Molte sono le leggende nate intorno alle buie foreste che ricoprono il misterioso monte Eld, e sempre vengono sussurrate con un filo di voce. Si narra che il possente mago Heald abbia avuto un solo figlio, l’ombroso Myk con un occhio grigio e un occhio nero, e che sul monte Eld il figlio del mago abbia attirato a sé dai quattro angoli del mondo creature leggendarie: l’orso Cyrin, che risponde a tutti gli enigmi tranne uno, il drago Gyld, intento a custodire il suo incredibile tesoro, e il cigno nero di Terleth. Si narra anche che il figlio di Myk, il cupo Ogam, abbia continuato la collezione chiamando a sé il mortale falco Ter e il magico gatto nero Moriah, artefice di sottili incantesimi… Ma oggi sotto la cupola di cristallo nascosta sul monte Eld vive la figlia di Ogam, la bellissima vergine maga Sybel, e i suoi tentativi per attirare Liralen, l’ultimo animale magico del mondo che ancora manca alla sua collezione, sono interrotti dall’arrivo di un cavaliere che chiede asilo per il figlio di un re spodestato. Il mondo degli uomini chiede l’aiuto della maga di Eld, e forse dei suoi animali.

Patricia A. McKillip

La maga di Eld

1

Un tempo, il mago Heald si congiunse con una donna del popolo, nella città capitale di Mondor, e lei gli diede un figlio con un occhio verde e l’altro nero. Heald, che aveva gli occhi neri come la cupa palude di Fyrbolg, entrò e uscì come il vento dalla sua vita, ma il bimbo, chiamato Myk, rimase con la madre fino all’età di quindici anni.

Forte, largo di spalle, Myk andò come apprendista nella bottega di un maniscalco, e gli uomini che si recavano laggiù a farsi riparare il carro o ferrare il cavallo tendevano a maledire la sua lentezza e la sua scontrosità, finché, dentro di lui, non si scuoteva qualcosa di torpido e possente come una bestia di palude al suo risveglio nell’oscurità. Allora si volgeva a fissarli con il suo occhio nero ed essi si azzittivano e si allontanavano intimoriti.

C’era in quel giovane una vena di magia, così come talvolta ci può essere una vena di fuoco nella legna umida. Con gli uomini parlava poco, in tono brusco e aspro, ma quando nei giorni di mercato posava la mano su un cavallo, su un cane affamato o su una colomba in gabbia, allora nel suo occhio scuro compariva una fiamma e la voce prendeva a scorrergli dolcemente, come il sognante mormorio del Fiume Slinoon.

Finché, un giorno, Myk lasciò la città di Mondor per andare a stabilirsi sul Monte Eld.

L’Eld era la più alta montagna del regno di Eldwold: sorgeva alle spalle di Mondor e la sua ombra cupa si allungava sulla città al calar della notte, allorché il sole scendeva a perdersi nelle nebbie che ne coronavano la vetta.

Dai margini delle nebbie di Eld, i pastori e i giovani cacciatori potevano far correre lo sguardo per un lunghissimo tratto nelle terre al di là di Mondor: a occidente fino alla Piana di Terbrec, dominio dei Signori del Sirle; a nord fino alle Terre Incolte, dove si aggirava ancora, a rammaricarsi dell’ultima battaglia da lui combattuta e persa, lo spettro del terzo Re di Eldwold, sotto le cui orme silenziose e inquiete non cresceva più niente di vivo.

Laggiù, nelle dense e scure foreste del Monte Eld, protette dal candido silenzio delle nevi perenni, Myk cominciò a fare raccolta di tutti gli animali meravigliosi e leggendari.

Dalle terre selvagge e ricche di laghi dell’Eldwold settentrionale chiamò a sé il Cigno Nero di Tirlith, l’uccello dalle grandi ali e dagli occhi color della notte, che aveva portato via in volo, sul suo dorso possente, la terza figlia di Re Merroc, salvandola dalla torre di pietra dove era prigioniera.

Poi, Myk lanciò il forte, muto laccio del suo richiamo nelle impenetrabili foreste sull’altro lato dell’Eld da cui nessun uomo aveva mai fatto ritorno, e portò a sé, come un salmone preso all’amo, il Cinghiale Cyrin, dalle bianche zanne e dagli occhi rossi come la brace, che era più abile di qualsiasi menestrello a cantare le ballate, e che conosceva la risposta a tutte le domande meno una.

Dal cuore buio e silenzioso dello stesso Monte su cui si era ritirato, Myk fece uscire anche Gyld, il Drago dalle ali verdi. La mente del Drago, dopo essere rimasta per secoli a sognare il gelido fuoco dell’oro da lui posseduto, si destò con profondo piacere nell’udire il proprio nome, tra le ultime brume del sonno, nel canto che Myk gli inviava nell’oscurità. Un canto che il Drago s’era quasi scordato.

Da Gyld, Myk si fece dare una manciata di antichi gioielli e l’utilizzò per costruirsi in mezzo agli altissimi pini una casa di pietra bianca e levigata e un grande giardino per gli animali: il tutto recintato da un alto muro di pietra e chiuso da una cancellata di ferro battuto.

Infine, attirò nella casa anche una ragazza di montagna, che parlava poco e che non si lasciava intimidire né dagli animali né dal loro padrone. La ragazza veniva da una famiglia povera, aveva i capelli spettinati e le braccia muscolose; nell’abitazione di Myk vedeva ogni giorno cose che gli altri incontravano forse una sola volta nella loro vita, e solo nei versi di qualche vecchia poesia o nelle ballate di un cantastorie.

La ragazza diede a Myk un figlio con due occhi neri, che imparò a rimanere in silenzio come un ciocco di legno quando Myk lanciava i suoi appelli mentali. Myk gli insegnò a leggere le antiche storie e le leggende contenute nei libri da lui raccolti; a inviare da un capo all’altro dell’Eldwold, e nelle terre al di là dei suoi confini, il richiamo di un nome da tutti dimenticato; ad attendere in silenzio, pazientando per settimane, per mesi o per anni, fino al momento in cui la scossa dell’appello si accendeva come una fiamma nella mente lontana, possente, stupita, dell’animale che corrispondeva a quel nome.

E quando Myk uscì da se stesso per non alzarsi più dal luogo in cui s’era posto a sedere ai raggi della luna, fu suo figlio Ogam a continuare la raccolta.

Ogam attirò a sé dal Deserto Meridionale, oltre il Monte Eld, il Leone Gules, il cui manto aveva il colore del tesoro di un Re e la cui fama, nel corso dei secoli, aveva spinto molti giovani imprudenti a strane avventure che avevano compromesso la loro ragione.

Poi rubò dal focolare di una strega, in un paese assai lontano, la Gatta Moriah, grande e nera, un tempo leggendaria in tutto l’Eldwold per la sua conoscenza degli incantesimi e delle più segrete fatture.

Ter, il Falco dagli occhi azzurri che aveva fatto a pezzi i sette assassini del mago Aer, calò un giorno come un fulmine dal cielo turchino per artigliare Ogam alla spalla. Gli occhi azzurri del Falco si fissarono in quelli neri del mago, ma dopo una lotta breve e furiosa, anche la stretta rovente degli artigli si rilassò; il Falco rinunciò al proprio nome e si arrese al superiore potere di Ogam.

Con uno di quei leggeri, gelidi sorrisi che aveva ereditato da Myk, Ogam chiamò a sé anche la prima figlia di Horst, Signore di Hilt, quando un giorno la vide passare a cavallo, troppo vicina al suo Monte. Era un’adolescente bellissima e fragile, intimidita dal silenzio e dagli strani, meravigliosi animali che le ricordavano le figure intessute negli antichi arazzi del castello paterno. E temeva anche Ogam, paventando il suo potere immobile e celato come una lama entro il fodero, i suoi occhi imperscrutabili. Morì nel dare alla luce la loro prima creatura, che, stranamente, era una bambina. Quando si riebbe dalla sorpresa di scoprire che era una femmina, Ogam le diede nome Sybel.

Nell’isolamento del Monte, Sybel crebbe alta e robusta, con la figura sottile e i capelli di platino della principessa, gli occhi neri e senza paura del padre. Si prese cura delle creature e del giardino e imparò presto a soggiogare un animale contro la sua volontà; a inviare lontano, dal silenzio della sua mente, un antico nome di potere; a scrutare con il suo spirito i luoghi nascosti e dimenticati.

Orgoglioso della prontezza d’ingegno della figlia, Ogam le costruì una stanza che aveva per soffitto una grande cupola di cristallo, sottile come il vetro soffiato e dura come la pietra, dove lei poteva sedere sotto i colori del mondo della notte e inviare con serenità i suoi richiami.

Poi, quando Sybel aveva da poco compiuto i sedici anni, Ogam morì e la lasciò sola con una casa bianca e bellissima, una grande biblioteca di libri pesanti e chiusi a chiave in legature di ferro, una collezione di animali di sogno e il potere di legarli a sé.

Una sera, Sybel, non molto tempo più tardi, leggeva in uno dei suoi libri più antichi la storia di un grande uccello bianco, le cui ali scivolavano nell’aria come nivei stendardi agitati dal vento: la creatura che aveva portato sul dorso la sola Regina che l’Eldwold avesse mai avuto, in tempi ormai remoti.

Ripeté dolcemente tra sé il nome di quel meraviglioso uccello: Liralen. E subito, seduta sul pavimento sotto la cupola, con in grembo il libro ancora aperto, lanciò nell’immensa notte dell’Eldwold il richiamo che doveva far accorrere quell’animale di cui nessuno, da secoli, faceva più il nome.

Ma il richiamo venne bruscamente interrotto da qualcuno che gridava, fermo davanti alle sbarre del suo cancello chiuso.

Con una leggera carezza della mente, Sybel destò il Leone Gules, che dormiva nel giardino, ordinandogli di raggiungere il cancello con il suo passo felpato e di puntare sull’intruso il suo occhio dorato, come avvertimento.

Ma le grida continuarono, pressanti, incoerenti.

Lei sospirò, esasperata, e diede disposizioni al Falco Ter di sollevare il nuovo venuto e di buttarlo giù dalla cima del Monte Eld.

Un istante più tardi, il clamore cessò bruscamente, ma poi, con grande stupore di Sybel, il silenzio venne nuovamente interrotto dall’acuto, lamentoso vagito di un neonato.

A questo punto, Sybel finalmente si decise ad alzarsi e ad attraversare a piedi nudi il corridoio di marmo. Entrò nel giardino, dove, tutt’intorno a lei, gli animali si agitavano inquieti nel buio. Giunse al cancello, di sottili sbarre di ferro e cerniere dorate, e guardò fuori.

Vide un uomo armato, con un neonato tra le braccia e con il Falco Ter sulla spalla. L’uomo taceva, raggelato nell’immobilità, in balia della stretta del Falco; il bambino che teneva tra le braccia coperte di maglia di ferro piangeva, ignaro di tutto.

La faccia dell’uomo era immobile e indistinguibile nella penombra; da essa, lo sguardo della donna corse agli occhi del rapace.

“Ti avevo ordinato” gli disse in un colloquio mentale tra loro due soli “di buttarlo giù dalla cima del Monte Eld!”

Gli occhi azzurri e inflessibili del Falco si fissarono in quelli di Sybel.

“Tu sei giovane” le rispose mentalmente “ma hai certamente un grandissimo potere e, se me lo ordinassi una seconda volta, dovrei obbedirti.

“Ma, prima, conoscendo da innumerevoli anni le loro abitudini, desidero darti un avvertimento: se inizi a uccidere gli uomini, finirà che, un giorno o l’altro, essi, impauriti, accorreranno quassù in grande numero, raderanno al suolo la tua casa e disperderanno i tuoi animali.

“Questo ci ha ripetuto molte volte Mastro Ogam, tuo padre.”

Sybel, indispettita, batté per terra il piede scalzo. Ritornò a fissare negli occhi l’uomo e gli domandò:

— Chi siete? Perché vi presentate con tanto baccano davanti al mio cancello?

— Signora — disse l’uomo, parlando con cautela poiché le penne arruffate dell’ala del Falco Ter gli sfioravano la faccia — siete la figlia di Laran, che era figlia di Horst, Signore di Hilt?

— Laran era mia madre — disse Sybel, spostando con impazienza da un piede all’altro il peso del corpo. — Voi chi siete?

— Coren del Sirle. Mio fratello ha avuto un figlio da vostra zia… la sorella minore di vostra madre.

Poi l’uomo s’interruppe, serrando i denti e torcendo le labbra. Sybel sollevò una mano all’indirizzo del Falco Ter.

“Lascialo libero” comunicò all’animale “perché altrimenti mi costringerà a stare qui tutta la notte. Ma non allontanarti: potrebbe essere un pazzo.”

Il Falco si alzò in volo, e poi planò sino a raggiungere un ramo basso di un albero, al di sopra della testa dello sconosciuto. L’uomo strinse gli occhi per un istante; piccole perline di sangue sgorgarono come lacrime dalla sua cotta di maglia di ferro.

Alla luce della luna, sembrava molto giovane. Aveva i capelli color del fuoco. Sybel lo guardò incuriosita, perché il metallo di cui era coperto, anello dopo anello, scintillava come la superficie dell’acqua corrente sotto il cielo notturno.

— Perché siete vestito così? — gli chiese.

L’uomo riaprì gli occhi che aveva chiuso per il dolore.

— Vengo ora da Terbrec — disse.

Poi alzò lo sguardo verso la sagoma scura dell’uccello che incombeva sopra di lui.

— Dove avete trovato un simile falco? — chiese alla donna. — Con i suoi artigli ha trapassato il metallo, il cuoio e la seta…

— Una volta — disse Sybel — ha ucciso sette uomini che avevano ammazzato il mago Aer per rubargli le gemme incastonate nei suoi libri di sapienza.

— Il Falco Ter… — disse il giovane, con un filo di voce, e le sue sopracciglia si alzarono per la sorpresa.

— Chi siete? — gli chiese Sybel.

— Ve l’ho già detto. Coren del Sirle.

— Per me — disse Sybel — questo nome non significa niente. Cosa fate, qui, davanti al mio cancello, con in braccio un bambino in fasce?

Coren del Sirle rispose assai lentamente, con molta pazienza:

— Vostra madre, Laran, aveva una sorella chiamata Rianna, vostra zia. Si è sposata tre anni fa con il Re di Eldwold. Mio…

— Come si chiama il Re, attualmente? — domandò Sybel, incuriosita.

Il giovane s’interruppe per un istante, sorpreso dalla domanda, poi spiegò:

— Drede. Drede è il Re di Eldwold da quindici anni.

— Ah. Continuate… Allora, Drede ha sposato Rianna. Si tratta di cose estremamente interessanti, ma io devo chiamare il Liralen.

— Vi prego! — esclamò Coren, lanciando un’occhiata al Falco Ter.

Poi abbassando la voce:

— Ho combattuto per tre giorni sul campo di Terbrec — spiegò. — Poi mio zio mi ha gettato tra le braccia un bambino e mi ha ordinato di portarlo alla Maga del Monte Eld. “Supponiamo” gli ho detto allora io “che lei non lo voglia prendere? Che cosa se ne fa di un bambino?” E lui mi ha guardato e mi ha detto: “Quando ritornerai da quel Monte, il bambino non dovrà più essere con te. Vuoi forse vedere morto il figlio di tuo fratello?”

— Ma perché dovete darlo proprio a me? — gli chiese Sybel.

— Perché è il figlio di Rianna e di Norrel, ed entrambi sono morti.

Lei batté gli occhi, senza capire. — Ma avete detto — obiettò — che Rianna era moglie di Drede.

— Infatti.

— Allora, come fa, il bambino, a essere figlio di Norrel? C’è qualcosa che mi sfugge.

La voce di Coren divenne minacciosa. — Perché Norrel e Rianna erano amanti. E Drede ha ucciso Norrel tre giorni fa, sulla Piana di Terbrec. Allora, vi decidete a prendere questo bambino, in modo che io possa tornare laggiù a uccidere Drede?

Sybel lo guardò con quei suoi occhi neri che non tremavano mai.

— Voi non dovete alzare la voce con me — gli disse, in tono quasi inudibile.

Le mani di Coren, dentro i guanti di maglia, continuavano a serrarsi a pugno e poi ad aprirsi. Fece un passo verso di lei, e la luce della luna gli illuminò le lunghe ossa della faccia, gli sottolineò le rughe scavate dalla stanchezza sotto i suoi occhi.

— Mi dispiace — mormorò. — Ve ne prego. Cercate di capire. Ho cavalcato per gran parte del pomeriggio e per metà della notte. Mio fratello e molti dei nostri uomini sono morti. Il Signore di Niccon ha unito le sue forze a quelle di Drede, e il Sirle non può resistere a tutti e due.

“Rianna è morta dando alla luce il figlio. Se Drede troverà il bambino, lo ucciderà per vendicarsi. In tutto il Sirle non c’è un posto dove il bambino non corra pericolo. L’unico luogo dove può stare al sicuro è qui, presso di voi, dove a Drede non verrà in mente di cercarlo. Drede ha ucciso Norrel, ma io ho giurato di non fargli mai mettere le mani su questo bambino. Vi prego. Prendetevi cura di lui. Sua madre apparteneva alla vostra famiglia.”

Sybel chinò lo sguardo sul neonato. Aveva smesso di piangere; tutt’intorno, la notte era silenziosa e immobile. Il piccolo muoveva lentamente i piccoli pugni, e spingeva le braccia contro la morbida coperta in cui era avvolto. Sybel gli sfiorò il visino pallido e tondo, e il bambino girò gli occhi verso di lei, ammiccanti come stelle.

— Anche mia madre è morta nel darmi alla luce — disse Sybel. — Come si chiama il bambino?

— Tamlorn — disse Coren.

— Tamlorn. Un bel nome. Peccato che non sia una bambina.

— Se fosse una bambina — disse Coren — non avrei dovuto fare tutta questa strada per nasconderlo. Drede teme che lui, in futuro, rivendichi la legittimità e si metta a combattere contro l’erede da lui scelto.

“Il Sirle appoggerebbe la rivendicazione di Tamlorn. La mia gente mira da tempo alla corona di Eldwold: la desidera fin da quando, dopo la disfatta di Re Harth nelle Terre Incolte, Tarn del Sirle occupò il trono per dodici anni, e poi lo perse di nuovo.”

— Ma se tutti sanno che non è figlio di Drede… — disse Sybel.

— I soli che conoscevano la verità — ribatté Coren — erano Drede, Rianna e Norrel, e gli ultimi due sono morti. I figli illegittimi dei Re possono divenire molto pericolosi.

— Lui non mi sembra pericoloso — disse Sybel, e con un sussurro della mano gli passò sulla guancia le dita pallide e sottili. Sulle labbra le si disegnò per un attimo un sorriso distaccato.

Disse: — Si accorderà bene, secondo me, con il resto della collezione.

Coren si strinse al petto il bambino.

— È il figlio di Norrel — protestò. — Non è un animale.

Sybel sollevò lo sguardo, senza battere ciglio.

— No? — disse. — Mangia, e dorme, e non pensa, e richiede particolari attenzioni. Solo… non so cosa fare, con un bambino. Non è in grado di farmi sapere ciò che gli occorre.

Coren rimase in silenzio per qualche istante. Poi, quando riprese a parlare, nella sua voce comparve un velo di stanchezza.

— Voi siete una donna — disse. — Dovreste sapere queste cose.

— Perché? — chiese lei.

— Perché… perché un giorno o l’altro anche voi avrete dei figli, e dovrete sapere come prendervi cura di loro.

— Non c’è mai stata nessuna donna che si sia presa cura di me — disse Sybel. — Mio padre mi ha nutrito con latte di capra e mi ha insegnato a leggere i suoi libri. Suppongo, quando e se avrò un figlio, che gli insegnerò a prendersi cura degli animali al posto mio, per quando non ci sarò più.

Coren la fissò a bocca aperta.

— Se non fosse perché l’ho promesso a mio zio — disse piano — riporterei il bambino a casa sua, invece di lasciare il figlio di Norrel qui con voi, con la vostra ignoranza e con il vostro cuore di ghiaccio.

La faccia di Sybel, di fronte a quella di Coren, divenne immobile come quella della luna piena che campeggiava sopra di loro.

— L’ignorante siete voi — bisbigliò la ragazza. — Potrei dire al Falco Ter di farvi in sette pezzi e di gettare la vostra testa sulla Piana di Terbrec senza più una goccia di sangue, ma cerco con tutte le mie forze di moderarmi. Guardate!

Spalancò il cancello. Le tremavano le dita per la collera, una collera che soffiava dentro di lei come un chiaro vento di montagna. Lanciò bruschi ordini all’indirizzo delle menti che la circondavano, perdute nei sogni. E, come in sogno, gli animali le si avvicinarono lentamente.

Coren entrò nel giardino, fermandosi accanto a lei. Si appoggiò il bambino su una spalla, proteggendogli la schiena con le braccia coperte di maglia e reggendogli con una mano la testa. Intanto, i suoi occhi, spalancati per la meraviglia, scivolavano lungo le forme che vedeva muoversi e frusciare nell’oscurità.

Per primo li raggiunse il grande Cinghiale Cyrin dalle zanne di marmo che, bianche come un fuoco acceso nel buio, di notte continuavano ad apparire ai cacciatori come un incubo, e dalla gola di Coren uscì un suono inarticolato.

Sybel posò una mano sugli occhi del Cinghiale, piccoli e rossi, e disse:

— Credete che dopo essermi presa cura di questi animali non sia in grado di fare altrettanto per un bambino? Questi animali sono antichi, possenti come Principi, saggi, inquieti e pericolosi, e io li governo e li domino. Mi prenderò cura di questo bambino allo stesso modo. Se non siete soddisfatto, potete andarvene. Non sono stata io a chiedervi di venire qui con un lattante; se adesso intendete portarvelo via, per me fa lo stesso. Può darsi che io non conosca il vostro mondo, ma qui voi siete nel mio mondo, e siete uno sciocco.

Coren fissò il Cinghiale Cyrin, faticando a trovare le parole.

— Il Cinghiale Cyrin — mormorò. — E voi lo avete.

S’interruppe. La bocca gli era rimasta aperta; respirava a scatti. Poi prese a parlare in tono sognante, come se ricordasse cose apprese nel tempo passato.

— Rondar… — disse — Re di Runrir, s’impadronì del Cinghiale Cyrin che nessuno era mai riuscito a catturare fino a quel momento. L’elusivo Cyrin, Maestro degli Enigmi, e… Chiese o la vita di Cyrin o tutta la saggezza del mondo.

“E Cyrin sollevò una pietra che stava ai piedi di Rondar, e questi, dicendo che si trattava di una cosa inutile, si allontanò a cavallo, senza smettere di cercare…”

— Come sapete questa storia? — gli chiese Sybel, stupefatta. — Non è una storia dell’Eldwold.

— La conosco — disse Coren.

Poi sollevò la testa e tornò a stringere il bambino fra le braccia perché aveva visto scendere una grande forma silenziosa, un’ombra più nera nel buio della notte. Il Cigno chiuse elegantemente le ali davanti a lui, e Coren vide che aveva il dorso largo almeno come quello del Cinghiale, e che aveva gli occhi neri come la notte che separa tra loro due stelle.

— Il Cigno di Tirlith… È davvero il Cigno Nero? È lui, Sybel?

— Come fate a conoscere il mio nome? — bisbigliò lei.

— Lo conosco.

Coren osservò la Gatta e il Leone che giungevano senza far rumore dai due lati opposti del giardino, e deglutì a vuoto. Tamlorn si agitò fra le sue braccia, ma Coren non si mosse. La Gatta Moriah si avvicinò a loro, sollevò la testa nera e piatta per farsi accarezzare da Sybel, poi si raggomitolò sui suoi piedi e sbadigliò guardando fisso Coren, mostrando i denti simili a gemme levigate e lucide.

— La Gatta Moriah… Signora della Notte, che insegnò al mago Tak l’incantesimo che apriva la torre senza porte in cui era imprigionato. Non… non conosco il Leone…

Gules, dagli occhi simili a due polle d’oro liquido, girò attorno alle gambe di Coren, sfiorandogli la pelle, per poi sederglisi di fronte. Sotto il suo lucente mantello, i muscoli guizzavano l’uno nell’altro, sicuri e frementi.

Coren si affrettò a fare un cenno d’assenso.

— Aspettate! — disse. — Nel Deserto Meridionale c’era un Leone che dispensava saggezza alla corte di grandi signori, nutrito a ricchi bocconi, che portava collari e catene di ferro e d’oro finché non gliene passava la voglia: Gules!

— Come sapete queste cose? — gli chiese Sybel.

La grande testa del Leone si volse verso la ragazza.

“Dove hai trovato quest’uomo?” le chiese mentalmente, incuriosito.

“Mi ha portato un bambino” gli rispose lei con indifferenza. “Sa anche il mio nome, e non so come faccia a conoscerlo.”

— Una volta, il Leone parlava — disse Coren.

— Una volta — ribatté Sybel — questi animali parlavano tutti. Si sono rinselvatichiti: sono stati lontano dagli uomini per così tanto tempo che si sono dimenticati il nostro linguaggio, eccetto il Cinghiale Cyrin. Esattamente come è successo agli uomini — a molti uomini, almeno — che si sono dimenticati del loro nome. Ma voi…

Coren, accanto a lei, trasalì; anche Sybel guardò in alto. Due grandi ali salirono a nascondere la luna, si allungarono con la loro ombra a coprirli e poi si abbassarono: ognuno dei battiti di quelle ali risucchiò un respiro di vento. Tamlorn prese a scalciare, inquieto, fra le braccia di Coren e gli vagì lamentosamente all’orecchio.

Il Drago scese lentamente davanti a loro, illuminando il giovane di un vivace riflesso verde. La sua ombra si allargò ai loro piedi: era enorme. Nella mente di Sybel, la voce del Drago Gyld aveva un suono antico e scricchiolante come quello di un rotolo di pergamena.

“Conosco una caverna, nelle montagne” le suggerì “dove nessuno ritroverebbe più le sue ossa…”

“No” rispose Sybel. “Ti ho chiamato perché ero in collera, ma adesso non lo sono più. Non bisogna fargli del male.”

“È un uomo” osservò Gyld. “Ed è armato.”

“Non toccarlo.”

Sybel si volse verso Coren, che in quel momento era ancora intento a fissare il Drago. Sentendosi ignorato, Tamlorn si divincolava e piangeva fra le sue braccia. Sybel all’improvviso sorrise.

— Voi conoscete il mio Drago! — esclamò.

— Il suo nome non è così antico da essere stato dimenticato dagli uomini — rispose Coren. — Ci fu una volta un Principe di Eldwold che partì con ricchi doni da portare al di là del Monte, a un signore del Sud, da cui voleva uomini e armi. Di quel Principe non furono mai più ritrovati né il tesoro né le ossa. E si parla ancora del fuoco che scendeva su Mondor dal cielo d’estate, delle messi bruciate, del Fiume Slinoon che fumava nel suo letto.

— Adesso, il Drago è vecchio e stanco — disse Sybel. — Quel tempo è ormai passato. Io possiedo il suo nome, e lui non può liberarsi da me e tornare a fare le cose che voi dite.

Alla fine, Coren si decise a cambiare posizione a Tamlorn, e il bambino si acquietò. Gli scuri segni di stanchezza gli erano scomparsi dalla faccia, che per un momento parve solo quella di un uomo molto giovane e perplesso. L’uomo abbassò lo sguardo su Sybel.

— I vostri animali sono bellissimi — disse. — Davvero.

La fissò ancora per un istante, prima di riprendere a parlare.

— Devo andare — disse. — A Mondor saranno giunte le prime notizie della battaglia. Mi tormenta l’idea che i miei fratelli siano morti e che io non lo sappia ancora.

“Accettate di prendere con voi Tamlorn? Qui sarà certamente al sicuro, con simili guardiani! Lo amerete? Questo… questo è ciò che soprattutto gli occorre.”

Sybel annuì, senza parlare. Goffamente prese in braccio il piccino, che, incuriosito, cominciò a tirarle i lunghi capelli.

— Ma… — chiese lei — come sapete tutte queste cose? Come sapete il mio nome?

— Oh — rispose Coren. — Ho chiesto informazioni a una vecchia che abita lungo la strada, qui sotto di voi. È stata lei a darmi il vostro nome.

— Non conosco nessuna vecchia — disse Sybel.

Coren sorrise, ripensando all’episodio.

— Dovreste conoscerla — disse. — Credo che… se avrete bisogno di qualche consiglio per allevare Tamlorn, quella donna sia in grado di darvelo.

S’interruppe, per fissare il bambino. Gli sfiorò la guancia morbida e tonda, e dalle labbra gli scomparve il sorriso: sul viso gli rimase soltanto un’espressione di tristezza sorda, di stupore.

— Addio. Grazie — mormorò, voltandosi.

Lei lo seguì fino al cancello.

— Addio — gli disse da dietro le sbarre mentre lui si accingeva a montare in sella. — Non conosco la guerra, ma so cosa sia la tristezza. Ed è la sola cosa, penso, che vi state passando l’un l’altro, nella Piana di Terbrec.

Lui, con un piede già nella staffa, si voltò a guardarla.

— È vero — disse. — Lo so.

Quando si allontanò dal cancello per rientrare in casa, Sybel vide luccicare gli occhi piccoli e tondi, color della brace, del Cinghiale Cyrin. Sentì anche agitarsi, tutt’intorno a lei, la mente degli altri animali, e con uno sforzo li costrinse a tacere.

“Adesso” disse loro “potete andarvene. Mi spiace di avervi svegliato, ma ero irritata.”

Il Cinghiale Cyrin, però, non si mosse.

“Non puoi dare l’amore” le disse “se prima non l’hai avuto”.

“Bell’aiuto mi dai” gli rispose Sybel con irritazione. Il grande Cinghiale emise un breve sbuffo che per lui era l’equivalente di una risata.

“Quella vecchia” spiegò a Sybel “ha scavalcato una volta il muro di cinta per cercare delle erbe. Io le ho sbuffato contro, e lei ha sbuffato contro di me. Potrebbe davvero aiutarti. Cosa sei disposta a darmi in cambio di tutta la saggezza del mondo?”

“Niente” rispose Sybel “perché in questo momento non mi serve. Dalla a Coren del Sirle, che dice che ho il cuore di ghiaccio.”

Il Cinghiale Coryn sbuffò di nuovo, ma piano.

“Davvero” scherzò “gli servirebbe un po’ di saggezza”.

“È quanto gli ho detto anch’io” rispose Sybel.

Il mattino dopo, Sybel lasciò la casa bianca e discese lungo il sentiero che portava alla più vicina città. I grandi, antichi pini ondeggiavano al vento, cigolando e gemendo all’approssimarsi dell’inverno. Sotto i suoi piedi nudi, i loro aghi erano morbidi e freddi, rallegrati qua e là da un obliquo raggio di sole.

In una bianca e soffice coperta di lana, Sybel portava con sé Tamlorn addormentato. Lo sentiva tiepido e dolcemente pesante tra le sue braccia, morbido e profumato dopo il bagno. Una sola volta lei si fermò: per strofinare il naso contro i suoi morbidi capelli chiarissimi.

— Tamlorn — sussurrò. — Il mio Tamlorn.

Scorse infine una piccola casa in mezzo agli alberi, con il camino che fumava. Sul tetto sonnecchiava un gatto grigio, raggomitolato su se stesso; su un paio di grandi corna di cervo sopra la porta era appollaiato un corvo dalle penne nerissime.

Alcune tortore che tubavano e becchettavano nel cortile si levarono in volo quando lei imboccò il sentiero che conduceva alla porta. Il corvo la guardò di lato, aprendo soltanto un occhio, e gracchiò un’unica volta, come per rivolgerle una domanda: “Chi è qua?”

Senza curarsi di lui, Sybel spalancò la porta. Poi s’immobilizzò sulla soglia, perché all’interno non c’era pavimento, ma solo una nebbia insondabile, inquieta, che le scorreva attorno ai piedi.

Si guardò attorno, perplessa, e vide che le pareti della casa le restituivano l’occhiata: avevano gli occhi, e la bocca scura e tonda. La porta le sfuggì di mano, le si chiuse alle spalle e la nebbia scivolò verso l’alto: prima si addensò attorno agli occhi cauti e attenti delle pareti, poi li coprì del tutto, fino a nascondere anche le travi del tetto. A quel punto il corvo uscì dalla nebbia per volare fino a lei e ripeterle la domanda: “Chi è qua?”

Tra le braccia di Sybel, Tamlorn prese ad agitarsi ed emise un vagito. Lei, sovrappensiero, lo baciò. Poi chiese, rivolta a quella casa strana e guardinga:

— Chi è la padrona di questo focolare?

La nebbia si diradò fino a sparire del tutto; le facce attente si ridussero a semplici nodi delle assi di pino che costituivano le pareti. Sybel scorse una vecchia alta e magra, con indosso una vestaglia color delle foglie, la faccia incorniciata di capelli bianchi, ricci e spettinati.

La vecchia si alzò dalla sedia a dondolo su cui riposava e batté le mani. Sybel notò che aveva le dita praticamente nascoste da grandi anelli, con gemme vistose.

— Un bambino! — esclamò allegramente la vecchia.

Prese Tamlorn dalle braccia di Sybel e gli rivolse dei suoni simili a quelli delle sue tortore. Il bimbo la fissò con attenzione e allungò improvvisamente la mano, per afferrarle il lungo naso. Poi sorrise, mostrando le gengive sdentate, quando lei se lo strinse al petto.

A quel punto la vecchia volse finalmente lo sguardo verso Sybel, fissandola con due occhi grigi come l’acciaio, più affilati della spada di un Re.

— Tu — disse.

— Io — rispose Sybel. — Ho bisogno dei vostri consigli, se sarete così gentile da darmeli.

— Con il Cinghiale Cyrin e il Leone Gules a consigliarti, bambina, tu vieni proprio da me? Oh, hai davvero dei bei capelli, lo sai? Così lunghi e fini… Non te l’ha mai detto nessun uomo?

— Al Cinghiale Cyrin e al Leone Gules nessuno ha mai affidato un bambino in fasce — disse Sybel. — Io devo provvedere a lui e il bambino non è in grado di farmi sapere i suoi bisogni. Cyrin mi ha detto che voi potreste aiutarmi, visto che gli avete restituito uno sbuffo. A volte, Cyrin è davvero incomprensibile. Ma, voi, potete aiutarmi?

— Già, per quelle cipolle — disse la vecchia.

Sybel la fissò, senza capire. Poi disse:

— Vecchia, sono stata sotto lo sguardo del vostro focolare mentre voi mi osservavate, e chiunque possegga un simile occhio interiore non può essere uno sciocco. Mi aiuterete?

— Certo, bambina — disse la vecchia. — Come vedi, ti ho lasciato entrare. Quanto alle cipolle… sono quelle che hai nel tuo orto. Mi è tornato in mente l’episodio. Potrò prenderne qualcuna, di tanto in tanto?

— Certamente — disse Sybel.

— Senza cipolle, il brodo non sa di niente. Accomodati. Là, su quella pelle di pecora, accanto al fuoco. Me l’ha regalata un uomo della città, che era stanco della moglie e che desiderava sbarazzarsene — disse la vecchia tornando a sedere sul suo dondolo.

— Gli uomini della città sono molto strani — disse Sybel. — Io non sono molto esperta di amore e di odio, capisco solo l’esistere e il conoscere. Adesso devo imparare ad amare questo bambino.

S’interruppe per qualche istante, corrugando lievemente le sopracciglia. Poi riprese:

— Credo però di volergli già bene. È morbido e delicato, e mi sta bene fra le braccia. Se Coren del Sirle tornasse a riprenderlo, non vorrei più restituirglielo.

— Giustamente — disse la vecchia.

— Perché? — chiese Sybel.

— Perché è il figlio di Drede. Me lo hanno riferito i miei uccelli.

— Coren diceva che era figlio di Norrel.

Le labbra sottili della vecchia si curvarono in un sorriso.

— Ne dubito — disse. — Credo sia figlio del Re Drede. A palazzo reale c’è un corvo che non prende mai sonno.

Sybel la fissò a bocca aperta. Trasse un breve respiro.

— Io non capisco questo genere di cose — ammise. — Ma adesso devo amarlo. È una cosa molto strana. Ho i miei animali da sedici anni, e ho questo bambino da una sola notte; eppure, se dovessi scegliere tra tutti, ho l’impressione che finirei per scegliere il bambino, anche se non è capace di fare niente e non è in grado di capire niente. Forse perché gli animali, se si allontanassero da me, non avrebbero bisogno di nessuno, mentre il mio Tamlorn ha bisogno di tutto. Da me.

La donna la guardò senza parlare, continuando a dondolarsi. Sulle sue dita, le gemme rifrangevano il bagliore del fuoco.

— Sei una strana bambina… così priva di timori e così forte da poter comandare i tuoi grandi e nobili animali. Mi chiedo se non ti senti sola, a volte.

— Per quale motivo? — domandò Sybel. — Ho molti con cui parlare. Mio padre ha sempre parlato poco, e io ho imparato da lui il silenzio: un silenzio della mente che è come l’acqua immobile e chiara, sotto cui non si può nascondere niente. È stata la prima cosa che mi ha insegnato, perché, se non riuscirai a conservare un assoluto silenzio, non sarai mai in grado di udire risposta al tuo richiamo. E ieri notte, quando è arrivato Coren, stavo cercando di chiamare il Liralen.

— Il Liralen… — disse la vecchia, e il suo volto si addolcì, fino ad apparire infinitamente giovane e sognante sotto i ricci spettinati.

— Il Liralen — riprese — dalle ali che sventolano come bandiere, dalle piume color della luna… Oh, bambina, quando riuscirai finalmente a catturarle, fammelo vedere!

— Ve lo farò vedere — promise lei — ma è molto difficile da rintracciare, specialmente quando sono interrotta dall’arrivo di qualcuno che mi porta un bambino. Da piccola, mio padre mi dava del latte di capra, ma credo che a Tamlorn non piaccia.

La vecchia sospirò. — Vorrei poterlo allattare io, ma una mucca ti sarebbe più utile, a meno di non trovare qualche donna della montagna disposta a prenderlo a balia.

— È mio — disse Sybel. — Non voglio che un’altra donna cominci a volergli bene.

— Certo, bambina, certo, ma… A me permetterai di volergli bene, almeno un poco? Da tantissimo tempo non ho più avuto nessun bambino da amare. Ruberò a qualcuno una mucca, e lascerò al suo posto un gioiello.

— Potrei chiamarla io — suggerì Sybel.

— No, bambina. Se qualcuno ruba qualcosa, il ladro devo essere io. Tu devi pensare a te stessa; a quel che succederebbe se la gente cominciasse a pensare che le porti via gli animali.

— Non ho paura della gente — disse Sybel. — La gente è sciocca.

— Sì, bambina, ma riesce a essere molto forte, quando ama e quando odia. Tuo padre, quando parlava con te, ti dava un nome?

— Certo: Sybel. Ma lo sapevate senza bisogno di chiedermelo.

Gli occhi grigi della vecchia si volsero verso di lei.

— Oh, certo. I miei uccelli vanno dappertutto… Ma c’è una certa differenza tra il nome che hai sentito pronunciare da altri e quello che ti è comunicato da chi lo porta. Io mi chiamo Maelga, e come si chiama il bambino? Sei disposta a darmi in dono il suo nome?

Sybel sorrise. — Certo. Sono lieta di darvelo. Si chiama Tamlorn.

Si chinò su di lui, sfiorandogli con i bianchi e lunghi capelli la faccia piccola e tonda.

— Tamlorn. Il mio Tamlorn — mormorò, e Tamlorn rise.

Fu così che Maelga rubò una mucca, lasciando al suo posto un anello con una grossa gemma; per mesi, da quel giorno in poi, la gente lasciò aperta la porta della stalla, speranzosamente. Tamlorn crebbe alto e forte, con i capelli chiari e gli occhi grigi, ridendo e correndo nei corridoi bianchi e silenziosi, giocando con i pazienti animali e dando loro da mangiare.

Passarono gli anni, e lui divenne agile e abbronzato. Esplorò il Monte Eld insieme con i pastorelli che vi abitavano, scalandone la cima coperta di nebbie, cercandone le caverne più profonde, portando a casa volpi rosse, uccelli e rare erbe che servivano a Maelga.

Sybel continuò a cercare il Liralen, chiamandolo durante la notte, sparendo per intere giornate per poi infine ricomparire, tenendo sotto il braccio qualche antico libro adorno di gemme, chiuso da serrature di ferro, che forse conteneva il suo nome.

Dopo quei furti Maelga la sgridava sempre, e lei rispondeva, distrattamente:

— Li rubo a piccoli maghi, che d’altronde non saprebbero come usarli. Io devo avere quel Liralen. È la mia ossessione.

— Un giorno — prevedeva Maelga — offenderai un grande stregone, credendo che si tratti di un maghetto qualsiasi.

— E allora? Anch’io sono una grande maga. E devo assolutamente avere il Liralen.

Una sera, dodici anni dopo la notte in cui Coren le aveva portato Tamlorn, Sybel scese nella caverna fredda e profonda costruita da Myk per il Drago Gyld. Era dietro un rivo di acqua corrente, e gli alberi che la circondavano erano grandi e immobili come le colonne destinate a reggere la cupola di un tempio dedicato al silenzio.

Sybel scese lungo tre grandi rocce fino a raggiungere una cascata, poi vi scivolò dietro, con l’acqua che le scorreva sulla faccia come un velo di lacrime.

All’interno, la caverna era scura e umida come il cuore stesso della montagna: gli occhi verdi di Gyld brillavano come una coppia di smeraldi.

La grande massa del Drago accovacciato era solo un’ombra nel buio, ma Sybel vi si fermò davanti, come una sottile pallida fiamma della notte, e la fissò in quei suoi occhi che non battevano ciglio.

“Sì?” chiese Sybel.

Nella mente del Drago cominciarono ad affacciarsi i primi pensieri, lenti e informi come le scure bolle d’aria che si alzano dal fondo di una palude. Poi, finalmente, lasciarono il posto al crepitio secco, pergamenaceo, della sua voce mentale:

“Sono passati ormai mille anni da quando mi addormentai sull’oro del Principe Sirkel, e ricordo ancora che mi assopii mentre davo un ultimo sguardo ai suoi occhi spalancati e al suo sangue che sgocciolava lentamente da una moneta all’altra, per raccogliersi infine nella cavità di una coppa.”

La voce mentale si ridusse a un sussurro. Nel profondo silenzio, un’altra bolla di pensiero si formò, per poi scoppiare.

“Io sogno quell’oro” riprese il Drago “e spesso mi sveglio perché desidero guardarlo, ma l’oro non è qui. Quando mi sveglio, vedo solo la fredda pietra. Permettimi di radunarlo ancora una volta!”

Sybel rimase in silenzio come un sasso scaturito dal pavimento di pietra della caverna. Poi disse:

“Dovresti levarti in volo, e gli uomini ti vedrebbero e si ricorderebbero con terrore delle tue antiche imprese. Verrebbero alla mia casa, e vedendo l’oro brillare al sole niente più li frenerebbe dal distruggerla.”

“No” disse il Drago Gyld. “Volerei solo di notte e radunerei il mio oro in segreto. Se qualcuno mi vedesse, lo ucciderei senza farmi vedere.”

“In tal caso” disse lei “verrebbero a ucciderci entrambi.”

“Nessun uomo sarebbe capace di uccidermi” disse il Drago.

“E non pensi a me? E a Tamtam? No.”

La grande, informe massa del drago si scosse; Sybel sentì giungere fino a lei il suo caldo sospiro.

“Ero ormai vecchio e dimenticato” disse Gyld “quando Mastro Myk, pronunciando il mio nome, mi destò dalle arterie cave del Monte Eld e mi scosse dai sogni cantandomi le mie passate imprese. Era bello sentirsi cantare ancora una volta… è bello udire il mio nome dalle tue labbra, ma io devo assolutamente riavere il mio dolce oro.”

Rapido e contorto come un serpente, il suo pensiero si allontanò da Sybel e scivolò nelle caverne della stessa mente, fino all’oscuro labirinto che ne costituiva il centro.

Nel trasportare il proprio nome nelle profonde regioni dell’oblio, dove era sconosciuto perfino a se stesso, il Drago fu svelto come l’acqua che scompare nella sabbia, furtivo come l’uomo che ne seppellisce un altro al chiaro della luna… ma Sybel arrivò laggiù prima di lui, e lo attese dietro l’ultima porta della sua mente.

Gyld se la trovò improvvisamente di fronte, tra i confusi frammenti dei suoi ricordi di massacri, di piaceri e di pasti consumati a metà, e Sybel gli disse:

“Se il tuo desiderio si spinge fino a questo punto, cercherò di accontentarti. Non fare niente, cerca di avere pazienza. Devo rifletterci.”

Il Drago tornò a respirare, e ancora una volta, nella caverna, sgorgarono i suoi pensieri.

“Fa’ questo, solo questo, per me” disse. “Io avrò pazienza.”

Sybel uscì dalla caverna, con l’acqua che le luccicava tra i capelli, e respirò profondamente la fresca aria notturna. Pensò al volo del Drago, simile al guizzo di una liscia fiamma, e pensò a quelle due polle profonde e tranquille che erano gli occhi del Cigno Nero. Il ricordo della mente affilata del Drago e delle braci confuse della sua passione si dileguò pian piano dai suoi pensieri.

Poi, udì dietro di sé un fruscio che sembrava provenire dal terreno scuro e tranquillo, ed ebbe la netta impressione di essere spiata.

— Tamlorn? Maelga? — chiamò.

Ma non le rispose alcuna voce, non le parlò alcuna mente. Intorno a lei s’innalzavano solo gli alberi neri, simili a monoliti di pietra, che coprivano la vista delle stelle. Il fruscio scomparve nel silenzio, come lo spegnersi di un alito di vento.

Aggrottando le sopracciglia, Sybel tornò a casa.

Qualche giorno più tardi, si recò da Maelga e si sedette sulla pelle di pecora, accanto al fuoco, prendendosi fra le braccia le ginocchia. La vecchia stava facendo bollire una delle sue minestre; la guardò con attenzione.

— Nella foresta — disse Sybel — c’è una creatura senza nome.

— E tu ne hai paura? — le chiese Maelga.

Sybel sollevò lo sguardo per guardarla. Era sorpresa dalla domanda.

— No, naturalmente — disse. — Ma come posso chiamarla, se non ha nome? È molto strano. Non ricordo di avere mai letto di una creatura senza nome.

Poi cambiò discorso: — Che cosa stai preparando? Se già non avessi appetito, mi verrebbe a sentire questo profumo.

— Ci ho messo funghi — disse Maelga — cipolle, salvia, rape, cavoli, prezzemolo, zucca e altre cose che mi ha dato Tamlorn: cose senza nome.

— Un giorno o l’altro — disse Sybel — Tamlorn ci avvelenerà tutti.

Tornò ad appoggiare la testa alla pietra e trasse un profondo sospiro.

Maelga la fissò.

— Che cos’è? — le chiese. — Sei sicura che non abbia un nome?

Sybel cambiò posizione.

— Non lo so — disse. — In questo periodo sono un po’ irrequieta, ma non so esattamente cosa desidero. A volte vado a unirmi ai pensieri del Falco Ter, mentre caccia; ma non vola mai così in alto o così veloce come vorrei, anche se la terra sotto di noi pare correre a precipizio, e lui sale più in alto della vetta del Monte Eld…

“Ma poi mi trovo con lui anche quando uccide la preda. Per questo rimpiango di non avere il Liralen. Potrei cavalcargli sul dorso e volare lontano, al di là del tramonto del sole, nel mondo delle stelle. Vorrei… Desidero qualcosa di più di ciò che avevano mio padre e mio nonno, ma non so che cosa.”

Maelga assaggiò la minestra, nello sfarfallio delle gemme che portava alle dita.

— Ci vuole pepe — disse. — E timo. Soltanto ieri è venuta da me una ragazza che voleva intrappolare un giovanotto con un dolce sorriso e le braccia robuste. Quella ragazza era una sciocca: non perché desiderasse il giovane, ma perché desiderava, da lui, qualcosa di più.

— E voi l’avete aiutata? — chiese Sybel.

— Mi ha regalato una scatola di essenze profumate. E d’ora in poi sarà tormentata dalla gelosia, per il resto della sua vita.

Fissò Sybel, che sedeva accanto alle pietre con gli occhi nascosti nell’ombra, e sospirò.

— Bambina — le disse — posso fare qualcosa per te?

Sybel sollevò lo sguardo, con un debole sorriso.

— Dovrei aggiungere un uomo alla mia collezione? Non incontrerei alcuna difficoltà. Potrei chiamare chiunque desiderassi, ma non desidero nessuno.

“A volte gli animali vengono presi dall’irrequietezza, come adesso sta succedendo a me, perché sognano i giorni dei voli e delle avventure, quando accumulavano sapienza e udivano pronunciare con timore e reverenza il loro nome. Quei loro giorni sono passati; poche persone ricordano come si chiamano, ma gli animali continuano a sognare…

“Io penso al modo fermo e silenzioso in cui ho imparato ciò che so; penso che solo mio padre, e poi voi, e poi Tamlorn, mi avete restituito il mio nome. Credo che dovrei lasciare questa montagna per alcuni giorni, per andare a visitare lo strano, incomprensibile mondo che ci circonda.”

— Allora vai, bambina — disse Maelga.

— Potrei farlo. Ma chi penserà ai miei animali?

— Prendi un apprendista mago.

— Per il Falco Ter? Nessun apprendista sarebbe in grado di tenerlo. Quando avevo l’età di Tamlorn, io ero già in grado di dominarlo. Peccato che Tamlorn non sia un mezzo mago. Invece, è soltanto un mezzo Re.

— E tu non glielo hai mai detto, vero?

— Mi credete sciocca? — chiese Sybel. — Che vantaggi gli possono venire, dal saperlo? Un sogno di quel genere potrebbe dargli soltanto infelicità. E nel mondo sotto di noi, potrebbe addirittura condurlo alla morte. È meglio che pensi a giocare con i pastorelli e con le volpi, e che si sposi con qualche bella ragazza di montagna, quando avrà l’età giusta.

Sybel sospirò di nuovo, aggrottando le sopracciglia chiare. Poi si alzò in piedi, sorpresa, allorché la porta si aprì di scatto.

Entrò Tamlorn, che la fissò con preoccupazione; il ragazzo appariva teso, ed era coperto di sudore. Sulla faccia arrossata, i capelli madidi gli disegnavano chiare righe spioventi.

— Sybel. — disse. — Il Drago ha ferito un uomo. Vieni, presto!

Corse via, più rapido di una lepre, e lei lo seguì.

Quando giunse davanti alla casa, Sybel si arrestò e rimase immobile come un albero. Per cogliere i pensieri del Drago, le bastò formulare il suo nome.

“Gyld.”

Il Drago era raggomitolato nell’oscurità, in fondo alla sua umida caverna, e nella mente gli correvano i pensieri del volo, dell’oro, di una faccia pallida che si sollevava a guardarlo con la bocca spalancata, di due braccia che si alzavano bruscamente per tentare di proteggersi. A Sybel sfuggì un breve mormorio di sorpresa.

— Cos’è successo? — chiese Maelga, torcendosi nervosamente le mani.

Sybel si girò verso di lei.

— Il Drago Gyld — spiegò. — Era andato a prendere il suo tesoro, e, mentre tornava, un uomo l’ha visto. Allora, lui lo ha assalito.

— Oh, no! Cara… — esclamò Maelga. Poi, con i suoi occhi grigi, scrutò in faccia Sybel. — È un uomo che conosci?

— Sì, lo conosco — disse lei, lentamente, e la ruga che si era formata tra le sue sopracciglia si fece più profonda. — È Coren del Sirle.

2

Sybel e Tamlorn portarono Coren all’interno della casa di marmo bianco; Maelga li seguì, tormentandosi i capelli per la preoccupazione.

Tutt’intorno gli animali erano estremamente agitati: mormoravano, osservavano. Anche Tamlorn parlava senza interruzione, faticando a reggere sulle spalle la sua parte del peso di Coren:

— Arrivavo dalla casa di Nyl — spiegava — dopo che avevamo riportato nell’ovile le pecore. Avevamo notato che gli animali si raggruppavano contro il recinto e che parevano agitati da una profonda paura; non ne capimmo la ragione finché, sollevando lo sguardo, non vedemmo il Drago Gyld. Che volava nel cielo come una grande foglia di fuoco verde, e stringeva fra gli artigli oro e gioielli.

“Allora sono corso a casa, ma non ti ho trovata. Mentre scendevo da Maelga, ho visto l’uomo che guardava il Drago. Lo fissava ad occhi aperti, e Gyld è sceso in cerchio su di lui.

“L’uomo si è gettato a terra, e Gyld lo ha graffiato con gli artigli. Credo che anche Nyl l’abbia visto. Dove possiamo nasconderlo?”

— Non so — disse Sybel. — Mi spiace che quell’uomo sia rimasto ferito, ma non sarebbe dovuto venire qui; eppure, in parte è colpa mia, perché avrei dovuto lasciare già da tempo che Gyld si prendesse il suo oro. Mettiamolo sul tavolo, in modo che Maelga possa dare un’occhiata alla sua schiena. Porta un cuscino, glielo metteremo sotto la testa.

Tolse il tappeto dal tavolo di legno lucido e massiccio, e con l’aiuto degli altri, vi posò Coren. Quando Tamlorn gli mise il cuscino sotto la testa, il ferito aprì gli occhi.

Sulla schiena dell’uomo, coperta solo di una tunica di pelle, si vedevano i profondi graffi che gli avevano inferto gli artigli del Drago; i suoi capelli chiari erano sporchi di sangue. Tamlorn lo fissò, serrando le labbra.

— Credi che morirà? — chiese sottovoce a Sybel.

— Non lo so — rispose lei.

Coren cercò con gli occhi il volto della donna, e solo allora lei vide il loro chiaro, vivido colore azzurro, simile a quello degli occhi del Falco Ter. Fissandola, Coren le rivolse un debole sorriso. Poi bisbigliò qualcosa, e Tamlorn arrossì.

— Che cosa ha detto? — chiese lei.

Il ragazzo tacque per qualche istante, serrando le labbra.

— Ha detto — riferì poi — che sei stata crudele a scatenare contro di lui il Drago Gyld, anche se la cosa non lo sorprendeva affatto. Ma non è vero! Non ha il diritto di dire una cosa simile!

