Anche pubblicato come “Uomini e draghi”, “I padroni dei draghi”, “Il Signore dei draghi”.

Jack Vance

I signori dei draghi

I

L’appartamento di Joaz Banbeck, scavato nel più profondo del cuore di un picco calcareo, consisteva di cinque stanze principali, su cinque piani diversi. In alto c’era il reliquiario e la sala del consiglio: il primo era un locale dalla fosca magnificenza che ospitava i vari archivi, trofei e ricordi dei Banbeck; la seconda era un ambiente lungo e stretto, rivestito di scuri pannelli di legno che arrivavano all’altezza del petto, e sovrastato da una volta intonacata di bianco. Si estendeva per tutta la larghezza del picco, e perciò i balconi si affacciavano da una parte sulla Valle dei Banbeck, e dall’altra sulla Via di Kergan.

Più sotto c’era l’alloggio privato di Joaz Banbeck: un salotto e una stanza da letto, poi il suo studio e finalmente, in basso, un laboratorio dove Joaz non ammetteva mai nessuno.

Nell’appartamento si entrava passando dallo studio, un ampio locale a forma di L, con un complesso soffitto a centine, cui erano appesi quattro candelabri incrostati di granate. I candelabri, ora, erano spenti. Nella stanza entrava solo una luce grigia e acquosa dalle quattro lastre di vetro molato su cui, allo stesso modo di una camera obscura, si potevano inquadrare i panorami al di là della Valle dei Banbeck. Le pareti erano rivestite di canne lignificate. Il pavimento era coperto da un tappeto a motivi di angoli, quadrati e cerchi marrone, bruni e neri.

Al centro dello studio stava un uomo nudo.

Era ricoperto soltanto dai lunghi, finissimi capelli bruni che gli scendevano sul dorso, e dal monile d’oro che gli cingeva il collo. Il volto era angoloso e tagliente, il corpo sottile. Sembrava stesse in ascolto, o forse meditava. Talvolta lanciava un’occhiata al globo di marmo giallo posato su un ripiano vicino, e allora muoveva le labbra, come se mandasse a memoria qualche frase o qualche sequenza d’idee.

In fondo allo studio si aprì una pesante porta.

Una giovane donna dal volto di fiore si affacciò: aveva un’espressione maliziosa e altera. Nel vedere l’uomo nudo, si portò di scatto le mani alla bocca, soffocando un grido. L’uomo nudo si voltò… ma la pesante porta si era già richiusa.

Per un momento rimase immerso in una profonda riflessione, aggrottando la fronte, poi si avviò lentamente verso la parete, nel tratto interno della L. Fece ruotare un settore della libreria, e passò attraverso l’apertura. La libreria tornò a posto con un tonfo. Scendendo una scala a chiocciola, l’uomo uscì in una camera rozzamente scavata nella roccia: il laboratorio privato di Joaz Banbeck. Su un banco c’erano utensili, sagome e frammenti di metallo, una serie di batterie elettriche, pezzi di circuiti, che costituivano attualmente l’oggetto della curiosità di Joaz Banbeck.

L’uomo nudo diede un’occhiata al banco. Prese uno dei congegni e l’esaminò con un’aria quasi condiscendente, sebbene il suo sguardo fosse limpido e stupito come quello d’un bambino.

Voci sommesse, provenienti dallo studio, filtrarono nel laboratorio. L’uomo nudo sollevò la testa per ascoltare, poi si chinò infilandosi sotto il banco. Sollevò una lastra di pietra e si insinuò nel varco, calandosi nel vuoto tenebroso. Rimise a posto la pietra, prese una canna luminosa, e si avviò per una stretta galleria che poco dopo scendeva, sfociando in una grotta naturale. A intervalli regolari, tubi luminosi irradiavano una luce fioca, appena sufficiente per penetrare l’oscurità.

L’uomo nudo continuò a procedere svelto, mentre i capelli sericei fluivano dietro di lui come un alone.

Nello studio, la menestrella Phade e un anziano siniscalco stavano discutendo. — L’ho visto davvero! — insistette Phade. — L’ho visto con questi occhi: era uno dei sacerdoti, e stava proprio lì, come ho già detto. — Lo tirò per il gomito, irritata. — Credi che sia matta o isterica?

Rife, il siniscalco, scrollò le spalle, senza pronunciarsi in un senso né nell’altro. — Adesso non lo vedo. — Salì la scala e andò a controllare in camera da letto. — Vuota. Le porte, di sopra, sono sbarrate. — Sbirciò Phade con occhi da gufo, — E io ero seduto al mio posto, davanti all’ingresso.

— Ma dormivi. Russavi anche quando io ti sono passata davanti!

— Ti sbagli. Tossivo.

— Con gli occhi chiusi, e la testa reclinata all’indietro!

Rife scrollò di nuovo le spalle. — Sveglio o addormentato, poco importa. Anche ammettendo che quello sia entrato, come ha fatto a uscire? Dopo che tu mi hai chiamato, ero sveglio, vorrai ammetterlo.

— Allora resta di guardia, mentre io vado a cercare Joaz Banbeck. — Phade corse lungo il corridoio e si avviò per la Passeggiata degli Uccelli, così chiamata per la serie di uccelli favolosi di lapislazzuli, oro, cinabro, malachite e maracassite intarsiati nel marmo. Da una galleria di colonne tortili di giada verde e grigia, passò sulla Via di Kergan, un passo naturale che costituiva la strada centrale del Villaggio dei Banbeck. Arrivata alla porta, chiamò un paio di ragazzotti che lavoravano nei campi. — Correte all’allevamento, trovate Joaz Banbeck! Affrettatevi, conducetelo qui: debbo parlare con lui.

I ragazzi si diressero correndo verso un basso cilindro di mattoni neri, un miglio più a nord.

Phade attese. Ora che il sole Skene era al meriggio, l’aria era calda. I campi di veccia, bellegarde e spharganum esalavano un odore gradevole. Phade andò ad appoggiarsi a una staccionata. Poi cominciò a chiedersi se ciò che aveva da dire era davvero tanto urgente, e se era proprio vero. — No! — disse a se stessa, rabbiosamente. — L’ho visto! L’ho visto!

Ai lati, gli alti strapiombi bianchi si levavano verso l’Orlo dei Banbeck, e più oltre c’erano monti e picchi: su tutto dominava il cielo scuro, screziato da cirri lievi come piume. Skene brillava abbagliante, come una minuscola scheggia di fulgore.

Phade sospirò, quasi convinta di essersi ingannata. Ancora una volta, ma con minore veemenza, si rassicurò. Nessuno, prima di lei, aveva veduto un sacerdote; perché avrebbe dovuto immaginare di averlo visto?

I ragazzi, dopo aver raggiunto l’allevamento, erano scomparsi tra la polvere dei recinti degli esercizi. Le scaglie balenavano e luccicavano; garzoni, signori dei draghi, armieri vestiti di pelle nera si muovevano indaffarati.

Dopo un momento apparve Joaz Banbeck.

Montava un Ragno alto, dalle zampe sottili, spronandolo a tutta velocità, e l’animale scendeva a grandi balzi sussultanti per il sentiero che portava al Villaggio dei Banbeck. L’incertezza di Phade si fece più intensa. Joaz si sarebbe infuriato, avrebbe accolto il suo annuncio con un’occhiata incredula? Irrequieta, lo guardò avvicinarsi. Poiché era giunta nella Valle dei Banbeck soltanto un mese prima, non era ben sicura della propria posizione sociale.

I precettori l’avevano istruita diligentemente nella piccola valle spoglia, a sud, dov’era nata, ma qualche volta la disparità tra l’insegnamento e la realtà pratica la sconcertava. Aveva imparato che tutti gli uomini seguivano un piccolo, identico gruppo di comportamenti. Joaz Banbeck, invece, non teneva conto di tali limiti, e Phade lo trovava completamente imprevedibile. Sapeva che era un uomo relativamente giovane, anche se il suo aspetto non denunciava chiaramente l’età. Aveva un volto pallido e austero, in cui gli occhi grigi brillavano come cristalli, la bocca larga e sottile che denotava flessibilità, e che tuttavia non si incurvava mai tanto da alterare la linea netta. Si muoveva in modo pigro, quasi languido: la sua voce non esprimeva veemenza; non ostentava particolare abilità nell’uso della sciabola o della pistola; sembrava evitare volutamente ogni gesto che potesse conquistargli l’ammirazione o l’affetto dei suoi sudditi. Eppure aveva l’una e l’altro.

In un primo momento, Phade lo aveva giudicato freddo, ma poi aveva cambiato idea. Era, aveva pensato invece, un uomo annoiato e solo, dotato di un tranquillo umorismo che qualche volta sembrava un po’ lugubre. Ma la trattava senza scortesia e Phade, che provava con lui tutte le sue cento e una civetterie, non di rado aveva l’impressione di percepire una scintilla di reazione.

Joaz Banbeck smontò dal Ragno, gli ordinò di ritornare nella stalla. Phade gli andò incontro, diffidente, e Joaz le rivolse un’occhiata interrogativa e ironica. — Era necessaria una chiamata tanto urgente? Hai ricordato la diciannovesima posizione?

Phade arrossì, confusa. Ingenuamente, aveva descritto il faticoso rigore del suo addestramento, e adesso Joaz aveva alluso a un particolare d’una classificazione che le era sfuggito di mente.

Gli parlò in fretta, di nuovo agitatissima. — Ho aperto la porta del tuo studio, adagio, senza far rumore. E che cosa ho visto? Un sacerdote nudo, coperto solo dai suoi capelli. Lui non mi ha sentita. Ho chiuso la porta e sono corsa a chiamare Rife. Quando siamo tornati… la stanza era vuota!

Joaz Banbeck contrasse appena le sopracciglia, e guardò la valle. — Strano. — Dopo un momento domandò: — Sei sicura che lui non ti abbia vista?

— No. Credo di no. Eppure, quando sono tornata con quel vecchio stupido di Rife, era scomparso! È vero che conoscono la magia?

— Questo non lo so — rispose Joaz.

Risalirono la Via di Kergan, attraversarono gallerie e corridoi scavati nella pietra, e raggiunsero l’ingresso.

Rife si era di nuovo assopito sulla scrivania. Joaz accennò a Phade di stare indietro e, avvicinandosi senza far rumore, spalancò la porta dello studio. Si guardò intorno, con le narici frementi.

La stanza era vuota.

Salì le scale, andò a controllare la camera da letto e ritornò nello studio. A meno che vi fosse veramente di mezzo la magia, il sacerdote aveva trovato un’entrata segreta. Con questa idea in mente, fece ruotare la libreria, scese nel laboratorio e fiutò di nuovo l’aria, cercando l’odore dolce-acidulo dei sacerdoti. C’era una traccia? Forse.

Joaz esaminò la camera palmo a palmo, sbirciando in tutti gli angoli. Finalmente, lungo il muro, sotto il banco, scoprì una fessura appena percettibile che delineava un rettangolo.

Joaz annuì, con aria di cupa soddisfazione. Si rialzò e ritornò nello studio. Esaminò gli scaffali: cosa c’era lì, che potesse interessare un sacerdote? Libri, in-folio, opuscoli? Conoscevano anche l’arte della lettura? “La prossima volta che incontrerò un sacerdote dovrò informarmi” pensò Joaz vagamente. “Almeno, mi dirà la verità.” Poi, ripensandoci, si rese conto che quella domanda era ridicola; i sacerdoti, nonostante la loro nudità, non erano affatto barbari. Erano stati loro a fornirgli i quattro vetri panoramici… una realizzazione tecnica non da poco.

Esaminò il globo di marmo ingiallito che considerava il suo tesoro più prezioso: era una rappresentazione del mitico Eden. A quanto sembrava, non era stato spostato. Su un altro scaffale stavano in mostra i modelli dei draghi dei Banbeck: il Rissoso rosso-ruggine; l’Assassino dal Lungo Corno e suo cugino, l’Assassino dai Grandi Passi; l’Orrore Azzurro; il Diavolo, basso, immensamente forte, con la coda che terminava in una mazza ferrata; il ponderoso Massacratore, con la calotta cranica levigata, bianca come un guscio d’uovo. Un po’ in disparte stava il progenitore dell’intero gruppo: un essere pallido, madreperlaceo, ritto sulle due zampe posteriori, con due arti versatili centrali, e un paio di branchie multiarticolate al collo.

Per quanto quei modelli fossero splendidamente lavorati in ogni dettaglio, perché mai avrebbero dovuto stuzzicare la curiosità di un sacerdote? Non c’era alcun motivo, dato che quasi tutti gli originali potevano venire osservati ogni giorno senza difficoltà.

E il laboratorio, allora? Joaz si passò la mano sul lungo mento pallido. Non si faceva illusioni sul valore del suo lavoro. Era un pasticciare ozioso, nient’altro. Joaz accantonò ogni congettura. Molto probabilmente il sacerdote non era venuto a compiere una missione particolare, e la sua visita, forse, faceva parte di un’ispezione continuativa. Ma perché?

Bussarono alla porta: era il pugno irriverente del vecchio Rife. Joaz gli aprì.

— Joaz Banbeck, una comunicazione da parte di Ervis Carcolo della Valle Beata. Desidera conferire con te, e in questo momento attende la tua risposta sull’Orlo dei Banbeck.

— Benissimo — disse Joaz. — Conferirò con Ervis Carcolo.

— Qui? Oppure sull’Orlo dei Banbeck?

— Sull’Orlo, tra mezz’ora.

II

A dieci miglia dalla valle dei Banbeck, tra un panorama desolato di creste, picchi, guglie di pietra, crepacci spaventosi, burroni spogli e campi cosparsi di macigni e sferzati dal vento, si estendeva la Valle Beata. Era ampia quanto la Valle dei Banbeck, ma era lunga e profonda solo la metà: il fondo di terriccio depositato dal vento era meno spesso e perciò meno produttivo.

Il Consigliere Capo della Valle Beata era Ervis Carcolo, un uomo tozzo, dalle gambe corte e dal volto veemente, dalla bocca carnosa, e dall’indole di volta in volta giocosa e furibonda. A differenza di Joaz Banbeck, Carcolo amava soprattutto far visita alle caserme dei draghi, dove trattava tutti, signori dei draghi, stallieri e draghi, a urla e invettive.

Ervis Carcolo era un uomo energico, deciso a rendere alla Valle Beata la preminenza di cui aveva goduto circa dodici generazioni prima. In quei tempi duri, prima dell’avvento dei draghi, erano gli uomini a combattere direttamente le loro battaglie. Gli uomini della Valle Beata erano stati straordinariamente ardimentosi, abili e spietati. La Valle dei Banbeck, la Grande Spaccatura Settentrionale, il Rifugio ad Anello, la Valle di Sadro, il Canalone di Fosforo, tutti riconoscevano l’autorità dei Carcolo.

Poi, dallo spazio, venne una nave dei Basici, o greph, come venivano chiamati a quei tempi. La nave uccise o prese prigionieri tutti gli abitanti di Rifugio ad Anello. Tentò di fare altrettanto nella Grande Spaccatura Settentrionale, ma vi riuscì solo in parte; poi bombardò il resto degli abitati con proiettili esplosivi.

Quando i sopravvissuti fecero ritorno nelle loro valli devastate, il dominio della Valle Beata era diventato ormai una finzione. Una generazione più tardi, durante l’Era del Ferro Bagnato, anche la finzione crollò. In una battaglia decisiva, Goss Carcolo venne catturato da Kergan Banbeck e costretto a evirarsi con il proprio coltello.

C’erano stati cinque anni di pace, e poi erano ritornati i Basici. Dopo aver spopolato la Valle di Sadro, la grande nave nera atterrò nella Valle dei Banbeck, ma gli abitanti, che erano sull’avviso, si erano rifugiati tra le montagne. Verso l’imbrunire, ventitré Basici fecero una sortita, preceduti dai loro guerrieri scrupolosamente addestrati: diversi plotoni di Fanteria Pesante, una squadra di Armieri — questi non si distinguevano quasi dagli uomini di Aerlith — e una squadra di Battitori: questi erano decisamente molto diversi. Sulla valle scoppiò la tempesta del tramonto, rendendo inutili i velivoli usciti dalla nave; e questo permise a Kergan Banbeck di compiere l’impresa straordinaria che lo aveva reso leggendario su tutta Aerlith. Invece di unirsi alla fuga del suo popolo terrorizzato verso i monti, radunò sessanta guerrieri e, provocandoli e insultandoli e svergognandoli, riuscì a instillare in loro il coraggio.

Era un’impresa suicida… in armonia con la situazione.

Balzando fuori dall’imboscata, fecero a pezzi un plotone di Fanteria Pesante, misero in fuga gli altri, e catturarono i ventitré Basici quasi prima ancora che questi si rendessero conto di come stavano le cose. Gli Armieri rimasero indietro, frenetici per la frustrazione, incapaci di usare le loro armi per timore di uccidere i loro padroni. La Fanteria Pesante avanzò all’attacco, e si arrestò solo quando Kergan, a gesti inequivocabili, fece capire che i Basici sarebbero stati i primi a morire.

Confusi, i Fanti si ritirarono. Kergan Banbeck, con i suoi uomini e i ventitré prigionieri, fuggì nell’oscurità.

Trascorse la lunga notte di Aerlith. Il temporale dell’alba salì da oriente, passò tonando, si dileguò maestosamente a occidente; Skene si levò come un atomo sfolgorante.

Tre uomini uscirono da una nave dei Basici: un Armiere e due Battitori. Si inerpicarono su per gli strapiombi, fino all’Orlo dei Banbeck, mentre sopra di loro volava un piccolo apparecchio dei Basici, niente più d’una piattaforma galleggiante, che si tuffava e virava nell’aria come un aquilone mal bilanciato. I tre uomini avanzarono faticosamente verso sud, in direzione del Labirinto Alto, una regione d’ombre caotiche e di luci, di rocce spezzate e di picchi crollati e di macigni ammassati sui macigni. Era il rifugio tradizionale degli uomini braccati.

Fermandosi davanti al Labirinto, l’Armiere chiamò Kergan Banbeck, proponendogli di parlamentare.

Kergan Banbeck si fece avanti. Si svolse allora il colloquio più strano di tutta la storia di Aerlith. L’Armiere parlava con difficoltà il linguaggio degli uomini; aveva le labbra, la lingua e le corde vocali più adatte alla favella dei Basici.

— Tu tieni prigionieri ventitré dei nostri Riveriti. È necessario che li lasci liberi, con tutta umiltà. — Parlava con calma, e con una sorta di gentile malinconia, senza intimare, comandare o esortare. Come le sue abitudini linguistiche erano state modellate su quelle dei Basici, si erano modificati allo stesso modo i suoi processi mentali.

Kergan Banbeck, un uomo alto e scarno dalle nere sopracciglia laccate, i capelli neri acconciati e laccati in una cresta a cinque alti speroni, scoppiò in una risata priva di gaiezza. — E gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi, e la gente trascinata a bordo della vostra nave?

L’Armiere si protese verso di lui: era un uomo imponente, dalla nobile testa aquilina. Era glabro, aveva solo minuscoli boccoli gialli e lanosi. La sua pelle luceva, come brunita. Le orecchie, la caratteristica che più lo rendeva diverso dagli uomini non adattati di Aerlith, erano falde di pelle, piccole e fragili. Indossava un semplice indumento blu e bianco, e non aveva armi, tranne un semplice eiettore a molti usi. Con assoluta tranquillità e con serena ragionevolezza, rispose alla domanda di Kergan Banbeck: — Gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi sono morti. Coloro che si trovano a bordo della nave si mescoleranno con il substrato, dove l’infusione di sangue nuovo è importante.

Kergan Banbeck scrutò l’Armiere con sprezzante lentezza. Sotto certi aspetti, pensò, quell’uomo modificato e programmato somigliava ai sacerdoti del suo pianeta, soprattutto per la carnagione chiara, i lineamenti modellati fortemente, le braccia e le gambe lunghe.

Forse era in opera la telepatia, o forse una traccia del caratteristico odore dolce-acidulo era arrivata fino a lui; girando la testa scorse un sacerdote ritto tra le rocce, a meno di cinquanta passi… tutto nudo, a eccezione del monile d’oro e dei lunghi capelli che sventolavano dietro di lui come un’orifiamma. Obbedendo all’antica etichetta, Kergan Banbeck guardò oltre, fingendo che non esistesse neppure. Dopo una rapida occhiata, l’Armiere fece altrettanto.

— Richiedo che lasciate liberi gli abitanti di Aerlith prigionieri sulla vostra nave — disse Kergan Banbeck con voce secca.

Sorridendo, l’Armiere scosse il capo, e fece del suo meglio per farsi capire. — Quelle persone non sono in discussione. Il loro… — Fece una pausa, cercando le parole. — Il loro destino è… parcellizzato, quantificato, ordinato. Stabilito. Non c’è altro da aggiungere.

Il sorriso di Kergan Banbeck divenne una smorfia cinica. Restò chiuso in un silenzio altero, mentre l’Armiere continuava a gracchiare. Il sacerdote si fece avanti lentamente, pochi passi alla volta. — Devi capire — disse l’Armiere — che esiste un modello degli eventi. È funzione di quelli come me plasmare gli eventi affinché si conformino al modello. — Si chinò, muovendo elegantemente un braccio, e afferrò un ciottolo aguzzo. — Come posso modellare questo pezzo di pietra perché si adegui a un’apertura rotonda.

Kergan Banbeck tese la mano, prese il ciottolo e lo lanciò in alto, sopra i macigni ammassati. — Non modellerai mai quel pezzo di pietra per adattarlo a un foro rotondo.

L’Armiere scosse il capo, con aria di blanda riprovazione. — Ci sono sempre altre pietre.

— E ci sono sempre altri fori — dichiarò Kergan Banbeck.

— Parliamo sul serio, allora — disse l’Armiere. — Io propongo di modellare la situazione nella sua forma esatta.

— Che cosa offri in cambio dei ventitré greph?

L’Armiere scrollò le spalle, inquieto. Le idee di quell’uomo erano folli, barbare e arbitrarie quanto le creste laccate della sua acconciatura. — Se lo desideri io ti darò istruzioni e consigli, affinché…

Kergan Banbeck fece un gesto brusco, improvviso. — Pongo tre condizioni. — Il sacerdote, adesso, era a dieci passi, il volto cieco, lo sguardo vago. — Prima — disse Kergan Banbeck — una garanzia contro futuri attacchi ai danni degli uomini di Aerlith. Cinque greph dovranno rimanere in nostra custodia, in qualità di ostaggi. Seconda, sempre per assicurare la validità perpetua della garanzia, dovete consegnarmi un’astronave, equipaggiata, energizzata e armata. E dovete insegnarmi a usarla.

L’Armiere ributtò la testa all’indietro ed emise, dal naso, una serie di suoni belanti.

— Terza condizione — continuò Kergan Banbeck — dovete liberare tutti gli uomini e le donne che si trovano a bordo della vostra nave.

L’Armiere sbatté le palpebre, pronunciò rapide parole rauche di sbalordimento, rivolgendosi ai Battitori. Questi si agitarono, inquieti e impazienti, osservando di straforo Kergan Banbeck come se fosse non solo un selvaggio, ma anche un pazzo. Il velivolo stava librato lassù; l’Armiere alzò lo sguardo e parve trarre incoraggiamento da quella vista. Rivolgendosi a Kergan Banbeck con un nuovo atteggiamento di fermezza, parlò come se il precedente dialogo non fosse mai avvenuto. — Sono qui per dirti che i ventitré Riveriti debbono venire immediatamente rilasciati.

Kergan Banbeck ripeté le sue richieste. — Dovete fornirmi un’astronave, non dovete più compiere scorrerie, dovete liberare i prigionieri. Sei d’accordo, sì o no?

L’Armiere sembrava confuso. — È una situazione bizzarra… indefinita, inquantificabile.

— Non riesci a capirmi? — latrò Kergan Banbeck, esasperato. Lanciò un’occhiata al sacerdote, un atto di decoro discutibile, poi si comportò in modo totalmente anticonvenzionale: — Sacerdote, come posso trattare con questo idiota? Sembra che non mi ascolti.

Il sacerdote si avvicinò di un altro passo, con la stessa espressione blanda e vacua. Poiché viveva secondo una dottrina che vietava ogni interferenza attiva o intenzionale negli affari degli altri umani, poteva dare a ogni domanda solo una risposta specifica e limitata. — Ti ascolto, ma tra voi non esiste alcun incontro di idee. La struttura del suo pensiero è derivata da quella dei suoi padroni. È incommensurabile con la tua. E non so dire come tu possa trattare con lui.

Kergan Banbeck guardò di nuovo l’Armiere. — Hai sentito ciò che ti ho chiesto? Hai compreso le mie condizioni per la liberazione dei greph?

— Ti ho udito distintamente — rispose l’Armiere. — Le tue parole non hanno significato, sono assurdità, paradossi. Ascoltami con attenzione. È ordinato, completo, un quanto del destino, che tu ci renda i Riveriti. È irregolare, non è ordinato che tu debba avere una nave, o che le altre tue richieste vengano accolte.

Il volto di Kergan Banbeck s’imporporò. Si girò a mezzo verso i suoi uomini ma, trattenendo la collera, parlò lentamente e con meticolosa chiarezza. — Io ho qualcosa che voi volete. Voi avete qualcosa che io voglio. Trattiamo.

Per venti secondi i due uomini si fissarono negli occhi. Poi l’Armiere trasse un profondo respiro. — Mi spiegherò usando le tue parole, in modo che tu comprenda. Esistono certezze… no, non certezze. Esistono i definiti. Sono unità di certezza, quanti di necessità e d’ordine. L’esistenza è la costante successione di tali unità, una dopo l’altra. L’attività dell’universo può venire espressa riferendosi a tali unità. L’irregolarità, l’assurdità… sono come… un mezzo uomo, con mezzo cervello, mezzo cuore, metà di tutti i suoi organi vitali. Né le une né l’altro possono esistere. Il fatto che tu trattenga prigionieri ventitré Riveriti è un’assurdità di questo genere: un oltraggio al flusso razionale dell’universo.

Kergan Banbeck levò le mani e si rivolse di nuovo al sacerdote. — Come posso far cessare questa pazzia? Come posso fargli intendere la ragione?

Il sacerdote rifletté. — Non dice pazzie, ma usa piuttosto un linguaggio che tu non riesci a comprendere. Potrai fargli comprendere il tuo linguaggio cancellando dalla sua mente tutte le nozioni impresse dall’addestramento, e sostituendole con schemi tuoi.

Kergan Banbeck dominò un inquietante senso di frustrazione e di irrealtà. Per ottenere risposte esatte da un sacerdote, era necessaria una domanda esatta: era già straordinario che quel sacerdote rimanesse lì a farsi interrogare. Riflettendo scrupolosamente, chiese: — Come mi consigli di comportarmi con quest’uomo?

— Lascia liberi i ventitré greph. — Il sacerdote toccò le borchie gemelle nella parte anteriore della collana d’oro: era un gesto rituale indicante che, sia pure con riluttanza, aveva compiuto un atto che poteva, concepibilmente, modificare il corso del futuro. Batté di nuovo le dita sul monile e intonò: — Lascia liberi i greph; allora lui se ne andrà.

Kergan Banbeck lanciò un grido di rabbia trattenuta. — Ma tu chi servi? L’uomo o il greph? Sentiamo la verità! Parla!

— Per la mia fede, per il mio credo, per la verità del mio tand, io non servo altri che me stesso. — Il sacerdote girò il volto verso il grande picco di Monte Gethron e si allontanò lentamente. Il vento faceva svolazzare lateralmente i suoi lunghi, finissimi capelli.

