Capitolo Dodici

Il giovedì ero irrequieto come un animale in gabbia.
Provai a guardare Netflix, a leggere. La mia casa era già perfettamente pulita, il prato tagliato. Poppy era l’unica cosa su cui riuscissi a concentrarmi. Sul fatto che quella sera, finalmente, ci saremmo visti.
Alla fine, mi arresi e andai in camera. Mi sedetti sulla poltroncina accanto al letto e mi slacciai i jeans. Ero rimasto in uno stato di semi-eccitazione per tutto il giorno, e il solo pensiero di masturbarmi, cosa che mi ero spesso negato negli ultimi tre anni, fu sufficiente a farmi diventare completamente duro. Mossi la mano un paio di volte sull’uccello già puntato verso l’alto, mentre ricordavo com’era stato sentire la fica bagnata di Poppy contro di me. Mi appoggiai all’indietro, la mascella serrata, ma alla fine rinunciai e presi il telefono.
Lei rispose al secondo squillo. «Pronto?» Quella voce. Al telefono era ancora più roca.
Strinsi il cazzo con la mano e mi accarezzai piano. «Dove sei?»
«Al locale.» La sentii muoversi, come se si fosse spostata in un luogo più appartato per parlare. «Ma ho quasi finito. Cosa succede?»
Esitai. Dio, era così volgare, ma volevo udire la sua voce mentre lo facevo. «Sono duro, Poppy. Sono talmente eccitato che non riesco a rimanere lucido.»
«Oh» rispose lei. E poi, la sua voce si riempì di comprensione. «Oh, Tyler, stai…»
«Sì.»
«Come?» chiese, poi sentii che si muoveva di nuovo e una porta si chiuse. «Dove?»
«Sono in camera. Ho tirato giù i jeans.»
«Sei a gambe aperte? Coricato o seduto?» Le sue domande erano intrise di desiderio, di voglia. Me lo dovetti stringere più forte.
«Sono in poltrona. Sì, ho le gambe aperte. Mi fa pensare a quando ti sei inginocchiata per succhiarlo.»
«Voglio farlo ancora» sussurrò e, in qualche modo, capii che anche lei si stava toccando. «Te lo voglio leccare dalla base alla punta. Poi succhiarlo a fondo.»
«Anch’io lo voglio.»
«Stai usando tutta la mano o solo le dita?»
«Tutta la mano» risposi mentre mi masturbavo con maggiore forza, desiderando che fosse lì con me.
«Aspetta» disse e seguirono alcuni secondi di silenzio. Poi il mio telefono vibrò. «Hai un messaggio» aggiunse con tono suadente.
Spostai il telefono dall’orecchio e per poco non mi venne un colpo. Mi aveva mandato una foto delle sue dita affondate nella fica. «Sei una sporcacciona» affermai. E poi ne ricevetti un’altra. Questa era inclinata in modo che potessi vedere i tacchi alti neri appoggiati al bordo di una scrivania.
Dio santo.
«Ti sento, adesso» disse. «Sento la tua mano che si muove sul tuo uccello. Dio, vorrei poterlo vedere.»
«Anch’io vorrei che lo vedessi» aggiunsi. Accesi la fotocamera del telefono e iniziai a fare un video, tutto con una sola mano perché non ci pensavo neppure a rallentare con l’altra.
«Sono così bagnata» mi confidò. «Sto facendo un casino. In questo momento sono nell’ufficio del mio capo… mmm… è così scivolosa, vorrei che ci fosse il tuo cazzo al posto delle mie dita, lo vorrei tantissimo. Oggi ho messo questi tacchi sapendo che te li avrei affondati nella schiena più tardi.»
In testa, si formò l’immagine dei suoi tacchi e di quella fica perfetta, mentre lasciavo che le sue parole facessero la magia. L’orgasmo mi trasmise una scarica elettrica, diedi un’ultima spinta nella mano, gemendo a voce alta mentre il liquido fuoriusciva dal mio uccello. Mormorai un «dannazione», mentre il piacere svaniva lento.
