Peter Lime, danese, professione fotografo, è felicemente sposato e dirige una fiorente agenzia. Durante un appostamento per un servizio scandalistico, scatta di nascosto una serie di foto compromettenti a un ministro del governo spagnolo impegnato in calde effusioni con una giovane starlette televisiva. E’ l’inizio di un’allucinante spirale di misteri e violenza che lo risucchia senza possibilità di scampo. La chiave è forse nascosta in un’altra immagine, scattata vent’anni prima e nell’identità misteriosa della donna che vi è ritratta.

Leif Davidsen

Quando il ghiaccio si scioglie

A Ulla, per l’amore e tutto il resto

Parte Prima

1

Non puoi mai sapere quando il mondo sta per crollarti addosso e per stravolgerti la vita, che da serena e prevedibile di colpo si trasforma in un brutto sogno in cui ti sembra di correre al rallentatore senza avanzare di un solo passo. Ti sforzi di svegliarti e di tornare alla realtà, ma la realtà è un incubo.

All’epoca dei fatti che sto per raccontare ero ormai vicino ai cinquant’anni. Mi sentivo all’apice dell’esistenza. Ero soddisfatto, sicuro di me, saldamente ancorato alle mie abitudini. Avevo trovato l’amore, anche se in ritardo, e avevo una figlia meravigliosa.

Tutto cominciò con un bip del cellulare.

Stavo sdraiato a pancia in giù sulle rocce bollenti, la testa protetta da un cappello bianco. Attraverso la T-shirt chiara e i blue-jeans, il sole della Costa Brava mi scottava la pelle. Sotto di me, la caletta era deserta, accessibile solo dal mare. Manteneva le promesse dei depliant turistici: alcuni chilometri a sud del confine franco-spagnolo, un angolo appartato, incantevole e incontaminato, lontano anni luce dal vivace turbinio dell’affollatissima riviera balneare. Il mare si stendeva turchino e abbacinante come in una cartolina ritoccata al computer. Qualche barca a vela avanzava nella brezza e due costosi motoscafi tracciavano scie bianche nell’acqua. Uno correva veloce parallelo alla riva, l’altro cambiò bruscamente rotta e rallentò puntando verso la caletta. Era un grosso, scintillante venti piedi bianco dalla linea affusolata. Sul ponte era sdraiata una ragazza completamente nuda, eccetto che per un paio di occhiali da sole Ray-Ban.

Il ministro era al timone, a torso nudo, con disinvoltura dirigeva la barca verso la spiaggetta. Evidentemente conosceva bene quel tratto di mare.

Da vent’anni facevo il paparazzo, vivevo dell’insaziabile curiosità della gente per la vita dei ricchi e famosi. Per le loro debolezze, le disgrazie, gli scandali e gli errori. E non mi spiegavo il fatto che tanti personaggi importanti fossero disposti a giocarsi carriera, matrimonio e reputazione in cambio di un po’ di sesso con la bambolina di turno. Che fossero tanto sicuri della propria invulnerabilità da rischiare tutto, pur di riaffermare la propria virilità agli occhi del mondo, trascurando il semplice fatto che ovunque c’è un segreto, c’è qualcuno disposto a venderlo.

Mi trovavo in Costa Brava in seguito a una dritta ricevuta alcune settimane prima. Negli anni mi ero costruito una efficientissima rete di informatori in grado di tenermi aggiornato sugli spostamenti dei vip del pianeta. Avevo trascorso gli ultimi quindici giorni impegnato in preparativi e stavo constatando con piacere che le informazioni raccolte dal mio collaboratore erano dettagliate e precise.

Il rombo del motore cessò e l’uomo si sporse per gettare l’ancora. Posizionai la macchina. Era nuova di zecca, un vero gioiello di tecnologia computerizzata. Avevo scelto un teleobbiettivo da 400 mm e vedevo chiaramente le mie due vittime inquadrate nel mirino. Lei era sulla ventina, dal volto vagamente familiare, il corpo lucido e abbronzato. Un corpo femminile perfetto, simile a quelli che si muovevano ancheggiando lungo tutta la costa, da St. Tropez fino a Marbella, attirando uomini ricchi e potenti di mezza età come la carne attira le mosche. Pigiai l’indice sudato sul pulsante e scattai una prima serie di immagini. Poi allargai l’inquadratura in modo che comprendesse sia la ragazza, sia il ministro alle sue spalle. Lui era sui cinquanta, molto abbronzato, con il viso rasato di fresco e capelli neri ancora folti. Aveva braccia e spalle robuste, ma il ventre stava cedendo a un’incipiente pancetta. Mentre osservava la donna sorrise, rivelando denti bianchissimi e regolari.

Disse qualcosa alla donna lanciandole un paio di sandali di plastica. Lei li prese al volo, se li infilò, poi si tolse gli occhiali e afferrati maschera e boccaglio si lasciò scivolare in mare. Continuai a scattare mentre il sedere meravigliosamente tondo della ragazza affiorava in superficie per poi sparire di nuovo tra i flutti con la grazia di un delfino.

L’uomo slegò un canotto dal ponte, lo calò in mare e remando raggiunse la spiaggia. Tirò il canotto in secco, prese un telo, lo stese sulla sabbia e poi ci posò sopra un cesto da picnic dal quale sporgeva il collo affusolato di una bottiglia. La donna si avvicinò a nuoto, quindi lanciò boccaglio e maschera sulla spiaggia. Chiamò il ministro per nome e lui non si fece pregare. Si tuffò e in poche, misurate bracciate le fu accanto.

Inserii un nuovo rullino e scattai un’inquadratura dopo l’altra della coppia in acqua. Giocavano come due bambini, fra gli spruzzi colorati dai raggi del sole. A un tratto registrai una sensazione pungente, fastidiosa: era la coscienza che mi rimordeva, oppure soltanto invidia? Scacciai quel pensiero e tornai a concentrarmi su diaframma, otturatore, fuoco, definizione. La ragazza gli sfilò il costume, che si allontanò galleggiando come una grossa medusa rossa. Prendendola per le spalle, lui la sollevò sopra il livello dell’acqua e le baciò i seni. Cambiai macchina e scattai una nuova serie. Lui si immerse, si infilò in mezzo alle gambe della ragazza e la proiettò in alto. Il corpo di lei ricadde all’indietro descrivendo un ampio arco di spruzzi dorati. Lei gli cinse il collo con le braccia e serrò le lunghe gambe snelle attorno ai suoi fianchi. Era un’immagine bellissima, traboccante sensualità.

Scattai un altro paio di rullini mentre la coppia tornava a riva e riprendeva ad amoreggiare sull’asciugamano. Le foto adesso erano quasi pornografiche, non più erotiche, e più difficilmente vendibili. L’esperienza mi diceva che la foto migliore, quella che con un po’ di fortuna avrebbe ingrassato le mie tasche di centomila dollari nell’arco del prossimo paio d’anni, sarebbe stata quella più sottilmente, anche se inequivocabilmente, erotica.

Dopo l’amplesso, i due si allungarono al sole con espressione beata. Erano perfettamente a loro agio nella loro nudità, vittime ignare del sofisticatissimo teleobbiettivo giapponese che catturava la loro felicità fissandola per sempre per gli occhi del mondo intero.

Il ministro si issò a sedere e cominciò a spalmare il corpo della ragazza d’olio solare. Le prese i piedi tra le mani per massaggiarglieli lentamente. Forse, nonostante i sandali, l’aculeo di un riccio si era infilato nella pelle delicata dei piedini di lei, che adesso sedeva sostenendosi con le braccia tese all’indietro, lo sguardo perso nel vuoto. Aveva un’espressione tranquilla e appagata, e sorrise maliziosa quando lui si infilò il suo alluce in bocca per succhiarlo con trasporto, come un bambino che assaggiasse una caramella particolarmente squisita.

Soddisfatto, decisi che era tempo di allontanarmi per concedere ai due un po’ di intimità. Fu allora che il cellulare trillò nella borsa posata sulle rocce accanto a me. Subito pensai che era impossibile che dalla spiaggia potessero udire quel discreto bip bip. Ma forse gli uomini potenti devono il loro successo a una sorta di sesto senso, alla straordinaria abilità di annusare il pericolo e di agire immediatamente per neutralizzarlo. Apparentemente travolto dalla passione, il ministro non aveva in realtà abbassato la guardia. Alzò la testa nello stesso istante in cui il mio telefono iniziò a squillare, e strizzando gli occhi puntò lo sguardo verso il costone roccioso su cui ero appostato. Infilai la mano nella borsa mentre anche l’uomo allungava il braccio per estrarre un cellulare dal cesto del picnic. Digitò un numero, gli occhi sempre fissi su di me. Probabilmente, mi dissi, c’erano un paio di guardie del corpo nei paraggi. Strisciando mi allontanai lungo il costone. Avevo le membra indolenzite.

«Hello?» dissi accostando l’apparecchio all’orecchio.

«Peter Lime?» Era una bella voce di donna, chiara e giovanile, priva di accento.

«Chi parla?» domandai.

«Clara Hoffmann, dei servizi segreti danesi» rispose.

«È uno scherzo?» domandai. Continuai a strisciare finché fui certo di potermi alzare senza essere visto dalla spiaggia, quindi mi avviai alla macchina a passo sostenuto.

«Ha un minuto?»

«No. Non ce l’ho.»

«È una cosa importante.»

«Non ne dubito, ma adesso non posso parlare.»

«Vorrei incontrarla.»

«Non sono a Madrid.»

Avevo parcheggiato nel punto in cui la piccola strada sterrata terminava bruscamente chiusa da due grossi massi. Il pastore che avevo visto al mio arrivo era fermo nello stesso punto, circondato dalle sue pecore e appoggiato a un bastone. Nonostante il cappello a falde larghe che gli nascondeva gran parte del volto, notai che teneva fra le labbra un mozzicone di sigaretta rollata a mano. Accovacciato ai suoi piedi c’era un grosso cane dal pelo folto e arruffato, mentre un altro pattugliava i margini del gregge.

«Dove si trova?» chiese la donna.

«Non vedo come la cosa la riguardi.»

«Si tratta di una faccenda delicata, vorrei incontrarla al più presto» ripeté.

«Mi richiami tra un paio d’ore» proposi.

«Devo vederla di persona. Le telefonerò una volta arrivata a Madrid.»

«Come le ho detto non sono a Madrid…» Esitai qualche secondo e poi aggiunsi: «Anche se rientrerò nelle prossime ore».

«Molto bene. Sono sicura che quando saprà di cosa si tratta deciderà di aiutarci» proclamò.

«L’avverto, non sento alcun debito di gratitudine nei confronti del mio paese d’origine» ribattei.

Rise. La sua risata era melodiosa quanto la sua voce.

«Sarò all’Hotel Victoria».

«A presto.» Chiusi la comunicazione. Quasi correndo proseguii verso l’auto. Era una jeep nuova fiammante, che avevo noleggiato una settimana prima. Buttai la borsa sul sedile posteriore e avviai il motore. Le pecore alzarono la testa belando quando, partendo, sollevai una nuvola di polvere probabilmente visibile dalla spiaggia. Il pastore girò lentamente la testa seguendomi con lo sguardo mentre mi allontanavo dalla costa sulla strada tutta buche, tra scossoni e sobbalzi.

Avevo stabilito il mio quartier generale nella cittadina balneare di Llanca, cinquanta chilometri più a sud. Al termine del tratto di sterrata accelerai ben oltre il limite di velocità. Il caldo faceva fumare l’asfalto. Eravamo solo agli inizi di giugno, ma la temperatura faceva presagire un’estate particolarmente torrida e secca. I primi villeggianti stavano già arrivando, e lente automobili con pesanti roulotte al traino punteggiavano le strade tortuose della costa. Guidavo come uno spagnolo. Prendevo velocità lungo le discese e frenavo bruscamente prima di un tornante, lasciando che la jeep mordesse la curva. Alla mia sinistra il mare si stendeva azzurro come il cielo, e in basso appariva di quando in quando lo scorcio di un villaggio di basse costruzioni bianche. Mi sentivo bene con il vento tra i capelli e il frutto della mia spedizione nella borsa sul sedile posteriore. Non vedevo l’ora di tornare a casa da Amelia e Maria Luisa, nella città che sentivo mia. Era in momenti come quello che mi rendevo conto di quanto la mia professione fosse importante per me. Guadagnavo più che bene, inutile negarlo, ma la verità era che senza il lavoro non avrei saputo come riempire le mie giornate.

Nonostante il mio stile di guida, impiegai un’ora e mezzo per fare cinquanta chilometri. Il traffico si intensificò man mano che mi avvicinai alla meta e due volte incappai in una coda per lavori in corso. Arrivai a Llanca che erano ormai quasi le tre del pomeriggio. Ero sudato, assetato e affamato. Le strade della città erano sprofondate nell’atmosfera sospesa e afosa della siesta. I turisti erano per lo più al mare, qualcuno fuori a passeggio, ma i residenti erano tutti a casa a pranzare o a guardare la televisione. Il mio albergo, affacciato sul lungomare, era vicino al porto e a una grande spiaggia affollata di famiglie che prendevano il sole sulla sabbia dorata o facevano il bagno. Le voci risuonavano attutite, come filtrate da morbida bambagia.

Ricordavo il tempo non troppo lontano in cui la vista di una famiglia riunita e serena mi irritava, suscitandomi una fitta d’invidia subito repressa. Ma adesso ero pronto a bearmi di quello spettacolo. Avevo anch’io una famiglia. Erano trascorsi i giorni in cui ripetevo che i lupi vivevano e cacciavano meglio in autonomia; che c’era differenza tra l’essere soli e l’essere solitari, rivendicando convinto la mia appartenenza alla seconda categoria di persone.

Parcheggiai la jeep in una stradina laterale. Prima di ritirare la chiave della stanza alla reception, passai al bar accanto all’albergo per un succo d’arancia e un’ottima tortilla di patate e cipolle che consumai in piedi al bancone. Mentre mi accendevo una sigaretta e ordinavo un caffè doppio, il barista mi rivolse un commento sulla recente sconfitta del Barcellona. Il club occupava il terzo posto nella classifica, un vero dramma per ogni catalano che si rispetti. Confessai di tifare Real Madrid, e la conversazione proseguì per qualche minuto. Intanto mi sforzavo di ritrovare la calma. Un appostamento andato a buon fine mi faceva lo stesso effetto di due ore passate alla scuola di karate di Calle Echégaray. Ero al contempo rinvigorito, su di giri ed esausto.

Una volta in camera feci una doccia e preparai i bagagli prima di telefonare a Oscar in agenzia. Le pellicole erano al sicuro nella borsa con il lucchetto, i miei vestiti in una piccola valigia che mi avrebbe consentito di evitare il check in. Ero abituato a viaggiare leggero, a fare affidamento sulle lavanderie dell’albergo.

Di solito Oscar si ripresentava al lavoro dopo la pausa pranzo alle quattro del pomeriggio e non alle cinque, come fino a qualche anno prima accadeva in gran parte degli uffici della città. Ma anche adesso che molti madrileni avevano deciso di adeguarsi a ritmi più “europei”, le prime ore del pomeriggio erano dedicate alle colazioni di lavoro, ai pranzi in famiglia o agli incontri amorosi clandestini. Per precauzione avevo in tasca il numero di telefono dell’attuale amante di Oscar, ma lo avrei usato solo in caso di necessità. A casa di Gloria, la moglie, lo si poteva trovare solo la domenica. Gloria era alta, ben fatta e ancora attraente. Gestiva un fiorente studio legale e si procacciava amanti più giovani che le confermassero la sua appetibilità. Né Gloria né Oscar si sarebbero mai sognati di divorziare. Si rispettavano e godevano della reciproca compagnia. Le loro vite private e professionali erano da troppo tempo legate a doppio filo: un eventuale divorzio avrebbe portato solo grane.

Erano entrambi miei amici e soci d’affari, e ci conoscevamo più o meno da vent’anni. Ci eravamo incontrati negli anni caotici e pieni di speranza successivi alla morte di Franco. Oscar era un giornalista tedesco che collaborava con una serie di piccole testate di sinistra. Gloria una studentessa di giurisprudenza che custodiva la tessera dell’allora illegale partito comunista come fosse uno dei gioielli scomparsi della corona dello Zar. Avevo avuto una breve relazione con lei, ma tutti sembravano andare a letto con tutte a quell’epoca, e la storia era finita rapidamente e senza rancori. L’incontro di Oscar con Gloria, invece, era stato folgorante per entrambi. Avevano perso la testa e, contro ogni previsione, non si erano più separati, scegliendo di non dare importanza alla fedeltà reciproca, almeno negli ultimi anni. Insieme eravamo stati giovani, poveri e rivoluzionari, e insieme eravamo diventati ricchi. Oscar e Gloria erano la mia seconda famiglia. Non avevano voluto figli e quando Gloria aveva scoperto di desiderarne uno, era ormai troppo tardi. Non era più riuscita a rimanere incinta, ma se la cosa rappresentò una delusione, fu abile a nasconderla. Oscar non sembrava dare gran peso alla faccenda. Se Gloria voleva un bambino, lui era più che disposto a collaborare. Dopo un paio d’anni di tentativi falliti avevano smesso di parlare dell’argomento, apparentemente a loro agio nella vita di sempre.

Chiamai il numero diretto di Oscar dal telefono dell’albergo. Rispose al primo squillo. All’inizio della nostra amicizia, Oscar e io comunicavamo solo in inglese. Anche se da tempo entrambi avevamo imparato a padroneggiare perfettamente lo spagnolo, spesso ci capitava ancora di preferire l’inglese nelle nostre conversazioni.

«Sì?» disse Oscar con la sua voce roca e profonda.

«È fatta!» esclamai.

«Ciao, old boy! Congratulazioni!»

«È un ministro conservatore.»

«Buon per te. Amelia non avrà niente da obbiettare quando lo sputtaneremo pubblicamente» rispose ironico. Oscar era molto affezionato ad Amelia, anche se non si capacitava del fatto che a differenza di lui non sentissi il bisogno di tradire mia moglie. Sosteneva che con il matrimonio mi fossi terribilmente “imborghesito”.

«Domani avrai il materiale» dissi.

«C’è bisogno di un avvocato?»

«Non vedo perché. Era suolo pubblico.»

Raramente io e Oscar parlavamo in maniera esplicita al telefono. Costretto a fare i conti con la minaccia del terrorismo, il governo spagnolo non si faceva troppi scrupoli a ficcare il naso negli affari dei suoi cittadini, e le intercettazioni telefoniche erano una pratica relativamente diffusa.

«Quando rientri?»

«Vado in macchina fino a Barcellona e da lì prendo il primo volo.»

«Okay. Signing off, old boy» la prospettiva di un bel gruzzolo dava alla sua voce un tono caldo e compiaciuto.

«Salutami Gloria» dissi.

«Non mancherò.»

Pagai l’albergo e mi avviai alla macchina. Nella destra avevo la borsa da viaggio, a tracolla quella da fotografo con dentro i negativi che avrebbero fatto affluire sul mio conto bancario tante belle migliaia di dollari.

Una Mercedes nera nuova di zecca era parcheggiata di traverso davanti alla jeep. Due uomini erano in attesa, appoggiati alla macchina. Le braccia conserte davano loro un’aria minacciosa. Il primo non mi avrebbe causato grossi problemi. Era un ometto piccolo e grassoccio con una faccia larga sotto la pelata. L’altro, invece, era sulla trentina con un paio di bicipiti ben in vista sotto la giacca e un ghigno provocatorio stampato sulla faccia. A ben guardare, però, i muscoli, dall’aspetto artificiale e “pompato”, da body builder, ne facevano un avversario meno temibile di quanto potesse sembrare a prima vista, soprattutto per un tipo ben allenato come me. Da anni praticavo il karate, avevo imparato a conoscere il mio corpo e a fidarmi della sua forza. Nonostante il caldo entrambi gli sconosciuti indossavano la giacca. Il fottuto pastore doveva aver fatto la spia. Evidentemente era in grado di leggere, se non altro un numero di targa.

«Oyes, hijo de puta» esordì il più grosso dei due. Si raddrizzò e lasciò scivolare le mani lungo i fianchi. La viuzza era deserta. Ma dalla strada principale arrivava il rumore del traffico, e sentivo il fracasso delle imposte dei negozi che riaprivano dopo la siesta.

«Figlio di puttana sarai tu.»

Fece un passo in avanti, parandosi fra me e la jeep.

«Permetti? Vorrei salire sulla mia auto» dissi con provocatoria disinvoltura.

«Avanti, dammela!» abbaiò lui indicando la mia tracolla.

«È roba mia» dissi.

«Voglio i rullini. Le macchine te le puoi tenere. Su, muoviti!»

Poggiai la borsa da viaggio sull’asfalto. Sentivo il sudore colarmi lungo la schiena e il cuore accelerare i battiti. Concentrai l’attenzione sull’uomo che mi stava davanti. Non era affatto sicuro di sé come voleva darmi a intendere. Il suo sguardo era sfuggente e la striscia di pelle sopra il labbro superiore imperlata di sudore. Spinsi la borsa a tracolla dietro la schiena e sperai che qualche passante apparisse all’imboccatura della via. Il gorilla avanzò di un passo e fece il gesto di strapparmi la borsa dalla spalla. D’impulso gli afferrai la mano, trovai il suo mignolo e lo torsi rovesciandogli il braccio all’indietro. Gli sfuggì un grido. Senza dargli tempo di riprendersi gli sferrai una potente ginocchiata all’altezza dei testicoli. Aumentai la pressione sul braccio finché sentii scricchiolare l’articolazione della spalla. Non appena allentai la stretta si accasciò ai miei piedi con un gemito strozzato.

Raccolsi la borsa da viaggio. L’uomo grassoccio che aveva assistito immobile e atterrito alla scena si scostò dalla Mercedes e alzò le mani come per proteggersi.

Caricai le borse sulla jeep e misi in moto. L’adrenalina mi faceva tremare le mani, e la camicia fradicia di sudore era incollata alla schiena. Una famiglia di turisti in fondo alla via doveva aver osservato la colluttazione. La madre si copriva il viso con le mani, il padre teneva stretti a sé i suoi due ragazzi con fare protettivo.

Ero agitato, ma mi costrinsi a guidare piano e con prudenza fino all’ufficio dell’Avis, dove cambiai la jeep con un’Audi coperta e veloce. In autostrada cominciai finalmente a calmarmi, nonostante lanciassi frequenti occhiate allo specchietto retrovisore per controllare di non essere seguito. Solo quando mi ritrovai seduto sull’aereo per Madrid sentii di essere finalmente al sicuro. Misi una cassetta dei Grateful Dead nel walkman e reclinai lo schienale del sedile. L’aereo mezzo vuoto virò lentamente dirigendosi verso l’interno, e il Mediterraneo uscì dalla mia visuale. All’apparire della hostess con il carrello delle bevande fui assalito dal familiare, intenso desiderio di un drink. Il pensiero corse ad Amelia e a Maria Luisa e ordinai una Coca, sforzandomi di pensare al fatto che di lì a poco sarei stato a casa.

2

Per fortuna non c’era alcun sconosciuto dall’aria poco rassicurante ad aspettarmi all’aeroporto di Barajas, affollatissimo come sempre. Dopo una breve attesa montai su un taxi. La città era sovrastata da una cappa violacea fatta di smog e oscurità incipiente. Madrid era la mia casa da quasi un quarto di secolo. Quando, otto anni prima, mi ero sposato, avevo deciso di non lasciarla più. Non mi sentivo più un nomade, avevo messo radici. Ero felice, al punto da temere, a volte, che tanta serenità non potesse durare a lungo.

Il centro città ci accolse con il solito traffico intenso e strombazzante. Apparentemente il tassista condivideva il mio umore silenzioso. Era un marocchino magro e asciutto, probabilmente sprovvisto di permesso di lavoro.

All’altezza dell’ufficio postale di Plaza Cibeles svoltammo in direzione di Plaza Santa Ana, ma a duecento metri dalla piazza ci ritrovammo imbottigliati in un brutto ingorgo. Decisi di pagare per proseguire a piedi su per la salita di Paseo de Prados, in mezzo ai fumi degli scarichi e ai clacson degli automobilisti esasperati. Nell’afa della sera estiva, la metropoli raccoglieva un’energia strana, inquieta e aggressiva, che vibrava nell’asfalto e rimbalzava tra le schiere di palazzi. Di notte Madrid era un animale eccitato, in preda a un movimento apparentemente senza meta.

Plaza Santa Ana era il cuore del mio barrio. Vi ero approdato da giovane, per caso, e da allora avevo cambiato diversi indirizzi senza mai allontanarmi dalla zona. Il Teatro Real sorgeva su uno dei lati corti del rettangolo della piazza, dirimpetto al grande edificio bianco dell’Hotel Victoria. Lungo i due lati più lunghi erano allineati vecchi palazzi residenziali con bar e ristoranti al piano terra.

Ogni volta che tornavo da un viaggio, mi piaceva fermarmi con le spalle rivolte al teatro e contemplare la piazza, sfogliando mentalmente l’album delle sue immagini passate, diverse fra loro solo nelle sfumature: la lunghezza dei capelli delle donne, il taglio di un vestito, la forma di un’auto, il giocattolo di un bambino. Nel complesso il quadro era rimasto lo stesso. Il rombo delle macchine e delle motociclette, il chiacchierio delle donne, gli uomini avvolti nel fumo delle sigarette con i loro discorsi di calcio e di corrida. L’odore di benzina e quello di aglio proveniente dai caffè e dai ristoranti. Tutto era come sempre. Come avrei voluto che continuasse ad essere per sempre.

Cercai con lo sguardo Amelia e Maria Luisa.

Scorsi per prima mia figlia, e una familiare sensazione di calore mi invase il corpo. Stava saltando alla corda con tutta l’accanita concentrazione dei suoi quasi sette anni. Somigliava più alla madre che a me, con quei capelli neri e la pelle olivastra, ma aveva i miei occhi azzurri e gambe e braccia lunghe come le mie. La faccia era tonda e dai tratti delicati, ma con la bocca grande facile alla risata. La corda le colpì la caviglia e bruscamente si arrestò, l’espressione delusa. Sebbene fosse impossibile, mi sembrò di distinguere la sua voce nella cacofonia di voci infantili. Maria Luisa era nata che Amelia aveva trentasei anni e i medici avevano annunciato che non avrebbe potuto avere altri bambini. Con il primo marito non ne aveva voluti. Non parlavamo molto di lui, ma mi aveva confessato di essersi pentita appena un mese dopo il matrimonio. Aveva retto tre anni, poi l’aveva lasciato e quando era stata approvata la legge sul divorzio avevano divorziato. Erano trascorsi degli anni, e quando la nostra relazione era nata e poi si era consolidata, fare un figlio si era rivelato più difficile del previsto. C’era voluto un anno di tentativi perché Amelia restasse incinta.

Seduta su una panchina, Amelia chiacchierava con l’inquilina del piano di sotto. Eravamo sposati da otto anni. Era magra e bella di una bellezza indefinibile. Non aveva lineamenti classici, regolari, ma il suo era un viso impossibile da dimenticare per chi l’avesse vista anche una sola volta. Era in pace con se stessa e credeva nella vita, per questo trovavo le rughe intorno ai suoi occhi e alla sua bocca così seducenti. Amelia amava ridere e aveva il dono della leggerezza.

Mi scorse mentre la raggiungevo e mi sorrise, alzandosi in piedi.

Salutai la vicina con i tre tradizionali bacetti all’altezza delle guance prima di abbracciare mia moglie e baciarla sulla bocca. Avevo ancora addosso la tensione di qualche ora prima e prolungai il bacio pur sapendo che Amelia non amava le effusioni in pubblico. Si ritrasse.

«Bentornato!» disse. «Com’è andata?»

«Benissimo» risposi.

«Dove sei stato, Pedro?» domandò la vicina.

«Catalogna.»

«Ah, i catalani. Quelli si rifiutano di parlare lo spagnolo: come te la sei cavata?» domandò con una risata.

«Non male, Maria» dissi.

Maria scriveva libri di cucina ed era sposata con un avvocato, aveva appena trentadue anni. In netta controtendenza rispetto alle scelte di una generazione di eterni adolescenti, aveva già tre figli, in quel momento impegnati a giocare lì in piazza. Maria era originaria dell’Andalusia e aveva conservato lo spagnolo rapido e smozzicato della sua terra, in cui tutte le esse si tramutano in dolci zeta.

Tornai a osservare mia figlia. Era di nuovo il suo turno di saltare.

«Questa volta le sei mancato molto» disse Amelia.

Maria Luisa a un tratto incontrò il mio sguardo e con un gridolino eccitato abbandonò corda e amiche per correre ad abbracciarmi.

La presi in braccio. Aspirai avido il suo buon profumo di pulito. Mi cinse il collo e tirò il codino che mi ero fatto crescere anni addietro, quando i capelli avevano cominciato a diradarsi. Probabilmente tradiva i sentimenti di rifiuto che nutrivo per la vecchiaia che si avvicinava, ma era il mio piccolo vezzo: mia figlia lo trovava divertente, e secondo Amelia mi donava.

Posai Maria Luisa a terra. Si era lanciata in un torrenziale resoconto delle avventure dell’ultima settimana e mi mostrava un ginocchio sbucciato rosso di tintura disinfettante. Mi sedetti sulla panchina accanto a mia moglie e la piccola mi si sistemò in grembo. Continuammo a chiacchierare finché le due bambine della Corale chiamarono Maria Luisa che con un balzo abbandonò le mie ginocchia e corse loro incontro.

«Bueno,» disse Maria «devo salire a finire di preparare la cena. Juan rientrerà a momenti.»

«Lascia qui i bambini, li porto su io», si offrì Amelia, «noi ci fermiamo ancora un po’. Ho comprato delle bistecche.»

Maria salutò e si allontanò e Amelia si strinse a me.

«Allora, amore, racconta.»

Le feci il resoconto degli eventi della giornata. Mentre parlavo mi sfiorò il pensiero che non sapevo quale opinione avesse veramente Amelia del mio lavoro. Sospettavo che in fondo lo disprezzasse un po’, anche se non l’avrebbe mai ammesso per amor mio. Inoltre era grata del fatto che ci permettesse di vivere agiatamente.

«Ti aspetti qualche grana?» chiese.

«Non credo» risposi. «Ma se anche fosse, toccherà a Gloria e Oscar occuparsene.»

«Forse faresti meglio a non venderle.»

«Mia moglie che si schiera dalla parte di un ministro conservatore? Questa è buona!» esclamai.

Amelia rise.

«Per carità. Quelli si meritano ben di peggio. Sono preoccupata per te, tutto qui.»

«Sono grande e vaccinato» ribattei.

«Sì, ma…»

«Stai tranquilla.»

Raddrizzò la schiena.

«Ha telefonato una donna, una danese» disse. «Non parlava lo spagnolo, ma il suo inglese era ottimo. Ha detto che era della polizia…?»

«Dei servizi segreti. Mi ha chiamato sul cellulare. È scesa al Victoria.» Indicai il vecchio, bellissimo albergo dei toreri che s’ergeva all’altro capo della piazza, simile a una nave bianca e tranquilla nella luce precoce dei lampioni.

«Che cosa vuole?»

Mi accesi una sigaretta.

«Non ne ho la più pallida idea» ammisi.

«Ha detto che avrebbe richiamato.»

«Le parlerò.»

«Hai fame?» mi domandò Amelia. «Vuoi andare a cena fuori?»

«Non ho troppo appetito. Preferisco mangiare a casa. Diamo ai bambini altri dieci minuti.»

Restammo seduti abbracciati parlando di tutto e di niente come capita fra marito e moglie. Amelia faceva l’insegnante e lavorava in un istituto per bambini con problemi psichici. Era pagata malissimo, ma non ci avrebbe rinunciato nemmeno se avessero smesso di darle lo stipendio. Mi raccontò di un ragazzo che dopo molti sforzi era riuscito a leggere qualche riga del testo di un fumetto. Aveva quindici anni ed era un caso disperato, ma Amelia era entusiasta del fatto che tre anni di lavoro avessero portato a quel risultato. Io non avrei mai potuto fare il suo mestiere: non avrei retto nemmeno un’ora.

Una donna sui quarant’anni in tailleur azzurro e camicetta bianca si avvicinò alla nostra panchina. Portava un rossetto vermiglio e un tocco di ombretto scuro sulle palpebre. I capelli, pettinati all’indietro, le davano un’aria un po’ severa, ma l’espressione degli occhi azzurri era affabile.

«Peter Lime?» domandò.

Vidi che Amelia la studiava attentamente.

«Clara Hoffmann» disse la donna. Mi alzai per stringere l’esile mano che mi porgeva.

«Mia moglie» dissi in inglese. «Amelia, Clara Hoffmann. Di Copenaghen.»

Le due donne si scambiarono una stretta di mano. «Ci siamo parlate per telefono» disse Clara Hoffmann.

«Certamente. Ma al telefono non avevo afferrato il suo nome» disse Amelia nel suo inglese lento ma impeccabile.

«Mi perdoni l’invadenza» proseguì Clara Hoffmann rivolta a mia moglie. «Volevo fare una passeggiata con questa bella serata, poi ho visto suo marito qui seduto e allora…»

«Come ha fatto a riconoscermi?» chiesi.

«L’ho vista in diverse foto. Certo, era più giovane, ma non è cambiato molto.»

Amelia mi lanciò un’occhiata indecifrabile.

«È ora che porti su i bambini» annunciò. «Voi, invece, perché non andate alla Cervecería Alemana, dove potrete parlare in pace, e in danese?»

Era un’ottima idea. Me la sarei cavata in pochi minuti e poi sarei salito a cena. È più facile liberarsi di una persona dopo averle offerto da bere.

«Le va una birra?» dissi rivolto a Clara Hoffmann e quando lei annuì presi congedo da mia moglie con un bacio. Amelia raccolse la mia borsa da viaggio e chiamò a raccolta i bambini. Non si offrì di portare la tracolla perché sapeva perfettamente che non avrei accettato di separarmi dalle macchine.

«Da questa parte» dissi guidando Clara Hoffmann verso la Cervecería Alemana, sul lato opposto della piazza. Portava un paio di scarpe comode senza tacco ed era alta quanto la mia spalla. Era avvolta da una nuvola di un profumo delicato, molto gradevole.

«Che bello qui» commentò mentre raggiungevamo l’ingresso del bar. Era affollato, ma per fortuna tre giovani si alzarono in piedi proprio mentre entravamo, liberando un tavolo accanto alla finestra. Come in tutti i bar spagnoli c’era molto chiasso. Dietro il bancone due barman indaffarati consegnavano caffè, tapas, birre e cocktails a una squadra di camerieri in giacca bianca e pantaloni neri. Una grossa testa di toro campeggiava su una delle pareti, le altre erano decorate da fotografie in bianco e nero di famosi toreri oppure di vecchi attori degli anni Quaranta e Cinquanta. La clientela era composta prevalentemente da giovani.

«Davvero carino» ripeté Clara Hoffmann con un sorriso.

«Già. Hemingway è stato uno dei suoi clienti più famosi.»

«Davvero?» disse con aria indifferente, prendendo una sigaretta dalla borsa.

«Non le piace?» domandai.

«Non ho letto più niente di suo dai tempi del liceo. Trovo che sia un po’, come dire, superato.»

Accostai la fiamma dell’accendino alla sua sigaretta.

«Non è d’accordo?» I suoi occhi mi parvero adesso quasi grigi.

«È uno dei miei scrittori preferiti» dissi scrutando il ripiano marmoreo del tavolo e poi fissando lo sguardo fuori della finestra. Il marciapiede pullulava di madrileni diretti all’aperitivo che di rito precedeva la cena, prevista solo per le undici.

«Dicono che questo fosse il suo tavolo abituale. Qui si sedeva a scrivere durante la guerra civile, mentre i fascisti bombardavano Madrid. Di solito quando veniva in città, alloggiava nel suo stesso albergo, il Victoria, insieme ai toreri famosi dell’epoca. Fino a qualche anno fa qui si potevano ancora incontrare dei camerieri che lo avevano conosciuto e che lo avevano accompagnato in albergo le mattine in cui era troppo ubriaco per tenersi in piedi.»

Lei si guardò intorno.

«Comunque, non è di Hemingway che voleva parlarmi» dissi.

«Propongo di darci del tu.» Annuii.

«Vuoi bere qualcosa? Un bicchiere di vino?»

«Sì, grazie» rispose liberando una boccata di fumo.

Feci un cenno a Felipe che accorse al nostro tavolo. Lavorava lì da decenni. Un tempo era stato un giovane e promettente torero, ma poi un toro lo aveva incornato e “aveva perso i coglioni”, come dicono gli spagnoli. Benché la ferita fosse guarita rapidamente, non aveva più osato mettere piede nell’arena. Era un uomo tarchiato, con gli occhi tristi e il naso rosso. Viveva da solo in una piccola pensione e ogni anno tornava a Ronda, dove era nato, per visitare l’arena in cui aveva debuttato. Che cosa ci andasse a fare, non lo so. Forse malediceva il toro e la sua cattiva sorte. Forse si accontentava di contemplare i suoi sogni infranti.

Accolse la mia ordinazione con il solito sorriso stanco: un bicchiere di vino rosso per la signora, un’acqua tonica per me, una porzione di gamberetti all’aglio e un piatto di prosciutto di montagna.

Felipe si allontanò e Clara Hoffmann cercò il mio sguardo.

«Ho un paio di domande da farti» disse.

«Solo così, per formalità,» la interruppi, «potrei vedere un documento?»

«Ma certo» rispose frugando nella borsa e porgendomi la carta d’identità. La foto era somigliante. Sicché aveva quarantatré anni.

«Vicecommissario. Complimenti!» dissi.

«Il mio capo, una donna, ha solo qualche anno più di me. Non sono un caso tanto straordinario…»

Era una mia impressione o aveva pronunciato l’ultima frase con una punta di rassegnazione? Quasi ritenesse di non doversi aspettare alcun ulteriore avanzamento. Le restituii il documento. Felipe ricomparve e posò sul tavolo il vino, la tonica e il cibo insieme allo scontrino. I gamberetti sfrigolavano ancora nell’olio e aglio. Il prosciutto stagionato e affumicato era tagliato a fettine sottili, disposte con cura sul piatto.

«È la prima volta che vieni in Spagna?»

«Sono stata a Mallorca, un secolo fa. Poi i miei interessi mi hanno portato… più a Est.»

«Hai dato la caccia alle spie russe?»

«Qualcosa del genere.»

Sorrise evasiva. Quando sorrideva gli occhi grigio azzurri si facevano incredibilmente vivi e luminosi. Assaggiò del prosciutto e subito tornò a servirsene.

«Mmm… Devo ricordarmi di portarmene un po’ a casa» disse.

«Già. È squisito.»

Spizzicammo in silenzio per qualche minuto. Poi Clara Hoffmann si sporse verso di me e assunse un’espressione professionale. Il livello del rumore all’interno del bar era alto. Stavo seduto con le spalle rivolte alla parete, in modo da tenere d’occhio la porta d’ingresso. Molti dei clienti abituali mi conoscevano, ma nessuno si fece avanti per salutarmi.

«Non ti tratterrò per molto. Ma se permetti, vorrei farti alcune domande…»

«Prego.»

«Al telefono, però, mi sei sembrato piuttosto indisponente.»

«Mi trovavo in una situazione… complicata» mi giustificai.

«Laila Petrova» disse scrutandomi in viso. «Il nome ti dice qualcosa?»

Scossi la testa. «Assolutamente niente. Chi è?»

«Quarantotto anni. Capelli castani, probabilmente tinti. Magra, altezza un metro e settantacinque, costituzione normale. Viso ovale dai tratti regolari, anche grazie a un paio di interventi chirurgici. Occhi azzurri o marroni, a seconda delle lenti a contatto. Elegante. Fotogenica. Si è laureata in storia dell’arte e si è sposata due volte. Ignoriamo il nome del primo marito. Il secondo era un pittore russo da cui si è separata dieci anni fa. Il cognome da ragazza sembra fosse Nielsen. Il pittore, ovviamente, si chiamava Petrov.»

«Non conosco nessuna che risponda a questa descrizione.»

«Leggi i giornali danesi?» domandò. Il suo sguardo si staccò da me per posarsi fuggevolmente sugli stuzzichini. Doveva aver fame, l’orologio del suo stomaco non era regolato sui ritmi spagnoli. Allungò la mano verso il piatto del prosciutto. All’anulare destro portava un anello con uno zaffiro, al sinistro niente.

«No, non li leggo» risposi. «Anche se di tanto in tanto mi capita sotto gli occhi qualche articolo. La mia agenzia vende foto in tutto il mondo. Così ci appoggiamo a un’agenzia specializzata in rassegne stampa, per essere informati su chi utilizza le nostre foto. Nel caso dimenticassero di pagare il copyright.»

«Capisco. Permetti?» Prese l’ultima fettina di prosciutto dal piatto, masticò con cura e bevve un sorso di vino.

«Tornando a Laila Petrova. Era… è direttrice di un prestigioso museo danese inaugurato di recente. È scomparsa, e con lei un bel mucchio di quattrini: quattro milioni e mezzo di corone di finanziamenti.»

«Sei venuta fin qui per raccontarmi la storia di una tizia scappata con la cassa? Non l’ho mai sentita nominare. Perché non me ne hai parlato al telefono? Avremmo evitato di sprecare tempo.»

«Già, ma non avrei potuto mostrarti questa» disse estraendo dalla borsa una cartellina. Aveva l’aria di contenere parecchi documenti, ma lei selezionò una foto in bianco e nero e me la porse scrutandomi, pronta a registrare ogni mia più piccola reazione. Era una foto d’agenzia formato 25x36, chiaramente una riproduzione, per quanto nitida. Ritraeva una giovane donna bionda e sorridente, gli occhi semichiusi fissi su un punto alla destra del fotografo. Mi pareva di averla già vista da qualche parte. Aveva lunghi capelli lisci sciolti sulle spalle e una frangia dritta che le sfiorava le sopracciglia. Quella pettinatura alla Marianne Faithful faceva pensare che la foto fosse stata scattata all’inizio degli anni Settanta, certamente d’estate. Indossava una camicia a fiori generosamente sbottonata e pantaloni a vita bassa, all’apparenza blue-jeans. Uno degli incisivi era un po’ storto, ma questo non faceva che aumentare il fascino del suo sorriso. Sullo sfondo si intravedevano le sagome di alcuni pescherecci. La ragazza stava suonando la chitarra. Nel margine di sinistra un uomo con la barba le rivolgeva un sorriso pieno di ammirazione.

Alzai lo sguardo sul volto di Clara Hoffmann.

«È una bella foto» dissi.

La girò. Il copyright era della Polfoto. In basso qualcuno aveva scritto Foto di Lime? in una grafia inclinata. Clara continuava a fissarmi.

«Precisamente» disse. «Foto di Lime? Punto di domanda.»

Controllai se ci fosse una didascalia, ma tutto ciò che trovai fu l’indicazione Presumibilmente scattata in Danimarca, 15 giugno 1970.

«Ho fatto migliaia di foto in vita mia» dissi. Ero sempre più sicuro di avere già visto la ragazza. «È lei?»

«Laila Petrova. Da giovane» confermò Clara.

«Non si chiamava Laila…» dissi sforzandomi di ricordare. «Si chiamava Lola. Lola Nielsen. O Jensen. O Petersen. Un cognome molto comune.»

«Allora la foto è tua.»

«Può anche darsi. Non ne sono sicuro.»

Finii di bere la mia acqua tonica.

«Se la donna è una truffatrice, cosa c’entrano i servizi segreti?»

«E l’uomo chi è?» chiese Clara Hoffmann ignorando la mia domanda. Lo osservai con più attenzione. Anche lui era giovane, sulla ventina. Portava i capelli piuttosto lunghi. I denti risaltavano bianchi e regolari in contrasto con il nero della barba. Indossava una giacca a vento scura, forse blu.

«Non lo so» risposi. «È lui che i servizi segreti stanno cercando?»

«Diciamo che ci interessa, e perciò ci interessa anche la foto di Lime.»

Le restituii la foto.

«Non posso aiutarvi.»

«Mi chiedevo se avessi ancora il negativo. E magari altre foto scattate nella stessa occasione.»

«Se la foto è mia può darsi che abbia il negativo. E se ho il negativo, può darsi che riesca a trovarlo. E se riesco a trovarlo, può darsi che ci siano anche altre foto. Chi è il barbuto?»

«È ricercato in tutto il mondo da oltre vent’anni. È tedesco. Uno dei suoi tanti nomi è Wolfgang. Ha fatto parte della Rote Armee Fraktion. Omicidio, incendio doloso, rapina e sequestro di persona. I servizi segreti tedeschi credevano di averlo stanato alla caduta del Muro di Berlino, ma all’ultimo momento riuscì a dileguarsi. Era rimasto nascosto in Germania dell’Est per quindici anni, lavorando come meccanico. Uno dei miei colleghi tedeschi ha visto la tua foto su “Bild Am Sonntag” e ha riconosciuto il nostro Wolfgang. Poi si è messo in contatto con noi. Non avevamo la più pallida idea del fatto che Wolfgang avesse conoscenze in Danimarca. Dove è stata scattata la foto?»

La conversazione informale di poco prima si era definitivamente trasformata in un interrogatorio.

«Non lo so. Non sono nemmeno sicuro che quella foto sia mia. Sono passati quasi trent’anni.»

Lei me la porse.

«Tienila. Io ho diverse copie. Pensaci. Fai uno sforzo di memoria, fruga nel tuo archivio, Lime. Aiutaci.»

«Okay. Vedrò quel che posso fare.»

A un mio cenno Felipe corse al tavolo, pagai il conto non senza lasciargli la consueta, generosa mancia. Mi alzai.

«Ti telefono» dissi. «Fra un paio di giorni. Intanto goditi Madrid.»

«A spese dei contribuenti» rise.

«Non è affar mio. Non pago le tasse al governo danese» dissi, prendendo la tracolla con le macchine che avevo appoggiato sulla sedia accanto.

Mi allontanai con l’animo stranamente pesante, pieno di un’inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Vecchi ricordi riaffioravano alla memoria, confusi e apparentemente insignificanti. Me li scrollai di dosso mentre rientravo a casa. Abitavo di fronte alla Cervecería, all’ultimo piano, in un appartamento che avevo acquistato diversi anni prima, e poi ampliato a più riprese incorporando gli appartamenti attigui. Disponevamo di oltre trecento metri quadri, incluso il mio studio e un terrazzo. Ricevevamo continue offerte d’acquisto. E siccome era un appartamento fantastico proprio nel cuore della città, invariabilmente rispondevamo «no grazie». Entrai in casa, accolto come sempre dal sorriso di una Jacqueline Kennedy quasi interamente svestita, la cui foto a figura intera decorava la parete alle spalle della porta.

«Sono io» gridai in direzione della cucina dove, data l’ora, sicuramente si trovavano Amelia e Maria Luisa. Misi i rullini da sviluppare al sicuro nella cassaforte dello studio e gettai la foto di Clara Hoffmann sulla mia scrivania. Poi mi lavai le mani e andai a sedermi a tavola, di fronte alle mie due ragazze preferite. Maria Luisa parlò ininterrottamente per tutta la durata della cena. Mentre ascoltavo incantato le sue storie, leggevo la mia stessa gioia negli occhi di Amelia.

Dopo mangiato portai a letto la piccola. Quando si fu addormentata mi feci una doccia rapida e poi corsi a infilarmi a letto dove Amelia mi aspettava nuda sotto il lenzuolo. Ritrovare il suo corpo fu bellissimo. I rumori della città entravano dalla finestra aperta confondendosi ai nostri gemiti.

Ero troppo sveglio per sperare di riuscire a prendere sonno e quando il respiro di Amelia si fece regolare mi alzai. Andai a sedermi sul terrazzo con una Coca, una sigaretta e la fotografia vecchia di trent’anni. Circondato da gerani, rose, eucalipti, aranci e limoni, sentivo le pulsazioni della città salire fino a me dalla piazza sottostante. E ricordavo.

La foto che aveva portato Clara Hoffmann fino a Madrid era stata scattata a Bogense durante una sagra paesana e pubblicata su un giornale locale che l’aveva acquistata insieme ad altre della stessa serie. Lo stesso giornale doveva poi averla venduta all’agenzia Polfoto. Lola allora aveva vent’anni e abitava nella stessa comune in cui vivevo io. Voleva fare la cantante folk, sognava una carriera da Bob Dylan al femminile. Avevamo fatto sesso qualche volta. In un contesto in cui tutti, donne e uomini, si sforzavano di superare la gelosia in quanto sentimento meschino e tipicamente borghese, la bella Lola era una dei pochissimi ad essere riuscita nell’intento: passava da un letto all’altro con assoluta disinvoltura, seminando tensione fra i suoi partner e spezzando più di un cuore. L’uomo della foto non si chiamava Wolfgang. Il suo nome era Ernst. Era un ragazzo di appena diciott’anni e veniva da Amburgo. Come tutti si sentiva un artista, voleva scrivere romanzi. Era politicamente impegnato, naturalmente a sinistra, ma a quel che ricordavo non aveva simpatia per le bombe. Si era innamorato perdutamente di Lola, e lei aveva giocato con il suo amore, seducendolo e poi abbandonando il suo letto per il mio, oppure per quello di un altro. Ernst aveva continuato a guardarla con occhi infelici e a seguirla come un cagnolino segue il padrone.

Era tutto quanto riuscissi a rammentare. Non avevo più ripensato a Lola nel corso di quei quasi trent’anni. Ma a un tratto, sul terrazzo immerso nell’aria tiepida della notte, mi tornò in mente un episodio: l’ultima volta in cui eravamo stati insieme aveva pianto. Io la trovavo attraente e sexy, ma non ero innamorato di lei. Non avevo intenzione di fermarmi a lungo alla comune, volevo viaggiare. Quando le dissi che stavo per partire, fu come se le avessi tolto una parte del suo potere.

Mi risuonò nella mente la sua esile voce.

«Peter. Sedurre è l’unica cosa che so fare, il mio unico talento. Di solito riesco a ottenere che gli uomini facciano quello che voglio. Perché con te non funziona?»

Chissà perché le sue parole — e il candore con cui le aveva pronunciate — tornavano a galla con tanta precisione dopo tutti quegli anni. Poco tempo dopo quell’episodio avevo lasciato per sempre la comune. In un’epoca in cui il mondo era in subbuglio e tutto sembrava possibile, appartenevo a una generazione di girovaghi.

Capelli lunghi e barbe, jeans scampanati, bagni di gruppo, seni scoperti al sole, bambini nudi, discussioni sulla società e sulla politica, camicie indianeggianti, e d’inverno gli Eskimo: contemplavo quel turbinio confuso di fotogrammi che era la mia memoria e cercavo invano di mettere a fuoco altre facce, altri episodi, altre parole.

Mi alzai e andai in studio a sviluppare e riprodurre le foto scattate in Costa Brava, in modo che Oscar potesse vederle il mattino seguente e congratularsi con me per il magnifico colpo.

3

Alle sette ero in piedi. Come la maggior parte dei madrileni, andavo a letto tardi, mi svegliavo presto, e quando potevo mi concedevo un sonnellino pomeridiano. Avevo preparato la colazione per Amelia e Maria Luisa: un grosso bicchiere di caffè forte con latte e un croissant per Amelia e me, del latte con una fetta di pane e formaggio dolce per mia figlia. Assistetti alla sua vestizione. In quel periodo aveva la mania dei fiocchi, e insisteva per indossarne uno fra i capelli ogni giorno, meglio se rosa. Di fronte a me Amelia beveva il suo caffè bollente a piccoli sorsi. Portava un paio di jeans e una camicetta, trucco leggero: la sua tenuta da lavoro. La mattina non parlavamo molto. Non ce n’era bisogno. Mangiavamo insieme in un piacevole silenzio assonnato, il notiziario della radio come sottofondo. Quando Amelia e Maria Luisa uscivano di casa, spesso mi coglieva un’irrazionale sensazione di solitudine e quel mattino non fece eccezione.

Oscar si stupiva della mia fedeltà e mi accusava di essere precocemente invecchiato, però credo provasse anche una punta di invidia. Al contrario di me temeva la noia e per combatterla ricorreva a stimolanti di diverso genere, compresi alcol e stupefacenti nei momenti di crisi più acuta. Ma il suo vizio irrinunciabile erano le emozioni. Aveva bisogno di mettersi continuamente alla prova, di testare i propri limiti.

Da sempre aveva fama di grande donnaiolo. Ma adesso che andava per i cinquanta, la sua costante smania di conquiste aveva un che di disperato. Ogni volta che incrociava una bella donna non poteva fare a meno di provarci. Era rimasto sconvolto quando si era reso conto del fatto che molte ragazze ormai lo consideravano vecchio. Anzi, un vecchio porco. Gloria lo aveva preso in giro con cattiveria per qualche settimana, poi avevano fatto pace come sempre.

Scesi al bar all’angolo e aprii «El Pais» davanti al secondo caffè della giornata. Il terrorismo basco imperversava. La sera precedente l’ETA aveva ucciso un poliziotto spagnolo a Bilbao. Una ragazza era stata assassinata con un colpo di pistola in bocca. Aveva fatto la spia: questo era il messaggio. Poche settimane prima avevano ammazzato un giovane consigliere comunale basco dell’ala nazionalista moderata, perché lo stato si rifiutava di rilasciare un gruppo di detenuti appartenenti all’ETA. La collera e il senso di impotenza avevano spinto oltre un milione di persone a manifestare per le strade di Bilbao. Qualche giorno dopo trentamila simpatizzanti dell’ETA avevano partecipato a una contromanifestazione a San Sebastián. Era una vera e propria guerra civile. Gli omicidi si succedevano a catena. A intervalli regolari nelle strade di Madrid esplodeva un’autobomba.

Al tempo della dittatura del generale Franco, avevo ritenuto quelli dell’ETA dei partigiani. Adesso li consideravo dei criminali accecati da un sogno anacronistico.

Presi con me il giornale e tornai a casa ad aspettare Oscar che sicuramente era impaziente di vedere le foto. Per quanto mi riguardava, mi procuravano un senso di disagio. Sarebbe stata l’agenzia a venderle e l’autore sarebbe rimasto anonimo come al solito. Ma le guardie del corpo del ministro avevano visto sia me sia la targa dell’auto che avevo noleggiato.

Il citofono suonò con caratteristica insistenza.

«Ciao Oscar» dissi aprendogli.

La nostra amicizia risaliva alla straordinaria primavera del 1977, una stagione di grandi cambiamenti per la Spagna. Ci eravamo conosciuti nel cuore della notte in un bar di Calle Echégaray, a pochi metri dalla pensioncina dove alloggiavo. Oscar torreggiava nel piccolo locale, uno dei bar più vecchi di Madrid.

Tre gitani andalusi assai malconci cantavano No te vayas todavía con voci arrochite dai sigari, scandendone il ritmo a forza di battiti di mani. Al primo corista mancavano due incisivi, gli altri denti erano d’oro. Appena entrato avevo notato Oscar, il grosso corpo precariamente appollaiato su una seggiola bassa quanto uno sgabello da mungitura, un boccale di birra nella destra. Come molti all’epoca, aveva i capelli lunghi e una folta barba. Io ero venuto con un collega della Reuter, che ci presentò.

Oscar era un giornalista free-lance della Germania dell’Ovest. Lavorava sodo, ma le piccole testate di sinistra per le quali scriveva pagavano malissimo. Io collaboravo con un giornalista svedese scattando immagini per i suoi articoli. Il leader comunista Santiago Carrillo, da poco rientrato in patria, si apprestava a tenere il primo raduno politico pubblico a Valladolid. Invitammo Oscar ad accompagnarci al comizio sull’auto presa a noleggio.

Al contrario di me, che mi ero semplicemente e allegramente fatto contagiare dallo spirito del tempo, Oscar e Gloria, da giovani, erano stati sinceri rivoluzionari. Ammiravano Mao e Ho-Chi-Minh. Con gli anni si erano progressivamente allontanati dalla politica, abbandonando le idee radicali della gioventù per concentrarsi sulla carriera e sulla vita privata. Poi avevamo cominciato a guadagnare, e, si sa, i soldi hanno il potere di cambiare le persone. Non parlavamo molto del passato. Sembrava che Marx, Engels, l’Unione Sovietica e la DDR non fossero altro che ambigui miraggi sfumati nel crepuscolo del ventesimo secolo.

Aprii la porta a Oscar e ci abbracciammo. Gli volevo un gran bene e lui ricambiava il mio sentimento. Era un omone massiccio, alto più di due metri. Da qualche anno aveva sviluppato un po’ di pancetta, giusto un accenno, ma le sue grandi spalle dominavano la lieve pesantezza del giro vita, annullandola. Il viso era largo, le guance rasate, gli occhi piccoli e castani. Vestiva in maniera elegante e disinvolta, con abiti su misura e camicie di seta, senza cravatta. Aveva la risata facile, squillante e contagiosa, e il passo sicuro di un uomo di successo. Accentrava l’attenzione e sapeva affascinare chiunque. Era un venditore nato e un grande manipolatore. La sua moralità, come quella di molti grandi seduttori, era un tantino dubbia. Da parte mia, ero contento che fosse mio amico e non mio nemico. Eravamo diversi, ma ci piacevano la stessa musica, gli stessi film e gli stessi libri. Entrambi credevamo che la vita fosse fatta per essere vissuta.

Andammo in studio e gli mostrai le foto. Lui schioccò la lingua in segno d’approvazione. Era un bel raccontino fotografico: il motoscafo si avvicina alla spiaggia, il ministro e la sua bella fanno il bagno nudi, amoreggiano in acqua, poi sulla spiaggia. Lui succhia le dita dei piedi alla ragazza. L’ultima foto era la meglio riuscita, ma i volti erano più chiaramente visibili e riconoscibili in quella sul motoscafo, in cui il ministro si sporgeva verso l’amante colta nell’atto di umettarsi le labbra con la lingua. Ero riuscito ad avvicinarmi abbastanza da poter fare a meno del teleobbiettivo. I dettagli erano puliti e nitidi, quasi che anch’io fossi stato tra i partecipanti a quella gita. Avevo selezionato le stampe in modo che le riviste scandalistiche e i quotidiani interessati potessero sceglierne una adatta ai gusti e alle aspettative del loro pubblico. Dal momento che il protagonista dello scoop era un uomo politico membro del neo-eletto governo, anche i quotidiani “seri” avrebbero pubblicato una delle mie foto e discusso le implicazioni politiche dello scandalo, grati dell’occasione di mostrare un seno scoperto. Per divertimento, avevo stampato un’unica immagine dell’amplesso sulla spiaggia. Come avevo previsto era troppo spinta per poter interessare anche il più disinvolto dei nostri clienti e Oscar le diede appena un’occhiata. Sapeva che non avrebbe fruttato un soldo.

«Bel lavoro, Peter» si complimentò mentre con lentezza passava ancora una volta in rassegna la serie. Eravamo proprietari dell’agenzia fotografica insieme a Gloria. Ospe News, avevamo battezzato la nostra società per azioni. Il mio nome non era mai stato associato ad alcuna delle foto scandalose che avevo scattato nel corso degli anni. Peter Lime non era nessuno per il grande pubblico, ma non passava giorno senza che almeno una foto contrassegnata dal copyright dell’Ospe News apparisse su una rivista o un quotidiano in qualche parte della terra. E i nostri conti in banca crescevano di conseguenza. Perfino la mia storica foto di Jacqueline Kennedy seminuda vendeva ancora. Avevamo aperto filiali a Londra e a Parigi e non ci occupavamo solo di foto di gente famosa, ma anche di reportage e tutto il resto. La nostra scuderia annoverava diversi fotografi sportivi molto quotati, ma le somme importanti entravano con le foto dei vip colti in situazioni private.

