3. Dove il sultano e i suoi ministri discutono se invadere Cipro, Costantinopoli è divorata da un incendio, e il kapudan pascià dà prova di zelo

Al di là delle rivalità personali, quali erano i pro e i contro della guerra contro Venezia che i visir possono aver sottoposto all’attenzione del sultano? Le frequenti dichiarazioni d’amicizia per la città lagunare, che nessuno di loro aveva mai visto, non sono da tenere in conto: perché si trattava comunque d’una potenza infedele, che pur reiterando a sua volta le proteste d’amicizia si era rivelata in altri tempi un nemico spietato. La prosperità economica di Venezia suscitava rancore, non disgiunto da una riluttante ammirazione, come attesta il maggiore storico ottomano del secolo seguente, Kâtib Çelebi: «I miscredenti di Venezia, genia destinata alla rovina, sono famosi per i beni abbondanti, il fiorente commercio, e i traffici condotti perennemente con frodi e sotterfugi». Fidarsi delle loro proteste di amicizia è un errore: «Essi tirano avanti dissimulando, con esibizione di amicizia, certo forzata; e però, più degli altri infedeli aspramente ostili nell’animo, restano in fondo nemici della vera fede». Il loro capo supremo, il doge, si atteggia a principe, ma è solo un mercante; il suo rango è molto inferiore a quello di un re, e alla sua morte gli altri capi dei veneziani si giocano ai dadi la successione. È vergognoso che gente simile detenga possedimenti in grado di limitare lo spazio vitale dell’impero: «I Veneziani – spregevole squadra raminga e dispersa – che fra i sovrani infedeli occupano il limitato grado di duca, noti fra i miscredenti col nomignolo di ‘pescatori’, sono arrivati alla gola del Ben Custodito Dominio, contrastando uno Stato di gloria eminentissima, imperante su Oriente e Occidente»1.

Ma accanto a questa retorica imperiale c’erano anche fatti più modesti, che i politici di Costantinopoli non potevano fare a meno di valutare. Venezia era l’unico luogo in cui acquistare le meraviglie che gli infedeli, inspiegabilmente, continuavano a produrre e che nell’impero sarebbe stato impossibile trovare. A Venezia Mehmet pascià comprava prima della guerra, e sarebbe tornato a comprare più tardi, occhiali, orologi, carte geografiche a stampa; la sorella del sultano, Mihrimah, aveva ordinato lì, non fidandosi della produzione locale, una fornitura d’acciaio per l’acquedotto che stava costruendo alla Mecca; altri pascià vi acquistavano, o si facevano regalare, vetrerie, panni pregiati e strumenti musicali, come l’organo portatile mandato a Pialì pascià per specifica richiesta della moglie; da lì veniva il formaggio parmigiano (ma allora si chiamava “piacentino”), apprezzatissimo nei palazzi di Costantinopoli; e quasi tutte le stoffe acquistate dalla corte del sultano erano prodotte a Venezia. Quella stessa supremazia economica che faceva sospettare i veneziani di frode li rendeva dei partner indispensabili per l’élite ottomana: proprietario di navi da trasporto, Pialì le assicurava a Venezia, per il tramite degli ebrei di Ancona, anche se quando una affondò davvero scoprì che costringere gli assicuratori a pagare era tutt’altro che facile. Per fortuna i baili erano sempre pronti a intervenire per facilitare le transazioni e oliare i meccanismi: tener buoni i potenti della Porta era una regola fissa della politica veneziana, e la Signoria stanziava fondi considerevoli perché i suoi inviati potessero fare ai pascià costosi regali2.

Fino a non molto tempo prima, interessi economici ancor più consistenti legavano a Venezia i ministri del sultano. Per nutrire le 150.000 persone affollate nella città lagunare era invalsa l’abitudine di acquistare grano in Oriente, e i pascià, dotati di vasti possedimenti nell’Arcipelago e nei Balcani, figuravano tra i protagonisti di quel commercio. Da pochi anni, però, la Serenissima aveva diradato gli acquisti, e i profitti erano in calo. Secondo il Barbaro, la colpa era dello stesso governo ottomano, che aveva proibito di esportare frumento a Venezia, al preciso scopo di metterla in difficoltà: col risultato che nei domini veneziani la produzione di grano era stata incentivata e la Repubblica puntava ormai all’autosufficienza. In realtà il sultano coi divieti di esportazione non mirava tanto a imbarazzare Venezia, di cui s’interessava fino a un certo punto, quanto a garantire l’approvvigionamento di Costantinopoli, reso più precario negli anni Sessanta da una successione di cattivi raccolti. In ogni caso, i predecessori del Barbaro segnalavano già da tempo la necessità di ridurre la dipendenza di Venezia dal grano turco, per non rimanere in ostaggio delle decisioni del governo ottomano, e ultimamente gli acquisti si erano davvero diradati3.

