Gli alieni, minacciosi esseri dall’aspetto insettoide, hanno attaccato due volte la Terra e questa guerra il governo del mondo ha deciso di creare una razza di genii militari, di allevare bambini al di fuori del mondo normale e istruirli nelle arti marziali tramite una serie di “giochi di guerra” e di combattimenti simulati basati sull’uso del computer.

Ender Wiggin, l’eroe di questo magnifico romanzo, è un genio tra i genii: nato con le doti di un superbo comandante e condottiero di uomini, viene forzato a una precoce maturità attraverso un addestramento continuo e pressante. Toccherà a lui, unico a vincere tutti i “giochi”, assumere il comando, al momento opportuno, delle forze terrestri effettive: sarà lui a guidare le astronavi umane e i computer che dirigono la gittata dei missili contro il nemico. Con questo Il gioco di Ender, Orson Scott Card, uno dei migliori autori della fantascienza moderna, è riuscito a rinnovare uno dei temi più classici di questo genere letterario, quello dell’addestramento dei cadetti spaziali, e si è imposto, vincendo tutti i maggiori premi del 1986, a fianco dei Dickson e degli Heinlein e di tutti i grandi maestri di questo filone narrativo.

Orson Scott Card

Il gioco di Ender

CAPITOLO PRIMO

TERZO

— Io ho guardato con i suoi occhi, ho ascoltato con i suoi orecchi, e le dico che è l’unico. O almeno, il migliore che possiamo avere.

— Questo lo aveva detto anche del fratello.

— I test hanno rivelato che il fratello è inadatto. Per altre ragioni. Niente a che vedere con le sue capacità.

— Lo stesso per sua sorella. E su di lui ci sono dei dubbi. È troppo malleabile. Si adegua troppo volentieri alla volontà degli altri.

— Non se questi altri sono suoi nemici.

— E allora cosa dovremmo fare? Circondarlo di nemici giorno e notte?

— Se sarà necessario.

— Credevo d’averle sentito dire che questo bambino le piace.

— A confronto di ciò che gli potrebbero fare gli Scorpioni, io gli sembrerei uno zietto affettuoso.

— E va bene. Dobbiamo salvare il mondo, dopotutto. Lo prenda.

La donna del monitor sorrise con molta simpatia, gli scarruffò i capelli e disse: — Credo proprio che tu non ne possa più di avere quell’orribile monitor, Andrew. Be’, ho buone notizie per te. Oggi è l’ultimo giorno che lo porti. Adesso te lo leveremo, e non sentirai male neppure un poco.

Ender annuì. Che non gli avrebbero fatto male, naturalmente, era una bugia. Ma visto che gli adulti dicevano sempre così quando faceva male, lui poteva basarsi su quella frase per un’accurata previsione di quel che lo aspettava. A volte le bugie risultavano più affidabili della stessa verità.

— Bene, Andrew, se vuoi venire qui, intanto puoi sederti sul lettino per le visite. Il dottore verrà a occuparsi di te fra un minuto.

Il monitor tolto. Ender cercò d’immaginare la sua nuca priva del minuscolo apparecchio. A letto potrò girarmi sulla schiena senza sentirmi pigiare qui. Non lo sentirò più formicolare freddo quando faccio il bagno.

E Peter non mi odierà più. Appena torno a casa gli faccio vedere che mi hanno levato il monitor, così saprà anche che non ce l’ho fatta. E che sarò un bambino qualsiasi, adesso, come lui. Non sarà più così crudele, allora. Dimenticherà che io ho tenuto il monitor per un anno più di lui. E saremo…

Non amici, probabilmente. No, Peter era troppo pericoloso. Peter andava in collera troppo facilmente. Fratelli, comunque. Non nemici, non amici, ma fratelli… capaci di vivere nella stessa casa. Non mi odierà, mi lascerà in pace. E quando avrà voglia di giocare a Scorpioni e Astronauti, forse sarò io a non volere, forse me ne andrò a leggere un libro.

Ma anche mentre si diceva questo, Ender sapeva che Peter non avrebbe smesso di prendersela con lui. C’era qualcosa nei suoi occhi quando Peter era in vena di pazzia, e ogni volta che lui vedeva quello sguardo, quel lampo nelle pupille, poteva star certo che Peter avrebbe fatto di tutto salvo che lasciarlo in pace. Voglio esercitarmi al piano, Ender. Vieni a girare le pagine per me. Oh, il bambino col monitor ha troppo da fare per aiutare suo fratello? Si crede molto intelligente, vero? Vuoi ammazzare un po’ di Scorpioni, Astronauta? No, no, io non ho bisogno del tuo aiuto. Posso benissimo fare da solo, razza di bastardo, piccolo stupido Terzo!

— Non ci vorrà molto, Andrew — disse il dottore.

Ender annuì.

— È progettato per essere rimosso. Senza infezioni e senza danni. Ma proverai un po’ di prurito, e qualcuno a volte dice d’avere la sensazione che gli manchi qualcosa. Capiterà anche a te di guardarti intorno come in cerca di questo qualcosa, senza trovarlo, e senza neanche sapere cosa stai cercando. Perciò te lo dico io: quello che ti scoprirai a cercare è il monitor, e non ci sarà più. In pochi giorni questa sensazione sparirà.

Il dottore stava girando un oggetto dietro la testa di Ender. A un tratto un ago rovente di dolore lo attraversò dalla nuca all’inguine. I muscoli della schiena gli si contrassero di colpo e s’inarcò all’indietro, con violenza, sbattendo la testa sul lettuccio. Si accorse che le sue gambe scalciavano a vuoto, e aveva le mani strette l’una all’altra così forte da fargli male.

— Deedee! — gridò il dottore. — Ho bisogno di te! — L’infermiera sopraggiunse di corsa, ansando. — Cerca di fargli rilassare questi muscoli. Qui, tira verso di me, adesso. Che stai aspettando?

Altre mani s’impadronirono di lui, ma Ender non poteva vedere niente. Si torse di lato e cadde giù dal lettino delle visite. — Lo blocchi! — strillò l’infermiera.

— Basta che tu lo tenga saldamente e…

— Lo tenga lei, dottore, è troppo forte per me…

— Non tutta la fiala! Vuoi rischiare di fermargli il cuore?

Ender sentì la puntura di un ago giusto sopra il colletto della camicia, dietro la nuca. Bruciava, ma dovunque quel bruciore si espandeva i suoi muscoli si rilassavano gradualmente. Adesso riusciva ad aprire la bocca per gemere, spaventato e dolorante.

— Va meglio, Andrew? — lo interrogò l’infermiera.

Ender non ricordava neppure come si facesse a parlare. I due lo rimisero sul lettino. Gli controllarono le pulsazioni e fecero altre cose, che lui non fu assolutamente in grado di capire. Il dottore stava tremando; quando parlò la sua voce era rauca. — Lasciano questa roba addosso ai ragazzini per tre anni, e poi cosa si aspettano? Avremmo potuto rovinarlo, ti rendi conto? Avremmo potuto alterare il suo cervello irreversibilmente.

— Quanto dura l’effetto del tranquillante? — chiese l’infermiera.

— Tienilo qui per almeno un’ora. Sorveglialo. Se fra quindici minuti non riesce ancora a parlare, chiamami. Potremmo averlo rovinato per sempre. Certa gente si comporta peggio degli Scorpioni, maledizione!

Rientrò nella classe di miss Pumphrey appena quindici minuti prima che suonasse l’ultima campanella. Era ancora un po’ instabile sulle gambe.

— Ti senti bene, Andrew? — domandò miss Pumphrey.

Lui annuì.

— Hai avuto la febbre?

Lui scosse il capo.

— Mi sembri pallido.

— Sto benissimo.

— Meglio che ti sieda, Andrew.

Lui si diresse al suo posto, ma si fermò. E adesso cosa sto cercando? Non riesco a ricordare cosa sto cercando.

— Il tuo banco è dall’altra parte — disse miss Pumphrey.

Lui sedette, ma la cosa di cui sentiva il bisogno era un’altra, qualcosa che gli sembrava d’aver perso. La cercherò più tardi.

— Il tuo monitor — sussurrò la bambina dietro di lui

Ender scosse le spalle.

— Il suo monitor! — la sentì sussurrare agli altri.

Ender alzò una mano a tastarsi la nuca. Le sue dita incontrarono un cerotto. Gliel’avevano tolto. Adesso era come tutti gli altri.

— Ti senti giù, eh, Andy? — chiese un bambino della fila accanto, un posto più indietro. Non riesco a ricordare come si chiama. Peter. No, quello è qualcun altro.

— Silenzio laggiù, signor Stilson — disse miss Pumphrey. Stilson ridacchiò sottovoce.

Miss Pumphrey stava parlando delle moltiplicazioni. Ender cominciò a scribacchiare sullo schermo del banco, disegnò i contorni orografici di alcune isole montuose e poi ordinò al banco di svilupparglieli in tre dimensioni da ogni angolo visivo. La maestra, naturalmente, si sarebbe accorta che non stava attento, ma questo non lo preoccupava. Sapeva sempre quali risposte dare, anche quando lei era convinta che fosse distratto.

Nell’angolo in basso del banco una parola apparve e cominciò a scivolare lungo il bordo dello schermo. All’inizio era capovolta, ma Ender ne conosceva il significato già molto prima che ruotando sul lato superiore del banco si raddrizzasse.

TERZO

Ender sorrise. Era stato lui a scoprire il modo di mandare messaggi e farli muovere: anche se quel suo nemico anonimo lo stava insultando, il metodo scelto per farlo lo inorgogliva. Non era colpa sua se era un Terzo. L’idea l’avevano avuta quelli del Governo, i soli che potevano autorizzare una cosa simile… altrimenti come avrebbe potuto un Terzo come lui essere iscritto a scuola? E adesso il monitor non c’era più. L’esperimento etichettato «Andrew Wiggin» non aveva funzionato, dopotutto. Se avessero potuto farlo, era certo che avrebbero volentieri ritirato anche il permesso speciale in base al quale lui era stato messo al mondo. Esperimento fallito: cancellare e gettare via. La campanella suonò. Gli alunni cominciarono a spegnere i banchi, e alcuni batterono in fretta gli ultimi appunti. Altri stavano trasferendo i dati della lezione al computer di casa loro. Due o tre si misero in fila davanti a una stampante per farsi riprodurre qualche illustrazione che li aveva interessati. Ender poggiò le mani sulla piccola tastiera del banco, adatta alle dita di un bambino, e si chiese cosa si provasse ad avere mani larghe come quelle degli adulti. Dovevano sentirsele massicce e goffe, con quei ruvidi palmi carnosi. Naturalmente essi avevano tastiere più grandi… ma come avrebbero potuto i loro pesanti polpastrelli tracciare una linea così fine e precisa che poteva farla spiraleggiare settantanove volte dal centro del banco verso i lati, senza che si sovrapponesse mai. Questo almeno gli teneva occupate le mani, intanto che la voce della maestra gli ronzava negli orecchi noiose spiegazioni di aritmetica. Aritmetica! Valentine gli aveva insegnato quella roba quando lui aveva appena tre anni.

— Ti senti meglio, Andrew?

— Sì, signora.

— Perderai l’autobus.

Ender annuì e si alzò. Gli altri ragazzini erano usciti. Lo avrebbero aspettato però, quelli più perfidi. Nella sua nuca non c’era più un monitor a udire quel che udiva lui, e a vedere ciò che vedeva. Potevano dirgli tutto quello che s’erano tenuto in bocca fin’allora. Avrebbero potuto anche picchiarlo: non ci sarebbero stati altri occhi a osservarli, e dunque nessuno sarebbe comparso a difendere Ender. Il monitor aveva comportato anche dei vantaggi, e adesso li aveva perduti.

Ad attenderlo fu Stilson, naturalmente. Non era più robusto di altri ragazzini, ma superava Ender di tutta la testa. E con lui c’erano i suoi amici, cinque o sei. Come sempre.

— Ehi tu, Terzo.

Non rispondere. Non hai niente da dirgli.

— Ehi, Terzo! Stiamo parlando con te, Terzo. Ehi, amico degli Scorpioni, è con te che parliamo.

Non riesco neanche a pensare a qualcosa da dire. E dire qualsiasi cosa sarebbe peggio. Così starò zitto.

— Ehi, Terzo, Terzetto, stronzetto… fai finta d’essere sordo, eh? Pensavi di essere meglio di noi, eh? Ma adesso l’hai perduto l’occhio spione, Terzino stronzone, e sulla testa ti ci han messo un tampone!

— Volete lasciarmi passare, o no? — chiese Ender.

— Vogliamo lasciarlo passare, o no? Dobbiamo lasciarlo passare? — tutti risero. — Sicuro che ti lasciamo passare. Prima lasciamo passare i tuoi denti, però. E poi la testa. E poi lasciamo passare anche il tuo culo, a calci.

I ragazzini cominciarono a girare in cerchio, stringendosi attorno a lui. — L’occhio-spia te l’hanno rotto, Terzotto! L’occhio-spia ha fatto fagotto, Terzotto!

Stilson gli appoggiò una mano in mezzo al petto e lo spinse; qualcuno, dietro di lui, lo proiettò di nuovo verso Stilson.

— Vuoi giocare all’altalena, Terzo? — gridò un altro.

— Vuoi giocare alla palla da tennis, Terzo?

Uno spintone lo gettò indietro. — Sei una palla da ping pong, Terzo?

Ender capì che la cosa sarebbe finita male. Ma finisse come finisse, decise, lui non sarebbe stato il solo a piangere. E appena Stilson fece per spingerlo ancora, lui lo afferrò per il petto. L’altro si liberò con uno strattone.

— Ah, vuoi sfidarmi, eh? Vuoi batterti con me, Terzocchio?

I ragazzini alle spalle di Ender lo afferrarono per le braccia e lo tennero fermo.

Ender non aveva nessuna voglia di ridere, ma rivolse loro un sogghigno misurato. — Ci vogliono cinque di voi per picchiare un Terzo solo?

— Noi siamo normali, non Terzi, faccia di merda. Tu non hai la forza di una scoreggia!

Ma gli tolsero le mani di dosso. E nello stesso istante in cui lo lasciavano Ender colpì Stilson allo sterno con un pugno in cui mise tutta la sua forza. L’avversario cadde lungo disteso. Questo lo colse di sorpresa: non s’era aspettato di mettere a terra Stilson con un sol pugno. Non si rese conto che l’altro doveva aver preso la sfida alla leggera, e non era stato preparato a un colpo così disperato.

Nel vedere l’immobilità di Stilson gli altri sbarrarono gli occhi e si azzittirono, come chiedendosi se fosse vivo o morto. Ender stava invece pensando a come rintuzzare la prevedibile vendetta del ragazzo. L’indomani Stilson avrebbe fatto polpette di lui. Devo vincere adesso, e una volta per tutte, altrimenti mi dovrò battere con lui di continuo e ogni giorno sarà peggio.

Benché avesse appena sei anni Ender conosceva le regole non scritte della lotta. Era proibito infierire sull’avversario che giaceva a terra inerme; soltanto un animale l’avrebbe fatto.

Così si accostò a Stilson e lo colpì con un violento calcio nelle costole. Lui emise un grugnito e cercò di rotolare via. Ender gli girò attorno e gli sferrò una pedata al basso ventre. Dalla bocca di Stilson non uscì un lamento, ma si piegò in due e i suoi occhi si empirono di lacrime.

Ender rivolse agli altri uno sguardo freddo. — Forse vi sta venendo l’idea di buttarvi su di me. Probabilmente mi potete picchiare a sangue. E allora guardate quello che faccio alle carogne. Se ci provate, saprete che d’ora in poi aspetterò di trovarvi da soli, e saprete che vi succederà questo. — Con un altro calcio colpì Stilson in piena faccia. Il sangue gli uscì dal naso e ruscellò sul pavimento. — Solo che con voi non sarà così — disse. — Sarà molto peggio.

Volse loro le spalle e si allontanò. Nessuno provò a seguirlo. Uscito da scuola s’avviò nel corridoio sotterraneo verso la fermata del bus, e fece in tempo a sentire uno di loro che diceva: — Gesù! Guardalo, gli ha spaccato la faccia. — Ender appoggiò la fronte alla parete, e pianse fino all’arrivo dell’autobus. Sono uguale a Peter. Mi avete levato il monitor, e adesso sono proprio come Peter.

CAPITOLO SECONDO

PETER

— Ebbene, gli è stato tolto. Come se la cava?

— Vivendo nel corpo di qualcuno per qualche anno ci si abitua ad esso. Ma ora, guardando la sua faccia, non riesco a capire cosa gli succede. L’espressione dei lineamenti non mi dice molto. Io sono abituato a sentirla, più che a vederla.

— Avanti, qui non stiamo parlando di psicanalisi. Noi siamo militari, non medici-stregoni. Lei lo ha appena visto battere come un materasso il capo di quella piccola banda.

— Ha esagerato. Non si è limitato a vincerlo: lo ha schiacciato. Come Mazer Rackham fece agli…

— Me lo risparmi. Così, i membri della commissione hanno dato parere favorevole.

— Quasi tutti. Vediamo cosa succederà con suo fratello, ora che non ha più il monitor.

— Suo fratello. Lei non ha paura di ciò che suo fratello potrebbe fargli?

— È stato lei a dirmi che questa era una faccenda priva di rischi.

— Ho riesaminato alcuni dei nastri, e non posso fare a meno di preoccuparmi. Quel ragazzino mi piace. Ho idea che lo stiamo spremendo troppo.

— Questo è ovvio. È il nostro lavoro. Noi facciamo la parte della strega cattiva. Gli promettiamo il marzapane con le uvette, e poi ce li mangiamo vivi, quei piccoli bastardi.

— Mi spiace, Ender — mormorò Valentine, quando vide il cerotto che aveva sulla nuca.

Ender sfiorò il muro e la porta si chiuse dietro di lui. — Non m’importa. Sono contento di non averlo più.

— Cos’è che non hai più? — Peter entrò in salotto, con la bocca piena di pane e burro d’arachidi.

Ender non vedeva Peter come lo vedevano gli adulti: un bel ragazzo di dieci anni, con capelli corvini folti e scarmigliati ed un volto che avrebbe potuto appartenere ad Alessandro il Grande. Ender lo guardava soltanto per scoprire in lui la rabbia, o la noia, quegli umori pericolosi che quasi sempre significavano sofferenza per qualcuno. E quando Peter si accorse del cerotto, nei suoi occhi balenò un lampo di rabbioso disprezzo.

Anche Valentine lo notò. — Adesso è come noi — disse, cercando di placarlo prima che agisse in qualche modo violento.

Ma Peter non voleva esser placato. — Come noi? Ha tenuto quel maledetto coso fino a sei anni. Tu fino a quando? Ne avevi tre. E a me hanno tolto il mio che non avevo neppure cinque anni. Lui ce l’aveva fatta, lo stupido bastardo, piccolo scorpione.

Così va meglio, pensò Ender. Parla, Peter, continua pure. Parlare non fa male.

— Be’, adesso non hai più l’angelo custode che ti protegge, eh? — disse Peter. — Adesso non ti spiano più per sapere se soffri o ridi, per ascoltare quello che ti dico, per vedere quello che ti faccio. Che ne pensi, eh? Che ne pensi?

Ender scrollò le spalle.

D’improvviso Peter sorrise e batté le mani, in un’ironica imitazione di spensierata giovialità. — Facciamo una partita a Scorpioni e Astronauti — disse.

— Dov’è la mamma? — domandò Valentine.

— Fuori — rispose Peter. — Comando io, in casa.

— Credo che chiamerò papà.

— Lo sai che non è mai in casa — disse Peter. — Vai pure fuori a chiamarlo.

— Va bene, ci sto — annuì Ender.

Peter schioccò le dita. — Tu fai io Scorpione.

— Lascialo fare l’Astronauta, una volta tanto — disse Valentine.

— Tu non ficcare il naso, caccola — la rimbeccò Peter. — Andiamo di sopra a prendere le armi.

Come Ender sapeva, non sarebbe stata una partita facile. Non era questione di vincerla. Quando i ragazzi la giocavano all’aperto, a bande intere, gli Scorpioni non vincevano mai e qualche volta la gara finiva tutt’al più alla pari. Ma al chiuso la cosa cominciava già male, perché gli Scorpioni non potevano disimpegnarsi e manovrare come nella guerra vera. Erano costretti a restare, finché gli stessi Astronauti non decidevano che la partita era finita.

Peter aprì il primo cassetto del suo canterale e ne tolse la maschera da Scorpione. Sua madre non era stata affatto contenta quando il ragazzo l’aveva comprata, ma il padre aveva dichiarato che impedire ai bambini di indossare le maschere e di battersi con finte armi laser non avrebbe certo fatto cessare la guerra con gli Scorpioni. Meglio anzi lasciare che giocassero con le armi fin da piccoli, così avrebbero avuto qualche possibilità in più il giorno che gli Scorpioni fossero tornati.

Sempre che io sopravviva a queste partite, pensò Ender. Si mise la maschera. Gli aderiva come una mano stretta intorno alla faccia. Ma non è come sentirsi davvero uno Scorpione, si disse Ender. Loro non indossano questa faccia come una maschera: è la loro faccia. Chissà se sul loro pianeta si mettono maschere da uomini, e giocano? E che nome danno a noi? Cacchemoscie, dato che siamo così morbidi e carnosi confronto a loro?

— Fatti sotto, caccamoscia — disse Ender.

Attraverso i fori della maschera vedeva Peter a malapena. Il fratello gli sorrise. — Caccamoscia, eh? Bene, scorpio-puzzone, vediamo come riuscite a salvare la faccia stavolta, voialtri invasori.

Ender fu colto di sorpresa dall’inizio della partita, perché Peter s’era gettato di lato e la maschera gli troncava la visione periferica. Poi un dolore improvviso gli esplose su una tempia, e sbilanciato cadde al suolo.

— Sei anche mezzo orbo, eh, Scorpione? — ringhiò Peter.

Ender cominciò ad annaspare intorno alla maschera per toglierla, ma un piede dell’avversario gli si premette sull’addome. — Non provare a levartela, tu — fu avvertito.

Ender si rimise a posto la maschera e allontanò le mani dal viso.

Peter spinse forte col tacco. Il dolore si allargò nel ventre di Ender, che tentò di contorcersi.

— Fermo dove sei, Scorpione. Adesso ti vivisezioneremo, lurido insetto. E per tutto il resto della vita ci mostrerai come funzionano le tue budella fetenti.

— Smettila, Peter — ansimò Ender.

— Smettila, Peter. Molto bene. Così voialtri Scorpioni conoscete anche i nostri nomi, adesso. E riuscite anche a chiedere pietà con voce da bambino per sembrare patetici e indifesi, in modo da farci diventare buoni e gentili con voi. Ma non funziona con me. Io ti vedo per quello che sei veramente. Loro hanno cercato di darti forma umana, bastardo di un Terzo, ma in realtà sei un sudicio Scorpione, adesso posso finalmente riconoscerti.

Tolse il piede, fece un passo di lato e si chinò su di lui, poggiandogli un ginocchio proprio sotto lo sterno. Poi pesò con tutto il suo corpo sul plesso solare di Ender, che si sentì mozzare il fiato.

— Sarebbe facile ammazzarti — sussurrò Peter. — Mi basterebbe spingere così, spingere fino a vederti morto. E poi potrei dire che non so cosa ti è successo, che stavamo giocando, e loro mi crederebbero, e tutto andrebbe meglio. Perché tu saresti morto. Ogni cosa andrebbe meglio.

Ender non riusciva a parlare, aveva appena la forza di tirare un filo di fiato nei polmoni. Peter diceva sul serio, forse. E se anche non diceva sul serio avrebbe potuto ammazzarlo ugualmente.

— Non scherzo — sibilò Peter. — Qualunque cosa tu pensi, non sto scherzando. Ti hanno dato il permesso di nascere soltanto perché io ero molto promettente. Ma di me non sono stati contenti. E tu hai fatto meglio, eh? Loro credono che tu abbia fatto meglio. Però io non voglio un fratello migliore di me. Non voglio un Terzo.

— Lo dirò alla mamma! — esclamò Valentine. — Appena torna papà…

— Nessuno ti crederà.

— Mi crederanno, eccome.

— Allora sei già morta anche tu, piccola sorellina dolce.

— Ah, sì? — disse Valentine. — Pensi che ti crederanno quando dirai loro: senza volerlo ho ucciso Andrew, e poi, sempre senza volerlo, ho ucciso anche Valentine?

La pressione diminuì un poco.

— D’accordo. Non oggi. Ma un giorno o l’altro voi due non sarete insieme. E succederà un incidente.

— Tutte chiacchiere — replicò Valentine. — Tu stesso non credi a quello che dici.

— Ah, io non ci credo?

— E sai perché non dici sul serio? — domandò Valentine. — Perché da grande tu vuoi diventare Presidente. Vuoi essere eletto. E nessuno voterebbe per te, se i tuoi avversari scoprissero che tuo fratello e tua sorella sono morti in un incidente sospetto quando eri più giovane. E questo accadrà perché io ho nascosto in un posto sicuro una lettera che sarà aperta subito dopo la mia morte.

— Non raccontarmi balle di questo genere — disse Peter.

— Io non sono morta di morte naturale, dice la lettera: Peter mi ha uccisa, e se non lo ha già fatto ben presto ucciderà anche Andrew. Non basterà a farti condannare, ma t’impedirà di essere eletto.

— Adesso sei tu il suo monitor — disse Peter. — Ti consiglio di sorvegliarlo, giorno e notte. Non perderlo mai di vista.

— Ender e io non siamo stupidi. Sappiamo fare i nostri progetti come te. Meglio di te in certe cose. Siamo tutti bambini così meravigliosamente intelligenti, no? Tu non sei il più furbo, Peter, sei soltanto il più grosso.