Oscar prese le foto e si sedette al tavolo bianco che occupava il centro della stanza. Qui offrivo il caffè ai miei contatti di lavoro, o ai clienti che posavano per me quando mi dedicavo all’altra faccia del mio mestiere, i ritratti. Ritraevo, sia celebrità disposte a pagarmi un capitale, sia persone qualunque i cui volti mi affascinavano per strada, in un caffè o in una sala d’aspetto.

Oscar mi guardò:

«Valgono di più di quanto immagini» mi disse.

«È ministro da troppo poco tempo per essere noto al di fuori dei confini spagnoli» replicai scettico.

Oscar sfoderò il suo sorriso da lupo.

«Peter, non mi dire che non l’hai riconosciuta!»

Rimasi in attesa. Oscar leggeva riviste illustrate in diciassette lingue, faceva parte del suo lavoro. Studiava il jetset del globo con la stessa serietà e precisione con cui un bravo speculatore di borsa studia le quotazioni. Per giocare d’anticipo sul mercato, il dio indiscusso dei nostri tempi. Per sapere chi “tirava” e quanto valeva.

«Un indizio: è italiana.»

Raccolsi una delle foto. Il bel viso dai lineamenti regolari aveva qualcosa di familiare, e allo stesso tempo assomigliava a mille altri giovani volti di donna, la bocca piccola e carnosa e i grandi occhi leggermente a mandorla. Provai a immaginarmela truccata, ma prima che mi avventurassi a sparare un nome, Oscar annunciò:

«È Arianna Facetti».

Tornai a osservare la foto. Aveva ragione. Era proprio la giovane promessa del cinema italiano. Per un soffio non aveva ricevuto un premio all’ultimo Festival di Cannes. Per il momento non era ancora una star del cinema internazionale, ma il suo passato di scollacciata animatrice di un popolare quiz televisivo la rendeva una preda decisamente appetibile per noi paparazzi.

«Hai ragione» dissi. «Dove si saranno conosciuti?»

«Il vecchio ha interessi in un canale televisivo. E poi i soldi gli escono dalle mutande. Avrà notato la sua foto in qualche rotocalco e avrà spedito il suo aereo personale a prelevarla. Gran bella ragazza. Adesso diventerà ancora più famosa. Lui ci rimetterà la carriera, mentre le quotazioni di lei saliranno non appena le tue foto appariranno sulla stampa italiana e spagnola. Pensi che dovremmo concederle in esclusiva?»

«Vuoi una birra? Un caffè?» gli chiesi.

«Coca Cola.»

Presi due lattine di Coca dal frigo e le appoggiai sul tavolo. Oscar mi guardò.

«Che c’è, Peter, qualcosa non va?»

«Forse faremmo meglio a lasciar perdere.»

«Queste foto ci frutteranno un mucchio di soldi. Che ti prende?»

Gli raccontai l’incidente del cellulare, la mia frettolosa ritirata dalla postazione sopra la caletta e infine l’incontro non proprio amichevole con le guardie del corpo del ministro.

«Dobbiamo parlare anche con Gloria di questa faccenda» disse quando terminai di parlare. «Ma non dovrebbero esserci ulteriori problemi. Non hai commesso nessun crimine perseguibile. Si trovavano su suolo pubblico. Il tuo nome non verrà fuori. Anche se i ben informati sanno perfettamente che quando l’Ospe vende foto scottanti il più delle volte sono firmate Lime.»

Annuii.

«Le mie esitazioni sono basate… più che altro su una sensazione» ammisi.

«Capisco. Chiederemo a Gloria di fiutare un po’ in giro.»

«Okay» dissi, solo parzialmente rassicurato. Avevo piena fiducia nelle capacità di valutazione di Gloria e di Oscar. Eppure non ero del tutto tranquillo.

«Aspettiamo un paio di giorni prima di muoverci» suggerì ancora Oscar, alzandosi per telefonare.

Chiamò Gloria per riferirle quanto gli avevo appena raccontato. Era in piedi accanto alla mia scrivania, e il suo sguardo si posò sulla foto di Lola recentemente riaffiorata dal passato. La prese in mano e la osservò mentre improvvisamente distratto rispondeva a Gloria nel suo spagnolo lento e dal forte accento tedesco.

«Alle quattro?» disse infine rivolto sia a me che al ricevitore.

Scossi la testa. Alle quattro avevo un appuntamento con i miei amici giapponesi della scuola di karate. Ne avevo bisogno: la bocca secca, il formicolio alle dita, i brividi lungo la schiena, il senso di vuoto allo stomaco. Tutti segnali di un’inquietudine che solo un’intensa sessione in palestra avrebbe potuto scacciare.

«Peter non può» disse Oscar. «Perché non adesso?» propose allora. Reggeva la foto di Lola con entrambe le mani, il ricevitore premuto sotto il mento.

Scossi di nuovo la testa. Di lì a mezz’ora avrei incontrato una diva cinquantaseienne del teatro reale spagnolo che aveva deciso di regalare al suo nuovo amante un proprio ritratto.

«Alle sei?» rilanciò Oscar. Finalmente annuii, e lui schioccò un bacio nella cornetta prima di riagganciare.

Dopo un ultimo sguardo al bel volto di Lola posò la foto. Oscar si girò e, sedendosi sul bordo del tavolo, si accese una sigaretta.

«Chi è la donna misteriosa?» chiese indicando la fotografia.

Il fatto che Oscar mi avesse rivolto quella domanda non mi stupì. Era curioso come una scimmia, anche per questo era così bravo nel suo lavoro.

«Non saprei» mentii. Non avevo voglia di raccontare.

«È una vecchia foto. Da dove salta fuori?» insistette lui.

Di mala voglia gli parlai di Clara Hoffmann.

«E allora, ce li hai i negativi oppure no?» chiese.

«Come mai t’interessa tanto? La conosci?»

«No. Però è molto bella. Misteriosamente, inafferrabilmente bella. È come se dicesse: io ho tanti segreti. Solo un uomo speciale può sperare di trovarne la chiave. Scoprirmi non è facile, ma il premio per chi ci riesce sarà grande.»

Risi. Oscar non si smentiva mai. Conquistava le donne spinto dal desiderio di conoscerle anima e corpo, e quando sentiva di aver raggiunto lo scopo invariabilmente subentrava la noia. Solo l’intelligenza, l’imprevedibilità e il sex appeal di Gloria erano riusciti a trattenere il suo interesse abbastanza a lungo da rendere una separazione troppo problematica.

«Allora? Hai ancora i negativi?» insistette.

Indicai gli armadi di acciaio allineati lungo una parete della stanza.

«Lo sai che non butto mai un negativo. Quella foto non mi dice niente, ma credo di averla da qualche parte. Magari su in soffitta.»

«Hai intenzione di cercarla?»

Gli rivolsi un’alzata di spalle.

«Ho cose più urgenti a cui pensare» risposi.

«Si vede subito che la foto è tua» disse. «C’è tutto. Stile, tensione, mistero, inquietudine. Già da giovane eri molto bravo.»

Ripose le foto del ministro e dell’attrice italiana in una busta, mi diede un buffetto sulla guancia e si avviò alla porta.

«A dopo» lo salutai.

Rimasto solo accesi il cellulare per controllare la segreteria. C’era un messaggio della Hoffmann che mi pregava di richiamarla. L’avrei fatto senz’altro, più tardi. Mi avvicinai agli armadi di acciaio. Là dentro, chiusi a chiave, riposavano innumerevoli pezzi della mia vita trascorsa. Aprii il primo armadio. I negativi erano sistemati in ordine cronologico, anno per anno. Per ogni serie di immagini avevo indicato la data e il soggetto. Ce n’erano a migliaia. I miei frequenti viaggi non mi avevano impedito di tenere un archivio accurato delle foto. Perfino nei periodi più caotici della mia esistenza, quando avevo avuto l’impressione di camminare sull’orlo di un abisso, conservare e ordinare il frutto del mio lavoro era rimasta una priorità. E adesso quei frammenti di tempo fissati in millesimi di secondo erano sistemati in bell’ordine negli armadi d’acciaio.

Non tutti, però.

La foto di Lola poteva far parte del mio archivio segreto, di cui perfino Oscar ignorava l’esistenza. Più ci pensavo più mi sembrava probabile che le cose stessero proprio così. Non solo ero sempre stato geloso dei miei negativi, ma consideravo le foto migliori e quelle più scottanti un’assicurazione sulla vita, l’equivalente di una pensione, oltre che una parte di me. Da giovane avevo preso l’abitudine di spedire alcuni, selezionati negativi ai miei genitori. Infilavo il negativo in una busta indirizzata a me stesso, e questa a sua volta in un’altra che spedivo ai miei genitori. I quali avevano istruzioni di conservare la lettera fino alla mia prossima visita in Danimarca, quando l’avrei aperta per riporne il contenuto in una valigia. Negli anni, diverse volte avevo sostituito la valigia con una sempre più capiente, fino ad arrivare all’attuale grossa Samsonite bianca con la serratura a combinazione. Vi custodivo il negativo della famosa foto di Jacqueline Kennedy, e di altre che mi avevano reso una fortuna. Ma anche quelli di paesaggi che mi avevano emozionato particolarmente, e le foto scattate con la mia prima Leica. Un’immagine turistica piuttosto banale della Piazza Rossa di Mosca nel 1980 era custodita insieme al ritratto di un’antica fidanzata. C’erano negativi di foto scattate in Iran, India, Danimarca, tracce del mio progetto di immortalare tutti i locali frequentati da Hemingway. Le prime foto di Amelia e Maria Luisa subito dopo il parto. Ma c’erano anche le lettere d’amore di una vita, un paio di pagelle, qualche tema e i miei goffi tentativi di comporre poesie, schizzi, annotazioni e pensieri buttati giù in fretta. Quella valigia, insomma, era una sorta di diario e aveva sempre rappresentato un punto fermo nella mia esistenza. Alla morte dei miei genitori, l’avevo affidata a un avvocato incaricato di ricevere e conservare la mia posta. Poi, cinque anni prima, avevo consegnato la valigia al padre di Amelia, un ex agente segreto che aveva fatto della riservatezza una regola di vita.

Io e Don Alfonso nutrivamo opinioni discordanti su molte cose, ma potevamo contare sulla fiducia e il rispetto reciproco.

Perciò presi uno dei negativi più espliciti del ministro e la sua pupa, lo contrassegnai con data e luogo dello scatto e lo misi in una busta che indirizzai a me stesso. Infilai la busta in una più grande insieme a due righe di saluto per Don Alfonso.

Controllai la mia casella e-mail e risposi a diversi messaggi di collaboratori che mi informavano su possibili “colpi”. Notizie e voci sui luoghi in cui i vip della terra si preparavano a trascorrere le vacanze. Per il momento non avevo intenzione di lanciarmi in una nuova impresa, ma ringraziai ugualmente le mie fonti e trasferii mille dollari sul conto di un informatore particolarmente abile e zelante.

La diva del teatro arrivò in ritardo, insieme alla sua sarta di scena. Mentre scattavo, inanellò tenera e allegra storie di amori vecchi e nuovi, pettegolezzi dell’ambiente e aneddoti piccanti. Era ancora molto attraente, e un talento palpabile nell’abilità di controllare i più piccoli muscoli del viso. Voleva apparire ringiovanita di vent’anni, bella di una bellezza misteriosa simile a quella della Gioconda. Se la foto le fosse piaciuta, avrebbe preteso che il teatro la utilizzasse per la promozione. Ormai la foto a fini promozionali era un fatto cruciale non solo per la gente di spettacolo ma anche per gli scrittori, categoria che infatti mi capitava di ritrarre sempre più spesso. Il successo di un romanzo sembrava dipendere più dall’avvenenza dell’autore che dal suo talento, l’immagine era tutto, il contenuto un optional.

Al termine dello shooting trascorsi qualche ora in camera oscura a lavorare sul ritratto dell’attrice. Non ero del tutto soddisfatto del risultato, e decisi che le avrei chiesto di tornare a posare un’altra volta.

A prescindere dalla qualità delle foto, la camera oscura per me era un rifugio, un luogo di felicità. Il mondo circostante spariva. C’ero solo io, io e le mie immagini che affioravano nella luce rossa per effetto di processi chimici da me sapientemente e creativamente controllati. Uscito dalla camera oscura mangiai un panino veloce e mi apprestai a uscire. Era ora di andare in palestra. Erano vent’anni che facevo karate e i proprietari giapponesi della scuola erano miei vecchi amici. Il karate mi aiutava a scaricare le tensioni e a tenermi in forma. Ma soprattutto apprezzavo le conversazioni con Suzuki, il vecchio maestro, la sua capacità di guardare il mondo dall’alto e mettere tutto in prospettiva.

Oscar non condivideva il mio amore per le arti marziali. In compenso aveva recentemente scoperto il golf e vi si era buttato con tutto l’entusiasmo un po’ ossessivo dei cinquantenni inquieti, sempre a caccia di nuove, totalizzanti passioni. Era troppo alto per sperare di poter eccellere in quello sport, ma ci dava dentro quasi fosse una questione di vita o di morte. Mi aveva convinto a cimentarmi diverse volte, ma l’esperienza mi aveva lasciato freddino.

Uscii dal portone. L’aria calda dell’estate madrilena mi colpì come uno schiaffo mentre gli odori e i suoni della città mi avvolgevano. Passai davanti al caffè Viva Madrid e percorsi i pochi metri fino a Calle Echégaray. Lasciai cadere la busta con il negativo in una buca delle lettere e proseguii soddisfatto. Bettole e pensioncine punteggiavano la calle. Il marciapiede era talmente stretto da costringere i passanti ad addossarsi ai muri delle case al passaggio delle automobili. Da giovane avevo abitato per un periodo alla pensione Las Once, di fronte all’Hotel Inglés e alla scuola di karate. Quest’ultima aveva aperto lo stesso anno in cui mi ero trasferito nella piccola stanza della pensione gestita dal Señor Alberto e dalla sua Señora. Rosa, la cameriera trentenne e probabilmente vergine, era analfabeta e incredibilmente arcigna. Aveva lineamenti forti, un po’ rozzi, il corpo corto e pienotto perennemente fasciato da un grembiule rosa. Faceva le pulizie e preparava da mangiare insieme alla Señora. Rosa era nata in un piccolo villaggio della Galizia, da una famiglia numerosa di contadini. Tutte le mattine il padre e gli altri uomini della casa andavano in piazza nella speranza che il fattore del proprietario terriero offrisse loro una giornata di lavoro. La miseria allora era diffusa e il divario fra le classi sociali spaventoso. Sapevo che Rosa era stata mandata a servizio a sette anni, anche se non ero riuscito a scoprire come fosse approdata alla Pension Las Once di Madrid. Ogni sera la Señora prendeva il giornale «ABC» e cercava di insegnarle a leggere. La sera in cui Rosa era riuscita a leggere da sola i titoli, il vecchio Señor Alberto era andato a prendere una bottiglia di sherry che conservava da più di venticinque anni e avevamo festeggiato.

Camminavo assorto nei miei pensieri, circondato dalla vita e dai rumori rassicuranti della città, quando all’improvviso due uomini mi sbarrarono il passo. Erano entrambi alti, sui trentacinque anni e indossavano abiti di buon taglio.

«Señor Lime?» domandò uno.

Rimasi in silenzio qualche istante.

«È in arresto» mi informò l’altro, mentre il primo si portò alle mie spalle, mi afferrò le braccia e con gesto fulmineo fece scattare le manette attorno ai miei polsi. Protestai e ripetei che esigevo spiegazioni ma quelli rimasero in silenzio.

4

Diversi isolati ci separavano dal vecchio, massiccio edificio rosso che ospitava la sede centrale dei servizi segreti e della polizia di Puerta del Sol. I due agenti sequestrarono il cellulare e la piccola Leica che portavo sempre con me e mi fecero salire sul sedile posteriore di una grossa Seat bianca, stretto tra altri due agenti in borghese. L’autista mise in moto senza una parola. Come gli altri due portava i capelli tagliati cortissimi, alla maniera dei soldati. “Maledetto ministro” pensai.

La stessa situazione qualche decennio prima, quando i poliziotti spagnoli erano notoriamente inclini a estorcere confessioni a suon di botte, mi avrebbe gettato nel panico. Ma quei tempi bui erano ormai lontani, anche se i baschi sostenevano che la polizia spagnola non avesse perso le sue cattive abitudini. Domandai quale fosse la causa del mio arresto, ma di nuovo non ottenni risposta. Le manette mi stringevano i polsi e avevo il respiro accelerato. Oltre il finestrino la ricca, anarchica vita madrilena scorreva indisturbata, aumentando il mio senso di impotenza e di oppressione.

Il traffico era sempre più difficoltoso e procedevamo a sirene spente, così finimmo per rimanere imbottigliati. Ma se anche ci fosse stato lì attorno qualcuno che conoscevo, i finestrini fumé gli avrebbero impedito di vedermi. Dissi che volevo telefonare al mio avvocato. Nessuno replicò. Sapevo dell’esistenza di un articolo della legge antiterrorismo che avrebbe consentito loro di trattenermi per quarantotto, forse addirittura settantadue ore anche in assenza di qualunque specifico capo d’imputazione a mio carico. Di nuovo maledissi tra me il ministro e quelle fottutissime foto. Evidentemente quel porco era disposto a darsi un bel da fare per impedire che la sua felicità familiare e la sua carriera venissero distrutte da un qualsiasi Peter Lime. A Puerta del Sol la Seat girò a sinistra costeggiando la centrale di polizia, superò due guardie armate di mitragliatrice ingoffite dai giubbotti antiproiettile ed entrò nel cortile. Mi fecero scendere e attraversai il cortile fino a una bassa porta secondaria. Percorremmo un corridoio scuro, scendemmo una rampa di scale, poi un altro lungo corridoio fino a una stanza piuttosto grande al cui centro campeggiava una vecchia scrivania. Vi era seduta una guardia in uniforme grigia. Sul ripiano scheggiato e coperto di macchie era aperto un giornale sportivo con accanto una tazzina da caffè vuota. Al nostro ingresso la guardia si alzò per precederci lungo un ennesimo corridoio illuminato da potenti lampadine protette da gabbiette metalliche. Su entrambi i lati, a distanze regolari, si aprivano le porte dipinte di azzurro delle celle. La guardia si fermò davanti alla quarta porta e l’aprì. Con un gesto brusco, uno dei due agenti alle mie spalle mi tolse le manette. Stavo per protestare, quando lo stesso agente mi afferrò per il codino e tirò con forza, quindi mi scaraventò dentro la cella con una potente spinta tra le scapole.

Caddi bocconi sul pavimento della cella mentre la porta cigolante veniva chiusa a doppia mandata.

Il sangue formicolava nelle mie mani intorpidite. Tutto intorno a me era silenzio, quasi che la stanza fosse insonorizzata. Mi colse il sospetto di trovarmi in una delle vecchie celle di tortura usate sotto il franchismo. Se avevano intenzione di spaventarmi ci stavano riuscendo benissimo. Per fortuna potevo contare su Oscar e Gloria. I miei due amici nutrivano un’antipatia inveterata per lo stato, la polizia e i loro metodi fascisti: avrebbero fatto fuoco e fiamme per tirarmi fuori di lì. Inizialmente si sarebbero serviti delle vie e dei diritti previsti dalla legge, ma se si fosse reso necessario non avrebbero esitato a usare le foto pornografiche del ministro e della sua amante come strumento di pressione.

Quel pensiero mi rincuorò vagamente, mentre a fatica mi rimettevo in piedi e raggiungevo il tavolaccio accostato a una delle pareti. Ero vittima di un tentativo di intimidazione. Che prove potevano avere contro di me? Non avevano nemmeno seguito la procedura che prevedeva che fossi fotografato e si rilevassero le mie impronte digitali.

Dal soffitto pendeva una lampadina anch’essa chiusa in una gabbia metallica. Le pareti, nude e color giallo sporco non riportavano scritte né incisioni. Un buco in un angolo fungeva da gabinetto. C’erano un lavandino sporco di ruggine e un tavolino fissato al muro con dei bulloni. Ai piedi del tavolaccio su cui sedevo giaceva una coperta lisa ripiegata. Non mi avevano tolto né la cintura, né il pettine, né i lacci delle scarpe. Forse non gli sarebbe importato se mi fossi suicidato. Probabilmente sarebbero stati addirittura contenti. Mi stesi supino, raccolsi le ginocchia contro il petto e provai a volgere lo sguardo all’interno. Gradualmente, il mio cervello si svuotò, il respiro si fece regolare, il dolore ai polsi e alle ginocchia si placò e percepii soltanto il puntino luminoso in mezzo ai miei occhi. Raggiunsi quel nada, o wa, che Suzuki mi aveva insegnato a trovare.

Quando verso sera vennero a prendermi, ero affamato e assetato, ma il mio spirito era tranquillo e battagliero. Erano gli stessi due agenti del pomeriggio, più un secondino grasso. Senza rimettermi le manette, gli agenti si limitarono ad afferrarmi saldamente per i gomiti. Dissi loro che dovevo chiamare un avvocato oppure casa, ma non risposero. Mi condussero in una stanza al piano superiore e mi sistemarono contro una parete bianca.

Era arrivato il momento delle foto e delle impronte. Tutto si svolse in silenzio eccetto che per le istruzioni seccamente impartite da uno degli agenti. Poi mi portarono in una minuscola aula, di fronte al giudice incaricato di stabilire se fosse stato commesso un crimine, se ci fossero le basi per aprire un’indagine sul mio conto o se invece dovessi essere rilasciato.

Il giudice istruttore era un uomo di mezza età. Mi guardava al di sopra di un paio di occhiali da lettura che teneva appollaiati sul naso, che era grosso e sovrastato da due spesse sopracciglia grigie e irsute. Era corpulento e cercava di nascondere i chili di troppo con un abito scuro di buon taglio.

La stenografa evitò di incrociare il mio sguardo.

Gli agenti mi indicarono una sedia e quando fui seduto rimasero in piedi alle mie spalle. Di fronte a me il giudice si avvalse del suo diritto di guardarmi dall’alto in basso, scartabellò tra i documenti che aveva davanti e mi chiese se mi chiamassi Peter Lime, se fossi in possesso del permesso di soggiorno numero tot, e se ero residente in Plaza Santa Ana a Madrid. E se comprendessi la lingua spagnola. Risposi di sì a tutte le domande sforzandomi di mantenere la calma. Una volta confermata la mia identità, dissi:

«Non mi è stato concesso di parlare con un avvocato. Da quando sono stato arrestato ingiustamente non mi hanno dato né pane né acqua. La mia famiglia sarà certamente in preda all’angoscia, si starà chiedendo che fine ho fatto».

Il giudice impassibile replicò:

«Si limiti a rispondere alle domande».

Abbassò brevemente gli occhi sui documenti.

«Si trovava a Llanca, Catalogna, il 3 di giugno.» Poiché la frase era risuonata come un’affermazione piuttosto che una domanda, rimasi in silenzio.

«Ripeto, era a Llanca, in Catalogna, il 3 giugno corrente mese?» Ero nei guai. Il ministro, mi dissi, aveva tentacoli lunghissimi. E mi aveva consegnato nelle mani di un giudice ostile. La sensazione di non avere controllo sulla mia vita mi dava la nausea, mi faceva girare la testa.

«Sì, mi trovavo a Llanca» risposi.

«Conferma l’accusa di aggressione ai danni di un funzionario del Ministero di giustizia e di minaccia nei confronti di un secondo funzionario?»

«Questa non è un’interpretazione corretta dei fatti» obiettai.

«E quella giusta sarebbe?»

«Mi sono difeso da due sconosciuti che hanno cercato di rubarmi le macchine fotografiche e quindi di compromettere il frutto del mio lavoro» risposi.

«Che lavoro fa?»

«Il fotografo.»

«Che cosa ha fotografato quel giorno a Llanca?»

«Non sono tenuto a rivelarlo. Chiedo di poter parlare con un avvocato» mi sforzai di reprimere un improvviso attacco di rabbia.

«Ci sono dei testimoni» disse il giudice istruttore. Il suo viso era completamente inespressivo e gli occhi freddi come pesci morti.

«Chiedo di essere messo a confronto con loro» dissi.

«Sono stranieri. Ci vorrà tempo perché siano rintracciati.»

«E il mio avvocato?»

«Quando sarà il momento.»

«Allora risponderò volentieri a qualunque domanda.»

Lui tornò ad abbassare gli occhi sui documenti:

«Qui risulta che lei pratica da molti anni il karate. Si può dunque affermare che il suo corpo sia un’arma, un’arma letale».

Non avendo colto alcuna sfumatura interrogativa nel tono della sua voce rimasi zitto.

«È vero che lei è cintura nera di karate?»

«Sì, è vero.»

Sul suo volto si disegnò un’espressione di compiacimento. Consultò altri documenti. Avevo l’impressione che faticasse a trovare le domande. Il caso non stava in piedi. Il mio arresto non era che un favore accordato a un amico, un favore cui andava applicata una sottile mano di vernice giuridica.

«Qui risulta che nell’arco degli anni lei abbia avuto ripetuti contatti con membri del gruppo terroristico dell’ETA.»

L’affermazione mi colpì come uno schiaffo.

«Cosa significa?»

«Risponda, è esatto?»

«No!» risposi con foga.

«Ho qui i documenti relativi a diverse intercettazioni, timbrati con la dicitura “segreto”. I contatti ci sono stati.»

«In che anno?»

«Non ha importanza…»

«Invece sì. Gli ex membri dell’ETA con cui sono entrato in contatto esclusivamente per motivi di lavoro, sono stati tutti amnistiati nel 1977» precisai.

Capii che la mia replica aveva colto nel segno. Era tutta una messa in scena, una manovra intimidatoria improvvisata. Erano andati a pescare il mio esile dossier dai loro straripanti archivi segreti, e avevano montato in fretta e furia una farsa che avrebbero faticato a tenere in piedi per più di due giorni.

Il giudice concluse:

«È necessario far luce su questi fatti. Lei verrà trattenuto in isolamento per le settantadue ore previste dalla legge, mentre le indagini proseguiranno. Dopodiché dovrà comparire di nuovo. Questa volta insieme al suo avvocato.»

Incommunicado fu la parola spagnola che usò per «isolamento». Si trattava di una pratica molto diffusa nel sistema giudiziario spagnolo. Dava alla polizia settantadue ore di tempo per produrre il materiale necessario al prolungamento della custodia cautelare, la quale poteva protrarsi per mesi prima di sfociare in un processo o un rilascio definitivo. Cominciavo a innervosirmi sul serio. Nella Spagna democratica esisteva un intricato sistema sommerso di clientelismi che coinvolgeva i personaggi di potere a tutti i livelli, e io avevo gettato lo scompiglio in ambienti molto potenti.

«Esigo che mi si permetta di telefonare a mia moglie e al mio avvocato.» Avevo la bocca secca e le palme delle mani madide di sudore.

Il giudice istruttore si voltò verso la stenografa, che aveva l’aria di trovare la seduta di una noia mortale.

«Si metta a verbale. Ai sensi dell’articolo 189, comma 4 del codice penale, l’indagato viene trattenuto in isolamento per tre giorni a partire da questo momento. La polizia giudiziaria provvederà a informare della detenzione la coniuge dell’indagato. L’indagato potrà conferire con il suo avvocato per due ore prima della prossima udienza, fissata di qui a tre giorni, alle ore cinque pomeridiane. Fino all’incontro con l’avvocato, l’indagato non può ricevere visite; ha diritto a mezz’ora quotidiana di moto all’aria aperta.» L’interrogatorio era terminato e fui ricondotto in cella. Ero sconvolto, pieno di rabbia. Eppure mi ero trattenuto a stento dal ringraziare il giudice per aver disposto che la polizia avvisasse mia moglie. Amelia avrebbe senz’altro avvertito Oscar e Gloria.

Era trascorsa una mezz’ora dal mio rientro in cella, quando il secondino grasso arrivò con una ciotola di zuppa di verdure calda, due fette di pane fresco, un pezzo di pollo con patate arrosto e acqua minerale. Da parte sua, aveva l’aria di preferire cibi ben più ricchi e pesanti. Gli occhi parevano piccolissimi persi in quel faccione cui la carne in eccesso conferiva l’espressione di un bambino che avesse subito un torto.

In realtà non avevo fame. Al cibo avrei preferito un bagno, però mangiai lo stesso. Avevo voglia di una sigaretta, ma mi avevano preso anche quelle, insieme all’accendino, alle chiavi e al portafoglio. Il secondino tornò a ritirare i piatti di plastica grigia e a consegnarmi una saponetta, uno spazzolino da denti, un tubetto di dentifricio, un piccolo asciugamano e una Bibbia. Gettò una ruvida coperta supplementare sul tavolaccio. Tutto faceva pensare che fosse ora di andare a letto per il detenuto speciale Lime. Gli chiesi del tabacco, ma quello non si scomodò a rispondermi.

«Buona notte» dissi alla sua schiena, e di nuovo non ci fu risposta. La cella era quasi completamente insonorizzata. Non potevo udire il suono dei passi del ciccione che si allontanava lungo il corridoio, nessun rumore dalle celle attigue o dalla strada. Quel silenzio era un fatto unico per Madrid, sempre chiassosa e mai del tutto addormentata. Percepivo solo il ritmico pulsare del sangue nella mia testa e il ronzio di un tubo nel muro. Mi servii del fetido buco nell’angolo, mi lavai il viso e i denti e mi distesi sul tavolaccio. Dormii poco e malissimo, la luce era accesa e tutta quella quiete amplificava la mia inquietudine. Erano trascorse poche ore dal mio arresto e già la lontananza della mia famiglia e del resto dell’umanità mi dava i crampi allo stomaco. Gli uomini del ministro sapevano il fatto loro. Tre giorni lì dentro e sarei stato disposto a confessare qualunque cosa. O quasi. Disteso sulla schiena mi sforzai di tener viva la fiammella della rabbia. Volevo coltivare l’aggressività e il rancore che mi avrebbero spinto a lottare. Rimasi sveglio per un tempo che mi parve lunghissimo nell’immobilità insopportabile del tempo, dove i pensieri si rincorrevano sconnessi e ogni battito irregolare del cuore mi faceva sussultare.

Infine dovetti assopirmi, perché mi svegliai di soprassalto quando la porta della cella si aprì. Erano i due tipi di Llanca, il piccoletto fifone e il gorilla palestrato. Quello grosso mi lanciò un’occhiata feroce, segno forse che il braccio e la spalla gli facevano ancora male. Il piccoletto ebbe un mezzo sorriso. Erano entrambi in giacca e cravatta nonostante fossero quasi le quattro del mattino. Se si erano presentati a quell’ora con l’idea di cogliermi in un momento di confusione e vulnerabilità avevano fatto male i loro calcoli: avevano l’aria di essere ben più stravolti di quanto non mi sentissi io.

Il grosso si appoggiò alla porta in modo da coprire lo spioncino. Come durante il nostro primo incontro, il suo atteggiamento minaccioso era contraddetto dal nervosismo che gli serpeggiava in volto. Notai un buffo tic che cercava di dissimulare toccandosi prima il mento poi la narice destra. Il piccoletto era in piedi contro il muro.

Mi rizzai a sedere e mi preparai a incassare le botte che credevo fossero venuti a darmi.

Invece, il piccoletto mi lanciò un pacchetto di Chesterfield e un accendino. Accesi una sigaretta e aspirai forte mentre registravo un breve, piacevole senso di vertigine.

«Calvo Carrillo» si presentò quello della sigaretta. «Il mio collega si chiama Santiago Sotello. Stia tranquillo, non c’è motivo di spaventarsi.» La mia aria assorta doveva essergli parsa, forse non a torto, un tentativo di dissimulare paura anche a me stesso.

«Che ne dice di parlare un po’ d’affari, Pedro? Potremmo riuscire a risolvere questa faccenda in modo civile. In fondo siamo uomini adulti. Siamo abituati a muoverci nel mondo e non abbiamo tempo da perdere.»

Continuai a fumare senza aprir bocca, limitandomi a contemplare i suoi strani occhi smorti, simili a quelli di un bambolotto.

Calvo Carrillo continuò:

«Questa storia può diventare seria…»

«Non avete elementi per accusarmi» ribattei.

«Ma potremmo causarle parecchi fastidi. Forse fra un paio di giorni uscirà. Ma potrebbe finire dentro di nuovo. Ogni volta che ci sarà un omicidio di matrice terroristica, tornerà qui per un bell’interrogatorio. Ci aveva pensato?»

Annuii. Sapevo benissimo che diceva la verità. Erano nella posizione di rendermi la vita molto difficile. Quasi mi leggesse nel pensiero, riprese a elencare le possibili vessazioni che uno stato forte e moderno poteva legittimamente infliggere ai suoi cittadini, o, meglio ancora, ai suoi non-cittadini, come nel mio caso.

Fece un passo avanti.

«Lei è uno straniero nel nostro paese, ma ha imparato la nostra lingua, conosce e apprezza la nostra cultura. La Spagna le piace, non è vero? E se improvvisamente non le riuscisse di ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno? Saremmo costretti a ritirarle anche il permesso di lavoro. Poi c’è il fisco. Anche quello può essere fonte di parecchie grane: ispezioni, revisioni, perquisizioni, controlli incrociati. Capisce ciò che sto cercando di dirle?»

«Chissà, la Chiesa potrebbe decidere di scomunicarmi…»

Carrillo sorrise. Il gorilla sembrava indignato dalla mia tracotanza. Aveva in mano un tubo di gomma sicuramente imbottito di ferro, e prese a batterselo ritmicamente contro la coscia: era pronto a usarlo, se non mi fossi mostrato ragionevole. Evidentemente i miei due amici avevano fretta.

«No. Non credo che la Chiesa possa fare granché, ma le indagini potrebbero estendersi anche a familiari e amici» disse senza ironia.

«Lasciate mia moglie fuori da questa storia.»

«Una volta messa in moto, la macchina cammina.»

«Però la si può fermare, no?»

«Sì, certo.»

«E chi mi garantisce che dopo non torni a mettersi in moto?» domandai.

Mi guardò con espressione sollevata. Avevamo aperto una trattativa. Da buon tirapiedi di un esperto uomo politico, preferiva compromessi e ricatti alla violenza esplicita.

«Vogliamo i negativi e le foto. Anche se non avremo mai la garanzia che lei non ne abbia nascosto qualcuno.»

«Infatti.»

«Ma non importa. Capisco che in una società moderna è importante avere una polizza d’assicurazione che copra gli imprevisti.»

«Lei è una persona intelligente» dissi.

Non afferrò la nota di sarcasmo nella mia voce, oppure preferì far finta di nulla. Sapevo già che avrei accettato la proposta. In fondo che significava tutta quella storia per me? Significava che avrei dovuto ingoiare un po’ d’orgoglio, tutto qui. Le foto che mi avevano cacciato in quel pasticcio non erano opere d’arte, ma immagini nate per stuzzicare la curiosità e la fame di pettegolezzi della gente.

«Quando posso uscire?» domandai.

Lui esitò.

«Tra ventiquattro ore. Forse un po’ prima.»

«E perché non subito?»

«Dovremo far in modo che le formalità vengano rispettate e quindi farla rilasciare dal giudice. Per dirla chiaramente, abbiamo fatto qualche pressione su di lui perché la mettesse in prigione. Non credo sia il caso di sottoporlo a ulteriori pressioni.»

«Vuol forse dire che quell’uomo prende la sua carica sul serio?» chiesi.

«Forse.»

«Questa faccenda mi puzza.»

Il piccoletto mosse qualche passo su e giù per la cella. Guardandolo camminare vidi chiaramente quanto poco spazio avessi a disposizione. Sapevo che sarei impazzito se fossi rimasto da solo per mesi in una cella tanto angusta.

«Come faccio a farvi avere le foto? Sono in isolamento.»

«A questo si può rimediare. Domani mattina le metteranno a disposizione un telefono. Le daranno giornali, una radio, un televisore, tutto il cibo e le ore d’aria che vorrà. Ma il procedimento avviato nei suoi confronti potrà essere sospeso solo dalle autorità competenti.»

Allargò le braccia. Come a dire: questi sono i patti, non ho altro da aggiungere, non posso spingermi oltre.

«Okay» dissi.

«Accetta l’accordo?»

Adesso sembrava sorpreso, ma che si aspettava? Che mi mettessi a urlare? Che pretendessi di essere rilasciato immediatamente? Conoscevo il suo mondo abbastanza bene da sapere che era venuto con una proposta che era tale solo di nome, prendere o lasciare.

«Sì.»

«È un piacere trattare con lei» disse tendendo la mano. La strinsi. Mi lasciò le sigarette e l’accendino. I due se ne andarono augurandomi la buona notte e informandomi che ci saremmo rivisti l’indomani. Fumai un’altra sigaretta prima di distendermi supino sul tavolaccio e addormentarmi. Non ero del tutto soddisfatto di me stesso, sebbene probabilmente quella fosse la soluzione migliore. Oscar ci sarebbe rimasto un po’ male per i soldi, ma sicuramente avrebbe capito che le foto di un caprone e una bella attricetta italiana non valevano tutti i fastidi che ci saremmo procurati se le avessimo rese possibili. Avevamo perduto una battaglia. Ne avremmo vinte altre. O forse quella faccenda mi avrebbe fornito l’occasione di abbandonare per sempre l’aspetto meno nobile della mia professione. Di abbandonare la carriera di paparazzo.

In realtà ci pensavo da parecchio, almeno da quando mia figlia aveva cominciato a parlare. Perché in fondo mi ripugnava l’idea di campare della vulnerabilità della gente. Avrei potuto concentrarmi sui ritratti e fare un reportage giornalistico di quando in quando. Certo, si trattava di attività meno redditizie, ma la mia famiglia aveva abbastanza denaro. Vendendo la mia quota dell’agenzia, avrei potuto permettermi di non muovere un dito per il resto dei miei giorni, se avessi trovato un consulente finanziario in gamba. Provavo un senso di sollievo. Forse non avevo preso una decisione definitiva, ma avevo fatto un passo nella direzione giusta. Non sospettavo che il destino si sarebbe incaricato di rimescolare le carte.

L’indomani mattina c’era una nuova guardia carceraria, più giovane di quella del giorno precedente. Mi portò caffelatte, pane, burro, i giornali del mattino, una radio. E un telefono portatile: evidentemente le celle non erano completamente isolate come avevo ipotizzato. O forse erano dotate di un sistema di insonorizzazione che era stato disattivato.

Infatti, percepivo adesso qualche suono proveniente dall’esterno: dei colpi, un fruscio, un tintinnio, una voce. Oppure quello era un telefono speciale. Quasi certamente si poteva usare solo per chiamare, e da qualche parte due orecchie governative erano in attesa di ascoltare la mia conversazione. La nuova guardia carceraria specificò che il telefono costituiva una grave violazione del regolamento, ma aveva ricevuto l’ordine di lasciarmelo per un quarto d’ora, poi sarebbe tornato a riprenderlo.

Telefonai immediatamente ad Amelia. Rispose al primo squillo e quando sentì la mia voce scoppiò a piangere. Non doveva aver chiuso occhio, ma era una donna forte e coraggiosa e si sforzò di controllarsi in modo che potessimo parlare. Le dissi che stavo bene e sarei tornato entro ventiquattr’ore. Le spiegai in breve la situazione e l’accordo che avevamo raggiunto.

«La danese ha chiesto di te» disse.

«Chi?»

«Non mi ricordo come si chiama.»

«Ah, quella» dissi.

«Ha chiesto di… be’, lo sai.»

«Ho altro cui pensare adesso» dissi irritato.

«Posso fare qualcosa?» domandò.

«Avverti tuo padre. Io sto bene. Ci vediamo presto. Bacia la piccola.»

«L’ho mandata a scuola. Ho pensato fosse meglio così. Le ho detto che eri partito per uno dei tuoi soliti viaggi.»

«Avresti potuto dirle la verità. Non ho niente di cui vergognarmi.»

Ci fu una breve pausa.

«Pedro» disse lei.

«Sì, amore mio.»

«Ti amo.»

«Anch’io ti amo.»

«Torna a casa, presto.»

«Sì, certo. Non ti preoccupare. Bacia Maria Luisa per me!»

«Certo.»

«Adios» dissi interrompendo la comunicazione.

I quindici minuti erano quasi scaduti quando feci il numero diretto di Gloria. Oscar si sarebbe lasciato andare alla rabbia, mentre Gloria avrebbe saputo esattamente cosa dire e cosa fare. Ma Oscar era nell’ufficio di Gloria. Lo sentii imprecare e agitarsi in sottofondo mentre raccontavo tutto a sua moglie.

«Abbiamo già messo tre, anzi quattro avvocati al lavoro per tirarti fuori» disse con la sua bella voce familiare. «Ma quelli sfruttano la legge antiterrorismo, pensano di non essere tenuti a dare alcuna spiegazione.»

«E Oscar, che dice?»

«Oscar fa avanti e indietro per la stanza, maledice i fascisti e non è di alcun aiuto.»

«Ciao, old boy. Tieni duro!» Lo sentii gridare. Spiegai i dettagli del patto stretto con gli uomini del ministro e sottolineai il fatto che la stampa dovesse assolutamente restarne fuori.

«Hai fatto bene ad accettare, Peter. Esporsi alle loro ritorsioni sarebbe stato dannoso anche per gli affari e noi dobbiamo farti uscire adesso. Non sopporto il pensiero di te chiuso in cella. Mi fa andare in bestia. E sta’ zitto, Oscar! Che devo fare, Peter?»

Le dettai il numero di telefono che il piccoletto mi aveva dato al termine del nostro incontro di quel mattino e la pregai di consegnargli le foto e i negativi.

«E l’assicurazione?» domandò Gloria.

«Non ci pensare» le risposi.

«D’accordo. C’è altro?»

«Come sta Amelia?»

«Bene. La conosci meglio di me, non è il tipo da abbattersi facilmente. Ma ovviamente non è facile. Quella donna è unica, Peter. Ma questo già lo sai.»

«Grazie.»

«Abbi cura di te, cariño. Non ho rinunciato all’idea di farti uscire entro oggi.»

«Sarebbe bello.»

La comunicazione fu interrotta. Mi avevano dato un telefono senza fili che potevano “riagganciare” a loro piacimento. Poco dopo arrivò la guardia giovane per ritirare l’apparecchio.

Le ventiquattr’ore che seguirono furono noiose, ma tutto sommato serene e paradossalmente quasi rilassanti. Forse perché sapevo che di lì a poco sarei stato rilasciato.

Lessi i giornali, fumai, mangiai, uscii in cortile e sonnecchiai. Chiesi un caffè e fui accontentato, bevvi acqua, rilessi i giornali, ascoltai la radio — il televisore non me lo avevano portato — e pensai alla mia famiglia. Poi mi sdraiai a guardare il soffitto e ad aspettare il sonno, che come sempre stentava ad arrivare.

Alla fine riuscii ad addormentarmi fiducioso.

Non sapevo che, in quelle stesse ore, il mio mondo crollava rovinosamente. Che il mio viaggio all’inferno era cominciato.

5

Poco prima che venissero a svegliarmi feci un brutto sogno. Ero circondato da un paesaggio surreale fatto di montagne finte coperte di finta neve. La luce era di un blu oltremare, come in una scenografia di Hollywood o in una foto rielaborata al computer. A un tratto l’orizzonte si oscurò come prima di un temporale. In una grotta dalle pareti viscide e grigie, rimestavo un pentolone in ebollizione su una stufa a gas. C’erano anche Oscar e Gloria, mi davano le spalle, ma potevo vedere ogni loro mossa. Oscar era fasciato in uno dei suoi impeccabili completi, era più alto che nella realtà e teneva in mano un libro dalla copertina nera. I capelli di Gloria erano rossi. Indossava una tunica ampia e lunga fino alle caviglie, ma poco dopo improvvisamente era nuda, con il sesso coperto da un quadratino rosso come in una foto censurata. Oscar le porse il libro e lei fece per prenderlo, aveva mani vecchie e nodose e unghie lunghissime. Oscar disse: «Prendi il libro mastro. Tutto è stato contabilizzato e controllato». Gloria ci ripensò, non voleva più prendere il pesante libro nero. Protestò: «Ti ho chiesto la resa dei conti, non il libro dei conti». Volevo dire loro che Oscar aveva preso il libro giusto, ma ero impegnato a rimestare il contenuto ribollente della pentola e non osavo girare la testa in direzione dei miei amici.

Mi svegliai di soprassalto.

La guardia grassa era sulla porta. Aveva la faccia stravolta. Ero fradicio di sudore, il cuore mi martellava in petto e mi sentivo la testa come attraversata da una corrente elettrica mentre lottavo per mettere in fuga l’inconscio. Mi rizzai a sedere e appoggiai i piedi sul pavimento.

«Mi scusi, Señor Lime, se l’ho spaventata» disse l’agente. Era la prima volta che udivo la sua voce e ne fui sorpreso. Mi ero aspettato un basso profondo, le consonanti dure dei madrileni, invece aveva una vocetta fina e acuta, dall’accento si sarebbe detto originario dell’Estremadura.

«Non fa niente» dissi raccogliendo i capelli nel codino.

«La prego di seguirmi» disse.

Quell’improvvisa gentilezza mi insospettì.

«Che ore sono?»

«Le sette e qualche minuto.»

«E così mi lasciate andare. Il giudice s’è alzato presto!»

«Mi segua, Señor Lime» disse lui.

«Per fare che? Dove?»

«Due amici sono qui per vederla. Venga, adesso.»

Il suo faccione esprimeva sincero turbamento.

«Mi dia un minuto da solo.»

Uscì dalla cella lasciando la porta socchiusa. Mi liberai nel solito buco, mi gettai un po’ d’acqua in viso e abbottonai i jeans prima di infilarmi la camicia sopra la maglietta.

Seguii la guardia lungo il corridoio silenzioso. Salite le scale mi giunsero alle orecchie le prime note della sinfonia mattutina di Madrid e sorrisi fra me al pensiero che presto avrei rivisto mia moglie e mia figlia. Percorremmo un corridoio più ampio ed entrammo in un grande ufficio, dove il giudice attendeva dietro una scrivania. Di fronte a lui erano seduti Gloria e Oscar. Avevano l’aria di aver visto la morte in faccia. Gloria aveva gli occhi arrossati dal pianto, e, senza trucco, sembrava più vecchia di dieci anni. Oscar era come impietrito. Sulla scrivania del giudice notai un sacchetto di plastica trasparente contenente le mie cose: il portafogli, le chiavi, la Leica, il telefonino, l’accendino, le sigarette.

«Era ora!» esclamai. «Incominciavo a temere che aveste intenzione di lasciarmi marcire qui dentro.»

«Siediti, Peter» replicò mestamente Oscar.

La paura mi serrò la gola.

«È successo qualcosa ad Amelia?»

«Siediti» ripeté Oscar.

Allora Gloria si avvicinò a me e prendendomi per mano mi fece sedere su un divano di cuoio appoggiato contro la parete.

«Cosa c’è? Che è successo ad Amelia e Maria Luisa?» Gloria pronunciò con voce rotta le peggiori parole che abbia mai udito:

«Sono morte, Peter. In un incendio questa notte. È terribile…» Scoppiò a piangere, abbracciandomi e stringendomi con foga disperata.

Ricordo che vomitai. Poi solo buio e silenzio per un tempo che mi parve infinito.

Quando tornai alla realtà, ero ancora seduto sul divano con un bicchiere d’acqua in mano. Lo vuotai d’un sorso. Oscar, Gloria e il giudice mi fissavano pallidi e immobili come statue di cera. Assurdamente pensai che Gloria, nuda sotto la giacca chiusa da tre bottoni, aveva l’aspetto di un’adultera colta sul fatto dal marito geloso. Vomitando le avevo macchiato la camicetta, perciò se l’era sfilata.

Mi ritrovai in mano un altro bicchiere colmo d’acqua e Oscar ruppe il silenzio:

«Come stai?».

«Per l’amor del cielo, Oscar! Come vuoi che stia?» esclamò Gloria.

«Voglio sapere cosa è accaduto», pronunciai in tono innaturalmente calmo.

Il giudice si schiarì la gola.

«Señor Lime» disse porgendomi un foglio. «Le mie condoglianze. Qui ci sono i documenti per il suo rilascio. Il caso si chiude qui. Ha il diritto di intentare una causa per danni allo stato spagnolo per arresto e detenzione illegittimi. Le metto a disposizione il mio ufficio per conferire in pace con i suoi amici. Di nuovo, le più sentite condoglianze. Per favore, prima di andare, firmi qui.»

E con questo lasciò la stanza.

«Cosa è successo?» chiesi di nuovo. Ascoltai in silenzio e a occhi asciutti il resoconto di Gloria. Intorno all’una e mezzo del mattino nel nostro appartamento si era verificata una violenta esplosione. L’incendio che era seguito si era rapidamente propagato al resto del palazzo. Il tetto era crollato, tutti gli appartamenti devastati. Finora erano stati recuperati tredici corpi. Le due famiglie del piano di sotto erano riuscite a scappare insieme a quelle del terzo piano. I cadaveri erano stati portati all’istituto centrale di medicina legale e la polizia aveva avviato le indagini. Per il momento l’ipotesi era che si fosse trattato di un’esplosione di gas provocata da un vecchio tubo difettoso.

«Siete assolutamente certi che fossero in casa?» domandai.

«Purtroppo sì, Peter» rispose Gloria.

«Voglio vederle» sussurrai.

«Possiamo andarci subito» disse Oscar cupo. «Ma sarà straziante e…» non seppe continuare.

Accese una sigaretta e me la infilò in bocca. Mi circondò le spalle con un braccio e restammo seduti così, senza parlare, per qualche minuto. Fumavo meccanicamente e cercavo di convincermi del fatto che Amelia e Maria Luisa mi fossero state portate via. Davvero e per sempre. Non erano morte, no. La parola “morte” era troppo neutrale, descriveva un fatto naturale, inevitabile. Prima o poi la morte arriva per tutti. Mia moglie e mia figlia mi erano state rubate, rapite, ingiustamente, inspiegabilmente.

Il vuoto, il dolore e la rabbia montavano dentro di me togliendomi il fiato.

La grossa Mercedes 600 di Oscar era parcheggiata nel cortile della centrale. Mi sedetti accanto a Gloria sul sedile posteriore e Oscar mise in moto. Il poliziotto di guardia azionò la sbarra e uscimmo in strada. Era la libertà, ma libertà di cosa? Di tornare alla bottiglia? Di essere infelice per il resto dei miei giorni?

Davanti all’ingresso dell’edificio un drappello di fotografi e cronisti ci stava aspettando.

«Cosa significa?» domandai scioccamente mentre Oscar frenava bruscamente per non investire la folla.

«Quando abbiamo cominciato a telefonare in giro non ci è stato possibile evitare che la notizia del tuo arresto si spargesse. Circolano voci sulle foto del ministro…»

Le telecamere e gli obiettivi quasi toccavano i finestrini, come volessero accarezzarli. I giornalisti gridavano le loro domande: come stavo? Avevo commenti da fare? Pregavano che dicessi qualcosa, qualunque cosa! Centinaia di volte avevo visto una delle mie prede, innocente di qualunque crimine, cercare di sottrarsi alla curiosità della gente, coprirsi il viso con le mani. Quasi che l’assalto all’intimità generasse in chi lo subiva un senso di colpa spontaneo quanto immotivato. Ma io ero troppo infelice per avere reazioni di sorta. Mi sentivo semplicemente finito.

«Oscar, portami a Santa Ana» dissi.

«Là ci sarà ancora più gente.»

«Non discutere, Oscar. Fai quello che dice» intervenne Gloria.

«Okay.»

Suonò il clacson e avanzò cauto tra la folla di giornalisti, che si aprì come il mare davanti alla prua di una nave. I più solerti rincorsero l’auto per un tratto. Appena ebbe via libera, Oscar accelerò e in pochi minuti arrivammo a Plaza Santa Ana.

La piazza era transennata. Gli agenti ci fermarono, ma quando Oscar spiegò loro chi fossi ci fecero subito passare. Parcheggiò sul marciapiede e scendemmo dall’auto. Quattro grossi mezzi antincendio erano fermi davanti al mio palazzo. I lampeggianti azzurri parevano guizzi di fuochi d’artificio nella luce bianco-grigia del mattino. L’aria era fresca e il cielo coperto. C’erano diverse auto della polizia, e il lastricato della piazza era striato di rivoli d’acqua nera. Simili a ombre dell’inferno, i pompieri s’aggiravano per quella che fino a poche ore prima era stata la mia casa.

L’aria era impregnata di fumo e di un insostenibile lezzo di morte. S’udivano sibili, radio gracchianti e il crescendo delle voci di quanti, sul luogo di una disgrazia, dapprima tacciono sconvolti, poi cominciano a mormorare fra loro sempre più fittamente, incapaci di nascondere il sollievo, l’eccitazione di esserci, di esistere ancora.

Mi diressi verso quel che restava del mio appartamento mentre cronisti e fotografi mi correvano incontro. Anche se raramente firmavo le mie foto, nell’ambiente il mio volto era conosciuto. Con gli obbiettivi delle macchine puntati addosso come tanti bazooka, raggiunsi una transenna da dove potevo guardare dentro il palazzo incenerito.

Il puzzo e il calore mi colpirono in viso facendomi avvampare. Seppi che i fotografi si erano assicurati un buono scatto quando le lacrime cominciarono a solcarmi le guance. Non riuscivo a riconoscere nulla. Era come se una bomba avesse mandato in frantumi le viscere della mia casa. Intorno a me continuava la pioggia di domande. A malapena le udivo.

A un tratto mi si parò di fronte Felipe Pujol, un catalano piccolo e tozzo che faceva la cronaca nera per «El Mundo».

«Pedro? Come stai? Perché ti hanno arrestato?» Non risposi.

«Levati dai coglioni, Felipe!» disse Oscar alle mie spalle.

Felipe non gli badò. Mi venne talmente vicino che per poco non mi pestò i piedi e inchiodò lo sguardo al mio. Potevo sentire il suo odore. Quella mattina, insieme al caffè si era concesso un brandy.

Disse:

«Ho saputo che stavi per sputtanare un ministro. È questa la ragione di tutto questo casino? Dai, Pedro, parla! Accidenti, sei del mestiere. Dammi la storia! Potrà essere utile anche a te. È vero che hai scattato una serie di foto piccanti? “El Mundo” vuole l’esclusiva».

Gli sferrai una ginocchiata nelle palle e lui si ripiegò su se stesso senza emettere il benché minimo suono, mentre sul suo volto si dipingeva un’espressione sofferente e sbigottita. Girai i tacchi e, servendomi di Oscar come frangiflutti, mi feci largo tra la folla di fotografi, giornalisti e telecamere. C’era anche la troupe della «TV del Mattino», un contenitore di tragedie, pettegolezzi, scandali, ricette di cucina e bollettini del traffico. Dovevano essere in diretta. Oscar, grosso com’era, faticò ad aprirsi un varco mentre io lo seguivo come in trance. Tutto mi sembrava un sogno, confuso e lattiginoso, da cui mi sarei svegliato di lì a un istante, quando avrei teso la mano e accarezzato la schiena di Amelia addormentata accanto a me, il suo morbido sedere a pochi centimetri dal mio ventre.

Alcuni poliziotti ci circondarono scortandoci verso la macchina dove Gloria aveva preso posto dietro il volante. Oscar si sedette accanto a me sul sedile posteriore.

«Maledetti sciacalli.»

«Sciacalli e colleghi» sottolineò Gloria con voce cupa.

«Voglio bere qualcosa» dissi.

«Okay» rispose Oscar.

«No!» disse Gloria.

Non ricordo nient’altro del tragitto verso Amelia e Maria Luisa.

So che più tardi mi ritrovai davanti a due corpi coperti da un lenzuolo dentro una stanza rivestita di sterili piastrelle. Il medico, o poliziotto, scostò il lenzuolo. Entrambe avevano i capelli coperti come da una cuffia da bagno. No, i capelli non c’erano più. Il viso bruciato di Amelia era praticamente irriconoscibile. Maria Luisa aveva pochi segni di ustione, ma era coperta di fuliggine e aveva una grossa vescica sulla guancia. Quando notai che non aveva più le ciglia, scoppiai in un pianto disperato.

«Sono sua moglie e sua figlia?» domandò l’uomo con il camice bianco.

«Sì.»

«Vorrei il suo consenso per effettuare l’autopsia.»

«Perché?»

A rispondere fu un uomo di mezza età che indossava un abito di buon taglio.

«Ne ho fatto richiesta, Señor Lime.»

Era in piedi in un angolo della stanza e fino a quel momento non lo avevo notato. Gloria e Oscar erano rimasti sulla porta, pallidi come spettri. Gloria si era infilata una felpa che doveva aver trovato in macchina e aveva i capelli scarmigliati come se fosse appena scesa dal letto.

«Rodriguez, squadra omicidi» disse l’uomo elegante mostrando il distintivo. Aveva mani esili e brune. Notai un piccolo anello con diamante e la fede. Gloria fece un passo avanti per proteggermi, ma io alzai la mano per indicare che il suo intervento non era necessario.

«Non sono in grado di prendere una decisione adesso» dissi.

«E quando? Presto dovrà fissare il funerale» insisté lui.

Era vero. In Spagna seppelliscono i morti molto in fretta, non aspettano anche una settimana, come accade in Danimarca. È un’usanza che risale ai vecchi tempi, quando i cadaveri non potevano rimanere esposti al caldo torrido. E poi, a differenza di noi danesi, i cattolici si preoccupano dell’anima più che della carne.

«Perché l’autopsia?» domandai ancora.

Lui fece un passo avanti e infilò un paio di guanti da chirurgo sulle mani affusolate. Con delicatezza girò la testa sfigurata di Amelia. Mi assalì un senso di nausea, ma non avevo più niente nello stomaco. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi.

«Guardi qui, Señor Lime» facendo scorrere l’indice guantato lungo il collo di Amelia, mi indicò due piccoli affossamenti.

Rodriguez continuò:

«Vede? Né io né il patologo riusciamo a spiegarci il perché di questi segni. Farebbero pensare a un tentativo di strangolamento. Oppure potrebbe essere rimasta impigliata in un cavo… Dobbiamo stabilire se risalgano a prima o dopo l’incendio, capisce? Era già morta quando è scoppiato l’inferno? Si è trattato di una tragica fatalità oppure stiamo parlando dell’omicidio di tredici persone? Ci dia l’autorizzazione a procedere con l’autopsia. Altrimenti saremo costretti ad andare per vie legali».

Il tempo si fermò. Mi voltai verso Gloria e Oscar:

«Vendete le maledette foto» dissi, poi tutto si fece nero.

Parte Seconda

6

Che il tempo guarisca ogni male è una grande fandonia. Il tempo non guarisce un bel niente, lenisce il dolore come una pasticca calma un brutto mal di testa. Il dolore acuto e insopportabile si trasforma in un tormento continuo, che ci assedia anche di notte, quando il sonno tarda ad arrivare.

Il periodo che seguì la morte di Amelia e Maria Luisa fu terribile, caotico e sconcertante. Persi il controllo degli eventi quasi fossi ridiventato un bambino costretto a dipendere dalle cure e dalle decisioni dei grandi. Persone benintenzionate si fecero carico della mia vita e mi guidarono attraverso l’oscurità del tunnel, fino al chiarore di un sole debole e malaticcio. Gloria e Oscar si occuparono con l’abituale efficienza delle cose di carattere pratico. Dell’assicurazione, della causa per danni contro lo stato spagnolo e della vendita delle foto del ministro, che fecero il giro del mondo e ci fruttarono una piccola fortuna. Il risarcimento dell’assicurazione fu ingente, ma il valore artistico e affettivo dei miei negativi bruciati non poteva essere ripagato. Gli armadietti in materiale “ignifugo” erano stati distrutti dalle fiamme e l’instancabile Gloria fece causa anche alla casa produttrice.