Ma è difficile dire quanto il calo delle esportazioni abbia convinto i membri del divan che la guerra contro Venezia non avrebbe danneggiato i loro interessi personali: anche perché in tempo di carestia la Signoria era ancora obbligata ad acquistare grano nell’impero, aggirando i divieti ufficiali. Il raccolto dell’estate 1569 in Italia fu abbastanza deludente da lasciar prevedere ottimi sbocchi per il grano prodotto sui latifondi dei pascià. Il Barbaro era incaricato di comperarne a tutti i costi, e cominciò a contattare padroni di piccole imbarcazioni disposti, per un congruo compenso, a caricare grano agli scali di Salonicco e Volos, ufficialmente per portarlo a Costantinopoli, e poi condurlo di nascosto a Creta o a Zante. Era un traffico in cui si rischiava la testa, data la severità delle proibizioni; eppure gli stessi pascià che le avevano emanate non si fecero scrupolo di ordinare ai loro amministratori nei Balcani di vendere il grano ai mercanti veneziani. Quando uno di questi ultimi venne a Costantinopoli per lamentarsi di un’inadempienza, il Barbaro dovette ricorrere alle minacce per evitare che si rivolgesse addirittura al divan facendo scoppiare uno scandalo, perché nessuno desiderava far sapere in pubblico «che li formenti di essi magnifici Bassà fussero capitati in Christianità contra l’ordine del Serenissimo Signor».

In materia di commercio dei grani la coscienza dei ministri ottomani era evidentemente molto elastica: il rais di un caramussale appartenente all’agà dei giannizzeri s’impegnò col Barbaro a fare tre o quattro viaggi clandestini per Candia, portando ogni volta 3000 staia di grano; e col passare dei mesi i mercanti veneziani a Costantinopoli presero abbastanza coraggio da trattare direttamente con Mehmet e con Pialì, anche se entrambi i pascià, temendo d’esser scoperti, facevano molte difficoltà e al dunque si tiravano indietro. Ancora nel gennaio 1570, il nunzio pontificio rilevando la scarsità di grano a Venezia annotava: «questi signori hanno intentione d’haverne gran quantità di Levante». È chiaro che in quel momento c’era in aria la possibilità di enormi guadagni: se fossero stati guidati essenzialmente dai propri interessi privati, i pascià avrebbero dovuto ben guardarsi dal consigliare la guerra. Ma a quell’epoca nessuno era ancora arrivato a pensare che gli interessi economici, per quanto colossali, dovessero guidare le scelte di Stato4.

Certamente contrario alla guerra era anche un personaggio importantissimo, la cui presenza discreta si coglie in tutti i negoziati fra il Barbaro e il gran visir, e cioè il gran dragomanno Ibrahim bey. Polacco, si chiamava in origine Joachim Strasz, ed era stato studente a Padova prima di farsi turco ed entrare fra i ciaus, gli influentissimi inviati speciali del sultano. Già alla metà del secolo, quando aveva una trentina d’anni, era diventato l’interprete capo della Porta, e i baili veneziani ne parlavano come d’un uomo addentro a tutti i negozi, «in poco tempo andato tanto innanzi che ogni cosa passa per man sua», capace com’era di parlare e leggere in latino, italiano, turco, greco e lingua franca. Mandato a Venezia nell’inverno 1567 per informare dell’avvento al trono di Selim, era stato trattato con grande cordialità da un governo ansioso di compiacere il sultano: «il chiaus è accarezzato, et banchettato grandemente et va a comedie et a feste publicamente», scriveva disgustato il nunzio pontificio. Oltre a frequentare i teatri, si fece portare a vedere le vetrerie di Murano, e andò fino a Padova a trovare un vescovo polacco, che stava lì a curarsi ed era, secondo lui, un suo parente.

Quella volta la disinvoltura di Ibrahim suscitò un mezzo incidente: l’imbarazzatissimo vescovo non volle scendere incontro all’ospite musulmano, ma non poté comunque evitare di farlo salire in casa, trasgressione che faticò poi non poco a farsi perdonare dal papa. In seguito, però, il Facchinetti andò anch’egli a Padova e il vescovo riferì che Ibrahim, chiacchierando con lui, gli aveva assicurato di sentirsi ancora molto incline al Cristianesimo, e che lo stesso era vero per tutti i rinnegati che occupavano posizioni importanti alla Porta; secondo lui sarebbe stato bene stampare opuscoli in lingua turca per dimostrare la superiorità della fede cristiana sull’Islam, e farli circolare clandestinamente nell’impero. Ai baili veneziani Ibrahim assicurò sempre d’essere buon amico della Repubblica, e in parecchie occasioni rese loro delicatissimi servigi, che rasentavano il tradimento. È difficile dire se lo facesse davvero per motivi ideali, o per i cospicui regali con cui Venezia lo gratificava; ma certamente non era un uomo a cui convenisse la rottura della pace5.