«Adoro sentirti» la sua voce arrivò dall’auricolare. «I rumori che fai. Ci pensavo ieri notte nella mia camera, mentre mi masturbavo.»
«Ragazzaccia.» Le mandai il video. «Adesso tocca a te controllare i messaggi.»
Ci fu una pausa, poi sentii il suono inconfondibile di me che mi masturbavo quando lei fece partire la registrazione, sentii il mio gemito riecheggiare nell’ufficio del suo capo.
«Oddio» sussurrò e fu chiaro che fossi in vivavoce. «Dannazione, Tyler. È così… se fossi lì, ti leccherei via fino all’ultima goccia.»
«Se tu fossi qui, sarebbe finito tutto nella tua fichetta stretta» risposi con un grugnito.
«Gesù» gemette. E poi: «Sììì» seguito da piccoli sussulti ansimanti che mi riportarono l’uccello in vita.
Alla fine, il silenzio, interrotto da un sospiro forte e dal cigolio di una sedia mentre si risistemava.
Sentii il click che toglieva il vivavoce. «Tyler?»
«Sì?»
Percepii il sorriso nella sua voce. «Sentiti libero di chiamarmi in qualsiasi momento.»

In qualche modo, riuscii ad arrivare alla fine della giornata: corsi fino a svuotare la mente, poi, con scarso entusiasmo misi insieme il materiale per la proposta della commissione del vescovo Bove, guardando con impazienza l’orologio (e soffocando il senso di colpa mentre raccoglievo appunti sul peccato sessuale).
Verso le sette di sera, il mio telefono emise un suono.
Sono a casa. Vuoi che venga alla casa parrocchiale?
Risposi al volo: Troviamoci in chiesa.
Il giovedì era l’unica sera della settimana senza nessuna attività, gruppi o studi biblici, quindi la chiesa era vuota. Era ancora abbastanza presto, fuori era ancora chiaro e, nel caso qualcuno l’avesse vista entrare in chiesa, volevo avere una scusa plausibile, come se stessi facendo consulenza o stessimo discutendo di questioni di bilancio. Poppy che veniva alla casa parrocchiale da sola, di sera, sarebbe stato un po’ più complicato da giustificare.
Mi infilai dalla porta sul retro e corsi per la navata fino alle porte anteriori chiuse a chiave. Girai il catenaccio, aprii la porta ed ecco Poppy con un vestitino rosso, i tacchi alti neri, le labbra rosse e pronte per me.
Avrei voluto essere gentile, scambiarci ancora un po’ di quei baci profondi e dolci che ci lasciavano storditi, ma quel vestito e quei tacchi…
Al diavolo la delicatezza!
Le afferrai il polso e la tirai dentro, prendendomi solo il tempo di chiudere la porta prima di spingervela contro e posare la bocca sulla sua. Le mie mani scivolarono sotto al suo sedere e la sollevai in modo che fosse bloccata tra il legno e il mio bacino, che feci dondolare contro di lei mentre ci baciavamo. E in quel momento mi accorsi che non indossava la biancheria intima.
«Poppy» interruppi il bacio per spostare una mano fra di noi. «E questo cos’è?»
«Te l’ho detto» rispose cercando di riprendere fiato. «Mi hai ridotta a un disastro oggi. Ho dovuto toglierle.»
«Hai trascorso il resto del pomeriggio senza slip?»
Annuì mordicchiandosi il labbro.
Mi allontanai dal portone continuando a tenerla in braccio, mentre avanzavo nella chiesa. Le sue gambe mi circondavano la vita e averla tra le braccia mi sembrò così naturale, così giusto, che non avrei voluto mai metterla giù.
«Sono in pericolo?» chiese maliziosa.