I media, intanto, imperversavano. Le foto piccanti del ministro e la dichiarazione ufficiale secondo la quale l’incendio era di origine dolosa scatenarono sul caso una violenta tempesta mediatica.

Secondo i risultati dell’autopsia, Amelia era morta strangolata prima che divampasse l’incendio. Maria Luisa era morta asfissiata dai gas di combustione. Il resto delle vittime aveva perso la vita nell’incendio. Nel nostro appartamento erano state rinvenute tracce di esplosivi.

Di fronte alle velate allusioni della stampa, il ministro negò recisamente qualunque responsabilità e coinvolgimento nella tragedia di Plaza Santa Ana. In ogni caso fu costretto a dare le dimissioni: le foto scabrose erano incompatibili con l’immagine pubblica del membro di una coalizione di governo che faceva dei valori tradizionali la propria bandiera.

Il commissario Rodriguez brancolava nel buio. Di quando in quando veniva a ragguagliarmi sulle scarse novità emerse dalle indagini. Un unico testimone aveva visto due uomini lasciare l’appartamento poco prima che l’esplosione facesse saltare i vetri del palazzo. Erano piuttosto muscolosi e avevano i capelli neri come milioni di spagnoli. Si erano allontanati in direzione di Puerta del Sol. Più o meno era tutto. Rodriguez credeva possibile che si trattasse di un attentato dell’ETA diretto contro il bersaglio sbagliato. Nel palazzo viveva infatti, sotto falsa identità, una donna affidata al programma protezione testimoni dei servizi segreti, Carmen Arrese. Era basca e dieci anni prima aveva testimoniato contro l’ETA. A motivare il suo gesto era stata una delusione amorosa: uno dei capi l’aveva lasciata.

«Alla fine i suoi vecchi compagni l’hanno scovata, Señor Lime» disse Rodriguez. «Non si scappa dal passato.»

Eravamo alla Cervecería Alemana, seduti al tavolo di Hemingway davanti a un paio di caffè. Felipe, il vecchio cameriere, vigilava su di me quasi fossi una porcellana fragile. Continuavo a frequentare l’Alemana, nonostante fosse proprio di fronte a quello che un tempo era stato il mio palazzo: adesso era uno squarcio nell’architettura della piazza, per il resto uguale a sempre nella luce del tardo pomeriggio. I vecchi sulle panchine chiacchieravano e leggevano il giornale, presto i bambini sarebbero tornati da scuola e avrebbero cominciato a giocare. La birreria Alemana era stata il mio primo rifugio a Madrid. Anche se guardare al di là della piazza mi faceva l’effetto di un pugno allo stomaco, quel posto rappresentava per me un cordone ombelicale con un passato al quale pensavo sempre più spesso. Non volevo dimenticare Amelia e Maria Luisa. Il loro ricordo era fatto di gioia, nostalgia e un dolore lancinante, ma era l’unica cosa che mi restava.

«Crede davvero a questa storia dell’ETA?» chiesi.

«Tutte le altre piste non hanno portato a nulla. I terroristi sono molto attivi. Non dimenticano mai una spia, e i colleghi dei servizi segreti hanno saputo da certi informatori che la sua vicina era stata rintracciata e che intendevano eliminarla. L’esplosivo è un vecchio prodotto cecoslovacco, il semtex. Ce n’è ancora una gran quantità in circolazione. Potrebbero averlo avuto tramite l’IRA, o dai vecchi amici della DDR.»

Allargò le braccia.

«Come avrebbero potuto commettere un errore così clamoroso?» domandai.

«Carmen Arrese somigliava vagamente a sua moglie, Señor Lime.»

Carmen aveva circa trentacinque anni e abitava con il marito, suo coetaneo, nell’appartamento sotto il nostro. Lui era avvocato. Erano morti entrambi, insieme alla figlia, che aveva la stessa età di Maria Luisa.

«Carmen aveva un accento andaluso» dissi. «Neanche l’ombra di un’inflessione basca.»

«I suoi genitori stavano a Siviglia, ma lei era nata a Pamplona. Per prepararla alla sua nuova vita le avevamo insegnato la lingua della sua infanzia. Neanche il marito era al corrente della verità.»

«Era di dieci anni più giovane di mia moglie.»

«Señor Lime. Sua moglie, che Dio la benedica, era una bella donna. Avrebbe potuto benissimo passare per una trentacinquenne. Carmen invece in realtà era più vecchia. Siamo stati noi a ringiovanirla nel fornirle una nuova identità. Forse i terroristi hanno preso un abbaglio. Sono entrati nell’appartamento sbagliato e hanno strangolato la donna sbagliata prima di collocare la carica esplosiva.»

«Ma perché far saltare in aria tutto il palazzo?»

«Un altro errore: hanno usato una carica troppo potente. Siamo convinti che fossero inesperti. O forse c’è stata anche una fuga di gas. Non avevano intenzione di colpire sua moglie, ma l’inquilina del piano di sotto. Mi dispiace.»

«Quindi il caso sarà archiviato» dissi.

Lui raddrizzò la schiena.

«Al contrario. Se ne occuperanno gli organi competenti. Lei sa quanti mezzi lo stato impieghi nella lotta contro i terroristi. Lo sforzo sarà intensificato, glielo posso assicurare. Io indago su omicidi il cui movente è il sesso, l’avidità, la gelosia, l’alcolismo… Salvaguardare la sicurezza dello stato spetta ad altri.»

Mi guardò con espressione contrita. Lo stato aveva preso una pentita dell’ETA, una vera bomba a orologeria, e l’aveva piazzata nell’appartamento sotto quello mio e di Amelia. Senza sognarsi di avvertirci del rischio a cui quella mossa ci esponeva.

Rodriguez si alzò, mi strinse la mano e ringraziandomi per la collaborazione mi rinnovò le condoglianze. Io decisi di trattenermi ancora un po’ e presi un altro caffè mentre guardavo la luce sopra la piazza tingersi di blu. La birreria andò progressivamente riempiendosi di studenti provenienti dai vari istituti del circondario, avevano i libri sotto il braccio e lo sguardo pieno di fede nelle infinite possibilità del futuro. Io sedevo da solo davanti alla finestra, da lontano Felipe continuava a vigilare su di me.

Per la settimana successiva alla tragedia avevo approfittato dell’ospitalità di Oscar e Gloria. Non appena le salme ci erano state riconsegnate, mio suocero e io avevamo organizzato i funerali. Fino a quel momento, il rapporto fra me e Don Alfonso era stato piuttosto freddo, soprattutto a causa delle nostre divergenze politiche, ma il lutto ci avvicinò senza che fossero necessari gesti o parole. Alfonso era un ometto ricurvo il cui aspetto ricordava quello di Franco da vecchio. Aveva servito il Caudillo per venticinque anni, in qualità di ufficiale della guardia civile e capo di una branca dei suoi ramificatissimi servizi segreti. Come tanti altri, dopo la fine della dittatura era passato alle dipendenze del governo di transizione e poi della democrazia. Se le sue mani erano sporche del sangue delle vittime delle torture, era riuscito a tenerlo nascosto, un fatto tutt’altro che raro nella Spagna della riconciliazione.

Al funerale eravamo presenti solo Don Alfonso, Oscar, Gloria e io, ma fuori dal cimitero, sotto la fitta pioggia madrilena, gli obbiettivi dei fotografi ci aspettavano come tante bocche affamate. Le nuvole nere all’orizzonte erano lo sfondo perfetto per l’ultimo atto di una tragedia, il bagliore intermittente dei flash annegava in quello dei lampi. Facevo il paparazzo da sempre; adesso, ovunque andassi, ero a mia volta inseguito dai paparazzi. Il giorno successivo al mio rilascio, il mio viso bagnato di lacrime era apparso sulle prime pagine di tutti i tabloid e nelle sezioni di cronaca dei quotidiani più seri. Per una settimana avevo avuto l’impressione di avere una macchina fotografica sempre puntata addosso. Nonostante la sgradevolezza di quella sensazione, non provavo senso di colpa a causa della mia professione. Ero troppo impegnato a gestire la rabbia e il dolore della mia perdita, riuscivo a pensare solo a me stesso. Avevo sperato che, trascorso quel primo periodo, l’interesse dei miei colleghi sarebbe evaporato. Invece il branco dei fotoreporter mi aveva seguito anche al cimitero vicino a casa di mio suocero: chiamava il mio nome, faceva appello alla mia comprensione, mi implorava di collaborare, mi prometteva grosse cifre in cambio di un’intervista esclusiva. Le richieste che tante volte in passato avevo rivolto alle mie vittime risuonavano come un’eco nella cacofonia di voci che mi ronzava perpetuamente intorno.

Non so cosa disse il prete. Ricordo solo il tamburellare della pioggia sulla bara bianca nella quale Amelia e Maria Luisa giacevano vicine. Vi gettai sopra un fiore prima di allontanarmi sottobraccio a Don Alfonso, che, come me, sembrava aver esaurito le lacrime.

Ormai era luglio e quasi due mesi erano trascorsi da quel giorno nero e terribile. Nel frattempo mi ero trasferito nella villa che mio suocero possedeva in un paesino non lontano da Madrid. Là, ai piedi delle montagne, Don Alfonso trascorreva la sua vita di pensionato leggendo saggi sulla storia della guerra civile spagnola e coltivando pomodori e orchidee. Passavo ore nella mia stanza, seduto davanti alla finestra a contemplare le montagne, pensando a tutto e a niente. Alfonso mi faceva trovare qualcosa da mangiare, per il resto mi lasciava in pace. Il suo riserbo era un sollievo dopo le premure eccessive di Gloria. A volte lo accompagnavo nelle sue spedizioni nei dintorni, per esplorare le vecchie trincee risalenti all’assedio di Madrid del 1937-38, quando lui era giovanissimo. I soldati bambini non sono un’invenzione africana: all’epoca della guerra civile, molti ragazzi dell’età di Alfonso erano stati arruolati su entrambi i fronti.

Parlavamo poco, e comunque mai del nostro lutto. Non c’era niente da dire: era semplicemente intollerabile. Intorno a mezzogiorno ci fermavamo a mangiare pane e formaggio sull’erba. Avevo l’impressione che gradisse la mia compagnia. Di tanto in tanto mi offriva pezzi di ricordi. Indicava un nido di cicogne e diceva: «C’era anche al tempo della guerra. Io stavo laggiù e sparavo in direzione della città. Gli anarchici portavano al collo fazzoletti rossi. Era una cosa sciocca, perché li trasformava in facili bersagli, ma per loro era una sorta di divisa. Anche se erano contrari alle uniformi e alle mostrine. Per questo i comunisti li odiavano a morte. Si sbranavano a vicenda.»

Tutto ciò che facevamo e dicevamo aveva l’unico scopo di aiutarci ad ammazzare il tempo. Di fare in modo che il lento ticchettio dei secondi trascorresse, senza che i nostri tetri e ossessivi pensieri ci facessero perdere il lume della ragione. Non scattavo quasi più foto, non di esseri umani, almeno.

Per potermi spostare tra la casa di Don Alfonso e Madrid mi ero comprato una Honda 750. Al termine dei miei pomeriggi in città, pagavo il mio caffè alla Alemana e partivo insieme a migliaia di pendolari. Guidavo con incoscienza, saettando tra le macchine incolonnate. Oscar mi accusava di coltivare un desiderio di morte e io non mi curavo di smentirlo. Ma mi piaceva il vento che mi strapazzava i capelli, quando, uscito dai sobborghi, lanciavo la moto a tutto gas sulle stradine secondarie che portavano a casa di mio suocero.

Il giorno del mio incontro con Rodriguez, appena rientrato da Madrid, presi una Coca dal frigo, versai un bicchiere di rosé ben freddo per Alfonso e andai a sedermi sul terrazzo. Il silenzio era quasi assoluto. L’aria tremula e calda del giorno svaporava gradualmente nella limpida, luminosa volta celeste. Piccole luci spuntavano nel crepuscolo sopra la linea irregolare dell’orizzonte.

Don Alfonso si sedette con un «buenas tardes», si tolse il cappello e si asciugò la fronte abbronzata. Dopo qualche minuto ruppi il silenzio per raccontargli della conversazione con Rodriguez. Mi ascoltò senza interrompermi. Era difficile per me collegare l’immagine di quel vecchio dai modi pacati e taciturni a un passato di agente segreto al servizio del regime franchista.

Al termine del mio racconto, Alfonso cominciò a parlare con l’abituale lentezza.

«Bene, Pedro. Quella di Rodriguez è una storia verosimile. Tutti noi siamo ansiosi di trovare spiegazioni. Ma ogni indagine è come un iceberg. La punta è niente in confronto alla parte che resta nascosta alla vista.»

«Allora non ci credi? Non credi che sia stata l’ETA?»

«È una tesi rispettabilissima. Capita a tutti di sbagliare, perché non all’ETA? La spietatezza dell’attentato è coerente con l’idea che abbiamo del terrorismo. E poi individuare una logica, per quanto perversa, nell’accaduto aiuterebbe sia te che me a riconciliarci, per quanto possibile, con la tragedia. Oppure no…»

«Credo che andrò a San Sebastián» dissi.

«Ti capisco. Forse fai bene. Ma ricordati che lo stato è disposto a tutto nella lotta contro il terrorismo. Non guarda in faccia nessuno.»

«Ho delle vecchie conoscenze che potrebbero…»

«So chi sono i tuoi amici, Pedro. Anche la polizia li conosce bene.»

«Non sono più dei fuorilegge.»

Nel 1977, alla vigilia delle prime elezioni libere dopo quarant’anni, lo stato spagnolo aveva concesso un’amnistia a tutti i membri dell’ETA che avessero rinnegato la violenza. I detenuti politici erano stati liberati ed era stata fatta tabula rasa. Molti vecchi membri dell’ETA avevano appeso le armi al chiodo e adesso conducevano una vita normale nelle Province Basche che avevano ottenuto l’autonomia sotto il nome di Euskadi. Ma una nuova generazione di baschi aveva abbracciato la lotta armata contro lo stato spagnolo, e la sua spietatezza superava quella dei vecchi partigiani.

Continuai:

«Ma restano baschi. Il fatto che da anni abbiano deposto le armi non significa che siano disposti a lasciare che la polizia spagnola faccia di loro dei delatori. Io non sono la polizia. Forse riuscirò a scoprire qualcosa.»

«E a tenere la mente occupata. Ti capisco, Pedro.»

«Sei disposto ad aiutarmi?»

«Io…»

«Potresti sfruttare i tuoi vecchi contatti per informarti, sondare fonti per me inaccessibili.»

Prese un piccolo sorso del rosé. Mi alzai e rientrai in casa. Volevo dargli il tempo di riflettere in pace, così decisi di dedicarmi alla cena.

Il primo piano della villa consisteva in un unico spazio fresco e accogliente in gran parte riservato alla cucina. Il pavimento era di mattonelle, bianche come le pareti. Al piano superiore c’erano quattro stanze da letto, una delle quali era la mia. Nel soggiorno, sotto un’immagine della Vergine con Gesù Bambino in braccio, Don Alfonso aveva sistemato una foto di Amelia e Maria Luisa. L’avevo scattata un giorno d’estate di due anni prima, in giardino. In piedi davanti alle piante di pomodori di cui mio suocero andava così orgoglioso, Amelia e Maria Luisa ridevano. La luce disegnava un’aureola intorno ai loro leggeri abiti estivi. Era un’immagine bella e traboccante di vita, e soffrivo ogni volta che la vedevo, ma Don Alfonso si rifiutava di metterla via. Accanto alla foto incorniciata c’erano due candele, e sapevo che lui le accendeva quando non ero in casa.

Il menù prevedeva insalata di pomodori e cotolette d’agnello, che preparai in padella con olio, aglio e del basilico raccolto in giardino. Doña Carmen, la governante, aveva comprato del pane fresco. Disposi stoviglie e pietanze su un vassoio, versai un bicchiere di vino rosso per Alfonso, presi un’altra lattina di Coca dal frigorifero e portai tutto in terrazzo. Consumammo la cena in silenzio.

Poi mi alzai, lavai i piatti, preparai il caffè e glielo portai fuori, insieme al suo brandy serale. Ormai era calata la notte. Una splendida notte spagnola, vellutata, che ci avvolgeva attutendo i rumori della campagna intorno a noi.

«Una volta credevo nella vita» disse. «Ero convinto che fosse importante. La fede mi abbandonò nelle trincee davanti a Madrid. Quando mia moglie morì di parto, mi disperai. Ma la vista di Amelia mi riconciliò con Dio, accettai quel dono imputando la perdita di mia moglie al destino. Non si può vivere con il vuoto nell’anima e chi non sa pregare è un infelice.»

Fece una pausa e riprese:

«Questo secolo è stato una lunga serie ininterrotta di crimini. Ma adesso, con il nuovo millennio alle porte, abbiamo ragione di essere moderatamente ottimisti. A volte ripenso al passato e mi sento orgoglioso di appartenere alla mia generazione. Abbiamo sconfitto il nazismo, abbiamo sconfitto il comunismo. E in Europa abbiamo vinto la povertà della specie peggiore, quella che uccide. Forse non mi crederai, ma durante gli anni del regime franchista pensavo che i mezzi non sempre nobili a cui ricorrevamo sarebbero serviti a fare della Spagna una nazione civile. Il paese in cui sono nato più di settant’anni fa era povero, arretrato e isolato, pieno di miseria e di analfabeti, odio e crudeltà. Un milione di persone perse la vita nella guerra civile. Quarant’anni di ferite e cicatrici misero a dura prova la Spagna. Ma oggi siamo un popolo civile e democratico. E questo mi fa piacere. Mi fa piacere che ci sia di nuovo un re, che le nuove generazioni diano tutto questo per scontato. In fondo era il nostro grande scopo: che vivere in pace diventasse un fatto scontato».

Ci fu una nuova pausa, poi riprese più sommessamente:

«Quando ci hanno portato via Amelia e Maria Luisa, Dio è morto per la seconda volta nella mia vita. Non penso che risorgerà. Però a volte lo spero, e siccome spesso lo maledico, vuol pur dire che non ho smesso di credere nella sua esistenza, o no? Vado a messa, ascolto quelle parole familiari, chiudo gli occhi, giungo le mani, e… non riesco a pregare. Le mie parole inaridiscono come questo giardino in agosto. Non riesco neanche a confessarmi. Vorrei tanto tornare a credere alla resurrezione e alla vita eterna, ma non ci riesco».

I suoi occhi erano lucidi nella luce che dal soggiorno si riversava morbida in terrazzo. Prima d’allora non lo avevo mai visto piangere, né tradire altra emozione che la gioia di contemplare la sua nipotina.

Posai una mano sulla sua, fresca e asciutta. Non ci toccavamo mai e per un momento credetti che si sarebbe sottratto a quel contatto, invece l’altra sua mano andò a posarsi sulla mia.

«Ti aiuterò, Pedro. Non desidero vendicarmi, e ho smesso di credere anche nella giustizia. Ma ti aiuterò ugualmente, per due ragioni. Perché servirà a distrarti da quel dolore che cerchi di nascondere a me e a te stesso. In secondo luogo, lo farò perché te lo devo: hai dato a mia figlia i suoi anni più felici, e a me una splendida nipotina.»

7

L’indomani andai in ufficio. Madrid boccheggiava assediata da un’impossibile calura e dal solito, caotico esercito di auto strombazzanti. L’asfalto cuoceva e le foglie penzolavano tristemente, secche e impolverate, dai rami degli alberi.

L’agenzia era su Paseo de la Castellana, una strada pedonale sempre molto frequentata. Oscar e Gloria, proprietari di tutto il palazzo, abitavano nell’attico; la Ospe News era al piano di sotto, sulla sinistra uscendo dall’ascensore. A destra invece c’era lo studio legale di Gloria, dove giovani avvocati rampanti rimanevano incollati a computer e telefoni fino a tarda sera. Possedevo quote importanti di entrambe le società, due realtà strettamente interdipendenti, che tenevamo distinte soltanto per ragioni fiscali.

Da giovane avvocatessa neo laureata, negli anni del tramonto della dittatura, Gloria si era fatta le ossa e un nome difendendo socialisti e comunisti, liberali e sindacalisti, attivisti dei gruppi studenteschi e terroristi dell’ETA o della GRAPO con la furia di una leonessa, in aula e sui media. La stampa impazziva per quella giovane, avvenente avvocatessa politicamente impegnata, non si stancava di decantare il fulgore dei suoi occhi neri e il fascino selvatico della sua chioma scarmigliata.

A distanza di tanti anni Gloria accettava ancora qualche rara causa penale a titolo gratuito o in cambio della misera parcella che le autorità riconoscevano al difensore incaricato d’ufficio. Preferiva le cause in cui l’imputato era povero e donna, meglio se maltrattata dal marito. La sua percentuale di successi era invidiabile: nella maggior parte dei casi otteneva l’assoluzione o una pena minima per l’imputata. Le sue cause attiravano sempre l’attenzione dei media, e lei le accettava sia perché amava cimentarsi contro uomini che raramente si dimostravano alla sua altezza, sia perché in quel modo appariva in televisione. E la televisione attirava clienti come un biscotto le formiche.

A Madrid l’Ospe News aveva quattro dipendenti fissi incaricati di sbrigare il lavoro pratico, mentre una rete di free-lance sparsi in tutto il mondo ci procurava le foto e controllava che i nostri diritti ci fossero riconosciuti. Negli ultimi anni avevamo lanciato con successo uno studio per la produzione di video e spot televisivi, in più affittavamo attrezzature ai reporter che venivano da fuori.

Il mio ufficio e quello di Oscar erano separati dal locale riservato alle segretarie. Nel mio c’erano una vecchia scrivania, un computer nuovo, un telefono, un logoro divano, un televisore di venti pollici di produzione spagnola. A differenza di Oscar, non avevo un tavolo per riunioni da dodici, né arte spagnola contemporanea alle pareti, né una sedia girevole high-tech dietro la scrivania sterminata, né un impianto multimediale danese di marca Bang e Olufsen.

In piedi davanti alla finestra dell’ufficio di Oscar, io stavo bevendo una Coca, Oscar e Gloria dell’acqua. L’aria lì dentro era fresca, in forte contrasto con la cappa calda e fuligginosa che avvolgeva la città. Anche prima della tragedia, mi recavo in Paseo de la Castellana solo di tanto in tanto, preferendo lavorare da casa. Negli ultimi due mesi non ci avevo praticamente messo piede.

I miei soci avevano festeggiato la mia inaspettata apparizione incaricando le segretarie di rimandare gli appuntamenti del mattino, ma non gli impegni per pranzo: sapevano che non mi sarei fermato tanto a lungo. Come al solito si profusero in mille attenzioni, gentilezze e manifestazioni d’affetto. Anche se avrei preferito un atteggiamento diverso, apprezzavo la loro buona fede. Oscar e Gloria, pensai, erano la mia famiglia, l’unica che mi rimanesse.

Quando li informai che avevo intenzione di andare nelle Province Basche, Gloria scosse il capo. Era un’idea stupida e pericolosa, non era davvero il caso di mettersi a giocare all’investigatore privato. Oscar era d’accordo con lei.

«Non si tratta di un gioco» spiegai. «Ho bisogno di andare via per un po’. Farò quattro chiacchiere con Tómas e gli altri ragazzi, mi fermerò a casa per qualche giorno. Avrò la sensazione di stare facendo qualcosa.»

Da quando Amelia e Maria Luisa erano morte, non ero ancora tornato nella nostra casa di San Sebastián. Avevo paura di rivederla. L’incendio aveva cancellato con efficienza tutti i ricordi fisici della mia famiglia presenti nell’appartamento di Madrid, ma in quella casa avrei trovato vestiti, foto, giocattoli, libri, quaderni, profumi.

«Hai bisogno di tenere la mente occupata? Ho un’idea migliore» disse Oscar. «Perché non parti per una delle tue missioni? Ho avuto una buona dritta sui reali inglesi e tu sei il migliore, Peter. Devi riprendere a fotografare. A vivere…»

Il mio sguardo dovette convincerlo che non valeva la pena di insistere, perché a un tratto ammutolì. Gloria mi osservò in silenzio per qualche istante.

«E va bene, Peter. Vai a San Sebastián se è quello che vuoi» disse. «Prenderai l’aereo?»

«No, ci vado in moto» risposi.

«Ultimamente guidi come un pazzo. E non ti sogni di mettere il casco.»

«Sei troppo vecchio per fare il verso a Easy rider» disse Oscar.

«La citazione è calzante. Uno zaino, una macchina fotografica, i miei ricordi: non possiedo nient’altro.»

Oscar rise:

«Dimentichi le carte di credito. Ah, eccoti trasformato in un vecchio hippy di lusso! E pensare che quando ci siamo conosciuti, in tasca avevamo solo spiccioli, non sapevamo quando avremmo mangiato e non ce ne importava assolutamente niente!».

Quello era l’Oscar dei vecchi tempi. Risi insieme a lui, mentre Gloria tradiva un’espressione infastidita.

«E Don Alfonso?» domandò Gloria.

«Mi darà una mano.»

«Fareste meglio a lasciar fare al governo. Stanno passando la città al setaccio. Non mollano» disse Gloria.

Era vero. La polizia si dava un gran da fare, e nel cuore dei madrileni la paura aveva lasciato il posto all’irritazione: erano stufi di tutte quelle transenne, controlli, indagini, falsi allarmi. Ma l’interesse della stampa per la mia vicenda era ancora vivo. Che rapporto avevo con Dio? Ero favorevole all’introduzione della pena di morte per i terroristi? Che libro avevo sul comodino al momento? I giornalisti mi bombardavano delle loro sciocche domande; fioccavano gli inviti ai talk show, ma io respingevo ogni assalto per tramite della mia inflessibile, intrepida segretaria.

«È molto strano che l’ETA non abbia ancora rivendicato la paternità dell’attentato» dissi.

«Hanno commesso uno sbaglio clamoroso, terribile» ribatté Gloria.

«Voglio sentire cosa ne pensa Tómas. Anche se probabilmente finiremo col parlare solo dei vecchi tempi».

«Almeno portati dietro questo» disse Oscar porgendomi il mio cellulare. Non lo avevo più acceso da quando la polizia lo aveva sequestrato, ed esitai prima di prenderlo.

«Desideriamo poterci mettere in contatto con te» disse Gloria. «Ti vogliamo bene, Peter.» Annuii.

Digitai il mio codice pin e il telefonino si animò con una serie di frenetici bip. Mi sedetti e chiamai la segreteria. Diversi contatti di lavoro e alcuni amici mi facevano le condoglianze. L’ultimo messaggio era di Clara Hoffmann, in danese. Il rumore di sottofondo mi spinse a immaginarmela in piedi sul balcone dell’Hotel Victoria, intenta a osservare il via vai di Plaza Santa Ana.

«Peter Lime. La notizia della tragedia mi addolora in modo indicibile. Ti sono vicina e ti porgo le mie più sentite condoglianze. Oggi riparto per la Danimarca. So che il momento è dei meno opportuni, ma è mio dovere ricordarti che qualunque informazione riguardante la donna e l’uomo della foto ci sarebbe preziosa. Quando te la sentirai chiamami a Copenaghen. Altrimenti forse mi rifarò viva io. Credimi, sono addolorata, più di quanto riesca a esprimere a parole.»

Prima di cancellare anche il suo messaggio, annotai i due recapiti telefonici che mi lasciava su un foglietto che infilai in tasca.

«Chi era?» chiese Gloria. La mia espressione assorta doveva averla incuriosita.

«Una faccenda di cui mi ero dimenticato. Un agente dei servizi segreti danesi si è messa in contatto con me subito prima della tragedia. Cercava informazioni su una vecchia foto.»

«Ah, quella» disse Oscar.

«Di cosa state parlando?» domandò Gloria.

«Niente di importante» risposi alzando le spalle.

«La foto avrà fatto la stessa fine delle altre» disse Oscar.

«Sicuramente è nella valigia» dissi.

«Quale valigia?» insisté Gloria.

«Niente» risposi. «Lascia perdere.»

Gloria si fece seria e assunse la sua voce da avvocato, quel tono stridulo e affilato che in tribunale faceva venire i sudori freddi ai suoi avversari.

«Sei in possesso di foto e di negativi che non sono andati distrutti nell’esplosione? In caso affermativo, io, in qualità di tuo avvocato, ho bisogno di saperlo. Abbiamo preparato una bozza di richiesta di risarcimento per la compagnia di assicurazioni. Chiediamo un mucchio di soldi, sulla base del fatto che hai perso il frutto di tutta una carriera. Peter, non ho intenzione di sostenere la tua causa in tribunale se esiste il rischio che la controparte all’improvviso tiri fuori dal cilindro una foto di grande valore. Vuoi spiegarmi cos’è questa storia della valigia?»

La segretaria di Oscar fece capolino alla porta.

«È Londra» disse semplicemente e Oscar uscì dalla stanza.

«Allora, Lime?» insisté Gloria.

«Nell’arco degli anni di tanto in tanto ho selezionato alcuni negativi e li ho nascosti.»

«E perché?»

«Non lo so. C’è chi tiene un diario, io ho le foto. C’è chi fa collezione di francobolli. Io faccio collezione di istantanee.»

«Di che genere di fotografie si tratta?»

«Professionali, private, importanti, insignificanti, brutte, belle. Le mie foto.»

«Il negativo di Jacqueline Kennedy?» disse.

«Per esempio.»

«Quella da sola vale almeno un milione di corone. Dove è questa valigia? Voglio farle stimare, tutte quante.»

«Non se ne parla.»

«Peter!»

«Scordatelo.»

«Dove è la valigia?»

«Dimenticatene. Non ha importanza.»

«Con la tua ostinazione comprometterai la causa, Peter.»

«Allora lascia perdere tutto.»

«Neanche per sogno. Abbiamo le carte in regola per costringere quegli stronzi a sborsare un bel mucchio di soldi, sempre che tu la smetta di mettermi i bastoni tra le ruote.»

A motivare l’accanimento di Gloria non erano i soldi, ma la prospettiva dello scontro. Non replicai, e tra noi calò un silenzio imbarazzato. Entrambi ci accendemmo una sigaretta. Quando Oscar rientrò in ufficio avvertì la tensione nell’aria e inarcò le sopracciglia perplesso.

«Cosa è successo? Avete fatto fuori qualcuno?»

Gloria lo ignorò. «Vai a fare la tua gita, Peter. Ci sentiamo al tuo ritorno. Tanto, prima di ottobre non succederà niente.»

Mi parve che Oscar volesse aggiungere qualcosa, ma Gloria lo fulminò con lo sguardo.

Gloria e Oscar mi accompagnarono alla porta chiacchierando disinvoltamente di progetti per le vacanze. L’orribile agosto madrileno era alle porte, Gloria sarebbe andata a Londra, che amava moltissimo. Oscar avrebbe trascorso un paio di settimane in Irlanda e poi avrebbe raggiunto Gloria in Inghilterra. Mi strapparono una mezza promessa di unirmi a loro. Avrebbero voluto che tornassi a essere il vecchio Peter Lime, ma non si poteva riavvolgere la pellicola della vita.

Dall’ufficio mi recai all’ambasciata danese per ritirare il mio passaporto nuovo, poi tornai a casa per fare i bagagli e salutare Don Alfonso.

Mio suocero non era in casa. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina: era andato in città per un paio di giorni per occuparsi della “nostra faccenda” e mi augurava buon viaggio.

Preparai lo zaino e lo assicurai al portapacchi della motocicletta. Le cavallette cantavano e dalle aiuole di Don Alfonso si levava una fragranza di polvere e fiori di pomodori. Chiusi la casa, inforcai l’Honda e mi avviai lentamente verso il cimitero. Accanto al biglietto, Don Alfonso aveva lasciato una splendida orchidea che avevo appoggiato di traverso sul serbatoio.

Le croci bianche e le lapidi di marmo cominciavano a tingersi di rosso nell’incipiente tramonto. Avevamo scelto una pietra semplice con i nomi di Amelia e Maria Luisa e le date di nascita e morte. Vi deposi l’orchidea e rimasi in attesa. Di una voce, di Dio, di una qualche rivelazione o anche solo di un momento di pace interiore. Ma non accadde nulla, così dopo poco montai in sella e ripartii.

Dai sobborghi di Madrid mi immisi sulla vecchia statale che portava verso nord. La conoscevo come le mie tasche, l’avevo percorsa centinaia di volte. Il sole tramontava alla mia sinistra in uno spumeggiare rosso che si allungò sulle montagne per poi scivolare come una lenta marea vermiglia sopra la pianura. Il traffico si fece più rado, fatto solo di piccole automobili e vecchi camion i cui conducenti non volevano pagare il pedaggio dell’autostrada. L’incendio rosso dell’orizzonte dava l’impressione di guidare verso un mare di sangue.

8

Guidai, nella tiepida oscurità notturna, per ore, fermandomi solo a fare benzina. Andare in moto di notte è viaggiare in silenzio, con il rombo del motore nelle orecchie e la solitudine addosso.

La Honda ronzò e fremette tra le mie gambe, finché le mie natiche si fecero insensibili, poi doloranti. Quando il cielo stellato finì di risucchiare il calore del giorno, mi misi il casco.

Ero esausto, ma mi dispiacque quando, una ventina di chilometri dopo San Sebastián, svoltai per la strada che si arrampicava su per le colline fino al rifugio mio e di Amelia. Il viaggio, l’andare, rappresentavano la mia condizione ideale. In lontananza le montagne s’incurvavano massicce come dorsi d’elefante nella tenue alba.

La casa era una vecchia costruzione di granito grande abbastanza per ospitare venti persone. L’avevo comprata all’inizio degli anni Ottanta; Amelia se n’era innamorata a prima vista, quando ancora non avevo l’assoluta certezza che amasse anche me. Insieme l’avevamo ristrutturata. C’erano due piani e una grande cantina per i vini e i formaggi, ma di solito trascorrevamo gran parte del tempo in cucina, dove la grossa stufa spandeva un bel tepore nel freddo inverno basco e nelle sere nebbiose d’estate.

La casa più vicina era quella di Arregui, un paio di chilometri più in su. Arregui allevava pecore da quando aveva dieci anni. In quell’epoca uno dei suoi zii era rimasto ucciso in uno scontro con la guardia civile: per lui pecore e nazionalismo andavano a braccetto, erano tutta la sua vita. Ogni mese gli mandavo una busta con un po’ di soldi perché tenesse d’occhio la casa, la rifornisse di legna asciutta e tenesse lontano i banditi. Lui lo avrebbe fatto gratis, ma ero riuscito a convincerlo ad accettare quel compenso spiegandogli che avrei potuto detrarre l’importo dalle tasse, e quindi versare qualche soldo in meno al potere centrale. A dispetto dell’età decisamente avanzata, Arregui sollevava macigni, spaccava tronchi e giocava alla pelota a mani nude negli annuali tornei estivi. Il suo primogenito era rimasto vittima del regime franchista nel 1972; il secondo figlio, Tómas, di cui ero diventato amico, aveva passato tre anni nel braccio della morte, fino all’amnistia del 1977. La sua unica figlia stava scontando l’ergastolo in un carcere a sud di Siviglia, condannata per l’omicidio di un capitano della Guardia Civil avvenuto cinque anni addietro. Nonostante tutto, Arregui si dichiarava orgoglioso di aver allevato dei buoni figli baschi che gli avevano fatto onore.

Parcheggiai la moto e smontai. La chiave era al suo posto, sotto il vaso accanto alla porta sul retro. L’interno della casa era immerso in un silenzio, pregno dell’odore di Amelia e Maria Luisa. Vidi i loro impermeabili, gli ombrelli e il calendario perpetuo su cui Amelia aveva annotato i compleanni di amici e parenti. Allo sportello del frigo erano attaccate cartoline, promemoria, un disegno di Maria Luisa e una foto della sua migliore amica.

Uscii a recuperare lo zaino, presi il sacco a pelo e lo srotolai sulla veranda di legno che avevano fatto costruire tutt’intorno alla casa. Mi addormentai immediatamente con in testa l’immagine della strada nera e un senso di vuoto nel cuore.

Mi svegliai nel bel mezzo di un incubo. Arregui era accovacciato di fronte a me. Aveva il viso largo, squadrato, la pelle color cuoio e i capelli bianchi, folti e spessi. Gli occhi erano neri, i denti macchiati dal tabacco delle sigarette che rollava a mano e fumava una dietro l’altra.

«Hola! Pedro» disse con la sua voce profonda.

«Buenos días, Arregui» risposi.

«Perché ti sei messo qua fuori? Hai forse paura dei fantasmi?»

«Può darsi.»

«Facciamoci un caffè» propose entrando in casa ad accendere la stufa. Uno dei cani di Arregui mi si avvicinò e io lo grattai distrattamente dietro le orecchie mentre guardavo il sole spuntare sopra le montagne più alte. Dovevo aver dormito non più di un paio d’ore. La rugiada brillava sulle cromature della Honda e copriva gli steli d’erba come tante piccole perle.

Arregui portò il caffè con zucchero e latte caldo in due grosse tazze, insieme a un po’ di pane e al suo formaggio di pecora. Dopo le chiacchiere sul gregge e sul tempo, gli chiesi notizie di Tómas e della figlia in prigione. Mi rispose che vivevano la vita che Dio aveva scelto per loro. Sua figlia era l’ennesima martire della lotta per la libertà, Tómas, invece, aveva rinunciato a combattere. Finito di mangiare mi salutò. Portava il gregge in montagna, dove spesso gli piaceva fermarsi a dormire all’aperto. Fischiò per richiamare i cani e si mise in cammino. Rimasi seduto a guardare lui e le pecore che si allontanavano finché divennero tanti puntini contro il fianco verde della montagna.

Poi setacciai la casa a caccia di tracce fisiche della vita di Amelia e Maria Luisa. Vestiti, foto, lettere, giocattoli: bruciai ogni cosa. Aveva ragione Arregui, avevo paura dei fantasmi che quegli oggetti avrebbero evocato. A tormentarmi bastavano le mie memorie, gli odori, tutto ciò che di intangibile avrebbe gravato per sempre sul mio cuore.

Era l’una passata quando presi la moto per andare a San Sebastián a cercare Tómas. Era una giornata calda, e il lungomare e la spiaggia erano pieni di gente. San Sebastián era una città tutta bianca, bellissima. Il terrorismo penalizzava l’economia delle Province Basche, ma a San Sebastián la crisi non si notava. La gente era ben vestita, i bar e i ristoranti del centro pullulavano di vita.

Mi fermai al bar preferito di Tómas per una Coca e uno spuntino. C’erano bocconcini di polipo, gamberetti con uova, sardine e pezzetti di prosciutto disposti su piccole fette di pane fresco. Ero in piedi al bancone e tenevo d’occhio la porta, così quando arrivò Tómas lo scorsi prima che lui vedesse me. Era poco più giovane di me, ma gli anni lo avevano trattato bene. Diceva sempre che il carcere era un’ottima ricetta per tenersi in forma: si faceva molto moto, il vitto era povero di grassi e gli alcolici non erano ammessi. Aveva il viso largo del padre, ma il suo corpo era snello, le mani affusolate. I capelli spruzzati di grigio e gli occhiali gli davano un’aria molto rispettabile. Si guadagnava da vivere sviluppando software per finanziarie e grandi aziende. Avevo conosciuto Tómas nel 1972, due anni prima che finisse in carcere e fosse condannato a morte dalla dittatura franchista per terrorismo. Qualcuno ci aveva presentato una sera a San Sebastián e avevamo incominciato a chiacchierare, trovandoci subito molto simpatici. Ero al corrente delle sue inclinazioni politiche, ma prima di leggere del suo arresto non avevo mai sospettato che fosse un membro dell’ETA. Ero andato a trovarlo in carcere, e quando era stato amnistiato insieme agli altri detenuti politici gli avevo dato una mano a ricominciare.

Il suo viso si illuminò in un sorriso quando mi vide, ci abbracciammo forte prima di passare nella stanza sul retro per pranzare insieme.

Chiesi una Coca, lui del vino. Chiacchierammo del più e del meno, evitando l’argomento del mio lutto: ne avevamo parlato più volte per telefono e sapevo che, benché fosse scapolo e senza figli, capiva perfettamente il mio dolore. Aveva perso molti amici durante gli anni di militanza nell’ETA. Considerava chiusa quell’esperienza e disprezzava la nuova generazione di attivisti, ma era pur sempre un basco e non sarebbe mai riuscito a denunciarli. Sapevo di potermi fidare di lui. A suo tempo aveva agito da mediatore segreto tra il governo socialista e l’ETA nel tentativo di trovare un compromesso. Ma il nuovo governo conservatore si rifiutava nel modo più assoluto di trattare con i terroristi e ultimamente gli episodi di violenza si moltiplicavano.

Dopo il caffè gli rivolsi la domanda che più mi stava a cuore:

«Tómas, sono stati loro a uccidere Amelia e Maria Luisa? È stato tutto un terribile errore?».

Mi accesi una sigaretta mentre lui, che aveva smesso di fumare, con le mani tormentava il tovagliolo.

«No, Peter» disse. «Non sono stati loro. Non sapevano che quella donna abitasse nel palazzo.»

«E allora chi è stato?»

«Non lo so. Non riesco a immaginare chi…»

«Se davvero non hanno colpa, perché non hanno negato la paternità dell’attentato?»

Abbassò lo sguardo e avvicinò la tazzina alle labbra, anche se del caffè non era rimasto che il fondo. Poi disse, sottovoce ma con rabbia, una rabbia rivolta contro se stesso:

«Lo scopo di ogni organizzazione terroristica è destabilizzare la società in cui opera alimentando uno stato di angoscia collettiva. La bomba di Plaza Santa Ana ha alzato il livello di tensione nel paese, un fatto assolutamente coerente con i loro obbiettivi. Perché avrebbero dovuto dissociarsene? Tutti credono che abbiano voluto colpire una spia, di conseguenza altri esiteranno prima di collaborare, perché l’ETA ha dimostrato che il braccio della vendetta è lungo».

Diceva cose sensate. L’ETA si era votata alla lotta armata a partire dal 1968, quando Tómas era poco più che adolescente. All’epoca, dopo un’azione, i militanti trovavano rifugio in Francia che, al pari di altri paesi europei, li considerava partigiani in lotta per una causa giusta: il capovolgimento della dittatura di Franco.

«Ho bisogno di sapere chi è stato e perché» dissi. «Altrimenti non riuscirò mai a farmene una ragione.»

«E se l’obbiettivo fosse stata la distruzione delle foto piccanti di quel politico? O forse al signor ministro non piace essere spiato e ha sentito il bisogno di vendicarsi…»

Scossi il capo. «Vorrei sentirmelo dire dai diretti interessati» dissi «che qui l’ETA non c’entra.»

«È una cosa molto rischiosa, Peter. Rischiosa per me, per te, per loro. L’ETA è divisa, i suoi capi sono impauriti, nervosi, aggressivi.»

«Aiutami, Tómas.»

Esitò in silenzio per qualche minuto, lo sguardo fisso sulla tazzina vuota. Infine sembrò decidersi, mi guardò un istante, si alzò e uscì dal ristorante. Io rimasi dov’ero, ordinai un altro caffè e pagai il conto. Tómas tornò dopo venti minuti. Non sapevo cosa avesse fatto, a chi avesse telefonato e non mi sarei mai sognato di domandarglielo.

Si sedette. Sudava come se avesse camminato troppo in fretta nella calura pomeridiana, ma il motivo poteva anche essere l’agitazione. Era un cittadino libero e rispettoso della legge, ma sapeva perfettamente che sia i servizi segreti spagnoli, sia i vecchi compagni lo avrebbero tenuto d’occhio fino alla fine dei suoi giorni. In fondo, la sua era la vita tormentata, inquieta e stressante di chi si trova tra due fuochi.

«Sulla panchina. Davanti all’ingresso pedonale del parcheggio sotterraneo vicino al Londres, alle venti. Avrai in mano una copia di “Diario Vasco”, edizione della sera» la sua voce era venata di nervosismo.

«Grazie, Tómas» dissi semplicemente. «Sono in debito con te.»

«Nessun debito» rispose. Ma dall’espressione del suo viso compresi che avevo appena testato i limiti della nostra amicizia. Forse aveva accettato di aiutarmi per Maria Luisa, per Amelia. Per gratitudine nei miei confronti, per sostenermi nel percorso travagliato del lutto. Oppure Tómas mi aveva mentito e chiedergli di mettermi in contatto con quei terroristi si sarebbe rivelato uno sbaglio fatale. Uscimmo in silenzio dal locale e ci salutammo con una stretta di mano, senza il calore del nostro incontro di poco prima. Svoltò l’angolo, lasciandomi solo nella strada svuotata dalla siesta.

Girovagai a lungo per la città. Camminare mi aiutò a scaricare la tensione. Passate le cinque, le viuzze diritte e strette del centro tornarono gradualmente a popolarsi, mentre le serrande dei negozi si alzavano schioccando come tanti petardi. Mi fermai a un’edicola per comprare una copia di «Diario Vasco». Alle otto meno un quarto ero seduto sulla panchina indicata. Alla mia destra c’era il municipio e alla mia sinistra l’Hotel Londres, dove avevo alloggiato diverse volte da giovane. In cima al Monte Egueldo troneggiava la statua del Cristo. Giù, oltre il lungomare, la marea si era ritirata scoprendo un vasto tratto di sabbia grigio-gialla. La gente faceva il bagno. Alcuni ragazzi giocavano a pallone, i loro strilli echeggiarono finché il sole non tramontò in un’orgia di rosso e il buio li costrinse a interrompere la partita. La striscia di spiaggia ormai quasi deserta lentamente si andava assottigliando con il risalire della marea.

Una giovane mamma con passeggino si sedette accanto a me. La donna si sporse verso il figlioletto offrendogli un gelato che quello prese a leccare estasiato. Agitando le mani per l’eccitazione, il piccolo fece cadere il cappellino che era appoggiato sulla sua pancia. Mi chinai a raccoglierlo e lo porsi alla donna. Mi sorrise solo con la bocca, un’espressione vagamente spaurita negli occhi castani.

«Grazie. Vada giù al porto dopo che me ne sarò andata» disse in spagnolo.

Il cuore mi batteva forte. La donna rimase seduta accanto a me in attesa che suo figlio finisse il gelato, ma quando si sporse a pulirgli la bocca con un tovagliolo notai che le mani le tremavano leggermente. Poi si alzò, girò il passeggino e si allontanò in direzione dell’incrocio. Trascorsi cinque minuti mi avviai a passo lento verso il porticciolo.

C’era parecchia gente che passeggiava. Mi fermai accanto al pontile a guardare i pescherecci azzurri. Un giovane in blue jeans e camicia a maniche corte mi si accostò, mi guardò. Quando si mosse lo seguii a distanza di qualche passo. Vagammo a lungo per il centro, apparentemente senza meta come turisti, per dare modo ai suoi compagni di controllare che nessuno mi stesse seguendo. Alla fine ci ritrovammo nuovamente al porto, dove il giovane entrò in una taverna da cui proveniva un gran clamore di musica rock. Feci per seguirlo, ma un secondo ragazzo, vestito nella stessa maniera del primo, mi si avvicinò, mi afferrò per il braccio e indicò una BMW bianca che aspettava accanto al marciapiede con il motore acceso. Non appena fui seduto sul sedile posteriore, l’auto partì.

Accanto al guidatore era seduto un secondo uomo. Entrambi indossavano occhiali da sole scuri e berretti da baseball. Facemmo qualche giro a casaccio prima di dirigerci verso la periferia operaia di Renteria. Lì finiva la San Sebastián dei turisti e dei locali impegnati nel paseo serale. Oltre il finestrino intravedevo muri scrostati, sagome di macchine semidistrutte abbandonate sul marciapiedi, prostitute in attesa di clienti. Da quelle parti i terroristi erano al sicuro, perché gli abitanti del quartiere, pur non essendo simpatizzanti dell’ETA, condividevano con l’organizzazione l’odio inveterato per la polizia e le autorità.

La BMW entrò in un cantiere. La luce dei fari illuminò i ruderi di uno dei dormitori destinati agli operai che sotto Franco si erano trasferiti qui dall’Andalusia per partecipare al miracolo economico spagnolo. Due grossi ratti schizzarono in un buco spaventati.

«Fuori, Lime!» disse l’autista.

Smontai e la BMW si allontanò. Il cuore mi martellava in petto. Sentivo il rombo delle automobili che correvano sul vicino svincolo autostradale. Era molto buio, ma avevo la sensazione che dentro il rudere ci fosse qualcuno. Istintivamente mi misi in posizione di combattimento.

Ma dall’interno nessun rumore. Invece arrivò un’altra macchina, una Seat nera, e si fermò a pochi metri da me, a motore acceso. Due uomini scesero dal sedile posteriore, mentre l’autista rimase dietro il volante. Non si allontanarono dall’auto in modo da potervi rimontare in fretta. Erano robusti, in jeans e giacche a vento scure, un berretto calato sulla fronte. Le loro sagome erano tutto ciò che riuscivo a vedere nella luce abbagliante dei fari.

«Abbiamo pochissimo tempo, Lime» disse uno dei due.

«Perché avete assassinato la mia famiglia?» domandai con voce rauca avanzando di un passo. La testa mi girava e avevo la bocca e la gola secche.

«Resta dove sei» disse lo stesso uomo che aveva parlato un attimo prima.

«Perché?» domandai.

«L’attentato non è opera nostra. Sulla terra di Euskadi e sul sangue dei suoi martiri giuro che non c’entriamo. Non siamo stati noi.»

Mi chiesi se potesse trattarsi di una montatura, ma sapevo per certo che quegli uomini non stavano recitando: erano terroristi, odoravano di pericolo e disperazione. Forse erano in debito con Tómas, non riuscivo a immaginare nessun’altra ragione per cui avrebbero dovuto accettare di incontrarmi.

«Grazie per l’informazione» dissi con voce atona.

Uno dei due risalì in macchina, mentre l’altro rimase dov’era.

«Se scopri chi sono i mandanti,» disse «potremmo aiutarti a vendicarti.»

«E perché dovreste aiutarmi?»

«Perché una volta tu hai aiutato uno dei nostri.»

«Sono passati tanti anni.»

«Noi non dimentichiamo mai nulla, Peter Lime. Nulla.»

Rimontò in macchina e l’autista partì prima ancora che il suo passeggero potesse richiudere lo sportello. Tornò il buio. In preda a un panico improvviso mi precipitai fuori dal cantiere. Continuai a correre per diversi minuti, fino a quando raggiunsi una strada ben illuminata. Le luci dorate di San Sebastián si stendevano davanti a me, trassi un profondo respiro e mi sforzai di ritrovare la calma. Nessuno mi stava inseguendo. Camminando verso la città, mi voltavo ogni tanto nella speranza di veder arrivare un taxi, ma finii per raggiungere a piedi la mia motocicletta, parcheggiata vicino all’Hotel Londres. Montai in sella e lentamente mi diressi verso casa. Ero stanco morto, la testa piena di pensieri e sentimenti contraddittori.

La casa era avvolta nell’oscurità e nel silenzio. L’odore di fumo del falò del pomeriggio era ancora percettibile nell’aria fresca della notte. Estrassi la chiave e aprii la porta. L’uomo doveva essersi appostato nella nicchia in ingresso non appena aveva sentito la motocicletta, perché in un lampo mi fu addosso e mi colpì alla nuca con un manganello. Il mondo esplose in una cascata di luce bianca.

9

Quando rinvenni, ero seduto su una sedia addossata al muretto che delimitava la cucina, le mani legate dietro la schiena. Mi faceva male il collo, ma per il resto ero tutto intero. Il mio aggressore aveva calibrato la potenza del colpo in modo da mettermi fuori combattimento senza procurarmi un trauma cranico. Era un professionista, e non era solo. Con lui c’erano altri due uomini. Tutti e tre erano vicini ai quaranta e a viso scoperto, in jeans e camicia. Quello del manganello era il più grosso e sembrava il capo. Aveva un viso stretto e furbo sotto una fronte alta segnata dall’acne. Rimasi sorpreso quando mi si rivolse in un inglese dal marcato accento irlandese:

«Bentornato fra i vivi» disse. «Adesso faremo una bella chiacchierata. Scusa se non ci siamo presentati poco fa, ma a noi il karate non piace e abbiamo preferito non darti occasione di lanciarti in una delle tue piccole dimostrazioni. Sarà per la prossima volta. Per il momento stattene lì, è meglio starsene seduti comodi comodi quando si fa una chiacchieratina amichevole, non credi?»

«Fottiti» sibilai.

Mister Manganello non reagì ma gli altri due non persero tempo. Quello con i baffi si portò alle mie spalle, agguantò il mio codino e tirando con violenza mi rovesciò la testa all’indietro mentre il suo socio Testa Rasata mi assestava due pugni all’altezza del fegato. Il mio corpo fu invaso dal dolore e tutto si oscurò per un attimo.

«Bene bene, Signor Lime», disse quello grosso «Hai ancora voglia di fare lo spiritoso?»

«Che ci fa l’IRA in Euskadi?» domandai non appena ritrovai il fiato. Cercavo di sembrare calmo, in realtà ero terrorizzato.

«Abbiamo molte cose in comune con i nostri compagni baschi» spiegò quello del manganello. «Sono nazionalisti. Come noi sono oppressi da uno stato e da una monarchia che non riconoscono. Come noi sono marxisti. Come noi lottano per una causa giusta in un mondo ingiusto.»

Ero al corrente del fatto che IRA ed ETA fossero in contatto e spesso collaborassero. In particolare, l’ETA acquistava armi dall’IRA, che se le procurava attraverso gruppi di simpatizzanti americani. Ma questo non spiegava cosa quei tre figuri potessero volere da me. A meno che il responsabile non fosse Tómas. Cercai di scacciare quel pensiero. Qualunque cosa volessero, ero sicuro che alla fine mi avrebbero piazzato una bella pallottola in bocca e mi avrebbero gettato in qualche discarica. Altrimenti non si sarebbero sognati di presentarsi a viso scoperto.

«Fottiti» ripetei irrigidendomi in vista del colpo che Testa Rasata puntualmente mi sferrò sulla mascella. Sentii il sapore del sangue e un secondo pugno mi colpì il fianco.

«Mister Lime» disse di nuovo quello con il manganello. «Non ti conviene. Continua a fare il duro e ti riduciamo da far schifo.»

«Non mi avete ancora detto che cosa volete» dissi con voce rauca.

«Oh, scusaci tanto, Lime. Vogliamo sapere dove hai nascosto una valigia contenente una foto o due che ci piacerebbe includere nel nostro album.»

«Non so di che cosa parli» ribattei. Il pelato mi si avventò contro con il pugno levato.

Quando rinvenni il sangue mi colava lungo una guancia e sul mento. Dal dolore che sentivo al torace sospettavo che mi avessero incrinato una costola. Avevo un orecchio gonfio, le labbra e un sopracciglio spaccati. Puntini luminosi danzavano davanti ai miei occhi e la mia maglietta era fradicia dell’acqua che mi avevano buttato in faccia per farmi rinvenire.

Avevano avvicinato la mia sedia al tavolo dove sedeva quello del manganello, percepivo la presenza degli altri due in piedi alle mie spalle. Mi avevano sciolto le mani, che erano quasi del tutto insensibili, ma adesso erano le mie caviglie a essere legate. Non riuscivo a staccare lo sguardo dalla bottiglia di whiskey da cui Manganello aveva appena versato due bicchieri, uno dei quali era colmo fino all’orlo. Il profumo di malto mi invase con un miscuglio di piacevoli ricordi e incubi orribili.

«Restiamo amici, Mister Lime. Facciamoci un bicchiere insieme» disse Manganello. Sorrise, ma i suoi strani occhi incolori erano freddi nel viso butterato.

«No» risposi.

«Invece sì, Lime. Un bicchierino amichevole.»

«Io non bevo» insistei.

«Da noi in Irlanda è una grossa scortesia, sì, quasi un’offesa, rifiutare il cicchetto offerto da un amico. Solo le donne e i froci qualche volta sono astemi. Avanti, Lime, non vorrai fare le figura della femminuccia!»

«Non bevo» ripetei, e con gesto brusco spazzai il bicchiere stracolmo oltre il bordo del tavolo. Il liquido si sparse sul legno marrone mentre il bicchiere andava in mille pezzi. Rimasi in attesa della solita reazione, ma lui scosse la strana testa troppo stretta per quel corpo massiccio, si alzò e andò alla credenza a prendere un altro bicchiere. Tornato al tavolo lo riempì a metà. Il rapato mi afferrò le braccia torcendole dietro lo schienale della sedia, mentre il suo compare con una mano mi rovesciava la testa all’indietro e con l’altra mi turava il naso.

Manganello si alzò e si avvicinò finché il bicchiere, con il suo contenuto dorato e irresistibile dominò il mio campo visivo. Mi versò un sorso in gola. Sapeva di fuoco e mi venne da vomitare, ma lui aspettò che riprendessi fiato, poi forzò di nuovo l’orlo bollente del bicchiere tra le mie labbra contuse. Non potevo fare a meno di inghiottire nonostante gli attacchi di tosse che mi scuotevano. Era come se ogni cellula del mio corpo si ribellasse ed esultasse allo stesso tempo, schiudendosi come un fiore per succhiare la rugiada. Nel mio cervello spuntò una bellissima luce bianca, i dolori del mio corpo si placarono come se mi avessero fatto un’iniezione di morfina.

Non toccavo alcolici da quasi otto anni. Prima di allora ero stato un forte bevitore per vent’anni. Generalmente ero riuscito a tenere la cosa sotto controllo, ma molti momenti della mia vita erano buchi nella memoria: giorni, settimane intere inghiottite da una sbornia. All’inizio Amelia lo aveva tollerato, anche se si era spaventata a morte la prima volta che mi aveva visto in quello stato. Ma alla nascita di Maria Luisa mi aveva messo di fronte a un ultimatum: dovevo scegliere, o la bottiglia, o loro due. Mi amava, ma ne lei né la bambina meritavano di assistere al lento processo della mia autodistruzione.

Andare al primo incontro degli Alcolisti Anonimi fu una delle decisioni più difficili della mia vita. Mi aggrappai al karate come a un’ancora di salvezza, perché spremendomi fisicamente riuscivo a tenere a bada il demone della bottiglia. Ma non potevo passare davanti a un bar senza sudare freddo. Poi pensavo ad Amelia e alla piccola e tiravo dritto. Dopo la loro morte, tante volte mi ero sentito sul punto di ricascarci, ma la promessa fatta ad Amelia fino a quel momento si era dimostrata più forte di qualunque tentazione.

L’uomo tornò a riempire il bicchiere e lo posò sul tavolo davanti a me. Fece un cenno col capo e gli altri mi liberarono le braccia e il naso. Prima che potesse parlare il mio braccio scattò e di nuovo il bicchiere volò per terra. Si ruppe con uno schianto, mentre il meraviglioso profumo del whiskey si spandeva in tutta la stanza.

Ma così non facevo altro che rimandare la sofferenza. Manganello andò a prendere un altro bicchiere, lo riempì, e la scena si ripeté. Il mio corpo cominciò a rilassarsi. Al terzo giro mi accorsi che inghiottivo avidamente il liquido brunodorato che poco prima avevo rifiutato. Avevo la testa sempre più leggera…

Manganello insistette finché al piacere e alla sonnolenza si mescolarono nausea e vertigini. Dopo un periodo di astinenza tanto lungo ero come un quindicenne alla prima birra.