— Be’, forse ce l’ha — disse Sybel, pensosa. — Quando è venuto la volta scorsa, ho scatenato contro di lui il Falco Ter.

— È già venuto una volta? Quando? — chiese Tamlorn.

Sybel passava delicatamente le mani sulla schiena di Coren, per togliergli le vesti strappate.

— Quando ti ha portato da me — disse — dopo la morte dei tuoi genitori. Per questo sarò sempre in debito nei suoi confronti…

Poi, cambiando tono, gli ordinò: — Tamlorn, porta dell’acqua e la pezza di lino da ricamare che tengo da parte. Dopo, resta qui per procurare a Maelga ciò che le serve.

Dietro di lei, torcendosi gli anelli, Maelga cominciò a elencare ciò che le occorreva. — Bacche di sambuco. Fuoco, acqua, grasso e vino.

— Vino? — chiese Sybel, stupita.

— I miei nervi non sono più quelli di una volta — disse la vecchia, in tono di scusa.

— E neppure i miei… — bisbigliò il ferito, che, immobile sotto le mani attente di Sybel, cercava di sopportare il dolore senza lamentarsi.

Tra tutti, diedero fondo a un grosso fiasco di vino, mentre lavavano e bendavano Coren, gli tagliavano i capelli per medicargli la testa, e infine lo mettevano a dormire nel letto di Ogam, vuoto da molto tempo.

Maelga, con i capelli più scarmigliati del solito, si lasciò cadere su una sedia accanto al fuoco.

Sybel rimase a lungo davanti al camino, con lo sguardo perduto nelle fiamme guizzanti. Infine, socchiuse gli occhi.

— Maelga, perché è venuto qui? — chiese a bassa voce. — È qui per Tamlorn, ne sono certa. Ma sono stata io ad allevarlo, sono stata io ad amarlo, e non lo lascerò in mano a uomini che intendono servirsene per i loro giochi di odio. Non glielo lascerò!

“Coren è meno saggio di quanto lo giudicavo, se è venuto qui a chiedermi un simile sacrificio. Se oserà dire a Tamlorn una sola parola sulla guerra o sul regno, io… Non lo farò divorare dal Drago Gyld, ma qualcosa farò!”

Tacque, e le fiamme dei suoi occhi continuarono a torcersi e a rivoltarsi, e i lunghi capelli si agitarono intorno a lei come un manto argenteo dai bordi infuocati.

Maelga si passò le dita sulle palpebre.

— Sono vecchia e stanca — mormorò. — È un giovane davvero ben fatto, un vero Principe fra gli uomini, con gli occhi azzurri e le ciglia del vecchio signore del Sirle, nere come l’ala di un corvo. Quelle che gli ho visto sulle spalle erano ferite di battaglia.

Sybel rabbrividì.

— Non voglio — bisbigliò — che il mio Tamlorn porti sulla carne le cicatrici delle battaglie…

Così dicendo, si voltò verso Maelga, e si accorse che la vecchia le rivolgeva una delle sue occhiate penetranti.

— Tamlorn potrebbe essere molto importante, per i loro giochi di potere — disse Maelga. — Non si arrenderanno tanto facilmente, se hanno bisogno di lui.

— In tal caso — disse Sybel — dovranno vedersela con me. Anch’io farò il mio gioco, con le mie regole. Può darsi che passino molti anni, prima che il Signore del Sirle riveda il proprio figlio.

— Il vecchio Signore è morto — disse la vecchia. — Adesso il Signore del Sirle è il più anziano dei fratelli di Coren, Rok, padrone di ricche terre, di fortezze dalle mura robuste, di un esercito che da secoli costituisce la principale minaccia per i Re di Eldwold. Bambina mia — aggiunse, perplessa — non ti avevo mai vista piangere, finora.

— Oh, sono così in collera…

Con le dita, Sybel si asciugò gli occhi. Poi fissò le lacrime scintillanti che aveva raccolto sui polpastrelli.

— Che strano — disse. — Mio padre mi disse di aver visto mia madre piangere, poco prima della mia nascita, mentre guardava fuori della finestra, ma non ho mai capito cosa volesse dire…

“Perché non posso semplicemente dare Coren in pasto al Drago Gyld, e sbarazzarmene una volta per tutte? Posseggo il suo nome e il suono della sua voce; le sue parole, se voglio, possono obbedirmi.

“Lui è uno sciocco, ma è vivo: ha occhi capaci di vedere e di piangere, mani capaci di reggere un bambino e di uccidere un uomo, cuore capace di amare e di odiare, e anche una mente da usare, entro certi limiti. Nel suo mondo, senza dubbio, è un uomo stimato.”

— Bambina mia — bisbigliò Maelga — apparteniamo tutti a un solo mondo.

Sybel non disse niente.

Prima di andare a dormire, si recò nella stanza di Coren per controllare come stava. Passando, vide che anche Tamlorn si era addormentato; intorno a lei, nella buia notte, aleggiavano solo i vaghi sogni degli animali, strani e coloriti come i frammenti di una vecchia storia dimenticata. Oltrepassò con passo leggero la sala delle bianche colonne: anch’essa era avvolta nel silenzio; il fuoco dormiva, custodito dalle sue braci nere e pulsanti. Infine aprì delicatamente la porta e udì le parole fioche e ansanti che Coren pronunciava nel delirio della febbre.

Alla luce dell’unica candela che rischiarava il letto, l’uomo si voltò verso di lei. I suoi occhi scintillavano come quelli del Falco Ter.

— Bianca Signora… Signora del Ghiaccio… — bisbigliava. — Il Drago era così bello, quando mi è apparso con gli artigli carichi d’oro e di ametiste. Ma dicono che non si deve fissare in volto la bellezza. E siete bellissima anche voi: bianca come l’avorio e come il diamante, bianca come il fuoco, con gli occhi neri come il cuore di Drede… ancora più neri… neri come gli alberi della Foresta di Mirkon, dove Arn, il figlio del Re, si perse per tre giorni e tre notti, e quando ne uscì aveva i capelli bianchi come la neve più immacolata… Occhi come…

— Il Principe Arn — mormorò Sybel, con un filo di voce. — Dove avete imparato una storia come questa? È scritta in un solo posto, e la chiave di quel libro l’ho io.

— Lo so — rispose lui.

Poi batté gli occhi come se Sybel, davanti a lui, lo abbagliasse con il suo splendore. Cercò di tendere la mano nella sua direzione, ma subito lasciò ricadere il braccio con un gemito di dolore.

— Sono ferito — disse, in tono perplesso. Poi, a voce alta, gridò: — Rok! Ceneth!

— Sst! — fece lei. — Sveglierete Tamlorn!

— Rok! — esclamò ancora Coren.

Cercò di girarsi sul fianco, distogliendo gli occhi da lei, ed emise un altro gemito. Poi non si mosse più, e Sybel si chinò su di lui, gli sfiorò i capelli, glieli scostò dalla faccia. Inumidì nel vino un pezzo di tela e gli terse la fronte madida di sudore; gli tamponò le tempie con la tela finché lui si rilassò e ricadde nel sonno.

L’indomani, Sybel dormì fino a mattina inoltrata, e quando si svegliò per andare a controllare gli animali scoprì di essere ancora stanchissima.

Attraversò il vasto giardino fino a raggiungere il laghetto scavato da Myk, dove il Cigno Nero scivolava fiero e silenzioso sotto il cielo turchino e grigio.

Il grande Cigno, quando la vide fermarsi sulla riva, si diresse maestosamente verso di lei e la fissò con quei suoi occhi che parevano il liquido stesso di cui è composta la notte. Con un timbro simile a quello di un flauto dolce, i suoi pensieri s’insinuarono nella mente della donna:

“Sybel, oggi sei bella come il ghiaccio illuminato dalla luna.”

Negli occhi di lei, per un istante, comparve un amaro sorriso.

“Sempre il ghiaccio” pensò. “Grazie. Stai bene?”

“Certo” rispose il Cigno. “Ma alcuni di noi sono piuttosto inquieti.”

“Lo so. Adesso andrò a trovare il Cinghiale Cyrin.”

“E chi si occuperà del Principe del Sirle? A quanto ho sentito, viene a riprendersi quel che ha portato.”

“Da me non riavrà niente” disse Sybel. “Niente del tutto.”

“Davvero?”

Il grande Cigno scivolò sull’acqua in silenzio, per qualche istante, prima di riprendere:

“Una volta, quando il giovane principe di Elon era in pericolo di vita per mano dei nemici di suo padre, lo portai via in volo, di notte e alla luce della luna, fino a un luogo dove nessun uomo sarebbe mai riuscito a trovarlo.”

“Me ne ricorderò” promise Sybel. “Grazie.”

Udendo stormire le fronde sopra di sé, si voltò e scorse il Falco Ter, i cui grandi artigli parevano scintillare nella pallida luce della radura.

“Ho fiutato l’odore di qualcosa di familiare” disse il rapace, e lei pensò ancora una volta che, con quegli occhi così azzurri, le ricordava davvero Coren.

“Vuoi che lo butti in qualche precipizio?” proseguì il Falco.

“Oh, no!” si affrettò a dire lei. “Credo che stia già abbastanza male. Deve essere venuto per…”

Tacque, fissando lo sguardo negli occhi acutissimi del Falco, e la sua mente si svuotò di ogni pensiero come una tazza d’acqua rovesciata sulla ghiaia. Ter mosse le penne, che si arruffarono leggermente.

“Ho corso nel vento” disse il Falco “e ho ascoltato i suoi segreti: le parole che mormora a notte fonda, confidandole solo a me, perché non posso rispondergli. Ho trascorso molti anni nelle corti degli uomini, e posso capire quale sia la missione del Principe del Sirle.”

“Non devi fargli del male” gli ordinò Sybel “a meno che non sia io stessa a chiedertelo. Coren pensa che abbia ordinato al Drago Gyld di colpirlo.”

“Che importanza può avere ciò che pensa quell’uomo?” chiese il Falco.

Sybel, invece di replicare, cercò in se stessa la risposta alla domanda.

“Ha importanza” ammise alla fine. “Anche se non saprei dirtene la ragione.”

Anche il Falco rimase in silenzio per un lunghissimo istante. Sybel aspettò, tesa e senza fare alcun gesto, mentre il vento le appiattiva l’orlo del vestito nero. Poi sentì una sorta di strattone mentale, quando Ter, con una rapidità da capogiro, distolse i pensieri da lei per lanciarli verso un cielo lontano.

Ma riuscì a sgombrare la mente dalla paura, a mantenerla immobile e chiara, seguendo il volo immaginario del Falco, come se la sua mente fosse diventata un cerchio capace di contenere tutto il cielo e tutta la terra.

Il cerchio si allargò sempre di più, e il volo del Falco non riuscì mai a oltrepassarlo; infine, fu Ter ad avere un attimo di esitazione e a fermarsi. E allora il suo volo si spezzò e precipitò in picchiata sulla terra, trasformandosi in una grande onda di collera e di violenza che divampò dentro Sybel, finché i muscoli di lei si tesero come le corde di un’arpa e il suo cuore si accese del sangue rovente di Ter.

Ma sempre, nella sua mente, il cerchio di serenità entro cui aveva inscritto il proprio nome rimase freddo e imperturbabile, inaccessibile. E alla fine il rapace si arrese e riportò dentro di sé i propri pensieri come il riflusso di un’onda; e Sybel poté infine trarre un lento respiro.

Sulle labbra le comparve un sorriso di trionfo.

“Spiegami” gli chiese “perché continui sempre a provarci?”

“Per amore del bambino. Se ti fossi arresa, sarei andato a uccidere quell’uomo.”

“E pensare che sei stato proprio tu a non volerlo gettare dalla cima della montagna!” disse lei.

“Adesso mi pento di non averlo fatto” rispose il Falco Ter.

“Non gli permetterò di portare via Tamlorn.”

“Neanch’io” disse Ter.

Mentre Sybel faceva ritorno a casa, la grande Gatta Moriah, nera e dagli occhi verdi, scese come un’ombra da un albero. Si mise a camminare al suo fianco, senza fare rumore, e Sybel le passò le dita nel pelo vellutato della schiena.

“C’era un incantesimo” disse infine la Gatta, con la sua voce mentale dolce e frusciante come seta “usato talvolta dalla mia precedente padrona, che dissolveva un uomo in modo così completo da far rimanere soltanto gli anelli d’oro che aveva alle dita.”

“Non penso che Maelga sarebbe d’accordo” disse Sybel. “Sei sicura di star bene?”

“Maelga ha fatto ogni genere di cose.”

“Sì, ma non ha mai fatto dissolvere un uomo.” Si fermò, irritata. Poi riprese: “Perché mi vengono in mente queste cose? Non voglio più pensarci. Né mio padre né tantomeno mio nonno amavano la gente, ma non hanno mai ucciso nessuno. Quanto a me, poi, non sarei neppure capace di farlo.”

“Io sì” disse la Gatta.

“Comunque, sarà sufficiente fargli un po’ di paura.”

Il Cinghiale Cyrin li aspettava sulla porta. I suoi occhi, alla luce di quel sole autunnale, erano uno specchio d’innocenza. Sybel gli si fermò davanti e lo fissò con aria interrogativa.

“Secondo te” gli chiese “come dovrei comportarmi con quell’uomo?”

Il Cinghiale dalle setole argentee emise un brevissimo soffio divertito.

“Una rete di parole” disse infine “è più forte di una rete di corda”.

“Ossia?” chiese lei.

“Ossia, in questo momento il tuo ospite sta parlando a Tamlorn, con parole più dolci del canto di un arpista.”

Sybel sentì che il suo cuore prendeva ad agitarsi come le tortore di Maelga. Entrò in casa e corse alla stanza di Ogam. Aprì la porta, e vide che Tamlorn, stranamente acceso in volto, distoglieva gli occhi dal Principe del Sirle per guardare verso di lei. Nel suo sguardo si scorgeva un conflitto di emozioni indistinte, indefinibili.

— Mi ha detto… — esclamò il ragazzo, fermandosi per deglutire a vuoto — che sono il figlio del Re di Eldwold.

Sybel si fermò accanto al letto; un rovente lampo di dolore sorse per un istante dentro di lei, per poi frantumarsi e scomparire. Disse piano:

— Tamlorn, caro, adesso lascialo tranquillo. Deve riposare.

Il ragazzo si alzò in piedi, senza staccare lo sguardo dagli occhi di lei.

— Quello che ha detto… è vero? — chiese. — Tu non me ne hai mai parlato.

Lei gli accarezzò il volto abbronzato.

— Tamlorn — disse — più tardi ne parleremo. Ma non ora. Ti prego.

Il ragazzo li lasciò soli, chiudendosi la porta alle spalle, senza fare rumore. Lei si accomodò sulla sedia accanto al letto e si portò le mani alla faccia.

Infine bisbigliò, da dietro le mani che le coprivano gli occhi e la bocca:

— Voi mi avete ordinato di amarlo. E così ho fatto, amandolo più di ogni altra cosa al mondo. Adesso volete togliermelo, per usarlo nei vostri giochi di guerra. Rispondete a questa domanda: chi di noi ha il cuore di ghiaccio?

Coren non si mosse. Poi mormorò qualcosa, e Sybel si sentì toccare le mani dalle sue dita febbricitanti.

— Vi prego. Cercate di capire. State piangendo?

— Non sto piangendo! — esclamò lei.

Coren tolse la mano, e lei lo fissò: la febbre dava ancora un aspetto sognante ai suoi occhi, la calda luce del mattino gli batteva sulla schiena ferita.

— Che cosa dovrei capire? — riprese la donna. — Che dopo avermi dato Tamlorn, dopo avermi detto di allevarlo e di amarlo, ora vi sentite autorizzato a portarmelo via?

“Lui non vi appartiene, Coren. Non avete alcun diritto su di lui, perché non è il figlio di Norrel. È figlio di Drede: me l’ha detto Maelga, dodici anni fa.

“Ma sono stata io ad allevarlo, e non intendo cederlo né a voi né a Drede perché lo usiate come pedina di un gioco politico. Riferite queste parole a vostro fratello Rok, quando ritornerete da lui. Molti di coloro che abitano con me hanno poca simpatia per voi: da loro, non aspettatevi un’accoglienza migliore di questa.”

Coren non mosse muscolo, e per qualche tempo parve meditare sulle parole della donna.

Infine disse:

— Fin dal primo momento in cui mi avete visto, già sapevate che cosa volevo. Eppure mi avete medicato la schiena e la testa, e ormai avete perso ogni possibilità di farmi realmente paura. Se lascerò la vostra casa senza quel che sono venuto a prendere, Rok mi dirà di tornare. Ha molta fede in me.

S’interruppe di nuovo, poi le sorrise.

— Ma non mi ha solo chiesto — continuò — di portargli Tamlorn. Nel Sirle, Sybel, devo portare anche voi.

Lei lo fissò, sorpresa. — Siete pazzo — disse.

Coren scosse la testa, cautamente. — No. Io, anzi, sono il più savio dei miei fratelli. Siamo in sette… in sei, adesso.

— In sei.

— Sì, mentre Drede ha soltanto un figlio che non ha mai conosciuto. Vi pare strano che il Re di Eldwold sia in allarme?

— No — disse lei. — Se nel Sirle ci sono sei pazzi, e voi siete il più savio di tutti, confesso di essere allarmata anch’io. Ho pensato che foste una persona saggia la notte che mi avete portato il bambino: avevate delle conoscenze che non mi sarei mai aspettata. Ma adesso ragionate come uno sciocco.

— Lo so — rispose Coren. La sua voce rimase tranquilla, ma l’espressione cambiò e gli occhi si persero in qualche lontano ricordo.

— Vedete — spiegò — io amavo Norrel. Anche voi conoscete un poco l’amore. E Drede l’ha ucciso. Quando si tratta di Norrel, io divento uno sciocco. So che cosa sia l’odio.

Sybel sospirò.

— Mi spiace — disse. — Ma il vostro odio non mi riguarda, e Tamlorn non è vostro: non potete prenderlo.

— Rok mi ha incaricato di comprare i vostri poteri.

— Hanno un prezzo più alto di quanto possiate permettervi.

— Qual è la cosa che desiderate maggiormente?

— Non esiste — disse lei.

— No? — la fissò negli occhi. — Ditemelo. Quando scrutate in voi, come potete scrutare voi sola, che cosa vi chiede il cuore? Io vi ho detto che cosa voglio io.

— La morte di Drede?

— Qualcosa di più — disse Coren. — Prima desidero togliergli il suo potere e le sue speranze, e infine la vita. Proprio come avete detto voi: sono uno sciocco. Allora, cosa volete?

Per un lungo tempo, lei non parlò.

— La felicità di Tamlorn — disse infine. — E il Liralen.

Senza che lei se lo aspettasse, sulle labbra di Coren si disegnò un sorriso. — Il Liralen. Il bellissimo uccello dalle bianche ali che il Principe Neth catturò poco prima di morire… l’ho visto nei miei sogni, così come ho visto nei miei sogni, uno alla volta, tutti i vostri grandi animali. Ma non ho mai sognato di voi. Siete in grado di prendere quell’uccello, Sybel? Pochi sono riusciti a catturarlo.

— Voi siete in grado di darmelo?

— No — disse Coren — ma posso promettervi questo: un posto di potere ih un terra dove il potere ha un prezzo infinito e dove comporta onori senza uguali.

“Il vostro unico desiderio è davvero quello che mi avete detto? Abitare su questa montagna, parlando unicamente con i vostri animali, che vivono nei sogni del loro grande passato, e con Tamlorn, cui negate un futuro?

“Considerate: a legarvi a questo posto è solo la volontà di vostro padre; voi vivete la sua vita, non la vostra. Invecchierete e morirete quaggiù, dedicando l’esistenza ad altri che non hanno bisogno delle vostre attenzioni.

“Lo stesso Tamlorn, un giorno, non avrà più bisogno di voi. In futuro, dunque, che cosa vi resterà della vita? Solo un silenzio privo di significato e alcuni antichi nomi che non vengono mai pronunciati fuori di queste mura. Con chi riderete, quando Tamlorn sarà grande? Chi amerete? Il Liralen? È un sogno. Lasciate questa montagna, prendete il posto che vi spetta tra i viventi.”

Lei non rispose. Vedendo che non si muoveva, Coren allungò la mano e le spostò i capelli per guardarla in faccia.

— Sybel — mormorò.

Lei si alzò bruscamente in piedi e uscì senza voltarsi.

Si recò nel giardino, e, all’ombra dei pini scuri e degli alberi che già rosseggiavano di foglie autunnali, s’immerse nei suoi pensieri, sorda a tutto il resto.

Dopo qualche tempo, Tamlorn la raggiunse, silenzioso come un animale della foresta, e le cinse la vita con un braccio. Lei sussultò per la sorpresa.

— È vero? — le chiese il ragazzo.

Lei annuì.

— Io non voglio andarmene — disse Tamlorn.

— Allora, non te ne andrai.

Lo fissò, e con la mano gli ravviò i capelli, chiari come i suoi e come quelli della madre. Trasse un leggero sospiro.

— Non sono mai stata triste come ora — disse. — E mi sono scordata di parlare con il Drago Gyld.

— Sybel.

— Sì?

Il ragazzo cercò le parole. — Ha detto… che voleva farmi diventare Re di Eldwold.

— Desidera servirsi di te per ottenere un maggiore potere: per sé e per la sua famiglia.

— Dice che alcune persone mi cercano, per vendermi a mio padre, e che devo stare attento. Dice che nel Sirle sarebbero in grado di proteggermi.

— Mi chiedo come — disse Sybel. — Nella Piana di Terbrec, gli uomini del Sirle sono stati sconfitti da Drede.

— Pensa di servirsi di te, credo. Ha detto che c’era posto per entrambi, un posto che nel suo mondo è molto importante; basta volerlo.

“Non so come si faccia, per voler essere Re. Non so neppure cosa sia un Re, ma lui mi ha parlato di bei cavalli, di falchi bianchi e altre cose… ma, Sybel, non so cosa fare! Credo che sarebbe una vita molto diversa da quella che vivo adesso, pascolando le pecore con Nyl e arrampicandomi sulle rocce con lui.”

La fissò come per chiederle aiuto. Poi, visto che lei non rispondeva, le prese le braccia e le scosse piano, disperatamente.

— Sybel…

Lei, per qualche momento, si coprì gli occhi. — È come un sogno, Tamlorn. Presto lo rimanderò a casa e ci dimenticheremo di lui. E, allora, a tutti gli effetti, sarà stato davvero solo un sogno.

— Fa’ presto.

— Certo.

Le lasciò le braccia, più calmo di prima. Guardandolo, a Sybel parve di vedere per la prima volta certe sue caratteristiche fisiche: l’alta statura, la promessa di larghe spalle, il gioco di muscoli sulle sue braccia irrobustite dalle scalate. Adesso quei muscoli erano contratti dalla tensione nervosa.

Lei bisbigliò: — Presto.

Il ragazzo annuì. Poi riprese a camminare accanto a lei, ma senza abbracciarla, spostando con i piedi scalzi le pigne, fermandosi per scrutare qualche cespuglio che avesse visto muoversi.

— Come farai per l’oro del Drago Gyld? — le chiese poi. — L’ha già trasportato tutto?

— Non credo. Dovrò lasciarlo volare di notte.

— Quell’oro potrei portarlo io, accompagnato da Nyl.

— Oh, Tamlorn! — esclamò lei, sorridendo. — Come sei ingenuo!

— Nyl non gli ruberebbe l’oro!

— No, ma non si scorderebbe della sua esistenza. L’oro è potente, terribile. Serve a creare i Re.

Tamlorn fece una smorfia.

— Non voglio pensare a questa parola — disse.

Si fermò a guardare nel cavo di un albero.

— L’anno scorso — disse — qui c’era un nido di uova azzurre… Sybel, vorrei essere tuo figlio, perché potrei parlare con il Falco Ter, il Cinghiale Cyrin e il Leone Gules e nessuno riuscirebbe a portarmi via.

— Nessuno ti porterà via. Il Falco non permetterà a Coren di farlo.

— Che cosa farà? Ucciderà Coren? Per vendicare Aer, ha ucciso molte persone. Gli impedirai tu di farlo? — le chiese all’improvviso, e lei non seppe cosa rispondere. — Sybel…

— Sì!

— Be’, preferirei che tu fermassi il Falco — le disse, cercando di consolarla. — Ma se quell’uomo non fosse mai venuto, sarei più contento. Coren è… preferirei non averlo mai visto.

All’improvviso si allontanò, correndo veloce e leggero come un gatto verso le alte cime del Monte Eld.

Lei lo vide sparire tra gli alberi, e, bruscamente, notò che il vento d’autunno le si avventava ai piedi, ruggendo.

Si sedette su un tronco caduto e chinò la testa sulle ginocchia. Sentì che un grande, morbido tepore la proteggeva dal vento; alzò gli occhi e scorse gli occhi tranquilli e dorati del Leone Gules.

“Che cosa c’è, Bianca Padrona?” le chiese.

Lei si inginocchiò accanto al Leone e serrò tra le braccia la sua folta criniera, seppellendovi il viso.

“Vorrei avere le ali” gli disse “per volare senza sosta, senza più tornare indietro”.

“Che cosa ti preoccupa, o possente figlia di Ogam? Come può giungere a preoccuparti un essere debole come Coren?”

Per un lungo istante, lei non rispose. Poi riprese, serrando le dita sul suo pelo dorato:

“Mi ha rubato il cuore e si è offerto di ridarmelo. E io, che l’avevo giudicato innocuo!”

Dopo che il Leone Gules si fu allontanato, Sybel rimase lungamente a sedere sotto gli alberi. Il cielo si scurì; le foglie secche presero a girare attorno a lei, in mulinelli interminabili.

Il vento era freddo come le legature di ferro dei suoi libri di magia. Scendeva dalla vetta coperta di neve del Monte Eld, e dopo avere attraversato l’umida nebbia, veniva a gemere in mezzo ai grandi alberi del giardino di Sybel.

Le tornò in mente l’immagine di Tamlorn, che correva a braccia nude, scalzo, fra l’alta erba e i piccoli fiori di campo dell’estate; Tamlorn che alzava il suo grido in direzione del grande falco, e il coro di grida degli altri ragazzi della montagna che gli faceva eco.

Poi i suoi pensieri tornarono alle stanze silenziose abitate dai maghi a cui aveva rubato i libri. Li udiva discutere tra loro, li osservava mentre operavano, e poi, con un sorriso, si allontanava silenziosamente, portando con sé un libro di valore inestimabile, prima ancora che si accorgessero che era entrato qualcuno.

“Che cosa desideri veramente?” mormorò a se stessa, disperata, e non appena ebbe finito di bisbigliare queste parole si accorse che una Creatura senza nome la osservava dall’ombra degli alberi.

Lentamente, Sybel si alzò in piedi, nel vento che soffiava attorno a lei, vuoto e veloce. Continuò ad attendere in silenzio, con la mente simile a un laghetto liscio e immobile, in attesa di scorgere l’onda suscitata da un’altra mente.

E alla fine, senza il minimo fruscio che ne tradisse il movimento, la Creatura se ne andò. Sybel si voltò lentamente, ritornò nella casa e si diresse alla stanza di Coren.

Lui voltò la testa quando la vide entrare, e la donna scorse le scure linee di dolore sotto i suoi occhi, notò che aveva le labbra secche.

Si sedette accanto a lui e gli posò una mano sulla fronte.

— Non dovete morire nella mia casa — gli bisbigliò. — Non voglio che la vostra voce venga a turbarmi nella notte.

— Sybel…

— Avete già detto tutto. Adesso, ascoltate. In questa casa, io potrò diventare vecchia e rugosa come la faccia della luna, ma non intendo mettere in vendita la felicità di Tamlorn per comprarmi la libertà.

“L’ho visto correre nei campi di erba alta, con il Falco Ter sul pugno; l’ho visto giacere addormentato senza sogni nella notte fonda con le braccia attorno alla Gatta Moriah o al Leone Gules.

“Non intendo accompagnarlo con voi nel Sirle per poi vedermelo confondere, ferire, usare dagli uomini; per vedergli promettere un potere che risulterà vuoto; per vederlo esporre a ostilità, a menzogne, a guerre che lui non potrebbe capire.

“Voi intendete fare di lui un Re, ma intendete anche amarlo? Avete guardato nel mio cuore con i vostri occhi strani e penetranti, e vi avete trovato alcune verità. Sono lieta e orgogliosa di usare il mio potere, ma devo pensare anche a un’altra persona, e non a me sola: questo per causa vostra.

“Perciò, adesso dovete andarvene, e non dovete tornare più.”

Coren la guardò, e lei non riuscì a leggere nei suoi occhi.

— Drede verrà a cercare suo figlio — disse il Principe del Sirle. — Nella sua corte c’è una vecchia, una donna di altissimo rango che gli ha giurato che Rianna e Norrel non sono mai stati soli, neppure per un momento.

“Lei aveva cercato di aiutarli: più volte i due amanti hanno tentato di rimanere soli per un’intera giornata, o anche solo per parte di una notte, ma ogni volta, a impedirglielo, sopraggiungeva qualche imprevisto che mandava in fumo i loro piani.

“Noi portammo via il bambino, dopo la morte della madre, temendo per la sua vita, e la vecchia pensò che l’avremmo ucciso se ci avesse detto la verità, ossia che era figlio di Drede.

“La seconda moglie di Drede è morta senza dargli dei maschi; lui sta invecchiando, desidera disperatamente un erede, e la vecchia è venuta a sapere che il bambino era vivo, ma che non era con noi nel Sirle.

“Perciò, recentemente si è decisa a dire a Drede la verità, dandogli una fragile speranza. Sa che un tempo una donna della famiglia di Rianna sposò un mago che abitava sotto la vetta del Monte Eld, dove pochi uomini osano recarsi.

“Che cosa farete, quando verrà a cercare suo figlio?”

Lei cambiò posizione sulla sedia; si sentiva profondamente turbata.

— La cosa non vi riguarda — disse.

— Drede è un uomo duro e ostinato — disse Coren. — Da tempo ha dimenticato che cosa sia l’amore. A Mondor ha pronta per Tamlorn un’intera serie di gelide stanze, in una casa piena di uomini impauriti e sospettosi.

— So come tenere Drede lontano dalla mia casa — mormorò lei.

— E come terrete lontano dal cuore di Tamlorn il pensiero di Drede? In un modo o nell’altro, Sybel, il mondo riuscirà ad arrivare fino a lui.

Lei trasse un profondo respiro, poi esalò lentamente l’aria.

— Perché siete venuto a portarmi queste notizie? — gli chiese. — Mi avete ordinato di amare Tamlorn, e così ho fatto. Ma adesso mi dite che devo smettere di amarlo.

“Ebbene, io non intendo smettere, né per Rok, né per Drede, né per venire incontro al vostro odio. Dovrete coltivare il vostro odio da qualche altra parte, e non nella mia casa, sul letto stesso di Ogam.”

Come risposta, Coren fece un piccolo gesto con la mano, per indicare che ormai le cose esulavano dal suo potere.

— Allora — disse — dovrete controllare attentamente il ragazzo, perché non sono l’unico a cercarlo. Fin dall’inizio ho detto a Rok che voi non sareste stata disposta a seguirmi, ma lui mi ha voluto mandare ugualmente. Ho fatto quello che potevo.

La fissò negli occhi e disse ancora:

— Mi spiace che non siate disposta a venire nel Sirle.

— Ne sono certa.

— E mi spiace, anche, di avervi dato un dolore. Mi perdonate?

— No.

— Oh — disse Coren, cercando di muoversi; spostò le mani, senza ragione.

In tono più gentile, lei allora gli disse:

— Cercate di riposare. Voglio che ritorniate dai vostri fratelli il più presto possibile.

Si chinò su di lui per controllare le bende che gli aveva messo sulla schiena, ma lui si voltò, con gli occhi lucenti, tremante per il dolore, e alzò la mano per accarezzarle il viso, sfiorandolo lentamente con le dita.

— Bianca come la fiamma… — disse. — Nessuno dei sette Principi del Sirle ha mai posato lo sguardo su una come voi. Neppure Norrel, allorché vide per la prima volta la Regina di Eldwold avanzare verso di lui tra gli alberi del suo giardino fiorito… Bianca come il baleno dello sguardo del Liralen, che per ali ha la luna…

Sybel si fermò.

— Coren del Sirle — disse, pensosa — avete guardato il Liralen negli occhi, per sapere che colore hanno?

— Ve l’ho detto: sono saggio — rispose lui.

Poi il suo sorriso lasciò il posto a una smorfia di dolore, e Sybel vide che serrava i denti. Coren smise bruscamente di accarezzarle la guancia; strinse il pugno. Lei gli diede da bere qualche sorso di vino e gli bagnò la fronte, poi applicò di nuovo sulle ferite il balsamo preparato da Maelga e cambiò le bende. Alla fine, Coren si addormentò e anche le rughe di dolore sparirono dalla sua faccia.

Li lasciò poco dopo la caduta della prima neve dal cielo invernale, bianco e chiarissimo. Sybel chiamò il suo cavallo, che si era allontanato tra le rocce, e Maelga gli donò una calda veste di pelle di pecora da indossare durante il viaggio. Anche gli animali si riunirono per vederlo partire; lui rivolse loro un inchino un po’ rigido, e montò a cavallo.

— Addio, Falco Ter, Signore dell’Aria; Gatta Moriah, Signora della Notte; Cinghiale Cyrin, Custode della Sapienza, che riuscì a confondere i tre sapienti della corte del Sire di Dorn.

Si guardò attorno, scrutando ogni angolo del cortile.

— Dov’è Tamlorn? — chiese. — Ci siamo parlati poco, ma pensavo che fossimo amici.

— Vi siete sbagliato — disse Sybel, e lui si voltò subito verso la donna.

— Anche lui ha paura dei propri desideri, come voi?

— Questo — rispose Sybel — non verrete mai a saperlo.

Strinse la mano che lui, dalla sella, le porgeva. Invece di lasciarle le dita, Coren gliele tenne ferme per qualche istante.

— Sareste in grado di chiamare a voi un uomo? — le chiese.

— Sì, se me ne venisse il desiderio — disse lei, sorpresa. — Ma non l’ho mai fatto.

— Allora, quando qualcuno salirà quassù e voi avrete paura, chiamate me. Io verrò. Lascerò ogni altra cosa e verrò immediatamente da voi. Lo farete?

— Non vedo come possa succedere qualcosa di simile — disse lei. — Sapete che non intendo muovere un dito per voi. Perché dovreste partire dal Sirle e venire fin qui per aiutarmi?

Lui la fissò senza parlare. Poi alzò le spalle, e qualche fiocco di neve gli cadde dai capelli biondi.

— Non lo so — disse. — Perché sì. Allora, lo farete?

— Se avrò bisogno di voi, vi chiamerò.

Sorridendo, lui le lasciò la mano.

— E io verrò — disse.

— Ma io, probabilmente, non avrò mai occasione di chiamarvi — lo avvisò lei. — Comunque, se decidessi di avervi qui, vi chiamerei e voi dovreste venire in qualsiasi caso, volente o nolente.

Coren sospirò. Disse, in tono di somma pazienza:

— Io verrei di mia volontà. La cosa è diversa.

— Lo è davvero? — chiese lei.

Poi, sul suo volto si disegnò un leggero sorriso.

— Tornate a casa, nel vostro mondo dei viventi — gli disse. — Il vostro posto è laggiù. Io sono in grado di badare a me stessa.

— Può darsi.

Prese in mano le redini e girò il cavallo in direzione della strada che scendeva verso Mondor. Poi si volse indietro ancora una volta, a fissarla con il suo sguardo chiaro come limpida acqua di sorgente.

— Un giorno — l’ammonì — scoprirete che è bello avere qualcuno che è lieto di venire, quando lo chiamate.

3

L’inverno li rinserrò nella sua stretta gelida e spietata. Grandi masse di neve si accumularono contro la casa e il lago del cigno si congelò fino a far credere che la faccia cristallina della luna fosse scesa laggiù, in mezzo alla neve. Alle finestre della bianca sala di marmo si formarono grandi sbarre di ghiaccio, altre scesero davanti alle porte, come file di lacrime congelate.

Gli animali si aggiravano liberamente nel tepore che regnava all’interno della casa, o si trovavano qualche angolo buio e silenzioso dove riposare. Il Drago dormiva raggomitolato sul proprio oro; la nera Gatta Moriah passava lunghe ore accanto al fuoco, cupe e sonnolente, perduta nei suoi sogni a occhi aperti.

Sybel lavorava nella sala della cupola di cristallo: leggeva e mandava il suo richiamo nel cielo buio, o punteggiato di stelle o permeato del colore della luna. Per attirare a sé il Liralen.

Il suo richiamo penetrante esplorava non soltanto l’intera superficie dell’Eldwold, ma si spingeva a sud nei deserti, a est nella Palude di Fyrbolg, a nord nella Foresta di Mirkon e nelle terre silenziose e inesplorate dei laghi, al di là del ricco territorio dei Signori di Niccon, nell’Eldwold settentrionale.

Ma le rispondeva soltanto il silenzio, e lei, con infinita pazienza, lanciava il suo richiamo ancora una volta.

Quanto a Tamlorn, il ragazzo attraversava l’inverno come se quella stagione non esistesse: trascorreva intere giornate nelle casupole di pietra dei pastori, celate nelle balze del Monte, o steso accanto al Leone Gules, con una mano sul suo collo e lo sguardo perduto a rimirare il fuoco, oppure andando a caccia con il Falco Ter sul pugno.

Una mattina, quando ormai l’inverno era inoltrato, il ragazzo entrò nella stanza sotto la cupola e vi trovò Sybel ancora immobile sul pavimento, dopo una notte passata a chiamare. S’inginocchiò accanto a lei e la sfiorò. Sybel ritornò in sé, con un lieve trasalimento.

— Tamlorn, che cosa c’è?

— Niente — disse lui, in tono un po’ meditabondo. — Ma ormai sono passati vari giorni dall’ultima volta che ci siamo visti. Pensavo che fossi preoccupata per me. Lei si strofinò gli occhi con il palmo della mano.

— Oh, già. Che cosa hai fatto? Sei stato con Nyl?

— Sì. L’ho aiutato a dar da mangiare alle pecore. Ieri abbiamo riparato una parte del recinto che era stata buttata a terra dalla neve, e poi ho accompagnato Nyl nelle caverne. D’inverno, là dentro fa abbastanza caldo. E là dentro, Sybel…

Lei lo fissò senza parlare. Aspettò che riprendesse il discorso, e vide che corrugava la fronte, che guardava il pavimento, che si passava le mani sulle cosce: su, giù.

— Gli ho raccontato di Coren e di quello che mi ha detto — riprese il ragazzo — e Nyl dice che se lui fosse l’erede del Re, non starebbe quassù, a dar da mangiare alle pecore d’inverno e a correre scalzo sui prati d’estate. E poi non ha più detto niente per tutto il giorno. Ma domani dobbiamo andare di nuovo a giocare nelle caverne.

Sybel sospirò. Seduta in terra, appoggiò il mento sulle ginocchia e per qualche tempo rifletté sulle parole di Tamlorn.

— Oh, come sono stanca di tutto questo — disse infine. — Tamlorn, ne hai parlato soltanto con Nyl?

— Solo con Nyl e con il Falco Ter.

— Allora, fatti promettere da Nyl di non dirlo a nessuno. Altre persone potrebbero venire a cercarti, e potrebbero portarti via contro la tua volontà. Potrebbero addirittura farti del male, quelle che non vogliono averti come loro Re. Di’ queste cose al tuo amico Nyl. Digli di non rispondere alle domande di estranei. Mi farai questo favore?

Il ragazzo annuì. Poi disse piano, fissandola:

— Sybel, mio padre verrà a cercarmi?

— Può darsi. Tu desideri che venga?

— Penso… che vorrei vederlo, Sybel.

— Sì?

— È una cosa così brutta, volerlo vedere? — bisbigliò. — Dimmi, lo è davvero?

Lei tornò a sospirare, passandosi distrattamente le mani fra i lunghi capelli.

— Oh, se soltanto tu fossi un po’ più grande… — sospirò. — Non è una brutta cosa, in sé e per sé, ma è brutto essere usati dagli altri uomini, far scegliere a loro che cosa dovrai o non dovrai diventare, lasciargli decidere la tua vita. Se fossi più grande, potresti scegliere da solo. Ma sei così giovane e conosci così poco la gente… e io la conosco poco più di te.

Trasse un profondo respiro.

— Tamlorn, vuoi che lo faccia? Lui si affrettò a scuotere la testa.

— Non voglio lasciare te e gli animali — disse.

Tacque per un attimo, con lo sguardo perduto in lontananza, come se riflettesse.

— Ma gli occhi di Nyl… — continuò — erano così grandi e tondi, quando gli ho raccontato di Coren: grandi come quelli di un gufo. E anch’io mi sono sentito molto strano. Sì, penso che vorrei vedere mio padre.

Tamlorn guardò Sybel negli occhi.

— Potresti chiamarlo — suggerì. — Non è necessario che lui mi riconosca; mi basta vederlo… vedere che aspetto ha.

Lei si massaggiò delicatamente gli occhi, con la punta dei polpastrelli. Il ragazzo continuava a fissarla attentamente, con una luce di speranza nello sguardo.

— Se io lo chiamassi — disse Sybel — forse non potresti più decidere di fermarti qui.

— Ma lui non saprà chi sono! Dirò di essere il fratello di Nyl. Guardami, Sybel! Come può capire che sono suo figlio?

— E se in te riconoscesse i lineamenti di tua madre? Tamlorn, gli basterebbe vedere una volta i tuoi occhi chiari per capire tutto, ancor più che dal colore dei tuoi capelli o dalla forma del tuo viso.

Si alzò in piedi. Tamlorn la prese per il braccio.

— Ti prego, Sybel — le bisbigliò. — Ti prego…

Fu così che, quello stesso mattino, lei chiamò il Re di Eldwold, che sedeva nella sua calda reggia dai pavimenti coperti di ricchi tappeti e dalle pareti decorate di antiche leggende, ricamate sui suoi grandi arazzi nel corso dei secoli.

Tre giorni più tardi, il Re risaliva a cavallo, con due guardie del corpo, la crosta di neve che copriva il sentiero montano: tre piccole figure scure sullo sfondo bianco, che assomigliavano a foglie secche accartocciate. Il vento stesso si era congelato e pendeva dai rami coperti di una patina di ghiaccio; il respiro dei tre uomini si fermava davanti al loro viso come nebbia.

Avanzavano lentamente, sul tortuoso sentiero che saliva dalla città. Sybel, dalla sua alta finestra, li vedeva spuntare e scomparire fra gli alberi. Provò a sondare la mente del Re: una mente possente e inquieta come quella del Falco Ter, piena di frammenti di volti e di avventure, di frammenti di passione guerresca e di passione amorosa, con un duro strato di gelosia simile a una distesa di pietra nera, e, in un angolo, un nucleo di paura e di solitudine, velato da una perpetua nebbia, grigio, gelido, indistruttibile come una sfera di acciaio.

Quando vide che il gruppo si stava ormai avvicinando, Sybel ordinò al Falco Ter, che volava con Tamlorn, di riportare a casa il ragazzo.

Più tardi, il Cinghiale Cyrin l’avvertì che i visitatori erano arrivati. Si recò con lei fino al cancello, nel cortile coperto di neve: per l’occasione, Sybel gli aveva messo sulla schiena una calda gualdrappa, bianca come l’argento.

“Una volta, un uomo si è buttato in un pozzo per controllare quanto fosse profondo” commentò il Cinghiale “ma certo tu sai quello che fai”.

Sybel scosse la testa. “Quando si tratta di Tamlorn, non lo so affatto” gli rispose.

“È facile chiamare un uomo perché salga fino alla tua casa, ma poi non è altrettanto facile mandarlo via.”

“Lo so” disse lei. “Credevi forse che non me ne rendessi conto? Ma Tamlorn desidera vedere suo padre.”

Aprì il cancello e si recò ad accogliere i tre uomini.

— Siete la maga Sybel? — le chiese il Re di Eldwold.

La fissava dall’alto del suo grande cavallo nero; nelle mani, protette da spessi guanti, teneva la briglia. Indossava un mantello scuro e un vestito senza pretese, non molto diverso da quello dei due uomini che lo accompagnavano.

Sybel lo fissò negli occhi grigi e stanchi, circondati da una rete di rughe; gli osservò le labbra immobili e decise, la grande massa di capelli grigi e si rivolse solo a lui.

— Sono Sybel.

Il Re rimase in silenzio per un istante, e lei non riuscì a leggere i pensieri che gli passarono nello sguardo. Poi Drede smontò di sella e le si fermò davanti senza lasciare le redini. Nella grande immobilità di quel mondo, anche lui pareva in soggezione.

— Sapete chi sono? — le chiese, incuriosito.

Lei gli rivolse un leggero sorriso.

— Volete che pronunci ad alta voce il vostro nome? — gli domandò.

Drede si affrettò a scuotere la testa.

— No — disse.

Poi, anche lui sorrise, e le rughe gli si raccolsero tutte agli angoli degli occhi.

— In voi c’è davvero qualcosa che mi ricorda la mia prima moglie — commentò Drede. — Siete sua nipote. Lo saprete certamente anche voi.

— Lo so — rispose Sybel — ma conosco ben poco di lei e degli altri miei parenti. A dire il vero, conosco poche persone, al di fuori di questa montagna. Non mi occupo delle cose degli uomini.

— Mi è difficile crederlo — rispose Drede. — Avreste un grande potere, se decideste di occuparvene, soprattutto in questi tempi inquieti. Non ve l’hanno mai offerto?

— Intendete offrirmelo voi adesso? — chiese lei. — È per questo che, in pieno inverno, siete salito fin qui?

L’uomo rimase per qualche tempo in silenzio, soppesandola con lo sguardo.

— La gente della città — le chiese infine — non viene mai a farsi dare consigli… ad acquistare piccoli incantesimi o a chiedervi, che so, di curare un bambino o una mucca? O di accelerare la morte di un ricco zio, o di riaccendere l’interesse di un marito stanco?

— In fondo al sentiero — suggerì Sybel — abita una vecchia, Maelga, che fa queste cose. Forse stavate cercando lei.

L’uomo scosse la testa.

— No — disse. — Sono venuto… per seguire un impulso. Per farvi una domanda. Avete mai sentito parlare di un bambino che abita su questa montagna, ma che non è nato qui? Rifletteteci attentamente. Pagherei una forte somma per sapere la verità.

— Come si chiama? Quanti anni ha?

— Ha dodici anni; questa primavera ne avrà tredici. Per quanto riguarda il nome… non saprei dire.

Poi, all’improvviso, sentì dei clamori che provenivano dagli alberi, e si girò in quella direzione.

Tamlorn e Nyl scendevano verso di loro lungo il fianco della montagna, impacciati dalla neve alta, ridendo e scherzando. In tutto quel silenzio, si udiva distintamente la voce chiara di Tamlorn:

— Nyl! Nyl, aspettami! Ho visto degli uomini a cavallo…

Il Re tornò a fissare Sybel.

— Chi sono quei ragazzi?

— Giovani della montagna — rispose lei. — Sono sempre vissuti qui.

Glielo disse senza pensarci, perché aveva visto il Falco Ter staccarsi da Tamlorn e volare dritto verso di lei, come una scura saetta.

Poi il Falco atterrò bruscamente sulla spalla del Re, e lei, fissandolo negli occhi chiari, gli disse:

“No.”

Anche sotto i pesanti artigli del rapace, il Re rimase impassibile. Solo le sue labbra si mossero leggermente.

— È vostro? — chiese a Sybel.

— Sì. È una buona protezione per una donna sola.

Diede al Falco un solo ordine: “Via”, e Ter, dopo un istante, volò ad appollaiarsi sul muro, dietro di lei.

Il Re riprese fiato, silenziosamente.

— Non ho mai visto un falco così grosso — disse. — Mi stupisco che non ne abbiate paura.

— Certo saprete cos’è il potere — rispose Sybel.

— Lo so. Ma…

La voce di Drede si addolcì; negli occhi gli comparve un esile, incerto sorriso, simile all’acqua che scorre sotto una lastra di ghiaccio.

— Ho sempre un po’ di timore — confessò il Re — di coloro su cui esercito il potere.

Nyl e Tamlorn si avvicinarono al gruppo. Ora camminavano più lentamente e scrutavano con sospetto le guardie reali.

— Sybel — disse Tamlorn, e anche Drede si voltò verso di lui. — Maelga ha bisogno di te.

Così dicendo, il ragazzo allungò istintivamente il braccio per accarezzare sul muso il cavallo del Re. Leggendogli negli occhi una domanda, Sybel gli spiegò gentilmente:

— Questo signore viene da Mondor. Cerca una persona di cui ha perso le tracce.

Nyl si affiancò a Tamlorn. Era emozionato: il bianco vapore del suo respiro pulsava nell’aria.

Il Re chiese ai due ragazzi:

— Conoscete un giovane della vostra età che non è nato qui sul Monte?

Nyl scosse la testa, e il Re si rivolse a Tamlorn:

— E tu? C’è un ricco premio.

Tamlorn inghiottì a vuoto. Mosse lentamente la mano, avanti e indietro, sul collo vellutato del cavallo.

— No — disse infine, ma la voce gli si spezzò e dovette ripetere: — No.

Il Re aggrottò leggermente le grigie sopracciglia.

— Come vi chiamate, ragazzi? — chiese.

Nyl diede il proprio nome, e aggiunse, indicando il compagno:

— Questo è mio fratello Tamlorn.

— Tuo fratello? Non vi assomigliate affatto.

Il Re sfiorò il ciuffo di capelli neri sfuggito dal cappuccio che copriva la fronte di Nyl.

— Ce lo dicono tutti — spiegò Tamlorn, poi tacque e rimase immobile quando il Re gli abbassò il cappuccio del mantello, rivelando i suoi capelli color dell’avorio.

Dietro di loro, il Falco Ter emise un grido. Con due dita, il Re sollevò la faccia di Tamlorn, e il ragazzo dapprima serrò le labbra, poi sorrise.

Il Re chiuse gli occhi. Lasciò Tamlorn e si rivolse a Sybel:

— Devo vedere la loro madre. Vi hai mai parlato dei figli? Vi ha mai detto qualcosa di strano?

— No — rispose lei. — Non mi ha mai detto niente. Sono bambini come tutti gli altri.

Il Re la fissò per un lungo istante.

— Mi chiedo che cosa sappiate veramente di loro, voi che conoscete il mio nome — disse. E aggiunse: — Penso che probabilmente tornerò a farvi visita.

Si voltò verso Tamlorn e gli posò una mano sulla spalla:

— Guida tu il mio cavallo. Portami a casa tua.

— Nostra madre non è in casa — disse Nyl. — È andata ad aiutare Marte, che sta per avere un bambino. Devo andare a chiamarla?

— Sì. Va’ — disse Drede, e il ragazzo corse via, tra gli alberi.

Tamlorn si rivolse al cavallo, mormorandogli parole gentili. Girò ancora per un istante, verso Sybel, i suoi occhi chiari, e si allontanò con Drede.

Lei tornò nel giardino e poi rientrò nella casa silenziosa. Andò nella sua stanza, sotto la cupola di cristallo, e si sedette in terra, con le braccia conserte, gli occhi fissi nel vuoto.

Tamlorn ritornò molto più tardi. Si recò silenziosamente fino a lei e si infilò sotto la cascata dei suoi lunghi capelli, come fa un bambino molto piccolo. Rimase a lungo in silenzio. Poi disse piano:

— Nyl ci ha preceduto, e ha detto a sua madre le bugie che noi avevamo detto al Re. Quando il Re se n’è andato, però, ho visto che i dubbi gli erano rimasti. Sybel…

Lei si accorse che tremava.

— Che cosa c’è, Tamlorn?

— Lui… ci siamo parlati…

All’improvviso, le posò la testa sulle ginocchia e comincò a piangere, afferrandosi alla sua veste. Lei gli accarezzò con gentilezza i capelli e infine riuscì a calmarlo.

— Tamlorn, non c’è niente di male nel voler bene al proprio padre.

— Ma io voglio bene anche a te! E non voglio lasciarti, ma per tutto il tempo in cui sono stato con lui, ho provato il forte desiderio di dirgli che sono suo figlio, per vedere se era soddisfatto di me.

“Abbiamo parlato del Falco Ter… ha detto che era davvero meraviglioso che non avessi paura di andare a caccia con un falco così grande.”

La guardò con gli occhi gonfi di pianto, disperati.

— Non so cosa fare — concluse. — Voglio restare, e voglio anche andare. Sybel… se io me ne andassi… verresti anche tu?

— Ma Tamlorn, come farei per gli animali?

— Devi venire! Porta gli animali… Sybel, lui ti chiederà certo di venire… Anche Coren ti voleva… Potresti fare delle cose per lui.

— Contro i Signori del Sirle? — chiese lei, irritata.

Il ragazzo non seppe cosa rispondere.

— Mi userebbe contro il Sirle — spiegò lei.

— Non m’importa di come ti userebbe — mormorò Tamlorn. — Io voglio che tu venga.

Lei scosse la testa. I suoi occhi si erano rabbuiati.

— No, Tamlorn. Farei qualsiasi cosa per te, ma non questa. Tu de vi vivere la tua vita e io la mia. Mi dispiace, ma devi scegliere tra noi due. Mi troverai sempre qui, su questa montagna, quando avrai bisogno di me… No, non piangere…

Gli sorrise, perché anche lei aveva gli occhi pieni di lacrime. Se li asciugò con il dorso della mano.

— Una volta eri così piccolo e soffice — bisbigliò — e stavi così bene nelle mie braccia… Allora non pensavo che crescendo potessi darmi tanto dolore.

— Sybel, vieni con me… te ne prego.

— Tamlorn… — disse lei, disperata, e il ragazzo si alzò, si allontanò di corsa e uscì nel giardino. Da laggiù le giunse il grido con cui chiamava il Falco, mentre la neve riprendeva a cadere.

Anche lei si alzò lentamente in piedi, chiusa nei propri pensieri; si avvicinò al fuoco e tese le mani verso le fiamme. La Gatta Moriah l’osservò in silenzio; i suoi occhi di smeraldo non battevano ciglio. Poi, Sybel indossò il mantello e uscì, dirigendosi verso il sentiero che portava alla casa di Maelga.

Quando vi fu giunta, si accomodò accanto al focolare, sulla pelle di pecora, senza parlare, e appoggiò il mento alle pietre, fissando le fiamme che guizzavano sotto il calderone.