Kergan Banbeck lo guardò allontanarsi, e poi, con fredda decisione, si rivolse di nuovo all’Armiere. — La tua discussione delle certezze e delle assurdità è interessante. Ritengo che le abbia confuse. Ecco una certezza, dal mio punto di vista: non lascerò liberi i ventitré greph, a meno che tu accetti le mie condizioni. Se ci attaccherete ancora, li taglierò a metà, per illustrare e realizzare la tua similitudine, e forse ti convincerò che le assurdità sono possibili. Non ho altro da dire.

L’Armiere scosse lentamente la testa in un gesto di commiserazione. — Ascolta, ti spiegherò. Certe condizioni sono impensabili. Sono inquantificabili, non destinate…

— Vattene — tuonò Kergan Banbeck. — Altrimenti andrai a far compagnia ai tuoi ventitré Riveriti, e ti insegnerò quanto può diventare reale l’impensabile!

L’Armiere e i due Battitori, gracchiando e borbottando, si voltarono, si ritirarono dal Labirinto all’Orlo dei Banbeck e discesero nella valle. Il velivolo li sorvolava svolazzando come una foglia cadente.

Osservandoli dal loro rifugio tra i picchi, gli uomini della Valle dei Banbeck assistettero poco dopo a una scena straordinaria. Mezz’ora dopo che l’Armiere era ritornato alla nave, ne uscì di nuovo, saltando, danzando, caprioleggiando. Altri lo seguirono, Armieri, Battitori, Fanti e altri otto greph… e tutti sussultavano, saltavano, correvano avanti e indietro, a passi disperati. Dagli oblò della nave si irradiarono luci di vari colori, e poi si levò un lento suono crescente di meccanismi torturati.

— Sono impazziti! — mormorò Kergan Banbeck. Esitò un istante, poi impartì un ordine. — Radunate tutti gli uomini! Attacchiamoli mentre non sono in grado di difendersi!

Dal Labirinto Alto si avventarono gli uomini della Valle dei Banbeck. Mentre scendevano dagli strapiombi, alcuni uomini e donne della Valle di Sadro, che erano stati catturati, uscirono timidamente dalla nave, e poiché non incontrarono resistenza fuggirono verso la libertà, attraverso la Valle dei Banbeck. Altri li seguirono… e poi i guerrieri di Banbeck raggiunsero il fondovalle.

Accanto all’astronave, la follia si era acquietata. Gli esseri venuti da un altro mondo stavano ammassati in silenzio accanto allo scafo. Poi vi fu un’esplosione improvvisa, sconvolgente, un vuoto di fuoco bianco e giallo. La nave si disintegrò. Un grande cratere deturpava adesso il fondovalle: frammenti di metallo cominciarono a piovere sui Guerrieri di Banbeck lanciati all’assalto.

Kergan Banbeck fissava a occhi sbarrati quella scena di distruzione.

Lentamente, abbassando le spalle, chiamò la sua gente e la condusse verso la loro valle devastata. Alla retroguardia, legati insieme da funi, venivano i ventitré greph, con gli occhi spenti, docili, già lontani dalla loro precedente esistenza.

La struttura del Destino era inevitabile. Le circostanze attuali non potevano essere valide per ventitré Riveriti. Perciò il meccanismo doveva adattarsi, per assicurare la serena progressione degli eventi. I ventitré, quindi, erano qualcosa di diverso dai Riveriti: appartenevano a un ordine d’esseri completamente diversi.

Se questo era vero, che cos’erano? Rivolgendosi l’un l’altro questa domanda in sommessi, tristi toni gracchianti, scesero dagli strapiombi verso la Valle dei Banbeck.

III

Nei lunghi anni di Aerlith, le fortune della Valle Beata e della Valle dei Banbeck fluttuarono secondo le capacità dei Carcolo e dei Banbeck. Golden Banbeck, il nonno di Joaz, fu costretto a liberare la Valle Beata dal protettorato quando Uttern Carcolo, perfetto allevatore di draghi, produsse i suoi primi Diavoli. Golden Banbeck, a sua volta, sviluppò i Massacratori, ma lasciò che continuasse quella tregua irrequieta.

Trascorsero altri anni, Ilden Banbeck, figlio di Golden, un uomo fragile e inefficiente, morì cadendo da un Ragno imbizzarrito. Mentre Joaz era ancora un bambino malaticcio, Grode Carcolo decise di tentare la sorte contro la Valle dei Banbeck. Non aveva fatto i conti con Hendel Banbeck, prozio di Joaz e Capo dei Signori dei draghi.

Le forze della Valle Beata furono sconfitte nel Burrone della Stella Spezzata. Grode Carcolo fu ucciso e il giovane Ervis venne ferito gravemente da un Assassino. Per varie ragioni, che includevano la tarda età di Hendel e l’estrema giovinezza di Joaz, l’esercito dei Banbeck non seppe approfittare del vantaggio decisivo. Ervis Carcolo, sebbene sfinito per il sangue perduto e la sofferenza, riuscì a ritirarsi con una parvenza d’ordine, e per altri anni tra le valli vicine perdurò una tregua sospettosa.

Joaz maturò, divenne un giovane malinconico che, sebbene non suscitasse affetto entusiastico nel suo popolo, almeno non destava violente antipatie. Joaz ed Ervis Carcolo erano uniti da un reciproco disprezzo. Quando sentiva parlare dello studio di Joaz, con i libri, i rotoli, i modelli e le mappe, il complicato sistema ottico che permetteva di vedere attraverso la Valle dei Banbeck (e si diceva che i vetri fossero stati forniti dai sacerdoti), Carcolo levava le braccia al cielo in un gesto di disgusto. — Cultura? Puah! A che serve rotolarsi così nel vomito del passato? Dove porta? Doveva nascere sacerdote! Anche lui è un debole con la lingua acida e la mente ottenebrata!

Un itinerante che si chiamava Dàe Alvonso, e che esercitava i mestieri di menestrello, compratore di bambini, psichiatra e chiropratico, riferì lo sproloquio di Carcolo a Joaz, il quale scrollò le spalle. — Ervis Carcolo dovrebbe accoppiarsi con uno dei suoi Massacratori — disse. — In questo modo produrrebbe un essere invincibile, dotato della corazza dei Massacratori e dell’incrollabile stupidità di Carcolo.

A tempo debito, quel commento venne riportato a Ervis Carcolo, e per coincidenza lo toccò sul vivo. In segreto aveva tentato un’innovazione nei suoi allevamenti: un drago massiccio quasi quanto il Massacratore, ma con l’intelligenza feroce e l’agilità dell’Orrore Azzurro. Ma Ervis Carcolo si lasciava guidare da una mentalità intuitiva ed eccessivamente ottimista, ignorando i consigli di Bast Givven, il suo Capo dei Signori dei draghi.

Le uova si schiusero e sopravvisse una dozzina di piccoli. Ervis Carcolo li nutrì a dosi alternate di tenerezza e di maltrattamenti. Alla fine, i draghi divennero adulti.

La sperata combinazione di furia e di invincibilità che era nei progetti di Carcolo si era realizzata in quattro esseri torpidi e irritabili dai toraci enfiati, le zampe filiformi e un appetito insaziabile (- Come se si potesse creare un drago ordinandogli “Esisti!” — confidò sbuffando Bast Givven ai suoi aiutanti, e li consigliò: — State attenti a quelle bestiacce: sono capaci solo di attirarvi a portata delle loro mandibole).

Il tempo, le fatiche, i mezzi e il cibo sprecati per realizzare l’ibrido inutile avevano indebolito l’esercito di Carcolo. Non gli mancavano i fecondi Rissosi. C’erano abbastanza Assassini dal Lungo Corno e Assassini dai Grandi Passi: ma i tipi più pesanti e specializzati, soprattutto i Massacratori, erano tutt’altro che adeguati ai suoi piani.

I ricordi dell’antica gloria della Valle Beata ossessionavano i suoi sogni. Per prima cosa avrebbe soggiogato la Valle dei Banbeck; e spesso immaginava in tutti i particolari la cerimonia con cui avrebbe ridotto Joaz Banbeck al ruolo di apprendista stalliere.

Le ambizioni di Ervis Carcolo erano complicate da una serie di difficoltà sostanziali. La popolazione della Valle Beata era raddoppiata; ma anziché ampliare la città scavando altre gallerie nelle guglie di roccia, Carcolo costruì tre nuovi allevamenti di draghi, una dozzina di caserme e un enorme campo d’addestramento. Gli abitanti della valle potevano scegliere tra l’affollamento nelle fetide gallerie già esistenti e la costruzione di baracche lungo la base dello strapiombo. Gli allevamenti, le caserme, il campo di addestramento e le capanne invadevano i campi, già insufficienti, della Valle Beata. L’acqua veniva fatta deviare dal laghetto per rifornire gli allevamenti. Una percentuale enorme della produzione agricola serviva per nutrire i draghi. Gli abitanti della Valle Beata, sottoalimentati, malaticci, infelici, non condividevano le aspirazioni di Carcolo, che si infuriava per la loro mancanza d’entusiasmo.

Comunque, quando l’itinerante Dae Alvonso ripeté il consiglio di Joaz Banbeck, che Ervis Carcolo si accoppiasse con un Massacratore, Carcolo ribollì di collera. — Puah! Cosa ne sa, Joaz Banbeck, dell’allevamento dei draghi? Non credo che capisca neppure il suo linguaggio dei draghi. — Alludeva al mezzo con cui venivano trasmessi ai draghi gli ordini e le istruzioni: era un gergo segreto che caratterizzava ogni esercito. Imparare la lingua dei draghi dell’avversario era l’aspirazione principale di ogni Signore dei draghi, perché questo consentiva un certo controllo sulle forze nemiche. — Io sono un uomo pratico, e valgo due come lui — continuò Carcolo. — Lui sa forse progettare, nutrire, allevare e istruire i draghi? Sa imporre la disciplina, insegnare la ferocia? No. Lascia tutti questi compiti ai suoi Signori dei draghi, mentre lui ozia su un divano ingozzandosi di dolciumi, e combattendo solo contro la pazienza delle sue menestrelle. Dicono che per mezzo della divinazione astrologica predica il ritorno dei Basici, che cammini con il collo storto per scrutare il cielo. E un uomo simile merita il potere a una vita prospera? Io dico di no! Ervis Carcolo della Valle Beata lo merita? Io dico di sì, e lo dimostrerò.

Dae Alvonso levò la mano con aria sentenziosa. — Calma, calma. È più sveglio di quanto tu creda. I suoi draghi sono in ottime condizioni; e li visita spesso. In quanto ai Basici…

— Non parlarmi dei Basici! — esclamò indignato Carcolo. — Non sono un bambino che si lascia atterrire dagli spauracchi!

Dae Alvonso levò di nuovo la mano. — Ascoltami. Parlo seriamente, e tu potrai trarre vantaggio dalle notizie che ti porto. Joaz Banbeck mi ha condotto nel suo studio privato…

— Il famoso studio, sicuro!

— E da un armadio ha estratto una sfera di cristallo, montata su una base nera.

— Ah! — rise sarcastico Carcolo. — Una sfera di cristallo!

Dae Alvonso proseguì placido, senza far caso all’interruzione. — Ho esaminato il globo, e sembrava veramente che contenesse tutto lo spazio. Nell’interno fluttuavano stelle e pianeti, tutti i corpi celesti dell’ammasso. «Guarda bene» mi ha detto Joaz Banbeck «non vedrai mai, altrove, un oggetto come questo. Fu costruito dagli uomini dell’antichità e venne portato su Aerlith quando vi arrivò il vostro popolo.» «Davvero» ho detto io. «E che cos’è questo oggetto?». «È un armamentario celeste» ha detto Joaz. «Rappresenta tutte le stelle vicine, e le loro posizioni nel tempo che io specifico. Ora» e ha indicato qualcosa «vedi questo punto bianco? È il nostro sole. Vedi questa stella rossa? Nei vecchi almanacchi è chiamata Coralyne. Ci passa accanto a intervalli irregolari, perché tale è il movimento delle stelle in questo ammasso. E tali intervalli hanno sempre coinciso con gli attacchi dei Basici.»

“A questo punto ho espresso il mio sbalordimento, e Joaz mi ha rassicurato. «La storia degli uomini, su Aerlith, registra sei attacchi da parte dei Basici, o greph come venivano chiamati in origine. A quanto pare, via via che Coralyne si sposta nello spazio, i Basici compiono scorrerie sui mondi vicini, alla ricerca di covi nascosti dell’umanità. L’ultima volta è stato molto tempo fa, al tempo di Kergan Banbeck, con il risultato che tu conosci. A quell’epoca, Coralyne ci passò vicino, nei cieli. E per la prima volta, da allora, Coralyne è di nuovo vicina.»

“Questo — disse infine Alvonso a Carcolo — è quanto mi ha riferito Joaz Banbeck, ed è quanto io ho veduto.”

Nonostante tutto, Carcolo era rimasto impressionato. — Vorresti farmi credere — domandò — che entro quel globo si muovono tutte le stelle dello spazio?

— Questo non lo giurerei — rispose Dae Alvonso. — Il globo è inserito in un supporto nero, e io sospetto che un meccanismo interno proietti le immagini, o forse punti luminosi che simulano le stelle. In ogni caso, è un congegno meraviglioso, e sarei orgoglioso di possederlo. Ho offerto in cambio a Joaz Banbeck parecchi oggetti preziosi, ma lui non ha voluto saperne.

Carcolo aggricciò le labbra, disgustato. — Tu e i tuoi bambini rubati! Non ti vergogni?

— Non più dei miei clienti — rispose impassibile Dae Alvonso. — Se non ricordo male, in diverse occasioni ho concluso buoni affari anche con te.

Ervis Carcolo gli voltò le spalle, fingendo di osservare due Rissosi che si esercitavano con le scimitarre di legno. I due uomini stavano accanto a un recinto di pietra, dietro il quale dozzine di draghi si esercitavano a compiere evoluzioni, duellavano con spade e lance, si rafforzavano i muscoli. Le scaglie balenavano. La polvere si sollevava sotto le zampe scalpitanti. L’odore acre del sudore dei draghi saturava l’aria.

Carcolo borbottò: — È furbo, quel Joaz. Sapeva che tu mi avresti riferito tutto dettagliatamente.

Dae Alvonso annuì. — Precisamente. Le sue parole sono state… ma forse farei meglio a mostrarmi discreto. — Lanciò un’occhiata di sottecchi a Carcolo, sotto le folte sopracciglia candide.

— Parla — disse burberamente Ervis Carcolo.

— Benissimo. Bada bene, cito quanto ha detto Joaz Banbeck. «Riferisci a quel vecchio confusionario di Carcolo che è in grave pericolo. Se i Basici ritorneranno ad Aerlith, com’è possibile, la Valle Beata è assolutamente vulnerabile e verrà ridotta in rovina. Dove si nasconderà la sua popolazione? Verrà caricata sulla nave nera e trasportata su un altro, freddo pianeta. Se Carcolo non è completamente senza cuore, scaverà nuove gallerie, preparerà vie nascoste. Altrimenti…»

— Altrimenti cosa? — domandò Carcolo.

— «Altrimenti non vi sarà più la Valle Beata, e non vi sarà più Ervis Carcolo.»

— Bah — fece Carcolo, con voce soffocata. — Quel giovane vanesio abbaia in toni striduli.

— Forse ha voluto darti un avvertimento sincero. Ha detto poi… ma temo di offenderti.

— Continua! Parla!

— Queste sono le sue parole… ma no. Non oso ripeterle. Sostanzialmente, considera ridicoli i tuoi sforzi per creare un esercito. Compara sfavorevolmente la tua intelligenza con la sua. Predice che…

— Basta così! — ruggì Ervis Carcolo, agitando i pugni. — È un avversario sottile, ma perché tu ti presti ai suoi trucchi?

Dae Alvonso scosse la vecchia testa canuta. — Mi limito a ripetere, con riluttanza, ciò che tu esigi di sapere. Ora, poiché mi hai torchiato completamente, consentimi un piccolo guadagno. Vuoi acquistare droghe, elisir, filtri o pozioni? Ho qui un unguento dell’eterna giovinezza che ho rubato dallo scrigno personale del Sacerdote Demie. Nella mia carovana vi sono bambini e bambine, ossequiosi e bellissimi, e a prezzo equo. Posso ascoltare i tuoi affanni, curare la tua balbuzie, assicurarti un’indole placida. O piuttosto vorresti comprare uova di drago?

— Non ho bisogno di tutta questa roba — grugnì Carcolo. — Soprattutto, non mi servono uova di drago da cui nascono lucertole. In quanto ai bambini, la Valle Beata ne brulica. Portami una dozzina di robusti Massacratori, e potrai andartene con cento bambini di tua scelta.

Dae Alvonso scosse tristemente il capo e si allontanò. Carcolo si appoggiò al muretto, fissando i recinti dei draghi.

Il sole era già basso, sulle vette di Monte Disperazione. La sera era ormai vicina.

Era il momento più piacevole della giornata di Aerlith, quando i venti si placavano, lasciando un’immensa quiete vellutata. Il fulgore di Skene si addolciva in un giallo fumoso, con un’aureola di bronzo. Le nubi del temporale serotino si ammassavano, si alzavano, scendevano, mutavano, vorticavano, risplendendo, cangiando in tutti i toni d’oro, bruno-arancio, brunodorato e violetto polveroso.

Skene tramontò; gli ori e gli arancione divennero bruno-quercia e porpora. Il fulmine serpeggiava tra le nubi, e la pioggia cadde come una cortina nera. Nelle caserme gli uomini si muovevano vigili, perché in quei momenti i draghi diventavano imprevedibili, di volta in volta attenti, torpidi, litigiosi. Quando la pioggia passò, la sera divenne notte, e una lieve brezza fresca prese a spirare nelle valli. Il cielo buio cominciò ad ardere e a sfolgorare di tutte le stelle dell’ammasso. Una delle più fulgide ammiccava rossa, verde, bianca, rossa, verde.

Ervis Carcolo studiò pensoso quella stella. Un’idea portò a un’altra, e poi a una linea d’azione che sembrava sciogliere l’intero intrico di incertezze e d’insoddisfazioni che deturpavano la sua vita.

Carcolo storse la bocca in una smorfia acida. Doveva tentare un approccio con quel vanesio di Joaz Banbeck. Se era inevitabile, così fosse!

Perciò la mattina seguente, poco dopo che la menestrella Phade ebbe scoperto il sacerdote nello studio di Joaz, un messaggero giunse nella Valle, invitando Joaz Banbeck all’Orlo dei Banbeck, per incontrarsi con Ervis Carcolo.

IV

Ervis Carcolo attendeva sull’Orlo dei Banbeck in compagnia del Capo dei Signori dei draghi, Bast Givven, e un paio di giovani guide. Dietro, in fila, stavano le loro cavalcature: quattro lucidi Ragni, con le mandibole ripiegate, le gambe aperte ad angoli esattamente identici.

Erano la covata più recente di Carcolo, ed egli ne era immensamente fiero. Gli spuntoni che circondavano i musi cornei erano incastonati di cabochons di cinabro, e uno scudo rotondo, smaltato di nero e munito d’uno sperone centrale, copriva il petto d’ogni animale. Gli uomini indossavano le tradizionali brache di pelle nera, corti mantelletti marrone e caschi di cuoio nero, con lunghe falde che scendevano obliquamente sulle orecchie e ricadevano sul dorso.

I quattro uomini attendevano, pazienti o irrequieti a seconda della loro indole, scrutando la lunga, ben curata Valle dei Banbeck. Verso sud si estendevano i campi di piante alimentari: veccia, bellegarde, pandimuschio, un bosco di loquat. Dalla parte opposta, presso l’imboccatura del Crepaccio di Clybourne, si scorgeva ancora la depressione del cratere creato dall’esplosione della nave dei Basici. A nord c’erano altri campi, poi il complesso riservato ai draghi, con le caserme di mattoni neri, un vivaio per la schiusa, un campo per le esercitazioni. Più oltre c’era il Labirinto dei Banbeck… una zona desolata, dove molto tempo prima era crollato un tratto dello strapiombo, creando un caos di rocce, simile al Labirinto Alto ai piedi del Monte Gethron, ma meno vasto.

Una delle giovani guide, dando prova di scarso tatto, elogiò l’evidente prosperità della Valle dei Banbeck. Ervis Carcolo ascoltò torvo per qualche istante, poi rivolse al colpevole un’occhiata altezzosa.

— Osserva la diga — disse la guida. — Noi sprechiamo metà della nostra acqua a causa della dispersione.

— È vero — disse il suo compagno. — Il rivestimento di roccia è una buona soluzione. Mi domando perché non lo facciamo anche noi.

Carcolo fece per parlare, ma poi cambiò idea. Con un ringhio gutturale si voltò dall’altra parte. Bast Givven fece un segno; le guide ammutolirono.

Qualche istante più tardi, Givven annunciò: — Joaz Banbeck è partito.

Carcolo abbassò gli occhi verso la Via di Kergan. — Dov’è la sua compagnia? Ha deciso di venire solo?

— Così pare.

Qualche minuto dopo Joaz Banbeck apparve sull’Orlo dei Banbeck, cavalcando un Ragno dalla gualdrappa di velluto grigio e rosso. Portava un mantello sciolto di morbida stoffa marrone, sopra la camicia grigia e i calzoni grigi, con un berretto a punta di velluto azzurro. Alzò la mano in un saluto disinvolto.

Bruscamente Ervis Carcolo ricambiò il saluto, e con un cenno scattante del capo indicò a Givven e alle guide di allontanarsi quanto bastava perché non potessero origliare.

Carcolo disse, burbero: — Tu mi hai mandato un messaggio tramite il vecchio Alvonso.

Joaz annuì.

— Mi auguro che abbia riferito con esattezza le mie parole.

Carcolo sogghignò, scoprendo i denti come un lupo. — In certi momenti si è sentito in dovere di ricorrere a parafrasi.

— Il vecchio Dae Alvonso ha molto tatto.

— Mi è stato fatto capire — disse Carcolo — che tu mi consideri imprudente, inefficiente agli interessi della Valle Beata. Alvonso ha ammesso che, parlando di me, tu hai usato la parola “confusionario”.

Joaz sorrise educatamente. — I sentimenti di questo genere vanno comunicati tramite intermediari.

Carcolo ostentò una dignitosa sopportazione. — A quanto pare, sei convinto dell’imminenza di un altro attacco dei Basici.

— Infatti — ammise Joaz. — Se è esatta la mia teoria, che situa la loro patria nei pressi della stella Coralyne. In tal caso, come ho fatto osservare ad Alvonso, la Valle Beata è pericolosamente vulnerabile.

— E perché la Valle dei Banbeck non lo sarebbe? — latrò Carcolo.

Joaz lo fissò stupito. — Non è ovvio? Io ho preso misure precauzionali. La mia gente abita nelle gallerie, anziché nelle capanne. Abbiamo parecchie vie di fuga, se si rendesse necessario, per arrivare al Labirinto Alto e al Labirinto dei Banbeck.

— Molto interessante — Carcolo si sforzò di addolcire la voce. — Se la tua teoria è esatta, e non voglio esprimere un giudizio immediato al riguardo, allora forse sarebbe saggio prendere misure simili. Ma io la penso diversamente. Preferisco l’attacco alla difesa passiva.

— Ammirevole — disse Joaz Banbeck. — Gli uomini come te compiono imprese importanti.

Carcolo si colorò in volto. — Questo non c’entra — disse. — Sono venuto a proporti un piano congiunto. È del tutto nuovo, ma ben meditato. Ho considerato per parecchi anni i vari aspetti del problema.

— Ti ascolto con molto interesse — disse Joaz.

Carcolo gonfiò le guance. — Tu conosci la leggenda quanto me, forse anche meglio. I nostri antenati arrivarono su Aerlith come profughi, durante la Guerra delle Dieci Stelle. La Coalizione dell’Incubo aveva apparentemente sconfitto il Vecchio Dominio, ma come finì la guerra — e allargò le braccia — non lo sa nessuno.

— C’è un’indicazione significativa — disse Joaz. — I Basici tornano ad Aerlith e fanno ciò che vogliono. Non abbiamo mai visto uomini, qui, eccettuati coloro che servono i Basici.

— Uomini? — chiese sprezzante Carcolo. — Io li chiamo in un altro modo. Comunque, la tua non è altro che una deduzione, e noi non conosciamo il corso della storia. Forse i Basici dominano l’ammasso; forse ci attaccano solo perché siamo deboli e senz’armi. Forse noi siamo gli ultimi uomini. Forse il Vecchio Dominio è risorto. E non dimenticare che sono trascorsi molti anni, dall’ultima comparsa dei Basici su Aerlith.

— Sono trascorsi molti anni da quando Aerlith e Coralyne si sono trovate in una posizione reciproca altrettanto favorevole.

Carcolo gesticolò spazientito. — Una supposizione, che può essere o non essere pertinente. Lascia che ti spieghi l’assioma fondamentale della mia proposta. È piuttosto semplice. Ritengo che la Valle dei Banbeck e la Valle Beata siano troppo piccole per uomini come noi. Meritiamo spazi più vasti.

Joaz ne convenne. — Vorrei che fosse possibile superare le relative difficoltà pratiche.

— Io posso proporre un metodo per eliminare tali difficoltà — asserì Carcolo.

— In tal caso — disse Joaz — potere, gloria e ricchezza sono praticamente nostri.

Carcolo gli lanciò un’occhiata tagliente, e si batté sulle brache con la nappa dorata del fodero. — Rifletti — disse. — I sacerdoti abitavano su Aerlith prima che arrivassimo noi. Nessuno sa da quanto tempo fossero qui. È un mistero. Anzi, cosa sappiamo dei sacerdoti? Quasi nulla. Barattano metallo e vetro in cambio dei nostri prodotti alimentari. Vivono in profonde caverne. Il loro credo è l’isolamento, la fantasticheria, il distacco, comunque lo si voglia chiamare… totalmente incomprensibile per uno come me. — Sfidò Joaz con un’occhiata, e Joaz si limitò a tastarsi il lungo mento. — Si presentano come semplici seguaci di un culto metafisico. In realtà, sono un popolo molto misterioso. Chi ha mai visto un sacerdote donna? E le luci azzurre? E le torri dei lampi, e la magia sacerdotale? E i misteriosi andirivieni notturni, le strane forme che si muovono nei cieli, forse dirette verso altri pianeti?

— Certo, ci sono queste leggende — disse Joaz. — In quanto alla loro credibilità…

— E adesso arriviamo al punto fondamentale della mia proposta! — dichiarò Ervis Carcolo. — A quanto sembra, il credo dei sacerdoti vieta loro di vergognarsi e di tener conto delle conseguenze. Perciò sono costretti a rispondere a qualunque domanda venga loro rivolta. Tuttavia, indipendentemente dal loro credo, confondono ogni informazione che un uomo deciso riesce a estorcergli.

Joaz lo scrutò incuriosito. — È evidente che tu hai compiuto il tentativo.

Ervis Carcolo annuì. — Perché negarlo? Ho interrogato tre sacerdoti, con decisione e perseveranza. Hanno risposto a tutte le mie domande con gravità e serena riflessività, ma non mi hanno detto nulla. — Scosse il capo, esasperato. — Perciò, propongo di ricorrere alla coercizione.

— Sei un uomo coraggioso.

Carcolo scosse modestamente il capo. — Non oserei ricorrere a misure dirette. Ma anche i sacerdoti debbono mangiare. Se la Valle dei Banbeck e la Valle Beata collaborano, potremo usare il metodo persuasivo della fame. Allora forse parleranno con maggiore chiarezza.

Joaz rifletté per qualche istante. Ervis Carcolo rigirava tra le dita la nappa del fodero. — Il tuo piano — disse finalmente Joaz — non è frivolo, ed è ingegnoso, almeno a prima vista. Che genere d’informazioni speri di ottenere? Insomma, qual è il tuo fine ultimo?