Ma nemmeno per il sultano era conveniente fare la guerra, o almeno così si calcolava in Italia. Secondo il Facchinetti, Selim voleva soltanto spaventare i veneziani, ma in cambio di qualche concessione avrebbe rinunciato a conquistare Cipro, ben sapendo che il tributo pagato dalla Repubblica e i regali che essa offriva alla Porta gli rendevano più di quel che avrebbe reso il possesso dell’isola; tanto più che per ricavare guadagni dai terreni di Cipro occorreva «usar grandissima industria, dalla quale i Turchi sono alienissimi»6. Senonché, questa logica astrattamente economica ignorava i concreti vantaggi che la conquista di Cipro avrebbe comportato per l’impero ottomano. L’isola, infatti, era usata dai pirati cristiani come base per attaccare il traffico navale fra Costantinopoli, la Siria e l’Egitto; più volte ne avevano fatto le spese i bastimenti del tributo egiziano, che era versato direttamente nel tesoro privato del sultano e ne costituiva la principale entrata, e qualche volta erano stati attaccati perfino i convogli dei pellegrini diretti alla Mecca, il che rappresentava un’offesa ancora più intollerabile. Mehmet pascià se ne era già lamentato col bailo, e la Signoria aveva ingiunto alle autorità cipriote di provvedere; ma le insenature dell’isola, così vicina alle coste anatoliche e siriane, costituivano un’attrattiva irresistibile per i legni dei pirati. L’assurdità che un luogo geograficamente così legato all’impero ottomano e potenzialmente così nocivo per i suoi interessi appartenesse a una potenza straniera era di per sé sufficiente a giustificare l’intenzione di Selim di impadronirsene, sul piano economico non meno che su quello politico. Non per nulla i cronisti ottomani spiegheranno la sua decisione proprio con la necessità di farla finita con i pirati, colpevolmente tollerati da Venezia, e di proteggere la vitale rotta commerciale dell’Egitto7.

Restavano, naturalmente, da valutare le possibilità di successo di un’invasione. Dal punto di vista logistico, i turchi si trovavano in una posizione vantaggiosa: la flotta di trasporti che stavano costruendo avrebbe permesso di traghettare senza troppi rischi una forza da sbarco dalle coste anatoliche alle spiagge di Cipro. Solo il timore di un rapido intervento della flotta da guerra veneziana avrebbe potuto produrre un ripensamento, ma i lunghi anni di pace in cui Venezia s’era intorpidita avevano persuaso il governo ottomano che la sua efficienza bellica non era più quella di una volta. Il Ragazzoni, che negoziò con Mehmet pascià qualche mese prima di Lepanto, annota con dispiacere che l’idea di misurarsi sul mare con i veneziani non faceva più paura a nessuno: «perciocché credono, che gli uomini siano poco esperti nella guerra, e di poco animo nel combattere, poco ci stimano»8.

Infine, a Costantinopoli si sapeva benissimo che la popolazione greca di Cipro odiava il dominio veneziano, e si prevedeva che avrebbe accolto a braccia aperte gli invasori, venuti a liberare i contadini dallo sfruttamento dei signori feudali e trasformarli in felici sudditi del Dominio Ben Protetto. Nel gennaio 1570, mentre nell’Arsenale i preparativi per la spedizione proseguivano a ritmo accelerato, il Barbaro comunicò che il kapudan pascià e i suoi rais, i capitani delle galere, si erano intrattenuti a lungo con un cipriota, un certo Iseppo, cui avevano chiesto informazioni sui porti dell’isola.

Nell’uscir che fece il prefato Isepo della camera del capitano del mar, alcuni rais introrono a ragionar con lui di questa impresa di Cipro, facendola loro facile, con dir che tutti li populi di essa isola li chiamano, per esser loro tenuti in servitù, per il ché, come comparerà l’armata in quelle parti, loro Turchi daranno la libertà a tutti, li quali perciò si ribelleranno, e serviranno in favor di essi Turchi.

Il Barbaro sembra implicare che i turchi – per usare le sue stesse parole – la facevano troppo facile; ma come vedremo, le loro aspettative non erano affatto campate in aria9.

