini che teneva in pugno per un motivo o per l’altro, i ristoratori che gli dovevano qualche cosa. La lista sembrava infinita. Dapprima Paul aveva tentato di prendere nota, poi ci aveva rinunciato. Si era lasciato condurre dalle spiegazioni di Schiffer, continuando a osservare l’agitazione che li circondava; continuando a impregnarsi di quelle grida, di quei clacson, di quell’odore di inquinamento, di tutto ciò che formava la trama del quartiere.

Infine, il martedì a mezzogiorno, avevano superato l’ultima frontiera per accedere al nucleo centrale. Il blocco compatto che chiamavano «La Piccola Turchia» comprendeva la rue des Petites-Ecuries, la piazzetta e il vicolo che portavano lo stesso nome, la rue d’Enghien, la rue de l’Echiquier e la rue du Faubourg-Saint-Denis. Qualche ettaro appena, dove la maggior parte delle case, delle soffitte, delle cantine erano strettamente abitate da turchi.

A quel punto, Schiffer aveva proceduto a una vera e propria decrittazione e gli aveva consegnato le chiavi e i codici di quel villaggio unico. Gli aveva rivelato la ragion d’essere di ogni portone, di ogni edificio, di ogni finestra. Quel retrocortile aperto su un magazzino che ospitava in realtà una moschea; quel locale spoglio, al fondo di una tettoia, che nascondeva una sede dell’estrema sinistra… Schiffer aveva acceso tutte le lanterne di Paul, svelando i misteri che lo rodevano da settimane. Come l’enigma di quei tipi biondi, vestiti di nero e sempre appostati nella piazzetta delle Petites-Ecuries:

«Sono Laze», aveva spiegato il Cifra, «originari del Mar Nero, nel nord della Turchia. Guerrieri, rissosi. Mustaf Kemal reclutava le guardie del corpo tra loro. La loro leggenda viene da lontano. Nella mitologia greca fanno la guardia al Vello d’Oro in Colchide.»

O ancora quel bar buio di rue des Petites-Ecuries, dove troneggiava la foto di un uomo grosso e baffuto:

«È il quartier generale dei curdi. Il ritratto è quello di Apo. Lo zio. Abdullah Oçalan, il capo del PKK che adesso è in galera.»

Il Cifra si era lanciato in una tirata retorica, quasi un inno nazionale.

«Il più grande popolo senza nazione. Venticinque milioni in tutto, di cui dodici in Turchia. Sono musulmani come i turchi. Portano i baffi come i turchi. Lavorano nei laboratori sartoriali come i turchi. Il solo problema è che non sono turchi. E che niente e nessuno potrà renderli simili ai turchi.»

Schiffer gli aveva poi presentato gli alevi, che si riunivano in rue d’Enghien.

«Le “Teste Rosse”. Musulmani di confessione sciita, che praticano il segreto dell’appartenenza. Sono coriacei, puoi credermi… Ribelli, spesso di sinistra. Formano una comunità molto solidale, che vive sotto il segno dell’iniziazione e dell’amicizia. Scelgono un “fratello giurato”, un “compagno iniziato” e si presentano in coppia davanti a Dio. Una vera forza di resistenza all’Isiam tradizionale.»

Quando Schiffer spiegava quelle cose, sembrava provare un rispetto oscuro per quei popoli, di cui, nello stesso tempo, non smetteva di parlar male. In realtà, oscillava tra l’odio e il fascino per il mondo turco. Paul si ricordava che era persino girata una voce secondo la quale per poco Schiffer non sposava un’anatolica. Cos’era successo? Com’era andata a finire quella storia? Di solito, proprio nel momento in cui immaginava un romantico intrigo tra l’Oriente e Schiffer, questo attaccava con i peggiori discorsi razzisti.

Ora i due uomini erano sprofondati nella loro autocivetta, una vecchia Golf che la polizia aveva fornito a Paul dall’inizio dell’inchiesta.

Erano parcheggiati all’angolo tra la rue des Petites-Ecuries e la rue du Faubourg-Saint-Denis, proprio davanti alla brasserie Le Château d’Eau.

Cadeva l’oscurità e si mescolava alla pioggia, trasformando il paesaggio in un pantano, una fanghiglia senza colore. Paul guardò l’orologio. Le venti e trenta.

«Cosa ci facciamo qui, Schiffer? Oggi dovevamo arrivare a Marius e…»

«Abbi pazienza. Il concerto sta per cominciare.»

«Quale concerto?»

Schiffer cambiò posizione sul sedile e lisciò le pieghe del suo Barbour:

«Te l’ho detto. Marius ha una sala sul boulevard de Strasbourg. Un ex cinema porno. Stasera c’è un concerto. Le sue guardie del corpo si occupano del servizio d’ordine.»

Strizzò l’occhio.

«È il momento ideale per beccarlo.»

Indicò l’asse che si apriva davanti a loro:

«Parti e prendi la rue du Château-d’Eau.»

Paul eseguì volentieri. Mentalmente, aveva dato una sola possibilità al Cifra. In caso di fallimento, lo avrebbe riportato dritto dritto a Longères, nel suo ospizio. Eppure, era impaziente di vederlo all’opera.

«Parcheggia al di là del boulevard de Strasbourg», ordinò Schiffer. «In caso di rogne possiamo andarcene da un’uscita d’emergenza che conosco.»

Paul attraversò il viale, superò un isolato, poi posteggiò all’angolo della rue Bouchardon.

«Non ci saranno rogne, Schiffer.»

«Passami le foto.»

Esitò, poi gli diede la busta contenente le immagini dei cadaveri. L’uomo sorrise e aprì la portiera:

«Lasciami fare e vedrai che andrà tutto bene.»

Paul uscì a sua volta e pensò: «Una possibilità, bello mio. Non due.»

24.

Nella sala la pulsazione era così forte da nascondere ogni altra sensazione. Le onde d’urto attraversavano le budella, scorticavano i nervi, poi scendevano nei talloni fino a risalire attraverso le vertebre, facendole tremare come lamelle di un vibrafono.

Istintivamente, Paul incassò la testa tra le spalle e si piegò in due, come per evitare i colpi che gli piombavano addosso, che lo centravano allo stomaco, al petto, e sui due lati del viso, là dove i timpani prendevano fuoco.

Strizzò gli occhi per orientarsi in quell’oscurità fumosa, mentre i proiettori della scena volteggiavano.

Infine vide gli arredi. Balaustre ornate d’oro, colonne di stucco, lampadari di falso cristallo, pesanti tendoni carminio… Schiffer aveva parlato di un ex cinema, ma quegli arredi ricordavano piuttosto il logoro kitsch di un vecchio cabaret, una specie di caffè-concerto da operetta, dove fantasmi impomatati avrebbero potuto contendere il posto ai furiosi gruppi neometal.

Sul palco, i musicisti si agitavano, salmodiando fuckin’ e killin’, come se piovesse. A torso nudo, lucidi di sudore e di febbre, maneggiavano chitarre, microfoni e piastre come fossero state armi d’assalto, e sollevavano le prime file in ondulazioni forsennate.

Paul lasciò il bar e scese verso la sala. In mezzo alla folla, sentì nascere in sé una nostalgia familiare. I concerti della sua giovinezza; il pogo selvaggio, saltando come una molla sui ritmi arrabbiati dei Clash; i quattro accordi imparati sulla sua chitarra d’occasione, rivenduta subito dopo, quando le corde avevano cominciato a ricordargli troppo da vicino le zebrature insanguinate del sedile di suo padre.

Si accorse di aver perso di vista Schiffer. Si girò e guardò gli spettatori rimasti in cima alla scala, vicino al bar. Avevano assunto un’aria accondiscendente e, bicchiere alla mano, si degnavano di rispondere ai martellamenti che venivano dal palco, con un ancheggiare discreto. Paul passò in rivista quei volti d’ombra, aureolati da luci colorate; niente Schiffer.

All’improvviso, al suo orecchio risuonò una voce:

«Vuoi calare?»

Paul si girò e vide un volto livido e brillante sotto un cappellino.

«Cosa?»

«Ho dei Black Bombay da sballo.»

«Dei cosa?»

Il tipo si sporse e appoggiò la mano sulla spalla di Paul.

«Dei Black Bombay. Dei Bombay olandesi. Ehi tipo, da dove vieni?»

Paul si scostò e tirò fuori il tesserino.

«Ecco da dove vengo. Levati di torno prima che ti sbatta dentro.»

Il tizio scomparve come una fiamma quando ci si soffia sopra. Paul osservò il suo portadocumenti con su il simbolo della polizia e misurò la distanza tra i suoi concerti di allora e il suo profilo di oggi; uno sbirro intransigente, un rappresentante dell’ordine pubblico che, implacabile, rimestava nel fango. Era quello che immaginava quando aveva vent’anni?

Gli arrivò un colpo nella schiena.

«Qualcosa non va?» urlò Schiffer.

Paul era in un bagno di sudore. Tentò di deglutire, ma non ci riuscì. Intorno a lui vacillava tutto; i lampi di luce fracassavano i volti, li accartocciavano come stagnola.

Il Cifra gli rifilò un altro diretto, più amichevole, nel braccio.

«Vieni. Marius è là. Andiamo a beccarlo nella sua tana.»

Si infilarono nella massa dei corpi serrati, mobili, oscillanti; un’onda frenetica e cadenzata di spalle e di anche, risposta brutale, istintiva ai ritmi sputati dal palco. I due poliziotti, lavorando di gomiti e di ginocchia, arrivarono a uno spazio rialzato.

Schiffer girò a destra, mentre da ogni parte ricadevano i gemiti sopracuti delle chitarre. Paul faceva fatica a seguirlo. Lo vide parlare con un buttafuori, sotto il soffio furioso degli altoparlanti. L’uomo annuì e dischiuse una porta invisibile. Paul ebbe appena il tempo di scivolare nell’apertura.

Sbucarono in un cunicolo stretto e male illuminato. Sui muri brillavano dei manifesti. Sulla maggior parte di essi, la mezzaluna turca, associata a un martello comunista, formava un simbolo eloquente. Schiffer spiegò:

«Marius dirige un centro di estrema sinistra in rue de Jarry. Sono i suoi amici che l’anno scorso hanno incendiato le prigioni turche.»

Paul aveva sentito parlare vagamente di quei disordini, ma non fece domande. Non era di umore geopolitico. I due uomini si avviarono. L’eco sordo della musica risuonava nella loro schiena. Senza rallentare, Schiffer sogghignò:

«L’affare dei concerti è ben studiato. Un mercato a ciclo completo!»

«Non capisco.»

«Marius traffica anche in droga. Ecstasy. Anfetamine. Tutto ciò che è a base di speed o di LSD. Amplia la sua clientela con i concerti. Così guadagna su tutti i fronti.»

Preso da un impulso, Paul chiese:

«Lei sa che cos’è un Black Bombay?»

«Una cosa che va molto in questi ultimi anni. Un’ecstasy tagliata con eroina.»

Com’era possibile che un tizio di cinquantanove anni, appena uscito dall’ospizio, conoscesse le ultime tendenze in fatto di ecstasy? Rimaneva un mistero.

«È l’ideale per farti ridiscendere. Dopo l’eccitazione dell’ecstasy, l’eroina ti riporta alla calma. Passi dolcemente dagli occhi a palla, agli occhi piccoli piccoli.»

«Occhi piccoli?»

«Sì certo, l’eroina fa dormire. Chi si fa, poi cade con la testa nel piatto.»

Si fermò.

«Non capisco. Sembra che tu non abbia mai lavorato su un affare di droga.»

«Ho fatto quattro anni all’antidroga, ma questo non fa di me un drogato.»

Il Cifra gli servì il suo più bel sorriso:

«Come credi di combattere il male, se non l’hai mai assaggiato? Come credi di capire il nemico se non sai quali sono i suoi punti di forza? Bisogna sapere cos’è che cercano i ragazzi in quella merda. La forza della droga è che è buona. Cazzo, se non sai queste cose non perdere tempo a combatterla, la roba.»

Paul si ricordò della sua prima idea: Jean-Louis Schiffer, il padre di tutti gli sbirri. Mezzo eroe e mezzo demonio. Il meglio e il peggio riuniti in un solo uomo.

La sua rabbia sbollì. Intanto il suo compagno si era rimesso in marcia. Un’ultima svolta e due colossi dal cappotto di pelle apparvero ai lati di una porta dipinta di nero.

Il poliziotto dai capelli a spazzola esibì il tesserino. Paul trasalì: da dove spuntava quel reperto? Quel dettaglio parve confermargli che la situazione era cambiata: adesso era il Cifra a tenere il timone. Come per ribadirlo, si mise a parlare in turco.

La guardia del corpo esitò, poi alzò la mano per bussare. Con un gesto, Schiffer lo fermò e girò lui stesso la maniglia.

Entrando, senza voltarsi, abbaiò a Paul:

«Durante l’interrogatorio non voglio sentire la tua voce.»

Paul avrebbe voluto lanciargli una frecciata, ma non era più in tempo per rispondere. Quell’incontro sarebbe stato il suo laboratorio.

25.

«Salaam aleikum, Marius!»

L’uomo, accasciato sulla sua poltrona, per poco non cadde all’indietro.

«Schiffer?… Aleikum salaam, fratello mio!»

Marek Cesiuz si era già ripreso. Con un gran sorriso sulla faccia, si alzò e girò intorno alla propria scrivania di metallo. Portava una maglia da calcio rossa e oro, i colori del Galatasaray. Scheletrico com’era, galleggiava dentro la stoffa satinata come fosse una bandiera sulla tribuna di uno stadio. Dargli un’età precisa era impossibile. I capelli rossi e grigi sembravano ceneri spente male; i lineamenti contratti in un’espressione di fredda gioia gli conferivano un’aria sinistra di vecchio-bambino, mentre la carnagione ramata accentuava la sua parvenza di automa e si confondeva con i suoi capelli di ruggine.

I due uomini si abbracciarono con mille effusioni. L’ufficio, senza finestra e pieno di carte, era saturo di fumo. La moquette era costellata di bruciature di sigaretta. Gli oggetti dell’arredo sembravano tutti degli anni Settanta: armadi argentati, tavolini a tam-tam, lampade sospese simili a sculture mobili, abatjour coniche.

Paul scorse in un angolo del materiale per la stampa. Una fotocopiatrice, due rilegatrici, una taglierina: il perfetto armamentario del militante politico.

La risata grassa di Marius copriva il battere lontano della musica:

«Da quanto tempo non ci vediamo?»

«Alla mia età, evito di contarlo.»

«Ci sei mancato, fratello. Ci sei mancato veramente.»

Il turco parlava un francese senza accento. Si abbracciarono di nuovo: la commedia era al culmine.

«E i bambini?» Fece Schiffer con tono beffardo.

«Crescono troppo in fretta. Li tengo sempre d’occhio. Ho paura di perdermi qualcosa!»

«E il mio piccolo Alì?»

Marius diresse verso lo stomaco di Schiffer un gancio che poi fermò di botto prima di toccarlo.

«È il più veloce!»

All’improvviso sembrò accorgersi della presenza di Paul. I suoi occhi diventarono di ghiaccio, mentre le labbra continuavano a sorridere.

«Riprendi servizio?» chiese al Cifra.

«Semplici consulenze. Ti presento Paul Nerteaux, capitano della polizia giudiziaria.»

Paul esitò, tese la mano, ma nessuno gliela strinse. Contemplò le sua dita sospese, in quella stanza troppo illuminata, piena di sorrisi fasulli e di odore di cicche, poi, per darsi un contegno, azzardò un’occhiata alla pila di volantini alla sua destra.

«Ancora le tue prose da bolscevico?» domandò Schiffer.

«Gli ideali sono quelli che ci mantengono in vita.»

Il poliziotto prese un foglio e tradusse a voce alta:

«Quando i lavoratori controlleranno gli strumenti di produzione.»

Scoppiò a ridere.

«Credo che tu abbia passato l’età per questo genere di cretinate.»

«Schiffer, amico mio, queste cretinate ci sopravvivranno.»

«A condizione che qualcuno continui a leggerle.»

Marius aveva ritrovato il suo sorriso, labbra e occhi insieme:

«Amici, cosa ne dite di un tè?»

Senza aspettare la risposta, prese un grosso thermos e riempì tre tazze di terracotta. Si sentirono applausi che fecero tremare i muri.

«Non sei stufo di questi zulù?»

Marius si sedette di nuovo dietro la scrivania, spingendo contro il muro la sua poltroncina con le rotelle. Poi portò dolcemente la tazza alle labbra:

«La musica è la culla della pace, fratello mio. Persino quella. Al paese, i giovani ascoltano gli stessi gruppi dei ragazzi di qui. Il rock è quello che riunirà le generazioni future. Quello che farà saltare le nostre ultime differenze.»

Schiffer si appoggiò alla taglierina e alzò la tazza:

«All’hard rock!»

Marius fece uno strano movimento, ondeggiando sotto la maglia ed esprimendo divertimento e stanchezza allo stesso tempo.

«Schiffer, non hai trascinato fino a qui le tue chiappe, e per giunta accompagnato da questo ragazzo, per parlarmi di musica o dei nostri vecchi ideali.»

Il Cifra si sedette su un angolo della scrivania e squadrò per un attimo il turco, poi tirò fuori dalla busta le macabre fotografie. I volti straziati si sovrapposero alle bozze di manifesti. Marek Cesiuz si schiacciò contro lo schienale della poltrona.

«Fratello mio, cosa mi tiri fuori?»

«Tre donne. Tre corpi scoperti nel tuo quartiere. Tra novembre e oggi. Il mio collega crede che si tratti di operaie clandestine. Ho pensato che tu potresti dirci qualcosa di più.»

Il tono era cambiato. Schiffer sembrava aver cucito tra loro le sillabe col filo spinato.

«Non ho sentito niente in proposito», negò Marius.

Schiffer fece un sorriso carico di sottintesi:

«Da quando è avvenuto il primo omicidio, credo che il quartiere non parli d’altro. Dicci quello che sai, così guadagniamo tempo.»

Il trafficante afferrò meccanicamente un pacchetto di Karo, le sigarette senza filtro locali, e ne prese una.

«Fratello, non so di cosa parli.»

Schiffer si rimise in piedi e prese un tono da imbonitore da fiera:

«Marek Cesiuz. Imperatore del falso e della menzogna. Re dei traffici e degli intrallazzi…»

Scoppiò in una risata fragorosa come un ruggito, poi lanciò al suo interlocutore uno sguardo torvo:

«Sputa il rospo, figlio di puttana, prima che mi arrabbi.»

Il volto del turco divenne duro come vetro. Perfettamente diritto nella sua poltrona, accese la sigaretta:

«Schiffer, tu non hai niente. Non un mandato, non un testimone, non un indizio. Sei solo venuto a chiedermi un consiglio che io non posso darti. Spiacente.»

Con un lungo sbuffo di fumo grigio, indicò la porta.

«Ora è meglio che tu e il tuo amico ve ne andiate e che il malinteso si fermi qui.»

Schiffer piantò bene i piedi nella moquette bruciacchiata, di fronte alla scrivania:

«Qui c’è un solo malinteso e sei tu. Tutto è falso nel tuo cazzo di ufficio. Falsi i tuoi volantini pieni di cretinate. Tu te ne sbatti le palle dei rossi che marciscono in galera nel tuo paese.»

«Tu…»

«Falsa la tua passione per la musica. Un musulmano come te pensa che il rock sia un’emanazione di Satana. Se potessi dare fuoco alla tua stessa sala non ti faresti problemi.»

Marius fece per alzarsi, ma Schiffer lo spinse giù.

«Falsi i tuoi mobili pieni di carte, le tue arie da oberato dal lavoro. Tutto questo serve solo a nascondere i tuoi traffici da negriero!»

Si avvicinò alla taglierina e ne accarezzò la lama.

«E sappiamo bene, tu e io, che questo arnese ti serve a separare gli acidi che ti arrivano sotto forma di nastro impregnato di LSD.»

Aprì le braccia in un gesto da commedia musicale e prese a rivolgersi al soffitto lurido:

«Oh fratello, parlami di quelle tre donne prima che ti rivolti l’ufficio e che trovi qualcosa per mandarti alla prigione di Fleury per un po’ di anni!»

Marek Cesiuz continuava a lanciare occhiate verso la porta. Il Cifra si piazzò dietro di lui e si accostò al suo orecchio:

«Tre donne, Marius», sussurrò massaggiandogli le spalle. «In meno di quattro mesi. Torturate, sfigurate, abbandonate sul marciapiede. Sei tu che le hai fatte entrare in Francia. Tu mi passi i loro dossier e noi smammiamo.»

Il silenzio era riempito dalla pulsazione lontana del concerto. Si sarebbe potuto credere che fosse il cuore del turco che batteva nel mezzo della sua carcassa.

«Non li ho più», mormorò.

«Perché?»

«Li ho distrutti. Alla morte di ogni ragazza ho distrutto la scheda. Niente tracce, niente noie.»

Paul sentiva crescere la paura, ma apprezzò le rivelazioni. Per la prima volta, l’oggetto della sua inchiesta diventava reale. Le tre vittime esistevano in quanto donne: stavano nascendo sotto i suoi occhi. I Corpus erano proprio delle clandestine.

Schiffer si piazzò di nuovo davanti alla scrivania.

«Sorveglia la porta», disse a Paul senza guardarlo.

«Co… cosa?»

«La porta.»

Prima che Paul potesse reagire, Schiffer saltò addosso a Marius e gli spaccò la faccia contro lo spigolo del tavolo. L’osso del naso saltò come una noce stretta in una pinza. Lo sbirro gli alzò la testa dalla pozza di sangue in cui era e l’appiccicò al muro:

«Le schede, figlio di puttana.»

Paul si precipitò su di lui, ma Schiffer gli diede uno spintone. Paul portò la mano alla pistola, ma il foro nero di una Manhurin 44 Magnum lo pietrificò. In un attimo il Cifra aveva lasciato il turco e sfoderato l’arma:

«Sorveglia la porta.»

Paul rimase gelato. Da dove usciva quel ferro? Ma Marius si era già spostato con la sedia girevole e stava aprendo un cassetto,

«Attento dietro!»

Schiffer si voltò e gli sbatté il cannone in piena faccia. Marius fece un giro completo sulla sedia e andò a schiantarsi sui volantini. Il Cifra lo afferrò per la maglia e gli piantò la canna sotto la gola:

«Le schede, turco schifoso. Se no, te lo giuro, ti lascio per morto.»

Marek era scosso da tremiti; il sangue schiumava tra i suoi denti rotti, ma non cancellava la sua espressione allegra. Schiffer mise via l’arma e lo trascinò fino alla taglierina.

Paul estrasse a sua volta la pistola e urlò:

«Basta!»

Schiffer alzò la ghigliottina e vi infilò sotto la mano destra dell’uomo:

«Dammi quei dossier, sacco di merda!»

«LA SMETTA O SPARO!»

Il Cifra non alzò neppure gli occhi. Premette lentamente sulla lama. Sotto la taglierina, la pelle delle falangi cominciò a piegarsi. Il sangue sgorgò in una serie di piccole bolle nere. Marius urlò, ma meno forte di Paul:

«SCHIFFER!»

Teneva le due mani strette sul calcio della pistola, con il Cifra sempre nel mirino. Doveva sparare. Doveva…

Dietro di lui, la porta si aprì violentemente. Fu proiettato in avanti, rotolò su sé stesso e si ritrovò sbattuto ai piedi della scrivania in lamiera con la nuca piegata ad angolo retto.

Le due guardie del corpo avevano già la mano alla fondina quando il sangue schizzò. La stanza fu riempita da un ululato di iena. Paul capì che Schiffer aveva finito il suo lavoro. Si alzò in ginocchio e, agitando il cannone verso i turchi, gridò:

«Indietro!»

I due uomini, ipnotizzati dalla scena che si apriva ai loro occhi, non si muovevano. Tremando dalla testa ai piedi, Paul tese la sua 9 millimetri all’altezza dei loro musi:

«Indietro, porcoddio!»

Spinse il suo ferro contro il loro torace e riuscì a farli indietreggiare oltre la soglia. Chiuse la porta con la schiena e contemplò infine l’incubo all’opera.

Marius singhiozzava, in ginocchio, la mano ancora prigioniera della taglierina. Le sue dita non erano completamente tranciate, ma le falangi erano a nudo, la pelle rincalzata sull’osso. Schiffer, col volto deformato da una smorfia sardonica, continuava a tenergli la manica.

Paul mise la pistola nella fondina. Doveva tenere sotto controllo quel pazzo. Ma proprio mentre quello stava per premere di nuovo sulla lama, il turco tese la mano sana verso uno degli armadi argentati a fianco della fotocopiatrice.

«Le chiavi!» urlò Schiffer.

Marius cercò di afferrare il mazzo che pendeva dalla sua cintura. Il Cifra glielo strappò e, una a una, sgranò sotto i suoi occhi le chiavi; con un cenno del capo, il turco indicò quella che apriva la serratura.

Il vecchio poliziotto si gettò sul classificatore. Paul ne approfittò per liberare il torturato. Alzò con precauzione la lama dalla quale pendevano frange rossastre. Il turco crollò ai piedi del mobile e si raggomitolò gemendo:

«Ospedale… ospedale…»

Schiffer si voltò, l’aria allucinata. Aveva in mano un faldone cartonato, chiuso da una cinghia di tessuto. Lo aprì con un gesto convulso e trovò le schede e le polaroid delle tre vittime.

In stato di choc, Paul capì che l’altro aveva vinto.

26.

Presero l’uscita d’emergenza e corsero fino alla Golf. Paul partì sgommando ed evitò d’un soffio una macchina che stava passando in quel momento.

Spinse a fondo e svoltò a destra nella rue Lucien-Sampaix. Capì con un attimo di ritardo che aveva imboccato un senso vietato. Con un colpo di gomito, girò di nuovo, tutto a sinistra: boulevard de Magenta.

Davanti ai suoi occhi danzava la verità. Le lacrime si mescolavano alla pioggia sul parabrezza e gli confondevano la vista. Riusciva appena a scorgere i semafori che sanguinavano nell’acquazzone come ferite.

Superò un primo semaforo, senza rallentare, poi un secondo, provocando un caos di frenate e di colpi di clacson. Al terzo semaforo, infine, inchiodò. Nella sua testa risuonò per qualche secondo un brontolio, poi capì quello che doveva fare.

Verde.

Tirò su di scatto il piede dalla frizione e accelerò imballando il motore; bestemmiò.

Stava girando la chiave nel quadro quando la voce di Schiffer si fece sentire:

«Dove vai?»

«Al posto di polizia», rispose ansimando. «Ti arresto, bastardo.»

Dall’altra parte della piazza, la Gare de l’Est brillava come una nave da crociera. Ripartì, il Cifra spostò la gamba dalla parte del guidatore e schiacciò il pedale dell’acceleratore.

«Che cazzo…»

Schiffer afferrò il volante e sterzò a destra. Si infilarono in rue Sibour, una viuzza stretta che costeggiava la chiesa di Saint-Laurent. Sempre con una mano sola, girò ancora una volta, obbligando la Golf a sobbalzare sui blocchi catarifrangenti della pista ciclabile e poi a sbattere contro il marciapiede.

Paul si beccò il volante nelle costole. Ansimò, tossì, poi si sciolse in un sudore bollente. Chiuse il pugno e si girò verso il passeggero, pronto a spaccargli la mascella.

Il pallore dell’uomo lo dissuase. Schiffer era di nuovo invecchiato di vent’anni. Il suo profilo pareva scivolare lungo la linea flaccida del suo collo. I suoi occhi erano così vitrei da sembrare trasparenti. Un vero teschio.

«Lei è fuori di testa», ringhiò Paul, utilizzando il «lei» come segno di disgusto. «Lei è un cazzo di malato. La riempio di merda, ci conti. Creperà in galera, bastardo d’un torturatore!»

Senza rispondere, Schiffer prese nel portaoggetti un vecchio stradario di Parigi e ne strappò diverse pagine per pulirsi la giacca sporca di sangue. Le sue mani punteggiate tremavano, le parole sibilarono tra i denti:

«Non ci sono mille modi per trattare con quegli inculati.»

«Noi siamo poliziotti.»

«Marius è spazzatura. Schiavizza le puttane qui facendo mutilare i loro figli laggiù, al paese. Un braccio, una gamba: così calma le mamme turche.»

«Noi siamo la legge.»

Paul aveva ripreso fiato, sicurezza. Il suo campo visivo si ristabiliva: il muro massiccio e nero della chiesa, i doccioni sopra le loro teste, issati come forche; e la pioggia, ancora la pioggia, che stringeva d’assedio la notte.

Schiffer gettò via le pagine rossastre, abbassò il finestrino e sputò.

«È troppo tardi per sbarazzarti di me.»

«Se lei crede che io abbia paura di rispondere delle mie azioni… Si sbaglia di grosso. Finirà al fresco, anche se dovessi dividere la cella con lei!»

Con una mano, Schiffer accese la luce interna, poi aprì il faldone posato sulle sue ginocchia. Prese le schede delle tre operaie; semplici fogli volanti, stampati con stampante laser, sui quali erano pinzati i ritratti scattati con la polaroid. Strappò via le foto e le dispose sul cruscotto, come se fossero tarocchi.

Si schiarì nuovamente la voce e chiese:

«Cosa vedi?»

Paul non si mosse. Il riverbero delle luci faceva risplendere le tre foto sopra il volante. Da due mesi cercava quei volti. Li aveva immaginati, disegnati, cancellati, aveva ricominciato cento volte… Ora, di fronte a essi, si sentiva impaurito come un ragazzino.

Schiffer lo afferrò per la nuca e lo costrinse a piegarsi:

«Cosa vedi?» ripeté.

Paul spalancò gli occhi. Tre donne dai lineamenti dolci lo guardavano con l’aria leggermente inebetita dal flash. Le loro facce piene erano incorniciate da capelli rossi.

«Cosa noti?» insistette il Cifra.

Paul esitò:

«Si assomigliano, no?»

Scoppiando a ridere, Schiffer ripeté:

«Si assomigliano? Vorrai dire che è ogni volta la stessa!»

Paul si voltò verso di lui. Non era certo di cogliere:

«E allora?»

«E allora avevi ragione tu. L’assassino insegue sempre e soltanto un viso. Un viso che ama e che detesta al tempo stesso. Un viso che lo ossessiona, che scatena in lui pulsioni contraddittorie. Sulle sue motivazioni possiamo avanzare qualunque ipotesi, ma adesso sappiamo che persegue uno scopo.»

La rabbia di Paul si trasformò in una sensazione di vittoria. Così, le sue intuizioni erano giuste: operaie clandestine, lineamenti identici… Aveva ragione anche a proposito delle statue antiche?

Schiffer rincarò:

«Questi volti rappresentano un enorme passo avanti, credimi. Perché ci danno un’informazione essenziale. L’assassino conosce questo quartiere come le sue tasche.»

«Non è una scoperta.»

«Supponevamo che fosse turco, non che conoscesse tutti i laboratori, tutte le cantine. Ti rendi conto della pazienza e dell’accanimento che ci vuole per trovare delle ragazze che si assomiglino a quel punto? Quel bastardo ha delle entrature ovunque.»

Con voce più calma, Paul disse:

«Okay. Ammetto che senza di lei non avrei mai messo le mani su queste foto. Allora le risparmio la galera. La riporto direttamente a Longères senza passare per la casella “polizia”.»

Girò la chiave, ma Schiffer gli afferrò il braccio:

«Stai commettendo un errore, ragazzo. Tu hai più che mai bisogno di me.»

«Per lei è finita.»

Il Cifra sollevò una delle schede e la agitò alla luce della lampada:

«Non abbiamo solo le loro foto e le loro identità. Abbiamo anche i dati del posto dove lavoravano. E questo è roba concreta.»

Paul lasciò la chiave:

«Le loro colleghe avrebbero potuto vedere qualche cosa?»

«Ricordati cos’ha detto il medico legale. Avevano la pancia vuota. Stavano rientrando dal lavoro. Bisogna interrogare le operaie che fanno lo stesso percorso ogni sera. E anche i padroni dei laboratori. Ma per questo tu non puoi fare a meno di me, ragazzo mio.»

Schiffer non aveva bisogno di insistere: erano già tre mesi che Paul sbatteva il naso contro gli stessi muri. Si vedeva già a riprendere l’inchiesta da solo e continuare senza ottenere nulla.

«Le do un giorno», concedette. «Visitiamo i laboratori. Interroghiamo le colleghe, i vicini, i parenti se ce ne sono. Poi, ritorno all’ospizio. E la avviso: al minimo casino la ammazzo. Questa volta non avrò esitazioni.»

L’altro si sforzò di ridere ma, Paul lo sentiva, aveva paura. Il timore si era impossessato ormai di loro, di tutti e due. Stava per partire, quando si fermò di nuovo: voleva avere l’animo tranquillo.

«Perché tutta quella violenza con Marius?»

Schiffer osservò le sculture dei doccioni che si stagliavano nelle tenebre. Diavoli accosciati sul loro trespolo, incubi col muso ingrugnito, demoni dalle ali di pipistrello. Mantenne ancora per un attimo il silenzio, poi mormorò:

«Non c’era altro modo. Loro hanno deciso di non dire niente.»

«“Loro” chi?»

«I turchi. Il quartiere è chiuso a doppia mandata, cazzo! Ogni minima parte di verità dobbiamo strapparla.»

La voce di Paul si ruppe, facendosi più acuta:

«Ma perché fanno così? Perché non vogliono aiutarci?»

Il Cifra continuava a scrutare i musi di pietra. Il suo pallore faceva concorrenza alla luce della plafoniera:

«Non hai capito? Proteggono l’assassino.»

CINQUE

27.

Tra le sue braccia, lei era stata un fiume.

Una forza fluida, morbida, dispiegata. Aveva sfiorato le notti e i giorni come l’onda accarezza le erbe sommerse, senza mai mutarne lo slancio, il languore. Si era lasciata scorrere tra le sue mani, attraversando il chiaroscuro delle foreste, il letto delle schiume, l’ombra delle rocce. Si era inarcata di fronte ai chiarori che esplodevano sotto le sue palpebre quando sopraggiungeva il piacere. Poi si era abbandonata di nuovo, in un movimento lento, traslucido sotto le sue mani…

Nel corso degli anni, c’erano state delle stagioni distinte. Un gorgogliare d’acqua, leggero, canterino. Delle criniere di schiuma sbattute dalla collera. Ma anche dei guadi, delle tregue durante le quali non si toccavano più. Ma quei riposi erano piacevoli. Avevano la leggerezza delle canne, la dolcezza dei ciottoli messi a nudo.

Quando il fluire riprendeva e li spingeva di nuovo verso altre rive, al di sopra dei sospiri, delle labbra socchiuse, era solo per raggiungere meglio il piacere unico, dove tutto non era che uno, e l’altro era tutto.

«Capisce dottore?»

Mathilde Wilcrau sussultò. Guardò il sofà Koll, a due metri da lei, il solo della stanza che non fosse del XVIII secolo. Sopra c’era disteso un uomo. Un paziente. Perduto nelle sue fantasticherie; lo aveva completamente dimenticato, non aveva sentito una sola parola del suo discorso.

Per dissimulare il suo disagio ribatté:

«No, non la capisco. La sua formulazione non è abbastanza precisa. Cerchi di dirlo con altre parole, per cortesia.»

L’uomo riprese le sue spiegazioni, con la faccia rivolta al soffitto, le mani incrociate sul petto. Discretamente, Mathilde prese dal cassetto una crema idratante. La freschezza del prodotto sulle sue mani la fece tornare in sé. I suoi momenti di straniamento erano sempre più frequenti e sempre più profondi. Ormai, lei portava all’estremo la neutralità dello psicanalista: letteralmente, Mathilde non era più là. Un tempo ascoltava le parole dei pazienti con attenzione. Coglieva i loro lapsus, le loro esitazioni, le loro cadute. Sassolini bianchi che le permettevano di risalire la pista della nevrosi, del trauma… Ma ora?

Ripose il tubetto della crema e continuò a spalmarsene le dita. Nutrire, Irrigare. Lenire. La voce dell’uomo era già divenuta nient’altro che un rumore che cullava la sua malinconia.

Sì, tra le sue braccia era stata un fiume. Ma poi i guadi si erano moltiplicati, le tregue erano diventate più lunghe. Si era volontariamente accecata, con la forza della speranza, con la sua fede nell’amore. Poi, sulla sua lingua, era nato un gusto di polvere, mentre un dolore lancinante si impadroniva delle sue membra. Ben presto, le era parso che le vene si seccassero, che divenissero delle travature inerti, senza vita. Si era sentita vuota. Prima ancora che i cuori avessero dato un nome alla situazione, i corpi avevano parlato.

Poi la rottura aveva superato la soglia delle coscienze e le parole avevano concluso il movimento: la separazione era diventata ufficiale. L’era delle formalità era cominciata. Era stato necessario incontrare il giudice, calcolare l’assegno di mantenimento, organizzare il trasloco. Mathilde era stata irreprensibile. Sempre attenta, sempre responsabile. Ma il suo spirito era già altrove. Appena poteva, cercava di ricordarsi, di viaggiare in sé stessa, nella sua propria storia, stupita di ritrovare nella propria memoria così poche tracce, così poche impronte dei giorni andati. L’intera sua persona assomigliava a un deserto bruciato, a un sito antico dove a evocare il passato c’era solo qualche misero solco sulla superficie di pietre troppo bianche.

Si era sentita confortata al pensiero dei suoi figli. Erano l’incarnazione del suo destino, sarebbero stati la sua ultima sorgente. Si era data a loro anima e corpo. In quegli ultimi anni della loro educazione, lei si era dimenticata, si era annullata. Ma avevano finito per lasciarla, anche loro. Suo figlio si era perso in una strana città, al tempo stesso minuscola e immensa, fatta solo di chip e microprocessori. Sua figlia, al contrario, «ritrovò sé stessa» nei viaggi e nell’etnologia. O almeno così diceva. Quello di cui era certa è che la sua strada passava lontano dai suoi genitori.

Dovette dunque interessarsi alla sola persona rimasta a bordo: lei stessa. Si concesse ogni capriccio: vestiti, mobili, amanti. Si regalò delle crociere, dei viaggi nei posti che aveva sempre sognato. Un completo fallimento. Le pareva che quelle fantasie accelerassero ulteriormente il suo sgretolamento, che precipitassero la sua vecchiaia.

La desertificazione continuava le sue devastazioni. La morsa della sabbia si estendeva in lei. Non solo nel suo corpo, ma anche nel suo cuore. Diventava più dura, più acida con la gente. I suoi giudizi erano perentori; le sue posizioni nette, intransigenti. Il minimo sentimento di indulgenza le richiedeva uno sforzo enorme. Soffriva ormai di una vera paralisi dei sentimenti che la rendeva ostile verso gli altri.

Aveva finito per litigare con gli amici più intimi e si era ritrovata sola, veramente sola. In mancanza di avversari, si era dedicata allo sport, per confrontarsi con sé stessa. L’ansia di risultati passò attraverso l’alpinismo, il canottaggio, il parapendio, il tiro… L’allenamento era diventato una sfida permanente, un’ossessione che drenava le sue angosce.

Ora, aveva chiuso con quegli eccessi, ma la sua vita era ancora punteggiata di prove ricorrenti. Stage di parapendio nelle Cévennes, ascensione annuale delle «Dalles», vicino a Chamonix, prova di triathlon in Valle d’Aosta. A cinquantadue anni aveva una forma fisica da far impallidire qualsiasi adolescente. E ogni giorno guardava, con un filo di vanità, i trofei che scintillavano sul suo comò, un pezzo autentico della scuola di Oppenordt.

Per la verità, c’era un’altra vittoria che la riempiva d’orgoglio; una prodezza intima e segreta. Non una sola volta, in quegli anni di solitudine, era ricorsa ai farmaci. Non un ansiolitico, non un antidepressivo.

Ogni mattina si guardava allo specchio e si ricordava di quella performance. Il gioiello del suo palmarès. Una prova di resistenza a testimonianza del fatto che non aveva esaurito le sue scorte di coraggio e di volontà.

La maggior parte delle persone vive nella speranza di qualcosa di meglio.

Mathilde Wilcrau non temeva più il peggio.

Certo, nel bel mezzo di quel deserto le restava il lavoro. Le consulenze all’ospedale Sainte-Anne, le sedute nel suo studio privato. Lo stile duro e lo stile morbido, come si diceva nelle arti marziali che aveva praticato. La cura psichiatrica e l’ascolto psicanalitico. Ma i due poli, alla lunga, avevano finito per confondersi nella stessa routine.

I suoi orari erano ora segnati da alcuni rituali, intimi e necessari. Una volta alla settimana cenava con i figli, che parlavano solo dei loro successi e delle sconfitte del padre e della madre. Ogni fine settimana, tra due sessioni di allenamento, andava per antiquari. E poi, il martedì sera, partecipava ai seminari della Società di Psicanalisi, dove incrociava volti familiari. Soprattutto volti di ex amanti, che le erano sempre sembrati insulsi e dei quali, talvolta, aveva perfino dimenticato il nome. Ma forse era lei che aveva perso il gusto dell’amore. Come quando ci si brucia la lingua e non si sentono più i gusti dei cibi…

Diede un’occhiata all’orologio; più di cinque minuti alla fine della seduta. L’uomo continuava a parlare. Lei si agitò sulla sua poltrona. Il suo corpo già formicolava delle sensazioni che sarebbero giunte di lì a poco: la secchezza della gola nel pronunciare le parole di conclusione dopo il lungo silenzio, la dolcezza della stilografica sull’agenda nell’annotare l’appuntamento successivo, il fruscio del cuoio al suo alzarsi…

Più tardi, nell’ingresso, il paziente si girò e domandò con voce angosciata:

«Non mi sono spinto troppo in là, dottore?»

Mathilde fece cenno di no, con un sorriso, e aprì la porta. Cos’aveva trascurato di così importante quel giorno? Non era grave, la prossima volta avrebbe fatto meglio. Uscì sul pianerottolo e premette l’interruttore.

La vide e lanciò un grido.

La donna stava acquattata contro il muro, stretta nel suo kimono nero. Mathilde la riconobbe subito: Anna qualcosa. Quella che aveva bisogno di un buon paio d’occhiali. Tremava dalla testa ai piedi, livida. Cos’era quel delirio?

Mathilde sospinse l’uomo nelle scale e si voltò incollerita verso la piccola bruna. Non tollerava che un paziente arrivasse così, senza avvertire, senza appuntamento. Un buon psicanalista doveva sempre fare pulizia davanti alla propria porta.

Era pronta a darle una buona lavata di capo, ma la donna fu più veloce e le mise sotto il naso la propria radiografia facciale:

«Hanno cancellato la mia memoria. Hanno cancellato il mio volto.»

28.

Psicosi paranoica.

La diagnosi era chiara. Anna Heymes sosteneva di esser stata manipolata dal marito e da Eric Ackermann, nonché da uomini delle forze di polizia francesi. Diceva di aver subito, a propria insaputa, un lavaggio del cervello che l’aveva privata di una parte della memoria. Di essere stata sottoposta a interventi di chirurgia estetica che le avevano modificato il viso. Non sapeva né come né perché, ma era stata vittima di un complotto, di un esperimento che aveva mutilato la sua personalità.

Le aveva spiegato tutto questo con un tono affannato, brandendo la sigaretta come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Mathilde l’aveva ascoltata pazientemente, notando a ogni passaggio la sua magrezza: l’anoressia poteva essere sintomo di paranoia.

Anna Heymes aveva poi finito di raccontare una storia che non stava né in cielo né in terra. Aveva scoperto la macchinazione quel mattino stesso, in bagno, notando delle cicatrici in faccia, mentre il marito si preparava a portarla nella clinica di Ackermann.

Era scappata dalla finestra, era stata inseguita da poliziotti in borghese, armati fino ai denti, equipaggiati di ricetrasmittenti. Si era nascosta nella chiesa ortodossa, poi si era fatta radiografare il volto all’ospedale Saint-Antoine per avere una prova tangibile della sua operazione. Infine aveva vagabondato fino a sera, aspettando il buio per rifugiarsi presso la sola persona in cui aveva fiducia: Mathilde Wilcrau. Ecco tutto.

Psicosi paranoica.

All’ospedale Sainte-Anne, Mathilde aveva curato centinaia di casi analoghi. La prima cosa da fare era calmare la crisi. A forza di parole di conforto, era riuscita a iniettare alla giovane donna cinquanta milligrammi di Tranxene intramuscolo.

Ora, Anna Heymes dormiva sul divano. Mathilde stava seduta dietro la scrivania, nella sua posizione abituale.

Avrebbe dovuto telefonare a Laurent Heymes. Avrebbe potuto occuparsi di persona del ricovero di Anna all’ospedale, o avvisare direttamente Eric Ackermann, il medico curante. Nel giro di qualche minuto tutto sarebbe stato sistemato. Un semplice affare di routine.

E allora perché non chiamava? Da più di un’ora stava là, senza alzare il telefono. Osservava i frammenti di mobili che luccicavano nell’oscurità, alla luce della finestra. Erano anni che Mathilde era circondata da quei pezzi d’antiquariato in stile rococò; oggetti acquistati per la maggior parte da suo marito e per i quali si era battuta al momento del divorzio. In un primo momento per rompergli le scatole; poi, se n’era resa conto, per conservare qualcosa di lui. Non si era mai decisa a venderli e ora viveva in un santuario. Un mausoleo pieno di vecchie cose lucenti che le ricordavano i soli anni che avevano contato veramente.

Psicosi paranoica. Un vero caso da manuale.

Salvo il fatto che c’erano quelle cicatrici. Quelle linee che aveva visto sulla fronte, sulle orecchie e sul mento della giovane donna. Aveva persino sentito, sotto la pelle, le viti e gli impianti che sostenevano la struttura ossea del viso. Cucita sulla faccia, Arma Heymes portava una vera e propria maschera. Una crosta di pelle, lavorata, suturata, che dissimulava le sue ossa spezzate e i suoi muscoli atrofizzati.

Era possibile che dicesse semplicemente la verità? Che degli uomini, dei poliziotti per di più, le avessero fatto subire un simile trattamento? Che le avessero fracassato le ossa della faccia? Che le avessero manomesso la memoria?

In quell’affare c’era poi un altro elemento che la turbava: la presenza di Eric Ackermann. Si ricordava di quel tipo, rosso di capelli, dal viso deturpato da macchie e dall’acne. Uno dei suoi numerosi spasimanti all’università, ma soprattutto uno dall’intelligenza particolare, quasi un esaltato.

All’epoca era appassionato dal cervello e dai «viaggi interiori». Aveva seguito gli esperimenti di Timothy Leary sull’LSD, all’università di Harvard, e con quel metodo pretendeva di esplorare regioni sconosciute della coscienza. Consumava ogni sorta di droga psicotropa, analizzando i suoi stessi deliri. Arrivava persino a mettere di nascosto dell’LSD nel caffè degli altri studenti, solo «per vedere». Mathilde sorrise ricordando quei deliri. Tutta un’epoca: il rock psichedelico, le contestazioni, il movimento hippy…

Ackermann prediceva che un giorno le macchine avrebbero permesso di viaggiare all’interno del cervello e di osservare la sua attività in diretta. Il tempo gli aveva dato ragione. Lui stesso era diventato uno dei migliori specialisti in materia, grazie a tecnologie come la camera a positroni e la magnetoencefalografia.

Era possibile che avesse condotto un esperimento sulla giovane donna?

Cercò nella sua agenda i recapiti di una studentessa che, nel 1995, aveva seguito le sue lezioni alla facoltà del Sainte-Anne. Al quarto squillo, qualcuno rispose.

«Valérie Rannan?»

«Sono io.»

«Sono Mathilde Wilcrau.»

«La professoressa Wilcrau?»

Erano passate le undici di sera, ma il tono era attento.

«La mia chiamata le sembrerà senza dubbio strana, soprattutto a quest’ora…»

«Cosa vuole?»

«Volevo solo farle qualche domanda, sa, sulla sua tesi di dottorato. Il suo lavoro verteva sulle manipolazioni mentali e l’isolamento sensoriale?»

«All’epoca non sembrava interessarle molto.»

Mathilde colse in quella risposta un’inflessione aggressiva. Aveva rifiutato di dirigere il lavoro della studentessa. Non credeva in quella ricerca. Per lei, il lavaggio del cervello era piuttosto simile a un fantasma collettivo, a una leggenda metropolitana.

Addolcì la sua voce con un sorriso:

«Lo so. Ero abbastanza scettica. Ma ora ho bisogno di un’informazione per un articolo che sto scrivendo urgentemente.»

«Dica pure.»

Mathilde non sapeva da cosa cominciare. Lei stessa non era sicura di ciò che voleva sapere. Un po’ a caso, buttò lì:

«Nell’abstract della sua tesi, lei scrive che è possibile cancellare la memoria di un soggetto. È… Insomma, è vero?»

«Sono tecniche che si sono sviluppate a partire dagli anni Cinquanta.»

«Erano i sovietici che le praticavano, no?»

«I russi, i cinesi, gli americani, tutti. Era una delle poste in gioco fondamentali della Guerra fredda. Annientare la memoria. Distruggere le convinzioni. Modellare le personalità.»

«Quali metodi impiegavano?»

«Sempre gli stessi: elettrochoc, droghe, isolamento sensoriale.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Quali droghe?» riprese Mathilde.

«Io ho lavorato soprattutto sul programma della CIA: il MK-Ultra. Gli americani usavano dei sedativi. Sodio amytal. Clorpromazina.»

Mathilde conosceva quei nomi; l’artiglieria pesante della psichiatria. Negli ospedali, quei prodotti passavano sotto la voce generica di «camicia di forza chimica». Ma, in realtà, si trattava di veri trituratori, di macchine per macinare la mente.

«E l’isolamento sensoriale?»

Valérie Rannan riprese:

«Gli esperimenti più avanzati si sono svolti in Canada, a partire dal 1954, in una clinica di Montreal. Dapprima gli psichiatri interrogavano le loro pazienti, delle maniache depressive. Le forzavano a confessare delle colpe, dei desideri di cui provavano vergogna. In seguito le rinchiudevano in una stanza completamente buia, di cui non potevano vedere né il pavimento, né il soffitto, né i muri. Poi mettevano loro un casco da giocatore di rugby con delle cuffie nelle quali passavano a ciclo continuo parti scelte delle loro confessioni. Le donne sentivano costantemente le loro stesse parole, i momenti più penosi delle loro confessioni. Le sole pause erano costituite dalle sedute di elettrochoc e dalle cure chimiche del sonno.»

Mathilde diede una breve occhiata ad Anna, addormentata sul divano. Il suo petto si sollevava dolcemente, seguendo il respiro. La studentessa proseguì:

«Il vero condizionamento cominciava quando la paziente non ricordava più né il proprio nome né il proprio passato, quando non aveva più alcuna volontà. Si cambiavano i nastri da ascoltare in cuffia: venivano dati ordini, ingiunzioni ripetute che dovevano modellare la nuova personalità.»

Come ogni psichiatra, anche Mathilde aveva sentito parlare di quelle aberrazioni, ma non riusciva a convincersi della loro esistenza e soprattutto della loro efficacia.

«Quali erano i risultati?» chiese con voce neutra.

«Gli americani sono riusciti solo a ottenere degli zombi. I russi e i cinesi sembrano aver avuto più risultati con metodi più o meno simili. Dopo la guerra di Corea, oltre settemila soldati americani sono tornati a casa totalmente conquistati dai valori comunisti. La loro personalità era stata condizionata.»

Mathilde si massaggiò le spalle; sentiva un freddo sepolcrale risalirle le membra.

«Lei pensa che ci siano ancora oggi dei laboratori che continuano a lavorare in questi campi?»

«Certo.»

«Che genere di laboratori?»

Valérie scoppiò in una risata sarcastica:

«Ma dove vive? Stiamo parlando di centri militari. Tutte le forze armate lavorano sulla manipolazione del cervello.»

«Anche in Francia.»

«In Francia, in Germania, in Giappone, negli Stati Uniti. Ovunque ci siano mezzi tecnologici sufficienti. Ci sono sempre nuovi prodotti. In questo periodo si parla molto di una sostanza chimica, il GHB, che cancella i ricordi delle ultime dodici ore. La chiamano “la droga del violentatore” perché la ragazza drogata non si ricorda di nulla. Sono sicura che attualmente i militari lavorano su questo genere di prodotti. Il cervello rimane l’arma più pericolosa del mondo.»

«La ringrazio, Valérie.»

L’altra parve sorpresa:

«Non vuole delle fonti più precise? Una bibliografia?»

«Grazie. La richiamerò in caso di necessità.»

29.

Mathilde si avvicinò ad Anna che rimaneva assopita. Ispezionò le sue braccia, cercando segni di iniezioni: nessuna traccia. Osservò i suoi capelli, dal momento che l’assunzione ripetuta di sedativi provoca un’infiammazione elettrostatica del cuoio capelluto: nessun segno particolare.

Si rialzò, stupita lei stessa di dare un qualche credito alla storia di quella donna. No, davvero, stava uscendo di testa anche lei… In quel momento, notò di nuovo le cicatrici sulla fronte: tre tratti verticali, minimi, distanti qualche centimetro l’uno dall’altro. Suo malgrado, tastò le tempie, le mandibole: le protesi si mossero sotto la pelle.

Chi aveva fatto tutto quello? Come poteva Anna aver dimenticato una tale operazione?

Durante la sua prima visita aveva parlato dell’istituto dove aveva effettuato i test tomografici. È a Orsay. Un ospedale pieno di soldati. Mathilde aveva annotato il nome da qualche parte tra i suoi appunti.

Sfogliò rapidamente il suo bloc-notes e lo sguardo le cadde su una pagina coperta dai suoi abituali ideogrammi. In un angolo, a destra, aveva scritto «Henri-Becquerel».

Mathilde prese una bottiglia d’acqua nel ripostiglio accanto al suo studio, poi, dopo aver bevuto una lunga sorsata, alzò il ricevitore e compose un numero.

«René? Sono Mathilde. Mathilde Wilcrau.»

Leggera esitazione. L’ora. Gli anni trascorsi. La sorpresa… Alla fine, la voce grave chiese:

«Come va?»

«Ti disturbo?»

«Scherzi? Sentirti è sempre un piacere.»

René Le Garrec era stato il suo maestro e il suo professore quando lavorava all’ospedale di Val-de-Grâce. Psichiatra militare, specializzato in traumi di guerra, aveva fondato le prime unità d’urgenza medico-psicologica destinate alle vittime degli attentati, delle guerre, delle catastrofi naturali. Un pioniere che aveva dimostrato a Mathilde che si potevano portare i gradi senza essere necessariamente un coglione.

«Volevo solo chiederti una cosa. Conosci l’istituto Henri-Becquerel?»

Percepì una breve esitazione.

«Sì, lo conosco. È un ospedale militare.»

«Su che cosa lavorano?»

«All’inizio facevano medicina nucleare.»

«E ora?»

Nuova esitazione. Mathilde non aveva più dubbi: stava mettendo il naso dove non doveva.

«Non so esattamente», disse il medico. «Curano dei traumi.»

«Traumi di guerra?»

«Credo di sì. Dovrei informarmi.»

Mathilde aveva lavorato per tre anni nell’équipe di Le Garrec e lui non aveva mai menzionato quell’istituto. Come per nascondere l’evidenza della sua menzogna, il militare passò all’attacco:

«Perché mi fai queste domande?»

Lei non cercò di sottrarsi:

«Ho una paziente che ha fatto degli esami là.»

«Che genere di esami?»

«Delle prove tomografiche.»

«Non sapevo che avessero un Petscan.»

«È Ackermann che dirige gli esperimenti.»

«Il cartografo?»

Eric Ackermann aveva scritto un saggio sulle tecniche di esplorazione del cervello, raccogliendo i lavori di differenti équipe sparse per il mondo. Il libro era diventato un punto di riferimento. Dalla sua uscita, il neurologo veniva ritenuto uno dei più grandi topografi del cervello umano. Un viaggiatore che esplorava quella regione anatomica come se fosse stato un sesto continente.

Mathilde annuì. Le Garrec rifletté:

«È strano che lavori con noi.»

Il «noi» la divertì. L’esercito era più di una corporazione: era una famiglia.

«Davvero», confermò lei. «Ho conosciuto Ackermann all’università. Un vero ribelle. Obiettore di coscienza, pieno di droga fino agli occhi. Lo vedo male a lavorare con i militari. Credo che fosse persino stato condannato per “fabbricazione illegale di stupefacenti”.»

Le Garrec si lasciò scappare una risata:

«Potrebbe proprio essere questa la ragione. Vuoi che li contatti?»

«No, grazie. Volevo solo sapere se tu avevi sentito parlare di quei lavori, tutto qui.»

«Come si chiama la tua paziente?»

Mathilde capì in quel momento di essersi spinta troppo oltre. Le Garrec avrebbe potuto condurre una propria indagine o, peggio ancora, «riferirne» ai suoi superiori. Un universo di esperimenti segreti, insondabili, condotti in nome di un interesse superiore.

Tentò di allentare la tensione:

«Non preoccuparti. Era solo un dettaglio.»

«Come si chiama?» insistette l’ufficiale.

Mathilde sentì il freddo insinuarsi sempre di più nel suo corpo.

«Grazie», replicò. «Io… Chiamerò direttamente Ackermann.»

«Come vuoi.»

Anche Le Garrec faceva marcia indietro: ritornavano entrambi ai loro ruoli abituali, al loro tono disinvolto. Ma in quelle poche battute avevano attraversato lo stesso campo minato. Riappese, non prima di aver promesso di richiamarlo per una cena insieme.

Dunque, era una certezza: l’istituto Henri-Becquerel nascondeva un segreto. E la presenza di Ackermann in quell’affare rendeva ancora più profondo l’enigma. I «deliri» di Anna Heymes le sembravano sempre meno psicotici…

Mathilde passò nella parte privata del suo appartamento. Camminava in quel suo modo particolare: le spalle alte, le braccia lungo il corpo e soprattutto le anche leggermente di sbieco. Da giovane aveva raffinato a lungo quell’andatura obliqua che le pareva mettesse in evidenza il suo profilo. Ora, quel portamento era diventato una seconda natura.

Una volta nella sua camera, aprì un secretaire lucido e ornato con palme e fasci di giunchi. Meissonnier, 1740. Utilizzando una minuscola chiave che portava sempre con sé, sblocco un cassetto.

Vi trovò un cofanetto di bambù intrecciato tempestato di madreperla. Sul fondo c’era una pelle di camoscio. Prendendola tra il pollice e l’indice, tolse la pelle e disvelò, in un riverbero dorato, l’oggetto proibito.

Una pistola automatica Glock, calibro 9 millimetri.

Un’arma d’una leggerezza estrema, a bloccaggio meccanico, dotata di una sicura Safe-Action. Un tempo quella pistola era stata uno strumento di tiro sportivo, autorizzato da un porto d’armi. Ma ora, caricata con sedici proiettili blindati, non era più oggetto di alcuna autorizzazione. Era diventato un semplice strumento di morte, dimenticato nei dedali dell’amministrazione francese…

Mathilde soppesò l’arma col palmo della mano, pensando alla propria situazione. Una psichiatra divorziata, in astinenza da pene, che nascondeva nel suo secretaire un’arma automatica. Sorridendo mormorò: «Lascio a voi giudicare il valore simbolico…»

Tornata nel suo studio, fece una nuova telefonata, poi si avvicinò al divano. Per ottenere qualche segno di risveglio dovette scuotere Anna con forza.

Alla fine, la giovane donna si ridestò lentamente. Guardò la sua ospite senza sorpresa, con la testa ripiegata su una spalla. Mathilde chiese a voce bassa:

«Hai detto a qualcuno che saresti venuta qui?»

Fece «no» con la testa.

«Nessuno sa che ci conosciamo?»

Stessa risposta. Mathilde pensò che forse l’avevano seguita: era lascia o raddoppia.

Anna si sfregò gli occhi con le mani, accentuando ancora la stranezza del suo sguardo: quella pigrizia delle palpebre, quel languore disteso verso le tempie, al di sopra degli zigomi. Sulla guancia aveva ancora i segni della coperta.

Mathilde pensò alla propria figlia, quella che era partita con tatuato sulla spalla un ideogramma cinese che significava: «la Verità.»

«Vieni», sussurrò. «Ce ne andiamo.»

30.

«Cos’è che mi hanno fatto?»

Le due donne filavano a tutta velocità lungo il boulevard Saint-Germain, in direzione della Senna. La pioggia era cessata, ma aveva lasciato ovunque le sue impronte: striature, paillette, macchie blu nel vibrato della sera.

Mathilde assunse un tono professorale per mascherare meglio le proprie incertezze.

«Un trattamento», rispose seccamente.

«Che trattamento?»

«Senza dubbio un metodo nuovo, che ha permesso di intaccare una parte della tua memoria.»

«È possibile?»

«In linea di massima no. Ma Ackermann deve aver inventato qualcosa di… rivoluzionario. Una tecnica legata alla tomografia e alle localizzazioni cerebrali.»

Continuando a guidare, gettava delle brevi occhiate ad Anna, che stava lì prostrata, lo sguardo fisso, le mani unite infilate in mezzo alle cosce.

Mathilde proseguì:

«Uno choc può provocare un’amnesia parziale. Ho curato un giocatore di football dopo una commozione cerebrale determinatasi durante una partita. Si ricordava di una parte della sua vita, ma assolutamente niente dell’altra. Può darsi che Ackermann abbia trovato il sistema per provocare lo stesso fenomeno con una sostanza chimica, o un’irradiazione o con qualcos’altro. Una sorta di schermo innalzato all’interno della tua memoria.»

«Ma perché mi hanno fatto questo?»

«Secondo me, è nel mestiere di Laurent che bisogna cercare la chiave. Hai visto qualche cosa che non dovevi vedere, o sei a conoscenza di informazioni legate alla sua attività, o forse ti hanno solo usata per un esperimento, come cavia… Tutto è possibile. Siamo dentro a una storia di pazzi.»

In fondo al boulevard Saint-Germain apparve sulla destra l’Istituto del Mondo Arabo. Sulle sue pareti di vetro veleggiavano le nubi.

Mathilde si stupì della sua stessa calma. Stava guidando a cento all’ora, con una pistola automatica nella borsa, quella bambola morbida al fianco e non avvertiva la minima paura. Sentiva piuttosto una curiosità distaccata, mescolata a una certa eccitazione infantile.

«È possibile che la mia memoria ritorni?»

Mathilde conosceva bene quel tono di voce: l’aveva sentito mille volte durante le sue visite all’ospedale Sainte-Anne. Era la voce dell’ossessione. La voce della demenza. Solo che qui, la follia coincideva con la verità.

Scelse le parole con parsimonia:

«Non posso risponderti senza conoscere il metodo che hanno utilizzato. Se si tratta di sostanze chimiche ci può essere forse un antidoto. Se invece si tratta di chirurgia, io sarei più… pessimista.»

La piccola Mercedes costeggiava ora le cancellate nere dello zoo del Jardin des Plantes. Il sonno degli animali e l’immobilità del parco sembravano scavare abissi di silenzio.

Mathilde si accorse che Anna stava piangendo; singhiozzi da ragazzina, tenui, acuti. Dopo una lunga pausa, la sua voce, mescolata alle lacrime, riprese:

«Ma perché mi hanno cambiato faccia?»

«È incomprensibile. Posso ammettere che tu ti sia trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ma non vedo alcuna ragione di trasformare il tuo volto. O forse è una storia ancora più folle: hanno modificato la tua identità.»

«Dunque, prima di tutto questo io sarei stata un’altra persona?»

«L’operazione di chirurgia estetica lo lascerebbe supporre.»

«Io… Io non sono la moglie di Laurent Heymes?»

Mathilde non rispose. Anna insistette:

«Ma… i miei sentimenti? La mia… intimità con lui?»

Mathilde fu presa dalla collera. Nel bel mezzo dell’incubo, Anna pensava ancora alla sua storia d’amore. Non c’era niente da fare: per le donne, in caso di naufragio, c’erano sempre «il desiderio e i sentimenti innanzitutto».

«Tutti i miei ricordi con lui: non posso averli inventati!»