Carcolo si avvicinò e puntò l’indice contro le costole di Joaz. — Noi non sappiamo nulla degli altri mondi. Siamo bloccati su questo miserabile pianeta di pietre e di vento, mentre la vita ci passa accanto. Tu presumi che i Basici dominino l’ammasso. E se ti fossi ingannato? E se il Vecchio Dominio fosse ritornato? Pensa alle ricche città, alle gaie località residenziali, ai palazzi, alle isole del piacere! Guarda il cielo notturno. Pensa alle meraviglie che potrebbero essere nostre! Vuoi sapere come possiamo realizzare questi desideri? Io ti rispondo: forse il sistema è così semplice che i sacerdoti lo riveleranno senza riluttanza.

— Vuoi dire…

— La comunicazione con i mondi degli uomini! L’affrancamento da questo piccolo pianeta solitario ai bordi dell’universo!

Joaz Banbeck annuì, dubbioso. — Una visione splendida. Ma l’evidenza fa pensare a una situazione molto diversa, all’annientamento dell’uomo e dell’Impero Umano.

Carcolo levò le mani in un gesto di aperta tolleranza. — Forse hai ragione tu. Ma perché non dovremmo chiederlo ai sacerdoti? In sostanza, ecco cosa propongo: tu e io concordiamo facendo causa comune, come ho detto. Poi, chiediamo udienza al Sacerdote Demie. Gli rivolgiamo le nostre domande. Se risponde francamente, tutto bene. Se si comporta evasivamente, allora agiremo insieme. Niente più viveri per i sacerdoti, fino a quando ci diranno chiaramente quel che vogliamo sapere.

— Vi sono altre valli — disse pensieroso Joaz.

Carcolo fece un gesto vivace. — Possiamo impedire gli scambi, con la persuasione o con la potenza dei nostri draghi.

— In sostanza la tua idea mi piace — disse Joaz. — Ma temo che non sia così semplice.

Carcolo si batté la nappa sulla coscia, vivacemente. — E perché?

— Innanzi tutto, Coralyne brilla fulgida nel cielo. È la nostra prima preoccupazione. Se Coralyne passa senza che i Basici attacchino… allora sarà il momento di approfondire la questione. Inoltre, e questo è forse più importante, dubito molto che potremo sottomettere per fame i sacerdoti. Anzi, lo ritengo impossibile.

Carcolo sbatté le palpebre. — In che senso?

— Si aggirano nudi nel nevischio e nella tempesta: pensi che temano la fame? E potrebbero sempre raccogliere il lichene selvatico. Come potremmo impedirglielo? Tu potresti ricorrere alla coercizione, ma io no. Ciò che si racconta dei sacerdoti può essere superstizione… ma può anche essere meno della verità.

Ervis Carcolo esalò un profondo sospiro disgustato. — Joaz Banbeck, ti ritenevo un uomo deciso. Invece non sai fare altro che trovare lacune.

— Non sono lacune. Sono gravi errori, che potrebbero causare un disastro.

— Bene, allora. Tu hai qualche proposta da fare?

Joaz si accarezzò il mento. — Se, quando Coralyne si sarà allontanata, noi saremo ancora su Aerlith, anziché nella stiva della nave dei Basici, allora potremo fare un piano per impadronirci dei segreti dei sacerdoti. Nel frattempo, ti consiglio di preparare la Valle Beata in vista d’una nuova incursione. Ti sei esteso troppo, con i nuovi vivai e le caserme. Lasciali stare, e provvedi a scavare gallerie sicure!

Ervis Carcolo volse lo sguardo, con fermezza, oltre la Valle dei Banbeck. — Io non sono un uomo che si difende. Io attacco!

— Attaccherai i raggi termici e i raggi ionici con i tuoi draghi?

Ervis Carcolo si girò a guardare di nuovo Joaz Banbeck. — Posso considerarti mio alleato nel piano che ti ho proposto?

— Nei suoi principi più ampi, certamente. Tuttavia, non voglio contribuire ad affamare i sacerdoti o a esercitare su di loro una qualunque coercizione. Potrebbe essere pericoloso, oltre che inutile.

Per un istante, Carcolo non riuscì a dominare la sua antipatia per Joaz Banbeck. — Pericoloso? Puah! Che pericolo può rappresentare un pugno di pacifisti nudi?

— Noi non sappiamo se sono pacifisti. Sappiamo che sono uomini.

Carcolo ridiventò cordiale. — Forse hai ragione tu. Ma almeno in sostanza siamo alleati.

— Sino a un certo punto.

— Bene. Propongo che, se si verificasse l’attacco da te temuto, noi si agisca insieme, con una strategia comune.

Joaz annuì, con aria distaccata. — Potrebbe essere efficace.

— Coordiniamo i nostri piani. Presumiamo che i Basici scendano nella Valle dei Banbeck. Propongo che la tua gente si rifugi nella Valle Beata, mentre l’esercito della Valle Beata si unisce al tuo per proteggerne la ritirata. Allo stesso modo, se i Basici attaccassero la Valle Beata, la mia gente si rifugerebbe temporaneamente presso di te nella Valle dei Banbeck.

Joaz rise divertito. — Ervis Carcolo, mi hai scambiato per un pazzo? Ritorna alla tua valle, rinuncia ai tuoi assurdi progetti grandiosi, e fai scavare gallerie protettive. E in fretta! Coralyne brilla intensamente!

Carcolo rimase immobile, irrigidito. — Debbo intendere che respingi la mia offerta d’alleanza?

— No. Ma non posso incaricarmi di proteggere te e la tua gente, se non vi aiutate da soli. Accetta le mie condizioni, dimostrami che sei un alleato valido… e allora potremo riprendere a parlare di alleanza.

Ervis Carcolo girò bruscamente sui tacchi, e fece un segnale a Bast Givven e alle due giovani guide. Senza una parola, senza uno sguardo, montò sullo splendido Ragno, lo pungolò lanciandolo in una corsa fulminea attraverso l’Orlo, su per il pendio, in direzione del Burrone della Stella Spezzata. I suoi uomini lo seguirono, meno precipitosamente.

Joaz li seguì con lo sguardo, scuotendo il capo con triste stupore. Poi, montando sul suo Ragno, ridiscese il sentiero che portava sul fondo della Valle dei Banbeck.

V

Passò il lungo giorno di Aerlith, corrispondente a sei delle vecchie Unità Diurne.

Nella Valle Beata c’era un’attività rabbiosa, un’atmosfera d’impegno e di decisioni imminenti. I draghi si esercitavano in formazioni più serrate. Le guide e i suonatori di cornetta lanciavano ordini con voci più aspre. Nell’armeria si fondevano le pallottole, si preparava la polvere, si forgiavano e si affilavano le spade.

Ervis Carcolo si dava da fare con teatrale spavalderia, sfinendo un Ragno dopo l’altro e obbligando i suoi draghi alle più svariate evoluzioni. Nelle forze della Valle Beata, erano in maggioranza Rissosi, piccoli draghi attivissimi dalle scaglie rosso-ruggine, sottili teste guizzanti, zanne affilate come scalpelli. Le branchie erano forti e sviluppate. Usavano con la stessa abilità lance, sciabole corte e mazze. Un uomo opposto a un Rissoso non aveva speranze, poiché le scaglie deviavano le pallottole e i colpi più forti che un umano poteva sferrare, e un solo colpo di zanna o la lacerazione d’un artiglio falcato bastava a dare la morte all’uomo.

I Rissosi erano fecondi e resistenti, e prosperavano anche nelle condizioni degli allevamenti della Valle Beata: per questo predominavano nell’esercito di Carcolo. La situazione non entusiasmava Bast Givven, Capo dei Signori dei draghi, un uomo magro e solido con la faccia piatta, il naso adunco, gli occhi neri e vacui come gocce d’inchiostro su un piatto. Solitamente laconico e taciturno, diventò quasi eloquente per opporsi al progetto di assalire la Valle dei Banbeck. — Stai attento, Ervis Carcolo. Siamo in grado di mettere in campo un’orda di Rissosi, e un numero sufficiente di Assassini dai Grandi Passi e di Assassini dal Lungo Corno. Ma Orrori Azzurri, Diavoli e Massacratori… no! Saremo perduti, se quello ci intrappola tra i burroni!

— Non ho intenzione di combattere tra i burroni — disse Carcolo. — Costringerò Joaz Banbeck a battersi dove vogliamo noi. I suoi Massacratori e i suoi Diavoli sono inutili, sugli strapiombi. E siamo quasi pari, per quanto riguarda gli Orrori Azzurri.

— Hai trascurato una difficoltà — disse Bast Givven.

— E sarebbe?

— L’improbabilità che Joaz Banbeck abbia intenzione di lasciarti fare. Mi sembra troppo intelligente.

— Dimostramelo! — ribatté Carcolo in tono d’accusa. — Tutto quel che so di lui indica esitazione e stupidità! Perciò attaccheremo… con forza! — Carcolo si batté il pugno sul palmo. — E così la faremo finita con quegli altezzosi Banbeck!

Bast Givven si voltò per andarsene, Carcolo lo richiamò irosamente. — Non mi sembri entusiasta di questa campagna!

— Io so quel che il nostro esercito può fare e quello che non può fare — rispose francamente Givven. — Se Joaz Banbeck è l’uomo che tu credi, potremmo vincere. Se invece possiede almeno la sagacia di un paio degli stallieri che ho sentito parlare dieci minuti fa, andremo incontro al disastro.

Con voce impastata per la rabbia, Carcolo disse: — Ritorna ai tuoi Diavoli e ai tuoi Massacratori. Voglio che diventino svelti come i Rissosi.

Bast Givven se ne andò. Carcolo balzò su un Ragno, lo spronò a colpi di tallone. Il drago spiccò un salto in avanti, si arrestò di colpo, e girò il lungo collo per guardare in faccia Carcolo. Questi gridò: — Via, via! Avanti a tutta velocità, sbrigati! Fai vedere a questi infingardi cosa sono lo scatto e lo spirito! — Il Ragno schizzò via con tale veemenza che Carcolo venne disarcionato e cadde riverso: piombò a terra e restò lì, gemente.

Gli stallieri accorsero e lo portarono a una panca, su cui egli sedette bestemmiando a voce bassa. Un chirurgo lo esaminò, lo tastò, e ordinò che Carcolo se ne andasse a letto e prendesse una pozione sedativa.

Carcolo fu portato nel suo appartamento, sotto la parete occidentale della Valle Beata, e venne affidato alle cure delle sue mogli. Dormì venti ore. Quando si svegliò, la giornata volgeva ormai al termine.

Avrebbe voluto alzarsi, ma era troppo indolenzito per muoversi; si lasciò ricadere sul letto, gemendo. Poco dopo mandò a chiamare Bast Givven, che si presentò e lo ascoltò senza fare commenti.

Venne la sera. I draghi ritornarono alle caserme. Non c’era altro da fare che attendere l’alba.

Durante la lunga notte, Carcolo venne sottoposto a varie cure: massaggi, bagni caldi, infusi e impacchi. Fece diligentemente ginnastica e, alla fine della nottata, dichiarò che era in perfetta forma. In cielo, la stella Coralyne vibrava di colori velenosi, rosso, verde, bianco… era l’astro più fulgido di tutto l’ammasso. Carcolo non voleva levare gli occhi verso la stella, ma il suo splendore gli colpiva gli occhi, ogni volta che camminava nel fondovalle.

Si avvicinò l’aurora. Carcolo intendeva mettersi in marcia non appena i draghi fossero pronti. Un barlume a oriente annunciò l’imminenza del temporale dell’alba, ancora invisibile oltre l’orizzonte. Con grande cautela, i draghi furono condotti fuori dalle caserme, radunati e disposti in colonna. C’erano quasi trecento Rissosi, ottantacinque Assassini dai Grandi Passi, altrettanti Assassini dal Lungo Corno, cento Orrori Azzurri, cinquantadue Diavoli tozzi, immensamente poderosi, con le code munite di mazze ferrate; diciotto Massacratori. Ringhiavano e borbottavano malignamente tra loro, cercando l’occasione di scambiarsi calci o di strappare una gamba a uno stalliere imprudente. L’oscurità stimolava il loro odio latente per l’umanità, sebbene non sapessero nulla del loro passato, né delle circostanze che li avevano ridotti in schiavitù.

I lampi dell’alba balenarono rischiarando le guglie verticali e i picchi vertiginosi delle Montagne della Sfortuna. Il temporale passò, tra raffiche di vento ululante e scrosci di pioggia, e si diresse verso la Valle dei Banbeck. L’oriente splendeva di un pallore verdegrigio: Carcolo diede il segnale di mettersi in marcia.

Ancora indolenzito e irrigidito, si avviò zoppicando verso il suo Ragno, montò, ordinò al drago di eseguire una teatrale corvetta. Fu un errore. La malignità notturna dominava ancora la mente del drago. Concluse la corvetta con un guizzo del collo che ancora una volta scagliò Carcolo al suolo, dove giacque quasi fuori di sé per la sofferenza e la frustrazione.

Cercò di rialzarsi, ricadde; tentò di nuovo e svenne.

Rimase privo di sensi per cinque minuti, poi parve scuotersi per pura forza di volontà.

— Sollevatemi — bisbigliò con voce rauca. — Legatemi sulla sella. Dobbiamo metterci in marcia. — Poiché era chiaramente impossibile, nessuno si mosse. Carcolo s’infuriò, e alla fine chiamò Bast Givven. — Procedi; non possiamo fermarci proprio ora. Tu guiderai le truppe.

Givven annuì, lugubre. Era un onore cui non teneva affatto.

— Conosci il piano di battaglia — fece lamentosamente Carcolo. — Gira a nord della Zanna, attraversa lo Skanse a tutta velocità, devia a nord intorno al Crepaccio Azzurro, poi a sud lungo l’Orlo dei Banbeck. Si può prevedere che là Joaz Banbeck vi scopra. Dovete spiegare le vostre forze, in modo che quando lui farà avanzare i suoi Massacratori voi possiate respingerli con i Diavoli. Evita d’impegnare i nostri Massacratori. Attaccalo con i Rissosi: tieni di riserva gli Assassini per colpirlo quando arriva all’orlo. Hai capito?

— Come lo spieghi tu, la vittoria è sicura — borbottò Bast Givven.

— Lo è, infatti, a meno che tu commetta grossi errori. Ah, la mia schiena! Non posso muovermi. Mentre infunerà la grande battaglia, io dovrò starmene accanto al vivaio, a guardare le uova che si schiudono! Ora vai! Colpisci con forza, per la Valle Beata!

Givven diede l’ordine. Le truppe si misero in marcia.

I Rissosi sfrecciarono all’avanguardia, seguiti dai serici Assassini dai Grandi Passi e dai più pesanti Assassini dal Lungo Corno, che avevano il fantastico sperone pettorale munito d’un puntale d’acciaio. Dietro venivano i ponderosi Massacratori, che grugnivano e gorgogliavano e digrignavano i denti per le vibrazioni di ogni passo. A fianco dei Massacratori marciavano i Diavoli, armati di sciabole corte e pesanti, tenendo alte le mazze ferrate caudali, come lo scorpione ostenta il pungiglione. Poi, alla retroguardia, venivano gli Orrori Azzurri, massicci e svelti, buoni arrampicatori, non meno intelligenti dei Rissosi. Ai fianchi procedevano cento uomini: Signori dei draghi, cavalieri, guide e suonatori di cornetta. Erano armati di spade, pistole e fucili a trombone.

Carcolo li seguì con lo sguardo da una barella, fino a quando scomparvero, e poi si fece riportare al portale che conduceva nelle grotte della Valle Beata.

Mai, prima d’ora, le caverne gli erano sembrate tanto squallide. Guardò risentito la fila irregolare di baracche lungo lo strapiombo, costruite di pietre, lastre di lichene impregnato di resina, canne tenute insieme dal catrame. Dopo aver concluso la campagna contro Banbeck, avrebbe dato ordine di aprire nuove camere e gallerie nella roccia. Le splendide decorazioni del Villaggio di Banbeck erano famose. La Valle Beata sarebbe diventata ancora più magnifica. Le gallerie sarebbero state uno splendore d’opale e di madreperla, d’argento e d’oro… Eppure, a che scopo? Se tutto andava secondo i suoi piani, c’era il suo sogno grandioso da realizzare. E allora, che importanza avrebbero avuto le banali decorazioni delle gallerie della Valle Beata?

Gemendo, si lasciò ricondurre a letto e passò il tempo immaginando l’avanzata delle sue truppe. Ormai dovevano avere iniziato la discesa della Cresta Pendente, per aggirare la Zanna alta un miglio.

Provò a stirare le braccia, a muovere le gambe. I muscoli protestarono. Fitte dolorose gli trafiggevano il corpo… ma sembrava che le lesioni fossero meno gravi, adesso. Ormai il suo esercito stava sicuramente scalando i bastioni che cingevano l’ampia area di burroni chiamata Skanse… Il chirurgo gli portò una pozione. Carcolo la bevve e si addormentò, e si svegliò con un sussulto. Che ora era? Le sue truppe potevano aver già incominciato a battersi!

Si fece condurre al portale; e poi, non soddisfatto, ordinò ai servitori di trasportarlo attraverso la valle, al nuovo vivaio dei draghi, il cui camminamento dominava l’intera vallata. Nonostante le proteste delle sue mogli, venne portato là, e sistemato comodamente, per quanto lo permettevano le lividure e le lussazioni.

Carcolo si preparò a un’attesa interminabile. Ma non tardarono a giungere notizie.

Dalla Pista Nord arrivò un suonatore di cornetta, in sella a un Ragno coperto di bava. Carcolo gli mandò incontro uno stalliere e, dimentico dei suoi dolori, si alzò dal giaciglio. Il suonatore di cornetta si buttò dalla cavalcatura, salì vacillando la rampa e si abbandonò esausto contro la staccionata.

— Imboscata! — ansimò. — Disastro!

— Un’imboscata? — gemette Carcolo con voce cupa. — Dove?

— Mentre salivamo sui bastioni dello Skanse. Hanno atteso che i nostri Rissosi e gli Assassini fossero passati, e poi hanno caricato con gli Orrori, i Diavoli e i Massacratori. Hanno diviso in due la nostra formazione, ci hanno ricacciati, e poi hanno fatto rotolare macigni sui nostri Massacratori! Il nostro esercito è annientato!

Carcolo si abbandonò sul giaciglio, guardando il cielo. — Quanti ne abbiamo perduti?

— Non lo so. Givven ha ordinato la ritirata. Abbiamo ripiegato nel miglior modo possibile.

Carcolo sembrava in coma. Il suonatore di cornetta si lasciò cadere su una panca.

A nord apparve una colonna di polvere, e poco dopo si dissolse e si separò, rivelando un certo numero di draghi della Valle Beata. Erano tutti feriti. Marciavano, saltellavano, zoppicavano, si trascinavano a casaccio, gracchiando, lanciando occhiate feroci e barriti. Veniva per primo un gruppo di Rissosi, che facevano sfrecciare a destra e a sinistra le teste maligne; poi un paio di Orrori Azzurri, con le branchie che si torcevano e si serravano quasi come braccia umane; poi un Massacratore, massiccio, simile a un rospo, che procedeva a zampe larghe per la debolezza. Quando si avvicinò alle caserme si rigirò, cadde con un tonfo e restò immobile, con le gambe e gli artigli levati in aria.

Dalla Pista del Nord giunse Bast Givven, stravolto e coperto di polvere. Smontò dal Ragno che si reggeva a stento, salì la rampa. Con uno sforzo straziante, Carcolo si sollevò di nuovo a sedere sul giaciglio.

Givven fece il suo rapporto con una voce così normale da sembrare noncurante: ma neppure l’insensibile Carcolo si lasciò ingannare. Chiese, sgomento: — Dov’è stata l’imboscata, esattamente?

— Abbiamo scalato i Bastioni attraverso il Burrone Chloris. Dove lo Skanse scende nel burrone, c’è un grande sperone di porfido. Era là che che ci aspettavano.

Carcolo sibilò tra i denti: — Incredibile.

Bast Givven annuì appena.

Carcolo disse: — Immaginiamo che Joaz Banbeck sia partito durante il temporale dell’alba, prima di quanto io ritenessi possibile. Immaginiamo che abbia costretto le sue truppe a correre. Come poteva, in ogni caso, raggiungere i Bastioni dello Skanse prima di noi?

— Secondo me — disse Givven — l’imboscata non rappresentava una minaccia fino a quando avessimo attraversato lo Skanse. Avevo intenzione di far pattugliare il Dosso di Barch, giù per il Burrone Azzurro e fin oltre il Crepaccio Azzurro.

Carcolo annuì cupamente. — E allora, come ha fatto Joaz Banbeck a portare così in fretta le sue truppe ai Bastioni?

Givven si voltò e scrutò la valle, dove i draghi e gli uomini feriti scendevano in disordine la Pista del Nord. — Non ne ho idea.

— Una droga? — fece Carcolo, sconcertato. — Una pozione per tenere tranquilli i draghi? È possibile che abbia bivaccato sullo Skanse tutta la notte?

— Questo è possibile — ammise Givven, in tono di rancore. — Sotto la Guglia di Barch vi sono caverne vuote. Se ha acquartierato lì le sue truppe durante la notte, ha dovuto solo attraversare lo Skanse per tenderci l’agguato.

Carcolo grugnì. — Forse abbiamo sottovalutato Joaz Banbeck. — Si lasciò ricadere sul giaciglio con un gemito. — Dunque, che perdite abbiamo subito?

Il conto era spaventoso. Della squadra dei Massacratori, già insufficiente, ne restavano soltanto sei. Dei cinquantadue Diavoli, quaranta erano sopravvissuti, ma cinque erano gravemente feriti. I Rissosi, gli Orrori Azzurri e gli Assassini avevano subito grosse perdite. Moltissimi erano stati fatti a pezzi al primo assalto. Molti altri erano stati scagliati giù dai Bastioni, lasciando i loro gusci corazzati sui detriti. Dei cento uomini, dodici erano stati uccisi dalle pallottole, altri quattordici dai draghi. Altri venti erano feriti in modo più o meno grave.

Carcolo rimase disteso, a occhi chiusi, muovendo debolmente le labbra.

— Ci ha salvati la conformazione del terreno — disse Givven. — Joaz Banbeck non si è azzardato a fare avventurare le sue truppe nel burrone. Se c’è stato un errore tattico, è stato lui a commetterlo. Aveva portato un numero insufficiente di Rissosi e di Orrori Azzurri.

— È una ben misera consolazione — ringhiò Carcolo. — Dov’è il resto dell’esercito?

— Ci siamo attestati in una buona posizione sulla Cresta Pendente. Non abbiamo visto esploratori di Banbeck, né umani né Rissosi. Forse è convinto che ci siamo ritirati nella valle. Comunque, il grosso delle sue forze è ancora ammassato sullo Skanse.

Con uno sforzo immane, Carcolo si alzò in piedi.

Attraversò barcollando il camminamento per affacciarsi sul dispensario. Cinque Diavoli stavano accovacciati nelle vasche di balsamo, borbottando e sospirando. Un Orrore Azzurro era sospeso su un’amaca, e gemeva mentre i chirurghi estraevano dalla carne grigia frammenti di corazza. Mentre Carcolo stava guardando, uno dei Diavoli si alzò sulle zampe anteriori, schiumando bava dalle branchie. Lanciò uno strano grido acutissimo e ricadde morto nella vasca di balsamo.

Carcolo si rivolse a Givven. — Ecco cosa devi fare. Sicuramente Joaz Banbeck ha mandato avanti qualche pattuglia. Ritirati lungo la Cresta Pendente. Poi, cercando di non farvi scorgere dalle pattuglie, nascondetevi in una delle Gole della Disperazione. La Gola di Tormalina andrà bene. Ecco come la penso io. Banbeck penserà che vi stiate ritirando nella Valle Beata, quindi si precipiterà verso sud, intorno alla Zanna, per attaccarvi mentre scendete dalla Cresta Pendente. Quando passerà sotto la Gola di Tormalina, voi sarete in vantaggio. E allora potrete annientare Joaz Banbeck con tutte le sue truppe.

Bast Givven scosse energicamente il capo. — E se le sue pattuglie ci individuano, nonostante le nostre precauzioni? Basterà che ci segua, per imbottigliarci nella Gola di Tormalina, senz’altra via di fuga che la traversata di Monte Disperazione o del Burrone della Stella Spezzata. E se ci avventuriamo nel Burrone della Stella Spezzata, i suoi Massacratori ci annienteranno in pochi minuti.

Ervis Carcolo tornò al suo giaciglio e vi si lasciò cadere pesantemente. — Riporta le truppe alla Valle Beata. Ci raggrupperemo e attenderemo un’altra occasione.

VI

Scavata nello strapiombo roccioso a sud del picco che racchiudeva l’appartamento di Joaz, c’era una vasta camera, chiamata Sala di Kergan. Le proporzioni, la semplicità e la mancanza di ornamenti, i massicci mobili antichi contribuivano a conferirle un senso di personalità e un odore esclusivamente suo. L’odore trasudava dalle nude pareti di pietra, dal pavimento di muschio pietrificato, dal legno vecchio… un sentore rude e maturo che Joaz aveva sempre detestato, come detestava ogni altro aspetto della sala. Le dimensioni gli sembravano arroganti; l’assenza d’ornamenti gli pareva rozza, se non addirittura brutale. Un giorno, Joaz aveva pensato che non detestava la sala, in realtà, ma Kergan Banbeck e tutte le leggende esagerate che lo alonavano.

Tuttavia, sotto molti aspetti, la sala era gradevole. Tre alte finestre a sesto acuto si affacciavano sulla valle: erano formate da piccoli riquadri di vetro verdazzurro montati su rapporti di legno nero. Anche il soffitto era rivestito di legno; e lì c’era un certo sfoggio della tipica ornamentazione di Banbeck. C’erano finti capitelli di lesena, con teste grottesche, un fregio di fronde di felce stilizzate. I mobili erano in tutto tre: due alti seggi scolpiti e un tavolo massiccio, tutti di lucido legno nero, tutti immensamente antichi.

Joaz aveva trovato un modo per utilizzare la sala. Sul tavolo c’era una mappa dettagliata a rilievo, raffigurante la zona, in scala di tre pollici per un miglio. Al centro c’era la Valle dei Banbeck, a destra la Valle Beata, separata da un caos di picchi e di precipizi, strapiombi, guglie, muraglie e cinque vette titaniche: Monte Gethron a sud, Monte Disperazione al centro, la Guglia di Barch, la Zanna e Monte Sereno al nord.

Davanti a Monte Gethron si estendeva il Labirinto Alto, poi il Burrone della Stella Spezzata giungeva fino a Monte Disperazione e alla Guglia di Barch. Oltre Monte Disperazione, tra i Bastioni dello Skanse e il Dosso di Barch, lo Skanse si spingeva fino ai tormentati canaloni di basalto e alle alture ai piedi di Monte Sereno.

Mentre Joaz studiava la mappa, Phade entrò nella sala. Era maliziosamente silenziosa, ma Joaz sentì la sua vicinanza dal profumo d’incenso, nel cui fumo si era immersa prima di venirlo a cercare. Indossava il tradizionale abito festivo delle fanciulle di Banbeck: una guaina aderente d’intestino di drago, con bordi di pelliccia marrone al collo, ai gomiti e alle ginocchia. Un alto cappello cilindrico, frastagliato alla sommità, stava in equilibrio sui riccioli bruni, e sulla cima del cappello ondeggiava una piuma rossa.