Per quanto fossero solidi gli argomenti a favore dell’impresa di Cipro, per quasi tutta la durata del 1569 l’incertezza prevalse fra i ministri del sultano; anche perché altri fronti stavano già impegnando le risorse disponibili. Nell’estremo nord, ad Astrakhan, era in corso una guerra locale contro i moscoviti, e non stava andando bene. La ribellione degli arabi dello Yemen, in corso da anni, non era ancora stata domata. Sul confine con la Persia regnava una precaria pace armata, che gli odiati eretici sciiti avrebbero potuto rompere in qualsiasi momento. Infine, il governatore ottomano di Algeri, Uluç Alì, che era poi il rinnegato calabrese Dionigi Galeni, stava preparando un’offensiva contro il re di Tunisi, musulmano ma alleato della Spagna; l’operazione si sarebbe realizzata fra dicembre e gennaio con spettacolare successo, portando alla conquista della città e infliggendo un colpo mortale all’influenza spagnola in Nordafrica, ma intanto la squadra di Algeri, che contava almeno una ventina fra galere e galeotte, non avrebbe potuto unirsi alla flotta del kapudan pascià10.

Nonostante tutte queste alternative, verso la fine di giugno 1569 l’idea di attaccare Cipro sembrava la più quotata: ed è proprio allora, come s’è visto, che i rapporti del bailo cominciarono a creare preoccupazione a Venezia. Tutti gli informatori riferivano al Barbaro che «le gagliarde, et anticipate provisioni [...] siano più presto per Cipro che per altro loco». Un impiegato di Pialì pascià aveva confidato a un mercante veneziano che l’anno venturo il suo padrone sarebbe partito colla flotta come luogotenente generale del sultano e gli aveva consigliato di lasciare il paese, perché sapeva dal chiecaia, l’intendente o amministratore, di Pialì «et da altri suoi intimi schiavi, che la predetta armata anderà in Cipro». Un morisco spagnolo venuto da poco tempo a Costantinopoli e impiegato dal gran visir come spia si era fatto scrivere un rapporto dal maestro che insegnava il turco ai giovani dell’ambasciata veneziana, il quale era anche lui spagnolo «se ben turco di padre et d’avo»; lo zelante scrivano comunicò subito al Barbaro il rapporto, in cui si affermava fra l’altro che l’impresa di Cipro «era facilissima» perché «quei populi erano malissimo contenti». Finalmente, l’ambasciatore di Francia venne a trovare il bailo e gli assicurò che l’impresa di Cipro era ormai decisa per l’anno prossimo, al di là di ogni dubbio: «et so quello che mi dico», concluse solennemente Monsieur de Grandchamps11.

Senonché, ai primi di luglio giunsero corrieri urgenti dalla Persia, e si deliberò senza preavviso una convocazione straordinaria del divan, nella forma tradizionale e specialissima del cosiddetto “divan a cavallo”, che prevedeva la presenza del sultano e si teneva all’aperto sotto gli occhi di tutti i giannizzeri schierati. A Venezia il nunzio la considerò notizia abbastanza importante da informarne Roma, sottolineando che il divan a cavallo non si riuniva mai se non per prendere decisioni di eccezionale importanza. Poiché il sultano si trovava dall’altra parte del Bosforo, al suo serraglio di Scutari, durante la notte vennero traghettati in gran fretta dall’una all’altra sponda tutti i giannizzeri e il personale della Porta. L’argomento della discussione rimase ignoto al pubblico, ma si osservò che il sultano aveva parlato molto brevemente con tutti i pascià, tranne che con Lala Mustafà, il quale trascorse con lui tre quarti del tempo, per cui le sue fortune vennero giudicate in ascesa. Quanto a Perteu, quando il sultano ebbe finito di parlare con lui il pascià smontò da cavallo e gli baciò il ginocchio in segno di ringraziamento; qualcuno ne dedusse che l’anziano generale aveva chiesto e ottenuto il pensionamento, altri ipotizzarono che gli fosse stato affidato il comando di una spedizione contro i persiani. In ogni caso, all’indomani del divan a cavallo le voci sull’impresa di Cipro si raffreddarono bruscamente, e presero quota quelle di una crisi con la Persia, almeno finché ai primi di settembre non partì per quel paese un’ambasciata («et questa fu forse la vera causa dell’ultimo divan a cavallo», stimò a quel punto il Barbaro)12.

