Capitolo sette

Nattie crolla sul divanetto accanto a Rhys e mi fissa come se fossi qualcosa di mai visto prima, tipo un colore nuovo appena scoperto. «Olivia?».

Lascio vagare lo sguardo alle sue spalle. «Sto cercando di non farlo sapere in giro, per ora».

«Ma sei tu? Sei tornata?».

Sorrido e alzo leggermente le spalle.

«Ci conoscevamo da bambine», dice Nattie. Parla talmente veloce che le sue parole sembrano accavallarsi. «Frequentavamo la stessa classe. Giocavamo insieme. Mia mamma ha le foto».

«Me l’ha raccontato anche mia madre, prima».

Nattie annuisce come se tutto ora avesse un senso. «Ecco perché mi hai chiesto chi fosse quella donna, quando eravamo al bar. Volevi essere certa di aver trovato la persona giusta». Fa un respiro profondo. «Non posso credere che sia davvero tu. Eri il mio spauracchio quando ero piccola».

«Cosa intendi?»

«Quando disubbidivo – il che, chiaramente, non succedeva mai – mia madre diceva che se non mi fossi comportata bene avrei fatto la fine di Olivia. Se mi allontanavo da lei, diceva che sarei scomparsa come te. Eri un essere mitologico. A scuola, tutti conoscevano il tuo nome, anche quelli che non ti avevano mai rivolto la parola. Se qualcuno si assentava perché era malato, dicevamo che aveva subìto il “trattamento Olivia”».

«Ottimo. Del resto, sai di avercela fatta quando il tuo nome è sulla bocca di tutti».

Nattie non sta ascoltando, impegnata a far di calcolo aiutandosi con le dita delle mani. «Quanti anni sono passati? Dodici? Tredici?»

«Sì, qualcosa del genere».

La ragazza guarda Rhys, che appare molto divertito. Poi gli molla una pacca sul braccio. «Potevi dirmelo!».

«Ti ho chiamata appena l’ho scoperto». Rhys finisce la sua pinta, chiede a Nattie se desidera qualcosa e si dirige al bancone.

Lei lo osserva allontanarsi, poi si allunga sul tavolino stringendo gli occhi per mettermi a fuoco meglio. «Ti ricordi di me?», sussurra.

Scuoto la testa. «È passato troppo tempo».

«Venivi a casa mia dopo la scuola. Penso che tua mamma lavorasse, o comunque fosse impegnata. Giocavamo in giardino…». Si blocca, poi aggiunge: «Non mi è più stato permesso di farlo, dopo. Mia madre mi teneva sempre in casa». Si massaggia le tempie, come a voler scacciare quell’immagine. «Ricordo ancora chiaramente il giorno in cui sei scomparsa… forse è il mio ricordo d’infanzia più lucido. Quello che so degli anni precedenti mi sembra di ricordarlo solo perché me l’ha raccontato mia madre. Mi ha detto che giocavamo sempre insieme. Ma il giorno della tua sparizione è così vivido. Era domenica, mia madre mi chiese se ti avessi vista…».

Rhys la interrompe, ritornando al tavolo con un bicchiere di sidro per lei. Non mi ha domandato se volessi qualcos’altro da bere, ma fa un cenno con la testa verso il bancone, su cui sono appoggiate due Guinness.

Non mi lamenterò di certo.

Scivola nuovamente sul divano, scambiandosi di posto con Nattie, poi ci osserva.

«Stavate parlando di me?»

Lei ride. «Ti piacerebbe».

Rhys si passa una mano tra i capelli, ma il gel che ha usato in abbondanza fa sì che il ciuffo rimanga esattamente com’era prima.

«Cosa è successo?», domanda Nattie. «Dove sei stata? Pensavamo tutti che fossi… be’, sì, morta».

Finisco d’un fiato la prima pinta. Ho raccontato la mia storia solo una volta, finora, ma ne ho già abbastanza.

«Credo di avere bisogno di bere qualcosa».

