Capitolo nove

Mercoledì

 

È il sole a svegliarmi il mattino seguente. La stanzetta del Black Horse è talmente luminosa che sono stupita di essere riuscita a dormire così a lungo. Le tende sono del tutto inutili: non ho mai capito a cosa servano, visto che la luce del sole le oltrepassa così con tanta facilità. Come un sacchetto con un buco sul fondo.

Cerco d’istinto il mio telefono e vedo che manca qualche minuto alle otto. Trovo già un paio di messaggi della mamma, arrivati quasi un’ora fa. Leggere la parola MAMMA sullo schermo mi riempie di eccitazione. È così semplice – sono solo cinque lettere –, ma è passato troppo tempo dall’ultima volta in cui un nome mi ha fatto questo effetto.

Nel primo messaggio mi chiede se ho programmi per la giornata. Nel secondo, arrivato tre minuti dopo, mi informa che sarà tutto il giorno in casa, se voglio passare da lei. “Mi farebbe piacere rivederti”, aggiunge.

Digito una risposta, l’avviso che passerò per la colazione tra un’ora, dando per scontato che per lei vada bene. Faccio a malapena in tempo a inviare il messaggio che mi scrive: “Perfetto!”.

Ecco il segnale per alzarmi dal letto. Raggiungo la mia borsa sbadigliando e stiracchiandomi. Contiene tutti i miei averi: un po’ di indumenti di ricambio e alcune paia di scarpe. Potrei sistemarli nei cassetti, ma ho paura che potrebbe rendere la situazione un po’ meno transitoria e farmi pensare che mi stia trasferendo qui. E non sono sicura di essere pronta per questo.

Ricaccio indietro uno sbadiglio, mi avvicino alla finestra e apro le tende inutili. Ora vedo chiaramente il cortile e le pile di fusti di birra pronti a essere ritirati. C’è un vicolo sul retro che si interseca con High Street. Sto per scegliere i vestiti da indossare quando noto l’auto verde ferma sull’altro lato della strada. È la persona al volante a sorprendermi. Una zazzera disordinata di capelli scuri appoggiata al finestrino: nonostante sia certa che si tratti di uno dei due, non capisco se sia Max o Ashley. Chiunque sia, si muove sul sedile del guidatore e si volta a osservare la facciata del pub, prima di riappoggiarsi al vetro.

Mi faccio una doccia e metto dei vestiti puliti; quando mi riaffaccio, la macchina verde è ancora nello stesso posto, in attesa.

Peter è già nel pub quando arrivo al piano terra. Sta pulendo i tavolini, anche se dubito che ciò possa risolvere il problema delle superfici appiccicose. Mi domanda cosa desideri per colazione, ma gli dico che sto uscendo, senza accennare a mia madre. Non mi ha chiesto il cognome al mio arrivo, ed era felice di essere pagato in contanti. Ho subito intuito che i pagamenti in nero sono necessari per la sopravvivenza del locale.

Mi chiede se ho dormito bene, ma so che non vale la pena dire altro se non che ho riposato perfettamente.

Mi fa uscire dalla porta principale. Mi incammino lungo la strada, sbattendo le palpebre nella splendida mattinata di sole. Il cielo è azzurro, l’erba e le aiuole di un verde vivace. E verde è anche la macchina, ancora parcheggiata di traverso sulla strada. Il nido di capelli neri si muove e riesco a distinguere con chiarezza la faccia di Ashley. Ci fissiamo per un momento, poi lui distoglie lo sguardo e accende il motore. Accelera lungo High Street: la vettura emette un brontolio, poi sputa una nuvola di fumo dal tubo di scappamento, infine sparisce dopo una svolta.

Chissà perché era qui. Non si può dire che stesse spiando, perché da quel punto non poteva vedere niente. Di certo non voleva neanche parlarmi, altrimenti non se ne sarebbe andato di corsa.

Mentre percorro l’altro lato della strada per raggiungere la mia Fiat nel parcheggio vicino all’ufficio postale, capisco che era lì per farmi sapere che mi sta osservando. Sa dove alloggio, e voleva che ne fossi consapevole. Forse è stato un errore affrontarlo nella veranda della mamma, ma non riesco a pentirmene.