Mathilde alzò le spalle, come per attenuare la gravità di ciò che stava per dire:

«Forse i tuoi ricordi sono stati impiantati. M’hai detto tu stessa che si sbriciolavano, che non sembravano reali… In linea di massima una simile operazione è impossibile, ma la personalità di Ackermann rende possibile qualsiasi supposizione. E i poliziotti devono avergli fornito mezzi illimitati.»

«I poliziotti?»

«Svegliati, Anna. L’istituto Henri-Becquerel. I soldati. Il mestiere di Laurent. A parte la Maison du Chocolat, il tuo universo è fatto solo di poliziotti o di uniformi. Sono loro che ti hanno fatto questo. E sono loro che ti cercano.»

Arrivarono vicino alla Gare d’Austerlitz, in piena ristrutturazione. Una delle facciate rivelava il vuoto all’interno, come una scenografia cinematografica. Le finestre che si aprivano sul cielo sembravano i resti di un bombardamento. A sinistra, sullo sfondo, scorreva la Senna. Fango scuro dalle onde lente…

Dopo un lungo silenzio, Anna riprese:

«In questa storia c’è qualcuno che non è poliziotto.»

«Chi?»

«Il cliente del negozio. Quello che riconoscevo. Con la mia collega lo chiamavamo il “Signor Velluto”. Non so come spiegarti, ma sento che quel tipo è estraneo a tutta la storia. Appartiene al periodo della mia vita che hanno cancellato.»

«E per quale motivo sarebbe sulla tua strada?»

«Forse per caso.»

Mathilde scosse la testa:

«Ascolta. Se c’è una cosa di cui sono sicura è che in questo affare non c’è nessuna casualità. Quel tipo è con gli altri, puoi starne certa. E se il suo viso ti dice qualcosa è perché l’hai scorto assieme a Laurent.»

«Oppure perché gli piacciono i jikola.»

«I cosa?»

«Sono cioccolatini ripieni di pasta di mandorle. Una specialità del negozio.»

Rise sospirando e asciugandosi le lacrime.

«In ogni caso, è logico che non mi abbia riconosciuto, dato che la mia faccia non è più la stessa.»

Poi, con tono disperato, aggiunse:

«Bisognerebbe ritrovarlo. Deve sapere qualcosa sul mio passato!»

Mathilde si astenne da ogni commento. Ora stava risalendo il boulevard de l’Hópital, lungo le arcate d’acciaio del metrò sopraelevato.

«Dove stiamo andando?» gridò Anna.

Mathilde attraversò in diagonale e parcheggiò contromano davanti al campus dell’ospedale La Pitié-Salpêtrière. Spense il motore, tirò il freno a mano, poi si girò verso la piccola Cleopatra:

«Il solo modo di comprendere questa storia è scoprire chi eri “prima”. A giudicare dalle tue cicatrici, l’operazione è di circa sei mesi fa. In un modo o in un altro dobbiamo risalire a un periodo precedente.» Puntò l’indice contro la fronte. «Devi ricordarti di quello che è successo prima di quella data.»

Anna diede uno sguardo all’insegna dell’ospedale universitario:

«Vuoi… vuoi interrogarmi sotto ipnosi?»

«Non abbiamo più tempo per quello.»

«E allora cosa vuoi fare?»

Mathilde risistemò una ciocca nera dietro l’orecchio di Anna:

«Se la tua memoria non può più dirci nulla, se il tuo viso è distrutto, rimane una cosa che può ricordare per te.»

«Cosa?»

«Il tuo corpo.»

31.

L’unità di ricerca biologica della Pitié-Salpêtrière era collocata in un edificio della facoltà di medicina. Un lungo blocco di sei piani che snocciolava centinaia di finestre e che lasciava sbalorditi per il numero di laboratori che si potevano immaginare all’interno.

Quella costruzione, tipicamente anni Sessanta, ricordava a Mathilde le università e gli ospedali dove aveva seguito i suoi studi. Aveva una sensibilità particolare per i luoghi e quel tipo di architettura in lei era associato al sapere, all’autorità, alla conoscenza.

Camminarono in direzione dell’ingresso. I loro passi risuonavano sul marciapiede argentato. Mathilde compose il codice di entrata. All’interno furono accolte dall’oscurità e dal freddo. Attraversarono un atrio immenso e raggiunsero, sulla sinistra, un ascensore in acciaio che sembrava una cassaforte.

In quel montacarichi che puzzava di grasso, Mathilde provò la sensazione di salire dentro la torre del sapere, lungo le sovrastrutture della scienza. Malgrado la sua età e la sua esperienza, si sentiva annientata da quel luogo che per lei era come un tempio. Un territorio sacro.

L’ascensore non la finiva più di salire. Anna accese una sigaretta. I sensi di Mathilde erano così accentuati che le sembrò di percepire il crepitio della carta che bruciava. Aveva vestito la sua protetta con gli abiti che sua figlia aveva dimenticato da lei dopo una veglia di fine anno. Le due donne avevano la stessa taglia e prediligevano anche lo stesso colore: il nero.

Anna indossava un cappotto attillato di velluto, dalle maniche strette e lunghe, un paio di pantaloni in seta a zampa d’elefante e delle scarpe di vernice. Quella tenuta da sera le conferiva l’aria di una ragazzina in lutto.

Al quinto piano finalmente le porte si aprirono. Percorsero un corridoio rivestito di piastrelle rosse e punteggiato di porte dal vetro traslucido. Dal fondo filtrava una luce vaga. Si avvicinarono.

Mathilde aprì la porta senza bussare. Il professor Alain Veynerdi le aspettava, in piedi vicino a un bancone in muratura bianco.

Minuto, sulla sessantina abbondante, aveva il colorito scuro di un indù e la secchezza di un papiro. Sotto il camice immacolato si indovinava un abito ancora più impeccabile. Le sue mani erano curate, le unghie, più chiare della pelle, sembravano piccoli bottoni di madreperla posti sulle falangi. I suoi capelli grigi e impomatati erano pettinati con attenzione all’indietro. Sembrava una figurina appena uscita dai fumetti di Tintin. Il suo papillon brillava come la chiave di un meccanismo segreto, pronto per essere ricaricato.

Mathilde fece le presentazioni e riprese a grandi linee la menzogna che aveva già propinato per telefono al biologo. Anna aveva avuto un incidente d’auto, otto mesi prima. La macchina si era carbonizzata, i documenti bruciati, la sua memoria cancellata. Le sue ferite al volto avevano richiesto un complesso intervento chirurgico. Il mistero della sua identità era dunque totale.

La storia era scarsamente credibile, ma Veynerdi non si muoveva in un universo razionale. Per lui contava solo la sfida scientifica rappresentata dal caso di Anna.

Indicò un tavolo in inox:

«Cominciamo subito.»

«Aspettate», protestò Anna. «Non credete che sia ora di dirmi di che cosa si tratta?»

Mathilde si rivolse a Veynerdi:

«Professore, glielo spieghi.»

Lui si voltò verso la giovane donna:

«Temo che si debba passare per un breve corso di anatomia…»

«Meno arie come me.»

Lui sorrise brevemente, acido come una scorza di limone.

«Gli elementi che compongono il corpo umano si rigenerano seguendo dei cicli specifici. I globuli rossi si riproducono in centoventi giorni. La pelle muta integralmente in cinque giorni. Le pareti intestinali si rinnovano in sole quarantotto ore. Tuttavia, accanto a questa perpetua ricostruzione, esistono, nel sistema immunitario, delle cellule che conservano per moltissimo tempo le tracce dei contatti con gli elementi esterni. Si chiamano cellule con memoria.»

Aveva una voce da fumatore, grave e rauca, che contrastava con il suo aspetto curato.

«In presenza di malattie, queste cellule creano delle molecole di difesa o di riconoscimento che recano il marchio dell’aggressione. Quando si rinnovano, esse trasmettono questo messaggio di protezione. Una sorta di ricordo biologico. Il principio del vaccino poggia interamente su questo sistema. Basta mettere una sola volta il corpo umano in contatto con l’agente patogeno per fare in modo che le cellule producano per anni delle molecole protettrici. Ciò che è valido per una malattia è valido per ogni altro elemento esterno. Noi conserviamo sempre l’impronta della nostra vita passata, degli innumerevoli contatti con il mondo. È possibile studiare queste impronte, la loro origine, la loro data.»

Si inchinò in una piccola riverenza:

«Questo campo, ancora poco conosciuto, è la mia specialità.»

Mathilde si ricordava del suo primo incontro con Veynerdi, durante un seminario sulla memoria, a Maiorca, nel 1997. La maggior parte dei relatori era costituita da neurologi, psichiatri e psicanalisti. Avevano parlato di sinapsi, di reti neurali, di subconscio, e tutti avevano sottolineato la complessità della memoria. Poi, il quarto giorno, era intervenuto un biologo con il farfallino e gli orizzonti erano cambiati. Da dietro il tavolo, Alain Veynerdi non parlava più della memoria del cervello, ma di quella del corpo.

Lo studioso aveva presentato una ricerca sui profumi. L’impregnazione costante della pelle con una sostanza alcolica finiva per «incidere» alcune cellule, formando una traccia indelebile, anche dopo che il soggetto aveva smesso di portare il profumo. Aveva citato il caso di una donna che aveva utilizzato per dieci anni Chanel n. 5 e la cui pelle ne portava ancora, dopo quattro anni, la firma chimica.

Quel giorno, chi aveva assistito alla conferenza ne era uscito incantato. All’improvviso, la memoria si poteva tradurre fisicamente e poteva essere sottoposta ad analisi chimiche, al microscopio… All’improvviso, quell’entità astratta che continuava a sfuggire agli strumenti della tecnologia moderna, si rivelava materiale, tangibile, osservabile. Una scienza umana diventava una scienza esatta.

Il volto di Anna era illuminato da una lampada bassa. Malgrado la fatica, i suoi occhi brillavano in maniera singolare. Cominciava a capire:

«Nel mio caso, cosa può trovare?»

«Abbia fiducia in me», replicò il biologo. «Il suo corpo, nel segreto delle cellule, ha conservato i segni del suo passato. Scoveremo le testimonianze dell’ambiente fisico nel quale viveva prima dell’incidente. L’aria che respirava. Le tracce delle sue abitudini alimentari. La firma del profumo che portava. In un modo o nell’altro, ne sono sicuro, lei è ancora quella di un tempo.»

32.

Veynerdi azionò diverse macchine. La luce dei led e degli schermi dei computer rivelò le vere dimensioni del laboratorio: una grande stanza il cui perimetro era composto da ampie vetrate e da muri tappezzati di sughero e ingombri di strumenti d’analisi. Il bancone e la tavola inox riflettevano tutte le sorgenti luminose e le trasformavano in filamenti verdi, gialli e rossi.

Il biologo indicò una porta sulla sinistra:

«Si spogli in quella cabina, per cortesia.»

Anna vi entrò. Veynerdi si infilò dei guanti di lattice, dispose dei sacchetti sterili sulle piastrelle del bancone, poi si piazzò dietro una batteria di provette allineate. Sembrava un musicista che si apprestasse a suonare uno xilofono di vetro.

Anna riapparve, indossando solo un paio di culottes nere. Il suo corpo era di una magrezza malata. Pareva che le ossa dovessero lacerarle la pelle al minimo gesto.

«Si distenda, per cortesia.»

Anna si issò sulla tavola. Quando faceva uno sforzo sembrava più robusta. I muscoli le riempivano la pelle, scatenando un’impressione di forza, di potenza. Quella donna nascondeva un mistero, un’energia compressa. Mathilde pensò al guscio d’un uovo che rivelasse in trasparenza il profilo di un tirannosauro.

Veynerdi prese un ago e una siringa da una confezione sterile:

«Cominceremo con un prelievo di sangue.»

Piantò l’ago nel braccio di Anna, senza suscitare la minima reazione. Aggrottando la fronte chiese a Mathilde:

«Le ha dato dei calmanti.»

«Sì, del Traxene. Intramuscolo. Stasera era agitata e…»

«Quanto?»

«Cinquanta milligrammi.»

Il biologo fece una smorfia. Quell’iniezione doveva ostacolare le sue analisi. Tolse l’ago e mise una medicazione nell’incavo del gomito, poi si spostò dietro al bancone.

Mathilde seguiva ogni suo gesto. Miscelò il sangue raccolto con una soluzione ipotonica per distruggere i globuli rossi e ottenere un concentrato di globuli bianchi. Mise il campione in un cilindro nero che assomigliava a un piccolo scaldavivande: la centrifuga. Ruotando a mille giri al secondo, l’apparecchio separava i globuli bianchi dagli ultimi residui. Qualche secondo dopo, Veynerdi ne trasse un deposito traslucido.

«Ecco le sue cellule immunitarie», commentò rivolgendosi ad Anna. «Sono loro che contengono le tracce che mi interessano. Andiamo a guardarle più da vicino…»

Diluì il concentrato con del siero fisiologico, poi lo versò in un citometro di flusso; un blocco grigio nel quale ciascun globulo veniva isolato e sottoposto a un raggio laser. Mathilde conosceva la procedura: la macchina reperiva le molecole di difesa e le identificava, grazie a un catalogo di impronte creato da Veynerdi.

«Niente di significativo», disse dopo alcuni minuti. «Si notano solo contatti con malattie e agenti patogeni ordinari. Batteri, virus… In quantità inferiore alla media. Lei conduceva una vita molto sana, signora. Non vedo altre tracce di agenti esogeni. Nessun profumo, nessuna impregnazione particolare. Un vero terreno neutro.»

Anna rimaneva immobile sulla tavola, le braccia intorno alle ginocchia. La sua pelle diafana rifletteva i colori delle spie luminose come un frammento di ghiaccio, quasi azzurro a forza di essere bianco. Veynerdi si avvicinò con un ago molto più lungo:

«Adesso effettueremo una biopsia.»

Anna si irrigidì.

«Non abbia paura. Non le farò male. Andrò semplicemente a prelevare un po’ di linfa nel ganglio situato sotto l’ascella. Alzi il braccio destro per favore.»

Anna portò il gomito sopra la testa. Lui insinuò l’ago, mormorando con la sua voce da fumatore:

«Questi gangli sono in contatto con la regione polmonare. Se lei ha respirato delle polveri particolari, un gas, un polline o qualche altra cosa significativa, questi globuli bianchi se ne ricorderanno.»

Ancora intontita dall’ansiolitico, Anna non fece il minimo movimento. Il biologo ritornò dietro al bancone e procedette a nuove operazioni.

Passarono diversi minuti prima che dicesse:

«Vedo della nicotina e del catrame. Nella sua vita precedente lei fumava.»

Mathilde intervenne:

«Fuma anche nella vita attuale.»

Il biologo accettò l’osservazione annuendo con la testa, poi aggiunse:

«Per il resto, nessuna traccia significativa di un ambiente, di una atmosfera.»

Prese un piccolo flacone e si avvicinò di nuovo ad Anna:

«I suoi globuli non hanno conservato i ricordi che speravo, signora. Passiamo a un altro tipo di analisi. Ci sono regioni del nostro corpo che non conservano l’impronta, ma direttamente le particelle degli agenti esterni. Frugheremo in questi “microstok”.»

Brandì il flacone.

«Devo chiederle di fare pipì in questo recipiente.»

Anna si alzò lentamente e raggiunse la cabina. Un’autentica sonnambula. Mathilde riprese la parola:

«Non capisco cosa lei speri di trovare nell’urina. Stiamo cercando tracce che risalgono a circa un anno e…»

Lo studioso la fermò sorridendo:

«L’urina è prodotta dai reni, che agiscono come dei filtri. In questi filtri si accumulano dei cristalli. Io posso mostrare le tracce di quelle concrezioni. Hanno parecchi anni e possono informarci, ad esempio, sulle abitudini alimentari del soggetto.»

Anna tornò nella stanza con in mano il flacone. Sembrava sempre più assente, sempre più estranea al lavoro di cui era l’oggetto.

Veynerdi utilizzò di nuovo la centrifuga per separare gli elementi, poi andò a un’altra macchina, più imponente: uno spettrometro di massa. Depositò il liquido dorato all’interno della vaschetta, poi lanciò il processo di analisi.

Sullo schermo di un computer si visualizzarono delle onde verdastre. Lo scienziato schioccò la lingua con disappunto:

«Niente. Ecco una ragazza che non si lascia decifrare facilmente…»

Cambiò atteggiamento. Raddoppiò la concentrazione, moltiplicò i prelievi, le analisi, si tuffò letteralmente nel corpo di Anna.

Mathilde seguiva ogni suo movimento e ascoltava i commenti.

Dapprima raccolse delle particelle di dentina, tessuto vivo situato all’interno dei denti che accumulava alcuni prodotti drenati dal sangue, come gli antibiotici. Poi si interessò alla melatonina prodotta dal cervello. Secondo lui, il tasso di quell’ormone, secreto soprattutto la notte, poteva rivelare le vecchie abitudini «sonno/veglia» di Anna.

In seguito prelevò con precauzione alcune gocce del liquido contenuto nell’occhio, dove potevano accumularsi residui infinitesimali prodotti dal cibo. Infine, tagliò dei capelli, sapendo che essi conservavano la memoria delle sostanza esogene, fino al punto da secernerle a loro volta. Il fenomeno era noto: un cadavere avvelenato con l’arsenico continua a essudare quella sostanza anche dopo la morte e lo fa attraverso la radice dei capelli.

Dopo tre ore di ricerche, lo scienziato batté in ritirata: non aveva scoperto niente, o quasi. Il ritratto che poteva fare dell’Anna di prima era insignificante. Una donna che fumava e che, per il resto, conduceva una vita molto sana. Una donna che doveva soffrire di insonnia, a giudicare dal tasso irregolare di melatonina; una donna che, fin dall’infanzia, aveva consumato dell’olio d’oliva, come dimostravano le tracce di acidi grassi trovate al fondo dell’occhio. L’ultimo punto era che si tingeva i capelli di nero; al naturale lei era invece castana, un castano che virava sul rosso.

Alain Veynerdi si tolse i guanti e si lavò le mani nel lavandino del bancone. La sua fronte era imperlata da minuscole goccioline di sudore. Sembrava deluso e spossato.

Si avvicinò ad Anna, che ora dormiva di nuovo. Le girò intorno, come se volesse cercare ancora, seguendo una traccia, un segno, un sospetto che gli permettesse di decifrare quel corpo diafano.

All’improvviso di chinò sulle sue mani. Prese le dita e le osservò con attenzione. La svegliò con uno scossone. Appena aprì gli occhi, lui, con un’eccitazione trattenuta a malapena, le chiese:

«Su una delle sue unghie c’è una macchia scura: sa da dove viene?»

Anna lanciò intorno a sé un’occhiata smarrita. Poi si guardò la mano e inarcò le sopracciglia:

«Non so», borbottò. «Nicotina, no?»

Mathilde si avvicinò e scorse anche lei una minuscola puntina d’ocra in cima all’unghia.

«Con quale frequenza si taglia le unghie?» chiese il biologo.

«Non so. Forse… Più o meno ogni tre settimane.»

«Ha la sensazione che crescano in fretta?»

Anna sbadigliò senza rispondere. Veynerdi ritornò verso il bancone, mormorando: «Come ho fatto a non pensarci.» Prese delle forbicine, una scatola trasparente, poi si avvicinò ad Anna e tagliò il frammento che sembrava così interessante.

«Se crescono normalmente», commentò a voce bassa, «queste estremità cornee risalgono al periodo che precede il suo incidente. Questa macchia appartiene alla sua vita passata.»

Riaccese le macchine. Mentre i motori ronzavano di nuovo, diluì il campione in una provetta contenente del solvente.

«Abbiamo avuto fortuna», riprese. «Ancora qualche giorno e lei si sarebbe tagliata le unghie, perdendo così questa preziosa testimonianza.»

Piazzò la provetta nella centrifuga e avviò il meccanismo.

«Se è nicotina», arrischiò Mathilde, «non vedo cosa possa…»

Veynerdi mise il liquido nello spettrometro:

«Forse posso trovare la marca di sigarette che questa signorina fumava prima dell’incidente.»

Mathilde non capiva il suo entusiasmo; un simile dettaglio non avrebbe significato molto. Sullo schermo della macchina, Veynerdi osservava i diagrammi luminescenti. I minuti passavano.

«Professore», si spazientì Mathilde, «non capisco. Non c’è davvero da essere così contenti. Io…»

«Straordinario.»

Illuminato dal monitor, il viso del biologo assunse un’espressione di meraviglia:

«Non è nicotina.»

Mathilde si avvicinò allo spettrometro. Anna si sedette sulla tavola metallica. Veynerdi girò la sedia verso le due donne.

«È henné.»

Il silenzio si aprì come un mare.

Il ricercatore strappò il nastro di carta millimetrata che la macchina aveva appena finito di stampare, poi digitò dei dati sulla tastiera di un computer. Lo schermo mostrò una lista di componenti chimici.

«Secondo il mio catalogo delle sostanze, questa macchia corrisponde a una composizione vegetale specifica. Un henné molto raro, coltivato nelle pianure dell’Anatolia.»

Alain Veynerdi posò il suo sguardo trionfante su Anna. Sembrava che avesse sempre vissuto per quell’istante:

«Signora, nella sua vita precedente lei era turca.»

SEI

33.

La bocca impastata di incubi.

Tutta la notte, Paul Nerteaux aveva sognato un mostro di pietra, un titano malefico che percorreva in lungo e in largo il decimo arrondissement; un Moloch che terrorizzava il quartiere turco ed esigeva vittime sacrificali.

Nel suo sogno, il mostro portava una maschera mezza umana e mezza animale, d’origine greca e persiana al tempo stesso. Le sue labbra minerali erano al calor bianco, il suo sesso armato di lame. Ogni suo passo provocava un tremito che sollevava la polvere e fessurava gli edifici.

Aveva finito per svegliarsi alle tre del mattino, coperto di sudore. Tremando, nel suo piccolo appartamento di tre stanze, si era fatto un caffè e si era immerso nei nuovi documenti archeologici che i ragazzi della Brigata anticrimine gli avevano portato la sera precedente.

Fino all’alba, aveva sfogliato i cataloghi dei musei, i depliant turistici, i libri scientifici, osservando nei dettagli ogni scultura, comparandola con le foto delle autopsie e, inconsciamente, con la maschera del suo sogno. Sarcofagi di Antalia. Affreschi della Cilicia. Bassorilievi di Karatepe. Busti di Efeso…

Aveva attraversato le età, le civiltà, senza ottenere il minimo risultato.

Paul Nerteaux entrò nella brasserie Les Trois Obus, alla Porte de Saint-Cloud. Affrontò gli odori del caffè e del tabacco, sforzandosi di sigillare i propri sensi e di reprimere la nausea.

Il suo umore da cane bastonato non era dovuto solo ai suoi incubi. Era mercoledì e, come quasi ogni mercoledì, aveva dovuto chiamare Reyna di primo mattino per annunciarle che non avrebbe potuto occuparsi di Céline.

Vide Jean-Louis Schiffer, in piedi all’estremità del banco. Rasato di fresco, avvolto in un impermeabile Burberry’s, l’uomo aveva ripreso le forze. Inzuppava con sussiego un croissant nel suo caffè macchiato.

Vedendo Paul fece un gran sorriso:

«Dormito bene?»

«Splendidamente.»

Schiffer notò che sembrava uno straccio, ma si astenne da ogni commento.

«Caffè?»

Paul accettò. Immediatamente comparve sul banco un concentrato nero orlato di marrone. Il Cifra prese la tazza e indicò un tavolo vuoto, vicino alla vetrina.

«Vieni a sederti. Non sembri molto in te.»

Una volta seduto, gli porse il cestino dei croissant. Paul rifiutò. All’idea di inghiottire qualcosa, sentì dei morsi acidi risalirgli il corpo fino al petto. Ma era costretto a riconoscere che Schiffer, quel mattino, giocava il ruolo «dell’amico». A sua volta domandò:

«E lei, ha dormito bene?»

«Come un sasso.»

Paul rivide le dita tranciate, la taglierina insanguinata. Dopo il massacro, aveva riaccompagnato il Cifra fino alla Porte de Saint-Cloud, dove aveva un appartamento in rue Gudin. Da allora c’era una questione che lo rodeva:

«Se ha quell’appartamento», disse indicando di là dai vetri la piazza grigia, «che cosa ci fa a Longères?»

«Lo spirito gregario. Il gusto della sbirraglia. Da solo mi rompevo troppo.»

La spiegazione suonava un po’ falsa. Paul si ricordò che alla casa di riposo Schiffer era registrato sotto falso nome, il nome da ragazza di sua madre. La dritta gliel’aveva data un tipo dell’Ispettorato generale dei servizi. Un enigma in più. Si nascondeva, ma da chi?

«Tira fuori le schede», ordinò il Cifra.

Paul aprì il suo dossier e posò i documenti sul tavolo. Non erano gli originali. Era passato dall’ufficio, molto presto, e li aveva fotocopiati. Armato del suo dizionario di turco, aveva studiato ogni scheda. Era arrivato a capire il patronimico delle vittime e le principali informazioni che le concernevano.

La prima si chiamava Zeynep Tütengil. Lavorava in un laboratorio vicino all’hammam La Porte Bleu che apparteneva a un certo Talat Gurdilek. Ventisette anni. Sposata con Burba Tütengil. Senza figli. Domiciliata al numero 34 di rue de la Fidélité. Originaria di un villaggio dal nome impronunciabile, vicino alla città di Gaziantep, nel sud-est della Turchia. Abitava a Parigi dal settembre 2001.

La seconda si chiamava Ruya Berkes. Ventisette anni. Celibe. Lavorava a domicilio, in rue d’Enghien 58, per conto di Gozar Halman, un nome che Paul aveva visto spesso nei verbali: un negriero specializzato in pelli e pellicce. Ruya Berkes veniva da una grande città, Adana, nella Turchia del Sud. Viveva a Parigi soltanto da otto mesi.

La terza era Roukiyé Tanyol. Trent’anni. Nubile. Operaia nella fabbrica di confezioni Sürelik, con sede nel Passage de l’Industrie. Sbarcata a Parigi nell’agosto precedente. Nessun parente nella capitale. Viveva in incognito in un convitto femminile al 22 di rue des Petites-Ecuries. Come la prima vittima era nata nella provincia di Gaziantep.

Quelle informazioni non consentivano alcun controllo incrociato. Nessun punto in comune per stabilire, ad esempio, come l’assassino scovasse o avvicinasse le sue vittime. Ma soprattutto, quelle informazioni non davano alcun spessore, alcuna presenza a quelle donne. I nomi turchi non facevano altro che rafforzare il loro carattere indecifrabile. Per convincersi della loro reale esistenza, Paul aveva dovuto tornare ai ritratti fatti con la polaroid, lineamenti larghi, dai contorni lisci, che lasciavano indovinare corpi dalle rotondità generose. Aveva letto da qualche parte che i canoni di bellezza turchi corrispondevano a quelle forme, a quelle facce da luna piena…

Schiffer, con gli occhiali sul naso, aveva ripreso a studiare i dati. Paul, ancora in preda alla nausea, esitava a bere il suo caffè. Gli montavano alla testa il brusio delle voci e i tintinnii di vetro e di metallo. A rintronarlo erano soprattutto le parole degli ubriachi attaccati al banco. Non poteva sopportare quei tipi che morivano in piedi bevendo bicchiere dopo bicchiere…

Quante volte era andato a cercare i suoi genitori, insieme o separatamente, all’ombra di quei bar? Quante volte li aveva tirati su dalla schifezza di segatura e mozziconi, mentre lui stesso avrebbe voluto vomitar loro addosso?

Il Cifra si tolse gli occhiali e concluse:

«Cominciamo dal terzo laboratorio. La vittima più recente. È il modo migliore per raccogliere i ricordi più freschi. Dopo passeremo alle case, ai vicini, agli itinerari. Le avrà pur beccate da qualche parte, e nessuno è invisibile.»

Paul mandò giù il caffè in un colpo. Sentendo montare la bile, disse:

«Schiffer, glielo ripeto: al minimo casino…»

«Non rompere. Ho capito. Ma stamattina cambiamo metodo.»

Agitò le dita come se tirasse i fili di un burattino:

«Lavoriamo in maniera morbida.»

Filarono lungo la strada a grande scorrimento, il lampeggiatore in azione. Il grigio della Senna, sommato al granito del cielo e degli argini, tesseva un universo liscio e atono. A Paul piaceva quel tempo che faceva schiantare di noia e di tristezza. Un ostacolo in più da superare con la sua ferrea volontà di sbirro.

Per strada, ascoltò i messaggi sulla segreteria del suo telefonino. Il giudice Bomarzo voleva delle notizie. La voce era tesa. Concedeva a Paul ancora due giorni prima di mettere sottosopra la Brigata criminale e scegliere nuovi investigatori. Naubrel e Matkowska continuavano le loro ricerche. Avevano passato la giornata precedente dai «tubisti», quelli che scavano nelle profondità del suolo parigino, per poi sottoporsi alla decompressione nelle camere iperbariche. Avevano interrogato senza risultati i responsabili di otto società differenti. Si erano anche recati presso il principale costruttore di quelle camere iperbariche, ad Arcueil. Secondo il proprietario, l’idea di una cabina di pressurizzazione azionata da qualcuno privo di un’idonea preparazione era un’autentica assurdità. Significava che l’assassino aveva conoscenze di quel tipo o, al contrario, che erano su una strada sbagliata? Quelli della polizia giudiziaria proseguivano le loro indagini in altri campi dell’industria.

Arrivato in place du Châtelet, Paul scorse una macchina di pattuglia che si immetteva sul boulevard de Sébastopol. La raggiunse all’altezza di rue des Lombards e fece segno all’autista di fermarsi.

«Solo un minuto», disse a Schiffer.

Prese nel portaoggetti i Kinder Sorpresa e i Twix che aveva comprato un’ora prima. Nella fretta, il sacchetto di carta si ruppe rovesciando il contenuto. Paul raccolse le merendine e uscì dalla macchina, rosso di vergogna.

I poliziotti in uniforme si erano fermati e aspettavano vicino alla loro auto, con i pollici infilati nella cintura. Paul spiegò loro in fretta ciò che dovevano fare, poi girò i tacchi. Quando si sedette dietro al volante, il Cifra aveva in mano un Twix:

«Mercoledì, il giorno dei bambini.»

Paul partì, senza rispondere.

«Anch’io utilizzavo gli agenti di pattuglia come corrieri. Per portare regali alle mie amichette…»

«Alle sue “impiegate” vorrà dire.»

«È così, ragazzo. È così…»

Schiffer scartò la barra di caramello e se la ficcò in bocca:

«Quanti figli hai?»

«Ho una figlia.»

«Quanti anni?»

«Sette.»

«Come si chiama?»

«Céline.»

«Piuttosto snob per essere la figlia di uno sbirro.»

Paul era d’accordo. Non aveva mai capito perché Reyna, marxista alla ricerca dell’assoluto, aveva dato alla loro figlia quel nome chic.

Schiffer masticava con grandi colpi di mandibole:

«E la madre?»

«Siamo divorziati.»

Paul superò con il semaforo rosso la rue Réaumur.

Il suo fallimento coniugale era l’ultimo degli argomenti che voleva affrontare con Schiffer. Scorse con sollievo l’insegna rossa e gialla del McDonald’s che segnava l’inizio del boulevard de Strasbourg.

Accelerò ancora, senza dare all’altro il tempo di fargli una nuova domanda.

Stavano entrando nel loro territorio di caccia.

34.

Alle dieci del mattino, rue du Faubourg-Saint-Denis sembrava un campo di battaglia nel pieno del fuoco. La carreggiata e i marciapiedi si confondevano in un solo, frenetico torrente di passanti che si infilavano in un labirinto di veicoli bloccati e ruggenti. Il tutto sotto un cielo senza colore, teso come un telo gonfio d’acqua e pronto a lacerarsi da un momento all’altro.

Paul preferì parcheggiare all’angolo di rue des Petites-Ecuries e seguì Schiffer che già si stava aprendo un varco tra gli scatoloni trasportati sulle schiene, i fasci di abiti e i carichi oscillanti sui carretti. Presero il passage de l’Industrie e si ritrovarono sotto una volta di pietra che dava su un vicolo.

La fabbrica Sürelik era un blocco di mattoni sostenuto da un’ossatura in ferro rivettato. Sulla facciata si vedevano archi e fregi in terracotta lavorata. L’edificio, rosso vivo, traspirava una sorta d’entusiasmo, una fede gioiosa nell’avvenire industriale, come se tra quelle mura fosse appena stato inventato il motore a scoppio.

A qualche metro dalla porta, Paul prese brutalmente Schiffer per i risvolti dell’impermeabile e lo spinse sotto un’arcata, iniziando una perquisizione in piena regola, in cerca di un’arma.

Il vecchio poliziotto espresse il proprio disappunto:

«Perdi tempo, ragazzo mio. Ho detto che lavoriamo in maniera morbida.»

Paul si rialzò, senza una parola, e si diresse verso la fabbrica.

Spinsero insieme la porta di ferro ed entrarono in un grande spazio quadrato, dai muri bianchi e dal pavimento in cemento verniciato. Ogni cosa era pulita, scintillante. Le strutture di metallo verde pallido, punteggiate di rivetti bombati, rafforzavano l’impressione di solidità dell’insieme. Grandi finestre distribuivano raggi di luce obliqui, mentre le passerelle lungo i muri ricordavano i ponti di un transatlantico.

Paul si era atteso un tugurio e invece scopriva un loft da artista. Una quarantina di operai, tutti uomini, lavoravano a una certa distanza gli uni dagli altri, dietro le loro macchine da cucire, circondati da stoffe e scatole aperte. Con i loro camici, sembravano agenti del reparto trasmissioni che inviassero piani criptati durante la guerra; un radioregistratore diffondeva musica turca, mentre su un fornello crepitava una caffettiera.

Schiffer batté il tallone a terra:

«Quello che immagini è la sotto. Nelle cantine. Centinaia di operai, stretti come sardine. Tutti clandestini. Questa è solo la vetrina.»

Guidò Paul tra i banchi, passando tra i lavoranti che si sforzavano di non guardare.

«Non sono carini? Operai modello, ragazzo mio. Obbedienti. Disciplinati.»

«Perché quel tono ironico?»

«I turchi non sono dei lavoratori, sono degli approfittatori. Non sono obbedienti, sono indifferenti. Non sono disciplinati, seguono le loro regole. Dei cazzo di vampiri, hai capito? Predatori che non si prendono neanche la briga di imparare la nostra lingua… Perché dovrebbero farlo? Sono qui per guadagnare il massimo e poi battersela il più in fretta possibile. Il loro motto è: “Prendere tutto, lasciare niente”.»

Schiffer afferrò il braccio di Paul:

«È una lebbra, figlio mio.»

Paul lo respinse violentemente:

«Non mi chiami mai più così.»

L’altro alzò le mani come se Paul lo avesse minacciato con un’arma; il suo era uno sguardo di scherno. Paul ebbe voglia di strappargli dal volto quell’espressione, ma alle loro spalle risuonò una voce:

«Cosa posso fare per voi, signori?»

Un uomo tarchiato, con un camice blu impeccabile, avanzava verso di loro; sotto i baffi un sorriso untuoso.

«Signor ispettore!» disse con un tono sorpreso. «Quanto tempo non abbiamo più il piacere di vederla?»

Schiffer scoppiò a ridere. La musica era cessata. L’attività delle macchine si era fermata. Attorno a loro regnava un silenzio di morte.

«Non mi chiami più Schiffer? Non mi dai più del tu?»

In risposta alle sue parole, il capo officina rivolse uno sguardo diffidente a Paul.

«Paul Nerteaux», riprese il poliziotto. «Capitano alla Prima divisione di polizia giudiziaria. Il mio diretto superiore, ma prima di tutto un amico.»

Con aria beffarda, diede una pacca sulla schiena di Paul.

«Parlare davanti a lui è come parlare davanti a me.»

Poi avanzò verso il turco e gli circondò le spalle con il braccio. Il balletto era regolato fin nei minimi movimenti:

«Ahmid Zoltanoï», disse rivolto a Paul, «il miglior capo officina della Piccola Turchia. Rigido come il suo camice, ma un brav’uomo quando serve. Qui lo chiamano Tanoï.»

Il turco si piegò in un inchino. Da sotto le sue sopracciglia di carbone sembrava giudicare il nuovo venuto. Amico o nemico? Tornò a Schiffer, con il suo tono viscido:

«Mi avevano detto che era andato in pensione.»

«Causa di forza maggiore. Quando c’è un’urgenza chi chiamano? Lo zio Schiffer.»

«Quale urgenza, signor ispettore?»

Il Cifra spazzò dei pezzi di stoffa da un tavolo di taglio e vi posò la foto di Roukiyé Tanyol.

L’uomo si piegò, con le mani in tasca e i pollici fuori, come cani di un revolver. Pareva tenersi in equilibrio sulle pieghe inamidate del suo camice.

«Mai vista.»

Schiffer girò la polaroid. Sul bordo bianco si poteva leggere distintamente il nome della vittima e l’indirizzo dei laboratori Sürelik scritti con il pennarello indelebile.

«Marius ci è già passato. E ci passerete tutti, credimi.»

Il turco si scompose. Prese la foto controvoglia, mise gli occhiali e si concentrò:

«In effetti, mi dice qualcosa.»

«Ti dice parecchio. È qui dall’agosto 2001. Giusto?»

Tanoï posò la fotografia con precauzione.

«Sì.»

«Che lavoro faceva?»

«Operaia delle confezioni.»

«L’avevi sistemata in basso?»

Il capo officina inarcò le sopracciglia e si aggiustò gli occhiali. Dietro, gli operai avevano ripreso il lavoro. Sembravano aver capito che i poliziotti non erano lì per loro e che solo il capoccia aveva dei problemi.

«In basso?» ripeté.

«Nelle cantine», si irritò Schiffer. «Svegliati Tanoï. Altrimenti mi arrabbio veramente.»

Il turco oscillò leggermente sui talloni. Malgrado la sua età, somigliava ancora a uno scolaretto contrito:

«Sì, lavorava nelle officine inferiori.»

«Di dov’era originaria, Gaziantep?»

«Non esattamente Gaziantep, un villaggio vicino. Parlava un dialetto del Sud.»

«Il suo passaporto chi ce l’ha?»

«Niente passaporto.»

Schiffer sospirò e si rassegnò a quella nuova menzogna:

«Parlami della sua sparizione.»

«Non ho niente da dire. La ragazza ha lasciato il laboratorio giovedì mattina. Non è mai arrivata a casa.»

«Giovedì mattina?»

«Sì, alle sei. Lavorava di notte.»

I due poliziotti si lanciarono un’occhiata. Era vero che la donna stava rientrando dal lavoro quando era stata sorpresa, ma il tutto si era svolto all’alba. Avevano visto giusto, fatta eccezione per gli orari invertiti.

«Mi hai detto che non è mai arrivata a casa», riprese il Cifra. «Chi te l’ha detto?»

«Il suo fidanzato.»

«Non rientravano insieme?»

«Lui lavorava di giorno.»

«Dove possiamo trovarlo?»

«Da nessuna parte. È tornato al paese.»

Le risposte di Tanoï erano dure come le cuciture del suo camice.

«Non ha cercato di recuperare il corpo?»

«Non aveva documenti. Non parlava francese. È scappato con il suo dolore. Un destino da turco. Un destino d’esilio.»

«Niente sviolinate. Dove sono gli altri colleghi?»

«Quali colleghi?»

«Quelli che rientravano con lei. Voglio interrogarli.»

«Impossibile. Tutti partiti. Svaniti.»

«Perché?»

«Hanno paura.»

«Dell’assassino?»

«Di voi. Della polizia. Nessuno vuole trovarsi immischiato in quest’affare.»

Il Cifra si piantò di fronte al turco, le mani unite dietro la schiena.

«Io credo che tu sappia molte più cose di quanto tu non dica, amico mio. Allora scendiamo insieme nelle tue cantine. Forse questo ti ispirerà.»

L’altro non si muoveva. Le macchine da cucire crepitavano. La musica serpeggiava sotto l’ossatura d’acciaio. Esitò ancora qualche istante, poi si diresse verso una scala di ferro collocata sotto una delle passerelle.

I poliziotti lo seguirono. In fondo agli scalini sprofondarono in un corridoio oscuro, superarono una porta di metallo e poi presero un nuovo corridoio dal pavimento in terra battuta. Per continuare dovettero abbassarsi. Il loro percorso era segnato da lampadine nude, sospese tra le tubature del soffitto. Ai lati si aprivano due file di porte di assi numerate con il gesso. Dal fondo di quelle viscere saliva un brontolio.

A una svolta la loro guida si fermò e prese una barra di ferro nascosta dietro un vecchio divano con le molle in vista. Avanzando con passo prudente, si mise a colpire i tubi del soffitto ottenendone risonanze gravi.

All’improvviso apparvero i nemici invisibili. Topi; accalcati sopra un arco di ghisa, appostati sopra le loro teste. Paul si ricordò delle parole del medico legale: La seconda era diverso. Penso che abbia utilizzato qualcosa di… vivo.

Il capo officina bestemmiò in turco e diede un colpo con tutte le sue forze nella loro direzione; i roditori sparirono. Ora, il corridoio vibrava per tutta la sua lunghezza. Ogni porta tremava sui propri cardini. Infine Tanoï si fermò davanti al numero 34.

Con una spallata aprì la porta. Si presentò un’officina in miniatura. Una trentina di donne stavano sedute davanti a macchine da cucire che giravano a pieno regime, come impazzite per la loro stessa velocità. Chine sotto le lampade fluorescenti, le operaie spingevano pezzi di tessuto sotto gli aghi, senza prestare la minima attenzione ai visitatori.

La stanza non era più grande di venti metri quadri e non aveva alcuna ventilazione. Odore di tintura, particelle di stoffa, puzza di solventi: l’aria era così spessa che si poteva appena respirare. Alcune donne portavano il foulard sulla bocca. Altre tenevano sulle ginocchia dei neonati avvolti negli scialli. C’erano anche bambini che lavoravano, a gruppi, vicino a cumuli di tessuti, piegavano le pezze e le mettevano nelle scatole. Paul soffocava. Era come quei personaggi da film che si svegliano in piena notte e scoprono che il loro incubo è reale.

Schiffer assunse un tono da severo tutore della legge:

«Ecco il vero volto delle imprese Sürelik! Dalle dodici alle quindici ore di lavoro, migliaia di pezzi al giorno per ogni operaia. I tre turni in versione turca, con due squadre soltanto, quando non è una sola. E, bada ragazzo mio, in ogni cantina troviamo la stessa disposizione.»

Sembrava gioire della crudeltà dello spettacolo.

«Ma attenzione: tutto questo avviene con la benedizione dello Stato. Tutti chiudono gli occhi. L’industria dell’abbigliamento è fondato sullo schiavismo.»

Il turco si sforzava di assumere un’aria pentita, ma in fondo ai suoi occhi brillava una luce fiera. Paul osservò le operaie. Qualche sguardo si alzò, di rimando, ma le mani continuavano il loro traffico, come se niente e nessuno potesse ostacolare quel movimento.

A quei visi opachi sovrappose i lunghi tagli e le croste di sangue delle vittime. Come faceva l’assassino ad accedere a quelle donne sotterranee? Come aveva scoperto la loro somiglianza?

Gridando a squarciagola, il Cifra riprese l’interrogatorio:

«Quando le squadre cambiano è il momento in cui i corrieri caricano il lavoro fatto, giusto?»

«Esatto.»

«Se ci aggiungiamo le operaie che escono dalla fabbrica, dobbiamo ammettere che c’è parecchia gente in strada alle sei del mattino. Nessuno ha visto niente?»

«Glielo giuro.»

Il poliziotto si appoggiò al muro di pietre squadrate:

«Non giurare. Il tuo dio è meno clemente del mio. Hai parlato con i principali delle altre vittime?»

«No.»

«Menti, ma non è grave. Cosa sai a proposito di questa serie di omicidi?»

«Dicono che le donne sono state torturate e sfigurate. Non so altro.»

«Nessun poliziotto è venuto a farti visita?»

«No.»

«E le vostre milizie cosa fanno?»

Paul trasalì… Non aveva mai sentito parlare di quella roba. Il quartiere aveva dunque una propria polizia. Tanoï gridava per coprire il rumore delle macchine:

«Non lo so. Non hanno trovato niente.»

Schiffer indicò le operaie:

«E loro che cosa ne pensano?»

«Non osano più uscire. Hanno paura. Allah non può permettere tutto questo. Il quartiere è maledetto! Azraël, l’angelo della morte, è qui!»

Il Cifra sorrise, diede una pacca amichevole all’uomo e indicò la porta:

«Alla buon’ora. Finalmente un po’ di buona vecchia umanità…»

Uscirono nel corridoio. Paul li seguì, poi richiuse gli assi sull’inferno delle macchine. Non aveva ancora terminato quel gesto che avvertì un rantolo soffocato. Schiffer stava sbattendo Tanoï contro le tubature.

«Chi uccide le ragazze?»

«Io… io non lo so.»

«Chi state coprendo, pezzi di merda?»

Paul non intervenne. Immaginava che Schiffer non sarebbe andato più in là. Solo un ultimo sfogo di rabbia, un’ultima impennata. Tanoï, con gli occhi fuori dalla testa, non rispondeva.

Il Cifra lasciò la presa, concedendogli il tempo di riprendere fiato, mentre la luce cruda della lampadina oscillava come un pendolo ossessivo; poi mormorò:

«Adesso tu chiudi a chiave la bocca su tutto questo, Tanoï. Non una parola sulla nostra visita, a nessuno.»

Il capo officina alzò gli occhi verso Schiffer. Aveva già ritrovato la sua espressione servile.

«La mia bocca è sempre chiusa a chiave, signor ispettore.»

35.

La seconda vittima, Ruya Berkes, non lavorava in un laboratorio, ma a domicilio, in rue d’Enghien al numero 58.

Cuciva a mano fodere per pellicce che poi consegnava alla pellicceria di Gozar Halman, al 77 di rue Sainte-Cécile, una via perpendicolare all’asse del Faubourg Poissonière. Avrebbero potuto cominciare dall’appartamento dell’operaia, ma Schiffer preferiva interrogare prima il principale, che sembrava essere una sua vecchia conoscenza.

Paul guidava in silenzio, gustandosi il ritorno all’aria aperta. Ma già guardava con apprensione ai nuovi scenari. Man mano che si allontanavano dalla rue du Faubourg-Saint-Denis e dalla rue du Faubourg-Saint-Martin, vedeva le vetrine che si scurivano, appesantite da roba di color bruno morbidamente piegata. In ogni negozio, gli scampoli e i tessuti lasciavano il posto alle pellicce.

Girò a destra, in rue Sainte-Cécile.

Schiffer lo fermò: erano arrivati al 77.

Questa volta, Paul si aspettava una cloaca piena di pelli appena strappate, gabbie incrostate di sangue, odore di carne morta. E invece gli si presentò un piccolo cortile, chiaro e fiorito, il cui acciottolato sembrava appena incerato dall’umidità del mattino. I due poliziotti lo attraversarono per raggiungere, al fondo, un edificio punteggiato di finestre e di inferriate, il solo la cui facciata evocasse un sito industriale.

«Ti avviso», fece Schiffer varcando la soglia, «è folle per Tansu Ciller.»

«Chi è? Un calciatore?»

Schiffer ridacchiò. Salirono una grande scala di legno grigio.

«Tansu Ciller è l’ex primo ministro turco. Studi ad Harvard, diplomazia internazionale, Ministero degli affari esteri. Poi la direzione del governo. Un modello di successo.»

Paul assunse un tono disincantato:

«Il percorso classico di un uomo politico.»

«Solo che Tansu Ciller è una donna.»

Superarono il secondo piano. Ogni pianerottolo era vasto e scuro come una cappella. Paul osservò:

«Non deve essere comune, in Turchia, che un uomo prenda una donna come modello.»

Il Cifra scoppiò a ridere:

«Se tu non esistessi, bisognerebbe inventarti. Anche Gozar è una donna! È una teyze. Una “zia”, una madrina, in senso lato. Veglia sui suoi fratelli, sui suoi nipoti, sui suoi cugini e su tutti gli operai che lavorano per lei. Si occupa di regolarizzare la loro situazione. Manda della gente a sistemare i loro tuguri. Si incarica della spedizione dei loro pacchi e dei loro soldi. All’occorrenza, unge gli sbirri perché li lascino in pace. È una negriera, ma una negriera benevola.»

Terzo piano. Il deposito della Halman consisteva in una grande sala, con i parquet verniciati di grigio e disseminati di pezzi di polistirolo e di carta velina spiegazzata. Al centro della stanza, degli assi appoggiati su cavalletti fungevano da bancone. Sopra c’erano scatole, cesti in plastica, sacchi di tessuto rosa a quadretti con il marchio TATI, custodie per abiti…

Alcuni uomini estraevano dagli imballi mantelli, giacconi, stole. Li palpavano, li lisciavano, verificavano le fodere, poi mettevano i capi su grucce sospese. Di fronte a loro, delle donne con il foulard stretto intorno al capo, la gonna lunga e il viso di corteccia scura sembravano attendere il loro verdetto con aria esausta.

Lo spazio era dominato da un soppalco vetrato e velato da una tenda bianca: un punto ideale per osservare quel piccolo mondo. Senza esitare e senza salutare nessuno, Schiffer afferrò la ringhiera e diede l’assalto ai ripidi scalini che conducevano alla piattaforma.

Giunti in alto, dovettero affrontare un muro di piante verdi, prima di entrare in uno stanzone mansardato, grande quasi quanto la sala inferiore. Le finestre, incorniciate dalle tende, si aprivano su un paesaggio di ardesia e di zinco: i tetti di Parigi.

Il luogo era arredato in modo così pesante che, malgrado le sue dimensioni, ricordava un boudoir dei primi del Novecento. Paul avanzò e colse i primi dettagli. Vide le tovagliette ricamate che ricoprivano il computer, lo stereo e la televisione e che mettevano in risalto le cornici con le foto, i soprammobili in vetro e le grandi bambole annegate nei merletti. I muri erano ricoperti di poster turistici che mostravano le bellezze di Istanbul. Appesi nei vani delle porte, come fossero tapparelle, c’erano dei kilim dai colori vivaci. Le bandiere turche in carta, appese un po’ ovunque, facevano il paio con le cartoline fissate a grappolo con le puntine sulle colonne in legno che sostenevano il tetto.

La parte destra della stanza era occupata da una scrivania in quercia massiccia, mentre nella zona centrale un divano di velluto verde troneggiava su un grande tappeto. Nessuno.

Schiffer si diresse verso un vano nascosto da una tenda di perle e tubò:

«Mia principessa, sono io, Schiffer. Non stare a rifarti il trucco.»

Gli rispose il silenzio. Paul fece qualche passo e osservò da vicino alcune fotografie. In ognuna di esse, una rossa dai capelli corti, piuttosto graziosa, sorrideva al fianco di illustri presidenti: Bill Clinton, Boris Eltsin, François Mitterrand. Senza dubbio era la famosa Tansu Ciller…

Un ticchettio lo fece voltare. La tenda di perle si aprì davanti alla donna delle fotografie, in carne e ossa, solo in versione più massiccia.

Gozar Halman aveva accentuato la propria rassomiglianza con il primo ministro per avere ancora più autorità. I suoi vestiti, tunica e pantaloni neri, appena ravvivati da qualche gioiello, erano un inno alla sobrietà. I suoi gesti e il suo contegno tradivano un distacco altezzoso da donna d’affari.

Il suo aspetto sembrava tracciare intorno a lei una linea invisibile. Il messaggio era chiaro: evitare ogni tentativo di seduzione.

Tuttavia, il viso indicava un atteggiamento diverso, quasi opposto. Era una grande faccia bianca, da luna piena, incorniciata da capelli vermigli, dove gli occhi, truccati con ombretto arancione e brillantini, scintillavano violentemente.

«Schiffer», disse lei con voce rauca, «io so perché sei qui.»

«Finalmente una persona perspicace!»

Gozar sistemò qualche foglio sulla sua scrivania, con noncuranza:

«Immaginavo che prima o poi ti avrebbero tirato fuori dalla naftalina.»

Non aveva un vero accento, solo una leggera oscillazione nel tono che veniva a scuotere il finale di ogni frase e che lei sembrava coltivare con civetteria.

Schiffer fece le presentazioni, abbandonando per l’occasione il suo tono beffardo. Paul sentì che lui e la donna combattevano ad armi pari.

«Che cosa sai?» Chiese lui senza preamboli.

«Niente. Meno di niente.»

Lei si chinò ancora per qualche istante sulla scrivania, poi andò a sedersi sul divano, accavallando piano le gambe.

«Il quartiere ha paura», disse. «Si dicono tante cose.»

«Sarebbe?»

«Voci. Ipotesi contraddittorie. Ho persino sentito dire che l’assassino sarebbe uno dei vostri.»

«Dei nostri?»

«Sì, un poliziotto.»

Schiffer spazzò via quell’idea con il dorso della mano.

«Parlami di Ruya Berkes.»

Gozar accarezzò il centrino che copriva i bracciolo del divano:

«Consegnava i suoi pezzi ogni due giorni. È venuta il 6 gennaio 2002, non l’8. È tutto quello che posso dire.»

Schiffer tirò fuori dalla tasca un quadernetto e sembrò leggervi qualcosa. Paul capì che lo faceva solo per darsi un contegno. La teyze gli stava davvero tenendo testa.

«Ruya è la seconda vittima dell’assassino», continuò lui con gli occhi bassi sulle pagine. «Il corpo che abbiamo ritrovato il 10 gennaio.»

«Che Dio accolga la sua anima», rispose, continuando a giocherellare con le dita intorno al pizzo. «Ma questo non mi riguarda.»

«Vi riguarda tutti. E io ho bisogno di informazioni.»

Il tono saliva, ma Paul sentiva una strana complicità in quel dialogo. Una complicità tra il fuoco e il ghiaccio, che non aveva niente a che vedere con l’inchiesta.

«Non ho niente da dire», ripeté. «Su questa storia il quartiere si chiuderà. Come sulle altre.»

Le parole, la voce, il tono indussero Paul a osservare meglio la donna. Col suo sguardo nero sotto l’oro rosso, fissava il Cifra. Gli fece pensare a delle lamelle di cioccolato ripiene di scorza d’arancia. Ma soprattutto, in quel momento comprese una realtà implicita: Gozar Halman era la donna turca che Schiffer era stato sul punto di sposare. Che cos’era successo? Perché la storia era finita male?

La commerciante di pellicce accese una sigaretta. Lunghe boccate di stanchezza azzurrognola.

«Che cosa vuoi sapere?»

«Quand’è che consegnava i suoi capi?»

«A fine giornata.»

«Da sola?»

«Da sola. Sempre.»

«Sai che strada faceva?»

«Rue du Faubourg-Poissonnière. A quell’ora è piena di gente, se è quello che vuoi dire.»

Schiffer passò ai dati personali:

«Quand’è che Ruya Berkes è arrivata a Parigi?»

«Nel maggio 2001. Non hai parlato con Marius?»

Lui ignorò la domanda.

«Una campagnola, ma aveva conosciuto anche la città.»

«Adana?»

«Prima Gaziantep, poi Adana.»

Schiffer si sporse e sembrò interessarsi a quel dettaglio:

«Era originaria di Gaziantep?»

«Credo di sì.»

Lui prese a camminare per la stanza, sfiorando i soprammobili:

«Alfabetizzata?»

«No, ma moderna. Una che non era schiava delle tradizioni.»

«Girava per Parigi? Usciva? Andava nei locali?»

«Ho detto moderna, non scapestrata. Era musulmana. Tu sai quanto me che cosa significhi questo. In ogni caso, non parlava una parola di francese.»

«Come si vestiva?»

«All’occidentale.»

Poi la sua voce salì d’un tono:

«Schiffer: che cosa stai cercando?»

«Cerco di capire come l’assassino può averla sorpresa. Una ragazza che non esce di casa, che non parla a nessuno, che non ha distrazioni non è facile da avvicinare.»

L’interrogatorio girava a vuoto. Le stesse domande di un’ora prima, le stesse, prevedibili risposte. Paul si avvicinò alla vetrata, dalla parte del laboratorio, e scostò la tenda. I turchi continuavano i loro traffici; il denaro cambiava di mano passando sopra le pellicce acciambellate come animali assopiti.

Alle sue spalle, la voce di Schiffer continuava:

«Qual era lo stato d’animo di Ruya?»

«Come le altre. “Il mio corpo è qui, la mia testa laggiù.” Pensava solo a rientrare al paese, sposarsi, avere dei bambini. Qui viveva in transito. La quotidianità di una formica, piegata sulla sua macchina da cucire, che divideva un appartamento di due stanze con altre due donne.»

«Voglio incontrare le sue coinquiline…»

Paul non ascoltava più. Osservava l’andirivieni al piano inferiore. Quelle manovre apparivano come una sorta di baratto scandito come un rito ancestrale. Le parole del Cifra tornarono a penetrare la sua mente:

«E tu che cosa pensi a proposito dell’assassino?»

Ci fu un silenzio. Abbastanza prolungato per far sì che Paul si girasse di nuovo verso la stanza.

Gozar si era alzata e scrutava i tetti attraverso i vetri.

Senza muoversi, mormorò:

«Penso che sia più… politico.»

Schiffer le si avvicinò:

«Che cosa vuoi dire?»

Lei cambiò tono:

«Dico che l’affare potrebbe andare al di là degli interessi di un solo assassino.»

«Gozar, santo cielo, spiegati!»

«Non ho niente da spiegare. Il quartiere ha paura e io non faccio eccezione. Non troverai nessuno che ti aiuti.»

Paul rabbrividì. Il Moloch del suo incubo, che teneva in pugno il quartiere, gli parve più reale che mai. Un dio di pietra che veniva a cercare le sue prede nelle cantine e nei tuguri della Piccola Turchia.

La teyze concluse:

«L’incontro è terminato, Schiffer.»

Il poliziotto rimise in tasca il suo quadernetto e indietreggiò, senza insistere. Paul gettò un’ultima occhiata alle negoziazioni che si svolgevano in basso.

Fu in quel momento che lo vide.

Un corriere, baffi neri e giubbotto blu Adidas, era appena entrato nello stanzone, tra le braccia una grossa scatola. Il suo sguardo si alzò meccanicamente verso il soppalco. Vedendo Paul, la sua espressione divenne di pietra.

Posò il suo carico, disse qualche parola a un operaio che stava vicino agli appendiabiti, poi indietreggiò fino alla porta. La sua ultima occhiata verso la piattaforma confermò l’intuizione di Paul: la paura.

I due poliziotti raggiunsero la sala in basso. Schiffer si lasciò sfuggire:

«Quanto rompe, quella cretina, con le sue fini allusioni. Turchi del cazzo. Tutti contorti, fuori di testa, tutti…»

Paul accelerò il passo e arrivò sulla soglia. Gettò lo sguardo verso la tromba delle scale: la mano scura filava lungo la ringhiera. L’uomo scappava più in fretta che poteva.

«Venga. Presto», mormorò a Schiffer, che stava arrivando sul pianerottolo.

36.

Paul corse fino alla macchina. Con un solo movimento si sedette al volante e girò la chiave d’avviamento. Schiffer ebbe giusto il tempo di salire a bordo.

«Che cosa succede?» borbottò.

Paul partì senza rispondere. La sagoma aveva appena svoltato a destra, al fondo della rue Sainte-Cécile. Accelerò e girò in rue du Faubourg-Poissonnière, affrontando di nuovo il traffico e la coda.

L’uomo camminava con passo veloce, si infilava tra i corrieri, i passanti, in mezzo al fumo dei venditori di crèpe e di pita, gettando rapide occhiate dietro di sé. Stava risalendo la via in direzione del boulevard Bonne-Nouvelle. Con aria contrariata, Schiffer fece:

«Mi spieghi, sì o no?»

Innestando la terza, Paul mormorò:

«Un uomo, da Gozar. Quando ci ha visto è scappato.»

«E allora?»

«Ha sentito puzza di sbirro. Ha paura di essere interrogato. Può darsi che sappia qualcosa del nostro affare.»

Il «cliente» voltò a sinistra, in rue d’Enghien. Colpo di fortuna: camminava nella direzione delle vetture.

«O forse gli manca solo il permesso di soggiorno», lo sfotté Schiffer.

«Da Gozar? C’è forse qualcuno che ce l’ha? Quello lì ha una ragione speciale per avere paura. Me lo sento.»

Il Cifra appoggiò le ginocchia alla plancia e, con voce sgradevole, chiese:

«Dov’è?»

«Marciapiede di sinistra. Il giubbotto Adidas.»

Il turco continuava a risalire la via. Paul si sforzava di procedere con discrezione. Un semaforo rosso. La macchia blu cangiante si allontanò. Paul immaginava lo sguardo di Schiffer che lo seguiva come il suo. Il silenzio nell’abitacolo assunse uno spessore particolare: si erano capiti, ora condividevano la stessa calma, la stessa attenzione, concentrati sullo stesso obiettivo.

Verde.

Paul partì, lavorando con calma sui pedali, sentendo un calore intenso corrergli su per le gambe. Accelerò, appena in tempo per vedere il turco infilarsi a destra, in rue du Faubourg-Saint-Denis, sempre nel senso della circolazione.

Paul seguì il movimento, ma la strada era bloccata. Chiusa, asfissiata dalla moltitudine che lanciava nell’aria grigiastra il suo rumore di urla e di clacson.

Protese il collo e strizzò gli occhi. Al di sopra delle carrozzerie e delle teste, si sovrapponevano le insegne: ingrosso, ingrosso e minuto, vendita al dettaglio… Il giubbotto Adidas era sparito. Guardò più in là. Le facciate delle case si fondevano nella nebbia dei gas di scarico. In lontananza, l’arco della porta Saint-Denis galleggiava nella luce colma di fumo.

«Non lo vedo più.»

Schiffer aprì il finestrino. L’abitacolo fu invaso dal baccano. Si sporse di fuori con tutte le spalle.

«Più in su», avvertì, «a destra.»

Il traffico si mosse. Il punto blu si staccò da un gruppo di pedoni. Nuova fermata. Paul si convinse che l’ingorgo faceva il loro gioco: procedere a passo d’uomo per seguire qualcuno che cammina…

Il turco scomparve di nuovo, poi si materializzò tra due camioncini che stavano consegnando merce, proprio davanti al caffè Le Sully. Non la smetteva di guardarsi alle spalle. Li aveva notati?

«Se la sta facendo addosso», commentò Paul. «Sa qualche cosa.»

«Non vuol dire nulla. C’è una possibilità su mille che…»

«Mi dia fiducia. Almeno una volta.»

Paul mise la prima. La sua nuca bruciava, il collo del suo parka era umido di sudore. Prese velocità e si ritrovò all’altezza del turco, proprio alla fine di rue du Faubourg-Saint-Denis.

All’improvviso, ai piedi dell’arco, l’uomo attraversò la strada e passò sotto il loro naso senza scorgerli. Accelerando l’andatura, prese il boulevard Saint-Denis.

«Cazzo!» imprecò Paul. «È un senso unico.»

Schiffer si drizzò:

«Parcheggia. Continuiamo a… Merda. Prende il metrò!»

Il fuggitivo aveva attraversato il viale, scomparendo nell’entrata del metrò Strasbourg-Saint-Denis. Paul sterzò bruscamente e fermò la macchina davanti al bar L’Arcade, nella curva che girava intorno all’arco di trionfo.

Schiffer era già fuori.

Paul abbassò l’aletta parasole, sulla quale era impressa la scritta POLICE, poi uscì dalla Golf.

L’impermeabile del Cifra sventolava tra le auto come un orifiamma. Paul avvertì una vampata di febbre. In un attimo captò ogni cosa: il fremere dell’aria, la rapidità di Schiffer, la determinazione che ora li univa.

Zigzagò a sua volta in mezzo al traffico del viale e raggiunse il suo compagno nel momento in cui questi stava scendendo le scale.

I due poliziotti si gettarono nell’atrio della stazione. Sotto la volta arancione si agitava una folla accalcata. Paul fece una panoramica: a sinistra, le cabine vetrate della società della metropolitana, a destra, i pannelli con le linee del metrò, davanti i cancelli automatici.

Il turco non si vedeva.

Schiffer si immerse nella massa dei viaggiatori, facendo uno slalom in direzione delle porte pneumatiche. Paul si alzò in punta di piedi e intravide il loro uomo che girava a destra.