— Oh, lo so. Ma verrà il giorno in cui dimenticherai, e non sarai accanto a lui. E all’improvviso ricorderai, e correrai a cercarlo, e lui sarà lì sano e tranquillo. E la volta dopo non ti affretterai tanto, e non lo cercherai così in fretta. E ogni volta lui sarà sano e tranquillo. E crederai che io abbia dimenticato tutto. Anche se ripenserai a quel che sto dicendo adesso, dirai a te stessa che io ho dimenticato. E passeranno gli anni. E poi accadrà un terribile incidente, e sarò io a trovare il suo cadavere, e piangerò e singhiozzerò su di lui, e tu ricorderai questa conversazione, Vally, ma nel ricordarla avrai vergogna dei tuoi sospetti perché saprai che io sono cambiato, che è stato davvero un incidente, che da parte tua è crudele ripensare alle parole che ho detto durante una lite da bambini. Salvo che sarà tutto vero. Io avrò mantenuto la promessa, e lui sarà morto, e tu non farai niente di niente. E continuerai a credere che io sono soltanto il più grosso di noi.

— Il più grosso pezzo di cacca — disse Valentine.

Peter balzò in piedi e si mosse verso di lei. Valentine lo evitò correndo di lato. Ender si strappò via la maschera. Ma Peter si gettò lungo disteso sul suo letto e cominciò a ridere, forte e con vero divertimento, finché ebbe gli occhi colmi di lacrime. — Oh, voialtri due siete proprio dei super-poppanti, davvero, i più grossi poppanti del sistema solare.

Ender si alzò in piedi, lo guardò ridere e pensò a Stilson, pensò a quel che aveva provato nel prendere a calci il suo corpo. Lui era quello che ne aveva bisogno. Lui era quello a cui avrei dovuto farlo.

Come se gli avesse letto nella mente, Valentine sussurrò: — No, Ender.

Con una rapida contorsione Peter si volse, balzò giù dal letto e si mise bellicosamente in posa. — Oh, sì, Ender — disse. — Quando vuoi, Ender.

Ender alzò il piede destro e si tolse la scarpa. Gliene mostrò la punta. — Vedi cosa c’è qui sulla suola? Questo è sangue, Peter.

— Oooh! Oooh, sto per morire, sto per morire! Ender ha massacrato a calci un pomodoro, e ora sta per uccidere anche me.

Non c’era niente da fare con lui. Peter aveva il cuore di un omicida, e soltanto Valentine e Ender sapevano fino a che punto questo fosse vero.

La loro madre tornò a casa e compatì dolcemente Ender per la perdita del monitor. Rientrò anche il padre, e il suo commento fu che quella era una piacevole sorpresa, erano fortunati ad avere tre figli così eccezionali, e ancor più per il fattto che il governo adesso non si sarebbe preso nessuno di loro, cosicché avrebbero potuto tenerli con loro, compreso il Terzo… finché Ender non lo interruppe gridando: — Io lo so che sono un Terzo, io lo so! E se volete me ne vado via, così non vi vergognerete più davanti a tutti. E mi dispiace che mi abbiano levato il monitor, e che non avrete più niente da dire quando vi chiederanno perché avete tre figli, e che vi metterò in imbarazzo. Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace…

Quella sera giacque a letto fissando il buio a occhi aperti. Nella cuccetta sopra la sua Peter tossiva e si rigirava incessantemente. Dopo un po’ il fratello scese e attraversò la camera. Ender sentì lo scroscio dell’acqua nel bagno, poi la silouette di Peter si stagliò sulla porta e i suoi passi si avvicinarono in silenzio.

Crede che io dorma. Sta per uccidermi.

Peter giunse accanto al letto, ma invece di arrampicarsi sulla cuccetta superiore si fermò. Ender lo sentì a un palmo dalla sua testa.

Non prese un cuscino per cercare di soffocarlo. In mano non aveva nulla che potesse sembrare un’arma.

Si chinò e sussurrò: — Ender, mi dispiace, scusami. So cos’hai provato, perdonami, io sono tuo fratello e ti voglio bene.

Molto tempo dopo Ender sentì il suo respiro lento e capì che s’era addormentato. Si strappò via il cerotto dalla nuca. E per la seconda volta in quel giorno pianse in silenzio.

CAPITOLO TERZO

GRAFF

— La sorella è il nostro punto più debole. Le vuol bene davvero.

— Lo so. Lei può bloccarci. Il ragazzo non vuole lasciarla.

— Perciò, cosa intendete fare?

— Lo persuaderemo che desidera venire con noi più di quanto voglia restare con lei.

— In che modo pensa di riuscirci?

— Gli mentirò.

— E se non funziona?

— Allora gli dirò la verità. Ci è concesso farlo, in caso di emergenza. Abbiamo linee di condotta pronte per ogni circostanza, lo sa.

All’ora di colazione Ender non aveva un briciolo d’appetito. Stava cominciando a chiedersi come sarebbe stata, a scuola. Affrontare Stilson dopo la zuffa del giorno prima. Cos’avrebbero fatto gli altri della sua banda? Probabilmente nulla, ma di questo non poteva essere sicuro. Scoprì che non aveva voglia di andarci.

— Ender, non hai ancora mangiato niente — disse sua madre.

Peter entrò in cucina. — Buongiorno, Ender. Grazie per aver lasciato tutti gli asciugamani bagnati, nella doccia.

— Per te farei questo ed altro — mormorò lui.

— Andrew, devi mangiare.

Ender tese un braccio e le porse la parte interna del gomito, in un gesto che diceva: allora nutritemi attraverso un ago.

— Molto divertente — sospirò sua madre. — Non c’è bisogno che io mi preoccupi per voi, vero? È bello avere figli tanto geniali.

— Sono i tuoi geni che ci hanno fatti cosi geniali, mamma — disse Peter. — Per fortuna i geni di papà quel giorno erano in ferie.

— Ti ho sentito — borbottò suo padre, senza alzare gli occhi dal video-giornale acceso sul piano del tavolo.

— In caso contrario la mia battuta sarebbe andata sprecata.

Il tavolo emise una nota musicale. Qualcuno era alla porta.

— Chi può essere? — chiese la donna al marito.

Lui sfiorò un pulsante della tastiera e sul video della cucina apparve la figura di un uomo, a mezzo busto. Indossava una uniforme, l’unica riconoscibile all’istante in tutto il pianeta: quella della Flotta Internazionale.

— Credevo che con questa faccenda avessimo chiuso — disse il padre.

Peter tacque, limitandosi a versare il latte nel suo piatto di cereali. Ma Ender s’era irrigidito. Forse oggi non dovrò andare a scuola, dopotutto.

Suo padre batté il codice d’apertura per la porta e si alzò da tavola. — Me ne occupo io — disse. — Voi fate colazione.

Gli altri annuirono, ma nessuno cominciò a mangiare. Qualche minuto dopo l’uomo riapparve sulla soglia e accennò alla moglie di seguirlo in soggiorno.

— Sei nei guai fino al collo — commentò Peter. — Hanno scoperto quel che hai fatto a Stilson, e adesso sarai deportato sulla Cintura degli Asteroidi.

— Ho soltanto sei anni, idiota. Sono troppo giovane.

— Sei un Terzo, caccola. Voi non avete diritti civili.

Valentine fece il suo ingresso in cucina, insonnolita e coi capelli scompigliati intorno al volto. — Dove sono mamma e papà? Oggi mi sento troppo male per andare a scuola.

— Un altro esame orale, eh? — chiese Peter.

— Oh, taci, Peter — disse Valentine.

— Dovresti essere tranquilla e riderci sopra — continuò Peter. — Potrebbe andarti peggio.

— Non vedo come.

— Potrebbe essere un esame anale.

— Davvero spiritoso, proprio — disse Valentine. — Dove sono mamma e papà?

— Stanno parlando con un tipo della F.I.

D’impulso lei guardò Ender. D’altronde ormai da anni si aspettavano che qualcuno venisse a dir loro che Ender aveva superato l’esame, che c’era bisogno di lui.

— Certo, è giusto che tu pensi a lui — annuì Peter. — Ma potrebbe essere per me, lo sai. Loro potrebbero aver capito che a conti fatti io resto il migliore. — Il suo tono era aspro, come sempre quando si sentiva ferito.

La porta fu aperta. — Ender — disse suo padre, — meglio che tu venga un momento qui.

— Condoglianze, Peter — sorrise Valentine.

L’uomo si accigliò. — Ragazzi, non è cosa su cui scherzare.

Ender lo seguì in soggiorno. L’ufficiale della F.I. si alzò nel vederli entrare, ma non accennò a porgere la mano al bambino.

Sua madre si stava tormentando nervosamente l’anello nuziale. — Andrew — mormorò, — non avrei mai creduto che tu facessi il prepotente in una zuffa.

— Il figlio degli Stilson è all’ospedale — disse suo padre. — L’hai fatta grossa, Ender. Non è esattamente cavalieresco prendere qualcuno a calci in faccia.

Ender scosse il capo. S’era aspettato che per la faccenda di Stilson venisse qualcuno della scuola, non certo un ufficiale della F.I. La cosa era ancora più seria di quanto avesse creduto. E tuttavia non capiva che altro di grave potesse aver fatto.

— Hai una spiegazione per il tuo comportamento, giovanotto? — domandò l’ufficiale.

Ender scosse ancora il capo. Non sapeva cosa dire, e temeva che spiegarsi lo avrebbe fatto apparire ancor più spregevole di quel che i fatti nudi e crudi rivelavano. Accetterò la punizione, qualunque sia, si disse. Anche questa passerà.

— Siamo propensi a considerare le circostanze attenuanti — disse l’ufficiale. — Ma è mio dovere sottolineare la gravità del caso. Colpirlo al ventre, e ripetutamente in faccia e al corpo mentre era a terra… c’è da pensare che tu ci provassi gusto.

— Io no, signore — sussurrò Ender.

— Allora perché l’hai fatto?

— Con lui c’era la sua banda — disse Ender.

— E con ciò? Questo giustifica tutto?

— No, signore.

— Dimmi perché hai continuato a colpirlo. Avevi già vinto.

— Buttandolo a terra avevo vinto solo il primo scontro. Io volevo vincere subito anche i prossimi, definitivamente, cosi mi avrebbero lasciato in pace. — Ender non poté evitarlo, era troppo spaventato, troppo vergognoso di quel che aveva fatto: malgrado ogni tentativo di controllarsi scoppiò di nuovo in lacrime. Piangere non gli piaceva, e lo faceva di rado, ma ecco che adesso in meno di ventiquattr’ore gli succedeva per la terza volta. E la cosa più vergognosa era piangere così davanti ai suoi genitori e a quello sconosciuto in divisa. — Voi mi avete levato il monitor — ansimò. — Dovevo cavarmela da solo, si o no?

— Ender, avresti dovuto chiedere aiuto a un adulto… — cominciò a dire suo padre.

Ma l’ufficiale si alzò e attraverso il soggiorno, quindi porse la mano al bambino. — Il mio nome è Graff, Ender. Colonnello Hyrum Graff. Sono il direttore dei corsi di addestramento alla Scuola di Guerra, nella Cintura. Sono venuto per invitarti a iscriverti alla Scuola.

Dopo tutto quel che era accaduto. — Ma il monitor…

— Il passo conclusivo nel tuo esame consisteva nel vedere come avresti reagito una volta privo del monitor. Non sempre facciamo a questo modo, ma nel tuo caso…

— E ho superato l’esame?

Sua madre lo fissava, incredula. — Dopo aver mandato il ragazzo Stilson all’ospedale? Che avreste fatto se Andrew l’avesse ucciso? Gli avreste dato una medaglia?

— Non è ciò che ha fatto, signora Wiggin. È il perché. — Il colonello Graff le porse una cartelletta piena di fogli. — Qui c’è l’autorizzazione al prelievo legalizzato: vostro figlio è stato ritenuto idoneo dal Dipartimento Selezioni della F.I. Naturalmente abbiamo già il vostro consenso legale, firmato prima che vi venisse data l’autorizzazione a concepire il bambino. Fin da allora, se giudicato idoneo, lui appartiene a noi.

Il signor Wiggin non riuscì a nascondere un tremito nella voce. — Non è stato bello da parte vostra lasciarci credere che non lo volevate, e poi venire qui a prelevarlo.

— E poteva risparmiarsi quella sceneggiata sul ragazzo Stilson — disse sua moglie.

— Non era una sceneggiata, signora Wiggins. Finché non sapevamo in base a quale motivazione Ender ha agito, come potevamo esser certi che non fosse un altro… be’, dovevamo conoscere la ragione del suo comportamento. O almeno, quella che Ender ritiene sia la ragione.

— Deve proprio chiamarlo anche lei con quello stupido nomignolo? — La donna cominciò a piangere.

— Chiedo scusa, signora Wiggins, ma è così che lui si fa chiamare.

— E adesso che intende fare, colonnello Graff? — disse il signor Wiggin. — Se ne va e lo porta via con sé, così sui due piedi?

— Questo dipende — disse Graff.

— Da cosa?

— Dal fatto che Ender voglia venire o no.

Fra le lacrime della donna ricomparve un sorriso. — Oh, ma allora l’accettazione è volontaria, dopotutto! È così?

— Per quanto riguarda voi, avete fatto la vostra scelta prima che il bambino fosse concepito. Ma Ender, personalmente, non ha fatto ancora nessuna scelta. L’arruolamento obbligatorio fornisce ottima carne da cannone, però al Corso Ufficiali possono accedere soltanto i volontari.

— Corso Ufficiali? — chiese Ender. Il tono della sua voce fece ammutolire i suoi genitori.

— Sì — disse Graff. — La Scuola di Guerra addestra i futuri comandanti di astronave, i commodori di squadriglia e gli ammiragli di flotta.

— Non gli faccia ballare questa carota davanti al naso — disse irosamente il signor Wiggin. — Quanti dei ragazzini entrati alla scuola di Guerra oggi sono al comando di un’astronave, eh?

— Sfortunatamente, signor Wiggin, questa è un’informazione riservata. Ma posso dirle che nessuno dei nostri ragazzi usciti dal primo anno di addestramento ha mai mancato di ottenere un incarico come ufficiale. E nessuno ha mai fatto servizio con grado inferiore a quello di capitano di vascello su una nave interplanetaria. Perfino nei servizi a terra nella Difesa Strategica del sistema solare gli ufficiali usciti dalla Scuola occupano posizioni di tutto rispetto.

— Quanti riescono a superare il primo anno? — chiese Ender.

— Tutti quelli che vogliono riuscirci — disse Graff.

Io lo voglio, fu sul punto di dire Ender. Ma tenne a freno la lingua. Questo gli avrebbe risparmiato di tornare a scuola, però il pensiero gli sembrò stupido, perché quel problema si sarebbe risolto comunque in pochi giorni. La cosa lo avrebbe allontanato da Peter… questo era più importante, questo poteva significare la vita stessa. Ma avrebbe dovuto lasciare mamma e papà, e soprattutto Valentine. E diventare un soldato. A Ender non piaceva combattere. Non gli piaceva farlo al modo di Peter, il forte contro il debole, e d’altronde neppure a modo suo, l’intelligente contro lo sciocco.

— Credo che adesso — disse Graff, — Ender e io dovremmo parlare un po’ in privato.

— No — disse il padre.

— Non lo porterò via senza darvi la possibilità di parlare ancora con lui — disse Graff. — Comunque non potete impedirmelo, sia chiaro.

Il signor Wiggin fissò Graff in silenzio per qualche istante, poi si volse e lasciò la stanza. La madre di Ender si fermò a stringergli forte una mano. Subito dopo uscì e chiuse la porta.

— Ender — cominciò Graff, — se vieni con me non potrai tornare qui per molto tempo. Alla Scuola di Guerra non ci sono vacanze. E non sono ammesse le visite. Il corso completo di addestramento durerà fino al tuo sedicesimo compleanno… e potrai godere del primo periodo di libera uscita, a certe condizioni, solo quando avrai dodici anni. Puoi credermi quando ti dico che in sei anni, in dieci anni, la gente cambia, Ender. Tua sorella Valentine sarà una donna il giorno in cui potrai rivederla di nuovo, se verrai con me. Sarete due sconosciuti. Tu le vorrai bene ugualmente, Ender, ma non la riconoscerai neppure. Come vedi, non ti sto dicendo che sarà facile.

— E mamma e papà?

— Io ti conosco, Ender. Assai spesso ho consultato le registrazioni su disco del tuo monitor. Non proverai nostalgia per i tuoi genitori, non molto, e non a lungo. E neppure loro sentiranno per troppo tempo la tua mancanza.

Malgrado ogni sforzo Ender si sentì salire le lacrime agli occhi. Distolse il viso, ma non volle alzare una mano ad asciugarsele.

— Essi ti amano, Ender. Però devi capire quel che sei costato loro. Sai bene che provengono da famiglie religiose. Tuo padre è stato battezzato col nome di John Paul Wieczorek. Cattolico. Il settimo di nove fratelli.

Nove figli. Questo era quasi incredibile. Criminale.

— Be’, sì, la gente fa strane cose per la religione. Tu conosci le sanzioni, Ender… a quei tempi non erano dure, ma neppure lievi. Soltanto i primi due figli avevano diritto all’istruzione gratuita. E per ogni figlio in più si pagavano tasse maggiori. A sedici anni tuo padre si appellò alla Legge sulle Famiglie Dissidenti per separarsi dalla sua famiglia. Cambiò nome, rinunciò alla religione, e fece voto di non avere mai più figli dei due ufficialmente consentiti. Era una cosa in cui credeva. Tutta la vergogna e le persecuzioni che aveva dovuto sopportare da bambino… giurò che questo non sarebbe mai accaduto a un figlio suo. Capisci?

— Lui non mi voleva.

— Be’, nessuno vuole veramente un Terzo. Non ci si può aspettare che sia felice. Ma tua madre e tuo padre erano casi speciali. Entrambi avevano rinunciato alla loro religione (tua madre era una mormone) ma in realtà avevano desideri un po’ ambigui. Sai che significa ambigui?

— Desideravano due cose opposte.

— Si vergognano di provenire da famiglie dissidenti. E cercano di nasconderlo, al punto che tua madre rifiuta di ammettere con chiunque di essere nativa dello Utah, perché nessuno sospetti la verità. Tuo padre rinnega i suoi antenati polacchi, perché la Polonia è una nazione dissidente e sotto sanzioni internazionali a causa di questo. Così vedi bene che avere un Terzo, anche in obbedienza a esplicite istruzioni del governo, distrusse tutto ciò che avevano cercato di costruire.

— Questo lo so.

— Ma la cosa è ancora più complicata. Tuo padre ha voluto darti il nome di uno dei santi del calendario. Anzi, è giunto al punto di battezzarvi lui stesso tutti e tre quando foste portati a casa dopo la nascita. E tua madre non era d’accordo. Ogni volta litigarono, e non perché lei fosse contraria al sacramento ma perché non voleva che foste battezzati come cattolici. Nessuno dei due ha veramente abbandonato la sua religione. Ti guardano e vedono in te un motivo di orgoglio, perché sono riusciti ad aggirare la legge e ad avere un Terzo. Ma tu sei anche un emblema della loro vigliaccheria, perché non osano andare ancora più in là e praticare la dissidenza che nel loro intimo continuano a ritenere giusta. E sei anche il simbolo della loro vergogna sociale, perché la tua stessa presenza interferisce con gli sforzi che fanno per essere integrati nella normale società non dissidente.

— Lei come fa a sapere tutto questo?

— Abbiamo monitorato tuo fratello e tua sorella, Ender. E ti stupirebbe sapere quanto è sensibile quello strumento. Eravamo in collegamento diretto col tuo cervello. Sentivamo tutto quello che ti giungeva agli orecchi, che tu stessi ascoltando con attenzione o meno. E… che tu lo capissi o meno, noi lo capivamo.

— Così i miei genitori mi amano o non mi amano?

— Ti amano. La questione è se ti vogliono qui. La tua presenza in questa casa è un elemento di costante disgregazione. Una fonte di tensione. Capisci?

— Non sono io quello che causa tensione.

— Non è quello che fai, Ender. È il fatto che esisti. Tuo fratello ti odia perché sei la prova vivente che lui non è stato abbastanza bravo. I tuoi genitori vedono in te tutto il passato da cui hanno cercato di fuggire.

— Valentine mi vuole bene.

— Con tutto il cuore, lealmente, appassionatamente. Lei ti è devota e tu l’adori. Te l’ho detto che non è cosa facile.

— Come sarà, lassù?

— Lavorerai duro. Studierai come qui a scuola, ma avrai un’istruzione ferrea in matematica e nei computer. In storia militare. In strategia e tattica. E soprattutto, la sala di battaglia.

— Che cos’è?

— Simulazione bellica. Tutti gli studenti sono inquadrati in piccoli eserciti. Ogni giorno combattono battaglie simulate. Nessuno resta ferito, ci sono soltanto vincitori e perdenti. Ognuno comincia come soldato semplice, sottoposto agli ordini. I ragazzi più anziani saranno i tuoi ufficiali, col dovere di addestrarti e guidarti in battaglia. Ma c’è più di questo. È come giocare a Scorpioni e Astronauti… salvo che avrai armi funzionanti, e compagni che combatteranno al tuo fianco, perché il vostro futuro e quello dell’intera razza umana dipendono dalle vostre capacità di imparare e di affrontare la guerra. Ma è chiaro che con la tua mentalità, e con lo svantaggio d’essere un Terzo, non avresti comunque un’adolescenza normale.

— Sono tutti maschi?

— Ci sono anche delle femmine. Ma poche riescono a passare i test del reclutamento. Troppi secoli di evoluzione le ostacolano ancora. Nessuna di loro potrà essere per te una seconda Valentine, stanne certo. Ma troverai là dei fratelli, Ender.

— Come Peter?

— Peter non è stato accettato, Ender, e per la stessa ragione per cui si fa odiare da te.

— Io non lo odio. Solo che…

— Ne hai paura. Be’, Peter non è del tutto malvagio, lo sai. Lo giudicammo il migliore che avevamo visto fino a quel momento. Subito dopo chiedemmo ai tuoi genitori di avere una figlia femmina (l’avrebbero voluta comunque) sperando che Valentine sarebbe stata un Peter dall’animo più mite. Ma risultò troppo mite. Così chiedemmo loro di avere te.

— Contando che fossi una via di mezzo fra Peter e Valentine?

— Se tu avessi ereditato i cromosomi giusti.

— E li ho?

— Sì, per quanto ne possiamo dire. I tuoi test sono risultati molto buoni, Ender. Però essi non ci dicono tutto. In realtà anzi, quando si viene ai fatti, ci dicono assai poco. Ma sono meglio di niente. — Graff si chinò e prese le mani di Ender fra le sue. — Ender Wiggin, se si trattasse soltanto di scegliere per te il futuro migliore ti direi di restare qui a casa tua. Ti direi di amare i tuoi, di crescere, di farti una vita. Ci sono cose peggiori che essere un Terzo o avere un fratello maggiore che non riesce a decidere se essere una persona o un cane rabbioso. La Scuola di Guerra è una di queste cose peggiori. Però abbiamo bisogno di ragazzini come te. Può darsi che oggi gli Scorpioni ti sembrino una specie di gioco, Ender, ma il loro ultimo attacco è andato maledettamente vicino a spazzar via la razza umana. Ci avevano soverchiati, sia come numero che come mezzi e armamenti. La sola cosa che ci salvò fu la fortuna, perché proprio allora era in servizio il più brillante dei nostri generali. Chiamala fortuna, chiamala provvidenza divina, chiamalo un dannatissimo caso, noi avevamo Mazer Rackham.

«Ma adesso un Rackham non ce l’abbiamo, Ender. Si è dato fondo alle risorse di tutto il pianeta, e abbiamo una flotta al cui confronto quella che ci hanno mandato addosso l’ultima volta è una frotta di barchette a galla in una vasca da bagno. Ci sono anche alcune nuove armi. Ma questo potrebbe non essere abbastanza, perché negli ottant’anni trascorsi dall’ultima guerra loro hanno avuto lo stesso tempo per potenziarsi. Ci serve il meglio che possiamo avere, e ci serve adesso. Non so se tu voglia metterti a lavorare con noi o no, Ender, e non so dirti se ce la farai a resistere allo sforzo. Forse non otterrai altro che rovinare la tua vita, forse mi odierai per essere venuto oggi a casa tua. Ma se c’è una possibilità che arruolandoti nella Flotta tu possa contribuire alla sopravvivenza dell’umanità nella lotta contro gli Scorpioni… allora è mio dovere chiederti di farlo, e di venire con me.

Gli occhi di Ender non mettevano più a fuoco il colonnello Graff. L’uomo gli appariva stranamente lontano, e così piccolo che ebbe l’impressione di poterlo raccogliere con un paio di pinzette e metterselo in tasca. Lasciare tutto ciò che aveva lì: andare in un posto duro e spiacevole, senza Valentine, senza mamma e papà.

E poi ripensò ai film sugli Scorpioni che tutti avevano occasione di vedere almeno una volta all’anno. La devastazione della Cina. La battaglia degli Asteroidi. E Mazer Rackham che con le sue brillanti manovre tattiche distruggeva una flotta nemica due volte più grossa della sua e con una doppia potenza di fuoco, mandando all’attacco quelle astronavi che sembravano così fragili e inermi. Come bambini che si battessero contro adulti grossi e minacciosi. E avevano vinto.

— Ho paura — disse Ender sottovoce, — ma credo che verrò con lei.

— Non devi avere dubbi — disse Graff.

Lui scosse il capo. — È per questo che sono nato, non è così? Se non venissi, che scopo avrebbe la mia vita?

— Questo non è ancora un buon motivo — osservò Graff.

— Non voglio venire con lei — disse Ender, — ma verrò lo stesso.

Graff annuì. — Puoi ancora cambiare idea. Fino al momento in cui salirai sulla mia auto, puoi cambiarla. Ma da allora in poi sarai sottoposto all’autorità della Flotta Internazionale. Lo capisci questo?

Ender accennò di sì.

— Va bene. Dillo ai tuoi.

Sua madre pianse. Suo padre lo abbracciò strettamente. Peter gli strinse la mano e disse: — Tu, piccolo fortunato stronzetto presuntuoso. — Valentine lo baciò e gli lasciò le sue lacrime sulle guance.

Non c’erano valigie da fare. Nessun oggetto personale da potare con sé. — La scuola provvederà a darti tutto quello che ti serve, dalle uniformi al rancio quotidiano. E per giocare… avrai soltanto le simulazioni belliche.

— Arrivederci — disse Ender ai suoi familiari. Mise una mano in quella del colonnello Graff e uscì dalla porta al suo fianco.

— Fai fuori un paio di Scorpioni per me! — gli gridò Peter.

