Un grande biologo, Orthis, ha trovato il modo di operare una mutazione nella struttura molecolare del corpo umano, perché possa resistere all’accelerazione di velocità necessaria per i viaggi interstellari. I discendenti di questi primi mutanti, i Vardda, si sono stabiliti su un pianeta di Aldebaran e di là dominano i cieli e i popoli degli altri pianeti, arricchendosi con gli scambi dei prodotti dei vari mondi, prodotti che essi soltanto, che possono sopportare la velocità dei viaggi interstellari, possono trasportare, con le loro potenti astronavi che superano la velocità della luce. C’è un uomo sulla Terra, Trehearne, che è nato da una terrestre e da un Vardda e in cui la mutazione è perfetta. Quest’uomo s’innamora di una bellissima Vardda e col suo aiuto raggiunge Llirdys, il meraviglioso pianeta della sua razza. Ma la legge dei Vardda è terribile: nessuno di sangue misto può far parte della loro comunità. Il divulgare il segreto della mutazione, metterebbe altri popoli in grado di fare viaggi interstellari e significherebbe la fine dell’imperialismo commerciale dei Vardda. Con l’aiuto della ragazza vardda, Trehearne riesce a farsi accettare, ma si associa ai discepoli di Orthis, il quale voleva divulgare il segreto della mutazione e farne partecipi i popoli degli altri pianeti abitati, Terra compresa. Il romanzo è la storia della pericolosa ricerca del segreto di Orthis e delle estreme lotte dei Vardda contro pochi uomini che si battono per il progresso universale. Una storia appassionante, logica, serrata e piena di umanità e di poesia.

Leigh Brackett

La legge dei Vardda

1

Michael Trehearne doveva ricordare quella sera come la fine del mondo. La fine di una vita familiare in una Terra conosciuta e la prima lampeggiante visione dell’incredibile. Tutto cominciò quando l’uomo gli rivolse la parola sulle colline dietro Saint-Malo, al bagliore dei fuochi di mezza estate.

Vi era una gran folla di turisti, venuti a vedere l’antica festa bretone del falò sacro. Trehearne si trovava semplicemente tra loro, non era uno di loro. Se ne stava solo. Era sempre solo. In quel momento pensava che i riti che si compivano nell’ampio spazio di terriccio pietroso erano troppo singolari perché una persona normale li potesse sopportare fino alla fine, e si chiedeva perché mai si fosse preso la briga di assistervi, quando qualcuno gli disse in una forma di strana confidenza: «Fra quattro giorni sarà tutto finito e ce ne andremo a casa. È un pensiero che fa bene, non è vero?»

Trehearne volse il capo e si trovò di fronte a un volto così simile al suo che trasalì.

Si trattava di una somiglianza evidente in una vigorosa impronta di razza piuttosto che di una affinità di consanguinei. Se due Moaawaks dovessero incontrarsi inaspettatamente sulle colline dell’Afghanistan, si riconoscerebbero, e così era per Trehearne e lo straniero. Avevano in comune la stessa struttura da dominatori, la stessa bellezza strana e impressionante di forme e di colori che sembrava non avere radici in alcuna razza terrestre, lunghi occhi gialli, lievemente obliqui, screziati di piccole macchie dalla luce verde. E in ambedue era la stessa fierezza. Poiché Trehearne lo fissava stupito, lo straniero osservò: «Non mi ricordo di avervi visto sull’ultima nave. Da quanto tempo siete qui?»

«Da ieri» rispose Trehearne e pronunciando quelle parole si rese conto che non erano quelle che lo straniero si aspettava da lui. Un violento brivido di eccitazione lo percorse. Impulsivamente disse: «Sentite, voi mi avete confuso con qualcun altro; ma ne sono lieto!» Nella sua ansia afferrò il braccio dell’uomo. «Devo parlarvi.»

Qualcosa era mutato nell’espressione dello straniero. I suoi occhi esprimevano ora diffidenza e sorpresa insieme. «E di che cosa?»

«Della vostra; della mia famiglia. Perdonatemi se vi sembro importuno, ma per me è molto importante. Ho fatto un lungo viaggio, dall’America fino in Cornovaglia e ora in Bretagna nel tentativo di scoprire le mie origini…» Si interruppe, esaminando di nuovo quello strano volto fisso nel suo, bello di una bellezza tenebrosa, che lo scrutava al bagliore del falò. «Volete dirmi il vostro nome?»

«Kerrel» rispose l’uomo lentamente. «Vi chiedo scusa. La somiglianza è davvero impressionante. Vi ho preso per uno della mia famiglia.»

Trehearne corrugò le sopracciglia. «Kerrel?» ripeté, e scosse il capo. «I miei si chiamavano Cahusac prima di trasferirsi in Comovaglia.»

«Senza dubbio esisteva una parentela» disse Kerrel con noncuranza. Improvvisamente fece un cenno a indicare la radura che si stendeva davanti a loro: «Guardate, danno inizio alla cerimonia finale.»

Il grande falò andava spegnendosi. I contadini e i pescatori, un centinaio circa, si stringevano in cerchi intorno all’ondeggiante bagliore delle fiamme. Un vecchio dalla barba bianca incominciò a pregare nel rozzo gaelico bretone.

Trehearne volse appena il capo. La sua mente era assorta nel pensiero dello straniero e di tutte le cose che l’avevano oppresso e turbato e perseguitato fin dall’infanzia, gli inquietanti piccoli misteri intorno alla sua persona dei quali ora forse avrebbe trovato la chiave.

Guardò solo per un secondo, seguendo il gesto del braccio di Kerrel. Ma quando si rigirò, Kerrel se n’era andato.

Trehearne si mosse di qualche passo senza una meta, in cerca dello straniero ma egli si era dileguato nel buio e tra la folla, e Trehearne si fermò, sentendosi giocato e furibondo.

La sua indole provata dalle dure vicende di un’esistenza infelice si rivoltava scoprendo gli artigli. Era sempre stato sensibile alle offese come un fanciullo. Se avesse potuto mettere le mani su quell’insolente di Kerrel l’avrebbe percosso a morte. Rivolse di nuovo l’attenzione allo svolgersi della cerimonia, cercando di controllarsi come aveva faticosamente imparato, rendendosi conto di essere ridicolo. Ma il suo viso, così simile a quello dello straniero scomparso si piegava agli angoli della bocca in una smorfia crudele.

I bretoni avevano incominciato a sfilare in processione intorno al fuoco che andava estinguendosi. Bassi uomini tarchiati dalle giubbe variopinte e dai cappelli dall’ampia tesa, donne vigorose in grembiule e lunghe gonne, le inverosimili cuffie inamidate fluttuanti di nastri e trine. Gli zoccoli calpestavano pesantemente il terreno pietroso. Avrebbero girato tre volte intorno alle braci in direzione del sole e poi, solennemente, ciascuno avrebbe raccolto una pietra e altrettanto solennemente l’avrebbe gettata fra i carboni ardenti. E quindi sarebbero corsi a raccogliere i tizzoni carbonizzati e li avrebbero portati a casa come talismani contro la febbre, il fulmine e le malattie del bestiame fino alla prossima vigilia di mezza estate.

Trehearne fu colpito dal fatto che la maggior parte di essi, fatta eccezione dei più vecchi, appariva penosamente consapevole dei propri atti. Vinto dal cattivo umore, era sul punto di andarsene. Fu allora che vide la ragazza.

Stava a una decina di passi da lui, in prima fila tra la folla che si era disposta a semicerchio. Ella aveva voluto che la guardasse. Faceva oscillare una borsetta bianca, come un pendolo pigro dalla lunga cinghia e il suo sguardo era fisso su di lui. Sorrideva con un’aria di sfida.

Ai riflessi delle braci ardenti, Trehearne la riconobbe come una della stirpe di Kerrel; della sua stirpe quale che fosse. Ma non fu questo che gli fece sobbalzare il cuore nel petto: fu la sua persona.

La luce rossa dorata danzava su di lei e forse era solo quel bagliore misterioso che la faceva sembrare qualcosa di più che una graziosa ragazza vestita di bianco. Solo una magia del vento e della luce delle stelle, forse, faceva sì che Trehearne vedesse in lei una creatura fatata, luminosa, bella, malvagia e saggia e non più umana di Lilith. La ragazza gli fece un cenno, un piccolo imperioso movimento del capo. L’ira assopita in lui in quel momento si risvegliò. Prese a camminare verso di lei, aprendosi un varco tra la folla, alto, splendidamente eretto, forte, con nel volto il segno di quella strana, malvagia bellezza, gli occhi gialli come il fuoco e come il fuoco ardenti. Ella vide che era in collera e rise.

Se fosse lo squillare del suo riso che attrasse l’attenzione dei bretoni o se si trattasse di uno sguardo casuale, Trehearne non lo seppe mai. Le si avvicinò ed ella disse: «Anch’io sono una Kerrel. Volete parlarmi?»

Stava per rispondere quando si accorse che il ritmico battere degli zoccoli si era arrestato e che la folla dei turisti guardava fissamente verso di lui e la ragazza e poi, oltre loro, ai bretoni. Udì un concitato mormorio di domande in francese e in inglese, e alle sue spalle un gran silenzio.

Si girò. Il cerchio rituale si era spezzato. Il vecchio che aveva pregato, avanzava verso di loro e con lui uomini e donne, spinti, come da una forza irresistibile, a rompere l’ordine della processione. Erano tutti vecchi, dalle facce avvizzite e solcate dal trascorrere di molti inverni, e nei loro occhi vide la scintilla di un odio antico, l’ombra di un antico timore.

Aveva sorpreso lo stesso sguardo fisso su di lui tra i vecchi contadini di Cornovaglia.

Il vecchio alzò la mano. Si fermò a pochi passi di distanza e gli altri con lui. Vi era qualcosa di estremamente minaccioso nel blocco compatto di quella piccola folla, la sopravvivenza di un mondo più antico. La ragazza sollevò la testa con noncuranza e rise, ma Trehearne non se la sentiva di ridere. Il vecchio li maledisse.

Trehearne non conosceva una sola parola di gaelico, ma non era necessario sapere la lingua. Né aveva bisogno di spiegazione l’irato gesto di congedo. I bretoni avevano già raccolto le pietre dal fuoco. Ancora un attimo e le avrebbero scagliate contro di lui e la ragazza.

La afferrò rudemente per il braccio, ma ella sì liberò con forza e gridò qualcosa al vecchio continuando a ridere beffarda, ed egli di nuovo pensò che fosse una creatura fatata e non una ragazza. Le parole che aveva rivolto al vecchio, avrebbero potuto essere in gaelico, ma avevano un suono diverso. In qualunque lingua fossero state pronunciate, non avevano ombra di gentilezza. Trehearne si fece strada tra gli spettatori che prontamente arretrarono per lasciarlo passare, e la ragazza gli fu immediatamente dietro. La voce del vecchio li seguì giù per la china del colle e i turisti curiosi continuarono a guardarli finché scomparvero dalla loro vista.

La ragazza disse: «Siete ancora adirato?»

«Che cosa aveva quella gente?» chiese Trehearne.

«La gente di campagna ha buona memoria. Non sa che cosa sia in realtà ciò che ricorda, sa solo che un tempo patì gravi sventure per causa nostra.»

«Che genere di sventure?»

«Ve ne sono state forse di nuove dal principio del mondo in poi?»

La sua voce aveva un tono sarcastico. Trehearne dovette ammettere che non ve ne erano state. Dal tempo in cui le giovinette facevano pratiche di stregoneria, le storie di famiglia si ripetevano tutte con la stessa uggiosa monotonia.

«Comunque» soggiunse «i Kerrel e i Cahusac si devono essere distinti in questo campo a giudicare dall’accoglienza con cui ci hanno ricambiato.»

Si fermò. Erano lontani dalla folla ora. La solitaria città murata incombeva all’orizzonte enorme e oscura, un’ombra medievale contro la notte e il mare. La ragazza era un fantasma bianco nelle tenebre, sconvolta dal vento salato che le scompigliava i capelli e le gonfiava le gonne. Non le parlò, ma rimase silenzioso, cercando di vederle il viso al lume delle stelle. Dopo un momento ella gli chiese: «A che cosa pensate?»

«Attendo di vedere se svanirete anche voi come l’altro Kerrel.»

Ella rise. «Kerrel è un maleducato. Io mi sono offerta per far riparazione. Certo ora non sarete più in collera!»

Rise a sua volta.

«No. In verità, vi sono grato; a proposito, che grado di parentela ha con voi?»

«Nessuno.»

«Ma avete detto…»

«Era una piccola bugia. Ed è servita al suo scopo.»

«Bene, comunque, sono grato a Kerrel della sua scortesia. Preferisco parlare con voi!» Il suo cattivo umore era completamente svanito. Le prese la mano e si stupì di trovarla così forte. La ragazza sembrava emanare un’immensa vitalità, una vivacità che gli faceva sembrare tutte le altre donne che aveva conosciuto, insipide e sciocche.

«Come vi chiamate» le chiese «se non siete una Kerrel?»

«Shairn.»

«Non sembra un nome bretone.»

«Davvero? L’altro mio nome è ancora più strano. Non si può pronunciare e significa della Torre d’argento.»

I suoi occhi erano luminosissimi al chiarore delle stelle. Egli pensò che in qualche suo modo segreto, stava prendendosi gioco di lui, ma non se ne curava. Disse: «Vi chiamerò Shairn.» Avevano ripreso a discendere lungo il sentiero. Le disse il suo nome ed ella gli domandò: «Siete americano?»

«Da quattro generazioni.»

«Dalla Bretagna alla Cornovaglia, all’America» mormorò come a se stessa. «Gli anni, le generazioni, il miscuglio di razze e ancora il sangue dei Vardda scorre genuino. Michael, siete meraviglioso!»

Egli ripeté la parola Vardda in tono interrogativo.

«Un nome di tribù. Non l’avete mai udito?» Rise divertita. «È incredibile. Non c’è da meravigliarsi che Kerrel si sia sbagliato. Ascoltate, Michael. Vi chiedete quale sia la vostra famiglia, la vostra razza. Oh, sì, ho sentito tutto. Bene, forse ve lo dirò o forse non ancora! Vi è una piccola baia oltre il faro. Ci vedremo là, domani mattina.»

2

Mattina è un termine vago per un appuntamento. Trehearne ci andò presto, arrampicandosi su per le rocce battute dai frangenti. Il sole era caldo e il mare di un azzurro intenso, striato di bianca spuma. Una viva eccitazione ardeva in lui. Non aveva dormito, pensando a Shairn e a Kerrel, cercando di analizzare quella singolarità che aleggiava intorno a loro e toccava qualche corda sepolta in lui. Non vi era riuscito.

Vi era qualcosa di quasi feroce nel modo in cui avanzava. Era oppresso dalla paura che Shairn non venisse. Intuiva che stava giocando un suo gioco con lui, senza indovinarne lo scopo. Ma poiché vi era stato coinvolto, voleva vedere come l’avrebbe portato a termine. Se non fosse venuta, l’avrebbe trovata lui, avesse dovuto smuovere tutte le pietre di Saint-Malo per ritrovarla.

Giunse alla baia. Era deserta. La ragione gli diceva che la sua era impazienza, ma si sentiva pur sempre deluso e irato. Poi, guardando più da vicino, vide delle orme sulla sabbia, orme di piccoli piedi nudi che conducevano nell’acqua. Un abito da spiaggia e un paio di sandali erano riposti entro una spaccatura della roccia.

Esplorò con lo sguardo le onde che si cullavano pigre tra due grigi speroni ripidi. Non vi era traccia di lei. Negli occhi di Trehearne passò una luce dura. Si tolse la camicia e i pantaloni e si tuffò nella gelida schiuma. Era un formidabile nuotatore. Ai tempi dell’università era stato anche campione di atletica per un certo periodo, finché non vi aveva rinunciato per la vaga convinzione che il suo corpo fosse destinato a qualcosa di più importante che saltare ostacoli e correre per distanze arbitrarie lungo una stretta corsia. Non era mai riuscito a scoprire che cosa fosse più importante, ma la convinzione gli era rimasta. Faceva parte di quella fierezza che era la molla del suo carattere, una fierezza inutile, doveva ammetterlo, che era servita solo a complicare i suoi rapporti con il mondo.

Fece due volte il giro della baia prima di trovarla, al riparo tra le rocce frastagliate dello sperone nord, seminascosta tra le alghe scintillanti, il volto ridente. Cercò di afferrarla, ma gli sfuggì da sotto come un delfino, per riemergere a qualche metro di distanza, per far schizzare alta l’acqua e rituffarsi.

La inseguì nelle gorgoglianti profondità verdi-azzurre e poi ancora nella luce del sole e nella schiuma, il corpo di lei era color dell’argento, agile e flessuoso e meravigliosamente forte. Avrebbe potuto prenderla, ma non volle e la sfiorò solo con le dita per mostrarle che poteva farlo. I suoi capelli erano sciolti, un’ondeggiante massa nera intorno al capo, la bocca era rossa, e gli occhi due verdi atomi danzanti del mare, misteriosi, canzonatori e mobili come le onde.

Alla fine si girò a galleggiare sul dorso, ansante, compiaciuta di se stessa e di lui.

«Riposiamoci!» esclamò, ed egli si mise a galleggiare accanto a lei, osservando i movimenti delle sue bianche braccia nell’acqua. I versi di una vecchia poesia gli vennero spontanei alle labbra.

Che meravigliosi bambini ebbero Lilith e Adamo…

Forme che danzavano nei boschi e tra le acque,

figli radiosi e ftglie luminose…

«Il poeta che scrisse questi versi conosceva solo una parte della verità» disse Shairn. «Rituffiamoci!»

Trovarono un luogo riparato dove il sole era caldo. Con aria assente Shairn lisciava con il palmo della mano un mucchietto di sabbia e poi lo scompigliava di nuovo. Dopo un po’ disse: «Che razza di uomo siete, Michael? Che cosa fate? Come vivete?»

Le rivolse uno sguardo acuto. «Davvero volete saperlo? Va bene, ve lo dirò. Sono un uomo che è sempre stato insoddisfatto. Non sono mai riuscito a durare per molto tempo nello stesso lavoro. Sono aviatore di professione, ma anche questa mi sembra un’occupazione uggiosa, un gioco da bambini. E perché? Perché mi sento troppo bravo per qualsiasi cosa.»

Rise, con una nota quasi crudele.

«Non chiedetemi in che modo sono troppo bravo. Ho un fisico eccezionale, ma questo vale solo per me. Non ho mai stupito il mondo per le mie facoltà intellettive. Non ho inclinazione al genio. In effetti si insinua in me il sospetto di non essere bravo abbastanza. Comunque sia, qualcosa è sempre mancato a me o al mondo.»

Shairn annuì e di nuovo egli avvertì in lei una strana saggezza che non si confaceva alla sua giovane età. Ella sorrise, un breve sorriso pieno di segreti.

«E pensate che se conosceste l’origine del vostro sangue, capireste meglio anche voi stesso…»

«Forse. Mio padre era un ometto sparuto dai capelli rossi. Giurava che non ero suo figlio. Né somigliavo ai parenti di mia madre. Finché non ho incontrato Kerrel e voi, non ho mai trovato nessuno che mi somigliasse. La stranezza diventa un peso, specialmente quando non sapete perché dobbiate essere strano.» Soggiunse: «I contadini della Cornovaglia dicevano che ero una creatura venuta da un mondo di magia. Quando vidi voi, ebbi lo stesso pensiero.»

«Così siamo della stessa razza. Potreste vivere con me, Michael?»

«Voi non siete una donna, siete una strega. Non ho mai incontrato una strega prima d’ora.»

Gli rise in faccia. «Sciocchezze. Strega, creatura fatata: sono parole per i contadini e gli ignoranti.»

«Chi sono i Vardda, Shairn?»

Ella scosse il capo. «Ve l’ho detto la scorsa notte. È il nome di una tribù. Dicevate a Kerrel che siete venuto in Bretagna per ricercare le origini della vostra famiglia. Sapete da dove incominciare?»

«In Cornovaglia ho saputo che i miei venivano da un luogo chiamato Keregnac.»

Gli sembrò di vederla trasalire a quel nome, ma ella non disse nulla ed egli le chiese: «Conoscete questa città?»

«Non è una città» rispose lentamente «È solo un piccolo villaggio al limite di una vasta brughiera. Sì, conosco Keregnac.» Raccolse un pezzetto di legno levigato dalle onde e cominciò a disegnare sulla sabbia segni senza significato. «Non credo verrete a sapere un gran che là. Il villaggio è antichissimo, e ora sta scomparendo.»

«Ma» disse lui «ora non me ne devo più preoccupare, non è vero?»

«Che cosa volete dire?»

«Voi, Shairn. Voi conoscete il mistero della mia famiglia, della mia razza. Non è più necessario che vada a Keregnac. Voi mi direte tutto.»

Ella lasciò cadere il pezzetta di legno. «Io?»

«La notte scorsa diceste…»

«Non ricordo ciò che dissi. E comunque, di notte, si dicono cose che alla luce del giorno possono sembrare insensate.» Si alzò. «Forse, Kerrel aveva ragione.»

«Su che cosa?»

«Su di voi. Quando lo raggiunsi, mi fece una scenata. Disse molte cose e alcune erano vere.»

«Per esempio?» chiese Trehearne, calmo.

«Per esempio che l’ereditarietà vi ha giocato un tiro piuttosto crudele e che è meglio non veniate a sapere nulla sulla vostra origine. Il vestito, Michael: devo andarmene.»

Ma egli allungò la mano ad afferrarle il polso e la sua stretta non era delicata. «Voi non potete farlo» disse. «Non potete rifiutarvi di dirmelo ora.»

«Oh» ella replicò a bassa voce «certo che posso. E lo farò.»

«Ascoltate» insistette Trehearne «Ho fatto un lungo viaggio e ho sopportato molte traversie. Voi siete una bella donna, avete diritto ai vostri capricci, ma non ora.»

Abbassò gli occhi a guardare la mano di lui che le serrava forte il polso e poi li alzò a fissarlo, ed erano lucidi e ardenti.

«Sono questi i vostri mezzi di persuasione?»

«Volete dirmelo?»

«No.» Gli mostrò i denti silenziosamente in un ghigno felino. «Kerrel mi aspetta.»

«Lasciatelo aspettare.»

«Non aspetterà. Partiamo da Saint-Malo oggi, e vi assicuro che non se ne andrà senza di me.» Egli abbandonò la presa e le lasciò libero il polso.

«Vi seguirò.»

Gli occhi di lei fiammeggiavano.

«Sarà un lungo cammino.»

«La Bretagna non è molto grande.»

«Vi ho forse detto che vivo in Bretagna?» Raccolse l’abito e se lo gettò sulle spalle, e poi disse: «Va bene, Michael, seguitemi. Mi piacerebbe. Seguitemi fin dove potete!»

Lo lasciò, avviandosi rapida su per le rocce scoscese. Trehearne la seguì con lo sguardo finché gli fu possibile, senza muoversi dal suo posto.

Fu solo più tardi che la sua attenzione fu attratta dai segni che Shairn aveva tracciato sulla sabbia. Tra i ghirigori senza senso, stava a grandi lettere chiare una parola: KEREGNAC.

3

Trehearne prese a nolo una macchina con il suo autista che, per una somma esorbitante, lo condusse a Keregnac. Il primo giorno trovarono strade praticabili e le percorsero a una discreta velocità. Il secondo giorno la piccola vettura dovette arrancare faticosamente lungo piste segnate da carri. Il mare era lontano alle loro spalle e il guidatore si lagnava continuamente dei pazzi desideri degli americani. Perché uno doveva desiderare di recarsi a Keregnac, un luogo che persino i bretoni avevano dimenticato?

Trehearne era di uno strano capriccioso umore. Aveva negli orecchi il suono del nome di Shairn e rimuginava nella sua testa tutto quello che ella aveva detto e fatto, e più vi pensava più cresceva il suo odio per lei, e più la desiderava. E più odiava Kerrel, che l’aveva in suo potere e che non era estraneo a quella sua vita segreta. Ma Shairn e tutto ciò che la riguardava non erano che una parte dei suoi pensieri. Era giunto quasi al termine delle sue ricerche. Era stato sul punto di trovare quanto cercava e all’ultimo ciò gli era stato negato dal volubile impulso di una donna. Non l’avrebbe più permesso. Shairn aveva dato inizio a qualcosa che non si poteva fermare, non importa dove conducesse.

L’autista si smarrì tra le piste fangose e i borghi selvaggi di pietra.

Quando chiedeva indicazioni, i contadini guardavano Trehearne, chiudendosi in un ostinato silenzio, né si poteva costringerli a rispondere.

Era impossibile persino riuscire a sapere se altri prima di loro avessero percorso lo stesso cammino.

Trehearne lo aveva previsto. Aveva incontrato già simili difficoltà in Cornovaglia. Si era procurato una carta geografica e aveva chiesto informazioni a Saint-Malo e ora spronava il disgraziato autista a proseguire con un incalzarsi di raccomandazioni. Era già notte quando si trovarono in una piazza melmosa, selciata solo a metà di antiche pietre, e scorsero le luci di una mezza dozzina di case raggruppate attorno a essa.

«Portatemi là, alla casa più grande. Domandate se questo è Keregnac e dite al padrone che lo pagheremo bene se ci darà alloggio.»

L’autista, che ormai era anche lui di umor nero, eseguì l’ordine e nel giro di pochi minuti Trehearne si trovò in una casupola a tre stanze di pietra sgretolata, le pareti tutte annerite dal tempo e dal fumo. Un magro fuoco ardeva nel caminetto e due candele di rozza fattura erano l’unica fonte di luce. Bastò che il viso di Trehearne apparisse in quella casa.

Stranamente, il contadino dalle mani incallite cui apparteneva la casa non mostrò né timore né ostilità. E non parve neppure sorpreso. Una certa espressione astuta incrinò la cupa staticità del suo volto, ma fu tutto.

«Vi daremo il letto migliore monsieur» disse in cattivo francese e indicò un monumentale lit-clos incavato nella parete. «Ho anche un buon cavallo. Gli altri sono andati avanti nelle landes. Immagino desidererete raggiungerli.»

Trehearne cercò di celare la sua eccitazione. «Monsieur Kerrel e mademoiselle Shairn?»

Il contadino si strinse nelle spalle. «Voi dovete sapere meglio di me i loro nomi. Io non sono un tipo curioso. Io godo buona salute e me ne sto contento.»

Chiamò qualcuno a gran voce in bretone e una donna venne a preparare la cena. Aveva un viso pesante e stolido. Gettò un’occhiata di traverso a Trehearne e poi si guardò bene dal rivolgergli uno sguardo o una parola. Non appena ebbe servito una cena frugale si affrettò a nascondersi nella stanza attigua.

La vecchia che sferruzzava accanto al camino non era così intimidita. Come se l’età l’avesse messa al di sopra di ogni complicazione, teneva i suoi occhietti brillanti fissi su Trehearne con un misto di ostilità e di interesse.

«Che cosa pensate, ma vieille?» le chiese egli, sorridendo.

Ella rispose in un francese a lui quasi inintelligibile. «Penso, monsieur, che Keregnac è altamente onorato dal diavolo.»

L’uomo le urlò qualcosa in gaelico imponendole di tacere, ma Trehearne scosse il capo.

«Non abbiate paura, grand-mère. Perché dite questo?»

«Ogni tanto egli ci invia i suoi figli e le sue figlie. Mangiano il nostro cibo, prendono a prestito i nostri cavalli, e ci pagano bene. Oh molto bene! Non avremmo da vivere se non fosse per loro.» La sua cuffia bianca si agitò significativamente. «Ma è pur sempre denaro del diavolo!»

Trehearne rise. «E io sembro figlio del diavolo?»

«Voi siete sangue del suo sangue.»

Trehearne si chinò per avvicinarlesi di più e disse: «Un tempo la mia famiglia viveva qui. Si chiamavano Cahusac.»

«Cahusac» ripeté la vecchia lentamente, e gli aghi tintinnanti si arrestarono tra le due dita nodose. «Eh, fu molto tempo fa, e Keregnac ha dimenticato i Cahusac. Furono cacciati…»

«Perché?»

«Avevano una figlia unica, che sposò uno di quei bei figli del Malanno…»

Tacque e lo guardò, come rinsavita. «Ma dimenticate: la mia vecchia lingua non ha ancora imparato la prudenza.»

Trehearne s’inginocchiò accanto a lei, così da poterne scorgere più distintamente il viso. Il cuore gli martellava. «No, no, grand-mère! Non interrompetevi: è per sentire queste cose che sono venuto dall’America. Questa figlia dei Cahusac aveva un figlio?»

«Sì, e gli abitanti del villaggio l’avrebbero voluta lapidare a morte, lei e il bambino. Ma lei lo venne a sapere e fuggì.» La vecchia si drizzò; i suoi occhi erano smorti e cupi.

«Noi prendiamo il loro denaro e questo è un peccato abbastanza grave. E io ho parlato troppo e non dirò altro.»

«No, vi prego!» disse Trehearne. «Chi sono questi stranieri, questi Vardda? Dovete saperlo. Dovete dirmelo!»

Ma la vecchia sedeva, simile a un’immagine intagliata in un legno scuro, il capo chino sulla lana chiara sparsa nel suo grembo. Trehearne si alzò, dominando l’impulso di scuoterla fino a farla parlare e poi uscì. Percorse il breve tratto che lo separava dalla fine della viuzza fangosa e si sporse a contemplare la landa immota e desolata sotto le stelle. Rimase a lungo assorto quel luogo a fissare la brughiera deserta con gli occhi socchiusi.

In quella desolazione, le landes, Shairn se n’era andata con Kerrel. Perché, a quale scopo, non riusciva a immaginare non più di quanto potesse indovinare la soluzione degli altri enigmi, e non sapeva far di meglio che interrogare la sua ospite. Il silenzio si faceva beffe di lui, saturo di segreti.

Egli aveva fatto qualche progresso. Aveva ritrovato le tracce della sua famiglia a Keregnac e ora sapeva le ragioni della loro partenza. Un ibrido Vardda strappato dalla morte che gli si preparava per mano di adirati campagnoli: una storia romantica, ma ancora misteriosa. La soluzione all’enigma della sua nascita andava ricercata più lontano.

Quanto, non poteva prevedere.

All’alba pagò l’autista, saldò il conto con il suo ospite, montò sul cavallo pronto per lui e si lanciò nella brughiera. Non aveva idea su che direzione prendere. In ogni modo la landa non poteva avere un’estensione illimitata e se avesse insistito nelle sue ricerche era quasi certo che avrebbe trovato quanto cercava. Se Kerrel e Shairn e altri figli e figlie del diavolo usavano venire nelle landes, dovevano avere un rifugio.

Ma cavalcò tutto quel giorno tra paludi e pietraie, tra ginestre, rovi e alberelli stenti, senza vedere una casa o un gregge solitario e neppure una lontana nuvola di fumo che indicasse l’esistenza di una dimora umana. Solo qua e là un picco solitario si levava contro il cielo basso come un druido a sentinella.

Calava il crepuscolo. Il vento soffiava e cominciò a piovere, una pioggerella penetrante che prometteva di continuare tutta la notte. E la landa ancora si stendeva tutt’attorno a lui, informe, senza segni di speranza o di conforto.

Non c’era altro da fare che andare avanti. Lasciò che il cavallo procedesse a suo capriccio, curvo sulla sella, inzuppato d’acqua, affamato come un lupo, disgustato del mondo intero.

Con lo svanire della luce il suo umore divenne più nero. Il cavallo avanzava faticosamente in un buio pesto. La landa presentava ora notevoli ondulazioni e Trehearne se ne accorgeva dal sobbalzare della sella quando il suo cavallo precipitava giù per una china per poi arrancare su per il versante opposto, scivolando e inciampando tra il fango e le ginestre grondanti di pioggia. Fu dalla cresta di una di queste basse ondulazioni del terreno che egli scorse un barlume di luce, davanti a lui a sinistra.

Disse forte: «Sarà la capanna di un contadino» e non si sarebbe permesso di sperare di più. Ma spronò il cavallo con impazienza. Anche così, gli sembrò passassero delle ore prima di raggiungere quel lume.

Dovette avvicinarsi alla costruzione per poter rendersi conto della sua grandezza e della sua forma nel buio fitto. Poi tirò le redini, del tutto deluso. Non era la capanna di un contadino, né un castello, né una comune casa di abitazione. Vide una diroccata mole cilindrica di pietra che doveva essere stata un tempo una rozza torre merlata, e ai suoi piedi rovine di mura e di rimesse. Era molto antica, pensò Trehearne; probabilmente risaliva al Medioevo e forse si trattava dell’antica fortezza di un brigante di nobili natali.

Una rovina sperduta in un deserto. Eppure era abitata. La gialla luce di una lanterna pioveva dalle feritoie del torrione. Nel cortile vi erano dei cavalli. Si udiva un suono di voci, e nelle cadenti rimesse si vedevano luci, c’era un brusio, un fervore di attività. Trehearne stette fermo per un po’ tentando, senza riuscirvi, di dare un significato qualunque a ciò che vedeva. Poi scese da cavallo e lasciò che l’animale sfinito raggiungesse i suoi compagni, mentre egli si dirigeva verso le rimesse dove vi erano uomini al lavoro. Aveva in tasca una piccola pistola automatica. Non aveva paura, ma era contento di averla con sé. Vi era una sconcertante singolarità in quel luogo, nel suo aspetto e nella ragione, qualunque essa fosse, che ne giustificava lo stato attuale. Le rimesse di legno non erano in rovina come sembrava a prima vista. In realtà, a Trehearne balenò la bizzarra idea che fossero state costruite in quel modo di proposito. Erano stipate di ceste di vimini e di casse da imballaggio, non di legno, notò Trehearne, ma leggere, di solido materiale plastico, segnate con simboli sconosciuti. Altre casse venivano portate su attraverso fenditure nella pietra che immettevano evidentemente nei locali sottostanti il torrione. Gli uomini che se le passavano tra alte risa e un sonoro vociare, erano per lo più giovani e tutti di ceppo vardda, avvolti in abiti strani quanto la loro lingua. Trehearne non riusciva a pensare ad alcun costume nazionale costituito da quel tipo di tunica stretta sopra ampi pantaloni, né da quel particolare tipo di sandali. Un rapido brivido lo percorse ed egli si fermò proprio all’orlo della pozza di luce della lanterna. Gli uomini non l’avevano ancora visto e improvvisamente non fu più sicuro di desiderare che lo vedessero. La singolarità del luogo cominciò a colpirlo non più nel suo insieme, ma in piccoli particolari casuali che lo rendevano reale ed ebbe paura, razionalmente, non fisicamente. Dalla pioggia e dall’ombra, accanto a lui, uscì una voce. «Dovete essere Trehearne.»

Un puro riflesso dei nervi tesi indusse Trehearne ad afferrare la pistola e a girarsi rapidamente. Chi aveva parlato, dovette vedere il suo gesto, perché disse con calma: «Non ce n’è bisogno. Venite con me, voglio parlarvi.»

«Chi…?»

«Abbassate la voce! Venite.»

Trehearne seguì l’indistinta figura dell’uomo in tunica gialla e pantaloni scuri. Anche nell’oscurità riusciva a vedere che la cintura intorno alla vita dell’uomo era incastonata di gemme e i fermagli dei sandali scintillavano come lucciole nell’erba umida. Un rapido brivido contrasse di nuovo i nervi di Trehearne ed egli tenne la mano in tasca sopra la confortante solida massa dell’arma.

Aveva dapprima pensato che l’uomo fosse Kerrel, ma era troppo piccolo e aveva una voce diversa. Non parlarono più finché ebbero raggiunto un angolo deserto del torrione, ben fuori di vista dalle rimesse. Allora l’uomo si fermò e si volse a Trehearne che disse: «Come fate a conoscermi?»

La debole luce di una feritoia cadde sul viso dello straniero. Era il volto di un Vardda, ma era privo di bellezza. Era brutto e senile, gli occhi pieni di malizia e una bocca astiosa, che non era realmente allegra neppure quando rideva. Stava sorridendo, appunto.

«La vostra fama vi ha preceduto.» Fece un cenno verso le mura e quel che vi era al di là. «Kerrel dice che non verrete, Shairn dice di sì. Stanno tutti facendo scommesse su di voi, là dentro.» Esaminò Trehearne da vicino alla luce fioca e scosse il capo. «Non ci avrei mai creduto se non l’avessi visto. Siete davvero straordinario.»

«Mi è già stato detto» replicò Trehearne acidamente e gettò una occhiata al muro di pietra, ricordando ciò che Shairn gli aveva detto nella baia. Gli occhi gli balenarono d’ira. «È sicura di se stessa.»

«Shairn è sicura di tutto, e di se stessa più di ogni altra cosa.» L’uomo doveva aver bevuto, ma non era affatto ubriaco. Il suo tono era serio.

«Ora ascoltatemi, amico. Me ne sono stato in giro a lungo sotto la pioggia ad attendervi mentre avrei dovuto badare ai fatti miei, e proprio ora sto infrangendo una legge molto importante. Nessun altro vi ha visto. Prendete il vostro cavallo, andatevene al galoppo lontano di qui e io dimenticherò di avervi visto.» Pose una mano sulla spalla di Trehearne come incitandolo. «Può esservi difficile crederlo, ma sto offrendovi di salvarvi la vita.»

Le voci degli uomini giungevano portate dal vento e Trehearne pensò alle ceste e alle casse che stavano portando su dal sotterraneo come se si preparassero a caricarle, e improvvisamente gli si formulò una spiegazione.

«Contrabbando» disse. «Potreste atterrare qui con degli aeroplani e nessuno ne verrebbe mai a sapere nulla.»

«Si tratta proprio di contrabbando. Ora ve ne andrete? Non ho alcun diritto di comportarmi in questo modo, ma mi ripugna vedere un uomo andare incontro alla morte per il piacere di una donna.»

«Perché siete così sicuro che io morirò?»

«Perché voi non siete un vero Vardda e più di questo non posso dirvi. Per amor di Dio, andatevene.»

Trehearne pensò: "È sincero, sa quello che dice e il contrabbando non spiega tutto, questi non sono criminali comuni. Vi è qualcosa di strano, di molto strano e forse ha ragione…". Il senso di paura che lo aveva assalito prima, si rinnovò in lui, ed era fisica e razionale insieme, un gelido presagio del disumano. Esitò e l’uomo dal brutto viso disse piano: «Bene! Mi occuperò del vostro cavallo.»

Ci fu un cigolio, un rimbombo e un colpo secco, mentre la imponente porta di quercia della torre si spalancava. Lo straniero spinse Trehearne contro il muro. L’ingresso non si vedeva, ma Trehearne udiva distintamente le voci. Parlavano la loro strana lingua, così che non comprendeva quel che dicevano, ma capì che parlavano di lui. Udì il suo nome e la voce che lo pronunciava era quella di Shairn. Poi ella rise. Non era necessario che ridesse. Il suono della sua voce sarebbe stato sufficiente. Trehearne sfuggì alla stretta dello straniero e si allontanò dal muro.

«Idiota!» sussurrò l’uomo, rabbioso, e fece per trattenerlo, ma Trehearne ricordava cose, parole, sguardi e il furore bruciava in lui la paura. Avanzò nella luce che dalla porta filtrava nel cortile. Kerrel e un gruppo di altre persone, per lo più donne, erano là, ma l’unica che vide fu Shairn, avvolta in una tunica color della fiamma, fermata alla cintura da gioielli, con in mano un calice colmo di vino. Cadde il silenzio e lo sguardo di Shairn era fisso su di lui. Neppure così poteva leggerlo.

Ella sorrise e disse: «Grazie, Michael. Ho vinto la mia scommessa.»

4

Una mano s’abbatté, sulla spalla di Trehearne da dietro. Era l’uomo in tunica gialla che negli ultimi minuti si era trasformato in un allegro ubriaco. Egli diede a Trehearne un’amichevole spinta verso la porta e gridò alla gente riunita là dentro: «L’ho trovato qui fuori che cercava il modo di entrare… e sono sicuro che si tratta di un Vardda.»

Sottovoce disse rapidamente all’orecchio di Trehearne: «Tenete la bocca chiusa o passeremo dei guai tutti e due!»

Entrarono nella torre. Gli uomini fissarono intensamente Trehearne e le donne parlarono di lui nella loro lingua. E Kerrel si rivolse a Shairn: «Sei soddisfatta ora che l’hai portato qui?»

«Non l’ho portato io» ribatté lei. «Sarebbe andato a Keregnac comunque, e nulla l’avrebbe potuto trattenere.» Si avvicinò a una tavola dove c’erano bottiglie e cibi e versò del vino in un bicchiere. «E poi non è un bambino. Sa quel che vuole fare. Non è vero, Michael?»

Gli porse il bicchiere. Egli lo prese e disse: «Oh, grazie. È così. Fareste bene a farvi pagare la scommessa.»

«Penso» ella disse «che vi rinuncerò.» Alzò il bicchiere per bere un sorso di vino e in quel gesto una manica le si scostò un poco scoprendo il cerchio scuro che la sua stretta le aveva lasciato intorno al polso.

L’uomo dalla tunica gialla disse qualcosa nel suo linguaggio ed ella socchiuse gli occhi. Ma si volse a Kerrel e osservò pianamente: «Edri non mi approva.»

«Penso che nessuno di noi ti approvi in questo momento» fece Kerrel. «Avresti dovuto lasciarlo in pace.»

«Michael non la pensa così; non è vero, Michael? Non lo indussi io a seguirmi. Fu una sua iniziativa.»

«Bene, egli vi seguì» disse Edri e c’era un’ira profonda nella sua voce.

«Ma non fin qui» mormorò Shairn e sorrise, gli occhi fissi negli occhi di Trehearne. «Solo il primo passo, Michael. Vi irritaste contro di me perché non vi volli rivelare il segreto dei Vardda, vi irritaste davvero, così ora siete sul punto di sapere.» Alzò una mano e gli sfiorò una guancia. «Voi sembrate un Vardda, vi comportate come tale, la pensate perfino come un Vardda. Ma lo siete

Kerrel disse, rabbiosamente: «È impossibile; e lo sai.» Cominciò a parlare con Edri e gli altri uomini in quella lingua che Trehearne non aveva mai inteso prima. Parevano turbati e a disagio, come gente assillata da un problema che sia impossibile risolvere. Il loro atteggiamento e il modo particolare in cui lo guardavano le donne tolsero alla sua eccitazione ogni lato piacevole. «Hanno l’aria» disse a Shairn «di decidere dove seppellirmi.»

Ella alzò le spalle. «Oh, stanno discutendo tutte le possibili alternative, ma c’è una sola risposta attendibile.» Sedette sull’orlo della tavola, scrutandolo con quella sua aria da gatto. «Nervoso?»

«Freddo. La pioggia mi ha tutto inzuppato.» Non era del tutto vero, ma sarebbe morto piuttosto che confessarglielo. «E sono curioso. Da dove venite, voi tutti? Che fate qui? Che cos’è questo vostro mistero?»

«Non siate impaziente. Non si può dire tutto in una volta.» Aveva ascoltato attentamente le parole degli uomini e ora si alzò, di nuovo. «Penso sia tempo che io intervenga. Gli uomini parlano sempre in gruppetti.»

Si unì al conciliabolo. Trehearne vuotò il suo bicchiere e si versò dell’altro vino da una strana bottiglia di pietra. Era buono, ma non sapeva riconoscerne la qualità. Gli pareva che un’atmosfera d’incubo cominciasse ad avvolgere il culmine della sua lunga ricerca. Tutto era così solenne, e così folle. Desiderò che la smettessero di parlare di lui. Desiderò che qualcuno gli spiegasse che cosa stava accadendo. Le voci insistevano nel loro parlottare e improvvisamente egli si accorse che Shairn era passata a un linguaggio che poteva capire.

«Vedi?» diceva a Kerrel. «So citare le leggi esattamente come te. E sai che ho ragione.»

Kerrel mugolò: «Mi sembra che si debba scegliere tra molti mali.» E soggiunse rabbiosamente: «Avresti dovuto lasciarlo stare!»

«Ha diritto di tentare» ribatté Shairn. «È venuto da tanto lontano proprio per questo.»

«C’è una nota di malizia in queste parole o mi sbaglio?» chiese Edri.

«Interpretate come volete. Comunque non c’è altra soluzione, a meno che uno di voi non si senta di ucciderlo qui a sangue freddo.»

Il bicchiere di Trehearne cadde con un tintinnio sulla tavola ed egli si ficcò la mano in tasca così che impugnando la rivoltella la rigonfiò visibilmente. Disse: «Non lo troverete così facile.»

Edri ebbe un moto come d’impazienza e gli fece cenno di calmarsi.

«Non siamo dei violenti» lo rassicurò. «È dannatamente complicato, un problema che non abbiamo mai affrontato prima d’ora. Vedete, ci sono certe leggi.»

«Leggi?»

«Sì.» Edri si versò del vino e lo bevve avidamente, facendo schioccar la lingua. «Le persone con un livello di cultura superiore alla media e che abbiano un certo grado d’intelligenza o di autorità che li renda pericolosi, si devono far tacere per sempre, se scoprono troppe cose intorno a noi. La vita dei Vardda e il loro denaro valgono troppo per essere messi a repentaglio, e ragioni storiche giustificano questa prudenza. Ma noi siamo estremamente cauti, e una tale situazione non si è mai presentata prima d’ora, per lo meno durante la mia vita.» Sedette sospirando. «E naturalmente nel vostro caso si aggiunge un altro problema. Siete o non siete un Vardda? Io pensavo che potremmo nominarvi membro onorario, così per dire, e lasciarvi lavorare per noi, qui, ma questa è sembrata a Kerrel un’infrazione troppo grave da accettare.» Edri lanciò uno sguardo all’alta figura di Kerrel; del tutto privo di simpatia, pensò Trehearne. «Egli è un agente del Consiglio, vale a dire il braccio della legge. Così suppongo che sia tutto sistemato, Trehearne.»

La bocca di Trehearne era secca e le parole non volevano uscirne, ma nei suoi occhi vi era una luce pericolosa. «Che cosa è sistemato?»

«Voi verrete con noi, Michael. È quello che volevate. Non siete felice?»

«Con voi, dove

«A Llirdis.»

Non gli piacque il suo sorriso. Non gli piacque la supponenza, lo scherno, la conoscenza di cose al di là della sua comprensione che esso esprimeva. Shairn doveva nutrire del risentimento contro di lui e in qualche modo si era presa la sua rivincita ed egli non capiva come. Tutti i minimi particolari si associarono nella sua mente: il linguaggio, il vestito, l’aspetto fisico, il sapore del rosso vino proveniente da un vigneto sconosciuto, e lo travolsero come una valanga, mossa dall’eco di quel nome mai udito, ed egli sentì freddo dentro, nel più profondo, e un terrore che non aveva ancora preso forma.

Ripeté: «Llirdis.»

«Oh, per Dio, non torturatelo più» disse Edri stancamente a Shairn. Poi si volse a Trehearne e disse: «Llirdis è il nostro mondo, il quarto pianeta della stella che voi chiamate Aldebaran.»

Questo fu tutto ciò che egli disse. Nessun altro parlò, non un suono si udì nella antica stanza di pietra e anche fuori tutti i rumori si erano acquietati così che la parola Aldebaran risuonò in quel silenzio come il lontano rintocco di una campana. Uno strano senso di debolezza assalì Trehearne. Il volto di Shairn si fece nebbioso e indistinto. Il terreno solido, la Terra sulla quale egli stava, gli mancò sotto i piedi e ampi e profonde finestre si spalancarono da tutte le parti, finestre aperte sullo spazio, sull’oscurità, sulla luce abbagliante…

Disse a Edri, pienamente cosciente: «Ma non è possibile.»

