Kay Scarpetta, costretta alla libera professione in Florida, viene richiamata con grande urgenza a Richmond, in Virginia, la città che cinque anni prima le aveva voltato le spalle. Chi dirige ora il Dipartimento di Medicina legale è un presuntuoso incompetente e Kay Scarpetta ha la brutta sorpresa di trovare i suoi laboratori in uno stato di completo abbandono. E’ questo il motivo per cui i colleghi di una volta non riescono a venire a capo della morte di una quattordicenne…

Patricia Cornwell

La traccia

A Ruth e Billy Graham.

Come voi non c’è nessuno. Vi voglio bene.

Grazie a Julia Cameron

che mi ha guidato lungo la via dell’Arte.

A Charlie e Marty e a Irene.

È anche merito vostro.

1

Scavatrici e bulldozer gialli rimuovono terra e pietre da un luogo che ha visto più morti di tante guerre e Kay Scarpetta, a bordo di un fuoristrada preso a noleggio, rallenta fino quasi a fermarsi. Scossa, guarda i macchinari gialli che distruggono quel che resta del suo passato.

«Avrebbero dovuto avvertirmi» dice.

Le sue intenzioni erano abbastanza innocenti, in quella grigia mattina di dicembre. In preda alla nostalgia, aveva pensato di passare davanti all’edificio in cui aveva lavorato tanti anni, senza sapere che lo stavano demolendo. Avrebbero dovuto avvertirla. Sarebbe stato gentile dirle che quel palazzo, in cui aveva trascorso tanto tempo, quando era giovane, piena di sogni e di speranze, quando ancora credeva nell’amore, quel palazzo per cui provava tanta nostalgia, era in demolizione.

Vede avanzare un bulldozer pronto all’attacco, e la sua rumorosa violenza meccanica le sembra allarmante e pericolosa. “Avrei dovuto ascoltare” pensa guardando il palazzo sventrato, con la facciata ormai piena di buchi. “Quando mi hanno chiesto di tornare a Richmond, avrei dovuto ascoltarmi di più.”

“Ho un caso difficile e mi piacerebbe che lei mi desse una mano” le ha detto il dottor Joel Marcus, l’attuale direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia, l’uomo che ha preso il suo posto. L’ha chiamata ieri pomeriggio al telefono e lei non ha prestato attenzione ai propri sentimenti.

“Certamente” gli ha risposto, passeggiando per la cucina della sua casa nel Sud della Florida. “Che cosa posso fare per lei?”

“Una quattordicenne è stata trovata morta nel suo letto due settimane fa, intorno a mezzogiorno. Aveva l’influenza.”

Avrebbe dovuto chiedergli come mai aveva deciso di chiamare proprio lei. Ma non si è data ascolto. “Era a casa da scuola?” gli ha chiesto invece.

“Sì.”

“Sola?” Stava mescolando bourbon, miele e olio d’oliva e teneva la cornetta appoggiata sulla spalla.

“Sì.”

“Chi l’ha trovata? Com’è morta?” ha chiesto versando il miscuglio dentro un sacchetto di plastica che conteneva una bistecca di filetto.

“A trovarla è stata la madre e la causa di morte è ancora da accertare” ha risposto Marcus. “Sembrerebbe tutto normale, a parte il fatto che non si capisce come mai è morta.”

Kay Scarpetta ha messo la bistecca a marinare nel frigo e ha aperto il cassetto in cui tiene le patate, poi ha cambiato idea, ha deciso di fare il pane ai cereali, e lo ha richiuso. Non riusciva a stare ferma, e tantomeno seduta; era nervosa e cercava di non farlo capire. Perché il dottor Marcus l’aveva chiamata? Avrebbe dovuto chiederglielo.

“Con chi abitava la ragazza?” gli ha domandato invece.

“Preferirei parlarne di persona” le ha risposto Marcus. “È un caso complicato.”

Kay stava per dirgli che non poteva aiutarlo, che era in partenza, che aveva in programma due settimane ad Aspen, ma non lo ha fatto. Non lo ha fatto perché non è vero: la vacanza è stata rimandata, o forse annullata del tutto, benché decisa da mesi. Non è riuscita a mentire ed è ricorsa a una scusa più professionale: “Non posso venire a Richmond perché sto lavorando a un caso molto complesso, una morte per impiccagione che i familiari non vogliono rassegnarsi a considerare un suicidio”.

“E perché?” le ha domandato Marcus. Più parlava, meno lei lo ascoltava. “Problemi razziali?”

“Il morto è salito su un albero, si è messo un cappio intorno al collo e si è ammanettato per non poter più cambiare idea” ha spiegato lei, aprendo uno sportello della cucina. “Quando è saltato giù dal ramo, la corda gli ha spezzato la seconda vertebra cervicale e gli ha spinto in avanti il cuoio capelluto, così che, quando lo hanno trovato, aveva un’espressione corrucciata, una sorta di smorfia di dolore. I suoi parenti, qui nel Mississippi, dove l’omosessualità è ancora poco accettata, non riescono a spiegarsi l’espressione del morto e le manette.”

“Non sono mai stato nel Mississippi” è stato il commento di Marcus, che forse voleva dire che non gliene fregava niente né del morto impiccato né di nessuna tragedia che non lo riguardasse personalmente. Ma Kay Scarpetta non lo stava ascoltando e non capiva.

“La aiuterei volentieri” gli ha detto aprendo una bottiglia di olio extravergine di oliva non filtrato, che non aveva nessuna necessità di aprire. “Però non credo che sia una buona idea.”

Era arrabbiata, ma non voleva ammetterlo con se stessa e passeggiava per la sua bella cucina allegra e attrezzatissima, con gli elettrodomestici in acciaio inossidabile e i piani di granito, guardando dalla finestra la Intracoastal Waterway. Era arrabbiata di non andare ad Aspen, ma le seccava ammetterlo. Era arrabbiata, arrabbiatissima, ma non voleva essere scortese con Marcus ricordandogli che fino a qualche tempo prima aveva ricoperto lei la sua carica e che, quando l’avevano mandata via, aveva deciso di non mettere mai più piede a Richmond. Però Marcus stava zitto e lei ha dovuto spiegargli che il suo trasferimento non era stato propriamente amichevole, come lui senz’altro sapeva.

“È passato molto tempo, Kay” le ha fatto notare allora. Lei era stata abbastanza rispettosa e professionale da chiamarlo dottor Marcus e da dargli del lei: come si permetteva quel villano di chiamarla per nome? Si è offesa, ma poi si è detta che probabilmente lui voleva solo essere cordiale e amichevole, che non doveva essere ipersensibile e negativa: possibile che la gelosia la spingesse a essere tanto prevenuta nei suoi confronti? In fondo, che cosa c’era di male a chiamarla Kay? si disse. E, ancora una volta, non aveva dato retta al proprio istinto.

“Il governatore nel frattempo è cambiato” ha continuato Marcus. “Probabilmente la signora che ricopre attualmente la carica non l’ha mai sentita nominare.”

Stava forse cercando di umiliarla, facendole capire che era così poco importante e che nessuno sapeva chi era? Ma poi si è detta che stava veramente esagerando, che Marcus non voleva certo offenderla.

“È talmente presa dalla crisi finanziaria e dall’allarme terrorismo che…”

Kay si rimprovera di essere tanto negativa nei confronti del medico che ha preso il suo posto. In fondo Marcus le ha soltanto chiesto una mano in un caso difficile: che male c’è? È normale che i manager usciti da un’azienda vengano poi richiamati in qualità di consulenti. E comunque Aspen è saltata.

“… gli obiettivi in Virginia sono talmente tanti: basi militari, l’accademia dell’FBI, un campo di addestramento della CIA, la Federal Reserve… Non avrà problemi con il governatore, Kay. È una donna troppo ambiziosa, aspira ad arrivare a Washington, non ha mai manifestato il minimo interesse per il mio lavoro” ha continuato Marcus con il suo accento del Sud, cercando di persuadere Kay che tornare a Richmond dopo cinque anni e offrire una consulenza all’Istituto di medicina legale da cui era stata licenziata non avrebbe creato nessun problema, anzi, sarebbe passato del tutto inosservato. Poco convinta, Kay Scarpetta più che altro ha pensato ad Aspen, a Benton, al fatto che lui era in montagna senza di lei. Il tempo per occuparsi di un altro caso c’era, non aveva impegni pressanti.

Gira lentamente intorno alla vecchia sede dell’Istituto di medicina legale della Virginia, assediata da macchinari gialli simili a enormi insetti voraci dalle fauci di metallo. Ci sono scavatori e camion ovunque e il frastuono è assordante.

«Be’, sono contenta di averlo visto» dice Kay Scarpetta. «Ma avrebbero dovuto dirmelo.»

Pete Marino, che è in automobile con lei, osserva in silenzio il cantiere.

«E sono contenta che l’abbia visto anche tu, capitano» aggiunge Kay. Non lo chiama spesso “capitano”, anche perché Marino non lo è più. Quando lo fa, è per gentilezza.

«Contenta tu, contenti tutti» borbotta lui con il suo tipico sarcasmo. «Comunque sì, hai ragione, avrebbero dovuto dirtelo. Se non altro, quel coglione che ha preso il tuo posto e ti ha supplicato di venire qui dopo cinque anni a dargli una mano poteva fare lo sforzo di avvertirti. O no?»

«Probabilmente non ci ha pensato» lo giustifica Kay.

«Sì, bravo» commenta Marino. «Mi sta già sulle palle.»

Indossa pantaloni sportivi neri, anfibi, giacca di finta pelle nera e berretto con visiera del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Kay Scarpetta sa che vuole fare la figura del bullo metropolitano perché ce l’ha ancora a morte con “quelli di Richmond” che gli hanno fatto fare vita grama quando era ispettore di polizia in Virginia. Marino è convinto di non aver meritato le numerose ammonizioni, le sospensioni, i trasferimenti e i provvedimenti disciplinari che ha ricevuto nel corso della sua carriera e non si rende conto che, se gli altri lo trattano male, spesso è perché lui li provoca.

Kay Scarpetta lo guarda, seduto imbronciato con gli occhiali da sole e quel berretto, e pensa che sembra scemo, soprattutto visto che odia Los Angeles, Hollywood, il mondo dello spettacolo e tutti quelli che muoiono dalla voglia di farne parte. Il berretto della polizia di Los Angeles è un regalo di Lucy la nipote di Kay Scarpetta, che recentemente ha aperto una filiale della propria agenzia di investigazioni a Los Angeles. Chissà perché Marino, per tornare a Richmond, ha scelto un look così: forse era sua precisa intenzione mostrarsi completamente diverso da quello che è.

«Dunque non vai ad Aspen» le dice a voce bassa. «Chissà com’è incacchiato Benton.»

«Per la verità è impegnato» risponde Kay. «Quindi se lo raggiungo fra due o tre giorni è più contento.»

«Due o tre giorni? Tu pensi davvero che ci metteremo soltanto due o tre giorni? Vedrai che ad Aspen non ci vai più. Com’è che Benton è impegnato, comunque?»

«Non me lo ha detto e io non gliel’ho chiesto» risponde lei per chiudere il discorso. Non ha nessuna voglia di parlarne.

Marino guarda fuori del finestrino senza dire niente e Kay Scarpetta è certa che sta pensando ai suoi rapporti con Benton Wesley Probabilmente ci pensa spesso, troppo spesso: ha intuito che lei si è allontanata da Benton, che da quando sono tornati insieme sono più distanti. La disturba che Marino se ne sia accorto, anche se è naturale: se qualcuno doveva accorgersene, era ovvio che fosse proprio lui.

«Peccato per Aspen» dice Marino. «Io mi incacchierei, comunque.»

«Guarda!» esclama Kay Scarpetta, indicandogli il palazzo che viene abbattuto sotto i loro occhi. «Già che siamo qui, tanto vale che ce ne prendiamo una vista.» Non vuole parlare né di Aspen né di Benton, né del perché non è in montagna con lui. Gli anni in cui pensava che fosse morto l’hanno cambiata profondamente. Quando lui è rientrato nella sua vita, nulla è stato più come prima. Kay non sa perché.

«Non potevano fare a meno di buttarlo giù» sentenzia Marino guardando dal finestrino. «Ci devono passare i binari dell’Amtrak. Siccome riaprono la Main Street Station, avevano bisogno di spazio. Non so chi me l’ha detto. È passato un sacco di tempo.»

«Potevi anche dirmelo» gli dice Kay.

«È passato un sacco di tempo, non so neanche più dove l’ho sentito.»

«Avresti potuto dirmelo lo stesso.»

Marino la guarda in faccia. «Senti, capisco che ti girino le scatole. Lo sapevamo, che tornare a Richmond non sarebbe stato facile. Siamo appena arrivati e ci troviamo davanti questo scempio. Siamo qui da meno di un’ora e scopriamo che il palazzo in cui lavoravamo insieme è un cumulo di macerie. A me non sembra un gran bel segnale. Senti, stai andando troppo piano: guarda che ci tamponano.»

«Non mi girano le scatole» ribatte Kay Scarpetta. «È solo che avrei gradito essere informata, tutto qui.»

Procede a passo d’uomo e osserva il cantiere.

«È di cattivo auspicio, questa cosa» ribadisce lui. La guarda, poi si volta verso il finestrino.

Kay Scarpetta non accelera e continua a osservare. Le ci vuole un po’ per digerire il fatto che la vecchia sede dell’Istituto di medicina legale e dei laboratori forensi della Virginia sta per essere demolita per rendere possibile la riapertura di una stazione ferroviaria che, nei dieci anni in cui lei e Marino hanno lavorato e vissuto a Richmond, era in disuso. Quella stazione, un vecchio edificio in pietra di un certo valore architettonico, dopo un lungo periodo di abbandono è stata riconvertita in un centro commerciale, quindi ha ospitato alcuni uffici amministrativi, poi chiusi. Il suo orologio svettava sopra gli edifici circostanti e si vedeva da molte parti della città, bianco, spettrale, con le lancette di metallo sottile.

Richmond è andata avanti, durante la sua assenza. Main Street Station è risorta, l’orologio della stazione funziona di nuovo e segna le otto e sedici minuti. Era rotto da anni, Kay Scarpetta non l’aveva mai visto funzionare. La vita in Virginia continua, ma nessuno si è premurato di dirglielo.

«Non so che cosa mi aspettassi» confessa guardando dal finestrino. «Forse speravo che lo usassero come archivio, come magazzino. Non credevo che lo demolissero.»

«Era necessario» taglia corto Marino.

«Non so perché, ma non me l’aspettavo.»

«Non era mica l’ottava meraviglia del mondo» insiste Marino, in tono improvvisamente seccato. «Un cubo di cemento anni Settanta in cui sono passati chissà quanti morti ammazzati, gente andata al Creatore per AIDS, cancrena e quant’altro, donne e bambini stuprati, strangolati, pugnalati… pazzi finiti sotto a un treno… Ne ha viste di brutture, questo posto… Per non parlare dei cadaveri conservati nella divisione di Anatomia. Quelli sono la cosa peggiore, per me. Ti ricordi che li tiravano fuori dalle vasche di formalina con un argano, agganciandoli per le orecchie? Nudi, rosa come porcellini, tutti rannicchiati… Che orrore!» Avvicina le gambe flesse al mento per mimare la posizione dei cadaveri.

«Fino a poco tempo fa non saresti riuscito a tirare su le gambe a quel modo» gli fa notare Kay Scarpetta. «Tre mesi fa, le piegavi a malapena.»

«Ma dai…»

«Sul serio. Anzi, volevo dirtelo: sei dimagrito un sacco, stai proprio bene.»

«Ad alzare una gamba ci vuole veramente poco: basta pensare ai cani. Maschi, naturalmente» scherza Marino, soddisfatto del complimento. Kay Scarpetta si dispiace di non avergli detto prima quanto lo trovava migliorato.

«Davvero, sei molto più in forma.» Per anni ha avuto paura che Marino schiattasse a causa delle sue abitudini malsane, e si dispiace di non averlo incoraggiato abbastanza, quando lui ha cominciato a cambiare vita. Si è dovuta trovare di fronte alle macerie del suo vecchio Istituto di medicina legale per riuscire a dirgli qualcosa di gentile. «Scusami se non te l’ho detto prima» aggiunge. «Spero che tu non segua una dieta iperproteica.»

«Abito in Florida, adesso» risponde lui tutto allegro. «Seguo la dieta di South Beach. Anche se a South Beach non metto piede: è pieno di finocchi.»

«Non mi piace che tu ti esprima in questo modo» lo interrompe Kay. Le dà un fastidio terribile sentire certe parole. Marino lo sa e le usa apposta.

«Ti ricordi il forno?» Marino riprende il filo dei ricordi. «Quando c’erano le cremazioni, lo sapevano tutti perché usciva il fumo dal comignolo.» Indica la ciminiera scura del crematorio. «Se vedevo uscire il fumo, chiudevo i finestrini della macchina. Non voglio mica respirare certa roba, io…»

Kay Scarpetta sta passando lungo la parte posteriore del complesso, che è ancora intatta e le sembra identica a come la ricordava. Il parcheggio è vuoto, a parte un grosso trattore giallo fermo proprio dove lei aveva il posto macchina quando dirigeva l’istituto, appena a destra dell’entrata. Per un attimo, le pare di risentire la saracinesca cigolante che si azionava premendo un grosso pulsante rosso e verde, le voci, il viavai di carri funebri, ambulanze e barelle che trasportavano i sacchi grigi in cui erano chiusi i cadaveri. Giorno e notte, notte e giorno, senza soluzione di continuità.

«Guarda bene» dice a Marino.

«Ho già visto tutto quello che c’è da vedere» ribatte lui. «Quanti giri vuoi fare intorno al palazzo?»

«Due. Per farmi un quadro preciso della situazione.»

Svolta a sinistra in Main Street e gira intorno al cantiere a velocità lievemente più alta. Passando di nuovo davanti al parcheggio, nota un uomo in pantaloni verde oliva e giacca nera vicino a un trattore giallo, che traffica con il motore. Capisce che sta cercando di riparare un guasto e rabbrividisce nel vederlo davanti alla grossa ruota nera.

«Secondo me, ti conviene lasciare il berretto in macchina» dice a Marino.

«Come, scusa?» chiede lui voltandosi dalla sua parte.

«Mi hai sentito benissimo. È solo un consiglio da amica» risponde Kay, mentre l’uomo davanti al trattore scompare alla sua vista.

«Tu mi dai spesso consigli» replica lui. «Non so se da amica, però.» Si toglie il berretto con la scritta LAPD e lo guarda pensoso. Ha la fronte sudata e rasati a zero i pochi capelli che madre natura gli ha lasciato.

«Non mi hai mai detto perché adesso ti radi a zero» gli dice.

«Non me l’hai mai chiesto.»

«Be’, te lo chiedo ora.» Svolta in direzione nord, allontanandosi dal cantiere verso Broad Street, e accelera.

«È di moda» risponde Marino. «Per averne pochi, tanto vale non averne e basta.»

«Sì, ha una logica» risponde Kay. «Come tutto, peraltro.»

2

Edgar Allan Pogue si guarda le dita dei piedi rilassandosi sulla sdraio. Sorride e pensa alla reazione che avrà la gente quando scoprirà che è andato a stare a Hollywood. “La mia seconda casa” pensa. Lui, Edgar Allan Pogue, ha una seconda casa, dove andare a riposarsi e a prendere il sole.

A nessuno verrà in mente che potrebbe trattarsi di un’altra Hollywood. Quando si parla di Hollywood si pensa sempre all’enorme insegna sulla collina, alle ville lussuosissime, a spider ultimo modello e a personaggi famosi. A nessuno verrà in mente che la Hollywood di Edgar Allan Pogue è nella contea di Broward, a un’ora di macchina da Miami, e senza star del cinema. Al medico lo dovrà dire, però, pensa addolorato. Sì, il medico sarà il primo a saperlo, perché deve fargli il vaccino. Uno che sta a Hollywood non può rimanere senza vaccino antinfluenzale, anche se dovesse scarseggiare. Pogue si arrabbia al solo pensiero.

«Vedi, mamma, siamo qui. Siamo qui veramente, non è un sogno» dice con la voce strascicata di chi ha qualcosa in bocca che gli impedisce di pronunciare bene le parole. Stringe fra i denti bianchi e regolari una matita di legno. «E tu che pensavi che non ci saremmo mai arrivati» continua, sbavando sulla matita. Un rivoletto di saliva gli cola sul mento.

Non vali una cicca, Edgar Allan. Non ne fai una giusta. Parla con la matita in bocca, imitando la voce maligna e da ubriaca di sua madre. Sei un buono a nulla, Edgar Allan, ecco che cosa sei. Un fallimento, un fallimento totale.

La sedia a sdraio è esattamente al centro del salotto asfittico e puzzolente del monolocale, che non è esattamente al centro del primo piano di un condominio in Garfield Street, la via che prende il nome dal presidente degli Stati Uniti e collega Hollywood Boulevard e Sheridan Street. Il condominio giallino a due piani si chiama Garfield Court. Non ha cortili, non ha giardini, ma ha un parcheggio con tre palme sparute le cui foglie appuntite ricordano a Pogue le ali delle farfalle che fissava con gli spilli sul cartoncino quando era ragazzo.

Una pianta senza linfa, ecco cosa sei. È questo il tuo problema.

«Smettila, mamma. Smettila immediatamente. Non è bello parlare così.»

Quando ha preso in affitto la sua seconda casa due settimane fa, Pogue non ha cercato di contrattare sul prezzo, benché novecentocinquanta dollari al mese sia una cifra esagerata, con cui a Richmond avrebbe potuto prendere una casa migliore. Ma da queste parti gli alloggi scarseggiano, e quando è finalmente arrivato nella contea, dopo sedici ore di macchina, non sapeva dove andare. Esausto e al tempo stesso euforico, ha cominciato a girare per orientarsi e per trovare un posto dove stare. Non voleva andare in albergo, nemmeno per una notte soltanto. Sulla vecchia Buick bianca aveva tutte le sue cose e non voleva correre il rischio che qualche delinquentello gli spaccasse un finestrino per portargli via videoregistratore, televisore, abiti, articoli da toilette, computer portatile, parrucca, sdraio, lampada, lenzuola, libri, penne e le boccette di smalto bianco, rosso e blu che gli servono per la sua amata mazza da baseball. Per non parlare dei vecchi amici.

«È stato terrificante, mamma» le racconta, per evitare di sentire i suoi rimproveri da ubriaca. «Sono stato costretto a lasciare la nostra bella cittadina del Sud in fretta e furia. Non per sempre, però. No, certamente non per sempre. Adesso ho una seconda casa e farò la spola fra Hollywood e Richmond. Non sognavamo da sempre di andare a Hollywood? Be’, adesso ci siamo. Cercheremo di fare fortuna, vero?»

Funziona: ha spostato l’attenzione della madre ed evitato ulteriori insulti.

«Subito, quando sono uscito da North Twenty-fourth Street e mi sono ritrovato in un quartiere squallidissimo chiamato Liberia, mi sono sentito un po’ sperso. C’era un furgoncino che vendeva gelati.»

Continua a parlare con la matita in bocca, come se avesse un morso per cavalli. Gli serve per non fumare, che secondo lui non è tanto una brutta abitudine nociva per la salute, quanto un passatempo troppo costoso. Ogni tanto si concede un sigaro. Si concede poco altro, ma ogni tanto un pacchetto di Indios, oppure di Cubitas o Fuentes se lo deve comprare. Per la verità, i suoi sigari preferiti sono i Cohiba, cubani, che acquista di contrabbando. Sa dove procurarseli e lo fa, perché non c’è paragone rispetto agli altri. I suoi polmoni esultano, quando si riempiono di fumo di Cohiba. Ai polmoni fanno male le impurità, non il purissimo tabacco cubano.

«Non ci credi? Un furgoncino dei gelati, con la sua bella musichetta, e un sacco di bambini negri intorno, con le monetine in mano. Un ghetto, capisci? Una zona di guerra. E per di più stava calando il sole. Chissà come sparano, di notte, nel quartiere Liberia. Naturalmente me ne sono andato e sono miracolosamente approdato in un’altra zona. Insomma, ti ho portato qui a Hollywood sana e salva. Vero, mamma?»

Si è ritrovato non sa bene neppure lui come in Garfield Street, piena di condomini a due piani con le ringhiere di ferro battuto, le persiane alle finestre e giardinetti troppo piccoli per avere una piscina. Case costruite negli anni Cinquanta e Sessanta, che gli piacciono perché sopravvissute a terribili uragani, epocali cambiamenti demografici e inarrestabili aumenti di tasse che hanno spinto i vecchi proprietari a trasferirsi altrove, lasciando il posto a nuovi inquilini, probabilmente incapaci di spiccicare una parola di inglese. I quartieri sopravvivono a tutto. Mentre faceva queste riflessioni, Pogue si è ritrovato davanti al condominio giallino.

Fuori c’era un cartello con la scritta GARFIELD COURT e una serie di numeri di telefono. È entrato nel parcheggio e ha preso nota dei numeri, poi si è fermato al primo distributore per chiamare dal telefono pubblico. Sì, un appartamento libero c’era. Il proprietario, tale Benjamin P. Shupe, gli ha fissato un appuntamento per un’ora dopo.

“Non si può, non si può” diceva continuamente Shupe, seduto alla scrivania del suo ufficio al pianterreno, dove faceva un caldo spaventoso e non si respirava, anche per colpa dell’insopportabile profumo di cui lui si era cosparso. “L’aria condizionata non c’è. Se vuole, si può comprare un piccolo condizionatore. Ma questo è il periodo migliore dell’anno, la bella stagione. Non ce n’è mica bisogno.”

Benjamin P. Shupe sorrideva mostrando la dentiera bianchissima, che a Pogue fece venire in mente le piastrelle del bagno, e batteva l’indice grassoccio sul piano della scrivania. Aveva un anello con tanti brillantini.

“Guardi, lei è fortunato. In questo periodo dell’anno c’è sempre un sacco di gente. Sa che ho dieci persone in lista d’attesa per l’appartamento che vuole lei?” Ha fatto un gesto con il braccio per mostrargli che aveva il Rolex d’oro, ignaro del fatto che gli occhiali scuri di Pogue non erano da vista e i suoi lunghi capelli neri erano in realtà una parrucca. “Fra due giorni qui davanti avrò la coda. Guardi, a darle l’appartamento a questa cifra ci rimetto.”

Pogue ha pagato in contanti, senza bisogno di documenti, caparre o altre garanzie. Fra tre settimane dovrà pagare l’affitto di gennaio, di nuovo in contanti, se deciderà di tenere la sua seconda casa a Hollywood. Ma è un po’ presto per sapere che cosa farà, dopo Capodanno.

«Troppe cose da fare, troppe cose da fare» borbotta sfogliando un dépliant di pompe funebri, poi se lo posa in grembo e guarda fotografie di urne che conosce a memoria. La sua preferita continua a essere quella in peltro, a forma di libro con una penna d’oca fra le pagine. Nella sua mente, è un libro di Edgar Allan Poe, lo scrittore di cui porta il nome. Si chiede quante centinaia di dollari potrà mai costare quell’urna tanto elegante e medita se telefonare al numero verde.

«Dovrei chiamarli e ordinarne una» dice giocoso. «Non pensi, mamma?» La stuzzica, come se avesse il telefono e potesse chiamare anche subito. «Ti piacerebbe, vero?» Sfiora l’imrnagine. «Ti piacerebbe l’urna di Edgar Allan, vero? Be’, sai cosa ti dico? Non chiamerò finché non avremo qualcosa da festeggiare. Perché il lavoro non va come previsto, mamma. Sì, mi hai sentito. Va un po’ a rilento, per la verità.»

Un buono a nulla, ecco che cosa sei.

«No, mamma, non sono un buono a nulla.» Scuote la testa e sfoglia il dépliant. «Non ricominciamo, per favore. Siamo a Hollywood. Non è bello?»

Pensa alla villa color salmone non lontano da lì, sul mare, e si sente travolgere dalle emozioni. L’ha trovata come previsto, e ci è entrato. Ma poi è andato tutto storto, e adesso non c’è niente da festeggiare.

«Tutto sbagliato, tutto sbagliato.» Si batte una mano sulla fronte, come faceva sua madre. «Non doveva andare così. Il pesce piccolo è fuggito.» Mima con due dita un pesce che nuota. «E ha lasciato il pesce grosso.» Mima il movimento di un pesce con entrambe le braccia. «Il pesce piccolo è andato chissà dove, non mi interessa nemmeno sapere dove. No, non mi interessa. Perché il pesce grosso è ancora lì e, se io ho fatto scappare il pesce piccolo, di sicuro il pesce grosso non sarà tanto contento. E come potrebbe esserlo? Fra poco festeggeremo, vedrai.»

Te lo sei lasciato sfuggire? Come hai fatto a essere tanto scemo? Non hai preso il pesce piccolo e pensi di poter prendere quello grosso? Un buono a nulla, ecco che cosa sei. Sarai veramente figlio mio?

«Non dire così, mamma. Non è gentile da parte tua» dice Pogue con la testa china sul dépliant.

Sua madre dà certe occhiate che ti fulminano. Suo padre era solito dire: “Ti fa gli occhi pelosi”. Edgar Allan Pogue non ha mai capito perché. Gli occhi non hanno peli, non si è mai visto. Lo saprebbe, lui, se esistessero occhi pelosi. Sa quasi tutto, lui. Lascia cadere il dépliant sul pavimento, si alza dalla sdraio gialla e bianca e va a prendere la mazza da baseball di alluminio che tiene in un angolo, appoggiata al muro. Le veneziane dell’unica finestra del salotto sono abbassate e la stanza è immersa in una piacevole penombra, rotta soltanto dalla luce di una lampada posata per terra.

«Vediamo. Che cosa facciamo oggi?» continua, sempre tenendo la matita in bocca, rivolto a una scatola di biscotti di latta sotto la sedia a sdraio, e intanto impugna la mazza e ne controlla le stelle e strisce bianche, rosse e blu che ha ritoccato esattamente centoundici volte. La lucida amorevolmente con un fazzoletto bianco e poi si pulisce le mani nello stesso fazzoletto, ripetutamente. «Dovremmo fare qualcosa di speciale. Secondo me, dobbiamo uscire.»

Si avvicina al muro, si toglie la matita di bocca e la prende in mano, sempre tenendo la mazza con l’altra. Piega la testa da una parte e strizza gli occhi, guardando il disegno appena abbozzato appeso alla parete beige. Avvicina la punta della matita bagnata e mordicchiata al grande occhio sbarrato e infoltisce le ciglia.

«Ecco qua.» Fa un passo indietro, piega di nuovo la testa da una parte e ammira la sua creazione, un grande occhio e la linea della guancia, sempre impugnando la mazza da baseball.

«Ti ho detto che oggi sei particolarmente carina? Presto le tue guance avranno un colore stupendo e diventeranno rosse come mele mature.»

Si sistema la matita dietro l’orecchio e apre la mano davanti agli occhi, controllandone ogni nocca, piega, segno e linea, per poi esaminare con cura le unghie piccole e arrotondate. Muove le dita, guarda i muscoli che si tendono e immagina di passare la mano sulla pelle fredda, di massaggiarla per portare in superficie il sangue freddo e fermo, di palparla in maniera da infondere colore alla morte. Immagina di battere con la mazza che tiene nell’altra mano. Vorrebbe poter descrivere un arco con la mazza per colpire con violenza l’occhio appeso al muro, ma non lo fa. Non può, non deve. Passeggia per la stanza, con il cuore che batte all’impazzata, frustrato. Troppa confusione.

L’appartamento è praticamente vuoto, ma vi regna il caos. In cucina ci sono tovaglioli, piatti di carta e posate dappertutto, scatolette e pacchi di pasta che non ha riposto nell’unico armadietto. Nel lavandino ci sono una pentola e una padella immerse in acqua ormai fredda e unta. Sulla moquette azzurra e macchiata ci sono borse, indumenti, libri, matite e fogli di carta bianca da pochi soldi. Ovunque aleggia un odore stagnante di cibo e di sigari, oltre che di sudore. Fa caldo e Pogue è nudo.

«Dovremmo vedere come sta la signora Arnette. Non è in gran forma» dice alla madre, senza guardarla. «Ti fa piacere se viene qualcuno a trovarci? Prima di tutto, lo devo chiedere a te. Potrebbe farci bene, però. Io mi sento un po’ scombussolato, se devo dire.» Pensa al pesce piccolo che gli è sfuggito e si guarda intorno. «Una visita potrebbe essere la soluzione migliore. Cosa ne pensi?»

Sì, va bene.

«Allora siamo d’accordo?» La sua voce baritonale si alza e si abbassa, il tono è quello dell’adulto che si rivolge a un bambino, o a un cane. «Ti fa piacere se la invitiamo? Bene, benissimo.»

Cammina a piedi nudi sulla moquette e si accuccia accanto a una scatola di cartone che contiene videocassette, scatole di sigari e buste piene di fotografie, tutte provviste di etichette scritte con grafia piccola e ordinata. In fondo al cartone trova la scatola di sigari della signora Arnette e una busta di Polaroid.

«Mamma, la signora Arnette è venuta a trovarci» dice in tono soddisfatto aprendo la scatola di sigari e posandola sulla sedia a sdraio. Guarda le foto e sceglie la sua preferita. «Te la ricordi, vero? Vi siete conosciute. Una vecchia signora molto simpatica. Una fata dai capelli turchini. Vedi che ha proprio i capelli turchini?»

Eh, sì.

Imita la cadenza della madre, la voce strascicata che aveva dopo essersi scolata una bottiglia di vodka.

«Ti piace la sua nuova scatola?» le chiede, infilando il dito nella scatola di sigari e soffiando cenere bianca nell’aria. «Non essere gelosa, è dimagrita dall’ultima volta che l’hai vista. Chissà qual è il suo segreto» la stuzzica. Poi rimette il dito nella cenere e soffia di nuovo. Sua madre è grassissima e lui vuole farla ingelosire. Si pulisce le mani nel fazzoletto bianco. «Credo che la nostra amica stia molto bene, veramente.»

Guarda la foto della signora Arnette, la sua faccia morta e i suoi capelli bianchi dalla sfumatura azzurrina. Non si vede che ha la bocca cucita, ma lui sa che lo è perché gliel’ha suturata con le sue stesse mani. Non solo: nessuno si accorgerebbe che dietro la rotondità degli occhi ci sono due sagome, che ha sistemato lui fra le palpebre e le orbite infossate, facendole aderire con la vaselina.

«Sii gentile, chiedi alla signora Arnette come sta» dice alla scatola di latta sotto la sedia a sdraio. «Aveva il cancro. Come tanti.»

3

Il dottor Joel Marcus le rivolge un sorriso formale e Kay Scarpetta gli stringe la mano piccola e ossuta. Sa di essere prevenuta nei confronti del nuovo direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia, ma cerca di non lasciarsi suggestionare e di mantenersi indifferente.

È venuta a sapere di lui alcuni mesi fa, per caso, come sempre. Era in aereo, leggeva “USA Today”, e le è caduto l’occhio su un trafiletto dal titolo Nominato il nuovo direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Dopo che per anni l’istituto era stato diretto da un “facente funzioni”, il governatore aveva finalmente nominato un nuovo direttore, senza interpellarla. Nessuno le aveva chiesto consiglio, né un parere sul candidato.

Se lo avessero fatto, lei avrebbe detto di non aver mai sentito nominare il dottor Marcus. E avrebbe aggiunto, diplomaticamente, che forse l’aveva incontrato a qualche convegno, ma non lo ricordava: doveva senza dubbio essere un anatomopatologo di tutto rispetto, se era candidato a ricoprire una carica tanto importante…

Stringendogli la mano e guardandolo negli occhi, piccoli e freddi, si rende conto di non averlo mai visto prima. Il dottor Marcus non deve essere mai stato membro di nessuna commissione di rilievo e non ha mai parlato a nessun convegno a cui lei ha partecipato, altrimenti se lo ricorderebbe. A volte dimentica i nomi, ma le facce no.

«Finalmente ci conosciamo, Kay» le dice Marcus, di nuovo chiamandola per nome. Quell’uomo è veramente offensivo e, se per telefono ha cercato di fare finta di niente, lì, nell’atrio del Biotech II dove un tempo regnava incontrastata, non riesce a non restarci male. Marcus è minuto, basso, con la faccia sottile e pochi capelli. Sembra minuscolo, uno gnomo. Ha una camicia bianca da quattro soldi che gli fa difetto intorno al collo, una cravatta fuori moda, pantaloni grigi sformati e un paio di mocassini. Sotto la camicia, si vede che porta una canottiera di cotone.

«Prego, si accomodi» le dice. «Purtroppo stamattina abbiamo un sacco di autopsie in programma.»

Kay Scarpetta non ha ancora fatto in tempo a dirgli di Marino che questo sbuca dalla toilette degli uomini finendo di abbottonarsi i calzoni neri. Ha il berretto del LAPD calato sugli occhi. Kay fa le presentazioni in tono molto formale e aggiunge: «L’ispettore Marino è molto in gamba. Ha lavorato anche per il Dipartimento di Richmond».

Il dottor Marcus è indispettito. «Non mi aveva detto che sarebbe venuta accompagnata» ribatte sgarbato. Kay Scarpetta è irritata: è arrivata venti minuti fa, ha firmato il registro ed è stata lì impalata nell’atrio di granito e cristallo ad aspettare che qualcuno venisse a prenderla. «Le avevo detto che si trattava di una questione delicata.»

«Non si preoccupi, sono abituato alle situazioni delicate» risponde Marino a voce alta.

Marcus si irrigidisce, e Kay Scarpetta si accorge che è furibondo.

«Anzi, le dirò: sono più che abituato. Abituatissimo. Non faccio altro, nella vita, che occuparmi di questioni delicate» aggiunge. Poi vede entrare una guardia e gli urla: «Ciao, Bruce! Tutto bene? Giochi sempre a bowling?».

«Mi dispiace» dice Kay Scarpetta a Marcus. «Mi sembrava di averle detto che l’ispettore Marino sarebbe venuto con me.» Sa benissimo di non averlo fatto e non è per nulla dispiaciuta. Il dottor Marcus le ha chiesto una consulenza e lei ha il diritto di portarsi dietro chi vuole. E poi è arrabbiata con lui perché la chiama Kay.

Bruce guarda Marino senza riconoscerlo, poi si avvicina sorridendo. «Marino! Per la miseria, non mi aspettavo di vederti qui! Da quanto tempo…»

«No, non me lo ha detto» insiste Marcus, momentaneamente in difficoltà e confuso.

«Eh, lo so che non ti aspettavi di vedermi qui» replica Marino con una smorfia.

«Senta, non so se posso permettere all’ispettore di entrare. Dovrei chiedere l’autorizzazione…» Colto alla sprovvista, Marcus si è lasciato sfuggire che non è lui il capo: forse è stato qualcun altro a decidere di interpellarla, di farla tornare lì.

«Quanto tempo ti trattieni?» chiede Bruce a Marino.

Ripensandoci, Kay Scarpetta ha intuito fin dal principio che qualcosa non andava, ma non si è data ascolto.

«Mi tratterrò il tempo che ci vorrà.»

Si rende conto di aver sbagliato. Sarebbe dovuta andare ad Aspen.

«Vienimi a trovare, se vuoi.»

«Certamente, Bruce.»

«Adesso basta, per favore» li interrompe Marcus. «Non siamo mica al bar.»

Porta la chiave del suo regno appesa al collo. Si china e passa il tesserino magnetico sullo scanner a raggi infrarossi accanto alla porta a vetri che conduce all’ala riservata al direttore. Kay Scarpetta ha la bocca secca e le ascelle sudate. Con un nodo allo stomaco entra negli uffici di quello che un tempo era il suo regno. È stata lei a trovare i fondi per costruirlo e ne ha seguito puntualmente la progettazione. Il divano e la poltrona blu, il tavolino di legno e il paesaggio campestre appeso alla parete sono rimasti identici. Neanche la reception è cambiata, a parte le piante, che non ci sono più. Kay era entusiasta dei suoi due tronchetti e degli ibischi. Li innaffiava personalmente, toglieva le foglie secche e li spostava perché fossero sempre in piena luce.

«Mi dispiace, ma è meglio che il suo ospite non prosegua oltre» decide Marcus, fermandosi davanti a un’altra porta chiusa, che conduce agli uffici amministrativi e all’obitorio.

Il tesserino magnetico apre anche questa e Marcus la oltrepassa rapido. Gli occhiali con la montatura di metallo brillano sotto i neon. «Sono arrivato tardi perché ho trovato traffico. Purtroppo abbiamo moltissimo lavoro. Otto autopsie» continua parlando a Kay Scarpetta come se Marino non esistesse. «Adesso ho la riunione con lo staff. Probabilmente la cosa migliore è che lei si prenda un caffè, Kay. Potrei metterci un po’. Julie?» dice poi, rivolgendosi a un divisorio dietro cui un’impiegata sta scrivendo al computer. «Per favore, può far vedere alla signora la macchinetta del caffè?» Poi, a Kay: «Si accomodi pure in biblioteca. La raggiungerò appena possibile».

È molto scortese a chiamarla “signora” e a non invitarla alla riunione e nella sala autopsie, visto che l’ha chiamata lui. Si sente come se le avesse chiesto di portargli due camicie in lavanderia.

«L’ispettore è meglio che vada» ribadisce Marcus, guardandosi intorno impaziente. «Julie, può accompagnare il signore nell’atrio?»

«L’ispettore resta con me» interviene Kay in tono pacato.

«Come ha detto, scusi?» Marcus si volta a guardarla negli occhi.

«L’ispettore resta con me» ripete.

«Forse lei non ha ben capito la situazione» insiste lui, stizzito.

«Forse. Vuole spiegarmela meglio?»

Marcus trattiene a stento la stizza. «E va bene» acconsente. «Andiamo un momento in biblioteca.»

«Ti spiace aspettarci qui?» dice Kay Scarpetta a Pete Marino, sorridendogli.

«Nessun problema» risponde lui. Si avvicina alla scrivania di Julie e prende in mano una serie di fotografie, come fossero carte da gioco. Ne stringe una fra l’indice e il pollice. «Sa perché gli spacciatori hanno meno massa grassa di me e di lei, signorina?» chiede poi all’impiegata, posandole la foto sulla tastiera.

Julie, che dimostra venticinque anni ed è carina ma cicciottella, osserva la foto del ragazzo nero, giovane e muscoloso, steso sul tavolo da autopsia. È nudo, con il torace aperto e svuotato di tutti gli organi tranne uno, molto ingrossato. «Mi sta prendendo in giro, vero?» dice Julie.

«No, no. Dico sul serio.» Si avvicina una sedia e si accomoda accanto alla ragazza. «Vede, la massa grassa è direttamente proporzionale al peso del cervello. Guardi me e lei, per esempio. Tendiamo a ingrassare, no?»

«Altroché. Davvero le persone intelligenti ingrassano di più?»

«È accertato. Io e lei facciamo una fatica terribile a non mettere su chili.»

«Non mi dica che lei mangia tutto integrale e biologico.»

«Certamente. Io ormai di bianco cerco solo le donne. Eppure, guardi, se fossi uno spacciatore potrei mangiare tutto quello che voglio. Altro che farina integrale… Pane bianco, brioche, e chi più ne ha più ne metta. Perché non avrei cervello. Questa è gente stupida, che muore per stupidità, e può mangiare tutte le porcherie che vuole senza mettere su nemmeno un etto.»

Voci e risate si attenuano quanto più Kay si allontana lungo un corridoio che conosce benissimo. Ricorda perfettamente la sensazione della folta moquette grigia sotto le scarpe. Ricorda perfettamente il giorno in cui la scelse.

«L’ispettore non si sa comportare» dice Marcus. «Fare conversazione a quel volume nell’atrio… Un po’ di decoro, che diamine!»

Le pareti sono scrostate e le stampe di Norman Rockwell che aveva portato lei in ufficio sono storte. Inoltre, ne mancano due. Sbircia nelle stanze che hanno la porta aperta e nota che le scrivanie sono ingombre di carte e diapositive, cartelline e microscopi. È a disagio: vedere tutta quella confusione le fa male.

«Ho capito chi è, comunque. Peter Marano. Non ha una buona fama…» dice Marcus.

«Marino» lo corregge Kay Scarpetta.

Girano a destra e non si fermano davanti alla macchinetta del caffè. Il dottor Marcus apre la pesante porta di legno della biblioteca, e lei vede tomi di medicina sparsi sui tavoli e volumi inclinati e malmessi sugli scaffali. Il grande tavolo a ferro di cavallo è ingombro di riviste, fogli, tazzine sporche e persino involucri di merendine. Si guarda intorno nauseata. Ha progettato lei quella biblioteca, ha trovato lei i fondi per costruirla e riempirla di importanti testi medici e scientifici. E non è stato facile, visto che lo Stato tende a limitare gli investimenti per i morti. Osserva i volumi di neuropatologia e le riviste di legge che ha donato alla biblioteca. Sono in disordine. Uno dei volumi è addirittura messo al contrario. Sente montare la rabbia.

Guarda Marcus negli occhi e dichiara: «Conviene che mettiamo subito in chiaro una serie di cose».

«C’è qualcosa che non va, Kay?» chiede lui, con un’aria stupita.

Kay Scarpetta non riesce a capacitarsi della supponenza di Marcus. Le fa venire in mente quegli avvocati da strapazzo che cercano di minimizzare le sue competenze e la chiamano “signora” per sminuirla di fronte alla giuria.

«Sento delle resistenze da parte sua che…» inizia.

«Resistenze? Non capisco a cosa si riferisce.»

«Be’, invece a me sembra…»

«Be’, forse le sembra sbagliato.»

«Le dispiace non interrompermi? Le ricordo che è stato lei a chiamarmi.» Indica i tavoli ingombri, i libri sparsi qua e là e si chiede se Marcus è altrettanto disordinato in casa propria. «Che cosa è successo qui dentro?» gli domanda.

Lui non risponde subito. Forse riflette su quello che Kay sta cercando di dirgli veramente. Poi si giustifica: «Gli studenti non sono più quelli di una volta. Non hanno rispetto per le cose degli altri».

«Davvero? Nel giro di cinque anni sono cambiati così tanto?» gli chiede sarcastica.

«Io credo che lei mi abbia frainteso» ribatte Marcus con lo stesso tono cordiale che ha usato ieri al telefono. «Sono un po’ stressato, ma le assicuro che sono molto contento che lei sia qui.»

«Be’, non lo sembra affatto.» Lo guarda negli occhi e Marcus li abbassa. «Tanto per cominciare, non sono stata io a chiamare lei, ma il contrario. Perché mi ha fatto venire fin qui?» Rimpiange di non averglielo chiesto ieri al telefono.

«Credevo di averglielo detto, Kay. Lei è una consulente molto stimata…» È evidente che non la può soffrire.

«Dottor Marcus, noi non ci conosciamo, non ci siamo mai visti prima. Non credo che lei mi abbia chiamato perché sono una consulente stimata.» Incrocia le braccia e si rallegra fra sé di essersi messa un tailleur scuro e molto professionale. «Non meniamo il can per l’aia.»

«Non ne avrei il tempo, anche se volessi.» Se prima si sforzava di apparire cordiale, adesso Marcus ha smesso di esserlo del tutto.

«Chi le ha fatto il mio nome? Chi le ha detto di rivolgersi a me?» gli chiede, certa che ci sia sotto qualche manovra politica.

Marcus guarda la porta, per ricordarle che è un uomo molto impegnato, importante, atteso in una riunione. O forse ha paura che qualcuno stia origliando? «Stiamo perdendo tempo» dice. «È inutile parlare a questo modo.»

«Sono d’accordo con lei» replica Kay prendendo la sua valigetta. «Non mi va di farmi usare come pedina. Né di aspettare per ore, chiusa in una biblioteca con una tazza di caffè. Se vuole una consulenza, deve darmi tutte le informazioni che mi servono, altrimenti non se ne parla neanche.»

«Va bene. Vuole informazioni? Le avrà.» Il tono è imperioso, ma Kay Scarpetta si accorge che sotto sotto Marcus è spaventato: non può permettersi di lasciarla andare via. «Sarò franco: contattarla non è stata una mia idea. Il commissario alla Sanità voleva l’opinione di un esterno, ed è saltato fuori il suo nome» spiega. Come se il suo nome fosse stato estratto a sorte o tirato fuori da un cilindro.

«Avrebbe dovuto chiamarmi personalmente» ribatte lei. «Sarebbe stato più corretto.»

«Mi sono offerto io di contattarla. Sarò franco: non volevo interferenze.» Kay pensa che, più Marcus sostiene di parlarle con franchezza, meno lei gli crede. «È andata così: siccome il dottor Fielding non è riuscito ad accertare la causa della morte della ragazza — Gilly Paulsson, intendo -, il padre ha chiamato il commissario alla Sanità.»

Kay Scarpetta rimane male nel sentire parlare di Fielding. Non sapeva che lavorasse ancora all’istituto. Non aveva mai chiesto sue notizie.

«Come le dicevo, a quel punto il commissario mi ha chiamato e mi ha chiesto di far intervenire un esterno.»

Il signor Paulsson deve essere potente, riflette Kay. È normale che i familiari delle vittime insistano per avere il parere di un altro medico, ma è raro che vengano accontentati.

«Capisco che per lei venire qui sia difficile, Kay» continua Marcus. «Mi creda, nella sua posizione sarei in difficoltà anch’io.»

«E quale sarebbe la mia posizione?»

«Ha presente Il canto di Natale di Dickens, Kay, e lo Spirito del Natale passato?» Accenna un sorriso. «Tornare indietro non è mai facile. Lei ha avuto un gran coraggio, glielo riconosco. Non so se io sarei stato altrettanto generoso, specie se fossi convinto di aver subito un’ingiustizia. Quindi, come vede, la capisco benissimo.»

«Tutto questo è irrilevante» replica Kay Scarpetta. «Il nostro problema è una ragazzina di quattordici anni. E l’Istituto di medicina legale della Virginia, che lei dirige. Quindi, il fatto che io…»

«È tutto molto razionale, ma…» la interrompe Marcus.

«Voglio dirle una cosa, dottor Marcus» taglia corto lei. «La legge federale impone che in caso di morte di un minore ne venga accertata la causa e che vengano svolte indagini accurate per escludere qualsiasi responsabilità penale. Se dovesse venire fuori che Gilly Paulsson è stata uccisa, l’istituto che lei dirige passerebbe dei guai seri. E poi la prego di non chiamarmi Kay. Specie davanti ai suoi colleghi e sottoposti.»

«Immagino che il commissario volesse per l’appunto evitare questo» risponde Marcus, come se non l’avesse neanche sentita.

«Non voglio essere coinvolta in manovre politiche volte a proteggere questo istituto» mette in chiaro Kay. «Quando ieri mi ha chiamato, ho accettato di studiare il caso Paulsson. Ma non potrò fare luce sulla vicenda più di tanto, se lei mi taglia fuori e mi impedisce di avvalermi dell’esperienza dei miei collaboratori. Nel caso specifico, di Pete Marino.»

«Francamente, non credevo che lei tenesse tanto a partecipare alla riunione con lo staff.» Guarda l’ora su un vecchio orologio da polso con il cinturino di pelle. «Se preferisce esserci, comunque, non ho problemi. Non abbiamo niente da nascondere. Dopo la riunione, le parlerò del caso Paulsson. Se desidera, può effettuare una seconda autopsia.»

Apre la porta della biblioteca e le fa segno di passare per prima. Kay Scarpetta lo guarda incredula.

«Non mi ha detto che Gilly Paulsson è morta due settimane fa? Non avete ancora restituito il corpo alla famiglia?» domanda.

«Sono talmente disperati che non hanno ancora fatto la richiesta» replica. «O forse vogliono che paghiamo noi le spese del funerale.»

4

Kay Scarpetta entra nella sala riunioni e si siede in fondo al tavolo, dove non ha mai preso posto nei tanti anni in cui ha lavorato lì, nemmeno per scambiare due chiacchiere con un collega durante la pausa pranzo.

Pensa che forse c’è qualcosa di sbagliato nello scegliere quella posizione, visto che ci sono altri due posti liberi al centro. Marino prende una sedia vicino al muro e le si va a sedere accanto, in maniera da non essere né contro la parete né in fondo al tavolo, ma in una posizione più centrale. È immusonito e non si toglie il berretto della polizia.

Le dice in un orecchio: «Il personale lo vede come il fumo negli occhi».

Kay non risponde e decide che probabilmente Marino lo ha saputo da Julie. Vede che scrive qualcosa su un blocco e lo gira perché lei lo legga. L’appunto dice: “Coinvolta FBI”.

Marino deve aver fatto qualche telefonata, mentre lei era con Marcus in biblioteca. È stupefatta. Perché l’FBI è coinvolta nella vicenda di Gilly Paulsson? Non è nemmeno ancora stata accertata la causa della morte… Ripassa il blocco a Marino e si accorge che Marcus li sta osservando. Per un attimo le pare di essere tornata ai tempi della scuola, quando le suore la sgridavano se chiacchierava con la compagna di banco. Marino tira fuori dal pacchetto una sigaretta e, sfacciatamente, comincia a batterla sul blocco.

«In questo edificio è vietato fumare» dice Marcus in tono autoritario.

«Giustamente» replica Marino. «Il fumo uccide.» Continua a tamburellare con il filtro della Marlboro sul blocco su cui ha scritto il messaggio per Kay. «Vedo con piacere che l’uomo senza pelle è ancora qui» aggiunge poi, indicando il modello anatomico dietro al dottor Marcus, che è seduto a capotavola. «Mi ha sempre fatto impressione» continua riferendosi al modello, i cui organi in plastica estraibili sono tutti al loro posto. Kay si chiede se Marcus lo utilizzi per insegnare agli studenti o per dare spiegazioni a familiari e procuratori, e alla fine decide che probabilmente il modello è lì per bellezza. Se Marcus lo usasse, probabilmente avrebbe perso qualche pezzo.

Kay Scarpetta non conosce nessuno dei presenti, a parte il vicedirettore dell’istituto, Jack Fielding, il quale evita deliberatamente il suo sguardo. Nota che ha un disturbo della pelle che non aveva, quando lavorava con lei. Stenta a credere che nel giro di cinque anni il suo collega, un tempo superpalestrato, si sia ridotto così. Non era molto bravo sul fronte amministrativo, ricorda, né particolarmente preparato dal punto di vista professionale, ma era affidabile, rispettoso e attento. Nei dieci anni in cui ha lavorato per lei, non ha mai cercato di farle le scarpe o di metterla in cattiva luce ma, quando i suoi detrattori hanno cominciato a farle la guerra, non ha mosso un dito per difenderla. Poi osserva che ha perso molti capelli e si è imbruttito. Ha la faccia gonfia e arrossata, gli occhi lucidi, e tira continuamente su con il naso. Kay non crede che si droghi — anzi, ne è sicura — ma è pronta a scommettere che si sia messo a bere.

«Ti è venuta qualche allergia, Jack?» gli domanda. «Un tempo non ne soffrivi, mi pare. O sei raffreddato?» In realtà dubita che Fielding abbia il raffreddore, l’influenza o qualche altra malattia contagiosa.

Probabilmente ha bevuto troppo ieri sera. O forse è allergico a qualcosa. Ha uno sfogo rossastro sul collo, fino alla scollatura a V del camice. Gli guarda le mani e nota che la pelle è ruvida e irritata. La sua massa muscolare è diminuita visibilmente: adesso Fielding è inagrissimo e chiaramente sofferente. Kay Scarpetta è convinta che le dipendenze rendano più vulnerabili ad allergie e dermatiti. Fielding non sta bene. E forse è meglio così, perché se fosse al massimo della forma, sarebbe costretta a concludere che la Virginia e l’umanità intera stiano molto meglio senza di lei. Da un certo punto di vista è sollevata nel vedere che Fielding è in condizioni peggiori di una volta. Si vergogna di questo pensiero e lo scaccia dalla mente, preoccupata e angosciata. Cerca di incrociare il suo sguardo, ma lui continua a evitarla.

«Prima che riparta, spero che troviamo un momento per parlare» gli dice dal fondo del tavolo, come se nella stanza ci fossero solo loro due. Un tempo era così, quando lei dirigeva l’Istituto di medicina legale della Virginia ed era talmente rispettata e autorevole che a volte gli studenti più ingenui e i poliziotti più giovani, incontrandola nei corridoi, le chiedevano addirittura un autografo.

Si sente addosso lo sguardo di Marcus. Non la sorprende che non si sia messo il camice: è evidente che fa parte di quella categoria di anatomopatologi che non amano il proprio lavoro e appena possono lasciano ad altri le autopsie.

«Vogliamo cominciare?» dice Marcus. «Purtroppo stamattina abbiamo molti casi da esaminare. Come vedete, abbiamo ospiti. La dottoressa Scarpetta e il capitano Marino… O è tenente? O ispettore… Lavora a Los Angeles, adesso?»

«Anche» risponde Marino sempre con il berretto calcato sulla fronte e la sigaretta spenta in mano.

«E in quale veste si trova qui?» Marcus gli sta facendo notare che non ha dato spiegazioni. «Mi scusi, ma non ricordavo che la dottoressa Scarpetta mi avesse annunciato la sua presenza.» Insiste, e per di più davanti a terzi.

Kay capisce che vuole metterla in cattiva luce, vuole fargliela pagare per le provocazioni in biblioteca. Ripensando alle telefonate che Marino ha fatto, le viene il sospetto che Marcus sia venuto a saperlo.

«Peccato» risponde Marino. «Ma le avrà detto che lavoriamo insieme, immagino.»

«Certo che gliel’ho detto» interviene Kay Scarpetta dal lato opposto del tavolo.

«Comunque sia, adesso passeremo in rassegna i casi di oggi» dice Marcus, rivolto a lei. «Se voi due volete andare a prendervi un caffè o a fumarvi una sigaretta — purché fuori dall’edificio — fate pure. Non sentitevi in obbligo di restare. Voglio dire, se volete rimanere, naturalmente siete i benvenuti, ma se preferite andare…»

Lo dice a beneficio del suo staff, che non è al corrente del colloquio avvenuto in biblioteca, e con un tono che a Kay sembra vagamente minaccioso. Vuole farle fare la figura dell’invadente. È un politico, e nemmeno tanto in gamba. Forse è finito a dirigere l’Istituto di medicina legale perché qualcuno lo riteneva malleabile e innocuo, il contrario di quel che lei è sempre stata. Ma Marcus non è né malleabile né innocuo.

Il nuovo direttore si volta verso la donna alla sua destra, grande e grossa, con la faccia da cavallo e i capelli grigi e cortissimi. Dev’essere l’amministratrice dell’istituto. Marcus le fa segno di cominciare.

«Va bene» dice la donna. Tutti guardano le fotocopie giallastre del programma della giornata. «Dottoressa Ramie, era di turno lei ieri sera?» domanda la donna.

«Sì. La mia solita fortuna.»

Nessuno ride. L’atmosfera è funerea, e non per via dei pazienti in attesa dell’esame più invasivo che abbiano mai subito.

«Abbiamo Sissy Shirley, nera, novantadue anni, della contea di Hanover. Cardiopatica, trovata morta nel letto della casa di riposo in cui era ricoverata. Già vista» comincia la dottoressa Ramie consultando i propri appunti. «Poi c’è Benjamin Franklin. Poveretto, si chiamava proprio così. Ottantanove anni, nero, anche lui trovato morto nel letto, cardiopatico, nevropatia pregressa…»

«Come, scusi?» la interrompe Marcus. «Ha detto “nevropatia”?»

Alcuni ridono e la dottoressa arrossisce. È bruttina e sovrappeso, giovane. Diventa paonazza.

«E cosa sarebbe, di grazia?» Gigione, Marcus si accanisce contro di lei per conquistarsi il favore del suo pubblico. «Non mi dica che ha ricoverato nel nostro istituto un poveretto perché a suo dire soffriva di “nevropatia” pregressa, per favore.»

Non è spiritoso, è maligno: all’Istituto di medicina legale arrivano i morti e non vengono “ricoverati” dei “poveretti”. È terribilmente poco rispettoso nei confronti di persone chiuse dentro sacchi di plastica o distese su tavoli di acciaio poco lontano da lì, in attesa del bisturi e della sega Stryker.

«Scusate, ho letto male» dice confusa la dottoressa Ramie. «Volevo dire nefropatia. Non capisco più nemmeno la mia scrittura…»

«Dunque il buon Benjamin Franklin non soffriva di nervi. Non è che l’ha colpito un fulmine, per caso?» interviene Marino, giocherellando con la sigaretta spenta. «Avete qualche morto per avvelenamento da piombo, o ferita d’arma da fuoco che dir si voglia?»

Marcus lo fulmina con lo sguardo.

La dottoressa Ramie prosegue. «Ho già visto anche lui. Poi abbiamo… Finky… No, aspettate. Finder… Cioè…»

«Finky Finder?» interviene Marino, facendo lo spiritoso. «O Finder Finky?»

«È il nome o il cognome?» chiede Marcus, alzando la voce per zittire Marino.

La dottoressa Ramie è talmente paonazza che Kay Scarpetta per un attimo teme che si alzi ed esca dalla sala in lacrime. «Sembrano nome e cognome. Finky Finder» risponde, secca. «Ventidue anni, nera, trovata morta in un bagno con l’ago ancora piantato nella vena del braccio. Probabile overdose di eroina. Sarebbe la seconda in quattro giorni. Questa è ancora da vedere.» Gira un foglio. «Appena prima che cominciasse la riunione è arrivato un quarantaduenne bianco, Theodore Whitby. Si è infortunato sul lavoro.»

Marcus sbatte le ciglia, mentre tutti abbassano gli occhi. Kay Scarpetta implora in cuor suo Marino di stare zitto. Invece lui puntualizza: «Si è infortunato? Vuol dire che è ancora vivo?».

«Per la verità non ho ricevuto io la chiamata» balbetta la dottoressa Ramie. «Dottor Fielding…»

«Nemmeno io» risponde lui brusco.

«Ah, credevo che… Allora è stato il dottor Martin. Dev’essere la sua scrittura» continua la Ramie, sempre più paonazza e confusa. «La dinamica dell’incidente è ancora da chiarire, ma pare che fosse davanti al suo trattore e un minuto dopo sia stato visto lungo disteso per terra, in fin di vita. È successo alle otto e mezzo di questa mattina, nemmeno un’ora fa. Probabilmente è stato investito in seguito a una caduta o perché ha perso il controllo del mezzo. Quando sono arrivati i soccorsi, era già morto.»

«Dunque si è ammazzato. È stato un suicidio» interviene Marino, giocherellando con la sigaretta.

«Sfortuna vuole che sia successo davanti alla vecchia sede dell’istituto, nel cantiere di North Fourteenth Street» dice la Ramie.

Questa aggiunta colpisce Marino, che smette subito di scherzare e guarda Kay Scarpetta, la quale ripensa all’uomo in pantaloni verdi e giacca nera che ha visto davanti alla ruota del trattore. Era vivo, e adesso è morto. Quando lo ha visto davanti alla ruota a trafficare con il motore, ha pensato che era un’imprudenza. E adesso quel poveretto è morto.

«Su di lui va effettuata l’autopsia» dice la Ramie, dandosi un contegno.

Kay Scarpetta ricorda di aver guardato l’uomo dietro il trattore finché non è scomparso alla sua vista. Evidentemente, appena lei ha svoltato, il trattore si è messo in moto e lui ci è finito sotto.

«Propongo che di quest’uomo si occupi lei, dottor Fielding» dice Marcus. «Si accerti che non abbia avuto un infarto o altri disturbi prima di essere investito. L’elenco delle lesioni riportate sarà lunghissimo, ma non c’è bisogno che io le ricordi che in questi casi gli esami devono essere estremamente accurati. Anche se, per certi versi, inutili.» Guarda Kay Scarpetta. «Lei ha lavorato a lungo al 9 di North Fourteenth Street, vero?»

«Sì» risponde lei, senza riuscire a togliersi dalla testa l’immagine dell’uomo in pantaloni verdi e giacca nera. «Molti anni. Poi ci siamo trasferiti qui.» Ci tiene a farglielo presente, come se fosse importante.

La dottoressa Ramie riprende a parlare dell’ordine del giorno. Vi sono un detenuto sulla cui morte non ci sono sospetti, ma che va esaminato perché per legge tutti coloro che muoiono in carcere devono essere sottoposti all’esame di un medico legale, poi un uomo rinvenuto cadavere in un parcheggio, forse assiderato, una donna diabetica morta improvvisamente mentre scendeva dalla propria auto, un neonato morto nella culla, un diciannovenne ritrovato in mezzo a una strada e presumibilmente ucciso da un colpo di arma da fuoco.

«Io devo andare a Chesterfield, in tribunale» conclude la dottoressa Ramie. «E avrei bisogno di un passaggio perché la mia macchina è di nuovo dal meccanico.»

«La accompagno io» si offre Marino, facendole l’occhiolino. La dottoressa Ramie assume un’espressione terrorizzata.

Fanno tutti per alzarsi, ma il dottor Marcus li ferma. «Prima di chiudere, vorrei farvi qualche domanda» dice. «Come sapete, il nostro istituto organizza corsi di aggiornamento durante i quali io tengo alcune lezioni sul ruolo del medico legale. Ho pensato di sottoporvi alcuni dei quesiti che intendo porre ai partecipanti e, se non vi dispiace, vorrei farlo stamattina, approfittando del fatto che abbiamo una grande esperta fra noi.»

“Ma che bastardo” pensa Kay Scarpetta. “Vuole farmela pagare. Ce l’ha con me.”

Marcus guarda tutte le persone sedute intorno al tavolo. «Donna, vent’anni, bianca, alla settima settimana di gravidanza» comincia. «Il suo compagno la prende a calci, lei chiama la polizia e finisce in ospedale. Alcune ore dopo abortisce. La polizia chiama il medico legale. Che cosa deve fare costui?»

Nessuno risponde. È ovvio che non sono abituati a questo tipo di interrogazione. Lo guardano senza fiatare.

«Su, coraggio» dice lui con un sorrisetto. «Dottoressa Ramie.»

«Sì, dottore?» risponde lei, arrossendo.

«Mi dica, che cosa farebbe, se venisse interpellata dalla polizia su un caso del genere?»

«Un esame necroscopico sul feto abortito?» tira a indovinare la donna.

«Nessun altro vuole buttarsi? Dottoressa Scarpetta?» Marcus pronuncia il cognome lentamente, come per sottolineare il fatto che non la sta chiamando per nome. «Si è mai trovata in questa situazione?»

«Purtroppo sì» risponde lei.

«Ci spieghi, allora. Come si è comportata?» le domanda rispettoso.

«Ovviamente picchiare una donna incinta è reato» spiega Kay. «La morte del feto può essere considerata un omicidio.»

«Interessante.» Marcus si guarda intorno, prima di ripartire all’attacco. «Dunque lei tratterebbe un aborto alla settima settimana di gravidanza come un omicidio. Non le sembra un po’ azzardato?»

“Sei un vero bastardo” pensa Kay, che risponde: «Se la polizia mi interpella, è perché vuole conoscere la causa del decesso. Come lei certamente saprà, la legge è stata modificata alla fine degli anni Novanta, dopo il caso di un uomo che sparò a una gravida, la quale sopravvisse ma perse il bambino. Nel caso che lei ha esposto, io effettuerei l’autopsia sul feto. Per il certificato di morte userei il modulo giallo, perché il feto è nato morto, ma scriverei che la morte è sopravvenuta a livello intrauterino a causa delle violenze subite dalla madre. Archivierei inoltre copia del modulo con la pratica, perché il Bureau of Vital Records, una volta completate le sue statistiche, distrugge la documentazione».

«E cosa farebbe del feto?» domanda Marcus, molto meno rispettoso di prima.

«Chiederei ai familiari.»

«È un esserino di nemmeno dieci centimetri di lunghezza: non resterebbe niente da seppellire!» ribatte lui in tono sprezzante.

«Be’, allora lo metterei in formalina. Ma lo darei ai familiari, perché ne facciano quello che vogliono.»

«E lo definirebbe un omicidio» ribadisce freddo.

«La legge stabilisce che qualsiasi atto di violenza volto a uccidere un familiare è un reato punibile con la pena capitale. Anche se non si riuscisse a dimostrare l’intento omicida, permane il reato di atti di violenza sulla madre, anch’esso punibile con la morte. Qualora venisse dimostrato che non vi era intenzione di uccidere, si tratterebbe comunque di omicidio colposo o preterintenzionale. Il fatto che il bambino non fosse ancora nato è irrilevante.»

«Obiezioni?» chiede Marcus al suo staff. «Commenti?»

Nessuno risponde, nemmeno Fielding.

«Bene, passiamo a un altro caso» insiste Marcus con un sorriso maligno.

“Come vuoi” pensa Kay. “Te la faccio vedere io.”

«Un giovane ricoverato in un centro riservato ai malati terminali che sta morendo di AIDS chiede al medico di staccare la spina» inizia Marcus. «Se il medico lo accontenta, sul paziente dev’essere effettuata autopsia? Esiste l’ipotesi di omicidio? Dottoressa, ci dia il suo parere.»

«A mio avviso, è morte naturale, a meno che il medico non pianti una pallottola nella testa del paziente» risponde lei.

«Dunque lei è favorevole all’eutanasia…»

Kay Scarpetta non gli risponde nemmeno. «Il consenso informato pone diversi problemi. Spesso a darlo è un paziente depresso, che in quanto tale non è in grado di prendere decisioni meditate. È una questione che andrebbe affrontata a livello sociale…»

«Mi scusi, forse non ho capito bene» la interrompe Marcus.

«Che cosa non ha capito?»

«Abbiamo un malato terminale che un bel giorno si sveglia e decide di morire. Secondo lei il suo medico deve lasciarlo fare?»

«I malati terminali hanno questo diritto» risponde Kay Scarpetta. «Possono decidere di morire comunque: avendo accesso alla morfina per combattere il dolore, possono chiederne un po’ di più e morire nel sonno. Hanno diritto di indossare il bracciale con la scritta DO NOT RESUSCITATE e rifiutare la rianimazione. E, in questi casi, nessuno deve rispondere di nulla.»

«Il nostro caso, però, è un po’ diverso» insiste Marcus, stizzito.

«I malati terminali hanno diritto a un’adeguata terapia del dolore e a morire in pace» risponde Kay Scarpetta. «La legge prevede la possibilità di indossare un braccialetto per non essere rianimati e di rifiutare l’accanimento terapeutico. Un malato terminale che muore di overdose di morfina o perché rifiuta il respiratore o la rianimazione non deve essere portato in un Istituto di medicina legale. E, se ci arriva, il direttore deve rimandarlo indietro.»

«Commenti?» chiede Marcus radunando i propri fogli e preparandosi a uscire.

«Sì» interviene Marino. «Ha mai pensato di tenere una rubrica su Jeopardy, dottor Marcus?»

5

Benton Wesley passeggia da una finestra all’altra della sua casa di Aspen. La voce che gli sta parlando al cellulare va e viene.

«Come hai detto? Scusa, puoi ripetere?» Fa tre passi indietro e, nel sentire più chiara la voce di Marino, si ferma.

«Ho detto che non è tutto. La situazione è molto più complicata. Secondo me, quel bastardo voleva farle fare una figura di merda. Non ci è riuscito, naturalmente, però…»

Benton osserva la neve che si è raccolta sui pioppi e sugli abeti. È la prima bella mattina di sole da diversi giorni e le gazze volano di ramo in ramo. Benton ne segue i movimenti e cerca di capire il motivo di tanta attività, sforzandosi di trovare un rapporto di causalità biologica in quello svolazzare apparentemente senza senso. Come se la cosa avesse importanza… Ma forse il suo è un riflesso condizionato.

«Lo immagino» risponde con un sorriso. «Ma non credo che l’abbia provocata per scelta: deve aver ricevuto ordini dall’alto. C’è dietro il commissario alla Sanità.»

«E tu come fai a saperlo?»

«Dopo che mi ha detto dove andava, ho fatto una telefonata.»

«Peccato che non sia potuta venire ad Asp…» Marino si zittisce improvvisamente.

Benton si avvicina all’altra finestra, dando le spalle al caminetto acceso, e guarda fuori: stavolta si concentra sulla casa dall’altra parte della strada, forse perché il portone si sta aprendo e stanno uscendo un uomo e un ragazzo in tenuta da sci, con il fiato che gli si condensa nell’aria.

«Penso che ormai se ne sarà accorta» osserva Benton. «Che la stanno sfruttando, intendo dire.» Conosce Kay Scarpetta abbastanza bene da prevedere le sue reazioni. «Ti assicuro che conosce la politica e capisce quando certe mosse sono politiche. Purtroppo non si tratta solo di questo. Mi senti?»

Osserva l’uomo e il ragazzo che si allontanano lentamente con gli sci in spalla, le racchette in mano e gli scarponi mezzi slacciati. Benton non va a sciare, in questo periodo: ha troppo da fare.

«Eh?» Marino ha preso l’abitudine di dire spesso “Eh?”, e lui lo trova irritante.

«Mi senti?» ripete.

«Sì, adesso ti sento» risponde Marino, e Benton capisce che si sta spostando in cerca di un punto in cui ci sia più campo. «La tratta come una pezza da piedi, manco non l’avesse chiamata lui per farsi dare una mano. Non so dirti altro, per adesso. Appena ne so un po’ di più ti richiamo. Della ragazza, intendo dire.»

Benton sa di Gilly Paulsson. Della sua morte misteriosa non si è parlato sulla stampa nazionale, ma lui sa navigare in Internet e può accedere a informazioni molto riservate. Qualcuno sta sfruttando anche Gilly Paulsson. Certa gente, oltre che dei vivi, approfitta anche dei morti.

«Ti ho perso di nuovo… Uffa!» esclama. Riuscirebbero a parlare molto meglio, se potessero usare il telefono fisso. Ma non si può.

«Io ti sento, capo» dice la voce di Marino, improvvisamente chiarissima. «Perché non mi chiami dal fisso? Almeno ci sentiremmo…» dice, come se gli avesse letto nel pensiero.

«Meglio di no.»

«Pensi di avere il telefono sotto controllo?» Marino non scherza. «Puoi accertarlo, se hai questo dubbio. Chiedi a Lucy.»

«Grazie del suggerimento.» Benton non ha bisogno dell’aiuto di Lucy per questo tipo di cose, e non è di cimici e microspie che ha paura.

Segue con lo sguardo l’uomo e il ragazzo che vanno a sciare e pensa a Gilly Paulsson. Il ragazzo in tenuta da sci deve avere l’età che aveva Gilly quando è morta: tredici, quattordici anni. Solo che Gilly non è mai andata a sciare. Non è mai stata in Colorado, né da nessun’altra parte. È nata, vissuta e morta a Richmond e nella sua breve vita ha sofferto molto. Benton nota che si sta alzando il vento, che soffia via la neve dagli alberi come sbuffi di fumo.

«Vorrei che le dicessi questo» continua. Sottolinea il “le” perché Marino capisca che si riferisce a Kay. «Il suo successore, se vogliamo chiamarlo così…» Si interrompe. Non vuole fare il nome di Marcus o entrare nei dettagli, ma gli dà fastidio definire quel verme di Joel Marcus “il successore” di Kay Scarpetta. «… è una persona interessante» dice criptico. «Quando mi raggiungerà, le spiegherò più diffusamente perché. Per ora, raccomandale la massima prudenza.»

«A proposito di “raggiungerti”, ti avverto che secondo me ne avremo per un bel po’.»

«Dille di chiamarmi.»

«Perché tutte queste raccomandazioni?» si preoccupa Marino. «Perché “massima prudenza”?»

«Stalle vicino ovunque vada, mi raccomando.»

«Eh?»

«Resta con lei, mi hai capito?»

«Non sarà tanto contenta…» gli fa presente Marino.

Benton guarda i ripidi pendii innevati spazzati dal vento e punteggiati dagli alberi tutto intorno al paese e si sofferma sulle nuvole grigie che stanno coprendo il cielo. Prima di sera nevicherà di nuovo, pensa.

«Lo so.»

«Mi ha detto che hai da fare, che stai lavorando.»

«Sì.» Benton non vuole approfondire.

«Be’, è un peccato che tu stia lavorando e lei anche. Cosa fai, resti lì, anche se hai da fare?»

«Per il momento, sì» risponde Benton.

«Dev’essere una cosa grave, se te ne occupi in vacanza» lo sonda Marino.

«Non te ne posso parlare.»

«Eh? Maledetto telefono…» impreca Marino. «Bisogna che dica a Lucy di inventare un aggeggio che impedisca di intercettare le telefonate. Se ci riuscisse, guadagnerebbe una fortuna.»

«Lucy guadagna già una fortuna. Non ha bisogno di inventare niente.»

«Lo so.»

«Allora, mi raccomando» conclude Benton. «Se non ci sentiamo nei prossimi giorni, tu stalle sempre vicino. Stai attento a lei e anche a te. Non scherzo, Marino.»

«Lo so benissimo» ribatte Marino. «E tu sta’ attento a non farti male sciando.»

Benton chiude la comunicazione e torna a sedersi sul divano di fronte alla finestra, accanto al camino. Sul tavolino di noce davanti al divano ci sono un blocco di appunti scritti con la sua grafia quasi indecifrabile e una Glock calibro .40. Prende gli occhiali dal taschino della camicia di jeans, si appoggia al bracciolo e comincia a sfogliare il blocco. Ogni pagina è numerata e nell’angolo in alto a destra c’è una data. Si gratta il mento e si accorge di avere una barba di due giorni. Circoletta le parole “paranoia collettiva” e piega la testa da una parte.

A margine del foglio scrive: “Lacune da colmare. Grosse. Siamo vicini al limite. Vera vittima = L. non H. H. = personalità narcisista”. Sottolinea tre volte la parola “narcisista”. Poi scrive “istrionica” e la sottolinea due volte. Gira pagina. Il titolo è “Comportamento post trauma”. Sente un rumore di acqua che scorre e si meraviglia di non averla sentita prima. “Massa critica. Natale = limite. Tensione insostenibile. Prox omicidio entro Natale” scrive. Poi alza gli occhi, percependo la presenza della donna prima di sentirne i passi.

«Chi era?» domanda Henri, diminutivo di Henrietta. È in fondo alla scala, con la mano appoggiata sulla ringhiera, e lo guarda.

«Buongiorno» la saluta Benton. «Di solito fai la doccia. Il caffè è pronto.»

Henri Walden si chiude la vestaglia di flanella rossa intorno alla vita sottile. Ha gli occhi verdi ancora assonnati e un po’ reticenti. Osserva Benton con l’aria di chi è in credito per qualcosa. Ha ventotto anni ed è attraente, anche se non propriamente bella. I suoi lineamenti sono tutt’altro che perfetti, perché ha il naso grosso e i denti non proprio drittissimi, ma è molto affascinante, anche quando cerca di non esserlo. In questo preciso momento, però, si sente bruttissima e Benton non prova a convincerla del contrario perché sarebbe troppo pericoloso.

«Ho sentito che parlavi al telefono» dice Henri. «Era Lucy?»

«No» risponde lui.

«Ah.» È chiaramente delusa e infastidita. «Ho capito. E chi era, allora?»

«Era una conversazione privata, Henri» risponde Benton, togliendosi gli occhiali. «Abbiamo stabilito dei limiti, ti ricordi?»

«Sì, lo so» risponde lei, sempre tenendo la mano sulla ringhiera. «Ma se non era Lucy, chi era? Sua zia? Lucy parla sempre di sua zia.»

«Sua zia non sa che sei qui, Henri» spiega Benton paziente. «Lo sanno soltanto Lucy e Rudy.»

«Tu e la zia di Lucy state insieme, vero?»

«Solo Lucy e Rudy sanno che sei qui» ribadisce Benton.

«Allora era Rudy? Che cosa voleva? So che gli piaccio.» Sorride e assume un’espressione che Benton trova inquietante. «Rudy è un bellissimo ragazzo. Mi sarei dovuta mettere con lui. Ci sarebbe stato. Avrei potuto sedurlo quando eravamo fuori con la Ferrari. Quando ero fuori con la Ferrari potevo sedurre chiunque. Non ho mica bisogno di Lucy, per poter andare in giro in Ferrari.»

«Ricordati i limiti, Henri» dice Benton. Gli è difficile accettare la sconfitta, per quanto ce l’abbia davanti agli occhi: da quando Lucy ha portato Henri ad Aspen e gliel’ha affidata, si sente avvolto da una nube oscura.

“Tu non le farai del male” gli ha detto Lucy. Come a dire che sarebbe stato facilissimo fare del male a Henri, approfittare di lei e della situazione per scoprire un sacco di cose a proposito di loro due.

“Non sono uno psichiatra” le ha risposto Benton.

“Henri ha bisogno di qualcuno che la aiuti a superare il trauma. Tu sei uno psicologo, è il tuo mestiere. Cerca di capire che cosa le è successo. Dobbiamo scoprire come sono andate le cose” gli ha detto Lucy. Era fuori di sé, in preda al panico. Lei, che non si lascia mai prendere dal panico. È convinta che Benton possa fare miracoli, ma non è vero. Sarà anche bravo a capire le persone, ma questo non vuol dire che sia in grado di aiutarle a superare i loro problemi. Henri non è un ostaggio, può andarsene quando vuole. E lo turba vedere che, nonostante ciò, non se ne va. Come se stesse bene lì con lui, si divertisse.

Ha scoperto molte cose nei quattro giorni che ha trascorso con lei. Henri Walden ha una personalità disturbata, ce l’aveva anche prima di essere aggredita. Se non ci fossero le fotografie, Benton penserebbe che Henri abbia inscenato tutto quanto. Teme che in questo momento sia solo lievemente più disturbata di come è normalmente e questo pensiero lo turba. Non riesce a capire che cosa avesse in testa Lucy, quando ha cominciato a frequentarla. Probabilmente è stata impulsiva, o forse era obnubilata.

«Lucy ti lasciava guidare la Ferrari?» chiede a Henri.

«Quella nera no.»

«E quella grigia metallizzata?»

«Non è grigia, è azzurra. Su quella ci andavo quando volevo.» Lo guarda, sempre con la mano sulla ringhiera delle scale, i lunghi capelli scompigliati, gli occhi assonnati, come se posasse per una foto sexy.

«La guidavi, Henri?» chiede Benton, perché vuole essere sicuro. È importante capire come ha fatto il suo aggressore a puntarla. Benton non crede che Henri fosse una vittima casuale, scelta a caso, solo perché è una donna giovane e bella e si è trovata al momento sbagliato nella casa sbagliata o sulla Ferrari sbagliata.

«Te l’ho già detto» ribatte lei seccata, con la faccia inespressiva. Solo lo sguardo è vivo, attraversato da ombre inquietanti… «Quella nera non la lascia prendere a nessuno.»

«E quando è stata l’ultima volta che hai guidato la Ferrari azzurra metallizzata?» le chiede Benton con il tono pacato di sempre, cercando di raccogliere più informazioni che può. Non importa se Henri è seduta, in piedi o in giro per casa, se è in vena di parlare, è importante cogliere l’attimo e cercare di farsi dire più cose possibili. Indipendentemente dagli effetti che questo può avere su di lei, Benton vuole scoprire come è stata aggredita e perché. Per certi versi, di Henri poco gli importa. A lui interessa Lucy.

«Faccio la mia figura, su quella macchina» risponde lei con lo sguardo acceso e il volto inespressivo.

«La guidavi spesso, Henri?»

«Tutte le volte che volevo.» Lo fissa.

«Tutti i giorni, per andare al campo?»

«Quando mi pareva.» Lo fissa imperturbabile, ma con una luce rabbiosa negli occhi.

«Ti ricordi quando l’hai presa l’ultima volta?»

«Non lo so. Prima di stare male.»

«Prima che ti venisse l’influenza, intendi dire? E cioè? Due settimane fa?»

«Non lo so.» Sta opponendo resistenza. Benton sa che non gli dirà più niente a proposito della Ferrari ed evita di insistere, perché anche le resistenze e le difese hanno un loro significato.

Benton è bravo a capire ciò che non viene detto e Henri gli ha ribadito che poteva prendere la Ferrari tutte le volte che voleva, che faceva una bella figura quando la guidava e che questo le piaceva perché ama attirare l’attenzione. Henri adora essere al centro dell’universo, creatrice di caos, protagonista di drammi folli. Anche solo per questo, viene spontaneo pensare che si sia inventata tutto e nessuno abbia mai tentato di ucciderla. Ma non è vero: l’aggressione è avvenuta sul serio. È questa la cosa strana: quel dramma, assurdo e pericoloso, è reale e Benton ha paura per Lucy. È sempre stato preoccupato per lei, ma adesso lo è in maniera particolare.

«Con chi parlavi prima al telefono?» Henri ritorna sull’argomento. «Rudy sente la mia mancanza? Mi sarei dovuta mettere con lui. Ho perso troppo tempo.»

«Vogliamo riprendere il discorso dei limiti, Henri?» dice Benton e ripete le stesse cose che ha già detto il giorno prima e quello prima ancora, quando ha scritto quegli appunti sul blocco.

«Va bene» replica Henri dal fondo delle scale. «Ha chiamato Rudy. Non me lo vuoi dire, ma era lui.»

6

L’acqua scorre nei lavandini e i medici osservano le radiografie mentre Kay Scarpetta si china a osservare la profonda ferita sul volto dell’uomo investito dal trattore. Ha il naso quasi staccato.

«Controlliamo i livelli di alcol e co» dice a Fielding, che è dall’altra parte del tavolo di acciaio inossidabile su cui è disteso il cadavere.

«A cosa pensi?»

«Non sento odore di alcol e il colorito non è rosso ciliegia, ma penso sia meglio andare sul sicuro. Questi sono casi rognosi, Jack.»

Ted Whitby ha ancora i pantaloni verde oliva indosso, sporchi di terra e squarciati all’altezza delle cosce. Ne escono carne e frammenti di osso. Il trattore lo ha investito poco dopo che Kay Scarpetta l’ha visto. Pochi minuti, forse cinque, dopo che lei ha svoltato. È sicura che Ted Whitby sia l’operaio che ha notato nel cantiere. Cerca di scacciare quel ricordo, che però continua a perseguitarla: lo vede lì, davanti all’enorme trattore, che traffica con il motore.

«Ehi, tu» dice Fielding a un ragazzo con la testa rasata che probabilmente è un militare di Fort Lee. «Come ti chiami?»

«Bailey.»

Kay Scarpetta si guarda in giro e vede altri ragazzi e ragazze in camice, cuffia e copriscarpe, probabilmente militari che stanno facendo uno stage. Si chiede se sono destinati a partire per l’Iraq. Pensa alle divise verdi dell’Esercito e poi a Ted Whitby, rimasto ucciso sotto il proprio trattore.

«Sia gentile con quelli delle pompe funebri, Bailey: gli ricucia la carotide» dice Fielding brusco. Kay Scarpetta non può fare a meno di pensare che quando lavorava con lei non era così sgarbato. Non usava quei toni supponenti e non era ipercritico.

Bailey è mortificato. Resta con il braccio destro tatuato a mezz’aria. Ha fra le dita un lungo ago ricurvo con un filo di cotone del numero sette e sta aiutando un inserviente a suturare l’incisione a Y di un cadavere che è stato sottoposto ad autopsia prima della riunione di quella mattina. Toccherebbe all’inserviente, e non a lui, ricucirgli la carotide. Kay prova compassione per il povero Bailey e pensa che, se ci fosse ancora lei a dirigere l’istituto, riprenderebbe Fielding per i suoi modi sgarbati.

«Sissignore» risponde Bailey con la faccia preoccupata. «Stavo proprio per farlo, dottore.»

«Davvero?» lo prende in giro Fielding. Tutti sentono. «Sai perché si ricuce la carotide?»

«Veramente no.»

«Per gentilezza» spiega Fielding. «Si passa un filo intorno ai vasi sanguigni più importanti in maniera che gli imbalsamatori non debbano fare troppa fatica a trovarli. È un gesto di cortesia.»

«Ho capito.»

«Per la miseria, guarda cosa mi tocca sopportare!» borbotta Fielding. «E tutto perché il capo lascia entrare qui dentro cani e porci… L’hai mai visto fare un’autopsia?» Prende una serie di appunti su una cartellina. «Io no. È qui da quattro mesi e non è mai entrato in sala autopsie. Figuriamoci se si degna. Ah, e poi, se hai notato, ama farsi aspettare. Ci prova gusto. Immagino che nessuno ti avesse descritto il personaggio. Se me lo avessi chiesto, ti avrei messo in guardia.»

«Sì, avrei dovuto chiamarti» dice Kay Scarpetta, guardando cinque persone che cercano di spostare una donna obesa da una lettiga al tavolo di acciaio. Dal naso e dalla bocca le colano dei liquidi. «Mai visto un pannicolo adiposo tanto spesso» prosegue, indicando l’enorme pancia della donna. Lo fa per cambiare discorso, perché non vuole parlare del dottor Marcus in sala autopsie, in mezzo a gente che lo conosce.