Ricordare il tragitto verso casa di mia madre è più semplice di quanto pensassi. Sulla cartina, le strade sembrano più numerose che in realtà – molte di esse sono solo piccoli sentieri, e dopo poco giungo sul vialetto in ghiaia. La 4×4 della mamma è lì, ma non vedo la macchina di Max: deve essere fuori.

La mamma apre la porta prima che io possa anche solo avvicinarmici. Harry, appoggiato a una sua gamba, guarda verso di me. Lei sorride e gli dice di fare ciao alla sorella. Lui ubbidisce, prima di voltarsi verso da lei per l’approvazione.

«Ho tentato d’insegnargli a pronunciare il tuo nome», mi dice la mamma quando entro.

C’è un momento di imbarazzo, nessuna delle due sa bene cosa fare, ma alla fine ci scambiamo un abbraccio veloce.

La mamma si china per prendere la mano di Harry. «Chi è lei?», gli chiede con entusiasmo.

«Uovo», risponde lui.

Rido, e la mamma pure. «Ti giuro che non è ciò che gli ho insegnato».

«Uovo», ripete Harry.

Capisco il motivo quando arriviamo in cucina.

«Cavolo», dico, mentre osservo la tavola imbandita.

«Non sapevo cosa preferissi mangiare», dice la mamma.

Mi sembra palese, dato che ha preparato più cibo di quanto ne avessi mai visto in una singola cucina prima d’ora. Ci sono mele, banane e arance in una ciotola; tre differenti tipi di marmellata; una pagnotta dalla crosta spessa e croccante con accanto un coltello da pane, più margarina e burro d’arachidi. Bacon e salsicce aspettano in una padella, non lontano da un cartone di uova. Come se ciò non fosse già abbastanza, non mancano scatole di Corn Flakes, Rice Krispies e Coco Pops – i preferiti di Harry, mi spiega. Infine zucchero, un bricco di latte e una bottiglia di sciroppo.

«Posso prepararti i pancake, se vuoi», propone la mamma.

«Uovo», dice Harry.

«Bastano i cereali, grazie».

«C’è anche del porridge, se preferisci».

«Prendo i Coco Pops di Harry, se a lui non dispiace».

Mi allungo per versarli in una ciotola, ma la mamma mi precede: rovescia una montagna di cereali in una fondina, chiedendomi se ne desideri ancora. Poi mi domanda se voglio tè, caffè, succo, acqua o qualcos’altro. Infine mi fa scegliere il tipo di caffè. Ne ha tre diverse miscele, espresso o istantaneo. Mi chiede se ho dormito bene durante la notte, se il letto è comodo, e poi si informa sui cuscini: sono abbastanza rigidi? Ho l’impressione che se dicessi che qualcosa non è minimamente all’altezza, mi accompagnerebbe di corsa in un negozio per comprarmene una versione più adeguata.

Non riesco a ricordare l’ultima volta che qualcuno si è preoccupato così tanto per me. Non sono sicura che sia mai successo.

Nonostante lo scambio di messaggi, l’aspettativa del mio arrivo non è soddisfatta dal mio essere a tutti gli effetti qui. Siamo entrambe in difficoltà. Io non so bene cosa dire e credo che sia lo stesso per lei. Sta compensando con il cibo.

Harry alla fine non vuole un uovo, almeno non dopo aver visto i miei Coco Pops. La mamma gliene versa una porzione ridotta e non passa molto tempo prima che lui se la rovesci tutta addosso, sporcando il tavolo e il pavimento. Mentre la mamma lo aiuta a mangiare, lui continua a guardarmi.

«Non so di cosa parlare», dice.

«Neanch’io».

«È tutto così veloce». Fa schioccare le dita. «Non fraintendermi, non è una cosa negativa. Ho voluto che tu tornassi dal primo giorno in cui sei scomparsa, ma è passato così tanto tempo…».

Si interrompe, fissa il muro, persa per un istante.

Sono io a fare la prima mossa, stavolta, sfiorandole il polso dolcemente con le dita e sorridendole quando si volta di nuovo.

«Per me è lo stesso», dico. «È tanto che non ho una vera mamma».

Fa un respiro profondo, risponde al mio sorriso con uno gentile dei suoi. «Grazie per essere venuta», mi dice.

«Non vorrei essere da nessun’altra parte».

«Ho tirato fuori un po’ di cose per te, ieri sera».

«Tipo?»