«Linea quattro!» urlò al compagno, invisibile nella calca.

In fondo al corridoio di ceramica risuonava già il sospiro di apertura del metrò. Un’onda di agitazione attraversò la folla. Cosa stava succedendo? Chi era che gridava? Chi spingeva? Tutt’a un tratto, il baccano fu lacerato da un ruggito.

«Le porte, cazzo!»

Era la voce di Schiffer.

Paul si precipitò verso gli sportelli informazioni, alla sua sinistra. Vicinissimo al vetro, ansimò:

«Aprite i cancelli!»

L’addetto della metropolitana si irrigidì:

«Cosa?»

Lontano, la sirena segnalava la partenza del convoglio. Paul stampò il tesserino della polizia sul vetro:

«Porco dio: vuoi aprire le porte sì o no?»

Le barriere si aprirono.

A forza di gomitate e spintoni, Paul riuscì a passare dall’altra parte. Schiffer correva sotto il soffitto rosso che ora gli sembrava palpitare come una gola.

Lo raggiunse sulle scale. Il poliziotto scendeva gli scalini à quattro a quattro. Non erano neanche a metà strada, quando udirono il rumore della chiusura delle porte.

Schiffer urlò senza fermarsi. Stava per raggiungere il binario, quando Paul lo prese per il collo, obbligandolo a fermarsi. Il Cifra restò muto per lo stupore. Le luci delle vetture sfilarono riflettendosi sulle sue rughe. Aveva l’aria di un pazzo.

«Non deve vederci!» gli urlò in faccia Paul.

Schiffer lo fisso di nuovo, sbalordito, incapace di riprendere fiato. Poi, mentre il sibilo del metrò si allontanava, Paul, con tono più sommesso, gli disse:

«Abbiamo quaranta secondi per raggiungere la prossima stazione. Lo becchiamo a Château-d’Eau.»

Si capirono con uno sguardo. Risalirono le scale, attraversarono correndo il viale e si gettarono nella loro auto.

Venti secondi se n’erano andati.

Paul girò intorno all’arco di trionfo, sterzò a destra e, contemporaneamente, abbassò il finestrino. Attaccò il lampeggiatore magnetico sul tetto e, azionando la sirena, si gettò in boulevard de Strasbourg.

Percorsero i cinquecento metri in sette secondi. Giunti all’incrocio con rue du Château-d’Eau, Schiffer fece per uscire. Paul lo trattenne nuovamente:

«Lo aspettiamo qui sopra. Ci sono solo due uscite. Lato pari e lato dispari del viale.»

«Chi ti dice che scenderà qui?»

«Lasciamo passare venti secondi. Se è ancora nel metrò, avremo venti secondi per bloccarlo alla Gare de l’Est.»

«E se non scende alla prossima?»

«Non uscirà dal quartiere turco: sia che voglia nascondersi, sia che voglia avvertire qualcuno. Tutto si svolgerà qui, nel nostro territorio. Dobbiamo seguirlo fino a destinazione. Dobbiamo vedere dove va.»

Il Cifra guardò l’orologio.

«Vai!»

Paul fece un ultimo giro di pista, destra-sinistra, pari-dispari, poi ripartì veloce. Poteva sentire nelle proprie vene le vibrazioni del metrò che correva sotto le sue ruote.

Diciassette secondi dopo si fermava davanti ai cancelli della Gare de l’Est e spegneva la sirena e il lampeggiatore. Di nuovo Schiffer cercò di scendere. Di nuovo Paul ordinò:

«Restiamo qui. Abbiamo sott’occhio quasi tutte le uscite. Quella centrale, sullo spiazzo. A destra quella di rue du Faubourg-Saint-Martin. A sinistra quella di rue du 8-Mai-1945. Tre possibilità su cinque.»

«Le altre due dove sono?»

«Ai lati della stazione. In rue du Faubourg-Saint-Martin e in rue d’Alsace.»

«E se sceglie una di quelle due?»

«Sono le più lontane dalla linea. Gli ci vorrà più di un minuto per raggiungerle. Aspettiamo qui trenta secondi. Se non compare, io la lascio in rue d’Alsace e mi prendo Saint-Martin. Restiamo in contatto con i cellulari. Non può scapparci.»

Schiffer rimase in silenzio. La sua fronte era solcata da rughe di riflessione:

«Come fai a conoscere tutte le uscite?»

Sul volto febbricitante di Paul si aprì un sorriso:

«Le ho imparate a memoria. Per gli inseguimenti.»

Il viso di scaglie grigie gli restituì il sorriso:

«Se il tipo non compare, ti spacco la testa.»

Dieci, dodici, quindici secondi.

I più lunghi della sua vita. Paul squadrava le sagome che, battute dal vento, spuntavano da ogni ingresso del metrò: nessun giubbotto Adidas.

Venti, ventidue secondi.

Nei suoi occhi, il flusso dei passeggeri si spezzava, sobbalzando al ritmo delle sue pulsazioni cardiache.

Trenta secondi.

Innestò la prima e disse:

«La lascio in rue d’Alsace.»

Sgommò, prese rue du 8-Mai a sinistra e sbarcò il Cifra all’inizio di rue d’Alsace, senza lasciargli il tempo di dire nulla. Fece inversione poi, a tavoletta, raggiunse rue du Faubourg-Saint-Martin.

Se n’erano andati altri dieci secondi.

A quell’altezza, rue du Faubourg-Saint-Martin era ben diversa da come si presentava nella sua parte inferiore, lato turco: qui offriva marciapiedi deserti, magazzini ed edifici amministrativi. Una via d’uscita ideale.

Paul osservò la lancetta dei secondi: ogni scatto gli scorticava la pelle. La folla anonima si spezzettava, si perdeva in quella strada troppo vasta. Gettò un’occhiata verso l’interno della stazione. Scorse la grande vetrata che gli fece pensare a una serra botanica piena di germi velenosi e di piante carnivore.

Dieci secondi.

Le possibilità di veder comparire il giubbotto Adidas si riducevano quasi a zero. Pensò ai convogli del metrò che correvano sottoterra, alle partenze delle linee principali e dei treni diretti alle periferie che si disperdevano all’aperto; pensò alle migliaia di volti e di menti che si accalcavano sotto le arcate grigie.

Non poteva essersi sbagliato: era semplicemente impossibile.

Trenta secondi.

Sempre niente.

Il suo cellulare squillò. Sentì la voce gutturale di Schiffer:

«Razza di coglione.»

Paul lo raggiunse ai piedi della scala che taglia a metà la rue d’Alsace per elevarsi al di sopra dell’immensa fossa dei binari. Il poliziotto saltò nella macchina ripetendo:

«Coglione.»

«Tentiamo alla Gare du Nord. Non si sa mai…»

«Fottiti. È andato. L’abbiamo perso.»

Paul accelerò e si diresse comunque verso nord.

«Non avrei mai dovuto darti retta», riprese Schiffer. «Tu non hai nessuna esperienza. Non sai niente di niente. Tu…»

«È là.»

A destra, in fondo a rue de Deux-Gares, Paul aveva visto il giubbotto Adidas. L’uomo camminava spedito lungo la parte superiore di rue d’Alsace, proprio sopra le rotaie.

«Quell’inculato», fece il Cifra. «Ha usato la scala esterna delle ferrovie. È uscito attraverso i binari.»

Tese l’indice:

«Vai diritto. Nessuna sirena. Nessuna accelerazione. Lo becchiamo alla prossima via. Con discrezione.»

Paul scalò in seconda e si mantenne a una velocità di venti chilometri all’ora, con le mani che tremavano. Stavano attraversando rue La Fayette quando il turco spuntò un centinaio di metri avanti a loro. Si guardò intorno e restò pietrificato.

«Merda!» gridò Paul ricordandosi all’improvviso di non aver tolto il lampeggiatore dal tetto.

L’uomo si mise a correre come se l’asfalto avesse preso fuoco. Paul schiacciò l’acceleratore. Il ponte monumentale che si apriva davanti a loro gli apparve come un simbolo. Un gigante di pietra che apriva le sue crociere nere sul cielo in tempesta.

Accelerò ancora e superò il turco a metà della passerella. Schiffer saltò giù che la macchina si muoveva ancora. Paul frenò e nel retrovisore vide Schiffer che placcava il turco come fosse stato un mediano di mischia.

Bestemmiò, spense il motore, uscì dalla Golf. Il poliziotto aveva già afferrato il fuggiasco per i capelli e lo stava sbattendo contro la balaustra del ponte. Paul rivide in un flash la mano di Marius sotto la taglierina. Mai più una cosa del genere.

Estrasse la sua Glock dalla fondina e corse verso i due uomini:

«Fermo!»

Schiffer stava ora spingendo la sua vittima al di sopra della balaustra. La sua forza e la sua rapidità erano stupefacenti. L’uomo col giubbotto batteva mollemente le gambe, bloccato tra due sbarre di metallo.

Paul era certo che lo avrebbe buttato giù. Il fuggitivo urlava, mentre il suo torturatore gli riversava addosso un miscuglio di colpi e di frasi in turco.

Stava per raggiungerli, quando si bloccò.

«BOZKURT! BOZKURT! BOZKURT!»

Le grida del turco risuonavano nell’aria umida. Dapprima pensò a una richiesta di soccorso, ma poi vide Schiffer lasciare la sua vittima e spingerla su un lato del marciapiede, come se avesse ottenuto ciò che voleva.

Il tempo che Paul prendesse le manette e l’uomo se l’era già filata zoppicando.

«Lascialo andare.»

«Co-cosa?»

Schiffer si lasciò cadere sull’asfalto. Si raggomitolò sul fianco sinistro, fece una smorfia, poi si tirò su in ginocchio.

«Ha detto quello che aveva da dire», buttò lì, tra due colpi di tosse.

«Cosa? Cos’è che ha detto?»

Si rialzò in piedi. Era senza fiato e si premeva l’inguine. Il suo viso era violaceo e punteggiato di bianco.

«Abita nella stessa casa di Ruya. Ha visto che prelevavano la ragazza sulle scale. L’8 gennaio, alle 20.»

«Visto chi?»

«I Bozkurt.»

Paul non capiva niente. Si concentrò sullo sguardo blu cromato di Schiffer e pensò all’altro suo soprannome: il Fer.

«I Lupi grigi.»

«I che?»

«I Lupi grigi. Un gruppo di estrema destra. I killer della mafia turca. Abbiamo sbagliato fin dall’inizio. Sono loro che ammazzano le donne.»

37.

I binari si allungavano a perdita d’occhio, senza lasciare pace allo sguardo. Era un groviglio rigido e duro, che imprigionava lo spirito e i sensi. Segni d’acciaio che si incidevano nelle pupille come fili spinati. Scambi che indicavano nuove direzioni senza mai liberarsi dei loro rivetti o dei loro ferri: vie di fuga che si perdevano all’orizzonte, ma che evocavano sempre la stessa sensazione d’ineluttabile radicamento. E i ponti, in pietra grigia o in ferro nero, con le loro scale e le loro balaustre, avviluppavano tutto l’insieme.

Schiffer aveva preso una scala vietata al pubblico ed era arrivato ai binari. Paul l’aveva raggiunto, storcendosi le caviglie sulle traversine.

«Chi sono i Lupi grigi?»

Schiffer camminava senza rispondere, respirando lente boccate d’aria. Sotto i loro piedi rotolavano le pietre nere.

«Sarebbe troppo lungo da spiegare», disse alla fine. «È roba che appartiene alla storia della Turchia.»

«Santo cielo, parli! Lei mi deve delle spiegazioni.»

Il Cifra continuò ad avanzare, con la mano sull’inguine, poi, con voce stanca, cominciò:

«Negli anni Settanta in Turchia c’era la stessa atmosfera surriscaldata che si respirava nel resto dell’Europa. Le idee di sinistra incontravano il consenso di tutti. Si stava preparando una sorta di maggio ’68… Ma là, è sempre la tradizione la più forte. Si creò un gruppo di reazione. Gente di estrema destra, comandata da un uomo che si chiamava Alpaslan Türkes, un vero nazi. Dapprima hanno formato dei piccoli clan nelle università, poi hanno arruolato giovani contadini nelle campagne. Queste reclute si sono fatte chiamare “Lupi grigi”: “Bozkurt”. O anche “Giovani idealisti”: “Ülkü Ocaklari”. Fin da subito, il loro strumento principale è stata la violenza.»

Malgrado il calore del suo corpo, Paul batteva i denti.

«Alla fine degli anni Settanta», proseguì Schiffer, «l’estrema destra e l’estrema sinistra hanno preso le armi. Attentati, saccheggi, omicidi: in quel periodo, si contavano una trentina di morti al giorno. Una vera guerra civile. I Lupi grigi venivano addestrati in appositi campi. Venivano presi sempre più giovani. Li indottrinavano. Li trasformavano in macchine per uccidere.»

Schiffer continuava a procedere a grandi passi lungo i binari. La sua respirazione stava diventando più regolare. Teneva gli occhi fissi su quelle linee lucenti, come se esse indicassero la direzione dei suoi pensieri:

«Alla fine, nel 1980, l’esercito turco ha preso il potere. È tornato l’ordine. Sono stati arrestati i combattenti dell’una e dell’altra parte. Ma i Lupi grigi sono stati rilasciati subito: le loro posizioni erano uguali a quelle dei militari. Solo che adesso erano disoccupati. E quei ragazzi cresciuti nei campi di addestramento sapevano fare una sola cosa: uccidere. Così, logicamente, sono stati assoldati da chi aveva bisogno di killer. In primo luogo dal governo, sempre lieto di trovare qualcuno per eliminare discretamente i leader armeni o i terroristi curdi. Poi la mafia turca, che si stava imponendo nel traffico dell’oppio della Mezzaluna d’Oro. Per i mafiosi, i Lupi grigi erano una manna. Una forza viva, armata, esperta e, soprattutto, alleata con il potere. Da allora i Lupi grigi lavorano a contratto. Alì Agça, l’uomo che ha sparato al papa nel 1981, era un Bozkurt. I più hanno ormai appeso al chiodo le idee politiche e sono diventati mercenari. Ma i più pericolosi sono rimasti dei fanatici, dei terroristi capaci delle cose peggiori. Degli eletti che credono alla supremazia della razza turca e al ritorno del grande impero delle genti di lingua turca.»

Paul ascoltava, stordito. Non coglieva alcun legame tra quelle storie lontane e la sua inchiesta. Finì per buttare lì:

«E sarebbero quei tipi che hanno ammazzato le donne?»

«Quello con il giubbotto Adidas li ha visti che rapivano Ruya Berkes.»

«Li ha visti in faccia?»

«Avevano il passamontagna, erano in tenuta da commando.»

«In tenuta da commando?»

Il Cifra ribatté:

«Sono dei guerrieri, ragazzo mio. Dei soldati. Sono scappati con una berlina nera. Il turco non ricorda né la targa né la marca. Non vuole ricordarsene.»

«Come mai è così sicuro che si tratti dei Lupi grigi?»

«Hanno urlato degli slogan. E poi, hanno dei segni distintivi. Non c’è alcun dubbio in proposito. D’altra parte, combacia con il resto. Il silenzio della comunità. Le riflessioni di Gozar circa un “affare politico”. I Lupi grigi sono a Parigi. E il quartiere muore di paura.»

Paul non riusciva ad accettare un orientamento così diverso, così inatteso, in completa rottura con la sua interpretazione dei fatti. Aveva lavorato troppo a lungo sulla pista dell’unico assassino. Insistette:

«Ma perché una violenza così?»

Schiffer continuava a seguire i binari che brillavano lucidi d’umidità.

«Vengono da terre lontane. Da pianure, da deserti, da montagne dove quel genere di torture è la regola. Tu sei partito da un’ipotesi: quella dell’assassino seriale. Con Scarbon avete creduto di riconoscere nelle ferite inferte alle vittime una ricerca della sofferenza, le tracce di un trauma o chissà che cosa… Ma avete tralasciato la soluzione più semplice: a torturare quelle donne sono stati dei professionisti. Degli esperti formati nei campi dell’Anatolia.»

«E le mutilazioni post mortem? Le lacerazioni sui volti?»

Il Cifra fece un gesto da persona esperta, rotta a ogni crudeltà:

«Uno dei tipi può essere più fuori di testa degli altri. O forse vogliono solo che le vittime non siano identificabili, che non sia riconoscibile il viso che cercano.»

«Che cercano?»

Il poliziotto si fermò e si girò verso Paul:

«Ragazzo mio, tu non hai capito che cosa sta succedendo: i Lupi grigi hanno un contratto. Cercano una donna.»

Frugò nel suo impermeabile macchiato di sangue e gli porse le polaroid:

«Una donna che ha questo viso e che corrisponde a questa segnalazione: rossa, sarta, clandestina, originaria di Gaziantep.»

Paul osservava in silenzio le foto nella mano rugosa.

Ogni cosa prendeva corpo. Ogni cosa prendeva fuoco.

«Una donna che sa qualche cosa e dalla quale devono ottenere una confessione. Già per tre volte hanno creduto di averla tra le mani. E per tre volte si sono sbagliati.»

«Perché questa certezza? Come possiamo essere sicuri che non l’abbiano trovata?»

«Perché se una di queste fosse stata quella buona, avrebbe parlato, credimi. E loro sarebbero spariti.»

«Lei… lei pensa che la caccia continui?»

«Puoi dirlo forte.»

Sotto le palpebre basse, gli occhi di Schiffer brillavano. Paul pensava alle pallottole d’argento, le sole che potevano uccidere un lupo marinaro.

«Hai sbagliato inchiesta, piccolo. Tu cercavi un assassino. Tu piangevi su dei morti. Ma è una donna viva che devi trovare. Decisamente viva. La donna inseguita dai Lupi grigi.»

Fece un ampio gesto verso gli edifici ai lati delle rotaie:

«Lei è là, da qualche parte, in questo quartiere. Nelle cantine. Nelle soffitte. In qualche casa occupata o in qualche centro per immigrati. È inseguita dai peggiori assassini che si possano immaginare e tu sei il solo che può salvarla. Ma devi correre veloce. Molto, molto veloce. Perché quei bastardi sono allenati e nel quartiere fanno il bello e il cattivo tempo.»

Il Cifra prese Paul per le spalle e lo guardò intensamente:

«E visto che le sciagure non arrivano mai sole, c’è un’altra tegola che t’è caduta sulla testa: io sono la tua sola possibilità di riuscita.»

SETTE

38.

La suoneria del telefono gli esplose nelle orecchie.

«Pronto?»

Nessuna risposta. Eric Ackermann riagganciò, lentamente, poi guardò l’orologio: le quindici. Era la dodicesima chiamata anonima dal giorno prima. L’ultima volta che aveva sentito una voce umana era stato il mattino precedente, quando Laurent Heymes l’aveva chiamato per avvertirlo della fuga di Anna. Quando aveva cercato di contattarlo a sua volta, nel pomeriggio, non aveva avuto risposta a nessun numero. Era già troppo tardi per Laurent?

Aveva cercato altri contatti; invano.

La prima telefonata anonima l’aveva ricevuta la sera stessa della fuga. Aveva immediatamente guardato dalla finestra: davanti a casa sua, in avenue de Trudaine, c’erano due sbirri. La situazione era dunque chiara: lui non era più l’uomo che deve essere chiamato, il collega che deve essere informato. Adesso era uno da sorvegliare, un nemico da controllare. In qualche ora era stata eretta intorno a lui una barriera. E lui ormai si trovava dalla parte sbagliata della frontiera, dalla parte dei responsabili del disastro.

Si alzò e si diresse verso la finestra della sua camera. I due poliziotti erano sempre di guardia davanti al liceo Jacques-Decourt. Guardò i terrapieni erbosi che dividevano il viale per tutta la sua lunghezza, guardò le piante che vi crescevano, ancora nude nell’aria piena di sole, guardò le strutture grigie del chiosco di square d’Anvers. Non passava una macchina e la via sembrava, come al solito, una strada dimenticata.

Gli venne in mente una frase: «Se il pericolo è concreto, l’afflizione è fisica, se invece è istintuale l’afflizione è psicologica.» Chi l’aveva scritto? Freud? Jung? In che forma si sarebbe manifestato, per lui, il pericolo? L’avrebbero ucciso per la strada? Lo avrebbero sorpreso nel sonno? O semplicemente l’avrebbero incarcerato in una prigione militare? Lo avrebbero torturato per ottenere tutti i documenti riguardanti il programma?

Aspettare. Doveva aspettare la notte per mettere in atto il suo piano.

Restando in piedi vicino al vano della finestra, decise di percorrere a ritroso, con la mente, il cammino che lo aveva condotto fin là, nell’anticamera della morte.

Tutto era cominciato con la paura.

Tutto sarebbe finito con essa.

La sua odissea era iniziata nel giugno del 1985, quando era entrato a far parte dell’équipe del professor Wayne C. Drevets, dell’Università Washington di Saint Louis, nello stato del Missouri. Quegli scienziati si erano prefissi un obiettivo ambizioso: localizzare, grazie alla tomografia a emissione di positroni, la zona della paura all’interno del cervello. Per raggiungere quel risultato, avevano messo a punto un severo protocollo per suscitare il terrore in soggetti volontari. Apparizione di serpenti, minacce di scariche elettriche che sarebbero diventate sempre più forti quanto più si sarebbero fatte attendere…

Alla fine di numerosi test, avevano trovato quell’area misteriosa. Era collocata nel lobo temporale, all’estremità del circuito limbico, in una piccola regione chiamata l’amigdala, una sorta di nicchia che corrisponde al nostro «archeocervello». La parte più antica del nostro organo, quella che l’uomo condivide con i rettili, quella che ospita tanto l’istinto sessuale quanto l’aggressività.

Ackermann si ricordava di quei momenti esaltanti. Per la prima volta poteva vedere, sugli schermi dei computer, le zone cerebrali che si attivavano. Per la prima volta osservava il pensiero in funzione, sorpreso nei suoi ingranaggi più segreti. Ora lo sapeva, aveva ritrovato la rotta e il vascello. La camera a positroni sarebbe stato il veicolo del suo viaggio nella mente umana.

Sarebbe diventato uno di quei pionieri, un cartografo del cervello.

Tornato in Francia, aveva redatto una domanda di fondi e l’aveva indirizzata all’INSERM, l’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica, al CNRS, alla Scuola superiore di alti studi in scienze sociali, e a diverse università e ospedali di Parigi, cercando così di moltiplicare le proprie possibilità di ottenere un finanziamento.

Era passato un anno e non aveva ottenuto nessuna risposta. Allora si era esiliato in Gran Bretagna e si era inserito nel gruppo del professor Anthony Jones, all’Università di Manchester. Con questa nuova équipe, si era imbarcato per un’altra regione neuronale, quella del dolore.

Ancora una volta aveva partecipato a una serie di analisi su soggetti che avevano accettato di subire stimoli dolorosi. Ancora una volta aveva visto accendersi sui monitor una regione inesplorata: il paese della sofferenza. Non si trattava di un territorio concentrato, ma di un insieme di punti che si attivavano simultaneamente, una sorta di ragnatela che si sviluppava attraverso tutta la corteccia.

Un anno più tardi, il professor Jones scriveva sulla rivista «Science»: «Una volta registrata dal talamo, la sensazione del dolore è orientata dal cingolo e dalla corteccia frontale verso il più o il meno negativo. Solo allora quella sensazione diviene sofferenza.»

La scoperta era di importanza capitale. Confermava l’importante ruolo della riflessione nella percezione del dolore. Dal momento che il cingolo funzionava come un selettore di associazioni, si poteva attenuare la sensazione di sofferenza grazie a una serie di esercizi puramente psicologici, si poteva cioè orientarlo e diminuire la sua risonanza nel cervello. Ad esempio, nel caso di una bruciatura, bastava pensare al sole, e non alla pelle carbonizzata, perché il dolore diminuisse… La sofferenza poteva essere combattuta dalla mente: era la stessa topografia del cervello a dimostrarlo.

Ackermann era tornato in Francia sovraeccitato. Si immaginava già alla guida di un gruppo di ricerca multidisciplinare, una superstruttura che avrebbe riunito cartografi, neurologi, psichiatri, psicologi… Ora che il cervello consegnava le sue chiavi fisiologiche, diveniva possibile una collaborazione tra tutte le discipline. Il tempo delle rivalità era passato: bastava guardare la carta e unire le forze!

Ma le sue richieste di fondi erano rimaste lettera morta. Disgustato, disperato, era finito in un laboratorio minuscolo, a Maison-Alfort, dove era ricorso alle anfetamine per ritrovare il morale. Ben presto, gonfio di pastiglie di benzedrina, si era persuaso che la sua richiesta era stata scartata per semplice ignoranza e non per indifferenza: i poteri del Petscan erano ancora troppo poco conosciutisi era deciso a pubblicare tutti gli studi internazionali riguardanti la cartografia del cervello in un solo libro esaustivo. Aveva ripreso i suoi viaggi: Tokyo, Copenaghen, Boston… Aveva incontrato neurologi, biologi, radiologi, aveva decrittato i loro articoli, ne aveva fatto degli estratti. Nel 1992 aveva pubblicato un lavoro di seicento pagine: Radiodiagnostica funzionale e geografia cerebrale, un vero atlante che rivelava un mondo nuovo, una singolare geografia, punteggiata di continenti, di mari, di arcipelaghi…

Malgrado il successo del libro presso la comunità scientifica internazionale, le autorità francesi continuavano a mantenere il silenzio. Peggio, erano state installate due camere a positroni, a Orsay e a Lione, e nessuno aveva pensato a lui. Non una sola volta era stato consultato. Esploratore senza vascello, Ackermann era sprofondato sempre più nel suo universo di sintesi. Di quel periodo si ricordava i voli che, sotto l’effetto dell’ecstasy, lo avevano portato al di là di sé stesso, ma anche i gorghi che gli avevano aperto il cranio durante trip andati male.

Era al fondo di uno di quegli abissi quando aveva ricevuto la lettera del Commissariato per l’energia atomica.

Dapprima aveva creduto che il suo delirio stesse continuando. Poi si era arreso all’evidenza: era una risposta positiva. Poiché l’utilizzo della camera a positroni costringeva a iniettare un tracciante radioattivo, il CEA si interessava ai suoi lavori. C’era persino una commissione scientifica che desiderava incontrarlo per vedere in che misura il CEA poteva impegnarsi finanziariamente nel programma.

Eric Ackermann si era presentato la settimana successiva presso la sede di Fontenay-aux-Roses. Sorpresa: il comitato d’accoglienza era composto essenzialmente da militari. Il neurologo aveva sorriso. Quelle uniformi gli ricordavano la stagione ruggente, nel 1968, quando era maoista e picchiava i celerini sulle barricate della rue Gay-Lussac. A quella visione si sentì più che mai gasato. Tanto più che si era caricato con una manciata di benzedrina per vincere la paura. Se bisognava convincere quegli uccellacci grigi, allora avrebbe saputo lui come parlare…

La sua relazione era durata diverse ore. Aveva cominciato spiegando come l’utilizzo del Petscan avesse permesso, nel 1985, di identificare la zona della paura e come, ora che quella regione era nota, si poteva creare una farmacopea specifica per attenuare l’influenza della paura stessa.

Aveva raccontato tutto ciò a dei militari.

Poi aveva descritto i lavori del professor Jones; aveva parlato di come questi avesse localizzato il circuito neuronale del dolore. Aveva precisato che sarebbe stato possibile limitare la sofferenza, unendo questa localizzazione con un opportuno condizionamento psicologico.

Aveva illustrato le sue conclusioni a un comitato di generali e di psicologi dell’esercito.

Aveva poi chiamato in causa altre ricerche: sulla schizofrenia, sulla memoria, sull’immaginazione…

Aiutandosi abbondantemente con i gesti, con le statistiche, con citazioni di articoli vari, aveva fatto loro balenare delle possibilità uniche: grazie alla cartografia cerebrale si sarebbe potuto osservare, controllare, modellare il cervello umano!

Un mese più tardi aveva ricevuto un’altra convocazione. Avevano accettato di finanziare il suo progetto, a condizione che si installasse all’istituto Henri-Becquerel, un ospedale militare con sede a Orsay. Avrebbe dovuto collaborare con i colleghi dell’esercito in un clima di totale trasparenza.

Ackermann era scoppiato a ridere: avrebbe lavorato per il Ministero della difesa! Lui, il puro prodotto della controcultura degli anni Settanta, lo psichiatra scoppiato che si teneva su a forza di anfetamine… Si era convinto che avrebbe saputo essere più furbo dei suoi finanziatori, che avrebbe saputo manipolarli senza essere manipolato.

Si sbagliava di grosso.

Il campanello del telefono risuonò di nuovo nella stanza.

Lui non si prese neppure la briga di rispondere. Aprì le tende e si affacciò alla finestra. Le sentinelle erano sempre là.

L’avenue de Trudaine offriva una delicata gamma di tinte marroni: colore del fango secco, dell’oro antico, di metalli invecchiati. Ogni volta, quella strada gli faceva pensare, chissà perché, a un tempio tibetano o cinese, la cui pittura scrostata, gialla o rossiccia, rivelava la superficie di un’altra realtà.

Erano le sedici e il sole era ancora alto.

All’improvviso decise di non attendere la notte.

Era troppo impaziente di fuggire.

Attraversò il salone, prese la sua sacca da viaggio e aprì la porta.

Tutto era cominciato con la paura.

Tutto sarebbe finito con essa.

39.

Attraverso la scala d’emergenza, scese nel garage del proprio condominio. Fermo sulla porta scrutò la zona oscura: vuota. Attraversò il parcheggio, poi aprì una porta in lamiera nera, nascosta dietro una colonna. Percorse interamente un corridoio e arrivò alla stazione del metrò Anvers. Gettò un’occhiata dietro di sé: nessuno lo seguiva.

Nell’atrio della stazione, la folla dei viaggiatori gli diede un senso di panico, poi riuscì a razionalizzare: tutta quella gente non faceva altro che favorire la sua fuga. Si aprì un varco senza rallentare, lo sguardo fisso su una nuova porta, dall’altra parte dello spazio di ceramica.

Là, vicino all’apparecchio automatico per le fototessere, fingendo di aspettare l’uscita delle proprie foto, cercò il passepartout che si era procurato. Dopo qualche esitazione, trovò la chiave giusta e aprì discretamente la porta sulla quale c’era scritto: RISERVATO AL PERSONALE.

Con sollievo ritrovò la solitudine. Nel corridoio aleggiava un odore insistente; un effluvio acre, pregnante, che non riusciva a identificare e che sembrava avvilupparlo interamente. Si infilò nel cunicolo, urtando con i piedi scatole marce, cavi dimenticati e contenitori metallici. Non cercò mai di accendere la luce. Triturò serrature, aprì chiavistelli, cancelli, porte piombate. Non si prendeva neppure la pena di richiuderle a chiave, ma le sentiva accumularsi dietro di sé, come altrettanti strati di protezione.

Infine, penetrò nelle viscere di un secondo parcheggio, collocato sotto square d’Anvers. La replica esatta del primo, eccetto per il colore verde chiaro del pavimento e dei muri. Era deserto. Riprese il suo cammino. Era in un bagno di sudore, scosso dal tremito, e si sentiva alternativamente gelare e bruciare. Non era solo l’angoscia, lui li conosceva quei sintomi: la crisi d’astinenza.

Poi, al numero 2033, vide la Volvo station wagon. Il suo aspetto imponente, la carrozzeria grigio metallizzato, la targa del dipartimento dell’Alto Reno gli procurarono una sensazione di conforto. Gli parve che tutto il suo organismo riuscisse a stabilizzarsi, a trovare un punto d’equilibrio.

Da quando Anna aveva manifestato i primi disturbi, aveva capito che la situazione andava aggravandosi. Più di chiunque altro, sapeva che quegli attacchi si sarebbero moltiplicati e che, presto o tardi, il progetto si sarebbe trasformato in una catastrofe. Allora aveva immaginato una soluzione di ripiego. In un primo tempo tornare nella propria regione d’origine, l’Alsazia. Non potendo cambiare nome, si sarebbe confuso con gli altri Ackermann della Terra; più di trecento nei soli dipartimenti del Basso e dell’Alto Reno. Poi ci sarebbe stata la vera partenza: Brasile, Nuova Zelanda, Malesia…

Tirò fuori dalla tasca il telecomando. Stava per azionarlo, quando una voce lo colpì alle spalle:

«Sei sicuro di non dimenticare niente?»

Si voltò e scorse una creatura nera e bianca, chiusa in un cappotto di velluto, a qualche metro da lui.

Anna Heymes.

Avvertì dapprima un’ondata di rabbia. Pensò a un uccello del malaugurio, a una maledizione che lo inseguiva. Ma si ricredette immediatamente: «Consegnarla a loro», si disse. «Consegnarla a loro è la tua sola salvezza.»

Lasciò la sua sacca e assunse un tono tranquillizzante:

«Anna, santo cielo, dov’eri? Ti stanno cercando tutti.»

Avanzò aprendo le braccia.

«Hai fatto bene a venire da me. Tu…»

«Non ti muovere.»

Si bloccò e lentamente, molto lentamente, si girò verso la nuova voce. Un’altra sagoma si staccò dalla colonna alla sua destra. Sentì un tale sbalordimento che la sua voce si fece rauca. Alla superficie della sua memoria stavano affiorando dei ricordi confusi. Conosceva quella donna.

«Mathilde?»

Lei si avvicinò senza rispondere. Con lo stesso tono inebetito ripeté:

«Mathilde Wilcrau?»

Mathilde si piantò davanti a lui, stringendo una pistola automatica nella mano guantata. Lui balbettò, passando lo sguardo dall’una all’altra:

«Voi… voi vi conoscete?»

«Quando non ci si fida più del neurologo dove si va? Dallo psichiatra.»

Come un tempo, lei allungava le sillabe in ondulazioni gravi. Come dimenticare quella voce? La sua bocca fu inondata da un fiotto di saliva. Una fanghiglia che aveva lo stesso gusto dell’aria puzzolente di poco prima. Questa volta lo identificò: era il gusto della paura; acre, profondo, malefico. Ed era lui la sorgente di quel gusto e di quell’odore. Lo trasudava da ogni poro della sua pelle.

«Mi avete seguito? Cosa volete?»

Anna si avvicinò. I suoi occhi indaco brillavano nella luce verdastra del parcheggio. Due occhi scuri come l’oceano, allungati, quasi asiatici. Sorridendo disse:

«Secondo te?»

40.

Nel campo delle neuroscienze, della neuropsicologia e della psicologia cognitiva io sono il migliore al mondo, o quantomeno uno dei migliori. Non è vanità, è semplicemente un fatto riconosciuto dalla comunità scientifica internazionale. A cinquantadue anni sono quello che si dice un luminare, un punto di riferimento.

E tuttavia, sono diventato veramente importante quando ho abbandonato il mondo scientifico, quando sono uscito dai sentieri battuti per perdermi lungo una strada proibita. Solo in quel momento sono diventato un ricercatore importante, un pioniere che segnerà un’epoca.

Peccato che per me sia ormai troppo tardi…

Marzo 1994

Al termine di sedici mesi di esperimenti di tomografia sulla memoria, terza fase del programma «Memoria personale e memoria culturale», il ripetersi di certe anomalie mi induce a contattare i laboratori che, nell’ambito delle loro ricerche, utilizzano lo stesso tracciante radioattivo usato dalla mia équipe: l’Ossigeno-15.

Risposta unanime: non hanno notato niente di strano.

Non significa che io mi stia sbagliando. Significa che inoculo ai miei soggetti delle dosi superiori e che la particolarità dei miei risultati deriva proprio da quel dosaggio. Intuisco una verità: ho superato una soglia e quella soglia ha rivelato il potere della sostanza.

È troppo presto per pubblicare qualcosa. Mi accontento di redigere un rapporto e un bilancio della stagione appena trascorsa e lo invio ai miei finanziatori, il Commissariato per l’energia atomica. Nell’ultima pagina di una nota allegata, menziono il ripetersi di fatti originali notati nel corso dei test. Fatti che concernono l’influenza indiretta dell’O-15 sul cervello umano e che meriterebbero di essere oggetto di un programma specifico.

La reazione è immediata. Nel mese di maggio vengo convocato presso la sede del CEA. In una grande sala conferenze trovo ad attendermi una decina di specialisti. Capelli a spazzola, modi marziali: li riconosco alla prima occhiata. Sono i militari che mi hanno ricevuto due anni prima, quando ho presentato per la prima volta il mio programma di ricerca.

Comincio la mia relazione, con ordine:

«Il principio della tomografia a emissione di positroni consiste nell’iniettare un tracciante radioattivo nel sangue del soggetto. In quanto radioattivo, emette dei positroni che la camera capta in tempo reale, permettendo così di localizzare l’attività cerebrale. Per quanto mi concerne, io ho scelto un isotopo radioattivo classico, l’Ossigeno-15, e…»

Una voce mi interrompe:

«Nella sua nota lei parla di anomalie. Venga al dunque: che cos’è successo?»

«Ho constatato che, dopo i test, i soggetti confondevano i loro ricordi con gli aneddoti che erano stati loro raccontati durante la seduta.»

«Sia più preciso.»

«Diversi esercizi del mio protocollo consistono nella narrazione di storie immaginarie, piccoli fatti inventati che il soggetto deve poi riassumere oralmente. Dopo i test, i soggetti parlavano di quelle storie come di fatti veri. Erano tutti convinti di aver vissuto realmente quelle narrazioni.»

«Lei pensa che sia stato l’utilizzo dell’O-15 a provocare questo fenomeno?»

«Suppongo di sì. La camera a positroni non può avere effetto sullo stato cosciente: è una tecnica non invasiva. L’O-15 è il solo prodotto somministrato al soggetto.»

«Come spiega questa influenza?»

«Non la spiego. Può essere l’impatto della radioattività sui neuroni. O un effetto della molecola stessa sui neurotrasmettitori. È come se l’esperimento esaltasse la funzione del sistema cognitivo, rendendolo permeabile alle informazioni incontrate durante il test. Il cervello non sa più fare la differenza tra i dati immaginati e la realtà vissuta.»

«Lei pensa che sia possibile, grazie a questa sostanza, impiantare nella mente di un soggetto dei ricordi, diciamo… artificiali?»

«È molto più complesso di quanto…»

«Pensa che sia possibile o no?»

«Sì, si potrebbe pensare di lavorare in questa direzione.»

Silenzio. Un’altra voce:

«Durante la sua carriera, lei ha lavorato sulle tecniche di lavaggio del cervello, non è vero?»

Scoppio a ridere, nel vano tentativo di smorzare l’atmosfera da inquisizione:

«È stato più di vent’anni fa. Era per la mia tesi di dottorato!»

«Ha seguito i progressi che sono stati fatti in questo campo?»

«Più o meno, ma in questo settore ci sono molte ricerche non pubblicate. Lavori classificati come segreti di stato. Non so se…»

«Ci sono sostanze che potrebbero essere utilizzate efficacemente come paravento chimico per nascondere la memoria di un soggetto?»

«Sì, esistono diversi prodotti.»

«Quali?»

«State parlando di manipolazioni del…»

«Quali?»

Rispondo a malincuore:

«Attualmente si parla di sostanze come il GBH, il gamma-hyrossibutirato. Ma per raggiungere questo tipo di obiettivi conviene ancora utilizzare un prodotto più comune: il Valium, ad esempio.»

«Perché?»

«Perché il Valium, a determinate dosi subanestestiche, provoca non solo una parziale amnesia, ma anche degli automatismi. Il paziente diventa permeabile alla suggestione. E per di più conosciamo un antidoto: il soggetto può poi ritrovare la sua memoria.»

Silenzio. La prima voce:

«Ammettendo che un soggetto abbia subito un trattamento del genere, possiamo immaginare di iniettargli nuovi ricordi grazie all’Ossigeno-15?»

«Se voi contate su di me per…»

«Sì o no?»

«Sì.»

Nuovo silenzio. Tutti gli sguardi sono fissi su di me.

«Il soggetto non si ricorderebbe di niente?»

«No.»

«Né del primo trattamento a base di Valium, né del secondo a base di Ossigeno-15?»

«No. Ma è troppo presto per…»

«Oltre a lei, chi altri conosce questi effetti?»

«Nessuno. Ho contattato i laboratori che utilizzano quell’isotopo, ma non hanno notato niente e…»

«Sappiamo chi ha contattato.»

«Vuol forse dire che sono sotto sorveglianza?»

«Ha parlato a viva voce con i responsabili di questi laboratori?»

«No. Si è svolto tutto per e-mail. Io…»

«Grazie professore.»

Alla fine del 1994 stabiliscono un nuovo stanziamento. Per un programma interamente dedicato agli effetti dell’Ossigeno-I5. Ironia della sorte: io che avevo avuto tante difficoltà a trovare i mezzi finanziari per la ricerca che avevo progettato, presentato e difeso, ora mi vedo destinare dei fondi per un progetto che non avevo neppure immaginato.

Aprile 1995

L’incubo comincia. Ricevo la visita di un poliziotto, protetto da due gorilla vestiti di nero. Un colosso dai baffi grigi, con un elegantissimo abito di lana. Si presenta: Philippe Charlier, commissario. Sembra gioviale, sorridente, bonario, ma il mio istinto di vecchio hippy mi suggerisce di stare in guardia. Riconosco in lui quello che ti può spaccare la faccia, quello che seda le rivolte, il bastardo forte del suo diritto.

«Sono venuto a raccontarti una storia», mi dice. «Un ricordo personale. A proposito dell’ondata di attentati che ha seminato il panico in Francia tra il dicembre 1985 e il settembre 1986. Rue de Rennes, ti ricordi? In tutto tredici morti e duecentocinquanta feriti. In quel periodo lavoravo per la Direzione della sorveglianza del territorio. Ci hanno dato un appoggio illimitato. Migliaia di ragazzi, sistemi di intercettazione, fermo di polizia a tempo indeterminato. Abbiamo rivoltato i centri islamici, sconvolto le fila palestinesi, i circuiti libanesi, le comunità iraniane. Parigi era sotto il nostro completo controllo. Abbiamo persino promesso un premio da un milione di franchi a chiunque ci desse informazioni utili. Tutto questo per niente. Non abbiamo scovato un indizio, un’informazione. Niente. E gli attentati continuavano, uccidendo, ferendo, demolendo, senza che potessimo impedire il massacro.

«Un giorno, nel marzo ’86, è cambiato qualcosa e abbiamo arrestato in un solo colpo tutti i membri della filiera: Fouad Ali Salah e i suoi complici. Nascondevano le armi e gli esplosivi in un appartamento di rue de la Voûte, nel dodicesimo arrondissement. Il loro punto di incontro era un ristorante tunisino di rue de Chartres, nel quartiere de la Goutte d’Or. Sono stato io a dirigere l’operazione. Li abbiamo beccati tutti nel giro di qualche ora. Un lavoro pulito, senza sbavature. Dall’oggi al domani, gli attentati sono terminati. Sulla città è tornata la calma.

«Sai cos’è che ha reso possibile quel miracolo? Quel “non so che” che ha modificato tutta la situazione? Uno dei membri del gruppo, Lotfi ben Kallak, aveva semplicemente deciso di cambiare bandiera. Ci ha contattati e ci ha consegnato i suoi complici in cambio della ricompensa. Ha persino accettato di organizzare la trappola, dall’interno.

«Lotfi era pazzo. Nessuno rinuncia alla propria vita per qualche centinaia di migliaia di franchi. Nessuno accetta di vivere come una bestia braccata, di esiliarsi in capo al mondo sapendo che, presto o tardi, il castigo arriverà. Ma io ho potuto misurare l’impatto del suo tradimento. Per la prima volta eravamo all’interno del gruppo. Nel cuore del sistema, capisci? Da quel momento tutto è diventato chiaro, facile, efficace. Questa è la morale della mia storia. I terroristi hanno una sola forza: il segreto. Colpiscono ovunque, quando vogliono. Non c’è che un mezzo per fermarli: penetrare nel loro circuito. Penetrare il loro cervello. Solo allora, tutto diviene possibile. Come con Lotfi. E grazie a te ci riusciremo con tutti gli altri.»

Il progetto di Charlier è chiarissimo: trasformare, grazie all’Ossigeno-15, degli uomini vicini alle reti terroristiche, iniettare loro dei ricordi artificiali, ad esempio un motivo di vendetta, per convincerli a cooperare e a tradire i loro compagni.

«Il programma si chiamerà Morpho», spiega lui, «perché andremo a cambiare la morfologia psichica di un po’ di arabi. Modificheremo la loro personalità, la loro geografia cerebrale. Poi li ributteremo nel loro ambiente d’origine; come cani contaminati in mezzo alla muta.»

Con una voce da far gelare il sangue, conclude:

«La tua scelta è semplice. Da una parte, mezzi illimitati, soggetti a volontà, l’occasione di dirigere, in tutta segretezza, una rivoluzione scientifica. Dall’altra, il ritorno all’esistenza merdosa del ricercatore, la lotta per la grana, i laboratori sull’orlo del fallimento, le pubblicazioni oscure. Senza contare che noi porteremo avanti comunque gli esperimenti; daremo ad altri i tuoi lavori, i tuoi appunti, tutto. Puoi stare certo che quegli scienziati sapranno sfruttare l’azione dell’Ossigeno-15 e sapranno attribuirsi la paternità delle scoperte.»

Nei giorni che seguono prendo informazioni. Philippe Charlier è uno dei cinque commissari della Sesta divisione della Direzione centrale della polizia giudiziaria. Uno dei capi della lotta al terrorismo internazionale, che agisce sotto il controllo diretto di Jean-Paul Magnard, il direttore dell’Ufficio Sei.

All’interno della polizia è soprannominato «Il Gigante Verde», ed è noto per la sua ossessione per l’infiltrazione; ma anche per la violenza dei suoi metodi. Regolarmente messo da parte dallo stesso Magnard, anche lui conosciuto per la sua intransigenza, ma fedele ai metodi tradizionali e allergico a ogni sperimentazione.

Ma siamo nella primavera del ’95, e le idee di Charlier vengono prese in considerazione. Sulla Francia pesa la minaccia di una rete terroristica. Il 25 luglio scoppia una bomba nella stazione RER Saint-Michel e uccide dieci persone. I sospetti cadono sui membri del GIA, ma non esiste l’ombra di una pista per fermare quest’ondata di attentati.

Il Ministero della difesa, insieme con il Ministero degli interni, decidono di finanziare il progetto Morpho. Anche se l’operazione non potrà essere utilizzata nell’immediato, è tempo di usare nuove armi contro il terrorismo internazionale.

Alla fine del 1995, Philippe Charlier mi fa di nuovo visita e parla di scegliere una cavia tra le centinaia di islamici arrestati nel quadro del piano Vigipirate.

È in quel momento che Magnard ottiene una vittoria decisiva. Sulla linea del TGV viene trovata una bombola di gas; la gendarmeria di Lione si appresta a farla esplodere, ma Magnard chiede di analizzarla. Ci trovano sopra le impronte digitali di un sospetto, Khaled Kelkal, che si rivela essere uno degli autori dell’attentato. Il seguito appartiene alla storia, ai media: Kelkal, inseguito come una bestia nei boschi della regione lionese, viene ucciso il 29 settembre, poi la rete viene smantellata.

È il trionfo di Magnard e dei metodi all’antica.

Fine del dossier Morpho.

Uscita di scena di Charlier.

Ciononostante, i fondi vengono stanziati ugualmente. I ministeri incaricati della sicurezza mi mettono a disposizione mezzi consistenti per proseguire i miei lavori. Fin dal primo anno, i risultati dimostrano che avevo visto giusto. È proprio l’Ossigeno-15, iniettato a forti dosi, che rende i neuroni permeabili ai ricordi artificiali. Sotto la sua influenza, la memoria diventa porosa, lascia filtrare elementi di finzione e li integra come realtà.

Il mio protocollo si perfeziona. Lavoro su diverse decine di pazienti, soldati volontari forniti dall’esercito. Si tratta di condizionamenti di debolissima entità. Un solo ricordo artificiale per volta. Dopo, aspetto diversi giorni per accertarmi che «l’innesto» abbia attecchito.

Rimane da tentare un ultimo esperimento: occultare la memoria di un soggetto e poi impiantargli dei ricordi completamente nuovi. Non ho fretta di tentare un tale lavaggio. Tanto più che la polizia e l’esercito sembrano dimenticarmi. In quegli anni, Charlier è relegato a inchieste sul campo, tagliato fuori dalle sfere del potere. Magnard regna incontrastato, con i suoi principi tradizionali. Ho la speranza che mi lascino stare definitivamente. Sogno un ritorno alla vita da civile, una pubblicazione ufficiale dei miei risultati, un’applicazione sana dei miei esperimenti…

Tutto questo sarebbe possibile senza l’11 settembre 2001. Gli attentati alle Twin Towers e al Pentagono.

Il soffio dell’esplosione polverizza su scala mondiale le certezze delle polizie, le tecniche di investigazione e di controspionaggio. I servizi segreti, le agenzie informative, le polizie e gli eserciti dei paesi minacciati da Al-Quaeda sono in fibrillazione. I responsabili politici sono sbigottiti. Ancora una volta, il pericolo terrorista ha dimostrato la sua forza più grande: il segreto.

Si parla di guerra santa, di minaccia chimica, di allerta atomica…

Philippe Charlier torna in prima linea. È l’uomo della rabbia, dell’ossessione. Una figura forte, dai metodi oscuri, violenti, ma efficaci. Il dossier Morpho viene riesumato. Parole prima disprezzate ora tornano su tutte le labbra: condizionamento, lavaggio del cervello, infiltrazione…

A metà novembre Charlier sbarca all’istituto Henri-Becquerel. Con un grande sorriso annuncia:

«Eccoci di nuovo qui!»

Mi invita al ristorante. Una bettola con cucina lionese: cotechino e vino di Borgogna. L’incubo ricomincia, in mezzo agli odori di grasso e di sanguinaccio.

«Sai qual è il budget annuale della CIA e dell’FBI?» mi chiede.

Dico di no.

«Trenta miliardi di dollari. Hanno satelliti, sottomarini spia, sistemi automatici di riconoscimento, centri di intercettazione mobili. Dispongono della tecnologia più raffinata nel campo della sorveglianza elettronica. Senza contare la National Security Agency e le sue possibilità. Sulla Terra il segreto non esiste più. Se ne è parlato parecchio. Tutto il mondo si è preoccupato. Hanno persino evocato lo spettro del Grande Fratello… Solo che c’è stato l’11 settembre. Un gruppo di ragazzotti armati di coltelli di plastica è riuscito a distruggere le torri del World Trade Center e un bel pezzo del Pentagono, ottenendo un punteggio di circa tremila morti. Gli americani ascoltano tutto, captano tutto, salvo le persone realmente pericolose.»

Il Gigante Verde non ride più. Volge lentamente il palmo delle mani all’insù, sopra il suo piatto:

«Ti immagini i due piatti della bilancia? Da una parte, trenta miliardi di dollari. Dall’altra dei coltelli di plastica. Cos’è che fa la differenza, secondo te? Cos’è che fa pendere questa cazzo di bilancia?»

Tira un pugno sul tavolo.

«La volontà. La fede. La follia. Di fronte al dispiegamento di tecnologie, alle migliaia di agenti americani, una manciata di uomini determinati ha potuto sottrarsi a ogni sorveglianza. Perché nessuna macchina sarà mai forte come un cervello umano. Perché nessun funzionario che conduca una vita normale, che abbia ambizioni normali, potrà mai beccare un fanatico che se ne fotte della propria vita, che si immola per una causa superiore.»

Si ferma, riprende fiato, poi prosegue:

«I piloti kamikaze dell’11 settembre si erano depilati. Tu sai perché? Per essere perfettamente puri al momento di entrare in paradiso. Contro dei bastardi così, non possiamo fare niente. Né spiarli, né comprarli, né capirli.»

I suoi occhi brillano di un bagliore ambiguo.

«Te lo ripeto: c’è un solo modo per prendere questi fanatici. Trasformare uno di loro. Convertirlo per leggere la loro follia. Solo allora ci si potrà battere.»

Il Gigante Verde pianta i gomiti sulla tovaglia, appoggia le labbra sul suo bicchiere di rosso, poi alza i baffi in un sorriso:

«Ho una buona notizia per te. Da oggi il progetto Morpho riparte. Ti ho persino trovato un candidato», ghigna. «Anzi: una candidata.»

41.

«Io.»

La voce di Anna rimbalzò sul cemento come una pallina da ping-pong. Eric Ackermann le rivolse un debole sorriso. Era quasi un’ora che parlava senza fermarsi, seduto nella Volvo station wagon, la portiera aperta, le gambe fuori. Aveva la gola secca e avrebbe dato qualunque cosa per un bicchiere d’acqua.

Anna Heymes rimaneva immobile contro la colonna, come fosse un delicato graffito fatto con l’inchiostro di china. Mathilde Wilcrau continuava a fare avanti e indietro per azionare l’interruttore a tempo ogni volta che i neon si spegnevano.

Parlando, lui guardava l’una e l’altra. La piccola, pallida e nera, malgrado la sua giovane età, gli pareva d’una rigidità antica, quasi minerale. Al contrario, quella alta era vegetale, vibrante di una freschezza intatta. Mostrava ancora quella bocca troppo rossa, quei capelli troppo neri, quel contrasto di colori crudi che ricordava un banco del mercato.

Come poteva avere simili pensieri in quel momento? Sicuramente gli uomini di Charlier stavano battendo il quartiere palmo a palmo, assieme ai poliziotti del distretto, tutti alla sua ricerca. Battaglioni di poliziotti armati che volevano solo fargli la pelle. E quel bisogno di droga che aumentava, che si sommava alla sete toccando ogni particella del suo corpo…

Con tono più grave, Anna ripeté:

«Io…»

Tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette. Ackermann si arrischiò:

«Posso averne una?»

Lei accese la sua Marlboro poi, dopo una piccola esitazione, gliene offrì una. Nel momento in cui fece scattare l’accendino cadde l’oscurità. La fiamma penetrò il buio e impresse la scena come un negativo. Mathilde azionò di nuovo l’interruttore.

«Il seguito, Ackermann. Ci manca l’elemento principale: chi è Anna?»

Il tono era sempre minaccioso, ma privo di collera o di odio. Lui ora sapeva che le due donne non l’avrebbero ucciso. Non ci si improvvisa assassini. La sua confessione era volontaria e gli dava sollievo. Attese che il gusto del tabacco bruciato gli riempisse la gola, poi rispose:

«Io non so tutto, anzi… Da quello che mi hanno detto, tu ti chiami Sema Gokalp. Sei turca, operaia clandestina. Vieni dalla regione di Gaziantep, nel Sud dell’Anatolia. Lavori nel decimo arrondissement. Ti hanno portata all’istituto Henri-Becquerel il 16 novembre 2001, dopo un breve ricovero all’ospedale Sainte-Anne.»

Anna rimaneva impassibile, sempre appoggiata alla colonna. Le parole sembravano attraversarla senza effetti apparenti, come un bombardamento di particelle: invisibile ma mortale.

«Mi avete rapita?»

«Direi piuttosto trovata. Non so come sia successo. Uno scontro tra turchi, un saccheggio in un laboratorio del quartiere Strasbourg-Saint-Denis. Una storia di racket, non so esattamente. Quando i poliziotti sono arrivati, nel laboratorio non c’era più nessuno. Solo tu. Eri nascosta in un angolino…»

Respirò una boccata. Malgrado la nicotina, l’odore della paura persisteva.

«La questione è venuta alle orecchie di Charlier. Ha capito subito di avere in mano il soggetto ideale per tentare il progetto Morpho.»

«Perché “ideale”?»

«Senza permesso di soggiorno, senza famiglia, senza legami. E soprattutto in stato di choc.»

Ackermann lanciò un’occhiata a Mathilde; un’occhiata da specialista. Poi tornò ad Anna:

«Non so cosa tu abbia visto quella notte, ma doveva essere qualcosa di atroce. Eri completamente traumatizzata. Le tue membra erano ancora anchilosate per la catalessi tre giorni dopo il fatto. Sobbalzavi al minimo rumore. Ma la cosa più interessante è che il trauma ti aveva confuso la memoria. Sembravi incapace di ricordarti il tuo nome e quei pochi dati scritti sul tuo passaporto. Non la smettevi di mormorare parole senza senso. Quell’amnesia mi preparava il terreno. Avrei potuto impiantarti più rapidamente dei nuovi ricordi. Una cavia perfetta.»

Anna gridò:

«Bastardo!»

Lui annuì, chiudendo gli occhi, poi si riprese e, fedele al proprio ruolo, aggiunse con cinismo:

«E in più, tu parlavi un francese impeccabile. È stato questo dettaglio a dare l’idea a Charlier.»

«Quale idea?»

«All’inizio volevamo soltanto iniettare dei frammenti artificiali nella testa di un soggetto straniero, uno che fosse di una cultura differente. Volevamo vedere che risultati avrebbe dato. Ad esempio, modificare il credo religioso di un musulmano. O instillargli una ragione di risentimento. Ma con te si aprivano altre possibilità. Parlavi perfettamente la nostra lingua. Il tuo fisico era quello di un’europea scura di carnagione. Charlier ha puntato più in alto: un condizionamento totale. Cancellare la tua personalità e la tua cultura e sostituirla con un’identità da occidentale.»

Si fermò. Le due donne rimasero in silenzio. Un tacito invito a proseguire:

«In primo luogo ho reso più profonda la tua amnesia iniettandoti un sovradosaggio di Valium. Poi mi sono dedicato al lavoro di condizionamento vero e proprio. La costruzione di una nuova personalità. Sotto l’effetto dell’Ossigeno-15.»

Mathilde, con voce interessata, chiese:

«In che cosa consisteva?»

Una nuova boccata, poi, senza riuscire a staccare gli occhi da Anna, rispose:

«Essenzialmente nell’esporre delle informazioni. Sotto tutte le forme. Discorsi. Immagini filmate. Suoni registrati. Prima di ogni seduta, ti iniettavo la sostanza radioattiva. I risultati erano incredibili. Nel tuo cervello, ogni dato si trasformava in un ricordo reale. Giorno per giorno, diventavi sempre più la vera Anna Heymes.»

La giovane donna si staccò dal pilastro:

«Vuoi dire che lei esiste veramente

L’odore interno era sempre più forte, sapeva ormai di marcio. Sì, stava marcendo lì, sul posto. Mentre l’astinenza da anfetamine alzava una lenta ondata di panico dal fondo del suo cranio.

«Bisognava riempire la tua memoria con un insieme coerente di ricordi. Il sistema migliore era quello di scegliere una persona esistente e utilizzare la sua storia, le sue foto, i suoi filmati. Ecco perché abbiamo scelto Anna Heymes: avevamo tutto questo materiale.»

«Lei chi è? Dov’è la vera Anna Heymes?»

Si sistemò gli occhiali sul naso, poi rispose:

«Qualche metro sottoterra. È morta. La moglie di Heymes si è suicidata sei mesi fa. Potremmo dire che c’era un posto libero. Tutti i tuoi ricordi appartengono alla sua storia. I genitori morti. I parenti nel Sud-Ovest. Il matrimonio a Saint-Paul-de-Vence. La laurea in legge.»

In quel momento, la luce si spense. Mathilde riaccese. Il ritorno della sua voce coincise con quello della luce:

«Avevate intenzione di abbandonare una donna così in un ambiente turco?»

«No. Non avrebbe avuto senso. Era un’operazione fine a sé stessa. Un tentativo di condizionamento… totale. Per vedere fino a dove potevamo arrivare.»

«E alla fine», chiese Anna, «cosa avreste fatto di me?»

«Non ne ho alcuna idea. Non dipendeva più da me.»

Una menzogna in più. Certo che sapeva cosa ne avrebbero fatto. Cosa fare di una cavia così ingombrante? Lobotomia o eliminazione. Quando Anna riprese la parola, diede l’impressione di aver colto quella sinistra realtà. La sua voce era fredda come una lama:

«Chi è Laurent Heymes?»

«Esattamente ciò che dice di essere: il direttore del Centro di studi e bilanci del Ministero degli interni.»

«Perché si è prestato a questa mascherata?»

«È tutta colpa di sua moglie. Era in stato di depressione, incontrollabile. Negli ultimi tempi, Laurent aveva tentato di farla lavorare. Una missione particolare, presso il Ministero della difesa, roba che riguardava la Siria. Anna ha rubato dei documenti. Ha cercato di venderli alle autorità di Damasco, per scappare chissà dove. Una pazza. L’affare è stato scoperto. Anna è crollata e si è suicidata.»

Mathilde incalzò:

«E questa storia rimaneva uno strumento di pressione su Laurent Heymes anche dopo la morte di lei?»

«Lui aveva paura dello scandalo. La sua carriera sarebbe stata annientata. Un alto funzionario sposato con una spia… Su quell’affare, Charlier aveva un dossier completo. Teneva in pugno Laurent e tutti gli altri.»

«Gli altri?»

«Alain Lacroux, Pierre Carcilli, Jean-François Gaudemer», elencò voltandosi verso Anna. «I sedicenti funzionari che cenavano con te.»

«Chi sono?»

«Dei pagliacci, dei poliziotti corrotti di cui Charlier sa tutto. Erano obbligati a partecipare a quelle carnevalate.»

«Perché fare quelle riunioni?»

«È stata un’idea mia. Volevo che tu ti potessi confrontare con il mondo esterno, volevo osservare le tue reazioni. Abbiamo filmato tutto. Le conversazioni sono state registrate. Devi capire che tutta la tua esistenza era fasulla: il palazzo di avenue Hoche, la portinaia, i vicini… Era tutto sotto il nostro controllo.»

«Un topo da laboratorio.»

Ackermann si alzò e cercò di fare qualche passo, ma si trovò immediatamente bloccato tra la portiera aperta e il muro del parcheggio. Si afflosciò sul sedile:

«Questo programma è una vera rivoluzione scientifica», replicò con tono rauco. «Non bisogna avere remore morali.»

Dall’alto, Anna gli porse un’altra sigaretta. Sembrava pronta a perdonarlo, a condizione che lui fornisse tutti i dettagli:

«La Maison du Chocolat?»

Mentre accendeva la Marlboro, si accorse che stava tremando. C’era un attacco in arrivo. L’astinenza avrebbe ben presto urlato sotto la sua pelle.

«Quello è stato uno dei problemi», rispose in una nuvola di fumo. «La situazione ci stava sfuggendo di mano. Abbiamo dovuto aumentare la sorveglianza. C’erano continuamente dei poliziotti che ti osservavano. Il guardamacchine di un ristorante, credo…»

«La Marée.»

«Sì, La Marée.»

«Quando lavoravo alla Maison du Chocolat, c’era un cliente che veniva spesso. Un uomo che mi sembrava di conoscere. Era uno sbirro?»

«È possibile. Non conosco tutti i dettagli. Tutto quello che so è che ormai ci stavi sfuggendo.»

Si fece di nuovo buio. Mathilde accese le lampade al neon.

«Ma il vero problema», continuò, «erano le crisi. Ho subito capito che c’era una falla. E che stava peggiorando. Il disturbo concernente i volti era solo un segno premonitore: la tua vera memoria stava tornando in superficie.»

«Perché i volti?»

«Non lo so. Siamo nell’ambito della più pura sperimentazione.»

Le sue mani tremavano sempre più. Si concentrò sul discorso:

«Quando Laurent ti ha sorpresa a osservarlo in piena notte, abbiamo capito che i disturbi si accentuavano. Bisognava ricoverarti.»

«Perché volevi fare una biopsia?»

«Per avere la coscienza a posto. Può darsi che l’introduzione massiccia di Ossigeno-15 abbia provocato una lesione. Bisogna che io capisca questo fenomeno!»

Si fermò di botto, rimpiangendo di aver gridato. Aveva l’impressione che dei cortocircuiti gli facessero crepitare la pelle. Gettò la sigaretta e infilò le dita sotto le cosce. Quanto tempo avrebbe resistito?

Mathilde Wilcrau passò alla questione cruciale:

«Dove stanno cercando? Quanti sono gli uomini di Charlier?»

«Non lo so. Io sono stato messo in disparte. E Laurent pure. Non ho più neppure contatti con lui… Per Charlier il programma è chiuso. Ormai non c’è che un’urgenza: trovarti e toglierti dalla circolazione. Voi li leggete i giornali. Sapete che cosa succede nei media o nell’opinione pubblica per un’intercettazione non autorizzata. Immaginate cosa succederebbe se il progetto venisse scoperto.»