La fattucchiera si muoveva qua e là per la casa, mettendo in ordine le sue cose, seguita dal gatto grigio. Dopo qualche tempo, venne a sedersi accanto a Sybel e l’abbracciò; lei nascose la faccia sulla sua spalla.

— Bambina, che cos’hai? — le chiese Maelga. — Che cos’è questo gelo che hai negli occhi, e che non ti permette neppure di piangere?

Le accarezzò i lunghi capelli chiari finché Sybel le mormorò, con voce lontana e priva di emozione:

— Tamlorn vuole lasciarmi. Hai un incantesimo che gli impedisca di farlo?

— Oh, Bianca Signora, in tutto il mondo non esiste un incantesimo simile!

Nei giorni seguenti, Tamlorn si limitò a scambiare con lei poche parole. Lo vide raramente: solo quando veniva per mangiare e per dormire, e quando poi se ne andava, taciturno, scuro in faccia, con il Falco Ter sul pugno e Nyl al fianco per riprendere a scorrazzare sul Monte Eld avvolto nella sua cappa di ghiaccio.

Non riuscì a lavorare molto, in quei giorni, e passò le ore a guardare il ricamo che teneva in grembo senza mai terminarlo, o a passeggiare attorno al fuoco, prigioniera nella sua irrequietezza.

Attorno a lei, anche gli animali tacevano: si aggiravano per la casa con passo silenzioso e furtivo, la osservavano dalle altre stanze o dalle finestre del giardino.

Infine, una grigia mattina, Sybel si recò sotto la cupola di cristallo e posò lo sguardo sul mondo gelido e bianco che la circondava, sulla lunga teoria di fiocchi di neve che scendeva dal cielo senza sosta e senza rumore.

E da quella stanza inviò fino alla città di Mondor il richiamo che doveva far presa sul cuore del Re di Eldwold.

Quella volta, il Re era solo, quando salì a lei. Sybel andò ad accoglierlo al cancello, seguita dal Leone Gules e dal Cinghiale Cyrin venuti a proteggerla.

Il Re la guardò in silenzio, leggermente perplesso, e lei gli spiegò:

— Sono stata io a chiamarvi.

Drede rimase a bocca aperta, stupito e incredulo. — A chiamarmi? — chiese.

— Vi ho chiamato e siete venuto. Nello stesso modo, mio padre e mio nonno chiamarono a sé gli antichi animali dell’Eldwold.

Il Re scosse la testa, prima da un lato e poi dall’altro.

— Non è possibile — disse.

Ma vide che le labbra di Sybel, bianche per il gelo, gli sorridevano.

— Vi avevo già chiamato perché Tamlorn, vedendovi, potesse fare la sua scelta.

Il Re corrugò la fronte, nell’udire un nome di cui si era dimenticato, e lei proseguì, piano:

— Dodici anni fa… questa primavera saranno tredici anni… Coren del Sirle portò un bimbo a questo cancello e mi implorò, per amore di una mia parente che non avevo mai conosciuto, di prendermene cura. Io ho amato quel bambino, mi sono presa cura di lui e l’ho visto crescere, e adesso… dietro sua richiesta… vi ho chiamato quassù perché lo riportiate nel mondo degli uomini.

Il Re chiuse gli occhi. Rimase immobile; la neve gli si accumulò sulla faccia e sulle spalle, il fiato gli uscì con lentezza dalle labbra, come una lunga nebbia bianca.

Poi smontò di sella.

— Dov’è? — bisbigliò.

— In giro, con il Falco Ter. Lo richiamerò presto, dopo che avremo parlato un poco.

Aprì il cancello per farlo passare.

— Venite accanto al fuoco — gli disse. — Avrete freddo. E anch’io mi sento gelare.

Drede la seguì all’interno della casa. Sybel prese una sedia e la mise accanto al fuoco, per lui. Il Re si tolse il mantello e lo pose ad asciugare sulle pietre, levando le mani verso la fiamma. Poi, accorgendosi che tremavano, le lasciò ricadere e si mise a sedere.

— Tamlorn — mormorò.

— Siete contento di lui? Sperava che lo foste.

Pensando a quel che la donna gli stava chiedendo, lui sorrise; anche la maschera di tensione, sul suo volto, si alleggerì.

— Come può dubitarne? È così alto, così forte e libero, con i capelli e gli occhi della madre…

— No, quelli sono i vostri — disse lei con convinzione, e vide allargarsi il suo sorriso, brillargli gli occhi come due polle d’acqua colpite dal sole. Poi Drede superò la distanza che li separava e le prese una mano fra le sue, grandi e coperte di cicatrici.

— Mi chiedo come possiate darmelo.

Lei sospirò.

— Come potrei negarvelo, se è lui che vi vuole? — sussurrò. — Non vorrei darlo a nessuno, perché so che giungeranno uomini potenti a turbarlo, per cose che lui non conosce. Voi ne farete un Re, e lui conoscerà l’odio, le bugie e le passioni senza nome che giacciono in fondo al cuore degli uomini.

“Ma lui vi ha guardato, e l’ho visto sorridere. È vostro figlio. Non ha niente di mio. Io l’ho amato per dodici anni, e voi per… dodici minuti, ma non posso trattenerlo qui. Posso tenere un grande Falco e un antico e possente Leone, ma non posso tenere qui, contro la sua volontà, un solo ragazzo dagli occhi sinceri.”

Drede, nell’udire queste parole, aggrottò leggermente le sopracciglia.

— Siete così strana, Sybel — disse. — Non mi chiedete niente, eppure sapete che lo cercavo disperatamente.

— Niente di ciò che possedete — si affrettò a dire lei — poteva farmi rinunciare a Tamlorn.

— Può darsi. Uomini potenti lo stavano cercando per venderlo a me. Non sarebbero certo stati gentili, con un vecchio leone coperto di cicatrici. Chiedetemi… qualsiasi cosa.

— Vi chiedo solo di volergli bene — bisbigliò Sybel.

Lui le strinse le mani.

— Mi dispiace… — mormorò, ma lei scosse la testa.

— No — gli disse. — Siate felice. È bello avere un ragazzo da amare. Lui si fa amare facilmente, e gli piacciono le creature potenti. Per questo, penso, è stato tanto attirato da voi. Voi siete un po’ come il Falco Ter.

— Oh. — Sorrise, e dalla bocca e dagli occhi gli scomparve ogni traccia di durezza. Sollevò una mano verso di lei, ma poi la lasciò ricadere e gli occhi gli si velarono di ricordi.

— Rianna — disse — aveva la pelle bianca come la vostra… Rianna. Non pronunciavo il suo nome da dodici anni. Prima non volevo pronunciarlo perché ero in collera con lei, e poi per la tristezza che mi dava.

“Lei era come un vento, tiepido e dolce, che spirava nel mio cuore; lei era un posto dove riposarmi, il tempio di pace dove potevo dimenticare tante cose… Finché un giorno la vidi rivolgere un’occhiata a Norrel: un’occhiata che era come il tocco delle labbra. Perdetti allora la mia oasi di pace e di tranquillità. Qui, seduto nella vostra casa serena, ne ho ritrovato un poco.”

— Ne sono lieta — disse lei, in tono cortese. — E sono lieta che…

S’interruppe, arrossendo.

— Lieta che…? — la incoraggiò lui.

— Lieta che Coren del Sirle si sbagliasse. Diceva che eravate un uomo amareggiato e ormai incapace di amare. Ma ora sono convinta che saprete voler bene a Tamlorn.

Dagli occhi di Drede scomparve il sorriso.

— Coren — disse, senza alcuna intonazione particolare. — È venuto qui. Per Tamlorn?

— Sì.

— E voi non glielo avete ridato. Eppure mi hanno descritto l’astuzia delle sue parole, la dolcezza dei suoi sorrisi…

Sulle guance della donna, il rossore si accentuò ancora di più. Gli disse con asprezza:

— Credete che il mio amore per Tamlorn sia così piccolo da essere disposta a darlo al primo che viene a chiedermelo con qualche parolina dolce? Non ve lo darei, se già non vi volesse bene.

— Mi avreste lasciato morire senza un erede?

— Che importanza può avere, per me, il vostro destino? O quello di Coren? Che pace potremmo avere, io e la mia casa, se badassi a tutte le lotte che si intrecciano nelle corti della pianura? Sono cose che non capisco. Capisco solo quel che c’è dentro la mia abitazione.

Il Re la fissava con severità, come se, in quel momento, la vedesse per la prima volta.

— Eppure — le disse — avete tanto potere… Mi avete fatto uscire dalla mia casa senza che io lo volessi. Potreste fare qualsiasi cosa di me e io non sarei in grado di oppormi. Coren del Sirle voleva anche voi, oltre a Tamlorn?

— Certo — disse lei, imperturbabile, — Mi ha chiesto il prezzo dei miei poteri.

— E voi?

— E io gliel’ho detto: la felicità di Tamlorn, e un grande uccello bianco, con lunghe ali soffici, che sventolano come bandiere. Non essendo in grado di darmi queste due cose, se ne è dovuto andare a mani vuote.

Drede tornò ad appoggiarsi allo schienale. Sybel, per qualche tempo, continuò a fissarlo in silenzio. I capelli grigi del Re, bagnati di neve disciolta, si erano appiccicati sulla sua fronte scura e coperta di rughe; una gemma azzurra, su una delle sue dita, rifletteva la fiamma del focolare.

Dopo qualche tempo, accorgendosi di essere osservato, lui la fissò negli occhi.

— A che cosa pensate? — le chiese.

— Al Leone Gules. E al Falco Ter. E anche un poco al Drago Gyld…

Lui sorrise.

— Anche voi — disse — siete attirata dalle creature potenti.

Sybel si affrettò a distogliere lo sguardo, sorpresa da quell’osservazione, e si sentì imporporare le guance. Drede la guardò, e, standogli così vicino, lei avvertì in quell’uomo un potere che non conosceva, ma che era capace di turbarla. Poi Drede le sfiorò la guancia, costringendola a guardarlo.

— Venite con noi. Venite a Mondor con Tamlorn e con me.

— A lavorare contro il Sirle?

— A lavorare per Tamlorn. Portate i vostri animali, in modo che a Mondor, con voi, ci siano tutte le creature che amate. Faremo di Tamlorn un Re. Venite con noi. E, se vorrete, io farò di voi una Regina.

Sybel si sentì pulsare il sangue alle tempie.

— È più di quanto mi ha offerto Coren — mormorò.

Poi, d’improvviso, si alzò in piedi, si allontanò da lui e guardò le care, fredde, bianche pareti che la circondavano.

— No.

— Perché?

— Non lo so — rispose. — Ma non potrei… non potrei agire contro il Sirle.

— Ah.

Sybel si affrettò a voltarsi verso di lui.

— Non ha niente a che vedere con Coren — cercò di spiegargli. — Non voglio aiutare uno di voi e combattere contro l’altro. Qui, sulla mia montagna, non devo prendere questo genere di decisioni. Non voglio condividere la vostra guerra, ma non dovete avere paura di me: non lavorerò mai per i nemici del padre di Tamlorn. Siete al sicuro. E così lo è il Sirle, perché non voglio che il vostro odio diventi il mio.

Lui non disse niente; ma aggrottò la fronte, cosicché lei non poté leggergli nello sguardo.

— Siete troppo potente — mormorò Drede — e troppo bella. Pensando a voi, mi sento a disagio. Ma vi credo. Non operereste mai contro l’interesse di Tamlorn.

Anche lui si alzò in piedi, nervosamente, ma poi si voltò di scatto, nell’udire la porta che si apriva.

Era Tamlorn: si scosse la neve dal mantello, chiuse la porta e si diresse verso il fuoco. Solo allora li vide.

Il ragazzo s’immobilizzò, arrossendo. Drede gli fece un cenno con la mano.

— Vieni.

Tamlorn rimase fermo ancora per qualche istante. Dubbioso, continuò a guardare prima l’uno e poi l’altra. Infine Drede gli sorrise, e il ragazzo gli restituì il sorriso, inghiottendo a vuoto.

Si avvicinò, si fermò in mezzo ai due, accanto al fuoco, e tese le mani verso le fiamme.

Drede disse gentilmente:

— Guardami.

Il ragazzo obbedì.

— Dimmi il tuo nome.

— Tamlorn.

— E quello di tua madre.

— Rianna.

— E quello di tuo padre.

Il ragazzo si morse nervosamente le labbra; poi, con sicurezza, disse:

— Drede.

Tornò in città con il Re, quel pomeriggio. Sybel, dal cancello, li guardò partire. La neve non cadeva più; l’unico suono che si udiva al mondo era quello della loro voce pacata.

Per un lungo istante, Tamlorn rimase fermo davanti a Sybel, senza trovare le parole da dirle, mentre il Re attendeva in sella dietro di lui.

Sybel, con le ciglia bagnate di pianto, ma sorridendo, lo guardò ancora una volta negli occhi. Gli accarezzò la fronte, gli ravviò una ciocca di capelli ribelli che era andata fuori posto. Poi gli disse:

— Ho un regalo per te.

Pronunciò il nome di Ter, e il grande Falco andò a posarsi sulla spalla di Tamlorn. Il ragazzo trasalì.

— No, Sybel… sentirà la tua mancanza.

— No — disse lei. — È un uccello adatto ai sovrani. Se correrai dei pericoli, ti proteggerà, e quando lo chiamerò per nome mi dirà da lontano che stai bene e che sei felice.

Fissò gli occhi azzurri del Falco Ter, ma, per un istante, il rapace non le disse niente. Poi le giunsero i suoi pensieri:

“Non pensavo che nel mondo degli uomini ci fosse ancora posto per me.”

“C’è un solo posto” disse lei. “Custodisci Tamlorn, con amore e con saggezza.”

“Così farò, o più potente di tutti i figli di Heald. E se avrai bisogno di me, chiamami, e io verrò subito.”

Lei gli sorrise.

“Addio, grande Signore dell’Aria.”

Tamlorn l’abbracciò così forte che la nebbia del loro respiro, nell’aria gelida, divenne un unico alone. Poi montò a cavallo dietro Drede, e il Falco gli si posò sulla spalla.

Il Re si chinò su Sybel e le prese la mano.

— Se verrete a Mondor, per voi ci sarà sempre un posto. Ma, anche se non vi vedrò più, serberò il vostro nome nel cuore, in silenzio.

Per un istante, si portò alle labbra la mano di lei. Poi, tirando le briglia, avviò verso il sentiero montano il suo grande cavallo nero, e Sybel rimase ferma a osservarli finché la faccia di Tamlorn, girata all’indietro, non scomparve fra gli alberi.

Solo allora, sentendo qualche brivido di freddo, ritornò nel giardino. La neve riprese a cadere leggera, senza rumore, interminabile. Accanto a lei, altrettanto silenzioso, comparve il Leone Gules; lei gli accarezzò la criniera, distrattamente.

Entrò nella casa tranquilla e buia e si mise a sedere davanti al fuoco. La Gatta Moriah venne a riposare ai suoi piedi, ma lei continuò a sedere immobile, mentre la fiamma si spegneva e il fuoco continuava a pulsare segretamente nelle braci, e infine anche le braci diventavano nere e fredde.

Poi scese su di loro la notte, gelida, e la neve si accumulò nel giardino, cancellando le ultime impronte lasciate da Tamlorn e le mezzelune del cavallo del Re.

Per tutta quella notte, e il giorno seguente ancora, Sybel rimase lì a sedere senza muoversi, con le mani posate sui braccioli della sedia e gli occhi fissi, come se fosse ancora in grado di vedere la fiamma verde e danzante. La bianca stanza di marmo divenne sempre più fredda e silenziosa intorno a lei.

Alla fine si scosse, batté gli occhi. Scorse intorno a sé tutti gli animali: anche la massa lucente del Drago Gyld era raggomitolata sulla pietra. Il bellissimo cigno dagli occhi indecifrabili la guardava dalla soglia della stanza che aveva per soffitto la cupola di cristallo. Lei si voltò, e scorse alle proprie spalle gli occhi rossi del Cinghiale Cyrin. Sorrise a tutti, e si accorse di essere intorpidita dal freddo.

— Sono qui. Avete fame?

La sua voce si perse tra le pietre, senza risposta.

Poi il Leone Gules avanzò fino a lei, infilando la testa sotto la sua mano.

“Alzati” le disse. “Accendi il fuoco. Mangia.”

Lei si alzò, sospirando, e si inginocchiò accanto al focolare. Poi, con le braccia cariche di legna, si fermò bruscamente. Si guardò alle spalle, perché proprio in quella stanza, fra gli altri animali, aveva colto la presenza della Creatura senza nome.

Socchiudendo gli occhi, la cercò negli angoli bui, dietro i pesanti tendaggi. Ma la Creatura era sempre un passo oltre la sua vista, un passo oltre il cerchio della sua attenzione, priva di forma, priva di nome.

Poi le passò nella mente un pensiero, un’idea improvvisa, un ricordo. Posò la legna e corse nella stanza dal soffitto a cupola.

Aprì un grosso codice in pergamena, decorato in foglia d’oro: un antico volume lasciatole da Ogam, contenente storie che risalivano addirittura al terzo Re di Eldwold. Ne scorse rapidamente le pagine, cercando una breve frase che ricordava di avervi letto, e infine la trovò. Si sedette sul pavimento, con in grembo il pesante volume, e lesse in silenzio:

E v’è inoltre quello spaventevole mostro, che attende la propria vittima appostato dietro un cantone oscuro o dietro una soglia buia, nelle ore più tenebrose della notte. Sopravvive alla sua vista soltanto chi sia privo di paura. Gli viene dato il nome di Rommalb, quando si parla di lui, perché pronunciando il suo vero nome se ne evoca la presenza.

Lentamente, sulle labbra le si disegnò un sorriso.

— Blammor — disse a voce alta, rotolandosi questo nome sulla punta della lingua. — Blammor.

E, quando sollevò lo sguardo, finalmente lo vide.

4

Era un’ombra nell’ombra, una nebbia nera più alta di lei, con occhi simili a cerchi di ghiaccio cieco e luccicante.

Lei chiuse il libro e si alzò lentamente in piedi per affrontarlo. Gli toccò la mente e la trovò altrettanto immobile e scura quanto il suo aspetto.

“Dammi il tuo nome” gli chiese.

La voce mentale della creatura assomigliava allo scricchiolio delle foglie secche.

“Blammor.”

“Perché sei venuto a me di tua iniziativa? Molti lottano per nascondere il proprio nome. Ma tu sei venuto senza che ti chiamassi.”

“Se sono venuto, è perché mi hai chiamato” disse il Blammor. “E tu hai uno strano potere, che mi attira e che ti permette di vedermi come sono realmente. Perciò verrò sempre da te, e ti servirò, così come un giorno servirò colui che ti vedrà come realmente sei.”

“E adesso ti vedo come sei?” gli chiese Sybel. “Una nebbia nera, con occhi bianchi come il fuoco, ciechi e insieme capaci di vedere?”

“Questa è una parte di me.”

“Tu mi affascini” disse lei. “Tutti gli uomini, dimmi, ti vedono come ti vedo io? Si parla di te come di una creatura terribile.”

“Gli uomini vedono quel che temono maggiormente.”

“E che cosa desideri da me?”

“Nient’altro” rispose il Blammor. “Solo di non avere paura. Adesso devo lasciarti. Ho del lavoro da compiere.”

Scomparve tra le ombre, che tremarono per un istante al suo passaggio.

Lei si voltò, strofinandosi le braccia intirizzite dal freddo, e sulle labbra le si disegnò un lieve sorriso. Ritornò al focolare e, andando alla fiamma verde che ardeva nel caminetto senza mai spegnersi, vi accese un bastoncino di legno.

Pochi minuti più tardi, anche nel focolare ardeva un bel fuoco, e lei se ne servì per accendere torce e candele con cui rischiarare la gelida stanza, sotto gli occhi vigili del Cigno, del Cinghiale e del Leone.

E in quel momento, tra il canto dei venti invernali, sentì che qualcuno la chiamava dal cancello.

Corrugò leggermente la fronte, sorpresa. Fece per chiamare il Falco Ter, ma poi ricordò che era lontano; perciò prese con sé il Cinghiale Cyrin e una torcia ardente che parve tramutare in fiamma la neve del giardino.

I fiocchi cadevano come grandi, esili ciuffi cristallini che, alla fiamma della torcia, svanivano in un breve istante. Dietro il cancello c’era un uomo incappucciato, avvolto in un pesante mantello, che teneva per le briglia il cavallo.

Lei, senza aprire il cancello, sollevò la torcia per illuminargli il volto, e scorse una massa di capelli color del sole.

— Oh — sospirò.

Aprì, e l’uomo entrò nel giardino.

— Portate il cavallo nella stalla, di fianco alla casa — gli disse. — Avvertirò gli altri di non farvi del male.

— Grazie — rispose Coren.

Il vento sì portò via le parole del Principe del Sirle, come bianche nubi di fiato. Coren si fece dare la torcia; Sybel, quando si girò, vide che aveva le spalle bianche di neve che gli lasciava umide scie sulla schiena.

Pochi minuti più tardi, Coren la raggiunse all’interno della casa. Salutò cortesemente il Leone Gules, nel corridoio, e accennò un inchino all’indirizzo della Gatta Moriah, raggomitolata come un’ombra.

Sybel gli prese il mantello bagnato e lo pose ad asciugare accanto al fuoco; lui si fermò davanti al focolare, come se volesse assorbirne la fiamma, rabbrividendo.

— Dal Sirle a qui, è stata proprio una cavalcata lunga e fredda — disse. — Sybel, qui si gela. Siete stata via?

— No. Sono stata… non so neppure io dove sono stata, ma non credo di essere ritornata del tutto.

Si sedette accanto al focolare, riscaldandosi le mani alla fiamma.

— Perché siete venuto? — gli chiese poi. — Ormai dovreste sapere che Tamlorn è andato a stare con Drede.

— Lo so — rispose lui. — Sono venuto perché mi avete chiamato.

Lei lo fissò, stupita. Coren sorrise; tendeva le mani verso le fiamme e, al calore del fuoco, la sua faccia si stava già arrossando.

— No, non vi ho chiamato — disse lei.

— Eppure vi ho sentita. A volte, nel silenzio della notte, riesco a sentire la voce degli esseri che l’occhio non riesce a scorgere: una voce simile all’eco di un’antica canzone.

“Ho sentito la vostra voce, nei miei sogni, e mi ha detto che eravate sola… Mi ha svegliato, e per questo sono venuto. Vedete, so anch’io cosa si prova a pronunciare un nome in una stanza vuota, e a non avere nessuno che risponda.”

Sybel rimase a bocca aperta, senza parole. Coren si mise a sedere accanto a lei. La Gatta Moriah, senza fretta, si alzò e si accovacciò ai loro piedi, fissando il Principe con i suoi occhi verdi e insondabili. Sybel sospirò.

— Non ho mai sentito discorsi come i vostri — gli disse. — Che cosa siete, voi? In un certo senso siete uno sciocco, eppure conoscete cose che mi lasciano stupita.

Lui annuì, increspando le labbra in un sorriso.

— Il settimo figlio di mio nonno Steth, Signore del Sirle, ha avuto sette figli, e io sono il più giovane. Forse è per questo che sento ciò che raccontano gli alberi con i bisbigli delle loro foglie, al sorgere della luna, o quel che rivelano le spighe di grano che crescono, o gli uccelli al crepuscolo. Ho buone orecchie. Sono riuscito a udire il silenzio delle vostre pareti di marmo anche in mezzo alle rumorose abitazioni del Sirle.

Lei distolse lo sguardo dai suoi occhi e si mise a fissare le fiamme.

— Capisco — disse poi. — Avevo davvero bisogno di qualcuno, ma finora non me ne ero resa conto. Avete fame?

— Sì, ma rimaniamo qui a sedere ancora un poco. Quando mi sarò riscaldato, vi preparerò qualcosa.

— Sapete cucinare? — chiese lei, incuriosita.

— Certo. Molte volte sono stato da solo, in luoghi isolati, con soltanto un uccello di palude o un falco a rispondere alle mie domande.

— Avete cinque fratelli. Perché vi recate da solo in luoghi simili?

— Oh, i miei fratelli vengono sempre a caccia con me — rispose lui. — Ma quando devo raggiungere una foresta o un lago citati da un’antica leggenda, per ascoltare i loro segreti… è un tipo di viaggio che non suscita il loro interesse.

“Una volta mi sono recato nella Foresta di Mirkon, la grande, buia selva a nord del Sirle, tra alberi simili a colonne di pietra nera, tra radici cupe e immense che fuoriescono dalla terra, e laggiù, ascoltando il rumore che faceva un’unica foglia caduta, sono venuto a conoscenza della storia del Principe Arn.”

Sybel accennò a un pallido sorriso.

— Anche Maelga, quando Tamlorn era piccolo — disse — la sera gli raccontava questo genere di storie, se lo vedeva triste.

— Sybel — disse lui — mio fratello Rok mi prende in giro, quando gli racconto queste cose. Ed Eorth, che è un grosso drago ottuso, mi sorride e mi stringe fra le braccia fino a incrinarmi le costole. Ma non pensavo che anche voi avreste riso.

Lei lo fissò, incuriosita e dubbiosa.

— Non rido di voi — gli disse. — Ma pensavo che poteste essere venuto… o che vostro fratello potesse avervi mandato… per controllare se mi ero alleata con Drede, visto che gli ho dato Tamlorn. Anche Drede era un po’ intimorito, quando gli ho detto di averlo chiamato.

— L’avete chiamato?

— Sì, ma solo per dargli Tamlorn, nient’altro. Però, quando era qui, ho commesso una sciocchezza: gli ho detto che eravate venuto anche voi. Adesso, perciò, dubita di me; penso che lo stesso si possa dire di vostro fratello Rok.

— Oh, certo. — Sorrise, ma la fronte gli rimase aggrottata. — Dov’erano il Cinghiale Cyrin e il Leone Gules, quando avreste avuto bisogno dei loro consigli? Voi siete esperta di campi che sfuggono alla conoscenza dell’uomo, ma siete stata incauta a chiamare a voi un Re insicuro del proprio potere, attirandolo alla vostra casa senza che lo sapesse.

— Gli ho detto che non doveva avere paura di me.

— E questo è stato sufficiente a tranquillizzarlo, penso.

— Ne dubito — rispose lei.

Poi, scuotendo la testa, aggiunse:

— Oh, ma perché preoccuparmi di quel che pensa Drede… o di quel che pensa il Signore del Sirle? È stato Rok a mandarvi?

— Vi ho detto perché sono venuto.

Coren aveva smesso di sorridere, ma continuava a fissarla.

Lei alzò le spalle.

— Già — disse. — Ma non so come abbiate potuto sentire la mia voce, in mezzo a tutte quelle dell’Eldwold.

— Io lo so — disse lui. — L’ho sentita perché vi amo.

Lei aprì le labbra per rispondere, ma scoprì all’improvviso di non avere parole. Coren la fissava con le guance leggermente arrossate; quando lei infine rise, arrossì fino alla radice dei capelli.

— Certo — disse lei. — Drede mi ha offerto di diventare Regina di Eldwold… voi cosa volete offrirmi?

Incrociò le mani sul grembo e guardò Coren. Vide che i suoi occhi, azzurri come il ghiaccio, erano sconvolti.

— Drede — mormorò lui, serrando i pugni. — Sempre Drede.

Poi riaprì i pugni e si appoggiò le mani sulle ginocchia. Trasse un lungo, silenzioso sospiro e le chiese:

— Anche a Drede avete risposto con una risata?

— No — disse lei, sorpresa.

D’improvviso, Coren si alzò in piedi e si mise a passeggiare avanti e indietro nella stanza. Poi tornò a guardarla.

— Ho pensato a voi — mormorò — ai vostri capelli chiari come la neve, per tutta la durata del mio viaggio, lungo e freddo, dal Sirle a qui. Dentro di me, sentivo che eravate preoccupata, e non c’era altro posto al mondo dove volessi essere, salvo che laggiù, sulla strada che portava a voi. Quando avete aperto il cancello per farmi entrare, mi sono sentito come a casa mia. Non pensavo che mi avreste dato tanto dolore.

Quelle parole riecheggiavano quelle che lei stessa aveva pronunciato tempo addietro, e Sybel aprì la bocca per dire qualcosa. Poi si guardò le mani.

— Mi spiace — disse. — Ma, Coren, come posso fidarmi di voi?

— Capisco.

— Quando vi guardo, vedo l’ombra del vostro odio, l’ombra di vostro fratello Rok che desidera servirsi di me. Lo capite, vero?

— Sì.

Lei tornò a guardarlo e vide che era impallidito. Gli toccò il braccio.

— Sedete — gli disse. — Entrambi siamo stanchi e affamati. Io non ho più dormito dal giorno della partenza di Tamlorn, e sono troppo stanca per continuare a discutere.

— Sybel… — cominciò a dire lui.

Poi s’interruppe e si mise a sedere, senza più guardarla. Dopo un momento, riprese:

— Se giurassi… sul mio amore per Norrel… che non cercherò mai di usarvi contro la vostra volontà, comincereste a fidarvi di me?

— E voi potreste giurarlo?

Lui annuì, fissandola negli occhi.

— Sì. Cercherò qualche altro modo di uccidere Drede.

— No!

— Ma, Sybel, cosa devo fare?

— Vi restano cinque fratelli: accontentatevi di quelli che avete.

— Non posso, Sybel! Quando ero più giovane, ed ero insicuro di me e delle mie strane conoscenze, tra tutti i miei fratelli, Norrel era l’unico che non mi deridesse.

“Potevo dirgli che nella Palude di Fyrbolg avevo visto lo spettro di coloro che erano morti rincorrendo il Cervo Bianco creato con il fumo dal mago Tarn, e lui mi credeva. Non capiva come potessi saperlo, ma credeva alle mie parole.

“Norrel mi insegnò a cavalcare e a combattere, a cacciare con il falco. E quando si innamorò di Rianna, anch’io mi innamorai di lei, perché volevo che fosse sua. E poi, quando Drede lo uccise nella Piana di Terbrec, io lo vidi cadere a terra. Non potei raggiungerlo in tempo, e lui morì senza avere nessuno al suo fianco, in una battaglia combattuta per lui. Questo non posso perdonare a Drede: che Norrel sia morto da solo, senza assistenza, senza conforto.”

La sua voce si abbassò fino a tacere. Dal fuoco, giunse il crepitio di un ramo che si spezzava. Il vento mormorava senza posa, contro le pareti della casa, muovendosi nel buio come una bestia che cercasse di entrare.

Dopo un poco, Sybel ritrovò la parola e disse, esitante:

— Mi spiace. Ma Tamlorn lo ama, quindi io non voglio che muoia.

Coren sospirò.

— È così — disse. — Ma allora, Signora di Ghiaccio, che cosa devo fare? Non posso impedirmi di amare, e neppure di odiare.

— Che cosa dobbiate fare — rispose lei — non lo so. Non conosco l’odio, e conosco poco anche l’amore. Vorrei poter fare qualcosa per voi, ma non posso fare niente.

— Non è vero. Potreste.

— No.

Lui sospirò di nuovo. Poi le prese una mano, e lei sollevò la testa.

— Vi è occorso un grande amore, per dare Tamlorn a Drede — disse Coren. — Spero che sia felice con lui, per il suo bene e per il vostro, anche se non riesco a capire perché preferisca Drede a voi.

Lei sorrise, e il verde riflesso delle fiamme le illuminò i capelli e le guance.

— Tamlorn — disse — è attirato dalle persone che hanno bisogno di lui.

S’interruppe per fissare Coren.

— Certamente — riprese — ci sarà qualche donna del vostro mondo che ha bisogno di voi. Avete delle grandi doti, e siete gentile, e anche… molto… piacevole da guardare.

— Grazie — rispose lui, serio. — Ma perché trovate così difficile dire queste parole? Per me è facilissimo dire che siete saggia, meravigliosa, onesta, bellissima e che vi amo.

Le accarezzò una ciocca dei lunghi capelli chiari, poi scosse rapidamente la testa nel vedere che questo la innervosiva.

— No — le disse — non vi turberò con parole che in questo momento non volete udire da me. Ma se poteste concedermi la vostra amicizia, ve ne sarei molto grato.

Lei lo guardò, rivolgendogli un incerto sorriso.

— Siete venuto questa notte — gli disse — quando avevo bisogno di un po’ di gentilezza. Per quanto avete fatto, sono vostra debitrice.

— Bene.

Si alzò e mise altra legna sul fuoco; la fiamma pallida gli danzò sul viso.

— Sybel — disse — il vostro fuoco ha il colore dei giovani alberi. Vado a preparare qualcosa da mangiare… No, rimanete qui. Fidatevi di me: vado io in cucina. E cercate di dormire un poco, se potete.

Si allontanò senza fare rumore, e altrettanto silenziosamente il Cinghiale Cyrin si sollevò dall’ombra e lo seguì nella cucina.

Cercando qua e là, Coren trovò coltelli, pentole, carne salata, pane e verdura dell’orto. Stava pulendo una cipolla da tagliare a fette, quando il grande Cinghiale disse dietro di lui, con la sua voce dorata:

— Il falco bene addomesticato torna sempre alla mano del padrone.

Per poco, a causa della sorpresa, non gli sfuggì di mano il coltello. Si voltò verso il Cinghiale.

— Mi ero scordato — disse — che il Signore della Saggezza ha la voce per parlare.

Gli occhietti rossi lo fissarono senza battere ciglio.

— Cosa siete disposto a darmi, in cambio di tutta la saggezza del mondo?

— Niente — rispose lui, tornando ad affettare la cipolla. — So che conoscete la risposta a tutte le domande meno una. È proprio quella che mi occorrerebbe adesso.

Il Cinghiale Cyrin sbuffò educatamente.

— Quando il saggio fa una domanda — disse — conosce sempre la risposta.

— E domanda e risposta sono la stessa cosa — concluse Coren per lui.

Buttò in una pentola la cipolla e cominciò a tagliare a fette un pezzo di zucca.

— Voi non vi fidate di me — riprese poi. — Credete che io sia un falco ammaestrato, legato alla politica di Rok. Ma mio fratello non ha niente a che vedere con la mia venuta.

— Quando il Sire di Dorn ricevette in segreto, dalla strega Glower, il mortale incantesimo da lei preparato per i suoi nemici, accanto a lui c’era un’ombra più nera della notte, che gli era indissolubilmente legata.

Per qualche tempo, Coren rimase in silenzio e continuò a tagliare a dadini la zucca. Infine disse:

— Non devo dimostrare a voi di poter amare liberamente, ma a Sybel.

— Nel buio, i suoi occhi vedono chiaro.

— Lo so — disse lui. — Non le ho mai nascosto niente.

— Le radici crescono al buio.

— Certo. — Prese un’altra cipolla e cominciò a pulirla. — Ma io non sono una radice, e i miei pensieri non sono affatto un segreto.

— Il gigante Grof fu colpito all’occhio da una pietra, e quell’occhio si voltò all’interno, in modo che poté guardargli nella mente. Di quel che ci vide, lui morì.

Coren si voltò verso il Cinghiale. Vide che era fermo sulla soglia.

— Se si tratta di un indovinello, ammetto di non sapere la risposta — dichiarò.

Il Cinghiale dalla voce melodiosa parve riflettere per qualche istante.

— Allora ve la darò io — disse poi. — Chiedete a Sybel il nome che ha pronunciato oggi, prima del vostro.

Coren aggrottò la fronte.

— Farò così — promise, cercando il prezzemolo.

Quando portò a Sybel ia minestra e la carne, pane fresco e vino tiepido, la trovò addormentata. Posò i piatti su un tavolino accanto a lei e la chiamò piano per nome. La donna si scosse.

— Oh — disse, drizzando la schiena e soffregandosi le palpebre.

Lui le passò il vino.

— Sono lieto — disse — che abbiate dormito un poco.

— Mi sono riposata. Non ho fatto sogni.

Assaggiò il vino, e sulle gote le ritornò il colore.

— La vostra minestra ha il profumo di quella di Maelga — commentò.

Lui la servì, poi si sedette a mangiare accanto a lei, con una scodella sulle ginocchia.

— Non dovreste lasciar passare tanti giorni senza mangiare — le disse.

— Me ne dimentico. Coren, questa minestra è davvero buona. Non so quale delle due cose mi dia maggior calore: la vostra gentilezza o la vostra minestra.

Lui sorrise.

— Non importa — disse. — Il Cinghiale Cyrin è venuto a parlarmi, mentre ero in cucina.

Sybel inarcò le sopracciglia.

— Davvero? — chiese. — Parla così raramente. E che cosa vi ha detto?

— Mi ha proposto una sorta di indovinello. Poi, quando non ho saputo rispondergli, mi ha detto di chiedervi il nome che avete pronunciato oggi, prima del mio.

— Perché? E la risposta all’indovinello?

— Penso di sì. Che nome era?

Lei rifletté per qualche istante, aggrottando la fronte.

— Oh — disse infine — era il nome del Blammor, ma non vedo come…

S’interruppe, sgranando gli occhi. Poi gridò, incollerita:

— Cyrin!

Alzandosi in piedi, non si accorse che il suo piatto cadeva a terra.

In quell’istante, davanti a loro, comparve il Blammor; attraverso la sua forma di nebbia si poteva scorgere la fiamma verde del focolare. I suoi occhi di ghiaccio si fissarono in quelli di Coren, che impallidì e rimase immobile, senza più riuscire a parlare.

Impercettibile come una nebbia, il Blammor prese ad allargarsi e ad allungarsi, finché si stese su Coren come un’ombra, così vicino alla sua faccia pallida che anch’essa parve costituita di oscurità.

L’uomo emise un grido stridulo, incoerente, e dondolò su se stesso, come se fosse tenuto in piedi da una sorta di vento. Poi Sybel, che si torceva le mani, lo udì bisbigliare:

— Blammor…

Il Blammor fissò Sybel.

“Hai altri ordini?” le chiese, con indifferenza.

Lei, scuotendo la testa, bisbigliò:

— No.

Il Blammor, soddisfatto, si allontanò; Sybel sentì che il fuoco tornava a riscaldarla.

Accanto a lei, il giovane si portava le mani alle tempie. Con le palme, prese a sfregarsi gli occhi, come se volesse cancellare una visione paurosa. Poi scivolò a terra, così all’improvviso che lei non riuscì ad afferrarlo. Si inginocchiò accanto a lui, lo aiutò a sedere.

— Coren…

Lui non rispose.

Affannosamente, Sybel si mise a cercare il vino; e così facendo, al di là del cerchio di luce del fuoco, scorse gli occhi rossi e imperturbabili del Cinghiale Cyrin che l’osservava. Gli inviò nella mente un grido furibondo:

“L’avrei rimandato via io stessa. Non c’era bisogno…”

— Sybel… — chiamò Coren, come se la voce gli uscisse dalle profondità dell’anima. Lei gli prese le mani.

— Sono qui — gli disse.

— Stringimi. Stringimi…

Lei lo abbracciò, tenendolo così stretto da sentirgli il battito del cuore e il rumore ansante del respiro.

— Mi spiace. Mi spiace — continuò a mormorare, e lo baciò come se fosse stato Tamlorn, venuto a lei per farsi consolare.

Poi le venne in mente un particolare, e si affrettò a sciogliersi da lui. Coren protestò debolmente e cercò di afferrarla, ma lei, aggrottando la fronte, gli disse:

— Coren.

Lui aprì gli occhi, uscendo da un sogno.

— Cosa?

— Coren, come conosci il nome del Rommalb?

Lui la guardò senza capire, e lei lo afferrò per i polsi. Infine, Coren rispose:

— Lo conosco.

— Ma come hai fatto?

— Come faccio a sapere quello che so?

Il giovane appoggiò la schiena al focolare e tornò a chiudere gli occhi.

— Come hai fatto, allora?

— Sono stato costretto a ricordarlo.

Per un momento, quelle parole rimasero sospese tra loro, prive di forza.

— Altrimenti — continuò lui — sarei morto qui, sul tuo focolare. Ho preso parte a una grande battaglia, ho dovuto combattere di notte, senza aspettarmelo, da solo, ma non ho mai visto la morte così vicina come poco fa, qui nella tua casa.

“Aveva il colore della notte e non potevo respirare perché non era d’aria, ma sapevo che se fossi riuscito a darle un nome non avrebbe più potuto farmi del male.

“Tutti i miei pensieri erano di morte… volavano in cerchio, come uccelli spaventati… ma sapevo che non potevo incontrare la morte nella tua casa, accanto al tuo focolare.

“Perciò, una parte di me ha continuato a cercare tra tutti i nomi antichi che conoscevo. E infine ho capito cos’era. Non era la morte, ma la paura. Rommalb. La paura che conduce gli uomini alla morte.”

Riaprì gli occhi per qualche istante, fissandola dalla profondità di un abisso senza nome.

— Sybel, non potevo lasciarmi uccidere da qualcosa che non poteva farmi del male.

— Moltissimi uomini sono stati uccisi da quella cosa — bisbigliò lei. — Fin da epoche immemorabili.

— Ma io non potevo lasciarmi uccidere. Avevo qualcosa per cui vivere.

— Drede? — chiese lei.

Lui scosse la testa e per un po’ non disse niente. Teneva gli occhi chiusi, e lei pensò che si fosse addormentato. Poi raddrizzò la schiena, si sporse verso di lei e la baciò.

Lei si tirò indietro, stupita.

— Non credevo che esistesse uno come te — disse. — Mi aspettavo di vederti morire o impazzire nella mia casa, e poi di trovarmi alla porta i tuoi cinque fratelli, a chiedermi spiegazioni.

“Invece, hai restituito il nome al Rommalb e hai voltato le spalle alla morte per ritornare qui a baciarmi, seduto sul mio pavimento.”

— Mi pareva una soluzione di gran lunga preferibile — disse lui sorridendo. Ma poi un terribile ricordo gli gelò il sorriso sulle labbra e gli svuotò gli occhi, che divennero freddi come stelle perdute. Scosse la testa per liberarsi da quel ricordo, e cercò di alzarsi, rigidamente. Sybel lo aiutò e mettersi in piedi, corrugando con preoccupazione la fronte.

— Nella mia casa — gli disse — hai sempre avuto un’accoglienza spaventosa. Ti preparerò il letto di Ogam. E poi prenderò il Cinghiale Cyrin e ne farò salsicce.

— No, Sybel. Mi ha rivolto un indovinello, e sono stato io a chiedergli la risposta. Lui, perciò, me l’ha data.

— Niente affatto — disse lei. — Con un inganno, ha fatto in modo che te la dessi io. E non aveva alcuna ragione di trattare così un mio ospite, venuto a trovarmi per pura gentilezza di cuore.

Coren tornò a sedere, poi si curvò a raccogliere i cocci della scodella.

— Se non riesci a trovare la ragione — disse — vuol dire che non ce n’era nessuna.

— Non riesco a trovarla. Lasciamo perdere, Coren; cercherò di chiarirla in separata sede, quando sarai andato a dormire.

— No. Questa sera non voglio dormire al buio. Lasciami sedere qui, accanto al fuoco. Sybel…

— Come?

Lui la guardò.

— Non hai mai paura di niente? — le chiese. — Che cosa sei, visto che lo stesso Rommalb obbedisce al tuo richiamo?

— Di alcune cose, ho paura. Ho avuto paura per te. Ho paura per Tamlorn. Ma non mi è mai passato per la mente di avere paura del Rommalb.

Si inginocchiò sul pavimento, per pulirlo della minestra rovesciata. Coren continuò a guardare il gioco della luce verde delle fiamme tra i bianchi capelli di lei, finché si confusero in una sola macchia: s’era addormentato.

L’indomani mattina, Sybel lo trovò accanto al fuoco, con il Leone Gules accucciato ai piedi. La neve non cadeva più; il mondo, dietro le colonne di ghiaccio delle finestre, aveva un’opalescenza lunare.

Sul tavolino c’era una pagnotta sbocconcellata; il vino era finito. Lui le sorrise, e lei, nel vedere i suoi occhi cerchiati di rosso, gli disse gentilmente:

— Non hai dormito bene?

— Mi sono svegliato e, vedendo che non c’eri, non sono più riuscito a prendere sonno. Ho parlato con il Cinghiale Cyrin; mi ha raccontato alcune storie.

— Spero che si sia limitato a quelle.

— Mi ha detto del Principe Lud, che poteva avere qualsiasi fiore da lui desiderato, ma che voleva soltanto la rosa fiammeggiante che cresce sulla Punta Nera di Fyrbolg. E che, una volta ottenuto ciò che desiderava, fu soddisfatto per tutta la vita. Perciò, qualche speranza l’ho ancora.

Lei arrossì leggermente.

— Non mi pare che queste cose riguardino il Cinghiale Cyrin — gli disse. — Inoltre, tu stesso dicevi che non sono una rosa fiammeggiante, ma un fiore di ghiaccio cresciuto in un mondo senza vita. Tu appartieni al mondo dei viventi, e laggiù, secondo me, troverai la tua rosa.

Coren sospirò.

— Come hai detto — rispose — a volte sono uno sciocco. Credo di essere io quello vissuto in un mondo senza vita. Questa notte ho sognato Norrel.

“Le altre volte, quando lo sognavo, non lo vedevo mai come era in vita, ma solo come era in punto di morte, allorché, isolato da tutti, immerso nel dolore della sua ferita mortale, vedeva Drede allontanarsi da lui e cercava di chiamare qualcuno, ma non aveva più la voce e non c’era nessuno che lo ascoltasse.

“Nei miei sogni, Norrel mi chiama e non mi vede, e io non riesco mai a raggiungerlo. Ma questa notte, quando mi sono addormentato, avevo negli occhi la tua immagine e ho sognato Norrel come era da vivo, quando rimanevamo svegli a parlare fino a notte inoltrata.

“Lui mi diceva di Rianna e del suo amore per lei. E io sorridevo, ascoltavo, assentivo, perché capivo tutto ciò che provava, tutto ciò che diceva.

“Quando mi sono destato, avevo ancora nelle orecchie l’eco della sua voce, e in quel momento ho pensato a Drede e ho provato una grande pietà per lui. Perché non aveva mai potuto avere quel che aveva avuto Norrel. Drede è solo un vecchio impaurito, con nessuno che lo ami a eccezione di Tamlorn. E anche se pensavo che fosse come il Rommalb, un dispensatore di morte…”

— Vuoi ancora ucciderlo?

— Ormai, credo di essermi stancato di pensare a lui.

Si alzò, si avvicinò a Sybel e rimase fermo accanto a lei, senza toccarla.

— Ti amo — le disse. — Quando avrai bisogno di me, io verrò.

— No, Coren — disse lei, confusa, e si accorse di avergli preso la mano. — Non sono molto capace di amare. In tutta la mia vita, ho amato solo Maelga, Tamlorn e Ogam, benché non fosse neanche lui molto capace di amare. Rimani nel Sirle, dove ci sono donne che possono darti quel che ti occorre. Il mio posto è qui.

— Mi occorri tu — le disse lui, semplicemente.

Si voltò a prendere il mantello e continuò:

— Quando il Principe Rurin inseguiva la strega Glower che gli aveva trasformato in maiali tutti i servitori, lei…

— Lo so. Innalzò sul suo cammino una grande montagna di vetro, che lui non poteva né aggirare né scalare. Perciò dovette fare ritorno a casa, scornato.

— Proprio così — disse Coren. Si chinò a darle un bacio d’addio, e lei lo accettò con freddezza.

— Che differenza può esserci — le chiese — tra il vetro e il ghiaccio?

— Oh, va’ a casa! — disse lei, irritata. Poi, anche se non ne aveva l’intenzione, sorrise.

Lo accompagnò fino al cancello, e rimase immobile a rabbrividire, nella mattinata silenziosa, per guardarlo mentre scendeva l’erto sentiero.

Il Cinghiale Cyrin si fermò accanto a lei, e il suo caldo respiro fiorì a sbuffi nell’aria. Lei lo fissò.

— Hai corso un grave rischio — gli disse, concisa.

Il Cinghiale dalle setole argentee emise il grugnito che era il suo equivalente di una risata. Poi, per la prima volta, si servì con lei della sua voce musicale.

— Due sciocchi sapienti si capiscono sempre tra loro — disse.

Tamlorn venne a trovarla qualche giorno più tardi. Lei, nell’udire il grido del Falco Ter, sollevò gli occhi dal libro che stava leggendo e lo vide che volava in cerchio, al di sopra della cupola di cristallo.

Si mise addosso il mantello e corse in giardino, e il Falco venne a posarsi sulla sua spalla, mentre Tamlorn, accompagnato da cinque uomini, giungeva al suo cancello.

Il ragazzo scese da cavallo e le andò incontro gridando gioiosamente, e Sybel notò il pesante mantello di pelliccia ricamato in filo d’oro, gli stivali morbidi, i guanti imbottiti. Aprì il cancello, e lui corse ad abbracciarla, ridendo.

— Sybel, Sybel, Sybel…

Si strinse a lei, e poi, veloce come un turbine, si allontanò.

— Guarda il mio cavallo! Me l’ha scelto mio padre: grigio come la tempesta, grigio come il velluto. Si chiama Drede come lui. Non voleva lasciarmi venire, perché temeva per me, ma ho continuato a implorarlo finché non mi ha accontentato. Non posso fermarmi a lungo, però.

— Oh, Tamlorn, sono così contenta di vederti! Entra in casa.

Fissò il Falco negli occhi scintillanti e gli chiese:

“Sta bene?”

“Il Re è gentile con lui.”

Tamlorn le camminava al fianco, raggiante, e a ogni passo affondava profondamente i piedi nella neve.

— Sybel, sono così felice di vederti! Il palazzo di Drede è tanto grande… c’è gente dappertutto, e tutti sono cortesi con me, perché sono il figlio del Re. E ho dei ricchi abiti. Ma sento la mancanza del Leone Gules e di Nyl.

— È buono con te?

— Certo. Sono la sua protezione dai Signori del Sirle.

Lei lo guardò, sorpresa. Lui le sorrise con i suoi occhi limpidi.

— Vedo che sei maturato — gli disse Sybel.

— Drede dice sempre che ti assomiglio. Sai, Sybel, è molto gentile con me, e io sono felice. Qualche volta, quando siamo soli insieme e facciamo cose semplici… qualche volta ride.

Così dicendo, il ragazzo aprila porta. La Gatta Moriah venne ad accoglierlo, facendo rumorosamente le fusa. Lui si inginocchiò e le strofinò la guancia contro la testa, poi accarezzò la criniera del Leone Gules e lo fissò negli occhi d’oro.

— Gules, Gules… — mormorò, e dalla profonda gola del Leone uscì un commosso brontolio.

— Sai cos’altro mi manca, Sybel? Il fuoco verde del tuo focolare. È così bello.

Si tolse il mantello e ne scosse la neve. Sybel gli accarezzò i capelli chiari, luccicanti di minuscole gocce di neve disciolta.

— Sei davvero cresciuto — gli disse, pensosa, e lui rise.

Anche la voce gli si era fatta più profonda.

— Lo so — disse. — Sybel, voleva che ti portassi a Mondor con me, ma gli ho detto che mi sarei limitato a chiedertelo… che non ti avrei pregato di farlo. Adesso che te l’ho chiesto, possiamo parlare d’altro. Gli animali stanno bene?

Nello sguardo di Sybel si affacciò un sorriso.

— Benissimo — disse, mettendosi a sedere accanto a lui, vicino al fuoco. — Dimmi, cosa fai tutto il giorno?

— Oh, Sybel! Non avrei mai pensato che potesse esistere tanta gente! Abbiamo attraversato a cavallo la città, in un giorno di mercato, e la gente gridava il nome di mio padre… e, sai, gridava anche il mio… Ne sono rimasto talmente sorpreso che mio padre si è messo a ridere. Mi piace vederlo ridere.

Lei lo lasciò parlare come se si fosse trattato di un ruscello tranquillo, dolce, confortevole; lo osservò, gli sorrise, non sempre ascoltò le sue parole. La faccia di Tamlorn era diventata più adulta e decisa, e si illuminava e cambiava espressione continuamente: rideva e ridiventava seria, poi tornava a sorridere con un sorriso strano, aperto, che però pareva suggerire qualcosa di segreto.

Mentre lo guardava, Sybel non pensava a niente: la sua mente si rilassò e si abbandonò come non le succedeva da molti giorni, contenta del calore del focolare che giungeva fino a lei, delle pareti bianche che la circondavano, della presenza di Tamlorn che parlava e accarezzava la testa di Moriah.

Poi qualcosa di minuto, di lontano e di indesiderato s’introdusse nella sua mente, increspandone la superficie. Tamlorn la toccò e lei trasalì involontariamente.

— Sybel, non mi stai ascoltando. Ti ho portato un regalo: un mantello di lana bianca con un ricamo di fiori azzurri. Drede l’ha fatto fare per te dalle donne del castello.

S’interruppe per un istante.

— Che cos’hai?

Lei scosse la testa.

— Niente. Sono un po’ stanca. Un mantello? Tamlorn, ricordati di ringraziare Drede per me. E il Falco Ter, si comporta bene? Temevo che avesse già divorato qualcuno che gli dava fastidio.

— Oh, no. Quando il tempo è bello, andiamo a caccia insieme, È molto gentile con i falchi di Drede, ma si lascia prendere solo da me. Sybel…

Ma lei non gli rispose, perché aveva di nuovo sentito quello strano movimento della mente, fioco e rapido come il tremolio di una stella nel cielo di mezzanotte.

Serrò lentamente le mani sui braccioli della sedia.

— Sybel — disse Tamlorn, aggrottando le sopracciglia. — Hai male? Dovresti parlarne con Maelga.

— Gliene parlerò. — Staccò le mani dai braccioli, allargò le dita. Con gli occhi grandi, luminosi, fissò le fiamme. — Gliene parlerò.

Poi si udì bussare alla porta, e il ragazzo cambiò immediatamente espressione.

— Così presto? Sono appena arrivato.

Lei si voltò a guardarlo. — Oh, Tamlorn. non andrai già…

— Come ti ho detto, non posso fermarmi molto.

Si alzò in piedi, sospirando.

— Sybel, quando i tempi saranno più tranquilli, mi fermerò di più. Ho il tuo mantello nella borsa della sella.

Tornarono a bussare alla porta. Tamlorn alzò il tono di voce:

— Sto arrivando! Sybel, parla con Maelga del tuo male. Lei riesce a curare qualsiasi cosa.

— Principe Tamlorn…

— Arrivo!