Avevo di nuovo le braccia libere e, quando l’uomo tornò a posare il bicchiere pieno sul tavolo, allungai la destra per capovolgerlo. Ma era come se il mio arto avesse acquistato una volontà propria: osservai impotente la mia mano disubbidiente afferrare il bicchiere e avvicinarlo alle labbra con gesto lento e quasi voluttuoso. Il primo sorso mi avvolse la lingua come una morbida membrana e scivolò giù per l’esofago in una lunga carezza che dallo stomaco sgorgò nel sangue.

Mi vennero le lacrime agli occhi, lacrime di rabbia e di disprezzo per me stesso. Dovevo essere uno spettacolo ripugnante, sporco com’ero di sangue, lacrime e whiskey. Vuotai il bicchiere d’un colpo e lo posai bruscamente sul tavolo.

«Stronzi» dissi. «Fottuti bastardi!»

«Salute, Lime» ghignò Manganello prima di ingoiare il contenuto del proprio bicchiere. Poi riempì il mio per l’ennesima volta, sul volto un’espressione sprezzante e vittoriosa. Invece di scagliarglielo addosso presi il whiskey e me lo rovesciai in gola.

«Perché vi interessa quella valigia?» biascicai dal fondo di un crepuscolo alcolico in cui sogno e realtà incominciavano a confondersi.

«Le domande le facciamo noi. Tu sei quello che risponde» disse lui.

«Non sono altro che ricordi, bastardo! Dentro ci sono soltanto i miei miseri, insignificanti, fottuti ricordi!» gridai. «La mia fottutissima vita…»

Ormai ero completamente andato, ma ricordo confusamente di aver blaterato a ruota libera della mia valigia, di Amelia, Maria Luisa e Don Alfonso. Di Oscar, Gloria e Jacqueline Kennedy Onassis su un’isoletta greca. Era insieme a un’amica e le avevo seguite fino a una caletta appartata. Jackie aveva steso l’asciugamano, poi si era tolta i calzoncini e la blusa. Non portava il bikini e aveva cominciato a spalmarsi il corpo nudo di olio solare; io mi ero steso al riparo di una grossa roccia e avevo scattato la serie di foto che aveva reso Oscar e me milionari e l’Ospe News un’agenzia fotografica di fama mondiale.

Al termine della mia storia sull’incontro con Jackie e la svolta che aveva rappresentato per la mia carriera, Manganello mi afferrò un braccio e ringhiò:

«Non ci interessano le tette e i culi, Lime. Ci interessa la valigia. Vogliamo poter scegliere da soli le nostre foto preferite. Allora, dove diavolo è?»

Non ricordo di aver risposto alla sua domanda, eppure dovetti farlo, a giudicare da ciò che accadde in seguito.

Stavo ancora parlando e bevendo quando si udì un terribile rumore di vetri infranti e una grossa pietra precipitò nella stanza attraverso la porta a vetri che dava sul giardino. Un attimo dopo la porta d’ingresso si spalancò e due ombre grigio-brune e ringhianti balzarono all’interno avventandosi sugli irlandesi. La mia sedia si rovesciò, e caddi in mezzo ai vetri sul pavimento appiccicoso di whiskey. Da quella posizione vidi Arregui entrare dietro ai suoi cani brandendo un pesante bastone.

Il pelato fece per estrarre una pistola da sotto la giacca, ma il vecchio pastore fu più veloce e gli assestò un violento colpo alla nuca.

Mi risvegliai sul divano. Dovevo essere svenuto un’altra volta. Ero tutto pesto e ancora ubriaco, il mio corpo dolorante mi faceva l’effetto di qualcosa di remoto e irreale. Provai ad alzarmi a sedere, ma la stanza prese a girare vorticosamente. Faticai a mettere a fuoco la faccia che mi si parò davanti. Era Tómas, che mi porgeva un bicchiere d’acqua. Avevo una sete tremenda e lo vuotai in un sorso solo.

«Rimettiti giù tranquillo, Peter» disse Tómas.

«Dove sono andati?»

«Due sono scappati. E papà ha trascinato fuori il terzo. È morto.»

D’un tratto ricordai.

«Stronzo!» gli dissi. «Maledetto stronzo che non sei altro!»

Lui indietreggiò di un passo. Avevo la mente lucida ed ero pieno di aggressività indotta dal whiskey.

«Non è come credi» disse lui.

«Mi hai dato in pasto ai tuoi amici terroristi dell’IRA, pezzo di merda» dissi.

«Non è come credi» ripeté lui.

Di nuovo provai a mettermi a sedere, ma fui assalito da un violento capogiro che mi costrinse a desistere.

«Devo telefonare» dissi.

«C’è tempo. Per ora rimani disteso. Ti hanno conciato per le feste.»

«Voglio un telefono!»

Con un sospiro lui mi porse il cellulare, ma non riuscivo a centrare i tasti, allora glielo restituii e gli dettai il numero di Don Alfonso a Madrid.

«Non risponde nessuno» disse Tómas.

«Che cos’è questa storia della valigia?» chiesi. «Perché volete sapere della valigia?»

«Quale valigia?»

«Da quanto tempo sono disteso qui?»

«Da un paio d’ore.»

«Merda!» dissi.

«Se sei vivo devi ringraziare mio padre. È sceso a valle prima del previsto, ha visto le macchine parcheggiate vicino alla curva. I cani erano agitati, allora è venuto a vedere come stavi.»

«Gli sarebbe bastato chiederlo a te. Avresti potuto spiegargli meglio di me quel che stava succedendo qui» dissi.

«Ti sbagli» si difese ancora lui.

«Rifai quel numero» ordinai.

Don Alfonso non rispondeva. Con l’aiuto di Tómas riuscii ad alzarmi e a raggiungere il tavolo della cucina. La stanza puzzava ancora di whiskey. Uno dei cani era seduto nel vano della porta, con gli occhi gialli seguiva ogni mio movimento. A un certo punto udii un fischio e il cane sfrecciò via.

«Dov’è Arregui?» domandai.

«Si sta occupando del cadavere» rispose lui con freddezza.

Mi fece sedere e mi mise davanti una grossa tazza di caffè nero.

«Preferirei un drink» mi sentii dire.

«Dopo. Su, bevi. Ne hai bisogno.»

«Tómas, perché volete la mia valigia? Perché non mi hai interrogato direttamente invece di aizzarmi contro quei ceffi dell’IRA? Credevo che fossimo amici.»

Ecco, pensai, mio malgrado ero scivolato nel tono di autocommiserazione tipico di chi beve. Per scrollarmelo di dosso presi un sorso del caldo, dolce espresso triplo di Tómas.

«Non erano dell’IRA» disse qualcuno alle mie spalle. Un ragazzo stava scendendo le scale dal piano superiore. Lo riconobbi dalla voce: era quello che nel cantiere di Renteria mi aveva assicurato che l’ETA non c’entrava con la morte della mia famiglia. Non poteva avere più di venticinque anni, il viso era pallido e affilato sotto i capelli a spazzola. Indossava un giubbotto di pelle nera sopra una T-shirt grigia.

«E così sei qui anche tu» dissi.

«È stato Tómas a chiamarci. Arregui e gli altri si stanno sbarazzando di quello stronzo. Gli altri due non usciranno da Euskadi. Devi pensare a cosa dirai alla polizia, tenendo conto di Arregui.»

«Non ho alcuna intenzione di parlare con la polizia. Chi era quello che Arregui ha ammazzato?» domandai.

«Non abbiamo trovato documenti. Aveva la testa rasata. Ti dispiace?»

Scossi la testa.

«Anche se speravo che fosse un altro» dissi pensando a Mister Manganello.

Il ragazzo venne a sedersi di fronte a me e accettò il caffè che Tómas gli tese. Si sporse sopra il tavolo e con tono serio dichiarò:

«Peter Lime, te lo voglio ripetere: non abbiamo avuto alcun ruolo nell’assassinio della tua famiglia. Né c’entriamo qualcosa con i tre fottuti irlandesi. Sappi che non sono membri dell’IRA, ma dei killer professionisti, dei free-lance le cui pistole e i cui pugni sono in vendita al miglior offerente. Non è la prima volta che si fanno vedere qui in Euskadi e si spacciano per quello che non sono. Non mi chiedere la fonte di queste informazioni perché non la rivelerò». Fece una pausa.

«A quale valigia alludevano? Io non lo so. Ma tu dovresti chiederti chi sia al corrente dell’esistenza di quella valigia e, soprattutto, cosa ci sia dentro di così importante da convincere qualcuno a sguinzagliarti dietro dei tipi del genere. Noi siamo estranei a tutta la faccenda. Tómas è tuo amico: si è precipitato qui non appena Arregui ha telefonato.»

Gli credevo. Mi guardò in silenzio per qualche secondo poi riprese.

«Se fossi in te, d’ora in avanti starei in guardia. Almeno fino a quando non avremo preso gli altri due. Ci penseremo noi a proteggere Arregui, anche se deve ancora nascere l’uomo che gli metterà paura.»

Quando si alzò feci per imitarlo, ma dovetti rinunciarvi perché mi girava la testa. Presi la mano che mi tendeva e la strinsi.

«Se verremo a sapere qualcosa, ci metteremo in contatto con Tómas. Ci interessa mantenere l’ordine nella terra d’Euskadi, e non dimentichiamo mai i nostri amici, né gli amici degli amici» disse.

Scivolò fuori nell’alba incipiente, come un’ombra che vivesse solo di notte.

Provai di nuovo ad alzarmi. Tómas si mise il mio braccio intorno alla spalla e mi sostenne mentre salivo le scale fino al piano di sopra. Poi mi aiutò a sfilarmi i vestiti sporchi e a entrare nella doccia. Il mio fianco sinistro era tutto un livido, e il viso, che avevo visto di sfuggita nello specchio, una maschera tumefatta.

Quando fui avvolto nell’accappatoio, la ferita sotto l’occhio destro disinfettata, chiesi a Tómas di riprovare a chiamare mio suocero. Don Alfonso non rispondeva. Indossai un paio di boxer e mi sdraiai sul letto matrimoniale, Tómas si sedette sulla sponda.

«Tómas…,» esitai «dimentica le mie accuse di poco fa, ti prego. Ero spaventato, sconvolto. So quanto hai rischiato accettando di contattare l’organizzazione e te ne sono grato. Ho un debito nei tuoi confronti e non voglio che…»

Tómas sorrise, ma lo sguardo era stanco.

«Peter, te l’ho già detto un’altra volta. Gli amici non tengono la contabilità.»

Gli parlai del contenuto della valigia: era il mio album privato, un collage della mia storia. A chi mai poteva interessare?

«La risposta a questa domanda non può che essere dentro la valigia stessa» disse.

«Per questo devo andare a Madrid. Devo parlare con Don Alfonso. Ma non ce la faccio a guidare. Credi di potermi accompagnare all’aeroporto?»

«Certo. Adesso mettiti tranquillo e fatti passare i postumi della sbornia.»

Non credevo di avere sonno, ma non appena lasciò la stanza mi addormentai. Sognai di Amelia. Il suo corpo senza vita giaceva su un letto al centro del nostro appartamento ricostruito fin nei minimi dettagli. Più che una casa, adesso sembrava un museo. Infatti pullulava di visitatori che toccavano i vestiti di mia moglie, ammiravano i suoi gioielli e le foto di Maria Luisa con cui avevamo tappezzato un’intera parete. La coda di persone in attesa di entrare si snodava dal nostro pianerottolo giù per le scale, fino in strada, zigzagando per Plaza Santa Ana.

10

Fui svegliato dalla sensazione di due ombre accanto al mio letto. Una era Tómas, l’altra un uomo un po’ curvo con un paio di baffetti grigi sotto il naso affilato e capelli radi e arruffati.

Avevo dormito troppo; era pomeriggio inoltrato. Il sole basso illuminava di sbieco la finestra e di lì a poco sarebbe sparito dietro il crinale di ponente. Ero tutto indolenzito e la testa mi pulsava. Il mio stomaco in fiamme stava ancora lottando contro il veleno che i tre bastardi mi avevano fatto trangugiare.

Provai a mettermi seduto.

«Resta giù, Peter» disse Tómas. «Hai un aspetto terribile.»

«Grazie» la mia voce era roca e stridula. «Chi è lui?»

«È il dottor Martinez, un amico» disse Tómas.

«Mi permetta di darle un’occhiata, Señor Lime» disse Martinez. Annuii e lui cominciò a esaminarmi con mani dal tocco leggero, femmineo. A parte un lievissimo trauma cranico, la ferita sotto l’occhio e una costola incrinata, non parevo aver riportato altri danni. Avrebbe voluto portarmi all’ospedale per un controllo, ma rifiutai. Lui sospirò rassegnato. Sicuramente aveva visitato feriti ben più gravi il cui nome non sarebbe mai comparso nel registro di un ospedale.

«La ferita in faccia ha bisogno di qualche punto. Dovrò pensarci io» disse.

Riempì una siringa e mi addormentò la guancia, quindi aspettammo che l’anestesia facesse effetto.

«E Don Alfonso?» domandai.

«Non risponde.»

«Prova ancora.»

«Da stamattina non faccio altro» disse Tómas estraendo il telefonino dalla tasca per digitare nuovamente il numero.

«Devo andare a Madrid.»

«Non oggi» disse il medico mettendosi al lavoro sulla mia guancia indolenzita. Quando ebbe finito applicò un cerotto sui cinque piccoli punti, mi porse un paio di analgesici e una pillola per dormire.

«Lei sembra il tipo che recupera in fretta. Ma ricordi che in questi casi nulla giova quanto il riposo.» Strinse la mano di Tómas, mi rivolse un breve cenno del capo e se ne andò.

La consapevolezza che fosse meglio dar retta al dottore e rimandare la partenza all’indomani mi avviliva. Con un sospiro presi il bicchier d’acqua che Tómas mi porgeva, lo ringraziai, inghiottii le pillole di Martinez e scivolai in un sonno senza sogni.

Al mio risveglio la stanza era avvolta dalla penombra e il mal di testa era sparito. Mi chiesi se fosse il crepuscolo, oppure l’alba del giorno successivo.

Al piano di sotto Tómas dormiva sul divano, completamente vestito. Nel sonno l’espressione indifesa lo faceva sembrare un ragazzo. La cucina era stata pulita, il pannello della porta a vetri sostituito, ogni traccia della visita dei tre ceffi cancellata. Udii i campanacci delle pecore di Arregui e guardai fuori dalla finestra. La luce stava nascendo a est.

Andai al telefono e composi il numero di Don Alfonso. Era libero. Lasciai che squillasse a lungo prima di riattaccare.

Tómas si svegliò nel momento in cui posavo il ricevitore.

«Buon giorno» dissi.

«Ciao, Peter» disse, rizzandosi a sedere. Sorrise e si spettinò i capelli. «Vedo che stai meglio.»

«Cosa vuoi per colazione?»

«Una doccia.»

Non appena fu al piano di sopra cominciai a guardarmi intorno alla ricerca del whiskey. Rovistai in tutti gli armadietti, ma se ne era rimasto dalla notte della rissa Tómas doveva averlo buttato. Mi tremavano leggermente le mani e mi sentivo la gola secca, di una secchezza che l’acqua non sarebbe riuscita a placare. Trovai quattro uova e del prosciutto probabilmente portati da Arregui e mi misi a preparare due omelette. Con un brivido pensai alla forza e alla ferocia di cui il vecchio pastore era capace. Alzai lo sguardo e lo scorsi che risaliva il pendio di fronte a casa insieme alle pecore e ai cani, l’incedere lento e cadenzato come sempre.

Mentre preparavo il caffè, ripensai alle esperienze degli ultimi giorni. Era tardi per tirarsi indietro. Dovevo arrivare in fondo a quella storia e ottenere delle risposte, scoprire perché Amelia e Maria Luisa erano morte.

Adesso che avevo escluso la pista dell’ETA, la valigia era l’unico punto di partenza possibile. Dovevo aprirla — per la prima volta in tanti anni — ed esaminare il suo contenuto, a costo di dissipare l’alone di romanticismo che circondava quei ricordi messi da parte e mai più contemplati.

Finita la doccia, Tómas scese in cucina e insieme facemmo colazione. Gli chiesi notizie dei due irlandesi superstiti, mi disse che apparentemente erano scomparsi da Euskadi senza lasciare traccia. Dopo mangiato fu il mio turno di salire in bagno per una doccia. Quando alzai le braccia per lavarmi i capelli, provai una fitta al torace; poi, davanti allo specchio, fui costretto a radermi con grande cautela, evitando le zone più doloranti del mio viso ancora decisamente malconcio. Ma poco dopo, con il codino a posto e indosso una T-shirt pulita, i jeans e il giubbotto di pelle, ero pronto per andare all’aeroporto e salire sul primo aereo per Madrid. Se mi avesse visto in quello stato, Gloria avrebbe certamente commentato che i lividi e le ferite mi donavano, avvicinandomi all’immagine che avevo sempre sognato di proiettare: quella di un duro, un Indiana Jones reduce di mille avventure. Scoprii di essere sovreccitato e di umore stranamente leggero, quasi che la sbornia, le botte e la lunga dormita mi avessero temporaneamente scrollato di dosso la paura e la malinconia.

Fui fortunato e trovai posto su un volo in partenza poco dopo il nostro arrivo al piccolo aeroporto di San Sebastián.

«Hai un aspetto terribile, ma l’umore è buono. O sbaglio?» chiese Tómas al momento di separarci.

«Non c’è male» ammisi, tendendogli le chiavi della motocicletta. «Fatti un giro. Un po’ d’aria fresca ti farà bene. Verrò a prenderla più avanti.»

«Arregui terrà d’occhio la casa, come sempre.»

«Ringrazialo da parte mia.»

Annuì.

«E grazie anche a te. Grazie… di tutto» dissi incapace di aggiungere altro.

«Farò prendere aria alla tua moto, sta’ tranquillo. Caricherò una ragazza sul sedile posteriore e farò avanti e indietro per le strade di San Sebastián, come quando eravamo giovani.»

Lo abbracciai. La pacca sulla schiena con cui mi salutò mi fece male, e insieme mi fece bene, come la doppia vodka che ordinai non appena l’aereo prese quota e con una lenta virata puntò il muso verso sud, in direzione di Madrid. Il verde delle colline basche, le montagne alte e grigie e le acque verde-azzurre crestate di bianco del Golfo di Biscaglia sparirono sotto le ali dell’apparecchio mentre con mano ferma prendevo il bicchiere che la hostess mi tendeva sorridendo.

A Madrid telefonai a mio suocero, ma la linea era occupata. Maledicendo l’afa e il sudore che già mi incollava la maglietta alla pelle, cercai un taxi e riprovai a chiamare: ancora occupato. Davanti a casa di Don Alfonso era parcheggiata una volante della Policia National. Per un attimo temetti il peggio, ma poi mio suocero apparve sulla porta della veranda insieme a un agente. Se, come credevo, tra i fumi dell’alcol avevo rivelato agli irlandesi che il custode della valigia era lui e qualcuno era venuto fin qui a cercarla, quel qualcuno aveva deciso di risparmiargli la vita. Trassi un sospiro di sollievo.

Pagai il tassista, scesi dall’auto e gli andai incontro. Don Alfonso mi guardò in silenzio qualche secondo prima di tendermi la mano:

«Ti hanno devastato, come hanno fatto con la mia casa» disse facendosi da parte perché entrassi.

Dentro regnava il caos più assoluto. Mobili capovolti, cassetti rovesciati, ante di armadi scardinate, materassi buttati giù dai letti, vestiti, CD, libri, gingilli e foto disseminati sul pavimento.

Un agente della Policia National si aggirava prendendo appunti su un taccuino. Per la polizia era un banale caso di furto, uno delle migliaia che ogni giorno si verificavano a Madrid e dintorni. Sembrava che un uragano avesse spazzato la casa: i “ladri” avevano frugato in ogni angolo con furia distruttiva ed efficienza.

Don Alfonso pareva calmo, ma il pallore della sua sottile pelle di vecchio tradiva una grande stanchezza.

Per fortuna poteva contare su Doña Carmen, che già armata di spazzolone, secchio e straccio stava aspettando che i poliziotti se ne andassero per mettersi all’opera. Data la gravità della situazione, Carmen aveva arruolato due robuste ragazzotte dei dintorni come rinforzi, e adesso quelle, strette nei grembiulini rosa, attendevano impalate un cenno della domestica.

L’agente del taccuino mi si avvicinò e scrutò attentamente il mio viso contuso. È probabile che mi riconoscesse, visto il numero di foto apparse sulla stampa spagnola in seguito al mio arresto e all’esplosione, comunque non osò far domande. Salutò e si avviò alla macchina.

Quando i poliziotti se ne furono andati, Don Alfonso andò a prendere una birra e una Coca dal frigo e si diresse verso la terrazza.

«Preferirei una birra» dissi.

Mi lanciò un’occhiata indecifrabile, ma tornò in cucina e riapparve con una seconda lattina di birra.

Ci sedemmo sotto l’ombrellone. Il caldo era opprimente, ma al contrario di me Don Alfonso non sembrava soffrirne, provato ma come sempre impeccabile in una polo bianca e pantaloni chiari. Erano otto anni che non bevevo birra, e il suo sapore amarognolo fu una sorpresa più che un piacere. Dopo il quarto sorso cominciai ad avvertirne l’effetto: quello sì mi piaceva, anche se mi disprezzavo per la mia debolezza. Senza tralasciare alcun dettaglio raccontai a Don Alfonso gli eventi degli ultimi giorni. Ammisi che per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare ciò che avevo spifferato ai tre bulli; del resto lo stato della sua casa parlava chiaro: dovevo aver fatto il suo nome in relazione alla valigia.

«La vera questione è: come sapevano della sua esistenza?» domandai più a me stesso che a lui.

Don Alfonso si alzò e tornò con altre due birre.

«Con chi hai parlato della valigia?» chiese porgendomene una prima di risedersi.

«Con te, recentemente ho accennato qualcosa a Oscar, Gloria… Nessun altro.»

Don Alfonso parlò a voce bassa.

«Ti inganni, Pedro. Io so della sua esistenza da parecchi anni. Da prima che tu mi chiedessi di custodirla…»

«Impossibile.»

Mi fissò dritto negli occhi:

«Gli ubriaconi hanno pochi segreti» disse.

Sentii che ero sul punto di arrossire come un adolescente colto a sbirciare sotto la gonna dell’insegnante. Aveva ragione. Potevo avergliene parlato da sbronzo. Di una sola cosa potevo esser certo: a nessuno avevo mai rivelato il significato della valigia, la sua funzione di diario intimo, di sacro altare della memoria. Di talismano, quasi, equivalente della zampa di coniglio che si portano in tasca i superstiziosi.

Rammentai l’espressione di Gloria nell’apprendere della mia collezione segreta di negativi, le sue proteste. La sua sorpresa mi era sembrata sincera. E Oscar? Oscar e io passavamo talmente tanto tempo insieme, era improbabile che non gliene avessi parlato almeno una volta nel corso di tutti quegli anni… Eppure no, ne ero sicuro. Chissà in quante occasioni, nel corso di qualche sconnessa chiacchierata notturna innaffiata di whiskey o di vodka, mi ero vantato di possedere una valigia segreta, la mia super-polizza sulla vita. Ma sempre con estranei, conoscenze superficiali, magari donne su cui volevo fare colpo. Mai con Oscar e Gloria. Ci conoscevamo troppo bene perché tra noi fossero ammesse allusioni, reticenze, mezzi segreti. Per questo, fino a quel mattino in ufficio, avevo avuto cura di non parlargliene mai.

E Don Alfonso, davvero lo aveva saputo da me?

«È possibile che in passato, quando facevo politica, qualcuno si sia preso la briga di tenermi d’occhio…» insinuai.

Mi guardò con i suoi occhi intelligenti e tristi ed esitò. Odiava rivelare un segreto.

«Sorvegliavamo chiunque ritenessimo potenzialmente pericoloso.»

«E io ero considerato potenzialmente pericoloso?»

«Come hai detto, facevi politica. Eri di sinistra e frequentavi elementi di sinistra.»

Di colpo capii:

«Fosti tu a farmi seguire! Decidesti di raccogliere informazioni su di me quando la storia con Amelia divenne seria. È così?».

«Feci ciò che un padre responsabile aveva il dovere di fare per il bene della sua unica figlia…»

«E cioè?»

«Avevo il diritto di farmi un’idea del mio futuro genero.»

«Dio mio. Sarai rimasto inorridito. La politica, la mia professione, l’amore per la bottiglia… Non ero certo un modello di virtù, specie dal tuo punto di vista.»

Sorridendo posò la sua bella mano asciutta sulla mia.

«Invece ti dimostrasti un’ottima scelta.»

«Scopristi che ero un ubriacone. Ma non mangiavo i bambini, ero un fotografo di successo, il mio conto in banca era in ottima salute e possedevo una certa valigia…»

«Tutto sommato, trovai che tu fossi all’altezza di Amelia.»

«E se non mi avessi ritenuto degno di entrare a far parte della famiglia?»

Rise.

«In quel caso la mia bambina ti avrebbe sposato lo stesso, forse ancora più volentieri. I vecchi tempi erano finiti da un pezzo.»

«Già» dissi io.

Restammo seduti in silenzio, ciascuno perso nei suoi ricordi.

«L’hanno trovata?» domandai a un tratto, riscuotendomi.

«La valigia? No. Non l’hanno trovata.»

«Dov’è? Dove sono le mie foto?»

«Più tardi» fu la sua risposta.

Dentro casa Doña Carmen aveva acceso l’aspirapolvere e impartiva ordini alle due ragazze.

«Non sono stati i baschi. Di questo sono sicuro. Allora chi è stato? Il ministro? Prima mi fa arrestare, poi spedisce qualcuno a uccidere mia moglie e mia figlia? Non ha senso, eppure…»

Mi interruppi. Alla menzione di Amelia e Maria Luisa, la solita fitta di dolore mi aveva trafitto il cuore. Un’ombra era scivolata sul volto del vecchio.

«È possibile che abbia voluto vendicarsi.»

«Don Alfonso, la Spagna è una nazione moderna. I vecchi tempi sono finiti, lo hai detto tu stesso.»

«Tu sei un fotografo straniero che ha offeso l’onore di un Señor, ha distrutto la sua vita familiare, danneggiato il governo conservatore e umiliato la Spagna.»

«Credi davvero che sia stata una vendetta del ministro? Hai scoperto qualcosa in questi giorni di indagini?»

«All’inizio credevo all’ipotesi di una vendetta ai tuoi danni, ma alla base di quella convinzione c’era solo il bisogno di trovare una spiegazione per la tragedia, non importava quale. Ci ho pensato e ho fatto qualche domanda in giro e adesso so che non è andata così. Le foto del ministro non sono la chiave. Deve esserci dell’altro.»

«Che cosa?»

Mi guardò.

«Sono d’accordo con il tuo amico ex terrorista: la risposta alle nostre domande si trova in una delle tue foto. Abbiamo dato per scontato che la causa di quanto è successo fosse da ricercarsi nel presente, o nel passato recente. Credo che sia stato un errore.»

«Non so che dire.»

«In qualsiasi indagine all’inizio si procede per eliminazione. Tu hai eliminato i terroristi baschi dalla lista dei possibili colpevoli. Io ho eliminato il governo, lo stato.»

«Allora siamo punto e a capo?» domandai scoraggiato.

«Tutt’altro. Siamo arrivati molto lontano in poco tempo.»

Non lo seguivo più e mi limitai a scrollare il capo.

Si alzò, entrò in casa e tornò con una Coca per me, un bicchiere d’acqua per sé e un biglietto azzurro della corrida di Las Ventas. Avrei preferito una birra, ma non osai dire nulla, perché nell’attimo in cui mi porse la bibita vidi riflessi nei suoi occhi quelli di Amelia. Dopo poco mi allungò il biglietto. Era per la domenica successiva, i nomi dei cuadrilla non mi dicevano niente. Da giovane, sull’onda della mia forte passione per Hemingway e per la Spagna, ero stato un frequentatore assiduo della corrida, ma da tanti anni, ormai, quella gara di morte consumata sotto il sole del pomeriggio aveva cessato di esercitare il suo fascino su di me. Amelia aveva sempre sostenuto che fosse un’usanza barbarica e ormai svuotata di qualunque significato.

Don Alfonso disse:

«Al terzo toro il posto accanto al tuo verrà occupato da un signore della tua età. Avrà il supplemento domenicale di “El Pais” in mano. Ascolta quello che ti dirà».

«Chi è?»

«Diciamo che lavora per lo stato, e che un tempo è stato un mio allievo. È in possesso di informazioni che vuole riferire solo a te, informazioni che potranno condurci un passo avanti nelle indagini.»

«Perché tanti misteri?»

«Ha accettato di infrangere le regole per ripagarmi di un vecchio favore. Ha accesso agli archivi dei servizi segreti franchisti. La democrazia decretò che fossero distrutti, ma non fu così, semplicemente divennero inaccessibili a tutti tranne che a una cerchia molto ristretta di persone. Sono l’equivalente collettivo della tua valigia, piena di storie e foto del passato. Molti preferirebbero che nessuno ci ficcasse il naso, temono ciò che potrebbe saltar fuori.»

«Perché?»

«Perché quando il passato non troppo lontano torna a galla, spesso sembra incomprensibile e insensato, visto con gli occhi del presente. Oggi i tempi non sono ancora maturi, ma lascia passare ancora qualche decennio e quegli archivi serviranno a far luce su uno dei periodi più intricati e travagliati della storia della Spagna. Sui dettagli degli accordi segreti che Franco e gli USA siglarono in nome del comune credo anticomunista, sulle ombre della guerra combattuta contro coloro che volevano rovesciare lo stato, sul ruolo del re nel tentato colpo di Stato del 1981, eccetera.»

Per Don Alfonso le informazioni erano un tesoro da spendere con parsimonia: non dovevano diventare patrimonio di tutti, ma circolare solo tra chi frequentava la stanza dei bottoni.

«Dov’è la mia valigia?» gli chiesi.

«Vieni, andiamo in giardino» disse lui, e si alzò.

11

All’interno della serra l’aria era calda e satura di umidità, il profumo dolce dei fiori si mescolava all’odore della terra. Don Alfonso mi indicò una grossa cassa su cui erano allineati i suoi attrezzi da giardinaggio. Liberato il coperchio dagli attrezzi, Don Alfonso lo sollevò e si fece da parte. La mia valigia era lì, accanto a un paio di secchi vuoti e a una pala rotta.

Mi chinai per estrarla dalla cassa e la portai in veranda: era più pesante di quanto ricordassi. Don Alfonso mi chiese se volessi mangiare qualcosa, ma declinai l’invito.

«La porto in banca. Lasciarla qui sarebbe troppo rischioso» dissi.

«Come vuoi.»

«Potrebbero tornare» aggiunsi.

«Sta a te decidere» ma il tono della voce tradiva una punta di delusione.

Chiamai un taxi. Quando arrivò ringraziai Don Alfonso, buttai la valigia sul sedile posteriore insieme alla borsa con i vestiti di ricambio e montai in macchina. Conoscevo il tassista, un catalano tarchiato con la sigaretta perennemente fra le labbra e il vizio di giocare con la radio saltando da un canale sportivo all’altro. Gli chiesi di fermarsi davanti al piccolo supermecado dove spesso avevo fatto la spesa. Comprai una bottiglia di vodka e sei lattine di Coca e rimontai sul taxi. Aprii una Coca, ne bevvi metà e poi riempii la lattina di vodka. L’autista seguì l’operazione nello specchietto, ma non fece commenti. Del resto che avrebbe potuto dire? Sapeva che lo avrei pagato e che gli avrei lasciato una mancia generosa. Se avevo voglia di mischiare Coca e vodka nel suo taxi, erano affari miei. Presi il cellulare, chiamai l’ufficio e chiesi di Oscar, ma la segretaria mi disse che era andato a giocare a golf. Decisi di raggiungerlo al Golf Club e diedi l’indirizzo all’autista, che annuì con un’occhiata compiaciuta al tassametro ticchettante. Cominciavo a sentire l’effetto della vodka, la cosa mi suscitava rabbia e insieme mi lasciava indifferente.

Negli ultimi dieci anni, in Spagna il golf era diventato sempre più di moda, e nuovi campi erano spuntati un po’ ovunque. Oscar si era iscritto a uno dei club più prestigiosi, sorto nell’area di un ex tenuta vinicola.

Il maniero della tenuta adesso ospitava il bar ristorante del club. Le tegole giallo-brune del tetto splendevano nel sole del tardo pomeriggio. La terrazza era gremita di persone, sedute nelle poltroncine di vimini sotto ombrelloni variopinti. Prendevano l’aperitivo dopo aver giocato, eleganti nelle polo chiare, i berretti e i pantaloni a scacchi.

Chiesi al tassista di aspettare. Con lui la valigia e la borsa sarebbero state al sicuro. Aveva il giornale della sera, le sigarette e la radio a cui dedicarsi, e mi promise che non sarebbe sceso dalla macchina. Andai in terrazza a cercare Oscar, ma non lo vidi. Il suo cellulare era spento, rispondeva la segreteria. Mi aveva spiegato che tenere il telefonino acceso durante una partita era contrario all’etichetta, perciò conclusi che stesse ancora giocando. Chiesi a un cameriere dove fossero le ultime buche, quello mi squadrò, disapprovando la mia faccia malconcia e la tenuta inadatta, e indicò una bandierina a qualche decina di metri di distanza. Vuotai la lattina di Coca, la gettai in un cestino e mi incamminai. Il campo si stendeva ondulato e artificiale nel suo verde troppo verde, un grande parco giochi per adulti-bambini viziati.

Mi fermai tra i cipressi poco lontano dalla bandierina che segnalava la diciottesima buca. Oscar apparve dopo qualche minuto insieme a due uomini, ognuno armato di carrello e sacca portabastoni. Si fermarono. Scorsi la palla di Oscar, bianchissima sul folto tappeto erboso. Prese un ferro dalla sacca, si avvicinò alla palla e fece un paio di rotazioni. Durante i nostri viaggi, mi ero spesso divertito a fargli da caddie quando lui si concedeva un po’ di tempo per giocare. Camminare al suo fianco nel paesaggio vagamente irreale del campo da golf mi rilassava, anche se Oscar era un giocatore irascibile, che aggrediva la palla quasi fosse un serpente pericoloso. Anche quella volta la colpì troppo forte, e la palla volò oltre la bandierina per rotolare fin quasi ai miei piedi. Raccolsi la palla e lo osservai inoltrarsi tra i cipressi scrutando per terra: non mi aveva visto.

«Stai forse cercando questa, Oscar?» domandai tendendogli la pallina.

«Fanculo, Lime!» fece lui. «Lo sai che non devi toccare la palla.»

La feci cadere ai suoi piedi.

«Prendila da lì» gridò uno dei suoi compagni.

Oscar mi scrutò.

«Sei conciato da far schifo» disse.

«Ho avuto qualche problemuccio.»

«Hai ricominciato a bere Coca Cola corretta, eh, Peter?» Mi conosceva bene.

«C’è qualcosa che devo chiederti» dissi.

«Gloria ti ammazzerà quando lo saprà.»

«Non ti ruberò molto tempo» aggiunsi.

«Non hai bisogno di prendere appuntamenti con me, lo sai» ribatté. «Ci faremo un drink come ai vecchi tempi.»

«Perfetto» sorrisi.

«Anche se poi Gloria ci farà pentire di aver ceduto alla tentazione.» Si voltò, si mise in posizione e senza rotazioni di prova colpì la palla con insolita disinvoltura. Quella descrisse un arco elegante e andò a fermarsi ad appena un metro dalla buca. Mi guardò con aria soddisfatta e s’incamminò verso i suoi compagni.

Dopo aver contato e controllato i punteggi e firmato il segnapunti, Oscar si accomiatò dai due amici. Andammo a sederci a un tavolo in fondo alla terrazza, da dove si godeva un’ampia vista del campo che il sole tingeva già di rosso. Arrivò il cameriere, e Oscar mi guardò con aria interrogativa:

«Due gin and tonic» ordinai.

«Allora fai sul serio» disse lui.

«Sono fatti miei» risposi.

«Okay, Peter. Sei grande e vaccinato. Piuttosto, chi ti ha ridotto così?»

Gli raccontai per sommi capi ciò che mi era successo. Intanto assaporavo il mio drink fresco e frizzante e la familiare sensazione di calma che, con ogni sorso, avvolgeva un altro pezzetto della mia mente. Smettere di bere era difficile, ricominciare terribilmente facile. Oscar ascoltò interrompendomi soltanto per manifestare il suo apprezzamento per il coraggio dimostrato dal nostro comune amico Tómas.

A racconto finito mi ammonì:

«Te l’ho già detto, devi smetterla di giocare al detective dilettante. Rimettiti a lavorare. Ascolta la tua voce interiore. Fai ciò che Amelia avrebbe desiderato che facessi, trova la forza di ricominciare, di vivere la tua vita e di fare quello che sai fare: scattare fotografie».

Sicuramente aveva ragione, ma questo non rendeva le cose più facili.

«Mi mancano da morire, Oscar» dissi.

«Mancano anche a noi. E ci manchi tu, Peter. Amelia e Maria Luisa non torneranno. Il lavoro ti aiuterà a superare questo momento. Vieni in ufficio, ricomincia a viaggiare.»

«Prima devo sistemare una faccenda. Tornerò alla fine dell’estate.»

«Okay. Manca meno di un mese ormai, ancora qualche giorno e chiuderemo l’agenzia. Fa troppo caldo e sono partiti tutti. Ma dopo le vacanze voglio vederti in pista.»

Rimanemmo seduti in silenzio per un po’. Il frinire delle cicale si mescolava all’animato chiacchierio degli altri avventori.

«Ti ho mai parlato della mia valigia, una valigia segreta piena di foto?» gli chiesi infine.

«Hai accennato qualcosa l’altro giorno. Gloria mi ha spiegato che ci hai nascosto alcune stampe e tutti i tuoi negativi migliori. Ha detto che è un bene, perché così facendo hai impedito che immagini molto belle andassero perse per sempre, ma che dal punto di vista della causa di risarcimento è una complicazione. Ha intenzione di spremere la compagnia d’assicurazioni fino all’ultima peseta, sai come è fatta Gloria.»

«Io te ne avevo mai parlato?»

«Mi stai chiedendo se te lo sei lasciato sfuggire, magari sotto l’effetto di una bella sbronza? È questo che vuoi sapere?» domandò.

«Esattamente.»

Si sporse verso di me.

«No, ne ho sentito parlare per la prima volta l’altro giorno. In qualche occasione menzionasti una cassa di vecchie foto che tenevi in soffitta, ma pensai che fossero foto di famiglia. Del resto non mi stupisce che tu abbia pensato alla valigia, sei sempre stato maledettamente attento, puntiglioso e ordinato quando si tratta di lavoro. Anche quando la tua vita era un caos totale, selezionavi, ordinavi e catalogavi sempre le foto nel tuo bell’archivio. Perché me lo domandi?»

«Credo che la ragione della morte di Amelia e Maria Luisa sia nascosta nella valigia.»

«Perché vuoi continuare a tormentarti? Lascia perdere. Hai ancora molti anni davanti a te, Gloria e io non sopportiamo di vederti così infelice.»

«Sei un buon amico, Oscar.»

«E allora dammi retta, accidenti!»

«Ti darò retta dopo l’estate.»

Dalla sua espressione sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi ci ripensò e si abbandonò contro lo schienale della sedia.

«Conosci la ragazza della foto, vero?, quella con la chitarra?» Fui il primo a stupirmi della mia domanda, poiché non sapevo da quale associazione fosse scaturita: forse era l’alcol a rendere più fluidi pensieri e intuizioni.

Oscar mi parve sorpreso poi fissò su di me uno sguardo contrariato.

«Quale ragazza?»

«E piantala, Oscar.»

«Ho l’impressione d’averla vista prima, ma non riesco a fare mente locale. Sono passati trent’anni.»

«Perché non mi hai detto subito che la conoscevi?»

«Non ne ero sicuro.»

«Però la conoscevi.»

«Credo di sì. Oppure mi ricorda qualcuno. A quel tempo le donne erano tutte uguali, niente trucco e ascelle pelose.»

«Che caso! Prima di incontrarci entrambi abbiamo conosciuto quella donna, non ti pare strano?»

«No. Noi rivoluzionari credevamo di essere la maggioranza, invece eravamo una minoranza, le stesse facce spuntavano a tutte le manifestazioni, le assemblee e compagnia bella. Il nostro incontro non fu frutto solo del caso, lavoravamo tutti e due per la stampa, frequentavamo gli stessi ambienti. Sarebbe stato più strano se non ci fossimo conosciuti.»

C’era del vero in quello che aveva detto. A Madrid negli anni Settanta era facile imbattersi in giovani volti già incrociati in giro per l’Europa. Studenti italiani e francesi, rivoluzionari della Germania dell’Ovest, danesi avventurosi come me, disertori americani del Vietnam: appartenevamo tutti alla stessa tribù, mobile ma in fondo ristretta.

«Conoscevi anche l’uomo della foto?» gli domandai.

Lui scosse la testa e vuotò il bicchiere.

«Non l’ho mai visto» disse, e gli credetti.

Oscar guardò l’orologio e mi offrì un passaggio in centro, dove avremmo potuto andare a cena fuori insieme a Gloria. Gli risposi che preferivo rimanere un altro po’. Si allontanò salutando gente a destra e a manca mentre ordinavo un altro gin tonic. Finito il drink, tornai al taxi e mi feci portare all’Hotel Inglés in Calle Echégaray, all’angolo di Plaza Santa Ana. Scegliere un albergo a pochi passi dal luogo dell’esplosione costituiva certamente una decisione masochistica. Ma dell’Inglés apprezzavo la conduzione familiare, la discrezione, le grandi stanze. La camera era una doppia, ma me la diedero al prezzo di una singola, perché in passato avevo spesso indirizzato qui chi voleva trascorrere un paio di giorni piacevoli a Madrid a un prezzo abbordabile. Carlos, della reception, mi conosceva, e non volle vedere i documenti. Oltre al letto matrimoniale, nella stanza c’erano un tavolo, una sedia dallo schienale alto, un mini-bar, un telefono e un televisore. Le pareti, coperte di carta da parati sbiadita, erano decorate con riproduzioni di incisioni di Goya e Picasso, raffiguranti la sabbia insanguinata dell’arena. Il bagno era pulito e grande come quelli di una volta, con una vasca rosa.

Sistemai la valigia dietro la porta e buttai la borsa sul letto. Pensai con soddisfazione che nessuno sapeva dove fossi. Scesi in strada e mi diressi verso l’istituto di karate, pochi metri più in là, in fondo alla Calle. Mi rendevo conto di rinviare l’esame delle mie foto, ma sentivo di avere bisogno della compagnia del vecchio Suzuki, del tocco consolatorio delle sue mani.

Nello spogliatoio della palestra mi chinai a togliermi le scarpe e rialzandomi mi trovai di fronte il figlio più piccolo di Suzuki.

«Mio padre ti ha aspettato, Lime-san» disse nel suo ineccepibile spagnolo.

Lo salutai e proseguii il processo di svestizione, fermandomi ad ammirare le sfumature gialle e violacee dei lividi che avevo sul petto e sul fianco.

Feci una doccia, mi avvolsi in un asciugamano e mi distesi sul lettino nella stanzetta più interna dell’edificio. Nella sala grande alcuni allievi si stavano allenando, si udivano tonfi, grida in giapponese e il sibilare dei piedi nudi nell’attacco.

Suzuki entrò avvolto nel suo kimono bianco. Fece un inchino e io mi alzai per ricambiare rispettosamente il saluto. Era piccolo e muscoloso, vicino ai settanta, molto ben portati. I capelli, cortissimi, erano ancora di un nero scintillante.

«Benvenuto, Lime-san» disse. «Distenditi e trova pace nella tua anima. Ho saputo della tua disgrazia e leggo il dolore nei tuoi occhi.»

Mi distesi a pancia in giù, e sentii le sue dita allo stesso tempo forti e delicate iniziare il loro magico viaggio lungo il mio corpo. Stringeva, premeva, massaggiava e accarezzava, dai piedi su fino al collo. Sapeva come snidare il dolore fisico e psichico, che pian piano si concentrava in un unico nodo all’altezza della nuca. Poi, magicamente, sciolse quel nodo lavorandomi il collo con entrambe le mani.

«Hai di nuovo riempito il tuo corpo di veleni, Lime-san» disse. «Hai riempito la tua anima di pensieri negativi. Devi smettere di maltrattarti. Devi ritrovare l’essenza più riposta della tua anima, trovare un nuovo centro.»

Le sue parole erano benefiche quanto i suoi massaggi. Aveva una voce profonda e dal forte accento, rilassante. Quando ero triste, stanco o nervoso Suzuki riusciva infallibilmente a farmi scivolare in un’oscurità piacevole, dove non esistevano dolore né gioia, solo il vuoto. Era meglio delle pillole. E per molti anni era stato meglio dell’alcol. Suzuki mi lasciò dormire per un’ora, poi mi svegliò e mi offrì una tazza di tè forte e molto zuccherato. Domandai come andassero la vita e gli affari. Suzuki era soddisfatto: l’istituto prosperava e da poco gli era nata una splendida nipotina. Mi rivestii e fui accompagnato alla porta, dove ci scambiammo altri inchini. Uscii sentendomi tonificato, temporaneamente riconciliato con la vita. Sapevo che l’effetto non sarebbe durato, ma almeno mi avrebbe aiutato ad affrontare la valigia e i ricordi dolorosi che conteneva.

12

Trascorsi due giorni e due notti chiuso nella camera d’albergo, con il cellulare spento, a pensare alla mia vita sforzandomi di metterne a fuoco i momenti cruciali. La serenità dell’infanzia al riparo di una famiglia amorevole, la giovinezza inquieta e turbolenta, la maturità. La tragedia.

Ero solo. Potevo ridere, piangere, passeggiare nudo per la stanza, mangiare e bere quando ne avevo voglia. Potevo decidere di non lavarmi. Non era necessario che mi facessi la barba. I rumori della Calle entravano dalla finestra aperta, ma io rovistavo nella valigia e ascoltavo solo me stesso. Tra gli appunti, i vecchi taccuini, i mezzi diari e le foto accumulate in quarant’anni passati con la macchina fotografica in mano, cercavo parole e immagini capaci di evocare piccole, vibranti eco del passato.

Con qualche eccezione, le foto e gli appunti erano sistemati in ordine cronologico. I miei genitori da giovani davanti alla loro prima Volkswagen; mia madre che stendeva il bucato in una limpida giornata invernale; i pescatori a carnevale, truccati da pagliacci, che cercavano di baciare le ragazze. La dodicenne Malene in costume da bagno sulla spiaggia, e, qualche anno più tardi, nuda sulla stessa spiaggia in un giorno pieno di sole. Una foto di Oscar e Gloria, vestiti di bianco e allacciati l’uno all’altra a Pamplona, alla Feria di San Fermín; Gloria con capelli simili a una spuma selvaggia, Oscar con il viso seminascosto da una folta barba da vichingo. Un’immagine del 1971: io in mezzo a uno sguaiato gruppo di colleghi davanti a un ristorante di Kensington. Tutti ridevano e scherzavano atteggiando il viso in buffe smorfie. I capelli erano lunghi o tagliati a caschetto, indossavamo giubbotti di pelle e molti avevano una cicca fra le labbra. Le macchine fotografiche pendevano sui nostri petti come talismani di una tribù esotica. Stavamo aspettando che John Lennon e Yoko Ono uscissero dal ristorante alla moda in cui stavano pranzando.

Poi c’era Amelia davanti alla fontana di Plaza Cibeles a Madrid; il suo bel viso contratto dal dolore durante il parto, la testina nera di Maria Luisa che affiorava tra le sue gambe sudate. Amelia e Maria Luisa nude su una caletta nei pressi di San Sebastián. E la loro ultima foto, quella in cui sedevano su una panchina a spezzettare pane secco per i piccioni.

Tutto questo apparteneva al passato. A un tratto mi sentivo vecchio.

La presenza di Amelia e Maria Luisa, il loro amore, erano stati il mio antidoto contro ogni paura. Ma adesso, con le mie foto in mano, contemplavo i mutamenti, poi il progressivo declino del mio corpo e mi pareva di udire i battiti affaticati del mio cuore. Provai a calcolare quante volte quel muscolo si fosse contratto nel corso dei miei cinquant’anni e fui colto da un senso di vertigine. Per la prima volta in tanti anni la prospettiva della morte mi atterriva.

Misi da parte le foto personali e mi ritrovai in mano l’immagine di Lola, la ragazza con i capelli alla Marianne Faithful, e dell’uomo alle sue spalle.

Clara Hoffmann dei servizi segreti me l’aveva mostrata al tavolino della Cervecería Alemana e da allora la mia vita non era più stata la stessa. Posai la foto sul pavimento, di fronte a me, e continuai a scartabellare. C’era un’altra foto, questa volta a colori, risalente allo stesso periodo. Lola Nielsen nel soggiorno della comune di Bogense, insieme a tre ragazzi barbuti più una donna di cui non ricordavo il nome. Erano seduti attorno a un basso tavolino su cui stavano due grandi posacenere di ceramica e una pipetta da hashish. Sulla parete campeggiava un poster del Che. Poltrone e divano sembravano di quarta mano. Lola aveva la chitarra in braccio, gli uomini la guardavano. I capelli biondi le ricadevano sul viso.

Uno degli uomini era Ernst Strauss, di Berlino Est, arrivato alla comune all’inizio dell’estate insieme a due amici tedeschi. Erano rimasti un paio di mesi.

Rammentavo i loro discorsi sull’impossibilità di un rovesciamento incruento della società capitalista e sulla rivoluzione imminente.

Ernst, ricordai, era nato a Halle. Una volta gli avevo domandato se avesse scavalcato il Muro, ma la sua risposta era stata evasiva.

Molti membri delle comuni danesi condividevano la visione radicale di Ernst e compagni, altri rifiutavano l’uso della violenza. Nell’ambiente le discussioni spesso si facevano accese. Ma sia io che Lola preferivamo restare ai margini del dibattito. A lei interessavano soprattutto le sue conquiste e la carriera di cantautrice, io pensavo alle mie foto, alla donna di turno e a farmi le canne. Conoscevo tutti gli slogan rivoluzionari allora tanto di moda, senza crederci fino in fondo.

Le foto stimolavano il flusso dei ricordi. Ripensai alla raccolta delle fragole, cui tutti partecipavamo per guadagnare qualche soldo. Ci alzavamo verso le quattro di mattina e in bicicletta raggiungevamo il luogo dove un trattore ci aspettava per portarci fino al campo di turno. Mi sembrava di sentire l’odore di terra bagnata, il sapore dolce dei frutti maturi, la brezza salata che si levava dal mare non lontano.

Di colpo mi venne in mente un episodio a cui non avevo più ripensato.

Una mattina mi ero svegliato prima dell’alba per andare nei campi di fragole. Avevo trascorso la notte con Lola, che come al solito aveva preferito restare a dormire. Benché si atteggiasse da femminista, Lola si aspettava che fossero i suoi uomini a badare a lei economicamente e rifuggiva da ogni forma di fatica. Ero appena uscito dalla stanza che occupava all’ultimo piano della comune, quando nella penombra mi parve di vedere qualcuno che si affrettasse giù per le scale. La gente andava e veniva abbastanza liberamente nei locali di quella grande ex fattoria, e spesso capitava di imbattersi in sconosciuti in corridoio o in uno degli spazi comuni.

Ero sceso in cucina per fare colazione insieme agli altri raccoglitori, ma scoprii di essermi alzato troppo tardi: erano già andati via. Ernst e una donna erano in piedi accanto al lavandino. Lei reggeva una tazza di tè e parlava in tedesco, sottovoce ma con fervore. Ernst ascoltava concentrato e teso. Al mio «buon giorno» la donna ebbe un sussulto e si voltò dall’altra parte, Ernst mi fulminò con lo sguardo, ordinandomi di sparire. Sorpreso e irritato dalla durezza di quel comando, decisi di fare finta di nulla. Mi versai una tazza di caffè e mi preparai una fetta di pane con burro e formaggio: la cucina era anche mia. La donna continuava a darmi le spalle. La maglietta indossata sui jeans slavati rivelava una bella schiena, un po’ esile. I capelli corti erano tagliati pari. Nell’attimo in cui voltò la testa, il suo viso mi parve pallido e teso, senza trucco, gli occhi stranamente ardenti e intensi. Quando uscii sull’aia a fare colazione e a fumare una cicca nella prima luce dell’alba, i due rimasero dov’erano.

Quella sera avevo visto Ernst sul prato dietro la fattoria, in adorante contemplazione di Lola che camminava nel crepuscolo tenendo per mano una bimba di tre anni. Sapevo che Lola ed Ernst erano stati a letto insieme in più di un’occasione, ma non m’importava. Lola era bella, mi piacevano il suo corpo, i suoi gesti lenti e sensuali nel fare l’amore, ma non l’amavo. Comunque non abbastanza da essere geloso. Per Ernst le cose stavano diversamente.

Mi ero avvicinato e gli avevo chiesto chi fosse la ragazza di quella mattina.

Mi aveva rivolto un’occhiata colma d’irritazione: lo spettacolo di Lola nella splendida sera danese non ammetteva interferenze.

Scherzando avevo commentato che in ogni caso la sua donna misteriosa non poteva essere bella quanto Lola. Lui si era voltato di scatto, sibilando che non erano affari miei, che avrei fatto meglio a dimenticare quella donna. Si era allontanato in fretta, e non lo avevo mai più rivisto. Era sparito. Non potevo escludere che lui o la donna della cucina fossero tornati alla comune quell’estate o in seguito, perché una settimana dopo la scena sul prato avevo preparato lo zaino ed ero partito in autostop per Copenaghen.

Solo un paio d’anni più tardi, in Germania, avevo potuto associare un nome all’amica di Ernst, il cui volto appariva accanto a quello di Ulrike Meinhof su un manifesto che spiegava che erano terroriste ricercate per omicidio, sequestro di persona e rapina. L’esperienza della comune nei pressi di Bogense aveva sparso anche semi nefasti. La maggior parte, per fortuna, non aveva attecchito, ma alcuni avevano messo radici e fatto germinare frutti fatali.

Tornai a osservare la foto scattata nel soggiorno della comune, e a un tratto riconobbi il ragazzo nell’angolo a sinistra: era Karsten Svogerslev, attuale deputato al parlamento danese. Faceva parte di un raggruppamento che raccoglieva i rappresentanti della sinistra radicale: vecchi comunisti, anarchici, e trotzkisti. Svogerslev era dunque uno dei pochi a non aver rinnegato il passato alla fine degli anni Settanta.

Riandai con la mente alla notte precedente la mia partenza dalla comune. La stanza di Lola aveva il soffitto spiovente e spazio sufficiente solo per un letto matrimoniale e delle vecchie casse da birra dipinte che le facevano da armadio. Le pareti erano bianche, con l’unica decorazione della sua chitarra appesa a un chiodo. Faceva caldo. Eravamo nudi, avevamo fumato dell’erba e fatto l’amore. Lei, distesa su un fianco, con un dito tracciava figure astratte sul mio petto. Il pensiero della partenza evocava in me un misto di eccitazione e malinconia. Ma dovevo partire; ero giovane, pieno di appetiti e volevo una vita da nomade. Ero un promettente fotografo, e le fotografie si potevano fare e vendere ovunque.

Prima della comune avevo lavorato per sei mesi da un carrozziere, poi, dopo l’anno di militare, come sterratore e betoniere. Così avevo messo da parte un gruzzoletto che mi avrebbe consentito di viaggiare.

Quell’ultima notte, anzi, quel mattino, quando la luce cominciava ormai a spuntare all’orizzonte, avevo fotografato Lola. Ricordavo un’immagine di lei seduta sul letto, nuda, con le braccia alzate nell’atto di raccogliersi i capelli sulla nuca. Ma evidentemente non l’avevo conservata, perché nella valigia non c’era.

«Da dove vieni, Lola?» le avevo chiesto.

«Da nessun posto.»

«Tutti veniamo da qualche posto, e siamo tutti diretti da qualche parte».

«Sono cresciuta a Vordingborg, in casa di un ufficiale dell’esercito, ma sono di origini inglesi. Sono stata adottata. La mia famiglia era nobile e rimase coinvolta in un grosso scandalo…»

Si divertiva a creare per sé ruoli, volti e identità sempre nuove, senza curarsi delle contraddizioni in cui continuamente cadeva. Sembrava credere davvero a ciò che inventava, ma solo fino alla storia successiva. Qualcuno mi aveva raccontato di aver saputo che era figlia di una ragazza madre di Copenaghen che si era rovinata con l’alcol, ma a Ernst aveva detto di essere la maggiore di sei figli cresciuti in una piccola fattoria sulla costa occidentale dello Jutland.

Non l’avevo contraddetta. Lei mi aveva baciato sul petto e accarezzato con la lingua, poi più in basso, con le dita, finché di nuovo avevo sentito il desiderio crescere tra le sue mani.

Poi aveva detto:

«Tu sei bravo in tante cose. Sei un amante favoloso, sei un fotografo favoloso, sei un seduttore. E un bugiardo. Sei proprio sicuro di voler partire oggi?».

Con dolcezza ero entrato dentro di lei.

«Peter. Sedurre è l’unica cosa che so fare, il mio unico talento. Di solito riesco a ottenere che gli uomini facciano quello che voglio. Perché con te non funziona?»

Potevo udire la sua voce pronunciare quella frase, quasi che Lola fosse distesa sul letto dell’Hotel Inglés. La concretezza di quel ricordo mi turbò. Come in trance, sentivo che la linea fra il passato e il presente andava sfumando.

Vidi me stesso lasciare la fattoria con lo zaino in spalla per incamminarmi lungo il viottolo di campagna che portava alla statale. Avevo addosso l’odore di Lola. Era una splendida mattina d’estate.

La marijuana e la sensazione di completa libertà mi davano alla testa. Il futuro era uno scrigno di possibilità, il mio giovane corpo uno strumento magnifico e invulnerabile.

Non credo di essere mai stato, né prima né dopo, felice quanto in quei momenti.

13

Quella domenica scesi dal taxi davanti a Las Ventas un po’ prima delle cinque. La mattina avevo dormito fino a tardi tra le lenzuola sudate e attorcigliate, protetto dal cartello Do Not Disturb appeso alla maniglia esterna della porta della mia camera. Mi ero svegliato, lucido sebbene un po’ dolorante. Avevo messo in ordine, chiuso la valigia, mi ero fatto la doccia ed ero sceso al ristorante per consumare il primo abbondante pasto in diversi giorni. Poi ero andato da Suzuki per uno dei suoi miracolosi massaggi. Il vecchio aveva detto che respiravo meglio; riusciva a percepire i contorni del mio wa, l’equilibrio di corpo e psiche. In effetti mi sentivo rinfrancato, quasi che le ore trascorse con la valigia dei ricordi avessero avuto un effetto catartico. Il bisogno di bere non era svanito, ma almeno per il momento stava rintanato in un angolo remoto del mio cervello. Sul taxi diretto all’arena avevo acceso il cellulare. La segreteria traboccava di messaggi di Oscar e di Gloria, preoccupati perché non riuscivano a mettersi in contatto con me. L’ultimo messaggio lo avevano lasciato insieme. Erano in partenza, Gloria per Londra, Oscar per l’Irlanda; avrebbero portato con sé i rispettivi cellulari e si aspettavano che mi facessi vivo.