Qualcuno gli mise una coppa di vino in una mano che non era più la sua e la voce di Edri gli giunse come da molto lontano. «Ma lo è. Bevete, Trehearne, sovrano rimedio per quasi ogni male. Assimilate quest’idea lentamente, con il vino. Noi veniamo da un altro mondo, da un altro sistema solare. A voi sembra incredibile, per noi è un fatto naturale.»

Trehearne sedette. Il vino gli bruciava in gola e la testa gli girava. Ogni cosa era divenuta irreale. «Un altro mondo. Un altro sistema solare.» Abbassò lo sguardo sul proprio corpo, girò e rigirò le mani, fissandole come se non le avesse mai viste prima. «Il mio stesso sangue. Ecco perché…» Scosse il capo, interrompendosi, e poi rabbrividì, una reazione muscolare che lo scosse dalla testa ai piedi. «Verrò con voi» assentì.

«Molto presto ormai» disse Edri in un tono così tetro che Trehearne, si riscosse in parte dal suo stato di stordimento, abbastanza per vedere che Edri lo guardava con pietà come si guarda un uomo che deve morire. Un nuovo terrore lo assalì e gridò: «Ma che cosa succede? Che cosa mi nascondete?»

«Una prova mortale.» Ancora una volta Shairn stava ritta di fronte a lui: i suoi occhi lo scrutavano e non rideva più. «Vi è stato concesso ciò che volevate, l’opportunità di conoscere la verità su voi stesso.»

Egli si alzò e pose le mani su quelle di lei come già aveva fatto una volta e non con tenerezza. «Avanti.»

La bocca rossa di lei si schiuse lasciando intravvedere le punte dei denti. «Solo un vero Vardda può resistere alla velocità del volo stellare. Avete paura Michael?»

«Sì» disse. «Ho paura.» Rimase immobile per un lungo momento, con il sangue che gli batteva alle tempie, e ogni cosa, lei, il mondo, tutti gli anni della sua vita che se ne erano andati, perduti e vaghi oltre una fitta nebbia e poi disse lentamente: «Ma avete ragione voi, ho avuto quel che volevo.»

Fuori del torrione si alzò alta la voce di un uomo. Qualcuno annunciò: «L’astronave.» Altre voci risuonarono e la porta si spalancò. Un che di tenebroso e crudele comparve sul volto di Trehearne. Guardò Shairn e disse: «Vivrò per ringraziarvi.»

La lasciò andare. Gli uomini si muovevano verso la porta. Egli si unì a loro come in un sogno, dal quale sapeva non si sarebbe risvegliato. Perse cognizione dell’esistenza di ognuno. Vi erano solo ombre intorno a lui, suoni, movimenti, senza significato. Le mura e la luce erano scomparse. Umido, freddo, oscuro, il paesaggio, la landa, il vento e il cielo nudo. Aveva smesso di piovere. Vi era un ampio squarcio tra le nubi, una valle di stelle, e nella valle una presenza solenne, silenziosa, massiccia e strana. La osservò ed essa si librava verso terra, lieve, come sospinta dalla notte stessa, e mentre si avvicinava, si udì un suono, un quieto ronzio che riempiva tutto lo spazio compreso nel cerchio dell’orizzonte con un’eco tremula più intuita che realmente percepita.

Potere, immensità, forza. Trehearne trasse un profondo sospiro. I battiti del cuore lo facevano vacillare. Istintivamente le sue mani si mossero, le mani di un pilota, memori della potenza di motori e razzi, brancolanti per afferrare qualcosa di più grande. Non ebbe coscienza di quel gesto. Aveva freddo e il vento gli penetrava nelle ossa. La grande massa nebulosa si posò a terra e giacque immota nella landa. Il suo scafo era stato modellato e levigato dalle atmosfere di mondi sconosciuti. I suoi oblò si erano affacciati su infinità dove le stelle si sperdevano come sciami di lucciole. Trehearne si mise a camminare in quella direzione. Non sapeva se altri fossero con lui. I suoi occhi erano fissi sull’astronave.

La chiusura ermetica si spalancò lassù, nel grande fianco indistinto, dell’astronave. Bianca luce piovve da essa. Una scala pieghevole di metallo fu calata giù e poi la gente cominciò a discendere, mescolandosi tra quella che stava a terra. Uno sportello più grande s’aprì con un secco clangore, più in basso. S’irradiò altra luce. Si udì un fragore di macchine e uomini; andavano e venivano vociando. Tutto quanto era stato preparato nelle rimesse cominciò a venir trasportato a bordo. Trehearne si accostò ai piedi della scala.

Guardò verso l’alto. L’enorme massa strana della nave incombeva su di lui. Lo sovrastava come la fine del mondo. Era uscita dall’oscurità degli spazi interstellari e vi sarebbe ritornata ed egli sarebbe partito con essa. Voci risonavano tutto attorno e qualcuna si rivolgeva a lui, ma egli non le udiva. Non vedeva facce. Non vedeva altro che la curva immensità dello scafo che aveva compiuto tali viaggi. C’erano lacrime nei suoi occhi. Non lacrime di terrore o di autocompassione. Erano lacrime di esaltazione. Gli uomini avevano creato questo. Gli uomini si erano avventurati negli spazi alla conquista delle stelle. Non erano uomini della Terra, ma appartenevano alla sua stessa razza. E avevano fatto questo.

Cominciò a salire la scala. I cavi metallici echeggiavano cupamente nel vuoto sotto i suoi piedi.

In alto. In alto nel vento freddo, saturo dell’intenso profumo della brughiera. Una rotonda camera di compressione si aprì dinanzi a lui. Egli vi entrò, avanzando su un ponte di metallo reso più lucido dal passaggio di tanti piedi. Altri lo seguivano e lo spingevano, lungo un corridoio trasversale, dalle pareti lucide. I segni del tempo e dell’uso continuo erano visibili in esso. Di tanto in tanto attraverso una porta intravedeva una cabina o un ufficio. Erano reali. Uomini vivevano e lavoravano in essi. Qualcuno — Edri — lo indusse a voltarsi sospingendolo verso il salone dalle comode poltrone fissate al piancito. «Sedete» disse Edri ed egli sedette, ubbidiente. Ed Edri disse: «Avete una possibilità di successo ma dovrete lottare, La prima volta è duro anche per…» Si interruppe e Trehearne finì la frase per lui.

«Anche per un vero Vardda.»

«Anche» assentì Edri gentilmente «per un Vardda. Trehearne, siamo soli nella Galassia. Secoli fa la nostra stirpe fu fondata da un uomo a nome Orthis, il cui sistema di mutazione controllata ci rese quel che siamo, i Vardda: gli Stellari. Esiste in noi una diversità, una condizione particolare della carne. Per noi non c’è dubbio. Per voi… il vostro sangue è misto. Ma sotto ogni altro aspetto siete in possesso di tutti i nostri caratteri ancestrali. E può anche darsi che la mutazione sia riuscita in voi.»

La sua voce era piena di speranza, ma non di convinzione. Trehearne aggrottò la fronte, nel tentativo di afferrare il senso di quelle parole. Era difficile riflettere, difficile credere razionalmente, malgrado quanto i suoi sensi gli dicevano. Tutto era accaduto troppo in fretta. Troppo in fretta e troppo stranamente. Intravide il volto di Shairn. Era pallida e comprese che d’improvviso ella cominciava ad aver paura.

«Lottate» ripeté Edri. «Ricordatevi di questo.»

In tutta la nave i campanelli risonarono acuti.

Trehearne si aggrappò ai braccioli della sedia su cui si era adagiato. Per un breve attimo di panico desiderò alzarsi e fuggire, ma udì il sonoro fragore degli sportelli che si chiudevano e capì che non c’era più nulla da fare. Tutti ora erano seduti. I campanelli echeggiarono di nuovo. Si strinse le braccia attorno al corpo tenendo lo sguardo fisso su Shairn.

Rapida, lieve e maestosa come la mano di Dio, l’accelerazione lo schiacciò. Emettendo un tuono immenso, ma sopportabile, la nave si lanciò nel cielo e per la prima volta nella storia orecchie terrestri udirono il fantomatico sibilo dell’atmosfera contro lo scalo saettante.

5

Quel grido lamentoso salì in un crescendo e poi si spense. La Terra era sparita. Se ne erano allontanati. Anche il suo cielo era ormai dietro di loro. Un peso come una montagne opprimeva Trehearne, ed egli aveva terribilmente paura.

Attese che la pressione diminuisse. Le tempie gli scoppiavano, respirare era un’agonia e pensava: non può continuare così, bisogna che finisca. Ma non finiva. Ci fu un mutamento di tono nella vibrazione dei motori. Lo sentì salire, sempre più in alto, finché superò la barriera del suono e, mentre saliva, la pressione aumentava. La cassa toracica gli comprimeva i polmoni. Ogni cosa intorno a lui cominciò a ondeggiare e ad annebbiarsi, a svanire in un crepuscolo rossastro.

E la pressione cresceva.

Qualcosa gli stava accadendo. Qualcosa di strano e di inumano. Era un aviatore, un pilota provetto. Gli era già capitato di sperimentare gli effetti della pressione. Aveva affrontato tutti i rischi che un potente apparecchio può affrontare e non gli era mai capitato di venir meno. Ma questo era diverso. Questo se lo sentiva nelle fibre, negli atomi stessi del suo essere. Questa era una velocità di fronte a cui le velocità dei razzi più rapidi erano nulla. Questa era la velocità di un volo interstellare. Ed egli la sentiva lacerargli le cellule della sua propria carne, strapparle, fendere il tessuto della sua esistenza fisica. Una diversità, una condizione particolare della carne. "Per noi non c’è dubbio, ma per voi…".

L’angoscia divenne terrore, il terrore si mutò in panico cieco. Il suo corpo era sul punto di scindersi, di dissolversi in un’informe rovina, in un mucchio di brandelli sanguinolenti. Quel corpo di cui era stato tanto orgoglioso, questo essere stellare che era solo una beffa, un inganno. La mutazione non era riuscita. Sarebbe morto, avrebbe finito di essere. Sarebbe…

Lontano, lontano una voce, la voce di Shairn gridava: «Io l’ho ucciso. Povero Michael, non volevo che morisse!»

Povero Michael. Un bastardo, un simulacro vivente. Orgoglioso Michael, che pensava di essere così dannatamente in gamba e non valeva nulla. Idiota di un Michael che era corso dietro a una strega. Ed ella non aveva inteso farlo morire. Non si era adirata fino a questo punto perché egli l’aveva trattata da pari; non era stato bello forse, ma l’aveva trattata da pari a pari, benché non lo fosse. Era gentile da parte sua non desiderare realmente che morisse. Incominciò di nuovo a distinguere il suo viso. Non era sicuro se si trattasse di una visione reale o solo del ricordo di come gli era apparsa prima di entrare in agonia. Ma poteva vederla pallida, sconvolta. Era contento di poterla vedere. Sedeva di fronte a lui e non era molto lontana. In qualche modo, pressione o non pressione, l’avrebbe raggiunta. Avrebbe stretto le mani intorno al suo bianco collo e poi avrebbero dimenticato il volo interstellare e non sarebbe importato nulla che lui fosse un bastardo e lei no. Cominciò di nuovo a lottare contro la pressione.

Desiderava così poco! Solo alzarsi e percorrere la breve distanza che li separava e serrare le dita intorno alla nuca di lei premendo i pollici sulle grandi arterie. Così poco. Ed era rabbiosamente deciso a farlo. Lottò. Non aveva nulla con cui battersi se non la forza di volontà e l’istintivo impulso dell’organismo ad aggrapparsi alla vita sinché ne rimaneva anche un solo barlume. Voleva alzarsi, e lottava, una lotta interna senza suoni, né gesti, una cieca battaglia per riconquistare il controllo del proprio corpo. Il suo volto si contorceva come quello di un uomo che sollevi qualcosa di estremamente pesante e il sudore colava su di esso. Lentamente, le sue mani si mossero lungo i braccioli della poltrona, si contrassero, si serrarono a pugno. I muscoli delle braccia si tesero e poi anche i grandi fasci del torace e dell’addome in uno strenuo sforzo di movimento e i polmoni ripresero faticosamente a sollevarsi, inspirando, espirando e inspirando ancora e il debole battito del suo cuore si arrestò per un attimo, riprese vigore e tornò a farsi sentire con maggiore regolarità. La rossa nebbia che l’avvolgeva si dissipò un poco e riuscì a vedere Shairn più distintamente. Ella lo fissava con intensità, la bocca e gli occhi spalancati, comicamente sbalordita. Poi la testa di Edri si frappose tra loro, celandola al suo sguardo, e Edri gridava ma il sangue pulsava così violento nelle orecchie di Trehearne che non riusciva a distinguere le parole. Alzò una mano e cercò di respingere Edri. Non voleva perder di vista Shairn. Una terribile esaltazione lo possedeva. Stava per vincere. Stava per alzarsi e per fare ciò che desiderava. I tendini delle sue gambe si contorsero e si tesero. La pressione non lo opprimeva più così forte e le terribili vibrazioni della velocità non lo sconvolgevano più con tanta violenza. Si piegò un poco in avanti, traendo profondi, affannosi respiri e il suo corpo si irrigidiva e si tendeva…

«Vivrà, ce l’ha fatta. Michael…»

La voce di Shairn sottile e cauta gli giunse attraverso il rombare dei timpani. Per un momento non comprese il significato della frase. Poi lentamente gli si chiarì che cosa avesse inteso dire. E poi, ancora più lentamente, si rese conto che era vero. Sentiva la vita rifluire in lui. Ne riprendeva il controllo, un semplice fatto di tendere i muscoli in un certo modo e l’agonia delle vibrazioni diminuiva, gli atomi del suo corpo erano salvi da quella terribile dissoluzione. Era solo una questione di forza, non quel genere di forza che può sollevare enormi pesi, ma una forza più penetrante, una forza elastica che legava insieme i tessuti del corpo, rendendoli flessibili come l’acciaio. Da bambino se ne era servito senza saperlo, poi per anni nel collaudo di apparecchi a grandi velocità. Ecco perché non era svenuto, né era mai stato atterrito, come gli altri, dallo spettro dell’inerzia che li attendeva alla fine della picchiata. Ora infine aveva scoperto lo scopo cui il suo corpo era destinato. Dimenticò Shairn. Non gliene importava più nulla. Aveva vinto, era vivo, avrebbe vissuto e non era un inganno o un capriccio della natura e neppure un bastardo. La mutazione era riuscita. La vista gli si andava schiarendo rapidamente. Sollevò il capo e si guardò intorno e tutti lo fissavano intensamente, i Vardda, gli Stellari, che si erano dimostrati così sicuri della sua morte. Parlavano tra loro con voci eccitate, si alzavano e gli si avvicinavano ed Edri gli batteva sulle spalle. Li allontanò tutti e si alzò a sua volta.

«Sono uno di voi, ora» dichiarò. «Ho superato la prova.» Improvvisamente si sentì esausto e stremato dall’emozione ma non voleva mostrarlo. Stava eretto di fronte a loro; Shairn lo prese tra le braccia e lo baciò. Trehearne disse: «Siete contenta che non sia morto?»

«Certo. Oh, certo.»

«Vi sareste sentita un po’ colpevole, non è vero?» L’allontanò da sé e la guardò. Era molto bella. La sua gola palpitava bianca. Fissandola pensò a quanto avrebbe voluto fare solo pochi minuti prima, e poi scosse il capo. Disse lentamente: «Vi devo qualcosa, Shairn. Non lo dimenticherò.»

Il tono di lui non le piacque e corrugò la fronte in una linea oscura. Poi si girò e alle sue spalle Trehearne vide Kerrel, intento a fissarlo con uno strano sguardo che ricambiò come una sfida. «Non trovo nessun gusto a condannare un uomo, specialmente se non ho nulla contro di lui. Ma si creano altri problemi. Voi non potete averne un’idea, Trehearne, ma quello che avete compiuto vi mette automaticamente in conflitto con le norme fondamentali della legge dei Vardda, e non so come il Consiglio risolverà la questione.» Volse lo sguardo a Edri e disse con una voce curiosamente piana: «Ne potrebbero derivare le più gravi conseguenze.»

Se era un’esca, Edri non abboccò. Sorrise e osservò: «Non è il momento di preoccuparsi delle conseguenze. Andrò a cercare una cabina per Trehearne e una bottiglia per me e ci apparteremo per una piccola celebrazione. Un uomo non diventa un Vardda tutti i giorni.» Prese Trehearne per il gomito e lo sospinse verso la porta. «Andiamo.»

La nuova forza di Trehearne non l’aveva abbandonato — era in apparenza automatica, una volta in moto, come il battito del cuore — ma le sue risorse naturali gli sfuggivano come acqua da un setaccio. Uscì nel corridoio senza barcollare, ma dopo pochi passi si aggrappò alla parete e disse tristemente: «Penso che non ce la farò.»

Il corridoio gli sembrava lungo un miglio ma infine giunsero a una cabina, piccola e funzionale, e Trehearne si lasciò cadere sulla cuccetta. Edri si allontanò e ritornò dopo un minuto con una bottiglia. Il liquido, qualunque fosse, gli andò giù come fuoco ardente e Trehearne si sentì meglio. Depose il bicchiere e incominciò a guardarsi le mani, girandole e rigirandole come se non le avesse mai viste prima.

«Potrebbero essere le mani di chiunque» mormorò.

«Ma non lo sono. E voi non siete un uomo qualunque. Come Kerrel vi ha detto, non avete ancora idea di ciò che avete compiuto, ma col tempo ve ne renderete conto.»

«È vero, allora, della mutazione?»

«Oh, certo, del tutto vero. La forma e la struttura delle cellule del vostro corpo e del mio sono diverse da quelle degli altri uomini. A causa di questa diversa forma e struttura i vostri tessuti e i miei hanno nell’involucro delle cellule una forza di tensione che può resistere senza collassi all’incredibile pressione dell’accelerazione. E io credo non sappiate quale fortuna sia stata per voi che la mutazione fosse un carattere recessivo che alla fine si è affermato.» Riempì di nuovo i bicchieri lentamente, momentaneamente distratto da qualche suo remoto pensiero, poi aggiunse oscuramente: «Un giorno vi narrerò la storia di Orthis, che scoprì il segreto della mutazione. È una nobile e gloriosa storia ma ha una fine vergognosa. Egli… No. Dimenticate. Meno ne sapete meglio è. Inoltre stiamo celebrando l’avvenimento. Beveteci su.»

Trehearne bevve. La testa gli girava e si sentiva un vuoto dentro. Il bicchiere era pesante nelle sue mani. Chiese: «Vi saranno guai quando giungerò a Llirdis?»

«Abbastanza per allora, Trehearne. Preoccupatevene quando verrà il momento.»

Ma egli già non se ne dava più pensiero. Llirdis: pronunciò ancora quel nome ed esso suonò strano in bocca sua. Llirdis. Un nome e un mondo dei quali nulla aveva mai sentito fino a poche ore prima, e ora… il vuoto dentro di lui si riempì improvvisamente di una nostalgia, di un anelito misto a terrore. Girò lo sguardo sulle pareti di acciaio che lo rinchiudevano, e seppe dov’era, in una irreale astronave, con gente straniera, lanciata a una velocità superiore a quella della luce attraverso il nulla, verso una stella ignota… lo stomaco gli si contrasse, facendogli fluire un sapore amaro che gli bruciò la gola e le sue mani erano fredde come quelle di un morto. La Terra era scomparsa. La sua terra, il cielo, le montagne, l’alba, le vie delle città, le strade di campagna, i volti e le voci della gente, gli uomini con i quali aveva lavorato, le donne che aveva avute o che aveva desiderate, tutte le cose familiari: il traffico, i bar, i nomi delle nazioni i libri, i quadri, la storia; a che gli serviva ora tutta la storia che aveva studiato, dove collocare Cesare tra le stelle? La Terra era scomparsa e pure il Sole con lei e in un certo modo era come se fosse morto; e come ricominciare a vivere poi di nuovo, da straniero? Vi era questa cabina e al di là delle sue pareti non vi era mondo, né luce del Sole, nulla. Nulla.

Nulla…

Edri lo condusse rapido in una cameretta attigua, lasciandolo solo con i suoi pensieri, e poi premette un bottone accanto alla porta della cabina. Immediatamente comparve il medico di bordo. Lo sdraiarono di nuovo sulla cuccetta e un ago balenò nella luce sospingendolo in un mondo dove non vi erano neppure sogni.

Sullo schermo numero Quattro della cabina di comando dell’astronave un piccolo punto che rappresentava un isolato sole giallo, tremolò, impallidì e scomparve.

6

Trehearne guardò in su dalla cuccetta e chiese: «Quanto tempo ho dormito?»

«Circa ventiquattro ore secondo un calcolo terrestre» rispose Edri. «Ne avevate bisogno.» Si chinò su Trehearne e gli porse un prosaico pacchetto di sigarette americane. «Fumate?»

Trehearne ne prese una e si mise a sedere. Per un poco fumò in silenzio, perduto nei ricordi. Infine disse: «È accaduto tutto davvero no?»

Edri fece un cenno di assenso.

«So che deve esser accaduto, ma non riesco a crederlo.» Trehearne scosse il capo. «Di tutto, l’incredibile… Che cosa facevate laggiù, Edri? Come potete andare e venire dalla Terra senza che nessuno lo sappia? Che cosa sono i Vardda, oltre che una razza diversa?»

«Trafficanti. Mercanti. La razza più dotata di senso commerciale della Galassia.» Edri tolse il tovagliolo da un vassoio posato su un tavolino accanto alla cuccetta. «Vi ho portato la colazione. Avanti, mangiate mentre io vi parlo. Il nostro andare e venire è molto semplice. Atterriamo a intervalli irregolari qua e là nei luoghi deserti che la Terra possiede in un certo numero. Sbrighiamo i nostri affari e dopo qualche tempo ci vengono a riprendere. Come vi ho spiegato prima, siamo estremamente cauti e il fatto che a stento qualunque abitante della Terra crederebbe alla verità se gli fosse rivelata, è per noi un mezzo di difesa. Naturalmente, trafficando in segreto a questo modo, c’è un limite alle nostre possibilità d’acquisto e le merci d’esportazione della Terra — gli articoli genuini e non le imitazioni — hanno, necessariamente, prezzi altissimi. Sareste meravigliato se sapeste il valore che i profumi francesi, il whisky scozzese e i film americani hanno su pianeti di cui non avete mai sentito parlare.»

«Trafficate con tutti in segreto?»

«Buon Dio, no! Con la maggior parte dei mondi, anche con i molto primitivi, possiamo trattare apertamente. Può darsi che non ci abbiano in simpatia, ma traggono dal nostro commercio enormi benefici.»

«Allora perché non avviene lo stesso per la Terra?»

«Ecco» disse Edri «non voglio offendere la vostra sensibilità di nativo del luogo, ma la Terra è un pianeta assai strano. Oh, non è il solo. Ce ne sono un certo numero, sparsi qua e là, e noi evitiamo di avere apertamente rapporti con essi. Vedete, Trehearne, la maggior parte dei mondi si evolve o rimane poco evoluta, dal punto di vista della civiltà, ognuno con una certa omogeneità. Non intendo dire che si tratti di mondi assolutamente pacifici, perché non è così, ma, a lungo andare, le loro popolazioni hanno un comportamento più prevedibile, più costante che quelle di mondi sul tipo della Terra, sviluppatisi senza alcun ordine. Capite quel che voglio dire: da una parte la forza atomica, dall’altra l’aratro di legno e il fucile ad aria compressa. Un abisso troppo profondo che crea complicazioni in tutti i sensi. Ora, una società primitiva considera la guerra come uno sport e ne trae un genuino piacere. Una società di alto livello culturale la considera come un fatto superato e antiquato quale sarebbe cacciare per procurarsi il cibo. Tutti sanno a che punto sono. Ma quando vi trovate di fronte a un mondo con grandi masse di popolazione frammiste, ciascuna delle quali si trova in un differente stadio di evoluzione culturale, ed è soggetta a un costante assalto di stimoli che non è in grado di assimilare, allora avvertite la presenza di un miscuglio che tende a esplodere in tutte le direzioni. Noi abbiamo il sano desiderio di non saltare in aria e, inoltre, è impossibile stabilire un commercio vantaggioso con un mondo costantemente dilaniato dalle guerre. Così vi pare che abbia risposto alla vostra domanda?»

«Ho capito» rispose amaramente Trehearne «che i Vardda non hanno grande stima della Terra.»

«È un bel mondo. Un giorno si placherà. Nessuno può combattere per sempre. O ritorneranno allo stato barbaro o matureranno.»

Trehearne posò la forchetta sul piatto vuoto e guardò Edri, quasi con rabbia.

«I Vardda non combattono?» chiese. «Da quel che ho capito si tratta di una forma di imperialismo commerciale. Allora ci devono essere lotte, battaglie per la conquista dei mercati e dei monopoli. Senza di esse non si creò mai nessun impero.»

«Nessun altro impero» disse Edri pianamente «fu creato senza competizione. Penso che non afferriate ancora la questione. Noi abbiamo un monopolio assoluto, completo, indistruttibile sui voli interstellari. Solo le astronavi dei Vardda volano da una stella all’altra e solo i Vardda possono pilotarle. Sapete perché, ne avete fatto l’esperienza in voi stesso. Noi non dobbiamo lottare.»

Trehearne emise un lungo fischio sordo. «E noi pensavamo di avere monopoli sulla Terra! Ma non vedo perché, se voi avete potuto mutare, altri non lo potrebbero. Come riuscite a tenerli sottomessi?»

«Non teniamo sottomesso nessuno. Non dominiamo, non influenziamo, non interferiamo in nessun altro mondo se non nel nostro. Abbiamo imparato tempo fa che non ne valeva la pena. Quanto alla mutazione è impossibile ottenerla. Il segreto del processo andò perduto con Orthis, un migliaio di anni fa.» Si alzò di scatto dalla sedia, dove era rimasto seduto tutto quel tempo e indicò alcuni indumenti appesi nell’armadio. «Penso vi andranno bene. Vestitevi e vi porterò in giro.»

Trehearne gettò un’occhiata perplessa agli abiti, una tunica di seta verde scuro, pantaloni scuri, una cintura adorna di qualche gioiello e dei sandali. Edri sogghignò.

«Vi abituerete. E vi parrà di essere meno strano che con questo ridicolo tweed.»

Trehearne si strinse nelle spalle e li indossò. Dovette ammetterne subito la comodità. C’era uno specchio infisso nell’armadio e vi si esaminò attentamente. Fu sorpreso nel notare come appariva diverso nel costume dei Vardda. L’ultima traccia della Terra era scomparsa.

Guardandosi ancora nello specchio, disse: «Edri…»

«Sì?»

«Ora sono un Vardda. Ve l’ho provato. Che cosa possono farmi, a Llirdis?»

«Desidererei potervelo dire. In pratica siete un vero Vardda, c’è in voi un atavismo puro. Ma legalmente è un’altra cosa. Quella norma fondamentale della legge vardda cui si riferiva Kerrel è il divieto ad accogliere tra noi discendenti non vardda di qualsiasi specie. Conservare puro il sangue dei Vardda non è solo orgoglio di razza, è una necessità economica e un tabù inviolabile. La soluzione di questo imbroglio spetterà al Consiglio ed è mio avviso dimenticare la faccenda fino ad allora. Venite, vi darò modo di pensare a qualcos’altro.»

Trehearne fu contento di muoversi. Quel senso di smarrimento, di stanchezza, di incubo, si insinuava di nuovo in lui, ed accoglieva con sollievo ogni diversivo. Uscirono nel corridoio ed egli seguì Edri. Si accorse allora di una profonda vibrazione di energia interna che animava l’astronave, una specie di calabrone ronzante che sembrava sfidare l’intero universo a fermarlo. Gli rombava nelle orecchie, nel sangue e nei nervi tesi, e l’eccitazione che aveva provato quando per la prima volta aveva visto l’astronave gli si rinnovò più intensa ancora. Questo era l’obiettivo supremo. Per tutta la vita si era trastullato con giochi da bambini, ma qui, sotto i suoi piedi, e tutto intorno a lui c’era il più alto sogno degli uomini.

«Qual è la forza motrice? Quale il principio? E come riuscite a raggiungere una velocità superiore a quella della luce? Le velocità-limite, la contrazione, la massa…»

Edri si mise a ridere. «Una cosa per volta, prego. Si tratta di domande di così poco conto! Ci sono voluti secoli per sviluppare una tecnica in grado di rispondervi e voi volete che vi spieghi tutto in poche parole. Bene; in poche parole posso dire tutto quello che ne so. Io sono un bevitore di professione e non uno scienziato. Comunque un mezzo realmente funzionale, navighi nell’acqua, nell’aria o nello spazio, deve derivare la sua forza motrice dalla reazione contro l’elemento in cui si muove. E così proprio ora i potenti generatori atomici a poppa emettono dei raggi di quinta grandezza che reagiscono contro la struttura stessa dello spazio. E lo spazio per non essere disintegrato, necessariamente ci proietta in avanti. Molto semplice, credo, una volta che si abbia imparato a conoscere il trucco.»

Trehearne assentì con un brontolio.

«Quanto alle velocità-limite» continuò Edri «anche gli scienziati vardda credevano in esse finché capitò loro di imbattersi nei cosmotroni. Un giorno una particella su cui stavano compiendo degli esperimenti li sconvolse profondamente, acquistando una velocità molto maggiore di quella della luce, e fu così che scoprirono i raggi di quinta grandezza. Scoprirono pure, come i vostri scienziati scopriranno, che gli assoluti teorici che uno studioso stabilisce secondo le proprie limitate cognizioni si rivelano illusori quando il campo di tali cognizioni si allarga. Potrei spiegarvi tutte queste cose se conoscessi meglio la meccanica continua!»

«Non potrei comprendere comunque» disse Trehearne «così fa lo stesso.»

Avevano raggiunto l’estremità del corridoio. Vi si apriva una stretta scala a chiocciola. Edri si scostò e incitò Trehearne a salire. Egli si avviò reagendo lungo il percorso contro un altro attacco di convulsioni; non si può assimilare tutto, abituarsi a tutto così d’un tratto, la singolarità, la separazione completa da tutto ciò che è stato, quel piombare a capofitto in orizzonti stranieri, in spazi ignoti, senza che il panico vi afferri se soltanto ci pensate. La scala immetteva in un ampio osservatorio a cupola di quarzo massiccio. Non sapeva che cosa si fosse aspettato di trovare, ma ne era deluso. Non vi era nulla da vedere se non un’oscurità solcata da serpeggianti linee luminose.

«Quelle sono stelle» disse Edri che era salito dietro a lui. «O piuttosto, le immagini di radiazione delle stelle. Alla velocità attuale stiamo superando le linee di energia luminosa che hanno lasciato dietro di sé. Scie stellari le chiamiamo…»

Girò un interruttore e la cupola di quarzo massiccio si soffuse di un pallido chiarore latteo. Edri esaminò un quadrante e lo regolò.

«Osservate la cupola» disse. «Ha uno spessore triplo, di una speciale composizione molecolare, ogni strato situato a un differente angolo obliquo. Ho immesso una corrente elettronica ad alta frequenza nella maglia di sottilissimi fili fra i tre strati e le più complicate e interessanti reazioni stanno ora compiendosi nella struttura molecolare della quarzite.»

Trehearne osservò. Il cuore gli batteva furiosamente.

«Guardate» disse Edri «gli impulsi luminosi delle scie stellari vengono intercettati, fissati, diffusi e infine riflessi da una lente interna.»

Trehearne osservò e osservando dimenticò Edri e l’astronave e se stesso. Dimenticò la Terra, il passato, il futuro. Dimenticò quasi di respirare.

La voce di Edri gli giunse piana. «Potrete vedere ciò spesso, Trehearne, ma non sarà più come la prima volta.»

Trehearne udì appena. L’astronave era svanita intorno a lui, lasciandolo sospeso sui profondi abissi che si stendono tra le isole stellari a guardare sbigottito nella solitudine oscura e splendida dello spazio.

Attraverso la magia di quella cupola di quarzo vide i grandi soli avanzare in fiamme e tuoni lungo la curva dell’infinito. Alcuni erano come cacciatori solitali, altri si accompagnavano alle stelle. Vide la loro cosmica parata di vita e di morte, i giovani soli divampanti di uno splendore biancoazzurro, i soli d’oro, i vecchi soli rossi, i soli spenti neri di ceneri funerarie. Vide le galassie lontanissime, i fuochi roteanti delle nebulose, i meravigliosi terribili mondi della Via Lattea fluttuanti all’estremo confine della creazione. E mentre guardava, ogni pensiero, ogni sentimento lo abbandonava ed egli era simile a un neonato abbagliato dalla luce.

Alcune stelle, gli pareva di riconoscerle: Algol che pulsava come un cuore sanguinante, la gloria dardeggiante di Sirio. Orione avanzava gigantesco tra gli abissi dello spazio, la cintura splendente di soli, qualche astro spento sulla fronte e i piedi che quasi toccavano le remote Iadi, Aldebaran ardeva di cupo splendore.

Aldebaran. Un altro sole. Altri mondi, altri popoli, altri costumi. Egli vi era diretto, uno straniero.

Un profondo tremore lo scosse. Il tempo passava, ma egli non se ne accorgeva. Era un uomo perduto, sprofondato, immerso nell’infinito. Edri lo osservava con una specie di tristezza nello sguardo. Dopo un po’ girò di nuovo l’interruttore, la cupola si oscurò e nella penombra rimasero visibili solo le saettanti strisce di luce. Trehearne sospirò, ma rimase immobile. Edri sorrise e lo scosse. Trehearne si girò lentamente e quando Edri si avviò giù per la scala, lo seguì, pur non sapendo dove andassero e perché.

Il corridoio era vuoto. Edri si fermò e aspettò finché gli occhi di Trehearne si fissarono su di lui con un barlume di coscienza. «Sto» disse «per venir meno a una consuetudine di tutta la mia vita e dire qualcosa di importante. Mi ascoltate?»

Trehearne fece un cenno di assenso.

«Voi trascorrerete gran parte del tempo con gli altri, cioè inevitabilmente anche con Shairn. State lontano da lei, Trehearne. Non importa se l’amate o l’odiate, state lontano da lei.»

Trehearne sorrise. La sua mente era un turbinio di stelle e i suoi occhi erano abbagliati dallo splendore delle nebulose.

«Shairn non mi sembra il tipo con cui si possa avere un rapporto fisso.»

«Questo è il guaio. Kerrel se la portò con sé in questo viaggio per porre fine al flirt che stava intrecciando con qualcun altro a Llirdis. Egli ne ha dovute sopportare tante da lei, e non è affatto il tipo: la gente non sa che cosa pensare.»

«Perché?»

«Bene, Kerrel è un agente del Consiglio, altamente rispettato, ha una grande autorità e così via, ma noi Vardda calcoliamo la nostra ricchezza in astronavi e Kerrel è povero. Shairn ne ha ereditate trenta, la quarta flotta dello spazio. In altre parole, egli ha più da perdere che Shairn.»

«Se la può tenere» disse Trehearne. «Lei e le sue astronavi.»

«Voi non la conoscete. Io la conosco. E posso dirvi che tenersi lontano da lei non è un’impresa facile solo quando ella non lo voglia.»

«Oh, vada al diavolo» brontolò Trehearne con impazienza. Era difficile discendere dalle stelle ai pettegolezzi meschini e la cosa gli seccava. «Non vedo come tutto questo mi riguardi.»

«Ve l’ho detto, so che tipo di donna è. E conosco Kerrel. È già vostro nemico…»

Trehearne rimase stupito. «Perché?»

«Perché è suo dovere esserlo. Perché l’intera struttura dello stato vardda, che ha giurato di proteggere è basata su poche ferree leggi e voi siete in procinto di violarle tutte. Oh, non proprio voi. Vi sono coinvolti più vasti problemi e voi sarete automaticamente immischiato. Kerrel è un uomo giusto, come egli stesso si considera, ma la sua è una giustizia non temperata dalla pietà. L’ho visto in azione troppo spesso, Trehearne. Avrete guai a sufficienza. Non offritegli anche un motivo di rancore personale.»

Il tono di Edri era così serio che Trehearne cominciò a sentirsi a disagio. Un’alta cieca muraglia si alzò davanti a lui, al di là della quale erano la vita con le sue complicazioni, la politica e la filosofia e le lotte dello stato dei Vardda ed egli non poteva vedere attraverso o al di sopra di essa. Disse: «Ho una quantità terribile di cose da imparare. Mi sgomenta quante. Voi e Kerrel non avete simpatia l’uno per l’altro, vero?»

Edri si strinse nelle spalle. «Sospetta che io abbia delle idee non propriamente in accordo con le sue. A Llirdis, come sulla Terra, è bene stare in guardia da un uomo che abbia un suo credo.» Improvvisamente si mise a ridere. «Bene, adesso basta. Come voi stesso avete detto, dovete imparare un sacco di cose. Possiamo incominciare fin da ora.»

Trehearne lo seguì prontamente per iniziare la sua rieducazione di Vardda.

7

Era straordinario con quale rapidità la Terra, con tutte le sue abitudini e le sue memorie, svanisse dalla mente di Trehearne. La lacerante angoscia della nostalgia lo riassaliva di tanto in tanto, specialmente quando giaceva solo nella sua cuccetta. Poi l’angoscia sparì ed egli cominciò a sentire per il suo pianeta d’origine il nostalgico affetto che si può nutrire per un genitore adottivo il quale, pur non assolvendo perfettamente i suoi compiti, fa pur sempre parte della nostra vita; una parte conclusa, ora, ma ai cui intermezzi luminosi e gai si può tuttavia ripensare. Non gli dispiaceva di averlo lasciato. Per un capriccio della genetica era stato fin dalla nascita straniero a quel mondo e non vi si era mai sentito veramente a casa sua. Ora rapidamente e facilmente andava ritrovando se stesso.

All’inizio vi furono periodi in cui gli pareva di sognare, gli pareva che l’astronave e tutto il resto sarebbero scomparsi ed egli si sarebbe destato. Ma via via che il suo spirito si riattivava, liberandosi dagli angusti orizzonti in cui era imprigionato, l’orgoglio e le aspirazioni ancestrali cominciavano a fremere in lui. E con questi fermenti gli nasceva dentro un insaziabile desiderio di conoscenza.

Edri era il suo miglior maestro. Chissà per quali ragioni quell’uomo brutto, dagli occhi tristi e dalla parola invariabilmente incoraggiante, l’aveva preso in simpatia! Trehearne ne era contento. Aveva bisogno di amici. Ma ce n’erano altri. Uomini e donne, per lo più giovani, sani e pieni di sé, che amavano la vita che vivevano e si divertivano un mondo alle sue stupite reazioni. Per qualche tempo lo considerarono come un animale che abbia improvvisamente imparato a parlare e a far di conto, ma poi si abituarono a lui, e non c’era mai malizia alcuna nel loro comportamento. A lui piacevano. Erano il tipo di gente che faceva per lui. Erano la sua gente.

Kerrel era corretto, ma distante. Shairn gli rivolgeva la parola quando le garbava, casualmente, come se si conoscessero da sempre e nulla di importante fosse mai accaduto tra loro. Ma talvolta gli pareva che lo guardasse in un modo che non era affatto casuale e non avrebbe saputo immaginare i pensieri di lei. Egli stava al gioco. Era difficile, quando gli ritornavano in mente tante cose. Ma resisteva. E aveva abbastanza da fare per badare alle donne. Le giornate a bordo della nave non avevano sufficienti ore per lui.

Imparava la lingua dei Vardda. Imparava i rudimenti della storia dei Vardda e le linee essenziali della loro struttura sociale. Ma, soprattutto, con innata sicurezza, imparava a conoscere lo spirito dei Vardda, il punto di vista dei Vardda, e il suo carattere si espandeva, avendo trovato un proprio scopo. Era un Vardda, e i Vardda erano gli Stellari: l’Uomo Galattico, come Edri li aveva definiti una volta, una specie unica, preparata e adatta al più splendido tra i compiti: la conquista delle stelle.

La forza, la magnificenza di quel viaggiare! Non c’era da stupirsi che le piccole navi e i piccoli cieli della Terra gli fossero sembrati così meschini! Questo era il suo retaggio, la libertà delle stelle, le lunghissime vie degli spazi infiniti, le veloci astronavi che collegavano l’uno all’altro i continenti solari, aggirandosi nel golfo immoto, illimitato, senza tempo che bagnava le rive di un universo galattico.

Rimaneva a lungo, sul ponte del vascello spaziale, a studiare le complicate manovre di comando e a rompersi il capo sulle complesse difficoltà dell’astronautica. Nel reparto generatori imparava a memoria il pulsare dell’astronave, ascoltando il silenzio del libero volo dopo che la manovra di accelerazione era stata compiuta. Faceva impazzire gli ingegneri, i piloti, i tecnici con domande delle cui risposte comprendeva solo la metà, ma gli rimaneva sempre una grande avidità di sapere di più. Apprendeva molto, eppure gli pareva nulla, ed era pazzamente desideroso di imparare, di tenere in suo dominio uno di questi orgogliosi giganti degli spazi interstellari.

I Vardda lo comprendevano. La sua avidità era anche la loro, ma a loro era mancata la naturale soddisfazione. Lo accettavano. Amavano parlare, e così a Trehearne non mancava certo chi gli insegnasse la lingua. La sua testa pullulava delle storie che gli raccontavano: viaggi attraverso la Galassia, mondi ignoti, avvenimenti nei lontani grappoli di astri, stelle spente rotanti per l’eternità, oscure nell’oscurità con i loro nuclei congelati, improvviso spaventoso dal dardeggiare di novae; collisioni di astronavi con stelle vaganti a una velocità molto superiore a quella della luce.

Trehearne era felice. Viveva come può vivere un bambino, in un mondo di meraviglie, dove tutto appare nuovo, vivido e ancora intatto. Ma una nuvola oscura gravava su di lui: la minaccia della legge dei Vardda e del Consiglio. Era possibile che tutto quanto egli aveva trovato gli venisse tolto. Più si avvicinava alla fine del viaggio, più la minaccia diveniva grande e cupa, e quando la nave entrò in fase di decelerazione essa crebbe tanto da oscurare tutto il suo orizzonte.

Ormai egli sapeva di più. Capiva come l’intera possente struttura dell’economia dei Vardda si fondasse sull’intaccabile posizione degli Stellari stessi e sulla loro abilità unica nell’Universo ad affrontare le velocità interstellari. Nel loro caso, il sangue, la razza erano tutto. Non ci poteva essere compromesso alcuno, nessuno poteva sfidare questa superiorità. Ed ecco lui stesso, un nato di razza terrestre, legato ai Vardda soltanto da alcuni geni bastardi, un compromesso e una sfida in se stesso.

«Dannazione» disse un giorno a Edri, rabbiosamente «non possono rifiutarsi di accogliermi, ora! E poi, a pensarci bene, un Vardda in più o in meno che importanza avrebbe? Il processo di mutazione è andato perduto, io non posso certo trasmetterlo a qualcun altro e non vedo di che cosa possano aver paura.»

Edri gli gettò uno sguardo cupo. «Ascoltate, Trehearne, esservi amico non mi ha certo giovato, così come stanno le cose, e non voglio peggiorare la situazione di ambedue aggiungendo al resto un complotto di tradimento. Se volete la risposta chiara e ufficiale, rivolgetevi a Kerrel.»

«Lo farò.»

Trovò Kerrel nel salone, assorto con Shairn e alcuni altri nel complicato gioco che per i Vardda sostituiva il bridge. In un gigantesco globo di cristallo erano sospesi alcuni piccoli sistemi solari. Attivati da una corrente magnetica, i minuscoli soli roteavano e i loro pianeti descrivevano orbite intorno a essi; guardarli dava le vertigini. Entro quel microcosmo vi erano una dozzina circa di minuscole astronavi azionate dai giocatori a distanza, e a complicare il gioco vi erano nebulose in miniatura, nubi di oscurità, e piccole comete. Lo scopo del gioco consisteva nel far circolare le astronavi senza perderne alcuna; ogni squadra cercava di raggiungere una meta fissata prima della flotta dell’altra. Trehearne aveva giocato qualche volta, ma senza alcun successo.

«Voglio parlarvi» disse, e Kerrel gli fece cenno di attenderlo. Con estrema rapidità e destrezza premette una serie di bottoni sul quadrante di controllo che gli stava di fronte. Dentro il globo un’astronave si abbassò per permettere a una lucente cometa di passare senza incidenti al disopra, sfiorò una nebulosa oscura, deviò di 35 gradi e compì un atterraggio perfetto su un minuscolo mondo roteante, non più grande di un ciottolo. Alla sommità del quadrante di Kerrel un segnale luminoso si colorò di verde.

Accanto a lui Shairn perdette due astronavi in una collisione e due luci rosse marcarono i punti perduti mentre i relitti uscivano automaticamente dal gioco. Shairn non guardava il globo. Osservava Trehearne e i suoi occhi erano pieni di luce.

Kerrel cedette il suo posto a un altro e si alzò. «La biblioteca è un posto tranquillo» disse. «Possiamo andare a parlare là.» Si allontanò con Trehearne. Shairn rinunciò al gioco e li seguì.

La biblioteca dell’astronave tra piccola, con microlibri allineati lungo le pareti. Si trattava per lo più di libri tecnici e Trehearne non era riuscito a cavarne fuori gran che. Si era accanito su alcuni in cui si esponeva la teoria e il funzionamento pratico delle astronavi, ma era un’impresa disperata ed egli non aveva insistito oltre. Il suo vocabolario era ancora limitato, e anche se non si fosse trattato di tecnologia la cosa era decisamente al di là delle sue capacità.

Ora egli affrontò Kerrel: «Ho fatto una domanda a Edri ed egli mi ha rimandato a voi. Così la farò di nuovo. Perché il Consiglio dei Vardda dovrebbe aver timore di accettarmi?»

Kerrel s’appoggiò con le mani alla spalliera di una sedia e rifletté un momento.

«Voi vi rendete certamente conto di quale sia la posizione dei Vardda tra tutte le altre razze della Galassia.»

«Sì. E non vedo in che modo potrei intaccarla.»

«La vostra visione non è chiara. Vi sono molti mondi nello spazio, Trehearne. Milioni e milioni di persone vivono in essi. Sapete che ne pensano di noi?»

«Non ci ho mai riflettuto.»

«Ci odiano. Ci invidiano. È abbastanza naturale. Sono prigionieri nei loro sistemi solari, costretti ad assistere allo spettacolo di stranieri che monopolizzano i loro rapporti commerciali con altre stelle, ma naturale o no, è un fattore di cui dobbiamo tener conto.»

Trehearne disse con impazienza: «Che ci possono fare? Non possono mutare e non possono neppure tentare di obbligarvi a rivelare il vostro segreto. Esso andò perduto migliaia di anni fa. Voi siete al sicuro.»

«Ci sono però gli Orthisti.»

«Chi sono?»

Kerrel parve lievemente sorpreso. «Pensavo che Edri ve lo avesse detto. No? Ma avete naturalmente sentito parlare di Orthis, lo scopritore del processo di mutazione. Era un grand’uomo, Trehearne. Un uomo brillante, un genio, il fondatore della nostra razza, ma non era un uomo pratico. Per troppo tempo visse solo nello spazio, per troppo tempo lavorò solo a bordo di un’astronave. Non conosceva gli esseri umani, non capiva le dure, aspre necessità della vita, la legge dell’autoconservazione. Egli voleva trasmettere il segreto — e con esso la libertà delle stelle — a tutti.»