«Sì» grugnii mordicchiandole il collo. «Sei in un mare di guai. Ora, ti faccio piegare in avanti e ti mostro quanto sei stata cattiva.»
Avevo in mente di portarla nel mio ufficio, ma non fui in grado di aspettare per i pochi minuti necessari; riuscii appena a trattenermi dallo slacciarmi i jeans e metterglielo dentro su due piedi. Avrei potuto piegarla su un banco, ma volevo che fosse in grado di tenersi e restare in equilibrio. Il pianoforte era in mezzo alla chiesa, ma a soli due passi di distanza c’era l’altare sacro in pietra…
Perdonami, pensai risalendo con Poppy i bassi gradini. La misi giù e la girai perché mi desse le spalle, felice di constatare che l’altezza fosse perfetta per lei sui tacchi.
«L’altare» mormorò. «Sono il tuo sacrificio, stasera?»
«Ti stai offrendo?»
In risposta, appoggiò le mani sulla tovaglia, un movimento che le fece curvare la schiena e mettere in evidenza il profilo rotondo del sedere.
«Oh, molto bene, Agnellino, ma non abbastanza.» La spinsi ancora più giù con una mano, guardando l’abito salire lento sulle cosce, mentre si chinava in avanti. Spinsi finché la sua guancia non poggiò di lato sull’altare, poi le catturai i polsi e le allungai le braccia sulla testa.
«Non muoverti di un millimetro» le sussurrai piano in un orecchio, prima di allontanarmi per andare in sagrestia, dove presi un cingolo. Quando tornai nell’abside, la trovai come l’avevo lasciata e me ne compiacqui. L’avrei ricompensata più tardi.
Le annodai rapido il cordone bianco intorno ai polsi, pensando alle preghiere che i sacerdoti recitavano quando legavano i propri cingoli. Preparami, oh Signore, con la cintura della purezza e spegni nel mio cuore il fuoco della lussuria…
Avvolto intorno ai polsi di Poppy, per assoggettarla ai miei desideri, il cingolo svolgeva lo scopo esattamente opposto. Non spegneva alcunché. Tutto il mio corpo era in fiamme per lei, il fuoco lambiva ogni centimetro della mia pelle e l’unico modo in cui potevo estinguerlo era affondando fino alle palle nella sua dolcezza. Avrei dovuto sentirmi male per quello.
Avrei dovuto…
Feci un passo indietro per ammirare il mio lavoro: le sue braccia allungate in avanti e legate insieme, come un prigioniero che supplicava; i tacchi neri che scavavano nel tappeto; il suo culo in mostra e a mia completa disposizione.
Tornai da lei e sollevai l’orlo del vestitino con un dito. «Questo mostra un bel po’, Agnellino. Sai quanto?»
Mi fissò oltre la curva della sua spalla. «Sì» disse. «Sento l’aria su di me…»
Mi inginocchiai dietro di lei come quella volta dopo la sua confessione, ma in questo caso soltanto per esaminare. La gonna dell’abito copriva solo l’indispensabile e se si fosse sollevata anche di poco avrebbe mostrato la giuntura rosea tra le sue gambe.
«Poppy, perché oggi hai indossato questo vestito?»
«Volevo… avevo voglia che mi scopassi con questo addosso.»
«È provocante. Ma non tanto quanto farlo al lavoro, davanti a tutti, con la tua fica nuda scoperta.» Mi alzai e lasciai scorrere le mani lungo le sue cosce, afferrando il tessuto morbido tra le dita e spostandolo sopra i suoi fianchi. «E se il vento ti avesse alzato la gonna?» Accarezzai il suo culo mentre parlavo. «E se per caso, da seduta, avessi aperto le gambe e qualcuno avesse guardato dalla giusta angolazione?»
La sua voce venne attutita dal braccio. «Mi spogliavo per soldi. Non mi preoccupa.»
Sciaf.
Trattenne il respiro mentre osservavo l’impronta rossa affiorarle sulle natiche, evidente perfino nella penombra della tarda serata.