Joaz finse di non essersi accorto della sua presenza. Lei gli si accostò, alle spalle, per solleticargli la nuca con il colletto di pelliccia. Joaz simulò una stolida indifferenza. Phade, che non si era lasciata ingannare, assunse un’espressione di dolorosa preoccupazione: — Finiremo tutti uccisi? Come procede la guerra?

— Per la Valle dei Banbeck, la guerra va bene. Per il povero Ervis Carcolo della Valle Beata, va decisamente male.

— Hai intenzione di annientarlo! — intonò Phade, con una sfumatura sommessa d’accusa. — Lo ucciderai! Povero Ervis Carcolo!

— Non merita altro.

— Ma che ne sarà della Valle Beata?

Joaz Banbeck scrollò pigramente le spalle. — Cambierà in meglio.

— Cercherai di regnarvi tu?

— No.

— Pensa! — sussurrò Phade. — Joaz Banbeck, Tiranno della Valle dei Banbeck, della Valle Beata, del Canalone di Fosforo, del Lago, del Rifugio ad Anello e della Grande Spaccatura Settentrionale.

— No — disse Joaz. — Ti piacerebbe regnare al mio posto?

— Oh! Davvero! Quanti cambiamenti vi sarebbero! Vestirei i sacerdoti di nastri rossi e gialli, ordinerei loro di cantare e danzare e di bere il vino di maggio. I draghi li manderei a sud, in Arcadia, a eccezione di pochi Rissosi d’indole mite che terrei per custodire i bambini. E basta con queste furiose battaglie. Brucerei le corazze e spezzerei le spade; farei…

— Mia cara farfallina — disse Joaz, con una risata — il tuo regno sarebbe davvero molto breve!

— Perché breve? Perché non dovrebbe durare per sempre? Se gli uomini non avessero i mezzi per combattere…

— E quando arrivassero i Basici… li accoglieresti buttando loro ghirlande di fiori?

— Puah. Non si faranno più vedere. Che cosa ci guadagnano a molestare poche valli remote?

— Chi lo sa cosa ci guadagnano? Noi siamo uomini liberi. Forse gli ultimi uomini liberi dell’universo. Chissà. E torneranno? Coralyne brilla fulgida nel cielo!

All’improvviso, Phade si mostrò piena d’interesse per la mappa in rilievo.

— E la guerra in corso… spaventosa. Attaccherai o ti difenderai?

— Questo dipende da Ervis Carcolo — disse Joaz. — Debbo solo attendere che si scopra. — Poi, abbassando lo sguardo sulla mappa, aggiunse pensieroso: — È abbastanza abile per causarmi danni, a meno che io mi muova con prudenza.

— E se i Basici tornano mentre tu combatti contro Carcolo?

Joaz sorrise. — Forse allora fuggiremo tutti nei Labirinti. Forse combatteremo tutti.

— Io mi batterò al tuo fianco — dichiarò Phade, assumendo un’aria coraggiosa. — Attaccheremo la grande astronave dei Basici, sfidando i raggi termici, deviando le scariche d’energia. Assedieremo il portale. Tireremo il naso al primo scorridore che si affaccerà!

— C’è una piccola lacuna nella tua strategia, altrimenti così saggia — disse Joaz. — Come si fa a prendere un Basico per il naso?

— In tal caso — disse Phade — li prenderemo per il… — Girò la testa, sentendo un rumore nel corridoio. Joaz attraversò la sala, spalancò la porta. Il vecchio Rife, il siniscalco, si fece avanti. — Mi avevi detto di chiamarti quando la bottiglia si fosse rovesciata o si fosse rotta. Ebbene, s’è rovesciata e si è rotta.

Joaz passò davanti a Rife e si avviò correndo per il corridoio. — Cosa significa? — chiese Phade. — Rife, perché quello che hai detto lo ha tanto sconvolto?

Rife scosse il capo, freneticamente. — Sono sconcertato quanto te. Mi ha indicato una bottiglia. «Sorvegliala giorno e notte»… mi ha ordinato. E poi: «Quando la bottiglia si rompe o si rovescia, chiamami subito». Mi sono detto che si trattava sicuramente d’una sinecura. E mi sono domandato se Joaz mi considerava tanto rimbambito da accontentarmi di una mansione inutile, come sorvegliare una bottiglia. Sono vecchio, il mento mi trema, ma non sono stupido. E, con mia grande sorpresa, la bottiglia si è rotta! La spiegazione, certo, è semplice. È caduta sul pavimento. Tuttavia, pur senza sapere cosa significhi, ho obbedito agli ordini e ne ho informato Joaz Banbeck.

Phade si agitava spazientita.

— E dov’è la bottiglia?

— Nello studio di Joaz Banbeck.

Phade corse via a tutta la velocità consentitale dalla guaina che le stringeva le cosce; prese una galleria traversa, superò la Via di Kergan passando per un ponte coperto e salì una rampa che conduceva all’appartamento di Joaz.

Phade corse per la lunga galleria, attraversò l’anticamera, dove una bottiglia rotta stava sul pavimento, si precipitò nello studio e si fermò sbalordita. Non c’era nessuno. Notò che una sezione degli scaffali era spostata ad angolo. Senza far rumore, timorosamente, attraversò la stanza e sbirciò giù nel laboratorio.

Era una scena strana. Joaz stava ritto, negligentemente, sorridendo imperturbabile, mentre in fondo alla stanza un sacerdote nudo cercava con aria grave di spostare una barriera che era scesa di scatto attraverso un tratto del muro. Ma la grata era ingegnosamente fissata, e gli sforzi del sacerdote erano inutili.

Si voltò, lanciò un’occhiata a Joaz, e poi si mosse per passare nello studio.

Phade trattenne il respiro e indietreggiò.

Il sacerdote passò nello studio e si diresse alla porta.

— Un momento — disse Joaz. — Desidero parlare con te.

Il sacerdote si soffermò e girò la testa con aria mite e interrogativa. Era giovane, e aveva un volto blando, vacuo, quasi bello. La pelle fine, trasparente, era tesa sulle ossa chiare. Gli occhi grandi, azzurri, innocenti, sembravano fissi e sfocati. Aveva una struttura delicata e scarna. Le mani erano esili e le dita tremavano come per una sorta di squilibrio nervoso. La lunga chioma castana gli scendeva sul dorso, fin quasi alla vita.

Joaz sedette con ostentata lentezza, senza distogliere gli occhi dal sacerdote. Poi parlò, in un tono acuto, minaccioso. — Giudico il tuo comportamento tutt’altro che gradito. — Era una dichiarazione che non richiedeva una risposta, e il sacerdote non disse nulla.

— Accomodati, prego — disse Joaz. Indicò una panca. — Hai molte spiegazioni da dare.

Era solo l’immaginazione di Phade? Oppure una scintilla di divertimento guizzò e si spense quasi istantaneamente negli occhi del sacerdote? Ma non disse nulla neppure questa volta. Joaz, adattandosi alle bizzarre regole cui bisognava adeguarsi nel comunicare con i sacerdoti, chiese: — Vuoi sederti?

— Non ha importanza — disse il sacerdote. — Poiché ora sono in piedi, resterò in piedi.

Joaz si alzò e compì un gesto che non aveva precedenti. Spinse la panca dietro al sacerdote, batté sulla parte posteriore dei ginocchi nodosi e spinse con fermezza il sacerdote, costringendolo a sedere. — Poiché adesso sei seduto — gli disse — tanto vale che tu rimanga seduto.

Con mite dignità, il sacerdote tornò ad alzarsi. — Starò in piedi.

Joaz scrollò le spalle. — Come preferisci. Intendo rivolgerti alcune domande. Spero che collaborerai e risponderai con precisione.

Il sacerdote sbatté le palpebre come un gufo.

— Lo farai?

— Certamente. Tuttavia, preferirei andarmene come sono venuto.

Joaz non badò a quel commento. — Innanzi tutto — chiese — perché vieni nel mio studio?

Il sacerdote parlò cautamente, con il tono che avrebbe potuto usare con un bambino. — Il tuo linguaggio è vago. Sono confuso e non debbo rispondere, poiché sono vincolato da un voto a dire soltanto la verità a chiunque la richieda.

Joaz si sistemò sulla sedia. — Non c’è fretta. Sono disposto a una lunga discussione. Permettimi di chiederti, dunque: hai avuto qualche impulso che puoi spiegarmi, e che ti ha indotto o costretto a venire nel mio studio?

— Sì.

— Quanti di tali impulsi riconosci?

— Non so.

— Più d’uno?

— Forse.

— Meno di dieci?

— Non so.

— Uhm… Perché sei incerto?

— Non sono incerto.

— Perché non puoi precisare il numero che ti ho chiesto?

— Tale numero non esiste.

— Capisco… Vuoi dire, forse, che vi sono diversi elementi di un unico motivo che ha indotto il tuo cervello a impartire ordini ai tuoi muscoli, affinché ti portassero qui?

— È possibile.

Le labbra sottili di Joaz si torsero in un fievole sorriso di trionfo. — Puoi descrivere un elemento del motivo decisivo?

— Sì.

— Allora descrivilo.

Era un imperativo, e il sacerdote era inaccessibile agli imperativi. Ogni forma di coercizione nota a Joaz, il fuoco, la spada, la sete, la mutilazione, per un sacerdote non era altro che un fastidio: l’ignorava come se non esistesse. L’unico mondo della realtà era il suo personale mondo interiore. Agire o reagire nei confronti degli affari degli Uomini Totali lo avrebbe sminuito. La passività totale e la totale sincerità erano i suoi comportamenti inevitabili. Joaz se ne rese conto e formulò il comando in modo diverso: — Sai pensare a un elemento del motivo che ti ha spinto a venire qui?

— Sì.

— Qual è?

— Il desiderio di girovagare.

— Sai pensarne un altro?

— Sì.

— Quale?

— Il desiderio di camminare.

— Capisco… Tra parentesi, stai cercando di eludere le mie domande?

— Io rispondo alle domande che tu mi rivolgi. Finché lo faccio, finché schiudo la mia mente a tutti coloro che cercano la conoscenza, poiché questo è il nostro credo, non posso eludere le domande.

— Se lo dici tu. Tuttavia, non mi hai dato una risposta che io possa ritenere soddisfacente.

L’unica reazione del sacerdote a quel commento fu una dilatazione quasi impercettibile delle pupille.

— Benissimo, allora — disse Joaz Banbeck. — Sai pensare a un altro elemento del complesso motivo che stiamo discutendo?

— Sì.

— Qual è?

— Mi interessano le cose antiche. Sono venuto nel tuo studio per ammirare le tue reliquie dei vecchi mondi.

— Davvero? — Joaz inarcò le sopracciglia. — Sono fortunato a possedere simili tesori affascinanti. Quale delle mie antichità ti interessa soprattutto?

— I tuoi libri. Le tue mappe. Il tuo grande globo dell’Archeo-mondo.

— L’Archeo-mondo? L’Eden?

— Questo è uno dei suoi nomi.

Joaz sporse le labbra. — Perciò sei venuto qui a studiare le mie antichità. Benissimo, allora, quali altri elementi compongono il tuo motivo?

Il sacerdote esitò un istante. — Mi è stato suggerito di venire qui.

— Da chi?

— Dal Demie.

— Perché lo ha suggerito?

— Sono incerto.

— Puoi fare qualche congettura?

— Sì.

— Quali sono tali congetture?

Il sacerdote fece un piccolo gesto vago con le dita di una mano. — Forse il Demie desidera diventare un Uomo Totale, e perciò cerca di apprendere i principi della vostra esistenza. Oppure il Demie potrebbe desiderare di scambiare gli oggetti. Il Demie potrebbe essere affascinato dalla mia descrizione delle tue antichità. Oppure il Demie potrebbe provare curiosità per i tuoi vetri ottici. Oppure…

— Basta così. Quale, tra queste congetture e le altre che non hai ancora rivelato, tu consideri più probabile?

— Nessuna.

Joaz inarcò di nuovo le sopracciglia. — Come lo giustifichi?

— Poiché può essere formulato qualunque numero desiderato di congetture, il denominatore di ogni quoziente di probabilità è variabile, e l’intero concetto diviene aritmeticamente insignificante.

Joaz sorrise stancamente. — Tra le congetture che fino a questo istante ti sono venute in mente, quale consideri più verosimile?

— Sospetto che il Demie potesse ritenere desiderabile che io venissi qui per stare in piedi.

— E cosa ci guadagni, stando in piedi?

— Nulla.

— Quindi il Demie non ti ha mandato qui per stare in piedi.

Il sacerdote non fece commenti all’affermazione di Joaz.

Joaz formulò meticolosamente una domanda: — Cosa credi che il Demie speri che tu guadagni, venendo qui per stare in piedi?

— Credo desideri che io impari come pensano gli Uomini Totali.

— E venendo qui, tu impari come io penso?

— Sto imparando moltissimo.

— E in che modo ti torna utile?

— Non so.

— Quante volte hai visitato il mio studio?

— Sette volte.

— Perché sei stato prescelto proprio tu, per venire qui?

— Il sinodo ha approvato il mio tand. Forse io sarò il prossimo Demie.

Joaz girò la testa per rivolgersi a Phade. — Prepara il tè. — Poi parlò di nuovo al sacerdote. — Che cos’è un tand?

Il sacerdote trasse un profondo respiro. — Il mio tand è la rappresentazione della mia anima.

— Uhm. Che aspetto ha?

L’espressione del sacerdote era impenetrabile. — Non è possibile descriverlo.

— Io ce l’ho?

— No.

Joaz scrollò le spalle. — Allora tu puoi leggere i miei pensieri.

Silenzio.

— Puoi leggere i miei pensieri?

— Non molto bene.

— Perché dovresti desiderare di leggere nei miei pensieri?

— Viviamo nello stesso universo. Poiché a noi non è permesso di agire, siamo obbligati a conoscere.

Joaz sorrise scettico. — In che modo vi aiuta la conoscenza, se non agite in base a essa?

— Gli eventi seguono il Razionale, come l’acqua si riversa in una depressione e forma una pozza.

— Bah! — fece Joaz, improvvisamente irritato. — La vostra dottrina vi impegna a non interferire nei nostri fatti, tuttavia permettete che il vostro “Razionale” crei condizioni tali da poter influenzare gli eventi. È esatto?

— Non sono sicuro. Noi siamo gente passiva.

— Tuttavia, il tuo Demie doveva avere un piano in mente, quando ti ha mandato qui. Non è esatto?

— Non sono in grado di dirlo.

Joaz passò a una nuova serie di domande. — Dove porta la galleria dietro il mio laboratorio?

— In una caverna.

Phade posò una teiera d’argento davanti a Joaz. Questi versò il tè e lo sorseggiò pensosamente. Vi erano innumerevoli varietà di contesti. Lui e il sacerdote erano impegnati in un gioco a nascondino di parole e d’idee. Il sacerdote era un esperto in fatto di pazienza e di agili evasioni, e per pararle Joaz poteva ricorrere all’orgoglio e alla decisione. Il sacerdote era ostacolato dalla necessità innata di dire la verità. Joaz, d’altra parte, doveva brancolare come un uomo bendato, ignaro della meta che cercava, ignaro del premio da conquistare. Benissimo, pensò Joaz: continuiamo. Vedremo a chi cederanno prima i nervi. Offrì il tè al sacerdote, che rifiutò con una scrollata di capo così rapida e breve da sembrare un brivido.

Joaz fece un gesto, per indicare che per lui era lo stesso.

— Se desideri cibi o bevande — disse — ti prego di farlo sapere. Godo tanto della tua conversazione che forse la prolungherò fino al limite della tua pazienza. Senza dubbio preferisci sedere?

— No.

— Come desideri. Bene, dunque, riprendiamo la nostra discussione. La caverna cui hai accennato è abitata da sacerdoti?

— Non capisco la tua domanda.

— I sacerdoti usano la caverna?

— Sì.

Alla fine, frammento per frammento, Joaz riuscì a farsi dire che la caverna era in comunicazione con una serie di camere, nelle quali i sacerdoti fondevano i metalli, bollivano il vetro, mangiavano, dormivano, seguivano i loro rituali. Un tempo c’era stata un’apertura sulla Valle dei Banbeck, ma già anticamente era stata bloccata. Perché? C’erano guerre in tutto l’ammasso: bande di uomini sconfitti si rifugiavano su Aerlith, insediandosi nei burroni e nelle valli. I sacerdoti preferivano un’esistenza isolata e perciò avevano chiuso le loro caverne. Dov’era quell’apertura? Il sacerdote rispose in modo vago. All’estremità settentrionale della valle. Dietro il Labirinto dei Banbeck? Forse. Ma il commercio tra uomini e sacerdoti si svolgeva all’ingresso di una grotta, ai piedi del Monte Gethron. Perché? Questione d’abitudine, dichiarò il sacerdote. Inoltre, quella località era più facilmente accessibile dalla Valle Beata e dal Canalone di Fosforo. Quanti sacerdoti vivevano in quelle caverne? Incertezza. Alcuni potevano essere morti, nel frattempo, e potevano esserne nati altri. Quanti erano approssimativamente, quella mattina? Circa cinquecento.

A questo punto, il sacerdote stava barcollando, e Joaz era rauco. — Ritorniamo al tuo motivo, o agli elementi del motivo che ti ha spinto a venire nel mio studio. Sono in qualche modo collegati alla stella Coralyne, e forse a una nuova venuta dei Basici, o greph, com’erano chiamati un tempo?

Ancora una volta il sacerdote parve esitare. Poi: — Sì.

— I sacerdoti ci aiuteranno contro i Basici, se dovessero ritornare?

— No. — La risposta fu laconica e netta.

— Ma immagino che i sacerdoti desiderino che i Basici vengano scacciati.

Nessuna risposta.

Joaz riformulò la domanda. — I sacerdoti desiderano che i Basici vengano scacciati da Aerlith?

— Il Razionale ci ordina di tenerci lontani dagli affari degli umani e dei non umani.

Joaz aggricciò le labbra. — Supponiamo che i Basici invadessero la vostra caverna e vi trascinassero tutti sul pianeta di Coralyne. Che fareste?

Il sacerdote sembrava quasi sul punto di mettersi a ridere. — È una domanda cui non si può rispondere.

— Opporreste resistenza ai Basici, se facessero questo tentativo?

— Non posso rispondere alla tua domanda.

Joaz rise. — Ma la risposta non è “no”?

Il sacerdote assentì.

— Allora avete armi?

I miti occhi azzurri del sacerdote si abbassarono. Segretezza? Stanchezza? Joaz ripeté la domanda.

— Sì — disse il sacerdote. Gli si piegarono le ginocchia, ma le raddrizzò di scatto.

— Che specie di armi?

— Innumerevoli varietà. Proiettili, come le pietre. Armi penetranti, come i fuscelli spezzati. Armi da taglio, come gli utensili da cucina. — La sua voce cominciò ad affievolirsi, come se egli si stesse pian piano allontanando. — Veleni: arsenico, zolfo, triventidum, acido, spore nere. Armi incendiarie, come le torce e le lenti per concentrare i raggi del sole. Armi per soffocare: corde, nodi scorsoi, funi e cappi. Cisterne, per annegare i nemici…

— Siediti. Riposa — lo esortò Joaz. — Il tuo inventario m’interessa, ma gli effetti totali mi sembrano inadeguati. Avete altre armi che potrebbero respingere in modo decisivo i Basici, se dovessero assalirvi?

Per caso o di proposito, la domanda non ebbe risposta. Il sacerdote cadde lentamente in ginocchio, come per pregare. Crollò bocconi, poi si rovesciò sul fianco. Joaz balzò verso di lui, afferrò per i capelli la testa ciondolante, la sollevò. Gli occhi semiaperti mostravano la sclerotica bianca. — Parla! — gracchiò Joaz. — Rispondi alla mia ultima domanda! Avete armi… o un’arma, per respingere un attacco dei Basici?

Le labbra pallide si mossero appena. — Non so.

Joaz aggrottò la fronte, scrutò il volto cereo, e si ritrasse sbigottito. — Quest’uomo è morto — bisbigliò.

VII

Phade, che si era assopita su un divano, alzò la testa, rossa in viso, con i capelli scompigliati. — L’hai ucciso! — esclamò con voce soffocata dall’orrore.

— No. È morto… o ha fatto in modo di morire.

Phade attraversò la stanza, vacillando e sbattendo le palpebre, e si avvicinò a Joaz che la spinse via, distrattamente. La menestrella fece una smorfia, scrollò le spalle e poi, dato che Joaz non le badava, uscì.

Joaz tornò a sedersi, fissando il corpo esanime. — Non si era stancato — mormorò — fino a quando ho affrontato i segreti.

Poi balzò in piedi, andò nel corridoio d’ingresso, e mandò Rife a chiamare un barbiere. Un’ora dopo il cadavere, privato della chioma, giaceva su un pagliericcio coperto da un lenzuolo, e Joaz teneva tra le mani una rozza parrucca confezionata con i lunghi capelli del morto.

Il barbiere se ne andò. I servitori portarono via il cadavere. Joaz rimase solo nel suo studio, teso e stordito. Si spogliò, rimase nudo come il sacerdote. Impacciato, si calcò la parrucca sulla testa e si guardò in uno specchio. Per un occhio distratto, c’era qualche differenza? Mancava qualcosa: il monile. Joaz se lo mise al collo. Scrutò di nuovo la propria immagine, con dubbia soddisfazione.

Entrò nel laboratorio, esitò, rimosse la trappola, e spostò cautamente la lastra di pietra. Accoccolandosi sulle mani e sulle ginocchia, scrutò nella galleria e, poiché era buio, protese davanti a sé una fiala di vetro, piena d’alghe luminescenti. Nella luce fioca, la gallerìa sembrava deserta.

Scacciando irrevocabilmente le sue paure, Joaz passò dal varco. Il cunicolo era stretto e basso. Procedette a tentoni, con i nervi tesi, guardingo. Si soffermò spesso, in ascolto, ma non udì altro che il battito del proprio cuore.

Dopo un centinaio di braccia, il cunicolo sfociò in una caverna naturale, Joaz si fermò indeciso, tendendo l’orecchio nell’oscurità. Le fiasche luminescenti fissate alle pareti a intervalli irregolari davano un po’ di luce, quanto bastava per delineare la direzione della caverna. Sembrava orientata verso il nord, parallelamente alla lunghezza della valle. Joaz si rimise in cammino, fermandosi in ascolto di frequente.

A quanto gli risultava, i sacerdoti erano miti e non aggressivi, ma tenevano molto ai loro segreti. Come avrebbero reagito alla presenza d’un intruso? Joaz non lo poteva sapere con certezza, e avanzava con la massima prudenza.

La caverna si innalzò, si abbassò, si allargò, si restrinse. Alla fine, Joaz incontrò tracce di utilizzazione: minuscole stanzette, ricavate nelle pareti, illuminate da candelabri contenenti fiale di sostanze luminose. In due di quelle stanzette, Joaz scorse dei sacerdoti: il primo dormiva su una stuoia di canne, il secondo stava seduto a gambe incrociate, con lo sguardo fisso su una struttura di bacchette metalliche contorte. Nessuno dei due si accorse della presenza di Joaz, che proseguì con passo più sicuro.

La caverna discese, si allargò come una cornucopia, e all’improvviso si aprì in una grotta così enorme che, per un istante, Joaz credette di essere uscito nella notte senza stelle.

La volta si incurvava al di sopra del punto in cui giungevano i guizzi d’una miriade di lampade, di fuochi e di fiale luminose. Più avanti e sulla sinistra erano in funzione crogioli e forge; poi una svolta della grotta nascondeva in parte il resto. Joaz scorse una struttura tubolare a ripiani che sembrava una specie di officina, poiché numerosi sacerdoti erano là, intenti a svolgere lavori complessi. Sulla destra c’era una catasta di balle, una fila di bidoni contenenti merci sconosciute.

Per la prima volta, Joaz vide le donne dei sacerdoti: non erano né le ninfe né le streghe semiumane descritte dalle leggende popolari. Come gli uomini, erano pallide e fragili, e avevano lineamenti taglienti; come gli uomini si muovevano lentamente e con attenzione, e come gli uomini erano coperte soltanto dalle chiome che scendevano loro fino alla vita. C’erano poche conversazioni, e nessuno rideva. C’era invece un’atmosfera di placidità e di concentrazione. La grotta trasudava un senso d’antichità, d’uso, di tradizione. Il fondo di pietra era levigato dal passaggio incessante dei piedi nudi. Le esalazioni di molte generazioni avevano chiazzato le pareti.

Nessuno badò a Joaz.

Avanzò lentamente, tenendosi nell’ombra, e si soffermò sotto il mucchio di balle. Sulla destra, la grotta si restringeva irregolarmente in un immenso imbuto orizzontale, recedendo e piegandosi, perdendo ogni realtà nella luce fioca.

Joaz frugò con lo sguardo l’intera ampiezza della caverna. Dove poteva essere l’armeria, con le armi di cui il sacerdote, con la sua morte, gli aveva confermato l’esistenza? Joaz rivolse di nuovo l’attenzione sulla sinistra, sforzandosi di scorgere i dettagli dello strano laboratorio a ripiani che si innalzava sino all’altezza di quindici braccia dal pavimento di pietra. Una strana costruzione, pensò Joaz, girando il collo: non riusciva a comprenderne interamente la funzione. Ma ogni aspetto di quella grande grotta — così vicina alla Valle dei Banbeck, eppure così remota — era strano e meraviglioso. Le armi? Potevano essere dovunque. Certamente, non osava spingersi più oltre per cercarle.

Non poteva scoprire altro, senza rischiare di farsi sorprendere. Si avviò per ritornare indietro: risalì la galleria buia, passando davanti alle stanzette, dove i due sacerdoti erano ancora nella stessa posizione in cui li aveva trovati nella discesa: uno addormentato, l’altro intento a fissare la struttura di metallo contorto. Joaz proseguì.

Si era spinto davvero tanto lontano? Dov’era il varco che portava al suo appartamento? L’aveva superato senza accorgersene, doveva cercarlo? Il panico gli serrò la gola, ma continuò a procedere, guardingo. Ecco, non si era sbagliato. Il varco si apriva sulla sua destra, e gli appariva quasi caro e familiare. Entrò, camminando a grandi passi, come se avanzasse sott’acqua, tendendo davanti a sé il tubo luminoso.

Un’apparizione si levò davanti a lui, un’alta figura bianca.

Joaz si fermò, rigido. La figura scarna gli si avvicinò. Joaz si appoggiò contro la parete. La figura continuò ad avanzare, e all’improvviso parve rimpicciolire, acquisendo proporzioni umane. Era il giovane sacerdote che Joaz aveva fatto tosare, credendolo morto. Fronteggiò Joaz, i miti occhi azzurri scintillanti di rimprovero e di disprezzo. — Rendimi il mio monile.

Con dita intorpidite, Joaz si tolse la collana d’oro. Il sacerdote la prese, ma non la mise. Guardò la parrucca che pesava sul capo di Joaz. Con una smorfia sciocca, Joaz se la tolse e gliela tese. Il sacerdote indietreggiò di scatto, come se Joaz fosse uno spirito maligno delle grotte. Procedendo di sghembo e tenendosi lontano da lui per quanto lo permetteva la larghezza del corridoio, si allontanò a passo svelto. Joaz lasciò cadere la parrucca sul pavimento e fissò quella massa scarmigliata di capelli. Poi si voltò e seguì con lo sguardo il sacerdote, una figura pallida che ben presto si perse nell’oscurità. Lentamente, Joaz riprese a risalire il cunicolo.

Ecco: un riquadro rettangolare di luce, la via d’accesso al suo laboratorio. Passò dal varco e rientrò nel mondo reale. Rabbiosamente, con tutte le sue forze, rimise a posto la lastra e si affacciò nell’anticamera, dove Rife sedeva sonnecchiando. Joaz schioccò le dita. — Manda a chiamare dei muratori, che portino calce, acciaio e pietre.

