2015: Lily, 18

La vista della macchina della polizia mi fa immobilizzare. È parcheggiata all’angolo della nostra via, davanti a casa: un veicolo bianco con le bande fluorescenti e la scritta POLIZIA sulla fiancata.

Papà.

Attraverso la strada di corsa, ma nella manciata di secondi che impiego per raggiungere l’altro marciapiede, la porta d’ingresso si apre. Lui è lì: mio padre sta bene. Sorride, è felice, scambia un paio di battute con gli agenti di fronte a lui. Poi si stringono la mano e i poliziotti risalgono sull’auto e se ne vanno.

Il papà sta per tornare in casa quando mi scorge. Esita, ha una mano sulla maniglia della porta e con l’altra mi saluta. Il mio cuore batte ancora all’impazzata mentre provo a camminare con calma fino a casa, ma il papà deve intuire qualcosa.

«Stai bene, Lils?»

«Io… ho visto la volante e ho pensato che…».

Gli basta un istante per capire, dopodiché inizia a scusarsi, nonostante non abbia colpa. «Oh, Lils, vieni qui…».

Mi abbraccia stretta. Era tanto tempo che non succedeva e solo ora mi rendo conto di quanto mi sia mancato. Avrò anche diciotto anni, ma a volte non c’è niente di meglio che sentirsi una bambina.

Mi lascia andare, entriamo in casa. «Qualcuno è riuscito a entrare nel casotto esterno dei vicini e volevano sapere se mi fossi accorto di qualcosa. Ci sono stati alcuni furti in zona».

Ci spostiamo in cucina, dove vedo tre tazze capovolte nello scolapiatti.

«Avrei dovuto pensarci», continua il papà. «Dopo tutto quello che è successo con tua madre. Pensavi che fossi…».

Ma si ferma, senza riuscire a dire la parola “morto”.

Il problema è che non è proprio quello che avevo in mente. Avrebbe dovuto, però. Una volta lo sarebbe stato.

Il papà capisce e si appoggia contro il frigorifero. «Oh, Lils…».

Ci guardiamo per un momento: è come se lui riuscisse a leggere il mio pensiero. Sa a cosa sto pensando.

«Cos’è successo, papà?».

Scuote il capo e si dirige in soggiorno. Accende il televisore, e si abbandona sulla poltrona. Lo seguo e mi fermo di fronte a lui, prendendo il telecomando dal bracciolo.

«Lils…».

«È passato quasi un anno, papà».

Si gratta la testa e poi stringe la punta del naso. All’improvviso, sembra vecchissimo. Le rughe sul suo viso sono molto profonde, i muscoli delle braccia che si gonfiavano quando mi prendeva in braccio sono scomparsi.

È molto, molto umano.

«Perché vuoi saperlo?», mi risponde. Al contrario di prima, ora pare stanco. «Hai cambiato la tua vita, Lils. Hai ripetuto gli esami, stai facendo ciò che hai sempre voluto. Cosa importa?»

Mi siedo sul pavimento davanti a lui. Lui si stringe di nuovo il naso e le sue dita sembrano sul punto di spezzarsi. Rendersi conto della mortalità dei propri genitori ha un che di spaventoso, può farti tremare fino alle ossa. Per la maggior parte dei bambini, il papà e la mamma sono due supereroi; le fonti di ogni conoscenza e saggezza. Possono fare qualsiasi cosa… fino a quando non possono più. L’ho imparato con la morte della mamma, e ora ho la sensazione di esserci di nuovo in mezzo.

«Lo vuoi sapere davvero?», mi chiede sottovoce.

«Sì».

«Perché è impossibile tornare indietro, dopo».

«Voglio saperlo».

Annuisce. Scatta in piedi e mi dice di prendere il giubbotto. Un paio di minuti dopo, siamo in macchina. Il papà non fiata mentre guida fuori dal quartiere, verso la tangenziale. Presto siamo su strade strette e circondate dal verde e da cime più elevate. La colonna sonora è un radiodramma di Radio 4, ma sento solo voci che recitano. Non riesco a comprendere il significato delle parole, e non mi azzardo a parlare.