Davanti all’ingresso di Las Ventas c’era la solita ressa, un caos di auto strombazzanti, turisti, bagarini, bancarelle e aficionados scalpitanti invano contrastati da vigili armati di fischietto. I miei sensi erano desti come se mi fossi svegliato da un lungo letargo; per la prima volta dalla morte di Amelia e Maria Luisa riuscivo a sentire la vita che pulsava tutt’intorno a me.

La folla cominciava a entrare. Dalla conversazione di due appassionati appresi che uno dei toreri era un giovane e promettente andaluso. I tori, particolarmente grossi e forti venivano dall’allevamento di Miura, vicino a Siviglia.

Raggiunsi il mio posto e sistemai sul cemento il cuscinetto marrone che avevo preso in affitto all’entrata. L’arena si stendeva rossa e cocente sotto il sole del pomeriggio.

Il biglietto di Don Alfonso era di quelli più costosi, avevo un posto in quarta fila nella parte in ombra, proprio sotto il presidente, incaricato di arbitrare la corrida del giorno. Le tribune si riempirono a poco a poco, ma i posti accanto al mio — due sul lato destro e uno a sinistra — erano ancora liberi. Il fumo delle sigarette e il brusio delle voci si levavano verso il cielo azzurro di Madrid, dall’arena saliva l’odore degli animali misto a quello della sabbia e del legno.

Davanti a me quattro uomini discutevano animatamente dei tori; erano degli intenditori, e non avrebbero prestato attenzione a nulla che non riguardasse la corrida. Alle mie spalle sedevano quattro turiste americane, indignate per l’assenza di una sezione non-fumatori nonostante fossimo all’aperto. Tutte e quattro concordavano sul fatto che l’Europa puzzasse terribilmente.

Comprai una Coca e un sacchetto di noccioline da un venditore e mi preparai a godermi lo spettacolo.

Uno squillo di tromba diede il via alla corrida. I tre toreri con le loro cuadrilla sfilarono nell’arena per andare a salutare il presidente. Si fecero il segno della croce, l’orchestra attaccò il paso doble, e quelli si avviarono sulla sabbia per dare inizio all’antichissima partita con la morte.

Il primo toro si precipitò fuori del suo recinto a testa alta. Esitò, momentaneamente sopraffatto dalla folla, dagli odori e dal chiasso. Poi scorse il banderillero, che era uscito da dietro la barriera con la grossa cappa rosso-arancio per permettere al torero di osservare l’avversario e individuare i suoi punti deboli e di forza. Il toro scalpitò, scosse la testa e muggì, e il pubblico si mise a fischiare. Il fatto che il toro marcasse il proprio territorio invece di lanciarsi all’assalto senza indugi era un chiaro segno di vigliaccheria.

Agitando la cappa, l’aiutante fece partire l’animale, allora il matador si fece avanti per dare inizio all’agone. Scosse un paio di volte la cappa, e il grosso animale nero caricò con decisione e prontezza, ma il torero lo fece girare intorno a sé in un paio di bellissime veroniche. Al terzo tentativo il toro cadde sulle zampe anteriori, e un sibilo di delusione serpeggiò fra gli spettatori. Zampe fiacche: il punto debole di molti tori da combattimento spagnoli di oggi. A un segnale dell’orchestra i cavalli entrarono veloci. Sembravano strani animali preistorici con la pancia e i fianchi così coperti da una spessa protezione e il paraocchi. Il picador si sporse verso il toro non appena il torero con un abile movimento del polso ebbe indotto l’animale ad allontanarsi dalla cappa e a pararsi di fronte al cavallo. Il toro caricò immediatamente, la picca gli penetrò nel dorso e il sangue prese a colare copioso. L’animale reagì, spingendo il massiccio cavallo contro la barriera di legno. Fu colpito ancora una volta dalla picca, poi il presidente cedette agli assordanti fischi del pubblico impaziente. Immobile al centro dell’arena, il toro sanguinava e ansimava.

Gli spettatori applaudirono quando il torero salutò personalmente il pubblico con le banderille, le piccole e tozze lance multicolori. Voleva piantarle di persona anziché, come avveniva talvolta, lasciare quel compito a uno degli aiutanti. Corse in linea diagonale verso il toro, che, scorgendolo, a sua volta si mise a correre; per un istante fu come se uomo e animale si fondessero, poi il torero spiccò un balzo e con una breve giravolta conficcò le banderille nel dorso della bestia. Il toro tentò di scrollarsele di dosso, tra gli applausi del pubblico.

Il successivo paio di banderille fu conficcato con la stessa impeccabile eleganza, mentre il terzo cadde quando il toro si abbassò sulle zampe ormai malferme.

Solo e sanguinante in mezzo all’arena, il toro aspettava il suo destino. Il torero bevve un goccio d’acqua, si fece il segno della croce e prese la cappa rossa — la muleta — infilando il suo leggero spadino nel drappo in modo da tenderlo. Sotto la carnagione olivastra, il viso del torero era pallido e i suoi occhi scuri erano pieni di paura, ma salutò con fierezza quando si tolse il copricapo e lo lanciò a una donna un paio di file più in là, dedicandole così il toro. Scattai qualche foto veloce con la Leica. Ero dispiaciuto di non avere un teleobbiettivo. La cosa che più mi sarebbe piaciuto catturare era la nuda paura del suo volto, la qualità del suo sguardo. Erano le prime foto che scattavo dopo la morte di Amelia e Maria Luisa, e avevo alzato la macchina fotografica, messo a fuoco e valutato la luce e la distanza con la mia abituale sicurezza, quasi automaticamente. Era una bella sensazione, accorgermi che tornavo ad agire e reagire al mondo circostante, che ricominciavo a fare ciò che da sempre sapevo e volevo fare: fissare l’istante.

Il torero era meno giovane di quanto mi fosse apparso in un primo momento. Aveva un corpo esile da ragazzo nell’aderente costume rosso-arancio, ma il suo viso era segnato.

Avanzò sulla sabbia per affrontare da solo il toro, la cui furia e scaltrezza, lo sapeva, toccavano il culmine proprio in quel momento. Aveva piantato le banderille da sé per vincere la paura, ma adesso quella stessa paura lo aspettava, centuplicata, al centro dell’arena: adesso veniva il bello. Attirò il toro verso la barriera in modo da trovarsi vicino agli aiutanti in caso qualcosa fosse andato storto. Il toro alzava a scatti il corno sinistro, abbassandosi sulle zampe quando l’uomo cercava di farlo girare dietro alla cappa. Dopo diversi inutili tentativi di indurre l’animale a caricare, il torero impugnò la spada, si mise in posizione e lo uccise. Salutò il pubblico deluso, fece un inchino alla sua donna e al presidente e uscì. Scene da una domenica pomeriggio spagnola come tante. Una volta superata la fascinazione per la morte in sé, i colori dei costumi, la mistica della rappresentazione con il suo elaborato rituale estetico raramente riservavano grandi emozioni.

Dal venditore comprai prima un cognac e poi una birra, che bevvi mentre il secondo toro veniva ucciso senza troppe variazioni. L’animale era più in forma del primo, in compenso il torero si meritò diverse ondate di fischi lasciando che il suo picador rovinasse la bestia costringendola a inginocchiarsi nella faena finale. Presi un altro cognac. Quando risuonò lo squillo di tromba che annunciava il terzo toro, un uomo venne a sedersi nel posto alla mia sinistra. Aveva sottobraccio il supplemento domenicale di «El Pais».

«Buenas tardes, Señor Lime» disse.

«Buenas tardes» risposi.

Era piuttosto basso, portava i capelli neri pettinati all’indietro a scoprire una fronte sfuggente, e un paio di esili baffetti sopra la piccola bocca. Indossava un completo chiaro e una cravatta annodata con cura. Accese un grosso sigaro cubano.

«Si sta godendo la nostra fiesta brava?» domandò. Aveva una voce aspra e parlava senza quasi muovere labbra, come se temesse che qualcuno potesse leggergliele.

«Non in modo particolare. I tori cascano a pezzi, per dirla senza mezzi termini, e i toreri sembrano più interessati al loro conto in banca che alla loro arte.»

«La stessa severità di giudizio si potrebbe applicare a molti altri aspetti dell’epoca in cui viviamo. La gente ha in mente solo il profitto e nessuno pensa più all’arte o alle tradizioni che sono la vera grandezza della Spagna. Ma questo lei lo sa benissimo. Don Alfonso mi ha detto che lei conosce, comprende e ama il nostro paese.»

«È vero» dissi.

«Però non è sempre stato così» ribatté lui.

«Che cosa intende dire?»

«Un tempo lei faceva parte di un gruppo il cui obbiettivo era il rovesciamento dell’ordine civile.»

«Se allude al fatto che sono stato fra gli oppositori della dittatura di Franco, allora ha ragione.»

«El Caudillo conosceva la Spagna e il suo popolo come nessun altro. Conosceva il nostro sangue bollente, la nostra brutalità, la nostra attrazione per la morte di cui la corrida è solo un esempio, la nostra scarsa propensione alla tolleranza, il nostro machismo e il nostro orgoglio inflessibile. Si propose di sanare le ferite della guerra fratricida e di fare della Spagna una moderna nazione europea. E ci riuscì.»

«Sono sicuro che le vittime delle torture e i giustiziati apprezzarono la nobiltà delle sue intenzioni. No. La Spagna era il bubbone purulento d’Europa. Un orrendo relitto fascista.»

L’uomo continuò con lo stesso tono pacato.

«L’alternativa era il caos. Poteri molto forti congiuravano per la rovina della Spagna. Dentro il paese e fuori del paese. Senza il Generalissimo la Spagna non sarebbe riuscita a seguire la strada che l’ha condotta sana e salva fuori dal passato.»

Nelle sue parole sentivo l’eco dei discorsi dei servitori di altre dittature. Avevano parlato così gli informatori della STASI nella defunta DDR e i boia fascisti di tanti paesi latino-americani. Agivano per una causa. Eseguivano semplicemente degli ordini. Rifiutavano ogni responsabilità, ma difendevano le loro azioni fino alla morte, perché altrimenti la loro vita non avrebbe avuto senso.

«Lei è uno storico?» chiesi.

Scoppiò a ridere.

«Una specie. Ma non siamo qui per discutere di politica o di storia. Io sono qui per saldare il debito che da anni mi lega a un uomo che stimo.»

Volevo aggiungere qualcosa su Franco, ma in quel momento i fischi e le urla del pubblico si fecero assordanti. Il terzo toro zoppicava vistosamente. Il torero alzò lo sguardo sul presidente, e poco dopo fu fatto entrare nell’arena un branco di buoi. Insieme a essi, il toro avrebbe lasciato l’arena mansueto come un agnellino, per essere ucciso tramite scarica elettrica da un efficiente macellaio in attesa nei corridoi sotto Las Ventas.

«Tutte le strade conducono alla morte» commentò l’uomo seduto accanto a me.

«Lei sa come mi chiamo, ma io non so come si chiama lei» dissi.

«Può chiamarmi Don Felipe.»

«Don Felipe. Se lei non è uno storico, allora chi?»

Come Don Alfonso, preferiva parlare per enigmi e in maniera indiretta, anche se rispetto a mio suocero era loquace. Probabilmente era stato un agente segreto sotto Franco. Dall’accento si sarebbe detto originario del sud.

«Non mi fraintenda,» disse sporgendosi verso di me «non sono un nostalgico della dittatura. Infatti il nostro lavoro aveva l’unico scopo di combattere il comunismo e l’anarchia, in modo che la Spagna potesse diventare matura per la democrazia. Avevamo molti nemici: bolscevichi, terroristi, separatisti. La mia specialità erano i servizi segreti sovietici, il KGB.»

«Lo stesso valeva per Don Alfonso?»

«Don Alfonso aveva le sue mansioni, io le mie.»

«Ossia?»

«Difendere lo Stato e le sue istituzioni. Fare in modo che i buoni cittadini potessero dormire tranquilli la notte.»

«Credevo che questo fosse anche il compito di mio suocero» dissi.

«Don Alfonso si concentrava sui nemici interni. Io lavoravo sugli agenti stranieri, gli infiltrati.»

«I russi?»

«Appunto. Ma il potere sovietico si serviva volentieri dei cubani. Si adattavano meglio, come dire, all’ambiente.»

Così quell’uomo si era occupato di controspionaggio.

«Okay» dissi vuotando il bicchiere. Volevo prenderne un altro, ma avevano fatto entrare il toro di riserva, e la vendita era stata temporaneamente sospesa.

Don Felipe riprese a parlare.

«Il suo nome comparve in alcuni rapporti…»

«Quali rapporti?»

«Frutto di intercettazioni, pedinamenti, perquisizioni segrete, informatori. Allora erano cose normali, di routine.»

Il pubblicò a un tratto s’infiammò, e io mi concentrai su quanto avveniva nell’arena.

L’orchestra attaccò il paso doble. Il giovane andaluso di cui avevo sentito parlare all’entrata stava attirando a sé il toro descrivendo con la cappa rossa cerchi dal diametro sempre più ridotto.

Il toro gli era così vicino da imbrattargli di sangue il vestito, un po’ più rosso ad ogni passaggio. Il torero voleva prolungare il più possibile quello stupendo, macabro balletto, incitato dalla musica e dai fragorosi «olé» degli spettatori. Ma sapeva che con ogni passo l’animale si avvicinava alla verità: presto avrebbe capito che la cappa rossa nascondeva una persona. Il giovane eseguì una piccola coreografia a beneficio del pubblico in tripudio e andò a prendere la spada.

«Speriamo che l’uccisione sia all’altezza di quanto abbiamo appena visto» disse Don Felipe in tono deferente.

Il giovane torero si mise in posizione, poi si alzò sulle punte e, nel prendere la mira, inchiodò gli occhi del toro alla cappa rossa costringendolo a offrirgli la porzione di dorso in cui la lama sarebbe affondata fino agli organi interni. Nell’arena avvolta dal silenzio, agitò leggermente il polso in un istante che parve lunghissimo, sospeso. Poi uomo e animale si lanciarono all’attacco, il torero colpì e la bestia cadde in avanti. Rimase in quella posizione per qualche secondo, rigurgitando sangue, prima di stramazzare sul fianco. L’aiutante si fece avanti per infliggergli il colpo di grazia con il suo coltello a lama corta. Ci alzammo per partecipare all’applauso scrosciante che il pubblico tributava al ragazzo, fermo accanto alla sua preda abbattuta. Con il permesso del presidente, le due orecchie e la coda furono mozzate e consegnate al torero come trofeo, poi l’animale fu trascinato in giro per l’arena dai muli per ricevere il tributo che spettava al coraggio da lui dimostrato.

Avevo dimenticato come quello spettacolo barbaro potesse all’improvviso trasformarsi in arte sublime, cancellando la compassione che poco prima avevo provato per la sorte dell’animale.

«Ringraziamo Dio per averci fatto assistere a questo indimenticabile spettacolo, a uno di quei rarissimi momenti in cui l’arte nasce e muore» disse Don Felipe.

«E anche Don Alfonso per i biglietti!» scherzai.

Rise.

«Già. Adesso ci conviene andare. Per oggi non accadrà nulla di altrettanto speciale.»

«Credevo che avesse qualcosa da dirmi.»

«Infatti. Ma è inutile che restiamo seduti qui. Come le ho detto, lo spettacolo adesso non può riservarci che delusioni, e io ho avuto modo di accertarmi che nessuno ci sta spiando.»

«Come fa a esserne sicuro?»

«Deve fidarsi di me, Señor Lime. Visto che io mi fido di lei. Venga!»

Si alzò, risalimmo le gradinate e raggiungemmo uno dei bar situati all’interno dell’edificio di Las Ventes. Ordinò due cognac, poi andammo a sederci sotto un arco da dove, attraverso la finestra senza vetri, potevamo vedere lo spiazzo antistante l’arena ancora piena di gente vociante.

Don Felipe mi porse il supplemento patinato di «El Pais».

«Ci troverà un rapporto d’intercettazione. Proviene da un archivio che ufficialmente non esiste più da anni. Ho cancellato i numeri di riferimento che potrebbero identificarne la provenienza se dovesse finire nelle mani sbagliate, ma ha la mia parola che è autentico. Con questo infrango la legge, infrango il segreto d’ufficio e il giuramento fatto al Generalissimo di non rivelare mai i segreti inerenti il mio lavoro, ma saldo il mio debito nei confronti di un uomo il cui lutto mi addolora profondamente.»

«Che cosa c’è scritto?»

«Lo legga. È una conversazione fra due uomini. Uno si chiama Victor Ljubimov. Per molti anni è stato il responsabile dell’ufficio culturale dell’Ambasciata Sovietica di Parigi, ma i suoi veri datori di lavoro erano i vecchi servizi segreti sovietici. Per conto del KGB aiutava il PCE, il partito comunista spagnolo. Come lei sa, prima della transición il partito era illegale.»

Annuii. Con la parola transición gli spagnoli si riferivano ai due anni intercorsi fra la morte del generale Franco, avvenuta nel 1975, e le prime libere elezioni politiche del giugno 1977. Poco prima di morire Franco aveva fatto giustiziare cinque persone. Non esisteva alcuna garanzia del fatto che il re o i politici del vecchio regime avrebbero scelto la via della democrazia. Toccò al settore più aperto dell’unico partito legale sotto Franco intraprendere il dissolvimento del vecchio sistema di potere e traghettare il Paese verso la democrazia, sventando il pericolo di un colpo di stato militare alla sudamericana.

Don Felipe continuò:

«Tenere d’occhio chiunque avesse rapporti con il PCE per noi era una priorità, ma furono gli americani a individuare Victor Ljubimov. Parlava correntemente lo spagnolo e l’inglese. Era il principale agente di collegamento fra il KGB e il PCE».

«E l’altro chi è?»

«Abbia un po’ di pazienza. Molti dei leader del Partido Comunista de España erano espatriati in Francia o a Mosca, ma negli anni Settanta il PCE cominciò a riorganizzarsi in patria. Tanto nelle università quanto nel movimento sindacale, il PCE era forte. Noi avevamo molto da fare. Schiere di agenti stranieri operavano in terra spagnola e i rivoluzionari di casa nostra alzarono la cresta. Anche se ampi settori della sinistra erano contrari a che il comunismo sovietico rimpiazzasse il governo di Franco.»

«La seguo» dissi sforzandomi di inghiottire l’impazienza.

Prese un sorso di cognac e io lo imitai.

«In collaborazione con gli americani cominciammo a sorvegliare Victor, a farlo pedinare. Era naturale che collaborassimo, condividevamo la causa anticomunista e ospitavamo le loro basi. E comunque, quando si trattava di lottare contro i bolscevichi, gli americani erano disposti ad allearsi con il demonio in persona. Nonostante le intercettazioni e i pedinamenti a tutt’oggi non sappiamo chi fosse l’interlocutore di Victor nella conversazione in questione. Ci risulta che venisse dalla DDR, e che fosse un collaboratore della STASI. Il suo compito era infiltrarsi nel PCE, ma ignoriamo quale fosse la sua funzione, né sappiamo se abbia reclutato lei.»

Lo fissai sbalordito.

«Io non sono mai stato iscritto a nessun partito. Nessuno mi reclutò» dissi.

«Ormai fa lo stesso. Ma secondo Don Alfonso la questione è rilevante.»

«Ho lavorato nella DDR come fotografo, ma qui a Madrid non frequento né ho mai conosciuto nessuno originario della DDR.»

Oscar era originario di Amburgo, e a quanto mi risultava non era mai stato in Germania Orientale se non da giovanissimo, e solo con il visto per ventiquattr’ore, spinto dalla curiosità di vedere come si vivesse dall’altra parte. Non pensavo neppure a lui come a un tedesco: non amava la Germania, e da parecchi anni diceva di voler prendere la cittadinanza spagnola.

Lui riprese:

«Ho amicizie risalenti a quell’epoca. Contatti. Alcuni sono ancora attivi, altri, come me, si godono la pensione. Da loro so che l’agente sovietico è ancora in vita, ma si dimise quando l’Unione Sovietica crollò e adesso fa, per così dire, l’uomo d’affari a Mosca».

«Mafia?»

«Consulente per la sicurezza, si definisce lui.»

Dal brusio che si levava dall’ingresso di Las Ventas, dalla musica e dagli olé, capii che con tutta probabilità la folla stava per riversarsi fuori dal portone principale con il giovane matador andaluso in spalla, un onore raro. Quando gli applausi crebbero d’intensità Don Felipe, o comunque si chiamasse, si alzò lasciandomi «El Pais».

«Addio, Señor Lime» disse vuotando il bicchiere. «È stato un piacere.»

E si allontanò. Poco dopo la folla festante lo inghiottì e lo persi di vista. Un gruppo di uomini uscì portando il giovane andaluso in trionfo. Il ragazzo aveva un’espressione esaltata e spaventata al tempo stesso, quasi che la folla costituisse un pericolo ancora più grande dei due tori che aveva ucciso con onore e coraggio quel pomeriggio. Gettò le orecchie e le code dei due tori ai suoi ammiratori estasiati. La vita doveva sembrargli facile, la sua giovinezza, bellezza e fortuna eterne.

Alzai il bicchiere e bevvi il resto del cognac augurandogli buona fortuna, poi sfogliai l’inserto di «El Pais». Infilati tra le pagine centrali c’erano alcuni fogli di carta ripiegati con cura. Ardevo dalla voglia di leggerli, ma li rimisi al loro posto, e solo quando la folla cominciò a diradarsi andai a cercare un posto dove potermi tuffare in un’altra stagione del mio passato.

14

Mi rifugiai nella quiete domenicale del nostro ufficio in Paseo de la Castellana. Normalmente c’era molto lavoro anche di domenica, ma non in agosto, quando l’ufficio madrileno chiudeva e il compito di occuparsi dei suoi affari durante i week-end toccava alla sede di Londra.

Il breve tragitto in taxi da Las Ventas all’ufficio mi aveva lasciato con la maglietta incollata alla pelle per il sudore. Aprii la porta benedicendo il sommesso ronzio dell’aria condizionata che qualcuno aveva lasciato in funzione. Andai nel cucinotto a prendere una Coca fredda. A parte il rumore dei condizionatori, l’ufficio era completamente silenzioso. Mi aggirai per le stanze deserte e nello studio di Oscar. La sua scrivania, di solito coperta di foto, riviste, tazze da caffè vuote, lunghe stampate e portacenere pieni, era perfettamente sgombra. Il telefono e il computer per una volta erano muti, anche se la luce della segreteria lampeggiava.

Andai nel mio ufficio. Lasciai la porta aperta, in modo da poter vedere l’ampio locale dove lavoravano segretarie e assistenti, fino all’ufficio di Oscar. Mi sentivo al contempo a mio agio e un po’ ospite. Quelle stanze erano ancora parte della mia vita, erano mie per un terzo, eppure non mi appartenevano più. Sistemai i fogli davanti a me, accesi una sigaretta e cominciai a leggere.

Rapporto di intercettazione PCE/13

5 marzo 1976. Ore 14.45.

Stilato da (cancellato).

Tradotto dall’inglese da (cancellato).

Soggetti impegnati nella conversazione:

1) Victor Ljubimov, circa quarant’anni, responsabile culturale presso l’Ambasciata Sovietica di Parigi, entrato nel Paese con passaporto cubano dalla frontiera portoghese il 23 febbraio 1976, alloggiato presso l’Hotel Victoria.

2) Sconosciuto sui venticinque anni, alto, barba e capelli lunghi, stile hippy.

Lingua in cui si è svolta la conversazione: inglese. Leggera interferenza, per il resto ottima apparecchiatura, funzionante dal punto di vista tecnico. Secondo la squadra d’intercettazione PCE/13, le battute iniziali e finali della conversazione hanno avuto luogo nell’ingresso, fuori della portata del microfono numero 3. Esse risultano pertanto escluse dall’intercettazione. Il perito linguistico A/24 specifica che l’inglese dei soggetti, pur corretto dal punto di vista grammaticale, non è la loro lingua madre. Lo sconosciuto parla inglese con accento tedesco, talvolta facendo ricorso a espressioni gergali americane. Einglese di Ljubimov è fluente e britannico nella pronuncia.

Victor Ljubimov giunge alle 15.43 nell’appartamento di Calle Princesa n. 12. Ai sensi della disposizione numero 11, previa autorizzazione del tribunale segreto, sezione 6, e di concerto con il proprietario dell’appartamento attiguo, un buon patriota iscritto da molti anni al Movimento ha provveduto all’installazione dell’apparecchiatura per l’intercettazione.

L’appartamento risulta essere di proprietà di (nome cancellato), il cui legame con il movimento sindacale comunista illegale Comisiones Obreras è ben documentato. Al fine di non interferire con lo svolgimento di indagini tuttora in corso, si raccomanda di evitare di procedere all’arresto e all’interrogatorio di (nome cancellato).

Alle ore 15.58 l’interlocutore (identità ancora ignota) qui denominato «Hippy» a causa della capigliatura disordinata, giunge in Calle Princesa n. 12. La squadra d’intercettazione C/3 descrive il soggetto come «alto e dal fisico massiccio». La stessa squadra d’intercettazione non riesce — né al momento dell’arrivo né in seguito — a scattare una foto di Hippy che lascerà l’appartamento da un’uscita secondaria.

Alzai lo sguardo ad abbracciare la vista dei tetti di Madrid mentre pensavo al numero incredibile di rapporti simili a quello stilato negli anni della guerra fredda. Chissà quanti di essi erano inaffidabili, manipolati in modo da trasformare un incontro innocente e banale nell’ingranaggio di un minaccioso disegno sovversivo, all’unico fine di garantire continuità di finanziamenti ai servizi segreti.

Mi accesi una sigaretta e continuai a leggere. La conversazione era riportata come le battute di un copione. Mancavano solo le didascalie:

Victor: …secondo te le Comisiones Obreras porteranno i lavoratori in piazza il primo maggio?

Hippy: I compagni del sindacato stanno facendo un grosso lavoro, e a quanto pare seguono la strategia indicata dal Comitato Centrale di Mosca. Bisogna mobilitare le forze e spingere il PSOE sulla difensiva.

Victor: E gli scioperi del prossimo mese?

Hippy: Tutto fa pensare che si estenderanno all’intero territorio nazionale. Sarà quasi uno sciopero generale.

Victor: Hanno i mezzi per organizzarlo?

Hippy: Sono a corto di soldi. Su questo non c’è dubbio.

Victor: lo posso procurarne altri. Mi ci vorrà qualche giorno. Li faremo accreditare via Parigi tramite i soliti canali.

Hippy: C’è anche il movimento degli studenti. I gruppi anarchici sono forti e spingono il Partito in secondo piano. Abbiamo bisogno di mezzi anche per quel fronte.

Victor: Mosca è ricca, ma non una miniera d’oro.

Hippy: È il momento di intensificare gli sforzi. Ormai è solo una questione di tempo e il PCE verrà legalizzato, allora ci troveremo in una posizione di forza. Il popolo sceglierà noi, non i socialisti. Qui in Spagna si respira un clima rivoluzionario.

Victor: Mosca dà importanza tanto allo sciopero quanto al primo maggio. Allora sarà il momento di sfondare a calci la porta di questo sistema marcio.

Hippy: Gli studenti e i lavoratori scenderanno in piazza insieme il primo maggio. Credimi, so quello che dico.

Victor: D’accordo. La Spagna va conquistata.

Hippy: Poi ci sono i baschi…

Victor: Già.

Hippy: I miei contatti sostengono che tutto è pronto per un’offensiva militare che scatterà in contemporanea con le manifestazioni e gli scioperi.

Victor: Sì.

Hippy: Caos.

Victor: Già.

Hippy: I fascisti serreranno i ranghi. In un primo momento la repressione sarà violenta, ma non farà che accelerare i tempi della rivoluzione…

Victor: Mosca ha deciso per l’intervento finalizzato alla legalizzazione del PCE…

Hippy: Sì.

Victor: Dapprima faremo entrare illegalmente Carrillo, poi, quando i tempi saranno maturi, sarà la volta della Pasionaria, questa volta legalmente.

Hippy: Non lo permetteranno mai.

Victor: Noi pensiamo di sì. Non riteniamo che il terrorismo sia la strada giusta nell’attuale situazione spagnola. Al fascismo succederà una democrazia conservatrice. Per questo è importante che il PCE esca dall’illegalità conquistando il sostegno della classe operaia e della popolazione in genere.

Hippy: A quanto ho capito, nella situazione attuale, Berlino non considera la lotta dei baschi terrorismo, ma, appunto, lotta armata per una causa legittima.

Victor: Noi vediamo le cose da un’altra prospettiva. Ti ripeto, in questo momento riteniamo che la via più utile sia quella della legalità. Ci saranno le elezioni e il PCE dovrà imporsi. Se così non sarà valuteremo la situazione.

Hippy: Secondo Misha devo portare avanti la collaborazione con l’ETA.

Victor: Su questo siamo d’accordo.

Hippy: Continuiamo ad addestrarli, e ci siamo accordati con i compagni cecoslovacchi per una nuova spedizione, ma perché vada in porto dobbiamo attivare la cellula di Pamplona.

Victor: Va bene. Però vorrei che raccogliessi informazioni più approfondite sull’ambiente studentesco, e mi servono i nomi dei rappresentanti della stampa sui quali potremo contare quando la situazione si farà più calda. Sono queste le tue priorità, adesso.

Hippy: D’accordo.

Victor: Bene.

Mi alzai e andai in cucina a prendere una lattina di birra, poi tornai alla mia scrivania e mi rimisi seduto a riflettere su quanto avevo letto alla luce del corso successivo degli eventi.

I sindacati comunisti illegali, Comisiones Obreras, avevano indetto uno sciopero generale e grandi manifestazioni per il 1° maggio dell’anno zero dalla morte del generale Franco.

Nell’aprile del 1976 la Spagna era stata scossa dalla più grande ondata di scioperi in quarant’anni, e quelle agitazioni avevano contribuito a rovesciare la vecchia guardia fascista e a fare strada a una corrente più riformista capeggiata da Adolfo Suárez.

Più tardi, quello stesso anno, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo aveva fatto ritorno a Madrid. Nel 1977 il partito comunista spagnolo era stato legalizzato e la leggendaria Pasionaria della guerra civile, Dolores Ibárruri, era rientrata in patria. Il centro conservatore aveva vinto le elezioni del giugno 1977, ma i risultati elettorali del PCE erano stati buoni, sebbene inferiori a quelli del PSOE. La strategia di Mosca era fallita. La Spagna non era diventata un regime comunista, bensì una democrazia liberale.

Quanto alla storia dell’ETA e dei compagni cecoslovacchi, sapevo quale fosse stato il ruolo di questi ultimi: fornire l’esplosivo semtex che i baschi usavano nella fabbricazione delle bombe. La DDR aveva formato ed equipaggiato terroristi in tutto il mondo. I palestinesi, le Brigate Rosse in Italia, la Rote Armee Fraktion nella Germania Occidentale e l’ETA in Spagna.

Quel pensiero mi dava i brividi. Misha, naturalmente, era Markus Wolf, capo del controspionaggio della DDR fino a quando, poco prima del crollo del Muro, dando prova di grande tempismo aveva lasciato i servizi segreti per aderire al movimento democratico in Germania Orientale. Avevo letto che aveva pubblicato le sue memorie e che continuava a rifiutarsi di rivelare i nomi dei propri agenti.

Accesi il computer, mi collegai a Internet e impostai una ricerca sulla parola “Karlhorst”. L’elenco di siti e documenti era lungo: Karlhorst era il vecchio quartier generale del KGB nella DDR, da cui in definitiva dipendeva anche la STASI.

Sorseggiando la mia birra, ripresi la lettura dei documenti. Ormai fuori era completamente buio. “Hippy” elencava una serie di nomi spagnoli. Io ne conoscevo soltanto uno, quello di un famoso presentatore di quiz televisivi su uno dei canali privati. Gli altri non mi dicevano niente. Poi il rapporto continuava:

Hippy: Ho sentito parlare di un fotoreporter danese con buoni contatti nell’ambiente clandestino basco.

Victor: Sì…

Hippy: Ha viaggiato molto. È un po’ un vagabondo, ma in gamba, dicono. Libano, DDR, Mosca. Va ovunque ci siano foto interessanti da scattare.

Victor: È conservatore?

Hippy: Progressista, liberale. È un ammiratore del pensiero anarchico di Durruti…

Victor: E lo chiami progressista?

Hippy: Non è un reazionario, è… plasmabile.

Victor: Firmerebbe un contratto?

Hippy: Forse. Ma lo vedo meglio come informatore e collaboratore a sua insaputa. Ha molte conoscenze nonostante la giovane età. È sempre in bolletta, beve troppo e gli piacciono le ragazze. Di conseguenza i soldi potrebbero fargli gola, in prospettiva.

Victor: La faccenda mi sembra promettente. Come si chiama?

Hippy: Lime. Peter Lime.

Victor: Okay. Continua a lavorarci. Hai già ottenuto buoni risultati con un danese in passato. È un popolo di ingenui, e spesso condividono i nostri principi anche se non hanno la vocazione all’impegno militante. Ma non dimenticarti degli spagnoli. Quelli hanno la priorità assoluta.

Hippy: Okay.

Victor: I soldi sono nel solito posto. Distribuiscili in giro.

Hippy: Okay.

Victor: E abbi cura di te. Questa è una fase delicata, cruciale.

Hippy: Non è sempre così?

I soggetti escono dal soggiorno e concludono la conversazione nell’ingresso.

La squadra d’intercettazione ritiene che le indagini debbano continuare. Suggerisce di procedere al pedinamento del citato Peter Lime, di intensificare gli sforzi per stabilire l’identità di Hippy, nonché di allertare la sezione in Navarra e rafforzare la sorveglianza al confine.

Rilessi le righe che parlavano di me da giovane. Il pensiero di essere stato argomento della conversazione dei due agenti mi metteva a disagio. Mi avevano fatto pedinare, e ciò costituiva una pesante intrusione nella mia vita privata, una violenza bella e buona. Mi accorsi che le mani mi tremavano leggermente. Mi chiesi chi potesse essere Hippy. Era un agente della DDR oppure lavorava per il KGB? Era possibile che fosse servo di due padroni, una specie di doppiogiochista? Rividi Oscar in una versione giovanile, ma subito l’ipotesi che potesse trattarsi di lui mi parve assurda: lo avevo conosciuto soltanto all’inizio della primavera del 1977, e per caso. L’immagine che conservavo dell’Oscar di allora — un giovane uomo ciarliero, affascinante e spiritoso — non combaciava con il profilo dell’agente dal sangue freddo che parlava di esplosivi e attentati come fossero banane.

Sentivo un fastidioso formicolio alle gambe, così mi alzai per cercare qualcosa di forte, ma da parecchi anni Oscar e Gloria non tenevano più superalcolici in ufficio. Presi un’altra birra e telefonai a Don Alfonso. Rispose subito, quasi stesse aspettando la mia telefonata.

«Sono io»

«Dimmi, Pedro.»

«Ho bisogno di parlare con il tuo Don Felipe.»

«Non è possibile. Cosa c’è?»

«La storia del pedinamento, io… mi sento sporco, ecco» dissi. «Lo so, è completamente irrazionale, ma…»

«È una reazione molto umana, Pedro.»

«L’identità di Hippy è mai stata scoperta?»

«No.»

«Perché?»

«I francesi si stancarono degli intrighi di Victor Ljubimov a Parigi, lo smascherarono e lo espulsero. A quel punto non era più utilizzabile in alcun paese occidentale. Hippy fu assegnato a un nuovo agente, ma non siamo riusciti a scoprire dove s’incontrassero. Tu hai idea di chi sia?»

«Può darsi» esitai. «Cosa sapete sul conto di Oscar?»

Mi accorsi di avere le palme delle mani sudate, nonostante l’aria condizionata.

«Mi aspettavo che avresti fatto questa domanda. Quello che sai anche tu. Nato ad Amburgo. Ex giornalista di sinistra, molto radicale in gioventù. Oggi è un ricco, rispettabile residente che paga regolarmente le tasse. Non c’è altro.»

Mi sentivo sollevato.

«E su di me? Che informazioni avete raccolto su di me?»

«Su di te non c’è nulla.»

«Come è possibile? Mi avete fatto seguire, lo dice il rapporto di intercettazione!»

«Ti ripeto che sul tuo conto non abbiamo niente. Questo non significa che tu non sia stato spiato. I servizi segreti sono burocrazie, e le burocrazie fanno un mucchio di errori. I rapporti non vengono archiviati correttamente, addirittura distrutti, i numeri di riferimento spariscono, i nomi di copertura vengono cambiati e i rimandi non vengono registrati. I nostri agenti e i nostri ufficiali sono esseri umani, con tutta la sete di potere, le debolezze, la stupidità che questo comporta. Abbiamo i tuoi dati, la conferma che sei benaccetto in Spagna, sappiamo che non evadi le tasse, tutto qui.»

«E la morte di Amelia e Maria Luisa? Perché?»

Tacque per qualche secondo poi disse:

«Fossi in te telefonerei alla donna di Copenaghen».

«Cosa può fare per me?»

«La chiave di tutto potrebbe trovarsi a Berlino. La Hoffmann può accedere ai loro archivi più facilmente di me. Fammi sapere, Pedro.»

Riagganciò. Evidentemente parlare di quelle cose al telefono lo metteva a disagio.

Accesi una sigaretta e recuperai l’appunto con i numeri di Clara Hoffmann. Era domenica sera, così la chiamai a casa.

«Sono Peter Lime. Telefono da Madrid.»

«Buona sera, Peter. Non speravo più che ti saresti fatto vivo.» Allora ci davamo del tu.

«Ho qualcosa sulla fotografia che mi hai mostrato» dissi.

«Di cosa si tratta?»

«Ho trovato un’altra foto, e ho trovato un nome.»

«Molto interessante.»

«Non mi sembra il caso di parlarne al telefono. Vorrei discuterne a quattr’occhi. C’è anche un’altra faccenda, credo che tu possa aiutarmi a chiarire alcuni aspetti.»

«Certamente.»

Sentivo una musica sommessa all’altro capo del filo, e immaginai di averla interrotta mentre si rilassava in poltrona, con un libro e il suo disco preferito in sottofondo. Un’atmosfera accogliente, come quella che regnava nelle case danesi della mia infanzia. A Madrid avevo notato che non portava la fede. Forse viveva sola. Come me. Anch’io ero solo, e solo sarei rimasto, per tutta la vita. Mi venne in mente il verso di una canzone di Janis Joplin: Freedom’s just another word for nothing left to loose, libertà vuol dire solo non aver più nulla da perdere. «Peter, ci sei?»

«Sì, scusa. Mi sono distratto. Hai detto qualcosa?» «Ti ho chiesto se devo venire a Madrid.» «No. Vengo io a Copenaghen domani, se riesco a trovare un biglietto. Altrimenti dopodomani. Ti chiamo.»

«Bene. Sono ansiosa di vedere l’altra foto.» «A presto, allora» e riagganciai.

15

Dopo la telefonata a Clara, mi fermai ancora mezz’ora in ufficio a bere birra. Poi tornai in albergo dove chiesi a Carlos di procurami una bottiglia di vodka che mi scolai quasi per intero. Trascorsi una notte d’inferno, nelle spire di una sbornia e una disperazione colossali. Vivere non m’interessava più. Rimpiansi di non avere una pistola, disprezzandomi perché sapevo che comunque non avrei trovato il coraggio di usarla. Parlai con Amelia e Maria Luisa, avevo l’impressione che fossero nella stanza, e che mi rispondessero.

L’indomani mi svegliai con le mani tremanti, lo stomaco in fiamme e un mal di testa martellante. La stanza puzzava di fumo e di alcol. Il clamore di Calle Echégaray mi rimbombava nel cervello. Bevvi un paio di bottigliette di acqua minerale e mandai giù due analgesici, mi liberai dei vestiti con cui avevo dormito e feci una doccia. Poi scesi in strada e mi infilai nel primo bar per un caffelatte e dell’altra acqua. Telefonai alla SAS: il volo per Copenaghen partiva alle 15.15, l’arrivo era previsto per le 18.25. C’erano ancora parecchi posti liberi, e ne prenotai uno. Quindi riservai una stanza all’Hotel Royal.

Cominciavo a sentirmi meglio. La strada, immersa nella splendente luce mattutina, brulicava della normalità del lunedì, e il paesaggio metropolitano profumava di fresco e di nuovo. Nulla faceva presagire la cappa umida e afosa che di lì a qualche ora avrebbe stretto d’assedio Madrid.

Tornai in albergo per raccogliere le mie cose e affidare la valigia con le foto a Carlos.

Rispose che l’avrebbe sistemata in cantina. Potevo lasciarcela per tutto il tempo che volevo, sarebbe stata al sicuro, almeno finché l’Hotel Inglés non fosse crollato.

Mi restò giusto il tempo per comprare qualche vestito e pranzare con una zuppa di verdure e una trota al forno prima di salire su un taxi diretto in aeroporto.

Una volta a bordo dell’aereo, cedetti alla tentazione di un Bloody Mary, che subito ebbe l’effetto di placare le mie formicolanti terminazioni nervose. Dopo un quarto di vino mi addormentai, forse per sfuggire alla coscienza che mi rimordeva. Mi svegliai quando ormai eravamo in fase di atterraggio. Sotto di noi l’0resund si stendeva azzurro e scintillante, punteggiato da una miriade di vele bianche, il ponte simile a un paio di braccia protese.

Copenaghen era la stessa di sempre, splendida nel sole del tardo pomeriggio. Il brulicare di biciclette colorate, il traffico scorrevole e tranquillo, l’aria fresca spruzzata del lieve profumo salmastro dell’0resund.

Andai in albergo. Per il momento non avrei telefonato a nessuno. Sforzandomi di rimanere alla larga dal minibar, accesi la TV e mi dedicai allo zapping. Stavo pensando a Bruce Springsteen e alla sua canzone Fiftyseven channels and nothing on quando un servizio del telegiornale catturò la mia attenzione: l’argomento era Lola. Il giornalista era un tipo che conoscevo, si chiamava Klaus Pedersen, e l’avevo visto l’ultima volta dieci anni prima, quando ancora lavorava al quotidiano «Jyllands Posten». Anche lui, come me, appariva invecchiato. Klaus mi aveva ingaggiato in un paio di occasioni per dei servizi a Madrid, e una volta eravamo partiti per il Sahara occidentale per un reportage sui guerriglieri del Fronte Polisario. Il servizio parlava della scomparsa di Laila Petrova, ma l’avevo riconosciuta subito. Si sospettava che Lola fosse scappata con parte dei fondi destinati al museo di cui era direttrice. Adesso il ministro della cultura aveva perso la poltrona a causa di quella storia, cui Clara aveva accennato nella nostra conversazione alla Cervecería. Sul video scorrevano le immagini del nuovo museo internazionale d’arte moderna, a sud di Copenaghen: un edificio bianco-grigio la cui mole faceva pensare a una grande nave arenata. La voce di Klaus Pedersen riassumeva efficacemente il caso. La direttrice, Laila Petrova, in possesso di ottime referenze da Londra e del Museo d’arte Manége di Mosca, era sparita. Dalle indagini, condotte fra l’altro da un giornalista del «Jyllands-Posten», era emerso che non possedeva i titoli accademici dichiarati. Apparve il ministro della cultura, circondata da una foresta di microfoni e mini registratori. Doveva essere più o meno mia coetanea, aveva il viso segnato e l’aria provata. Dichiarò che il compito di controllare le referenze di Laila Petrova spettava ai suoi funzionari, non aveva altro da aggiungere.

Sullo schermo apparve il viso ingrassato di Klaus:

«Laila Petrova fu assunta dietro viva raccomandazione del ministro della cultura, anche se nessun membro di spicco del mondo artistico danese la conosceva. A chi sollevava obiezioni e caldeggiava altre, più ovvie candidature, il primo ministro rispose che la Petrova rappresentava una scommessa intelligente e coraggiosa. Oggi la responsabilità di quella scelta ricade unicamente sull’ex ministro della cultura. Ma le vere vittime di questa scandalosa e mortificante vicenda sono i contribuenti danesi».

Il servizio si chiudeva con una serie di foto probabilmente risalenti alla cerimonia d’inaugurazione del museo. Mostravano Lola in uno spumeggiante vestito cremisi. Era accanto alla regina che, in confronto a lei, appariva insignificante, dimessa.

«Ben fatto, Lola!» dissi ad alta voce e chiamai la reception per farmi dare il numero di telefono del telegiornale.

Quando chiesi di Klaus, la centralinista mi mise in attesa, poi tornò in linea annunciando che me l’avrebbe passato.

«Ciao, Klaus. Sono Peter Lime.»

«Peter, accidenti! Quanto tempo è passato. Come stai?»

Sullo schermo del televisore scorrevano adesso le previsioni del tempo.

«Non c’è male, e tu?»

«Abbastanza bene. Chiami da Madrid?»

«No. Sono a Copenaghen. Ho appena visto il tuo servizio su Lola.»

«Laila.»

«Il suo vero nome è Lola. È una vicenda molto interessante. Ricorda un po’ la storia del re nudo: si presenta un’affascinante signora con un pizzico di savoir faire e tutti cascano ai suoi piedi, senza preoccuparsi di verificare che sia ciò che dice di essere.»

«Proprio così. Le è bastato sbattere le ciglia e tutti i piccoli socialdemocratici che ci tenevano tanto a passare da esperti le hanno fatto ponti d’oro. La conosci, Peter?»

«Sì.»

«Senti senti!» esclamò con l’eccitazione del cacciatore di notizie che fiuta uno scoop.

«Sono al Royal. Se vuoi, ti offro un drink e ti racconto di lei.»

«Accidenti, non posso. Ho promesso di tornare a casa» rispose dopo un secondo di esitazione.

«Cosa hai combinato?»

Quella non era una risposta da Klaus Pedersen. Ai vecchi tempi se ne infischiava della famiglia. Viveva solo per i reportage dall’estero e approfittava di qualsiasi occasione per fare un viaggio a spese del giornale.

«Qualche anno fa ho divorziato da mia moglie e mi sono risposato. Sì, con una fotomodella più giovane di me. Così adesso ho una seconda nidiata di figli, il piccolino soffre di coliche che lo fanno urlare come un ossesso. Se non vado a casa a darle il cambio, mia moglie non mi rivolgerà la parola per le prossime due settimane.»

«Capisco.»

«Sai com’è. Io, con l’età che ho, non desideravo altri figli, però uno non può mica permettersi di dire di no, quando la moglie più giovane vuole metter su famiglia, o sbaglio?»

«Giusto.»

«Ho mollato gli esteri per lo stesso motivo. Tutti quei viaggi mi sono costati il primo matrimonio. Allora ho fatto domanda per un posto alla redazione interna del telegiornale. Turni fissi e a casa tutte le sere. Non posso proprio permettermi un secondo divorzio.»

«Come non detto, Klaus.»

«Tu hai figli?»

«No» risposi con un nodo alla gola. «Niente figlio.»

«Sei rimasto il lupo solitario di sempre. Comunque ci tengo a incontrarti. Perché non vieni qui da me domani?»

«Ottima idea» risposi.

«Facciamo verso le undici? Chiedi alla receptionist. Ah, no, scusa: quella l’hanno mandata a casa per risparmiare. Chiamami prima di lasciare il Royal, così scendo e ti vengo incontro.»

«Perfetto. E salutami la nuova signora Pedersen.»

«A domani. Mi ha fatto piacere risentirti.»

Per scacciare la tentazione di aprire il minibar, feci qualche flessione. Poi lessi l’«Herald Tribune», dall’attualità agli editoriali fino alle cronache sportive più le strisce di Calvin and Hobbes. Mi addormentai davanti al film trasmesso da un canale via satellite.

L’indomani mi svegliai molto presto. Rimasi per qualche tempo a letto a guardare gli insulsi programmi televisivi del mattino: un talk show ambientato nel finto soggiorno di una casa, lezioni di cucina, l’intervista a una giovane cantante discinta recentemente proclamata uno dei migliori talenti della musica pop.

Mi sintonizzai sulla CNN, poi mi alzai per fare la doccia.

Attesi che fosse un’ora decente per telefonare a Clara Hoffmann. A giudicare dalla voce pimpante doveva essere sveglia da un pezzo. Il suo appartamento si trovava a pochi minuti di cammino dall’albergo, disse, quindi poteva passare prima di andare in ufficio, di lì a mezz’ora.

Scesi nel bar accanto alla lobby per aspettarla. Mi sedetti in un punto dal quale potevo tener d’occhio la porta e ordinai un bricco di caffè con due tazze. Un gruppo di turisti giapponesi ascoltava attento le istruzioni della guida, un manager in abito scuro armato di ventiquattrore e computer portatile saldava il conto tra continue occhiate all’orologio e al cellulare. Il mio lo avevo lasciato all’Hotel Inglés di Madrid. Essere irreperibile e godere del privilegio dell’anonimato in una città familiare come Copenaghen era un’esperienza bellissima.

Da uno degli ascensori emerse un tipo alto e dinoccolato con indosso una vecchia giacca e jeans sbiaditi, i capelli raccolti in un codino. Aveva con sé un’ingombrante borsa da fotografo.

Fui tentato di fingere di non averlo visto, ma mi venne in mente la volta in cui avevamo aspettato per ore fianco a fianco davanti alla palestra di Lady D, e cambiai idea. Si chiamava Derek Watson, era australiano, e come me dava la caccia al jet set da vent’anni. Una delle sue foto più fortunate ritraeva proprio Diana, insieme ai figli, il lungo abito nero sollevato a mostrare le gambe, causa un’improvvisa folata di vento. Sia la Ospe che Derek avevano guadagnato soldi a palate grazie a quell’immagine.

Era alla reception con in mano la carta di credito quando lo raggiunsi e gli diedi un colpetto sulla spalla.

«Ehi, Derek. Come va?»

«Lime! Che piacere vederti.»

«Prendi un caffè?» gli domandai.

Guardò l’orologio.

«Lo farei con piacere, ma devo prendere un volo.»

Esitò. «Ho saputo la notizia… ho incontrato Gloria a Londra. Dio, mi dispiace, Peter.»

Annuii.

Il receptionist gli allungò la ricevuta e lui firmò.

«Ho saputo che sei uscito dalla mischia» disse lui.

«Per il momento, almeno.»

«Ci ho pensato anch’io. Ormai tutti quelli che hanno una macchina fotografica in mano passano per pedofili, o per assassini, come dopo la morte di Diana e Dodi. Il giorno successivo all’incidente l’edicolante del mio quartiere si rifiutò addirittura di vendermi i giornali, mi considerava colpevole in prima persona. E pensare che si guadagna da vivere grazie alle foto che scattiamo noi…»

Allargò le braccia. «Ti ricordi che incubo? La folla. I media. Pace, amore, fiori, ipocrisia e merda su tutta la linea. E gli orsacchiotti!»

«Bisogna morire giovani, così si diventa martiri e santi» dissi io.

«Tu non eri a Londra, vero?» continuò lui.

Ripeteva parole già pronunciate centinaia di volte, per il gusto di quattro chiacchere fra colleghi.

«No. Non c’ero, ma anche a Madrid tutti persero la testa.»

Gli dissi che non volevo trattenerlo e gli raccomandai di salutare per me Gloria e Oscar se li avesse incrociati.

«Per quanto tempo hai intenzione di fermarti qui in Danimarca?»

«Non ne ho idea. Forse una settimana. Forse solo fino a domani.»

«Uscito dalla mischia, eh, Lime? Vorrei essere al tuo posto. Be’, ciao. See you around.»

Fece il gesto di avvicinare la destra a un berretto immaginario e uscì dall’albergo. Mi chiesi cosa lo avesse portato a Copenaghen. Un tipo come Derek non avrebbe mai potuto rinunciare alla professione. Al brivido della caccia. Se anche fosse riuscito a sorprendere Clinton senza pantaloni con una ragazza inginocchiata fra le gambe, non si sarebbe accontentato della valanga di denaro che quel genere di colpo gli avrebbe fruttato: avrebbe continuato a viaggiare per il globo sulle tracce del vip di turno, contento di aspettare intere giornate, con la pioggia e con il sole, pur di strappare uno scatto buono.

Il suo mondo mi parve al contempo attraente e terrificante. Sapevo di dover scegliere: potevo tornare all’agenzia e all’attività a cui da sempre mi dedicavo con successo, oppure rimanere in quel vuoto sospeso tra l’oblio e la memoria.

In piedi nella lobby seguii con lo sguardo Derek, che, oltre la porta a vetri dell’hotel, buttava la valigia sul sedile posteriore di un taxi, prendeva posto accanto all’autista e si accendeva una sigaretta ripetendo l’ordine di portarlo all’aeroporto. Sapevo cosa avesse in testa: nuovi incarichi, nuove amanti, il gusto e la paura dell’assenza di radici che era la cifra della sua vita. La consapevolezza di stare invecchiando e l’ansia di morire da solo. Tutti sentimenti che conoscevo e che adesso contemplavo con un senso di nostalgia e di sollievo.

Chiesi i giornali danesi del mattino all’impiegato della reception e tornai a sedermi davanti al bricco di caffè. Nel paese non accadeva nulla di straordinario, a parte lo scandalo di Lola e l’inasprirsi di un’ondata di xenofobia il cui resoconto mi sorprese e mi rattristò.

Trascorsi alcuni minuti alzai lo sguardo e vidi Clara Hoffmann entrare dalla porta girevole.

Sembrava più giovane rispetto a quando l’avevo conosciuta a Madrid. Indossava un paio di jeans e una blusa beige sotto cui si intravedeva il reggiseno. A tracolla portava una borsa capiente. Il suo corpo era senza età, asciutto come quello di Amelia. Notai che aveva cambiato pettinatura: adesso i capelli erano corti e ricci. Forse era quel nuovo taglio a farla apparire più giovane. Sotto un trucco leggero lo sguardo era vigile, le labbra brillavano leggermente. Strizzò gli occhi grigio-azzurri e si guardò intorno. Era bella, sexy, specie quando avanzò nella lobby con passo energico e sensuale. Un paio di uomini in attesa alla reception si voltarono a guardarla.

Stavo per farle cenno, invece d’impulso tirai fuori la Leica e le scattai quattro foto.

Posai la Leica sul tavolo e la chiamai. Il suo viso si aprì in un sorriso e mi venne incontro.

Mi resi conto che, dalla morte di Amelia, non avevo più pensato al sesso. Fino a quando Clara non era apparsa nella lobby dell’Hotel Royal.

Improvvisamente mi sentivo eccitato, quasi felice.

«Peter. Mi fa piacere rivederti.»

«Ciao Clara, lo stesso vale per me» risposi.

Mi tese una mano fresca e ferma e accettò il caffè sedendosi di fronte a me. Scambiammo quattro chiacchere sul tempo, Madrid e Copenaghen, i titoli dei quotidiani nella stagione morta e il perché i giapponesi viaggiano sempre in gruppo.

Poi fra noi calò un silenzio imbarazzato. Le versai dell’altro caffè e avvicinai la fiamma dell’accendino alla sigaretta che teneva fra le labbra.

Clara si sporse verso di me e disse:

«Cosa posso fare per te?».

Quella domanda mi sorprese. Mi ero aspettato che prima di offrirmi il suo aiuto chiedesse di vedere cosa le avevo portato. Misi le mani avanti.

«Ci vorrà un po’ di tempo.»

«Nessun problema.»

Le raccontai di San Sebastián, di Don Alfonso, dei sospetti della polizia di Madrid, del referto dell’autopsia e infine del rapporto d’intercettazione, che le mostrai riassumendolo per sommi capi. Lei ascoltò senza fare commenti. Le ero grato per il fatto che non sentisse il bisogno di rinnovare le sue condoglianze. Nell’udire dei tre irlandesi e dell’interrogatorio, tese la mano e mi toccò la ferita quasi rimarginata sotto l’occhio.

«Sembri più vecchio. E segnato. Ti si legge la sofferenza negli occhi» commentò.

«È strano che tu lo dica,» ribattei, «quando ci conosciamo appena.»

«Vero, ma io ho la sensazione di conoscerti bene» disse lei.

«Non capisco.»

«Neanch’io» ammise con un sorriso.

Ci fissammo per un attimo, ma il suo sguardo rimase indecifrabile, perciò passai a raccontarle di Las Ventas.

Infine tirai fuori le due foto. Quella che lei mi aveva mostrato a Madrid, e quella in cui Lola sedeva in soggiorno insieme alla donna e ai tre giovani barbuti. Le guardò attentamente.

«Sai chi è questo?» mi domandò infine.

«Sì. È deputato al parlamento.»

«Proprio così. E gli altri, li conosci?»

«Sì e no» risposi.

«È fantastica!»

«Non direi. È sottoesposta, e la composizione non è granché.»

Rise.

«Non mi riferivo alle qualità artistiche della foto, Peter. Ma al soggetto. Ci sarà molto utile.» Rise ancora scuotendo il bel capo riccio al pensiero della mia ingenuità e, forse, della mia vanità.

In quel momento non mi chiesi a chi e a che cosa sarebbe servita la mia foto. Mi beavo della sua risata e della sua espressione. Poi, senza rifletterci, proposi:

«Visto che ti ho reso un bel servizio, ti toccherà accettare un mio invito a pranzo o a cena».

Mi guardò. Aveva delle piccole, graziose rughe vicino agli occhi e una fossetta quasi impercettibile sopra il labbro superiore. Desiderai averla tutta per me in studio a Madrid, per farla sedere davanti al mio obbiettivo nella luce morbida del pomeriggio.

«Accetto volentieri. Foto o non foto sono contenta che tu me l’abbia chiesto» disse dopo qualche istante. «Ma prima dobbiamo parlare un po’ più a fondo della comune in cui abitavi, poi torneremo sulla faccenda che ti sta più a cuore.»

«Vuoi ancora caffè?» domandai.

«Non restiamo qui. Preferirei che venissi con me giù a Borups Allé. Voglio sentire di nuovo tutta la storia, in modo particolareggiato e in circostanze più ufficiali.»

«E perché?»

«Borups Allé, Peter.»

«Devo vedere un vecchio amico verso le undici.»

«Posso prendere le foto?» mi chiese.

«Certo.»

«Grazie» disse lei alzandosi.

«Allora, quando ci vediamo?» domandai sentendomi un adolescente al primo appuntamento.

«Oggi pomeriggio, se puoi.»

«E la cena?» rilanciai.

«Ne riparliamo in ufficio.»

«Borups Allé. Devo dire così al tassista?» domandai.

Lei rise di nuovo.

«Peter. E la centrale di polizia di Bellahøj. È lì che hanno sede i servizi segreti. Non siamo mica in Spagna o in Russia: in Danimarca i servizi segreti sono sull’elenco del telefono. Chiedi di me all’ingresso.»

«Sull’elenco del telefono? Che paese meraviglioso!» dissi facendola ridere ancora.

16

La sede del telegiornale era un basso edificio di cemento all’ombra di un cartello con la scritta: Città della TV. Klaus mi aspettava dietro la doppia porta a vetri. Più che una redazione sembrava il quartier generale dei servizi segreti. La reception era stata smantellata, e lo spettacolo della scrivania deserta faceva pensare che i visitatori non fossero graditi. Ci salutammo con una stretta di mano.

«E questa sarebbe la sede di un telegiornale?» scherzai.

«Scrivi una lettera di protesta al direttore» ribatté Klaus con una risatina. «Non saresti il primo. Dai, vieni di sopra.»