«A me preoccupa» risposi. «Sai quanto sono geloso degli uomini che ti hanno vista così? Quanto sono geloso di Sterling?»
«Non dovresti essere…»
Sciaf.
Rabbrividì e poi si mosse per spingere il sedere più vicino alla mia mano.
«So che non dovrei esserlo,» dissi «ma non è questo il punto. Non ti sto rinfacciando il tuo passato. Ma questa…» Feci scivolare la mano giù per accarezzare la sua fica, calda, gonfia e umida. «Me la prendo stasera. La farò mia. Ed essere stata così irresponsabile, oggi, fa di te una ragazzaccia.»
La sculacciai di nuovo e lei gemette contro il suo braccio.
«Non so cosa ci sia in te» proseguii allungandomi verso il suo orecchio. «Ma fai venire fuori il cavernicolo che c’è in me. Guardami, Poppy.»
Obbedì, uno splendido occhio color nocciola fece capolino dal braccio legato. Feci pressione sulla sua fica: era così scivolosa, contro il palmo della mia mano, che dovetti sforzarmi molto per non mostrare quanto mi rendesse selvaggio saperla così eccitata dopo le sculacciate e l’essersi sottomessa a me. Ma dovevo spuntare quella casella, risolvere un’ultima questione, perché non volevo finire nel girone infernale dei maschi fallocratici, in aggiunta a quelli a cui già ero destinato.
La schiacciai di nuovo col mio corpo e lei lottò per mantenere lo sguardo su di me. «Poppy… voglio prenderti così. Brutale. Possessivo. Ma devi dirmi se ti sta bene.» Appoggiai la testa sulla sua schiena, muovendo il viso sul retro del suo collo. «Dimmi che va bene, Poppy. Pronuncia quelle parole.» Dio, quell’odore di lavanda, i capelli di seta che mi sfioravano la guancia e la sensazione del suo calore bagnato che mi pulsava nella mano. «Solo… fottere.»
«Sì» disse e la sua voce fuoriuscì chiara, forte, esigente. «Sì, ti prego.»
«Ti prego cosa?» Dovevo essere sicuro. Perché le cose che volevo fare a quella donna… il Levitico non si era neanche avvicinato a trattare tutti i modi in cui volevo profanarla.
Percepii il sorriso nella sua voce, insieme al desiderio: «Tyler, sai esattamente cosa voglio. Usami. Sii violento. Lascia dei segni.» Fece una pausa. «Ti prego.»
Fu tutto ciò di cui avevo bisogno. Le baciai la nuca, poi mi raddrizzai per sculacciarla di nuovo, massaggiando subito dopo quel punto per darle sollievo.
«Alzati e girati» le ordinai e lei eseguì immediatamente. L’espressione sul suo viso mentre si girava fu quasi sufficiente a farmi venire… sembrava disposta a fare qualsiasi cosa, qualsiasi, pur di essere scopata in quel momento, e io di cose ne avevo in mente tante.
Ma prima…
Le slegai i polsi, baciando le lievi impronte lasciate dal cordone, poi proseguii a slacciarle il vestito, che cadde ai suoi piedi, lasciandola completamente nuda con la sola eccezione delle scarpe. Mi presi un minuto per fissarla, per osservare i suoi seni sodi, grandi abbastanza per riempire il mio palmo, piccoli a sufficienza per stare su da soli. L’addome elastico, snello, morbido, giusto un po’ arrotondato, e fianchi in cui si potevano affondare le dita. La V glabra tra le cosce, dolcemente delicata, e la curva irresistibile del fondoschiena.
«Mi rendo conto solo adesso che non indossi il…» Fece un segno indicando la gola.