«Così me ne sono dovuto occupare io» si lamenta Fielding, riferendosi a Gilly Paulsson. «Sua altezza non effettua autopsie e gli altri hanno capito subito che si trattava di un caso difficile e si sono volatilizzati. Un caso bello tosto, te lo dico io. Il primo, da quando è arrivato lui. Oh, senti, non fare quella faccia, dottoressa» dice rivolto a Kay Scarpetta. Su sua richiesta, le dà del tu, ma continua a chiamarla dottoressa. «Non ci ascolta nessuno, e comunque non me ne frega niente. Hai programmi per questa sera?»

«Pensavo che potremmo cenare insieme» risponde lei. Lo aiuta a togliere gli scarponi da lavoro di pelle a Whitby, slacciando le stringhe sporche. Il morto non si è ancora irrigidito né raffreddato del tutto.

«Mi spieghi come fa uno a finire sotto il suo stesso trattore?» chiede Fielding. «Non capisco proprio. Per la cena va bene. Ci vediamo a casa mia alle sette? Abito sempre nello stesso posto.»

«Okay. Te lo spiego io, come si fa» risponde Kay Scarpetta ripensando a Whitby davanti alla ruota del trattore, intento a trafficare con il motore. «Hai un guasto, scendi, ti piazzi davanti a una ruota e cerchi di azionare lo starter, magari con un cacciavite, dimenticandoti di mettere il mezzo in folle. Così, appena il motore si accende, il trattore parte e ti investe.» Indica i segni lasciati dal pneumatico sui pantaloni verdi e sulla giacca nera di Whitby, con il suo nome ricamato in rosso. «Io l’ho visto. Era lì, davanti alla ruota.»

«Nel cantiere? Vicino alla sede vecchia? Bentornata, a proposito.»

«È stato ritrovato sotto la ruota?»

«No, il trattore l’ha investito e ha continuato ad andare.» Fielding toglie al morto le calze, che gli hanno lasciato il segno sui piedi bianchi e grossi. «Ti ricordi che davanti all’ingresso sul retro c’era un paletto di metallo giallo? Be’, il trattore ci è finito contro e si è fermato, altrimenti avrebbe buttato giù anche la saracinesca. Poco male, visto che tanto devono demolire tutto.»

«Non credo che sia morto per asfissia. La ruota ha provocato lesioni molto estese, quindi immagino sìa morto dissanguato» dice Kay Scarpetta guardando il cadavere. «Deve avere l’addome pieno di sangue, lesioni alla milza, al fegato, alla vescica e all’intestino, e il bacino rotto. Alle sette, hai detto?»

«E il tuo scagnozzo?»

«Non chiamarlo così. Lo sai che mi dà fastìdio.»

«Be’, comunque può venire anche lui, se gli va. Ma perché si mette quel berretto della polizia di Los Angeles?»

«Glielo avevo detto, che era meglio lasciarlo in macchina.»

«Secondo te, che cosa gli ha procurato questo taglio? Un pezzo sporgente dal telaio del trattore?» domanda Fielding toccando il naso parzialmente staccato di Whitby e facendogli colare un rivolo di sangue sulla guancia mal rasata.

«Non so se è un taglio. Passandogli sopra, la ruota deve aver tirato la pelle. Potrebbe essere uno strappo, più che un taglio» osserva Kay Scarpetta indicando la ferita profonda e slabbrata sulle guance e sulla radice del naso. «Per stabilirlo, basta che controlli al microscopio se ci sono tracce di ruggine e grasso e le condizioni dei tessuti. Io, fossi in te, lo farei.»

«Sì, certo.» Fielding alza gli occhi dal modulo che sta riempiendo, relativo agli indumenti e agli effetti personali del morto.

«Trattandosi di un infortunio sul lavoro, immagino che la famiglia chiederà un risarcimento» continua Kay. «Di solito funziona così.»

«Sì, certo. È morto in un brutto posto, poveraccio.»

I guanti di lattice di Fielding si sporcano di sangue appena tocca la ferita sul volto dell’uomo, e dal naso quasi staccato cola un altro rivolo rosso ancora tiepido. Fielding prende un foglio e comincia a disegnare la ferita su un diagramma. Si avvicina alla faccia di Whitby e lo osserva da vicino, protetto dalla mascherina. «A occhio nudo non vedo né ruggine né grasso» dice. «Ma questo non significa che non ce ne siano.»

«Sì, anch’io farei un tampone» dice Kay, capendolo al volo. «Così lo mandi in laboratorio e sei in una botte di ferro, nel caso qualcuno dica che l’ha investito un collega, che l’hanno buttato giù dal mezzo o gli hanno dato un colpo in testa prima di investirlo. Non si sa mai.»

«Sì, certo. Quando ci sono di mezzo i soldi…»

«Non è solo quello» risponde lei. «Gli avvocati lo traducono in denaro, ma prima di tutto c’è il dolore, con lo shock, il lutto, il desiderio di trovare un capro espiatorio… A nessuno piace pensare che una persona cara è morta per stupidità o imprudenza, sentirsi dire che uno più esperto non si sarebbe messo davanti alla ruota del suo mezzo a trafficare con l’accensione con la marcia ingranata, ignorando le precauzioni più elementari. Perché quando uno si lascia prendere dalla fretta e dal nervosismo, non pensa. Ma è nella natura umana non voler ammettere che una persona a cui volevamo bene si è ammazzata con le sue stesse mani, consapevolmente o meno. Sai come la penso.»

Fielding ha iniziato la sua carriera professionale con lei. È stata lei a insegnargli a controllare meticolosamente il cadavere e il luogo del ritrovamento. Kay ricorda con nostalgia quanto gli piaceva il suo lavoro e come era avido di sapere; la seguiva in tribunale ogni volta che poteva per ascoltarla, oppure rivedeva i casi con lei, per sentire il suo parere. Adesso invece è esaurito, non sta bene, e lei non dirige più l’Istituto di medicina legale della Virginia.

In questo momento, però, stanno di nuovo lavorando insieme.

«Sì, avrei proprio dovuto telefonarti» gli dice, slacciando la cintura di pelle di Whitby e sbottonandogli i pantaloni verdi. «Poi guardiamo insieme Gilly Paulsson.»

«Sì, certo» risponde Fielding. Kay non ricordava che dicesse così spesso: “Sì, certo”, un tempo.

7

Henri Walden ha un paio di pantofole di camoscio imbottite che non fanno rumore sulla moquette. Si avvicina silenziosamente alla poltrona di pelle di fronte al divano.

«Ho fatto la doccia» dice a Benton, sedendosi con le gambe piegate sotto il sedere.

Benton capisce che lo fa apposta per fargli vedere le cosce nude e si impone di non guardare.

«Cosa te ne importa?» gli chiede Henri. Glielo chiede tutte le mattine, da quando è lì.

«Ti fa sentire meglio, no?»

La ragazza annuisce, fissandolo con occhi da cobra.

«Le piccole cose sono importanti. Mangiare, dormire, lavarsi, fare moto… sono tutte cose che servono a riprendere il controllo sulla propria vita.»

«Ho sentito che parlavi al telefono con qualcuno» insiste Henri.

«È un problema» risponde lui guardandola oltre gli occhiali da presbite, con il blocco per appunti in grembo su cui ha aggiunto soltanto “Ferrari nera”, “senza permesso”, “seguita fino al campo?” e “punto di contatto = Ferrari nera”.

Poi aggiunge: «Le conversazioni private devono restare private. Dobbiamo rispettare i patti, Henri. Te li ricordi?».

La ragazza si toglie le pantofole e le lascia cadere sulla moquette. Posa i piedi delicati sul cuscino della poltrona e, quando si china a guardarseli, le si apre leggermente la vestaglia sul petto. «No» risponde a voce bassissima, scuotendo la testa.

«Secondo me, invece, te li ricordi benissimo, Henri.» Benton la chiama spesso per nome per ricordarle chi è e personalizzare ciò che è stato spersonalizzato, per certi versi irrimediabilmente. «Rispetto reciproco, ricordi?»

La ragazza si china ulteriormente per giocherellare con un’unghia. Si guarda le dita dei piedi, offrendo a Benton la propria nudità.

«Avere rispetto reciproco significa lasciare all’altro la propria privacy. E non provocarlo» aggiunge lui in tono pacato. «Abbiamo stabilito dei limiti. Provocare l’altro vuol dire oltrepassarli.»

Henri si chiude la vestaglia con la mano libera, continuando a osservarsi e ad accarezzarsi le dita dei piedi. «Mi sono appena svegliata» dice, come per spiegare il proprio esibizionismo.

«Grazie, Henri.» È importante che Henri si convinca che Benton non vuole avere rapporti sessuali con lei, nemmeno con la fantasia. «E comunque non ti sei appena svegliata. Ti sei alzata, sei venuta qui, abbiamo parlato e poi ti sei fatta la doccia.»

«Non mi chiamo Henri.»

«Come vuoi che ti chiami?»

«Non voglio.»

«Hai due nomi» dice Benton. «Il tuo nome di battesimo e quello che ti sei scelta quando hai cominciato a recitare. Lo usi tuttora, no?»

«Okay, allora chiamami Henri» replica lei, guardandosi le dita dei piedi.

«D’accordo. Henri.»

La ragazza annuisce, sempre osservandosi i piedi. «E lei come si chiama?»

Benton sa a chi si riferisce, ma evita di rispondere.

«Ci vai a letto. Lucy mi ha raccontato tutto.» Sottolinea il tutto.

Lui si irrita, ma non lo dà a vedere. Non crede proprio che Lucy le abbia raccontato la sua storia d’amore con Kay. No, ne è certo. Henri lo sta provocando, lo sta di nuovo mettendo alla prova. Sta di nuovo cercando di andare oltre il limite.

«Come mai non è qui con te?» gli domanda. «Non fate le vacanze insieme? Tanti dopo un po’ smettono di scopare. È uno dei motivi per cui non voglio relazioni lunghe. Perché poi non si scopa più. Dopo sei mesi, stop, chiuso. La tua donna non è venuta perché ci sono io, vero?» Lo fissa.

«Sì, è vero» risponde lui. «Non è venuta perché ci sei tu.»

«Chissà come si è arrabbiata, quando le hai detto che non poteva venire.»

«È molto comprensiva» replica Benton, non del tutto sincero.

Kay è stata comprensiva, ma è rimasta male quando lui, dopo aver sentito Lucy nel panico più totale, le ha telefonato per chiederle di rimandare la partenza. «Devo occuparmi di un caso molto urgente» le ha spiegato.

“Allora vai via da Aspen?” gli ha chiesto Kay.

“Non ti posso dire niente” le ha risposto. Per quel che ne sa, Kay potrebbe essere convinta che lui sia ripartito.

“Non è giusto, Benton” gli ha detto. “Anch’io lavoro, ma mi sono tenuta libera queste due settimane per trascorrerle con te.”

“Mi dispiace, Kay” le ha risposto Benton. “Ti prego, cerca di capire. Ti spiegherò.”

“Proprio adesso… È il momento peggiore. Avevamo bisogno di queste due settimane insieme.”

È vero, avevano bisogno di quelle due settimane insieme. Invece lui è lì con Henri. «Vuoi raccontarmi i sogni che hai fatto? Te li ricordi?» le chiede.

La ragazza si sta accarezzando l’alluce del piede sinistro, come se le facesse male. Aggrotta la fronte. Benton si alza e, con nonchalance, prende la Glock e attraversa il salotto per andare in cucina. Apre uno sportello e sistema la pistola sullo scaffale più in alto. Poi prende due tazze e vi versa il caffè. Sia lui che Henri lo prendono nero e senza zucchero.

«Forse è un po’ forte. Ne faccio dell’altro, se vuoi.» Le posa la tazza sul tavolino e torna a sedersi sul divano. «Due notti fa hai sognato un mostro. Veramente l’hai definito “la bestia”.» La guarda negli occhi tristi. «Hai sognato di nuovo la bestia?»

Henri non gli risponde. Ha cambiato umore, da quando si è svegliata. Deve esserle successo qualcosa mentre faceva la doccia. Benton si ripropone di indagare in seguito.

«Non devi parlarmene per forza, Henri. Se non vuoi, non importa. Ma più cose mi racconti di questa bestia, più è probabile che scopriamo chi è. E tu vuoi che io ti aiuti a scoprirlo, no?»

«Con chi parlavi prima?» gli domanda in tono sommesso, con voce da bambina. Ma non è più una bambina. È tutto fuorché innocente. «Parlavate di me» insiste. Le si allenta la cintura della vestaglia, lasciando intravedere la pelle nuda.

«No, non parlavamo di te. Nessuno sa che sei qui, a parte Lucy e Rudy. Mi credi, Henri?» Smette di parlare e la guarda. «Credi a Lucy?»

Lo sguardo di Henri si infiamma, nel sentire nominare Lucy.

«Io penso che tu creda sia a me che a lei» dice Benton con calma. Ha le gambe accavallate e le mani giunte posate sul ventre. «Per favore, Henri, copriti.»

La ragazza si stringe la cintura in vita, coprendosi le gambe. Benton l’ha già vista nuda, ma cerca di non pensarci. Ha visto le fotografie e non intende rivederle, a meno che non sia assolutamente indispensabile mostrarle a qualche esperto o alla stessa Henri, quando e se sarà mai pronta per vederle. Per il momento la ragazza ha rimosso l’accaduto, più o meno consapevolmente, e assume comportamenti che una persona più debole e meno esperta di Benton troverebbe esasperanti. I suoi tentativi di provocarlo sessualmente non sono dovuti soltanto al transfert, ma sono la chiara manifestazione di un narcisismo esasperato, di un desiderio di dominare, controllare, sminuire e distruggere chiunque dimostri interesse nei suoi confronti. Henri si odia ed è arrabbiata con se stessa.

«Perché Lucy mi ha mandato via?» gli domanda.

«Dimmelo tu. Dimmi perché sei venuta qui.»

«Perché…» Si asciuga gli occhi nella manica della vestaglia. «Per la bestia.»

Benton la guarda fisso, seduto sul divano con gli appunti in grembo, in maniera che lei non possa leggerli, né strapparglieli di mano. Non vuole costringerla a parlare: deve essere paziente, incredibilmente paziente, come un cacciatore appostato nel bosco in attesa della preda, immobile e con il fiato sospeso.

«È entrata in casa. Non mi ricordo.»

Benton si limita a guardarla in silenzio.

«L’ha fatta entrare Lucy» continua Henri.

Benton non vuole fare pressioni, ma neanche lasciarla mentire impunemente. «No. Non è stata Lucy a farla entrare in casa» la corregge. «Non l’ha lasciata entrare nessuno. È entrata da sola perché la porta di servizio non era stata chiusa a chiave e l’allarme era disinserito. Ne abbiamo già parlato, Henri. Ti ricordi perché la porta non era chiusa a chiave e l’allarme era disinserito?»

La ragazza si guarda le dita dei piedi, immobile.

«L’abbiamo già chiarito» insiste Benton.

«Avevo l’influenza» risponde Henri continuando a guardarsi le dita. «Non stavo bene ed ero rimasta a casa. Avevo i brividi e sono uscita al sole; mi sono dimenticata di chiudere a chiave la porta e di inserire di nuovo l’allarme. Avevo la febbre, me lo sono scordata. Lucy ha dato la colpa a me.»

Benton beve un sorso di caffè. È già freddo. Il caffè diventa subito freddo in montagna. «Ti ha detto che è colpa tua?»

«No, ma lo pensa.» Henri guarda verso la finestra. «Mi dà la colpa di tutto.»

«A me non ha mai detto di pensare che fosse colpa tua» ribatte Benton. «Mi stavi parlando dei tuoi sogni.» Ritorna al discorso di prima. «Dei sogni che hai fatto stanotte.»

Henri sbatte le ciglia e si massaggia l’alluce.

«Ti fa male?»

La ragazza annuisce.

«Mi spiace. Vuoi metterci una pomata?»

Henri scuote la testa. «Non servirebbe a niente.»

Non sta parlando della frattura all’alluce destro, ma la associa al fatto di trovarsi lì, a migliaia di chilometri da Pampano Beach, in Florida, dove ha rischiato di morire, e le passa una luce furibonda negli occhi.

«Camminavo su un sentiero» inizia a raccontare. «In cima a una scogliera. Una scogliera ripidissima. C’erano delle fenditure nella roccia e io, non so come, a un certo punto cercavo di passarci attraverso e rimanevo incastrata.» Trattiene il fiato e si toglie una ciocca bionda dagli occhi con mano tremante. «Ero incastrata e non riuscivo a muovermi, e neanche a respirare. Non riuscivo a liberarmi. E nessuno poteva salvarmi. Mi è tornato in mente mentre ero sotto la doccia. Mi sono sentita l’acqua sulla faccia e ho trattenuto il respiro. E a quel punto mi è tornato in mente il sogno.»

«C’era qualcuno? Qualcuno che cercava di salvarti?» Benton non reagisce al terrore di Henri, né cerca di capire se è vero o simulato. Non è affatto chiaro. Con lei, non c’è mai niente di chiaro.

Henri è immobile sulla poltrona, fa fatica a respirare.

«Hai detto che nessuno poteva salvarti» puntualizza Benton con calma, con il tono pacato del terapeuta. «C’era qualcuno?»

«Non lo so.»

Benton aspetta. Se Henri continuerà a respirare con tanta fatica, dovrà fare qualcosa, ma per ora aspetta paziente.

«Non mi ricordo. Non so perché, ma per un attimo ho avuto la sensazione che… voglio dire, nel sogno ho pensato che forse qualcuno poteva spezzare la roccia, magari con una piccozza. E poi ho pensato che no, era impossibile, la roccia era troppo dura. Non possono liberarmi. Nessuno può salvarmi. Muoio. Stavo per morire, nel sogno, lo sapevo. A un certo punto evidentemente non ce l’ho più fatta e mi sono svegliata.» Il suo racconto tentennante si interrompe di colpo, come il sogno. Henri emette un respiro profondo e si rilassa. Guarda Benton. «È stato terribile» dice.

«Sì» replica lui. «Dev’essere stato terribile. Non credo che ci sia niente di più spaventoso che non riuscire a respirare.»

Henri si posa una mano sul cuore. «Non mi si muoveva più il petto. Avevo il respiro cortissimo… E non avevo la forza…»

«Nessuno ha la forza di muovere le montagne» replica lui.

«Mi mancava l’aria.»

Benton ripensa alle fotografie e deduce che il suo aggressore deve aver cercato di asfissiarla. Ripercorre le foto una per una, cercando di ricordare le lesioni riportate da Henri per valutare la correttezza della propria ipotesi. Ricorda che le usciva il sangue dal naso, aveva sangue sulle guance e sul lenzuolo, all’altezza della testa. Era stesa prona sul letto, nuda, scoperta, le braccia in alto e i palmi verso il lenzuolo, le gambe piegate, una più dell’altra.

Mentre lui cerca di ricordare un’altra fotografia, Henri si alza dalla poltrona borbottando che vuole un altro caffè. Benton pensa alla pistola che ha nascosto nell’armadietto della cucina; lei non ha visto dove l’ha messa perché era voltata di spalle. La osserva e nel frattempo pensa alle fotografie, agli strani segni che Henri aveva sul corpo. Aveva le mani rosse, livide, e alcune contusioni sulla parte superiore della schiena, che nel giro di qualche giorno da rosse sono diventate viola.

La guarda mentre si versa un altro caffè e pensa al suo corpo steso sul letto dopo l’aggressione. Non tiene conto di quanto è bello, se non per valutare l’impatto che la sua bellezza può aver avuto sull’aggressore, uomo o donna che fosse. Benton non trae conclusioni affrettate circa il sesso dell’aggressore. Henri è magra, ma non androgina. Ha abbastanza seno e peli pubici e non avrebbe attirato un pedofilo. Al momento dell’aggressione era sessualmente attiva.

La osserva tornare alla poltrona con la tazza fumante fra le mani. Non fa caso al fatto che non gli ha chiesto se voleva un altro caffè anche lui. Henri è probabilmente la persona più egoista e insensibile che abbia mai conosciuto. Lo era anche prima dell’aggressione, ne è certo, e lo sarà sempre. Si augura che la smetta di frequentare Lucy, anche se non ha nessun diritto di pensare una cosa del genere.

Si alza per andare a prendersi un altro caffè e le dice: «Henri, te la senti di cercare di ricostruire che cosa è successo?».

«Sì, me la sento. Il problema è che non me lo ricordo.» Mentre lui è in cucina, aggiunge: «So che non mi credi».

«Perché dici così?» Benton versa il caffè e torna nel salotto.

«Il dottore non mi ha creduto.»

«Il dottore non ti ha creduto» ripete sedendosi di nuovo sul divano. «Ritengo di averti già detto che cosa penso di quel dottore, ma voglio ribadirlo. È un misogino, è convinto che le donne siano tutte isteriche e non le rispetta perché le teme. Inoltre lavora al pronto soccorso e non sa come trattare le vittime di violenza.»

«Pensa che io abbia fatto tutto da sola» replica Henri arrabbiata. «Ma io ho sentito quello che ha detto all’infermiera…»

Benton sta attento a reagire nel modo giusto. Henri gli sta dando delle informazioni nuove, che spera veritiere. «Dimmi: che cosa ha detto all’infermiera?»

«Dovrei fargli causa, a quel bastardo.»

Benton beve un sorso di caffè, in attesa di una risposta.

«Magari lo faccio davvero» aggiunge lei furiosa. «Pensava che non lo sentissi perché avevo gli occhi chiusi. È entrato nella mia stanza mentre ero mezza addormentata. L’infermiera era sulla porta, lui è arrivato e io ho fatto finta di niente.»

«Hai fatto finta di dormire?» chiede Benton.

Henri annuisce.

«Sei un’attrice. Eri attrice di professione.»

«Lo sono ancora. Un attore non smette mai di essere un attore… Solo che in questo periodo non recito, faccio dell’altro.»

«Sei sempre stata una brava attrice, immagino» dice Benton.

«Sì.»

«Sei sempre stata brava a recitare, a fingere.» Si interrompe, poi riprende: «Fingi spesso, Henri?».

La ragazza lo guarda male. «Fingevo di dormire, in ospedale, solo per sentire cosa diceva il dottore. E ho sentito tutto. Ha detto: “Quando sei arrabbiato con qualcuno, non c’è come farsi stuprare. Sensi di colpa a gogo”. E si è messo a ridere.»

«Capisco che tu abbia voglia di fargli causa» dice Benton. «Questo è successo nel pronto soccorso?»

«No, no, mi avevano già fatto tutte le analisi e trasferito in una camera. Non so in che reparto, non mi ricordo.»

«Peggio ancora» dice Benton. «Non sarebbe dovuto salire in reparto. È un medico del pronto soccorso, e non aveva motivo di venire lì. Era curioso, e questo non va bene.»

«Gli faccio causa. Lo odio.» Si massaggia di nuovo l’alluce. Il livido è quasi sparito. Anche quelli sulle mani sono sbiaditi, ormai giallastri. «Ha parlato di anfetamine, non so a che proposito. Ma mi stava prendendo in giro. Ce l’aveva con me.»

Anche questa è un’informazione nuova, e Benton si sente tutto a un tratto speranzoso: forse, con il tempo e tanta pazienza, Henri riuscirà a ricordare più cose e a dire meno bugie.

«Stronzo» borbotta la ragazza stringendosi la vestaglia sul petto. «Non si può fare niente per fargliela pagare?»

«Henri, come mai secondo te ha parlato di stupro?» domanda Benton.

«Non lo so. Io non credo che mi abbia stuprata.»

«Ti ricordi l’infermiera?»

Henri scuote piano la testa.

«Ti hanno accompagnato su una sedia a rotelle in una stanza vicino al pronto soccorso e ti hanno sottoposto a una serie di analisi, giusto? Hanno usato un kit per la raccolta di prove. Tu lo conoscevi già, no? Quando ti sei stufata di recitare, sei entrata nella polizia. Questo prima che conoscessi Lucy lo scorso autunno, prima di andare a lavorare con lei. Ti hanno fatto i tamponi, hanno raccolto peli e fibre…»

«Non mi sono stufata di recitare. Volevo solo fare un break, provare qualcos’altro.»

«Okay. Ma ti ricordi il kit per la raccolta di prove? Si chiama PERK.»

Henri annuisce.

«E l’infermiera? Mi hanno detto che è stata molto gentile. Si chiama Brenda. Ti ha visitato per vedere se eri stata stuprata. In una stanzetta che viene usata anche per i bambini, piena di animaletti di peluche, con la tappezzeria di Winnìe the Pooh. Brenda non era vestita da infermiera. Aveva un tailleur azzurro.»

«Tu non c’eri.»

«Me l’ha detto per telefono.»

Henri si guarda i piedi posati sul cuscino della poltrona. «Le hai chiesto com’era vestita?»

«Capelli neri, corti, occhi castani…» Benton sta cercando di smuovere quello che Henri si sforza di dimenticare, o finge di aver dimenticato. È venuto il momento di parlare dell’ospedale, delle analisi che le sono state fatte. «Non c’era liquido seminale, Henri. Nessun elemento che facesse pensare a uno stupro. Però Brenda ti ha trovato sulla pelle alcune fibre. Sembra che avessi una lozione o dell’olio sulla pelle. Ricordi di esserti spalmata dell’olio o qualche lozione sul corpo, quella mattina?»

«No» risponde lei a bassa voce. «Ma non posso escludere di averlo fatto.»

«Avevi dell’olio sulla pelle» dice Benton. «Secondo Brenda, perlomeno. Si sentiva anche il profumo. Profumo di lozione, appunto.»

«Lui non mi ha messo nessuna lozione.»

«Lui?»

«Non può che essere stato un uomo, no? Tu non credi che fosse un uomo?» chiede Henri con un tono speranzoso che suona stonato. È il tipico tono di chi cerca di ingannare se stesso, o il proprio interlocutore. «Non può essere stata una donna. Una donna? No, le donne non fanno certe cose.»

«Anche le donne fanno certe cose. Per il momento non sappiamo se ad aggredirti è stato un uomo o una donna. C’erano diversi capelli sul materasso, nella camera da letto. Neri e ondulati. Lunghi una quindicina di centimetri.»

«Be’, lo sapremo presto, allora. Sui capelli si può fare la prova del DNA e scoprire se era un uomo o una donna» ribatte lei.

«Non credo. Con il tipo di prova che stanno effettuando non si stabilisce il sesso. La razza, forse, ma il sesso no. E anche per la razza, ci vorrà almeno un mese prima di avere i risultati. Dunque pensi di esserti messa tu la lozione.»

«No. Ma lui non è stato. Non glielo avrei lasciato fare. Mi sarei ribellata, avrei lottato. Forse lui avrebbe voluto, ma…»

«Non te la sei spalmata tu?»

«Ho detto che lui non è stato, e io nemmeno. Basta così. Perché insisti?»

Benton capisce: la lozione non c’entra con l’aggressione, sempre che Henri stia dicendo la verità. Pensa a Lucy e prova a un tempo dispiacere e rabbia.

«Dimmelo tu» lo affronta Henri. «Dimmi come sono andate le cose secondo te, e io ti dico sì o no.» Sorride.

«Lucy è tornata a casa.» Benton comincia con un dato certo. Si trattiene dal raccontare troppi particolari troppo presto. «Era mezzogiorno appena passato. Ha aperto la porta e ha visto subito che l’allarme era disinserito. Ti ha chiamato, ma tu non hai risposto. A quel punto ha sentito sbattere la porta di servizio, quella che dà sulla piscina, ed è corsa da quella parte. Quando è arrivata in cucina, ha visto che la porta era aperta e che il cancello che conduce al mare era spalancato.»

Henri guarda fuori dalla finestra con gli occhi sbarrati. «Vorrei che l’avesse ammazzato.»

«Non l’ha nemmeno visto. Probabilmente, l’ha sentita arrivare sulla Ferrari nera ed è fuggito…»

«Era in camera mia, e si è dovuto fare tutte le scale» lo interrompe Henri, sempre con gli occhi sbarrati. Benton ha l’impressione che in quel momento stia dicendo la verità.

«Lucy non ha parcheggiato in garage perché voleva andare via subito. Era venuta solo per vedere come stavi» spiega Benton. «È entrata in casa e lui è uscito dalla porta di servizio. Lei non l’ha inseguito. Non l’ha nemmeno visto. In quel momento pensava a te, non le passava nemmeno per la testa che in casa ci fosse una persona.»

«No» dice Henri. Sembra quasi contenta.

«Perché, no?»

«Lucy non aveva la Ferrari nera, quel giorno. La Ferrari nera era in garage. Aveva quella azzurra metallizzata. Che infatti era posteggiata fuori.»

Anche questo è un dato nuovo, e Benton cerca di mantenere la calma. «Tu eri malata, Henri. Eri a letto. Come fai a sapere che macchina ha usato Lucy quel giorno?»

«Lo so sempre, che macchina usa. Quel giorno non ha preso la Ferrari nera perché era graffiata.»

«Vuoi parlarmene?»

«Gliel’avevano graffiata in un parcheggio» spiega Henri guardandosi di nuovo l’alluce livido. «Quello della palestra, in Atlantic Boulevard. Andiamo lì ad allenarci, a volte.»

«Quando è successo?» domanda Benton calmo, cercando di non lasciar trapelare l’emozione. È un’informazione nuova e l’istinto gli dice che è molto importante. «Qualcuno ha graffiato la Ferrari nera di Lucy mentre voi eravate in palestra?» indaga.

«Non ho detto che io ero in palestra» lo corregge lei. L’ostilità con cui ribatte gli conferma i suoi sospetti.

Henri deve aver preso la Ferrari nera per andare in palestra senza chiedere il permesso a Lucy, che è gelosa della sua Ferrari nera e non la lascia guidare a nessuno, nemmeno a Rudy.

«Parlami di questo graffio» dice Benton.

«Gliel’hanno fatto con una chiave o con un oggetto appuntito. Una specie di disegnino.» Si osserva le dita dei piedi.

«Di che genere?»

«Lucy non l’ha più presa, dopo. Non si va in giro su una Ferrari rigata.»

«Chissà come si è arrabbiata» dice Benton.

«Be’, si può aggiustare. Tutto si può aggiustare. Se l’avesse ammazzato, io adesso non sarei qui. E non sarei in ansia. Invece così mi preoccuperò per il resto della mia vita: e se mi aggredisce di nuovo?»

«Sono qui per questo, Henri. Per fare in modo che tu non debba più preoccuparti. Ma ho bisogno del tuo aiuto.»

«Potrebbe non tornarmi mai più in mente.» Lo fissa. «Non ci posso fare nulla.»

«Lucy ha fatto le scale di corsa per venire nella camera da letto in cui eri tu» riprende Benton, osservandola attentamente per accertarsi che sia in grado di reggere a quello che sta per dirle. In realtà lo sa già, lo ha già sentito. Ma lui teme che Henri non finga, che la sua non sia una posa. In tal caso, potrebbe crollare sotto il peso della realtà, avere una crisi psicotica, perdere il suo già precario equilibrio. La ragazza lo ascolta, agitata. «Lucy ti ha trovato priva di sensi, ma respiro e pulsazioni erano nella norma.»

«Non avevo niente addosso.» Non le dispiace precisarlo. Anzi, le fa piacere ricordargli che era nuda.

«Dormi sempre nuda?»

«Be’, mi piace.»

«Ti ricordi di esserti tolta il pigiama prima di tornare a letto, quella mattina?»

«È probabile.»

«Quindi non è stato lui a spogliarti? Non è stato il tuo aggressore? Sempre che di un uomo si tratti.»

«Non ne ha avuto bisogno. Ma se fossi stata vestita, sono certa che mi avrebbe spogliato.»

«Lucy dice che l’ultima volta che ti ha visto, intorno alle otto di quella mattina, avevi un pigiama di raso rosso e una vestaglia beige.»

«Sì, perché volevo uscire. Mi sono andata a sedere sulla sdraio vicino alla piscina, al sole.»

Anche questa è un’informazione nuova. «Verso che ora?»

«Subito dopo che Lucy è uscita, mi pare. Quando è andata via sulla Ferrari azzurra. Cioè, non subito dopo» si corregge in tono piatto, guardando il sole che si riflette sulla neve. «Ero arrabbiata con lei.»

Benton si alza e va ad aggiungere un po’ di legna di pino nel camino, scatenando una pioggia di scintille. «Ti aveva offeso» le dice, rimettendo a posto il parafuoco.

«Lucy si infastidisce, se ti ammali» risponde Henri, più concentrata. «Non aveva nessuna voglia di curarmi.»

«E la lozione?» domanda Benton. Crede di aver capito la storia della lozione, ne è abbastanza sicuro, ma vuole avere la certezza assoluta.

«E allora? Bella roba! Un piccolo favore, nient’altro… Sai quanti me lo vorrebbero fare? Sono io che ho fatto un favore a lei, altroché. Lei fa solo quello che le pare, solo quando ne ha voglia lei, poi si stufa e se ne va. Io avevo mal di testa e abbiamo litigato.»

«Quanto tempo sei rimasta fuori al sole?» domanda Benton, cercando di non lasciarsi distrarre e di non chiedersi che cosa aveva in testa Lucy quando ha cominciato a frequentare Henri Walden. Certo, Benton sa bene che le personalità disturbate sanno essere molto affascinanti. Ci possono cascare tutti, anche quelli che in teoria dovrebbero saperle riconoscere.

«Non tanto. Non mi sentivo bene.»

«Un quarto d’ora? Mezz’ora?»

«Mah, forse mezz’ora.»

«Hai visto qualcuno? Delle barche?»

«Non ci ho fatto caso. Probabilmente perché non ce n’erano. Che cosa ha fatto Lucy quando è entrata nella stanza e mi ha visto così?»

«Ha chiamato il pronto intervento e ti ha controllato il battito fino all’arrivo dell’ambulanza» risponde Benton. Decide di aggiungere un altro particolare, anche se è rischioso. «E ti ha fatto delle foto.»

«Aveva la pistola?»

«Sì.»

«Peccato che non l’abbia ammazzato.»

«Perché continui a parlarne al maschile?»

«Ha fatto delle foto? A me?» chiede Henri.

«Eri priva di sensi ma in condizioni stabili. Ti ha scattato delle foto prima che ti spostassero.»

«Perché le sembrava che mi avessero aggredito?»

«Perché eri in una posizione strana, Henri. Così.» Allunga le braccia sopra la testa. «A faccia in giù, con le braccia distese sopra la testa e i palmi verso il lenzuolo. Ti usciva sangue dal naso e avevi dei lividi, come ben sai. E l’alluce destro fratturato, anche se questo particolare si è scoperto in seguito. Non ti ricordi come te lo sei rotto?»

«Scendendo le scale, credo» risponde.

«Te lo ricordi?» domanda Benton. Fino a quel momento sembrava esserselo dimenticata. O faceva finta? «Quando?»

«Quando sono uscita a prendere il sole. Maledetti gradini di pietra… Devo essere inciampata, fra medicine, febbre e tutto il resto… Mi ricordo che piangevo dal male. Mi faceva un male da morire. Ho anche pensato di chiamare Lucy, ma poi ho lasciato perdere. Più sto male, più lei mi detesta.»

«Ti sei fratturata l’alluce scendendo le scale per andare in piscina e hai pensato di chiamare Lucy, ma poi non l’hai fatto» ricapitola Benton.

«Sì» risponde Henri. «Dov’erano il mio pigiama e la vestaglia?»

«Piegati sulla sedia vicino al letto. Li hai piegati e messi lì tu?»

«Probabilmente. Ero sotto le coperte?»

Benton sa dove vuole andare a parare, ma è più importante dirle la verità. «No» risponde. «Le coperte erano in fondo al letto, tutte stropicciate.»

«Non avevo niente addosso e lei mi ha fatto delle foto?» dice Henri con la faccia inespressiva, guardandolo con occhi severi.

«Sì» risponde Benton.

«Certo, c’era da aspettarselo. La poliziotta.»

«Sei una poliziotta anche tu, Henri. Che cosa avresti fatto al suo posto?»

«Lo sapevo, che avrebbe fatto una cosa del genere» continua lei.

8

«Dove sei?» chiede Marino nel vedere sul display del proprio cellulare il numero di Lucy. «Da dove chiami?» Glielo domanda sempre, anche quando è irrilevante.

Marino è un poliziotto, e per i poliziotti sapere dove si trova la persona con cui parlano è importante. Se qualcuno chiede aiuto o manda un sos e loro non sanno dov’è, non possono fare niente per aiutarlo. Marino è molto protettivo nei confronti di Lucy, benché lei ormai da anni ritenga di non avere nessun bisogno della sua protezione.

«In Atlantic Boulevard» gli risponde. «In automobile.»

«Lo immaginavo. C’è un fracasso…» Marino non perde l’occasione di prendere in giro Lucy per la sua passione per le auto.

«Sei geloso?» sta al gioco lei.

Marino si allontana dal distributore del caffè e si guarda intorno per controllare che nessuno nell’Istituto di medicina legale lo possa sentire. «Volevo dirti che la situazione qui è problematica» le comunica, sbirciando dal vetro della porta della biblioteca per vedere se c’è dentro qualcuno. Non c’è anima viva. «Questo posto sta andando a ramengo» sussurra nel minuscolo cellulare. «Volevo informarti.»

Dopo un attimo, Lucy osserva: «Non volevi soltanto informarmi di questo. Che cosa vuoi che faccia?».

«Per la miseria, che casino fa la tua macchina…» Marino continua a passeggiare avanti e indietro e a guardarsi intorno. Ha in testa il berretto della polizia di Los Angeles che gli ha regalato Lucy.

«Mi stai mettendo in ansia» dice lei. «Quando mi hai assicurato che era tutto sotto controllo, avrei dovuto capire che non lo era per niente. Maledizione. Eppure vi avevo avvertito tutti e due, che era meglio non tornare in quel postaccio.»

«Non è solo per la storia della ragazza» le spiega a bassa voce. «È questo che ti volevo dire. Non c’è solo quel problema lì. Cioè, è senz’altro il problema più grosso, ma stanno succedendo un sacco di cose che non capisco. Il nostro comune amico, peraltro, conferma.» Si riferisce a Benton. «Tu la conosci bene, no?» Adesso si riferisce a Kay Scarpetta. «Non è una che si tira indietro di fronte ai guai.»

«Cosa sono queste cose che non capisci? Fammi un esempio.» Lucy ha cambiato tono. Quando è seria, ha la voce tesa e parla più lentamente.

Marino pensa che adesso lei gli starà con il fiato sul collo e non gli darà requie, specie se la situazione diventerà ancora più spinosa di quello che è già. «Guarda, è più che altro una mia sensazione. Capo, tu lo sai che mi fido del mio istinto…» La chiama “capo”, come se non avesse problemi a considerarla tale, quando invece ne ha, specie se sente che Lucy non è d’accordo con lui. «E il mio istinto mi dice che qui c’è sotto qualcosa» aggiunge. Una parte di lui sa benissimo che Lucy e Kay Scarpetta vedono la sua insicurezza, quando si dà delle arie, parla del suo istinto e le chiama “capo”, ma non riesce a trattenersi e peggiora le cose. «Io odio questa città, odio questo posto di merda. E sai perché questo è un posto di merda? Perché nessuno porta rispetto, ecco perché.»

«Eviterò di ricordarti che io l’avevo detto» mormora Lucy, sempre più preoccupata. «Vuoi che veniamo lì?»

«No» risponde Marino, infastidito nel constatare che non può sfogarsi con Lucy senza che lei si senta in dovere di fare qualcosa. «Per il momento, non è nulla di grave» continua, rimpiangendo di averla chiamata e di averle espresso le proprie paure. “Ho fatto male” pensa. Ma se dovesse mai scoprire che sua zia ha dei problemi e lui non le ha detto niente, Lucy non glielo perdonerebbe.

La conosce da quando lei aveva dieci anni ed era un’insopportabile saputella occhialuta. All’inizio non si erano piaciuti. Poi però le cose erano cambiate: per un certo periodo lei lo aveva adorato come un eroe, poi erano diventati amici. Dopo, però, le cose erano cambiate di nuovo, purtroppo, e Marino si rammarica di non aver fatto qualcosa per evitarlo, perché era molto più contento prima, quando le insegnava a guidare, ad andare in moto, a sparare, a bere birra, a capire quando uno mentiva… Insomma, le cose importanti della vita. Allora non aveva paura di lei. Forse neanche adesso, forse quella che prova non è propriamente paura: il problema è che Lucy ha potere e lui no e la metà delle volte, dopo che si sono parlati per telefono, Marino si sente un deficiente. Lucy può fare tutto quello che vuole, ha un sacco di soldi, dà ordini a un sacco di gente… Lui no. Marino non ha mai avuto il potere che ha lei, nemmeno quando era nella polizia. Ma non è paura, la sua. È un’altra cosa, si dice.

«Se avete bisogno, veniamo» ribadisce Lucy al telefono. «Anche se non è propriamente un bel periodo: ho dei problemi.»

«Ti ho già detto che non è il caso che veniate» risponde Marino immusonito. Sa che quando si immusonisce gli altri si preoccupano più per lui che per loro stessi. È un trucco che funziona sempre. «Volevo solo informarti che abbiamo dei problemi, tutto qui. Non ho bisogno che tu venga. Non potresti fare niente comunque.»

«Okay» dice Lucy. Ormai con lei i musi non attaccano, Marino se lo era scordato. «Adesso devo andare. Ciao.»

9

Con l’indice della mano sinistra Lucy Farinelli sfiora il pulsante del cambio al volante e, mentre l’auto rallenta, il motore raggiunge i mille giri al minuto.

Sul cruscotto si accende una luce rossa e scatta un allarme sonoro a indicare che nei dintorni c’è un radar della polizia.

«Non sto mica andando troppo forte» dice a Rudy Musil, che osserva il tachimetro. È seduto accanto a lei, vicino all’estintore. «Solo dieci chilometri oltre il limite.»

«Non ho aperto bocca» replica lui, guardando nello specchietto laterale dalla sua parte.

«Vediamo se ho ragione.» Lucy resta in terza e si assesta sui settanta chilometri all’ora. «Scommetto che al prossimo incrocio troviamo una macchina della polizia.»

«Cosa voleva Marino?» chiede Rudy. «Non dirmi che ci tocca fare di nuovo le valigie.»

Sono tutti e due molto attenti, controllano gli specchietti, osservano le altre auto, le palme, i pedoni e i palazzi. In questo momento non c’è molto traffico in Atlantic Boulevard, a Pampano Beach, a nord di Fort Lauderdale.

«Che cosa ti avevo detto?» esclama Lucy, gli occhiali scuri fissi sulla strada, mentre una Ford LTD blu sbuca sulla destra da Powerline Road e le si piazza dietro, sulla corsia di sinistra.

«Li hai incuriositi» dice Rudy.

«Non sono pagati per essere curiosi» risponde lei aggressiva, mentre la Ford continua a seguirla. È convinta che sia un’auto della polizia e che l’uomo al volante stia aspettando che lei faccia qualcosa che gli permetta di azionare luci e sirena, fermarla e multarla. «Guarda: quello sorpassa a destra e quell’altro ha il bollo scaduto» dice indicando fuori dal finestrino. «Ma lui ha occhi solo per noi.»

Smette di osservare l’uomo alla guida della Ford blu dallo specchietto retrovisore e sospira, pensando che Rudy è sempre di cattivo umore, da quando lei ha aperto la sede di Los Angeles. Non sa bene perché, ma è convinta di aver frainteso le sue ambizioni: dava per scontato che a lui facesse piacere andare a lavorare in un grattacielo con vista mozzafiato in Wilshire Boulevard, invece si è sbagliata. Non ha capito niente.

Il tempo sta migliorando, il cielo da plumbeo sta diventando grigio perla e il vento freddo sta allontanando la pioggia, che fino a poco prima è caduta torrenziale. La strada è bagnata e piena di pozzanghere. Uno stormo di gabbiani vola basso sopra di loro, disperdendosi in diverse direzioni. La Ford blu continua a seguirli.

«Marino mi ha detto poco o niente» risponde a Rudy. «Pare che ci siano problemi a Richmond. Come al solito, mia zia sta per ficcarsi in un casino.»

«Ho sentito che ti sei offerta di raggiungerli. Credevo tua zia fosse andata là per una semplice consulenza. Cos’è successo?»

«Non so se sarà il caso di raggiungerli. Vedremo. È successo che il direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia, che non mi ricordo più come si chiama, le ha chiesto una mano su un caso difficile, una ragazzina morta improvvisamente, non si capisce bene perché. O, perlomeno, lui non riesce a capirlo. Non mi sorprende. Dirige l’istituto solo da quattro mesi, e al primo problema chiama mia zia. “Sa, è scoppiata una grana: le dispiacerebbe occuparsene lei?” Io le ho consigliato di mandarlo a quel paese, ma lei è voluta partire lo stesso, e adesso ha dei problemi. Com’era prevedibile. Non capisco, io le avevo detto chiaro e tondo che non ci doveva andare, ma lei non mi sta a sentire…»

«Ti sta a sentire quanto tu stai a sentire lei, mi pare» la interrompe Rudy.

«Sai una cosa? Questo tizio non mi piace» dice Lucy guardando nello specchietto retrovisore.

La Ford blu continua a tallonarla. Alla guida c’è un uomo con la pelle olivastra. Potrebbe anche essere una donna, Lucy non riesce a capirlo e non vuole farsi vedere troppo interessata. Tutto a un tratto le viene in mente una cosa.

«Cristo, quanto sono stupida!» esclama incredula. «Non è scattato nessun allarme. Ma cosa ho nella testa? Abbiamo questa macchina dietro, ma l’allarme non è partito: vuol dire che non è una macchina della polizia con radar. Non può esserlo. Eppure ci segue.»

«Sta’ tranquilla» le dice Rudy. «Ignoralo e va per la tua strada. Vediamo che cosa fa. Probabilmente è solo incuriosito dalla tua macchina. Se vai in giro su una Ferrari, devi metterlo in conto. Ma non vorrei ripetermi…»

Rudy un tempo non le faceva paternali. Si sono conosciuti all’accademia dell’FBI alcuni anni fa, e da allora sono stati colleghi, compagni di squadra e amici. Quando Lucy si licenziò per mettersi in proprio, lui andò a lavorare per lei in quella che, in mancanza di un termine più appropriato, si può definire un’agenzia di investigazioni internazionale, l’Ultimo Distretto. Molti di quelli che ci lavorano non sanno bene di che cosa si occupa e non conoscono né Lucy, che l’ha fondata, né Rudy, o comunque non sanno chi sono e che ruolo svolgono all’interno dell’Ultimo Distretto.

«Controlla la targa» dice Lucy.

Rudy prende il palmare e si collega al database ma, guardando meglio, vede che l’auto non ha la targa anteriore. Lucy si sente una cretina, per aver ordinato a Rudy di controllare un numero che non c’è.

«Lasciati superare» suggerisce lui. «Così gli prendiamo la targa.»

Lucy sfiora la leva del cambio e scala in seconda. È sotto il limite di velocità, ma la Ford non accenna a sorpassarla.

«E va bene» sussurra in tono minaccioso. «Hai scelto la persona sbagliata, te lo dico io.» Svolta bruscamente a destra, in un piccolo posteggio.

«Oh, merda! Ma cosa cazzo…? Così adesso è chiaro che ce l’hai con lui!» dice Rudy arrabbiato.

«Pigliagli la targa. Dovresti esser in grado di vederla, adesso.»

Rudy si gira sul sedile, ma non riesce a leggerla perché anche la Ford svolta, seguendoli nel parcheggio.

«Fermati» le dice arrabbiatissimo. «Fermati immediatamente.»

Lucy frena e mette in folle. La Ford si ferma dietro di lei. Rudy scende dalla macchina e va verso la persona alla guida, che abbassa il finestrino. Lucy, con il finestrino aperto e la pistola in grembo, osserva la scena dallo specchietto laterale e cerca di reprimere le proprie emozioni. Si sente stupida, imbarazzata, arrabbiata e lievemente impaurita.

«Qualche problema?» domanda Rudy all’uomo alla guida della Ford, un giovane sudamericano.

«Io? E perché? Stavo solo guardando la vostra macchina.»

«Non ci piace, che lei guardi la nostra macchina.»

«Questo è un paese libero. Se mi va di guardare, guardo finché voglio. Se non vi va, è un problema vostro.»

«Senta, vada a guardare qualche altra macchina e si tolga di qui, per favore» gli intima Rudy, senza alzare la voce. «Smetta di seguirci, se non vuole avere dei guai!»

Nel sentire Rudy che sbatte in faccia al ragazzo sudamericano le sue false credenziali, a Lucy scappa da ridere. È sudata, ha il batticuore e una gran voglia di ridere, ma anche di scendere dalla macchina e ammazzare il sudamericano. E ha voglia anche di piangere, perché è confusa riguardo ai propri sentimenti. Resta dov’è, al volante della sua Ferrari. Il ragazzo alla guida della Ford dice qualcos’altro che lei non sente e se ne va rabbioso, sgommando. Rudy torna al suo posto.

«Possiamo andare» dice. Lucy si immette di nuovo in Atlantic Boulevard. «Era solo un povero deficiente ammaliato dal tuo macchinone e tu ne hai fatto una questione di Stato: prima sei convinta che è un poliziotto, poi ti accorgi che non lo è ma ti fai prendere dal panico lo stesso. Cos’hai, si può sapere? Cosa credi, di avere alle calcagna la mafia? Un killer pronto ad ammazzarti in mezzo a una strada piena di gente?»

Lucy sa che Rudy ha ragione, ma le dà fastidio che sia arrabbiato con lei. «Non gridare, per favore» gli dice.

«Sai una cosa? Non ti sai controllare. Sei un pericolo pubblico.»

«Non è questo il problema» ribatte lei, cercando di apparire sicura di sé.

«Hai ragione» replica Rudy. «Il problema è lei. Te la sei messa in casa e guarda cos’è successo. Avete rischiato di morire tutte e due, lo sai? Peccato che lei non sia morta, però. Se non ti dai una regolata, prima o poi succederà di peggio.»

«L’ha seguita qualcuno, Rudy. Non dare la colpa a me. Io non c’entro niente.»

«L’ha seguita qualcuno, okay. Lo so. Ma so anche che è colpa tua. Se andassi in giro con una jeep o una Hummer… Non potresti prenderti una delle Hummer della ditta? Invece no, e perdipiù le lasci una delle tue Ferrari. E così lei va a farsi bella in giro. Miss Hollywood… Gesù! Sulla tua Ferrari.»

«Non farmi una scenata di gelosia, adesso. Esigo che…»

«Non è una scenata di gelosia!» urla Rudy.

«Ce l’hai con lei da quando l’abbiamo assunta.»

«Vorrei sapere perché l’abbiamo assunta. Cosa fa? Protegge i nostri clienti di Los Angeles? Ma vogliamo scherzare? Dimmi, Lucy: perché l’hai assunta? Per fare cosa?»

«Non mi parlare a questo modo» ribatte lei sottovoce. È calmissima. Non ha scelta: se si fa prendere dalla collera, rischiano di litigare furiosamente, e allora Rudy potrebbe anche decidere di andarsene.

«Non voglio lasciarmi condizionare più di tanto. Voglio essere libera di andare in giro con la macchina che voglio io e di stare nella casa che voglio io.» Guarda la strada, le macchine che entrano nei posteggi e svoltano nelle traverse. «Se mi va di fare un favore a un’amica, voglio poterlo fare. Non le ho mai dato il permesso di prendere la Ferrari nera, lo sai. L’ha presa lei di sua iniziativa. È cominciato tutto lì: qualcuno l’ha vista, l’ha seguita ed è successo quel che è successo. Non è colpa di nessuno. Nemmeno sua. Di certo non voleva che lui mi rovinasse la macchina, la seguisse fino a casa e cercasse di ammazzarla.»

«Va bene. Fai come ti pare» ribatte Rudy. «Continuiamo pure a litigare con tutti quelli che ti guardano la macchina. Magari la prossima volta gli spariamo pure. O, meglio ancora, ci facciamo sparare. Cosa dici: ci facciamo sparare addosso per una stupida macchina?»

«Calmati» dice Lucy, fermandosi a un semaforo rosso. «Ti prego, adesso calmati. Lo so, avrei potuto gestire meglio la situazione.»

«Meglio? Non l’hai gestita per niente. Hai reagito come un’idiota.»

«Per favore, Rudy, adesso basta.» Non vuole lasciare spazio alla collera, ha paura di commettere qualche irrimediabile passo falso. «Non parlarmi così, per favore. Non è giusto. Non ne hai il diritto.»

Svolta sulla A1A e percorre lentamente il lungomare. Alcuni ragazzini in bicicletta si girano a guardare la Ferrari rischiando di cadere. Rudy scuote la testa e alza le spalle, come a dire che parlare con lei non serve a niente. Ma ormai l’oggetto del contendere non è più la Ferrari. Per Lucy, cambiare modo di vivere vorrebbe dire darla vinta alla bestia, ammettere la sconfitta. Henri la chiama “la bestia”, ma Lucy è convinta che si tratti di un uomo. Non ha dubbi, su questo, indipendentemente da indizi, prove, analisi di laboratorio. Se lo sente, che è stato un uomo ad aggredire Henri.

Un uomo troppo sicuro di sé, oppure un uomo molto stupido, perché ha lasciato due impronte digitali parziali sul piano di cristallo del comodino. O non ci ha pensato, o se ne è fregato. Non corrispondono a nessuna delle impronte contenute nell’Automated Fingerprint Identification System e quindi forse nessuno gliele ha mai prese, perché non è mai stato arrestato. E forse se ne è fregato anche dei capelli che ha lasciato sul letto. Tre, neri. Perché avrebbe dovuto preoccuparsene, comunque? Nei casi più urgenti, per la prova del DNA mitocondriale ci vogliono comunque dai trenta ai novanta giorni. E non è detto che serva a qualcosa, dato che non esiste una banca dati significativa per il DNA mitocondriale (ossa e capelli) che, a differenza di quello nucleare (sangue e tessuti), non rivela il sesso. Le tracce lasciate dalla bestia sul luogo dell’aggressione non sono risolutive. Potrebbero non esserlo neppure nel caso venisse arrestata una persona ed effettuato un confronto.

«È vero, sono stressata. Non sono più io. Mi sono lasciata prendere troppo da questa cosa» ammette Lucy concentrandosi sulla guida. La spaventa pensare che forse Rudy ha ragione e lei sta perdendo il controllo. «Non avrei dovuto comportarmi così, con quello della Ford. Non esiste. Non bisogna cacciarsi in certi pasticci.»

«Infatti. Da te non me lo aspettavo. Da quella là, sì.» Rudy tiene il muso, con gli occhi nascosti dietro lenti scure lievemente specchiate. Evita il suo sguardo, e questo la turba.

«Credevo stessimo parlando del sudamericano sulla Ford» dice.

«Io te l’avevo detto subito che metterti qualcuno in casa è pericoloso» continua Rudy. «Specie se usa la tua macchina, fruga fra le tue cose, ha la possibilità di restare solo nei tuoi spazi e non rispetta le tue regole. Non ti scordare che quella non ha l’addestramento che abbiamo noi. E ha ben altre priorità.»

«Nella vita non conta solo l’addestramento» ribatte Lucy. Preferisce parlare dell’addestramento che delle priorità di Henri. E preferirebbe parlare del sudamericano della Ford che di lei. «Sono stata scema, prima, a lasciarmi prendere dal panico. Mi dispiace.»

«Ho l’impressione che tu sia un po’ confusa riguardo ai tuoi obiettivi nella vita» replica Rudy.

«Ti prego, adesso non fare il boy scout» sbotta Lucy accelerando in direzione nord, verso il quartiere di Hillsboro e la sua villa color salmone in stile mediterraneo, affacciata sulla Intracoastal Waterway e sull’oceano. «Non riesci a essere obiettivo. Non riesci nemmeno a chiamarla per nome. “Quella”, la chiami.»

«Non riesco a essere obiettivo, dici? E tu, allora?» ribatte lui spietato. «Quella stupida ha rovinato tutto. Ma veramente tutto. E tu non avevi il diritto di mettere in mezzo anche me. Nessun diritto.»

«Rudy, smettiamola di litigare, ti prego» implora Lucy. «Perché ci accapigliamo così?» Lo guarda. «Non tutto è perduto.»

Lui non risponde.

«Perché litighiamo sempre? Mi fa stare male» dice Lucy.

Un tempo lei e Rudy non litigavano. Qualche volta lui si immusoniva, ma non avevano mai bisticciato tanto, prima che lei aprisse la sede di Los Angeles e assumesse Henri. Un segnale acustico avverte che il ponte sta per alzarsi, Lucy scala la marcia e si ferma. Un signore su una Corvette le mostra il pollice; in segno di apprezzamento per la Ferrari.

Lei sorride tristemente e scuote la testa. «Hai ragione, faccio delle scemenze» dice. «Sono fatta così, sono fatta sbagliata. Devo aver preso da mio padre, che era sudamericano. Spero non da mia madre, perché non vorrei proprio finire come lei. Sarebbe molto peggio.»

Rudy non dice niente e guarda il ponte che si alza per far passare uno yacht.

«Non litighiamo» continua lei. «Non è tutto perduto. Dai…»

Gli prende una mano e gliela stringe. «Facciamo pace? Ricominciamo? Vuoi che chiami Benton e mi faccia dare qualche consiglio su come si trattano gli ostaggi? Perché non sei solo mio amico e collaboratore: adesso sei anche mio ostaggio. E io sono ostaggio tuo, immagino. Tu sei qui perché hai bisogno di questo lavoro, o perlomeno lo vuoi fare, e io ho bisogno di te. Non è così?»

«Io non devo essere qui, né da nessun’altra parte» risponde lui. Non le stringe la mano e Lucy gliela lascia.

«Lo so benissimo» dice. È rimasta male che lui non abbia risposto alla sua stretta. Riprende il volante con tutte e due le mani. «Vivo quotidianamente con questa paura, con la paura che tu te ne vada. Tanti saluti e buona fortuna, io per la mia strada e tu per la tua.»

Rudy guarda passare lo yacht diretto verso il mare aperto. Sul ponte, alcune persone in bermuda e camicie larghe si muovono con l’agio di chi è molto ricco. Anche Lucy è molto ricca, sebbene non ci rifletta mai. Guarda lo yacht e si sente povera. Guarda Rudy e si sente ancora più povera.

«Prendiamo un caffè insieme?» gli propone. «Ci sediamo vicino alla mia piscina, che non uso mai, a guardare il mare, che non guardo mai. Vorrei liberarmi di quella casa. Hai ragione, faccio un sacco di scemenze» insiste. «Dai, prendiamo un caffè.»

«Okay.» Rudy guarda dal finestrino, immusonito. «Credevo che avessi deciso di toglierla» dice poi, indicando la cassetta della posta. «Nessuno ha il tuo indirizzo di casa. Ti arriva solo roba indesiderata. Adesso più che mai.»

«Me la faccio togliere» promette. «Sto pochissimo a casa. Fra l’apertura dell’ufficio a Los Angeles e tutto il resto… Mi sento un’altra, sai? Mi sento la Lucy di Lucy e io, la serie televisiva. Te la ricordi? Ti ricordi quando lavorava nella fabbrica di caramelle e non riusciva a tenere dietro alla catena di montaggio?»

«No.»

«Probabilmente non guardavi quel genere di telefilm» dice Lucy. «Io e mia zia eravamo appassionatissìme di Lucy e io e Bonanza. Lei li guardava da bambina.» Rallenta fino quasi a fermarsi vicino alla cassetta della posta in fondo al viale che porta a casa sua. Sua zia, che ha uno stile di vita molto più sobrio, le aveva espresso non poche perplessità rispetto a quella casa.

Le aveva detto: “Prima di tutto, è troppo lussuosa rispetto al resto del quartiere”. Comprare quella casa è stata una scemenza, ammette Lucy imboccando il viale. È una villa a tre piani di mille metri quadrati con giardino, che le è costata nove milioni di dollari. Più che un giardino, quello intorno alla casa è un patio, con poca erba e tanta pietra, una piscina, una fontana, qualche pianta e qualche palma. L’aveva avvertita, sua zia, che non era una buona scelta. Quella casa offre poca privacy, è pericolosa, accessibile dal mare. Ma Lucy non le ha dato retta, presa com’era dal lavoro e dal desiderio di far felice Henri. “Te ne pentirai” le aveva detto Kay Scarpetta. Aveva ragione: Lucy abita lì da tre mesi ed è già pentita.

Apre il cancello con un telecomando e la porta del garage con un altro.

«A che cosa serve questo affare?» domanda Rudy indicando il cancello. «Hai un viale di tre metri…»

«Lo so» ribatte Lucy arrabbiata. «Odio questo posto di merda.»

«Ti entrano in garage come vogliono» insiste Rudy.

«Se uno mi entra nel garage, io lo ammazzo.»

«Guarda che parlavo sul serio.»

«Anch’io» dice Lucy mentre la porta del garage si chiude lentamente dietro di loro.

10

Lucy parcheggia la Modena vicino alla Ferrari nera, una Scaglietti dodici cilindri che non può esprimere tutta la propria potenza in un mondo pieno di limiti di velocità. Scendono, e Lucy evita di guardare la Ferrari nera. Non vuole vedere il graffio a forma di grande occhio con tanto di ciglia che qualcuno le ha fatto sulla carrozzeria.

«Be’, il disegno è pregevole» commenta Rudy passando fra le due Ferrari, diretto alla porta che conduce all’interno della villa. «Potrebbe averlo fatto lei?» Indica il cofano della Scaglietti nera, ma Lucy non guarda. «Potrebbe benissimo essere stata lei. Potrebbe aver inscenato tutto.»

«Non è stata lei» risponde Lucy, sempre senza guardare la Ferrari nera. «Ho dovuto aspettare oltre un anno, prima che me la consegnassero.»

«Puoi farla riverniciare» osserva Rudy, infilandosi le mani in tasca. Lucy apre la porta e disinserisce il sofisticatissimo sistema di allarme, completo di telecamere a circuito chiuso in tutta la casa e nel giardino. Le telecamere non effettuano riprese, però, perché Lucy non vuole essere filmata in casa propria. Rudy la capisce, ma solo fino a un certo punto. Neanche lui vorrebbe essere ripreso da telecamere nascoste mentre si fa gli affari suoi, ma nella sua vita c’è poco da filmare, visto che vive solo. Quando Lucy ha deciso di disattivare le telecamere in casa sua, non viveva da sola.

«Forse dovresti rimettere in funzione l’impianto a circuito chiuso» le suggerisce.

«Faccio prima: cambio casa» replica lei.

Rudy la segue nell’enorme cucina e guarda il soggiorno con vista sull’oceano. È molto ampio, con un altissimo soffitto affrescato, un gigantesco lampadario di cristallo e un tavolo da pranzo, anch’esso di cristallo, che sembra intagliato nel ghiaccio. È un oggetto straordinario e Rudy non vuole nemmeno pensare a quanto deve esserle costato. Per non parlare dei divani in pelle morbidissima e dei dipinti africani, gigantesche tele con elefanti, zebre, giraffe e scimmie. Lui non potrebbe permettersi nemmeno uno dei mobili con cui Lucy ha arredato la sua seconda casa. Probabilmente neppure uno dei tappeti, o una delle piante.

«Lo so» dice lei guardandosi intorno. «Piloto gli elicotteri e non so neppure accendere lo stereo di questa casa. La odio.»

«Non cercare di impietosirmi.»

«Per favore.» Lucy interrompe la conversazione con un tono che lui conosce bene: non ne può più di litigare.

Rudy apre uno dei mobiletti alla ricerca del caffè e chiede: «Cosa c’è da mangiare, in questa casa?».

«Chili con carne, fatto in casa. È surgelato, ma ci mettiamo un attimo a scongelarlo.»

«Ottimo. Andiamo in palestra, dopo? Verso le cinque e mezzo?»

«Io devo andarci.»

In quel momento notano la porta di servizio che conduce alla piscina, quella che l’aggressore di Henri ha usato per entrare e uscire dalla villa meno di una settimana fa. È chiusa a chiave, ma sul vetro è stato appeso qualcosa dall’esterno. Lucy si avvicina, intuisce quel che è successo e spalanca la porta. Appeso al vetro, con una strisciolina di scotch, c’è un foglio.

«Cos’è?» domanda Rudy chiudendo il freezer e guardandola. «Cosa c’è?»

«Un altro occhio» risponde Lucy. «Un altro disegno, stavolta a matita. Lo stesso occhio che c’è sulla macchina e che secondo te ha fatto Henri. La quale adesso è a tremila chilometri da qui. Be’, almeno adesso non avrai più dubbi sul fatto che non è stata lei.» Chiude la porta e la riapre. «Questo bastardo vuole che io sappia che mi tiene d’occhio» dice rabbiosa. Esce a guardare meglio il disegno.

«Non lo toccare!» le grida Rudy.

«Non sono scema, cosa credi?»

11

«Mi scusi» dice un giovane che sembra un astronauta, in camice, con mascherina, occhiali protettivi, cuffia, copriscarpe e guanti di lattice. «Che cosa ne faccio della dentiera?»

Kay Scarpetta vorrebbe rispondergli che lei non lavora lì, che è un’esterna, ma le si bloccano le parole nella gola. Fissa la morta obesa stesa sul lettino di acciaio che due tizi, vestiti anch’essi da astronauti, cercano di infilare in un sacco di plastica.

«Ha la dentiera» spiega il ragazzo, questa volta rivolgendosi a Fielding. «L’avevamo posata in una scatola e ci siamo dimenticati di metterla nel sacchetto prima di ricucirla.»

«La dentiera va rimessa in bocca» risponde Kay Scarpetta, decidendo di intromettersi in quel problema assurdo. «L’impresa di pompe funebri e i familiari si aspettano che consegniate la morta con la dentiera. E sono certa che questa poveretta non vorrebbe farsi seppellire senza denti.»

«Dunque non ci tocca riaprirla?» chiede il ragazzo, che è un militare. «Meno male…»

«No, la dentiera non va nel sacchetto» ribadisce Kay. Dopo l’autopsia, gli organi sezionati del morto non vengono rimessi nella loro posizione originaria, perché è impossibile, ma vengono riposti in un robusto sacchetto di plastica trasparente, che viene poi ricucito all’interno della cavità toracica. «Dov’è?»

«Lì» le fa segno il ragazzo. «Assieme ai documenti.»

Fielding si disinteressa del problema e ignora il ragazzo, che sembra troppo giovane per essere uno studente di medicina e quindi dev’essere uno degli stagisti di Fort Lee. Probabilmente è diplomato ed è stato mandato lì per imparare a occuparsi dei morti in guerra. Kay Scarpetta è tentata di dirgli che anche ai soldati straziati dalle bombe fa più piacere essere rimandati in patria con la dentiera in bocca, ammesso e non concesso che ce l’abbiano ancora. Ma si trattiene e dice invece: «Venga, le faccio vedere».

Lo accompagna oltre una lettiga che è stata portata da poco nella sala autopsie. Vi è steso un ragazzo nero coperto di tatuaggi, morto per una ferita di arma da fuoco. Ha la pelle d’oca — reazione dei muscoli erettori dei peli al rigor mortis — e sembra infreddolito e spaventato. Il soldato prende la scatola di plastica dal ripiano e fa per porgerla a Kay Scarpetta, ma si accorge che non ha i guanti.

«Sarà meglio che prima mi copra» dice lei, andandosi a prendere un paio di guanti di lattice da un carrello poco distante. Se li infila e prende la dentiera dalla scatola.

Torna con il soldato dalla morta obesa.

«La prossima volta, piuttosto, mettete la dentiera insieme con gli effetti personali della vittima e lasciate che se ne occupi l’impresa di pompe funebri» gli suggerisce. «Ma non nel sacchetto. Questa donna era troppo giovane per avere la dentiera.»

«Pare che fosse tossicodipendente.»

«Pare?»

«Io non lo so, l’ho sentito dire» risponde il ragazzo.

«Capisco.» Kay Scarpetta osserva l’enorme cadavere steso sul tavolo di acciaio. «Sì, le sostanze vasocostrittrici, come la cocaina, fanno cadere i denti.»

«Mi sono sempre chiesto perché i drogati sono senza denti» dice il militare. «Lei è nuova?» chiede, guardando Kay Scarpetta.

«Tutt’altro» risponde lei, aprendo la bocca alla morta. «Ho lavorato qui un sacco di tempo. Adesso sono venuta per una consulenza.»

Il ragazzo annuisce confuso. «Be’, di certo sa fare il suo lavoro» dice goffamente. «Mi dispiace per la storia della dentiera. Spero che il direttore non lo venga a sapere.» Scuote la testa, sospirando. «Ci mancherebbe solo questo. Già ce l’ha con me…»

La morta non è più rigida e la sua mascella non oppone resistenza alle dita di Kay, che però non riesce comunque a rimetterle la dentiera. Non è quella giusta.

«Non è la sua dentiera» dichiara restituendo la scatola di plastica al militare. «È troppo grande. Probabilmente è di un uomo. Non vi sarete confusi?»

Il ragazzo sembra perplesso e al tempo stesso sollevato di non essere l’unico responsabile di quel pasticcio. «È possibile» risponde. «Qui c’è un viavai pazzesco. Dice che non è la dentiera di questa donna? Meno male che non ho provato io a rimettergliela.»

Fielding si è accorto che c’è un problema e si avvicina. Osserva la dentiera e domanda: «Cos’è successo? Avete scambiato le dentiere? Avete mescolato gli effetti personali di due cadaveri?».

Fulmina con lo sguardo lo stagista, che deve avere una ventina di anni, i capelli biondi che gli spuntano dalla cuffia azzurra e lo sguardo preoccupato.

«Non l’ho messa io nella scatola» spiega a Fielding. «Quando ho preso in carico la donna, era già senza denti. E la dentiera era già qui.»

«Qui dove?»

«Sul carrello» risponde il ragazzo indicando il carrello con gli strumenti chirurgici riservati al tavolo quattro, noto anche come “tavolo verde”. Il dottor Marcus ha adottato il sistema che era già in uso ai tempi di Kay Scarpetta, per cui gli strumenti chirurgici di ogni tavolo sono contrassegnati da un colore diverso, in maniera da evitare pericolose confusioni. «La scatola era sul carrello e poi, non so come, è finita laggiù insieme con i documenti.» Indica un ripiano con alcuni fogli ordinatamente allineati.

«Chi è stato esaminato prima di lei, su questo tavolo?» domanda Fielding.

«Un vecchio morto nel suo letto. Può darsi che la dentiera sia sua» dice il ragazzo. «Magari sono state scambiate.»

Fielding va ad aprire la porta di acciaio inossidabile della cella frigorifera, furibondo. Sparisce al suo interno, che emana odore di morte, e torna un attimo dopo con una dentiera, evidentemente appena tolta al vecchio, nel palmo della mano. Ha il guanto macchiato del sangue di Whitby, l’operaio che è finito sotto il trattore.

«Non vi siete accorti che era troppo piccola per la bocca di quest’uomo?» protesta. «Chi gliel’ha messa non si è reso conto che non gli stava?» Guarda la sala con i quattro tavoli di acciaio, le radiografie esposte sui diafanoscopi, i lavandini di acciaio, gli armadietti metallici e i ripiani ingombri di documenti, carte, effetti personali ed etichette da applicare a contenitori e provette.

Medici, studenti e stagisti restano zitti accanto ai morti che stanno esaminando. Kay Scarpetta è scioccata, incredula: l’Istituto di medicina legale della Virginia è nel caos più totale. Guarda Whitby disteso sul tavolo, mezzo svestito, e poi la dentiera in mano a Fielding.

«Lavala, prima di mettergliela in bocca» non riesce a fare a meno di dire, quando Fielding consegna la dentiera al ragazzo. «Meglio non mescolare DNA diversi, anche se non si tratta di morti sospette. Ti consiglio di lavare bene sia la dentiera della donna sia quella del vecchio.»

Si toglie i guanti e li butta nell’apposito sacco arancione per la raccolta dei rifiuti biologici pericolosi. Si allontana, pensando a dove sarà finito Marino, e sente che il ragazzo sta chiedendo informazioni su di lei. «Ma chi è? Cosa ci fa qui?»

«La dottoressa Scarpetta ha diretto l’istituto fino a qualche anno fa» risponde Fielding, senza specificare che allora certe cose non succedevano.

«Per la miseria!» esclama il ragazzo.

Kay preme con il gomito un grosso pulsante per aprire le porte di acciaio, va nello spogliatoio ed entra nella toilette delle donne. I neon rendono gli specchi particolarmente impietosi. Si lava le mani e nota il cartello che aveva fatto affiggere lei stessa quando lavorava ancora lì, per ricordare a tutti di cambiarsi le scarpe prima di uscire dall’obitorio. “Non vogliamo materiale biologico pericoloso sulla moquette del corridoio” diceva sempre al suo staff. È certa che ormai non ci bada più nessuno. Si toglie le scarpe, lava le suole con acqua calda e sapone antibatterico e le asciuga con gli asciugamani di carta. Poi esce nel corridoio con la moquette grigia.

Di fronte allo spogliatoio delle donne ci sono gli uffici del direttore. Il dottor Marcus almeno lì ha fatto lo sforzo di cambiare qualcosa. L’ufficio della sua segretaria ha mobili color ciliegio e stampe coloniali. Sullo schermo del computer nuota una serie di pesci tropicali su uno sfondo blu. La segretaria non c’è e Kay Scarpetta bussa alla porta del direttore.

«Avanti» risponde una voce fievole.

Lei apre la porta ed entra in quello che una volta era il suo ufficio. Non vorrebbe guardarsi intorno, ma non riesce a fare a meno di notare l’ordine che vi regna. La scrivania del dottor Marcus è sgombra, la libreria perfetta. È solo nel resto dell’istituto che regna il disordine.

«È arrivata proprio al momento giusto» le dice Marcus dalla sua poltroncina girevole dietro la scrivania. «Si accomodi, prego. Volevo illustrarle il caso Paulsson, prima che veda il corpo.»

«Dottore, io non dirigo più questo istituto ormai da anni e non vorrei essere invadente, ma non posso fare a meno di esprimere la mia preoccupazione» esordisce lei.

«Nessuna preoccupazione.» La fissa con gli occhi piccoli e severi. «Non è qui in qualità di ispettrice, glielo ricordo.» Intreccia le dita, con le mani posate sulla scrivania. «Le è stata richiesta una consulenza sul caso Paulsson, tutto qui. Non si deve preoccupare di nient’altro. Troverà l’istituto cambiato, è normale. Lei non lavora più qui da… quanto? Cinque anni? Tenga conto che per un lungo periodo l’istituto non ha avuto un direttore, ma solo un “facente funzioni”. Il dottor Fielding, mi risulta. Dunque sicuramente troverà tutto molto diverso. Io e lei siamo diversi, dottoressa. Credo che il governatore mi abbia scelto proprio per questo.»

«So per esperienza che, quando il direttore di un Istituto di medicina legale non effettua autopsie, prima o poi qualche guaio succede» dice lei, decidendo di affrontare l’argomento anche se Marcus non ne ha voglia. «Se non altro perché gli altri medici percepiscono la sua mancanza di interesse e tendono a lavorare meno o con meno cura, o viceversa a lavorare troppo e a stressarsi.»

Marcus la osserva imperturbabile, con le labbra strette. Kay nota che le finestre dietro la sua testa sono pulite e i vetri antiproiettile sostituiti. Guarda il Coliseum in lontananza, sotto una pioggerellina sottile.

«Non posso non badare a certe cose, anche se sono venuta a darle una consulenza su un caso specifico» aggiunge. «Lei sa che gli avvocati si aggrappano al minimo appiglio. In tutta franchezza, trovo la situazione preoccupante.»

«Non la capisco, sa?» replica Marcus guardandola gelido. «Che cosa teme?»

«Uno scandalo, prima di tutto. Noie legali. Ma soprattutto temo che, a causa di inadempienze tecniche o procedurali, un assassino resti a piede libero perché le prove vengono invalidate.»

«Me l’aspettavo» ribatte Marcus. «E infatti l’ho detto, al commissario, che rivolgerci a lei non mi sembrava una buona idea.»

«Le credo. A nessuno fa piacere che il proprio predecessore torni a raddrizzare le cose…»

«Gli ho fatto presente che un ex direttore incattivito e rancoroso, deciso a trovare il pelo nell’uovo a ogni costo, avrebbe solo peggiorato la situazione» la interrompe. Prende una penna e la posa di nuovo, innervosito.

«Capisco che lei sia…»

«Se poi l’ex direttore veste anche i panni del crociato, la catastrofe è assicurata» continua Marcus freddo. «Meglio stare alla larga da chi intraprende crociate per vendicare il proprio orgoglio ferito.»

«Lei sta diventando offens…»

«Comunque, quel che è fatto è fatto e ormai lei è qui. Tanto vale parlare del caso per cui è stata chiamata, no?»

«Le sarei grato se mi lasciasse parlare» replica Kay Scarpetta. «Lasciamo perdere le sue considerazioni sulle crociate e parliamo piuttosto di dentiere.»

Marcus la guarda come se fosse impazzita.

«Ho appena assistito a un increscioso incidente in sala autopsie» gli riferisce. «È stata scambiata la dentiera a due cadaveri. Un piccolo errore di distrazione, se vuole. Ma ritengo venga data troppa autonomia a stagisti senza alcuna preparazione professionale, venuti qui per imparare. Se uno va a porgere l’estremo saluto a un proprio caro e lo trova senza dentiera o con la dentiera di un altro, si immagina la reazione? Gli scandali, una volta scoppiati, sono difficili da arginare. I giornalisti adorano questo tipo di storie. Se poi la dentiera scambiata è di un morto ammazzato, per il difensore del presunto assassino è una manna, anche se la dentiera non c’entra niente con l’omicidio.»

«Ma di quali dentiere parla?» chiede Marcus stizzito. «Non c’era Fielding a fare da supervisore?»

«Fielding è oberato di lavoro, non riesce a fare anche da supervisore.»

«Mi scusi, ma non voglio parlare del suo ex collaboratore.» Marcus si alza in piedi di scatto. Neanche Kay Scarpetta è alta, ma lui sembra più basso e meno imponente di lei. Sfiora il microscopio coperto dalla protezione di plastica. «Sono già le dieci» dichiara aprendo la porta. «È ora che lei veda Gilly Paulsson, dottoressa. È nella cella frigorifera. Le consiglio di non spostarla da lì. Avrà tutta la tranquillità di cui ha bisogno, se decidesse di effettuare una nuova autopsia.»

«Non entrerò là dentro, se non in presenza di almeno un testimone» ribatte Kay Scarpetta.

12

Lucy non dorme più nella suite al secondo piano, ma in una delle camere più piccole al primo, con la porta chiusa a chiave. Si racconta che è per motivi professionali che non dorme più nel letto in cui Henri è stata aggredita, un letto molto grande con una testiera dipinta a mano, al centro di una stanza gigantesca con vista sull’oceano. Potrebbero esserci ancora degli indizi, sostiene: benché lei e Rudy siano stati molto puntigliosi nelle ricerche, potrebbero comunque essersene lasciati sfuggire qualcuno.

Rudy ha preso la Modena, con la scusa di fare benzina. In realtà Lucy sospetta che il suo piano sia un altro, che voglia farci un giro per vedere se qualcuno lo segue. Probabilmente spera di attirare l’attenzione della bestia, dell’uomo che ha disegnato l’occhio. Anzi, gli occhi. Dev’essere lì, appostato da qualche parte a guardare, a tenere sotto controllo la villa. Magari non si è reso conto che Henri non c’è più, ma continua a sorvegliare la casa e le Ferrari. Potrebbe essere lì a spiare anche in questo momento.

Lucy si avvicina al letto sfatto, con le costose lenzuola di seta che pendono sulla moquette color ruggine e i cuscini in un angolo, nel punto esatto in cui erano quando ha trovato Henri priva di sensi, dopo aver salito le scale di corsa. Lì per lì ha creduto che fosse morta. Non sapeva cosa pensare. Tuttora non sa cosa pensare, ma in quel momento si è presa uno spavento tale che ha chiamato il 911. E ha scatenato un putiferio. A quel punto, infatti, è stata costretta a fare i conti con la polizia, che invece avrebbe fatto meglio a tenere lontana, visto che gran parte delle attività che svolge l’Ultimo Distretto non sono propriamente legali, perché il fine a volte giustifica i mezzi.

Rudy è ancora arrabbiato con lei perché ha chiamato la polizia. La accusa di essersi lasciata prendere dal panico. È vero, non avrebbe dovuto chiamare il pronto intervento. È stato un errore. Avrebbero potuto — dovuto - gestire la situazione loro due. Henri non è una persona qualunque, è una donna che lavora per l’Ultimo Distretto. Anche se l’ha trovata nuda e priva di sensi, Lucy non avrebbe dovuto chiamare la polizia. Aveva accertato che non era morta, no? E neanche in pericolo di vita, visto che respirava e aveva le pulsazioni abbastanza regolari. Non perdeva nemmeno troppo sangue. Un po’ dal naso, okay, ma niente di particolarmente grave. Benton glielo ha detto chiaramente, quando lei ha accompagnato Henri ad Aspen con il suo jet privato: Henri è stata aggredita e forse ha anche perso i sensi, ma solo brevemente. Dopo, ha fatto finta.

“Non ci credo” gli ha risposto Lucy. “Non rispondeva a nessuno stimolo.”

“È un’attrice” le ha ricordato Benton.

“Non più.”

“Lucy, faceva l’attrice di professione, prima di entrare nella polizia. Forse ha continuato a recitare anche dopo. Forse non è capace di fare altro che recitare.”

“Ma perché avrebbe dovuto fingere? L’ho toccata, le ho parlato, ho cercato di svegliarla… Perché avrebbe dovuto far finta di essere incosciente? Perché?”

“Per vergogna, per rabbia. Chi lo sa?” le ha risposto lui. “Forse non ricorda con precisione che cosa le è successo, lo ha rimosso, ma ha delle emozioni al riguardo. Può darsi che si vergogni della propria imprudenza. Oppure che ti voglia punire.”

“E di che cosa? Non le ho fatto niente! Ma cosa dici? È viva per miracolo e pensa: ‘Già che ci sono, punisco Lucy’?”

“La gente fa cose strane.”

“No, non ci credo” ha ribadito Lucy. Più insisteva, meno Benton le credeva, probabilmente.

Si avvicina alla vetrata, composta da otto alte finestre. Le tapparelle sono abbassate e Lucy preme il pulsante per alzarle e guarda fuori. Vuole vedere se le salta all’occhio qualcosa di strano. È una bella giornata. Lei e Rudy sono partiti da Miami stamattina presto. Lucy non entrava in casa da tre giorni. La bestia ha avuto tutto il tempo di spiare e di introdursi abusivamente nel giardino; è tornata a cercare Henri ed è entrata nella sua proprietà per appendere il disegno dell’occhio alla porta di servizio. Vuole ricordare a Henri che è ancora lì in agguato. Nessuno l’ha vista, nessuno ha chiamato la polizia. Lucy pensa che il suo è un quartiere di menefreghisti, di persone che non battono ciglio se i vicini hanno i ladri in casa o rischiano di finire ammazzati: l’importante è che nessuno rompa loro le scatole.

Lucy guarda il faro dall’altra parte della baia e medita se andare a parlare con la sua vicina. Non conosce nemmeno il suo nome, ma sa che è una donna curiosa, che non esce mai di casa e fotografa il suo giardiniere dalla finestra, probabilmente per farle causa nel caso Lucy decidesse di piantare un albero che le rovina la vista o fare altri cambiamenti a lei sgraditi. Se Lucy avesse avuto il permesso di sistemare un po’ di filo spinato sopra ai muri di cinta, la bestia non sarebbe entrata tanto facilmente nella sua proprietà e forse non sarebbe riuscita ad arrivare nella camera del secondo piano in cui Henri era a letto con l’influenza. Invece la sua vicina aveva fatto un sacco di storie e le aveva impedito di ottenere l’autorizzazione. E così Henri ha rischiato di morire e la persona che le ha graffiato la Ferrari è riuscita ad attaccarle il disegno con l’occhio sulla porta di servizio.

Lucy guarda dalla finestra la piscina, il mare azzurro e calmo nella Intracoastal Waterway e più increspato e verdastro al largo, oltre la baia. La bestia potrebbe essere arrivata in barca, aver ormeggiato davanti alla villa ed essere salita dall’apposita scaletta. Sarebbe arrivata proprio nel patio, davanti alla porta di servizio. Lucy non crede che sia venuta lì via mare, però. Probabilmente la bestia non sa neppure portare una barca. Non sa perché, ma ne è sicura. Si volta e va verso il letto. Nel cassetto del comodino di sinistra c’è la Colt .357 Magnum di Henri, un’arma bellissima, in acciaio inossidabile, che le ha regalato lei. Henri sa sparare e non è una vigliacca. Lucy è convinta che, se Henri avesse sentito entrare in casa la bestia, le avrebbe sparato, influenza o non influenza.

Abbassa di nuovo le tapparelle, spegne la luce ed esce. Fuori dalla camera ci sono una piccola palestra, due cabine armadio e un enorme bagno color occhio di tigre con vasca per idromassaggio. Non c’è ragione di sospettare che l’aggressore di Henri sia entrato nella palestra, negli armadi o nel bagno, ma Lucy va a controllare per l’ennesima volta, facendo attenzione a quello che sente. E, come sempre, non sente nulla nella palestra e negli armadi, ma in bagno ha una sensazione che la turba. Osserva la vasca e le finestre che danno sull’oceano e sul cielo della Florida. Cerca di immedesimarsi nella bestia. Non sa perché, ma l’istinto le dice che anche la bestia ha guardato quella lussuosissima vasca da bagno.

Le viene in mente una cosa e fa qualche passo indietro. E se la bestia, arrivata in cima alle scale, avesse girato a sinistra invece che a destra e si fosse ritrovata nel bagno anziché in camera da letto? La mattina dell’aggressione c’era il sole e dalle finestre entrava sicuramente un sacco di luce. Se la bestia ha aperto la porta del bagno, anche per sbaglio, avrà certamente visto la vasca e forse si sarà soffermata a osservarla un momento, prima di voltarsi silenziosamente verso la stanza da letto, dove Henri riposava, sudata, con la febbre alta, le tapparelle abbassate per non far entrare la luce.

“Dunque sei entrato nel mio bagno” pensa Lucy. “Ti sei piazzato qui, sul pavimento di marmo, a guardare la mia vasca. Non avevi mai visto una vasca così, eh? Hai fantasticato di vederci una donna nuda immersa nell’acqua, prima di andare di là e aggredire Henri? Non è molto originale, sai, come fantasia.”

Esce dal bagno e scende al primo piano, dove in questo periodo lavora e dorme.

Oltre l’angolo con televisore, videoregistratore, DVD e stereo c’è una grande stanza che Lucy ha adibito a biblioteca, con alte librerie a muro e finestre coperte da tende scure per potervi sviluppare fotografie anche nelle giornate più limpide. Accende la luce e osserva le centinaia di libri e classificatori e il lungo tavolo con le attrezzature da laboratorio. Appoggiata a un muro c’è una scrivania con un Crimescope, un apparecchio che serve per ingrandire le impronte digitali. Assomiglia a un tozzo telescopio montato su un cavalletto. Accanto c’è la busta di plastica sigillata in cui Lucy ha riposto il disegno dell’occhio.

Prende un paio di guanti da una scatola sul tavolo. Il posto migliore per trovare impronte probabilmente è lo scotch con cui il disegno è stato attaccato al vetro, ma decide di esaminarlo più tardi perché per farlo dovrà utilizzare sostanze chimiche che altereranno sia la carta che il nastro adesivo. Ha cosparso di spray la porta di servizio e le finestre vicine, ma non ha trovato neppure un’impronta digitale utile. Se anche ne avesse rilevata una, con ogni probabilità sarebbe stata del giardiniere, di Rudy o sua. O dell’ultima persona che ha lavato i vetri. Perciò non si è scoraggiata: in fondo le impronte digitali esterne non sono molto significative. Trovarne sul foglio da disegno, invece, sarebbe importante. Con i guanti, apre una custodia imbottita e prende la lampada Puissant SKSUV30, che trasporta fino al tavolo e collega a una ciabatta. Preme l’interruttore e accende la luce ultravioletta a onde corte e alta intensità. Poi aziona il Crimescope.