Mentre attraversavano il giardino, silenziosamente seguiti dalla guardia personale, Tamlorn pareva non volersi mai staccare da lei. Poi il Falco Ter venne nuovamente a posarsi sulla spalla del ragazzo.

— Sybel, la prossima volta mi fermerò di più. Io… spero che tu venga a farmi visita.

— Forse mi deciderò a venire — promise lei.

— Ti prego, vieni.

Aprì la borsa della sella e ne trasse un morbido mantello color perla, ricamato con volute azzurre.

— Questo è per te.

Lei accarezzò la stoffa.

— Oh, Tamlorn — disse — è bellissimo. È così soffice…

— Ha il bordo di ermellino — spiegò lui, ponendoglielo sulle braccia.

Poi le diede un rapido bacio.

— Ti prego, vieni a trovarci. E parla con Maelga.

Lei sorrise. — Certo, Tamlorn. Adesso, posso dire una parola al Falco Ter?

Tamlorn rimase fermo per qualche istante, e lei spostò lo sguardo dagli occhi grigi e sorridenti del ragazzo a quelli azzurri e duri del Falco.

“Ter.”

“Che cosa c’è, figlia di Ogam? Ti vedo turbata.”

Tamlorn, che la stava osservando, vide che la sua faccia rimaneva immobile per un istante e che i suoi occhi severi si fissavano duramente in quelli di Ter.

“Qualcuno mi sta chiamando a lui. Devi fermarlo.”

5

Quel pomeriggio, Sybel si recò a far visita a Maelga. Le bianche tortore si appollaiarono sulle travi del soffitto per osservarla, e il corvo continuò a entrare e a uscire da un foro della finestra. La piccola casa era piena di strani odori; Maelga bisbigliava frasi magiche, china sul calderone, e il vapore le inumidiva i bianchi capelli fino a incollarglieli sulle guance.

Quando Sybel entrò nella stanza, vide che la vecchia non sollevava lo sguardo dalla sua pozione: anche lei, perciò, non le rivolse parola. Ma era inquieta, e per sfogare il proprio nervosismo si aggirò per tutta la casa, aprendo e chiudendo i libri, curiosando nei vasi pieni di misteriose sostanze, passeggiando avanti e indietro nella stanza, con la fronte aggrottata. Infine, Maelga smise di bisbigliare le sue formule magiche e voltò la testa verso di lei.

— Bambina — le disse — sto perdendo il conto delle mie Arcane Cose.

— Mi dispiace — disse Sybel.

Teneva in mano un oggetto e, giocandoci sovrappensiero, lo spezzò. Senza capire cosa fosse successo, fissò i due pezzi, turbata.

Maelga vuotò il mestolo e lo posò sull’orlo del calderone.

— Il mio osso… — disse.

— Che osso?

— La falange dell’indice destro di un mago. Mi sono occorsi tanti anni per trovarla.

Sybel tornò a fissare i pezzetti che teneva in mano. Poi disse:

— Ti porterò tutte le ossa di mago che vuoi, se ti servono. Anche il teschio, se troverò il cervello che cerco.

Maelga la fissò, aggrottando la fronte.

— Che cosa è successo? — le chiese.

Sybel posò l’osso e afferrò la strega per le braccia.

— C’è qualcuno che mi sta chiamando — rispose. — Non so chi sia, ma non posso chiudere la mia mente al suo richiamo. Mi sta cercando con la stessa abilità con cui io stessa chiamerei un animale. Sono stupita e offesa, ma è lo stupore che potrebbe provare un pesce preso all’amo: quello di chi non può fare niente per opporsi al suo destino.

Maelga prese a torcersi nervosamente le mani, tra lo scintillio dei suoi gioielli. Poi si mise lentamente a sedere sulla sedia a dondolo.

— Lo sapevo — disse infine. — Un giorno ti saresti messa nei guai, a furia di rubare quei volumi.

Sybel smise di camminare avanti e indietro.

— Credi che si tratti solamente di questo? — le chiese, in tono ansioso.

Poi scosse la testa.

— No — proseguì. — La mente che mi sta cercando è più potente della mia. Questo mi spaventa. Per dei semplici libri, non si darebbe tanta pena.

“Maelga, non so proprio cosa fare. Di fronte a questo tipo di richiamo, non esiste nessun nascondiglio sicuro. Se venisse qualcuno con l’intenzione di farmi del male, i miei animali mi difenderebbero, ma non si può lottare contro questo genere di cose.”

— Oh, cara — disse Maelga, passandosi una mano nei capelli. Poi, d’improvviso, le sorrise.

— Posso fare una cosa per te — disse. — Manderò il mio corvo a scrutare, con i suoi occhi scuri e acuti, nelle finestre dei maghi.

Sybel annuì.

— L’ho già fatto — disse. — Ho mandato il Falco Ter.

Poi sospirò, e, con le palme delle mani, si coprì gli occhi.

— È stata una sciocchezza, però. Se quell’uomo è in grado di chiamare me, allora è anche in grado di chiamare Ter.

— Se conosce il suo nome.

— Lo conosce certamente. Chi sarà mai? Ho rubato libri a maghi di scarso potere, nelle loro torri gelide, tra materassi di paglia e banchi coperti di polvere; li ho rubati a maghi importanti, grassi e sussiegosi per le ricchezze accumulate al servizio dei Principi, ma non ho mai trovato qualcuno che mi facesse paura. Non so perché, adesso, questo grande mago mi stia chiamando.

Fissò Maelga, disperata.

— Che ragione può esserci? — chiese. — Non posso fare niente, contro un mago così potente.

— È davvero così potente? — chiese Maelga. — Forse, se tu non gli rispondessi, lui rinuncerebbe.

— Forse… Ma è entrato in me mentre ero sovrappensiero, e adesso non posso più seguire le sue tracce. Se non riesco a trovarlo, non posso neanche dargli un nome.

Riprese a passeggiare nervosamente avanti e indietro, con le braccia conserte e i capelli che ondeggiavano dietro di lei come un manto bianco.

— Sono così in collera… ma la collera non serve a niente, e neppure la paura. Non so cosa fare. Spero soltanto che il mio ignoto nemico non sia talmente forte da riuscire a togliermi il nome.

— Hai un posto dove recarti per qualche tempo? — chiese Maelga.

— Dove? Anche se andassi oltre i confini dell’Eldwold, lui potrebbe trovarmi e chiamarmi a sé.

In preda a una profonda angoscia, si sedette accanto al fuoco.

— Oh, Maelga — bisbigliò — non so cosa fare. Se soltanto avessi il Liralen… potrei volarmene alla fine del mondo, ai bordi delle stelle…

— Non piangere — le disse Maelga con ansia. — Quando ti vedo piangere, mi spavento anch’io.

— Non piango. Le lacrime sono inutili. Posso soltanto attendere.

Poi si voltò verso la strega e la guardò negli occhi:

— Maelga, se un giorno non riuscissi a trovarmi e nessuno ti sapesse dire dove sono, ti occuperesti tu degli animali?

Maelga si alzò in piedi, con le mani nei capelli.

— Oh, Sybel — disse — non penserai che si arrivi a questo! Il mio corvo lo troverà. Il Falco Ter lo troverà, e preparerò un incantesimo che gli scioglierà le ossa dentro la carne.

— Non tutte, spero. Ti serve una sua falange…

Con la faccia appoggiata alle pietre del focolare, continuò a fissare le fiamme che danzavano sotto il calderone, senza vederle.

Infine, trasse un lungo sospiro:

— Ora vado — disse. — Ti lascio lavorare. Tu non puoi fare niente per me, e anch’io posso fare poco. Forse Ter lo troverà prima che lui trovi me, e allora, forse, potrò fare qualcosa.

Si alzò in piedi. Maelga la guardò con grande preoccupazione.

— Bambina mia, cerca di stare attenta — le raccomandò.

Quella notte fu destata da qualcosa che le sfiorava la mente con la delicatezza della punta di un dito che increspa uno specchio d’acqua.

Si rizzò a sedere sul letto, con gli occhi spalancati, e scrutò l’oscurità che la circondava, mentre, sulla sua testa, le stelle illuminavano con le loro sagome glaciali la cupola di cristallo.

Tornò a sentire lo strano solletico mentale, come un pensiero informe e indesiderato. Poi udì, come un bisbiglio che infrangeva l’immobilità della notte, la debole, indubitabile evocazione del suo nome:

“Sybel.”

Emise un gemito nell’oscurità. Poi, in un punto accanto a lei, scorse un movimento; gli occhi dorati del Leone Gules scintillarono come gemme dalle infinite sfaccettature.

“Di che cosa hai paura, figlia di Ogam?”

“Ho fatto un brutto sogno…”

E la voce ritornò, in un monotono sussurro:

“Sybel.”

Trascorse un giorno e una notte nella stanza dal soffitto di cristallo, senza mangiare e senza dormire, cercando negli antichi libri il nome di un mago così potente, ma non ne trovò traccia.

All’alba lasciò che i libri le scivolassero dalle mani e fissò il cielo che si andava progressivamente schiarendo. Una linea rosa segnava i confini del suo mondo; nubi bianche dai bordi argentei luminosissimi afferrarono i raggi del sole e li rifransero sulle Terre Incolte, sulla Piana di Terbrec, sulla città di Mondor, con la sua cerchia di mura, dove andarono a riscaldare le fredde e cupe pareti delle torri.

Desolata, pensò al Liralen e alle sue ali bianche e luminose, e provò per qualche istante a chiamarlo, dirigendo il richiamo verso il bianco mondo dell’alba. Gli animali cominciarono a destarsi nella casa. Poi udì la voce di Maelga, che era salita fino al suo cancello:

— Sybel! Sybel, svegliati!

Si alzò lentamente, rigidamente, e attraversò le stanze fredde. Il sole dipingeva strisce di fuoco sulla neve; quando aprì la porta, la luce le balzò dolorosamente agli occhi. Batté le palpebre, cercando di fissare il mondo davanti a sé.

— Entra, Maelga.

— Oh, Sybel. Hai lasciato spegnere il fuoco.

Entrò, e Sybel fissò a occhi sbarrati la creatura morta che la fattucchiera teneva in mano.

— Temo che non sia l’unica cosa morta in questa stanza… — commentò poi.

Toccò il corpo nero e rigido del corvo di Maelga, e si sentì trafiggere da una lampo di paura, più forte e agghiacciante di quanti ne avesse mai conosciuti.

Maelga disse stancamente:

— L’avevo mandato a spiare; questa mattina è entrato in casa e mi è caduto ai piedi, stecchito. Credo che fosse morto ancor prima di mettersi in volo.

Sybel rabbrividì.

— È già freddo — mormorò. — Mi dispiace.

Fissò la forma immobile dell’uccello finché Maelga non la toccò delicatamente, facendola trasalire.

— Sybel, sei stanca. Hai mangiato?

— Mi sono dimenticata. Stavo leggendo.

Fino a quel momento, si era sforzata di tenere dritta la schiena; ora chinò le spalle e, con le mani, si coprì la faccia. Maelga l’abbracciò.

— Bambina mia — pianse — cosa posso fare per te?

— Niente — bisbigliò Sybel. — Niente.

Lasciò ricadere le braccia, sospirando.

— Spero che il Falco Ter sia al sicuro — aggiunse. — Lo chiamerò e gli dirò di ritornare con Tamlorn.

— Ti cucinerò qualcosa. Sei così dimagrita, da quando il ragazzo è partito.

Si avviò verso la cucina, portando con sé il corpo del corvo. Sybel colse la mente del Falco mentre era in volo, scorse la terra passare rapidamente sotto di lui.

“Ter, ritorna da Tamlorn. È pericoloso.”

Per un istante regnò il silenzio, prima che lei tornasse a sentire il cuore pulsante del Falco, il torrente di fuoco che gli scorreva nelle vene. Poi il grande rapace disse.

“No.”

“Ter, ritorna da Tamlorn.”

“Figlia di Ogam, chiedimi qualsiasi altra cosa. Ma adesso devo cercare due occhi, devo far tacere una mente nera.”

“Ter…”

Lo perse all’improvviso, e cercò di riafferrarlo, stupefatta, ma lo perse di nuovo; poi, le fece irruzione nella mente un sussurro forte e implacabile:

“Sybel.”

— No — gridò lei, e la parola cadde senza vita sul bianco marmo del pavimento. — No!

Sedeva sotto la cupola di cristallo, a mezzanotte, e la luna piena la osservava come se fosse stata l’occhio stesso del cielo. Il mondo che si stendeva oltre la cupola era ovattato, silenzioso, nascosto; tutta la montagna era immobile, le stelle erano ferme come cristalli di ghiaccio.

La notte era priva di voci, così come era priva di voce la sua mente: riposava nel cuore di un silenzio che non era disturbato da alcun soffio di vento, da alcun bisbiglio di foglie. Sybel fissava l’oscurità, e i suoi occhi scuri erano immobili come ogni altra cosa che la circondava; ascoltava la quiete della propria mente, in attesa del momento, in attesa che si ripetesse il richiamo che osava penetrare nel cuore del silenzio.

Accanto a lei c’era il Leone Gules: teneva la testa sollevata e i suoi occhi dorati erano fissi nel vuoto, perfettamente immobili, come se non avesse avuto neppure bisogno di respirare.

Dopo qualche tempo, nella stanza si udì un lieve rumore. Girandosi, lei scorse il Cinghiale Cyrin, le cui zanne scintillavano bianche come stelle.

“Rispondi a questa domanda, o Signore della Saggezza” gli disse, e sentì passare nella mente del Cinghiale tutte le domande del mondo. Poi il Cinghiale abbassò la testa, e il riflesso dei suoi rossi occhi svanì.

“È la domanda a cui non so rispondere” disse.

Lei chinò il capo. — Sono stanca — bisbigliò all’oscurità. — Non so cosa fare.

Continuò per qualche tempo a sedere immobile, e di tanto in tanto sentì il richiamo che la allontanava da se stessa, come il lento ritrarsi delle onde al sorgere della luna.

La luce lunare disegnava la sua ombra sul pavimento bianco, accanto alle forme massicce del Cinghiale e del Leone. Infine, Sybel chiuse gli occhi e lanciò il suo richiamo, e, mentre chiamava, sentì giungere dal cancello un grido debole, familiare.

— Sybel — disse Coren, correndo nella notte, sulla neve, verso di lei. — Sybel!

Si afferrò strettamente alle sbarre, come cercando di aprirsi un varco.

— Mi spiace… — disse. — Mi spiace… non ero nel Sirle.

— Ti ho chiamato pochi minuti fa — disse lei, trafelata, mentre gli apriva il cancello quasi bloccato dal gelo. — Come sei venuto, volando?

— Ho tentato di farlo.

Fece entrare il cavallo e si fermò davanti a lei, cercando di scrutare la sua faccia nel buio.

— Che cosa c’è? — le chiese, con ansia. — Sybel, sarei voluto venire tre giorni fa, ma Rok mi aveva mandato a Hilt, a parlare con il Signore Horst di un certo suo piano disperato. Sapevo che eri preoccupata; non riuscivo a dimenticarlo neppure nel sonno, ma sono potuto partire soltanto ieri. Che cosa è successo? Qualcosa a Tamlorn?

Lei sollevò il mento per guardarlo, senza parlare. Poi scosse la testa.

— No. Come sapevi che avevo bisogno di te, prima che io stessa me ne rendessi conto?

— Lo sapevo. Sybel, che cosa è successo? Che cosa posso fare?

— Solo… una piccola cosa.

— Qualsiasi cosa.

— Abbracciami.

Lui lasciò cadere le redini nella neve. Aprì il mantello e l’attirò a sé, richiudendoglielo poi intorno; sul suo petto, vide brillare debolmente la corona di capelli di Sybel.

Lei gli appoggiò la testa sulla spalla, sentì l’odore della pelliccia di cui era foderato il mantello, ascoltò il rumore del suo respiro e il battito del suo cuore. Poi Coren cessò per un attimo di respirare, e lei aprì gli occhi.

— Sybel… tu hai paura.

— Sì.

— Ma…

— Stringimi più forte — disse lei, e Coren rafforzò la stretta. Sybel sentì il cuore del Principe del Sirle battere sotto il suo orecchio, sentì la mano guantata con cui lui le reggeva la nuca. Sospirò, a lungo, lentamente.

— Ti ho fatto venire dal Sirle, per sentirmi stringere così. Solo per questo.

— E io sarei venuto di corsa. Solo per abbracciarti e poi ripartire immediatamente. Ma, Sybel, ci deve essere qualcosa d’altro che posso fare per te.

— No. La tua voce è come la luce del sole: appartiene al mondo degli uomini, non al cupo mondo dei maghi.

La voce di Coren s’impigliò nei suoi capelli.

— Dimmi. Che cosa ti turba?

Lei tacque. Poi sollevò la testa, sospirando, e si sciolse dal suo abbraccio.

— Non volevo fartelo sapere — gli spiegò, infine. — Ma forse è meglio che te lo dica, nel caso mi succedesse qualcosa. Altrimenti, perderesti la pace per scoprirlo.

Lui le prese il volto tra le mani e le chiese, con voce impaziente:

— Sybel, cosa c’è?

— Vieni dentro, vicino al fuoco. Ti spiegherò tutto.

Coren portò il cavallo nella stalla e gli diede la biada, poi entrò nella casa, appese il mantello ad asciugare e si sedette accanto a Sybel. Lei gli porse una tazza di vino caldo e gli disse:

— Qualcuno mi sta chiamando.

Lui la fissò da dietro il bordo della tazza. Poi la posò di scatto e il vino gli finì sulle dita.

— Chi è?

— Se conoscessi il suo nome — rispose lei — forse sarei in grado di oppormi. L’ho cercato dappertutto; ho sorpreso maghi di paesi lontani, bisbigliando parole nella loro mente, e la loro paura mi ha fatto capire che non mi conoscevano.

“Perciò, adesso… non so che cosa fare. Ha catturato il Falco Ter; ho mandato Ter a cercarlo, e lui mi ha rubato il nome di Ter e l’ha legato a sé, con un potere superiore al mio. È molto potente. Non ho mai sentito parlare di un mago potente come lui. Perciò, temo che dovrò cedergli.”

Senza parlare, Coren aggrottò la fronte.

— Non credo — le disse infine — di poterti cedere a lui.

Lei scosse la testa.

— Coren, non ti ho chiamato per questo. Tu non puoi aiutarmi.

— Potrei tentare. Non sono riuscito ad aiutare Norrel, ma cercherò di aiutare te. Resterò con te, e quando il tuo nemico verrà a cercarti, o quando ti recherai da lui, io ti sarò al fianco, e dovrà vedersela con me.

— Coren, non servirebbe a niente. Potresti soltanto morire; oppure la tua mente verrebbe rivolta contro se stessa, e ti scorderesti di me. Il Rommalb era terribile, ma non era malvagio. Il Rommalb era fatto di paura, e tu sei sopravvissuto, ma questo mago, per te, significherebbe la morte.

— Allora, che cosa posso fare? — domandò lui, disperato. — Credi che possa starmene fermo qui, o nel Sirie, docile come un bambino, mentre un pericolo sconosciuto ti minaccia?

— Be’ — rispose Sybel — non voglio vederti morire davanti a me.

— Io, invece, preferirei morire anziché essere svegliato di notte dalla voce impaurita della tua mente, senza sapere dove sei, o cosa ti affligge.

— Non ti ho mai chiesto di venire senza essere chiamato — disse lei. — Non ti ho mai chiesto di ascoltare la voce della mia mente.

— Lo so: e neanche mi hai chiesto di amarti. Però io ti amo, e sono preoccupato, e starò con te anche se non vuoi. È facile chiamare un uomo, ma non è altrettanto facile mandarlo via.

— Sei proprio un vero figlio del Sirle: pensi che qualsiasi minaccia possa essere sgominata da una spada. Un tempo ho creduto che tu fossi saggio, invece sei uno sciocco.

“Quando sei andato a combattere contro Drede nella Piana di Terbrec, cosa impugnavi, un libro di incantesimi? Combatteresti a colpi di spada contro un mago, che con una sola parola potrebbe rivolgere la tua arma contro di te? E quando il mago scioglierà la tua lama, trasformandola in una macchia di metallo fuso ai tuoi piedi, cosa farai?”

Coren strinse le labbra, senza rispondere. Poi, all’improvviso, alzò le spalle.

— È sciocco discutere — disse. — Ma dovrai prendermi di peso e sbattermi fuori, per allontanarmi di qui. Puoi far finta di non vedermi, puoi rifiutarti di darmi da mangiare, ma se ti vedrò lasciare la casa io ti seguirò e farò del mio meglio per uccidere i tuoi nemici.

Lei si alzò. Guardò il giovane con distacco: nelle altre stanze, si udì il debole rumore degli animali che si destavano.

— Ci sarebbe un modo — disse Sybel — per rimandarti nel Sirle, riluttante, ma vivo…

Il Leone Gules, sbadigliando, giunse come un’ombra dalla camera con la cupola di cristallo e girò in cerchio attorno a Coren, strofinandosi inquieto contro di lui. In cucina, la Gatta Moriah si svegliò, mormorò un canto senza parole, dal profondo della gola, e si diresse a passi misurati verso di loro.

Coren, che continuava a fissare gli occhi fermi di Sybel, li vide nuovamente velarsi e udì, nel silenzio della notte, il lento battito di grandi ali che frustavano l’aria. Le pose la mano sul braccio, e vide che lei tornava a fissarlo. Continuò a guardarla senza battere ciglio, mentre il soffio del Cinghiale e il battito delle ali del Drago intessevano una fragile rete di suoni, che fu bruscamente interrotta da un miagolio minaccioso della Gatta. Coren prese allora Sybel per le spalle, come per destarla da un sogno.

— Sybel, stai cercando di spaventarmi? Perché non ti limiti a entrare nella mia mente, come hai fatto quella volta con Drede, e non mi rimandi tranquillamente nel Sirle, dopo avermi tolto i miei ricordi? A una cosa come questa, non potrei oppormi.

Lei lo fissò per un momento, senza rispondere. Poi fece una smorfia e si staccò da lui, mormorando:

— Non posso. Vorrei, ma non posso.

— Cosa farai, allora? Se mi lancerai addosso gli animali, io lotterò; ci faremo del male. Poi ci odieremo per avere permesso che succedesse una cosa simile.

“Sarebbe meglio per tutti e due che mi permettessi di prendermi cura di te. Lascia che tenti di proteggerti. Concedimi questo piccolo favore. Cerca di essere gentile con me.”

Lei lasciò ricadere le braccia. I lunghi capelli le coprivano gli occhi, e lui non poté vedere la sua espressione. Infine Sybel lo fissò.

— Vorrei che te ne andassi — gli disse. — Per il tuo bene, ti legherei al Drago Gyld, e gli ordinerei di portarti nel Sirle, lasciandoti sulla soglia del castello di Rok. Ma se dessi ascolto ai miei desideri, ti vorrei qui con me. Te ne andrai, allora?

— Naturalmente no.

Se la strinse al petto e, sorridendo al Leone Gules, le baciò delicatamente la testa.

Lei mormorò:

— Sono egoista. Ma so una cosa, e te la dico adesso. Quando infine dovrò andare, so già che dovrò andare da sola.

Trascorse la notte senza chiudere occhio, con il Leone Gules ai piedi del letto, la Gatta Moriah sulla soglia della stanza e i grandi, gelidi mondi di fuoco dispiegati silenziosamente sulla sua testa. Continuò a sentire mentalmente l’appello, come una pulsazione continua che attraversava il silenzio, le entrava nei corridoi della mente e scendeva nelle profondità dove lei conservava la fredda, chiara coscienza di se stessa.

La voce si dirigeva inesorabilmente verso quei luoghi profondi, e intanto i suoi poteri si disperdevano e si allontanavano, i suoi pensieri rimanevano inutilizzati e non riuscivano a completarsi.

Infine, in lei rimase soltanto quel richiamo, che rendeva opaca la sua volontà, che la estraniava dalla propria casa come dall’ombra di un sogno. I luoghi segreti della sua mente si spalancarono, indifesi; ogni suo potere fu esaminato e le fu sottratto il suo nome, con tutto ciò che significava: ogni sua esperienza, ogni suo istinto, ogni suo pensiero vennero valutati e imparati.

Sybel si levò in piedi, a un comando che era solo una parola, e si vestì così silenziosamente che non si udì neppure un fruscio. Un grande Leone dorato continuò a dormire ai piedi del letto, illuminato dalla luce lunare; una Gatta nera senza nome continuò a rimanere distesa sulla soglia come fosse stata soltanto un’ombra. Lei li fissò, ma non trovò nella propria mente alcun nome con cui svegliarli, perché i loro nomi erano chiusi come gemme nelle profondità di una montagna, invisibili al suo occhio interiore.

Scavalcò la Gatta dormiente con tanta leggerezza che le sue orecchie non si mossero neppure. Nell’altra stanza, seduto davanti a una fiamma verde, c’era un uomo dai capelli color giallo oro e dagli occhi chiusi. Lei gli passò accanto, silenziosa come un sospiro, e passò accanto al Cinghiale dalle setole argentee che dormiva ai suoi piedi.

Quando la porta si chiuse, si udì un debolissimo scatto metallico e Coren si destò all’improvviso. Si guardò attorno, sbattendo gli occhi. Dal fuoco gli giunse il crepitio di un rametto spezzato dal calore, e il Principe del Sirle tornò ad appoggiarsi allo schienale, sorvegliando la stanza buia dove, custodita dal Leone Gules e dalla Gatta Moriah, dormiva Sybel.

E mentre lui sorvegliava la stanza, Sybel prese il suo cavallo e lo fece uscire silenziosamente sulla neve, fin oltre il cancello. Poi gli montò in groppa, senza sella, e lo guidò lungo il sentiero imbiancato, oltre la casa dove Maelga dormiva, per dirigersi infine verso la cupa città di Mondor, cinta di mura turrite.

6

Sybel giunse a una scala a chiocciola che portava alla cima di un’alta torre, situata sui bastioni settentrionali della città. La spirale dei gradini svaniva nell’ombra, sopra e sotto di lei; l’unica compagnia era la sua stessa ombra, disegnata dalla torcia sugli scalini di pietra consumati.

In cima scorse una porta chiusa, da cui filtrava una cornice di luce. Impugnò il pesante anello di ferro del saliscendi e la aprì.

— Venite, Sybel.

Come fu all’interno, vide che si trovava in una stanza di forma circolare. Sulla sua testa brillava un soffitto dipinto a stelle immobili e luccicanti; alle pareti, leggermente mossi dalla brezza che entrava dalle finestre nascoste, pendevano tendaggi di lino e di lana chiara che raffiguravano scene di antiche leggende, ricamate in fili preziosi.

L’intero pavimento era coperto di soffici pelli di montone, con il pelo alto fino alla sua caviglia; al centro ardeva un caldo braciere di ferro.

Accanto al braciere era fermo un uomo alto, con una veste di velluto nero e una cintura d’argento di mezzelune intrecciate. La fissava senza parlare. Aveva un volto lungo e sottile, con lineamenti affilati da falco, e l’unica emozione che lui tradiva era rivelata da un impercettibile sorriso all’angolo delle labbra. Gli occhi erano verdi, freddi, infossati in profonde orbite scure.

— Datemi il vostro nome.

— Sybel.

Quando pronunciò la parola, il filo invisibile del richiamo che le offuscava la mente si spezzò all’improvviso: Sybel si trovò libera, in quella stanza sconosciuta.

Batté le palpebre per la sorpresa e si guardò attorno, rabbrividendo. Gli occhi verdi del mago continuarono a fissarla senza mostrare la minima emozione.

— Venite accanto al fuoco. Vi siete gelata, viaggiando così a lungo nella neve.

Sollevò una mano scarna, dalle lunghe dita. Sybel notò che portava un unico anello, all’indice, con incastonata una pietra verde come i suoi occhi.

— Venite — le ripeté l’uomo con insistenza. Lei si accostò lentamente al fuoco e si slacciò il mantello, intriso d’umidità.

— Chi siete? — chiese infine Sybel. — Che cosa volete da me?

— Il mio attuale nome è Mithran — rispose il mago — ma in passato ne ho avuto molti altri. Ho servito molti Principi di regni lontani; li servo sempre bene, tranquillamente… se sono potenti. Se invece non lo sono, li uso per raggiungere i miei scopi.

Lei lo fissò negli occhi.

— Chi servite, adesso? — mormorò.

Agli angoli della bocca del mago, il sorriso sottile come un filo di seta tremò impercettibilmente.

— Fino a questo momento — disse — ho servito un altro. Ma ora, forse, potrei servire me stesso.

— Chi avete servito?

— Un uomo che vi teme e vi desidera nello stesso tempo.

Lei aprì la bocca; era rimasta senza parole per la sorpresa. Poi chiese: — Drede?

— Perché tanto stupore? — chiese il mago. — L’avete chiamato a voi due volte, costringendolo a lasciare la sua casa con tanta abilità da non fargli neppure riconoscere l’impulso che lo muoveva. Sta lottando per conservare il suo potere sull’Eldwold, e la sua unica arma, contro i sei Principi del Sirle, è il suo giovane figlio.

— Gli avevo assicurato che non mi sarei mai intromessa nelle sue cose! Perché teme che mi metta contro di lui, che è il padre di Tamlorn?

— Perché non dovreste farlo, visto che un biondo Principe del Sirle vi corteggia con parole dolci? Avete allevato Tamlorn, ma avete anche una vita vostra a cui pensare. Siete potente e… bellissima, come la preziosa formula di un incantesimo di un antico codice ingemmato. Drede teme che un impulso, prima o poi, finisca per portarvi verso Coren del Sirle.

— Coren… — Si coprì gli occhi con le mani e si accorse di avere le dita gelate. — Ho assicurato a Drede…

— Non siete fatta di pietra.

— No. Sono fatta di ghiaccio.

Si allontanò dal fuoco e si fermò davanti a un tavolo di cristallo, posando poi le mani sulla sua liscia superficie.

— Voi conoscete bene la mia mente — disse. — Siete colui che la conosce meglio. In passato ho dovuto prendere alcune decisioni importanti e difficili, ma alla fine ho sempre deciso di usare i miei poteri per me stessa, senza danneggiare nessuno. Perché Drede non lo capisce?

— Voi amate Tamlorn. Perché dite di non poter amare Coren del Sirle? Siete capace di amare, e questa è una debolezza pericolosa.

— Non amo Coren!

Mithran si allontanò dal fuoco per accostarsi a lei. La fissò con occhi indecifrabili.

— E Drede, lo amate? Farebbe di voi la sua Regina.

Sybel si sentì arrossire. Fissò le coppe d’argento posate sul tavolo.

— Mi sono sentita leggermente attratta da lui — confessò. — Ma non sono disposta a sedere mansueta al suo fianco e a utilizzare il mio potere come piace a lui, per la rovina del Sirle… No!

La voce calma e dominatrice di Mithran continuò a incalzarla, inflessibile:

— E lui ora mi paga perché vi renda mansueta come avete detto.

Quando Sybel udì questo, le braccia le caddero lungo i fianchi. Si voltò verso l’uomo, pallida in volto, socchiudendo gli occhi come se stesse cercando di afferrare le parole di un incantesimo a lei ignoto.

— Drede… vuole…

— Vuole che gli obbediate. Vuole potervi amare senza dubbi, potersi fidare pienamente di voi, fidarsi di voi più di qualsiasi altra persona al mondo. E poiché vi conosce, pensa che ci sia soltanto un modo per ottenerlo. Pagarmi per farlo.

Nell’animo di Sybel si destò una paura più profonda e agghiacciante di quante ne avesse mai conosciute prima. Un terrore che le inviò nel sangue e nella mente sottili radici di gelo.

— In che modo? — chiese, con gli occhi pieni di lacrime.

— Potete immaginarlo. Sybel. Questo nome significa tante cose: ricordi, conoscenze, esperienze. È la vostra proprietà più autentica e irrevocabile. Drede mi ha assunto perché vi tolga questo nome per un breve periodo, e perché poi lo restituisca a un’altra donna, che lo accetterà sorridendo e che gli obbedirà per sempre, senza fare domande.

Sybel emise un gemito così roco e straziante che non riuscì neppure a riconoscere la propria voce. Cadde in ginocchio, portandosi le mani al viso. Ansimò, cercando le parole a fatica:

— Aiutatemi… nel dolore non riesco neppure più a riconoscermi…

— Non avete mai pianto così, in precedenza? — chiese l’uomo. — Siete fortunata. Vedrete che passerà.

Sybel strinse i denti per smettere di piangere, e serrò tra le dita la stoffa del mantello. Poi sollevò la testa verso il mago, e il fuoco la illuminò in faccia.

— Portatemi da lui — disse. — Farò quello che desidera. Ma non toglietemi la volontà. Lo sposerò, obbedirò a tutti i suoi ordini… ma lasciatemi la libertà di farlo perché lo voglio!

Gli occhi verdi e imperscrutabili si posarono su di lei. Dopo un istante, anche il mago si inginocchiò; le passò le dita sulla guancia e guardò una lacrima che aveva raccolto sul polpastrello, e che brillava come una stella.

— Una volta — disse — anch’io ho pianto così. Molti anni fa, quando le ceneri degli anni dell’amore e dell’odio si erano ormai raffreddate dentro di me. Ho pianto al pensiero del volo del Liralen, perché sapevo che, pur avendo in mio potere tutta la terra, quella creatura di immacolata bellezza mi era per sempre preclusa. Non pensavo che oggi avrei avuto in mio potere un’altra bellezza come quella. Il Re mi chiede di consegnarla a lui… ma è un uomo così piccolo, per domare tanta libertà…

— Mi permetterete di parlargli?

— Come può fidarsi di voi? Una volta si è fidato di Rianna, e lei lo ha tradito. Questa volta non vuol correre il rischio. Ha paura di voi ed è geloso di Coren. Ma ricorda che la vostra guancia si è arrossata quando ve l’ha sfiorata con la mano; inoltre, il giovane Principe Tamlorn vi ama. Perciò Drede desidera avervi: non priva di poteri, ma… controllabile.

— Che cosa vi dà, in cambio?

Gli occhi immobili del mago si illuminarono leggermente in un sorriso.

— Tutto questo… — disse. — Ricchezze, ore di ozio nel lusso, i vostri animali, se annienterò per sempre i Signori del Sirle. Ma non ho ancora deciso se farlo.

— Perché non ha paura di voi? — mormorò Sybel. — Io sì.

— Perché, quando ci siamo parlati la prima volta, non aveva altre cose che potessi desiderare. Adesso, però, non ne sono altrettanto sicuro.

— Perché, che cosa vorreste?

— Cercate di comprare da me la vostra libertà? — chiese Mithran.

— Non posso comprarla da voi! Dovreste donarmela liberamente. Se non altro, almeno per pietà.

Lui scosse la testa, lentamente.

— Non conosco più la pietà — disse. — Nei vostri riguardi, provo solo un timore reverenziale. Avete una mente potente, unica nelle sue conoscenze, perché l’esperienza della mente è segreta e non si può condividere.

“Sono stato in deserti sotto l’occhio della luna; nelle corti dei ricchi signori, dove suonano i flauti e dove i tamburi battono come cuori… Sono stato su alte montagne, nelle piccole capanne delle streghe, a osservare i loro occhi ardenti e la loro faccia bruciata dal fuoco; ho parlato con il gufo, con il falco bianco come la neve e con il nero corvo; ho parlato con gli sciocchi, uomini e donne, che abitano a migliaia nelle città affollate; ho parlato con regine dalla voce di ghiaccio. Ma non avevo mai pensato, in tutti i miei vagabondaggi, che potesse esistere una donna come voi.”

Sollevò la mano, e con l’anello le sfiorò i capelli. Lei si ritrasse leggermente, fissandolo a occhi sbarrati.

— Vi prego. Fatemi parlare con Drede.

— Forse… — disse il mago.

Poi si rizzò in piedi, allontanandosi.

— Alzatevi — le disse. — Toglietevi questo mantello bagnato e riscaldatevi. Ho vino e cibi caldi. Dietro quella tenda troverete un letto soffice su cui riposare… e qualcos’altro che vi appartiene.

Lei si alzò lentamente e scostò la bianca tenda. Vide il Falco Ter, appollaiato su un trespolo d’oro; i suoi occhi scintillanti la fissarono senza emozione. Sybel cercò la mente del rapace, formulò a fior di labbra il suo nome, ma Ter non le rispose, non si mosse.

Stancamente, Sybel si voltò verso il mago.

— Siete davvero forte, Mithran… È strano che io mi trovi qui, alla vostra mercé, perché dodici anni fa ho decìso di amare un bimbo innocente. Ho paura di voi e di Drede, ma la paura non potrà salvarmi, e non credo che altri mi possano salvare, tranne voi.

Il mago dalla veste nera le servì il vino. Alle finestre, i tendaggi si schiarivano ormai per l’arrivo dell’alba.

— Ve l’ho detto, non conosco più la pietà — rispose Mithran. — Mangiate. Poi riposerete un poco, e io vi porterò Drede. Forse in Drede potrete ancora trovare un po’ di pietà, ma dubito che un uomo impaurito fino alle radici della mente sia molto portato alla compassione.

Drede giunse quando ormai era mezzogiorno. Il rumore della serratura svegliò Sybel; sentì il Re chiedere a bassa voce:

— È fatto?

— No.

— Vi ho detto che non volevo parlarle finché non fosse fatto!

Il mago rispose, in tono gelido:

— Non ho mai fatto una cosa come questa. È contraria al mio modo di sentire. La rovinerete in modo irreparabile; sarà bellissima, docile, e userà il suo potere soltanto dietro vostro ordine.

— Le avete detto questo?

— Sì, ma non ha importanza. Dimenticherà. Ma desiderava parlare con voi… per implorarvi.

— Non voglio ascoltarla!

— Ve l’ho detto: per fare una cosa come questa, devo fare violenza a me stesso. Se dovrò portarne il rimorso, voglio che lo portiate anche voi, altrimenti non lo farò.

Drede non disse niente. Sybel si alzò in piedi e aprì la tenda. Il Re la fissò. Nei suoi occhi, Sybel lesse vergogna e tormento, e, al di sotto, la patina glaciale della paura. Rimase ferma per qualche istante, senza lasciare la tenda. Poi si recò da Drede e si inginocchiò ai suoi piedi.

— Vi prego — mormorò. — Vi prego. Farò tutto ciò che mi chiederete. Vi sposerò. Metterò in mano vostra i Signori del Sirle. Educherò Tamlorn e vi darò dei figli. Non metterò mai in discussione i vostri ordini; obbedirò senza fare domande.

“Ma non ordinate a quest’uomo di togliermi la volontà. Non ordinategli di cambiarmi la mente. È una cosa terribile, più ancora che se mi uccideste in questo momento. Anzi, preferirei morire. C’è una parte di me che assomiglia a un falco dalle bianche penne, libero, orgoglioso, selvaggio, a una creatura dell’aria che vola dove vuole, ansiosa di raggiungere le stelle luminose e il sole. Se ucciderete quell’uccello dalle bianche penne, sarò confinata alla terra, legata alle limitazioni degli uomini, senza parole mie, senza azioni mie. Prenderò per voi quel falco, lo metterò in gabbia. Ma lasciatelo vivere.”

Drede alzò una mano per coprirsi gli occhi. Infine si inginocchiò davanti a lei e le strinse le mani.

— Sybel, non posso fare diversamente. Vi desidero, ma ho paura di voi… ho paura di quel bianco falco.

— Vi prometto…

— No, ascoltatemi. Ho sempre avuto paura di coloro che ho in mio potere. Sono stato minacciato dai miei nobili, tradito da coloro che amavo, e non ho più nessuno a cui possa dire la verità senza timore. I miei uomini, le persone di cui mi dovrei fidare… li guardo negli occhi… in quei loro occhi misteriosi, privi di espressione… e sospetto di loro, temo il tradimento.

“Sono solo. Tamlorn è l’unico al mondo di cui mi fido, l’unico che amo. Voi, Sybel, potrei amarvi, e forse fidarmi di voi, ma prima devo essere certo della vostra fedeltà.”

Lei disse, con la gola secca:

— Non potrete mai esserne certo. Coloro che vi amano potrebbero ferirvi, senza per questo cessare di amarvi. Ma adesso, per essere sicuro del mio amore, intendete togliermi tutto l’amore che potrei darvi liberamente. Quel bianco falco si chiama Sybel. Se lo ucciderete, io morirò, e voi avrete solo uno spettro che vi guarderà con i miei occhi. Invece, lasciatemi vivere e fidatevi di me.

Drede chiuse gli occhi.

— Non posso — disse. — Una volta mi sono fidato di Rianna, e lei mi ha tradito con un sorriso. Mi sorrideva e mi baciava il palmo della mano, e intanto mi tradiva per gli occhi azzurri di un Principe del Sirle. Anche voi mi sposereste, per poi tradirmi con Coren…

— No!

— Come esserne certo? Un giorno entrerà sorridendo nel vostro giardino, voi gli restituirete il sorriso, e tutte le promesse fatte a me si disperderanno come foglie al vento.

— No. Voi parlate di Rianna e non di me. Io non ho niente a che vedere con Rianna e Norrel. Lasciatemi andare! Vi prego! Ritornerò nella mia casa sulla montagna, e questo mago la circonderà con un muro che io non potrò oltrepassare. Lascerò l’Eldwold! Farò qualsiasi cosa.

Drede bisbigliò a denti stretti:

— Sybel, vi sogno tutte le notti, e poi mi sveglio e piango. Mithran farà in fretta, e poi sarete con Tamlorn…

— No…

Drede si alzò in piedi. — Farà in fretta…

— È deciso, dunque — mormorò lei, tremante. — Non potrò mai più amare, dopo di oggi. E sono la prima, di tre maghi, che abbia imparato a farlo. Tenterei di uccidermi, ma so che non mi sarà lasciata neppure questa piccola scelta. Spero che paghiate bene questo mago, perché è un servigio che non ha prezzo, che non ha uguali.

Per un attimo, Drede rimase a fissarla senza parlare. Poi le voltò le spalle; Sybel sentì il fruscio dei suoi piedi sulle pelli che coprivano il pavimento, poi il rumore sonoro dei suoi passi sugli scalini di pietra della scala a chiocciola. La porta si chiuse, la serratura scattò, e lei, nell’udire questo suono, gemette atterrita e disperata.

— Alzatevi, Sybel.

Lei si alzò, incerta sulle gambe. Mithran si recò al tavolo, versò del vino. Gliene porse una coppa e si mise a sedere, osservandola, centellinando il vino.

— Sedete — le disse il mago.

Sybel obbedì e gli chiese, parlando alla coppa:

— Datemi qualche minuto di libertà.

— Perché vi possiate allontanare per sempre da questo mondo? No. Avete un valore troppo grande.

— Lasciatemi nella mente un angolino libero.

— Per amare?

Lei alzò gli occhi.

— Per odiare — sussurrò.

Passò le dita sull’orlo della coppa, come per sentire la tessitura del suo argento lavorato.

— In quell’angolino — proseguì — potrei coltivare un odio capace di distruggere l’Eldwold pietra su pietra, lasciando un deserto che poi i Signori del Sirle si contenderebbero per secoli. Metterei il Re in ginocchio, così come lui ha messo in ginocchio me.

Gli occhi verdi del mago la fissarono impassibili.

— E io? — chiese. — Mi odiate?

Lei lo guardò con disprezzo. — Voi siete troppo vile per meritare il mio odio.

Lui appoggiò i gomiti al tavolo, e la gemma del suo anello lampeggiò sinistramente. All’improvviso, serrò le labbra.

— Quel Re è uno sciocco. Sapete che una volta mi avete rubato un libro?

Lei sbatté gli occhi.

— Davvero? Se l’avessi fatto, mi ricorderei di voi.

— Il libro degli incantesimi del mago Firnan. Eravate convinta che la stanza fosse vuota. Una stanza solitaria e fredda, alla corte di un piccolo signorotto, nei pressi della Palude di Fyrbolg. Ma io ero presente. Vi ho vista entrare, silenziosa come se foste stata fatta d’aria.

“Avete guardato i miei libri, avete prelevato quello, e ve ne siete andata. Così in silenzio che io sono rimasto a guardare per ore, dopo la vostra scomparsa, in quel punto. Non conoscevo il vostro nome. Non sapevo neppure se vivevate nell’Eldwold. Sapevo soltanto che eravate apparsa davanti a me come un sogno che non avrei mai osato sognare… perciò mi sono messo ad ascoltare, a rivolgere domande qua e là, e così ho saputo di voi.”

Lei lo fissò, perplessa.

— Perché allora mi avete chiamato per Drede?

— E stato lui, alla fine, a dirmi chi dovevo chiamare. Vedete, non sono uno sciocco. Se fossi salito da voi sulla montagna, avreste potuto accettarmi oppure no. Oggi, invece, la risposta che potete darmi è una sola.

“Io vi desidero. Se devo avervi con la forza userò la forza, anche se, data la vostra attuale situazione, non credo che possiate opporvi. Sono forte; le mie conoscenze sono inesauribili. In passato ho amato e ho odiato, ma da anni non trovavo più niente che destasse il mio interesse, finché non ho visto voi.

“Potrei dividere con voi i miei pensieri e le mie esperienze. Un tempo ho amato una donna per la sua bellezza, ma non ho mai pensato che mi succedesse di nuovo. È come se… è come se voi foste fatta per me.”

Lei lo fissò senza capire. Riprese a tremare. Mithran le disse:

— Bevete.

Lei bevve. Poi appoggiò i gomiti al tavolo e si prese la testa fra le mani. Mithran la fissava.

— Allora?

— In parte — disse lei — la colpa è mia. Maelga mi aveva avvertito.

— Guardatemi.

Lei sollevò la testa e lo fissò senza parlare. Mithran aggrottò leggermente la fronte.

— Occorre pensarci tanto? — le chiese.

— Non sto pensando. Nella mia mente c’è solo il vuoto.

— Sybel, scegliete.

— Per me, non ha importanza. Scegliete voi! Se mi volete, prendetemi… se non mi volete, datemi a Drede. Che cosa devo fare? Ringraziarvi per avermi concesso un posto nel deserto del vostro cuore? Drede, almeno, posso capirlo, ma voi… voi siete più gelido di me.

— Davvero? — sibilò lui. Poi riprese il controllo di se stesso, e le sue labbra ritornarono impassibili. — Bianco falco, sapete che non potrò mai consegnarvi a quel Re. E che non vi spezzerò la mente perché obbediate a lui o a me.

— Me l’avete già spezzata! — esclamò lei. — Sono un falco bianco legato a un filo d’argento, che accorre al vostro richiamo. Avrò paura di voi per tutta la vita, tanto grande è il vostro potere sui miei più riposti pensieri.

“Quello che farete di me, perciò, non ha più nessuna importanza. Volete che vi implori perché mi salviate da Drede? Mi metterò in ginocchio davanti a voi, se volete, ma non potrò ringraziarvi di avermi salvato, se dovrò essere incatenata a voi.”

— E non potreste… cercare di amarmi?

— Io non amo nessuno! Non amerò mai nessuno! Scegliete voi chi mi avrà: dovrò essere di Drede, indifesa e sorridente, oppure vostra, indifesa e impaurita?

Mithran rimase per qualche istante in silenzio, mentre lei lo fissava. Poi disse lentamente, sollevando una mano:

— Non dovrete avere paura di me, Sybel. Vi insegnerò antiche arti magiche e incantesimi che non vi sareste mai sognata di imparare. Vi darò cose meravigliose: la gemma porporina a forma di occhio fabbricata dalla strega Catha e capace di vedere all’interno delle scatole e delle stanze chiuse; il mantello azzurro, fatto con le pelli dei gatti di montagna di Lomar, morbido come un sospiro, caldo come il tocco di un labbro…

“Vi darò i libri sigillati del mago Erden, che non sono più stati aperti dal momento della sua morte, avvenuta tre secoli fa, e vi insegnerò come si aprono…”

Le parole di Mithran le giungevano nella mente come sogni; si sentì cullare… tranquillizzare…

— Catturerò per voi la gazzella alata del Deserto Meridionale, che ha gli occhi stellati come il cielo notturno… Dormirete su lane e sete purpuree, porterete gioielli color del cielo, con al centro un fuoco rosso o azzurro…

Come da molto lontano, vide che il mago si alzava lentamente in piedi, silenzioso come un’ombra, e che si avvicinava a lei. Mithran continuò a parlarle a bassa voce, intessendo visioni che si fermavano a lungo nella sua mente indebolita. Poi sentì che le accarezzava i capelli.

— Vi darò l’arpa dalle corde d’argento di Thrace, Signore di Tol, che suona a comando, cantando le storie dimenticate di gloriosi Re del passato…

Ormai, Mithran le bisbigliava all’orecchio. Dentro di lei, qualcosa si mise a gridare, debole come il pianto di un bimbo nella notte, e poi svanì, dimenticato. Si sentì sfiorare la gola dalle sue mani, vide muoversi e tremare alla luce del fuoco il monile che le fermava sulla spalla l’orlo della veste.

— Vi darò la Coppa della Fortuna che fu scagliata dal Principe Verne nel fondo del Lago Perduto perché gli aveva predetto che sarebbe morto sotto le onde…

Sentì che le cuciture della sua veste si laceravano sotto le mani nervose del mago. Sentì che la voce di Mithran si spezzava:

— Vi darò tutti i tesori del mondo… tutti i suoi segreti… Sybel, mio bianco falco…

Mithran abbassò la testa, e Sybel si sentì le sue labbra sul collo, sempre più giù.

E si accorse che, in quell’istante di passione sempre più affannosa, a Mithran era sfuggito il dominio che aveva continuato a esercitare su di lei.

In quell’attimo, senza più sperare, quasi senza pensare, Sybel bisbigliò un nome.

Il mago sollevò di scatto la testa per fissarla con occhi di fiamma. Si staccò bruscamente da lei e fece per voltarsi, solo per trovarsi davanti il Blammor dagli occhi di cristallo. Lanciò un solo urlo, e poi il Blammor lo coprì come una nebbia e lo tenne sollevato nell’aria. Mithran allargò per un istante le braccia, tese convulsamente le mani, e poi scivolò a terra.

Il Blammor chiese a Sybel:

“Avete bisogno d’altro?”

Tremante, lei riuscì solo a fissare il corpo del mago. Cercò a tastoni i lembi della sua veste e tentò di riunirli.

“No” disse. “Non più.”

Il Blammor svanì.

Accanto alla tenda, il Falco Ter lanciò un grido di collera. Il corpo del mago giaceva supino, e ogni osso della sua faccia, della sua gola, delle sue mani era frantumato e spezzato.

Ter calò su di lui, gli si posò sulla testa, e trafisse con gli artigli i suoi occhi ancora spalancati.

— Ter — chiamò Sybel, e il Falco volò fino a lei, per fermarsi sullo schienale della sua sedia.

Sybel si alzò in piedi, ancora tremante per la reazione nervosa, e s’infilò il mantello. Le giunse alla mente la voce di Ter, rossa di collera:

“Drede, adesso.”

“No.”

“Drede.”

“No.” Si recò alla porta, aprì con mani febbricitanti il saliscendi e spiegò al Falco:

“Drede è mio.”

7

Sybel fece ritorno a casa, cavalcando lentamente sulla neve, con il Falco che descriveva grandi cerchi nell’aria al di sopra della sua testa: a volte Ter saliva fino ad altezze tali da ridursi a una debole stella nera del cielo pomeridiano, poi, da lassù, calava in picchiata, veloce come il lampo.

Sybel non parlò con nessuno e continuò a cavalcare con lo sguardo assente; nessuno di coloro che l’incontravano sulla strada pensò di fermarla. Quando giunse al sentiero che portava alla sua montagna, il sole era al tramonto.

La sera stendeva sulla neve una luce argentea quando lei s’inoltrò nella sua foresta; e le stelle iniziavano la lenta ascesa che le avrebbe portate sulla grande, oscura cima del Monte Eld. Non spirava il minimo alito di vento; intorno a Sybel, le alte cime degli alberi rimanevano immobili e i loro rami coperti di neve brillavano alla luce delle stelle. Infine, in mezzo ai tronchi, comparve la casa di Maelga, minuscola, con le finestre illuminate dalla luce del focolare.

Sybel diresse il cavallo verso il cortile della casetta. Quando smontò di sella, Maelga si affacciò alla porta, tra lo sfavillio degli anelli che portava alle dita.

— Sybel — disse.

Sybel la fissava senza parlare, e Maelga le si avvicinò, scrutandola con i suoi occhi acuti. Le accarezzò il viso pallido e immobile.

— Sei proprio tu?

— Il mago è morto.

— Morto! E come è successo, bambina? Temevo di non rivederti più.

— Il Rommalb.

Maelga si portò la mano alla bocca.

— Hai catturato anche quello?

— Sì. E adesso il mago Mithran giace stritolato sul pavimento della sua torre, e credo… credo che neppure un osso delle sue dita sia rimasto intero.

— Sybel…

La giovane donna rabbrividì. — Fammi entrare. Devo riposarmi, almeno per qualche momento.

Maelga la prese sottobraccio e la condusse all’interno della casa, accanto al focolare. Sybel si lasciò scivolare accanto al fuoco. Faticava a tenere gli occhi aperti. Sentì che qualcuno le sfiorava la gola per toglierle il mantello e trasalì involontariamente.

— No…

Maelga si fermò. Sospirò, poi le accarezzò la guancia, e Sybel si alzò in piedi. Si sciolse i lacci del mantello e lo diede a Maelga.

— Mi ha strappato il vestito. Coren è ancora a casa mia?

— Te lo cucirò io. Sì, Coren è ancora lì. Quando si è accorto che eri sparita, è venuto a dirmelo. Se la prendeva con se stesso perché non è riuscito a rimanere sveglio.

— Io, invece, sono lieta che si sia addormentato.

Per un lungo periodo non disse più niente, limitandosi a fissare le fiamme. Maelga continuò a guardarla, dondolando silenziosamente sulla sedia, mentre la notte si infittiva attorno alla casa e la faccia di Sybel si riduceva a un profilo d’ombra sullo sfondo del fuoco.

Infine, la vecchia disse piano:

— Sybel, a cosa stai pensando? Quali pensieri cupi?

Sybel si scosse dalle sue riflessioni.

— Cupi come la notte — bisbigliò.

In quel momento si udì un calpestio di passi, nel cortile, e poi il nitrito allegro del cavallo di Coren.