«Giorno libero» risposi con voce più roca di quanto mi aspettassi. Allungai una mano dietro la nuca, afferrai la stoffa della maglietta, la tirai sulla testa e la sfilai via, e mi gustai il modo in cui lei socchiuse le labbra e si portò una mano alla bocca mentre mi guardava. Mi slacciai la cintura, feci scivolare la pelle attraverso i passanti dei jeans e la lasciai cadere sul pavimento.
Lanciai via le scarpe e mi tolsi i pantaloni.
Di solito mi piaceva restare almeno in parte vestito durante il sesso, ma volevo darle la mia nudità, come un dono. Ed egoisticamente, volevo sentire ogni centimetro della sua pelle sulla mia. Era la mia prima scopata in tre anni e mi rifiutavo di perdere anche un solo dettaglio.
«Vieni qui» le dissi. «E mettiti in ginocchio.»
Lo fece e percepii il respiro di lei, in ginocchio di fronte a me, con ancora ai piedi quei tacchi che mi provocavano.
«Toglili» ordinai, indicando con un cenno della testa i miei boxer neri. Fece anche quello: con impazienza li tirò via dai fianchi e gemetti quando la mia erezione fu finalmente libera.
Lei premette le morbide labbra rosse sulla pelle del mio membro. «Fammelo succhiare» ansimò verso di me. «Lascia che ti faccia stare bene.»
Trovai le sue labbra con il pollice, lo feci scorrere lungo quello inferiore e spinsi per aprirle.
«Resta immobile» le dissi, guidando il pene dentro la sua bocca in attesa.
Cazzo.
Cazzo, se era bello.
Erano trascorsi solo pochi giorni dal sabato, eppure avevo dimenticato che la bocca di Poppy fosse un angolo di paradiso, calda, umida e con quella lingua rapida e fluttuante che danzava lungo il profilo inferiore del mio uccello.
Strinsi i suoi capelli tra le mani – distrussi qualunque adorabile acconciatura avesse avuto – poi mi ritirai piano, assaporando ogni singolo secondo mentre le sue labbra e la lingua mi baciavano la pelle. E scivolai dentro di nuovo, meno delicato questa volta, mentre i miei occhi guizzavano dalle sue labbra ai tacchi, dalle sue dita che tracciavano cerchi sul clitoride a me, che scopavo la sua bocca trattenendo l’urgenza.
Tenne gli occhi fissi nei miei, mi scrutò attraverso le lunghe ciglia scure e pensai a tutte le volte in cui mi avevano distratto da morire e a tutte le volte in cui avevo dovuto frenare la voglia di scoparla (e di sculacciare quel dolce culetto per avermi reso così dannatamente pazzo di lei).
Strinsi meglio la presa sui suoi capelli. Morivo dalla voglia di essere brutale fino a farle lacrimare gli occhi, dalla voglia di spingere fino al punto in cui sarei riuscito a malapena a trattenermi dall’esploderle in gola.
«Pronta?» le sussurrai, altrettanto bisognoso che mi riconfermasse il suo consenso.
E lei gemette di frustrazione, seccata che glielo chiedessi di nuovo.
«Agnellino cattivo» dissi, spingendo forte nella sua bocca. Per un attimo, quando le colpii la gola, le mancò l’aria, ma le consentii solo un secondo prima di farlo di nuovo, e poi ancora. Sapevo di essere dotato più della maggior parte degli uomini, sapevo che il mio cazzo era difficile da prendere per tutta la sua lunghezza, ma non avevo intenzione di darle tregua a meno che non lo avesse chiesto lei.
«Ti piace che sia cattivo? Ti piace che ti punisca?»
Riuscì ad annuire, sbattendo gli occhi lucidi in modo onesto, e sapevo che diceva la verità.
Imprecai: «Mi farai diventare pazzo.»
Poppy sorrise intorno al mio membro e, dannazione, dovevo essere assolto da tutti quei peccati perché lo stesso San Pietro non sarebbe stato in grado di negarsi a quella donna. Mi guidai nella sua bocca ancora un po’ di volte, fino a quando iniziai a sentire la familiare stretta alla pancia e mi tirai fuori, il respiro affannoso per lo sforzo che mi ci volle per non venire su quella bellissima faccia.