A distrarre ulteriormente il governo dai preparativi bellici contribuì il grande incendio che devastò Costantinopoli alla fine di settembre. Cominciato una notte di vento, dopo cinque mesi che non pioveva, nel quartiere più affollato e più ricco, quello degli ebrei di fronte a Pera, l’incendio si allargò nell’immensa città di legno, bruciando le zone più dense di abitanti e più ricche di botteghe e mercanzie, dal muro del Serraglio fino alla moschea di Solimano, tanto che, a giudizio del Barbaro, metà della ricchezza di Costantinopoli andò in fumo. Dopo la distruzione di tutte le loro case e delle loro merci, dovuta anche ai saccheggi degli sciacalli, gli ebrei si rifugiarono nel quartiere di Pera, dove per il sovraffollamento furono segnalati i primi casi di peste.

Nelle settimane seguenti si scoprirono focolai d’incendio nella capitale come in altre città dell’impero, convincendo le autorità che qualcuno li appiccava a bella posta. Si trovò, o si credette di trovare, materiale incendiario presso il deposito di munizioni dell’Arsenale, e giacché era passato così poco tempo dall’esplosione a Venezia, l’ossessione dell’attentato si impadronì delle autorità ottomane: il sultano ordinò di abbattere tutte le costruzioni abusive addossate alle mura dell’Arsenale, «et così fu fatto senza misericordia alcuna con gran danno di molti poveri». Il timore di attentati, del resto, non era così ingiustificato: solo pochi mesi prima il viceré di Napoli aveva trasmesso al re Filippo la proposta di un avventuriero che dietro adeguato compenso prometteva di andare a Costantinopoli e incendiare l’Arsenale13.

Ad accrescere l’incertezza politica e complicare il processo decisionale, in quegli ultimi mesi del 1569 si aggiunse l’acutizzarsi delle lotte tra i ministri del sultano, osservate con pettegolo interesse dalla popolazione della metropoli. All’indomani del divan a cavallo l’agà dei giannizzeri, che pochi giorni prima aveva conversato così piacevolmente col Barbaro sui vantaggi della pace, venne licenziato in tronco, e spedito in una provincia lontana a governare «un sanzaccato quasi de più minimi». Mehmet, che pure era zio dello sfortunato, accolse con favore la destituzione, perché il posto venne dato a suo genero Giafer. Contemporaneamente uscì dal Serraglio il favorito Sciaus, nominato per il momento sovrintendente delle stalle imperiali, e la sua comparsa sulla scena rimescolò ulteriormente le carte, aprendo la prospettiva di nuovi spostamenti di poltrone. Il Barbaro, che era riuscito a far liberare e rimandare in patria alcuni schiavi veneziani, seppe che il kapudan pascià, Alì, se n’era pubblicamente dispiaciuto, tanto da dichiarare «che se ritornava fuori coll’Armata voleva reintegrarsene a dieci per uno»; ma il bailo si augurò malignamente che non ne avesse l’occasione, perché correva voce che sarebbe stato destituito, per dare il suo incarico proprio a Sciaus14.

A perdere il posto, dopo soli tre mesi, fu invece il nuovo agà dei giannizzeri, colpevole di esserseli lasciati sfuggire di mano durante l’incendio. In simili emergenze i giannizzeri erano soliti accorrere al palazzo del gran visir o a quello dell’agà, portando ciascuno un fazzoletto e lasciandolo come segno di riconoscimento prima di andare a lottare contro le fiamme; poi ognuno tornava a riconoscere il suo, e riceveva in cambio una gratifica. Ma Mehmet quella notte non volle accettare di ritirare i fazzoletti, e Giafer, malato, non poté farlo, sicché i giannizzeri si misero in agitazione e rifiutarono di aiutare a spegnere le fiamme. L’opinione pubblica criticò duramente il gran visir, ma a farne le spese fu suo genero: mentre l’incendio durava ancora il sultano, furibondo, tolse l’incarico a Giafer per darlo proprio al favorito Sciaus, e aumentò il soldo dei giannizzeri, che solo a questo punto cominciarono a darsi da fare per arginare le fiamme15.

Sullo sfondo di queste lotte di potere compare sempre più spesso in primo piano la figura del kapudan pascià. Il capitano del mare era inferiore in rango ai visir, e normalmente non partecipava alle riunioni del governo; insomma, era più un esecutore che un politico, anche se il suo parere era preso in considerazione al momento di decidere un’impresa. Ma in realtà il posto era uno dei più importanti nell’organigramma ottomano, giacché, per ottimizzare la sua attività, gli era assegnato il governo delle principali aree marittime dell’Egeo. Ufficialmente era uno dei venti beylerbey, “Signori dei signori”, preposti alle province dell’impero, e dava ordini ai sangiacchi di Rodi, Mitilene, Chio, Lepanto, Negroponte e Prevesa; la sua autorità copriva anche il quartiere di Pera, dove si trovava l’Arsenale, e la penisola di Gallipoli con gli Stretti, ovvero il passaggio obbligato per uscire da Costantinopoli nel Mediterraneo16.