Joaz si lavò con diligenza, massaggiandosi più volte con un’emulsione, sciacquandosi e risciacquandosi. Quando uscì dal bagno, condusse i muratori nel suo laboratorio e ordinò loro di chiudere il passaggio.

Poi andò a letto. Sorseggiando una coppa di vino, lasciò vagare la mente…

I ricordi sfumarono nelle fantasticherie, le fantasticherie nel sogno. Joaz percorse di nuovo la galleria, con piedi lievi come la lanugine del cardo, scese la lunga grotta, e i sacerdoti nelle stanzette questa volta alzarono la testa per seguirlo con lo sguardo. Finalmente si fermò sul limitare della grande grotta, guardò di nuovo a destra e a sinistra, sgomento. Poi avanzò, quasi sorvolando il pavimento, passando davanti ai sacerdoti al lavoro tra i fuochi e le incudini. Dalle storte schizzavano scintille, gas azzurri guizzavano sopra il metallo fuso.

Joaz passò oltre, entrò in una piccola camera scavata nella pietra. Là stava seduto un vecchio, sottile come una pertica: la criniera lunga fino alla vita era nivea. L’uomo scrutò Joaz con gli insondabili occhi azzurri, ma la sua voce era sommessa, quasi impercettibile. Parlò di nuovo; le parole echeggiarono sonore nella mente di Joaz.

— Ti ho portato qui per avvertirti, affinché tu non ci faccia del male, senza per questo trarne alcun profitto. L’arma che tu cerchi è nel contempo inesistente e al di là della tua immaginazione. Considerala fuori della portata delle tue ambizioni.

Con uno sforzo immane, Joaz riuscì a balbettare: — Il giovane sacerdote non ha negato. L’arma deve esistere!

— Solo entro i limiti ristretti di una speciale interpretazione. Il ragazzo non può dire altro che la verità letterale, e non può comportarsi se non con grazia. Come puoi domandarti perché restiamo in disparte? Voi Uomini Totali trovate incomprensibile la purezza; tu pensavi di ottenere un vantaggio, ma non hai ottenuto altro che una passeggiata furtiva come quella d’un ratto. Affinché tu non ritenti ancora con maggiore sfrontatezza, debbo abbassarmi a chiarire le cose. Ti assicuro, la cosiddetta arma è assolutamente al di fuori del tuo potere.

Prima la vergogna e più ancora l’indignazione assalirono Joaz. Esclamò: — Tu non capisci le mie esigenze! Perché dovrei agire in modo diverso? Coralyne è vicina; i Basici stanno per giungere. Non siete uomini, voi? Non ci aiuterete a difendere il pianeta?

Il Demie scosse il capo, e i capelli candidi ondeggiarono con lentezza ipnotica. — Ti cito il Razionale: passività, completa e assoluta. Ciò comporta solitudine, santità, quiete, pace. Puoi immaginare quale angoscia rischio, parlando con te? Intervengo, interferisco a prezzo di un’immensa sofferenza dello spirito. Facciamola finita. Siamo entrati liberamente nel tuo studio, senza farti alcun male, senza umiliarti. Tu ci hai fatto visita nella nostra grotta, menomando un nobile giovane. Basta così! Non spiamoci più reciprocamente. Sei d’accordo?

Joaz udì la propria voce rispondere, senza sollecitazioni consce da parte sua: sembrava più nasale e stridula di quanto gli garbasse. — Mi offri questo patto, ora che voi avete appreso tutti i miei segreti, mentre io non conosco i vostri.

Il volto del Demie parve allontanarsi e fremere. Joaz vi lesse il disprezzo, e si agitò e si rigirò nel sonno. Tentò di parlare in tono calmo e ragionevole. — Suvvia, siamo esseri umani. Perché dovremmo contrastarci? Dividiamo i nostri segreti, aiutiamoci a vicenda. Esamina i miei archivi a tuo piacere, e poi permettimi di studiare quest’arma esistente eppure inesistente. Ti giuro che verrà utilizzata soltanto contro i Basici, per la protezione della mia gente e delle tua.

Gli occhi del Demie brillarono. — No.

— Perché no? — ribatté Joaz. — Senza dubbio non vorrai che ci accada del male.

— Noi siamo distaccati dalle passioni. Attendiamo la vostra estinzione. Voi siete gli Uomini Totali, gli ultimi membri dell’umanità. E quando non ci sarete più, non vi saranno più i vostri pensieri tenebrosi e le vostre fosche trame. L’omicidio e la sofferenza e la cattiveria scompariranno.

— Non posso crederlo — disse Joaz. — Forse non vi sono uomini nell’Ammasso; ma nell’universo? Il Vecchio Dominio si estendeva molto lontano! Presto o tardi gli uomini faranno ritorno su Aerlith.

La voce del Demie divenne lamentosa. — Credi che noi parliamo solo per fede? Dubiti della nostra sapienza?

— L’universo è grande. Il Vecchio Dominio si estendeva lontano.

— Gli ultimi uomini dimorano su Aerlith — disse il Demie. — Gli Uomini Totali e i Sacerdoti. Voi passerete; noi porteremo avanti il Razionale come un vessillo glorioso, in tutti i mondi del cielo.

— E che mezzi di trasporto userete, per compiere questa missione? — chiese astutamente Joaz. — Potete volare nudi tra i soli come camminate tra i burroni?

— Un mezzo si troverà. Il tempo è lungo.

— Per i vostri fini, il tempo deve essere lungo. Persino sui pianeti di Coralyne vi sono uomini. Resi schiavi, rimodellati nel corpo e nella mente, ma pur sempre uomini. E loro? Mi sembra che vi sbagliate, che vi lasciate guidare soltanto dalla fede.

Il Demie tacque, il suo volto parve indurirsi.

— Queste non sono realtà? — chiese Joaz. — Come le riconciliate con la vostra fede?

Il Demie disse, in tono mite: — Le realtà non possono venire mai riconciliate con la fede. Secondo la nostra fede quegli uomini, se esistono, passeranno a loro volta. Il tempo è lungo. E i mondi del fulgore ci attendono!

— È evidente — disse Joaz — che voi vi alleate con i Basici e sperate nella nostra estinzione. Questo può servire soltanto a cambiare il nostro atteggiamento nei vostri confronti. Purtroppo Ervis Carcolo aveva ragione, e io torto.

— Noi restiamo passivi — disse il Demie. Il suo volto ondeggiò, parve screziarsi di colori. — Impassibili, saremo testimoni della fine degli Uomini Totali, senza nutrire speranze e senza interferire.

Joaz s’infuriò. — La vostra fede, il vostro Razionale… comunque lo chiamiate, vi porta fuori strada. Ascolta la mia minaccia: se non ci aiuterete, soffrirete quando soffriremo noi.

— Noi siamo passivi. Siamo indifferenti.

— E i vostri figli? I Basici non distinguono tra noi. Vi imbrancheranno nei loro recinti, come fanno con noi. Perché dovremmo combattere per proteggervi?

Il volto del Demie sbiadì, si chiazzò di vapori trasparenti. Gli occhi erano fosforescenti come carne putrida. — Non abbiamo bisogno di protezione — ululò. — Noi siamo al sicuro.

— Voi subirete il nostro stesso destino — gridò Joaz. — Te lo garantisco!

Il Demie si accasciò all’improvviso in un piccolo involucro arido, come una zanzara morta. A velocità incredibile, Joaz fuggì attraverso le grotte, le gallerie, risalì nel laboratorio, nello studio, nella sua camera da letto, dove si levò di scatto, con gli occhi sbarrati, la gola gonfia e la bocca secca.

La porta si aprì; si affacciò Rife. — Hai chiamato, signore?

Joaz si puntellò sui gomiti e si guardò intorno. — No, non ho chiamato.

Rife si ritirò. Joaz si riadagiò sul letto, e restò immobile a fissare il soffitto.

Aveva fatto un sogno molto bizzarro. Un sogno? Una sintesi delle sue fantasticherie? Oppure era stato veramente un confronto e un dialogo tra due menti? Era impossibile accertarlo, e forse non aveva neppure importanza. L’evento era comunque significativo.

Joaz buttò le gambe giù dal letto, guardando il pavimento. Sogno o incontro, era la stessa cosa. Si alzò, infilò i sandali e una vestaglia di pelliccia gialla, e salì, zoppicando imbronciato, nella Sala del Consiglio, poi uscì su un balcone soleggiato.

Erano già trascorsi due terzi della giornata. Le ombre si addensavano lungo gli strapiombi a occidente. A destra e a sinistra si estendeva la Valle dei Banbeck. Non gli era mai sembrata più prospera e fertile, né più irreale; come se lui fosse uno straniero, su quel pianeta. Guardò a nord, lungo il grande bastione di pietra che si innalzava perpendicolarmente verso l’Orlo dei Banbeck.

Anche quello era irreale: una facciata dietro cui vivevano i sacerdoti. Scrutò la parete di roccia, sovrapponendovi l’immagine mentale della grande grotta. Lo strapiombo, verso l’estremità settentrionale della valle, doveva essere poco più di un guscio sottile!

Joaz volse lo sguardo verso il campo degli esercizi, dove i Massacratori eseguivano energicamente evoluzioni difensive. Com’era strana la vita che aveva prodotto Basici e Massacratori, sacerdoti e uomini come lui. Pensò a Ervis Carcolo, e lottò contro un’improvvisa esasperazione. Carcolo era un fattore di distrazione molto inopportuno, al momento. Non vi poteva essere tolleranza, quando fosse venuto il giorno della resa dei conti con lui.

Un passo lieve alle sue spalle, la pressione d’un colletto di pelliccia, il tocco di mani gaie, il profumo d’incenso. Le tensioni di Joaz si dissolsero.

Se non fossero esistite creature come le menestrelle, sarebbe stato necessario inventarle.

Nelle viscere della roccia, sotto la Scarpata dei Banbeck, in una stanzetta illuminata da un candelabro a dodici fiale, sedeva in silenzio un uomo nudo e canuto. Su un piedistallo all’altezza dei suoi occhi stava il suo tand, una complessa struttura di verghe d’oro e di fili d’argento, intrecciati e piegati apparentemente a casaccio. La casualità del disegno, tuttavia, era soltanto apparente. Ogni curva raffigurava un aspetto della Percezione Finale. L’ombra gettata sulla parete rappresentava il Razionale, sempre mutevole, sempre identico. L’oggetto era sacro, per i sacerdoti, e serviva come fonte di rivelazione.

Lo studio del tand non aveva mai fine. Si traevano continuamente intuizioni nuove da qualche relazione tra angoli e curve, trascurata in precedenza. La nomenclatura era complessa: ogni parte, ogni giuntura, ogni curva e ogni torsione aveva il suo nome; anche gli aspetti delle relazioni tra le varie parti erano suddivisi in categorie. Era il culto del tand: astruso, difficile, senza compromessi. In occasione dei riti della pubertà, il giovane sacerdote poteva studiare il tand originale per tutto il tempo che desiderava. Poi ognuno doveva costruire un duplicato, affidandosi esclusivamente alla memoria. Quindi veniva l’evento più significativo della sua vita: l’esame del suo tand da parte di un sinodo di anziani.

In un silenzio che sgomentava, per ore e ore, essi studiavano la sua creazione, soppesavano le variazioni infinitesimali nelle proporzioni, nel raggio, nelle curve e negli angoli. Ne deducevano le qualità dell’iniziato, giudicavano i suoi attributi personali, determinavano la sua comprensione della Percezione Finale, il Razionale e la Base.

Talora la testimonianza del tand rivelava una personalità così inquinata da risultare intollerabile. Il tand spregevole veniva gettato in una fornace, il metallo fuso era versato in una latrina, lo sventurato iniziato veniva espulso sulla superficie del pianeta, a vivere a modo suo.

Il Demie, nudo e canuto, contemplando il suo bellissimo tand, si mosse irrequieto. Era stato visitato da un’influenza così ardente, appassionata, nel contempo così crudele e tenera, che si sentiva la mente oppressa. Involontariamente, nei suoi pensieri si insinuò un nero filo di dubbio.

“È possibile” si chiese “che senza rendercene conto ci siamo discostati dal vero Razionale? Studiamo i nostri tand con occhi accecati?… Come posso saperlo, oh, come posso? Tutto è relativamente fàcile e agevole nell’ortodossia, eppure come si può negare che il bene sia in se stesso innegabile? Gli assoluti sono le formulazioni più incerte, mentre le incertezze sono le più reali…”

Venti miglia oltre le montagne, nella lunga luce pallida del pomeriggio di Aerlith, Ervis Carcolo faceva i suoi piani. — Osando, attaccando con forza, colpendo a fondo, riuscirò a sconfiggerlo! Sono superiore a lui per decisione, coraggio e perseveranza. Non mi ingannerà più, non massacrerà più i miei draghi e non ucciderà più i miei uomini! Oh, Joaz Banbeck, come ti farò pagare il tuo inganno! — Levò le braccia, rabbiosamente. — Oh, Joaz Banbeck, pecora dalla faccia slavata! — Carcolo sferrò pugni nell’aria. — Ti schiaccerò come una zolla di muschio secco!

Aggrottò la fronte, massaggiandosi il mento rotondo e arrossato. Ma come? Dove? Lui aveva tutti i vantaggi! Carcolo esaminò i suoi possibili stratagemmi. — Aspetterà che io attacchi. Questo è certo. Senza dubbio tenderà un’altra imboscata. Perciò pattuglierò ogni spanna di terreno, ma lui prevedere anche questo, e starà in guardia perché io non gli piombi addosso dall’alto. Si nasconderà dietro Monte Disperazione, o lungo la Guardia del Nord, per sorprendermi mentre attraverso la Skanse? In tal caso, debbo avvicinarmi seguendo un altro percorso… attraverso il Passo del Pianto e sotto Monte Gethron? Allora, se ritarderà nella marcia, lo incontrerò sull’Orlo dei Banbeck. Altrimenti, lo seguirò tra i picchi e i crepacci…

VIII

Bersagliati dalla pioggia fredda dell’alba, sulla pista rischiarata soltanto dal bagliore dei lampi, Ervis Carcolo, i suoi draghi e i suoi uomini partirono. Quando la prima spera di sole toccò Monte Disperazione, avevano già superato il Passo del Pianto.

Fin lì, tutto bene, esultò Ervis Carcolo. Si alzò sulle staffe per scrutare il Burrone della Stella Spezzata. Non c’era traccia delle forze di Banbeck. Attese, esplorando con lo sguardo il limitare lontano della Catena della Guardia del Nord, nera contro il cielo. Trascorse un minuto. Poi due minuti. Gli uomini battevano le mani, i draghi borbottavano e mormoravano, frenetici.

L’impazienza cominciò a formicolare lungo le costole di Carcolo, che si agitava e imprecava. Possibile che neppure il piano più semplice potesse venire realizzato senza errori? Ma poi scorse il balenio di un eliografo dalla Guglia di Barch, e un altro a sud-est, sui pendii di Monte Gethron. Carcolo agitò il braccio, segnalando al suo esercito di avanzare: la strada attraverso il Burrone della Stella Spezzata era sgombra. L’esercito della Valle Beata scese dal Passo del Pianto: prima venivano gli Assassini dal Lungo Corno, con lo sperone d’acciaio e le creste appuntite; poi l’ondeggiante marea rossa dei Rissosi, che muovevano a scatti la testa mentre correvano; e dietro il resto delle forze.

Il Burrone della Stella Spezzata si spalancava davanti a loro, un pendio ondulato cosparso di frammenti di selce d’origine meteorica che scintiUavano come fiori sul muschio verdegrigio. Da ogni parte s’innalzavano picchi maestosi, coperti di neve che sfolgorava bianca nella chiara luce del mattino: Monte Gethron, Monte Disperazione, la Guglia di Barch e, più lontano, verso sud, la Sfera dell’Anello.

Gli esploratori sopraggiunsero da destra e da sinistra. Portavano notizie identiche: non c’era traccia di Joaz Banbeck e delle sue truppe. Carcolo cominciò a gingillarsi con una possibilità nuova. Forse Joaz Banbeck non s’era degnato di scendere in campo. Quel pensiero lo infuriò e lo riempì d’una grande gioia: se era così, Joaz avrebbe pagato a caro prezzo la sua negligenza.

A metà del Burrone della Stella Spezzata trovarono un recinto occupato da duecento giovani Diavoli di Joaz Banbeck. Il recinto era affidato a due vecchi e un ragazzo, che guardavano con evidente terrore l’avanzata dell’orda della Valle Beata.

Ma Carcolo passò oltre, senza molestare il recinto. Se avesse vinto la battaglia, anche quello avrebbe fatto parte del bottino. Se avesse perduto, i giovanissimi Diavoli non avrebbero potuto fargli alcun male.

I vecchi e il ragazzo rimasero sul tetto della loro capanna di torba, e guardarono passare Carcolo e le sue truppe: gli uomini dalle uniformi nere e dai berretti neri a punta, con le falde copriorecchie incrociate e buttate all’indietro; i draghi che balzavano, strisciavano, correvano, avanzavano pesantemente, a seconda della varietà, con le scaglie lucenti; il rossocupo e il marrone dei Rissosi, la lucentezza velenosa degli Orrori Azzurri, i Diavoli verdi e neri; i Massacratori e gli Assassini grigi e bruni. Ervis Carcolo cavalcava sul fianco destro, Bast Givven alla retroguardia. Poi Carcolo fece accelerare l’andatura, assillato dal timore che Joaz potesse portare i suoi Diavoli e i suoi Massacratori sulla Scarpata del Banbeck prima che arrivasse, per respingerlo… dato e non concesso che Joaz Banbeck si fosse lasciato cogliere alla sprovvista.

Ma Carcolo raggiunse l’Orlo dei Banbeck senza che nessuno lo contrastasse.

Lanciò un grido di trionfo e agitò il berretto nell’aria. — Joaz Banbeck l’infingardo! Che provi, adesso, a salire la Scarpata dei Banbeck! — Ed Ervis Carcolo scrutò la Valle dei Banbeck con l’occhio del vincitore.

Bast Givven non mostrava di condividere il trionfo di Carcolo, e lanciava occhiate irrequiete a nord, a sud e alla retroguardia.

Carcolo l’osservò stizzito con la coda dell’occhio, e dopo un poco gli gridò: — Oh, oh! Allora? Che succede?

— Forse molto. Forse niente — disse Bast Givven, esplorando il paesaggio con lo sguardo.

Carcolo si tirò i baffi. Givven continuò, con la voce tranquilla che esasperava tanto Carcolo: — Sembra che Joaz Banbeck ci stia imbrogliando come l’altra volta.

— Perché dici così?

— Giudica tu stesso. Possibile che ci conceda un vantaggio senza esigere un interesse da strozzino?

— Assurdo! — borbottò Carcolo. — Quell’infingardo è sazio della sua ultima vittoria. — Ma si soffregò il mento e sbirciò irrequieto la Valle dei Banbeck. Vista dall’alto, sembrava stranamente tranquilla. C’era una strana inattività nei campi e nelle caserme. Carcolo si sentì gelare il cuore… poi gridò: — Guarda il vivaio: ecco là i draghi di Banbeck!

Givven socchiuse gli occhi per scrutare la valle, e lanciò a Carcolo uno sguardo di straforo. — Tre Rissosi appena nati. — Si raddrizzò, smise di osservare la valle e scrutò i picchi e le creste a nord e a est. — Supponiamo che Joaz Banbeck sia partito prima dell’alba, sia salito sull’Orlo scalando le Pendici Sdrucciolevoli, abbia attraversato il Burrone Azzurro in forze…

— E il Crepaccio Azzurro?

— Evita il Crepaccio Azzurro, aggirandolo a nord, raggiungi il Dosso di Barch, attraversa furtivamente lo Skanse e gira intorno alla Guglia di Barch…

Carcolo studiò la Catena della Guardia del Nord con un’attenzione nuova, sgomenta. Un fremito di movimento, uno scintillio di scaglie?

— Ritirata! — ruggì Carcolo. — Ci dirigiamo verso la Guglia di Barch! Sono dietro di noi!

Sconcertate, le sue truppe ruppero le file, fuggirono attraverso l’Orlo dei Banbeck, salirono tra gli aspri speroni della Guglia di Barch. Joaz, poiché la sua strategia era stata scoperta, lanciò squadre di Assassini a intercettare l’esercito della Valle Beata, per impegnarlo e trattenerlo e, possibilmente, per impedirgli di raggiungere le pendici accidentate della Guglia di Barch.

Carcolo rifletté rapidamente. Riteneva che gli Assassini costituissero le sue truppe migliori, e ne andava molto fiero. Indugiò di proposito, sperando di impegnare le truppe lanciate da Banbeck nella scaramuccia, di annientarle in fretta e di raggiungere comunque la protezione dei declivi della Guglia di Barch.

Ma gli Assassini di Banbeck non si avvicinarono, e si inerpicarono sulla Guglia. Carcolo mandò avanti i suoi Rissosi e gli Orrori Azzurri.

Tra ringhi atroci, le due schiere si scontrarono. I Rissosi di Banbeck si avventarono, furono contrastati dagli Assassini dai Grandi Passi di Carcolo, e vennero costretti a fuggire a rapidi balzi.

Il grosso delle truppe di Carcolo, eccitato alla vista dei nemici in rotta, non seppe trattenersi. I draghi deviarono dalla Guglia di Barch, e si precipitarono verso il Burrone della Stella Spezzata. Gli Assassini dai Grandi Passi raggiunsero i Rissosi di Banbeck, balzarono loro sulla schiena, li rovesciarono mentre quelli strillavano e scalciavano, e squarciarono loro i ventri rosei.

Gli Assassini dal Lungo Corno di Banbeck si avvicinarono in cerchio, si avventarono dal fianco sugli Assassini dai Grandi Passi di Carcolo, straziandoli con le corna dai puntali d’acciaio, trafiggendoli con le lance.

Tuttavia trascurarono gli Orrori Azzurri di Carcolo, che balzarono loro addosso dall’alto. Con asce e mazze abbatterono gli Assassini, dedicandosi al loro macabro svago preferito, che consisteva nel balzare su un Assassino atterrato, afferrare il corno e strappare via corno, pelle e scaglie dalla testa alla coda. Joaz Banbeck perse così trenta Rissosi e circa due dozzine di Assassini. Ma l’attacco raggiunse lo scopo, permettendogli di portare i suoi cavalieri, i Diavoli e i Massacratori giù dalla Guardia del Nord, prima che Carcolo riuscisse ad arrivare sulle pendici più alte della Guglia di Barch.

Carcolo si ritirò obliquamente su per i pendii tormentati, e mandò sei uomini al di là del burrone, al recinto dove i giovanissimi Diavoli turbinavano, impauriti dalla battaglia. Gli uomini abbatterono i cancelli, uccisero i due vecchi, spinsero i giovani Diavoli attraverso il burrone, in direzione delle truppe di Banbeck. I piccoli, isterici, obbedirono all’istinto. Si avvinghiarono al collo di tutti i draghi che incontravano, intralciandoli, poiché l’istinto dei draghi adulti impediva loro di staccarsi di dosso i piccoli con la forza.

Quell’astuzia, che era stata un’improvvisazione geniale, creò uno scompiglio enorme tra le truppe di Banbeck. Ervis Carcolo caricò con tutte le sue forze direttamente al centro dello schieramento di Joaz. Due squadre di Rissosi si spiegarono a ventaglio per aggredire gli uomini. I suoi Assassini — l’unica varietà in cui Carcolo era superiore per numero a Joaz Banbeck — vennero inviati a impegnare i Diavoli, mentre i Diavoli di Carcolo, ben curati, forti, guizzanti, serpeggiavano verso i Massacratori. Sfrecciarono sotto quelle grandi moli brune, sferzando con le code che terminavano in mazze chiodate d’acciaio del peso di cinquanta libbre, contro l’interno delle zampe dei Massacratori.

Vi fu una mischia ruggente. Le linee della battaglia erano imprecisabili. Uomini e draghi venivano schiacciati, sbranati, fatti a pezzi. L’aria sibilava di pallottole, fischiava di fendenti, riverberava di squilli di tromba, grida, urla, ruggiti e fischi.

L’avventato slancio della tattica di Carcolo conseguì risultati sproporzionati alla consistenza delle sue forze. I suoi Diavoli si addentrarono ancora di più tra le file dei Massacratori di Banbeck, impazziti e quasi impotenti, mentre gli Assassini e gli Orrori Azzurri di Carcolo tenevano a bada i Diavoli di Banbeck. Lo stesso Joaz Banbeck, assalito dai Rissosi, si salvò fuggendo: descrivendo un semicerchio, si portò alla retroguardia, raccolse una squadra di Orrori Azzurri. Furiosamente, diede il segnale della ritirata, e il suo esercito indietreggiò giù per i pendii, lasciando il terreno cosparso di corpi convulsi e scalciami.

Carcolo, abbandonando ogni esitazione, si rizzò sulla sella e segnalò di impegnare i suoi Massacratori, che fino a quel momento aveva tenuto in serbo come se fossero figli suoi.

Strillando e singultando, i Massacratori scesero pesantemente nella mischia, strappando grandi bocconi di carne a destra e a sinistra, sbranando con le branchie i draghi più piccoli, calpestando i Rissosi, afferrando Orrori Azzurri e Assassini, e scagliandosi ululanti nell’aria. Sei cavalieri di Banbeck cercarono di arrestare la carica, sparando a bruciapelo con i moschetti contro quei musi demoniaci: caddero e non si rialzarono più.

La battaglia scese precipitosamente lungo le pendici del Burrone della Stella Spezzata. Il nucleo del combattimento divenne meno concentrato, e il vantaggio della Valle Beata si dissipò. Carcolo esitò, per un lungo istante vertiginoso.

Erano accesi allo stesso modo, lui e le sue truppe: l’ebbrezza del successo inaspettato solleticava i loro cervelli… ma lì, nel Burrone della Stella Spezzata, potevano rovesciare le probabilità favorevoli alle più consistenti forze di Banbeck? La prudenza suggeriva che Carcolo si ritirasse sulla Guglia di Barch, per sfruttare al massimo la sua limitata vittoria. Già un forte plotone di Diavoli si era raggruppato e manovrava per caricare il suo scarso contingente di Massacratori. Bast Givven gli si avvicinò: si attendeva sicuramente l’ordine di ritirata. Ma Carcolo aspettava ancora, godendosi lo scompiglio provocato dai suoi sei Massacratori.

Il volto cupo di Bast Givven aveva un’espressione severa. — Ritiriamoci, ritiriamoci! Verremo annientati, quando le sue ali avanzeranno su di noi!

Carcolo l’afferrò per il gomito. — Guarda! Vedi dove si radunano quei Diavoli, vedi dov’è Joaz Banbeck? Non appena caricheranno, manda sei Assassini dai Grandi Passi da ogni lato: che gli piombino addosso, che l’uccidano!

Givven aprì la bocca per protestare, guardò nella direzione indicata da Carcolo e si allontanò per obbedire agli ordini.

I Diavoli di Banbeck avanzavano, muovendo con furtiva sicurezza verso i Massacratori della Valle Beata. Joaz, alzandosi sulla sella, seguì la loro avanzata. All’improvviso, dai due lati, gli Assassini dai Grandi Passi piombarono verso di lui. Quattro dei suoi cavalieri e sei giovani suonatori di cornetta, lanciando grida d’allarme, tornarono precipitosamente indietro per proteggerlo: vi fu il clangore dell’acciaio contro l’acciaio e dell’acciaio contro le scaglie. Gli Assassini combattevano con spade e mazze. I cavalieri, che non potevano usare i moschetti, si difesero con le corte sciabole, e caddero uno dopo l’altro.