— Non dimenticare che ti voglio bene, Andrew! — disse sua madre.

— Ti scriveremo! — promise il padre.

E mentre saliva sull’auto che li attendeva nel corridoio esterno sentì la voce di Valentine rotta dai singhiozzi: — Ritorna da me! Ritorna, io ti vorrò bene per sempre!

CAPITOLO QUARTO

LANCIO

— Con Ender bisognerà fare un delicato gioco di equilibrio. Lo si dovrà isolare abbastanza da farlo restare creativo, altrimenti adotterà sistemi già in uso qui e lo avremo perduto. E nello stesso tempo dovremo assicurarci che sviluppi forti doti di comando.

— Non è così semplice. Mazer Rackham poteva tenere in pugno la sua piccola flotta e portarla all’obiettivo. Ma quando scoppierà il prossimo conflitto le complicazioni saranno eccessive, anche per un piccolo genio. Troppe astronavi, troppi equipaggi. Dovrà avere il guanto di velluto coi subordinati.

— Oh, Dio! Dovrà essere un genio e anche un simpaticone?

— Niente affatto. Un simpaticone ci lascerebbe fare a pezzi dagli Scorpioni.

— Così lei pensa di isolarlo.

— Ne farò un paria rispetto agli altri ragazzi, ancor prima che arrivino alla Scuola.

— Non ho dubbi che ci riuscirà. Anzi, ci conto. Ho esaminato il nastro di ciò che ha fatto al ragazzo Stilson. Quello che lei porterà qui non è precisamente un bambinetto sdolcinato.

— È qui che lei sbaglia. È più dolce di quel che sembra. Ma non si preoccupi, a questo sapremo metter rimedio alla svelta.

— Qualche volta penso che lei si diverta a spezzare la schiena a questi piccoli genii.

— Si tratta di un’arte, nella quale sono ormai molto esperto. Ma in quanto a divertirmi? Be’, forse. In seguito, quando rimettono insieme i loro pezzi e si accorgono che tanto basta a farli star meglio.

— Lei è un mostro.

— Grazie. Significa che posso sperare in un aumento di paga?

— Al massimo una medaglia. I nostri fondi non sono illimitati.

Li avevano avvertiti che l’assenza di peso poteva sfasare le percezioni fisiche, in specie nei bambini, il cui senso dell’orientamento non dispone ancora di parametri stabili. Ma Ender cominciò a sentirsi disorientato già prima di vedere la navetta che li avrebbe portati lontano dalla gravità della Terra.

Con lui c’erano altri diciannove ragazzini. Furono fatti scendere dal bus ed entrarono nell’ascensore, chiacchierando e ridendo, avidi di mostrarsi chi impavido e chi già esperto in materia. Ender mantenne un indifferente silenzio. Aveva notato che Graff e gli altri ufficiali li stavano osservando. Analizzando. Tutto ciò che facciamo significa qualcosa, si rese conto Ender. Loro ridono. Io non rido.

Si trastullò con l’idea di comportarsi come gli altri ragazzini, ma non riuscì a trovare nessuna battuta da dire. Nessuna che fosse divertente, almeno. Da qualunque cosa avessero origine le loro risate, Ender non avrebbe mai potuto associarsi a quella reazione. Aveva paura, e la paura lo rendeva serio e rigido.

Gli avevano fatto indossare un’uniforme, una tuta d’un solo pezzo, e l’assenza della cintura intorno alla vita lo metteva un po’ a disagio. In quell’indumento largo e rigonfio si sentiva nudo. C’erano delle telecamere puntate su di loro. Le portavano dei militari, tenendosele appollaiate su una spalla come animaletti attenti e curiosi. Gli uomini si spostavano con cautela felina per riprendere le immagini lentamente e senza sbalzi. Anche Ender si scoprì a muoversi lento e senza sbalzi.

Immaginò di apparire alla TV, in un’intervista. L’operatore puntava un microfono direzionale su di lui: come si sente, signor Wiggin? Abbastanza bene, grazie, appena un po’ affamato. Affamato? Eh, sì, per affrontare il lancio bisogna essere a stomaco vuoto da venti ore. Questo è interessante, scommetto che i nostri spettatori non lo sapevano. Be’ sì, siamo piuttosto affamati tutti quanti. E mentre si lasciava intervistare Ender, nell’immaginazione, camminava verso la navetta, con l’uomo della TV che al suo fianco procedeva di traverso per puntargli addosso la telecamera da spalla. Per la prima volta provò il bisogno di unirsi a quelle risatine. Sulle labbra gli comparve un sorriso. In quel momento i ragazzini che aveva accanto stavano ridendo anch’essi, per un’altra ragione. Penseranno che sorrido delle loro battute, rifletté Ender. Ma è per qualcosa di molto più divertente, invece.

— Avviatevi su per la scala uno alla volta — disse un ufficiale. — Appena sarete nel passaggio fra le poltroncine, sedete sulla più vicina che trovate vuota. Non ci sono posti a sedere accanto al finestrino.

Era una battuta. Gli altri ragazzini risero.

Ender era in fondo alla fila, ma non proprio l’ultimo, e le telecamere continuavano a riprenderli. Valentine mi potrà vedere mentre scompaio dentro la navetta? Pensò che forse avrebbe potuto voltarsi a salutarla con la mano, oppure correre da uno degli operatori e chiedere: — Posso dire addio a Valentine? — Non sapeva però che se l’avesse fatto il nastro sarebbe stato censurato, perché ufficialmente si supponeva che i giovani diretti alla Scuola di Guerra fossero eroici e dignitosi. Non era previsto che sentissero la nostalgia di qualcuno. Ender era all’oscuro di questo tipo di censura. Tuttavia sapeva che correre a una delle telecamere sarebbe stato uno sbaglio.

Attraversò il ponte metallico e il portello della navetta, e notò che la paratia alla sua destra aveva la moquette come un pavimento. Lì si cominciava a esser disorientati sul serio. Nello stesso momento in cui s’accorse che quella parete era un pavimento ebbe la strana sensazione di camminare di traverso su un muro. Appoggiò le mani alla scaletta e vide che la superficie verticale dietro di essa era coperta di moquette. Mi sto arrampicando su per il pavimento. Mano dopo mano, passo dopo passo.

Per gioco immaginò poi di arrampicarsi giù per la paratia. Subito le sue percezioni mentali si capovolsero, a dispetto di quel che diceva la forza di gravità. Appena seduto si aggrappò tenacemente ai braccioli per non scivolare in alto, mentre invece il suo peso lo teneva incollato allo schienale.

Gli altri ragazzini s’erano accalcati alla rinfusa sulle poltroncine e facevano baccano chiamandosi l’un l’altro. Ender esaminò con attenzione le cinghie di sicurezza e cercò di capire come si agganciavano alla cintura, alle cosce e intorno alle spalle. Per un attimo ebbe l’impressione d’essere salito su una giostra che li avrebbe fatti girare intorno alla Terra, con la forza centrifuga a inchiodarli saldamente sui sedili. Ma non ci sarà peso lassù, pensò. Cadremo via da questo pianeta.

Ancora non si rendeva pienamente conto di quella realtà. Soltanto più tardi, riesaminando quei momenti, si sarebbe accorto di aver pensato fin da allora alla Terra come a un pianeta, uno qualsiasi, non particolarmente il suo pianeta.

— Oh, hai già visto come si mettono le cinture — disse Graff. S’era fermato accanto a lui, sulla scaletta.

— Viene con noi? — domandò Ender.

— Di solito non torno a terra per i reclutamenti — disse Graff. — Io sono di servizio nello spazio, come amministratore della Scuola. Una specie di direttore. Ma stavolta mi hanno detto che avrei dovuto scendere, altrimenti mi avrebbero licenziato. — Curvò le labbra in un sorriso.

Ender gli sorrise di rimando. Graff lo faceva sentire a suo agio. Graff era buono. Ed era il direttore della Scuola di Guerra. Ender si rilassò un poco. Lassù avrebbe avuto un amico.

Agli altri ragazzini, quelli che non avevano fatto come Ender, venne agganciata la cintura di sicurezza. Poi attesero un’ora, mentre uno schermo TV sulla paratia anteriore dello scompartimento illustrava il funzionamento dell’astronave, la storia dei voli spaziali, e quello che avrebbe potuto essere il loro futuro sulle grandi navi della F.I. Una cosa abbastanza noiosa. Ender aveva già visto filmati di quel genere.

Ma non era mai stato legato a una poltroncina sagomata nell’interno di una navetta. Quasi a testa in giù mentre stavano per scaraventarlo via dalla Terra.

Il lancio non fu duro. Soltanto un po’ spiacevole. Ci furono degli scossoni, poi brevi momenti d’ansia al pensiero che quello avrebbe potuto essere il primo disastro aereo nella storia della F.I. Dai filmati non aveva mai capito esattamente quali sensazioni si potevano provare stando distesi sulla schiena, con la morbida imbottitura che cedeva sotto la pressione.

Poi essa parve invertirsi, e lui fu davvero appeso alle cinghie in una giostra, in totale assenza di gravità.

Ma dal momento che s’era già preparato a orientarsi su nuovi parametri non fu sorpreso nel vedere Graff tornare giù per la scaletta a testa in avanti, come se ora si arrampicasse verso il retro della navetta. Né si meravigliò quando l’uomo agganciò un piede a uno scalino e si diede una spinta con le mani, mettendosi in posizione eretta come se fosse in piedi fra i sedili di un normale aereoplano.

Per alcuni l’inversione del senso dell’equilibrio fu troppo. Un ragazzino rantolò, portandosi le mani alla bocca. Finalmente Ender capì perché avevano proibito loro di mangiare per venti ore prima del lancio. Vomitare a gravità zero sarebbe stato poco divertente per tutti.

Ma a Ender i movimenti di Graff in assenza di peso parvero divertenti. Si spinse più oltre con la fantasia, provando a immaginare che l’uomo camminasse a testa in giù sugli scalini e l’andatura che avrebbe potuto adottare procedendo sul soffitto e sulle paratie come una mosca. La gravità può attirare da qualsiasi parte, pensò. Dovunque io immagini di farla girare. Potrei far ruotare Graff a testa in giù e lui non si accorgerebbe neppure d’esser stato capovolto.

— Cos’è che ti sembra tanto divertente, Wiggin?

La voce di Graff era dura e seccata. Cos’ho fatto di sbagliato? Pensò Ender. Che mi sia sfuggita una risatina?

— Ti ho fatto una domanda, soldato! — abbaiò Graff.

Ah, sì. Quello era veramente l’inizio dell’addestramento alla vita militare. Ender aveva visto alla TV sceneggiati sull’arrivo delle reclute nei campi, e sapeva che i graduati le accoglievano latrando come cani rabbiosi prima che tutti, soldati e ufficiali, diventassero buoni compagni d’arme.

— Sissignore — rispose Ender.

— Allora rispondi alla domanda!

— Stavo pensando che lei potrebbe andare in giro capovolto. Questo mi è sembrato comico.

Ma sembrava soltanto stupido adesso, con Graff che lo squadrava freddamente. — Suppongo cha a te debba sembrare comico. C’è qualcun altro che trova la cosa comica, qui dentro?

Si levarono mormorii di diniego.

— Nessuno, eh? E perché? — Graff girò su di loro un’occhiata sprezzante. — Un’imbarcata di teste di rapa, ecco cosa ci hanno affibbiato in questo lancio. Piccoli ritardati mentali. Uno solo di voi ha avuto l’intelligenza di capire che a gravità zero si può stare dritti in qualunque senso uno si metta. Riuscite a farvelo entrare in testa, reclute?

I ragazzini annuirono.

— No che non ci riuscite, invece. È chiaro che non ci riuscite. Non solo stupidi, dunque, ma anche bugiardi. Di questa imbarcata c’è un unico ragazzo col cervello in grado di funzionare, ed è Ender Wiggin. Guardatelo bene, piccoli sciocchi. Lui avrà un posto di comando quando voi sarete ancora a ramazzare i pavimenti, lassù. E questo perché lui sa come bisogna pensare in gravità zero, mentre voialtri riuscite soltanto a vomitare l’anima.

Non era esattamente così che andava negli sceneggiati della TV. A regola, Graff avrebbe dovuto infierire su di lui, non metterlo su un piedistallo di fronte agli altri. A regola, lui e Graff avrebbero dovuto avere rapporti bruschi all’inizio, così più tardi fra loro avrebbe potuto istaurarsi quel rude e solido cameratismo.

— Molti di voi finiranno congelati nello spazio. Cominciate a considerare questo pensiero fin d’ora, bambocci. Molti di voi non faranno altro che spaccarsi la faccia in Sala di Battaglia, perché non sapranno adattare il cervello alle tecniche di pilotaggio spaziale. Molti di voi non valgono neppure la spesa di trasportarli alla Scuola di Guerra, perché non hanno i requisiti necessari. Alcuni di voi potrebbero averli. Pochi di voi potrebbero servire a qualcosa per la razza umana. Ma non ci scommetterei un soldo. Su uno soltanto sono disposto a puntare.

D’un tratto Graff fece una piroetta all’indietro e afferrò la scala con le mani, proiettando i piedi in direzione opposta. Fino a un attimo prima gli scalini erano stati il suo pavimento; con quella mossa parve dichiarare che pavimento e soffitto erano la stessa cosa, dando ragione a Ender.

— Sembra che tu sia ammanigliato bene, qui — disse il ragazzino seduto davanti a lui.

Ender scosse il capo.

— Ah, non vuoi abbassarti a parlare con me? — disse il ragazzino.

— Non gli ho chiesto io di dire quelle cose — mormorò Ender.

Qualcosa lo colpì dolorosamente alla nuca. Poi lo colpì di nuovo. Dietro di lui ci furono alcune risatine. Il ragazzo seduto alle sue spalle doveva aver sganciato le cinture della poltroncina. Una scoppola gli scompigliò i capelli. Smettetela, per favore, pensò Ender. Io non vi ho fatto niente.

Ancora un pugno nella nuca. I ragazzini ridacchiarono. Graff si stava accorgendo di questo? Non aveva intenzione di mettervi fine? Un altro pugno, più forte e stavolta davvero doloroso. Dov’era Graff?

Poi capì come stavano le cose. Graff aveva intenzionalmente provocato ciò che stava accadendo. Era ancor peggio delle soperchierie che si vedevano nei film. Quando un sergente percuote una recluta, gli altri solidarizzano col malcapitato. Ma quando la elogia, gli altri la odiano.

— Ehi, mangiamerda — sussurrò una voce dietro di lui. Gli arrivò una scoppola. — Che ne dici di questo? Ehi, super-cervello, questo lo trovi comico? — Ancora un pugno nella nuca, così violento che Ender mandò un gemito soffocato.

Se Graff lo aveva messo apposta in quella posizione, allora non poteva aspettarsi l’aiuto di nessuno. Aspettò finché fu sul punto di ricevere un altro pugno. Adesso, pensò. E infatti il pugno arrivò. Gli fece male, ma si costrinse a calcolare il ritmo dei colpi. Adesso. E in quel preciso momento fu colpito. Stavolta ti tengo, si disse Ender.

Un attimo prima del colpo successivo Ender si volse di scatto, afferrò il polso del ragazzino con entrambe le mani e gli abbassò violentemente il braccio.

In gravità normale la mossa avrebbe attirato l’altro contro lo schienale del suo sedile, facendogli urtare il petto sullo spigolo. In assenza di peso il braccio funse da leva, il ragazzino fu sollevato dal suo posto e proiettato verso il soffitto. Ender non se l’era aspettato. Non aveva ancora capito quanto fosse facile spostare una massa a gravità zero. Il ragazzino volò obliquamente contro il soffitto, rimbalzò in basso addosso a un altro seduto nella poltroncina, e la spinta lo mandò a roteare avanti lungo il passaggio centrale finché con un grido di dolore urtò pesantemente nella paratia anteriore. Il suo braccio era piegato in modo anomalo quando rimbalzò ancora in alto.

La cosa era durata appena pochi secondi, ma Graff era già sbucato dalla cabina di pilotaggio, in tempo per intercettare al volo il ragazzino. Con una smorfia lo spinse verso un altro degli ufficiali. — Braccio sinistro. Fratturato, direi — fu il suo commento. Pochi minuti dopo al ragazzo era già stato iniettato un antidolorifico, e tenendolo sospeso a mezz’aria l’ufficiale gli arrotolò un bendaggio rigido attorno al braccio.

Ender si sentiva sgomento. Tutto ciò che aveva voluto era stato di fermare il braccio del ragazzino… no, no, aveva voluto fargli male, e ci aveva messo tutta la sua forza. Non era stato nelle sue intenzioni dare il via a una scena di quel genere, e tuttavia il suo tormentatore si stava sorbendo esattamente quel che lui aveva voluto procurargli. L’assenza di gravità aveva giocato a suo sfavore, tutto qui. Io sono Peter. Sono proprio come lui, pensò Ender. E odiò se stesso.

Sulla soglia della cabina Graff si volse. — Mi domando se non siate dei bambocci lenti di comprendonio. I vostri cervellini non hanno ancora capito questo semplice fatto? Siete stati portati qui per diventare dei soldati. Forse nelle vostre famiglie o a scuola eravate considerati dei duri, magari perfino intelligenti. Ma noi scegliamo il meglio del meglio, e questo è il solo genere di compagni che incontrerete d’ora in avanti. Perciò, quando vi dico che Ender Wiggin è il migliore di questo lotto aprite gli orecchi, teste dure. Non prendetelo sottogamba. Alla Scuola di Guerra dei pivelli della vostra età ci hanno già lasciato la pelle in passato. Sono stato abbastanza chiaro?

Per il resto del volo nessuno aprì bocca. Il ragazzino seduto a fianco di Ender prestò scrupolosa attenzione a non sfiorarlo neppure.

Io non sono un killer, disse Ender a se stesso più volte. Non sono Peter. Qualunque cosa lui dica, io non lo sono e non voglio esserlo. Mi sono soltanto difeso. Avevo cercato di sopportare. E ho avuto pazienza. Non sono come lui ha detto.

Una voce dall’interfono li informò che la navetta era in fase di avvicinamento alla Scuola. Occorsero venti minuti per la decelerazione e l’attracco. Enders si tirò avanti per la scaletta in coda al gruppo, e arrampicandosi nella direzione che alla partenza era stata il basso ebbe l’impressione che gli altri fossero quasi ansiosi di lasciarselo alle spalle. Al termine del corridoio flessibile che collegava la navetta alle strutture della Scuola c’era in attesa Graff.

— Hai fatto buon viaggio, Ender? — gli domandò gentilmente.

— Credevo che lei fosse mio amico. — A dispetto dei suoi sforzi Ender sentì che gli tremava la voce.

Graff parve sorpreso. — E dove hai preso questa idea, Ender?

— Perché lei… — Perché lei era stato buono con me, e onesto. - Lei non mi ha mai mentito.

— E non voglio mentirti neppure adesso — disse Graff. — Il mio compito non è di essere tuo amico. È di formare quelli che dovranno essere i migliori combattenti del mondo. I migliori della storia. A noi serve un Napoleone. Un Alessandro. Salvo che Napoleone alla fine fu sconfitto, e Alessandro morì giovane dopo aver fiammeggiato come una meteora. O avremmo bisogno di un Giulio Cesare, senonché egli divenne un dittatore e per questo fu ucciso. Il mio compito è di formare un individuo di questo tipo, e tutti gli uomini e le donne di cui avrà bisogno per agire. E nel regolamento non è scritto che per arrivarci io debba essere un amico per voialtri ragazzini.

— Lei li ha indotti a detestarmi.

— Sul serio? E tu che pensi di farci? Nasconderti in un angoletto? O baciare il sedere a tutti quanti perché ricomincino a volerti bene? Hai un solo modo perché smettano di odiarti: diventare così bravo che nessuno ti possa ignorare. Io ho detto loro che sei il migliore. Adesso farai dannatamente bene a dimostrare che lo sei davvero.

— E se non ci riuscissi?

— Peggio per te. Senti, Ender, non mi rende felice pensare che tu abbia paura o ti senta solo. Ma là fuori ci sono gli Scorpioni. Dieci miliardi, cento miliardi, o per quel che ne sappiamo un miliore di miliardi. Forse con altrettante astronavi. Con armi a noi del tutto sconosciute. E con la ferma volontà di usarle per spazzarci via. Non è in gioco la Terra, Ender. Soltanto noi, soltanto la razza umana. Per quel che riguarda il pianeta noi potremmo anche scomparire, e lui andrebbe avanti verso il prossimo passo nell’evoluzione della vita. Ma l’umanità non vuole estinguersi. Come specie, noi abbiamo il dovere e l’istinto della sopravvivenza. Un istinto che si crea nelle avversità e nel loro susseguirsi finché, come prodotto dallo sforzo di generazioni, la razza dà alla luce un genio. Quello che riesce a inventare la ruota, o la luce elettrica, o il volo. Quello che costruisce una città, una nazione, un impero. Capisci il senso di questo?

Ender rifletté che lo capiva, ma non era del tutto sicuro, così non disse niente.

— No, naturalmente no. Allora sarò più chiaro. Gli esseri umani hanno il diritto di essere liberi, salvo quando l’umanità ha bisogno di loro. Forse l’umanità ha bisogno di te. Perché tu faccia qualcosa. Io penso che comunque abbia bisogno di me… per scoprire se quelli come te possono servire. Tanto tu che io potremmo dover fare cose poco commendevoli, Ender, ma se grazie ad esse l’umanità riuscirà a sopravvivere noi saremo stati dei buoni strumenti.

— Soltanto questo? Nient’altro che strumenti?

— Individualmente gli esseri umani sono degli strumenti, che altri hanno il diritto di usare per la sopravvivenza della razza.

— Questa è una menzogna.

— No, è soltanto metà della verità. Dell’altra metà potrai preoccupartene dopo che avremo vinto questa guerra.

— Potremmo essere distrutti prima che io diventi grande — disse Ender.

— Spero che non accada — borbottò Graff. — Comunque, stando qui a parlare con me non fai i tuoi interessi. Gli altri penseranno che quel furbone di Ender Wiggin sta leccando le scarpe a Graff. E se corre voce che sei il pupillo del direttore, stai certo che ti succederà qualche incidente.

In altre parole, levati dai piedi e lasciami in pace. - Arrivederci — disse Ender. Una mano dopo l’altra si spinse lungo il corridoio nella direzione in cui gli altri erano scomparsi.

Graff lo seguì con lo sguardo.

Accanto a lui uno degli insegnanti disse: — È lui quello su cui contiamo?

— Lo sa Iddio — mormorò Graff. — Se non fosse lui, meglio che Ender ce lo faccia capire al più presto.

— Forse non è nessuno di loro — disse l’insegnante.

— Forse. Ma se le cose stanno così, Anderson, vuol dire che il solo Dio è quello degli Scorpioni. E puoi citare le mie parole.

— Lo farò.

Per un poco i due rimasero in silenzio.

— Anderson…

— Mmh?

— Il ragazzo sbaglia. Io sono suo amico.

— Lo so.

— È intelligente. Te lo dico col cuore, ha del carattere.

— Ho letto i rapporti.

— Pensa a quel che gli stiamo facendo, Anderson.

L’altro lo fissò con aria di sfida. — Stiamo cercando di farne il miglior comandante in campo della storia.

— Per poi gettare sulle sue spalle il destino del mondo. Dovrei sperare che quello che cerchiamo non sia lui, per il suo bene. E lo spero.

— Consolati, magari gli Scorpioni ci faranno fuori tutti prima ancora che dia gli esami.

Graff sorrise. — Hai ragione. Sai una cosa? Le tue profezie sono ottime per tirare un uomo su di morale.

CAPITOLO QUINTO

GIOCHI

— Lei ha tutta la mia ammirazione. Un braccio rotto…, questo è stato un colpo da maestro.

— È stato un incidente.

— Sul serio? E io che le ho già fatto ampi elogi nel rapporto ufficiale!

— La cosa è andata oltre il limite. Ha trasformato in una specie di eroe quell’altro piccolo bastardo. E potrebbe aver guastato parecchi di loro ancor prima dell’addestramento. Credevo che avrebbe chiamato aiuto.

— Chiamare aiuto? Via, ero convinto che fosse questo a renderlo prezioso ai suoi occhi: il fatto che lui risolve da solo i suoi problemi. Quando sarà fuori, con attorno a sé una flotta nemica, che chiami aiuto o meno dovrà sfangarsela da solo.

— Chi avrebbe immaginato che quel piccolo imbecille si sarebbe sganciato le cinture? E come se non bastasse, è andato a sbattere nella paratia nel modo peggiore.

— È soltanto un ulteriore esempio della stupidità militare. Chi ha un grammo di cervello cerca di far carriera in un altro campo, magari nelle assicurazioni sulla vita.

— Se è così, c’è da stare poco allegri.

— Dobbiamo soltanto accettare il fatto che lei e io siamo dei subordinati, infine. Col destino dell’umanità nelle nostre mani. Questo dà un delizioso senso di potere, no? Specialmente al pensiero che se perdiamo stavolta non resterà più nessuno per criticarci.

— Non ho mai visto la cosa in questo modo. Ma non dobbiamo perdere.

— Stiamo a vedere come Ender se la cava. Se cedesse, se dovessimo rinunciare a lui, chi resta? Chi altro c’è?

— Compilerò una lista di nomi.

— Nel frattempo cerchi il modo di tenere Ender sulla giusta strada.

— Gliel’ho detto. Bisogna isolarlo e tenerlo isolato. Non dovrà mai presumere che qualcuno può venire in suo aiuto, mai. Se pensasse per una sola volta che questa è la via d’uscita più facile, sarebbe rovinato.

— Lei ha ragione. Sarebbe terribile se sospettasse per un solo istante che ha un amico.

— Gli amici non gli mancheranno. Ciò che non avrà più sono i genitori.

Gli altri ragazzini avevano già scelto le loro cuccette quando Ender li raggiunse. Si fermò sulla soglia della camerata, e i suoi occhi cercarono l’unica branda rimasta libera. Il soffitto era così basso che alzandosi in punta di piedi avrebbe potuto toccarlo. Era un dormitorio per bambini, e la cuccetta inferiore dei letti poggiava sul pavimento. Quasi tutti lo stavano osservando senza parere. Ender si disse che senza dubbio la cuccetta in basso, a destra della porta, era la sola lasciata vuota. Per un momento fu costretto a riflettere che permettendo loro di affibbiargli il posto peggiore avrebbe incoraggiato futuri soprusi. Tuttavia costringere qualcun altro a cedergli il suo era fuori discussione.