Si interruppe, come aspettando che Trehearne parlasse. Ma Trehearne, pur riflettendo intensamente sul problema, non disse parola.

«Orthis» riprese Kerrel «non seppe vedere quello che fortunatamente altri videro, cioè che rivelare il segreto a tutte le razze della Galassia avrebbe significato guerre e conflitti di così dilaganti proporzioni che tutti i sistemi solari, incluso il nostro avrebbero potuto esserne distrutti. Egli rimase accanitamente fedele alle sue idee e infine fuggì da Llirdis in urto col governo, deciso a fare di testa sua. Fu inseguito, naturalmente, e gli fu impedito di attuare i suoi progetti cosicché il suo tentativo fallì, ma non fu mai catturato. Disparve lontano, ai limiti estremi della Galassia, e il segreto disparve con lui. Ed ecco da dove nascono i guai, Trehearne. Qualche tempo dopo Orthis mandò un messaggio che suscitò nei suoi seguaci la speranza che la sua astronave non fosse stata distrutta, che stesse invece aspettando in qualche luogo di essere rintracciata, insieme al segreto. Ora, dopo mille anni, sperano ancora.»

Trehearne scosse il capo. «Io certo non posso dir loro dove si trovi l’astronave, così, che cosa c’entro io in tutto questo?»

«Ma non vedete in che modo potrebbero servirsi di voi? Uno straniero, un bastardo, ma in grado di affrontare voli interstellari, l’effetto sul movimento orthista sarebbe enorme, e non solo a Llirdis. Gli abitanti di tutta la Galassia, avidi di possedere quel che noi possediamo, vi sfrutterebbero come un simbolo di quanto considerano la loro emancipazione. Io ho una fantasia fervida, ma mi perdo se provo a immaginare tutti i guai che potrebbero nascere da questa situazione.»

Un senso di freddo si insinuava in Trehearne, afferrandolo allo stomaco. Quel che Kerrel diceva era logico. Gli ripugnava doverlo ammettere, ma era logico. Disse aspramente: «Benissimo, ma ci deve essere una scappatoia, un mezzo per sistemare la mia posizione, intendo. Da quel che ho capito il Consiglio dei Vardda è costituito da uomini politici, e un uomo politico può aggirare qualsiasi ostacolo voglia.»

«Sì» disse Shairn dalla soglia «particolarmente quando le persone adatte li convincono che è bene fare così.»

I due uomini si volsero sorpresi. Ella avanzò, sorridendo imparzialmente a entrambi. Trehearne s’accontentò di sorriderle, ma il volto di Kerrel si indurì improvvisamente.

«Non so» ella disse a Trehearne «se qualcuno ve ne abbia parlato, ma a Llirdis io sono una persona alquanto importante.»

Kerrel disse: «Ti dispiacerebbe lasciarci soli?»

«Sì. Vedi Kerrel, lo sento un po’ cosa mia. In un certo senso è per colpa mia che si trova qui e intendo proteggerlo, lo voglia o no.»

«La cosa non mi garba» commentò Trehearne «vengo a trovarmi nel mezzo.»

«Lo siete comunque. Non è vero, Kerrel?»

«Shairn, non voglio litigare con te qui…»

«Non intendo litigare. Sto solo facendo un’affermazione. Michael è divenuto un vero Vardda e non permetterò che sia relegato a Thuvis finché non abbia fatto qualcosa che giustifichi tale provvedimento.»

Kerrel disse, come se facesse una affermazione più che una domanda: «Ne stai facendo una questione capitale.»

«Io lotterò contro di te per lui. Si deve lottare contro di te, Kerry. Stai diventando troppo sicuro di tutto.»

Kerrel andò a mettersi di fronte a lei. Trehearne non aveva visto mai nessuno così in collera eppure così completamente controllato. In quel momento incominciò a capire che Kerry era un uomo pericoloso. Shairn trasse un profondo sospiro e gettò indietro il capo, e Trehearne seppe che ella pensava a tutto questo da lungo tempo, progettando, elaborando, aspettando l’occasione opportuna e che ora era soddisfatta. Non si trattava di lui, della sua vita o della sua morte. Egli non rappresentava altro che lo strumento adatto. Si trattava di Kerrel e Shairn e di una vecchia situazione.

Kerrel disse: «Ho sopportato molte cose da te, Shairn, ma vi è un limite. Io l’ho raggiunto.»

«Speravo che te la saresti presa così.»

Egli la guardava ed ella non parlava, ricambiando il suo sguardo con fermezza e con una strana espressione divertita.

Finalmente Kerrel disse: «Speravo non avresti agito in questo modo. Non per lui. Non per un…»

«Ma Kerrel» replicò lei gentilmente: «doveva accadere qualcosa di simile, altrimenti non avresti accettato il mio rifiuto. Lo so, da tanto ho cercato di convincertene.»

Kerrel si girò e uscì. Non disse niente di più e non rivolse neppure un’occhiata a Trehearne mentre se ne andava. Trehearne lo seguì con lo sguardo e rabbrividì.

«Mi siete stata di grande aiuto» disse con amarezza a Shairn. «La prima volta per poco non mi avete fatto morire, ma io credo che ora siate sulla via di riuscirci.»

«Kerrel non è così importante. Tutto quanto può fare è dare un consiglio, e avrebbe suggerito Thuvis in ogni modo.» Scoppiò a ridere. «Mi sento magnificamente. In realtà cominciava a pesarmi.»

«Congratulazioni. E che cos’è Thuvis?»

«Ve lo mostrerò.» Cercò tra gli scaffali lungo la parete finché trovò la pellicola che voleva e la inserì in un proiettore. «Questo è l’astromanuale per un settore dello spazio che fortunatamente è assai poco utilizzato. Su, date un’occhiata.»

Trehearne si curvò sulla lente. Man mano che la pellicola si svolgeva, equazioni passavano lentamente attraverso lo schermo, coordinate di una posizione dello spazio.

«Non abbiamo pena capitale a Llirdis» disse. «In effetti ci sono pochissimi criminali. Ma quei pochi vengono esiliati a vita qui.»

Premette un bottone e ogni movimento cessò. Sullo schermo apparve l’immagine di un nebuloso sole rosso sperduto in una scura solitudine, di cui a malapena una stella lontana rompeva la desolazione. Intorno a esso ruotava un unico pianeta solitario, grigio, abbandonato, senza speranza.

Dopo una lunga pausa Trehearne obiettò: «Ma io non sono un criminale. Non possono…»

«Possono giudicarvi un pericolo per la società, come gli Orthisti. Kerrel farà il possibile per spedirvi là: ne farà una questione di principio.»

Un astro morente, un mondo morente, solo sull’orlo del nulla. Trehearne lo guardava.

«Che fanno là?»

«Niente. Aspettano.»

«Che cosa?»

Indovinò la risposta prima che lei parlasse. Niente più astronavi, niente più viaggi, nulla a cui guardare se non l’estrema liberazione della morte. Trehearne si allontanò dallo schermo. Shairn sorrise.

«Paura?»

«Sì.»

«Io sono dalla vostra parte.»

«Davvero? State semplicemente servendovi di me per punire Kerrel di avervi infastidita?»

«Non vi fidate di me?»

«No!»

«Ma non potete farci nulla, vero?»

«Immagino di no.»

«Allora tanto vale che cerchiate di trarne il maggior profitto.»

8

La lunga curva di decelerazione era compiuta. L’astronave ora fendeva gli spazi a una velocità planetaria. Aldebaran si era trasformato da un remoto punto di fuoco in un sole gigantesco, spaventosamente vicino. Il piccolo satellite era visibile soltanto come un pallido disco sopra di esso; la sua luce azzurrastra si distingueva appena nel dilagante bagliore dell’astro.

I Vardda si erano affollati nell’osservatorio ansiosi di cogliere una prima visione della patria. Un pesante schermo riparava ora la cupola dalla intensa luce di Aldebaran e all’ombra i viaggiatori si accalcavano a chiacchierare. Trehearne stava tra loro, interessato alla loro eccitazione, sentendosi un po’ sperduto. I loro discorsi erano discorsi di stranieri, pieni di nomi e di riferimenti che non avevano significato per lui, echeggianti di una gioia cui egli non poteva partecipare. Ritornavano a casa, ed egli non aveva casa, era l’uomo più solo della Galassia. Su di lui incombevano i volti immaginati dei membri del Consiglio, nell’atto di pronunciare il verdetto, e, dietro di loro, nelle desolate solitudini dello spazio, il mondo morente di Thuvis lo aspettava.

Shairn lo tirò per una manica. «Eccolo là» gridò. «Eccolo là, Michael, Llirdis!»

Egli seguì la direzione che la mano di lei indicava, socchiudendo gli occhi per difendersi dal fulvo splendore e vide un pianeta dorato roteare intorno a loro, luminoso e bello, accompagnato nel suo moto da tre lune. Improvvisamente la maestà e la magnificenza di questa discesa dagli spazi lo invasero, dissipando i suoi timori. Era una cosa divina, entrare in un sistema solare dall’esterno, e vedere i pianeti da lontano, non più grandi di una palla da gioco, rotanti intorno al loro sole in lente orbite eterne. L’eccitazione dei Vardda si comunicò anche a lui, ma per ragioni differenti. Tra poco egli avrebbe calcato il suolo di un mondo straniero, illuminato dalla luce di un altro sole, e i venti che vi soffiavano sarebbero giunti da vette senza nome e da oceani sconosciuti. Si mise a guardare con gli altri, con la stessa intensità.

Edri gettò un’occhiata al suo viso intento e sorrise. «Mirris è dall’altra parte del sole, ma se aguzzerete lo sguardo là, a destra, lontano, vedrete Suumis, il più esterno dei nostri due prossimi vicini.»

Suumis apparve sullo sfondo delle lontane distese di spazio come una piccola mela rossa, accompagnato da un nugolo di granelli luminosi che, Trehearne lo capì subito, erano lune. Lo fissò a lungo, cercando di convincersi che la piccola mela rossa era un mondo grande come la Terra; vi rinunciò, e volse di nuovo lo sguardo a Llirdis. Si era ingrandito. Come la nave calava parve che balzasse incontro a loro, e Trehearne cominciò a distinguere continenti avvolti nella nebbia, e le grandi ombre degli oceani, immersi in un’atmosfera di vapori che si accendevano di un riflesso dorato nella luce di Aldebaran. Poi si avvicinò ancor più, riempì il cielo, si estese mostruosamente e cominciò a cadere…

Edri rise. «Illusione ottica. Ma impressionante, vero?»

Trehearne si passò le mani attorno alle ginocchia e assentì. Aveva il cuore in gola, le sue viscere erano sprofondate chissà dove e l’astronave piombava a una velocità spaventosa incontro al pianeta. Raggiunse l’atmosfera e vi penetrò come in un bagno di fuoco. Poi vi si affondò, a precipizio, lacerandola con un lungo sibilo trionfante e negli strati più bassi le nubi rotolavano e s’attorcevano in una furia lampeggiante là dove il nero scafo le fendeva. Trehearne chiuse gli occhi. Quando li riaprì l’astronave sorvolava lentamente un oceano colore del peltro e lontano, dinanzi a sé, egli scorse una costa bassa oltre la quale si stendeva un pianoro ondulato, circondato da alte montagne. Su quel pianoro distinse la balenante immensità di una città a paragone della quale New York sarebbe sembrata un villaggio.

«Ecco» disse Edri. «Il perno è il centro della Galassia.»

Trehearne si limitò a scuotere il capo. Ormai non aveva più parole. Osservava i confini della città estendersi sempre più, contemplava le torri dei suoi edifici lanciate verso l’alto come a sostenere il cielo e taceva. Sempre in discesa, ma senza rumore, in un silenzioso scivolare, l’astronave si dirigeva a sud. Laggiù si stendeva per miglia la base di atterraggio delle astronavi, gli imponenti docks tra cui si cullavano i giganti delle stelle. Laggiù era un ordinato incessante, formicolante andirivieni di uomini e di macchine che, visto dal posto di Trehearne pareva ora una specie di spuma in fermento tra le file interminabili dei docks.

I campanelli di allarme squillarono. Trehearne si riscosse dal suo stupore e scese con gli altri ad attendere il momento dell’atterraggio. I secondi trascorrevano implacabili, il sangue gli martellava le tempie e i suoi muscoli si contraevano per l’eccitazione nervosa. Atterrare. Atterrare in un mondo strano, sotto uno strano sole nuovo…

Pianamente, dolcemente la grande chiglia toccò il suolo, reduce dai confini dell’Universo.

Trehearne si alzò. Gli altri si muovevano già, riversandosi nei corridoi, ridendo, parlando, ansiosi che l’uscita di sicurezza si aprisse, ansiosi di essere a casa. Trehearne li avrebbe seguiti, ma la mano di Edri lo tratteneva e Kerrel gli stava di fronte.

«Aspetterete qui» disse Kerrel. «Edri, ne sei responsabile. Bada che non scenda dalla nave.»

Uscì e di colpo per Trehearne quella punta acuta di meraviglioso stupore era svanita. Shairn gli si avvicinò e gli sorrise in modo rassicurante. «Non preoccupatevi, Michael. Il vecchio Joris è mio amico.» Uscì anche lei e Trehearne chiese a Edri: «Chi è Joris?»

«Il coordinatore della base. Quand’era giovane volava agli ordini del padre di Shairn.» Edri si sprofondò di nuovo in una poltrona. «Tanto vale non prendersela. Kerrel è andato a fare rapporto a Joris in persona. Non è il genere di cose a cui si vuol dare troppa pubblicità.»

«Perché a Joris? Pensavo che Kerrel dipendesse direttamente dal Consiglio.»

«Certo. Ma tutto quanto avviene in questa base deve essere notificato all’ufficio del Coordinatore. Sedete Trehearne, mi rendete nervoso.»

«Pensate che Shairn potrà far qualcosa per me?»

«Lo spero. Dannazione, sedete!»

Sedette. Si udivano rumori a bordo, ma erano rumori inconsueti, l’impersonale clangore dei portelli della stiva sbattuti, il fremito delle macchine, i passi invadenti e le voci sconosciute dei portuali. I rumori della base, al di fuori, gli giungevano attutiti e smorzati come l’incessante rombo di un tuono lontano. C’era un’aria di congedo: il viaggio era compiuto. Là fuori un nuovo sole splendeva, circolava un’aria mai respirata da uomini nati sulla Terra, e un intero vasto mondo aspettava, un mondo vardda, suo quanto loro; ma egli ne era tenuto lontano, egli era rinchiuso qui come un criminale, cui si impediva perfino di parlare, mentre degli stranieri stavano decidendo del suo destino. Ne era spaventato e irritato e più si sentiva preso in trappola e impotente a liberarsi, più s’infuriava. Il suo corpo non riusciva a star fermo. Balzò in piedi e si diede a percorrere a lunghi passi il pavimento, mentre Edri lo osservava assorto.

«State in gamba» disse. «Non potrete battervi se non state in gamba.»

«Mi batterò.»

«Sapete che condotta tenere. Non abbiate paura di imporvi.»

«Potete star certo.»

Il tempo passò. Edri se ne stava seduto e fumava. Trehearne camminava, sedeva e riprendeva a camminare. Passò un’eternità e poi un’altra, e poi un energico giovanotto dall’aria indaffarata, molto sicuro di sé entrò e si rivolse ai due.

«Dovete venire all’ufficio del Coordinatore» annunciò e fissò Trehearne con franca curiosità. Poi si volse a Edri. «Il suo aspetto è normalissimo. È poi vera questa storia?»

«Non importa» rispose Edri. «Venite, Trehearne.»

Egli li seguì giù per il lungo corridoio e nella camera di compressione, lasciando l’astronave così come vi era salito un tempo infinitamente lontano. Uscì fuori sul vasto dock e l’intenso frastuono, l’assordante confusione del più grande porto dello spazio nella Galassia lo colpirono come un’esplosione.

Fila su fila, e da tutti i lati, i torreggianti docks si stendevano a perdita d’occhio. Astronavi erano ormeggiate nella maggior parte di essi, mostri adagiati in riposo, folle di uomini e poderosi complessi di macchine attendevano alle riparazioni. L’aria sonora era pesante di profumi, strane specie sottili, inidentificabili odori misti al vapore dell’olio e dei metalli ardenti: inimmaginabili ricchezze provenienti da mondi inimmaginabili. Trehearne se ne stava immobile, sentendo vibrare in sé quel meraviglioso pulsare di vita, quasi inconscio del fatto che Edri cercava di dirigerlo verso un chiosco all’estremità del dock o che il giovane Vardda osservava divertito il suo stupore.

In file interminabili gli uomini si arrampicavano per gli scafi poderosi, andavano su e giù indaffarati per i docks provando, controllando, guidando e manovrando le macchine. Non erano Vardda. Erano abitanti di altri mondi, che non potevano volare tra le stelle. Molti di essi — e Trehearne spalancò ancor di più gli occhi per la sorpresa, poiché, anche per chi sa, vedere è un’altra cosa — non erano affatto ciò che egli avrebbe chiamato esseri umani. Ma nonostante la loro singolarità, gli apparivano familiari.

Essi erano simili, in fondo, a tutti gli altri meccanici dal volto allegro e dalle mani callose, che si vedono in qualsiasi porto della Terra addetti alle navi e agli aeroplani. Il rumore continuo era assordante. Gigantesche gru ruotavano pesantemente sui perni, sollevando carichi tra cinghie di elevatori e stive spalancate. Carrelli veloci scomparivano e riapparivano nella confusione. A intervalli tra i docks vi erano file di botteghe, dove fucine azionate dall’energia atomica forgiavano parti nuove, placche e rivestimenti. Qui un grappo di uomini lavorava su uno scafo con saldatori abbaglianti; là una grande sezione d’arco veniva calata lentamente al posto destinatole con un clangore assordante.

La voce di Edri gli giunse lieve e fioca. «Affari grossi, Trehearne. I più grossi sulla Galassia. Fa impressione, non è vero?»

Sospinse Trehearne oltre, verso il chiosco che si trovava un poco più avanti. Percorrevano un passaggio fiancheggiato da rotaie e a un tratto Trehearne vide venire alla loro volta dal lato opposto delle rotaie una grande macchina molto complicata che sembrava procedere lentamente lungo lo scafo dell’astronave, guidata da un piccolo essere umano: seduto nell’interno ce n’era un altro circondato da quadranti, leve di controllo e piccoli schermi.

«È un rivelatore a raggi X» gli spiegò Edri. «Piombano immediatamente su ogni astronave che atterra. Con il tempo queste ultravelocità intaccano il metallo. I rivelatori indagano la struttura cristallografica dei metalli o ogni altra variazione molecolare. Le astronavi diventano poco sicure dopo un certo periodo di servizio, generalmente piuttosto lungo, e vengono continuamente sottoposte ad accurati controlli. Non è piacevole che uno scafo si spezzi in due nel bel mezzo di non so dove.» Spinse Trehearne verso l’ingresso del chiosco. Il giovane Vardda aveva l’aria di divertirsi. Edri disse: «C’è un ascensore qui. Scendiamo.»

Trehearne entrò e si volse. Proprio prima che la porta gli si chiudesse dolcemente in faccia, scorse di sfuggita in lontananza un’alta torre bianca dominante l’intero orizzonte e capì subito senza che nessuno glielo dicesse che si trattava della sede dell’amministrazione del porto, del luogo quindi in cui si sarebbe deciso il suo immediato destino.

Una volta ancora il senso di meravigliato stupore svanì, bruscamente l’ascensore discese rapido, il suo cuore con esso.

Fu un viaggio breve. L’ascensore li depositò in un passaggio molto al di sotto del livello del suolo, e il passaggio li condusse a una sotterranea: dovunque regnava una grande quiete in contrasto con il frastuono del porto. Un piccolo vagone monorotaia li portò in pochi minuti al piano sottostante la torre, dove trovarono un altro ascensore privato che, questa volta, saliva. Trehearne aveva in bocca un sapore amaro, i palmi delle mani gli sudavano.

Gli pareva che l’ascensore non si dovesse mai fermare, ma si fermò infine al piano più elevato. Il giovanotto energico fece loro cenno di uscire e si trovarono in un ufficio nudo e spazioso, con pareti-finestre che si affacciavano in tutte le direzioni sul porto. Trehearne pensò fugacemente che, più che un ufficio, pareva il ponte di un’astronave pateticamente incatenata al suolo.

C’erano Shairn e Kerrel che si tenevano ben lontani l’una dall’altro in atteggiamento di distacco, un’espressione di ostinata determinazione sul viso Kerrel non si voltò, ma Shairn si avvicinò a Trehearne e gli prese la mano con aria di sfida. Un po’ appartato, un altro energico giovanotto trafficava intorno a un apparecchio registratore. In quel luogo pareva gravare un grande silenzio, prodotto forse dall’arrivo dell’ascensore perché nessuno aveva l’aria di voler tacere, meno di tutti l’uomo che stava loro di fronte, al di là di una massiccia scrivania. Trehearne vide un canuto gigante dalle potenti spalle che pareva impossibile potesse lavorare in un ufficio. Le pareti, anche di quel tipo, sembravano opprimerlo perché definivano un orizzonte. Le sue grandi mani, segnate da cicatrici, posavano inquiete sul legno lucido, come insofferenti delle carte che vi erano ammucchiate, e i suoi occhi parevano più abituati a guardare le stelle che gli uomini. Quei suoi occhi di un azzurro chiaro come il ghiaccio scrutarono Trehearne senza mai distogliersene finché non ebbero individuato ogni minimo particolare.

«Non ci credevo» disse Joris «ma ora capisco perché non vi andò l’idea di ucciderlo, è troppo simile a noi. Ma dannazione! Kerrel, tu più di tutti, avresti dovuto ricordare la legge. Nessun personale non-Vardda in nessuna circostanza può salire a bordo di un apparecchio destinato a voli interstellari. Che ti ha preso?»

Prima che Kerrel potesse rispondere, Shairn parlò in sua vece «Un eccesso di sensibilità» disse «e un dubbio. Penso che ora li rimpianga entrambi. Vedi, Joris, si trattava di un dubbio legale. Guardando Trehearne potresti dire che non è un Vardda?»

«Ma voi lo sapevate…»

«Oh, no» esclamò Edri piccato «non lo sapevamo. Non ne sapemmo nulla finché non sopravvisse alla partenza, e allora non lo si poteva certo classificare come non-Vardda… non è vero, Joris?»

Joris si agitò in tutta la sua mole, a disagio. «Un capriccio della natura» brontolò. «Un bastardo. Non gli avete fatto un piacere a portarlo qua. Shairn, ho l’impressione che ci sia la tua mano in tutto questo. In effetti conoscendoti…»

Shairn sbottò. «Quel che faccio è affar mio. E quanto a Michael è un Vardda come te. Ma non hai ancora risposto alla mia domanda. Mi permetterà di tenerlo in mia custodia fino a che si radunerà il Consiglio?»

«No! Ed è una risposta definitiva.»

«Ma, Joris…»

«Hai sempre combinato guai, Shairn. Sempre, dal giorno che sei nata. Ma che io sia dannato se riuscirai a mettere nei guai anche me!»

«E io che pensavo che tu fossi mio amico. Joris, ti dovresti ricordare…»

«Ero agli ordini di tuo padre al tempo in cui volavo con le sue astronavi, ma tu non sei l’uomo che egli era! E inoltre non lavoro per te adesso, lavoro per il Governo. È chiaro?»

«Perfettamente» rispose Shairn, e soggiunse, in tono ammirato: «Comunque non hai perso la tua abitudine di urlare.»

Con grande sorpresa di tutti Joris rise. «No» ammise «non più di quanto tu abbia imparato le buone maniere.» Volse lo sguardo da Shairn al viso irrigidito di Kerrel che se ne stava tuttora fermo come un sasso senza dir parola — Trehearne ne dedusse che doveva aver già detto quanto gli pareva necessario — e poi di nuovo a Edri e al Terrestre. «Riconosco che questo è un accidente di pasticcio e sono lieto di non dover prendere la decisione finale. A mio avviso il mio dovere al momento è di tenerlo in custodia come qualsiasi altro indesiderabile, finché il Consiglio non se ne occupi a sua volta.» Gettò a Shairn un’occhiata severa. «Questa è la legge e così deve essere.»

Kerrel parlò, infine. «Bene, di questo volevo essere sicuro.»

Joris aggrottò le sopracciglia. «In genere si può contare su di me nell’adempimento dei miei uffici.» Fece un cenno al giovanotto energico che aveva scortato Trehearne ed Edri. «Compilate il solito modulo di fermo provvisorio per persone sospette secondo il codice dell’autorità della base, Articolo C…»

Trehearne disse: «Un momento, prego.» Si fece avanti fino a trovarsi a faccia a faccia con Joris al di là del tavolo. «Non avete diritto di arrestarmi.»

Joris lo fissò meravigliato. Poi scosse il capo irritato come se pensasse che il suo udito gli stesse giocando un brutto scherzo, e lo fissò ancora. Le guance gli s’imporporarono. Trehearne continuò: era venuto il momento di lasciarsi andare ai propri impulsi e non tentò neppure di controllarsi.

«Se non è formalmente accusato di un delitto, nessun Vardda può esser arrestato contro la sua volontà. Io non ho commesso delitti, né sono stato accusato di averne commessi.»

Ci volle un po’ di tempo perché Joris ritrovasse la voce per parlare. Quando vi riuscì, le vetrate quasi ne tremarono. «Voi non siete un Vardda!»

«No? Pensateci un minuto. Qual è l’unico carattere distintivo che rende un Vardda diverso da tutti gli altri uomini?»

«Benissimo, vi risponderò! Per un caso o per l’altro siete riuscito a sopravvivere al volo, ma questo non cambia il fatto che voi siete un Terrestre, nato e cresciuto sulla Terra e perciò non un Vardda.»

Gli occhi di Trehearne avevano ora una luce dura. «Allora supponiamo» disse «che voi arrestiate me: un Terrestre che ha attraversato la Galassia dal Sole ad Aldebaran ed è sopravvissuto. Ciò farà una grande impressione, non è vero? Tutti i non-Vardda si sentiranno molto interessati alla faccenda. Così pure il partito orthista. Non dubito che diffonderanno la notizia in tutta la Galassia: I VARDDA HANNO AMMESSO DI NON ESSERE GLI UNICI A POTER TRASVOLARE GLI SPAZI INTERSTELLARI.»

Shairn esultò: «Benissimo, Michael! Avanti!» Edri si era un poco appartato. Il suo sguardo era fermo e attento. Kerrel parlò e la sua voce suonò acuta. «Siete stato mal consigliato, Trehearne. Questo genere di discorsi non vi servirà a nulla.»

Joris gli fece cenno di tacere. Poi disse a Trehearne. «Che ne sapete del partito orthista?»

«Abbastanza da capire che potrebbero creare ogni sorta di guai. O sono un Vardda o non lo sono. E se non lo sono, potrei dare l’avvio a tutto un nuovo movimento. Il primo nonVardda a compiere voli interstellari, la prima incrinatura nel monopolio.»

Joris scosse il capo. «Potreste essere tolto di mezzo con tanta rapidità e segretezza che nessuno mai udrebbe parlare di voi.»

«Bene» disse Trehearne. «Toglietemi di mezzo. Togliete di mezzo tutti gli ufficiali della nave. Togliete di mezzo tutti i passeggeri. Togliete di mezzo tutta la ciurma. C’è una quantità di gente da far tacere.»

Shairn interruppe trionfante: «Sì Joris! Come potrai far tacere me?»

«E» disse Edri «me.»

Joris volse lo sguardo dall’uno all’altro, poi lo distolse, le sopracciglia corrugate in un’espressione irritata. Ma non disse nulla. Kerrel si curvò sulla scrivania.

«Joris» disse «capisci? Quest’uomo tenta di ricattarti con un’aperta minaccia di tradimento.»

«Sì» confermò Trehearne. «È così.» La sua voce era divenuta improvvisamente molto piana e parlò rivolgendosi direttamente a Joris. «Sopravvivendo a quel volo, ho conquistato il mio diritto alla libertà delle stelle. Ho conquistato il mio diritto a volare per gli spazi profondi e userò qualsiasi arma mi capiterà sottomano contro chiunque tenterà di impedirmelo.»

Poi, per qualche istante nessuno parlò.

«Dannazione!» disse Joris lentamente «ritiro quanto ho detto. Non ci può essere in voi sangue bastardo. Solo un Vardda potrebbe essere così insolente.» Si alzò e girò intorno alla scrivania. «Tu, Shairn, malgrado le tue opinioni politiche lo sosterrai?»

«Certo e sarà probabilmente l’unica vera conquista che gli Orthisti riusciranno a fare.»

«E tu, Edri?»

«Anch’io.»

Kerrel imprecò. Era la prima volta che Trehearne lo udiva imprecare e l’imprecazione era diretta a Shairn. «Dannazione, bada a quel che dici! Joris, non lo pensa sul serio e non lo farà. Conosco troppo bene i suoi sentimenti in merito.»

Shairn lo sfidò: «Mettimi alla prova.»

Joris si era fatto molto pensoso.

«Sai» disse a Kerrel «qualunque atteggiamento essa prenda, c’è una gran parte di verità in quello che quest’uomo dice. Troppa, temo, perché la si possa trascurare.»

«È un bluff» disse Kerrel. «Senti, Joris, se tu lasci libero quest’uomo, dovrò riferire…»

«Oh, riferisci e va’ all’inferno! La legge dice che io devo arrestarlo e io lo arresterò, e il mio dovere si limita a questo e non c’è bisogno che tu mi dica quel che devo fare.»

Si avvicinò al registratore, ne tolse il rullo, lo gettò sul pavimento e lo schiacciò sotto i piedi. «Ora fuori di qui, tutti. Vi congedo. E raccomando a tutti di tenere la bocca chiusa, specialmente a voi» disse, rivolgendosi ai due giovanotti. «Avete abbastanza lavoro da tenervi impegnati. Andate e occupatevene. Voi rimanete qui, Trehearne.»

Trehearne rimase, e in lui c’era l’amara convinzione di aver perso la partita. Le facce degli altri, mentre se ne andavano, erano molto dubbiose. Finalmente si trovò solo con Joris nel fascio di luce dorata delle vetrate. Dal settore orientale della base Trehearne vide una grande astronave levarsi in volo e librarsi verso lontani astri.

Joris misurava la camera a grandi passi, senza dir parola. Il silenzio era pesante, opprimente. I rumori del porto così lontani là sotto non lo rompevano: ne erano al di fuori e il volto di Joris era una maschera pesante, cupa. Trehearne guardò fuori al cielo diverso, dove le nuvole ardevano come piccole nebulose, e poi alle navi laggiù. Dalla sua posizione poteva vedere il settore di arrivo delle squadriglie dei vari pianeti, i lenti apparecchi da carico provenienti dai mondi esterni ad Aldebaran, e improvvisamente gli balenò alla mente che cosa dovevano sentire i poveri bastardi a bordo, vedendo le astronavi andare e venire convinti che non le avrebbero mai potute seguire. Al di là della base sorgevano le torri della città, e Trehearne si chiese se l’avrebbe mai vista.

Joris smise di camminare e ordinò: «Venite qui.»

Trehearne obbedì. Gli occhi chiari, duri e intensi come quelli di una vecchia aquila lo scrutarono a lungo, pesandolo, valutandolo. Egli non disse nulla. Non c’era altro da aggiungere.

«Sangue vardda» mormorò Joris tra sé. «Indiscutibile. E vuole librarsi a volo tra le stelle.» Chiese all’improvviso. «Siete un trovatello?»

«No» disse Trehearne. E aggiunse lentamente. «Ma è come se lo fossi stato.»

Joris si volse altrove, le sopracciglia corrugate, la testa e le spalle massicce sullo sfondo del cielo ardente. «Quanti anni avete?»

«Trentatré, in anni terrestri.»

Sempre voltando le spalle a Trehearne, Joris parlò. «Mi sembra di vedere una via d’uscita. Se vi servirà o no non lo so dire. Il Consiglio si radunerà di nuovo tra cinque giorni; allora mi si chiederà di fare un rapporto su di voi e farò del mio meglio. Nel frattempo dovrete andare dove vi dirò e rimanervi senza far chiasso. È chiaro?»

«Sì.» Il lieve pulsare della speranza era ricominciato in lui.

«Bene. E, Trehearne…»

«Sì?»

«Se tutto andrà bene, vi librerete in volo tra le stelle!»

Era una minaccia e una promessa insieme.

Mezz’ora più tardi, dopo un viaggio in sotterranea che gli tolse ogni nozione del luogo in cui si trovava, Trehearne fu scortato in un nitido stanzino quadrato, confortevole sotto ogni aspetto, ma pur sempre una cella. La serratura magnetica scattò con un lieve suono secco alle sue spalle; rimase solo.

Non c’erano finestre. Non sapeva neppure se si trovava sopra o sotto il livello del suolo. Non c’era né giorno né notte né tempo. Egli percorse da capo a fondo il breve pavimento e mangiò i cibi inconsueti che gli giungevano automaticamente attraverso una fessura della parete e cercò di dormire. Fumò le ultime sigarette, risparmiate a stento. Sperò e la speranza si trasformò lentamente in cupa disperazione.

Nessuno veniva. Shairn l’aveva dimenticato. L’amicizia di Edri si era allentata. A ogni ora che passava gli pareva sempre più chiaro che Joris gli aveva teso una trappola. Li odiava tutti. S’infuriava, attendeva e ricordava le parole del vecchio.

"Potreste esser tolto di mezzo con tanta rapidità e segretezza che nessuno mai udrebbe parlare di voi."

E questo era il suo arrivo a Llirdis, il frutto del suo viaggio attraverso l’Universo. Questa era la fine del sogno.

La sua furia cadde.

Venne il momento in cui si svegliò d’improvviso da un sonno inquieto per udire lo scatto della serratura e un passo lieve, attutito che si avvicinava. Balzò in piedi e vide che era Shairn. Ella gridò: «Michael!» e le sue parole gli giunsero con un suono di irrealtà, come una voce udita nell’incubo della febbre.

«Tutto è finito, Michael, sei libero!»

9

Era passata un’ora e ancora non riusciva a crederci. Aveva lasciato alle sue spalle la cella e i cinque giorni di attesa. Si trovava su una terrazza alta sopra la città. Era notte e le lune splendevano nel cielo. Il vento del mare aveva il sapore pungente del vino, ma non era come il vento di mare che egli ricordava, era nuovo e strano, intensamente emozionante. Intorno a lui le alte torri sottili si slanciavano verso le lune e lontano, ai suoi piedi, la rete luminosa delle strade era un’apparizione di sensuale bellezza, variopinta sonora, satura di vita.

Shairn sussurrò: «Guarda, Michael. È tutto tuo.»

Guardò. Le sue mani erano aggrappate alla ringhiera della terrazza e c’era in lui una pienezza che gli mozzava il respiro.

«C’entro un poco anch’io, Michael. Non mi ringrazi?»

Egli si volse. Shairn aveva indossato un ondeggiante abito bianco drappeggiato e cosparso di una pioggia di diamanti e nella massa scura dei suoi capelli brillavano strani gioielli. Egli cominciò a parlare e poi dimenticò quello che voleva dire, quando rumori all’interno dell’appartamento — erano in casa di Edri — annunciarono l’arrivo di Joris.

«Vieni a sentire come è accaduto il miracolo.»

Dalla terrazza passarono attraverso porte di vetro scorrevoli aperte ora alla tiepida brezza, in una bassa camera ampia e spaziosa che era insieme estremamente semplice e confortevole. La camera di un milionario, avrebbe detto Trehearne, eppure Edri era povero, secondo il metro dei Vardda, non essendo proprietario di astronavi e lavorando per altri proprietari. Le pareti-finestre si affacciavano sulla città, uno spettacolo imponente di luce e di colore, senza vistosi eccessi, e all’interno erano la quiete e un’intimità resa più personale dalla presenza dei piccoli oggetti che Edri aveva portato a casa dai suoi viaggi. Macchine di vario genere provvedevano, automaticamente alle pulizie giornaliere mentre egli era fuori e non vi era cucina. I pasti gli giungevano attraverso un tubo pneumatico, caldi, freddi, secondo gli ordini, da un servizio centrale. Ricordando il proprio appartamento da scapolo sulla Terra, Trehearne si sentì preso dall’invidia.

Joris gli si avvicinò, tendendogli la sua grande mano dura. Trehearne la strinse e Joris disse: «Che cosa avete pensato in quei cinque giorni in cella?»

Trehearne scosse il capo. «Non ve lo dico, dal momento che nulla di quanto pensavo corrispondeva a realtà.»

Joris rise. Edri disse: «Non gli abbiamo detto nulla. Abbiamo lasciato a voi il privilegio.» Prese dei bicchieri e versò del vino. Joris sedette pesantemente in una poltrona, pieno del sincero orgoglio di aver saputo risolvere la situazione, raggiante addirittura. Shairn si accovacciò accanto a lui su un ampio divano e cominciò a sorseggiare il suo vino. «Avanti» disse. «Aspettiamo.»

«C’è voluta un’abilità da giocoliere» disse Joris «e qualche vera e propria falsificazione, ma tutto è andato bene. Vedete, Trehearne, all’Amministrazione della base esiste un registro completo di tutti i viaggi. Riportandomi a trenta o quarant’anni fa, sono riuscito a crearvi un soddisfacente passato.»

Si chinò in avanti. «Ora ascoltate e tenete bene in mente. Siete nato sulla Terra trentaquattro anni or sono da genitori vardda allora impegnati in attività commerciali su quel pianeta. Vostra madre morì nel darvi alla luce e vostro padre fu costretto ad abbandonarvi poiché un piccolo Vardda non può sopravvivere al volo interstellare. Le persone che vi allevarono e che voi credevate vostri genitori non furono in realtà che dei genitori adottivi.» S’interruppe, si frugò nelle tasche dei pantaloni finché trovò un foglietto di carta che tese a Trehearne. «Ecco i nomi dei vostri veri genitori. Teneteli a mente. Vostro padre morì in un incidente al largo della nebulosa di Orione e non avete né fratelli né sorelle. Il caso vuole che a voi non toccò neppure l’eredità perché il patrimonio di vostro padre venne diviso subito dopo la sua morte. Da ora in poi questa è la sola vostra storia. Non dimenticatela. E non ditene più di quanto siate richiesto.»

Trehearne guardò il foglietto e i due nomi che vi erano scritti. «Non pensavo fosse possibile… Ma che cosa ha detto Kerrel? Certo non ha creduto a questa storia.»

«Ma non poteva provare che la verità fosse un’altra. E io produssi documenti di tale attendibilità che il risultato fu schiacciante.» Rise. «In effetti causò, come si dice, il crollo del terreno sotto i suoi piedi.»

«La cosa non gli è piaciuta» disse Shairn. «Ma non vi poteva far nulla, né potrà far nulla in futuro. Joris e io riuscimmo a convincere il Consiglio a non chiamarvi in causa, Michael, adducendo la ragione che meno si parlava del fatto meglio era. L’udienza fu chiusa, senza che i cronisti potessero assistervi. I documenti prodotti da Joris e le vostre caratteristiche di Vardda furono sufficienti. In meno di mezz’ora il Consiglio prese la sua decisione, dopodiché si riunirono nuovamente per rafforzare la legge secondo cui i neonati Vardda non possono venire alla luce in nessun altro luogo che a Llirdis!»

Trehearne si ficcò in tasca il foglietto. «Vorrei dire tante cose, ma…» S’interruppe e Edri gli mise in mano un bicchiere. «Non provatevi neppure» disse. «Diteci francamente che noi siamo meravigliosi e saremo soddisfatti. Tra parentesi, non giudicatemi un bugiardo. Non ho fatto che riferire i particolari più interessanti che voi stesso mi avete raccontato sulla vostra infelice infanzia di trovatello.»

Trehearne sogghignò. Volse lo sguardo dall’uno all’altro e infine lo fissò su Joris. «C’è una cosa che non capisco. Perché avete fatto questo per me?»

«Non chiedete mai a un uomo perché ha agito in un dato modo, se ha agito bene, Trehearne. E ora che siete un Vardda fatto e finito, avete un altro problema da affrontare. Dovete guadagnarvi la vita. Desiderate ancora darvi ai voli interstellari?» Colse l’espressione del viso di Trehearne e sorrise. «Ho bisogno di un sovrintendente a bordo della mia nave Saarga, che salperà tra due settimane per un giro di affari nella costellazione di Ercole. Ufficiali ed equipaggio hanno un utile sulla spedizione e si tratta di un viaggio che può rendere molto. Anche un sovrintendente ha la possibilità di buoni guadagni.»

Edri intervenne: «Bisogna che vi avverta, Trehearne. Le spedizioni a Ercole sono tra le più dure di tutta la Galassia.»

«Ecco perché rendono tanto» disse Joris. «Ebbene?»

Prima che Trehearne potesse rispondere, Shairn gli posò pigramente una mano sulla spalla e disse: «Sciocchezze, Joris. Non è il caso che intraprenda nulla di simile. Posso trovargli una sistemazione migliore nella mia flotta e nell’attesa non patirà certo la fame.»

Il volto di Trehearne si irrigidì. Osservò pianamente: «Mi sembra di aver sentito dire, Shairn, che gli affari vi vadano a meraviglia.»

«Oh, a meraviglia! Trenta navi invece delle due di Joris. Mio padre era un uomo in gamba e io sono stata abbastanza fortunata da essere la sua unica erede. Oh, al diavolo chi vuol parlare di affari! Andiamo, Michael, vi mostreremo la città!»

«Tra un momento.» Joris lo guardava con un’espressione curiosa, e le labbra di Trehearne si irrigidirono ancor più. Chiese: «Quando dovrò trovarmi a bordo della Saarga

Edri si curvò sulla spalla di Shairn e bisbigliò. «Penso che abbiate fatto arrabbiare il nostro Michael.»

Joris guardò Shairn e rise. «Perdete un ospite, vero?» Si alzò. «Benissimo, Trehearne, ve lo farò sapere. E ora vediamo che cosa possiamo fare per celebrare questo giorno!»

Uscirono. Ma per un’ora o più Shairn rimase un po’ imbronciata, tanto più perché Trehearne pareva aver dimenticato la sua esistenza.

Splendente nel costume nero e argento preso dal guardaroba di Edri, libero, accettato, con un futuro davanti a sé, Trehearne camminava per le vie della città, ubriaco di colori, di suoni e di movimento, abbagliato dalle incredibili dimensioni e dall’assoluta stranezza della più grande metropoli della Galassia. Si ergeva splendida nella varietà dei suoi edifici affollati, fiorente, bella, immersa nella ricchezza e nella genialità di mille culture dalle radici remote, Mecca di tutte le popolazioni dei sette pianeti abitati di Aldebaran. E la sua bellezza era reale. Dietro i magnifici edifici non vi erano vicoli bui e malsani, non catapecchie, non miseria, non brutture. I Vardda avevano viaggiato un po’ dovunque, avevano visto molti paesi, facendone tesoro. Da un punto di vista unico nella storia, avevano studiato e paragonato l’inizio, l’espansione e il cròllo di più imperi, razze e culture di quanti un uomo possa enumerare nel giro di un anno, e il lavoro continuava tuttora sotto la direzione delle loro menti migliori, impegnate in un’opera di coordinamento, di studio, di indagine delle cause, di scelta, tra la massa degli elementi raccolti, dei modi e dei mezzi più adatti a mantenere integro l’impero dei Vardda. Da secoli procedevano sicuri, e Trehearne sentiva per loro una grande ammirazione, specialmente pensando che dovevano lottare contro le naturali difficoltà di una società essenzialmente chiusa. Il loro governo era elettivo, e lo mantenevano incorrotto. Le loro leggi erano relativamente poche e semplici, e venivano rispettate. Essi non opprimevano nessuno e facevano in modo che i loro vicini non-Vardda traessero vantaggi dai loro traffici.

«Non è vero affatto» gli aveva detto Edri una volta «che siamo così più dannatamente nobili degli altri. In realtà probabilmente nessuno ci supera nel nostro fondamentale egoismo. È un buon affare per noi, vedete. Rendete ognuno il più felice possibile, trattateli meglio che potete, fateli tutti ricchi, e non avrete guai; il che nuocerebbe al commercio. Le razze estere non hanno probabilmente alcuna simpatia per noi, ma non intendono certo tentare di fare a meno di noi. Quanto alla politica interna e all’amministrazione, far andare bene le cose è un semplice impulso di autoconservazione. Noi non siamo degli utopisti, per usare uno dei termini cari a voi della Terra, noi cerchiamo semplicemente di agire con buon senso.»

Guardando la città, Trehearne pensava che avevano compiuto un’opera notevole. In effetti pochi tra i Vardda amavano la vita della città. Llirdis era essenzialmente un mondo di proprietà separate e di piccole comunità. I sociologi vardda non erano stati ciechi di fronte al pericolo di quel corrosivo stato finale della civiltà che Spengler definì megalopoli. La città non era destinata a offrire dimora a grandi masse di popolazione. Essa era essenzialmente costituita da banche, magazzini, uffici, fabbriche totalmente destinata agli affari. La popolazione era formata principalmente da non-Vardda che vi trascorrevano soltanto le ore di lavoro. Le loro case sorgevano sui loro propri pianeti. Abitavano nella città senza esserne prigionieri.

Quanto a Trehearne gli pareva, quella notte, che avrebbe potuto passarvi tutta una vita senza mai esserne stanco. Le piccole astronavi che percorrevano le anguste vie planetarie si posavano accanto ai superbi giganti delle vie stellari, e riversavano nella metropoli una inesauribile fiumana di visitatori, venuti a godersi i riflessi di una gloria che non avrebbero mai potuto conquistare, a sperimentare piaceri diversi, ad acquistare gemme, spezie e sete finissime di mondi che non avrebbero mai visto. La maggior parte di loro aveva aspetto umano o quasi, con la pelle di vari colori, gli abiti bizzarri o semplici, secondo le singole usanze nazionali. Altri non erano umani affatto, tranne che per intelligenza e dignità di portamento.

«Vedi quei tipi dalla pelle nera, il naso aquilino, e le ali bronzee?» Edri rispose con un cenno della mano allo sguardo interrogativo di Trehearne. «Sono di Suumis, e i tre argentei laggiù con le creste lucenti e gli abiti cremisi? Sono la razza dominante del secondo pianeta di Aldebaran, orgogliosi come Lucifero perché hanno scaglie d’argento al posto della pelle. Quel piccolo individuo bluastro è un principe mercante di Zaard, il pianeta più lontano. Vedi il diamante, segno della sua casta?»

Trehearne vedeva tutto. Il cervello gli turbinava dal troppo vedere, udire e sentire il palpito e il fremito della città, le folle caleidoscopiche, i gruppi dei Vardda superbi come pavoni nelle loro tuniche, splendenti di gioielli, la babele delle lingue più bizzarre, l’onda invadente di una musica strana e dolce. E i quattro se ne andavano di luogo in luogo senza fretta, vagando dove l’umore li portava, bevendo l’oscuro vino di Antares, la frizzante birra candida di Fomalhaut, e gli innumerevoli vini di vari colori dei sistemi planetari più remoti. Shairn si dimenticò di tenere il broncio. A Trehearne ella sembrava fluttuare tra risa e chiaro di luna, seducente e irraggiungibile come una creatura apparsa in sogno. Il vino gli saliva alla testa. L’emozione, la novità, la selvaggia gioia della libertà gli mettevano indosso una specie di febbre, e le cose attorno a lui perdevano realtà, turbinando sempre più veloci in colori sempre più vividi, come visioni evocate da una nebbia evanescente. Visi umani, semiumani, inumani, belli, grotteschi, comici. Maschere di carnevale, volteggianti come in una danza. Le donne vardda dolci come il peccato, in mille abbigliamenti di mille mondi diversi, sorridenti con bocche scarlatte. Musiche ritmate, scandite, lamentose, melodie sconosciute di ignoti strumenti, appassionate, lievi, mescolate all’odore del vino, ai profumi, all’aspro vento del mare. Danzatrici dalla pelle di smeraldo, strane bestie che si esibivano in salti di una prodigiosa abilità, un turbinare di parchi di divertimenti, di terrazze di giardini, di piazze, di alberi sconosciuti oscillanti al lume delle tre lune. Il viso ridente di Shairn, Joris animato e gioviale, e Edri con l’aria di un vitello che venisse portato al sacrificio.