Sybel si alzò in piedi, e la veste strappata le si aprì sul petto. Andò alla porta, e Coren, che stava accarezzando il collo del cavallo, si girò e la vide incorniciata nella luce. Corse verso di lei, la avvolse nel suo mantello, l’abbracciò e affondò la faccia nei suoi capelli, finché lei si sentì correre sulle guance le lacrime del Principe.

— Anch’io ho pianto e sofferto.

— Sybel, ti sei allontanata da me come un sogno, silenziosamente e irrevocabilmente… non resistevo, non resistevo…

— Adesso sono al sicuro.

— Ma… come hai fatto, Sybel? Chi era?

— Vieni dentro. Ti spiegherò.

Coren sedette accanto a Sybel, vicino al focolare di Maelga, e intrecciò le dita nelle sue, incapace di staccarsi da lei. Anche Maelga, che si muoveva silenziosamente nella stanza per affettare del pane e per preparare qualcosa di caldo, ascoltò con interesse il racconto della sua ragazza.

— È stato il mago Mithran. Hai mai sentito questo nome?

Coren scosse la testa.

— Mi ha visto una volta, molto tempo fa, quando gli ho rubato un libro. Mi desiderava, e non mi ha lasciato scelta. Gli ho chiesto di avere pietà di me, ma in lui non ne era rimasta.

“Aveva una mente grandissima, anche se da tempo non trovava avversari degni di lui ed era indebolito dalla noia e dall’amarezza. Io non sarei mai riuscita a sfuggirgli, non avrei mai potuto combatterlo, e sarei sempre vissuta nel timore di lui.

“Ma ha fatto un errore. Si è dimenticato del Rommalb. E quello è stato l’unico nome che mi è venuto in mente, quando ha perso il controllo di se stesso e mi ha lasciato libera per un attimo. Così, è morto.”

— Ne sono lieto.

— Anch’io… a parte il rimpianto per il grande sapere di quell’uomo. Mi spiace di non averlo incontrato in qualche altra occasione. Era addirittura più potente di Heald, e avrebbe potuto insegnarmi molte cose.

Coren, accanto a lei, cambiò leggermente posizione.

— Non hai bisogno di un così grande potere per tenere i tuoi animali — disse. — Che cosa te ne faresti?

— Il potere crea nuovo potere. Io non posso cancellare il mio desiderio di conoscere cose nuove, di imparare. Ma non sarei mai riuscita a vivere con lui. Quell’uomo… non mi amava.

— Allora — chiese Coren — questo ha importanza per te!

— Certo — rispose Sybel.

Si voltò a guardarlo, sorridendo, e ripeté:

— Ha importanza.

Coren trasse un lungo respiro, rabbrividendo.

— Morivo dal desiderio di venire a cercarti — mormorò — ma non sapevo dove. Persino la neve era scesa a coprire le tue tracce. Quando mi sono svegliato, il fuoco era spento e tu eri sparita.

— Coren — disse lei — non avresti potuto fare niente. Per te, Mithran non avrebbe avuto nessuna pietà. Non l’ha avuta neppure per me, e io sarei stata costretta ad assistere, impotente, mentre ti uccideva. E allora, al mio ritorno, non avrei trovato nessuno ad abbracciarmi.

— Sybel… — S’interruppe, per trovare le parole giuste. — Tutto il mio amore è tuo. Per te avrei dato la vita. E adesso, per te, intendo rinunciare a un’altra cosa: ai miei anni di odio per Drede.

“Se accetterai di venire con me nel Sirle, nessuno ti chiederà cose che non desideri fare. Non voglio più sentirti avere bisogno di me e non sapere dove cercarti. Non voglio dover scoprire, svegliandomi, che sei partita.”

Lei lo fissò in silenzio, e il giovane, per un momento, ebbe l’impressione di scorgerle negli occhi un’ombra di distacco.

Poi l’ombra svanì, e Sybel si portò alle labbra la mano di Coren.

— E io — sussurrò — non voglio più vederti partire per il Sirle senza di me.

Lasciarono insieme il Monte Eld, l’indomani mattina, per andare a sposarsi nel castello della famiglia di Coren.

Il lungo inverno stava per finire e le nevi cominciavano a sciogliersi. Cavalcarono avvolti in pesanti mantelli di pelliccia, sotto un cielo illuminato dal sole, in mezzo alla neve bianca. Il Falco Ter volava alto sopra di loro, e le sue ali erano nere sullo sfondo del cielo.

Passarono vicino a Mondor, attraversarono la vasta Piana di Terbrec, e giunsero infine nelle foreste del Sirle, dove passarono la notte in una casa che sorgeva ai margini di una radura e che era per metà una fortezza: un avamposto del Sirle.

Nel corso della mattinata seguente giunsero nel cuore della regione, una distesa di campi attorno alla grande ansa del Fiume Slinoon. Da lì, scorsero in lontananza le mura e le grigie torri di pietra e i camini fumanti della dimora dei Signori del Sirle.

Scesi da cavallo, si fermarono per qualche tempo a riposare. Coren prese tra le mani la faccia di Sybel, la fissò negli occhi scuri.

— Sei felice? — le chiese.

Poi, al sorriso di lei, la sua gioia sbocciò come un fiore. Le baciò le palpebre, mormorando:

— Occhi più neri della gemma che ornava il pomo della spada di Re Pwill… la gemma che era sempre stata bianca come il fuoco, ma che divenne improvvisamente nera alla sua morte…

— Coren!

La lasciò, ridendo. La neve ingioiellata dal sole pareva stendersi abbagliante fino ai confini del mondo. Tutt’attorno a loro, le uniche cose che si muovessero erano il respiro dei cavalli e il fumo che usciva pigramente dai comignoli del castello.

Sybel fissò quella lontana costruzione, socchiudendo leggermente gli occhi per proteggerli dalla luce.

— Quella sarà la mia casa… — disse. — Sarà strano vivere in una pianura, fra tante persone. Io non sono abituata alla presenza della gente. Ed è una costruzione così grande e così grigia. A che cosa servono le torri che sorgono lungo le mura di cinta?

— Guardiole per le sentinelle, magazzini per le scorte di cibo, armerie per un eventuale attacco o per un assedio. I Signori del Sirle non si sono mai sentiti molto tranquilli, fra i loro vicini. Ma da quando siamo stati sconfitti nella Piana di Terbrec, parliamo tanto e combattiamo poco.

— E come sono i tuoi fratelli? Sono tutti uguali a te?

— In che senso, uguali a me?

— Generosi, gentili, saggi…

— E io — disse lui — sarei tutte queste cose? In passato ho ucciso e ho odiato, e di notte sono rimasto sveglio a sognare la vendetta…

— Ho incontrato tanta e grande malvagità — disse lei — ma in te non ne ho vista.

Gli sorrise, ma il ricordo l’aveva amareggiata. Lui le accarezzò i capelli.

— Dietro le spesse e antiche mura della casa di Rok non ti troverebbe nessuno, se tu non volessi farti trovare. Vieni. I miei fratelli parlano a voce alta e sono segnati dalle cicatrici delle battaglie, sono sciocchi e impulsivi come me, ma nella loro casa si ride: ti daranno il benvenuto semplicemente perché ti amo.

Cavalcarono lentamente lungo i campi addormentati sotto la crosta di neve, e videro che, nei punti maggiormente esposti al sole, qualche fazzoletto di neve si era già sciolto, rivelando la terra scura. Seguivano una strada che passava sulla riva del Fiume Slinoon e che portava al castello dei Signori del Sirle. Un ragazzo con un arco sulla spalla, che correva lungo i campi vuoti, li vide arrivare, e gridò una parola che rimase sospesa nell’aria come un respiro d’inverno. Poi si mise a correre verso il castello, precedendoli; il cappuccio, sollevandosi a tratti sulla sua testa, rivelò una folta massa di capelli neri.

— Quello è Arn — disse Coren. — Il figlio di Ceneth.

— Ci sono molti bambini? — chiese Sybel.

Lui annuì. — Ceneth ha anche due bimbe più piccole. Il primogenito di Rok, Don, ha quindici anni ed è ansioso di prendere parte alla sua prima battaglia. Oltre a Don, Rok ha quattro figlie. La moglie di Eorth ha appena messo al mondo il primogenito, Eorthling. Herne e Bor abitano nella zona settentrionale del Sirle. E anche noi, tu e io, avremo dei figli: tanti piccoli maghi, che ci riempiranno la casa.

Lei annuì, sovrappensiero. Davanti a loro, al di là delle porte aperte, si vedevano varie persone che attraversavano in tutte le direzioni il cortile coperto di neve. Ai piedi delle mura si scorgeva un largo fossato, colmo dell’acqua del Fiume Slinoon, e che poi andava a irrigare i campi.

Nel cortile c’erano alcuni cavalli sellati, pronti per partire; da una bottega di maniscalco subito dietro le mura uscì improvvisamente una grande nuvola di vapore, che subito svanì. Arn attraversò di corsa il ponte levatoio e scomparve. Ricomparve qualche minuto più tardi, accompagnato da un uomo che si fermò accanto alla porta del castello, in attesa del loro arrivo.

— Rok.

L’uomo li raggiunse sul ponte. Prese le redini del cavallo di Coren e fissò Sybel. Coren smontò di sella. Rok era un uomo di alta statura, con le spalle molto larghe, folti capelli color oro chiaro e la faccia coperta di rughe, imperturbabile come i suoi occhi castani. La sua voce, nonostante la spropositata ampiezza del suo petto, era straordinariamente dolce.

— Ti aspettavo di ritorno da Hilt, quattro giorni fa. Cominciavo a preoccuparmi. Ma adesso vedo che non ce n’era ragione.

Si avvicinò a Sybel e le prese la mano.

— Voi siete Sybel — disse.

— Come lo sapete?

— Perché abbiamo combattuto sulla Piana di Terbrec per una donna che vi assomigliava. Siate la benvenuta nel Sirle.

Lei sorrise, e guardandolo negli occhi vi lesse, al di sotto della calma, un debole, rovente senso di trionfo.

— E voi — gli disse — siete il Leone del Sirle, come vi chiama Coren. Sono lieta che mi abbiate dato il benvenuto, dato che il mio arrivo era inatteso.

— Ho imparato ad attendermi da mio fratello Coren le cose più inattese.

— Rok — disse Coren, tranquillamente. — Siamo qui per sposarci. Sybel viene qui per essere mia moglie.

Rok, per un momento, guardò in basso, poi sollevò nuovamente gli occhi, sorridendo.

— Capisco — disse. — Come hai fatto a convincerla?

— Non è stato facile. Ma alla fine ci sono riuscito.

Alzò le braccia verso Sybel e la posò a terra. Arn si avvicinò a loro per prendere i cavalli, e fissò la sconosciuta incuriosito. Dietro il ragazzo giunse una donna alta, dai capelli rossi pettinati in due grandi trecce che si perdevano tra le pieghe della sua ricca veste verde e oro. Coren fece le presentazioni:

— Lynette, ti presento…

— Lo so, lo so. — Abbracciò il cognato, ridendo. — Credi che non riconosca quei capelli chiarissimi e quegli occhi scuri? Lei è Sybel e siete venuti per sposarvi. Ecco cosa stavi complottando, mentre noi eravamo preoccupati per te.

— Non vedo perché preoccuparsi. Sybel, ti presento la moglie di Rok, Lynette.

— Andare in qualche strano luogo a inseguire un sogno ad occhi aperti è una cosa — disse Lynette, baciando Sybel sulla guancia. — Ma andare a Hilt e non fare ritorno è un’altra. Sybel, mi sembrate stanca. Dev’essere molto faticoso viaggiare con questo freddo.

Coren le mise un braccio sulle spalle e Sybel si appoggiò a lui, senza pensare a niente, limitandosi ad assaporare la levigatezza del mantello di pelliccia contro la sua pelle.

Coren spiegò: — In questi ultimi giorni ha avuto molte preoccupazioni. C’è qualche posticino dove può riposare un poco?

Sybel raddrizzò la schiena.

— No, Coren — disse — mi fa piacere sentire tante voci amiche. E devo ancora conoscere gli altri tuoi fratelli e i loro figli.

Lynette rise.

— Li conoscerete — disse. — Venite. Potrete riposare nella mia stanza, mentre faremo preparare delle camere per voi e per Coren.

Percorsero il ponte levatoio, seguiti da Arn con i cavalli, e il trambusto che regnava nel cortile s’interruppe al loro passaggio.

Una porta più piccola conduceva al cortile interno: un vasto spazio quadrato, con alberi senza foglie che incidevano sulla neve un bassorilievo di ombre. Un uomo aprì il doppio battente da cui si accedeva all’interno del castello e scese alcuni scalini verso di loro. Aveva i capelli neri come l’ala di un corvo; i suoi occhi, verdi come smeraldi, sorrisero a Coren.

— Poco fa è arrivato Arn, dicendo che eri tornato. Era eccitatissimo; ho pensato che, dopo avere disturbato qualche misterioso mago nei tuoi vagabondaggi, tu fossi tornato a casa con due teste.

— Vedi come mi prendono in giro — disse Coren a Sybel. — No, Ceneth. Questa volta, il mago è tornato a casa con me. Adesso dovrai mostrare maggiore rispetto per i miei viaggi.

— Davvero. Voi siete la maga del Monte Eld — disse Ceneth.

Rimase per qualche istante a osservare Sybel, meditabondo, con uno strano sorriso che ricordava quello di Rok.

— Coren ci ha molto parlato di voi — riprese. — Anzi, non ha più smesso di nominarvi, da quando è tornato a casa con qualche cicatrice in più, dopo la battaglia con il vostro drago.

— Se non fosse stato per il Drago Gyld, non mi avrebbe mai lasciato mettere piede in casa sua — disse il giovane. — Ma dov’è Eorth? E Herne e Bor, sono qui?

— Sono a caccia — disse Rok. — Presto saranno di ritorno.

Poi sobbalzò nell’udire un frullare d’ali al di sopra della sua testa. Era il Falco Ter, che andò a posarsi sulla spalla di Coren e che prese a osservarli con i suoi occhi freddi e luminosi.

— Di chi è quel falco? — chiese Rok. — Non è uno dei nostri… è troppo grosso.

— È il Falco Ter — mormorò Coren, spostando la testa per fare posto al rapace. — Una volta ha ucciso sette uomini.

Si rivolse a Sybel:

— Che cosa pensa? — le chiese. — Voglio saperlo.

— Sette uomini… — mormorava intanto Ceneth, incredulo, fissando Sybel. — È vostro?

Lei annuì. — Mio padre, Ogam, lo ha chiamato a sé.

— È libero?

— L’ho dato a Tamlorn, ma risponde ancora al mio richiamo, quando ho bisogno di lui.

Poi tacque, aprendo la mente al Falco, e Rok e Ceneth la osservarono intimoriti, senza parlare. Infine, Sybel tornò a guardare Coren.

— Mi ha portato notizie di Tamlorn — riferì. — Sta bene.

Dovrò scrivergli per fargli sapere dove mi trovo. Ho però l’impressione che farà fatica a comprendere. Credo che una parte di lui sia sempre convinta che la sua vera casa sia sul Monte Eld.

— Non penso che ci sia bisogno di scrivergli — disse Rok. — Nell’Eldwold, le notizie viaggiano in fretta.

— Davvero? Arrivavano assai lentamente fino a me, nella mia casa sul Monte. Comunque, preferisco scrivere a Tamlorn; deve avere la notizia da me.

— Capirà certamente — disse Coren, con gentilezza.

— Me lo auguro.

Ter volò via dalla spalla di Coren e si appollaiò ad attendere sul ramo di un albero spoglio; tutti entrarono nel castello, dove sedettero in una vasta sala. Il pavimento era coperto di pelli e di rami di pino, alle pareti erano appesi antichi arazzi e al centro c’era un grande focolare, attorno a cui ruzzavano alcuni bambini che si rotolavano a terra giocando con un cane.

Sybel si slacciò il mantello, liberando dal cappuccio i lunghi capelli, e i bambini si fermarono nel vederli cadere come una pioggia d’argento. Guardando Coren, vide che la osservava come uno sconosciuto, come se non l’avesse mai vista prima. Si sentì arrossire e dovette distogliere gli occhi. Lynette si fece dare il mantello. Coren le accarezzò una guancia e le disse:

— Va’ con Lynette. Io ti raggiungerò presto.

Le due donne uscirono; nel corridoio dietro la sala trovarono una scala di pietra che portava a una stanza grande e luminosa. Al centro scoppiettava un allegro focolare; accanto al fuoco c’erano due bambine piccole, con i capelli rossi di Lynette, che chiacchieravano tra loro con grande serietà. Una piccina di pochi mesi piangeva nella culla; Lynette la prese in braccio e scostò le tende che coprivano il letto.

— Lara, Marnya — disse — andate a giocare fuori. Ss, piccola Byrd, non piangere. Sybel, stendetevi qui sul letto, se vi sentite stanca. Vi farò portare del vino e qualcosa da mangiare.

Sybel si sedette sul letto. — Grazie, mi sento proprio esausta.

Poi, dopo un attimo, si alzò di nuovo in piedi, irrequieta, e si avvicinò a una delle finestre.

In distanza, dietro la Foresta del Sirle, vide brillare sullo sfondo del cielo la cima azzurrina del Monte Eld, e pensò che in mezzo a quella lontana coltre di neve c’era una casa bianca che ospitava strani, meravigliosi animali.

Lynette disse, dietro di lei:

— Lo so. Anch’io ho provato la stessa tristezza, tanti anni fa, quando ho lasciato la mia casa a sud di Hilt. Spero che qui sarete felice. Io sono lieta che siate venuta, per il bene di Coren, anche se non mi sarei mai aspettata di vedervi, soprattutto dopo che avete dato Tamlorn a Drede.

— Ho dovuto darglielo — disse Sybel. — Il ragazzo voleva stare con suo padre.

— Capisco. Eorth ed Erne hanno la testa dura… non capiscono come abbiate potuto dare a Drede un bambino che vi era stato portato da un Principe del Sirle. Per le persone come loro, il mondo si divide in Sirle e in Drede.

La bimba aveva smesso di piangere; lei se l’appoggiò sulla spalla. Poi sorrise, nel vedere lo sguardo di Sybel.

— Volete tenerla in braccio? — le chiese. — È la più piccola delle mie figlie.

Sybel sorrise.

— Avete capito il mio desiderio prima che me ne rendessi conto io stessa. Ci riesce anche Coren.

Prese in braccio la bambina e si sedette accanto al fuoco. Due occhi cauti, color castano dorato la fissavano dal basso.

— Anche Tamlorn era così piccolo quando l’ho preso… — disse Sybel. — E io ero così ignorante. Coren dice che più tardi ci sarà una cerimonia, una promessa. Che cosa dovrò fare?

— Niente — le disse Lynette. — Dovete soltanto essere bella e presentarvi al Signore del Sirle, ai suoi fratelli e alle loro famiglie; Rok vi unirà e poi ci sarà una festa. Avete portato qualche particolare vestito per l’occasione?

— No. Ho così poche cose. Non ho mai sentito il bisogno di qualche abito particolare, in passato.

Lynette la osservò sorridendo. — Vivete così semplicemente. Pensate di scrivere a Horst di Hilt per dirgli che sposate Coren?

— Perché dovrei farlo?

— È vostro nonno — spiegò Lynette, paziente. — Rianna era vostra zia; vostra madre era figlia di Horst.

Sybel disse, pensosa:

— Già. Ma non credo che abbia interesse per questa sua nipote, dato che Ogam ha chiamato mia madre nello stesso modo in cui ha chiamato a sé il Falco Ter o il Leone Gules. Comunque, bisogna che mi ricordi di scrivergli.

Vedendo che Lynette la guardava stupita, le sorrise.

— Non ho avuto un’educazione raffinata come quella che ha avuto Rianna — le spiegò. — Se mi scappa qualche frase che vi disturba, ditemelo pure. Ho sempre frequentato pochissima gente. Non mi aspettavo di gradire così tanto la compagnia delle altre persone.

Lynette annuì.

— Farò come dite — le promise. — Quando vi ho vista arrivare mi avete ricordato Rianna, e ho provato una grande pena, perché ho pensato nuovamente a Norrel. Ma adesso penso che siate assai diversa da Rianna. I suoi occhi erano timidi e gentili, mentre i vostri sono…

Glieli osservò un po’ perplessa, cercando la parola giusta. Sybel si sentì leggermente turbata.

— Coren dice che sono neri come il cuore di Drede.

Lynette batté le ciglia, sorpresa.

— Coren vi dice queste cose? Perché avete deciso di sposarlo, allora?

— Non lo so. Forse perché non mi veniva in mente nient’altro che mi attraesse di più.

Lynette annuì, sorridendo. Si fece ridare la piccola Byrd e la rimise nella culla.

— Scendo — disse a Sybel. — Dirò di portarvi quelle cose.

Uscì. Dopo qualche istante, nel silenzio della stanza, Sybel si alzò in piedi e si versò del vino. Si avvicinò alla culla e sfiorò con il dito la guancia della bambina. Poi si voltò e cominciò a passeggiare nervosamente avanti e indietro, tendendo l’orecchio per sentire se Coren saliva da lei.

Udì soltanto i rumori provenienti dal cortile, e, da lontane stanze, voci di bambini, le cui risate echeggiavano sulle pietre, fino a lei. Tenendo in mano la coppa del vino, scese nel corridoio e udì Coren, che diceva:

— No.

Si diresse verso quella voce. In fondo al corridoio c’era una porta aperta, da cui giungeva il mormorio di numerose voci maschili. Si fermò accanto alla soglia e spiò nella stanza, alla ricerca di Coren.

Lo scorse infine accanto al fuoco, all’altra estremità della sala. Poi, lentamente, sentendoli parlare, diede un nome anche ai cinque uomini che gli stavano attorno.

— Coren, adesso lei è qui. Per quale altro motivo l’avresti portata, altrimenti?

Colui che aveva detto queste parole, in tono offeso, era un uomo che parlava lentamente; era più alto di tutti gli altri e aveva i capelli color dell’oro e gli occhi verdi come le ali del Drago Gyld. Coren, un po’ irritato, ma paziente, gli rispose:

— Eorth, l’ho portata perché l’amo. Prova a pensare a lei come a un’altra qualsiasi donna del castello…

— Ma lei non è affatto come le altre donne del castello — disse Ceneth. — Pensi che si accontenterebbe di essere considerata una donna comune? Ha dei poteri; deve usarli. Perché allora non può usarli per noi?

— Contro Drede, eh? Ve l’ho già detto e ridetto. Non vuole che si combatta contro Tamlorn.

— E allora? Possiamo mettere Tamlorn sul trono di Eldwold con la stessa facilità con cui può mettercelo Drede.

— Grazie a lei — disse un uomo massiccio, con la faccia arrossata dal gelo e corti capelli argentei — possiamo avere aiuto da Hilt… perfino da Niccon. Nessuno oserebbe opporsi a noi.

— No, Bor.

— Coren — disse Rok — quest’autunno ti sei recato lassù appositamente per convincerla a venire qui. Adesso che l’hai fatto…

— Sì, ma non l’ho fatto per quello! Rok, due giorni fa, ho rischiato di perderla. È stata chiamata, attaccata da un mago potentissimo, e ho temuto di non vederla più. Quando l’ho vista tornare, le ho giurato che, se mai fosse venuta qui nel Sirle, nessuno avrebbe cercato di usarla contro la sua volontà.

— Coren, nessuno desidera usarla contro la sua volontà. Non vogliamo certamente renderla infelice — disse Bor. — Ma certo potresti parlarle… non dico subito, ma un po’ più avanti, quando tra voi ci sarà una buona armonia…

— Credevo che fosse la cosa che desideravi più di ogni altra al mondo. — Colui che aveva interrotto Bor era un uomo piccolo, muscoloso, che fissava Coren con occhi azzurri e scintillanti. — Vendicare la morte di Norrel!

Cadde un breve silenzio. Coren, con i lineamenti tirati, disse:

— Lo pensavo anch’io. Ma adesso preferirei spendere le mie energie pensando alla vita. Per Sybel ho rinunciato a ogni altra cosa. Compreso il mio odio.

“Ho dovuto farlo. Non posso spiegarvene il motivo. In quella sua casa bianca mi sono successe molte cose strane, e la più strana di tutte è che adesso preferisco pensare a Sybel, invece che a Norrel. Se volete fare la guerra contro Drede, dovete rassegnarvi a farla senza di lei. Gliel’ho promesso. Se non potete accettarlo, mandateci pure via tutt’e due da questa casa.”

Dal gruppo si levò un mormorio di dissenso. Rok appoggiò per un istante la mano sulla spalla di Coren.

— Non pensare male di noi — gli disse. — Siamo dei leoni irrequieti e affamati… se ci getti un briciolo di speranza, noi ci buttiamo subito a sbranarlo. Non le chiederemo niente, se è questo che lei desidera. Anche se la tentazione è fortissima.

— Lo so.

Ceneth aggiunse:

— Ci sarà comunque di grande aiuto, anche solo per la luce che porta nella nostra casa… e per la preoccupazione che fa sorgere nell’animo di Drede!

Coren annuì. Si guardò attorno, fissando il cerchio di facce silenziose.

— Non dovrei fidarmi di nessuno di voi — disse. — Ma mi fiderò. Non posso fare altro. Quanto a voi due, Eorth e Herne, aspettate di vederla. Capirete perché le ho promesso una cosa simile.

— Io non lo capirò mai — disse Eorth, schiettamente. — Ma se dici che non ci aiuterà, allora significa che non ci aiuterà. Questo sono in grado di capirlo.

— La cosa che più mi stupisce — disse Ceneth — è che abbia accettato di sposarti, visto come la pensa a proposito di Tamiorn e di Drede. Deve avere un grande coraggio… o un grande amore… per venire in questa tana di lupi senza altri difensori che te.

Coren gli rivolse un sorriso obliquo.

— È perfettamente capace di prendersi cura di se stessa — disse. — Avete visto il Falco Ter.

— Se può chiamare un Falco che ha ucciso sette uomini — rifletté Eorth — allora potrebbe chiamare anche Drede. E noi allora potremmo…

— Eorth — brontolò Bor. — Piantala.

Sybel si allontanò senza fare rumore. Ritornò nella stanza al piano superiore e trovò Lynette, i suoi vestiti, un vassoio di cibo e cinque bambini che la guardarono mangiare.

Rok li sposò quella sera, nella grande sala, che per l’occasione era illuminata da candele sorrette dai bambini dei Principi. Nella penombra, il fuoco crepitava e mandava grandi piogge di faville; lo scoppiettio del focolare era l’unico rumore che si potesse udire oltre la voce precisa e sonora di Rok.

Sybel indossava un vestito rosso fiamma e Lynette le aveva pettinato i capelli in due grandi trecce che poi aveva raccolto in alto, in modo da formare un’argentea corona. Ferma accanto a Coren osservava il riflesso delle fiamme del focolare sui capelli di Rok e sulla pesante catena d’oro che portava al collo, e pensava che la voce del Signore del Sirle si mescolava al rumore del fuoco come il vento con la voce della foresta.

E le ritornò in mente la casa di Maelga, dove lei e Coren, due giorni prima, immersi nel grande silenzio del Monte, avevano ascoltato l’antica formula pronunciata dalla fattucchiera per unire le loro vite:

“Questo legame impongo tra voi: che anche se le vostre menti o i vostri corpi saranno separati, nel vostro cuore sorgerà un richiamo che vi riporterà l’uno all’altra. In nome dei segreti della terra e dell’acqua, questo legame è infrangibile e irrevocabile; per la legge che ha creato il fuoco e il vento, impongo in voi questo richiamo, nella vita e oltre la vita…”

Più tardi, quella sera stessa, prima di partire per il Sirle, lei era rimasta sveglia a lungo; a osservare lo scintillio delle stelle, sotto la cupola di cristallo della sua stanza bianca, e ad ascoltare il suono del respiro di Coren. E, accanto a lui, aveva sentito dileguarsi tutto il buio di quel giorno, aveva sentito scorrerle via dalle ossa la stanchezza.

Infine, quando si era addormentata, aveva dormito profondamente, senza sogni.

— E adesso — disse Rok — affidatevi reciprocamente il vostro nome.

— Coren.

Lei lo guardò e, nella luce rossastra che gli illuminava il viso, scorse una profonda fiamma di ironia, che in passato non aveva visto mai. Gli rivolse lentamente un sorriso, come per accettare la sfida.

— Sybel.

8

Quando la neve si fu sciolta sulla terra sempre più intiepidita dall’approssimarsi della primavera, Rok cominciò a parlare di costruire nel Sirle un giardino in cui accogliere gli animali di Sybel. Un giorno, lei gli mostrò alcuni progetti: i disegni per la caverna del Drago, per il lago del Cigno Nero, e anche quello della sua bianca casa con la grande cupola di cristallo. Il figlio di Ceneth e le figlie di Rok si raccolsero attorno a lei per ascoltare la storia degli animali.

— Il Drago Gyld ha bisogno dell’oscurità e del silenzio; il Cigno, naturalmente, deve avere un laghetto. Il Leone Gules e la Gatta Moriah devono avere un ambiente chiuso, riscaldato d’inverno, per non spaventare le persone e gli animali che li vedono.

“Non so come reagiranno alla presenza di tanta gente intorno a loro: molti uomini hanno dato loro la caccia, specialmente al Cinghiale Cyrin. Sul Monte Eld rimanevano sempre al chiuso. Non posso lasciarli soli, preda degli uomini e dei loro stessi impulsi.

“Sapete che il Drago ha ferito Coren. La cosa potrebbe ripetersi, e la prossima volta potrebbe trattarsi di una persona meno conciliante: è un pericolo non solo per gli uomini, ma anche per gli animali. Nel vederli in libertà, la gente potrebbe cercare di catturarli o di ucciderli. Non voglio che siano molestati.”

— Vi preoccupate molto per i vostri animali — mormorò Rok.

Sybel annuì.

— Vi preoccupereste anche voi — disse — se poteste parlare con loro. Sono animali potenti, nobili, ricchi di esperienza. Sono lieta del vostro aiuto, Rok, e del fatto che li lasciate venire qui. Speravo anch’io in una soluzione di questo tipo, ma non me l’aspettavo così presto.

— È una collezione da far sognare qualsiasi sovrano — disse lui, lanciandole un’occhiata indecifrabile. — E, a dire il vero, sorrido al pensiero del fastidio che potrà dare a Drede.

Lei abbassò gli occhi.

— Non la vedevo sotto questo aspetto — disse piano.

Rok, imbarazzato, cercò di cambiare argomento.

— Lasciamo stare Drede — disse. — Qui nel castello, tra la cinta esterna e quella interna, c’è un vasto giardino chiuso, che non è più stato frequentato dopo la morte di nostra madre. Era stato preparato come luogo di ristoro per lei, lontano dai suoi rumorosi figli. Ha un cancello interno e un secondo cancello all’esterno, vicino al maschio della fortezza, da cui si raggiungono i campi.

“I bambini non vanno mai a giocare laggiù; le nostre mogli hanno altri giardini, più vicini. Può contenere un piccolo lago, degli alberi, una caverna e una fontana per il drago, ma non sarei capace di costruire una cupola di cristallo per voi.”

Lei rise.

— Se potete fare tutto questo per me, non vi chiederò una cupola di cristallo. Mi basta un posto dove custodire i miei libri, e posso tenerli in una stanza qualsiasi. Sono molto preziosi. Uno di questi giorni dovrei andarli a prendere sul Monte Eld, ma qui mi trovo talmente bene che mi è passata la voglia di mettermi in viaggio.

— Sono lieto che vi troviate bene — disse Rok.

Tacque per qualche istante, mentre Lara si arrampicava sullo schienale della sua sedia.

— Parlando schietto — disse poi — non mi sarei mai aspettato di vedervi qui. Conoscevo i vostri sentimenti nei riguardi di Tamlorn e quelli di Coren nei riguardi di Drede; non pensavo che poteste superare così facilmente i vostri amori e le vostre avversioni.

Lei lo guardò, senza smettere di scarabocchiare sul margine del foglio che aveva davanti.

— Non ho molta simpatia per Drede — disse. — Però, è più utile a Tamlorn da vivo che da morto. E Coren… so che ormai ha superato il dolore per la morte di Norrel. Ma so anche che è un Principe del Sirle, e che, se ci sarà un’altra guerra, combatterà: non contro Drede, ma per i suoi fratelli, così come ha combattuto per Norrel.

— Comunque — disse Rok — possiamo fare piani finché vogliamo, ma non ci sono possibilità di dichiarare guerra. Voi e Coren potrete vivere in pace, qui nel Sirle, almeno finché Drede vivrà.

Sybel cessò di scarabocchiare. — E poi?

Rok si alzò e si avvicinò al fuoco, trascinandosi dietro Lara, abbracciata alla sua gamba.

— Se Drede morirà prima che Tamlorn raggiunga la maggiore età — disse senza mezzi termini — un mucchio di sciacalli si getterà sul regno di Eldwold, vedendolo in mano a un fanciullo.

Fissò la cognata.

— Il mondo in cui siete giunta dopo essere scesa dalla vostra montagna — le disse — non è certo un paradiso di tranquillità; ormai anche Tamlorn deve essersene accorto. Se il ragazzo si dimostrerà intelligente, imparerà a destreggiarsi con il potere, togliendolo da una parte e assegnandolo a un’altra. Drede gli insegnerà certamente a farlo, in modo che non abbia delle brutte sorprese quando il Sirle, un giorno o l’altro, comincerà a rosicchiargli i confini del regno.

Lei abbassò gli occhi, senza guardare Rok.

— Siete davvero una casa di leoni irrequieti… — disse.

— Sì, ma non possiamo spiccare nessun balzo; non abbiamo alleati, abbiamo consumato le armi e gli uomini nella Piana di Terbrec, e il ricordo della sconfitta continua ancora a frenarci.

Sorrise, prese in braccio Lara e se la mise sulla spalla; la bambina cominciò a giocare con i suoi capelli.

— Ma non dovrei parlarvi di queste cose — concluse. — Scusatemi.

— Oh, non dovete scusarvi di niente. Sono argomenti che mi interessano.

La porta che conduceva alle stanze private di Rok si aprì e ne spuntò Coren. Li guardò entrambi.

— Che cosa fai, qui con mio fratello? — chiese a Sybel, fingendo di sgridarla. — Sei stanca di me, a quanto vedo. Vuoi un marito più vecchio e rugoso…

— Coren, Rok vuole costruirmi un giardino. Guarda, abbiamo fatto dei disegni. Questa è la caverna di Gyld, questo è il lago del Cigno…

— E questo è il Liralen — disse lui, indicando il disegno. — Dove lo metterai?

— Che cos’è il Liralen? — chiese Rok.

— Un bellissimo uccello bianco, con ali che ondeggiano nell’aria come se fossero la sua scia. Pochissimi l’hanno visto. Il Principe Neth lo catturò, poco prima di morire. Che c’è? — chiese poi a Sybel, vedendo che aggrottava la fronte.

— Qualcosa che mi ha detto Mithran — spiegò Sybel — a proposito del Liralen. Ha detto di avere pianto, una volta, perché sapeva di non poterlo possedere, anche se il suo potere poteva dargli ogni altra cosa… Mi chiedo come potesse affermarlo; mi chiedo perché non potesse prenderlo.

— Forse il Liralen era più potente di lui.

— Impossibile. È solo un animale, come il Leone Gules o il Cinghiale Cyrin…

— Forse è come il Rommalb.

— Anche il Rommalb si lascia chiamare.

Coren scosse la testa e le accarezzò i lunghi capelli.

— Credo che il Rommalb — disse — vada dove vuole, quando vuole. Ha scelto di venire a te e di esserti legato perché ti ha guardato negli occhi e non vi ha visto traccia di paura.

— Che cos’è il Rommalb? — chiese Rok. — Non abbiamo previsto la sua presenza nel giardino.

Coren sorrise. Si sedette al tavolo e osservò i vari disegni.

— Il Rommalb — spiegò — è una creatura che ho incontrato davanti al focolare di Sybel, una sera. Non credo che vogliate averla qui nel Sirle. Va per la propria strada, soprattutto di notte. Rok alzò le sopracciglia.

— Comincio a sospettare — disse — che alcune delle storie che ci racconti, ormai da quasi trent’anni, possano essere vere.

— Ho sempre detto la verità — disse Coren, semplicemente.

Poi rise nel vedere l’espressione di Rok.

— Nell’Eldwold ci sono molte cose pericolose, oltre ai Re minacciosi.

— Davvero? Sono troppo vecchio per incontrare qualcosa di più minaccioso di Drede.

— Coren — disse Sybel. — Dovrei andare a prendere i miei libri sul Monte Eld.

— Lo so — disse lui. — Era venuto in mente anche a me. Se vuoi, possiamo partire domani, viaggiando senza fretta nella bella stagione.

Si udì la voce di Rok, bassa come un ruggito:

— Può essere pericoloso. Se Drede non si fida di Sybel, potrebbe averle teso un’imboscata sul Monte, in attesa che vada a prendere i suoi animali.

— Non c’è bisogno che vada a prenderli — disse Sybel. — Potranno venire da soli, quando il loro giardino sarà pronto. Ma io devo avere quei libri.

— Potrei mandare Eorth e Herne a prenderli.

Lei scosse la testa, sorridendo.

— No, Rok. Anch’io desidero rivedere la mia casa, i miei animali. Chiamerò il Falco Ter e gli dirò di spiare per noi. Se ci sarà qualche pericolo, ci avvertirà.

L’indomani mattina lasciarono il castello dei Signori del Sirle per raggiungere il Monte Eld. Dalla vetta coperta di ghiaccio del Monte scendeva un vento gelido che correva lungo l’ininterrotta pianura del cielo. Gli alberi del cortile, all’interno delle mura del castello, erano ornati delle dure e scure gemme da cui dovevano nascere le nuove foglie.

Rok ed Eorth scesero in cortile per vederli partire; nel vento, i loro larghi mantelli si gonfiavano come vele. Eorth disse lentamente, con la sua voce profonda, tenendo ferma la staffa a Sybel per farla montare in sella:

— Io e Ceneth potremmo venire con voi, Coren. Forse sarebbe più saggio.

— Io, invece — rispose Coren — preferisco passare alcuni giorni con una maga dai capelli color della neve: io e lei soli. Non preoccupatevi per noi. Sybel può immobilizzare con un’occhiata chiunque le dia fastidio.

Voltò il cavallo e sollevò un braccio per salutare i fratelli. Come un fulmine, il Falco Ter piombò dal cielo e gli si posò sulla mano.

Rok rise.

— Ecco la vostra guardia del corpo.

Gli artigli del falco gli erano entrati nella carne; Coren fece una smorfia di dolore.

— Vatti ad appollaiare su Sybel — gli disse. — Io mi difenderò da solo.

Guardò la donna e aggrottò la fronte nel vedere lo sguardo che passava tra lei e il Falco, forte come un legame. Sybel emise un’esclamazione di sorpresa.

— Che c’è? — chiese Coren.

— Tamlorn. Ha lasciato Mondor questa mattina, diretto al Monte Eld. Mi chiedo come Drede lo abbia lasciato andare. A meno che…

— A meno che Drede — disse Rok — non sia all’oscuro della sua partenza. Naturalmente, potete estendere l’invito anche a Tamlorn perché venga nel Sirle, se lo vedete.

— Un tempo lo abbiamo avuto con noi — disse Coren — e poi lo abbiamo perduto. Lascia stare.

Rok sorrise.

— Sono certo che Drede gli ha insegnato bene. Inoltre, quando raggiungerete il Monte Eld, senza dubbio sarà già sulla via del ritorno. Andate. Godetevi il viaggio. Se vi serve aiuto, mandateci il Falco Ter.

Attraversarono lentamente il Sirle, fino a raggiungere la foresta, e trascorsero la notte in una piccola fattoria ai bordi della Piana di Terbrec.

Nel pomeriggio del giorno seguente raggiunsero il Monte Eld. Il sentiero era coperto del fango del disgelo; il Monte avvampava sullo sfondo del cielo azzurro; le brezze, profumate di resina e neve, avevano l’aroma di un vino raro.

Sybel abbassò il cappuccio, liberando i capelli nel vento, come una fiamma bianca; l’aria gelida le arrossò le guance pallide. Coren le afferrò i capelli, se li avvolse tra le dita, le tirò indietro la testa e la baciò. Il calore del sole colpì Sybel sulle palpebre. Cavalcarono fino alla casa bianca e videro che il cancello era aperto.

Tamlorn venne ad accoglierli.

Avanzò lentamente verso di loro, con il Leone Gules al fianco. Fissava Sybel con aria dubbiosa. Con un grido di sorpresa, lei smontò rapidamente di sella.

— Tamlorn! — Corse ad abbracciarlo, gli strinse il viso tra le mani. — Tamlorn, sei preoccupato. Perché? Drede ti ha fatto qualcosa?

Il ragazzo scosse la testa. Lei gli posò le mani sulle spalle. — E allora?

Tamlorn era molto pallido. Attorno agli occhi, per la mancanza di sonno, gli si scorgevano grandi cerchi scuri. Si afferrò alle braccia di Sybel, poi guardò Coren, che, dietro di lei, era smontato di sella per tenerle fermo il cavallo.

— Coren è in collera con Drede? — chiese.

Sybel strinse i pugni. Disse in fretta, sorpresa:

— Coren non sa niente. Ma tu, che cosa hai saputo? E come lo hai saputo?

Lui scosse la testa, stancamente.

— Non ho capito bene. Drede mi aveva detto che stavate per sposarvi, e io ero molto contento, e poi… qualcosa deve averlo spaventato: non ha più voluto parlare di te.

“Quando gli ho detto che ti eri sposata con Coren, è talmente impallidito che ho temuto di vederlo svenire. L’ho toccato e allora lui ha ripreso a parlare; ma è così spaventato che mi addolora guardarlo.

“Perciò, sono venuto qui per scoprire le ragioni di questa sua paura. Sapevo che saresti venuta anche tu, se il Falco Ter ti avesse detto che io ero qui.”

— Dimmi, Tamlorn — chiese Sybel — Drede sa che sei qui?

— No. Non lo sa nessuno.

Poi Tamlorn guardò la figura di Coren che si avvicinava e gli disse rigidamente:

— Vedo uno dei sette Principi del Sirle. Mi è stato insegnato a temervi.

Coren disse gentilmente:

— Ter siede sulla mia spalla e accetta la carne dalle mie dita, senza beccarmele. Per lui sono solamente Coren che ama Sybel.

Tamlorn lasciò le braccia della donna. Sospirò, aggrottando le sopracciglia.

— Speravo che sposasse Drede — mormorò. — Siete soli?

— Con il Falco Ter — disse Sybel. — Sei fortunato che non siano venuti i fratelli di Coren. Tamlorn, metà dell’Eldwold deve essere alla tua ricerca per un motivo o per l’altro. Non dovresti girare così imprudentemente per il Paese, come se rincorressi ancora a piedi nudi le pecore insieme a Nyl.

— Lo so. Ma Drede non mi lasciava venire e io desideravo vederti, per sapere… se tu… se tu ancora…

Lei sorrise.

— Se ti amo ancora, Tamlorn? — mormorò.

Lui annuì, aggrottando leggermente le sopracciglia, con aria afflitta.

— Devo saperlo, Sybel. — Si passò la mano sulla fronte, stancamente. — A volte sono ancora un bambino. Volete che vi porti nella stalla i cavalli?

Prese le redini, mormorando gentili parole agli animali mentre li conduceva al coperto.

Sybel si nascose la faccia tra le mani.

— Mi spiace di avergli fatto conoscere Drede — disse, tesa, a testa china.

Coren le scostò i capelli dalla guancia.

— Non potevi tenerlo protetto per sempre — le disse, in tono tranquillizzante. — Non era destinato a una vita tranquilla, e questo a causa sia della sua nascita, sia delle circostanze createsi nella Piana di Terbrec.

— Lo porterei con me nel Sirle — disse Sybel — ma lui non verrebbe. Ha bisogno di Drede. E non intendo usare Tamlorn per punire Drede.

Poi, accorgendosi di ciò che aveva detto, si interruppe bruscamente.

Sollevando gli occhi, vide che Coren la fissava con grande stupore.

— Punire Drede per che cosa? — chiese lui.

Sybel trasse un lungo respiro e sorrise.

— Oh, comincio a parlare come Rok ed Eorth, quando si fa il nome della Piana di Terbrec.

— Ti hanno dato fastidio?

— No. Sono stati molto gentili. Ma anch’io ho le orecchie, e ho sentito i loro discorsi carichi di odio.

Si chinò sul Leone Gules, pazientemente fermo davanti a lei, e lo fissò negli occhi dorati.

“Stai bene?” gli chiese.

“Certo, Bianca Signora, ma ho sentito una brutta storia che riguarda quel Re. Dimmi cosa devo fare, e io lo farò.”

“Non devi fare niente. Almeno per ora. Vi porto tutti nel Sirle.”

“Ce lo aspettavamo.”

Sybel si alzò in piedi; sulle labbra le compariva un sorriso tirato.

Coren le disse piano:

— A volte mi sembri così lontana. La tua faccia si trasforma… diventa come una fiamma chiara e immobile, potente, intoccabile.

— Non mi allontano mai più del suono del mio nome — gli rispose lei.

Poi gli prese la mano e si avviò con lui verso la casa.

— Il Leone Gules mi ha detto che già si aspettavano il trasferimento. Sono lieto che Rok si sia offerto di ospitare i miei animali.

— Rok, mia cara, non è uno sciocco.

Quando aprirono la porta, trovarono ad accoglierli il Cinghiale Cyrin, e Coren si fermò a salutarlo, con un sorriso.

— Cyrin. Come vedete, sono riuscito a superare quella famosa montagna di vetro.

Il Cinghiale dalle setole argentee disse con la sua voce musicale:

— Lo ritenete davvero? O è stata la strega a toglierla di mezzo, per qualche suo particolare motivo?

— Certo, l’ho tolta io — disse Sybel, tranquilla. — Per un motivo a cui non potevo resistere. Cyrin, andiamo tutti nel Sirle.

Il Cinghiale disse mentalmente, rivolto alla sola Sybel:

“Conosce quanto basta per indurlo a rivolgersi la domanda?”

“Non gli ho detto niente” rispose Sybel. “Non voglio che si preoccupi. Cerca di frenare la tua sapiente lingua.”

“E chi frenerà la lingua del Sapiente del Sirle, quando i suoi occhi ciechi si apriranno?”

Lei rimase in silenzio per un attimo, e strinse di più la mano di Coren.

“Ti chiedo solo di stare zitto. Se non sei in grado di farlo, e vuoi riavere la libertà, ti libererò.”

“Quando si è presi tra la domanda e la risposta non ci può essere libertà” disse il Cinghiale.

— Sybel… — disse Coren.

Sybel riportò l’attenzione su di lui.

— A volte, il Signore della Saggezza è alquanto irritante — gli spiegò, a bassa voce. — Ma tu lo sai.

— Sì, lo so. Ma solo per le menti irritate.

Lei lo guardò.

— Io non sono sempre sincera, Coren — gli disse.

— E ti amo anche per questo. Dimmi: che cosa ti ha detto, per irritarti così?

— No, mi sono irritata per cose che appartengono al passato. Nient’altro. Anch’io, come Tamlorn, a volte sono ancora una bambina.

Tamlorn giunse in quel momento, con il Falco Ter sulla spalla. Si chinò ad accarezzare Moriah, che si era già raggomitolata ai piedi di Sybel.

— Siete venuti a stabilirvi qui? — chiese, in tono speranzoso.

— No, Tamlorn — rispose lei. — Porto nel Sirle i libri e gli animali.

La mano con cui il ragazzo accarezzava la Gatta Moriah si immobilizzò. Lui disse piano, senza sollevare lo sguardo:

— Sybel, per me sarà difficile venire a trovarti laggiù. Ma forse potresti venire qualche volta a Mondor.

— Forse — disse lei, gentilmente.

— Inoltre…

Sollevò lo sguardo e si tolse i capelli dagli occhi.

— Posso parlarti in privato per qualche momento?

Sybel guardò Coren, che disse educatamente:

— Rimarrò qui, seduto accanto al fuoco, e chiacchiererò con il Cinghiale Cyrin.

— Grazie — disse Tamlorn, e, chinando le spalle, entrò con Sybel nella stanza con il soffitto di cristallo. Il Leone Gules li seguì silenziosamente. Sybel si sedette sul soffice tappeto di pelliccia e si tirò accanto a sé il ragazzo.

— Sei cresciuto — gli disse. — Adesso sei quasi alto come me.

Lui annuì, infilando distrattamente le dita nel folto tappeto. Poi aggrottò le sopracciglia.

— Sybel, sento molto la tua mancanza — disse. — E mi dispiace che tu abbia sposato Coren… non per lui, ma perché adesso, per tutti, noi non siamo più Sybel e Tamlorn, ma Sirle e Drede, che sono sempre stati nemici. Una volta le cose erano molto semplici, e adesso sono tanto complicate. Non so come andranno a finire.

— Non lo so neanch’io, Tamlorn. So soltanto che non farò mai niente che ti possa dare un dolore.

Lui la guardò, preoccupato.

— Sybel — chiese — di che cosa ha paura mio padre? Di te? Non mi lascia neppure pronunciare il tuo nome.

— Tamlorn, io non ho fatto niente contro di lui. Non ho fatto niente per impaurirlo.

— Non l’ho mai visto così — disse il ragazzo — e non so come aiutarlo. Non lo conosco da molto tempo, e ho paura di perderlo, così come ho perduto te.

Lei corrugò la fronte.

— Tu non mi hai affatto perduto. Io ti amerò sempre, indipendentemente da dove vivi tu e da dove vivo io.

Lui annuì, un po’ a disagio, storcendo le labbra.

— Lo so — disse. — Ma adesso è diverso, perché le persone che amiamo sono nemiche tra loro. Pensavo che tu rimanessi sul Monte Eld, e che avrei potuto venire a trovarti in qualsiasi momento, allontanandomi dal chiasso e dall’affollamento di Mondor e… di potermene stare qui, accanto al fuoco con il Leone Gules, o correre sulla montagna con Nyl e con il Falco Ter… solo per qualche ora, e poi tornare da Drede. “Pensavo che tu rimanessi sempre qui con gli animali. Ma adesso te ne vai, e li porti in un luogo dove non posso venire. Non pensavo che succedesse una cosa simile. Non pensavo che tu sposassi Coren. Anzi, avevo l’impressione che non ti piacesse affatto.”

— Anch’io — disse Sybel — non lo avrei mai pensato. Ma poi ho scoperto di amarlo.

— Be’, posso capirlo. Ma non so perché Drede non lo capisca. Tu non useresti mai i tuoi poteri per scatenare una guerra; l’hai detto tu stessa. Drede lo sa; ma c’è qualcosa che lo atterrisce… e a volte penso che si sia perduto dentro di sé.

Sybel trasse un lungo sospiro.

— Mi piacerebbe che tu fossi ancora piccolo come un tempo — disse — per poterti prendere in braccio e consolarti così. Ma sei cresciuto, e sai che per alcune cose non ci può essere consolazione.

— Oh, lo so. Ma… a volte non sono tanto cresciuto!

Lei sorrise, attirandolo a sé.

— Non lo sono neanch’io.

Tamlorn le posò la testa sulla spalla e si avvolse sulle dita una ciocca dei suoi chiari capelli.

— Sei felice a Mondor? — gli chiese lei. — Hai fatto molte amicizie?

— Oh, ho vari cugini della mia età — rispose il ragazzo. — Non avevo mai saputo che cosa sono i cugini. Mi sono stupito, nel trovarmi tanti parenti, mentre prima avevo soltanto te. Vado a caccia insieme a loro: vogliono bene a Ter, ma ne hanno paura, e lui non si lascia tenere da nessun altro.

“All’inizio mi prendevano in giro, perché c’erano tante cose che non sapevo. Tu e Maelga mi avete insegnato a leggere e a scrivere, ma non mi avete mai insegnato a usare una spada, o ad andare a caccia con i cani, o come si chiamavano i re di Eldwold prima di Drede. Ho saputo molte cose dell’Eldwold che tu non mi avevi mai detto. Ma su questa montagna ho imparato cose che laggiù non sanno. E tu… sei felice nel Sirle?”

— Sì. Anch’io, stando con la gente, imparo cose che Ogam non avrebbe saputo dirmi.

Ma Tamlorn non riusciva a togliersi dalla mente una preoccupazione.

— Sybel — disse, cercando le parole — perché mio padre ha detto che stavate per sposarvi? Me lo ha detto una sera, non molto tempo fa. Affermava che non doveva dirmelo, perché era un po’ troppo presto, ma che voleva vedere la mia faccia. Io l’ho abbracciato. Ero tanto contento; lui si è messo a ridere. Ma poi, l’indomani sera, quando gliene ho parlato di nuovo, mi ha fissato senza dire niente. Aveva un’aria malata… e invecchiata.

— Tamlorn… — cominciò a dire lei, ma s’interruppe perché si accorse che le tremava la voce. — Non aveva il diritto di dirtelo, perché io non gli avevo mai dato il mio consenso. Forse lui pensava che…

— Sì, ma quando te l’ha chiesto? Ti ha scritto?

— No.

— Non capisco. Mi pareva così sicuro… Forse ho capito male le sue parole. Ma di che cosa ha paura? Non ride mai. Parla con pochissime persone. Venendo qui, pensavo di poter scoprire l’origine delle sue preoccupazioni, ma mi sbagliavo.

— Mi spiace che ti preoccupi per Drede, ma non posso aiutarti. Le paure di Drede hanno origine solo da lui. Chiediglielo.

— Gliel’ho chiesto — rispose Tamlorn — ma non vuole rispondermi.

Abbracciò il Leone Gules, aggrottando la fronte.

— Nel viaggio di ritorno a casa, dovrò fare più attenzione di quando sono salito. Inoltre Drede sarà in collera con me. Ma sono contento di essere venuto e di averti parlato. Mi manchi, e mi manca anche Gules. Un giorno, penso, verrò a trovarti nel Sirle.

— No.

Lui sorrise. — Verrò così silenziosamente che solo tu, Gules e Cyrin vi accorgerete del mio arrivo.

— No, non venire — disse lei, preoccupata. — Non capisci…

S’interruppe bruscamente, tendendo l’orecchio verso un rumore che giungeva da dietro la porta chiusa: un lungo miagolio minaccioso.

— Che cosa…

Il Leone Gules si alzò in piedi, ruggendo. Anche Sybel si alzò. Dall’altra stanza giunse uno schianto, accompagnato da numerose voci maschili.