Così girò intorno un ampio sorriso. — Ehi, grazie, ragazzi! — esclamò, senza alcun sarcasmo. Il suo tono suonò sincero come se gli avessero riservato il posto migliore. — Credevo che avrei dovuto pagare per ottenere la cuccetta inferiore accanto alla porta.

Poggiò un ginocchio al suolo e guardò nell’interno dell’armadietto aperto fissato ai piedi del Iettuccio. Allo sportello era incollato un cartoncino che diceva:

Poggia una mano sullo scanner

collegato alla tua cuccetta

e pronuncia il tuo nome due volte.

Ender trovò lo scanner, una piastra di plastica opaca. Vi applicò la mano sinistra e disse: — Ender Wiggin. Ender Wiggin.

Per un secondo la piastra brillò di una luce verde. Ender chiuse lo sportello e provò a riaprirlo. Non ci riuscì. Allora mise la mano sullo scanner e disse: — Ender Wiggin. — La serratura si aprì con uno scatto. Lo stesso accadde quando collaudò gli altri tre armadietti personali.

Uno di essi conteneva quattro tute da fatica uguali a quella che indossava, ed una bianca. In un altro c’era un banco elettronico, estraibile, simile a quello che aveva avuto a scuola. Dunque non l’aveva finita con le fatiche dello studio.

Fu nell’armadietto alto e stretto che trovò l’oggetto più interessante. A un primo sguardo gli parve una vera tuta spaziale, completa di elmo a pressione e guanti. Ma non aveva i collegamenti per le bombole d’aria. Tuttavia era studiata per contenere e proteggere il corpo, con spesse imbottiture. Al tatto la sentì un po’ rigida.

E insieme ad essa c’era una pistola. Un’arma laser a giudicare dalla forma della canna, che terminava con un solido cilindro vitreo. Ma senza dubbio non avrebbero permesso a dei ragazzini di maneggiare armi così mortali…

— Non è un laser — disse una voce d’uomo. Ender si voltò. Era un giovanotto che non aveva mai visto prima, simpatico e di bell’aspetto. — Però emette un raggio di luce polarizzata, molto ristretto. Proiettato su un muro a centro metri di distanza forma un disco luminoso largo appena venti centimetri.

— A cosa serve? — domandò Ender.

— Nelle partite che combattiamo in sala di battaglia. Qualcun altro ha gli armadietti aperti? — L’uomo si guardò attorno. — Voglio dire, avete seguito le istruzioni e codificato la voce e l’impronta palmare? Non potrete usare le serrature finché non lo fate. Questa camerata sarà la vostra casa almeno per il primo anno, qui alla Scuola di Guerra, perciò scegliete una cuccetta e tenetevela. Di regola lasciamo che le reclute scelgano un capo-camerata, il quale prende la cuccetta inferiore accanto alla porta, ma sembra che questo posto sia già stato occupato. Ormai è impossibile ricodificare le serrature. Decidete quale compagno intendete scegliere. La cena è fra sette minuti. Seguite le tracce luminose sulla pavimentazione. Il vostro colore-codice è rosso giallo giallo… vale a dire che quando avrete ordine di seguire un percorso assegnato questo sarà rosso giallo giallo, tre linee affiancate, e andrete nella direzione che esse indicano. Qual è il vostro colore-codice, ragazzi?

— Rosso giallo giallo.

— Molto bene. Il mio nome è Dap. Nei mesi che ci attendono io sarò la vostra mammina.

I ragazzi risero.

— Ridete finché volete ma fate quello che vi dico. Se vi perderete nelle strutture della Scuola, cosa che a volte capita, non andate in giro ad aprire tutte le porte che vedete. Alcune si apriranno… ma soltanto sul vuoto. — Ci furono altre risate. — Quando capita, dite al più vicino inserviente che la vostra mammina è Dap, e mi chiameranno. O dite il vostro colore, e loro accenderanno un percorso per rimandarvi a casa. Se avete dei problemi, venite a parlarne con me. Ricordate sempre che qui dentro io sono l’unica persona pagata apposta per essere simpatico con voi. Ma simpatico fino a un certo punto. Fatemi uno sgarbo e io vi romperò la faccia. D’accordo?

Di nuovo tutti risero. Dap aveva una camerata piena di amici. I ragazzini spaventati sono facili da conquistare.

— Qualcuno di voi sa dirmi da che parte è il basso?

Le loro voci gli risposero in coro.

— Certo, è proprio così. Ma questa direzione indica soltanto l’esterno. La stazione sta ruotando, e l’effetto fa sì che questo sia il basso. In realtà il pavimento su cui state è curvo. Se lo seguite finirete per ritrovarvi nello stesso posto da cui siete partiti. Ma non provateci, perché in quella direzione ci sono le stanze degli insegnanti, e in quella opposta le camerate dei ragazzi più grandi. E ai ragazzi più grandi non piace ritrovarsi fra i piedi voialtri pivelli. Potrebbero farvi qualche brutto scherzo. Anzi, i brutti scherzi vi saranno fatti. E quando questo accadrà non venite a piangere da me. Capito? Questa è la Scuola di Guerra, non un asilo infantile.

— Ma allora cosa dovremo fare? — chiese un ragazzino, un soldo di cacio dalla pelle nera che occupava la cuccetta superiore accanto a quella di Ender.

— Se c’è qualcuno a cui i soprusi non piacciono, pensi lui stesso al modo di difendersene. Ma vi avverto: l’assassinio è tassativamente proibito. E così anche le ferite inferte deliberatamente. Mi è stato detto che fra voi c’è già stato un tentativo di omicidio. Un braccio rotto. Se una cosa del genere capita di nuovo, qualcuno finirà congelato. Mi avete inteso?

— Cosa significa congelato? — domandò il ragazzino col braccio immobilizzato nella steccatura.

— Congelato. Sbattuto fuori nello spazio. Rimandato sulla Terra. Comunque, con la Scuola di Guerra avrà chiuso.

Nessuno guardò dalla parte di Ender.

— Così, pivelli, se qualcuno di voi sta pensando di andare in cerca di guai, qui dentro, farà meglio a darsi una regolata. Chiaro?

Dap uscì. Gli occhi dei ragazzi continuarono a evitare Ender.

Ma d’improvviso lui aveva sentito la mano gelida della paura attanagliarlo allo stomaco. Il ragazzo a cui aveva spezzato il braccio… non provava alcun rimorso per averlo fatto. Era un altro Stilson. E come Stilson stava già radunando una piccola banda attorno a sé. Un pugno di ragazzini, quelli fra i più robusti. Stavano ridendo fra loro sul fondo della camerata, e ogni tanto uno si voltava a guardare Ender.

Lui sentì un desiderio struggente di tornare a casa. Cos’avevano a che fare loro col fatto di salvare il mondo? Non c’erano monitor, adesso. Era di nuovo lui, da solo, contro una banda di ragazzini, con la differenza che ora li aveva proprio nella sua stanza. Di nuovo Peter, ma senza Valentine.

La paura continuò a tormentarlo durante la cena, quando nessuno sedette accanto a lui nella sala mensa. Gli altri chiacchieravano di varie cose: il grande schermo a una delle pareti, il cibo, i ragazzi più grandi. Ender, nel suo isolamento, poté soltanto guardarsi attorno.

Sullo schermo apparivano i nomi delle squadre in gara. Le vittorie, le sconfitte e i punteggi raggiunti. Gli parve che alcuni dei ragazzi più grandi avessero fatto delle scommesse sulle ultime competizioni. Due squadre, le Mantidi e le Vipere, non avevano punteggi recenti ma i loro nomi lampeggiavano. Ender decise che stavano gareggiando proprio in quel momento.

Aveva già notato che i ragazzi più anziani erano suddivisi in gruppi, a seconda delle uniformi che indossavano. Alcuni con uniformi diverse parlavano fra loro, ma in generale ciascun gruppo disponeva di una propria zona. I pivelli (i suoi compagni, più due o tre gruppi appena di poco più anziani) portavano tute di un uniforme colore azzurro. Ma i ragazzi più grandi, quelli suddivisi in squadre, esibivano indumenti multicolori e sgargianti. Ender cercò di capire da essi quali fossero i loro nomi. Api e Ragni erano facili da indovinarsi. E così anche le Fiamme e le Onde.

Un ragazzo più alto venne a sedersi al suo fianco. Non era soltanto più alto: dimostrava dodici o tredici anni. La sua corporatura era già quella di un adulto.

— Ehilà — disse.

— Ehilà — rispose Ender.

— Io mi chiamo Mick.

— Io Ender.

— Di cognome?

— No. Fin da piccolo mia sorella mi chiamava così.

— Non è un nome malvagio, qui dentro. Ender… quello che finisce, eh?

— Così spero.

— E sei tu lo Scorpione del tuo gruppo, Ender?

Lui scrollò le spalle.

— Mi sono accorto che ti fanno mangiare da solo. Ogni mandata di pivelli ne ha uno così. Uno che tutti gli altri scansano. A volte penso che gli insegnanti lo facciano apposta. Qui gli insegnanti non sono esattamente dei simpaticoni. Lo avrai notato.

— Già.

— Allora, sei tu lo Scorpione?

— Così credo.

— Ehi! Non è il caso di piangerci sopra, ti pare? — Prese il budino di Ender, e gli diede in cambio la sua brioche. - Tutta roba nutriente, qui. Vogliono farci crescere robusti. — Mick attaccò di gusto il budino.

— Tu di che gruppo sei?

— Io? Di nessuno. Sono uno stronzo nell’impianto dell’aria condizionata.

Ender cercò di sorridere volonterosamente.

— Divertente, già, ma non è uno scherzo. Io non combino niente di buono qui dentro. E ora sono cresciuto. Molto presto mi spediranno alla mia prossima scuola. Solo che non sarà la Scuola Ufficiali, ci puoi scommettere. Non sono mai stato portato a comandare, capisci? E soltanto chi ha doti di comando ha una possibilità di arrivare là.

— Come si fa per dimostrare doti di comando?

— Eh! Se lo sapessi, ti pare che sarei ancora dove sono? Quanti ragazzi alti come me vedi, qui dentro?

Non molti, notò Ender, ma non lo disse.

— Pochi, vero? Non sono io il solo già mezzo congelato, cibo da Scorpioni. Siamo in pochi. Gli altri bei tipi… quelli sono tutti al comando di un’orda. Tutti quelli arrivati qui con me adesso hanno la loro orda. Io no.

Ender annuì.

— Ascoltami, ragazzino. Voglio insegnarti una cosa. Fatti degli amici. Diventa un capo. Lecca pure il culo a qualcuno, se dovrai farlo, ma attento che se gli altri cominciano a disprezzarti… capisci cosa voglio dire?

Ender annuì di nuovo.

— Adesso tu non sai niente di niente. Voi pivelli siete uno uguale all’altro. Non sapete niente. Cervelli vuoti come lo spazio, con niente dentro. E qualunque cosa vi troviate davanti, ci sbattete la faccia. Perciò, se farai la mia stessa fine, ricorda che qualcuno ti aveva avvisato. Queste parole sono l’ultimo favore che ti viene fatto qui, amico.

— Perché mi dici questo, allora? — chiese Ender.

— Cosa sei, un chiacchierone? Taci e mangia.

Ender tacque e mangiò. Mick non gli piaceva. E si disse che non c’era la minima possibilità che anche lui facesse quella fine. Forse era proprio ciò che gli insegnanti avevano progettato, ma lui non intendeva affatto adeguarsi ai loro piani.

Io non sarò lo Scorpione del mio gruppo, pensò. Non ho lasciato Valentine e mamma e papà solo per venire qui e finire congelato.

Mentre si portava la forchetta alla bocca gli parve di sentire la presenza della sua famiglia intorno a lui, vicini come gli erano sempre stati. Sapeva che se avesse girato la testa in un certo modo e alzato lo sguardo avrebbe visto il viso di sua madre, occupata ad ammonire Valentine di non sbrodolarsi. Sapeva esattamente dove si trovava suo padre, intento a leggere il suo video-giornale preferito ed a fingere di prender parte alle solite chiacchiere dell’ora di colazione. Mentre Peter, con due stuzzicadenti ficcati nelle narici, imitava un tricheco… anche Peter sapeva essere spiritoso.

Pensare a loro fu uno sbaglio. Sentì un singhiozzo che tentava di salirgli in gola e lo ricacciò giù. Non riusciva neppure a vedere il suo piatto.

Ma non poteva mettersi a piangere. Era da escludersi che qualcuno gli avrebbe mostrato un po’ di compassione. Dap non era Mamma. Ogni segno di debolezza avrebbe informato gli Stilson e i Peter che quel ragazzino poteva essere schiacciato. Ender fece ciò che faceva ogni volta che Peter accennava a tormentarlo. Cominciò a contare raddoppiando: uno, due, quattro, otto, sedici, trentadue, sessantaquattro. E via di seguito finché riuscì a visualizzare i numeri nella mente: 128, 256, 512, 1024, 2048, 4096, 8192, 16384, 32768, 65536, 131072, 262144. Quando giunse a 67108864 cominciò a essere incerto: aveva sbagliato una cifra? Avrebbe dovuto essere sempre nelle decine di milioni oppure nelle centinaia di milioni, o forse ancora sotto i dieci milioni? Cercò di raddoppiare nuovamente e perse il conto. 1342 e qualcos’altro. 16? O 17738? Bestia che sei. Ricomincia daccapo. Raddoppia con più attenzione. Il dolore se n’era andato. Le lacrime non cercavano più di uscire. Non avrebbe pianto.

Non fino a quella notte, dopo che le luci furono abbassate, quando di lontano udì i singhiozzi soffocati di qualche ragazzino che piangeva per sua madre, o suo padre, o per il cane che non avrebbe visto più. Le labbra di lui formarono il nome di Valentine. Gli parve di sentire la sua voce ridere da qualche parte, giù in soggiorno. Vide Mamma passare davanti alla sua porta, fermandosi a sbirciare dentro per esser certa che tutto andasse bene. Sentì la voce di Papà commentare qualcosa, davanti alla TV. Era tutto ancora così nitido in lui, eppure non sarebbe mai più accaduto. La prossima volta che li rivedrò sarò diventato vecchio, dodici anni a dir poco. Perché ho detto di sì? Cosa mi ha fatto fare questa sciocchezza? Andare a scuola sarebbe stato niente in confronto. E anche dover affrontare Stilson. E Peter. Erano due cacasotto, Ender non aveva più paura di loro.

Voglio andare a casa, sussurrò nel buio.

Ma il suo sussurro era quello che gli usciva di bocca quando Peter lo costringeva a gemere di dolore. Era un sussurro che non andava più lontano dei suoi stessi orecchi, e talvolta non giungeva neppure a quelli.

E le indesiderate lacrime poterono scivolare sulle sue guance, accompagnate da singhiozzi così lievi che non destavano un fremito nelle molle del letto, così silenziosi che nessuno li avrebbe uditi. Ma il dolore era lì, chiuso nella sua gola e rigido nella smorfia del viso, caldo nel suo petto e liquido sotto le palpebre tremanti. Voglio tornare a casa!

Quella notte Dap entrò nella camerata e si mosse lento fra le cuccette, toccando una fronte qua, una mano là. Al suo passaggio i pianti divenivano più intensi, invece di smorzarsi. Quel tocco di gentilezza in un posto così freddo e sconosciuto bastava a spingere i ragazzini oltre l’orlo delle lacrime. Non Ender, però. Quando Dap gli fu accanto i suoi singhiozzi erano spenti, il suo volto asciutto. Era il volto bugiardo che lasciava vedere a Mamma e a Papà, quando non osava far loro capire che Peter era stato crudele con lui. Grazie per questo, Peter. Per gli occhi asciutti e i singhiozzi silenziosi. Tu mi hai insegnato come nascondere ciò che sento. E adesso ho bisogno di questo più che mai.

C’era sempre una scuola. Ogni giorno ore ed ore da trascorrere in classe. Letture. Numeri. Storia. Filmati di battaglie sanguinose avvenute nello spazio, coi marines che spargevano le loro budella sulle paratie delle navi degli Scorpioni. Olografie di nitide manovre belliche della Flotta, e astronavi che si trasformavano in sbuffi di luce mentre gli equipaggi uccidevano e venivano uccisi nella profonda notte cosmica. Molte cose da imparare. Ender lavorò duro come ogni altro, e tutti loro dovettero per la prima volta nella vita impegnarsi al massimo, perché per la prima volta erano in competizione con compagni di classe intelligenti almeno quanto loro.

Ma i giochi… era questo ciò per cui vivevano. Ciò che riempiva le loro ore fra il mattino e la sera della stazione spaziale.

Dap li condusse nella sala dei giochi fin dal secondo giorno. Era in uno dei ponti superiori, piuttosto in alto rispetto al livello in cui i ragazzini vivevano e lavoravano. Si arrampicarono lungo scale dove la gravità diminuiva gradatamente, e in una grande caverna metallica videro lampeggiare le policrome luci dei giochi.

Alcuni erano giochi che avevano già fatto a casa loro, altri erano sconosciuti. C’erano quelli facili e quelli difficili. Ender oltrepassò la fila dei giochi sugli schermi bidimensionali e cominciò a osservare quelli dei ragazzi più grandi, i giochi olografici con gli oggetti che si spostavano nell’aria. Ben presto fu il solo del suo gruppo ad aggirarsi in quella zona della sala, e ogni tanto inciampava in uno dei giocatori, che trovandoselo troppo vicino non esitava a spingerlo via. Tu che stai facendo qui? Sparisci, pivello. Vola via. E naturalmente le spinte lo facevano volare, lì in quella gravità così bassa. I suoi piedi si staccavano dal suolo e lui roteava altrove, finché non andava a sbattere in qualcosa o in qualcuno.

Ogni volta, tuttavia, si districava dall’ostacolo e tornava indietro, non sempre nello stesso posto esatto, per studiare il gioco da un’angolazione diversa. Era troppo piccolo per arrivare a veder bene i pannelli di controllo, da cui le partite erano regolate. Questo non gli era d’ostacolo. Ne esaminava i risultati nel campo visivo tridimensionale. Studiava la tecnica con cui il giocatore scavava tunnel nella tenebra, tunnel di luce, a caccia dei quali le navi nemiche si sarebbero gettate per poi seguirli spietatamente fino a trovare quella del giocatore. Il vascello cacciato poteva lasciare trappole dietro di sé, mine, missili automatici, falsi percorsi che costringevano la nave inseguitrice a girare in tondo interminabilmente. Alcuni giocatori erano molto abili. Altri perdevano la gara fin dall’inizio.

Quello che però appassionava Ender erano le partite in cui due ragazzi si battevano fra loro, non contro la macchina. In tal caso ognuno poteva usare i tunnel dell’altro, e presto diveniva chiaro chi dei due stava usando la strategia più efficace.

Quel gioco in particolare cominciò a sembrargli insipido dopo appena un paio d’ore, tanto gli era bastato per capirne le regole. O meglio, capì le regole secondo cui funzionava il computer, e quindi fu certo che una volta appreso l’uso dei comandi sarebbe riuscito a sventare fatalmente le manovre dell’avversario. Spirali quando la nave nemica avanzava in un certo modo, circoli chiusi quando si spostava in un altro. Fingere di cadere in alcune delle trappole, farle scattare a vuoto giocando sugli impulsi di vicinanza per le prime sei, trasformare la settima in una falsa trappola con un espediente tecnico. Non si trattava di una sfida vera e propria, era soltanto questione di giocare finché il computer diventava così veloce da superare i riflessi umani. Ma col computer non era divertente. A lui interessava competere con un avversario umano. Con quei ragazzi talmente addestrati a battersi contro la macchina che anche durante le sfide reciproche tentavano di emulare il computer. E che pensavano come una macchina invece che come un ragazzo.

Potrei batterli con questo sistema. Potrei batterli con quest’altro.

— Mi piacerebbe fare una partita con te — disse al giocatore che aveva appena vinto.

— Santo cielo, e questo cos’è? — esclamò il ragazzo. — Una piattola che parla con voce umana?

— Hanno appena tirato a bordo un’infornata di lattonzoli — gli rispose un altro.

— Ma questo parla. Chi gli ha tolto il ciucciotto dalla bocca?

— Ho capito — annuì Ender. — Hai paura di giocare con me. Due partite su tre, se te la senti.

— Stracciarti sarebbe più facile che pisciare nel lavandino, bimbo.

— E divertente neanche la metà — aggiunse l’altro ragazzo.

— Io sono Ender Wiggin.

— Apri l’audio, piattola. Tu sei nessuno. Ricevuto? Tu sei esattamente un nessuno, sintonizzati su questo. E resterai un nessuno finché non avrai ammazzato il tuo primo qualcuno. Chiudi pure l’audio e fila.

Il gergo dei ragazzi più grandi aveva un suo ritmo. Ender non mancò di apprezzarlo. — Se io sono nessuno, come va che tu hai paura di giocare a due su tre con me?

Adesso gli altri stavano emettendo grugniti d’impazienza. — Regalati dieci secondi per far fuori questa piattola, e leviamocela dai piedi.

Fu così che Ender prese posto ai comandi, a lui del tutto sconosciuti. Le sue mani erano piccole, ma leve e tasti avevano uno schema abbastanza semplice. Gli bastò sperimentare i pulsanti per accertarsi di quali armi comandavano. I controlli dei movimenti erano riuniti in una leva di tipo standard. Dapprima i suoi riflessi furono lenti e incerti. L’altro ragazzo, che non gli aveva ancora detto il suo nome, procedette invece con inflessibile rapidità. Ma Ender apprese ciò che non sapeva, e prima che la partita fosse terminata stava andando molto meglio.

— Soddisfatto, pivello?

— Abbiamo detto due partite su tre.

— Qui non usa né il due su tre, né il tre su cinque, bimbo.

— Sei stato bravo a battermi la prima volta che tocco questa macchina — disse Ender. — Se riesci a battermi anche la seconda, ammetterò che puoi farlo sempre.

Cominciarono a giocare di nuovo, e stavolta Ender fu abbastanza svelto da riuscire a mettere in atto alcune manovre che il ragazzo, ovviamente, non aveva mai visto prima. I suoi schemi attacco-difesa non poterono competere con esse. Ender dovette sudare per vincere, ma ce la fece.

I ragazzi più grandi smisero di ridacchiare e di fare commenti spiritosi. La terza partita si svolse nel più completo silenzio. Ender la vinse con grande rapidità ed efficienza.

Quando fu finita uno dei presenti emise un grugnito. — Fra ieri e oggi devono aver modificato questa macchina. Qualcuno l’ha adattata perché anche i lattonzoli possano giocare e vincere.

Non una parola di congratulazione. Un freddo silenzio fu il solo saluto che seguì Ender mentre se ne andava.

Non andò molto lontano. Pochi passi più in là si fermò accanto a un’altra macchina, e con la coda dell’occhio sbirciò per vedere se i successivi due giocatori cercavano di mettere in atto i metodi che aveva appena mostrato loro. Lattonzolo, eh? Ender sorrise dentro di sé. Quel che hanno visto non lo dimenticheranno.

Adesso si sentiva meglio. Aveva vinto qualcosa, e contro dei ragazzi più grandi. Probabilmente non i migliori fra gli allievi, e tuttavia questo bastava per liberarlo dalla sensazione terrorizzante d’essere un pesce fuor d’acqua, troppo inferiore alle esigenze della Scuola di Guerra. Ora non doveva far altro che osservare i giochi, capire come funzionavano e poi usare il sistema più adatto. O una variazione migliore.

Fu il fatto di attendere e di osservare che venne a costargli un prezzo. Perché in quel periodo ci furono cose che dovette sopportare. Il ragazzino a cui lui aveva rotto un braccio aveva giurato vendetta. Il suo nome, come Ender apprese subito, era Bernard. Parlava con chiaro accento francese, poiché i francesi, col loro arrogante Separatismo, affermavano che l’insegnamento dello Standard non doveva cominciare fino ai quattro anni di età, e per allora i bambini avevano già assimilato profondamente la lingua madre. Il suo accento lo rendeva un tipo esotico e dunque interessante; il suo braccio rotto aveva fatto di lui un martire; il suo sadismo lo trasformò in un capo naturale per tutti quelli a cui piaceva veder soffrire gli altri.

Ender fu il loro primo nemico.

Piccole cose. Un calcio che gli disfaceva il letto ogni volta che entravano e uscivano dalla porta. Uno sgambetto mentre andava al tavolo col vassoio del pranzo. Pestoni sulle mani quando salivano le scale a pioli. Ender ci mise poco a imparare che non doveva lasciare niente di suo fuori dagli armadietti, e dovette anche imparare a stare all’erta per non finire a gambe all’aria d’improvviso. «Sbadatroccolo» lo chiamò una volta Bernard, per trovargli un soprannome sprezzante.

Ci furono momenti in cui Ender conobbe il tormento della rabbia. Ma contro Bernard, naturalmente, la sola rabbia non bastava. Era il tipo di ragazzo che era: un torturatore. Ciò che irritava Ender era il vedere con quale acquiescenza gli altri si associavano a lui. Senza dubbia essi dovevano capire che la sua voglia di vendicarsi era ingiusta. Senza dubbio sapevano che era stato lui a colpire per primo Ender sulla navetta, e che Ender s’era limitato a rispondere a un sopruso. Ma se lo sapevano, agivano come se le cose stessero al contrario. E anche quelli che non lo sapevano avrebbero dovuto capire da una sua sola parola che Bernard era un serpente velenoso.

Ma Ender non costituiva il suo unico bersaglio. Ciò che Bernard stava costruendo era un piccolo regno, con una sua piccola corte.

Sempre ai bordi del gruppo, isolato dai compagni, Ender assistette alle manovre di Bernard che stabiliva il rango dei suoi cortigiani. Alcuni ragazzi gli erano utili, e lui li ricopriva di melassa. Altri avevano l’istinto di servire, e gli ubbidivano ciecamente anche quando li maltrattava sprezzantemente.

Ma c’era anche chi s’irritava ai modi di Bernard.