Qualcosa non andava in Edri. Forse il vino aveva acuito la sensibilità di Trehearne, o forse si trattava soltanto del fatto che gli stimoli esterni avevano raggiunto una così folle intensità che egli ne rifuggiva infine, inconsciamente rivolgendosi a quelli familiari personificati dai suoi amici. Comunque fosse, si riscosse un poco dal suo stupore e si rese conto che mentre egli stesso e Shairn e Joris erano divenuti sempre più allegri, Edri s’era fatto sempre più serio rinchiudendosi in se stesso. Edri non era sobrio d’abitudine, ma Trehearne non l’aveva mai visto veramente ubriaco. Ora lo era, e continuava a bere come se su Llirdis non esistesse abbastanza vino da saziarlo, seduto in silenzio, gli occhi fissi su qualche lontananza interiore. Un’espressione preoccupata sul volto privo di bellezza. Trehearne gli rivolse la parola ed egli rispose, ma fu solo un riflesso meccanico, un suono senza significato.

Si trovavano in un luogo d’alberi e colonne di cristallo con pergolati fioriti e il cielo aperto al di sopra. Trehearne guardò gli altri. Erano felici, senza un pensiero al mondo. Poi osservò di nuovo il volto di Edri cupo e triste con lo sguardo vuoto e si accigliò. Era affezionato a Edri. Come d’improvviso, questo affetto per Edri lo invase. Chinandosi in avanti chiese: «Che cosa c’è, Edri? Che cosa c’è che non va?»

«Non ha bevuto abbastanza» rise Joris. «Ha bisogno di un po’ di vino.» Prese la bottiglia e versò un liquido color rubino nel bicchiere di Edri. Bruscamente Edri scosse il capo e respinse il bicchiere Ora egli stava fissando qualcosa dietro Trehearne. «No» disse. «Me ne vado a casa.»

«Non c’è fretta, Edri. Fermati un momento.» Era la voce di Kerrel. Trehearne trasalì e voltandosi lo vide lì fermo come se vi fosse stato da lungo tempo. Ora si fece avanti e sedette con loro. Trehearne non avrebbe potuto dire a che cosa stesse pensando. Non gli piaceva aver a che fare con persone di cui non poteva neppure approssimativamente immaginare i pensieri.

«Congratulazioni» disse Kerrel. «Non ne credo una sola parola, naturalmente, ma quella storia di Trehearne è davvero una bella trovata strategica.»

Joris si mise a ridere. «Il Consiglio ci ha creduto. Per di più io ci credo, Shairn ci crede… anche Trehearne ci crede, non è vero, Trehearne?»

«Ma certo.»

«Bene, ormai è fatta» disse Kerrel come se la cosa non avesse più importanza.

Shairn raccolse uno di quei fiori fragranti e lo lanciò sulle ginocchia di Kerrel. «Mi hai dimenticata?» gli chiese con insinuante dolcezza. «Lo so. Sei un cattivo giocatore, ed è inutile affermare il contrario. Inoltre, ti ho visto di questo umore altre volte. Cosa stai rimuginando ora nella tua piccola mente?»

«Nient’altro che le solite profonde speculazioni sulla vita. È curioso quali alti e bassi presenta. Prendi oggi. Uno sfugge al bando, e un altro, un rispettabile membro della nostra comunità, vi incorre.»

«Chi?» chiese Joris, scrutando acutamente Kerrel come attraverso una nebbia.

«Arrin.»

Cadde un breve silenzio. Poi Shairn disse: «Una volta io l’ho conosciuto. È una brava persona. Non potete mandarlo a Thuvis.»

«Temo non vi siano dubbi su ciò. È uno dei capi orthisti, non lo sapevate questo, no?»

La domanda non era diretta ad alcuno in particolare. «Lo sospettavamo da qualche tempo e oggi l’hanno preso. Strano comunque. Non sono riusciti a trovare nessuna delle sue carte.» Si rivolse casualmente a Edri. «Arrin è vostro amico, non è vero?»

«Lo conosco.»

«Ma come! Lo conoscete da anni.»

Edri rispose rudemente: «Conosco anche voi da tanto tempo. Non giocate al gatto e al topo con me, Kerrel. Se dovete dirmi qualcosa, ditemela.»

Kerrel si strinse nelle spalle. «Stavo solo pensando che si possono avere troppe amicizie disgraziate…»

«Volete comprendere anche me nel numero?» sbottò Trehearne, balzando in piedi.

«Oh, che vada al diavolo» disse Edri. Si alzò barcollando e gettò una occhiata di fuoco a Kerrel, ma fu a Trehearne che si rivolse. «È un instancabile e degno investigatore, un buon poliziotto, come si direbbe sulla Terra, ma prende troppo gusto al suo lavoro. Me ne vado.»

Si allontanò, vacillando un poco, ma sforzandosi di tenersi rigidamente eretto. Trehearne seguì con lo sguardo la solitaria figura che scendeva per il viale alberato, chiazzato di ombre e di luci dorate. Esitò un attimo e poi lo seguì.

Edri si fermò quando si sentì toccare dalla mano di Trehearne. Lo guardo in un modo curioso come se non l’avesse mai visto prima. E ora che era lì, Trehearne non sapeva che cosa dire. Piuttosto goffamente gli chiese: «Posso fare qualcosa?»

«No. Grazie.»

«Mi rincresce per il vostro amico.»

«Perché mai? È un Orthista, un traditore. Merita di essere mandato a Thuvis.» Ricordando il desolato quadro di quel mondo ai confini della Galassia, e come per poco egli stesso vi fosse sfuggito, Trehearne rabbrividì. «Non ha importanza per me. Non mi sembra giusto mandare nessuno a marcire per sempre in quel cimitero. Oltretutto, poi, non riesco a convincermi che gli Orthisti siano così nocivi.»

Edri pose le mani sulle spalle di Trehearne. «Odiali» disse in un tono serio. «Odiali con tutto te stesso.»

Si girò e Trehearne disse quasi esasperato: «Odiarli o no, non vedo come possano costituire un così grave pericolo.»

«Vi è stato un messaggio, Trehearne. Molto tempo dopo la scomparsa di Orthis una delle scialuppe della sua astronave fu ritrovata nello spazio. Non vi era nulla in essa se non un messaggio, scritto a grandi lettere sulle pareti. Era rivolto ai suoi nemici e diceva: "Non mi avete eliminato. Ai popoli della Galassia sarà data un giorno la libertà delle stelle". Capisci? C’è ancora speranza dal punto di vista di un Orthista.»

Continuò, un ubriaco che non parlava a Trehearne ora, ma a se stesso al vento, alle lune vagabonde, e a un mondo che si era fatto amaro intorno a lui. «Arrin lavorava. Tutta la vita ha lavorato, come tanti prima di lui. Studiava i documenti, le carte segrete che nessuno ha il permesso di consultare, e poi lo hanno preso. Non ha trovato ciò che cercava, ma avrebbe potuto trovarlo. Ancora un po’ di tempo e avrebbe potuto scoprirlo!» Alzò lo sguardo al cielo, il cielo vuoto che si stendeva fino al limite dell’Universo. «In qualche luogo lassù, Orthis sta nella sua nave ad aspettare, ad aspettare di essere ritrovato. Ma dove? Questa è la domanda a cui nessuno ha risposto in centinaia di anni. Dove?»

Si scostò un poco, e d’improvviso fu assalito da un violento urto di vomito. Trehearne attese. Poi Edri borbottò: «È curioso, le cose che uno dice quando è ubriaco.»

«Non so niente» disse Trehearne. «Non ho sentito niente.»

«Non sentire mai niente, per il tuo bene e per il mio.» Cercò di sorridere. «Grazie. Ora sto bene. Vado a casa.»

Si allontanò lentamente e Trehearne ritornò dagli altri. I fumi del vino erano un poco svaniti e la sera aveva perduto parte della sua magia. Era preoccupato per Edri.

Shairn alzò lo sguardo su di lui, gli occhi annebbiati. «Te ne sei stato via un bel po’, Michael.»

«A reggere la testa a Edri.» Kerrel era ancora lì. Un umore tetro sembrava gravare su tutti. Joris sedeva con la testa chinata in avanti. Teneva gli occhi aperti, fissi tristemente sul vino rovesciato, ma evidentemente era sul punto di perdere coscienza. Shairn aveva fatto a pezzetti i pallidi fiori che aveva in grembo, spargendoli sull’erba. Nessuno parlava. Kerrel non aveva toccato il vino. Guardava Shairn, sedeva immobile e la guardava. Trehearne gli chiese: «Non avete rinunciato a lei, non è vero?»

«No.»

«Lo pensa soltanto» disse Shairn sdegnosamente. Si alzò e andò a mettersi di fronte a Kerrel. «A che cosa non te la senti di rinunciare; a me o alle mie trenta astronavi?»

Kerrel balzò in piedi. Alzò la mano e la schiaffeggiò con violenza sulla guancia. Per un momento nessuno si mosse, mentre gli occhi di Shairn fiammeggiavano sempre più grandi e poi Trehearne la spinse da parte e si fece avanti. Kerrel non aveva bevuto un solo bicchiere, la sua reazione fu pronta. Quando riuscì a vedere qualcosa, pur tra un vortice di nebbia, Trehearne scorse Kerrel che si allontanava, lasciando piccole orme sul tappeto erboso là dove i suoi tacchi affondavano.

«No» lo trattenne Shairn. «Non questa volta, Michael. Lascialo andare.»

La testa gli doleva. Il vino lo appesantiva e provava un senso di vergogna. Avrebbe voluto uccidere Kerrel e non poteva.

Shairn disse penosamente: «Non sono arrabbiata. È comico, Michael. Non sono affatto arrabbiata, ho solo paura.»

«Di che?»

«Di lui.» Accennò alla nera figura che scomparve tra gli alberi.

«Non potrà mai farti del male.»

«Non direttamente. È a te che sto pensando. Non te la perdonerà. Mi ha dato l’avvertimento. Non può perdonartela, e non solo a causa di me o del suo orgoglio. L’ho lasciato altre volte, ma ora è diverso. Tu sei diverso. Sa che abbiamo mentito al Consiglio.»

«Che cosa può fare?»

«L’hai visto con Edri. Non so, Michael, ma sta’ attento. Non dargli l’appiglio di un’opportunità contro di te. Ho cambiato idea. Sono contenta che tu debba partire. E, nel frattempo, è meglio che tu non veda molto spesso Edri.»

«Mi ami, Shairn?»

«Mi sembra di aver fatto abbastanza per provartelo!»

«Non prendertela. Me lo chiedevo soltanto. Davvero saresti passata agli Orthisti per aiutarmi?»

Ella rise. «Era una minaccia sicura. Sapevo che Joris non l’avrebbe mai raccolta.»

Come se il suono del suo nome l’avesse deciso, Joris si afflosciò tranquillamente su un fianco e incominciò a russare. Trehearne si curvò su di lui e gli parve di vedere, al chiarore delle lune, qualcosa di molto strano. Gli parve di vedere lacrime sulle guance del vecchio. Pensò di essere completamente ubriaco. Shairn gli toccò lievemente il braccio. «Andiamo, Michael.»

«Dove?»

«Alla casa dei miei avi, la Torre d’argento. Vi è così poco tempo per essere felici prima che tu parta.»

Due settimane più tardi, vestito dell’abito nero e scarlatto dei trasvolatori dello spazio, Trehearne lasciò Llirdis a bordo dell’astronave Saarga diretta a Ercole.

10

La Saarga non assomigliava all’astronave a bordo della quale Trehearne era giunto dalla Terra. Era più goffa e male in arnese, una vecchia carcassa di nave con una enorme capacità di carico e niente spazio per i passeggeri. Gli ufficiali e l’equipaggio erano ammassati in locali funzionalmente ridotti al minimo indispensabile, e non vi erano lussi come saloni e osservatori a cupola. Ma per Trehearne essa era qualcosa di bello, di miracoloso, di meraviglioso. Ogni traccia, ogni segno sulle sue vecchie pareti, ricordava un viaggio a un astro senza nome. Le stipate e odorose volte della stiva erano magazzini di esotiche ricchezze. La Saarga era diretta a Ercole ed egli ne faceva parte. Non era più semplicemente un avido spettatore. Le apparteneva. La venerava.

La vide dapprima ormeggiata in tutta la sua massa nel dock, la lamiera dello scafo corrosa e bucherellata rifletteva l’opaco splendore del sole. Alzò lo sguardo su di essa e poi lo volse intorno all’assordante fragore del porto, infine scese a grandi passi lungo il passaggio, orgoglioso e felice come un ragazzo a carnevale. Si presentò a bordo, fu notificato secondo le regole e gli venne assegnata una cabina piccolissima con quattro anguste cuccette, dove egli di buon grado si lasciò relegare nella cuccetta superiore, la meno desiderabile. I suoi compagni di cabina erano tutti più giovani di lui, ma veterani ed egli fu costretto ad ammettere che quello era il suo primo viaggio professionale.

«Trehearne» disse il giovanotto dai capelli neri della cuccetta inferiore numero due, storpiando il nome nella sua lingua e aggrottando la fronte «Che nome comico, l’ho sentito da qualche parte.»

Il giovanotto dai capelli color rame — il più giovane — nella cuccetta superiore numero uno, disse: «Lo so io. Mio zio parlava di lui. È quello che hanno trovato sulla Terra. Non è vero, Trehearne?»

Il giovanotto dai capelli neri emise un fischio. «Hai avuto una bella fortuna! C’era un milione di probabilità su una che incontrassi un Vardda. Com’è sulla Terra? Non ci sono mai stato?»

«Meraviglioso» rispose Trehearne «per i Terrestri.»

Risuonò il primo dei segnali di partenza. Si sistemarono nelle cuccette imbottite e il lungo ragazzo smilzo dall’aspetto allegro della cuccetta inferiore numero uno, la cui giovinezza era già stata provata da molte esperienze, gettò un’occhiata a Trehearne e osservò: «Non ci sei abituato, vero?»

«No.» Lo stomaco di Trehearne si era improvvisamente contratto in un duro nodo e la pelle era fredda di sudore rappreso. L’angoscia del suo primo volo lo riassalì con violenza. Sapeva che questa volta non sarebbe stato così terribile. Una volta che ci si abituava, tutto andava bene. Tutti lo dicevano. Ma non cambiava niente. Aveva paura.

Il giovane della cuccetta inferiore numero uno disse tranquillamente: «Non prendertela. A proposito, il mio nome è Yann. Personale addetto al radar.»

«Piacere.»

Suonò il secondo segnale. I denti di Trehearne si serrarono di scatto e i muscoli delle mascelle si tesero.

Testa-rossa della cuccetta superiore numero uno disse: «Sono Perri. Personale ausiliario nella camera generatori.»

La voce dell’uomo della cuccetta inferiore numero due proprio di sotto a lui, disse: «Se cadi giù, ti prendo. Sono il tecnico calcolatore dell’astronavigazione, di seconda classe. Un nome grosso che riempie la bocca, però tutto quello che faccio è premere bottoni. Il mio nome è Rohan.»

Trehearne disse penosamente: «Sulla Terra vi era un cardinale…»

Terzo segnale. Silenzio. Uno strappo, un sussulto, un balzo…

«Trehearne, Trehearne, sei ancora lì?»

«Sì…» "Schiacciato, oppresso, sbalordito, ma non è così terribile, nient’affatto così terribile, non molto peggio che riemergere dopo un tuffo. E l’astronave si alza, oh Dio, si alza!"

Le vibrazioni dell’aria cessarono. Il silenzio dello spazio avvolse lo scafo e all’interno il tranquillo e possente pulsare, che Trehearne ricordava, si faceva più rapido, più alto. Gli sfuggì un sospiro e il suo corpo si rilassò. Sorrise. Era dove desiderava essere.

Il lungo viaggio verso Ercole fu privo di avvenimenti e gli altri lo trovarono monotono. Ma per Trehearne ogni minuto era pieno di magia. Fu chiamato alla presenza del capitano che lo fissò duramente e disse: «Joris mi raccomandò di badare che lavorassi e sarà necessario che tu faccia degli esami per fare carriera presto o tardi. Ecco, studia questi. E se hai tempo libero, impara tutto quello che puoi sull’astronave.»

Così dicendo gli consegnò testi sulle leggi che regolavano il commercio dei Vardda, dell’espansione transgalattica della razza vardda durante i mille anni della sua esistenza. Sapeva che Joris doveva aver fornito i libri ed era contento di averli. I codici commerciali, come le leggi di qualunque paese, erano piuttosto noiosi e interessavano solo per il campo fantasticamente vasto che includevano.

I manuali erano un po’ meglio perché ricchi di riferimenti a razze diverse e spesso non umane, con affascinanti descrizioni dei più strani costumi e psicologie di cui mai Trehearne avesse udito. Ma la storia lo incantava. Iniziava con una prefazione su ciò che i Vardda erano stati nei millenni precedenti la comparsa di Orthis, quando erano semplicemente gli abitanti di Llirdis. Sembrava a Trehearne che essi non fossero molto diversi dai Popoli della Terra. Avevano avuto le loro epoche barbariche e mutamenti ed espansioni, la loro omogeneità non era stata raggiunta senza fatica. Comunque l’avevano raggiunta e in un periodo più antico rispetto allo svolgimento della loro cultura di quello in cui si trovava ora il suo pianeta d’origine. Pensava che forse il compito era stato più facile per i Llirdiani, vi erano state meno barriere geografiche al libero mescolarsi delle genti nella loro fase nomade. Gli oceani erano chiusi tra le terre e le catene montuose interrotte da passi transitabili. Nessuna tribù primitiva si era trasformata in uno stato isolato se pure parzialmente, e le conenti culturali erano fluite impetuose in tutte le direzioni perdendo d’intensità ma espandendosi oltre i loro ristretti limiti in quello che infine divenne un patrimonio universale. Tale unità culturale creò forse una certa monotonia nel quadro del pianeta a causa dell’uniformità degli abiti, della lingua e dei costumi, ma aveva una sua forza e portò alla concezione dell’individuo come cittadino del mondo invece che di una nazione, fatto che conduce usualmente alla guerra. Il progresso scientifico aveva avuto solo qualche naturale interruzione, senza età oscure che determinassero regressi, e in un’epoca in cui i popoli della Terra erano immersi nel più nero pozzo dell’ignoranza, cioè dall’età della pietra, Llirdis possedeva l’energia atomica, un traffico organizzato con i pianeti vicini e stava costruendo e varando la prima astronave, e qui si arrivava al capitolo iniziale della storia e a Orthis: "È difficile immaginare che cosa sia stato il primo epico volo dell’uomo tra gli astri…

"Non come ora rapido e agevole, di molto superiore alla velocità della luce. La scienza aveva a disposizione anche allora i mezzi tecnici per costruire e azionare veloci astronavi, ma esse erano inutili. L’uomo non poteva sopravvivere alle ultravelocità. Dovevano accontentarsi di andare da un pianeta all’altro lentamente. Quattro generazioni vissero e morirono dentro gli angusti confini di quel primo fragile precursore delle flotte dei Vardda; uomini e donne dedicarono se stessi e i loro figli alla conquista della più ardua barriera che l’umanità abbia mai superato. E la superarono. Lentamente, a fatica, esposti a tutti i pericoli di radiazioni sconosciute, di luoghi selvaggi nel vero senso della parola, mai esplorati, non segnati su alcuna carta, nella più terribile solitudine e isolamento che mai esseri viventi abbiano affrontato, essi proseguirono faticosamente il loro viaggio finché sbarcarono sul pianeta di un altro sole e poi — e questa, a Trehearne sembrava la più incredibile audacia — di nuovo salparono per Llirdis che per questa generazione intermedia rappresentava solo un nome, una tradizione; e qualcosa che, lo sapevano bene, non avrebbero mai visto. Orthis nacque durante questo viaggio di ritorno, a ventidue anni di distanza dal pianeta che gli avevano insegnato a considerare come sua patria, sebbene non sapesse nulla di pianeti ne di alcun’altra forma di vita oltre quella dell’astronave che si muoveva come per l’eternità. Il suo udito doveva essere accordato solo a quel vasto silenzio, la sua vista all’oscurità e alle stelle lontane. Al vento, alla pioggia, alla luce del sole, all’erba calda, agli animali, ai visi delle folle egli era straniero.

"E straniero rimase. Non poteva sopportare di essere legato ai pianeti, dopo aver vissuto tutta la sua vita nello spazio. Costruì la sua astronave-laboratorio e lavorò in essa, navigando dove voleva, quasi solo, per altri quindici anni. Poi all’età di trentasette anni, annunciò la sua scoperta: la nascita dell’uomo galattico, il principio della razza vardda.

"Orthis rifiutò di rivelare il segreto del suo processo di mutazione, convinto che fosse troppo pericoloso affidarlo a mani inesperte. Egli stesso costruì gli strumenti necessari di cui si servì per seminare con le sue stesse mani il seme della razza vardda che sarebbe germogliato nella generazione successiva. E in quel tempo egli era venerato dalle genti di Llirdis come un semidio. Ma nell’anno seguente ebbero principio i guai che quasi gettarono nella discordia lo stato llirdiano, che infine fecero cadere in disgrazia Orthis. Egli aveva svelato la sua scoperta al suo popolo prima che ad altri, e ora…"

Trehearne leggeva con la più profonda attenzione, cercando di scoprire oltre il nudo racconto dei fatti quale forza poteva far sì che uomini come Edri calpestassero i loro interessi più vitali. Orthis non aveva avuto intenzione di limitare al suo mondo la razza dei Vardda. Avrebbe voluto rendere partecipi del suo segreto gli altri pianeti di Aldebaran e infine i sistemi solari che la prima spedizione aveva visitato e che vantavano un alto grado di civiltà. Desiderava che tutti loro ne partecipassero, essi e le altre razze che forse si sarebbero scoperte nella Galassia purché dotate di un livello culturale abbastanza alto da esserne degne. Ma quando ciò fu risaputo dai neo-Stellari, si ebbe una violenta reazione. Si sollevò ogni genere di obiezioni, dall’egoistica, ma, per Trehearne, del tutto logica argomentazione che i Llirdiani avevano tutti i diritti alla mutazione, avendo sperimentato tutte le vie e compiuto tutta la fatica, e perciò dovevano tenere per sé il segreto, almeno per qualche tempo, alla grave minaccia della guerra in proporzioni galattiche. «Ricordate» aveva ammonito il presidente del Consiglio «come abbiamo aiutato i più arretrati mondi del nostro sistema solare nella conquista del volo interplanetario e come essi ci hanno ripagato. Ricordate le guerre che già abbiamo combattuto! Pensiamoci bene, prima di diffondere questo grande potere.»

Ci pensarono, e nonostante le appassionate argomentazioni di Orthis e dei suoi seguaci, non si affrettarono a prendere una decisione. La situazione divenne così tesa che la nave-laboratorio di Orthis venne sigillata e sequestrata e Orthis stesso venne posto in stato d’arresto. La lotta si trascinò per anni, e dai resoconti sembrava a Trehearne che quei padri dei futuri Vardda non avessero agito solo per l’egoistico desiderio di tenere per sé quel bene supremo. Essi si trovavano di fronte a un gravissimo problema senza precedenti, e non avevano nulla su cui fondarsi se non i loro pensieri e sentimenti. Alcuni dei membri del Consiglio — i congressisti llirdiani — erano evidentemente mossi da gretti motivi di puro egoismo. Ma ve ne erano altri che cercavano sinceramente di essere giusti e per i quali la giustizia verso la loro gente veniva per prima cosa. Temevano di rendere partecipi del segreto della mutazione o del controllo di essa qualsiasi altro popolo. Temevano di spalancare tutte le ignote porte dello spazio su Aldebaran. Gli Orthisti furono sconfitti.

Poi venne la fine, la drammatica esplosione finale. La fazione orthista preparò la fuga per il suo capo. Lo aiutarono a impadronirsi dell’astronave. Lo videro scomparire nel vuoto oscuro oltre il cielo, e pensarono che dopo tutto sarebbe riuscito vittorioso. Ma in quel tempo la nuova razza Vardda aveva incominciato a prosperare e alcuni fra loro erano già in grado di volare. Si misero all’inseguimento di Orthis, credendo nel proprio diritto così intensamente come egli nel suo. Orthis stesso doveva essere indubbiamente in grado di sopportare le ultravelocità, perché fu una caccia lunga ed estenuante. I nuovi giovani Vardda disarmarono in parte la sua astronave, ma anche così egli riuscì a sfuggir loro. Non vi erano in quei giorni il radar o la radio a onde ultracorte e, dopotutto, il vecchio si era fatto le ossa tra le stelle. Lo persero di vista e quella fu la fine di Orthis e della sua astronave, di tutto, tranne del messaggio lasciato nella scialuppa alla deriva e ritrovato più di un secolo dopo. E Trehearne pensava: "Abbia avuto ragione o torto, quell’Orthis era un diavolo di un uomo".

Riusciva a capire perché l’Orthismo avesse resistito così tenacemente per tutti quei secoli. Certamente non si era mai concepito un più nobile sogno. Per parte sua, comunque, era contento si trattasse soltanto di un sogno. Gli piaceva essere un Vardda. Gli piacevano le cose così come stavano. Erano andate abbastanza bene per tutti, e guardando al passato, riusciva a pensare a una gran quantità di gente che gli sarebbe ripugnato sapere in grado di raggiungere i suoi vicini di altri sistemi solari. Orthis, quel solitario nato nello spazio, aveva visto solo l’ideale, l’astrazione. Il Consiglio aveva tenuto conto della realtà delle cose.

Non discusse la questione con nessuno. Quella notte nel parco dei divertimenti, gli aveva lasciato viva la sensazione che l’intero argomento fosse pericoloso, specialmente per lui.

Il pensiero di Kerrel gli tornava qualche volta come un’ombra oscura e legata a esso era una tormentosa ansietà per Edri che non aveva visto prima di partire, non per ragioni di prudenza, se ne sarebbe vergognato, ma perché Edri se ne era andato da qualche parte e non si poteva raggiungerlo. Aveva inviato a Trehearne un breve messaggio augurandogli buona fortuna e questo era tutto.

A Shairn pensava il meno possibile. Non desiderava sapere che cosa stesse facendo. Preferiva ricordare le due settimane trascorse alla Torre d’argento come perse al di là di una cieca muraglia.

Continuava a leggere l’epica saga delle esplorazioni dei Vardda che avevano aperto le vie delle stelle. Studiava le leggi e i codici. Imparava tutto intorno all’astronave.

I suoi compagni di cuccetta erano più che desiderosi di far mostra delle loro cognizioni con un novellino, soprattutto perché era più vecchio di loro. Perri gli spiegava il funzionamento segreto dei vibranti giganti metallici che azionavano l’astronave: adattamenti del cosmotrone e generatore, con centrifughe sintonizzate a ultravelocità che creavano radiazioni del quinto ordine. Rohan gli lasciò manovrare le leve dei calcolatori che risolvevano problemi di matematica astrale e Yann gli insegnò a interpretare gli schermi del radar che funzionava non solo con onde elettromagnetiche lente, ma con radiazioni del genere di quelle che fornivano l’energia motrice all’astronave, essendo dotate di una velocità superiore a quella della luce. Nella cabina di trasmissione ascoltava le astronavi dei Vardda comunicare attraverso la Galassia in fitti colloqui fantomatici per mezzo degli stessi raggi supersonici. Il capitano in breve accondiscese e gli permise — ed era come realizzare un sogno impossibile — di tenere con le sue mani i comandi della Saarga.

Yann lo prendeva benevolmente in giro: «Sei solo al principio, ed è ancora divertente. Aspetta finché sarai un veterano come me.» Aveva ventott’anni. «Ho fatto nove viaggi nella Costellazione, e ne sono stulo. Tutto quello che voglio è un’astronave mia; ne affiderò il comando a qualcun altro e io me ne starò comodamente a Llirdis a spassarmela tra vino e donne.»

«Hai qualche probabilità di procurartene una?» chiese Trehearne.

«Con questo viaggio ce la farò.»

Rohan scoppiò in un fragorosa risata. «Sentilo! Non lasciarti prendere in giro, Trehearne. Guadagniamo bene, ma non fino a questo punto.»

Yann disse gravemente: «Lo dico sul serio.»

«Ti spiacerebbe dirmi come?»

«Ho risparmiato del denaro» rispose candidamente Yann, poi sogghignò. «E inoltre stai dimenticando che ho passato quasi un anno a terra, a riempir moduli per un dannato agente vardda che è morto. Non ho sprecato, il mio tempo.» Si rivolse a Trehearne: «Aspetta che facciamo scalo a quel sistema solare, ti mostrerò cose che non hai mai visto prima d’ora. Una vera barbarie. Buona gente, tuttavia. Sono in ottimi rapporti con loro.»

«Suppongo» disse Trehearne «che vi sia ogni tipo di mondo nella costellazione di Ercole.»

«Aspetta» disse Rohan acido. «Ne farai un’indigestione prima di aver finito il viaggio. Ve ne sono di belli, di pittoreschi, e di molto strani, e va bene, e alcuni anche civilizzati. Ma ve n’è una quantità infernale di semplicemente spaventosi. Avrai intuito che vi sono delle buone ragioni se riceviamo un forte compenso per questo viaggio.»

La grande costellazione di Ercole si trasformò da una piccola macchia di fosco splendore, sperduta nella vampa, nel fragore e nel tuono dell’Universo, in un mostruoso sciame di stelle, abbagliante pur attraverso l’oblò oscurato, un alveare brulicante di astri, bianchi, rossi, gialli, turchesi e verde intenso, che riecheggiava nel vuoto eterno con l’impeto e il rombo di una valanga cosmica, rotolante in qualche sconosciuta direzione, mossa dai maligni occhi ammiccanti delle variabili cefeidi. La Saarga, si immerse infine in quel brulichio e Trehearne scoprì almeno una delle molte ragioni per cui Edri lo aveva preavvertito delle difficoltà di quel viaggio a Ercole.

«Tutte le costellazioni globulari sono pericolose» gli disse Yann allegramente.

«I Centauri, Omega, eccone un’altra da far impazzire uno Stellare. Una buona astronave, un buon capitano, nessuna immaginazione, ecco cosa ci vuole per un viaggio come questo.»

Trehearne fece conoscenza delle correnti di gravità e per la prima volta in vita sua seppe che cos’era la vera paura. I generatori sussultavano incessantemente. La Saarga gemeva e scricchiolava in tutta la sua armatura, procedendo a scatti irregolari di velocità e arresti improvvisi, impennandosi e inclinandosi allorché si faceva strada tra banchi d’astri, lottando per aprirsi un varco tra intricati, instabili campi di gravità. Trehearne aveva la sensazione di essere chiuso in un gigantesco pallone che venisse scagliato qua e là tra le stelle.

Yann sogghignava: «Andrà peggio più avanti.»

E fu così. Trehearne pensava fosse impossibile per qualsiasi astronave resistere tra quelle possenti, intersecantesi correnti di gravitazione mentre gli astri si infittivano come api sciamanti. Cento volte al giorno era convinto che la fine fosse vicina e il suo unico conforto era il pensiero che la costellazione di Ercole era un luogo che si prestava di più a una morte gloriosa di qualsiasi altro visto sulla Terra. Esaurì il suo potenziale emotivo finché si sentì vuoto dentro e non soffrì più che per i rumori e le violente impennate, mentre la Saarga rollava faticosamente sulla sua rotta. Immaginava che si dovessero trovare nel cuore della costellazione, e rimase sbalordito nell’apprendere, quando l’astronave fece il suo primo scalo, che erano ancora soltanto ai margini. Era troppo scosso per curarsene, Tutto ciò che voleva era di aver sotto i piedi la terra ferma. Uscì fuori dalla camera di compressione alla luce di una stella evanescente, indicibilmente opaca e triste e posò lo sguardo su un oscuro pianoro, scarsamente illuminato anche a mezzogiorno dal riflesso di astri lontani che ardevano solitari. La pianura era nuda, battuta fino alle rocce sottostanti dai venti che la percorrevano impetuosi, arida, disseccata, fredda.

Ma vi si ergeva una città nitida, gaia e colorata.

A Trehearne faceva venire in mente un trucco troppo vivo sul volto di un cadavere. La Saarga scaricò cibarie, metalli e svariati articoli voluttuari, ricevendo in pagamento gemme di porpora reale estratta dalla roccia grigia da piccoli uomini dagli occhi tristi. Il luogo incominciava a dare sui nervi a Trehearne. Il suo lavoro lo teneva nelle vicinanze dell’astronave a controllare le bollette di carico, ma aveva modo di osservare la gente che veniva dalla città. Erano uomini sani, ben nutriti, ben vestiti. Ma avevano certi corpi macilenti e anche i volti dei fanciulli esprimevano una tristezza che sembrava essere parte di loro come la luce morente del sole e il suolo inaridito. Notò l’espressione con cui guardavano la grande astronave e gli ardenti astri fiammeggianti che essi non avrebbero mai potuto raggiungere. Non parlavano molto. Se ne stavano immobili a guardare. Ma una volta un gruppo di ragazzi sgattaiolò vicino a lui e un bambino gli chiese nella lingua franca dei modi commerciali: «Che cosa si prova a volare tra le stelle?»

La Saarga non si fermò lì a lungo e Trehearne ne fu contento. «Dannazione!» disse a Yann. «Quei ragazzini ti spezzerebbero il cuore. Non si potrebbe trasferirli altrove o far qualcosa? Muoiono lentamente con il loro mondo.»

Yann scosse il capo. «Si è tentato, ma senza riuscirvi. A velocità planetarie per superare una distanza anche relativamente piccola tra le stelle, ci vogliono degli anni, e la maggior parte della gente non vi è preparata psicologicamente. Crollano in un modo o nell’altro oppure avvizziscono e muoiono. Inoltre, suppongo vi sia una specie di ecologia interstellare. I mondi vecchi muoiono e i nuovi nascono e se si comincia a distruggere l’equilibrio naturale, non si otterrà altro che di sovraffollare i pianeti abitabili di popolazione in numero maggiore di quanta ne possano sostentare.»

Pensando ai bambini, Trehearne sbottò: «Al diavolo l’ecologia. Sono esseri umani!»

Il giovane Perri si strinse nelle spalle. «A ognuno tocca la propria sorte. Ti ci abituerai. Qualcuno sa quale sarà il prossimo scalo?»

«È ai margini della costellazione» disse Yann. «Un bel posto. Piacerà a Trehearne: non vi sono affatto abitanti.»

L’istruzione di Trehearne in fatto di diritti, privilegi e doveri dei Vardda era solo all’inizio. La Saarga rallentò di nuovo nelle vicinanze di una variabile a cumuli dal più funesto aspetto e si diresse verso un pianeta che si rivelò degna creatura di tale genitore. «Ecco dove ci guadagniamo la nostra paga» disse Yann.

«Scafandri antiradiazione. Equipaggiamento completo. Soltanto il Vecchio non ne fa uso.»

«Che cosa facciamo?» Trehearne desiderava saperlo.

«Raccogliamo funghi» gli rispose Rohan, con un’aria poco allegra. «Se ne estrae un antibiotico particolarmente efficace, una volta che siano stati opportunamente trattati, ma nel frattempo sta’ attento. Sono dannatamente velenosi. E bada che il tuo respiratore a ossigeno sia in perfetto ordine. L’aria è satura di metano.»

«Non se ne cura, lui» lo canzonò Yann. «Ha la testa ancora piena delle meraviglie dei nuovi mondi.»

«Smettila di prendermi in giro» brontolò Trehearne. «È vero.»

11

Trehearne uscì in fila indiana con gli altri, l’equipaggio dell’astronave quasi al completo, per raccogliere quella strana messe. Lo scafandro antiradiazioni che egli indossava non era troppo pesante — non avrebbe potuto esserlo per uomini che dovevano compiere un così duro lavoro — una semplice tuta di tessuto metallico flessibile, con un casco munito di microfono e una bombola di ossigeno che poteva essere rapidamente sostituita quando si fosse consumato. Il mondo in cui si trovava era come evocato da un incubo. Funghi più alti di lui crescevano fitti, l’orrida caricatura di una foresta, in colori che variavano dal nero al cremisi a un giallo di cervelli putrefatti. La stella gigantesca — una stella malata, insana, pensò Trehearne, come tutte le variabili a brevi periodi — incombeva nel cielo infetto, avendo oltrepassato ora il culmine massimo del suo splendore ma riversando ancora le sue febbrili energie in un purpureo bagliore di sangue. Trehearne fece una smorfia e scosse il capo. «Questo» disse «è un pianeta che potrebbe piacere solo a Weizsacker.»

La voce di Perri gli giunse attraverso il microfono del casco, stranamente sottile, ma così vicina che Trehearne trasalì. «Chi è Weizsacker?»

«Un Terrestre che ha una sua teoria. Avanzò l’ipotesi che molte stelle hanno pianeti loro propri.»

Rohan chiese incredulo: «Intendi dire che qualcuno ne abbia mai dubitato?»

«Oh, certo. In realtà è tuttora opinione generale che il Sole sia l’unica stella circondata da pianeti, e che il terzo pianeta del Sole, cioè la Terra, sia l’unico pianeta dotato di vita, soprattutto di vita intellettiva.»

Rohan imprecò e poi scoppiò a ridere. «Non ho mai visto tanta vanità. Mi sembrava tu avessi detto che i Terrestri sono civili. Soltanto i selvaggi hanno una così alta considerazione della loro importanza.»

Armati di coltelli ricurvi e di grandi sacchi di una sottile sostanza plastica flessibile come un tessuto ma impermeabili all’aria una volta sigillati, si sparsero qua e là tra la giungla di funghi. Si tenevano più o meno uniti in piccoli gruppi. Trehearne li poteva sentire discorrere, una confusione di voci nel microfono. Egli stesso continuava a parlare, non di qualcosa in particolare, parlava soltanto per sentire un’altra voce umana. Provava una strana e via via più spiacevole sensazione di isolamento, chiuso dentro il suo scafandro, respirando aria artificiale, impossibilitato a guardarsi intorno dal casco che limitava il suo campo visivo. Si muoveva con difficoltà nel terreno melmoso in cui a ogni passo affondava fin quasi alle ginocchia. La luce era livida e feriva gli occhi, l’orrenda vegetazione diventava ogni minuto più orrenda, i suoi vividi colori sempre più ripugnanti. Era difficile dire chi gli fosse vicino perché tutti erano mascherati, privati di ogni umana sembianza dagli scafandri informi. Cercò di tenersi vicino a Yann e ai due ragazzi, identificandoli dalla voce.

«Non affannarti con i più grossi» gli consigliò Yann. «Non sono buoni. Qui, guarda questi, piccoli, graziosi, che stanno spuntando proprio ora. Di questi abbiamo bisogno.»

Trehearne gettò un’occhiata dubbiosa al suo sacco e poi ai piccoli cappelli simili a funghi da prato che spuntavano su dal terreno. «Ci vorrà un bel po’ di tempo per riempire questo affare.»

«Ore. Meglio cominciare.»

Trehearne si mise pazientemente al lavoro, piegato in due o accovacciato goffamente sulle ginocchia. Il sudiciume del luogo incominciava a innervosirlo. Inevitabilmente di tanto in tanto spezzava qualche fungo adulto e veniva spruzzato da una polvere nera come la fuliggine o rosa cupo o di un rosso ripugnante o gialla, o avvolto in nuvole di spore. Cercava di star dietro agli altri, ma di quando in quando ne perdeva le tracce. A volte non gli rispondevano quando li chiamava. Un pauroso senso di isolamento si insinuava in lui e faticava a dominarlo. Sudava abbondantemente dentro lo scafandro. Sentiva una grande stanchezza ai muscoli, eppure il grande sacco non era ancora pieno.

La luce della stella variabile incominciava visibilmente a svanire. Trehearne si guardò intorno. Una livida muraglia lo rinchiudeva. Non si vedeva nessuno. «Yann?» chiamò. «Perri?»

«Ohi!» Era la voce di Perri.

«Brutto lavoro, vero?»

«Disgustoso. Dov’è Yann?»

«Non so. Yann?»

«Qui, dannazione! Se lavoraste di più e parlaste di meno, ce ne andremmo da questo meraviglioso giardino un po’ prima.»

Trehearne non riusciva a individuare la loro posizione. Le loro voci risonavano uguali, come se tutte e due gli parlassero da dentro il casco. Continuò a lavorare, sperando di riuscire a vedere qualcuno. Il sole malato aveva consumato le sue riserve di energia e calava esausto sempre più debole, più rosso, con gli effetti di un insolito tramonto. Una specie di oscura foschia si insinuava ai piedi dell’alta vegetazione deforme. Trehearne incominciò a sentirsi a disagio. Sapeva che si trattava solo dell’effetto depressivo del paesaggio circostante e dello scafandro che lo imprigionava. Si rifiutò di farci caso. Ma non riusciva a liberarsene. Ritornava a ondate, facendolo trasalire, facendogli rizzare i capelli sul capo. Egli continuava accanitamente a gettare nel suo sacco i piccoli funghi. Desiderava ora più che mai parlare, ma aveva paura, paura che questo suo irragionevole timore si rivelasse nella voce e lo sminuisse davanti agli altri. Incominciò a spostarsi avanti e indietro, cercando di trovare qualcuno, ma non vi riuscì sebbene sapesse che dovevano trovarsi nelle vicinanze. Aveva un gran caldo, ma sentiva freddo alla schiena e gocce di sudore gelato gli colavano giù. La malsana foschia diventava più fitta, e le ombre erano rosse. Con la coda dell’occhio percepì dei movimenti, come se qualcosa o qualcuno camminasse furtivamente celato dalla fitta vegetazione.

«Yann?»

«Che cosa?» Una voce senza corpo, senza distanza, gli parlava lieve nell’orecchio.

«Non ci sono esseri viventi qui, vero? Intendo, eccetto questi funghi puzzolenti.»

«Non che qualcuno sappia, almeno. Perché?»

«Non importa. Era solo un inganno delle ombre, suppongo.»

«Stai diventando nervoso, giovane Terrestre.»

«Senti, al diavolo tu e i tuoi frizzi mordaci.»

«Non darmi peso» disse Yann tranquillamente. «Siamo tutti un po’ nervosi. Io ho quasi finito, e tu?»

«Non ne avrò per molto.»

«Bene, affrettati.»

Silenzio. Di tanto in tanto un brusìo di voci incomprensibile, confuso nel microfono del casco. Gli uomini non parlavano più tanto, ora. Erano stanchi, e il luogo li opprimeva. Il loro umore era in declino come la luce del sole che inondava metà del cielo di un rosso bagliore come di sangue che colasse. Trehearne teneva d’occhio costantemente le ombre, voltandosi inquieto qua e là con l’impressione di un’oscura presenza alle sue spalle. Aveva ancora i nervi tesi, in allarme, e non riusciva a calmarsi. La sua sacca era quasi piena. Pensava alla nave, alle luci, ai visi familiari, a quando si sarebbe tolto di dosso la pesante armatura. Una mostruosa escrescenza a forma di ventaglio spiccava cremisi nel bagliore del tramonto. Aveva da un lato un gonfio fungo tondo, nero, e dall’altro un mostruoso esemplare rugoso e accartocciato, maculato di bruno e di giallo. Ai suoi piedi cresceva una nidiata di piccoli funghi, in numero sufficiente da riempire lo spazio rimanente nel sacco di Trehearne. Vi si avvicinò, sfiorando il fungo maculato e accartocciato. Sentì alle spalle uno strappo e uno scatto improvviso. Si voltò affondando nella muffa con i pesanti stivali. Si voltò più presto che poté, ma non c’era nessuno, nulla; poi gli balenò alla mente che cosa doveva essere accaduto: il suo respiratore si era svitato.

Cominciò a urlare. Non gli importava di sprecare il fiato, gliene rimaneva ben poco. Gridò, preso da un panico selvaggio e cominciò a correre, senza direzione, cozzando e inciampando nei funghi, cercando disperatamente qualcuno che lo salvasse dalla morte «Dove sei?» gli gridavano le voci nel casco. «Dove sei?» Ed egli continuava a urlare: «Qui!» Come se questa parola avesse un significato preciso, come se gli altri potessero capire dal suono della sua voce se si trovava a dieci piedi o a mezzo miglio di distanza.

La valvola automatica si era chiusa di scatto per impedire la fuga dell’aria rimasta ancora nello scafandro, ma respirare diventava difficile. I suoi polmoni avrebbero consumato l’ossigeno restante in un minuto o due e allora non gli sarebbe rimasto che soffocare dentro lo scafandro, o liberarsi del casco e lasciare che i mefitici effluvi di metano che quel mondo aveva per atmosfera gli bruciassero l’organismo. Era un gran brutto modo di morire e vi si ribellava e non sapeva rendersi conto di come tutto fosse accaduto. Doveva aver urtato con il respiratore contro il fungo, quello orribile che pareva un mostruoso cervello. Doveva essergli passato troppo vicino ed essersi impigliato in qualche dura escrescenza… Si faceva buio e lo prendeva un senso di nausea allo stomaco e i suoi polmoni ansavano, affaticati, a vuoto.

Tentò di urlare di nuovo e non vi riuscì. Le ginocchia gli si piegavano e cadde, come tra le braccia di una figura informe, ma umana che gli sussurrava cose incomprensibili. Si sentì capovolgere. Ci fu un momento in cui l’oscurità calò quasi completamente su di lui e poi un fiotto di ossigeno, puro e fresco, fluì nel casco. Il meccanismo, che si era appena arrestato, ricominciò a funzionare: faticosamente, con sbuffi e gorgoglii, ma funzionava. La voce di qualcuno giunse fino a lui, raccomandandogli per carità di non perdere i sensi con il casco in testa e riuscì a sedere e a guardarsi intorno. Due uomini erano curvi su di lui e un terzo stava alle loro spalle. Poté riconoscerli attraverso le maschere. Nessuno di loro era suo compagno di cabina. C’era qualcun altro che lo sosteneva dal dietro. Udiva ancora un cicaleccio di voci che chiedevano risposta. Gli parve di distinguere le voci di Rohan e Perii, ma non ne era sicuro. «Chi mi sta alle spalle?» chiese. La voce gli uscì arrochita. La gola gli doleva. «Chi è là?»

«Io, Yann. Ben tornato. Trehearne. Per un minuto ho pensato che stessi per andartene.»

«C’è mancato poco, dannazione.»

La lingua gli pesava come piombo. «Non so che cosa sia accaduto…»

«Il respiratore si è impigliato da qualche parte» disse uno degli uomini premurosamente, non rivelando a Trehearne nulla di nuovo. Egli mugolò: «Ma come? Pensavo di essermi impigliato in uno di questi brutti mostri, ma si rompono così facilmente…»

«Si induriscono col tempo. Guarda.» L’uomo tese una mano ad afferrare una protuberanza cornea. «Offrono molta resistenza, specialmente se la valvola del tuo respiratore non era ben assicurata.»