«Delle cosine che ti appartenevano. Alcune si sono perse nel trasloco, ma ne ho conservato la maggior parte. Sono rimaste in soffitta per tutto questo tempo, e ieri sera sono andata a recuperarle».

Impiego qualche minuto per finire di mangiare, e altri ne passano prima che Harry decida di essere sazio. Continua a ripetere «uovo» e comincio a pensare che forse ha deciso che quello è il mio nome. Avrebbe potuto andare peggio.

Solo mentre stiamo salendo le scale capisco che le motivazioni della mamma possono nascondere un secondo fine. Mi conduce fino alla stanza degli ospiti. C’è un ampio letto matrimoniale rifatto di recente, con gli angoli ordinati e le pieghe stirate. È di gran lunga migliore della stanza al Black Horse: la moquette è più soffice, ci sono le tende e le imposte, i colori sono tenui. Tutto molto accogliente.

Accanto a una parete ci sono tre scatole ricoperte da un sottile strato di polvere. La mamma aspetta che io entri, poi rimane dietro di me, sulla soglia, come a voler dire che tutto questo potrebbe essere mio.

«Le scatole sono per me?», chiedo.

«Certo. Tutto è per te, qui. Se vuoi qualcosa, prendilo pure».

Si siede su un angolo del letto, mentre io mi accomodo a terra vicino agli scatoloni. Harry è impegnato a trotterellare per la stanza, afferrando diversi oggetti e ricevendo affettuose minacce dalla mamma.

La prima cosa che trovo nei cartoni è una maglietta rosa del Mio mini pony. È incredibilmente piccola, uno di quegli indumenti che è difficile credere possano andare bene a qualcuno.

«Te la ricordi?», mi domanda. La tengo davanti a me, confrontandola alla misura di quella che indosso in questo momento. «La adoravi», aggiunge. «Dovevo portarla via di nascosto dalla tua stanza per poterla lavare».

Mi scappa un risolino, ma devo scuotere la testa. «No, non mi ricordo».

Sembra delusa, e non me lo chiede più, mentre continuo a estrarre oggetti dalle scatole. Trovo una specie di costume da fatina, due salopette, tre paia di scarpe più piccole della mia mano.

Il secondo scatolone è più interessante del primo. In cima c’è una busta in cartoncino contenente un certificato di nascita.

«Pensavo che ti avrebbe fatto piacere vederlo», dice la mamma.

La carta è un po’ increspata e la grafia leggermente tremolante e disordinata – ma c’è tutto. Olivia Adams, la data e il luogo di nascita.

«Non avresti potuto sapere che sei nata nella vecchia casa», aggiunge.

Leggo di nuovo i dettagli, poi la guardo. «Stoneridge è davvero casa…».

«Nata e cresciuta qui», risponde. «Non sapevo se ne avessi bisogno per richiedere dei documenti, tipo il passaporto. Lo puoi tenere, se vuoi».

La ringrazio e dico che lo prenderò. Lei non mi domanda come abbia fatto a prendere la patente e che nome riporti.

Estraggo un portagioie in vellutino. Contiene un braccialetto portafortuna che dev’essere stato lucidato di recente. La catenina è in argento e i pendenti sembrano usciti da una scatola di Monopoli: un cagnolino, un quadrifoglio, una specie di uccello, un cuore, una farfalla e una stella marina.

«Ti compravamo un pendente nuovo a ogni compleanno», mi dice la mamma.

Mostro quello a forma di uccello e chiedo cosa sia. Lei strizza gli occhi e sorride.

«È una gallina», dice. «Ti abbiamo portato in una fattoria una volta, e le galline ti erano piaciute un sacco. È stato il giorno in cui hai capito che il pollo che si mangia è lo stesso che scorrazza nei campi. Da quel momento ti sei sempre rifiutata di mangiarne: piangevi anche solo all’idea.

So che vorrebbe che dicessi che me lo ricordo, ma non è così.

Sul fondo della scatola c’è un altro cofanetto simile, ma senza gioielli: contiene dei dentini. Ne prendo uno in mano per metterlo alla luce, facendo scorrere il pollice sui bordi affilati.

«La fatina dei denti ti aveva portato cinquanta centesimi per quello», dice la mamma.

«Tutti qui?».

Ride. «Era tredici o quattordici anni fa. Con l’inflazione, ora sarebbero circa due sterline!»