Gli uffici erano tante piccole gabbie di vetro allineate. A quell’ora la redazione era tranquilla, i giornalisti al telefono oppure in giro a far riprese. Sulla scrivania di Klaus campeggiava un computer circondato dal disordine organizzato tipico dei giornalisti: quotidiani, ritagli, riviste e videocassette. Le immagini della CNN scorrevano mute su un televisore fissato al soffitto. Spostò una pila di giornali liberando una bassa poltroncina e mi pregò di sedermi. Uscì dallo stanzino e poco dopo riapparve con in mano un bicchiere di plastica colmo di caffè, si sedette sulla sedia girevole e mi sorrise. Dapprima chiacchierammo del più e del meno. Colleghi e amici comuni, lavoro. Poi gli raccontai di Lola e di dove l’avevo conosciuta. Prese appunti e mi chiese se sarei stato disposto a farmi intervistare se avessero deciso di approfondire il caso. Accettai, un po’ perplesso sull’interesse che quei dettagli avrebbero potuto rivestire per il pubblico. Riconobbe che l’attenzione per quella vicenda era destinata a calare, a meno che, naturalmente, Laila o Lola non venisse acciuffata. Chiesi di sapere come avessero scoperto che le sue referenze e i titoli di studio erano inventati. Frugò nel caos della sua scrivania e mi porse una cartellina di plastica piena di ritagli di giornali.

«È tutto qui dentro, Peter» disse. «È stato un giornalista del “Jyllands-Posten”, tale Jørgensen, con qualche banale telefonata. Ha intervistato Laila, o come cavolo si chiama, ma quando le ha fatto qualche domanda puntuale sul suo soggiorno a Mosca, la stronza gli è parsa evasiva. Alla fine si è addirittura incazzata. Jørgensen conosce il russo e ama tutte quelle cazzate sullo spirito russo eccetera, eccetera, allora, s’è impuntato, poi si è insospettito. C’erano cose che lei avrebbe dovuto sapere, persone che avrebbe dovuto conoscere i cui nomi evidentemente non le dicevano niente. In seguito, quando il mio collega le ha letto l’intervista, Laila ha diffidato “Jyllands-Posten” dal pubblicarla. Perché l’autore lasciava intendere che la sua conoscenza dell’arte contemporanea russa fosse piuttosto carente. In questi casi, sai come funziona, il sospetto che l’intervistato abbia qualcosa da nascondere diventa certezza, e scattano le indagini vere e proprie.»

A quel punto Klaus si alzò per andare a una riunione, mentre io rimasi a leggere gli articoli su Lola. I ritagli erano raccolti in ordine cronologico. Lola era stata assunta poco prima che la sede del nuovo museo venisse ultimata. La notizia aveva destato grande meraviglia negli ambienti artistici danesi. Ma il ministro della cultura era entusiasta del fatto che la prescelta fosse un outsider, e donna, per di più.

Del resto Lola vantava un curriculum di tutto rispetto: studi alla Sorbona, all’Accademia di Belle Arti di Mosca e a quella di Londra. Era stata contitolare di una prestigiosa galleria di New York, e aveva conoscenze influenti nell’ambiente artistico internazionale. Notai che aveva mentito sull’età, togliendosi un paio di anni. Sosteneva di essere figlia di una danese e di un lord inglese. Non aveva avuto figli dall’ex marito, l’artista russo Petrov. Questi era morto prematuramente a San Pietroburgo, in circostanze che Lola aveva declinato di specificare. Si era limitata a commentare che il materialismo della nuova Russia aveva messo a dura prova il suo sensibile animo d’artista. C’era di che farsi venire i lucciconi agli occhi. I due avevano divorziato nel 1987.

Nelle foto Lola appariva attraente, di un’eleganza fra il classico e il démodé che ricordava lo stile di Grace Kelly. Il suo danese era, stando ai giornalisti che l’avevano intervistata, raffinato, punteggiato di termini desueti. In un paio di immagini la si vedeva accanto a qualche uomo politico un po’ attempato e stretto in una giacca troppo piccola, intento a fissarla ammirato. Inizialmente la stampa locale era stata generosa con Lola. Ma dopo la mostra inaugurale erano arrivate le prime note negative. Una conferenza all’Accademia di Belle Arti si era trasformata in una farsa perché, secondo gli organizzatori, la Petrova non conosceva la propria materia. Il fondo cassa viaggi era in rosso. Erano stati richiesti stanziamenti straordinari. Alcuni dipendenti si erano licenziati.

Lola si era difesa, dichiarando di essere vittima dell’invidia e dello snobismo tipico dei danesi, sempre pronti a censurare le persone intraprendenti a colpi di «chi ti credi di essere?».

Infine era arrivato il momento della verità. Un pezzo in prima pagina del «Jyllands-Posten» raccontava che Laila Petrova aveva mentito. Le sue referenze, che nessuno si era preso la briga di verificare, erano false. L’articolo, molto efficace e ben scritto, raccontava come il responsabile delle pagine culturali di «Le Monde» avesse negato di aver mai annoverato una Laila Petrova fra i suoi collaboratori. La stessa risposta era emersa da altre telefonate a Londra, New York e Mosca. Laila Petrova pareva essersi effettivamente mossa in ambienti attigui al mondo dell’arte, alcuni personaggi avevano addirittura speso parole d’elogio sul suo conto, ma nessuno era in grado di confermare e documentare le tappe del suo iter accademico e professionale. Aveva menato per il naso un sacco di gente, forse contando sul fatto che anche chi non sa nulla di arte contemporanea (la stragrande maggioranza delle persone, in ogni tipo d’ambiente) di solito finge volentieri di intendersi dell’argomento. Lola era stata spudorata, aveva scommesso e aveva vinto. Non riuscii a trattenere una risata. In un contesto nel quale il confine fra ciò che è sublime e ciò che non merita la definizione di “arte” è effimero e inafferrabile come un fiocco di neve, il talento istrionico di Lola aveva dato frutti straordinari.

Dopo la denuncia da parte del «Jyllands-Posten», lo scandalo era montato rapidamente e ben presto Lola era sparita, insieme, si sospettava, a una quantità molto ingente di denaro pubblico.

Solo adesso, con il sacrificio del ministro della cultura, la crisi sembrava finalmente avviata a sgonfiarsi.

Fine della storia.

Stavo rimettendo a posto i ritagli quando Klaus comparve sulla porta dell’ufficio.

«Mi dispiace, ma devo andare a fare delle riprese» annunciò.

«Vado via anch’io. Grazie per avermi lasciato dare un’occhiata. Che ne è stato dei soldi? Le indagini della polizia a che punto sono?» gli domandai alzandomi.

«Ristagnano. La Petrova ha truffato l’establishment culturale, le istituzioni, e adesso il sistema è deciso a proteggersi insabbiando il caso. Il siluramento di ieri è il sacrificio rituale. L’offerta purificatrice. Adesso tutti desiderano che il museo sia lasciato in pace. È la solita retorica di comodo: Bisogna guardare avanti e non indietro! Eccetera, eccetera. Bla, bla, bla.»

«Vuoi dire che Lola rischia di passarla liscia?» conclusi.

«Vieni, ti accompagno all’uscita» disse avviandosi. «Finché si terrà alla larga dalla Danimarca, non le succederà niente.»

«Dove si sospetta che sia andata?»

«C’è chi dice a Londra. Chi a Tokyo. Altri ancora a Mosca. Nessuno lo sa. Io credo che la spunterà. E potrà scrivere nel suo curriculum di aver personalmente contribuito alla fondazione di un prestigioso museo danese. La gente desidera essere ingannata. Non aspetta altro» concluse quando fummo davanti al portone.

Concordammo che se avesse voluto chiedermi dell’altro mi avrebbe lasciato un messaggio al Royal. Mi avrebbe fatto piacere incontrarlo per un drink e due chiacchiere, ma percepivo che nella sua nuova vita non c’era posto per quel genere di incontri nostalgici. Preferiva godersi quella felicità domestica che io, inutile nasconderselo, gli invidiavo.

Passeggiai nel sole di Copenaghen, fermandomi a un chioschetto a mangiare un wurstel.

D’estate la città sorrideva; i suoi ritmi più umani e le strade silenziose, almeno in confronto a Madrid, erano un balsamo per la mia anima. Per la prima volta in molte settimane mi sentivo davvero bene, fiducioso che presto o tardi sarei tornato a vivere. E impaziente di rivedere Clara Hoffmann.

Clara mi indicò una sedia nella saletta riunioni della sede dei servizi segreti, all’ultimo piano di un brutto palazzo di cemento armato. Era una stanza piuttosto spoglia, non c’erano documenti sul tavolo, solo le mie due foto, un taccuino e un registratore. A un’estremità del tavolo era seduto un giovanotto che Clara presentò come il sottufficiale Karl Jakobsen. Clara prese posto accanto a lui. Il suo atteggiamento nei miei confronti era professionale, decisamente più distaccato di quello di qualche ora prima.

Il tassista che mi aveva portato all’appuntamento era un curdo iracheno dal danese un po’ stentato.

«Va a trovare le spie?» aveva domandato quando gli avevo comunicato la mia destinazione.

«Diciamo di sì» gli avevo risposto.

«Grande casino.»

«Casino?»

«Tu danese, vero?»

«Sì, ma non abito in Danimarca» avevo spiegato.

«Ah. Allora tu non sai. Servizi segreti hanno spiato partiti di sinistra legali, e ora grande casino.»

«Questo lo hanno sempre fatto, credo. Hanno sempre tenuto d’occhio comunisti, destrorsi, russi, nazionalisti, rappresentanti di estremismi di ogni colore. Sono pagati per questo, immagino.»

«Sì, ma adesso stati beccati. Un agente ha parlato in televisione.»

«Ah. Sono stati presi in castagna.»

«No, niente castagne. Hanno spiato ai danni di partito legale danese! Hanno scritto partito legale danese nei registri. Spiato curdi in Danimarca. Curdi legali in Danimarca, no? Grande casino.»

«Okay, ho capito» avevo mentito.

Adesso avrei voluto chiedere delucidazioni a Clara, ma l’atmosfera di ufficialità mi indusse a rimandare. Karl Jakobsen si alzò per stringermi la mano, quindi si rimise seduto e mi piantò addosso due penetranti occhietti castani. Gli ci sarebbe voluta una bella spuntata alle sopracciglia.

Clara accese il registratore.

«Peter Lime» esordì. «Cominciamo col…»

Allungai la mano, presi il registratore e lo spensi.

«Clara Hoffmann. Prima di registrare o fare qualsiasi altra cosa, devo sapere perché sono qui. Di cosa si tratta esattamente.»

«Qualche domanda» disse Karl Jakobsen già irritato. «Tutto qui. Qualche chiarimento…»

Lo ignorai. «Signorina Hoffmann…?»

«D’accordo» disse lei. «Che cosa vuole sapere, Lime?»

Jakobsen doveva essere un suo sottoposto. Comunque mi stava decisamente antipatico.

«A cosa vi serve la registrazione?»

«Deve solo raccontarmi ciò che già so. Che le foto le ha scattate lei. Deve dirmi in che occasione le ha scattate, e se è in grado di identificare le persone ritratte.»

«Non ha risposto alla mia domanda» insistetti.

Clara trasse un profondo respiro e lanciò un’occhiata a Jakobsen, impegnato a grattarsi la guancia mal rasata.

«Già. Stiamo preparando un rapporto ufficiale riguardante l’operato dei servizi segreti negli ultimi vent’anni. Una versione di tale rapporto sarà a disposizione dell’opinione pubblica, una seconda versione più approfondita andrà alla Commissione di vigilanza del Parlamento e una terza versione ancora più dettagliata sarà inviata al ministro della giustizia. Le informazioni che ci fornirà compariranno in quest’ultimo documento.»

«Perché vi interessa questa storia?»

Clara lanciò un’altra occhiata a Jakobsen. In quel momento compresi di essermi fatto ingannare: l’uomo era il superiore di Clara, ma aveva preferito giocare a carte coperte.

«Signor Lime. Evidentemente non legge regolarmente i giornali danesi. Altrimenti saprebbe che recentemente un nostro ex informatore ha dichiarato pubblicamente che i servizi segreti hanno spiato partiti politici legali in questo paese. Noi intendiamo dimostrare ai nostri interlocutori istituzionali che avevamo buoni motivi per farlo. Ma certi aspetti, certi particolari non riguardano l’opinione pubblica. Non ci stiamo preparando a un referendum.»

«Insomma volete poter dire “Guardate qui, una foto di tal Peter Lime dimostra che un nostro attuale deputato, eletto nelle file della sinistra, da giovane prendeva il caffè con i terroristi tedeschi!”. Così tutti concluderanno che avete fatto bene a tenere gli occhi aperti, anche se era illegale e se non è saltato fuori niente. È questo il ragionamento?»

«Le domande le facciamo noi, Lime» intervenne Karl Jakobsen spazientito.

«È questo il ragionamento, signorina Hoffmann?»

«Più o meno» rispose.

«Okay. Ho un’ultima domanda. Figuro nei vostri archivi?» domandai.

Clara guardò Jakobsen, quindi rispose:

«No. Non abbiamo niente sul suo conto».

«Accenda pure il registratore» dissi.

«Grazie, Signor Lime.»

Non fu una cosa lunga. Clara mi invitò a dire come mi chiamavo, dove vivevo, la mia professione. Poi, come preannunciato, mi chiese quando avessi scattato le due foto e se conoscessi l’identità delle persone ritratte. Naturalmente le interessava soprattutto il futuro deputato. Jakobsen intanto prendeva appunti senza staccare lo sguardo da me. Sicuramente non gli piaceva il mio codino, né la mia faccia, né la mia storia, né l’ostinazione con cui avevo preteso che rispondessero alle mie domande.

Quando ebbi risposto a tutte le domande, Jakobsen si alzò e se ne andò salutandomi con un frettoloso cenno del capo. Portò con sé il registratore.

«Che simpaticone!» dissi.

«Puoi passare domani a firmare la trascrizione?» chiese Clara. Notai con sollievo che eravamo tornati a darci del tu.

«Forse» risposi.

«Che vuoi dire?» fece un’espressione preoccupata. «Abbiamo poco tempo.»

«In cambio devi fare una cosa per me» dissi.

«Vengo volentieri a cena con te, te l’ho già detto. Indipendentemente da questa faccenda.» Posò la sua mano sulla mia e mi guardò negli occhi. Ero confuso e a disagio come un adolescente.

«Questo non c’entra» riuscii a dire dopo un istante.

«Allora di che si tratta?»

Confessai che m’interessava verificare se a Berlino esistesse un dossier su di me. Se c’era dovevo vederlo, ma non sapevo come muovermi e speravo che lei mi avrebbe aiutato.

«Non posso fare granché» disse.

«Potresti telefonare ai tuoi colleghi in Germania e procurarmi il permesso.»

«No. Lo farei, se fosse possibile, ma non posso. Dovrai fare domanda personalmente. I vecchi archivi della STASI sono pubblici, anche se la lista di richiedenti in attesa di poterli consultare è lunghissima. Esistono chilometri e chilometri di scaffali zeppi di archiviatori. La STASI aveva duecentottantamila dipendenti e un’infinità di informatori. L’intera DDR era un nido di spie. Tutti facevano rapporto su tutti. Molte persone oggi chiedono di sapere cosa è stato scritto su di loro.»

Clara staccò la mano dalla mia.

«Posso aiutarti a scrivere la lettera. Posso telefonare a un paio di conoscenze e sperare così di accelerare un po’ i tempi. Nient’altro. Ma tu, perché vuoi vedere il tuo dossier?»

«Potrebbe contenere la risposta a un interrogativo che mi tormenta. Forse scoprirò che non è così. Ma se non faccio questo tentativo, non riuscirò più a togliermi questo dubbio dalla testa» dissi.

Lei strappò un foglio dal suo taccuino e mi sorrise.

«Sai il tedesco?»

«Me la cavo.»

«Okay. Il posto si chiama: Bundesbeauftragter für die Unterlagen des Staatssicherheitsdienstes der ehemaligen Deutschen Demokratischen Republik» intanto scriveva. «Ha sede nel vecchio quartier generale della STASI, in Normannenstrasse. La STASI disponeva di un enorme complesso di uffici che occupava diversi isolati. Al crollo del Muro, quelli della STASI provarono a distruggere e a bruciare quanto più materiale possibile. Ciò nonostante, ci sono milioni di documenti accessibili al pubblico. Ma è questo il punto: sono a disposizione di chicchessia, e le persone schedate hanno la precedenza. Capisci? Non posso fare in modo che tu passi davanti a tutti, anche se faccio parte dei servizi segreti di un paese amico. Questo è l’aspetto democratico e disperante della faccenda.»

Annuii.

«Correntemente l’ufficio in questione è noto come: autorità-Gauck. L’idea dell’accesso libero, infatti, fu sostenuta da Joachim Gauck, un sacerdote della DDR. Devi scrivere a loro. Nella lettera dirai che ritieni di essere stato schedato. L’ufficio controllerà, e in caso affermativo, riceverai una lettera con indicata la data in cui potrai prendere visione del tuo dossier. Prima di mostrartelo, naturalmente, lo ripuliranno, per tutelare la privacy di eventuali terzi innocenti che vi compaiano.

È un’opportunità che non ha precedenti nella storia. Né i paesi democratici né quelli socialisti hanno mai accordato così ampio accesso ai loro archivi. Per un verso mi fa piacere. Per un altro mi spaventa.»

«Hai scritto l’indirizzo e l’intestazione esatti?»

«Posso scrivertele io le lettere, Peter. Tu ti limiterai a firmarle. Se vuoi.»

«Perché no?» Accettai.

«Non sempre la gente esce serena e soddisfatta dall’esperienza che tu chiedi di fare.»

«Cosa intendi?»

«La verità non è sempre indispensabile. Mentire è sbagliato. Ma la verità, tutta la verità può fare molto male. È un po’ come per le cartelle cliniche. È sempre preferibile sapere tutto? Io credo di no.»

Un’ombra le attraversò il viso. Era una donna strana. Avevo l’impressione che dietro la facciata disinvolta ed energica nascondesse un dolore, una delusione o una perdita di qualche tipo.

«Ma nel mio caso, credi anche tu che cercare delle risposte sia una buona idea, non è vero?» le chiesi.

«Sta a te decidere. Ma potrebbe essere interessante.»

«E se dovessi trovare qualcosa di utile per la tua relazione, vorresti essere informata?»

«La nostra relazione deve essere consegnata fra un paio di giorni, mentre l’attesa di una risposta da parte dell’autorità-Gauck può essere di diversi mesi.»

«Però…»

«Va bene, lo ammetto» disse.

«Ma adesso pensiamo alla cena. A che ora e dove, Peter?» domandò dopo un momento.

17

Uscii a comprare un abito estivo, una camicia nuova, una cravatta e un paio di scarpe. Tornai in albergo, mi preparai, poi chiesi alla reception di procurarmi una macchina con cui andai a prendere Clara al suo indirizzo di Vesterbrogade. Indossava un vestito estivo chiaro e si era truccata gli occhi e la bocca, annuì divertita quando cerimoniosamente la aiutai a salire in macchina e chiusi la sua portiera prima di tornare al volante e avviare il motore. Al collo portava una semplice catenina con un monile d’oro a forma di serpente.

«Sei elegantissimo» disse.

«E tu sei uno schianto.»

Non conoscevo ristoranti speciali a Copenaghen e all’inizio avevo pensato al Tivoli, ma poi, su suggerimento dell’albergo, avevo optato per Regattapavillonen. La scelta si rivelò ottima. L’albergo aveva prenotato per noi un tavolo d’angolo con vista sul lago. Prima di sederci, su proposta del cameriere, prendemmo un aperitivo sul terrazzo. Il vento era calato e il Lago di Bagsværd si stendeva scintillante come un antico vassoio d’argento. Lungo le sue sponde la gente passeggiava, a coppie o in compagnia dei cani, oppure faceva picnic.

Probabilmente il Royal aveva indirizzato lì anche altri ospiti, perché tra gli avventori del ristorante molti erano rispettabili signori in abito scuro intenti a parlare d’affari in inglese. Clara e io raggiungemmo il nostro tavolo appartato e continuammo la conversazione iniziata sul terrazzo. Era decollata a stento e in maniera un po’ goffa, come se di colpo non avessimo nulla da dirci. Ma poi la prospettiva del silenzio aveva cessato di sembrarmi una minaccia e mi ero rilassato. Alla nostra età, sforzarci di dissimulare l’imbarazzo blaterando a ruota libera sarebbe stato sciocco.

Nel fare le ordinazioni chiacchierammo di vini, poi inventammo una storia sugli uomini d’affari vestiti di scuro.

«Forse quello alto è una delle spie a cui davi la caccia un tempo, all’epoca della guerra fredda» dissi.

«Un tempo?» ribatté lei. «Credi forse che dal crollo del Muro sia rimasta a girarmi i pollici? Al contrario! Russi, curdi del PKK… in questo paese non mancano certo le possibili fonti di pericolo per la sicurezza dello stato.»

«Non l’ho detto per farti parlare del tuo lavoro. Non mi interessano particolarmente gli uomini con la barba e gli occhiali dalle lenti riflettenti.»

«Hai ragione, neppure per me è sempre facile trovarli interessanti.»

«Come sei finita nei servizi segreti?»

«Dopo la scuola di polizia prestai servizio a Esbjerg, ma poi ebbi la fortuna di essere assunta presso la polizia di Copenaghen. All’epoca non c’erano molte donne in polizia, e questo forse rappresentò un vantaggio per la mia carriera. Presto saltò fuori l’opportunità di una promozione nella polizia investigativa, e io la colsi al volo. Il lavoro era interessante, imparai il russo.»

«Giusto in tempo per assaggiare il clima della guerra fredda, l’età dell’oro di tutte le spie» la stuzzicai.

«Solo l’ultimo scorcio. Ma quelli del KGB rimasero attivi fino alla fine. Quando compresero cosa stesse per succedere era tardi, cercarono di rovesciare Gorbaciov, ma fallirono.»

«Per fortuna.»

«Già. Per fortuna» disse lei, mi parve senza eccessiva convinzione.

La conversazione languì per qualche minuto, ma con l’arrivo dell’antipasto e poi della portata principale ricominciammo a parlare di paesi lontani e di viaggi. Finita la prima bottiglia ne ordinammo un’altra. Continuai a bere nonostante i campanelli d’allarme del mio cervello stessero suonando da un pezzo. Il suo lavoro non l’aveva mai portata in Oriente, in compenso era stata numerose volte negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, che le piaceva molto. Quello era uno dei pochi paesi che non avevo visitato. Clara mi fece parecchie domande sul mio lavoro, che, pensai, probabilmente disprezzava un po’.

«Soddisfo una domanda, un bisogno che la gente manifesta da che mondo è mondo» mi giustificai.

«Lo stesso vale per una prostituta» ribatté lei.

Scoppiai in una risata.

«Okay. In tal caso la stampa è il protettore, il magnaccia, perché senza di lei — e i suoi clienti, naturalmente — sarei disoccupato.»

«Dal tuo punto di vista è un lavoro come un altro?» mi chiese.

«Veramente non lo so. La questione è più complicata di quanto non sembri. La caccia mi è sempre piaciuta. I preparativi, le ricognizioni, la pianificazione, la cura dei particolari… I risultati, le foto, mi interessano assai meno.»

«Vale anche per me» ammise.

«Già. La caccia ti entra nel sangue. Esiste un legame ambiguo fra i paparazzi e le loro prede. In certi momenti sono loro a usarci. In occasione di un divorzio, una lite per motivi economici. Per attirare l’attenzione, soprattutto se sentono di essere sul punto di essere dimenticate. Ma ecco che a un tratto ci trattano da torturatori, si sentono perseguitate e vorrebbero solo che le lasciassimo in pace. Vorrebbero essere loro a decidere se e quando stare al gioco.»

«Ma voi non lo permettete.»

«Proprio così.»

«Comunque, non voglio dare l’impressione di giudicarti.»

«Sta’ tranquilla» dissi. «Anch’io ci penso parecchio. Mi chiedo se non sia giunto il momento di smettere. Quel che mi indigna di più è l’ipocrisia di fondo. E il cinismo.»

«Quando Diana morì, il redattore di un settimanale danese giurò che non avrebbe mai più pubblicato le foto dei — come li hai chiamati? — ah, sì, paparazzi.»

«Scommetto che non mantenne fede al giuramento.»

«Certo che no.»

«Ecco, visto? Il mondo è pieno di ipocriti» dissi. «C’è troppo denaro in ballo.»

«Il dio degli anni Novanta.»

«Comunque, leggo riviste scandalistiche solo dal parrucchiere» disse lei con aria ironicamente sdegnosa.

«Dicono tutte così!» ribattei levando il bicchiere, e brindammo.

Le domandai ancora della Nuova Zelanda, e quando prese a raccontare di una casetta che aveva preso in affitto sulla costa, di colpo cominciò a dire «noi» e «nostra». Dovette rendersene conto dalla mia espressione.

«Dico “noi”, ma naturalmente non siamo più in due» si corresse, e prese un altro sorso di vino.

«Non vedo la fede» dissi.

«Mentre tu porti ancora la tua.»

Per un momento tutto si oscurò. A un tratto sentivo freddo. Lei si accorse del mio turbamento e posò una mano sulla mia.

«Peter, perdonami.»

«Non hai detto niente di male.»

«La mia la gettai nel water la sera in cui Niels rientrò per dirmi che avrebbe fatto le valigie, ma non voglio annoiarti con questa storia.»

«Se hai voglia di parlarne, mi lascio tormentare volentieri» dissi io.

«È una storia assolutamente banale, ordinaria. Come ce ne sono a migliaia.»

«Quasi tutte le storie della vita sono già accadute a qualcun altro, ma non per questo sono meno originalmente dolorose per chi le vive» dissi.

Clara mi chiese una sigaretta e prese a raccontare in tono obbiettivo, nonostante il dolore evidente di dover tornare su quei fatti.

Si era messa con Niels che era ancora a scuola. Si erano sposati quando lei aveva compiuto ventuno anni ed era in procinto di entrare nella scuola di polizia. All’epoca lui ne aveva venticinque e dopo un paio di infruttuosi anni a Giurisprudenza si era iscritto a Scienze Politiche.

I soldi non erano un problema, il suo stipendio da recluta della polizia non era male. Erano stati felici, disse. Credevano di essere fatti l’uno per l’altra. Il loro rapporto, come tutti, aveva avuto alti e bassi, ma era sopravvissuto al suo trasferimento a Esbjerg, quando lui era rimasto a Copenaghen a causa di un impiego promettente al Ministero delle finanze. Poi lei era tornata in città, si erano trasferiti da un appartamento piccolo a uno più grande, infine in uno decisamente elegante, nel quartiere di 0sterbro, ottenuto a un prezzo vantaggioso grazie alle conoscenze politiche di lui. Frequentavano molto la famiglia di Niels. Clara era figlia unica, i suoi l’avevano avuta in età matura ed erano morti a poca distanza l’uno dall’altra quando lei aveva trentuno anni. Suo padre aveva lavorato tutta la vita per le ferrovie dello stato, la madre in un asilo. I genitori di Niels erano insegnanti di liceo, e anche se lui non lo aveva mai detto apertamente, Clara aveva l’impressione che suo marito trovasse i suoceri un po’ noiosi, forse troppo “semplici”.

All’inizio avevano frequentato amici comuni, poi pian piano aveva prevalso il giro di Niels, fatto soprattutto di colleghi del ministero. A Niels il lavoro di lei interessava poco, si capiva che non teneva la categoria dei poliziotti in grande considerazione, e le rare volte in cui lei invitava a casa dei colleghi, lui li trattava con una certa condiscendenza.

Con il progredire della sua carriera, Niels aveva cominciato a viaggiare molto, soprattutto a Bruxelles, a causa dell’Unione Europea. Lei era passata al controspionaggio, ed entrambi erano molto presi dalle rispettive professioni. C’erano aspetti del lavoro di Clara di cui lei non poteva parlare neanche con il marito; d’altro canto al ministero avevano luogo discussioni politiche riservate il cui contenuto Niels era implicitamente tenuto a non rivelare.

Ma condividevano molte altre cose, e per anni Clara aveva continuato a considerarsi felice.

Vuotò il bicchiere, e io le versai dell’altro vino. Il suo racconto era stato lungo, e fuori era quasi completamente buio. Il cameriere ci domandò se gradissimo un dessert; quando lei scosse la testa ordinai due caffè.

«Però Niels e Clara non vissero per sempre felici e contenti…» dissi.

«Come sei arguto» ribatté amaramente.

«Perdonami.»

«Non ti preoccupare. Ovviamente hai ragione. Una coppia non dura in eterno, non vive felice e contenta “finché morte non la separi”. Si è tentati di crederci per un attimo, magari davanti all’altare, ma la ragione presto capisce che si tratta di un progetto impossibile.»

«Spero proprio che ti sbagli» dissi.

«Sotto quella scorza dura mi sa che sei un gran romantico, eh Lime?»

«Lo ero.»

«Certe volte mi dimentico del lutto che hai subito. Scusami.»

Non sapevo cosa dire.

Il cameriere portò il caffè.

«Poi che accadde?» domandai.

«Un giorno rincasò e mi disse che avrebbe voluto divorziare. “Vorrei divorziare”, disse proprio così. Non è buffo? Quasi mi chiedesse un favore. Aveva trovato quel che si potrebbe definire “un modello più recente.” Lei era una funzionaria a Bruxelles. Avevano una relazione da più di un anno.»

«Se non altro, non era la sua segretaria» dissi.

«Che battuta stupida. Che differenza avrebbe fatto?»

«Hai detto che era una funzionaria. Sicuramente era una giurista o laureata in scienze politiche, o qualcosa del genere…»

«Giurista, francese, trentadue anni, bella, affascinante… molto femminile» disse Clara.

«Ecco, visto? C’è voluto parecchio per conquistarlo. Non ti saresti sentita peggio se avesse avuto venticinque anni e fosse stata la segretaria di tuo marito?»

Lei mi guardò.

«Peter. Certe volte mi sorprendi veramente. Sì, sarebbe stato diverso, credo. Ma non ci avevo mai pensato prima d’ora. Sarebbe stato troppo stupido, anche per Niels.»

«Che mi dici di te? Ti sarai trovata un amante» azzardai.

Lei mi lanciò un’occhiata che diceva che si era aspettata quella domanda, anche se non così presto.

«Non ho nessuna relazione, Peter, se è questo che vuoi sapere. C’è stato qualche incontro dopo Niels, ma niente di stabile.»

«E poi?» domandai.

«Lo cacciai di casa quella notte stessa e fui fredda come un ghiacciolo quando, tempo dopo, venne a dirmi che era stato tutto uno sbaglio. Era già risposato. Aveva avuto una gran fretta. E adesso “avrebbe voluto” divorziare per la seconda volta e tornare da me. Mi fece quasi pena. Aveva preso un abbaglio, insisteva. La riscoperta della propria virilità gli aveva dato alla testa. Ma una volta estinta la prima fiamma, non era andata come si aspettava.»

«Divorziò di nuovo?»

«No, no» rispose gongolante. «È ancora sposato con la francese, e lei lo tradisce in continuazione, a quanto ho sentito. Chi la fa l’aspetti.»

«E questo ti rende felice.»

«Felice è esagerato.»

«Provare un desiderio di vendetta e vederlo soddisfatto, probabilmente risparmierebbe alla gente un sacco di pillole o di bottiglie» dissi.

«Yes» confermò con un sorriso dietro cui si intravedeva il dolore. Non so se fosse il dolore della sconfitta, delle speranze infrante oppure quello di essere stata respinta, ma sicuramente non era uscita da quell’esperienza indenne come si era sforzata di farmi credere.

Pagai il conto e la accompagnai a casa. Scesi per scortarla fino al portone. Per un momento parve considerare l’idea di invitarmi a salire, ma poi disse:

«Se firmi dopodomani, riavrai le foto».

«Firmerò se accetti di pranzare con me.»

«Sono una donna che lavora.»

«Appunto. Domani a pranzo hai un appuntamento con un agente. Peter Lime.»

«D’accordo, Peter Lime. Però offro io» disse e mi baciò sulla bocca, in modo lieve e fugace ma eccitante, sfiorandomi con la punta della lingua. Tornai in albergo con il cervello e il cuore in fibrillazione.

Il mio buon umore resistette anche nei giorni seguenti, nonostante Clara dichiarasse di non potermi incontrare a causa di impegni di lavoro. Lo disse in modo convincente e io le credetti. Anche la firma della trascrizione fu rinviata, ma ero fiducioso, perché al telefono era carina come sempre e sapevo che presto ci saremmo rivisti.

Giocai a fare il turista, feci il giro dei canali in battello e pranzai a Grøften, al Tivoli, dove m’imbattei in un vecchio collega, con cui chiacchierai come ai vecchi tempi. Non sapevo esattamente cosa mi aspettassi da Clara, né che cosa lei volesse da me, ma per il momento non mi importava. Riuscivo a moderarmi nel bere, tanto che al mattino riuscivo a ricordare i miei sogni. Spesso erano sogni erotici, eccitanti e vagamente sinistri, nei quali andavo a letto con molte donne diverse, tutte senza volto.

Firmai la mia deposizione qualche giorno dopo al quartier generale dei servizi segreti di Borups Allé e mi restituirono le foto. Clara era presente, insieme a due colleghi che mi ringraziarono per la cortese collaborazione e si allontanarono con il documento.

Allora Clara mi consegnò la lettera per l’autorità-Gauck di Berlino. Di colpo quella questione mi pareva lontana. La verità era che quel soggiorno danese si era trasformato in una specie di vacanza. Nella lettera mancava il mio indirizzo di Madrid, aggiunsi a mano quello dell’ufficio e firmai.

Clara vi avrebbe allegato una nota ufficiale di sollecito con il timbro dei servizi segreti danesi e avrebbe inviato il tutto tramite, come disse, i soliti canali.

Tre giorni dopo mi invitò a pranzo in un ristorante che si chiamava KGB, nella stessa strada in cui, prima del crollo della cortina di ferro, aveva avuto sede il Partito Comunista Danese. Era un locale spoglio ma piacevole, che ben si intonava all’atmosfera della fresca estate danese. Non mancava qualche tocco d’ironia: alcune parti dell’impianto elettrico erano state lasciate a vista per richiamare l’inconfondibile “stile” delle opere pubbliche in un contesto di socialismo reale. In bagno un altoparlante diffondeva ossessivamente la registrazione di una lezione di russo.

Il menù era tutto russo, con bortsch, diverse marche di vodka, blinis e caviale. Prevedibilmente, la giovane cameriera indossava un paio di pantaloni militari e un vecchio berretto con un grande stemma del KGB. Insieme al cibo ordinammo due birre, cui io feci seguire una vodka.

«Mi hai portato in un posto proprio buffo» dissi abbracciando con lo sguardo il locale. «Ecco che una sistema politico tra i più brutali e agghiaccianti che la storia abbia mai partorito è stato trasformato in kitsch.»

«Quando ci penso mi sembra ancora strano» disse Clara.

«Che cosa?»

«Il Muro di Berlino sia sparito. Se vuoi vederne le tracce devi cercarle. Quasi come se non fosse mai esistito, se non fosse costato tante vite umane. L’Unione Sovietica non esiste più. Il mondo è cambiato in maniera radicale e nessuno sembra dare peso a questo fatto.»

«Molti sogni furono risucchiati da quell’incubo. Alcuni di quei sogni hanno ancora un valore, io credo» dissi.

«Il socialismo reale fu un’aberrazione. Non possiamo rischiare di dimenticarlo, perciò non bisognerebbe avere fretta di trasformarlo in una parodia kitsch. Chi frequenterebbe un ristorante intitolato alle SS o alla Gestapo?»

«Sei stata tu a scegliere questo posto, mi pare.» dissi.

«Volevo che lo vedessi.»

«Perfino il KGB è finito in barzelletta.»

Assunse un tono serio:

«È proprio questo il punto, Peter. Il KGB una barzelletta? Può darsi: una barzelletta che ha distrutto milioni di vite umane. Passa la voglia di ridere, non ti pare? Sembra che tutti abbiano già rimosso le memorie del Gulag, nessuno ricorda che molta gente, anche in questo paese, un tempo appoggiava quel sistema e ne auspicava l’avvento in tutta Europa. Non è strano?».

«Molti giovani credono che DDR sia il nome di una marca di deodorante. Ma poteva andare peggio. Il socialismo reale avrebbe potuto affondare nel sangue, invece si è sgonfiato in modo relativamente incruento, mentre tutto il mondo stava a guardare con un grosso sorriso stupito sulle labbra.»

«Può darsi» disse lei.

Dopo un momento le presi la mano.

«Perché non ti prendi il resto della giornata per stare con me? Potremmo giocare a fare i turisti. Vorrei invitarti al Tivoli. O a Dyrehaven, o a fare una passeggiata su Strøget. O a Malmø. O a Parigi.»

Lei mise una mano sulla mia e disse:

«Ho già chiesto e ottenuto un permesso per questo pomeriggio, Peter. Ultimamente mi sono ammazzata di straordinari, e ieri abbiamo consegnato il nostro rapporto. Abbiamo potuto chiuderlo anche grazie al tuo contributo. Perciò, sì, grazie. Volentieri.»

«Cosa vuoi fare?» domandai.

«Mi piacerebbe andare al mare. L’estate non durerà in eterno» disse.

«Ottima idea.»

«Prenderemo la mia macchina.»

«Non ho il costume da bagno.»

Mi lanciò un’occhiata maliziosa.

«Nessun problema. Il posto in cui andiamo non è molto frequentato, almeno in un giorno feriale. Rischiamo di ritrovarci soli io e te.»

18

Clara era una guidatrice veloce e sicura. La sua Ford Escort azzurra ci portò non a nord, come mi ero aspettato, ma a ovest, lungo l’autostrada per Holbæk, e di lì su, in direzione di Odsherred e Sjællands Odde. La nostra meta erano le spiagge dello Sjælland, dove lei andava in vacanza da bambina. I suoi erano stati proprietari di una casetta a Sjælands Odde, ma quando l’aveva ereditata Niels l’aveva convinta a venderla. Evidentemente quella zona non era abbastanza mondana per i suoi gusti.

La Danimarca era un posto strano. Vista dall’esterno offriva l’immagine di un piccolo paese socialmente omogeneo, diffusamente benestante, nel quale tutti abitavano in case simili, guidavano le stesse automobili di media cilindrata, e indossavano gli stessi vestiti informali. Ma, a grattare sotto la superficie, emergeva una realtà diversa, molto stratificata, fatta di tribù separate e reciprocamente impermeabili. Le discriminanti fra un gruppo e l’altro non erano di natura economica, come quando ero piccolo io, riguardavano piuttosto la sfera delle opinioni. Si socializzava con coloro che condividevano la tua visione del mondo, si traslocava nel loro quartiere, si leggevano gli stessi libri e si frequentavano gli stessi luoghi di villeggiatura. Non c’era da meravigliarsi del fatto che gli stranieri faticassero a inserirsi nel tessuto sociale del paese: gli stessi danesi avevano difficoltà ad accettarsi e a riconoscersi gli uni negli altri. A dispetto del comune culto della bandiera nazionale, dei reali e delle squadre di calcio, i danesi erano un popolo diviso da profondi pregiudizi.

Condivisi quei pensieri con Clara mentre viaggiavamo nella luce del pomeriggio. Il vento profumato di stoppie entrava nell’abitacolo attraverso i finestrini abbassati scompigliandole i corti capelli.

«Lavoro nella polizia. Conosco bene le tensioni e i contrasti che attraversano la società spaccandola in due, da un lato i due terzi privilegiati della popolazione, dall’altro gli emarginati. Noi “inseriti” non offriamo agli altri vere chance di riscatto. Però siamo saggi: li rabboniamo con i sussidi. La classe media accetta la forte pressione fiscale in nome della pace sociale.»

«Ohi ohi. La poliziotta parla da rivoluzionaria» la stuzzicai.

«Al contrario. A quelli come me questo sistema sta benissimo. Come diceva Niels, tutti i borghesi qui sono socialdemocratici per definizione, quindi tanto vale iscriversi al partito e ottenere i privilegi annessi.»

«Come un bell’appartamento in centro a un prezzo di favore?»

«Perché no?»

«Così ti sei iscritta anche tu?» domandai.

«No. Non sono iscritta a nessun partito.»

Sorpassò disinvoltamente una macchina salutando ironicamente il conducente e lampeggiando furiosamente mentre riportava la Escort nella corsia di destra.

«Nel traffico noi danesi siamo dei veri individualisti» si giustificò. «Ritroviamo il vichingo che è in ognuno di noi.»

Risi insieme a lei. A un tratto, come per magia, il golfo di Sejrø apparve azzurro e scintillante alla nostra sinistra, superammo un colle e ci ritrovammo con il Kattegat sulla destra e una riga di villette sulla sinistra. Clara svoltò a sinistra, imboccando una strada asfaltata che presto divenne un viottolo sterrato. Parcheggiò davanti a una distesa d’erica. Diritto davanti a me, tra gli alberi, riuscivo a scorgere il mare.

Prese una borsa di paglia dal bagagliaio. Gliela tolsi e vidi che conteneva due asciugamani, una coperta, un termos e un paio di tazze di plastica.

«C’è anche un costume per te.»

«Avevi programmato tutto» risi.

«Il mio non era un piano, ma una speranza» disse lei. «Se avessi detto di no sarei venuta qui da sola. Te l’ho detto, è uno degli ultimi giorni d’estate. Bisogna goderselo. Vieni!»

La seguii obbediente attraverso il campo profumatissimo. In lontananza, protette da boschetti di pini, sorgevano grandi ville bianche, ma sulla spiaggia non c’era nessuno. La baia si apriva placida e azzurra. Stendemmo la coperta in un avvallamento fra le dune erbose, dietro un grosso cespuglio di rose canine. Faceva caldo rispetto al mattino. Clara mi voltò le spalle e si sfilò la camicia, si slacciò il reggiseno e indossò il pezzo sopra di un bikini, quindi si tolse i jeans e gli slip e si infilò l’altro pezzo. Il suo corpo era abbronzato, di una snellezza morbida e seducente. Si girò indicandomi con un sorriso ironico un paio di boxer blu.

«Dai, forza!» disse in un tono che mi rammentò l’insegnante di ginnastica che avevo avuto alle elementari.

«Subito, signora professoressa.»

Clara raggiunse il bagnasciuga e avanzò con cautela sul fondo sassoso per un paio di metri, poi si tuffò in avanti e cominciò a nuotare verso il largo con lunghe e poderose bracciate. Mi infilai i boxer ed entrai in mare. Lei superò la prima secca, poi smise di nuotare e cominciò a sguazzare infantilmente agitando le gambe e sollevando spruzzi come un delfino. Mi inoltrai sui sassi. C’era un piacevole odore di alghe e salsedine. Era come il mare di San Sebastián, particolarmente salato e fresco: sentii uno stupendo formicolio in tutto il corpo quando mi tuffai in avanti e cominciai a nuotare a crawl verso Clara. L’acqua sapeva di pulito e quando mi immergevo vedevo chiaramente i pesci stagliarsi contro il fondale sabbioso. Ero felice, della stessa gioia che provavo da bambino, quando un giorno trascorso sulla spiaggia si confondeva impercettibilmente con il successivo, e la notte dormivo un sonno dolcissimo.

«Non è meraviglioso? Godersi un giorno così mentre tutti gli altri sono al lavoro!» disse Clara quando la raggiunsi. Si distese pigramente sulla schiena lasciandosi scivolare un po’ più al largo, poi si alzò in piedi in un punto in cui l’acqua le arrivava appena all’ombelico. I suoi capezzoli premevano contro la stoffa sottile del bikini, e la pelle d’oca faceva rilucere il suo corpo. Restammo in acqua per più di mezz’ora, a giocare con un abbandono che non sperimentavo da anni. Quando ci venne freddo, tornammo verso la riva deserta.

Lei si voltò di spalle e si asciugò, mentre io contemplavo la pelle liscia della sua schiena. Aveva una piccola voglia vicino alla scapola sinistra. D’impulso mi avvicinai, le presi l’asciugamano e cominciai a strofinarglielo addosso con delicatezza, prima sulla schiena, poi lungo le gambe. Ci guardammo negli occhi e la baciai, prima con dolcezza e quasi con cautela, poi con foga. Il desiderio mi colpì come una rivelazione, inequivocabile eppure sorprendentemente nuovo. Le tolsi il reggiseno del bikini e sentii le sue mani scivolare giù per la mia schiena e sotto i boxer. Restammo nudi sulla coperta calda di sole, al riparo del cespuglio di rose.

Il mio desiderio cresceva con le nostre carezze, ma quando entrai dentro di lei qualcosa si spezzò. Mi staccai dal suo corpo improvvisamente freddo con il cuore che mi martellava in petto impazzito, come se avessi appena avuto l’orgasmo più intenso del mondo. Invece mi sentivo svuotato, furioso e disperato, trafitto da un lancinante, irrazionale senso di colpa.

Mi trassi a sedere in modo da volgerle le spalle, sentii la sua mano che scivolava giù per la mia schiena, poi lungo la coscia.

«Non fa niente, Peter» sussurrò. Il ritmo del suo respiro era ancora accelerato. «Non ho fretta.»

Senza parlare mi alzai e mi rivestii in fretta. Avevo la bocca amara. Mi costrinsi a guardarla. Era sdraiata su un fianco. I seni e i peli scuri del sesso mi parvero improvvisamente osceni nel sole pomeridiano.

Mi voltai incamminandomi verso le ville.

«Peter, accidenti» disse. «Peter! Resta qui. Peter.»

Accelerai il passo, quindi mi misi a correre. Il sangue mi ronzava nelle orecchie, allontanando il suono della voce di Clara che mi chiamava. Nel punto in cui il sentiero curvava verso le ville, mi voltai. Lei mi guardava, la parte inferiore del corpo avvolta nell’asciugamano azzurro, ritta sullo sfondo di un mare lucido come ghiaccio.

Ripresi a correre, fermandomi solo quando sentii che i polmoni erano sul punto di esplodere. Affannato, mi sedetti su una zolla erbosa.

Non sapevo in che direzione avevo corso, ma la lingua di terra in quel punto era stretta, e girando la testa scorsi il Kattegat che spuntava tra un paio di alte betulle. Rimasi seduto per un po’ con la testa fra le mani. La mia T-shirt era fradicia di sudore. Quando ripresi il controllo della respirazione, mi accesi una sigaretta e mi avviai lentamente verso il Kattegat. Sulla via della spiaggia avevamo superato un droghiere. Lì avrei potuto chiamare un taxi e trovare qualcosa da bere.

Così feci. Comprai una bottiglia piccola di vodka e una Coca da mezzo litro, e mentre aspettavo il taxi di fronte al negozio, bevvi la vodka liscia sciacquandola con la Coca finché la bottiglia di plastica della bibita fu mezza vuota. Poi ci versai la vodka. Avevo voglia di piangere, invece continuai a bere.

Il tassista era un giovanotto con la barba bionda lunga di qualche giorno.

«Devo andare a Copenaghen» gli dissi prendendo posto sul sedile posteriore.

«È lontana» ribatté quello con uno sguardo perplesso ai miei capelli arruffati, i jeans e la T-shirt sudata.

«Non che non mi fidi, ma sei sicuro di avere abbastanza denaro?»

«Sto all’Hotel Royal di Copenaghen» dissi aprendo il portafogli per mostrargli le mie carte di credito.

«D’accordo, monta» rispose. «Hai perso il traghetto?» continuò nel tono spiccio e diretto con cui un certo tipo di danese si rivolge a chiunque incontri, siano essi amici o sconosciuti.

«Stanimi a sentire» dissi. «Ti prometto cento corone di mancia, ma a una condizione.»

Lui si voltò a guardarmi, un’espressione interrogativa negli occhi azzurro pallido.

«Che tu non dica una sola parola finché non saremo al Royal. Nemmeno una» dissi.

«Non so esattamente dove si trova il Royal. È l’albergo della SAS? Quello vicino alla Rådhusplads?»

«Sì, proprio quello. Staremo in silenzio finché arriveremo in città, poi ti darò le indicazioni. Una sola parola, e addio mancia.»

«Per me va bene» disse lui e avviò la grossa Mercedes.

Mantenne la promessa. Quando accostò davanti al Royal avevo finito la vodka. Gli diedi le cento corone in contanti oltre alla corsa che pagai con la carta di credito, e lui si apprestò a tornarsene tutto soddisfatto a Odsherred.

Entrai nella lobby e andai a ritirare la chiave. Quando mi voltai mi trovai di fronte Oscar.

«Ah, eccoti qui. Accidenti, è tutto il giorno che ti aspetto» disse avvolgendomi nelle sue lunghe braccia.

«Ciao, Oscar. Che ci fai qui? C’è anche Gloria con te?» chiesi stupito.

«È su in camera. Come stai?»

«Da schifo» risposi.

«Si vede. Ci dai dentro con l’alcol, eh, Lime? Ma sta’ tranquillo. Adesso è arrivato il settimo cavalleria. Ti salveremo dai pellerossa, vedrai.»

«Voglio un drink» dissi.

«Va’ al bar, intanto io chiamo Gloria.»

«Dille che non ho voglia di prediche, non oggi».

«Agli ordini, amico mio» disse Oscar.

Gloria ci raggiunse immediatamente. Mi baciò tre volte secondo l’uso spagnolo, mi abbracciò, poi si scostò tendendo le mani sulle mie spalle per esaminarmi meglio. Scosse la testa, ma saggiamente si astenne dal fare commenti. Con un’occhiata eloquente al mio whisky e a quello di Oscar, ordinò un bicchiere di vino bianco. Aveva un’aria rilassata e molto spagnola nel vaporoso e sgargiante vestito che contrastava con il nero dei capelli. La vacanza l’aveva ringiovanita. Anche Oscar aveva un’aria fresca e riposata. Evidentemente i due stavano attraversando uno dei loro periodi di rinnovata passione, perché non potevano fare a meno di toccarsi in continuazione. Oscar guardava la moglie con un’espressione che comunicava desiderio misto alla gioia del possesso, come a dire: guardate la mia donna, non è bellissima? Hei, ricordatevi sempre che è mia.

Mi faceva davvero piacere rivederli, e li misi a parte di quanto era accaduto dall’ultima volta che ci eravamo visti. Mi ascoltarono con attenzione e partecipazione, e quando giunsi alla catastrofica gita al mare, Gloria mi accarezzò la guancia.

«Povero Pedro» disse.

La sua non era commiserazione, ma empatia. Credevo di essere riuscito a incapsulare e superare il dolore per la morte di Amelia di Maria Luisa: mi ero sbagliato.

Gloria si accese una sigaretta, Oscar ordinò un altro giro. Accusavo l’effetto dell’alcol, ma ero lontano dall’essere ubriaco.

«So che non è nel tuo stile, Peter» disse Gloria. «Ma non pensi che forse dovresti farti aiutare da un professionista?»

Non sapevo cosa rispondere e Gloria continuò:

«A Madrid conosco un bravo psicologo in grado di aiutarti a sciogliere un po’ del tuo tormento. Di solito non parli volentieri di te stesso e dei tuoi sentimenti, ma forse proprio per questo un professionista è quello che ci vuole. Non voglio vederti andare a fondo. Non voglio vederti andare in pezzi».

«Si era detto niente prediche, Gloria» la ammonii.

«Non la farai franca» ribatté lei. «Siamo tuoi amici, e gli amici servono anche a dire quello che gli altri non osano.»

Oscar intervenne:

«Le conosci, le donne d’oggi, Peter. Credono nella potenza della comunicazione come le loro mamme credevano nella Madonna. Sono convinte che tutti i problemi del mondo si possano risolvere parlando, parlando sinceramente».

«E piantala, Oscar» disse Gloria. «Peter ha bisogno di parlare. Tu e io dimentichiamo quello che ha passato.»

«Credevo di provare qualcosa per Clara, che con il tempo avrei potuto… che ci sarei riuscito» dissi. «Era come se all’improvviso intravedessi una luce, non so se mi capite.»

«Sì. E non è detta l’ultima parola. Chissà che non vada tutto a finire bene, con questa Clara» disse Gloria sorridendo.

Oscar si fece serio.

«C’è un altro modo di vedere questa vicenda» disse. «Forse quella donna è parte di un piano.»

«Che vuoi dire? Non essere ridicolo.»

«Clara Hoffmann, bella agente dei servizi segreti danesi, viene a Madrid, ti cerca, ti mostra una foto, e da quel giorno la tua vita diventa un cumulo di macerie. Cosa vuole da te, esattamente? Davvero quella vecchia foto è tanto importante? Per chi? Perché? Dovresti domandarti che cosa stia succedendo in Danimarca, che cosa Lime e la sua foto possano significare con la polizia.»

Di colpo ebbi un’ispirazione.

Chiesi a Oscar di prestarmi il cellulare, mi allontanai e feci il numero di Klaus Pedersen al telegiornale. Dovetti insistere perché un assistente accettasse di passarmelo in sala di montaggio. Dal tono frettoloso sembrava stressato. Mi salutò, poi lo sentii dare istruzioni a un tecnico a proposito della sequenza di un servizio.

«Ho una fretta terribile, Peter. Non possiamo parlare in un altro momento?» disse.

«Cosa stai facendo?»

«Scadenze. Stress. Remember

«Il tuo servizio tanto urgente parla forse dei servizi segreti?» domandai.

«Come fai a saperlo?» si stupì.

«Di cosa si tratta?» domandai a mia volta.

«In poche parole, il governo ha chiesto ai Servizi di presentare una relazione pubblica che sveli quali partiti politici legali, sindacati eccetera, sono stati fatti oggetto di infiltrazioni, intercettazioni e pedinamenti negli ultimi trent’anni. Per la prima volta abbiamo la possibilità di scoprire il loro gioco, di farci un’idea di come lavorano, quante e quali risorse impiegano e come. La relazione, però, non dice praticamente niente di nuovo. La sinistra è inferocita e pretende un’inchiesta super partes. Sostiene che chiedere alla polizia di indagare su se stessa è un esempio clamoroso dell’ipocrisia delle istituzioni. I conservatori invece sono soddisfatti, e il ministro della giustizia ha opposto il proprio veto, dichiarando che l’inchiesta prospettata dalla sinistra comporterebbe troppi rischi in termini della sicurezza del paese. È una storia grossa. E tu, perché me lo chiedi?»

«Lascia perdere. E se invece ti dicessi che esiste un’altra versione della stessa relazione appositamente redatta per il ministro della giustizia, nella quale si legge che un attuale membro del Parlamento danese in gioventù abitò in una comune insieme a un gruppo di terroristi tedeschi? Per questo si dichiara soddisfatto di quanto compare nella versione pubblica, “annacquata” della relazione: da un lato si è convinto dell’opportunità del fatto che i servizi segreti vigilassero anche sulla sinistra parlamentare, dall’altro non vuole che la storia dei terroristi venga alla luce, perché l’attuale governo fa perno sul seggio del parlamentare in questione e sull’appoggio dei suoi compagni di schieramento. Anche se, naturalmente, quell’aspetto del passato del parlamentare potrebbe rivelarsi uno strumento ricattatorio molto vantaggioso nelle mani del signor ministro… Allora, che ne dici?»

«Dico: bel colpo! Ma tu come fai a saperlo?»

«Non ha importanza. E non è finita qui. Nella stessa comune abitava anche la donna che si fa chiamare Laila Petrova…»

«Accidenti.»

«Eh, già.»

«Lo puoi provare?» mi domandò.

«Ho delle foto che li ritraggono insieme: Laila, il deputato, i terroristi. Anche io ho abitato nella stessa comune. Le foto sono mie. Ho rilasciato una deposizione ufficiale sul caso ai servizi segreti. So per certo dell’esistenza di un’altra versione della relazione, e se il ministro della giustizia lo nega davanti a te o al Parlamento, allora mente. E mentire a quei livelli, immagino, è ancora considerato un fatto inammissibile, no?»

«I politici danesi possono mettere le corna alle mogli e nessuno fa una piega, ma non possono mentire. Altrimenti la pagano cara…»

«Allora il ministro sarà costretto ad ammettere che ha avuto accesso ad altre informazioni?»

«Forse non con me. Ma farò in modo che la domanda salti fuori durante una consultazione. E se mentirà in quella sede, allora è finito» disse Klaus, e dopo una breve pausa:

«Quello che mi hai raccontato fa di te un informatore, Peter Lime».

«Immagino di sì» dissi.

«Accidenti!»

«Già.»

Fece una altra pausa, e udii che si rivolgeva di nuovo al tecnico.

«Dove sei?» domandò infine.

«Al Royal.»

«Devo assolutamente ultimare il servizio per l’edizione delle diciotto e trenta, poi potrei venire di corsa con una troupe, un po’ prima delle sette. Prepariamo un sinc e qualche ripresa di contorno: tu che entri in albergo, roba del genere. Una cosa veloce. In questo modo avrei il pezzo pronto per le ventuno.»

«Per me va bene.»

«Posso avere le foto?»

«No, però puoi fare delle copie.»

«Okay. Di’, Peter. Perché lo fai?» domandò.

«Le mie motivazioni non hanno importanza. Ma è la solita vecchia storia: dove c’è un segreto c’è sempre qualcuno disposto a raccontarlo a qualcuno interessato a sapere.»

«Okay. A tra poco» disse. La sua voce fremeva di ansia ed eccitazione.

Restituii il cellulare a Oscar.

«Di che si trattava?» chiese.

«Perché non ordinate un po’ di caffè? Intanto io vado a fare una doccia e a cambiarmi.»

«Perché?» domandò Gloria.

«Devo apparire in televisione» risposi.

Oscar rise e mi diede una pacca sulla spalla.

«That’s my boy! Questo è il sistema di scrollarti la delusione di dosso. Ho idea che ciò che dirai non farà affatto piacere alla tua amica poliziotta.»

«È una cosa prudente, Peter?» domandò Gloria nel suo tono da avvocato, quando comprese le mie intenzioni.

«Non lo so, però la prospettiva mi fa star bene.»

«La vendetta fa questo effetto» commentò Oscar.

Forse era davvero la vendetta ciò che cercavo, un modo di cacciare Clara nei guai. Avrei fatto pagare a lei, la fonte e la testimone della mia umiliazione, la frustrazione, la furia che provavo contro me stesso. O magari da quell’iniziativa mi aspettavo anche dell’altro, un senso di compimento, un altro passo verso la catarsi. La verità era che non lo sapevo. Avevo agito d’istinto e senza riflettere quando avevo deciso di telefonare a Klaus.

«Pagate il conto e noleggiate un’auto, così più tardi potremo partire per la Germania e saltare su un volo per casa ad Amburgo o Francoforte. Non me la sento di parlare con tutti i giornalisti danesi domani. Quando stasera questa storia scoppierà, farà molto rumore, credetemi.»

«Questo significa che torni a Madrid con noi, Peter?» si informò Gloria ancora incredula.

«Sì, torno a casa con voi» risposi. «Ne ho abbastanza di impelagarmi in intrighi che non mi riguardano.»

Parte Terza

19

I giorni passarono, divennero settimane, ma lo scandalo che avevo contribuito a scatenare sulla scena politica danese ancora non accennava a sgonfiarsi.