Non ricordava di aver notato protuberanze del genere, e l’esemplare maculato a forma di cervello gli era parso fresco e giovane. Ma lasciò cadere la cosa. Non sapeva assolutamente che altra risposta avrebbe potuto esserci, e in quel momento non voleva pensarci più. Tutto si perdeva nell’irresistibile desiderio di ritornare alla nave. Si rizzò barcollando e il vigoroso braccio di Yann lo sorresse. «Comunque» disse agli uomini che gli stavano di fronte «grazie, per avermi salvato la pelle.»

«Ringrazia Yann. Quando noi siamo arrivati aveva già avvitato il respiratore. Venivi dritto verso di noi ma forse non ce l’avresti fatta se non t’avesse raggiunto per primo.»

Trehearne si volse a Yann: «Grazie.»

«Non c’è di che. Non dico che ti avrei strappato a qualcosa o a qualcuno a rischio della mia vita, Trehearne, ma dal momento che si trattava di una cosa da niente, non pensarci neppure. Ho avuto semplicemente la fortuna di trovarti e la prossima volta non allontanarti tanto.» Sogghignò e spinse avanti Trehearne. «Non hai ancora finito. Devi ancora spiegare al Vecchio perché hai perduto il sacco.»

«Oh Dio» mormorò Trehearne. Ma non si voltò indietro. Se il capitano voleva il sacco poteva sempre andare a cercarlo.

La Saarga cigolò; gemette e si addentrò rollando nella costellazione, toccando questo e quel porto come una nave mercantile, dovunque vi erano affari da concludere e carichi da imbarcare. Soltanto, i suoi porti erano dei pianeti e i suoi mari erano i golfi oscuri che si aprivano tra di essi. La memoria di quanto era accaduto sul pianeta della stella variabile sbiadì nella coscienza di Trehearne, benché talvolta egli si svegliasse di soprassalto per l’orribile impressione di soffocamento che lo opprimeva nel sonno. Ma l’alternarsi di luoghi e di persone sempre diversi, sempre nuovi gli davano troppo da pensare perché perdesse il suo tempo ad arrovellarsi su qualcosa che era ormai passato. Insensibilmente, attraverso l’abitudine e la comunicazione continua con i compagni, perdeva coscienza della sua singolarità, sentendosi un Vardda autentico come fosse nato a Llirdis. Il primo folgorante stupore fanciullesco si era logorato. Navigare tra le stelle come tra isole cominciò a sembrargli la cosa più naturale del mondo. L’interesse rimase, ma il senso di terrore reverenziale scomparve. Fecero scalo a sistemi planetari che avevano un alto grado di civiltà e in cui Trehearne vide per la prima volta le basi commerciali dei Vardda, enormi complessi isolati, regolati da speciali convenzioni, con un gran numero di magazzini colmi di merci provenienti da tutta la Galassia. Il sistema del centro di raccolta isolato, del campo d’atterraggio e dell’agenzia vardda era diffuso ovunque il commercio fosse abbastanza florido da garantirne lo sviluppo anche su pianeti barbari. «Ecco dove si fa fortuna» gli diceva Yann, sogghignando.

Trehearne prese mentalmente nota di questo, benché non avesse alcun desiderio di fare l’agente. La Saarga proseguiva nel suo viaggio. Conclusero affari con squamosi umanoidi alla luce di un sole biancoazzurro. Fecero man bassa sui pianeti di un gigantesco sole rosso, lasciandovi gioielli dorati da poco prezzo in cambio di preziosi minerali radioattivi e i piccoli abitanti selvaggi si congratulavano di aver fatto buoni affari. Trehearne era sbalordito della persistente ricorrenza della forma umanoide anche quando il ceppo da cui una razza particolare si era evoluta non aveva niente di neppur lontanamente umano, e Yann gli aveva spiegato quel che ogni scolaro vardda imparava studiando biologia generale, che lo sviluppo della forma umanoide (cioè avente come caratteristiche la testa, riconoscibile, in posizione verticale o eretta, due arti inferiori usati a scopo di locomozione e due arti superiori usati per eseguire lavori manuali) si basava semplicemente sulla necessità di sviluppare le mani o un sostituto equivalente fino a poterlo usare, tipico di una specie che intendeva progredire oltre il livello animale di intelligenza. Ma fossero umani o umanoidi, ricoperti di pelo, squame, piume, o di una semplice epidermide, qualunque colore o dimensione o grado di sviluppo sociale avessero, una cosa era comune a tutte le razze di tutti i mondi. Odiavano i Vardda. Era un odio basato esclusivamente sull’invidia e Trehearne vi si abituò talmente da non farci quasi più caso, tranne che per notare come esso variava a seconda delle culture: gli aborigeni che vi mescolavano un timore reverenziale e superstizioso per i dominatori del cielo; i barbari che li avrebbero uccisi se solo non fossero stati così avidi per i generi voluttuari che fornivano loro; i popoli civili, che li trattavano con freddo rispetto e si rodevano l’animo di geloso desiderio. L’unica cosa che impressionava veramente Trehearne erano i fanciulli, specialmente i ragazzini che seguivano i Vardda su e giù per le strade avvicinandosi più che potevano all’astronave, ripetendo continuamente la stessa eterna domanda: «Che cosa si prova a volare tra le stelle?»

Aveva quasi dimenticato la Terra. E poi calarono verso il pianeta di un sole giallo, un verde mondo che gli diede un tuffo al cuore con un improvviso flusso di ricordi. Si affacciò all’oblò a contemplare campi e alberi lontani e una città che avrebbe potuto essere della Terra — pur senza averne il sudiciume e la miseria — stendentesi lungo le rive di un fiume maestoso e si stupì di poter ancora sentir nostalgia.

Yann lo guardò ironicamente. Era intento a spazzolare e a ripulire la sua uniforme, come Rohan e Perri, e nessuno di essi pareva contento.

«Pare bello, vero?» disse Yann.

Trehearne annuì. Guardava il fiume e pensava al Mississippi. Il suo pensiero era molto lontano «Bene, è bello» borbottò Yann. «Il clima è mite, la gente è civile, le donne sono belle, e scommetterei che anche il cibo è buono. Ma noi non possiamo goderne. Non possiamo neppure…»

Il lieve segnale di comunicazione interna della nave lo interruppe e il volto del capitano apparve sul piccolo schermo.

«Questo è un ammonimento e un richiamo. Siamo giunti al luogo dove ci tocca fare i nostri affari con il cappello in mano e l’aspetto dimesso. Avete capito tutti? Dovete rimanere entro le mura della base. Non dovete fraternizzare con i nativi. Dovete mostrarvi pieni di deferenza verso qualunque Hedarin vi capiti di trattare. E non dovete, in nessuna circostanza, reagire a quanto possano dirvi. In altre parole, tenete la bocca chiusa se proprio non siete costretti ad aprirla e in questo caso non alzate la voce. Questi sono ordini e punirò adeguatamente chiunque il trasgredirà!»

Lo schermo si oscurò. Trehearne guardò gli altri. «Che tipo di posto è questo?»

«Hai udito il Vecchio. È un luogo in cui i Vardda devono chieder scusa di esistere.»

«Chi sono gli Hedarin?»

«I legislatori, i saggi. Quelli che dicono l’ultima parola.»

Il giovane Perri alzò le spalle in modo espressivo. «Miserabili accattoni» disse. «Sono dei medium.»

12

Il centro di raccolta era vasto e quasi completamente vuoto eccetto che per un edificio aperto da tutti i lati come un padiglione da fiera, che sorgeva a un’estremità. Non vi erano fabbricati, solo il centro adiacente a un campo d’atterraggio fuori della città. Una gran folla era raccolta al di là delle basse mura, assai simile a qualsiasi folla della Terra, con gente che rideva, si spingeva, indicava l’astronave, in un incessante vocio. Ma dentro il centro non vi erano che poche dozzine di uomini. Se ne stavano all’interno del padiglione, in attesa, e Trehearne assistette incuriosito all’insolito spettacolo dato dal capitano vardda e dai suoi ufficiali che avanzavano umilmente a chiedere il permesso di commerciare.

«Avvicinati un poco di più» gli bisbigliò Yann. «Vedi quei due uomini alti in abiti scuri, seduti là in fondo? Sono Hedarin. Guarda.»

Gli ufficiali vardda si rivolsero ai due uomini e ne ebbero una secca risposta.

«Ci concedono due giorni» disse Rohan. «Generoso da parte loro.» Trehearne spinse con curiosità lo sguardo al di sopra delle mura. Vi erano macchie d’alberi là fuori, e doveva essere l’inizio dell’autunno perché le foglie cadevano già. Il cielo era di un azzurro intenso con una lieve foschia bassa sull’orizzonte, e l’aria era fresca. Se non si guardavano troppo i particolari, pareva di essere nell’Ohio in ottobre, ed egli avrebbe voluto andare da qualche parte a passeggiare solo, ricordando. Non sapeva perché. La Terra era dietro di lui e non la rimpiangeva. Ma avrebbe voluto andare a passeggiare tra gli alberi.

Invece tirò fuori i listini dei prezzi e le bollette doganali e se ne rimase al suo posto, mentre si iniziavano le contrattazioni. Merci e campioni di merci, da gioielli a medicinali e macchinari leggeri, venivano scaricati dall’astronave e il trasporto era effettuato dai Vardda stessi. Trehearne aiutava, e tutto il bestemmiare che si faceva lo si faceva sottovoce. «Troppo maledettamente orgogliosi per fare i facchini» disse qualcuno. «Alla gente in genere non importerebbe, ma gli Hedarin pensano che sia degradante. Non la fatica fisica, capite?, ma perfino il fatto di farsi vedere lavorare per noi. Io li manderei all’inferno piuttosto che commerciare con loro.»

«Il Vecchio non la pensa a questo modo, falla finita, vuoi? Questa cassa è pesante.»

Nel padiglione fervevano le contrattazioni. Solo gli Hedarin, seduti in disparte, avevano un’aria ostile. I loro visi davano a Trehearne un sentimento particolare. Piuttosto minuti per le loro teste massicce, benché non tanto da essere deformi, i loro lineamenti avevano una specie di terrea forza che era quasi agghiacciante come se il loro spirito avesse dominato tutte le debolezze della carne. I loro occhi, profondamente infossati e di colore chiaro, parevano chiusi al mondo; non nel solito atteggiamento di ottusa contemplazione di gente che rifletta sui propri pensieri, ma come fossero rivolti a una visione chiara e luminosa, dove nulla fosse oscuro e incerto, dove non potessero esistere trivialità, turbamenti emotivi, impulsi capricciosi. Erano uomini splendidi a vedersi. Si sentiva costretto ad ammirarli. Ma quanto a piacergli neppure da pensarci. Osservavano il traffico e Trehearne notò che ogni articolo veniva sottoposto alla loro approvazione prima che l’affare fosse concluso. Il più delle volte veniva accettato, ma di tanto in tanto uno di loro scuoteva il capo e l’articolo veniva respinto. I mercanti si rammaricavano, ma non protestavano.

«Si danno una terribile aria di importanza» disse Trehearne sottovoce a Yann.

Il primo ufficiale, un uomo appena brizzolato che conosceva la costellazione come il proprio giardino, era lì accanto e lo udì. «Sareste così anche voi» disse «se poteste scrutare entro la mente di un uomo fino a vederne i pensieri, e dentro il suo corpo fino a seguire il groviglio delle sue viscere, semplicemente servendovi del potere della vostra mente.»

«Gente temibile, come governanti.»

«Non governano, in senso vero e proprio. Essi sono i medici, i giudici, gli scienziati: gli intellettuali puri, una casta separata. Non si abbasserebbero a qualcosa di fisico come il governare. Vivono interamente dentro e per lo spirito. Negli affari temporali non fanno che dare il loro consiglio.»

Ricordando un certo dottor Rhine, Trehearne chiese: «Possono fare qualunque cosa, intendo levitazione, telecinesi, telepatia, tutti questi giochetti?»

«Non ne hanno mai parlato con me, ma penso siano in grado di fare tutto questo e anche più…»

«Bastardi insolenti» brontolò il giovane Perri accigliato. Il suo orgoglio di Vardda era ferito. Rohan gli sferrò un calcio. «Tienlo per te. E cerca di non pensarci neppure.» Trehearne si agitava irrequieto. Per il momento non vi era nulla da fare, ed egli se ne stava con gli altri, sei o sette, in attesa Infine bisbigliò: «Che cosa acquistiamo qui che valga la pena di venirci?»

«Pietre preziose» rispose Yann. «Favolose. E i gioiellieri sono tra i migliori della Galassia.» Accostò il capo a quello di Trehearne e sussurrò: «Malgrado ciò, sono d’accordo con Perri. Guarda questi mercanti. Mi farei dannare piuttosto che lasciarmi dire da qualcuno che cosa comperare e che cosa no.»

Dal loro posto gli Hedarin non erano in grado di udirli e neppure un sussurro avrebbe potuto raggiungerli al di sopra del brusìo e del vociare delle contrattazioni che si svolgevano davanti a loro. Pure, all’improvviso volsero il capo e Trehearne si trovò a guardar dritto nella luce di quei limpidi occhi chiari. Sentì che Yann trasaliva suo malgrado e poi qualcosa come un vento freddo gli attraversò la mente, invadendone ogni angolo più remoto con una strana facilità che lo terrorizzò, e abbandonandolo immediatamente dopo, con un inconfondibile disprezzo che lo irritò profondamente. Scosse il capo in un inutile tentativo di liberarlo da quell’invadente presenza e avanzò in una furia cieca, dimenticando completamente gli ordini. Il primo ufficiale lo afferrò bisbigliandogli seccamente: «Zitto!» benché non avesse detto ancora una parola. Quel freddo qualcosa svanì dalla sua mente come una luce che si spenga. Con la coda dell’occhio scorse i visi turbati e stupiti dei suoi compagni e comprese che anche a loro era accaduta la stessa cosa. E poi gli Hedarin si scambiarono d’improvviso uno sguardo, si alzarono, uno levò un braccio e annunciò: «Le contrattazioni sono finite.»

Ogni suono cessò d’improvviso. I mercanti rimasero al loro posto, seccati e sorpresi, lo sguardo rivolto agli Hedarin e poi nel penoso silenzio si udì la voce del capitano vardda, visibilmente controllata. «Ma ci avete dato due giorni!»

«È finito. Prendete quanto è vostro e andate.»

La voce del capitano ora non era più così educata. «Desidero sapere perché. Abbiamo rispettato tutte le convenzioni…»

«Avevamo dato il permesso. Ora lo revochiamo.»

Fecero un cenno ai mercanti, uomini di mezza età, dall’aria preoccupata, simili a tutti gli uomini d’affari che Trehearne aveva conosciuto. Riluttanti ma docili, si volsero e cominciarono a uscire dal padiglione. Qualcuno, che parve essere il capitano, disse: «Di tutti i dannati prepotenti…» E poi la voce di qualche altro Vardda urlò all’indirizzo dei mercanti: «Ma che cosa siete, un branco di ragazzini, che vi si caccia qua e là? Perché non continuate le contrattazioni, se lo volete?»

Uno dei mercanti rispose: «Gli Hedarin sono saggi.»

«Può darsi» disse Trehearne rabbiosamente. «O forse vogliono solo darsi delle arie.» Domandò agli uomini vestiti di scuro: «Che cosa avete contro di noi?»

Non risposero e Rohan disse, ridendo: «Gli stessi sentimenti che tutti i non-Vardda nutrono contro di noi. Inoltre noi siamo volgari e rozzi commercianti. Noi non pensiamo.»

«Pensate» disse un Hedarin pianamente. «E noi non vogliamo i vostri pensieri. Tra di voi vi è più che bassezza. Vi è il delitto.»

Di nuovo ci fu un silenzio e questa volta aveva un sapore di scandalizzato stupore. I Vardda si guardarono l’un l’altro e improvvisamente Trehearne sentì un brivido nella schiena. Ombre sotto un astro morente, una orribile foresta stretta attorno a lui come una livida muraglia, uno strappo, uno scatto, e la morte invisibile e inspiegabile, ma inesorabile che si chiudeva su lui come un grande pugno nero.

Delitto.

Voci, voci di Vardda si levarono indignate, a sfida. I mercanti se ne andavano e gli Hedarin si erano alzati. I Vardda chiedevano le prove. Non poteva essere. Nessuno a bordo della Saarga ce l’aveva con lui. Doveva essere stato un incidente. Non c’erano motivi per pensare che non fosse stato così.

«Chi è?» tuonò il capitano. «Non potete lanciare un’accusa come questa e poi andarvene…»

«Noi non ci interessiamo dei fatti vostri. Avete chiesto i motivi e ve li abbiamo detti. Questo è tutto.» Delitto. Era un’orribile parola. Trehearne avrebbe voluto che non l’avessero mai pronunciata. Avrebbe voluto che l’episodio del respiratore non si fosse mai verificato. Faceva nascere tante riflessioni. Gli faceva attribuire a se stesso l’implicita minaccia, anche se ogni membro dell’equipaggio poteva avere almeno un nemico che non avrebbe esitato a ucciderlo. Tutti ci pensavano una volta o l’altra. Egli stesso aveva pensato di uccidere Kerrel, ma una cosa era pensare e un’altra fare.

Kerrel. Poteva avere assoldato qualcuno per fare in modo che un certo Terrestre non ritornasse dalla costellazione di Ercole?

Supponiamo che l’avesse fatto. E chi. Rohan? Perri? Yann? No, Yann gli aveva salvato la vita e non poteva immaginare nessun altro dei ragazzi nella parte dell’assassino. Qualcun altro, allora. Volse lo sguardo intorno ai visi familiari, irritati ora, risentiti. Chi? Non avrebbe saputo indicarne uno. Li conosceva uno per uno. Erano i suoi camerati. Potevano fare di tutto, ma… uccidere?

Il primo ufficiale disse una parolaccia. «Si può penetrare il subcosciente di un uomo e trovarvi un impulso a uccidere. Non ci vuole un medium per saperlo. Cercavano un pretesto.»

«Già» concordò Yann. «Vadano al diavolo. Bene, prendiamo la nostra roba e andiamocene.»

Trehearne pensò che il primo ufficiale aveva ragione. Era la spiegazione più confortante. Vi si attaccava. Con ogni probabilità, se qualcuno aveva avuto realmente intenzione di uccidere e aveva tentato una volta, avrebbe ritentato. Aveva visitato tanti pianeti e fatto tante cose.

Le occasioni non erano mancate.

O lo erano? Chi sapeva quale occasione poteva sembrare adatta a un assassino? E poi questi non poteva semplicemente uccidere. Doveva simulare un incidente. Non era poi così facile.

Oh, al diavolo, dimentichiamo. Era stato un incidente.

Lo dimenticò, deliberatamente, per quanto poté. Ma in lui rimase un certo disagio. E più spesso si sognava della foresta di funghi e della spaventosa sensazione di respirare senza aria. Cominciò a desiderare un cambiamento. Non ci avrebbe creduto pochi mesi prima, ma s’accorgeva di essere sempre più stufo della nave, dell’isolamento, delle anguste cabine, dell’aria condizionata e del cibo gradevole, ma sintetico. Non era il solo. I più induriti veterani di bordo soffrivano per la noia del lungo viaggio. Attendevano con ansia sempre maggiore di far scalo anche su pianeti poco accoglienti, e si lagnavano della brevità delle soste. Quando la Saarga raggiunse il sistema della stella verde, il punto di arrivo da cui avrebbe iniziato l’altrettanto lungo viaggio di ritorno, Trehearne era così avido di metter piede a terra che perfino quel suo segreto malessere si dissipò nel suo spirito per la semplice gioia di sbarcare.

Yann era tutto eccitato: «Questo è il sistema di cui ti ho parlato, Trehearne, quello su cui sono stato agente per tanto tempo. Conoscevo gli abitanti come fratelli.» Rise e diede una pacca sulle spalle di Trehearne. «Ci fermiamo qui un bel po’, e quando avremo sbrigato le nostre faccende ti mostrerò qualcosa!»

La Saarga planò su un pianeta dalla luce smeraldina. Oltre all’astronave il campo d’atterraggio accoglieva una mezza dozzina di vecchi apparecchi interplanetari traspostati qui pezzo per pezzo dai Vardda che se ne servivano per le comunicazioni tra i desolati pianeti di quel sistema. Il grande stabilimento, chiuso da una palizzata, era uno dei più imponenti che Trehearne avesse mai visto e il più strano. La palizzata e le pareti dei magazzini erano di cristallo proveniente dalle foreste cristalline che ricoprivano vaste estensioni di terreno. Trehearne li vedeva come alberi e foreste semplicemente perché presentavano tronchi e rami, ma in realtà erano di natura inorganica, scintillanti proliferazioni di strani sublimati chimici. Sotto l’ardente sole verde splendevano scintillanti, mandando bagliori di colori incantati là dove la luce s’infrangeva su una formazione prismatica. Anche i raggi multicolori delle stelle più lucenti che ardevano nel cielo perfino durante il giorno s’impigliavano tra i loro rami splendenti. Dietro lo stabilimento sorgeva un villaggio. Anch’esso era costruito in blocchi di cristallo su fondazioni di roccia nera sprofondate in una melma. Fitti vigneti dai frutti carnosi si arrampicavano per ogni dove. Il sottobosco, di un verde quasi nero, cresceva tra gli alberi. C’era un penetrante odore di umidità nauseante, dolce. Trehearne sbrigò i suoi lunghi turni, affaticandosi in un bagno di giada fusa. Era un pianeta grande e pesante. La forza di gravità lo opprimeva. Le lettere dei listini doganali gli ballavano dinanzi agli occhi. Quando ebbe finalmente compiuto il suo lavoro trovò Rohan e Perri ancora affaccendati, ma Yann aveva sbrigato tutto e lo attendeva.

«Vieni con me ora» disse Yann facendo schioccare la lingua. «Vino, tenuto in fresco in pozzi profondi. Farà di te un uomo nuovo.»

«Che accidente di pianeta» borbottò Trehearne.

«Dovresti vedere gli altri di questo sistema. Questo è il migliore di tutti.»

Attraversarono il cortile esterno dello stabilimento, una specie di serraglio affollato di gente di altri pianeti, venuti per commerciare. Creature a sangue freddo dagli occhi color cremisi, principi ofidi dei pianeti più vicini alla stella, avvolti in mantelli dorati per ripararsi dal gelo. Sparuti re, ricoperti di pelo, dei pianeti più lontani, incappucciati e adorni di pietre preziose, immobili e ansimanti nel caldo. Questi e altri osservarono i due alti Vardda, immersi nei propri pensieri.

Attraversarono il cancello e uscirono dallo stabilimento, affondando nel fango. Il sole tramontava in una fosca luce di un livido verde, screziata qua e là di variopinte sfumature. Trehearne guardava il villaggio, i vicoli tortuosi, le casupole di cristallo raccolte in una loro sordida bellezza, e la foresta di alberi fatati che si stendeva intorno. Un dubbio lo assalì.

«Forse avremmo dovuto rimanere alla base. Ci deve essere una quantità di vino e l’ambiente è più confortevole.»

Yann imprecò contro di lui con bonaria allegria. «Ti ho detto che conosco questa gente meglio dei miei stessi figli! Vieni Trehearne, non c’è niente da fare alla base. Non desideri vedere qualcosa di nuovo?»

Trehearne lo desiderava. Era stanco fino alla nausea dello stabilimento dopo quei lunghi turni di lavoro sfibrante. Alzò le spalle, e si assicurò che il disgregatore prismatico a tubo fosse al suo posto, nel fodero della cintura. Era consuetudine che quando i Vardda andavano in giro in pianeti strani, portassero con sé un’arma. Talvolta era necessaria. Yann notò il suo gesto e sogghignò. La sua custodia era vuota.

«Mi sentirei più sicuro se ne avessi uno anch’io» disse. «Ma questa gente che andiamo a trovare è mia amica. Si offenderebbero a morte se io andassi da loro armato, un segno di sfiducia. Fa’ attenzione!» Lo precedette giù per la strada fangosa e Trehearne lo seguì.

Sopraggiunse la notte. Il cielo meraviglioso della costellazione incombeva su di loro, disseminato fino a divampare di stelle splendenti come lune. Gli alberi di cristallo assumevano l’aspetto di fuochi opalini. I muri delle capanne mandavano vividi bagliori. Intorno ai Vardda si raccolse una folla di fanciulli dagli occhi come prugne selvatiche, silenziosa e solenne, la pelle di un verde opaco. Le donne sulle soglie li seguivano con lo sguardo. Di aspetto abbastanza umano e anche piacente, le più giovani, dalla liscia pelle verde oliva, avevano i fianchi avvolti in lucide sete provenienti da Llirdis, e portavano ornamenti nei capelli.

Yann chiacchierava allegramente mentre percorrevano le vie tortuose, raccontando qualcuna delle sue numerose scappatelle e avventure, e dei mezzi ingegnosi con cui era riuscito a truffare la direzione della base.

Gli sguardi curiosi e ostili delle donne li seguivano e di tanto in tanto un uomo sputava in segno di spregio nel fango, al loro passaggio.

Giunsero infine a una casupola al limite estremo dell’abitato. Davanti alla porta erano legati a due a due otto animali della grandezza di un cane da caccia, bianchi come il latte, il muso e le zampe scuri, i corpi flessuosi, agili e slanciati, fatti per la corsa. Emisero acuti guaiti e balzarono verso gli stranieri, non appena li videro, mostrando avide zanne. Trehearne pensò che assomigliavano a gigantesche donnole, e ne avevano l’aspetto inoffensivo.

«Segugi» disse Yann. «Kurat è un cacciatore. Ho trattato personalmente con lui certe partite di pelli.» Strizzò l’occhio e chiamò a gran voce Kurat, evidentemente invitandolo nella lingua del luogo a uscire a dare il benvenuto a suo fratello.

Comparve un uomo snello, dalla forte muscolatura. Aveva una fascia di seta azzurro vivido intorno ai fianchi e una collana di metallo battuto. Salutò Yann con grida di gioia. Trehearne sorrise dentro do sé. Appartenevano allo stesso tipo quei due, il Vardda e il cacciatore: erano un paio di simpatiche canaglie. Kurat gli rivolse il benvenuto nella lingua franca delle città commerciali. Un fratello. Egli spinse Trehearne nell’interno della capanna davanti a sé.

Vi era riunita una numerosa famiglia. Un vecchio e una vecchia sedevano in un angolo, in ozio. Bambini e ragazzetti si rincorrevano per la stanza. La goffa moglie di Kurat veleggiava imperturbabile tra di essi. Una bella donna più giovane entrò con una grande caraffa gocciolante e ne versò il contenuto nella tazza di Trehearne. Il vino era freddo, e aspro. Trehearne ingollandolo di un fiato, cominciò a dimenticare il caldo e la stanchezza. Poi, alzando lo sguardo al viso della giovane donna, fu stupito di scoprire tanto odio nei suoi occhi intenti.

Disse all’improvviso: «Perché ci odiate così?»

La donna scoppiò in una risata dal suono metallico. «Esiste un mondo in cui i Vardda siano amati?»

«Perché siamo capaci di volare tra le stelle e voi no?»

«Perché noi pure avremmo potuto dominare le stelle e voi Vardda ce lo avete impedito!»

Trehearne la fissò, sconcertato da quell’improvviso tono appassionato. «Ma il segreto andò perduto…»

«Oh, sì! E anche in questo mondo remoto sappiamo come andò perduto! Tutto l’Universo ha sentito parlare di Orthis e di come i Vardda lo confinarono nelle profondità dello spazio e di come lo eliminarono perché avrebbe voluto comunicare la sua scoperta, e così voi siete liberi e io sono incatenata e così i miei figli dopo di me, per sempre.»

Si distolse bruscamente da lui. Egli la seguì con lo sguardo, rattristato da questa nuova dimostrazione di quanto profonda e amara fosse l’ostilità che covava dietro i visi dei non-Vardda.

Ma Yann scosse le spalle. «Kurat ha fatto buona caccia oggi, una pelle rara. Vieni fuori a vedere, potrebbe valere molto denaro.»

Meno per interesse che per sfuggire a un senso di oppressione, Trehearne si alzò. Uscirono da una porta dietro la casupola. A qualche distanza c’era una rimessa dove, disse Kurat, la pelle era stesa a seccare. Yann e lui chiacchieravano nel gergo straniero. A Trehearne l’intera faccenda non interessava un gran che.

Era buio dentro la rimessa. Yann disse: «Aspetta un momento mentre faccio luce.»

Trehearne aspettò, ma non molto. La luce esplose all’interno del suo cervello. Udì Kurat mugolare alle sue spalle nello sforzo di colpirlo, poi ridere. Anche Yann rideva.

Trehearne ebbe un momento di furia assassina e poi il pianeta della stella verde scomparve ai suoi occhi. Quando riprese conoscenza, si trovò bocconi con il viso nel fango, spogliato della tunica, della cintura ingioiellata, dell’arma e dei sandali. La capanna di Kurat era scomparsa e con essa la città. Si trovava nella foresta, circondato da alberi, i cui rami di cristallo scintillavano al lume delle stelle desolate. La testa gli doleva violentemente.

Si alzò barcollando con un unico pensiero nella mente: la ferma decisione di mettere le mani sul suo buon amico Yann. Mosse tre passi senza una direzione particolare, poi si fermò improvvisamente, immerso in un bagno di sudore diaccio. A qualche distanza, non troppo lontano, udì l’acuto guaito degli strani segugi di Kurat.

13

La mente di Trehearne si schiarì con uno sforzo quasi fisico. I fumi del vino e la fitta oscurità, succeduta al colpo, si diradarono. Il dolore rimase, ma riusciva a pensare. Riusciva a ricordare. Il pianeta della stella variabile.

L’uomo vestito di scuro, che diceva: "Delitto".

Delitto. Yann.

"Non ringraziare me, è Yann che ti ha salvato. Lui ha riavvitato il tuo respiratore…"

Pazzie. Non poteva essere stato Yann.

Ecco com’era. Lui li aveva seguiti docilmente nella trappola e si era seduto docilmente a bere mentre Yann e Kurat parlavano allegramente di come farlo fuori, precisando i particolari.

Il latrato della muta era vicino.

Non volevano che il suo corpo rimanesse nella casupola o in città. Non volevano che la cosa avesse l’aspetto del delitto. Lo avrebbero portato nella foresta, e poi gli avrebbero aizzato contro i segugi, lasciandoli a compier l’opera. Chi si poteva accusare se un Vardda ubriaco si era spinto fin là dove non aveva nulla da fare ed era stato assalito da una muta di segugi? Si chiese se Yann e Kurat stessero seguendo la caccia. Si chiese perché Yann volesse sopprimerlo.

Yann. Quello sporco traditore figlio di un cane…

Trehearne cominciò a correre.

Le viti che si arrampicavano in un groviglio su per gli alberi di cristallo erano come lacci tesi a imprigionargli i piedi. Cadde e si alzò e si mise a correre di nuovo e il terreno melmoso affondava morbido sotto i suoi piedi come sabbia. Aveva caldo, e si sentiva pesante, pesante dell’impaccio di quel pesante pianeta.

Dietro di lui, nitido e acuto, era l’yap-yap-yaaahh! delle gigantesche donnole di Kurat lanciate su una pista fresca. I rami di cristallo scintillavano e balenavano le punte lucenti al chiarore delle stelle aguzze come lance. Trehearne si fermò e tentò di spezzarne una ed era come tentare di spezzare una sbarra di acciaio con le mani nude. Vi rinunciò e fuggì via, senza sapere dove fosse e dove stesse andando, con l’unica volontà di tenersi il più lontano possibile dagli agili demoni bianchi che lo inseguivano. Si trovò dinanzi un piccolo fiume, nero e tiepido. Vi entrò a guado, seguendo la corrente, immergendovisi fino alla vita, nuotando nelle pozze più fonde. L’aspro sapore del vino gli aveva messo sete e bevve. L’acqua aveva un disgustoso sapore di pece e calcina e la sputò, ansimando. Udì il latrato dei segugi mutarsi in un guaito lamentoso mentre esploravano le rive, là dove egli si era tuffato. Si adagiò sul fondo e li ascoltò correre avanti e indietro. Gli parve di udire una voce d’uomo gridare, ma non ne era sicuro. Proseguì, abbandonando il fiume e addentrandosi nella foresta. Le grandi stelle gli incombevano sul capo e il suo corpo era oppresso dal peso della gravitazione.

Invocò di poter trovare un ramo caduto, ma non ce n’erano. Invocò di ritrovare il villaggio, ma anche questo gli era impossibile. Corse pesantemente sotto gli alberi scintillanti e alle sue spalle gli animali emisero d’improvviso un latrato sonoro, pieno, più lontano ora, ma ugualmente raccapricciante. Non ci sarebbe voluto molto perché lo raggiungessero.

Misurò gli alberi con uno sguardo per arrampicarvisi e cercarvi rifugio. Erano vitrei, deformi, e bassi. Ricordò i lunghi corpi scattanti delle bestie simili a donnole. Pensò che avrebbero potuto spiccar salti alti quanto bastava per gettarlo a terra. Proseguì barcollando e ogni volta che cadeva era più difficile rialzarsi. Un’ira terribile era in lui, ira contro Yann. Non era leale. Non era leale obbligare un uomo a fuggire così per salvarsi la vita in un mondo in cui non era possibile fuggire. L’ululato della muta si avvicinava.

D’un tratto, da chissà dove, più avanti, rispose il latrato di altri segugi. Non aveva senso proseguire. Inghiottì l’amaro nodo di paura che gli attanagliava la gola e cercò un’arma, qualcosa, qualunque cosa da tener in mano con la quale colpire almeno un poco prima di esser sbranato.

Si avvide che i latrati degli animali più avanti provenivano sempre dallo stesso luogo. Erano di irritazione. Non stavano cacciando. Erano alla catena. Trehearne trasse un profondo respiro. Ricominciò a correre.

C’era una radura. La vide davanti a sé, indistinta, tra il lume delle stelle e gli alberi. Fece uno sforzo per raggiungerla e la muta tumultuava alle sue spalle. Inciampò e cadde bocconi e ne fu quasi contento perché andò a finire su un groviglio di rami, accumulatisi quando gli alberi di cristallo erano stati abbattuti. Ne raccolse uno. Non era lungo, ma era acuminato e pesante. Era meglio che niente. Si lanciò con esso verso l’orlo della radura e là i segugi lo aggredirono.

Veloci e flessuosi, bianchi come ghiaccio al chiarore delle stelle, giunsero balzando leggeri tra gli alberi scintillanti. Ulularono una volta, tutti insieme, e poi s’acquetarono, poi scattarono come frecce, lanciati verso di lui attraverso l’aria. S’appoggiò col dorso a un tronco vitreo e vibrò il ramo di cristallo spezzato. Ne colpì qualcuno. Ma le loro zanne gli s’immergevano nella carne come ferri roventi.

Nel mezzo della radura sorgeva una capanna. Quattro segugi erano legati, lì accanto. Si trattava di quelli che avevano risposto con i loro latrati alla muta di Kurat. Ora digrignavano i denti, guaivano e cercavano di liberarsi dalla catena. Un uomo, una donna e un ragazzo alto uscirono dalla capanna. Il ragazzo si diede a correre verso Trehearne gridando. L’uomo lo trattenne. Gli disse qualcosa e lo costrinse a quietarsi. Rimasero là, a guardare.

Trehearne uccise uno dei segugi e ne azzoppò un altro con il suo bastone di cristallo. Gli altri sei tumultuavano intorno a lui, un mobile groviglio di corpi che balzavano e saltavano, avventandosi con i bianchi coltelli dei denti. Il sangue cominciò a scorrere sul corpo di Trehearne. Colpì e colpì ancora e chiamò aiuto invocando l’uomo e la donna che contemplavano la scena con aria ottusa.

Non si mossero. Il ragazzo tentò di correre verso di lui, ma l’uomo lo acciuffò. Trehearne emise un suono rauco e lasciò cadere il ramo. Uno dei mostri lo aveva avvinghiato a un polso. Il peso dell’animale lo fece cadere sulle ginocchia e comprese che era la fine, l’ultimo dei suoi viaggi tra le stelle. Si liberò dalla presa delle robuste mascelle serrate sulla sua carne e scagliò il mostro come una catapulta sul muso dei suoi compagni e poi non poté dominare la situazione più a lungo e la muta si strinse intorno a lui.

Il ragazzo era sgusciato nell’ombra della capanna. Ora, improvvisamente, si lanciò avanti e sciolse la catena dal collo dei segugi legati.

Essi attraversarono la radura balzando oltre i monconi dei rami e si avventarono sulla muta di Kurat.

Per un momento le belve dimenticarono Trehearne. Egli si liberò a fatica dal groviglio ringhiante e si diresse verso la capanna. L’uomo gli passò accanto di corsa urlando. Raccolse un ramo e cominciò a battere i segugi in lotta, tentando disperatamente di separarli. La donna lamentandosi corse ad aiutarlo. Il ragazzo si avvicinò a Trehearne.

Doveva avere poco più di sedici anni, era alto e ben fatto. Passò un braccio intorno alla vita di Trehearne, lo condusse nella capanna e lo fece sedere. Trehearne si lasciò cadere su una panca. La camera vacillò e si oscurò intorno a lui. Quando la vista gli si schiarì, il ragazzo aveva portato delle bende e un unguento bruciante ed era intento a medicargli le ferite.

«Come ti chiami?» chiese Trehearne nella lingua franca.

«Torin.»

«Mi hai salvato la vita, Torin. Non lo dimenticherò.»

«Farei qualunque cosa per i Vardda.» Invece di odio vi era in quel viso di non-Vardda un’ammirazione come per un eroe. Era evidente che agli occhi del ragazzo Trehearne era una figura gloriosa. Trehearne ne fu colpito.

Torin lo fissava attonito, dimenticando la fasciatura. E fece la domanda, la vecchia e immutabile domanda che era sempre sulle labbra dei ragazzi. «Che cosa si prova, che cosa si prova esattamente a volare tra le stelle?»

Trehearne posò una mano sull’esile spalla del ragazzo e mentì. «È lungo e faticoso e neppure la metà avventuroso come la caccia. Scommetterei che sei un buon cacciatore come tuo padre.»

«Non ancora» disse Torin. «Un giorno…» Si chinò di nuovo sulle bende. Le sue dita passavano sulla carne di Trehearne, toccando i muscoli, spalmando leggermente le ferite con il denso unguento. Si accigliò, assorto in qualche suo problema. «Al tatto è come la mia» disse. «Sanguina come la mia. Qui vi è una vecchia cicatrice e ve ne saranno delle nuove. Non è una carne diversa, fatta di ferro o di qualche altra cosa.»

Balzò su. «Guardate» gridò. «Io sono forte, molto forte. Guardate, la mia carne è dura come la vostra. Certo non è vero che solo i Vardda possono volare nelle grandi astronavi! Certo io sono forte abbastanza per avventurarmi tra le stelle.»

Trehearne evitava d’incontrare i suoi occhi ansiosi. Disse:

«Ci vuole un tipo diverso di forza.» Tentò di spiegargli e vi rinunciò. Poté solo dire: «Mi dispiace.»

Si alzò. «Vorresti farmi strada fino alla base, Torin? E pensa a che cosa ti piacerebbe avere di tutte le cose che sono là. Tu mi hai salvato la vita e io voglio darti qualcosa in cambio, un piccolo regalo tra amici.»

Torin sussurrò: «Voglio vedere l’astronave.»

Trehearne aggrottò la fronte e nell’intervallo di silenzio che seguì, udì rumori provenire dalla radura, il brontolio lamentoso dei segugi e l’improvviso levarsi di voci umane.

«Sono i tuoi genitori?»

«No» disse Torin. «Stanno ancora cercando di rintracciare i nostri segugi nella foresta.»

«Da’ un’occhiata fuori per vedere chi è venuto, Torin.»

Si rintanò nell’angolo dietro la porta, il ragazzo l’aprì e sbirciò fuori.

«Due uomini» bisbigliò. «Un cacciatole a nome Kurat, e un Vardda.» Tornò dentro e gettò un’occhiata a Trehearne. «Vi davano la caccia?»

Trehearne annuì. Il suo viso si era teso in un’espressione crudele. «Dammi un coltello.» Torin gli tese un coltello per la concia delle pelli dalla lama di cristallo affilata come quella di un rasoio. Trehearne disse: «Va’ a dir loro che io sono morto sbranato dai segugi. Di’ al Vardda di venire ad aiutarti a portar fuori il mio corpo.»

Torin esitò, poi si mosse. Trehearne lo udì dare una voce per la radura. Il chiacchiericcio si fece più litio ed echeggiò la familiare risalta di Yann. Il ragazzo stava narrando i particolari della morte di Trehearne.

Yann entrò nella capanna.

Avanzò sicuro. Non aveva nulla da temere. E poi il braccio di Trehearne gli fu intorno alla gola e la punta del coltello gli penetrò tra il collo e la mascella.

«Non muoverti» sibilò Trehearne «non muoverti!»

Yann rimase immobile. Il sangue gli colava lungo il collo. «Reciderai la vena» mormorò. «Non di più, ti prego, non di più.»

Non aveva raccolto per via altre armi. Non ne aveva infilate alla cintura e neppure in mano. Trehearne estrasse la punta del coltello dalla gola di Yann e poi lo colpì. Yann cadde bocconi sul pavimento. Cominciò a lamentarsi e Trehearne gli sferrò, con tutta la forza dei suoi piedi nudi, due calci nelle costole, per udire le ossa frantumarsi. Il respiro di Yann era affannoso. Da sopra la spalla Trehearne disse a Torin attonito sulla soglia: «Stai in guardia e dimmi se viene qualcuno.»

«Sono affaccendati intorno ai segugi e stanno chiacchierando» disse il ragazzo. E poi: «Lo ucciderete?»

«Mi piacerebbe.» Trehearne colpì ancora Yann con un piede. «L’avevi già tentato anche l’altra volta non è vero? Dannazione, rispondimi! Non è vero?»

Tossendo, il viso contro il pavimento Yann mormorò: «Sì.»

«Mi seguisti strisciando tra quei funghi. Svitasti il mio respiratore e scomparisti prima che potessi voltarmi. Ti sei preso tanta pena. Perché mi hai salvato la vita?»

Yann mugolò e si contrasse in un accesso di vomito. «Sto male.»

«Starai anche peggio.» Trehearne lo afferrò per i capelli pronto a prevenire qualsiasi mossa improvvisa e lo sollevò a metà da terra. «Siediti e parla come un uomo. Perché mandasti a monte tutto il tuo lavoro? Avresti potuto lasciarmi morire là.»

Yann scosse il capo. «Ti dirigevi alla cieca proprio verso gli altri. Qualcuno ti avrebbe salvato comunque e pensai che tanto valeva lo facessi io. Se tu avessi avuto qualche sospetto l’avresti rivolto a qualcun altro. Così la prossima volta sarebbe stato più facile.» La bocca gli si contorse nel grottesco tentativo di un ghigno. «E lo fu veramente.»

Trehearne disse: «Sei un accidente di ragazzo in gamba.» Mosse la mano e la luce balenò sul coltello di cristallo. Gli occhi di Yann caddero su di esso.

«Non fu un’idea mia» si giustificò. «Non facevo che eseguire un incarico. Non devi uccidere me.» Pronunciò il pronome con enfasi.

«Non è che io lo debba. La questione è se lo voglio o no. Di chi fu l’idea, Yann?»

«Promise di darmi un’astronave» mormorò Yann. «Un’astronave tutta mia. Qualunque uomo farebbe quello che ho fatto io per una simile posta. Lo faresti tu stesso, Trehearne. È una questione di senso comune.»

Trehearne insistette: «Chi ti offrì l’astronave?»

«Kerrel. Veditela con lui. Io non ho nulla contro di te, Trehearne. Kerrel mi spiegò che sopprimerti non era un assassinio, ma un servizio reso all’intera comunità dei Vardda e che questo era l’unico modo in cui poteva renderlo. Ma a me la politica non interessa. Questo per me era solo un affare. Una vita, un’astronave.»

«Kerrel non è ricco. Come avrebbe fatto a procurarsi un’astronave da dare a un altro?»

«Penso che avesse in mente un piano. Forse la cosa dipendeva anche dal tuo mancato ritorno. Non lo so. Comunque, posso provare che è stato Kerrel. Ecco, ho tutto scritto qui. Non sono un idiota. Agente del Consiglio o no, un uomo è un uomo.» Continuando a parlare con lo stesso sguardo torvo, Yann affondò una mano nella tasca della tunica. Un attimo dopo, un attimo troppo tardi, Trehearne si rese conto che era assolutamente impossibile che Kerrel avesse mai messo cose simili per iscritto. Si mosse, rapido.

Dalla tasca di Yann uscì un disgregatore, l’arma che non faceva vedere perché Kurat se ne sarebbe adontato, l’arma che non aveva lasciato al centro. Trehearne lo colpì prima che l’estremità prismatica dell’arma sbucasse dalla seta della tunica di Yann. Lo colpì con tutte e due le mani e non è che si fosse dimenticato del coltello da caccia dalla lama sottile di rasoio, ma non ci pensava ora, non voleva cadere stordito e privo di sensi sotto la fatale radiazione cosicché Yann potesse avere la sua astronave e Kerrel potesse avere Shairn e i segugi potessero saziarsi di carne. Lo colpì con forza e lo fece rotolare e rotolò con lui. L’arma saltò via urtando contro la parete con un secco suono metallico. Trehearne arrancò affannosamente per alzarsi in piedi per primo, ma non c’era bisogno che si affrettasse. Yann non si sarebbe alzato in piedi mai più. Il lucente manico del coltello spuntava dal petto di Yann, che si sollevò e ricadde un paio di volte per poi irrigidirsi. Non c’era molto sangue intorno.

Torin ruppe il silenzio. «Ucciderete anche l’altro?» Accennò con il capo alla porta.

Al di là di essa, nella radura, Kurat chiamava a gran voce i suoi segugi latranti.

Trehearne rifletté rapidamente e chiaramente, ed era strano perché sentiva un malessere allo stomaco e una specie di tremito in tutta la persona. Dopo un momento disse: «No. C’è un modo migliore.»

Andò a raccogliere il disgregatore che era appartenuto a Yann. Poi si curvò e con la mano libera afferro Yann per il colletto e lo trascinò fuori. Era molto pesante e la testa ricadeva contro il polso di Trehearne.

Kurat si voltò e si avvicinò alla capanna. C’era un’espressione allegra sul suo viso. Era un uomo felice. Aveva fatto un bel lavoro per una buona paga. E poi vide Trehearne e il disgregatore e Yann che giaceva sul terreno dove Trehearne l’aveva lasciato cadere. Qualcosa di strano e di grottesco si dipinse sul viso di Kurat.

Trehearne fece segno con un dito. «Ha un coltello da cacciatore infisso nel cuore. Tu l’hai ucciso, Kurat. Ti ho visto.»

Kurat emise un suono come di un animale che abbia messo il piede in una trappola e la senta richiudersi. «Non è vero. Menti. Io so che…»

«Hai ucciso un Vardda» disse Trehearne. «Discutevate, ubriachi e tu l’hai colpito con il coltello, a questo modo. È stato un errore, Kurat. Penso che agli altri Vardda la cosa non piacerà. Me ne andrei, se fossi in te. Prenderei i miei segugi e la mia famiglia e me ne andrei lontano nella foresta.»

Kurat fissò per un momento lo sguardo negli occhi di Trehearne. Poi lo volse a Yann. Infine si girò e chiamò i segugi sanguinanti, senza pronunciare parola, ma urlando con una curiosa nota stridula nella voce, e si allontanò con essi di corsa nella foresta.