Poi estraggo un braccialettino di plastica incredibilmente piccolo con una targhetta di carta che reca una scritta a biro blu, ormai quasi del tutto sbiadita: OLIVIA ADAMS. La mamma mi spiega che è quello che mettono al polso dei neonati in ospedale. È poco più largo del mio pollice.

L’ultimo scatolone è davvero pesante, e proprio non me l’aspettavo. Non contiene vestiti o monili: è pieno di giornali e ritagli. Mi bastano poche righe del primo articolo che prendo per accorgermi che è uno di quelli che ho letto e riletto infinite volte. Lo stesso di ieri sera, in cui Ashley Pitman affermava che le persone avrebbero continuato a cercare per tutto il tempo necessario.

«Ho conservato tutto», dice la mamma. «I giornali locali, quelli nazionali. Registravo ogni telegiornale in televisione, ma essendo tutte videocassette alla fine le ho buttate. Abbiamo eliminato il videoregistratore qualche anno fa. Mi sa che non li producono neanche più».

Assume quell’espressione da “non come ai bei vecchi tempi”, tipica delle persone ormai di una certa età. Parli di film in streaming e in risposta ottieni uno sguardo vuoto. Non credono che essere uno YouTuber sia un vero lavoro. Succederà anche a me, penso. Penserò con nostalgia al mio smartphone quando i ragazzi comunicheranno scambiandosi raggi con gli occhi.

Il secondo giornale della pila è di una testata che ora non esiste più. Porta la stessa data del precedente. Frugo nella scatola – ogni articolo sembra ordinato cronologicamente, con i più vecchi in cima.

«Posso prenderlo?», chiedo.

La mamma si morde le labbra. Ha detto che avrei potuto prendere ciò che desideravo, ma ora pare riluttante. Forse perché ha conservato tutto così a lungo, o forse è sospettosa perché Max le ha instillato il dubbio che io possa star scavando in cerca di informazioni.

«C’è un sacco di materiale, lì dentro».

«Riporterò tutto, oppure prendo solo un paio di giornali alla volta, se preferisci. Mi interessa davvero».

La mamma annuisce lentamente, ma questa è la prima volta in cui colgo un’ombra di titubanza da parte sua. Forse non avrei dovuto chiederglielo. Max ha piantato i semi e io sto raccogliendo.

«Max non mi sembrava tanto contento ieri…».

La butto lì. Un’osservazione sovrappensiero, niente di accusatorio. La verità.

«È un grande cambiamento per tutti», risponde.

«Anche per me».

«Certo, anche per te. Per te più di tutti. Non sto dicendo che per qualcuno sia semplice, ma ci vuole del tempo per abituarsi». Mi sembra un po’ sconvolta e posso immaginare che sia rimasta sveglia fino a tardi a litigare per causa mia.

«Dov’è ora?»

«Lui e suo fratello gestiscono la compagnia dei taxi del paese. Lavorano tre o quattro giorni alla settimana. Penso sia andato all’aeroporto».

Non so se dirle di Ashley fermo fuori dal Black Horse ad aspettarmi, perché avrebbe potuto trattarsi di un caso. Forse era lì per un cliente, o stava solo attendendo che arrivasse l’ora di andare a prendere qualcuno. Potrebbe esserci una spiegazione valida, quindi non ha senso causare problemi superflui. In più, sono sicura che lui riuscirebbe in ogni caso a trovare una giustificazione.

«Stanno cercando di avviare un servizio di limousine», aggiunge. «Addii al nubilato, uscite notturne, quel genere di cose». La mamma agita una mano in modo sprezzante, come a voler dire che non sono cose per lei.

«Mi sembra che siano molto uniti come fratelli…».

Annuisce. «Ne prendi sempre due al prezzo di uno con loro. Ne ero consapevole prima di sposarmi».

Risposarti. Lo penso ma non lo dico.

La mamma si gira verso Harry, che sta giocando a tracciare angeli di neve sulla moquette, ma senza neve.

«Vorrei vedere mio padre», dico.

Impiega qualche secondo per voltarsi di nuovo verso di me. Quando lo fa, si sta mordendo il labbro. I nostri sguardi si incrociano e lei sospira. «Non voglio dire che non dovresti farlo. Sei adulta e lui è tuo padre… Solo che…». Deglutisce, cercando le parole, poi distoglie lo sguardo. «Non è l’uomo di un tempo».