Rizzandosi sulle zampe posteriori, il caporale degli Assassini sferrò un fendente contro Joaz, che deviò disperatamente il colpo. L’Assassino alzò temporaneamente la spada e la mazza… e da cinquanta passi di distanza una pallottola di moschetto gli penetrò nell’orecchio. Impazzito per il dolore, abbandonò le armi e crollò in avanti, addosso a Joaz, contorcendosi e scalciando. Gli Orrori Azzurri di Banbeck si buttarono all’attacco; gli Assassini sfrecciarono avanti e indietro sul caporale in convulsioni, sferrarono affondi contro Joaz, cercando di colpirlo a calci, e finalmente fuggirono davanti agli Orrori Azzurri.

Ervis Carcolo si lasciò sfuggire un gemito di disappunto. Per mezzo secondo era stato privato della vittoria. Joaz Banbeck, pesto, malconcio, forse ferito, si era salvato.

Oltre la cresta della collina sopraggiunse un cavaliere, un giovinetto disarmato che frustava un Ragno barcollante. Bast Givven lo additò a Carcolo. — Un messaggero che arriva dalla Valle.

Il ragazzo scese precipitosamente il pendio del burrone, verso Carcolo, gridando, ma il suo messaggio si perse nel frastuono della battaglia. Finalmente si avvicinò. — I Basici! I Basici!

Carcolo si accasciò come una vescica semisgonfia. — Dove?

— Una grande nave nera, larga metà della valle. Io ero su, tra l’erica, sono riuscito a fuggire. — Tese il braccio, piagnucolando.

— Parla, ragazzo! — ringhiò Carcolo con voce rauca.

— Che cosa fanno?

— Non ho visto. Sono corso da te.

Carcolo volse lo sguardo sul campo di battaglia; 1 Diavoli di Banbeck avevano quasi raggiunto i suoi Massacratori, che stavano arretrando lentamente, con le teste abbassate e le zanne protese.

Carcolo alzò le braccia, disperato. Ordinò a Givven: — Ordina la ritirata, disimpegnati!

Agitando un fazzoletto bianco, aggirò le truppe che combattevano per raggiungere il punto in cui Joaz Banbeck giaceva ancora a terra, mentre i suoi uomini sollevavano di peso l’Assassino fremente che gli era piombato sulle gambe. Joaz alzò la testa, bianco in volto quanto il fazzoletto di Carcolo. Quando lo vide, i suoi occhi si spalancarono e s’incupirono, le sue labbra si strinsero.

Carcolo proruppe: — I Basici sono tornati. Sono scesi nella Valle Beata, e stanno sterminando la mia gente.

Aiutato dai suoi cavalieri, Joaz Banbeck si rimise in piedi. Barcollando, con le braccia abbandonate e inerti lungo i fianchi, scrutò in silenzio il viso di Carcolo.

Carcolo riprese a parlare. — Dobbiamo proclamare una tregua. È una battaglia inutile. Marciamo con tutte le nostre forze nella Valle Beata e attacchiamo i mostri prima che ci annientino tutti! Ah, pensa cosa avremmo potuto fare, con le armi dei sacerdoti!

Joaz continuò a tacere. Trascorsero altri dieci secondi. Carcolo gridò furiosamente: — Avanti, cosa decidi?

Joaz parlò con voce rauca. — Niente tregua. Tu hai respinto il mio avvertimento. Hai pensato di saccheggiare la Valle dei Banbeck. Non avrò pietà di te.

Carcolo ammutolì; la bocca spalancata era un foro rosso sotto l’onda dei baffi. — Ma i Basici…

— Torna dalle tue truppe. Sei mio nemico, come i Basici. Perché dovrei scegliere tra di voi? Preparati a combattere per la tua vita: non ti concedo tregua.

Carcolo era diventato pallido quanto Joaz. — Non avrai mai pace! Anche se vincerai questa battaglia, qui al Burrone della Stella Spezzata, non godrai mai della vittoria. Ti perseguiterò fino a quando implorerai che ti uccida.

Banbeck fece un cenno ai suoi cavalieri. — Ricacciate fra i suoi questo cane, a frustate.

Carcolo fece indietreggiare il suo Ragno per sottrarsi alle fruste che lo minacciavano, lo girò e sfrecciò via.

Le sorti della battaglia erano cambiate. I Diavoli di Banbeck, adesso, avevano fatto irruzione oltre gli Orrori Azzurri. Uno dei suoi Massacratori era sparito; un altro fronteggiava tre Diavoli che avanzavano di sbieco, e sbatteva le grandi mandibole, mulinando la spada mostruosa.

I Diavoli guizzarono e fintarono con le sfere d’acciaio: poi corsero all’attacco. Il Massacratore avventò un colpo, fracassando la spada sulla corazza dei Diavoli, dura come la pietra; e quelli sfrecciarono sotto di lui, colpendo con le mazze ferrate le zampe mostruose. Il Massacratore cercò di balzar via per liberarsi, e si rovesciò maestosamente. I Diavoli gli squarciarono il ventre: a Carcolo restavano ormai soltanto cinque Massacratori.

— Indietro! — gridò. — Disimpegnatevi!

Le sue truppe risalirono la Guglia di Barch: il fronte della battaglia era un tumulto ruggente di scaglie, corazze, metallo lampeggiante. Fortunatamente per lui, Carcolo aveva alle spalle il terreno più elevato, e dopo dieci minuti terribili riuscì a dare una parvenza d’ordine alla ritirata.

Erano caduti altri due Massacratori. I tre superstiti corsero via. Afferrarono dei macigni e li scagliarono contro gli assalitori e questi, dopo una serie di sortite e di balzi, furono ben lieti di disimpegnarsi. Comunque Joaz, dopo aver udito l’annuncio di Carcolo, non era disposto a sacrificare le sue truppe.

Carcolo, roteando la spada in un gesto di sfida disperata, guidò le sue forze intorno alla Guglia di Barch, e più giù, attraverso il desolato Skanse. Joaz ritornò verso la Valle dei Banbeck. La notizia dell’incursione dei Basici era giunta a tutte le orecchie. Gli uomini cavalcavano seri e taciturni, guardando indietro e in alto. Persino i draghi sembravano contagiati, e borbottavano irrequieti tra loro.

Quando attraversarono il Burrone Azzurro, il vento quasi onnipresente si spense. Il silenzio accentuò l’oppressione.

I Rissosi, come gli uomini, cominciarono a scrutare il cielo. Joaz si chiese come potevano sapere, come potevano percepire i Basici. Esplorò anch’egli il cielo, e mentre il suo esercito scendeva dalla scarpata, gli parve di scorgere in alto, sopra Monte Gethron, un piccolo rettangolo nero che poco dopo scomparve dietro una vetta.

IX

Ervis Carcolo e i resti del suo esercito corsero all’impazzata giù dallo Skanse, attraverso la desolazione di strapiombi e di canaloni alla base di Monte Disperazione, sul terreno spoglio a occidente della Valle Beata. Ogni finzione di precisione militaresca era stata abbandonata.

Carcolo precedeva tutti, in sella al suo Ragno che singultava per la stanchezza. Dietro di lui, in disordine, venivano prima gli Assassini e gli Orrori Azzurri, seguiti frettolosamente dai Rissosi. Poi i Diavoli, che correvano bassi sul terreno, sbatacchiando le mazze ferrate sulle rocce e facendo volare scintille. Lontano, alla retroguardia, procedevano pesantemente i Massacratori e i loro attendenti.

L’esercito giunse precipitosamente sull’orlo della Valle Beata e si arrestò, tra scalpitii e strilli. Carcolo balzò dal suo Ragno, corse sul ciglio dello strapiombo e guardò la valle.

Si aspettava di vedere la nave, tuttavia la realtà fu così immediata e intensa da sconvolgerlo. Era un cilindro affusolato, lucente e nero, posato su un campo di legumi non lontano dalla squallida Città Beata. Alle due estremità, dischi di metallo levigato brillavano di un velo mutevole di colore. C’erano tre portelli, uno anteriore, uno posteriore e uno centrale: e da quello centrale era stata calata al suolo una rampa.

I Basici avevano lavorato con feroce efficienza. Dalla città veniva una fila sparsa di persone, sorvegliate dalla Fanteria Pesante. Nell’avvicinarsi alla nave, passarono attraverso un apparecchio d’ispezione controllato da un paio di Basici. Una serie di strumenti e gli occhi dei Basici valutavano ogni uomo, donna e bambino, li classificavano secondo un sistema che non appariva immediatamente evidente; poi i prigionieri venivano caricati a bordo della nave, o spinti in una vicina cabina.

Stranamente, per quante persone vi entrassero, la cabina pareva non riempirsi mai.

Carcolo si passò sulla fronte le dita tremanti e abbassò gli occhi al suolo. Quando li rialzò, Bast Givven gli stava al fianco. Insieme, scrutarono la valle.

Alle loro spalle si levò un grido d’allarme. Carcolo si girò di scatto e vide un nero velivolo rettangolare che scendeva silenziosamente dalla direzione di Monte Gethron.

Agitando le braccia, Carcolo corse verso le rocce, urlando l’ordine di mettersi al coperto. Draghi e uomini risalirono correndo il canalone. Il velivolo li sorvolò. Si aprì una botola, lanciando un carico di proiettili esplosivi. Caddero in una grandine scrosciante, e nell’aria volarono sassi, schegge di roccia, frammenti d’ossa, scaglie, pelle e carne. Tutti quelli che non erano riusciti a mettersi al coperto finirono sbrindellati.

I Rissosi se la cavarono discretamente. I Diavoli, sebbene ammaccati e scalfiti, erano sopravvissuti tutti quanti. Due dei Massacratori erano rimasti accecati, e non avrebbero potuto combattere fino a quando fossero loro ricresciuti gli occhi.

Il velivolo tornò indietro. Parecchi uomini spararono con i moschetti… un gesto di sfida apparentemente futile, ma l’apparecchio fu colpito e danneggiato. Deviò, virò, salì in una curva rombante, si rigirò sul dorso, piombò verso il fianco della montagna ed esplose in una vampa di brillante fiamma arancione. Carcolo lanciò un urlo di folle allegria, saltò avanti e indietro, corse sul ciglio dello strapiombo, agitò il pugno in direzione della nave. Poi si calmò in fretta e si fermò, fosco e tremante.

Poi, volgendosi verso il gruppo disordinato di uomini e di draghi che erano usciti nuovamente dal canalone, gridò con voce rauca: — Cosa dite? Dobbiamo combattere? Dobbiamo caricarli?

Vi fu silenzio.

Bast Givven rispose con voce incolore: — Non possiamo far nulla. Perché suicidarci?

Carcolo gli volse le spalle, con il cuore troppo gonfio per poter parlare. Givven diceva la verità. Sarebbero stati uccisi o trascinati a bordo dell’astronave, e poi su un mondo estraneo, inimmaginabile, per venire usati nel modo più ignobile.

Strinse i pugni e guardò verso occidente, con odio rabbioso. — Joaz Banbeck, tu mi hai portato a questo! Mi hai trattenuto quando avrei potuto battermi per la mia gente!

— I Basici erano già qui — disse Givven, con sgradita razionalità. — Non avremmo potuto far nulla, perché non avevamo armi.

— Avremmo potuto batterci! — urlò Carcolo. — Saremmo potuti scendere dalla Gruccia e avventarci in forze su di loro! Cento guerrieri e quattrocento draghi… sono da disprezzare?

Bast Givven ritenne inutile continuare a discutere. Tese il braccio, indicando. — Ora esaminiamo i nostri vivai.

Carcolo si voltò a guardare e proruppe in una risata frenetica. — Sono sbalorditi! Sono sgomenti! E ne hanno ben donde!

Givven dovette dargli ragione. — Immagino che la vista di un Diavolo o di un Orrore Azzurro, per non parlare di un Massacratore, possa dar loro motivo di riflessione.

Nella valle, l’attività era terminata. I Fanti ritornarono marciando a bordo della nave. Ne uscirono due uomini enormi, alti dodici piedi: sollevarono la cabina, la portarono su per la rampa. Carcolo e i suoi uomini osservavano con occhi sgranati. — Giganti!

Bast Givven ridacchiò seccamente. — I Basici si sbalordiscono dei nostri Massacratori, e noi dei loro Giganti.

Poco dopo, i Basici tornarono alla nave. La rampa venne ritirata, i portelli si chiusero. Da una torretta a prua scaturì un raggio d’energia, che sfiorò uno dopo l’altro i tre vivai, facendoli esplodere tra grandi getti di mattoni neri.

Carcolo gemette sottovoce, ma non disse nulla.

La nave vibrò, si sollevò. Carcolo urlò un ordine; uomini e draghi si precipitarono al coperto. Rannicchiati tra i macigni, videro il cilindro nero alzarsi dalla valle e dirigersi verso occidente. — Vanno verso la Valle dei Banbeck — disse Bast Givven.

Carcolo rise, una sghignazzata priva di gaiezza. Bast Givven gli lanciò un’occhiata di straforo. Ervis Carcolo era impazzito? Gli voltò le spalle. Non era molto importante.

Carcolo prese una decisione fulminea. Si avvicinò a uno dei Ragni, montò in sella, si girò verso i suoi uomini. — Vado alla Valle dei Banbeck. Joaz Banbeck ha fatto di tutto per rovinarmi; io farò di tutto per rovinare lui. Non vi do ordini: venite o restate, come preferite. Ma ricordate! Joaz Banbeck non ci ha permesso di combattere i Basici!

Si allontanò al galoppo. Gli uomini guardarono la valle devastata, poi si voltarono verso Carcolo. L’astronave nera stava sorvolando Monte Disperazione. Nella valle non c’era più nulla che stesse loro a cuore. Borbottando e mugolando, chiamarono i draghi esausti e risalirono le squallide pendici della montagna.

Ervis Carcolo lanciò il suo Ragno in una corsa pazza attraverso lo Skanse. Ai lati si levavano vette enormi, il sole sfolgorante era librato al centro del cielo nero. Dietro di lui c’erano i Bastioni dello Skanse; davanti, il Dosso di Barch, la Guglia di Barch e la Catena della Guardia del Nord.

Dimentico della stanchezza del suo Ragno, Carcolo lo frustò, obbligandolo a proseguire. Il muschio verde-grigio schizzava via sotto le zampe scalpitanti, la testa sottile penzolava, la bava colava dalle branchie. Carcolo non se ne curava. Nella sua mente c’era posto solo per l’odio… odio per i Basici, per Joaz Banbeck, per Aerlith, per l’uomo, per la storia umana.

Quando fu nei pressi della Guardia del Nord, il Ragno barcollò e cadde. Giacque gemendo, con il collo proteso e la coda pendula. Carcolo smontò, esasperato. Si voltò a guardare il lungo declivio ondulato dello Skanse, per vedere quanti dei suoi l’avevano seguito. Un uomo che cavalcava un Ragno, a velocità moderata, si avvicinò. Era Bast Givven. Si accostò al Ragno caduto. — Allenta la sottocinghia. Si riprenderà prima. — Carcolo aggrottò la fronte, credendo di percepire un tono nuovo nella voce di Givven. Tuttavia si chinò sul drago caduto e slacciò la grossa fibbia di bronzo. Givven smontò, si stirò le braccia, si massaggiò le gambe magre. Poi tese una mano. — La nave dei Basici scende nella Valle dei Banbeck.

Carcolo annuì, fosco. — Vorrei essere presente all’atterraggio. — Prese a calci il Ragno. — Avanti, alzati, non hai riposato abbastanza? Vuoi che vada a piedi?

Il Ragno piagnucolò per la stanchezza, ma si rialzò vacillando. Carcolo fece per montare, ma Givven lo trattenne, posandogli la mano sulla spalla. Carcolo si voltò, indignato: era un’impertinenza. Bast Givven disse con calma: — Stringi la sottocinghia, altrimenti cadrai sulle rocce e ti spezzerai di nuovo le ossa.

Sibilando una frase sprezzante, Carcolo rimise a posto la fibbia. Il Ragno lanciò un grido disperato. Senza badargli, Carcolo montò, e il drago si mosse a passi tremanti.

Più avanti, la Guglia di Barch si innalzava come la prua di una nave bianca, dividendo la Catena della Guardia del Nord dal Dosso di Barch. Carcolo si soffermò a studiare il paesaggio, tirandosi i baffi.

Givven taceva, discretamente. Carcolo si voltò a guardare giù per lo Skanse, in direzione del suo esercito apatico e disordinato, poi deviò sulla sinistra.

Passando vicino alla base di Monte Gethron, costeggiando il Labirinto Alto, scesero lungo un antico corso d’acqua verso l’Orlo dei Banbeck. Sebbene, necessariamente, non si fossero mossi a grande velocità, l’astronave dei Basici non si era spostata più in fretta. Stava cominciando allora a scendere nella valle: i dischi a prua e a poppa turbinavano di colori furiosi.

Carcolo grugnì rabbiosamente. — Joaz Banbeck è furbo. Non c’è anima viva. Si è rifugiato nelle sue gallerie, con i draghi e tutto. — Sporgendo le labbra, parodiò affrettatamente la voce di Joaz: — «Ervis Carcolo, mio caro amico, per l’attacco c’è una sola risposta: scavare gallerie!» E io gli ho risposto: «Sono forse un sacerdote, per vivere sottoterra? Scava pure, Joaz Banbeck, fai quel che vuoi, ma io sono un uomo all’antica: mi rifugio sotto i precipizi solo quando è necessario».

Givven scrollò leggermente le spalle.

Carcolo proseguì: — Gallerie o non gallerie, lo annienteranno. Se sarà indispensabile, faranno saltare l’intera valle. I sistemi non mancano certo, a quelli!

Givven sogghignò sardonicamente. — Anche Joaz Banbeck conosce qualche trucco… come abbiamo imparato a nostre spese.

— Lascia che catturi due dozzine di Basici, oggi — scattò Carcolo. — Poi ammetterò che è un uomo intelligente. — Si accostò al ciglio del baratro, mettendosi in piena vista dalla nave dei Basici. Givven lo guardava impassibile.

Carcolo tese il braccio. — Ah! Guarda là!

— Io no — disse Givven. — Ho troppo rispetto per le armi dei Basici.

— Puah! — sputò Carcolo. Comunque, indietreggiò un poco dal bordo del precipizio. — Ci sono dei draghi sulla Via di Kergan, nonostante tutte le chiacchiere di Joaz Banbeck a proposito delle gallerie. — Guardò lungo la valle, verso nord, per qualche istante, poi alzò le braccia, esasperato. — Joaz Banbeck non verrà qui da me. Non posso far nulla. Se non scendo nel villaggio, lo stano e lo abbatto, mi sfuggirà.

— A meno che i Basici vi catturino entrambi e vi rinchiudano nello stesso recinto — disse Givven.

— Bah! — borbottò Carcolo, e si scostò.

X

Le lastre ottiche che permettevano a Joaz Banbeck di osservare la Valle dei Banbeck in lungo e in largo venivano sfruttate per la prima volta per un uso pratico.

Il progetto gli era venuto in mente per la prima volta mentre giocherellava con una serie di vecchie lenti, e l’aveva accantonato con la stessa rapidità. Poi un giorno, mentre mercanteggiava con i sacerdoti nella caverna sotto Monte Gethron, aveva proposto loro di progettare e realizzare la parte ottica di quel sistema.

Il vecchio sacerdote cieco che conduceva le trattative per gli scambi gli aveva dato una risposta ambigua. La possibilità di tale progetto, in certe circostanze, poteva meritare attenta considerazione. Erano trascorsi tre mesi. Il progetto era stato accantonato nella mente di Joaz Banbeck. Poi il sacerdote, nella grotta degli scambi, gli aveva chiesto se intendeva ancora installare il sistema. In tal caso, poteva ritirare immediatamente gli elementi ottici.

Joaz aveva accettato le richieste per il baratto, ed era tornato alla Valle dei Banbeck con quattro pesanti casse. Aveva ordinato di scavare i cunicoli necessari, aveva fatto installare le lenti, e aveva constatato che, con lo studio oscurato, poteva vedere ogni angolo della Valle dei Banbeck.

Ora, mentre la nave dei Basici oscurava il cielo, Joaz Banbeck era nel suo studio, e seguiva la discesa della grande mole nera.

In fondo alla stanza, i tendaggi marrone si aprirono. Stringendo la stoffa tra le dita convulse c’era la menestrella, Phade. Era pallida in volto, e i suoi occhi brillavano come opali. Con voce rauca, disse: — La nave della morte. È venuta a prendere le anime!

Joaz le rivolse un’occhiata impassibile, poi si girò di nuovo verso lo schermo di vetro molato. — La nave è chiaramente visibile.

Phade gli corse accanto, l’afferrò per un braccio, lo guardò in viso. — Cerchiamo di rifugiarci nel Labirinto Alto. Non permettere che ci prendano subito!

— Nessuno ti trattiene — disse Joaz, indifferente. — Fuggi nella direzione che preferisci.

Phade lo fissò, stordita, poi girò la testa e osservò lo schermo. La grande astronave nera scendeva con sinistra lentezza, e i dischi a prua e a poppa lucevano come madreperla. Phade tornò a fissare Joaz e si umettò le labbra. — Non hai paura?

Joaz sorrise a denti stretti. — A che serve fuggire? I loro Battitori sono più svelti degli Assassini, più maligni dei Rissosi. Possono sentire la tua usta a un miglio di distanza, e trovarti nel cuore del Labirinto.

Phade rabbrividì, scossa da un orrore superstizioso, e mormorò: — Allora mi prenderanno morta. Non posso lasciarmi catturare viva.

All’improvviso, Joaz imprecò. — Guarda dove atterrano! Nel più bello dei nostri campi di bellegarde!

— Che differenza fa?

— Che differenza? Dobbiamo rinunciare a mangiare solo perché loro ci fanno visita?

Phade lo guardò sbigottita, senza capire. Lentamente si lasciò cadere in ginocchio e cominciò a compiere i gesti rituali del culto teurgico. Abbassò le mani ai fianchi, a palme in basso, le alzò lentamente fino a quando il dorso delle mani toccò le orecchie, e sporse contemporaneamente la lingua: e ripeté quelle mosse più e più volte, tenendo gli occhi fissi nel vuoto con intensità ipnotica.

Joaz ignorò quei gesti fino a quando Phade, il volto sfigurato in una maschera fantastica, cominciò a sospirare e piagnucolare. Allora le sbatté sul viso le falde della giubba. — Finiscila con questa pazzia!

Phade si accasciò gemendo sul pavimento. Joaz contrasse le labbra, irritato, la rimise in piedi. — Ascolta, i Basici non sono né demoni divoratori di cadaveri, né angeli della morte. Non sono altro che Rissosi pallidi, il ceppo originario dei nostri draghi. Quindi smettila con queste idiozie, o ti farò portare via da Rife.

— Perché non ti prepari? Osservi e non fai nulla.

— Non posso fare nient’altro.

Phade trasse un profondo respiro tremulo e fissò intontita lo schermo. — Li combatterai?

— Naturalmente.

— E come speri di contrastare un potere così miracoloso?

— Faremo ciò che possiamo. Non hanno ancora incontrato i nostri draghi.

La nave si posò su un campo di viti verdi e purpuree dall’altra parte della valle, presso l’imboccatura del Crepaccio Clybourne. Il portello rientrò; calò una rampa. — Guarda — disse Joaz. — Eccoli là.

Phade guardò le bizzarre figure pallide che si erano affacciate sulla rampa. — Mi sembrano strani, contorti, come certi rompicapi d’argento per i bambini.

— Sono i Basici. I nostri draghi sono discesi dalle loro uova. Loro hanno selezionato gli uomini altrettanto bene. Guarda, ecco la loro Fanteria Pesante.

Dalla rampa, in fila per quattro e in cadenza precisa, marciavano i Fanti: si fermarono circa venticinque braccia più avanti. Erano tre squadre di venti uomini bassi e tozzi, dalle spalle massicce, con i colli taurini e le facce cupe tenute chine. Portavano corazze foggiate di scaglie sovrapposte di metallo azzurro e nero, alte cinture da cui pendevano spada e pistola. Le spalline nere, molto ampie, reggevano un corto mantello nero che scendeva sul dorso. Gli elmi erano muniti di creste appuntite. Gli stivali, alti fino al ginocchio, erano armati di lame.

Poi uscirono numerosi Basici. Le loro cavalcature erano esseri che solo lontanamente somigliavano a uomini. Correvano sulle mani e sui piedi, con i dorsi inarcati. Avevano teste lunghe e glabre, dalle labbra pendule e tremule. I Basici li comandavano con tocchi negligenti di frustino; e quando furono al suolo li lanciarono al galoppo fra le bellegarde. Intanto, una squadra di Fanti fece scendere dalla rampa un meccanismo a tre ruote, e ne puntò il muso complicato verso il villaggio.

— Non si erano mai preparati così meticolosamente, prima d’ora — mormorò Joaz. — Ecco i Battitori. — Li contò. — Soltanto due dozzine? Forse è difficile allevarli. Le generazioni umane passano lentamente; i draghi, invece, depongono le uova ogni anno…

I Battitori si portarono su un lato e si fermarono, in un gruppo disordinato e irrequieto: erano magrissimi, alti sette piedi, con gli occhi neri sporgenti, i nasi adunchi, bocche minuscole protese come per baciare. Dalle spalle strette pendevano le lunghe braccia, dondolando come corde. Mentre attendevano, flettevano le ginocchia, scrutando con occhi acuti la valle, senza star fermi un istante. Dietro di loro venne un gruppo di Armieri, uomini non modificati, che portavano camici sciolti e berretti di stoffa, verdi e gialli. Trainavano altri due congegni a tre ruote, che subito cominciarono a regolare.

L’intero esercito divenne silenzioso e teso.

I Fanti Pesanti avanzarono con andatura ponderosa, le mani pronte sulle pistole e sulle spade. — Ecco, arrivano — disse Joaz. Phade emise un gemito soffocato di disperazione, s’inginocchiò e ricominciò a compiere i gesti del culto teurgico. Irritato, Joaz le ordinò di uscire dallo studio. Si avvicinò a un quadro con una serie di sei apparecchi di comunicazione a filo diretto, dei quali aveva controllato personalmente la costruzione. Parlò in tre di quei telefoni, assicurandosi che le sue difese fossero pronte, poi tornò agli schermi di vetro molato.

I Fanti avanzavano attraverso il campo di bellegarde, con i volti duri e massicci segnati da rughe profonde. Ai loro fianchi gli Armieri trascinavano i meccanismi a tre ruote, ma i Battitori rimanevano in attesa accanto alla nave. Dieci o dodici Basici cavalcavano dietro la Fanteria Pesante, portando sul dorso armi sferiche.

Arrivati a cento braccia dal portale della Via di Kergan, fuori della portata dei moschetti di Banbeck, gli invasori si fermarono. Un Fante corse accanto a uno dei carri degli Armieri, infilò le spalle in un’imbracatura e si raddrizzò. Adesso portava una macchina grigia, da cui sporgevano due globi neri. Il Fante corse verso il villaggio come un ratto enorme, mentre dai globi neri si irradiava un flusso che doveva bloccare le correnti neurali dei difensori di Banbeck, immobilizzandoli.

Si udirono diverse esplosioni. Dalle fenditure delle rocce spuntarono sbuffi di fumo. Le pallottole si piantarono nel suolo, accanto al Fante; parecchie rimbalzarono sulla sua corazza.