Bastava osservarlo per vedere chi altri prendeva di mira. Shen era piccolo, ambizioso e molto suscettibile. Questo particolare era stato notato subito da Bernard, che aveva preso a soprannominarlo Verme.

— Solo perché è così sottile, si capisce — spiegò Bernard, — e perché serpeggia. Guardate come fa andare i fianchi quando cammina.

Shen gli diede un’occhiataccia e si allontanò con andatura rigida, ma questo fece ridere gli altri ancor di più. — Guardate il suo culo. Striscia, Verme!

Ender non disse nulla a Shen. Una mossa così scoperta avrebbe fatto pensare che cercava di riunire una sua banda, avversa all’altra. Restò chino sulla sua piccola scrivania elettronica, mostrandosi indifferente e dedito allo studio.

Ma non stava studiando. Stava cercando di regolare la scrivania perché mandasse un messaggio durante le lezioni, appena cominciate. Il messaggio doveva essere breve e diretto a tutti. La difficoltà consisteva nel celare l’identità del mittente, cosa che il computer consentiva soltanto all’insegnante. Alle frasi battute dagli alunni veniva automaticamente accluso il loro nome. Ender non era ancora riuscito a inserirsi sulla linea usata dagli insegnanti, dunque non poteva fingere di essere uno di loro. Ma conosceva il modo di costruire un fascicolo nuovo per un alunno inesistente, e una volta inseriti i dati, in un impulso di stravaganza, diede a questo alunno il nome Dio.

Soltanto quando il messaggio fu pronto per partire si permise di cercare lo sguardo di Shen. Come altri ragazzi anch’egli stava prestando meno attenzione all’insegnante di matematica che ai compagni di Bernard: ridacchiavano, scambiandosi spiritosaggini sull’insegnante, che ogni tanto interrompeva un’operazione a metà per guardarsi attorno con l’aria perplessa di chi è uscito dall’autobus e non capisce a quale stazione l’hanno fatto scendere.

Da lì a poco tuttavia Shen si volse. Ender gli fece un cenno, indicò la superficie del banco e sorrise. Shen lo fissò senza capire. Lui batté ripetutamente l’indice sul banco. Finalmente Shen abbassò gli occhi sul suo, e in quell’istante Ender mandò il messaggio. Vide Shen leggerlo con tanto d’occhi, poi rialzare il capo e scoppiare a ridere. Il ragazzino tornò a fissare Ender con un’espressione che chiedeva: sei stato tu? Endere scosse il capo e si strinse nelle spalle, come a dire: no di certo, e non so proprio chi possa esser stato.

Shen rise ancora, e parecchi dei ragazzi non facenti parte del gruppo di Bernard seppero dai suoi cenni che sui loro banchi c’era qualcosa. Il messaggio appariva ogni trenta secondi, girava svelto lungo il perimetro degli schermi e poi spariva. Una quindicina di alunni scoppiarono a ridere contemporaneamente.

— Cos’è che li diverte tanto? — chiese Bernard. Ender badò bene a restare perfettamente serio quando il ragazzo girò attorno lo sguardo fosco con cui spaventava i più timidi. Shen, invece, ghignò in modo apertamente derisorio. I compagni di Bernard smisero di far battute sull’insegnante e osservarono i loro banchi, su cui correva la scritta:

COPRITEVI IL CULO. BERNARD VE LO GUARDA.

— DIO

Bernard s’imporporò per la rabbia. — Chi è stato? — gridò.

— Dio, sembra — lo informò Shen. — Perché guardi me?

— So perfettamente che non sei stato tu — sbottò Bernard. — Per far questo occorre molto più cervello di quello che ha un Verme!

Da lì a cinque minuti Ender fece svanire il messaggio. Dopo un po’ al centro del suo banco ne apparve un altro:

SO CHE SEI STATO TU.

— BERNARD

Ender non rialzò lo sguardo, e si comportò come se non avesse ricevuto alcun messaggio. Bernard sta solo cercando di scoprire se ho la faccia del colpevole. Ma non lo sa.

Naturalmente non importava nulla che sapesse o meno. Bernard avrebbe cercato di fargliela pagare, per il solo fatto che non poteva permettersi di perdere la faccia. L’unca cosa che non riusciva a sopportare era che gli altri ridessero di lui. Doveva far capire a tutti chi era il capo. Fu così che quel mattino Ender finì faccia a terra nel locale delle doccie. Uno dei compagni di Bernard attese che l’inserviente si voltasse e gli piantò un ginocchio nell’addome. Ender mandò giù il rospo in silenzio. Stava ancora osservando e aspettando, e non intendeva mostrare agli insegnanti che fra lui e l’altro c’era guerra aperta.

Ma nell’altra guerra, quella che si svolgeva sui banchi, aveva già messo in opera l’attacco successivo. Quando tornò dalle docce trovò Bernard in preda alla rabbia; stava prendendo a calci le cuccette e gridava ai compagni: — Non sono stato io a scriverlo! State zitti!

Sul banco di ogni ragazzo era in marcia un messaggio luminoso:

AMO I VOSTRI BEI CULETTI. LASCIATEMELI BACIARE.

— BERNARD

— Ho detto che non sono stato io a scriverlo! — strillò Bernard. Dopo qualche minuto quelle urla fecero apparire Dap sulla soglia della camerata.

— Cos’è questo baccano? — li apostrofò.

— Qualcuno che usa il mio nome sta mandando attorno delle scritte! — brontolò imbronciato Bernard.

— Quali scritte?

— Non importa quali!

— A me importa. — Dap si accostò al banco del ragazzo che aveva la cuccetta accanto a quella di Ender. Lesse il messaggio, la sua bocca parve curvarsi in un mezzo sorriso, poi spinse il banco nell’armadietto.

— Interessante — disse.

— Adesso indagherà per scoprire il colpevole? — volle sapere Bernard.

— Oh, lo conosco già — rispose Dap.

, rifletté Ender. È stato troppo facile inserirmi nel programma. Loro sanno che si può far questo col computer, forse anzi ci contano. E sanno che l’intrusione è venuta dal mio banco.

— Be’, allora chi è? — sbottò Bernard.

— Stai gridando con me, recluta? — chiese dolcemente Dap.

All’istante l’atmosfera della camera cambiò. Se gli amici di Bernard avevano fatto commenti rabbiosi, e da parte degli altri c’erano state risatine ironiche, tutti tacquero. L’autorità stava facendo sentire la sua voce.

— Nossignore — disse Bernard.

— Tutti sanno che il programma inserisce automaticamente il nome del mittente.

— Io non ho scritto quella roba! — replicò Bernard.

— Allora perché ti agiti tanto, marmocchio? — disse Dap.

— Ieri qualcuno ha mandato in giro un messagio firmato DIO — aggiunse Bernard acremente.

— Sul serio? — chiese Dap. — Guarda, guarda. Non sapevo che Dio fosse inserito nei programmi. — Gli volse le spalle e uscì, e la camerata fu piena di risa divertite.

Il tentativo di Bernard d’eleggersi a piccolo duce del loro gruppo si sfasciò così nel ridicolo: soltanto pochi gli rimasero fedeli. Ma erano i più pervicaci. E Ender seppe che finché si fosse limitato a osservare e attendere per lui sarebbe stata dura. Tuttavia quel giochetto col computer aveva ottenuto un risultato. Bernard era stato rimesso a posto, e tutti i ragazzi che avevano qualche buona qualità erano liberi dalla sua influenza. Ma soprattutto, Ender c’era arrivato senza mandarlo un’altra volta in mano al medico. Molto meglio a questo modo, pensò.

Poi si dedicò al difficile compito d’inserire un migliore sistema di sicurezza nel suo banco, visto che quelli previsti dal normale programma erano evidentemente inadeguati. Se un ragazzino di sei anni poteva farvi breccia, era chiaro che li avevano predisposti per eseguire una routine senza garanzie di riservatezza. Soltanto un altro gioco che gli insegnanti hanno studiato per noi. Ed è un gioco a cui sono bravo.

— Come ci sei riuscito? — gli chiese Shen, a colazione.

Ender prese nota con calma che per la prima volta un ragazzino della sua classe veniva a sedersi a tavola accanto a lui. — Riuscito a far cosa? — domandò.

— A mandare un messaggio con un nome falso. E poi con quello di Bernard! È stata grande. Adesso lo soprannominano Il Guardaculi. Davanti all’insegnante lo chiamano solo Il Guarda, ma tutti sanno che cosa guarda.

— Povero Bernard — mormorò Ender. — Pensare che è così sensibile.

— Avanti, Ender. Tu ti sei inserito nel programma. Come hai fatto?

Ender scosse il capo e sorrise. — Grazie per aver pensato che io sia tanto abile da riuscirci. L’ho soltanto visto per primo, questo è tutto.

— D’accordo, non sei costretto a dirmelo — annuì Shen. — Comunque è stata grande. — Per un poco mangiò in silenzio. — Sul serio faccio ondeggiare il sedere quando cammino?

— Ma no — disse Ender. — Appena un poco. Solo, bada a non fare quei passi così lunghi, e sarai a posto.

Shen annuì.

— L’unico che l’abbia notato è stato Bernard.

— È un maiale — disse Shen.

Ender scosse le spalle. — Evita i maiali e non ne sentirai il puzzo.

Shen rise. — Hai ragione. Io pure li individuo a naso.

Risero entrambi, guardandosi, e altri due ragazzini del loro gruppo vennero a sedersi accanto ad essi. L’isolamento di Ender era finito. La guerra era soltanto nella sua fase iniziale.

CAPITOLO SESTO

IL GIGANTE

— In passato abbiamo avuto fin troppe delusioni. Ce li alleviamo per anni, li facciamo ballare sul filo del rasoio sperando ansiosamente che se la cavino, e poi loro non ce la fanno. Ma con Ender sarà tutto più semplice: sembra deciso a finire congelato entro i prossimi sei mesi.

— Ah!

— Non vede quello che sta succedendo? Si è fissato su uno dei test mentali, il Drink del Gigante. Il ragazzo ha per caso tendenze suicide? Lei non ne ha mai parlato.

— Tutti si cimentano col Gigante, una volta o l’altra.

— Ma Ender rifiuta di cedere. Come Pinual.

— Tutti reagiscono un po’ come Pinual, prima o poi. Ma lui resta il solo che si è suicidato. E non credo che la cosa fosse collegata al Drink del Gigante.

— Lei ci sta scommettendo la mia carriera. E guardi cos’ha combinato col suo gruppo.

— Sa bene che non è stata colpa sua.

— Non m’importa, Colpa sua o meno, sta avvelenando quel gruppo. Si presume che i membri di un gruppo debbano sentirsi uniti, ma dove entra lui si aprono abissi larghi un miglio.

— Non progetto di lasciarlo lì a lungo, comunque.

— Allora, meglio che riveda i suoi progetti. Quel gruppo si è ammalato, e lui ne è stato il virus. Ma non è allontanandolo che potremo curare gli altri. Al contrario, deve restare.

— Sono stato io a causare questa malattia. L’ho isolato dagli altri, e l’effetto non è mancato.

— Gli dia tempo. Vediamo se riesce a sbrogliare la situazione.

— Di tempo non ne abbiamo.

— Dobbiamo averlo, visto che si tratta di capire se abbiamo per le mani uno che ha le stesse probabilità di diventare un genio militare oppure un mostro.

— Questo è un ordine?

— Stiamo registrando. Si registra tutto, qui. Il suo collo è ben protetto. E adesso vada all’inferno.

— Se si tratta di un ordine, io…

— È un ordine. Lo lasci dov’è, e stiamo a vedere come se la cava col suo gruppo. Graff, lei mi farà venire l’ulcera.

— Non rischierebbe l’ulcera se lasciasse la Scuola a me, e andasse a occuparsi della Flotta lei personalmente.

— La Flotta ha bisogno di un comandante che sappia portarla in battaglia. Non c’è niente di cui occuparsi, finché lei non me ne darà uno.

Entrarono nella Sala di Battaglia in fila per uno e con aria spaesata, come bambini condotti in piscina per la prima volta, tenendosi stretti ai corrimano lungo il perimetro. La gravità zero li metteva a disagio e li disorientava. Presto s’accorsero che le cose erano più facili se evitavano del tutto di usare i piedi.

Inoltre, dentro le tute si sentivano isolati. Era difficile compiere movimenti precisi, perché lo spesso tessuto si piegava male e opponeva più resistenza di qualunque altra cosa avessero mai indossato.

Ender si aggrappò alla ringhiera e fletté le ginocchia. Aveva già notato che malgrado lo spessore la tuta amplificava i movimenti in modo strano. Era difficile iniziarli, ma poi le gambe della tuta continuavano a muoversi, e con forza, anche dopo che i muscoli s’erano fermati. Fai un gesto con una certa forza, e lei te lo porta avanti con forza doppia. Per un po’ sarò scoordinato. Meglio che stia attento.

Così, senza mollare il corrimano, si diede un’energica spinta con i piedi.

All’istante le sue gambe balzarono in alto, ruotò intorno alla ringhiera e andò a urtare nel muro col fondo della schiena. Il rimbalzo fu ancora più forte, o così gli parve: le mani persero la presa e Ender volò via attraverso la sala di battaglia, sbattendo in ogni ostacolo che gli si parò davanti.

Per qualche terribile momento tentò di capire dove fossero l’alto e il basso, o meglio a tentarlo fu il suo corpo, in cerca di una gravità che non esisteva. Poi si costrinse a orientarsi su nuovi punti di vista. Stava andando a sbattere in una parete. Quello era il suo basso. E non volava, si disse: cadeva, era a metà di un tuffo. Spettava a lui scegliere in che modo urtare su quella superficie.

Sto andando troppo veloce per cercare una presa e fermarmi, ma posso ammorbidire l’impatto. Posso calcolare il tempo della rotazione, e nell’istante dell’urto usare i piedi per…

La cosa non andò come aveva pronosticato. La velocità con cui roteava era fuori dalle sue possibilità di manovra, e non ebbe neppure il tempo di considerarne le conseguenze. Volò a sbattere in un’altra parete, stavolta troppo vicina perché potesse prepararsi all’urto. Ma del tutto casualmente scoprì l’esistenza di un principio di dinamica: avvolgendosi a palla ruotava più velocemente, distendendosi rallentava la rotazione inerziale. Adesso stava di nuovo attraversando l’immenso locale, in direzione dei suoi compagni ancora aggrappati al corrimano. Scoperto il segreto per ruotare lentamente calcolò che sarebbe riuscito ad aggrapparsi da qualche parte. L’angolazione con cui vedeva gli altri ragazzi era un po’ folle, ma il suo orientamento s’era di nuovo riadattato e per quanto lo riguardava essi stavano ora distesi su un pavimento, non già in piedi lungo un muro, e lui non era più capovolto di quel che lo fossero loro.

— Che vuoi fare, stai cercando di ammazzarti? — gli chiese Shen.

— Prova anche tu — disse Ender, atterrandogli accanto. — La tuta ti ripara dagli urti, e se giri su te stesso puoi rallentare a questo modo. — Gli mimò il movimento, rannicchiandosi e distendendosi.

Shen scosse il capo. Non aveva la minima voglia di tentare folli balzi come quello che aveva appena visto. Ma uno dei ragazzi si spinse nell’aria, non con la velocità che il rimbalzo aveva conferito a Ender però abbastanza rapido anch’egli. Ender non ebbe bisogno di guardarlo in faccia per sapere che si trattava di Bernard. E subito dietro di lui partì in volo il suo migliore amico, Alai.

Ender li guardò allontanarsi nella vastità del locale. Bernard si contorceva per restare in posizione verticale rispetto a quello che continuava a vedere come un pavimento; Alai cedeva alla forza che lo faceva ruotare e si preparava al rimbalzo sulla parete opposta. Non c’è da meravigliarsi se Bernard si è rotto un braccio sulla navetta, pensò Ender. Quando vola s’irrigidisce come un legno. Il panico lo acceca. Mise da parte quel dato di fatto per usarlo eventualmente in futuro.

E un’altra cosa valeva la pena di notare: Alai non s’era spinto via nella stessa direzione di Bernard. Aveva mirato a uno degli angoli alti della sala. I due seguivano percorsi divergenti, allontanandosi sempre più l’uno dall’altro, e dopo che Bernard fu andato goffamente a sbattere nella parete Alai fu costretto dalla conformazione dell’angolo a ben tre rimbalzi, l’ultimo dei quali lo spedì via a un’angolazione sorprendente. Il ragazzo mandò un grido d’eccitazione, e lo stesso fecero quelli che lo stavano guardando. Alcuni dimenticarono d’essere in gravità zero e batterono le mani, lasciando la ringhiera. Questo li fece fluttuare lentamente in varie direzioni, agitando le braccia come se tentassero di nuotare.

Ecco un altro problema, pensò Ender. Come se la cava uno che sta lì a galleggiare? Non c’è modo di spingersi di qua o di là.

Fu tentato di fluttuare via pian piano per risolvere il problema attraverso prove ed errori. Ma poteva già vedere in atto i più diversi tentativi degli altri, tutti fallimentari, e non riuscì a pensare a nessun espediente in grado di funzionare meglio.

Tenendosi alla ringhiera con una mano si tastò distrattamente la tuta, e le sue dita incontrarono la fondina della pistola fissata sotto l’ascella sinistra. Questo gli fece tornare a mente i piccoli razzi a mano usati dai marines durante gli arrembaggi a una stazione spaziale nemica. Estrasse l’arma e la esaminò. Prima di uscire dalla camerata aveva già premuto quei pulsanti, e non era successo niente. Ma forse lì, nella sala di battaglia, la pistola avrebbe funzionato. Non c’erano istruzioni su di essa, né etichette presso i pulsanti. Il grilletto aveva un aspetto normalissimo, e il riflesso di premerlo era automatico in qualunque bambino avesse usato armi giocattolo. C’erano due pulsanti che sembravano fatti apposta per essere raggiunti col pollice, più alcuni altri sotto il fondo del calcio che però erano inaccessibili alle dita della mano che impugnava l’arma. Ovviamente i due pulsanti del pollice erano studiati per un uso rapido.

Puntò la pistola verso il pavimento e premette il grilletto. All’istante sentì che l’arma gli si scaldava fra le dita; quando lasciò il grilletto essa si raffreddò quasi subito. L’altro effetto fu la comparsa di un minuscolo disco di luce nel punto in cui aveva mirato.

Spinse col pollice il bottone superiore, quello rosso, e tirò ancora il grilletto. Stesso risultato.

Premette allora il pulsante bianco. Dalla canna nacque una luce assai brillante che illuminò una zona abbastanza vasta, ma con intensità minore. Stavolta le sue dita sentirono l’arma restare quasi fredda.

Il pulsante rosso la trasformava in un laser (ma non in un vero laser, come aveva detto Dap) mentre quello bianco ne faceva una lampada. Né uno né l’altro effetto potevano servire a qualcosa per la manovra in gravità zero.

Dunque tutto dipendeva dalla spinta iniziale, l’unico impulso su cui uno poteva poi contare. In altre parole, o diventiamo subito molto abili a controllare la forza di spinta e i rimbalzi, o finiremo a fluttuare nel mezzo del niente.

Ender si guardò attorno. Soltanto pochi dei suoi compagni erano arrivati in vicinanza di una parete, e si sbracciavano in cerca di qualche appiglio. Quasi tutti gli altri rimbalzavano l’uno contro l’altro, ridendo e agitandosi senza scopo. Alcuni di loro s’erano presi per mano e roteavano galleggiando nella penombra. Appena due o tre erano rimasti alla ringhiera, come Ender, e osservavano con calma quella scena.

Notò che uno di essi era Alai. Il suo volo s’era concluso su un’altra parete, non troppo distante da lui. D’impulso Ender decise di parlargli, e con una spinta si proiettò rapidamente nella sua direzione. Mentre fluttuava nell’aria si chiese cos’avrebbe potuto dirgli. Alai era amico di Bernard. Fin’ora non si erano mai rivolti la parola.

Comunque era tardi per cambiare percorso, così tenne lo sguardo dritto avanti a sé e sperimentò lievi movimenti delle braccia e delle gambe per mantenere l’assetto di volo. Soltanto all’ultimo momento s’accorse di aver mirato con troppa precisione sul bersaglio: non sarebbe atterratto accanto ad Alai, stava per arrivargli dritto addosso.

— Ehi, afferrami le mani! — gridò Alai.

Ender allungò le braccia verso le sue. Alai riuscì così ad ammortizzare l’impatto, quindi lo aiutò a fermarsi senza danni alla parete.

— Ottima mossa — approvò Ender. — Dovremmo fare pratica in questo genere di cosa.

— Lo penso anch’io, solo che tutti quanti sono là che girano come trottole — disse Alai. — Mi chiedo cosa succederebbe se ci spingessimo avanti insieme. Dovremmo esser capaci di proiettarci l’un contro l’altro in direzioni opposte, no?

— Sicuro.

— D’accordo?

Era un’ammissione che fra loro le cose non erano state troppo liscie. Sei d’accordo che tu e io si possa fare qualcosa insieme? Per tutta risposta Ender prese Alai per un polso e si preparò al balzo.

— Pronto? — chiese Alai. — Andiamo!

A causa della diversa energia con cui s’erano dati la spinta, i due cominciarono a ruotare l’uno intorno all’altro. Ender compì alcuni lievi movimenti col braccio libero, poi allungò una gamba. La rotazione rallentò. Ripeté la manovra ed essa s’interruppe. Ora stavano volando avanti in assetto stabile.

— Hai una buona testa, Ender — disse Alai. Quello era il suo complimento migliore. — Procediamo alla spinta, prima di finire nel mucchio degli altri.

— E poi troviamoci insieme in quell’angolo là. — Ender aveva messo una testa di ponte in campo nemico, e non voleva vederla svanire.

— L’ultimo che arriva paga all’altro dieci scorregge in una bottiglia del latte — disse Alai.

Con lenta prudenza manovrarono fino a trovarsi faccia a faccia, mani unite e ginocchia a contatto.

— Riusciremo a evitare gli altri? — si preoccupò Alai.

— Per tutto dev’esserci una prima volta — disse Ender.

Distesero le braccia di scatto. La spinta diede loro più velocità di quel che s’aspettavano. Ender urtò in un paio di ragazzi, e fu deviato in una direzione inattesa. Gli occorse qualche istante per orientarsi rispetto all’angolo in cui avrebbe dovuto incontrare Alai, mentre l’altro già volava in quella direzione. In fretta calcolò un percorso che avrebbe incluso due rimbalzi, per evitare un folto gruppo di compagni.

Quando Ender giunse al traguardo, Alai s’era agganciato alle tre ringhiere dell’angolo e stava fingendo di dormire.

— Hai vinto tu.

— Mi aspetto le tue dieci scorregge migliori — disse Alai.

— Le ho già messe nel tuo armadietto. Non te ne sei accorto?

— Credevo che fossero le mie calze.

— Qui nessuno di noi porta più calze.

— Ah, già. — Qualcosa che ricordava loro quanto fossero lontani da casa. Parte della soddisfazione provata nel navigare abilmente nell’aria si dissolse.

— Cosa succede se spari addosso a qualcuno? — domandò Alai.

— Non lo so.

— Perché non cerchiamo di scoprirlo?

Ender scosse il capo. — Potremmo ferire qualcuno.

— Volevo dire, perché non ci spariamo l’un l’altro, magari in un piede, o qualcosa del genere. Io non sono Bernard, non ho mai torturato un gatto per vedere se si torce.

— Ah!

— Non può essere troppo pericoloso, altrimenti non avrebbero dato queste pistole a dei ragazzi.

— Adesso ci considerano soldati.

— Sparami in un piede.

— No, spara tu a me.

— Va bene, spariamoci a vicenda.

Fu quel che fecero, e all’istante Ender sentì la gamba della tuta farsi rigida, immobilizzandosi all’articolazione del ginocchio e della caviglia.

— Sei congelato? — chiese Alai.

— Gamba dura come un legno.

— Congeliamo qualcun altro — propose Alai. — La nostra prima azione bellica: tu e io contro tutti loro.

Sogghignarono, poi Ender disse: — Meglio invitare anche Bernard.

Alai inarcò un sopracciglio. — Oh?

— E Shen.

— Quello scodinzolante vermiciattolo nero?

Ender decise che Alai stava scherzando. — Ehi, non tutti possiamo vantare dei genitori neri.

Alai mugolò: — Mio nonno avrebbe potuto frustarti per una frase come questa.

— O forse ci avrebbe bevuto sopra, e il mio anche.

— D’accordo. Recuperiamo Bernard e Shen, e congeliamo questa frotta di Scorpioni.

Venti minuti più tardi tutti i ragazzi in sala erano congelati, salvo Ender, Bernard, Shen e Alai. I quattro si appollaiarono su una ringhiera e risero dello spettacolo che si presentava loro, finché nel locale non entrò Dap.

— Vedo che avete appreso l’uso del vostro equipaggiamento — disse. Poi azionò un piccolo apparecchio che aveva in mano. I ragazzi che fluttuavano qua e là cominciarono a spostarsi lentamente verso la parete in cui si aprivano gli ingressi. Dap si mosse fra i ragazzi congelati, toccandoli e rendendo di nuovo flessibili le loro tute. Ognuno protestava impermalito che Bernard e Alai avevano agito scorrettamente, colpendoli quando loro non erano pronti.

— E perché non eravate pronti? — chiese Dap. — Vi siete messi le tute nello stesso momento. Ma voi avete perso tempo svolazzando attorno come polli senza testa. Piantatela di frignare e cominciamo a lavorare sul serio.

Ender notò che davano per scontato che i capi di quella battaglia fossero stati Bernard e Alai. Meglio così, pensò. Bernard sapeva che lui e Alai avevano imparato insieme l’uso delle pistole, e che dunque erano amici, perciò poteva dedurne che lui s’era unito al suo gruppo. Ma le cose stavano diversamente: Ender s’era aggregato a un nuovo gruppo. Quello di Alai. Un gruppo a cui anche Bernard s’era unito.

La cosa non risultò evidente a tutti; Bernard continuava a fare il capoccia e a dare ordini a questo e a quello. Ma Alai adesso aveva mano in ogni questione della camerata, e quando Bernard eccedeva era lui che interveniva per placarlo. Quando fu loro chiesto di scegliere il nome del capogruppo, la scelta fu quasi unanime in favore di Alai. Bernard brontolò scontrosamente per qualche giorno, poi si adattò, e i ragazzi trovarono una certa unità in quel nuovo schema. Il gruppo non era più suddiviso in fazione interna di Bernard, neutrali, e fuoricasta tipo Ender. Alai era il ponte fra di loro.