Apre la busta di plastica, estrae il foglio bianco con due dita e lo volta. L’occhio disegnato a matita la fissa. Lucy osserva il foglio alla luce e vede che non c’è filigrana, ma solo fitta fibra di legno. Lo abbassa e lo posa al centro della scrivania. La bestia glielo ha attaccato alla porta di servizio in maniera che l’occhio fosse rivolto verso l’interno, come se spiasse attraverso il vetro. Lucy si mette un paio di occhiali protettivi arancioni e centra il disegno sotto la lente del microscopio. Guarda dall’oculare all’apertura massima e regola la messa a fuoco. Quando lo schermo a reticolo diventa visibile, vi dirige la luce ultravioletta alla giusta angolazione e comincia a muovere il foglio alla ricerca di impronte, sperando di trovarne senza dover ricorrere a sostanze chimiche distruttive, come ninidrina o cianoacrilato. Alla luce ultravioletta, la carta assume una spettrale colorazione bianco verdastra.

Con la punta delle dita, Lucy sposta il foglio fino a portare nel campo visivo il pezzetto di scotch. “Niente” pensa. “Neppure una sbavatura.” Può provare con fucsina o violetto di genziana, ma non adesso. Se mai, più tardi. Si siede alla scrivania e osserva il disegno. Un occhio, nient’altro. Tracciato a matita, con iride, pupilla e lunghe ciglia. Un occhio di donna, probabilmente, disegnato con quella che sembra essere una matita HB. Lucy collega una fotocamera all’accoppiatore e scatta diverse fotografie ad alcuni ingrandimenti del disegno, che poi fotocopia.

Sente aprirsi la porta del garage e spegne lampada e microscopio. Poi rimette il disegno nella busta di plastica. Guarda il monitor sulla scrivania e vede Rudy che fa retromarcia nel garage. Pensa a che cosa conviene fare. Chiude la porta della biblioteca e scende le scale di corsa. Se Rudy la abbandonasse a se stessa, che cosa ne sarebbe di lei e del suo impero segreto? Accuserebbe il colpo, starebbe male, ma poi supererebbe la crisi, si dice. Apre la porta della cucina e lo vede con le chiavi della Ferrari fra due dita, come se fossero la coda di un topo morto.

«Ci conviene avvertire la polizia» gli dice, prendendo le chiavi. «Teoricamente, questa è un’emergenza.»

«Immagino che tu non abbia trovato impronte, né alcunché di significativo» dice Rudy.

«Non al microscopio. Se la polizia non mi porta via il disegno, proverò con la ninidrina. Speriamo che me lo lascino. Ne ho bisogno. Tu hai visto nessuno?» Si avvicina al telefono e prende in mano la cornetta. «A parte le belle ragazze che cercavano di entrarti in macchina dai finestrini?» Digita 9-1-1 sulla tastiera.

«Nessuna impronta» dice Rudy. «Be’, mai dire mai. Tracce di scrittura sul foglio?»

Lucy scuote la testa e dice al telefono: «Vorrei denunciare una violazione di proprietà privata».

«Il responsabile è ancora nella sua proprietà, signora?» le chiede l’operatrice con voce calma, professionale.

«Non mi pare» risponde Lucy. «Ma penso si tratti della stessa persona che si è già introdotta in casa mia e su cui state già svolgendo delle indagini.»

L’operatrice le chiede il suo nome, perché il numero chiamante corrisponde a una delle tante società a responsabilità limitata a cui Lucy intesta le sue proprietà. Non si ricorda nemmeno più quale.

«Tina Franks» risponde Lucy, usando il nome falso che ha dato alla polizia la mattina dell’aggressione, quando si è lasciata prendere dal panico e ha chiamato il 911. Le dà il suo indirizzo. O, meglio, l’indirizzo di Tina Franks.

«Le mando un’unità al più presto» risponde l’operatrice.

«Grazie mille. Senta, potrebbe passarmi per caso John Dalessio della CSI?» chiede Lucy, disinvolta e senza timori. «Perché l’ultima volta avevo parlato con lui.» Prende due mele dalla fruttiera.

Rudy alza gli occhi al cielo e Lucy sorride. Lucida una delle due mele sui jeans e gliela lancia. Poi morde l’altra tranquilla, come se stesse parlando con la lavanderia, invece che con il pronto intervento.

«Sa dirmi anche il nome dell’ispettore che ha risposto alla sua precedente chiamata?» chiede l’operatrice. «Di norma non contattiamo la CSI, ma l’ispettore responsabile delle indagini.»

«Mi spiace, ricordo solo Dalessio» risponde Lucy. «Non mi pare che a casa mia sia venuto nessun ispettore. Forse è andato all’ospedale a parlare con la donna che era mia ospite.»

«Oggi Dalessio non c’è, signora Franks, ma se desidera gli posso lasciare un messaggio» dice l’operatrice con voce un po’ incerta. È normale che sia incerta, dal momento che non ha mai visto o conosciuto nessun Dalessio della CSI. Per Lucy, CSI non sta per Crime Scene Investigator, ma per Cyber Space Investigator, e John Dalessio è un investigatore virtuale che esiste solo nel database del Dipartimento di polizia di Broward County, in cui lei è riuscita a infiltrarsi.

«Non importa. Mi ha lasciato il suo biglietto da visita, lo chiamo io. Grazie comunque» dice Lucy, e chiude la comunicazione.

Lei e Rudy rimangono in cucina a mangiare la mela e si guardano.

«Se ci penso, mi scappa da ridere» dice lei a un certo punto, sperando che anche Rudy veda il lato comico della faccenda. «Chiamiamo la polizia per pura formalità. Peggio, per divertirci.»

Rudy alza le spalle e si pulisce la bocca con il dorso della mano. «Coinvolgere la polizia locale non fa mai male. Non bisogna esagerare, naturalmente, ma a piccole dosi potrebbe esserci utile.» Evidentemente la cosa diverte anche lui. «Hai chiesto di parlare con Dalessio, che effettivamente risulta nel loro organigramma, ma che nessuno ha mai visto né conosciuto. Si chiederanno chi diavolo è e perché non c’è mai. L’avranno licenziato o se ne sarà andato di sua spontanea volontà? C’è qualcuno che l’ha mai visto in faccia? Diventerà una leggenda, te lo dico io. Non si parlerà d’altro.»

«Già. John Dalessio e Tina Franks» continua Lucy, masticando la mela.

«Il problema è che faresti più fatica a dimostrare di essere Lucy Farinelli che Tina Franks o una qualsiasi altra delle tue identità fittizie. Anche per me è la stessa cosa: ho certificati di nascita, atti e documenti per tutti i nomi falsi che uso, ma non so più dove ho messo il mio certificato di nascita vero.»

«Io non so più chi sono» rincara Lucy, porgendogli un tovagliolino di carta.

«Neanch’io» risponde lui, addentando di nuovo la mela.

«Non so neppure chi sei tu. Allora, quando arriva la polizia vai tu ad aprire e dici di mandare Dalessio a ritirare il disegno.»

«Certamente» risponde Rudy con un sorriso. «L’ultima volta, ha funzionato a meraviglia.»

Lucy e Rudy hanno una valigetta con tutta l’attrezzatura necessaria per la rilevazione di indizi sempre a portata di mano, ed è straordinario cosa non riescono a fare con anfibi neri, polo nera, calzoni larghi neri e giacca a vento con la scritta FORENSICS in giallo sulla schiena, macchina fotografica e tutte le apparecchiature del caso. L’importante è muoversi nel modo giusto e non mostrare il minimo imbarazzo. Di solito il piano più semplice è quello che funziona meglio. Quando Lucy ha trovato Henri e, in preda al panico, ha chiamato il 911 e l’ambulanza, subito dopo ha telefonato a Rudy, il quale si è cambiato e si è presentato a casa sua spacciandosi per uno della CSI. Si è presentato agli agenti del pronto intervento, che erano lì da pochi minuti, e ha detto loro che avrebbe ispezionato lui la casa, grazie e arrivederci. Gli agenti sono stati ben contenti di lasciare a lui il lavoro.

Lucy, alias Tina Franks, aveva già propinato loro una serie di menzogne. Henri, anche lei con un nome falso, era un’amica che abitava in un’altra città ed era sua ospite per qualche giorno. Mentre Lucy era sotto la doccia la sua amica, che era ancora a letto a cercare di smaltire la sbornia della sera prima, aveva sentito entrare in casa qualcuno ed era svenuta. Siccome era sotto shock e non si poteva escludere che il ladro l’avesse aggredita, lei aveva chiamato un’ambulanza. Non aveva visto nessuno e le sembrava che in casa non mancasse niente. Le pareva impossibile che la sua amica fosse stata violentata, ma era meglio che la visitasse un medico, no? Cioè, in questi casi è meglio chiamare la polizia, giusto? In televisione fanno così…

«Mi chiedo quanto impiegheranno a scoprire che questo fantomatico Dalessio della CSI è intervenuto solo a casa tua, in tutta la sua carriera» dice Rudy divertito. «Fortuna che la contea di Broward è enorme e c’è un gran viavai, perché altrimenti…»

Lucy guarda l’ora: la volante dovrebbe arrivare da un momento all’altro. «Be’, l’importante è che Dalessio torni. Non vorrei che si offendesse, se qualcun altro prendesse il suo posto.»

Rudy ride. È di umore migliore. Di solito, appena riprende a lavorare gli passa il nervoso. «Okay. Tra poco saranno qui. Ti conviene andare. Mi rifiuterò di consegnargli il disegno, gli darò il numero di Dalessio e spiegherò che preferirei parlare con lui, visto che lo conosco già per la storia della presunta aggressione. Un agente lo chiamerà, troverà la segreteria telefonica, lascerà un messaggio e dopo un po’ verrà richiamato dal mitico Dalessio che gli dirà di stare tranquillo, che ci pensa lui.»

«Non lasciarli entrare nel mio studio.»

«La porta è chiusa a chiave, giusto?»

«Sì» risponde lei. «Se hai il minimo timore che sospettino qualcosa, chiamami. Così torno e gli parlo io.»

«Dove te ne vai?» domanda Rudy.

«A fare conoscenza con la mia vicina» risponde Lucy.

13

La saletta in cui si effettuano le autopsie sui cadaveri in avanzato stato di decomposizione è piccola, con lavelli e armadi in acciaio inossidabile e un impianto di ventilazione speciale, che aspira gli odori e i microrganismi tossici. Comunica con una grande cella frigorifera e ha pavimenti e pareti trattati con una pittura acrilica grigia antisdrucciolo che non assorbe niente e può essere lavata con la candeggina e i detergenti più aggressivi.

Al centro della sala c’è un unico tavolo da autopsie, che altro non è che una struttura di metallo con rotelle e freni e un piano mobile progettato per evitare ai medici di dover alzare il cadavere. In realtà, chi lavora all’obitorio solleva continuamente pesi morti. Il tavolo può essere inclinato in maniera da assicurare un corretto drenaggio dei liquidi, ma oggi non sarà necessario, perché tutti i liquidi corporei di Gilly Paulsson sono già stati raccolti e lavati via due settimane fa, quando Fielding ha eseguito la prima autopsia.

Stamattina il tavolo è sistemato al centro della sala e il cadavere di Gilly Paulsson è chiuso dentro un sacco nero che sembra un bozzolo. La sala non ha finestre che danno sull’esterno, ma solo due vetrate da osservazione. In realtà sono troppo alte perché qualcuno possa utilizzarle, ma Kay Scarpetta ricorda di non aver protestato per quell’errore di progettazione otto anni fa, quando si è trasferita nella nuova sede dell’istituto, perché riteneva che l’osservazione di autopsie effettuate su cadaveri decomposti, pieni di vermi e ormai irriconoscibili, non fosse comunque consigliabile.

È appena entrata nella sala, dopo aver indossato gli indumenti protettivi necessari nello spogliatoio delle donne. «Mi dispiace di averti interrotto» dice a Fielding, che sta esaminando Ted Whitby, l’uomo investito dal trattore. «Ma il direttore si sbaglia, se crede che io mi occupi di questo caso da sola.»

«Ti ha spiegato tutta la storia?» le domanda lui, da dietro la mascherina.

«No» risponde Kay Scarpetta, infilandosi i guanti. «So solo quello che mi ha detto al telefono ieri, quando ha richiesto la mia consulenza.»

Fielding aggrotta la fronte. È sudato. «Pensavo che venissi dal suo ufficio.»

Kay Scarpetta pensa che potrebbero esserci delle microspie nascoste nella sala, ma poi si ricorda che ogni volta che ha provato a usare dei registratori in sala autopsie non è riuscita a ottenere alcun risultato per via del rumore. Si avvicina a un lavandino e apre l’acqua, che scroscia sull’acciaio.

«A cosa ti serve l’acqua?» domanda Fielding, cominciando ad aprire il sacco.

«Non ti fa piacere un po’ di musica di sottofondo?» risponde lei.

Fielding la guarda perplesso. «Penso che qui si possa parlare. Anzi, ne sono praticamente sicuro. Non è così in gamba, il capo. E poi non sa nemmeno dov’è questa sala autopsie. Non ci ha mai messo piede.»

«Tendiamo a sottovalutare le persone che non ci piacciono» replica lei, aiutandolo a tirare fuori il cadavere dal sacco mortuario.

Due settimane di cella frigorifera ne hanno ritardato la decomposizione, ma il corpo è rinsecchito e in corso di mummificazione. Il tanfo è insopportabile, ma Kay Scarpetta cerca di non farci caso. L’odore è uno dei tanti modi che ha un cadavere per comunicare, ed è importante. Inoltre Gilly Paulsson non può farci niente, se ha quell’aspetto ed emana quell’odore. È di un colore verdognolo, esangue, la faccia emaciata, gli occhi ridotti a fessure, la sclera dietro le palpebre rinsecchita e quasi nera. Anche le labbra sono secche, marroni e appena schiuse, e i capelli aggrovigliati. Kay Scarpetta non vede lesioni sul collo, neppure provocate per errore durante l’autopsia. A un anatomopatologo inesperto può capitare di perforare la pelle nel rimuovere la lingua o la laringe: non dovrebbe succedere, ma è abbastanza facile. Più difficile, invece, spiegare ai parenti come mai c’è un taglio sulla gola del morto.

L’incisione a Y comincia all’estremità delle clavlcole, prosegue verso lo sterno e quindi scende fino al pube, aggirando l’ombelico. È suturata con un filo che Fielding comincia a recidere servendosi di un bisturi. Sembra che stia scucendo una bambola di pezza. Kay Scarpetta, nel frattempo, prende una cartellina e inizia a leggere i dati relativi alle indagini e alla precedente autopsia. Gilly Paulsson era alta un metro e cinquantadue centimetri e pesava sessantatré chili. Avrebbe compiuto quindici anni a febbraio. Aveva gli occhi azzurri.

Kay Scarpetta legge più volte la frase “nella norma”: cervello, cuore, fegato e polmoni erano quelli di una ragazza sana.

Nel corso della prima autopsia Fielding ha riscontrato contusioni che adesso dovrebbero essere ancora più evidenti, dal momento che non c’è più sangue nel corpo e quello intrappolato nei tessuti dovrebbe risaltare sotto la pelle pallida. Su un diagramma sono disegnate contusioni in corrispondenza delle mani. Kay Scarpetta posa i fogli ed estrae dalla cavità toracica il pesante sacchetto di plastica che contiene gli organi sezionati. Si avvicina alla morta e le solleva una mano. È minuta, pallida e rinsecchita, fredda e umida. La volta e osserva il livido. Mano e braccio sono molli: il rigor mortis è finito, quasi la vita fosse ormai talmente lontana da non poter più opporre resistenza alla morte. Il livido violaceo è nella parte superiore della mano bianchissima, quasi spettrale, e va dalla nocca del pollice al mignolo. Sulla mano sinistra ce n’è uno identico.

«Una bella stranezza, vero?» dice Fielding. «È come se qualcuno l’avesse tenuta ferma per le mani. Ma per farle cosa?» Apre il sacchetto di plastica contenente gli organi sezionati, che emanano un puzzo spaventoso. «Per la miseria! Non so che cosa ne ricaverai, da questi. Ma accomodati pure.»

«Posa pure il sacco sul tavolo, grazie. Sì, potrebbero averla tenuta ferma. Come è stata trovata? In che posizione?» domanda Kay Scarpetta avvicinandosi a un lavandino per prendere un paio di guanti. Sono spessi, di gomma, e le arrivano fino al gomito.

«Non lo sappiamo. Quando la madre è rientrata in casa, le ha fatto la respirazione bocca a bocca. Dice di non ricordare se Gilly era supina, prona o su un fianco. E di non sapere perché avesse quei lividi sulle mani.»

«Macchie ipostatiche?»

«Era morta da troppo poco tempo.»

Quando la circolazione si arresta, il sangue si deposita e a causa della forza di gravità si formano macchie più scure nei punti in cui il corpo preme contro una superficie. Benché sia preferibile che l’esame del cadavere avvenga prima possibile dopo la morte, arrivare in ritardo ha i suoi vantaggi: dal rigor mortis e dalle macchie ipostatiche si può capire in che posizione era il corpo al momento della morte, anche dopo eventuali spostamenti e manomissioni.

Kay Scarpetta apre delicatamente il labbro inferiore di Gilly per controllare se in bocca ha lesioni compatibili con la pressione di una mano o di un cuscino. Vuole capire se è stata soffocata.

«Guarda pure, ma ho già controllato io» le dice Fielding. «E non ho visto niente.»

«Com’era la lingua?»

«Non se l’è morsa, se è a questo che alludi. Non voglio dirti dov’è adesso.»

«Me lo posso immaginare» replica Kay Scarpetta infilando le mani fra gli organi sezionati. Fruga nel sacchetto alla ricerca della lingua.

Fielding si sciacqua le mani protette dai guanti nel lavandino di metallo e se le asciuga in una salvietta. «Marino non è venuto.»

«Non so dove sia» risponde Kay, un po’ preoccupata.

«I corpi in avanzato stato di decomposizione non gli sono mai piaciuti.»

«Mi stupirei del contrario, per la verità.»

«E soprattutto quelli degli adolescenti, che sono ancora peggio» aggiunge Fielding, appoggiandosi a un armadietto e osservandola. «Spero che tu ci capisca qualcosa, perché io non ho cavato un ragno dal buco. Eppure mi sono incaponito…»

«Emorragie petecchiali? Gli occhi sono in cattivo stato. Ormai non si vede più niente.»

«Quando è arrivata, era congestionata» spiega Fielding. «Difficile dire se avesse emorragie petecchiali. Io non ne ho viste.»

Kay Scarpetta immagina il corpo di Gilly Paulsson al suo arrivo in obitorio, a poche ore dalla morte, con la faccia paonazza e gli occhi rossi. «Edema polmonare?» domanda.

«Sì.»

Kay Scarpetta ha trovato la lingua. Va a lavarla nel lavandino e la asciuga con una salvietta di spugna, bianca, da pochi soldi. Avvicina una lampada e la sistema vicino alla lingua. «Hai una lente di ingrandimento?» domanda, spostando leggermente la lampada.

«Te la vado a prendere.» Fielding apre un cassetto e le porge la lente. «Vedi qualcosa? Io non ho trovato nulla.»

«Soffriva di convulsioni?»

«Non mi risulta.»

«Non vedo lesioni.» Cerca i segni che sarebbero potuti rimanere sulla lingua se Gilly Paulsson se la fosse morsa. «Hai fatto qualche tampone sulla lingua e sulle mucose della bocca?»

«Sì, dappertutto» risponde Fielding tornando dov’era prima. «Non ho visto niente. Finora i laboratori non hanno trovato nulla che indichi che è stata stuprata. Non so se hanno scoperto altro.»

«Dal CME-1 risulta che è arrivata in pigiama. Con la parte superiore alla rovescia.»

«Sì, mi pare.» Prende la cartella e incomincia a sfogliarla.

«Hai fotografato tutto.» Non è una domanda, ma un’affermazione. Bisogna fare così.

«Certamente» risponde Fielding sorridendo. «Da chi ho imparato il mestiere?»

Kay Scarpetta gli lancia un’occhiata come a dire che, se veramente avesse imparato da lei, sarebbe più preciso nel suo lavoro, ma resta zitta. «Ti comunico con sommo piacere che sulla lingua non ti sei lasciato sfuggire niente.» Ripone la lingua nel sacchetto, in cima al mucchio di organi marroni e semidecomposti. «Giriamola. Dobbiamo tirarla fuori dal sacco.»

Procedono per gradi. Fielding afferra il corpo della morta sotto le ascelle e la solleva, mentre Kay Scarpetta sfila via il sacco da sotto. Poi Fielding gira il cadavere a faccia in giù e Kay finisce di togliere il sacco di plastica, che piega e posa su una lettiga. Lei e Fielding vedono il livido sulla schiena contemporaneamente.

«Porca miseria!» esclama lui, irritato.

È appena rosato, tondeggiante, delle dimensioni di una moneta da un dollaro, appena sotto la scapola sinistra.

«Giuro che l’altra volta non c’era» dice Fielding chinandosi a guardare da vicino e regolando la lampada. «Merda. Non riesco a credere di essermelo lasciato sfuggire.»

«Sai come succede» dice Kay Scarpetta, guardandosi bene dal dirgli quello che pensa perché non ha senso criticarlo, a quel punto. «Le contusioni si vedono molto meglio una volta finita l’autopsia» dice.

Prende un bisturi dal carrello e pratica alcune incisioni profonde per controllare se l’arrossamento è superficiale e quindi magari provocato durante l’esame del cadavere. Non è così: il sangue nei tessuti sottostanti è diffuso, a indicare che un trauma ha rotto i capillari quando il sangue era ancora sotto pressione. I lividi altro non sono che questo: piccoli versamenti di sangue provocati da capillari rotti. Fielding posa un righello di plastica vicino alle incisioni e scatta alcune fotografie.

«Hai mandato le lenzuola in laboratorio?» chiede Kay Scarpetta.

«Io non le ho manco viste. Le avrà prese la polizia. Comunque sì, dovrebbero essere arrivate ai laboratori. Maledizione, non capisco come ha fatto a sfuggirmi quel livido.»

«Chiediamo che cerchino tracce di siero da edema polmonare su lenzuoli e federa. Nel caso, che analizzino il campione per vedere se c’è epitelio respiratorio ciliato. Se c’è, è probabile che la ragazza sia morta per asfissia.»

«Merda» esclama Fielding. «Non so come ho fatto, a non vedere quel livido. A questo punto ritieni probabile che sia stata uccisa, immagino.»

«Sì, penso che l’assassino si sia seduto sopra di lei» risponde Kay Scarpetta. «La ragazza era prona e l’assassino le ha puntato un ginocchio sulla parte superiore della schiena con tutto il suo peso, tenendole le braccia sopra la testa, palmi all’ingiù. Questo spiegherebbe i lividi sulle mani e sulla schiena. Asfissia meccanica, direi. Quindi sì, omicidio. Se qualcuno ti si siede sulla cassa toracica, non riesci più a respirare. Una morte orribile.»

14

La vicina di Lucy abita in una villa bianca con il tetto piatto e ampie vetrate, circondata dal verde. A Lucy fa venire in mente certe case che ha visto in Finlandia. La sera, illuminata, sembra una gigantesca lanterna.

Davanti alla villa, fra palme e cactus, c’è una fontana. Accanto alla porta di ingresso c’è un Grinch gonfiabile, verde, che Lucy troverebbe comico, se ad abitare in quella casa fosse qualcun altro. In alto a sinistra c’è una telecamera che dovrebbe essere invisibile. Lucy suona il campanello e immagina che la vicina la veda sugli schermi del suo impianto a circuito chiuso. Nessuna risposta. Suona di nuovo. Di nuovo nessuna risposta.

“E va bene. So che sei in casa perché il giornale non c’è e la bandierina sulla cassetta della posta è alzata” pensa Lucy. “So che mi stai guardando. Probabilmente sei in cucina con gli occhi fissi sullo schermo e l’orecchio vicino all’altoparlante per sentire se sbuffo o impreco fra me e me. Comunque ti avverto: finché non mi apri la porta, non mi muovo da qui.”

La sceneggiata continua per circa cinque minuti, con Lucy impalata davanti alla porta che suona il campanello a intervalli regolari e immagina la sua vicina davanti allo schermo. Non può farle paura, vestita com’è — jeans, T-shirt, marsupio e scarpe da ginnastica — ma di sicuro le sta dando fastidio. Forse è sotto la doccia. Forse non la sta fissando. Lucy suona ancora una volta. La vicina continua a non aprire. “Lo sapevo” si dice Lucy. “Potrei avere un attacco di cuore e tu mi lasceresti qui. Come faccio a costringerti ad aprire questa cavolo di porta?” Ripensa a Rudy che ha tirato fuori il distintivo spaventando a morte il sudamericano un paio di ore prima e decide di passare alla fase due: a mali estremi, estremi rimedi. Tira fuori il portafoglio nero dalla tasca posteriore dei jeans e piazza il distintivo davanti alla telecamera.

«Buongiorno» dice a voce alta. «Sono della polizia. Non si allarmi, abito nella casa vicina. Ho bisogno di parlarle. Mi può aprire?» Suona di nuovo, continuando a tenere il distintivo davanti alla telecamera.

Batte le palpebre, abbagliata dal sole, sudata. Aspetta, tende le orecchie, ma non capta nessun suono. Sta per rimettere il distintivo falso davanti alla telecamera, quando sente una voce stizzita.

«Che cosa vuole da me?» chiede la voce da un altoparlante nascosto vicino alla telecamera che dovrebbe essere invisibile.

«Sono la sua vicina» spiega Lucy. «C’è stata un’effrazione a casa mia: immagino che lei si sia accorta del trambusto.»

«Non mi ha detto che è della polizia?» ribatte la voce in tono di accusa, con un marcato accento del Sud.

«Sono tutte e due.»

«Tutte e due cosa?»

«Sono della polizia e sono la sua vicina. Mi chiamo Tina. Mi apre, per favore?»

Silenzio. Poi, meno di dieci secondi dopo, Lucy vede avvicinarsi alla porta a vetri una sagoma scura, che piano piano si trasforma in una donna fra i quaranta e i cinquant’anni, in tenuta da tennis e scarpe da jogging. Traffica per un’eternità con le serrature, poi disattiva l’allarme e finalmente apre la porta. Sembra non avere nessuna intenzione di invitare Lucy ad accomodarsi e la fissa con freddezza.

«Facciamo in fretta, per piacere» esordisce. «Sono una persona riservata e non do confidenza agli sconosciuti. Non mi interessa mantenere relazioni di buon vicinato. Anzi, sono venuta a stare in questo quartiere proprio per non averne. Nel caso non se ne fosse accorta, qui ognuno si fa i fatti suoi.»

«“Qui” in che senso?» chiede Lucy, facendo l’ingenua.

«Che cosa sta cercando di dirmi?» si spazientisce la donna. «Che vuole sapere?»

«Se ha visto qualcuno in casa mia. Perché è di nuovo entrato qualcuno nella mia proprietà, qui accanto» le risponde Lucy. «Forse stamattina presto, non lo so, perché ieri ero fuori città e sono arrivata a Boca in elicottero. Vede, credo di sapere che cosa vuole quest’uomo, ma sono un po’ preoccupata per lei. Cioè, non vorrei che rimanesse coinvolta in qualche brutta faccenda, mi spiego?»

«Ah.» Lucy nota una bella barca ormeggiata dietro la villa. Dopo un po’ la vicina le chiede: «Com’è che lavora nella polizia e abita in una villa come quella?». Continua a guardarla negli occhi senza voltarsi verso la casa salmone in stile mediterraneo. «E ha pure l’elicottero?»

«Be’, è una storia lunga» replica Lucy con un sospiro. «Vede, mi sono appena trasferita da Los Angeles. Cioè, sarei dovuta restare a Beverly Hills, se non fosse stato per questo maledetto film. È sempre uno sconvolgimento andare a fare le riprese sul posto, è una cosa incredibile…»

«State girando un film nella casa qui accanto?» domanda la vicina sbarrando gli occhi.

«Senta, possiamo non parlarne qua fuori?» replica Lucy, guardandosi intorno allarmata. «Le spiace se entro un minuto? Ma mi deve promettere che non riferirà niente di quello che le dirò a nessuno, perché rischio di passare dei guai… Lei mi capisce.»

«Ma certo!» La donna punta un dito verso Lucy e sorride. «Lo sapevo, che era un personaggio famoso!»

«Oh, no! La prego, non me lo dica!» esclama Lucy inorridita mentre entrano in una sala minimalista, tutta bianca, con un’immensa vetrata che si affaccia su un patio di pietra, una piscina e una barca di nove metri. Probabilmente la sua snob e viziata proprietaria non ci sa neppure andare. Si chiama It’s settled ed è registrata a Grand Cayman, noto paradiso fiscale caraibico.

«Bella barca» dice Lucy, sedendosi su una poltrona bianca che sembra sospesa fra mare e cielo. Posa il cellulare su un tavolino di cristallo.

«È italiana» risponde la donna, con un sorriso d’intesa tutt’altro che simpatico.

«Mi ricorda Cannes» replica Lucy.

«Ah, già! Il festival del cinema?»

«No, più che altro il porticciolo. Non so se ha presente il club all’angolo del primo Quai, vicino al Poseidon e all’Amphitrite. Ci lavora un mio conoscente, Paul, che circola su una vecchia Pontiac gialla che nel Sud della Francia non passa certo inosservata. Comunque, se poi prende il Quai numero quattro e va verso il faro, vede le barche più belle del mondo. Mai viste tante Mangusta e Leopard in tutta la mia vita. Io una volta avevo uno Zodiac con un motore Suzuki che andava benissimo, ma… Chi ha tempo di andare in barca? Diciamocelo. Cioè, forse lei sì.» Guarda il cabinato ormeggiato fuori. «Certo che se supera le dieci miglia all’ora, con quel coso, lei va nei guai.»

La donna la guarda, confusa. È molto curata, ma non bella. Ricca, viziata, visibilmente amante di Botox, collagene, trattamenti viso e corpo e quant’altro. Ha la fronte liscia e immobile. Anche volesse, non riuscirebbe più ad aggrottarla. E comunque ha un’espressione talmente astiosa e incattivita che non ha bisogno di accigliarsi.

«Allora. Io mi chiamo Tina, gliel’ho già detto. Lei è…?»

«Per le amiche, Kate. Vogliamo darci del tu?» replica la ricca signora. «Abito qui da sette anni e non ho mai avuto problemi. A parte con Jeff, che adesso vive in pianta stabile alle Cayman. Dunque non sei veramente della polizia.»

«Scusami. Non sapevo come altro fare per convincerti ad aprirmi la porta.»

«E il distintivo?»

«Te l’ho fatto vedere per convincerti ad aprirmi, ma non è vero. Cioè, non proprio. Sai, quando devo interpretare una parte, cerco di immedesimarmi più che posso nel personaggio. Il regista mi ha consigliato di venire a stare nella casa dove faremo le riprese e di girare con il distintivo e la stessa macchina che poi userò nel film. Per calarmi meglio nella parte, capisci?»

«Adesso capisco…» Kate le punta di nuovo contro un dito. «Anche le spider fanno parte della sceneggiata, eh?» Si siede su una poltrona bianca e si sistema un cuscino sulla pancia. «Non sei un viso noto, però.»

«Cerco di apparire meno che posso.»

Kate cerca di aggrottare la fronte. «Be’, ma da qualche parte dovrei averti visto, no? Scusa, come fai di cognome?»

«Mangusta.» Lucy le dice il nome della sua barca preferita, sicura che la sua vicina non ricorderà il riferimento di poco prima a Cannes, ma avrà l’impressione di averlo già sentito.

«Ah, sì, non mi è nuovo» risponde Kate, incoraggiata.

«Non ho mai recitato ruoli da protagonista, anche se sono comparsa in film importanti. Questa è la mia grande occasione, spero. Ho cominciato con off-off-Broadway, poi sono passata al cinema, ma sempre off-off. Insomma, si prende quello che arriva. Spero solo che non ti daremo troppo disturbo, quando cominceremo a girare. In ogni caso, si parla dell’estate. E comunque adesso è tutto in forse, perché con la storia che questo maniaco ci ha scoperto, bisogna vedere…»

«Peccato, però.» Kate si protende in avanti, verso Lucy.

«Dillo a me.»

«Ma vi ha seguito fin qui dalla California?» chiede Kate un po’ allarmata. «E prima dicevi che sei venuta in elicottero?»

«Guarda, se non hai mai avuto a che fare con uno di questi pazzi, non sai cosa vuol dire» risponde Lucy. «Non lo auguro a nessuno. Mai più immaginavo che venisse fin qui. Non so nemmeno come ha fatto a scoprire dove siamo. Però sono sicura che è lui. E per certi versi lo spero, perché altrimenti vorrebbe dire che ho due pazzi che mi seguono ovunque vada. Ah, mi chiedevi dell’elicottero. Sì, è una bella comodità. Ma non sono venuta fin qui dalla California in elicottero.»

«Perlomeno non vivi sola» osserva Kate.

«La mia collega è appena ripartita. È tornata in California. Per colpa di quel maniaco.»

«E lui? Bel ragazzo, l’ho incrociato. Di lui l’ho pensato, che poteva essere un attore. Mi sembrava un viso noto, mi sono chiesta dove l’avevo già visto.» Fa un sorriso malizioso. «Lui ce l’ha scritto in fronte, Hollywood. Che cosa ha fatto?»

«Casino, più che altro» risponde Lucy con un sorriso.

«Be’, se ti fa soffrire e hai bisogno di una spalla su cui piangere, io sono qui.» Accarezza il cuscino che si è messa in grembo. «Ho una certa esperienza.»

Lucy osserva la barca che brilla nel sole e si chiede che cosa fa l’ex marito di Kate alle Cayman senza barca. Che sia scappato laggiù per sfuggire agli esattori delle tasse? Dice: «La settimana scorsa mi è entrato in casa. Cioè, non sono sicura che fosse lui, ma non vedo chi altro potrebbe essere. Mi chiedevo…».

Kate sembra aver perso il filo del discorso. Impiega un po’ a raccapezzarsi. «Ah, già. Quello che ti segue, dici? No, io non l’ho visto. Però non so, perché qui gira un sacco di gente, fra giardinieri, imprese di pulizia, muratori, operai… La polizia e l’ambulanza, però, le ho viste. Mi sono anche spaventata: sai, quel genere di cose abbassa subito il valore degli immobili.»

«Allora eri in casa. Perché la mia collega, quella che abitava con me, era a letto. Aveva bevuto troppo la sera prima e aveva mal di testa. Non so, può darsi che a un certo punto sia uscita a prendere il sole…»

«Sì. L’ho vista.»

«Ah, l’hai vista?»

«Sì, lei sì» risponde Kate. «Ero in palestra, ho guardato giù e l’ho vista uscire dalla porta di servizio. Mi ricordo che era in pigiama e vestaglia. Se dici che aveva bevuto troppo la sera prima, capisco tutto.»

«Che ore erano? Te lo ricordi?» domanda Lucy. Il cellulare che ha posato sul tavolino di cristallo registra ogni parola della conversazione.

«Non so… Le nove, più o meno.» Kate indica la casa di Lucy. «Si è messa vicino alla piscina.»

«E poi?»

«Ero sull’ellittica e guardavo la televisione» spiega, e Lucy non può fare a meno di notare quanto è egocentrica: sembra che tutto ruoti intorno a lei. «O forse no, parlavo al telefono. Fatto sta che quando ho guardato di nuovo non c’era più. Penso fosse tornata in casa. Comunque, quello che volevo dire è che è stata fuori poco.»

«Quanto tempo sei stata sull’ellittica? Potresti farmi vedere la palestra, già che ci sei, così vedo dov’eri esattamente.»

«Ma certo. Vieni, ti accompagno subito.» Si alza dalla poltrona bianca. «Ti va di bere qualcosa? Con tutto questo parlare di maniaci, elicotteri e riprese mi è venuta voglia di un mimosa. Di solito sull’ellittica ci sto mezz’ora.»

Lucy prende il cellulare dal tavolo. «Bevo quello che bevi tu.»

15

Kay Scarpetta ha appuntamento alle undici e mezzo con Marino nel posteggio dell’Istituto di medicina legale, davanti all’auto che hanno noleggiato. Il cielo è coperto da nuvoloni grigi da cui ogni tanto spunta il sole. Soffia un vento forte e freddo.

«Fielding non viene?» chiede Marino aprendo il SUV. «Guido io? Dunque secondo te è morta soffocata perché l’assassino le si è seduto sopra. Bastardo: come si fa ad ammazzare una bambina? Dev’essere corpulento, se è riuscito ad ucciderla in quel modo, non credi?»

«No, Fielding non viene. Sì, guida tu. Quando non riesci a respirare, ti prende il panico e ti divincoli come un ossesso, quindi sì, per riuscire a tenerla giù l’assassino dev’essere abbastanza robusto e pesante. Penso che sia morta per asfissia meccanica.»

«Vorrei che quel bastardo che l’ha ammazzata facesse la stessa fine, te lo giuro. Vorrei che gli si sedessero sopra due marcantoni e non riuscisse più a respirare. Così impara.» Salgono in macchina e Marino mette in moto. «Oppure mi ci siedo sopra io, appena lo sbattiamo dentro. Guarda, lo farei proprio volentieri. Come si fa ad ammazzare una bambina, mi chiedo…»

«Questi discorsi non servono a niente» lo interrompe lei. «Occupiamoci di cose più utili. Sai niente della madre?»

«Visto che Fielding non viene, pensavo che l’avessi chiamata tu.»

«Le ho detto che avevo bisogno di parlarle, tutto lì. Mi è sembrata un po’ strana, al telefono. Dice che Gilly è morta per colpa dell’influenza.»

«Pensi di dirle che non è vero?»

«Non so che cosa le dirò.»

«Be’, una cosa è certa: i federali impazziranno, quando sapranno che hai ricominciato a fare visite a casa delle persone. Si sono immischiati in un caso che non dovrebbe riguardarli e, se scoprono che ci sei di mezzo anche tu… Vedrai!» Sorride, uscendo lentamente dal parcheggio.

A Kay Scarpetta non importa come reagiranno i federali. Guarda il Biotech II, l’edificio grigio in cui un tempo lavorava, l’obitorio che sembra un igloo. Ha l’impressione di non essere mai andata via da Richmond, ora che è tornata, e le sembra normalissimo andare a controllare la scena di un delitto. Non le importa cosa penseranno i federali, il dottor Marcus o chiunque altro.

«Mi sa che neanche il tuo amico Marcus sarà molto contento» continua Marino sarcastico, come se le avesse letto nel pensiero. «Gli hai detto che secondo te è un omicidio?»

«No» risponde Kay.

Non ha cercato Marcus dopo l’autopsia di Gilly Paulsson. Si è lavata, ha rimesso il tailleur ed è andata a controllare alcuni vetrini al microscopio. Può avvertirlo Fielding, se ritiene. Oppure lo aggiornerà lei in un secondo tempo. E comunque, Marcus può chiamarla sul cellulare. Ma non lo farà: cerca di tenersene fuori il più possibile. Probabilmente si è reso conto subito che la morte di quella quattordicenne era una faccenda delicata, molto prima di contattare lei in Florida. Deve aver capito immediatamente che si sarebbe trovato nei guai, se non avesse scaricato il barile a qualcun altro. Probabilmente ha sospettato sin dall’inizio che Gilly Paulsson non era morta per cause naturali e ha deciso di non sporcarsi le mani.

«Chi è l’ispettore incaricato delle indagini?» chiede Kay Scarpetta a Marino, che intanto cerca di immettersi nel traffico. «Lo conosciamo?»

«No. Quando lavoravo qui, non c’era ancora.» Appena vede un varco fra le automobili, Marino si infila nella corsia di destra. Adesso che è tornato a Richmond, guida di nuovo come ai vecchi tempi, quando lavorava ancora al Dipartimento di polizia di New York.

«Che tipo è? Lo sai?»

«Qualcosa so.»

«Pensi di tenerti quel berretto tutto il tempo?» gli domanda.

«Perché no? Ne hai un altro migliore da darmi? E poi a Lucy farà piacere sapere che me lo metto. Sai che la polizia ha cambiato sede? Non è più in Ninth Street, si è trasferita vicino al Jefferson Hotel, nel vecchio Farm Bureau Building. A parte questo, è tutto uguale. Anzi no: adesso gli agenti possono andare in giro con il berretto da baseball, come a New York.»

«Vedo che i berretti da baseball sono molto popolari.»

«Sì, infatti. Perciò non rompere.»

«Chi ti ha detto che ci sono di mezzo i federali?»

«L’ispettore incaricato delle indagini. Si chiama Browning e sembra un tipo a posto, anche se non si occupa spesso di omicidi e ha più esperienza di sparatorie, regolamenti di conti fra bande rivali e roba del genere.» Apre un bloc-notes e gli dà un’occhiata, guidando in direzione di Broad Street. «Giovedì quattro dicembre interviene a seguito di una telefonata in casa Paulsson, nel Fan, vicino a quello che prima era lo Stuart Circle Hospital e adesso è un complesso residenziale. Lo sapevi che l’hanno trasformato in un condominio di lusso? È successo dopo che tu ti sei trasferita. Tu andresti a vivere in un appartamento dove prima ricoveravano malati? A me farebbe venire i brividi.»

«Marino, sai perché è coinvolta l’FBI? Me lo vuoi dire?» domanda Kay spazientita.

«Ufficialmente li hanno interpellati qui da Richmond, ma io non ci credo: perché la polizia avrebbe dovuto chiamare l’FBI? E perché l’FBI avrebbe accettato prontamente di occuparsi del caso?»

«Browning cosa dice?»

«Niente di che. Non sembra molto interessato. Dice che Gilly deve avere avuto un attacco di cuore o roba del genere.»

«Be’, si sbaglia. E la madre?»

«Tipo strano. Poi ti spiego.»

«Del padre hai scoperto niente?»

«Dopo il divorzio è andato a stare a Charleston, nel South Carolina. Medico. Strano, eh? Un medico dovrebbe sapere cos’è un obitorio: ti aspetteresti che non ci lascerebbe mai la figlia in un sacco di plastica, solo perché non riesce a mettersi d’accordo con la ex moglie su dove seppellirla o come.»

«Io svolterei in Grace Street» dice Kay Scarpetta. «E poi proseguirei dritto.»

«Grazie, Magellano. Guarda che ho abitato a Richmond anch’io. Pensi che abbia bisogno di un navigatore?»

«Non so che cosa faresti senza di me, Marino. Parlami di Browning. Cos’ha trovato, quando è intervenuto in casa Paulsson?»

«La ragazza era a letto, supina, in pigiama, e la madre era in piena crisi isterica. Te lo puoi immaginare.»

«Era sotto le lenzuola o sopra?»

«Le lenzuola erano state tirate giù e ammucchiate per terra. La madre ha dichiarato che erano così quando è tornata a casa dalla farmacia, ma deve avere dei problemi di memoria. Oppure mente.»

«A che proposito?»

«Non lo so. Mi baso su quello che mi ha detto Browning al telefono. Voglio dire, io la interrogherei di nuovo.»

«C’erano segni di effrazione?» chiede Kay Scarpetta. «Browning ha pensato che fosse entrato in casa qualcuno?»

«Browning non ha visto niente. Ma, come ti ho detto, non si è particolarmente preoccupato di cercare indizi. E questo non va bene. Se chi dirige le indagini non cerca nemmeno di capire se c’è qualcosa che non va, vuoi che si accaniscano quelli della Scientifica? Se non pensi che sia stato un omicidio, cosa ti metti a rilevare impronte a fare?»

«Non dirmi che non hanno nemmeno cercato le impronte digitali.»

«Be’, possiamo farlo noi adesso.»

Nel frattempo sono arrivati in quello che si chiama Fan District, un quartiere che risale ai tempi della guerra civile e ha quel nome perché le sue stradine strette, dai nomi poetici come Strawberry Street, Cherry Street e Plum Street, si allargano a ventaglio. Le case del Fan sono state quasi tutte ristrutturate e hanno ampie verande, colonne neoclassiche e cancelli di ferro battuto. La casa dei Paulsson è meno eccentrica e lussuosa di tante altre e non è particolarmente grande: ha la facciata di mattoni, un piccolo portico e il tetto mansardato.

Marino posteggia davanti a un furgoncino azzurro. Lui e Kay Scarpetta scendono dalla macchina e imboccano una stradina di mattoni un po’ consumati. Il cielo è coperto, fa freddo e forse nevicherà. Meglio la neve che la pioggia, pensa Kay. Richmond non si è mai abituata agli inverni rigidi, e ogni volta che si prevedono nevicate i suoi abitanti corrono a fare incetta di generi alimentari, preparandosi al peggio. I fili della luce sono esterni e se cade un albero per il vento o la galaverna, interi quartieri rimangono senza energia elettrica. Anche per questo, Kay Scarpetta spera che non ci siano forti temporali mentre si trova lì.

Il batacchio sulla porta è di bronzo, a forma di ananas. Marino lo abbassa tre volte con forza. Tenuto conto del motivo della loro visita può sembrare ineducato bussare con tanta insistenza. Si sentono dei passi rapidi, poi la porta si apre e appare una donna minuta, con la faccia gonfia di chi mangia poco ma beve molto e piange in continuazione. Se non fosse sfatta, sarebbe una bella donna. Ha i capelli biondi, tinti.

«Prego, accomodatevi» dice con voce nasale. «Ho il raffreddore, ma non dovrei essere contagiosa.» Guarda Kay Scarpetta con gli occhi rossi. «Ma lei lo sa meglio di me, visto che è dottoressa. È lei la dottoressa con cui ho parlato prima, vero?» Non era difficile da intuire, visto che Marino è un uomo e ha il berretto del LAPD.

«Sì, sono Kay Scarpetta.» Le stringe la mano. «Condoglianze, signora Paulsson.»

Alla donna vengono le lacrime agli occhi. «Non entrate? Scusatemi per il disordine, vi prego. Ho appena fatto il caffè.»

«Grazie, lo prendiamo volentieri» dice Marino. Si presenta e spiega: «Ho parlato con l’ispettore Browning e pensavo di svolgere qualche altra indagine, se non le dispiace».

«Volete zucchero? Latte?»

Marino accetta entrambi.

«Io lo prendo nero, grazie» risponde Kay Scarpetta. Seguono la signora Paulsson lungo un corridoio con il parquet. Sulla destra c’è un salotto piccolo ma accogliente, con poltrone di pelle verde scuro e un caminetto; sulla sinistra c’è una cameretta che sembra poco usata e fredda. «Volete darmi i cappotti?» chiede la signora Paulsson. «Scusatemi: vi ho offerto il caffè e non vi ho fatto nemmeno togliere il cappotto. Abbiate pazienza, non ci sono con la testa.»

Kay Scarpetta e Pete Marino si tolgono i cappotti, che la signora Paulsson appende a un attaccapanni in cucina. Kay nota la sciarpa scarlatta appesa a un piolo e si chiede se era di Gilly. La cucina è vecchiotta, con il pavimento di piastrelle quadrate, bianche e nere, e mobili bianchi, fuori moda. La finestra dà su un cortiletto chiuso da una staccionata di legno, dietro cui si vede un tetto basso di ardesia, malconcio e coperto di foglie e di muschio.

La signora Paulsson versa il caffè nelle tazze e li fa accomodare a un tavolo di legno vicino alla finestra. Kay nota che la cucina è pulita e in ordine, con una fila di pentole appese con dei ganci sopra un grosso tagliere di legno, e il lavello perfettamente pulito. Sul bancone, vicino a una scatola di fazzoletti di carta, c’è una boccetta di sciroppo per la tosse. È un farmaco da banco, di quelli che si acquistano senza ricetta. Kay beve un sorso di caffè.

«Non so nemmeno io da che parte cominciare» dice la signora Paulsson. «Non ho capito bene neppure perché siete venuti. L’ispettore Browning mi ha chiamato stamattina per dirmi che erano arrivati due consulenti da fuori e che avevano bisogno di parlarmi. Be’, eccovi qui.» Guarda Kay Scarpetta.

«Allora Browning l’ha avvisata» dice Marino.

«Sì, è stato molto gentile.» La signora Paulsson guarda Marino come se lo trovasse interessante. «Sono tutti molto… Non so.» Le vengono di nuovo le lacrime agli occhi. «Dovrei essere contenta che vi diate tanto da fare. Sarebbe peggio, se a nessuno fregasse niente.»

«Stiamo lavorando tutti a questo caso con molto impegno» la conforta Kay. «Siamo intervenuti per questo.»

«Di dove siete?» La signora Paulsson guarda Marino e beve un sorso di caffè.

«Florida. Abitiamo poco a nord di Miami» risponde lui.

«Oh, credevo che lei fosse di Los Angeles» dice la signora Paulsson, lanciando un’occhiata al berretto.

«Lavoro molto con Los Angeles.»

«Stupefacente» dice lei. Ma non sembra per niente stupefatta e Kay Scarpetta intuisce che nasconde qualcosa. È come se dentro la signora Paulsson si celasse una donna completamente diversa.

«Il telefono squilla in continuazione: giornalisti, curiosi… L’altro giorno sono venuti con un camion gigantesco, pieno di antenne o cosa diavolo erano.» Si volta e indica la strada davanti a casa. «È uno scandalo, non vi pare? L’agente dell’FBI, che era qui quando sono venuti quelli della televisione, mi ha detto che fanno così perché non si è ancora scoperto che cosa è successo veramente a Gilly. Secondo lei, mi è già andata bene, perché certe volte i giornalisti si accaniscono molto di più. Non capisco come si faccia a dire che mi è andata bene così, sinceramente…»

«Forse l’agente dell’FBI si riferiva al fatto che a certi casi viene data molta più pubblicità» replica Kay con dolcezza.

«La mia è una tragedia!» esclama la signora Paulsson asciugandosi gli occhi. «Che cosa può esserci di peggio che perdere una figlia in questo modo?»

«Come è morta Gilly, secondo lei?» chiede Marino, passando il pollice sul bordo della tazza.

«Di influenza» risponde la signora Paulsson. «Dio l’ha voluta chiamare a sé, non so per quale motivo. Vorrei tanto saperlo…»

«Sembra che non sia morta di influenza» precisa Marino.

«Oggigiorno è sempre così. Sono tutti sospettosi, vogliono il dramma. La mia bambina aveva la febbre alta. Quest’anno l’influenza è micidiale.» Guarda Kay Scarpetta.

«Signora Paulsson, io non credo che sua figlia sia morta di influenza. Immagino che l’abbiano già informata che l’autopsia conferma la mia ipotesi. Ha parlato con il dottor Fielding, vero?»

«Sì, certamente. Mi ha chiamato subito. Ma come fate a stabilire che uno non è morto di influenza? Come potete esserne sicuri, se non l’avete sentito tossire, non gli avete misurato la febbre, non lo avete sentito lamentarsi?» Scoppia in lacrime. «Gilly aveva la febbre a trentotto, una tosse da far paura! Sono uscita a comprarle lo sciroppo. Ho preso la macchina e sono andata in Cary Street, in farmacia.»

Kay Scarpetta lancia un’occhiata alla boccetta di sciroppo sul bancone e pensa ai campioni di tessuto polmonare che ha esaminato al microscopio poco prima. C’erano tracce di fibrina, linfociti e macrofagi e gli alveoli erano aperti. La broncopolmonite di Gilly, complicanza dell’influenza abbastanza frequente nei bambini e negli anziani, era in via di guarigione.

«Signora Paulsson, è possibile stabilire se una persona è morta di influenza dalle condizioni dei polmoni» le spiega. Non vuole entrare nei dettagli e descriverle in che stato sarebbero dovuti essere i polmoni di Gilly se fosse morta di broncopolmonite acuta. «Sua figlia era sotto antibiotici?»

«Sì, li ha presi per una settimana.» Beve un sorso di caffè. «E infatti mi sembrava che stesse guarendo. Pensavo che ormai avesse solo un po’ di raffreddore.»

Marino spinge indietro la sedia. «Vi spiace se vi lascio sole?» domanda. «Vorrei dare un’occhiata in giro.»

«Non so a cosa, ma faccia pure. Non sarà né il primo né l’ultimo a guardare dappertutto. La camera di Gilly è in fondo.»

«Grazie.» Marino si allontana, pestando con gli scarponi pesanti sul parquet.

«Gilly stava guarendo» dice Kay Scarpetta. «L’esame dei polmoni lo conferma.»

«Però era ancora molto debole.»

«Signora Paulsson, Gilly non è morta di influenza» ripete con voce ferma. «È importante che lei se ne convinca. Se fosse morta di influenza, io adesso non sarei qui. Sto cercando di capire la dinamica dell’accaduto e ho bisogno di farle qualche domanda.»

«Non ha l’accento di qui, dottoressa.»

«Infatti sono di Miami.»

«Oh, e continua a vivere lì? Non sono mai stata a Miami. Mi piacerebbe andarci. Specie quando qui c’è questo tempaccio.» Si alza a prendere la caffettiera. Si muove con difficoltà, con le gambe rigide. Kay Scarpetta prova a immaginarla seduta sulla schiena di Gilly: non esclude che sia successo, ma le pare assai improbabile. La signora Paulsson pesa poco più della figlia che, cercando di divincolarsi, si sarebbe procurata più lesioni di quelle che presenta il suo cadavere. Ma l’ipotesi che sia stata la madre a ucciderla, per quanto remota e raccapricciante, non va scartata completamente.

«Mi sarebbe piaciuto andarci con Gilly. A Miami e anche a Los Angeles. Mi sarebbe piaciuto viaggiare con lei» dice la signora Paulsson. «Ma io ho paura di volare e soffro la macchina, perciò non siamo mai andate da nessuna parte. Sa quanto rimpiango di non essermi fatta più forza, adesso?»

La caffettiera le trema nelle mani. Kay Scarpetta gliele osserva, alla ricerca di eventuali lividi o graffi o abrasioni. Non ne nota, ma sono passate due settimane. Si ripromette di chiedere ai poliziotti che l’hanno interrogata subito dopo la morte della figlia in che condizioni avesse mani e braccia allora.

«Sono così pentita! A Gilly sarebbe tanto piaciuto andare a Miami, vedere le palme, i fenicotteri…» insiste.

Versa il caffè nelle tazze e ripone la caffettiera. «Quest’estate sarebbe dovuta andare via con suo padre.» Si siede sulla sedia di rovere. «O forse sarebbero restati a Charleston, non lo so. Comunque, non era mai stata neanche a Charleston.» Poggia i gomiti sul tavolo. «Gilly non è mai stata al mare. Non l’ha mai visto, se non in fotografia o alla TV. Però io non le lasciavo guardare tanta televisione, sa? Facevo male?»

«Il padre di Gilly abita a Charleston?» domanda Kay Scarpetta, pur conoscendo già la risposta.

«Si è trasferito l’estate scorsa. Fa il medico. È andato a stare in una grande casa, sul fiume, che è citata persino sulle guide turistiche. Si figuri che la gente paga per visitare il suo giardino. E naturalmente lui non lo cura, non si mette certo a tagliare l’erba… Pagherà qualcuno che lo faccia per lui. Frank non fa niente, se non gli interessa. Come il funerale di Gilly, per esempio. Ha messo tutto in mano agli avvocati e così è venuto fuori un gran pasticcio. È una manovra contro di me, capisce? Perché io voglio che Gilly resti qui a Richmond. E allora lui, per ripicca, vuole che vada a Charleston.»

«Che tipo di medico è?»

«Generico. È abilitato a rilasciare l’idoneità al volo ai piloti e, siccome a Charleston c’è una base dell’aeronautica, ha la coda di pazienti davanti allo studio. Si dà un sacco di arie: settanta dollari a certificato, e ha la coda davanti allo studio… Chissà quanto guadagna.» La signora Paulsson continua a parlare a raffica, quasi senza prendere fiato tra una frase e l’altra, dondolandosi leggermente sulla sedia.

«Signora Paulsson, mi racconti che cosa è successo giovedì quattro dicembre. Cominci da quando si è svegliata la mattina.» Kay Scarpetta capisce che, se non prende in mano la situazione, non concluderà niente: la signora Paulsson continuerà a parlare d’altro, a essere evasiva e a perdersi in dettagli privi di importanza, dando sfogo all’astio che prova per l’ex marito. «A che ora si è alzata?»

«Alle sei, come sempre. Non ho neppure bisogno di mettere la sveglia, ne ho una qui dentro.» Si tocca la testa. «Forse perché sono nata alle sei di mattina, mi sveglio sempre alle sei. Quindi anche quella mattina, certamente…»

«Che cosa ha fatto quando si è svegliata?» Kay non ama interrompere la gente, ma si rende conto che, se non fa così, la signora Paulsson continuerà con le sue digressioni. «Si è alzata?»

«Be’, certo. Mi alzo sempre, vengo in cucina a fare il caffè, poi torno in camera mia e leggo la Bibbia per un po’. Se Gilly deve andare a scuola, devo farla uscire di casa per le sette e un quarto, con il pranzo pronto e tutto. Di solito le dà un passaggio la mamma di una sua compagna. È una bella fortuna, così va in macchina.»

«E giovedì quattro dicembre?» insiste Kay Scarpetta. «Si è alzata alle sei come al solito, ha fatto il caffè, è tornata in camera a leggere la Bibbia, e poi?» La signora Paulsson annuisce. «Si è messa a letto a leggere la Bibbia? Per quanto tempo?»

«Una mezz’oretta.»

«È andata a vedere come stava Gilly?»

«Prima ho pregato per lei. L’ho lasciata dormire e ho pregato per lei. Verso le sette meno un quarto sono andata in camera sua e ho visto che dormiva, bella tranquilla sotto le coperte.» Scoppia in lacrime. «Le ho detto: “Gilly, bambina mia, svegliati che la mamma ti prepara la colazione”. E lei ha aperto gli occhi, quei suoi bellissimi occhi azzurri, e mi ha detto: “Mamma, ho tossito tutta la notte, mi fa male il petto”. Così mi sono accorta che avevamo finito lo sciroppo.» Si interrompe di colpo e fissa Kay con gli occhi lucidi. «Lo strano è che la cagnetta abbaiava, abbaiava come una matta. Mi viene in mente adesso. Strano.»

«La cagnetta? Avete un cane?» Kay Scarpetta prende un appunto sul notes, con la sua grafia illeggibile.

«Stavo per dirglielo» risponde la signora Paulsson con voce rotta e le labbra tremanti. «Sweetie è scappata… Oh, Signore.» Singhiozza e si dondola sulla sedia. «Era in giardino mentre parlavo con Gilly e quando sono scesa non c’era più. Quelli della polizia o dell’ambulanza devono aver lasciato aperto il cancello. Come se non bastasse… Come se non me ne fossero già capitate abbastanza…»

Kay Scarpetta chiude lentamente il notes e lo posa sul tavolo assieme alla penna. Poi guarda la signora Paulsson. «Di che razza è Sweetie?»

«Era di Frank, che se ne è sempre fregato. Se n’è andato di casa sei mesi fa. Il giorno del mio compleanno, pensi un po’. Le sembra una cosa carina da fare? E mi ha detto: “Tienitela tu, Sweetie, se non vuoi che finisca al canile”.»

«Di che razza è?»

«Se ne è sempre fregato di quel cane, e sa perché? Perché lui se ne frega di tutto e di tutti, pensa solo a se stesso. Gilly invece è affezionata a Sweetie. Oh, se sapesse che è scappata…» Piange e si lecca le labbra. «Quanto le dispiacerebbe, se lo sapesse…»

«Signora Paulsson, di che razza è il cane? Ha denunciato la sua scomparsa?»

«E a chi?» esclama lei, ridendo amareggiata. «Alla polizia che ha lasciato il cancello aperto? Non so che cosa intenda lei per denunciare, dottoressa, ma alla polizia comunque l’ho detto. Non mi ricordo più a chi, ma l’ho detto.»

«Quando ha visto Sweetie l’ultima volta? Signora Paulsson, lo so che è sconvolta, mi dispiace, ma la prego di rispondere alle mie domande.»

«Cosa c’entra il cane, comunque? Cosa interessa a lei, se la mia cagnetta è scappata? A meno che non sia morta, naturalmente. Ma anche in quel caso, non credo che potrebbe fare molto.»

«A me interessa tutto, signora Paulsson. Tutto quello che mi sa dire può essere importante.»

Marino appare sulla soglia. Kay Scarpetta non lo ha sentito arrivare e rimane sorpresa. «Marino, tu sapevi niente del cane?» gli chiede, guardandolo negli occhi. «Sweetie, la loro cagnetta, è scappata. È… di che razza è, signora Paulsson?» La guarda.

«Un bassotto. Cucciolo» singhiozza la donna.

«Puoi venire un momento di là?» le dice Marino.

16

Lucy osserva le costosissime macchine nella palestra della sua vicina e guarda dalla finestra. Kate può tenersi in esercizio godendosi una splendida vista della Intracoastal Waterway, dell’oceano e della sua proprietà.

Dalla palestra al secondo piano della villa si vedono perfettamente il giardino e la piscina, la cucina e la sala. Lucy osserva la strada che separa le due ville, da cui ritiene che sia passata la bestia per raggiungere la porta di servizio, che Henri aveva lasciato aperta, ed entrare in casa sua. Potrebbe essere anche arrivata in barca. Lucy lo ritiene improbabile, ma non può escluderlo. Se anche la scaletta che porta al mare fosse ripiegata, è possibile arrampicarsi sul muretto e scendere nel giardino. Certo, bisogna essere molto determinati per fare una cosa simile, ma un ladro, un maniaco o un assassino non si lascia scoraggiare dalla difficoltà dell’impresa.

Sul tavolo vicino all’ellittica c’è un cordless in carica. Accanto alla presa del telefono c’è una normale presa elettrica. Lucy prende dal marsupio un trasmettitore che sembra un comunissimo adattatore e lo infila nella presa. È un aggeggio dall’aria assolutamente innocua, color avorio come la presa, che Kate probabilmente non noterà nemmeno. Anche se dovesse decidere di infilarci qualche spina, non si accorgerà di niente perché funziona come un normale adattatore. Lucy resta ferma un istante, poi esce dalla palestra e tende le orecchie: Kate dev’essere ancora in cucina, o comunque al pianterreno.

Nell’ala sud della villa c’è un’enorme camera con letto a baldacchino, televisore a schermo piatto e grande vetrata con vista mare. Da lì Kate può vedere il retro della casa di Lucy e sbirciare dalle finestre del primo piano. Lucy è seccata. Si guarda intorno e nota una bottiglia di champagne vuota vicino al comodino, su cui sono posati un flûte sporco, un telefono e un romanzo d’amore. La sua vicina può spiarla comodamente dalle finestre di casa sua. Meno male che lei ha l’abitudine di tenere le tende tirate.

Pensa alla mattina in cui Henri ha rischiato di morire e cerca di ricordare se le tende erano aperte o chiuse. Le cade l’occhio sulla presa del telefono vicino al comodino e valuta se ha il tempo di svitarla e sostituirla. Tende le orecchie per sentire se l’ascensore è in funzione o se Kate sta salendo a piedi, ma il silenzio è totale. Si accuccia e tira fuori dal marsupio un piccolo cacciavite. La presa ha due viti soltanto, non molto strette: Lucy le toglie in un attimo, sempre attenta a captare il minimo rumore. Sostituisce la presa beige con una molto simile, che però contiene un microtrasmettitore che le permetterà di ascoltare le telefonate effettuate da quella linea telefonica. Pochi secondi dopo, rimessa a posto la spina, esce dalla camera da letto. Appena in tempo: le porte dell’ascensore si aprono e appare Kate, con due bicchieri di cristallo pieni fino all’orlo di champagne.

«Bella casa, complimenti» dice Lucy.

«Anche la tua dev’essere molto bella» replica Kate, porgendole un flûte.

“Lo dici a ragion veduta” pensa Lucy. “Mi spii.”

«Un giorno o l’altro devi invitarmi» continua Kate.

«Certamente. Purtroppo sono spesso via.» L’odore dello champagne le dà la nausea. Ha smesso di bere: in passato ha ecceduto con l’alcol, e adesso preferisce non toccarlo neppure.

Kate ha gli occhi lucidi ed è più rilassata, rispetto a un quarto d’ora prima: evidentemente in cucina si è già scolata un paio di bicchieri. È brilla e Lucy sospetta che il suo bicchiere sia pieno di vodka, anziché di champagne. Il colore del liquido nel suo flùte è leggermente diverso e ha meno bollicine.

«Ho notato che dalla finestra della palestra vedi il mio giardino» dice, mentre Kate beve un sorso. «Non ci hai mai visto nessuno, a parte me e la mia collega?»

«Non guardo» risponde lei con voce un po’ strascicata. «Non sono curiosa. E comunque non ho tempo di stare alla finestra, con tutto quello che ho da fare.»

«Scusa, posso andare un attimo in bagno?» domanda Lucy.

«Prego. È da quella parte.» Leggermente malferma sulle gambe, indica l’ala nord della villa.

Lucy entra in un bagno con doccia, vasca, wc, bidè e vista mare. Versa mezzo bicchiere nel gabinetto e tira lo sciacquone. Aspetta qualche secondo e torna sul ballatoio, dove Kate la sta aspettando.

«Qual è il tuo champagne preferito?» le chiede Lucy, pensando alla bottiglia vuota che ha visto accanto al letto.

«Perché? Ce n’è più di un tipo?» Kate scoppia a ridere.

«Sì. Certo, dipende da quanto si è disposti a spendere.»

«Scherzi? Ti ho mai raccontato di quando io e Jeff ci siamo dati alla pazza gioia al Ritz, a Parigi? No, certo che no: è la prima volta che ci vediamo! E che mi sembra di conoscerti da un sacco» dice, avvicinandosi a Lucy e accarezzandole un braccio. «Eravamo… No, anzi, aspetta.» Beve un altro sorso, sempre tenendole la mano sul braccio. «Eravamo all’Hotel de Paris a Montecarlo. Ci sei mai stata?»

«Sì, sulla mia Enzo» mente Lucy.

«Che sarebbe? Quella metallizzata o quella nera?»

«La Enzo è rossa. Non è qui.» È quasi la verità: la Enzo non c’è perché non esiste. Cioè, Lucy non ne ha mai posseduto una.

«Quindi ci sei stata. All’Hotel de Paris?» chiede Kate, riprendendo ad accarezzarle il braccio. «Be’, Jeff e io siamo andati al casinò.»

Lucy annuisce, alza il bicchiere e lo avvicina alle labbra, senza bere.

«Ero alle slot machine ed era il mio momento fortunato. Santo cielo, se era il mio momento fortunato!» Finisce il bicchiere e stringe il braccio di Lucy. «Sei molto tonica, sai? Allora, ti dicevo: ho avuto fortuna e così ho proposto a Jeff di festeggiare la mia vincita. Ai tempi, andavamo ancora d’amore e d’accordo.» Ride e guarda il bicchiere vuoto. «Così siamo tornati nella nostra suite. La Winston Churchill Suite, così si chiamava. Me lo ricordo ancora. E indovina che cosa abbiamo ordinato?»

Lucy sta cercando di decidere se prendere le distanze da Kate subito o aspettare che faccia qualcosa di più compromettente. Le sta accarezzando il braccio, avvicinandoselo al corpo sottile. «Dom Pérignon?» chiede Lucy.

«Mais non! Il Dom Pérignon è gassosa. Gassosa da ricchi, okay, e non dico che non mi piaccia, perché lo bevo, ma per festeggiare ci vuole qualcosa di più. No, abbiamo ordinato una bottiglia di Cristal Rosé da cinquecento e rotti euro. Be’, all’Hotel de Paris i prezzi sono quelli. L’hai mai assaggiato?»

«Non mi ricordo.»

«Ah, te lo ricorderesti, se l’avessi bevuto. Una volta assaggiato quello, il resto fa schifo. Non riesci a bere altro, credimi. E dopo il Cristal, abbiamo ordinato un Rouge de Château Margaux. Divino!» Ha una pronuncia ottima, per essere ubriaca.

«Vuoi finirlo tu?» Lucy le porge il flûte, mentre Kate le si struscia addosso. «Dai, facciamo cambio.» Prende il bicchiere vuoto di Kate e le mette in mano il suo, pieno a metà.

17

Edgar Allan Pogue ricorda il giorno in cui lei scese a parlare al suo capo. Doveva essere per una cosa importante, se la direttrice si era abbassata a prendere quel montacarichi, scomodissimo e inaffidabile.

Era di ferro, arrugginito, con le porte che si chiudevano dal basso verso l’alto e si incontravano nel mezzo, come le fauci di un animale feroce. Naturalmente c’erano anche le scale: le norme antincendio le prevedevano in ogni edificio pubblico. Tuttavia nessuno le prendeva mai per scendere nella divisione di Anatomia, che era sottoterra, e meno che mai Edgar Allan Pogue. Quando prendeva quel montacarichi perché doveva salire all’obitorio, non appena le porte metalliche si chiudevano si sentiva come Giona nella balena. Il fondo di acciaio era perennemente coperto di polvere e di cenere, e qualcuno ci lasciava sempre dentro una barella, fregandosene altamente se a lui poi veniva la claustrofobia.

Ma lei no, lei non se ne fregava.

Seduto sulla sua sedia a sdraio nell’appartamento di Hollywood di cui ha appena preso possesso, con la mazza da baseball in mano, Edgar Allan Pogue ricorda la mattina in cui lei uscì dal montacarichi con il camice bianco e i calzoni verdi da chirurgo e attraversò la sala senza finestre in cui lui trascorreva le giornate — e, in seguito, anche le notti — con passo leggerissimo. Indossava scarpe con le suole di gomma, probabilmente perché erano antiscivolo e comode e lei stava in piedi molte ore nella sala autopsie, a smembrare cadaveri. Strano: fare a pezzi cadaveri per lei andava bene perché era una dottoressa, mentre lui, Pogue, non era niente. Non ha neppure finito le superiori, anche se sul curriculum ha dichiarato di essere diplomato e tutti ci hanno creduto.

“Non si lasciano le barelle nel montacarichi” disse la dottoressa al capo di Pogue, Dave, un uomo curvo con gli occhi scuri e pesti e i capelli tinti pieni di brillantina. “Specie quelle che usate nel crematorio, che lasciano in giro un sacco di polvere. Non mi piace e non è igienico.”

“Sì, dottoressa” rispose Dave, manovrando l’argano con cui tiravano fuori i cadaveri nudi e rosa dalla vasca piena di formalina. Ai tempi in cui Edgar Allan Pogue lavorava nella divisione di Anatomia, per estrarli dalla vasca gli infilavano un grosso gancio di ferro in ciascun orecchio. “Quella non è nel montacarichi” le fece poi notare Dave guardando una barella graffiata, mezza arrugginita e piena di ammaccature, parcheggiata in mezzo alla sala con un involucro di plastica lucida sopra.

“Dico in generale. Quasi nessuno usa il montacarichi, ma preferisco comunque che sia pulito” ribatté lei.

Fu in quel momento che Pogue si rese conto che per la dottoressa il loro era un lavoro sporco. Come altro avrebbe dovuto interpretare quel commento? Però, senza quei cadaveri, gli studenti di medicina non avrebbero potuto fare pratica. Che cosa avrebbe fatto la famosa Kay Scarpetta, se da studentessa non avesse potuto fare le esercitazioni? Se non ci fosse stato lui a fornirle cadaveri da sezionare, avrebbe mai imparato a fare le autopsie? In realtà, non era stato Edgar Allan Pogue a procurarle i cadaveri su cui esercitarsi, visto che Kay Scarpetta aveva studiato a Baltimora e aveva dieci anni più di lui.

Quella mattina non ebbe modo di parlarle, ma notò che non si dava arie. Era molto educata e lo salutava sempre, tutte le volte che scendeva nella divisione di Anatomia, per qualsiasi motivo. “Buongiorno, Edgar Allan”, “Dov’è Dave, Edgar Allan?”. Quella mattina, tuttavia, non gli parlò. Attraversò la sala con le mani in tasca e forse non lo vide neppure. Non cercava lui, questo è certo. Altrimenti lo avrebbe trovato in mezzo alla cenere, come Cenerentola, a sbriciolare frammenti di osso con la sua mazza da baseball preferita.

Ma lei non lo cercò. No, non lo vide nemmeno. Lui, d’altra parte, nascosto al buio nella nicchia di cemento davanti al forno crematorio, vedeva bene la sala in cui Dave stava estraendo con l’argano dalla vasca colma di formalina una vecchia rosa appesa a due ganci, braccia e ginocchia piegate come se fosse ancora dentro la vasca, targhetta di acciaio inossidabile che pendeva dall’orecchio sinistro.

Osservava la scena e la sentì dire: “Nella sede nuova non faremo più così, Dave. Sistemeremo i cadaveri della divisione di Anatomia nelle celle frigorifere, assieme agli altri corpi. Questo metodo è primitivo, medievale. Non va bene”.

“Sì, certo, le celle frigorifere sono molto meglio. Anche se forse nelle vasche ce ne stanno di più” ribatté Dave. Premette un pulsante e fermò l’argano, lasciando la vecchia rosa sospesa a mezz’aria.

“Sempre che riesca a trovare lo spazio. Ogni volta succede così: alla fine è troppo poco. Dipende tutto dallo spazio” disse la dottoressa, grattandosi il mento e controllando il proprio regno.

Edgar Allan Pogue ricorda di aver pensato: “Okay, adesso questa sala, le vasche, il forno e la sala di imbalsamazione sono il tuo regno. Ma quando tu non ci sei, cioè il novantanove per cento del tempo, sono il mio regno. E le persone che caliamo nelle vasche e bruciamo nel forno sono i miei pazienti, i miei amici”.

“Speravo che ci fosse qualcuno ancora da imbalsamare” disse Kay Scarpetta a Dave, mentre la vecchia rosa dondolava per aria, appesa alla catena. “Forse mi conviene annullare la dimostrazione.”

“Edgar Allan è stato velocissimo… Ha imbalsamato il corpo e lo ha messo nella vasca prima che io riuscissi ad avvertirlo che le serviva, dottoressa” spiegò Dave. “E dopo non ne sono arrivati altri.”

“È utilizzabile per una dimostrazione o è già destinato altrove?” chiese la dottoressa, guardando il cadavere della vecchia sospeso sopra la vasca.

“Edgar Allan?” lo chiamò Dave. “È destinato a qualcuno il cadavere che hai appena imbalsamato?”

Edgar Allan Pogue mentì e disse di no, perché sapeva che Kay Scarpetta non avrebbe mai usato per una dimostrazione il cadavere di qualcuno che aveva donato il proprio corpo alla ricerca scientifica. Edgar Allan Pogue sapeva che alla vecchia lì appesa non sarebbe importato nulla. A quella interessava soltanto prendersela con il Creatore perché era stato ingiusto con lei.

“Pazienza” decise Kay Scarpetta. “Mi dispiace annullare la dimostrazione, e quindi lo userò lo stesso, anche se è imbalsamato.”

“So che non è l’ideale” replicò Dave. “Mi dispiace.”

“Non si preoccupi” disse Kay Scarpetta, posandogli una mano sulla spalla. “Non poteva sapere che non ne sarebbero arrivati altri. Proprio oggi che ho la dimostrazione… Be’, me lo mandi su.”

“D’accordo. Le sto facendo un favore, si ricordi” disse Dave strizzandole l’occhio. “Oggigiorno le donazioni scarseggiano.”

“E va già bene che la gente non sa dove va a finire, altrimenti ce ne sarebbero ancora meno” replicò lei, tornando verso il montacarichi. “Bisogna che ci vediamo per parlare di come organizzare il lavoro nella nuova sede, Dave. La chiamo nei prossimi giorni.”

Così Edgar Allan Pogue aiutò Dave a posare il corpo della vecchia sulla barella impolverata di cui si era lamentata la dottoressa poco prima. Poi la mise nel montacarichi e salì con lei al primo piano, pensando che di sicuro non si aspettava di finire così. Non ne aveva la più pallida idea, lui lo sapeva perché le aveva parlato, sia da viva che da morta. La spinse per un corridoio che odorava di disinfettante e oltre la porta che conduceva nella sala autopsie.

«E questa è la storia della signora Arnette, mamma cara» conclude, seduto sulla sdraio con le foto della donna posate sulle cosce bianche e pelose. «So che ti sembrerà brutto e ingiusto, ma ti sbagli. Sono certa che sarebbe stata contenta di essere sezionata davanti a un pubblico di giovani poliziotti. È meglio che finire squartata da una massa di studenti ingrati, non credi? È una bella storia, vero, mamma? Una storia bellissima.»

18

La camera da letto è grande abbastanza da contenere un letto singolo con un comodino a sinistra e una cassettiera vicino alla cabina armadio. I mobili sono di rovere, non antichi ma nemmeno moderni, abbastanza belli. Sopra il letto sono appesi alcuni poster.

Gilly Paulsson si addormentava ai piedi del duomo di Siena e si svegliava sotto il palazzo di Settimio Severo sul Palatino. Probabilmente si pettinava i lunghi capelli biondi davanti allo specchio vicino a Santa Croce e alla statua di Dante Alighieri. Magari non sapeva neppure chi fosse Dante, o dove si trovasse l’Italia.

Marino è alla finestra che si affaccia sul giardino dietro la casa. Non dà spiegazioni, perché quello che ha scoperto è ovvio: la finestra è a poco più di un metro da terra, con un vetro scorrevole che si blocca mediante una maniglia a pressione.

«Rotta» dichiara, premendo sul meccanismo di chiusura con le dita protette da un paio di guanti di cotone bianchi per dimostrare come è facile aprire la finestra.

«L’ispettore Browning l’avrà notato» dice Kay Scarpetta, infilandosi un paio di guanti anche lei. Sono lievemente macchiati, perché li tiene sempre in una tasca laterale della borsetta. «Anche se non mi pare che il verbale precisasse che la finestra aveva la maniglia rotta. È stata forzata?»

«No» risponde Marino richiudendo il vetro. «Era soltanto vecchia e usurata. Mi chiedo se la ragazzina apriva mai la finestra. Non credo che l’assassino sia passato di qui per caso e si sia detto: “Oh, guarda, la ragazza è a casa e la mamma è uscita. Quasi quasi entro. Che fortuna, la finestra è rotta!”.»

«Infatti. Probabilmente sapeva già che non si chiudeva» dice Kay Scarpetta.

«Già.»

«Quindi è qualcuno che conosceva la casa o aveva la possibilità di tenerla sotto controllo.»

«Infatti» replica Marino avvicinandosi alla cassettiera e aprendo il cassetto più in alto. «Dobbiamo controllare i vicini. Ad avere la vista migliore sulla stanza di Gilly è quella» indica dalla finestra la casa dietro la staccionata che chiude il giardino sul retro, quella con il tetto di ardesia malconcio. «Cercherò di capire se la polizia ha interrogato i vicini. Potrebbero aver visto qualcuno che gironzolava da queste parti. Ah, volevo farti vedere questo.»

Infila la mano nel cassetto e tira fuori un portafoglio nero, di pelle, da uomo. È liscio e leggermente curvo, come se fosse stato tenuto a lungo nella tasca posteriore dei pantaloni. Marino lo apre. Dentro c’è una patente scaduta, intestata a Franklin Adam Paulsson, nato il 14 agosto 1966 a Charleston, South Carolina. Non ci sono carte di credito né contanti. A parte la patente, il portafoglio è vuoto.

«Il padre» dice Kay Scarpetta, guardando attentamente la foto sulla patente, che ritrae un uomo biondo e sorridente, con la mascella squadrata e occhi grigio-azzurri. È un bell’uomo ma non le piace, per quello che si può giudicare da una fotografia. Forse è lo sguardo gelido. Ha qualcosa di strano, ma non riesce a capire che cosa.

«Questo cassetto è interamente dedicato a lui. Vedi queste T-shirt?» chiede Marino tirando fuori una pila di magliette bianche, piegate e ordinate. «Taglia large, da uomo, presumibilmente del signor Paulsson. Certe sono macchiate e bucate. Poi ci sono le lettere» contìnua, porgendole una decina di buste. Alcune contengono biglietti di auguri. L’indirizzo del mittente è di Charleston. «E poi questa.» Prende una rosa dal gambo lungo, rossa e ormai appassita. «Vedi anche tu quello che vedo io?» domanda a Kay.

«Non è vecchissima.»

«Infatti.» La ripone dentro il cassetto. «Ha due o tre settimane, a occhio. Tu che le coltivi, che cosa dici?» Come se Kay Scarpetta fosse un’esperta di rose appassite.

«Non lo so, ma anch’io direi che non è lì da mesi. Non è ancora completamente secca. Pensi di cercare impronte, Marino? Dovrebbe averci già pensato la polizia. Che cosa ha fatto la Scientifica?»

«Una serie di ipotesi» risponde Marino. «Niente di più, temo. Adesso vado a prendere la valigetta in macchina, scatto qualche foto e cerco le impronte. Sulla finestra, sui vetri e sul telaio, sui mobili e nel primo cassetto. Direi basta.»

«Okay. Ormai non corriamo il rischio di manomettere niente. Chissà quanta gente è già entrata in questa stanza…»

«Poi controllo il giardino» continua Marino. «Anche se dopo due settimane è difficile che ci siano ancora cacche di cane in giro. Se non fosse piovuto, forse, ma così… Non so se riusciremo ad accertare se c’era effettivamente un cane. Browning non me ne ha parlato.»

Kay Scarpetta ritorna in cucina. La signora Paulsson è ancora seduta a tavola. Sembra che non si sia mossa, che sia rimasta nella stessa identica posizione sulla sedia, lo sguardo perso nel vuoto. Non crede veramente che sua figlia sia morta di influenza. Come può continuare a credere una cosa del genere?

«L’hanno informata che anche l’FBI si sta occupando del caso?» le domanda Kay Scarpetta, sedendosi di fronte a lei. «Che cosa le hanno detto, esattamente?»

«Non lo so, non guardo quel genere di cose alla TV» risponde con un filo di voce.

«Quale genere di cose?»

«Roba di polizia, FBI, delitti irrisolti. Mai guardati.»

«Ma che l’FBI si sta occupando del caso lo sa?» Kay Scarpetta ha sempre più dubbi riguardo alla salute mentale della signora Paulsson. «Ha parlato con un agente federale?»

«Una donna. È venuta qui, gliel’ho già detto. Doveva farmi qualche domanda, mi ha detto, e le dispiaceva molto disturbarmi, sapendo in che stato ero. Perché sì, ero in uno stato tremendo. Si è seduta qui dove siamo sedute noi adesso e mi ha chiesto di Gilly, di Frank, e se avevo notato qualcosa o qualcuno di sospetto. Se Gilly parlava con gli sconosciuti, se parlava con suo padre, chi sono i nostri vicini. Soprattutto, mi ha chiesto di Frank.»

«Perché, secondo lei? Che cosa le ha chiesto?» indaga Kay Scarpetta, pensando all’uomo biondo con gli occhi chiari.

La signora guarda il muro a sinistra dei fornelli, come se sull’intonaco bianco ci fosse qualcosa di molto interessante. «Non so perché, ma le donne mi chiedono spesso di Frank.» Si irrigidisce e assume un tono più stridulo. «Spessissimo.»

«Dov’è adesso suo marito?»

«A Charleston. Ex marito. Siamo divorziati.» Si tormenta una pellicina vicino all’unghia, guardando fisso il muro.

«Andava d’accordo con Gilly?»

«Lei lo adora.» La signora Paulsson emette un respiro profondo, sgrana gli occhi e comincia a dondolare la testa. «Gli dà sempre ragione, qualsiasi cosa faccia. Il divano nel salotto, quello sotto la finestra, ha presente? Niente di speciale, un divano normalissimo. Ma lui si sedeva sempre lì, per guardare la TV, per leggere il giornale…» Altro respiro profondo. «Quando ci siamo separati, Gilly ha preso l’abitudine di sedercisi sempre lei. Non riuscivo a farla sedere da nessun’altra parte…» Sospira. «Frank non è un buon padre, ma è così che funziona: ci struggiamo dietro a quello che non possiamo avere.»

Si sentono i passi di Marino sul parquet, forti, pesanti.

«Amiamo sempre chi non ci ama» continua la signora Paulsson.

Kay non ha più preso appunti, da quando è tornata in cucina. Ha le mani sul bloc-notes e la biro ferma fra le dita.

«Come si chiamava l’agente dell’FBI?» domanda.

«Oddio… Karen, forse. Un attimo.» Chiude gli occhi e si porta un dito tremante alla fronte. «La mia memoria non è più quella di una volta. Dunque, mi pare… Weber. Karen Weber.»

«Della sede di Richmond?»

Marino entra in cucina con una cassetta da pescatore nera in una mano e il berretto da baseball nell’altra. Finalmente se l’è tolto, forse in segno di rispetto per il recente lutto della signora Paulsson.

«Questo non lo so. Forse. Devo avere il suo biglietto da visita. Oddio, dove l’avrò messo?»

«Signora, sa che sua figlia aveva una rosa rossa?» domanda Marino, sulla porta. «In camera sua c’è una rosa rossa.»

«Che cosa?» La signora Paulsson si stupisce.

«Vogliamo andare di là un attimo?» propone Kay, alzandosi. È titubante: non sa come reagirà la signora. «Ci sono alcune cose che dobbiamo chiarire.»

«Va bene.» Si alza in piedi con difficoltà. «Una rosa rossa?»

«Quando si sono visti l’ultima volta Gilly e suo padre?» domanda Kay Scarpetta mentre tornano di là, con Marino che fa strada.

«Il giorno del Ringraziamento.»

«Andò Gilly da lui o venne qui Frank?» chiede Kay Scarpetta con il tono più piatto possibile. Il corridoio le sembra più stretto e più buio di prima.

«Non sapevo di quella rosa» dice la signora Paulsson.

«Ho guardato nei cassetti» spiega Marino. «Lei capisce, è importante…»

«Bisogna proprio fare tutte queste cose, quando uno muore di influenza?»

«Sono certo che la polizia aveva già guardato nei cassetti» replica Marino. «Forse lei non c’era, ma di sicuro hanno perquisito la stanza e scattato fotografie.»

Si scosta per lasciare che la signora Paulsson entri per prima nella camera della figlia. La donna si ferma vicino al comò sulla sinistra e si appoggia al muro. Marino prende dalla tasca i guanti di cotone e li infila prima di aprire il cassetto del comò e tirare fuori la rosa appassita. È un bocciolo, di quelli che vendono alle casse dei supermercati a un dollaro e mezzo l’uno, avvolto nel cellophane.

«Non ne sapevo niente…» La signora Paulsson guarda fisso la rosa e diventa dello stesso colore del bocciolo. «Non so chi possa avergliela regalata.»

Marino resta impassibile.

«Quando tornò dalla farmacia, quella mattina, vide la rosa in camera di Gilly?» chiede Kay Scarpetta. «Non potrebbe avergliela regalata qualcuno che era venuto a trovarla? Gilly aveva il ragazzo?»

«Non capisco» dice la signora Paulsson.

«D’accordo» interviene Marino posando la rosa sul comò, in piena vista. «Lei entrò in camera di Gilly appena tornata dalla farmacia, giusto? Proviamo a ricostruire come andarono le cose. Arrivò a casa, parcheggiò… Dove parcheggiò, signora Paulsson?»

«Qui davanti. Vicino al marciapiede.»

«Lascia sempre lì la macchina?»

La signora Paulsson annuisce e guarda il letto. È ordinato, rifatto, con una trapunta della stessa gradazione di azzurro degli occhi del suo ex marito.

«Signora Paulsson, vuole sedersi un attimo?» le consiglia Kay Scarpetta, lanciando un’occhiata a Marino.

«Le vado a prendere una sedia» si offre lui.

Esce e le due donne rimangono sole nella camera da letto di Gilly, con la rosa rossa sul comò.

«Io sono di origini italiane» dice Kay, guardando i poster appesi alle pareti. «Sono nata qui, ma i miei nonni erano di Verona. È mai stata in Italia?»

«Io no. Frank.» Non aggiunge altro.

Kay Scarpetta la guarda. «Dev’essere molto difficile, me ne rendo conto» le sussurra con dolcezza. «Ma più cose ci dice, più la possiamo aiutare.»

«Gilly è morta di influenza.»

«No, signora Paulsson. L’ho visitata e le assicuro che non è così. Sua figlia aveva avuto la polmonite, ma stava guarendo. Aveva dei lividi sulle mani e sulla schiena.»

La signora Paulsson fa una smorfia disperata.

«Lei sa come potrebbe esserseli procurati?»

«No. Come?» Guarda il letto con gli occhi lucidi.

«Era caduta dal letto? Aveva picchiato da qualche parte?»

«Non mi pare.»

«Procediamo con ordine» dice Kay Scarpetta. «Quando uscì per andare in farmacia, chiuse a chiave la porta di casa?»

«Sì. Chiudo sempre a chiave.»

«La trovò chiusa a chiave, quando tornò?»

Marino sta prendendo tempo. Si capiscono al volo, senza bisogno di mettersi d’accordo.

«Credo. Tirai fuori le chiavi, gridai a Gilly che ero tornata. Lei non mi rispose e io pensai… pensai che si fosse addormentata. Dormire le faceva bene…» Scoppia a piangere. «Credevo dormisse, che fosse con Sweetie. Così gridai: “Spero che Sweetie non sia sotto le coperte con te, Gilly!”.»