Quasi come ladri Gloria, Oscar e io partimmo nella notte a bordo dell’automobile noleggiata, imbarcandoci sul traghetto per Puttgarten. Ci lasciammo alle spalle una vera tempesta mediatica. Tra una protesta e l’altra, vecchi militanti della sinistra si facevano avanti pretendendo di sapere se fossero stati schedati: l’essere stati oggetto di intercettazioni telefoniche e pedinamenti era diventato addirittura un segno di distinzione. Fortunatamente riuscii a restare fuori dalla bagarre incaricando la mia segretaria di respingere le insistenti avances della stampa danese. Negli articoli che l’agenzia specializzata in rassegne stampa mi inviava regolarmente, Peter Lime veniva descritto in termini contraddittori, esagerati e spesso assurdi: talpa degli ambienti di sinistra danesi all’inizio degli anni Settanta, paparazzo mondano votato alla venerazione dell’opulento jet-set internazionale, coriaceo fotoreporter già in prima linea nelle zone calde di tutto il mondo, danese di successo fuggito dal paese in cerca di un paradiso fiscale, agente dei servizi segreti danesi scivolato nell’alcolismo dopo l’assassinio della famiglia per mano dei terroristi baschi.

Un tabloid e due settimanali mandarono reporter e fotografi a Madrid. Rifiutai di vederli nonostante si appellassero alla solidarietà fra colleghi. Mi sorpresero all’uscita dell’ufficio e i flash delle loro macchine mi accompagnarono fino all’Hotel Inglés. Per la seconda volta da che Amelia e Maria Luisa erano morte, mi ritrovavo non già dietro la macchina fotografica, ma davanti, l’obbiettivo insistentemente puntato addosso. Dopo una settimana, per fortuna, i giornalisti ripartirono, e le cose tornarono suppergiù alla normalità.

Oscar e Gloria provarono a convincermi a riprendere a lavorare, ma sentivo di non averne davvero più voglia, tanto che alla fine cedettero e accettarono di rilevare la mia quota della agenzia. Insistettero perché mi trovassi un avvocato che curasse i miei interessi nella transazione, ma dissi loro che Gloria — il mio avvocato da sempre — avrebbe potuto benissimo occuparsi anche di quella faccenda. Se avessi avuto ragione di dubitare della lealtà dei miei amici, niente avrebbe più avuto senso comunque, tanto meno i soldi.

Attraverso qualche sua conoscenza, Gloria mi procurò un appartamentino ammobiliato nel mio vecchio quartiere. Lì mi rifugiai per starmene per lo più per conto mio; mi sentivo vuoto e scuro dentro come se qualcuno avesse spento la luce della mia anima.

Frequentavo la scuola di karate e andavo agli incontri degli Alcolisti Anonimi. Di solito riuscivo a evitare di bere, ma ogni tanto ci ricascavo, mi ubriacavo come un disperato, dormivo, e al risveglio non ricordavo le circostanze della sbornia. Ero nel mio letto e non avevo la più pallida idea di come ci fossi arrivato.

Pensavo spesso a Clara, e dopo il terzo drink o la quarta lattina di birra, mi ero trovato più di una volta con la cornetta del telefono in mano, travolto da un improvviso desiderio di chiamarla.

Ma me ne mancava il coraggio e, se insistevo con l’alcol, presto mi dimenticavo di lei e infine anche di me stesso.

Quell’anno l’autunno era arrivato presto. Un vento gelido proveniente dalle montagne spazzava la pianura castigliana inseguendo i passanti in ogni angolo della città. Un giorno arrivò perfino la neve e il traffico andò in tilt, poi il tempo cambiò facendosi nuovamente mite e piacevole, fino a quando sulla città non si abbatté una nuova ondata di freddo accompagnata da violenti acquazzoni. La pioggia scrosciava sui tavolini dei caffè deserti, e Felipe ciondolava sulla porta della Cervecería Alemana tormentando lo strofinaccio con le mani, le spalle rivolte al locale semideserto. I madrileni, fatto raro, si rifiutavano di uscire, preferendo starsene in casa incollati al televisore.

Ai primi di novembre, il giorno della nevicata, Don Alfonso morì. Ignoravo come avesse trascorso gli ultimi istanti della sua vita. Se fosse stato preda di un dolore lancinante o dell’angoscia, quando il suo cuore aveva cessato di battere nella serra, dove stava facendo i preparativi per l’inverno. Se avesse avuto tempo di prepararsi all’incontro con quel Dio, nel quale, malgrado tutto, continuava a credere. Un vicino lo trovò accanto alla panca con una piccola pala da giardinaggio in mano, nella serra linda e ordinata come al solito. La neve caduta sul tetto colorava la luce in morbidi toni azzurrati…

Lo seppellii accanto ad Amelia e Maria Luisa. Adesso mi recavo spesso in quel cimitero disseminato di croci bianche, colombe marmoree irrigidite e fredde lapidi. A volte mi portavo un libro e mi sedevo all’ombra a leggere. Altre volte prendevo con me una bottiglia. Intrattenevo lunghe conversazioni con Amelia, che insisteva nel dire che era ora che mi rifacessi una vita. Voleva essere una parte di me, le provviste per il viaggio, non la mia palla al piede.

Don Alfonso mi aveva nominato suo erede universale. Possedeva una piccola fortuna in titoli, ma il suo regalo più bello fu la casa. Incaricai Gloria di vendere San Sebastián e mi trasferii nella mia nuova casa. Con l’arrivo della primavera, avrei fatto costruire un piccolo studio con annessa camera oscura, per riprendere la mia attività di ritrattista. Ma mi piaceva anche immaginarmi armato di treppiede in mezzo alla solitaria campagna spagnola, in attesa di un toro che sarebbe apparso alla sommità della collina per dirigersi pigramente verso di me. Non sarebbe stato aggressivo, perché presto dietro di lui sarebbe apparso il resto del gregge, e, si sa, in gruppo i tori diventano tranquilli e quasi docili. Avrebbe alzato la testa, e la luce sarebbe piovuta con un effetto particolarissimo sulle sue corna, filtrata dalle fronde di un ulivo. Sarei rimasto lì per sempre, in attesa di scattare una impossibile foto perfetta.

Ma a metà novembre telefonò Clara Hoffmann. Era sera, e la pioggia, che aveva cominciato a cadere nel primo pomeriggio, scrosciava ancora contro il tetto e le finestre. Ero sobrio, stavo leggendo uno dei libri di Don Alfonso sulla guerra civile. Avevo acceso il fuoco nel camino e mi sentivo equilibrato e quasi in pace.

Nel sentire la sua bella voce rimasi un attimo come confuso, poi il cuore prese a martellarmi furiosamente in petto.

«Sono Clara. Clara Hoffmann, da Copenaghen» disse.

«Sì.»

«Peter, sei tu?»

«Sì. Scusami. Ero immerso in un libro.»

«Scusami tu, se ti disturbo. Ho avuto il tuo numero dall’ufficio. Qualche giorno fa, veramente. Non ti dispiacerà, spero.»

«No. No. Come stai?»

«Bene, grazie. E tu?»

«Abbastanza. Sì, insomma, non c’è male.»

Ci fu una pausa, poi lei disse:

«Ho pensato spesso di telefonarti».

«Anch’io. A te, cioè. E perché non lo hai fatto?» le domandai.

«Non lo so. Avevo paura di sentirmi respinta. E tu, perché non lo hai fatto?»

La sua voce mi giungeva chiara nonostante il lieve sibilo che disturbava la linea, evocando l’immagine del suo sorriso e del suo corpo nudo sulla spiaggia della baia di Sejrø. Le emozioni contrastanti di quel giorno cominciarono a mulinarmi nel cervello.

«Avevo paura anch’io. E mi vergognavo» aggiunsi sorpreso dal mio stesso candore.

Lei rise dolcemente.

«Proprio tu!»

«Non sono il vecchio cinico che a volte mi piace interpretare.»

«Lo so. Sei molto umano, invece. È questo che mi piace di te» disse.

«Ancora adesso? Sì, insomma, dopo quello che è successo.»

«Mi sei mancato.»

«Anche tu a me» ammisi, per la prima volta anche a me stesso.

«E pensare che siamo due persone adulte» disse.

«Appunto» dissi io.

Ci fu una pausa.

«Come sei riuscita a trovare il coraggio?» le chiesi infine.

«Ho saputo una cosa che penso ti interesserà, così ho colto l’occasione…»

Spiegò di aver ricevuto una lettera dalle autorità tedesche: la informavano che ero autorizzato a presentarmi a Normannenstrasse per prendere visione del mio dossier STASI. Ci sarei andato? Volevo ancora vedere il mio dossier?

Da diverse settimane consideravo chiusa quella faccenda. Provavo ancora dolore per la mia perdita, naturalmente, ma il bisogno di vendetta nei confronti dei responsabili dell’esplosione mi aveva abbandonato. Ormai davo ragione a Oscar e Gloria: rivangare il passato avrebbe causato solo altra sofferenza. Lo dissi a Clara al telefono. Replicò con un debole «okay», ma sentivo che era delusa.

Allora mi sentii di dire:

«Sono disposto ad andare a Berlino, a patto che tu mi raggiunga lì. Altrimenti non parto».

«Quando?»

«Che ne dici di domani?»

La sua risata mi riempì di gioia e di sollievo.

«Dopodomani?» rilanciò.

«Dopodomani va benissimo.»

«Siamo d’accordo. Telefonami quando hai tutti i dati del volo. Probabilmente io verrò in macchina.»

«Senz’altro. E, Clara…»

«Sì, Peter?»

«Non vedo l’ora di rivederti.»

«Anch’io, Peter Lime. Anch’io.»

«Mi dispiace di averti messo nei pasticci raccontando la storia della relazione riservata al telegiornale.»

«È acqua passata. Sono una ragazza forte.»

«Lo so. Ma il mio senso di colpa rimane.»

«Ti racconterò tutto a Berlino» disse e riagganciò.

A Berlino la pioggia, più fredda che a Madrid, a tratti si trasformava in nevischio. Ero stato a Berlino solo un paio di volte dopo il crollo del Muro, e avevo l’impressione che da allora la sua marcia verso una nuova grandezza procedesse inarrestabile. Sui giornali avevo letto della crisi economica del paese e del muro invisibile che ancora divideva Est e Ovest. Se quel muro esisteva davvero, la città e i suoi abitanti non sembravano darsene pensiero. Immense gru lavoravano fra i palazzi del centro, nuovissime costruzioni di vetro e cemento armato parevano essere spuntate un po’ ovunque. Le strade traboccavano di automobili che lentamente procedevano nella pioggia catturata dai fasci di luce dei fari. Di tanto in tanto, fra le grosse Mercedes e BMW, spuntava una piccola Trabant, unica testimonianza tangibile del recente passato, quando la città era ancora divisa in due. Nonostante il freddo e la pioggia, i marciapiedi e le piazze erano gremiti di persone, che con i baveri alzati e gli ombrelli di sghembo avanzavano imperterrite nella precoce oscurità del pomeriggio.

La mia agenzia viaggi mi aveva trovato un piccolo ma lussuoso albergo vicino al Kurfürstendamm, prenotando una camera per Clara accanto alla mia. Il giorno prima l’avevo chiamata in ufficio per darle un appuntamento, ma al suo vecchio numero aveva risposto un’altra persona: mi aveva detto che Clara Hoffmann non lavorava più lì. Dopo qualche altra telefonata avevo scoperto che era passata alla Squadra antitruffa della polizia di Copenaghen, ed ero riuscito a lasciare un messaggio per lei a una segretaria.

La prospettiva del nostro incontro mi spaventava. Per allontanare i miei timori e ammazzare il tempo feci cinquanta flessioni, poi una doccia. Quindi scesi al bar e, già tormentato dal senso di colpa, scolai due whisky. Tornai in camera. Era una bella matrimoniale spaziosa con un grosso letto sormontato da uno specchio dalla cornice dorata. Il rumore frusciante delle auto sull’asfalto bagnato era l’unico suono che dalla strada filtrasse nella camera ben riscaldata. Una porta divideva la mia stanza da quella destinata a Clara. Era chiusa a chiave. Provai ad accendere la televisione, ma non riuscivo a concentrarmi, allora scesi di nuovo al bar, dove ordinai una Coca e raccolsi una copia dell’«Herald Tribune». Tornato in camera mi tuffai nella lettura. Ero arrivato all’ultima pagina quando sentii dei rumori nella stanza accanto. Una porta sbatté, e immaginai Clara che si scrollava la pioggia dal cappotto e dai capelli. Mi alzai per uscire in corridoio a bussare alla sua porta, ma poi ci ripensai e mi rimisi seduto con il giornale sulle ginocchia. Le lettere danzavano prive di senso davanti ai miei occhi. Non ero a Berlino solo per vedere il dossier della STASI. Ero lì anche, o soprattutto, per verificare la mia capacità di amare qualcuno che non fosse Amelia. Ma ignoravo quali fossero i pensieri e le aspettative di Clara Hoffmann, e questo fatto mi comunicava un’ansia intollerabile.

Sentii l’acqua della doccia che scorreva nella stanza di Clara. Avevo fatto bene a non bussare. Evidentemente aveva deciso di darsi una rinfrescata dopo il viaggio. Venti minuti dopo udii il rumore della chiave che girava nella toppa della porta che separava le stanze. Clara rimase nel vano a guardarmi per qualche secondo. Indossava l’accappatoio bianco dell’albergo. Senza dire una parola entrò nella stanza sorridendo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò. Mi alzai.

Avanzò di un passo, e io mi mossi per andarle incontro.

«Clara…»

In tre rapidi passi mi raggiunse e mi zittì appoggiandomi il palmo della mano sulla bocca come fossi un bambino. Ci abbracciammo. Aprii l’accappatoio per stringere il suo corpo nudo al mio. I capezzoli eretti sfregavano contro la mia T-shirt mentre la accarezzavo avidamente, dappertutto, senza fiato per l’eccitazione. I suoi occhi erano aperti e lucidi, come se avesse paura o fosse sul punto di piangere.

«Clara» provai a dire. Ma lei scosse il capo.

«Non parlare, Peter.»

20

Dopo aver fatto l’amore con Clara scoppiai a piangere. Non mi ero mai considerato un tipo fragile, emotivo, e negli anni Settanta avevo provato grande irritazione per la moda dell’autocoscienza, specialmente quando a praticarla erano gli uomini. Non sopportavo le confessioni, le ipocrisie, le cazzate e le lacrime che la gente tirava fuori in quelle grottesche riunioni.

Ma in quel letto d’albergo di Berlino, non riuscii a trattenere un singhiozzo, seguito da un altro e poi da tante, troppe lacrime, finché Clara accostò la mia testa al suo seno e prese ad accarezzarmi i capelli, piano. Piansi per le ingiustizie della vita, per le occasioni sprecate, per il fatto che non avrei mai superato lo spaventoso dolore per la perdita della mia famiglia. Ma anche perché l’abbraccio di Clara era stato intenso e liberatorio. Lei abbassò il viso sul mio e cominciò a baciarmi. Con la lingua cancellò le tracce del mio pianto dalle palpebre, dalle guance, dal collo e dal petto.

Non ci eravamo scambiati nemmeno una parola. Parlammo solo dopo esserci accarezzati, baciati e amati ancora. E anche allora non parlammo di noi, ma del passato. Le raccontai di Amelia e Maria Luisa, della mia infanzia, del lavoro, confessai perfino il mio problema con l’alcol.

Lei ascoltò e fece domande, ma di sé non volle dire molto. A parte il trauma dell’abbandono di Niels, la sua era stata una vita serena e quindi, sosteneva, poco interessante.

Saremmo andati avanti a chiacchierare ancora a lungo, se non ci fosse venuta fame.

Una fame rabbiosa di carne e montagne di patate. Era mezzanotte passata, e l’addetto al servizio in camera disse che potevano servire solamente zuppa di verdure, panini e omelette. Ordinai tutto quanto insieme a una bottiglia di vino e dell’acqua minerale.

Clara, nuda, si alzò, andò nella sua stanza e riapparve con dei vestiti sul braccio e una piccola valigia.

«Possiamo disdire l’altra stanza» propose. «Se sei d’accordo.»

«Perché lo hai fatto? Venire a Berlino, intendo.»

«Ho avuto voglia di te da subito, dal primo giorno in cui ti ho visto. Ma allora era diverso, tu eri sposato… scusami. Non dovrei parlarne.»

«Non ti preoccupare, Clara.»

«Non ci sono stati molti uomini nella mia vita, Peter. Ogni tanto mi veniva voglia di qualcuno, ma dopo il divorzio non mi sembrava che il gioco valesse la candela.»

«Sono contento che tu abbia preso l’iniziativa. Non so se io avrei trovato il coraggio.»

«Io penso di sì. Comunque ricordavo il tuo sguardo, l’estate scorsa. Era chiaro che mi desideravi. E quando mi sono ritrovata nella camera accanto alla tua ho pensato “sono entrata nella seconda metà della mia vita, ho già visto morire degli amici. Non c’è motivo di sprecare tempo”. È stato facile…»

Mi alzai, la raggiunsi e la baciai dolcemente.

«Sono contento» ripetei.

Lei si liberò dal mio abbraccio e indicò la porta del bagno:

«Non pensi che dovremmo renderci un po’ più presentabili prima che arrivi il cameriere con la nostra cena?».

Mangiammo come se non avessimo toccato cibo da giorni.

«Non mi hai ancora detto perché hai cambiato lavoro» le chiesi più tardi, accendendomi una sigaretta.

«Quando in Danimarca esplode uno scandalo, qualcuno deve restare con la patata bollente in mano. Altrimenti le acque non si calmano più. Questa volta la patata bollente è toccata a me.»

«Per causa mia?»

«Temo di sì.»

«Mi dispiace terribilmente.»

«Ah, non pensarci. Dammi una sigaretta, anche se ho smesso di fumare» continuò. «Avevo bisogno di allontanarmi dai servizi segreti. Invece di mettermi alla porta, mi sottrassero responsabilità finché non mi decisi a fare il salto.»

Fumava nervosamente.

«Ero disperato, Clara» cercai di giustificarmi. «Arrabbiato, avvilito, offeso e ubriaco. Perdonami.»

«Ti ho già detto che è stato meglio così. Mi sono ritrovata con la patata bollente in mano, ma probabilmente mi avrebbero fatto fuori lo stesso. Lime o non Lime.»

«Che vuoi dire?»

«Dalla fine della guerra fredda, il personale dei servizi segreti in Danimarca non è diminuito, anzi è andato aumentando. Con le recenti rivelazioni tutti, politici, stampa, gente comune hanno cominciato a chiedersi che senso abbia. C’è odore di tagli nell’aria…»

«Sembri amareggiata.»

«Perché lo sono, Peter. Per più di una ragione. Il mio attuale lavoro non mi piace, e non vedo prospettive di miglioramento all’orizzonte. Il mio matrimonio è finito, non ho figli e vivo sola. Ho un grande appartamento ben arredato e a volte parlo alle mie piante. Forse dovrei procurarmi un gatto. Sono sola, e questo mi fa paura.»

La baciai e le strinsi teneramente la testa fra le mani.

«Fai l’amore con me» disse.

La mattina successiva mi svegliai presto, dal rumore del traffico capii che doveva aver smesso di piovere. Restai a lungo a contemplare Clara che dormiva accanto a me, con un misto di incredulità, tristezza e gioia. Quando uscii dal bagno la trovai seduta nel letto.

«Sei mattiniero» disse guardandomi dritto negli occhi, senza timidezza.

«Torna pure a dormire» le dissi.

«No. No» rispose. «Tu scendi a fare colazione. Hai un appuntamento con il tuo passato, ricordi? Alle dieci nel vecchio complesso in Normannenstrasse.»

Dopo colazione prendemmo un taxi per varcare l’ormai invisibile frontiera ed entrare nella vecchia Berlino Est. Ripensai a quando avevo appreso del crollo del Muro, a New York, da un notiziario della CNN, ed ero salito sul primo volo disponibile per l’Europa. Volevo essere presente a quell’evento epocale. Arrivato a Berlino ero stato travolto dall’euforia. Avevo scattato diverse serie di foto, ma non le avevo vendute. Erano belle, ma tutte uguali, e non si distinguevano da quelle dei miei concorrenti. Ero rientrato a Madrid carico di adrenalina, convinto che il mondo sarebbe cambiato in maniera radicale. Anche Gloria era esaltata e incredula: camminava avanti e indietro per l’ufficio, rideva, alzava il volume del televisore. Oscar, invece, era ubriaco, cupo e scontroso; ripeteva che presto la festa sarebbe finita e che i tedeschi orientali si sarebbero pentiti di essersi buttati così allegramente fra le braccia del capitale e della Germania Occidentale. Anche l’anno successivo, in occasione dell’annuncio dell’unificazione delle due Germanie, Oscar si era ubriacato. Aveva accusato Gloria, che voleva festeggiare, di aver tradito gli ideali della loro giovinezza, lei aveva ribattuto che Oscar si aggrappava a un sogno spezzato per sempre. Avevano litigato così violentemente che ero stato costretto a trascinare Oscar a letto.

«Sai qual è l’aspetto strano dei sistemi totalitari?» disse Clara interrompendo i miei pensieri. «Sia che si trattasse di nazisti che di comunisti, erano talmente convinti di essere infallibili e di avere la storia dalla propria parte, che documentavano tutto, mettevano tutto per iscritto. Anche perché erano paranoici. Soffrivano di uno strano miscuglio di mania di grandezza e complesso d’inferiorità. E poi, dal momento che i criteri della purga successiva erano imprevedibili, dal loro punto di vista era meglio mettere le mani avanti e scrivere tutto. I regimi più spietati della storia hanno avuto gli impiegati e i burocrati più coscienziosi.»

Si girò a guardarmi, e la baciai sulle labbra morbide, pensando che ero felice.

Il tassista si fermò in Rischerstrasse, ai margini del grande complesso e aspettò mentre Clara mi dava istruzioni. In realtà quella sembrava una strada qualsiasi di un qualsiasi quartiere di Berlino Est: grandi cartelli pubblicitari della Sony e di Ritter Sport, un supermercato, e pedoni che passavano di fretta senza curarsi più di tanto di quegli edifici lugubri.

«Devi parlare con un certo Herr Weber» disse Clara.

«Tu non vieni?»

«No. Farò una passeggiata. Oppure tornerò in albergo a leggere un po’. Com’è il tuo tedesco?»

«Me la cavo» risposi. «Dai, accompagnami.»

Mi mise una mano sul collo e mi diede un bacio frettoloso:

«Sei tu che hai l’autorizzazione. Il dossier è tuo. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. E adesso, fuori!».

Scesi e seguii con lo sguardo il taxi che si allontanava. Senza voltarsi, Clara si limitò ad alzare la mano a mo’ di saluto.

Entrai nella Haus numero 7, e a una piccola reception chiesi di Herr Weber. Il pavimento e l’illuminazione sembravano rifatti, ma c’era ancora l’odore del vecchio regime.

L’ex sede della STASI adesso ospitava diversi uffici dell’amministrazione occidentale. Ma sapevo che un settore del grande complesso era stato trasformato in un museo. Lì, tra bandiere rosse, busti di Lenin e medaglie, si poteva visitare l’ufficio di Mielke, con i numerosi telefoni — tratto distintivo dei regimi comunisti — schierati sulla scrivania scintillante. C’erano telefoni per colloqui riservati, telefoni per colloqui segreti, telefoni per colloqui di massima segretezza. Linee dirette con l’esercito, il Politbjuro, e il KGB. Mentre aspettavo immaginai i lunghi corridoi, le stanze silenziose e polverose, le montagne di documenti: centottanta chilometri di scaffali straripanti di foto, rapporti, trascrizioni di intercettazioni. Nella DDR un cittadino su tre era schedato. Uno su tre era un informatore. I delatori si denunciavano a vicenda, all’infinito. Coniugi, amici, fratelli, sorelle, genitori, colleghi di lavoro: chiunque poteva tradire chiunque altro. Gli archivi della STASI erano un impressionante monumento alla follia dell’uomo; miliardi di parole che potevano significare il carcere o la libertà, parole catturate e trascritte da persone e perciò inaffidabili e soggettive, ma decisive per le vite di altri.

Herr Weber era un uomo piccolo e tarchiato. Sorrise cordialmente quando dissi il mio nome, e vidi che i suoi occhi grigi erano simpatici e pieni di vita.

«Ah, lei è Herr Leica» mi salutò.

«Leica?» dissi io.

«Sì, Signor Lime. Questo è il suo nome in codice negli archivi della STASI. Qui dentro lei si chiama Herr Leica, e sotto questo nome ho esaminato il suo caso. Le dirò che mi sembra quasi di conoscerla, dopo aver letto tutte quelle meticolose relazioni sul suo conto.»

«Lei ha studiato personalmente il mio caso?»

«Si sieda un momento, le comunicherò le regole e le disposizioni vigenti prima di accompagnarla nella sala di lettura.»

Prendemmo posto su due scomode poltrone accanto a un tavolino. Sul tavolo c’era un posacenere: potevo fumare. Mi disse ciò che sicuramente aveva ripetuto centinaia se non migliaia di volte in vita sua, ma il tono della spiegazione era vivace, come se il compito di gestire e trasmettere le annotazioni segrete di una nazione morta fosse troppo importante per rischiare di venirgli a noia.

Herr Weber disse nel suo tedesco lento e chiaro:

«Herr Lime. Noi operiamo ai sensi di una legge che impone certe direttive. Una legge speciale che fu approvata dagli organi competenti della Germania riunita nel 1991. Questa legge regolamenta l’accesso agli archivi. La sua domanda di visionare gli atti è stata evasa e approvata. I suoi documenti sono stati prodotti. Ho letto la sua pratica e, come da regolamento, ho cancellato quei nomi che non la riguardano specificamente. Per evitare di offendere vittime innocenti della STASI. Questi archivi racchiudono grandi tragedie. Ho visto con i miei stessi occhi uomini e donne crollare di fronte al genere di rivelazioni che forse la aspettano. Non è facile scoprire a distanza di anni che colei che credevamo una moglie leale poteva andare a passeggio con la famiglia la domenica e il lunedì fare rapporto al suo ufficiale superiore. Naturalmente potrà vedere tutto ciò che riguarda il suo caso. Può richiedere le fotocopie, ma gli originali restano qui. Mi sono spiegato?».

«Perfettamente» risposi. In realtà tutta quella storia mi sembrava sempre più assurda, e, in un certo senso, molto tedesca. Prima la STASI aveva meticolosamente raccolto e catalogato le informazioni più intime e personali riguardanti milioni di persone, e adesso altri burocrati si davano da fare per catalogare daccapo quella montagna di materiale, attribuendo nuovi numeri di riferimento, cancellando nomi e facendo sbocciare nuovi misteri per ogni segreto che credevano di svelare.

«Bene» riprese Herr Weber. «La sua pratica non è voluminosa, Herr Leica. Si tratta di poche pagine in un unico raccoglitore. Nulla in confronto alle quarantamila pagine che abbiamo sul cantante Wolf Biermann, o agli oltre trecento raccoglitori che lo scrittore Jürgen Fuchs può esaminare. Lei non ha lavorato molto nella defunta DDR. Non si è lasciato assoldare, non ha fatto nomi, e perciò il materiale è piuttosto scarso. Mi dispiace.»

«Le dispiace? Come se avere una pratica voluminosa fosse auspicabile?» ribattei.

Herr Weber fece una risatina.

«Caro signore, l’uomo è una strana creatura. Alcuni si disperano nel leggere ciò che è stato scritto su di loro. Altri, invece, si disperano quando scoprono di essere stati giudicati così scarsamente interessanti da venir liquidati in tre paginette. Nella Germania di oggi c’è chi soffre di una sindrome che io chiamo “invidia d’archivio”. È una malattia della riunificazione.»

Weber studiò la mia espressione perplessa e continuò:

«Per esempio, forse lei spera che nel suo caso siamo in possesso di campioni olfattivi. Purtroppo devo darle una delusione».

«Campioni olfattivi?» Dapprima pensai di aver capito male, ma poi dedussi che facesse tutto parte dell’esibizione che Herr Weber doveva riservare perlomeno agli stranieri. Dalla ventiquattrore estrasse un vasetto di vetro e lo sistemò sul tavolino in mezzo a noi. Era contrassegnato con un numero e sigillato. Sul fondo del vasetto c’era un pezzo di ovatta giallognola. Nient’altro. Presi il contenitore e lo guardai, quindi lo posai fissando con occhi interrogativi Herr Weber.

«Il manuale operativo della STASI parla diffusamente di conserve olfattive. Esistono migliaia di questi vasetti. Sono campioni degli odori delle persone. Ognuno di noi ha un odore diverso, caro signore. E conservando un campione dell’odore di una persona è possibile mettere un cane sulle sue tracce in maniera rapida ed efficiente, nel caso si renda necessario hmm… contattarla…»

Scoppiai a ridere.

«Forse bisogna riderne. Forse, se non fosse stata una tragedia, sarebbe stata una commedia» disse in tono grave.

«Herr Weber, posso prendermi la libertà di chiederle che cosa facesse nella vita prima del crollo del Muro di Berlino?»

Sorrise ironico:

«Certamente. Per diversi anni ho accudito le scimmie al Giardino Zoologico. Prima di allora ero docente di letteratura tedesca, ma dopo una lezione su Goethe e alcune mie dichiarazioni risultate sgradite al Partito, perdetti il lavoro e divenni uno di quegli… esseri, che da questa parte della cortina di ferro chiamavamo “non persone”. Un morto vivente. Anche se le scimmie erano una piacevolissima compagnia».

«E chi fu a tradirla? Uno studente?»

«No, Herr Lime. La mia signora.»

Rimasi senza parole.

«Mi dispiace» dissi dopo un momento.

Lui annuì:

«Vogliamo entrare?».

«Sì, grazie.»

«Non deve ringraziarmi, Herr Lime. O Leica. Pochi tra quelli che varcano questa porta escono soddisfatti. Anzi, è vero il contrario.»

21

Seguii Herr Weber in un locale dal soffitto alto, con le pareti giallo-pallido e un logoro pavimento di linoleum. File di tavoli quadrati, molti dei quali occupati, percorrevano la lunghezza della stanza. Weber mi indicò un tavolo libero e vi posò una cartellina di cartoncino rosa. La scena ricordava l’esame di maturità: le schiere di schiene curve su pile di fotocopie, l’atmosfera di assoluto silenzio e concentrazione, i banchi sistemati in modo da garantire che nessuno potesse spiare il compagno. La pallida luce novembrina entrava dalle finestre, mescolandosi a quella dei tubi al neon. Dalle gocce che solcavano le finestre capii che aveva ricominciato a piovere.

Sulla cartellina c’era scritto: OPK-Akte. MfS. XX, 1347/76-81. HVA/1249. Subito sotto, qualcuno, a mano, aveva aggiunto il nome «Leica». Cercai di decifrare quel codice: MfS stava per Ministero per la sicurezza dello stato, la STASI. HVA, Hauptverwaltung Aufklärung, letteralmente significava Ufficio Centrale Informazioni. Ma informazioni su cosa e da parte di chi? Sapevo che Markus Wolf ne era stato direttore, e che l’HVA era circondato da un alone meno sinistro della STASI, benché facesse parte a pieno titolo dell’apparato della polizia segreta. Dedussi che i numeri 76-81 indicassero gli anni durante i quali erano state raccolte le informazioni che stavo per leggere, le altre cifre dovevano semplicemente essere parte della chiave numerica del sistema di catalogazione.

Aprii la cartellina e vidi una mia foto di quando ero giovane. Ero a un raduno politico, in Spagna. Dopo un esame più attento dello sfondo, giudicai che l’immagine dovesse essere stata scattata a Valladolid, davanti alla vecchia arena. Era la foto di un non professionista, scattata con una macchina da pochi soldi. Davanti all’ingresso dell’arena sventolavano le bandiere rosse. Avevo circa vent’anni, una gran zazzera mi incorniciava la faccia come una cascata, la Nikon e la fida Leica a tracolla. L’espressione era un po’ arrogante.

Posai la foto. Improvvisamente era tutto chiaro. Ma mi costrinsi a volgere la mia attenzione alle fotocopie che Herr Weber aveva fatto dei rapporti originali, vecchi e sicuramente ingialliti. Erano indirizzati a un certo tenente colonnello Schadenfelt, capo del II/9, che evidentemente aveva l’incarico di contrastare i servizi segreti occidentali mediante l’infiltrazione e il reclutamento di agenti. C’era una mia descrizione preliminare, che indicava quando ero nato, il mio background familiare, la mia professione. Veniva sottolineata la mia vocazione a una vita nomade, il mio orientamento politico progressista, e si specificava che non ero iscritto ad alcun partito.

Mi veniva riconosciuto il potenziale di diventare un informatore, forse addirittura un agente in piena regola. Naturalmente previa l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dell’importanza della lotta all’imperialismo e al militarismo di marca americana. Erano citate le parole di condanna che avevo espresso nei riguardi della guerra del Vietnam. E l’occasione in cui, trovandomi per lavoro sul luogo di un’euforica manifestazione del partito comunista spagnolo, avevo dichiarato che se fossi stato spagnolo, sarei senz’altro diventato comunista. Erano riportati anche dettagli apparentemente superflui: come mi vestivo di preferenza, gli autori che leggevo — Hemingway e il danese Rifbjerg — i nomi e le professioni delle donne che frequentavo, i miei incarichi di lavoro. Venivano segnalati i cambi di indirizzo e i frequenti viaggi. Ogni pagina era contrassegnata da numeri, cifre, nomi in codice e rimandi. Erano riportati incontri e conversazioni, viaggi e articoli, atteggiamenti e opinioni. Il mio relatore riferiva che da colleghi eravamo diventati amici. Parlava del mio alcolismo e delle mie difficoltà nell’instaurare rapporti stabili con l’altro sesso.

Seguivano altre valutazioni circa le mie opinioni politiche, giudicate progressivamente sempre più deludenti. Non si riscontravano progressi nel mio processo di presa di coscienza della necessità della lotta di classe. Nel 1981 il mio relatore giungeva alla conclusione di aver sopravvalutato il mio potenziale rivoluzionario. Non solo mi dimostravo sensibile alla propaganda e alle seduzioni dello stile di vita borghese, ma guardavo con sospetto ai risultati raggiunti dai paesi socialisti sotto la guida dell’Unione Sovietica. Con il passare degli anni quel sospetto si era trasformato in un atteggiamento di aperta critica nei confronti del socialismo reale.

Sempre nell’81 la mia posizione in merito alla controrivoluzione polacca e la mia ammirazione per il movimento di Solidarnosc, finanziato dalla CIA, mi avevano definitivamente squalificato dalla lista delle potenziali reclute. Il relatore consigliava che, qualora avessi avanzato richiesta di un visto d’ingresso per la Polonia, il visto mi fosse negato.

Caso chiuso. Archiviato. Il mio era un dossier scarno, assolutamente inutile, che solo un sistema paranoico poteva decidere di conservare. Avrei potuto uscire di lì e scordarmene per sempre, se non fosse stato per un dettaglio.

Il mio relatore non poteva che essere Oscar. Naturalmente il nome con cui lo conoscevo io nei documenti non compariva. Quando Oscar scriveva al tenente colonnello Helmut Schadenfelt, si firmava Karl Heinrich Müller. Prima tenente, poi capitano, e infine maggiore dell’HVA, agli ordini diretti di Schadenfelt e Misha Wolf.

Guardando con attenzione la foto, l’avevo collegata al primo viaggio di lavoro intrapreso con Oscar: il raduno di massa dei comunisti nell’arena di Valladolid, dove doveva parlare Carrillo. In quell’occasione gli avevo fatto da interprete, e lì era nata quella che avevo sempre ritenuto essere una vera amicizia.

Da vent’anni lo consideravo il mio migliore amico, e per tutto quel tempo lui aveva giocato a carte coperte.

Oscar. Karl Heinrich Müller. Amelia. Maria Luisa. La foto di una giovane donna insieme a dei terroristi tedeschi nel soggiorno di una comune danese. I miei pensieri giravano in tondo, a un ritmo vorticoso, ossessivamente. A un tratto fui colto da una nausea terribile, mi alzai, trovai un bagno e vomitai tutto ciò che avevo in corpo. Mi buttai dell’acqua in faccia e mi sedetti su uno dei gabinetti a fumare una sigaretta. Poi tornai alla reception e chiesi di Herr Weber. Dopo un quarto d’ora arrivò con la borsa in una mano e diverse cartelline sotto l’altro braccio.

«Herr Lime. In cosa posso esserle utile?»

«Posso avere il dossier di Karl Heinrich Müller?»

Herr Weber mi guardò con i suoi occhi vivaci:

«Mi sembra un po’ pallido, Herr Lime. Ha bisogno di un medico?».

«No, di un drink. E del dossier di Karl Heinrich Müller.»

«Per il drink non posso aiutarla, adesso torni dentro, si sieda, intanto vedrò quel che posso fare a proposito di Karl Heinrich.»

Tornai al tavolo e aspettai, cercando invano di controllare il tremito delle mie mani. Una donna seduta poco lontano piangeva sommessamente.

Herr Weber riapparve dopo un quarto d’ora, posò un foglio di carta e una fotografia sul mio tavolo.

«Grazie. È stato veloce» dissi.

«Non c’è molto. Il suo dossier è andato quasi integralmente distrutto quando hanno cercato di far sparire le prove. Stiamo provando a restaurare una parte dei documenti, ma si tratta di un processo che richiederà anni. Forse l’eternità.»

«Capisco.»

Herr Weber esitò:

«Altri in situazioni simili alla sua hanno rintracciato un ufficiale superiore. Alcuni sono disposti a parlare, altri no».

«Grazie, Herr Weber.»

«Non c’è di che, Herr Lime. Non c’è di che.»

Aveva ragione: su Oscar c’era pochissimo materiale.

Karl Heinrich Müller era stato reclutato nel 1967, tramite le guardie di frontiera, nelle quali aveva prestato il servizio militare. Dall’età di quattordici anni era stato informatore occasionale della STASI. All’età di diciannove era stato introdotto clandestinamente in Germania Occidentale, con una nuova identità e un passato fittizio. Aveva collaborato con diversi periodici, in parte finanziati dalla DDR o da Mosca. La foto ritraeva Oscar da giovane con le guance rasate e indosso la brutta uniforme dei Vopo. Aveva i capelli cortissimi e lo sguardo intenso. Alle sue spalle si intravedeva un tratto del Muro. Lessi il documento due volte. Non risultava che avesse dato le dimissioni. C’era scritto che il suo grado attualmente era quello di maggiore, e che era stato proposto per l’ordine di Lenin, in virtù del lungo e prezioso servizio prestato. La candidatura all’ordine di Lenin era stata avanzata nell’ottobre 1989, in concomitanza con il quarantennale della DDR. Un mese prima del crollo del Muro di Berlino. Possibile che all’epoca nessuno nella STASI sospettasse l’enormità del cambiamento che stava per abbattersi sulle loro teste? In preda a un nuovo attacco di nausea, annotai nel mio taccuino il nome di Schadenfelt e il numero del mio dossier. Poi uscii dalla stanza lasciando i documenti sul tavolo. Per me potevano anche bruciarli.

Herr Weber era alla reception:

«Arrivederci, Herr Lime» disse. «La rivedremo?»

«No.»

«Allora archivierò la sua pratica come visionata. Un altro pezzo di sofferenza che torna da dove è venuta.»

«Addio, Herr Weber. E mi saluti le scimmie.»

Ridacchiò.

Uscire all’aria aperta fu una liberazione, e mi incamminai senza meta per le strade bagnate. Non so per quanto tempo camminai, ma a un tratto mi ritrovai in Alexanderplatz. Era già scesa la sera e la luce dei fari e delle insegne si rifletteva nelle pozzanghere. Avevo i capelli fradici, ma non pioveva più.

Entrai in un bar, andai in bagno, mi asciugai il viso e mi pettinai, poi scelsi un tavolo d’angolo e ordinai un caffè e un doppio snaps. Domandai al proprietario se potessi consultare l’elenco telefonico. Il barman me lo lanciò senza aprire bocca, e cercai il nome Schadenfelt. Risultavano tre Helmut. Uno abitava in Karl Marx Allee, a pochi passi da Alexanderplatz: decisi che tanto valeva cominciare da quello. Vuotai il bicchiere, bevvi il caffè e uscii con la testa che mi girava: l’effetto dell’alcol sul mio stomaco vuoto. Raggiunsi il portone che mi interessava e controllai il citofono. In corrispondenza del nono piano a destra, trovai il nome di Helmut Schadenfelt, e pigiai il bottone. Non rispose nessuno. Provai di nuovo. Ancora niente. Dopo una decina di minuti il portone si aprì e ne uscì una donna anziana ben vestita; allora entrai, salutandola con gentilezza. Quella mi lanciò un’occhiata vagamente sospettosa e si allontanò.

L’ascensore odorava di cavolo e vernice fresca. La porta di Schadenfelt era marrone come le altre. Suonai un paio di volte, ma non accadde nulla. Non potevo essere certo che quello fosse lo Schadenfelt che cercavo, ma il mio istinto mi diceva che era così.

Aspettai più di un’ora. Ogni volta che udivo qualcuno sulle scale, facevo finta di star salendo o scendendo a mia volta, a seconda della direzione in cui gli sconosciuti erano diretti. Infine arrivò. Era un uomo corpulento sui sessant’anni, con il viso chiazzato di rosso e l’addome rigonfio del bevitore di birra. Anche le gambette, esili sotto il ventre prominente, erano da alcolizzato. Infatti era sbronzo, e non mi notò. Con difficoltà infilò la chiave nella serratura. Quando la porta si aprì verso l’interno, feci un passo avanti dicendo, in tedesco:

«Il tenente colonnello Schadenfelt? Ha un momento?».

Lui si girò barcollando. I suoi occhi, sebbene annebbiati, erano sorprendentemente penetranti.

«Fuck off, foreigner!» disse e fece per chiudere la porta.

Avanzai di un altro passo e lo colpii all’altezza del plesso solare con l’indice e il medio della mano destra. Quando si accasciò, improvvisamente pallido, lo afferrai per la camicia e lo spinsi all’interno dell’appartamento, dove lo sbattei contro il muro. Scivolò con la schiena lungo la parete finché fu per terra. Lo sguardo era vacuo, e le vene del collo pulsavano vistosamente. Lanciai un’occhiata verso le scale. Non c’era anima viva. Chiusi la porta. Tutto si era svolto in pochi secondi.

L’appartamento di Helmut Schadenfelt era piuttosto grande, con tre camere e un bel soggiorno. Evidentemente abitava ancora nell’alloggio che il partito e la STASI gli avevano procurato anni prima. La cucina rigurgitava di piatti sporchi, il letto disfatto puzzava, e due delle stanze erano vuote, come se avesse impegnato o venduto tutti i mobili. Dappertutto c’erano bottiglie vuote. Una foto incorniciata attirò la mia attenzione: Helmut da giovane. Indossava l’alta uniforme della STASI e stava ricevendo una medaglia da Markus Wolf. Alle spalle dei due riconobbi Oscar, anche lui in alta uniforme. Guardai la data riportata in basso: 16 aprile 1985.

Ruppi la cornice contro lo spigolo di un brutto tavolo piastrellato, ne estrassi la foto e la infilai nella tasca interna del giubbotto di pelle.

Sentii Schadenfelt gemere in corridoio. Quando lo raggiunsi si era alzato su un ginocchio. Era ubriaco, ma pur sempre grande e grosso, e non volendo correre rischi gli assestai un calcio nel fianco facendolo ricadere in terra. Quindi parlai in inglese.

«Helmut, amico mio. Sono venuto per avere qualche informazione, nient’altro. Se continuo così, finirò per ammazzarti. Se prometti di comportarti bene, diventerò molto più gentile, allora potremo bere uno snaps insieme. Batti le palpebre se capisci quello che dico.»

Batté le palpebre, e io lo aiutai a tirarsi in piedi e a raggiungere il divano verde.

«Lo snaps, in cucina» disse con voce roca. Aveva gli occhi spaventati, ma non abbastanza.

«Niente scherzi, eh, signor tenente colonnello?»

«Snaps» ripeté lui.

Andai in cucina e trovai una bottiglia nel frigorifero, quando tornai lo trovai dove lo avevo lasciato, intento a massaggiarsi un ginocchio. Gli porsi la bottiglia, e dopo aver preso un sorso lui fece per ridarmela, ma l’aspetto della sua casa mi aveva fatto passare la voglia di bere.

«Chi sei, e che cosa vuoi?» domandò. «Non ho soldi.»

«Voglio parlare di Karl Heinrich.»

«Fuck off» disse… Lo colpii senza troppa forza, ma lui cadde sul pavimento.

«Sono di pessimo umore, tenente colonnello. Vediamo di sbrigarci. Karl Heinrich?»

«Chi sei?» domandò arrampicandosi di nuovo sul divano. Era più resistente di quanto sembrasse. Quando allungò la mano afferrai la bottiglia.

«Chi sei?» ripeté.

«Peter Lime.»

Scoppiò a ridere. Poi allungò di nuovo la mano per prendere la bottiglia.

«Peter Lime. Perché non lo hai detto subito?»

L’ultima frase l’aveva pronunciata nella mia lingua madre.

«Come mai parli danese?»

«Danese, inglese, russo, tedesco. Era il mio lavoro. È stato il mio lavoro per quarant’anni. Come sta Oscar?»

Dal mio sguardo capì che quel tono non mi piaceva.

«Calmo, calmo, Peter!» disse. «Sono finito. Sono solo un vecchio. Mi arrendo. So che pratichi il karate. Beviamoci uno snaps, poi potremo parlare. So che un bicchierino ogni tanto fa piacere anche a te. So molte cose sul tuo conto. Sei il migliore amico di Karl Heinrich. Ti vuole bene come a un fratello.»

Cominciò di nuovo a ridere, e per farlo smettere gli tesi la bottiglia: prese un lungo sorso e cominciò a parlare come se avesse bisogno di confidarsi con qualcuno. Come se avesse sperato nella mia visita.

«Vedendomi adesso, non puoi capire. Il potere, l’influenza, la sensazione di essere qualcuno e di fare qualcosa. Cambiare le cose. Costruire uno stato socialista in terra tedesca. Fermare l’avanzata del capitalismo. Ma, soprattutto, il gioco: reclutare, comandare, gestire gli agenti. Non vedermi come sono oggi. Il mio è l’aspetto dei perdenti, e noi abbiamo perso la guerra. Senza spargimenti di sangue, ma l’abbiamo persa lo stesso. Io ho vissuto l’epoca della nostra grandezza. Avevamo duecentomila informatori, e nell’HVA eravamo oltre cinquemila, la crema del Ministero per la sicurezza, sotto il grande Wolf. Eravamo l’organizzazione spionistica più esperta del mondo. Sapevamo tutto quello che succedeva a Bonn, a Copenaghen, a Londra, in Vaticano. Il nostro successo fu incredibile, e sono orgoglioso di avervi contribuito.»

«Ma, come hai detto, avete perso…»

«Abbiamo perso, sì, ma se ti aspetti che mi inginocchi a chiedere perdono al mondo, scordatelo. Credevo nel socialismo, e ci credo ancora.»

Bevve di nuovo, e vedendo la luce che adesso brillava nei suoi occhi, mi preparai a rimetterlo in riga con la violenza. Ero arrabbiato e disperato, e mi accorsi che desideravo essere provocato per poter sfogare la mia aggressività.

«E Karl Heinrich? Ci credeva anche lui?»

«Quando suo padre tornò dalla prigionia sovietica, nel 1948, era diventato comunista. Karl nacque nel 1950, un anno dopo la fondazione della NATO e della Germania Occidentale. Karl Heinrich assimilò la fede rivoluzionaria insieme al latte materno. Solo uno stato tedesco socialista avrebbe potuto impedire il ritorno del fascismo. Reclutai Karl Heinrich quando aveva quattordici anni ed era già capo della Freie Deutsche Jugend nella sua scuola. Firmò il giuramento in cui prometteva di non tradire mai la patria né parlare del suo lavoro per la MfS. Ha sempre mantenuto la parola.»

«E poi?»

«Era in gamba, e siccome eravamo convinti della sua solidità ideologica, lo mandammo dall’altra parte con un’identità nuova. Avevamo già due agenti a Francoforte, una coppia che per età avrebbe potuto avere un figlio come Karl Heinrich. Così “nacque” Oscar. Trasferimmo la famiglia ad Amburgo, e il resto è storia, come si dice. È stato uno dei nostri uomini migliori. Io ho avuto l’onore di istruirlo. Divenne come un figlio per me. Non si lasciò mai corrompere. Tutto qui.»

«Non direi» dissi io. «Non direi proprio.»

«Was meinst du?»

«Quale era il compito di Oscar?» gli chiesi.

«Si occupava di questioni operative. Non ha importanza.»

Abbassò lo sguardo, che si fece assorto e torvo, allora feci un passo avanti e lo colpii due volte in viso. Non doveva dimenticare la sua paura, se volevo che accettasse di rivelare cose che aveva giurato di tenere per sé. Provò a difendersi, ma non era che un vecchio ubriaco. Gli sfilai la bottiglia di sotto il braccio.

«Ti ho chiesto che cosa faceva Oscar, Helmut» dissi.

Alzò le mani come per proteggersi da eventuali nuovi attacchi.

«Reclutava agenti, cercava di influire sull’opinione pubblica.»

«Che mi dici di una danese di nome Lola?»

Si fece pallidissimo: non era bravo a mentire, anche se aveva servito il regno della menzogna.

«Chi è?»

Si aspettava che lo colpissi di nuovo con la destra, invece gli assestai un sinistro sul naso facendolo ricadere all’indietro sul divano, un rivolo di sangue gli sgorgò da una narice.

«Ti avevo avvertito, Helmut. Sono di pessimo umore. Tu sei stato il suo ufficiale superiore fin dal 1964. Ti ho chiesto di una danese che si chiamava Lola.»

«Okay, Lime. Okay. Basta. Non picchiarmi più. Su, dammi quella bottiglia…»

«Lola» insistetti.

«Era uno dei suoi migliori agenti. A letto dava agli uomini quello che volevano, e li faceva parlare. Fu Karl Heinrich a reclutarla. Poi fu assegnata a me.»

«Perché?»

«Un agente non può dare istruzioni alla propria moglie. Non sarebbe appropriato.»

Restai di sasso. Helmut salutò il mio sgomento con una risata sprezzante che si trasformò in un accesso di tosse. Quando l’attacco passò, disse:

«Sì, hai sentito bene, Lime. Erano la coppia di agenti più in gamba che abbia mai visto. Ciascuno aveva le proprie doti, ed erano disposti a usare sia il cervello sia il corpo. Hanno servito lo stato in maniera esemplare».

«Quando divorziarono?»

«Divorzio? A quel che mi risulta sono ancora sposati, almeno per la legge della DDR. Avevano altre storie. E allora? Credi forse che abbiano mai dato peso agli stupidi tabù della morale borghese? Erano insieme anche quando erano lontani.»

«E adesso lei dov’è?»

«Non lo so. Sono in pensione anticipata. Non so niente. I am nothing.»

Lo guardai minaccioso.

«Non puoi permetterti questo appartamento. Oscar e forse anche Lola ti danno una mano, quindi te lo domando ancora: dov’è Lola?»

«A Mosca. Là abbiamo ancora conoscenze. Ma non ha importanza, Lime. Lavoravamo per una nazione riconosciuta, sovrana. Non abbiamo commesso nessun reato. I nostri nemici hanno provato a far condannare Misha non so quante volte. Non ci sono riusciti. E adesso, dammi quella bottiglia.» Scossi la testa.

«Oscar e Lola godevano del genere di copertura che consentiva loro di viaggiare per il mondo, incontrare gente, cambiare aria quando necessario. E se fossero stati l’anello di congiunzione fra la DDR e i terroristi della Rote Armee Fraktion, dell’ETA, dell’IRA e delle Brigate Rosse italiane? Se fossero due personaggi chiave del terrorismo rosso internazionale? Allora, Herr tenente colonnello, si tratterebbe sempre di un reato caduto in prescrizione e non punibile nella Repubblica Federale Tedesca? O a Roma, o a Londra? Cosa ne pensa il tenente colonnello di questa mia ipotesi?»

«Stai farneticando, Lime.»

«Ponendo che le cose stiano come dico io, si spiegano molte cose. Pur di proteggere la propria stupida vita ora che la guerra è finita, qualcuno è stato disposto a stroncare altre vite.»

Il vecchio fece per prendere la bottiglia. La vista della sua faccia impiastrata di moccio e di sangue e il puzzo di alcol che emanava dal suo corpo sfatto mi diedero la nausea. Mi resi conto che si era anche pisciato sotto. C’era un lago ai suoi piedi.

«Tutto pur di cancellare le tracce pericolose del passato, non è vero?» chiesi.

«Anche se avessi ragione, non riusciresti mai a provarlo. Tutti i documenti relativi alla nostra battaglia sono stati distrutti prima della fine. A Mosca gli archivi sono chiusi. I russi sono più intelligenti di noi. Non ci sono documenti. È tutto sparito. Bruciato o fatto a pezzetti. Ridotto a brandelli e chiuso dentro grossi sacchi. È come se non fosse mai successo. Come il Muro. Chissà, forse abbiamo solo sognato di averlo costruito? E adesso, per la miseria, dammi quella bottiglia.»

Quando allungò il braccio, gli afferrai la mano e gliela piegai all’indietro finché non stramazzò sul pavimento, poi gli vuotai la bottiglia addosso mentre urlava per il dolore causato da due o tre dita fratturate.

«Salute, tenente colonnello» dissi. «Quando chiami Madrid, saluta Oscar da parte mia. Digli che Leica sta arrivando per fargli una bella foto.»

22

L’indomani mattina, sull’aereo che mi riportava a Madrid, ebbi tutto il tempo di seguire il consiglio di Clara e riflettere sulla situazione. Ripensai agli anni trascorsi con Gloria e Oscar, un flusso di bei ricordi. Mi chiedevo se Gloria fosse al corrente del doppio gioco del marito. Era possibile tenere nascosta la propria doppia identità al coniuge per tanti anni? Oscar, come continuavo a chiamarlo dentro di me, probabilmente aveva usato l’infedeltà come paravento quando doveva lavorare per la STASI. E Lola? Evidentemente, quando i giornalisti avevano cominciato a farle domande sui suoi studi e sulle altre credenziali, si era sentita scottare il terreno sotto i piedi perché sapeva che il suo passato era un mito fabbricato in Normannenstrasse. Era tutto un dedalo di specchi. Non sapevo se ciò che vedevo fosse la verità, il suo riflesso distorto, oppure il riflesso di un riflesso.

Quando ero rientrato in albergo, Clara era in camera ad aspettarmi. Vedendo la mia espressione sconsolata aveva sgranato gli occhi ed era corsa ad abbracciarmi. Le avevo racconto tutto, lentamente e a bassa voce.

«Così hai picchiato un vecchio ubriacone?» aveva domandato incredula.

«Sì» le avevo risposto con un’improvvisa fitta di rimorso.

Si era stretta a me sussurrando:

«Povero, povero Peter. Povero Peter».

Io l’avevo scostata da me fissandola negli occhi.

«Tu sapevi di Oscar?»

«Lo sospettavo. Abbiamo pedinato Lola e anche lui in diverse occasioni. Ricevemmo una dritta dagli inglesi.»

«Perché non me lo hai detto?» Sentivo che sarebbe bastato un niente per volgere la mia rabbia e la mia aggressività contro di lei.

«Non avevo nulla di concreto in mano. E poi, mi avresti creduto?» Aveva un’espressione impaurita.

Le avrei creduto? Mi domandai sull’aereo. Probabilmente no. La notte precedente ci eravamo amati con foga, con disperazione. Quella mattina mi aveva accompagnato all’aeroporto e poi era partita in macchina alla volta di Copenaghen. Ci eravamo separati con un abbraccio.

«Telefonami.» Aveva detto. «E non fare sciocchezze.» In quel momento non me l’ero sentita di prometterle né l’una né l’altra cosa.

L’aereo si preparò all’atterraggio. Madrid era avvolta da una soffice oscurità. Presi un taxi e andai dritto a casa di Gloria e Oscar o Karl Heinrich. Stavo per scoprire quanto Gloria sapesse di tutta quella faccenda. Helmut Schadenfelt aveva sicuramente telefonato a Madrid non appena ero uscito dal suo fatiscente appartamento. Era probabile che Oscar fosse fuggito. Ma Gloria? Gloria aprì la porta, e come mi vide mi mollò un ceffone. Fece in tempo a colpirmi di nuovo prima che riuscissi ad afferrarle le braccia e a spingerla all’interno dell’appartamento.

La trassi a me. La tenni stretta fra le mie braccia finché non cessò di vomitare improperi al mio indirizzo. Sentii le sue spalle rilassarsi, poi sussultare al ritmo dei suoi singhiozzi. Quando si calmò la guidai in soggiorno, la feci sedere sul divano, le versai un whisky, ne presi uno anch’io e le accesi la sigaretta. Aveva un aspetto orribile. Ma il viso era disfatto e impiastrato di mascara.

«Perché accidenti non mi hai telefonato, Peter?» mi chiese.

«Volevo capire se in questa storia fossi coinvolta anche tu…»

«In quale storia, stronzo? Ieri squilla il telefono. È una voce maschile che dice qualcosa in tedesco. Gli passo Oscar, che subito diventa pallido come un cencio. Poi riattacca e prende il cappotto. È stravolto, come se avesse visto il diavolo in persona. Sulla porta si gira e dice: “Non ci rivedremo mai più. Puoi ringraziare Peter”. Io gli corro dietro, ma riesce a raggiungere l’ascensore, e quando arrivo giù in strada, è sparito. È successo altre volte che se ne andasse, ma questa volta è per davvero. E dire che stavamo attraversando un buon periodo. Ho telefonato a tutti. Perfino a qualcuna delle sue amichette. È sparito. Ha vuotato il conto comune e parte di quello d’esercizio della ditta. Dove cazzo è andato? E tu cosa c’entri in questo maledetto casino, Peter?»

Stava per scoppiare a piangere di nuovo, ma prese un sorso del drink.

«Credo che sia andato a Mosca» dissi.

«A Mosca. E perché? Che ci è andato a fare mio marito a Mosca?»

«Non… non è tuo marito. È una lunga storia, Gloria.»

Le misi davanti la foto di Oscar in divisa, lei la prese e la guardò a lungo, mentre fumava un’altra sigaretta sforzandosi di rimanere calma. Era una donna forte, combattiva. E aveva il diritto di sapere. Le raccontai la storia di Karl Heinrich e Lola, e lei mi stette ad ascoltare fino in fondo senza interrompermi né prorompere in esclamazioni drammatiche. Al suo posto probabilmente un’altra sarebbe crollata, ma non Gloria. La rivelazione dell’inconcepibile slealtà di Oscar suscitò in lei la stessa rabbia glaciale che provavo io. Scusandosi si alzò, uscì dalla stanza e tornò dopo qualche minuto con la faccia pulita, i capelli in ordine e indosso una camicetta stirata. Portò un bricco di caffè e due tazze, che posò sul tavolo. Tolse i bicchieri e il portacenere pieno. Era la Gloria che conoscevo: mentre rassettava, la sua mente sottile lavorava a pieno ritmo. Tornò a sedersi davanti a me e mi versò il caffè dicendo:

«Peter, cosa hai intenzione di fare?».

«Voglio rintracciare Oscar.»

«Dove?»

«A Mosca.»

«Ah!» disse lei. «Speri di trovarlo frugando tra oltre dieci milioni di persone!»

«Contatterò qualcuno che mi aiuterà a scovarlo» dissi.

«Okay. E poi?»

Presi un sorso di caffè. Era caldo e forte come lo sapeva fare Gloria.

Bella domanda, quella. Perché volevo trovare Oscar? Per sentire dalle sue labbra perché Amelia e Maria Luisa fossero morte? Decisi di essere sincero con Gloria.