Ender sedeva sulla branda con il banco elettronico girato sulle ginocchia. I ragazzi stavano studiando ognuno per conto proprio, e lui aveva chiamato sullo schermo del desco una Partita Libera. Era un gioco di tipo strano e bislacco, nel quale il computer della Scuola inseriva a getto continuo elementi nuovi creando una sorta di labirinto che il giocatore doveva esplorare. Era possibile restare alle prese con situazioni a piacere, almeno per un poco, ma bastava lasciarle scorrere perché qualcos’altro prendesse il loro posto.

Talvolta erano cose divertenti, talaltra eccitanti, e lui era costretto a stare sempre sul chi vive per non essere ucciso. Era già morto una gran quantità di volte, ma la cosa era normale, faceva parte del gioco: capitava d’essere uccisi ripetutamente, prima di scovare il modo di procedere oltre gli ostacoli.

La sua figura sullo schermo aveva cominciato in forma di ragazzino. Nei tentativi seguenti lo aveva trasformato in un orsacchiotto. Adesso era un grosso topo, con mani lunghe e delicate. Ender fece correre la figura sotto un gran mucchio di mobili sfasciati. L’aveva fatta competere a lungo contro un gatto, ma questo aveva finito per annoiarlo: troppo facile eluderlo, ora che conosceva tutti i segreti di quei mobili.

Non attraverso la tana del topo stavolta, disse a se stesso. Non ne posso più del Gigante. È una partita insensata, e non posso vincere mai. Qualunque sia la mia scelta, è sbagliata.

Ma andò lo stesso fuori attraverso la tana del topo, e oltrepassò il ponticello nel giardino fiorito. Evitò i becchi dei paperi e i tuffi delle api-kamikaze; aveva provato a gareggiare con loro ma era stato tutto troppo facile, inoltre se superava il tempo limite concesso contro i paperi si ritrovava trasformato in un pesce, cosa che non gli piaceva. Fare il pesce gli ricordava troppo le occasioni in cui finiva congelato, nella sala di battaglia, rigido da capo a piedi, senza altro da fare che attendere la fine dell’esercitazione perché Dap lo rimettesse in movimento. Così, come al solito, scelse di proseguire e si diresse su per le colline tondeggianti.

Cominciò il tratto paludoso. Dapprima lui era affondato interminabilmente, trascinato indietro da rigurgiti di fango sanguigno che essudava da sotto ogni roccia. Adesso però s’era fatto svelto a correre su per i tratti liberi, evitando il fango e zigzagando verso l’alto.

Come sempre, quindi, la salita terminò fra i macigni. L’altipiano si aprì libero dinnanzi a lui, ma al posto del terreno c’era una distesa di pane bianco, tenerissimo, la cui pasta s’innalzava in fragili croste che si spezzavano e cadevano. La sua figura ci sprofondava come in una spugna e dovette rallentare l’andatura. E quando saltò giù dall’enorme pezzo di pane si trovò in piedi su una tavola. Colossali fette di pane dietro di lui, colossali cubetti di burro a destra e a sinistra. E di fronte il Gigante in persona, che col mento poggiato sulle mano lo scrutava. La figura di Ender era poco più alta del suo naso.

— Credo che ti staccherò la testa con un morso — disse il Gigante, come al solito.

Questa volta, invece di correre via o di saltare dietro il burro, Ender mosse la figura verso la faccia del Gigante e lo colpì al mento con un calcio.

Il Gigante sporse la lingua, che come il rosso tentacolo d’una piovra sbatté al suolo Ender.

— Che ne dici di giocare agli indovinelli? — chiese il Gigante. Dunque quella variante iniziale non faceva alcuna differenza: l’avversario insisteva nella sua immancabile proposta. Stupido computer. Milioni di possibili gare nella sua memoria, e il Gigante vuole solo giocare a questo stupido gioco.

Come ogni volta, il Gigante piazzò due larghe coppe di vetro alte quanto il ginocchio di Ender fra loro, sul piano del tavolo. E come ogni volta esse erano colme di liquidi diversi. Il computer era abbastanza intelligente da far sì che quei liquidi non fossero mai gli stessi, per quante partite potesse giocare. Stavolta uno conteneva una spessa crema dall’aspetto semiliquido. L’altro gorgogliava e fumava.

— Uno è velenoso e l’altro no — disse il Gigante. — Indovina il drink giusto e io ti porterò nella Terra delle Meraviglie.

Indovinare significa immergere la faccia in uno dei drink e assaggiarlo. Lui non l’aveva azzeccata mai. Talvolta la sua testa si dissolveva. Talvolta prendeva fuoco. Talvolta ci cadeva dentro e affogava. Talvolta schizzava indietro, diventava verde e andava in pezzi. La fine era sempre orribile, e il Gigante rideva sempre.

Ender sapeva che qualunque fosse stata la sua scelta sarebbe morto. Il gioco era truccato. Dopo la prima morte, la sua figura sarebbe riapparsa sul tavolo del Gigante per giocare ancora. Dopo la seconda morte sarebbe stata riportata indietro sul pendio fangoso. Poi sul ponticello del giardino. Poi nella tana del topo. E poi, se fosse tornato fin dinnanzi al Gigante per giocare e perdere ancora, il suo banco si sarebbe spento. «Fine della Partita Libera», questa scritta avrebbe lampeggiato sullo schermo, e a Ender non sarebbe rimasto che abbandonarsi indietro sulla branda, tremante ed esausto, in attesa che il sonno scendesse su di lui. Il gioco era truccato, però il Gigante continuava a parlare della Terra delle Meraviglie, qualche stupidissima e infantile Fantasyland dove probabilmente c’era una stupidissima Mamma Oca, o i Tre Porcellini, o Peter Pan, o comunque nulla che valesse la fatica di posarvi gli occhi sopra. Eppure lui doveva scoprire il modo di battere il Gigante e arrivare là.

Si chinò a bere la crema liquida. Immediatamente cominciò a gonfiarsi come un pallone. Scoppiò, il Gigante rise. Era morto un’altra volta.

Giocò la seconda partita, e stavolta il liquido divenne solido come il cemento mentre lo beveva, imprigionandogli la faccia. Il Gigante lo spaccò in due lungo la spina dorsale, lo aprì come un pesce e cominciò a divorarlo, staccandogli a morsi gambe e braccia.

Riapparve sul pendio fangoso e stabilì che non avrebbe proseguito. Lasciò perfino che la poltiglia rossa lo ricoprisse, facendolo affogare. Ma quando s’accorse che stava sudando, a denti stretti per la frustrazione, usò la vita successiva per risalire le colline fin sull’altopiano di pane. Poi saltò giù dalla fetta, e in piedi attese che il Gigante piazzasse le due grandi coppe di liquido davanti a lui.

Esaminò i drink. Quello di destra fumava, l’altro era increspato di onde simili a quelle del mare. Cercò di capire che razza di morte ciascuno dei due gli avrebbe dato. Magari da quel mare schizzerà fuori un pesce che mi mangerà. E quello che fuma probabilmente mi farà soffocare. Odio questo gioco. Non sa di niente. È stupido. È truccato.

E invece di chinarsi a bere rovesciò con un calcio la coppa di sinistra, quindi l’altra, saltando qua e là per evitare le mani inferocite del Gigante che gridava: — Imbroglione! Imbroglione! — Balzò su quell’enorme faccia, arrampicandosi sulle labbra e sul naso, e affondò un pugno nell’occhio destro dell’avversario. La cornea bianca schizzò attorno come ricotta fresca, e mentre il Gigante urlava la figura di Ender gli si aggrappò alla palpebra, scavando nel molle materiale con colpi ampi e violenti.

Il Gigante si rovesciò all’indietro e cadde. La visuale dello schermo tremò all’immenso urto, e quando il corpo del colosso giacque immobile sul terreno tutto attorno sorgevano alberi fitti ed intricati. Un pipistrello svolazzò avanti e atterrò sul naso del Gigante. Ender fece emergere la sua figura dall’occhio ridotto in poltiglia.

— Come sei riuscito ad arrivare qui? — chiese il pipistrello. — Nessuno viene mai da queste parti.

Ender era troppo sorpreso per rispondere. Si chinò, raccolse una manciata della sostanza di cui era fatto l’occhio del Gigante e la offrì al volatile.

Il pipistrello la ingoiò d’un colpo, quindi si alzò in volo. — Benvenuto nella Terra delle Meraviglie! — gridò, mentre si allontanava.

Ce l’aveva fatta. Ora poteva esplorare. Ora poteva saltar giù dalla faccia del Gigante e guardare ciò che aveva finalmente ottenuto.

Invece spense lo schermo, spinse il banco nell’armadietto, si tolse la tuta da fatica e lentamente s’infilò sotto le coperte. Non aveva avuto intenzione di uccidere il Gigante. Quello avrebbe dovuto essere soltanto un gioco, non una scelta fra il morire in modo ripugnante e il commettere un omicidio ancor meno piacevole. Sono un assassino, perfino quando gioco. Peter sarebbe fiero di me.

CAPITOLO SETTIMO

SALAMANDRA

— Non è simpatico sapere che Ender riesce a fare l’impossibile?

— La morte di un giocatore ha deleteri effetti cumulativi sulla sua mente. Ho sempre pensato che il Drink del Gigante fosse il gioco più pericoloso da questo punto di vista. Ma accanirsi sul suo occhio a quel modo… è questo il nostro miglior candidato al comando della Flotta?

— Non vedo cosa ci sia di male nell’aver vinto a un gioco truccato.

— Suppongo che adesso lei lo trasferirà.

— Stavamo aspettando di vedere cos’avrebbe fatto con Bernard. Se l’è cavata perfettamente.

— Così, appena riesce a risolvere una situazione lei lo mette di fronte a un’altra che non sa come affrontare. Non gli lascerà un po’ di riposo?

— Avrà un mese o due, forse tre, di tranquillità col suo gruppo. È un periodo abbastanza lungo, nella vita di un bambino.

— Non hai mai l’impressione che questi non siano bambini? Io osservo quel che fanno, ascolto ciò che dicono, e non mi sembra che abbiano molto di infantile.

— Sono i più brillanti bambini del pianeta, ciascuno a suo modo.

— Ma non dovrebbero comportarsi come bambini? Non sono normali. Agiscono come… personaggi storici. Napoleone e Wellington. Cesare e Bruto.

— Noi dobbiamo occuparci del destino del mondo, non di curare i cuori infranti. Lei è troppo compassionevole.

— Il generale Levy non aveva compassione per nessuno. Tutti i filmati ce lo confermano. Ma non faccia del male a questo ragazzino.

— Sta scherzando?

— Voglio dire, non gli faccia più male di quanto è necessario.

A cena, Alai andò a sedersi di fronte a Ender. — Finalmente ho capito come hai mandato quel messaggio. Quello firmato Bernard.

— Io? — si schermì Ender.

— Avanti, e chi altro? Bernard non è stato di certo. E Shen non è un genio col computer. E io non l’ho fatto. Chi resta? Non importa. Ho capito che hai iscritto uno studente nuovo. Non hai fatto che aggiungere all’elenco un ragazzo di nome Bernard Zero-Zero, BERNARD-spento, in modo che il computer non possa né tenerlo presente nei programmi, né eliminarlo come un errore.

— Sembra un’ipotesi che può funzionare — disse Ender.

— Sicuro che funziona. Ma tu l’hai fatto praticamente il giorno del nostro arrivo.

— Io o qualcun altro. Forse è stato Dap, per impedire a Bernard di diventare capogruppo.

— Ho scoperto anche un’altra cosa. Non posso fare lo stesso con il tuo nome.

— Ah, sì?

— Qualsiasi messaggio con la parola Ender viene cancellato appena scritto. E non sono neanche riuscito a farmi mandare sullo schermo il tuo fascicolo personale. Tu hai inserito un sistema di sicurezza.

— Forse.

Alai sogghignò. — Mettere le mani sui dati e sulle registrazioni altrui è fin troppo facile. E conosco altri che ci riescono. Io ho bisogno di proteggermi, Ender. Ho bisogno del tuo sistema.

— Se ti do il mio sistema saprai come metterlo in atto, e saprai come ottenere e manipolare tutti i dati che riguardano me.

— Vuoi dire io? — finse di scandalizzarsi Alai. — Il migliore amico che tu abbia qui dentro?

Ender rise. — Studierò un altro sistema per te.

— Adesso?

— Se mi lasci finire di mangiare.

— Tu non lo finisci mai quel vassoio.

Era vero. Dopo ogni pasto, sul vassoio di Ender avanzava sempre un po’ di cibo. Lui guardò il piatto e decise d’essere già sazio. — Va bene, andiamo.

Quando furono in camerata, Ender si gettò a sedere sulla sua cuccetta e disse: — Stacca il tuo banco e portalo qui. Ti farò vedere cosa devi fare. — Ma quando Alai fece ritorno con la sua scrivania elettronica Ender era sempre seduto nello stesso posto, e il suo armadietto era ancora chiuso.

— Che c’è? — domandò Alai.

Come tutta risposta Ender poggiò una mano sullo scanner dell’armadietto. Comparve una scritta: «Tentativo d’accesso non autorizzato». E lo sportello non si aprì.

— Qualcuno ha imparato a ciurlarti nel manico, piccolo — disse Alai. — Qualcuno ti ha dato una fregatura.

— Sei sicuro di volere ancora il mio sistema di sicurezza? — brontolò lui. Si alzò dal letto e uscì in corridoio.

— Ender — lo chiamò l’altro.

Lui si volse. Alai gli stava mostrando un cartoncino rettangolare.

— Che cos’è?

Alai si strinse nelle spalle. — Non lo sai? Era sul tuo letto. Forse ci stavi seduto sopra.

Ender prese il cartoncino e lo lesse.

ENDER WIGGIN

ASSEGNATO ALL’ORDA DELLE SALAMANDRE

COMANDANTE BONZO MADRID

DECORRENZA IMMEDIATA

CODICE VERDE VERDE MARRONE

Gli oggetti personali

non saranno trasferiti

— Tu sei in gamba, Ender, ma in sala di battaglia non sei affatto migliore di me.

Lui scosse il capo. Vedersi dare una promozione era la cosa più assurda che mai avrebbe potuto pensare. Nessuno veniva promosso prima di aver compiuto otto anni. Ender non ne aveva ancora sette. E di solito i novellini erano trasferiti in gruppi alle orde, molte delle quali aumentavano così gli effettivi contemporaneamente. Ma non c’erano ordini di trasferimento su nessuno degli altri letti.

Proprio quando le cose si stavano mettendo bene. Proprio quando Bernard cominciava a diventare sopportabile per tutti, perfino per lui. Proprio quando Alai si stava rivelando un vero amico. Proprio quando la sua vita diventava finalmente facile da vivere.

Ender fece scostare Alai dalla cuccetta, ma non si mise a sedere al suo posto.

— L’orda delle Salamandre è in sala di battaglia, comunque — disse Alai.

Ender era così infuriato per quel trasferimento così inopportuno che gli stavano salendo le lacrime agli occhi. Non devi piangere, si disse.

Alai notò le sue palpebre inumidite, ma ebbe il tatto di ignorarle. — Sono delle teste di cavolo, Ender. Arrivano perfino al punto di non lasciarti portare via le tue cose.

Lui riuscì a trovare un sorriso che scacciò le lacrime. — Dici che devo lasciare qui la tuta e andarmene nudo come un verme?

Anche Alai rise.

D’impulso Ender lo abbracciò strettamente, quasi come se fosse Valentine. E l’improvviso desiderio di rivederla gli fece desiderare d’essere a casa. — Non voglio andarmene — disse.

Alai gli restituì l’abbraccio. — Io li capisco, Ender. Tu sei il migliore di noi. Forse hanno fretta d’insegnarti tutto il possibile.

— Non so cosa vogliano insegnarmi — mormorò Ender. — So soltanto che volevo sapere cosa significa avere un amico.

Alai annuì gravemente. — Amici una volta, amici per sempre — dichiarò. Poi sorrise. — Vai a fare a fettine gli Scorpioni, d’accordo?

— Sicuro. — Ender gli restituì il sorriso.

Ad un tratto Alai lo baciò su una guancia, e mormorò: — Salaam! — Poi, rosso in volto, si volse e tornò alla sua cuccetta in fondo al locale. Ender si disse che quel bacio e quella parola dovevano essere qualcosa di proibito. Una delle religioni soppresse, forse. Oppure la parola doveva contenere qualche segreto e potente significato per Alai. Ma qualunque cosa avesse inteso, Ender sapeva che l’amico la riteneva sacra e che gli aveva rivelato il suo animo, così come gli era accaduto una sera con sua madre, prima che gli mettessero il monitor nella nuca, quando credendolo addormentato s’era seduta sul bordo del suo letto e gli aveva poggiato le mani sulla testa, pregando sottovoce per lui. Ender non ne aveva mai fatto parola con nessuno, neppure con lei, ma ne aveva conservato un ricordo profumato di mistero sacro, la consapevolezza che sua madre lo amava così profondamente da non osare dirlo se non ai suoi occhi addormentati. Questo era ciò che Alai gli aveva dato; un dono così sacro che neppure a lui era concesso comprenderne il significato.

Dopo una cosa simile null’altro poteva essere detto. Alai si gettò sulla cuccetta e volse su di lui uno sguardo pacato. I loro occhi s’incontrarono come quelli di due fratelli. Poi Ender uscì.

Nessun sentiero verde verde marrone lo attendeva in quella zona della Scuola; avrebbe dovuto cercare i colori in uno dei locali più frequentati. Ma gli altri sarebbero usciti di mensa da lì a pochi minuti, e lui non se la sentiva d’incontrarli. La sala dei giochi invece doveva essere praticamente deserta.

Nell’umore in cui era, nessun gioco gli parve più molto attraente; così andò allo schermo di una delle scrivanie pubbliche in fondo al locale e lo accese, chiedendo la sua partita personale. Subito fece correre la sua figura fino alla Terra delle Meraviglie. Adesso, ogni volta che giungeva lì, il Gigante era un cadavere. Per scendere dal tavolo dovette saltare dapprima su una gamba dell’enorme sedia rovesciata, quindi si calò cautamente al suolo. Per un po’ c’erano stati dei topi, occupati a rosicchiare il corpo del Gigante, ma Ender ne aveva ucciso uno con uno spillo tolto dall’abito sgualcito del colosso, e da allora lo avevano lasciato in pace.

Il corpo del Gigante era pressoché ai limiti della decomposizione. Ciò che poteva esser mangiato via dagli animali necrofori era consumato; i vermi avevano compiuto il loro lavoro negli organi interni; adesso non restava che una mummia disseccata dalle orbite vuote, coi denti scoperti in un sogghigno scheletrico e le dita come artigli ricurvi. Ender ripensò alla ferocia con cui gli aveva aggredito l’occhio quando era vivo, malizioso e intelligente. Irritato e frustrato come si sentiva, desiderò poterlo di nuovo attaccare e uccidere. Ma ormai il Gigante era divenuto parte di quel panorama, e odiarlo non aveva più alcun senso.

Ender era già stato oltre il ponte al castello della Regina di Cuori, dove c’erano da giocare partite abbastanza divertenti, ma in quel momento nessuna di esse lo attirava. Aggirò il cadavere del Gigante e seguì il ruscello controcorrente, fino al punto in cui emergeva dalla foresta. Là c’era un tipico parco giochi, con i toboga e le altalene, la pista di pattinaggio e alcune giostre, e dozzine di bambini stavano cicalando e ridendo. Ender si avvicinò e s’accorse che la sua figura aveva perso certe caratteristiche adulte trasformandosi in quella di un bambino. Anzi era ancor più piccola e giovane degli altri ragazzetti.

Si mise in fila per il toboga. Gli altri bambini lo ignorarono. Salì la scaletta fino in cima e attese che quello davanti a lui si fosse gettato giù lungo la liscia spirale che terminava al suolo. Poi sedette e si spinse in avanti.

Non stava scivolando neppure da un istante quando si trovò ad atterrare nella sabbia sotto l’incastellatura. Il toboga non lo voleva su di sé.

Anche le altalene rifiutavano la sua presenza. Poteva sedersi e cominciare a muoversi, ma appena l’oscillazione aumentava il sedile diventava incorporeo e lui cadeva. Il ponticello sullo stagno lo lasciò precipitare in acqua mentre attraversava. Provò una delle giostre, che partì normalmente; quando però essa cominciò a girare forte e Ender cercò di aggrapparsi le maniglie si smaterializzarono e la forza centrifuga lo scaraventò al suolo.

E gli altri bambini: le loro risate erano rauche, offensive. Fecero circolo intorno a lui, gli rivolsero gesti derisori e prima di tornare ai loro giochi lo insultarono beffardamente.

Ender provò l’impulso di colpirli, di afferrarli e gettarli nel ruscello. Invece si inoltrò nella foresta. Trovò un sentiero, che poco dopo si allargò in un’antica strada lastricata in pietra, aggredita dalle erbacce ma ancora praticabile. Su ambo i lati c’erano possibili buone partite da giocare, ma Ender non s’impegnò in alcuna di esse. Voleva vedere dove portava la strada.

Ciò che si trovò davanti fu una radura con un vecchio pozzo al centro, e su di esso un cartello che diceva: «Dissetati, viandante». Ender andò a guardare nel pozzo. In quell’istante udì un ringhio. Dalla foresta erano sbucati una dozzina di lupi avidi di sangue, ed avevano volti umani. Ender li riconobbe: erano i bambini che l’avevano deriso. Ma adesso avevano zanne fatte per sbranare, e senza un’arma con cui opporsi Ender fu subito sopraffatto e divorato.

La sua figura successiva apparve, come di regola, nello stesso luogo, e fu di nuovo fatta a pezzi dai lupi, benché Ender avesse tentato di gettarsi nel pozzo.

Nella partita che seguì venne riportato indietro nel parco giochi. I bambini stavano ridendo intorno a lui. Ridete pure finché volete, pensò Ender. Ora so chi siete. Agguantò una di loro. Lei lo seguì, irosamente, fino al toboga e si lasciò spingere in cima alla scaletta. Poi Ender si gettò giù con lei. Come in precedenza si ritrovò di colpo al suolo, ma anche la bambina era precipitata insieme a lui e al momento dell’impatto s’era trasformata in un lupo, che adesso giaceva stordito o morto sulla sabbia.

Uno dopo l’altro Ender trascinò i piccoli licantropi in quella trappola. Ma prima che avesse finito di eliminare l’ultimo i lupi ripresero vita, e non si mutarono in bambini. Ender fu sbranato nuovamente.

Questa volta, scosso e sudato, ritrovò la sua figura in piedi sul tavolo del Gigante. Potrei anche averne abbastanza, si disse. E dovrei presentarmi al comandante dell’orda.

Ma invece fece scendere la figura sulla sedia e al suolo, aggirò il corpo del Gigante e si diresse al parco giochi.

Stavolta, non appena i bambini si mutarono in lupi sotto il toboga, Ender li trascinò via e li gettò nel ruscello. A ogni tuffo i corpi sfrigolavano come se l’acqua fosse acido. I lupi furono distrutti, e una grossa nuvola di fumo scuro fluttuò via dalla zona. Nello stesso modo dovette disfarsi di altri bambini, che avevano preso a inseguirlo verso l’antica strada. Nella radura non trovò lupi in agguato, cosicché entrò nel secchio del pozzo e usando la carrucola si calò fino in fondo.

Nella caverna aleggiava una penombra rosata nella quale sfavillavano mucchi di gioielli. Passò oltre, e notò che alle sue spalle degli occhi balenavano fra le gemme. Una tavola coperta di cibarie non destò il suo interesse. S’inoltrò fra numerose gabbie, appese al soffitto della grotta, ognuna contenente creature strane dall’aria abbastanza amichevole. Giocherò con voi più tardi, pensò Ender. Sul fondo si trovò davanti a una porta che recava inciso, in lettere verdi e scintillanti:

LA FINE DEL MONDO

Senza pensarci sopra spinse il battente e passò oltre.

Dovette fermarsi subito. Si trovava su uno stretto cornicione roccioso, alto sulla parete di un burrone, di fronte a un immenso panorama di boschi su cui stagnavano i colori dell’autunno, qua e là chiazzato dall’ocra scuro dei campi ormai mietuti. C’erano stradicciole, carri trainati da buoi, piccoli villaggi sonnolenti, e un castello che in distanza si stagliava contro il cielo, così alto che le nuvole s’infrangevano nei picchi rocciosi alla base delle sue mura. Alzò gli occhi e vide che il cielo era il soffitto di un’immensa caverna, dove nidi di cristalli luccicavano fra le stalattiti.

Dietro di lui la porta si chiuse. Ender studiò quello scenario con meraviglia. Era così bello che la sua perenne attenzione contro il pericolo si rilassò. Al momento gli importava poco di quali partite si potessero giocare in quel posto. L’aveva scoperto lui, e contemplarlo era il suo premio. Così, senza nessun timore per le conseguenze, saltò giù dal cornicione.

La mossa lo mandò a precipitare in picchiata verso le rapide spumeggianti di un torrente, fra cui si levavano rocce acuminate, ma una nuvola avanzò a interporsi fra lui e il disastro, lo raccolse e lo portò via. Quel singolare tappeto volante lo condusse fino alla terre del castello, e quindi direttamente dentro una delle finestre che vi si aprivano. Fu deposto al suolo in una stanza di pietra, priva di porte e senza botole sul soffitto o sul pavimento. L’unica uscita era la finestra, che offriva soltanto una mortale caduta da grande altezza.

Pochi momenti prima s’era tuffato in un burrone con cieca incoscienza, ma stavolta esitò.

Quello che era parso un pezzo di legno davanti al caminetto si svolse dalle spire, rivelandosi per un lungo serpente i cui denti scintillavano di veleno.

— L’unica uscita dalla stanza sono io — disse. — La morte è la tua sola via di fuga.