19

Posò le chiavi sul tavolino sotto l’attaccapanni, come al solito. L’ingresso era illuminato dal sole che filtrava dalla lunetta sopra il portone facendo danzare la polvere. Si tolse il cappotto e lo appese all’attaccapanni.

«La chiamai di nuovo» dice alla dottoressa. “Sono tornata, Gilly. Sweetie è con te? Dov’è Sweetie? Non è nel letto con te, vero? Lo sai che non voglio, Gilly. Guarda che se è sul letto, so che sei stata tu a prenderla, perché da sola Sweetie non riesce a salirci.”

Entrò in cucina e posò le borse della spesa sul tavolo. Già che c’era, aveva fatto un salto al supermercato in West Cary Street. Prese due scatole di minestra di pollo da una delle borse e le posò vicino ai fornelli, poi estrasse dal freezer una confezione di cosce di pollo e la mise nel lavandino a scongelare. La casa era immersa nel silenzio. Sentiva il tic tac dell’orologio appeso al muro, monotono e insolito, perché in genere non ci faceva caso, con tutta la confusione che c’era.

Aprì un cassetto, prese un cucchiaio, poi riempì un bicchiere di acqua del rubinetto e uscì dalla cucina con cucchiaio, bicchiere e la boccetta di sciroppo per la tosse che aveva appena comprato.

«Quando arrivai in camera di Gilly, la chiamai» racconta alla dottoressa.

“Gilly? Gilly?” Perché non aveva senso… “Gilly? Dov’è il tuo pigiama? Perché te lo sei tolto, avevi caldo? Oddio, dov’è il termometro? Ti sarà mica salita di nuovo la febbre?”

Gilly era stesa sul letto a faccia in giù, completamente nuda, i capelli biondi sparsi sul cuscino, le braccia alzate sopra la testa, le gambe piegate a rana.

“Oddio oddio oddio…” Si mise a tremare convulsamente.

Trapunta e lenzuola erano ammucchiate ai piedi del letto, mezze per terra. Sweetie non era sul letto, non era sotto le coperte, perché non c’erano coperte sul letto. Le lenzuola erano sul pavimento e Sweetie non c’era. Cucchiaio, bicchiere e sciroppo finirono per terra. Non si accorse di averli mollati, però li vide rotolare sul pavimento, vide la pozza di acqua allargarsi sulle assi di legno e si mise a urlare. Le mani che afferrarono Gilly per le spalle non sembravano neanche le sue. Era calda, la girò, la scrollò… E lanciò un altro urlo.

20

Rudy se ne è andato da un po’ e Lucy è in cucina a leggere il verbale della polizia, dove è spiegato che l’effrazione denunciata in data odierna potrebbe essere collegata a quella avvenuta in precedenza nella stessa abitazione eccetera eccetera.

Accanto al verbale c’è una busta gialla, grande, con il disegno dell’occhio che hanno trovato appeso alla porta di servizio. “Bravo Rudy, non gliel’hai lasciato portare via” pensa. Adesso può condurre su quel foglio prove anche distruttive. Guarda fuori dalla finestra e si chiede se la sua vicina Kate sta continuando a bere. Pensando all’odore del vino, le viene la nausea. La disgustano sia lo champagne sia le eccessive confidenze che questo permette di prendersi con sconosciuti resi più affascinanti dall’alcol. C’è passata anche lei e non ne vuole più sapere. Il solo pensiero la riempie di orrore e di rimorso.

È contenta che Rudy sia andato via, così può evitare di parlargliene e di fargli tornare in mente quel periodo terribile. Rischierebbero di piombare in un silenzio imbarazzante, oppure di litigare di nuovo. Quando Lucy beveva, si prendeva tutto quello che le pareva e piaceva per poi scoprire che non le piaceva affatto, che le faceva schifo o la lasciava del tutto indifferente. Sempre che ricordasse cosa si era presa, naturalmente. Da un certo punto in poi, infatti, non ricordava più niente. Non ha ancora trent’anni, ma ha già dimenticato moltissimo. L’ultima volta che si è ubriacata, si è ritrovata su un terrazzo al trentesimo piano, in calzoncini corti nonostante fosse una gelida notte di gennaio a New York, dopo una festa al Greenwich Village.

Non ricorda perché era su quel terrazzo. Forse voleva andare nel bagno e aveva sbagliato porta, o forse aveva preso la ringhiera per la sponda della vasca da bagno e l’aveva scavalcata. Fatto sta che si era ritrovata a guardare la strada trenta piani più in basso. Se fosse caduta, probabilmente sua zia avrebbe letto il referto dell’autopsia e concordato con i colleghi che si era trattato di suicidio in stato di ubriachezza. Nessun test al mondo avrebbe mai potuto dimostrare che Lucy si era alzata per andare nel bagno nella casa sconosciuta di qualche sconosciuto incontrato al Village e aveva semplicemente sbagliato porta. Per fortuna tutto questo è passato, e Lucy non ha voglia di ripensarci.

Quella è stata l’ultima volta che si è ubriacata. Adesso non beve più: l’odore dell’alcol le ricorda l’odore di amanti mai amate, che non avrebbe neppure toccato se fosse stata sobria. Guarda la casa della sua vicina, poi esce dalla cucina e sale di sopra. Pensa che quando si è messa con Henri non era ubriaca. Almeno questo.

Entra nel suo studio, accende le luci e apre una valigetta nera che sembra una normale ventiquattrore, ma in realtà è la custodia di un Global Remote Surveillance Command Center, un sistema di controllo che le consente di accedere a ricevitori wireless in tutto il mondo. Controlla che le batterie siano cariche e che i ripetitori e i registratori funzionino, collega la centralina alla linea telefonica, accende il ricevitore e si infila le cuffie. Vuole sentire se Kate sta parlando con qualcuno, in palestra o in camera. Ma non sente nulla. Si siede alla scrivania, guarda dalla finestra i riflessi del sole sul mare e le palme che si muovono nel vento, restando in ascolto. Effettua alcune regolazioni e continua ad aspettare.

Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, si toglie le cuffie e le posa sul tavolo. Si alza e sposta la valigetta vicino al Crimescope. Una nuvola copre il sole e di colpo la luce si abbassa. Un attimo dopo, però, il sole torna a illuminare lo studio. Lucy si infila un paio di guanti di cotone, toglie il disegno dell’occhio dalla busta e lo posa su un grande foglio bianco. Si risiede, rimette le cuffie e prende un flacone di ninidrina. Lo apre e lo spruzza sul disegno, stando attenta a non inumidirlo troppo. Lo spray non contiene clorofluorocarburi e non dovrebbe danneggiare l’ambiente, ma ha comunque un odore fastidioso. Lucy tossisce.

Si toglie nuovamente le cuffie e si alza. Porta il foglio umido e puzzolente vicino a un ferro a vapore, lo accende, aspetta che si scaldi e preme il pulsante del vapore. Posa il disegno dell’occhio sull’apposito poggiaferro resistente al calore e vi avvicina il ferro, facendo uscire una nuvola di vapore. Nel giro di pochi secondi sul foglio appaiono macchie violacee e Lucy individua una serie di impronte digitali che non può aver lasciato lei perché ricorda benissimo dove ha toccato il foglio per staccarlo dalla porta, a parte il fatto che ha usato i guanti. Non possono averle lasciate neppure gli agenti di polizia, perché Rudy non ha certamente permesso loro di toccarlo. Lucy fa attenzione a non mandare vapore sullo scotch, che non è poroso e non reagisce alla ninidrina, perché il calore farebbe sciogliere la colla eliminando eventuali tracce lasciate dai polpastrelli.

Torna al tavolo, si risiede, infila le cuffie, inforca un paio di occhiali e sistema il disegno macchiato di viola sotto la lente del microscopio. Lo accende, accende anche la lampada a raggi ultravioletti e guarda dall’oculare, arricciando il naso per l’odore di sostanze chimiche. Il tratto della matita è una linea bianca e sottile e vicino all’iride c’è una debole impronta. Lucy regola la messa a fuoco cercando di rendere l’immagine più nitida possibile e constata che l’impronta, benché parziale, è più che sufficiente per lo IAFIS, il sistema integrato di identificazione di impronte automatizzato dell’FBI. Quando ha confrontato le impronte latenti rilevate nella sua camera da letto dopo l’aggressione ai danni di Henri con quelle del database, non ha ottenuto risultati: evidentemente la bestia non è schedata. Questa volta confronterà l’impronta latente con gli oltre due miliardi di impronte latenti contenute nel database e chiederà a qualcuno dell’Ultimo Distretto di confrontare quelle rilevate in camera con quelle del disegno. Monta una fotocamera digitale sull’oculare del microscopio e scatta alcune foto.

Cinque minuti dopo, mentre fotografa un’altra impronta, meno nitida della precedente, sente un suono nelle cuffie. Alza il volume, effettua alcune regolazioni e controlla che il nastro registri quello che lei sta per sentire in diretta.

«Cosa stai facendo?» domanda la voce strascicata di Kate. Lucy la sente bene e si china in avanti per controllare che la centralina funzioni correttamente. «Non riesco a venire al tennis, oggi.» La voce le arriva alle orecchie attraverso il trasmettitore nascosto nell’adattatore inserito nella presa della palestra.

Si sente in sottofondo il rumore dell’ellittica, ma Lucy dubita che la sua vicina si alleni nelle condizioni in cui è. L’ubriachezza, però, non le impedisce di spiarla: Kate sta sbirciando dalla finestra. Probabilmente non ha niente di meglio da fare che bere e curiosare tutto il giorno.

«No, no, è che mi sta venendo il raffreddore. Senti che ho il naso chiuso? Avresti dovuto vedere quando mi sono alzata: non riuscivo a respirare…»

Lucy guarda prima la spia rossa accesa sul registratore e poi il foglio di carta sotto la lente del microscopio, che si è arricciato per il calore. Le impronte violacee sono grandi abbastanza per essere di un uomo, ma è meglio non tirare conclusioni affrettate. L’importante è che ci siano. Sempre che appartengano alla bestia, e che chi ha attaccato quell’orribile disegno alla porta di Lucy sia la stessa persona che si è introdotta furtivamente nella villa e ha aggredito Henri. Lucy guarda affascinata le macchie, le tracce che la bestia ha lasciato sul foglio, gli aminoacidi che ha perso con il sudore.

«Sai che la mia nuova vicina è un’attrice famosa?» dice la voce di Kate. «Ti dirò, non mi sono sorpresa, quando me lo ha detto. In realtà l’avevo già capito da sola. C’è sempre un viavai di macchinoni… Quanto costano: centinaia di migliaia di dollari? E poi tutto quello sfarzo. Un po’ volgare, se devo dire. Del resto, si sa, la gente di spettacolo…»

La bestia non è stata attenta a non lasciare impronte. Se n’è fregata e Lucy prova un moto di sgomento nel rendersene conto. Sarebbe stato meglio il contrario. Chi si premura di non lasciare traccia di sé sa di poter essere riconosciuto, sa di essere schedato e quindi, molto probabilmente, ha precedenti penali. Invece le impronte della bestia non compaiono in nessun database. La bestia non si preoccupa, maledizione. Se ne frega altamente, perché sa che nessuno potrà mai identificarla dalle impronte digitali. “Vedremo” pensa Lucy, guardando minacciosa le macchie violacee sul foglio. Le pare quasi che sia lì, ne percepisce la presenza su quel disegno. Si sente osservata anche da Kate e si innervosisce sempre di più. La rabbia che le cova dentro minaccia pericolosamente di esplodere.

«… Tina… Oddio, mi sono dimenticata il cognome! O forse non me l’ha nemmeno detto. No, no, me lo ha detto. Mi ha raccontato tutto: di lei, del suo ragazzo, della sua collega che è stata aggredita ed è tornata a Hollywood…»

Lucy alza il volume e fissa le macchie viola sul foglio mentre ascolta con attenzione la sua vicina che parla di Henri. Come fa a sapere che è stata aggredita? Sui giornali la notizia non è uscita e Lucy ha accennato a un maniaco, ma non ha parlato di aggressioni.

«Carina, molto. Bionda, bel fisico, graziosa anche di viso. Alta e magra, sai, la classica attrice hollywoodiana. Non sono certa, ma la mia impressione è che lui stia con l’altra, Tina. Perché? Ma è ovvio, cara. Se stesse con la biondina, sarebbe andato via con lei, no? Sì, la bionda è ripartita dopo la storia del ladro, della polizia, dell’ambulanza…»

“Ah, già, l’ambulanza” pensa Lucy. Kate ha visto l’ambulanza, la barella, e ne ha dedotto che Henri è stata aggredita. “Non sono abbastanza lucida” si dice, arrabbiata e frustrata. Non le piace perdere la lucidità e farsi prendere dal panico. Continua ad ascoltare e guarda fisso il registratore nella valigetta sul tavolo, vicino al Crimescope. “Cosa mi prende?” si domanda. Ripensa al sudamericano sulla Ford blu e si sente una perfetta imbecille.

«Sì, infatti, me lo sono chiesta anch’io: perché i giornali non ne hanno parlato? Eppure ho controllato, lo sai. Non c’era niente.» Kate continua a parlare con voce strascicata. Probabilmente sta continuando a bere. «Infatti, infatti» ribadisce con sempre maggior convinzione. «Succede una cosa del genere a gente di spettacolo e i giornali non scrivono nemmeno una riga? Però è così. Forse sono in incognito, la stampa non ne sa nulla. Perché dici questo? Non è vero. Ha un senso eccome. Pensaci…»

“Possibile che tu non sappia parlare d’altro che di queste fesserie?” si spazientisce Lucy.

“Devo darmi una regolata” si dice poi. Cerca di riflettere. I capelli trovati sul letto! Capelli lunghi, neri, ondulati. “Porca miseria” pensa. “Perché non gliel’ho chiesto?”

Si toglie le cuffie e le posa sul tavolo, poi si guarda intorno, mentre la registrazione della telefonata della sua vicina continua. «Merda!» esclama ad alta voce. Non ha chiesto a Kate né il cognome né il numero di telefono e non ha voglia di cercarli. E comunque, dubita che Kate risponderebbe al telefono, se la chiamasse.

Si va a sedere a un’altra scrivania e accende il computer, con cui prepara due inviti per la première del film Jump Out riservata al cast e a un ristretto gruppo di amici, in programma il 6 giugno a Los Angeles. Li stampa su carta fotografica lucida, li taglia perché siano della misura giusta e li mette in una busta con un bigliettino: “Cara Kate, mi ha fatto molto piacere chiacchierare con te. Hai riconosciuto quello con “i capelli lunghi, neri e ondulati? (Dài, su, non è difficile!)”. Aggiunge il proprio numero di cellulare.

Esce di corsa e suona alla porta di Kate, che non risponde al citofono né tantomeno apre la porta. Evidentemente è troppo ubriaca. Magari si è addormentata. Le infila la busta nella buca delle lettere.

21

La signora Paulsson è nel bagno, e non sa come ci è finita.

È un bagno vecchio, anni Cinquanta, con il pavimento di mattonelle bianche e blu, un semplice lavabo bianco, un semplice WC bianco e una semplice vasca bianca con una tenda da doccia rosa e viola. Nel bicchiere sul bordo del lavandino ci sono lo spazzolino di Gilly e un tubetto di dentifricio. Perché è venuta nel bagno?

Guarda spazzolino e dentifricio e scoppia in singhiozzi ancora più convulsi. Si lava la faccia con l’acqua fredda, ma non serve a niente. Affranta, esce e torna in camera di Gilly, dove la dottoressa di Miami la sta aspettando. Il poliziotto è stato così gentile da portarle una sedia e sistemargliela vicino al letto. È tutto sudato. Nella stanza fa freddo, la finestra è aperta, ma lui ha la faccia rossa e imperlata di sudore.

«Ci dica tutto.» Le sorride senza cordialità, ma lei lo trova attraente. Non sa perché, ma le piace. Le piace provare qualcosa quando lo guarda, quando lui le va vicino. «Si accomodi, signora Paulsson. Cerchi di calmarsi» le dice.

«Avete aperto voi la finestra?» gli domanda, sedendosi e mettendosi le mani in grembo.

«Quando tornò dalla farmacia, quella mattina, trovò la finestra aperta o chiusa?» le chiede lui per tutta risposta. «Se lo ricorda?»

«È una stanza calda, questa. I termosifoni sono difficili da regolare. L’impianto è vecchio.» Guarda il poliziotto e la dottoressa. Non le sembra giusto stare lì seduta vicino al letto di Gilly a guardarli dal basso. Si sente piccola piccola, è spaventata, tesa. «Gilly la teneva spesso aperta. Quindi può darsi che fosse aperta, quando sono tornata dalla farmacia. Non riesco a fare mente locale.» Le tende ondeggiano, bianche e impalpabili come fantasmi. «Sì, forse era aperta» aggiunge.

«Sapeva che è rotta? Che non si chiude?» domanda il poliziotto. È immobile e la guarda negli occhi. Non si ricorda come ha detto che si chiama. Marinara? Qualcosa del genere, comunque.

«No» risponde impaurita.

La dottoressa va a chiudere la finestra con le mani protette dai guanti bianchi e guarda fuori.

«Non c’è niente di bello da vedere in questa stagione, dottoressa» dice con il cuore che batte forte. «In primavera, però, è una meraviglia.»

«Lo credo» replica lei. La dottoressa è una donna interessante, ma le mette paura. Si spaventa per niente, ormai. «Ho il pollice verde. Mi piace trafficare in giardino. E a lei?»

«Sì, molto.»

«Secondo voi è entrato qualcuno dalla finestra?» domanda, notando che il davanzale, il telaio e i vetri sono sporchi di polvere nera.

«Ho controllato se c’erano impronte digitali» spiega l’uomo. «Non so perché la polizia non le avesse cercate. Io ne ho trovate alcune. Adesso faremo le verifiche del caso. Dovrò prenderle le impronte, signora Paulsson, per escludere che siano le sue. O gliele hanno già prese i poliziotti?»

La donna fa di no con la testa e guarda fuori. La finestra è tutta sporca di polvere nera.

«Chi vive in quella casa lì dietro, signora Paulsson?» le domanda il poliziotto vestito di nero. «Quella oltre la recinzione.»

«Una signora molto anziana. È un po’ che non la vedo. Parecchio, a dire il vero. Anni, forse. In realtà non so se ci abita ancora lei. L’ultima volta che ho visto entrarci qualcuno è stato sei mesi fa, più o meno. Stavo raccogliendo i pomodori. Ho un piccolo orto, lì vicino alla staccionata, e l’estate scorsa avevo tanti di quei pomodori che non sapevo più cosa fame. Ho sentito qualcuno che camminava dietro la recinzione, facendo non so cosa. Non mi ha salutato, non mi ha detto niente, non credo che fosse la signora. Be’ otto, nove, dieci anni fa era già vecchia: sarà mancata nel frattempo.»

«Sa se la polizia ha parlato con le persone che ci abitano adesso?» le chiede il poliziotto vestito di nero.

«Credevo che lei fosse della polizia.»

«Non del Dipartimento di Richmond. L’ispettore che si è occupato delle indagini e io lavoriamo in due posti diversi.»

«Capisco» dice la signora Paulsson, anche se non è vero. «Comunque mi sembra che l’ispettore Brown…»

«Browning» la corregge il poliziotto vestito di nero, e lei si accorge che si è tolto il berretto e se lo è infilato nella cintura dei pantaloni. È calvo. Immagina di accarezzargli la testa rasata.

«Va be’. Qualche domanda sui vicini me l’ha fatta» risponde. «Io ho detto che prima in quella casa abitava una vecchietta e che adesso non so chi ci stia. Sempre che ci abiti qualcuno. Credo di avergli detto questo, almeno. Non sento mai nessuno. E poi vede che erba alta, dalle fessure nella staccionata?»

«Ci dica che cosa fece quando tornò dalla farmacia, signora Paulsson» interviene la dottoressa. «Per favore, cerchiamo di non divagare.»

«Ho portato le borse della spesa in cucina e sono andata a controllare Gilly. Credevo che dormisse.»

Dopo un momento, la dottoressa le fa un’altra domanda. Vuole sapere perché pensava che dormisse, in che posizione era Gilly, un sacco di domande che la mandano nel pallone. Domande crudeli, che le fanno male, che vanno a toccare punti troppo sensibili. Che cosa gliene importa? Una dottoressa non deve mica fare quel tipo di domande. È una bella donna, una donna che sa il fatto suo, minuta ma decisa. Ha un tailleur pantalone scuro che le dà un’aria importante e fa risaltare il biondo dei capelli corti. Ha mani forti ma aggraziate, senza anelli. La signora Paulsson le guarda, le immagina sul corpo di Gilly e scoppia di nuovo a piangere.

«L’ho scossa e ho cercato di svegliarla» risponde senza neanche accorgersene. Lo ripete.

“Perché ti sei tolta il pigiama, Gilly? Perché l’hai buttato per terra? Cos’è successo? Oddio oddio…”

«Ci descriva com’era Gilly quando lei entrò nella stanza» insiste la dottoressa. «Mi rendo conto che è difficile, signora. Marino, vai per favore a prendere dei fazzoletti di carta e un bicchiere di acqua?»

“Dov’è Sweetie? Oddio, dov’è Sweetie? Non l’avrai fatta salire di nuovo sul letto, vero?”

«Sembrava addormentata» risponde la signora Paulsson.

«Era sdraiata sulla schiena o sulla pancia? Cerchi di ricordare in che posizione era quando lei entrò. Lo so, è difficile, ma…»

«Gilly dorme sul fianco.»

«Ed era sul fianco, quando lei entrò?» insiste la dottoressa.

“Oddio, Sweetie ha fatto la pipì nel letto. Sweetie? Dove sei? Ti sei nascosta sotto il letto, birbantella? Sei di nuovo salita sul letto? Cattiva! Non devi salire sul letto: quante volte te lo devo dire? Guarda che ti do via!”

«No» risponde, in lacrime.

“Gilly, ti prego svegliati. Ti prego ti prego rispondimi. Dimmi che non è vero! No, non è vero!”

La dottoressa è venuta ad accucciarsi vicino alla sua sedia, la guarda negli occhi e le tiene la mano. Gliela stringe e le parla con dolcezza.

«No!» singhiozza. «Era nuda, completamente nuda! Oddio! Gilly non si sarebbe mai messa così, senza pigiama. Si figuri che per cambiarsi chiudeva a chiave la porta…»

«Va tutto bene, signora» le dice affettuosamente la dottoressa, sempre tenendole la mano, con lo sguardo rassicurante. «Respiri, signora, respiri profondo. Ecco, così. Brava. Respiri, respiri.»

«Mi sta venendo un infarto?» chiede terrorizzata. «Mi hanno portato via la mia bambina. Gilly non c’è più… Oh, Gilly, Gilly…»

Il poliziotto vestito di nero è sulla porta. Ha dei fazzoletti di carta e un bicchiere d’acqua in mano. «Chi le ha portato via la sua bambina, signora? Chi è stato?»

«Non è morta di influenza, vero? No, no. La mia bambina… L’influenza non c’entra, vero? Me l’hanno portata via loro…»

«Loro chi?» insiste l’uomo grande e grosso. «Pensa che fossero più di uno?» Entra nella stanza.

La dottoressa si fa dare il bicchiere e aiuta la signora Paulsson a bere un po’ d’acqua. «Ecco, così. Brava. A piccoli sorsi. Respiri. Cerchi di calmarsi. C’è qualcuno che può venire qui a tenerle compagnia? È meglio che non resti sola per un po’»

«Loro chi? Loro chi?» esclama lei, facendo il verso al poliziotto. Cerca di alzarsi dalla sedia, ma le cedono le gambe. Non si regge in piedi. «Ve lo dico io, chi sono “loro”.» Il dolore si trasforma improvvisamente in rabbia, una rabbia terribile, che le fa paura. «Quelli che Frank invitava in questa casa, ecco chi. Fatevelo dire da lui. Fatevi dire come si chiamavano.»

22

Nel laboratorio dell’Istituto di medicina legale, il dottor Junius Eise tiene un filamento di tungsteno sulla fiamma di una lampada ad alcol.

Il suo è un trucco usato da secoli dai migliori tecnici di laboratorio e questo fatto lo riempie di orgoglio, perché è un purista. Eise ama la scienza e la storia, la bellezza e le donne. Stringe il filamento con le pinze e osserva il metallo grigiastro diventare incandescente, immaginando che diventi rosso per l’emozione o per la rabbia. Poi lo allontana dalla fiamma e ne immerge la punta nel nitrito di sodio, in modo da ossidarlo e appuntirlo. Quindi lo raffredda in acqua, facendolo sibilare.

Fissa il filamento in un porta aghi di acciaio inossidabile, cosciente del fatto che dedicarsi alla fabbricazione di quello strumento è un modo per procrastinare, per trovare un po’ di tempo per sé, distrarsi un momento, riprendere il controllo della situazione. Si avvicina al microscopio e guarda il misterioso caos che vi ha lasciato.

«Non capisco proprio» dice ad alta voce, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

Con l’attrezzo che ha appena finito di fabbricare sposta le particelle di vernice che ha trovato sul cadavere di un uomo rimasto schiacciato sotto un trattore alcune ore prima. È evidente che il direttore dell’istituto teme una causa da parte dei familiari, altrimenti il suo laboratorio, che si occupa prevalentemente di casi di omicidio in cui fibre, peli e minuscole particelle possono incastrare un assassino, non sarebbe stato coinvolto. In genere il suo laboratorio non si occupa di morti accidentali. Tuttavia, se si svolgono ricerche accurate, a volte qualcosa salta fuori, come in questo caso. Solo che quel che è saltato fuori non ha senso. In questi momenti, Eise rimpiange di non essere andato in pensione due anni fa, o di aver rifiutato la promozione a direttore del laboratorio. Lo ha fatto perché non gli interessa il potere: preferisce stare dietro a un microscopio, mentre l’idea di dover lottare quotidianamente con i budget, i problemi del personale e il dottor Marcus lo fa rabbrividire.

Con il filamento di tungsteno sposta le particelle di vernice e metallo su un vetrino asciutto. Sono mescolate ad altre particelle e a una polvere bruno grigiastra molto strana, che non aveva mai visto fino a due settimane prima, quando l’ha scoperta in un caso che non c’entra niente con questo. Perché Eise non crede che l’improvvisa e misteriosa morte di una quattordicenne abbia qualcosa a che fare con l’infortunio sul lavoro di un operaio incauto.

È teso, nervoso. Le particelle di vernice sono delle dimensioni di scaglie di forfora. Bianche, rosse e blu. Non è vernice da carrozzeria, certamente non vengono dal trattore. E comunque perché Theodore Whitby avrebbe dovuto avere scaglie di vernice di carrozzeria su una ferita al volto? E perché lo stesso tipo di scaglie di vernice e la stessa identica polvere grigiastra avrebbero dovuto essere nella bocca e sulla lingua di una quattordicenne? Ma è la polvere a preoccupare maggiormente Eise. È una polvere stranissima, mai vista, fatta di particelle irregolari e crostose, come di fango secco. Ma non sono di fango. La superficie è a tratti irregolare, con fessure e bolle, e a tratti liscia, con bordi sottili e trasparenti. Alcune particelle sono bucherellate.

«Ma che diavolo…?» esclama. «Non capisco. Perché questa strana polvere è su due persone morte in circostanze tanto diverse? Non può esserci nessun legame fra loro. Che cosa è successo?»

Prende un paio di minuscole pinzette e toglie dalle particelle sul vetrino alcune fibre di cotone, che, ingrandite, sembrano pezzetti di filo bianco ondulato.

«Odio i tamponi di cotone» borbotta Eise. «Dio, quanto li odio!» insiste, rivolgendosi alle decine di microscopi, provette, aggeggi metallici e flaconi di sostanze chimiche del laboratorio. Le postazioni di lavoro sono perlopiù vuote, perché i tecnici che di solito le occupano sono in altri laboratori, alle prese con assorbimenti atomici, gascromatografie, spettrometrie di massa, diffrazioni ai raggi X. Visto che i finanziamenti sono pochi e il lavoro tanto, fanno a gara per accaparrarsi spettrofotometri FT-IR, microscopi a scansione elettronica e altri strumenti sofisticati.

«Lo sappiamo, che odi i tamponi di cotone» replica Kit Thompson, seduta poco distante da lui.

«Potrei farmi una trapunta con le fibre di cotone che ho raccolto nella mia pur breve vita» contìnua Eise.

«Dovresti. Ne parli sempre, ma poi non la fai mai» lo stuzzica Kit.

Eise raccoglie un’altra fibra. Non è un lavoro facile. Al minimo spostamento delle pinzette o della punta di tungsteno, la fibra vola via. Eise regola la messa a fuoco e diminuisce l’ingrandimento. Trattiene il respiro e osserva il cerchio di luce brillante, cercando di decifrarne i segreti. Esiste una legge fisica che spiega perché, quando uno spostamento d’aria muove una fibra di cotone, questa ti sfugge come animata di vita propria anziché venire dalla tua parte?

Eise osserva la punta delle pinzette che gli invade il campo visivo. Il cerchio luminoso gli fa venire in mente un circo, con elefanti e pagliacci che si esibiscono sotto i riflettori. Ricorda quando, da bambino, ammirava lo spettacolo seduto su una panca di legno, fra altri bambini che reggevano in mano nuvole di zucchero filato. Poi raccoglie l’ennesima fibra di cotone e la trasferisce in una bustina di plastica piena di altre fibre contaminate, senza valore per le indagini.

Pensa ai problemi che ha con il dottor Marcus. Gli ha consigliato innumerevoli volte di far raccogliere le tracce con il nastro adesivo, anziché con i tamponi di cotone, che lasciano miliardi di leggerissime fibre sui campioni.

È come avere peli di gatto d’angora su un paio di pantaloni di velluto, gli ha scritto in una delle sue numerose e-mail, come togliere il pepe dal purè di patate o la panna dal caffè. Ha fatto ricorso a tutte le analogie possibili e immaginabili, ma senza successo.

«La settimana scorsa gli ho mandato due rotoli di nastro adesivo e una confezione di post-it, spiegandogli che sono perfetti per rimuovere tracce da qualsiasi superficie in quanto non le rompono, non le distorcono e non le impestano di fibre di cotone. Gli ho specificato che non interferiscono con diffrazioni ai raggi X o altri esami. Insomma, non è che vogliamo solo risparmiarci un lavoro: è giusto evitare una fatica inutile!»

Kit aggrotta la fronte e apre un flacone di Permount. «Gli hai mandato dei post-it e gli hai detto che rimuovere fibre di cotone è come togliere il pepe dal purè di patate?»

Eise è uno che dice pane al pane e vino al vino, specie quando una cosa gli sta a cuore. Non gli importa cosa possono pensare gli altri. «Invece, quando ha controllato la bocca della ragazzina, Marcus o chi per lui ha usato tamponi di cotone. Che bisogno c’era? La lingua si asporta, no? La posi su un tagliere, vedi a occhio nudo se ci sono residui e li raccogli con il nastro adesivo. Invece no: tamponi di cotone. E io passo le giornate a togliere fibre che non c’entrano niente.»

Quando le persone vengono ridotte a lingue posate su taglieri, il loro nome non conta più. Specie se avevano quattordici anni. I morti non vengono mai chiamati per nome, in un Istituto di medicina legale. Non si dice: “Ho infilato le mani nella gola di Gilly Paulsson, ho praticato un’incisione con il bisturi e le ho estratto la lingua”. E non si dice nemmeno: “Abbiamo infilato un ago nell’occhio del piccolo Timmy per prelevare un campione di umore vitreo e sottoporlo a un esame tossicologico” oppure “Abbiamo segato la scatola cranica della signora Jones per asportarle il cervello e scoperto un aneurisma di Berry” e “Ci sono voluti due medici per recidere i muscoli mastoidei del signor Ford per via del rigor mortis. Non si riusciva ad aprirgli la bocca”.

È un pensiero che colpisce Eise all’improvviso. Gli succede spesso: le cose gli vengono in mente così, di punto in bianco. Lo scaccia, perché lo turba pensare che a un certo punto le persone diventano soltanto pezzi senza nome, campioni e vetrini da esaminare.

«Non pensavo che Marcus facesse autopsie» replica Kit. «Lo credevo troppo preso da altre cose. Personalmente, devo averlo incontrato solo due o tre volte, da quando è qui.»

«Non ha importanza se fa le autopsie oppure no. È il direttore, decide lui. Tocca a lui dire all’ufficio acquisti se ordinare post-it, nastro adesivo o tamponi di cotone. La responsabilità è sua.»

«Comunque non credo sia stato lui a esaminare quella ragazzina. E nemmeno l’uomo che è finito sotto il trattore» insiste Kit. «Non si sporca le mani, quello. Preferisce comandare.»

«Tu ti trovi bene con questo aggeggio?» chiede Eise alla collega, mostrandole la punta di tungsteno.

È ossessionato da quegli strumenti, ne fabbrica in grande quantità e li regala ai tecnici che lavorano con lui.

«Abbastanza» risponde la donna, e Eise pensa che probabilmente non l’ha mai usato, ma non vuole offenderlo. «Sai una cosa? Questo capello lo lascio da parte» aggiunge Kit, richiudendo il flacone di Permount.

«Stai parlando della ragazzina? Quanti ne abbiamo?»

«Tre» risponde lei. «Non so se quelli del DNA vogliono provare a ricavarci qualcosa. La settimana scorsa non sembravano molto interessati. Per ora, lascio tutto qui, poi vediamo. Ultimamente dev’essere successo qualcosa. Ho visto Jessie, prima, e mi ha detto che devono riesaminare le lenzuola per verificare che la prima volta non gli sia sfuggito niente. Era furibonda. Che stranezza! Le avevano già esaminate più di una settimana fa, mi risulta. Da dove li hanno recuperati questi capelli, se no? Mah… Sarà il clima natalizio. Pensa che devo ancora comprare tutti i regali.»

Infila un paio di minuscole pinzette in una bustina di plastica trasparente e ne estrae con delicatezza un altro capello. È lungo una quindicina di centimetri, scuro e ondulato. Eise osserva Kit che lo posa su un vetrino, aggiunge una goccia di xilene e lo copre. È una prova importante, raccolta fra le lenzuola della ragazzina nella cui bocca sono state trovate le scaglie di vernice e la strana polvere che lo tormentano.

«Kay Scarpetta era di tutt’altra pasta» dice Kit.

«E ti ci è voluto così tanto per capirlo? Dovevi fargli la prova del DNA, per capire che sono due persone completamente diverse? Ragazza mia, non mi sembri molto perspicace.»

Kit scoppia a ridere e si allontana dal microscopio per non far volare via niente dal tavolo.

«Sniffi troppo xilene, te lo dico io. Ti ha dato di volta il cervello.»

«Oh, Signore!» Kit cerca di ricomporsi e sospira. «Volevo solo dire che non passeresti le giornate a togliere fibre di cotone dai tuoi campioni, se ci fosse ancora Kay Scarpetta. A proposito, sai che è tornata? L’hanno chiamata per una consulenza. Si occupa della ragazzina, Gilly Paulsson.»

«Scherzi?» Eise non riesce a crederci.

«Se non te ne andassi sempre prima di tutti gli altri e non fossi così antisociale, forse le voci di corridoio arriverebbero anche a te» rimarca Kit.

«Perbacco!» Se è vero che Eise tende a non attardarsi in laboratorio dopo le cinque del pomeriggio, è vero anche che spesso è il primo ad arrivare al mattino: di solito alle sei e un quarto è già al lavoro. «Non avrei mai detto che il nostro amico chiedesse aiuto proprio a lei.»

«Il nostro amico? Tuo, semmai.»

«Comunque sia. Non pensavo che avrebbe chiamato Ms Scarpetta Superstar.»

«Non la conosci. È tutt’altro che una superstar» gli fa notare Kit, montando il vetrino sul microscopio. «L’ha chiamata perché è la più brava, penso. Questo capello è tinto, come gli altri due. Nero corvino. Okay, la questione è risolta: non se ne fa niente. Non si vedono granuli di pigmento. Potrebbe essere stato trattato anche con qualche prodotto anticrespo. Vedrai che quelli del DNA decidono per il mitocondriale. Manderanno i miei preziosi capelli a qualche superlaboratorio. Che strano, però… Forse la Scarpetta ha stabilito che la ragazzina è morta ammazzata: per questo si stanno mobilitando di nuovo tutti.»

«Non farci niente, a quei capelli» dice Eise, riflettendo che un tempo la prova del DNA era una delle tante, mentre adesso è diventata la più importante, “la prova per eccellenza”, destinataria di tutti i finanziamenti per ricerca e sviluppo. Eise ce l’ha a morte con i tecnici che si occupano di DNA. A loro non regala filamenti di tungsteno.

«Non ci faccio niente, stai tranquillo» risponde Kit, guardando al microscopio. «Non c’è linea di demarcazione. Interessante. È strano, per un capello tinto. Vuol dire che non è cresciuto di un micron da quando l’hanno tinto.»

Sposta il vetrino, mentre Eise la guarda stupito. «Niente radice? E com’è? Caduto, strappato, spezzato, piegato, danneggiato da un ferro caldo, bruciato, con le doppie punte? Su, illuminami.»

«Nessuna radice. La punta mi sembra tagliata. Tutti e tre i capelli sono tinti di nero e senza radice. Strano, eh? Estremità tagliate da ambo le parti, in tutti e tre. Non ce n’è uno spezzato, rotto o strappato alla radice. Questi capelli non sono caduti: sono stati tagliati. Adesso tu dimmi: com’è che sono tagliati sia da una parte che dall’altra?»

«Potrebbero essere di una persona appena uscita dal parrucchiere. Magari le erano rimasti sui vestiti, o fra i capelli…»

Kit fa una smorfia. «Mi piacerebbe vedere Kay Scarpetta, se è davvero qui a Richmond. Anche solo per salutarla. Mi è dispiaciuto tanto, quando se n’è andata… È stata una grande perdita sia per l’istituto che per la città. Se penso che adesso ci ritroviamo il dottor Marcus… Sai una cosa? Non mi sento tanto bene. Ho mal di testa e sono tutta rotta.»

«Magari la fanno tornare» dice Eise. «Quella della consulenza potrebbe essere una scusa per rimetterla a capo dell’istituto. Almeno, quando ci mandava dei campioni, lei non sbagliava a etichettarli e sapeva sempre da dove provenivano. E poi era simpatica, parlava dei casi direttamente con noi, invece di trattarci come dei robot. E, appena poteva, usava il nastro adesivo invece dei tamponi di cotone. Ci stava a sentire, ci trattava come esseri umani. Sì, hai ragione, non era una superstar.»

«Non si vede tessuto corticale» dice Kit, osservando il capello scuro ingrandito, che sembra un albero spoglio. «Niente di niente, come se l’avessero immerso in un calamaio pieno di inchiostro nero. Nessuna linea di demarcazione: o l’hanno tagliato sotto la ricrescita, oppure era appena stato tinto.»

Prende un appunto, sposta il vetrino e regola messa a fuoco e ingrandimento cercando di capire qualcosa di più, ma il capello non ha nulla da dirle. Non c’è pigmento alla cuticola, nascosto dalla tintura. I capelli tinti, decolorati, e grigi al microscopio risultano praticamente tutti uguali, e la maggioranza della popolazione ha i capelli tinti, decolorati o grigi. Ma l’aspettativa è forte e le giurie vorrebbero che da un capello si dicesse loro chi è stato, che cos’ha fatto, come, quando, dove e perché.

Eise detesta il modo in cui televisione e cinema presentano la sua professione. Ormai, quando viene a sapere che lavoro fa, la gente si congratula con lui dicendo: “Che mestiere interessante!”. Eise non è mai andato sulla scena di un crimine, non gira armato, non riceve telefonate nel cuore della notte, non indossa tute speciali né salta a bordo di fuoristrada alla ricerca di fibre, impronte digitali, DNA e marziani. Quello è il lavoro degli ispettori di polizia, dei tecnici della Scientìfica, dei medici legali… Un tempo era più semplice: l’opinione pubblica si disinteressava della medicina forense, gli ispettori come Pete Marino andavano sul luogo del delitto con i loro pickup mezzi scassati e raccoglievano le prove da soli. Quelle giuste, non una di più e non una di meno.

Adesso, per non sbagliare, alcuni raccolgono tutto quello che c’è in un parcheggio, smontano le case e le portano lì da analizzare. Come se un cercatore d’oro si portasse a casa direttamente il fiume, invece di setacciarlo pezzo per pezzo. Il problema è che ormai nessuno ha più voglia di fare niente ed è tutto più complicato. Eise è scoraggiato, medita di andare in pensione. Non ha più tempo per fare certe ricerche o semplicemente per fare bene il suo lavoro, gli tocca compilare un cumulo di scartoffie e non gli è concesso commettere il minimo errore. È stressato, gli bruciano gli occhi e non dorme la notte. Quando grazie al suo lavoro viene arrestato e condannato un assassino, nessuno gli mostra un briciolo di gratitudine. Ma che razza di vita è? Sempre peggio… Sì, proprio così: sempre peggio.

«Se vedi la dottoressa Scarpetta, chiedile di Marino» dice Eise a Kit. «Quando bazzicava da queste parti, a volte andavamo a berci una birra insieme.»

«È qui anche lui. L’ha accompagnata» risponde Kit. «Sì, non mi sento proprio per niente bene. Mi brucia anche un po’ la gola. Non vorrei essermi buscata l’influenza.»

«Davvero è qui anche Marino? Perbacco, adesso lo chiamo. E si occupa anche lui della ragazzina con la polmonite?»

Gilly Paulsson è diventata “la ragazzina con la polmonite”. I soprannomi sono più facili da usare — e da ricordare — dei nomi veri. I morti diventano il luogo in cui sono stati ritrovati o il modo in cui sono passati a miglior vita. La signora della valigia. La donna delle fogne. Il bambino della discarica. L’uomo ratto. Il signor scotch. Eise non ha la più pallida idea di come si chiamassero, quando erano vivi. E preferisce così.

«Spero che la dottoressa Scarpetta sappia come mai la ragazzina con la polmonite aveva in bocca scaglie di pittura bianche, rosse e blu e la polvere più strana che io abbia mai visto» dice. «Scaglie di metallo, capisci? Verniciate di bianco, rosso e blu. Oppure senza vernice, briciole di metallo lucido. E questa strana polvere che non ho idea di che cosa possa essere.» Sposta ossessivamente le particelle sul vetrino. «Adesso faccio un SEM/EDX per vedere che razza di metallo è. Che cosa c’era di bianco, rosso e blu in casa della ragazzina? Spero proprio di vederlo, Marino. Gli offrirei volentieri una birretta. Perbacco, me ne berrei una adesso…»

«Io no. Mi sento poco bene» ripete Kit. «So che questi campioni non sono contagiosi, ma… Voglio dire, vengono comunque dall’obitorio.»

«Stai tranquilla, quando arrivano qui, i batteri sono morti e sepolti» la rassicura Eise, alzando la testa dal microscopio. «Se li osservi con attenzione, vedi che hanno una piccola lapide sopra la testa. Effettivamente sei un po’ palliduccia.» Gli dispiace ammetterlo: non vorrebbe incoraggiarla a prendersi qualche giorno di malattia. Sente la sua mancanza, quando non c’è. Però si vede che non sta bene e non sarebbe giusto fingere il contrario. «Perché non vai a casa prima? Hai fatto il vaccino antinfluenzale? Io no. Quando l’ho chiesto al mio medico, era già esaurito.»

«Neanch’io sono riuscita a farlo. Eppure l’ho cercato dappertutto» replica Kit alzandosi in piedi. «Vado a preparare un po’ di tè caldo.»

23

Lucy non è molto brava a delegare. Per quanto si fidi di Rudy, non gli lascia in mano il proprio lavoro. Specialmente adesso, a causa di Henri e dei sentimenti che scatena in lui. Seduta nel suo studio, controlla i risultati della ricerca nel database di impronte digitali mentre, con le cuffie in testa, finisce di ascoltare le insulse telefonate della sua vicina di casa. È giovedì mattina, presto. Manca una settimana a Natale.

Ieri sera Kate le ha telefonato e le ha lasciato un messaggio in segreteria. “Grazie dei biglietti!” le ha detto. “Chi è la signora della piscina? Anche lei è famosa?” Lucy ha una signora che le va a pulire la piscina e che non è per niente famosa. È una donna di cinquant’anni, scura di capelli e troppo debole per usare lo skimmer. Non è un’attrice e nemmeno una bestia. Le impronte digitali che ha rilevato sul disegno dell’occhio non corrispondono a nessuna di quelle contenute nello IAFIS. Lucy se lo aspettava, perché trovare una corrispondenza fra impronte latenti è difficilissimo, ma è comunque delusa.

Ogni persona ha dieci impronte diverse, nel senso che l’impronta del pollice sinistro, per esempio, non corrisponde a quella del destro. Senza una schedatura completa, la ricerca in un database produce risultati soltanto se l’assassino ha già lasciato sulla scena di un crimine la stessa identica impronta e se questa è stata caricata nella banca dati. Se l’impronta è incompleta, il confronto manuale o visivo può essere più efficace di quello automatizzato.

E infatti Lucy con questo ha più fortuna: le impronte latenti e parziali sul disegno corrispondono ad alcune impronte parziali rilevate nella camera da letto in cui Henri è stata aggredita. Se lo aspettava, ed è contenta di averne la conferma. La bestia che si è introdotta in casa sua è la stessa che le ha attaccato un disegno alla porta di servizio e le ha sfregiato la Ferrari. Sull’auto non c’erano impronte, ma l’occhio è troppo simile perché l’abbia disegnato qualcun altro. C’è una sola bestia in giro, ma chi è? Lucy non ne ha la più pallida idea: sa solo che le sue impronte non sono nello IAFIS né in altri database e che continua a seguire Henri, senza sapere che è andata via o forse in attesa che torni.

Probabilmente pensa che Henri, venendo a sapere che la bestia ha attaccato un disegno alla porta, si spaventerà e resterà turbata. Chiunque egli sia, vuole controllarla, avere potere su di lei. I maniaci vogliono dominare le loro vittime, seguendole, costringendole a tenere conto di loro, riducendole a ostaggi senza neppure toccarle, talvolta senza neppure farsi vedere. Lucy non sa se Henri ha mai visto la bestia. Non sa niente.

Sfoglia la stampata di un’altra ricerca condotta ieri sera e medita se chiamare sua zia. È un po’ che non la sente, e non ha scuse. Lei e Kay Scarpetta trascorrono molto tempo nel Sud della Florida, a meno di un’ora l’una dall’altra. Kay Scarpetta si è trasferita da Del Ray a Los Olas l’estate scorsa e lei è andata a trovarla una volta soltanto, alcuni mesi fa. Più tempo passa, più diventa difficile tirare su il telefono e chiamarla: troppe domande inespresse, troppo imbarazzo. Lucy decide che, date le circostanze, è meglio continuare a non parlarle. Ma dopo un po’ le telefona.

«Questa è la sveglia telefonica» esordisce, quando sua zia risponde.

«Se volevi farmi uno scherzo, non ci sono cascata» replica Kay.

«Che cosa vuoi dire?»

«Che non ho chiesto la sveglia telefonica e che ti ho riconosciuto subito. Come stai? Dove sei?»

«Ancora in Florida» risponde Lucy.

«Ancora? Stai per ripartire?»

«Non lo so. È possibile.»

«Per dove?»

«Non lo so.»

«Okay. A che cosa stai lavorando?»

«Un maniaco che segue una donna» risponde Lucy.

«Sono i casi più difficili.»

«Lo so. E questo in particolare. Ma non te ne posso parlare.»

«Non puoi mai parlare del tuo lavoro.»

«Nemmeno tu.»

«Già.»

«Che cosa mi dici, allora?»

«Niente. Quando ci vediamo? È da settembre che non ti vedo.»

«Lo so. Come vanno le cose a Richmond?» domanda Lucy. «Su cosa si litiga in città? Nuovi monumenti, graffiti artistici sugli argini del fiume…»

«Sto ancora cercando di capire com’è morta questa ragazzina. Ieri sera sarei dovuta andare a cena da Fielding. Te lo ricordi?»

«Sì certo. Come sta? Non sapevo che lavorasse ancora lì.»

«Non sta molto bene» risponde Kay.

«Ti ricordi quando mi portava in palestra? Facevamo pesi insieme…»

«Non ci va più.»

«Ma dài, non ci credo! Jack non va più in palestra? È come se… Ma dài, mi sembra impossibile. Sono senza parole. Vedi cosa succede, senza di te? Va tutto a catafascio.»

«Non mi prendere in giro. Non sono di buon umore» taglia corto Kay.

Lucy si sente in colpa. È colpa sua se sua zia non è ad Aspen.

«Hai sentito Benton?» chiede, come se non sapesse niente.

«Lavora.»

«E quando lavora non lo puoi chiamare?» Lucy si sente sempre più colpevole.

«Non sempre. Ma adesso non posso.»

«Te lo ha detto lui, di non chiamare?» Lucy immagina la situazione. Probabilmente Benton ha paura che Henri origli. Deve essere per questo che ha chiesto a Kay di non telefonargli. Lucy si sente morire.

«Ieri sera sono andata da Jack, ma lui non mi ha aperto» racconta Kay, cambiando discorso. «Ho l’impressione che fosse a casa, però, e che non volesse vedermi.»

«E tu che cosa hai fatto, allora?»

«Me ne sono andata. Può darsi che si fosse dimenticato dell’invito. L’ho visto molto stressato, agitato.»

«Non credo si sia dimenticato. Probabilmente non voleva vederti. Forse è passato troppo tempo, e spiegarsi è diventato complicato» replica Lucy. «Mi sono permessa di fare una piccola ricerca sul dottor Joel Marcus» aggiunge poi. «So che non me lo avevi chiesto, ma non ti dispiace, vero?»

Kay non risponde.

«Senti, probabilmente lui sa tutto di te, zia. Tanto vale che assumi qualche informazione anche tu.» Lucy è rimasta male e non può farci niente: è offesa.

«Okay» replica Kay. «Non penso fosse necessario, ma già che hai fatto il lavoro, dimmi. Ammetto che non mi piace lavorare con lui.»

«La cosa che mi ha stupito di più è che c’è pochissimo sul suo conto» comincia Lucy, un po’ sollevata. «Sembra che non abbia fatto niente tutta la vita. Nato a Charlottesville, suo padre insegnava in una scuola, sua madre morì in un incidente stradale nel 1965. Laureato in medicina alla University of Virginia. Vuol dire che è nato in Virginia, ha studiato in Virginia, ma non ha mai lavorato per l’Istituto di medicina legale della Virginia finché non è stato nominato direttore quattro mesi fa.»

«Lo sapevo anch’io, che non aveva mai lavorato per l’Istituto di medicina legale della Virginia» replica Kay Scarpetta. «Non era il caso di svolgere costose ricerche o di introdursi abusivamente nei computer del Pentagono, o cos’altro hai fatto per scoprirlo. Non sono sicura di voler ascoltare oltre.»

«La sua nomina è del tutto insensata» continua Lucy. «Assurda. Ha lavorato per qualche tempo in un ospedale privato del Maryland, si è specializzato in medicina forense solo a quaranta e passa anni e, per inciso, la prima volta che ha dato l’esame l’hanno segato.»

«Dove si è specializzato?»

«Oklahoma City.»

«Non dovrei stare ad ascoltarti.»

«Ha lavorato come anatomopatologo nel New Mexico, non so cos’abbia fatto dal 1993 al 1998, a parte divorziare. Sua moglie era infermiera, niente figli. Nel 1999 è a St Louis, all’Istituto di medicina legale, dove resta fino a quando non si trasferisce a Richmond. Gira su una Volvo di dodici anni, non possiede immobili e vive in affitto nella contea di Henrico, dalle partì del Willow Lawn Shopping Center.»

«Va bene, basta così» interviene Kay.

«Forse ti serve sapere ancora che non ha precedenti penali. Alcune infrazioni al codice della strada, nient’altro.»

«Non voglio sapere altro» la blocca Kay. «Non è giusto.»

«Come vuoi» replica Lucy con il tono che assume sempre quando si sente bistrattata da sua zia. «Non c’è molto altro da aggiungere, in ogni caso. Potrei trovare altre informazioni, naturalmente. Ma per il momento, è tutto qui.»

«Senti, Lucy, so che lo hai fatto per aiutarmi. Sei molto brava, davvero. Apprezzo il pensiero. Marcus mi è antipatico e probabilmente mi sta anche manipolando. Ma finché non viola l’etica professionale, non si dimostra incompetente o pericoloso, non ho motivo di assumere informazioni su di lui. Capisci? Per favore, non fare altre ricerche.»

«Secondo me, Marcus è pericoloso» ribatte Lucy. «È un incapace in una posizione di grande potere, e quindi pericoloso. Vorrei tanto sapere chi l’ha messo a dirigere l’istituto e perché. Chissà quanto ti detesta…»

«Preferirei non parlarne.»

«Il governatore della Virginia è una donna» continua Lucy imperterrita. «Perché una donna dovrebbe accettare la nomina di un imbecille a una carica di responsabilità?»

«Lucy, preferirei cambiare discorso.»

«Certo, il più delle volte non sono i politici a scegliere. Hanno altro da fare, immagino.»

«Lucy, per favore! Mi hai chiamato per farmi stare peggio? Perché mi fai questo? Sono già abbastanza in difficoltà, non ti ci mettere anche tu.»

Lucy non dice niente.

«Lucy, ci sei?»

«Sì, ci sono.»

«Detesto il telefono» dice Kay. «Non ci vediamo da settembre. Mi stai evitando, vero?»

24

Joel Marcus è seduto nel suo salotto con il giornale aperto sulle ginocchia, quando sente arrivare il camion della spazzatura.

Il motore diesel del camion fermo davanti alla casa emette un rombo profondo, pulsante, reso ancor più spaventoso dallo stridore del meccanismo di sollevamento idraulico e dal rumore dei bidoni che sbattono contro la fiancata metallica. Poi si sentono i netturbini che li posano, vuoti, sulla strada e il camion prosegue il suo cammino.

Il dottor Marcus, nella sua morbida poltrona di pelle, respira a fatica, ha la testa che gli gira e il cuore che batte all’impazzata. Il camion della nettezza urbana passa il lunedì e il giovedì intorno alle otto e trenta del mattino nel quartiere dove abita, Westham Green, nella contea di Henrico, a ovest di Richmond. In quei due giorni, Marcus arriva invariabilmente in ritardo al lavoro e qualche volta non ci va per niente.

Adesso i netturbini si chiamano operatori ecologici, ma sono sempre omoni grandi e grossi, vestiti di nero e con i guanti neri, e a lui fanno una paura terribile. Sia loro sia i loro camion. La sua fobia è peggiorata da quando si è trasferito lì quattro mesi fa: le mattine in cui passa la nettezza urbana a svuotare i bidoni della spazzatura non riesce a uscire di casa. Deve aspettare che se ne siano andati, che siano fuori dalla sua vita. Le sedute dallo psichiatra di Charlottesville, comunque, gli stanno facendo bene.

Resta seduto in salotto e cerca di calmarsi in attesa che gli passino la tachicardia, il senso di vertigine e la nausea. Poi si alza, ancora in pigiama, vestaglia e pantofole. Non ha senso vestirsi prima che passi il camion della nettezza urbana, perché in genere il rombo del suo motore e il terribile stridore metallico lo fanno talmente sudare che poi si dovrebbe cambiare di nuovo. Immaginare quel camion gigantesco e quegli omoni grandi e grossi vestiti di scuro gli fa venire i sudori freddi, i brividi, le unghie blu. Va a guardare dalla finestra. I bidoni verdi sono in fondo al vialetto di casa, il rumore spaventoso del camion è ormai lontano. Ne conosce il percorso, sa che non ripasserà più per la sua strada.

Ormai dovrebbe essere in Patterson Avenue, a distanza di sicurezza. Marcus guarda dalla finestra i bidoni e decide che è troppo presto per uscire: non se la sente ancora.

Va in camera da letto, controlla che l’antifurto sia inserito, si toglie la vestaglia e il pigiama fradicio di sudore e si infila sotto la doccia. Non ci resta a lungo, ma quando si sente pulito e un po’ più tranquillo si asciuga e si veste per andare in ufficio, soddisfatto che il pericolo sia passato. Non vuole nemmeno pensare all’eventualità che gli venga un attacco di panico in pubblico: non succederà, ci starà attento. L’importante è che sia a casa o vicino all’ufficio, che ci sia un luogo in cui chiudersi in attesa che la tempesta si plachi.

Va in cucina e si mette in bocca una pillola arancione. Ha già preso l’antidepressivo e un Klonopin, ma ne inghiotte un altro, da 0,5 mg. Nel giro di pochi mesi è salito a tre milligrammi al giorno. Non gli piace dipendere dalle benzodiazepine, ma il suo psichiatra di Charlottesville gli dice di non preoccuparsi: purché non ecceda nell’alcol e non assuma altri farmaci, non c’è problema. Marcus non tocca alcol e non prende altre medicine, quindi può concedersi un po’ più di Klonopin per scongiurare gli attacchi di panico. Non vuole trovarsi in situazioni imbarazzanti o perdere il lavoro, non può permetterselo. Non ha i soldi di Kay Scarpetta, né la sua forza d’animo. Prima di prenderne il posto all’Istituto di medicina legale della Virginia, non aveva bisogno di antidepressivi e di Klonopin, ma adesso il suo psichiatra gli ha diagnosticato un disturbo concomitante, il che vuol dire che non soffre di una malattia soltanto, ma di due. A St Louis a volte non riusciva ad andare a lavorare ma, evitando i viaggi, se la cavava discretamente. La vita, prima di Kay Scarpetta, non era tanto problematica.

Marcus torna in salotto a guardare di nuovo i bidoni dalla finestra. Tende le orecchie, ma il camion della nettezza urbana con i suoi omoni grandi e grossi vestiti di scuro è ormai lontano. Si infila il vecchio cappotto grigio e un paio di guanti neri e si ferma un istante davanti alla porta per valutare la situazione. Decide che si sente discretamente, disattiva l’allarme, apre la porta, scende di corsa in fondo al vialetto, controlla la strada e, non sentendo né vedendo niente di preoccupante, sposta i bidoni vicino al garage.

Torna in casa e si toglie guanti e cappotto. È più tranquillo, quasi felice. Si lava le mani pensando a Kay Scarpetta e si sente rilassato e di buon umore: riuscirà a far girare le cose come vuole lui, ne è convinto. Sono mesi che non sente parlare d’altro che della dottoressa Scarpetta. Finora è stato zitto, perché non la conosceva. Una volta il commissario alla Sanità gli ha detto: «Non sarà facile prendere il posto della dottoressa Scarpetta, che è tanto stimata e rispettata. Si aspetti una certa ostilità». Lui non ha replicato perché non poteva dire niente, visto che non la conosceva.

Quando il governatore, dopo avergli affidato l’incarico di direttore dell’Istituto di medicina legale, lo ha invitato a prendere un caffè da lei, Marcus è stato costretto a rifiutare perché l’appuntamento era alle otto e trenta di un lunedì mattina, proprio il momento in cui passa il camion della nettezza urbana. Purtroppo non ha potuto spiegare al governatore il motivo per cui ha declinato il suo cortese invito. Accettarlo era fuori discussione, assolutamente impossibile. Ricorda di essersi chiuso nel salotto a sentire il rumore del camion e a riflettere sulle conseguenze di quel rifiuto. Chissà cosa aveva pensato il governatore, chissà se si era offesa. Probabilmente aveva concluso che Marcus non reggeva neppure il paragone con colei che lo aveva preceduto.

Non sa se il governatore stima Kay Scarpetta, ma lo dà per scontato. Non sapeva a cosa sarebbe andato incontro, quando ha accettato l’incarico e si è trasferito a Richmond da St Louis. Tutti i suoi colleghi conoscevano Kay Scarpetta. Gli hanno detto che era molto fortunato a prendere il suo posto, l’Istituto di medicina legale della Virginia è il migliore di tutti gli Stati Uniti, peccato che la dottoressa Scarpetta abbia avuto dei dissapori con l’ex governatore e sia stata licenziata, che occasione meravigliosa per Marcus…

Forse volevano soltanto toglierselo dai piedi. Lo ha sospettato sin dall’inizio. Non si capiva perché il governatore avesse offerto quell’incarico proprio a lui, uomo senza qualità e senza storia. Sapeva che cosa dicevano le sue colleghe, che cosa si bisbigliavano nell’orecchio: temevano che per qualche motivo alla fine la nomina venisse revocata e Marcus restasse lì a lavorare con loro. Era ovvio che volevano sbarazzarsi di lui.

E così ha accettato, si è trasferito, e neanche un mese dopo si è trovato costretto a rifiutare l’invito del governatore a causa dei camion della nettezza urbana. Tutta colpa di Kay Scarpetta, maledizione a lei. La gente ne faceva un gran parlare e lo guardava male perché non era Kay Scarpetta. L’ha odiata sin dal primo istante, lei e tutto quello che aveva fatto. Ha imparato a mostrare il suo disprezzo nei suoi confronti con eleganza, rimuovendo ogni traccia di lei: quadri, piante, libri. Pur determinato a dimostrare in tutti i modi che la sua fama è immeritata, pur cercando con tutto se stesso di distruggerne il mito, però, non è riuscito a cancellare il buon ricordo che gli altri hanno di lei. Il problema era che, non conoscendola, Marcus non poteva parlarne male.

Poi però è morta Gilly Paulsson, il padre della ragazzina ha telefonato al commissario alla Sanità, il commissario alla Sanità ha chiamato il governatore e il governatore, che presiede la commissione nazionale antiterrorismo, ha chiamato l’FBI; siccome Frank Paulsson ha rapporti molto stretti con la Sicurezza Nazionale, non si poteva escludere infatti che sua figlia fosse stata uccisa da qualche nemico degli Stati Uniti d’America.

L’FBI ha ritenuto opportuno intervenire e ha svolto indagini indipendenti da quelle della polizia di Richmond, suscitando una gran confusione: nessuno sapeva che cosa stavano facendo gli altri, alcune prove sono finite nei laboratori della Scientifica, altre in quelli dell’FBI, altre ancora sono rimaste dov’erano; il dottor Paulsson si è arrabbiato e ha detto che sua figlia sarebbe rimasta lì finché non fosse stato chiarito che cosa le era successo. Tutto questo mentre Marcus aveva dei problemi con la ex moglie e quindi era con la testa altrove. Così il pasticcio è diventato ingestibile e lui ha dovuto rivolgersi al commissario alla Sanità.

“Sarà meglio far intervenire un consulente di spicco” gli ha detto costui. “Prima che la situazione si complichi.”

“La situazione è già complicata” ha replicato Marcus. “Quando il Dipartimento di polizia di Richmond ha saputo che l’FBI stava indagando sulla morte della ragazzina, ha fatto marcia indietro. E nessuno ha scoperto chi ha fatto fuori Gilly Paulsson. Sempre che sia stata ammazzata, perché finora non siamo riusciti a stabilire neppure quello.”

“Dobbiamo far intervenire qualcuno di fuori, a cui addossare tutte le colpe se la situazione precipita. Se scoppia uno scandalo e il governatore ci va di mezzo, non sarò l’unico a pagarne le conseguenze, caro Joel.”

“Potremmo chiamare Kay Scarpetta” ha suggerito allora Marcus. Strano che gli fosse venuto in mente così, spontaneamente. Un’intuizione geniale.

“Ottima idea” ha replicato il commissario alla Sanità, entusiasta. “La conosci?”

“La conoscerò presto” ha risposto lui, congratulandosi con se stesso.

Non si era mai accorto di essere un brillante stratega prima di quel momento ma, non avendo mai criticato apertamente la dottoressa Kay Scarpetta — non poteva parlare male di lei perché non la conosceva -, era legittimato a raccomandarla come possibile consulente. Poteva telefonarle personalmente, dato che non aveva mai espresso il proprio disprezzo nei suoi confronti, e così aveva fatto, felice di avere l’occasione di conoscerla. Almeno poi avrebbe potuto dirne peste e corna, umiliarla e farle fare una pessima figura.

Le avrebbe dato la colpa di tutto quello che non andava bene, nel caso Paulsson e non solo, in maniera che il governatore si dimenticasse che lui non era andato a prendere il caffè a casa sua. Nel caso l’avesse invitato nuovamente alle otto e trenta di un lunedì o giovedì, le avrebbe detto che purtroppo a quell’ora si teneva la quotidiana riunione con lo staff, alla quale non poteva mancare: era possibile vedersi un po’ più tardi? Peccato che quella scusa non gli fosse venuta in mente la prima volta.

Marcus prende il telefono in camera da letto e guarda fuori dalla finestra la strada deserta, contento di poter stare tranquillo per un po’ di giorni prima del nuovo passaggio del camion della nettezza urbana. Soddisfatto, sfoglia una rubrica nera che possiede da moltissimo tempo, tanto che la maggior parte degli indirizzi e dei numeri di telefono sono cancellati. Compone un numero e vede passare dalla finestra una vecchia Chevrolet Impala azzurra. Gli viene in mente l’Impala bianca di sua madre, che slittava sulla neve a Charlottesville.

«Scarpetta» risponde la voce al cellulare.

«Sono Marcus» si presenta lui in tono affabile ma autorevole. Fra tante voci possibili, opta per quella affabile.

«Buongiorno» replica la donna. «Spero che il dottor Fielding le abbia riferito che abbiamo visto Gilly Paulsson.»

«Sì, purtroppo. Mi ha riferito anche le sue opinioni in proposito.» Parla apposta di “opinioni”, anziché di “conclusioni”, per metterla in difficoltà. Parlare di “opinioni”, in quel contesto, è lievemente offensivo.

«Ha saputo dei risultati delle prove di laboratorio?» le chiede poi, riferendosi alla e-mail ricevuta da quel rompiscatole di Junius Eise il giorno prima.

«No» replica Kay.

«Assolutamente inaspettati» dice lui, misterioso. «Dobbiamo vederci per parlarne tutti insieme.» Ha fissato la riunione ieri, ma la avverte solo ora. «Vorrei che si facesse trovare nel mio ufficio per le nove e trenta.» Guarda la vecchia Impala azzurra fermarsi nel vialetto di una casa vicina e si chiede di chi è, e perché ha posteggiato proprio lì.

Kay ha un attimo di esitazione, forse infastidita dal fatto di essere avvertita con così poco preavviso, e dice: «D’accordo. Sarò lì fra mezz’ora».

«Posso chiederle che cosa ha fatto ieri? Non l’ho vista tutto il pomeriggio» le domanda Marcus. Vede un’anziana signora di colore scendere dalla vecchia Impala azzurra.

«Ho sbrigato delle pratiche e fatto alcune telefonate. Perché? Mi ha cercato? Aveva bisogno di me?»

Marcus ha un lieve senso di vertigine, mentre guarda la vecchia di colore accanto all’Impala azzurra e la grande Kay Scarpetta gli domanda se aveva bisogno di lei, come se lavorasse per lui. E infatti la famosa anatomopatologa lavora per lui. Incredibile!

«No, per il momento non ho bisogno di niente» risponde. «Ci vediamo nel mio ufficio, allora.» Riattacca con grande soddisfazione.

Va in cucina a prepararsi un decaffeinato, ciabattando sul parquet con le scarpe fuori moda, marroni e con i lacci. La prima tazza che si è preparato stamattina è ormai fredda. Era troppo preoccupato e agitato per berla e alla fine l’ha buttata nel lavandino. Mette sul fuoco la caffettiera e torna in salotto a controllare la vecchia Impala.

Dalla sua finestra preferita, quella da cui tiene sotto controllo la situazione seduto sulla poltrona di pelle, osserva l’anziana signora di colore che tira fuori dal baule le borse della spesa. “Sarà una domestica” pensa, irritato che una domestica di colore guidi la stessa automobile che aveva sua madre quando lui era piccolo. Un tempo era una bella macchina: non era da tutti avere un’Impala bianca con una striscia azzurra di lato. Era fiero dell’Impala di sua madre. Peccato che a furia di slittare sulla neve fosse finita fuori strada. Sua madre guidava malissimo, non avrebbe dovuto andare in giro su un’Impala. L’impala è un’antilope africana, agile e timida. Anche sua madre si spaventava facilmente. Non avrebbe dovuto mettersi al volante di un’automobile con un nome così.

L’anziana domestica nera scarica lentamente le borse della spesa dal baule e va verso la porta di servizio della casa. Poi torna alla macchina, prende altre borse dal bagagliaio e chiude la portiera con il fianco. Marcus pensa che l’Impala era proprio una bella macchina: quella della domestica nera deve avere una quarantina di anni, eppure sembra in buone condizioni. Marcus non ricorda l’ultima volta che ha visto un’Impala del ’63 o del ’64. Vederne una proprio oggi è certamente significativo. Torna in cucina a prendere il caffè. Se aspetta un’altra ventina di minuti, arriverà in ufficio quando tutti sono già al lavoro e non dovrà parlare con nessuno. Mentre aspetta, gli viene di nuovo la tachicardia, si agita.

Lì per lì dà la colpa al caffè, benché sia decaffeinato e l’abbia appena assaggiato, ma poi si rende conto del perché di tanta agitazione: è stato vedere l’Impala a renderlo inquieto. Sarebbe stato molto meglio se quella domestica nera avesse fatto un’altra strada e non gli fosse passata davanti proprio oggi, subito dopo il camion della nettezza urbana. Torna in salotto e si siede sulla poltrona nera, appoggia la testa allo schienale e cerca di rilassarsi, ma il cuore gli batte talmente forte che gli sembra di vederlo pulsare sotto la camicia bianca. Respira profondamente e chiude gli occhi.

Abita in quella casa da quattro mesi e non ha mai visto quell’Impala. Probabilmente è talmente vecchia che non ha airbag, né sul volante né sul cruscotto, e ha cinture di sicurezza del tipo vecchio. Immagina gli interni dell’auto, ma non è tanto all’Impala azzurra posteggiata più avanti che pensa, quanto a quella bianca di sua madre. Dimentica il caffè sul tavolino accanto alla poltrona e chiude gli occhi. Ogni tanto si alza a guardare dalla finestra e, quando finalmente l’Impala azzurra non c’è più, si alza, inserisce l’allarme, esce, chiude a chiave la porta di casa e va in garage. Improvvisamente gli viene il dubbio di essersela inventata. Ma no, non è possibile. L’ha vista benissimo. Era lì…

Sale in macchina, esce in strada e, passando davanti alla casa dove ha visto entrare la domestica nera con le borse della spesa e l’Impala azzurra, rallenta e si ferma. Resta seduto sulla sua Volvo dotata di tutti i più sofisticati sistemi di sicurezza a osservare il vialetto vuoto. A un certo punto si decide e scende. È abbastanza elegante, sebbene il cappotto grigio e il cappello in tinta siano un po’ fuori moda e i guanti neri siano vecchissimi. Ma nel complesso ha un’aria rispettabile. Suona il campanello. Dopo un attimo suona di nuovo, e la porta si apre.

«Sì?» chiede una signora sulla cinquantina, in tuta da ginnastica e scarpe da tennis. Ha un’aria familiare ed è abbastanza gentile.

«Sono Joel Marcus, abito qui di fronte» si presenta lui con voce affabile. «Ho visto una vecchia Impala azzurra parcheggiata qui davanti, poco fa.» Ha già deciso che, se vedrà che la donna cade dalle nuvole, ammetterà di aver sbagliato casa.

«Ah, sì! La signora Walker ce l’ha da una vita, ma non vuole cambiarla» spiega la signora sorridendo. Marcus tira un sospiro di sollievo.

«Eh, già» replica. «Sa, mi sono incuriosito perché colleziono auto d’epoca.» Non è vero, naturalmente, ma doveva assolutamente accertare di non essersi inventato tutto.

«Non gliela venderà, si rassegni» replica la donna, allegra. «La signora Walker è troppo affezionata a quella macchina. Non ci siamo mai presentati, ma io la conosco di fama. È il nuovo coroner della città, vero? Ha preso il posto della dottoressa… Oddio, mi sono scordata come si chiama. Mi è dispiaciuto un sacco, quando è andata via, mi era simpatica. Come mai si è trasferita in Florida, comunque? Lei lo sa? Oh, ma non stia fuori al freddo. Venga, si accomodi. Bella donna, oltre che in gamba, la dottoressa… Oh, com’è che si chiamava più?»

«No, no, devo andare» risponde Marcus con voce rigida e seccata. «Ho appuntamento con il governatore e sono già in ritardo» mente.

25

Il sole brilla debolmente nel pallido cielo grigio. Kay Scarpetta attraversa il parcheggio a grandi passi, con i lembi del cappotto scuro che sventolano, dirigendosi verso la porta d’ingresso dell’Istituto di medicina legale. Si irrita nel vedere che il posto riservato al direttore è vuoto: il dottor Marcus non è ancora arrivato. È in ritardo come al solito.

«Buongiorno, Bruce» dice alla guardia alla reception.

L’uomo le sorride e le fa cenno di proseguire. «Scrivo io il suo nome sul registro» dice, aprendole la porta che conduce nell’ala del palazzo riservata al direttore.

«Marino è già arrivato?» domanda lei prima di entrare.

«Non l’ho ancora visto» risponde Bruce.

Quando Fielding ieri sera non si è fatto trovare a casa, Kay Scarpetta ha provato a chiamarlo al telefono, ma il numero evidentemente era cambiato. Allora ha cercato Marino sul cellulare: doveva essere in un bar, perché c’erano un gran baccano e voci di sottofondo, ma lei non gli ha fatto domande e si è limitata a dirgli che Fielding sembrava non essere in casa e che, se non si fosse fatto vivo nel giro di qualche minuto, lei sarebbe tornata in albergo. Marino le ha risposto che andava bene, grazie, di chiamarlo se aveva bisogno di qualcosa.

Kay Scarpetta ha provato ad aprire la porta principale e quella di servizio, ma Fielding le aveva chiuse a chiave. Ha suonato il campanello e ha bussato, sempre più infastidita. La macchina era lì fuori, coperta da una cerata. Kay era abbastanza sicura che fosse ancora la vecchia Mustang rossa che conosceva, ma per esserne certa ha sollevato un lembo della cerata constatando di avere ragione. Ne aveva notata una nel posteggio dell’Istituto di medicina legale la mattina, quindi Fielding la usava ancora. Ma il fatto che l’auto fosse lì, coperta da una cerata, non significava che lui fosse in casa. Magari aveva anche un’altra macchina, meno delicata. Era molto probabile che possedesse due auto e che avesse preso l’altra per andare a fare una commissione. Probabilmente era in ritardo, o forse si era scordato di averla invitata a cena.

Dopo aver fatto queste considerazioni mentre aspettava davanti alla porta, a un certo punto le è venuto il dubbio che Fielding si fosse sentito male. E se fosse caduto? E se avesse avuto una crisi allergica particolarmente grave, o addirittura uno shock anafilattico? E se si fosse suicidato? Magari aveva deciso di togliersi la vita proprio quel giorno, sapendo che lei sarebbe andata a casa sua e avrebbe saputo che cosa fare. Porse contava su di lei perché lo salvasse. Ma perché contavano tutti su di lei? Sarebbe stato scioccante entrare in casa di Fielding e trovarlo disteso sul letto con una pallottola nel cranio o lo stomaco pieno di pillole. Possibile che la credano tutti capace di gestire qualsiasi situazione? Tutti a parte Lucy, la quale sa che anche lei ha dei limiti e cerca di proteggerla. E da settembre che non si vedono. C’è qualcosa che non va, ma Lucy non vuole dirle cosa.

«Non lo trovo da nessuna parte» dice Kay Scarpetta a Bruce, riferendosi a Marino. «Se lo vede, gli dice per piacere che lo sto cercando? Sono nell’ufficio del dottor Marcus.»

«Junius Eise sa senz’altro dov’è Marino» replica Bruce. «Lo conosce, no? Il tecnico di laboratorio. So che ieri sera sono usciti insieme.»

Kay ripensa alla conversazione telefonica di poco prima, in cui Marcus le ha accennato agli strani risultati di certi esami di laboratorio. Possibile che Marino non si faccia trovare? Se è andato al bar con Eise, probabilmente sa già di che esami parlava Marcus. Lei invece non sa niente, e non riesce a contattarlo.

Oltrepassa la porta a vetri ed entra nella sala d’aspetto. Rimane sconcertata nel vedere la signora Paulsson. È seduta sul divano e guarda nel vuoto, le mani strette sulla borsetta che tiene in grembo. «Signora Paulsson?» la chiama preoccupata, avvicinandosi. «È qui da sola?»

«Mi hanno detto di venire stamattina presto» dice lei. «E quando sono arrivata mi hanno fatto aspettare qui, perché il direttore non c’era ancora.»

Kay Scarpetta non è stata informata del fatto che la signora Paulsson sarebbe stata presente alla riunione. «Venga, la accompagno dentro» le dice. «Ha appuntamento con il dottor Marcus?»

«Non so. Penso di sì.»

«Anch’io» dice Kay Scarpetta. «Forse siamo qui per la stessa riunione. Vuole venire con me?»

La signora Paulsson si alza dal divano molto lentamente, come se avesse male da qualche parte o fosse stanchissima. Kay Scarpetta è dispiaciuta che nella sala d’aspetto non ci siano più piante vere, che riscaldano l’ambiente e fanno sentire meno soli. E non c’è luogo in cui ci si possa sentire più soli che all’obitorio. È sempre brutto andare in un obitorio, ma ancor di più essere costretti ad aspettare per chissà quanto tempo prima di essere ricevuti. Preme un pulsante vicino a una vetrata. Dall’altra parte si vedono un pavimento rivestito di moquette, un bancone e il corridoio che porta agli uffici amministrativi.

«Sì?» chiede una voce di donna al citofono.

«Sono la dottoressa Scarpetta. Mi apre, per favore?»

«Subito» risponde la voce, e la serratura della porta a vetri scatta.

Kay lascia passare per prima la signora Paulsson. «Era qui da molto? Mi dispiace che abbia dovuto aspettare. Se l’avessi saputo, sarei venuta prima. Avremmo potuto prendere un caffè insieme.»

«Mi hanno detto che, se volevo trovare parcheggio, dovevo venire presto» replica la signora Paulsson, guardandosi intorno. In giro ci sono diversi impiegati, intenti a scrivere al computer o ad archiviare cartelle.

Kay Scarpetta si rende conto che la signora Paulsson non è mai stata lì: Marcus non è il tipo da parlare con le famiglie e Fielding è troppo stressato per fare anche quello. Probabilmente è stata invitata alla riunione per motivi biecamente politici. Se così fosse, sarebbe una cosa assolutamente disgustosa. Un’impiegata dietro un divisorio le dice di tornare nella sala riunioni, perché il dottor Marcus è in ritardo. Kay nota che gli impiegati sembrano nascondersi tutti dietro ai divisori e si chiede perché.

«Abbiamo tempo per un caffè, allora» dice alla signora Paulsson, posandole una mano sulla spalla. «Andiamo?»

«Gilly è ancora qui» sussurra la donna, guardandosi intorno con aria spaventata. «Non me la lasciano portare via.» Scoppia a piangere e attorciglia nervosamente la tracolla della borsetta. «Non è giusto…»

«Perché non gliela lasciano portare via, signora?» domanda Kay, mentre la accompagna nella sala riunioni.

«Per via di Frank, penso. Gilly era così attaccata a suo padre… E Frank voleva che andasse a stare con lui. Gilly era d’accordo, sa?» Piange più forte. Kay si ferma davanti alla macchinetta del caffè, prende due tazze di plastica e le riempie. «Ha detto al giudice che voleva andare a vivere a Charleston con il padre, finita la scuola. Frank vuole che vada a Charleston, dove sta lui.»

Kay porta le due tazze nella sala riunioni e si siede al centro del tavolo lungo e lucidissimo. È sola in quella stanza enorme insieme alla signora Paulsson, che guarda distrattamente il modello anatomico e lo scheletro appeso in un angolo e si porta il caffè alla bocca con mano tremante.

«La famiglia di Frank è sepolta a Charleston, capisce?» continua. «Da generazioni. La mia invece è qui, al cimitero di Hollywood. Anch’io ho già il mio posto prenotato. Perché tante difficoltà? Voglio dire, è già abbastanza dura così… Vuole Gilly per farmi dispetto, per vendicarsi, per farmi fare brutta figura. L’ha sempre detto, che mi avrebbe fatto impazzire, che mi avrebbe mandato in manicomio. Be’, ci sta riuscendo.»

«Vi siete parlati, ultimamente?» domanda Kay.

«Con Frank non si può parlare. Parla solo lui, dà ordini. Vuole fare la figura del bravo padre, ma non si occupa di Gilly quanto me ne occupo io. È colpa sua, se è morta.»

«Non è la prima volta che lo dice, signora. Perché pensa che sia colpa di suo marito?»

«C’è di mezzo Frank, me lo sento. Mi vuole distruggere. Mi vuole portare via Gilly. Prima voleva che andasse ad abitare da lui, adesso vuole che stia con lui per sempre. Mi vuol fare diventare matta, così nessuno potrà dire che lui è stato un pessimo marito e un pessimo padre. Nessuno conoscerà la verità, capisce? Nessuno mi crederà più. Penseranno tutti che sono una povera pazza e lui è la vittima. Ma la verità è un’altra…» Si voltano, nel sentire la porta che si apre. Entra una signora molto elegante, sui quarant’anni, fresca come una rosa, ben pettinata, in forma perfetta. Posa una ventiquattrore di pelle sul tavolo e sorride alla signora Paulsson come se la conoscesse. Apre la ventiquattrore, ne estrae un fascicolo e un blocco per appunti e si siede.

«Sono Karen Weber, agente speciale FBI.» Guarda Kay. «Lei dev’essere la dottoressa Scarpetta. Sapevo che avrebbe presenziato alla riunione. Signora Paulsson, come sta? Non la aspettavo.»

La signora Paulsson prende un fazzoletto di carta dalla borsa e si asciuga gli occhi. «Buongiorno» mormora.

Kay Scarpetta avrebbe voglia di chiedere all’agente speciale Weber come mai l’FBI ha aperto un’inchiesta sulla morte di Gilly Paulsson, ma si trattiene perché la madre della vittima è presente. Prova comunque ad acquisire informazioni in forma indiretta.

«È della sede di Richmond?» domanda.

«Quantico» risponde Karen Weber. «Sono dell’unità Scienze comportamentali. Ha visitato i nuovi laboratori di Quantico?»

«No.»

«Sono bellissimi. Ne vale la pena.»

«Mi fa piacere.»

«Signora Paulsson, come mai è qui?» chiede poi l’agente speciale.

«Non lo so, sono venuta per il referto» risponde la donna. «E per i gioielli di Gilly. Aveva un paio di orecchini e un braccialetto di pelle, che non si toglieva mai… E mi hanno detto che il direttore voleva salutarmi.»

«Il dottor Marcus l’ha invitata alla riunione?» chiede la Weber stupefatta.

«Non lo so.»

«È venuta a ritirare gli effetti personali di Gilly, signora Paulsson?» si intromette Kay Scarpetta, cominciando a capire.

«Sì. Mi hanno detto di venire verso le nove. Prima di oggi non ce l’ho fatta. Non riuscivo nemmeno a pensare di poter fare una cosa del genere, non so se mi spiego. Devo anche pagare qualcosa, mi sembra.» Ha la faccia spaventata. «Forse non dovevo venire qui. Nessuno mi ha parlato di riunioni.»

«Be’, già che ci siamo, posso farle una domanda?» chiede l’agente Weber. «Si ricorda che l’altro giorno mi ha detto che suo marito — il suo ex marito — è pilota? Me lo conferma?»

«No, ha capito male. Io ho detto che Frank non è pilota.»

«Capisco. Perché non risulta che abbia il brevetto di volo» continua l’agente speciale. «Allora ho capito male io.» Sorride.

«Lo credono in tanti, comunque, che abbia il brevetto di volo» replica la signora Paulsson.

«Già.»

«Perché frequenta un sacco di piloti, specie di sesso femminile. Come se io non l’avessi capito…» Sospira. «Bisognerebbe essere ciechi, sordi e muti, per non capirlo…»

«Capire cosa, signora Paulsson?» chiede l’agente speciale Weber.

«Be’, Frank fa le visite mediche per il rinnovo dell’idoneità al volo. Quindi gli arrivano in studio un sacco di donne in tuta da pilota. Se lo immagina?»

«Suo marito è stato mai accusato di molestie sessuali?»

«Non è mai stato denunciato» replica la signora Paulsson. «E, se lo chiedete a lui, nega. Secondo me, è perché ha una sorella nell’aviazione, capisce? Cioè, mi sono sempre chiesta se non è per quello. Sorella maggiore. Una bella differenza di età.»

Il dottor Marcus entra in quel preciso momento, con una camicia di cotone semitrasparente e una cravatta blu troppo stretta. Lancia un’occhiata veloce a Kay Scarpetta e quindi alla signora Paulsson.

«Piacere, Marcus» le dice in tono autorevole ma cordiale.

«Signora Paulsson, il dottor Marcus è il direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia» spiega Kay.

«Avete invitato voi la signora?» chiede Marcus, rivolgendosi prima a Kay Scarpetta e poi a Karen Weber. «Non dovrebbe essere qui.»

La signora si alza lentamente, con fatica, come se non avesse il pieno controllo sulle gambe. «Non so cosa sia successo. Sono venuta a firmare delle carte e a ritirare i gioielli di mia figlia…»

«Temo sia stata colpa mia, signora» dice Kay Scarpetta alzandosi in piedi anche lei. «L’ho vista qui fuori e ho pensato erroneamente che fosse venuta per parlare con il dottor Marcus. Mi scusi tanto.»

«Sapevo che sarebbe passata stamattina, signora» dice Marcus. «Condoglianze vivissime.» Le fa un sorriso pieno di condiscendenza. «Stiamo dedicando il massimo impegno al caso di sua figlia.»

«Oh» risponde la signora Paulsson.

«La accompagno» dice Kay Scarpetta, aprendo la porta. «Mi dispiace. Spero di non averla messa troppo in imbarazzo» aggiunge poi nel corridoio.

«Mi dica dov’è Gilly» chiede a un certo punto la donna, fermandosi. «Mi dica dov’è esattamente.»

Kay è titubante. Non è la prima volta che le viene rivolta quella difficile domanda. «Oltre quelle porte, signora.» Si volta e indica una serie di porte all’altra estremità del corridoio.

«È in una bara? Avete bare molto semplici, vero? Di legno di pino?» Le si riempiono gli occhi di lacrime.

«No, non è in una bara. Non abbiamo bare. È in una cella frigorifera.»

«Povera figlia mia, chissà che freddo!» Singhiozza.

«Gilly non sente più né freddo né dolore, signora Paulsson» la conforta Kay Scarpetta. «Glielo assicuro.»

«Lei l’ha vista?»

«Sì» risponde Kay Scarpetta. «L’ho visitata.»

«Mi dica che non ha sofferto, per favore. Mi dica che non ha sofferto.»

Kay Scarpetta non può dirglielo. Sarebbe una bugia. «Dobbiamo effettuare una serie di esami» risponde. «I risultati impiegheranno un po’ ad arrivare. Ma stiamo mettendocela tutta per scoprire che cosa è successo a sua figlia.»

La signora Paulsson continua a piangere. Kay Scarpetta la accompagna negli uffici amministrativi e chiede a un’impiegata di consegnarle copia del referto e gli effetti personali di Gilly, ovvero un paio di orecchini d’oro a forma di cuoricino e un braccialetto di pelle. Il pigiama, le lenzuola e le altre cose che sono state prelevate dalla sua stanza sono considerate prove e non possono essere riconsegnate alla famiglia. Tornando nella sala riunioni, Kay incontra Marino. Ha la testa china e la faccia tutta rossa.

«Buongiorno» lo saluta. «Io ho cominciato male la giornata, ma neanche tu mi sembri in gran forma. Ti ho cercato, hai visto?»

«Che cosa ci faceva qui?» chiede Marino agitato, riferendosi alla signora Paulsson.

«È venuta a ritirare gli effetti personali della figlia e alcuni referti.»

«Pensavo che non potesse ritirare referti. La salma è ancora qui…»

«Be’, è comunque la madre. Non so che referti le abbiano dato. Non so niente di niente, per la verità» protesta. «Alla riunione c’è anche un’agente speciale dell’FBI. Non so chi altri sia stato invitato. L’ultima che ho sentito è che Frank Paulsson molesta le sue pazienti.»

«Ah.» Marino si comporta in un modo strano, puzza di alcol e ha la faccia stravolta.

«Come stai?» gli domanda Kay Scarpetta. «Non troppo bene, sembra.»

«Niente di preoccupante» risponde lui.

26

Marino mette lo zucchero nel caffè. Deve stare veramente male per prendere zucchero bianco raffinato, che è proibito dalla sua dieta e gli fa malissimo.