Nattie si alza e torna con le due birre in attesa sul bancone, dopodiché le ripeto tutto ciò che ho già riferito a mia madre. O, più precisamente, ciò che credo di aver riferito a mia madre. Stavolta va meglio. Non sono nervosa. Nattie e Rhys sono come me. Mostrano lo stupore e lo shock che mi ero aspettata da mia mamma. Non mi interrompono. Non piangono. Forse una parte di me si gode quel momento, quasi fossi una nonna accomodata su una vecchia sedia a dondolo che racconta storie ai nipoti. La Guinness aiuta.

Parlo dell’uomo, del camper, dell’essere stata segregata al suo interno, dei continui spostamenti, del nome Karen, e del fatto che a un certo punto ho cominciato a sentirmi parte di tutto ciò, poi della fuga sul treno…

È molto più naturale, la seconda volta, e avere un pubblico attento e partecipe aiuta. Quando qualcuno pende dalle tue labbra è strano ma appagante.

Nessuno dei due fiata finché non ho finito. I loro bicchieri sono intatti. Dopo aver spiegato di aver preso la stanza al Black Horse ieri sera e di aver iniziato a cercare mia madre stamattina, alzo le spalle, facendo capire che sono loro stessi la parte seguente della storia.

Mi fissano, forse chiedendosi se non ci sia sotto dell’altro. Come se potessi togliermi una maschera e svelare che è tutto uno scherzo organizzato da una trasmissione televisiva.

«Non hai mai desiderato ritornare a casa?», mi domanda Nattie, con una voce stranamente roca. «Cioè, quando eri più piccola. Tipo a nove o dieci anni, quando ti lasciavano giocare…?»

«Cosa avrei potuto fare?», rispondo. «A nove anni mancavo da casa già da quattro. Considerando che non si ricorda quasi niente di prima dei quattro anni, avevo soltanto dodici mesi di ricordi di Stoneridge, allora. Non ci si rende veramente conto dello scorrere del tempo a quell’età».

Nattie concorda e annuisce. «Come succede con le vacanze scolastiche», dice. «Sembrano eterne quando sei un bambino, ma da adolescente quelle sei settimane volano».

Lei mi capisce.

«Esatto. Era come avere due vite. Solo quando sono diventata più grande ho cominciato a capire cosa poteva essere successo. Prima di allora, era come guardare la televisione. Come se fosse capitato a qualcun altro. In più, quando si è piccoli si crede a tutto ciò che dicono gli adulti – come a Babbo Natale o alla fatina dei denti. È tutto vero finché non si cresce e si capisce che non è così».

Nattie sorseggia il suo sidro. «Quanti anni avevi quando hai cominciato a renderti conto dell’accaduto?»

«Tredici o quattordici, mi pare… Ma non è stata un’illuminazione improvvisa. È avvenuto in modo graduale, come dei flash di memoria. Mi svegliavo chiedendomi se avessi sognato o se fosse accaduto davvero. Mi ricordavo nomi e luoghi».

Nattie si appoggia allo schienale, ed è Rhys ora a parlare. «Non sono mai venuti a cercarti?»

«Chi?»

«L’altra famiglia. I nomadi».

«Non ho mai visto nessuno».

«Pensi che potrebbero venire fin qui?»

«Ne dubito… Non ci avevo mai pensato, finora».

Una coppia con una bottiglia di vino e un secchiello per il ghiaccio supera il nostro tavolo e si accomoda a quello accanto. Hanno una ventina d’anni e sono di sicuro al loro primo appuntamento – non sono interessati a noi.

Quasi niente oggi è andato come avevo previsto, eccetto, mi sembra, le cose più importanti. Volevo parlare a mia madre e a nessun altro, invece sono qui a raccontare la mia storia ad altre due persone. Inoltre, una parte di me vorrebbe che questa coppia di sconosciuti origliasse la nostra conversazione e facesse scoppiare il caso. Che mi elevassero su un trono e mi adorassero, come la figliol prodiga del paese. Vorrei la fama, anche se so che non succederà.

Nattie abbassa la voce: «Cosa ha detto la polizia?»

«Non ho ancora parlato con loro».

«Oh. Lo farai domani?»

«Non ne sono sicura. È tutto così nuovo per me. Non ho grandi piani per il futuro. Non esiste un manuale su come uscire da una situazione del genere».

Sembrano entrambi d’accordo con me.

Nattie dà di gomito a Rhys. «Ti ricordi le ricerche?», chiede.