Invece, con il pollice le asciugai gli occhi, sbavati di trucco e lacrime. Il rossetto no, mi piaceva così.
In effetti, lo trovavo troppo allettante per non baciarla, leccarla e morderla, quindi la tirai su, così potei continuare a farlo mentre la accompagnavo verso l’altare. Aveva le labbra gonfie per la rude invasione del mio pene, ma si arrese al mio bacio. Gemetti nella sua bocca mentre ricambiava, leccandomi oltre i denti e assaggiando la mia lingua, spingendomi a muovere la bocca più forte contro la sua. E ancora più forte, tanto che a malapena riuscivo a respirare.
La posai sull’altare continuando a baciarla, mentre le accarezzavo il seno e i fianchi. Trovavo quasi impossibile fermarmi, ma ero giunto al punto in cui contava solo entrare dentro di lei e quindi mi imposi di rallentare.
«Stenditi» dissi, separando le nostre labbra e tenendole una mano dietro la testa in modo che non si facesse male contro la pietra.
Era un altare lungo e lei una donna non molto alta, così riuscì a mettersi comoda e avanzò anche altro spazio. Le passai una mano lungo l’addome, mentre mi spostavo dall’altro lato, di fronte alle file di banchi, come se stessi per dire messa. Tranne che al posto del corpo e del sangue di Cristo, avevo Poppy Danforth spalancata davanti a me.
Feci scorrere la punta del naso dalla sua mandibola, molto piano, giù lungo il suo corpo, adorando il modo in cui si inarcava e inclinava al mio tocco, così avida. Era una festa per me: pieghe, concavità e curve morbide. Averla così era come prendere la prima boccata di ossigeno, una volta emersi dall’acqua, era potente e istintivo; non mi importava niente di tutti i peccati che stavo commettendo e avevo intenzione di goderne attimo per attimo.
Morsi l’interno delle cosce. Tracciai un cerchio con la lingua su ogni centimetro della sua fica. Le massaggiai il seno con mani rudi, fino a quando non strillò; poi, risalii lungo il suo corpo spingendole la lingua nell’ombelico, e le succhiai i capezzoli fino a farla contorcere sull’altare. Le rubai i baci, piuttosto che condividerli. La penetrai con le dita, non per darle piacere, ma per assaporare la sensazione di quanto fosse liscia contro i miei polpastrelli.
Sapevo che stava godendo e l’avrei fatta venire, più volte e con intensità, quando sarebbe stata con me. Ma in questo momento? Mentre la palpeggiavo, la stringevo, mentre inspiravo il suo odore e mi nutrivo dei suoi sospiri… Questo era per me.
E quando finii di prendere ciò che volevo, quando fui così duro da non riuscire più a rimanere lucido, mi arrampicai sull’altare, mettendomi in ginocchio tra le sue gambe divaricate.
Attesi, per il soffio di un secondo aspettai che la voce di Dio rimbombasse con forza, aspettai l’intervento divino, come quando aveva fermato Abramo dal sacrificare il suo unico figlio. Ma non ci fu nulla.
C’erano solo Poppy e il suo respiro pesante, mentre mormorava: «Per favore, per favore, per favore…»
Non capivo come qualcuno potesse essere così insensibile da considerarla solo come una donna perennemente vogliosa, nient’altro che una sgualdrina nata nel corpo di una debuttante. Perché, invece, con gli occhi scuri e la pelle arrossata, a me sembrava la cosa più sacra che avessi mai visto. Un miracolo fatto di carne, in attesa che la mia carne si unisse alla sua.
«Sei davvero bellissima» osservai, mentre le percorrevo con un dito il volto. E poi le presi la mano, intrecciando le dita alle sue. «Qualunque cosa accada dopo questo, voglio solo che tu sappia che ne è valsa la pena. Per te, ne vale la pena. Per te, vale la pena fare qualsiasi cosa.»