Ender si stava guardando attorno in cerca di un’arma, quando all’improvviso lo schermo diventò nero. Su di esso lampeggiò una scritta:

SUBITO A RAPPORTO DAL COMANDANTE

SEI IN RITARDO

VERDE VERDE MARRONE

Seccato, Ender spense la scrivania, andò agli indicatori colorati accanto alla porta e premette la striscia verde verde marrone, poi seguì il sentiero che s’era acceso davanti a lui. Il verde chiaro, il verde smeraldo e il marrone terroso del nastro gli ricordarono l’autunno del regno che aveva appena scoperto. Devo ritornarci, disse a se stesso. Quel lungo serpente è come una corda, posso usarlo per calarmi dalla torre e trovare la soluzione di quel posto. Forse si chiama la fine del mondo perché è la fine della partita, perché io potrei entrare in uno di quei villaggi e diventare uno dei ragazzini che lavorano e giocano laggiù, senza nulla che mi possa uccidere e senza nulla da uccidere, soltanto per vivere là.

Ma a quel pensiero non fu capace di immaginare cosa poteva significare per lui «soltanto vivere». Era un’esperienza che non gli sembrava di aver mai fatto prima. Comunque fosse, desiderava farla.

Le orde erano più numerose dei gruppi dei nuovi arrivati, e le camerate in cui risiedevano erano molto più grandi. Quella era di larghezza normale, ma così lunga che si poteva vedere la lieve curvatura verso l’alto del pavimento, il quale seguiva la circonferenza esterna della Scuola di Guerra.

Ender si fermò all’ingresso. Alcuni ragazzi al di là della porta gli gettarono un’occhiata, ma erano alquanto più grandi di lui e parve che i loro sguardi lo trapassassero senza vederlo. Proseguirono nella conversazione, in piedi o seduti sulle loro cuccette. Stavano discutendo di qualche battaglia, ovviamente. I ragazzi più anziani non parlavano di sciocchezze. Ed erano molto più alti di lui: quelli di dieci o undici anni lo sovrastavano, e lo stesso si poteva dire per i più giovani, quelli di otto anni. Ender non era certo alto per la sua età.

Cercò di capire chi di loro fosse il comandante, ma quasi tutti erano seminascosti oltre i letti a castello, alle prese con le loro tute da battaglia e con quelle che i soldati chiamavano «uniformi da notte», calzamaglie che coprivano dalla testa ai piedi. Molti di essi avevano tirato fuori il loro banco, ma pochi erano occupati a studiare.

Ender fece un passo avanti. E nell’istante in cui oltrepassò la porta una mano si alzò a dargli l’alt.

— Cosa cerchi? — chiese il ragazzo che aveva la cuccetta superiore accanto all’ingresso. Era il più alto di tutti. Ender lo aveva già notato alla mensa: un giovane gigante con già qualche rado peluzzo sul mento. — Tu non sei una salamandra, pivello.

— Dovrei esserlo, invece, credo — disse Ender. — Verde verde marrone, giusto? Sono stato trasferito. — Intuendo che il ragazzo aveva mansioni di guardia alla porta, gli mostrò il cartoncino.

La guardia allungò una mano. Ender lo ritrasse, appena fuori portata. — Credo di doverlo consegnare a Bonzo Madrid.

Alla conversazione si unì un altro ragazzino, di statura inferiore agli altri ma sempre più alto di Ender. — Non bahn-zoe, testa di rapa: Bon-zo. È un nome spagnolo. Bonzo Madrid. Aqui nosotros hablamos español, Señor Gran Fedor.

— Bonzo sei tu, allora? — chiese Ender, pronunciando correttamente il nome.

— No. Io sono una poliglotta di luminoso talento. Petra Arkanian. L’unica femmina dell’orda delle Salamandre. Ma con più palle che chiunque altro in questa stanza.

— Ha parlato Petra, la bocca di pietra — esclamò un ragazzo. — Udite, udite, tutti voi!

Un altro ridacchiò. — Petra, bocca di pietra, bocca di merda, parla di merda!

Soltanto pochi risero.

— Resti fra me e te, ragazzo — disse Petra, — ma se dovessero fare un clistere alla Scuola di Guerra ficcherebbero la cannuccia nel verde verde marrone.

L’umore di Ender peggiorò. Aveva già parecchi svantaggi a suo carico: un addestramento scarsissimo, la giovane età, l’inesperienza, il rancore che altri avrebbero provato per la sua precoce promozione. E adesso, per soprammercato, si stava facendo la più sbagliata delle amicizie, una sorta di paria fra le Salamandre, la quale aveva visto in lui un altro possibile disadattato con cui fare coppia contro il resto dell’orda. Davvero una bella giornata di lavoro, pensò. Per un attimo, mentre girava lo sguardo su quei volti ironici e sogghignanti, gli parve di vederli coprirsi di peli fra cui biancheggiavano zanne pronte a mordere. Sono io l’unico essere umano qui dentro? Questi sembrano animali capaci soltanto di azzannare il prossimo.

Poi ripensò ad Alai. In ogni orda, sicuramente, c’era almeno qualcuno che valeva la pena di conoscere.

In quel momento, benché nessuno l’avesse ordinato, le risate tacquero e nella camerata cadde il silenzio. Ender si volse alla porta. Sulla soglia c’era un ragazzo alto e snello, di pelle olivastra, con due splendidi occhi neri e labbra su cui aleggiava un sorrisetto sofisticato. Questo ragazzo ha del fascino, disse qualcosa in fondo alla mente di Ender. Vorrei vedere nel modo in cui i suoi occhi vedono.

— Chi sei? — domandò il ragazzo a bassa voce.

— Ender Wiggin, signore — disse lui. — Trasferito dal mio gruppo all’orda delle Salamandre. — Gli porse il cartoncino.

Il ragazzo lo prese con un movimento fluido e sicuro, senza sfiorargli le dita. — Quanti anni hai, Wiggin? — chiese.

— Quasi sette.

Sempre a bassa voce l’altro osservò: — Ti ho chiesto quanti anni hai, non quanti non ne hai ancora.

— Ho sei anni, nove mesi e dodici giorni.

— Quanto hai lavorato in sala di battaglia?

— Pochi mesi soltanto. Aspiro a migliorare.

— Addestramento in manovre belliche? Hai mai fatto parte di un branco? Sei mai stato inserito in azioni di gruppo?

Ender non aveva neppure sentito parlare di cose simili. Scosse il capo.

Madrid lo guardò negli occhi. — Capisco. Come avrai modo d’imparare presto, gli ufficiali in comando alla Scuola, e particolarmente il maggiore Anderson che sovrintende alle gare, appezzano l’arte di dare colpi bassi all’avversario. L’orda delle Salamandre si appresta ad emergere da un’indecorosa oscurità. Abbiamo vinto dodici delle nostre ultime venti gare. Abbiamo sorpreso i Topi, le Api e i Levrieri, e siamo pronti a batterci per ottenere la posizione di prestigio. Di conseguenza, ovviamente, mi è stato assegnato un peso morto, un elemento inutilizzabile e senza alcun addestramento, dal fisico sottosviluppato. Tu.

— Neppure lui è entusiasta di conoscerti — disse Petra con calma.

— Taci, Arkanian — dise Madrid. — Alle nostre difficoltà ora se ne aggiunge un’altra. Ma qualunque ostacolo gli ufficiali vogliano sbattere sul nostro cammino, noi siamo ora e sempre…

— Le Salamandre! — gridarono i soldati come un sol uomo.

D’istinto, la percezione che Ender aveva della camerata cambiò. Quello era uno schema di comportamento, un rituale. Madrid non stava cercando di ferire lui, bensì di prendere sotto controllo un avvenimento imprevisto e usarlo per rafforzare la sua autorità sull’orda.

— Noi siamo il fuoco che li brucierà dalla testa ai piedi. Noi siamo cervello e cuore, molte fiamme, un solo fuoco.

— Le Salamandre! — urlarono gli altri.

— Neppure questo pivello ci indebolirà.

Per un momento Ender si concesse un palpito speranzoso. — Lavorerò sodo e imparerò in fretta — disse.

— Non ti ho dato il permesso di parlare — disse Madrid. — Ho intenzione di venderti al più presto possibile. Probabilmente sarò costretto a dar via insieme a te un elemento valido, ma piccolo come sei risultati peggio che inutile per me. Un congelato in più da sobbarcarsi durante ogni battaglia, ecco quello che sei inevitabilmente. E al punto in cui siamo ora, ogni soldato congelato può costituire la differenza decisiva per la sopravvivenza di una postazione. Niente di personale, Wiggin, ma sono certo che potrai fare il tuo addestramento a spese di qualcun altro.

— Abbiamo un comandante tutto cuore, come vedi — disse Petra.

Madrid fece un passo verso di lei e le sferrò un rapido manrovescio. Il rumore fu appena udibile, perché la colpì soltanto con le unghie. Ma lasciò sulla guancia di lei quattro striscie rosse, e quattro piccole ferite sanguinanti dove le unghie avevano colpito.

— Queste sono le tue istruzioni, Wiggin. Voglio sperare che questa sia l’ultima volta che dovrò perder tempo a parlare con te. Quando ci alleneremo in sala di battaglia tu starai fuori dai piedi. Dovrai far atto di presenza, naturalmente, ma non apparterrai a nessun branco e non prenderai parte a nessuna manovra. Quando saremo chiamati a combattere, ti vestirai in fretta e ti presentarai alla porta come ogni altro. Ma non oltrepasserai la porta finché la battaglia non sarà cominciata da quattro minuti esatti, quindi resterai accanto all’uscita senza mai estrarre la pistola, in attesa che il tempo di gara sia scaduto.

Ender annuì. Dunque stava per diventare un niente. Sperò che lo vendessero a qualcun altro il più presto possibile.

Intanto aveva notato che Petra non aveva aperto bocca né battuto ciglio a quel ceffone, e neppure aveva alzato una mano a tastarsi la guancia, benché una striscia di sangue le scivolasse verso il mento. Bonzo Madrid s’era rivelato definitivamente ostile, ma in quanto alla ragazzina, paria o non paria che fosse in quell’orda, Ender sentì che avrebbe potuto diventarle amico.

Gli fu assegnata una cuccetta nell’angolo più lontano della camerata. Quella superiore, cosicché quando vi si distese scoprì di non riuscire neppure a vedere la porta: la curvatura del soffitto gli bloccava la visuale. Nelle sue vicinanze c’erano altri ragazzini, silenziosi e dall’aria triste e stanca, evidentemente gli ultimi nella valutazione del comandante. Nessuno di loro ebbe una parola di benvenuto da regalargli.

Ender poggiò una mano sullo scanner di un armadietto per aprirlo, ma non accadde niente. Soltanto allora si accorse che non c’erano serrature. I quattro stipi avevano una maniglia a forma di anello e basta. Nulla sarebbe dunque stato privato e personale, adesso che faceva parte di un’orda.

Nell’armadietto alto c’era una tuta. Non quella azzurro pallido dei nuovi arrivati, bensì l’uniforme verde scuro bordata di arancione dell’orda delle Salamandre. Notò che gli sarebbe andata larga. Probabilmente il magazzino non aveva mai dovuto fornire un’uniforme del genere a un ragazzo così giovane.

La stava tirando fuori quando si accorse che Petra veniva verso di lui, lungo il passaggio centrale. Scivolò giù dal letto e la attese in piedi accanto al montante metallico.

— Riposo — disse lei. — Io non sono un ufficiale.

— Sei un capobranco, non è così?

Qualcuno nelle vicinanze fece udire una risatina.

— Cosa ti ha fatto venire quest’idea, Wiggin?

— La tua cuccetta è vicino alla porta.

— Mi è stata assegnata perché sono la miglior tiratrice dell’orda delle Salamandre, e perché Bonzo teme che se i capibranco non mi tengono sott’occhio io possa mettere in piedi una rivolta. Come se potessi combinare qualcosa di buono con elementi come questi. - Indicò i ragazzi dall’aria depressa sulle cuccette vicine.

Cosa stava cercando? Forse di rendergli le cose peggiori di quel che già erano? — Sono tutti migliori di me — disse Ender, per chiarire che si dissociava dal disprezzo di lei verso quei ragazzi, i quali dopotutto erano i suoi vicini di letto.

— Io sono una femmina — disse lei, — e tu sei un piscione di sei anni. Dunque abbiamo qualcosa in comune. Perché non essere amici?

— Guarda che non farò i tuoi compiti di scuola — disse lui.

Lei capì all’istante che stava scherzando. — Hu-hu — annuì. — Ma quando sei nelle gare, tutto è molto militaresco. La Scuola non è così per i nuovi arrivati. Storia e strategia e tattica e Scorpioni e compagni e stelle, queste sono le cose di cui hai bisogno per diventare un pilota o un comandante. Vedrai.

— Così sei mia amica. Che ci guadagno? — chiese Ender. Stava imitando l’eloquio di lei, fra sfrontato e indifferente.

— Bonzo non ha intenzione di addestrarti. Ciò che farà è di ordinarti di portare il tuo banco anche in sala di battaglia, perché tu studi anche là. In un certo senso ha ragione… non vuole che un marmocchio ignorante rovini la precisa meccanica delle sue manovre. — La sua voce si deformò nell’imitazione della parlata di chi non conosceva né l’inglese né l’interlingua: — Bonzo, lui così pre-cizo. Lui così curato. Lui piscia dentro piatto senza che una goccia va fuori!

Ender sogghignò.

— La sala di battaglia è aperta a orario continuato. Se ti va, potremmo andarci nelle ore in cui non c’è nessuno e ti insegnerò quello che so. Io non sono un gran soldato, però sono in gamba, e conosco un bel po’ di cose che tu non sai.

— Se hai tempo — annuì Ender.

— Domattina dopo colazione, allora.

— E se qualcun altro sta usando la sala? Il mio gruppo ci andava sempre, dopo colazione.

— Nessun problema. Le sale di battaglia sono sette.

— Non mi avevano detto dell’esistenza delle altre.

— Il locale d’ingresso è unico per tutte. Le sale di battaglia si trovano nel centro esatto della Scuola, al mozzo della ruota. E non ruotano con il resto della stazione. Ecco perché l’assenza di peso, lo zero-G, è totale. Niente impulso centrifugo, niente alto e basso. Le sette sale sono piazzate intorno al mozzo, che è il corridoio d’ingresso comune. Una volta lì dentro lo fanno girare, così alla porta ti si presenta la sala che desideri.

— Ah!

— Domani al termine della colazione, come ho detto.

— D’accordo — rispose Ender.

Lei cominciò ad allontanarsi.

— Petra — la fermò.

La ragazzina si volse a guardarlo.

— Grazie.

Lei non disse nulla. Ebbe appena un cenno del capo e poi se ne andò a passi svelti.

Ender risalì sulla cuccetta e si tolse la tuta, poi giacque nudo sul materasso con il banco elettronico girato davanti a sé, riflettendo sulla possibilità che avessero messo le mani sui suoi codici d’accesso. Era quasi certo che il suo sistema di sicurezza fosse stato tolto di mezzo. Non poteva possedere niente lì, neppure il suo banco.

Le luci si abbassarono leggermente. Era quasi l’ora di dormire. Ender domandò dove fossero i gabinetti.

— Esci e vai a sinistra — disse il ragazzo della cuccetta accanto. — Li abbiamo in comuni coi Topi, i Condor e gli Scoiattoli.

Ender lo ringraziò e fece per avviarsi.

— Ehi — lo richiamò l’altro. — Non puoi uscire a quel modo. Fuori dalla camerata l’uniforme è obbligatoria.

— Anche per andare ai gabinetti?

— Soprattutto questo. E non puoi neppure rivolgere la parola ai membri di un’altra orda. Né a mensa né ai gabinetti. A volte si può farlo in sala giochi, e naturalmente quando un insegnante te lo chiede. Ma se ti pesca Bonzo sei morto, capito?

— Grazie.

— E un’altra cosa: Bonzo ti mangia vivo se ti scopre a… fare giochetti con Petra.

— Eppure era nuda quando sono entrato, no?

— Lei fa quel che vuole, ma tu devi vestirti. Ordini di Bonzo.

Era una stupidaggine. Petra aveva ancora l’aspetto di un ragazzino, perciò l’ordine era assurdo. Questo la isola, la rende diversa, divide l’orda. Stupido, stupido. Come aveva fatto Bonzo a diventare comandante se non riusciva a pensarne una migliore? Alai sarebbe un comandante più capace di Bonzo. Lui sa come tenere unito un gruppo.

E anch’io so come unire la gente in un gruppo, continuò a pensare Ender. Forse sarò comandante, un giorno o l’altro.

Era nelle docce che si lavava le mani quando qualcuno gli rivolse la parola. — Ehi, tu, non mi dire che adesso le Salamandre allevano poppanti!

Ender non rispose e andò ad asciugarsi le mani.

— Ehi, guardate un po’! Le Salamandre arruolano anatroccoli. Quello potrebbe passarmi fra le gambe senza toccarmi le palle!

— Questo è perché non le hai, Dink, ecco perché — ridacchiò un altro.

Mentre Ender usciva dal locale sentì una terza voce dire: — Lui è Wiggin. Quello che ha stracciato Waldrop in sala giochi, ricordi?

Allontanandosi lungo il corridoio s’accorse di sorridere. Lui è piccolo, certo, ma loro ricordano il suo nome. In sala giochi, naturalmente, perciò non significa nulla. Ma lo vedranno. Diventerà un buon soldato, anche. Presto tutti conosceranno il suo nome. Non nell’orda delle Salamandre, forse, ma abbastanza presto.

Petra era già in attesa nel corridoio che portava alla sala di battaglia. — Aspettiamo qui — disse a Ender. — L’orda delle Lepri sta arrivando proprio ora, e occorre qualche minuto per girare la porta sulla sala di battaglia successiva.

Ender sedette accanto a lei, per terra. — C’è dell’altro circa le sale di battaglia, oltre a questo fatto di passare da una a quella che segue — disse. — Ad esempio, perché qui nel corridoio c’è la gravità, mentre appena oltre quella porta si va subito a zero-G?

Petra chiuse gli occhi. — E se le sale di battaglia sono davvero isolate dal resto della stazione, cosa succede quando una viene collegata alla porta? Perché non comincia a muoversi secondo la rotazione della Scuola?

Ender annuì gravemente.

— Questi sono i grandi misteri — disse Petra in un drammatico sussurro. — Non cercare di svelarli. Cose terribili accaddero all’ultimo soldato che osò ficcarci il naso. Fu ritrovato appeso per i piedi al soffitto del gabinetto, con la testa infilata nella tazza.

— Allora non sono il primo che fa queste domande.

— Una cosa devi tenere a mente, pivello. — Detto da lei l’appellativo suonò amichevole, non più sprezzante. — Loro non ti diranno mai più verità di quanto non siano costretti a fare. Ma perfino i bambini dell’asilo sanno che la scienza ha fatto grandi passi dai giorni del vecchio Mazer Rackham e della Flotta Vittoriosa. È ovvio che adesso possiamo controllare la gravità. Accenderla e spegnerla, cambiarne la direzione, forse rifletterla. … ho pensato a un sacco di cose veramente forti che potresti fare, con armi antigravità e con motori gravitazionali sulle astronavi. E pensa a come potrebbero manovrare in vicinanza dei pianeti. Magari usando la gravità planetaria stessa per accelerare, oppure come energia per le apparecchiature. Ma loro non dicono niente.

Le riflessioni di Ender andavano più in là. Manipolare la gravità era una cosa basilare, ufficiali che tenevano segreti dei dati scientifici era una cosa grave, ma il messaggio che Petra gli stava inviando era questo: i nostri nemici sono gli adulti, non le altre orde. Loro non ci dicono la verità.

— Avanti, pivello, la sala di battaglia è calda. La mano di Petra è salda. Davanti a noi il nemico si sfalda. — Ridacchiò. — Petra la poetessa, ecco come mi chiamano.

— Dicono anche che sei matta come un cavallo.

— E tu galoppa dietro di me, puledro — esclamò lei, entrando nel vastissimo locale.

Ender la seguì. La ragazzina aveva un contenitore con dieci palle-bersaglio. Quando le tirò, ciascuna in una diversa direzione, lui si aggrappò alla ringhiera con una mano e la tenne ferma con l’altra, per impedirle di fluttuare via. In assenza di gravità le palle cominciarono a rimbalzare velocemente da tutte le parti.

— Lasciami — disse lei. Si diede una spinta, deliberatamente casuale; agitando un braccio si mise in assetto stabile, poi estrasse la pistola e la puntò su un bersaglio dopo l’altro. Quando colpiva una palla il suo colore da bianco diventava rosso. Ender sapeva che entro due minuti esatti i bersagli centrati sarebbero tornati al colore originale. Soltanto una delle palle era ridiventata bianca allorché Petra riuscì a colpire l’ultima.

La ragazzina eseguì un rimbalzo calcolato contro una parete e si spinse velocissima verso Ender. Lui ammortizzò il suo impatto e le impedì di rimbalzare ancora, una delle prime tecniche che aveva imparato col suo gruppo.

— Sei brava — le disse.

— Nessuno è migliore di me. E tu stai per apprendere alcuni piccoli segreti del mestiere.

Come inizio Petra gli insegnò che il braccio armato andava tenuto dritto, per mirare con tutta la sua lunghezza. — Una cosa che molti soldati non capiscono mai è che più il bersaglio è lontano, più a lungo devono tenervi puntato contro il raggio, perché pur ristretto esso si allarga a cono. La differenza in più è di pochi decimi di secondo, ma in una battaglia questo è un tempo lungo. Molti soldati credono di aver sbagliato mira dopo aver colpito il bersaglio, invece hanno solo distolto il raggio troppo presto. Così non puoi usare la tua pistola come una spada swish-swish-spaccali-in-due. Devi mirare colpo per colpo.

Premendo un pulsante richiamò le palle presso la porta, poi le rilanciò lentamente, una alla volta. Ender puntò e sparò. Le sbagliò tutte.

— Benone — disse lei. — Vedo che non hai automatismi sbagliati.

— Non ho neppure quelli buoni — borbottò lui.

— Quelli te li darò io.

Quella prima mattina non realizzarono molto. Per lo più parlarono: come puoi continuare a pensare mentre prendi la mira. La necessità di visualizzare il movimento dell’avversario e il tuo raffrontandoli incessantemente. Devi sempre tenere il braccio teso in avanti, imparando a mirare girando tutto il corpo, così se ti congelano riuscirai ancora a sparare. Calcola dove il grilletto scatta e tienilo sul filo di quel punto, così non sarai costretto a tirarlo del tutto se ti trovi davanti un nemico all’improvviso. Rilassati, impara a respirare, la tensione fisica causa errori di mira.

Fu il solo addestramento che Ender ebbe per quel giorno. Nel pomeriggio, durante le esercitazioni dell’orda, gli fu ordinato di portarsi dietro il banco e di fare i compiti di scuola seduto in un angolo della sala. Bonzo voleva l’orda al completo in sala di battaglia, ma non era tenuto a usare tutti i soldati.

Ender tuttavia lasciò perdere i compiti. Se non gli veniva dato l’addestramento militare, poteva approfittarne per studiare almeno le tattiche di Bonzo. L’orda delle Salamandre era divisa, come di regola, in quattro branchi di dieci soldati ciascuno. Alcuni comandanti li organizzavano in modo che il branco A fosse quello coi migliori combattenti, mentre nel branco D c’erano i peggiori. Bonzo li aveva mescolati, cosicché ognuno era composto di soldati abili e soldati scadenti.

Con la sola differenza che adesso il branco B aveva soltanto nove ragazzi. Ender si chiese chi mai fosse stato trasferito per lasciare il posto a lui. Presto gli fu chiaro che il capo del branco B era nuovo a quel compito. Nessuna meraviglia che Bonzo fosse così seccato: aveva perso un capobranco per vedersi arrivare Ender.

E Bonzo aveva ragione su un’altra cosa: Ender non era pronto. Tutto il tempo degli allenamenti era dedicato a lavorare sulle manovre. Branchi che non potevano vedersi l’un l’altro mettevano in atto operazioni coordinate con precisione cronometrica, o si regolavano sulla posizione altrui per effettuare imprevisti mutamenti direzionali senza scomporre la formazione. Da tutti questi soldati ci si aspettavano come scontate delle capacità che Ender non aveva. L’istinto di un atterraggio morbido e senza rimbalzi, la precisione di volo, la capacità di sfruttare come ripari i soldati congelati che fluttuavano a caso attraverso il locale. Roteare, spingersi via, schivare. Scivolare lungo le pareti, manovra questa difficile quanto preziosa, che consentiva il continuo contatto con una superficie utile.

E mentre si rendeva conto di quante fossero le cose che non sapeva, Ender ne vide altre che avrebbe potuto perfezionare. La manovra in formazioni prestabilite era un errore. Permetteva ai soldati di ricevere ed eseguire immediatamente gli ordini a voce, ma li rendeva anche molto più prevedibili. Inoltre ai singoli elementi era concessa poca iniziativa. Una volta che uno schema era ritenuto valido, c’era l’obbligo di seguirlo dall’inizio alla fine. Questo non lasciava spazio alle improvvisazioni, necessarie allorché il nemico si rivelava più capace del previsto. Ender analizzava le manovre di Bonzo come l’avrebbe fatto un comandante avversario, prendendo nota dei loro punti deboli.

Durante la partita libera di quella sera Ender chiese a Petra di giocare con lui.

— No — disse alla ragazzina. — Io voglio diventare comandante un giorno o l’altro, perciò ho intenzione di cimentarmi solo in sala giochi.

Era convinzione comune che gli insegnanti spiassero elettronicamente le partite, e scegliessero lì i potenziali comandanti. Ender ne dubitava. I giocatori si esibivano su una macchina, i capibranco potevano mostrare sul campo le loro capacità di comando.

Ma non volle discutere con Petra. La sua offerta di fargli fare un po’ di pratica era generosa. Tuttavia, quel breve allenamento dopo colazione non gli bastava. E non poteva esercitarsi da solo, salvo che in certe attività di base. Molte delle sue attività più complesse richiedevano un compagno o una squadra. Se soltanto avesse avuto Alai o Shen…

Be’, cosa gli impediva di allenarsi con loro? Non aveva mai sentito di un membro di un’orda che andasse a far pratica coi novellini, però non c’erano regole che lo vietassero. Semplicemente, visto il generale disprezzo per i pivelli, nessuno s’era mai abbassato a tanto. Ender si disse che comunque l’orda avrebbe continuato a trattarlo come un pivello. A lui interessava avere qualcuno con cui esercitarsi, uno al quale avrebbe potuto dare in cambio ciò che apprendeva osservando l’orda.