«Dunque, non sono altro che una da ammazzare?» chiese Anna.

«Più che altro, una da curare. Tu non sai cos’hai nella tua testa. Ti devi arrendere, devi metterti nelle mani di Charlier. Nelle nostre mani. È il solo modo di guarire e di salvare la vita a tutti!»

Alzò gli occhi sopra la montatura degli occhiali. Le vedeva sfocate, ed era meglio così. Insistette:

«Santo cielo, voi non conoscete Charlier! Sono sicuro che ha agito nella più completa illegalità. Ora fa pulizia. A quest’ora non so neppure se Laurent è ancora vivo. È tutto fottuto, a meno che possiamo ancora sottoporti a un trattamento.»

La voce gli morì in gola. A cosa serviva proseguire? In quella soluzione non ci credeva neanche lui. A voce bassa, Mathilde, disse:

«Tutto questo, però, non ci dice perché le avete cambiato la faccia.»

Ackermann sentì un sorriso salirgli alle labbra: era dall’inizio che aspettava quella domanda.

«Non l’abbiamo cambiata noi la tua faccia.»

«Cosa?»

Le osservò di nuovo attraverso gli occhiali. La sorpresa aveva bloccato i loro lineamenti. Piantò i suoi occhi nelle pupille di Anna:

«Quando ti abbiamo trovata eri così. Alle prime radiografie ho scoperto le cicatrici, gli impianti, i perni. Era incredibile. Un’operazione estetica completa. Un affare che sarà costato una fortuna. Non certo il tipo di intervento che può permettersi un’operaia clandestina.»

«Cosa vuoi dire?»

«Tu non sei un’operaia. Charlier e gli altri si sono sbagliati. Hanno creduto di rapire un’anonima turca. Ma tu eri molto più di quello. Per folle che possa sembrare, io credo che tu ti stessi nascondendo nel quartiere turco quando ti hanno trovata.»

Anna scoppiò in singhiozzi:

«Non è possibile… Non è possibile… Quando finirà?»

«In un certo senso», continuò lui con uno strano accanimento, «questo aspetto spiega il successo della manipolazione. Io non sono un mago. Non avrei mai potuto trasformare fino a questo punto un’operaia piombata qui dall’Anatolia. Solo Charlier può credere a una cosa del genere.»

Mathilde si soffermò ancora su quel punto:

«Cos’ha detto quando gli hai comunicato che il viso della ragazza era stato modificato?»

«Non gliel’ho detto. Era una cosa da delirio, l’ho nascosta a tutti.»

Si voltò verso Anna e proseguì:

«Anche l’ultimo sabato, quando sei venuta al Becquerel, io ho sostituito le radiografie. Le tue cicatrici apparivano su tutte le lastre.»

Anna si asciugò le lacrime:

«Perché l’hai fatto?»

«Volevo portare a termine l’esperimento. L’occasione era troppo bella… Il tuo stato psichico era ideale per tentare l’avventura. L’unica cosa che contava era il programma…»

Anna e Mathilde erano interdette.

Quando la piccola Cleopatra riprese, la sua voce era secca come una foglia in autunno.

«Se non sono Anna Heymes, né Sema Gokalp, chi sono allora?»

«Non ne ho la più pallida idea. Un’intellettuale, una rifugiata politica… O una terrorista. Io…»

I neon si spensero ancora una volta. Mathilde non si mosse. L’oscurità parve diventare profonda, come dentro una colata di catrame. Passò un breve istante. Lui si disse: «Mi sono sbagliato, adesso mi ammazzano.» Ma la voce di Anna risuonò nelle tenebre:

«Non c’è che un modo per saperlo.»

Nessuno riaccese la luce. Eric Ackermann indovinava il seguito. Anna, improvvisamente vicino a lui, mormorò:

«Mi devi rendere quello che mi hai rubato. La mia memoria.»

OTTO

42.

Era riuscito a sbarazzarsi del ragazzo, e questo era già parecchio.

Dopo la corrida alla stazione e le rivelazioni che ne erano seguite, Jean-Louis Schiffer aveva portato Paul Nerteaux in una brasserie di fronte alla Gare de l’Est, La Strasbourgeoise. Gli aveva di nuovo spiegato quale fosse la vera chiave dell’inchiesta: «Cherchez la femme», cercare la donna. In quella situazione non contava nient’altro, né le vittime, né gli assassini. Dovevano scovare l’obiettivo dei Lupi grigi; la donna che cercavano da cinque mesi nel quartiere turco e che fino a quel momento avevano mancato.

Alla fine, dopo un’ora di discussione serrata, Paul Nerteaux aveva capitolato e aveva dato all’inchiesta una svolta di centottanta gradi. La sua intelligenza e la sua capacità di adattamento continuavano a stupire Schiffer; il ragazzo aveva definito lui stesso la nuova strategia da seguire.

Primo punto: elaborare un identikit della preda basandosi sulle fotografie delle tre morte, poi diffondere un avviso di ricerca nel quartiere turco.

Secondo punto: aumentare i pattugliamenti, moltiplicare i controlli d’identità e le perquisizioni nella Piccola Turchia. Ispezioni di quel tipo potevano apparire ridicole, ma, secondo Nerteaux, la donna che stavano cercando potevano trovarla anche per caso. Era già successo: dopo venticinque anni di latitanza, Totò Riina, il capo supremo di Cosa Nostra, era stato arrestato nel bel mezzo di Palermo a seguito di un banale controllo d’identità.

Terzo punto: tornare da Marius, il capo dell’Iskele, ed esaminare i suoi schedari per vedere se c’erano altre operaie che corrispondevano a quella segnalazione. A Schiffer quell’idea piaceva, ma non poteva certo presentarsi là, dopo il trattamento che aveva riservato al mercante di schiavi.

Per contro, teneva per sé il quarto punto: andare a trovare Talat Gurdilek, l’uomo presso il quale aveva lavorato la prima vittima. Bisognava terminare gli interrogatori di tutti i datori di lavoro delle vittime e lui era il candidato.

Infine c’era il quinto punto, il solo che mirasse agli assassini: avviare una ricerca presso quelli del Servizio immigrazione e dei visti d’ingresso, per verificare se dal novembre 2001 fosse arrivato in Francia qualche fuoriuscito turco noto per i suoi legami con l’estrema destra e con la mafia. Questo significava spulciare tutti gli arrivi dall’Anatolia degli ultimi cinque mesi, confrontarli con le schede dell’Interpol e con i dati della polizia turca.

Schiffer non credeva a quella pista, conosceva troppo bene i rapporti tra i suoi colleghi turchi e i Lupi grigi, ma aveva ugualmente lasciato parlare il giovane poliziotto tutto fuoco e fiamme.

Per la verità, non credeva a nessuna di quelle manovre, ma si era mostrato paziente, perché aveva in testa una nuova idea…

Mentre stavano andando verso l’Ile de la Cité, dove Nerteaux contava di presentare il suo nuovo piano al giudice Bomarzo, lui aveva giocato la sua carta. Gli aveva spiegato che il metodo migliore era quello di separare le squadre. Mentre Paul diffondeva gli identikit e allertava gli uomini del commissariato del decimo arrondissement, lui sarebbe andato da Gurdilek…

Il giovane capitano si era riservato di dargli una risposta dopo l’incontro con il magistrato. L’aveva fatto aspettare per più di due ore in un piccolo bar di fronte al palazzo di giustizia, mettendolo addirittura sotto la sorveglianza di un agente. Poi era uscito dalla riunione tutto su di giri: Bomarzo gli aveva dato carta bianca per il suo programma. Quella prospettiva lo esaltava in modo evidente e ora si mostrava d’accordo su tutto.

Alle diciotto lo aveva lasciato in boulevard de Magenta, vicino alla Gare de l’Est, e gli aveva dato appuntamento alle venti al caffè Sancak, in rue du Faubourg-Saint-Denis, per fare il punto della situazione.

Ora Schiffer camminava in rue du Paradis. Finalmente solo! Finalmente libero… Libero di respirare il gusto acido del suo quartiere, di sentire la forza magnetica del «suo» territorio. La fine del giorno aveva il pallore e il torpore della febbre. Il sole deponeva sulle vetrine delle particelle di luce, una sorta di talco dorato che aveva una macabra grazia, un vero maquillage da imbalsamatore.

Avanzava con passo rapido, preparandosi ad affrontare uno dei più grandi caid del quartiere: Talat Gurdilek. Un uomo che era arrivato a Parigi negli anni Sessanta, a diciassette anni, senza un soldo, senza nessuna qualità particolare, e che ora era proprietario di una ventina di laboratori tessili in Francia e in Germania, oltre a una buona decina di tintorie e di lavanderie automatiche. Un signorotto che controllava tutti i livelli del quartiere turco, ufficiali e non ufficiali, legali e illegali. Quando Gurdilek starnutiva, era tutto il ghetto a prendersi il raffreddore.

Al 58, Schiffer spinse un portone. Penetrò in un vicolo cieco, solcato centralmente da un canale di scolo nerastro e fiancheggiato da laboratori e tipografie. In fondo al vicolo, entrò in un cortile rettangolare, pavimentato a losanghe. Sulla destra c’era una minuscola scala che scendeva in un fossato sormontato da aiuole spelacchiate.

Adorava quell’angolo del quartiere, nascosto agli sguardi, sconosciuto persino alla maggior parte degli abitanti dell’isolato; un cuore nel cuore, una trincea che faceva perdere tutti i punti di riferimento, verticali e orizzontali. Il passaggio era sbarrato da una porta di ferro arrugginita. Vi posò sopra una mano: era tiepida.

Sorrise, poi bussò con forza.

Dopo un po’, un uomo venne ad aprire, liberando una nuvola di vapore. Schiffer diede qualche spiegazione in turco. Il portiere si scostò per lasciarlo entrare. Il poliziotto notò che era a piedi nudi. Nuovo sorriso: nulla era cambiato. Si tuffò in quell’afa.

La luce bianca gli rivelò un quadro familiare: il corridoio di ceramica, i grossi tubi coibentati sospesi al soffitto e rivestiti di tessuto d’un pallido verde chirurgico, i ruscelli di lacrime sul pavimento, le porte bombate in ferro, imbiancate a calce, che sembravano portelloni di caldaia.

Camminarono per qualche minuto. Schiffer sentiva lo sciacquio delle scarpe nelle pozzanghere. Il suo corpo era già madido di sudore. Svoltarono in un nuovo budello di piastrelle bianche, saturo di nebbia. A destra, un’apertura rivelò la presenza di un laboratorio dal quale giungeva un rumore di respiro.

Schiffer si fermò a contemplare lo spettacolo.

Sotto un soffitto di tubi e canalizzazioni punteggiate qua e là da luci, una trentina di operaie, con i piedi nudi e maschere bianche sul viso, si affannava sulle vasche e sugli assi da stiro. Getti di vapore fischiavano a ritmo regolare nell’aria satura di odori di detergenti e di alcol.

Schiffer sapeva che la stazione di pompaggio del bagno turco si trovava nelle vicinanze, da qualche parte sotto i loro piedi, e attingeva acqua a più di ottocento metri di profondità, facendola circolare nelle condutture demineralizzata, clorata, riscaldata prima di essere portata sia al bagno turco vero e proprio, sia verso quella tintoria clandestina. Gurdilek aveva avuto l’idea di accostare la lavanderia ai propri bagni, per sfruttare un unico sistema di canalizzazione. Un modo per fare economia: non una sola goccia d’acqua andava perduta.

Passando, il poliziotto si rifece gli occhi osservando le donne con la maschera di cotone e la fronte lucida di sudore. Le bluse bagnate fasciavano i seni e le natiche, grandi e morbide come piacevano a lui. Si accorse di essere in erezione. Lo considerò un buon auspicio.

Ripresero il loro cammino.

Il calore e l’umidità continuavano a crescere. Per un attimo si sentì uno strano profumo, poi sparì, tanto che Schiffer credette di averlo sognato. Ma qualche passo più in là ricomparve e divenne più netto.

Questa volta Schiffer ne era certo.

Si mise a respirare a basso regime. Sentiva pizzicare le narici e la gola. Il suo sistema respiratorio fu assalito da sensazioni contraddittorie. Aveva la sensazione di succhiare un cubetto di ghiaccio, ma la sua bocca era in fiamme. Quell’odore bruciava e rinfrescava al tempo stesso, aggredendo e purificando in un unico respiro.

La menta.

Avanzarono ancora. L’odore divenne un fiume, un mare nel quale Schiffer si stava immergendo. Era ancora peggio di quanto si ricordasse. A ogni passo egli si trasformava sempre più in una bustina d’infusione sul fondo di una tazza. I suoi polmoni erano paralizzati da un freddo da iceberg, mentre la faccia sembrava una maschera di cera bollente.

Respirava ormai solo con brevi boccate, e quando arrivò in fondo al corridoio era sull’orlo dell’asfissia. Pensò che stava avanzando in un inalatore gigante e, sapendo che non era lontano dalla verità, entrò nella sala del trono.

Era una piscina vuota, poco profonda, circondata da fini colonne bianche che si stagliavano sullo sfondo sfocato del vapore; il bordo era segnato da piastrelle blu di Prussia, nello stile delle vecchie stazioni del metrò. La parete di fondo era tappezzata di paraventi in legno sui quali erano traforati motivi ornamentali ottomani: lune, croci, stelle.

Al centro della vasca c’era un uomo seduto su un blocco di ceramica, con uno spesso asciugamano bianco annodato intorno alla vita, il viso annegato nelle tenebre.

Il suo riso risuonò nel vapore bollente.

Il riso di Talat Gurdilek, l’uomo menta, l’uomo dalla voce bruciata.

43.

Nel quartiere turco la sua storia la conoscevano tutti.

Era arrivato in Europa nel 1961, nel doppio fondo di un’autobotte, secondo il metodo classico. In Anatolia avevano messo su di lui e sui suoi compagni di viaggio una paratia di ferro che poi avevano imbullonato. I clandestini dovevano restare così, distesi, senza aria né luce, per circa quarantotto ore.

Ben presto erano stati oppressi dal caldo e dalla mancanza d’aria. Poi, durante la traversata delle montagne, in Bulgaria, il freddo, trasmesso dal metallo, gli era penetrato fin nelle ossa. Ma il peggio era cominciato ai confini con la Jugoslavia, quando la cisterna, piena di acido, aveva cominciato a perdere.

Lentamente, la vasca aveva distillato i suoi vapori tossici nel sarcofago di metallo. I turchi avevano urlato, bussato, scosso la paratia che li schiacciava, ma il camion aveva proseguito la sua strada. Talat aveva capito che nessuno sarebbe venuto a liberarli prima dell’arrivo e che gridare e muoversi non faceva che aumentare i danni dell’acido.

Era rimasto tranquillo, respirando il meno possibile.

Alla frontiera italiana, i clandestini si erano dati la mano e si erano messi a pregare. Alla frontiera tedesca, la maggior parte di loro era morta. A Nancy, dov’era previsto il primo sbarco, il guidatore aveva scoperto trenta cadaveri allineati, immersi nell’urina e negli escrementi, la bocca aperta in un ultimo spasmo.

Solo un adolescente era sopravvissuto. Ma il suo apparato respiratorio era distrutto. La sua trachea, la laringe e le fosse nasali erano irrimediabilmente bruciate, e il ragazzo aveva perso la voce e l’odorato. Quanto alla respirazione, un’infiammazione cronica l’avrebbe obbligato a inalare in permanenza suffumigi caldi e umidi.

All’ospedale, il dottore aveva fatto venire un traduttore per spiegare al giovane immigrato la triste situazione e per comunicargli che sarebbe ripartito nel giro di dieci giorni, a bordo di un volo charter, alla volta di Istanbul. Tre giorni dopo, Talat Gurdilek scappava, con il volto bendato come una mummia, e raggiungeva la capitale a piedi.

Schiffer l’aveva sempre visto con in mano il suo inalatore. Quando era un giovane capo officina, non lo lasciava mai e parlava tra una vaporizzazione e l’altra. Più tardi, aveva adottato una maschera traslucida che imprigionava la sua voce roca. Poi, il male si era ulteriormente aggravato, ma i suoi mezzi finanziari erano aumentati. Alla fine degli anni Ottanta, Gurdilek aveva costruito l’hammam La Porte Bleue, in rue du Faubourg-Saint-Denis, e aveva attrezzato una sala a uso personale. Una sorta di polmone gigante, un rifugio piastrellato, saturo di vapori di balsamo mentolato.

«Salaam aleikum, Talat. Scusa se ti disturbo durante le tue abluzioni.»

L’uomo si lasciò sfuggire una nuova risata, avvolta in una miscela di vapori:

«Aleikum salaam, Schiffer. Ritorni dal regno dei morti?»

La voce del turco ricordava il sibilo di rami in fiamme.

«Più che altro, sono i morti che mi mandano.»

«Aspettavo la tua visita.»

Schiffer, bagnato fino al midollo, si tolse l’impermeabile e scese gli scalini della vasca:

«Si direbbe che mi aspettano tutti. Degli omicidi che cosa mi dici?»

Il turco fece un respiro profondo e i suoi polmoni produssero un raschiamento di ferraglia:

«Quando ho lasciato il mio paese, mia madre ha versato dell’acqua dietro ai miei passi. Ha disegnato la strada del destino, la strada che avrebbe dovuto farmi tornare. Io non sono mai tornato, fratello. Sono rimasto a Parigi e ho continuato a vedere le cose che peggioravano. Non c’è più niente che vada bene qui.»

Il poliziotto era a soli due metri dal turco, ma continuava a non vederne il volto.

«L’esilio è un duro mestiere, dice il poeta. E, aggiungo io, diventa sempre più duro. Una volta ci trattavano come cani. Ci sfruttavano, ci derubavano, ci arrestavano. Adesso uccidono le nostre donne. Quando finirà tutto questo?»

Schiffer non era dell’umore giusto per sorbirsi quella filosofia da bazar.

«Sei tu che fissi i limiti», replicò. «Tre operaie uccise nel tuo territorio e una proprio nella tua officina: non è poco.»

Gurdilek fece un gesto svogliato.

«Siamo in territorio francese. Proteggerci è compito della vostra polizia.»

«Ma non farmi ridere. I Lupi sono qui e tu lo sai. Chi cercano? E perché?»

«Non lo so.»

«Tu non vuoi saperlo.»

Ci fu un silenzio. Il respiro del turco continuava a solcare pesantemente l’aria.

«Sono padrone di questo quartiere», disse infine. «Non del mio paese. Questo affare ha le sue radici in Turchia.»

«Chi li manda?» chiese Schiffer alzando la voce. «I clan di Istanbul? Le famiglie di Antep? Chi?»

«Non lo so. Te lo giuro.»

Il poliziotto avanzò. Immediatamente, un fremito agitò la nebbia sul bordo della piscina: le guardie del corpo. Si fermò di colpo, tentando ancora di distinguere i lineamenti di Gurdilek. Ma scorse soltanto qualche frammento delle spalle, delle mani e del torso. Una pelle opaca, nera, screpolata dall’acqua, come carta crespa.

«Allora conti di lasciar proseguire il massacro?»

«Il massacro si fermerà quando avranno sistemato quest’affare, quando avranno trovato la ragazza.»

«O quando l’avrò trovata io.»

Le spalle nere si scossero:

«Adesso tocca a me ridere. Non sei all’altezza, amico mio.»

«Chi può aiutarmi in questa operazione?»

«Nessuno. Se qualcuno sapesse qualcosa l’avrebbe già detta. Ma non a te. A loro. Il quartiere aspira solo alla pace.»

Schiffer rifletté un istante. Gurdilek diceva la verità. Era uno dei misteri di quella storia. Come aveva fatto la ragazza a cavarsela fino a quel momento avendo contro l’intera comunità? E perché i Lupi continuavano a cercare nel quartiere? Perché erano certi che si nascondesse ancora nei paraggi?

Cambiò argomento:

«Cos’è successo nel tuo laboratorio?»

«In quel momento io ero a Monaco e…»

«Basta con le cazzate, Talat. Voglio tutti i dettagli.»

Il turco si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato:

«Sono piombati qui, in pieno laboratorio. La notte del 13 novembre.»

«A che ora?»

«Le due del mattino.»

«Quanti erano?»

«Quattro.»

«Qualcuno li ha visti in faccia?»

«Avevano il passamontagna. A quanto dicono le ragazze, erano armati fino ai denti. Fucili, pistole, coltelli. Tutto.»

L’uomo con il giubbotto Adidas aveva descritto la stessa scena. Soldati in tenuta da commando che agivano nel bel mezzo di Parigi. In quarant’anni di carriera non aveva mai sentito una cosa così folle. Chi era quella donna per meritare un tale squadrone?

«Il seguito», mormorò.

«Hanno prelevato la ragazza e se ne sono andati, tutto qui. Non è durato più di tre minuti.»

«Una volta nel laboratorio, come hanno fatto a individuarla?»

«Avevano una foto.»

Schiffer indietreggiò e, attraverso il vapore, disse:

«Si chiamava Zeynep Tütengil. Aveva ventisette anni. Sposata con Burba Tütengil. Senza figli. Stava in rue de la Fidélité 34. Originaria della regione di Gaziantep. Immigrata in Francia dal settembre 2001.»

«Hai lavorato bene, fratello. Ma questa volta non andrai da nessuna parte.»

«Dov’è il marito?»

«È rientrato al paese.»

«Le altre operaie?»

«Dimentica questa faccenda. Sei troppo inquadrato per questo genere di pantano.»

«Smettila di parlare per enigmi.»

«Ai nostri tempi le cose erano semplici. I campi erano nettamente separati. Ora queste frontiere non esistono più.»

«Spiegati meglio, cazzo!»

Talat Gurdilek fece una pausa. I vapori continuavano ad avviluppare il suo profilo. Alla fine disse:

«Se vuoi saperne di più, chiedi alla polizia.»

Schiffer trasalì.

«La polizia? Quale polizia?»

«Ho già raccontato tutto ai ragazzi del commissariato Louis-Blanc.»

Il bruciore della menta gli parve ancora più acuto.

«Quando?»

Gurdilek si sporse sul suo cubo di ceramica:

«Ascoltami bene, Schiffer, perché non te lo ripeterò. Quando i Lupi sono andati via, quella notte, hanno incrociato una macchina di pattuglia. C’è stato un inseguimento. I Lupi hanno seminato i vostri ragazzi. Ma dopo gli sbirri sono venuti qui a dare un’occhiata.»

Schiffer ascoltava quelle rivelazioni senza sapere che pesci pigliare. Per un momento si disse che Nerteaux gli aveva nascosto qualche verbale. Ma non aveva alcuna ragione per pensarla così. Semplicemente, il ragazzo non ne era al corrente.

La voce cavernosa continuò:

«Nel frattempo, le mie ragazze erano fuggite per la tangente. I poliziotti hanno semplicemente constatato l’intrusione e i danni. Il mio capo officina non ha parlato del rapimento, né dei tipi in tenuta da commando. Per la verità, non avrebbe detto niente se non ci fosse stata la ragazza.»

Schiffer sobbalzò:

«La ragazza?»

«Gli sbirri hanno scoperto un’operaia, al fondo dell’hammam, nascosta nel locale macchine.»

Schiffer non credeva alle proprie orecchie. Fin dall’inizio di quell’affare, una ragazza aveva visto i Lupi grigi. E quella ragazza era stata interrogata dalla polizia! Come mai Nerteaux non ne aveva mai sentito parlare? Ormai era una certezza: quelli del commissariato avevano nascosto il verbale.

«Come si chiamava quella donna?»

«Sema Gokalp.»

«Età?»

«Sulla trentina.»

«Sposata?»

«No, nubile. Una strana ragazza. Solitaria.»

«Da dove veniva?»

«Gaziantep.»

«Come Zeynep Tütengil?»

«Come tutte le ragazze del laboratorio. Lavorava qui da qualche settimana. Più o meno dal mese di ottobre.»

«Ha visto il rapimento?»

«Da vicino. Le due ragazze erano insieme, stavano regolando la temperatura nel locale delle tubature. I Lupi hanno prelevato Zeynep. Sema si è nascosta in un ripostiglio. Quando i poliziotti l’hanno scovata era in stato di choc. Morta di paura.»

«Poi?»

«Non ho più avuto notizie.»

«L’hanno rispedita in Turchia?»

«Non ne ho idea.»

«Rispondi Talat. Avrai ben chiesto informazioni.»

«Sema Gokalp è sparita. Il giorno dopo non era già più nella stazione di polizia. Svanita. Yemim ederim. Te lo giuro.»

Schiffer continuava a sudare a grosse gocce. Si sforzò di controllare la propria voce:

«Chi dirigeva la pattuglia quella notte?»

«Beauvanier.»

Cristophe Beauvanier era uno dei capitani del commissariato Louis-Blanc. Un appassionato di culturismo che passava le sue giornate in palestra. Non era il tipo da prendersi carico di una storia così. Bisognava risalire più in alto… Un brivido d’eccitazione scosse i suoi vestiti inzuppati.

Il nababbo parve leggergli nel pensiero:

«Sono loro che coprono i Lupi, Schiffer.»

«Non dire fesserie.»

«Dico la verità e tu lo sai. Hanno eliminato un testimone. Una donna che aveva visto tutto. Forse il viso di uno degli assassini. Forse un dettaglio che avrebbe potuto identificarli. È semplice: coprono i Lupi. Gli altri omicidi sono stati commessi con la loro benedizione. Allora puoi mettere via i tuoi modi da grande giustiziere. Voi non valete più di noi.»

Schiffer evitò di deglutire per non aggravare il bruciore in gola. Gurdilek si sbagliava: l’influenza dei turchi non poteva salire così in alto negli ambienti della polizia francese. Lui era ben piazzato per saperlo: per ben vent’anni aveva fatto da ponte tra i due mondi.

Dunque, doveva esserci un’altra spiegazione.

C’era tuttavia un dettaglio che gli girava per la testa. Un dettaglio che poteva avvalorare l’ipotesi di una macchinazione in alto loco. Il fatto che avessero affidato un’inchiesta concernente tre omicidi a Paul Nerteaux, capitano senza esperienza, sbarcato dalla luna. Solo il ragazzo poteva pensare che gli dessero fiducia fino a quel punto. Aveva davvero l’aria di un tentativo di insabbiamento…

Sotto le sue tempie bollenti, i pensieri si inseguivano. Se quel merdaio era vero, se l’affare era frutto di un’alleanza franco-turca, se davvero i poteri politici dei due paesi avevano lavorato per i propri interessi fregandosene delle vite di quelle povere ragazze e delle speranze di un giovane poliziotto, allora Schiffer avrebbe aiutato il ragazzo fino alla fine.

Due contro tutti: ecco una formula che gli piaceva.

Indietreggiò nel vapore, salutò il vecchio pascià, poi, senza una parola, risalì gli scalini.

Gurdilek bruciò un’ultima risata:

«È ora di fare le pulizie a casa tua, fratello mio.»

44.

Schiffer aprì la porta del commissariato con una spallata.

Tutti gli sguardi si fissarono su di lui. Inzuppato fino alle ossa, li squadrò di rimando, gustandosi le loro espressioni smarrite. Due gruppi di agenti, con addosso la cerata, erano sul punto di uscire. Alcuni luogotenenti stavano loro infilando i bracciali rossi. Le grandi manovre erano già cominciate.

Sul bancone, Schiffer vide una pila di identikit. Pensò a Paul Nerteaux che stava distribuendo i suoi manifesti in tutti i commissariati del decimo arrondissement, come se fossero stati volantini politici, senza dubitare neanche un istante di essere un merlo preso in mezzo a quell’affare. Fu nuovamente assalito dalla rabbia.

Senza dire una parola, salì al primo piano. Si infilò in un corridoio nel quale si aprivano porte in compensato e andò dritto alla terza.

Beauvanier non era cambiato. Spalle gonfie, giacca di pelle nera, scarpe Nike con la zeppa. Il poliziotto soffriva di una strana malattia, sempre più diffusa tra gli sbirri: il giovanilismo. Era ormai vicino alla cinquantina, ma si ostinava ancora a fare la parte del giovane rapper.

Stava fissando alla cintura la sua fondina, in vista della spedizione notturna.

«Schiffer?» disse. «Cosa ci fai qui?»

«Come va, bello mio?»

Prima che lui potesse rispondere, Schiffer lo afferrò per il bavero della giacca e lo appiccicò al muro. In un attimo arrivarono in suo soccorso alcuni colleghi. Da sopra la testa del suo aggressore, Beauvanier indirizzò loro un gesto di distensione:

«Nessun problema ragazzi! È un amico!»

Vicinissimo alla sua faccia, Schiffer mormorò:

«Sema Gokalp. Il 13 novembre scorso. Il bagno turco di Gurdilek.»

Gli occhi si spalancarono. La bocca tremò. Schiffer gli sbatté la testa contro la parete. I poliziotti si precipitarono. Sentiva già le dita chiudersi sulle sue spalle, ma Beauvanier agitò nuovamente la mano, sforzandosi di ridere:

«Vi dico che è un amico. Va tutto bene!»

Lasciarono la presa e fecero un passo indietro. Infine la porta si richiuse, lentamente, come a malincuore. Schiffer allentò a sua volta la stretta e, con un tono più calmo, chiese:

«Cosa ne hai fatto di quella testimone? Come hai fatto a farla sparire?»

«Ehi man! Le cose non sono mica andate così. Io non ho fatto sparire un bel niente…»

Schiffer fece un passo indietro, per guardarlo meglio. La sua faccia aveva una strana dolcezza. Un viso da ragazza, con gli occhi blu e incorniciato da capelli nerissimi. Gli ricordava una fidanzata irlandese che aveva avuto da giovane: una «Black-Irish», che faceva contrastare il bianco col nero, invece del solito binomio bianco e rosso.

Il poliziotto rapper portava un cappellino da baseball con la visiera girata all’indietro, sicuramente per accentuare l’effetto «ragazzo di strada».

Schiffer prese una sedia e lo fece sedere a forza:

«Ti ascolto. Voglio tutti i dettagli.»

Beauvanier cercò di sorridere, ma invano.

«Quella notte, una pattuglia ha incrociato una BMW. A bordo c’erano dei tipi usciti dall’hammam La Porte Bleue e…»

«Questo lo so già. Tu quando sei intervenuto?»

«Circa mezz’ora più tardi. I ragazzi mi hanno chiamato. Li ho raggiunti da Gurdilek. Con quelli della scientifica.»

«Sei tu che hai scoperto la ragazza?»

«No. L’avevano trovata mentre arrivavo. Era fradicia. Sai che lavoro fanno le tipe laggiù. È…»

«Descrivimela.»

«Piccola. Bruna. Magra come un glissino. Batteva i denti. Mormorava cose incomprensibili. In turco.»

«Vi ha raccontato quello che ha visto?»

«Non ci ha raccontato un bel niente. Non ci vedeva neppure. Era traumatizzata.»

Beauvanier non mentiva: la sua voce sembrava sincera. Schiffer andava avanti e indietro nella stanza, continuando a squadrarlo.

«Secondo te, cos’è successo nel bagno turco?»

«Non lo so. Una storia di racket. Tipi che vogliono fare i duri.»

«Il racket contro Gurdilek? E chi è che ne avrebbe il coraggio?»

L’ufficiale si sistemò la giacca di pelle, come se gli prudesse il collo.

«Con i turchi non si può mai sapere. Magari c’è un nuovo clan nel quartiere. O forse è un colpo dei curdi. È il loro business. Gurdilek non ha neppure fatto denuncia. Abbiamo lavorato per niente e…»

D’un tratto ebbe chiara una cosa. Gli uomini della Porte Bleue non avevano parlato del rapimento di Zeynep, né dei Lupi grigi. Dunque Beauvanier credeva veramente alla sua ipotesi di racket. Nessuno aveva stabilito un legame tra quella visita all’hammam e la scoperta del primo corpo due giorni dopo.

«Che cosa ne hai fatto di Sema Gokalp?»

«Al posto di polizia le abbiamo dato dei vestiti e delle coperte. Tremava come una foglia. Abbiamo trovato il suo passaporto cucito nella gonna. Non aveva il visto, niente. Pronta per l’Immigrazione. Ho mandato loro un rapporto via fax. Ne ho inviato uno anche allo stato maggiore, in place Beauvau, per essere coperto. Non mi restava che aspettare.»

«E poi?»

Beauvanier sospirò, passandosi l’indice nel colletto:

«Ha continuato a tremare. Stava diventando decisamente preoccupante. Batteva i denti, non poteva bere né mangiare. Alle cinque del mattino, mi sono deciso a portarla al Sainte-Anne.»

«Perché tu e non gli agenti?»

«Quei coglioni volevano metterle la camicia di forza. E poi… Non lo so, quella ragazza aveva un qualcosa… Ho riempito un modulo “32 13” e l’ho portata.»

La sua voce si spense. Non la smetteva più di grattarsi la testa. Schiffer scorse delle tracce profonde di acne.

«Tossico», pensò.

«L’indomani mattina ho chiamato l’immigrazione e li ho mandati al Saint-Anne. A mezzogiorno mi hanno richiamato: non avevano trovato la ragazza.»

«Era scappata?»

«No, alle dieci del mattino alcuni poliziotti l’avevano prelevata.»

«Quali poliziotti?»

«Non mi crederai mai.»

«Provaci lo stesso.»

«Secondo il medico di guardia, erano ragazzi della DNAT.»

«La Divisione antiterrorismo?»

«Sono andato a verificare di persona. Avevano presentato un ordine di trasferimento. Era tutto in regola.»

Per il suo ritorno all’ovile, Schiffer non avrebbe potuto sognare un fuoco d’artificio più bello. Si sedette su un angolo della scrivania.

«Li hai contattati?»

«Ho tentato. Ma sono rimasti molto abbottonati. Da quanto ho potuto capire, hanno intercettato il mio rapporto a place Beauvau. Poi, gli ordini li ha dati Charlier.»

«Philippe Charlier?»

Il capitano annuì. Tutta quella storia sembrava sfuggirgli completamente. Charlier era uno dei cinque commissari della Divisione antiterrorismo. Un poliziotto ambizioso che Schiffer conosceva da quando era nell’antigang, nel ’77. Un vero bastardo. Forse più astuto di lui, ma non meno brutale.

«Poi?»

«Poi, niente. Non ho mai più avuto notizie.»

«Non mi prendere per il culo.»

Beauvanier esitò. La sua fronte era imperlata di sudore, gli occhi bassi.

«Il giorno dopo mi ha chiamato Charlier in persona. Mi ha fatto un mucchio di domande su quella faccenda. Dove avevamo trovato la ragazza turca, in quali circostanze, cose così.»

«Cosa gli hai risposto?»

«Quello che sapevo.»

«Cioè niente», pensò Schiffer. Il poliziotto con il cappellino terminò:

«Charlier mi ha avvertito che si sarebbe incaricato lui della questione. La comunicazione alla Procura, al Servizio di controllo degli stranieri, la procedura abituale insomma. Mi ha anche fatto capire che era nel mio interesse dimenticare il tutto.»

«Hai ancora il tuo rapporto?»

«Secondo te? Sono passati a prenderlo il giorno stesso.»

«E il registro?»

Il sorriso si trasformò in risata.

«Quale registro? Ehi, man, hanno cancellato tutto. Anche le registrazioni del traffico radio. Hanno fatto sparire il testimone! Completamente e semplicemente.»

«Perché?»

«E io che cosa ne so? Quella ragazza non poteva dire niente. Era fuori come un balcone.»

«E tu, perché non hai fatto niente?»

Il poliziotto abbassò la voce:

«Charlier mi tiene in pugno. Una vecchia storia…»

Schiffer gli piazzò un diretto nel braccio, in modo amichevole, poi si alzò. Cercava di digerire quelle informazioni, camminando per la stanza. Per incredibile che potesse sembrare, il sequestro di Sema Gokalp da parte della DNAT riguardava un affare diverso. Un affare che non aveva niente a che vedere con la serie di omicidi e con i Lupi grigi. E tuttavia, l’importanza della testimone per la sua inchiesta non veniva messa in discussione. Doveva trovare Sema Gokalp, perché lei aveva visto qualcosa.

«Hai ripreso servizio?» arrischiò Beauvanier.

Schiffer si risistemò i pantaloni bagnati e ignorò la questione. Notò sulla scrivania uno degli identikit di Nerteaux. L’afferrò, come un cacciatore di taglie, e domandò:

«Ti ricordi il nome del medico che ha preso in carico Sema al Sainte-Anne?»

«Eccome. Jean-François Hirsch. Mi ha dato una mano per delle ricette…»

Schiffer non ascoltava più. Il suo sguardò si posò di nuovo sull’identikit. Era un’abile sintesi dei volti delle tre vittime. Lineamenti larghi e dolci che splendevano timidamente sotto i capelli rossi. Gli tornò in mente un frammento di una poesia turca:

«Il padichah aveva una figlia / Che assomigliava alla luna nel quattordicesimo giorno…»

Beauvanier azzardò ancora:

«La storia della Porte Bleue ha qualche rapporto con questa tizia?»

Schiffer si mise in tasca l’identikit. Afferrò la visiera del cappellino del poliziotto e la raddrizzò:

«Se qualcuno ti fa delle domande non avrai certo difficoltà a trovare qualcosa da raccontare a ritmo di rap, man.»

45.

Ospedale Sainte-Anne, ore ventuno.

Conosceva bene il posto. Il lungo muro di cinta con le pietre fittamente accostate, la piccola porta, al 17 di rue Broussais, discreta quanto l’ingresso degli artisti in un teatro. Poi la città nella città, complessa, immensa. Un insieme di blocchi e di padiglioni in un miscuglio di secoli e di architetture. Una vera fortezza, che racchiudeva un universo di demenza.

Tuttavia, quella sera la cittadella non sembrava così ben sorvegliata. Fin dai primi edifici, gli striscioni annunciavano un clima particolare: «Sicurezza in sciopero», «Assunzioni o morte!» Più in là, altre scritte: «No agli straordinari», «Ferie rubate»…

Schiffer fu divertito dall’idea del più grande ospedale psichiatrico di Parigi abbandonato a sé stesso, con i pazienti che gironzolavano liberamente. Immaginava già una rivolta dei pazzi, un casino generalizzato dove, nottetempo, i malati prendevano il posto dei medici. Ma, entrando, scoprì solo una città fantasma, totalmente deserta.

Seguì i cartelli rossi che indicavano la direzione del pronto soccorso neurochirurgico e neurologico, e, di sfuggita, notò i nomi dei vialetti. Aveva appena lasciato il viale Guy de Maupassant e ora risaliva il sentiero Edgar Allan Poe. Si chiese se chi aveva concepito quell’ospedale avesse avuto un intento ironico. Maupassant era sprofondato nella follia, e anche l’autore di Il pozzo e il pendolo, ormai alcolizzato, certo non aveva finito la sua esistenza con le idee molto chiare. Nelle città comuniste le vie si chiamavano Karl Marx o Pablo Neruda. Al Sainte-Anne, avevano il nome di pazzi famosi.

Schiffer tirò su il colletto, sforzandosi di giocare il suo consueto ruolo da duro, ma sentiva la paura crescere dentro di sé. Troppi ricordi, troppe ferite dietro quei muri…

Dopo l’Algeria era finito lì, in uno di quegli edifici; e aveva solo vent’anni. Nevrosi di guerra. Era stato internato per diversi mesi, inseguito dalle sue allucinazioni, roso dalle idee di suicidio. Altri che, ad Algeri, avevano lavorato al suo fianco ai Distaccamenti operativi di protezione, non avevano esitato tanto. Si ricordava di un ragazzo di Lille che si era impiccato appena tornato a casa. E di quel bretone che, nella fattoria di famiglia, con un’ascia si era tagliato la mano destra, la mano che aveva collegato gli elettrodi, che aveva spinto le nuche dentro le vasche da bagno…

La sala del pronto soccorso era deserta.

Un grande quadrato vuoto, rivestito di piastrelle color porpora. La polpa di un’arancia sanguigna. Schiffer premette il campanello e vide arrivare un’infermiera all’antica: grembiale allacciato in vita, capelli raccolti e occhiali bifocali.

Nel vederlo così male in arnese ebbe un gesto di disappunto, ma lui, con un movimento secco, le mostrò il tesserino e le spiegò ciò che voleva. Senza dire una parola, l’infermiera partì, alla ricerca del dottor Jean-François Kirsch.

Si sedette su una delle panche fissate al muro. Gli sembrò che le pareti di mattonelle si stessero scurendo. Malgrado i suoi sforzi, non riusciva ad arginare i ricordi che sorgevano dal fondo della sua memoria.

1960

Quando era arrivato ad Algeri per diventare «agente dei servizi informazioni», non aveva cercato di defilarsi, né di attenuare l’atrocità del lavoro con l’alcol o con le pastiglie dell’infermeria. Al contrario: ci si era buttato a capofitto, giorno e notte, convinto che sarebbe rimasto padrone del proprio destino. La guerra lo aveva costretto alla grande scelta, la sola, l’unica: la sua scelta di campo. Non poteva tornare indietro, né voltarsi. E non poteva permettersi di aver torto: andare avanti o farsi saltare le cervella.

Aveva praticato la tortura giorno e notte, strappando confessioni ai ribelli algerini. Dapprima con i metodi consueti: pugni, scosse elettriche, vasca da bagno. Poi con tecniche personali. Aveva organizzato finte esecuzioni, portando i prigionieri incappucciati fuori della città e guardandoli mentre si pisciavano addosso quando puntava loro la pistola alla tempia. Aveva preparato cocktail a base di acido che somministrava a forza, ficcando l’imbuto in gola. Aveva rubato strumenti medici all’ospedale, per creare qualche variante, come quella pompa per lo stomaco che utilizzava per iniettare l’acqua nelle narici…

La paura lui la modellava, la scolpiva, le dava forma in modo sempre più intenso. Quando aveva deciso di dissanguare i propri prigionieri per indebolirli e per dare il loro sangue alle vittime degli attentati, aveva provato una strana ebbrezza. Si era sentito un dio che possedeva il diritto di vita e di morte. Talvolta, nella sala degli interrogatori, rideva da solo, accecato dal proprio potere, mentre contemplava con meraviglia il sangue che gli ricopriva le dita.

Un mese dopo era stato rimpatriato in Francia, colpito da totale mutismo. Le sue mascelle erano paralizzate: non poteva pronunciare neanche una parola. Era stato internato al Sainte-Anne, in un edificio occupato solo da traumatizzati di guerra. Quel genere di posto dove i corridoi risuonano di gemiti e dove è impossibile finire un pasto senza essere inzaccherati dal vomito di un vicino di tavola.

Rinchiuso nel suo silenzio, Schiffer viveva in uno stato di terrore. Nei giardini soffriva di disorientamento; non sapeva più dove si trovava e si chiedeva se gli altri malati non fossero per caso i detenuti che lui aveva torturato. Quando camminava lungo il portico del padiglione, rasentava i muri «per non essere visto dalle sue vittime».

La notte gli incubi prendevano il posto delle allucinazioni. Uomini nudi, inebetiti sulle loro sedie, testicoli che si incendiavano sotto gli elettrodi, mandibole che si fracassavano contro lo smalto dei lavabo, narici che sanguinavano, ostruite dalla siringa… Per la verità, non erano visioni, erano ricordi. Rivedeva soprattutto quell’uomo, appeso a testa in giù, a cui aveva fatto esplodere la testa con un calcio. Si risvegliava annegato nel sudore, si vedeva ancora sporco di quel cervello. Scrutava l’interno della propria camera e vedeva intorno a sé i muri lisci di una cantina, la vasca da bagno installata da poco e, sul tavolo al centro, la ricetrasmittente ANGRC9, la famosa gégène.

I medici gli avevano spiegato che non era possibile cancellare ricordi così. Al contrario, gli consigliarono di affrontarli, di dedicare a essi un po’ di tempo ogni giorno. Quella strategia andava d’accordo col suo carattere. Non si era fermato sul campo, non si sarebbe certo perso ora, in quel giardino popolato di fantasmi.

Aveva firmato il proprio foglio di dimissione e si era immerso nella vita civile.

Aveva fatto richiesta per diventare poliziotto, nascondendo i suoi trascorsi psichiatrici e puntando sul proprio grado di sergente e le sue onorificenze militari. Il contesto politico gli era favorevole. A Parigi gli attentati dell’OAS si moltiplicavano. C’era bisogno di gente per braccare i terroristi, di gente che avesse naso per fiutare il terreno… E quello lui lo sapeva fare. Il suo senso della strada aveva subito fatto meraviglie, così come i suoi metodi. Lavorava da solo, senza l’aiuto di nessuno, mirando solo ai risultati. E di risultati ne otteneva parecchi.

Ormai, la sua esistenza sarebbe stata quella. Avrebbe contato sempre su sé stesso, solo su sé stesso. Sarebbe stato al di sopra delle leggi e al di sopra degli uomini. Sarebbe stato lui stesso la sua sola legge e avrebbe attinto solo alla sua voglia di giustizia. Una sorta di patto cosmico: la sua parola contro tutta la merda del mondo.

«Cosa vuole?»

La voce lo fece sussultare. Si alzò e fotografò l’uomo che stava arrivando.

Jean-François Hirsch era alto, più di un metro e ottanta, e magro. Lunghe braccia e mani massicce. Schiffer le vide come due contrappesi per dare equilibrio a quel profilo longilineo. In più aveva un bel viso, incorniciato da capelli biondi e ricci. Un altro punto di equilibrio… Non indossava il camice, ma un cappotto di loden. Evidentemente stava per uscire.

Schiffer si presentò, senza mostrare il tesserino:

«Luogotenente Jean-Louis Schiffer. Dovrei farle delle domande. Basteranno pochi minuti.»

«Sto finendo il turno e sono già in ritardo. Non si può rimandare a domani?»

La voce era un altro contrappeso. Grave. Stabile. Solida.

«Spiacente», replicò il poliziotto. «È una questione importante.»

Il medico squadrò il suo interlocutore. L’odore di menta si infilava in mezzo a loro come un paravento di freschezza. Hirsch sospirò e si sedette su una delle panche imbullonate:

«Di cosa si tratta?»

Schiffer rimase in piedi.

«Un’operaia turca che lei ha visitato il 14 novembre 2001, al mattino. Era stata portata qui dal luogotenente Christophe Beauvanier.»

«E allora?»

«A noi pare che in quella procedura ci siano state delle irregolarità.»

«Lei di quale ufficio è?»

Il poliziotto ci andò pesante:

«Inchiesta interna. Ispezione generale dei servizi.»

«La avviso, non dirò una parola sul capitano Beauvanier. Mai sentito parlare del segreto professionale?»

Il medico si stava sbagliando sul perché di quelle domande. Certamente aveva aiutato «Mister Man» a risolvere uno dei suoi problemi di droga. Schiffer assunse un tono distaccato:

«La mia inchiesta non riguarda Cristophe Beauvanier. Non me ne importa niente se gli avete prescritto il metadone o qualcosa del genere.»

Schiffer aveva visto giusto, l’altro alzò un sopracciglio poi si raddolcì:

«Cos’è che vuole sapere?»

«L’operaia turca. Mi interessano i poliziotti che sono venuti a prenderla, dopo.»

Lo psichiatra accavallò le gambe e aggiustò la piega dei pantaloni:

«Sono arrivati circa quattro ore dopo che era stata ricoverata. Avevano l’ordine di trasferimento e quello di espulsione. Era tutto regolare. Quasi troppo, direi.»

«Troppo?»

«I moduli erano timbrati, firmati. Venivano direttamente dal Ministero degli interni. Era la prima volta che vedevo tanti documenti per una semplice clandestina.»

«Mi parli di lei.»

Hirsch si osservava la punta delle scarpe, cercando di riordinare le idee:

«Quando è arrivata ho pensato a un’ipotermia. Tremava. Le mancava il fiato. Dopo averla visitata, mi sono reso conto che la sua temperatura era normale. Anche il suo apparato respiratorio era a posto. I sintomi erano di origine isterica.»

«Che cosa vuole dire?»

Abbozzò un sorriso di superiorità:

«Mostrava dei segni fisici, ma nessuna causa fisiologica.»

Poi, puntando l’indice alla tempia, aggiunse:

«Veniva tutto da qui, dalla testa. Quella donna aveva subito uno choc. Il suo corpo reagiva di conseguenza.»

«Secondo lei, che genere di choc?»

«Una violenta paura. Erano i sintomi classici di un’angoscia esogena. Le analisi del sangue lo hanno confermato. Abbiamo trovato tracce di una forte scarica di ormoni e anche un significativo picco di cortisolo. Ma queste sono cose un po’ troppo tecniche per lei…»

Il sorriso divenne beffardamente altezzoso.

Quel tipo cominciava a dargli fastidio, con le sue arie. L’altro parve avvertirlo e, con un tono più naturale, aggiunse:

«Quella donna aveva subito uno stress intenso. A quel livello arriverei a parlare di trauma. Mi ricordava i casi che si incontrano al fronte, dopo le battaglie. Paralisi inspiegabili, asfissie improvvise, balbuzie, quel tipo di…»

«Conosco queste cose. Me la descriva. Fisicamente, intendo.»

«Bruna. Molto pallida. Molto magra, al limite dell’anoressia. Pettinata alla Cleopatra. Un fisico molto duro, ma questo, stranamente, non intaccava la sua bellezza. Al contrario. Da quel punto di vista era abbastanza… impressionante.»

Schiffer incominciava a farsi un’idea piuttosto chiara della ragazza. L’istinto gli suggeriva che quella non era una semplice operaia. Né una semplice testimone.

«L’ha curata?»

«Dapprima le ho iniettato un ansiolitico. I suoi muscoli si sono rilassati. Si è messa a sghignazzare, poi a farfugliare. Una vera buffée delirante. Le sue frasi erano senza senso.»

«In ogni modo parlava in turco, no?»

«No. Parlava francese come lei e me.»

Un’idea folle gli attraversò la mente. Ma preferì accantonarla, per conservare il suo sangue freddo.

«Le ha detto quello che aveva visto? Quello che era successo nell’hammam?»

«No. Non faceva altro che ripetere pezzi di frasi, parole incoerenti.»

«Ad esempio?»

«Diceva che i lupi si erano sbagliati. Sì, proprio così… Parlava di lupi. Ripeteva che avevano rapito la ragazza sbagliata. Incomprensibile.»

Un flash nella sua mente. L’idea di prima tornò prepotentemente. Come aveva fatto un’operaia a capire che gli intrusi erano dei Lupi grigi? Come poteva sapere che avevano sbagliato obiettivo? C’era una sola risposta: la vera Preda era lei.

Sema Gokalp era la donna da uccidere.

Senza difficoltà, Schiffer ricompose il puzzle. Gli assassini avevano avuto una soffiata: il loro obiettivo lavorava, di notte, nell’hammam di Talat Gurdilek. Erano entrati e avevano rapito la prima donna che assomigliasse a quella della loro foto: Zeynep Tütengil. Ma si erano sbagliati: la rossa, la vera, aveva preso delle precauzioni e si era tinta i capelli di nero.

Gli venne un’altra idea. Estrasse dalla tasca l’identikit:

«La ragazza assomigliava a questa?»

L’uomo si sporse in avanti per guardare:

«Assolutamente no. Perché me lo chiede?»

Schiffer mise in tasca il foglio senza rispondere.

Un secondo flash. Una nuova conferma. Sema Gokalp, o la donna che si nascondeva dietro quel nome, era andata oltre nella sua metamorfosi: aveva cambiato volto. Aveva fatto ricorso alla chirurgia estetica. Una tecnica classica per quelli che vogliono prendere definitivamente il largo. Soprattutto nell’universo criminale. Poi si era fatta passare per un’anonima operaia, persa nei vapori della Porte Bleue. Ma perché era rimasta a Parigi?

Per qualche istante cercò di mettersi nei suoi panni. Quando, la notte del 13 novembre 2001, aveva visto penetrare nel laboratorio i Lupi incappucciati, aveva pensato che per lei era finita. E invece gli assassini si erano gettati sulla sua compagna di lavoro. Una rossa che rassomigliava a quella che lei era una volta… Quella donna aveva subito uno stress intenso. Era il minimo che si potesse dire.

«Cos’altro ha raccontato?» riprese. «Cerchi di ricordarselo.»

«Credo…»

Distese le gambe e fissò ancora i lacci delle scarpe.

«Credo che parlasse di una strana notte. Una notte singolare in cui brillavano quattro lune. E poi parlava di un uomo dal mantello nero.»

Se ancora aveva bisogno di un’ultima prova, eccola. Le quattro lune. I turchi che conoscevano il significato di quel simbolo si potevano contare sulle dita di una mano. La verità andava oltre l’immaginabile.

Perché ora lui capiva chi era quella preda.

E perché la mafia turca avesse lanciato i Lupi al suo inseguimento.

«Passiamo ai poliziotti che sono venuti il giorno dopo», riprese Schiffer cercando di controllare la propria eccitazione. «Cos’hanno detto mentre la portavano via?»

«Niente, mi hanno solo mostrato la loro autorizzazione.»

«Che aspetto avevano?»

«Dei colossi. Con dei vestiti costosi. Il genere “guardia del corpo”.»

I cerberi di Philippe Charlier. Dove l’avevano portata? In un centro di detenzione provvisoria? L’avevano rispedita al suo paese? La Divisione antiterrorismo sapeva che era realmente Sema Gokalp? No, sicuramente non lo sapevano. Quel rapimento e quel mistero dovevano avere un’altra spiegazione.

Salutò il medico, attraversò la stanza rossa e, sulla porta, si voltò:

«Ammettendo che Sema sia ancora a Parigi, lei dove la cercherebbe?»

«In un manicomio.»

«Ma ha avuto il tempo di riprendersi da quelle emozioni, no?»

Il tipo alto cercò di spiegarsi meglio:

«Forse mi sono espresso male. Quella donna non ha avuto paura. Ha incontrato il terrore in persona. Ha superato la soglia di ciò che un essere umano può tollerare.»

46.

L’ufficio di Philippe Charlier era al numero 133 di rue du Faubourg-Saint-Honoré, non lontano dal Ministero degli interni.

Gli edifici dall’aria tranquilla a pochi passi dagli Champs-Elysées erano in realtà dei bunker ben sorvegliati. Delle estensioni del potere poliziesco a Parigi.

Jean-Louis Schiffer superò il portone e passò nel giardino. Il parco formava un grande quadrato di ciottoli grigi, lisci e puliti come quelli di un giardino zen. Le siepi di ligustro, tagliate con cura, formavano pareti invalicabili, mentre gli alberi mostravano i loro rami troncati come monconi. Non un luogo di combattimento, pensò Schiffer: un luogo di menzogna.

Al fondo, c’era un edificio dal tetto d’ardesia, con una veranda i cui vetri erano sostenuti da una struttura di metallo nero. Al di sopra di essa, la facciata mostrava le sue cornici, i suoi balconi e i suoi ricami di pietra. «Stile impero», decretò Schiffer, scorgendo gli allori incrociati sulle anfore tonde nelle nicchie. In realtà, lui qualificava così qualsiasi architettura che avesse superato lo stadio dei torrioni e delle feritoie.

Sulla scalinata gli vennero incontro due poliziotti in uniforme.

Schiffer fece il nome di Charlier. Erano le ventidue, ed era certo che lo sbirro dal colletto bianco fosse ancora lì ad architettare complotti alla luce della sua lampada da scrivania.

Uno dei piantoni lo fece annunciare, continuando a tenerlo d’occhio. Ascoltò la risposta, scrutando ancora più intensamente il visitatore. Poi, i due uomini lo fecero passare attraverso un metal detector e lo perquisirono.

Infine, poté attraversare la veranda e si ritrovò in una grande sala di pietra. «Primo piano», gli dissero.

Schiffer si diresse verso la scala. I suoi passi risuonavano come in una chiesa. Gli scalini erano di granito levigato dall’uso e la balaustra di marmo; ai lati due candelabri di ferro battuto.

Schiffer sorrise: si trattavano bene i cacciatori di terroristi.

Il primo piano concedeva qualcosa in più alla modernità: pannelli di legno verniciato, applique in mogano, moquette marrone. In fondo al corridoio rimaneva un ultimo ostacolo da superare: lo sbarramento di controllo che dava l’esatta misura del potere del commissario Philippe Charlier.

Quattro uomini con la tuta di kevlar nero montavano la guardia dietro un vetro blindato. Sopra la tuta portavano una giubba d’assalto nella quale erano infilate pistole, caricatori, granate e altri gingilli del genere. Ognuno di loro teneva in pugno un fucile mitragliatore a canna corta di marca H K.

Schiffer si prestò a una nuova perquisizione. Questa volta, Charlier fu avvertito attraverso una ricetrasmittente. Alla fine, poté raggiungere una doppia porta in legno chiaro sulla quale c’era una targa di rame. Visto l’ambiente, bussare era inutile.

Il Gigante Verde era seduto dietro una scrivania di quercia massiccia, in maniche di camicia. Si alzò e si aprì in un ampio sorriso.

«Schiffer, mio vecchio Schiffer…»

Ci fu una stretta di mano silenziosa, durante la quale i due uomini si studiarono. Charlier era sempre lo stesso. Un metro e ottantacinque. Più di cento chili. Una roccia affabile, col naso rotto e i baffi da orsacchiotto, che, a dispetto dell’alto grado, portava ancora la pistola alla cintura.

Schiffer notò la qualità della camicia: blu cielo, con il colletto bianco, il celebre modello firmato Charvet. Malgrado i suoi sforzi per essere elegante, Charlier conservava nel corpo qualcosa di terribile; una potenza fisica che lo collocava in una dimensione diversa da quella degli esseri umani. Il giorno dell’Apocalisse, quando gli uomini avrebbero avuto solo le proprie mani per difendersi, lui sarebbe stato l’ultimo a morire…

Si sprofondò di nuovo nella sua poltrona di pelle e prese a guardare con disprezzo quel suo interlocutore così mal vestito. Poi, tamburellando con le dita sui fogli che ingombravano la scrivania, chiese: «Cosa vuoi? Ho parecchio lavoro.»

Schiffer sentiva che la sua aria tranquilla era pura finzione: Charlier era teso. Ignorando la sedia che il commissario gli indicava, attaccò:

«Il 14 novembre 2001 hai fatto trasferire un testimone di una violazione di domicilio. La Porte Bleue, un bagno turco nel decimo arrondissement. Il testimone si chiamava Sema Gokalp. Il responsabile dell’inchiesta era Christophe Beauvanier. Il problema è che nessuno sa dove hai trasferito quella donna. Hai cancellato ogni traccia e l’hai fatta sparire. Me ne frego del perché l’hai fatto. Voglio sapere solo una cosa: dov’è?»

Charlier sbadigliò senza rispondere. Era una buona finzione, ma Schiffer sapeva leggere i sottotitoli: l’orco era spaventato. Sulla sua scrivania era appena stata depositata una bomba.

«Non so di cosa parli», disse infine. «Perché cerchi quella donna?»

«È legata a un affare sul quale sto lavorando.»

Il commissario assunse un tono bonario:

«Schiffer, tu sei in pensione.»

«Ho ripreso servizio.»

«Quale affare? Quale servizio?»

Schiffer sapeva di dover fare qualche concessione se voleva ottenere delle informazioni:

«Sto indagando sui tre omicidi del decimo arrondissement.»

Il volto corrucciato si distese:

«Se ne sta occupando la polizia giudiziaria del decimo. Chi è che ti ha tirato dentro?»

«Il capitano Paul Nerteaux, il responsabile dell’inchiesta.»

«E cos’ha a che vedere con tutto questo la tua Sema comesichiama?»

«È la stessa indagine.»

Charlier si mise a giocare con un tagliacarte. Una sorta di pugnale di foggia orientale. Ogni gesto tradiva il suo nervosismo.

«Ho visto di sfuggita un verbale su quella storia dell’hammam», ammise infine. «Un problema di racket credo…»

Schiffer era capace di riconoscere la minima sfumatura, la minima vibrazione di una voce: era il risultato di anni di interrogatori. E Charlier gli sembrava fondamentalmente sincero: l’attacco alla Porte Bleue non lo interessava affatto. Ancora un po’ di esca e poi l’avrebbe intrappolato sul serio.

«Non si trattava di racket.»

«No?»

«I Lupi grigi sono tornati, Charlier. Sono loro che hanno fatto irruzione nell’hammam. Quella notte hanno rapito una ragazza. Il suo cadavere è stato ritrovato due giorni dopo.»

Le sue folte sopracciglia sembravano disegnare due punti interrogativi:

«Perché si divertirebbero a trucidare un’operaia?»

«Hanno un contratto. Cercano una donna. Nel quartiere turco. Sai che me ne intendo di questo tipo di cose. È già la terza volta che si sbagliano.»

«Qual è il legame con Sema Gokalp?»

Si prese il tempo necessario per mentire a metà:

«La notte del bagno turco, lei ha visto tutto. È una testimone fondamentale.»

Negli occhi di Charlier vide il turbamento. Non si aspettava niente del genere.

«Di cosa si tratta secondo te? Chi è immischiato in questa storia?»

«Non lo so», mentì di nuovo Schiffer. «Ma io cerco quegli assassini. E Sema può mettermi sulla strada giusta.»

Charlier sprofondò ancora di più nella sua poltrona.

«Dammi una sola ragione per aiutarti.»

Il poliziotto alla fine si sedette: cominciava il negoziato.

«Oggi sono di buon umore», sorrise Schiffer «e te ne darò due. La prima è che potrei rivelare ai tuoi superiori che sottrai i testimoni di un caso di omicidio. E questo fa disordine.»

Charlier gli restituì il sorriso:

«All’occorrenza posso fornire tutti gli incartamenti. Il suo mandato di espulsione. Il suo biglietto aereo. È tutto in ordine.»

«Hai le mani lunghe, Charlier, ma non arrivano fino in Turchia. Con una sola telefonata, posso provare che Sema Gokalp non è mai giunta a destinazione.»

Il commissario sembrava improvvisamente smagrito.

«Chi crederebbe a un poliziotto corrotto? Da quando eri nell’antigang non hai fatto altro che collezionare provvedimenti disciplinari. Mentre io sono al vertice della piramide.»

«È il vantaggio della mia posizione. Non ho niente da perdere.»

«Dimmi piuttosto la seconda ragione.»

Schiffer appoggiò i gomiti sulla scrivania. Sapeva già di aver vinto.

«Il piano Vigipirate del 1995. Quando ti scatenavi sugli indiziati magrebini al commissariato Louis-Blanc.»

«Ricatto a un commissario?»

«O forse un modo per scaricarsi la coscienza. Io sono in pensione. Potrei aver voglia di vuotare il sacco. Di ricordarmi di Abdel Saraoui, morto per i tuoi pugni. Se io apro le danze, al Louis-Blanc mi seguiranno tutti. Le urla di quel tipo le hanno ancora sullo stomaco, credimi.»

Charlier continuava a fissare il tagliacarte che teneva nelle sue mani enormi. Quando riprese a parlare, la sua voce era cambiata.

«Sema Gokalp non può più aiutarti.»

«L’avete…?»

«No. È stata sottoposta a un esperimento.»

«Che genere di esperimento?»

Silenzio. Schiffer ripeté.

«Che genere di esperimento?»

«Un condizionamento psichico. Una nuova tecnica.»

Era così dunque. La manipolazione psichica era sempre stata l’ossessione di Charlier. Infiltrarsi nel cervello dei terroristi, condizionare le menti, cazzate del genere… Sema Gokalp era stata una cavia, la vittima di un delirio sperimentale.

Ora Schiffer coglieva tutta l’assurdità di quella situazione: Charlier non aveva scelto Sema Gokalp; lei gli era semplicemente caduta tra le mani. Non sapeva che aveva cambiato volto. E, era chiaro che ignorava chi lei fosse davvero.

Si alzò nuovamente, elettrizzato dalla testa ai piedi:

«Perché lei?»

«A causa del suo stato psichico: Sema soffriva di un’amnesia parziale che la rendeva particolarmente adatta a subire il nostro trattamento.»

Schiffer si sporse in avanti, come se avesse capito male:

«Mi stai dicendo che le avete fatto il lavaggio del cervello?»

«Sì, il programma implica un trattamento di quel tipo.»

Batté i pugni sul tavolo:

«Razza di coglione, la sua era proprio l’ultima memoria da cancellare! Aveva delle cose da dirmi!»