Non era uno stupido, pensò Trehearne, sapeva che cosa sarebbe stata la vendetta dei Vardda e sapeva che valore avrebbe avuto la sua parola contro quella di un Vardda. Era convinto che per un bel numero di anni, Kurat non si sarebbe fatto vedere alla base, e ne era contento. La scomparsa di Kurat avrebbe evitato a Trehearne molte spiegazioni. Non intendeva per ora rivelare ad alcuno la verità su come e perché Yann era morto. Non voleva parlarne con nessuno eccetto che con una persona.

14

I genitori di Torin ritornarono nella radura qualche minuto dopo. La donna trascinava al guinzaglio tre dei segugi, tutti sanguinanti; uno di essi zoppicava. In mano per la collottola l’uomo portava il quarto, morto. Lo gettò ai piedi di Torin.

«Ecco che cosa hai fatto» disse. «Due degli altri non saranno in grado di cacciare per giorni. Patiremo la fame perché mio figlio è uno stupido.»

Poi vide il corpo di Yann e arretrò, volgendo un rapido sguardo a Trehearne.

«Kurat l’ha ucciso» spiegò Trehearne. «Riporterò il corpo all’astronave. Non vi saranno seccature.»

«Vi aiuterò» disse Torin.

L’uomo non parlò. Rimase dov’era passandosi nervosamente le mani sul torso nudo, immagine di una creatura oppressa dal destino. La donna si allontanò silenziosamente per legare i segugi. Trehearne si tolse la cintura e ne trasse due pietre preziose. Non erano delle migliori, ma per quella gente rappresentavano una ricchezza. Avrebbe dato loro la cintura di Yann che aveva più valore, ma temeva che avrebbero passato dei guai se avessero tentato di venderla. Mise le due pietre in mano all’uomo.

«Questo per i danni ai segugi. Farò sapere alla gente che non sono stati rubati. Non fate nulla finché l’astronave non sarà partita.» Sollevò il corpo di Yann e se lo caricò sulle spalle. «Vieni, amico Torin, andiamo.»

Uscì dalla radura e Torin lo seguì indicandogli il sentiero. Quando fu sicuro che la sua voce non poteva più essere udita, disse a Trehearne: «Vorrei che perdonaste i miei genitori. Con me sono buoni e gentili, ma non capiscono i Vardda.»

«Forse li capiscono» replicò Trehearne «meglio di quanto tu sappia.»

Era mattina quando raggiunsero il centro, una verde mattina soffocante. Trehearne si sentiva mancare, e anche il ragazzo era stanco. Benché si fossero aiutati l’un l’altro, Yann era un grave peso. Ma per tutta la strada Torin aveva parlato della grande astronave. Non voleva accettare altro regalo che questo, visitare la nave, e tanto supplicò che Trehearne non ebbe cuore di rifiutare. Dopo tutto era una ben piccola ricompensa per quanto il ragazzo aveva fatto.

«Dovrai aspettare, però, forse a lungo. Avrò da parlare molto di lui.»

«Aspetterò» disse Torin, sorridendo. «Ho aspettato tutta la vita.»

Era l’ultimo grande giorno di mercato e tutti i Vardda erano dentro il centro, tranne un uomo incaricato di custodire la Saarga. Gli oblò erano chiusi. Solo la camera di compressione era aperta e la guardia sedeva di fronte a essa, sbadigliando nel gran caldo. Smise di sbadigliare quando vide il cadavere di Yann. Per un poco la situazione parve poco chiara per Trehearne. Fece il suo racconto e poi sopportò pazientemente la lavata di capo che il capitano gli diede. Fu severa, quale l’avrebbe meritata un tale che fosse andato a bere con un compagno e si fosse ubriacato lasciando che il suo compagno venisse ucciso dagli indigeni. Ma quando fu finita non restò altro che dar ordini per il seppellimento di Yann e continuare nelle ultime trattative. Trehearne fu contento che Rohan e Perri avessero troppo da fare in quel momento per porgli domande. Quando tutto fu finito, andò in cerca di Torin, s’avvicinò con lui alla porta ermetica della camera di compressione e si rivolse alla guardia.

«Mi è stato di grande aiuto laggiù. Forse mi ha salvato la vita. Gli ho promesso di fargli fare una visitina sull’astronave.»

La guardia lo guardò dubbioso. «È contro le regole. Il Vecchio mi farebbe tagliar la testa se lo scoprisse.»

«Come può scoprirlo? Ha da fare. Non preoccuparti, mi assicuro io che il ragazzo scenda dalla nave. Tu puoi guardare dall’altra parte.»

La guardia non poté sostenere lo sguardo avido di Torin. Era un padre di famiglia con figli. «Bene, accettato. Soltanto assicuratevi che il ragazzo torni a terra, presto!»

Trehearne stette ai patti. Mostrò a Torin quanto poté, dal ponte ai generatori, e il ragazzo lo seguì con passo lieve come fosse in un luogo sacro, toccando ogni cosa, sospirando, meravigliandosi. Trehearne era quasi pentito di averlo portato, faceva pena vedere tutto quel gran desiderio che non sarebbe mai stato soddisfatto. Diede a Torin i pochi oggetti che aveva acquistato su altri mondi e poi lo condusse fuori dall’astronave e rimase con la guardia a osservare il ragazzo che si allontanava lentamente attraverso il campo, volgendosi indietro, sempre indietro, finché si perdette oltre le mura della base.

«Poveretto» commentò la guardia. «Pazzo per le stelle, come tutti loro. Bene, gli passerà.»

«Suppongo» disse Trehearne e si rallegrò all’idea che non avrebbe più rivisto Torin.

Cercò il dottore e si fece medicare e dopo ciò si occupò del controllo della merce in partenza. Moriva dal sonno e gli parve fosse passata un’eternità quando, verso mezzanotte, il carico fu tutto a bordo e gli sportelli si chiusero. La Saarga si librò nel cielo gremito di stelle.

Trehearne disse a Rohan e a Perri che era troppo esausto per parlare di ciò che era accaduto e si gettò sulla cuccetta. Si addormentò quasi istantaneamente e quasi istantaneamente si risvegliò.

Si udì un urlo a bordo…

Trovarono Torin disteso accanto al boccaporto che immetteva nella stiva. Era arrivato fin lì. La sua pelle era già livida per l’emorragia sottocutanea, il corpo era contorto e contratto, il viso quasi irriconoscibile. E gridava, e non si riusciva a farlo tacere.

Trehearne lo prese tra le braccia e lo guardò morire.

Parve non dovesse mai finire. Non fu una morte pura e semplice. Fu una dissoluzione. Trehearne ricordava la propria angoscia e non poteva far nulla. Anche gli altri guardavano con pallidi visi stravolti. Alla fine fu la guardia che andò a prendere un lenzuolo per avvolgervi il corpo e v’erano lacrime sulle sue guance.

Trehearne depose Torin sul lenzuolo. La sua carne non era più soda. Egli non era più diritto e ben fatto. Non era neppure il cadavere di un ragazzo. Era un cencio, una cosa informe, oscena. Trehearne pensò in un baleno come era stato vicino a morire della stessa morte.

Si alzò, ritornò nella sua cabina si strappò gli abiti di dosso e si ripulì in una specie di frenesia. Gettò con un calcio gli abiti insudiciati nel corridoio perché qualcun altro se ne occupasse. Non avrebbe più potuto toccarli. E continuamente udiva la voce di Torin gridare: «Certo sono abbastanza forte da avventurarmi tra le stelle!»

Gli altri sopraggiunsero più tardi e dissero a Trehearne che avevano scoperto dove Torin si era nascosto: sotto l’involucro di una balla che doveva essere portata a bordo con il carico.

«Non è stata colpa tua» lo consolarono. «In nessun modo avresti potuto vedere il ragazzo.»

Trehearne non riusciva a darsi pace.

Seppellirono Torin negli spazi profondi a cullarsi per sempre tra i soli di Ercole. E Trehearne pensava a una capanna, a un uomo e una donna che attendevano il ritorno del figlio. Desiderava che Torin avesse seguito i saggi consigli del padre.

La Saarga proseguiva il suo viaggio tra gli astri della Costellazione. Il tempo e gli avvenimenti distrassero Trehearne. Era uno Stellare, ora, provato e indurito, uno strumento efficiente del suo mondo. I suoi orizzonti erano sconfinati e le stelle non avevano perduto il loro fascino, ma in qualche modo anche così, il primo meraviglioso splendore eroico era svanito.

Ricordava l’amarezza della donna che aveva detto: "Voi siete liberi e io sono incatenata, e così i miei figli dopo di me, per sempre". Ricordava gli innumerevoli giovani che anelavano al volo, gli occhi dei fanciulli dilatati dai sogni. Ogni qualvolta vedeva le ferite appena rimarginate sul suo corpo, ricordava il ragazzo che fasciandole aveva scoperto che la carne dei Vardda non era così differente dalla sua, un inganno troppo sottile per la sua intelligenza.

Nel sonno, sempre, gli pareva di tenere Torin tra le braccia e di vederlo morire. Si diceva che era tutta pietà sprecata. Qualunque cosa fosse accaduto a Orthis tempo prima, non era affar suo. Le cose stavano come stavano e non c’era rimedio. Egli era uno dei fortunati e doveva esserne contento. Per la maggior parte del tempo era contento. Ma di quando in quando lo assalivano quei piccoli dubbi insistenti, quell’insinuante senso di colpa.

Se solo Torin non fosse venuto a bordo dell’astronave per morirvi!

Sentiva il bisogno di parlare con Edri. Sentiva il bisogno di alleggerirsi il cuore, di chiarire i propri pensieri e sapeva che Edri l’avrebbe capito.

Si sentì lieto quando iniziarono il lungo volo di ritorno a Llirdis. Scoprì che se desiderava vedere Edri, ancor più desiderava vedere Shairn. Si chiedeva se l’avesse ormai dimenticato o se attendesse il momento del suo arrivo. La Saarga discese infine sotto il bagliore rosso cupo di Aldebaran. Trehearne osservò il pianeta dorato precipitarsi, sempre più grande, verso l’astronave. Si rallegrò con gli altri al primo apparire della patria e non gli parve strano di aguzzare la vista con la stessa ansia degli altri per distinguere le familiari torri della città emergenti dalla pianura chiusa tra le montagne.

Quando l’astronave individuò il suo dock e vi si adagiò, Joris era lì vicino a osservare l’arrivo. Si era tenuto in contatto con la Saarga per mezzo di una radio a ultraonde e ora salì a bordo prima ancora che tutti gli sportelli si aprissero.

Il capitano gli aveva dato buone notizie dell’impresa ed egli era di buon umore, batteva sulle spalle a tutti, dando un’occhiata ai bollettini, facendo un fuoco di fila di domande, informandosi come s’era trovato Trehearne.

«Bel viaggio, eh» gridò. «Triste la faccenda di Yann, ma un viaggio nella costellazione si può dir buono se soltanto uno ci lascia la pelle.»

Trehearne disse amaramente: «C’è anche qualcun altro.»

Joris lo fissò senza capire.

«Oh, non uno dell’equipaggio. Un ragazzo indigeno, pazzo di fare un volo interstellare. Si era nascosto nella stiva.»

Tutta la luce scomparve dal volto di Joris, lasciandolo opaco. Passò un po’ di tempo prima che parlasse e fu solo per dare i consueti ordini riguardo all’astronave. Pareva aver perduto tutto il suo gioioso interesse. Trehearne si stupì dell’effetto che quelle poche parole intorno a un ragazzo sconosciuto avevano fatto sul vecchio.

Joris se ne andò subito dopo. Disse a Trehearne: «Ci vedremo domani o dopo. Ora penso che Shairn ti aspetti all’uscita.» Parlò come se la sua mente fosse lontana da quanto diceva. Si volse, poi esitò e chiese: «Quanti anni aveva quel ragazzo Trehearne?»

«Sedici circa.»

Joris annuì, si allontanò per la piattaforma come portasse sulle spalle massicce un grave peso. Trehearne firmò i suoi bollettini davanti all’ufficiale incaricato dello scarico e andò in cerca di Shairn. Ella stava al di là del grande cancello a sbarre, in attesa. Era bella proprio come la ricordava e le disse: «Non mi hai ancora dimenticato, allora?»

«Non te lo aspettavi?»

«Non ne sarei stato sorpreso!»

Rise, la sua dolce risata familiare venata d’ironia. «Sei saggio.» Piegò un poco la testa all’indietro e lo osservò attentamente. «Sei cambiato. Sei così abbronzato e duro, e un po’ più vecchio. Mi piaci ancor di più adesso. Ma bisognerà che impari a conoscerti di nuovo.» Lo guidò a lungo, lucente veicolo che attendeva lì accanto. «Sarà bello» disse «questo conoscersi da capo!»

La grande strada li condusse a nord lungo la costa, lontano dal frastuono della base e dalla città gli scogli emergevano dal mare dorato, selvaggi e impervi.

Lei chiese improvvisamente: «Come hai fatto?»

La manica gli era scivolata indietro e guardava le cicatrici sul suo polso.

«Qualcuno mi ha aizzato contro dei segugi» rispose Trehearne con indifferenza. Poi: «Per passare ad altro, come sta Kerrel?»

«Non l’ho più visto.» Guardò di nuovo le cicatrici. «Come v’è riuscito?»

«Come è riuscito chi a far che cosa?»

«Oh, smettila di fare il furbo! Sentivo che Kerrel avrebbe tramato qualcosa per questo viaggio. Non è uomo da accettare tranquillamente una sconfitta.»

Trehearne le raccontò in breve la storia di Yann e dei segugi. E concluse: «Voglio vedere Kerrel.»

«Certo!» Gli occhi di Shairn scintillavano. «E voglio essere presente quando lo vedrai!»

La macchina percorse una curva e là, sulla grande rupe scoscesa, apparve la massa indistinta della Torre d’argento, l’avita dimora di Shairn costruita da generazioni di uomini e donne vardda che si erano tesi con tutte le loro forze alla conquista delle stelle.

Per qualche tempo, con Shairn, si dimenticò di Kerrel e di Torin e di tutte le cose che gli turbavano lo spirito. Sapeva solo che era bello essere in quel luogo. Era sera quando se ne ricordò. Sedevano nella galleria, sorseggiando i frizzanti vini freddi e Shairn chiese: «Sei felice Michael?»

Egli rammentò che un’altra volta gli aveva fatto quella domanda, la notte in cui Edri si era allontanato solo per il viale alberato. Rammentò Edri che gridava nel buio contro l’ingiustizia e d’un tratto la vecchia inquietudine lo riassalì. «Sì» rispose. «Sì, sono felice.» Rigirò il bicchiere tra le mani, assorto. «Shairn, potresti far venir qui Edri? Mi piacerebbe vederlo.»

La sentì irrigidirsi e ritrarsi e pensò si fosse irritata con lui. Continuò: «Non intendevo ora. C’è tempo domani. Ma io… Bene, voglio parlargli.»

«Hai simpatia per Edri, vero?»

«Mi è stato buon amico.»

«Sì, lo è stato anche per me.»

Tacque per un momento e poi si allontanò da lui. «Tanto vale che tu lo sappia ora. Edri è stato arrestato un mese fa.»

Trehearne balzò in piedi: «Arrestato?»

«Sì. Hanno pronunciato la sentenza ieri. Esilio a Thuvis: a vita.»

15

Per un momento Trehearne rimase immobile, come stordito. Thuvis, a vita!

Ricordava quel pianeta oscuro, inesprimibilmente desolato, di un sole morente che Shairn gli aveva mostrato nel proiettore del microfilm durante il viaggio dalla Terra a Llirdis.

«No» disse. «Non Edri. Ci deve essere un errore.»

Shairn scosse il capo. «Lo vorrei tanto, ma non è così. Edri è un Orthista, arrestato, confesso e condannato. È stato perfino incapace di difendersi.»

Si ritrasse un poco. «Anche a me dispiace. Ma Edri sapeva quel che faceva. L’ha voluto.»

Trehearne chiese: «Che cosa è accaduto?»

«Ricordi quella notte nel parco quando Kerrel parlò di un certo Arrin che era stato arrestato?»

«Sì. Era un amico di Edri.»

«Bene, non riuscirono a trovare certi documenti in possesso di Arrin. Ne avevano estremo bisogno. Pare che Arrin avesse individuato qualche traccia del percorso seguito dall’astronave di Orthis in quell’ultimo viaggio da cui non tornò, e stesse facendo dei calcoli.»

Si interruppe, poi aggiunse amaramente: «A Kerrel venne l’idea che Edri avesse quei documenti.»

Nei gialli occhi di Trehearne passò uno strano lampo maligno. «Allora Kerrel fu la causa di tutto questo?»

«Sì. Era suo dovere in qualità di agente del Consiglio fare le necessarie investigazioni e se ne occupò con molta intelligenza. Ebbene, Edri aveva non solo quei documenti, ma degli altri di sua proprietà.»

Trehearne sbuffò. «Stupido idealista. Perché non si accontentava di essere un Vardda, infischiandosene del resto della Galassia!»

Shairn parve sollevata. «Ecco quel che ho detto anch’io! Ma conoscendo la tua amicizia per Edri temevo che avresti perso la testa quando l’avessi saputo.»

Proseguì in fretta: «So che vorrai fare i conti con Kerrel per questo e per quello che è capitato a te. Ma dovrai essere prudente, trattandosi di un agente del Consiglio. Io posso aiutarti…»

Ma la voce di Shairn si affievolì all’orecchio di Trehearne che aveva colto solo una frase: «"…conoscendo la tua amicizia per Edri…".»

Sì, Edri era stato suo amico. Gli dispiaceva per Edri. Ma avrebbe permesso che l’amicizia lo trascinasse come una catena lontano da tutto quanto aveva sognato e desiderato e infine raggiunto?

No! Non si sarebbe lasciato intrappolare dall’amicizia e dalla pietà! Aveva semplicemente ceduto a una facile emotività simpatizzando per le popolazioni non-vardda avide di conquistare la libertà delle stelle, ricordando il disperato desiderio del loro sguardo, rodendosi per la morte di Torin.

Un fatale presagio di dolore si fece strada in Trehearne quando si rese conto della decisione che si andava formulando nella sua mente. Sapeva che era ispirata dall’emozione, non dalla ragione, e sentì un violento disprezzo per la sua propria debolezza.

Parlò, interrompendo Shairn. «Scusami, Shairn, ero soprappensiero. E penso che devo cercare di aiutare Edri.»

Ella taceva, guardandolo con grandi occhi fissi. Poi, rapidamente disse: «Michael! Non fare l’idiota!»

Rise senza allegria. «Me l’hai detto prima. Me lo dico anch’io, ora. Ma non serve. Pare che io sia deciso a comportarmi da idiota.»

«Ma la prendi troppo sul tragico! Dopo tutto, Edri non verrà mica giustiziato.»

Ricordando le parole di Edri a proposito del destino di Arrin, Trehearne rispose: «Penso che quasi lo preferirebbe. Esilio in una stella remota, mai più volare, nulla da fare se non aspettare la morte…»

«Ma non puoi farci nulla, Michael! È stato ritenuto colpevole, condannato. Lo portano via stanotte. Così è un episodio chiuso.»

Trehearne si alzò in piedi. «Torno in città, Shairn.»

«Perché?»

«Vado a vedere se posso salvarlo.»

Ella comprese allora l’entità e la gravità della sua decisione. Lo afferrò rudemente per un braccio.

«Vuoi gettar via per nulla tutto quello che hai faticato tanto a conquistare? Ricordati, Edri è un traditore. Non importa se era buon amico di entrambi, è un traditore e merita la pena che gli è stata inflitta.»

«La pensi così, eh?»

«E come potrei pensarla diversamente? Sai quanto me che cosa sono gli Orthisti.»

Trehearne replicò con voce piatta: «Non ne sono così sicuro. Forse faresti meglio a dirmelo.»

«Sono dei distruttori. Vogliono mandare in rovina Llirdis, l’impero dei Vardda, tutta l’attuale organizzazione.» La sua voce appassionata evocava le vie stellari, le veloci astronavi in volo, l’orgoglio e le conquiste della razza dei Vardda.

«Orthis aveva il suo laboratorio a bordo dell’astronave. Il segreto della mutazione dei Vardda è là. Essi vogliono ritrovare l’astronave. Vogliono scoprire il segreto e svelarlo a tutta la Galassia.»

«Sarebbe così terribile» chiese Trehearne «se altri avessero la capacità di volare tra le stelle?»

Lo guardò come avesse detto una bestemmia. Egli soggiunse: «Eccettuato il fatto, naturalmente, che ciò spezzerebbe il monopolio dei Vardda.»

«Suona strano detto da te» esclamò lei con amarezza. «Tu, lo straniero che si batte con tanto accanimento per aver parte nel monopolio. Allora ti parve meraviglioso, dopo trentatré anni durante i quali avevi guazzato nel fango della Terra!»

«Ho visto altro, ora. Ho visto un ragazzo morire per questo. Non credo di poter ancora approvare il vostro sistema.»

«Tu non lo approvi?» La sua voce era bassa e fremente. «Tu? E che cosa ne sai? Noi abbiamo conquistato il diritto di possedere ciò che abbiamo. Noi fummo i primi tra le razze della Galassia ad avventurarci negli spazi interstellari. E lo facemmo senza mutazioni, senza nulla! Quel primo viaggio richiese quattro generazioni. Quattro generazioni di bambini nati negli spazi profondi, in una piccola astronave vagante tra le stelle! Nessun altro fece mai nulla di simile. Nessun altro osò mai! E quanto al nostro crudele monopolio, è quello che mantiene la pace nella Galassia. Tiene in vita mondi che sarebbero scomparsi. Porta ricchezza e benessere dove non c’erano. Ma a te non piace e così bisogna distruggerlo!»

Tacque per riprendere respiro e poi mormorò: «Kerrel aveva ragione nel non voler accogliere stranieri. E io mi vergogno di averti amato!» Gli voltò le spalle allontanandosi veloce per la galleria. Nei suoi modi c’era una decisione precisa che diede a Trehearne un senso di malessere. La seguì e la trovò al videofono. Lo schermo stava già per illuminarsi. Lo guardò con occhi ardenti. «Mi sono battuta una volta perché tu venissi accolto a Llirdis. Ora riparerò il mio errore!»

Trehearne allontanò di scatto dall’apparecchio e chiuse l’interruttore. Lei lo assalì come una gatta, le unghie tese, chiamandolo bastardo, mostro e peggio, infuriando contro la sua ingratitudine. Era difficile fermarla, ma egli vi riuscì non consentendole di raggiungere né il video né il campanello per chiamare i servi.

La trattenne ed ella gli rise in faccia con la sua risata beffarda. «Benissimo. Va’, allora. Va’ e fatti prendere, nel tuo tentativo di liberare Edri. Vedrai fin dove riuscirai ad andare. E ricordati che se è già brutto che un Vardda nato tradisca i suoi, per te è anche…»

La tenne ferma ancora un momento, soffocando l’ira che lo invadeva, riflettendo. Non poteva lasciarla andare. Il momento in cui si sarebbe allontanato lei avrebbe dato l’allarme, l’avrebbe denunciato al Consiglio, mettendo fine alla sua libertà e a ogni più vaga speranza di salvare Edri.

Gli ci vollero pochi secondi per prendere una decisione. Nello stato d’animo in cui si trovava non gli fu difficile vibrare il colpo necessario, accuratamente calcolato a ottenere l’effetto.

La portò nella macchina tenendola tra le braccia. Se qualcuno dei servi li avesse visti sarebbe sembrato un atteggiamento affettuoso, romantico, la bruna testa di lei sulla sua spalla, le braccia intorno al collo. Non avrebbero potuto vedere che aveva i polsi legati.

La depose dolcemente sul sedile imbottito. Non si mosse, Aveva già l’ombra di un livido sul mento. Salì accanto a lei e mise in moto la macchina per l’ampia strada che conduceva in città.

Quando fu a una certa distanza dalla Torre si fermò. Legò ben bene Shairn con strisce di stoffa strappate dai suoi stessi abiti, mettendo una cura particolare nell’imbavagliarla. La stese sul fondo della macchina, meglio che poté, in modo che nessuno potesse vederla. Poi continuò a guidare e non si fermò più finché raggiunse la base.

Le luci erano ancora accese nell’ufficio di Joris. Probabilmente vi sarebbe rimasto fino a tarda notte per sorvegliare l’imbarco di Edri sull’astronave-prigione. Si sentiva colpevole nei riguardi di Joris, come se stesse tradendo il proprio padre. Il vecchio era stato buono con lui.

Shairn pareva priva di sensi, poteva star tranquillo. Trehearne lasciò la macchina in un luogo dove poteva essere poco notata ed entrò nel palazzo dell’Amministrazione. Aveva in mente soltanto i vaghi contorni di un piano ma, comunque volesse attuarlo, doveva partire di lì.

Il frastuono e la confusione della base non erano diminuiti per l’oscurità. Conosceva alcuni degli ufficiali vardda. Gli fecero cenni di saluto, mentre li sorpassava nei corridoi, congratulandosi con lui per il suo viaggio, chiedendogli quando sarebbe ripartito. Trehearne quasi esitò, pensando quanto era idiota a rinunciare a tutto questo per una vana speranza. E poi ripensò a Edri e proseguì. Edri aveva fatto quanto era in suo potere per lui, quando ne aveva avuto bisogno, senza considerare se fosse o no un pazzo. Non poteva far di meno per Edri, gli pareva.

L’ascensore lo condusse a quella camera lassù, in alto, che era come il ponte di una nave che non avrebbe mai volato. Joris c’era. Era solo. Doveva aver bevuto molto, ma non era ubriaco. Alzò lo sguardo quando Trehearne entrò e i suoi occhi erano velati e cerchiati di rosso.

«Che volete?» disse.

«Un favore.»

«Un’altra volta, Trehearne. Ora fuori. Fuori, accidenti.»

«Un’altra volta non servirebbe.» Trehearne si curvò sul tavolo. «Stanotte portano Edri a Thuvis. Voglio dirgli addio, Joris. Questo è tutto, soltanto una parola prima che parta. Ditemi di che astronave si tratta e da dove parte, o se non potete dirmelo, indicatemi il settore e andrò a salutarlo fuori dai cancelli.»

«Giusto» disse Joris. «Siete amico di Edri.» Prese la bottiglia del vino. Ce n’era una vuota lì accanto e un’altra era sul pavimento. «Fino a che punto, Trehearne? Vorrei saperlo. Fino a che punto?»

Il suo sguardo iniettato di sangue era acuto e penetrante. Trehearne si schermì, irritato: «Sapete che io non c’entro. Sapete dove sono stato.»

«Sì, lo so. Siete stato a veder morire un ragazzo, negli spazi. Che cosa avete pensato quando l’avete visto, Trehearne? Che cosa avete sentito?»

«Non parliamone» disse Trehearne con asprezza. «Ditemi dove posso vedere Edri e quando. Non chiedo molto, Joris, solo un minuto per dire addio.»

«Un ragazzo di sedici anni» mormorò Joris «pieno di speranza, pieno di desiderio, orgoglioso della sua forza… Dovrei odiarvi, Trehearne. Non siete neppure Vardda per metà, rispetto alla normalità, eppure siete riuscito a volare tra le stelle.»

Si riempì di nuovo il bicchiere e lo vuotò. Le sue mani erano ferme. Non era né ubriaco, né alticcio. Non pareva possibile che Joris sapesse piangere.

«Joris» disse dolcemente «dimenticatevi del ragazzo. Lasciatemi vedere Edri.»

Ancora lo sguardo iniettato di sangue, pesante, si fissò nel suo, valutando, misurando. «Mi piacete, Trehearne. Così ve lo ripeto: uscite. Andatevene. Dimenticatevi di essere venuto qui.»

Trehearne non si mosse. Di scatto Joris afferrò la bottiglia vuota e la scagliò non esattamente contro di lui, ma a breve distanza. «Uscite, idiota! Vi offro l’occasione di andarvene!»

Non c’era altro da fare che obbedire. Trehearne si avviò alla porta, pensando irritato che avrebbe dovuto rischiare.

Stese la mano alla maniglia e la porta si aprì e si trovò a guardare entro la lente prismatica di un disgregatore impugnato da una robusta guardia della base. Shairn era accanto alla guardia.

La guardia intimò: «Indietro.»

Trehearne arretrò. Guardò Shairn.

«Avrei dovuto darti un altro colpetto, tanto per essere più sicuro.»

«Davvero. Mi sono liberata i piedi con estrema facilità. Questa seta non è molto resistente.» Gli passò accanto dirigendosi verso Joris. La guardia entrò e chiuse la porta, appoggiandovisi col dorso.

Joris domandò: «Che succede?»

«L’ho trovata fuori dai cancelli» spiegò la guardia. «Era imbavagliata e aveva le mani legate.»

«Trehearne» disse Shairn a Joris «è un Orthista. È venuto qui per aiutare Edri a fuggire.»

«Davvero?» disse Joris. «Davvero!» Guardò Trehearne. «Rimanete dove siete. Non fate inutili tentativi.» Estrasse dal cassetto della tavola un altro disgregatore e puntò su di lui la lente prismatica.

«Orthista, eh?» ripeté piano. E cominciò a ridere.

16

Shairn sedette sul bordo del tavolo di Joris. Sorrise a Trehearne e in quel momento egli la odiò. Volse lo sguardo da Joris alla guardia e rimase immobile. Non c’era nulla da fare.

«L’avresti creduto, Joris» riprese Shairn. «Avresti pensato che sarebbe passato ai nostri nemici dopo tutto quanto abbiamo fatto per lui?»

Joris si appoggiò allo schienale della sedia. «Shairn» disse «mi dispiace che le cose siano andate a questo modo.»

«Sì» rispose lei, e soggiunse amaramente: «Kerrel aveva ragione, dopo tutto.»

Joris obiettò: «Non intendevo dire questo.»

Qualcosa nel tono della sua voce costrinse Shairn a voltarsi e a guardarlo. Egli continuò: «Mi dispiace che tu sia immischiata in questa faccenda. Tu stai semplicemente facendo quanto credi giusto. Ma così è anche per Trehearne. Così è anche per me.»

Lanciò la sua bomba con tanta tranquillità che per un istante né Shairn né Trehearne furono certi di aver capito.

Shairn saltò giù dal tavolo. Arretrò, gli occhi fissi su Joris in un’espressione di atterrita incredulità. «Tu, Joris! Tu, Orthista!» Il tono stesso delle sue parole negava il significato.

Ma Joris annuì: «Sì.»

D’improvviso Trehearne rise. Shairn si voltò. «Avete sentito?» disse alla guardia. «Arrestate Joris!»

La guardia scosse il capo e sorrise. «Difficile. Io sono agli ordini di Joris.»

Fu la volta di Shairn, ora, a sentirsi intrappolata, a cercare scampo e a non trovarlo.

Trehearne disse: «Posso muovermi, ora?» La sua voce tremava un poco di sollievo.

Joris sogghignò. «Non volevo che andaste in giro qui intorno. Qualcuno poteva aversene a male.»

Shairn sbottò: «Non riesco a capirlo, Joris! Tu, tra tutti… ma è pazzesco!»

«Forse. Ma penso che Trehearne capirebbe!» Si guardò le mani, aggrottando la fronte, assorto, e poi disse: «Non importa che lo si sappia ora. Io violai la proibizione. Sposai una donna di un altro mondo, una non-Vardda. Ebbi un figlio. Voleva volare tra le stelle. Mi supplicava di portarlo a bordo della mia astronave. Dopotutto era mio figlio, era semi-Vardda. Era convinto di farcela. Si nascose nella mia cabina e… il sangue dei Vardda non era passato genuino in lui.» Lanciò una rapida occhiata a Trehearne. «Non aveva ancora diciott’anni. Dopo questo non viaggiai più.»

Si alzò, rovesciando con un calcio la bottiglia vuota. «Penso che per questo offrii subito a Trehearne la possibilità di volare. Mi pareva di riparare in certo qual modo a…»

S’interruppe improvvisamente. «Bene, è cosa passata e conclusa. Abbiamo altro a cui pensare e non rimane molto tempo a nostra disposizione. Trehearne, avete scombussolato gravemente i miei piani, portando qui la signorina Lanciafiamme.»

«Non era nelle mie intenzioni.» Si avvicinò a Joris. «È vero allora? Intendete liberare Edri?»

«Intendo tentare. Vedete, è una cosa che mi è possibile fare soltanto una volta. Sono rimasto qui per anni a vedere tanta brava gente partire per Thuvis, ad aspettare, ad aspettare l’occasione in cui un’azione da parte mia potesse avere veramente il suo peso. Ora ci sono.» Si volse e gettò una vivida occhiata a Shairn. «Il problema principale è: che cosa ne facciamo di te?»

Ella rispose con rabbia, senz’ombra di paura: «Qualunque cosa farai vivrai abbastanza per pentirtene!»

«Mhmm» fece Joris. «Legatela ancora, Trehearne.»

Lo fece con immenso piacere. Questa volta si servì di lacci più resistenti e si diede un gran da fare con i nodi.

Joris passeggiava avanti e indietro, immerso nei propri pensieri. «Mi ripugna il dirlo ma so soltanto un luogo dove non c’è pericolo che la trovino prima che noi partiamo. Ed è a bordo dell’astronave.»

La guardia osservò: «Non ci sarà tempo di portarla fuori.»

«Lo so» ammise Joris cupo. «Così pare che avremo un passeggero in più.»

Trehearne aveva finito di imbavagliare Shairn. La guardò. Gli occhi le ardevano e il viso era bianco al di sopra del bavaglio. Joris le gettò il suo mantello sulle spalle. «Portala da basso con il mio ascensore privato» disse alla guardia. «Il settore e già stato sfollato così non avrai guai di nessun genere laggiù. Portala a bordo e assicurati che non possa uscirne.»

La guardia annuì. Prese quella specie di grande fagotto avvolto nel mantello e se lo caricò sulla spalla. Il segnale del videofono vibrò improvvisamente. Joris fece cenno all’uomo di affrettarsi, attese che se ne fosse andato per rispondere. Trehearne si appiattì contro la parete per essere fuori dal raggio di riflessione dello schermo.

La voce di Kerrel disse: «Joris, tra un quarto d’ora esatto portiamo giù Edri. È tutto pronto?»

Joris annuì. «Il settore è libero, le guardie sono al loro posto e l’astronave è pronta per partire.»

«Bene. La cosa ha fatto molto scalpore e non vogliamo avere guai.»

«Ho provveduto personalmente a tutto» gli rispose Joris.

Lo schermo si oscurò. «Che porco!» disse Joris. «Fa solo quello che crede giusto, ma è così dannatamente fanatico. Agente del Consiglio. Bah!»

Di scatto prese Trehearne per le spalle in una stretta poderosa che quasi lo spezzò.

«Sono contento che tu sia con noi. Sei armato?»

«Sì.»

«Vieni, allora. Questa è la fine della mia lunga attesa. Ritorno allo spazio, Trehearne! Intendo fare quanto mi proposi di fare un giorno, fin da quando vidi morire mio figlio. Vieni dunque… Andiamo!»

Discesero nel minuscolo ascensore privato e uscirono dall’edificio avviandosi verso un settore sorvegliato, dove le luci splendevano su astronavi silenti, dove non vi erano folle formicolanti di opera; non-vardda, non frastuono di macchine o sibilo di carrelli in corsa, ma soltanto le piattaforme deserte dei grandi docks e gli spazi vuoti tra l’uno e l’altro.

Cammin facendo Joris spiegò a Trehearne che cosa doveva fare. «Soltanto le guardie al cancello e le quattro che si occuperanno degli uomini di Kerrel appena si faranno vivi, sono ai miei ordini. Le altre speriamo saranno troppo lontane per interferire. Ma non avremo tempo per indugiare.»

«Dov’è la nave-prigione?»

«So che si trova al limite estremo del settore. E troveranno i generatori fulminati quando tenteranno di inseguirci. Gli Orthisti hanno grande autorità tra i non-Vardda. I meccanici sono stati ben contenti di rendermi questo piccolo servizio!»

Joris parlò brevemente di Trehearne alle guardie che fecero un cenno di saluto. «In una decina di minuti» disse Joris. «La ragazza è a bordo?»

«Tutto è a posto signore.»

«Bene. Andiamo, Trehearne.» Oltrepassò due dei giganteschi docks. Quando raggiunsero il terzo si trovarono fuori portata di vista e di udito rispetto ai cancelli. In questo terzo dock c’era ancora una lunga astronave dalla forma slanciata, non illuminata, avvolta nel più profondo silenzio. Tutti gli sportelli chiusi tranne quello della camera di compressione.

«Ecco la Mirzim, la nave su cui dobbiamo imbarcarci» disse Joris. «Un mercantile leggero per lunghe distanze, costruito per le grandi velocità. Bene, ne avremo bisogno. Appartiene, ti dirò, a un mio buon amico. Dovrà rifarsi sui due buoni cargo che io lascio a Llirdis.» Soggiunse: «L’equipaggio attende a bordo, ora. Si tratta in realtà solo di mezzo equipaggio, non molti fra i navigatori e i tecnici sono Orthisti fidati.»

Fece cenno a Trehearne di appostarsi nell’ombra all’angolo della piattaforma. «Li aggrediremo qui. Cerca di non uccidere nessuno. Non appena Edri sarà libero corri alla Mirzim.»

«Bene.» Trehearne si ritirò nella chiazza d’ombra, fuori dalla vista di chiunque potesse passare per lo spiazzo. Teneva pronto in mano un disgregatore. Joris se ne era già andato avviandosi al cancello.

Trehearne ascoltava i rumori della base. Il vento portava l’aspro odore del mare; in lontananza si scorgevano le torri splendenti della città. Pensò che era forse l’ultima volta che vedeva Llirdis. Sentì un’acuta fitta di rimpianto e poi, proveniente dal cancello udì il passo cadenzato di circa una dozzina di uomini che si dirigevano rapidamente alla sua volta. Fu contento che l’attesa fosse finita.

Non si mosse, ma il suo corpo fremette, preparandosi.

C’era Joris che precedeva gli altri con Kerrel. C’erano quattro uomini senza uniforme. C’era un quinto uomo e accanto a lui Edri con il polso destro assicurato a quello sinistro dell’altro. Vi erano altri quattro uomini senza uniforme, poi le quattro guardie di Joris. La testa della piccola colonna superò l’angolo del terzo dock. Le quattro guardie ruppero le file e sfoderarono i loro disgregatori, dirigendone le pallide scariche con mira precisa in modo da non colpire Edri.

Trehearne balzò fuori dall’ombra e si unì a essi.

Tre degli uomini di Kerrel caddero a questo primo assalto. Due avevano perduto i sensi, ma uno era ancora in grado di usare il suo disgregatore. Joris aveva preso Kerrel di sorpresa e l’aveva steso a terra servendosi semplicemente di quel gran martello del suo pugno. Poi estrasse la propria arma e si lanciò nella mischia.

Si iniziò una lotta all’ultimo sangue, una rissa violenta che aveva Edri per centro. Edri si accapigliò con la sua guardia e caddero entrambi, lottando, impacciati dalle manette.

Da tutte e due le parti si rinunciò a usare le armi. La lotta era troppo serrata, ormai, un orribile e cieco garbuglio di mani e di piedi, uomini che rotolavano l’uno sull’altro, avventando colpi, nella fretta, contro i loro compagni, cadendo, rialzandosi, chiamando aiuto, imprecando, sbalorditi, furenti.

Trehearne, nel tentativo di arrivare a Edri colpì un uomo con tale violenza da spaccargli la faccia e ne lasciò un altro barcollante. Poi fu mandato a gambe all’aria e preso a calci mentre cadeva. Si trovò steso sopra a Edri, che mugolò e lo colpì, poi ansimò: «Oh, sei tu; la chiave è nella sua cintura.»

Trehearne vibrò il pugno. La testa dell’uomo batté contro il selciato. Giacque immobile e Trehearne si impadronì della chiave. Poi un grave peso piombò su di lui da dietro, schiacciandogli il viso contro il cemento. La mano con cui teneva la chiave fu stretta in una morsa d’acciaio. Si divincolò cercando di liberarsi dal suo assalitore e nel frattempo Edri aveva afferrato la mano di questi, lottando e avvinghiandosi con l’accanita determinazione di impadronirsi della chiave.

Vi riuscì. Trehearne cercò di infilare le ginocchia sotto il corpo dell’uomo e di liberarsene. Vide il volto di Kerrel vicino al suo. In un secondo i due uomini si afferrarono per la gola. S’aggrapparono l’uno all’altro, petto contro petto come due amanti. Calpestati e schiacciati dai piedi degli altri, dimentichi di tutto. Edri riuscì a liberarsi e si alzò. Avrebbe voluto avventarsi contro Kerrel, ma Trehearne ansimò: «No, me ne occupo io!»

Kerrel sorrise, un ghigno angosciato. I suoi pollici s’affondarono nel collo di Trehearne. Trehearne lasciò andare la gola di Kerrel. Strinse i pugni e sferrò un colpo dal sotto in su. La testa di Kerrel ricadde indietro. Le sue mani allentarono la stretta. Trehearne se ne liberò. Si avventò sopra Kerrel, lo colpì con forza in viso finché la testa di Kerrel penzolò come la testa di un morto.

Mani lo afferrarono tentando di trascinarlo via. Ma egli sfuggì alla presa. Kerrel gemette e si voltò su un fianco. Trehearne lo colpì coi piedi calzati di sandali. «Questo è per Yann» grugnì. «E questo per i segugi e per Torin.»

Una voce gli urlò: «Lascialo andare, dannazione! Lascialo andare!» Un braccio possente lo allontanò. Riconobbe Joris. Si udivano grida lontane avvicinarsi. Gli uomini di Kerrel erano stesi a terra o dispersi. Quelli di Joris correvano verso la Mirzim, trascinando alcuni che erano tramortiti o parzialmente paralizzati. Edri con il viso sanguinante si affrettava allegramente urlando di fare presto.

Trehearne scosse il capo come per schiarirsi le idee. Corsero accanto a Joris inciampando su per la scaletta di metallo che conduceva alla piattaforma. Fu l’ultimo a salire a bordo. Joris abbassò una leva e lo sportello si chiuse ermeticamente con un sibilo d’aria compressa.

All’istante le luci si accesero. I grandi generatori si risvegliarono. Joris s’avviò pesantemente per il lungo corridoio seguito da Trehearne. C’era un altro uomo seduto là, ma Joris subentrò al posto del pilota.

Trehearne attese con ansia, ma Joris non toccò i controlli. Rimase seduto là a contemplarsi i pugni ammaccati.

«Che cosa diavolo, aspettate?» gridò Trehearne. «Abbiamo pochi minuti al massimo!»

Joris lo guardò calmo. «Abbiamo anche una sola vita. E possiamo perderla partendo al momento sbagliato e andando a urtare contro qualche nave in arrivo. Sono al corrente degli arrivi e delle partenze. Aspetta.»

Trehearne attese. Non li poteva udire dall’interno dell’astronave, ma sapeva che oramai gli allarmi dovevano risuonare per tutta la base. Era pazzia aspettare. Era un arrendersi da vigliacchi. Meglio correre il rischio di una collisione suicida che aspettare.

Ma Joris continuava ad aspettare, un occhio fisso sul cronometro finché attraverso la finestra Trehearne vide luci accendersi fuori e uomini accorrere e poi scorse l’ombra di una grande astronave calare dal cielo, e sorvolarli. Joris grugnì, premette i comandi. «Attenzione.»

La Mirzim si levò in un arco sibilante che schiacciò Trehearne contro il ponte. Si aggrappò a un sostegno. E pregò il cielo che Joris non avesse perduto la sua abilità.

In realtà Joris sapeva il fatto suo. Anche la carne di un Vardda ha delle possibilità limitate. Così pure il metallo e l’ossatura di un’astronave. Joris conosceva perfettamente il loro limite di resistenza. Il percorso era già stato calcolato. Uscì dal sistema di Aldebaran, tracciò le coordinate e trasmise i segnali alle cabine dei generatori. Il loro gemito si levò alto e l’ago sul quadrante dell’accelerazione salì. Trehearne osservava con gli occhi fuori dall’orbita, ansimando sotto la pressione, contenendo a fatica l’impulso di gridare. Il secondo ufficiale era aggrappato alla sedia, il viso bianco.

Joris osservava il quadrante. In quel preciso momento premette di nuovo i tasti di trasmissione. L’ago cessò di oscillare nella sua pazza ascesa, e prese a salire con lenta regolarità.

Joris si volse, guardò i suoi compagni e scoppiò in una risata. Per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, il suo volto era quello di un uomo completamente felice.

Trehearne si alzò barcollando. Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò il viso. Era bagnato di sangue e di sudore. «Ebbene» disse «siamo in volo. Ma se non vi spiace dirmelo ora, Joris: dove diavolo siamo diretti?»

«Mhmm» fece Joris. «Ti può sembrare un po’ strano dato il complesso delle circostanze.»

Rise ancora con sincera allegria.

«Te lo dirò, Trehearne, siamo diretti a Thuvis.»

17

Trehearne fissò Joris attonito. Un rivoletto di sangue gli scendeva dal naso alla bocca. Dimenticò di asciugarlo.

«Scherzate» disse.

«Affatto.» Fu Edri che rispose. Era salito sul ponte dietro Trehearne. Gridò di buon umore: «Maledetto te, Joris, che cosa cerchi di fare, ucciderci tutti prima di partire?»

«Ci inseguiranno subito» disse Joris. «Dobbiamo prendere il massimo vantaggio possibile.»

Trehearne domandò: «Perché andiamo a Thuvis?»

«Un poco» disse Edri semplicemente «per salvare gli uomini che se ne stanno là a marcire, ma soprattutto perché dobbiamo prendere con noi Arrin. Vedi, Trehearne, egli fu arrestato prima di poter finire i suoi calcoli. Quando tentai di continuarli, vi aggiunsi parte del mio materiale, ma l’elemento che manca non vi è contenuto. Arrin è l’unico che ne sia a conoscenza. Deve essere così, altrimenti non avrebbe potuto arrivare tanto lontano. Ora, se riuniamo quanto ciascuno di noi sa…» Edri sospirò. «È stata una lunga, interminabile lotta. Mille anni trascorsi a mettere insieme dicerie, leggende e voci popolari, a dar la caccia a frammenti di lettere e documenti segreti, a scavare in un mucchio di corbellerie in cerca di un piccolo brandello di verità. Le autorità vardda di quel tempo soppressero o distrussero ogni testimonianza connessa con l’ultimo viaggio di Orthis. E fecero un buon lavoro. Finora nessuno ha mai saputo in quale zona della Galassia avvenne l’ultimo inseguimento.»

Tacque assorto. «Sì, una lunga lotta. E se ci sbagliassimo, ciò significherebbe la fine di ogni speranza per la nostra generazione. Altri dovrebbero ricominciare da capo le ricerche.»

La domanda gli parve crudele, ma Trehearne non poté astenersi dal farla.

«Vi sono le prove che l’astronave di Orthis esista ancora?»

«No. Sappiamo soltanto che al tempo in cui Orthis sfuggì ai suoi inseguitori e scomparve non era stata distrutta. Perché, come ti ho detto, molto tempo dopo una delle scialuppe della sua astronave fu ritrovata nello spazio con l’ultimo messaggio di sfida che Orthis indirizzò alla Galassia.»

Edri tacque, poi soggiunse: «Ti meravigli che veneriamo un simile uomo?»

«Penso» disse lentamente Trehearne «che tu abbia il suo stesso coraggio.»

«Può darsi» rise Edri «So soltanto che ho una sete spaventosa. Non hai dimenticato di far provvista di vino, Joris?»

«Dio mi guardi!»