— Coren… — mormorò Sybel. Corse ad aprire la porta e il Leone Gules la precedette e si fermò accanto al focolare. Coren era seduto a terra, disarmato e con tre lame puntate al collo. La Gatta Moriah passeggiava ai suoi piedi e soffiava contro tre uomini che portavano la tunica nera con la stella rossa sul petto che contraddistingueva le guardie di Drede.

Tamlorn, accanto a Sybel, si affrettò a dire:

— Non fategli del male.

I soldati si voltarono lentamente verso di lui, senza perdere di vista Moriah. Uno di loro disse a denti stretti:

— Principe Tamlorn, quest’uomo è uno dei Sirle.

— Li conosci, Tamlorn? — chiese Coren. Una lama gli graffiò la pelle della gola, sotto il pomo d’Adamo, e lui chiuse la bocca.

— Sì, sono le guardie di mio padre.

Tornò a guardare i tre uomini.

— Sono venuto a trovare Sybel — disse. — Non era al corrente del mio arrivo. Le ho detto quello che dovevo dirle, e sono pronto a tornare a casa. Lasciate libero quest’uomo.

— È Coren del Sirle, fratello di Norrel… ha combattuto nella Piana di Terbrec.

— Lo so: se gli farete del male non lascerete vivi questa casa.

L’uomo guardò Moriah e poi il Leone Gules, che li fissava con i suoi occhi d’oro e che ruggiva minacciosamente.

— Il Re è quasi impazzito per la preoccupazione — disse la guardia. — Se non lasceremo libero Coren, saremo uccisi da queste bestie. E se Drede saprà che ci siamo lasciati sfuggire di mano uno dei Sirle, ci ucciderà lui.

— Siete soli?

— No, ma gli altri sono rimasti fuori del cancello. Verranno se daremo l’allarme.

— Allora, non c’è bisogno di dire che qui c’erano anche Sybel e Coren. Io non lo riferirò.

— Principe Tamlorn! È un nemico del Re… un vostro nemico!

— È il marito di Sybel! E se volete attaccarlo davanti a lei, al Leone Gules e alla Gatta Moriah, fate pure. Io posso tornare a casa da solo.

Moriah soffiò di nuovo, e le lame tremarono alla luce delle fiamme. Uno dei tre soldati, all’improvviso, staccò la spada dalla gola di Coren e la puntò contro la Gatta, ma la voce di Sybel lo costrinse a fermarsi:

— Se colpirete Moriah, vi ucciderò.

L’uomo fissò Sybel ; la faccia gli si coprì di sudore.

— Signora, prenderemo con noi il Principe e ce ne andremo, lo giuro. Ma chi ci garantisce che, una volta lasciato libero Coren, potremo allontanarci senza essere assaliti?

Tamlorn fissò per un istante Coren. Poi si inginocchiò davanti a lui e abbracciò la Gatta Moriah.

— Ve lo garantisco io. Adesso, lasciatelo andare.

Le spade si abbassarono. Coren tornò a respirare.

— Grazie.

Tamlorn lo guardò, continuando ad accarezzare la testa a Moriah.

— Consideratelo come un dono di Drede al Sirle.

Poi si alzò e disse alle guardie:

— Verrò a casa con voi. Ma nessuno dovrà fermarsi qui dopo di me, o seguire Sybel e Coren quando si allontaneranno. Nessuno.

— Principe Tamlorn… noi qui non abbiamo visto né Sybel né Coren.

Tamlorn tornò a respirare. — Il mio cavallo è nella stalla. Quello grigio. Portatemelo.

I tre soldati si affrettarono ad allontanarsi, seguiti dal brusio del Leone, del Cinghiale e della Gatta. Sybel si avvicinò a Tamlorn e lo abbracciò, affondando la faccia nei suoi capelli.

— Tamlorn, stai diventando saggio e coraggioso come il Falco Ter.

Lui si scostò leggermente.

— No — disse. — Sto tremando.

Le sorrise e le baciò la guancia. Poi abbracciò il Leone Gules e, nell’udire rumore di zoccoli, si diresse verso la porta.

— Principe Tamlorn — disse Coren — vi ringrazio. Credo che la vostra generosità risulterà assai imbarazzante per mio fratello Rok.

— Spero che l’apprezzi — disse Tamlorn, piano. — Arrivederci, Sybel, anche se non so quando potremo incontrarci nuovamente.

— Arrivederci, Tamlorn.

Dalla finestra, la donna lo guardò montare a cavallo, con il Falco Ter che gli volava sulla testa, e poi confondersi in una folla di figure dal mantello scuro e dalla stella rossa che presto scomparve tra gli alberi. Si girò verso il marito, lo abbracciò e gli posò la testa sul petto.

— Nonostante tutti i miei poteri — gli disse — avrebbero potuto ucciderti prima che mi accorgessi del loro ingresso. E allora, cosa avrebbe detto Rok?

Lui sorrise e le sollevò il viso per guardarla negli occhi.

— Che non dovevo fare affidamento su mia moglie per salvarmi la pelle.

Lei gli toccò la gola. — Sanguini.

— Lo so. E tu tremi.

— Lo so.

— Sybel — disse lui, dopo qualche istante. — Saresti riuscita a uccidere quell’uomo? Lui pensava di sì, ma io non ne ero molto convinto.

— Non so. Ma se avesse ucciso Moriah, l’avrei scoperto.

Sospirò.

— Comunque — riprese — sono lieto che non l’abbia fatto; per lui e per me. In ogni caso, penso che sia meglio allontanarci di qui. Non mi fido di quelle guardie. Prendiamo i libri e andiamocene.

Coren annuì. Rimise a posto una sedia che era caduta a terra, raccolse la propria spada che era finita in un angolo, e la infilò nel fodero. Il Leone Gules era steso accanto al fuoco e brontolava piano. La Gatta Moriah camminava avanti e indietro davanti all’uscio. Sybel le accarezzò la testa; poi, guardandosi attorno, ebbe una strana impressione, come di trovarsi in un edificio vuoto e disabitato.

Disse lentamente:

— Non sembra più la mia casa… sembra attendere che un altro mago, come Myk o Ogam, inizi a lavorare qui nel silenzio.

— Forse ne arriverà uno — disse Coren. Cominciò ad aprire i grandi, robusti sacchi di canapa che avevano portato con loro per trasportare i libri, e aggiunse:

— Spero che i suoi ricordi di questa casa siano migliori dei miei.

— Lo spero anch’io — disse lei, stringendogli il braccio. Poi andò a parlare con il Drago Gyld e con il Cigno Nero, lasciando a Coren l’incombenza di preparare i sacchi.

Il cielo del pomeriggio passò dall’oro all’argento, e poi al grigio cenere. Coren finì il suo lavoro prima che Sybel tornasse. Uscì nel giardino e la chiamò a voce alta. Infine lei venne fuori dagli alberi e lo raggiunse.

— Ero con il Drago Gyld — gli spiegò. — Gli ho riferito che nel Sirle avremmo preparato un posto per lui, e mi ha detto che vuole portare il suo oro.

— Oh, no! Mi vedo già una scia di antiche monete, sparse per terra da qui alla porta del castello!

— Coren, gli ho detto che ce ne occuperemo noi; volerà di notte, quando tutto sarà pronto. Spero che non spaventi le mucche di Rok.

Alzò lo sguardo al cielo profumato color della cenere, e guardò le sagome cupe degli alberi.

— Si fa tardi — disse. — Cosa facciamo? Penso che sia rischioso fermarci in casa di Maelga.

— Certo — rispose Coren. — Drede non esiterebbe a uccidermi, con il rischio di scatenare una guerra, se pensasse di catturarti e di portarti a Mondor. È probabile che i suoi uomini ritornino questa notte a cercarci.

— Allora, cosa fare?

— Ci ho pensato — disse Coren.

— I cavalli sono stanchi. Non possono fare molta strada.

— Lo so.

— Allora, cosa hai pensato, per essere così allegro?

— Il Drago Gyld.

Lei lo fissò a bocca aperta.

— Gyld? Intendi dire… farci portare da lui?

Coren annuì. — Perché no? — chiese. — Fa’ conto che sia il Liralen. Mi sembra abbastanza robusto per portarci tutt’e due.

— Sì… ma cosa dirà Rok?

— Cosa si dice, quando ti atterra un drago nel cortile? — chiese lui. — Sybel, non possiamo fare molta strada a cavallo, e questa montagna non è più sicura per noi. Puoi lasciare liberi i cavalli, per poi chiamarli nel Sirle quando si saranno riposati.

— Ma nel Sirle non c’è un posto dove mettere Gyld.

— Troveremo qualcosa. Tutt’al più, potrebbe ritornare qui. Ne avrà voglia?

Lei annuì, ancora sorpresa.

— Oh, certo; gli piace volare — disse. — Ma Rok…

— Rok preferisce vederci vivi in groppa a Gyld che morti sul Monte Eld. Se tornassimo a cavallo, saremmo seguiti. Perciò, torneremo in volo con Gyld. Pensa, tra quelle stelle ci deve essere un silenzio ancor più profondo di quello che regna sul Monte Eld: non hai voglia di ascoltarlo? Prenderemo le stelle e le porteremo nel Sirle, andremo a ballare sulla luna…

Lei sorrise, esitante.

— Ho sempre desiderato volare… — disse.

— Certo. E se non puoi volare sul Liralen, fa’ un fiammeggiante volo notturno sul Drago Gyld.

Sybel chiamò il Drago, e Gyld uscì dalla caverna e arrivò fino a loro volando lentamente tra gli alberi. La sua enorme sagoma scura coprì lo sfondo delle stelle. Sybel lo fissò nella profondità dei suoi occhi verdi.

“Sei in grado di portare sul dorso” gli chiese “un uomo, una donna e due sacchi di libri?”

Nella mente del drago si accese un tremolio di gioia, come la prima fiamma scaturita dall’esca di un acciarino.

“Per sempre.”

Attese pazientemente che Coren gli legasse i libri alla schiena, assicurandoli con vari giri di corda alla base del collo e all’attaccatura delle ali. Si sollevò leggermente da terra, in modo che Coren potesse passare la corda anche sotto di lui. Nella notte, i suoi occhi brillavano come gioielli e le sue scaglie mandavano riflessi dorati.

Infine, Coren fece sedere Sybel in mezzo ai due sacchi di libri e si sedette a sua volta davanti a lei, tenendosi alla corda che passava sotto il collo del Drago. Si voltò a guardare Sybel.

— Stai comoda? — le chiese.

Lei annuì, e intanto si rivolse mentalmente a Gyld:

“Le corde ti danno fastidio?”

“No.”

“Allora, possiamo partire.”

Le grandi ali si aprirono, nere sullo sfondo delle stelle. La grande massa del drago si sollevò lentamente, in un modo che aveva dell’incredibile, allontanandosi progressivamente dalla terra e dagli alberi fruscianti.

Una volta staccatisi da terra, l’aria li colpì come una frusta, gonfiando il loro mantello e premendo contro il loro petto. Coren e Sybel contemplarono muti l’immenso gioco di muscoli sotto di loro e lo sforzo dell’ala contro l’aria.

Poi provarono la gioia del volo pieno, dell’immersione nel vento e nello spazio quando il Drago scese in picchiata verso la pianura: una discesa nell’oscurità che li portò al di là della paura e della speranza, e che destò in Coren un improvviso scoppio di risa.

Poi tornarono ad alzarsi fino a raggiungere le stelle, con le grandi ali che si aprivano una strada nell’oscurità. La luna piena, bianca come il ghiaccio, volava accanto a loro, tonda e perplessa come l’unico occhio rimasto desto di una bestia stellata del buio.

Lo spettro del Monte Eld si rimpicciolì dietro di loro; la grande cima si raggomitolò, addormentata e sognante dietro le proprie nebbie. In basso il suolo era nero, a eccezione dei riflessi di luce che fiammeggiavano come un secondo firmamento.

Una volta oltrepassata la città di Mondor, il vento cadde e cessò, e il Drago procedette nel silenzio di una notte fresca e nero-azzurra che pareva la notte immobile dei sogni, priva di dimensione, eterna e spruzzata di stelle.

Infine scorsero, nel sottostante cuore di tenebre, la casa del Signore del Sirle, illuminata dalle torce.

Si posarono dolcemente al centro del cortile. Un cavallo, fermo a poca distanza da loro, nitrì terrorizzato. Dalla sala principale del castello giunse il gutturale latrato dei cani.

Coren calò a terra rigidamente, ridendo come un folle, e aiutò Sybel a scendere. Lei lo abbracciò per un attimo, rabbrividendo per il freddo, e sentì che il Drago Gyld cercava di mettersi in contatto mentale con lei.

“Gyld” gli disse “sta’ calmo”.

“Arrivano uomini con torce. Devo…?”

“No. Sono amici” disse Sybel. “Semplicemente, non si aspettavano il nostro arrivo. Nessuno cercherà di farci del male. Gyld, è stato un volo pazzesco.”

“Ti è piaciuto?”

“Moltissimo.”

— Rok! — gridò Coren, rivolto alla figura del fratello, che, illuminata dalle torce, si dirigeva verso di loro con i cani che gli sciamavano dietro, ringhiando. I bambini si affollarono sulla soglia, poi scapparono via quando accorsero Ceneth ed Eorth.

— Rok, abbiamo un ospite!

— Coren — disse Rok, trafitto dagli occhi lucenti e imperscrutabili del Drago. — In nome del Sopra e del Sotto, dove lo metteremo?

Coren afferrò per il collare uno dei cani, prima che mordesse l’ala del Drago.

— Ho pensato anche a questo — disse allegramente. — Possiamo tenerlo in cantina, insieme con il vino.

9

Rimasero nella grande sala fino a tardi, seduti al tavolo insieme a Rok, Ceneth ed Eorth, finché la casa non tornò nel silenzio e i cani non si furono addormentati ai loro piedi.

Coren parlò dell’incontro con Tamlorn e con le guardie di Drede, e Rok lo ascoltò in silenzio, facendo girare lentamente, tra pollice e indice, una coppa di vino.

Quando Coren ebbe finito, Rok emise un brontolio.

— Il ragazzo, Tamlorn, è ancora un po’ troppo morbido — disse. — Mi chiedo che cosa avrebbe fatto Drede, se fosse stato presente.

— Avrebbe fatto quel che gli avrei ordinato di fare — disse lei.

Gli occhi scuri di Rok guizzarono su di lei.

— Sareste riuscita a controllarli tutti? — le chiese il Signore del Sirle.

— No. Ci avrebbero sopraffatto — disse lei. — Ma non sarebbe stato uno scontro piacevole, per loro.

— Però, avreste potuto controllare il Re.

— Rok… — mormorò Coren, e il fratello si affrettò ad abbassare gli occhi e ad appoggiarsi contro lo schienale della sedia.

— Comunque — concluse — sono lieto che abbiate fatto ritorno sani e salvi. Sono stato uno sciocco a lasciarvi andare, pensando che poteste comportarvi come una normale coppia di marito e moglie e che poteste muovervi spensieratamente nell’Eldwold, come due fanciulli.

Coren alzò le spalle.

— È stato meglio così. Se Eorth ed Herne ci avessero accompagnato, nella casa di Sybel sarebbe scoppiata una piccola guerra, e in questo momento saremmo tutti a Mondor a leccarci le ferite, compresi gli animali. Inoltre, anche ammesso che fosse riuscito a trattenersi dal combattere, Eorth si sarebbe rotto l’osso del collo cadendo dal Drago durante il viaggio di ritorno. Eorth si riempì la coppa.

— Se non altro, non sarei stato così sciocco da lasciarmi intrappolare in un angolo da tre guardie di Drede. Con tutto il rumore che devono avere fatto risalendo il sentiero, ti saresti dovuto accorgere in tempo del loro arrivo.

Coren arrossì.

— Lo so — disse. — Avrei dovuto sentirli. Ma mi ero distratto. Il Cinghiale Cyrin mi stava raccontando della volta in cui incontrò la strega Carodin nella sua torre senza porte e rispose a sei delle sue sette domande, per poi scoprire che neanche lei sapeva rispondere all’ultima.

Eorth lo fissò con stupore.

— Un cinghiale — chiese — ti ha detto questo?

— Sì. È un cinghiale che parla.

— Oh, Coren, ci hai raccontato tante storie ridicole, ma questa le batte tutte…

— Non è una storia ridicola. È la verità. Sei tu che non vedi al di là della spada che hai in mano.

— Be’, è la giusta distanza, nelle nostre terre — rispose Eorth.

Poi guardò Sybel:

— Sta mentendo? — le chiese.

— Coren non mente mai — rispose la donna.

Eorth la fissò con incredulità. Rok disse, scoppiando a ridere:

— Eorth, non metterti a litigare con i miei ospiti. Anch’io non credevo che Coren potesse presentarsi alla mia porta in groppa a un drago, ma l’ha fatto, e adesso ci credo. Anzi, comincio a cambiare idea su certe cose che ci ha detto in passato.

Coren allungò la mano sul tavolo per prendere quella di Sybel.

— Vedi anche tu che brutta fama avevo — le disse — prima che ci sposassimo.

— Certo. Mi hai sposata per i miei animali. L’ho sempre sospettato.

— Ti ho sposata perché non hai mai riso di me. Eccetto la volta che ti ho chiesta in moglie.

Anche Eorth si appoggiò allo schienale della sedia e sorrise.

— Ha riso di te? Parlaci di quell’episodio, Coren.

— No.

— Ho riso di lui perché pensavo che l’aveste incaricato voi di chiedere la mia mano — disse Sybel. — Poi, quando ho capito che mi amava davvero, ho smesso di ridere.

Ceneth si alzò e si mise a sedere vicino al fuoco. Intorno a loro, dalla grande casa non giungeva alcun rumore; le ombre parevano appese alle pareti come tendaggi.

— Se non starai attento, Eorth — disse Ceneth — Sybel ti farà prendere dal Drago Gyld, che ti lascerà nudo sulla cima del Monte Eld, e nessuno sentirà la tua mancanza.

— Mi dispiace.

— No, non ti dispiace affatto. Sei invidioso perché non hai sposato una donna con un drago.

— Be’ — disse Rok — adesso abbiamo un drago anche noi, in cantina. Mi chiedo cosa avrebbe detto nostro padre, se fosse capitato quando c’era lui.

Eorth rise, alzando le spalle.

— Avrebbe smesso di bere — disse. — Ma, un momento fa, pensavo a una cosa.

— Pensavi? — chiese Ceneth con finta sorpresa. — E che cosa?

— Che se Sybel avesse una figlia, potrebbe sposare Tamlorn e controllarlo; in due generazioni, i Signori del Sirle diventerebbero Re di Eldwold.

— Non credo che Tamlorn sia disposto ad aspettare quindici anni, prima di sposarsi — disse Rok, asciutto.

— Comunque, potrebbe sposarsi con una ragazza del Sirle — disse Ceneth.

— La figlia di Herne, Vivet, compie dodici anni quest’estate.

— Drede non glielo permetterebbe mai.

— Sì? Il ragazzo ha in pugno la volontà di Drede; può convincerlo a fare quello che vuole.

— E chi può convincere Tamlorn a prestarsi a questo piano?

— Sybel, naturalmente.

Coren picchiò la mano sul tavolo, facendo traballare il vino nelle coppe. Stringendo il pugno, fissò i fratelli: Rok, grande e dai folti capelli biondi; Ceneth, dai capelli neri e lisci e gli occhi impassibili come quelli di un gatto; Eorth, lento e possente, volubile come una foglia. Eorth disse, arrossendo:

— Scusa, parlavo a vanvera.

— Certo.

— Anche noi — disse Ceneth, e per un istante rinfocolò la brace con la punta dello stivale. Poi si voltò, posò la mano sulla spalla di Coren e disse:

— Non succederà più.

Coren sospirò e accennò un debole sorriso.

— No — rispose. — Succederà ancora. Conosco questa casa. E so quanto poco valore abbiano le parole, in questi giorni. Come il volo del drago, alla fine mettono solo voglia di dormire.

— Sgradevole, ma vero — disse Rok.

Per qualche tempo, nessuno parlò più. Il fuoco si ridusse a una singola fiamma che danzava sulla brace. Eorth sbadigliò, rivelando denti bianchi e lucenti come quelli della Gatta Moriah.

— È tardi — disse, come se se ne fosse accorto soltanto in quel momento.

Anche Ceneth annuì.

— Vado a dormire.

Passò accanto a Sybel, le prese la mano e la baciò. — Signora, abbiate pazienza con noi.

Lei gli sorrise. — Siete così cortese che non c’è nessuna difficoltà ad averla.

Ceneth li lasciò. Gli altri continuarono a bere quanto restava del vino, mentre le torce si spegnevano pian piano e le ombre si addensavano attorno a loro. Coren posò la coppa sul tavolo e soffocò uno sbadiglio.

— Coren, va’ a letto — gli disse Sybel. — Sei stanco.

— Vieni anche tu.

— Tra un momento. Devo parlare con Rok, a proposito di Gyld.

— Sempre Rok. Ti aspetto.

— E poi voglio fare un bagno.

— Oh, allora…

Tirò indietro la sedia, si alzò in piedi e si sporse sul tavolo per baciarle la fronte.

— Non tenere sveglio Rok per troppo tempo — la avvertì. — Alla sua età, ha bisogno di sonni regolari.

— Alla mia età… — mormorò Rok. — Se non altro, non sono talmente torpido e sordo da diventare facile preda del primo sciocco al servizio di Drede.

— Dei tre primi sciocchi — lo corresse Coren. — Ne sono occorsi tre. Buona notte.

— Buona notte — disse Rok. Accanto a lui, Eorth ciondolava la testa e si lasciava sfuggire di mano la coppa. Rok gliela tolse e la posò sul tavolo.

— Eorth! — lo chiamò, ma l’altro cominciò a russare piano. Rok scosse la testa e tornò a rivolgersi a Sybel.

— Mi spiace di avervi assillato con le nostre richieste — disse. — Coren, comunque, ha ragione. Da quando Drede ci ha fermato a Terbrec, qui si parla molto e si combina poco.

S’interruppe per un attimo.

— Che cosa intendevate dirmi? — riprese poi.

Lei lo guardò attentamente. La sala era buia: la rischiarava soltanto la fiamma di un’ultima torcia. Sullo sfondo del silenzio che avvolgeva l’antica costruzione di pietra, si udiva distintamente il rumore del respiro di Eorth. Sybel si sporse verso Rok; i suoi occhi, nel fissare il Signore del Sirle, erano neri e immoti come la superficie di uno stagno di Fyrbolg illuminato dalla luna.

— Una cosa — disse infine — che non ho mai detto ad alcuno.

Rok non disse niente. Anche Eorth rimase in silenzio per un istante: mentre russava si era sentito improvvisamente mancare il fiato e si era svegliato. Ora li guardava con stupore, battendo gli occhi.

— Eorth, va’ a dormire — gli disse il fratello, seccato.

Eorth si sollevò pesantemente in piedi.

— Vado.

Rok contino a osservarlo mentre si allontanava. Poi si voltò verso Sybel, socchiudendo gli occhi.

— Dite.

Sybel appoggiò le mani sul tavolo e intrecciò tra loro le dita.

— Coren vi ha parlato del mago che mi ha chiamato a sé?

Rok annuì.

— Ci ha detto che eravate stata catturata… chiamata… da un mago molto potente che era attratto da voi, che il mago è morto e che voi siete ritornata libera. Non ci ha detto come è morto il mago.

— Lasciamo da parte, per il momento, questo particolare — disse Sybel. — Coren non sa che il mago era stato pagato da Drede perché mi catturasse e mi rendesse… obbediente ai suoi ordini, in modo che Drede potesse sposarmi senza avere paura di me.

— Obbediente… come?

Lei storse leggermente le labbra, poi tornò impassibile.

— Drede l’aveva pagato per distruggere una parte della mia mente, quella che sceglie e decide di propria volontà. Avrei conservato i miei poteri, ma Drede ne avrebbe avuto il comando. E io sarei stata… felice di obbedirgli.

Rok rimase a bocca aperta per la sorpresa.

— E sarebbe riuscito a fare una cosa simile?

— Sì. Era padrone della mia mente in un modo completo: più di quanto una persona qualsiasi sia normalmente padrona della propria. Io sarei stata controllata completamente da Drede; avrei fatto qualsiasi cosa lui mi avesse chiesto, senza fare domande e senza essere sfiorata dalla tentazione di oppormi, e poi, una volta esaudita la sua richiesta, sarei stata felice di averlo soddisfatto. Ecco cosa voleva.

Rilassò finalmente le dita; sollevò bruscamente una mano, come per tagliare l’aria.

— Per questo — disse — lo distruggerò.

Rok, appoggiato con la schiena alla sedia, esalò lentamente il respiro.

— Per questo avete sposato Coren? — le chiese. — Come parte della vostra vendetta?

— Sì.

— Non lo amate? — chiese, in tono quasi preoccupato.

— Lo amo — rispose lei, e appoggiò le mani sul tavolo.

— Lo amo — ripeté, piano. — È gentile, è buono ed è saggio: tutte cose che io non sono affatto, e, se dovessi perderlo, mi mancherebbero queste sue qualità. Proprio per questa ragione, non voglio che sappia cosa ho nel cuore. Potrebbe odiarmi per quello che faccio. Io… io non mi piaccio molto, in questo periodo. Ma voglio che Drede paghi.

“Voglio che anche Drede conosca la paura e la disperazione che ho provato nella sua torre. E, in parte, comincia già a conoscerle. Tamlorn mi ha riferito che è terrorizzato… e, dico io, ha dei buoni motivi per esserlo. Voglio la guerra tra lui e il Sirle, e voglio togliere a Drede ogni potere. Vi aiuterò a due condizioni.”

— Ditele — mormorò Rok, con un filo di voce.

— Che Coren non venga a conoscenza della parte da me svolta. E che Tamlorn non venga usato in alcun modo contro Drede. In cambio di questo, chiamerò i Signori di Niccon e di Hilt ad allearsi a voi contro Drede; userò contro Drede i miei animali; e per raccogliere e armare uomini vi darò il tesoro di un Re.

Rok la guardò senza parlare. Sybel gli vide la gola muoversi come se trangugiasse.

— Voi siete un sogno divenuto realtà, Signora — mormorò poi. — Dove prenderete il tesoro?

— Me lo farò dare dal Drago Gyld. Nel corso dei secoli ha ammassato una tale quantità d’oro che sarebbe sufficiente ad armare ogni uomo e ogni bambino dell’Eldwold. Se glielo chiederò, me ne darà una parte.

“Vedete, quel giorno è stato catturato anche il Falco Ter, e anche lui è stato costretto a fare da spettatore, impotente, mentre Drede e Mithran mettevano a punto il loro piano. Questa mattina, quando sono giunta sul Monte Eld, tutti gli animali sapevano ciò che ci avevano fatto.”

— Ma come siete sfuggita al mago, se era così potente?

— L’ha ucciso il Rommalb.

— Il Rommalb…

Sybel vide che cercava quel nome nella memoria. Poi Rok disse:

— L’incubo notturno… Come ha fatto?

— Lo ha… schiacciato.

Rok era sconvolto. Alla luce del focolare, sulla sua faccia non si muoveva neppure un muscolo.

— Ed è la creatura che Coren ha incontrato in casa vostra?

Lei annuì.

— Sì, e non è stato un incontro piacevole. Ma Coren è riuscito a fare una cosa che pochi altri uomini hanno fatto.

— Quale?

— È sopravvissuto.

Sybel raddrizzò la schiena e serrò i pugni.

— A fargli incontrare il Rommalb — spiegò — non sono stata io. È stata colpa del Cinghiale Cyrin, e la cosa mi ha terrorizzato. Ma Coren è molto più saggio di quanto mi aspettassi.

— Davvero — disse Rok. — È più saggio di quanto ci aspettassimo tutti. Perché non mandate contro Drede questo Rommalb?

— Perché voglio assaporare lentamente la mia vendetta — rispose Sybel. — Voglio che Drede sappia di momento in momento che cosa gli sta succedendo, e in che modo, e per colpa di chi. Le cose che teme di più al mondo sono da un lato la forza e l’energia del Sirle, e dall’altro me.

“Quel giorno è salito sulla torre di Mithran aspettandosi di trovare una donna che gli sorrideva, gli prendeva la mano ed eseguiva i suoi ordini. Invece non ha più trovato la donna, e il suo grande mago era steso a terra, con tutte le ossa spezzate.

“Da quel giorno, Drede vive nel terrore. Adesso, con il vostro aiuto, le sue stesse paure lo distruggeranno.”

Rok mosse lentamente la testa da una parte all’altra.

— Siete davvero spietata — disse.

— Certo. Se non accetterete la mia offerta, andrò a dormire e non se ne parlerà più. Ma con il Sirle o senza il Sirle, intendo distruggere Drede.

— Questa vostra vendetta — osservò Rok — coinvolge tante cose importanti per voi… l’amore di Coren, l’amore di Tamlorn. Volete metterle a repentaglio?

— Ho pensato a lungo a questo piano, una notte dopo l’altra. Conosco i rischi. So che se Coren scoprirà che mi sono servita di lui, o se Tamlorn sospetterà che intendo distruggere suo padre, saranno feriti in modo insopportabile e io perderò tutto ciò che amo al mondo. Ma la mia decisione è quella che vi ho comunicato.

— Ne siete certa?

Lei lo fissò negli occhi, senza battere ciglio.

— In un modo o nell’altro, lo farò.

Rok inspirò lentamente l’aria e poi la esalò.

— Allora, penso che lo farete come alleata del Sirle.

La costruzione del giardino per gli animali cominciò quella primavera, non appena il terreno si fu ammorbidito, e continuò per tutta la lunga estate.

Uno alla volta, Sybel chiamò nel Sirle i suoi animali: per primo il Cigno Nero, che prese posto in un piccolo laghetto di acqua cristallina, pieno di sassi levigati e di pesci che avevano il colore del fuoco.

Sybel andò a trovare il Cigno quando lo vide lentamente planare sul giardino e posarsi, nero come la notte e regale come un sovrano, sull’acqua immobile senza neppure incresparla.

Nei pensieri di Sybel, la voce del Cigno si levò melodiosa come un canto:

“È piccolo, ma grazioso.”

“Rok” gli disse Sybel “vuole mettere, in centro, una fontana di marmo bianco”.

“Che cosa raffigurerà, Sybel?”

“Due cigni con le ali tese, che volano verso l’alto e che si sfiorano con il becco.”

“Oh. E per quella faccenda che ti riguarda, Sybel?”

“La risolveremo. Presto.”

“Io sono pronto, se hai bisogno di me.”

Chiamò Gyld dalla cantina scura e umida in cui si trovava e il Drago tornò nuovamente a dormire in una grotta ombreggiata dagli alberi, rinfrescata da un rivolo del Fiume Slinoon che passava sotto le mura, scorreva davanti a lui e poi andava a defluire nel lago del Cigno.

Una ricchezza incommensurabile in gemme, coppe e monete d’oro lampeggiava adesso nell’ombra attorno a Gyld, poiché aveva insegnato a Sybel la strada per raggiungere la sua caverna e Rok aveva inviato Eorth, Bor e Herne a prelevare in segreto il tesoro.

Quando erano ritornati, tre giorni più tardi, i tre uomini erano esausti, sovraccarichi e pieni di reverenziale timore.

— Non siamo riusciti a portarlo tutto — disse Bor, rivolto a Rok e a Sybel.

Si strofinò gli occhi stanchi, come per cancellare una visione che non si lasciava descrivere a parole.

— Rok — riprese. — In certi punti, dovevamo farci strada in mezzo a uno strato di monete d’argento che ci arrivava alla caviglia. Nella caverna abbiamo visto le ossa di tre uomini, e su un teschio c’era una corona regale. E quello è l’animale che abbiamo messo nella nostra cantina con tanta disinvoltura!

— Non dovete avere paura di lui — disse Sybel. — Adesso è vecchio e non ha altri desideri che quello di potersi crogiolare nei propri sogni, circondato dall’oro che possiede. La caverna gli piace molto.

— Con quell’oro potreste comprarvi un regno — disse Herne, con una luce inquieta negli occhi azzurri.

Rok sollevò leggermente un angolo delle labbra.

— Già — disse.

Poi Sybel chiamò il Leone, e con lui la grande Gatta dagli occhi verdi: giunsero di notte e attraversarono come due forme di velluto i campi del Sirle illuminati dalla luna.

Sybel si recò ad accoglierli al cancello ed essi entrarono silenziosamente nel giardino, dove l’erba bisbigliava sotto i loro passi e gli alberi fioriti, immobili sullo sfondo del cielo notturno, parevano trasformati in argento dalla luce delle stelle.

“Prima dell’inverno vi prepareremo un ambiente riscaldato in cui abitare” disse Sybel. “Mi spiace che, per il momento, non possiate andare e venire liberamente nelle mie stanze, come facevate sul Monte Eld. Spero che in questi mesi gli abitanti del castello imparino a non avere paura di voi. Il posto è piccolo, ma isolato, e nessuno vi disturberà.”

Il Leone Gules si stese ai suoi piedi, nell’erba alta. La Gatta Moriah si mise a esplorare la zona, silenziosa come un’ombra, mentre il Cigno Nero continuava a galleggiare nel sonno sul suo lago inargentato.

“Il Signore del Sirle ha fatto molto per te, Bianca Signora” disse Gules. “Gli hai già parlato?”

“Sì. Gli ho offerto l’Eldwold. Ha accettato.”

Gules emise un breve ruggito dal profondo della gola. “Bene.” L’indomani mattina, anche Coren si recò a salutare gli animali. Portò con sé i fratelli, che assistettero in silenzio, mentre Gules faceva a pezzi un daino ucciso per lui da Coren.

Ceneth trasse un lungo respiro, a denti stretti.

— E voi — chiese — siete in grado di controllarlo?

Sybel annuì.

— Quando erano sul Monte Eld — spiegò — andavano quasi sempre a caccia per proprio conto, perché il giardino era molto grande. Ma qui, non posso lasciarli liberi di andare e venire a loro piacimento; ci sono troppe creature che si spaventerebbero… contadini, cavalli, mucche.

— Incaricherò alcuni uomini di andare a caccia per loro — disse Rok, e Sybel si rasserenò.

— Grazie. Adesso darò loro i vostri nomi.

Chiamò il Leone e la Gatta e il Cigno Nero; gli uomini rimasero immobili, sotto lo sguardo fisso e indagatore degli animali, mentre Sybel glieli indicava e li nominava uno alla volta.

“Rok. Bor. Eorth. Herne. Ceneth. Ricordatevi di loro. Difendeteli.”

— Non vedo il Cinghiale Cyrin — disse Coren. — L’hai chiamato?

— Non ancora.

Coren la fissò, sorpreso.

— Eppure, il suo posto dovrebbe già essere pronto — disse. — Chiamalo subito, Sybel. Si sentirà solo. Penserà che tu non gli voglia più bene.

Sybel trasse un sospiro.

— Spero che qui sia felice — disse.

Sollevò il viso verso il vento e gli affidò l’ultimo richiamo. Molto lontano, Cyrin, che era sdraiato sotto un albero, si levò sulle zampe.

— Cyrin — spiegò Eorth, rivolto a Herne — è il Cinghiale. Coren dice che parla.

— Io ci credo — rispose Herne, semplicemente. — Dopo quello che ho visto negli ultimi giorni, sono disposto a credere a qualsiasi cosa.

Quella sera Sybel parlò di nuovo con Rok, in privato, quando la casa cadde nel sonno e i cani si furono sdraiati ai loro piedi, a sognare. L’odore dell’estate si levava dai boccioli calpestati e dai nuovi tappeti di giunchi stesi sul pavimento di pietra, dai campi umidi di rugiada, dai germogli che spuntavano nei campi.

— Ho detto a Ceneth e a Bor che ci aiuterete contro Drede — le spiegò Rok. — Eorth e Herne sanno solo che ci prepariamo a una guerra. Loro non chiedono il perché e il percome, ma Ceneth e Bor non sono stupidi e l’avrebbero capito da soli. Sanno che il Sirle potrebbe anche vincere il Re di Eldwold, ma non le forze combinate di Drede e dei Signori di Niccon e di Hilt.

“Perciò mi hanno chiesto, naturalmente, dove avremmo trovato alleati, e io gliel’ho spiegato. Hanno approvato del tutto i nostri piani.”

Tacque per qualche istante, centellinando il vino. Poi riprese:

— Noi siamo stati allevati per combattere, Sybel. Nostro nonno portò contro Mondor l’assedio dei settanta giorni, e nostro padre, che a quell’epoca non era molto più vecchio di Tamlorn, combatté al suo fianco.

“Abbiamo continuato a desiderare la vendetta, da quando Norrel è morto nella Piana di Terbrec, ma in quella battaglia Niccon si alleò con Drede, e Horst di Hilt sollevò disperato le braccia al cielo e attese, davanti al corpo della figlia, di conoscere l’esito della battaglia. Perciò, non abbiamo mai avuto alleati su cui fare affidamento.”

Sybel gli chiese:

— E per chi combatterà, questa volta, Holt di Hilt? Combatterà per il torto fatto da Drede alla figlia di Laran, oppure prenderà le parti del figlio di Rianna, e di conseguenza quelle di Drede?

Rok scosse la testa.

— Neanch’io vorrei essere costretto a fare una scelta simile. Penso che Coren abbia ragione: Horst combatterà per l’uomo che, secondo lui, vincerà. In questo caso, Drede.

— Perciò — disse Sybel — devo convincerlo a cambiare idea.

Sollevò gli occhi per fissare Rok.

— E lo stesso vale per il Signore di Niccon — disse. — Quando dovrò portarvelo?

— Prima preferisco cominciare a raccogliere uomini. Drede si rivolgerà a Hilt e Niccon, chiederà assicurazioni, e quelli, senza dubbio, gliele daranno. Poi, Sybel, voi potrete chiamarli, e Drede si vedrà svanire tra le dita gli alleati come se fossero acqua… E penso che allora capirà chi c’è, dietro i preparativi del Sirle. Lei annuì.

— E Coren — chiese — sa cosa state macchinando?

— Lo saprà quando Herne ed Eorth cominceranno a parlare. Senza dubbio mi crederà impazzito, finché non vedrà arrivare a cavallo, qui nel castello, Derth di Niccon.

— Non deve sapere da dove arriva il denaro.

— Certo.

Sybel cambiò posizione, inquieta.

— Ho paura — disse.

— Di Coren?

— Sì. Tremo al pensiero di come mi guarderà, quando scoprirà come mi sono servita del Sirle.

— Non si tratta soltanto della vostra partita, ma anche della nostra. Voi ci avete offerto una possibilità, e noi ci siamo affrettati a coglierla. Inoltre, pensate che se gli diceste quel che vi ha fatto Drede non arderebbe dal desiderio di vendicarvi lui stesso? Perché non volete dirglielo?

— No.

— Ma perché? È vostro marito… vi sosterrà certamente nella vostra vendetta. Non ha simpatia per Drede.

Sybel serrò le labbra.

— Non intendo trascinare Coren — disse — nel vortice della mia collera e del mio odio. Nessuna vendetta compiuta da lui potrebbe soddisfare me, ed è inutile coinvolgerlo nella mia. Inoltre, desidero tenerlo lontano dall’odio.

“La notte in cui abbiamo volato con il Drago, all’improvviso siamo scesi in picchiata verso la terra, ci siamo precipitati verso l’oscurità, verso l’infinita profondità della notte, ciechi e inermi come quando non resta altro, di noi, che il centro della nostra personalità… In quel momento, dal profondo del suo cuore, è esplosa una risata vivace, gioiosa!

“Quando era perduto nel suo odio per Drede non sarebbe riuscito a ridere così. Può darsi che prenda parte a questa guerra perché, se qualcuno di voi morisse in battaglia, non si perdonerebbe di essere stato lontano. Ma io non intendo dargli qualche particolare motivo per combattere. Non lo farò di nuovo precipitare nel dolore e nell’amarezza. Mi ha donato molto amore. E io voglio dargli almeno questa protezione.”

Rok la fissò per qualche istante, con le labbra socchiuse, senza parlare.

— Non lo credo possibile — le disse infine, in tono gentile. — Ma vi ringrazio per avere provato.

L’indomani, nel pomeriggio, Sybel si recò nella stanza che Rok le aveva assegnato nelle parti più alte del castello, e rimase per molto tempo a sedere in silenzio, per svuotarsi la mente di tutti i pensieri e per poi cercare lo sfuggente Liralen nei luoghi più lontani e segreti.

I suoi libri erano schierati in ordine sugli scaffali, lungo le pareti, e il metallo e le gemme delle loro rilegature erano accarezzati dalle dita di luce che giungevano dalle finestre affacciate su tre lati. Dimenticato il Sirle, intenta a inviare per mille tese un richiamo che si spegneva sempre senza cogliere il bersaglio, senza risposta, senza trovare la preda, non vide Coren finché non si fu seduto davanti a lei e non ebbe pronunciato il suo nome:

— Sybel.

Lei ritirò la mente dalle lontane regioni in cui si era inoltrata allora per la prima volta, e fissò Coren in silenzio, battendo leggermente gli occhi.

— Coren, mi dispiace… non ti ho sentito entrare. Stavo chiamando il Liralen. Sto cercando in posti talmente lontani da non avere nome, eppure ho l’impressione che sia molto vicino; credo che a volte abbia perfino risposto, solo che io non sono riuscita a sentirlo.

— Sybel… — cominciò lui. Poi s’interruppe, aggrottando le sopracciglia in uno dei suoi rari istanti di preoccupazione. Lei allungò la mano e gli accarezzò le rughe sulla fronte.

— Che c’è?

Lui le prese la mano; le chiuse le dita fra le sue.

— Sybel, i miei fratelli parlano di guerra. Rok ha inviato messaggi ai nostri fittavoli di confine dicendo loro di lucidare l’armatura e di ferrare il cavallo da guerra, e ha mandato Bor ed Eorth dai piccoli signori dell’Eldwold che sono legati al Sirle da concessioni di terre e di favori.

“Gli ho chiesto perché faccia così; gliel’ho chiesto spesso, e lui ogni volta ride e dice che Drede deve avere paura di noi, perché, se così non fosse, mi avrebbe ucciso quel giorno, sul Monte Eld.

“Gli ho chiesto su che alleati può contare, e perché vuole rischiare la nostra vita e le nostre terre per una battaglia che non sarà altro che una seconda Terbrec, ma lui dice che farà ballare l’esca del potere davanti agli occhi del Signore di Hilt, che è nonno tuo e di Tamlorn.

“Mi ha detto che non si aspetta che io combatta contro Drede, padre del ragazzo che è stato allevato e amato da mia moglie, ma io non posso starmene tranquillo a sedere mentre i miei fratelli vanno alla morte.

“Perciò sono venuto da te, per vedere come mi guarderai quando ti dirò che combatterò con loro.”

Lei trasse un profondo sospiro e lo fissò negli occhi.

— Giunge così all’improvviso, questa guerra.

— Fin troppo. Rok dice che coglieremo Drede impreparato, dal momento che non se l’aspetta, ma io credo che quell’uomo amareggiato sia sempre stato pronto a combattere, in ogni momento della sua vita, e che il Leone del Sirle viva nel mondo dei sogni.

“Sybel, sei in collera con me? Sai che non vorrei combattere contro Drede e contro Tamlorn, soprattutto in una guerra futile e disperata come questa. Ma se io resterò al sicuro dietro queste mura, e i miei fratelli moriranno in battaglia, so già che rivedrò le loro facce e che sentirò la loro voce chiamarmi nei sogni, fino al giorno della mia morte.

“Mi potrai perdonare? O puoi darmi una ragione per non combattere, una ragione che valga anche al di là della morte dei miei fratelli?”

— No — bisbigliò lei. — Solo che ogni gioia, per me, sparirà dalla terra, se tu sarai ucciso. Coren, forse il Leone del Sirle non sta sognando. Forse Rok ha ragione e il Sirle sconfiggerà Drede, e nessuno sarà ucciso.

Lui scosse la testa, profondamente afflitto, disperato.

— Sybel, degli uomini moriranno. Forse non i miei fratelli, ma uomini del Sirle. Sulla Piana di Terbrec li ho sentiti piangere per le ferite, con voci stanche e spezzate, mentre io continuavo a combattere, e alla fine non sono più riuscito a capire, nella polvere, nel calore e nell’abbagliante luccichio del metallo, se erano veramente voci umane o se non si trattava della voce rotta e piangente dei miei pensieri, che mai più, in seguito, avrebbero riacquistato la sanità.

“Adesso, la stessa cosa pare destinata a ripetersi. Rok è pazzo. Io glielo ho detto, ma lui mi ha semplicemente risposto che nessuno mi obbliga a combattere. Ma sa benissimo che combatterò.”

— Non mi sembra che sia impazzito — disse lei, gentilmente. — Forse sa qualcosa che tu non sai.

— Spero di sì, per il bene di tutti.

Alzò una mano, le seguì con le dita il profilo dei capelli.

— Non sei in collera — disse poi. — Temevo che lo fossi. Temevo che mi lasciassi, che ritornassi sul Monte Eld.

— E cosa avrei trovato sull’Eld, oltre a una casa vuota? Coren, quando ti ho sposato, già sapevo che un giorno, prima o poi, ti avrei visto partire, e che avrei dovuto aspettare il tuo ritorno qui, dentro queste antiche pietre, come la moglie di Rok e la moglie di Eorth, senza sapere se mai ti avrei rivisto. Però, non mi aspettavo che succedesse ora, così presto.

— Anch’io — disse Coren — non mi aspettavo che Rok facesse una cosa simile; pensavo che potessimo vivere pacificamente per anni, prima che succedesse questo.

— Lo so — disse Sybel. — Ma le cose si sono ingarbugliate e ora non so più dire dove sia l’inizio del filo degli eventi. Perciò, tu devi fare quello che devi fare, e io… quello che devo fare io.

— Mi spiace — mormorò lui.

— No. L’unica cosa di cui dovresti dispiacerti sarebbe di morire, perché in tal caso io ti seguirei immediatamente.

— No.

— Sì, invece. Non ti lascerò vagare tra le stelle da solo.

Lui sorrise con timidezza, inghiottendo a vuoto. Le toccò le labbra, poi gliele baciò delicatamente. L’abbracciò, accarezzandole i capelli, e lei gli ascoltò il lento battito del cuore. Continuarono a sedere in silenzio, immobili nella macchia di luce, finché Coren non si staccò.

Si alzò in piedi e aiutò ad alzarsi anche Sybel. Poi disse, guardando fuori della finestra, da dietro la spalla di lei:

— Sybel, il Cinghiale Cyrin sta arrivando dai campi. Dovremmo scendere ad aprirgli.

L’argenteo Cinghiale li attendeva alla porta posteriore e le sue zanne splendevano alla luce del mezzogiorno. Rimase fermo per un attimo, ansimando contro i piedi di Sybel e guardandola con i suoi occhietti rossi; poi le disse con la sua voce flautata:

— Il gigante Grof fu colpito all’occhio da una pietra, e quell’occhio si voltò all’interno, in modo che poté guardargli nella mente. Di quel che ci vide, lui morì.

Sybel s’irrigidì. Coren fissò il grande Cinghiale, senza capire. Si voltò verso Sybel, e lei gli lesse negli occhi la domanda, e uno sguardo di sorpresa. Non trovò la risposta a nessuno dei due; perciò si limitò a tenere aperta la porta. Cyrin la varcò ed entrò nel giardino.

10

Sybel spostò per tutto l’Eldwold, come pezzi degli scacchi, i signori di Niccon e di Hilt, portandoli dai loro territori al castello del Signore del Sirle. Là essi si fermarono, sbattendo gli occhi come dopo un sogno, e Rok, sorridente, diede loro il benvenuto nella sua casa.

Mezzogiorno e sera, la casa di Rok cominciò a riempirsi di uomini che sedevano a tavola con cotte di cuoio e acciaio, con coltelli alla cintura, e che parlavano a bocca piena delle battaglie a cui avevano preso parte e delle cicatrici portate a casa come ricordo.

Nei cortili del castello echeggiava il sordo battere dei martelli: venivano forgiate le spade, riparati gli scudi, fissate punte di lancia a lunghi manici di frassino chiaro e dritto, costruiti carri, riparati finimenti e selle per i cavalli da guerra dalle zampe possenti.

Tutto questo fu visto da Horst Signore di Hilt e poi da Derth Signore di Niccon, un giovane dai capelli color del fuoco che aveva giurato eterna fedeltà a Drede, a nome suo e dei suoi discendenti: entrambi videro i preparativi e, rimirandoli nel proprio cuore, li trovarono buoni.

Derth di Niccon, che giunse a una settimana di distanza dal Signore di Hilt, si lamentò accoratamente, davanti al focolare di Rok, con una coppa di vino tra le mani:

— Non pensavo che aveste così tanti seguaci, altrimenti non avrei promesso tutto a Drede. Ma l’ho fatto perché pensavo alla Piana di Terbrec.

— Non intendo trovarmi di fronte a una seconda Terbrec — disse Rok, con calma, gli occhi che brillavano sotto la chioma bionda. Poco lontano da loro, una donna dai capelli color platino sedeva tranquillamente a ricamare, e i suoi occhi neri non si staccavano dalla faccia di Derth. Ma per lui quella donna era poco più di un’ombra che non si incide nella memoria.

Derth sospirò, picchiettando sulla coppa con l’unghia del dito indice.

— Posso darvi — disse — cinquecento uomini a cavallo e tre o quattro volte tanti a piedi.

— Il Signore di Hilt me ne ha promessi meno.

— I suoi territori non sono omogenei: in parte si tratta delle terre conquistate da Cam di Hilt durante l’assedio di Mondor dei settanta giorni. Gli uomini di questi territori sono ritornati alla loro antica obbedienza al Re di Eldwold.

— Be’, più avanti potremo convincerli ad allearsi a noi. Temo che Horst sia un po’ troppo vecchio per la guerra. Peccato.

Derth sbuffò. — Se proprio volete commiserare qualcuno, commiserate Drede. So che anche Horst gli aveva promesso il suo appoggio, inizialmente, prima di passare a voi.

Rok si limitò a sollevare educatamente le sopracciglia, come se la notizia lo sorprendesse; si astenne dai commenti.

In quel momento, Coren si stava facendo strada in mezzo ai tavoli dove era servito il pasto di mezzogiorno. Scorse i capelli rosso fiamma del Signore di Niccon e si immobilizzò a metà strada. Con un sorriso, Ceneth smise di mangiare e gli porse un boccale di vino. Coren fissò il fratello.

— Hai visto chi c’è?

— Certo.

— Derth di Niccon. Ceneth, come ha fatto Rok a convincerlo a venire? Drede ha dato terre e oro a suo padre, per l’aiuto fornitogli a Terbrec. Che cosa ci fa, Derth, al nostro tavolo?

Ceneth alzò le spalle.

— Probabilmente — disse — ha sentito che il Signore di Hilt è passato dalla parte del Sirle e preferisce combattere con lui che contro di lui.

— Ma, Ceneth…

Cercò le parole, non riuscì a trovarle, e bevve un sorso. Poi scorse Sybel e la raggiunse.

— Ti ho cercata dappertutto.

Lei batté le palpebre, sorpresa di vederlo. Il filo mentale con cui teneva il Signore di Niccon si spezzò.

— Coren…

Accanto a Rok, Derth si soffregò gli occhi.

— Mi sento assai confuso — disse.

Rok tornò a riempirgli la coppa.

— Siete stanco per il viaggio.

Poi si voltò, prese Coren per il braccio e lo allontanò da Sybel.

— Eorth ti cercava — gli disse. — Mi pareva importante.

— Voglio portare Sybel nei campi, a cavalcare un poco — disse Coren. — Non è abituata alla confusione, a tutto questo chiasso.

Tacque per un istante, poi si rivolse a Sybel:

— Che cosa stavi facendo, qui, con Rok e il Signore Derth?

— Oh — disse lei, mentre i pensieri le sfuggivano via dalla mente come uccelli spaventati. — Volevo parlare con Rok.

Rok aggiunse: — Era preoccupata. Eorth vorrebbe portare il Drago Gyld in battaglia.

— Cosa?

— Sì, e Sybel non è riuscita a dissuaderlo. Forse tu ci riuscirai.

Il Signore di Niccon guardò Sybel, dietro la figura di Rok.

— Voi siete Sybel? — chiese. — Ho sentito parlare di voi.

Lei gli sorrise, fissandolo negli occhi, e il Signore di Niccon tornò a sedere.

Coren disse, con irritazione:

— Forse, se lo legherò al suo cavallo, Eorth capirà. Sybel, aspettami qui.

Si voltò e tornò a immergersi nella folla. Rok ricominciò a respirare e si rivolse al sottomesso Signore di Niccon:

— Allora. L’assedio portato a Mondor da mio nonno era fallito perché non era riuscito a bloccare i rifornimenti che arrivavano in città dal Fiume Slinoon.

“Questa volta voglio che i nostri uomini attacchino via acqua, navigando fino al centro della città e sbarcando laggiù.

“Ci occorreranno molte barche. Niccon è la zona lacustre dell’Eldwold. Potete costruire barche sufficienti per trecento armati, e fornire gli uomini occorrenti per farle navigare?”

Il Signore di Niccon lo fissò come stesse dormendo a occhi aperti. Assentì.

— Certo.

— Assumerò su di me il costo dell’operazione.

— Per quando dovranno essere pronte?

Rok sorrise.

— Presto — disse — ma non c’è grande fretta. Sono certo che Drede non scapperà.

Quando ebbe terminato con lui, Rok affidò il Signore di Niccon alle cure di Lynette, e lei lo portò, perplesso e semiubriaco, ma entusiasta del progetto, nella stessa camera da letto dove meno di una settimana prima aveva dormito il Signore di Hilt.

Sybel si alzò e prese a passeggiare avanti e indietro nella sala vuota; Rok la guardò.

— A che cosa state pensando?

— Se porterò sul campo di battaglia gli animali, Coren li vedrà?

— Sarà impossibile impedirgli di vedere il Drago Gyld. Ma per quanto riguarda gli altri… Nella mischia, tra colpi e parate, probabilmente vedrà solo quello che si aspetterà di vedere. Ma perché rischiare i vostri animali? Non ci sarà bisogno di loro.

Sulle labbra di Sybel si disegnò un debole sorriso. Disse:

— Un giorno, il Principe Ilf partì con cinquanta uomini armati per prendere prigioniera la bellissima figlia di Mak, Signore di Macon; mentre era in cammino, Ilf scorse una Gatta selvatica nera, con il pelo che luccicava come una gemma levigata. La Gatta lo fissò con i suoi occhi verdi, e Ilf spronò subito il cavallo per darle la caccia. Nessuno più li rivide sulla faccia della terra, né lui né i suoi cinquanta uomini.