Subito i raggi termici irradiati dall’astronave colpirono le pareti dello strapiombo. Nel suo studio, Joaz Banbeck sorrise. Gli sbuffi di fumo erano soltanto esche: gli spari provenivano da altre direzioni. Il Fante, schivando e sobbalzando, evitò una gragnuola di pallottole e corse sotto il portale, sul quale stavano in agguato due uomini. Colpiti dal flusso, vacillarono, s’irrigidirono, ma lasciarono cadere una grossa pietra, che colpì il Fante nel punto in cui il collo s’innestava sulle spalle, e lo scagliò a terra.

Il fante agitò freneticamente le braccia e le gambe, rotolando. Poi, scattando in piedi, tornò correndo nella valle, a salti e balzi, e finalmente incespicò, piombò lungo disteso al suolo e restò lì, scalciando e sussultando.

L’armata dei Basici assistette alla scena senza mostrare preoccupazione o interesse.

Vi fu un momento d’inattività. Poi dalla nave venne un campo invisibile di vibrazioni che passò lungo la parete di roccia.

Dove il raggio colpiva, si alzavano sbuffi di polvere e si staccavano frammenti di roccia. Un uomo che era disteso su una cengia balzò in piedi, torcendosi e saltellando, e precipitò per settanta braccia, uccidendosi. Quando investì uno degli spioncini di Joaz Banbeck, la vibrazione penetrò nello studio, con un ululato da straziare i nervi. La vibrazione passò oltre, lungo lo strapiombo. Joaz si massaggiò la testa indolenzita.

Gli Armieri, intanto, lanciarono una scarica con uno dei loro congegni. Vi fu prima un’esplosione soffocata, poi una sfera grigia descrisse una curva nell’aria. La mira era imprecisa: colpì la parete di roccia ed esplose in un grande sbuffo di gas biancogiallo. Il meccanismo sparò di nuovo, e questa volta lanciò esattamente la bomba nella Via di Kergan… che adesso era deserta. La bomba non fece alcun effetto.

Nel suo studio, Joaz attendeva, fosco in volto. Finora i Basici avevano compiuto solo i primi tentativi, quasi per gioco. Poi sarebbero venuti senza dubbio sforzi più impegnati.

Il vento disperse il gas: la situazione restò immutata. Finora, le perdite erano rappresentate da un Fante e da un fuciliere di Banbeck.

Dalla nave uscì una lingua di fiamma rossa, cruda, decisiva. La roccia del portale si infranse. Le schegge volarono sibilando; la Fanteria Pesante avanzò.

Joaz parlò nel telefono, ordinando ai suoi capitani di essere prudenti, per evitare che, contrattaccando una finta, si esponessero a un’altra bomba a gas.

Ma la Fanteria Pesante irruppe a precipizio sulla Via di Kergan: per Joaz, era un atto di sprezzante avventatezza. Impartì un brusco ordine.

Dalle gallerie e dagli anfratti uscirono a branchi i suoi draghi: Orrori Azzurri, Diavoli, Rissosi.

I tozzi Fanti li guardarono a bocca aperta. Erano antagonisti inaspettati. La Via di Kergan risuonò di richiami e di ordini. Prima arretrarono e poi, con il coraggio della disperazione, combatterono furiosamente. La battaglia infuriò su e giù per la Via di Kergan.

Divennero presto evidenti certe relazioni. Nella stretta gola, né le pistole dei Fanti né le code ferrate dei Diavoli potevano venire usate con efficacia. Le corte sciabole erano inutili contro le scaglie dei draghi, ma le chele degli Orrori Azzurri, i pugnali dei Rissosi, le asce, le spade, le zanne e gli artigli dei Diavoli facevano strage della Fanteria Pesante.

Un Fante e un Rissoso si equivalevano, approssimativamente, anche se il Fante, afferrando il drago con le braccia poderose, strappandogli le branchie, spezzandogli il collo, aveva più spesso la meglio sul Rissoso. Ma se si trovava di fronte due o tre Rissosi, la sua sorte era segnata. Non appena si impegnava contro uno di essi, un altro gli stritolava le gambe, lo accecava o gli squarciava la gola.

Perciò i Fanti ripiegarono sul fondovalle, lasciando venti dei loro compagni morti sulla Via di Kergan. Di nuovo, gli uomini di Banbeck aprirono il fuoco, ma ancora una volta senza particolari risultati.

Dal suo studio, Joaz osservava, chiedendosi quale tattica avrebbero adottato i Basici. La rivelazione non tardò molto.

I Fanti si raggrupparono e si fermarono ansimando, mentre i Basici cavalcavano avanti e indietro, ricevendo informazioni, ammonendo, consigliando, rimproverando.

Dalla nave nera scaturì un fiotto d’energia che colpì lo strapiombo sopra la Via di Kergan. Lo spostamento d’aria fece tremare lo studio.

Joaz si scostò dagli schermi. E se un raggio avesse colpito una lente? Non poteva darsi che l’energia venisse guidata e riflessa direttamente verso di lui?

Uscì dallo studio mentre una nuova esplosione lo squassava.

Percorse correndo una galleria, scese una scala e uscì in uno dei corridoi centrali: vi trovò una grande confusione. Donne e bambini pallidissimi, che si ritiravano nelle viscere della montagna, si spingevano tra le file dei draghi e degli uomini in assetto da battaglia che entravano da una delle gallerie nuove. Joaz si soffermò a guardare per qualche istante, assicurandosi che in quella confusione non ci fosse panico, poi raggiunse i suoi guerrieri nella galleria che portava a nord.

In un’era antica un’intera sezione della parete rocciosa, all’inizio della valle, era franata, creando una giungla di pietre e macigni: il Labirinto dei Banbeck. Là sfociava la nuova galleria, attraverso una fenditura artificiale; e là Joaz si recò con i suoi guerrieri. Dietro di loro, nella valle, risuonava il rombo delle esplosioni, mentre la nave nera incominciava a demolire il Villaggio dei Banbeck.

Affacciandosi dietro un macigno, Joaz assistette esasperato alla scena, mentre grandi lastre di roccia si staccavano dalla parete perpendicolare.

Poi spalancò gli occhi, perché le truppe dei Basici avevano ricevuto rinforzi inaspettati: otto Giganti, alti il doppio di un uomo normale: mostri dal torace ampio, braccia e gambe nodose, occhi pallidi, ciuffi di capelli rossicci. Portavano corazze brune e rosse con le spalline nere, ed erano armati di spade, mazze e cannoni legati sul dorso.

Joaz rifletté. La presenza dei Giganti non gli dava motivo di modificare la sua strategia fondamentale, che era comunque vaga e basata sull’intuizione. Doveva prepararsi a subire perdite, e poteva solo sperare di infliggerne di più gravi ai Basici. Ma che importava, a quelli, delle vite delle loro truppe? Meno ancora di quanto a lui importasse dei suoi draghi. E se quelli distruggevano il Villaggio dei Banbeck, rovinavano la Valle, come poteva sperare di causare loro danni equivalenti?

Girò la testa e guardò l’alta parete di roccia bianca, chiedendosi se aveva stimato con precisione l’ubicazione della grotta dei sacerdoti. Ormai doveva agire: era venuto il momento.

Fece un segnale a un bambino, uno dei suoi figli, che trasse un profondo respiro, si lanciò all’impazzata fuori dal riparo delle rocce e corse verso il fondovalle. Dopo un attimo, sua madre lo rincorse, lo agguantò e ritornò precipitosamente nei meandri del Labirinto.

— Ben fatto — li elogiò Joaz. — Ben fatto, veramente. — Tornò a spiare guardingo tra le rocce. I Basici stavano scrutando attenti nella sua direzione.

Per un lungo attimo, mentre Joaz fremeva per la tensione, parve che i Basici non badassero alla sua esca. Conferirono tra loro e presero una decisione, percossero con i frustini le natiche coriacee delle loro cavalcature, che zampettarono di sbieco, e poi si buttarono a corsa verso nord, risalendo la valle. I Battitori li seguirono, e poi si mosse la Fanteria Pesante, a passo svelto. Gli Armieri procedettero con i loro meccanismi a tre ruote, e ponderosamente, alla retroguardia, avanzarono gli otto Giganti.

Gli invasori vennero attraverso i campi di bellegarde e di veccia, tra viti, siepi, cespugli di bacche e filari di piante da olio, distruggendo tutto con una certa cupa soddisfazione.

I Basici si arrestarono prudentemente davanti al Labirinto dei Banbeck, mentre i Battitori correvano avanti come segugi, inerpicandosi sui primi macigni, alzandosi per fiutare l’aria, ascoltando, indicando, pigolando incerti tra loro. La Fanteria Pesante avanzava cautamente, e la sua vicinanza spronò i Battitori.

Abbandonando ogni prudenza, balzarono nel cuore del Labirinto, emettendo squittii d’inorridita costernazione quando tra loro piombarono dodici Orrori Azzurri. Impugnarono le pistole termiche, e nell’agitazione ustionarono amici e nemici, senza distinzione. Con guizzante ferocia gli Orrori Azzurri li fecero a pezzi. Invocando aiuto a gran voce, scalciando, agitando le braccia, dibattendosi, coloro che ne avevano la possibilità fuggirono precipitosamente com’erano venuti.

Di ventiquattro che erano, soltanto dodici riguadagnarono il fondovalle; e in quel momento, proprio quando i Battitori gridavano di sollievo per essere scampati alla morte, una squadra di Assassini dal Lungo Corno irruppe su di loro, e anche i Battitori superstiti vennero abbattuti, dilaniati, straziati.

I Fanti caricarono con rauche grida di rabbia, mirando con le pistole e roteando le spade: ma gli Assassini corsero a ripararsi dietro i macigni.

Nel Labirinto, gli uomini di Banbeck si erano impadroniti delle pistole termiche lasciate cadere dai Battitori. Avanzando guardinghi, tentarono di bruciare i Basici. Ma, poiché non conoscevano quelle armi, gli uomini non riuscirono a regolare il fuoco o a condensare la fiamma. I Basici se la cavarono con qualche strinatura. In tutta fretta, frustarono le cavalcature, portandosi fuori tiro. I Fanti, fermandosi a meno di trenta braccia dal Labirinto, lanciarono una gragnuola di pallottole esplosive, che uccisero due cavalieri di Banbeck e costrinsero gli altri a indietreggiare.

XI

A distanza prudenziale, i Basici valutarono la situazione. Gli Armieri si avvicinarono e, mentre attendevano istruzioni, conferirono a bassa voce con le cavalcature.

Uno degli Armieri venne chiamato per ricevere gli ordini. Si liberò di tutte le armi e, tenendo alzate le mani vuote, marciò verso il Labirinto. Scegliendo un varco tra un paio di grossi macigni, entrò risolutamente nel meandro.

Un cavaliere di Banbeck lo accompagnò da Joaz. Per caso, lì c’era anche mezza dozzina di Rissosi. L’Armiere si soffermò incerto, compì una sorta di adattamento mentale e si avvicinò ai Rissosi. Si inchinò rispettosamente e cominciò a parlare. I Rissosi lo ascoltarono senza interesse, poi uno dei cavalieri gli disse di rivolgersi a Joaz.

— Su Aerlith, i draghi non regnano sugli uomini — disse seccamente. — Quale messaggio porti?

L’Armiere lanciò un’occhiata di dubbio ai Rissosi, poi tornò a guardare Joaz. — Sei autorizzato ad agire per tutta la conigliera? — Parlava lentamente con voce asciutta e blanda, scegliendo le parole con cura scrupolosa.

Joaz ripeté bruscamente: — Quale messaggio porti?

— Porto un’integrazione da parte dei miei padroni.

— “Integrazione”? Non ti capisco.

— Un’integrazione dei vettori istantanei del destino. Un’interpretazione del futuro. Essi desiderano che il suo significato ti venga comunicato in questi termini: “Non sprecate vite, nostre e vostre. Voi siete preziosi per noi, e verrete trattati secondo tale valore. Arrendetevi al Dominio. Cessate questa rovinosa distruzione d’iniziativa”.

Joaz aggrottò la fronte. — Distruzione d’iniziativa?

— È un riferimento al vostro patrimonio genetico. Il messaggio è finito. Vi consiglio di acconsentire. Perché sprecare il vostro sangue, perché farvi annientare? Venite con me. Tutto andrà per il meglio.

Joaz proruppe in una risata tesa. — Tu sei uno schiavo. Come puoi giudicare cosa va bene per noi?

L’Armiere sbatté le palpebre. — Che alternativa avete? Tutte le sacche residue di esseri viventi disorganizzati debbono venire eliminate. La via della facilità è la migliore. — Inclinò rispettosamente la testa verso i Rissosi. — Se dubiti di me, consultati con i tuoi Riveriti. Essi ti consiglieranno.

— Qui non esistono Riveriti — disse Joaz. — I draghi combattono con noi e per noi: sono i nostri guerrieri. Ma io ho una proposta alternativa. Perché tu e i tuoi simili non vi unite a noi? Emancipatevi dalla schiavitù, diventate uomini liberi! Prenderemo la nave e andremo alla ricerca dei vecchi mondi degli uomini.

L’Armiere mostrò solo un educato interesse. — “Mondi degli uomini?” Non ve ne sono. Rimangono solo pochi residui come questo in regioni desolate. Tutti debbono venire eliminati. Non preferireste servire il Dominio?

— Non preferiresti essere un uomo libero?

Il volto dell’Armiere espresse un blando stupore. — Tu non mi capisci. Se scegli…

— Ascoltami attentamente — disse Joaz. — Tu e i tuoi simili potete essere padroni di voi stessi, vivere tra gli altri uomini.

L’Armiere aggrottò la fronte. — Chi può desiderare di essere un selvaggio? Chi gli assicurerebbe la legge, la guida, le direttive e l’ordine?

Joaz alzò le braccia, disgustato, ma fece un ultimo tentativo. — Ve li darò io: mi assumerò la responsabilità. Torna indietro, uccidi tutti i Basici… i Riveriti, come tu li chiami. Questi sono i miei primi ordini.

— Ucciderli? — La voce dell’Armiere era soffocata dall’orrore.

— Ucciderli. — Joaz parlò come se avesse a che fare con un bambino. — Allora noi uomini ci impadroniremo della nave. Andremo in cerca dei mondi dove gli uomini sono potenti…

— Tali mondi non esistono.

— Ah, ma debbono esistere! Un tempo, gli uomini vagavano tra tutte le stelle del cielo.

— Ora non più.

— E l’Eden?

— Non ne so nulla.

Joaz alzò di nuovo le mani. — Vi unirete a noi?

— Che significato avrebbe tale atto? — chiese gentilmente l’Armiere. — Venite, dunque! Deponete le armi, sottomettetevi al Dominio. — Lanciò un’occhiata di dubbio ai Rissosi. — I vostri riceveranno un degno trattamento. Non abbiate paura.

— Sciocco! Questi “Riveriti” sono schiavi, come tu sei schiavo dei Basici! Li alleviamo per servirci, come voi venite allevati! Abbi almeno il pudore di riconoscere la tua degradazione!

L’Armiere sbatté le palpebre. — Tu parli in termini che non comprendo affatto. Allora non volete arrendervi?

— No. Vi uccideremo tutti, se le forze ci basteranno. L’Armiere s’inchinò, girò sui tacchi e sparì fra le rocce. Joaz lo seguì, e scrutò il fondovalle.

L’Armiere fece rapporto ai Basici, che ascoltarono con caratteristico distacco. Poi diedero un ordine, e i Fanti, disponendosi in un’ampia linea, salirono lentamente verso le rocce.

Dietro di loro venivano i Giganti, con i disintegratori inclinati in avanti, e una ventina di Battitori, i superstiti della prima scorreria. I Fanti raggiunsero le rocce, guardarono tra i meandri. I Battitori s’inerpicarono, cercando tracce di eventuali imboscate e, non trovandone, si voltarono a fare segnali. Con grande cautela, i Fanti si addentrarono nel Labirinto, rompendo necessariamente la formazione. Avanzarono di sei braccia, quindici, trenta. Imbaldanziti e spinti dal desiderio di vendetta, i Battitori scattarono oltre le rocce… e su di loro piombarono i Rissosi.

Urlando e imprecando, i Battitori ripiegarono, inseguiti dai draghi. Anche i Fanti arretrarono, poi alzarono le armi e spararono. Due Rissosi vennero colpiti alle ascelle, i punto più vulnerabile. Barcollando, caddero fra i macigni, Altri, infuriati, balzarono addosso ai Fanti. Si levarono ruggiti, strilli, grida di dolore. I Giganti avanzarono pesantemente e, con enormi sogghigni, si avventarono sui Rissosi, strappando loro le teste, scagliandoli oltre le rocce. I Rissosi che erano in grado di farlo tornarono indietro precipitosamente, lasciando mezza dozzina di Fanti feriti, due con la gola squarciata.

La Fanteria Pesante riprese ad avanzare, mentre i Battitori effettuavano la ricognizione dall’alto, ma con maggiore cautela. I Battitori s’immobilizzarono, gridarono un avvertimento. I Fanti si fermarono, scambiandosi richiami, roteando nervosamente le pistole. I Battitori ridiscesero e tra le rocce, sopra i macigni, uscirono dozzine di Diavoli e di Orrori Azzurri.

I Fanti, con smorfie tremende, spararono con le pistole, e l’aria si ammorbò del fetore della scaglie bruciate e dei visceri esplosi. I draghi si buttarono sugli uomini, ed ebbe inizio una terribile battaglia fra i macigni: le pistole, le mazze, persino le spade erano inutilizzabili per la mancanza di spazio.

I Giganti avanzarono e furono aggrediti a loro volta dai Diavoli. I sogghigni idioti svanirono dai loro volti; spiccarono goffi salti indietro per sottrarsi alle code ferrate, ma tra le rocce anche i Diavoli erano svantaggiati: le mazze d’acciaio sbattevano rumorosamente sulla pietra, più che sulla carne.

I Giganti, riprendendosi, scaricarono nella mischia i proiettori pettorali. Finirono fatti a pezzi Diavoli, Orrori Azzurri e anche Fanti: i Giganti non facevano distinzioni.

Dalle rocce arrivò una nuova ondata di draghi: Orrori Azzurri. Scivolarono sulle teste dei Giganti, graffiando, trafiggendo, dilaniando. In preda alla frenesia più cieca, i Giganti li colpivano, li scagliavano al suolo, li calpestavano, e i Fanti li bruciavano con le pistole.

Poi, senza motivo, venne una sorta di tregua.

Trascorsero dieci secondi, quindici secondi, senza altri suoni che i piagnucolii e i gemiti degli uomini e dei draghi feriti. Un senso d’attesa incombente aleggiava nell’aria: e avanzarono i Massacratori, torreggianti tra i varchi.

Per qualche istante, Giganti e Massacratori si guardarono, faccia a faccia. Poi i Giganti tesero le mani verso i proiettori, mentre gli Orrori Azzurri si avventavano di nuovo dall’alto, cercando di afferrarli per le braccia. I Massacratori avanzarono scalpitando rapidi. Le branchie dei draghi strinsero le braccia dei Giganti: le mazze e le clave roteavano, le corazze dei draghi e le corazze degli uomini si spezzavano e si sgretolavano. Uomini e draghi si rotolavano avvinghiati, dimentichi delle sofferenze, dell’orrore, delle mutilazioni.

La lotta diventò silenziosa. Singulti e lagni presero il posto dei ruggiti, e poco dopo otto Massacratori, superiori per massa e armamento naturale, si allontanarono barcollando da otto Giganti uccisi.

Nel frattempo, i Fanti si erano radunati, e stavano a piccoli gruppi, schiena contro schiena. Passo per passo, ustionando con i raggi termici gli Orrori urlanti, i Rissosi e i Diavoli che balzavano all’inseguimento, si ritirarono verso il fondovalle, e finalmente uscirono dai meandri delle rocce. I Diavoli che li inseguivano, smaniosi di combattere all’aperto, si buttarono in mezzo a loro, mentre dai fianchi di avventavano gli Assassini dai Grandi Passi e gli Assassini dal Lungo Corno. Accesi da un giubilo travolgente, dodici uomini montati su Ragni portarono i cannoni disintegratori strappati ai Giganti caduti, e caricarono i Basici e gli Armieri, che attendevano accanto alla postazione improvvisata delle armi a tre ruote. I Basici, senza vergognarsene, fecero girare le cavalcature umane e fuggirono verso la nave nera.

Gli Armieri orientarono i loro congegni, presero la mira, scagliarono scariche d’energia. Un uomo cadde, e poi due uomini, tre… poi gli altri piombarono in mezzo agli Armieri, che vennero rapidamente fatti a pezzi… incluso l’individuo suadente che era stato inviato a parlamentare.

Molti uomini, gridando trionfanti, si misero in caccia dei Basici. Ma le cavalcature umane, spiccando balzi come conigli mostruosi, trasportavano i Basici con la stessa velocità con cui i Ragni portavano gli uomini.

Dal labirinto giunse il suono di un corno. I cavalieri si fermarono e ripiegarono; tutte le forze di Banbeck si girarono e ritornarono a tutta velocità nei meandri rocciosi.

I Fanti avanzarono di qualche passo con aria di sfida, accennando a inseguirli, poi si fermarono vinti dalla stanchezza.

Delle tre squadre non erano sopravvissuti uomini a sufficienza per formarne una sola. Erano morti gli otto Giganti, tutti gli Armieri e quasi tutti i Battitori.

Le forze di Banbeck raggiunsero il Labirinto con un vantaggio di pochi secondi. Dalla nave nera giunse una gragnuola di pallottole esplosive che frantumarono le rocce nel punto in cui uomini e draghi erano scomparsi.

Su uno sperone di roccia levigato dal vento, sopra la Valle dei Banbeck, Ervis Carcolo e Bast Givven avevano assistito alla battaglia.

I macigni avevano nascosto in gran parte i combattimenti. Le grida e il clangore salivano esili e metallici, come ronzii d’insetti. Si scorgeva lo scintillio delle scaglie dei draghi, il movimento degli uomini che correvano, ombre e guizzi: ma solo quando le forze decimate dei Basici uscirono barcollando all’aperto risultò evidente l’esito dello scontro. Carcolo scosse il capo con acido sbalordimento. — Che furbo demonio, Joaz Banbeck! Li ha messi in fuga! Ha massacrato il meglio delle loro forze!

— Si direbbe — osservò Bast Givven — che i draghi, armati di zanne, spade e mazze ferrate, siano più efficienti degli uomini muniti di pistole e raggi termici… almeno nel corpo a corpo.

Carcolo grugnì.

— Anch’io avrei fatto altrettanto, in circostanze identiche. — E rivolse a Bast Givven un’occhiata pungente. — Non sei d’accordo?

— Certamente. Senza discussioni.

— Naturalmente — proseguì Carcolo — io non avevo il vantaggio della preparazione. I Basici mi hanno colto di sorpresa, ma Joaz Banbeck non ha avuto questa difficoltà. — Tornò a guardare la Valle dei Banbeck, dove la nave dei Basici continuava a bombardare il Labirinto, facendo a pezzi i macigni. — Hanno intenzione di cancellare il Labirinto? In tal caso, ovviamente, Joaz Banbeck non avrebbe altri rifugi. La loro strategia è chiara. E, come avevo previsto, ecco le forze di riserva!

Altri trenta Fanti avevano sceso la rampa e si erano schierati immobili sul campo calpestato, davanti all’astronave.

Carcolo si batté il pugno sul palmo dell’altra mano. — Bast Givven, ascoltami attentamente! Ora abbiamo la possibilità di compiere una grande impresa, di salvare la nostra sorte! Guarda il Crepaccio Clybourne, come si apre nella valle, direttamente dietro la nave dei Basici.

— La tua ambizione ci costerà la vita.

Carcolo rise.

— Suvvia, Givven, quante volte può morire un uomo? Che c’è di meglio che perdere la vita nella ricerca della gloria?

Bast Givven si voltò e scrutò i miseri resti dell’esercito della Valle Beata. — Potremmo conquistare la gloria percuotendo una dozzina di sacerdoti. Non è necessario scagliarci contro una nave dei Basici.

— Comunque — disse Ervis Carcolo — sarà così. Io vi precedo. Tu schiera le nostre forze e seguimi. Ci incontreremo all’inizio del Crepaccio Clybourne, al limite occidentale della valle.

XII

Scalpitando e borbottando nervose imprecazioni, Ervis Carcolo attendeva all’inizio del Crepaccio Clybourne.

Davanti alla sua immaginazione sfilavano, una dopo l’altra, le possibilità sfortunate. I Basici potevano arrendersi alle difficoltà incontrate nella Valle dei Banbeck e ripartire. Joaz Banbeck poteva attaccare attraverso i campi per salvare il Villaggio dei Banbeck dalla distruzione facendosi annientare. Bast Givven poteva dimostrarsi incapace di dominare gli uomini scoraggiati e i draghi ribelli della Valle Beata. Poteva verificarsi una qualsiasi di queste situazioni: e ognuna sarebbe stata sufficiente a stroncare i sogni di gloria di Carcolo.

Camminava avanti e indietro, impaziente, sul granito scheggiato. Spesso scrutava la Valle dei Banbeck, e si voltava a spiare gli squallidi profili delle rocce, cercando le sagome scure dei suoi draghi, le figure più alte dei suoi uomini.

Accanto alla nave dei Basici attendevano due squadre di Fanteria Pesante: coloro che erano sopravvissuti al primo attacco e le riserve. Stavano acquattati in gruppi taciturni, seguendo la distruzione del Villaggio dei Banbeck. Frammento per frammento, le guglie, le torri e le pareti rocciose che avevano ospitato la gente di Banbeck si sgretolavano, precipitavano in mucchi crescenti di schegge. Raffiche ancora più violente investivano il labirinto. I macigni si spaccavano come uova. Pezzi di roccia scivolavano giù nella valle.

Trascorse mezz’ora. Ervis Carcolo, torvo in viso, sedette su una roccia.

Un tintinnio, un suono di passi: Carcolo, balzò in piedi. Snodandosi contro il cielo venivano i resti malridotti delle sue forze, gli uomini depressi, i Rissosi incupiti e petulanti, sparuti gruppetti di Diavoli, Orrori Azzurri e Assassini.

Carcolo abbassò le spalle. Cosa poteva fare, con un contingente tanto futile? Trasse un profondo respiro. Mostrarsi coraggioso! Mai parlar di morire! Facendosi avanti gridò: — Uomini, draghi! Oggi abbiamo conosciuto la sconfitta ma la giornata non è ancora conclusa. Il momento del riscatto è vicino: ci vendicheremo dei Basici e di Joaz Banbeck!

Squadrò in faccia gli uomini, sperando nel loro entusiasmo. Quelli ricambiarono le sue occhiate, apatici. I draghi, che non capivano con altrettanta chiarezza, sbuffavano sommessamente, sibilavano e borbottavano. — Uomini e draghi! — latrò Carcolo. — Voi mi chiedete come conquisteremo queste glorie? Io vi rispondo: seguitemi! Combattete dove io mi batterò! Che cosa conta per noi la morte, ora che la nostra valle è stata devastata?

Scrutò di nuovo le sue truppe, incontrando ancora una volta indifferenza e apatia. Carcolo soffocò il ruggito di frustrazione che gli saliva in gola e si girò. — Avanti — gridò burberamente. Montò sul Ragno barcollante e scese il Crepaccio Clybourne.

La nave dei Basici martellava il Labirinto e il Villaggio dei Banbeck con eguale veemenza. Da un punto elevato, sull’orlo occidentale della valle, Joaz Banbeck assisteva allo sventramento di un corridoio dopo l’altro. Gli appartamenti e le gallerie scavati pazientemente nella roccia, scolpiti, lavorati, levigati nel corso di generazioni… tutti squarciati, distrutti, polverizzati. Poi il bersaglio divenne la guglia che conteneva l’appartamento privato di Joaz Banbeck, con il suo studio, il laboratorio, il reliquario dei Banbeck.