«Ventiquattro ore fa volevo trovarlo per ammazzarlo. Preferibilmente due volte. Occhio per occhio, eccetera… Ma adesso, non ne sono sicuro. Forse voglio guardarlo negli occhi per l’ultima volta e costringerlo ad ammettere tutto. Oppure voglio dargli un pugno in faccia e poi andarmene.»

«Due» disse Gloria. «Dagli due pugni, uno per te e uno da parte mia. Ma devi lasciarlo vivere.»

«Cosa c’è, speri di riprendertelo per l’ennesima volta?» sbottai.

Gloria prese un sorso di caffè e incrociò le lunghe gambe sporgendosi in avanti.

«No, Peter. Non lo voglio più. Abbiamo avuto entrambi un sacco di amanti, Oscar, Karl Heinrich e io. Ma eravamo due vasi comunicanti. Non ci sono dubbi sul fatto che mi abbia amato, e io ho amato lui. Adesso è finita e io so cosa fare per fargliela pagare: quel vecchio comunista ipocrita si è abituato a vivere da ricco. Bene, per Oscar la bella vita finisce qui. È ora che il paladino del proletariato diventi proletario a sua volta.»

«Che vuoi fare?»

«Chiederò l’annullamento del matrimonio, così perderà tutti i beni in comune. Metterò in piedi una causa per truffa. Bloccherò le carte di credito, i conti correnti, i diritti di trasferimento e via elencando. Comunicherò a tutti i nostri clienti e clienti dei clienti che Oscar è insolvente e che la sua firma non vale cento pesetas. Sono un avvocato, ricordi? So come muovermi affinché l’uomo d’affari spagnolo di oggi torni a essere il tedesco orientale povero in canna di ieri. Peter, se lo uccidi mandi a monte la mia vendetta, non potrei mai perdonartelo.»

Non riuscii a trattenere un sorriso.

«Va bene Gloria, hai vinto: te lo prometto. Sei una ragazza in gamba.»

Probabilmente appena me ne fossi andato sarebbe scoppiata in un pianto disperato, ma era abituata a lottare e nessun uomo l’avrebbe vista in ginocchio, men che meno Oscar, colui che aveva amato per tutti quegli anni.

«Eh sì. Quando avrò superato questa storia, mi toccherà rispolverare qualche vecchio amante. Non riuscirà a farmi abbassare la testa. Lo conosco. Fra un mese gli mancherò da morire, e allora darà un calcio nel culo all’oca che sta con lui. Nessuno può fingere di amare oltre un certo limite. Ho ragione o no, Pedro?»

«Hai ragione. Te la senti di stare da sola? Vuoi che rimanga qui?» le domandai.

Finì il caffè e posò la tazza con forza eccessiva.

«O te ne vai adesso, Pedro, oppure vieni a letto con me».

Mi alzai e la raggiunsi, dandole un bacio fraterno sulla bocca, ma mi ritrassi quando la sua lingua avida cercò di insinuarsi nella mia bocca.

Gloria sorrise e mi diede una spintarella.

«È a causa della danese che hai deciso di fare il difficile?»

«Può darsi.»

«Se dovessi rincontrare l’amore, Pedro, coglilo. L’amore è l’unica cosa pulita di questo mondo. E adesso vattene, e telefonami tutti i giorni.»

«Gloria, lo sai che mi piaci, ma io…»

«Su, fila, e telefonami.»

«Te la caverai?» chiesi.

«Mi prenderò una sbronza, oppure mi metterò a telefonare, non sono fatti tuoi. E adesso, da bravo, vattene.»

Presi un taxi fino a casa e telefonai a Clara, ma non era ancora tornata, oppure aveva staccato il telefono. Non c’era nemmeno una segreteria telefonica a cui affidare un messaggio. Scolai buona parte di una bottiglia di whisky, ma quando il viso rosso e disperato del tenente colonnello si riaffacciò alla mia mente, smisi di bere. Barcollando raggiunsi la camera da letto mentre brani di una delle mie poesie danesi preferite mi mulinava nel cervello. Erano versi della prima raccolta di Tom Kristensen, che in gioventù mi aveva conquistato fin dal titolo, Sogni corsari. Le parole «Il mondo è ripiombato nel caos» mi ronzavano nelle orecchie, ma non riuscivo a ricordare il verso seguente, e il bisogno di ritrovarlo divenne ossessivo. Non avevo la più pallida idea del perché fosse proprio quel verso a tormentarmi. E tra i fumi dell’alcol non riuscivo a ricordare in che punto della vasta biblioteca di Don Alfonso avessi collocato le mie edizioni di poeti danesi.

Derek da Londra mi aiutò con il passo successivo. Sapevo che aveva lavorato molto a Mosca e quando gli telefonai dicendogli che avevo bisogno di un contatto un po’ particolare in città, fu subito molto disponibile. Mi domandò di Oscar e Gloria, e gli dissi che stavano bene. Anch’io stavo bene, lui stava bene, tutto era OK. Dopo i convenevoli, Derek chiese:

«Di che genere di contatto hai bisogno, esattamente?».

«Di qualcuno che possa trovare una certa persona per me, indicarmela, e poi tenersi alla larga.»

«Allora hai deciso di ributtarti nella mischia! Complimenti, Lime!» disse.

«Proprio così.»

«Non dovrei chiederti chi è il bersaglio, ma te lo chiedo lo stesso.»

«Si tratta di Cristo, è stato avvistato a Mosca, non lo sapevi?» scherzai.

«Stavo solo pensando che magari potessi aver bisogno di un socio.»

«Derek, lo sai che lavoro sempre da solo» ribattei.

«Ricevuto. Bene, un paio di volte mi sono servito di un tizio. È sveglio, efficiente, un po’ equivoco, ha le mani in pasta, sai cosa intendo. Naturalmente costa…»

«I soldi non sono un problema» dissi.

«Ti chiederà circa mille dollari al giorno, più il premio.»

«Va bene. Che tipo è?»

«È un ex del KGB, o giù di lì. Mosca ne è piena. Sono quasi tutti vermi senza sostanza, ma il nostro è in gamba. Forse è un mafioso, forse è solo un uomo d’affari. Nella Mosca di oggi i confini sono un po’ confusi. È titolare di quella che chiama un’agenzia di consulenza per la sicurezza. Che altro dire? Ha sempre mantenuto la parola.»

«Dammi il suo numero» dissi.

«C’è un dettaglio» aggiunse Derek. «È molto pignolo e selettivo nella scelta dei clienti, per ragioni di sicurezza, naturalmente. Perciò dovrò telefonargli io; lui ti chiamerà solo dopo aver preso informazioni sul tuo conto. Come immaginerai non è sempre facilmente reperibile.»

«Okay, Derek. Chiamalo pure. Digli che si tratta di una cosa urgente, un affare che va concluso subito. Ti devo un favore.»

Derek rise:

«Scordatelo, Lime. Ho un sacco di debiti arretrati con te. Non mi devi un cazzo».

«Di’ al tuo amico che è una cosa urgente» ripetei.

«Lo farò. Salutami Gloria e Oscar e ringraziali ancora da parte mia per la bella serata che abbiamo trascorso insieme a Londra.»

«Senz’altro» dissi.

Trascorsi alcuni giorni di attesa gironzolando per casa e sforzandomi di non bere.

Mi dedicai a sistemare i miei libri in ordine alfabetico per autore e a mangiare le pietanze di Doña Carmen. Dopo la morte di Don Alfonso, aveva continuato a venire e io non me la sentivo di licenziarla. Non provai a richiamare Clara, in compenso parlavo con Gloria un paio di volte al giorno. C’era una vulnerabilità segreta nella sua voce, ma il tono era sbrigativo e professionale quando mi aggiornava sui progressi della sua vendetta. Eravamo un duo molto triste.

Finalmente una mattina telefonò Sergej Sjuganov. Dal suo inglese si sarebbe detto che avesse frequentato i migliori collegi d’Inghilterra, ma più probabilmente il suo impeccabile accento oxfordiano era il frutto della vecchia scuola di lingue per diplomatici di Mosca, magari di un periodo trascorso a lavorare all’ambasciata di Londra.

«Mr. Lime, mi dicono che lei desidera concludere un affare con me» disse.

«Vorrei che lei trovasse qualcuno. Si tratta di…»

Mi interruppe.

«Mi scusi, Mr. Lime. Non al telefono.»

«Incontriamoci, allora.»

«All’aeroporto di Francoforte, la sala vip della zona centrale, vicino al duty-free, domani pomeriggio. Ci sono due voli che atterrano quasi alla stessa ora da Mosca e da Madrid.»

«D’accordo. Come la riconoscerò?»

«La troverò io. Alto, giubbotto di pelle, codino, jeans. Avrà con sé una copia di “El Pais”.»

«Okay» dissi.

«Porti una foto del bersaglio. A domani, Mr. Lime» e riattaccò.

Il pomeriggio successivo, all’aeroporto di Francoforte, comprai una Coca e mi sedetti a un tavolo ad aspettare con «El Pais» davanti. Mezz’ora dopo un tipo sportivo e tarchiato, suppergiù della mia età, si sedette di fronte a me e mi tese la mano.

«Sergej Sjuganov» disse. Indossava un impeccabile abito scuro, una camicia bianchissima e una bella cravatta tenuta con fermacravatte d’oro. Al polso portava un Rolex e profumava di un costoso dopobarba. Il suo viso era solcato da piccole, sottili rughe, abbronzato, come se si concedesse vacanze di lusso o frequentasse abitualmente un solarium. I suoi occhi erano di un azzurro intenso. La sua stretta di mano fu forte e secca.

«Caffè, Mr. Sjuganov?»

«Sì, grazie. Abbiamo meno di mezz’ora, Mr. Lime. Torno a Mosca con il volo Lufthansa.»

Andai al bar e tornai con una tazza di caffè per lui e un’altra Coca per me. Gli avevo portato un paio di foto recenti di Oscar. Le avevo scattate io stesso. Ce n’era una a figura intera, un ritratto di fronte e uno in cui si vedeva più di profilo. Diedi le foto a Sjuganov, che le esaminò.

«È molto alto» disse. «Sui cinquanta. Elegante. Sicuro di sé. Ricco. Si tiene in forma, ma ha una tendenza alla pancetta. Dà nell’occhio. Mi dia qualche informazione su di lui: lingue, nazionalità, background.»

Gli dissi che Oscar era cittadino tedesco, oltre al tedesco parlava l’inglese e lo spagnolo, forse un po’ di russo. Era abituato a viaggiare. Era stato addestrato dalla STASI e aveva una storia un po’ torbida, che gli riassunsi…

Notai un guizzo nei suoi freddi occhi azzurri.

«Ah! Naturalmente questo complica un po’ le cose.»

«In che senso?» domandai.

«È più difficile trovare qualcuno abituato a confondere e a cancellare le proprie tracce. Le verrà a costare qualcosa in più, Mr. Lime. Che cosa, precisamente, vuole che faccia con quest’uomo?»

«Che lo trovi. Credo che sia a Mosca. Deve essere arrivato poco più di una settimana fa. Questo è tutto quello che so» dissi.

«Io costo mille dollari al giorno. Lei trasferirà diecimila dollari come deposito su un conto in Svizzera. Tutte le spese dell’operazione sono a carico suo. Più un premio di diecimila dollari.»

«E se non dovesse trovarlo?»

Sjuganov sorrise di nuovo:

«Un tedesco alto due metri, a Mosca da poco più di una settimana. Lo troveremo. Abbiamo le nostre conoscenze. È solo una questione di soldi e non ci vorrà più di una settimana. Se il bersaglio ha lasciato Mosca, sarà un po’ più complicato, ma non impossibile. Se non dovessimo trovarlo, lei pagherà solo le spese effettive, ma questa è un’ipotesi assurda. Lo troveremo, vivo o morto».

«Bene» dissi.

Sjuganov si sporse verso di me.

«E quando lo avremo trovato? Cosa dobbiamo fare?»

«Avrò bisogno di un interprete. Non conosco il russo.»

«Di solito c’è un motivo per cui una persona si nasconde e un’altra vuole trovarla. Quindi, che cosa vuole che facciamo una volta trovato il bersaglio? Un intervento diretto richiede una trattativa a parte. Se capisce quello che voglio dire.»

Avevo capito.

«No» dissi. «Lei dovrà solo portarmi da lui, al resto penserò io.»

«E se il bersaglio è armato? Oppure potrebbe essere protetto, avere dei complici.»

Riflettei un momento, quindi dissi:

«Se avrò bisogno di qualcuno che mi protegga, vorrei poter contare sulla vostra assistenza.»

«Nessun problema» disse alzandosi e tendendomi la mano. «So che lei paga i suoi debiti, perciò…»

«Perciò affare fatto» conclusi.

«È stato un piacere incontrarla Mr. Lime, e buon ritorno a Madrid. Ci vediamo a Mosca» disse e sparì tra la folla. Un elegante uomo d’affari in mezzo a tanti altri.

23

La mia ultima visita in Russia risaliva al tempo in cui il paese era ancora una delle quindici repubbliche socialiste della defunta Unione Sovietica. Come la DDR, l’Unione Sovietica era stata cancellata dalle carte geografiche non con la violenza e il sangue, ma con una firma che tre presidenti mezzi ubriachi in un capanno da caccia a Minsk avevano apposto su un foglio.

Vista dal cielo mentre l’aereo penetrava le fitte nuvole e iniziava l’atterraggio nell’aeroporto di Sjermentova, la Russia era identica a come la ricordavo: cosparsa di neve da cui spuntavano piccoli villaggi, il fumo che saliva dai comignoli l’unico segno di vita percepibile. Un paesaggio piatto ed eterno, interrotto solo dalle sagome dei laghi e dai fiumi ghiacciati.

Già all’aeroporto, il nuovo si mescolava al vecchio. Lunghe code si snodavano al controllo passaporto e bagagli, ma il terminal era pieno di pubblicità e di promesse di favolose vincite al casinò. I poster pubblicitari reclamizzavano marche di computer e telefoni cellulari. Ovunque c’erano montagne di bagagli. La gracchiante voce femminile diffusa dagli altoparlanti pareva la stessa di sempre. I russi che tornavano a casa, mescolati agli uomini d’affari e ai turisti, erano vestiti meglio di quanto ricordassi.

Sergej Sjuganov aveva mantenuto la parola chiamandomi dopo dieci giorni. Il bersaglio era stato individuato, c’era una stanza prenotata a mio nome all’Hotel Intourist, sulla Piazza Rossa. L’albergo era di categoria inferiore rispetto a quelli in cui alloggiavo normalmente, ma era più anonimo del restaurato Metropol o del National. Sjuganov sperava nella mia comprensione. Mi aveva dato un numero di fax pregandomi di comunicare la data e l’ora esatta del mio arrivo. Mi sarebbero venuti a prendere all’aeroporto.

Prima di partire avevo telefonato a Gloria per informarla. Aveva dichiarato di voler venire anche lei, ma le avevo detto che era meglio di no, e si era lasciata convincere senza tante storie. Era comprensibile che in realtà non avesse voglia di ritrovarsi faccia a faccia con Oscar. Preferiva portare a termine la separazione definitiva da lui barricata dietro articoli di legge e fredde citazioni in giudizio. La causa procedeva secondo le previsioni, mi aveva detto. I conti erano stati chiusi. L’agenzia andava avanti. Mi aveva chiesto di rientrare come socio, e questa volta non avevo risposto subito di no. Ma in cuor mio sapevo di non volerlo fare. Mi era divenuto chiaro a bordo dell’aereo, mentre pensavo a Clara e alla possibilità di iniziare una nuova vita insieme a lei.

Uscii nella sala arrivi, e tra la folla scorsi un giovanotto di ventotto, ventinove anni, con indosso un giubbotto di pelle. Reggeva un cartello con il mio nome. Era ben rasato e aveva l’aria di passare metà della sua vita in palestra.

Mi salutò, prese la mia borsa e con la testa mi fece segno di seguirlo. La sua Mercedes nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il freddo mi colpì come una martellata. Indossavo dei jeans e il mio giubbotto di pelle sopra a un maglione pesante. Era un freddo secco, l’aria sapeva di benzina. Le macchine sostavano in folle e i gas di scarico turbinavano nel vento leggero. Il giovanotto mi tenne aperto lo sportello e presi posto sul sedile posteriore, al caldo dell’abitacolo. C’era anche un autista; quello che mi aveva accolto si sedette accanto a lui, e l’auto si staccò quasi senza far rumore dal bordo del marciapiede. Il palestrato digitò un numero sul. cellulare e disse un’unica frase in russo. Sjuganov si faceva pagare profumatamente, ma il servizio era inappuntabile.

Ci dirigemmo a velocità sostenuta verso la città. Il fondo stradale sconnesso faceva vibrare la macchina. Il traffico restò scorrevole finché non arrivammo in prossimità del centro, dove ci ritrovammo ad avanzare a passo d’uomo. Diverse strade avevano cambiato nome. Molti negozi nuovi e illuminati esponevano decorazioni e alberi di Natale finti. La città era un grande compromesso fra la vecchia pesantezza sovietica e le seduzioni della modernità occidentale. La neve era ammucchiata in cumuli lungo il marciapiede, ma la carreggiata era sgombra. Nella luce dei fari dell’automobile turbinava qualche raro fiocco di neve. Finalmente davanti a noi apparve la sagoma del Cremlino, e poco dopo arrivammo all’Hotel Intourist, un grosso grattacielo quadrato di cemento ai margini della Piazza della Rivoluzione. Un tempo quella zona era aperta al traffico, ma adesso sembrava un parco pullulante di pedoni.

«Hanno fatto un centro commerciale, Mr. Lime. Otto piani sotto terra» spiegò il giovanotto dell’areoporto in un inglese dall’accento marcato. «Mi chiamo Igor» aggiunse.

«Piacere, Igor» dissi.

Scendemmo ed entrammo nella lobby brulicante di persone.

«I documenti, prego» disse Igor. Gli porsi il passaporto e il visto. Si avvicinò alla reception e si rivolse a due impiegate immerse in una fitta conversazione. Quelle lo ignorarono, e lui parlò di nuovo in tono più duro. Subito una delle due allungò la mano per prendere i miei documenti, mentre l’altra consegnava la chiave elettronica a Igor con un sorriso di scusa.

Salimmo al diciannovesimo piano e percorremmo un lungo corridoio, Igor bussò a una porta, e si fece da parte per cedermi il passo. Era una bella suite con tanto di tavolo per riunioni. L’arredamento era nuovo, nei toni rossi e marroni già preferiti dall’Unione Sovietica. C’erano un minibar, un televisore e un cartello che informava che l’albergo era dotato di telefono satellitare. E c’era Sergej Sjuganov.

Indossava il suo abito impeccabile. Mi tese la mano.

«Benvenuto a Mosca, Mr. Lime. Si serva da bere e poi ci mettiamo al lavoro. Sicuramente lei è un uomo impegnato quanto me.»

«Indubbiamente» risposi. Feci per aprire il minibar, ma Sjuganov scosse la testa e mi indicò la bottiglia di vodka posata su un tavolino. Riempì due bicchierini e mi tese il mio.

«Alla riuscita dell’operazione» disse e bevve tutto d’un fiato; io lo imitai.

Igor, probabilmente uno dei gorilla di Sjuganov, era seduto su una sedia accanto alla porta.

«Guardi qui» disse Sjuganov. Sul tavolo ovale al centro della stanza erano posate alcune foto e una cartina di Mosca e dintorni.

Le foto ritraevano Oscar insieme a una donna che riconobbi essere Lola, anche se si era tinta i capelli di nero. C’erano foto di Oscar da solo, di Lola da sola, di Oscar e Lola insieme. Dalle stampe sgranate capii che le immagini erano state scattate con il teleobbiettivo, alcune con un mille, altre con un quattrocento. L’ambientazione era un mercato dove piccole donne grassocce avvolte in cappotti informi e con i fazzoletti in testa sedevano tra pile di frutta e verdura. Un’altra serie di foto li ritraeva davanti a una grande casa rossa immersa in un bosco di betulle, dove una spessa coltre di neve ammantava i rami e il terreno. C’era un aggeggio nero montato sul muro che circondava tutta la casa: probabilmente una telecamera. Con un brivido, in una delle foto riconobbi il grosso irlandese con il manganello della casa di San Sebastián. In un’altra immagine Oscar e Lola sembravano immersi in un’animata discussione. L’irlandese li guardava, sotto il suo cappotto sbottonato si intravedeva una fondina da spalla. Lola era uguale a come l’avevo vista nelle immagini televisive a Copenaghen, mentre Oscar aveva un’aria devastata, furiosa.

Sjuganov mi lasciò esaminare le foto con tutta calma. Oscar era fuggito a Mosca perché c’era Lola, e qui sperava di poter stare al sicuro finché si fossero calmate le acque. La Russia era un paese in cui con i soldi si potevano comprare sia l’influenza, sia la sicurezza. Ma io lo avevo trovato. E adesso, che dovevo fare? Il fatto che Lola fosse lì non mi sorprendeva, né faceva alcuna differenza, ma quale sarebbe stata la mia prossima mossa?

«È pronto ad ascoltare quello che abbiamo scoperto?» mi domandò Sjuganov.

«Credo di sì.»

«Okay, Mr. Lime. Il bersaglio abita in una villa di recente costruzione nei dintorni di Mosca. In un vecchio quartiere di dacie. Una dacia, se non lo sapesse, è una casa per le vacanze russa, ma oggi può significare una grande villa in muratura fatta costruire fuori città da persone molto ricche. Un tempo l’élite del partito abitava in quella zona, ma è stata privatizzata e adesso ospita le case di gente, come dire, intraprendente che desidera pace, tranquillità e la massima sicurezza. Mi segue?»

«La seguo.»

«Il bersaglio è nei guai. Negli ultimi due giorni ha provato invano a cambiare un assegno, a far addebitare le sue spese sulla Visa, l’Eurocard e l’American Express. Le carte risultano bloccate e questo manda in bestia il nostro uomo, che comunque, per il momento, è in possesso di contanti. Talvolta esce, ma per lo più resta a casa. Beve troppo e litiga molto con la donna. Dormono insieme, anche se hanno ognuno la propria camera da letto. Almeno, così crediamo.»

«Sa chi è la donna?» domandai.

Sjuganov mise da parte le foto e disse:

«Non faceva parte del nostro compito controllare la sua identità, ma sappiamo due o tre cose di lei».

«Sarebbe a dire?»

«È ricca. La casa è sua e so da chi l’ha acquistata. Ha conoscenze al Ministero della cultura. Ha ottenuto la licenza di mercante d’arte a tempo di record. È autorizzata a comprare e a vendere arte russa e a esportarla. Anche opere con più di cinquant’anni. Una licenza del genere deve esserle costata parecchi soldi, ma non avrà difficoltà a farla fruttare. Il mio paese svende i propri beni. In tutti i modi. E un russo può disapprovare questo fatto, oppure fare in modo di partecipare alla spartizione della torta. In fondo non cambia niente. Una volta in questa città parlava Lenin. Oggi è il denaro a parlare.»

«Come si fa chiamare la donna?» chiesi.

«Svetlana Petrovna. È brava. È già riuscita a introdursi nelle cerchie vicine al Presidente, e grazie a questo fatto è considerata intoccabile. Ho l’impressione che quella donna riuscirebbe a vendere sabbia nel Sahara.»

«O neve a Mosca» aggiunsi.

Guardai le foto di Lola, che anche con i capelli neri era bellissima. Nell’immagine davanti alla villa il suo sguardo per Oscar era pieno di disprezzo. Evidentemente i tentacoli di Gloria erano arrivati fin laggiù. Se Oscar non dipendeva economicamente da Lola, poco ci mancava. Chissà quale impatto quella realtà avrebbe avuto sulla loro atipica relazione? La parte del più debole, del bambino costretto a chiedere la paghetta non si addiceva affatto a Oscar.

«La casa sembra nuova di zecca, Mr. Sjuganov. Chi era il precedente proprietario?»

«A Mosca tutte le abitazioni come quella sono nuove, Mr. Lime» rispose Sjuganov contemplando la foto a colori. «Fu fatta costruire dal direttore di una banca privata. A quanto pare era un mezzo mafioso. Fu ucciso a colpi di arma da fuoco davanti alla sede centrale della sua banca. Allora la villa passò nelle mani di un ragazzo di ventidue anni, che ci andò ad abitare con le sue due mogli e quattordici guardie del corpo. Il ragazzo era un famoso produttore della neonata televisione privata. Ma le due mogli non riuscivano a mettersi d’accordo su quale fosse la sua preferita, così lo fecero ubriacare, fecero in modo che si imbottisse di cocaina e poi lo affogarono nella piscina che lui stesso aveva fatto costruire.»

«Che storia agghiacciante» commentai.

«Questa è la Russia» disse Sjuganov e continuò: «Il proprietario prima della Petrovna era un noto mafioso che controllava i mercati della verdura di Mosca. Aveva problemi con i suoi soci d’affari. Un bel giorno sparì, e da allora nessuno ha più sue notizie. Madame Petrovna ha acquistato la villa da un prestanome che conosco. L’ha avuta per pochi soldi, anche perché agli altri aspiranti fu fatto capire che dovevano tenersi alla larga».

«Chi era il prestanome?»

Sjuganov versò un’altra vodka per sé e una per me, quindi disse:

«Non sono tenuto a darle questa informazione, ma lo farò ugualmente. Il prestanome era un vecchio collega dei tempi del KGB, Victor Ljubimov. Visto che la Petrovna in passato ha lavorato per un’organizzazione analoga, è possibile che con la faccenda della casa Victor le abbia restituito un antico favore. Nonostante tutto, negli ex compagni sopravvive il senso dell’onore. In alcuni rapporti i soldi passano in secondo piano».

«Siamo sicuri che l’incarico che le ho affidato non interferisca con questo senso dell’onore, con qualche debito in sospeso…»

«Di me si può fidare, Lime. Lei è mio cliente, e io non ho nulla a che fare con quella donna. Non c’entra niente con il mio incarico né con la mia vita, presente o passata.»

«Va bene, Sjuganov. Allora mi dica, dove posso trovare la coppia felice?»

Sjuganov si concesse un sorriso e aprì la cartina stendendola sul tavolo. Mi mostrò dov’era l’Hotel Intourist, ai margini della Piazza Rossa e, con il dito, mi guidò in direzione della periferia occidentale lungo un grande viale chiamato Kutusovskij, poi verso destra, fino a una zona che sembrava un grande bosco punteggiato di laghi, dove tutta una serie di stradine secondarie sfociava sulla stretta strada principale. Sulla cartina erano riportati numerosi piccoli villaggi. Mi indicò quello più vicino alla casa di Lola e Oscar, a una quarantina di chilometri da Mosca.

«Voglio andare laggiù domani» dissi.

Sjuganov ripiegò la cartina. La sua guardia del corpo era sempre seduta presso la porta, con le mani sulle ginocchia, l’espressione a un tempo vigile e rilassata. Sjuganov si schiarì la gola e disse:

«Come vuole, Mr. Lime. Ma sappia che il bersaglio è protetto. Nella villa ci sono due irlandesi, forse ex membri dell’IRA. Lola ha due guardie del corpo che alloggiano nella vecchia dacia di legno della proprietà. C’è un sistema di telecamere. Come pensa di introdursi nella casa?».

«Pensavo di suonare il campanello» risposi.

La mia risposta lo sorprese. Si aggiustò la cravatta.

«Non glielo consiglierei» disse.

Sjuganov produsse una serie di foto a colori. Anche quelle erano state scattate con un teleobbiettivo, ma si vedevano chiaramente sia Oscar sia Lola. In una delle foto i due sembravano arrabbiati. In un’altra camminavano fianco a fianco. Lola era elegante nel mantello di pelliccia che le arrivava alla caviglia e un grazioso berretto di pelle. Oscar era avvolto in un lungo e pesante cappotto e stringeva in mano qualcosa di simile a una mazza da golf. O una lunga spranga.

«Crede di poter giocare a golf sulla neve?» dissi.

Sjuganov rise:

«La porta sempre con sé. Secondo me è un’arma. Infatti, guardi qui.»

Mi mise davanti un’altra foto. Questa volta c’era anche il grosso irlandese. Seguiva i due a qualche metro di distanza, con le mani sprofondate nelle tasche di uno spesso cappotto di pelle. In testa portava uno zucchetto di lana. Aveva l’aria infreddolita e annoiata.

«Il bersaglio esce raramente, e mai da solo. Quindi, Mr. Lime, devo chiederle ancora una volta. Che cosa vuole che faccia? Che cosa vuole fare? Il mio compito, tutto sommato, è concluso.»

«Passeggiano tutti i giorni?» domandai.

«Di solito fanno una passeggiata di mattina. Il giorno della recente bufera di neve l’uomo è rimasto in casa.»

«Come sono le previsioni del tempo per domani?» domandai.

«Gelo e sole, neve nel pomeriggio. Una giornata invernale come piace a noi russi. La mattina ideale per una passeggiata nel bosco» rispose Sjuganov e mi guardò come a dire che adesso la palla si trovava nella mia metà campo.

Riflettei un po’ e infine dissi:

«Andiamoci domani. Ho bisogno del vostro aiuto per tenere uno o entrambi i gorilla lontani, mentre io parlo con il mio ex amico e ascolto quel che ha da dire.»

«Le serve un’arma?» chiese Sjuganov.

«No. Non sarà necessario. Niente sparatorie. Solo una chiacchierata amichevole.»

«È proprio questo che mi fa paura» disse Sjuganov.

«Domani» dissi io.

«Per noi va bene. È il cliente che decide. Questa è la legge fondamentale dell’economia di mercato. Si faccia trovare pronto qui in albergo domani mattina alle otto. Bisognerà che le procuriamo degli abiti più adatti, però» disse Sjuganov. «Credo di avere la sua stessa taglia. Che numero di scarpe porta?»

«Quarantaquattro, quarantaquattro e mezzo» risposi.

Con fare formale mi tese la mano; gliela strinsi:

«Ci sarà anche lei?» gli domandai.

«Verrò insieme a Igor, mio amico e collega dei vecchi tempi.»

«Quali vecchi tempi?»

«I tempi della falce e martello. Igor era nella mia ultima squadra, specializzata in raccolta di informazioni, sabotaggio, infiltrazione e gestione dei nemici dello stato. È uno degli elementi migliori che abbia mai avuto. Poi è finito tutto e ci siamo messi in proprio. Anche nella nuova Russia non corro certo il rischio di rimanere disoccupato.» Fece un cenno in direzione dell’uomo silenzioso seduto accanto alla porta e i due sparirono, lasciandomi solo nella stanza con la vista sui tetti ammantati di neve.

Provavo uno strano senso di vuoto. Avrei dovuto sentirmi spaventato, teso, ma per il momento non ero né l’una né l’altra cosa. Poi, guardando ancora le foto di Oscar e Lola, sentii la rabbia che tornava a insinuarsi nel mio animo. Il fatto che Oscar avesse avuto una doppia vita per tanti anni, che avesse servito una dittatura, mi sgomentava. Ma quei fatti appartenevano al passato, non riguardavano specificamente lui e me. Non stava a me condannarlo oppure perdonarlo. L’assassinio di Amelia e Maria Luisa, invece, mi riguardava direttamente. E sia che avesse messo la bomba con le proprie mani, sia che avesse delegato quel compito ad altri, consideravo Oscar responsabile.

Ero a Mosca perché volevo sapere, volevo sentirmi dire, che le due persone che più avevo amato in vita mia erano morte a causa sua. Vittime del suo egoismo e della sua sete di potere, del suo disperato tentativo di seppellire il passato e far finta che non fosse mai esistito. Aveva fatto l’impossibile per nascondere il suo segreto, finché la mia foto era saltata fuori, una dimostrazione del fatto che non ci sarebbe mai riuscito. Perché c’è sempre qualcuno che ricorda, c’è sempre un’altra foto o una didascalia che qualcuno ha tralasciato di cancellare.

24

L’indomani, alle otto meno qualche minuto, Sjuganov bussò alla mia porta. Avevo dormito male. La stanza era troppo calda, ma a quanto sembrava, abbassare il riscaldamento era impossibile. Più volte nella notte, ero stato tentato di scendere in uno dei numerosi bar o nel casinò dell’albergo. Ma non lo avevo fatto. Avevo bevuto quasi un’intera bottiglia di vino e avevo guardato la CNN alla televisione. Avevo sollevato il ricevitore del telefono americano AT&T per chiamare Gloria e Clara, ma poi avevo cambiato idea. Avevo contemplato i tetti e i pennacchi di fumo fuori della finestra. A giorno fatto mi ero finalmente addormentato.

Sjuganov, vestito di nero da capo a piedi, entrò a passi energici nella stanza. Aveva con sé una borsa sportiva contenente un paio di pantaloni pesanti, una canottiera di lana, un maglione, calze, giacca a vento, scarponi, guanti e uno zuccotto da sci azzurro.

«Fa freddo oggi» disse. «C’è vento e la neve arriverà prima del previsto. Indossi questi, poi ci muoveremo. Ho già mandato due uomini sul campo. Ci avviseranno se il bersaglio uscirà. Se non lo farà, dovremo rimandare l’operazione a domani.»

I vestiti e gli scarponi mi stavano a pennello. Quando uscimmo dall’albergo non mi sembrò che facesse tanto freddo. Nell’aria c’era umidità e una sensazione di neve. Montammo sul sedile posteriore della Mercedes nera e Sjuganov mi porse un grosso bicchiere di plastica pieno di caffè e un panino fresco al formaggio. Igor occupava il sedile anteriore accanto all’autista, che si sarebbe detto un suo clone: aveva gli stessi capelli a spazzola, lo stesso giubbotto di pelle e la stessa espressione vigile stampata in volto.

Il traffico era intenso e i vigili imbacuccati nei cappotti neri onnipresenti. Quasi informi nelle divise spesse, stavano piantati in mezzo alle corsie agitando le palette. Quando uno di loro ci fece cenno di accostare, vidi l’autista tendergli un documento e una banconota. Quello gli restituì il documento senza guardarlo e ripartimmo.

Mentre bevevo il caffè dolce e caldo, immaginai che quella non fosse che una delle mie solite spedizioni: avevo ingaggiato qualcuno perché mi aiutasse a scovare una celebrità, e adesso settimane di ricerche stavano finalmente per dare i loro frutti. Presto mi sarei trovato di fronte alla mia preda ignara. Ma la realtà era diversa, e questa volta non avevo portato né la Leica né la Nikon.

Dopo circa un quarto d’ora, l’automobile superò un grande arco di trionfo, e subito dopo, sulla sinistra, scorsi un altro monumento in lontananza.

Sjuganov parlò.

«Ha visto? Celebrano due vittorie fondamentali per questo paese. L’arco è per il 1818, quando sconfiggemmo Napoleone. Il secondo monumento commemora la vittoria sui tedeschi. Siamo un paese costruito con il sangue e con gli scheletri. Non abbiamo molto di cui andare fieri. Per questo coltiviamo il ricordo della guerra e delle nostre vittorie in guerra. Soprattutto la nostra vittoria contro Hitler ci unisce. È l’unica cosa pulita che ci rimane. L’unica cosa che ancora sentiamo si avere in comune, Mr. Lime. La Russia è sinonimo di sofferenza. In questo maledetto paese non c’è una sola famiglia che non abbia una storia di guerra e di morte da raccontare».

Svoltammo a destra e costeggiammo un gruppo di caseggiati azzurri, poi la strada si restrinse e cominciammo ad avanzare tra le betulle. Per non pensare a Oscar e al nostro imminente incontro, domandai:

«Sjuganov, qual è la sua opinione circa il cambiamento? Il crollo del comunismo, la nuova Russia».

«Siamo a un guado, Mr. Lime. Viviamo in una società capitalistica che è in mano ai ladri, e la Duma e il Cremlino pullulano di delinquenti. Ma è un momento di passaggio. Io ho servito il socialismo, non con grande convinzione, ma perché ero un patriota russo. E lo sono ancora. Sono per la democrazia e per l’economia di mercato. Per quest’ultima perché mi ha arricchito. Per la prima perché rappresenta il futuro. E quando uno ha dei figli deve pensare al futuro.»

«Lei ha figli?»

«Un ragazzo di diciassette anni e una ragazza di quattordici. Il maschio è in collegio in Inghilterra; La femmina frequenta una scuola privata inglese qui a Mosca. Sono loro la nuova Russia. Dimenticheranno l’eredità degli scheletri. Sono convinto che siamo sulla strada giusta, ma spetterà alle nuove generazioni liberare la Russia dalle tenebre.»

«Che cosa dicono i suoi figli del lavoro del padre?»

Deglutì.

«I ragazzi non sanno niente del mio lavoro. Sono un uomo d’affari. Per tutta la vita ho lavorato diciotto ore al giorno. Prima lo stato e il partito mi elargivano soldi e privilegi in cambio dei miei servizi. Oggi mi procuro tutto da me. Ho una bella casa, mia moglie può andare a fare la spesa nei nuovi supermercati. Andiamo in vacanza in Florida. In cambio del mio lavoro non ricevo più medaglie, ma soldi. Ho rinunciato a considerare la mia vita da un punto di vista morale. La mia esistenza è votata al benessere della mia famiglia e alla soddisfazione dei miei clienti. Lei non è tipo da condannare questo atteggiamento, vero?»

«Neanche per sogno» risposi.

Proseguimmo in silenzio sulla strada che si inoltrava nel bosco di betulle. Da molto tempo non vedevo tanta neve, sulla terra, sui rami, sui tetti delle case. Attraversammo un paio di cittadine, e di fianco a un caffè mi parve di riconoscere il mercato della foto. Sjuganov mi guardò annuendo: «Ci siamo quasi».

Entrammo in una specie di radura e l’autista spense il motore. Igor e Sjuganov scesero dall’auto e indossarono una tuta bianca con cappuccio che tirarono fuori dal baule. Sjuganov parlò sottovoce in russo nel suo walkie-talkie, e ricevette una gracchiante e concisa risposta.

«Il bersaglio non ha ancora lasciato la villa. Lei aspetti in macchina, così non sentirà freddo.»

Igor si mise ai piedi un paio di sci corti e si addentrò agilmente nel bosco. Con la tuta bianca quasi impercettibilmente intessuta di fili dorati, sparì ben presto alla vista, perfettamente mimetizzato con i colori della neve e delle betulle. Rimasi seduto sul sedile posteriore. L’autista girò la chiavetta dell’accensione e accese il ventilatore, e Sjuganov mi offrì un’altra tazza di caffè. Mi sembrava di stare lavorando. Mi trovavo sul posto, ero pronto. Adesso non mi restava che aspettare.

Dopo circa mezz’ora il walkie-talkie di Sjuganov gracchiò, e lui rispose sbrigativamente. A un suo cenno scesi dalla macchina. Il cielo era greve e la neve sempre più vicina.

«Il bersaglio sta arrivando» annunciò Sjuganov. «C’è anche la donna, e il grosso irlandese, come al solito, li segue a distanza di una decina di metri. Anche se tra loro parlano tedesco, probabilmente i due preferiscono non farsi sentire da lui.»

«Sono pronto» dissi infilandomi i guanti e abbassandomi il cappello sulle orecchie.

«Sa sciare, Lime?» mi domandò.

«Assolutamente no» risposi.

«La guiderò io fino al bersaglio. Poi tornerò un po’ indietro e mi porterò tra la guardia del corpo e il bersaglio. Quanto tempo le occorrerà?»

«Cinque minuti. Il tempo di fargli una domanda.»

Sjuganov mi guardò perplesso, parlò brevemente nel walkie-talkie, e ci incamminammo. Seguimmo le forme degli sci di Igor e ben presto ci ritrovammo nel folto del bosco. Sebbene fossimo a poche centinaia di metri dalla strada principale, perdetti quasi subito il senso dell’orientamento. Neve, betulle e sterpaglia: lì attorno non c’era altro, e tutti gli scorci si assomigliavano. Se Sjuganov mi avesse abbandonato mi sarei smarrito con molta facilità. Lui procedeva agile e spedito nella mimetica bianca, mentre io sprofondavo in continuazione nei punti in cui la neve era più alta, oppure restavo impigliato in un ramo. Dopo una decina di minuti ci ritrovammo su un sentiero. Qui la neve era compatta, calpestata da diverse paia di scarponi e striata da tracce di sci. Eravamo in cima a una specie di collinetta, da cui dominavamo un lungo tratto del sentiero.

«Io aspetto qui» disse Sjuganov. «Se vuole, può allontanarsi un po’ e nascondersi dietro un albero. Il bersaglio e la donna passeranno davanti a me, così potrò bloccare la guardia del corpo.»

«Non la vedranno?» domandai stupidamente: infatti a mo’ di risposta estrasse una pistola a canna lunga da sotto la tuta e con un cenno del capo mi fece capire che dovevo sbrigarmi. Feci come aveva detto. Quando fui dietro l’albero cercai con lo sguardo Sjuganov, ma non vidi altro che neve, betulle e cespugli.

Udii Lola e Oscar ancor prima di vederli. Stavano litigando. Il tedesco di Lola era spedito e fluente. Mi parve che discutessero di soldi, ma da quella distanza non potevo esserne sicuro. Mi accovacciai e sbirciai da dietro il tronco.

Oscar batteva la mazza da golf contro i cumuli di neve e i rami. Era un’immagine assurda. Chissà, magari era impazzito.

Oltrepassarono il punto in cui pensavo fosse appostato Sjuganov, e si diressero verso di me. Quando furono a una distanza di circa cinque metri, apparve il grosso irlandese, e fu come se Sjuganov si materializzasse nella neve alle sue spalle. Vidi il gorilla irrigidirsi mentre, con tutta probabilità, Sjuganov gli bisbigliava una minaccia all’orecchio e gli piantava la canna della pistola nella schiena.

«Questo paese mi fa schifo» diceva Oscar. «Che cazzo posso fare? Gloria mi ha ripulito e visto che tu non vuoi darmi altro che spiccioli, allora…»

«Devi avere pazienza, Karl Heinrich. Troviamo un accordo» disse Lola. «Posso proporti…»

«Sono stufo delle tue fottute proposte» gridò Oscar conficcando la mazza in un cumulo di neve e sollevando una cascata bianca. Lola si scostò e inarcò le sopracciglia ben delineate, visibilmente infastidita da quelle bambinate.

Uscii dal mio nascondiglio.

«In Russia non ci sono molti campi da golf, Oscar» dissi in inglese.

Per qualche attimo lui rimase completamente immobile, quasi che il gelo lo avesse trasformato in ghiaccio. Avevo immaginato e sognato quel confronto tante volte negli ultimi giorni, e adesso non provavo altro che disprezzo. Oscar aveva una brutta cera. Il suo viso era pallido e pieno di rughe sotto il colbacco, gli occhi lacrimosi e iniettati di sangue. Erano gli occhi di quando si abbandonava ai vizi, alcol e anfetamine. Di quando dormiva poco e diventava irascibile e aggressivo. Si riscosse, si guardò alle spalle e vide che l’irlandese non arrivava.

«Il tuo amico ha da fare, Oscar» dissi.

«Fottiti, Lime» sibilò Oscar con voce arrochita dalla rabbia.

«Peter Lime, che piacere» disse Lola, in danese. «Certo che ne sono passati di anni.»

«Taci, non sono qui per parlare con te» dissi.

«I soliti modi sgarbati» ribatté lei con la sua voce affettata. Nell’attimo in cui mi voltai per guardarla, Oscar alzò il bastone e mi colpì con violenza all’altezza del ginocchio: un dolore lancinante mi fece urlare e piegare in avanti e la mazza tornò a colpirmi, questa volta sulla schiena. Oscar aveva mirato alla nuca, ma Lola gli aveva dato una spinta salvandomi la vita. Il dolore era intollerabile. Cercai di rimettermi in piedi mentre Oscar si girava furioso verso Lola per colpirla in pieno viso con la mazza di ferro.

«Sjuganov!» gridai rialzandomi, e, zoppicando, mi mossi per andarlo a cercare. Oscar guardò Lola, che distesa su un fianco tingeva la neve di rosso, poi guardò me. I suoi occhi erano furiosi e vacui.

«Sjuganov!» gridai di nuovo. Ma ad apparire fu l’irlandese. La faccia insanguinata e feroce era quella di un assassino. Impugnava una pistola.

Le cose si mettevano male. Mi lanciai giù per il bosco come potevo, zoppicando e cadendo, poi rialzandomi, mentre nell’aria echeggiava uno sparo, poi un altro seguito da un sibilo a pochi metri da me.

«Resta qui, Lime!» Era la voce di Oscar, stavolta in spagnolo. «Non ti muovere, brutto stronzo. Non ho ancora finito con te, vigliacco figlio di puttana. È colpa tua se mi trovo in questo buco. Mi hai rovinato la vita bastardo fottuto. Torna qui! Jack, get him. But don’t kill the motherfucker!»

Mi allontanai arrancando più in fretta che potevo, la paura più forte del dolore. Aveva cominciato a nevicare e il vento soffiava gelido contro la mia faccia. Ma dove cazzo erano finiti Sjuganov e Igor? Sentii altri due spari, non ero in grado di dire a quale distanza. Mi ritrovai su uno stretto sentiero dove la neve era più compatta. Dopo una curva mi fermai, mi sfilai i guanti e mi appiattii contro un albero. L’irlandese si avvicinava di corsa. Aveva la guancia insanguinata, ma non riuscivo a vedere nessuna ferita. Forse il sangue non era suo? Correva un po’ goffamente, la pistola nella destra. Balzai in avanti, feci un giro su me stesso e cercai di colpirlo in viso. Il ginocchio dolorante mi fece vacillare un po’ e lui, che era abituato alla lotta, abbassò la testa da un lato. Lo colpii alla spalla, e la pistola gli cadde di mano sparendo nella neve. Ritrovò subito l’equilibrio, e si mise in posizione di combattimento, con le braccia mobili in avanti e le ginocchia leggermente flesse e scattanti. Sbuffò:

«Allora vuoi fare la lotta, eh, Lime. Che bello. Fatti sotto, figlio di puttana, dai, fatti sotto».

Sentii i passi pesanti di Oscar che si avvicinava urlando infuriato. Fintai con la sinistra, e l’irlandese rise della mia mossa troppo prevedibile spostando agilmente il peso del corpo. Il potente calcio che sferrai all’albero proprio accanto a lui fece vibrare i rami carichi di neve che si rovesciò in una cascata farinosa. Il mio avversario ne rimase temporaneamente accecato e perse l’equilibrio. Gli conficcai il piede nell’inguine, poi lo colpii alla gola con il taglio della mano destra tesa, come mi aveva insegnato Suzuki raccomandandomi di ricorrere a quella mossa solo in situazioni estreme, lo colpii alla gola. Sentii lo schiocco rivoltante e secco del suo collo che si rompeva.

Oscar mi era quasi addosso. Riuscii a schivare il colpo della sua mazza da golf, e contemporaneamente a fargli lo sgambetto che lo fece cadere lungo disteso nella neve. Si rialzò in un lampo e mi saltò addosso, stringendomi il costato tra le braccia fino a farmi uscire tutta l’aria dai polmoni. Lo colpii due volte con la mano sinistra cercando di centrarlo all’altezza della laringe. Al terzo colpo gli ruppi un sopracciglio, e un fiotto di sangue gli zampillò dal naso. Prese a spingermi all’indietro, nel tentativo di torcermi le braccia sulla schiena. Mi divincolai dalla sua stretta e gli piantai il gomito in un rene. Lui mugolò come un animale ferito, ma anziché stramazzare a terra, fece un giro su se stesso cercando la mazza fra la neve; allora lo colpii ancora una volta in faccia con la destra, talmente forte che le nocche mi si spaccarono. Oscar cadde all’indietro contro un albero, e i suoi occhi si fecero vitrei.

«Accidenti, Oscar. Io volevo solo parlare con te» dissi. «Volevo una spiegazione.»

Non riuscivo quasi a parlare.

«Perché Amelia? Perché Maria Luisa?» gli chiesi mentre cercavo di riprendere il controllo del respiro. Ormai nevicava fitto, e la neve sferzava il viso contuso di Oscar mescolandosi al rosso del sangue che gli usciva dal naso, dalle labbra e dal sopracciglio. Si portò la mano alla bocca e sputò un dente. Poi si lanciò di nuovo alla carica, ma la sua ira adesso era così folle da renderlo incapace di controllare i movimenti.

Scansai facilmente i suoi colpi goffi e scoordinati, finché non desistette, si voltò e si mise a correre lungo il sentiero. Rimasi un attimo interdetto, poi, istintivamente, mi lanciai al suo inseguimento. Lo sentivo ansimare a pochi metri da me, ma nella bufera solo a tratti riuscivo a scorgere il nero del suo cappotto.

Non so per quanto corressimo. I miei polmoni si contraevano dolorosamente, il ginocchio mi uccideva, ma non mi fermai. La neve cadeva così abbondante da ricoprire ogni impronta quasi nell’istante in cui nasceva. All’improvviso mi ritrovai fuori del bosco. Vidi che Oscar era caduto, e giaceva a diversi metri da me su una piatta, bianca distesa. Si alzò in piedi, ma ricadde e si tirò su di nuovo, quand’ecco che il ghiaccio del fiume su cui eravamo finiti cedette sotto i suoi piedi. Oscar liberò con uno strattone la gamba intrappolata, ma con uno scricchiolio sinistro il ghiaccio se la rimangiò. Si udì un altro scricchiolio e Oscar affondò fino alla cintola nell’acqua mortalmente fredda. Mi mossi per raggiungerlo avanzando con cautela sul ghiaccio che gemeva ad ogni mio passo.

Oscar mi guardava con occhi traboccanti di angoscia e disperazione. Fece un tentativo di sollevarsi fuori del buco puntellandosi con le braccia, con l’unico effetto di aprire una nuova crepa nel ghiaccio. La neve sferzava l’acqua nera attraverso lo squarcio sempre più minaccioso. Ero a un paio di metri da lui.

«Perché le hai uccise, Oscar?»

«Aiutami, Peter» disse. «Aiutami. Muoio di freddo.»

«Perché, Oscar?»

«Fu uno sbaglio. Jack e gli altri dovevano solo prendere quella fottuta foto e qualche altro negativo. Dovevano solo bruciare quei negativi del cazzo. Sarebbe sembrato un caso di furto qualsiasi. Ma Amelia li sentì, e invece di starsene buona, li affrontò, si difese. Allora quegli irlandesi bastardi persero il controllo, si fecero prendere la mano. Credevo che fosse tutto finito, invece quella maledetta foto saltò fuori di nuovo. Perché accidenti non lasciasti perdere? Tanto niente avrebbe potuto ridartele. Quel che era fatto era fatto, idiota che non sei altro. Eravamo amici. Lo pensavo davvero. Lo penso davvero. Uno sbaglio, è stato uno sbaglio.»

Non c’era pentimento nelle sue parole. Non abbastanza. L’assassinio della mia famiglia per lui era un errore deplorevole, una disgrazia da superare in fretta, perché bisognava pur andare avanti. Presi a indietreggiare lentamente verso la sponda mentre nuove crepe tagliavano sibilando la superficie gelata del fiume. Oscar mi stava ancora fissando quando, con un grido terribile, sparì sotto il ghiaccio, dove la corrente lo afferrò e lo trascinò via.

Raggiunsi il limitare del bosco e provai a orientarmi. Pensai che se avessi camminato parallelamente al corso del fiume, prima o poi mi sarei imbattuto in una strada o in un centro abitato. Dopo un attimo di indecisione mi mossi nella direzione in cui il fiume, scorrendo sotto la crosta gelata, trascinava il cadavere di Oscar. Avevo freddo. La mia testa era completamente vuota, e quando Igor più tardi mi trovò, avevo perso la cognizione del tempo e del luogo in cui mi trovavo. Ero sul punto di arrendermi e stendermi a dormire sotto una coltre di neve.

25

Telefonai a Clara dall’albergo. Al terzo squillo rispose. Sembrava affannata e la comunicazione via satellite dava alla sua voce una qualità metallica.

«Clara, sono io» dissi.

«Peter! Che bello sentirti! Stai bene? Dove sei?»

«A Mosca. Torno a casa stasera.»

«Tutto bene?»

«Tutto bene. È tutto finito.»

«In un modo che riuscirai ad accettare?»

«Ci saranno incubi, rimpianti, ma devo accettarlo, non ho scelta se voglio provare a ricominciare… insieme a te. Dimmi che verrai a Madrid.»

«Perché, Peter?»

«Ho bisogno di qualcuno che mi porti treppiede e rullini.»

Rise.

«Dai, Peter, Perché? Dillo.»

«Ho bisogno di te.»

«È già un passo avanti» disse.

«Sai cosa voglio dire.»

«Può darsi. Ma a volte fa bene esprimerlo a parole.»

«Verrai?» insistetti.

«E di cosa vivrò?»

«Io ho un sacco di soldi.»

«Sii serio. Cosa mi inventerò?»

«Mi porterai il treppiede.»

Rise di nuovo, ma sentivo che esitava, che aveva paura quanto me. Lasciammo che un intero minuto trascorresse ticchettando nel silenzio frusciante della linea telefonica. Guardai il traffico giù in strada: tutti gli abitanti di Mosca si affrettavano da qualche parte. Il tempo era cambiato, la temperatura era salita sopra lo zero e la città era tutta schizzi e sciabordii. Dal cornicione pendevano i ghiaccioli più grossi e micidiali che avessi mai visto. Avevo nostalgia di Madrid e della mia casa.

Infine Clara disse:

«Non lo so. Mi manca il coraggio. Mi sono già bruciata le ali una volta e…»

«Le prime scottature sono le peggiori.»

«Non posso darti una risposta. Almeno non subito» disse.

«Ti voglio, Clara. Ti voglio nella mia vita. Vieni a Madrid.»

«Vedremo. Forse verrò a trovarti. Forse no. Forse è meglio lasciar perdere. Proprio non lo so. Ma abbi cura di te.»

Mi sembrò sul punto di piangere e forse per questo riagganciò. Rimasi a lungo seduto con il ricevitore in mano a fissare il vuoto. Una parte di me si sentiva vinta, finita, esausta. Ma l’altra metà provava un senso di liberazione e quasi di speranza.

«Buffa lingua, il danese» disse Sjuganov.

Era seduto nella mia suite con una vodka in mano. Aveva un braccio al collo, e un vistoso cerotto su una tempia. Io me l’ero cavata con un ginocchio tumefatto e un principio di congelamento al piede destro. Seguire la direzione della corrente era stata una scelta fortunata, e dopo un’ora ero stato raggiunto da Igor che perlustrava la riva del fiume. Nonostante la bufera, da soldato ben addestrato qual era, era riuscito a scorgere le mie orme e a portarmi in salvo.

Al momento dell’imboscata, Sjuganov aveva sottovalutato l’irlandese, che aveva un coltello a serramanico fissato al polso. La lama era affondata nel braccio del russo, e l’altro lo aveva messo fuori combattimento servendosi della sua stessa pistola. Igor era arrivato troppo tardi e aveva ingaggiato uno scontro a fuoco con l’irlandese, colpendolo prima alla gamba e poi a distanza ravvicinata alla testa. Le guardie del corpo russe di Lola per fortuna se l’erano squagliata.

«È stato un vero massacro» dissi levando il bicchiere.

«Nessuno è più mortificato di me. Va da sé che non mi aspetto alcun compenso» disse. «Ho commesso l’imperdonabile errore di sottovalutare un avversario.»

«E la polizia?» chiesi.

Lui strofinò il pollice contro l’indice e il medio in un gesto universale.

«Ma non basterà, immagino» dissi.

«Tutta la colpa ricadrà sul bersaglio. In quella villa c’era una quantità di droga sufficiente a stordire tutta Mosca. È stato il tedesco a uccidere la Petrovna. E siccome i due irlandesi lavoravano per lei, è logico pensare che abbiano cercato di difenderla, morendo nell’adempimento del loro dovere. A quel punto il bersaglio ha scelto il suicidio, o la fuga sul fiume ghiacciato che lo ha tradito. Il fiume è profondo, e la corrente molto forte. La pistola è sparita, il ferro da golf è stato ritrovato tutto sporco del sangue della donna. Lui era arrivato a Mosca da poco e non poteva sapere che un paio di settimane fa abbiamo avuto un improvviso aumento della temperatura. Il ghiaccio era fragile. La media giornaliera degli omicidi a Mosca si aggira sulla ventina. La polizia è sovraccarica di lavoro. Sarà ben felice di archiviare un caso d’omicidio risolto.»

«E Oscar?»

«Affiorerà con il disgelo, quello vero, a marzo. Per quell’epoca tutti avranno dimenticato questo caso, e sarà sepolto nella fossa dei senza nome.»

Esitai.

«Vorrei che lo faceste cremare e che mi spediste le ceneri. È possibile?»

Lui mi guardò sorpreso:

«Ci sarà da sbrigare qualche pratica, ma credo si possa fare. Mi permette di chiederle perché?».

«Oscar aveva molte facce. Conosco una donna che fra un po’ di tempo ricorderà volentieri solo alcune di quelle. Le facce belle. Penso che avere una tomba da visitare a Madrid le farebbe bene. Parlo per esperienza. Una tomba non cura la rabbia che proviamo per l’ingiustizia della morte. Ma un luogo dove parlare o protestare con chi non c’è più ci vuole.»

«D’accordo. Se il corpo riemergerà, l’accontenteremo. Farò inviare un comunicato alle stazioni di polizia che si trovano lungo il fiume. Un cadavere in balia della corrente può arrivare lontano, ma in genere riaffiora in primavera. Lo consideri il favore di un amico.»

«Grazie. Allora, potrò partire stasera senza avere noie al controllo passaporti?»

«Può tornarsene a casa tranquillo.»

Alzò il bicchiere.

«Le auguro buon viaggio, Mr. Lime» disse e bevve tutto d’un fiato.

Feci lo stesso. La vodka era forte e buona. Riempii di nuovo i bicchieri.

«Buon Natale» aggiunsi.

«E che la fortuna possa arriderle nel nuovo anno» disse in tono serio, e quello fu un brindisi che feci volentieri.

Come l’inverno, anche la primavera arrivò presto, e a fine febbraio il sole era insolitamente caldo. Sedevo in giardino a leggere una biografia di Hemingway trovata tra i libri di Don Alfonso, quando un taxi si fermò davanti a casa e Clara ne scese reggendo una piccola valigia. Pagò l’autista e venne verso di me. Io posai il libro sul tavolo, mi alzai e la raggiunsi ridendo. La brezza primaverile le scompigliava i capelli.

«Ciao, Peter» disse.

«Ciao, Clara. Sei bellissima.»

«Che tempo splendido avete qui. A Copenaghen nevicava.»

«È bello vederti. Però ti ci è voluto un po’ di tempo…»

«Ho deciso di scommettere. Non avrei telefonato. Se ti avessi trovato a casa, allora ci avrei provato; mi sarei detta che era destino. Se non ci fossi stato… lo avrei accettato. Lo so che è completamente irrazionale, ma solo così sono riuscita a vincere la paura.»

«Per fortuna di questi tempi sono quasi sempre a casa.»

Lei sorrise e si strinse a me. La circondai con le braccia e ci baciammo.

Più tardi, a letto, le domandai:

«Hai portato pochi bagagli. Non hai intenzione di fermarti per molto?».

«Dipende da quanto tempo resisterò a portarti il treppiede. Per il momento sono in aspettativa dal lavoro e ho subaffittato l’appartamento fino alla fine dell’estate. Non sono tanto stupida da mollare tutto così. Poi, si vedrà…»

«Se non altro è un inizio» dissi.

«E alla nostra età non credo si possa pretendere molto di più. Piuttosto: muoio di fame. Perché tanto per cominciare non mi fai vedere dov’è il frigo?»

FINE