“I tre prodi figli del Re Pwill si recarono un giorno a caccia con i loro amici e videro un Cinghiale dalle setole d’argento e dalle grandi zanne, bianche come il petto delle loro nobili mogli. Pwill invano attese che facessero ritorno a casa; attese sette giorni e sette notti, e di quindici giovani soltanto il suo figlio ultimogenito rientrò dalla caccia. E quando rientrò era quasi impazzito.”

Rok la fissò.

— Lo stesso succederà a Drede — mormorò — se si vedrà sparire sotto gli occhi una parte del proprio esercito. E gli animali saranno disposti a fare questo per voi?

— Sì.

— Anche il Cinghiale? Dicevate che il Cinghiale non approvava il vostro attuale comportamento.

Sybel passò il dito indice lungo la superficie del tavolo, come per seguire una venatura del legno.

— Lo farà se gli ordinerò di farlo. Manderò il Cigno da Tamlorn, perché porti il ragazzo sul Monte Eld in caso di pericolo. E il Falco Ter lo proteggerà.

— E il Drago Gyld?

Sybel socchiuse leggermente gli occhi; sulle labbra le si disegnò un sorriso.

— Gyld dovrà portarmi Drede.

Rok scosse la testa.

— Adesso — disse a bassa voce — comincio ad avere pietà di lui.

Si udì giungere dall’esterno un rumore di passi. Voltandosi, scorsero Coren: con i capelli illuminati dal sole estivo, si fermò davanti alla porta aperta e si appoggiò con una mano alle pietre dello stipite. Fissò Rok e gli chiese lentamente:

— Perché mi hai mentito a proposito di Eorth?

Rok sospirò.

— Perché stavo raccontando delle menzogne al Signore di Niccon — disse — e non volevo che tu rischiassi di mettermi in imbarazzo lasciandoti scappare qualche inopportuna verità.

— Mi stai mentendo anche ora.

Coren entrò nella sala tranquilla e piena di luce, e si fermò a poca distanza da Rok: tra loro c’era meno di un palmo.

— Perché avevi bisogno della presenza di mia moglie per raccontare bugie a Derth di Niccon, che non saprebbe riconoscere la verità neppure se gli schizzasse fuori dalla coppa di vino come un salmone che risale la corrente?

— Coren… — disse Sybel, ma lui continuò a fissare la faccia di Rok.

— In questa guerra che state preparando ci sono molti lati oscuri — proseguì Coren. — E comincio ad avere l’impressione che preferirei non conoscerli mai. Come sei riuscito a portare dalla tua parte quel vecchio, Horst di Hilt, che solo questo inverno, allorché mi hai mandato a fargli visita, era terrorizzato da Drede e chiedeva solo di vivere in pace i suoi ultimi giorni, dimenticando la sua povera figlia e il pasticcio da lei combinato con i sentimenti di Drede?

“E perché Derth di Niccon, un uomo cui hai ucciso il fratello maggiore sulla Piana di Terbrec, viene a sedersi accanto a te, beve il tuo vino e fa con te progetti di guerra?

“E perché hai fatto i tuoi progetti prima ancora di parlare con loro? E perché, se tutte queste cose hanno una spiegazione accettabile, non hai avuto la cortesia di dirmela prima che fossi costretto a chiedertela?”

Rok non rispose. Trasse un lungo respiro, abbassando la testa per sfuggire allo sguardo del fratello. Coren strinse i pugni.

— Non raccontarmi un’altra menzogna — disse.

— Coren — disse Sybel.

Lui la fissò, e sul suo volto si disegnò la prima ombra di dubbio.

Per un lungo istante rimasero a fissarsi senza parlare, immobili come la rosa di raggi di luce che scendeva sui fiori calpestati del pavimento.

Poi Coren si allontanò da Rok, uscì dalla sala, scese gli scalini e si avviò nel cortile. Rok lo guardò mentre alternativamente entrava e usciva dalle macchie di sole proiettate dalle alte finestre. Poi sentì il sospiro di Sybel e si voltò verso di lei.

— Che cosa gli avete fatto? — le chiese, dubbioso.

— Non avrei voluto… — mormorò lei, portandosi le mani alla faccia. — Non avrei voluto farlo… non a Coren… non a lui. Ma non sapevo che cosa rispondergli… ed era così facile…

— Ma che cosa gli avete fatto?

— Gli ho fatto dimenticare quello che ha visto, quello che vi ha chiesto. E ora mi pento di averlo fatto.

Cominciò improvvisamente a tremare, e tra le dita con cui si copriva gli occhi le spuntarono le lacrime.

— Mi dispiace. Ma era così facile…

— Sybel… — disse Rok.

— Ho paura.

— Sybel. — Andò fino a lei e le posò gentilmente le mani sulle spalle. — È stato come raccontargli una bugia, niente di più.

— No! No! Gli ho tolto alcune cose dalla mente, come Mithran voleva fare con me! È una cosa che nessuno dovrebbe fare mai, né per odio né per amore!

— Ss! Oggi siete stanca per il lavoro di questa mattina e dimenticate lo scopo che ci siamo prefissi. Per Coren non è stato un gran danno. Per lui è meglio così, e non ci sarà bisogno di rifarlo.

— Ho paura.

— No. Non gli avete fatto niente, è stata come una piccola bugia… non lo rifarete più.

— No.

— Allora, non dovete preoccuparvi.

Lo sguardo di Sybel, che fino a quel momento era rimasto puntato sulla porta da cui era uscito Coren, ritornò a fissarsi sul volto del cognato.

— Non capite — gli disse. — Lui… lui mi crede onesta. E io gli ho mentito fin dal giorno in cui ci siamo sposati.

Abbassò improvvisamente lo sguardo sulle braccia di Rok, come accorgendosi solo allora che la teneva per le spalle. Si staccò da lui e corse fuori.

Vide che Coren stava uscendo in quel momento dalla porta principale del castello e si dirigeva verso i campi. Gli corse dietro, nel cortile, passando davanti alle nuvole di vapore che uscivano dalla fucina del fabbro, ai colpi di martello provenienti dalla bottega del falegname, alle facce stupite dei contadini e dei soldati che si facevano da parte per lasciarla passare.

Coren si sentì chiamare e si fermò sulla strada coperta di polvere. Attese che Sybel lo raggiungesse, e, quando lei si avvicinò, un sorriso gli spuntò sulle labbra. Tese le braccia per abbracciarla, e lei gli premette la guancia contro la spalla.

— Stringimi — gli sussurrò, e le braccia di Coren formarono intorno a lei un cerchio di pace. Lui la sentì tremare.

— Che cosa ti è successo?

— Niente. Stringimi.

— Hai pianto.

— Sì.

— Perché hai pianto?

Lei aprì gli occhi: fissò i campi bruciati dal sole e il cielo color turchino ardente. Sentì che Coren la stringeva ancora più forte.

— Pensavo — mormorò lei, e le parole le bruciarono nella gola — a cosa avrei provato se fossi rimasta senza di te… e non ho potuto sopportarne l’idea.

— Sybel, cosa posso dire per confortarti? Non avremo conforto finché questa guerra non sarà finita. Ma avevi ragione: Rok non è affatto impazzito, e il Sirle ha una speranza di vittoria, grazie a qualche magia che non riesco a concepire.

“Perciò, forse sarà una guerra molto breve… anche se la cosa non ti può essere di molta consolazione, dato che Tamlorn sarà coinvolto in qualsiasi caso. Ma sono felice che tu mi voglia ancora bene, tanto da piangere per me nonostante i tuoi timori per lui.”

— Ti voglio bene. Ti voglio bene.

Si sciolse infine dal suo abbraccio e lui lasciò ricadere le braccia e si guardò attorno, perplesso.

— Ho dimenticato perché sono venuto qui. Mi sono spaventato, quando ti ho visto correre verso di me, con i capelli che sembravano una scia d’argento e la faccia bagnata di lacrime.

— Già. Te l’ho fatto dimenticare — bisbigliò lei senza che Coren la sentisse. — Mi dispiace.

Lui l’abbracciò di nuovo, e insieme ritornarono al castello. Intorno a loro, mentre attraversavano un campo di grano, si levò un volo di corvi neri.

Quella sera, Sybel parlò ai suoi animali. Aveva chiamato da Mondor anche il Falco Ter, che era giunto al crepuscolo ed era piombato come una meteora dal cielo, già azzurro cupo per l’avvicinarsi della notte. Il Falco si posò su un ramo, tra le fitte foglie verdi dell’estate, e lei gli disse:

“Ter, parlami di Drede.”

“È un uomo atterrito fino in fondo al cuore, fino al midollo delle ossa” disse il Falco dagli occhi scintillanti. “Grida, nel sonno, tiene sempre accesa qualche torcia nella sua stanza. Ha paura delle ombre notturne. Dietro i suoi occhi vedo sempre più infittirsi una paura che va ben oltre il timore della battaglia, come una spessa coltre di ghiaccio invernale. Si mormora che stia diventando matto, ma lui cerca di non dare esca a queste voci, e parla il meno possibile.”

“E Tamlorn?” chiese Sybel.

“Tamlorn si limita a osservare. Mi porta sempre con sé; parliamo fino a tardi, la sera, e a volte si addormenta mentre ancora sta parlando. Vorrebbe che tu aiutassi Drede. Mi ha detto di chiedertelo. È disperato.”

“E tu?”

“Io sono pronto.”

“Sta’ attento a ogni parola che possa essere utile a Rok. Nel corso della battaglia, ti voglio al fianco di Tamlorn, per proteggerlo.”

Sollevò la testa e chiamò il Cigno Nero. Il Leone Gules venne ad accucciarsi ai suoi piedi e accanto al Leone si acciambellò anche la Gatta Moriah; poi, con un tocco della mente, Sybel svegliò il Drago Gyld nella sua caverna. Infine anche il Cinghiale Cyrin, luccicante in mezzo all’ombra, uscì dagli alberi e si diresse verso di lei.

Per un lungo momento che mise alla prova la forza e la resistenza della sua mente, tendendo la sua concentrazione fino ai limiti, Sybel tenne ferme le sei menti orgogliose e inquiete dei suoi grandi animali.

“Ascoltate. Quando il Signore del Sirle e i suoi fratelli usciranno dai confini del loro territorio per attaccare battaglia, il Falco Ter e il Cigno di Tirlith voleranno a Mondor, per raggiungere Tamlorn. Da quel momento in poi, a ogni istante, il Cigno dovrà essere pronto a portarlo sul Monte Eld, in caso di pericolo.

“Ter, tu difenderai Tamlorn. Moriah, Gules e Cyrin, voi dovrete comparire all’esercito di Drede, prima e durante la battaglia, allontanando gli uomini dal loro posto grazie alla magia dei vostri occhi e della vostra bellezza.

“Gyld, tu resterai con me finché Drede non sarà stato sconfitto: poi mi porterai il Re, nella torre del mago di Mondor.

“Tenetevi discretamente fuori vista, finché l’esercito non sarà pronto a muoversi. E state lontano dagli uomini di Rok. Non correte rischi inutili, salvo che per proteggere Tamlorn e, se lo giudicate necessario, per proteggere Coren.

“Tu, Ter, non toccare Drede. A meno che non sia ucciso in battaglia, voglio che giunga a me vivo.”

Il vento soffiò piano nella notte silenziosa. Sybel, sentendosi improvvisamente stanca, tacque per qualche istante, poi tornò a rivolgersi ai suoi animali.

“Le leggende che parlano di voi sono innumerevoli, ma tutte risalgono al passato. Di quel che farete in questa battaglia, gli arpisti parleranno per anni, toccando con meraviglia le corde dei loro strumenti, e i vostri antichi illustri nomi echeggeranno ancora, onorati e riveriti, tra le pareti di pietra delle corti degli uomini, con un suono puro come quello dell’oro fino.”

Tacque di nuovo, e in un solo istante sentì il rapido, pulsante battito dei pensieri di Ter, i gioielli perduti dei ricordi di Gules e di Moriah, la serena acquiescenza della mente lunare del Cigno Nero, le tortuosità del pensiero corrusco di Gyld, e, nella mente di Cyrin, il costante incalzare degli interrogativi, uno dopo l’altro, infiniti, intessuti senza posa dal filo sottile dei suoi pensieri.

Si staccò da loro, esausta, e, mentre attendevano silenziosamente accanto a lei, si riposò per qualche istante. Poi cominciò a sentire le loro domande.

“Vuoi che uccidiamo gli uomini di Drede?” chiese Moriah. “Oppure dovremo lasciarli liberi, dopo un certo periodo?”

“Non voglio la loro vita. Per qualche tempo fateli girare in tondo, poi lasciateli andare.”

“Perché non mi lasci combattere?” chiese il Drago Gyld. “Potrei disperdere l’esercito di Drede passandoci sopra una sola volta!”

“No. Spaventeresti anche gli uomini di Rok. Aspetta pazientemente insieme a me.”

“Sul Monte Eld” disse il Cigno “potrebbero essere appostati degli uomini. Dove dovremo andare, allora?”

“Allora” disse Sybel “porterai Tamlorn nel Sirle. Ma prima portalo sul Monte, e aspettami lì, se non c’è pericolo.”

“Che cosa intendi fare di Drede?” chiese il Falco Ter.

“Niente. Solo fissarlo negli occhi, una volta che sarà tutto finito, una volta che non gli sia rimasto niente… né il potere né la corona, e neppure Tamlorn a consolarlo. Mithran è stato fortunato, rispetto a lui. Ma forse, ancor prima di quel momento, sarà impazzito.”

“E cosa intendi fare di te, dopo?” chiese il Cinghiale Cyrin.

Sybel lo fissò negli occhi rossi e tacque. Le foglie si mossero nel vento, sopra di lei, come per un improvviso soffio di brezza, poi si immobilizzarono. Infine, lei mormorò a se stessa:

— Non lo so.

Qualche giorno più tardi, nella sala del castello fece il suo ingresso una donna magra e alta, dal naso lungo, con ricchi anelli alle dita e i capelli in disordine, bianchi e ricciuti. Entrò così silenziosamente che giunse al fianco di Rok senza che nessuno la notasse, mentre lui sedeva a pranzo, con Lynette da un lato e Bor all’altro.

La vecchia lo tirò per la manica; Rok si voltò, sorpreso, e si vide fissare da due occhi grigi come l’acciaio.

— Dov’è Sybel?

— Sybel? — ripeté lui.

Fece correre lo sguardo lungo la tavola.

— Dev’essere uscita — disse. — Probabilmente è con Coren. Forse sono… Vecchia, chi siete? Volete accomodarvi con noi? Non vi ho sentito entrare.

Dopo essersi guardata attorno, lei tornò a fissarlo.

— Oh, sono solo un vecchio spaventapasseri dall’occhio acuto: la fattucchiera del Monte Eld. E voi dovete essere il Leone del Sirle. Avete davvero un’incantevole famiglia, tutti questi bambini dalle guance di pesca e tutti questi fratelli di nobile aspetto. Ho fatto una tale camminata dal Monte Eld a qui…

— Una camminata! — esclamò Rok. Al suo fianco, Bor si alzò educatamente in piedi.

— Accomodatevi, Signora. Mangiate qualcosa con noi.

Lei gli sorrise, e si passò le mani sulle tempie per ravviarsi i capelli.

— Davvero gentile… — disse sedendosi. E poi: — Oh, che sollievo. Sono Maelga, la madre di Sybel.

Alla sua destra, Ceneth, che stava bevendo una coppa di vino, emise un suono strangolato.

Maelga si voltò verso di lui.

— Sono l’unica madre che abbia avuto — disse. — Ma forse pensate che, come madre, una strega di montagna non possa essere un granché.

— Sono certo che siate stata meglio di niente — azzardò Ceneth, debolmente. Rok lo fissò e lui arrossì.

— Be’, non ne sono tanto sicura — disse Maelga candidamente, frugando in un piatto di noci e di frutta secca. — Altrimenti, non avrei dovuto fare tutta quella strada dal Monte Eld al Sirle per scoprire perché il Cinghiale Cyrin è venuto a trovarmi, sbuffando, per raccontarmi una storia incredibile.

Poi, accorgendosi che Rok si guardava attorno e che tutti facevano una faccia preoccupata e incuriosita, aggiunse:

— Oh, non sarà mica un segreto?

— Vecchia, che cosa volete? — chiese Rok, piano.

Maelga sospirò.

— Albicocche secche, con dentro una lacrima di miele… quando vedo i dolci, ridivento bambina. Vedete, Rok, io ho fatto molte cose, al crepuscolo; cose oscure, a lume di candela, di cui è meglio parlare a voce bassa. Sono una vecchia con la mania di ficcare il naso negli affari degli altri, e la gente mi dà anelli e pellicce e bei fazzoletti di seta. Io intesso le mie stoffe su un piccolo telaio, con fili di colori semplici. Ma Sybel… adesso intesse una trama con un telaio grande come l’Eldwold e usa fili di vivo scarlatto.

— L’ha scelto lei.

— Sì, ma il mio vecchio cuore si spaventa. Si è spaventato anche Cyrin, che è un Cinghiale tanto vecchio e saggio.

“Rok, voi, quando la guardate, vedete una donna bella e decisa, che, grazie ai suoi poteri, è la stella della fortuna venuta a splendere sul Sirle. Io invece vedo una bambina con una ferita infiammata che finirà certamente per portarla alla morte.”

Rok posò lentamente la coppa sul tavolo. Maelga lo guardò, inarcando le sopracciglia, appoggiando il mento sulle dita coperte di anelli.

Rok rimase in silenzio per qualche istante, tamburellando con le dita sulla coppa d’argento.

— È vero — disse alla fine, a voce bassa, in mezzo al vociare della sala. — Sta intessendo un arazzo vivo, in cui compare lei e compaiamo anche noi, oltre al Re di Eldwold e ai suoi vassalli. Ma ormai si è spinta troppo avanti per potersi fermare, e lo stesso vale per me.

“Sybel non è una bambina: ha progettato questa campagna con me, un passo dopo l’altro, e ha mantenuto il segreto perfino con Coren.

“Io lo faccio per avere il potere; è un gioco che mi è stato insegnato dai miei antenati e lo giocherò finché il gioco stesso non mi ucciderà. Anche Sybel sta giocando la sua partita di potere: non per ottenerne, e neppure per la fama, ma per avere una sorta di cupo trionfo su Drede e anche su Mithran.

“Quando l’avrà ottenuto, lei tornerà a vivere tranquillamente con i suoi animali e con Coren. A me invece non basta sapere che il Sirle può sconfiggere Drede. Io devo agire di conseguenza, e poi continuare ad agire per conservare il mio potere.

“Ma Sybel è più fortunata. Può raggiungere un grande potere e poi buttarlo via, accontentandosi di sapere che, se volesse, potrebbe riaverlo.

“Se così non fosse, io ne avrei paura quanto Drede. Ma in lei c’è anche posto per l’amore: l’amore per Coren, per i bambini, per le cose semplici e tranquille della vita. Credo che questo glielo abbiate insegnato voi, Maelga, quando le avete voluto bene. Non preoccupatevi. Si vendicherà e poi sarà soddisfatta.”

Maelga l’ascoltò senza dire niente, con il mento appoggiato alle mani ingioiellate. Poi abbassò le braccia e disse:

— Non sono mai riuscita a parlare con i leoni… non riesco a ringhiare. Dov’è Sybel?

— Potrebbe essere con gli animali. La manderò a chiamare.

— No. — Maelga si alzò in piedi. — Ditemi dove la posso trovare. Ci andrò da sola.

— Vi accompagnerò, e poi vi lascerò sole.

Spostò la seggiola e si alzò in piedi, poi guidò Maelga fra i tavoli, attraverso la sala.

— Ma se Coren è con lei — l’avvertì Rok — parlate del clima, delle costellazioni celesti o di come non abbiate voluto accettare cibo alla tavola del Signore del Sirle. Coren non sa niente; Sybel ci tiene a non farglielo sapere.

La trovarono nel giardino: c’era anche Coren, ed entrambi ridevano, accanto al laghetto, mentre il Cigno Nero prendeva dalle mani di lui pezzetti di pane. La Gatta era stesa pigramente al sole caldo; il Cinghiale Cyrin grufolava oziosamente tra l’erba, all’ombra di un albero frondoso.

Nel sentire il rumore del cancello che si chiudeva, Sybel si voltò verso Maelga. Il suo sorriso si trasformò in un’espressione di stupore.

— Maelga!

Coren si voltò, lanciò nell’acqua i resti del pane e seguì Sybel, che intanto le gettava le braccia al collo.

— Sono contenta di vederti.

— Bambina mia, sei diventata così… così radiosa! Fatti guardare.

Si tirò indietro di un passo, per ammirarla. Poi le disse:

— Non sei scesa a trovarmi, quando sei venuta sul Monte.

— Come sai che…

— Me l’ha detto il Cinghiale Cyrin. Mi ha detto molte cose.

Lo sguardo di Sybel si rabbuiò. Guardò il marito, che le sfiorò la guancia con la mano.

— Me ne vado. Vi lascio parlare.

Lei gli sorrise.

— Grazie, Coren. Sono solo chiacchiere di donne.

— Quando una delle due è una strega e l’altra è una maga, permettimi di dubitarne — disse luì.

Ma si allontanò. Le due donne si guardarono per qualche istante, senza parlare. Poi Maelga incrociò le braccia e chiese:

— Bambina, cosa stai facendo?

Sybel sospirò.

— Siediti — disse. — Come sei arrivata fin qui?

— Con le mie gambe.

— Oh, Maelga, avresti dovuto prendere un cavallo.

— Avevo paura della persona a cui avrei dovuto rubarlo…

Si sedette accanto a Sybel, sull’erba, sotto un melo dai robusti rami.

— Cyrin mi ha riferito una storia che gli è stata raccontata dal Falco Ter: la storia di un Re e di un falco dalle bianche ali, chiuso in una torre…

Sybel guardò severamente l’argenteo Cinghiale.

— La saggezza che non ha mai imparato il silenzio — gli disse — è tanto più sgradevole quanto meno è richiesta.

— Perché non mi hai parlato di quello che ti ha fatto Drede? — chiese Maelga.

Sybel serrò le labbra.

— Perché la cosa mi faceva troppo male — disse. — Perché la mia collera arrivava fino al profondo del cuore e non c’erano parole che potessero esprimerla. Quel piccolo Re voleva…

Si chinò sull’erba e prese a strapparne nervosamente i fili.

— Né le tue parole né quelle di Cyrin saranno sufficienti a fermarmi.

— Sybel — disse Maelga — non so cosa intendi fare, ma so che Tamlorn è venuto da me, due giorni fa…

— Tamlorn?

— Aveva paura. Ha detto che la guerra stava ribollendo in tutto l’Eldwold contro suo padre, e che il Re dava la colpa a te. Ha detto che alcuni feudatari che avevano promesso di aiutare suo padre si erano improvvisamente alleati al Sirle, senza ragione. Ha detto che il Re cammina come una statua di pietra.

“Sybel, mentre mi raccontava queste cose, sedeva accanto al mio focolare con gli occhi sbarrati, senza battere ciglio, con le mani appoggiate sulle braccia e l’espressione di un morto. Non gli erano rimaste più lacrime.”

Sybel prese un filo d’erba e lo fissò a lungo senza guardarlo. Poi rabbrividì.

— Il mio povero Tamlorn… ma presto finirà.

— E che cosa succederà, poi?

— Drede perderà il trono. Forse anche la ragione. Forse la vita.

— E Tamlorn?

— Rok lo nominerà Re. Presto sposerà la figlia di Herne, Vivet, e da loro sorgerà la dinastia dei Re di Eldwold e del Sirle.

— E Coren? Mi hanno detto che non sa niente di tutto questo.

— Maelga, così come farò quel che potrò per distruggere Drede, farò quel che potrò per tenere Coren all’oscuro di quanto sto facendo…

— E in che modo? Distruggendogli nella mente un paio di pensieri?

Sybel fece una smorfia di dolore. Lasciò cadere la testa sulle ginocchia, per sottrarsi agli occhi grigi e penetranti di Maelga.

— No — disse. — Non lo farò più. L’ho fatto una volta. Una volta sola. E non voglio più farlo. Piuttosto di rifarlo, preferirei perderlo.

“Maelga, ho fatto un passo nel buio e non mi tirerò indietro per nessuna parola dell’Eldwold. Sono felice di vederti, ma adesso ho l’impressione che tu non sia altrettanto felice di vedere me. Sono stata ferita, e adesso devo restituire il colpo. Punto e basta. Mi spiace per Tamlorn. Ma è l’unica cosa di cui mi dispiaccia.”

— Tu non capisci — sussurrò Maelga. — Bambina, Tamlorn ama quell’uomo. Drede è l’unico al mondo che possa guardare negli occhi Tamlorn e dargli il suo orgoglio. E tu lo stai spingendo alla follia davanti agli occhi del ragazzo.

— Che importa? — ribatté Sybel.

Si alzò in piedi di scatto, volgendo il viso verso la brezza del pomeriggio, e il vento le agitò i capelli e glieli annodò dietro, inquieti.

— Deve trovare da solo il proprio orgoglio, Maelga.

Si coprì la faccia con le mani e sentì scorrere tra le dita le lacrime. Si strofinò gli occhi.

— Non posso perdonarlo — mormorò. — Mi piange il cuore per Tamlorn, ma non posso. E non voglio. Non piango per me. Soltanto per Tamlorn. E lui… ne attribuisce la colpa a me?

— Sospetta che qualche azione di Drede ti abbia fatto inquietare. Ma non crede… non vuole credere che tu abbia spaventato Drede fino a questo punto, perché sai che lui lo ama.

“Oh, certo, nel suo intimo vede certe cose, e chiude gli occhi del cuore per non vederle, come fanno i bambini per non vedere il buio. Ma quando dovrà per forza aprire gli occhi, Sybel, che cosa gli dirai? Che conforto gli darai? Il suo cuore cercherà di fuggire ogni contatto, come un animale ferito.”

— È colpa di Drede — disse Sybel.

Poi scosse bruscamente la testa.

— No. È anche colpa mia. Ma Drede non avrebbe mai dovuto cercare di rovinarmi.

— E adesso ci sta riuscendo — commentò Maelga.

Sybel si voltò verso di lei e la fissò, aggrottando la fronte.

— Può darsi, ma adesso l’ho scelto io. Drede è stato uno sciocco, e lo è stato anche Mithran, perché hanno sottovalutato la donna dai capelli color dell’argento che erano riusciti a catturare. E nessuno di loro ripeterà l’errore.

S’interruppe per qualche istante, poi aggiunse, in tono più gentile:

— In questo periodo sono dura e ostinata. È impossibile farmi retrocedere. Maelga, parliamo d’altro, di piccole cose. Mi spiace di non essere potuta passare da te quella sera, ma le guardie di Drede ci avevano scoperto, quando sono venute a cercare Tamlorn, e ci è parso meno rischioso andarcene senza passare da te, perché forse avevano lasciato degli uomini per sorvegliarci.

Maelga si fece scorrere tra le dita i lunghi fili d’erba. Nel sentire il discorso di Sybel, aveva corrugato la fronte, ma disse solo:

— Sei felice, allora, con il Principe del Sirle?

— Sì. Non desidererei nessun altro, mai. Vorrei dargli dei figli, se… se li vorrà ancora, una volta finito tutto questo.

— Non ne aspetti nessuno?

— No. — Tornò a sedere sull’erba. — Ma forse è meglio così, per il momento. Qui sono felice, Maelga. La gente mi vuole bene, e i bambini e le donne mi sembrano così luminosi, così contenti, in mezzo a queste pietre grigie. Sento la mancanza dei venti forti e ruggenti, dei chiari ruscelli e delle tranquille radure del Monte Eld; anche gli animali ne sentono la mancanza, a volte, ma, complessivamente, siamo abbastanza soddisfatti, qui tra gli uomini.

“Rok mi ha messo a disposizione una stanza, in cima al castello, con finestre rivolte a nord, a est e a sud, e lassù ho portato i miei libri. Vado in quella stanza a leggere e a mandare i miei richiami. E sento anche la tua mancanza: non posso correre da te per farmi consolare. Anche se non c’è nessuno, in questo periodo, che potrebbe darmi conforto.”

Maelga si spostò una ciocca di capelli che le era scesa sulla fronte.

— Anch’io sento la tua mancanza. Però mi rendo conto che non sei più una bambina. Sei diventata una regina fra gli uomini. Non saresti più felice tra i sassi e gli alberi del Monte.

“Ma a volte mi pare di vedere la tua figura, che scivola a piedi nudi tra le grandi colonne dei pini, con un bambino dai grandi occhi che le corre al fianco. E questa tua immagine mi induce a fermarmi e a sorridere. E poi ricordò che sono solo ombre, che i miei bambini sono diventati grandi e si sono allontanati da me, sono andati per la loro strada…”

Sospirò, agitando come ali le lunghe mani.

— Ma sono stata fortunata ad averti avuta con me — concluse.

Sybel afferrò delicatamente quelle mani inanellate color della pergamena.

— E io sono stata fortunata ad avere te — disse piano. — Ero orgogliosa e selvatica come i miei animali, il giorno che sono entrata in casa tua. La poca educazione che ho, mi è stata insegnata da te e da Tamlorn, e, più tardi, da Coren.

“Ma sono ancora selvatica, orgogliosa come mio padre e come mio nonno prima di lui, nel mio profondo, là dove vola libero quel bianco falco che nessuno può catturare. Questo orgoglio che sta dentro di me grida vendetta per sempre… l’orgoglio delle mie conoscenze e del mio potere.

“Lo stesso orgoglio ha portato Myk ad allontanarsi dagli uomini e a isolarsi sul Monte Eld per costruire la sua casa bianca e catturare la perfezione. Ma, grazie a te e a Tamlorn, ho imparato ad amare qualcosa, e non solo la pura conoscenza. E Coren mi ha insegnato la gioia. Può darsi che io non sia tanto capace di amare, Maelga, ma è solo colpa mia… perché gli insegnanti che ho avuto sono stati bravissimi.”

— Mia bianca bambina — mormorò Maelga — quando sei scomparsa dalla tua casa, quella sera, ho pensato che non ti avrei mai più rivisto, e anche se il mio cuore è ormai avvizzito, ho provato un immenso dolore. E quel dolore torno a provarlo oggi. Ti inoltrerai di nuovo nella notte e, quando alla fine ti rivedrò, troverò davanti a me gli occhi di un’estranea.

— Per te sarò un’estranea, Maelga, ma io non mi sono mai sentita così vicina a me stessa. È terribile a dirsi, ma il senso di trionfo che provo è talmente grande che non riesco neppure ad averne paura. È come se nei miei pensieri fossi il Drago Gyld, che vola in alto, nel cielo oscurato dalla notte, ed è immenso, possente, irresistibile, orgoglioso di tutti i suoi ricordi di battaglie, di uccisioni, di furti, di canti in cui il suo nome è pronunciato con terrore e reverenza. In tutto il mondo non c’è nessuno che possa fermare il trionfo del mio volo notturno. Quando il volo sarà finito, questa cosa dentro di me troverà un posto dove raggomitolarsi a dormire e io potrò dimenticarmene.

— Ma riuscirai a dimenticartene? — chiese la vecchia. — Rok continuerà a chiederti sempre nuovi interventi… gliel’ho letto in quei suoi occhi da Leone. E Tamlorn… spingerai anche Tamlorn a chiederti di usare il tuo potere.

— No. Tamlorn è buono. E Rok mi lascerà tranquilla, per amore di Coren.

— Ne sei certa? E sei certa che, a quel punto, vorrai ancora bene a Coren?

— Gliene vorrò ancora. Come gliene voglio adesso — disse Sybel.

— Ma stai volando da sola, lontano da lui… mi chiedo se sarai disposta a ritornare a terra, dopo il tuo volo.

Sybel sospirò. Lasciò la mano di Maelga e si passò la punta delle dita sugli occhi.

— Sono stanca — disse — di questo carosello incessante di domande, di perplessità, di “ma” e di “se”. Prima darò fuoco all’Eldwold, e solo in un secondo tempo controllerò se sono rimasta intrappolata nel cerchio di fiamme o se invece sono al sicuro, fuori… Maelga, anche tu devi essere stanca, dopo tutta quella strada a piedi. Vieni nelle mie stanze; potrai mangiare, lavarti, riposare.

— No, non voglio riposare in questa casa.

— D’accordo. Se non vuoi rimanere con me, Rok ti farà accompagnare da qualcuno in casa di Herne o di Bor.

Maelga le diede un colpetto affettuoso sulla mano. Si alzò in piedi, un po’ a fatica, e si spazzolò dal vestito i fili d’erba.

— No — rispose. — Rimarrò a riposare qui, per un poco, con i tuoi animali. Mi andrò a sedere vicino al Cigno Nero. È così bello, quel suo laghetto. Non mi sono mai piaciute le case degli uomini… è così complicato entrare e uscire.

Sybel le scoccò un sorriso.

— Certo — disse.

La prese sottobraccio e si recò con lei fino al lago. Il Cigno Nero scivolò maestosamente sull’acqua verso di loro.

— Vado a prenderti qualcosa da mangiare e del vino — disse Sybel. — Se vuoi dormire qui, stanotte, resterò con te.

Maelga si sedette sulla riva del laghetto.

— Oh, che stanchezza. Il sole è così dolce, d’estate, sulla pelle di una vecchia. E tu sei ancora gentile, quando non si tratta dei tuoi poteri. La cosa mi consola.

— Tornerò presto — promise Sybel.

— Non c’è fretta, bambina mia. Farò un sonnellino.

Maelga chiuse gli occhi e Sybel si recò al cancello senza far rumore, altrettanto silenziosamente lo chiuse e si girò per allontanarsi. Poi, quando alzò lo sguardo, scorse davanti a sé la figura di Coren. Trasalì di sorpresa.

— Oh…

Lui allungò lentamente le mani e la prese per le braccia. L’osservò attentamente in viso, aggrottando le sopracciglia, perplesso, come cercando di leggere qualche antica parola che non riusciva a decifrare. Poi inspirò profondamente e disse:

— Sybel, cosa stai facendo?

11

Sybel sentì una gelida stretta al cuore; il sangue le si raggelò e prese a scorrerle più lentamente nelle vene. Si portò un dito alle labbra e si accorse che tremavano; le parve di avere la gola secca come la polvere del deserto.

— Calmati, Coren. Maelga sta dormendo.

— Sybel!

— Lasciami andare. Non ho intenzione di mentirti.

Lentamente, lui la lasciò andare. Strinse i pugni e li abbassò. La fissò, e Sybel vide i riflessi del sole sui suoi occhi e il rossore delle sue guance. Poi Coren cominciò a parlare lentamente, pronunciando con attenzione le parole:

— Sono andato nelle…

— Ss!

— Sono stato zitto per troppo tempo! Sono andato nelle stalle, e c’erano Ceneth e Bor. Bor si stava sellando il cavallo per ritornare a casa. Li ho sentiti pronunciare il tuo nome… ridevano, dicendo che hai fatto venire in casa di Rok il vecchio Signore di Hilt e lo hai reso docile come un bambino.

“Io ero lì, mentre ridevano, e mi è parso di essere colpito da uno schiaffo. Mi sono sentito girare la testa, e… in quel momento mi hanno visto, perché avevo emesso un gemito, e la loro risata si è spenta come quando, con un soffio, si spegne una candela.”

— Coren… — mormorò lei.

— Sybel, perché? Perché sono il primo a conoscere tutte le tue parti esteriori e l’ultimo a conoscere ciò che hai nella mente? Perché Rok, Ceneth e Bor sapevano tutto, e io no? Perché non mi hai detto che cosa stavi facendo? Perché mi hai mentito?

— Perché non volevo che mi guardassi come mi stai guardando adesso… — disse lei.

— Sybel, questa non è una ragione!

— Smettila di gridare! — esclamò lei, all’improvviso. Trattenendo il fiato, si portò le mani alla fronte e si massaggiò le palpebre. In quel momento di oscurità, Sybel sentì la vicinanza dell’uomo, il suo silenzio carico di tensione, il ritmo profondo del suo respiro.

— D’accordo — mormorò Coren. — Non grido più. Tu mi hai curato, una volta, quando ho rischiato di morire, e adesso dovresti farlo di nuovo, perché sono di nuovo ferito e malato. Comincio a chiedermi, Sybel, perché hai deciso di sposarmi, così all’improvviso, dopo quella terribile notte in cui sei sparita, e perché tu sia tanto nemica di Drede da scatenare contro di lui l’intero Sirle.

“Questi pensieri mi picchiano nel cervello… non riesco a fermarli. Non dirmi altre bugie.”

Sybel abbassò le mani, e rivolse al marito uno sguardo velato da una patina di stanchezza.

— Drede aveva pagato Mithran perché mi catturasse e mi distruggesse la volontà.

Coren emise un rantolo. — Drede? Drede?

Lei annuì.

— Drede voleva sposarmi e servirsi di me senza dovermi temere. Il Rommalb ha ucciso Mithran, schiacciandogli le ossa. E io voglio schiacciare Drede sotto le sue stesse paure; per mano del Sirle, voglio togliergli ogni potere.

“Mi sono servita del nostro matrimonio per spaventare Drede; fin dall’inizio ho pensato di usare i miei poteri a favore del Sirle e contro di lui.

“Non ti ho detto questo perché la mia vendetta riguarda soltanto me, e non te, e perché non volevo che tu soffrissi nel venire a sapere di essere stato usato. Adesso lo sai e ne soffri, e io, questa volta, non so se sarò in grado di curarti le ferite.”

Lui la fissò. Inclinò leggermente la testa, come se cercasse di cogliere un suono lontano, perduto nel vento. Infine disse, in un roco bisbiglio:

— Non lo so neppure io… Signora del Ghiaccio, mi pare di tenerti fra le mani e poi ti sciogli e mi scivoli via tra le dita… Come hai potuto ferirmi così? Come hai potuto?

Sybel non riuscì più a trattenere le lacrime. La figura di Coren le si velò davanti agli occhi.

— Ho cercato con tutte le mie forze di tenerti all’oscuro… per risparmiarti questo dolore…

— Ma… mi vuoi davvero bene? O sono soltanto uno dei tanti, straordinari e meravigliosi animali che usi a seconda delle tue necessità e che poi metti da parte quando hai altro da fare?

— Coren…

— Potrei uccidere Rok per questo affronto, e anche Ceneth e Bor, ma anche se cancellassi l’Eldwold dalla faccia della terra, continuerei a deridermi da solo fino alla morte. Io ti amo. Avrei fatto a pezzi Drede con le mie mani, se tu mi avessi detto che ti aveva fatto del male. Perché non me l’hai detto? Per te, avrei scatenato una guerra quale non s’è mai vista nell’Eldwold.

— Coren… proprio per questo. Non volevo trascinarti nel mio odio e nella mia collera… non volevo farti sapere… quanto posso essere fredda e terribile.

— O che non hai bisogno di me.

— Ho bisogno di te…

— Hai bisogno di Rok e Ceneth più che di me. Sybel, non capisco che gioco stai facendo. Pensi che se ti conoscessi avrei paura di te? Che cesserei forse di amarti?

— Sì — mormorò lei. — Come sta succedendo adesso.

Coren l’afferrò per le braccia e la scosse violentemente, facendole male.

— Non è vero! Che cosa credi sia l’amore? Una cosa che ti fugge via dal cuore, come un uccello spaventato, al primo grido o al primo movimento? Puoi volare via da me, salire quanto vuoi nella tua oscurità, ma continuerai a vedermi sotto di te, per quanto tu ti allontani, e, se guarderai il mio viso, lo vedrai sempre girato dalla tua parte.

“Il mio cuore è dentro il tuo. Te l’ho dato quella sera, insieme con il mio nome, e tu sei il suo guardiano: puoi farne tesoro, oppure lasciarlo appassire e morire.

“Io non ti capisco. Sono in collera con te. Sono ferito e non posso oppormi, ma non c’è niente che potrebbe riempire il dolore del vuoto che troverei in me al posto del tuo nome, se dovessi perderti.”

La lasciò. Lei lo fissò a occhi sbarrati, con i capelli che le scendevano sulla faccia. Poi, Coren si allontanò improvvisamente da lei. Sybel tese la mano per fermarlo.

— Dove vai?

— A cercare il Leone del Sirle.

Lo seguì, faticando a tenere il suo passo rapido, furioso. Rok era ancora seduto a tavola, nella sala vuota, e Ceneth sedeva ingobbito accanto a lui, con una coppa in mano.

Rok osservò impassibile il fratello minore, che veniva verso di lui con gli occhi fiammeggianti e la faccia arrossata; quando Coren sferrò un pugno sul tavolo, e Ceneth sobbalzò, Rok disse semplicemente:

— So tutto.

— Se sai tutto, perché l’hai fatto?

— Lo sai.

Tacque per qualche istante, poi riprese, con una punta di stanchezza nella voce:

— Una donna si è presentata a me e mi ha offerto il suo oro e il suo potere per distruggere l’uomo che ha ucciso Norrel e che ha messo in ginocchio il Sirle sulla Piana di Terbrec.

“Io non ho pensato a lei, non ho pensato a te. Ho semplicemente accettato ciò che desideravo, giorno e notte, da tredici anni. Io ho fatto quello che ho fatto. E tu, cosa intendi fare? Anche tu hai desiderato questa guerra.”

— Non in questo modo!

— La guerra è guerra. Che cosa vuoi, Coren? Permettere che il male che Drede ha fatto a tua moglie resti impunito?

Coren strinse i pugni, tremante.

— Mi sarei recato a Mondor da solo, senz’armi, per ucciderlo con le mie mani, se Sybel me lo avesse detto allora. Ma lei, invece, è venuta da te. E adesso mi trovo davanti a un cerchio di segretezza, lo vedo per la prima volta, e non so che nome dare a ciò che vedo. Dove hai gli occhi, Rok del Sirle? Non hai visto che mia moglie, un passo alla volta, un momento dopo l’altro, si distruggeva nelle menzogne, nell’amarezza, nell’odio? E tu la guardavi tranquillamente, senza dire niente! Tu hai usato lei come lei ha usato te. E adesso, che cosa resta di voi due? Io conosco la strada senza fine lungo cui si è incamminata… e la conosci anche tu. Eppure non hai alzato un solo dito per fermarla, non mi hai detto una sola parola perché la fermassi io.

Rok sollevò una mano, si passò stancamente le dita sugli occhi. Ceneth, curvo sulla sua coppa di vino, alzò la testa.

— Cosa intendi fare, Coren? Potresti ucciderci tutti, eccetto Herne ed Eorth, che non ne sapevano niente. Oppure potresti rifiutarti di combattere. O potresti cercare di dimenticare il tuo orgoglio ferito e accettare l’inevitabile.

— L’inevitabile?

Si girò su se stesso, così rapidamente da far trasalire Sybel. La fissò come se la vedesse per la prima volta.

— Lo è davvero? — le domandò.

Lei chinò la testa.

— Coren — disse. — Io ti amo. Ma non posso fermare questa cosa.

Coren l’afferrò per le spalle.

— Sybel — disse — una volta, ho rinunciato per te a una cosa del genere: a un sogno di vendetta, a un incubo di dolore che era come una lunga malattia. Adesso lo chiedo a te. Rinuncia a questa cosa. Se non vuoi farlo per me, fallo per Tamlorn.

Lei lo guardò. — Ti prego — mormorò.

Coren si staccò da lei; abbassò le mani.

— Dunque, lo desideri fino a questo punto — disse. — Hai imparato quello che temevi imparasse Tamlorn: il gusto del potere. Bene, fa’ la tua guerra. Ma non so cosa ti resterà, quando sarà finita.

Girò le spalle e si allontanò. Sybel, senza parole, lo guardò uscire. Poi, quando non fu più in grado di vederlo, si accostò al tavolo e si lasciò cadere su una sedia. I due uomini la fissarono, convinti che stesse per piangere.

Qualche istante più tardi, vedendo che si limitava a rimanere lì immobile, Ceneth riempì di vino una coppa e la spinse fino a lei. Sybel la toccò, senza bere, e la fissò con occhi vacui. Infine bevve un sorso che le riportò un po’ di colore alle guance.

Ceneth si passò le mani fra i capelli neri.

— Mi spiace — disse. — Raccontare tutto nella stalla, come due bambini… Quello sguardo l’ho visto in più di un uomo ferito, ma mai sul volto di un uomo ritto sulle proprie gambe. E poi, deve ancora nascere la donna che non complotta, almeno un poco, alle spalle del marito.

— Allora — disse Sybel — sono come tutte le altre donne. È una consolazione. Solo che Coren non è come gli altri uomini.

Con la punta delle dita, si massaggiò per un istante gli occhi.

— Non voglio parlarne — riprese. — Vi prego. Facciamo in modo di finire in fretta. Quando avrà pronte le barche, Derth di Niccon?

— Tra una settimana, forse. Gli occorre tempo per raccogliere gli uomini.

Lei sospirò.

— Allora — disse — dovrò imparare a guardare Coren negli occhi. Sono lieta di non dover guardare in quelli di Tamlorn.

Rok, dall’altro lato del tavolo, le sfiorò la mano.

— Potremmo finire senza di voi — disse — adesso che abbiamo Hilt e Niccon.

— No.

Sorrise senza alcuna gioia.

— Devo ancora catturare un Re. Dobbiamo soffrire insieme, io e Drede… e poi non so che cosa succederà.

Chinò la testa, appoggiandosi la fronte sulle mani.

— Non so — ripeté.

— Sybel. Vi perdonerà. Comprenderà che vi è stata fatta un’offesa terribile, e vi perdonerà.

— L’unica cosa di cui deve farsi perdonare — disse Ceneth — è di non avergli permesso di attaccare Drede di persona, per vendicare la propria moglie.

Sybel fece un gesto di irritazione.

— Non l’ho sposato — disse — perché era facile a incollerirsi ed era svelto di spada.

— Ma, Sybel, se lo amate, dovreste sapere queste cose. Lo avete profondamente ferito nell’orgoglio.

— Io sono stata ferita ancora di più. Coren pensa che non lo ami, e forse ha ragione. Non so. Non so più dire che cosa sia l’amore. Mi comporto senza alcuna pietà verso coloro che amo di più, Tamlorn e Coren, e non posso fermarmi solo per il loro bene. Tutto deve continuare a trascinarsi, pesante e faticoso, fino alla sua irreversibile conclusione.

— Vi ama molto — disse Rok, in tono gentile — e avrete moltissimi anni per imparare a vivere l’uno con l’altra.

— O l’uno senza l’altra — disse Sybel.

Fece per alzarsi.

— Ero venuta a cercare qualcosa da mangiare per Maelga. Non vuole entrare in casa, ma sta riposando in giardino.

Si alzò in piedi. Per un attimo rimase in silenzio, pallida in volto, appoggiando la mano alla tavola come se non riuscisse a muoversi. Rok la toccò, e lei abbassò gli occhi su di lui come se si fosse dimenticata della sua esistenza.

— Non deve avere paura di voi — disse Rok. — E credo che lo amiate, davvero, altrimenti non sareste così triste. Abbiate pazienza. Presto, tutto sarà finito.

— Presto è una parola tanto lunga — mormorò lei.

Si recò nella cucina, prese del pane, un po’ di formaggio, frutta, carne e vino per Maelga, e portò il vassoio in giardino. Si fermò davanti al cancello aperto, guardò in mezzo agli alberi, ma vide solo il Leone e la Gatta che passavano sinuosamente fra i tronchi, seguendo un loro misterioso gioco, e il Cinghiale Cyrin che dormiva al sole. Inviò un messaggio mentale al Cigno Nero:

“Dov’è Maelga?”

“La strega si è svegliata e se n’è andata” rispose il Cigno. “Ha detto che il mondo era troppo grande per lei.”

Sybel aggrottò la fronte, impensierita. Andò da Cyrin e lo svegliò.

“Maelga ha detto qualcosa, per spiegare perché è andata via?”

“No” rispose il Cinghiale. “Ma quando il Signore di Dorn entrò nella buia casa del Signore degli Enigmi…”

— Lo so, lo so — terminò Sybel stancamente. — Non accettò né cibo né vino, e non vi passò la notte… Cyrin, il cibo della mensa di Rok è del tutto innocuo.

Continuò a fissare il vassoio finché non le parve qualcosa di sconosciuto, proveniente da un altro mondo. Poi, afferratolo con entrambe le mani, girò su se stessa e lo scagliò in mezzo agli alberi: vino, carne e pane caddero tra le foglie come pioggia, e il pesante vassoio d’argento descrisse nell’aria un arco di rapide volute, finché non toccò terra, sonoramente, accanto al Leone e alla Gatta. I due animali la guardarono con sorpresa e si immobilizzarono. Lei restituì loro l’occhiata, con sorpresa quasi pari alla loro. Poi girò sui tacchi e si allontanò.

Sybel sedeva accanto alla finestra, intenta a ricamare un falco bianco sul mantello di Coren, e guardava il lento calar della notte sulle foreste del Sirle. Infine vide Coren, che giungeva al galoppo attraverso i campi: la sua figura era una forma scura sotto il cielo azzurro cupo. Nell’aria tranquilla si levò il grido con cui il Principe del Sirle avvertiva le sentinelle, seguito dal rombo del ponte levatoio che veniva abbassato. Poco più tardi, Sybel udì echeggiare i suoi passi lungo il corridoio.

Le mani le ricaddero in grembo; alzò gli occhi in direzione della porta chiusa. Lui l’aprì e, vedendo la moglie, ebbe un attimo di esitazione. Poi entrò e chiuse la porta.

— Perché non sei scesa a mangiare? — le chiese.

— Non avevo fame — rispose Sybel.

Guardò il marito, e vide che si versava del vino.

— Dove sei andato? — domandò.

— Nella Foresta di Mirkon. Sono rimasto a sedere e a giocare con una pietra, che però non mi ha insegnato niente. Vuoi del vino?

— Grazie.

Le portò la coppa e si sedette accanto a lei, alla finestra. Lei lo osservò mentre beveva: il suo volto era tranquillo e pallido alla luce delle candele.

Coren posò la coppa e sollevò un lembo del mantello che lei stava ricamando.

— Ci sono ancora delle cose che non capisco, in questa guerra tua e di Rok. Devi avere fatto venire qui anche il Signore di Niccon… da solo, non sarebbe certamente venuto.

— Sì.

Nel dirlo, Sybel sentì un nodo alla gola; inghiottì a vuoto. Aggiunse:

— E ti devo confessare anche un’altra cosa, per essere del tutto sincera.

Lui la fissò con uno sguardo carico di apprensione, ma mormorò solo:

— Dimmela.

— Tu hai visto Derth… Stavi per capire cosa facevamo, il giorno in cui è venuto. Hai chiesto spiegazioni a Rok, dopo avere scoperto che ti aveva mentito a proposito di Eorth, e… ho letto nei tuoi occhi il dubbio, quando mi hai guardato.

— Non ricordo.

— Non ricordi perché te l’ho fatto dimenticare.

— Me l’hai?…

— Ti sono entrata nella mente. Ho trovato quei ricordi e te li ho tolti: dopo, per te, è stato come se non fosse mai successo.

Coren rimase senza parole.

— Te lo dico — spiegò Sybel — perché tu capisca che è successo una volta e che non succederà più.

— Capisco — mormorò lui.

Si portò la coppa alle labbra; le mani gli tremavano leggermente. La posò sulle pietre, vicino a loro.

— Non pensavo che saresti arrivata a farmi una cosa simile…

— Per questo sono corsa da te, piangendo. Perché ti avevo fatto quello che Drede e Mithran volevano fare a me. In quel momento ho avuto paura di me stessa. Ma quando mi hai preso tra le braccia e mi hai stretta, ho sentito che… se mi amavi, non potevo essere quella che stavo diventando. Ma ora non ho più nessuno che mi dica di non avere paura. Che cosa vedi, adesso, quando mi guardi?

— Una sorta di estranea, dietro quei tuoi occhi neri — disse Coren.

Si sporse verso di lei; con le dita, le sfiorò la guancia e disse, con una tristezza che addolorò profondamente Sybel:

— Dov’è la donna che quella notte, sul Monte Eld, dormiva così tranquillamente tra le mie braccia?

— Mi spiace — mormorò lei. — Mi spiace di averti sposato.

Lui abbassò le braccia, serrando i pugni.

— Temevo di sentirti dire queste parole.

Chiuse gli occhi.

— Che cosa devo fare adesso? Non posso smettere di amarti.

— Coren, non voglio che tu smetta. Solo… ti farò del male, come ne farò a Tamlorn. E penso che, quando tutto sarà finito, nessuno di voi mi perdonerà.

— Tamlorn. Che ne sarà di lui, nei tuoi progetti? Il tuo bambino che amava le volpi rosse?

— Ne faremo un Re, sotto la tutela del Signore del Sirle. E un giorno mi guarderà e vedrà anche lui un’estranea.

— E Drede? Che cosa pensi di farne?

— Dopo la battaglia, mi occuperò di ciò che resterà di lui. Non mi interessa la sua morte, mi interessa solo la sua vita, e ormai è talmente terrorizzato da me che è quasi impazzito.

S’interruppe, vedendo che Coren si alzava in piedi, stupito e incredulo.

— Sybel — disse lui — come puoi portarci alla follia tutt’e due, con tanta freddezza?

— Non è freddezza! Anche tu hai conosciuto l’odio, me lo hai detto tu stesso! E allora come ti scorreva il sangue nel cuore? Denso e bruciante? Come odiavi? Hai coltivato la vendetta a partire da un minuscolo germoglio, pallido come la luna? L’hai piantato nelle parti notturne del tuo cuore, l’hai visto crescere e fiorire e dare frutti scuri che poi ti sei visto maturare davanti agli occhi, pronti per farsi raccogliere?

“Sappi che poi diviene una grande, contorta massa di foglie brune e di viticci spessi e intrecciati, che soffoca e fa appassire ogni buona cosa che ti cresce nel cuore; si alimenta di tutto l’odio che il cuore può dargli… Ecco come è in me, Coren. Le gioie che mi hai dato e il mio amore per te non sono sufficienti ad abbattere questa pianta oscura che cresce in me. Ho pensato alla vendetta fin dalla notte in cui sono venuta verso di te, nella casa di Maelga, con la veste strappata, in modo che potessi vedermi e desiderarmi come mi aveva desiderato Mithran…”

Sentì il sibilo del respiro che passava tra i denti di Coren. Poi, lui la colpì: uno schiaffo improvviso, sulla bocca, che la fece tacere per la sorpresa.