Dopo circa un quarto d’ora, il papà controlla lo specchietto e mette la freccia, prima di abbandonare la strada principale. Si ferma in uno spiazzo ghiaioso, vicino a un grande cancello di metallo stretto tra due siepi. Spegne il motore.

«Tutto qui?», domando.

Il papà non risponde; apre la sua portiera, gira intorno alla macchina e si blocca davanti al cancello. Lo seguo, ma mi sembra di essere in mezzo al nulla.

«Dove siamo?», incalzo.

Mette un piede sulla sbarra inferiore del cancello e si issa per scavalcare, dopodiché inizia a camminare lungo la linea della siepe. Io mi devo ingegnare molto di più per superare la barriera, e riesco a evitare per un pelo una pozzanghera di fango mentre salto giù per andargli dietro. Per ogni suo passo io ne devo fare almeno uno e mezzo: sto quasi correndo per stare al suo ritmo, mentre lui avanza senza sosta, fino a raggiungere una scaletta posta tra due cespugli incolti che connettono due campi. Aspetta che io salga per prima e mi dice di fermarmi quando arrivo al punto più alto.

«Cosa vedi?», domanda.

Guardo verso l’orizzonte: ci sono una mezza dozzina di grandi case – avranno almeno quattro o cinque stanze – e una distesa di fango.

«Delle case sparse», rispondo.

«Si chiama Queen’s Landing, l’“approdo della regina”. Una delle imprese per cui ho lavorato sta costruendo un quartiere esclusivo».

«Ma siamo in mezzo al nulla».

«Non esattamente, poi… è proprio questo il punto. Le persone che hanno abbastanza soldi da comprare una di queste case vogliono vivere nella privacy di un piccolo quartiere privato in mezzo al nulla. L’edificazione sta avvenendo in due fasi. Il primo blocco di abitazioni è stato completato un paio di mesi fa, e l’altro lotto inizierà l’anno prossimo. Dovrebbe essere carino, una volta finito».

Mi accuccio, in modo da ritrovarmi seduta sul primo gradino in cima alla scala. «Non capisco perché mi hai portata qui».

«Stavano scavando le fondamenta delle prime case, circa un anno fa».

Di primo acchito non capisco cosa abbia a che fare con lo zio Alan la costruzione degli edifici. Poi, di colpo, ci arrivo.

«Oh…».

È l’unica cosa che posso dire. Nient’altro, davvero.

Il papà mi raggiunge e mi aiuta a scendere, poi entrambi ci appoggiamo alla scala, guardando verso il cantiere. Se qualcuno dovesse mettersi a scavare sotto il proprio patio, potrebbe trovare una sorpresa.

«Ti voglio bene», mi sussurra il papà.

Gli cingo la vita con un braccio, poi appoggio la testa sul suo petto, aspettando che lui mi abbracci.

«Non sono quel genere di persona», dice.

«Lo so».

«Solo che… a volte le persone devono essere abbattute come gli animali. So che è tremendo da dire. Lo so, lo so, lo so. Una parte di me vorrebbe non pensarla così, ma è vero. Vorrei che non lo fosse, ma lo è. La gente non lo ammetterà mai. Si rifiuta di ragionare in questo modo, però alcune persone sono cattive. Non esiste una definizione migliore. Sono cattive, Lils. E la riabilitazione non funziona mai. Non meritano una seconda possibilità. Meritano di essere abbattute come le bestie che sono».

Mi stringe una spalla.

«Ti ho delusa, Lils. Un padre dovrebbe essere sempre attento a sua figlia, e io non lo sono stato. Non potrò mai scusarmi abbastanza, ma almeno posso assicurarti che non succederà mai più».

Lascio che mi tiri ancora più vicina. Riesco a sentire il battito del cuore del papà. È colpa mia: l’ho reso la persona che non è mai stato.

È così difficile non rimpiangere di avergli raccontato dello zio Alan.