«Sicuro di volercene mettere così tanto?» gli chiede Kay. «Non è che poi te ne penti?»

«Vorrei sapere cosa è venuta a fare qui.» Mette un altro cucchiaino di zucchero nel caffè. «Entro nell’istituto e me la trovo davanti: possibile? Non mi dire che è venuta a vedere Gilly perché non ci credo. Cos’è venuta a fare, mi domando.»

Marino indossa gli stessi vestiti di ieri: pantaloni neri, giacca a vento nera e berretto del Dipartimento di polizia di Los Angeles. Non si è fatto la barba e ha gli occhi pesti. Forse, dopo aver bevuto con i suoi amici è andato a trovare una delle sue amichette, donne in genere volgari e appariscenti che rimorchia al bowling.

«Se sei di questo umore, forse è meglio che alla riunione vada io sola» gli dice Kay. «In fondo tu non sei invitato. Non voglio fare brutte figure. So benissimo che effetto ti fa lo zucchero, da quando sei a dieta.»

«Se sono di questo umore ho le mie buone ragioni» borbotta Marino guardando la porta chiusa.

«Che cosa è successo?»

«Circolano delle voci» risponde truce. «Sul tuo conto.»

«Quali voci?» Kay Scarpetta odia i pettegolezzi e in genere non ci bada.

«Dicono che stai per tornare a lavorare qui, che sei a Richmond per questo.» La guarda con fare accusatorio e beve un sorso di caffè dolcissimo. «Mi stai nascondendo qualcosa?»

«Pensi che stia veramente per tornare a Richmond?» dice Kay Scarpetta. «Mi stupisce che tu creda a questi pettegolezzi.»

«Io a Richmond non torno, ti avverto» dice Marino, come se si stesse parlando di lui. «Non pensarci nemmeno.»

«Infatti non ci penso. Non pensarci neanche tu e facciamola finita.» Apre la porta della sala riunioni.

Marino può seguirla dentro, se vuole, oppure restare fuori a bere caffè zuccherato tutto il giorno: Kay non ha intenzione di pregarlo e supplicarlo. Cercherà più tardi di capire che cosa lo preoccupa tanto: adesso ha una riunione con il dottor Marcus, l’FBI e Jack Fielding, che ieri sera l’ha invitata a cena e poi non si è fatto trovare. Va a sedersi nel più perfetto silenzio. Marino la segue e le si siede vicino.

«Bene, possiamo cominciare» esordisce Marcus. «Lei ha già conosciuto l’agente speciale Weber dell’unità Profili psicologici dell’FBI» dice a Kay Scarpetta. Marcus ha sbagliato il nome dell’unità: Karen Weber poco fa ha detto di essere dell’unità Scienze comportamentali. «Abbiamo un problema serio. Come se non ne avessimo già abbastanza.» Ha la faccia cupa e lo sguardo gelido. «Dottoressa Scarpetta, lei ieri ha condotto una nuova autopsia sul corpo di Gilly Paulsson, dico bene? Ha anche esaminato Whitby, l’infortunio sul lavoro?»

Fielding guarda una pratica e non dice nulla. Ha la faccia rossa.

«Non userei la parola “esaminato”» risponde Kay Scarpetta, lanciando un’occhiata a Fielding. «A che cosa vuole arrivare, comunque?»

«L’ha toccato?» domanda l’agente speciale dell’FBI.

«Scusate, l’FBI è coinvolta anche nella morte del signor Whitby?» chiede Kay.

«Non è da escludere. Speriamo di no, ma è possibile» risponde l’agente speciale Karen Weber, che sembra divertirsi a interrogare l’ex direttrice dell’istituto.

«L’ha toccato?» Questa volta è Marcus a chiederlo.

«Sì» risponde Kay Scarpetta. «L’ho toccato.»

«Anche lei, deduco» dice Marcus a Fielding. «Ha condotto l’esame esterno e iniziato l’autopsia. Poi, a un certo punto, ha aiutato la dottoressa Scarpetta a riesaminare la Paulsson in un’altra sala.»

«Sì» risponde Fielding, alzando la testa dalla pratica senza guardare nessuno in particolare. «È una stronzata.»

«Come ha detto, scusi?» domanda Marcus.

«Mi ha sentito benissimo. Ho detto che è una stronzata» ribadisce Fielding. «Gliel’ho detto ieri, quando è saltata fuori questa storia, e adesso glielo ripeto: è una stronzata solenne. Esigo di non essere trattato a questo modo davanti all’FBI o a chiunque altro.»

«Mi perdoni, ma non sono d’accordo con lei. Il problema è serio: alcune tracce trovate sul corpo di Gilly Paulsson risultano identiche a tracce prelevate dal corpo di Ted Whitby, l’uomo investito dal trattore. L’unica spiegazione è che sia avvenuta una contaminazione. Peraltro, non capisco perché abbiate raccolto e mandato in laboratorio tracce dal corpo di Whitby, visto che si tratta di una morte accidentale e non di un omicidio. Mi corregga, se sbaglio.»

«Io non ci metterei la mano sul fuoco» replica Fielding, che ha uno sfogo rossastro sulla faccia e sulle mani. «Whitby è stato investito da un trattore, su questo siamo tutti d’accordo, ma le circostanze dell’incidente sono ancora da chiarire. Io non c’ero, non l’ho visto. Ho effettuato un tampone sulla ferita al volto per sicurezza, perché un domani qualcuno non possa dire che, prima di essere investito, Whitby era stato aggredito e colpito alla testa con un oggetto contundente.»

«Di che cosa state parlando? Che tracce avete trovato?» interviene Marino, sorprendentemente calmo nonostante le dosi di zucchero che ha appena ingurgitato.

«Francamente, non credo che la cosa la riguardi» ribatte Marcus. «Dal momento che la dottoressa Scarpetta insiste per averla accanto qualsiasi cosa faccia, la lascio presenziare a questo colloquio. Mi deve assicurare, tuttavia, che tratterà gli argomenti di cui discuteremo con la massima riservatezza.»

«Glielo assicuro» replica Marino, sorridendo a Karen Weber. «Ci dica, agente, a che cosa dobbiamo la sua presenza?» le chiede. «Conoscevo la persona che un po’ di tempo fa dirigeva la sua unità. Benton Wesley. L’ha mai sentito nominare?»

«Certo.»

«Sa cosa pensa il dottor Wesley dei profili psicologici?»

«Ho letto quasi tutte le sue pubblicazioni» risponde la Weber, con le mani giunte sopra il blocco per appunti. Ha unghie perfettamente curate e laccate di rosso.

«Bene. Allora saprà certamente che li trova poco più affidabili dell’oroscopo del mese» dice Marino.

«Non sono venuta qui per farmi insultare» dice l’agente speciale Weber a Marcus.

«Chiedo scusa» fa Marino a Marcus. «Non volevo insultarla, glielo giuro. Sono certo che un esperto di profili psicologici è indispensabile, per capire questa storia delle tracce.»

«Basta così» sbotta Marcus. «Se non riesce a essere professionale, dovrò chiederle di andarsene.»

«Va bene, va bene, sto zitto» dice Marino. «Sto qui buono ad ascoltare e non dico niente. Prego, andate avanti.»

Jack Fielding scuote lentamente la testa, guardando la pratica che ha davanti.

«Se nessuno parla, vado avanti io» dice Kay Scarpetta, che ormai non cerca più di essere né gentile né diplomatica. «Dottor Marcus, è la prima volta che la sento parlare di tracce trovate sul corpo di Gilly Paulsson. Mi convoca qui a Richmond per aiutarla a risolvere il caso e mi tiene nascosta una simile informazione? Si tratta di tracce biologiche o materiali?» Guarda prima Marcus, poi Fielding.

«Non guardare me» ribatte Fielding. «Io ho semplicemente effettuato i tamponi. Dai laboratori, poi, non ho sentito più niente. Nemmeno una telefonata. È normale, peraltro. Ho saputo di questa storia soltanto ieri sera, quando stavo andando via e lui mi ha fermato mentre salivo in macchina per aggiornarmi.» Indica Marcus.

«L’avevo appena saputo» sbotta Marcus. «Mi ha scritto quel rompiscatole di Eise, o come diavolo si chiama quel tecnico di laboratorio che mi tormenta con le sue raccomandazioni e vorrebbe insegnarmi a fare il mio lavoro. Finora avevano trovato poco o niente: qualche capello e alcune tracce materiali, comprese scaglie di vernice di provenienza incerta, forse di un’automobile, di una bicicletta, di un giocattolo o di qualche oggetto di casa…»

«Si dovrebbe poter stabilire se è vernice di automobile» replica Kay Scarpetta. «E si può controllare se è di un oggetto di casa.»

«Il punto è che non ci sono tracce biologiche, e quindi non si può fare la prova del DNA. I tamponi sono negativi. Visto che sospettiamo l’omicidio, un tampone positivo, orale o vaginale, ci sarebbe stato molto utile. Insomma, la mia preoccupazione era il DNA e mi domandavo se fosse possibile ricavarlo da queste scaglie di vernice. Poi ieri pomeriggio mi arriva questa e-mail in cui Eise mi dice che sull’operaio investito dal trattore risultano presenti tracce dello stesso tipo.» Marcus fissa Fielding negli occhi.

«E lei ritiene che ci sia stato un trasferimento di materiale da un corpo all’altro. Come sarebbe avvenuta questa ipotetica contaminazione, secondo lei?» interviene Kay Scarpetta.

Marcus allarga le braccia, come a dire che non ne ha la più pallida idea. «Ditemelo voi.»

«Non è avvenuta» replica Kay Scarpetta. «Ci siamo cambiati i guanti, tanto per cominciare. E comunque non abbiamo effettuato tamponi su Gilly Paulsson. Sarebbe stato inutile, visto che il corpo era stato lavato e rilavato, e che i tamponi erano già stati effettuati due settimane fa.»

«Questo lo so» la interrompe Marcus, in tono di spazientita superiorità. «Io penso che abbiate lasciato a metà l’autopsia di Whitby per occuparvi della Paulsson e l’abbiate finita dopo.»

«Sì, ma i tamponi li ho effettuati prima di esaminare la Paulsson» puntualizza Fielding. «E alla Paulsson non abbiamo fatto tamponi. Inoltre, essendo stato lavato e rilavato, è impossibile che sul cadavere ci fossero residui da trasferire inavvertitamente altrove.»

«Non tocca a me dare spiegazioni» decide Marcus. «Non so che cosa, ma è evidente che qualcosa è successo. Dobbiamo prendere in considerazione tutte le ipotesi possibili perché, se non lo facciamo noi, lo faranno gli avvocati. Io credo che a questo punto il caso Paulsson finirà in tribunale, prima o poi.»

«Anch’io penso che si farà un processo» interviene l’agente speciale Karen Weber, come se lo sapesse già o fosse una parente stretta della ragazzina. «È possibile che il pasticcio sia avvenuto in laboratorio?» domanda poi. «Che ci sia stato uno scambio di etichette o una contaminazione di due campioni? Le tracce materiali del caso Paulsson e del caso Whitby sono state analizzate dalla stessa persona?»

«Sì. Delle tracce materiali si è occupato Eise, o come diavolo si chiama. In tutti e due i casi» risponde Marcus. «I capelli invece li ha analizzati un altro tecnico.»

«È la seconda volta che parla di capelli. Non mi aveva detto che sono stati ritrovati dei capelli» protesta Kay Scarpetta.

«Sì, ne sono stati ritrovati diversi nella camera da letto» spiega Marcus. «Sulle lenzuola, credo.»

«Speriamo che non venga fuori che sono dell’operaio» interviene Marino. «Anzi, speriamo di sì: potrebbe avere ucciso lui la ragazzina e poi, dilaniato dai sensi di colpa, essersi suicidato buttandosi sotto il suo stesso trattore. Ecco lì, risolto il caso.»

Nessuno lo trova spiritoso.

«Ho chiesto di cercare eventuale epitelio respiratorio ciliato su lenzuola e federa» dice Kay Scarpetta a Fielding.

«Sulla federa c’era» risponde lui.

Kay Scarpetta dovrebbe essere sollevata, visto che la presenza di tracce biologiche conferma la morte per asfissia, invece è turbata. «Brutta morte, povera ragazza.»

«Scusate» si intromette Karen Weber. «Non vi seguo.»

«Gilly Paulsson è stata uccisa» risponde Marino. «A parte questo, non vedo che cosa ci sia da seguire.»

«Senta, dottore, è proprio necessario?» protesta la Weber con Marcus.

«Sì, è proprio necessario» insiste Marino. «Se le do fastidio, mi mandi via, mi trascini fuori. Finché sono qui dentro, parlo finché voglio.»

«A proposito» interviene Kay Scarpetta. «Vuole dirci come mai lei è qui, agente Weber? Perché l’FBI sta indagando sulla morte di Gilly Paulsson?»

«Siamo stati interpellati dalla polizia di Richmond» risponde l’agente Weber.

«E come mai?»

«Dovrebbe chiederlo a loro, non a me.»

«Invece lo chiedo a lei» insiste Kay Scarpetta. «Se non mi spiegate la situazione, io me ne vado e non torno mai più.»

«Non è così semplice» dice Marcus, lanciandole uno sguardo che le fa venire in mente una lucertola. «Lei ieri ha preso parte a due autopsie in cui forse è avvenuta una contaminazione: non credo che possa andarsene e non farsi più vedere. Ormai è parte in causa.»

«Stronzate» borbotta Fielding, guardandosi le mani coperte di sfoghi rossastri.

«Te lo dico io perché è stata coinvolta l’FBI, o perlomeno ti riferisco che cosa dice la polizia di Richmond. Non vorrei offenderla, però» dice Marino alla Weber. «A proposito, sa che il suo tailleur è davvero bello? Trovo elegantissime anche le sue scarpe rosse. Volevo chiederle, però: le sembra la tenuta adatta a un’agente speciale dell’FBI?»

«Basta così!» sibila Karen Weber.

«Basta lo dico io!» salta su Fielding, battendo un pugno sul tavolo. Si alza, fa un passo indietro e fulmina con lo sguardo i presenti. «Mi avete rotto le scatole, non ne posso più. Me ne vado. Mi ha sentito, dottor Marcus? Me ne vado.» Si rivolge poi all’agente speciale Weber. «E andate a cagare anche voi federali, che piombate qui come foste dio in terra e invece non capite un cazzo. Non sapreste risolvere un caso di omicidio nemmeno se foste presenti quando avviene. Andate tutti a quel paese.» Si dirige verso la porta. «Marino, gliela dica lei la verità, alla dottoressa» dice poi, guardandolo. «Qualcuno deve pur dirgliela.»

Esce sbattendo la porta.

Dopo un attimo di scioccato silenzio, Marcus dice: «Scusate». Si rivolge all’agente speciale Weber. «Mi dispiace molto.»

«Il dottor Fielding è forse un po’ stressato?» domanda lei.

«Che cosa mi devi dire?» Kay Scarpetta guarda Marino, seccata che lui le abbia tenuto nascoste delle informazioni. È andato a bere con i suoi amici e si è dimenticato di riferirle cose importanti?

«A quanto ho capito, l’FBI indaga sulla morte di Gilly perché suo padre è un informatore, che lavora per la Sicurezza Nazionale. Fa le visite mediche necessarie per il rinnovo dell’idoneità di volo e segnala tutti i piloti che potrebbero avere a che fare con il terrorismo. A Charleston quello del terrorismo è un problema sentito, visto che c’è la flotta di C-17 più grande del paese. Parliamo di aerei da centottantacinque milioni di dollari l’uno, non so se mi spiego. Se a un pilota venisse in mente di lanciarsi contro qualche obiettivo con uno di quelli sarebbe un bel casino, no?»

«La pregherei di fermarsi qui» lo interrompe l’agente speciale Weber, sempre con le mani giunte sul blocco per appunti. «Lei sta parlando di questioni della massima riservatezza.»

«Lo so benissimo» ribatte Marino togliendosi il berretto e passandosi una mano sul cranio rasato. «Scusate, ma ieri sera ho fatto tardi e stamattina non ho avuto il tempo di radermi.» Si accarezza una guancia, ruvida come carta vetrata. «Ho trascorso una serata davvero interessante con l’ispettore Browning e il dottor Eise, il tecnico del laboratorio. Abbiamo parlato di molte cose, ma evito di riferirvele, perché sono anch’esse della massima riservatezza.»

«La smetta!» L’agente Weber è irritata e usa un tono minaccioso, come se parlare fosse un reato federale e lei potesse arrestare Marino.

«Io invece vorrei che andassi avanti» dice Kay Scarpetta.

Marino prosegue, lanciando un’occhiata gelida alla Weber. «Ora, fra l’FBI e la Sicurezza Nazionale non corre buon sangue perché gran parte dei finanziamenti del ministero della Giustizia sono stati dirottati dall’FBI alla Sicurezza Nazionale e l’FBI c’è rimasta male. Ho saputo che i vostri lobbisti a Washington piangono miseria. Avete paura di non poter più dettare legge di qua e di là, come se foste gli unici che sanno lavorare?»

«Dobbiamo proprio starlo a sentire?» chiede l’agente speciale al dottor Marcus.

«Il fatto è che i federali tenevano d’occhio Frank Paulsson già da un pezzo» continua Marino, rivolto a Kay Scarpetta. «Come si diceva, circolano voci non proprio edificanti sul suo conto: pare che effettivamente si prenda un po’ troppe libertà con le sue pazienti. E questo è un tantino spaventoso, tenuto conto che fa l’informatore. Viene il dubbio che non sia granché obiettivo, insomma. Naturalmente ai federali piacerebbe un sacco smerdare quelli della Sicurezza Nazionale. Così, quando il governatore si è preoccupato e li ha chiamati, si sono buttati a pesce. Tutto chiaro, adesso?» Guarda Karen Weber. «Dubito che il governatore sia al corrente del fatto che il vostro vero obiettivo in realtà è smerdare la Sicurezza Nazionale. Insomma, anche questa è più che altro una questione di potere e di soldi. Come sempre, del resto.»

«Non sono d’accordo» ribatte Kay Scarpetta esasperata. «Stiamo parlando di una ragazzina di quattordici anni morta asfissiata.» Si alza in piedi, prende la borsa guardando prima Marcus e poi la Weber. «Invece che di potere e di soldi, dovremmo parlare dell’omicidio di Gilly Paulsson.»

27

Arrivata in Broad Street, Kay Scarpetta decide di farsi dire tutta la verità da Marino, volente o nolente.

«Che cosa hai fatto ieri sera, a parte parlare di argomenti top secret con i tuoi amici e sbronzarti?» gli chiede.

«Non capisco che cosa vuoi dire.» È seduto in macchina vicino a lei, immusonito e tetro, con il berretto calato sulla fronte.

«Sì, invece. Mi capisci benissimo. Sei andato da lei?»

«Non so di che cosa parli.» Guarda dal finestrino.

«Sì che lo sai.» Kay attraversa Broad Street a tutta velocità. Ha insistito per guidare lei perché è di cattivo umore e, in quello stato, non lascerebbe guidare nessun altro. «Ti conosco, Marino. Fosse la prima volta che fai una cosa del genere… A me puoi dirlo. Ho notato che ti guardava in un certo modo, quando siamo andati a casa sua, e che tu te ne sei accorto e ne eri lusingato. Guarda che non sono stupida.»

Marino non risponde e continua a guardare fuori dal finestrino. Kay Scarpetta non lo vede in faccia, perché ha il berretto sugli occhi ed è voltato dall’altra parte.

«Dimmelo, Marino. Sei andato a trovare la signora Paulsson? Le hai dato appuntamento da qualche parte? Dimmi la verità. Non mollo, te lo giuro: finché non sputi il rospo continuo a tormentarti. Sai che quando mi metto in testa una cosa non mi ferma nessuno.» Inchioda a un semaforo giallo e si volta dalla sua parte. «Okay, il fatto stesso che tu non risponda è già di per sé significativo. Adesso capisco come mai ti sei agitato tanto, quando l’hai incontrata in istituto stamattina. Perché ieri sera vi siete visti e magari le cose non sono andate come speravi tu. Perciò, quando te la sei trovata davanti, stamattina, ti è venuto un colpo.»

«Non è come pensi.»

«E com’è allora?»

«Suz aveva bisogno di parlare e io avevo bisogno di raccogliere informazioni. È stato uno scambio di favori» borbotta al finestrino.

«Suz?»

«È stata collaborativa, okay?» ribatte Marino. «Mi ha detto questa cosa della Sicurezza Nazionale, che suo marito è una testa di cazzo e che l’FBI potrebbe avercela con lui.»

«Potrebbe?» Kay Scarpetta svolta in Franklin Street. Stanno andando alla vecchia sede dell’Istituto di medicina legale, ormai in demolizione. «Sembravi molto sicuro di quel che dicevi, alla riunione, sempre che possiamo definirla tale. Adesso usi invece il condizionale. Vuoi dirmi come stanno le cose, per favore?»

«Mi ha chiamato al cellulare ieri sera» risponde Marino. «Hai visto che ne hanno buttato giù un altro pezzo? Distruggono tutto, da queste parti. In più di un senso.» Guarda il cantiere.

L’edificio è più piccolo e triste dell’ultima volta in cui lo hanno visto. O forse è un’impressione. Nelle vicinanze di Fourteenth Street, Kay Scarpetta rallenta e comincia a cercare posteggio.

«Ci conviene andare in Cary Street» decide poi. «C’è un parcheggio a pagamento. Cioè, un tempo c’era, ma adesso non so.»

«Fregatene: lasciala davanti al cantiere» suggerisce Marino. Prende dalla sua valigetta di stoffa nera un cartellino rosso con la scritta MEDICO LEGALE e lo appoggia sul cruscotto.

«Come te lo sei procurato?» Kay Scarpetta è incredula.

«Se dai corda alle impiegate, ottieni tutto quello che vuoi.»

«Sei terribile» ribatte lei scuotendo la testa. «Vorrei averne uno io» aggiunge poi. Un tempo parcheggiare non era un problema, per lei. Quando si muoveva per lavoro, con quel permesso poteva lasciare l’auto dove voleva. Se andava in tribunale nelle ore di punta, quando non c’era un posto a pagarlo oro, non aveva problemi. «Perché ieri sera la signora Paulsson ti ha chiamato?» Non riesce a chiamarla Suz.

«Aveva bisogno di parlare» risponde Marino aprendo la portiera. «Su, cerchiamo di fare presto. Ti saresti dovuta mettere un paio di stivali.»

28

È da ieri sera che Marino non fa che pensare a Suz. Gli piacciono i suoi capelli, lunghi fino alle spalle, biondi. Marino preferisce le bionde, da sempre.

La prima volta che l’ha vista, a casa sua, ha notato il bel viso tondo e le labbra carnose. Ma ad attrarlo è stato soprattutto il modo in cui lo guardava, in cui lo faceva sentire importante: le leggeva negli occhi che lo riteneva un uomo capace di risolvere qualsiasi problema. Povera donna, invece i suoi problemi sono irrisolvibili e solo Dio potrebbe fare qualcosa per lei, ma non lo farà mai perché è molto meno sensibile di Marino ai problemi delle donne.

È stato il modo in cui lo guardava ad affascinarlo e, quando si sono ritrovati vicini, mentre lui perquisiva la stanza di Gilly, fra loro c’è stato un brivido di intesa. Marino sapeva che, se Kay Scarpetta se ne fosse accorta, gli avrebbe fatto la predica.

Cammina al suo fianco nel fango con sicurezza, benché non abbia le scarpe adatte. Non si lamenta mai di nulla. Lui rimane impantanato con gli anfibi e lei invece, nonostante i mocassini neri con il tacco basso, giusti per il tailleur, va avanti con la massima disinvoltura. È tutta infangata, ormai: scarpe, pantaloni del tailleur e persino il cappotto. Gli operai del cantiere li vedono e interrompono il lavoro. Un uomo con il casco e una cartellina in mano li guarda, dice qualcosa a un collega e va loro incontro gesticolando, facendo segno che devono andare via. Marino per tutta risposta lo invita ad avvicinarsi. Quando l’uomo con la cartellina in mano nota che Marino ha il berretto della polizia di Los Angeles, cambia espressione. E Marino pensa che quel berretto si sta rivelando sempre più utile, visto che gli consente di non mentire quando si presenta e non solo.

«Sono l’ispettore Marino» esordisce. «E la signora è la dottoressa Scarpetta, anatomopatologa.»

«Ah» fa l’uomo con la cartellina. «Siete qui per Ted Whitby.» Scrolla la testa. «Non ci posso credere. Avete saputo della moglie, immagino.»

«Ci dica» replica Marino.

«È incinta. Il loro primo figlio, pensate. Ted era divorziato. Che roba! Comunque, vedete quel signore laggiù?» Si volta verso la costruzione semidistrutta e indica un uomo in grigio che sta scendendo da una scavatrice. «È Sam Stiles. Aveva dei problemi con Ted, diciamo così. Adesso la moglie dice che è colpa sua, che ha fatto passare la palla da demolizione troppo vicino al trattore ed è per questo che Ted è caduto e ci è rimasto sotto.»

«Pensate che sia caduto dal trattore?» domanda Kay Scarpetta.

Marino sa che sta cercando di ricordare la scena: è convinta di aver visto Ted Whitby poco prima che morisse, pensa che l’uomo che ha notato quando sono passati davanti al cantiere, in piedi davanti al trattore a trafficare con il motore fosse lui. Forse ha ragione, Kay Scarpetta non sbaglia quasi mai.

«Non ne siamo sicuri» ribatte l’uomo con la cartellina, che ha più o meno l’età di Marino ma molti più capelli e anche più rughe. Ha la pelle abbronzata e coriacea come quella di un cowboy e gli occhi azzurrissimi. «È quello che dice la moglie. Vuole dei soldi, probabilmente. È sempre così. Poverina, è in difficoltà, non lo metto in dubbio. Però non mi sembra giusto dare la colpa agli altri, se le è morto il marito.»

«Lei era qui, quando è successo?» chiede Kay Scarpetta.

«Sì. Sarò stato a cinquanta metri di distanza.» Indica un angolo dell’edificio.

«Ha assistito all’incidente, dunque?»

«No. Nessuno ha visto niente, per la verità. Ted era nel parcheggio sul retro e controllava il motore perché il trattore si era fermato. Secondo me, l’ha fatto partire e ci è rimasto sotto. Io e gli altri abbiamo visto solo il trattore che si muoveva senza nessuno sopra e andava a sbattere contro il paletto giallo vicino all’entrata. È andata bene che c’era quel paletto, almeno l’ha fermato. Dopo abbiamo visto Ted per terra, ferito. Perdeva molto sangue. Ci siamo accorti subito che era gravissimo.»

«Era ancora cosciente, quando vi siete avvicinati?» domanda Kay Scarpetta. Come al solito, prende appunti sul suo blocco. A tracolla ha la borsa di nylon nera in cui tiene tutto l’occorrente per raccogliere tracce e reperti.

«Io non l’ho sentito parlare» risponde l’uomo con la cartellina. Fa una smorfia di dolore e si volta dall’altra parte. Deglutisce, poi si schiarisce la voce e riprende: «Però aveva gli occhi aperti e respirava con fatica. Non me lo scorderò mai, come cercava di respirare. A un certo punto è diventato blu in faccia e un attimo dopo era morto. Sono arrivati i soccorsi e la polizia, naturalmente, ma non c’era più niente da fare».

Marino ascolta e decide di fare un paio di domande perché gli dà fastidio stare lì con i piedi nel fango, fermo e zitto. Si sente stupido. Kay Scarpetta lo fa sentire stupido. Non lo fa apposta, naturalmente, il che è ancora peggio.

«Dov’era questo Sam Stiles al momento dell’incidente?» chiede, indicando con il berretto del Dipartimento di polizia di Los Angeles lo scavatore fermo e la palla da demolizione che ondeggia dal cavo. «Vicino a Whitby?»

«No, lontanissimo. È assurdo. L’idea che Ted sia caduto dal trattore per colpa della palla da demolizione è assolutamente ridicola. Solo che non c’è niente da ridere, purtroppo. Avete presente come ti riduce una palla da demolizione, se ti piglia sulla testa?»

«Piuttosto male, suppongo» dice Marino.

«Ti distrugge. Se dopo ti passa sopra un trattore, manco te ne accorgi.»

Kay Scarpetta prende appunti, alzando la testa ogni tanto per guardarsi intorno. Una volta Marino ha trovato il suo blocco sulla scrivania, in piena vista, mentre lei era fuori ufficio. Incuriosito, ha cercato di leggere che cosa c’era scritto, ma è riuscito a decifrare una parola soltanto: il suo nome, Marino. Non soltanto Kay ha una grafia illeggibile, ma usa un linguaggio tutto suo, una specie di stenografia segreta, che solo lei e Rose conoscono.

Sta chiedendo all’uomo con la cartellina come si chiama e lui risponde “Bud Light”. “Facile da ricordare” pensa Marino, che pure non beve birra Bud Light. Kay Scarpetta vuole sapere dov’era Ted Whitby dopo l’incidente, perché vuole raccogliere alcuni campioni di terra nel punto esatto in cui è stato investito. Bud Light non fa domande, dando per scontato che sia normalissimo raccogliere campioni di terra dai cantieri in cui muore un operaio. Si incamminano nel fango verso l’edificio in demolizione. Marino non riesce a togliersi di testa Suz.

Ieri sera era al bar a bersi il bicchiere della staffa con Junius Eise, dopo che Browning era andato a casa, e nel bel mezzo di un discorso molto interessante gli è squillato il cellulare. Aveva già bevuto parecchio e forse non avrebbe dovuto rispondere. In condizioni normali lo avrebbe tenuto spento, ma aveva detto a Kay di chiamarlo, se aveva bisogno, visto che Fielding non si era fatto trovare in casa, nonostante l’avesse invitata a cena. È stato per questo che ha risposto, anche se è vero che quando è un po’ sbronzo risponde più facilmente sia alla porta che al telefono.

“Pronto?” Doveva gridare, perché nel bar c’era molto rumore.

“Ispettore Marino? Sono Suzanna Paulsson. Scusi se la disturbo.” Ed è scoppiata a piangere. Quel che gli ha detto dopo non ha importanza, nemmeno se lo ricorda. Ci ripensa, mentre cammina nel fango con Bud Light e Kay Scarpetta, che sta prendendo dalla borsa di nylon nera una confezione di abbassalingua di legno e un certo numero di bustine di plastica. Quello che ha veramente importanza è successo dopo la telefonata. Marino non se lo ricorda, e probabilmente non gli tornerà mai in mente, perché Suz, quando è arrivato a casa sua, gli ha offerto un bicchierino di bourbon, poi un altro, e poi un altro ancora. Dopo avergli aperto la porta, ha tirato le tende del salotto, si è seduta sul divano vicino a lui e ha cominciato a raccontargli quanto è cattivo il suo ex marito, che fa l’informatore per la Sicurezza Nazionale, molesta le donne pilota e ha gusti sessuali un po’ particolari. Gli ha spiegato che invitava altre coppie a casa loro, come se fosse una cosa importante, e lui le ha chiesto se era a queste persone che si riferiva quel pomeriggio, quando ha detto che le avevano portato via la sua bambina. Suz non gli ha risposto. Continuava a dire: “Chiedilo a Frank”.

“Lo chiedo a te, invece” ha ribattuto lui a un certo punto.

“Chiedilo a Frank” è stata la sua risposta. “Invitava certi tipacci… Chiediglielo.”

“E perché li invitava?”

“Fattelo dire da lui.”

Marino guarda Kay Scarpetta che si infila un paio di guanti di lattice e apre una busta di carta bianca. Sul luogo dell’incidente non c’è nulla, a parte asfalto e fango. La osserva mentre si accuccia a controllare per terra. Ripensa a ieri mattina, a quando sono passati lì davanti sull’auto presa a noleggio parlando dei vecchi tempi. Quanto gli piacerebbe poter tornare indietro… Se solo fosse possibile… Ha lo stomaco in subbuglio, gli fa male la testa ed è agitato. Respira profondamente e si sente in bocca un sapore di polvere e cemento.

«Che cosa cercate esattamente, se posso chiedere?» domanda Bud Light.

Kay Scarpetta passa un abbassalingua nella terra, su una macchia che forse è di sangue. «Niente di particolare. Un normale controllo» risponde.

«Sa, ogni tanto guardo quegli sceneggiati in televisione… Mia moglie non se ne perde uno.»

«Non rispecchiano la realtà» replica lei, mettendo in una bustina un po’ di terra e l’abbassalingua che ha usato per raccoglierla. Chiude la bustina, ci scrive sopra qualcosa che Marino non riesce a leggere, poi la infila nella borsa di nylon nera.

«Non avete macchinari magici in cui mettere la roba che raccogliete in giro, che vi dicono tutto quello che c’è dentro?» scherza Bud.

«Non c’è niente di magico» spiega lei, prendendo un’altra bustina di plastica. In quel parcheggio, qualche anno prima, lasciava la macchina tutte le mattine per andare a lavorare.

Marino ogni tanto prova delle fitte violente, quasi elettriche, come un televisore che sta per rompersi definitivamente e lampeggia. È inquieto, tormentato. Non ricorda quasi più niente di ieri sera. Labbra, lingua, mani, occhi chiusi, la sua bocca su di lei. L’unica cosa che sa per certo è che si è svegliato nudo nel letto di Suz alle cinque e sette minuti di stamattina.

Kay Scarpetta sembra un’archeologa. Per quel che ne sa lui di archeologia, naturalmente. Passa l’abbassalingua su una zona in cui Marino crede di vedere alcune macchie di sangue. Ha il cappotto che tocca per terra e non ci fa neppure caso. Se le donne fossero tutte così… Se dessero poca importanza alle cose che non contano e si concentrassero su quelle che contano veramente, come Kay… Probabilmente lei avrebbe capito. Si sarebbe alzata, avrebbe fatto il caffè, gli avrebbe parlato. Non si sarebbe chiusa nel bagno a piangere e gridare. Non gli avrebbe urlato di andarsene immediatamente.

Marino si allontana a grandi passi nel fango, scivola, ritrova l’equilibrio, va in un angolo e comincia a vomitare, piegato in due, schizzandosi le scarpe.

Trema tutto, suda freddo e gli sembra di morire. Poi sente la mano di Kay sul braccio. La riconoscerebbe ovunque, forte, salda, sicura.

«Vieni» gli dice. «Torniamo in macchina. Stai meglio? Su, appoggiati a me e stai attento a non scivolare, se no finiamo per terra tutti e due.»

Marino si pulisce la bocca nella manica del cappotto e comincia a camminare, reggendosi a lei, con le lacrime agli occhi: è lì che si sono conosciuti, tanti anni fa.

«Non vorrei averla violentata» le confida, sentendosi a pezzi. «Cosa mi succederà, se l’ho violentata?»

29

Nella camera d’albergo fa troppo caldo, ma Kay Scarpetta ha rinunciato a cercare di regolare il termostato. E seduta in poltrona, vicino alla finestra, e osserva Marino steso sul letto. È vestito: si è tolto solo il berretto e le scarpe.

«Devi mangiare qualcosa» gli consiglia.

Ha posato la borsa di nylon nera sporca di fango per terra e il cappotto, anch’esso infangato, su una sedia. Marino guarda le impronte di terra che hanno lasciato sulla moquette e pensa a quante volte hanno controllato insieme le impronte sul luogo del delitto, poi gli viene in mente la camera da letto di Suzanna Paulsson e il delitto che forse vi è stato consumato. Possibile che lui, Marino, abbia commesso un reato?

«Non penso che riuscirei a mandare giù niente, adesso come adesso» risponde. «E se va alla polizia?»

Kay Scarpetta non vuole dargli false speranze. Può fare ben poco per lui, se non le dice niente. «Ti conviene metterti a sedere, Marino. Tirarti un po’ su. Dai, ordino qualcosa.»

Si alza e si avvicina al telefono sul comodino. Cerca gli occhiali da presbite nella tasca della giacca del tailleur, li inforca e osserva il telefono. Non riuscendo a capire che numero bisogna fare per avere il servizio in camera, preme “zero” per parlare con l’operatore e farsi passare il ristorante.

«Tre bottiglie di acqua minerale, due tè caldi, un bagel tostato e una porzione di porridge. No, grazie, va bene così.»

Marino si tira su a sedere e si aggiusta i cuscini dietro la schiena. Guarda Kay che torna a sedersi in poltrona, stanca e oppressa da mille pensieri. È preoccupata per le tracce di vernice sui due cadaveri nell’obitorio, per i campioni di terra che ha appena raccolto nel cantiere dove è morto Ted Whitby, per Gilly Paulsson, per Lucy, per Benton, e adesso anche per lui, che teme di aver violentato Suzanna Paulsson. Marino ha fatto un sacco di scemenze, in campo sentimentale, e ha confuso spesso vita professionale e vita privata, allacciando relazioni con testimoni e vittime, ma le conseguenze non sono mai state gravissime. Non è mai stato accusato di stupro. Una simile eventualità non lo ha mai neppure sfiorato.

«Dobbiamo affrontare il problema e vedere come risolverlo» comincia Kay. «Prima di tutto, non credo che tu abbia violentato Suzanna Paulsson. Evidentemente bisogna capire se lei è convinta che tu l’abbia fatto o se fa finta di crederlo e perché. Ma iniziamo da quello che ti ricordi, dall’ultima cosa di cui sei sicuro.» Lo guarda negli occhi. «E comunque, Marino, se l’hai violentata, qualcosa faremo. Okay?»

Lui si limita a guardarla. È rosso in viso, ha gli occhi lucidi e gli pulsa una vena azzurrognola sulla tempia, che ogni tanto si massaggia.

«So che non ti fa piacere raccontarmi la tua serata nei dettagli, ma penso che sia necessario. Altrimenti, non posso aiutarti. Stai tranquillo, non mi scandalizzo di niente» aggiunge. Dopo tutto quello che hanno passato insieme, potrebbe suonare come una battuta di spirito, ma nessuno dei due ha voglia di ridere.

«Non so se ci riuscirò» replica Marino, voltandosi dall’altra parte.

«La mia immaginazione probabilmente supera la realtà» gli dice Kay in tono piatto, obiettivo.

«Lo so, non sei nata ieri.»

«Infatti» risponde lei. «Ho anche una certa esperienza» aggiunge sorridendo. «Benché forse tu faccia fatica ad accettarlo.»

30

È vero: Marino fa fatica ad accettare che Kay Scarpetta abbia fatto delle cose con i suoi uomini, e specialmente con Benton.

Guarda fuori. La camera è al secondo piano e dalla finestra non si vede la strada, ma solo il cielo, che è grigio. Si sente piccolo piccolo e prova un infantile desiderio di rintanarsi sotto le coperte, dormire e svegliarsi per scoprire che non è successo niente. Vorrebbe farsi una bella dormita e al suo risveglio ritrovarsi di nuovo a Richmond con Kay, impegnati a risolvere insieme un caso misterioso. Vorrebbe cancellare ieri sera. È strano, ha sognato tante volte di svegliarsi in una camera d’albergo con lei e adesso che sono insieme sta male come un cane. Pensa da dove cominciare, ma l’emozione e la paura hanno il sopravvento e gli manca la voce. Non riesce a parlare.

I suoi sentimenti nei confronti di Kay sono da sempre confusi e contraddittori. Le fantasie erotiche in cui l’ha coinvolta sono molte, spesso eccessive e incredibili, e non vuole che lei ne sappia niente. Non deve assolutamente sapere che la desidera. La speranza, però, è l’ultima a morire e Marino non riesce a parlare perché, se le racconta di ieri sera, allora Kay avrà un’idea di com’è lui a letto e anche l’ultima, più piccola speranza morirà. Confessarle nei particolari il poco che ricorda vorrebbe dire spiegarle com’è fare sesso con lui e quindi rovinare tutto, anche le sue fantasie erotiche, perché a quel punto non riuscirebbe più a fantasticare un accidente. Prende in considerazione l’ipotesi di mentire.

«Partiamo dal bar in cui sei andato con i tuoi amici» dice Kay guardandolo in faccia. «A che ora vi siete visti?»

Okay, di quello può parlare. «Verso le sette» risponde. «Prima ho visto Eise, poi è arrivato Browning. Abbiamo cenato insieme.»

«Dammi i dettagli» insiste lei senza muoversi, continuando a guardarlo. «Che cosa avevi mangiato durante il giorno e cosa hai preso per cena?»

«Allora vuoi che parta da prima ancora? A cosa ti serve sapere che cosa ho mangiato in tutto il giorno?»

«Hai fatto colazione, ieri mattina?» insiste Kay, con la stessa irremovibile pazienza che usa quando ha a che fare con una persona che ha perso tragicamente un suo caro.

«Ho preso un caffè nella mia stanza» risponde Marino.

«E poi hai pranzato?»

«No.»

«Non va per niente bene, ma di questo parleremo un’altra volta» replica lei. «Quindi alle sette, quando ti sei visto con Eise e Browning, eri a stomaco vuoto, perché in tutto il giorno avevi preso soltanto un caffè. Cos’hai bevuto?»

«Un paio di birre. Poi ho mangiato una bistecca con contorno di insalata.»

«Niente patate o pane? Niente carboidrati? E la tua dieta?»

«Be’, evitare i carboidrati è stata l’unica cosa buona che ho fatto ieri sera.»

Kay Scarpetta non dice niente e Marino intuisce che non è d’accordo sul fatto che eliminare i carboidrati sia una cosa buona. Gli risparmia la predica solo perché lo vede afflitto e sconsolato, terrorizzato al pensiero di aver fatto un’enorme sciocchezza e di rischiare una denuncia per stupro. Marino guarda il cielo fuori dalla finestra e immagina che per le strade di Richmond stia girando una volante alla sua ricerca. Magari ad arrestarlo verrà proprio il suo amico Browning.

«E poi?» insiste Kay.

Marino si immagina seduto sul sedile posteriore dell’auto della polizia, in manette. Browning potrebbe evitare di mettergliele, per rispetto, oppure fare finta di niente e rispettare le procedure. Sì, probabilmente lo ammanetterebbe.

«Hai bevuto un paio di birre, hai mangiato una bistecca e un’insalata. E poi?» Kay è implacabile, benché il suo tono sia dolce. «Quante birre, per l’esattezza?»

«Quattro, mi pare.»

«Cerca di dirmi il numero esatto, per favore.»

«Sei.»

«Bottiglie, lattine o alla spina? Medie o piccole? Quanti litri, in poche parole?»

«Sei bottiglie di Budweiser. Ti segnalo che per me non sono tante, le reggo senza problemi. Sei birre per me sono come mezza birra per te.»

«Ne dubito» replica Kay Scarpetta. «Ma lasciamo stare.»

«Non mi fare la predica» borbotta Marino lanciandole un’occhiataccia. E si chiude in un immusonito silenzio.

«Sei birre, una bistecca e un’insalata con Junius Eise e l’ispettore Browning, a partire dalle diciannove. Quando hai saputo che in giro si mormorava di un mio possibile rientro a Richmond? Mentre cenavate?»

«Non tirare conclusioni affrettate» replica Marino imbronciato.

Eise e Browning erano seduti di fronte a lui nel séparé, sul tavolo brillava una candela in una boccia di vetro rossa, bevevano birra. Eise gli ha chiesto che cosa pensava di Kay Scarpetta, in tutta sincerità. È davvero così brava come si dice? Marino risponde che sì, è una donna eccezionale, e che non si dà arie per niente. Non ricorda benissimo la situazione, ma sa come si è sentito quando Browning e Eise hanno cominciato a parlare di lei e gli hanno detto che stavano per ridarle il posto di direttore dell’Istituto di medicina legale della Virginia. Marino non ne sapeva niente, lei non aveva mai neppure accennato alla cosa. Si è sentito offeso, umiliato.

Eise poi ha detto che la trovava una bella donna, con due gran belle tette. È a questo punto che Marino ha ordinato un bourbon. Eise sorrideva e diceva che gli sarebbe piaciuto vederla senza camice. “Tu che ci lavori assieme da tanto, probabilmente non ci fai manco più caso” gli ha detto. Browning ha replicato che lui non l’aveva mai vista, che la conosceva soltanto di fama. Ma anche lui sorrideva.

Marino non aveva niente da dire, perciò si è scolato il suo primo bourbon e ne ha ordinato un altro. Il pensiero che Eise volesse portarsi a letto Kay Scarpetta lo mandava in bestia, gli faceva venire voglia di prendere a schiaffi tutti quanti. Ma si è trattenuto, è rimasto lì bravo e zitto, si è scolato un altro bourbon e ha cercato di non pensare a Kay che si toglie il camice e lo appende ordinatamente sulla sedia o all’attaccapanni dietro la porta del suo ufficio. Ha cercato di non pensare a quando sulla scena di qualche crimine si toglie la giacca, si sbottona i polsini della camicia, si rimbocca le maniche e si mette al lavoro. Kay Scarpetta è una donna disinvolta ed è pudica, non si rende nemmeno conto di quanto è bella e di come la guardano gli uomini quando si toglie il camice o la giacca, perché si concentra sul lavoro, non ci pensa. Si concentra sui morti, e i morti non guardano. Solo che Marino non è morto, è vivo e vegeto e ha gli occhi per guardare. Forse lei lo considera alla pari dei morti.

«Te lo ripeto, non ho in programma di tornare a Richmond» ribadisce Kay dalla poltrona, gambe accavallate, calzoni macchiati di fango, scarpe talmente sporche che non si capisce nemmeno più di che colore sono. «E comunque sai benissimo che se avessi in programma una cosa simile te ne parlerei, no?»

«Non si sa mai» replica lui.

«Lo sai benissimo, invece.»

«Io qui non torno. Specie dopo quello che è successo ieri.»

Bussano alla porta e a Marino va il cuore in gola al pensiero della polizia, di Browning e delle manette. Quando sente la voce del cameriere, tira un sospiro di sollievo.

«Vado io» dice Kay.

Marino resta seduto sul letto e la segue con gli occhi mentre attraversa la stanza e va ad aprire. Se fosse sola, se lui non ci fosse, probabilmente controllerebbe dallo spioncino che sia veramente il cameriere, ma siccome c’è lui, con la sua Colt .280 semiautomatica nella fondina alla caviglia, non si preoccupa. Non ci sarà bisogno di sparare a nessuno, pensa Marino, che pure avrebbe voglia di fare a botte. Sì, non gli dispiacerebbe prendere a pugni qualcuno, spaccargli la faccia.

«Tutto bene?» chiede il giovanotto in livrea entrando con il carrello.

«Sì, grazie» risponde Kay tirando fuori dalla tasca dei calzoni una banconota da dieci dollari ordinatamente piegata. «Lasci pure lì. Grazie.» Gli mette in mano la banconota.

«Grazie, signora. Buona giornata.» Il cameriere esce e chiude la porta.

Marino resta immobile e continua a guardare Kay che prende il porridge, ci mette dentro il burro, lo mischia bene e aggiunge un po’ di sale, poi apre un’altra confezione di burro, lo spalma sul bagel e versa due tazze di tè. Marino vede che sul carrello non c’è zuccheriera.

«Ecco qua» gli dice Kay posando il porridge e una tazza di tè sul comodino. «Mangia qualcosa.» Torna al carrello, prende il bagel e glielo porta. «Più mangi, meglio è. Magari ti torna pure la memoria.»

Marino si sente male alla sola vista del porridge, ma lo prende in mano comunque. Quando vi immerge il cucchiaino gli torna in mente lei che passa l’abbassalingua per terra, nel cantiere, e gli viene di nuovo nausea. Prova disgusto e rimorso: se almeno fosse stato troppo ubriaco e non fosse riuscito a… Invece no, a questo punto ne è quasi sicuro: lo ha fatto.

«Non riesco a mangiare» dichiara.

«Prova a buttarne giù un boccone» insiste Kay, seduta dritta in poltrona come un giudice, guardandolo negli occhi.

Marino assaggia il porridge e si sorprende di trovarlo buono. È piacevole, saporito, gli scalda lo stomaco. Lo finisce e attacca il bagel. Mangia, sentendosi addosso lo sguardo di Kay, che lo osserva senza parlare. Sa benissimo perché sta zitta e lo fissa. Non le ha ancora detto la verità. Non le ha rivelato i particolari che distruggerebbero anche l’ultima speranza. Se li saprà, non starà mai con lui. Al solo pensiero, non riesce più a masticare.

«Ti senti un pochino meglio?» chiede Kay. «Bevi il tè» gli suggerisce. È veramente come un giudice, seduta lì sotto la finestra grigia, vestita di scuro. «Finisci il bagel e bevi almeno una tazza di tè. Sei disidratato e hai bisogno di calorie. Ho dell’Advil, se vuoi.»

«Sì, grazie» risponde lui, masticando.

Kay prende un flacone di pillole dalla borsa di nylon nera. Marino finisce di masticare, beve un sorso di tè e la guarda che si avvicina, apre il flacone con il tappo di sicurezza e gli posa due pillole nel palmo della mano. Ha mani agili e forti, piccolissime in confronto alle sue, che sono grosse e ruvide, mentre lei ha la pelle vellutata.

«Grazie» le dice.

Kay torna a sedersi. Starà lì un mese, se necessario. E forse dovrei lasciarcela stare, pensa Marino. Non se ne andrà, se non le dico tutto. Vorrei che la piantasse di guardarmi a quel modo.

«Ti è tornata la memoria?» gli domanda.

«Credo di aver rimosso tutto. Succede, sai?» replica, finendo il tè per buttare giù le pillole.

«Succede di rimuovere tutto, succede di ritrovare piano piano la memoria e succede di far fatica a parlare di certe cose. Dunque: eri con Eise e Browning e sei passato dalla birra al bourbon. Che ore erano?»

«Le nove e mezzo, le dieci. Mi è squillato il cellulare. Era Suz, sconvolta. Mi ha detto che aveva bisogno di parlare e mi ha chiesto di andare a casa sua.» Si interrompe per vedere la sua reazione, ma Kay rimane imperturbabile.

«Vai avanti.»

«So a cosa stai pensando. Stai pensando che non ci sarei dovuto andare, visto che avevo bevuto.»

«Non ti preoccupare di quello che penso io» replica lei dalla sua poltrona.

«Mi sentivo benissimo.»

«Quanto avevi bevuto?»

«Un po’ di birra e un paio di bourbon.»

«Un paio?»

«Non più di tre.»

«Sei birre equivalgono a 120 grammi di alcol puro. Tre bourbon sono altri 100 grammi, più o meno. Dipende dalla generosità del barista» calcola Kay Scarpetta. «Diciamo che hai assunto 220 grammi di alcol nell’arco di tre ore e che ne hai metabolizzati 20, 25 grammi all’ora: vuol dire che ne avevi in corpo almeno 155, quando sei uscito dal bar.»

«Cazzarola» esclama Marino. «Avrei fatto volentieri a meno di questi calcoli. Mi sentivo benissimo, te l’assicuro.»

«Reggi bene l’alcol, okay. Ma legalmente eri ubriaco» rimarca lei. «Se ti fossi messo alla guida di un mezzo avresti rischiato l’arresto. Immagino che tu sia arrivato a casa Paulsson senza problemi, comunque. A che ora?»

«Le dieci e mezzo, più o meno. Ma non è che guardassi l’orologio ogni cinque minuti.» La fissa, tetro, appoggiandosi ai cuscini. Sta per arrivare alla parte peggiore, e ha una voglia matta di scappare.

«Ti ascolto» dice Kay Scarpetta. «Come ti senti? Vuoi qualcos’altro? Ti verso ancora un po’ di tè?»

Marino fa di no con la testa e si accerta di aver inghiottito bene le pillole, preoccupato che gli restino nell’esofago e gli provochino un’ulcera. Come se non fosse già abbastanza malmesso.

«Ti sta passando il mal di testa?»

«Sei mai andata dallo strizzacervelli?» le chiede di punto in bianco. «Perché è così che mi sento. Come se fossi dallo strizzacervelli. Dico così per dire perché non ci sono mai stato, ma immagino che ci si senta come mi sento io adesso. Tu che cosa ne pensi?» Non sa nemmeno perché l’ha detto, gli è venuto istintivo. La guarda, arrabbiato e disperato. Farebbe qualsiasi cosa, pur di non affrontare la parte peggiore.

«Non voglio parlare di me» replica Kay Scarpetta. «Non sono uno strizzacervelli, lo sai benissimo. Non siamo qui per capire le motivazioni profonde di quel che hai fatto o non hai fatto, ma che cosa hai fatto e quali possono essere le conseguenze. Freud non c’entra niente.»

«Lo so. So che cosa dobbiamo capire e perché. Il problema è che non so che cosa è successo. Non lo so veramente, capo» mente.

«Torniamo a dove ci siamo interrotti. Sei andato a casa sua. Come ci sei andato? Non avevi la macchina.»

«In taxi.»

«Hai la ricevuta?»

«Forse. Nella tasca della giacca.»

«Speriamo che tu l’abbia tenuta.»

«Dovrei avercela.»

«Dopo guardiamo. Che cosa è successo a quel punto?»

«Sono sceso dal taxi e ho suonato il campanello. Lei è venuta alla porta e mi ha aperto.» La parte peggiore, la più oscura, incombe come un cielo coperto di nuvoloni plumbei e forieri di tempesta. Marino respira profondamente, con la testa che gli pulsa.

«Stai tranquillo, Marino, con me puoi parlare» lo rassicura lei. «Cerchiamo solo di capire che cosa è successo esattamente. Non mi interessa altro.»

«Suzanna… aveva un paio di anfibi neri, di pelle, con la suola rinforzata. Militari, da paracadutista. E una maglia mimetica.» Si sente risucchiare in un vortice pericoloso. «Nient’altro. Io sono rimasto stupefatto, te lo puoi immaginare. Non capivo perché si fosse vestita così. Non pensavo che avesse delle idee… tutt’altro. Invece ha chiuso la porta e mi ha messo subito le mani addosso.»

«Dove?»

«Mi ha detto che le ero piaciuto dal primo momento che mi aveva visto» spiega, abbellendo lievemente le parole di Suzanna, ma non tanto perché il senso delle sue parole era quello: voleva stare con lui, lo desiderava da quel pomeriggio, quando lui era andato con Kay Scarpetta a casa sua per parlare di Gilly.

«E ti ha messo le mani addosso. Dove? In che parte del corpo?»

«In tasca. Mi ha infilato le mani nelle tasche dei pantaloni.»

«Davanti o dietro?»

«Davanti.» Abbassa gli occhi e sbatte le palpebre guardandosi le tasche dei pantaloni neri.

«Quelli che hai su adesso?» domanda Kay Scarpetta, sempre guardandolo in faccia.

«Sì. Non ho avuto il tempo di cambiarmi, stamattina. Non sono nemmeno tornato in albergo, non c’era tempo. Ho preso un taxi e sono venuto direttamente all’istituto.»

«Va bene, a questo arriveremo poi» replica Kay. «Ti ha messo le mani in tasca. E dopo?»

«Perché vuoi sapere tutto?»

«Lo sai benissimo» risponde lei con il tono calmo e pacato di sempre, continuando a fissarlo.

Marino ripensa a Suz che gli infilava le mani nelle tasche e lo attirava a sé ridendo, dicendogli che era un bell’uomo, e chiudeva la porta con un calcio. Gli sale nella mente la stessa nebbia che avvolgeva la città quando lui era sul taxi diretto a casa sua, consapevole di andare verso l’ignoto ma desideroso di andarci. Ripensa a Suz che lo accompagna nel salotto, con le mani nelle sue tasche, ridendo, con addosso soltanto una maglietta mimetica e anfibi militari, e poi lo abbraccia, morbida, sensuale, strusciandoglisi contro.

«È andata in cucina a prendere una bottiglia di bourbon e ha riempito due bicchieri» dice. Sente la propria voce, ma non vede niente. È in una specie di trance. «Io le ho detto che avevo già bevuto abbastanza. Cioè, forse non gliel’ho detto, perché ero un tantino sottosopra. Non so cosa dirti, è la verità: ero sottosopra. Le ho chiesto come mai si era vestita così e lei mi ha risposto che a Frank piaceva, che la faceva sempre vestire così. Che facevano tanti giochetti.»

«E Gilly era in casa, quando facevano questi “giochetti”?»

«Come, scusa?»

«Non importa, ci arriviamo dopo. Che tipo di “giochetti”?»

«Erotici.»

«Voleva farli anche con te?» domanda lei.

La camera è buia e Marino sente il peso dell’oscurità, non riesce a visualizzare quello che ha fatto perché è insopportabile e l’unica cosa cui riesce a pensare mentre cerca di essere il più sincero possibile è che non c’è più speranza. Kay, una volta saputo che cosa è successo, non starà mai con lui, e lui dovrà abbandonare ogni speranza. Sapendo come sarebbe farlo con lui, Kay non si lascerà mai tentare.

«È importante, Marino» gli dice a bassa voce. «Parlamene.»

Marino deglutisce, e gli pare di avere le pillole ferme nel gargarozzo, che non vanno né su né giù. Avrebbe voglia di bere un’altra tazza di tè, ma non riesce a muoversi. Kay Scarpetta è seduta diritta, non scomoda ma con l’aria determinata, le mani posate sui braccioli. Ha il tailleur sporco di fango. È attenta ma rilassata, e non lo perde di vista un secondo.

«Voleva che la inseguissi» inizia Marino. «Io ho bevuto un altro bourbon e le ho chiesto che cosa intendeva. Lei mi ha detto che dovevo andare in camera sua, nascondermi dietro la porta, aspettare cinque minuti e poi andarla a cercare. Cinque minuti esatti, mi ha raccomandato. Dovevo cercarla come per… come se avessi voluto ucciderla. Le ho detto di no, che non mi andava bene. No, questo forse non gliel’ho detto.» Emette un respiro profondo. «L’ho pensato, ma non credo di averglielo detto, perché ero sottosopra.»

«Che ore erano?»

«Non saprei. Ero lì da un’oretta, penso.»

«Ti ha infilato le mani nelle tasche appena sei entrato in casa, verso le dieci e mezzo, e ti ha proposto il giochetto un’ora dopo? Che cosa avete fatto nel frattempo?»

«Abbiamo bevuto. In salotto, seduti sul divano.» Non la guarda, non ne ha il coraggio. Non riuscirà mai più a guardarla negli occhi.

«Con le luci accese o spente? E le tende erano aperte o chiuse?»

«C’era il caminetto acceso e le luci erano spente. Le tende non mi ricordo se erano aperte o chiuse.» Ci riflette un attimo. «Chiuse.»

«Che cosa avete fatto sul divano?»

«Abbiamo parlato. E ci siamo un po’ baciati, immagino.»

«Non immaginare, dimmi com’è andata. Cosa vuol dire che vi siete “un po’” baciati?» chiede Kay. «Sii più specifico. Eravate vestiti o spogliati? Avete avuto un rapporto sessuale orale?»

Marino si sente avvampare. «No, no. Ci siamo baciati, normalmente, ci siamo accarezzati un po’. Insomma, i soliti preliminari. Eravamo lì sul divano e lei esce fuori con la storia del giochetto.» È paonazzo. Sa che Kay lo vede avvampare e si rifiuta di guardarla.

Le luci erano spente e il bagliore del fuoco nel camino giocava sul corpo di Suz. Quando lei ha cominciato ad accarezzarlo, gli ha fatto un po’ male e un po’ piacere, poi solo male. Le ha detto di fare piano, che gli faceva male, ma lei è scoppiata a ridere e gli ha risposto che a lei piaceva farlo così, rude, selvaggio. Non voleva morderla? E lui le ha detto che no, non voleva morderla, non gli piaceva. Vedrai che ti piace, ha insistito lei, non sai che cosa ti perdi se non l’hai mai fatto così, rude, selvaggio. E intanto luce e ombra giocavano sulla sua pelle, e lui cercava di tenerle la bocca occupata, e accavallava le gambe per difendersi, perché lei gli faceva male. “Ma allora non sei un vero uomo!” gli diceva, cercando di farlo sdraiare sul divano e di fargli vincere i suoi timori. Lui le guardava i bei denti, bianchi e tremava sempre di più.

«Il giochetto è incominciato sul divano?» domanda Kay Scarpetta dalla sua poltrona.

«Abbiamo iniziato a parlarne lì. Poi mi sono alzato in piedi e lei mi ha accompagnato in camera sua, mi ha detto di stare fermo dietro la porta e di aspettare cinque minuti.»

«Continuava a offrirti da bere?»

«Forse sì. Mi sembra che mi abbia versato un bicchierino.»

«Ti sembra solo? Cerca di ricordare. Un bicchierino o un bicchierone?»

«Quella donna esagera, qualsiasi cosa faccia. Direi che mi ha offerto tre bourbon molto generosi, prima di portarmi in camera sua e farmi nascondere dietro la porta. Da lì in poi, non ricordo veramente più niente» dice. «Da lì in poi, la nebbia si fa fitta. E forse è una fortuna.»

«No, non è una fortuna. Sforzati di ricordare. Dobbiamo sapere che cosa è successo. Voglio soltanto accertare i fatti, non me ne frega niente del perché. Marino, credimi, non mi puoi dire niente che io non abbia già visto o sentito. Tieni presente che non mi turbo facilmente.»

«Lo so benissimo, capo. Forse sono io che mi turbo. Credevo di essere disinibito e invece non lo sono. Mi ricordo che ho guardato l’orologio e non riuscivo a leggere l’ora. Mi è calata la vista, d’accordo, ma vedevo anche doppio. E poi ero agitato, agitatissimo. Non so come ho fatto a stare al gioco, davvero.»

Sudato marcio, ha cercato di capire che ore erano e, non riuscendo a leggere l’orologio, ha iniziato a contare fino a sessanta, ma perdeva continuamente il filo e doveva ricominciare daccapo. A un certo punto ha deciso che cinque minuti erano passati di sicuro. In preda a un’eccitazione mai provata con nessuna donna, è uscito dal suo nascondiglio dietro la porta e si è reso conto che la casa era buia. Non vedeva più in là del proprio naso, gli toccava andare a tastoni. A un certo punto gli è venuto in mente che lui non sentiva lei, ma lei sentiva lui e, ubriaco, affannato e agitatissimo, si è reso conto che oltre all’eccitazione provava anche paura. Non vuole ammettere con Kay Scarpetta di aver avuto paura. A un tratto ha perso l’equilibrio e si è ritrovato lungo disteso per terra. Non sa quanto tempo è rimasto lì. Forse a un certo punto si è addirittura addormentato.

Quando si è svegliato, la pistola non c’era più. Aveva il cuore in gola e il respiro corto, era lungo disteso sul parquet, sudato, le orecchie tese a captare dov’era il nemico. Il buio era così profondo che sembrava spesso, vellutato, come una coperta nera sopra di lui. Si sentiva soffocare. Ha tentato di alzarsi in piedi senza far rumore, senza farsi scoprire. Il nemico era in agguato e lui era senza pistola. Ha cominciato ad avanzare tastoni, con le orecchie tese, pronto a colpire: se lui non l’avesse colto di sorpresa, il nemico l’avrebbe ammazzato.

Si è mosso lentamente come un gatto, concentrato sul nemico, cercando di farsi venire in mente come mai era lì, con chi era e con chi ce l’aveva. Possibile che fosse da solo, senza rinforzi? O quelli che erano con lui erano già morti tutti? Possibile che fosse l’unico vivo? Stava per morire, se lo sentiva, perché la sua pistola non c’era più, e nemmeno la radio, chissà dove diavolo erano finite. Poi si è sentito colpire, è svenuto, un drappo nero gli ha coperto gli occhi, la testa, togliendogli il respiro. Ha sentito male, un dolore bruciante, mentre l’oscurità lo avvolgeva e lo stringeva e ansimava in maniera spaventosa.

«Non so che cosa è successo dopo» dice, sorprendendosi di avere una voce tranquilla, visto che si sente sull’orlo della pazzia. «Non so più niente. Mi sono risvegliato nel letto.»

«Vestito?»

«No.»

«Dov’erano i tuoi vestiti, la tua roba?»

«Su una sedia.»

«Su una sedia? Piegati e ordinati?»

«Sì, abbastanza. C’erano i vestiti e sopra la pistola. Mi sono tirato su a sedere nel letto e ho visto che non c’era nessuno» racconta.

«L’altra parte del letto era disfatta? Ci aveva dormito qualcuno o no?»

«Era tutto un gran casino, un groviglio di lenzuola. Ma non c’era nessuno. Mi sono guardato intorno e non sapevo più dov’ero. Poi mi è venuto in mente che avevo preso un taxi per andare a casa di Suz Paulsson e che lei mi aveva aperto là porta vestita a quel modo. Ho visto un bicchierino di bourbon sul comodino dalla mia parte e un asciugamano sporco di sangue. Mi è venuto un colpo. Ho cercato di alzarmi, ma non ci riuscivo. Non riuscivo a muovermi.»

Si rende conto di avere la tazza piena e sta male al pensiero di non essersi accorto che Kay Scarpetta si è alzata a versargli dell’altro tè. O è stato lui a riempirsi di nuovo la tazza? Non crede. Gli pare di non essersi mosso. Guarda l’orologio: sono passate più di tre ore da quando è rientrato in albergo con Kay Scarpetta.

«È possibile che ti abbia messo qualcosa nel bourbon?» gli domanda. «Non credo che riusciremmo ad accertarlo con un’analisi, purtroppo: ormai è passato troppo tempo. Dipende da cosa ti ci ha messo.»

«Per fare un esame tossicologico, tanto vale chiamare subito la polizia. Sempre che non l’abbia già fatto lei.»

«Parlami dell’asciugamano sporco di sangue. Com’era?»

«Non so di chi fosse il sangue, forse mio. Avevo male alla bocca.» Se la tocca. «Un male terribile. Ho capito che a lei piace il sesso rude, ma devo dire che… Cioè, non so che cosa le ho fatto io, perché non l’ho vista, era nel bagno. L’ho chiamata per capire dov’era e lei si è messa a urlare e mi ha detto che me ne dovevo andare via subito, che l’avevo… Insomma, un sacco di brutte cose.»

«Immagino che tu non abbia pensato di portarti via l’asciugamano.»

«C’è voluta tutta che chiamassi un taxi e portassi via le chiappe. Per la verità, non ricordo neppure di averlo chiamato, ma visto che poi sono arrivato all’istituto… Comunque no, l’asciugamano non l’ho preso.»

«Sei venuto direttamente all’istituto?» Kay Scarpetta aggrotta la fronte perplessa.

«Mi sono fermato a prendere un caffè a un Seven-Eleven e ho chiesto al tassista di lasciarmi a un paio di isolati di distanza in maniera da poter fare due passi e schiarirmi le idee. Un po’ mi ha snebbiato, ma… cioè, mi sentivo lievemente meglio, ma quando sono entrato e l’ho vista, mi è venuto un colpo.»

«Hai controllato i messaggi sul tuo cellulare, prima di venire all’istituto?»

«Può darsi, non mi ricordo.»

«Immagino di sì, altrimenti non avresti saputo della riunione.»

«No, che c’era la riunione lo sapevo da ieri» replica Marino. «Eise al bar mi ha raccontato di aver scritto un’e-mail a Marcus, dandogli delle informazioni importanti.» Si sforza di ricordare. «Sì, ecco com’è andata. Appena ha letto l’e-mail, Marcus gli ha telefonato dicendogli che avrebbe indetto una riunione per stamattina, raccomandandogli di essere in istituto in maniera che, se avesse avuto bisogno di lui, potesse convocarlo perché spiegasse lui la situazione.»

«Dunque tu sapevi della riunione già da ieri sera» conclude Kay Scarpetta.

«Sì. Eise me l’ha accennato e mi ha fatto capire che tu ci saresti stata. Quindi ho pensato che avrei dovuto presenziare anch’io.»

«Sapevi che era alle nove e mezzo?»

«Evidentemente sì. Mi dispiace, sono annebbiato, non ricordo bene. Comunque sì, della riunione ero già al corrente.» La guarda, cercando di capire che cosa ha in testa. «Perché? Qual è il problema?»

«Marcus mi ha parlato della riunione soltanto alle nove di stamattina» risponde lei.

«Ti tiene sulla corda, cerca di darti meno spazio che può» conclude Marino, pensando che il dottor Marcus è un essere spregevole. «Senti, saliamo sul primo aereo e torniamocene in Florida. Lasciamolo nella merda.»

«Stamattina all’istituto la Paulsson ti ha parlato?»

«Mi ha visto e ha tirato dritto. Ha fatto finta di non conoscermi. Non capisco niente, capo. So solo che è successo qualcosa che sarebbe stato meglio non succedesse e ho paura che sia una cosa talmente tremenda che la pagherò carissima. Ho fatto tante stronzate nella vita, ma ho paura che questa sia la peggiore.»

Kay Scarpetta si alza lentamente dalla poltrona. Ha l’aria stanca, ma attenta e concentrata. Marino intuisce che è preoccupata e che sta riflettendo. Probabilmente vede le cose in maniera diversa da lui. Guarda meditabonda dalla finestra, si avvicina al carrello e si versa l’ultima goccia di tè nella tazza.

«Ti ha fatto male, vero? Ti ha lasciato dei segni?» chiede, in piedi accanto al letto, guardandolo fisso. «Fammeli vedere.»

«Non ci penso nemmeno! No, no, non posso» risponde lui lamentoso, come fosse un bambino di dieci anni. «Scordatelo. Non se ne parla neanche.»

«Vuoi che ti aiuti, sì o no? Non pensi che nella mia vita ne abbia già viste di tutti i colori?»

Marino si copre il viso con le mani. «Non posso.»

«Allora chiama la polizia, così ti portano in centrale, ti fotografano le lesioni e aprono un’inchiesta. È questo che vuoi? Non è una cattiva idea, tenuto conto del fatto che la Paulsson potrebbe averti preceduto. Ma io non credo che si sia rivolta alla polizia.»

Marino abbassa le mani e la guarda. «Perché?»

«Perché non lo credo? Molto semplice. Tutti sanno che sei alloggiato qui. Browning sa in che albergo stai e conosce tutti i tuoi numeri di telefono. Come mai non è venuto nessuno ad arrestarti? Non pensi che avrebbero fatto qualcosa, se la mamma di Gilly Paulsson avesse chiamato il 911 dicendo che tu l’avevi violentata? E perché non si è messa a gridare, quando ti ha visto in istituto, stamattina? Incontri uno che la sera prima ti ha stuprato e tiri dritto come se niente fosse?»

«Io la polizia non la chiamo» dichiara fermamente Marino.

«Infatti. Quindi fai vedere a me i segni che ti ha lasciato.» Va verso la poltrona, prende la borsa di nylon nera, la apre e tira fuori una fotocamera digitale.

«Cristo!» esclama Marino, come se Kay Scarpetta gli stesse puntando contro una pistola, anziché una macchina fotografica.

«Secondo me, la vittima sei tu» dice Kay. «Anche se lei vuole farti credere il contrario. Perché?»

«Cosa cazzo ne so io? Senti, no, lascia perdere.»

«Marino, sei ancora annebbiato dopo tutto l’alcol che hai ingurgitato ieri sera, ma non sei uno stupido.»

La guarda, poi abbassa gli occhi sulla macchina fotografica. Kay Scarpetta, al centro della stanza, con il tailleur schizzato di fango, lo guarda negli occhi.

«Ci stiamo occupando della morte di sua figlia, Marino. È chiaro che ha in mente qualcosa: un risarcimento in denaro, attenzioni particolari o non so cosa. Ma lo scoprirò, stanne pure certo. Togliti la maglia, i pantaloni e tutto quello che devi: voglio vedere che cosa ti ha fatto quella donna ieri sera nel corso dei suoi “giochetti” erotici.»

«Che cosa penserai poi di me?» domanda lui, togliendosi lentamente la polo, attento a non sfregare la stoffa sulle abrasioni, sui morsi e sui succhiotti.

«Dio santissimo! Stai un attimo fermo, per favore. Maledizione, perché non me li hai fatti vedere subito? Guarda che ti devi disinfettare, se non vuoi che ti venga un’infezione. E ti preoccupi che quella chiami la polizia? Ma sei matto?» Mentre parla, scatta una serie di fotografie.

«Il problema è che non so che cosa le ho fatto io» replica Marino, un po’ più calmo perché la reazione di Kay non è stata brutta come pensava.

«Se le avessi fatto la metà di quello che ha fatto lei a te, ti farebbero male i denti.»

Marino si concentra sui propri denti, ma non sente niente. Non gli fanno male.

«Fammi vedere la schiena» dice Kay.

«La schiena non mi fa male.»

«Piegati in avanti e fammela vedere lo stesso.»

Marino ubbidisce e la sente spostare delicatamente i cuscini. Poi sente le sue dita calde sulle scapole, le sue mani sulla pelle nuda che lo spingono con dolcezza in avanti. Cerca di ricordare se è la prima volta che Kay Scarpetta gli tocca la schiena con le mani nude e decide che sì, non è mai successo prima: altrimenti se lo ricorderebbe.

«Ai genitali ti ha fatto male?» gli domanda, come se niente fosse. Siccome lui non risponde, dice: «Marino, ti ha fatto male anche ai genitali? C’è qualcos’altro che devo fotografare, o peggio ancora disinfettare? Vogliamo fare finta che io non sappia che sei provvisto di organi genitali come il resto della popolazione maschile su questa terra? Senti, è evidente che ti ha fatto male anche ai genitali, altrimenti mi avresti risposto di no e l’avremmo finita lì. Dico bene?»

«Dici bene» borbotta lui, coprendosi il pube con le mani. «Sì, mi ha fatto male. Ma penso che tu abbia raccolto già abbastanza prove del fatto che Suz Paulsson mi ha procurato delle lesioni, indipendentemente dal fatto che io ne abbia procurato a lei.»

Kay Scarpetta si siede sul bordo del letto, a meno di un metro da lui, e lo guarda fisso negli occhi. «Preferisci dirmelo a parole, in che stato ti ha ridotto? Descrivimelo, così poi decidiamo se è il caso che ti tiri giù i pantaloni.»

«Mi ha morsicato dappertutto. Ho dei lividi.»

«Sono un medico» gli ricorda Kay.

«Lo so, capo. Ma non sei il mio medico.»

«Se tu morissi, lo sarei. Se ti avesse ammazzato, credi che non avrei voluto vedere come ti aveva ridotto? Per fortuna non sei morto, ma hai subito delle violenze, che ti hanno lasciato gli stessi segni che avrei visto se alla fine lei ti avesse anche ammazzato. Mi rendo conto che è un discorso assurdo: suona ridicolo persino a me che te lo sto facendo. Ma vorrei che mi facessi vedere le lesioni che quella donna ti ha procurato, in maniera che io possa decidere se è il caso di curarle o di fotografarle.»

«Curarle? E come?»

«Probabilmente basterà un po’ di Betadine. Scendo a comprarne una boccetta in farmacia.»

Marino cerca di immaginare che reazione avrà Kay, se lo vedrà. Non glielo ha mai visto, non ha la minima idea di come sia. Probabilmente non è né superiore alla norma né inferiore alla norma, e se è nella norma va bene, ma forse lei è abituata a qualcosa di diverso, si aspetta qualcosa di diverso. Meglio evitare, insomma. Poi, però, gli viene in mente la polizia, si immagina già seduto in manette sulla volante, fotografato da un agente in una cella, al banco degli imputati… Si abbassa la zip dei pantaloni.

«Ti avverto che, se ti metti a ridere, io non ti rivolgo più la parola» dice. È paonazzo, sudato. Il sudore gli fa bruciare le ferite.

«Povero Marino!» esclama Kay Scarpetta. «Quella donna è una psicopatica.»

31

Piove e fa freddo quando Kay Scarpetta posteggia davanti alla casa di Suzanna Paulsson. Resta qualche minuto in macchina con il motore acceso e i tergicristalli in funzione a guardare il vialetto di mattoni che conduce alla porta di casa e ripensa a Marino.

La storia che le ha raccontato è molto più significativa di quello che lui pensa. Le lesioni che le ha fatto vedere sono peggiori di quello che lui crede. Forse non le ha riferito tutto nei minimi dettagli, ma le ha detto abbastanza perché potesse farsi un’idea di come sono andate le cose. Spegne i tergicristalli e guarda la pioggia che cade sui vetri, così violenta che il parabrezza sembra una lastra di ghiaccio mezza sciolta. Suzanna Paulsson è in casa: la sua automobile è parcheggiata vicino al marciapiede e le finestre sono illuminate. Peraltro, con un tempaccio così, è meglio non uscire.

Kay Scarpetta non ha né un ombrello né un berretto.

Scende dalla macchina sotto la pioggia battente e corre sui mattoni scivolosi del vialetto verso la casa di Gilly Paulsson, morta a quattordici anni, e di sua madre, donna dalla sessualità malata. Forse Kay non è in condizione di poter giudicare la signora Paulsson, ma è arrabbiata. È molto più arrabbiata di quanto Marino sospetti. Probabilmente lui non si è accorto di quanto è furibonda. La signora Paulsson adesso vedrà che cosa vuol dire avere a che fare con Kay Scarpetta, quando è arrabbiata. Bussa con foga e pensa a che cosa farà se nessuno le aprirà la porta, se Suzanna Paulsson fingerà di non essere in casa, come Fielding. Bussa di nuovo, più lentamente e con maggior forza.

Sta scendendo la sera, rapida come una macchia di inchiostro, e Kay Scarpetta vede il fiato che le si condensa davanti alla faccia. L’acquazzone infuria sempre più violento. Bussa ancora. “Di qui non mi muovo” pensa. “Non te la caverai tanto facilmente. Non sperare che mi arrenda e me ne vada.” Prende il cellulare e un foglio di carta dalla tasca del cappotto e legge il numero che si è appuntata nel corso della sua visita di ieri alla signora Paulsson, quando era ancora gentile e simpatica, quando provava ancora pena per lei. Fa il numero e sente squillare il telefono dentro casa. Bussa con forza, sbattendo il batacchio a forma di ananas contro la porta. Se si rompe, pazienza.

Passa un altro minuto. Richiama, lasciando squillare a vuoto il telefono per un’eternità. Chiude la comunicazione appena prima che scatti la segreteria. “Sei in casa, lo so”, pensa. “È inutile che tu faccia finta di non esserci. Sai che sono io e non mi vuoi vedere, vero?” Si allontana di qualche passo e va a guardare dalla finestra. La luce filtra, calda e soffusa, attraverso le impalpabili tende bianche. Kay Scarpetta vede un’ombra guizzare rapida alla sua destra, fermarsi un istante vicino al vetro e sparire.

Bussa di nuovo alla porta e riprova a telefonare. Questa volta, quando la segreteria scatta, dice: «Signora Paulsson, sono la dottoressa Scarpetta. Sono qui fuori. Mi apra la porta, per favore: si tratta di una cosa importante. So che è in casa, signora». Chiude la comunicazione, bussa ancora e vede l’ombra di prima spostarsi dietro le tende della finestra a sinistra della porta. Dopo un attimo il portone si apre.

«Mio Dio» esclama la signora Paulsson, fingendosi sorpresa in maniera assai poco convincente. «Non sapevo che era lei! Che temporale, eh? Venga, si accomodi. Per abitudine non apro la porta, a meno che non aspetti qualcuno.»

Kay Scarpetta entra gocciolando nel salotto, si toglie il cappotto fradicio e si scosta i capelli bagnati dalla fronte: è come se fosse appena uscita dalla doccia.

«Non si buscherà una polmonite, bagnata com’è?» chiede Suzanna Paulsson. «Che sciocca! Dimentico che lei è una dottoressa! Venga in cucina, le offro qualcosa di caldo.»

Kay Scarpetta si guarda intorno nel piccolo salotto, soffermandosi sulla cenere ormai spenta nel caminetto, sul divano sotto la finestra, sulle due porte che conducono da una parte e dall’altra della casa. La signora Paulsson se ne accorge e si irrigidisce. Non è una brutta donna, solo un tantino ordinaria.

«Perché è qui, dottoressa?» le chiede, diffidente. «Che cosa è venuta a fare? Credevo volesse parlarmi di Gilly, ma non mi sembra sia questa la sua intenzione.»

«Forse anche oggi Gilly è solo una scusa» replica criptica Kay Scarpetta. È in piedi al centro della stanza e si guarda apertamente in giro.

«Non ha nessun diritto di trattarmi a questo modo» sbotta la signora Paulsson. «Se ne vada, la prego. La accompagno alla porta.»

«No, non me ne vado. Se vuole, chiami pure la polizia. Non me ne andrò finché non avremo parlato di quello che è successo ieri sera.»

«Sì, penso proprio che chiamerò la polizia. Quel mostro! Dopo tutto quello che ho passato, viene qui e approfitta di me… Le sembra giusto infierire su una poveretta già allo stremo delle forze? Avrei dovuto immaginarlo, comunque. Si vede subito, che è un bruto.»

«Chiami pure la polizia, signora Paulsson» la provoca Kay Scarpetta. «Io racconterò la mia versione dei fatti. Che sarà molto diversa dalla sua, immagino. Le spiace se do un’occhiata in giro? So dove sono la cucina e la camera di Gilly, quindi penso che camera sua sia uscendo da questa porta a sinistra.» Si incammina.

«Non si rende conto di quanto è invadente?» scatta la signora Paulsson. «Se ne vada! Non ha nessun diritto di farsi gli affari miei.»

La camera da letto di Suzanna Paulsson è più grande di quella di Gilly, ma non di molto. Ci sono un letto matrimoniale, due antichi comodini di noce, due comò appoggiati alla parete e due porte: una conduce al bagno e l’altra alla cabina armadio. Vicino a quest’ultima ci sono un paio di anfibi neri, di pelle. Kay Scarpetta prende dalla tasca un paio di guanti di cotone e se li infila, guardando fissa gli anfibi. Dà un’occhiata ai vestiti appesi nell’armadio, poi si volta ed entra nel bagno. Appoggiata sul bordo della vasca c’è una maglietta mimetica.

«Chissà che cosa le ha raccontato» dice la Paulsson, in piedi in fondo al letto. «E lei gli ha creduto, naturalmente. Be’, vedremo a chi crederà la polizia. Io penso che crederanno a me.»

«Giocava alla soldatessa anche quando sua figlia era in casa e la poteva vedere?» domanda Kay Scarpetta, guardandola negli occhi. «So che quel gioco a Frank piaceva molto. È stato lui a insegnarglielo o è lei l’inventrice? Lo facevate anche davanti a Gilly? E con chi? Coinvolgevate altre persone? E a costoro che si riferisce quando dice che le hanno portato via la sua bambina? A quelli che partecipavano ai vostri giochetti erotici?»

«Non mi parli in questo modo!» esclama, con una smorfia di rabbia e di disprezzo sul volto. «Non capisco a che cosa si riferisce.»

«Penso che lei capisca benissimo, signora» ribatte Kay Scarpetta avvicinandosi al letto e afferrando le lenzuola con le mani protette dai guanti. «Non le ha cambiate, vedo. Molto bene. Ci sono macchie di sangue. Scommetto che risulterà essere di Marino e non suo.» La fissa. «Marino è pieno di graffi e di morsi, lei no. Vorrà dire qualcosa, vero? Non dovrebbe esserci anche un asciugamano sporco di sangue, da queste parti?» Si guarda intorno. «Lo ha già lavato? Non ha importanza. Anche se è stato lavato, riusciremo comunque ad accertare quel che ci serve.»

«Lei è ancora peggio di lui, dottoressa. Infierire così su una povera donna in lutto!» La signora Paulsson protesta, ma ha cambiato faccia. «Da una donna mi sarei aspettata maggiore compassione.»

«E perché dovrei provare compassione per una donna che fa del male a un uomo e poi lo accusa di averla aggredita? Non ne vedo il motivo, in tutta sincerità.» Comincia a disfare il letto.

«Che cosa sta facendo? Non si permetta.»

«Mi permetto eccome, invece. Stia a vedere.» Toglie le lenzuola dal letto e le avvolge, assieme alle federe, dentro la trapunta.

«Non può farlo. Non è una poliziotta.»

«Sono peggio. Si fidi.» Posa il fagotto di biancheria sul materasso. «Vediamo.» Si guarda intorno. «Forse quando stamattina lo ha incontrato all’Istituto di medicina legale, non se ne è accorta, ma Marino ha ancora i pantaloni che indossava ieri sera. Non si è cambiato neppure la biancheria. Lei sa che quando un uomo ha un rapporto sessuale, poi dagli slip si vede. In certi casi, si vede anche dai calzoni. Invece sulla biancheria di Marino ci sono solo ed esclusivamente macchie di sangue. Inoltre, signora Paulsson, forse lei non si è resa conto che anche con le tende tirate da fuori si vede se lei è con qualcuno, se litiga o se ha un incontro amoroso. Naturalmente finché è in piedi. Perciò non escluda che qualche vicino si sia accorto che era in compagnia, visto che c’erano le luci e il caminetto accesi.»

«Potremmo aver cominciato bene e poi…» dice la signora Paulsson, che sembra aver deciso quale posizione assumere. «Non c’è niente di male, no? Un uomo e una donna si trovano bene l’uno con l’altra, fanno delle cose… Poi, però, se non si va avanti la donna rimane frustrata. Mi ha fatto vestire come voleva lui e poi… Capisce? Non ce l’ha fatta. Da un omone grande e grosso come lui non me l’aspettavo.»

«Gli ha dato da bere troppo bourbon, forse» rimarca Kay Scarpetta. A questo punto è abbastanza sicura che Marino non abbia fatto niente alla signora Paulsson. Il problema è che lui invece è tuttora convinto del contrario e l’idea di non esserci riuscito lo terrorizza, quindi è meglio non insistere.

Kay Scarpetta si china a prendere gli anfibi e li posa sul letto: sembrano enormi e minacciosi.

«Sono di Frank» precisa la signora Paulsson.

«Se lei li ha indossati, risulterà dalle tracce biologiche.»

«Mi stanno troppo grandi.»

«Ha sentito che cosa le ho detto, signora Paulsson? Possiamo fare la prova del DNA.» Va nel bagno a prendere la maglietta mimetica. «Suppongo che anche questa sia di Frank.»

La signora Paulsson resta zitta.

«Se la sua offerta è ancora valida, adesso potremmo accomodarci in cucina» dice Kay Scarpetta. «Un caffè mi farebbe molto piacere. Che bourbon avete bevuto ieri sera? Non starà granché bene neppure lei, oggi, a meno che non abbia riempito solo il bicchiere di Marino. Lui è a pezzi. Ha avuto addirittura bisogno di cure mediche.» Si dirige verso la cucina.

«Cure mediche?»

«Sì, ha avuto bisogno di un dottore.»

«È andato dal dottore?»

«È stato visitato. E gli sono state fatte alcune fotografie. È molto sofferente» spiega Kay Scarpetta. Entra in cucina e vede la caffettiera vicino al lavandino. Lì accanto, ieri, c’era lo sciroppo per la tosse, che adesso non c’è più. Si sfila i guanti di cotone e se li mette in tasca.

«È giusto che soffra, dopo quello che mi ha fatto…»

«La pianti con questa sceneggiata» la interrompe Kay Scarpetta, mettendo l’acqua nella caffettiera. «È inutile. Se le ha lasciato dei segni, me li mostri.»

«Se mai, li mostro alla polizia.»

«Dove posso trovare il caffè?»

«Non so che cosa le ha raccontato, ma di certo non la verità» ribatte la signora Paulsson, aprendo il frigo per prendere un sacchetto di caffè. Poi cerca i filtri di carta e li posa sul bancone.

«La verità è sempre difficile da scoprire» replica Kay Scarpetta. Apre il sacchetto, sistema un filtro nella caffettiera, e ci mette il caffè. «Mi chiedo come mai non riusciamo a scoprire che cosa è successo a Gilly e adesso nemmeno ad accertare come sono andate veramente le cose ieri sera. Qual è la sua verità, signora Paulsson? Sono qui per ascoltarla.»

«Non voglio denunciare Pete» dice lei con amarezza. «Altrimenti l’avrei già fatto, non crede? Il fatto è che credevo che a lui piacesse.»

«Credeva che gli piacesse?» Kay Scarpetta si appoggia al bancone e incrocia le braccia. Dalla caffettiera comincia a uscire un buon aroma di caffè. «Be’, se lo vedesse oggi, probabilmente cambierebbe idea.»

«Non so come sia, oggi.»

«Lei si muove bene, senza problemi. Da questo deduco che Marino non le ha fatto del male. Non credo che le abbia fatto niente di niente, se devo dire. Aveva bevuto troppo… E poi l’ha ammesso lei stessa, no?»

«Avete una relazione? È per questo che è venuta da me?» Lancia a Kay Scarpetta un’occhiata in tralice, incuriosita.

«Sì, abbiamo una relazione profonda, ma non come pensa lei. Le ho detto che sono laureata anche in giurisprudenza, a proposito? Vuole che le spieghi che cosa succede a chi accusa falsamente una persona di violenza carnale? È mai stata in carcere, signora Paulsson?»