Lui annuisce. «Come se fosse ieri – non mi hanno lasciato uscire per tutta l’estate. Dovevo avere undici o dodici anni. Volevamo tutti andare fuori a giocare a calcio ma le nostre mamme continuavano a impedircelo».

«Ricordo che erano tutti impazziti», aggiunge Nattie. «Eravamo a Ridge Park, era pieno di gente – una specie di riunione della comunità, credo. Tua mamma era in prima fila, piangeva e ringraziava tutti per aver partecipato alle ricerche. Io ero con mia madre: ricordo che guardavo la tua senza riuscire a capire».

L’altra coppia si guarda negli occhi con desiderio, sussurrandosi chissà cosa, sorridendo. Non provano alcun interesse per ciò che sta succedendo a pochi passi di distanza da loro.

«Io ricordo le telecamere», continua Rhys. «È stata la prima volta che ho capito il collegamento tra le telecamere e ciò che si vede in TV. C’erano giornalisti ovunque, e credo ne fossi spaventato. Non so il perché – forse per la presenza di tutti quegli sconosciuti. Nessuno dei miei amici poteva uscire, e anche se volevamo giocare insieme a casa di uno di noi, dovevamo aspettare che i genitori ci accompagnassero».

«Penso che fosse proprio quello a spaventarci», commenta Nattie. «Non solo il tuo rapimento, ma il fatto di essere sempre costretti in casa non faceva che aumentare la tensione».

Di quando in quando ci blocchiamo e ascoltiamo il chiacchiericcio del pub. Il problema delle piccole comunità è proprio l’effetto domino: ciò che accade ha sempre una ricaduta su tutti gli altri. La scomparsa di un bambino stravolgerà la vita di tutti i coetanei della zona. Avevano persino inventato una definizione per chi spariva: “trattamento Olivia”. Non è poco da digerire.

Nattie getta uno sguardo alla coppia vicino a noi, che è sempre impegnata in effusioni.

«Tua mamma deve essere impazzita», dice.

«Più o meno», rispondo. «Suo marito non era troppo contento, per non parlare del cognato».

Rhys e Nattie si scambiano un’occhiata furtiva.

«Cosa c’è?».

Mi risponde lei. «Diciamo che qui in paese, i Pitman, o li amano o li odiano. Ma questo non riguarda tua mamma: lei ne ha solo sposato uno. Nessuno ha problemi con lei. Ma con i fratelli…».

Ho a malapena il tempo di comprendere cosa mi ha appena detto che cambia discorso.

«E adesso?», chiede Nattie.

«Adesso, cosa?»

«Sei tornata per rimanere?».

Comincio a credere che avrei dovuto prepararmi una risposta a questa domanda, ma non l’ho fatto. «Non so di preciso», dico. «È tutto così strano. È successo molto velocemente. Stamattina non avevo una mamma, e ora invece…».

Rhys solleva la sua pinta e fa tintinnare il bicchiere contro il mio. «Dovresti fermarti qui», mi dice.

«Mi sembrava che avessi detto che è pieno di posti migliori di questo…».

Si appoggia allo schienale e ride. «Be’, sì… ma io e Nattie possiamo migliorare le cose già solo con la nostra presenza. Poi, non posso continuare ad accompagnarla a casa quando è troppo sbronza per camminare. Mi servirebbe proprio una mano».

Nattie gli molla una gomitata scherzosa.

«Devi venire a conoscere mia mamma», dice Nattie. «Parla ancora di te. È la migliore amica di tua madre, o lo è stata a un certo punto – non so bene. Ha un sacco di foto e di ricordi. Impazzirà quando le dirò che sei tornata».

A quanto pare la madre di Nattie è in casa tutte le mattine, quindi prendo l’indirizzo e dico che passerò il giorno dopo prima di mezzogiorno. Ci scambiamo tutti e tre i numeri di telefono e, all’improvviso, mi sembra davvero che questo posto possa diventare casa mia. Non ci sono solo coppie di fratelli malefici, baristi inquietanti e negozi che rimangono chiusi il giovedì: potrei trovare degli amici, qui.

«Sei libera domani pomeriggio?», mi chiede Nattie.

«Penso di sì. La mia agenda non è proprio fitta di impegni».

«Ottimo: c’è una cosa che dovresti vedere».