Chiamato a quel posto ormai da due anni, Alì pascià, soprannominato Müezzin-zade ovvero “figlio del müezzin”, era un’eccezione fra gli alti dignitari dell’impero, in quanto non era passato attraverso la Raccolta o la schiavitù, ma era un turco di nascita. Padre di due figli adolescenti, era stato anch’egli agà dei giannizzeri e si era distinto durante l’ultima spedizione di Solimano in Ungheria prima di assumere il comando della flotta in sostituzione di Pialì pascià; ma non godeva la fama di «homo maritimo», come osserva il segretario Buonrizzo. Questa mancanza di esperienza non gli impedì tuttavia di far propria l’idea d’uno sbarco a Cipro e di cominciare a studiarla con molto anticipo. Nel settembre 1568, mentre navigava con una sessantina di galere verso il golfo della Giazza, l’odierno golfo di Adana sulla costa anatolica di fronte a Cipro, Alì aveva chiesto di fare scalo a Famagosta per imbarcare un pilota esperto della zona. Le autorità veneziane non avevano potuto esimersi dall’accoglierlo con tutti gli onori, e il pascià aveva esaminato le fortificazioni a suo agio, insieme a una mezza dozzina di rais. Dopo di allora, Alì si era più volte sbilanciato pubblicamente «per mostrar la facilità di quell’impresa», e aveva anche avanzato un suo piano, proponendo di attaccare per prima proprio Famagosta, che era il principale porto dell’isola17.

Dopo la battaglia di Lepanto gli ammiragli cristiani, interrogando gli schiavi liberati dalle galere di Alì, rimasero sorpresi «intendendo da tutti i Christiani liberati dalla catena la bontà, et humanità di tal huomo, e principalmente verso Christiani; per la qual cagione egli era da gli schiavi più tosto amato, che temuto». Ma a Costantinopoli il kapudan pascià aveva nemici potenti, fra cui il suo predecessore, Pialì pascià. Promosso a visir dal nuovo sultano, Pialì aveva sperato di conservare anche il capitanato del mare, ed era stato Mehmet, sempre attento ad evitare che uno dei suoi rivali potesse accumulare troppo potere, a favorire la promozione di Alì al suo posto. Secondo il Buonrizzo la vicenda aveva fatto rumore e ne erano nati sordi rancori «fra il magnifico Piali bassà [...] et il presente capitano del mare, li quali principiarono quando fu levato ad esso Piali, così vergognosamente il capitanato del mare, et dato a costui». I rancori erano cresciuti col tempo, «in modo che hora si trovano inimicissimi in secretto, se ben in apparentia, come è uso del mondo, pareno amici»18.

Nel caso che la flotta uscisse in mare, Pialì sperava di essere nominato comandante dell’esercito imbarcato, incarico che sommato alla sua qualità di membro del divan, avrebbe fortemente ridotto l’autorità del più giovane capitano del mare; e come quest’ultimo preparava piani per l’attacco a Cipro, così Pialì si dava da fare per sottoporre alternative più allettanti. Si potevano continuare le operazioni contro gli spagnoli impadronendosi del loro ultimo importante presidio nel Maghreb, il forte della Goletta presso Tunisi, e forse andare a soccorrere i moriscos ribelli dell’Andalusia, come desiderava la gente. Meglio ancora, si poteva invadere l’Italia, sbarcando in Puglia; o anche riprovare ad attaccare Malta, che Solimano il Magnifico non era riuscito a prendere nel 1565, e la cui conquista, con la conseguente distruzione degli odiatissimi Cavalieri, avrebbe garantito a Selim una gloria almeno pari a quella di suo padre.

Il vecchio uomo di mare, insomma, preferiva condurre le operazioni contro gli spagnoli, che aveva già sconfitto una volta dieci anni prima, anziché contro i veneziani. L’opposizione di Pialì pascià spiega perché il sultano non si risolvesse a prendere una decisione, nonostante la sua inclinazione personale per l’impresa di Cipro. Un avviso spedito al re Filippo il 12 novembre 1569 riferisce che a Costantinopoli faceva grande sensazione la resistenza dei moriscos e la loro invocazione d’aiuto al sultano, ma alcuni pensavano «che queste nuove siano tutte false, et fatte dir a posta da Pialli Bassa»; andando controcorrente, l’informatore valutava Selim più incline alla pace che alla guerra, ma non escludeva che Pialì lo convincesse a far uscire la flotta contro la Spagna. Ancora all’inizio di dicembre, all’ambasciata veneziana risultava che molti davano per certa l’impresa di Malta o di Puglia, «e questi si fondavano sopra li pensieri di Piali bassà, perché si sa che egli ha fatto più volte istantia per la impresa di Malta, offerendosi di volerla tuor sopra la sua vita»; se poi il sultano gli avesse ordinato di sbarcare in Italia, Pialì aveva dichiarato «che li basta l’animo di far in quella parte tal progressi che metteranno un durissimo morso a tutta la Christianità»19.