Charlier aggrottò le sopracciglia:

«Non capisco la tua indagine. Cos’aveva di così importante da rivelarti quella ragazza? Ha visto dei turchi rapire una ragazza, e allora?»

Indietro tutta:

«Ha delle informazioni su quegli assassini», disse Schiffer camminando per l’ufficio come una belva in gabbia. «Penso anche che lei conosca l’identità della preda.»

«La preda?»

«La donna che i Lupi stanno cercando. E che non hanno ancora trovato.»

«Ed è così importante?»

«Tre omicidi, Charlier, comincia a essere un po’ pesante, no? Continueranno a uccidere finché non l’avranno beccata.»

«E tu vuoi consegnargliela?»

Schiffer sorrise senza rispondere.

Charlier alzò le spalle e le cuciture della camicia rischiarono di saltare.

«A ogni modo non posso fare niente per te», concluse.

«Perché?»

«Ci è scappata.»

«Scherzi?»

«Ti sembra che sia in vena di scherzare?»

Schiffer non sapeva se ridere o urlare. Si risedette, prendendo il tagliacarte che Charlier aveva appena lasciato:

«Sempre coglioni nella polizia. Spiegami com’è andata.»

«Il nostro esperimento mirava a cambiare totalmente la sua personalità. Una cosa mai vista. Siamo riusciti a trasformarla in una borghese francese, nella moglie di un funzionario. Una semplice donna turca. Ti rendi conto? Ora non c’è più limite al condizionamento. Faremo…»

«Me ne frego del tuo esperimento», tagliò corto Schiffer. «Dimmi piuttosto come ha fatto a scappare.»

Il commissario si accigliò:

«In queste ultime settimane ha manifestato dei disturbi, amnesie, allucinazioni. La sua nuova personalità, quella che le avevamo iniettato, cominciava a fessurarsi. Eravamo pronti a ricoverarla, ma lei ha preso il volo.»

«Quando?»

«Ieri. Martedì mattina.»

Incredibile: la preda dei Lupi grigi era di nuovo in libertà. Né turca, né francese, con il cervello come un colabrodo. Al fondo di tutto quel marasma, gli parve di vedere una luce:

«Dunque la sua memoria iniziale sta tornando?»

«Non sappiamo. In ogni caso cominciava a diffidare di noi.»

«A che punto sono i tuoi ragazzi?»

«A un punto morto. Abbiamo rastrellato tutta Parigi. Non c’è stato modo di beccarla.»

Era il momento di giocare il suo jolly. Piantò il tagliacarte sul piano di legno:

«Se ha ritrovato la memoria, agirà come una donna turca. È il mio campo. Posso seguire la sua pista meglio di chiunque altro.»

Il commissario cambiò espressione. Schiffer insistette:

«È turca, Charlier. È selvaggina molto particolare. Hai bisogno di qualcuno che conosca quel mondo e che agisca in tutta discrezione.»

Riusciva a seguire il cammino che quell’idea stava facendo all’interno della mente del colosso. Si tirò indietro, come per aggiustare il tiro:

«I patti sono questi: tu mi lasci libertà d’azione per ventiquattr’ore. Se la becco te la consegno. Ma prima la interrogo.»

Ci fu un nuovo, profondo silenzio. Infine, Charlier aprì un cassetto e tirò fuori un fascio di documenti:

«Ecco il suo dossier. Adesso si chiama Anna Heymes e…»

Con un rapido gesto, Schiffer prese il faldone e lo aprì. Passò in rassegna i fogli dattiloscritti, i referti medici, poi il suo sguardo cadde sulla foto del bersaglio. Esattamente come l’aveva descritta Hirsch. Niente a che vedere con la rossa che gli assassini stavano cercando. Da quel punto di vista, Sema Gokalp non aveva più niente da temere.

Il guerriero dell’antiterrorismo continuò:

«Il neurologo che la stava trattando si chiama Eric Ackermann e…»

«Me ne fotto della sua nuova personalità e di quelli che gliel’hanno confezionata. Lei sta tornando verso le sue origini. È questo l’importante. Cosa sai tu di Sema Gokalp? Cosa sai della ragazza turca che lei era?»

Charlier si agitò sulla poltrona. Sul collo, proprio sopra il colletto della camicia, le vene gli pulsavano:

«Ma… niente! Era solo un’operaia colpita da amnesia e…»

«Hai conservato i suoi vestiti, i suoi documenti, i suoi effetti personali?»

Negò, con un gesto:

«È stato tutto distrutto. Almeno credo.»

«Verifica.»

«È solo roba da operai. Non c’è niente d’interessante per…»

«Alza quel cazzo di telefono e verifica!»

Charlier prese la cornetta. Fece due telefonate, poi grugnì:

«Non ci posso credere. Quei coglioni hanno dimenticato di distruggere i vestiti.»

«Dove sono?»

«Al deposito della Cité. Beauvanier aveva rifilato alla ragazza degli altri stracci. Quelli del commissariato Louis-Blanc hanno spedito quelli vecchi alla prefettura. Nessuno ha pensato di recuperarli. Eccola la mia brigata d’élite.»

«A che nome sono registrati?»

«Direi Sema Gokalp. Quando facciamo delle cazzate le facciamo fino in fondo.»

Prese un modulo in bianco e cominciò a riempirlo. L’«apriti sesamo» per la prefettura.

«Due predatori per una stessa preda», pensò Schiffer.

Il commissario firmò il foglio e lo fece scivolare sul tavolo:

«Ti do tempo tutta la notte. Al minimo imbroglio chiamo quelli dell’Ispettorato generale.»

Lui si mise in tasca il lasciapassare e si alzò:

«Siamo tutti e due sulla stessa barca: non puoi farla affondare.»

47.

Era arrivato il momento di liberarsi definitivamente del ragazzo.

Jean-Louis Schiffer risalì rue du Faubourg-Saint-Honoré, prese avenue Matignon, poi scorse una cabina telefonica sulla rotonda degli Champs-Elysées. Il suo cellulare era ancora scarico.

Dopo un solo squillo, Paul Nerteaux urlò:

«Santo dio Schiffer, dov’è?»

La sua voce tremava per la rabbia.

«Sono nell’ottavo arrondissement. Nel quartiere degli alti papaveri.»

«È quasi mezzanotte. Che cosa ha combinato? Sono stato ad aspettare al caffè Sancak e…»

«È una storia pazzesca, ma ho parecchie novità.»

«È in una cabina? Ne trovo una anch’io e la richiamo: la mia batteria è morta.»

Schiffer riagganciò e si chiese se le forze di polizia non stavano per fallire l’arresto del secolo per mancanza di ricariche di ioni di litio. Socchiuse la porta della cabina: il suo stesso odore di menta lo stava facendo asfissiare.

La notte era tiepida, senza pioggia né vento. Osservò i passanti, le gallerie commerciali, gli edifici in pietra. Tutta una vita di lusso e di agiatezza che a lui era stata negata, ma che forse era di nuovo a portata di mano…

Il telefono della cabina squillò, lui non lasciò a Nerteaux il tempo di parlare:

«Come sei messo con le tue pattuglie?»

«Ho due furgoni e tre radiomobili», rispose con orgoglio. «Ci sono settanta poliziotti dell’anticrimine che battono il quartiere. Tutta la zona è stata dichiarata “criminogena”. Ho consegnato gli identikit a tutti i commissariati e i posti di polizia del decimo arrondissement. Abbiamo passato uno per uno tutti i centri per immigrati, tutti i bar e tutte le associazioni. Non c’è nessuno nella Piccola Turchia che non abbia visto il ritratto. Adesso sto andando alla polizia del secondo arrondissement e…»

«Lascia perdere tutto.»

«Cosa?»

«Non è più tempo di giocare ai soldatini. Non è la faccia giusta.»

«COSA?»

Schiffer inspirò profondamente:

«La donna che stiamo cercando ha subito un’operazione di chirurgia estetica. È per quello che i Lupi grigi non la trovano.»

«Ha… ha le prove?»

«Ho persino il suo nuovo volto. Tutto coincide. Si è pagata un’operazione da diverse centinaia di migliaia di franchi per cancellare la sua vecchia identità. Ha totalmente cambiato il suo aspetto fisico: si è fatta i capelli scuri e ha perso venti chili. Poi, sei mesi fa, si è nascosta nello stesso quartiere turco.»

Ci fu un silenzio. Quando Nerteaux riprese la parola, la sua voce aveva perso diversi decibel:

«Chi… chi è quella donna? Dove ha trovato i soldi per l’operazione?»

«Non ne ho idea», mentì. «Ma non è una semplice operaia.»

«Cos’altro sa?»

Schiffer rifletté qualche istante. Poi rivelò tutto. L’incursione dei Lupi grigi, la preda sbagliata. Sema Gokalp in stato di choc. Il suo fermo al commissariato Louis-Blanc, poi il ricovero al Sainte-Anne. Il rapimento da parte di Charlier e il suo programma demenziale.

Infine, la nuova identità della donna: Anna Heymes.

Quando tacque, Schiffer credette di sentire il cervello del giovane poliziotto che lavorava a pieno regime. Se lo immaginava nella cabina telefonica, perduto da qualche parte nel decimo arrondissement, totalmente rintronato. Come lui. Due pescatori di corallo sospesi in gabbie solitarie, in mezzo all’abisso…

Poi, con tono scettico, Paul chiese:

«Chi le ha raccontato tutto questo?»

«Charlier in persona.»

«Ha vuotato il sacco?»

«Siamo due vecchi amici.»

«Fesserie.»

«Vedo che cominci a capire in che mondo vivi. Nel 1995, dopo l’attentato alla stazione Saint-Michel, alla Divisione antiterrorismo, che allora si chiamava ancora Sesta divisione, avevano i nervi a fior di pelle. Una nuova legge permetteva di prolungare il fermo di polizia, anche senza motivo. Un vero bordello; io c’ero. Ci furono retate in tutti gli ambienti islamici, soprattutto nel decimo arrondissement. Una notte Charlier è arrivato al Louis-Blanc. Era convinto di avere un indiziato, uno che si chiamava Abdel Saraoui. Si è accanito su di lui, a mani nude. Io ero nell’ufficio a fianco. Il ragazzo è morto il giorno dopo all’ospedale Saint-Louis, con il fegato spappolato. Stasera gli ho ricordato quei bei momenti.»

«Siete tutti talmente marci che arrivate persino a essere coerenti.»

«E cosa cambia? L’importante è ottenere buoni risultati.»

«È che mi immaginavo la mia crociata in modo un po’ diversa, tutto qui.»

Schiffer aprì la porta della cabina e prese una nuova boccata d’aria.

«E adesso», chiese Paul, «dove si trova Sema?»

«Questa è la ciliegina sulla torta, ragazzo mio. Ha appena preso il largo. Ha abbandonato la loro bella compagnia proprio ieri mattina. Credo che abbia capito l’inghippo. E poi sta ritrovando la memoria.»

«Merda…»

«È proprio come dici tu. C’è una donna che sta correndo per Parigi, con due identità, due gruppi di bastardi che le stanno alle calcagna e noi in mezzo. Secondo me, lei sta investigando su sé stessa. Sta cercando di sapere chi è veramente.»

Una nuova pausa all’altro capo del filo.

«Allora cosa facciamo?»

«Io ho fatto un patto con Charlier. L’ho convinto del fatto che io sono la persona più qualificata per scovare quella donna. Una ragazza turca è il mio campo. Mette la faccenda nelle mie mani per questa notte. Non sa che pesci pigliare. La sua operazione è illegale. Puzza di marcio lontano un chilometro. Ho il dossier della nuova Sema e due piste. La prima è per te, se tu sei ancora della partita.»

Sentì un fruscio di stoffe e di carta. Nerteaux stava tirando fuori il suo bloc-notes.

«Mi dica.»

«La chirurgia estetica. Sema si è affidata a uno dei migliori chirurghi plastici di Parigi. Dobbiamo ritrovarlo, quel tipo ha avuto un contatto con il vero bersaglio. Prima che cambiasse faccia. Prima che le facessero il lavaggio del cervello. Senza dubbio è l’unico in tutta Parigi che possa dirci qualcosa sulla vera donna che i Lupi grigi stanno cercando. Capisci o no?»

Nerteaux non rispose subito, stava probabilmente scrivendo.

«La lista comprenderà centinaia di nomi.»

«Niente affatto. Bisogna interrogare i migliori, i virtuosi. E tra loro, quelli senza scrupoli. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente. Hai tutta la notte per trovare il tipo. Alla velocità a cui stanno andando le cose, tra poco non saremo soli a seguire questa pista.»

«Allude alla gente di Charlier.»

«No. Charlier non sa neppure che Sema ha cambiato aspetto. Sto parlando dei Lupi grigi. È la terza volta che si sbagliano. Finiranno per capire che quella che cercano non è la faccia giusta. Penseranno alla chirurgia estetica e cercheranno il medico. Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento. Ti lascio il dossier della ragazza con la foto del suo nuovo volto in rue de Nancy. Passa a prenderlo e comincia il lavoro.»

«Do il ritratto alle pattuglie?»

A Schiffer vennero i sudori freddi:

«Assolutamente no. Devi mostrarlo solo ai medici, insieme al tuo identikit, capito?»

Il silenzio saturò nuovamente la linea.

Assomigliavano sempre più a dei sommozzatori persi negli abissi.

«E lei?» chiese Nerteaux.

«Io mi occupo della seconda pista. I ragazzi dell’antiterrorismo hanno dimenticato di distruggere i vecchi vestiti di Sema. Questo è un colpo di culo. Forse quegli abiti contengono un dettaglio, un indizio che ci condurrà alla donna iniziale.»

Guardò l’orologio: mezzanotte. Il tempo stringeva, ma voleva fare un’ultima verifica.

«Da parte tua niente di nuovo?»

«Ho messo il quartiere turco a ferro e fuoco, ma per il momento…»

«L’indagine di Naubrel e Matkowska non ha dato risultati?»

«Ancora niente.»

Nerteaux sembrava stupito da quella domanda. Il ragazzo probabilmente pensava che lui non fosse interessato alla pista delle camere iperbariche. Ma aveva torto. Fin dall’inizio, quella storia dell’azoto lo aveva intrigato.

Quando Scarbon aveva parlato di quella questione, aveva detto: «Io non sono un sub.» Ma Schiffer lo era. Aveva passato gli anni della sua giovinezza a sondare il Mar Rosso e il Mar della Cina. Aveva persino pensato di lasciare tutto e aprire una scuola di immersione nel Pacifico.

Sapeva dunque che l’alta pressione non provoca solo problemi di gas nel sangue, ma anche effetti allucinogeni, uno stato di delirio che tutti i sommozzatori conoscono con il nome di ebbrezza della profondità.

All’inizio dell’inchiesta, quando pensavano di dover inseguire un serial killer, Schiffer aveva fatto fatica a collocare quell’indizio: non capiva perché un assassino capace di massacrare una vagina con delle lame da rasoio perdesse poi del tempo per produrre bolle d’azoto nel sangue delle sue vittime. Non quadrava. Per contro, nell’ambito di un interrogatorio, quel delirio della profondità assumeva un senso.

Uno dei fondamenti della tortura consisteva nell’alternare caldo e freddo. Rifilare delle sberle, poi offrire una sigaretta. Dare delle scariche elettriche, poi proporre un panino. Era quasi sempre in quei momenti di calma che la gente crollava.

Con la camera iperbarica, i Lupi non avevano fatto altro che applicare quell’alternanza, spingendola al parossismo. Dopo i peggiori tormenti, avevano sottoposto la loro vittima a un rapido rilassamento, un’euforia improvvisa provocata dalla sovrapressione. Sicuramente speravano che la violenza del contrasto avrebbe fatto cedere la loro prigioniera, o forse credevano che il delirio avrebbe funzionato come siero della verità…

Dietro quella tecnica da incubo, Schiffer riconosceva il segno implacabile di un maestro di cerimonia. Un professionista della tortura.

Chi?

Scacciò la propria paura e disse:

«Di camere iperbariche a Parigi non devono essercene molte.»

«Quelli della polizia giudiziaria hanno visitato tutti i posti che potevano ospitare quel tipo di macchinario. Hanno interrogato gli industriali che effettuano test di resistenza. Siamo in un vicolo cieco.»

Schiffer sentiva un turbamento nella voce di Nerteaux. Gli stava nascondendo qualcosa? Non aveva tempo per approfondire.

«E le maschere antiche?» riprese.

«Anche questo la interessa?»

Lo scetticismo di Paul raddoppiò.

«Visto il contesto», replicò Schiffer, «mi interessa tutto. Uno dei Lupi potrebbe avere un’ossessione, una forma particolare di follia. A che punto sei su quella questione?»

«A un punto morto. Non ho avuto il tempo di avanzare. Non so neppure se il mio agente ha trovato altri siti archeologici e…»

Tagliò corto e concluse:

«Faremo il punto tra due ore. E trova il modo di ricaricare il tuo cellulare.»

Riagganciò. Per un attimo gli passò davanti agli occhi l’immagine di Nerteaux. Capelli da indiano, occhi color nocciola. Uno sbirro dal volto troppo fine, che non si radeva e si vestiva di nero per darsi un’aria da duro. Ma anche un poliziotto nato, malgrado la sua ingenuità.

Si rese conto che, in fondo, voleva bene a quel ragazzo. Si chiese se per caso non si stava rammollendo, se aveva fatto bene a portarlo dentro a quella che era diventata la sua indagine. Gli aveva detto troppe cose?

Uscì dalla cabina e fece segno a un taxi.

No. Aveva tenuto per sé la cosa più importante.

Salì sull’auto e diede l’indirizzo del Quai des Orfèvres.

Ormai sapeva chi era la preda e perché i Lupi grigi la cercavano.

Per la semplice ragione che lui stesso la stava braccando da dieci mesi.

48.

Una scatola rettangolare di legno bianco, con sopra il sigillo della repubblica in cera rossa. Schiffer soffiò via la polvere dal coperchio e si disse che le sole prove dell’esistenza di Sema Gokalp erano ora in quella specie di bara.

Tirò fuori il suo coltellino svizzero, infilò la lama sotto il sigillo, fece saltare la crosta rossa e sollevò l’assicella. Ne uscì un odore di muffa. Come vide i vestiti, fu assalito da un’assoluta certezza: lì dentro c’era qualcosa per lui.

Istintivamente gettò uno sguardo alle sue spalle. Era nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, nella cabina dalle tende luride, dove i detenuti appena liberati controllano gli effetti personali che vengono loro restituiti.

Il luogo ideale per esumare un cadavere.

Come prima cosa trovò una blusa bianca e una charlotte di carta pieghettata: l’uniforme regolamentare delle operaie di Gurdilek. Poi degli abiti civili: una lunga gonna verde pallido, un cardigan fatto all’uncinetto, una camicetta blu ardesia con il colletto tondo. Delle stoffe da quattro soldi che venivano direttamente dai magazzini TATI.

Quei vestiti erano di foggia occidentale, ma le loro linee, i loro colori e soprattutto i loro abbinamenti ricordavano l’aspetto di quei contadini turchi che portavano ancora i pantaloni a sbuffo malva e camicioni color pistacchio o color limone. Sentì crescere in sé un desiderio sinistro, accentuato ancor più dall’idea di messa a nudo, di umiliazione, di povertà asservita. Il corpo pallido che immaginava sotto quei tessuti lo eccitava terribilmente.

Passò alla biancheria intima. Un reggiseno color carne. Una paio di culottes nere, lise, chiazzate per l’usura. La taglia di quegli indumenti lasciava immaginare misure da adolescente. Pensò ai tre cadaveri: anche larghe, seni pesanti. La donna non si era accontentata di cambiare faccia: aveva scolpito il suo corpo fino alle ossa.

Proseguì la ricerca. Scarpe bucate, collant consunti, e un cappotto di montone liso come il resto. Le tasche erano state svuotate. Tastò il fondo della scatola nella speranza che il loro contenuto fosse stato raggruppato altrove. Un sacchetto di plastica confermò la sua ipotesi. Un mazzo di chiavi, un carnet di biglietti, prodotti di bellezza importati da Istanbul…

Si dedicò al mazzo di chiavi. Le chiavi erano la sua passione. Ne conosceva di tutti i tipi: chiavi piatte, a diamante, a pompa… Ed era egualmente esperto di serrature. Quei meccanismi gli ricordavano le articolazioni umane: quelle che lui amava storcere e controllare.

Osservò le due chiavi nell’anello. Una apriva una serratura semplice; quasi certamente quella di un ostello, di una camera d’albergo o di un appartamento miserabile, occupato ormai da tempo da altri turchi. La seconda, una chiave piatta, era senza dubbio quella del chiavistello superiore della stessa porta,

Roba senza interesse.

Schiffer soffocò una bestemmia: il suo bottino era ridicolo. Quegli oggetti, quei vestiti, disegnavano il profilo di un’operaia anonima. Persino troppo anonima. Tutto ciò sapeva di travestimento, di caricatura.

Era certo che Sema Gokalp avesse un nascondiglio. Quando si è capaci di cambiare faccia, di perdere venti chili, di adottare volontariamente l’esistenza sotterranea di una schiava, si mette sempre in salvo qualcosa.

Schiffer si ricordò delle parole di Beauvanier. Abbiamo trovato il suo passaporto cucito nella gonna. Tastò ogni vestito. Si soffermò sulla fodera del cappotto; lungo l’orlo inferiore, le sue dita si fermarono su un rigonfiamento. Una gobba dura, allungata, dentellata.

Strappò la stoffa e scosse il cappotto.

Nella sua mano cadde una chiave.

Una chiave a gambo forato, con sopra inciso un numero: 4C 32.

«Scommetto cento contro uno che si tratta di un armadietto al deposito bagagli», pensò.

49.

«No, non è di un deposito bagagli. Adesso per quello si usano le combinazioni.»

Cyril Distras era un fabbro geniale, specializzato in serrature. Una volta, Jean-Louis Schiffer aveva scoperto il suo portafoglio sul luogo di un furto con scasso dove una cassaforte ritenuta inviolabile era stata aperta con grande virtuosismo. Allora era andato a cercare il proprietario della carta d’identità e aveva trovato quel giovane biondo, irsuto e miope. Rendendogli i documenti lo aveva avvisato: «Con un nome così, dovresti fare più attenzione.» Poi Schiffer aveva chiuso un occhio sul furto, in cambio di una litografia originale di Bellmer.

«Allora cos’è?»

«Un self-stockage.»

«Un cosa?»

«Un posto dove uno deposita i suoi mobili e le sue cose.»

Da quella notte, Distras non rifiutava nulla a Schiffer. Apertura di porte senza mandato, forzatura di serrature per accertare la flagranza di reato, scasso di casseforti per scovare documenti compromettenti. Quel ladro era una splendida alternativa alle autorizzazioni legali.

«Non riesci a dirmi niente di più?»

Distras inclinò la chiave sotto la lampada. Era uno scassinatore davvero unico: appena si avvicinava a una serratura, avveniva il miracolo. Una vibrazione, un tocco. Era un mistero che si metteva al lavoro. Schiffer non si stancava di osservarlo all’opera. Gli sembrava di scoprire un lato nascosto della natura. L’essenza stessa di un dono inspiegabile.

«Surger», disse l’altro. «Si vedono le lettere in filigrana sul taglio.»

«Conosci il posto?»

«Lo credo bene. Ho parecchia roba nascosta laggiù. È accessibile giorno e notte.»

«Dov’è?»

«Château-Landon. Rue Girard.»

Schiffer inghiottì la saliva. Gli parve bollente.

«Per entrare bisogna digitare un codice?»

«AB 756. La tua chiave ha il numero 4C 32. Quarto livello. Il piano dei minibox.»

Cyril Distras alzò la testa e si sistemò gli occhiali. La sua voce divenne cantilenante:

«Il piano dei piccoli tesori nascosti…»

50.

L’edificio dominava i binari della Gare de l’Est, imponente e solitario come un cargo quando entra in porto. Con i suoi quattro piani, l’immobile dava l’impressione di esser stato rinnovato e ridipinto da poco. Un’isola di pulizia dove custodire beni in transito.

Schiffer superò la prima barriera e attraversò il parcheggio.

Erano le due del mattino e si aspettava di veder spuntare da un momento all’altro una sentinella in tuta nera con il marchio SURGER, con un cane feroce e un manganello elettrico.

Invece, non venne nessuno.

Compose il codice e superò la porta a vetri. In fondo all’atrio, sprofondato in uno strano alone rosso, vide un corridoio in cemento punteggiato di serrande metalliche; ogni venti metri, l’asse principale era attraversato da corsie laterali che lasciavano indovinare un labirinto di compartimenti.

Continuò dritto avanti a sé, sotto le luci d’emergenza, fino a raggiungere, al fondo, una scala. Ogni suo passo su quel cemento grigio provocava un rumore sordo, quasi impercettibile. Schiffer assaporava quel silenzio, quella solitudine, quella miscela di tensione e potere tipica dell’intruso.

Arrivò al quarto livello e si fermò. Lì si apriva un altro, corridoio, dove i box erano più fitti. Il piano dei piccoli tesori nascosti. Schiffer frugò nella tasca e tirò fuori la chiave. Lesse i numeri sulle saracinesche, si perse, infine trovò il 4C 32.

Prima di azionare la serratura, rimase un attimo immobile. Poteva quasi sentire, dietro la paratia, la presenza dell’Altra, di colei che non aveva ancora nome.

Si inginocchiò, girò la chiave, poi, con un movimento secco, alzò la serranda di ferro.

Nella penombra, gli si presentò davanti una cella di un metro per un metro. Afferrò la torcia elettrica che aveva preso a Distras e vide, al fondo, uno scatolone.

L’Altra era sempre più vicina.

Aprì la scatola, si mise la torcia tra i denti e cominciò a frugare.

Dei vestiti. Uniformemente scuri, firmati da grandi stilisti. Issey Miyake. Helmut Lang. Fendi. Prada… Le sue mani incontrarono della biancheria intima. Un chiarore nero: fu questa l’idea che nacque in lui. Il tessuto era d’una dolcezza, d’una sensualità quasi indecente. I pizzi sembravano fremere al contatto con le dita… Questa volta, niente desiderio, niente erezione: la raffinatezza, l’orgoglio subdolo di quella lingerie gli toglievano la voglia.

Proseguì e scovò, avvolta in un pezzo di seta, una nuova chiave.

Una chiave strana, rudimentale, a gambo piatto.

Nuovo lavoro per Distras.

Gli mancava un’ultima certezza.

Tastò ancora, sollevò, rovesciò.

All’improvviso, una spilla d’oro a forma di papavero entrò nel fascio luminoso della lampada, come uno scarabeo magico. Posò la lampada bagnata di saliva, sputò, poi, nell’oscurità, mormorò:

«Allah sukur! Sei tornata.»

NOVE

51.

Mathilde Wilcrau non aveva mai visto così da vicino una camera a positroni.

Dall’esterno, l’apparecchio assomigliava a un normale macchinario per la TAC: un ampio cilindro bianco, dentro al quale si incastrava una barella d’acciaio dotata di strumenti di misura e d’analisi. Un apposito supporto sorreggeva la flebo, mentre su un carrello lì vicino erano allineate siringhe sottovuoto e flaconi di plastica. Tutto quell’insieme disegnava, nella penembra della sala, una strana costruzione, un grandioso geroglifico.

Per scovare una macchina del genere, i fuggitivi avevano dovuto recarsi al Centro ospedaliero e universitario di Reims, a cento chilometri da Parigi. Eric Ackermann conosceva il direttore del servizio di radiologia. Lo aveva chiamato a casa e lui si era subito precipitato per accoglierlo. Sembrava un ufficiale di frontiera che avesse ricevuto all’improvviso la visita di un importante generale.

Erano sei ore che Ackermann stava lavorando intorno all’apparecchio. Nella cabina di comando, Mathilde Wilcrau lo osservava all’opera. Anna era sdraiata, con la testa nella macchina e lui, chino sul suo corpo, faceva delle iniezioni, regolava la flebo, proiettava delle immagini su uno schermo collocato nell’arcata superiore del cilindro. E soprattutto parlava.

Guardandolo agitarsi come una fiamma, attraverso il vetro, Mathilde non poteva impedirsi di rimanere affascinata. Quel tipo alto, immaturo, al quale non avrebbe neppure prestato la propria auto, aveva portato a termine, in un contesto di estrema violenza politica, un esperimento cerebrale unico. Aveva superato una soglia decisiva per la conoscenza e il controllo del cervello.

Un passo in avanti che, in altre circostanze, avrebbe potuto aprire nuove possibilità terapeutiche. Roba da far scrivere il proprio nome in tutti i manuali di neurologia e di psichiatria. Chissà se per il metodo Ackermann ci sarebbe stata una seconda possibilità?

Il rosso continuava ad agitarsi, accompagnandosi con movimenti nervosi. Mathilde sapeva leggere bene quei gesti. Al di là dell’andamento febbrile della seduta, Ackermann era drogato fino al collo. Dipendeva dalle anfetamine e dagli altri eccitanti. D’altra parte, appena arrivato, aveva fatto «rifornimento» alla farmacia dell’ospedale. Quelle droghe di sintesi riflettevano esattamente ciò che lui era: un uomo dalla mente bruciata, che aveva vissuto per la chimica e grazie alla chimica…

Le sei.

Cullata dal ronzio dei computer, Mathilde si era addormentata più volte. Quando si risvegliava cercava di riordinare le idee. Invano. C’era un pensiero dominante che l’accecava, come una lampada attirava una falena.

La metamorfosi di Anna.

Il giorno prima, aveva raccolto quella creatura senza memoria, vulnerabile e nuda come un bebè. La scoperta dell’henné aveva cambiato tutto. Intorno a quella rivelazione lei si era cristallizzata come un quarzo. In quel momento le sembrava di aver capito che il peggio non era più da temere, ma, al contrario, da affrontare. Era lei che, malgrado il pericolo, aveva voluto avanzare contro il nemico e sorprendere Eric Ackermann.

Era lei, ormai, che aveva preso il comando.

Poi, grazie all’interrogatorio nel parcheggio, era apparsa Sema Gokalp. L’operaia misteriosa dalle molteplici contraddizioni. La clandestina venuta dall’Anatolia che parlava perfettamente il francese. La prigioniera in stato di choc che, dietro al proprio silenzio e al proprio viso mutato, nascondeva un altro passato…

Chi si celava dietro a quel nuovo nome? Chi era la creatura capace di trasformarsi fino a divenire un’altra?

Per avere una risposta bisognava aspettare che lei ritrovasse definitivamente la memoria. Anna Heymes. Sema Gokalp… Era come una bambolina russa dalle identità incassate l’una nell’altra: ogni suo nome, ogni suo aspetto nascondeva ogni volta un altro segreto.

Eric Ackermann si alzò dalla sedia. Tolse l’ago a farfalla dal braccio di Anna, spostò il supporto della flebo e alzò lo specchio all’interno dell’arco. L’esperimento era finito. Mathilde si stiracchiò, poi cercò ancora una volta di schiarirsi le idee. Non ci riuscì. Una nuova immagine le invase la mente.

L’henné.

Quelle linee rosse che disegnavano le mani delle donne musulmane sembravano tracciare un solco profondo tra l’universo parigino e il mondo lontano di Sema Gokalp. Un mondo di deserti, di matrimoni combinati, di riti ancestrali. Un universo selvaggio e spaventoso, nato all’ombra dei venti bollenti, dei rapaci e delle rocce.

Mathilde chiuse gli occhi.

Mani tatuate; arabeschi bruni che si aggrovigliano nel cavo delle mani callose, intorno ai polsi opachi delle dita muscolose; non un solo centimetro di pelle è libero da quei tratti; la linea rossa non si interrompe mai: si lancia, si avviluppa, torna su sé stessa, in anelli e cesellature, fino a dar vita a una geografia ipnotica…

«Si è addormentata.»

Mathilde sussultò. Ackermann era in piedi davanti a lei. Il camice gli dondolava sulle spalle come una bandiera bianca. La fronte era imperlata di sudore. Era scosso da tic e tremiti, ma, nel contempo, la sua figura emanava una strana forza, la sicurezza del sapere, sotto il nervosismo del drogato.

«Com’è andata?»

Prese una sigaretta sulla console informatica e l’accese. Inalò una profonda boccata poi, in un tunnel di fumo, rispose:

«Dapprima le ho iniettato del Flumazenil, l’antidoto del Valium. Poi ho cancellato il mio condizionamento sollecitando ogni zona della sua memoria sotto l’effetto dell’Ossigeno-15. Ho percorso a ritroso lo stesso cammino.» Con la sigaretta disegnò nell’aria un asse verticale. «Con le stesse parole, gli stessi simboli. Peccato che io non abbia più le fotografie e i video degli Heymes. Ma penso che il lavoro più grosso sia fatto. Per il momento le sue idee sono confuse. I suoi veri ricordi torneranno a poco a poco. Anna Heymes sta per scomparire e per lasciare il posto alla prima personalità. Ma attenzione», continuò agitando la sigaretta, «è pura sperimentazione.»

Un vero pazzo, pensò Mathilde, una miscela di freddezza e di esaltazione. Aprì le labbra, ma un nuovo lampo la fermò. Ancora una volta l’henné. Le linee sulle mani prendono vita; anse, spirali, volute si infilano lungo le vene, si attorcigliano intorno alle falangi, fino a raggiungere le unghie nere di pigmenti…

«All’inizio non sarà piacevole», proseguì Ackermann aspirando dalla sua sigaretta. «I differenti livelli del suo cosciente andranno a innestarsi l’uno nell’altro. Le capiterà di non saper più distinguere ciò che è vero da ciò che è artificiale. Poi, progressivamente, la sua memoria iniziale prenderà il sopravvento. Con il Flumazenil ci sono anche rischi di convulsioni, ma le ho dato un’altra cosa per limitare gli effetti collaterali…»

Mathilde si tirò indietro i capelli e pensò che doveva avere una faccia spettrale.

«E i volti?»

Lui spazzò il fumo con un gesto vago.

«Anche quella faccenda dovrebbe finire. I suoi punti di riferimento vanno consolidandosi. I suoi ricordi stanno diventando più chiari, pertanto le sue reazioni si equilibrano. Ma, lo ripeto, tutto questo è assolutamente nuovo e…»

Mathilde vide un movimento dall’altra parte del vetro. Andò immediatamente nella sala della radiodiagnostica. Anna era già seduta sulla barella del Petscan, le gambe dondolanti, le mani appoggiate all’indietro.

«Come ti senti?»

Sul suo volto comparve un sorriso. Le sue labbra chiare segnavano appena la pelle.

Tornò anche Ackermann e spense le ultime macchine.

«Come ti senti?» ripeté lei.

Anna le diede un’occhiata esitante. In quel momento, Mathilde capì. Non era più la stessa donna di prima: gli occhi viola le sorridevano dall’interno di un’altra coscienza.

«Hai una sigaretta?» chiese di rimando, con una voce che cercava il proprio timbro.

Mathilde le porse una Marlboro. Seguì con lo sguardo la mano fragile che l’afferrava. Il disegno all’henné tornò in sovrimpressione. Fiori, picchi e serpenti si avvolgevano intorno a un pugno chiuso. Un pugno tatuato chiuso su di una pistola automatica…

Da dietro il fumo della sua sigaretta, la donna dalla frangia nera, mormorò:

«Preferivo essere Anna Heymes.»

52.

La stazione ferroviaria di Falmières, a dieci chilometri a ovest di Brest, era un edificio solitario, posto lungo i binali in aperta campagna. Una baracca in pietra molare piazzata tra l’orizzonte nero e il silenzio della notte. Tuttavia, con la sua piccola lanterna gialla e la sua pensilina di vetro, aveva un aspetto rassicurante. Il tetto di tegole, i muri divisi in due fasce, blu e bianca, gli steccati di legno le davano un’aria da giocattolo, da plastico per trenini elettrici.

Mathilde fermò l’auto nel parcheggio.

Eric Ackermann aveva chiesto di essere lasciato a una stazione. «Una qualsiasi. Me la caverò.»

Da quando avevano lasciato l’ospedale, nessuno aveva più detto una parola. Ma la qualità del silenzio era cambiata. L’odio, la collera, la diffidenza erano cadute; i tre fuggitivi ora condividevano una strana forma di complicità.

Mathilde spense il motore. Nel retrovisore vide il volto livido del neurologo seduto sul sedile posteriore. Un’autentica lama di nichel. Uscirono tutti insieme.

Fuori si era alzato il vento. Raffiche violente si abbattevano rumorosamente sulla strada. Lontano, nuvole appuntite si allontanavano scoprendo una luna purissima, come un grosso frutto dalla polpa blu.

Mathilde si chiuse il cappotto. Avrebbe pagato chissà quanto per un tubetto di crema idratante. Le sembrava che ogni ventata le seccasse la pelle, le scavasse un po’ più profondamente le rughe del volto.

Camminarono fino alla recinzione fiorita, sempre senza dire una parola. La situazione le fece pensare a uno scambio di ostaggi, al tempo della guerra fredda, su un ponte della vecchia Berlino: nessuna possibilità di dirsi addio.

All’improvviso, Anna chiese:

«E Laurent?»

Era una domanda che aveva già fatto, prima, nel parcheggio della piace d’Anvers. Era l’altro versante della sua storia: la prova di un amore che persisteva, malgrado il tradimento, le menzogne, la crudeltà.

Ackermann pareva troppo spossato per mentire:

«Onestamente, credo che ci siano poche possibilità che sia ancora vivo. Charlier non lascerà alcuna traccia dietro di sé. E Heymes non è affidabile. Un tipo capace di crollare al primo interrogatorio o addirittura di consegnarsi da solo. Dopo la morte della moglie…»

Il neurologo si fermò. Per un attimo Anna sembrò tener testa al vento, poi le sue spalle cedettero. Si girò senza dire nulla e tornò in macchina.

Mathilde guardò per l’ultima volta lo spilungone dai capelli color carota perso nel suo impermeabile.

«E tu?» chiese, quasi con compassione.

«Vado in Alsazia. Vado a perdermi nella massa degli “Ackermann”.»

Sogghignò, con un verso da anatra, e con un lirismo esagerato, aggiunse:

«Poi troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»

Mathilde non rispose. Lui continuava a dondolarsi, con la sua borsa stretta al petto. Proprio come faceva all’università. Ackermann schiuse le labbra, esitò, poi sussurrò:

«In ogni caso, grazie.»

Armò l’indice per un saluto da cow-boy, poi si girò verso la stazione isolata tenendo le spalle contro il vento. Dove andava di preciso? «Troverò un’altra destinazione. Sono un nomade io!»

Parlava di un paese terreno o di una nuova regione del cervello?

53.

«La droga.»

Mathilde era concentrata sulle strisce bianche dell’autostrada che scintillavano davanti a lei come certi plancton che brillano la notte sotto la prua delle navi. Fece passare qualche secondo, poi diede un’occhiata alla sua passeggera. Un volto di gesso, liscio, indecifrabile.

«Sono una trafficante di droga», riprese Anna con un tono neutro. «Quello che da voi si chiama “un corriere”.»

Mathilde annuì, come se in fondo si attendesse quella rivelazione. In effetti, ormai si attendeva qualunque cosa. Non c’era più limite alla verità. Quella notte, ogni nuovo passo era una vertigine.

Si concentrò ancora sulla strada. Passarono dei lunghi istanti prima che domandasse:

«Che genere di droga? Eroina? Cocaina? Anfetamina? Cosa?»

Le ultime sillabe le aveva pronunciate quasi gridando. Tamburellò con le dita sul volante. Doveva calmarsi. Immediatamente.

La voce riprese:

«Eroina. Esclusivamente eroina. Diversi chili ogni viaggio. Mai di più. Dalla Turchia all’Europa. Addosso. Nei bagagli. O con altri mezzi. Ci sono degli accorgimenti, dei trucchi. Il mio lavoro consisteva nel conoscerli. Tutti.»

Mathilde aveva la gola così secca che ogni respiro era una sofferenza.

«Per… per chi lavoravi?»

«Le regole sono cambiate, Mathilde. Meno cose sai, meglio sarà per te.»

Anna aveva assunto un tono strano, quasi superiore.

«Qual è il tuo vero nome?»

«Nessun vero nome. Anche questo faceva parte del mestiere.»

«Come facevi? Dammi dei dettagli.»

Anna le oppose un nuovo silenzio, pesante come marmo. Poi, dopo un po’, riprese:

«Non era una vita esaltante. Marcire negli aeroporti. Conoscere i migliori scali. Le frontiere meno controllate. Le coincidenze più rapide o, al contrario, quelle più complicate. Le città dove le valige ti aspettano sulla pista. Le dogane dove perquisiscono e quelle dove non perquisiscono. La topografia dei depositi bagagli e dei luoghi di transito.»

Mathilde ascoltava, ma soprattutto afferrava la grana della voce: Anna non aveva mai parlato così schiettamente.

«Un’attività da schizofrenica. Parlare continuamente lingue diverse, rispondere a diversi nomi, possedere differenti nazionalità. E avere come casa solo il comfort standard delle sale VIP degli aeroporti. E sempre, ovunque, la paura.»

Mathilde sbatté gli occhi per scacciare la sonnolenza. Il suo campo visivo diventava meno nitido. Le strisce della strada oscillavano, si frastagliavano… Chiese ancora:

«Da dove vieni esattamente?»

«Non ho ricordi precisi. Ma torneranno, ne sono sicura. Per il momento mi limito al presente.»

«Ma cos’è successo? Come hai fatto a ritrovarti a Parigi nei panni di un’operaia? Perché hai cambiato faccia?»

«La storia classica. Ho voluto tenere per me l’ultimo carico. Ho cercato di fregare i miei capi.»

Si fermò. Ogni ricordo sembrava costarle uno sforzo enorme.

«Era nel giugno dell’anno scorso. Dovevo consegnare la droga a Parigi. Un carico speciale. Molto prezioso. Avevo un contatto, ma ho scelto un’altra strada. Ho nascosto l’eroina e ho consultato un chirurgo estetico. Almeno credo… A quel punto potevo fare quello che volevo… Ma durante la mia convalescenza è successo qualcosa che non avevo previsto. Che nessuno aveva previsto: l’attentato dell’11 settembre. Da un giorno all’altro le dogane sono diventate delle muraglie. Perquisizioni e controlli ovunque. Non potevo certo ripartire con la droga come avevo previsto. Né potevo lasciarla a Parigi. Dovevo restare, dovevo aspettare che la situazione si calmasse, ben sapendo che i miei capi avrebbero fatto di tutto per ritrovarmi… Mi sono nascosta dove, in linea di massima, nessuno cercherebbe una donna turca che vuole sparire: tra i turchi. Tra le operaie clandestine del decimo arrondissement. Avevo un nuovo volto e una nuova identità. Nessuno poteva scovarmi.»

La voce si spense, come fosse esaurita. Mathilde cercò di ravvivare la fiamma:

«Cos’è successo dopo? Come hanno fatto i poliziotti a trovarti? Erano al corrente della droga?»

«Non è andata così. La scena è ancora confusa, ma mi pare di intravederla… In novembre io lavoravo in una tintoria. Una specie di lavanderia sotterranea in un hammam. Un posto che non immagini, o almeno non immagini che sia lì a un chilometro da casa tua. Una notte sono arrivati.»

«I poliziotti?»

«No, i turchi mandati dai miei capi. Sapevano che mi ero nascosta là. Qualcuno doveva avermi tradito, non so… Ma, evidentemente, non sapevano che avevo cambiato faccia. Sotto i miei occhi hanno rapito una ragazza che mi somigliava. Una certa Zeynep qualche cosa… Misericordia, quando ho visto entrare quegli assassini… Mi ricordo solo un grande lampo di paura.»

Mathilde cercò ancora di ricostruire la storia, di colmare le lacune:

«Come sei arrivata da Charlier?»

«Non ho dei ricordi precisi in proposito. Ero in stato di choc. Credo che gli sbirri mi abbiano trovato nel bagno turco. Rivedo un commissariato, un ospedale… In un modo o nell’altro Charlier è stato informato della mia esistenza. Un’operaia colpita da amnesia. Senza statuto legale in Francia. La cavia perfetta.»

Anna parve soppesare la propria ipotesi, poi mormorò:

«C’è un’ironia incredibile nella mia storia. I poliziotti non hanno mai saputo chi ero veramente. Così, loro malgrado, mi hanno protetta dagli altri.»

Mathilde cominciava a provare dolore al ventre: la paura, accentuata ancor di più dalla stanchezza. La vista si oscurava. Le forme bianche della strada diventavano dei gabbiani, strani uccelli dal volo convulso.

In quel momento apparve il cartello che indicava la tangenziale. Parigi era all’orizzonte. Si concentrò sulla striscia d’asfalto e proseguì:

«Chi sono questi uomini che ti stanno cercando?»

«Dimentica tutto questo. Te lo ripeto: meno sai, meglio è.»

«Ti ho aiutata», replicò lei a denti stretti. «Ti ho protetta. Parla! Voglio sapere la verità.»

Anna esitò ancora. Era il suo mondo, un mondo che non aveva mai svelato a nessuno.

«La mafia turca ha una particolarità», finì per dire. «Utilizza killer che provengono dal fronte politico. Si chiamano Lupi grigi. Sono dei nazionalisti, fanatici di estrema destra che credono nel ritorno della Grande Turchia. Terroristi che hanno passato la loro infanzia nei campi di addestramento. Inutile dirti che, rispetto a loro, gli sbirri di Charlier sembrano dei boy-scout armati di coltellino.»

I pannelli blu aumentavano. PORTE DE GLIGNANCOURT. PORTE DE LA CHAPELLE. Mathilde aveva ormai una sola idea in testa: abbandonare quella bomba alla prima stazione di taxi. Tornare al suo appartamento, ritrovare le sue comodità, la sua sicurezza. Voleva dormire per venti ore di seguito e svegliarsi il giorno dopo dicendo: è stato solo un incubo.

Prese l’uscita della Chapelle e disse:

«Resto con te.»

«No. Impossibile. Io devo fare una cosa.»

«Cosa?»

«Recuperare il mio carico.»

«Vengo con te.»

«No.»

Dentro di sé, sentì che stava diventando più dura. Più orgoglio che coraggio.

«Dov’è? Dov’è la droga?»

«Al cimitero Père-Lachaise.»

Mathilde lanciò un’occhiata ad Anna; le sembrò distrutta, ma anche più dura, più densa: un cristallo di quarzo compresso sui suoi strati di verità…

«Perché proprio là?»

«Venti chili. Bisognava trovare un deposito.»

«Non vedo perché il cimitero.»

Anna sorrise d’un sorriso sognante, quasi rivolto a sé stessa.

«Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia…»

Si fermarono a un semaforo rosso. Dopo quell’incrocio, rue de la Chapelle diventava rue Marx-Dormoy. Mathilde ripeté più forte:

«Perché proprio al cimitero?»

«È verde. In place de la Chapelle prendi in direzione Stalingrad.»

54.

La città dei morti.

Viali ampi e rettilinei, bordati di alberi imponenti che sapevano tenere il loro rango. Blocchi massicci, monumenti, tombe lisce e nere.

Nella notte chiara apparivano le ampie aiuole: lusso, opulenza.

Nell’aria c’era un profumo natalizio; tutto sembrava cristallizzato, avviluppato dalla cupola della notte, come quelle piccole sfere che, capovolte, fanno cadere la neve sul paesaggio.

Avevano attaccato la fortezza attraverso l’entrata di rue Père-Lachaise, vicino a place Gambetta. Anna aveva guidato Mathilde lungo la grondaia che fiancheggiava il cancello, poi tra le punte di ferro che sormontavano il muro di cinta. La discesa dall’altra parte era stata ancora più facile, perché lungo il muro passavano dei cavi elettrici.

Ora stavano seguendo il vialetto dei Combattenti Stranieri. Sotto la luna, le tombe e i loro epitaffi si disegnavano con precisione. Un bunker dedicato ai morti cecoslovacchi della grande guerra; un monolite bianco ricordava la morte dei soldati belgi, una stele colossale dai molteplici angoli, nello stile di Vasarely, rendeva omaggio ai defunti armeni…

Quando Mathilde scorse, in alto sulla collinetta, il grande edificio con i due camini, capì. Un po’ di polvere bianca in mezzo alla polvere grigia. Il tempio crematorio. Con uno strano cinismo, Anna la trafficante aveva nascosto il suo carico di eroina in mezzo alle urne cinerarie.

Nella luce notturna, quella costruzione, contornata da quattro lunghi edifici, ricordava una moschea, crema e oro, guarnita con una larga cupola e dominata dai suoi camini che parevano minareti.

Attraversarono dei giardini allineati e delimitati da siepi squadrate e fitte. Al di là, Mathilde distingueva le gallerie costellate di scomparti e di fiori. Le venne da pensare a pagine di marmo incrostate di scritte e di sigilli colorati.

Tutto era deserto.

Nessun guardiano in vista.

Anna raggiunse il fondo del parco, dove la scala di una cripta sprofondava al di sotto dei cespugli. Alla fine degli scalini c’era un cancello di ghisa, chiuso a chiave. Cercarono una via d’entrata. Come un’ispirazione, un battito d’ali fece loro alzare gli occhi: dei piccioni si stavano agitando, rincantucciati contro la griglia di una finestrella posta a un paio di metri d’altezza.

Anna si tirò indietro per valutare le dimensioni del passaggio. Poi, introdusse i piedi negli ornamenti di metallo del cancello e si arrampicò. Qualche istante più tardi, Mathilde sentì il raschiare della griglia strappata e il breve schiaffo di un vetro rotto.

Senza neppure riflettere, prese anche lei lo stesso cammino.

Giunta in alto si infilò nella finestra. Toccò terra nel momento in cui Anna premette l’interruttore.

Il santuario era immenso. Disposte intorno a un pozzo quadrato, le gallerie diritte, scavate nel granito, si allungavano a perdita d’occhio. A intervalli regolari, delle lampade diffondevano una debole luce.

Si avvicinò alla balaustra del pozzo: sotto di loro c’erano ancora tre livelli e un gran numero di gallerie. Al fondo dell’abisso, una minuscola vasca di ceramica. Sembrava di essere nel cuore di una città sotterranea costruita intorno a una fonte sacra.

Anna prese una delle due scale. Mathilde la seguì. Man mano che scendevano, il brontolio del sistema di aerazione si faceva più forte. A ogni pianerottolo, la sensazione del tempio, della tomba gigante diveniva più schiacciante.

Al secondo piano interrato, Anna imboccò una galleria sulla destra, punteggiata di scomparti e pavimentata con piastrelle bianche e nere. Camminarono a lungo. Mathilde osservava la scena con uno strano distacco. Di tanto in tanto, nel tenue chiarore delle lampade, notava qualche dettaglio. Un mazzo di fiori freschi posato a terra, avvolto nella stagnola. Un ornamento, una decorazione che distingueva un certo scomparto cinerario. Come il volto di quella donna di colore, i cui capelli ricci parevano affiorare dalla superficie del marmo. L’epitaffio diceva: TU ERI SEMPRE CON ME. TU SARAI SEMPRE CON ME. Oppure, più in là, quella foto di bimba, dal bordo grigio, incollata su una semplice lastra di gesso. Sopra, avevano scritto a pennarello: LEI NON È MORTA, MA DORME. SAN LUCA.

«Qui!» disse Anna.

Il corridoio terminava in uno scomparto più ampio degli altri.

«Il cric», ordinò.

Mathilde aprì la sacca che portava a tracolla e tirò fuori l’attrezzo. Anna lo ficcò tra il marmo e il muro, poi fece leva con tutta la sua forza. Sulla superficie si aprì una prima fessura. Spinse ancora alla base del blocco. La lastra si spezzò in due pezzi e cadde a terra.

Anna ripiegò il cric e lo usò come martello contro la piccola parete di gesso che chiudeva il loculo. Cominciarono a saltare via dei pezzetti che si infilarono tra i suoi capelli neri. Martellava con ostinazione, senza preoccuparsi del rumore.

Mathilde non respirava più. Le pareva che i colpi dovessero sentirsi fino in piace Gambetta. Quanto tempo sarebbe passato prima dell’arrivo dei guardiani?

Tornò il silenzio. Immersa in una nuvola biancastra, Anna si sporse in avanti per sgomberare le macerie.

All’improvviso, un tintinnio risuonò alle loro spalle.

Le due donne si voltarono.

Ai loro piedi, in mezzo ai pezzi di gesso, luccicava una chiave.

«Prova con questa. Risparmierai tempo.»

Videro un uomo con i capelli a spazzola. La sua immagine si rifletteva sulla scacchiera del pavimento. Sembrava camminare sulle acque.

Puntando il suo fucile a pompa, chiese:

«Dov’è?»

Indossava un impermeabile spiegazzato che lo ingobbiva, ma questo non diminuiva l’impressione di potenza che emanava da lui. Era soprattutto il suo volto che, illuminato di lato dal raggio di una lampada, sprigionava una forza d’una crudeltà raggelante.

«Dov’è?» ripeté facendo un passo in avanti.

Mathilde si sentì male. Un dolore scavò nel suo ventre, le gambe le mancarono. Dovette aggrapparsi al loculo per non cadere. Ora non si giocava più. Non si trattava più di tiro a segno, né di triathlon, né di rischi calcolati.

Stavano semplicemente per morire.

L’intruso avanzò ancora, poi, con un gesto secco, armò il fucile:

«Porco dio, dov’è la droga?»

55.

L’uomo con l’impermeabile prese fuoco.

Mathilde si gettò a terra. Nel momento in cui toccò il suolo, capì che la fiamma era uscita dal fucile che egli aveva in pugno. Si rotolò tra i detriti di gesso. Contemporaneamente, una seconda verità le balenò in mente: era Anna che aveva sparato per prima; doveva aver nascosto una pistola automatica nello scomparto cinerario.

Gli spari si moltiplicarono. Mathilde si rannicchiò, con le mani chiuse a pugno sopra al testa. Sopra di lei, gli scomparti cominciarono a esplodere, liberando le urne e il loro contenuto. Quando le prime ceneri la toccarono, urlò. Si alzarono delle nuvole grigie, mentre i proiettili fischiavano e rimbalzavano. In una nebbia di polvere, vide scintille sugli spigoli di marmo, filamenti di fuoco che saltellavano sui calcinacci, vasi che rotolavano a terra rimbalzando e lanciando riflessi argentati. Il corridoio sembrava un inferno siderale, una miscela d’oro e di ferro…

Si raggomitolò ancor di più. I colpi fracassavano i loculi. I fiori si laceravano. Le urne si rompevano svuotandosi, mentre i proiettili sferzavano lo spazio intorno. Si mise a strisciare, chiudendo gli occhi e sussultando a ogni sparo.

All’improvviso tornò il silenzio.

Mathilde si fermò di colpo e aspettò diversi secondi prima di aprire le palpebre.

Non vide nulla.

La galleria era completamente ostruita dalle ceneri, come dopo un’eruzione vulcanica. La puzza di cordite si mescolava alla polvere rendendo ancora più irrespirabile l’aria.

Mathilde non osava muoversi. Pensò di chiamare Anna, ma non lo fece. Non doveva farsi localizzare dall’assassino.

Continuando a riflettere, tastò il proprio corpo: nessuna ferita. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò. Non un respiro. Non un fremito intorno a lei, fatta eccezione per qualche calcinaccio che cadeva ancora con un rumore smorzato.

Dov’era Anna?

Dov’era l’uomo?

Erano morti entrambi?

Strinse gli occhi per tentare di scorgere qualcosa. Vide infine, due o tre metri più in là, una lampada che produceva una luce fioca. Si ricordò che quei lumi punteggiavano il corridoio ogni dieci metri. Ma qual era? Quello dell’entrata o quello dell’uscita? A destra o a sinistra?

Represse un colpo di tosse, deglutì, poi, senza fare rumore, si alzò su un gomito. Cominciò ad avanzare verso sinistra, in ginocchio, evitando i calcinacci, i bossoli, i cumuli di cenere rovesciati dai vasi…

Improvvisamente, la nebbia si materializzò davanti a lei.

Una forma interamente grigia: l’assassino.

Le sue labbra si aprirono, ma una mano le schiacciò la bocca. Negli occhi iniettati di sangue che la guardavano, Mathilde lesse: se gridi sei morta. Si trovò in gola la canna di un revolver. Sbatté furiosamente le palpebre in segno di assenso. Lentamente, l’uomo sollevò le dita. Lei lo implorò ancora con lo sguardo, esprimendogli la sua totale sottomissione.

In quel momento avvertì una sensazione disgustosa. Era successo qualcosa che la sconvolgeva più della paura di morire: se l’era fatta addosso.

I suoi sfinteri avevano ceduto.

Urina ed escrementi colavano lungo le sue gambe, infradiciando i collant.

L’uomo l’afferrò per i capelli e la trascinò lungo il pavimento. Mathilde si morse le labbra per non urlare. Attraversarono le coltri di nebbia, in mezzo ai vasi, ai fiori e alle ceneri umane.

Svoltarono più volte nelle diverse gallerie. Sempre tirata brutalmente, Mathilde strisciava nella polvere con un sibilo ovattato. Sbatteva le gambe, ma i suoi movimenti non producevano alcun rumore. Apriva la bocca, ma non ne usciva alcun suono. Singhiozzava, gemeva, il suo respiro fischiava tra le labbra, ma tutto sembrava assorbito dall’aria polverosa. In mezzo a tutto quel dolore, capiva che il silenzio era il suo migliore alleato. Al minimo rumore, l’uomo l’avrebbe uccisa.

Rallentarono. Sentì la pressione diminuire. Poi l’uomo l’afferrò di nuovo e cominciò a salire alcuni scalini. Mathilde si inarcò. Un’onda di sofferenza si irradiava dalla sua testa fino al fondo della colonna vertebrale. Le pareva che delle pinze mortali le tirassero la pelle del volto. Le gambe continuavano ad agitarsi, pesanti, umide, coperte di vergogna. Sentiva la fanghiglia immonda che le insudiciava le cosce.

Ancora una volta, tutto si fermò.

Non durò che un istante, ma fu sufficiente.

Mathilde si piegò su sé stessa per vedere cosa stava succedendo. L’ombra di Anna si stagliava nella nebbia, mentre l’assassino, in silenzio, impugnava la sua pistola.

Con un sussulto si alzò in ginocchio per avvertirla.

Troppo tardi: lui tirò il grilletto e ci fu un fracasso assordante.

Ma niente accadde come previsto. Il profilo esplose in mille pezzi, le ceneri si trasformarono in grandine dolorosa. L’uomo gridò. Mathilde si liberò e partì all’indietro, rotolando giù dagli scalini.

Mentre precipitava, capì cos’era successo. L’altro non aveva sparato contro Anna, ma contro una porta a vetri, sporca di polvere, che gli rimandava la propria immagine riflessa. Mathilde ricadde sulla schiena e vide l’impossibile. Mentre la sua nuca sbatteva contro il pavimento, scorse in alto la vera Anna, grigia e impietrita, attaccata al telaio della porta sventrata. Li stava aspettando lassù, sopra i morti, come fosse in assenza di peso.

Appoggiandosi al muro con la mano sinistra, Anna si lanciò in avanti con tutte le forze. Nell’altra mano teneva il collo rotto di un vaso di vetro. Il suo bordo tagliente si piantò dritto nel viso dell’uomo.

Non ebbe il tempo di impugnare il revolver, che già Anna aveva ritirato la sua lama. Lo sparo attraversò la polvere. Un istante dopo lei attaccava di nuovo. Il vetro scivolò sulla tempia e stridette sulla pelle. Un altro proiettile si perse nell’aria. Anna era già appiattita contro la parete.

Fronte, tempie, bocca: tornò più volte all’attacco. La faccia dell’uomo si lacerava schizzando sangue da ogni parte. Confuso, perse la pistola e prese ad agitare le braccia come se fosse stato assalito da uno sciame di api assassine.

Anna gli diede il colpo di grazia. Si gettò su di lui. Rotolarono a terra. Il vetro gli si infilò nella guancia destra. Anna continuò a premere, uncinando letteralmente la pelle, mettendo a nudo la gengiva.

Aiutandosi con i gomiti, Mathilde scivolò sulla schiena. Urlava, senza riuscire a distogliere gli occhi da quel combattimento selvaggio.

Anna lasciò infine il vetro e si alzò. L’uomo, nella fanghiglia delle ceneri, gesticolava, cercando di estrarre il coccio piantato nella propria orbita. Anna raccolse la pistola e aprì le mani dell’agonizzante. Afferrò il collo del vaso e lo girò, poi lo tirò fuori dall’arcata sopraccigliare: dentro c’era l’occhio sanguinante dell’uomo. Mathilde cercò ancora di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì. Anna spinse la canna nell’orbita vuota e sparò.

56.

Fu di nuovo il silenzio.

Di nuovo l’odore acre delle ceneri.

Le urne rovesciate, con i loro coperchi lavorati.

I fiori di plastica, sparsi e colorati.

Il corpo si era schiantato a qualche centimetro da Mathilde, cospargendola di sangue, di cervella e di frammenti d’osso. Un braccio toccava una delle sue gambe, ma non aveva la forza di spostarsi. I battiti del suo cuore erano così deboli che l’intervallo tra una pulsazione e l’altra le sembrava dovesse essere ogni volta l’ultimo.

«Dobbiamo andare via. I guardiani possono arrivare da un momento all’altro.»

Mathilde alza gli occhi.

Quello che vede le strazia il cuore.

Il volto di Anna è diventato di pietra. La polvere dei morti si è ammassata sui suoi lineamenti, disegnando screpolature e rughe. Per contrasto, i suoi occhi sono iniettati di sangue.

Mathilde pensa all’occhio strappato dal coccio di vetro: sta per vomitare.

Anna ha in mano una sacca sportiva, senza dubbio recuperata nel loculo.

«La droga è fottuta», dice. «Non abbiamo il tempo di piangerci sopra.»

«Chi sei tu? Santo cielo, chi sei?»

Anna posa il sacco a terra e lo apre:

«Non ce li avrebbe regalati, credimi.»

Afferra delle mazzette di dollari, li conta rapidamente poi li rimette dentro.

«Era il mio contatto a Parigi», riprende. «Quello che doveva distribuire la droga in Europa e mantenere i rapporti con la rete di vendita.»

Mathilde guarda il cadavere. Scorge una smorfia scura da cui spunta un occhio che fissa il soffitto. Vuole dargli un nome, a guisa di epitaffio:

«Come si chiamava?»

«Jean-Louis Schiffer. Era uno sbirro.»

«Uno sbirro era il tuo contatto?»

Anna non risponde. Prende dal fondo della sacca un passaporto e lo sfoglia rapidamente. Mathilde torna a guardare il corpo:

«Eravate… soci?»

«Lui non mi aveva mai vista, ma io conoscevo la sua faccia. Avevamo un segno di riconoscimento. Una spilla a forma di papavero. E anche una specie di parola d’ordine: le quattro lune.»

«Cosa significa?»

«Lascia perdere.»

Continua a rovistare, tenendo un ginocchio a terra. Tira fuori diversi caricatori per pistola automatica. Mathilde la osserva incredula. Il suo volto assomiglia a una maschera di fango secco; una figura rituale fissata nella creta. Anna non ha più niente di umano.

«Cosa farai adesso?»

La donna si alza e toglie dalla cintura una pistola: certamente l’automatica che ha trovato nello scomparto. Aziona una molla sul calcio ed espelle il caricatore vuoto. La sua sicurezza tradisce il lungo allenamento:

«Parto. Non c’è futuro per me a Parigi.»

«Dove vai?»

Innesta un nuovo caricatore.

«In Turchia.»

«In Turchia? Ma perché? Se vai laggiù ti troveranno.»

«Mi troveranno dovunque vada. Devo tagliare le radici.»

«Le radici?»

«Le radici dell’odio. L’origine della vendetta. Devo tornare a Istanbul. Devo sorprenderli. Loro non mi aspettano là.»

«Loro chi?»

«I Lupi grigi. Presto o tardi scopriranno la mia nuova faccia.»

«E allora? Ci sono mille posti dove nasconderti.»

«No. Quando scopriranno il mio nuovo volto sapranno dove scovarmi.»

«Perché?»

«Perché il loro capo l’ha già visto, anche se in una situazione completamente diversa.»

«Non ci capisco niente.»