«La sua è gelosia, si vede benissimo.» Sorride.

«Pensi quello che vuole. Ma tenga conto che rischia il carcere. Se lo accusa di averla violentata e le prove dimostrano che non è vero, verrà condannata.»

«Non accuserò nessuno, stia tranquilla» replica lei, assumendo un’espressione dura. «Anche perché io non sono una donna che si possa violentare. Chi ci prova, fa una brutta fine. Un bambino, ecco cos’è il suo amico: un bambino. Credevo che fosse una persona interessante, ma mi sbagliavo. Se lo tenga pure, dottoressa, avvocato o che cos’altro è.»

Il caffè è pronto. Kay Scarpetta chiede dove sono le tazze e la signora Paulsson le prende, assieme a due cucchiaini. Lo bevono in piedi. A un certo punto, la signora Paulsson si mette a piangere. Si morde il labbro e le lacrime cominciano a scorrerle sulle guance. Scuote la testa, sconsolata.

«Non andrò in carcere.»

«Certo, sarebbe meglio. Nessuno vuole che lei ci vada» dice Kay Scarpetta, sorseggiando il caffè. «Perché lo ha fatto?»

«È una cosa personale fra me e Pete.» Non la guarda in faccia.

«Se ci sono di mezzo lividi e lesioni, la cosa cessa di essere personale e diventa un reato. Lei fa sempre sesso in maniera così violenta?»

«Cos’è, una puritana?» ribatte la donna. Va a sedersi al tavolo. «Non ha molta esperienza, immagino.»

«Probabile. Mi spieghi i suoi giochi erotici.»

«Se li faccia spiegare da Pete.»

«Già fatto.» Beve un sorso di caffè. «Lei li fa spesso, vero? Li faceva anche con Frank, il suo ex marito?»

«Perché dovrei dirle certe cose, scusi?» protesta. «Non ne vedo il motivo.»

«La rosa nel cassetto di Gilly. Ha detto che forse Frank ne sapeva qualcosa. Che cosa intendeva?»

La signora Paulsson non vuole rispondere. Fa una smorfia rabbiosa, piena di odio, e stringe la tazza fra le mani.

«Signora Paulsson, lei pensa che Frank possa aver fatto qualcosa a Gilly?»

«Non so chi le ha regalato quella rosa» replica la donna, guardando il muro. Lo fissava anche ieri, quando erano sedute a quello stesso tavolo. «Io no. Non sapevo nemmeno che c’era, non l’avevo mai vista. Eppure metto spesso le mani nei cassetti di Gilly: li avevo aperti il giorno prima per riporre la roba stirata. Gilly era disordinatissima, lasciava tutto in giro. Non ho mai visto rose in camera sua. Gilly l’avrebbe lasciata a mezzo di sicuro: era disordinata da morire.» Si rende conto di quello che ha detto e tace, guardando il muro.

Kay aspetta di vedere se aggiunge qualcosa. Passa un minuto. Il silenzio è pesante.

«La cosa peggiore era la cucina» dice la signora Paulsson dopo un po’. «Ogni volta che si preparava un panino, lasciava tutto in disordine. Prendeva il gelato e non lo rimetteva nel freezer. Sa quanta roba mi è toccato buttare via?» Assume un’espressione cupa. «E il latte? Lo lasciava sul tavolo, così inacidiva.» Con voce stridula aggiunge: «Mi faceva venire un nervoso… Sa che cosa vuol dire?».

«Sì» risponde Kay Scarpetta. «È uno dei motivi per cui ho divorziato.»

«Be’, anche Frank non era da meno» continua la signora Paulsson, sempre senza guardarla. «Fra tutti e due, mi davano un gran daffare.»

«Ammesso che Frank abbia fatto qualcosa a Gilly, che cosa potrebbe essere stato?» chiede Kay Scarpetta, attenta a formulare le domande in maniera che la Paulsson non possa rispondere semplicemente sì o no.

La donna continua a guardare il muro, senza battere ciglio. «Qualcosa le ha fatto di sicuro.»

«Dal punto di vista fisico, intendo. Gilly è morta.»

La signora Paulsson sta di nuovo per piangere. Si frega gli occhi, sempre guardando lontano. «Non era qui, quando è successo. Non in casa, per quel che ne so.»

«Quando è successo cosa?»

«Quello che è successo quella mattina, mentre io ero fuori. Quando sono andata a comprare lo sciroppo per la tosse.» Si asciuga gli occhi. «Sono tornata e ho trovato la finestra aperta. Non so se l’ha aperta Gilly. Non dico che è stato Frank, dico che lui c’entra. Quell’uomo ha il potere di distruggere tutto ciò che tocca. E pensare che fa il medico! Non so se mi spiego…»

«Io adesso devo andare, signora Paulsson. So che non è stato un colloquio facile, da nessun punto di vista. Ha il mio cellulare: se le viene in mente qualcosa di importante, mi chiami.»

La signora Paulsson annuisce, in lacrime.

«Forse dovrebbe dirci chi bazzicava per casa, magari invitato proprio da Frank. Un conoscente, che so, uno con cui facevate i vostri “giochetti”.»

Va verso la porta. La signora Paulsson non si alza.

«Se le viene in mente qualcuno, me lo dica» conclude Kay. «Gilly non è morta per colpa dell’influenza. È importante che capiamo che cosa le è successo esattamente. E lo scopriremo, prima o poi. Immagino che lei preferisca prima che poi.»

La signora Paulsson continua a fissare il muro.

«Adesso vado» dice Kay Scarpetta. «Non esiti a chiamarmi, a qualsiasi ora. Anche se ha bisogno di qualcosa. Senta, ha mica qualche sacco per la spazzatura da prestarmi?»

«Sono sotto il lavabo. Se sono per quello che penso io, non ce n’è bisogno» mormora.

Kay Scarpetta apre lo sportello sotto il lavabo e prende quattro sacchi di plastica da una scatola. «Io prendo tutto comunque» dice. «Se non ce ne sarà bisogno, meglio.»

Va nella camera da letto di Suzanna Paulsson e infila dentro due sacchi di plastica le lenzuola, in un altro gli anfibi e in un altro ancora la maglietta. Va in salotto, si mette il cappotto ed esce nella pioggia gelida con i quattro sacchi in mano. Cammina in una pozzanghera e si bagna i piedi.

32

Il locale è immerso nella penombra e le donne sedute ai tavoli hanno smesso di lanciare occhiate — prima curiose, poi sdegnose e quindi indifferenti — a Edgar Allan Pogue, che giocherella con il peduncolo di una ciliegina candita.

Ogni volta che va all’Other Way prende un Bleeding Sunset, la specialità del locale. È un cocktail a base di vodka, con un liquido arancione e rosso che scende in fondo al bicchiere. Il Bleeding Sunset si chiama così perché quando te lo servono ricorda un tramonto rosso sangue. Dopo un po’, a furia di alzare e abbassare il bicchiere, diventa una brodaglia arancione. Quando si scioglie il ghiaccio, sembra una bibita che Edgar Allan Pogue beveva sempre da bambino. La vendevano in un contenitore di plastica a forma di arancia, con una cannuccia verde che doveva sembrare il picciolo. La bibita faceva schifo, non sapeva di niente, ma il contenitore era bellissimo. Lo vedevi e ti immaginavi una bibita fresca e dissetante. Tutte le volte che andavano nel Sud della Florida, chiedeva a sua madre di comprargli una di quelle arance di plastica e sua madre gli diceva sempre di no.

Le persone sono un po’ come quelle arance di plastica, riflette Edgar Allan Pogue. Lì per lì sembrano belle, ma quando le assaggi scopri che fanno schifo. Solleva il bicchiere e fa ruotare il liquido arancione sul fondo. Valuta se ordinare un altro cocktail sulla base dei soldi che ha in tasca e dell’ebbrezza che gli ha procurato il primo. Ma no, non è ubriaco. Edgar Allan Pogue non si è mai ubriacato in vita sua; sta molto attento a non ubriacarsi e non riesce a bere un Bleeding Sunset o un altro cocktail senza concentrarsi sugli effetti che l’alcol ha su di lui. Sta attento anche a non ingrassare, e l’alcol è molto calorico. Sua madre era grassa. Con gli anni è ingrassata ed è un peccato, perché da giovane era carina. L’obesità è ereditaria, dicono. “Se continui a ingozzarti in questo modo, diventi un ciccione” gli diceva sua madre. “Cominci così, con un po’ di grasso di troppo in vita, e poi ti ritrovi obeso.”

«Un altro Bleeding Sunset, per favore» chiede ad alta voce Edgar Allan Pogue.

L’Other Way è un locale piccolo, con i tavoli di legno coperti da tovaglie nere e una candela al centro. Sempre spenta, almeno quando ci va lui. In un angolo c’è un tavolo da biliardo, ma lui non ha mai visto nessuno che ci giocava e sospetta che i clienti dell’Other Way non siano tipi da biliardo e che quel tavolo sia un ricordo di qualche vita precedente. Quel posto doveva essere un altro genere di locale, prima. Tutto cambia, niente resta uguale.

«Un altro Bleeding Sunset» ribadisce.

Le donne che lavorano all’Other Way non si lasciano trattare come volgari cameriere. La gente elegante e distinta che frequenta quel locale non fa schioccare le dita per richiamare la loro attenzione. Le donne che lavorano all’Other Way sono signore e pretendono di essere trattate con rispetto, al punto che talvolta Edgar Allan Pogue ha la sensazione che gli facciano un favore a lasciarlo entrare e spendere i suoi soldi in Bleeding Sunset. Si guarda attorno nel bar immerso nella penombra e vede la rossa. Indossa uno scamiciato nero, cortissimo e aderentissimo. Andrebbe portato con una camicetta sotto, ma lei lo porta senza e lo scamiciato le copre giusto quello che proprio non può fare a meno di coprire. Edgar Allan Pogue ha notato che si china spesso, e non per sistemare la tovaglia o per servire da bere, ma per farsi vedere dagli uomini che danno laute mance e sanno dire le cose giuste. La pettorina dello scamiciato è poco più grande di un foglio da disegno, tenuta su da strette bretelle. È l’unica parte del suo abbigliamento che non è aderente. Quando la rossa si china a prendere un bicchiere o a scrivere un’ordinazione, sembra che debba esploderle sul petto da un momento all’altro, ma il locale è immerso nella penombra, non si è mai chinata verso di lui, e Edgar Allan Pogue di lì non vede.

Si alza dal suo tavolo, vicino alla porta. Non vuole gridare la sua ordinazione e non è più nemmeno sicuro di volere un altro Bleeding Sunset. Non riesce a togliersi di mente l’arancia di plastica con la cannuccia verde e, più ripensa al disappunto che provava ogni volta che assaggiava quella bibita, più si arrabbia. Si infila una mano in tasca e prende una banconota da venti dollari. Per frequentare l’Other Way ci vogliono soldi, come per avere un cane ci vogliono ossi, pensa. La rossa gli si avvicina ticchettando sui tacchi a spillo, ballonzolando dentro la pettorina. Da vicino Edgar Allan Pogue si accorge che è vecchia. Avrà cinquantasette o cinquantotto anni, forse anche sessanta, pensa.

«Vuole il conto?» chiede la rossa. Prende la banconota da venti dollari senza degnarlo di uno sguardo.

Ha un neo sulla guancia destra, finto, disegnato con la matita. Avrebbe potuto farselo meglio, pensa Edgar Allan Pogue. «Veramente avrei voluto continuare a bere» dice.

«La capisco» replica lei. La sua risata sembra il verso di un gatto ferito. «Le porto un altro cocktail?»

«Troppo tardi» replica lui.

«Bessie, cara, il mio solito whisky» ordina un signore seduto a un tavolo vicino.

Pogue l’ha visto arrivare poco prima a bordo di una Cadillac nuova fiammante, grande, metallizzata. È vecchio: avrà almeno ottant’anni, se non ottantuno o ottantadue. Indossa un completo di seersucker bianco e azzurro, camicia bianca e cravatta azzurra. Bessie gli va vicino sculettando e si dimentica di Pogue: come se non ci fosse più, anche se lui non si è mosso di un millimetro. Per farsi trattare così, tanto vale andare via sul serio. Apre la pesante porta scura ed esce nel parcheggio di ghiaia, dirigendosi verso gli ulivi e le palme che costeggiano la strada. Si ferma fra gli alberi e guarda il distributore di benzina della Shell dall’altra parte di North Twenty-sixth Avenue. Fissa la grande conchiglia gialla che brilla nella notte, con l’aria che gli accarezza le guance.

La conchiglia illuminata, chissà perché, gli fa tornare in mente le bibite nel contenitore a forma di arancia. Forse ogni tanto sua madre gliene comprava una in autostrada, quando si fermava a fare benzina. Sì, perché ogni tanto gliele comprava, ed è possibile che lo facesse quando viaggiavano dalla Virginia alla Florida, quando lo portava a Vero Beach da sua nonna. Sua nonna aveva i soldi, ne aveva un sacco. Ci andavano tutte le estati e alloggiavano in un posto che si chiamava Driftwood Inn. Edgar Allan Pogue non lo ricorda molto bene. Sa solo che era fatto di tronchi di legno e che la notte dormiva sullo stesso materassino di plastica gonfiabile con cui di giorno andava al mare.

Non era molto grande e le braccia e le gambe gli cadevano per terra di notte e nell’acqua di giorno. Dormiva su quello stretto materassino nel salotto, mentre sua madre stava nella camera da letto con la porta chiusa e l’unico condizionatore regolato al massimo. Dormiva male, sudava, aveva caldo e la pelle scottata dal sole gli si appiccicava alla plastica del materassino. Ogni volta che provava a girarsi era come staccarsi un cerotto. Ma era la sua vacanza. Una settimana tutti gli anni, sempre d’estate, sempre di agosto.

Guarda i fari delle macchine che sfrecciano nella notte, occhi bianchi e rossi nell’oscurità, poi si volta e aspetta il segnale del semaforo. Quando il semaforo scatta e le macchine si fermano, attraversa la prima corsia trotterellando e la seconda di corsa. Arrivato alla stazione di servizio, guarda la conchiglia gialla che galleggia luminosa nel buio e osserva un vecchio in calzoncini corti che fa il pieno alla sua auto. C’è anche un altro vecchio che fa benzina a un’altra pompa, con un vestito spiegazzato. Pogue resta nell’ombra e si muove furtivo verso la porta a vetri del negozio. La apre con un tintinnio e va dritto al distributore delle bibite. Una signora alla cassa sta pagando un sacchetto di patatine, una confezione da sei bottiglie di birra e la benzina. Non lo vede nemmeno.

Il distributore di bibite è vicino alla macchinetta del caffè. Edgar Allan Pogue prende cinque bicchieri di plastica con i relativi coperchi e va alla cassa. Sono bicchieri grandi, con alcuni personaggi dei cartoni animati. I coperchi sono bianchi, con un beccuccio per bere. Posa i bicchieri e i coperchi sul banco.

«Avete aranciata in arance di plastica con la cannuccia verde?» domanda alla cassiera.

«Come, scusi?» fa lei, corrugando la fronte. Prende in mano uno dei bicchieri. «Sono vuoti. Cosa fa, li riempie?»

«No» risponde. «Vorrei solo i bicchieri e i coperchi.»

«Non sono in vendita.»

«Ma io non voglio altro.»

La donna lo scruta da sopra gli occhiali da presbite e Edgar Allan Pogue si domanda che cosa vede, guardandolo così. «Non vendiamo bicchieri vuoti, le dico.»

«Se aveste quella bibita nelle arance con la cannuccia verde, la prenderei» risponde Edgar Allan Pogue.

«Quale bibita?» La cassiera si spazientisce. «Vede quel frigo? Tutto quello che abbiamo è lì.»

«È una specie di aranciata, in un contenitore a forma di arancia con la cannuccia verde.»

La cassiera fa una faccia stupita e gli fa un sorriso con le labbra rosso fuoco che gli ricorda le zucche di Halloween. «Ah! Ho capito! Ho capito di che cosa sta parlando. Sì, me la ricordo anch’io quella bibita. Non è più in commercio da anni! Me l’ero dimenticata…»

«Allora prendo solo questi» insiste Edgar Allan Pogue.

«Va bene, mi arrendo. Meno male che sto per finire il turno.»

«È lunga, eh?»

«Non sa quanto.» Scoppia a ridere. «Sì, sì. Sembravano arance vere, con la cannuccia verde.» Edgar Allan Pogue la vede voltarsi verso la porta e sorridere al vecchio con i calzoncini corti che sta andando a pagare.

Pogue non lo degna di uno sguardo. Fissa la donna, i capelli ossigenati e spessi, la faccia rugosa incipriata. A toccarla, farebbe l’effetto di un’ala polverosa di farfalla. Il nome sulla targhetta è EDITH.

«Senta, i bicchieri glieli metto cinquanta centesimi l’uno e i coperchi glieli regalo» gli propone. «Adesso vada, che devo far pagare il signore.» Preme un tasto e apre il cassetto del registratore di cassa.

Pogue le porge una banconota da cinque dollari e le sfiora le dita mentre prende il resto. Edith ha mani fresche, agili e morbide. Edgar Allan Pogue sa che ha la pelle un po’ cascante, come tutte le donne di quell’età. Esce nella notte umida, aspetta che il traffico si diradi e attraversa la strada come ha fatto poco prima. Si attarda qualche minuto sotto gli ulivi e le palme e guarda l’ingresso dell’Other Way, aspettando che non entri e non esca nessuno. Appena è solo, corre in macchina e si mette al volante.

33

«Dovresti dirglielo» dichiara Marino. «Anche se poi non succede niente, è giusto che sia al corrente di come stanno andando le cose.»

«È un modo per complicarsi la vita» replica Kay Scarpetta.

«No, è un modo per mettersi al sicuro.»

«Non sono d’accordo» insiste lei.

«Il capo sei tu.»

Marino è sdraiato sul letto della sua camera al Marriott di Broad Street e Kay Scarpetta è seduta sulla stessa poltrona di prima, che ha spostato in maniera da essere più vicina a lui. Marino è grande e grosso, ma in pigiama sembra meno minaccioso. Ne indossa uno di cotone bianco, che Kay Scarpetta gli ha appena comprato in un grande magazzino, macchiato di arancione dove il disinfettante è penetrato nella stoffa. Marino sostiene che le ferite adesso gli fanno molto meno male. Kay Scarpetta si è cambiata e, invece del tailleur pantalone blu schizzato di fango, indossa calzoni di velluto beige, dolcevita blu e mocassini. Sono nella camera di Marino perché Kay non lo vuole nella propria e probabilmente pensa di non correre pericoli ad andare nella sua. Si sono fatti portare in camera dei panini e stanno chiacchierando.

«Non capisco perché non glielo vuoi dire» continua Marino, sondando il terreno. È curioso di sapere come vanno le cose fra lei e Benton. Insiste e a Kay dà fastidio, ma non riesce a cambiare discorso.

«Domani mattina porto in laboratorio i campioni che abbiamo raccolto stamattina» gli dice. «Dobbiamo farli analizzare il prima possibile per capire se è stato un errore. Se di un errore si tratta, è inutile che lo dica a Benton. Un errore, anche se grave, non vuol dire niente e non pregiudica niente.»

«Tu però non credi che sia stato un errore, vero?» Si appoggia ai cuscini e la guarda. Ha ripreso colore e ha lo sguardo più vivace.

«Non so neanch’io che cosa credo» risponde Kay Scarpetta. «In realtà non ha senso né in un modo né nell’altro. Se le tracce sul cadavere di Ted Whitby non sono frutto di una contaminazione, come ce le spieghiamo? Come è possibile che siano le stesse identiche di Gilly Paulsson? Tu hai una tua teoria?»

Marino riflette, guardando dalla finestra le luci del centro città. «No, non me lo so spiegare neppure io» risponde. «L’unica teoria che mi viene in mente, per quanto strampalata, è quella che ho tirato fuori alla riunione. Ma volevo fare lo sbruffone.»

«Chi, tu?» lo prende in giro lei.

«Insomma, come possono esserci le stesse scaglie di metallo sul corpo dell’operaio e della ragazzina? Anche perché fra la morte di Gilly Paulsson e quella di Ted Whitby sono passate due settimane. È troppo strano» decide.

Kay Scarpetta prova quel senso di malessere che ha imparato a riconoscere come paura: l’unica spiegazione logica della presenza dello stesso tipo di tracce sui due cadaveri è che ci sia stata una contaminazione o uno scambio di etichette. È più facile di quanto possa sembrare, in realtà. Basta un attimo di distrazione, di confusione — si mette un sacchetto o una provetta nel posto sbagliato e ci si scrive sopra il nome sbagliato — e la prova risulta incomprensibile o, peggio ancora, dà risposta a interrogativi che possono scagionare un colpevole o condannare un innocente. Kay Scarpetta ripensa alle dentiere, allo stagista che aveva scambiato la dentiera del vecchietto con quella della donna obesa. Una semplice svista, ma dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

«Non capisco perché non vuoi dirlo a Benton» insiste Marino, prendendo un bicchiere di acqua dal comodino. «Perché non posso farmi una birretta? Cosa ci sarebbe di male?»

«Cosa ci sarebbe di bene?» ribatte lei. Ha in grembo una serie di carte. Sfoglia verbali, rapporti e referti alla ricerca di qualche informazione illuminante sul conto di Gilly Paulsson e Ted Whitby. «L’alcol rallenta il processo di cicatrizzazione» dice. «E, nel tuo caso, è pericoloso.»

«Ti riferisci a ieri sera?»

«Senti, Marino, non devi chiedere il permesso a me, okay? Se vuoi berti una birra, ordinatela.»

Marino è titubante e Kay Scarpetta ha la sensazione che in qualche modo gli dispiaccia che lei non gli dia degli ordini. Ma è una sciocchezza e poi, ogni volta che lei gli ha fatto delle raccomandazioni, lui le ha ignorate. Inoltre, non vuole fargli da secondo pilota nel suo volo spericolato su e giù per la vita. Marino guarda il telefono con le mani in grembo, probabilmente riflettendo se chiamare o meno il servizio in camera, poi beve un sorso di acqua.

«Come ti senti adesso?» gli chiede Kay Scarpetta, sfogliando le carte. «Vuoi un altro Advil?»

«No, grazie, sto bene. Piuttosto che l’Advil, prenderei una birretta.»

«Fai come vuoi» replica lei, leggendo il lungo elenco di lesioni e lacerazioni riportate da Whitby.

«Sei sicura che non mi denuncerà?» domanda Marino.

La guarda fisso, spaventato. È normale che lo sia, pensa Kay. Una denuncia di violenza carnale sarebbe la sua rovina professionale, anche se in seguito venisse accertata la sua innocenza. Perderebbe il lavoro e rischierebbe comunque la condanna, perché è un omone grande e grosso e la signora Paulsson sa interpretare molto bene la parte della vittima. Il pensiero che Marino venga condannato ingiustamente la manda in bestia.

«Sicurissima» risponde. «Le ho detto chiaro e tondo che non era credibile e le ho messo paura portando via da casa sua tutte quelle presunte prove. E poi la tua cara Suz non vuole fare sapere dei suoi giochetti erotici. Posso chiederti una cosa, Marino?» Alza gli occhi dai fogli che stava leggendo. «Se sua figlia Gilly fosse stata ancora viva, pensi che si sarebbe comportata in maniera diversa, ieri sera? Lo so, sono tutte congetture, ma… Il tuo istinto che cosa dice?»

«Che Suz fa tutto quello che le passa per la testa» risponde lui, in un tono piatto che però nasconde risentimento, rabbia e vergogna.

«Ti è parsa ubriaca?»

«Euforica» replica lui.

«Perché aveva bevuto o perché?»

«Non l’ho vista né impasticcarsi, né fumare né farsi. Ma sono tante le cose che non ho visto.»

«Bisognerebbe che qualcuno andasse a parlare con Frank Paulsson» dice Kay, scorrendo un altro referto. «Aspettiamo i risultati delle analisi e poi se mai chiamiamo Lucy.»

Marino fa una faccia contenta e sorride. «Per la miseria! È un’idea geniale! Lucy ha il brevetto di pilota. Potremmo mandarla in pasto a quel maiale.»

«Infatti.» Kay Scarpetta gira pagina e sospira. «Niente di niente» dichiara. «Non c’è nulla di illuminante in queste carte. Gilly Paulsson è morta per asfissia e aveva scaglie di vernice e di metallo in bocca. Le lesioni di Ted Whitby sono coerenti con il fatto che è stato investito da un trattore. Per sicurezza, potremmo vedere se Whitby e i Paulsson avevano qualcosa in comune, se c’era un legame fra loro.»

«Lei ce lo saprebbe dire» borbotta Marino.

«A lei non lo chiediamo.» In questo caso sì, gli dà degli ordini. Pete Marino non deve chiamare Suzanna Paulsson. «Non esageriamo.» Lo guarda.

«Non avevo intenzione di chiamarla io, se è questo che intendi. Dico solo che forse conosceva Whitby. Magari partecipava anche lui ai suoi giochetti. Magari facevano parte dello stesso club di pervertiti.»

«Non abitano vicino» dice Kay Scarpetta controllando un foglio nella pratica relativa a Whitby. «Lui stava dalle parti dell’aeroporto. Questo non vuol dire nulla, naturalmente. Domani, quando io vado in laboratorio, fai qualche indagine.»

Marino non le risponde. Non ha voglia di parlare con la polizia di Richmond.

«Ti conviene prendere il toro per le corna» gli dice Kay Scarpetta, chiudendo le cartelline.

«In che senso?» Pete Marino guarda il telefono, forse ancora indeciso se ordinarsi una birra o meno.

«Lo sai, in che senso.»

«Sei odiosa, quando fai così» ribatte lui immusonito. «Perché ti esprimi in maniera così indiretta? Perché non ti spieghi? Lo so, lo so, ci sono uomini che apprezzano le donne che parlano a monosillabi.»

Kay Scarpetta posa le mani sui fogli che ha in grembo e aspetta che Marino si spieghi. Fa una faccia divertita. È tranquilla, convinta di essere dalla parte della ragione.

«Che toro?» riprova lui, incapace di reggere il silenzio troppo a lungo. «Dimmi che toro dovrei prendere per le corna, secondo te.»

«La tua paura» risponde Kay Scarpetta. «Devi superarla. Temi la polizia perché continui a pensare che la Paulsson ti abbia denunciato per violenza carnale. Be’, non lo ha fatto e non lo farà, mettitelo bene in testa. E vinci la paura.»

«Non è tanto la paura, che mi disturba, quanto l’essermi comportato da stupido» ribatte Marino.

«Bene. Allora domani chiama l’ispettore Browning o chi per lui. Perché se non lo fai, ti comporti di nuovo da stupido. Io adesso vado in camera mia» aggiunge poi, alzandosi e rimettendo la poltrona vicino alla finestra. «Ci vediamo nell’atrio alle otto.»

34

Kay Scarpetta beve un sorso di Cabernet, sdraiata sul letto. Non è particolarmente buono, ha un retrogusto troppo forte, ma finisce comunque il bicchiere. È sola nella sua camera d’albergo. Ci sono due ore di differenza, fra lì e Aspen, e forse Benton è a una cena di lavoro, o forse sta studiando il caso segreto di cui si rifiuta di parlarle.

Si sistema i cuscini dietro la schiena, posa il bicchiere vuoto sul comodino e guarda il telefono. Poi si volta verso il televisore e medita se accenderlo o meno. Decide di lasciar perdere, si gira verso il telefono e tira su la cornetta. Compone il numero di cellulare di Benton, che le ha raccomandato di non chiamarlo sul fisso. Era deciso, quando glielo ha detto. “Non chiamarmi sul numero di casa perché non rispondo” sono state le sue parole.

“È assurdo” ha replicato lei. Ripensandoci, le sembra che sia passata un’eternità, da allora. “Perché non rispondi al telefono di casa?”

“Perché non voglio distrazioni. Davvero, Kay, non risponderò a nessuna chiamata. Se mi vuoi parlare, telefonami sul cellulare. Non è contro di te, credimi.”

Benton risponde dopo il secondo squillo.

«Che cosa stavi facendo?» gli chiede Kay, guardando lo schermo spento del televisore di fronte al letto.

«Ciao» dice lui. «Sono nel mio studio.»

Kay visualizza la camera dell’appartamento di Aspen che Benton ha trasformato in studio e lo immagina seduto alla scrivania, davanti al computer acceso. Sta lavorando e Kay si sente sollevata al pensiero che sia a casa.

«Io ho avuto una giornata difficile» gli spiega. «E tu?»

«Come mai è stata una giornata difficile?»

Kay incomincia a raccontargli di Marcus, ma non vuole entrare troppo nei dettagli. Allora gli parla di Marino, ma non trova le parole per spiegargli tutta la storia. Si sente annebbiata, stanca, e un po’ a disagio. Avrebbe voglia di essere con lui, ma non di fargli confidenze al telefono. Cambia discorso: «Parlami di te, piuttosto. Sei andato a sciare?».

«No.»

«Nevica?»

«In questo momento, sì» risponde. «E dove sei tu, che tempo fa?»

«Perché dici “dove sei tu”?» È arrabbiata: non le importa più quello che Benton le ha detto qualche giorno fa e che nel suo intimo sa essere vero. È offesa, incollerita. «Non ti ricordi nemmeno più dove sono? È per questo che ti esprimi così? Sono a Richmond, comunque.»

«Certo. Non è questo che intendevo.»

«Non sei solo? Non puoi parlare?»

«Esatto.»

Benton non può parlare. Le dispiace di averlo chiamato: quando Benton ritiene di non poter parlare, comunicare con lui è faticosissimo. Lo immagina nel suo studio e si chiede che cosa stia facendo. Ha paura che qualcuno intercetti la loro telefonata? Non avrebbe dovuto chiamarlo. Forse Benton è solo preoccupato. Kay preferisce pensare che voglia eccedere in prudenza, però: il pensiero che sia talmente preoccupato da non riuscire a parlare con lei la inquieta troppo. Rimpiange di averlo chiamato.

«Okay, scusa se ti ho disturbato» dice. «Ma sono due giorni che non ci parliamo e io sono così stanca…»

«Mi hai chiamato perché sei stanca?»

La sta stuzzicando, la prende bonariamente in giro, ma al tempo stesso forse è anche un po’ piccato. Gli dispiacerebbe, se lei lo avesse chiamato solo perché era stanca, pensa Kay e sorride, premendo la cornetta contro l’orecchio. «Sai come sono, quando sono stanca» scherza. «Non mi controllo.» Sente un rumore nella stanza di Benton, una voce, forse di donna. «C’è qualcuno lì con te?» domanda. Non scherza più.

Lungo silenzio, di nuovo una voce. Che sia la radio? La televisione? Silenzio.

«Benton?» lo chiama. «Ci sei, Benton? Maledizione» esclama poi, riattaccando.

35

Il Publix Supermarket, in Hollywood Plaza, è pieno di gente. Edgar Allan Pogue attraversa il parcheggio con le borse della spesa, guardando di qua e di là per vedere se qualcuno lo nota, ma nessuno sembra fare caso a lui. Anche fosse, non avrebbe importanza. Nessuno se lo ricorderebbe, nessuno farebbe attenzione. Come sempre. E poi lui sta facendo la cosa giusta, sta facendo un favore all’umanità. Evita la luce dei lampioni e riflette. Si tiene nell’ombra e allunga il passo. Non è in ansia, tuttavia.

La sua automobile bianca è uguale a ventimila altre automobili bianche del Sud della Florida. L’ha lasciata in un angolo del parcheggio, vicino ad altre due macchine bianche. Una di queste, la Lincoln che aveva a sinistra quando ha posteggiato, adesso non c’è più. C’è un’altra vettura bianca, però, una Chrysler. Quando succedono questi eventi magici, Edgar Allan Pogue sa che c’è qualcuno che lo guarda e lo guida, che l’occhio lo osserva. Si sente guidato dall’occhio, il potere supremo, il dio di tutti gli dei, quello che siede sulla vetta dell’Olimpo, maestoso e grande, incommensurabilmente più grande di una stella del cinema e di tutti gli arroganti che si credono di essere chissà chi. Come quella là, lei, il Pesce Grosso.

Fa scattare le serrature della macchina con il telecomando, apre il cofano e prende una borsa. Si siede al volante della sua automobile bianca, nella calda penombra, a riflettere se la visibilità è sufficiente per l’impresa che desidera compiere, La luce dei lampioni nel parcheggio sfiora appena la zona in cui è fermo lui. Aspetta che i suoi occhi si abituino alla penombra, infila la chiave nel cruscotto e accende la batteria per ascoltare la musica. Poi preme un pulsante al lato del sedile per abbassarlo al massimo. Ha bisogno di spazio per lavorare. Emozionato, apre la prima borsa di plastica e prende un paio di spessi guanti di gomma, una confezione di zucchero granulato, una bibita in bottiglia, alluminio e nastro isolante, pennarelli indelebili e chewing gum alla menta. Ha in bocca un sapore stantio di sigaro da quando è uscito di casa, alle sei di quel pomeriggio. Adesso non può fumare, però. Fumare gli toglierebbe dalla bocca quel sapore cattivo, ma è impossibile. Scarta un chewing gum, lo arrotola strettamente e se lo infila in bocca. Fa lo stesso con altri due e, quando li ha in bocca tutti e tre, aspetta ancora un istante prima di affondare i denti nella gomma. Si gode l’esplosione di saliva e inizia a masticare con foga.

Sta lì, al buio, e mastica gomma. Si stufa della musica rap e cambia canale finché non ne trova uno che trasmette quello che chiamano “adult rock”. Apre il vano portaoggetti e prende la parrucca di capelli neri dalla sua busta di plastica. Osserva il frutto delle sue fatiche e mette in moto.

Le case color pastello di Hollywood gli passano accanto come in un sogno e le lucine bianche che dondolano dalle palme gli sembrano galassie lontane. Sfreccia nella notte, euforico per ciò che ha predisposto sul sedile del passeggero. Svolta in Hollywood Boulevard e si dirige verso la AIA a una velocità di poco inferiore al limite, guardando l’Hollywood Beach Resort, imponente costruzione rosa e mattone, dall’altra parte della baia.

36

All’alba strisce arancioni e rosa si allargano sul mare all’orizzonte, come se il sole fosse un uovo appena rotto. Rudy Musil entra con la sua Hummer verde nel vialetto che porta alla villa di Lucy e apre il cancello con il telecomando. Si guarda intorno e tende le orecchie: non sa perché, ma stamattina si è svegliato con l’ansia ed è venuto a controllare come sta Lucy.

Il cancello nero si apre lentamente, sussultando perché deve compiere un movimento curvo che, evidentemente, non gli piace. L’ennesimo difetto di quella casa, pensa Rudy, che non ama molto la villa color salmone di Lucy. Secondo lui, comprarla è stato un errore. È volgare, degna di un trafficante di droga, non va bene per lei. Può capire le Ferrari, il desiderio di girare sull’automobile più veloce e affidabile o sul migliore elicottero in commercio. (Benché lui abbia una Hummer e ne sia più che soddisfatto.) Ma un conto è girare su un’auto veloce, un altro è comprare una villa gigantesca e kitsch.

Ha notato subito, entrando, la bandierina sulla cassetta della posta, ma aspetta di scendere dalla macchina per preoccuparsi di capire come mai è alzata. Si avvicina alla cassetta, prende il giornale e medita. Lucy non riceve posta a casa, non è a Hollywood e non può aver alzato lei la bandierina. Peraltro, non ha l’abitudine di farlo. Se deve ricevere plichi o lettere, se li fa spedire in ufficio, al campo di addestramento che si trova a mezz’ora da Hollywood, in direzione sud.

“Stranissimo” pensa osservando la cassetta della posta con il giornale in una mano e l’altra nei capelli. Non si è pettinato, stamattina, non si è fatto la barba e nemmeno la doccia. Eppure ne avrebbe avuto bisogno, visto che si è girato e rigirato nel letto tutta la notte, sudato e inquieto. Si guarda intorno e pensa. In giro non c’è anima viva: nessuno che fa jogging o porta fuori il cane. In quel quartiere abita gente molto chiusa e riservata, che non si gode la propria bella casa e difficilmente sta in giardino o si tuffa in piscina. Rudy ha notato che da quelle parti persino le barche sembrano sempre ormeggiate e mai in mare. Strano posto, indubbiamente, pieno di gente arrogante e antipatica.

Possibile che Lucy dovesse andare a stare proprio in quel postaccio? Perché proprio lì? Perché circondarsi di imbecilli? “Hai infranto tutte le regole, Lucy, una dopo l’altra” pensa mentre apre la cassetta delle lettere. Istintivamente si scosta, poi indietreggia. Ha l’adrenalina alle stelle.

«Oh, cazzo!» esclama.

37

Il traffico in centro è caotico come sempre. Guida Kay Scarpetta, perché Pete Marino fa fatica a muoversi. A fargli male sono soprattutto le cosiddette “parti basse”, e il dolore lo costringe a camminare a gambe leggermente divaricate, lentamente. Quando è salito in auto, pochi minuti fa, lo ha fatto con una certa goffaggine. Kay Scarpetta ha visto l’entità delle sue lesioni, ma non ha idea di quanto male possa comportare il rossore violaceo su quei tessuti delicati. Probabilmente Marino impiegherà qualche giorno a riprendersi.

«Come stai?» gli domanda. «Dimmi la verità, per favore.» Il significato di quelle parole è chiaro: non gli chiederà di farle vedere se c’è stato un peggioramento. Controllerà solo se glielo chiederà lui. Spera non sia necessario, ed è abbastanza certa che lui preferisca evitare.

«Meglio, mi pare» risponde Marino, guardando dal finestrino la vecchia sede della polizia in Ninth Street. Era un palazzo fatiscente già prima che trasferissero tutti gli uffici, ma adesso che è deserto e abbandonato è ancora peggio. «Se penso a quanti anni ho sprecato lì dentro, mi sento male» dice.

«Smettila, per favore!» Kay Scarpetta mette la freccia, che ticchetta come un orologio rumoroso. «Non dire così. E soprattutto non cominciare la giornata lamentandoti. Dimmi se il gonfiore è aumentato, piuttosto. È importante che tu mi dica la verità.»

«Va meglio.»

«Bene.»

«Mi sono disinfettato da solo, stamattina.»

«Bene» ripete Kay Scarpetta. «Metti lo iodio ogni volta che fai la doccia.»

«Non brucia più tanto. Anzi, non brucia quasi più. Senti, capo, e se quella avesse l’AIDS o qualche altra brutta malattia? Sai, mi è venuto in mente che potrebbe avermi contagiato. Come faccio a sapere se è malata o sana?»

«Non hai modo di accertarlo, purtroppo» risponde lei, percorrendo lentamente Cary Street e superando il Coliseum sulla loro sinistra. «Se ti può consolare, quando sono stata a casa sua, ieri, non ho visto farmaci che mi abbiano fatto pensare all’AIDS o ad altre malattie a trasmissione sessuale. Questo naturalmente non significa che non sia sieropositiva. Magari lo è ma non lo sa. Questo non vale solo per lei, Marino, ma per tutte le donne con cui sei stato. Sei certo che nessuna di loro fosse malata? Ci metteresti la mano sul fuoco? Voglio dire, se ti vuoi preoccupare, ne hai sicuramente motivo.»

«Non voglio preoccuparmi, ma…» replica. «Cioè, non ti puoi mettere il preservativo con una che te lo morde. Non ha senso. Proteggersi dalle malattie a trasmissione sessuale è un’utopia, quando una te lo morde.»

«Già» replica Kay Scarpetta, svoltando in Fourth Street. Le squilla il cellulare. Nel vedere il numero di Rudy, si preoccupa. Rudy non la chiama mai, se non per farle gli auguri di compleanno o per darle brutte notizie.

«Ciao, Rudy» lo saluta, immettendosi nel parcheggio. «Che cosa è successo?»

«Non riesco a trovare Lucy» la informa lui con voce preoccupata. «Ha il cellulare spento, oppure non prende. È partita per Charleston in elicottero stamattina.»

Kay Scarpetta lancia un’occhiata a Marino, il quale deve aver chiamato Lucy appena lei è andata via dalla sua camera, ieri.

«E per fortuna che è partita!» continua Rudy.

«Rudy, per favore, spiegami che cosa è successo» chiede Kay Scarpetta, sempre più innervosita.

«Le hanno messo un ordigno esplosivo nella cassetta delle lettere» dice lui, parlando veloce. «Non ho il tempo di entrare nei dettagli. E certe cose è meglio che te le spieghi lei.»

Kay Scarpetta va a passo d’uomo verso l’entrata dei visitatori. «Quando? Che tipo di esplosivo?» domanda.

«Io l’ho scoperto meno di un’ora fa. Sono passato a controllare casa sua e mi ha colpito il fatto che la bandierina della cassetta della posta fosse alzata. Mi sono avvicinato e ho visto un bicchiere di plastica, grande, colorato di arancione con un pennarello, con un coperchio colorato di verde fissato al bicchiere con il nastro isolante. Ho guardato dal beccuccio per vedere che cosa c’era dentro e, siccome non si vedeva un accidente, ho preso uno di quei cosi che servono per cambiare le lampadine in alto senza prendere la scala, hai presente? Non so come si chiamano. Comunque, ho preso uno di quei cosi lì e ho risolto il problema.»

Kay Scarpetta parcheggia con calma, molto lentamente, ascoltando Rudy. Poi gli chiede: «Come lo hai risolto, se posso chiedertelo?».

«Ho fatto esplodere la bomba. Niente di che: una molotov con palline di alluminio dentro.»

«Il metallo accelera la reazione» dice Kay Scarpetta, pensando ad alta voce. «È tipico degli ordigni confezionati con prodotti per la casa a base di acido cloridrico, tipo i detersivi per il wc. Adesso su Internet ti danno la ricetta per prepararli…»

«Infatti aveva un odore acido, tipo cloro. Siccome l’ho fatta esplodere vicino alla piscina, però, forse l’odore veniva da lì.»

«È possibile che contenesse cloro granulato da piscina sciolto in una bibita gassata. È una ricetta abbastanza comune. Per accertarlo, basta effettuare un’analisi chimica.»

«Non ti preoccupare, la effettueremo.»

«Del bicchiere è rimasto qualcosa?» chiede Kay.

«Sì. Controlleremo se ci sono impronte ed eventualmente le confronteremo con quelle dello IAFIS.»

«Teoricamente dalle impronte si può risalire anche al DNA, specie se sono recenti. Vale la pena di fare un tentativo.»

«Va bene. Effettuerò un tampone sul bicchiere e sul nastro isolante. Stai tranquilla.»

Più le raccomanda di non preoccuparsi e di stare tranquilla, più lei si agita.

«Non ho chiamato la polizia» aggiunge Rudy.

«Questa è una cosa che decidete voi.» Ha rinunciato a dare consigli a Lucy, Rudy e quelli che lavorano con loro. L’Ultimo Distretto segue regole molto diverse da quelle della gente normale, ben più rischiose e spesso in disaccordo con la legge. Kay Scarpetta ha smesso di chiedere informazioni, perché poi l’ansia la tiene sveglia di notte.

«L’ordigno potrebbe essere legato ad alcuni problemi che abbiamo avuto recentemente» spiega Rudy. «È meglio che te ne parli Lucy, in ogni caso. Se la senti prima che io riesca a raggiungerla, dille di chiamarmi subito, per favore.»

«Rudy, non vorrei che ci fossero altri ordigni esplosivi lì intorno. Fate come volete, naturalmente, ma tenete presente che chi ha piazzato lì quello potrebbe averne nascosti altri in giro» dice. «Se ti esplode in faccia e inali le sostanze chimiche che sprigiona, rischi di lasciarci le penne. Gli acidi sono talmente forti che non serve neppure che la reazione sia completa…»

«Lo so, lo so.»

«Per favore, se decidete di arrangiarvi da soli, almeno accertatevi che non siano coinvolte altre persone. La mia preoccupazione è questa.» È il suo modo per dire che, se Rudy non vuole chiamare la polizia, deve almeno assumersi la responsabilità di proteggere eventuali vittime innocenti.

«So che cosa devo fare. Non ti preoccupare» le dice.

«Gesù!» esclama lei, chiudendo la comunicazione e rivolgendosi a Marino. «Vorrei sapere cosa sta succedendo. Hai chiamato Lucy ieri sera, vero? Ti ha spiegato che cosa le è successo? Io non la vedo da settembre. Non so niente.»

«Una molotov? Ho capito bene?» È rigido e con la schiena dritta. Tutte le volte che Lucy è in pericolo, si agita.

«Sì. Dello stesso genere di quelle che ci avevano causato tanti problemi qualche anno fa vicino a Fairfax, ti ricordi? Quando quel gruppo di ragazzini con troppo tempo a disposizione ha avuto la brillante idea di fabbricare una serie di bombe per far saltare le cassette delle lettere e una donna è morta. Te lo ricordi?»

«Per la miseria!»

«Il problema è che sono facili da fare e terribilmente pericolose. Con un pH di 1 o meno, un’acidità spaventosa… Poteva esplodere in faccia a Lucy, te ne rendi conto? Forse se ne sarebbe accorta e non l’avrebbe tirata fuori, ma… Con lei non si sa mai.»

«Gliel’hanno messa in casa?» domanda Marino, sempre più arrabbiato. «Nella sua villa in Florida?»

«Che cosa le hai detto ieri sera?»

«Le ho parlato di Frank Paulsson, principalmente. E le ho accennato a quello che sta succedendo qui. Nient’altro. Ha detto che ci avrebbe pensato lei. Una bomba nella sua villa principesca, con telecamere e sistemi di sicurezza ovunque? In casa?»

«Ti racconto tutto mentre andiamo» gli dice, aprendo la portiera.

38

La luce del mattino filtra dalla finestra della stanza in cui Rudy è seduto alla scrivania davanti al computer. Digita sulla tastiera, aspetta, scrive alcune righe di testo, aspetta ancora, legge, muove il mouse. Sta cercando una cosa su Internet. È sicuro che ci sia e vuole trovarla. È convinto che quella bomba non fosse lì per caso. Il pazzo deve aver visto qualcosa che lo ha spinto ad agire.

Rudy è arrivato al campo di addestramento due ore fa e da allora non ha fatto altro che navigare in rete. Uno dei suoi tecnici, nel frattempo, ha inviato le impronte rilevate sull’ordigno esplosivo allo IAFIS, ottenendo qualche risultato. Rudy ha i nervi a fior di pelle. Prende il telefono e, con la cornetta premuta fra l’orecchio e la spalla, continua a digitare sulla tastiera e a guardare lo schermo.

«Ciao, Phil» dice. «Bicchiere di plastica con il Gatto e il cappello matto. Sì, grande. Coperchio originariamente bianco, colorato con il pennarello. Sì, esatto, quelli che si trovano dai distributori di bevande negli autogrill e nei supermercati, che ti riempi da solo. Il Gatto e il cappello matto: non è strano? Sì, a me sembra di sì. Possiamo cercare di risalire al posto in cui lo ha preso? No, non sto scherzando. Voglio dire, su quella roba si pagano i diritti d’autore, no? Non è un film recente: è uscito il Natale scorso, mi pare. No, non l’ho visto. Senti, non fare lo spiritoso, è una cosa seria. Voglio dire: dopo tutto questo tempo, non saranno molti ad avere ancora i bicchieri del Gatto e il cappello inatto. Certo, potrebbero averli dal Natale scorso e in questo caso siamo fregati, ma se hanno ordinato le rimanenze… Io almeno un tentativo lo farei. Sì, ci sono impronte. Questo tizio non sta minimamente attento, non si preoccupa di lasciare tracce in giro. Le ha lasciate sul disegno che ha appiccicato alla porta di servizio del capo, nella camera in cui ha aggredito Henri e adesso sulla molotov. E stavolta il confronto con lo IAFIS ha dato dei risultati. Sì, infatti, incredibile. No, non sappiamo ancora come si chiama. Identità ignota. La corrispondenza è fra due impronte latenti, due parziali da casi diversi. Sì, stiamo controllando. No, nient’altro. Va bene, ci risentiamo.»

Chiude la comunicazione e torna al computer. Ci sono più motori di ricerca sul computer di Lucy che motori turbojet alla Pratt Whitney. Lucy naviga di frequente, ma cerca di non essere presente in rete: nel suo campo la notorietà è un handicap. “Tutti i problemi sono cominciati con Henri” pensa Rudy digitando sulla tastiera. “Maledetta Henri, stupida attrice fallita improvvisatasi poliziotta. E stupida Lucy ad assumerla.”

Rudy comincia una nuova ricerca digitando “Kay Scarpetta” e “nipote” come parole chiave. Interessante, molto interessante. Prende una matita e ci giocherella, passandosela fra le dita, mentre legge un comunicato dell’Associated Press uscito in settembre. Breve, informa semplicemente che l’Istituto di medicina legale della Virginia ha un nuovo direttore, il dottor Joel Marcus di St Louis, che prende il posto di Kay Scarpetta dopo alcuni anni di caotico interregno. Ma, stranamente, cita anche Lucy. Dice: “Da quando ha lasciato la Virginia, la dottoressa Scarpetta lavora come consulente esterna per l’agenzia di investigazioni l’Ultimo Distretto, fondata da Lucy Farinelli, ex agente dell’FBI, nonché nipote della famosa anatomopatologa”.

“Non è vero” pensa Rudy. Non si può dire che Kay Scarpetta “lavori” per Lucy, anche se ha collaborato alla soluzione di qualche caso. Kay Scarpetta non lavorerebbe mai per lei e Rudy la capisce. Non è facile lavorare per Lucy Farinelli. Si era dimenticato di quell’articolo, ma adesso ricorda che quando l’aveva scoperto si era arrabbiato moltissimo con Lucy, perché non era possibile che un articolo a proposito del dottor Joel Marcus parlasse anche dell’Ultimo Distretto. L’Ultimo Distretto non vuole pubblicità. Prima che Lucy conoscesse Henri, era sempre riuscito a evitarla. Adesso invece pettegolezzi e voci circolano sempre più frequenti.

Rudy chiude il file, strizza gli occhi e pensa a come impostare la prossima ricerca. Vuole un approccio nuovo e le sue dita cominciano a digitare “Henrietta Walden” quasi senza che il resto di lui se ne accorga. “È una perdita di tempo” pensa. Prima di fare l’attricetta di serie B alla costante ricerca di un ingaggio, si chiamava Jen Thomas o qualcosa del genere. Rudy prende la sua Pepsi e strabuzza gli occhi: la ricerca ha dato ben tre risultati.

«Fa’ che ci sia qualcosa di buono!» dice all’ufficio vuoto, cliccando sul primo item.

Una certa Henrietta Taft Walden di Lynchburg, Virginia, morta un secolo fa, era una ricca sostenitrice dell’abolizionismo. “Però” pensa Rudy. “Una donna abolizionista in Virginia ai tempi della guerra civile? Coraggiosa, non c’è che dire.” Clicca sul secondo item, che parla di una Henrietta Walden ancora viva e vegeta, ma molto anziana, che vive nelle campagne della Virginia, alleva cavalli e recentemente ha donato un milione di dollari al NAACP, l’associazione per i diritti dei neri. Che sia una discendente dell’altra Henrietta Walden, l’abolizionista? Si chiede se Jen Thomas ha scelto il nome Henrietta Walden in segno di rispetto per queste due donne impegnate e coraggiose. E, nel caso, perché? Henri è bianca, bionda, polemica e aggressiva. Non la vede proprio ispirarsi a donne impegnate per i diritti dei neri. O forse l’ha fatto per cinico opportunismo, perché l’impegno a Hollywood adesso va di moda? Clicca sul terzo item.

È un breve articolo dell’“Hollywood Reporter”, pubblicato a metà ottobre.

Un ruolo da vera protagonista

L’ex attrice hollywoodiana Henri Walden, dopo essere entrata nel Dipartimento di polizia di Los Angeles, ha firmato un contratto con una prestigiosa agenzia di investigazioni private, l’Ultimo Distretto. La sua fondatrice, Lucy Farinelli, ex agente speciale, che pilota gli elicotteri e gira in Ferrari, è la nipote della dottoressa Kay Scarpetta, l’anatomopatologa più famosa d’America. L’Ultimo Distretto, che ha sede a Hollywood, in Florida, ha recentemente aperto una filiale a Los Angeles, dove offre servizi di protezione alle star. Sebbene i nomi dei suoi clienti siano assolutamente top secret, il “Reporter” ha scoperto che comprendono personaggi celebri come l’attrice Gloria Rustic e il musicista Rat Riddly.

«È il ruolo più importante che abbia mai interpretato» dichiara Henrietta Walden. «Per proteggere un attore, bisogna conoscere l’ambiente in cui si muove, e io nel mondo dello spettacolo ho lavorato.»

In realtà la bionda Walden ha lavorato nel cinema solo sporadicamente. Ma, essendo di famiglia più che benestante, il denaro non è mai stato un problema per lei. Al suo attivo ha piccole parti in film di successo come Quick Death e Don’t Be There. La riconoscerete facilmente: è quella con la pistola.

Rudy stampa l’articolo e si appoggia allo schienale, con le dita vicino alla tastiera. Guarda lo schermo e si chiede se Lucy ne è al corrente. Se lo ha visto, si è sicuramente arrabbiata moltissimo. Perché non ha licenziato Henri in tronco, allora? E perché non gliene ha mai parlato? Difficile immaginare una scorrettezza più grave. È sbigottito al pensiero che Lucy possa essere passata sopra a una cosa così. Nessuno dell’Ultimo Distretto ha mai rilasciato interviste ai media o accennato al proprio lavoro, se non per motivi strategici, all’interno di operazioni accuratamente pianificate. Ma forse Lucy non sa niente di questo articolo. C’è solo un modo per accertarlo.

Prende il telefono.

«Ciao» dice, sentendo la voce di Lucy. «Dove sei?»

«A St Augustine. Sto facendo rifornimento.» Ha la voce stanca. «Ho saputo della molotov.»

«Ti chiamo per un altro motivo, in realtà. Hai parlato con tua zia?»

«Con Marino. Ma adesso non ho tempo per spiegarti.» Sembra arrabbiata. «Cos’altro è successo?»

«Sapevi che la tua amica ha rilasciato un’intervista in cui dice di essere venuta a lavorare per noi?»

«Ti prego di non chiamarla “la mia amica”.»

«D’accordo» mormora Rudy, conciliante nonostante la collera. «Però rispondimi: lo sapevi?»

«No, non ne so niente. Che articolo è?»

Rudy glielo legge per telefono e, quando finisce, aspetta di sentire la sua reazione. Pensa che Lucy si arrabbierà e questo lo rassicura. Fino a quel momento è stata disattenta, incauta, ma adesso sarà costretta ad ammettere i propri errori. Invece Lucy resta zitta e Rudy le chiede: «Ci sei?».

«Sì, ci sono» risponde lei irritata. «Non ne sapevo niente.»

«Be’, adesso lo sai. Questo cambia tutto, mi pare. Ci consente di vedere le cose in un modo completamente diverso, no? E, soprattutto, dobbiamo chiederci se il maniaco ha letto questo articolo, se è da qui che gli è venuta l’idea. Ah, tieni presente che la ragazza ha mutuato il suo nome d’arte da una donna della Virginia impegnata per l’abolizionismo. Anche tu sei legata alla Virginia, mi sembra. Il vostro incontro potrebbe non essere stato, come dire, casuale.»

«Ridicolo. Stai esagerando» ribatte Lucy irritata. «Era nell’elenco di agenti del Dipartimento di polizia di Los Angeles che si occupavano della sicurezza…»

«Stronzate!» la interrompe Rudy. «L’elenco non c’entra un cazzo. Sei andata al Dipartimento di polizia e l’hai incontrata. Sapevi benissimo che non aveva nessuna esperienza, ma l’hai assunta lo stesso.»

«Non voglio parlare di queste cose al cellulare. Per quanto sicuri possano essere quelli che usiamo noi.»

«Hai ragione. Comunque dovresti parlarne allo strizzacervelli.» È così che chiama Benton Wesley. «Davvero, secondo me dovresti raccontargli tutta la storia: chissà che non gli venga qualche idea. Gli mando l’articolo via e-mail, avvertilo. Le impronte dimostrano che a metterti una bomba nella cassetta delle lettere è stato lo stesso pazzoide che ha disegnato l’occhio.»

«Lo sapevo anche prima. Non potevano essere due persone diverse. E con lo strizzacervelli ho già parlato» aggiunge poi. «Mi aiuterà nella prossima operazione.»

«Buona idea. A proposito, quasi dimenticavo. Ho trovato un capello nel nastro isolante della molotov.»

«Descrivimelo.»

«Lungo una quindicina di centimetri, scuro, ondulato. Ti racconto meglio dopo, dal fisso. Adesso ho da fare» taglia corto. «Se riuscissi a farti dire qualcosa dalla tua amica… Magari lei sa qualcosa. Sempre che non ti riempia di balle come al solito.»

«Ti ho detto di non chiamarla “la mia amica”» protesta Lucy. «Rudy, cerchiamo di non litigare.»

39

Vedendo entrare Kay Scarpetta con Pete Marino, che si sforza di camminare normalmente, Bruce si alza dalla sua postazione alla reception con la faccia sconsolata.

«Il capo mi ha ordinato di non far entrare nessuno» dice, senza guardarli negli occhi. «Ma forse non si riferiva a voi. Avete appuntamento?»

«No, non abbiamo nessun appuntamento» risponde Kay Scarpetta disinvolta. Ormai niente la sorprende più. «Probabilmente si riferiva proprio a me, invece.»

«Mi dispiace, dottoressa.» Bruce è in imbarazzo. È arrossito. «Come va, Pete?»

Marino si appoggia al tavolo della reception con le gambe larghe e i pantaloni con il cavallo più basso del solito. «Diciamo che sono stato meglio» risponde. «Dunque il grande capo non ci vuol far entrare. È così, Bruce?»

«È un bordello…» comincia lui, ma non finisce la frase, per paura di perdere il posto di lavoro. Ha una bella divisa blu di prussia, una pistola, lavora in un ufficio prestigioso… Gli conviene mordersi la lingua, far finta di niente e non dire quanto gli sta antipatico il dottor Marcus.

«Be’, non vorrei dargli un dispiacere, ma in realtà non siamo venuti qui per lui» continua Marino. «Dobbiamo lasciare dei campioni in laboratorio, a Eise. Senti, Bruce, che cosa ti ha detto precisamente? Mi ripeti le parole esatte?»

«È un bordello…» ripete Bruce. Scuote la testa, ma poi si morde di nuovo la lingua: quel lavoro gli piace.

«Non importa» interviene Kay Scarpetta. «Ho ricevuto il messaggio forte e chiaro. Grazie di avermelo detto. Dovevo pur saperlo.»

«Avrebbe dovuto dirglielo lui.» Bruce si rende conto di aver parlato troppo e si zittisce, guardandosi intorno. «Comunque sappia che siamo stati tutti contenti di vederla, dottoressa.»

«Proprio tutti no, mi pare.» Sorride. «Non c’è problema. Vogliamo dire a Eise che siamo qui? Ci aspettava» aggiunge.

«Sì, certo» risponde Bruce, lievemente sollevato. Prende il telefono, chiama l’interno di Eise e riferisce il messaggio.

Kay Scarpetta e Marino aspettano davanti all’ascensore, che si attiva solo con il tesserino magnetico del personale autorizzato a utilizzarlo. Eise lo manda al pianoterra, Kay Scarpetta e Marino vi salgono e premono il pulsante numero 3.

«Quel bastardo vuole fare a meno di te, dunque» dice Marino appena si chiudono le porte.

«Già» replica Kay, con la borsa di nylon nera a tracolla.

«Che cosa intendi fare? Non può mica chiederti una consulenza, farti venire a Richmond e poi trattarti come una merda! Non capisco perché non l’abbiano già mandato via a calci nel culo.»

«Vedrai che, se continua così, prima o poi succederà. E comunque io ho altro da fare» risponde. Junius Eise li aspetta davanti all’ascensore, in un corridoio bianco.

«Grazie, Junius» dice Kay Scarpetta, stringendogli la mano. «È un piacere rivederla.»

«Si figuri, dottoressa. Piacere mio» replica, un po’ in imbarazzo.

È un uomo strano, con gli occhi chiarissimi e la tipica cicatrice sortile fra il labbro superiore e il naso di chi è nato con il labbro leporino quando la chirurgia plastica non era ancora ai livelli di adesso. Ma Eise ha qualcosa di strano indipendentemente dall’aspetto, Kay Scarpetta l’ha sempre pensato. Quando dirigeva lei l’istituto a volte lo incontrava per i corridoi e ogni tanto discutevano qualche caso. Era infatti gentile e rispettosa con i dipendenti, benché fosse sempre un po’ sulle sue e non desse confidenza a nessuno.

Segue Eise lungo una serie di corridoi bianchi e vede dalle porte a vetro i tecnici al lavoro. Sa di incutere soggezione al prossimo. Sa che, quando dirigeva l’istituto, era più rispettata che amata. Questo le dispiaceva, ma lo accettava perché era meglio così. Adesso però non dirige più l’istituto, e severità e durezza non sono più necessarie.

«Come va la vita, Junius?» domanda al tecnico. «Ho saputo che l’altra sera avete fatto baldoria, lei e Marino. Spero che questa storia delle tracce identiche su due cadaveri diversi non la stressi eccessivamente. Sono certa che scoprirà che cosa è successo.»

Eise la guarda scettico. «Speriamo» dice, a disagio. «L’unica cosa di cui sono certo è che non ho fatto confusione fra i campioni. Su questo potrei mettere la mano sul fuoco.»

«So che è un uomo molto preciso» replica Kay Scarpetta.

«Grazie. Detto da lei, è un vero complimento.» Passa il tesserino magnetico su un sensore alla parete, facendo scattare la serratura della porta del laboratorio. «Comunque non sono io a dover far luce sulla vicenda» continua. «Posso dire solo che non ho scambiato etichette o fatto altre sviste di questo genere. In tanti anni che lavoro qui, non è mai successo. Quando ho rischiato di commettere un errore, me ne sono sempre accorto in tempo.»

«Certo.»

«Ricorda Kit?» domanda poi Eise. «Purtroppo è in malattia perché si è buscata l’influenza. Che roba! C’è mezzo mondo a casa con la febbre. Be’, è proprio un peccato che non ci sia, perché aveva voglia di vederla e di salutarla. Sentiamo tutti la sua mancanza.»

«Grazie. Dispiace anche a me non averla rivista» replica Kay Scarpetta. Sono davanti al lungo bancone nero dove lavora di solito Eise.

«C’è un posticino tranquillo con un telefono, da queste parti?» chiede Marino.

«Sì, certo. La stanza del capo sezione, qui dietro l’angolo. Oggi la dottoressa non c’è, è in tribunale. Vai pure, non credo che le darà fastidio se usi il suo telefono.»

«Vi lascio, allora» dice Marino, avviandosi a passi lenti, con l’andatura di un cowboy reduce da una lunga cavalcata.

Eise copre il bancone con carta bianca e Kay Scarpetta ci posa sopra i campioni che estrae dalla borsa nera. Prende una seggiola e si siede accanto al tecnico, davanti al microscopio. Eise le porge un paio di guanti di lattice e si mette all’opera. Prende una spatolina di acciaio, la infila in un sacchetto, raccoglie una quantità minuscola di terra rossa e sabbiosa e la spalma su un vetrino pulito, che poi sistema sul microscopio. Si avvicina all’oculare, regola la messa a fuoco e sposta leggermente il vetrino. Poi lo toglie dal microscopio, lo mette da una parte e ripete l’operazione con un altro campione di terra.

Trova qualcosa di interessante soltanto alla seconda bustina.

«Se non ce l’avessi sotto gli occhi, non ci crederei» dice, allontanandosi dall’oculare per farle posto. «Guardi.»

Kay Scarpetta si avvicina e guarda sul vetrino un campione della terra che ha raccolto nel cantiere in cui è morto Ted Whitby. Fra particelle di silice e altri minerali, frammenti di insetti, di piante e di tabacco, ci sono anche alcune scaglie metalliche, che sembrano di argento opaco. Kay Scarpetta si guarda intorno alla ricerca di un attrezzo a punta e ne trova diversi a portata di mano. Muove con grande delicatezza le scaglie metalliche, isolandole. Sul vetrino ce ne sono esattamente tre, tutte lievemente più grosse delle altre particelle. Due sono rosse e una è bianca. Spostandole con la punta di tungsteno, fa un’altra scoperta molto interessante. Intuisce subito di che cosa è la particella che ha appena visto ma, prima di dirlo ad alta voce, se ne vuole accertare.

È delle dimensioni della scaglia di vernice più piccola, di un grigio giallastro e di una forma particolare: assomiglia a un uccello preistorico, con la testa a forma di martello, un occhio solo, un collo sottilissimo e un corpo bulboso. Non è né minerale, né artificiale.

«Lamelle simili ai cerchi concentrici sul tronco di un albero.» Comincia a enumerarne le caratteristiche, muovendola. «E canalicoli, o canali vascolari di Havers. A un esame microscopico in luce polarizzata dovremmo vedere un’estensione a ventaglio lievemente ondulata. A una diffrazione ai raggi X risulterebbe fosfato di calcio. In altre parole, è polvere di osso. Non mi sorprende, dato il luogo in cui ho raccolto il campione. È normale che intorno alla ex sede dell’istituto ci sia polvere di osso.»

«Perbacco!» esclama Eise. «E io che mi ci sono rotto la testa! Sono le stesse particelle prelevate dal cadavere della ragazzina, Gilly Paulsson. Posso dare un’occhiata?»

Kay Scarpetta gli fa posto, un po’ sollevata ma tuttora perplessa. Che sul cadavere di Ted Whitby ci fossero scaglie di vernice e polvere di osso ha un senso, ma che le medesime, fossero anche sul corpo di Gilly Paulsson è assolutamente inspiegabile. Com’è possibile che la ragazzina avesse in bocca scaglie di vernice e polvere di osso?

«Uguale precisa identica» dichiara Eise, sicuro. «Prendo i campioni di Gilly Paulsson e le faccio vedere. È incredibile.» Prende una grossa busta da una pila sulla sua scrivania, la apre e tira fuori una serie di vetrini. «Li tengo a portata di mano perché ogni tanto li vado a guardare. Non riesco a farmene una ragione, mi creda.» Sistema un vetrino sul microscopio. «Particelle rosse, bianche e blu. Alcune aderiscono a parti metalliche, altre no.» Sposta il vetrino e aggiusta la messa a fuoco. «Sembra ci sia una base di smalto epossidico, forse riverniciata in seguito. Ovvero: di qualsiasi cosa si tratti, in origine potrebbe essere stata bianca e poi pitturata di bianco, rosso e blu. Vede?»

Eise ha rimosso faticosamente tutte le altre particelle, in maniera che sul vetrino rimanessero solo scaglie di vernice bianche, rosse e blu.

Paiono grandi e belle come mattoni di una costruzione per bambini, a parte che hanno forma irregolare. Alcune sono attaccate a frammenti di metallo opaco, altre no. Per colore e consistenza sembrano identiche a quelle ritrovate nei campioni di terra. Kay Scarpetta è talmente sbigottita che non riesce a pensare, come se il cervello fosse andato in tilt. Non riesce a trovare una logica in quella stranezza.

«E qui ci sono le particelle che secondo lei sono polvere di osso» dice Eise. Sostituisce il vetrino.

«Ritrovate sul cadavere di Gilly Paulsson?» Kay Scarpetta ha paura di non capire: è tutto troppo incredibile.

«Sì.»

«E la stessa polvere…»

«Pensi a quanta ce ne deve essere in quel cantiere. Se uno dovesse controllare, probabilmente troverebbe più particelle come queste che stelle in cielo» dice Eise.

«Alcune sembrano vecchie, il prodotto di un processo naturale di esfoliazione del periostio» spiega Kay Scarpetta. «Vede come sono arrotondate e più sottili in corrispondenza dei bordi? Potrebbero provenire da scheletri o ossa sepolte nel terreno o ritrovate in un bosco. Da ossa non traumatizzate, in ogni caso. Ce ne sono altre, invece, che hanno bordi dentellati e fratturati e spessore disuniforme» dice, isolandole.

Eise si avvicina all’oculare per vedere, poi lascia di nuovo il posto a Kay Scarpetta.

«Certe sembrano addirittura bruciate. Ha notato quanto sono fini? E hanno i margini nerastri, come fossero carbonizzate. Probabilmente, se le toccassi, resterebbero attaccate all’unto della mia pelle, mentre quelle che sono prodotto di normale esfoliazione no» dice. «Ho la sensazione che siano ceneri di cremazione.» Osserva una particella dentellata, di un bianco bluastro, con i margini carbonizzati. «Questa, per esempio, è gessosa e sembra spezzata, non necessariamente per effetto del calore. Non so, non ho mai studiato attentamente la polvere di osso né le ceneri di cremazione, ma penso che con qualche analisi si riuscirebbe ad accertare se la mia intuizione è corretta. Nell’osso bruciato dovrebbero esserci livelli di calcio e di fosforo diversi» spiega senza spostarsi dall’oculare. «Peraltro, non mi sorprende che ci siano resti di cremazione intorno all’ex sede dell’istituto, visto che comprendeva un crematorio e Dio solo sa quanti morti, ci abbiamo bruciato nel corso degli anni, ma non mi spiego perché siano mescolate a questi campioni di terra. Li ho raccolti sull’asfalto vicino all’entrata sul retro, dove i lavori di demolizione non sono ancora iniziati. Quindi la divisione di Anatomia dovrebbe essere ancora intatta. Ricorda l’entrata di servizio della vecchia sede?»

«Certamente.»

«Be’, è lì che ho raccolto questi campioni di terra. Perché dovrebbero esserci resti di cremazione in quel punto, al fondo del parcheggio? Se non ce l’ha portata qualcuno entrando e uscendo…»

«Potrebbero essere rimasti attaccati ai vestiti e alle scarpe di uno che è sceso nella divisione di Anatomia, se dice che è ancora in piedi.»

«Sì, certo. Whitby è caduto sull’asfalto sporco e queste particelle hanno aderito al sangue che gli usciva dalle ferite.»

«Mi può spiegare meglio quello che diceva prima a proposito dei frammenti di osso spezzati?» chiede Eise. «Se non si sono spezzati per effetto del calore, come si sono spezzati?»

«Non lo so con certezza ma, se questi resti di cremazione erano sull’asfalto fra la terra e la polvere, inevitabilmente sono stati calpestati dalle persone che sono passate di lì e schiacciati dai mezzi. È possibile che dopo un simile trattamento si possano confondere con frammenti di ossa traumatizzate.»

«Ma perché dovrebbero esserci resti di cremazione sul corpo di Gilly Paulsson?» domanda Eise.

«Bella domanda.» Kay Scarpetta cerca di schiarirsi le idee e di organizzare i propri pensieri. «Già. Queste non sono le particelle ritrovate sul cadavere di Whitby. I frammenti di osso che mi sembrano bruciati e spezzati non provengono dalla vecchia sede dell’istituto. Quelli che sto osservando sono i vetrini del caso Paulsson.»

«Come faceva quella ragazzina ad avere in bocca ceneri di cremazione? Io proprio non me lo spiego. Non riesco a capire il motivo di una simile stranezza. Lei?»

«Non ne ho la più pallida idea» risponde Kay Scarpetta. «Che cos’altro avete trovato? Mi pare di capire che sono stati analizzati diversi effetti personali della ragazzina.»

«La biancheria, nient’altro. Kit e io abbiamo raccolto tutto il materiale possibile da quelle lenzuola e poi ho impiegato un sacco di tempo a togliere fibre di cotone perché Marcus insiste nell’usare tamponi di ovatta. Deve averne uno stock» protesta. «Anche quelli del DNA hanno lavorato sulle lenzuola, naturalmente.»

«Lo so» dice Kay Scarpetta. «E so che hanno trovato epitelio respiratorio.»

«Noi invece abbiamo trovato dei capelli, neri, tinti. So che Kit li considerava molto strani.»

«Umani, presumo. È stata fatta la prova del DNA?»

«Sì, umani. Li abbiamo mandati al Bode Technology Group per l’analisi del DNA mitocondriale.»

«Avete trovato peli di animale? In particolare di cane?»

«No» risponde Eise.

«Né sul pigiama né sulle lenzuola, né su niente che provenisse da quella casa?»

«No. Senta, quella polvere di osso non potrebbe essere stata prodotta nel corso dell’autopsia? Magari dalla sega Stryker» chiede. Evidentemente quel mistero lo ossessiona. «Questo spiegherebbe la sua presenza…»

«A occhio, lo escluderei» lo interrompe Kay Scarpetta, allontanandosi dal microscopio per guardarlo in faccia. «Se fosse stata prodotta da una sega, sarebbe mischiata a particelle di metallo.»

«Okay. Senta, voglio dirle una cosa.»

«Prego» lo incoraggia Kay Scarpetta.

«Allora: lei di ossa ne sa certamente più di me, ma io sono abbastanza esperto di vernici» dice rimettendo a posto i vetrini del caso Paulsson. «Le tracce ritrovate sul corpo di Gilly Paulsson e di Ted Whitby non hanno rifinitura né primer, e da questo deduciamo che non provengono dalla carrozzeria di un autoveicolo. Il metallo sottostante non viene attratto da un magnete, per cui non è ferroso. Ho fatto la prova. Penso che sia alluminio.»

«Quindi queste scaglie provengono da un oggetto di alluminio verniciato di bianco, rosso e blu» conclude Kay Scarpetta, riflettendo a voce alta. «E sono mischiate a polvere di osso.»

«Mi arrendo» dice Eise.

«Anch’io, almeno per il momento» gli fa eco Kay Scarpetta.

«Sono ossa umane?»

«Sarà difficile accertarlo, a meno che non siano recenti.»

«Che cosa intende per “recenti”?»

«Di qualche anno, non decenni» risponde lei. «Possiamo controllare se ci sono impronte digitali ed effettuare un’analisi dei marcatori STR e del DNA mitocondriale, se il campione non è troppo vecchio o deteriorato. Per la prova del DNA, più che la quantità, è importante la qualità del reperto, ma sono pessimista. Sui resti di cremazione possiamo scordarcela. Quanto alle particelle non bruciate, non posso dirlo con certezza, ma mi sembra materiale vecchio ed eroso. Si può provare a mandarlo al Bode e vedere se riescono a ricavarci qualcosa, ma siccome la quantità è minima, rischiamo di usarla tutta. Potremmo non trovare niente e non avere più materiale su cui effettuare eventualmente altre prove.»

«Vorrei occuparmi di DNA. Avrei molti più finanziamenti.»

«Rifletteteci e valutate che cosa vi conviene fare» dichiara Kay Scarpetta alzandosi dalla sedia. «Personalmente, conserverei i campioni nel caso dovessero servire in un secondo tempo. La cosa più importante mi sembra che queste particelle di osso sono presenti su due cadaveri che non hanno nessun legame fra loro.»

«Sono d’accordo.»

«Lascio a lei l’onore di riferire la scoperta al dottor Marcus» dice ironica Kay Scarpetta.

«Sarà lieto di ricevere un’altra e-mail da parte mia» scherza Eise. «Vorrei poterle dare buone notizie, dottoressa, ma per controllare tutti i campioni che ha raccolto mi ci vorrà un po’ di tempo. Qualche giorno, direi. Devo preparare i vetrini, lasciarli asciugare, separare le particelle… È un lavoraccio, perché non ho un agitatore automatico. Ne ho richiesto l’acquisto, ma mi hanno detto che, siccome costa seimila dollari, me lo posso scordare. Solo asciugatura e setacciatura, quindi, richiederanno giorni. Poi devo controllare tutto io, con questo microscopio, quello elettronico a scansione e cos’altro ci vorrà. A proposito, le ho mai regalato uno dei miei attrezzi? Li fabbrico personalmente per i miei collaboratori. Li trovo utilissimi.»

Esamina alcuni filamenti di tungsteno e ne sceglie uno particolarmente appuntito e diritto. Lo mostra orgoglioso a Kay Scarpetta e si china per porgerglielo come se fosse una rosa rossa.

«Grazie, Junius» dice lei. «Molto gentile.»

40

Non riuscendo ad affrontare il problema in maniera costruttiva, Kay Scarpetta smette di pensare all’alluminio verniciato e alla polvere di osso. Se continua a spaccarsi la testa su quelle particelle di vernice bianca, rossa e blu mischiate alla polvere di osso, diventerà matta.

Il cielo è grigio e l’aria pesante: sta per scoppiare un altro temporale. Scende dall’auto con Marino e chiude la portiera. Non vedendo luci accese nella casa di mattoni con il tetto di ardesia malconcio dietro alla casa di Suzanna Paulsson, si sente prendere dallo scoramento.

«Sei sicuro che verrà?» domanda a Marino.

«Me l’ha assicurato. In ogni caso, mi ha anche detto dov’è la chiave. Voleva che potessimo fare a meno di lui, ne deduco.»

«Se mi stai dicendo che vuoi entrare in quella casa anche senza l’agente immobiliare, ti avviso che non se ne parla» ribatte Kay Scarpetta guardando la porta di ingresso di legno rinforzato e le finestre buie. La casa è piccola e vecchia, e ha l’aria trascurata. Nel giardino ci sono alberi di magnolia spogli, arbusti che sembrano non essere stati potati da anni, alcuni grossi pini e aghi e pigne dappertutto.

«Io non ti sto dicendo niente» replica Marino guardando la strada deserta. «Ti informo solo che l’agente immobiliare mi ha spiegato dove posso trovare la chiave e mi ha avvertito che non c’è antifurto. Secondo te, perché lo ha fatto?»

«Non importa quello che ti ha detto o non ti ha detto» ribatte Kay Scarpetta, pur sapendo che non è vero. Intuisce già come andrà a finire.

L’agente immobiliare non aveva voglia di muoversi, oppure non vuole immischiarsi, e quindi ha dato loro l’opportunità di andare a vedere la casa in sua assenza. Kay si infila le mani nelle tasche del cappotto. Porta a tracolla la borsa di nylon nera con tutto l’occorrente per raccogliere prove e indizi. È molto più leggera, senza i campioni di terra che ha lasciato a Eise.

«Almeno un’occhiata dalla finestra la posso dare?» dice Marino, avviandosi lentamente, con le gambe larghe, attento a dove mette i piedi. «Tu resti in macchina o mi segui?» domanda, senza neppure voltarsi.

Ha fatto una ricerca sull’elenco telefonico, e ha trovato l’agenzia immobiliare a cui è stata affidata la casa. L’uomo con il quale ha parlato gli ha detto che da un anno nessuno chiede di visitarla e non sembrava per niente interessato a venderla. La proprietaria è una certa Bernice Towle, che abita nel South Carolina e si rifiuta sia di mettere a posto l’immobile sia di scendere di prezzo, per cui la vendita risulta impossibile. Secondo l’agente immobiliare, non ci abita nessuno, anche se di tanto in tanto la signora Towle vi ospita alcuni conoscenti. Purtroppo non gli ha saputo dire né quando, né per quanto tempo. La polizia di Richmond se ne è disinteressata perché a tutti gli effetti la casa risulta disabitata e quindi irrilevante ai fini delle indagini sulla morte di Gilly Paulsson. Per gli stessi motivi, anche l’FBI ha ritenuto di non svolgere controlli. Pete Marino e Kay Scarpetta, invece, vogliono indagare, perché in un caso di omicidio non va trascurato nessun dettaglio.

Kay Scarpetta si incammina sul vialetto, che dopo la pioggia è sdrucciolevole, e pensa che se fosse suo lo laverebbe con la candeggina. Raggiunge Marino, che sta sbirciando dalla finestra.

«Se vogliamo fare i guardoni, tanto vale che entriamo» gli dice Kay. «Dov’è la chiave?»

«Sotto quel vaso, credo.» Indica una pianta di bosso, talmente grande che il vaso è nascosto dalle foglie.

Kay Scarpetta si avvicina, infila le mani fra i rami e vede che nel vaso ci sono due o tre dita di acqua verdognola puzzolente. Sposta il bosso e trova un quadrato di carta stagnola, sporco e pieno di ragnatele, dentro cui c’è una chiave di ottone brunito, che deve giacere lì inutilizzata da mesi. La porge a Marino: non vuole essere lei ad aprire.

In casa c’è odore di chiuso e fa freddo. Kay Scarpetta sente anche odore di sigaro. Marino cerca l’interruttore, lo trova e prova invano ad accendere la luce.

«Tieni» dice Kay porgendogli un paio di guanti di cotone. «Combinazione, ne ho un paio anche della tua misura.»

«Però.» Se li infila. Anche lei ne indossa un paio.

Vicino al muro c’è un tavolo con una lampada sopra. Kay Scarpetta prova ad accenderla e ci riesce. «Be’, la corrente non è staccata» dice. «Chissà se funziona anche il telefono.»

Solleva la cornetta di un vecchio apparecchio nero e la avvicina all’orecchio. Silenzio assoluto. «No, il telefono è staccato» dichiara. «Tu non senti odore di sigaro?»

«Se stacchi la corrente, gela l’acqua nei tubi» dice Marino. Annusa l’aria e si guarda intorno. Il salotto sembra più piccolo, con lui dentro. «No, io non sento nessun odore di sigaro. Solo di polvere e muffa. Ma tu hai l’olfatto migliore del mio.»

Kay Scarpetta resta vicino alla lampada e osserva la stanzetta piccola e buia, con un divano rivestito di stoffa a motivi floreali sotto la finestra e una poltroncina in un angolo. Vede un tavolino di legno scuro, basso, con diverse pile di riviste sopra e si avvicina a dare un’occhiata. «Questo proprio non me l’aspettavo» dichiara, sfogliando un numero di “Variety”.

«Che cosa?» domanda Marino avvicinandosi.

«È un settimanale specializzato per operatori dello spettacolo» spiega lei. «Questo è del novembre scorso. Strano» dice, leggendo la data. «A meno che la signora Towle non faccia l’attrice.»

«Forse ama semplicemente tenersi aggiornata sui VIP, come la maggioranza della popolazione» dice Marino, poco interessato.

«La maggioranza della popolazione legge “People”, “Entertainment Weekly” e roba del genere, non “Variety”. Questa è una pubblicazione per specialisti» ribadisce. Guarda le altre riviste. «“Hollywood Reporter”, “Variety”, “Variety”, “Hollywood Reporter”… Le più vecchie sono di due anni fa e la più recente di sei mesi fa. Forse l’abbonamento è scaduto. Venivano spedite a una tal signora Edith Arnette, a questo indirizzo. Ti dice niente?»

«No.»

«L’agente immobiliare ti ha detto chi è stato l’ultimo ad abitare in questa casa? La signora Towle stessa o qualcun altro?»

«Non me l’ha detto. E io ho dato per scontato che fosse lei.»

«Mai dare niente per scontato. Lo vuoi chiamare?» Apre la borsa di nylon nera, prende un grosso sacco per la spazzatura, lo apre e ci infila le riviste.

«Te le vuoi portare via?» chiede Marino dalla porta, dandole la schiena. «Perché?»

«Magari rileviamo qualche impronta.»

«E così i reati sono due: effrazione e furto» dichiara lui, leggendo un numero di telefono su un foglietto.

«Pazienza.»

«Anche se trovassi qualche impronta, non sarebbe ammessa come prova in quanto prelevata senza regolare mandato» continua a provocarla lui.

«Vuoi che le lasci qui, allora?» chiede Kay.

Marino fa spallucce. «Se si rivelano importanti, so dov’è la chiave: le riporto dentro, mi faccio emettere un mandato e le vengo a riprendere. Non sarebbe la prima volta che lo faccio.»

«Non me ne vanterei, se fossi in te» ribatte Kay Scarpetta, posando il sacco sul parquet polveroso per andare a controllare il tavolino sulla sinistra del divano. Continua a sentire odore di sigaro.

«Infatti non me ne vanto» ribatte Marino, digitando un numero sul tastierino del cellulare.

«Comunque, come fai a farti emettere un mandato? Non è la tua giurisdizione, questa.»

«Non ti preoccupare. Sono amico dell’ispettore Browning.» Dalla sua faccia spazientita, Kay intuisce che ha trovato la segreteria telefonica. Lo sente dire: «Salve, Jim, sono Marino. Volevo sapere se l’ultima persona che ha vissuto nella casa era la signora Edith Arnette. Può richiamarmi appena possibile? Grazie». Lascia il numero. «Vedi» dice poi a Kay Scarpetta. «Il caro Jim non aveva nessuna intenzione di venire a mostrarci la casa. Lo posso anche capire: è una tale catapecchia…»

«Sì, fa schifo.» Kay Scarpetta apre il cassetto del tavolino a sinistra del divano. È pieno di monetine. «Non credo che sia per questo che non è venuto, però. Senti, se tu e Browning siete tanto amici, com’è che l’altro giorno avevi paura che ti arrestasse?»

«Il passato è passato» sentenzia Marino, uscendo nel corridoio. «È un bravo cristo, non ti preoccupare. Se ci servirà un mandato, ce lo farà avere: pigliati pure tutte le riviste che vuoi. Dov’è la luce, qui?»

«In questo cassetto ci saranno cinquanta dollari in monetine da venticinque centesimi.» Kay Scarpetta ci passa le dita dentro. «Tutte da venticinque, senza eccezione. Cos’è che costa venticinque centesimi, Marino? Il quotidiano?»

«Il “Times Dispatch” ne costa cinquanta» risponde lui. «L’ho preso ieri a un distributore e ci ho dovuto mettere due monete da venticinque. Il doppio del “Washington Post”.»

«È strano trovare soldi in una casa disabitata» medita Kay Scarpetta chiudendo il cassetto.

Segue Marino nel corridoio buio ed entra in cucina. Rimane scioccata nel vedere il lavandino pieno di piatti sporchi e di acqua unta e verdastra. Apre il frigo e si convince sempre di più che in quella casa ha abitato qualcuno fino a poco tempo fa: sui ripiani ci sono succo di arancia e latte di soia che scadono alla fine del mese e nel freezer ci sono alcuni vassoi di carne confezionati tre settimane prima. Scopre altro cibo negli armadietti e nella dispensa, sempre più in ansia. Va in fondo al corridoio a controllare la camera da letto e, nel sentire odore di sigaro, si convince definitivamente che fino a poco tempo fa lì abitava qualcuno.

Il letto è matrimoniale, con un copriletto blu da quattro soldi. Kay lo abbassa e vede che le lenzuola sono sporche, stropicciate. Sul guanciale ci sono peli scuri e ricciuti e alcuni capelli rossastri. Il lenzuolo di sotto è pieno di macchie ormai secche. Kay crede di sapere di che cosa sono. Di fronte al letto c’è una finestra da cui si vedono la recinzione di legno che separa la casa dalla proprietà dei Paulsson e la finestra di Gilly. Sul comodino c’è un posacenere Cohiba di ceramica, nero e giallo, abbastanza pulito e meno polveroso di quanto non siano i mobili.

Kay Scarpetta perlustra ogni angolo senza accorgersi del tempo che passa, delle ombre che si allungano e della pioggia che batte sul tetto. Controlla l’armadio e i cassetti del comò e trova una rosa rossa appassita in un involucro di cellophane, giacche, cappotti e completi da uomo, tristi e fuori moda, ordinatamente appesi a grucce di metallo, camicie e pantaloni, anch’essi da uomo, meticolosamente piegati e tutti di colore scuro, mutande e calze da uomo, vecchie e da pochi soldi, e dozzine di fazzoletti da naso lavati e stirati.

Si siede per terra, estrae da sotto il letto alcune scatole di cartone, le apre e sfoglia vecchie pubblicazioni scientifiche per medici forensi e dépliant di imprese di pompe funebri, cataloghi di bare e accessori mortuari e opuscoli su articoli per imbalsamazione. Risalgono ad almeno otto anni prima e hanno l’aria vissuta. L’etichetta a cui sono stati spediti è stata rimossa; su alcune copertine resta qualche lettera o un pezzetto di codice postale, non abbastanza per capire da dove provengono.

Kay Scarpetta controlla le pubblicazioni in tutte le scatole, sperando di trovare un indirizzo completo e alla fine la sua fatica viene premiata. Legge l’indirizzo dell’abbonato e rimane sbigottita. Incredula, cerca invano una spiegazione logica. Chiama Marino e si alza in piedi, tenendo in mano una rivista che ha in copertina una bara a forma di automobile da corsa.

«Marino? Dove sei?» Va nel corridoio, guarda in giro e tende le orecchie. Ha il respiro corto e il batticuore. «Cristo santo, dove ti sei cacciato?» borbotta, percorrendo a grandi passi il corridoio. «Marino!»

È davanti al portone che parla al cellulare e, quando la vede, capisce che ha scoperto qualcosa. Kay Scarpetta gli mostra la rivista. «Sì, ci trovate qui» dice lui al telefono. «Forse ci tratterremo tutta la notte.»