Spalancò la bocca e la richiuse, come se non trovasse le parole giuste da dire. Versò una sola lacrima dall’angolo dell’occhio e mi chinai per baciarla via.
«Tyler…» iniziò, ma la feci tacere con un bacio.
«Ascolta e basta» dissi, abbassandomi tra le sue gambe. Rabbrividì quando la testa del mio pene premette contro la sua entrata.
«Questo» aggiunsi, spingendo un po’ di più, a malapena in grado di respirare per quanto la sentivo stretta intorno a me. «Questo è il tuo corpo.»
Abbassai la testa per prenderle la pelle delicata del collo tra i denti. «Questo è il tuo sangue» le sussurrai in un orecchio.
Spinsi fino in fondo e lei gridò, mentre la sua schiena si inarcava sull’altare.
«Questa sei tu» urlai a lei e alla chiesa vuota. «Questa sei tu, in sacrificio per me.»
Restammo fermi, ad assorbire la sensazione nuova dei miei fianchi premuti contro la sua morbidezza, del suo varco stretto intorno a me. Temetti di venire solo rimanendo immobile dentro di lei. Ma poi notai che si mordeva un labbro e respirava affannata, per adattarsi alle mie dimensioni. Ci stavo appena, ed era anche questo a renderlo dannatamente bello.
Dio, ero un tale coglione. Non l’avevo preparata abbastanza e una parte di me lo trovava eccitante, ma mi sforzai di non comportarmi da egoista. Dovetti chinarmi e morderle il collo e le spalle più volte per costringermi a rimanere ancora immobile, quando tutto ciò che volevo era pompare dentro di lei, spingere come se non esistesse nulla al di là della sua fica.
No, non volevo che la nostra prima volta fosse così. Le avevo detto che avrei voluto essere brutale, ma la scopata violenta che morivo dalla voglia di fare sarebbe stata troppo, e non avrei sopportato di abusare del mio Agnellino.
Alla fine, mi ricomposi abbastanza, mi tirai fuori per metà e allungai la mano per massaggiarle il clitoride, pensando di farla venire e poi finire in modo da non farle male.
Lei mi prese la mano. «No» disse. «Non fare il bravo ragazzo. Ti ho detto quello che voglio. Adesso dammelo.»
«Ma voglio che piaccia anche a te.»
«Mi piacerà» confermò con gli occhi spalancati e accesi. «Dammi quello che desidero, Tyler. Ti prego.»
Gemetti alle sue parole e affondai piano di nuovo dentro di lei. Le cosce e le braccia mi tremarono per il desiderio represso, ma non potevo essere quella persona, non volevo essere colui che usava una donna per se stesso, senza pensare all’altrui piacere. Diceva di volerlo e avevo chiesto e ottenuto il suo permesso, ma ancora non sapeva quanto potessi diventare selvaggio.
Mi fece scivolare le braccia attorno al collo e alzò la testa per mormorarmi nell’orecchio: «Come posso spingerti oltre il limite? Mmm…?» Si dimenò sotto di me e io trattenni il respiro: anche il più piccolo movimento era troppo dopo l’immobilità. «Come posso convincerti a farmi a pezzi?»
Oh, merda.
«So che è quello che vuoi» proseguì, sussurrando nel mio orecchio. «Ti sento tremare. Fallo. Tiralo fuori e poi spingilo dentro. Non è una bella sensazione?»
Dannazione, sì, certo che lo era. Era così bello che lo feci di nuovo, e poi di nuovo, chiudendo gli occhi e facendo lenti respiri irregolari. Ogni volta che entravo, sbattevo contro il clitoride, poi mi tiravo fuori piano, strofinando contro il suo punto G. La voce della coscienza mi suggeriva di assicurarmi che lei venisse, il resto di me combatteva quella voce e supplicava di scoparla senza pensare ad altro.