«Te lo ripeto: dimentica tutto questo! Mi seguiranno fino al giorno della loro morte. Per loro non è un contratto come gli altri. Ne fanno una questione d’onore. Io li ho traditi. Ho tradito il mio giuramento.»

«Che giuramento? Di cosa stai parlando?»

Lei mette la sicura e infila l’arma dietro la schiena.

«Io sono una di loro. Sono una Lupa.»

Mathilde si sente mancare il fiato e sente il sangue che rallenta nelle vene. Anna si inginocchia e le cinge le spalle. Il suo viso non ha più colore, ma quando parla, tra le labbra si scorge la lingua rosa, quasi fluorescente.

Una bocca di carne cruda.

«Sei viva, ed è già un miracolo», dice lei con dolcezza. «Quando tutto sarà finito, ti scriverò. Ti darò i nomi, le circostanze, tutto. Voglio che tu conosca la verità, ma a distanza. Quando sarò sul punto di concludere e tu sarai al riparo.»

Mathilde non risponde, è stravolta. Per alcune ore, un’eternità, ha protetto quella donna come se fosse stata carne della sua carne. Ne ha fatto sua figlia, il suo bebè.

E in realtà è un’assassina.

Un essere violento e crudele.

Dal fondo del suo corpo si risveglia una sensazione atroce. Un vortice di melma in una vasca piena di marciume. L’umidità glauca dei suoi visceri rilasciati, aperti.

In quel momento, l’idea della gestazione le taglia il respiro.

Sì: quella notte ha partorito un mostro.

Anna si alza e prende la sua sacca.

«Ti scriverò. Te lo giuro. Ti spiegherò tutto.»

Sparisce, in un’eclisse di ceneri.

Mathilde resta immobile, gli occhi fissi sulla galleria vuota.

Lontano, le sirene del cimitero risuonano.

DIECI

57.

«Pronto. Sono Paul.»

Dall’altra parte del filo uno sbuffo, poi:

«Hai visto che ora è?»

Lui guardò l’orologio: appena le sei del mattino.

«Scusami. Non ho dormito.»

Lo sbuffare si trasformò in un sospiro di sfinimento.

«Che cosa vuoi?»

«Volevo solo sapere se Céline ha ricevuto le caramelle.»

La voce di Reyna diventò dura:

«Fatti curare.»

«Le ha ricevute sì o no?»

«E mi chiami alle sei per questo?»

Paul diede un pugno al vetro della cabina, il suo cellulare era ancora scarico.

«Dimmi solo se le ha fatto piacere. Non la vedo da dieci giorni!»

«Quello che le ha fatto piacere sono stati i tipi in uniforme che gliele hanno portate. Ha parlato solo di quello per tutto il giorno. Merda. Tutto un percorso ideologico per poi arrivare a questo punto. Degli sbirri come baby-sitter…»

Paul immaginava sua figlia in ammirazione davanti ai galloni d’argento, con gli occhi che le brillavano di fronte alle merendine che gli agenti le stavano dando. L’immagine gli scaldò il cuore. Di colpo, con un tono allegro, promise:

«Ti chiamo tra due ore, prima che lei esca per andare a scuola.»

Reyna riagganciò senza dire una parola.

Uscì dalla cabina e inspirò una lunga boccata d’aria notturna. Si trovava in piace du Trocadéro, tra i musei dell’Uomo e della Marina e il teatro di Chaillot. Una pioggia fine cadeva sullo spiazzo centrale, circondato da staccionate, segno evidente dei lavori di restauro.

Seguì il corridoio formato dalle tavole di legno e attraversò la spianata. L’acquerugiola formava sul suo viso uno strato come d’olio. La temperatura, decisamente troppo dolce per la stagione, lo faceva sudare sotto il suo parka. Quel tempo appiccicoso si accordava bene con il suo umore. Si sentiva sporco, consunto, svuotato; un gusto di cartapesta sulla lingua.

Da quando, alle undici della sera prima, aveva parlato al telefono con Schiffer, stava seguendo la pista dei chirurghi plastici. Aveva accettato la nuova svolta nell’inchiesta: una donna dal viso modificato inseguita nello stesso tempo dagli uomini di Charlier e dai Lupi grigi. Allora si era recato alla sede del Consiglio dell’Ordine dei medici, in avenue de Friedland, ottavo arrondissement, in cerca di medici che avessero avuto problemi con la giustizia. Rifare totalmente un volto non è mai un’operazione innocente, aveva detto Schiffer. Bisognava dunque cercare un chirurgo senza scrupoli. Paul aveva avuto l’idea di cominciare da quelli che avevano la fedina penale sporca.

Si era immerso negli archivi e non aveva esitato a convocare in piena notte il responsabile di quell’ufficio per venirlo ad aiutare. Risultato: più di seicento fascicoli per il solo dipartimento dell’Ile de France negli ultimi cinque anni. Come cavarsela con una lista così? Alle due del mattino aveva chiamato Jean-Philippe Arnaud, il presidente dell’associazione dei chirurghi estetici, per chiedergli consiglio. In risposta, l’altro, insonnolito, aveva fatto tre nomi: virtuosi dalla dubbia reputazione che avrebbero potuto accettare quel tipo di operazione senza andare troppo per il sottile.

Prima di riagganciare, Paul l’aveva ancora interrogato sugli altri chirurghi plastici, quelli «rispettabili». A denti stretti, Araaud aveva aggiunto altri sette nomi, precisando che quei medici, conosciuti e riconosciuti, non si sarebbero mai lanciati in una simile operazione. Paul aveva tagliato corto e lo aveva ringraziato.

Alle tre del mattino aveva dunque una lista di dieci nomi. Per lui, la notte era appena cominciata…

Si fermò dall’altro lato della balconata del Trocadéro, tra i due padiglioni dei musei, di fronte alla valle della Senna. Seduto sugli scalini, si lasciò conquistare dalla bellezza di quello spettacolo. I giardini, con le loro terrazze, le loro fontane e le loro statue, si dispiegavano in una scenografia da fiaba. Il ponte di Iena depositava le sue pennellate di luce sul fiume, fino alla Tour Eiffel, sull’altra riva, che assomigliava a un grosso fermacarte in ghisa. Tutto intorno, gli edifici oscuri del Champ-de-Mars dormivano in un silenzio da tempio. Il quadro d’insieme evocava un regno nascosto del Tibet, uno Xanadu meraviglioso, situato ai confini del mondo conosciuto.

Paul lasciò affluire i ricordi delle ultime ore.

All’inizio aveva cercato di contattare telefonicamente i chirurghi. Ma fin dalla prima chiamata aveva capito che in quel modo non avrebbe ottenuto niente: gli avevano sbattuto la cornetta in faccia. In ogni modo, doveva subito far vedere loro le foto delle vittime e quella di Anna Heymes che Schiffer gli aveva lasciato al commissariato Louis-Blanc.

Si era dunque recato dal più vicino dei chirurghi «sospetti», in rue Clément-Marot. D’origine colombiana, miliardario, l’uomo, secondo Jean-Philippe Arnaud, aveva operato la metà dei «padrini» di Medellin e di Cali. La sua reputazione, in quanto ad abilità, era immensa. Si diceva che potesse operare indifferentemente con la mano destra o con la sinistra.

Malgrado l’ora tarda, l’artista non era ancora a letto, o, quantomeno, non dormiva. Paul l’aveva disturbato nel bel mezzo di alcuni giochi intimi, nella penombra profumata del suo vasto loft. Non aveva visto distintamente il suo viso, ma aveva capito che quei ritratti non gli dicevano niente.

Il secondo indirizzo era quello di una clinica di rue Washington, dall’altra parte degli Champs-Elysées.

Paul aveva beccato il chirurgo proprio prima di un intervento d’urgenza su un grande ustionato. Aveva recitato in pieno la sua parte: tesserino della polizia, qualche parola sull’affare, le foto spiattellate su di una barella.

L’altro non aveva neppure abbassato la mascherina chirurgica. Aveva solo fatto no con la testa, prima di andarsene verso le sue carni carbonizzate. Paul si ricordò allora delle parole di Arnaud: quell’uomo creava artificialmente la pelle umana. Si diceva che, con una bruciatura, potesse modificare le impronte digitali e perfezionare così il cambiamento d’identità di un criminale in fuga.

Paul era ripartito nella notte.

Il terzo lo aveva colto in pieno sonno, nel suo appartamento in avenue d’Eylau, vicino al Trocadéro. Un’altra celebrità, alla quale si attribuivano interventi sulle più grandi star dello spettacolo. E tuttavia, nessuno sapeva «su chi» e «su cosa». Si mormorava che lui stesso avesse cambiato volto, dopo alcuni problemi con la giustizia del suo paese d’origine, il Sudafrica.

Aveva ricevuto Paul con diffidenza, le mani infilate nelle tasche della vestaglia come dei revolver. Dopo aver guardato le foto, con ripugnanza, aveva dato una risposta categorica: «Mai viste».

Paul era uscito da quelle tre visite come da un’apnea profonda. Alle sei del mattino aveva sentito bruscamente il bisogno di segni familiari, di punti di riferimento. Ecco perché aveva chiamato la sua sola famiglia, o almeno quello che ne restava. La telefonata non lo aveva riconfortato. Reyna continuava a vivere su un altro pianeta. E Céline, dal profondo del sonno, era distante anni luce da quell’universo. Un mondo dove gli assassini ficcavano roditori vivi nel sesso delle donne, o dove i poliziotti tagliavano le falangi per ottenere informazioni…

Paul alzò gli occhi. Lo spettro dell’aurora si stagliava all’orizonte, come la sagoma di un astro lontano. Una larga striscia violetta prendeva a poco a poco una tinta rosata e distillava, alla sommità del suo arco, un color di zolfo, già pigmentato da particelle bianche e brillanti. L’argento del giorno…

Si rialzò e tornò sui suoi passi. Quando raggiunse piace du Trocadéro, i caffè stavano aprendo. Scorse le luci del Malakoff, la brasserie dove aveva dato appuntamento a Naubrel e Matkowska, i suoi due agenti della polizia giudiziaria.

Il giorno prima, aveva ordinato loro di abbandonare la pista delle camere iperbariche per raccogliere tutto ciò che potevano trovare sui Lupi grigi e sulla loro storia politica. Paul si concentrava sulla preda, ma voleva anche conoscere i cacciatori.

Sulla porta del caffè-brasserie si fermò un istante pensando al nuovo problema che lo rodeva da qualche ora: la sparizione di Jean-Louis Schiffer. Dopo la telefonata delle ventitré non aveva più dato notizie. Paul aveva cercato a più riprese di contattarlo, ma invano. Avrebbe potuto immaginare il peggio, preoccuparsi per la sua vita; e invece no, sentiva piuttosto che quel bastardo lo aveva preceduto. Una volta in libertà, Schiffer aveva senza dubbio scoperto una pista fertile e l’aveva seguita da solo.

Controllando la sua rabbia, Paul gli concesse mentalmente un ultimo appello: gli dava fino alle dieci per farsi vivo. Passato quel limite, avrebbe fatto partire le ricerche.

Spinse la porta del caffè, sentendosi di nuovo di umore nero.

58.

I due luogotenenti erano già seduti in una zona appartata. Prima di raggiungerli, Paul si sfregò il volto con le mani e cercò di sistemarsi il parka spiegazzato. Voleva provare ad apparire ciò che era, il loro superiore, e non sembrare un barbone strappato alla notte.

Attraversò quell’ambiente troppo illuminato, troppo rinnovato, dove tutto, dai lampadari allo schienale delle sedie, sembrava falso. Finto legno, finto zinco, finta pelle. Un bar pacchiano, abitualmente saturo di vapori d’alcol e di chiacchiere da banco, ma per il momento ancora deserto.

Paul si sedette davanti ai due investigatori e ritrovò con piacere le loro facce allegre. Naubrel e Matkowska non erano dei grandi poliziotti, ma avevano l’entusiasmo della gioventù. Ricordavano a Paul il cammino che lui non aveva mai saputo prendere: quello della spensieratezza, della leggerezza.

Cominciarono inondandolo di dettagli sulle loro ricerche notturne. Paul, dopo aver ordinato un caffè, tagliò corto:

«Okay ragazzi, veniamo ai fatti.»

Si scambiarono uno sguardo complice, poi Naubrel aprì uno spesso dossier pieno di fotocopie:

«Quella dei Lupi grigi è innanzi tutto una storia politica. Da quanto abbiamo capito, negli anni Sessanta le idee di sinistra hanno preso piede in Turchia proprio come in Francia. Per reazione, l’estrema destra è salita alle stelle. Un uomo di nome Alpaslan Türkes, un colonnello che aveva trafficato con i nazisti, ha formato un partito: il Partito d’azione nazionalista. Lui e le sue truppe si sono presentati come un baluardo di fronte alla minaccia rossa.»

La parola passò a Matkowska:

«Nella scia di questo gruppo ufficiale, sono nati dei centri di formazione ideologica destinati ai giovani. Da prima nelle università, poi anche nelle campagne. I ragazzi che vi aderivano si erano scelti il nome di “Idealisti” o anche di “Lupi grigi”». Controllò i suoi appunti: «“Bozkurt”, in turco».

Quelle informazioni si aggiungevano a quelle di Schiffer.

«Negli anni Settanta», continuò Naubrel, «il conflitto tra comunisti e fascisti è diventato durissimo. I Lupi grigi hanno preso le armi. In alcune regioni dell’Anatolia sono stati aperti dei campi di addestramento. Lì hanno indottrinato i giovani Idealisti, li hanno formati agli sport di combattimento e li hanno iniziati all’uso delle armi. Dei contadini analfabeti si sono trasformati in assassini armati, addestrati e fanatici.»

Matkowska sfogliò un nuovo plico di fotocopie:

«A partire dal ’77, i Lupi grigi sono passati all’azione: attentati dinamitardi, mitragliamento di luoghi pubblici, uccisione di note personalità… I comunisti hanno replicato. È iniziata una vera guerra civile. Alla fine degli anni Settanta, ogni giorno in Turchia venivano uccise da quindici a venti persone. Puro e semplice terrore.»

Paul intervenne:

«E il governo? La polizia? L’esercito?»

Naubrel sorrise:

«Appunto. I militari hanno lasciato che la situazione precipitasse per poter intervenire più facilmente. Nel 1980 organizzano un colpo di stato. Pulito, senza sbavature. I terroristi delle due parti vengono arrestati. I Lupi grigi vivono questo come un tradimento: hanno lottato contro i comunisti ed ecco che il governo di destra li mette in galera… All’epoca, Türkes scrive: “Io sono in prigione, ma le mie idee sono al potere.” In realtà, i Lupi grigi vengono liberati quasi subito. A poco a poco Türkes riprende la sua attività politica. Seguendo la sua strada, altri Lupi grigi si rifanno una verginità. Diventano deputati, parlamentari. Ma rimangono gli altri: i killer, i contadini dei campi di addestramento, quelli che non hanno conosciuto altro che violenza e fanatismo.»

«Sì», intervenne Matkowska, «e quelli sono rimasti orfani. La destra è al potere e non ha più bisogno di loro. Türkes stesso volta loro le spalle, troppo occupato a conquistarsi una rispettabilità. Quando escono di galera cosa possono fare?»

Naubrel posò la tazza del caffè e rispose alla domanda; il loro duettare era perfetto:

«Diventano mercenari. Sono armati ed esperti. Lavorano per il miglior offerente, lo Stato o la mafia. Secondo i giornalisti turchi che abbiamo contattato, questo non è un segreto per nessuno: i Lupi grigi sono stati utilizzati dal MIT, il servizio segreto turco, per eliminare leader armeni e curdi. Hanno anche costituito delle milizie, degli squadroni della morte. Ma è soprattutto la mafia a utilizzarli. Recupero crediti, racket, servizio d’ordine… A metà degli anni Ottanta, si inseriscono nel traffico di droga che si sta sviluppando in Turchia. Talvolta si sostituiscono persino ai clan mafiosi e prendono il potere. In confronto ai criminali classici, loro hanno un vantaggio fondamentale: hanno conservato rapporti privilegiati con il potere, in particolare con la polizia. In questi ultimi anni, in Turchia sono scoppiati diversi scandali che hanno rivelato legami più stretti che mai tra mafia, Stato e nazionalismo.»

Paul rifletteva. Tutte quelle storie gli parevano vaghe e lontane. Lo stesso termine «mafia» sembrava voler dire cose molto diverse tra loro. Sempre quell’immagine di piovra, di complotto, di reti invisibili… Ma che cosa stava a indicare esattamente? Non c’era niente che lo avvicinasse agli assassini che stava cercando, né alla donna bersaglio. Non aveva un volto o un nome da mettere sotto i denti.

Come se avesse indovinato i suoi pensieri, Naubrel si lasciò sfuggire un sorriso carico di fierezza:

«E ora, largo alle immagini!»

Spostò le tazze e infilò le mani in una busta:

«In Internet abbiamo consultato gli archivi fotografici del “Milliyet”, il più importante giornale di Istanbul. Siamo riusciti a scovare questo.»

Paul prese la prima foto.

«Cos’è?»

«È il funerale di Alpaslan Türkes. Il “vecchio lupo” è morto nell’aprile del 1997. Aveva ottant’anni. Un vero evento nazionale.»

Paul non credeva ai propri occhi: quel funerale aveva richiamato migliaia di turchi. La didascalia, scritta anche in inglese, recitava: «Quattro chilometri di corteo funebre, sorvegliati da diecimila poliziotti.»

Era un quadro grave e magnifico. Nero come la folla che si accalcava intorno al carro funebre, davanti alla grande moschea di Ankara. Bianco come la neve che quel giorno cadeva in larghi fiocchi. Rosso come la bandiera turca che sventolava ovunque tra i «fedeli»…

Le foto seguenti mostravano le prime file del corteo. Riconobbe l’ex Primo ministro, Tansu Ciller e concluse che dovevano esserci molte altre personalità politiche. Notò anche la presenza di emissari venuti dagli Stati vicini, con i loro vestiti tradizionali dell’Asia centrale, con i berretti e le giacche bordate d’oro.

All’improvviso, a Paul venne un’altra idea. Anche i padrini della mafia turca dovevano aver partecipato a quel funerale… I capi delle famiglie di Istanbul e delle altre regioni dell’Anatolia dovevano essere venuti a rendere un ultimo omaggio al loro alleato politico. Forse tra loro c’era persino quello che tirava le fila del suo caso. L’uomo che aveva messo gli assassini alle calcagna di Sema Gokalp…

Passò in rivista le altre immagini, che rivelavano, tra la folla, dettagli singolari. Ad esempio, la maggior parte delle bandiere rosse non recavano l’emblema turco della mezzaluna, ma tre mezzelune disposte a triangolo. A esse facevano eco dei manifesti con l’effige di un lupo ululante sotto le tre lune.

Paul aveva l’impressione di vedere un esercito in marcia, dei guerrieri di pietra dai valori primitivi, dai simboli esoterici. Più che un semplice partito politico, i Lupi grigi formavano una sorta di setta, un clan misterioso dai riti ancestrali.

Sull’ultima foto vide un dettaglio che lo sorprese: i militanti, al passaggio del feretro, non alzavano il pugno chiuso, come gli era sembrato in un primo tempo. Facevano uno strano saluto con due dita alzate. Si concentrò su una donna in lacrime, sotto la neve, che effettuava quel gesto enigmatico.

Guardando meglio, si vedeva che alzava l’indice e il mignolo, mentre il medio e l’anulare si raggruppavano contro il pollice. A voce alta chiese:

«Cos’è questo gesto?»

«Non so», rispose Matkowska. «Fanno tutti così. Senza dubbio è un segno di riconoscimento. Mi sembrano tutti molto strani!»

Quel segno era una chiave. Due dita alzate, verso il cielo, come fossero due orecchie…

E a quel punto capì.

«Santo cielo», disse. «Non vedete cosa rappresenta?»

Paul mise la sua mano di profilo, puntata verso al vetrina:

«Guardate meglio.»

«Cazzo», disse Naubrel. «È un lupo. Un muso di lupo.»

59.

Uscendo dal locale, Paul annunciò:

«Adesso dividiamo le squadre.»

I due poliziotti accusarono il colpo. Dopo quella notte bianca, speravano certamente di rientrare a casa. Lui ignorò la loro faccia delusa:

«Naubrel, tu riprendi l’inchiesta sulle camere iperbariche.»

«Cosa? Ma…»

«Voglio la lista completa di tutti i siti che ospitano macchinari di quel genere in tutta la regione.»

L’agente aprì le mani in un segno di impotenza:

«Capitano, quest’affare è un vicolo cieco. Con Matkowska abbiamo fatto un rastrellamento a tappeto. Dai cantieri agli impianti di riscaldamento, dalle fabbriche di sanitari alle vetrerie. Abbiamo visitato i laboratori di collaudo, i…»

Paul lo fermò. Se avesse ascoltato la sua stessa volontà avrebbe lasciato perdere. Ma Schiffer, al telefono, gli aveva fatto una domanda a quel proposito; significava che aveva una buona ragione per interessarsene. E ora più che mai, Paul aveva fiducia nell’intuito del vecchio.

«Voglio la lista», tagliò corto. «Tutti i posti dove esiste la minima possibilità che gli assassini abbiano usato la camera iperbarica.»

«E io?» chiese Matkowska.

Paul gli porse le chiavi del suo appartamento:

«Tu vai a casa mia, in rue du Chemin-Vert. Nella mia cassetta delle lettere recuperi i cataloghi, i fascicoli e tutti i documenti riguardanti maschere e busti antichi. È un agente dell’anticrimine che li raccoglie per me.»

«E cosa ne faccio?»

Non è che credesse molto neanche in quella pista, ma, ancora una volta, sentì la voce di Schiffer: E le maschere antiche? L’ipotesi di Paul poteva non essere tanto strampalata…

«Ti sistemi nel mio appartamento», riprese con voce ferma. «Compari ogni immagine con le facce della morte.»

«Perché?»

«Cerca delle somiglianze. Sono certo che l’assassino si ispira a dei reperti archeologici per sfigurarle.»

Il poliziotto guardava incredulo le chiavi che rilucevano nel palmo della sua mano. Paul non disse di più. Dirigendosi verso la sua macchina, concluse:

«A mezzogiorno facciamo il punto. Se, prima di allora, trovate qualcosa di serio, chiamatemi subito.»

Era giunto il tempo di occuparsi di una nuova idea che lo solleticava da un po’: a qualche isolato di là, abitava un consigliere culturale dell’ambasciata di Turchia, Alì Ajik. Valeva la pena di chiamarlo. L’uomo si era sempre mostrato collaborativo nel corso dell’inchiesta e Paul aveva bisogno di parlare con un cittadino turco.

Giunto in macchina, utilizzò il suo cellulare, finalmente ricaricato. Ajik non dormiva, almeno stando a quanto aveva assicurato.

Qualche minuto più tardi, Paul saliva le scale del diplomatico. Vacillava leggermente. La mancanza di sonno, la fame, l’eccitazione…

L’uomo lo accolse in un piccolo appartamento moderno, trasformato nella caverna di Alì Babà. Mobili lucidi che emanavano riflessi dorati. Medaglioni, cornici, lanterne andavano all’assalto dei muri, irradiando l’oro e il rame. Il pavimento spariva sotto i kilim sovrapposti che vibravano tutti degli stessi colori d’ocra. Quell’ambientazione da Mille e Una Notte non si accordava con il personaggio di Ajik, turco moderno e poliglotta d’una quarantina d’anni.

«Prima di me», spiegò in tono di scusa. «L’appartamento era occupato da un diplomatico della vecchia scuola.»

Sorrise, con le mani sprofondate nelle tasche della sua tuta da ginnastica grigio perla:

«Allora, quest’urgenza?»

«Vorrei mostrarle delle fotografie.»

«Delle fotografie? Nessun problema. Entri. Preparo del tè.»

Paul avrebbe voluto rifiutare, ma doveva stare al gioco. La sua visita era informale, per non dire illegale; avanzava sul terreno dell’immunità diplomatica.

Si accomodò a terra, tra i tappeti e i cuscini ricamati, mentre Ajik, seduto con le gambe incrociate, serviva il tè in piccoli bicchieri bombati.

Paul l’osservò. I suoi lineamenti erano regolari, con i capelli neri, tagliati molto corti, che gli fasciavano la testa come un cappuccio. Un volto netto, disegnato con la penna a china. La sola cosa che turbava era lo sguardo, con i suoi occhi asimmetrici. La pupilla sinistra non si muoveva mai ed era sempre posata sul suo interlocutore, mentre l’altra disponeva di tutta la sua mobilità.

Senza toccare il suo bicchiere bollente, Paul attaccò:

«Vorrei dapprima parlarle dei Lupi grigi.»

«Una nuova inchiesta?»

Paul eluse la domanda:

«Che cosa sa di loro?» ^

«È roba molto lontana. Erano potenti soprattutto negli anni Settanta. Uomini molto violenti…»

Bevve piano un sorso di tè.

«Ha notato il mio occhio?»

Paul si fabbricò un’espressione stupita, del tipo: «Adesso che me lo dice…»

«Sì, l’ha notato», sorrise Ajik. «Sono gli Idealisti che me l’hanno cavato. Nel campus dell’università, quando militavo nella sinistra. Avevano dei metodi piuttosto… rudi.»

«E oggi?»

Ajik fece un gesto consumato:

«Non esistono più. Almeno non in forma di gruppo terroristico. Non hanno più bisogno di usare la forza: sono al potere.»

«Non sto parlando di politica. Parlo degli uomini d’azione. Quelli che lavorano per i cartelli criminali.»

La sua espressione assunse una sfumatura ironica:

«Sono strane storie… In Turchia è difficile distinguere la leggenda dalla realtà.»

«Ma è vero o no che alcuni di loro sono al servizio dei clan mafiosi?»

«In passato sì, questo è certo. Ma oggi…»

Corrugò la fronte.

«Ma perché mi fa queste domande? C’è qualche relazione con la serie di omicidi?»

Paul preferì continuare:

«Secondo le mie informazioni, questi uomini, benché lavorino per la mafia, rimangono fedeli alla loro causa.»

«Esatto. In fondo, disprezzano i gangster che danno loro da lavorare. Sono convinti di servire un ideale più elevato.»

«Mi parli di questo ideale.»

Ajik cercò ispirazione, gonfiando esageratamente il petto, come se trattenesse un’enorme boccata di patriottismo.

«Il ritorno dell’impero turco. Il miraggio del Turan.»

«Che cos’è?»

«Ci vorrebbe una giornata intera per spiegarle tutto questo.»

«Per favore», disse Paul con voce più dura. «Devo capire cos’è che li infiamma.»

Alì Ajik si appoggiò su un gomito.

«Il popolo turco nasce nelle steppe dell’Asia centrale. I nostri antenati avevano gli occhi a mandorla e abitavano le stesse regioni dei mongoli. Gli unni, ad esempio, erano dei turchi. Quei nomadi hanno dilagato in tutta l’Asia centrale e hanno raggiunto l’Anatolia nel X secolo dopo Cristo.»

«Ma cos’è il Turan?»

«Un impero fondatore, che sarebbe esistito un tempo, nel quale tutti i popoli di lingua turca dell’Asia centrale sarebbero stati unificati. Una sorta di Atlantide che gli storici hanno spesso indicato, senza mai poter provare che sia esistito. I Lupi grigi sognano quel continente perduto. Sognano di riunire gli uzbechi, i tartari, i turkmeni… Sognano di ricostruire un immenso impero che si estenda dai Balcani al lago Baikal.»

«Un progetto realizzabile?»

«Certamente no. Eppure, in questo miraggio, c’è una parte di realtà. Oggi i nazionalisti raccomandano le alleanze economiche, premono per la condivisione tra i popoli di lingua turca delle risorse naturali.»

Paul si ricordò di quegli uomini dagli occhi a mandorla e dai mantelli di broccato presenti alle esequie di Türkes. Aveva visto giusto: il mondo dei Lupi grigi delineava uno stato nello stato. Una nazione sotterranea, al di sopra delle leggi e delle frontiere degli altri paesi.

Tirò fuori le fotografie dei funerali. Quella posizione da Budda cominciava a fargli venire i crampi.

«Queste foto le dicono qualcosa?»

Ajik prese la prima immagine e mormorò:

«Il funerale di Türkes… Io non ero Istanbul in quel periodo.»

«Riconosce delle personalità importanti?»

«Ma certo, c’è tutta la crema della società. I membri del governo. I rappresentanti dei partiti di destra. I candidati alla successione di Türkes…»

«Ci sono anche dei Lupi grigi in attività? Voglio dire, dei delinquenti conosciuti?»

Il diplomatico passò da una foto all’altra. Sembrava non sentirsi a proprio agio. Come se la sola visione di quegli uomini risvegliasse in lui un antico terrore. Puntò l’indice:

«Quello là: Oral Celik.»

«Chi è?»

«Il complice di Alì Agca. Uno dei due uomini che hanno cercato di assassinare il papa nel 1981.»

«Ed è in libertà?»

«È il sistema turco. Non dimentichi quali sono i rapporti tra i Lupi grigi e la polizia. E neanche l’immensa corruzione che c’è nel nostro sistema giudiziario…»

«Ne riconosce degli altri?»

«Non sono uno specialista.»

«Parlo di quelli celebri. Dei capifamiglia.»

«Vuole dire dei baba

Paul memorizzò quel termine che, senza dubbio, era l’equivalente turco di «padrino». Ajik si soffermò su ogni immagine:

«Certi mi dicono qualcosa», ammise infine. «Ma non mi ricordo i loro nomi. Sono facce che appaiono regolarmente sui giornali in occasione dei processi: traffico d’armi, rapimenti, case da gioco…»

Paul prese dalla tasca un pennarello:

«Provi a cerchiare i visi che conosce. E segni accanto il nome, se se lo ricorda.»

Il turco disegnò parecchi cerchi, ma non scrisse nessun nome. All’improvviso si fermò:

«Questo è una vera star. Una figura di livello nazionale.»

Indicò un uomo molto alto, di una settantina d’anni, che camminava appoggiandosi a un bastone. La fronte alta, i capelli grigi pettinati all’indietro, mascelle prominenti che gli davano un profilo da cervo. Una gran brutta faccia.

«Ismaïl Kudseyi. Il buyuk-baba più potente di Istanbul. Recentemente ho letto un articolo su di lui… Pare che sia ancora in gioco. Uno dei più grandi trafficanti di droga della Turchia. Le sue foto sono rare. Si racconta che abbia fatto cavare gli occhi a un fotografo che, di nascosto, aveva realizzato un servizio su di lui.»

«Le sue attività criminali sono note?»

Ajik scoppiò a ridere:

«Certo. A Istanbul dicono che la sola cosa che Kudseyi possa ancora temere sia un terremoto.»

«È legato ai Lupi grigi?»

«Eccome! È uno dei leader storici. La maggior parte degli attuali ufficiali di polizia si è formata nei suoi campi di addestramento. Ma è anche celebre per le sue attività filantropiche. La sua fondazione concede borse di studio ai bambini poveri. E sul fondo c’è sempre un patriottismo esacerbato.»

Paul notò un dettaglio:

«Cos’ha alle mani?»

«Delle cicatrici provocate dall’acido. Si racconta che abbia iniziato come assassino su commissione negli anni Sessanta. Faceva sparire i cadaveri con la soda caustica. Così dicono le voci.»

Paul sentiva uno strano formicolio nelle vene. Un uomo del genere avrebbe potuto ordinare la morte di Sema Gokalp. Ma per quale motivo? E perché lui e non il suo vicino nel corteo funebre? Come fare a condurre un’inchiesta a duemila chilometri di distanza?

Osservò altri volti cerchiati col pennarello. Facce dure, ferme, dai baffi bianchi di neve.

Suo malgrado, provava un rispetto equivoco per quei signori del crimine. Tra loro rimarcò un giovane dai capelli ispidi.

«E questo qui?»

«La nuova generazione. Azer Akarsa. Un pupillo di Kudseyi. Grazie all’aiuto della fondazione, questo piccolo contadino è diventato un grande uomo d’affari. Ha fatto fortuna nel commercio della frutta. Oggi, Akarsa possiede immense coltivazioni nella sua regione natale, vicino a Gaziantep. E non ha ancora quarant’anni. Un golden-boy in versione turca.»

Il nome Gaziantep fece scattare qualcosa nella mente di Paul. Tutte le vittime erano originarie di quella regione. Semplice coincidenza? Si soffermò su quel giovane che indossava una giacca di velluto abbottonata fino al collo. Più che a un uomo d’affari, assomigliava a uno studente bohemien e sognatore.

«Ha fatto politica?»

Ajik confermò con la testa.

«È un leader moderno. Ha fondato i suoi centri di attività. Lì si ascolta il rap, si discute dell’Europa, si bevono alcolici. Tutta roba dall’aria molto liberale.»

«È un moderato?»

«Solo in apparenza. Secondo me, Akarsa è un puro fanatico. Forse il peggiore di tutti. Crede in un radicale ritorno alle radici. È ossessionato dal passato prestigioso della Turchia. Anche lui ha una fondazione, con la quale finanzia degli scavi archeologici.»

A Paul vennero in mente le maschere antiche, i volti scolpiti come fossero pietre. Ma quella non era una pista. E neanche una teoria. Solo un delirio che non poggiava su niente.

«Ha delle attività criminali?» riprese.

«Credo di no. Akarsa non ha bisogno di soldi. E sono sicuro che disprezza i Lupi grigi che si compromettono con la mafia. Ai suoi occhi non sono degni della “causa”.»

Paul diede un’occhiata all’orologio: le nove e trenta. Era davvero l’ora di tornare ai suoi chirurghi. Riordinò le foto e si alzò:

«Grazie Alì. Sono sicuro che, in un modo o nell’altro, queste informazioni mi saranno molto utili.»

L’uomo lo riaccompagnò alla porta. Sulla soglia gli chiese:

«C’è una cosa che non mi ha ancora detto: i Lupi grigi hanno a che vedere con questa serie di omicidi?»

«Sì, è possibile che vi siano implicati.»

«Ma in che modo?»

«Non posso dire niente.»

«Lei… lei crede che siano a Parigi?»

Paul avanzò nel corridoio senza rispondere. Giunto alle scale si fermò:

«Ancora una domanda, Alì. Lupi grigi: perché questo nome?»

«È un riferimento al mito delle origini.»

«Che mito?»

«Si racconta che in tempi molto antichi, i turchi non fossero che un’orda affamata, senza rifugio, perduta nel cuore dell’Asia centrale. Erano ormai in agonia, quando trovarono alcuni lupi che li nutrirono e protessero. Dei lupi grigi che hanno dato origine al vero popolo turco.»

Paul si accorse che stava stringendo il mancorrente fino a far diventare bianche le nocche. Immaginò, nel sole, una muta che si scuoteva di dosso la polvere grigia delle steppe infinite. Ajik concluse:

«Proteggono la razza turca, capitano. Sono loro i guardiani delle origini, della purezza iniziale. Alcuni di loro credono persino di essere i lontani discendenti di una lupa bianca, Asena. Spero che lei si sbagli e che quegli uomini non siano a Parigi. Perché non sono dei criminali ordinari. Non assomigliano a nulla che lei abbia già visto, né da lontano, né da vicino.»

60.

Appena entrato nella Golf, Paul sentì squillare il telefonino:

«Capitano, forse ho qualcosa.»

Era la voce di Naubrel.

«Cosa?»

«Interrogando uno che si occupa di impianti di riscaldamento, ho scoperto che le camere iperbariche vengono utilizzate in un settore di attività al quale non ci siamo ancora interessati.»

Aveva ancora la testa piena di lupi e di steppe e faceva fatica a capire cosa l’altro gli stava dicendo. Quasi a caso, domandò:

«Quale settore?»

«La conservazione degli alimenti. Una tecnica piuttosto recente, importata dal Giappone. Invece di scaldare i prodotti, li si sottopone a una pressione elevata. È più caro, ma permette di conservare le vitamine e…»

«Cazzo, vuota il sacco. Hai una pista?»

Naubrel si adombrò.

«Nella zona di Parigi ci sono diverse aziende che usano questa tecnica. Fornitori di generi di lusso, roba biologica e raffinata. Nella valle della Bièvre c’è uno stabilimento che mi sembra interessante.»

«Perché?»

«Appartiene a un’impresa turca.»

Paul percepì un pizzicore alla radice dei capelli.

«Qual è il nome?»

«Società Matak.»

Due sillabe che non gli dicevano nulla, naturalmente.

«Cosa fanno come prodotti?»

«Succhi di frutta e confetture fini. Secondo le mie informazioni, è più un laboratorio che un sito industriale. Una vera unità pilota.»

Il pizzicore si trasformò in onde elettriche. Azer Akarsa. Il golden-boy nazionalista che aveva fondato il proprio successo sulla frutticoltura. Il ragazzo venuto da Gaziantep. Poteva esserci un rapporto?

Con voce più ferma, Paul riprese:

«Devi trovare il modo di visitare quel luogo.»

«Adesso?»

«Secondo te? Voglio che tu ispezioni da cima a fondo i loro spazi pressurizzati. Ma attenzione: niente di ufficiale, niente tesserino.»

«Ma come vuole che faccia?»

«Inventati qualcosa. Voglio anche che tu identifichi i proprietari dell’azienda in Turchia.»

«Sarà certamente una holding o una società per azioni!»

«Interroga i responsabili sul posto. Contatta la Camera di Commercio qui in Francia. E in Turchia, se è necessario. Voglio la lista dei principali azionisti.»

Naubrel parve capire che il suo superiore aveva un’idea per la testa.

«Che cosa cerchiamo di preciso?»

«Forse un nome: Azer Akarsa.»

«Che cazzo di nomi… Può farmi lo spelling?»

Paul sillabò. Stava per riagganciare quando l’agente chiese:

«Ha acceso la radio?»

«Perché?»

«Questa notte, al cimitero Père-Lachaise, hanno rinvenuto un cadavere. Un corpo mutilato.»

Sentì tra le costole una freccia gelata.

«Una donna?»

«No. Un uomo. Un poliziotto. Un ex del decimo arrondissement. Jean-Louis Schiffer. Uno specialista di roba turca e…»

I danni maggiori causati da una pallottola nel corpo umano non sono provocati dal proiettile in sé, ma dalla sua scia, dal vuoto distruttore che essa crea, come una coda di cometa attraverso la pelle, i tessuti, le ossa.

Paul sentì che quelle parole lo attraversavano allo stesso modo, amplificandosi nelle sue viscere, disegnando una linea di dolore che lo fece urlare. Ma neppure lui sentì il suo grido, perché aveva già piazzato il lampeggiatore sul tettuccio e aveva già azionato la sirena.

61.

Erano tutti là.

Poteva classificarli a seconda della loro tenuta. Gli alti papaveri di piace Beauveau, cappotto nero e scarpe lucidate, che portavano il lutto come una seconda natura. I commissari e i capi brigata, in verde mimetico o in pied-de-poule autunnale, assomigliavano a cacciatori appostati. Gli agenti della giudiziaria, con il giubbotto di pelle e il bracciale rosso, sembravano papponi riconvertiti in poliziotti. Indipendentemente dal grado o dalla funzione, la maggior parte di loro portava i baffi. Era un segno di appartenenza, un marchio che superava le differenze, atteso quanto la coccarda sui loro tesserini.

Paul superò la barriera dei furgoni e delle autopattuglie con i lampeggiatori che giravano in silenzio, ai piedi del tempio crematorio. Si infilò con discrezione sotto il nastro giallo che sbarrava l’ingresso degli edifici.

Una volta all’interno della recinzione, girò a sinistra, sotto le arcate, a si piazzò dietro a una colonna. Non si concesse il tempo di ammirare il posto, di guardare quelle lunghe gallerie tappezzate di nomi e di fiori, quell’atmosfera di rispetto sacro che affiorava dal marmo, dove la memoria dei morti planava come una bruma sopra l’acqua. Si concentrò piuttosto su un gruppo di poliziotti, in piedi nel giardino, per cercare di scorgere tra loro dei volti conosciuti.

Il primo che vide fu Philippe Charlier. Drappeggiato nel suo loden, il Gigante Verde meritava più che mai il suo soprannome. Vicino a lui c’era Christophe Beauvanier, cappellino da baseball e giacca di pelle. Quei due poliziotti, interrogati nella notte da Schiffer, sembravano essersi precipitati lì come sciacalli per assicurarsi che il corpo fosse davvero freddo. Non lontano, Paul notò Jean-Pierre Guichard, il procuratore della Repubblica, Claude Monestier, il commissario capo del Louis-Blanc e anche il giudice Thierry Bomarzo, uno dei pochi che conoscesse il vero ruolo svolto da Schiffer in tutto quell’affare di merda. Paul capì che quella parata ufficiale significava per lui soltanto che la sua carriera non sarebbe sopravvissuta a tutto quel casino.

Ma la cosa più sorprendente era la presenza di Morencko, il capo dell’antiterrorismo, e di Pollet, il comandante della narcotici. C’era un po’ troppa gente per la morte di un semplice ispettore in pensione. Paul pensò a una bomba la cui potenza si sarebbe rivelata solo dopo l’esplosione.

Si avvicinò, sempre al riparo delle colonne. Nella sua testa avrebbero dovuto affollarsi le domande. E invece era colpito da un fatto. Quel corteo di figure scure, sotto le volte del tempio, gli ricordava stranamente le esequie di Alpaslan Türkes. Stesso fasto, stessa solennità, stessi baffi. A suo modo, Jean-Louis Schiffer era riuscito a ottenere dei funerali di stato.

Scorse un’ambulanza, in fondo al parco, ferma vicino a un’entrata sotterranea. Alcuni infermieri in blusa bianca fumavano e parlavano con gli agenti in uniforme. Sicuramente stavano aspettando che la polizia scientifica finisse i rilievi per portare via il corpo. Dunque, Schiffer era ancora all’interno.

Paul uscì dal suo nascondiglio e si diresse verso l’entrata, riparato dalle siepi di ligustro. Stava per raggiungere la scala, quando una voce lo chiamò:

«Ehi! Di là non si passa.»

Si girò e mostrò il tesserino. Il piantone si impietrì, quasi sull’attenti. Paul lo abbandonò al suo stupore e, senza una parola, scese fino al cancello di ferro forgiato.

Gli sembrò di entrare nel dedalo di una miniera, con le sue gallerie e i suoi diversi livelli. Poi i suoi occhi si abituarono all’oscurità e cominciò a comprendere la topografia del luogo. Dei camminamenti bianchi e neri scandivano migliaia di nicchie, di nomi, di mazzi di fiori sospesi in guaine di vetro. Una città troglodita scavata nella roccia.

Si sporse al di sopra di un pozzo aperto sui piani inferiori. Nel secondo interrato riluceva un alone bianco: gli uomini della scientifica erano laggiù. Trovò una nuova scala e scese. Man mano che si avvicinava alla luce, l’aria sembrava scurirsi e pigmentarsi. Nelle narici si insinuava uno strano odore: secco, pungente, minerale.

Giunto al secondo livello, girò a destra. Più che la sorgente luminosa, ora egli seguiva l’odore. Alla prima svolta, vide dei tecnici in tuta bianca, con in testa dei berretti di carta. Avevano installato il loro quartier generale all’incrocio di diverse gallerie. Nelle loro valige cromate, appoggiate su contenitori in plastica, si intravvedevano provette, fiale, spray. Paul si avvicinò senza far rumore; le due sagome gli voltavano la schiena.

Non dovette sforzarsi per tossire: l’aria era satura di polvere. I cosmonauti si girarono; portavano delle maschere a forma di Y rovesciata. Paul esibì di nuovo il tesserino. Una delle teste d’insetto fece «no», alzando le mani guantate.

Risuonò una voce soffocata, impossibile dire quale dei due parlasse:

«Spiacente. Stiamo cominciando il lavoro delle impronte.»

«Solo un minuto. Era il mio compagno. Cazzo, cercate di capirmi.»

Le due Y si guardarono. Trascorse qualche istante. Uno dei tecnici prese una maschera nella valigia:

«Terzo corridoio», disse. «Segui le luci. E resta sulle tavole di legno. Non un piede a terra.»

Ignorando la maschera, Paul si mise in marcia. L’uomo lo fermò:

«Prendila. Altrimenti non riuscirai a respirare.»

Imprecando, Paul fissò il guscio bianco. Costeggiò il primo corridoio sulla sinistra, camminando sulle assi e scavalcando i cavi dei proiettori installati a ogni incrocio. I muri gli parevano interminabili, come interminabile era la litania di nicchie e di iscrizioni funerarie, mentre nell’aria le particelle grigie aumentavano di densità.

Infine, dopo aver svoltato, capì l’avvertimento.

Sotto la luce delle alogene, tutto era grigio: pavimento, pareti, soffitto. Le ceneri dei morti erano uscite dalle nicchie sventrate dai proiettili. Decine di urne erano rotolate a terra, mescolando il loro contenuto alle macerie e all’intonaco.

Sui muri, Paul riuscì a distinguere gli impatti di due armi differenti: un grosso calibro, tipo Shotgun, e una pistola semiautomatica, una 9 millimetri o una 45.

Avanzò, affascinato da quello spettacolo lunare. Aveva visto delle fotografie di città sepolte da un’eruzione vulcanica, nelle Filippine. Strade fossilizzate dalla lava rappresa. Superstiti sconvolti, con facce da statua, che portavano in braccio bambini di pietra. Davanti a lui si stendeva lo stesso panorama.

Superò un nuovo nastro giallo, poi, all’improvviso, in fondo al corridoio, lo vide.

Schiffer aveva vissuto come un bastardo. Ed era morto come un bastardo, in un ultimo soprassalto di violenza.

Il suo corpo, uniformemente grigio, era curvo, di profilo, la gamba destra ripiegata sotto l’impermeabile, la mano destra accartocciata come la zampa di un gallo. Una pozza di sangue si allargava dietro a ciò che restava della scatola cranica, come se uno dei suoi sogni più foschi gli fosse esploso in testa.

Ma la cosa peggiore era la faccia. Le ceneri che la ricoprivano non riuscivano a mascherare l’orrore delle ferite. Un globo oculare era stato strappato, larghi tagli laceravano la gola, la fronte e le guance. Uno di essi, più lungo e profondo, scopriva la gengiva fino a incrociare la ferita dell’orbita. La bocca assumeva così una smorfia atroce, debordante di creta rosa e argento.

Piegato in due da una nausea brutale, Paul si strappò la maschera. Ma il suo stomaco era completamente vuoto. Da quelle convulsioni, l’unica cosa che emerse furono le domande fino a quel momento trattenute: perché Schiffer era venuto lì? Chi l’aveva ucciso? Chi aveva potuto raggiungere un tale grado di barbarie?

In quel momento, cadde in ginocchio e scoppiò in singhiozzi. In un attimo, le lacrime sgorgarono abbondanti, senza che lui cercasse di fermarle o di asciugare il fango che si accumulava sulle sue guance.

Non piangeva per Schiffer.

Non piangeva neppure per le donne assassinate. E neanche per quella che era sotto tiro, in fuga da qualche parte.

Piangeva per sé stesso.

Per la sua solitudine e per il vicolo cieco nel quale ormai si trovava.

«Sarebbe ora che ci parlassimo un po’, non crede?»

Un uomo con gli occhiali, che non aveva mai visto, che non portava la maschera e il cui corpo coperto di polvere sembrava una stalattite, gli stava sorridendo.

62.

«Dunque è lei che ha rimesso in circolazione Schiffer!»

La voce era chiara, forte, quasi allegra, come lo era il blu del cielo.

Paul scosse le ceneri dal suo parka e tirò su col naso; aveva ritrovato un’apparenza di contegno.

«Sì, avevo bisogno di consigli.»

«Che genere di consigli?»

«Sto lavorando su una serie di omicidi nel quartiere turco, a Parigi.»

«La sua iniziativa era stata autorizzata dai superiori?»

«Lei conosce bene la risposta.»

L’uomo con gli occhiali annuì. Non era solo alto: tutto il suo aspetto era imponente. Faccia altera, mento rilevato, fronte ampia incorniciata da ricci grigi. Un alto funzionario nel pieno degli anni, con un profilo curioso da levriero.

Paul sondò il terreno:

«Lei è dell’Ispettorato generale dei servizi?»

«No. Sono Olivier Amien. Osservatorio geopolitica delle droghe.»

Quando lavorava all’OCTRES, Paul sentiva spesso quel nome. Amien era il grande capo della lotta agli stupefacenti in Francia. Un uomo che dettava legge tanto alla narcotici, quanto ai servizi antidroga internazionali.

Voltarono le spalle al tempio crematorio e si incamminarono lungo un vialetto che sembrava una strada acciottolata del XIX secolo. Paul scorse dei necrofori che fumavano, appoggiati a una tomba. Sicuramente stavano parlando dell’incredibile scoperta di quella mattina.

Amien riprese, con un tono carico di sottintesi:

«Credo che lei abbia lavorato anche all’Ufficio centrale degli stupefacenti…»

«Sì, per qualche anno.»

«In quale ambito?»

«Roba piccola. Cannabis soprattutto. Le reti del Nordafrica.»

Amien fece brillare un sorriso nel sole.

«Spero che un breve corso di storia contemporanea non la spaventi…»

Paul pensò a tutti i nomi e a tutte le date che aveva ingurgitato fin dall’alba.

«Faccia pure. Sto seguendo i corsi di recupero.»

L’alto funzionario sistemò sul naso gli occhiali e cominciò.

«Immagino che il nome talebani le dica qualcosa. Dopo l’11 settembre, nessuno ignora più l’esistenza di quegli integralisti. I media hanno passato al setaccio la loro vita e le loro opere… I buddha distrutti. La loro amicizia con Bin Laden. Il loro atteggiamento schifoso verso le donne, verso la cultura e verso ogni forma di tolleranza. Ma c’è una cosa che non si conosce, il solo punto positivo di quel regime: quei barbari hanno lottato con successo contro la produzione di oppio. Durante il loro ultimo anno di potere, hanno praticamente annientato la coltivazione del papavero in Afghanistan. Dalle tremila trecento tonnellate di oppio base prodotte nel 2000, siamo passati a centottantacinque nel 2001. Ai loro occhi, quell’attività era contraria alle leggi coraniche. Certo, dopo che il mullah Omar ha perso il potere, la coltivazione del papavero ha ripreso alla grande. Mentre parliamo, i contadini del Ningarhar guardano schiudersi i fiori della loro semina del novembre scorso. Tra poco, alla fine di aprile, cominceranno la raccolta.»

L’attenzione di Paul andava e veniva, come sotto l’effetto di un’onda interna. La crisi di pianto gli aveva intenerito lo spirito. Era in uno stato di ipersensibilità, pronto a scoppiare a ridere o a piangere al minimo segnale.

«…Ma prima dell’attentato dell’11 settembre», proseguì Amien, «nessuno sospettava che il regime sarebbe finito. Dunque, i narcotrafficanti cominciavano a interessarsi ad altre filiere. I buyuk-baba turchi, i padrini che si occupavano di esportare l’eroina verso l’Europa, si erano orientati verso altri paesi produttori come l’Uzbekistan e il Tagikistan. Non so se lei lo sa, ma sono paesi che condividono le stesse radici linguistiche.»

Paul tirò ancora su col naso:

«Sì, comincio a conoscerle queste cose.»

Amien assentì brevemente.

«Prima, i turchi compravano l’oppio in Afghanistan e in Pakistan. Raffinavano la morfina base in Iran, poi fabbricavano l’eroina nei loro laboratori in Anatolia. Con i popoli di lingua turca, hanno dovuto modificare la loro filiera. Hanno raffinato la gomma nel Caucaso, poi hanno prodotto la polvere bianca nella parte più orientale dell’Anatolia. Questi circuiti hanno richiesto un po’ di tempo per consolidarsi e, stando a quello che sappiamo, fino all’anno scorso erano ancora abbastanza improvvisati. Alla fine dell’inverno 2000-2001 abbiamo sentito parlare di un progetto di alleanza. Un’alleanza triangolare tra la mafia uzbeka, che controlla gli immensi territori delle coltivazioni, i clan russi, eredità dell’Armata Rossa, che controllano da decenni le strade del Caucaso e il lavoro di raffinazione che si svolge in quelle zone, e infine le famiglie turche, che assicurano la fabbricazione dell’eroina propriamente detta. Non avevamo nessun nome, nessuna precisazione, ma alcuni dettagli significativi lasciavano pensare che si stesse preparando una riunione al vertice.»

Giunsero in una parte buia del cimitero. Loculi neri, porte buie, tetti obliqui: quella zona ricordava un villaggio di minatori, schiacciato sotto un cielo di carbone. Amien schioccò la lingua e poi continuò:

«…Questi tre gruppi criminali hanno deciso di inaugurare la loro associazione con un carico-pilota. Una piccola quantità di droga da esportare con funzione di test e dal grande valore simbolico. Una vera porta aperta sull’avvenire… Per l’occasione, ogni partner ha voluto dimostrare la propria specifica capacità. Gli uzbeki hanno fornito una gomma-base di grande qualità. I russi hanno messo al lavoro i loro migliori chimici per raffinare la morfina base e i turchi, dall’altro capo della filiera, hanno fabbricato un’eroina praticamente pura. Un nettare. Noi riteniamo che si siano anche incaricati dell’esportazione del prodotto e del suo trasferimento in Europa. Dovevano dimostrare la loro affidabilità in questo campo. Attualmente, i turchi incontrano una forte concorrenza da parte dei clan albanesi e kosovari che sono diventati padroni delle strade balcaniche.»

Paul continuava a non capire in che modo quella storia lo riguardasse.

«…Tutto questo capitava alla fine dell’inverno 2001. Abbiamo aspettato la primavera per veder comparire questo famoso carico alle nostre frontiere. Un’occasione unica per stroncare sul nascere la nuova filiera…»

Paul osservava le tombe. Ora erano in un luogo chiaro, cesellato, come una musica di pietra che mormorava alle sue orecchie.

«…A partire dal mese di marzo, in Germania, in Francia e in Olanda, le dogane sono state messe in stato di massima allerta. I porti, gli aeroporti, le frontiere stradali erano permanentemente sorvegliati. In ciascun paese sono state interrogate le comunità turche. Abbiamo dato una scrollata ai nostri informatori, messo sotto intercettazione i trafficanti… Fino alla fine di maggio non siamo riusciti a pescare niente. Non un indizio, non un’inforinazione. In Francia abbiamo cominciato a preoccuparci. Abbiamo deciso di scavare più a fondo nella comunità turca. Di fare ricorso a uno specialista. Un uomo che conoscesse i circuiti anatolici come le proprie tasche e che potesse diventare un vero “sottomarino”.»

Furono queste ultime parole a riportare Paul alla realtà. Capì in un istante di essere lui il legame tra le sue inchieste.

«Jean-Louis Schiffer», disse senza nemmeno riflettere.

«Esattamente. Il Cifra, o il Fer, a piacere.»

«Ma era in pensione.»

«Abbiamo dovuto chiedergli di rientrare in gioco…»

Ogni cosa andava al suo posto. Il lavoro di insabbiamento dell’aprile 2001. La corte d’appello di Parigi che rinunciava a perseguire Schiffer per l’omicidio di Gazil Hamet. Paul fece le sue deduzioni ad alta voce:

«Jean-Louis Schiffer ha venduto la sua collaborazione. Ha preteso che si insabbiasse l’affare Hamet.»

«Vedo che lei conosce bene il dossier.»

«Faccio anch’io parte del dossier. E comincio a capire come funzionano le cose alla polizia. La vita di un piccolo spacciatore non vale niente in confronto alle sue grandi ambizioni di caposervizio.»

«Lei dimentica la nostra motivazione principale: fermare un circuito internazionale, bloccare…»

«La smetta. Conosco la canzone.»

Amien alzò le sue lunghe mani, come per rinunciare a ogni polemica su quell’argomento.

«Comunque, il nostro problema è stato ancora un altro.»

«Cioè?»

«Schiffer ha cambiato bandiera. Quando ha scoperto quale clan partecipava all’alleanza e quali erano le modalità di spedizione, non ci ha avvisato. Pensiamo che abbia offerto i suoi servizi al cartello dei trafficanti. Probabilmente si è fatto avanti per accogliere il corriere qui a Parigi e per fornire la droga ai migliori distributori. Chi meglio di lui conosceva i trafficanti presenti sul territorio francese?»

Amien rise cinicamente:

«In questo affare abbiamo avuto poco intuito. Abbiamo richiesto il Fer, ma ci è capitato il Cifra… Gli abbiamo proposto l’occasione che aspettava da sempre. Per Schiffer, questo affare era una vera apoteosi.»

Paul rimase in silenzio. Cercava di ricostruire il proprio mosaico, ma le lacune erano ancora troppo numerose. Dopo un minuto riprese:

«Se Schiffer ha concluso la sua carriera con quel colpo da maestro, perché stava lì a marcire all’ospizio di Longères?»

«Perché, ancora una volta, le cose non sono andate come previsto.»

«Sarebbe a dire?»

«Il corriere mandato dai turchi non si è mai fatto vivo. È lui che ha fregato tutti e se l’è filata con il carico. Sicuramente, Schiffer ha avuto paura che sospettassimo di lui e ha preferito sotterrarsi a Longères in attesa che le acque si calmassero. Anche un uomo come lui temeva i turchi. Lei immagina cosa fanno ai traditori…»

Nuovo ricordo: il Cifra che si ritira sotto falso nome a Longères, la sua aria da clandestino all’ospizio. Sì: temeva le rappresaglie delle famiglie turche. I pezzi si sistemavano, ma Paul non era ancora convinto. L’insieme gli sembrava troppo fragile, troppo precario.

«Tutto questo», replicò, «non è che frutto di ipotesi. Non avete uno straccio di prova. In primo luogo, come fate a essere sicuri che la droga non è mai arrivata in Europa?»

«Ci sono due elementi che lo dimostrano chiaramente. Primo: un’eroina del genere avrebbe fatto un bel po’ di rumore sul mercato. Ad esempio avremmo dovuto constatare una recrudescenza di morti per overdose, ma non è successo niente.»

«E il secondo elemento?»

«Abbiamo ritrovato la droga.»

«Quando?»

«Proprio oggi.» Amien diede un’occhiata dietro di sé. «Nel tempio crematorio.»

«Qui?»

«Se avesse proseguito ancora un po’ nella cripta, l’avrebbe vista lei stesso, sparsa tra le ceneri dei morti. Doveva essere nascosta in una delle nicchie che sono state sventrate nella sparatoria. Ora è inutilizzabile. Devo confessare che il simbolismo è efficace: la morte bianca tramutata in morte grigia… Schiffer, questa notte, è venuto a cercare quell’eroina. È la sua inchiesta che lo ha portato fino alla droga.»

«Quale inchiesta?»

«La vostra.»

Erano cavi elettrici che continuavano a non trovare i loro giusti collegamenti. Con la testa confusa, Paul bofonchiò:

«Non capisco.»

«Eppure è tutto così maledettamente semplice. Da parecchi mesi abbiamo cominciato a pensare che il corriere utilizzato dai turchi fosse una donna. In Turchia le donne sono medici, ingegneri, ministri. Perché non trafficanti di droga?»

Questa volta il collegamento ebbe luogo. Sema Gokalp, Anna Heymes. La donna dai due volti. La mafia turca aveva inviato i Lupi sulle tracce di quella che l’aveva tradita.

La preda era il corriere.

Paul abbozzò una ricostruzione lampo: quella notte, Schiffer aveva sorpreso Sema mentre recuperava la droga.

C’era stato lo scontro.

C’era stato il massacro.

E la preda fuggiva ancora…

Olivier Amien non rideva più:

«La sua inchiesta ci interessa, Nerteaux. Abbiamo stabilito un legame tra le tre vittime del suo caso e la donna che stiamo cercando. I capi del cartello turco hanno mandato dei killer per scovarla, ma fino a ora non l’hanno beccata. Dov’è? Lei ha qualche indizio per trovarla?»

Paul non rispose. Pensò al treno che gli era passato sotto il naso: i Lupi grigi che torturano le donne, sulla pista della droga; Schiffer che con il suo fiuto capisce che anche lui sta inseguendo la stessa persona, quella che lo aveva fregato fuggendo con il prezioso carico…

All’improvviso prese la decisione. Senza preamboli, raccontò tutta la questione a Olivier Amien. Il rapimento di Zeynep Tütengil, nel novembre 2001. La scoperta di Sema Gokalp nel bagno turco. L’intervento di Philippe Charlier e la sua operazione di pulizia. Il programma di condizionamento psichico. La creazione di Anna Heymes. La memoria che a poco a poco ritornava… fino a farla rientrare nei suoi panni di trafficante e a farle prendere la strada del cimitero.

Quando Paul ebbe finito, l’alto funzionario pareva rintronato. Dopo un lungo silenzio, chiese:

«È per questo che Charlier è là?»

«Con Beauvanier. Ci sono dentro fino al collo in questa storia. Sono venuti ad assicurarsi che Schiffer sia davvero morto. Ma resta Anna Heymes. E Charlier deve ritrovarla prima che lei parli. La eliminerà appena l’avrà presa. State correndo tutti dietro alla stessa lepre.»

Amien si piazzò davanti a Paul, immobile. La sua espressione aveva la durezza della pietra:

«Charlier è un problema mio. Lei cos’ha per localizzare la donna?»

Paul guardò le tombe intorno a sé. Un ritratto antiquato, in una cornice ovale. Una Vergine placida, con lo sguardo verso il basso, drappeggiata in una languida cappa. Un Cristo taciturno, dai riflessi di bronzo…

Amien gli afferrò violentemente il braccio:

«Qual è la sua pista? L’assassinio di Schiffer le ricadrà addosso. Come poliziotto lei è finito. A meno che non si becchi la ragazza e che l’affare venga portato alla luce. Con lei nel ruolo di eroe. Ripeto la mia domanda: qual è la sua pista?»

«Voglio continuare l’inchiesta per conto mio», dichiarò Paul.

«Mi dia le informazioni, poi si vedrà.»

«Voglio la sua parola.»

Amien si irritò:

«Parli, santo dio.»

Paul abbracciò con un ultimo sguardo i monumenti: la faccia corrosa della Vergine, la lunga testa del Cristo, il cammeo dai tratti seppia… Comprese infine il messaggio: i volti. La sola via per raggiungerla.

«Ha cambiato faccia», mormorò. «Chirurgia estetica. Ho la lista dei dieci chirurghi che, a Parigi, avrebbero potuto effettuare l’operazione. Ne ho già visitati tre. Mi dia il resto della giornata per interrogare gli altri.»

Amien mostrò tutta la sua delusione.

«È… è tutto quello che ha in mano?»

Paul si ricordò dell’impianto di conservazione della frutta, del vago sospetto su Azer Akarsa. Se quel bastardo era implicato nella serie di omicidi, lui lo voleva tutto per sé.

«Sì», mentì. «È tutto. Ed è già parecchio. Schiffer era convinto che il chirurgo ci avrebbe permesso di ritrovarla. Mi lasci provare che aveva ragione.»

Amien serrò le mascelle: ora assomigliava a un predatore. Indicò il cancello alle spalle di Paul:

«La stazione del metrò Alexandre-Dumas è dietro di lei, a cento metri. Sparisca. Le do fino a mezzogiorno per beccarla.»

Paul capì che il poliziotto lo aveva portato lì intenzionalmente. Era fin dall’inizio che voleva proporgli quel patto. Gli infilò un biglietto da visita nella tasca:

«Il mio cellulare. La ritrovi, Nerteaux. È la sua sola possibilità di venirne fuori. Altrimenti, nel giro di qualche ora, la preda sarà lei.»

63.

Paul non prese il metrò. Nessun poliziotto degno di questo nome prende il metrò.

Corse fino a piace Gambetta, seguendo il muro di cinta del cimitero, e recuperò la sua macchina parcheggiata in rue Emile-Landrin. Tirò fuori la sua vecchia mappa di Parigi, ancora macchiata di sangue, e rilesse la lista degli ultimi medici.

Sette chirurghi.

Distribuiti su quattro quartieri di Parigi e due cittadine dell’hinterland.

Segnò il loro indirizzo con un cerchio sulla carta, poi mise a punto l’itinerario più rapido per interrogarli l’uno dopo l’altro.

Quando fu sicuro della via da seguire, fissò il lampeggiatore e sgommò, concentrato sul primo nome.

Dottor Jérôme Chéret.