«Andiamo a bere.» Edri prese Trehearne per un braccio. «E ora puoi raccontarmi una storia: da dove vieni, che cosa diavolo fai qui?»

«Non ora» disse Trehearne senz’alcun entusiasmo. «Penso che sarebbe meglio per me andare a vedere che ne è di Shairn.»

Edri spalancò la bocca dallo stupore: «Shairn?»

«Sì, purtroppo, Shairn.» Spiegò rapidamente come la passeggera involontaria fosse salita a bordo. Edri parlò a voce bassa e dura. «Questo non semplificherà certo le cose. Non possiamo lasciarla a Thuvis e non possiamo fermarci da nessun’altra parte.»

«Non si è potuto farne a meno» borbottò Joris.

«Ah, no. Bene, penso sia meglio che io venga con te, Trehearne. Non credo sia prudente che tu ci vada solo.»

La trovarono chiusa nella cabina di un ufficiale, nella quale, per quel viaggio improvvisato, non vi era nessuno. Era ancora legata e imbavagliata. Dallo sguardo che lanciò loro, Trehearne pensò che li avrebbe uccisi entrambi se ne avesse avuto la possibilità.

La liberò e lei sedette sulla cuccetta, strofinandosi i polsi. Due segni rossi partendo dagli angoli della bocca le attraversavano le guance pallide là dove era passato il bavaglio. Le davano un’espressione comica come quella della maschera di un clown. Ma non vi era nulla di comico nel suoi occhi.

Ella non disse parola. Si sedette e lo guardò, semplicemente.

Edri disse: «Andiamo, Shairn. Un bicchiere di vino ti farà bene.»

Lo ignorò. Silenzio e i verdi occhi terribili fissi su Trehearne.

Le si avvicinò e le mise una mano su una spalla. «Sii ragionevole, Shairn. So che cosa senti, ma non abbiamo fatto nulla con intenzione. E siamo tutti tuoi amici, tu sia o meno d’accordo con noi.»

Si ritrasse, ma non in tempo. Le unghie di lei gli graffiarono la guancia. Si allontanò. Ella sedette e rimase immobile.

Trehearne girò sui tacchi e uscì. Edri lo seguì e serrò la porta. «Forse Joris riuscirà a parlarle» disse. Nella sua voce non c’era molta speranza.

«Oh, ne uscirà» replicò Trehearne. «Nessuno può insistere per sempre in una simile pazzia.»

Edri scosse il capo. «La conosco più di te. Non ci conterei.»

Il segnale di chiamata rimbombò sopra le loro teste. Era Joris che li convocava alla cabina di comando.

«Edri, tu e Trehearne salireste un momento quassù? C’è una brutta notizia.» I servizi di comunicazione erano sul ponte di poppa. Joris aveva lasciato i comandi al secondo ed era nel ristretto spazio alle spalle dell’operatore, intento ad ascoltare la sottile voce metallica che proveniva dal ricevitore ultrasonico.

"Linea Uno-Attenzione. Tutte le navi in Zona M 29… chiedono conferma radar su nave creduta in navigazione come segue…"

«Il radar della base avrà individuato le nostre coordinate al momento della partenza, naturalmente» osservò Joris. «Stanno solo controllando.»

«Ascolta» disse Edri.

La voce metallica finiva di ripetere le coordinate. Continuò: "Tutte le navi la identificheranno immediatamente se richieste. Tutte le navi la identificheranno…".

«Un astrocaccia» concluse Edri.

Joris si accigliò. «Ne possono equipaggiare almeno uno di fretta. Ve l’ho detto che dovevamo prenderci un buon vantaggio.»

Ritornò sul ponte per dare un’occhiata ai quadranti e dar ordine di accelerare i generatori.

«Dovremo raggiungere il culmine dell’accelerazione in metà del tempo normale o sarà come se fossimo rimasti a Llirdis. Vado a vedere che indicazioni dà il radar.»

Trehearne lo seguì; preoccupato dall’idea dei caccia. I Vardda non avevano navi da guerra vere e proprie, essendo nell’invidiabile posizione di non averne bisogno. Ma il Consiglio manteneva una flottiglia di apparecchi armati con un massimo di velocità notevolmente superiore a quello dei cargo, allo scopo di reprimere qualche occasionale manifestarsi di traffici illegali tra i Vardda stessi o di proteggere gli agenti inviati su pianeti barbari e pericolosi.

Sugli schermi del radar tridimensionale appariva il solito numero di piccole scintille rosse, gli impulsi di energia più veloci della luce, dei generatori dall’astronave. Joris li esaminò con occhio esperto.

«Ancora nulla di preoccupante. È troppo presto per dire qualcosa. La zona immediatamente alle nostre spalle è troppa gremita di astronavi provenienti dalla base.» Si volse a Quorn, l’ufficiale addetto ai servizi di comunicazione.

«In guardia, a poppa. Chiamatemi quando vedrete qualcosa di anormale. Possiamo sostituirvi di tanto in tanto, ma avrete ben poco tempo libero.»

La libertà era un problema in quel viaggio. Nessuno poteva goderne molta. Il numero degli uomini superava di poco la metà di quello normalmente richiesto da un equipaggio al completo in circostanze normali e alcuni non erano tecnici addestrati. Trehearne si trovò a dover fare un turno di otto ore nella cabina di comando a interpretare i quadranti e un altro ai servizi di comunicazione. Poiché, evidentemente, non c’erano trasmissioni da fare, poteva manovrare il ricevitore abbastanza bene da cavarsela.

La Linea Uno che era la voce ufficiale di maggior autorità del Consiglio dei Vardda continuò a chiedere conferma sulla loro rotta e a ottenerla.

Non passò molto che Quorn riferì che il radar indicava un punto rosso a poppa che sembrava seguire la rotta.

Calcolando la distanza dall’intensità era possibile stabilire la velocità media con cui si avvicinava. Joris ordinò che si aumentasse l’impulso dei generatori, incurante del fremito d’agonia dello scafo e delle reazioni ugualmente penose dei suoi uomini.

«Finché non caricheremo Arrin» disse «bisogna filare alla massima velocità. Thuvis è il primo posto che bloccheranno e solo una puntata diretta da parte nostra impedirà loro di farlo.»

Raggiunsero il culmine dell’accelerazione, la punta massima sopportabile dalla struttura dell’astronave. Joris la superò. Si raccomandarono a Dio.

Dall’oblò d’osservazione si cominciò a scorgere un diradarsi di astri più avanti. Sempre più vaste si fecero le zone d’oscurità e le colonie di soli meno numerose e più sparse. Le rosse scintille sullo schermo dei radar tremolarono e svanirono, finché rimasero soltanto due o tre mercantili isolati diretti a quei remoti sistemi planetari. Quei due o tre: e quell’unico che balenava costantemente a poppa.

Le ore divennero una lenta monotona continuità di osservazione, di tensione. Intontito per il sonno, Trehearne sbrigava meccanicamente le sue mansioni, dimenticandosi perfino di arrovellarsi su quanto stava per accadere. Ieri era lontano un’eternità, domani perduto nel nulla. C’era soltanto l’oggi ed egli era stanco.

La stessa cosa accadeva a tutti gli altri. Joris non era particolarmente provato e Trehearne si meravigliava della forza del vecchio.

Shairn era chiusa nella cabina. Non rivolgeva la parola a nessuno tranne al giovane che le portava da mangiare, ed era solo per mormorargli un secco grazie.

Davanti a loro l’oscurità si faceva più fonda. L’asse maggiore della Via Lattea passava sotto di loro. Al di là dei sistemi isolati si intravedeva il gorgo spento del vuoto assoluto. La sua buia inconsistenza riempiva Trehearne di un sottile orrore. Era come vedere il Caos originario prima della creazione.

Infine un nebuloso sole rosso apparve nel centro e cominciò a ingrandire. Gli schermi del radar rimanevano vuoti tranne che per l’implacabile scintilla rossa che era divenuta quasi una fiamma, paurosamente lucente.

Joris fece i suoi calcoli e di nuovo si raccomandarono a Dio.

In un tempo un poco minore del nonnaie compirono la manovra di decelerazione. Durante quel tempo nessuno mangiò e solo quelli che vi erano obbligati rimasero in piedi.

Thuvis apparve nel cielo, dinanzi a loro: un sole malato, che consumava le sue ultime forze, fissando con un vacuo occhio rosso la cosmica presenza della morte. Un solo pianeta ruotava intorno a esso.

«Dobbiamo fare in fretta» disse seccamente Joris. «Tienti pronto, Edri.»

La Mirzim atterrò su un arido tavolato battuto da rigidi venti. Quorn rimase in assidua vigilanza accanto agli schermi del radar ma tutti gli altri uscirono, lieti di calpestare il terreno, sia pure per pochi minuti.

La polvere portata dal vento sferzò Trehearne, penetrandogli nella carne come una miriade di piccoli pugnali gelidi. Il cielo era fosco, pur in pieno giorno, ma vi era qualche stella. Anche di notte non vi sarebbero state che quelle rade stelle. Il tetro bagliore di Thuvis si rifletteva rosso su quel sabbioso mondo deserto e là, dove un profondo burrone incideva il tavolato, l’ombra s’insinuava fitta come sangue rappreso. Trehearne non poteva immaginare un luogo più simile all’inferno.

Edri si era affrettato verso l’orlo del burrone. Trehearne lo seguì e guardò giù. Ai piedi delle ripide pareti, ai piedi delle paurose pietraie vi erano un groviglio di anemica vegetazione, alberi stenti e macchie che fumavano come piccoli crateri nell’aria gelida. C’era un abitato laggiù, tre o quattro costruzioni in plastica circondate da un muro e al di là del muro una patetica distesa di terra coltivata.

«Vengono» gridò Edri. «Hanno visto l’astronave…»

Uno stretto sentiero saliva ripido dal fondo del burrone. Alcuni uomini vi si stavano inerpicando. Trehearne li contò. Otto, dieci, undici uomini, tutti gli abitanti di questo mondo di estremo esilio.

Edri urlava. La sua voce echeggiava nel burrone con un sordo rimbombo. Altre urla gli risposero. Gli uomini sul sentiero cominciarono a correre. Scivolavano e incespicavano nella fretta, arrancando con le mani e coi piedi. Trehearne scorse i loro pallidi visi tesi verso di lui.

Li osservò arrivare: smunte disperate figure d’uomini battute dal vento con il grigiore della morte vivente addosso, faticosamente emergenti da quella profonda prigione illuminata di rosso in risposta ai richiami di Edri. Vide i loro occhi, gli occhi di uomini risveglati improvvisamente da quel terribile intorpidimento della mente che è peggiore di una completa distruzione.

Edri gettò le braccia al collo dell’uomo che si inerpicò per primo sull’orlo del precipizio. Non si trovava là da molto tempo, come gli altri, e l’effetto non era così profondo in lui. Si voltò e gridò ai suoi compagni di affrettarsi. La sua barba e i suoi capelli scarmigliati si gonfiavano al vento e la sua voce suonava selvaggia.

Edri gli gridò: «Non c’è tempo per parlare ora, Arrin, siete tutti qui?»

C’erano tutti. La fila di quei barbuti fantasmi s’affrettò verso la Mirzim. Mani si stesero prontamente ad aiutarli.

La voce di Quorn urlò nell’altoparlante: «Sono proprio sopra di noi. Fate in fretta!»

Joris si era precipitato sul ponte. Stava al suo posto, attendendo che il portello si chiudesse.

«Preparatevi alla partenza! State attenti!»

La sua mano si alzò per trasmettere i segnali. E poi Trehearne la vide esitare e ricadere. Dalla porta aperta della cabina di trasmissione giunse un’altra voce perfettamente intelligibile a quella breve distanza. La voce metallica del ricevitore.

"Abbiamo la vostra posizione. Non tentate di partire. Abbiamo la vostra posizione. Non tentate…"

Al di sopra delle spalle improvvisamente incurvatesi di Joris, Trehearne scorse attraverso l’oblò della cabina di comando la lunga forma agile di un astrocaccia, planare verso uno spiazzo non lontano.

18

Il volto di Kerrel apparve sul piccolo schermo. Non vi era bisogno ora di ultraonde, bastava la comunicazione per mezzo di un normale videofono. Edri e Joris gli risposero. Trehearne rimase sulla soglia in ascolto. Alle sue spalle c’erano gli esuli liberati, e un senso di nera disperazione gravava su di loro.

Kerrel fissava Edri e Joris con un’espressione di stanchezza e di odio insieme. Pareva avesse imparato che essere agente del Consiglio ha i suoi lati brutti. Ma non vi era il minimo segno di umanità nel tono della sua voce.

«I cannonieri hanno l’ordine di aprire il fuoco esattamente entro quindici minuti» disse. «In questo frattempo dovete sgomberare la nave senza portare con voi né armi né oggetti personali di alcun genere.» Ripeté: «Quindici minuti esatti.»

Joris lo guardò con occhi profondi e infossati. Negli ultimi minuti era invecchiato di vent’anni. Pareva gli fosse difficile parlare. Le mani di Edri erano serrate con tanta forza che le dita avevano un biancore d’ossa. Si agitavano convulsamente cercando qualcosa contro cui avventarsi senza trovarlo. Anch’egli pareva un vecchio.

«Quattordici minuti» annunciò Kerrel senza emozione. «State perdendo tempo.»

Edri si voltò bruscamente e si lanciò alla cieca oltrepassando Trehearne che lo afferrò e lo trattenne sulla soglia.

«Lasciami andare» gridò Edri imprecando. «Quel burrone è profondo. Tanto vale che mi getti ora. Non voglio che mi riprendano.»

«Un momento» disse Trehearne. Una improvvisa selvaggia speranza lo aveva invaso. Alzò la voce: «Kerrel! Kerrel, mi senti?» Era fuori dal raggio visivo dello schermo.

«Sì, Trehearne, ti sento.»

«Allora ascolta! Di’ ai tuoi uomini di aspettare a far fuoco. Abbiamo Shairn a bordo!»

Joris alzò il capo vivamente. Edri smise di divincolarsi. E sul volto di Kerrel riflesso nello schermo, passarono tutte le sfumature della sorpresa e dello sgomento, poi l’intuizione e un bieco compiacimento.

«Sei furbo, Trehearne» disse. «Ma non me la fai. Tredici minuti.»

«Vai a prenderla, Edri» ordinò Trehearne. Aveva la bocca arida, il corpo molle di sudore freddo.

Edri si precipitò nel corridoio. Trehearne si mise in una posizione da cui Kerrel lo potesse vedere. Sorrideva e si chiedeva se Kerrel potesse udire il battere del suo cuore contro le costole. Joris rimase immobile in attesa. Kerrel contava i minuti, e a ogni numero la sua voce diveniva meno ferma e i suoi occhi più incerti.

Rimanevano sei minuti quando Edri ritornò con Shairn e la spinse davanti allo schermo.

«Vedi?» disse Trehearne. «Non mentivo.»

Kerrel si dimenticò di contare. Fissava attonito la ragazza, i forti lineamenti sconvolti dall’indecisione. Pronunciò il suo nome una volta. Si volse bruscamente e scomparve dallo schermo. Lo udirono urlare in lontananza: «Non fate fuoco! Non fate fuoco! Hanno un prigioniero a bordo.»

Trehearne seppe allora di non essersi ingannato sulla profondità della passione dell’altro e stranamente questa consapevolezza gli fu amara.

Kerrel riapparve, e Shairn gridò: «Kerrel, il loro obiettivo non è solo di liberare questi esuli orthisti! Penso che…»

Trehearne le tappò la bocca con la mano. «Non importa che cosa pensa. La cosa importante è la sua vita. Quanto vale per te, Kerrel?»

Kerrel si passò nervosamente la mano sul viso e non rispose subito. Trehearne non mosse il palmo dalla bocca di Shairn.

Kerrel scosse il capo. «Tu non saresti capace di ucciderla, Trehearne.»

«Io, no» rispose Trehearne. «Ma io sono uno soltanto e ci sono tanti altri a bordo. Undici uomini di Thuvis per i quali la vita di una sola persona è ben piccolo prezzo per pagare la fuga da questo buco d’inferno. Su, Kerrel, quanto vale per te Shairn? Puoi averla libera; sana e salva.»

Kerrel chiese: «Che cosa volete?»

«Un vantaggio sulla partenza.»

«Non vi servirà a nulla. Non potete battere un caccia.»

Joris disse: «Vogliamo tentare!»

Kerrel esitò di nuovo: «Quali condizioni fissate?»

Trehearne rispose: «Ci lascerete partire e noi vi garantiamo di deporre Shairn al sicuro sull’altra faccia di questo pianeta. Voi rimarrete qui con la vostra astronave finché non riceverete da noi il messaggio che la cosa è stata fatta. Potremo controllare a vicenda le nostre azioni per mezzo del radar e se i vostri generatori si metteranno in moto prima della nostra seconda partenza, lo sapremo.»

Kerrel rifletté e poi chiese cupo: «Che sicurezza posso avere io che la lascerete realmente a Thuvis?»

«La mia parola» rispose Trehearne. «O ti fidi o falla saltare in aria subito con tutti noi.»

Ci fu un altro lungo, intenso momento di silenzio. E poi Kerrel disse: «Benissimo.» Pronunciò la parola come se acquistasse sulla sua lingua un sapore di vetriolo.

Joris uscì dalla cabina di trasmissione con un solo lungo passo. Kerrel guardò Shairn e gridò: «Aspettate, dovete trasmetterci la vostra posizione quando la lascerete a terra.»

«Va bene.»

Trehearne chiuse l’interruttore. Lo schermo rimase vuoto. I generatori frementi sollevarono l’astronave in un turbine e dal caccia non giunsero colpi di cannone. Trehearne allentò la stretta su Shairn. La reazione e il sollievo gli facevano tremare le ginocchia così che gli era difficile resistere ai sobbalzi dell’astronave.

Shairn si volse a guardarlo: «Sei un idiota, Michael» sibilò. «Ma te lo concedo: non sei un vigliacco.»

La richiuse nella cabina e ritornò sul ponte. Joris osservava attentamente la proiezione in microfilm della carta del pianeta.

«Qui» decise, indicando un vasto deserto. «Qui starà al sicuro finché non la raccoglieranno; in queste solitudini non ci sono animali da preda.» Gettò un’occhiata a Trehearne. «Sei in gamba» disse. «Io ero finito.»

Trehearne abbozzò un sorriso. «Io ho soltanto tentato un bluff. D’ora in poi, Joris, tutto ricade sulle tue spalle. Dov’è Edri?»

«Chiuso nella sua cabina con Arrin. Conoscono la vasta zona che si stende agli estremi confini della Galassia. Ora stanno tentando insieme di tracciare la rotta esatta.» Joris sbuffò. «Rotta! Se riesco a tenermi avanti di stretta misura a quel caccia, sarò soddisfatto.»

La Mirzim sorvolò il tenebroso pianeta di Thuvis lanciandosi nella notte senza stelle. Trehearne sedeva immerso in profonda riflessione: pensava a Shairn, pensava ai due uomini curvi sui calcoli definitivi di un sogno che da mille anni deludeva l’uomo. Pensava a quel che un sogno può essere per un uomo, a come lo può portare lontano dalla tranquilla vita del senso comune negli abissi ultimi della creazione. Sperava che egli e Arrin potessero trovare quanto volevano. Sperava che potessero vivere tanto da trovarlo.

«Scendiamo» disse Joris. «Meglio dare a Shairn una coperta. Fa freddo laggiù,»

Trehearne trovò una morbida coperta nel guardaroba e la portò nella cabina di Shairn. Ella se la mise addosso ed egli vide quanto il suo viso fosse oscurato dalla stanchezza e dalla tensione.

Shairn chiese pianamente: «Mi ami ancora, Michael?»

La domanda lo colse di sorpresa e la risposta venne da sé. «Sì» rispose. «Ti amo.»

«Allora dobbiamo smetterla di comportarci come due bambini stizziti e non gettar via la vita che possiamo vivere insieme.»

Egli chinò il capo. «Mi dispiace che tu sia immischiata in tutto questo.»

«È colpa mia quanto tua. Sono stata troppo impulsiva. Avrei dovuto trattenermi riflettendo che il mondo dei Vardda era così nuovo per te che avevi pochi elementi in base ai quali giudicarlo.»

In quel momento non era più la Shairn beffarda di un tempo. La sua voce era piena di una oscura passione, di una supplica che egli avrebbe dovuto intendere.

«Michael, avevi i tuoi buoni motivi; fedeltà a un amico, reazione a quanto ti pareva un’ingiustizia. Ma certamente ora tu vedi di che impresa disperata si tratti. So che cercate l’astronave di Orthis. Non la raggiungerete mai. Kerrel vi abbatterà. Tutto questo sarà avvenuto per nulla.»

Parve a Trehearne che quanto ella diceva fosse assai vicino al vero. Ma rispose soltanto: «È troppo tardi per pensarci ora.»

«No, Michael! Puoi ancora salvarti.» Lo afferrò per le spalle, premendogli le mani ansiose sulla carne. «Scendi dalla nave con me! Lascia che Kerrel ci raccolga entrambi!»

Trehearne sorrise tristemente. «A Kerrel piacerebbe ricondurmi a Llirdis per gettarmi in prigione.»

«Ma non sarebbe necessariamente prigione!» esclamò Shairn. «Potresti dire di aver finto di unirti a Joris e a Edri solo per salvare me. Io ti appoggerei e né Kerrel né nessun altro potrebbe portare prove contrarie. Sbarcheresti libero a Llirdis.»

Gli balenò per la mente che era cosa fattibile. Tutto quadrava alla perfezione. Era una via d’uscita.

«E non sarebbe neppure un tradimento verso i tuoi amici» insistette Shairn. «Andranno avanti senza di te. Tu hai fatto per loro tutto quanto era in tuo potere.»

Si aggrappò a lui. La sua bocca lo invocò con un suo silenzioso linguaggio. Egli si liberò lentamente dalle sue braccia e la respinse, ed ella trattenne il respiro.

«No» disse. E di nuovo. «No, Shairn»

Ella rimase immobile e lo guardò fermamente. «Potresti tornare con me alla Torre d’argento, ma non ci tornerai, e perché? Perché gente che non hai mai conosciuto, di pianeti che non hai mai visto possano un giorno volare tra le stelle?»

«C’era una volta sul pianeta Terra un uomo chiamato Trehearne che sfidò la sorte per volare tra le stelle» disse. «Ho pensato che anche altri dovrebbero tentare quest’avventura. È una questione che voglio risolvere ora.»

Ella non parlò e poi la diminuzione di velocità dell’astronave li avvertì che tutto stava per finire. Trehearne la condusse alla camera di compressione. Rimasero insieme, senza trovar null’altro da dire e tutto quel che era stato tra loro tornò nel silenzio a beffarli con la malinconia dei giorni perduti.

La Mirzim strisciò dolcemente con la chiglia su una superficie cedevole e si arrestò. Trehearne aprì il portello, sporgendosi a guardare il buio deserto battuto dal vento.

Allora Shairn parlò. «Strano inizio tra noi, Michael, e ora una fine anche più strana.»

Stese la mano per aiutarla a scendere e fu come se la pressione delle dita di lei gli lacerasse il cuore. Ella alzò gli occhi a lui, ed era ormai una piccola figura sperduta nella vasta oscurità. Parve a Trehearne che le sue labbra si muovessero, ma il vento passò tra loro disperdendo le parole ed egli non seppe che rispondere.

Il campanello d’allarme squillò acuto. Chiuse il portello, e lei se ne era andata.

La voce di Joris tuonò dal ponte di comando attraverso l’altoparlante: «Acquattatevi, tutti! Questa partenza è l’unico vantaggio che ci possiamo prendere su Kerrel. E devo sfruttarla a dovere!»

La mano crudele dell’accelerazione schiacciò Trehearne contro il piancito. Giacque sulle logore tavole del ponte e quell’ultima visione del pallido viso di Shairn restò in lui a ricordargli tutto quanto aveva avuto e perduto. Ripeté il suo nome più volte nel silenzio della camera di compressione deserta. E la bocca gli si riempì di un amaro sapore di polvere. La Mirzim balzava attraverso gli spazi come una creatura selvaggia dirigendosi verso la zona che era l’obiettivo di millenarie speranze e ricerche, verso i confini della Galassia e le sponde della notte infinita.

19

Erano giunti ai limiti ultimi della Galassia, dove le stelle dell’orlo estremo si perdevano nel vuoto e gli astri spenti vagavano per sempre in un’oscurità di tomba, dove perfino la memoria della creazione era scomparsa, cancellata da un tempo inimmaginabile. Non vi era alcuna frontiera definitiva ma solo una vaga regione di confine tra il brulichio delle stelle scintillanti e il nero abisso al di là.

Trehearne cercava di ricordarsi quanto tempo era passato da quando erano partiti da Thuvis. Non ci riusciva. Il tempo sembrava stranamente elastico quando si erano perduti tutti i punti di riferimento familiari. Vi rinunciò. Non importava. Scrutava con dolenti occhi arrossati i mari senza luce che si stendevano tra le isole degli universi e cercava di ricordare perché era venuto fin lì. E anche questo si confondeva nella sua mente.

Edri era curvo su un tavolo sistemato sul ponte. Non sembrava più l’Edri di una volta. Pareva che avesse lavorato per un milione d’anni. Arrin gli sedeva accanto. Si teneva la testa tra le mani ossute, simile a una barbuta mummia, a malapena conservando una parvenza di vita. Vi erano carte tra le mani di Edri, interminabili fogli di calcoli e di grafici, interminabili serie di cifre. Joris le studiava, chinandosi accanto a Edri. Le sue larghe mascelle ricadevano flosce sul colletto spiegazzato. Gli occhi si erano infossati profondamente nell’orbita da cui balenavano come dal mondo di due caverne.

Edri parlava con una voce che pareva venire da lontano. Le parole giungevano a Trehearne a ondate confuse come da oltre la nebbia di stanchezza che lo avvolgeva.

«… così l’unico modo che ci restava per individuare la posizione della nave di Orthis era di triangolarla da due direzioni. Una di esse era rappresentata dalla rotta di quella scialuppa che Orthis spedì col suo ultimo messaggio, calcolando le eventuali deviazioni causate dal campo gravitazionale delle stelle. L’altra direzione era la rotta di Orthis nel suo ultimo volo. Non riuscimmo a individuarle finché io non trovai quella parte del manoscritto di Lankar che Arrin non aveva.»

Trehearne udì qualcuno chiedere: «Chi era Lankar?»

«Uno degli ultimi inseguitori di Orthis che lasciò un diario di bordo segreto sull’inseguimento per alleggerirsi la coscienza. Ne è rimasto abbastanza…»

Joris disse: «Al diavolo Lankar.»

«Dovemmo rintracciare le astromappe per riportarle alle condizioni di quel tempo: moto galattico, flusso stellare, un milione di complicati problemi di moto relativo e moto assoluto indietro di cinquecento anni e di altri cinquecento, e infine compararle. Trovandoci di fronte a un numero quasi illimitato di variabili come questo, si poteva raggiungere il risultato prefisso soltanto servendoci delle più grandi macchine di precisione e calcolatrici elettroniche di Llirdis. E ciò significa che si doveva agire segretamente e per gradi. Si è lavorato per lungo, lungo tempo.»

Edri trasse un profondo sospiro a cui si accompagnò uno sbadiglio di stanchezza.

«Le mappe risultanti indicano un’oscura stella sconosciuta che segue la sua orbita qui, fuori dalla corrente principale della Galassia.» Tracciò una linea con un dito. «Queste mappe rappresentanti le stelle del margine estremo della Galassia non sono complete, come sapete. Non c’è nulla che possa guidarci fino a queste regioni abbandonate da Dio che nessuno ha mai veramente esplorato. Ma secondo i nostri calcoli, questa stella oscura, era esattamente qui un migliaio di anni fa e la scialuppa di Orthis si lanciò da essa. Ora la Galassia ha compiuto un movimento di rotazione in questo senso trascinando le stella oscura con sé…»

Posò la mano sull’intersezione di due linee tracciate sulla mappa, osservandole.

«Ecco la nostra destinazione, Joris. Se abbiamo ragione, la nave di Orthis si trova qui. Se abbiamo torto… ebbene, qualcun altro dovrà ritentare tra un migliaio d’anni.»

Rimase ritto e silenzioso, le mani appoggiate al tavolo, troppo stanco per muoversi. Joris si strofinò gli occhi affaticati e cominciò a leggere ad alta voce le coordinate sulla mappa. Meccanicamente il secondo ufficiale riportò la combinazione sul telescopio.

Joris ritornò pesantemente al posto di pilotaggio. Quando il telescopio segnalò con uno scatto secco la nuova rotta, egli vi diresse la Mirzim. Poi parlò attraverso il microfono alla sezione radar. «In che posizione si trova ora il caccia?»

Gli rispose una voce rauca. Ascoltò, poi si volse agli altri. «Più vicino» disse. «Sempre più vicino.»

La mente di Trehearne ricadde nel suo costante dormiveglia d’incubo. Il caccia, lanciato all’inseguimento, incalzante, accanito, persistente, implacabile. Riviveva penosamente ogni manovra, ogni stratagemma per mezzo dei quali Joris aveva cercato di ritardare la corsa dei loro inseguitori, di guadagnare un poco più di tempo, un poco più di distanza.

Ricordava il disperato tuffo in un’oscura nebulosa quando il caccia era così vicino che quasi li raggiungeva. Ricordava come avevano vagato, girandosi e rigirandosi dentro l’oscurità della nebulosa, dove l’impalpabile polvere cosmica annebbiava il radar. Là dentro avevano perduto le tracce del caccia. Ne erano usciti e per un poco avevano sperato. Avevano raggiunto la zona di confine, e allora la scintilla rossa era riapparsa sullo schermo sempre più vicina.

Vi erano momenti in cui Trehearne dimenticava che il caccia era un’entità fisica, un’astronave di comune metallo il cui equipaggio era composto semplicemente di uomini e di ufficiali Vardda. In quei momenti gli sembrava che la Mirzim fosse inseguita da una nemesi demoniaca, una nemesi che aveva il volto di Kerrel e le mani di Kerrel stese a ghermirli.

Talvolta il viso di Shairn appariva accanto a quello di Kerrel, pallido, ermetico, densa nuvola che oscurava le stelle.

La voce rauca dell’addetto al radar si faceva udire a intervalli. L’astronave proseguiva il suo volo verso la stella oscura.

Joris finalmente si mosse. La tavola era stata portata altrove, le mappe e i laboriosi calcoli arrotolati e messi da parte. Arrin giaceva sul ponte accanto alla paratia di prua, addormentato. Non voleva lasciare il ponte finché non avesse saputo se la sua vita e il suo lavoro erano stati spesi invano. Edri sedeva vicino a lui. Non dormiva.

Joris disse: «Non riuscirà.»

Edri non rispose. Aspettava.

Joris proseguì, come se gli ripugnasse parlare ma vi fosse costretto: «Senti. Non appena inizierò la manovra di decelerazione, il caccia comincerà a intralciarci la strada. E hanno un tempo di decelerazione minore di quello che io posso ottenere senza mandare in pezzi la Mirzim. Che cosa accadrà? Piomberanno su di noi prima che possiamo iniziare la nostra ricerca.»

Edri annuì. Si appoggiò contro la paratia e chiuse gli occhi. Disse: «Ora sanno che cosa cerchiamo. Che cosa supponi farebbe Kerrel se trovasse l’astronave di Orthis?»

Nessuno rispose. Non ce n’era bisogno. Seguì un pesante silenzio, durante il quale Trehearne pensò ai messaggi che si erano succeduti per la Galassia, trasmessi dall’ultrasonico del caccia, messaggi calcolati che tradivano nella loro stessa laconicità il carattere disperato di quella missione, richieste urgenti che altri astrocaccia del Consiglio venissero inviati a tutta velocità. Ma questi altri erano ancora troppo lontani per destare preoccupazioni. Qualunque cosa fosse accaduta sarebbe accaduta prima che sopraggiungessero. Kerrel avrebbe finito la sua impresa da solo.

Edri chiese: «Che cosa faremo?»

Joris si passò la grande mano sul volto arido, sbatté gli occhi e disse: «L’unica cosa che ci resta da fare se l’astronave e il segreto di Orthis sono realmente là, è di trasportarvi il nostro equipaggiamento ultrasonico in tempo per fare quanto abbiamo stabilito.» Continuò lentamente: «Penso che la nostra lancia sia in grado di trasportare l’equipaggiamento. Se cariamo la lancia essa potrebbe volare con velocità costante per un certo periodo di tempo prima di dover iniziare la manovra di decelerazione. Nel frattempo io potrei far deviare la Mirzim su un’altra rotta ritornando lungo l’orlo della Galassia, lontano dalla stella oscura. Il caccia seguirebbe me. Esiste la possibilità che concentrando il radar su di me per cogliere l’entità della mia deviazione di rotta, non notino affatto la lancia nel momento in cui inizierà la decelerazione.»

Sospirò. «Ci prenderebbero naturalmente. Ma la Mirzim non potrebbe continuare per sempre dopo la batosta che ha subito. I generatori sono in cattive condizioni, potremmo però resistere abbastanza da darvi tempo.»

Edri meditò. «Non mi va» commentò. «Ma sembra che sia l’unica soluzione possibile.»

Joris stava mormorando qualcosa tra sé riguardo al massimo carico e capacità.

«L’essenziale equipaggiamento ultrasonico» disse «e tre uomini. L’astrolancia può farcela. Noi terremmo naturalmente l’impianto ultrasonico ausiliario a bordo.»

«Di chi puoi fare a meno? Avrai bisogno di tutti i tecnici di volo.»

«Di me» disse Trehearne. «Sono il meno necessario. Posso ancora resistere se ce n’è bisogno.»

Joris annuì. «Sì. Quorn deve andare per azionare l’ultrasonico, naturalmente, e può anche pilotare la lancia.»

«Chi altro?»

«Tu» disse Joris.

Edri guardò Arrin che dormiva. «Dovrebbe andare lui al mio posto. Ha lavorato per questo assai più di me.» Era evidente che Arrin non era in grado di muoversi e Edri sospirò. Si drizzò in piedi. «Benissimo, allora. Andiamo, Trehearne. Cominciamo a caricare.»

La lancia si trovava in una cella apposita, ricavata nel fianco della Mirzim: un’astronave in miniatura con un’autonomia di volo tale da dare all’equipaggio di una nave disarmata la possibilità di mettersi in salvo. Ma superata questa autonomia non c’era speranza di salvezza.

Trehearne chiamò a raccolta tutti gli uomini che erano disponibili e potevano tenersi in piedi. Seguendo gli ordini di Edri liberarono la lancia da tutto quanto non era strettamente necessario. Quorn si occupò di far rimuovere il pesante apparato radio ultrasonico dalla Mirzim e di farlo caricare sulla lancia.

Si dimostrò in questo eccessivamente pedante. Trehearne imprecò e sudò, ma finalmente tutto fu pronto. Poi ritornò sul ponte con Edri e Quorn. Joris studiava i suoi strumenti.

«Tra poco.» Diede a Quorn le istruzioni di volo «Trehearne è ancora un principiante» osservò «ma ormai ne sa abbastanza da darvi una mano se è necessario.»

Edri disse: «Arrenditi appena te lo intimano, Joris.»

Joris rise, un pallido fantasma della sua antica risata sonora. «Certamente. In questo momento sono stanco da morire.» Gettò ancora un’occhiata agli strumenti. «È tempo di muoversi.»

Si guardarono l’un l’altro, questi uomini dagli occhi stanchi, ubriachi di fatica, che un sogno aveva trascinato ai margini dell’Universo, e nel momento della separazione non riuscirono a trovare nulla da dirsi.

«Buona fortuna» mormorò Edri e si volse.

«Siete voi che andate, ad averne bisogno» gridò loro Joris.

Trehearne salì dopo Quorn e Edri nella lancia.

Azionarono la chiusura ermetica e poi Quorn prese i comandi e attese, gli occhi fissi al cronometro. La sua mano toccò lievemente un bottone rosso su cui era scritto LANCIO.

Lo premette.

Ci fu un sibilo e un vibrare di macchine, una sensazione di forze ultraveloci al lavoro, mentre il complicato congegno di lancio compiva il suo lavoro, un attimo di estrema pressione, e la lancia aveva lasciato la Mirzim. Dall’interno non potevano vedere nulla, ma si accorsero che lancia e astronave si erano già separate a incredibile velocità.

Quom teneva gli occhi fissi sugli strumenti mentre Trehearne e Edri sedevano guardando nel vuoto, con il timore di addormentarsi e di non potersi più risvegliare. Rimasero seduti, agitandosi irrequieti ad aspettare, finché Quorn diede finalmente l’avvio al generatore e iniziò la decelerazione.

Trehearne perdette il senso delle cose. Per la maggior parte del tempo che seguì rimase privo di coscienza o pressappoco, per il resto vide svolgersi tutto come in un sogno continuo. Pensava come un tempo era stato posseduto dal selvaggio desiderio di volare tra le stelle. Ma riuscì a eseguire quanto Quorn gli chiedeva.

L’oblò si schiarì, non c’era amplificatore, e funzionava da oblò solo a velocità visive. Ora, Trehearne poté distinguere nel buio un’imponente mole di oscurità solo debolmente illuminata dal riflesso della Galassia.

«Eccoci» dissi Edri. «La stella oscura.» La voce gli tremava un po’.

Vi si avvicinarono, sempre rallentando. «Ha un pianeta» disse Quorn «Eccolo, che si scalda al lume delle stelle…»

«Due» lo corresse Trehearne. «Ne vedo due.»

Due corpi dalla fiacca luminosità, mondi morti stretti attorno a un astro morto da tempo, oltre i confini della Galassia. Il bagliore della Via Lattea li sfiorava, un fantomatico lume di candele, riuscendo solo a rendere anche più evidente la loro tetra oscurità e il loro isolamento.

Edri mormorò: «Ebbene, punta sul pianeta esterno per primo. Dammi una mano, Trehearne.»

Strisciarono a poppa tra i mucchi degli attrezzi in cerca di un rivelatore Geiger proveniente dalla stiva della Mirzim. Edri lo afferrò nervosamente.

«Ai tempi di Orthis usavano combustibile radioattivo, naturalmente» mormorò Edri. «Nei nostri calcoli ne abbiamo dimezzato la durata. Anche supponendo che le riserve fossero quasi finite, ne dovrebbe essere rimasto abbastanza da essere registrato dal contatore. Una manciata sarebbe sufficiente.»

Trehearne aiutò Edri a sistemare la copertura protettiva sul meccanismo finché l’indice si fermò.

«E i depositi radioattivi dei pianeti stessi?» chiese.

«Abbiamo pensato anche a questo. Troppo antichi. L’ultimo elemento radioattivo dovrebbe essersi praticamente esaurito milioni di anni fa.» Alzò la voce. «Tieni la lancia più bassa che puoi, Quorn. Lo strumento ha il massimo raggio in estensione. Fallo funzionare lentamente.»

Si curvò sull’indice indicatore. Trehearne si affacciò di nuovo a guardare.

Il pianeta era piccolo, meno di duemila miglia di diametro. Tra le fitte tenebre e il movimento della lancia, non riusciva a veder nulla se non una nera informe desolazione, rotta qua e là da un biancore che pensò fossero i residui gelati di un’atmosfera. Immaginò che cosa sarebbe stato atterrare laggiù, e rabbrividì.

Perlustrarono e ispezionarono accuratamente il pianeta. L’indice del contatore non si mosse. Edri disse gravemente: «Continueremo. Pregate il cielo che lo troviamo sull’altro pianeta. Pregate che Orthis non sia approdato sulla stella oscura. Ci vorrebbe un’eternità a rintracciarlo là.»

Quom aumentò la potenza di volo e si allontanò. L’oblò si offuscò di nuovo, ed Edri gemette.

«Edri sta per crollare» osservò Quorn. «Sembra che qualunque cosa si faccia, dovremo sfruttare al massimo le nostre forze.»

Il secondo pianeta era più grande del primo circa di tre volte. Non soltanto era informe. Vi si innalzavano catene montuose accidentate e corrose, nudi scheletri di montagne avvolti in gelidi vapori. Vi si stendevano desolate pianure coperte di bianca aria congelata, debolmente balenanti alla luce della grande ruota galattica.

Esso mostrava agli osservatori i fondi vuoti dei suoi oceani scomparsi, riassorbiti fino al golfo più profondo. Rivelava le cicatrici della sua lunga agonia, le ferite brutali dell’esplosione interna, le profonde incisioni della sua crosta contratta. Un mondo orrendo che ancora pareva rammentare l’antica bellezza e risentire la crudeltà della morte.

Edri sussurrò: «Pregate, pregate che questo dannato affare si muova.» Ma invece lanciò un’imprecazione all’indirizzo dell’indice che non si muoveva.

«Continuiamo» disse Trehearne.

Continuarono.

L’indice ebbe una lieve oscillazione.

Edri emise un grido roco. «Rallenta! Rallenta!» Le lacrime cominciarono a scorrergli per le guance. Scoppiò in singhiozzi. L’indice era ancora immobile.

«Voliamo in circoli!» gridò Trehearne a Quorn. «Voliamo in circoli finché non individuiamo il punto esatto.»

Si passò la lingua sulle labbra. Sentì un sapore di sale e si chiese meravigliato che cosa fosse mai.

Quorn fece descrivere alla lancia una spirale restringentesi, finché Edri disse: «Ora scendi.»

Poi si avvicinò all’oblò e vi premette il viso contro cercando di vedere. Quorn accese uno dei fari d’atterraggio. Il bagliore bianco-azzurro illuminò un’area circolare al di sotto, che si staccò netta dalla fitta oscurità. Il fascio di luce perforò nitidamente lo spazio.

Lo seguirono. Era come se la lancia sprofondasse posata su quel guanciale di luce. Si trovavano al di sopra di una superficie planetaria dilaniata e torturata dall’ultima fase diastrofica. Torreggiante da una paurosa altezza, incombeva un possente e accidentato sperone roccioso. Ai suoi piedi si apriva un baratro e, al di là del baratro si stendeva un desolato paesaggio sconvolto, nebuloso, sotto la grande lama di luce della Galassia.

Discesero lungo la parete del titanico sperone. Guardando entro l’abisso, alla sua base, Trehearne cominciò a sentirsi inquieto.

«Non vi sono astronavi qui» osservò. «Il contatore deve aver registrato qualche ultima radiazione proveniente dal fondo di questo baratro.»

Quorn assentì. Ma Edri disse: «No, continua.» Trehearne lo sentiva tremare.

Continuarono a discendere lungo la gigantesca parete minacciosa. D’un tratto Trehearne indicò qualcosa: «Non c’è un ripiano roccioso laggiù?»

Il nitido fascio di luce del faro rivelò un pianoro roccioso che si sporgeva nel vuoto a metà della parete.

Quorn volse la lancia in quella direzione. Qualcosa su quel ripiano balenò lievemente alla luce. Quorn fece scendere la lancia a una velocità vertiginosa. I particolari si rivelarono nitidi: la roccia scheggiata, il magma antico, le bolle di aria gelata nelle cavità. E tra esse una forma ovoidale, simmetrica, liscia, che mandava un lieve riflesso metallico.

Edri disse il nome di Orthis come se stesse pregando.

20

Quorn era atterrato sul ripiano roccioso. Si erano rapidamente infilati gli scafandri. Avevano dimenticato di essere quasi in fin di vita.

Muovendosi goffamente in quella pesante tenuta, incespicando nelle rocce frastagliate, scivolando sugli strati d’aria gelata, si aprirono un varco verso la meta per giungere alla quale avevano attraversato la Galassia e messo in gioco le loro stesse vite. Sopra di loro lo spaventoso sperone si ergeva nel vuoto. Sotto di loro l’abisso precipitava nel morto cuore di un pianeta. Alle loro spalle si sentiva un’immane desolazione e nel cielo nero il possente orlo della Galassia ardeva come una spada infuocata.

Trehearne avvertiva profondamente il silenzio. Non era mai stato prima in un pianeta senz’aria. S’accorse di urtare col suo stivale metallico contro un frammento di roccia, ma non vi fu alcun rumore. Tutto quel che poteva udire era il roco respiro di Quorn e di Edri trasmessogli dal microfono del casco.

La nave di Orthis si stagliava minacciosa di fronte a loro, senza luci, senza vita. Cullata dalle ceneri della distruzione. Aveva un’aria di paziente attesa. Giaceva là da mille anni, non toccata dal tempo o dalla ruggine, seppellita nel silenzio della notte interminabile, eterna come gli astri spenti che vagano per sempre in uno spazio incorruttibile. Pareva che potesse attendere fino alla fine dell’Universo, alimentando la sua speranza. Un senso di timore reverenziale e con esso un senso di paura invasero Trehearne.

Trovarono la porta di sicurezza. Era spalancata, i battenti ancora lucidi. Non ci poteva essere corrosione qui, dove ogni atomo d’aria e di umidità si congelava nel freddo purificante. La luce della torcia di Trehearne gli rivelò sul pavimento della camera di compressione le orme di uno stivale d’uomo. Avrebbero potuto esservi state impresse solo ieri.

I tre uomini si fermarono fuori da quella porta aperta. Si guardarono l’un l’altro attraverso le visiere di glassite dei caschi e i loro volti erano strani. Poi Trehearne si scostò, e così fece anche Quorn. Edri chinò il capo. Avanzò verso la porta. Lentamente, senza rumore, salì sull’astronave di Orthis.

Gli altri lo seguirono da vicino. Le loro torce fendevano con nitidi fasci di luce l’oscurità priva d’aria. Attraversarono la camera di compressione raggiungendo un corridoio che portava a prua e a poppa. Vi regnava un’assoluta quiete. Il pesante contatto degli stivali con il ponte metallico non produceva il più lieve rumore. Era come camminare in un incubo, e l’assenza di vita a bordo dell’astronave, la nera, inerte, immobile assenza di vita era più opprimente della desolazione che la circondava. Le rocce e i dirupi non si erano mai mossi, non erano stati alterati da mani d’uomini. Nessun pensiero o speranza li aveva mai penetrati. La pelle di Trehearne era percorsa da piccoli brividi di freddo. Poteva udire il battito del sangue nelle orecchie, il rimbombo sordo del suo cuore. Si muoveva con gli altri, figure perdute in una tomba, e trasaliva come un fanciullo a ogni forma che la luce rivelava.

L’intera poppa era adibita a laboratorio. Gran parte della delicata attrezzatura era in pezzi o per le vibrazioni dovute alla velocità o per le conseguenze di un brusco atterraggio. Trehearne non capiva nulla della massa sconvolta di metallo e di cristallo in frantumi, ma Quorn disse: «Stava studiando le radiazioni interstellari. Di gran parte di questo materiale non capisco l’uso, ma fin qui ci arrivo.»

Una sezione del laboratorio conteneva una complicata massa di serpentine e di prismi e un intricato complesso di riflettori sistemati intorno a quello che aveva dovuto essere un gran tubo centrale. Al punto focale del meccanismo vi era una piccola piattaforma fissata con cinghie. Lungo la parete erano ammucchiate delle gabbie per animali da esperimento. Qualcuno di essi c’era ancora. Erano morti, la rapida morte provocata dal freddo e dalla mancanza d’aria, ma i loro corpi erano ancora intatti. Ciò significava che erano sopravvissuti al viaggio. L’ultravelocità del volo interstellare non aveva avuto alcun effetto su di loro.

Gli uomini rovistarono per qualche tempo tra i relitti, poi Edri disse: «Non c’è nulla da fare per noi qui. Inutile tentare di ricostruire il meccanismo. Non vi riuscirono in tutti gli anni in cui la nave ancora in piena efficienza fu tenuta sotto sequestro. Orthis stesso disegnò e costruì la maggior parte degli strumenti.»