Sapendo che si parlava pubblicamente di togliergli il comando della flotta, Alì pascià per tutta l’estate si era dato molto da fare, andando più volte a Nicomedia a sorvegliare la fabbricazione delle maone. Il Barbaro lo giudicava «persona molto attiva», anzi troppo, perché affaticandosi personalmente in tante faccende il capitano del mare non si comportava da gentiluomo. Il gran visir stava facendo riedificare il suo palazzo, e il bailo in persona aveva veduto il kapudan pascià sorvegliare gli operai sul cantiere con un bastone in mano, come un capomastro qualunque, «il che forse egli fa per timor di esser levato dal grado per le voci che vanno intorno». Ma secondo il segretario Buonrizzo, che aveva meno pregiudizi del suo nobile superiore, il capitano del mare, «che per il vero è homo molto diligente», aveva avuto un ruolo decisivo per far procedere i lavori di allestimento della flotta. Anche ad altri osservatori occidentali il fatto che Alì si spendesse di persona sembrava degno d’elogio, come quando due grosse maone cariche di legname per l’Arsenale si arenarono presso Pera, e una spia avvertì il re di Spagna che il capitano del mare con una galera e molte fregate era andato di persona a recuperare il legname20.

Non essendo membro del governo, il kapudan pascià non poteva far altro che attendere la decisione del sultano; la quale peraltro non doveva tardare, perché volendo far uscire la flotta in primavera c’erano provvedimenti, come la convocazione dei rematori e l’ammasso del biscotto, che bisognava prendere entro l’anno. Conscio dell’ostilità di Pialì nei suoi confronti, Müezzin-zade favoriva l’invasione di Cipro, per il fatto stesso «che Piali non sente detta impresa»; ma in ogni caso l’importante, per lui, era che la flotta uscisse. Quali che fossero le sue idee, ogni kapudan pascià aveva sempre interesse alla partenza d’una spedizione, e non solo per guadagnare gloria e prestigio, ma per precise ragioni economiche, che gli inviati veneziani descrivono lucidamente. I lavori eccezionali nell’Arsenale gli permettevano di impiegarvi i suoi schiavi, di cui intascava il compenso giornaliero, e quando la flotta usciva in mare quegli stessi schiavi erano impiegati come rematori e nutriti a spese dello Stato, mentre il kapudan ne intascava il soldo21.

Grazie all’attivismo di Alì, nel corso dell’estate le principali deficienze nei magazzini dell’Arsenale erano state inventariate e si erano spediti in diverse direzioni parecchi «rais di galera, uomini pratici et intendenti», per accelerare l’invio dei materiali ordinati ai cadì locali. A settembre, per garantire che le 150 galere presenti nell’Arsenale fossero in grado di navigare nella primavera successiva, vennero ordinati 150 alberi maestri e altrettante antenne di sostegno per le vele, da consegnare entro due mesi a Costantinopoli. Coll’avvicinarsi dell’inverno, tuttavia, parve che i ritmi di lavoro fossero destinati a rallentare. Al ritorno del kapudan pascià dal suo ultimo viaggio a Nicomedia, si riseppe che Alì aveva fatto interrompere i lavori delle maone in vista della cattiva stagione: «et dicono non haver butado le maoni in acqua, anzi le hanno fatte coprire di terra accio non si guastin». Se l’incertezza del governo si fosse prolungata ancora un po’, fino all’instaurarsi del consueto, inevitabile torpore invernale, la possibilità di intraprendere qualche grossa impresa entro la primavera del 1570 sarebbe sfumata22.