18, rue du Rocher, ottavo arrondissement.

Puntò a ovest, risalì il boulevard de la Villette, il boulevard Rochechouart, poi il boulevard de Clichy. Passava sulle corsie preferenziali dei bus, divorava le piste ciclabili, mordeva i marciapiedi e, per due volte, prese persino delle strade contromano.

Giunto in vista del boulevard de Batignolles, rallentò e chiamò Naubrel:

«Dove sei?»

«Sto uscendo dallo stabilimento della Matak. Me la sono cavata con i tipi dell’Ufficio d’igiene. Una visita a sorpresa.»

«E allora?»

«Una fabbrica bianchissima, pulitissima. Un vero laboratorio. Ho visto la camera iperbarica. Lavata con cura: inutile cercare qualsiasi traccia. Ho anche parlato con gli ingegneri…»

Paul aveva immaginato un sito industriale in stato di abbandono, pieno di ruggine e di grida che nessuno avrebbe potuto sentire. Ma l’idea di uno spazio immacolato gli parve di colpo più adatta.

«Hai interrogato il capo stabilimento?» chiese.

«Sì. Con discrezione. È un francese. Mi è sembrato pulito.»

«E più in alto? Sei risalito ai proprietari turchi?»

«Lo stabilimento dipende da una società per azioni, la YALIN AS, a sua volta appartenente a una holding con sede ad Ankara. Ho già contattato la Camera di commercio di…»

«Vedi di sbrigarti. Trova la lista degli azionisti. E controlla prima di tutto il nome di Azer Akarsa.»

Riagganciò e consultò l’orologio: venti minuti da quando era partito dal cimitero.

All’incrocio di Viller, svoltò bruscamente a sinistra e si ritrovò in rue du Rocher. Spense la sirena e il lampeggiatore: era d’obbligo un ingresso senza clamore.

Alle undici e venti suonava il campanello di Jérôme Chéret. Venne fatto passare per una porta secondaria, per non spaventare la clientela. Il medico lo ricevette discretamente nell’anticamera della sala operatoria.

«Solo un’occhiata», disse Paul dopo qualche parola di spiegazione.

Questa volta si limitò a due documenti: l’identikit di Sema Gokalp e il nuovo viso di Anna.

«È la stessa?» chiese il medico con tono ammirato. «Bel lavoro.»

«La conosce o no?»

«Né una né l’altra. Spiacente.»

Paul scese di corsa le scale, tra tappeti rossi e stucchi bianchi.

Un segno di cancellatura sulla mappa e di nuovo in strada.

Erano le undici e quaranta.

Dottor Thierry Dewaele.

22, rue de Phalsbourg, diciassettesimo arrondissement.

Stesso genere di edificio, stesse domande, stessa risposta.

Alle dodici e quindici, mentre Paul girava di nuovo la chiave di avviamento, il telefonino gli squillò nella tasca. Un messaggio di Matkowska: aveva già chiamato durante il suo breve colloquio con il medico. Evidentemente, dietro quegli spessi muri da casa di lusso, il telefonino non prendeva. Lo richiamò.

«Ho delle novità sulle sculture antiche», disse Matkowska. «Un sito archeologico che riunisce delle teste giganti. Ho le foto. Quelle statue presentano delle fessure… Hanno esattamente lo stesso andamento delle mutilazioni…»

Paul chiuse gli occhi. Non capiva cosa lo esaltava maggiormente: l’avvicinarsi alla follia omicida o l’aver avuto ragione fin dall’inizio.

Matkowska proseguì, agitato:

«Sono teste di dei, mezzi greci e mezzi persiani, che risalgono agli inizi dell’era cristiana. Il santuario di un re, in cima a una montagna, nella Turchia orientale…»

«Dove esattamente?»

«A sud-est. Verso la frontiera siriana.»

«Dammi dei nomi di città importanti.»

«Aspetti.»

Sentì rumore di fogli e bestemmie soffocate. Si guardò le mani: non tremavano. Si sentiva pronto, foderato da un involucro di ghiaccio.

«Ecco. Ho la cartina. Il sito archeologico di Nemrut Daği è vicino ad Adiyaman e a Gaziantep.»

Gaziantep. Una nuova convergenza di eventi in direzione di Azer Akarsa. Possiede immense coltivazioni nella sua regione natale, vicino a Gaziantep, aveva detto Alì Ajik. Quelle coltivazioni erano forse situate ai piedi della stessa montagna che ospitava le sculture? Azer Akarsa era cresciuto all’ombra di quelle teste colossali?

Paul tornò al punto cruciale. Aveva bisogno di sentirselo confermare:

«E quelle teste richiamano veramente il viso delle vittime?»

«Capitano, è allucinante. Le stesse spaccature, le stesse mutilazioni. C’è la statua di una dea della fertilità che assomiglia perfettamente al volto della terza vittima. Niente naso, mento piallato… Ho sovrapposto le due immagini. Le fessure coincidono al millimetro. Non so cosa voglia dire, ma è roba da prendersi un colpo e…»

Paul sapeva per esperienza che, dopo un lungo tunnel, gli indizi decisivi potevano venir fuori uno dietro l’altro nel giro di poche ore. Risentì ancora una volta la voce di Ajik: È ossessionato dal passato prestigioso della Turchia. Anche lui ha una fondazione, con la quale finanzia degli scavi archeologici.

Il golden-boy finanziava dei lavori di restauro proprio su quel sito? Quei volti ancestrali lo interessavano per una ragione personale?

Paul si fermò, fece un lungo respiro, poi si pose la questione essenziale: Azer Akarsa era l’assassino principale, il capo del commando? La sua passione per gli antichi resti poteva giungere a esprimersi in quegli atti di tortura e di mutilazione? Era ancora troppo presto per andare così lontano. Paul staccò la mente da quella teoria, poi ordinò:

«Concentrati su quei monumenti. Cerca di scoprire se recentemente ci sono stati lavori di restauro. Se sì, cerca chi li finanzia.»

«Lei ha un’idea?»

«Può darsi che sia una fondazione, ma non ne conosco il nome. Se la scopri, trovane l’organigramma e consulta la lista dei principali donatori, dei responsabili. Cerca in particolare il nome di Azer Akarsa.»

Fece di nuovo lo spelling del cognome. Ora gli sembrava che tra le lettere balenassero scintille.

«È tutto?» chiese l’agente.

«No», fece Paul quasi senza voce. «Verifica anche i visti di ingresso concessi ai cittadini turchi a partire dal novembre scorso. Controlla se Akarsa è tra quelli.»

«Ma ci vorranno delle ore!»

«No. È tutto informatizzato. E ho già avvertito un tipo dell’Immigrazione. Contattalo e dagli quel nome. Sbrigati.»

«Ma…»

«Muoviti.»

64.

Didier Laferrière.

12, rue Boissy-d’Anglas, ottavo arrondissement.

Varcando la soglia dell’appartamento, Paul ebbe un presentimento; una sensazione da sbirro, quasi paranormale. Lì c’era qualcosa che faceva al caso suo.

Lo studio era sprofondato nella penombra. Il chirurgo, un omino dai capelli grigi e crespi, rimase dietro la sua scrivania. Con una voce neutra chiese:

«La polizia? Che cosa è successo?»

Paul espose la situazione e tirò fuori le sue foto. Il medico parve farsi ancora più piccolo. Accese una lampada sul tavolo e si chinò verso i documenti.

Senza esitazione, puntò l’indice sul ritratto di Anna Heymes.

«Non l’ho operata, ma questa donna io la conosco.»

Paul serrò i pugni. Santo dio, la sua ora era venuta.

«È passata di qui qualche giorno fa», continuò l’uomo.

«Può essere più preciso?»

«Lunedì scorso. Se vuole posso verificare sull’agenda…»

«Cosa voleva?»

«Aveva un’aria strana.»

«Perché?»

Il chirurgo scosse il capo.

«Mi ha fatto delle domande sulle cicatrici conseguenti a certi interventi.»

«E cosa c’è di strano in questo?»

«Niente. Solo che, o recitava una commedia, o soffriva di amnesia.»

«Perché?»

Il dottore tamburellò col dito sulla foto di Anna Heymes:

«Perché questa donna aveva già subito l’operazione. Alla fine del nostro colloquio, ho notato le cicatrici. Non so cosa cercasse venendo da me. Forse voleva intraprendere un’azione legale contro chi l’aveva operata.»

Riguardò il ritratto.

«Peraltro, si tratta di un lavoro stupendo.»

Un altro punto per Schiffer. «Secondo me, sta investigando su sé stessa.» Era esattamente ciò che era successo: Anna Heymes aveva braccato Sema Gokalp. Aveva risalito il filo del proprio passato.

Paul era senza fiato, aveva l’impressione di seguire una scia di fuoco. La preda era là, davanti a lui, a portata di mano.

«È tutto quello che ha detto?» riprese. «Nessun indirizzo?»

«No. Ha concluso dicendo solo “giudicherò prove alla mano” o qualcosa del genere. Era incomprensibile. Chi è quella donna, esattamente?»

Paul si alzò senza rispondere. Prese un blocco di post-it sulla scrivania e scrisse il proprio numero di cellulare:

«Se per caso la richiama, cerchi di localizzarla. Le parli dell’operazione. Degli effetti collaterali. Qualsiasi cosa. L’importante è che lei la blocchi e mi chiami. Capito?»

«È certo di stare bene?»

Paul si fermò con la mano sulla maniglia della porta:

«Perché?»

«Non so. È tutto rosso.»

65.

Pierre Laroque

24, rue Maspero, sedicesimo arrondissement.

Niente.

Jean-François Skenderi, Clinica Massener,

58, avenue Paul-Doumer, sedicesimo arrondissement.

Niente.

Alle due del pomeriggio, Paul attraversò di nuovo la Senna.

Direzione rive Gauche.

Una forte emicrania l’aveva indotto a rinunciare al lampeggiatore e alla sirena, e cercava frammenti di pace sul volto dei passanti, tra i colori delle vetrine, tra i riflessi del sole. Era meravigliato di fronte a quella gente che viveva una giornata normale in un’esistenza normale.

Chiamò più volte i suoi luogotenenti. Naubrel continuava a battagliare con la Camera di commercio di Ankara. Matkowska stava passando al setaccio i musei, gli istituti di archeologia, gli uffici del turismo e persino l’UNESCO, alla ricerca di chi aveva finanziato i lavori a Nemrut Daği. Nello stesso tempo non perdeva di vista la lista dei visti, che il motore di ricerca continuava ad analizzare, anche se il nome di Akarsa si rifiutava di comparire.

Paul stava soffocando nel suo stesso corpo. Piastre infuocate gli bruciavano il volto. L’emicrania gli spaccava la nuca. E poi palpitazioni lancinanti, così forti che avrebbe potuto contarle. Avrebbe dovuto fermarsi in una farmacia, ma continuava a rimandare quella sosta al crocevia successivo.

Bruno Simonnet

139, avenue de Ségur, settimo arrondissement.

Il chirurgo era un uomo massiccio. In braccio teneva un grosso gatto. A vederli insieme, in una così perfetta osmosi, non si capiva quale dei due accarezzasse l’altro. Paul stava mettendo via le sue foto, quando il medico disse:

«Lei non è il primo a mostrarmi quella faccia.»

«Che faccia?» trasalì Paul.

«Quella là.»

Simonnet indicò l’identikit di Sema Gokalp.

«Chi gliel’ha mostrata prima di me? Un poliziotto?»

Annuì. Le sue dita continuavano a grattare dolcemente la testa del gatto. Paul immaginò che si trattasse di Schiffer:

«Uno di una certa età, robusto, capelli grigi?»

«No. Un giovane. Spettinato. Il tipo dello studente. Parlava con un lieve accento straniero.»

Paul incassò il colpo come un pugile alle corde. Dovette appoggiarsi alla cornice di marmo del camino.

«Un accento turco?»

«E come faccio a saperlo! Comunque sì, probabilmente un accento orientale.»

«Quando è venuto?»

«Ieri mattina.»

«Che nome ha dato?»

«Nessun nome.»

«Un contatto?»

«No. Strano vero? Nei film voi lasciate sempre i vostri dati, no?»

«Torno subito.»

Paul corse alla sua auto. Prese una delle foto dei funerali di Türkes in cui compariva Akarsa. Rientrò e la porse al chirurgo.

«L’uomo in questione compare su questa foto?»

Il medico indicò l’uomo con la giacca di velluto:

«È lui, senza dubbio.»

Alzò gli occhi:

«Non è un suo collega?»

Paul cercò in fondo a sé stesso gli ultimi frammenti di sangue freddo e mostrò di nuovo l’identikit della rossa:

«Lei mi ha detto che le ha fatto vedere questo ritratto. Era esattamente lo stesso? Un disegno come questo?»

«No. Una foto in bianco e nero. Una foto di gruppo. Scattata in un campus universitario o qualcosa del genere. La qualità era pessima, ma la donna era la stessa. Nessun dubbio in proposito.»

Nei suoi occhi balenò per un istante l’immagine di Sema Gokalp, giovane studentessa turca in mezzo ai suoi compagni di corso.

La sola foto che i Lupi grigi avessero di lei.

L’immagine sfocata che era costata la vita a tre donne innocenti.

Paul partì lasciando un’ampia traccia di gomma sull’asfalto.

Fissò di nuovo il lampeggiante sul tettuccio e diede corrente: la luce e la sirena perforarono quell’atmosfera da acquario.

Le deduzioni a cascata.

I battiti del suo cuore all’unisono.

Ormai i Lupi grigi seguivano la sua stessa pista. Ci erano voluti tre cadaveri perché capissero il loro sbaglio. Adesso cercavano il chirurgo plastico che aveva trasformato il loro bersaglio.

Nuova vittoria postuma per Schiffer.

«Ci ritroveremo sullo stesso cammino, me lo sento.»

Paul guardò l’orologio: le quattordici e trenta.

Mancavano solo due nomi sulla lista.

Doveva scovare il chirurgo prima che lo facessero gli assassini.

Doveva trovare la donna prima di loro.

Paul Nerteaux contro Azer Akarsa.

Il figlio di nessuno contro il figlio di Asena, la Lupa Bianca.

66.

Frédéric Gruss abitava tra le colline di Saint Cloud. Il tempo di prendere la direttissima lungo la Senna e di filare fino al Bois de Boulogne. Paul contattò di nuovo Naubrel:

«Con i turchi, sempre niente da fare?»

«Sto sgobbando come un matto, ma…»

«Lascia perdere tutto.»

«Cosa?»

«Hai tenuto le copie delle foto del funerale di Türkes?»

«Sì, le ho nel mio computer.»

«C’è un’immagine dove il feretro è in primo piano.»

«Aspetti, prendo nota.»

«Su quella foto, il terzo uomo partendo da sinistra è un giovane con la giacca di velluto. Voglio che tu ingrandisca il suo ritratto e che lanci una segnalazione di ricerca a nome di…»

«Azer Akarsa?»

«Esatto.»

«È lui l’assassino?»

Paul aveva i muscoli della gola così tesi che faceva fatica a parlare:

«Lancia la segnalazione di ricerca.»

«Va bene. È tutto?»

«No. Vai da Bomarzo, il giudice incaricato dell’inchiesta sugli omicidi. Chiedigli un mandato di perquisizione per la società Matak.»

«Io? Sarebbe meglio che andasse lei…»

«Vai da parte mia. Spiegagli che ho delle prove.»

«Delle prove?»

«Un testimone oculare. Chiama anche Matkowska e chiedigli le foto di Nemrut Daği»

«Di cosa?»

Fece di nuovo lo spelling e spiegò di cosa si trattava.

«Chiedigli anche se il nome di Akarsa non è spuntato tra i visti. Metti insieme il tutto e vai dal giudice.»

«E se mi chiede dov’è lei?»

Paul esitò:

«Tu dagli questo numero.»

Dettò il numero di Olivier Amien. Che se la sbrighino tra loro, pensò chiudendo la comunicazione. Era in vista del ponte di Saint-Cloud.

Le quindici e trenta.

Il boulevard de la République luccicava nel sole, serpeggiando lungo la collina che porta a Saint-Cloud. Un grande abbagliamento primaverile che invogliava alle spalle nude, alle pose languide tra i tavolini all’aperto dei caffè. Peccato: per l’ultimo atto, Paul avrebbe preferito un cielo minaccioso. Un cielo da apocalisse, nero e lacerato dal temporale.

Risalendo lungo la strada, si ricordò della sua visita all’obitorio di Garches con Schiffer: quanti secoli erano passati da quel giorno?

Nella parte alta della città trovò vie calme e serene. La crème de la crème dei quartieri chic. Un piccolo concentrato di vanità e di ricchezza che dominava la valle della Senna e la «città bassa».

Paul tremava. La febbre, la stanchezza, l’eccitazione. La sua vista era turbata da brevi eclissi. Stele scure colpivano il fondo delle sue orbite. Era incapace di resistere al sonno, era una delle sue debolezze. Non c’era mai riuscito, neanche quando, da bambino, aspettava, paralizzato dall’angoscia, il ritorno di suo padre.

Suo padre. L’immagine del vecchio cominciava a confondersi con quella di Schiffer; le lacerazioni del sedile in finta pelle si mescolavano alle ferite del cadavere coperto di ceneri…

Fu svegliato da un colpo di clacson. Il semaforo era diventato verde e lui si era addormentato. Ripartì con rabbia e trovò infine la rue des Chênes.

La prese e rallentò, alla ricerca del numero 37. Le case rimanevano invisibili, nascoste com’erano dietro a muri di pietra o a filari di pini. Si sentiva un brontolio d’insetti; tutta la natura sembrava intorpidita dal sole primaverile.

Trovò un posto per parcheggiare proprio davanti al numero civico giusto: un cancello nero, chiuso tra due pilastri imbiancati a calce.

Stava per suonare, quando vide che uno dei due battenti era socchiuso. Nella sua mente si accese un segnale di pericolo. La cosa non quadrava con l’aria di diffidenza che si respirava nel quartiere. Meccanicamente, Paul alzò la linguetta di Velcro che chiudeva la sua pistola.

Il parco della proprietà era senza sorprese. Prato all’inglese, alberi grigi, un vialetto in ghiaia. Al fondo, la casa padronale si stagliava massiccia, con i suoi muri bianchi e le imposte nere. A fianco, un garage a due o tre posti, chiuso con una porta basculante.

Nessun cane e nessun domestico a venirgli incontro. Apparentemente, nessun movimento all’interno.

Il segnale d’allarme nella sua mente salì di tono.

Salì i tre scalini che portavano all’ingresso e notò un’altra dissonanza: una finestra rotta. Deglutì e, molto lentamente, tirò fuori dalla fondina la sua 9 millimetri. Scavalcò la finestra facendo attenzione a non pestare i frammenti di vetro sul pavimento. A un metro, sulla sua destra, si apriva l’atrio. Ogni suo gesto era avvolto dal silenzio. Paul voltò la schiena all’entrata e avanzò nel corridoio.

A sinistra, una porta socchiusa recava la scritta SALA D’ATTESA. Più in là, sulla destra, un’altra porta, spalancata. Senza dubbio lo studio del chirurgo. Scorse dapprima il muro della stanza, ricoperto di materiale insonorizzante: placche di gesso e paglia mescolati.

Poi il pavimento. A terra erano sparse delle fotografie: volti di donna, bendati, tumefatti, suturati. L’ultima conferma ai suoi sospetti: erano venuti a frugare lì.

Dall’altra parte del muro si sentì uno scricchiolio.

Paul si immobilizzò con le dita serrate sul calcio della pistola. In quel momento capì che non sarebbe vissuto per più di un istante. Poco importava la durata dell’esistenza, poco importavano la fortuna, le speranze, le delusioni della vita. La sola cosa che contava era il suo eroismo. Capì che i prossimi secondi avrebbero dato un senso pieno al suo passaggio sulla terra. Qualche oncia di coraggio e di onore nella bilancia delle anime…

Stava balzando verso la porta, quando il muro si squarciò.

Paul fu proiettato verso la parete opposta. Il fuoco e il fumo riempirono d’un tratto il corridoio. Ebbe appena il tempo di scorgere un buco grande come un piatto, che due nuovi colpi lacerarono il materiale isolante. La paglia del conglomerato si infiammò, trasformando il corridoio in un tunnel di fuoco.

Paul si rannicchiò al suolo, la nuca bruciata dalle fiamme. Frammenti di intonaco e di paglia gli caddero addosso.

Quasi subito tornò il silenzio. Paul alzò gli occhi: davanti a lui un ammasso di calcinacci che offriva un’ampia visione dello studio.

Loro erano là.

Tre uomini in tuta nera, imbottiti di cartucciere e mascherati con passamontagna da commando. Ognuno di loro aveva in mano un fucile lanciagranate, modello SG 5040. Prima di allora, Paul l’aveva visto solo sui cataloghi, ma lo riconobbe con certezza.

Ai loro piedi, il cadavere di un uomo in veste da camera. Frédéric Gruss si era assunto gli ultimi rischi del suo mestiere.

D’istinto, Paul cercò la sua Glock. Ma non era più tempo. Sul suo ventre, il sangue gorgogliava, formando meandri rossi tra le pieghe della giacca. Non provava alcun dolore; ne concluse che era stato ferito a morte.

Alla sua sinistra risuonarono acuti stridii. Malgrado i timpani assordati, Paul percepì con una chiarezza irreale i passi che calpestavano le macerie.

Nell’apertura della porta apparve un quarto uomo. Stesso profilo nero, stesso cappuccio, stessi guanti, ma senza fucile.

Si avvicinò e valutò la ferita di Paul. Con un gesto secco si strappò il passamontagna. Il suo volto era completamente dipinto. Le curve e gli arabeschi brunastri sulla sua pelle rappresentavano il muso di un lupo. I baffi, le sopracciglia, gli occhi sottolineati con il nero. Una smorfia all’henné che ricordava quella dei guerrieri maori.

Paul riconobbe l’uomo della fotografia: Azer Akarsa. Tra le dita teneva una foto polaroid: un ovale pallido incorniciato da capelli neri. Anna Heymes, poco dopo l’operazione.

Ora, i Lupi potevano ritrovare la loro preda.

La caccia sarebbe continuata. Ma senza di lui.

Il turco si inginocchiò.

Guardò Paul in fondo agli occhi e, con voce dolce, disse:

«La pressione le rende pazze. La pressione annulla il loro dolore. L’ultima donna cantava con il naso tagliato.»

Paul chiuse gli occhi. Non capiva il senso esatto di quelle parole, ma capì una cosa: l’uomo sapeva chi lui fosse ed era già stato informato della visita di Naubrel al suo laboratorio.

Come in un lampo, rivide le ferite delle donne, i tagli sui loro volti. Un elogio alla pietra antica firmato Azer Akarsa.

Sentì una schiuma affiorare alle labbra: sangue. Quando riaprì gli occhi, il lupo assassino gli stava puntano alla fronte una calibro 45.

Il suo ultimo pensiero fu per Céline.

Pensò che non aveva trovato il tempo di telefonarle prima che andasse a scuola.

UNDICI

67.

Aeroporto di Roissy-Charles-de-Gaulle.

Giovedì 21 marzo, ore sedici.

C’è un solo modo per nascondere un’arma al passaggio in un aeroporto.

Gli appassionati di armi da fuoco pensano spesso che una pistola automatica di marca Glock, realizzata essenzialmente in polimeri, possa sfuggire a raggi X e ai metal-detector. Errore: la canna, la molla del recuperatore, il percussore, il grilletto, la molla del caricatore e altri pezzi ancora sono in metallo. Senza parlare dei proiettili.

C’è un solo modo per nascondere un’arma al passaggio in un aeroporto.

E Sema lo conosce.

Le torna alla mente davanti alle vetrine della zona commerciale dell’aerostazione, mentre si appresta a prendere il volo TK 4067 della Turkish Airlines per Istanbul.

Per prima cosa compra qualche vestito e una borsa da viaggio: niente di più sospetto di un viaggiatore senza bagaglio. Poi del materiale fotografico. Una custodia F2 Nikon, due obiettivi, 35-70 e 200 millimetri, una cassettina di attrezzi per le macchine di quella marca e due astucci foderati di piombo per proteggere le pellicole durante i controlli di sicurezza. Sistema accuratamente il tutto in una borsa professionale Promax, ed entra nelle toilette dell’aeroporto.

Chiusa in un bagno, sistema la canna, il percussore e gli altri pezzi metallici della sua Glock 21 tra i cacciaviti e le pinze della cassetta di attrezzi. Poi infila i proiettili in tungsteno negli astucci che li rendono invisibili ai raggi X.

Sema è sorpresa dai suoi stessi riflessi. I gesti, l’abilità: tutto ritorna in maniera spontanea. «Memoria culturale», avrebbe detto Ackermann.

Alle diciassette prende il suo volo e arriva a Istanbul a fine giornata: niente noie alla dogana.

Sale su un taxi, senza badare al paesaggio che la circonda. È già scesa la notte. Un acquazzone discreto lancia riflessi fantomatici nel riverbero delle luci, riflessi che si accordano con il flusso della sua coscienza.

Non nota altro che piccoli dettagli. Un venditore ambulante di anelli di pane. Alcune giovani donne con il capo avvolto in un foulard che si confonde con i motivi in ceramica di una stazione di autobus. Un’alta moschea, tanto scura da parere imbronciata. Gabbie d’uccelli, allineate su un marciapiede come arnie… Tutto ciò le parla una lingua familiare e lontana al tempo stesso. Lascia perdere il finestrino e si raggomitola sul sedile.

Sceglie uno degli alberghi più chic del centro città e lì si immerge nel benvenuto flusso di turisti anonimi.

Alle venti e trenta chiude a chiave la porta della sua stanza e si butta sul letto: si addormenta vestita.

Il giorno dopo, venerdì 22 marzo, si sveglia alle dieci.

Accende subito la televisione e cerca sul satellite un canale francese. Deve accontentarsi di TV5, la televisione internazionale dei paesi francofoni. A mezzogiorno, dopo un dibattito sulla caccia nella Svizzera romanza e un documentario sui parchi nazionali del Quebec, riesce finalmente a vedere la replica di un telegiornale che TéléFrance 1 ha trasmesso la sera prima in Francia.

Tra le notizie c’è quella che sta aspettando, quella della scoperta del cadavere di Jean-Louis Schiffer nel cimitero del Père-Lachaise. A essa si aggiunge una notizia inattesa: altri due corpi sono stati ritrovati, lo stesso giorno, in una villa di Saint-Cloud.

Sema riconosce il posto e alza il volume. Le vittime sono state identificate: Frédéric Gruss, chirurgo plastico, proprietario della casa, e Paul Nerteaux, capitano di polizia, trentacinque anni.

Sema è spaventata. Il giornalista prosegue:

«Questo duplice omicidio rimane inspiegabile, anche se sembrerebbe legato alla morte di Jean-Louis Schiffer. Paul Nerteaux stava indagando sugli omicidi di tre donne avvenuti negli ultimi mesi nel quartiere parigino della Piccola Turchia. Nel quadro di questa inchiesta, aveva consultato l’ex ispettore, specialista del decimo arrondissement…»

Sema non ha mai sentito parlare di questo Nerteaux, di quell’uomo giovane e belloccio con i capelli da giapponese, ma non le sarà difficile dedurre la successione degli eventi. Dopo aver ucciso inutilmente tre donne, i Lupi hanno infine trovato la pista giusta e sono risaliti fino a Gruss, il chirurgo che l’ha operata nell’estate del 2001. Parallelamente, il giovane poliziotto deve aver seguito la stessa strada e deve essere arrivato anch’egli al medico. È andato a cercarlo nel suo studio proprio nel momento in cui i Lupi lo stavano interrogando. L’affare si è concluso alla maniera turca: un bagno di sangue.

Sia pure confusamente, Sema aveva sempre pensato che, un giorno o l’altro, i Lupi avrebbero finito per scoprire il suo nuovo volto. E, a partire da quel momento, avrebbero saputo dove trovarla. Per una ragione semplicissima: il loro capo era il Signor Velluto, quello che andava pazzo per i cioccolatini ripieni di pasta di mandorle e che ne comprava regolarmente alla Maison du Chocolat. Lei conosce quella realtà stupefacente da quando ha ritrovato la memoria. Lui, il Signor Velluto, si chiama Azer Akarsa. Sema ricorda di averlo visto, ancora adolescente, in un circolo di Idealisti ad Adana, dove passava già per un eroe…

Ecco l’ultima ironia di quella storia: l’assassino che la stava cercando da mesi nel decimo arrondissement, la incontrava, senza riconoscerla, due volte la settimana.

Secondo il reportage televisivo, il dramma di Saint-Cloud è scoppiato verso le quindici del giorno prima. D’istinto, Sema immagina che i Lupi aspettino il giorno successivo per attaccare la Maison du Chocolat.

Vale a dire ora.

Sema si precipita al telefono e chiama Clothilde al negozio. Nessuna risposta. Guarda l’orologio: mezzogiorno e mezzo a Istanbul, ossia un’ora di meno a Parigi. È già troppo tardi? A partire da quel momento, compone il numero ogni mezz’ora. Invano. Gira per la camera, impotente, agitata da impazzire.

Infine, si reca nella sala business center dell’albergo e si mette al computer. Su Internet, consulta l’edizione elettronica di «Le Monde» del giovedì sera e legge gli articoli sulla morte di Jean-Louis Schiffer e sul duplice omicidio di Saint-Cloud.

Macchinalmente, sfoglia le altre pagine e finisce di nuovo su una notizia inattesa. L’articolo si intitola: Suicidio di un alto funzionario. È l’annuncio, nero su bianco, della morte di Laurent Heymes. Davanti ai suoi occhi, le righe iniziano a tremolare. Il corpo è stato scoperto giovedì mattina, nell’appartamento dell’avenue Hoche. Laurent ha usato la sua pistola d’ordinanza, una Manhurin 38. Parlando delle ragioni del gesto, l’articolo ricorda brevemente il suicidio della moglie, un anno prima, e la sua depressione, confermata da numerose testimonianze.

Sema si concentra su quella rete di menzogne, ma non riesce più a vedere le parole. Al loro posto, vede le mani pallide, lo sguardo leggermente spaventato, le fiamme bionde dei suoi capelli… Lei ha amato quell’uomo. Un amore strano, inquieto, sconvolto dalle sue allucinazioni. Le lacrime le affiorano agli occhi, ma lei le trattiene.

Pensa al poliziotto morto nella villa di Saint-Cloud, che, in un certo senso, si è sacrificato per lei. Per lui, Sema non ha pianto. Non piangerà neppure per Laurent, che è stato solo un manipolatore tra i tanti.

Il più intimo.

E, proprio per quello, il più bastardo.

Alle quattro del pomeriggio, mentre, nel «business center» sta fumando una sigaretta dietro l’altra con un occhio al televisore e uno al computer, la bomba esplode. Nelle pagine elettroniche della nuova edizione di «Le Monde» legge:

SPARATORIA IN RUE DU FAUBOURG-SAINT-HONORÉ

Grande spiegamento di polizia in rue du Faubourg-Saint-Honoré, all’altezza del numero 225, in seguito alla sparatoria avvenuta alla fine della mattinata nel negozio La Maison du Chocolat. Si ignorano le ragioni di questo scontro a fuoco che ha fatto tre morti e due feriti.

Secondo le prime testimonianze, in particolare quella della commessa del negozio, Clothilde Ceaux, uscita indenne dalla sparatoria, i fatti si sarebbero svolti in questo modo. Poco dopo le dieci, tre uomini sono entrati nel negozio. Nello stesso momento sono intervenuti alcuni poliziotti in borghese, appostati proprio di fronte. I tre uomini hanno allora aperto il fuoco sui poliziotti con armi automatiche. Lo scontro è durato solo qualche secondo, ma è stato di una violenza estrema. Tre poliziotti sono stati colpiti e uno di loro è morto all’istante. Gli altri due sono in condizioni critiche. Quanto agli aggressori, due sono stati uccisi, mentre il terzo è riuscito a fuggire. La loro identità è stata immediatamente resa nota. Si tratta di Lüset Yildirim, Kadir Kir e Azer Akarsa, tutti e tre di origine turca. I due uomini deceduti, Lüset Yildirim e Kadir Kir, erano in possesso di passaporto diplomatico. Al momento non è possibile stabilire quando siano entrati in Francia e l’ambasciata turca ha rifiutato ogni commento.

Secondo gli inquirenti, i due uomini sarebbero già noti alla polizia turca. Come affiliati al gruppo di estrema destra degli Idealisti o Lupi grigi, avrebbero già portato a termine diversi «contratti» per conto della mafia turca.

L’identità del terzo uomo, quello che è riuscito a fuggire, desta maggiore sorpresa. Azer Akarsa è un uomo d’affari che ha avuto un grande successo nel campo della frutticoltura e che, a Istanbul, gode di un’ottima reputazione. È conosciuto per la sua adesione a un nazionalismo moderato, moderno, in armonia con i valori democratici. Akarsa non ha mai avuto problemi con la polizia turca.

L’implicazione di una tale personalità lascia supporre che l’affare abbia dei risvolti politici. Ma gli interrogativi restano molti: perché questi uomini sono entrati oggi nella Maison du Chocolat, armati di fucili d’assalto e di pistole automatiche? Perché dei poliziotti in borghese, appartenenti all’antiterrorismo, erano già presenti sul posto? Seguivano le tracce dei criminali? Sappiamo che da giorni stavano sorvegliando il negozio. Stavano preparando una trappola? Ma perché prendere così tanti rischi? Perché tentare un arresto in strada, in un ora di grande traffico e senza alcun dispositivo di sicurezza? La Procura di Parigi si sta interrogando su queste anomalie e ha ordinato un’inchiesta interna.

Secondo le nostre fonti esiste già una pista. La sparatoria di questa mattina potrebbe essere legata ai due casi di omicidio di cui abbiamo parlato nell’edizione di ieri: la scoperta del corpo dell’ex ispettore Jean-Louis Schiffer e poi quella dei corpi del capitano Paul Nerteaux e del dottor Frédéric Gruss, chirurgo plastico. Nerteaux stava indagando sugli omicidi di tre donne non identificate avvenuti nel quartiere turco. Per questo aveva consultato Schiffer che conosceva profondamente la comunità turca di Parigi.

Questa serie di omicidi potrebbe costituire il cuore di un affare più complesso, al tempo stesso criminale e politico, che sembra essere sfuggito ai superiori di Nerteaux, così come al giudice incaricato dell’istruttoria, Thierry Bomarzo. A rafforzare l’idea di un legame tra i due casi è soprattutto il fatto che, un’ora prima della sua morte, il capitano Nerteaux aveva richiesto un mandato di cattura per Azer Akarsa e un mandato di perquisizione per gli stabilimenti della Matak, situati a Bièvres, società di cui Akarsa è uno dei maggiori azionisti.

Altro personaggio chiave di questa inchiesta potrebbe essere Philippe Charlier, uno dei commissari dell’antiterrorismo, che sicuramente è in possesso di informazioni sui responsabili della sparatoria. Philippe Charlier, figura controversa e nota per i suoi metodi poco ortodossi, sarà ascoltato oggi dal giudice Bernard Sazin, nel quadro dell’inchiesta preliminare.

Sema interrompe la connessione e fa un bilancio personale dei fatti. Nella colonna dell’attivo mette il fatto che Clothilde se la sia cavata senza un graffio e che Charlier sia stato convocato dal giudice. Prima o poi il Gigante Verde dovrà rispondere di tutte quelle morti, compresa quella del «suicida» Laurent Heymes…

In quella del passivo, Sema non colloca che un punto, ma di un’importanza superiore a tutti gli altri.

Azer Akarsa è ancora in gioco.

E proprio questa minaccia la conforta nella sua decisione.

Lei deve ritrovarlo e poi scoprire chi tira i fili dall’alto. Non sa chi sia, non l’ha mai saputo, ma sa che finirà col mettere in luce tutta la piramide.

Ha una sola certezza: Akarsa tornerà presto in Turchia. Forse è già di ritorno. Al riparo, in mezzo ai suoi. Protetto dalla polizia e da una classe politica connivente.

Prende il cappotto ed esce dalla stanza.

È nella sua stessa memoria che troverà la strada che lo porterà a lui.

68.

Sema si reca, da prima, sul ponte di Galata, non lontano dal suo hotel. Contempla a lungo, dall’altra parte del Corno d’Oro, il più celebre panorama della città. Il Bosforo e i suoi battelli, il quartiere di Eminönü e la Moschea Nuova, le terrazze di pietra, i voli di piccioni, i minareti dai quali, cinque volte al giorno, si leva la voce dei muezzin.

Sigaretta.

Non è che voglia fare la turista, ma lei sa che la città, la sua città, può fornirle un indizio, una scintilla che le permetterà di ritrovare per intero la memoria. Al momento, vede allontanarsi il passato di Anna Heymes, rimpiazzato, a poco a poco, da impressioni vaghe, da sensazioni confuse legate alla sua quotidianità di trafficante. I frammenti di un mestiere oscuro, senza punti di riferimento, senza un dettaglio personale che possa servire per farsi riconoscere dai sui vecchi «fratelli».

Ferma un taxi e chiede al guidatore di percorrere in lungo e in largo la città, così, a caso. Parla turco senza accenti e senza esitazioni. Nel momento in cui ha avuto bisogno di usarla, quella lingua è sgorgata dalle sue labbra come una fonte nascosta dentro di lei. Ma allora, perché continua a pensare in francese? Un effetto del condizionamento psichico? No, quella familiarità è precedente a tutta la storia. Appartiene alla sua personalità. Durante la sua formazione doveva essersi verificato quello strano innesto…

Attraverso il finestrino, osserva ogni dettaglio: il rosso della bandiera turca, con la mezzaluna e la stella d’oro, che marchia la città come un sigillo di ceralacca. Il blu dei muri e dei monumenti di pietra, annerito, striato dall’inquinamento. Il verde dei tetti e delle cupole delle moschee, che nella luce oscilla tra giada e smeraldo.

Il taxi costeggia un muro lungo la Hatun caddesi. Sema legge i nomi su alcuni cartelli indicatori: Aksaray, Küçükpazar, Carsamba… Risuonano dentro di lei in modo vago, senza suscitare emozioni particolari o ricordi precisi.

E tuttavia, più che mai, sente che potrebbe bastare un niente, un monumento, un’insegna, il nome di una via, per rimescolare quelle sabbie mobili, per liberare i blocchi di memoria che giacciono in lei. Come quei relitti adagiati sul fondo che risalgono verso la superficie non appena vengono sfiorati da qualcosa o da qualcuno…

Il conducente chiede:

«Devam edelim mi?». Continuiamo?

«Evet.» Sì.

Haseki. Nisanca. Yeni Kapi…

Un’altra sigaretta.

Rumore di traffico, ondate di passanti. L’agitazione urbana è al culmine. Ma quello che prevale è una grande impressione di dolcezza. La primavera fa tremolare le sue ombre al di sopra del tumulto. Nell’aria risplende una luce pallida. Su Istanbul si posa un velo argentato, una sorta di patina grigia che sopisce ogni violenza. Persino gli alberi danno un’idea di calma che si spande e pacifica gli animi.

All’improvviso, una parola scritta su un pannello pubblicitario attira la sua attenzione. Poche parole su fondo rosso e oro.

«Mi porti a Galatasaray», ordina al taxista.

«Al liceo?»

«Sì, al liceo. A Beyoglu.»

69.

Una grande piazza, ai confini del quartiere di Taksim. Banche, bandiere, hotel internazionali. Il taxista parcheggia all’entrata di un viale pedonale.

«Avrebbe fatto più in fretta a piedi», le spiega. «Prenda l’Istiklâl caddesi. Dopo un centinaio di metri…»

«Conosco il posto, grazie.»

Tre minuti più tardi, Sema raggiunge i grandi cancelli del liceo che proteggono gelosamente dei giardini oscuri. Supera il portone e si immerge in un’autentica foresta. Pini, cipressi, platani d’Oriente, tigli: mille sfumature d’ombra… Qualche corteccia arrischia un tono di grigio o di nero. Altrove, un tronco o un ramo si fendono con un intaglio chiaro, una specie di grande sorriso pastello. O ancora, un boschetto disseccato che offre trasparenze bluastre. L’intera gamma dei colori vegetali è dispiegata nel parco.

Oltre gli alberi, scorge le facciate gialle, attorniate da campi sportivi: gli edifici del liceo. Sema resta in disparte e osserva. I muri color polline. I pavimenti di cemento. La sigla del liceo, una S incassata in una G, ricamata sul gilet blu marine degli studenti che passeggiano.

Ma soprattutto, ascolta il baccano che si leva nell’aria. Un rumore che è uguale a ogni latitudine: la gioia dei ragazzi liberi dalla scuola. È mezzogiorno, l’ora di uscita.

Più che un rumore familiare è un richiamo, un segno di riunificazione. Di colpo, le molteplici sensazioni la avvolgono… Soffocata dall’emozione, si siede su una panca e lascia che tornino le immagini del passato.

Da prima il suo villaggio, nel profondo dell’Anatolia. Sotto un cielo senza limiti e senza pietà: capanne di fango aggrappate ai fianchi della montagna. Pianori d’erba alta. Pecore che camminano oblique lungo pendii scoscesi, grigie come carta sporca. Più in là, nella valle, uomini, donne e bambini che vivono come pietre, spezzati dal sole e dal freddo…

Poi il campo di assestamento: uno stabilimento termale in disuso, circondato da filo spinato, da qualche parte nella regione di Kayseri. Una quotidianità fatta di indottrinamento, di formazione, di esercizi. Le mattinate passate a leggere Le nuove luci di Alpaslan Türkes, a ripetere senza sosta i precetti nazionalisti, a vedere film muti sulla storia turca. Ore e ore di iniziazione alla balistica, di spiegazioni sugli esplosivi detonanti e quelli deflagranti, di tiro col fucile d’assalto e di allenamento con le armi bianche…

Poi, d’un tratto, il liceo francese. E tutto cambia. Un ambiente piacevole e raffinato. Ma forse è ancora peggio. Là, lei è la contadina. La ragazzina delle montagne in mezzo ai giovani di buona famiglia. Ma è anche la fanatica. La nazionalista attaccata alla propria identità turca, persa tra gli studenti borghesi di sinistra che sognano solo di diventare europei…

È lì, a Galatasaray, che lei si appassiona al francese fino al punto di sostituirlo, nella mente, alla sua madrelingua. Le sembra ancora di sentire il dialetto della sua infanzia, le sillabe dure e nude soppiantate, a poco a poco, da quelle parole nuove. Le sembra di risentire quelle poesie e quei libri che vengono a infilarsi in ogni suo ragionamento, a colorare ogni nuova idea. Era stato in quel momento che per lei il mondo era diventato francese.

Poi il periodo dei viaggi. L’oppio. Le coltivazioni iraniane, terrazzate al di sopra della stretta del deserto. Le pianure afgane, come scacchiere, dove si alternavano il papavero e il grano. Rivede frontiere senza nome, senza linee definite. No man’s lands fatte di polvere, tappezzate di mine, popolate di contrabbandieri feroci. Si ricorda le guerre. I carri armati, gli Stinger; e i ribelli afgani che giocano a buskachi con la testa di un soldato sovietico.

E rivede i laboratori. Baraccamenti dove l’aria è irrespirabile; pieni di uomini e donne con la mascherina di tela. Polvere bianca e fumi acidi, morfina base ed eroina raffinata… Il vero inizio del mestiere.

È allora che il viso diventa chiaro, preciso.

Fino a quel momento, la sua memoria ha funzionato in una sola direzione. Le facce hanno svolto la funzione di detonatore. Il volto di Schiffer è servito a ricordarle i suoi ultimi mesi d’attività: la droga, la fuga, il nascondiglio. Il semplice sorriso di Azer Akarsa ha fatto risorgere in lei il ricordo delle riunioni nazionaliste, degli uomini che levavano il pugno con l’indice e il mignolo alzati, ululando o gridando «Türkes basbug!», il ricordo della sua identità di Lupa.

Ma ora, nei giardini di Galatasaray, si verifica il fenomeno opposto. I suoi ricordi rivelano la fisionomia di un personaggio che attraversa ogni frammento della sua memoria… Da prima un bambino goffo. Poi, al liceo francese, un adolescente maldestro. Più tardi ancora, un compagno di traffici. A sorriderle, dall’interno dei laboratori clandestini, vestita d’un camice bianco, è sempre la stessa figura grassottella.

Negli anni, un bambino è cresciuto assieme a lei. Un fratello di sangue. Un Lupo grigio che con lei ha condiviso tutto. Ora che si concentra, il suo viso diventa più netto. Lineamenti paffuti sotto riccioli color miele. Occhi blu, come turchesi posati in mezzo ai ciottoli del deserto.

Improvvisamente emerge un nome: Kürsat Milihit.

Si alza e decide di entrare nel liceo: le serve una conferma.

Sema si presenta al direttore dicendo di essere una giornalista francese e spiega il tema del suo reportage: gli ex allievi di Galatasaray diventati celebri in Turchia.

Sorriso d’orgoglio del direttore: niente di più normale.

Qualche minuto dopo, si ritrova in una stanzetta tappezzata di libri. Davanti a lei ci sono i dossier dei diplomati degli ultimi decenni: nomi e fotografie degli studenti, date e voti di ogni annata. Senza esitare apre il dossier del 1988 e si ferma sul registro della classe che è all’ultimo anno, la sua classe. Non cerca il suo volto, la sola idea di vederlo la fa sentire male. No, cerca la foto di Kürsat Milihit.

Non appena la trova, i suoi ricordi diventano ancora più chiari. L’amico d’infanzia. Il compagno di strada. Kürsat è diventato un chimico. Il migliore nel suo campo. Capace di trasformare qualsiasi gomma base, di produrre la migliore morfina, di distillare l’eroina più pura. Dita magiche che sanno manipolare meglio di chiunque altro l’anidride acetica.

Sono anni che organizza con lui tutte le sue operazioni. È lui che, nel suo ultimo viaggio, ha ridotto l’eroina in soluzione liquida. Un’idea di Sema: iniettare la droga nelle bolle di plastica delle buste imbottite. Con cento millilitri per ogni busta, bastavano dieci plichi per spedire un chilo; duecento per l’intero carico. Venti chili di eroina in soluzione liquida nascosti nell’imbottitura traslucida di semplici buste a sacco da recuperare nella zona merci di Roissy.

Osserva ancora la foto: quell’adolescente grasso e riccioluto non è solo un fantasma del passato. Ora deve giocare un ruolo cruciale.

Solo lui può aiutarla a ritrovare Azer Akarsa.

70.

Un’ora più tardi Sema attraversa in taxi l’immenso ponte d’acciaio che scavalca il Bosforo. È in quel momento che scoppia il temporale. Nel giro di qualche secondo, mentre l’auto raggiunge la riva asiatica, la pioggia si mette a cadere con violenza. Da prima, a colpire i marciapiedi sono solo degli spilli di luce, poi delle vere secchiate, che si allargano, crepitando come se piombassero su tetti di lamiera. Il paesaggio diventa pesante. Al passaggio delle auto si alzano schizzi scuri; le strade sprofondano, annegano…

Quando il taxi arriva nel quartiere di Beylerbeyi, addossato alla base del ponte, il temporale si è trasformato in tempesta. Un’onda grigia annulla la visibilità, e mescola automobili, marciapiedi e case in un’unica nebbia in movimento. L’intero quartiere sembra regredire allo stato liquido, in una preistoria di torba e di fango.

In via Yaliboyu Sema decide di scendere dal taxi. Si infila tra le macchine e si rifugia sotto una pensilina davanti ai negozi. Compra una cerata, un poncho verde, leggero, poi cerca di orientarsi. Quel quartiere assomiglia a un villaggio, a un modello miniaturizzato di Istanbul, una versione tascabile. Marciapiedi stretti come nastri, case ammassate, vicoli che sembrano sentieri e che scendono verso la riva.

Prende la strada principale, in direzione dello stretto. A sinistra, botteghe chiuse, chioschi trincerati sotto la loro tettoia, bancarelle coperte con teloni. A destra, un muro che nasconde i giardini di una moschea. Una superficie di ciottoli rossi, intagliata da fessure che disegnano una geografia malinconica. In fondo, dietro il fogliame grigio, ci sono le acque del Bosforo che risuonano come timpani nella fossa di un’orchestra.

Sema si sente conquistata dall’elemento liquido. Le gocce le rimbalzano sulla testa, le battono sulle spalle, scorrono lungo la cerata… Le sue labbra prendono un sapore d’argilla. Il suo stesso viso sembra divenire fluido, mobile, luccicante…

Sulla riva, la tempesta raddoppia d’intensità, come se fosse stata liberata da quell’apertura sul mare. La banchina sembra volersi staccare e seguire l’acqua. Sema non può impedirsi di vibrare, di sentire nelle proprie vene, divenute fiumi, quei frammenti di continente che oscillano sulle loro basi.

Sema torna sui suoi passi e cerca l’entrata della moschea. Segue un muro scrostato, interrotto, di tanto in tanto, da cancelli arrugginiti. Sopra di lei, le cupole rilucono e i minareti svettano tra le gocce.

Man mano che avanza, affluiscono nuovi ricordi. Kürsat lo chiamano «il Giardiniere» per la sua passione per la botanica, specialità papaveri. È qui, nascosto in questi giardini, che coltiva le sue specie rare. Ogni sera, viene a Beylerbeyi per controllare le piantine…

Superato il cancello, entra in un cortile lastricato in marmo, nel quale si allineano, all’altezza del suolo, degli acquai destinati alle abluzioni che precedono la preghiera. Attraversa il patio, scorge un gruppo di gatti bianchi e miele che stanno raggomitolati; a uno di essi è stato cavato un occhio, un altro ha il muso incrostato di sangue.

Ancora una soglia, poi, infine, il giardino.

Quella visione le fa venire un tuffo al cuore. Alberi, arbusti, rovi. Rami neri come bastoncini di liquirizia, boschetti pieni di foglie, fitti come cespugli di vischio.

Sema avanza, inebriata dal profumo dei fiori, dagli odori della terra. Il martellamento della pioggia qui è più delicato. Le gocce rimbalzano sulle foglie con un suono di pizzicato, le scariche d’acqua colpiscono le fronde come se toccassero corde d’arpa. Sema pensa: «Il corpo risponde alla musica con la danza. La terra risponde alla pioggia con in suoi giardini.»

Spostando i rami, trova un grande orto, nascosto sotto gli alberi. Tutori di bambù, bidoni pieni di humus, vasi di vetro capovolti per proteggere i germogli. A Sema sembra una serra a cielo aperto. Meglio ancora: un asilo infantile per vegetali. Fa ancora qualche passo, poi si ferma: il Giardiniere è là.

Si sta chinando su una fila di papaveri protetti da buste di plastica trasparente. Sta infilando un drenaggio all’interno di un pistillo, là dove c’è la capsula dell’alcaloide. Sema non riconosce la specie che l’altro sta maneggiando. Senza dubbio si tratta di un nuovo ibrido, in anticipo sulla stagione della fioritura. Un papavero sperimentale, nel bel mezzo della capitale turca…

Come se avesse avvertito la sua presenza, il chimico alza gli occhi. Il cappuccio gli sbarra la fronte, scoprendo appena i suoi lineamenti pesanti. Sulle sue labbra nasce un sorriso:

«Gli occhi. Ti ho riconosciuta dagli occhi.»

Le ha parlato in francese. Come un tempo, quando era un gioco, un segno di complicità. Lei non risponde. Immagina come la vede lui: un profilo scheletrico, sotto un cappuccio verde tè, il volto emaciato, irriconoscibile. Tuttavia, Kürsat non mostra alcuno stupore: egli è dunque a conoscenza della sua trasformazione. Lo aveva avvisato lei? Ha solo qualche secondo per decidersi. Quell’uomo era il suo confidente, il suo complice. È stata dunque lei a rivelargli i dettagli della sua fuga.

I suoi gesti sono maldestri, insicuri. È di poco più alto di Sema. Sotto il grembiule di plastica porta un camice di tela. Kürsat Milihit si alza.

«Perché sei tornata?»

Lei non dice nulla. Lascia che la pioggia scandisca il passare dei secondi. Poi, con la voce smorzata dalla cerata, gli risponde:

«Voglio sapere chi sono. Ho perso la memoria.»

«Cosa?»

«A Parigi sono stata arrestata dalla polizia. Ho subito un condizionamento mentale. Soffro di amnesia.»

«Non è possibile.»

«Tutto è possibile nel nostro mondo; lo sai meglio di me.»

«Tu… tu non ti ricordi di niente?»

«Quello che so, l’ho appreso indagando.»

«Ma perché tornare? Perché non sparire?»

«È troppo tardi per sparire. Ho i Lupi alle calcagna. Conoscono la mia nuova faccia. Voglio negoziare.»

Lui posa con cautela il fiore incappucciato nella plastica, poi, lanciandole un’occhiata furtiva, le chiede:

«Ce l’hai ancora?»

Sema non risponde. Kürsat insiste:

«La droga, ce l’hai ancora?»

«La questione non è la droga: la questione sono io», replica lei. «Chi era il mittente?»

«Noi non sappiamo mai il suo nome. È la regola.»

«Non ci sono più regole. La mia fuga ha sconvolto tutto. Immagino che siano venuti a interrogarti. Saranno circolati dei nomi. Chi ha ordinato l’invio?»

Kürsat esita. La pioggia batte sul suo cappuccio e cola sul suo viso.

«Ismaïl Kudseyi.»

Quel nome risveglia la sua memoria: Kudseyi, il capo assoluto. Ma simula ancora l’amnesia:

«Chi è?»

«Non riesco a credere che tu abbia perso la bussola fino a questo punto.»

«Chi è?» ripete.

«È il baba più importante di Istanbul.»

Abbassa il tono, come per accordarsi con la pioggia.

«Stava preparando un’alleanza con gli uzbeki e i russi. Il carico era un invio d’assaggio. Un test. Un simbolo. Scomparso con te.»

Lei sorride, nel cristallo delle gocce.

«L’atmosfera tra i vari partner non deve essere delle più distese.»

«La guerra è imminente. Ma Kudseyi se ne frega. La sua sola ossessione sei tu. Vuole ritrovarti a ogni costo. Non è una questione di denaro, è una questione d’onore. Non può accettare di esser stato tradito da uno dei suoi. Siamo i suoi Lupi, le sue creature.»

«Le sue creature?»

«Gli strumenti della causa. Siamo stati formati, indottrinati, allevati dai Lupi. Dove sei nata non eri nessuno. Una pidocchiosa che allevava le pecore. Come me. Come gli altri. I loro centri ci hanno dato tutto. La fede. Il potere. La conoscenza.»

Sema dovrebbe arrivare al dunque, ma preferisce sentire altri fatti, altri dettagli:

«Perché io e te parliamo francese?»

Sulla faccia tonda di Kürsat si accende un sorriso. Un sorriso pieno d’orgoglio:

«Siamo stati scelti. Negli anni Ottanta, i rais, i capi, hanno creato un esercito clandestino, con degli ufficiali, delle figure d’élite. Dei Lupi che potessero infiltrarsi tra gli strati più elevati della società turca.»

«Era un progetto di Kudseyi?»

«Un progetto promosso da lui, ma approvato da tutti. Alcuni emissari della sua fondazione hanno visitato i centri dell’Anatolia centrale. Hanno cercato i bambini più dotati, i più promettenti. L’idea era quella di offrire loro un’istruzione di alto livello. Un progetto patriottico: il sapere e il potere restituiti ai veri turchi, ai figli dell’Anatolia, non a quei bastardi borghesi di Istanbul…»

«E noi siamo stati selezionati?»

Il suo orgoglio aumenta ancora:

«Grazie alle borse della fondazione, siamo stati mandati al liceo Galatasaray assieme a qualcun altro dei nostri. Come puoi averlo dimenticato?»

Sema non risponde. Kürsat prosegue con un tono sempre più esaltato:

«Avevamo dodici anni. Eravamo già dei piccoli baskan, dei capi, nelle nostre regioni. Come prima cosa abbiamo passato un anno in un campo di addestramento. Quando siamo arrivati al Galatasaray eravamo già in grado di usare un fucile d’assalto. Conoscevamo a memoria Le nuove luci. E, di colpo, ci siamo trovati circondati da decadenti che ascoltavano musica rock, fumavano cannabis e imitavano gli europei. Dei figli di puttana, dei comunisti… Di fronte a loro, noi ci aiutavamo a vicenda. Come fratello e sorella. I due bifolchi dell’Anatolia, i due miserabili con la loro povera borsa… Ma nessuno sapeva quanto fossimo pericolosi. Eravamo già dei Lupi. Dei combattenti. Infiltrati in un mondo che ci era vietato. Per poter lottare meglio contro quei bastardi dei rossi! Tauri türk’ü korusun! Che Dio protegga i turchi!»

Kürsat leva il pugno con l’indice e il mignolo alzati. Si dà parecchio da fare per avere l’aria del fanatico, ma assomiglia soprattutto a ciò che non ha mai smesso di essere: un bambino dolce, maldestro, costretto alla violenza e all’odio.

Immobile tra i tutori e le foglie, lei lo interroga ancora:

«E dopo, che cosa è successo?»

«Per me, la facoltà di scienze. Per te, lingue all’università di Bogazici. Alla fine degli anni Ottanta i Lupi si stavano imponendo sul mercato della droga. Avevano bisogno di specialisti. I nostri destini erano già scritti. La chimica per me, il trasporto per te. Altri, altri Lupi, si sono infiltrati come diplomatici, imprenditori…»

«Come Azer Akarsa.»

Kürsat trasale:

«Conosci questo nome?»

«È l’uomo che mi ha dato la caccia a Parigi.»

Lui si scrolla, sotto la pioggia, come un ippopotamo.

«Ti hanno messo alle costole il peggiore. Se ti cerca ti troverà.»

«Sono io che lo cerco. Dov’è?»

«E come faccio a saperlo?»

La voce del Giardiniere suona fasulla. All’improvviso Sema è rosa da un sospetto. Aveva quasi dimenticato quell’aspetto della vicenda: chi è che l’ha tradita? Chi è che ha rivelato ad Akarsa che lei si stava nascondendo nel bagno turco di Gurdilek? Si tiene per dopo quella domanda…

Il chimico riprende, in modo un po’ troppo diretto:

«Ce l’hai ancora? Dov’è la droga?»

«Te lo ripeto, ho perso la memoria.»

«Se vuoi negoziare, non puoi tornare a mani vuote. La tua sola possibilità e quella di…»

«Perché ho fatto tutto questo? Perché ho cercato di fregare tutti quanti?»

«Solo tu puoi saperlo.»

«Nella mia fuga io ti ho messo in mezzo. Ti ho messo in pericolo. Devo averti dato delle ragioni, per forza.»

Lui abbozza un gesto vago:

«Non hai mai accettato il nostro destino. Dicevi che eravamo stati arruolati con la forza, che non ci avevano lasciato altra scelta. Ma quale scelta? Senza di loro, noi saremmo ancora dei pastori con il culo per terra in qualche sperduto buco dell’Anatolia.»

«Se sono una trafficante, devo avere dei soldi. Perché non sono semplicemente sparita? Perché ho rubato l’eroina?»

Kürsat ribatte:

«Volevi di più. Volevi fare un bordello. Volevi mettere i clan l’uno contro l’altro. Con questa missione tu potevi vendicarti. Quando gli uzbeki e i russi saranno qui, sarà un’ecatombe.»

La pioggia diminuisce, la notte scende. Kürsat viene assorbito dalle tenebre, come se si fosse spento. Sopra di loro, le cupole della moschea sembrano fluorescenti.

L’idea del tradimento torna con tutta la sua forza. Ora lei deve andare fino in fondo, deve portare a termine il suo ingrato compito.

«E tu», chiede lei con voce di giaccio, «tu come fai a essere ancora vivo? Non sono venuti a interrogarti?»

«Certo che sono venuti.»

«E non hai detto niente?»

Il chimico sembra scosso da un brivido.

«Non avevo niente da dire. Non sapevo niente. Sono solo andato a Parigi per trasformare nuovamente l’eroina, poi sono tornato qui. Tu non hai più dato notizie. Nessuno sapeva dov’eri. E io meno degli altri.»

La sua voce trema. Sema viene colta da un sentimento di pietà. Kürsat, mio piccolo Kürsat, come hai fatto a sopravvivere?

D’un tratto, l’altro aggiunge:

«Mi hanno creduto, Sema. Te lo giuro. Io avevo fatto la mia parte di lavoro. Non avevo più tue notizie. A partire dal momento in cui ti sei nascosta da Gurdilek ho pensato che…»

«Chi ha parlato di Gurdilek? Io ho parlato di Gurdilek?»

Finalmente capisce: Kürsat sapeva tutto, ma ad Akarsa ha rivelato solo una parte della verità. Se l’è cavata dando il suo indirizzo di Parigi, ma passando sotto silenzio la faccenda del suo nuovo volto. Ecco come il suo «fratello di sangue» ha negoziato con la propria coscienza.

Il chimico resta un istante a bocca aperta, come se il mento gli pesasse troppo. Un attimo dopo infila una mano sotto un telo di plastica. Sema, da sotto il poncho, punta la sua Glock e spara. Il Giardiniere cade a terra tra i germogli e i vasi di vetro.

Sema si inginocchia: dopo quello di Schiffer, ecco il suo secondo omicidio. Ma, a giudicare dalla sicurezza del suo gesto, capisce che in passato ha già ucciso e nello stesso modo: l’arma in pugno, a bruciapelo. Quando? Quante volte? Nessun ricordo. Su quello, la sua memoria ha ancora dei compartimenti stagni.

Per un attimo, osserva Kürsat immobile tra i papaveri. La morte sta già dando pace al suo viso; l’innocenza, infine liberata, risale alla superficie dei suoi lineamenti.

Perquisisce il cadavere. Sotto il camice scova un telefonino. Uno dei numeri in memoria è associato al nome «Azer».

Si infila il portatile in tasca e si alza. Ha smesso di piovere. L’oscurità ha preso possesso dei luoghi. I giardini possono infine respirare. Alza gli occhi verso la moschea: le cupole di ceramica verde lucide di pioggia, i minareti pronti a decollare verso le stelle.

Sema rimane ancora qualche istante vicino al corpo. Impiegabilmente, qualcosa di netto, di preciso, si stacca da lei.

Ora sa perché ha agito, perché è fuggita con la droga.

Per la libertà, certo.

Ma anche per vendicarsi di un fatto ben determinato.

Prima di continuare ha bisogno di verificare quel punto.

Deve trovare un ospedale. E un ginecologo.

71.

Tutta la notte a scrivere.

Una lettera di dodici pagine, indirizzata a Mathilde Wilcrau, rue Le Goff, Parigi. In quelle pagine, lei spiega tutta la sua storia. Le sue origini. La sua formazione. Il suo mestiere. E l’ultimo carico.

E fa anche i nomi. Kürsat Milihit. Azer Akarsa. Ismall Kudseyi. Mette tutti i cognomi al loro posto, come se sistemasse i pedoni su una scacchiera. Descrive con precisione il loro ruolo e la loro posizione. Ricostruisce ogni frammento dell’affresco…

Sema le deve delle spiegazioni.

Perché gliel’ha promesso, nella cripta del cimitero; ma soprattutto perché vuole rendere comprensibile quella storia nella quale la psichiatra ha rischiato la sua vita senza avere nulla in cambio.

Ogni volta che scrive «Mathilde», sulla carta chiara dell’hotel, tutte le volte che stringe la penna per tracciare quel nome, Sema si dice che forse non ha mai avuto qualcosa di così solido come quelle sillabe.

Accende una sigaretta e si prende il tempo di ricordare. Mathilde Wilcrau. Una donna alta e forte, dai capelli nerissimi e dal sorriso troppo rosso. La prima volta che ha guardato quel sorriso le sono venuti in mente i gambi di papavero che bruciava per conservarne il colore.

Ora che ha ritrovato la memoria delle sue origini, quell’immagine si riveste d’un senso nuovo. Il paesaggio di sabbia non apparteneva alle lande francesi, come credeva, ma ai deserti dell’Anatolia. Papaveri, papaveri selvatici: si profilava già l’ombra dell’oppio. Sema si ricorda che provava un fremito, un misto di eccitazione e paura, nel bruciare quei gambi: sentiva un legame segreto tra la fiamma nera e lo schiudersi colorato dei petali.

Lo stesso mistero che scintilla in Mathilde Wilcrau.