— Per te non ero niente di più! Niente più di Mithran!

Lei si portò la mano alla bocca.

— Nessuno mi aveva mai colpito, finora — disse.

Coren la fissò, e, vedendo che rimaneva immobile, emise un gemito.

— Non ti importa più di me. Oh, Bianca Signora, che cosa farò, adesso?

Si allontanò da lei, ciecamente. Sybel vide che cercava la maniglia della porta, che l’apriva. Affondò la faccia tra le pieghe del suo mantello, ma anche nel buio degli occhi chiusi le parve di continuare a vedere il dolore di Coren.

Terminò il mantello per lui: un mantello blu con ricamato il falco dei Signori del Sirle, bianco come la neve; il giorno in cui lo finì, da Niccon giunse notizia che le barche erano pronte e che stavano già viaggiando su un affluente dello Slinoon che partiva dal Lago del Re Perduto, all’estremo settentrione di Niccon. Rok chiamò a sé i fratelli, e Sybel sedette con loro, accanto a Coren.

— Tra due giorni dobbiamo incontrarci con Derth di Niccon, nel punto dove il Fiume Edge sfocia nello Slinoon — disse Rok. — Horst di Hilt si unirà alle nostre forze a Mondor, arrivando da est. Dovrà farsi strada tra gli uomini dei suoi territori che hanno scelto Drede; perciò, Eorth e Bor, voi dovrete condurre in suo aiuto metà delle nostre forze, per schiacciare questa resistenza.

“Noi terremo impegnato Drede a Mondor; il suo esercito è accampato sullo Slinoon, poco a monte della città. Lo ricacceremo indietro, verso Mondor. Ceneth, tu e Herne seguirete con gli uomini il corso del fiume, fino all’interno della città, per impadronirvi della roccaforte di Drede, e per…”

S’interruppe, vedendo che Coren dava segno di voler parlare.

— Manda me, al posto di Herne — disse Coren.

— No, ti voglio qui.

— Voglio andare io — insistette Coren. — Herne è un grande combattente, ma non ragiona. Io, invece, sì. E per entrare vivi nel cuore della città di Drede occorre saper ragionare.

Rok sospirò.

— È un regalo per Sybel — disse, senza mezzi termini. — Tu verrai con me.

— Io andrò con Ceneth, oppure non combatterò. Penso a Tamlorn. Chi impedirà a qualche grande guerriero, eccitato dallo spargimento di sangue, di uccidere un bambino indifeso che ha la sola colpa di essere figlio di Drede?

— Il Falco Ter sarà con lui — disse Sybel.

Coren si voltò a guardarla, e Sybel notò, come sempre più spesso le succedeva in quei giorni, le ossa che gli sporgevano sotto i lineamenti, le linee di fatica sotto gli occhi.

— Vuoi che vada con Rok? — le chiese Coren.

Lei scosse la testa. Aveva appoggiato le mani sulla superficie del tavolo, e si torceva nervosamente le dita.

— Fa’ quello che devi fare. Ma davvero vuoi salvare Tamlorn? Oppure vuoi sfidare la morte, vuoi rivolgerle un indovinello?

Anche se Coren teneva le labbra serrate, Sybel vide distintamente che stringeva i denti.

— Hai davvero il terzo occhio, Sybel. Ma il mio orgoglio mi vieta di rimanermene alla retroguardia con Rok. Se sfidassi Drede a duello e ti portassi la sua testa sulla punta della spada, saresti soddisfatta?

— No — disse lei, con voce tremante.

— Quale dono vorresti da me, allora?

— Coren, lascia perdere — mormorò Ceneth. — Puoi odiarci fin che vuoi, ma dobbiamo prepararci a una battaglia. Tu puoi combattere con noi o contro di noi, oppure non combattere affatto, ma prendi una decisione e poi rispettala.

— Oh, combatterò con voi — disse Coren. — Ma non voglio rimanere al sicuro con Rok mentre tu e Herne vi affilate le spade sulle pietre del focolare di Drede.

Si voltò verso Rok.

— Laggiù c’è un giovane che conosco, e che un giorno correva a piedi scalzi sul Monte Eld. Adesso perderà il padre in battaglia e vedrà uccidere davanti ai propri occhi le sue guardie del corpo. Come difesa avrà soltanto un Falco, che non potrà rassicurarlo dicendogli che sopravviverà per poi divenire Re di Eldwold.

“Un giorno quel ragazzo mi ha salvato la vita. Voglio evitargli almeno una parte di paura. Permettetemi di fare almeno questo, per lui.”

Rok guardò Sybel, ma la donna si copriva la faccia con le mani. Infine il Leone del Sirle disse:

— Tu e Ceneth guiderete all’interno della città un gruppo di uomini di vostra scelta. Il Falco Ter dirà a Sybel dove si trova Tamlorn, e lei a sua volta lo dirà a Coren.

— No — disse Sybel, abbassando le mani. — Non voglio mai più entrare nella mente di Coren. Quando Ter ti volerà incontro, saprai che Tamlorn è vicino. Se però il ragazzo dovesse correre dei pericoli, il Cigno ha ordine di portarlo sul Monte Eld.

— E se Drede lo avesse nascosto? — chiese Ceneth. — Come potremmo sapere dove si trova? Non potreste far sapere a Coren… fargli scivolare nella mente l’informazione…

— No.

Ceneth sospirò. — Allora, ditelo a me, e io lo dirò a Coren. Vi siete messa in contatto con tante menti, finora, che una più una meno…

— Ceneth — disse stancamente Rok. — Piantala.

— Ma io pensavo di…

— Pensavi? — disse Coren, e la domanda schioccò nell’aria come lo spezzarsi di una lastra di ghiaccio. Ceneth arrossì.

— Va bene — disse. — La pianto. Ma mi chiedo contro chi, esattamente, tu stia combattendo in questa guerra.

Eorth calò pesantemente sul tavolo una delle sue enormi mani.

— Ceneth, piantala — implorò. — Ho già dimenticato una buona metà di quel che Rok ci ha detto. Se vogliamo smetterla di combattere a tavolino per passare al combattimento sul campo, dovete smettere di litigare, tutti.

— Questa è la cosa più saggia che ti abbia mai sentito dire — commentò Bor, con un brontolio.

Sybel tornò a coprirsi gli occhi con le mani.

— Se Tamlorn sarà in pericolo — disse — troverò il modo di farvelo sapere. Ma vi devo avvertire di una cosa. Potrete vedere sul campo di battaglia alcuni animali strani e bellissimi, se vi avvicinerete agli uomini di Drede.

“Non seguite quegli animali. Oh, li conoscete, li avete visti qui, ma nella magia del loro adescamento diventano stranamente affascinanti. Li ho avvertiti di tenersi lontano da voi, ma dovete avvertire anche i vostri uomini, perché non rischino di risvegliarsi, qualche ora o qualche giorno più tardi, perduti in qualche tranquilla foresta.”

Sulla faccia magra e irrequieta di Herne si disegnò improvvisamente un sorriso.

— Cantando di questa guerra, i cantori spezzeranno le corde dell’arpa per secoli a venire.

— Sì — disse Eorth — ma prima voglio sentire di nuovo, con esattezza, cosa succederà fino all’arrivo degli animali.

Rok si riempì la coppa e riprese pazientemente la spiegazione.

Infine il crepuscolo scese sui cento occhi di fuoco che circondavano la casa dei Signori del Sirle. Sybel, lasciata a Rok e agli altri guerrieri la stesura degli ultimi piani di guerra, rimase a fissare dalla sua alta finestra il caotico schieramento dei bivacchi. Poi, con l’addensarsi della notte, giunse finalmente anche Coren. Sybel appoggiò la faccia alle pietre fresche del davanzale e ascoltò i rumori che lui faceva mentre si spogliava. Il fruscio della lana che sfregava sulla lana, il soffio del suo respiro contro la fiamma della candela.

Allora, anche Sybel si svestì e scivolò nel letto accanto a lui. Rimase sveglia, ad ascoltare i sussurri del silenzio, e dal respiro irregolare di Coren capì che anche lui era sveglio. Poi il vento della notte prese ad alitare sopra di loro, e le passò sulla guancia come un dito freddo.

Alla fine anche il respiro di Coren divenne più lento e regolare; ma Sybel rimase sveglia ancora a lungo, osservando alla debole luce della luna il movimento della spalla e del torace di Coren, che salivano e scendevano all’unisono con il suo respiro. Poi si girò dall’altra parte coprendosi gli occhi con la mano, e pensò a Drede, che certamente, nella sua stanza di pietra, non riusciva a prendere sonno e guardava la luce della torcia dilagare sulle pareti. A un certo punto Coren si scosse, interrompendo il filo dei pensieri di lei; poi tornò a respirare tranquillamente e si mosse ancora, emettendo un breve gemito.

In quel momento, nel silenzio delle tenebre, Sybel sentì la presenza di un’ombra sospesa sopra i suoi pensieri, come se qualcuno la stesse segretamente osservando. Si voltò bruscamente verso quell’ombra.

Sopra di lei c’era il Blammor. Non ebbe neppure il tempo di lanciare un grido, prima che gli occhi di cristallo della forma di buio, lontani e distaccati come stelle, incontrassero i suoi. Poi l’oscurità l’inghiottì e Sybel sentì rintoccare attorno a sé, da tutti i lati, il pesante, imperioso battito del proprio cuore.

Le si affacciò alla mente una lunga serie di immagini: da quella di un mago steso a terra, con tutte le ossa spezzate, su ricche e soffici pelli, alla maschera assunta in punto di morte da tutti gli uomini che, nel corso di epoche immemorabili, avevano incontrato per l’ultima volta il cuore dei loro incubi, in qualche stanza senza finestre, tra pareti di pietra senza aperture.

E su di lei, insieme con l’oscurità, venne a gravare anche una cappa di aria umida e pesante, che portava con sé l’odore di pozze di sangue raggrumato, di ferro macchiato e arrugginito; si sentì in bocca il gusto della polvere asciutta e impalpabile, delle foglie secche di alberi morti; udì le ultime, deboli grida che le giungevano, come nere folate di vento, da qualche antico campo di battaglia su cui regnavano solo il dolore, il panico, la disperazione.

A quel punto i pensieri l’abbandonarono per fuggire in qualche piano astrale di terrore che lei non aveva mai conosciuto. Sybel si divincolò ciecamente, cercando di non farsi sommergere.

Ma in qualche punto indeterminabile, sotto gli strati sempre più fitti di paura, le parve che prendesse forma anche una visione bianca come l’occhio del Blammor. Mentre una parte di lei gemeva disperatamente, silenziosamente, perché l’oscurità continuava a salirle intorno come un’onda di marea, da un’altra parte di lei si staccò un pensiero, assottigliato e limato fino a un’insopportabile acutezza di percezione, che si spinse a interrogare quella sagoma indistinta.

La bianca figura si muoveva alla deriva, in fondo alla sua mente; Sybel la cercò come se avesse dovuto inviare un richiamo nei punti più profondi dell’Eldwold, e infine anche quell’immagine cominciò a chiarirsi allo sguardo del suo occhio interiore: divenne quella di un uccello bianco come la luna e dalle lunghe ali fluttuanti… ma le ali erano storte e spezzate, la dolce curva del collo s’interrompeva bruscamente per ripiegarsi su se stessa.

“No!” mormorò Sybel. E poi si trovò sul pavimento, con la guancia contro le pietre, il respiro ansante e rotto dai singhiozzi. Sollevò la testa, e sentì che la fresca aria della notte le asciugava le lacrime.

Tutt’intorno a lei, nell’oscurità, si percepiva ancora la presenza di una Creatura che la sorvegliava, che aspettava.

Sybel si alzò e si accorse di tremare, di essere stanchissima. Guardò Coren, ma le parve di vedere un estraneo, e di abitare in un sogno che non le apparteneva più. Rimase immobile a contemplarlo finché non sentì che aveva smesso di tremare. A quel punto, senza fare rumore, si rivestì.

Percorse il lungo, tortuoso corridoio di pietra. Oltrepassò come un’ombra anche la guardiola delle sentinelle e si trovò al di là del muro interno, sui cui spalti camminavano avanti e indietro gli uomini di guardia.

Si recò subito alla porta del giardino, aprì il cancello, lo spalancò alla luce della luna; le giunsero i mormorii degli animali che aveva risvegliato, che si muovevano verso di lei nell’oscurità della notte.

Per prima scorse la grande sagoma del Leone Gules e tese la mano per accarezzargli la folta criniera.

“Che cosa è successo, Bianca Signora?” le chiese il Leone.

“Ritorno sul Monte Eld. Siete liberi” rispose lei.

“Liberi?”

La Gatta Nera Moriah le sfiorò con i fianchi le gambe. Lei la fissò nella profondità dei suoi occhi verdi.

“Domani potrete fare quello che vorrete” disse Sybel. “Non vi chiedo niente. Siete liberi.”

“E… e tu, Sybel? E Drede?”

“Non posso…” rispose lei. “La sua morte ha un prezzo che non sono disposta a pagare.”

“Sybel” le disse la voce flautata del Cigno “sono davvero libero di tornare a volare nel grigio cielo autunnale? Libero di assaporare il vento che mi sfiora la punta delle ali?”

“Sì.”

“Ma che ne sarà di Tamlorn?”

“Non ti chiedo niente. Niente di niente. Farai quello che vorrai.”

Sybel sfiorò la mente del Drago Gyld e lo trovò sveglio, intento a rivoltare senza fine, nel proprio cervello, lenti pensieri di una caverna dalle pareti umide, situata nelle profondità di una montagna silenziosa, dove un rivoletto di chiara fonte serpeggiava tra monete d’oro e ossa bianche.

“Sei libero” gli disse.

“E Drede? Vuoi che lo uccida per te, prima di lasciarmi libero?” chiese il Drago.

“Non voglio più sentire il suo nome!” gridò Sybel. “Non me ne importa più niente! Che viva o che muoia, che vinca questa guerra o che la perda… non me ne importa! Sei libero.”

“Libero…” mormorarono nella sua mente le varie voci degli animali, come un coro di strumenti musicali all’unisono.

“Libero di sottrarmi all’inverno… libero di correre nel deserto, dorato come il sole, sotto l’occhio brillante del cielo.”

“Libero di volare ai confini del mondo, seguendo il corso del crepuscolo.”

“Libera di farmi grattare dietro le orecchie, nel Deserto Meridionale, dai suoi Re dalle dita grasse. Libera di tendere l’orecchio al bisbigliare di streghe dagli occhi che brillano sotto la luna.”

“Libero di sognare, lontano da ogni disturbo, il più grande tesoro che possa esistere.”

“Libero” disse solo il Cinghiale dalle setole d’argento. E poi: “Rispondi a questo indovinello. Chi ha liberato te?”

Lei lo fissò in quei suoi occhietti rossi.

“Lo sai” disse. “I miei occhi si sono rivolti verso l’interno, e ho guardato dentro di me. Non sono libera. Sono piccola e spaventata, e, mentre fuggo, l’oscurità mi corre alle calcagna e mi spia.”

“Sybel” disse il Cigno Nero “ti porterò sul Monte Eld. Poi volerò a raggiungere i laghi oltre il confine settentrionale dell’Eldwold, stesi come i gioielli sul bel corpo di una regina addormentata.”

“No, ti porterò io” disse il Drago Gyld. “E poi mi dirigerò ancora una volta verso le profondità della montagna, per raggiungere la caverna che tanto mi è cara.”

“Mi porterai tu, allora” disse Sybel, e lo sentì uscire, con passi pesanti, dalla sua caverna artificiale.

Si chinò verso il Leone Gules, lo afferrò per la criniera e lo fissò negli occhi.

— Gules — mormorò, restituendogli il nome, e sentì che la mente del Leone si allontanava dalla sua, lasciando solo il suo ricordo, simile alle suppellettili grigie di una stanza poco illuminata. Lo lasciò libero, e lui si allontanò a grandi e possenti balzi, senza far rumore, per i campi del Sirle.

Poi Sybel si rivolse alla Gatta.

— Moriah.

La grande Gatta scivolò nel buio, nera come un’ombra, ammiccando alla luna con i suoi occhi verdi.

— Cigno Nero — disse, e il Cigno si levò in volo sopra di lei, descrivendo una pigra voluta. La grande campata delle sue ali si disegnò sullo sfondo della luna come una sagoma nera, e allontanandosi s’incurvò fino a diventare una linea meravigliosa e stupefatta, da togliere il fiato a quanti l’avessero vista.

— Cyrin.

Ma, prima di allontanarsi, il Cinghiale dalle zanne bianche come il marmo si fermò per qualche istante accanto a lei.

— Anche il Signore degli Enigmi perse un giorno la chiave dei propri indovinelli — disse con la sua voce profonda e pura come le note di un organo. — Ma poi la ritrovò, quando si guardò in fondo al cuore.

“Addio, Sybel. Il Signore di Dorn corse tre volte attorno alla casa senza porte della strega Enyth, e poi camminò verso la parete, che svanì come se fosse stata un sogno.”

— Addio — mormorò lei. Il Cinghiale uscì dal cancello aperto e si avviò di corsa, lucente come la luna stessa, verso i campi degli uomini addormentati.

Sybel si raddrizzò e chiamò il Falco Ter, che vegliava accanto a Tamlorn, dietro le pareti di pietra di Mondor.

“Ter, sei libero.”

“No.”

“Ter. Sei libero di fare ciò che vuoi, di lasciare Tamlorn o di rimanere con lui, come Falcone del Re. Ma ti chiedo una cosa. Una sola cosa, per amor mio. Non toccare Drede. È mio, e preferisco dimenticarmi di lui.”

“Ma perché, figlia di Ogam? Dov’è finito il tuo trionfo?”

“Se n’è fuggito nella notte. Quando mi sono destata, ero sola e impaurita.”

“Impaurita?”

“Impaurita, Falco senza Paura. Sei libero.”

Pronunciò il suo nome, che si allontanò senza risposta nell’immobilità della notte; poi si voltò verso il Drago dalle verdi ali e gli salì sul dorso.

Insieme, volarono in alto nella notte punteggiata di stelle, al di sopra dei bivacchi di guerra del Sirle e di Mondor, fino a un’alta montagna e a una casa bianca e silenziosa.

Quando vi furono giunti, lei diede per sempre la libertà al Drago, entrò nella casa fredda e vuota di Myk e sprangò le porte dietro di sé.

12

Sette giorni più tardi, il Re di Eldwold risaliva a cavallo, accompagnato dalle sue guardie, il tortuoso sentiero del Monte Eld.

Oltrepassò la casetta di strega di Maelga, dove nel cortile tubavano le tortore e sul consunto palco di corna che decorava l’architrave della porta era appollaiato un corvo nero.

Si fermò infine davanti al cancello chiuso della casa bianca, e fece vagare lo sguardo sul giardino immobile e trascurato, sugli aghi di pino che coprivano il sentiero lastricato di larghe pietre che portava dal cancello alla porta sbarrata. Un alito di vento gli spostò un ciuffo di capelli, facendoglielo finire sugli occhi. Lui lo scostò con la mano e smontò di sella.

— Aspettatemi qui fuori — ordinò alle guardie.

— Sire, è una donna pericolosa…

Si voltò di scatto verso la guardia che aveva parlato e corrugò la fronte.

— A me — disse — non farebbe mai del male. Aspettatemi qui.

— Sì, Sire.

Provò a scuotere le sbarre di ferro, ma vide che il cancello era chiuso a chiave. Lo fissò per un momento, perplesso. Poi incuneò il piede in una lunga fenditura che attraversava il muro, si afferrò a una pietra sporgente e si sollevò a forza di braccia.

Sentì uno strappo: il tessuto della sua nera tunica si era impigliato contro una sporgenza; senza curarsene, si liberò e trovò un’altra presa, poi un’altra ancora, finché le sue dita si chiusero, intorpidite e doloranti, sulla liscia cornice di marmo in cima al muro. Vi montò con una gamba e poi si lasciò cadere sul soffice terreno sottostante.

Si alzò e si spolverò gli abiti. Il vento cadde, e nel giardino tornò a regnare il silenzio. Socchiudendo le palpebre, perplesso, guardò fra le scure ombre del sottobosco, tra i lisci tronchi dei grandi pini illuminati dal sole, ma nessun movimento rispose al suo sguardo. Raggiunse lentamente il sentiero e cercò di aprire la porta. La scosse piano, bussò leggermente. Da dietro il cancello, una delle guardie gli gridò, sperando di dissuaderlo:

— Sire, forse non è qui.

Lui non rispose. Le finestre fissavano ciecamente l’esterno, come occhi senza vita e senza pensiero. Fece qualche passo indietro, mordendosi il labbro, poi raccolse da terra, vicino al sentiero, un sasso levigato. Lo picchiò varie volte contro una delle losanghe di spesso vetro che componevano la finestra: il vetro si incrinò in una ragnatela di mille fili; poi una pioggia di frammenti cadde all’interno della casa. Lui staccò gli ultimi denti di vetro che ancora aderivano al telaio di piombo, poi infilò nell’apertura il braccio, fino al gomito, e cercò la maniglia.

— Sire, fate attenzione!

La finestra si aprì all’improvviso; lui la spalancò del tutto, accostandola alla bianca parete. Dentro, il pulviscolo dell’aria scendeva lentamente verso il pavimento, danzando in uri raggio di sole.

Batté gli occhi per abituarli alla penombra, e tese l’orecchio, ma la stanza era immobile, non si udivano né respiri né passi. Scavalcò il davanzale di marmo e infilò una gamba all’interno.

— Sybel?

La domanda rimase sospesa nella luce del sole, insieme con le particelle di pulviscolo dorate e danzanti. Salì sul davanzale anche con l’altra gamba e poi saltò agilmente sul pavimento.

In mezzo all’assoluto silenzio, si diresse alla grande stanza dal soffitto a cupola, e vide sopra di sé la pallida concavità di cristallo, trasparente come la luce lunare.

Lì sedeva una donna dai capelli color della brina sfiorata dal sole. Era immobile come se fosse stata incastonata nel ghiaccio. I suoi occhi neri erano aperti, ma non vedevano.

Le si avvicinò senza fare rumore, camminando sullo spesso tappeto di pelliccia. Si inginocchiò davanti a lei, la fissò negli occhi.

— Sybel?

La toccò con la punta delle dita, esitante, aggrottando le sopracciglia. Il volto pallido della donna, su cui si distingueva chiaramente il disegno delle ossa, pareva fatto di pietra, tanto era immobile e impenetrabile. Le mani sottili erano strette insieme. Lui la fissò, e cominciò a massaggiarle vigorosamente le braccia e le gambe. Si lasciò sfuggire un lamento, poi prese fiato e gridò:

— Sybel!

Lei trasalì, si scosse debolmente, e le tornò in faccia un po’ di colore. Lo fissò, e lui sorrise, con un tale senso di sollievo da non riuscire a trovare parole. La donna si voltò leggermente verso di lui. Dal velo di capelli che la nascondeva, una mano si protese ad accarezzarlo.

— Tamlorn…

Lui annuì. — Sì. — Lei gli passò le dita sulla bocca, gli accarezzò una spalla. Poi lasciò cadere il braccio e abbassò lo sguardo, traendo un lungo, interminabile respiro.

— Sybel — disse il ragazzo. — Ti prego. Non ritornare dov’eri. Parlami. Di’ il mio nome.

Lei si coprì gli occhi con le mani. — Tamlorn.

— Adesso, Sybel, sono Tamlorn Re di Eldwold.

Solo in quel momento lei lo vide chiaramente: fermo accanto a lei, con le mani sulle ginocchia, i capelli elegantemente tagliati, la faccia lunga e sottile. Vide la fermezza delle sue labbra, le ombre sotto i suoi occhi e l’espressione tesa. L’elegante tunica nera che indossava faceva apparire più scure le sue pupille. Lei fece per alzarsi, e si sentì tutte le articolazioni rigide.

— Perché mi hai riportato indietro?

— Dove eri andata, Sybel? E perché l’hai fatto? Perché?

— Non avevo altri posti dove andare.

— Sybel, sei così magra. Mi hanno detto che non eri più nel Sirle, ma dovevo trovarti, per chiederti una cosa. Perciò sono venuto qui, e il cancello era chiuso. Mi sono arrampicato sul muro, ma ho trovato chiusa anche la porta. Ho rotto il vetro di una finestra e sono entrato, e quando ti ho trovato non sono riuscito a raggiungerti. Eri immobile, come se fossi di pietra, e mi fissavi senza vedermi. Sybel, dove eri andata? È stato per… per quello che ti ha fatto mio padre?

— È stato per quello che mi sono fatta io.

Tamlorn scosse la testa, come per cacciare via quella risposta, e le scostò delicatamente i capelli, una ciocca alla volta, per guardarla in faccia.

— Mio padre mi ha confessato ciò che ti ha fatto.

— Ti ha confessato…

— Sì. La notte prima della battaglia. Mi ha detto, Sybel, che aveva paura di te… Non mi sembrava più lui, in quegli ultimi giorni. Poi, quando mi ha spiegato tutto, ho capito.

S’interruppe per un istante e storse involontariamente le labbra. Poi tornò a guardarla.

— Mi ha detto che quel giorno è salito in cima alla torre per venirti a prendere, e che ha trovato la porta aperta. È entrato nella stanza del mago e ha visto che eri sparita… ma il mago era steso sul pavimento, e gli occhi… gli erano stati strappati via, e non aveva più un osso intero.

“In quel momento ha cominciato ad avere paura di te.

“E poi ti sei sposata con Coren del Sirle. Dopo il tuo matrimonio, Drede parlava solo per dare ordini, per consultarsi con altre persone. Mi rivolgeva raramente la parola, ma a volte, quando sedeva solo nelle sue stanze, con tutte le torce accese, senza fare niente, con lo sguardo perso lontano, io andavo a sedergli accanto, senza parlare, perché sapevo che voleva avermi vicino.

“Non mi diceva niente, ma a volte mi metteva una mano sui capelli, o sulla spalla, e per un attimo ritornava a essere sereno.

“Sybel. Io gli volevo bene. Ma chissà perché, quando mi ha detto quello che ti aveva fatto, non ne sono rimasto sorpreso, perché avevo capito che eri in collera con lui per qualche sua colpa. Era troppo tardi perché la cosa mi stupisse, e poi… quella notte è morto.”

Si staccò da lei. Sybel, guardandolo in faccia, si sentì arrossire.

— Tamlorn — gli chiese infine. — Come è morto?

Il ragazzo tirò un profondo respiro e le disse:

— Sybel, so che non sei stata tu a uccidere quel mago. Non so come sia morto, ma penso… penso che la cosa che ha ucciso il mago abbia anche ucciso Drede.

Lei rabbrividì.

— Dunque — bisbigliò — quella notte si è recato anche in altri posti, oltre che nella casa di Coren.

— Chi? L’hai visto anche tu?

Lei non gli rispose, e Tamlorn l’implorò:

— Sybel, ti prego! Devo saperlo. Drede giaceva sul pavimento e su di lui non c’era neppure una ferita, ma ho visto l’espressione che aveva sulla faccia, prima che la coprissero. Hanno detto che gli si è spezzato il cuore, ma credo che sia morto di paura.

Sybel mormorò una parola inudibile, poi chinò la testa.

— Tamlorn, mi dispiace.

— Sybel, che cosa ha visto, prima di morire? Che cosa lo ha ucciso?

Lei sospirò.

— Tamlorn, quel mago, quel Re e io abbiamo visto la stessa cosa. Gli altri due sono morti, ma io sono viva, anche se sono stata talmente lontana da me stessa che non credevo di fare più ritorno.

“Sono andata oltre il confine della mia mente. È una specie di fuga dal mondo. Non posso dirti come sia fatta quella Creatura; so soltanto che, quando l’ha guardata, Drede ha visto quello che c’era in lui stesso, e questo lo ha ucciso. Lo so perché anch’io, per poco, non ho rischiato di distruggere me stessa.”

Tamlorn tacque per qualche istante. Poi disse:

— Ma tu avevi il diritto di essere in collera.

— Sì. Ma non di fare del male a coloro che amo, o a me stessa.

Gli accarezzò il viso, gentilmente.

— Sono stata così contenta — gli disse — di sentirti nuovamente pronunciare il mio nome. Pensavo… anzi, ero certa che fossi in collera con me per ciò che ti ho fatto.

— Tu non mi hai fatto niente — rispose Tamlorn.

— Ti ho messo in mano al Sirle come una pedina indifesa. Non sono riuscita a fermare la mia corsa.

Tamlorn scosse leggermente la testa, sorpreso.

— Sybel, io non sono affatto nelle mani di Rok. Ho dei consiglieri, ma non c’è nessun reggente. In caso di morte di Drede, suo cugino Margor doveva governare finché non avessi compiuto i sedici anni, ma è scomparso. La stessa cosa è successa ai generali di mio padre. E anche a Horst di Hilt, a Derth di Niccon, a suo fratello e ai loro capitani. E ai sei Principi del Sirle e ai loro capi militari…

Lei gli afferrò il braccio, e gli chiese ansiosamente:

— Tamlorn, che cosa gli è successo? Sono morti in battaglia?

— Sybel, lo sai tu che cosa gli è successo. Devi saperlo. Nell’accampamento fuori Mondor, dove avrebbe dovuto trovarsi mio padre, è arrivato il Leone Gules. Al loro ritorno in città, i pochi che lo hanno visto e che non lo hanno seguito non avevano parole per descrivere il suo manto dorato e la sua criniera di fili di seta, i suoi occhi che brillavano più del sole.

“Uno di loro, un cantore soldato, ha già composto una ballata in cui si parla di Gules che compare dinanzi a venti generali disarmati, sull’altra sponda del Fiume Slinoon, al primo sorgere dell’alba… e ho anche sentito un canto in cui Moriah arriva al campo di mio zio Sehan, a occidente di Hilt, e canta con voce più dolce di quella di una fanciulla affacciata a un balcone tappezzato di velluto… Sybel, non dirmi che non lo sapevi!”

— No, no, non lo sapevo.

Si alzò in piedi e si portò le mani alla bocca.

— Quella notte — disse — ho reso loro la libertà.

Lui la fissò, come pensando di non avere capito bene.

— Perché? — le chiese.

— Perché… li avevo traditi. E gli arpisti del Sirle che cosa cantano? Il Cinghiale Cyrin?

Tamlorn annuì.

— Dicono che i sei Principi del Sirle e i loro comandanti sono partiti per dare la caccia al cinghiaie nella Foresta di Mirkon, invece di scendere in battaglia. E il Drago Gyld… ha spaventato tutti. Nei pressi di Hilt si era già accesa la battaglia tra gli uomini di Horst e quelli di mio zio, Sehan, e Gyld è piombato in volo su di loro, rompendo qualche schiena e bruciando qualche soldato.

“Allora, tutti sono scappati via. Non avevo mai visto Gyld soffiare fiamme, fino ad allora. È poi venuto in volo su Mondor, ed è calato sulle barche che erano entrate in città… ne era giunta solo una manciata, senza ordini, e volevano saccheggiare la reggia di Drede. Il Drago Gyld ha dato fuoco alle barche, e i soldati hanno guadagnato a nuoto la riva… quelli che non avevano l’armatura pesante.

“Gli abitanti della città si sono rintanati in casa per paura di Gyld, e io sono rimasto sotto la sorveglianza dei miei uomini finché non ho detto al Falco Ter che volevo uscire, e allora lui ha allontanato le guardie.

“Sono andato sulle mura e ho visto Gyld che volava sopra Mondor, con le ali verdi e il corpo dorato. Poi Ter si è allontanato e mia zia Illa ha mandato alcune persone a prendermi.

“A Niccon, il Signore ha posato la spada, imitato da suo fratello Thone di Perl e dai loro capitani riuniti in consiglio, e hanno seguito il canto di un Cigno. I cantori di Niccon dicono che era come un mormorio d’amore in un tiepido giorno d’estate, quando tutte le api ronzano dolcemente… Sybel, non sei stata tu, a ordinare loro di farlo?”

— Li ho lasciati liberi di fare quello che volevano — disse lei. — Tamlorn, io ti avrei giocato un bruttissimo tiro, facendoti diventare un re travicello nelle mani del Signore del Sirle…

Si passò stancamente le mani sulla fronte.

— Mi hai riportata in questo mondo, ma non so a che scopo. I miei animali sono scomparsi, ho perso Coren, ho perso anche me stessa… ma almeno è piacevole sentire di nuovo la tua voce, rivedere il tuo sorriso.

Tamlorn si alzò. L’abbracciò, posando la guancia sui suoi capelli.

— Sybel — disse — ho ancora bisogno di te. Devo sapere che tu sei qui. Molta gente conosce il mio nome, ma solo due o tre persone mi conoscono veramente. Tu non mi hai fatto niente di terribile… e anche se me lo avessi fatto, ti amerei lo stesso, perché ho bisogno di amarti.

— Tamlorn, sei proprio un bambino… — mormorò lei.

Gli prese la faccia tra le mani, e Tamlorn sorrise: un sorriso che gli fece brillare gli occhi grigi come il sole dietro la foschia.

— Certo — le disse. — Per questo non devi più andartene. Ho perso Drede, e non voglio perdere anche te. Sono un bambino perché non penso a quello che avete fatto, ma soltanto che vi amo.

Si staccò dal suo abbraccio. Il sole dilagò attraverso la cupola, dando un colore di fiamma alla bianca pelliccia che avevano sotto i piedi.

— Sei così magra. Dovresti mangiare qualcosa.

— Anche tu sei magro, Tamlorn. Hai avuto delle preoccupazioni.

— Sì. Ma sto anche crescendo.

La prese per mano e la portò fino al focolare. Lei si sedette davanti alla griglia vuota; lui si appoggiò al bracciolo dell’altra sedia, e la guardò.

— Maelga sa che sei qui?

— Non saprei. Forse è venuta, ma io non l’ho vista.

— Ti sei chiusa in casa, ma volendo si poteva entrare lo stesso. Sybel, dovremmo scendere da Maelga e farci preparare qualcosa.

Lei sorrise e tutto il suo viso si addolcì.

— Hai ragione, Tamlorn. Io ho perso tutto; tu sei un Re in posizione precaria, i cui consiglieri corrono in cerchio in cupe foreste alla ricerca di animali favolosi; io non so cosa ci porterà il domani, ma adesso ho fame e dobbiamo andare a mangiare.

La maga dai capelli d’argento e il re bambino lasciarono la casa, inoltrandosi in mezzo agli alti alberi sussurranti; sopra di loro, mentre camminavano, la nebbia si alzò di nuovo a coprire il Monte Eld, nascondendone la nuda, terribile vetta coperta di ghiaccio.

Maelga li accolse ridendo e piangendo insieme, passandosi le mani tra i capelli spettinati. Rimasero con lei fino a tardi, a parlare, finché il crepuscolo si alzò tra gli alberi come una nube di fumo e la luna si fece strada tra le stelle dell’Eldwold come una nave d’argento.

Infine, Tamlorn prese la via di casa, insieme con le sue guardie del corpo, che ormai accusavano visibili segni di stanchezza. Sybel si sedette tranquillamente accanto al focolare di Maelga, con in mano una tazza di vino caldo e gli occhi immobili, rivolti verso il proprio interiore.

Maelga si dondolava sulla sedia, e suoi anelli riflettevano la luce delle sette candele mentre lei spostava nervosamente le mani sui braccioli. Infine, la fattucchiera disse:

— Questo paese, divenuto improvvisamente tanto tranquillo, è ancora privo dei suoi generali… che si aggirano nelle foreste come bambini, in preda alla confusione. E le Principesse del Sirle dormiranno sole anche questa notte, e i loro figli non rivedranno il padre. Quegli uomini ritorneranno mai alle loro famiglie?

— Non lo so — disse Sybel. — Non conosco più la mente di quei grandi animali. E non riesco a pensare a queste cose. Mi pare di vivere in un sogno, ma nessun sogno è mai stato così lungo, né ha mai ferito così profondamente. Maelga, mi sento stanca come la terra dopo l’inverno che l’ha uccisa e indurita. Non so se qualcosa di verde e di tenero potrà ancora nascere dentro di me.

— Cerca di essere gentile con te stessa, bambina mia — disse Maelga. — Vieni con me nella foresta, domani; raccoglieremo funghi neri ed erbe che, quando le stringerai fra i polpastrelli, diffonderanno un magico profumo. Sentirai il sole sui capelli e la ricca terra sotto i tuoi piedi, e respirerai i freschi venti della tua montagna, profumati dall’aroma della neve, nei punti più inaccessibili del Monte Eld. Cerca di avere pazienza; la stessa pazienza che si deve avere con i semi pallidi e nuovi, sepolti nella terra scura. Quando sarai più forte, potrai iniziare di nuovo a pensare. Ma in questo momento devi limitarti ad assaporare i tuoi sentimenti.

Giorno e notte si confusero in una quiete senza tempo che Sybel si guardò bene dal misurare, finché un giorno si destò e nello scorgere sul pavimento una macchia di luce immobile, nel vedersi circondata da mute pareti di pietra, sentì germogliare in lei il primo desiderio di muoversi e di agire.

Cominciò ad aggirarsi nella casa silenziosa, nel giardino vuoto, fermandosi sulla riva del laghetto del Cigno per guardare gli uccelli selvatici che vi si abbeveravano. Poi si recò sull’altra riva del lago ed entrò nella caverna del Drago; laggiù, con l’occhio dell’immaginazione, le parve di vederlo ancora, raggomitolato nell’oscurità, e le parve di sentire ancora la sua voce mentale. Ma all’interno dell’umida caverna c’era solo un vuoto senza parole; e lei dovette uscire da quel silenzio e tornare a farsi accarezzare dagli errabondi venti autunnali che si aprivano con sicurezza il passo oltre il Monte, lasciandosi alle spalle lei e la sua solitudine.

Rientrò in casa, e si sedette sotto la cupola di cristallo. Riprese a cercare come un tempo, inviando il proprio richiamo nell’Eldwold e oltre l’Eldwold, per attirare a sé il Liralen. Le ore passarono; le stelle presero ad ammiccare al di sopra della cupola, ma lei continuò a sedere, perduta nel proprio richiamo, e infine sentì che il vecchio potere, nella sua mente, si ridestava e si rafforzava. Verso l’alba, allorché la luna era ormai tramontata e le stelle cominciavano ad appassire nel cielo, Sybel ritornò a se stessa e si alzò rigidamente in piedi. Aprì la porta e si fermò sulla soglia, inalando profondamente l’odore della terra umida e degli alberi immoti, profumati di rugiada, del primo mattino.

Poi, alzando lo sguardo al di là del cancello aperto, vide Coren smontare di sella, prendere il cavallo per le briglia ed entrare nel suo giardino.

Lei lo fissò, senza parole. Coren, quando si accorse che lei lo stava guardando, si fermò e le gettò un’occhiata titubante. Lei trasse un profondo respiro e ritrovò la voce.

— Coren. Stavo chiamando il Liralen.

— Hai fatto venire me.

Poi tacque, in attesa della sua risposta. Lei gli disse:

— Ti prego… vieni dentro.

Coren portò il cavallo nella stalla e la raggiunse accanto al focolare spento. Sybel accese alcune candele per illuminare la stanza, ancora avvolta nella penombra; la luce fece risaltare il pallore e la magrezza del volto del Principe del Sirle. Sybel sentì affiorare dentro di lei i ricordi che credeva perduti e si affrettò ad abbassare lo sguardo.

— Hai fame? Devi avere cavalcato tutta la notte. O ti sei fermato a dormire a Mondor?

— No. Ho lasciato il Sirle ieri pomeriggio.

Guardandola negli occhi, la costrinse infine ad alzare il viso verso di lui. Le disse, con più calore:

— Sei così magra. Che cosa hai fatto, in questi ultimi giorni?

— Non lo so. Cose prive di importanza, credo… ho cucito, mi sono presa cura delle piante, sono andata a ricercare erbe con Maelga. Poi ieri, per la prima volta, mi sono accorta che questa casa era tanto vuota e silenziosa. Perciò mi sono messa a chiamare il Liralen. Non… pensavo di disturbarti.

— E anch’io non credevo di essere più disturbato. Quando mi sono svegliato, quella mattina, e ho visto che eri sparita, ho pensato che non avrei mai più sentito la tua voce che mi chiamava. I miei fratelli mi hanno accusato di essermela presa troppo. Hanno detto che te ne eri andata a causa della mia ostinazione.

— Non è questo il motivo che mi ha spinto a fuggire.

— Lo so — disse lui.

Sybel si afferrò ai braccioli della sedia. Con lo sguardo fisso lontano, domandò:

— Che cosa sai?

Lui guardò il focolare vuoto.

— L’ho capito — disse stancamente — non quel mattino, ma in seguito, nei giorni lenti e tranquilli in cui aspettavo il ritorno dei miei fratelli.

“Mi è giunta la notizia della strana, improvvisa morte di Drede, e della sparizione dei generali dell’Eldwold, mentre si stavano avviando alla guerra.

“Tutto il paese era agitato da voci incredibili, che parlavano di magici animali, di nomi antichi, di storie semidimenticate. La guerra ci era stata strappata di mano, con la stessa facilità con cui si toglie un giocattolo a un bambino.

“Mi tornò allora in mente l’indovinello che ti rivolse il Cinghiale Cyrin, il giorno in cui giunse nel Sirle. Era lo stesso indovinello che aveva rivolto a me, prima che vedessi il Rommalb: avrei dovuto avvertirti, ma in quel momento mi pareva che tu non avessi niente da temere.

“Ricordando quel piccolo fatto, ho capito cosa doveva esserti successo. Tu non eri disposta a rinunciare a quella guerra: né per me, né per Tamlorn, né per qualsiasi altra persona a te cara. Saresti arrivata fino in fondo, ma avevi fatto un errore: avevi con te il Rommalb, ma non potevi più dargli quello che ti chiedeva.”

Sybel rimase in silenzio a lungo. Poi, con la testa china, senza guardare Coren, mormorò:

— Sei davvero saggio, Coren del Sirle. Ho rinunciato a tutto in cambio della vita, e poi sono fuggita via. Nella mia mente, sono fuggita addirittura al di là dei suoi confini, perché non avevo altro posto dove andare. Infine è giunto Tamlorn e mi ha svegliata. Se non fosse venuto, non so che cosa mi sarebbe successo.

Sollevò la testa e lo guardò. Vide che lui, con aria indecifrabile, continuava a fissare il focolare. Allora gli disse, in tono leggermente offeso:

— Se sei ancora in collera con me, perché sei venuto? Nessuno ti imponeva di rispondere alla voce della mia solitudine. Non mi aspettavo di rivederti.

Lui alzò le spalle.

— E io non mi aspettavo di venire. Ma come potevo evitare di venire, quando ho saputo che eri sola in questa casa vuota, senza Tamlorn e senza i tuoi animali, e senza neppure me? Tu non hai mai avuto bisogno di me, e non so se adesso desideri la mia presenza, ma ti ho sentito e sono dovuto venire.

Lei aggrottò le sopracciglia. Disse piano, in tono leggermente perplesso:

— Se hai sentito il mio richiamo, senza che io sapessi di avertelo inviato, allora sai che ho bisogno di te.

— Già altre volte mi hai detto di avere bisogno di me — rispose Coren. — È facile a dirsi. Ma quella notte, quando il Rommalb è venuto a te nell’oscurità… non mi hai neppure chiesto di stringerti, come una volta mi hai stretto accanto a questo focolare, ancora prima che tu mi amassi.

Lei lo guardò a bocca aperta, senza parlare. Poi, all’improvviso, sorrise, e solo in quel momento si rese conto che non rideva da molto tempo. Nascose il sorriso come un prezioso segreto, chinando la testa, e disse con serietà:

— Volevo svegliarti, ma mi sembravi così lontano da me…

— Anche questo — rispose lui — è facile a dirsi. Non avevi bisogno di me quando Mithran ti ha chiamato, e neppure quando hai progettato la tua vendetta con Rok, o quando il Rommalb ha minacciato la tua vita. Tu segui sempre una tua strada, e non so mai che cosa pensi o che cosa intendi fare. E adesso ridi di me. Non ho fatto tutto questo cammino, dal Sirle a qui, per farmi ridere in faccia.

Sybel scosse la testa, arrossendo. Gli prese la mano e sentì che anche lui le ricambiava la stretta.

— Mi spiace, Coren. Ma è proprio per questo che adesso ho bisogno di te. Ho combattuto per me… e anche contro di me. Ma questo non mi ha dato nessuna gioia. Soltanto quando sono con te riesco a sorridere, e tu sei l’unico che possa insegnarmi a farlo.

Lui la guardò e, suo malgrado, sulle labbra cominciò ad affiorargli un sorriso.

— E hai bisogno di me solo per questo?

Lei scosse la testa, senza ridere.

— No — sussurrò. — Ho bisogno di te perché tu mi perdoni. Allora, forse, potrò cominciare a perdonare me stessa. Soltanto tu puoi farlo.

Coren sospirò.

— Sybel — disse — rischiavo di non poter fare neppure questo. L’ira e il dolore che portavo in me erano come una pietra: ero in collera con te e con Rok, e perfino con Drede, perché in quei giorni pensavi più a lui che a me. Poi, una sera, in sogno, mi sono visto in faccia: una faccia scura e triste, senza sorriso, e mi sono svegliato con il batticuore, perché non era più la mia faccia, ma quella di Drede…

— No! — esclamò lei. — Non potrai mai divenire come Drede!

— Anche Drede è stato giovane e ha amato una donna. Lei lo ha ferito, e lui non l’ha mai perdonata: perciò è morto solo e atterrito. E io mi sono spaventato all’idea di fare lo stesso errore con te. Sybel, mi perdoni?

Lei sorrise, e si sentì spuntare le lacrime.

— Di che cosa? — gli chiese. — Non c’è niente da perdonare.

— Di non avere avuto il coraggio di dirti che ti amavo. E neppure quello di chiederti di tornare nel Sirle con me.

Lei abbassò la testa, stringendogli così forte la mano da fargli male alle ossa.

— Anch’io ho paura di me stessa. Ma non voglio vederti andare via ancora una volta. Ho bisogno di te. Ho bisogno di amarti. Chiedimi di venire con te, ti prego.

— Verrai con me?

— Oh, sì. Sì. Grazie.

Lui, con l’altra mano, le sollevò il mento.

— Sybel, non piangere.

— Non posso evitarlo.

— Fai piangere anche me.

— Anche questo, non posso evitarlo. Da tanto tempo non ridevo e non piangevo, e oggi, prima ancora che il sole sia sorto, tu mi hai fatto fare entrambe le cose.

Lui l’attirò a sé, e si sedettero sul pavimento. Spostandosi, fecero cadere a terra la candela, che si spense contro il marmo illuminato dal primo raggio di sole. Sybel appoggiò il viso contro la spalla di Coren e pianse, e lui le accarezzò i capelli, mormorando parole affettuose.

Poi, per molto tempo, rimasero senza parlare, finché la luce, disegnando una fine ragnatela fra i capelli di Coren, cadde sugli occhi di Sybel, che li aprì, battendo le palpebre. Lei fece per alzarsi, e Coren la lasciò con riluttanza. Sybel sorrise, fissando la sua faccia pallida e stanca, e si accorse di essere stanca anche lei.

— Hai fame?

Lui annuì, sorridendo.

— Preparerò qualcosa da mangiare — disse. — Sai, è strano venire qui e non trovare il Cinghiale Cyrin che mi guarda con i suoi occhi rossi, o non vedere il Leone Gules che svanisce dietro un angolo.

— Tamlorn dice di avere sentito una ballata che parlava di te, dei tuoi fratelli e del Cinghiale Cyrin.

Lui rise.

— L’ho sentita anch’io — disse. — Oh, Sybel, pensa: sei uomini adulti, un’altra dozzina di guerrieri veterani di tante battaglie, e un folto gruppo di messaggeri e di scudieri, riunitisi all’alba per rovesciare un Re, che all’improvviso, senza pensarci un istante, si mettono a rincorrere un grande cinghiale dalle zanne bianche, luccicanti come falci di luna, e dalle setole simili a scintille d’argento, che li attira con la magia dei suoi occhi, pieni di qualche arcana conoscenza. Noi lo abbiamo seguito come un gruppo di ragazzini di primo pelo sedotti dal sorriso di una donna di strada.

“Gli arpisti ci canteranno per secoli, e noi continueremo ad arrossire anche nella tomba. Io mi sono risvegliato nella Foresta di Mirkon e, quando ho visto un gruppo di cavalieri sparire in mezzo agli alberi, all’inseguimento di un cinghiale color della luna, ho capito chi era quel Cinghiale.

“Perciò sono ritornato a casa e, quando sono arrivato, cinque donne piangenti mi sono venute incontro, e nessuna di loro era la mia. Mi hanno detto che l’esercito del Sirle era nella più grande costernazione, misteriosamente privo di capi, e che i portaordini avevano continuato a picchiare per tutta la mattina alle loro porte chiedendo cosa dovevano fare.

“Poi ci sono giunte le storie della Gatta e del Cigno e del Drago, da ogni parte dell’Eldwold. I miei fratelli hanno cominciato a tornare a casa una settimana più tardi, alla spicciolata; per la prima volta nella sua vita, Eorth era senza parole.

“E Rok, il Leone del Sirle, in quella cavalcata era invecchiato di dieci anni. A tutt’oggi non riesce ancora a parlare della sua esperienza. È stata come un sogno: la cavalcata interminabile, il grande, sfuggente Cinghiale, sempre a portata di mano… e sempre inafferrabile.

“Quando sono rientrato in me, ero affamato e dolorante per le sferzate dei rami e talmente stanco che avrei voluto piangere, e il mio cavallo non era neppure sudato…”

Scosse la testa.

— Per tutta la vita prepari i tuoi progetti… e poi arriva qualcosa di imprevisto, che taglia un filo importante della tua trama e ti lascia completamente disorientato e sconfitto.

— Lo so — disse lei. — Quando ho lasciato liberi gli animali, non pensavo che avrebbero fatto quest’ultima cosa per me. Sento molto la loro mancanza.

— Magari un giorno o l’altro ritorneranno, perché forse anch’essi sentono la mancanza della tua voce che li chiama per nome. Ma quando giungerà quel momento, la nostra casa sarà piena di piccoli maghi che si occuperanno di loro come faceva Tamlorn.

— Sì. Mi occorre un bambino, adesso che Tamlorn è diventato grande. Coren…

— Cosa?

— Ti prego, non voglio passare un’altra notte in questo guscio vuoto. So che sei stanco e che anche il tuo cavallo è stanco, ma… mi porti a casa, adesso?

Lui l’abbracciò.

— Ho atteso per tanto tempo queste parole — sussurrò. — Mia Bianca Signora, mio Liralen…

— Sono davvero questo, per te? — gli chiese lei, pensierosa. — Ti ho dato le stesse preoccupazioni che quel bianco uccello continua a dare a me. Ti sono sempre stata così vicina, eppure così lontana…

S’interruppe, come per ascoltare il suono delle sue stesse parole. Coren la guardò.

— A cosa pensi? — le chiese.

Lei mormorò qualcosa di inudibile. Vecchi ricordi fiorirono e svanirono nella sua mente: la prima volta che aveva chiamato il Liralen, le parole di Mithran, il suo ultimo sogno, in cui l’uccello magico giaceva spezzato nelle profondità della sua mente. Trasse un profondo respiro e si allontanò da Coren.

— Sybel… Che cosa…

— Sono certa che… — incominciò lei.

Lo prese per il braccio e lo portò fino all’uscio. Lui si lasciò trascinare, sorpreso, e guardò il cortile vuoto. Poi Sybel disse, con una voce strana, carica di attesa:

— Blammor.

Lui la guardò, stupito.

— Che cosa fai? — le chiese.

Il Blammor si avvicinò a loro, simile a un’ombra che scivolava tra i grandi pini: un’ombra con occhi color della luna, ciechi e bianchi come la cima del Monte Eld sepolta sotto nevi perenni.

Sybel lo fissò, concentrandosi sui propri pensieri, ma, prima che facesse in tempo a parlargli, la scura sagoma del Blammor si schiarì e si condensò, assumendo una forma più solida e più precisa.

Il liquido cristallo dei suoi occhi si sciolse e scivolò verso il basso, divenendo una linea bianca e netta. Si delinearono un collo lungo e sottile come un giunco; la curva del petto, bianca e simile a un colle coperto di neve; un ampio, candido dorso e lunghe ali, che palpitavano lentamente come bandiere e che sfioravano la terra come strascichi della lana più fine.

Coren lanciò un grido di sorpresa. Il grande uccello delicato e bellissimo li sovrastava entrambi: abbassò lo sguardo su di loro, contemplandoli con occhi color della luna, identici a quelli del Blammor.

Sybel si passò la mano sulle palpebre: tanta era la bellezza del grande uccello bianco, che si sentiva spuntare le lacrime. Gli aprì la propria mente, e gli sentì mormorare storie antiche e preziose come gli arazzi di una favola.

“Dammi il tuo nome” gli chiese.

“Lo hai già.”

— Il Liralen — bisbigliò Coren. — Sybel, come l’hai capito?

Lei allungò la mano per toccare il grande animale, gli accarezzò le piume lisce e robuste. Poi, asciugandosi sovrappensiero una lacrima, disse:

— La chiave me l’hai data tu, quando mi hai chiamato con il suo nome. Ho pensato che doveva essere qualcosa di vicino e insieme di lontano, e mi sono ricordata che quando ho chiamato il Liralen, tanto tempo fa, è venuto il Blammor, dicendomi che l’avevo chiamato io.

“E la notte in cui rischiai di morire di paura come Drede. Vidi in fondo al mio cuore il Liralen morto, e piansi per lui. Questo mi salvò la vita, perché il dolore per la morte del Liralen mi fece dimenticare la paura. In qualche modo, il Blammor… il Liralen… capiva più di me stessa l’importanza che aveva per me. Per questo Mithran non poteva averlo: insieme con il Liralen si deve accettare anche il Blammor, e lui ne aveva paura.”

Sentì vibrare nella mente la voce del Liralen:

“Stai diventando sempre più saggia, Sybel. Ero venuto tanto tempo fa, ma non riuscivi a vedermi. Da allora, sono stato sempre qui.”

“Lo so” rispose lei.

“Come posso servirti?”

Lei lo fissò nel profondo degli occhi. Tenendo per mano Coren, gli rispose piano:

— Per favore, portaci a casa nostra.

FINE