Poi, sullo scorcio di novembre, i nodi si sciolsero. Il sultano partì per le cacce autunnali nella sua favorita Adrianopoli, portando con sé alcuni pascià, ma non Pialì, che fu lasciato a casa, sia pure coll’incarico onorifico di governare come luogotenente del gran visir. Il re di Spagna ricevette da una spia l’elenco completo dei pascià che erano partiti col sultano; l’avviso si concludeva con l’ipotesi «che il Gran Signor habbia menato seco questi Signori per consigliarsi che impresa debba fare l’anno venturo». L’assenza di Pialì suggerisce che Selim avesse ormai deciso di stringere i tempi per la conquista di Cipro: e infatti il segretario Buonrizzo si mise subito in allarme, e più tardi si convinse che la decisione era stata comunicata ai ministri «più intelligenti» proprio in quell’occasione. Aveva ragione: ai primi di dicembre, come risulta dai documenti degli archivi imperiali, il sultano dettò gli ordini per Lala Mustafà, nominato comandante dell’esercito destinato a invadere l’isola23.

A Costantinopoli tutti attendevano l’arrivo di un corriere da Adrianopoli con la notizia di gravi decisioni. Partendo, il sultano aveva detto a Sciaus, nuovo agà dei giannizzeri, che si preparasse alla guerra per l’anno a venire; un messaggero era partito anche alla volta di Algeri, per avvisare Uluç Alì che il Gran Signore gli avrebbe certamente ordinato di unirsi alla flotta. Le spie del re di Spagna cercavano di valutare fin dove fossero arrivati i preparativi: l’Arsenale aveva ordine di allestire 130 galere, che sarebbero diventate 150 con le 20 delle guardie già in mare, calcolava un avviso del 26 novembre; gli ordini per i rematori e per il biscotto non erano ancora pronti, ma li si aspettava da un momento all’altro. Lo stesso giorno il Barbaro, meglio informato, scrisse a Venezia che il sultano, partendo, aveva ordinato di fare l’inventario delle galere che si potevano armare a Costantinopoli; agli uffici di governo, che nel frattempo avevano tirato fuori i registri dei coscritti, era stato ingiunto di verificare quali comunità avevano fornito galeotti l’ultima volta, e quali no; finalmente, era stata ordinata la fabbricazione di biscotto in Morea, tutti segnali inequivocabili che la flotta sarebbe uscita davvero24.

Vennero decisi all’improvviso anche grossi lavori di ampliamento all’Arsenale, indizio che i turchi stavano imparando dall’esperienza di quegli ultimi mesi. Già da tempo il bailo aveva osservato che la struttura dell’impianto non permetteva di tenere in secca le galere senza smontarle, sicché molte erano lasciate in acqua, e inevitabilmente si deterioravano. Alcune di quelle rientrate l’anno prima erano rimaste in acqua da allora; alla fine di ottobre, quando vennero tirate in secco nei capannoni per riassettarle, si vide che benché fossero state coperte da tettoie, il lungo tempo trascorso in mare le aveva rovinate al punto che rischiavano di andare a fondo. Le galere così malconce da non reggere un altro inverno in acqua, soprattutto se fosse nevicato, erano circa 40, più d’un quarto di tutte quelle esistenti: è chiaro che il problema andava al di là della semplice negligenza, e assumeva una rilevanza strategica. Ma pochi giorni dopo il bailo osservò che si procedeva a lavori di misurazione in un giardino del sultano adiacente all’Arsenale, e in breve cominciarono i lavori di sterro che sacrificando una parte del parco avrebbero consentito di edificare sedici nuovi capannoni, così da tirare in secco tutte le galere prima che cominciassero le nevicate invernali25.

Ai primi di dicembre il kapudan pascià ricevette ordini da Adrianopoli, e la sua attività ebbe un’accelerazione così brusca che in pochi giorni tutta la capitale ne fu informata: fu allora che partirono per Venezia quei rapporti del Barbaro in base ai quali la Repubblica cominciò a prepararsi per la guerra, anche se altri continuavano a nutrire dei dubbi circa l’effettiva destinazione della flotta. Il kapudan pascià, sapendo che ogni suo movimento era scrutato dalle spie, si dedicava a una calcolata disinformazione, raccogliendo notizie sui mari di Spagna, sulle fortificazioni di Cartagena e sulle spiagge andaluse. Un avviso spedito da Costantinopoli a Madrid il 10 dicembre rilevava che nell’Arsenale si stavano nominando in gran fretta i rais per 130 galere; si era dato ordine di preparare 10 maone grosse, di richiamare i rematori e di fabbricare il biscotto. Il re di Spagna, continuava l’informatore, avrebbe fatto bene a provvedere alla difesa delle sue coste, perché sommando le galere già in mare per la guardia dell’Arcipelago e quelle dei corsari barbareschi «l’armata sarà di 200 vele da remo». A margine del rapporto, pervenuto a gennaio, Filippo II annotò di suo pugno: «si veda questo che contiene più fatti degli altri». Anche la seconda grande potenza marittima cristiana stava cominciando a mettersi in allarme26.