«Dov’è l’uomo che mi ha sculacciato?» chiese. «Dov’è l’uomo che mi ha scopato la gola fino a farmi lacrimare?»
I miei occhi erano chiusi, ma li aprii per incontrare il suo sguardo. «Non voglio farti del male» dissi, la voce roca per l’autocontrollo. «Ci tengo troppo a te.»
«Tyler» implorò. «Me l’hai già fatto prima.»
«Non così.»
«Guarda,» insistette ancora «guarda in giù, verso di noi.»
Lo feci, tirandomi fuori fino alla punta, e commisi un errore perché vederci uniti fu così eccitante, così primordiale, che l’istinto si fece strada con gli artigli attraverso la mia spina dorsale, e non sapevo nemmeno cosa fosse di preciso a scatenarlo, se lussuria, amore, chimica o destino, ma il tentativo di comportarmi in maniera nobile si spezzò e la bestia dentro di me si aprì un varco.
«Perdonami» mormorai e poi glielo sbattei dentro.
Poppy gemette, sorpresa, mentre distendevo il corpo sul suo, sostenendomi solo con gli avambracci; schiacciati l’uno sull’altra con petto e addome, i miei fianchi che scavavano tra le sue cosce. La presi così, trafiggendola più e più volte, affondando ripetutamente in quel calore vellutato.
«Di più» disse in un lamento, e io glielo diedi.
Sentii i tacchi sfilarsi e cadere a terra, la tovaglia sull’altare scivolare, mentre entravo con forza, ma non mi importava: persi me stesso, persi lei, il mondo, persi tutto tranne i suoi gemiti e le sue grida nell’orecchio e la sua fica bagnata sotto di me.
Era perfetta, e scopai quella perfezione, fregandomene di tutto tranne che del mio cazzo che voleva riempirla. Perché diavolo la dannazione dava sensazioni così stupende?
Non sapevo nemmeno cosa stessi dicendo mentre continuavo ad affondare: «Gesù, per favore» e «mi dispiace, sei così stretta» e ancora «devo farlo, devo farlo, devo farlo.»
E lei rispondeva a parole spezzate, che uscivano tra sussulti, gemiti e ansimi: «Proprio lì» e «più forte» e «ci sono quasi, ci sono quasi.»
In profondità, dovevo andare più in profondità, anche se sapevo che non era fisicamente possibile farlo, e allora mi impossessai della sua bocca e la baciai, violento, furioso e adorante. Entrambi respiravamo appena, ma ci fu impossibile rallentare, e continuai a scoparla finché non la sentii stringersi, contorcersi ed esplodere sotto di me. Si dimenò, gridando contro la mia bocca, e mi incise dolorosi segni di fuoco con le unghie lungo la schiena. Rincorremmo il suo orgasmo insieme e lei era così selvaggia, una donna posseduta, una tigre sotto di me, ma non smisi di cavalcarla e poi eccolo, eccolo lì: diedi la spinta finale e venni, con la sua bocca ancora contro la mia.
Venni in modo lancinante.
Ogni pulsazione del mio pene corrispose a una pulsazione dell’anima, ogni muscolo si tese e si contrasse e fu come un pugno nello stomaco. E mi ritrovai davanti a questa donna nudo, in tutti i sensi: i miei nervi scoperti, il mio cuore spalancato, la mia anima eterna lungo i miei fianchi esigenti e il mio cazzo che ancora affondava, mentre il seme si riversava in lei, sgocciolando sulla tela bianca dell’altare. E sì, in quel momento capii perché la Chiesa voleva che matrimonio e sesso andassero di pari passo; perché mi sentii sposato con lei, come un normale uomo poteva essere sposato a una donna.
Diedi qualche altra spinta, spremendo fino all’ultima goccia di me, e poi mi sollevai sulle braccia per guardarla.
Sorridendo, pigra e sazia, disse: «Amen.»