Una zona bruciata dentro di lei esalta il rosso assoluto del suo sorriso.

Sema termina la sua lettera. Esita un istante: deve scriverle anche quello che ha scoperto in ospedale qualche ora prima? No. Quella è una cosa che riguarda solo lei. Firma e infila il foglio nella busta.

La radiosveglia della sua camera segna le quattro.

Pensa un’ultima volta al suo piano. Non puoi tornare a mani vuote… aveva detto Kürsat. Né «Le Monde» né i telegiornali hanno fatto riferimento alla droga sparsa nella cripta. Ci sono dunque buone probabilità che Azer Akarsa e Ismaïl Kudseyi non sappiano che l’eroina è andata perduta. Almeno virtualmente, Sema ha qualcosa per negoziare.

Deposita la busta davanti alla porta, poi entra in bagno.

Lascia che dal rubinetto del lavabo scenda un filo d’acqua e prende il pacchetto che ha acquistato prima in una drogheria di Beylerbeyi.

Versa il pigmento nel lavandino e osserva i meandri rossi che si condensano in una fanghiglia bruna.

Si osserva per un attimo nello specchio. Il viso spaccato, le ossa frantumate, la pelle ricucita: sotto quell’apparente bellezza si cela un’altra menzogna…

Sorride alla propria immagine riflessa e mormora:

«Non c’è altra scelta.»

Poi immerge con precauzione l’indice nell’henné.

72.

Le cinque.

Stazione di Haydarpaşa.

Una stazione ferroviaria e marittima al tempo stesso. Tutto esattamente come se lo ricordava. L’edificio centrale, un ferro di cavallo in mezzo a due massicce torri, che sembra abbracciare lo stretto e rivolgere un invito al mare. Poi, tutto intorno, le dighe, muri di pietra a delimitare un labirinto d’acqua. Alla fine della seconda diga si innalza un faro, una torre isolata, quasi appoggiata sui canali.

A quell’ora tutto è scuro, freddo, spento. Una sola luce palpita debolmente nella stazione, attraverso i vetri appannati: una luce rossa, fioca, esitante.

Il chiosco dell’iskele, l’imbarcadero, brilla anch’esso, riflettendosi nell’acqua con una macchia blu, quasi viola.

Le spalle alte, il colletto tirato su, Sema fiancheggia l’edificio, poi risale lungo la riva. Quello spettacolo sinistro è proprio ciò che fa per lei: ci contava su quel deserto silenzioso e intorpidito dal gelo. Si dirige verso il porto turistico. Il ticchettio incessante delle cime e delle vele la segue da vicino.

Sema osserva ogni barca, ogni battellino. Infine, scorge un’imbarcazione il cui proprietario sta dormendo raggomitolato sotto un telone. Lo risveglia e contratta. Stupito, l’uomo accetta la somma che gli viene proposta: un capitale. Lei gli assicura che non andrà al di là della seconda diga e che non perderà mai di vista la barca. Il marinaio accetta; senza dire una parola, accende il motore, poi salta a terra.

Sema prende il timone. Fa manovra in mezzo alle altre imbarcazioni e abbandona il molo. Segue la prima diga, ne contorna l’estremità, poi costeggia la seconda fino al faro. Nessun rumore intorno a lei. Lontano, nel buio, si staglia il ponte illuminato di un cargo: sotto la luce dei proiettori si agitano delle ombre. Per un attimo prova un senso di complicità e di solidarietà per quei fantasmi dorati.

Accosta alle rocce. Lega l’imbarcazione e raggiunge il faro. Senza difficoltà, forza la porta. L’interno è stretto, ghiacciato, ostile a ogni presenza umana. Il faro è automatizzato e sembra non aver bisogno di niente e di nessuno. In cima alla torre, l’enorme proiettore gira lentamente sul suo perno con lunghi gemiti.

Sema accende la sua torcia elettrica. Il muro circolare, vicinissimo, è sporco e umido. Il pavimento è pieno di pozzanghere. Lo spazio disponibile è completamente occupato da una scala a chiocciola di ferro. Sema sente il rumore delle onde sotto i suoi piedi. Le sembra d’essere ai confini del mondo, in una solitudine totale. Il posto ideale.

Prende il cellulare di Kürsat e compone il numero di Azer Akarsa.

Squilla. Dall’altra parte alzano il telefono. Silenzio. Dopo tutto sono solo le cinque del mattino…

Parlando in turco, dice:

«Sono Sema.»

Il silenzio persiste. Poi la voce di Azer Akarsa risuona, vicinissima:

«Dove sei?»

«A Istanbul.»

«E cosa proponi?»

«Un incontro. Noi due soli. In campo neutro.»

«Dove?»

«Alla stazione di Haydarpaşa. Sulla seconda diga c’è un faro.»

«A che ora?»

«Adesso. Vieni solo. In barca.»

Nella voce dell’altro si sente un sorriso:

«Per farmi sparare come un coniglio?»

«Questo non risolverebbe i miei problemi.»

«Non vedo cosa potrebbe risolverli, i tuoi problemi.»

«Se vieni lo scopri.»

«Dov’è Kürsat?»

Il numero del suo telefono deve essere comparso su quello del suo interlocutore. A cosa servirebbe mentire?

«È morto. Ti aspetto. Haydarpaşa. Solo. E in barca a remi.»

Interrompe la comunicazione e guarda fuori, attraverso la finestra con l’inferriata. La stazione marittima si sta animando. Un traffico lento, impastato d’alba, si mette piano piano in movimento. Un battello abbandona le onde e scivola lungo i binari fino a giungere sotto le arcate di un cantiere.

Il suo posto d’osservazione è perfetto. Da lì può sorvegliare la stazione, gli imbarcaderi, il molo e la prima diga: impossibile avvicinarsi a lei di nascosto.

Si siede sugli scalini, tremando di freddo.

Sigaretta.

I suoi pensieri vanno alla deriva e, senza una precisa ragione, le si ridesta un ricordo. Il calore del gesso sulla pelle. Le maglie di garza incollate alle carni. Il prurito insopportabile sotto i bendaggi. Ricorda la convalescenza, in un lungo dormiveglia, imbottita di sedativi. E soprattutto il suo spavento di fronte alla nuova faccia, gonfia da scoppiare, blu di ematomi, coperta di croste…

Pagheranno tutto. Le cinque e un quarto.

Il freddo diventa una morsa, quasi una bruciatura. Sema si alza, batte i piedi e le braccia per lottare contro l’intorpidimento. Il ricordo dell’operazione la riporta immediatamente alla sua ultima scoperta, quella che ha fatto qualche ora prima all’ospedale centrale di Istanbul. In realtà, più che una scoperta è stata una conferma. Adesso si ricorda con precisione quel giorno del marzo 1999, a Londra. Un banale problema di colite l’aveva obbligata a effettuare una radiografia e ad accettare la verità.

Come avevano potuto farle quello?

Come avevano potuto mutilarla per sempre?

Ecco perché è fuggita.

Ecco perché li ammazzerà tutti.

Le cinque e mezza.

Il freddo le penetra nelle ossa. Il sangue affluisce verso gli organi vitali, abbandonando a poco a poco le estremità al gelo e alla morte bianca. Tra qualche minuto sarà paralizzata.

Meccanicamente, avanza fino alla porta. Esce dal faro e si sforza di sgranchire le gambe camminando sulla diga. La sua sola fonte di calore è il suo stesso sangue: deve farlo circolare, deve ripartirlo tra le varie parti del suo corpo…

Lontano risuonano delle voci. Sema alza gli occhi. Alcuni pescatori salgono sulla prima diga. Non era previsto. Almeno non così presto.

Nell’oscurità scorge le loro canne e le lenze che sferzano la superficie dell’acqua.

Sono veramente dei pescatori?

Guarda l’orologio: le sei meno un quarto.

Ancora qualche minuto e poi se ne andrà. Non può concedere più tempo ad Azer Akarsa. Lei sa che, da qualsiasi punto di Istanbul, non serve più di mezz’ora per raggiungere la stazione. Se l’altro ci impiega di più è perché sta organizzando una trappola.

Uno sciabordio. Nel buio, si apre sull’acqua la scia di una barca. La scialuppa supera la prima diga. Una figura si china sui remi. Movimenti ampi, lenti, costanti. Un raggio di luna sfiora le spalle di velluto.

Infine, la barca tocca gli scogli.

Si alza, prende una cima. I gesti e i rumori sono così ordinari da sembrare irreali. Sema quasi non riesce a credere che l’uomo che vive solo per la sua morte è lì, a due metri da lei. Malgrado l’oscurità, distingue la sua giacca di velluto consunto, la sua grossa sciarpa, i suoi capelli… Quando si sporge per lanciarle la corda, per una frazione di secondo, arriva a scorgere il riflesso violetto dei suoi occhi.

Lei prende la cima e la annoda a quella della sua stessa barca. Azer fa per scendere, ma Sema lo ferma brandendo la Glock.

«I teloni», gli dice.

Lui getta un’occhiata ai vecchi teli di plastica ammucchiati nella barca.

«Sollevali.»

Esegue: il fondo è vuoto.

«Avvicinati. Molto lentamente.»

Lei indietreggia, per lasciarlo salire sulla diga. Con un gesto gli impone di alzare le braccia. Lo perquisisce con la sinistra: niente armi.

«Io le rispetto, le regole», borbotta lui.

Lei lo spinge verso la porta e lo segue a due passi. Quando entra, lui è già seduto su uno scalino.

Tra le sue mani spunta un sacchetto trasparente:

«Vuoi un cioccolatino?»

Sema non risponde. Lui ne prende uno e se lo porta alla bocca.

«Diabete», dice quasi scusandosi. «L’insulina mi provoca dei cali di zucchero nel sangue. Non si riesce a trovare il giusto dosaggio. Ho spesso delle crisi di ipoglicemia, che diventano più gravi in caso di forti emozioni. Allora ho bisogno di zuccheri rapidamente disponibili.»

La carta trasparente brilla tra le sue dita. Sema pensa alla Maison du Chocolat, a Parigi, a Clothilde. Un altro mondo.

«A Istanbul prendo sempre delle paste a base di mandorle ricoperte di cioccolato. A Parigi ho trovato gli jikola…»

Posa con delicatezza il sacchetto sulla struttura di ferro. Simulata o reale che sia, la sua disinvoltura è impressionante. Il faro si riempie lentamente di piombo blu. Il giorno sta per spuntare, anche se il perno, in alto sulla torre, non cessa di gemere.

«Senza quei cioccolatini non ti avrei mai ritrovata.»

«Tu non mi hai trovata.»

Sorriso. Infila di nuovo la mano sotto la giacca. Sema brandisce la pistola. Azer rallenta il proprio gesto, poi tira fuori una foto in bianco e nero. Una semplice istantanea: un gruppo di studenti in un campus.

«Università di Bogazici, aprile 1993. La tua sola foto esistente. Con il vecchio viso, intendo…»

All’improvviso, tra le sue dita compare un accendino. La fiamma buca l’oscurità, poi morde lentamente la carta emanando un forte odore chimico.

«Sono rari quelli che possono vantarsi di averti incontrata dopo quel periodo, Sema. Senza contare che cambiavi continuamente nome, aspetto, paese…»

Continua a tenere la foto crepitante tra le dita. Sul suo volto passano fiamme d’un rosa scintillante. A lei sembra di vedere una delle sue allucinazioni. Forse l’inizio di una crisi… Ma no: semplicemente, il viso dell’assassino si beve il fuoco.

«Un vero mistero», riprende lui. «In un certo senso, è questo che è costato la vita ad altre tre donne.»

Contempla la fiamma che ha tra le mani.

«Si sono contorte nel dolore. A lungo. Molto a lungo…»

Infine lascia cadere la foto in una pozzanghera:

«Avrei dovuto pensarci prima a un intervento chirurgico. Era nel tuo stile. L’ultima metamorfosi…»

Fissa la pozzanghera nera, ancora fumante:

«Siamo i migliori, Sema. Ognuno nel proprio campo. Cosa proponi?»

Lei capisce che quell’uomo non la considera una nemica, ma una rivale; o meglio, come un suo doppio. Per lui quella caccia è molto più di un semplice contratto. È una sfida. Un attraversare lo specchio… E allora lei lo provoca:

«Siamo solo degli strumenti, dei giocattoli nelle mani dei baba.»

Azer aggrotta le sopracciglia. Il suo viso si contrae.

«Al contrario. Io mi servo di loro per portare avanti la nostra causa. Il loro denaro…»

«Noi siamo i loro schiavi.»

La sua voce si colora di una sfumatura di irritazione:

«Cos’è che stai cercando?»

D’un tratto si mette a urlare, sbattendo a terra i cioccolatini:

«Che cosa proponi?»

«A te niente. Ne voglio parlare solo con Dio in persona.»

DODICI

73.

Ismaïl Kudseyi era fermo sotto la pioggia, nel parco della sua tenuta di Yeniköy.

In piedi tra le rose, sul bordo della terrazza, guardava fissamente lo stretto.

La riva asiatica si stagliava lontana, come un piccolo nastro battuto dalla tempesta. Era a più di mille metri di distanza e non si vedevano imbarcazioni di nessun tipo. Fuori dalla portata di un possibile cecchino, il vecchio si sentiva sicuro.

Dopo la chiamata di Azer, aveva sentito il desiderio di andare lì, di immergersi nel verde. Un bisogno imperioso, quasi fisico.

Appoggiandosi al bastone, seguì il parapetto e scese con cautela gli scalini che arrivavano fino all’acqua. L’odore del mare gli salì alle narici, mentre gli spruzzi gli bagnavano il volto: il Bosforo era agitato.

Ogni volta che aveva bisogno di riflettere, Kudseyi, malgrado i suoi settantaquattro anni, tornava lì, nei luoghi della sua infanzia. Lì aveva imparato a nuotare. Lì aveva pescato i suoi primi pesci e aveva perso i suoi primi palloni fatti di stracci annodati che, giunti in acqua, perdevano, una per una, le pezze, come i bendaggi di un’infanzia mai conclusa…

Il vecchio guardò l’orologio: le nove. Cosa stavano facendo?

Risalì la scala e contemplò il suo regno, i giardini della sua tenuta. Lungo il muro di cinta, rosso cremisi, che isolava il parco dal traffico di fuori, i bambù si piegavano come piume, in un dolce agitarsi a ogni soffio di vento. Più in là, sulle scalinate del palazzo, c’erano i leoni di pietra dalle ali ripiegate e, ancora oltre, i grandi laghetti con i cigni.

Stava per mettersi al riparo, quando percepì il borbottio di un motore. Più che un vero rumore, era una sorta di vibrazione sotto la pelle. Girò la testa e scorse la barca che andava all’assalto di ogni onda per poi scendere bruscamente, scavando dietro di sé due ali di schiuma.

A pilotarla era Azer, chiuso nella sua giacca abbottonata fino al collo. Al suo fianco, Sema, seminascosta dalle pieghe svolazzanti della sua cerata, sembrava minuscola. Sapeva che aveva cambiato faccia. Ma, anche a quella distanza, riconosceva il suo portamento. Quell’aria leggermente arrogante che, vent’anni prima, gliel’aveva fatta notare in mezzo ad altre centinaia di bambini.

Azer e Sema.

L’assassino e la ladra.

I suoi soli figli.

I suoi soli nemici.

74.

Appena si mosse, il giardino si animò.

Una prima guardia del corpo venne fuori da un boschetto. Una seconda apparve dietro un tiglio. Altre due si materializzarono sul vialetto di ghiaia. Tutte impugnavano un MP-7, un’arma per la difesa ravvicinata caricata con cartucce subsoniche capaci di forare una protezione di titanio o di kevlar a cinquanta metri di distanza. Almeno, questo era quanto gli aveva assicurato il suo fornitore. Ma c’era un senso in tutto ciò? Alla sua età, i nemici che temeva davvero non viaggiavano alla velocità del suono e non perforavano il policarbonato: erano dentro di lui e si dedicavano a un paziente lavoro di distruzione.

Proseguì lungo il viale. I suoi uomini lo circondarono all’istante, formando uno scudo umano. Ormai era sempre così. La sua vita era custodita come un gioiello prezioso, ma quel gioiello non brillava più. Era murato vivo, sempre dentro il perimetro dei suoi giardini e sempre attorniato dalle sue guardie.

Si diresse verso il palazzo, uno degli ultimi yalis di Yeniköy. Una residenza estiva, in legno, a pelo d’acqua, eretta su pilastri catramati. Un palazzo a sviluppo verticale, irto di torrette, imponente come una cittadella, ma, nel contempo, semplice come un capanno di pescatori.

Le scandole del tetto, incurvate per l’usura, mandavano riflessi vivi come quelli di uno specchio, mentre le facciate assorbivano la luce, rinviando barbagli opachi di un’infinita dolcezza. Intorno all’edificio regnava un’atmosfera da luogo di transito, da molo, da imbarcadero; l’aria salmastra, il legno consunto, lo sciabordio, tutto faceva venire in mente al vecchio una località di villeggiatura.

Tuttavia, avvicinandosi e scorgendo i dettagli orientaleggianti della facciata, le travature dei terrazzi, i soli scolpiti sui balconi, le stelle e le mezzelune delle finestre, capiva che quel palazzo sofisticato era qualcosa di ben diverso: un edificio elaborato, solido, definitivo. Era la tomba che si era scelto. Un sepolcro in legno dal quale si poteva vedere arrivare la morte ascoltando il rumore del mare…

Giunto nell’atrio, Ismaïl Kudseyi si tolse la cerata e gli stivali. Poi si infilò delle pantofole, una giacca di seta indiana e si concesse il tempo di contemplarsi nello specchio.

Il suo volto era il suo solo motivo d’orgoglio.

Il tempo aveva prodotto i suoi inevitabili danni, ma le ossa avevano tenuto bene e gli tendevano la pelle rendendo più netti i lineamenti. Più che mai, manteneva quel profilo da cervo, con le mascelle prominenti e quella smorfia sdegnosa sulle labbra.

Prese un pettine dalla tasca e si pettinò. Lisciò lentamente le ciocche grigie, ma si arrestò di colpo comprendendo il significato di quel gesto: si stava preparando per Loro. Perché temeva quell’incontro. Perché aveva paura di affrontare il senso profondo di tutti quegli anni…

Dopo il colpo di stato del 1980, era dovuto fuggire in Germania. Quando era tornato, nel 1983, la situazione in Turchia si era calmata, ma la maggior parte dei suoi compagni d’arme, gli altri Lupi grigi, era in prigione. Sebbene isolato, Ismaïl Kudseyi aveva rifiutato di abbandonare la causa. Anzi, nella massima segretezza, aveva deciso di riaprire i campi di addestramento e di creare il proprio esercito. Stava dando vita ai nuovi Lupi grigi. O meglio, stava formando dei Lupi superiori, al servizio dei propri interessi politici e criminali al tempo stesso.

Si era messo sulle strade dell’Anatolia per scegliere personalmente i predestinati. Aveva organizzato i campi, aveva osservato gli adolescenti durante l’addestramento, li aveva schedati per selezionare un gruppo d’élite. Molto presto, il gioco lo aveva catturato. Si era appassionato soprattutto alla formazione dei bambini.

Sentiva nascere in sé una viscerale complicità con quei piccoli contadini che gli ricordavano il ragazzo di strada che era stato molto tempo prima. Preferiva la loro compagnia a quella dei suoi figli, quei figli avuti in tarda età, dalla figlia di un ex ministro, e ora lontani, a seguire i loro studi a Oxford e alla libera università di Berlino, quegli ereditieri, divenuti degli estranei.

Di ritorno dai suoi viaggi, si isolava nella sua tenuta e studiava a fondo ogni dossier, ogni profilo. Seguiva da vicino i loro talenti, i loro doni naturali, ma anche la loro voglia di emergere, di fuggir dalle campagne… Individuava i candidati più promettenti, quelli da sostenere con le borse di studio e poi da integrare nel proprio clan.

Poco a poco, la sua ricerca divenne una malattia, una mania. L’alibi della causa nazionalista non bastava più a mascherare le sue ambizioni. Quello che lo esaltava era l’idea di forgiare a distanza degli esseri umani. Di manipolare dei destini, come se fosse stato un invisibile demiurgo.

Due nomi cominciarono a interessarlo in modo particolare.

Un ragazzo e una ragazza.

Due promesse allo stato puro.

Originario di un villaggio che sorgeva vicino all’antico sito di Nemrut Daği, Azer Akarsa aveva cominciato molto presto a manifestare doti particolari. A sedici anni era, al tempo stesso, un combattente accanito e uno studente brillante. Ma soprattutto, mostrava una vera passione per l’antica Turchia e per il credo nazionalista. Si era iscritto al comitato clandestino di Adiyaman e si era offerto volontario per i gruppi commando. Voleva arruolarsi nell’esercito e combattere sul fronte curdo.

Azer aveva però un handicap: era diabetico. Ma Kudseyi aveva deciso che quel punto debole non avrebbe impedito al ragazzo di diventare un Lupo: gli avrebbe garantito le cure migliori.

L’altro dossier riguardava Sema Hunsen, quattordici anni. Nata tra le pietraie vicino a Gaziantep, era riuscita a entrare in un liceo e a ottenere una borsa di studio statale. In apparenza era solo una giovane intelligente che desiderava rompere con le proprie origini, ma in realtà non voleva unicamente cambiare il proprio destino, voleva cambiare anche il suo paese. Nel comitato degli Idealisti di Gaziantep, Sema era la sola donna. Aveva fatto domanda per uno stage nel campo di Kayseri, per poter stare vicino a un ragazzo del suo stesso paese, Kürsat Milihit.

Quell’adolescente aveva subito attratto la sua attenzione. Gli piaceva quella volontà feroce, quel desiderio di uscire dalla propria condizione. Fisicamente, era una ragazza dai capelli rossi, piuttosto grassottella, con l’andatura da campagnola. Niente lasciava intuire le sue doti e la sua passione politica. Niente, tranne quello sguardo che ti lanciava dritto in faccia come una pietra.

Ismaïl Kudseyi lo sapeva: Azer e Sema sarebbero stati ben più che dei semplici borsisti, più che degli anonimi soldati al servizio delle sue idee di destra e dei suoi traffici criminali. Sarebbero stati, l’uno e l’altra, i suoi protetti, i suoi figli adottivi. Ma loro non avrebbero dovuto saperne nulla. Li avrebbe aiutati a distanza, nell’ombra.

Gli anni erano passati e i due eletti avevano mantenuto le loro promesse. A venticinque anni Azer si era laureato in fisica e chimica all’Università di Istanbul, poi, due anni dopo, aveva preso un diploma di commercio internazionale a Monaco. Sema, a diciassette anni, era uscita dal liceo Galatasaray con il massimo dei voti, ed era entrata nell’università inglese di Istanbul; parlava già quattro lingue: il turco, il francese, l’inglese e il tedesco.

I due studenti erano comunque dei militanti politici, dei baskan in grado di guidare dei gruppi locali, ma Kudseyi non voleva spingere troppo su quel fronte. Per le sue creature aveva progetti più ambiziosi, progetti che riguardavano direttamente il suo narco-impero. Anche perché voleva vederci chiaro in alcune faccende. Come ad esempio il comportamento di Azer, che mostrava tendenze assai pericolose. Nel 1986, mentre era ancora al liceo francese, aveva sfigurato un compagno nel corso di una rissa. Le gravi ferite che gli aveva inferto non erano il frutto di una rabbia incontrollata, ma al contrario denotavano una calma spaventosa. Kudseyi aveva dovuto impiegare tutta la sua influenza perché il ragazzo non venisse arrestato.

Due anni dopo, alla facoltà di scienze, era stato sorpreso mentre faceva a pezzi dei topi ancora vivi. Inoltre, alcune studentesse lo avevano denunciato per oscenità verbali. E qualche tempo dopo, quelle stesse studentesse, nello spogliatoio della piscina, avevano trovato cadaveri di gatti sventrati e arrotolati nei loro indumenti intimi.

Kudseyi era affascinato dalle pulsioni criminali di Azer e già pensava a come sfruttarle. Ma ancora ignorava quale fosse la loro vera natura. Fu un banale episodio a chiarirgliela. Mentre studiava a Monaco, Akarsa era stato ricoverato per una crisi di diabete. I medici tedeschi avevano proposto una terapia originale: sedute in una camera iperbarica per favorire la distribuzione dell’ossigeno nel suo organismo.

Nel corso di queste sedute, Azer era stato colto dall’«ebbrezza della profondità» e si era messo a delirare: aveva urlato la sua voglia di uccidere le donne, «tutte le donne!» di torturarle, di sfigurarle fino a riprodurre le maschere antiche che gli parlavano nel sonno. Una volta tornato nella sua stanza, malgrado i sedativi, aveva continuato il suo delirio, incidendo sul muro vicino al letto, degli abbozzi di volti. Figure mutilate, col naso tagliato e le ossa frantumate, e intorno a esse aveva attaccato, con il suo stesso sperma, i capelli che si era strappato dal capo.

I medici tedeschi avevano avvertito la fondazione turca che pagava le spese mediche del giovane. Era arrivato Kudseyi in persona. Gli psichiatri gli avevano spiegato la situazione e gli avevano proposto di internarlo immediatamente. Kudseyi aveva annuito, ma poi, la settimana seguente, aveva fatto tornare Azer in Turchia. Era certo di poter controllare e sfruttare la follia del suo protetto.

Sema Hunsen poneva invece problemi d’altro tipo. Solitaria, riservata, ostinata, cercava in continuazione di uscire dal ruolo che la fondazione aveva predisposto per lei. Una volta l’avevano arrestata alla frontiera bulgara. Un’altra volta all’aeroporto Atatürk di Istanbul. La sua indipendenza, la sua voglia di libertà erano diventate patologiche: un’idea di fuga ossessiva e violenta. Anche nel suo caso, Kudseyi aveva pensato di convenire il difetto in vantaggio. Ne avrebbe fatto una nomade, una trafficante d’élite.

A metà degli anni Novanta, Azer Akarsa, brillante uomo d’affari, era diventato un Lupo, nel senso occulto del termine. Attraverso i suoi luogotenenti, Kudseyi gli aveva affidato numerose missioni di intimidazione e di scorta e lui le aveva portate a termine brillantemente. Sapeva che avrebbe valicato senza timore la linea sacra, quella dell’omicidio. Akarsa amava il sangue. Troppo, a dire il vero.

C’era poi un altro problema. Akarsa aveva fondato un proprio gruppo politico, un gruppo di dissidenti le cui posizioni erano molto più radicali e violente di quelle del partito ufficiale. Azer e i suoi compagni non facevano mistero del loro disprezzo per i vecchi Lupi grigi che si erano comprati una parvenza di rispettabilità e ancor più per i nazionalisti mafiosi come Kudseyi. Il vecchio sentiva crescere in sé l’amarezza: suo figlio era diventato un mostro. Sempre meno controllabile…

Per consolarsi, si era volto verso Sema Hunsen. Ma «volto» non era il termine giusto, perché lui non l’aveva mai vista e, da quando si era laureata, lei era, per così dire, scomparsa. Sapendosi in debito con l’organizzazione, Sema aveva accettato le missioni di trasporto, ma aveva imposto che tra lei e i suoi mandanti ci fosse sempre una netta separazione.

A Kudseyi tutto ciò non piaceva. Tuttavia, la droga era sempre arrivata a destinazione. Per quanto tempo quel contratto avrebbe funzionato? Comunque fosse andata a finire, la misteriosa personalità di Sema lo affascinava più che mai, non cessava di seguire la sua scia, di godere dei suoi successi…

Ben presto, Sema divenne per i Lupi grigi una leggenda. Sembrava diluirsi, letteralmente, in un labirinto di frontiere e di lingue. Su di lei circolavano molte voci. Alcuni pretendevano di averla vista in Afghanistan, ma portava il velo. Altri dicevano di averle parlato in un laboratorio clandestino, alla frontiera con la Siria, ma non si era tolta la mascherina chirurgica. Altri ancora giuravano di aver trattato con lei sulle coste del Mar Nero, ma nel buio di un locale notturno, lacerato solo dai lampi delle luci stroboscopiche.

Kudseyi sapeva che mentivano tutti: nessuno aveva mai visto Sema. O quanto meno la Sema delle origini. Era diventata una creatura astratta, che cambiava identità, stile e tecniche a seconda dell’obiettivo. Un essere mobile che possedeva una sola materialità, quella della droga che trasportava.

Sema non lo sapeva, ma in realtà lei non era mai stata sola. Al suo fianco c’era sempre stato il vecchio. Tutti i carichi che aveva trasportato erano di Kudseyi e a ogni carico i suoi uomini la sorvegliavano a distanza. Ismaïl Kudseyi era dentro di lei.

A sua insaputa, lui l’aveva fatta sterilizzare quando era stata ricoverata per un’appendicite acuta. Legatura delle tube: una mutilazione irreversibile che però non cambia il ciclo ormonale. I medici avevano lavorato con piccoli strumenti ottici infilati nell’addome attraverso minuscoli fori: niente tracce, niente cicatrici…

Kudseyi non aveva avuto altra scelta. I suoi combattenti erano unici. Non dovevano riprodursi. Solo Kudseyi poteva creare, formare o uccidere i suoi soldati. Ciononostante, l’aver inferto quella mutilazione lo turbava profondamente, come se avesse infranto un tabù, come se si fosse avventurato in un territorio proibito. Spesso, nei suoi incubi, vedeva delle mani bianche che stringevano delle viscere. Confusamente, sentiva che la sua catastrofe sarebbe discesa da quel segreto organico…

Ora, Kudseyi aveva ammesso la propria sconfitta di fronte ai suoi due figli. Azer Akarsa era diventato un assassino psicopatico a capo di una cellula di terroristi che si credevano i soli eredi degli antichi turchi e che progettavano attentati contro lo Stato e contro i Lupi grigi che avevano tradito la causa. Chissà, forse sulla loro lista c’era lo stesso Kudseyi. Quanto a Sema, lei era più che mai una messaggera invisibile, paranoica e schizofrenica al tempo stesso, che aspettava solo l’occasione buona per scappare.

Aveva saputo solo creare due mostri.

Due lupi arrabbiati pronti a saltargli alla gola.

E tuttavia, aveva continuato ad affidargli missioni importanti, sperando che non tradissero un clan che accordava loro tanta fiducia. Soprattutto, sperava che il destino non fosse così crudele da infliggergli una tale punizione, proprio a lui che aveva investito tutto in quell’opera.

Ecco perché, la primavera precedente, quando aveva dovuto organizzare il trasporto che avrebbe sancito un’alleanza storica, aveva pensato a un solo nome: Sema.

Ecco perché, dopo che era avvenuto l’inevitabile e che la traditrice era sparita con la droga, aveva pensato a un solo assassino: Azer.

Non avendo mai avuto il coraggio di eliminarli, allora li aveva lanciati l’uno contro l’altra pregando che si annientassero a vicenda. Ma niente aveva funzionato come previsto. Sema restava irreperibile. Azer era riuscito solo a provocare una sequenza di massacri. Contro di lui c’era un mandato di cattura internazionale e il cartello criminale di Kudseyi lo aveva già condannato a morte: Azer era diventato troppo pericoloso.

E all’improvviso, il quadro era stato di nuovo sconvolto.

Sema era riapparsa.

E chiedeva un incontro.

Era ancora lei che conduceva la partita…

Contemplò un’ultima volta il suo riflesso nello specchio e, di colpo, scoprì un altro uomo. Una vecchia carcassa con le ossa taglienti come coltelli. Un predatore pietrificato, proprio come quello scheletro preistorico che avevano appena trovato in Pakistan…

Si infilò il pettine in tasca e tentò di sorridere alla propria immagine.

Ebbe l’impressione di salutare un teschio dalle orbite vuote.

Si diresse verso la scala e ordinò alle guardie:

«Geldiler. Beni yalniz birakin.» Loro sono là. Lasciatemi solo.

75.

La stanza che lui chiamava «sala di meditazione» era uno spazio di centoventi metri quadri, senza separazioni, con un parquet di legno grezzo. Avrebbe potuto benissimo chiamarla «sala del trono». Su una pedana rialzata c’era un divano color guscio d’uovo, coperto con cuscini trapunti d’oro. Di fronte, un tavolino. Alcune lampade proiettavano archi di luce fioca sulle pareti bianche lungo le quali erano allineati bauli di legno lavorato, come tante ombre solide, come segreti incrostati di madreperla. Nient’altro.

Kudseyi amava quel locale spoglio, quel vuoto quasi mistico che sembrava pronto a ricevere le preghiere di un sufi.

Attraversò la sala, salì i tre scalini della pedana e si avvicinò al tavolino. Posò il bastone e prese la sua solita caraffa piena di ayran, una specie di frappé fatto con acqua, yogurt e sale. Se ne versò un bicchiere e lo bevve in un colpo, assaporando il senso di freschezza che si diffondeva nel suo corpo. Poi si mise ad ammirare il suo tesoro.

Ismaïl Kudseyi possedeva una delle più belle collezioni di kilim di tutta la Turchia, ma il vero capolavoro era conservato lì, appeso sopra il divano.

Quell’antico tappeto, di un metro quadro appena, bruciava d’un rosso scuro, bordato di giallo, del colore dell’oro, del grano e del pane cotto. Al centro si stagliava un rettangolo tra il blu e il nero, la tinta sacra che evocava il cielo e l’infinito. All’interno, una grande croce ornata con corna di ariete, simbolo di virilità e di virtù guerresca. Al di sopra, come a proteggere e coronare la croce, un’aquila con le ali aperte. Lungo il bordo si distingueva l’albero della vita e poi il papavero, fiore della gioia e della felicità, l’hashish, pianta magica del sonno eterno…

Kudseyi avrebbe potuto passare ore a contemplare quel capolavoro che sembrava riassumere il suo intero universo di guerra, di droga e di potere. E poi, amava quel mistero che si celava in filigrana, quell’enigma di lana che l’aveva da sempre affascinato. Ancora una volta si pose quella domanda: «Dov’è il triangolo? Dov’è la buona sorte?»

Come prima cosa ammirò la sua metamorfosi.

La ragazza grassottella era diventata una bruna longilinea, una giovane moderna: seno piccolo e fianchi stretti. Indossava un cappotto nero trapuntato, un paio di pantaloni anch’essi neri e degli stivaletti a punta quadra. Una vera parigina.

Ma soprattutto, era affascinato dalla trasformazione del volto.

Quante operazioni, quante ferite erano state necessarie per ottenere un simile risultato? Quel viso irriconoscibile gli gridava la sua rabbiosa voglia di scappare, di sfuggire al proprio destino. Una voglia che si leggeva in fondo ai suoi occhi blu scuri che spuntavano appena da sotto le palpebre pigre e che respingevano l’interlocutore come un intruso, come una presenza spiacevole. Sì, malgrado quei lineamenti trasformati, in quegli occhi riconosceva la durezza primitiva del suo popolo nomade, un’energia feroce, nata dai venti e dal bruciare del sole.

Di colpo, si sentì vecchio. E finito.

Una mummia bruciata, con le labbra di polvere.

Seduto sul divano, la lasciò avanzare. Lei era stata perquisita. I suoi vestiti erano stati controllati, palpati, analizzati, persino il suo corpo era stato passato ai raggi X. Ora, ai suoi fianchi stavano due guardie del corpo, con l’MP-7 in pugno, la sicura tolta, il colpo in canna. Azer era rimasto indietro, anche lui armato.

Tuttavia, Kudseyi provava un’apprensione confusa. Il suo istinto di guerriero gli suggeriva che, malgrado la sua apparente vulnerabilità, quella donna era pericolosa. Avvertiva un senso di nausea. Che cosa aveva in testa Sema? Perché gli si era consegnata?

Lei contemplava il kilim appeso al muro. Decise di parlarle in francese, per dare un tono più solenne all’incontro:

«È uno dei più antichi tappeti del mondo. L’hanno scoperto degli archeologi russi dentro un blocco di ghiaccio, al confine tra la Siberia e la Mongolia. Sicuramente ha almeno duemila anni. Si pensa che sia un manufatto unno. La croce. L’aquila. Le corna d’ariete. Tutti simboli virili. Doveva trovarsi nella tenda di un capo clan.»

Sema rimase muta. Uno spillo di silenzio.

«Un tappeto da uomo», insistette, «che però, come tutti i kilim dell’Asia centrale, è stato tessuto da una donna.»

Fece una pausa, poi riprese:

«Penso spesso alla donna che lo ha fabbricato: una madre, esclusa dal mondo dei guerrieri, che però ha saputo imporre la sua presenza persino nella tenda del Khan.»

Sema era immobile. Le guardie le erano sempre più vicine.

«A quell’epoca, la tessitrice nascondeva sempre un triangolo tra gli altri motivi ornamentali, serviva a proteggere il suo tappeto dal malocchio. Mi piace quest’idea: una donna tesse pazientemente un quadro virile, pieno di motivi guerreschi, ma da qualche parte nasconde un segno materno. Sei in grado di trovare il triangolo portafortuna in questo kilim?»

Nessuna risposta, nessun movimento da parte di Sema.

Prese la caraffa all’ayran, riempì lentamente il bicchiere, e ancora più lentamente bevve.

«Non lo vedi?» domandò di nuovo. «Non ha importanza. Questa storia mi ricorda la tua, Sema. Una donna rinchiusa in un mondo di uomini che nasconde un oggetto che interessa a tutti. Un oggetto fatto per portare fortuna e prosperità.»

Su quelle ultime sillabe, la voce si spense, ma poi tornò a esplodere con violenza:

«Dov’è il triangolo, Sema? Dov’è la droga?»

Nessuna reazione. Le parole scivolavano su di lei, come gocce di pioggia. Non era neanche sicuro che lo stesse ascoltando. Ma all’improvviso, lei rispose:

«Non lo so.»

Lui tornò a sorridere: Sema voleva negoziare.

«In Francia sono stata arrestata. La polizia mi ha fatto subire un condizionamento psichico. Un lavaggio del cervello», riprese Sema. «Non mi ricordo del mio passato. Non so dove sia la droga. Non so neppure chi sono.»

Kudseyi cercò Azer con lo sguardo: anche lui sembrava stupefatto.

«E pensi che io possa credere a una storia così assurda?»

«È stato un lungo trattamento», proseguì lei con il suo tono calmo. «Una suggestione attuata per mezzo di un prodotto radioattivo. Quasi tutti quelli che hanno partecipato all’esperimento sono stati uccisi o arrestati. Potete verificarlo, è tutto scritto sui giornali francesi di ieri e del giorno prima.»

Kudseyi girava intorno alla questione con molta diffidenza.

«La polizia ha recuperato l’eroina?»

«Non sapevano neppure che c’era in ballo un carico di droga.»

«Cosa?»

«Non sapevano chi ero. Hanno scelto me perché mi hanno trovata in stato di choc nell’hammam di Gurdilek, dopo l’incursione di Azer. Hanno cancellato completamente la mia memoria, senza scoprire il mio segreto.»

«Ti ricordi parecchie cose per essere una a cui hanno tolto la memoria.»

«Ho indagato.»

«Come fai a conoscere il nome di Azer?»

Sema abbozzò un sorriso, breve come lo scatto di una macchina fotografica.

«Quel nome ormai lo sanno tutti. Basta leggere i giornali di Parigi.»

Kudseyi si zittì. Avrebbe potuto porle altre domande, ma ormai si era convinto. Non era certo arrivato fino a quell’età senza comprendere quella legge ineludibile: più i fatti parevano assurdi, più c’erano probabilità che fossero veri. Eppure, continuava a non capire il comportamento della giovane donna:

«Perché sei tornata?»

«Volevo annunciare la morte di Sema. Lei è morta assieme ai miei ricordi.»

Kudseyi scoppiò a ridere:

«E speri che ti lasci andare così?»

«Non spero nulla. Ormai sono un’altra e non voglio più continuare a scappare per conto di un’altra donna.»

Lui si alzò e fece qualche passo, poi puntò il bastone verso di lei:

«Devi davvero aver perso la memoria per venire da me a mani vuote.»

«Non c’è più la colpevole. Non c’è più il castigo.»! Kudseyi si sentì invadere da uno strano calore che gli correva lungo le vene. Incredibile: era tentato di risparmiarla. Sarebbe stato un epilogo possibile, forse il più originale, il più raffinato. Lasciare che la nuova creatura prendesse il volo… Dimenticare tutto… Ma, fissandola negli occhi, riprese:

«Non hai più volto. Non hai più passato. Non hai più nome. Sei diventata una sorta di astrazione. Tutto questo è vero. Ma hai conservato la capacità di soffrire. Laveremo il nostro onore nel letto del tuo dolore…»

A Ismaïl Kudseyi mancò il fiato.

La donna tendeva davanti a lui le sue mani, il palmo all’insù, come in segno di offerta.

E in ogni palmo c’era un disegno tracciato con l’henné. Un lupo ululante sotto quattro lune. Era il segno di riconoscimento. Il simbolo utilizzato dai membri della nuova filiera. Era stato lui stesso ad aggiungere alle tre lune della bandiera ottomana una quarta che simboleggiava la Mezzaluna d’Oro.

Kudseyi abbandonò il bastone e, indicando Sema, urlò:

«Lei sa tutto. LEI SA TUTTO!»

Sema seppe approfittare di quel momento di stupore. Balzò alle spalle di una delle due guardie e la cinturò brutalmente. La sua mano destra si chiuse sulle dita dell’uomo e il grilletto dell’MP-7 fece partire una raffica in direzione della pedana.

Ismaïl Kudseyi sentì che l’altra guardia lo afferrava e lo spingeva ai piedi del divano. Rotolò a terra e vide il suo difensore che volteggiava tra gli schizzi di sangue, mentre il mitragliatore sventagliava lo spazio circostante. Le scintille si incrociavano nell’aria, il soffitto si riempiva di nuvole di gesso. Il primo uomo, quello che Sema usava come scudo, crollò proprio nel momento in cui lei gli strappava l’arma di mano.

Kudseyi cercò Azer, ma non lo vide.

Sema si gettò dietro uno dei bauli e lo rovesciò per mettersi al riparo. In quel momento entrarono nella sala altri due uomini. Non avevano ancora fatto un passo che già erano stati colpiti: il suono sordo della pistola della donna faceva da contrappunto alle mitragliate delle armi automatiche.

Ismaïl Kudseyi tentò di infilarsi dietro al divano, ma non riuscì a muoversi: il suo corpo non eseguiva più gli ordini impartiti dal cervello. Era bloccato al suolo, inerte. Capì la verità: era stato colpito.

Sulla soglia apparvero altre tre guardie e spararono a turno, nascondendosi subito dietro lo stipite. Di fronte alle fiammate dei fucili, Kudseyi chiudeva gli occhi, ma gli spari non li sentiva più: gli sembrava di avere il cervello pieno d’acqua.

Si rannicchiò, con le dita che stringevano un cuscino. Una fitta dolorosa lo attraversò all’altezza del ventre. Guardò in basso: i suoi visceri erano scoperti e gli pendevano tra le gambe.

Tutto si fece nero. Quando tornò in sé, vide Sema, alla base degli scalini, che ricaricava la pistola al riparo del baule. Si sporse verso il bordo della pedana e tese un braccio. Una parte di lui non riusciva a credere a quel gesto: stava chiedendo aiuto.

Stava chiedendo aiuto a Sema Hunsen!

Lei si girò. Con le lacrime agli occhi, Kudseyi agitò la mano. Sema esitò un secondo, poi salì gli scalini, piegata sotto i colpi che non cessavano. Il vecchio ebbe un gemito di riconoscenza. Porse la sua mano scheletrica, rossa, fremente, ma la donna non la afferrò.

Si alzò e puntò la pistola con uno sforzo di tutto il corpo, come se stesse tendendo un arco.

In una bianchezza accecante, Ismaïl Kudseyi comprese perché Sema Hunsen era tornata a Istanbul.

Solo per ammazzarlo.

E per tagliare l’odio alla fonte.

E forse, anche per vendicare un albero della vita.

Un albero al quale lui aveva fatto legare le radici.

Svenne di nuovo. Quando riaprì gli occhi, Azer e Sema stavano lottando al suolo, in mezzo alle pozzanghere di sangue. Strette, pugni, calci, ma non un grido. Solo l’ostinazione soffocata dell’odio. La rabbia di corpi che volevano sopravvivere.

Azer e Sema.

La sua malefica progenie.

Sema cercò la propria arma, ma Azer la schiacciò a terra con il suo peso. Le premette la testa contro il pavimento e, con l’altra mano, estrasse il coltello. Lei si sottrasse alla presa e si girò sul dorso, ma lui, con la lama, la colpì al ventre. Sema sputò una parola soffocata, sillabe di sangue.

Kudseyi giaceva ancora sulla pedana e vedeva tutto. I suoi occhi, come lente valve, battevano il ritmo delle sue arterie. Pregò di morire prima della fine di quel combattimento, ma non poté impedirsi di osservarlo.

La lama si abbatté, poi si alzò e si abbatté ancora, indugiando in fondo alle carni lacerate.

Sema cercò di inarcare il corpo. Azer la prese per le spalle e la schiacciò a terra. Buttò via il coltello e infilò il braccio dentro le ferite aperte.

Più in là, Ismaïl Kudseyi sprofondava nelle sabbie mobili della morte.

Qualche secondo prima della fine, vide delle mani scarlatte tendersi verso di lui, cariche del loro bottino…

Il cuore di Sema tra le dita di Azer.

EPILOGO

Alla fine di aprile, nell’Anatolia orientale le nevi d’altitudine cominciano a sciogliersi e liberano il cammino fino alla cima più elevata dei monti Tauri, il Nemrut Daği. La stagione turistica non è ancora iniziata e il luogo rimane nella sua perfetta solitudine.

Dopo ogni missione, l’uomo attendeva quel momento per ritornare dai suoi dei di pietra.

Il giorno prima, il 26 aprile, era decollato dall’aeroporto di Istanbul ed era atterrato nel tardo pomeriggio ad Adana. Si era riposato qualche ora in un hotel vicino all’aeroporto, poi, in piena notte, a bordo di un’auto noleggiata, aveva ripreso il viaggio.

Ora stava guidando verso oriente, in direzione di Adiyaman, a quattrocento chilometri da lì. Tutto intorno, ampi pascoli dalle ondulazioni leggere. Quell’oscillare d’ombre rappresentava la prima tappa, il primo stadio della purezza. Gli tornò alla mente l’inizio di una poesia che, da giovane, aveva scritto in turco antico: «Ho solcato i mari del verde…»

Alle sei e trenta, dopo che aveva superato la città di Gaziantep, il paesaggio cambiò. Nelle prime luci del giorno, apparve la catena dei monti Tauri. I pascoli fluidi lasciarono il posto a deserti pietrificati, all’elevarsi di picchi scoscesi e rossi, mentre più in là si aprivano crateri come girasoli essiccati.

Di fronte a quello spettacolo, di solito i viaggiatori provavano un’apprensione, un’angoscia confusa. Lui, al contrario, amava quei toni d’ocra e di giallo, più forti e più crudi del blu dell’alba. O, ritrovava le proprie tracce, l’aridità che lo aveva forgiato. Era il secondo stadio della purezza. Si ricordò il seguito della sua poesia:

«Ho solcato i mari del verde,
Ho abbracciato pareti di pietra, orbite d’ombra…»

Quando si fermò ad Adiyaman, il sole stava per spuntare. Alla stazione di servizio della città, riempì il serbatoio della sua macchina, mentre il ragazzo puliva il parabrezza. Poi guardò, intorno a sé, le macchie di ferro, le case color del bronzo disperse fino a piedi della montagna.

Lungo il viale principale, vide i depositi Matak, i suoi depositi, dove la frutta sarebbe stata immagazzinata a tonnellate, per essere trattata, conservata ed esportata. Non provò alcun piacere. Quelle ambizioni ordinarie non lo avevano mai interessato. Per contro, sentiva l’imminenza della montagna, la prossimità dei terrazzamenti…

Cinque chilometri più in là, lasciò la strada principale. Niente più asfalto, niente più cartelli indicatori. Solo una sterrata tagliata nella montagna che serpeggiava fino alle nuvole. In quel momento ritrovò la sua vera terra natale. I pendii di polvere color porpora, le erbe alte, le pecore grigie e nere che si spostavano appena al suo passaggio.

Oltrepassò il suo villaggio. Incrociò donne dal foulard ornato d’oro. Volti di cuoio rosso, cesellati come vassoi di rame. Creature selvagge, indurite dalla terra, maturate nella preghiera e nella tradizione, creature come sua madre. Tra quelle donne, c’erano forse delle persone della sua stessa famiglia…

Ancora più in alto, scorse dei pastori accucciati lungo la scarpata, avvolti in vesti troppo grandi. Si rivide, venticinque anni prima, seduto al loro posto. Si ricordava ancora di quel maglione che gli aveva servito da mantello, con le maniche troppo lunghe, dalle quali le sue mani spuntavano ogni anno un po’ di più. Le sue maglie erano state il solo calendario che aveva avuto.

Sentì le sue dita fremere di antiche sensazioni. Il contatto con il suo cranio rasato, quando si proteggeva dalle botte di suo padre. La dolcezza dei frutti secchi quando, tornando dai pascoli, lasciava che la sua mano sfiorasse la superficie dei grossi sacchi del droghiere. I malli di noce che raccoglieva d’autunno e che gli macchiavano il palmo per tutto l’inverno…

Penetrò nella cappa di nuvole.

Tutto divenne bianco, ovattato, umido. La strada cominciava a essere bordata di mucchi di neve. Una neve particolare, impregnata di sabbia, luminescente e rosa.

Prima di iniziare l’ultimo tratto, mise le catene. Avanzò sobbalzando ancora per un’ora. I cumuli di neve ammassati dal vento brillavano sempre di più e assumevano la forma di corpi languidi. L’ultima tappa verso la purezza.

«Ho accarezzato i pendii di neve,
spolverati di sabbia rosa,
gonfi come corpi di donna…»

Infine, individuò il parcheggio, ai piedi della roccia.

In alto, la montagna rimaneva invisibile, velata di nebbia.

Scese dall’auto e annusò l’aria. Il silenzio della neve pesava su quel luogo come un blocco di cristallo.

Si riempì i polmoni d’aria gelata. Era a più di duemila metri, doveva salirne altri trecento. In previsione dello sforzo, sgranocchiò del cioccolato, poi, con le mani in tasca, si mise in marcia.

Superò il capanno dei guardiani, che rimaneva chiuso fino a maggio, poi seguì le tracce di pietra che emergevano appena dalla neve. L’ascensione divenne difficile. Dovette fare una deviazione per evitare il tratto più scosceso del pendio. Avanzava di sbieco, appoggiando la sinistra alla parete e sforzandosi di non scivolare nel vuoto. La neve scricchiolava sotto i suoi passi.

Cominciava ad avere il fiato grosso. Arrivò alla prima terrazza, quella a est, ma non vi si attardò. Lì, le statue erano troppo erose. Si concesse solo qualche istante di riposo sull’«altare del fuoco»: una piattaforma di pietra, verde come il bronzo, che offriva una vista a centottanta gradi sui monti Tauri.

Il sole stava infine rendendo grazie al paesaggio. Al fondo della valle si distinguevano delle zone rosse, macchie gialle e bocche di smeraldo, vestigia delle fertili pianure sulle quali si fondava la prosperità dei regni antichi. La luce che si posava su quei crateri scavava delle pozze bianche, splendenti. Altrove, quella stessa luce sembrava intercettare la polvere e scomporre ogni dettaglio in miliardi di pagliuzze luccicanti. Il sole giocava con le nuvole e sulle montagne passavano ombre come espressioni su un volto.

Fu preso da un’emozione indicibile. Non riusciva a convincersi che quelle terre erano le «sue» terre, che apparteneva lui stesso a quella bellezza smisurata. Gli sembrava di vedere le antiche orde avanzare all’orizzonte, le orde dei primi turchi che avevano dato potenza e civiltà all’Anatolia.

Guardando meglio, vide che non si trattava né di uomini, né di cavalli, ma di lupi. Mute di lupi argentati che si confondevano con il riverbero della terra. Lupi divini, pronti a unirsi ai mortali per dare origine a una razza di guerrieri perfetti…

Continuo il cammino, in direzione del versante ovest. La neve si faceva più spessa e più leggera, vellutata. Guardò indietro le proprie orme e gli parvero come una scrittura misteriosa che serviva a tradurre quel silenzio. Infine, raggiunse la seconda terrazza, là dove si innalzavano i Volti di Pietra.

Erano cinque. Cinque teste colossali alte più di due metri. In origine erano appoggiate su corpi altrettanto colossali, in cima al tumulo che costituiva la tomba vera e propria, ma i terremoti le avevano abbattute. Gli uomini le avevano rialzate e ora esse sembravano aver acquistato forza dal suolo, pareva che gli stessi contrafforti delle montagne fossero diventati le loro spalle.

Al centro c’era Antioco I re di Commagene, che aveva voluto essere seppellito in mezzo a quegli dei meticci, greci e persiani al tempo stesso, frutto del sincretismo tra quelle civiltà perdute. Al suo fianco, c’era Zeus-Ahura Mazdah, il re degli dei, che si incarnava nel fulmine e nel fuoco. Dall’altra parte, Apollo-Mitra, che imponeva la santificazione degli uomini nel sangue dei tori. E poi Tyche, che con la sua corona di spighe e di frutti simboleggiava la fertilità del regno…

Malgrado la loro potenza, quei volti avevano espressioni giovanili: bocca a cuore, barba arricciata… E soprattutto i grandi occhi bianchi che sembravano sognare. Persino i guardiani del santuario, il Leone, re degli animali, e l’Aquila, signora dei cieli, avvolti in una coltre di neve, contribuivano all’idea di mansuetudine che emanava da quel corteo.

Non era ancora l’ora giusta: la foschia era troppo fitta perché il fenomeno avesse luogo. Strinse la sciarpa e si mise a pensare al sovrano che aveva fatto erigere quel sepolcro. Antioco Epifano I. Il suo regno era stato così prospero che si era sentito benedetto dagli dei, fino a considerarsi uno di loro e a farsi inumare in cima a quel monte sacro.

Anche Ismaïl Kudseyi si era creduto un dio, uno che ha diritto di vita e di morte sui propri sudditi. Ma aveva dimenticato la cosa principale: egli non era che uno strumento della causa, un anello nella catena del Touran. Ignorando quell’aspetto, lui aveva tradito sé stesso e i Lupi. Aveva macchiato le leggi di cui un tempo era stato il rappresentante. Era diventato un uomo degenerato, vulnerabile. Ecco perché Sema aveva potuto abbatterlo.

Sema. L’amarezza gli seccò improvvisamente la bocca. Era riuscito a eliminarla e tuttavia non aveva trionfato. Tutta quella caccia era stata un grande casino, un fallimento che aveva cercato di nascondere sacrificando la sua preda secondo le regole ancestrali. Aveva dedicato il suo cuore agli dei di pietra del Nemrut Daği, quegli dei che aveva da sempre onorato, scolpendo i loro lineamenti nelle carni delle sue vittime.

La nebbia si dissipò.

Si inginocchiò nella neve e attese.

Nel giro di qualche istante, la foschia si sarebbe alzata e avrebbe avvolto le teste giganti, portandole con sé nella sua leggerezza, muovendole del suo stesso movimento e dando loro la vita. I volti avrebbero perso di definizione e avrebbero preso a galleggiare sopra la neve. Allora sarebbe stato impossibile non pensare a una foresta. Impossibile non vederli avanzare… Antioco in testa, poi Tyche e gli altri Immortali al seguito, circondati, accarezzati, fumigati dai vapori del ghiaccio. Infine, in quel momento di sospensione, le loro bocche si sarebbero aperte e avrebbero lasciato sfuggire le parole.

Da bambino aveva assistito spesso a quel prodigio. Aveva imparato a captare quel mormorio, a comprendere quel linguaggio. Minerale, antico, incomprensibile per quelli che non erano nati là, ai piedi di quelle montagne.

Chiuse gli occhi.

Pregò perché i giganti gli accordassero la loro clemenza. E sperò in un nuovo oracolo: parole di nebbia che gli rivelassero il proprio avvenire. Cosa avrebbero suggerito oggi i suoi mentori di pietra?

«Resta immobile.»

Una voce di donna.

Riuscì a girare la testa e scorse una lunga sagoma, vestita di un parka e di pantaloni aderenti neri. I suoi capelli, anch’essi neri, spuntavano da sotto il berretto in due ruscelli di riccioli che cadevano sulle spalle.

Era pietrificato. Come aveva fatto quella donna a seguirlo fin lì?

«Chi sei?» chiese lui in francese.

«Il mio nome non ha importanza.»

«Chi ti manda?»

«Sema.»

«Sema è morta.»

Non poteva sopportare di essere colto di sorpresa, così, nel segreto del suo pellegrinaggio. La voce continuò:

«Sono la donna che è rimasta al suo fianco a Parigi. Quella che le ha permesso di sfuggire alla polizia, di ritrovare la memoria e di tornare in Turchia per affrontarti.»

L’uomo annuì. Sì, fin dall’inizio mancava qualcosa a quella storia. Da sola, Sema Hunsen non avrebbe potuto sfuggirgli così a lungo: qualcuno doveva averla aiutata. Una domanda gli attraversò le labbra, con un’impazienza che rimpianse.

«Dov’è la droga?»

«In un cimitero. Dentro le urne cinerarie. Un po’ di polvere bianca, in mezzo alla polvere grigia…»

Lui scosse di nuovo la testa. Riconosceva l’ironia di Sema, che aveva esercitato il suo mestiere come se fosse stato un gioco. Tutto suonava corretto, un vero tintinnio di cristallo.

«Come hai fatto a trovarmi?»

«Sema mi ha scritto una lettera. Mi ha spiegato tutto. Le sue origini, la sua formazione, la sua specialità. Mi ha anche dato i nomi dei suoi vecchi amici, i suoi nemici di oggi.»

Lui notò che in quelle parole c’era una sorta d’accento, una maniera strana di prolungare le sillabe finali. Osservò un istante gli occhi bianchi delle statue: non si erano ancora svegliate.

«Perché ti immischi in tutto questo?» domandò. «La storia è chiusa. Si è chiusa senza di te.»

«È vero, sono arrivata troppo tardi. Ma posso ancora fare qualcosa per Sema.»

«Cosa?»

«Impedirti di proseguire la tua mostruosa caccia.»

L’altro la guardò e sorrise malgrado la pistola puntata. Era una donna alta, bruna, molto bella. Il suo viso era pallido, segnato da infinite rughe che però, invece di attenuare quella bellezza, la rendevano più netta. Quell’apparizione gli aveva tolto il fiato. Fu lei che riprese:

«A Parigi ho letto gli articoli sugli omicidi di tre donne. Ho studiato le mutilazioni che tu hai inferto loro. Sono psichiatra. Potrei dare dei nomi complicati alle tue ossessioni, al tuo odio per le donne… Ma a cosa servirebbe?»

L’uomo capì che era venuta per ammazzarlo, che lo aveva seguito fin lì per abbatterlo. Morire per mano di una donna: era impossibile. Si concentrò sulle teste di pietra. Ben presto la luce avrebbe dato loro la vita. I Giganti gli avrebbero detto come agire?

«E così mi hai seguito fin qui», disse per guadagnare tempo.

«A Istanbul non ho avuto problemi per localizzare la tua società. Sapevo che, prima o poi, ci saresti andato, malgrado il mandato di cattura, malgrado la tua situazione. Quando alla fine sei comparso, circondato dalle tue guardie del corpo, non ti ho più mollato. Per giorni ti ho seguito, spiato, osservato. E ho capito che non avevo alcuna possibilità di avvicinarti e ancor meno di sorprenderti…»

Dalle sue parole filtrava una strana determinazione. Quella donna cominciava a interessarlo. Le gettò un’altra occhiata. Attraverso il vapore del suo fiato, un altro dettaglio lo colpì. La sua bocca, d’un rosso troppo vivo, reso quasi viola dal freddo. All’improvviso, quel colore ravvivò il suo odio per le donne. Come le altre, anche lei era un’immagine blasfema. Una tentatrice, sicura del proprio potere…

«Ed è allora che è avvenuto il miracolo» proseguì lei. «Un mattino sei uscito dal tuo nascondiglio. Solo. E sei andato all’aeroporto… A me è bastato imitarti e comprare un biglietto per Adana. Ho immaginato che tu andassi a visitare dei laboratori clandestini o un campo d’addestramento. Ma perché partire solo? Ho pensato a una famiglia, ma non è il tuo genere. L’unica tua famiglia è una muta di lupi. E allora cosa? Nella sua lettera, Sema ti descriveva come un cacciatore venuto dall’Est, dalla regione di Adiyaman, e ossessionato dall’archeologia. In attesa della partenza, ho comprato delle carte e delle guide. Così ho scoperto il Nemrut Daği e le sue statue. Con le loro fessure nella pietra, mi hanno ricordato dei volti sfigurati. Ho capito che quelle sculture erano il tuo modello. Il modello che dava forma alla tua demenza. Stavi andando a cercare il raccoglimento in quel santuario inaccessibile, stavi per incontrare la tua follia.»

Lui ritrovò la calma. Sì, apprezzava davvero la singolarità di quella donna. Era riuscita a prenderlo nel suo stesso territorio. Era entrata, per così dire, in sintonia con il suo pellegrinaggio. Forse era persino degna di ucciderlo…

Diede un’ultima occhiata alle statue. Ora il loro biancore risplendeva sotto il sole. Non gli erano mai sembrate così forti e, al tempo stesso, così lontane. Il loro silenzio era una conferma. Aveva perso: non era più degno di loro.

Inspirò profondamente, poi, accompagnandosi con un cenno del capo, disse:

«Avverti la potenza di questo luogo?»

Sempre stando in ginocchio, prese una manciata di neve rosa e la sbriciolò:

«Io sono nato a qualche chilometro da qui, nella vallata. All’epoca non c’erano turisti. Io venivo a isolarmi su questa terrazza. È ai piedi di queste statue che ho forgiato i miei sogni di potenza e di fuoco.»

«Di sangue e di morte.»

Lui acconsentì, con un sorriso.

«Noi lavoriamo per il ritorno dell’impero turco. Ci battiamo per la supremazia della nostra razza in Oriente. Ben presto, le frontiere dell’Asia centrale salteranno. Parliamo la stessa lingua, abbiamo le stesse radici. Noi discendiamo tutti da Asena, la lupa bianca.»

«Tu usi un mito per nutrire la tua follia.»

«Un mito è una realtà divenuta leggenda. Una leggenda può diventare realtà. I Lupi sono di ritorno. I Lupi salveranno il popolo turco.»

«Non sei altro che un assassino. Un omicida che non conosce il prezzo del sangue.»

Malgrado il sole, si sentiva intirizzito, paralizzato dal freddo. Mostrò, alla sua sinistra, il bordo di neve che si perdeva nella vibrazione dell’aria:

«Un tempo, sull’altra terrazza, i guerrieri venivano benedetti con il sangue di toro in nome di Apollo-Mitra. È da questa tradizione che nasce il vostro battesimo, il battesimo dei cristiani. È dal sangue che nasce la grazia.»

Con la sua mano libera, la donna si sistemò alcune ciocche nere. Il freddo accentuava e arrossava le rughe, ma quella geografia precisa aumentava il suo splendore. Alzò il cane della pistola:

«Allora è il momento di essere felice. Perché il sangue sta per scorrere.»

«Aspetta.»

Lui continuava a non capire la sua audacia, la sua perseveranza.

«Nessuno corre certi rischi. Specie per una persona incrociata per qualche giorno. Chi era Sema per te?»

Lei esitò, poi, piegando leggermente la testa di lato, disse:

«Un’amica. Solo un’amica.»

Accompagnò quelle parole con un sorriso. E quel grande sorriso rosso, stagliandosi sul bassorilievo del santuario, fu la conferma di tutte le verità.

Forse lei sola incontrava davvero il suo destino in quel luogo.

O, quanto meno, lo incontrava al pari di lui.

Tutti e due stavano trovando il loro esatto posto in quell’affresco ancestrale.

Si concentrò su quelle labbra splendenti. Gli tornarono alla mente i papaveri selvatici di cui sua madre bruciava il gambo per meglio preservarne il colore scarlatto.

Quando la canna della calibro 45 si incendiò, lui capì che era felice di morire all’ombra di un tale sorriso.

FINE