Termina la chiamata e la guarda con la tipica espressione di chi ha fiutato la preda e vuole fermarla prima che gli sfugga di nuovo. Prende la rivista e la guarda in silenzio. «Browning sta venendo qui» le dice. «Con il mandato.» Volta la rivista e guarda l’indirizzo a cui è stata spedita. «Cristo santo» esclama. «L’Istituto di medicina legale della Virginia? La vecchia sede?»

«Non capisco» dice Kay Scarpetta. La pioggia batte sul tetto di ardesia. «Che sia qualcuno che lavorava per me?»

«O qualcuno che conosceva un tuo dipendente. Questa rivista è arrivata all’istituto.» Controlla di nuovo. «Sì, alla vecchia sede. Giugno 1996, quando tu eri il direttore. Eravate abbonati?» Entra nel salotto, si avvicina alla lampada sul tavolo e sfoglia la pubblicazione. «Non puoi non saperlo.»

«Non ho mai sottoscritto un abbonamento a questa rivista» dice Kay Scarpetta. «È una pubblicazione specializzata per le imprese di pompe funebri. Devono averlo richiesto senza la mia autorizzazione.»

«Chi potrebbe essere stato? Hai qualche idea?» Marino posa la rivista vicino alla lampada, sul tavolino polveroso.

A Kay Scarpetta viene in mente un uomo taciturno, che lavorava nella divisione di Anatomia, timido e riservato, con i capelli rossi, che a un certo punto aveva smesso di lavorare per problemi di salute. Non pensava a lui da un sacco di tempo e, se le è venuto in mente adesso, un motivo deve esserci.

«Sì» risponde. «Un certo Edgar Allan Pogue.»

41

Nella villa color salmone non c’è nessuno e Edgar Allan Pogue ha un moto di sgomento: il suo piano non ha funzionato. Lo deduce dal fatto che non c’è movimento, è tutto tranquillo, non c’è nulla che faccia pensare a indagini in corso. Se le cose fossero andate come sperava, forse ne avrebbero parlato persino al telegiornale. Invece, quando passa in automobile davanti alla residenza del Pesce Grosso, vede che la cassetta delle lettere è intatta e la bandierina è abbassata. Sembra che in casa non ci sia nessuno.

Riprende la A1A, ma non resiste alla tentazione di tornare a controllare la bandierina. È sicuro che fosse alzata, quando ha messo l’“arancia” nella cassetta. E se la bomba fosse ancora nella cassetta della posta, pronta a esplodere? Deve verificarlo: nel dubbio, non riuscirebbe più né a mangiare né a dormire. Sente una rabbia nota montare dentro di lui e fatica a respirare. Esce dalla A1A all’altezza di Bay Drive ed entra nel parcheggio di uno dei tanti condomini bianchi che ci sono da quelle parti. Scende dalla macchina bianca e comincia a camminare, con i lunghi capelli neri della parrucca negli occhi e la testa bassa.

A volte sente l’odore di quella parrucca, in genere quando ha altro da fare ed è occupato. È un odore indefinibile, simile a quello della plastica. È strano, però, visto che non è una parrucca sintetica, ma è fatta di capelli veri. Non dovrebbe puzzare di plastica. Forse però quello che sente è odore di sostanze chimiche, quelle con cui sono stati trattati i capelli. Le palme ondeggiano nel cielo cupo, coperto di nuvole bordate di arancione al tramonto. Edgar Allan Pogue cammina sul marciapiede, guardando l’erba che cresce nelle crepe. Sta bene attento a non guardare le case, perché la gente che ci abita è sospettosa e diffidente.

Prima di arrivare alla villa color salmone, passa davanti a una casa bianca e squadrata e pensa alla donna che ha visto tre volte affacciata alla finestra. Detestabile donnaccia, merita di morire. Una sera, tardi, mentre lui era acquattato contro il muro dietro la villa color salmone, l’ha vista affacciarsi a una finestra del secondo piano. Le tende erano aperte e lui ha visto il letto, i mobili, la televisione accesa e persino i volti sullo schermo. Lei era nuda davanti alla finestra, i seni grottescamente premuti contro il vetro, e muoveva la lingua in maniera disgustosa, immorale. All’inizio Edgar Allan Pogue ha temuto che lo sorprendesse, ma poi si è reso conto che la donna era in un mondo tutto suo, in cui voleva sedurre gli uomini sulle barche o i marinai della guardia costiera.

Chissà come si chiama. Chissà se lascia la porta sul retro aperta e l’allarme disinserito, quando va a prendere il sole vicino alla piscina. Chissà se si dimentica di chiudere tutto, quando rientra in casa. Ma forse lei non prende il sole vicino alla piscina. Non l’ha mai vista fuori di casa, né in giardino né sulla barca. Mai. Se non esce, per lui è difficile. Giocherella con il fazzoletto bianco che ha in tasca, lo tira fuori, se lo passa sulla faccia, si guarda intorno e si avvicina al vialetto che conduce alla villa color salmone. Si muove disinvolto, come se avesse tutti i diritti di avvicinarsi alla cassetta della posta, ma è consapevole di avere la capigliatura sbagliata per quel quartiere. Lì abitano bianchi e i suoi sono capelli da nero, da giamaicano.

È già stato da quelle parti con la parrucca e ha avuto paura di attirare l’attenzione. Ma, tutto sommato, è meglio con la parrucca che senza. Apre la cassetta della posta del Pesce Grosso e scopre che è vuota: non è né deluso né sollevato. Non sente odore di sostanze chimiche, non vede bruciature o altri segni sulla vernice interna della cassetta e capisce che il suo piano è fallito. È contento, tuttavia, che la sua bomba sia stata trovata e tolta di lì. Almeno il Pesce Grosso sa che c’era. Nella vita bisogna accontentarsi.

Sono le sei del pomeriggio e la casa della signora nuda ha le finestre illuminate. Edgar Allan Pogue guarda il vialetto rosa, i cancelli di ferro battuto, la porta di ingresso. Si muove disinvolto e pensa alla sera che l’ha vista nuda contro il vetro. La odia, per questo. La odia perché è brutta, disgustosa, e mostra il proprio corpo brutto e disgustoso. Chi si crede di essere? Pensava forse di fargli un favore, a mostrarsi così? Invece no, grazie. Le dorme come lei sono delle serpi. Guardare ma non toccare. Promesse non mantenute.

Le donne così portano gli uomini alla disperazione, diceva sua madre. Anche lei portava gli uomini alla disperazione, tant’è che suo padre una sera si è ubriacato e poi si è impiccato a una trave del garage. Edgar Allan Pogue sa che se un uomo in tuta da operaio e scarponi da lavoro dovesse entrare in quella bella casa bianca e chiedere alla signora che si mostra nuda alla finestra di finire quello che ha iniziato, lei si metterebbe a strillare e chiamerebbe la polizia. Guardare ma non toccare. Le donne stuzzicano gli uomini e poi li lasciano a bocca asciutta.

Nemmeno lui ha finito quello che ha iniziato, però. Perché è un lavoro troppo lungo ed è dovuto scappare. Giorni, settimane, mesi. Tre mesi, per l’esattezza, contando anche le riesumazioni. E tutte le urne polverose che ha trasportato su dalla divisione di Anatomia, dal suo sancta sanctorum, sudando e faticando, su e giù per le scale con il fiato corto, due o tre morti alla volta, con i polmoni in fiamme. Sali le scale fino al parcheggio, posa le casse, scendi di nuovo, risali, carica tutto in macchina, poi dentro i sacchi… un lavoro infinito! Ha cominciato a settembre, quando ha saputo la tragica notizia. Che scandalo! Stavano per demolire il palazzo!

Ma ossa riesumate e ceneri di cremazione non sono la stessa cosa. Quella è gente già morta, finita. C’è una bella differenza fra quelli già finiti e quelli ancora da finire. Lui lo sa, lo ha provato in prima persona: è una sensazione di grande potere. La vendetta suprema. Si toglie la parrucca nera dalla testa e chiude la portiera. Esce dal parcheggio del condominio bianco e si immette nella strada buia, diretto all’Other Way.

42

Le pile elettriche emanano fasci di luce gialla nel cortile buio. Kay Scarpetta osserva dalla finestra e spera che la polizia trovi qualcosa, nonostante l’ora tarda. La sua intuizione ha un che di paranoico, se ne rende conto. Forse è troppo stanca.

«Dunque lei non ricorda se quest’uomo viveva con la signora Arnette?» le chiede l’ispettore Browning, giocherellando con la penna sul blocco e masticando chewing gum.

«Non lo conoscevo bene» risponde Kay Scarpetta, guardando dalla finestra della camera da letto i fasci di luce che si muovono nel buio. È probabile che le ricerche non portino a niente, ma è preoccupata. Se pensa alla polvere di osso ritrovata nella bocca di Gilly Paulsson e sul corpo di Ted Whitby, la sua preoccupazione cresce. «Non so neppure se vivesse con qualcuno. Non ricordo di avergli mai parlato, se non per lavoro.»

«Di che cos’altro avrebbe potuto parlare, con uno così?»

«Tutti quelli che lavoravano nella divisione di Anatomia erano considerati strani dal resto del personale, forse per via del lavoro che facevano. Alle feste, ai picnic, ai barbecue organizzati, per il quattro luglio venivano invitati anche loro, ma sinceramente non ricordo se venissero o meno» spiega Kay Scarpetta.

«Dunque non ricorda se Edgar Allan Pogue partecipasse a queste feste?» domanda Browning masticando rumorosamente la sua gomma.

«Sinceramente, no. Era un uomo che passava inosservato. Sembrava quasi invisibile. Non ricordo molto bene neppure che faccia avesse.»

«Sarebbe importante che cercasse di farselo venire in mente, però. Perché noi non abbiamo idea di che aspetto abbia» dichiara Browning, girando una pagina del blocco. «Lei lo ha descritto come basso di statura, capelli rossi. Può essere più precisa? Un metro e settanta per settanta chili di peso?»

«Un po’ meno, direi. Un metro e sessantacinque o poco più. Sui sessanta chili» precisa Kay Scarpetta. «Non ricordo di che colore avesse gli occhi.»

«Dai documenti risultano castani, ma è possibile che non sia vero, visto che su altezza e peso ha mentito» replica Browning. «Sulla patente è scritto che è alto un metro e settantacinque e pesa ottanta chili.»

«Perché me l’ha chiesto, allora?» Kay Scarpetta si volta a guardarlo in faccia.

«Volevo che esprimesse il suo parere prima che io la influenzassi con dati che potrebbero essere falsi.» Le strizza l’occhio, sempre masticando. «Edgar Allan Pogue ha dichiarato di avere i capelli castani, non rossi.» Batte la punta della penna sul foglio. «Dunque, quando lavorava nella divisione di Anatomia quanto guadagnava per imbalsamare cadaveri, più o meno?»

«Parliamo di otto, dieci anni fa.» Kay Scarpetta guarda dalla finestra. La polizia sta controllando anche la camera di Gilly: vede le ombre che si muovono dietro le tende. Probabilmente Edgar Allan Pogue spiava i Paulsson da quella finestra, magari osservava i “giochetti” che si svolgevano in quella casa, fantasticava di prendervi parte e lasciava macchie giallastre sulle lenzuola. «Penso che guadagnasse ventiduemila dollari l’anno, non di più.»

«Lasciò il lavoro per motivi di salute, dicevamo. Quali?»

«Intossicazione da formaldeide. Su questa non mentì. Vidi i certificati e i risultati delle analisi e probabilmente in quell’occasione gli parlai anche. Aveva problemi respiratori causati da un’eccessiva esposizione alla formaldeide, una fibrosi polmonare evidenziata sia dai raggi X sia dalla biopsia. Se ben ricordo, aveva una ridotta concentrazione di ossigeno nel sangue e la funzione respiratoria risultava alterata alla spirometria.»

«Alla spiro-che?»

«Spirometria. È un esame che consente di misurare il volume polmonare, ovvero la quantità di aria che entra ed esce dai polmoni quando si respira.»

«Ho capito. Probabilmente, quando fumavo, l’avevo alterata anch’io.»

«Infatti succede a chi fuma molto e per molto tempo.»

«Dunque Edgar Allan Pogue era veramente inalato. Lo è ancora, secondo lei?»

«Be’, se non c’è più stata esposizione alla formaldeide e ad altri irritanti, probabilmente la fibrosi non è peggiorata. Ma certamente non è neanche guarita, perché il danno polmonare è permanente. Quindi sì, immagino che sia ancora malato. In che misura, però, non saprei dire.»

«Sarà in cura da un medico, quindi. Pensa che riusciremo a risalire al suo medico curante dai documenti che presentò a suo tempo per il congedo?»

«Probabilmente la sua cartella è conservata in qualche archivio statale. Chieda al dottor Marcus. Io ormai non ho più nessuna autorità.»

«Già. Senta, secondo lei, Pogue potrebbe avere problemi di salute abbastanza gravi da dover essere seguito da un centro specializzato o da dover assumere farmaci con regolarità?»

«È molto probabile che assuma regolarmente farmaci. Non è detto, però: se ha uno stile di vita sano, potrebbe bastargli evitare le fonti di contagio, e cioè stare alla larga da gente con raffreddore, tosse e influenza. Le malattie dell’apparato respiratorio per lui sono un problema, perché ha i polmoni che funzionano già a capacità ridotta e quindi rischia di stare molto male. Se soffre di asma, deve evitare il contatto con gli agenti che gliela scatenano. Potrebbe prendere degli steroidi, o fare regolarmente qualche vaccino antiallergico. Ma potrebbe limitarsi a usare farmaci da banco. Insomma, non so dirle niente di preciso.»

«Ho capito» fa lui, masticando sempre più rumorosamente. «Se si trovasse impegnato in un corpo a corpo, però, resterebbe senza fiato.»

«Penso di sì.»

È più di un’ora che Kay Scarpetta parla con Browning ed è molto stanca. Ha mangiato poco o niente tutto il giorno e si sente priva di energie. «Voglio dire, potrebbe essere forte e robusto, ma sicuramente non è in grado di svolgere un’attività fisica intensa. Di certo non corre né gioca a tennis. Se prende steroidi, potrebbe essere sovrappeso. E avrà poca resistenza.» Kay Scarpetta continua a seguire le ricerche dalla finestra: vede un agente che taglia con un tronchese il lucchetto alla porta del capanno degli attrezzi.

«Non è strano che abbia aggredito Gilly Paulsson proprio mentre aveva l’influenza? Non temeva di ammalarsi?» domanda Browning.

«Evidentemente no» risponde lei, guardando gli agenti che entrano nel casotto.

«Perché, secondo lei?» chiede Browning.

Le vibra il cellulare.

«Per lo stesso motivo per cui i tossicodipendenti in crisi di astinenza non si preoccupano di beccarsi l’epatite o l’AIDS e gli stupratori una malattia a trasmissione sessuale» risponde Kay Scarpetta, prendendo in mano il telefonino. «Non penso che un assassino assetato di sangue si preoccupi di buscarsi un malanno. Mi scusi» dice poi, accettando la chiamata.

«Sono io» si presenta Rudy. «Abbiamo fatto una scoperta che potrebbe interessarti. Le impronte latenti rilevate nel caso a cui stai lavorando tu a Richmond corrispondono a quelle che abbiamo rilevato noi qui in Florida. Allo IAFIS risultano appartenere alla stessa persona, di identità ignota.»

«Parli al plurale: a chi ti riferisci?»

«A me e Lucy. Stiamo lavorando a un caso di cui tu non sai niente e del quale non ti posso parlare nemmeno adesso. Lucy preferiva che non ne fossi informata.»

Kay Scarpetta ascolta incredula e vede dalla finestra una sagoma vestita di scuro che esce a grandi passi dal casotto muovendo la torcia elettrica. È Marino, che sta rientrando in casa. «Che genere di caso?» domanda a Rudy.

«Non posso dirti niente.» Si zittisce, prende fiato. «Ma non riesco a contattare Lucy. Non so perché, non risponde al telefono. Sono due ore che provo, maledizione. Comunque, è un tentato omicidio ai danni di una nostra collaboratrice. Avvenuto in casa di Lucy.»

«Mio Dio.» Kay Scarpetta chiude gli occhi, scioccata.

«Una cosa molto strana. Tanto che all’inizio abbiamo sospettato una messinscena allo scopo di attirare l’attenzione. Però le impronte sull’ordigno esplosivo corrispondono a quelle ritrovate nella camera in cui è avvenuta l’aggressione. E a quelle del tuo caso di Richmond, l’omicidio della ragazzina per cui ti hanno mandato a chiamare.»

«Che genere di aggressione ha subito questa vostra collaboratrice?» domanda Kay Scarpetta, sentendo i passi di Marino nel corridoio. Browning si alza e va alla porta.

«Era a letto con l’influenza. Pare che l’aggressore sia entrato da una porta che lei si era dimenticata di chiudere e sia scappato sentendo tornare Lucy. La vittima era priva di sensi, nuda, a faccia in giù sul letto. Sotto shock, non ricorda niente di quello che è successo.»

«Lesioni?» Sente Marino e Browning che parlottano fuori dalla porta a proposito di certe “ossa”.

«Solo qualche livido. Sulle mani, sul petto e sulla schiena, ha detto Benton.»

«Dunque a Benton ne avete parlato. Lo sanno tutti tranne me» dice, incollerita. «Lucy mi ha voluto tenere all’oscuro di tutto. Perché?»

Dopo un attimo di esitazione, Rudy risponde: «Motivi personali, penso».

«Capisco.»

«Mi dispiace. Non voglio entrare nei dettagli, ma sappi che mi dispiace. Non avrei dovuto dirti niente nemmeno adesso, ma penso che sia giusto farlo, visto che i due casi sembrano collegati. Ti assicuro che questa cosa mi fa venire i brividi. Con chi abbiamo a che fare? Con uno psicopatico?»

Marino entra nella stanza e guarda Kay Scarpetta negli occhi. «Sì, pensiamo che si tratti di uno psicopatico» risponde lei a Rudy, guardando Marino. «Bianco, di sesso maschile, sui trenta-trentacinque anni. Si chiama Edgar Allan Pogue. Riteniamo che assuma con regolarità steroidi a causa di un problema respiratorio, quindi i suoi dati potrebbero essere contenuti nei database delle farmacie. Non posso aggiungere altro.»

«Non è poco» replica Rudy, incoraggiato. Kay Scarpetta chiude la chiamata e guarda Marino pensando fugacemente a come si può cambiare in fretta opinione sulle cose: si sposta il punto di vista e la prospettiva cambia completamente. L’Ultimo Distretto è in grado di accedere a qualsiasi database, anche i più riservati. Un tempo Kay Scarpetta sarebbe stata più ligia e rispettosa delle regole, adesso la priorità è fermare quel mostro. Cerca di fugare dubbi e sensi di colpa, riflette che certe volte il fine giustifica i mezzi.

Si rimette il telefono in tasca e dice a Marino e a Browning: «Dalla finestra della camera da letto si vede la stanza di Gilly. Se la signora Paulsson si esibiva in qualcuno dei suoi “giochetti”, è probabile che lui la osservasse con grande attenzione. Se poi si svolgevano anche in camera della ragazzina — Dio ce ne scampi — la visuale era ottima».

«Capo!» Marino ha l’aria feroce.

«Voglio dire che le persone disturbate possono fare associazioni strane» continua lei. «Vedere qualcuno nel ruolo di vittima può far scattare il desiderio di diventare carnefici. Assistere a uno stupro dalla finestra può mettere certe idee in testa a un uomo timido ed emarginato…»

«A quali “giochetti” si riferisce, dottoressa?» la interrompe Browning.

«Capo!» la riprende Marino, fulminandola con gli occhi. «Il capanno degli attrezzi è pieno di morti. Vuoi andare a vedere?»

«Stava parlando di un altro caso?» sonda Browning, seguendoli lungo il corridoio buio, che puzza di chiuso e di muffa. Kay Scarpetta si sente mancare il fiato e cerca di non pensare a Lucy, di non impermalirsi. Spiega a Marino e a Browning quello che le ha appena riferito Rudy Browning si emoziona, Marino tace.

«Probabilmente Pogue adesso è in Florida» dichiara Browning. «Vi raggiungo fra un momento» dice un attimo dopo, fermandosi in cucina.

Un tecnico della Scientifica in tuta blu e berretto da baseball sta rilevando le impronte dall’interruttore. Kay Scarpetta sente che ci sono altri agenti al lavoro in salotto. Accanto alla porta di servizio sono allineati diversi sacchi neri ordinatamente etichettati. Le viene in mente Junius Eise, che dovrà analizzare le tracce della folle vita di Edgar Allan Pogue.

«Ti risulta che questo Pogue lavorasse in un’impresa di pompe funebri?» le domanda Marino, uscendo nel cortile dietro la casa, che è pieno di erbacce e di foglie morte e bagnate. «Perché il casotto per gli attrezzi è pieno di urne. E, quando dico “pieno”, intendo proprio “pieno”. Non sono nuovissime, ma secondo me sono qui da poco. Chissà dove erano prima.»

Kay Scarpetta non dice niente finché non arrivano sulla porta del casotto. Si fa dare una torcia elettrica da uno dei poliziotti e dirige il fascio di luce su un mucchio di sacchi neri di plastica, che sono appena stati aperti. Traboccano di ceneri, frammenti di ossa, urne di metallo da pochi soldi e scatole da sigari ricoperte di polvere bianca, alcune ammaccate. Vicino alla porta c’è un agente che fruga in un sacco aperto con un bastone telescopico.

«Secondo lei, li ha bruciati lui tutti ’sti cadaveri?» chiede a Kay Scarpetta, che sposta il fascio di luce verso il fondo del casotto e illumina un teschio fra alcune lunghe ossa color avorio.

«Non credo» risponde lei. «Ameno che non avesse un forno crematorio da qualche parte. Sembrano resti di cremazione.» Fa luce su una scatola di metallo, ammaccata e polverosa, in un sacco nero per la spazzatura. «Le ceneri vengono restituite ai familiari in urne come questa. Chi desidera qualcosa di un po’ più sofisticato, se lo deve procurare a spese proprie.» Illumina di nuovo il teschio e le ossa lunghe non bruciate. «Per ridurre un corpo in cenere ci vogliono temperature nell’ordine dei milleottocento-duemila gradi.»

«E le ossa che non sono bruciate?» L’agente indica con il bastone telescopico le ossa lunghe e il cranio. Ha la mano ferma, ma è chiaramente teso.

«Bisognerà controllare se ultimamente sono state trafugate salme dai cimiteri» risponde Kay Scarpetta. «A occhio, direi che sono ossa vecchie. E poi qui dentro non c’è odore, il che significa che non è in atto alcun processo di decomposizione.» Osserva il teschio.

«Maledetto necrofilo» commenta Marino, illuminando l’interno del casotto, pieno delle ceneri di chissà quante persone.

«Non credo che sia un necrofilo» replica lei spegnendo la torcia elettrica e andando verso l’uscita. «Ma probabilmente si faceva pagare per spargere le ceneri di qualche poveraccio in mare, in montagna o in qualche giardino e poi non lo faceva. Intascava i soldi e nascondeva l’urna da qualche parte. Recentemente, deve aver spostato tutto qui dentro, chissà perché. Avrà cominciato i suoi traffici quando lavorava nell’istituto. Ricordiamoci di controllare nei vari crematori per vedere se lo conoscono, anche se probabilmente diranno di no.» Esce.

«Quindi lo faceva per soldi?» chiede incredulo l’agente con il bastone telescopico in mano.

«Probabilmente la morte lo attirava troppo e ha voluto provare a uccidere» risponde Kay Scarpetta camminando sulle foglie bagnate del cortile. Ha smesso di piovere e il vento è calato. La luna ha fatto capolino dalle nuvole e brilla come un frammento di cristallo sul tetto bagnato di ardesia della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.

43

Sulla strada avvolta dalla nebbia, Kay Scarpetta osserva le finestre illuminate della casa in cui abitava Edgar Allan Pogue.

I vicini non possono non aver notato le luci accese e l’uomo con i capelli rossi che entrava e usciva da quella porta. Forse aveva anche una macchina. In realtà Browning le ha appena comunicato che Pogue non risulta proprietario di alcun tipo di autovettura, ma lei lo trova strano. Vorrebbe dire che Pogue gira su una macchina che non è registrata a suo nome — non sua o con la targa falsa — oppure che è appiedato.

Il cellulare sembra pesarle nella tasca, benché sia piccolo e leggero. La realtà a opprimerla è il pensiero di Lucy. Non ha voglia di chiamarla. In qualsiasi situazione si trovi in quel momento, Kay Scarpetta preferirebbe continuare a non sapere niente. Lucy è quasi sempre nei guai e lei tende a preoccuparsi e a darsi la colpa delle difficoltà della nipote a costruirsi relazioni solide. Lucy sa che Benton è ad Aspen. Probabilmente sa anche che la loro relazione, dopo che lui è riapparso, è molto meno solida di un tempo.

Kay Scarpetta compone il numero. Vede la porta che si apre e Marino che esce a mani vuote. Quando lavorava nella polizia di Richmond, Marino non lasciava mai il luogo di un delitto senza qualche borsa piena di tracce e indizi. Invece oggi è a mani vuote, perché Richmond non è più la sua giurisdizione e sono altri a raccogliere prove, etichettarle e mandarle ai vari laboratori. Forse sono in gamba come lui e non si lasciano sfuggire nulla, ma Kay Scarpetta preferirebbe comunque che se ne occupasse Marino. Si sente inquieta, oppressa e impotente. Chiude la comunicazione prima che le risponda la segreteria telefonica.

«Che cosa vuoi fare adesso?» chiede a Marino, appena lui la raggiunge.

«Mi piacerebbe tanto fumarmi una sigaretta» le risponde lui, guardando la strada illuminata qua e là dai lampioni. «Mi ha richiamato l’agente immobiliare. Dice che ha parlato con Bernice Towle. È la figlia.»

«Di chi? Della signora Arnette?»

«Sì. Non sapeva che ci abitasse qualcuno. Era convinta che la casa fosse vuota da diversi anni. Pare che sul testamento ci sia scritto che gli eredi possono venderla, ma non a meno di una certa cifra che, a detta dell’agente immobiliare, è troppo alta. Sì, me ne fumerei una molto volentieri. Sarà stato l’odore di sigaro, non so.»

«Ma la signora Towle non ospitava dei conoscenti?»

«Sì, ma l’agente non ricorda quando è stata l’ultima volta. Probabilmente quel maniaco ci si è piazzato senza dire niente a nessuno, come uno squatter. Prendi possesso di una casa e stai all’occhio, appena vedi qualcuno te la fili e quando tutto torna tranquillo ci rientri. Chissà. Tu che cosa vuoi fare?»

«Forse ci conviene tornare in albergo.» Apre la portiera e guarda ancora una volta la casa illuminata. «Per stasera mi sembra che non ci sia altro da fare.»

«Quando chiude il bar dell’hotel?» chiede Marino, aprendo la portiera dalla parte del passeggero. Sale in macchina con difficoltà. «Mi è passato il sonno. Succede sempre così, maledizione. Una sigaretta e un paio di birre non mi farebbero male. Anzi, magari poi dormo meglio.»

Kay Scarpetta chiude la portiera e mette in moto. «Spero che il bar sia già chiuso» risponde. «Se bevo quando sono di questo umore, poi sto ancora peggio. Come è possibile che quello vivesse qui e nessuno si sia mai accorto di niente, Marino?» Parte, lasciandosi dietro le luci della casa di Edgar Allan Pogue. «Ha il casotto degli attrezzi pieno di resti umani e nessuno ha mai visto nulla? La signora Paulsson non ha mai notato nessuno nella casa dietro la sua? Forse Gilly l’aveva sorpreso.»

«Vuoi che andiamo a chiederglielo?» dice Marino guardando fuori con le mani in grembo, come per proteggere le parti dolenti.

«È quasi mezzanotte.»

Marino scoppia a ridere. «Già. Sarebbe da maleducati presentarsi a quest’ora.»

«E va bene, facciamoci un salto» dice Kay Scarpetta svoltando in Grace Street. «Preparati al peggio, però: non so come reagirà, vedendoti.»

«Dovrebbe preoccuparsi di come reagisco io, non il contrario.»

Kay Scarpetta fa inversione e parcheggia dietro la macchina di Suzanna Paulsson. È accesa solo la luce nel salotto, che filtra attraverso le tende leggere. A scanso di equivoci, decide di avvertirla telefonicamente prima di bussare alla porta. Controlla sul cellulare gli ultimi numeri chiamati, ma quello della Paulsson non c’è più. Fruga nella borsa alla ricerca del foglietto su cui si è appuntata il numero la prima volta che è andata da lei, lo trova dopo un po’ e lo digita sul cellulare. Immagina squillare il telefono in camera da letto.

«Pronto?» La voce di Suzanna Paulsson è assonnata.

«Sono Kay Scarpetta. Sono davanti a casa sua. Ho bisogno di parlarle: ci sono stati nuovi sviluppi nelle indagini. Mi apre, per favore?»

«Che ore sono?» chiede la donna, confusa e spaventata.

«Per favore, mi apra» insiste Kay Scarpetta, scendendo dalla macchina. «Sono davanti a casa sua.»

«Va bene, va bene.» Riattacca.

«Stai seduto qui e scendi solo dopo che ha aperto» suggerisce a Marino. «Se ti vede dalla finestra, non ci fa entrare.»

Chiude la portiera, lasciando Marino al buio, e si avvicina al portone. Si accendono altre luci e dietro le tende del salotto si materializza un’ombra. Poi la tenda si scosta, la signora Paulsson sbircia fuori e quindi apre la porta in vestaglia di flanella rossa. È spettinata e ha gli occhi gonfi.

«Signore Iddio, che cosa è successo?» domanda a Kay Scarpetta, facendola entrare in casa. «Come mai a quest’ora?»

«L’uomo che abitava dall’altra parte della recinzione» dice Kay. «Lei lo conosceva?»

«Quale uomo?» domanda Suzanna Paulsson confusa. «Quale recinzione?»

«La casa dietro la sua» spiega Kay Scarpetta. Marino dovrebbe arrivare da un momento all’altro, pensa. «Ci abitava un uomo. Non può non averlo mai visto, signora.»

Marino bussa alla porta. La signora Paulsson ha un sussulto e si porta una mano al petto. «E adesso chi è?»

Kay Scarpetta apre e fa entrare Marino, che è rosso come un peperone ed evita lo sguardo della Paulsson. Chiude la porta ed entra nel salotto.

«Cristo santissimo!» esclama Suzanna Paulsson, di colpo rabbiosa. «Perché è venuto anche lui? Non lo voglio più vedere!» Si rivolge a Kay Scarpetta. «Lo faccia uscire!»

«Ci dica dell’uomo che abitava nella casa dietro la sua, per favore» insiste Kay Scarpetta. «Non può non aver visto almeno le luci accese.»

«Si chiama Edgar Allan, Al, qualcosa del genere?» le suggerisce Marino, sempre rosso in viso. «Niente bugie, Suz, facci il piacere. Non siamo proprio in vena. Dicci come si chiamava. Scommetto che eravate amici.»

«Vi ripeto che non lo conosco. Non ho mai visto nessun uomo in quella casa» ribadisce. «Perché? È stato lui a… Pensate che sia stato…? Oddio!» Ha gli occhi pieni di paura e di dolore. Sembra sincera, ma Kay Scarpetta rimane scettica.

«È mai venuto in casa tua?» chiede Marino.

«No!» La Paulsson scuote la testa, con le mani incrociate sul petto.

«Davvero?» la provoca Marino. «E come fai a esserne tanto sicura, se dici di non conoscerlo neppure? Magari si è fatto passare per il lattaio. O è venuto a fare con te qualcuno dei tuoi “giochetti”. Se non sai di chi parliamo, perché dici che non è mai entrato in casa tua?»

«Esigo di essere trattata con maggiore rispetto!» urla la Paulsson, guardando Kay Scarpetta.

«Risponda, signora Paulsson.»

«Le ho già detto…»

«Ci sono le sue impronte digitali, in camera di Gilly» la interrompe Marino aggressivo, avvicinandosi a lei. «Lo hai fatto partecipare a uno dei tuoi “giochetti”, Suz?»

«No!» Scoppia in lacrime. «Quella casa è disabitata! Prima ci stava una vecchietta, ma sono anni che non c’è più! Forse ho visto qualcuno andare e venire, ma non ci ha più abitato nessuno. Lo giuro! Le sue impronte digitali? Oddio, la mia bambina! La mia bambina!» Scoppia in singhiozzi, stringendosi le braccia sul petto. A un certo punto si copre il viso con le mani tremanti. «Che cosa ha fatto alla mia bambina?»

«L’ha ammazzata» risponde Marino. «Parlaci di lui, Suz.»

«Oh, no!» urla lei. «Oh, Gilly!»

«Siediti, Suz.»

Ma la Paulsson resta dov’è e continua a singhiozzare, con le mani sugli occhi.

«Siediti!» urla Marino. Kay Scarpetta capisce dove vuole andare a parare e lo lascia fare, anche se a malincuore.

«Siediti!» Marino indica il divano. «Per una volta di’ la verità. Fallo per Gilly.»

La signora Paulsson si lascia cadere sul divano sotto la finestra, coprendosi il viso con le mani. Kay Scarpetta si va a sedere davanti al caminetto spento, di fronte a lei.

«Parlaci di Edgar Allan Pogue» ordina Marino ad alta voce. «Mi senti, Suz? Ascoltami bene: quello ha ammazzato tua figlia, te ne rendi conto? O te ne freghi? Era una grandissima rompiscatole, la tua Gilly, vero? Disordinata, ti dava un gran daffare. Dovevi sempre raccogliere quello che lasciava in giro…»

«Smettila!» strilla la Paulsson strabuzzando gli occhi, paonazza. «Smettila immediatamente! Sei uno stronzo, un bastardo, un maledetto…» Scoppia in singhiozzi e si asciuga il naso nel palmo della mano. «La mia Gilly…»

Marino si siede sulla poltrona, come se Kay Scarpetta non ci fosse. Ma lui sa che c’è e che lei ha capito dove vuole andare a parare. «Vuoi che lo prendiamo, Suz?» domanda, di punto in bianco calmo e gentile. Si protende verso di lei, posando gli avambracci sulle ginocchia. «Vuoi che lo prendiamo? Dimmelo.»

«Sì» risponde Suz Paulsson. «Sì voglio che lo prendiate.»

«Aiutaci, allora.»

La donna scuote la testa, in lacrime.

«Non vuoi aiutarci?» Si appoggia allo schienale e lancia un’occhiata a Kay Scarpetta, che è seduta davanti al caminetto. «Non vuole aiutarci, capo. Non vuole che prendiamo l’assassino di sua figlia.»

«No» protesta la Paulsson, singhiozzando. «È solo che non so niente. Lo conoscevo solo di vista. L’avrò visto una volta o due… Una sera uscii e… Insomma, mi avvicinai alla recinzione. Cercavo Sweetie, e vidi che di là c’era un uomo.»

«Nel giardino della casa dietro la tua?» chiede Marino. «Al di là della recinzione?»

«Sì. Era di là della recinzione. Aveva infilato la mano nello spazio fra un’asse e l’altra e accarezzava la cagnetta. Lo salutai. “Buonasera” gli dissi. Oddio…» Non riesce quasi a respirare. «Merda, merda. Accarezzava Sweetie. È stato lui?»

«Che cosa ti disse?» domanda Marino con dolcezza. «Ti parlò?»

«Disse…» Le si incrina la voce. «Disse che Sweetie era molto bella.»

«Come faceva a sapere che la cagnetta si chiamava Sweetie?»

«Disse: “Sweetie è proprio una bella cagnetta”.»

«Come faceva a sapere come si chiamava?» insiste Marino.

La Paulsson trae un respiro profondo. Piange meno forte, adesso, e guarda per terra.

«Avrà preso lui la cagnetta, immagino. Visto che la trovava tanto bella» dice Marino. «Non l’hai più ritrovata, vero?»

«Mi ha portato via anche Sweetie.» Giunge le mani. Le stringe con tanta forza che le nocche diventano bianche. «Mi ha portato via tutto.»

«Che cosa pensasti, la sera in cui lo vedesti accarezzare Sweetie attraverso la recinzione? Non ti stupì vedere un uomo in quel giardino?»

«Parlava sottovoce, a voce bassissima. Non era né gentile né antipatico. Non so.»

«Non gli dicesti nient’altro?»

Suz Paulsson tiene gli occhi bassi e le dita intrecciate. «Forse mi presentai, gli chiesi se abitava lì e lui disse che era di passaggio. Tutto qui. Presi Sweetie in braccio e andai verso casa. Rientrando, vidi Gilly in camera sua, che guardava dalla finestra. Mi vide con Sweetie e mi corse incontro per prenderla in braccio. Adorava quella cagnetta!» Le tremano le labbra. «Sarebbe disperata, se sapesse che non c’è più.»

«Quando Gilly guardava dalla finestra, le tende erano aperte o chiuse?» domanda Marino.

La signora Paulsson continua a guardare per terra senza batter ciglio. Stringe i pugni, piantandosi le unghie nella carne.

Marino lancia un’occhiata a Kay Scarpetta, che dice: «Stia calma, signora. Cerchi di tranquillizzarsi. Quando vide quell’uomo accarezzare Sweetie? Quanto tempo prima che Gilly morisse?».

La Paulsson si asciuga gli occhi. Poi li chiude.

«Giorni? Settimane? Mesi?»

La donna la guarda negli occhi. «Non so perché è tornata qui, dottoressa. Le avevo detto di non farsi rivedere mai più.»

«Stiamo parlando di Gilly» le ricorda Kay. «Vogliamo informazioni sul conto dell’uomo che lei vide nella casa dietro la sua, che le disse che Sweetie era una bella cagnetta.»

«Non è giusto che lei torni qui, se io le chiedo di non farlo.»

«Mi dispiace» replica Kay Scarpetta, in piedi davanti al camino. «Non ci crederà, ma sto cercando di aiutarla. Preme a tutti noi capire che cosa è successo a sua figlia. E a Sweetie.»

«No» ribatte la Paulsson lanciandole un’occhiata strana. «Voglio che se ne vada.» Non parla di Marino. Sembra essersi dimenticata del tutto di lui, benché sia seduto vicinissimo a lei. «Se non se ne va immediatamente, chiamo la polizia. Giuro.»

Kay Scarpetta pensa che forse vuole restare sola con Marino, ritirarsi nel mondo dei giochi e della fantasia, perché la realtà è troppo scomoda e difficile da affrontare. «Ricorda che la polizia prese alcuni oggetti dalla camera di sua figlia?» domanda. «Le lenzuola, per esempio. Sono state esaminate e analizzate con cura.»

«Se ne vada!» ripete la Paulsson, immobile sul divano, guardandola con aria gelida.

«Per cercare indizi, prove. Sono stati esaminati la biancheria, il pigiama, alcuni oggetti prelevati nella sua stanza, il corpo stesso di Gilly, ma non è stato trovato neppure un pelo di cane» spiega Kay Scarpetta restituendole lo sguardo. «Nemmeno uno.»

La Paulsson la guarda e Kay Scarpetta si rende conto che sta pensando a cosa dire.

«Non uno» ripete in tono fermo, tranquillo, guardando la signora Paulsson dall’alto in basso. «Né di bassotto né di altra razza. Sweetie non c’è, questo è vero. Non c’è perché non è mai esistita. Non ci sono mai stati cani in questa casa.»

«Dille di andarsene subito da casa mia» ordina Suz Paulsson a Marino senza neppure guardarlo. «Dille di togliersi di qui» insiste, come se Marino fosse dalla sua parte. «Voi medici ci fate dire quello che volete voi» continua, rivolgendosi a Kay Scarpetta. «Ci fate fare tutto quello che volete.»

«Perché hai mentito sulla storia del cane?» le domanda Marino.

«Sweetie non c’è più» replica lei. «Non c’è più…»

«Se ci fosse mai stato un cane in questa casa, noi lo sapremmo» continua Marino.

«Gilly guardava sempre dalla finestra. Per via di Sweetie. Sempre lì a guardare quel cane. Apriva la finestra, la chiamava» mormora la donna, guardandosi le mani strette.

«Non hai mai avuto cani, vero, Suz?» chiede Marino.

«Apriva e chiudeva la finestra per cercare Sweetie. Quando la cagnetta usciva in giardino, Gilly apriva la finestra e la chiamava. È così che si è rotta la maniglia.» Apre le mani e si fissa i palmi, osservando le mezzelune rosse lasciate dalle unghie. «Avrei dovuto farla riparare» dice.

44

Sono le dieci del mattino e Lucy gironzola con aria annoiata per la sala d’attesa, poi prende in mano una rivista e assume un’espressione spazientita. Spera che il pilota di elicotteri seduto vicino al televisore si sbrighi, oppure che riceva una chiamata urgente e rinunci a farsi visitare. Si avvicina alla finestra, il cui vetro è vecchio e sembra ondulato, guarda Barre Street e i suoi antichi palazzi. I turisti a Charleston cominciano ad arrivare in primavera e in giro non c’è quasi nessuno.

Ha suonato il campanello quindici minuti fa. Le ha aperto una signora cicciottella, la quale l’ha fatta accomodare nella sala d’aspetto davanti alla porta di ingresso, le ha dato un modulo da riempire e se ne è andata. Lucy conosce bene quel modulo, perché lo compila ogni due anni da un decennio a questa parte. Ha cominciato a compilarlo, ma poi ha smesso e l’ha posato su un tavolino. Prende un’altra rivista, la sfoglia, la rimette a posto. Nel frattempo, l’altro pilota finisce di riempire il suo modulo e la guarda.

«Scusi se mi intrometto, ma il dottor Paulsson si scoccia, se entra a fare la visita senza aver compilato il modulo.»

«Lo conosce bene, vedo» osserva Lucy, sedendosi. «Maledetti moduli, li sbaglio sempre.»

«Anch’io li detesto» dice il pilota. È un giovane atletico, con i capelli scuri tagliati cortissimi e gli occhi scuri distanziati fra loro. Quando si è presentato, pochi minuti fa, ha detto di pilotare Black Hawks per la Guardia Nazionale e Jet Rangers per una compagnia privata. «L’ultima volta che sono venuto, mi sono dimenticato di fare la crocetta sul quadratino delle allergie. Mia moglie ha un gatto e quindi devo per forza fare il vaccino. Mi sono scordato di marcarlo e il computer è andato in tilt: non accettava la mia richiesta di idoneità al volo e non c’era verso di fargli cambiare idea.»

«Guardi, questi computer sono una vera disdetta» replica Lucy. «Bisogna fare come vogliono, altrimenti si inchiodano.»

«Oggi mi sono portato quello dell’ultima volta, così non rischio di scriverci cose diverse» dice mostrandole un foglio ingiallito. «Fossi in lei, comunque, lo riempirei prima di entrare. Gliel’ho detto, Paulsson si arrabbia da morire.»

«L’ho sbagliato» dice Lucy prendendo il modulo che ha iniziato a compilare. «Ho scritto la città nel posto sbagliato. Devo prenderne uno nuovo e ricominciare daccapo.»

«Ah.»

«Appena la signora torna, gliene chiedo un altro.»

«Lavora qui da tantissimi anni» dice il pilota.

«E lei come fa a saperlo?» chiede Lucy. «È troppo giovane per venire qui “da tantissimi anni”.»

Il pilota sorride e comincia a fare il galletto. «Grazie, ma non sono poi tanto giovane, sa? Lei, piuttosto: non l’ho mai vista. Dove vola? Dalla tuta direi che non è nell’aeronautica militare.»

Lucy ha una tuta nera con una bandiera americana cucita su una spalla e un distintivo azzurro e oro sull’altra, un’aquila circondata da alcune stellette che ha disegnato lei stessa. Il nome che ci ha attaccato sotto oggi è “P.W. Winston”. Lo cambia spesso, a seconda di quello che deve fare e dove. Siccome suo padre era cubano, Lucy può passare per sudamericana, italiana o portoghese senza bisogno di truccarsi pesantemente. Oggi è a Charleston, nel South Carolina, ed è semplicemente una bella ragazza bianca con un accento assolutamente americano e una lieve cadenza del Sud.

«Aviazione generale» risponde. «Per uno che ha un Bell quattro e trenta.»

«Beato lui» dice il pilota, impressionato. «Un riccone, eh? Il quattro e trenta è un vero gioiellino. Come si trova con i display? Si è abituata subito o ci ha messo un po’?»

«Guardi, mi trovo benissimo!» replica Lucy, sperando che il pilota si stufi presto di fare conversazione. Non che le dispiaccia parlare di elicotteri, ma deve installare dei trasmettitori nascosti in casa del dottor Frank Paulsson e se quello continua a chiacchierare le rende il compito più difficile.

La donna cicciottella che l’ha fatta accomodare in sala d’aspetto ricompare e dice al pilota di seguirla, il dottor Paulsson lo aspetta. «Ha finito di compilare il modulo? È sicuro di aver scritto le risposte giuste?»

«Se passa dal Mercury Air, il nostro ufficio è nell’hangar. Se nel parcheggio c’è una Harley softail, vuol dire che io ci sono» dice il pilota a Lucy.

«Ha i miei stessi gusti, allora» replica lei. «Mi scusi, potrebbe darmi un altro modulo?» chiede poi alla donna. «Il primo l’ho sbagliato.»

La donna le lancia un’occhiataccia. «Be’, vediamo cosa posso fare. Non lo butti via, mi raccomando, se no mi sballa la numerazione.»

«No, certo: è qui sul tavolo.» Poi dice al pilota: «Ho appena dato via la Sporster per una V-Rod».

«Però. Pilota un quattro e trenta e va in giro su una V-Rod. Che invidia!» fa lui, ammirato.

«Be’, chissà che non si vada da qualche parte insieme, una volta. Auguri per il gatto.»

Il pilota ride e segue la signora cicciottella su per le scale. Lucy lo sente raccontare di sua moglie che non vuole dare via il gatto, il quale dorme sempre sul letto facendogli venire delle crisi allergiche nei momenti meno opportuni. Lucy rimane da sola almeno un minuto, il tempo che la donna vada a prendere un altro modulo e lo porti giù nella sala d’aspetto. Si infila un paio di guanti di cotone e si aggira rapida per la stanza, pulendo tutte le riviste che ha toccato.

Il primo trasmettitore che nasconde è delle dimensioni di un mozzicone di sigaretta, senza fili, inserito in un tubicino di plastica verde idrorepellente. In genere si preferisce nascondere i trasmettitori in oggetti riconoscibili, ma talvolta anche quelli assolutamente insignificanti vanno bene. Mette il tubo in un vaso di ceramica che contiene una pianta di seta dall’aria rigogliosissima sul tavolino vicino alle sedie, poi si precipita in fondo alla casa e ne sistema un altro, anch’esso verde, in un’altra pianta finta vicino alla cucina. Sente i passi della signora sulle scale e corre nella sala d’aspetto.

45

Benton è nella camera della casa di Aspen che usa come studio, seduto alla scrivania davanti al portatile, in attesa che Lucy attivi la minicamera, nascosta in una penna biro e collegata a un’interfaccia cellulare che sembra un cercapersone, e il trasmettitore ambientale ultrasensibile occultato in una matita. A destra del computer, sulla sua scrivania, c’è una valigetta contenente un sistema di sorveglianza ambientale modulare. Ricevitori e registratore sono in stand-by.

A Charleston sono le dieci e ventotto minuti del mattino e ad Aspen due ore prima. Benton fissa lo schermo nero del portatile con le cuffie in testa e aspetta pazientemente. È già lì da un’ora. Lucy lo ha chiamato ieri da Charleston e gli ha detto di aver fissato un appuntamento con Paulsson. Il dottore era molto impegnato e lei ha dovuto spiegare alla segretaria che era urgente, che l’idoneità al volo le scadeva due giorni dopo e che doveva assolutamente fare la visita per poter continuare a lavorare. La segretaria le ha chiesto come mai aveva aspettato l’ultimo momento.

Lucy allora si è profusa in mille scuse, ha assunto un tono imbarazzato, ha detto che non ce l’ha proprio fatta, che negli ultimi tempi si era dovuta spostare continuamente per lavoro e non era riuscita a fissare l’appuntamento. Per buona misura, ha aggiunto che stava passando un brutto periodo dal punto di vista personale, aveva mille problemi e adesso rischiava anche di perdere il lavoro, se non fosse riuscita a rinnovare l’idoneità al volo. La donna l’ha messa in attesa e dopo un po’ le ha annunciato che il dottor Paulsson l’avrebbe vista la mattina dopo alle dieci. Era sicura di farcela, vero? Perché il dottor Paulsson le stava facendo un enorme favore e non sarebbe stato giusto non presentarsi all’ultimo momento, dopo che lui si era fatto in quattro per lei.

Finora, è andato tutto secondo i piani. Adesso Lucy è nello studio di Paulsson e Benton è seduto alla scrivania nella sua casa di Aspen a guardare il cielo, basso e coperto. Pensa che nevicherà prima di sera e forse continuerà a nevicare tutta la notte. Sospira: la neve lo ha stufato. Non ne può più di stare ad Aspen. Da quando Henri è entrata nella sua vita, è stanco di tutto.

Henri Walden è una persona disturbata, narcisista, ossessiva. Gli fa perdere un sacco di tempo. L’aiuto psicologico che lui sta cercando di darle non le serve a nulla. Benton proverebbe pena per Lucy, se non fosse troppo arrabbiato con lei per aver lasciato tanto spazio a una donna che voleva soltanto sedurla e usarla. Henri è riuscita nel suo scopo: forse non aveva previsto di essere aggredita a casa di Lucy, forse non si è andata a cercare tutto quello che le è successo, ma che ha sedotto e usato Lucy è indiscutibile. E adesso si prende anche gioco di lui, che ha sacrificato la sua vacanza con Kay per cercare di aiutarla. È indispettito, seccato: è un momento delicatissimo per la loro relazione e non avrebbe dovuto rinunciare alle ferie con lei. Non poteva permetterselo, sta rischiando che la loro storia finisca. Se Kay vorrà troncare con lui, non potrà darle torto. Gli si spezzerà il cuore, ma capirà le sue ragioni.

Prende un trasmettitore che sembra un walkie-talkie. «Ci sei?» chiede a Lucy.

Se lei non è ancora collegata, non sentirà la sua domanda attraverso il ricevitore senza fili che dovrebbe essersi nascosta nel canale uditivo. È un aggeggio minuscolo e praticamente invisibile, ma Lucy dovrà fare attenzione comunque, visto che Paulsson le controllerà anche le orecchie. Dovrà escogitare qualcosa per rimuoverlo al momento opportuno senza farsene accorgere. Benton l’ha avvertita che usare un ricevitore unidirezionale avrebbe avuto vantaggi e svantaggi: da una parte avrebbe consentito a lui di darle dei suggerimenti, di guidarla a distanza, dall’altra lei avrebbe corso il rischio di farsi scoprire nel corso della visita. Lucy non pensava di aver bisogno che lui la guidasse, ma Benton ha insistito.

«Lucy, ci sei? Mi senti?» ripete. «Io non ti sento e non ti vedo.»

Di punto in bianco sul video appaiono delle immagini. Benton sente il rumore dei passi di Lucy e vede dei gradini di legno che ondeggiano su e giù: sta salendo le scale e Benton la sente respirare.

«Ti ricevo forte e chiaro, adesso» dice, tenendosi il trasmettitore vicino alle labbra. Registratore e video sono passati dalla modalità stand-by alla modalità attiva.

Lucy bussa alla porta dello studio medico. Benton, seduto alla sua scrivania, vede la porta che si apre e un camice bianco da cui spunta il collo di un uomo, poi la faccia di Paulsson che saluta Lucy, si allontana e le dice di accomodarsi. Lei si muove e la telecamera occultata nella penna biro riprende lo studio medico, piccolo e abbastanza spoglio, con un lettino coperto di carta bianca.

«Questo è il modulo che ho sbagliato e questo quello nuovo» spiega Lucy porgendo a Paulsson due fogli. «Mi scusi. Spero di non aver causato troppo disturbo con la numerazione. Sono una gran pasticciona.» Ride nervosamente, mentre il medico legge i moduli con aria seria.

«Ti sento forte e chiaro» conferma Benton attraverso il trasmettitore.

Lucy passa la mano davanti alla penna biro, per segnalargli che anche lei riceve bene la sua voce.

«È laureata?» domanda Paulsson.

«No. Volevo iscrivermi all’università, ma poi…»

«Peccato» la interrompe lui senza sorridere. È un bell’uomo, con occhiali sottili, di metallo. È più alto di Lucy, anche se non di molto. Sul metro e ottanta, magro e atletico, per quel che vede Benton attraverso la telecamera nascosta nella penna biro che Lucy si è sistemata nel taschino della tuta da volo.

«Non serve la laurea, per pilotare gli elicotteri» dice incerta. Sta interpretando la parte della donna insicura, timida, che si lascia suggestionare facilmente.

«La mia segretaria mi ha accennato che sta passando un brutto periodo» dice Paulsson guardando i moduli.

«Sì, ho qualche problema.»

«Vuole parlarmene?» la incoraggia lui.

«Be’, sa, di tipo sentimentale» risponde Lucy nervosamente, un po’ imbarazzata. «Dovevamo sposarci, e invece… Voglio dire, il mio lavoro è stressante. Negli ultimi sei mesi, fra una cosa e l’altra sono stata via cinque.»

«E il suo ragazzo non ha retto a tutte queste assenze» dice Paulsson, posando i fogli sul tavolo, vicino al computer. Lucy fa in modo che Benton possa seguire ogni suo movimento.

«Ottimo» dice Benton. Controlla che la porta dello studio sia chiusa. Henri è uscita per fare due passi, ma lui si è chiuso a chiave lo stesso per evitare che irrompa all’improvviso. Henri è tutto fuorché riservata.

«Ci siamo lasciati» risponde Lucy. «Sto abbastanza bene, però… Insomma, fra lo stress e tutto il resto… Comunque non va male, tiro avanti.»

«È per questo che ha aspettato tanto prima di fare la visita?» domanda Paulsson, avvicinandosi a lei.

«Sì.»

«È stata un’imprudenza. Se non rinnova l’idoneità al volo, non può più pilotare l’elicottero. Poteva andare da un medico in qualsiasi parte degli Stati Uniti, avrebbe dovuto programmarsi per tempo. Se non avessi potuto riceverla io oggi, che cosa avrebbe fatto? Avevo la giornata libera, fortunatamente per lei, a parte un favore che dovevo fare a un amico. Le sono venuto incontro, signorina, lo tenga presente. Come avrebbe fatto, altrimenti? L’idoneità le scade domani, se la data che ha riportato sul modulo è corretta.»

«Sì, lo so, sono stata stupida. La ringrazio tantissimo, davvero. È stato molto gentile…»

«Be’, lasciamo stare. Però non perdiamo altro tempo in chiacchiere, perché ho da fare.» Prende uno sfigmomanometro e le chiede di tirarsi su la manica destra. Le sistema la fascia sul braccio e prende in mano la pompetta. «Che muscoli! Fa molta attività fisica?»

«Un po’» risponde Lucy con voce tremante, mentre lui le sfiora un seno con la mano. Benton se ne accorge a mille miglia di distanza, osservando la scena sul monitor del suo portatile ad Aspen. Resta impassibile, ma è disgustato quanto Lucy delle libertà che Paulsson si sta prendendo.

«Ti ha toccato» dice al trasmettitore, perché la sua voce venga registrata sul nastro. «Ha cominciato a farti delle avance.»

«Sì» risponde Lucy, apparentemente a Paulsson. Sposta la mano davanti alla telecamera per confermare a Benton che sta parlando con lui. «Sì, faccio parecchia attività fisica.»

46

«Centotrenta su ottanta» dice Paulsson, toccando nuovamente Lucy con la scusa di toglierle la fascia. «Ha sempre la pressione alta?»

«No, per niente» risponde lei, in tono scioccato. «È tanto alta? Cioè, a lei sembra troppo alta? Perché di solito ho centodieci su settanta. Ho sempre creduto di averla bassa, per la verità.»

«Forse è un po’ tesa.»

«Be’, non mi piace andare dal medico» dice. È seduta sul lettino, più in basso di lui, e si piega lievemente all’indietro perché Benton veda in faccia Paulsson che cerca di intimidirla e di manipolarla. «Comunque sì, un po’ tesa lo sono.»

Paulsson le posa le mani sul collo e comincia a palparla sotto la mascella. Lucy ha i capelli sulle orecchie, per cui Paulsson non può vedere il ricevitore. Le dice di deglutire e la tasta per controllare se ha i linfonodi ingrossati. Lei cerca di farsi venire l’ansia, perché Paulsson senta che ha il battito accelerato.

«Deglutisca di nuovo» le dice, tastando la tiroide e controllando la trachea. Lucy sa come si svolge quel tipo di visita medica, ne ha fatte tante. E poi sin da bambina ha tempestato di domande sua zia Kay, per farsi spiegare il perché e il percome i medici toccano certe parti del corpo e non altre.

Paulsson riprende a tastarle i linfonodi, avvicinandosi ulteriormente a lei. Lucy sente il suo alito sulla fronte.

«Vedo solo il camice» le dice la voce di Benton nell’orecchio sinistro.

“Non ci posso fare niente” pensa Lucy.

«Si sente particolarmente stanca e affaticata, negli ultimi tempi?» le domanda Paulsson. Il tono è piatto, ma al tempo stesso volto a intimidirla.

«Non particolarmente. Voglio dire, lavoro un sacco, sono sempre via. Un po’ stanca lo sono» balbetta Lucy, fingendosi spaventata. Paulsson le sfiora un ginocchio con il bacino e Lucy sente che ha un’erezione. Purtroppo non ha modo di comunicarlo a Benton.

«Mi scusi, devo andare alla toilette» dice. «Torno subito.»

Paulsson fa un passo indietro e Benton vede di nuovo lo studio medico. Lucy scende dal lettino e cammina a passi svelti verso una porta. Nel frattempo, Paulsson va al computer e prende in mano uno dei due moduli, quello giusto. «C’è una provetta in un involucro di plastica sul lavabo» le dice, prima che lei entri nel bagno.

«Sì?»

«Quando ha finito, la lasci pure sul coperchio del water.»

Lucy non usa la toilette, tira l’acqua, dice “scusa” a Benton, si toglie il ricevitore dall’orecchio e se lo infila in una tasca. Non raccoglie un campione di urina perché non vuole lasciare tracce biologiche da cui si possa risalire alla sua identità. Il suo DNA non dovrebbe essere in nessuna banca dati, ma è meglio non correre rischi. È sempre stata attentissima, perché non vuole che il suo DNA e le sue impronte digitali finiscano in qualche database americano o straniero, e non vuole lasciare nulla di sé a un medico che ben presto avrà motivo di essere assai in collera con la signorina P.W. Winston. È stata attenta a pulire ogni superficie che ha toccato da quando è entrata: nessuno deve scoprire che Lucy Farinelli, ex agente dell’FBI e dell’ATF, è stata nello studio del dottor Paulsson.

Esce dal bagno cercando di agitarsi per far accelerare il battito cardiaco.

«Ha i linfonodi lievemente ingrossati» le dice Paulsson. Lucy sa che mente. «Quando è stata l’ultima volta che si è sottoposta a una visita e ha fatto gli esami del sangue? Ha detto che non ama andare dal medico: sarà parecchio.»

«Davvero ho i linfonodi ingrossati?» chiede Lucy, reagendo con il panico che Paulsson si aspetta.

«Come si sente ultimamente? Particolarmente affaticata? Ha febbre?» Le si avvicina e le controlla l’orecchio sinistro con l’otoscopio.

«Non mi sento male» risponde Lucy. Paulsson le controlla l’altro orecchio.

Posa l’otoscopio e prende l’oftalmoscopio per guardarle gli occhi, con la faccia vicinissima alla sua. Poi prende il fonendoscopio e Lucy cerca di spaventarsi, benché provi più rabbia che paura. Si sposta lievemente sul lettino, facendo scricchiolare la carta che lo ricopre.

«Si abbassi la tuta sulla vita, per cortesia» dice Paulsson in tono piatto.

Lucy lo guarda e dice: «Mi scusi, devo andare di nuovo alla toilette».

«Prego» fa lui scocciato. «Ma faccia presto.»

Lucy corre in bagno ed esce subito dopo, con il ricevitore nell’orecchio. Tira lo sciacquone.

«Mi scusi tanto. Ho bevuto una Coca prima di entrare. Ho fatto male.»

«Si abbassi la tuta, per cortesia» ordina Paulsson.

Lucy ha un attimo di esitazione: è il momento della verità. Si abbassa la cerniera lampo, si sfila le maniche e sistema la parte superiore della tuta in maniera che la penna abbia la giusta angolazione e il filo che collega la telecamera all’interfaccia cellulare non sia visibile.

«Troppo verticale» le dice la voce di Benton nell’orecchio. «Spostala di dieci gradi.»

Lucy sposta la tuta e Paulsson dice: «Si tolga il reggiseno».

«È proprio necessario?» chiede Lucy timidamente, un po’ intimorita. «Di solito non…»

«Signorina, la prego, non mi faccia perdere tempo.» Paulsson inforca il fonendoscopio e si avvicina per auscultarla, mentre Lucy si sfila la brassière e sta ferma sul lettino.

Paulsson le posa il fonendoscopio sotto il seno sinistro e poi sotto l’altro, toccandola. Lucy respira affannosamente, con il cuore che batte forte per la collera, e spera che Paulsson interpreti l’accelerazione del suo battito come paura. Si chiede che cosa vede Benton e si aggiusta la tuta intorno alla vita, toccando la telecamera mentre Paulsson la palpa ostentando un’aria molto professionale.

«Dieci gradi verso destra» suggerisce Benton.

Lucy sposta la penna senza farsi vedere e Paulsson la fa chinare in avanti e le ausculta la schiena. «Un bel respiro» dice. La ausculta, toccandola e strusciandosi contro di lei. «Ha cicatrici?» le chiede. «Non ne vedo.» Le passa una mano sulla pelle nuda.

«No» risponde Lucy.

«Qualcuna deve pure averla. Le hanno tolto l’appendice?»

«No.»

«Adesso esagera» dice Benton e Lucy intuisce che, nonostante il tono calmo, è arrabbiato anche lui.

Paulsson non demorde.

«Si alzi, per cortesia, e si metta su un piede solo» le dice.

«Posso rivestirmi?»

«Non ancora.»

«Basta così» le dice Benton nell’orecchio.

«Si alzi.»

Lucy si tira su la tuta, infilandosi le maniche e chiudendo la zip. Non si rimette il reggiseno per fare prima. Lo guarda, senza più traccia di tensione o di paura. Paulsson si accorge del cambiamento. Lucy scende dal lettino e gli si avvicina.

«Si sieda» gli dice.

«Come ha detto, scusi?» chiede lui, sgranando gli occhi.

«Si sieda!»

Paulsson non si muove e continua a fissarla. Come spesso succede agli uomini che fanno i bulli, quando è messo alle strette si impaurisce. Lucy gli va incontro minacciosa per spaventarlo ulteriormente, si toglie la penna dal taschino della tuta e gli mostra il filo che collega la minicamera all’interfaccia.

«Interferenze?» domanda a Benton, che può controllare i trasmettitori che Lucy ha nascosto nella sala d’aspetto e nel cucinino.

«Tutto okay» replica lui.

Bene, pensa Lucy, Benton non riceve suoni dal piano di sotto.

«Lei è nei guai, dottore» dice Lucy a Paulsson. «Tutto quello che è avvenuto in questa stanza da quando sono entrata è stato registrato, oltre che visionato in diretta. Adesso si sieda.» Si rimette la penna nel taschino, direzionandola in maniera che continui a riprenderlo. «Le ho detto di sedersi!»

Paulsson si muove con passo malfermo e la guarda, bianco come un cencio. «Chi è lei? Che cosa vuole da me?»

«Giustizia, ecco che cosa voglio da lei» replica Lucy arrabbiata. Cerca di calmarsi, ma le riesce più facile fingersi spaventata che placare la collera. «Lo faceva anche con sua figlia, maiale? Con Gilly? Molestava anche quella povera ragazza, bastardo?»

Paulsson la fissa sbigottito.

«Mi ha sentito, no? Ha capito benissimo. Vedrà che la Federal Aviation Association le revocherà il mandato.»

«Esca subito da casa mia.» Paulsson è tentato di metterle le mani addosso, ma Lucy lo intuisce e si prepara a difendersi.

«Non ci provi neanche» lo minaccia. «Non si azzardi ad alzarsi da quella sedia, dottor Paulsson. Quando è stata l’ultima volta che ha visto sua figlia?»

«Che cosa c’entra mia figlia?»

«La rosa» le suggerisce Benton.

«Le domande le faccio io» ribatte Lucy, rivolgendosi a Paulsson ma in parte anche a Benton. «La sua ex moglie ha vuotato il sacco. È meglio che lei lo sappia, visto che fa l’informatore per la Sicurezza Nazionale.»

Paulsson si passa la lingua sulle labbra e sbarra gli occhi.

«Dice che Gilly è morta per colpa sua, dottore. E la versione che dà dei fatti è abbastanza convincente.»

«La rosa» insiste Benton.

«Sostiene che lei andò a trovare Gilly poco prima che morisse e le portò una rosa. L’abbiamo trovata, naturalmente. La sua camera è stata perquisita molto accuratamente.»

«Gilly aveva una rosa in camera?»

«Chiedigli di descrivertela» suggerisce Benton.

«Mi dica» fa Lucy a Paulsson. «Dove comprò quella rosa?»

«Non fui io a comprarla. Non so di che cosa parla.»

«Non mi faccia perdere tempo, dottore.»

«Non andrà dalla Federal Aviation Association a dire che…»

Lucy scoppia a ridere e scuote la testa. «Siete tutti uguali, eh? Pensate di potervi prendere tutte le libertà che volete senza che nessuno dica niente, vero? Mi parli di Gilly. Della Federal Aviation Association parleremo dopo.»

«Spenga quell’affare» dice Paulsson indicando la minicamera.

«Mi parli di Gilly e io la spengo.»

Paulsson annuisce.

Lucy sfiora la penna, fingendo di spegnerla. Paulsson la guarda, diffidente e spaventato.

«La rosa» ripete Lucy.

«Giuro su Dio che non ne so niente» risponde lui. «Non avrei mai torto un capello a Gilly. Perché quella strega accusa me? Che cosa dice esattamente?»

«Suzanna?» Lucy lo guarda negli occhi. «Tante cose, dice. Come è morta Gilly. Perché è stata uccisa.»

«Che cosa? Oh mio Dio!»

«Giocava ai soldati anche con Gilly? Le faceva mettere anfibi e camicie mimetiche? Invitava i suoi amici pervertiti a giocare con lei?»

«Mio Dio!» mormora Paulsson con un filo di voce, chiudendo gli occhi. «Quella strega… Era una cosa fra noi.»

«Noi?»

«Noi due. Marito e moglie possono fare delle cose insieme, no?»

«Chi altri coinvolgevate? Chi altri partecipava ai vostri giochetti erotici?»

«Era casa mia.»

«Che gran porco!» esclama Lucy minacciosa. «Fare certe cose davanti a sua figlia!»

«È dell’FBI?» Sgrana gli occhi e le lancia un’occhiata piena di odio. «Lo so, è dell’FBI. Ero certo che prima o poi sarebbe successo. Me l’aspettavo. Nella mia vita privata dovrei poter fare quello che mi pare, credo. Ma voi volevate incastrarmi a tutti i costi.»

«Non l’ha costretta nessuno a farmi spogliare per una semplice auscultazione.»

«Che cosa c’entra? Questo non vuol dire niente.»

«Si sbaglia» ribatte lei sarcastica. «Vuol dire, eccome. Se ne accorgerà, dottore. E comunque non sono dell’FBI. Per sua sfortuna.»

«È qui per Gilly?» Si accascia sulla poltrona con aria sconfitta. «Volevo molto bene a mia figlia. Non la vedevo dal giorno del Ringraziamento. È la pura verità.»

«La cagnetta» dice Benton. Lucy prova un desiderio irrefrenabile di togliersi il ricevitore dall’orecchio.

«Pensa che la sua morte abbia a che fare con il lavoro che lei svolge per la Sicurezza Nazionale? Che l’abbiano ammazzata perché lei fa l’informatore?» lo provoca Lucy. «Su, dottore, mi dica la verità. Non peggiori la sua situazione. Mi sembra già alquanto compromessa.»

«Ammazzata?» ripete Paulsson. «Non ci posso credere.»

«È la verità, purtroppo.»

«Impossibile.»

«Chi invitavate a casa per i vostri giochetti erotici? Conosce un certo Edgar Allan Pogue, che abitava dietro casa vostra, dove prima stava la signora Arnette?»

«Conoscevo la signora Arnette» risponde Paulsson. «Era una mia paziente. Una terribile ipocondriaca, nonché grandissima rompiscatole.»

«Questo è importante» dice Benton, come se Lucy non lo sapesse. «Sta parlando: incoraggialo.»

«Era ancora a Richmond?» chiede Lucy a Paulsson. Abbassa il tono di voce e assume un’espressione interessata. «Quanto tempo fa?»

«Mah, un sacco. Comprai la casa di Richmond proprio da lei. Ne possedeva diverse. All’inizio del secolo la sua famiglia era proprietaria di un intero isolato, che poi fu diviso fra i vari eredi, i quali vendettero. Comprai la casa da lei. Fu un affare, un vero affare.»

«Non le era molto simpatica, però» dice Lucy, cordiale, come se si fosse dimenticata delle molestie di poco fa.

«Veniva in casa o in studio quando le pareva, senza avvertire. Una grandissima rompiscatole, sempre a lamentarsi di questo o di quello.»

«Che fine fece?»

«È morta una decina di anni fa. Otto, forse.»

«Di cosa?» domanda Lucy. «Di cosa è morta?»

«Era malata, aveva un cancro. È morta in casa.»

«Fatti dare i particolari» la imbecca Benton.

«Era sola, quando è morta? Le hanno fatto un bel funerale?» indaga Lucy.

«Perché mi fa tutte queste domande?» Paulsson la guarda dalla poltroncina su cui è seduto. Sta un po’ meglio perché lei è meno aggressiva, ma è sempre diffidente.

«Potrebbe avere a che fare con Gilly. Io so cose che lei ignora, dottore. Risponda, per piacere.»

«Attenta» la ammonisce Benton. «Se lo aggredisci, smette di parlare.»

«Mi faccia le domande, allora» replica Paulsson.

«Lei andò al funerale?»

«Non ci fu funerale, a quanto ricordo.»

«Ci sarà stato sicuramente» ribatte Lucy.

«La signora Arnette non era religiosa. Anzi, odiava Dio per tutti i malanni che le aveva mandato e per la solitudine a cui l’aveva condannata. Eppure è normale che fosse sola, irritante com’era. Una donna veramente odiosa. Insopportabile. I medici non sono pagati abbastanza per stare dietro a gente così.»

«È morta in casa, dunque? Era malata di cancro ed è morta da sola?» insiste Lucy. «In casa sua o in una casa di cura?»

«In casa sua.»

«Era benestante, ma morì in casa, senza assistenza medica né niente?»

«Sì, mi pare. Ma che importanza ha tutto questo?» Si guarda intorno, all’erta.

«Ha importanza, glielo assicuro. Anche per lei, perché si sta mettendo in una posizione migliore. Decisamente migliore» dice Lucy, rassicurante e minacciosa al tempo stesso. «Voglio vedere la cartella clinica della signora Arnette. Me la dà, per favore? L’avrà sul suo computer, immagino.»

«Non credo. Devo aver cancellato il file, visto che è morta.» Le lancia un’occhiata di scherno. «Adesso mi viene in mente: la Arnette donò il proprio cadavere alla ricerca scientifica, perché non voleva funerali e odiava Dio. Preferì farsi sezionare dagli studenti di anatomia. Poveretti, dover studiare quel corpo repellente…» Si è calmato, è più sicuro di sé. Più arrogante diventa, più Lucy prova odio per lui.

«Il cane» dice Benton. «Chiedigli del cane.»

«Che fine ha fatto la cagnetta di Gilly?» domanda Lucy a Paulsson. «Sua moglie sostiene che è sparita e che la colpa è sua, dottore.»

«Non è più mia moglie» rettifica Paulsson gelido. «Mai avuto cani.»

«Sweetie, mi pare si chiamasse.»

Paulsson la guarda con una luce strana negli occhi.

«Dov’è Sweetie?»

«Sweetie siamo io e Gilly» replica Paulsson con un sorrisetto.

«Non faccia lo spiritoso» lo avverte Lucy. «Non mi sembra proprio il caso.»

«Suz mi chiamava Sweetie. E chiamava Sweetie anche Gilly.»

«Ti ha dato la sua risposta» dice Benton. «Non insistere. Vattene.»

«Non c’è mai stato nessun cane. Suz vi ha raccontato un cumulo di stronzate.» Paulsson quindi le chiede: «Chi è lei?». Lucy capisce che cosa ha in mente e non si lascia cogliere di sorpresa quando lo vede alzarsi dalla sedia e intimarle: «Mi dia quella penna. L’hanno mandata qui per arrestarmi, vero? È il suo mestiere, vero? Si guadagna il pane così? Be’, è tutto sbagliato e sono certo che se ne rende conto anche lei. Mi dia la penna».

Lucy resta ferma con le mani sui fianchi.

«Esci» le dice Benton. «Vattene prima che puoi.»

«Si guadagna bene a fare questo mestiere?» Le si para di fronte, ma Lucy ha capito le sue intenzioni.

«Vattene» insiste Benton. «Ti ha detto tutto quello che ci serviva.»

«Vuole la telecamera?» chiede Lucy a Paulsson. «Vuole il registratore?» Lucy non ha registratori: è stato Benton a registrare il colloquio. «È proprio sicuro?»

«Facciamo finta che non sia successo niente» propone Paulsson con un sorriso. «Mi consegni i nastri. Ha avuto le informazioni che cercava, no? Scordiamoci quello che è successo. Su, me li dia.»

Lucy batte sull’interfaccia cellulare agganciata a un passante della cintura e collegata alla telecamera attraverso un filo nascosto all’interno della tuta da volo e lo schermo di Benton si spegne all’improvviso. Adesso Benton sente le voci, ma non vede più niente.

«No» le dice nell’orecchio. «Esci. Vattene.»

«Sweetie» dice Lucy a Paulsson in tono di scherno. «Sa che non riesco a immaginare che a una donna venga in mente di chiamarla così, dottore? Mi fa schifo. Se vuole le registrazioni, se le venga a prendere.»

Paulsson le si getta addosso e lei gli molla un pugno. Paulsson cade a terra con un gemito e Lucy ne approfitta, lo volta sulla schiena e gli punta un ginocchio sul braccio destro, tenendogli il sinistro piegato all’indietro con la mano.

«Mi lasci!» grida lui. «Mi fa male!»

«Lucy, no!» le dice Benton nell’orecchio. Ma Lucy non lo ascolta.

Afferra Paulsson per i capelli, ansimando rabbiosa, e glieli tira fino a fargli sollevare la testa da terra. «Spero che ti sia divertito oggi, Sweetie» gli dice, mollandoglieli di colpo. «Sai quanto mi piacerebbe spaccarti la faccia? Hai molestato anche tua figlia, bastardo? L’hai messa in mano ai pervertiti che invitavi a casa tua? Che cosa le hai fatto, porco?» Gli spinge la faccia contro il pavimento, come se volesse affogarlo nelle mattonelle bianche. «Quante vite hai rovinato?» Gli sbatte la testa per terra, abbastanza forte da fargli capire che potrebbe ammazzarlo. Paulsson geme di dolore.

«Lucy, smettila!» urla Benton. «Esci subito di lì!»

Lucy sbatte le ciglia e riprende il controllo. Non può ammazzare Paulsson, non deve. Lo molla, gli tira un calcio e si trattiene dal dargliene altri. Ha il respiro corto, è sudata. Avrebbe voglia di spaccargli la faccia, di prenderlo a calci, di picchiarlo a sangue, di ammazzarlo di botte. «Non ti muovere» gli intima, arretrando e cercando di calmarsi. «Stai fermo dove sei.»

Prende i moduli che ha lasciato sulla scrivania, indietreggia fino alla porta e la apre. Paulsson resta immobile per terra, la faccia sul pavimento, un rivolo di sangue che scivola sulle mattonelle bianche.

«Sei finito, dottore» lo schernisce Lucy sulla porta. Chiedendosi dove sia la segretaria cicciottella, guarda giù, ma non la vede. Il silenzio è totale: probabilmente in casa ci sono solo lei e Paulsson, come lui aveva pianificato. «Sei finito. E ringrazia che non sei morto» conclude, prima di chiudere la porta.

47

Lungo le stradine strette del campo di addestramento, cinque agenti armati di Storm Beretta da nove millimetri con mirino Bushnell e illuminatore laser si muovono a ventaglio intorno a una casa con il tetto di cemento.

È una casa piccola, malconcia, con un giardinetto pieno di lucine e decorazioni natalizie. Si sente abbaiare un cane. Gli agenti hanno il fucile a tracolla, a quaranta gradi, sono vestiti di nero e non hanno giubbotto antiproiettile, cosa insolita in un raid.

Rudy Musil è barricato dentro la casa, dietro una serie di tavoli e seggiole che ha rovesciato contro la porta della cucina. È in tuta mimetica e scarpe da tennis e ha un AR-15, che non è un’arma leggera come lo Storm, ma un fucile d’assalto ad alta potenza con canna da venti pollici, capace di uccidere un uomo a trecento metri di distanza. Calmissimo, si sposta verso la finestra accanto al lavello. Guarda fuori e vede qualcosa che si muove dietro il cassonetto, a una cinquantina di metri dalla casa.

Appoggia il fucile sul bordo del lavello, con la canna sul davanzale marcio della finestra e guarda nel mirino il nemico vestito di nero accucciato dietro il cassonetto. Fa fuoco e l’agente urla. Salta fuori un altro agente, che si getta a terra dietro la palma. Rudy spara anche a lui. Questo non emette suono, o perlomeno Rudy non sente niente. Torna verso la porta e comincia a prendere a calci tavoli e sedie, rabbioso. Abbatte la sua stessa barricata, si sposta nel salotto sul davanti, spacca la finestra e comincia a sparare. Nel giro di cinque minuti colpisce i cinque agenti con proiettili di gomma, ma questi non si fermano finché non glielo ordina lui per radio.

«Siete una massa di imbecilli» urla alla radio, sudato, da dentro la casa usata per le simulazioni nel campo di addestramento. «Siete morti tutti e cinque.»

Esce e gli agenti vestiti di nero si avviano stoicamente verso il giardinetto con le decorazioni natalizie. Non si lamentano, benché i proiettili di gomma facciano un male terribile. Sopportano senza dire nulla. Rudy spegne con il telecomando il CD del cane che abbaia e li guarda dalla porta. Hanno il respiro corto, sono sudati e arrabbiati. «Che cosa è successo?» chiede loro. «Lo sapete, vero?»

«Abbiamo sbagliato tutto» risponde uno.

«Dove avete sbagliato?» domanda Rudy, con il fucile d’assalto sul fianco. Il sudore gli cola sul torso nudo e sulle braccia muscolose. «Riflettete, prima di rispondere: avete commesso un errore e siete morti tutti.»

«Non abbiamo messo in conto che potevi avere un fucile d’assalto. Abbiamo dato per scontato che avessi una pistola» dice una donna, asciugandosi la faccia nella manica, con il fiatone. È stanca e nervosa.

«Non bisogna mai dare niente per scontato» replica Rudy. «Avrei potuto avere anche un mitragliatore, per quel che ne sapevate, e crivellarvi di proiettili calibro cinquanta. L’errore principale è un altro. Su, forza, non potete non saperlo. Ne abbiamo parlato un sacco di volte.»

«Abbiamo sfidato il nostro maestro» replica uno, provocando le risate degli altri.

«La comunicazione» dice Rudy, lentamente. «Andrews» dice poi rivolgendosi a un agente con la tuta sporca di terra. «Appena ti sei beccato la pallottola alla spalla sinistra, avresti dovuto avvertire i tuoi compagni che stavo sparando dalla finestra della cucina, sul retro della casa. L’hai fatto?»

«No.»

«E perché?»

«Non so. Forse perché non mi era mai capitato prima di prendermi una pallottola nella spalla.»

«Fa male, vero?»

«Un male boia.»

«Infatti. E tu non te l’aspettavi.»

«Esatto. Nessuno ci ha detto che i fucili sarebbero stati carichi.»

«In questo campo di addestramento usiamo proiettili di gomma» dice Rudy. «Quando ci succede qualcosa nella vita vera, spesso è qualcosa che non ci aspettiamo. Sei stato colpito, ti sei fatto male, ti sei spaventato e il risultato è che non hai avvertito i tuoi compagni. Così siete rimasti uccisi tutti. Chi ha sentito il cane?»

«Io» rispondono diversi agenti.

«Sentite un cane che abbaia e non prendete la radio per avvertire gli altri?» domanda Rudy provocatorio. «Se il cane abbaia, vuol dire che quello dentro la casa sa che state arrivando. Dico bene?»

«Sì.»

«Okay, basta così» conclude Rudy. «Andatevi a ripulire per il funerale.»

Rientra in casa e chiude la porta. Gli è vibrato due volte il walkie-talkie mentre faceva la predica alle reclute e vuole vedere chi lo sta cercando. È il suo amico informatico. Rudy lo richiama subito.

«Cosa mi volevi dire?» gli domanda.

«Sembra che il tuo uomo stia esaurendo la sua scorta di prednisone. L’ultima volta che l’ha comprato è stato ventisei giorni fa, in una farmacia della catena cvs.» Gli dà indirizzo e numero di telefono.

«Il problema è che non penso sia a Richmond» spiega Rudy. «Quindi dobbiamo capire dove può andarselo a comprare la prossima volta. Ammesso che decida di farlo.»

«Be’, lo compra ogni mese, sempre nella stessa farmacia di Richmond. Difficile che stavolta salti. Probabilmente non ne può fare a meno.»

«Medico curante?»

«Stanley Philpott.» Gli detta il numero di telefono.

«Non si è mai servito da nessun’altra farmacia? Nel Sud della Florida, per esempio?»

«Ho guardato in Virginia e basta, per la verità. Comunque ne ha ancora per cinque giorni e poi se ne deve procurare dell’altro. A meno che non l’abbia già fatto per altre vie.»

«Grazie» gli dice Rudy, aprendo il frigo per prendersi una bottiglietta di acqua. «Ci risentiamo.»

48

I jet sembrano aerei giocattolo contro le enormi montagne bianche che svettano intorno alla pista. Un tecnico in tuta, con le cuffie sulla testa, dirige un Beachjet appena atterrato, che procede lentamente, rombando. Benton è nel terminal dei voli privati all’aeroporto di Aspen e guarda l’aereo di Lucy.

È domenica pomeriggio e il terminal è pieno di ricchi signori impellicciati, che bevono caffè e sidro caldo vicino al caminetto, in attesa di tornare a casa, innervositi dai ritardi. Hanno orologi d’oro e brillanti giganteschi, sono belli e abbronzatissimi. Alcuni viaggiano con i cani, splendidi esemplari di ogni razza e dimensione, costosissimi. Benton guarda il portellone del Beachjet che si apre, la scaletta che si abbassa e Lucy che scende a passo svelto, con le valigie in mano, atletica e sicura di sé. Non ha la minima esitazione, benché lui le abbia detto chiaramente di non venire ad Aspen.

Era meglio che stesse dov’era. Quando lei lo ha chiamato, Benton le ha detto: “No, per favore, non venire. Non è il momento, Lucy, te lo assicuro”.

Non hanno litigato. Avrebbero potuto bisticciare per ore, ma nessuno dei due aveva voglia di perdere tempo in recriminazioni, polemiche e scoppi di collera. Si sono lanciati due o tre frecciate e poi hanno smesso. Benton ha riflettuto che, più passa il tempo, più lui e Lucy scoprono di avere molte cose in comune. Non sa se la cosa gli piace, ma è così, ed è sempre più evidente. Forse Kay sta con lui proprio perché assomiglia tanto a Lucy. Kay nutre per sua nipote un amore fortissimo e incondizionato. E Benton non ha mai capito perché nutra un affetto tanto forte e incondizionato anche per lui. Ma forse il motivo è proprio questo.

Lucy apre la porta con una spalla ed entra, con una borsa per mano. Rimane sorpresa nel vederlo lì.

«Ti aiuto» le dice Benton, prendendole una valigia.

«Non credevo che saresti venuto» dice Lucy.

«Be’, invece sono qui. Siamo qui. Cerchiamo di fare in modo che le cose vadano al meglio.»

I riccastri in attesa nel terminal probabilmente li prendono per una coppia infelice: lui più anziano e ricco, lei giovane e bella. Qualcuno forse penserà che Lucy è la figlia di Benton. Lui però non si comporta come un padre. Neanche come un amante, per la verità, ma probabilmente a un osservatore esterno l’ipotesi della coppia sembra più plausibile. Benton non indossa né pellicce né ori e non ostenta la propria ricchezza, ma i ricchi si riconoscono l’uno con l’altro. E Benton è ricco, molto ricco. Ha vissuto per anni nell’ombra, accumulando ricchezze.

«Ho noleggiato una macchina» dice Lucy mentre attraversano il terminal tutto legno, pietra e divani in pelle, che sembra uno chalet. Fuori c’è una scultura di bronzo che raffigura un’aquila.

«Valla a ritirare, allora» le dice lui, con il fiato che si condensa nell’aria fredda. «Ci vediamo a Maroon Bells.»

«Dove?» Lucy si blocca nella rotonda davanti al terminal, ignorando i posteggiatori che indossano lunghi cappotti e cappelli da cowboy.

Benton la guarda sorridendo. Sembra divertito. Sta lì, vicino alla statua dell’aquila, e squadra Lucy in giacca a vento, calzoni sportivi e anfibi.

«Ho degli scarponi da neve in macchina» le dice.

La fissa, mentre il vento le scompiglia i capelli, che sono più lunghi dell’ultima volta in cui l’ha vista, di un color mogano con riflessi ramati. Ha le gote rosse per il freddo. Benton ha sempre pensato che guardare Lucy negli occhi fosse un po’ come guardare dentro un reattore nucleare o un vulcano in eruzione, o come osservare Icaro che si avvicina troppo al sole. Cambiano con la luce e a seconda dell’umore. Adesso sono verdi. Kay, invece, ha gli occhi azzurri. Altrettanto intensi, ma diversi, meno luminosi. Passano da un blu quasi caldo a un grigio gelido. Gli mancano. La presenza di Lucy rende ancora più dolorosa la mancanza di Kay.

«Ho pensato che potevamo fare una passeggiata e intanto parlare» le dice, dirigendosi verso il parcheggio. Il tono è deciso, la proposta non è negoziabile. «Abbiamo molte cose da dirci. Allora ci vediamo a Maroon Bells, al noleggio delle motoslitte, dove finisce la strada carrabile. Soffri l’altitudine? Siamo ad alta quota.»

«Lo so» gli risponde, mentre lui si allontana.

49

Il passo è coperto di neve e le ombre si allungano. In alto, sulle montagne, nevica. Dopo le tre e mezzo del pomeriggio non si scia, perché sulle Montagne Rocciose la notte cala presto, le strade ghiacciano e il freddo diventa pungente.

«Saremmo dovuti rientrare prima» dice Benton puntando una racchetta nella neve. «Siamo pericolosi, assieme, io e te. Non sappiamo dire basta.»

Al quarto palo segnaletico di pericolo valanghe Benton ha proposto di tornare indietro, ma poi lui e Lucy hanno proseguito lungo la salita verso il lago e hanno fatto dietro-front solo a un chilometro dalla meta. È già fin troppo buio, hanno freddo e fame. Lucy è stanca, anche se non lo ammette. Benton capisce che soffre l’altitudine. Ha accorciato considerevolmente il passo e fa fatica a parlare.

Per qualche minuto l’unico rumore che si sente è lo scricchiolio degli scarponi sulla strada innevata. Il respiro si condensa davanti alle loro facce. Ogni tanto Lucy prende fiato. Hanno parlato di Henri e camminato troppo. È tutto terribilmente faticoso.

«Mi dispiace» si scusa Benton, puntando la racchetta da sci davanti allo scarpone. «Saremmo dovuti tornare indietro prima. Non ho più né barrette né acqua.»

«Ce la farò» risponde Lucy, che in condizioni normali gli tiene dietro senza problemi, anzi. «È che in aereo non ho mangiato. Comunque sono allenata: ultimamente ho corso molto, sono andata in bicicletta… Ma non pensavo di stancarmi così.»

«Ogni volta me ne dimentico» replica Benton guardando la tempesta di neve che infuria più in alto e avanza nella loro direzione. Calcola che dovrebbero riuscire ad arrivare alle macchine prima che li raggiunga. Perdersi è impossibile, perché la strada è una sola. Non sono in pericolo.