Trehearne diede ancora un’occhiata ai piccoli corpi villosi che giacevano nelle gabbie come addormentati. In un certo senso la loro esistenza rendeva doppiamente crudele il tradimento perpetrato contro Orthis: persino le bestie avevano ottenuto la libertà degli spazi stellari che era stata negata a intere generazioni di tante razze di altri mondi.

Ritornarono nel corridoio, lo ripercorsero e si spinsero oltre. Trovarono le cabine, piccole e sobrie, di un nitore monastico. Le coperte delle cuccette erano gualcite e sul cuscino era rimasta l’impronta là dove si era posata la testa di un uomo. Trehearne rabbrividì, poi passarono oltre sul ponte.

Trehearne si rese conto allora di che atto di eroismo fosse stato lanciare questa antiquata astronave fino ai confini della Galassia e oltre. Gli strumenti erano così pochi e così rudimentali. Il sistema di comando così semplificato. Vi era un sistema di bloccaggio, un pilota automatico primitivo che poteva mantenere la rotta senza l’intervento dell’uomo e pensò che soltanto questo aveva reso possibile il solitario volo di Orthis. Ma la scienza astronautica aveva fatto grandi progressi da allora.

La voce di Quorn, in un sussurro, come di chi parli in chiesa, lo raggiunse attraverso il microfono del casco. «È incredibile. Questa astronave non fu neppure costruita per volare, era un vero e proprio laboratorio spaziale. È strano il fatto stesso che sia sopravvissuta.»

Edri trasse un lungo respiro in cui parve tremare un singhiozzo. «Non abbiamo ancora trovato quanto cerchiamo. Pensate che non sia qui? Pensate che dopo tutto…» Non finì la frase.

Ricominciarono le ricerche. Fu Trehearne a trovare la porta nella paratia di poppa della cabina di comando. La spalancò e guardò dentro. Il raggio della sua torcia perforò nettamente l’antichissima oscurità.

Involontariamente Trehearne gridò.

Quorn e Edri accorsero. Era aggrappato alla parete. Sudore freddo gli colava dal viso e gli occhi erano selvaggiamente dilatati. Guardarono al di là, sopra la sua spalla.

La cabina era piccola. Era adattata a biblioteca, stipata di casse metalliche contenenti libri, alcuni dei quali erano volumi in microstampa di tipo antico, alcuni altri grossi taccuini sgualciti. Il fascio di luce tagliente come una lama di coltello li delineava tra luce intensa e ombra nera. C’era una gran tavolo, fissato al piancito e sul tavolo una scatola di metallo. Su di essa posava la mano di un uomo, con le dita aperte, lievemente incurvate sul bordo della scatola, in un’espressione di protezione e di possesso insieme, quasi si trattasse di qualcosa di caro e di prezioso.

«Oh, Dio» bisbigliò Quorn. «Guardatelo…»

Sedeva su una sedia di metallo dietro il tavolo. La testa era alzata, rivolta verso l’oblò della parete esterna attraverso cui si scorgeva il cielo buio solcato dai possenti fuochi della Galassia. La luce cruda ne rivelava chiaramente la figura. Era un vecchio. Gli anni della sua vita erano stati molti e duri. Avevano inciso il suo volto come nel ferro, scavandone profonde rughe, rilevandone precisi i lineamenti, cancellando ogni traccia di gioventù e di speranza e del riso che forse un giorno l’aveva illuminato, per forgiare una maschera di irata amarezza, e di rimprovero e, infine, di disperazione. Pareva a Trehearne di poter legger la storia di tutta una vita in quel viso fissato per sempre nel momento della morte, quando certamente quell’uomo stava gridando al dio che aveva adorato, qualunque esso fosse, una accorata domanda: Perché?

Edri si mise improvvisamente a ridere. «Orthis. È Orthis. Ha aspettato che venissimo…»

Quorn alzò una mano avvolta nel pesante guanto metallico e batté sul casco di Edri con tanta forza che Trehearne udì il tintinnio nel suo microfono. «Taci. Dannazione, Edri, taci.» Edri smise di ridere. Dopo un momento disse: «Per un attimo ho pensato…»

Trehearne mormorò. «Anch’io.»

In quell’assoluto freddo privo d’aria la morte non aveva i segni della decadenza e della trasformazione. Ma non si trattava soltanto di questa mancanza di corruzione fisica. Il fuoco era arso così profondo in quell’uomo che perfino la morte non ne aveva cancellato le tracce. Quando il fascio di luce li investì i suoi occhi aperti parvero ardere di inestinguibili braci.

A lungo i tre uomini ristettero, immobili, sulla soglia, l’uno accanto all’altro. Trehearne disse: «Desiderava, penso, che chiunque lo trovasse guardasse entro quella scatola, là sotto la sua mano.» Il lavoro di tutta la vita di Orthis, il futuro della Galassia contenuti in una piccola scatola. Lo sapevano. Ma ancora non si sentivano pronti a entrare e a togliere dalla mano di Orthis l’oggetto che vi aveva tenuto tanto a lungo. Ed era strano, pensava Trehearne, che in quel momento in cui le loro emozioni avrebbero dovuto toccare l’apice, in cui avrebbero dovuto sentire con più intensità il peso di tutti i secoli di sacrificio e di lotta che li avevano portati in quel luogo e il significato che tutto ciò avrebbe avuto, fossero troppo stanchi per sentire veramente qualcosa; solo un’ombra di rispettoso timore e un’istintiva riluttanza ad accostarsi al morto. Trehearne desiderò andarsene da quella funerea nave. Lo desiderò infine con tanta intensità che entrò e cercò di allontanare la mano di Orthis dalla scatola. Il braccio era rigido e gelato come una sbarra d’acciaio e rinunciò a muoverlo, cercando invece di trarre cautamente la scatola da sotto le dita diacce, con una gran paura che si rompessero.

Gli altri gli si erano avvicinati lentamente. La scatola non era chiusa. Sollevò il coperchio e la torcia rivelò un taccuino legato in tela. Sopra vi era un foglio sciolto vergato da alcune linee di una calligrafia fermissima. Edri lo afferrò, con un goffo gesto delle mani coperte dai guanti metallici e, tenendolo in luce, lesse con una strana voce atona: «"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da…".»

Edri si interruppe e ricominciò, e Trehearne pensò che Orthis ascoltasse.

«"Mi sono aggrappato alla vita fin tanto da scrivere per la prima volta tutta la mia formula, completa e semplificata, così da poter essere compresa e applicata. In essa è la libertà delle stelle. Io, il primo dei nati dalle stelle, fui cacciato dall’avidità e dalle paure dei nati dai pianeti. Ma non sarà sempre così.»

’"Io non vedrò quanto accadrà. La mia astronave è ormai giunta troppo lontano, mi è rimasto poco combustibile e sono vecchio. Così ho sistemato la chiusura ermetica in modo che si apra tra pochi minuti. Una morte veloce è assai migliore di una lenta, mentre le pompe per l’aria compressa s’arresteranno. Dopo ciò, aspetterò. Quanto ho sognato non sarà dimenticato. Un giorno verranno altri che crederanno come io ho creduto, che le stelle sono per tutti gli uomini.’"

Edri tacque. Quorn disse: «Ha contemplato la Galassia per mille anni, aspettando.»

Trehearne si sforzò di muoversi per rompere l’incanto. «Se non ci affrettiamo, il nostro viaggio non gli servirà a nulla.»

Si chinò ad afferrare la scatola, la chiuse e la mise nelle mani di Edri.

«Su, Edri, mi senti? Su! Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione.»

Edri guardò la scatola, poi Orthis che aveva avuto per sé mille anni di tempo. Poi si volse e uscì, e Quorn lo seguì, e così fece Trehearne, giù per il buio corridoio e fuori dalla nave silente. Trehearne alzò lo sguardo all’ardente fiume delle stelle e pensò a che sogno possente il primo degli Stellari aveva portato con sé nella lunga notte.

Un improvviso panico, l’ansia di fare in fretta lo invasero. Orthis aveva affidato loro il messaggio con le sue stesse mani. Se proprio ora per essere troppo lenti o troppo sfiniti ora, alla fase conclusiva non fossero riusciti a compiere quel che bisognava compiere… Cominciò a correre verso la lancia, dando una voce agli altri, incitandoli, esortandoli ad affrettarsi finché essi pure si diedero a correre, barcollando tra le sporgenze della roccia. Li spinse dentro, come impazzito, parlando insistentemente della necessità di affrettarsi. Quorn eseguì la manovra di partenza: la lancia si librò dal ripiano roccioso. Non volevano essere vicino alla nave di Orthis quando avessero fatto quanto intendevano fare ora. Quorn illuminò con il faro quel mondo morto in cerca di un luogo d’atterraggio.

«In fretta» ripeteva Trehearne. «Bisogna fare in fretta!»

Quorn imprecò con violenza contro di lui. «Faccio tutto il possibile. Tacete e ascoltate. Tutti e due tenete indosso gli scafandri e tenete pronti i caschi.»

Trehearne smise di parlare. Si sedette, le mani strette tra le ginocchia, tremando tutto. Edri era curvo sul taccuino contenuto nella scatola metallica, intento a leggere.

«C’è tutto, qui» disse. La sua voce era rauca dalla stanchezza, carica dell’emozione che egli era troppo intontito per avvertire. «Le equazioni, le formule, le istruzioni per costruire gli strumenti, le istruzioni per usarli. Io non li capisco, ma altri vi riusciranno.» Guardò Trehearne con gli occhi cerchiati di rosso. «Orthis fa precedere una breve introduzione. Egli fu il primo degli stellari. La mutazione si verificò spontaneamente durante quel primo lungo viaggio. Le costanti vibrazioni della velocità, non della velocità che ci è familiare, ora, ma di una velocità superiore comunque a quella a cui il corpo umano era assuefatto, una velocità assai vicina a quella della luce, e gli effetti prodotti dalle radiazioni interstellari sulla cellula: ecco che cosa la produsse. Orthis fu il prodotto finale di quattro generazioni vissute in queste condizioni. Fu il primo tentativo della natura di creare l’uomo galattico, di adattare il corpo umano alle nuove esigenze. E il suo grande lavoro consistette nel ridurre quel lungo processo naturale a una formula applicabile che potesse compiere il mutamento in una sola generazione invece che in quattro. Dio, sono stanco di ripetere tutte queste cose come un pappagallo con le parole di Orthis. Quel che si deve fare è, naturalmente, alterare il corredo genico dei cromosomi di entrambi i genitori prima del concepimento e… comunque, tutto è qui.»

Quorn disse bruscamente: «Questo posto può andare. Se non altro ci offrirà un po’ più di riparo.»

Fece planare cautamente la lancia verso l’antico letto piatto di un fiume. Il fondo era ora coperto d’aria gelata, ma in tempi remoti l’acqua aveva scavato un profondo canyon nella roccia lasciandovi cavità d’erosione e sporgenze. Quorn fece atterrare la lancia in uno di questi luoghi corrosi dalle onde, sotto la parete del canyon.

Edri continuava ad accanirsi sul libro, accertandosi di alcuni passaggi, abbagliato dallo stordimento della stanchezza e preoccupato dalla necessità di non sbagliare. Non si permetteva incertezze o errori neppure nella lettura di una singola cifra. Non ci sarebbe stato tempo per correzioni o controlli. Il peso della responsabilità era così grave in lui che sembrava contrarsi fisicamente sotto di esso. Le sue labbra continuavano a muoversi. Trehearne non gli invidiava il suo compito.

Quorn brontolò qualcosa al suo indirizzo e insieme andarono a poppa ad arrabattarsi con l’apparecchio ultrasonico. Trehearne era posseduto dal demone dell’urgenza e non aveva la più pallida idea di che cosa stesse facendo. Quorn dava ordini ed egli obbediva ciecamente, talvolta a ragione, talvolta a torto. I loro nervi erano logorati oltre ogni umana resistenza e prima di essere riusciti nell’intento si trovarono a digrignare i denti l’uno contro l’altro come cani. Inserire i conduttori di energia nei generatori della lancia fu il compito più arduo, ma in un modo o nell’altro lo portarono a termine. Fecero alzare in piedi Edri per farlo sedere di nuovo, sempre con il libro in mano, davanti alla trasmittente. Quorn si curvò sulle leve di comando. I generatori fremettero fornendo l’energia necessaria. Edri continuava a fissare il libro. Trehearne lo scosse. «Avanti» esclamò «parla.»

Edri sbatté gli occhi e corrugò la fronte, guardandoli da sotto in su come avesse dimenticato completamente quel che doveva fare. Quorn prese il volto di Edri tra le mani e gli parlò, battendogli leggermente le guance mentre gli diceva: «Ascolta, mi sono messo sull’onda di emergenza che include tutte le linee. Ogni apparecchio ultrasonico compreso entro la sua portata la riceverà, compresi i centri di comunicazione non-vardda. Edri, mi capisci? Il momento in cui la intercetterà Kerrel sarà in grado di individuare la nostra posizione e di interferire. Così devi far presto. Presto!»

Edri sbatté gli occhi di nuovo e tremò. «Benissimo. Tenterò.» Guardò Trehearne nervosamente. Quom sistemò l’ultima leva e poi parlò nel trasmettitore.

«G-Uno! G-Uno! Emergenza. Sgombrate tutte le linee. Usate registratori. Usate registratori! G-Uno! Sgombrate tutte le linee…»

Fece un cenno energico a Edri che si curvò in avanti. «Forse non potrò ripetere. Abbiamo trovato la nave di Orthis. Seguono le formule per la mutazione vardda.»

21

Edri aveva cominciato la lettura del taccuino. Andava veloce, ma facendo sforzi disperati per pronunciare ogni sillaba chiaramente. Quom era curvo disperatamente sulle leve. Trehearne sedeva immobile, ma i suoi muscoli fremevano. Il sudore gli colava negli occhi. Era stanco. Era così stanco che la figura di Quorn, lontana da lui un passo, gli appariva vaga e indistinta come fosse sperduta nella nebulosità della distanza. La voce di Edri scandiva le parole senza interruzione.

Quorn disse con voce roca: «Il caccia ci ha intercettati. Stanno già tentando di interferire. Fa in fretta.»

Il volto di Edri divenne quello di una persona braccata. La sua voce si alzò stridula in una gara disperata. Voltò l’ultima pagina. La finì, e poi ritornò al principio e cominciò a ripetere. Quorn si alzò.

«Non serve, ormai, siamo tagliati fuori. Ciò significa che il caccia è vicino; abbastanza vicino da…»

Non ebbe il tempo di pronunciare la frase fino in fondo. La lancia fu scossa improvvisamente come da una mano gigantesca. Quorn fu lanciato contro una parete e Trehearne cadde sul pavimento. Solo Edri curvo sul trasmettitore parlava ancora.

«È stata una bomba» disse Quorn, alzandosi di nuovo. «Ci prendono di mira dall’alto del canyon.» Afferrò il casco. La lancia sobbalzò una seconda volta, più forte. Trehearne arrancava faticosamente per rimettersi in piedi. Tentò di calcare il casco sulla testa di Edri, ma questi si ribellò, aggrappandosi al trasmettitore. Quorn lo prese per le spalle e gridò: «Non serve più! Vieni!» Tolse la corrente. Insieme liberarono le mani di Edri e gli misero in testa il casco. La lancia subì un’altra scossa e qualcosa si ruppe con un fragore di vetri infranti. Trehearne si agganciò il casco. Attraverso il microfono udiva Quorn gridare qualcosa a proposito della chiusura ermetica e dell’urgenza di andarsene prima che la lancia cadesse in pezzi con loro dentro. Quasi trascinando Edri tra l’uno e l’altro, cominciarono a correre. Qualche tavola del ponte era già saltata e si udiva uno spaventoso sibilo acuto di aria compressa. Raggiunsero la porta di sicurezza e la spalancarono.

Sul fondo del canyon una grande luce sbocciò e si spense. Frammenti di roccia urtarono silenziosamente contro la lancia. Il ponte saltò sotto i loro piedi e la porta di sicurezza li proiettò in avanti mentre lo scafo sobbalzava paurosamente. Batterono con violenza sul terreno. Per alcuni secondi giacquero dov’erano caduti e non si udirono altre esplosioni. Trehearne gemette e si mise a sedere. «Penso che sia stata l’ultima. Quorn? Edri? Qualcuno mi risponda.»

Edri taceva, ma Quorn disse con voce sorda: «Sanno che abbiamo interrotto la trasmissione. Dannazione mi sono tagliato il labbro sul bordo del casco e il sangue mi cola addosso.» Trehearne lo udì sputare. Si accostò a Edri e lo scosse. Finalmente Edri disse «Dov’è il taccuino?»

«È rimasto sulla lancia.»

«Dobbiamo andare a prenderlo…»

«Perché?»

«Forse hai ragione. Ci siamo riusciti, Quorn? Abbiamo finito?»

«Non so, non so! Ci hanno sorpresi così presto…»

Si alzò da terra, gli occhi fissi a qualcosa, e poi tese una mano verso il cielo nero. «Fuggiamo» chiese «o aspettiamo?»

Trehearne guardò su e giù per il letto del fiume ostruito da strati d’aria congelata e poi volse gli occhi alla dura nitida linea delle rocce sopra le loro teste. «Potremmo respirare per qualche ora, va bene, fino a esaurire la nostra riserva di ossigeno. Ma non credo ne valga la pena.»

Quorn tornò a sedere. «Penso sia bene aspettare, allora.»

Attesero, e il caccia calò silenzioso dal cielo. Le ripide pareti rocciose sovrastanti facevano da schermo alla luce della Galassia, e il canyon era buio, ma gli oblò del caccia splendettero di un vivido bagliore. Trehearne fu quasi lieto di vederli. Erano umani. Davano un senso di conforto, dopo tutta la notte e la desolazione di quel pianeta spento. Lo sportello si aprì e una nitida lama di luce ne uscì, diritta, senz’aria che ne diffondesse il riflesso, andando a colpire la parete opposta del canyon accanto alla lancia. Uomini in scafandro cominciarono a uscire dallo sportello. Trehearne si alzò in piedi. S’avviò per il vivido fascio di luce, muovendo lentamente incontro agli uomini. Edri lo seguì, Quorn pure.

Una voce sconosciuta gli giunse attraverso l’interfonico del casco. «Dite i vostri nomi.»

Dissero i loro nomi e Trehearne soggiunse: «Non siamo armati. Siamo sfiniti.» C’era un certo sollievo in quell’essere sfiniti. Qualunque cosa fosse accaduta da allora in poi non dipendeva più da loro. Potevano starsene tranquillamente passivi, rilassarsi, lasciare che qualunque cosa accadesse. Guardò l’astronave e pensò al calore, al cibo, al riposo, e a un buon sonno. A Shairn e Kerrel si poteva pensare più tardi.

Gli uomini del caccia erano armati di fucili disgregatori assai più pericolosi dei piccoli disgregatori a tubo che avevano come unico effetto la parziale perdita dei sensi. Avanzarono per un breve tratto verso le tre goffe figure che seguivano cautamente il fascio di luce. La prima voce che aveva parlato diede un ordine e i due uomini si accostarono alla lancia per perlustrarla, le torce oscillanti. Poi la voce si rivolse a Trehearne e agli altri. «Tenete le mani più in alto che potete. Benissimo, va bene così.»

Trehearne disse: «Ve l’ho detto, non siamo armati.»

«Misura di prudenza. Restate dove siete.»

Obbedirono e furono perquisiti.

«Benissimo» disse la voce dell’ufficiale. «Venite a bordo.»

«No.»

Una parola secca pronunciata pianamente da una voce che Trehearne conosceva. Una voce che non udiva da un tempo immemorabile, ma che ricordava. La voce di Kerrel. La mortale stanchezza che pesava su di lui si allentò un poco e subentrò l’ira. Gli uomini erano ritti nel fascio di luce, ma gli volgevano le spalle, faccia a faccia com’erano con i prigionieri. Il nitido bagliore li investiva lasciando tuttavia i loro visi nell’ombra, invisibili dietro il visore dei caschi. Trehearne cercò di identificare Kerrel, ma non vi riuscì.

L’ufficiale obiettò, seccato: «Ma non ha senso star qui fuori più a lungo.»

L’avventura era stata lunga e dura anche per lui. «Appena la squadra in perlustrazione ritornerà, decolleremo.»

«Sì» disse Kerrel. «Ma loro no. Loro resteranno qui.»

Le forme avvolte negli scafandri, inumane forme senza volto, che erano rimaste vicine, si scostarono un poco e si volsero l’una all’altra, come tentassero di perforare l’oscurità con le balenanti lenti dei caschi. Ci fu un silenzio di stupore e poi Edri disse. «Questo è un assassinio.»

La voce dell’ufficiale, alterata dall’ira, domandò: «Kerrel, che diavolo… Sei impazzito?»

«La giustizia è una pazzia.» C’era qualcosa di strano nella voce di Kerrel. Era sorda e atona, priva di passione, la voce di un uomo che non può resistere a quello che gli grava dentro, a cui non basta più per trovar scampo nessuna normale via di sfogo. «Può darsi che siano riusciti nell’impresa. Lo capite? Può darsi che abbiano attuato i loro piani. Sapete che cosa significherebbe tutto ciò?»

«Lo so quanto te e non preoccuparti della giustizia, saranno puniti. Ma, secondo le leggi, sarà il Consiglio a far giustizia, a Llirdis.»

«Le leggi» ripeté Kerrel a bassa voce. «Trehearne ha già beneficiato una volta delle nostre leggi. Io dissi allora ai membri del Consiglio che avevano torto a favorirlo. Le leggi sono giuste, le ho servite tutta la vita. Ma ci sono casi in cui si deve andare oltre la lettera della legge, se si vuol continuare a servirla. Lasciali qui.»

Trehearne parlò, per la prima volta. «Non sarebbe bene che io ritornassi a Llirdis, vero, Kerrel? Non sarebbe bene che in pieno Consiglio raccontassi come e perché Yann morì.»

La voce di Kerrel gli rispose e non avrebbe saputo dire quale fosse a parlare delle forme avvolte negli scafandri parlasse forme dal viso celato. Era pazzesco non saperlo.

«E avevo torto, Trehearne? Potresti presentarti in pieno Consiglio e dimostrare che avevo torto nel tentare ciò che tentai?»

«Ascolta» riprese l’ufficiale. «Non sono né un giudice né una giuria. Sono stato inviato dal Consiglio per riportare a Llirdis questi uomini e intendo eseguire gli ordini. Per amor di Dio, Kerrel, smetti di volerti caricare sulle spalle il peso dell’intero universo. Nessun uomo ne è in grado. Venite, voi tre… salite a bordo.»

«No.»

Una delle figure si staccò. Una delle figure abbandonò il resto del gruppo e si frappose tra esso e l’astronave, il disgregatore tra le mani.

«Non vedi abbastanza lontano. Supponi che non siano riusciti. Se venissero processati, secondo una legge e un sistema per abbattere il quale hanno rischiato la vita, se fosse loro permesso di rivelare a tutta la Galassia quanto hanno fatto, di divenire eroi e martiri, una sorgente di sventura per tutti i tempi a venire?»

«Ci sono stati in passato altri processi a Orthis.» L’ufficiale si dirigeva verso Kerrel. «Penso faresti meglio a darmi quell’arma, prima che ti faccia portar via di qui.»

La bocca del disgregatore si alzò, e Kerrel disse: «Aspetta, non ho finito.» L’ufficiale fece un altro passo e poi esitò e parve che un improvviso disagio invadesse lui e gli altri uomini del caccia. Il ventre di Trehearne si contrasse in un fremito di furia impotente e le sue mani si tesero in un inutile gesto avido, come ad afferrare qualcosa. Quorn imprecava in tono monotono, così basso che la sua voce era come la trama in cui si inserivano le voci degli altri.

Kerrel disse: «Il caso di questi uomini è diverso. Hanno trovato l’astronave, il loro reliquiario. Vi sono penetrati, hanno toccato i taccuini, per quel che ne so, hanno visto il corpo stesso di Orthis. Hanno dimostrato che l’impresa era possibile. Tutto ciò sarà mai dimenticato?»

«Non me ne importa un accidente» sbottò l’ufficiale. «Nessuno deve uccidere dei prigionieri. Dammi l’arma.»

Kerrel arretrò, di poco, un passo o due. Quel gruppetto d’uomini cominciò ad allargarsi lentamente, lasciando a uno a uno il fascio di luce finché ne rimasero soltanto tre, un piccolo schermo tra Kerrel e i prigionieri. Le gambe di Trehearne si piegarono. Teneva gli occhi fissi sul disgregatore.

Kerrel non si arrese: «Supponi che non abbiano fallito. Supponi che sia tutto finito, i mille anni di vita dei Vardda. Dovremmo permetter loro di godersi quanto hanno conquistato?»

«Sante parole» interloquì Trehearne. L’oscurità era profonda e fitta, fuori dal fascio di luce. «Nobili parole. Quasi ti credo. Ma tu hai altri motivi.»

«Lo ammetto. Ma non c’entra con questo. Nessuna donna è mai stata così importante da interferire in faccende come questa.» Chiese pianamente all’ufficiale. «Li lasceremo qui?»

«Vuoi deporre quell’arma?»

Arretrò di un altro passo. «Voi tre, in faccia ai prigionieri, scostatevi.»

«Benissimo» esclamò l’ufficiale. «Prendetelo!»

Trehearne balzò nell’oscurità. Vide i tre uomini di faccia a lui scomparire. L’arma crepitò e fece fuoco, contro nessuno in particolare: un avvertimento. E poi la notte fu tutta un trambusto frenetico.

Disteso sulla roccia nera, sulle dure creste di aria congelata, Trehearne osservava la goffa danza di quegli uomini avvolti in informi scafandri e tondi caschi bruniti, dentro e fuori il nitido fascio di luce in cui ormai rimanevano soltanto loro. Avevano accerchiato Kerrel nell’oscurità e, silenziosi, l’avevano sorpreso alle spalle, ma avevano le mani impacciate dai guanti ed era difficile tenere la presa sul liscio tessuto della tuta di Kerrel. Egli sfuggì loro, e poi fu di nuovo parte del gruppo e non si riconoscevano l’un l’altro e le loro voci si levarono in mozze grida furibonde. Solo Kerrel non parlava. Trehearne strisciò pancia a terra lontano dal fascio di luce e le ombre che erano Quorn e Edri lo seguivano. D’un tratto Edri gli batté sul casco e poi fece un cenno e Trehearne vide la solitaria figura di un uomo lasciare la zona illuminata e addentrarsi nell’oscurità, pur rimanendo distinguibile nei suoi contorni dalla loro posizione, verso il luogo dove prima si trovavano i prigionieri.

Trehearne gridò forte: «Parla Trehearne. Sta dirigendosi verso di noi, alla nostra destra, proprio fuori della zona illuminata.»

Gli uomini cominciarono a correre, disseminandosi qua e là e poi il disgregatore fece fuoco più volte, insistente, sistematico; rastrellando tutto il terreno dove avrebbero dovuto trovarsi i prigionieri, i lampi azzurri crepitavano negli interfonici come violente tempeste.

Trehearne e gli altri fuggirono ancor più lontano, arrancando sull’aspro terreno e i lampi azzurri li inseguivano. Poi due uomini si gettarono su Kerrel prendendolo alle spalle. Cadde e il disgregatore gli sfuggì di mano

I due uomini si rialzarono dopo un momento con una certa lentezza. Qualcuno si avvicinò con una torcia e poi altri, e poi tutti, compresi Trehearne, Quorn ed Edri. Rimasero tutti a guardare la figura che giaceva ancora dove era caduta, immota. C’era una sporgenza rocciosa che finiva in un dente acuminato, emergente da uno strato d’aria congelata.

«Ha battuto forte» disse uno degli uomini. «Proprio sul viso e la glassite si è infranta.»

L’ufficiale imprecò con rabbia. «Che disgustoso pasticcio! Perché doveva comportarsi così? Doveva essere pazzo.»

«Non so» disse Edri lentamente. «Qual è il limite esatto tra la pazzia e la fede? Se ci fossero stati più uomini come lui, non avremmo potuto fare quello che abbiamo fatto.»

Sollevarono il corpo di Kerrel e lo trasportarono sul caccia e Trehearne seguì lentamente secondo gli ordini. A bordo egli e gli altri furono spogliati degli scafandri e perquisiti di nuovo. Poi le guardie li portarono giù per un corridoio: stanchi uomini amareggiati che avevano resistito troppo a lungo a una estenuante fatica. Una di esse disse: «Abbiamo catturato la Mirzim. Tutti i vostri amici sono qui.» E poi soggiunse: «È un peccato dover salvare la vita di uomini come voi.»

Giunsero dinanzi a una pesante porta e si fermarono, e Shairn era lì davanti. Aveva un aspetto patito, gli occhi cerchiati e intorno alla bocca segni che non vi erano mai stati prima. Non era la vecchia Shairn. Era una persona nuova. Non vi fu gioia in questo incontro. Ella guardò Trehearne e disse: «Michael, che cosa hai fatto?»

Egli scosse il capo e rispose: «Al diavolo! È come se non avessimo fatto nulla.»

22

Il viaggio stava per finire. Dalla lunga fase di decelerazione si erano resi conto che stava per finire e ora le ultime scosse, e i lievi sussulti del caccia che si adagiava dentro il suo dock li avvertirono che erano di nuovo a Llirdis. I campanelli risuonarono e al fremito dei generatori subentrò uno strano silenzio.

Attesero, allora. E nulla accadde. Passarono le ore e nulla accadde.

Infine Trehearne disse: «Non hanno neppure l’intenzione di farci scendere dal caccia. Ci porteranno dove ci hanno destinato senza neppure ascoltarci.»

Edri scosse il capo. «No. La legge dei Vardda non condanna nessuno senza processo formale.»

Non potevano vedere nulla, udire nulla. Finché, infine, la porta si aprì. Vi erano ufficiali e guardie, molte guardie, tutte armate. I loro volti non esprimevano nulla.

«Venite con noi» ordinò il giovane capitano delle guardie.

«Dove?» domandò Joris «Alla prigione di Llirdis o…?»

«È proibito comunicare con i prigionieri» disse seccamente il giovane capitano. «Venite con noi.»

Parve strano a Trehearne camminare ancora su pavimenti, corridoi, ponti immobili, su un pianeta. Aldebaran splendeva nel suo fulvo bagliore quando scesero dal caccia. L’aria pareva umida in modo innaturale, pesante dell’odore del mare.

Egli, Joris e Edri, il primo a uscire, si guardarono attorno con un fremito d’ansia, quasi di speranza. Non potevano vedere gran che. Il caccia era atterrato in un settore isolato e altre guardie erano in attesa là fuori accanto ad alcune macchine lucenti.

Ma Trehearne poteva udire. Poteva udire tutto il consueto brusio, frastuono e rumoreggiare della grande base, il cigolio delle gru e il rombo dei carrelli, il sibilo di una veloce astronave planetaria in arrivo. E poi il ruggito più possente di una grande mole librata in volo, un’astronave in partenza per soli lontani. E all’orizzonte le torri splendenti della città di Llirdis sfidavano ancora i cieli con la loro magnificenza.

Trehearne sentiva un amaro senso di inutilità. Tutto questo ordinato turbinio di organizzazione e di attività, tutto il traffico galattico che si accentrava qui, la millenaria solidità del monopolio commerciale dei Vardda: come aveva potuto sognare che un appello radiofonico, pietosamente debole e mal trasmesso, potesse mai scuotere tutto ciò? I volti dei suoi amici gli rivelarono che la loro estrema speranza stava per svanire.

«Le macchine» disse il giovane capitano. «Voi quattro salirete sulla prima.»

Edri ritrovò la voce. «E Arrin?»

«Sono autorizzato a dirvi che il vostro compagno è stato portato all’ospedale ed è in buone condizioni.»

Joris non disse nulla. Trehearne vide i suoi occhi infossati vagare per la base e pensò che cosa dovesse essere per lui ritornare in quelle condizioni al luogo dove per anni aveva guidato con le sue mani l’andirivieni delle astronavi dei Vardda. Poi la macchina li portò fuori dalla base rapidamente. Trehearne notò che altre macchine con a bordo soltanto delle guardie li precedevano e li seguivano discretamente.

Nulla era cambiato a Llirdis. La città variopinta si pavoneggiava sotto il sole, iridescente, splendida, le strade affollate di Vardda sorridenti e dei rappresentanti di altre razze più strane, echeggianti di musiche, vivide di colori. Oltrepassarono un uomo e una ragazza vardda fermi a parlare e a ridere. E fu allora che Trehearne abbandonò ogni speranza.

«Stiamo andando verso il Palazzo del Consiglio» osservò Edri infine.

Joris annuì cupamente. «Avrei potuto dirvelo. Come membro del Consiglio, devo essere incriminato e destituito prima che si possano sostenere accuse a mio carico.» Aggiunse amaro: «Il vecchio Ristin, il presidente, non piangerà certo per questo. Ci siamo accapigliati piuttosto spesso in passato.»

Il Palazzo del Consiglio sorgeva tra una fitta massa di edifici governativi.

Dominava Llirdis non per imponenza, ma per antichità. Era costituito da un vecchio fabbricato grigio, che pur essendo privo di bellezza, aveva la massiccia solidità delle cose eterne. Trehearne intrawide solo vagamente i suoi cortili, i suoi corridoi e gli ufficiali che li seguivano con sguardi stupiti. Fu come se tutto ciò sfuggisse alla sua visione. E nulla gli parve veramente tangibile finché in un’anticamera il viso di Shairn balzò reale ai suoi occhi.

Aveva atteso per vederlo passare, immaginò. Aveva il viso pallido e tirato, e non parlò, ma i suoi occhi dissero: "Michael! Michael!". Si voltò a guardarla mentre passavano oltre, chiedendosi che cosa ella avesse letto nei suoi occhi. E poi si trovarono nella sala di deliberazione.

Non era vasta, né affollata: si trattava di un salone a forma di mezzaluna, in cui erano assisi poco più di un centinaio di Vardda. Del confuso ondeggiare di visi rivolti verso di lui, alcuni erano gravi, altri curiosi, altri esprimevano apertamente l’odio.

Ristin, il presidente, era un maestoso vecchio luciferino dai capelli bianchi, che sdegnava la meschina presunzione di trattare il caso come un affare di ordinaria amministrazione.

«Questo Consiglio non è un organo di giustizia» informò i quattro. «I crimini di cui vi si accusa — pirateria; resistenza all’autorità — verranno giudicati da corti regolari. Noi siamo qui riuniti per approfondire una questione di estremo interesse per lo stato.»

Joris si alzò, sporgendo in avanti la grigia testa simile a quella di un vecchio mastino. Brontolò: «Dal momento che si tratta di un’investigazione, non potete effettuarla legalmente, senza sentire noi.»

Ristin disse arcigno: «Il Coordinatore della base è sempre riuscito ottimamente a farsi ascoltare qui. Ma questa volta dovrete aspettare, Joris.» Alzò lo sguardo sui volti intenti dei Vardda, soggiungendo: «Il problema delle vostre colpe personali, non è il più importante. Quello che ci interessa più urgentemente è la politica generale che il Consiglio dovrà adottare.»

Trehearne udiva appena. La rapida visione di Shairn l’aveva profondamente colpito e la sua mente errava lontano. Confusamente si chiedeva perché Edri che fin allora era rimasto pesantemente afflosciato accanto a lui, si fosse irrigidito d’improvviso, perché gli afferrasse improvvisamente il polso.

Ristin continuava: «Perciò sottolineo di nuovo che noi del Consiglio non permetteremo che nessuna ombra di risentimento incida sul nostro giudizio. Noi siamo stati eletti per servire i veri interessi dei Vardda come comunità nel loro insieme e non dobbiamo permettere che considerazioni d’altro genere influenzino le nostre decisioni.»

Allora Joris rise. Alzò il capo, e la sua tonante risata echeggiò ripercossa dal soffitto a volta. Si volse vivacemente a Trehearne, Edri e Quorn e gli occhi gli splendevano ora. «Per Dio! Ce l’avete fatta dopotutto!»

Trehearne che ancora comprendeva solo a metà, sentì un brivido d’emozione. Edri era scosso da violenti tremiti.

La voce fredda di Ristin riprese: «Credetemi, la vostra esultanza è prematura, cionondimeno non avrebbe senso celare il fatto che le vostre azioni ci hanno messo di fronte a un problema di una gravità senza precedenti.»

Quorn si rivolse a Trehearne con voce roca: «Non capisci? Il nostro messaggio è arrivato!»

Allora Trehearne capi. La gravità dei visi in ascolto, l’odio profondo che si leggeva in alcuni di essi, la dimostrazione d’autorità che il vecchio presidente stava dando per dominare la crisi, tutto ciò incrinava l’apparenza quotidiana, normale di Llirdis che era stata come una campana a morto per le sue speranze.

Ristin stava dicendo: «Finora non si tratta che di voci vaghe, di dicerie. I radiotelegrafisti che possono aver sentito la trasmissione sono stati diffidati dal ripeterla, ma è indubbio che tra essi vi siano degli Orthisti. Il fatto che mondi non appartenenti ai Vardda siano in possesso di ricevitori ultrasonici di cui si servono normalmente per i rapporti commerciali con noi, è un fatto anche più grave. Sta di fatto che, malgrado il servizio informazioni d’attualità agisca in cooperazione con noi, la notizia che il segreto di Orthis è stato scoperto e trasmesso sta diventando di pubblico dominio. Sono state rinvenute finora tre registrazioni in dischi e due scritte. Possiamo esser certi che ne esistono altre.»

Joris intervenne, con voce dura: «In altre parole il segreto è svelato, e presto tutti sapranno che… e che cosa farete voi?»

«Il Coordinatore della base ha fatto il punto della situazione» disse Ristin freddamente, annuendo. «Che cosa faremo noi?»

Un Vardda di alta statura balzò in piedi e gridò: «Propongo di uccidere per prima cosa questi traditori!»

Ci fu un vivace coro di assenso di una mezza dozzina di voci. Ristin richiamò energicamente all’ordine.

«Vi ho ricordato che in questo momento noi dobbiamo pensare soprattutto ai veri interessi del nostro popolo! Che simili interruzioni non si ripetano.»

Un Vardda più anziano si alzò tra i banchi e disse pianamente: «Prima di fare la mia proposta devo ammettere di aver sempre avuto una segreta simpatia per gli Orthisti. Non credo di essere il solo qui dentro a poter fare questa affermazione. Dovete ammetterlo.» Proseguì: «Da tempo mi sono auspicato la fine di questo assurdo monopolio. Ora ci hanno forzato la mano. A mio parere la migliore e più saggia linea di condotta che possiamo adottare è di agire subito, di dichiarare pubblicamente che noi Vardda intendiamo rivelare il segreto a tutta la Galassia.»

S’interruppe per dare più enfasi alla sua affermazione. «Il segreto è ormai di pubblico dominio in ogni caso. Ma agendo prontamente possiamo guadagnarne in credito. Possiamo affermare che la trasmissione è stata fatta con il nostro consenso. Ricordate: che a noi piaccia o no, nel giro di alcune generazioni gli abitanti di altri mondi saranno in grado di volare negli spazi interstellari, e non vogliamo che allora coltivino contro di noi un retaggio di odio.»

Trehearne, ascoltando, sorrideva amaramente: «La politica è la stessa in ogni parte della Galassia.»

«Ma è proprio quanto avevamo sperato» bisbigliò Edri. «E avrà anche il suo effetto!»

Si erano scatenate dispute e aspri dibattiti, che continuarono ininterrottamente, in un clamore di voci che accusavano e negavano, mentre Ristin manteneva fermamente l’ordine, riportando di volta in volta la discussione al tema principale. Infine, approfittando di una pausa, Joris si fece improvvisamente avanti ad affrontare il Consiglio.

«Ora ascoltatemi» tuonò il vecchio. «Dal modo come qualcuno di voi ha parlato pare siate convinti che questo significa la fine dei Vardda, la fine di Llirdis, la fine di tutto. È una poderosa sciocchezza. In primo luogo, le mutazioni non si compiono da un giorno all’altro. Ci vorranno una o due generazioni prima che altre razze comincino ad avventurarsi tra le stelle.»

Trehearne notò che il discorso faceva il suo effetto. Il Consiglio dei Vardda, essendo composto di esseri umani, non poteva preoccuparsi profondamente di un lontano futuro di cui non sarebbero stati spettatori.

«E inoltre» urlò Joris «quando tutte quelle mezze intelligenze dei popoli della Galassia intraprenderanno il volo interstellare, questo significherà forse che il grande commercio dei Vardda sarà rovinato per sempre? Ascoltate! Noi Vardda fummo i primi ad avventurarci tra le stelle. I primi! Pensate che tutti quegli zotici popoli della Galassia possano competere con noi lassù? Lo pensate?»

Li incantò con questo, con l’orgoglio dei Vardda, la gloria dei Vardda.

Trehearne vide i volti contratti mutare espressione. Non tutti, ma molti.

Joris fece una pausa, prima di concludere: «Pensate che verrà mai un tempo in cui i Vardda perderanno la loro autorità?»

Non si parlò molto, dopo questo. Vi furono domande, proteste, dubbi, ma poche discussioni. Tutti i punti principali erano già stati toccati.

«Dobbiamo deciderci ora o mai più» disse Ristin. «Se indugiamo troppo non vi sarà più possibilità di scelta.»

Trehearne udì la lettura della delibera, la votazione e il risultato. I Vardda non potevano piegarsi tanto facilmente! Quarantatré furono i voti contrari alla delibera. Ma settantanove erano in favore.

Infine Ristin proclamò: «Stasera verrà annunciato con una trasmissione su tutte le linee che, in vista dei progressi della civiltà sui pianeti di molti sistemi solari, i Vardda ritengono giunto il momento di far partecipi del segreto della mutazione altre razze scelte.»

Quom esultò: «È fatta, Trehearne, è fatta.»

Trehearne non poteva ancora afferrare in tutta la sua realtà il fatto che quella semplice affermazione segnava un definitivo cambiamento nella Galassia. Che con essa tutte le razze umane cominciavano il grande mutamento verso l’Uomo Galattico.

«E questi criminali che ci hanno obbligati ad adottare questa risoluzione?» domandò un Vardda riluttante, fissando Trehearne e i suoi compagni.

«Non abbiamo scelta» disse Ristin seccamente. «Se li punissimo per quanto hanno fatto, sveleremmo le vere ragioni del nostro annuncio. Le accuse di procedura normale vengono considerate nulle.»

«Così che non saranno puniti del loro crimine?»

Ristin sospirò con rammarico: «Gli interessi dello stato lo richiedono. No.»

I compagni di Trehearne stavano per venir meno a metà sbigottiti, a metà increduli della vittoria che avevano creduto impossibile. Ma stranamente Trehearne non pensava alla conquista che avevano fatto in nome delle razze della Galassia, sentiva in sé l’orgoglio che la frase di Joris "Noi Vardda" vi aveva acceso.

Noi Vardda, ed egli era uno di loro. Era uno dei signori delle stelle, i primi, i più grandi degli stellari.

Edri pensava a qualcos’altro. Si era spinto avanti tra il frastuono generale per parlare a Ristin. «C’è un’altra cosa. Orthis…»

«Abbiamo inviato un caccia a sorvegliare la sua astronave» lo interruppe Ristin.

Edri annuì tristemente. «Ma Orthis non era neppure figlio di un pianeta. Era figlio delle stelle, ha sempre vissuto tra le stelle. È rimasto tanto tempo su quel remoto pianeta. Se la sua astronave potesse di nuovo librarsi nello spazio…»

Ristin annuì pensosamente: «Una buona idea. Dando alla sua astronave un’orbita intorno al nostro sistema creeremo un monumento che ricorderà a tutta la Galassia che furono i Vardda a dar loro la possibilità di volare tra le stelle.»

Edri si volse a Trehearne e a Joris. Aveva le lacrime agli occhi. Disse: «Orthis torna a casa.»

Il messaggio lasciato per Trehearne diceva semplicemente che Shairn sarebbe stata alla Torre d’argento. Glielo consegnarono quando finalmente uscirono dal Palazzo del Consiglio. Joris gli procurò una macchina e un autista. Trehearne esitò, con una improvvisa ripugnanza a separarsi dal vecchio. Edri, Quorn e gli altri avevano i loro tanto accarezzati piani. Ma per Joris la vittoria non rappresentava una gioia.

«Se tutto questo fosse accaduto una generazione fa, mio figlio sarebbe ora il capitano di un’astronave» mormorò in risposta alle incerte parole di Trehearne. «Bene…»

La macchina lo condusse fuori dalla città, lieve e veloce; la gran luce di Aldebaran s’immerse nel mare e calò il crepuscolo. Le stelle fiorirono nel cielo e Trehearne alzò lo sguardo a esse. Guardò la vaga scintilla remota del piccolo Sole e pensò alla Terra e a un trovatello di laggiù che per miracolo aveva ritrovato la via di casa.

Quella verde lontana Terra non sapeva ancora nulla delle battaglie combattute e vinte ai confini estremi della Galassia. Ma era stata una battaglia combattuta anche in suo favore ed essa l’avrebbe saputo in tempo. Tra una generazione le astronavi avrebbero cominciato a recarsi apertamente sulla Terra. E superati i loro mortali conflitti, anche i giovani della Terra si sarebbero avventurati tra le stelle per unirsi alla grande marcia dell’Uomo Galattico. Chi poteva mai dire dove questa marcia li avrebbe portati? Fino ad altre galassie, ad altri continenti astrali… I pensieri di Trehearne ritornarono alla realtà dalle immensità del futuro quando scorse la Torre d’argento balenare al lume delle stelle. Uscì dalla macchina e si avviò verso di essa e poi vide una pallida figura sulla spiaggia in ombra, accanto al lento sciacquio del mare e mutò direzione.

La prese tra le braccia, ma lei lo allontanò. Poi gli parlò, la voce chiara, il viso un’incerta macchia bianca nell’ombra. «Non voglio che tra noi rimangano dei malintesi. Voglio che tu lo sappia. Ti odio per quanto hai fatto ai Vardda. Ti odierò sempre per questo.»

Egli fece un passo indietro e lasciò cadere le braccia. «In questo caso» disse «sarà meglio che me ne vada.»

«No, aspetta.» Gli si avvicinò e gli prese il viso tra le mani, molto dolcemente e disse: «Ti amo, malgrado tutto, non so perché. La mia ragione continua a ripetermi i motivi per cui non dovrei, ma… è strano, Michael, non sono mai stata innamorata prima d’ora. Mi accetti a questi patti?»

Egli l’abbracciò questa volta, la tenne stretta contro di sé, sfiorandole le labbra con le sue, mentre rispondeva: «La vita con te non sarà certo un’oasi di pace. Ne sono sicuro, ma lo seppi subito quando t’incontrai.»

Indugiando con lei nella penombra, mentre il vento del mare le gonfiava l’abito bianco e le scompigliava i capelli, il gioco della memoria lo riportò a quella notte sulla spiaggia bretone, secoli prima. Da allora aveva percorso un così lungo cammino, eppure di tutto quanto era accaduto, questo era quasi il suo ricordo più nitido.

Seppe allora, con una saggezza che non aveva mai avuto prima, che a un uomo sarebbe accaduto sempre così, non erano i conflitti e la pena e il trionfo, non gli imperi e le stelle e lotte ciò a cui la memoria aderiva più a lungo. Erano le piccole cose, l’eco del riso di una ragazza, il grido degli uccelli portato dal vento marino, lo splendore di un lontano tramonto, che un uomo ricordava, che avrebbe sempre ricordato quando ogni altra cosa fosse scomparsa.

FINE