Joaz stringeva e allentava i pugni, furioso della propria impotenza. Lo scopo dei Basici era evidente: intendevano distruggere la Valle dei Banbeck, sterminare completamente gli uomini di Aeriith… e cosa poteva impedirlo?

Joaz studiò il Labirinto. I vecchi ammassi di detriti erano andati in schegge, fin quasi alla base perpendicolare dello strapiombo. Dov’era l’apertura della Grande Grotta dei sacerdoti? Le sue ipotesi ingegnose si rivelavano rutili. Ancora un’ora e il Villaggio dei Banbeck sarebbe stato completamente devastato.

Cercò di reprimere un senso nauseante di frustrazione. Come poteva impedire quella distruzione? Si costrinse a calcolare. Chiaramente, un attacco sferrato attraverso il fondovalle equivaleva a un suicidio. Ma dietro la nave nera si apriva un burrone simile a quello in cui stava nascosto Joaz: il Crepaccio Clybourne. Il portello della nave era spalancato, e i Fanti stavano acquattati da un lato. Joaz scosse il capo con una smorfia acida. Era inconcepibile che i Basici trascurassero una minaccia tanto evidente.

Eppure… nella loro arroganza, non poteva darsi che ignorassero la possibilità di un’azione tanto insolente?

L’indecisione tormentava Joaz. Poi una raffica di pallottole esplosive squarciò la guglia che ospitava il suo appartamento. Il reliquario, l’antico tesoro dei Banbeck, stava per venire distrutto… Joaz fece un gesto alla cieca, balzò in piedi, e chiamò a sé il Signore dei draghi più vicino.

— Radunate gli Assassini, tre squadre di Rissosi, due dozzine di Orrori Azzurri, dieci Diavoli, tutti i cavalieri. Saliamo sull’Orlo dei Banbeck. Scenderemo dal Crepaccio Clybourne. Attaccheremo la nave!

Il signore dei draghi se ne andò. Joaz si abbandonò a lugubri fantasticherie. Se i Basici avevano avuto intenzione di attirarlo in una trappola, stavano per riuscirci.

Il Signore dei draghi ritornò. — Il contingente è radunato.

— Partiamo.

Uomini e draghi risalirono il canalone, uscirono sull’Orlo dei Banbeck. Deviando verso sud, raggiunsero l’inizio del Crepaccio Clybourne.

Un cavaliere alla testa della colonna fece improvvisamente segno di fermarsi. Quando Joaz lo raggiunse, indicò le orme sul fondo della spaccatura. — Di qui sono passati di recente uomini e draghi.

Joaz studiò le impronte. — Sono scesi lungo il crepaccio.

— Sì.

Joaz inviò un gruppo di esploratori che poco dopo ritornarono galoppando all’impazzata. — Ervis Carcolo, con uomini e draghi, sta attaccando la nave!

Joaz fece girare di scatto il suo Ragno e si lanciò giù per lo stretto canalone, seguito dal suo esercito.

Urla e grida di battaglia giunsero fino a loro, quando si avvicinarono all’imboccatura del crepaccio. Quando irruppe sul fondovalle, Joaz vide una scena di disperata carneficina. Draghi e Fanti sferravano affondi e fendenti, sparavano con i disintegratori e le pistole termiche. Dov’era Ervis Carcolo? Joaz galoppò temerariamente e andò a guardare attraverso il portello. Era spalancato! Ervis Carcolo era riuscito a entrare con la forza!

Una trappola? Oppure aveva realizzato ciò che Joaz aveva progettato di fare, impadronirsi dalla nave? E i Fanti? I Basici erano disposti a sacrificare quaranta guerrieri per catturare un pugno d’uomini. Era irragionevole… ma intanto i Fanti resistevano. Avevano una falange, e concentravano l’energia delle loro armi sui draghi che ancora li attaccavano. Una trappola? Se lo era, era già scattata… a meno che Carcolo avesse ormai catturato la nave. Joaz si sollevò sulla sella, diede un segnale alla sua compagnia. — All’attacco!

I Fanti erano spacciati. Gli Assassini dai Grandi Passi li falciavano dall’alto, gli Assassini dal Lungo Corno li trafiggevano dal basso, gli Orrori Azzurri li dilaniavano, li smembravano. La battaglia era finita, ma Joaz, con gli uomini e i Rissosi, si era già lanciato alla carica su per la rampa. Dall’interno giungevano il ronzio e il rombo dell’energia, e voci umane… grida e urla di furore.

L’immensità della nave colpì Joaz. Si fermò di colpo e sbirciò incerto all’interno. Dietro di lui i suoi uomini attendevano, borbottando sottovoce.

Joaz si chiese: “Sono coraggioso come Ervis Carcolo? Comunque, cos’è il coraggio? Sono spaventato: non oso entrare e non oso restare fuori”. — Abbandonò ogni cautela e si precipitò avanti, seguito dai suoi e da un’orda di sfreccianti Rissosi.

Mentre entrava nella nave, Joaz comprese che Ervis Carcolo non era riuscito nella sua impresa. Sopra di lui, i cannoni cantavano e sibilavano ancora. L’appartamento di Joaz si squarciò. Un’altra raffica tremenda investì il Labirinto, scoprendo la pietra nuda del precipizio, e quello che prima era nascosto: l’orlo di un’altra apertura.

Joaz, nella nave, si trovava in un’anticamera. Il portello interno era chiuso. Avanzò, guardò attraverso un vetro rettangolare, e vide una specie di stanzone. Ervis Carcolo e i suoi cavalieri erano rannicchiati contro la parete di fondo, sorvegliati distrattamente da una ventina di Armieri. Alcuni Basici riposavano in un’alcova laterale, rilassati, silenziosi, in atteggiamento contemplativo.

Carcolo e i suoi uomini non si erano arresi completamente. Mentre Joaz osservava, Carcolo balzò furiosamente avanti. Una scarica purpurea d’energia lo centrò, lo scagliò contro la parete.

Dall’alcova uno dei Basici, girando lo sguardo, scorse Joaz Banbeck. Mosse rapidamente una branchia e toccò una leva. Risuonò il sibilo allarme e il portello esterno si chiuse. Una trappola? Un’azione d’emergenza? Il risultato era identico. Joaz fece un cenno a quattro uomini carichi di pesanti fardelli. Quelli avanzarono, s’inginocchiarono, piazzarono sul ponte quattro dei cannoni disintegratori che i Giganti avevano portato nel Labirinto.

Joaz alzò il braccio. I cannoni eruttarono; il mantello scricchiolò, si fuse: odori acri saturarono l’anticamera. La breccia era troppo piccola. — Ancora! — I cannoni fiammeggiavano, il portello interno si dissolse.

Dalla breccia balzarono gli Armieri, sparando con le pistole a energia. Il fuoco purpureo falciò le file degli uomini di Banbeck, che si raggomitolarono, si contorsero, si accasciarono, caddero con le dita contratte e i volti sfigurati. Prima che i cannoni potessero rispondere, guizzarono avanti sagome dalle scaglie rosse: i Rissosi. Sibilando e urlando, travolsero gli Armieri, fecero irruzione nella grande camera. Si arrestarono di colpo davanti all’alcova occupata dai Basici, come sbalorditi. Gli uomini che si affollavano dietro di loro ammutolirono. Perfino Carcolo osservava affascinato.

I Basici fronteggiavano i loro derivati, e ognuno vedeva nell’altro la propria caricatura. I Rissosi avanzarono con sinistra lentezza. I Basici agitarono le branchie, fischiarono, pigolarono. I Rissosi accelerarono, balzarono nell’alcova.

Vi fu un orribile tumulto gracchiante. Joaz, preso da una nausea istintiva, dovette distogliere lo sguardo. La lotta terminò presto.

Nell’alcova c’era silenzio. Joaz si voltò a guardare Ervis Carcolo che ricambiò l’occhiata, ammutolito dalla rabbia, dall’umiliazione, dal dolore e dalla paura.

Quando finalmente ritrovò la voce, Carcolo fece un goffo gesto di furibonda minaccia. — Vattene — gracchiò. — Rivendico questa nave. Se non vuoi giacere del tuo sangue, lasciami quel che ho conquistato!

Joaz lanciò uno sbuffo di disprezzo e voltò le spalle a Carcolo, che trasse un profondo respiro e si avventò con una bestemmia soffocata. Bast Givven l’afferrò e lo trascinò indietro. Carcolo si dibatté. Givven gli parlò concitatamente all’orecchio, e alla fine Carcolo si calmò, quasi piangendo.

Joaz, intento, esaminava la camera. Le pareti erano grigie e disadorne; il ponte era rivestito di elastica schiuma nera. Non c’erano lampade, ma la luce era onnipresente: si irradiava dalle pareti. L’aria agghiacciava la pelle, e aveva uno sgradevole odore acre, che prima Joaz non aveva notato. Tossì. I timpani gli ronzavano.

Un sospetto spaventoso si trasformò in certezza. Con le gambe pesanti balzò verso il portello, chiamando a cenni le sue truppe. — Fuori! Ci avvelenano! — Uscì barcollando sulla rampa, aspirò boccate d’aria pura. I suoi uomini e i Rissosi lo seguirono e poi, correndo e traballando, arrivarono anche Ervis Carcolo e i suoi. Il gruppo si fermò all’ombra dell’enorme scafo: tutti ansimavano, barcollavano sulle gambe inerti, con gli occhi offuscati e lacrimosi.

Sopra di loro, ignari o noncuranti della loro presenza, i cannoni della nave scagliarono un’altra raffica. La guglia che racchiudeva l’appartamento di Joaz vacillò, crollò. Il Labirinto non era più che un mucchio di frammenti di pietra che scivolava entro un’altra apertura ad arco. Oltre quel varco Joaz intravide una sagoma scura, un brillio, una lucentezza, una struttura… poi venne distratto da un suono minaccioso alle sue spalle. Da un portello, all’altra estremità della nave, era uscito un nuovo contingente di Fanteria Pesante. Tre nuove squadre di venti uomini ciascuna, accompagnate da una dozzina di Armieri con quattro proiettori mobili.

Joaz arretrò, sbigottito.

Diede uno sguardo alle sue truppe. Non erano in condizioni d’attaccare né di difendersi. Restava una sola possibilità: la fuga. — Via, al Crepaccio Clybourne! — gridò con voce impastata.

Barcollando, traballando, i resti dei due eserciti fuggirono, sotto la curva della grande nave nera. Dietro di loro i Fanti avanzarono decisi, ma senza fretta.

Quando girò intorno alla nave, Joaz si fermò di colpo. All’imboccatura del Crepaccio Clybourne attendeva una quarta squadra di Fanti, con un altro Armiere e la sua arma.

Joaz guardò a destra e a sinistra, su e giù per la valle. Da che parte fuggire? Il Labirinto? Non esisteva più. Un movimento lento e ponderoso nell’apertura che prima era nascosta dalle rocce ammassate attirò la sua attenzione. Ne uscì un oggetto scuro. Una serranda si spostò, scintillò un disco luminoso. Quasi immediatamente, un sottile raggio di luce azzurra lattiginosa scaturì trapassando il disco terminale della nave dei Basici.

All’interno, i macchinari torturati ronzarono, con suoni che salivano e scendevano contemporaneamente di tono, fino a diventare inudibili. La lucentezza dei dischi terminali svanì: divennero grigi, opachi; il brusio d’energia e di vita che prima pervadeva l’astronave lasciò il posto a un silenzio di morte. La nave stessa era morta: e la sua massa, all’improvviso privata del sostegno, si schiacciò gemendo nel suolo.

I Fanti alzarono costernati gli occhi verso lo scafo che li aveva portati su Aerlith. Joaz, approfittando di quell’indecisione, gridò: — Ritirata! A nord, su per la valle!

I Fanti li seguirono, caparbiamente. Gli Armieri, però, gridarono l’ordine di fermarsi. Piazzarono le armi, le puntarono sulla caverna dietro il Labirinto. Nell’apertura, figure nude si muovevano con fretta frenetica. Vi fu un lento spostamento di macchinari massicci, poi un cambiamento delle luci e delle ombre, e ancora una volta scaturì il raggio di luce azzurra, lattiginosa, e si abbassò.

Armieri, arma, due terzi dei Fanti svanirono come falene in una fornace. I Fanti superstiti si fermarono, ripiegarono incerti verso la nave.

L’altra squadra di Fanteria Pesante attendeva ancora all’imboccatura del Crepaccio Clybourne. L’unico Armiere rimasto stava chino sul suo congegno a tre ruote.

Con estrema meticolosità regolò l’arma. Nell’apertura buia i sacerdoti nudi lavoravano furiosamente, spingendo, premendo: la tensione dei loro muscoli, dei cuori e delle menti si comunicava a ognuno degli uomini presenti nella valle. Il raggio di luce azzurra splendette di nuovo, ma troppo presto: fuse la roccia cento braccia più a sud del Crepaccio Clybourne, e dal congegno dell’Armiere scaturì una lingua di fiamma verde e arancione. Dopo pochi secondi, l’imboccatura della grotta dei sacerdoti eruttò. Pietre, corpi, frammenti di metallo, di vetro e di gomma balzarono in aria.

Il suono dell’esplosione riverberò in tutta la valle. E l’oggetto scuro era stato distrutto, non era altro che frammenti e brandelli di metallo.

Joaz trasse tre profondi respiri, liberandosi dell’effetto del gas narcotico per pura forza di volontà, Fece un segnale ai suoi Assassini. — Caricate! Uccidete!

Gli Assassini avanzarono.

I Fanti si buttarono ventre a terra, puntarono le pistole, ma morirono ben presto. Dall’imboccatura del Crepaccio Clybourne l’ultima squadra caricò all’impazzata, e venne immediatamente attaccata dai Rissosi e dagli Orrori Azzurri che erano avanzati strisciando lungo la base dello strapiombo. L’Armiere venne dilaniato da un Assassino. Non vi fu altra resistenza nella valle, e la nave rimase esposta all’attacco.

Joaz guidò di nuovo i suoi su per la rampa, nello stanzone ormai buio. I cannoni tolti ai Giganti giacevano dove li avevano abbandonati i suoi uomini.

Nella camera c’erano tre porte, che vennero rapidamente bruciate. Dietro la prima c’era una rampa a spirale; dietro la seconda, un lungo corridoio vuoto fiancheggiato da file di cuccette. Oltre la terza stava un corridoio identico: ma le cuccette erano occupate. Volti pallidi si affacciarono, mani pallide si agitarono. Su e giù per la corsia centrale marciavano tozze sorveglianti in abiti grigi. Ervis Carcolo si avventò, scaraventando le sorveglianti sul ponte, sbirciando nelle cuccette. — Fuori! — urlò. — Siete salvi. Fuori, presto, finché è ancora possibile!

Ma fu necessario sopraffare la resistenza di mezza dozzina di Armieri e Battitori; non ve ne fu da parte di venti Meccanici, uomini piccoli e magri dai lineamenti aguzzi e dai capelli scuri, né da parte dei sedici Basici superstiti.

Tutti vennero condotti fuori dalla nave come prigionieri.

XIII

Il silenzio saturava il fondovalle: il silenzio dello sfinimento. Uomini e draghi stavano sdraiati sui campi calpestati. I prigionieri erano raccolti in un gruppo desolato accanto alla nave. Di tanto in tanto un suono sottolineava il silenzio: lo scricchiolio del metallo che si raffreddava all’interno della nave, la caduta di una roccia dagli strapiombi sventrati; qualche mormorio della gente liberata della Valle Beata, che stava in gruppo, separata dai guerrieri superstiti.

Solo Ervis Carcolo sembrava non trovare requie. Per un po’ rimase ritto, voltando le spalle a Joaz, battendosi la coscia con la nappa del fodero. Contemplò il cielo dove Skene, un atomo abbagliante, stava librato poco al di sopra dei precipizi occidentali, studiò lo squarcio al nord della valle, ingombrato dai resti contorti del congegno dei sacerdoti. Si diede un ultimo colpo alla coscia, guardò Joaz Banbeck, e si voltò per avviarsi verso la gente della Valle Beata, facendo movimenti bruschi e privi di significato, soffermandosi qua e là per arringare o lusingare, nell’evidente tentativo di ispirare energia e decisione al suo popolo sconfitto.

Ma non vi riuscì. Dopo un po’ girò bruscamente sui tacchi e attraversò il campo, dirigendosi verso il punto in cui stava sdraiato Joaz Banbeck.

Carcolo abbassò gli occhi su di lui. — Bene, dunque — disse baldanzoso. — La battaglia è finita, la nave conquistata.

Joaz si sollevò su un gomito. — È vero.

— Non voglio che ci siano malintesi su una cosa, — disse Carcolo. — La nave e il suo contenuto sono miei. Un’antica legge precisa i diritti di colui che attacca per primo. Baso la mia rivendicazione su questa legge.

Joaz alzò lo sguardo sorpreso, quasi divertito. — Secondo una legge ancora più antica, no ho già preso possesso io.

— Lo contesto — disse Carcolo, accalorandosi. — Chi…

Joaz alzò stancamente la mano. — Silenzio, Carcolo! Sei ancora vivo solo perché sono nauseato del sangue e della violenza. Non mettere alla prova la mia pazienza!

Carcolo gli voltò le spalle, rigirando con furia trattenuta la nappa del fodero. Guardò la valle, poi si girò di nuovo verso Joaz. — Stanno arrivando i sacerdoti. Sono stati loro a demolire la nave. Ti ricordo la mia proposta che, se fosse stata accettata, ci avrebbe permesso di evitare questa devastazione e questo massacro.

Joaz sorrise. — Hai fatto la tua proposta solo due giorni fa. Inoltre, i sacerdoti non possiedono armi.

Carcolo lo guardò come se lo credesse impazzito. — E allora come hanno distrutto la nave?

Joaz scrollò le spalle. — Posso fare soltanto qualche congettura.

Carcolo chiese sarcasticamente: — E in che direzione portano le tue congetture?

— Mi chiedo se avevano costruito la struttura di un’astronave. Mi chiedo se hanno puntato contro la nave dei Basici il raggio propulsore.

Carcolo sporse le labbra, dubbioso. — Perché i sacerdoti dovrebbero costruire un’astronave?

— Si avvicina il Demie. Perché non lo chiedi a lui?

— Lo farò — disse dignitosamente Carcolo.

Ma il Demie, seguito da quattro sacerdoti più giovani, camminando come se fosse perduto in un sogno, passò oltre senza parlare.

Joaz si sollevò sulle ginocchia e lo seguì con lo sguardo. Il Demie, a quanto pareva, intendeva salire la rampa ed entrare nella nave. Joaz balzò in piedi, lo seguì e gli sbarrò la strada.

Educatamente chiese: — Cosa cerchi, Demie?

— Cerco di salire a bordo della nave.

— A che scopo? Lo chiedo, naturalmente, per pura curiosità.

Il Demie lo squadrò senza rispondere. Il suo volto era teso e sconvolto, e i suoi occhi brillavano come stelle di ghiaccio. Finalmente rispose, con voce resa rauca dall’emozione. — Vorrei accertare se la nave può venire riparata.

Joaz rifletté un momento, poi parlò in tono gentile, ragionevole. — L’informazione può avere scarso interesse per voi. I sacerdoti si metterebbero completamente ai miei ordini?

— Noi non obbediamo a nessuno.

— In tal caso, non potrò prendervi con me quando partirò.

Il Demie si girò di scatto, e per un momento parve che intendesse allontanarsi. Il suo sguardo si posò sull’apertura sventrata in fondo alla valle, e si voltò di nuovo.

Parlò, non con la voce misurata di un sacerdote, ma in uno scoppio d’angoscia e di furore. — È opera tua! Ti pavoneggi, ti ritieni intelligente e astuto. Ci hai forzati ad agire, a profanare noi stessi e il nostro voto!

Joaz annuì, con un sorriso fiacco e fosco. — Sapevo che l’apertura doveva trovarsi dietro il Labirinto. Mi sono chiesto se stavate costruendo un’astronave; ho sperato che vi sareste difesi contro i Basici, servendo così ai miei scopi. Riconosco la validità delle tue accuse. Mi sono servito di voi e della vostra creazione come di un’arma, per salvare me stesso e la mia gente. Ho fatto male?

— Male o bene… chi può valutarlo? Hai sprecato il nostro lavoro, che continuava da più di ottocento anni di Aerlith! Hai distrutto qualcosa che non potrai mai surrogare.

— Io non ho distrutto nulla, Demie. Sono stati i Basici a distruggere la tua nave. Se aveste collaborato con noi a difendere la Valle dei Banbeck, questo disastro non sarebbe mai accaduto. Voi avete scelto la neutralità. Vi ritenevate immuni dalla nostra angoscia e dalla nostra sofferenza. Come vedi, non è così.

— E intanto le nostre fatiche di ottocentododici anni sono finite in nulla — disse il Demie.

Joaz chiese, con simulata ingenuità: — Perché avevate bisogno di un’astronave? Dove intendete andare?

Gli occhi del Demie bruciavano di fiamme intense come quelle di Skene. — Quando la razza degli uomini si è estinta, allora noi andiamo altrove. Ci spostiamo attraverso la galassia. Ripopoliamo i terribili, vecchi mondi, e la nuova storia universale comincia da quel giorno, dopo che il passato è cancellato, come se non fosse mai esistito. Se i greph vi annientano, cosa conta, per noi? Noi attendiamo solo la morte dell’ultimo uomo dell’universo.

— Non vi considerate uomini?

— Noi siamo quali voi ci conoscete… superuomini.

Alle spalle di Joaz qualcuno rise volgarmente. Joaz girò la testa e vide Ervis Carcolo. — Superuomini? — fece questi, beffardo. — Poveri derelitti nudi delle grotte! Cosa potete mostrare per provare la vostra superiorità?

La bocca del Demie si piegò, le rughe incise sul suo volto divennero più profonde. — Abbiamo i nostri tand. Abbiamo la nostra sapienza. Abbiamo la nostra forza.

Carcolo gli voltò le spalle con un’altra risata volgare. Joaz disse, sottovoce: — Provo più pietà per voi di quanta voi ne abbiate mai avuta per noi.

Carcolo si voltò di nuovo. — E dove avete imparato a costruire un’astronave? Da soli? Oppure dall’opera degli uomini vissuti prima di voi, gli uomini dei vecchi tempi?

— Noi siamo gli uomini supremi — disse il Demie. — Noi sappiamo tutto ciò che gli uomini hanno mai pensato, detto o ideato. Noi siamo gli ultimi e i primi. E quando le sottorazze saranno estinte, rinnoveremo il cosmo, innocente e puro come la pioggia.

— Ma gli uomini non si sono estinti e non si estingueranno mai — disse Joaz. — Qualche insuccesso, sì. Ma l’universo non è vastissimo? Chissà dove, vi sono i mondi degli uomini. Con l’aiuto dei Basici e dei loro Meccanici, riparerò la nave e partirò alla ricerca di quei mondi.

— Cercherai invano — disse il Demie.

— Quei mondi non esistono?

— L’Impero Umano si è dissolto. Gli uomini esistono solo in deboli comunità.

— E l’Eden, il vecchio Eden?

— Un mito, null’altro.

— E il mio globo di marmo?

— Un ninnolo. Un’invenzione.

— Come puoi esserne sicuro? — chiese Joaz, turbato nonostante tutto.

— Non ti ho detto che noi conosciamo tutta la storia? Noi possiamo guardare i nostri tand e vedere nelle profondità del passato, fin quando i ricordi non diventano bui e nebulosi, e non ricordiamo mai il pianeta Eden.

Joaz scosse ostinatamente il capo. — Deve esserci un mondo da cui vennero gli uomini. Chiamalo Terra o Tempe o Eden: da qualche parte esiste.

Il Demie fece per parlare, poi, con una rara dimostrazione d’indecisione, si trattenne. — Forse hai ragione tu. Forse noi siamo gli ultimi uomini. Ma io andrò a cercare.

— Verrò con te — disse Ervis Carcolo.

— Sarai fortunato se sarai ancora vivo domani — disse Joaz.

Carcolo si raddrizzò. — Non liquiderai con tanta disinvoltura le mie rivendicazioni sull’astronave!

Joaz cercò di rispondere, ma non trovò le parole. Cosa poteva fare con quell’individuo indisciplinato? Non riusciva a trovare in se stesso la durezza necessaria per fare ciò che sapeva di dover fare. Temporeggiò, voltando le spalle a Carcolo.

— Ora conosci i miei piani — disse al Demie. — Se voi non mi ostacolerete, io non ostacolerò voi.

Il Demie indietreggiò lentamente. — Allora vai. Noi siamo una razza passiva. Ci disprezziamo per la nostra attività di oggi. Forse è stato il nostro errore più grave… Ma va’, cerca il tuo mondo dimenticato. Riuscirai soltanto a perire chissà dove, tra le stelle. Noi attenderemo, come abbiamo già atteso. — Si voltò e si allontanò, seguito dai quattro sacerdoti più giovani, che durante il colloquio si erano tenuti in disparte con aria grave.

Joaz lo richiamò: — E se i Basici torneranno? Combatterete con noi? O contro di noi?

Il Demie non rispose: proseguì verso nord, mentre la lunga chioma canuta gli ondeggiava sulle scapole scarne.

Joaz lo seguì per un attimo con lo sguardo, scrutò la valle devastata, scosse il capo stordito e perplesso, e si volse a studiare la grande nave nera.

Skene toccò la sommità dei precipizi occidentali. La luce si affievolì istantaneamente, e venne un freddo improvviso.

Carcolo gli si avvicinò. — Questa notte terrò la mia gente qui nella Valle dei Banbeck, e domattina la rimanderò a casa. Intanto, propongo che tu salga con me a bordo dell’astronave per compiere un’ispezione preliminare.

Joaz trasse un profondo respiro. Perché non poteva essere più facile, per lui. Carcolo aveva cercato per due volte di togliergli la vita, e se le posizioni fossero state invertite, non gli avrebbe usato misericordia. S’impose di agire. Il suo dovere verso se stesso, la sua gente, la sua meta suprema, era evidente.

Chiamò i cavalieri che portavano le pistole termiche catturate ai nemici. Quelli si avvicinarono.

Joaz disse: — Portate Carcolo nel Crepaccio Clybourne. Giustiziatelo immediatamente.

Protestando e urlando, Carcolo fu trascinato via. Joaz distolse gli occhi, con il cuore stretto, e cercò Bast Givven. — Ti giudico un uomo ragionevole.

— Io mi considero tale.

— Ti affido la responsabilità della Valle Beata. Riporta a casa la tua gente, prima del calar delle tenebre.

In silenzio, Bast Givven raggiunse i suoi che si mossero, e poco dopo lasciarono la Valle dei Banbeck.

Joaz attraversò il fondovalle, raggiunse il mucchio di detriti che bloccava la Via di Kergan. Si sentì soffocare dal furore, mentre guardava la devastazione, e per un momento quasi vacillò. Forse era giusto portare la nave nera a Coralyne, per vendicarsi dei Basici? Si portò sotto la guglia che aveva racchiuso il suo appartamento e, per uno strano capriccio del caso, si imbatté in un frammento sferico di marmo giallo.

Soppesandolo nel palmo della mano, alzò lo sguardo verso il cielo, dove già brillava rossa Coralyne, e cercò di ristabilire l’ordine nella propria mente.

La gente di Banbeck era uscita dalle gallerie più profonde. La menestrella Phade venne a cercarlo. — Che giorno terribile — mormorò. — Che eventi spaventosi. Che grande vittoria.

Joaz ributtò il frammento di marmo giallo nel mucchio di macerie. — Anch’io la penso così. E come finirà tutto questo, nessuno può saperlo meno di me!