«Io la prossima volta non me ne dimenticherò, stai tranquillo» dice Lucy, con il fiatone. «Mangerò qualcosa e prima di andare a fare una passeggiata cercherò di abituarmi all’altitudine.»

«Scusa» ripete Benton. «A volte mi scordo che anche tu hai dei limiti. È abbastanza facile, sai?»

«È un periodo che mi scontro continuamente con i miei limiti.»

«Se me lo avessi chiesto, ti avrei messo in guardia» dice Benton, camminandole a fianco. «Ma non mi avresti creduto.»

«Ti sto sempre a sentire.»

«Non ho mai detto il contrario. Ho detto che non mi avresti creduto. Nel caso specifico, ne sono abbastanza sicuro.»

«Può darsi. Quanto manca, secondo te? Quanti pali segnaletici abbiamo passato?»

«Solo tre, purtroppo. Abbiamo ancora qualche chilometro» risponde Benton. Alza gli occhi verso la tempesta di neve. La cima della montagna è invisibile, ormai, e il vento si sta alzando. «Il tempo è così da quando sono arrivato» spiega. «Nevica quasi tutti i giorni, di solito la sera. Quando sei coinvolto, non riesci a essere obiettivo. Inoltre, è più facile giudicare il nemico quando lo attacchi, piuttosto che quando è lui ad attaccare te. Nel caso specifico, tu sei la vittima e Henri il carnefice. Ti ha preso di mira dal primo istante: l’hai colpita, voleva averti. A tutti i costi. Anche Pogue ti ha preso di mira, a modo suo. Per ragioni diverse da quelle di Henri, naturalmente. Lui non voleva venire a letto con te o vivere la tua vita, identificarsi con te. Lui voleva solo farti del male.»

«Pensi davvero che ce l’abbia con me e non con Henri?»

«Sì. La vittima designata sei tu.» Continua a camminare, aiutandosi con le racchette da sci. «Ti spiace se ci fermiamo un attimo?» le chiede. In realtà non è stanco, ma intuisce che Lucy non ce la fa più.

Si fermano e si appoggiano ai bastoncini, soffiando sbuffi di aria bianca, e guardano le nuvole che avvolgono le montagne alla loro destra. Il maltempo si sta avvicinando.

«In meno di mezz’ora saremo alle macchine» dice Benton, togliendosi gli occhiali da sole e riponendoli in una tasca della giacca a vento.

«La tempesta si avvicina» osserva Lucy. «Non solo metaforicamente.»

«È una delle cose che mi piacciono di più della montagna e del mare» commenta Benton. «La natura mette tutto in una prospettiva diversa.» Guarda le nuvole che si avvicinano e pensa che è vero: la tempesta di neve sta per raggiungerli. «Hai ragione, comunque: Pogue sta per colpire ancora. Ucciderà di nuovo, se non lo fermeremo in tempo.»

«Spero che provi a uccidere me.»

«Non dirlo, Lucy.»

«Lo spero veramente» ribatte lei, riprendendo a camminare. «Sarebbe la cosa migliore. Se si azzarda, sarà l’ultima volta che prova a far fuori qualcuno.»

«Henri è addestrata a difendersi, eppure ha rischiato grosso» le fa notare Benton allungando il passo.

«Non è brava quanto me. Neppure lontanamente. Ti ha raccontato che cosa ha combinato al campo di addestramento?»

«Non mi pare.»

«Simuliamo combattimenti alla Gavin de Becker, piuttosto feroci» spiega Lucy. «I ragazzi non sanno che cosa li aspetta. Giustamente, a mio avviso, visto che nella vita è così. Dopo tre attacchi con i K-9, si trovano una piccola sorpresa. Arriva una muta di cani senza museruola. Henri aveva il giubbotto antiproiettile, ma quando ha visto il primo cane senza museruola è uscita di testa. Si è messa a correre e a gridare, è stata colpita, è scoppiata in lacrime e ha dato in escandescenze. Diceva che voleva piantare lì tutto, che voleva andare via…»

«Peccato che non l’abbia fatto. Ecco il secondo palo segnaletico.» Alza un bastoncino e le indica il palo con un grosso numero 2 dipinto sopra.

«Invece ha superato la crisi» spiega Lucy camminando sulle impronte che hanno lasciato all’andata. «Si è beccata anche qualche proiettile di gomma senza fare troppe scene. Ma le simulazioni non le sono mai piaciute.»

«Lo credo. Solo ai pazzi possono piacere» commenta Benton.

«Ne ho conosciuti diversi. Forse faccio parte anch’io della categoria. Voglio dire, i proiettili di gomma fanno male, ma l’emozione è forte. Perché dici che è un peccato che non abbia piantato lì tutto? Pensi che sarebbe stato meglio per lei? Comunque lo so, la devo licenziare.»

«E con che scusa? La mandi via perché si è fatta aggredire a casa tua?»

«Lo so, se la licenzio mi fa causa.»

«Infatti» replica Benton. «Dovrebbe andarsene lei. Cerca di convincerla.» La guarda e continua a camminare. «Quando l’hai assunta, eri obnubilata, annebbiata.» Indica le nuvole che si avvicinano minacciose. «Eri come quella montagna là. Sarà anche stata una poliziotta in gamba, ma di certo non è al vostro livello. Voi svolgete operazioni delicatissime e non mi sembra che lei sia all’altezza. Spero che se ne vada, prima che succeda qualcosa di veramente brutto.»

«Perché? Trovi che quello che è successo finora non sia veramente brutto?» fa Lucy sbuffando.

«Non è morto nessuno.»

«Be’, certo» replica Lucy. «Uffa! Non ce la faccio più. Ma tu cammini sempre così tanto?»

«Tempo permettendo.»

«A correre una mezza maratona si fa meno fatica.»

«Se la corri a bassa quota» osserva Benton. «Ecco il palo numero 1. Fra il primo e il secondo c’è meno distanza, come vedi.»

«Pogue non ha precedenti penali. È uno psicopatico all’apparenza normalissimo. Non posso credere che lavorasse per mia zia» dice Lucy. «Ma perché ce l’ha con me? Che cosa gli ho fatto? Forse in realtà ce l’ha con zia Kay. Magari la incolpa della sua malattia. Chissà cos’ha nella testa…»

«No» la contraddice Benton. «Ce l’ha con te.»

«Ma perché? È una follia!»

«Sì, è una follia, ma sono certo che sei tu il suo bersaglio. Ti vuole punire per qualcosa che hai fatto. Ha aggredito Henri per fare dispetto a te, ci giurerei. Non sappiamo che cos’ha nella testa, segue una logica tutta sua, che noi non riconosciamo. Ti posso dire che è psicotico, non psicopatico, che agisce d’impulso più che con premeditazione, che è maniacale e pensa di poter modificare la realtà con il pensiero. Non so dirti altro. Ecco, ci ha raggiunti» dice poi, quando i primi fiocchi di neve cominciano a mulinare intorno a loro.

Lucy si mette gli occhiali, mentre il vento si alza, scuotendo gli alberi grigi. I fiocchi sono piccoli, asciutti, agitati da raffiche di vento forte. Lucy e Benton continuano il cammino lungo la strada gelata.

50

Gli alberi sono coperti di neve. Lucy guarda dalla finestra della sua stanza al secondo piano del St Regis Hotel, che è di mattoni rossi e sembra un drago accovacciato ai piedi del monte Ajax. La neve sulla strada scricchiola sotto gli scarponi da sci dei villeggianti. Gli impianti di risalita non sono ancora in funzione, a quest’ora, ma alcuni si sono già messi in moto. Il sole è nascosto dietro le montagne e il cielo è di un azzurro metallico. Il silenzio è assoluto, a parte i suoni prodotti dagli sciatori più mattinieri, in marcia verso skilift e pullman.

Dopo la passeggiata lungo Maroon Creek Road, ieri pomeriggio, Benton e Lucy hanno preso le loro rispettive macchine e sono andati ciascuno per la propria strada. Benton non voleva che Lucy venisse ad Aspen, così come non voleva che Henri si piazzasse in casa sua. Però è andata così, la vita è strana e spesso riserva molte sorprese: Henri è in casa sua e Lucy è ad Aspen. Benton le ha chiesto di prendere alloggio in un hotel, perché non vuole mandare a monte il lavoro fatto con Henri, per quanto i progressi siano stati scarsi. Oggi Henri e Lucy si vedranno, quando Henri se la sentirà. Sono passate due settimane e Lucy non può più rimandare l’incontro. È oppressa dai sensi di colpa e vuole cercare di dare una risposta a molte domande. Ha bisogno di capire, di fare chiarezza.

Stamattina, il comportamento tenuto ieri da Benton le appare più comprensibile. Voleva stancarla, toglierle il fiato, in maniera che le fosse più difficile parlare e dare sfogo alla rabbia, per poi mandarla a letto come una bambina, benché Lucy sia una donna fatta. Sa che Benton le vuole bene, non ne ha mai dubitato. È sempre stato buono con lei, anche quando lei lo odiava.

Cerca nella valigia un paio di pantaloni da sci, tira fuori maglione, biancheria di seta e calzettoni, e li posa sul letto accanto alla Glock nove millimetri con mirino al trizio e caricatore da diciassette colpi. È l’arma che utilizza quando il problema è l’autodifesa in spazi chiusi ed è preferibile non avere troppa potenza di fuoco. Lucy non userebbe mai proiettili calibro .40 o .45 in una stanza d’albergo.

Non ha ancora deciso che cosa dirà a Henri, né sa che cosa proverà nel vederla.

Non ha grandi aspettative: prevede che Henri non farà i salti di gioia incontrandola e forse non rispetterà neppure le più elementari regole dell’educazione. Si siede sul letto, si toglie i pantaloni della tuta e si sfila la T-shirt. Poi si guarda allo specchio per controllare di non essere ingrassata o invecchiata troppo. Ma non ha ancora compiuto trent’anni ed è in forma perfetta: è muscolosa, ma non mascolina. Insomma, non può proprio lamentarsi. Tuttavia, nel guardarsi allo specchio prova una strana sensazione, come se il corpo riflesso fosse di qualcun altro. Si sente diversa da come è. Né più brutta né più bella: diversa. Le viene in mente che, per quante volte si possa fare l’amore con un’altra persona, non si può mai sapere che effetto fa sull’altro il proprio corpo. Da una parte le piacerebbe saperlo, dall’altra è meglio così.

Smette di guardarsi allo specchio, abbastanza soddisfatta di sé, ed entra nella doccia. Non le serve essere bella, oggi. Non la accarezzerà nessuno, oggi. Apre l’acqua e si dice che probabilmente non la accarezzerà nessuno neanche domani, né il giorno dopo ancora. «Oddio, come farò?» dice a voce alta mentre il getto di acqua calda colpisce il marmo e schizza sulla porta a vetro. «Che cosa ho fatto, Rudy? Che cosa ho fatto? Ti prego, non mi abbandonare. Ti giuro che non succederà più.»

Lucy ha l’abitudine di piangere nella doccia. L’ha presa quando ha cominciato a lavorare per l’FBI, a meno di vent’anni, grazie alla sua influente zia. Andava a sparare nel poligono di tiro di Quantico e faceva esercitazioni con agenti che non si lasciavano mai prendere dal panico o dallo sconforto. Credeva che gli agenti dell’FBI non provassero mai né paura né dolore. Era giovane e inesperta e si faceva un sacco di illusioni, allora, ma si è programmata a pensare in un certo modo e adesso le è difficile cambiare. Se piange, cosa che le capita molto di rado, lo fa in solitudine. Se è sconfortata, si nasconde.

Ha quasi finito di vestirsi quando si rende conto che c’è troppo silenzio. Improvvisamente agitata, tira fuori il cellulare dalla tasca della giacca a vento. La batteria è scarica. Ieri sera era troppo stanca e infelice per pensare al telefonino e se lo è dimenticato in tasca. Non è da lei, assolutamente. Rudy e sua zia non sanno dove è andata. Non sono al corrente del falso nome con cui ha preso alloggio al St Regis e possono contattarla solo tramite cellulare. Soltanto Benton sa dove trovarla e sotto quale identità. Tagliare fuori così Rudy è molto poco professionale. Anzi, è inaccettabile. Chissà come è arrabbiato, pensa Lucy, chissà se questa sarà la goccia che farà traboccare il vaso. Che cosa farebbe senza di lui? Non si fida di nessuno come di Rudy. Mette in carica il cellulare e lo accende: ha undici messaggi, la maggior parte dei quali lasciati da lui.

«Credevo fossi sparita dalla circolazione» sbotta Rudy, appena riconosce la sua voce al telefono. «Sono tre ore che ti cerco. Che cosa stai facendo? Da quando non rispondi più al telefono? E non dirmi che non prendeva, perché non ci credo. Il tuo cellulare prende dappertutto. Ho provato a rintracciarti anche via radio, ma ho trovato spenta pure quella.»

«Calmati, per favore» lo supplica Lucy. «Avevo la batteria scarica e senza batteria non funzionano né il telefono né la radio. Scusa.»

«Non hai il caricatore?»

«Ti ho chiesto scusa, Rudy.»

«Be’, ho delle informazioni da darti. Sarebbe meglio che tornassi qui prima che puoi.»

«Che cosa succede?» Lucy si siede per terra, vicino alla presa in cui ha inserito il caricatore.

«Purtroppo non sei l’unica ad aver ricevuto un regalo dal nostro amico. Anche un’anziana signora è stata omaggiata di una bomba, ma non è stata altrettanto fortunata.»

«Gesù» esclama Lucy, chiudendo gli occhi.

«È la cameriera di un locale di Hollywood che si chiama Other Way ed è di fronte a un distributore della Shell in cui vendono bibite alla spina in bicchieri del Gatto e il cappello matto. La poveretta ha riportato ustioni gravi, ma ce la farà. Pare che Pogue andasse spesso in quel locale. Tu l’hai mai sentito nominare?»

«No» risponde Lucy con un filo di voce, pensando alla povera cameriera ustionata. «Povera crista.»

«Stiamo setacciando la zona. Ho mandato in giro parecchi dei nostri. Non le reclute: non mi sembrano ancora pronte.»

«Gesù!» continua a esclamare Lucy. «Possibile che non ce ne vada una dritta?»

«Non essere così negativa: la situazione si sta sbloccando. Devo dirti altre due cose. Secondo tua zia, Pogue potrebbe avere una parrucca. Di capelli veri, lunghi e ondulati, neri, tinti. Se è così, con la prova del DNA risaliremo a qualche puttana che si è venduta i capelli a una fabbrica di parrucche per una dose di crack.»

«Una parrucca? E perché me lo dite solo adesso?»

«Tua zia lo ricorda rosso di capelli e dice di aver trovato capelli rossi nella casa in cui ha abitato fino a poco tempo fa. Tenuto conto che nelle lenzuola di Gilly Paulsson, in camera tua e sul nastro adesivo usato per confezionare la bomba trovata nella tua cassetta delle lettere sono stati rinvenuti capelli lunghi, ondulati e tinti di nero, è ovvio pensare a una parrucca. La parrucca spiegherebbe molte cose. Stiamo cercando la macchina, adesso. Pare che la vecchia morta nella casa in cui Pogue abitava a Richmond, tal signora Arnette, avesse una Buick bianca del 1991, che nessuno sa che fine abbia fatto. I familiari della signora Arnette non ne sanno niente. Potrebbe averla presa Edgar Allan Pogue. Risulta ancora intestata alla Arnette. Senti, sarebbe meglio che tornassi qui appena possibile. E che evitassi casa tua.»

«Non ti preoccupare» risponde Lucy. «Non voglio mettere più piede in quella casa.»

51

Edgar Allan Pogue chiude gli occhi, seduto sulla sua Buick bianca in un parcheggio vicino alla AIA, e ascolta quello che chiamano “adult rock”. Tiene gli occhi chiusi e si sforza di non tossire, perché quando tossisce gli bruciano i polmoni e gli gira la testa. Il weekend è volato e lui non sa nemmeno più che cosa ha fatto, ma va bene così. Il DJ dice che è lunedì mattina, che è l’ora di punta. Pogue tossisce e gli si riempiono gli occhi di lacrime. Cerca di respirare profondamente.

Si è buscato un raffreddore. Deve averlo preso dalla cameriera con i capelli rossi all’Other Way. Quando lui se ne stava andando, venerdì sera, gli è andata vicino e si è soffiata il naso. Gli è andata vicino solo ed esclusivamente perché aveva paura che lui uscisse senza pagare. Prima, però, si era disinteressata di lui, che avrebbe voluto prendere un altro Bleeding Sunset, ma non è riuscito a ordinarlo perché lei non lo considerava. Così ha preparato una bella “arancia” anche alla rossa dell’Other Way e tanti saluti. Era quello che si meritava.

Il sole scalda il parabrezza e Pogue se lo sente sulla faccia, seduto al volante con il sedile reclinato e gli occhi chiusi. Il sole dovrebbe fargli passare il raffreddore. Sua madre lo diceva sempre, che il sole manda un sacco di vitamine e fa bene, motivo per cui le persone anziane si trasferiscono in Florida. Così diceva sua madre. Un giorno, Edgar Allan, ci andrai anche tu. Adesso sei giovane, ma prima o poi anche tu diventerai vecchio e stanco come me e vorrai andare a stare in Florida. Se solo avessi un lavoro rispettabile, Edgar Allan. Con quello che guadagni, dubito che ti potrai mai permettere di trasferirti in Florida.

Sua madre gli rompeva sempre le scatole con la storia che guadagnava poco. Gli metteva ansia. Quando è morta, lui ha ereditato abbastanza soldi per trasferirsi in Florida. Poi ha smesso di lavorare e ha cominciato a ritirare la pensione ogni due settimane. L’ultima rata deve essere ancora alla posta, a Richmond, perché non è potuto andarla a ritirare. Ma un po’ di soldi ce li ha, pensione o non pensione. Per ora, gli bastano. Può continuare a permettersi i suoi sigari costosi, e quindi non si lamenta. Se ci fosse sua madre, adesso gli romperebbe le scatole anche con la storia della tosse, gli direbbe che se ha la tosse non deve fumare. Intanto lui fuma lo stesso. Pensa al vaccino antinfluenzale che non ha fatto: aveva appena saputo che il palazzo dove aveva lavorato tanti anni stava per essere demolito e che il Pesce Grosso aveva aperto un ufficio a Hollywood, Florida.

All’Istituto di medicina legale della Virginia c’era un nuovo direttore, ormai, e la vecchia sede stava per essere demolita perché era in programma la riapertura della vecchia stazione ferroviaria. Lucy Farinelli era in Florida. Se Kay Scarpetta non lo avesse abbandonato a Richmond, non ci sarebbe stato bisogno di nominare un altro direttore, sarebbe rimasto tutto come prima e non avrebbero buttato giù la vecchia sede dell’istituto, così lui avrebbe richiesto per tempo il vaccino antinfluenzale e sarebbe riuscito a procurarselo. Demolire la vecchia sede dell’Istituto di medicina legale della Virginia senza chiedergli un parere era un’azione ignobile e ingiusta: lui aveva lavorato in quel palazzo! Riceveva ancora la pensione ogni due settimane, aveva ancora la chiave della porta di servizio e continuava a frequentare la divisione di Anatomia, specie nottetempo.

Ci andava tutte le volte che voleva, prima di venire a sapere che stavano per buttare giù il palazzo. Era l’unico ad andarci, ormai. Si erano dimenticati tutti di quello che c’era là dentro. Saputo della demolizione, Edgar Allan Pogue aveva dovuto portare via tutto. Tutte quelle persone, tutte quelle urne ammaccate da spostare in piena notte, quando nessuno poteva vederlo… Che lavoro! Su e giù per le scale, dentro e fuori il parcheggio, cenere dappertutto, i polmoni in fiamme. Ricorda di quando un’urna gli è caduta dalla pila che reggeva in mano e si è rovesciata nel parcheggio: raccogliere la cenere impalpabile era stata una faticaccia, perché volava via da tutte le parti. Che lavoro! Non era giusto… Con tutto quel traffico, Edgar Allan Pogue si è dimenticato il vaccino e quando gli è venuto in mente ha scoperto che le scorte erano esaurite. Così adesso tossisce, ha i polmoni che gli bruciano e gli occhi che gli lacrimano e deve cercare di assorbire le vitamine dal sole.

Pensa al Pesce Grosso e si deprime, si arrabbia. Quella donna non sa nulla di lui, non lo conosce, non lo ha mai neppure salutato, ma è per colpa sua se lui sta così male. È per colpa di quella donna se lui non possiede niente. Lei è piena di case e di automobili che costano più di qualsiasi casa in cui lui abbia mai abitato e non gli ha nemmeno chiesto scusa. Mai, neppure quando successe il fattaccio. Tutt’altro: si mise a ridere. Invece non c’era niente da ridere. Lui fece un salto, uscendo dalla sala di imbalsamazione, sorpreso di trovarsela lì davanti che giocava con una lettiga. Quella mocciosa ci correva sopra ridendo, come fosse un monopattino, mentre sua zia parlava con Dave di un’assemblea generale, oppure di qualche altro problema.

La dottoressa Scarpetta non scendeva mai nella divisione di Anatomia, a meno che non ci fosse qualche problema. Era dicembre, il periodo intorno a Natale, e aveva con sé quella mocciosa di sua nipote. Pogue la conosceva, ne aveva sentito parlare. Dicevano che abitava in Florida, a Miami, con la madre, che era la sorella della direttrice.

Pogue non sapeva tutti i particolari, ma sapeva che Lucy Farinelli poteva assorbire dal sole tutte le vitamine che voleva e non aveva nessuno intorno che le rompeva le scatole e le diceva che non guadagnava abbastanza. Anche perché, vivendo già in Florida, non aveva nessun bisogno di guadagnare un sacco di soldi per potercisi trasferire da vecchia.

Rise di Pogue, quel giorno. Correva sulla lettiga come fosse stata un monopattino. Rischiò di urtarlo, di farlo cadere. Edgar Allan Pogue portava una latta di formaldeide vuota su un carrellino e, a causa di quella mocciosa, dovette fermarsi di colpo e la latta vuota cadde. Ma Lucy Farinelli se ne fregò altamente e continuò a correre e schiamazzare. E non era più una bambina, aveva diciassette anni. Edgar Allan Pogue se lo ricorda benissimo, quanti anni aveva. Sa in che giorno è nata. Per anni le ha mandato biglietti anonimi a ogni compleanno, all’attenzione di sua zia Kay Scarpetta, 9 North Fourteenth Street, anche dopo che l’istituto ha cambiato sede. Dubita che Lucy ne abbia mai ricevuto uno, tuttavia.

Quel giorno, quel fatale giorno, Kay Scarpetta era vicino alla vasca e parlava insieme a Dave, con il camice sopra un tailleur elegante. Aveva appuntamento con un deputato, gli disse, a cui avrebbe parlato del problema che stavano discutendo. Il deputato stava preparando un disegno di legge sull’argomento. Quale? Pogue non lo ricorda. Prende fiato e si sente bruciare i polmoni. Kay Scarpetta era una bella donna e stava bene, vestita elegantemente come quella mattina. Pogue la guardava senza farsi vedere e si sentiva a disagio, in subbuglio. Anche Lucy gli ispirava dei sentimenti, ma diversi. Provava qualcosa per lei solo perché Kay Scarpetta le voleva bene, altrimenti gli sarebbe rimasta del tutto indifferente.

La latta vuota fece un rumore terribile, quando rotolò per terra verso Lucy e la sua lettiga, e Pogue dovette correre a riprenderla. È impossibile svuotare la formaldeide da una latta fino all’ultima goccia e così, quando la latta cadde, il liquido rimasto sul fondo schizzò sulle piastrelle del pavimento e uno spruzzo colpì sul viso Edgar Allan Pogue mentre si chinava a raccogliere la latta e gli entrò in bocca. Edgar Allan Pogue fu scosso da un accesso di tosse e corse nel bagno a vomitare, ma nessuno si accorse di niente. La dottoressa no di certo, e Lucy meno che mai. La sentiva ridere nel corridoio, mentre lui era in bagno, scosso dai conati di vomito. Nessuno si accorse che la sua vita era rovinata per sempre.

“Tutto bene, Edgar Allan? Sicuro?” gli domandò Kay Scarpetta dalla porta chiusa del bagno. Non entrò.

Edgar Allan Pogue ha rivissuto quel momento infinite volte, al punto che non è più sicuro del tono di voce che usò la dottoressa. Forse, a furia di ricordare, l’ha distorto.

“Sicuro di star bene, Edgar Allan?”

“Sì, dottoressa. Mi do una sciacquata e passa tutto.”

Quando finalmente uscì dal bagno, la lettiga era in mezzo al corridoio e Lucy Farinelli e Kay Scarpetta non c’erano più. Persino Dave era andato via. Era rimasto solo lui, Pogue, con il destino segnato da quella goccia di formaldeide che gli bruciava nei polmoni come una scintilla incandescente. Solo.

“Io lo so” ha spiegato poi alla signora Arnette, allineando sei bottiglie di liquido da imbalsamazione rosa confetto sul carrello, vicino al tavolo di acciaio sul quale era distesa. “A volte bisogna soffrire, per poter sentire la sofferenza degli altri” le ha detto tagliando il filo da un gomitolo sul carrello. “Ricorda quanto tempo ho trascorso con lei, signora Arnette, a parlare di carte e testamenti e di che cosa le sarebbe successo se il suo corpo fosse finito al Medical College of Virginia o alla University of Virginia? Lei diceva di amare Charlottesville e io le ho promesso che avrei fatto di tutto perché lei finisse alla UVA, visto che amava tanto quella città. L’ho ascoltata per ore, si ricorda? Sono venuto tutte le volte che mi ha chiamato, prima per farle firmare le carte, poi perché aveva bisogno di una persona che la stesse a sentire, visto che aveva paura che i suoi parenti non esaudissero i suoi desideri.

Non possono fare niente, se firma queste carte, glielo assicuro. Questi documenti sono legalmente validi, sono le sue ultime volontà. Se vuole donare il proprio corpo alla ricerca scientifica e quindi essere cremata da me, firmi qui e la sua famiglia non potrà fare nulla.”

Pogue giocherella con i sei proiettili calibro .38 che tiene nella tasca, seduto sulla sua Buick bianca al sole, e ricorda quanto si è sentito potente con la signora Arnette. Si sentiva un Dio, con la signora Arnette, la Legge.

“Sono una povera vecchia malata, Edgar Allan” gli ha detto l’ultima volta che si sono parlati. “Il mio medico abita nella casa qui di fronte e non mi viene mai a visitare. Non diventi così vecchio, Edgar Allan.”

“No” le ha promesso lui.

“Sono gente strana, sa, quelli che stanno nella casa di fronte. Il medico e sua moglie.” Ha fatto una risata amara, alludendo a qualcosa di losco. “La moglie del dottore è una donna volgare. L’ha mai vista, Edgar Allan?”

“No, signora Arnette, non mi pare.”

“Stia alla larga da quella casa” gli ha raccomandato la signora Arnette, scuotendo la testa. “Stia alla larga da quella donna.”

“Certamente, signora Arnette. Il suo medico fa male a non venire mai a vedere come sta. Le visite a domicilio rientrano fra i suoi doveri.”

“Chi la fa l’aspetti” ha replicato la signora Arnette con la testa sul cuscino, nel letto della sua camera sul retro della casa. “Mi creda, Edgar Allan, chi male semina, male raccoglie. Sono sua paziente da tanti anni, eppure non viene mai a visitarmi. Non sarà certo lui a firmare le mie carte.”

“Che cosa vuole dire, signora Arnette?” ha chiesto Pogue.

“Be’, quando uno se ne va, il medico deve firmare un certificato. Giusto?” ha detto la vecchia, ormai così debole che aveva sempre freddo nonostante le coperte.

“Giusto. Il suo medico firma il certificato di morte.” Pogue di morte se ne intende.

“Be’, vedrà che lui non troverà il tempo di venire. Che cosa succederà, allora, Edgar Allan? Se non mi firmano il certificato di morte, non posso morire?” Ed è scoppiata in una risata aspra, per niente divertita. “Vedrà che non firmerà un accidente. Io e il dottore non andiamo d’accordo.”

“Questo l’ho capito” ha replicato Pogue. “Ma non si preoccupi” ha aggiunto, sentendosi Dio in terra. “Se il dottore non troverà il tempo di attraversare la strada e venire a firmare il suo certificato di morte, penserò a tutto io, signora Arnette.”

“E come?”

“Un modo c’è.”

“Lei è proprio un caro ragazzo, Edgar Allan” gli ha detto, distesa sotto tutte quelle coperte. “Sua madre era una donna fortunata!”

“Lei non si riteneva per niente fortunata.”

“Allora era ingiusta, Edgar Allan.”

“Se non firmerà il suo medico, firmerò io” le ha promesso Pogue. “Vedo certificati di morte tutti i giorni, e sono tanti quelli firmati da medici che se ne fregano.”

“Se ne fregano tutti, Edgar Allan.”

“Falsificherò la firma, se necessario. Non si preoccupi.”

“Lei è un tesoro, Edgar Allan. Che cosa posso fare per lei, in cambio di questo favore? Ho fatto in modo che non possano vendere la casa. Li ho fregati, tutti quanti. Può viverci lei, se desidera. Solo, non glielo faccia sapere. E prenda pure anche la mia macchina. Non la guido da un sacco di tempo, purtroppo, avrà la batteria scarica. Sta per arrivare la mia ora, lo so. Mi dica che cosa desidera, Edgar Allan. Vorrei tanto avere un figlio come lei.”

“Le sue riviste, signora Arnette. Quelle su Hollywood.”

“Oh Signore! Quella robaccia di là in salotto? Le ho raccontato di quando sono stata al Beverly Hills Hotel e ho incontrato un sacco di personaggi famosi?”

“Me lo racconti di nuovo, signora Arnette. Mi piace tutto quello che riguarda Hollywood.”

“Dopo tanto insistere, quello sciagurato di mio marito mi portò a Beverly Hills, questo glielo devo riconoscere. Ci divertimmo moltissimo. Io adoro il cinema. Lei va al cinema, Edgar Allan? Non c’è niente di meglio di un buon film.”

“Sì, signora Arnette, piace molto anche a me. Un giorno andrò a Hollywood anch’io.”

“Bravo, Edgar Allan. Se non fossi così vecchia e malata, ce la accompagnerei io. Oh, ci divertiremmo un mondo!”

“Non si butti giù, signora Arnette. Vuole che le presenti mia madre? Vuole che la porti qui, un giorno di questi?”

“Sì, bravo. Le offro un gin tonic e i salatini con la salsiccia che so fare così bene.”

“La porto nell’urna, signora Arnette.”

“Come sarebbe, Edgar Allan?”

“La mia mamma è morta, ma conservo le sue ceneri in un’urna.”

“Le sue ceneri?”

“Sì, signora Arnette. Non mi separerei da esse per tutto l’oro del mondo.”

“Che bravo figlio! I miei parenti non le vorranno nemmeno, le mie ceneri. Sa cosa vorrei, Edgar Allan?”

“Mi dica, signora Arnette.”

“Che le gettasse di là da quella maledetta staccionata, nel giardino del dottor Paulsson.” È scoppiata in una delle sue risate aspre. “Vorrei che il dottore mi mettesse nella sua pipa e mi fumasse! Vorrei concimargli il giardino.”

“Signora Arnette, non potrei mai fare una cosa simile con le sue ceneri.”

“Sì, invece. Voglio che lo faccia, Edgar Allan. La ricompenserò adeguatamente. Vada in salotto a prendermi la borsa.”

Gli ha fatto un assegno di cinquecento dollari, perché lui esaudisse i suoi desideri. Dopo averlo incassato, Edgar Allan Pogue le ha portato una rosa e si è pulito le mani nel fazzoletto. L’ha trattata bene, con dolcezza.

“Perché si pulisce sempre le mani nel fazzoletto, Edgar Allan?” gli ha chiesto la signora Arnette, distesa nel suo letto. “Tolga il cellophane alla rosa e la metta in un vaso, sia gentile. Perché la infila in quel cassetto?” gli ha domandato.

“Così la può conservare in eterno” le ha risposto lui. “Adesso, per favore, si volti un attimo a faccia in giù.”

“Perché?”

“Perché glielo chiedo io, signora Arnette.”

L’ha aiutata a mettersi prona. Era leggera come una piuma. Poi si è seduto sulla sua schiena e le ha premuto il fazzoletto bianco sulla bocca perché non gridasse.

“Lei parla troppo, signora Arnette. Questo non è il momento di parlare” le ha detto.

“Non avrebbe dovuto parlare tanto” le ha ripetuto, tenendole le braccia sopra la testa. Gli pare di sentire ancora come cercava di scuotere la testa e di dibattersi sotto il suo peso. Poi, ha smesso di agitarsi e lui le ha lasciato andare le mani, le ha tolto delicatamente il fazzoletto dalla bocca ed è rimasto seduto su di lei, per essere certo che non si rimettesse a muoversi o a respirare. Intanto, le parlava, come ha fatto poi con la ragazzina, la figlia del dottore, la bella figlia del dottore sporcaccione che faceva quelle cose disgustose in casa propria. Che porcherie! Pogue non avrebbe dovuto vedere.

Sobbalza nel sentire che qualcuno gli bussa sul finestrino. Sbarra gli occhi e tossisce, ansioso. Un nero gli sta battendo sul finestrino con un anello, mostrandogli una scatola di M M’s.

«Cinque dollari per la mia Chiesa, signore» gli domanda attraverso il vetro.

Pogue mette in moto ed esce in retromarcia dal parcheggio.

52

Il dottor Stanley Philpott ha lo studio in una casa bianca di Main Street, nel quartiere del Fan. È stato molto gentile, quando Kay Scarpetta lo ha chiamato per telefono ieri pomeriggio per chiedergli informazioni su Edgar Allan Pogue.

“Sono legato al segreto professionale, lei lo sa meglio di me” le ha risposto lì per lì.

“Posso farmi emettere un mandato” ha replicato lei. “Preferisce che facciamo così?”

“Ma no, è lo stesso.”

“Ho bisogno di parlare con lei. Posso venire domattina presto nel suo studio?” gli ha chiesto. “Altrimenti, verrà la polizia.”

Il dottor Philpott non ha voglia di parlare con la polizia. Non vuole volanti parcheggiate davanti a casa sua a mettere paura ai suoi pazienti in sala d’aspetto. È un uomo dall’aria tranquilla, bianco di capelli, molto aggraziato nei movimenti. Quando la segretaria accompagna da lui Kay Scarpetta, la accoglie con gentilezza.

La fa accomodare in cucina e, versandole una tazza di caffè, le dice: «L’ho sentita parlare diverse volte. Una volta alla Richmond Academy of Medicine, un’altra al Commonwealth Club… Ma lei non può ricordarsi di me. Zucchero? Latte?».

«Niente, grazie» risponde. È seduta al tavolo, davanti a una finestra che dà su una strada lastricata. «Al Commonwealth Club ho parlato un sacco di tempo fa.»

Philpott posa le tazze sul tavolo e si siede con le spalle alla finestra. La luce che filtra attraverso il cielo coperto fa sembrare ancora più bianchi i suoi folti capelli e il camice perfettamente stirato. Ha ancora il fonendoscopio intorno al collo. Prende la tazza con la mano fermissima. «Ricordo che raccontò alcuni aneddoti molto interessanti» dice meditabondo. «Con grande garbo. Pensai che era una donna coraggiosa. A quei tempi non eravate in molte a venire invitate al Commonwealth Club, tuttora frequentato prevalentemente da uomini. Sa, dopo aver ascoltato lei rimpiansi di non aver scelto la sua specializzazione. Trasmetteva un grande amore per il suo lavoro.»

«Può ancora farlo» replica Kay Scarpetta con un sorriso. «C’è carenza di medici legali, a quanto so. Ed è un problema, visto che per firmare i certificati di morte e valutare se procedere o meno all’autopsia nei casi di morti sospette ci vuole un medico legale. Quando dirigevo l’istituto, in tutta la Virginia ce n’erano circa cinquecento. Perlopiù si trattava di medici che avevano il loro studio e collaboravano con l’istituto occasionalmente, quando si presentava un caso nella loro zona. Non sarei mai riuscita a gestire tutto il lavoro, senza il loro aiuto.»

«Immagino glielo offrissero gratuitamente» dice Philpott, tenendo la tazza con tutte e due le mani. «Oggigiorno nessuno fa più niente per niente. I giovani, poi, non ne parliamo. L’egoismo regna sovrano, ormai.»

«Cerco di non pensarci, per non deprimermi.»

«Fa bene. Mi dica, in che cosa posso aiutarla?» C’è un velo di tristezza negli occhi celesti del dottore. «So che non è qui per darmi buone notizie. Di che cosa è sospettato Edgar Allan Pogue?»

«Omicidio, tentato omicidio, fabbricazione di ordigni esplosivi e aggressione» risponde Kay Scarpetta. «Ricorda la ragazzina di quattordici anni morta alcune settimane fa non distante da qui? Sono certa che ne ha sentito parlare al telegiornale.» Non vuole essere più specifica.

«Mio Dio!» esclama Philpott, scuotendo la testa e abbassando gli occhi sul caffè.

«Da quanto è suo paziente, dottor Philpott?»

«Da sempre» risponde lui. «Da quando era ragazzo… Avevo già in cura sua madre.»

«È ancora viva?»

«No, è mancata una decina di anni fa. Una donna piuttosto autoritaria, dal carattere difficile. Edgar Allan è figlio unico.»

«E il padre?»

«Alcolista, si suicidò molto tempo fa, forse una ventina di anni. Premetto che non conosco bene Edgar Allan. Viene regolarmente, in genere a settembre, per fare il vaccino contro l’influenza e la polmonite, ma a parte questo…»

«È venuto anche il settembre scorso?» domanda Kay Scarpetta.

«No. Ho controllato la cartella clinica prima che arrivasse lei e ho visto che la sua ultima visita è stata il quattordici ottobre. Gli ho somministrato il vaccino contro la polmonite. Avevo già terminato le scorte di quello antinfluenzale e non sono riuscito a procurarmene altro. Avrà saputo che quest’anno è andato esaurito abbastanza in fretta. Così ne ha fatto uno solo.»

«Ricorda se le disse qualcosa, nel corso di quella visita?»

«Be’, ricordo che ci salutammo, gli chiesi come andavano i polmoni. Ha una fibrosi polmonare interstiziale piuttosto seria, causata dai liquidi di imbalsamazione. Credo lavorasse in un’impresa di pompe funebri.»

«Lavorava per me, veramente» precisa Kay Scarpetta.

«Davvero?» si meraviglia Philpott. «Non lo sapevo! Mi chiedo perché mi abbia mentito… Cioè, sono sicuro che mi disse di essere il vicedirettore di un’impresa di pompe funebri.»

«No, lavorava all’Istituto di medicina legale, nella divisione di Anatomia. Era già dipendente quando fui nominata direttore, alla fine degli anni Ottanta. Smise di lavorare nel ’97, appena prima che ci trasferissimo nella sede nuova, in East Fourth Street. Come le disse di essersi procurato la fibrosi polmonare? Per esposizione eccessiva ai liquidi di imbalsamazione?»

«Mi disse che ebbe un incidente a seguito del quale inalò formaldeide. È scritto anche sulla sua cartella. La sua versione dei fatti era alquanto grottesca, devo dire. Edgar Allan è uno strano personaggio, lei lo saprà meglio di me. Mi disse che un giorno stava imbalsamando un corpo nell’impresa di pompe funebri in cui lavorava e dimenticò di chiudere la bocca del morto, da cui a un certo punto cominciò a zampillare liquido di imbalsamazione a causa della rottura di un tubo. Una storia a forti tinte, insomma. Edgar Allan ama quel genere di cose. Ma lei lo conosce: è inutile che le ripeta cose che probabilmente sa già.»

«No, non so nulla» gli dice. «Solo che aveva una fibrosi polmonare causata da liquido di imbalsamazione. La ha tuttora, immagino.»

«Certo. Il tessuto interstiziale risulta danneggiato alla biopsia: non è una finta.»

«Lo stiamo cercando» spiega Kay Scarpetta. «Ha qualche elemento che ci possa facilitare nella ricerca?»

«Non voglio dire una cosa ovvia, ma avete provato a parlare con i suoi ex colleghi?»

«La polizia li sta cercando, ma non credo che sia una pista utile. Io me lo ricordo come un tipo solitario» replica Kay Scarpetta. «So che la sua ricetta per il prednisone va rinnovata fra qualche giorno. In genere è preciso nel richiederla?»

«Va a momenti» risponde Philpott. «In certi periodi è puntigliosissimo, poi sta a lungo senza prenderlo perché lo fa ingrassare.»

«È sovrappeso?»

«L’ultima volta che l’ho visto, sì. E parecchio.»

«Sa dirmi statura e peso?»

«È alto un metro e settantadue e, l’ultima volta che l’ho visto, a ottobre, doveva essere più di cento chili. L’ho avvertito che, così sovrappeso, faceva più fatica a respirare e affaticava il cuore. Di tanto in tanto gli sospendo i corticosteroidi per via dell’obesità, e anche perché tende a diventare paranoico, quando li prende.»

«Teme la psicosi da steroidi, dottor Philpott?»

«Non solo nel caso di Pogue. Chi la conosce, non può non temerla. Il problema è che non ho mai capito se Edgar Allan è disturbato di suo o se sono i farmaci a renderlo così. Come ha ucciso quella ragazzina? Posso chiederglielo?»

«Ha mai sentito parlare di Burke e Hare? Erano due scozzesi dell’inizio del XIX secolo che uccidevano per vendere i cadaveri agli studenti di medicina. A quei tempi i corpi da sezionare scarseggiavano e l’unico modo per esercitarsi era profanare le tombe o procurarsi morti con altri mezzi illeciti.»

«Sapevo che esistevano i cosiddetti “resurrezionisti”» replica il dottore. «Ma credevo fosse storia passata.»

«Infatti adesso nessuno più uccide per vendere il cadavere. Ebbene, Burke e Hare uccidevano in maniera che l’omicidio non fosse palese. E queste tecniche temo siano ancora in uso.»

«Soffocamento? Arsenico?»

«Nel caso specifico, asfissia meccanica. Si dice che Burke scegliesse persone di debole costituzione, vecchi, bambini o infermi, e ci si sedesse sopra, tappando loro naso e bocca.»

«Così è morta la Paulsson?» si stupisce Philpott, facendo una faccia sgomenta. «Edgar Allan l’ha soffocata in questo modo?»

«Come lei ben sa, a volte si arriva a una diagnosi a partire dall’assenza di una diagnosi precisa. Si procede per eliminazione, insomma» replica Kay Scarpetta. «Sul corpo di Gilly Paulsson non c’era nulla di sospetto, a parte alcuni lividi recenti, coerenti con l’ipotesi che qualcuno le si sia seduto sul petto tenendole le mani sopra la testa. C’è stata epistassi.» Non vuole dirgli troppo. «Naturalmente, si tratta di informazioni estremamente riservate.»

«Non so proprio dove possa essere Edgar Allan» dice Philpott cupo. «Se dovesse chiamarmi, per qualsiasi ragione, la avverto immediatamente.»

«Le lascio anche il numero di Pete Marino.» Lo scrive su un foglietto.

«Non lo conosco bene e, se devo dire la verità, non l’ho mai trovato granché simpatico. È un uomo strano, mi ha sempre inquietato. Pensi che veniva immancabilmente accompagnato dalla madre. Finché la signora Pogue non morì. Voglio dire, lui era adulto…»

«Di cosa morì la signora Pogue?»

«Vede, con il senno di poi mi viene paura» dice Philpott con espressione preoccupata. «Era obesa e non si curava minimamente della propria salute. Un inverno prese l’influenza e morì, a casa sua. Allora non mi insospettii affatto ma, adesso che so che…»

«Posso guardare la cartella clinica di Edgar Allan? E quella di sua madre, se ce l’ha a portata di mano?» domanda Kay Scarpetta.

«Quella della madre dovrei cercarla, visto che è morta parecchi anni fa. Quella di Edgar Allan posso dargliela subito: vado a prendergliela. Mi aspetta qui?» Si alza. Sembra più stanco e lento di prima.

Kay Scarpetta guarda dalla finestra una ghiandaia azzurra che becca i semi dentro una mangiatoia appesa al ramo spoglio di una quercia e vola via. Edgar Allan Pogue può farla franca, pensa. Le impronte digitali non sono una prova schiacciante e la causa della morte di Gilly Paulsson è controversa. Non si sa quante persone ha ucciso. È preoccupata di cosa facesse quando lavorava per lei. Di quali traffici si occupava nella divisione di Anatomia? Lo rivede, in divisa, pallido e magro, con la faccia bianca come un cencio. Ricorda il suo sguardo furtivo quando lei scendeva dal montacarichi e chiedeva di Dave, il quale peraltro non ha mai trovato simpatico Edgar Allan e certamente non ha idea di dove si trovi in questo momento.

Kay Scarpetta scendeva nella divisione di Anatomia meno che poteva. Era un luogo deprimente e i finanziamenti per tenerla in piedi erano scarsi, troppo esigui per permettere di trattare i corpi che vi arrivavano con adeguato rispetto. Il crematorio, poi, cadeva a pezzi. Le ceneri, una volta estratte dal forno, venivano polverizzate a mano perché gli appositi macchinari erano troppo costosi. I frammenti di ossa troppo grossi per entrare nelle urne fornite dallo Stato venivano spaccati con le mazze da baseball. Kay Scarpetta preferiva non pensarci, scendeva nella divisione di Anatomia soltanto quando era assolutamente indispensabile ed evitava del tutto il crematorio e le mazze da baseball. Sapeva che il personale le usava, ma faceva finta di non esserne al corrente.

Seduta nella cucina del dottor Philpott, pensa che avrebbe dovuto comprare una macchina per polverizzare i resti di cremazione con i suoi soldi, piuttosto che sopportare quel deplorevole andazzo. Adesso non permetterebbe più al personale di usare mazze da baseball.

«Ecco qui» dice Philpott tornando in cucina e porgendole la cartella di Edgar Allan Pogue. «Adesso, se non le dispiace, dovrei tornare dai miei pazienti. Fra una visita e l’altra tornerò a vedere se ha bisogno di qualcosa.»

Il fatto è che la divisione di Anatomia non le piaceva. È un’anatomopatologa laureata in giurisprudenza, non un impresario di pompe funebri, un imbalsamatore. I morti che passavano di lì non avevano niente da dirle, perché erano morti per cause naturali. Il loro era stato un trapasso sereno, senza problemi, e lei si occupava di chi invece aveva subito una morte tutt’altro che serena. La sua missione era scoprire che cosa era successo a chi moriva di morte violenta, in circostanze sospette. E così cercava di non avere niente a che fare con i cadaveri che stavano immersi nelle vasche, con la divisione di Anatomia e con chi ci lavorava. Non frequentava volentieri Dave o Edgar Allan e i morti che sollevavano con l’argano appesi per le orecchie. Preferiva non vederli.

Avrebbe dovuto fare più attenzione, pensa adesso, con un fastidiosissimo bruciore allo stomaco. Forse glielo ha provocato il caffè, forse i sensi di colpa. Guarda la cartella di Pogue e rimpiange di avergli lasciato usare quelle mazze da baseball per polverizzare i residui di cremazione. Controlla il recapito fornito da Pogue al dottor Philpott: fino al 1996 era un indirizzo di Ginger Park, nella zona nord di Richmond, poi una casella postale. Vedendo che non è indicato un domicilio più recente, Kay Scarpetta si chiede se Edgar Allan Pogue non sia andato a stare nella casa della signora Arnette, quella dietro alla casa dei Paulsson, proprio nel 1996. Forse ha ucciso anche lei, per impossessarsi della sua casa.

Sulla quercia adesso si è posata una cincia, che Kay osserva con la cartella aperta fra le mani e il sole che le scalda piacevolmente la faccia. Conosce i pregiudizi della gente e sa che molte persone ignoranti ritengono che chi si occupa dei morti ha il gusto del macabro. Ma Kay Scarpetta è fatta così, e preferisce occuparsi dei morti che dei vivi. La gente dice che gli anatomopatologi sono tipi antisociali, eccentrici e freddi, spesso privi di compassione. Che fanno autopsie perché non sanno curare le malattie e sono dei falliti sia come medici che come esseri umani.

Forse è stato proprio a causa di questi pregiudizi che Kay Scarpetta ha evitato gli aspetti più oscuri della propria professione e non vuole addentrarsi nei suoi meandri. Edgar Allan Pogue, invece, deve averlo fatto. Kay Scarpetta non prova gli stessi suoi sentimenti, ma per certi versi li capisce. Ripensa al suo viso bianco, al suo sguardo furtivo, e ricorda il giorno in cui Lucy scese con lei nella divisione di Anatomia. Erano le vacanze di Natale ed era andata a trovarla. Lucy adorava andare con lei in ufficio e quel giorno Kay Scarpetta doveva parlare con Dave ed era scesa nella divisione di Anatomia con Lucy, che faceva la matta per i corridoi. Giocava con le lettighe, faceva baccano. Successe qualcosa, quel giorno, ricorda vagamente. Un incidente, forse. Che cosa?

La cincia di là dal vetro sembra guardarla negli occhi. Kay Scarpetta alza la tazza e l’uccello vola via. Il sole, pallido, brilla sulla tazza bianca con lo stemma del Medical College of Virginia. Kay Scarpetta si alza e compone il numero di Marino.

«Pronto» risponde lui.

«Non tornerà a Richmond» gli dice Kay Scarpetta. «Sa che lo stiamo cercando. E poi la Florida è l’ideale per chi ha problemi all’apparato respiratorio.»

«Sarà meglio che io torni in Florida, allora. Tu che cosa pensi di fare?»

«Devo ancora sbrigare una faccenda, poi riparto anch’io» replica lei.

«Ti serve una mano?»

«No, grazie.»

53

È l’ora di pranzo e gli operai del cantiere hanno interrotto il lavoro e si sono seduti su blocchi di cemento o sui sedili dei loro mezzi. Con il casco in testa e la pelle bruciata dal sole, si voltano verso Kay Scarpetta che avanza nel fango, tenendo alzati i lembi del cappotto, come fosse la sottana di una dama dell’Ottocento.

Kay non vede Bud Light, né nessun altro con l’aria del caposquadra, ma solo operai fermi a mangiare un panino. Nessuno le va incontro. Intorno a uno scavatore ci sono alcuni uomini con la tuta scura impolverata, che la guardano arrivare continuando a mangiare e a bere dalle loro lattine. Si avvicina e dice: «Sto cercando il caposquadra. Devo entrare nell’edificio».

Guarda quello che un tempo era il suo regno. La parte anteriore del palazzo è già stata demolita, ma quella posteriore è ancora in piedi.

«Impossibile» risponde uno degli operai, con la bocca piena. «È vietato.» Ricomincia a masticare e la guarda come se le avesse dato di volta il cervello.

«La parte posteriore è ancora in piedi» osserva lei. «Un tempo dirigevo l’istituto. Sono già stata qui l’altro giorno, dopo l’incidente a Ted Whitby.»

«Non si può entrare là dentro» ribadisce l’operaio. Lancia un’occhiata ai suoi compagni, che ascoltano senza dire niente, come a dire di dargli una mano a sbarazzarsi di quella pazza.

«Dov’è il caposquadra?» insiste Kay Scarpetta. «Voglio parlare con lui.»

L’uomo prende il cellulare dalla cintura e lo chiama. «Joe?» dice. «Ciao, sono Bobby. Ti ricordi la dottoressa che è venuta qui l’altro giorno? Sì, con il poliziotto di Los Angeles. Infatti. Sì, lei. Okay, è di nuovo qui e vorrebbe parlare con te. D’accordo.» Chiude la comunicazione e la guarda. «È andato un attimo a comprare le sigarette. Torna subito» le comunica. «Perché vuole entrare là dentro, comunque? Non credo che ci sia più niente.»

«A parte i fantasmi» dice uno degli operai. Tutti scoppiano a ridere.

«Quando avete cominciato la demolizione?» domanda Kay Scarpetta.

«Circa un mese fa. Appena prima del giorno del Ringraziamento. Poi abbiamo interrotto i lavori per il cattivo tempo.»

Mentre gli operai discutono bonariamente fra loro sul giorno esatto in cui la palla da demolizione ha colpito per la prima volta il palazzo, Kay Scarpetta vede avvicinarsi un uomo in calzoni beige, giacca verde scuro e scarponi da lavoro. Ha il casco sottobraccio e una sigaretta in bocca.

«Ecco Joe» annuncia l’operaio che lo ha chiamato al telefono, Bobby. «Le dirà quello che le ho detto io, la avverto. Non si può entrare là dentro. È pericoloso.»

«Avete staccato la corrente quando avete cominciato a demolire, o era già stata staccata?» domanda Kay Scarpetta.

«Non avremmo mai cominciato, se la corrente non fosse già stata staccata.»

«Però l’avevano staccata subito prima» ricorda un altro. «Quando abbiamo fatto il sopralluogo le luci si accendevano ancora.»

«Io non mi ricordo.»

«Buongiorno» dice Joe a Kay Scarpetta. «Mi cercava?»

«Ho bisogno di entrare nel palazzo. Dall’ingresso posteriore» spiega lei.

«Mi dispiace, ma è impossibile» risponde l’uomo, scuotendo la testa e guardando l’edificio.

«Posso parlarle un momento in privato?» chiede Kay Scarpetta. Si allontanano dal gruppetto di operai.

«È impossibile, veramente. Che cosa ci andrebbe a fare, comunque?» chiede Joe, appena sono a qualche metro di distanza dagli altri. «È pericoloso.»

«Senta» comincia Kay Scarpetta, con i piedi nel fango. «Abbiamo effettuato l’autopsia su Ted Whitby e sono emersi alcuni elementi un po’ strani. Non posso dirle altro.»

«Sta scherzando?»

Kay Scarpetta sapeva che, esprimendosi in quel modo, avrebbe ricevuto maggiore ascolto. «Devo controllare una cosa all’interno dell’edificio. È davvero pericoloso o lei è solo preoccupato di non violare le norme antinfortunistiche?»

Joe guarda l’edificio e si gratta una tempia, poi si passa le dita fra i capelli. «Be’, non credo che ci possa cadere niente sulla testa, se passiamo da dietro. Non mi avventurerei nella parte davanti.»

«Non voglio andare nella parte davanti» replica Kay Scarpetta. «Possiamo entrare dalla porta sul retro, vicino alla saracinesca, girare a destra e prendere le scale in fondo al corridoio. Voglio scendere nel sotterraneo.»

«Sì, so dove sono le scale. Le ho già prese. Vuole scendere nel sotterraneo? Dio Santissimo!»

«Quando è stata staccata la corrente?»

«Prima dell’inizio dei lavori.»

«Quando avete fatto il sopralluogo nel palazzo la luce c’era ancora?»

«L’estate scorsa? Sì, mi pare di sì. Adesso sarà buio pesto, laggiù. Mi scusi, ma che cosa è emerso di strano dall’autopsia di Ted? Credete che gli sia successo qualcosa prima di rimanere investito dal trattore? So che la moglie vuole fare causa, che ha accusato un collega, ma è assurdo. Io c’ero, dottoressa. Non è successo niente: Ted ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ha avuto la sfortuna che gli si è fermato il motore.»

«Devo scendere a controllare i sotterranei» ribadisce Kay Scarpetta. «Mi farebbe piacere, se mi accompagnasse. Devo solo dare un’occhiata. Immagino che la porta sia chiusa a chiave. Come facciamo ad aprire?»

«Non sarà una porta chiusa a chiave a fermarci.» Lancia un’occhiata all’edificio, poi ai suoi uomini. «Bobby, puoi venire a togliere la serratura dalla porta sul retro, per favore? Subito, se puoi.» La guarda. «Va bene, la accompagno. Basta che non andiamo sul davanti e che facciamo presto.»

54

La luce danza sui muri di cemento e sui gradini beige. I loro passi riecheggiano nella tromba delle scale che portano nella divisione di Anatomia, dove Edgar Allan Pogue lavorava ai tempi in cui Kay Scarpetta dirigeva l’istituto. Non ci sono finestre. Kay Scarpetta e il caposquadra sono entrati in quello che un tempo era l’obitorio: negli obitori non ci sono mai finestre e neanche nei sotterranei. Il buio è totale e c’è puzza di polvere e di muffa.

«Quando ho fatto il sopralluogo, qua sotto non sono sceso» spiega Joe a Kay Scarpetta, precedendola giù per le scale con la torcia elettrica. «Ho fatto solo un giro di sopra. Credevo che qui ci fossero dei magazzini. Non ci sono mai venuto» ripete, chiaramente a disagio.

«Avrebbero dovuto portarcela, invece» replica lei. Ha la gola irritata per la polvere. «Ci sono due vasche di circa sei metri per sei e profonde tre che avrebbe dovuto vedere, perché possono essere pericolose.»

«Non mi dica» esclama Joe, arrabbiandosi. «Non mi hanno nemmeno detto che c’erano… Sei metri per sei? Roba da matti. Sapesse quanto mi fanno arrabbiare certe cose! Ecco, siamo in fondo alla scala. Stia attenta.» Sposta il fascio di luce di qua e di là.

«Dovremmo essere nel corridoio. Andiamo a sinistra.»

«Anche perché a destra non si può andare.» Procede lentamente, guardingo. «Vorrei sapere perché nessuno mi ha detto di quelle due vasche.» Non riesce a farsene una ragione.

«Chi l’ha accompagnata a fare il sopralluogo?»

«Un tale della General Services, non mi ricordo più il nome. Ho l’impressione che non avesse nessuna voglia di venire qui dentro e di non conoscere nemmeno tanto bene l’edificio.»

«Probabilmente non ci aveva mai messo piede» dice Kay Scarpetta, osservando il lurido pavimento di mattonelle alla luce della propria torcia. «Forse non sapeva neppure delle due vasche o che nei sotterranei c’era la divisione di Anatomia. Non ci veniva molta gente. Ecco le vasche, sono laggiù.» Punta la torcia in quella direzione e illumina debolmente le lamiere di ferro posate sulle vasche. «Be’, almeno le hanno coperte. Non so se sia un bene o un male» dice. «Questa è una zona ad alto rischio biologico. Se lo ricordi, quando le demolirete.»

«Me lo ricordo, stia tranquilla. Non ci posso credere!» È furibondo.

Kay Scarpetta si dirige verso il locale dove un tempo Edgar Allan Pogue imbalsamava i cadaveri, dall’altra parte delle vasche. Ne iUumina l’interno. Ci sono un tavolo di acciaio collegato a una serie di tubi nel pavimento, alcuni armadietti e un lavandino di acciaio. Appoggiata a un muro c’è una lettiga arrugginita, con un telo di plastica sopra. Sulla sinistra c’è il forno crematorio, incassato nel muro. Kay Scarpetta passa il fascio di luce sullo sportello di ferro e ricorda la luce rossastra che usciva dalla fessura, i carrelli polverosi con cui vi si infilavano i corpi e i mucchi di cenere che ne uscivano. Le tornano in mente le mazze da baseball con cui gli inservienti riducevano in polvere anche gli ultimi frammenti di ossa e prova un terribile senso di colpa.

Sposta il fascio di luce sul pavimento, pieno di polvere e di frammenti di ossa gessosi, che scricchiolano sotto le sue scarpe. Joe è rimasto sulla porta e le fa luce negli angoli, mandando ombre gigantesche sulle pareti di cemento. A un certo punto illumina l’occhio. È disegnato con lo spray nero. Un grande occhio nero, sbarrato, con lunghe ciglia.

«E questo cos’è?» domanda. «Gesù! Cos’è ’sta roba?»

Kay Scarpetta non gli risponde, continua a perlustrare la sala. Le mazze da baseball non sono più nell’angolo in cui venivano lasciate quando lei dirigeva l’istituto, ma ci sono polvere e cenere dappertutto. Un sacco di cenere, pensa Kay. Trova uno spray di vernice nera e due boccette di smalto, rosso e blu, vuote. Le prende e le infila in una borsa di plastica, separandole dalla vernice spray. Trova alcune vecchie scatole di sigari con tracce di cenere all’interno e nota mozziconi per terra. C’è anche un sacchetto di carta marrone appallottolato in un angolo. Lo raccoglie con le mani protette dai guanti, lo apre e si accorge subito che è lì da poco tempo. Di certo meno di un anno. Sente un vago odore di tabacco. Sembra odore di tabacco fresco, non bruciato. Punta la torcia dentro il sacchetto e vede alcuni residui di tabacco e uno scontrino. Joe la osserva, reggendo la torcia con mano ferma. Kay Scarpetta guarda lo scontrino e prova un senso di smarrimento. Le pare assurdo che il 14 settembre scorso Edgar Allan Pogue — è certa che sia stato lui — abbia speso oltre cento dollari in una tabaccheria del James Center per dieci sigari Romeo y Julieta.

55

Il James Center non è il genere di centro commerciale che Marino frequentava quando lavorava nel Dipartimento di polizia di Richmond. Non comprava le sue Marlboro in tabaccherie eleganti.

Non acquistava neppure sigari, di nessuna marca, perché costavano troppo. E poi lui era abituato a buttare giù il fumo, e con i sigari non si può. Adesso che non fuma quasi più, può ammetterlo: se avesse fumato un sigaro, ne avrebbe inalato il fumo. L’atrio del centro commerciale è un tripudio di cristalli, piante verdi e fontanelle. Marino lo attraversa, diretto alla tabaccheria in cui Edgar Allan Pogue comprò i suoi dieci sigari meno di tre mesi prima di uccidere Gilly Paulsson.

È mattina e nei negozi non c’è molta gente. Donne in tailleur e uomini in giacca e cravatta acquistano caffè da portare via e si affrettano con l’aria di chi ha un sacco di cose da fare. Marino non sopporta le persone che bazzicano il James Center e i luoghi più eleganti di Richmond. Le conosce bene, anche se non le frequenta. Peraltro, quel genere di persone tende a disprezzare il mondo cui appartiene lui. Marino allunga il passo, innervosito. Passa davanti a un uomo con un gessato nero che non lo degna di uno sguardo e gli lancia un’occhiata piena di disprezzo. “Coglione” pensa rabbioso.

Nella tabaccheria aleggia un aroma di sigari che gli fa immediatamente venire voglia di fumare. Le sigarette continuano a mancargli da morire. Marino si incupisce, nell’accorgersi di quanto gli mancano, e si intristisce al pensiero che non potrà più accendersene una. Gli piacerebbe poterlo fare, di tanto in tanto, ma sa benissimo che è impossibile. Pensare di fumare solo una sigaretta ogni tanto è un’illusione. Non c’è speranza: l’amore per il tabacco è insaziabile e disperato. Marino quasi ha le lacrime agli occhi, al pensiero di non potersi più accendere una sigaretta, inspirare il fumo e sentirlo nei polmoni, inebriante e dolcissimo. Come gli manca quella sensazione! Si sveglia la mattina con la voglia di fumare, va a dormire la sera con la voglia di fumare, sogna di fumare notte e giorno. Guarda l’ora e pensa a Kay Scarpetta. Chissà se il suo volo ha ritardo. Ormai gli aerei sono sempre in ritardo.

Il medico ha detto a Marino che, se avesse continuato a fumare, a sessant’anni avrebbe dovuto girare con la bombola a ossigeno a tracolla. Rischiava di avere la stessa fame d’aria di Gilly Paulsson, povera ragazza, quando si divincolava sotto il peso di quel bruto che la teneva ferma per le mani e cercava invano di prendere fiato, di chiamare aiuto, di gridare. Cosa ha fatto per meritarsi una morte così atroce, povera ragazza? Niente, pensa Marino guardando i sigari esposti sugli scaffali di legno nella tabaccheria elegante. Kay Scarpetta dovrebbe essere già in aereo, riflette, notando le scatole di Romeo y Julieta. Se è partita in orario, potrebbe essere già sopra Denver. A quel pensiero, Marino prova un sentimento strano, che gli provoca vergogna e rabbia assieme.

«Se ha bisogno, mi dica pure» mormora l’uomo dietro il bancone. Ha un pullover grigio scollato a V, pantaloni di velluto marroni e i capelli grigi. A Marino fa venire in mente il fumo: forse, a furia di lavorare in una tabaccheria, è diventato color fumo. Probabilmente la sera, quando torna a casa, fuma tranquillo e beato mentre lui, Marino, non può più accendersi nemmeno una sigaretta. Adesso sa che il fumo fa male, ne è pienamente consapevole. Si è raccontato per molto tempo che non era vero, ma adesso lo sa e si vergogna di aver mentito a se stesso.

Si infila una mano in tasca e prende lo scontrino che Kay Scarpetta ha trovato nella divisione di Anatomia della vecchia sede dell’Istituto di medicina legale. È in una bustina di plastica trasparente. La posa sul bancone.

«Lavora qui da molto?» domanda all’uomo color fumo.

«Quasi dodici anni» risponde lui con un sorriso. Ma negli occhi grigio fumo gli brilla una luce sospettosa e spaventata.

«Conoscerà un certo Edgar Allan Pogue, allora. Venne qui il 14 settembre a comprare questi sigari.»

L’uomo aggrotta la fronte e legge lo scontrino protetto dalla bustina di plastica. «È un nostro scontrino» dice.

«Ottima deduzione, Watson» lo prende in giro Marino. «Questo Pogue è un uomo basso di statura, grasso, con i capelli rossi» spiega poi, non facendo nulla per metterlo a suo agio. «Fra i trenta e i quarant’anni. Lavorava alla morgue, in fondo alla strada.» Fa segno in direzione di Fourteenth Street. «Un tipo un po’ bizzarro.»

L’uomo color fumo lancia un’occhiata al berretto di Marino, con la scritta LAPD. È pallido, nervoso. «Non vendiamo sigari cubani» dice.

«Scusi?» chiede Marino, accigliandosi.

«Se è a questo che allude, intendo. L’uomo di cui parla me li ha chiesti, ma noi non ne vendiamo.»

«Le ha chiesto sigari cubani?»

«Era molto deciso, almeno l’ultima volta che l’ho servito» spiega nervosamente l’uomo, agitato. «Non vendiamo né sigari cubani né nulla di illegale.»

«Non la sto accusando di questo, stia tranquillo» replica Marino. «Non me ne frega un corno, se anche li vende sottobanco.»

«Non vendo niente sottobanco. Glielo assicuro.»

«Voglio solo trovare questo Pogue. Mi parli di lui.»

«Sì, credo di sapere di chi parla» risponde l’uomo, sempre più color fumo. «Mi ha chiesto sigari cubani. Cohiba, per la precisione. Non quelli dominicani, che abbiamo. Voleva quelli cubani. Gli ho detto che non vendiamo sigari cubani perché sono illegali. Lei non è di qui, vero? Non ha l’accento di qui.»

«No, non sono di qui» replica Marino. «Cos’altro le ha detto questo Pogue? E quando è venuto nella sua tabaccheria l’ultima volta?»

L’uomo guarda lo scontrino posato sul bancone. «Probabilmente in ottobre. Mi sembra che venisse una volta al mese, più o meno. Un uomo strano, molto strano.»

«In ottobre, dice? Okay. E che cosa le ha detto?»

«Che voleva questi sigari cubani, che era disposto a pagarli qualsiasi cifra. Io gli ho risposto che non li vendevamo, che lo sapeva già perché me li aveva già chiesti, anche se non con tanta insistenza. Un uomo strano, le dico. Sì, me li aveva già chiesti, ma l’ultima volta ha insistito tantissimo. Non mollava. Diceva che il tabacco cubano non fa male ai polmoni e assurdità del genere. Diceva che, purché uno fumi tabacco cubano, può fumare quanto vuole che non gli fa male. Anzi, gli fa bene, perché è tabacco puro e ha proprietà medicinali, curative.»

«E lei? Mi dica la verità, per favore. Non me ne frega niente se anche gli ha venduto dei sigari cubani. Non sono dell’ATF. Se è così convinto che quella roba faccia bene ai polmoni, da qualche parte se la sarà procurata.»

«Sì, lo credo anch’io. Era certamente deciso a mettere le mani su quei sigari cubani. Non mi chieda perché» continua l’uomo, fissando lo scontrino. «Ci sono un sacco di ottimi sigari non cubani. Non capisco perché si intestardisse così. Mi faceva venire in mente quelli che vogliono a tutti i costi l’erba magica, la marijuana, le iniezioni di oro fuso, ha presente? Superstizioni. L’ho mandato in un altro negozio e l’ho pregato di non chiedermi mai più di vendergli merce illegale.»

«Quale negozio?»

«Be’, veramente è un ristorante. Ho sentito dire che al bar del ristorante li vendono, o comunque sanno indirizzare a gente che li vende. Non solo sigari, credo. L’ho sentito dire, non lo so per certo. Io non ci vado. Non ho niente a che fare con loro.»

«Dov’è questo posto?»

«Non lontano da qui» risponde l’uomo color fumo. «Nello Shockhoe Slip.»

«Sa chi vende sigari cubani nel Sud della Florida? Gli ha consigliato qualche posto anche in quella zona?»

«No» risponde lui. «Non ne conosco. Chieda lì, forse loro lo sanno.»

«Okay. Mi dica: lei ha indirizzato Pogue a questo posto nello Slip dove poteva trovare i sigari cubani?» chiede Marino rimettendosi in tasca la bustina di plastica con lo scontrino.

«Gli ho detto che so di gente che li compra lì» replica l’uomo.

«Come si chiama questo posto?»

«Stripes. È in fondo a Cary Street. Non volevo che tornasse qui. È un uomo strano, gliel’ho detto. L’ho sempre pensato, che era un uomo strano. Taciturno, scontroso» continua l’uomo. «Ma l’ultima volta che è venuto — a ottobre, direi — era più strano del solito. Aveva una mazza da baseball in mano. Gli ho chiesto come mai, e lui non mi ha risposto. Non era mai stato così insistente, invece l’ultima volta mi ha fatto una testa così, con la storia dei sigari cubani.»

«E questa mazza da baseball era bianca, rossa e blu?» domanda Marino, pensando a Kay Scarpetta, ai resti di cremazione e a tutto quello che gli ha raccontato dopo essere stata da Philport.

«Può darsi» risponde l’uomo, facendo una faccia strana. «Mi spiega di che cosa si tratta?»

56

Nei boschi intorno ad Aspen le ombre sono lunghe e fa freddo. Gli alberi sono spogli ma fitti e Lucy e Henri camminano nella neve scostandosi i rami dalla faccia. Non ci sono orme di scarponi da nessuna parte, eccetto le loro.

«Perché stiamo facendo questa sfacchinata?» protesta Henri. «È un’idiozia!»

«Avevamo bisogno di prendere una boccata d’aria» risponde Lucy. Affonda nella neve fino alla coscia. «Wow! Guarda! È bellissimo!»

«Non saresti dovuta venire» dice Henri, fermandosi e guardando Lucy nella neve. «Ho superato il peggio, ma ne ho abbastanza. Torno a Los Angeles.»

«Fai come credi: è la tua vita.»

«Dici così, ma non lo pensi. Ti vedo già crescere il naso, Pinocchio!»

«Andiamo ancora un po’ avanti» le propone Lucy, riprendendo a camminare e scostando i rami perché non le arrivino in faccia. In realtà si meriterebbe un bel ramo sulla faccia, pensa. «Ho visto un tronco per terra, dal sentiero. Potremmo sederci un attimo lì.»

«Moriremo di freddo» replica Henri, rimettendosi a camminare. Il respiro le si condensa davanti alla bocca.

«Hai freddo adesso?»

«No, ho caldo.»

«Okay. Se ci viene freddo, torniamo a casa.»

Henri non risponde. È molto più debole, rispetto a prima dell’influenza e dell’aggressione. A Los Angeles, quando Lucy l’ha conosciuta, Henri era in forma fisica perfetta. Snella ma molto tonica, era in grado di fare più flessioni sulle braccia della maggior parte delle donne della sua età e correva il miglio in sette minuti. Adesso fa fatica a camminare. In meno di un mese, Henri ha perso l’allenamento e non solo: sembra non sapere più perché sta al mondo. Forse non lo sapeva neanche prima, riflette Lucy. Forse è solo animata dalla vanità, i cui fuochi ardono e si spengono molto rapidamente.

«Eccolo» esclama Lucy. «Vedi quel tronco enorme? Dietro dev’esserci un ruscello ghiacciato. Quello laggiù è il centro sportivo.» Lo indica con la racchetta da sci. «Sarebbe bello, se dopo ci andassimo a fare un bagno turco.»

«Ho il fiatone» ribatte Henri. «Da quando ho avuto l’influenza, respiro male.»

«Hai avuto la polmonite, te lo sei scordato?» dice Lucy. «Hai preso l’antibiotico per una settimana. Eri ancora in cura, quando è successo quel che è successo.»

«Quando è successo quel che è successo» ripete Henri. «Non riusciamo nemmeno più a chiamarlo per nome.» Si ferma, sudata e affaticata. «Mi bruciano i polmoni.»

«E qual è il suo nome?» Lucy raggiunge il tronco e comincia a togliere la neve per potersi sedere. «Come ti esprimeresti tu?»

«Sfuggire alla morte per un pelo.»

«Vieni, siediti.» Lucy posa la mano sul tronco, vicino a dove si è seduta lei. «Si sta benissimo.» Ha la faccia gelata. «Ti senti come se fossi sfuggita alla morte per un pelo?»

«Sì.» Henri resta in piedi, nervosa, e si guarda intorno. Le ombre si stanno allungando e dietro i rami si vedono le luci accese nelle case e nel centro sportivo. Dai camini si alzano sbuffi di fumo.

«Be’, hai subito un’aggressione» risponde Lucy, guardandola negli occhi e notando qualcosa che fino a quel momento le era sfuggito. «Ma, a parte il nome che vogliamo dare alla cosa, a me interessa capire come ti senti, che emozioni provi.»

«Meglio che lasciamo perdere» dice Henri, sedendosi sul tronco di malavoglia e mantenendo le distanze.

«Non te la sei cercata, Henri. Ti ha trovato lui» dice Lucy, guardando il bosco con le mani sulle ginocchia.

«Mi ha seguito. Succede spesso, agli attori. E io sono un’attrice.» Lo dice compiaciuta, quasi fosse contenta.

«Lo pensavo anch’io, fino a poco tempo fa» replica Lucy, prendendo una manciata di neve con il guanto. «Hai rilasciato un’intervista in cui hai dichiarato di lavorare per me. Senza dirmelo.»

«Che intervista?»

«Un’intervista all’“Hollywood Reporter” che cita il tuo nome.»

«Il mio nome viene citato spesso. È già successo che i giornali scrivessero cose che non ho mai detto» replica Henri, irritata.

«Non si tratta di questo, Henri. Quella di cui parlo è un’intervista. Credo che tu l’abbia rilasciata veramente. Il giornalista cita anche l’Ultimo Distretto. La sua esistenza non è segreta, d’accordo — sebbene neanche molto pubblicizzata — ma il fatto che io abbia trasferito la sede in Florida invece lo era. Volevo che non si sapesse per via del campo di addestramento. Invece la notizia è finita su un giornale e adesso si spargerà a macchia d’olio.»

«Non sei molto esperta in fatto di voci e pettegolezzi, vedo» rimarca Henri. Lucy non la guarda. «Se avessi lavorato nel mondo dello spettacolo, sapresti come funzionano queste cose.»

«So che effetti ha avuto stavolta. Edgar Allan Pogue ha scoperto che mia zia lavora per l’Ultimo Distretto, che l’Ultimo Distretto ha sede a Hollywood, e si è trasferito in Florida.» Si china a raccogliere un’altra manciata di neve. «E mi è venuto a cercare.»

«Non ce l’aveva con te» ribatte Henri fredda. A Lucy sembra più fredda della neve che tiene in mano.

«Sì, invece, ce l’aveva con me. Non è facile capire chi è alla guida di una Ferrari, se non si guarda da vicino. Rudy ha ragione, le Ferrari sono troppo facili da seguire. Pogue mi cercava, probabilmente ha chiesto in giro, ha scoperto il campo di addestramento e ha seguito la Ferrari fino a casa mia. Quella nera, probabilmente. Non so.» Si lascia cadere la neve dal guanto nero e ne raccoglie un’altra manciata, rifiutandosi di guardare Henri. «Che ha visto la Ferrari nera è indubbio, comunque, dal momento che me l’ha graffiata. L’ha vista quando l’hai presa tu. Senza permesso, vorrei precisare. Forse in quell’occasione ha scoperto anche dove abitavo. Ma non aveva niente contro di te. Cercava me.»

«Sei così egocentrica!» sbuffa Henri.

«Sai, Henri, abbiamo fatto molte ricerche sul tuo conto, prima di assumerti» le dice, lasciando cadere la neve dal guanto. «Penso che abbiamo letto tutti gli articoli in cui si parlava di te. E non erano molti, ti segnalo. Quindi vorrei che la smettessi di farti passare per una star, almeno con me. Non è che se uno ti segue diventi automaticamente famosa. È una sciocchezza.»

«Io torno indietro.» Henri si alza dal tronco e perde l’equilibrio, rischiando di cadere. «Sono stanca.»

«Voleva ucciderti per punirmi di una cosa che gli ho fatto molti anni fa» le spiega Lucy. «Se proprio vogliamo trovare una logica nelle azioni di uno psicopatico come quello. Il fatto è che io non me lo ricordo per niente. E probabilmente lui non si ricorda di te. A volte gli altri ci strumentalizzano.»

«Vorrei non averti mai incontrato. Mi hai rovinato la vita.»

A Lucy vengono le lacrime agli occhi. Rimane seduta sul tronco, paralizzata. Prende una manciata di neve e la lancia lontano.

«Preferisco gli uomini, comunque» sibila Henri, incamminandosi lungo la strada che hanno percorso per arrivare sin lì. «Non so perché mi sono lasciata convincere. Forse ero solo curiosa. E tu sai essere molto affascinante, all’inizio. Nel mio ambiente siamo tutti piuttosto avventurosi, ci piace sperimentare. Comunque, non ha importanza. Non più.»

«Come mai avevi quei lividi?» le chiede Lucy. Henri cammina nella neve piantando le racchette da sci, con il respiro pesante. «So che te lo ricordi. Te lo ricordi benissimo.»

«I lividi che hai fotografato, poliziotta?» ribatte Henri ansimando.

«So che te lo ricordi.» Lucy le guarda la schiena con gli occhi pieni di lacrime, ma mantiene la voce ferma.

«Si è seduto sopra di me.» Henri pianta i bastoncini nella neve. «Un pazzo con i capelli lunghi. All’inizio l’ho preso per una donna: ho creduto che fosse la signora che pulisce la piscina. L’avevo visto nel giardino qualche giorno prima, quando ero a letto malata, e l’avevo preso per una cicciona con i capelli lunghi. Siccome era vicino alla piscina, pensavo fosse quella che te la viene a pulire.»

«Puliva la piscina?»

«No, però era lì sul bordo. Ho creduto che fosse una sostituta. Ma il bello è questo.» Si volta verso Lucy. Ha una faccia strana, diversa. «Quell’ubriacona della tua vicina gli ha scattato delle foto. Come fa sempre, quando vede qualcuno nel tuo giardino.»

«Grazie di avermelo detto» mormora Lucy. «Sono certa che a Benton non l’hai nemmeno accennato. Cercava di aiutarti, sai? Potevi anche avvertirci che esistevano delle foto.»

«Non ricordo altro. Si è seduto sopra di me. Non ve lo volevo dire.» Ha il fiatone. Si ferma, si volta e le rivolge uno sguardo pieno di odio. «Mi vergognavo, sai com’è.» Fa un respiro profondo. «Che un uomo brutto e grasso mi avesse trovata a letto e non avesse cercato di farmi niente. Mi si fosse seduto sopra e basta.» Si gira di nuovo dall’altra parte e riprende il cammino.

«Grazie dell’informazione, Henri. Sei proprio una grande investigatrice.»

«Non più. Me ne vado. Torno a Los Angeles.»

Lucy resta sul tronco e si guarda le mani coperte dai guanti neri. «No, non te ne vai: ti licenzio.»

Ma Henri non la sente.

«Sei licenziata» ripete Lucy dal tronco.

Henri continua per la sua strada, un passo dopo l’altro, piantando le racchette nella neve.

57

Edgar Allan Pogue entra nel Gun Pawn Shop sulla US1 e guarda senza fretta la merce esposta, giocherellando con le cartucce che ha nella tasca destra dei pantaloni. Prende una fondina, legge cosa c’è scritto sulla confezione e la rimette a posto. Non ha bisogno di fondine. Non oggi. Che giorno è oggi? Non lo sa. I giorni passano senza che lui nemmeno se ne accorga, vaghi sprazzi qua e là, luce che va e che viene nel salotto, ore e ore sulla sedia a sdraio a fissare l’occhio che lo fissa dal muro.

Ha una tosse secca, fastidiosa, che lo lascia prostrato e senza respiro, il naso che cola e le ossa rotte. Sa che cosa vuol dire. Tutta colpa del dottor Philpott, che è rimasto senza vaccino antinfluenzale, che non gliene ha conservato uno. Non tutti hanno bisogno del vaccino quanto lui. Certa gente lo fa per sfizio, mentre per lui è una necessità. Però il dottor Philpott non ci ha pensato. Gli ha detto che gli dispiaceva, ma che aveva finito le scorte: non ce n’era più.

“Mi spiace, è esaurito. Se vuole ripassare fra una settimana, ma dubito che riuscirò a procurarmelo” gli ha detto.

“Lo troverò in Florida?” gli ha chiesto Pogue.

“Non credo” ha risposto il dottore, che era occupato e non aveva tempo per lui. “Sembra che sia esaurito in tutti gli Stati Uniti. È più facile vincere al lotto che trovare una dose di vaccino, temo. Quest’anno le scorte si sono rivelate insufficienti. Non ne è stato prodotto abbastanza, per prepararne dell’altro ci vogliono tre o quattro mesi e ormai non ne vale più la pena. Comunque sa, uno si vaccina per un tipo di influenza e poi se ne prende un altro: la certezza di non ammalarsi non c’è mai. Cerchi di stare lontano dalle fonti di contagio e segua uno stile di vita più sano. Eviti gli aerei e le palestre: le palestre sono uno dei luoghi in cui è più facile beccarsi l’influenza.”

“Sì, dottore” ha risposto Pogue, che non ha mai preso un aereo in vita sua e non entra in una palestra da quando ha smesso di andare a scuola.

Ha un accesso di tosse tanto forte che gli lacrimano gli occhi. Guarda alcuni accessori per la pulizia delle pistole, affascinato da scovoli e detergenti speciali. Ma poi, siccome non ha nessuna intenzione di pulire pistole, si allontana. Guarda tutte le altre persone che girano per il negozio. Dopo un po’ resta l’unico cliente. Al bancone c’è un uomo grande e grosso, tutto vestito di nero, che sta rimettendo una pistola in una bacheca chiusa a chiave.

«Desidera?» gli chiede. Ha l’aria cattiva, la testa rasata e dimostra una cinquantina di anni.

«So che vendete sigari» dice Pogue con un filo di voce, sforzandosi di non tossire.

«Ah, davvero?» L’uomo lo guarda con aria di sfida, gli osserva la parrucca nera, lo guarda negli occhi e gli mette paura. «E chi glielo ha detto?»

«L’ho sentito dire» risponde Pogue. L’uomo al bancone ha qualcosa di strano e l’istinto gli dice di stare attento: è in pericolo. Comincia a tossire.

«Mi sa che non le conviene fumare» replica l’uomo vicino all’espositore di pistole. Ha un berretto da baseball infilato nei pantaloni. Pogue non vede se c’è scritto sopra qualcosa.

«Sono affari miei» ribatte Pogue, con il respiro corto. «Vorrei dei Cohiba. Sei. Sono disposto a pagarli fino a venti dollari l’uno.»

«Che tipo di arma è il Cohiba?» chiede l’uomo vestito di nero, serissimo.

«Okay, venticinque.»

«Non so di che cosa parla, sa?»

«Trenta» rilancia Pogue. «Di più no. Cubani, mi raccomando. E poi vorrei una Smith Wesson, trentotto. Quella lì.» Indica un revolver nella bacheca. «Prima me la fa vedere, però? E anche i Cohiba.»

«Okay» dice l’uomo. Gli guarda dietro le spalle, come se avesse visto qualcosa. Poi cambia tono ed espressione, e Pogue si spaventa. Si spaventa sul serio.

Si volta per vedere che cosa sta guardando l’uomo con il cranio rasato, ma dietro di lui ci sono solo armi da fuoco, accessori per armi da fuoco, munizioni e tute mimetiche. Giocherella con i sei proiettili calibro .38 nella tasca e medita se sparargli o meno. Gli piacerebbe ammazzarlo, decide. Si volta verso la bacheca per farsi dare la Smith Wesson e vede che l’uomo vestito di nero con il cranio rasato gli sta puntando contro una pistola.

«Piacere, Marino» gli dice.

58

Kay Scarpetta vede Benton scendere verso la strada su cui è appena passato lo spazzaneve e si ferma sotto gli abeti ad aspettarlo. Non lo vede da quando è partito per la montagna e lui le ha telefonato molto di rado, dopo che Henri si è trasferita in casa sua. Kay non sapeva niente di Henri, allora, e ha frainteso la sua reticenza a parlare. Adesso capisce. Ha imparato a essere più comprensiva. Non è difficile, dopotutto.

Benton la bacia. Le sue labbra sanno di sale.

«Che cosa hai mangiato?» gli chiede Kay, abbracciandolo e baciandolo di nuovo sotto gli abeti, con i piedi nella neve.

«Arachidi. Con il fiuto che ti ritrovi, avresti dovuto fare il cane da tartufi» le dice guardandola negli occhi.

«Ho sentito il sapore, non l’odore» puntualizza lei sorridendo. Benton le mette un braccio intorno alle spalle e la accompagna verso casa.

«Mi riferivo ai sigari» dice lui, stringendola a sé. «Ti ricordi quando fumavo il sigaro?»

«Sì. Che sapore orrendo!» esclama lei. «Il profumo era buono, ma il sapore no.»

«Parli tu, che all’epoca fumavi sigarette.»

«Non avevo un buon sapore neanch’io, allora.»

«Non ho detto questo. Non lo penso.»

La stringe. Camminano lentamente, abbracciati, verso la casa di Benton, che ha le finestre illuminate.

«Sei stata davvero in gamba, Kay» le dice. Cerca le chiavi nella tasca della giacca a vento. «Volevo dirtelo.»

«Non ho risolto io il caso» risponde lei. Si chiede che cosa prova Benton, dopo tanto tempo, e cerca di capire che cosa prova lei. «È tutto merito di Marino.»

«Avrei voluto vederlo chiedere sigari cubani in una delle tabaccherie più chic della città.»

«Infatti lì non li vendevano. Comunque, non trovi che sia una stupidaggine? In questo paese i sigari cubani sono come la marijuana» dice Kay. «Lo hanno indirizzato in un locale e poi da lì a un altro, fino all’armeria di Hollywood. Sai com’è fatto Marino: quando si mette in testa una cosa, non molla più.»

«Già.» Benton non ha voglia di parlare di Marino. Kay capisce di che cosa ha voglia e non sa come comportarsi.

«Il merito è di Marino, non mio. Ha fatto praticamente tutto lui! Ho fame: che cosa mi hai preparato di buono?»

«Grigliata mista. Se ti va, la cuociamo fuori, sul patio.»

«Sul patio? Al freddo e al gelo?»

«Lo so. Infatti non uso mai quel barbecue.» Apre la porta di casa.

Si puliscono le scarpe dalla neve, più per abitudine che altro, visto che il vialetto è perfettamente pulito. Entrano in casa, Benton chiude la porta e la abbraccia. Si baciano e lui non sa più di sale. È un bacio lungo, caldo, dolcissimo.

«Ti stai facendo crescere i capelli» gli dice lei, accarezzandogli la testa.

«Ho avuto troppo da fare per andare dal parrucchiere» risponde lui, accarezzandola dappertutto. Non si sono ancora tolti le giacche.

«Con una bella donna in casa, lo credo che non avevi tempo per andare dal parrucchiere» lo prende in giro lei, togliendogli la giacca a vento e lasciandosi spogliare. «Guarda che so tutto.»

«Tutto?»

«Sì, tutto. Stai bene, comunque. Non te li tagliare.»

Si appoggia alla porta d’ingresso e, fra le sue braccia, non sente neppure gli spifferi. Lo guarda negli occhi. Lui le accarezza una guancia e cerca di scrutarle nell’animo per capire se è felice o triste.

«Vieni» le dice, lanciandole un’occhiata penetrante, prendendola per mano e allontanandola dalla porta. «Ti offro qualcosa da bere. O preferisci mangiare? Avrai fame, sarai stanca.»

«Non sono poi così stanca» risponde Kay.

FINE