— Ehi, il grande soldato è di ritorno! — fu il saluto con cui lo accolse Bernard, quando lo vide comparire sulla soglia della sua vecchia camerata. Mancava da appena ventiquattr’ore ma già gli sembrava che il posto avesse qualcosa di estraneo, e così anche i ragazzini con cui aveva vissuto fianco a fianco. Per un attimo fu tentato di voltarsi e di andarsene. Ma poi vide il volto di Alai, con cui aveva stretto un sacro patto di amicizia. Alai non era un estraneo.

Ender non si curò affatto di nascondere il modo in cui era trattato nell’orda delle Salamandre. — E non hanno torto — disse poi. — Io servo loro come uno sternuto in una tuta spaziale. — Alai rise, e altri del gruppo si fecero loro attorno. Ender propose il suo affare: partite libere ogni giorno, lavorando sodo in sala di battaglia sotto la sua direzione. Loro avrebbero appreso comportamenti e tecniche usate dalle orde in battaglia, lui si sarebbe impratichito nelle capacità militari che gli servivano. — Potremo migliorare insieme. D’accordo?

I ragazzi che accettarono subito furono parecchi. — A patto — disse però lui, — che veniate per lavorare. Chi ha soltanto voglia di svagarsi, è escluso. Io non ho tempo da gettar via.

Non fu gettato via, infatti, il tempo di quelli che lo seguirono in sala di battaglia. Ender ebbe delle difficoltà a far visualizzare loro gli addestramenti a cui aveva assistito, nuovi per tutti. Ma al termine della prima partita libera i ragazzi avevano imparato diverse cosette. Quando se ne andarono, sfiniti, già si eccitavano nel discutere questa o quella tecnica.

— Dove sei stato? — fu la domanda con cui lo accolse Bonzo.

Davanti alla cuccetta del comandante Ender si mise sull’attenti. — A far pratica in sala di battaglia, signore.

— Sì? Mi è stato detto che avevi con te alcuni dei tuoi ex compagni.

— Non potevo esercitarmi da solo.

— I soldati dell’orda delle Salamandre non devono far comunella con i novellini. E tu sei soldato, adesso.

Ender lo fissò senza aprir bocca.

— Mi stai ascoltando, Wiggin?

— Sì, signore.

— Niente più trasgressioni con quei pidocchietti merdosi.

— Posso parlarti privatamente? — domandò Ender.

Era un genere di richiesta che i comandanti dovevano accogliere. Bonzo non nascose un’espressione irritata, ma precedette Ender nel corridoio esterno. — Apri bene gli orecchi, Wiggin. Io non ti voglio, e sto cercando di liberarmi di te. Ma provati a darmi dei problemi e io ti faccio passare attraverso questo muro.

Un buon comandante, pensò Ender, non ha bisogno di fare queste stupide minacce.

Seccato dal suo silenzio Bonzo emise un grugnito. — Allora, mi hai fatto venire qui solo per rimirarmi? Sentiamo cos’hai da dire.

— Comandante, hai fatto bene a non aggregarmi a un branco. Io non so far niente.

— Non ho bisogno delle tue opinioni su quello che faccio, Wiggin.

— Però io intendo diventare un buon soldato. Non voglio disturbare le vostre esercitazioni giornaliere, ma ho necessità di far pratica, e posso farla soltanto con quelli che accettano di esercitarsi con me. I miei ex compagni.

— Tu farai quello che dico io, piccolo bastardo!

— Certo, signore. Io eseguirò tutti gli ordini che sei autorizzato a darmi. Ma la partita libera è libera. Non possono essere imposte delle restrizioni. Nessuna. E da nessuno.

Il bel volto di Bonzo fu deformato da una smorfia di furore. Lasciarsi andare a emozioni così accese era uno sbaglio. Ender lo sapeva, ed era freddo, e sapeva come usare la sua freddezza. Bonzo prendeva fuoco, ed era la rabbia a usare lui.

— Signore, questa carriera l’ho scelta liberamente. Non voglio interferire coi vostri allenamenti e le vostre battaglie, ma ho il diritto d’imparare. Non ho chiesto io d’essere assegnato alla tua orda, e tu stai cercando di vendermi al più presto. Però nessuno mi acquisterà se non so fare niente, no? Lasciami imparare qualcosa, e questo ti aiuterà a liberarti di me in minor tempo e a scambiarmi con qualcuno che ti sarà veramente utile.

Bonzo non era così sciocco da lasciare che l’ira gli impedisse di riconoscere un’osservazione logica e sensata. Ma questo non bastò a fargliela sbollire del tutto.

— Chi indossa l’uniforme delle Salamandre non deve azzardarsi a discutere i miei ordini, bamboccio!

— Alterare le partite libere di qualcuno può costare il congelamento.

Questo probabilmente non era vero. Ma era possibile. Certo, se Ender avesse fatto un esposto agli insegnanti, l’aver interferito con le sue partite libere poteva costare a Bonzo il grado di comandante. Inoltre era ovvio che gli ufficiali dovevano aver visto qualcosa in Ender, per avergli dato quella promozione. Forse Ender aveva abbastanza influenza presso gli ufficiali da ottenere il congelamento di qualcuno. — Bastardo! — ringhiò Bonzo.

— Non è colpa mia se mi hai dato quell’ordine davanti a tutti — disse Ender. — Ma se vuoi, adesso fingo di andarmene a letto con la coda fra le gambe. E domani potrai informarmi che hai cambiato idea.

— Sei così presuntuoso da suggerire a me come mi devo comportare?

— Non voglio che gli altri ti vedano costretto a far marcia indietro. Altrimenti non potresti conservare la tua autorità.

Quella cortesia Bonzo se la legò al dito come uno sgarbo, quasi che Ender gli avesse concesso a titolo di favore di non perdere la faccia con gli altri. Lo fissò con odio, conscio che pur dandogli una scappatoia quel novellino non gli lasciava scelta. E non stette a pensare che la colpa era sua, per avergli dato un ordine irragionevole. Sapeva solo che Ender lo aveva messo alle strette, e che adesso si degnava d’essere magnanimo con lui.

— Un giorno o l’altro avrò le tue palle su un vassoio — disse Bonzo.

— Probabilmente — annuì lui. Le luci si abbassarono e un cicalino ronzò il segnale della ritirata. Ender rientrò nel dormitorio a capo chino. Irritato. Mogio mogio. Gli altri ragazzi poterono trarne le ovvie conclusioni.

Il mattino successivo, mentre Ender si metteva in fila coi compagni diretti a far colazione, Bonzo gli ordinò di fare un passo avanti e disse, a voce alta: — Ho cambiato idea, ragazzo. Forse far pratica con i tuoi vecchi compagni ti insegnerà qualcosa, e potremo imbrogliare l’orda a cui ti venderemo dicendo che almeno due soldi li vali. D’accordo?

— Sissignore. Grazie, signore — disse lui.

— E spero — sussurrò Bonzo, — di vederti finire congelato.

Ender gli rivolse un sorriso di gratitudine e uscì con gli altri. Dopo colazione fece ancora pratica con Petra. Per tutto il pomeriggio assisté alle esercitazioni di Bonzo e ipotizzò metodi per distruggere la sua orda. Durante la partita libera lavorò con Alai e gli altri finché furono esausti. Posso farcela, si costrinse a pensare quella sera lasciandosi cadere sulla cuccetta. Aveva i muscoli a pezzi. Posso tenere in pugno questa cosa.

Quattro giorni dopo l’orda delle Salamandre entrò in campo contro l’orda dei Condor. Ender sfilò nei corridoi con gli altri soldati, marciando al passo verso la sala di battaglia. Sulle pareti scorrevano due striscie luminose, la verde verde marrone delle Salamandre e la bianca nera bianca dei Condor. Nel corridoio centrale le due striscie si separarono, e le Salamandre seguirono i loro colori in una diramazione. Dopo un’ultima svolta a destra l’orda si fermò davanti a una parete nuda.

I branchi serrarono i ranghi in silenzio, mentre Ender restava in coda alla formazione. Bonzo mitragliava già i primi ordini: — A, predere per il corrimano e andare su, B a sinistra, C a destra, D in basso. — Controllò che gli uomini fossero pronti, poi si volse. — Tu, pivello, aspetta quattro minuti poi entra e fermati a lato della porta. Non muoverti e non estrarre la pistola.

Ender annuì. Ad un tratto la parete davanti a Bonzo diventò trasparente. Non era un muro dunque, ma un campo di forza. Anche la sala di battaglia che vide era diversa. Nell’aria erano sospesi cassoni poligonali di colore marroncino, che ostruivano in parte la visuale. Dunque quelli erano gli ostacoli che i soldati chiamavano stelle. Apparentemente erano distribuiti a caso. Bonzo sembrò non preoccuparsi della loro dislocazione, così Ender pensò che i soldati sapevano già quale uso fare delle stelle.

Ma quasi subito, mentre sedeva in corridoio a osservare l’inizio delle ostilità, gli fu chiaro che non lo sapevano affatto. Non erano capaci di compiere un atterraggio morbido su una di esse e sfruttarla per coprirsi, quando dovevano attaccarla per distruggere un avamposto nemico attestato sul retro. Non avevano il senso di quello che era al momento il valore strategico di una stella: insistevano ad attaccare anche quelle che avrebbero potuto lasciarsi alle spalle per conquistare posizioni più avanzate.

L’altro comandante stava approfittando delle manchevolezze strategiche di Bonzo. L’orda dei Condor invitava le Salamandre a effettuare attacchi che costavano loro un prezzo eccessivo, e dopo aver conquistato una stella erano sempre meno gli uomini non congelati che si spingevano verso la successiva. Dopo cinque o sei minuti soltanto fu evidente che l’orda delle Salamandre non poteva vincere insistendo in quell’attacco.

Ender oltrepassò la porta. In assenza di peso si spinse leggermente verso il basso. Le sale di battaglia in cui s’era esercitato avevano l’ingresso al livello del pavimento. Negli scontri fra orde questo era invece al centro di una parete, equidistante dalle altre quattro.

In pochi istanti il suo senso dell’orientamento cambiò come gli era accaduto la prima volta nella navetta. Quello che era stato il basso diventava a piacere l’alto, oppure un lato. A zero G non c’era motivo di restare orientato secondo i punti cardinali del corridoio, e poiché la porta era quadrata gli era già impossibile dire dov’era stato l’alto. Non che questo importasse. Ender aveva stabilito su quale parametro un soldato doveva regolarsi: la porta d’ingresso del nemico era giù. L’obiettivo della battaglia stava nel cadere verso le postazioni avversarie.

Con alcuni movimenti si orientò in quella nuova direzione. Invece di essere steso all’infuori con l’intero corpo esposto ai Condor, adesso presentava loro solo le suole delle scarpe. Era un bersaglio molto più ristretto.

Qualcuno lo vide. E non c’era da aspettarsi altro, dato che fluttuava indifeso all’aperto. D’istinto ripiegò le gambe sotto di sé. Nello stesso istante su di lui balenò un circoletto di luce, e le gambe della sua tuta si congelarono in quella posizione. Le braccia invece restarono libere, poiché se il colpo non giungeva in pieno corpo a subirne l’effetto erano solo gli arti che lo incassavano. Ender rifletté che se non si fosse messo per il lungo il Condor l’avrebbe colpito al corpo. E lui sarebbe rimasto del tutto immobilizzato.

Visto che Bonzo gli aveva ordinato di non estrarre la pistola Ender continuò a fluttuare senza muovere la testa né le braccia, come se avessero congelato anche lui. Il nemico lo ignorò, e concentrò il fuoco sui soldati che stavano sparando. La conclusione si prospettava amara. Ormai inferiore di numero l’orda delle Salamandre, pur tenace, stava cedendo terreno. La battaglia si frammentò in una dozzina di scontri isolati. Ma la disciplina imposta da Bonzo dava adesso i suoi frutti, perché ogni Salamandra colpita si portava dietro almeno un avversario. Nessuno fuggiva o si lasciava prendere dal panico: tutti conservavano la calma e sparavano finché non venivano sopraffatti.

La più micidiale fra i superstiti era Petra. I Condor erano stati costretti ad accorgersene, e un intero branco manovrava per toglierla di mezzo. Infine riuscirono a congelarle il braccio con cui sparava, e il torrente d’imprecazioni della ragazzina s’interruppe soltanto quando una gragnuola di colpi la immobilizzò completamente e la visiera del suo casco s’abbassò fino al mento. L’orda delle Salamandre non oppose più una valida resistenza, e pochi minuti dopo tutto era finito.

Ender notò compiaciuto che i Condor potevano appena mettere insieme cinque soldati, il numero minimo indispensabile per aprire la porta in caso di vittoria. Quattro di loro toccarono con l’elmetto i punti luminosi ai quattro angoli della porta delle Salamandre, ed il quinto passò oltre il campo di forza. Questo atto mise termine alla partita. Le luci tornarono alla massima luminosità, e Anderson entrò in sala dalla porta degli insegnanti.

Avrei potuto estrarre la pistola, pensò Ender mentre i Condor uscivano. Mi sarebbe bastato colpire uno di loro e sarebbero stati troppo pochi per aprire. La partita sarebbe finita in pareggio. Servono quattro uomini per consentire al quinto di oltrepassare la porta. E i Condor non avrebbero avuto la vittoria. Bonzo, razza di somaro, avrei potuto salvarti dalla disfatta. Forse perfino trasformarla in un successo, perché quei cinque erano bersagli facili e non avrebbero capito subito da dove sparavo. Sono già abbastanza bravo come tiratore.

Ma gli ordini erano ordini, e lui aveva promesso di ubbidire. La sola soddisfazione l’ebbe pensando che nei documenti di gara delle Salamandre sarebbero stati registrati non quarantuno eliminati, bensì quaranta eliminati e uno parzialmente inabilitato. Bonzo non l’avrebbe saputo finché non avesse consultato il registro di Anderson e visto di chi si trattava. Inabilitato, Bonzo, capisci? Io potevo ancora sparare.

S’era quasi atteso che Bonzo venisse a cercarlo e dicesse: — La prossima volta che capita una cosa simile, sei autorizzato a sparare. — Ma lui non gli rivolse la parola fino al mattino successivo dopo colazione. Naturalmente Bonzo mangiava nella mensa dei comandanti, ma Ender era abbastanza certo che lo strano risultato della partita avrebbe causato là tante chiacchiere quante ne stava destando nella mensa comune. In ogni partita che non fosse terminata in pareggio tutti i soldati dell’orda perdente risultavano eliminati oppure completamente disabilitati, cioè non del tutto congelati ma privi della possibilità di sparare o infliggere danni al nemico. Le Salamandre erano l’unica orda che fosse riuscita a perdere con un uomo ancora nella categoria di quelli in grado di usare l’arma.

Ender s’era riproposto di tener la bocca chiusa, ma accanto a lui vennero a sedersi delle Salamandre che con aria grave pretesero una spiegazione. E quando i ragazzi gli chiesero perché non avesse ignorato gli ordini e sparato, lui rispose con calma: — Io ubbidisco agli ordini.

Dopo colazione Bonzo lo fece chiamare. — Le istruzioni che hai restano tali e quali — disse. — E bada a non sgarrare.

Questo continuerà a costarti caro, idiota. Forse non sarò un buon soldato, ma posso sempre essere d’aiuto e non c’è ragione che tu me lo proibisca.

Ender non diede voce ai suoi pensieri.

Un interessante effetto collaterale della battaglia fu che il nome di Ender emerse in cima alla lista dei quozienti d’efficienza individuale. Dal momento che non aveva sparato un sol colpo, il computer gli conferiva un record perfetto: errori zero. E visto che non era mai stato eliminato né disabilitato, il quoziente d’efficienza risultava ottimo. Il secondo della lista era abbondantemente distanziato. Questo fece ridere molti dei ragazzi, mentre altri imprecarono contro l’imbecillità dei cervelli elettronici, ma restava il fatto che quei risultati conducevano a un premio, e che Ender era il primo in graduatoria.

Continuò ad assistere inattivo agli allenamenti dell’orda, e continuò a lavorare sodo per conto suo, con Petra al mattino e col gruppo di Alai alla sera. Altri dei novellini adesso si stavano unendo a loro, non per passatempo ma perché potevano vederne i risultati: imparavano a battersi, e questo era soddisfacente. Ender e Alai però erano sempre un passo più avanti degli altri. In parte perché Alai non la smetteva di ideare nuove varianti, cosa che forzava Ender a studiare nuove contromosse per rintuzzarle. In parte perché seguitavano a fare errori stupidi, per rimediare ai quali si adattavano ad azioni che nessun soldato ben addestrato e conscio della propria dignità avrebbe mai fatto. Molte delle tecniche che escogitarono si rivelarono inutilizzabili. Ma era pur sempre divertente, sempre eccitante, e le cose che funzionavano erano abbastanza da convincerli che non stavano perdendo tempo. La sera era il momento migliore delle loro giornate.

Le due battaglie successive furono vinte con facilità dalle Salamandre. Ender entrò in sala allo scadere dei quattro minuti e rimase intoccato dagli avversari sconfitti. Questo lo convinse che l’orda dei Condor, da cui erano stati battuti, era decisamente pregevole. Le Salamandre, per quanto le tattiche di Bonzo fossero stucchevoli, erano fra le orde migliori e consolidando la loro posizione in classifica stavano contendendo il terzo posto all’orda dei Topi.

Ender compì sette anni. Il calendario terrestre, con le sue date e festività, veniva ignorato alla Scuola di Guerra, ma lui aveva scoperto il modo di richiamare la data sullo schermo del banco e poté prender nota del suo compleanno. Anche il magazzino della Scuola aveva notato la data; gli presero le misure e gli consegnarono nuove tute da fatica, oltre a quella speciale da portarsi in sala di battaglia, con i colori sgargianti delle Salamandre. Tornò in camerata con la pila di indumenti sulle braccia. Nel provarli li aveva sentiti strani e larghi, come se la sua pelle stentasse ad adattarsi ad essi.

Gli sarebbe piaciuto fermarsi alla cuccetta di Petra e parlarle un poco di casa sua, di ciò che erano stati là i compleanni, oppure dirle semplicemente che quel giorno compiva gli anni in modo che lei facesse una battuta ironica sull’allegria di simili ricorrenze. Ma lì nessuno parlava dei compleanni. Era una cosa infantile. Torte e candeline erano roba che non usava quasi più neppure sulla Terra. Per il suo sesto compleanno Valentine aveva fatto una torta alla crema. Ma la pasta s’era rifiutata di lievitare. Nessuno sapeva più cucinare in casa, però quello era il genere di stravaganze tipico di Valentine. Tutti avevano biasimato sia lei che il sapore della torta, ma Ender ne aveva messo via una fetta avvolta nella stagnola. Poi gli avevano tolto il monitor, era partito, e per quel che ne sapeva la fetta era ancora là nel suo armadio, un pezzetto di roba gialla dura e polverosa. Nessuno parlava di casa, non fra i soldati; la vita prima della Scuola di Guerra era un periodo chiuso. Nessuno riceveva lettere, né le scriveva. Tutti fingevano di non interessarsi più al passato.

Ma a me importa, pensò Ender quella sera. La sola ragione per cui sono qui è perché gli Scorpioni non riescano mai a spegnere per sempre gli occhi di Valentine, a farla a pezzi coi raggi a esplosione come quei marines dei filmati ripresi durante le prime battaglie. Non le colpiranno la testa con quei raggi così ardenti che il cervello ribolle nel cranio e schizza fuori giallo quanto il budino di una pasta scoppiata, come succede nei mei incubi peggiori, nelle mie notti peggiori, quando mi sveglio tremante ma zitto… zitto, perché non sentano che ho nostalgia della mia famiglia. Come vorrei essere a casa!

Il mattino dopo si sentiva meglio. La casa era soltanto una lieve fitta di dolore in un angolo della sua memoria. Una luce grigia nei suoi occhi. Mentre si vestivano Bonzo entrò a lunghi passi. — Tute da battaglia! — ordinò. Li attendeva una partita, la quarta dall’arrivo di Ender.

L’avversario era l’orda dei Leopardi. Non si prevedevano difficoltà. I Leopardi erano un’orda nuova, messa in piedi soltanto sei mesi prima dal suo comandante, Pol Slattery, e stazionava nelle ultime posizioni della classifica. Ender indossò la sua tuta di battaglia fresca di magazzino e si allineò con gli altri; Bonzo lo spinse rudemente fuori dalla fila e lo spedì in coda a tutti. Non c’era bisogno che tu facessi così, disse lui dentro di sé. Potevi lasciarmi in fila dov’ero.

Dal corridoio osservò l’inizio delle ostilità. Pol Slattery era giovane, ma in gamba e pieno di idee nuove. Teneva i suoi soldati in perpetuo movimento facendoli balzare da stella a stella, o slittare lungo le pareti per arrivare sopra o dietro le stolide Salamandre. Ender sorrise. Quella tattica gettava Bonzo in uno stato di confusione, e così anche i suoi branchi. I Leopardi sembravano avere uomini piazzati dappertutto. Tuttavia lo scontro non era così squilibrato come poteva sembrare. Ender notò che i Leopardi stavano perdendo molti uomini, troppi… la loro strategia basata sul movimento li portava di continuo allo scoperto. Ciò che faceva gioco, però, era il fatto che le Salamandre si sentivano surclassate. Avevano perso completamente l’iniziativa. Pur dimostrando maggiori capacità individuali si stringevano assieme come gli ultimi superstiti di un massacro, come se sperassero che nel carnaio il nemico si dimenticasse di loro.

Ender scivolò lentamente dentro dalla porta, si girò in modo che la posizione del nemico fosse in basso rispetto a lui, e pian piano si spinse fino all’angolo di destra dove pochi avrebbero potuto notarlo. Nel fluttuare sparò alle sue stesse gambe, per tenere le ginocchia ripiegate nella posa che gli offriva la migliore protezione. A un occhio poco attento sarebbe parso uno fra i tanti soldati congelati che galleggiavano via ai margini della battaglia.

Appena fu chiaro che le Salamandre attendevano più o meno supinamente la sconfitta, i Leopardi s’impiegarono ferocemente in cerca della vittoria. Avevano ancor nove uomini attivi quando il fuoco delle Salamandre cessò. Questi si riunirono e s’accinsero ad aprire la porta degli avversari.

Col braccio teso in avanti come Petra gli aveva insegnato, Ender prese accuratamente la mira. Prima che gli altri capissero cosa stava succedendo, aveva congelato tre dei soldati che erano sul punto di poggiare il casco sugli angoli luminosi della porta. Poi alcuni dei superstiti lo individuarono e puntarono le armi… ma i colpi giunsero a segno sulle sue gambe, già immobilizzate. Questo gli diede il tempo di centrare gli ultimi due di quelli che erano andati alla porta. Allorché Ender fu finalmente colpito al braccio e disabilitato, i Leopardi avevano soltanto quattro uomini non congelati. La partita era terminata in pareggio, e non lo avevano neppure mai colpito al corpo.

Pol Slattery era furibondo, ma nella cosa non c’era stato nulla di sleale. Tutti i Leopardi diedero per certo che lasciar fuori un uomo fino all’ultimo minuto era stata una mossa tattica di Bonzo. Nessuno poteva sospettare che Ender aveva sparato contravvenendo agli ordini. Ma le Salamandre sapevano come stavano le cose. Bonzo lo sapeva, e dal modo in cui lo guardava Ender constatò che il comandante lo odiava per avergli risparmiato la disfatta. Non me ne importa, si disse. Questo gli renderà più facile vendermi, e intanto i ragazzi non scenderanno troppo in classifica. Ma tu vendimi. Ho già imparato tutto quel che potevo da te: come perdere con faccia impassibile, ecco l’unica cosa che sai far bene, Bonzo.

Cos’ho imparato di buono oggi? Ender cercò di tirare i conti della giornata, mentre si spogliava accanto alla sua cuccetta. La porta del nemico è sempre giù. Usare le gambe come scudo in battaglia. Alcune riserve, tenute da parte fino al termine degli scontri, possono essere decisive. E il fatto che a volte i soldati sanno prendere decisioni più intelligenti degli ordini che hanno avuto.

Era nudo e sul punto di arrampicarsi sul letto a castello quando Bonzo arrivò nel passaggio centrale, con faccia dura e ferma. Ho già visto quell’espressione in Peter, pensò Ender. Silenzio, e l’omicidio nello sguardo. Ma Bonzo non è Peter. Bonzo sa cos’è la paura.

— Finalmente ti ho venduto, Wiggin. Sono riuscito a persuadere l’orda dei Topi che il tuo incredibile posto nella lista dell’efficienza individuale non è soltanto un puro caso. Domani te ne vai.

— Grazie, signore — disse Ender.

Forse il suo tono fu eccessivamente grato. Bonzo si volse di scatto e lo colpì con un furibondo ceffone in piena faccia, che lo mandò a barcollare stordito contro il montante delle cuccette. Poi gli sferrò un pugno secco e calcolato al plesso solare. Ender cadde in ginocchio.

— Questo perché hai disubbidito — disse Bonzo ad alta voce, perché tutti sentissero. — Un buon soldato non disubbidisce mai.

Ma anche mentre gemeva sul punto di vomitare Ender riuscì a sentire, con un acre fremito di soddisfazione, il mormorio che s’era levato nella camerata. Sei uno sciocco, Bonzo. Non hai rafforzato la disciplina, le hai dato un calcio. Loro sanno che ho trasformato io la sconfitta in un pareggio, e adesso hanno visto come mi ripaghi. Hai fatto la figura dell’idiota davanti a tutti. Quanta ne rimane della tua disciplina, ora?

Il giorno dopo disse a Petra che per il suo bene le conveniva non dargli più lezioni di tiro al mattino. Per giungere ad atti estremi Bonzo non aspettava altro che vedersi sfidato, così lei avrebbe fatto meglio a tenersi alla larga da Ender per un po’. La ragazzina capì benissimo la situazione. — Comunque — gli disse, — sei già sul punto di arrivare al massimo delle tue capacità di tiratore.

Lasciò il banco e la tuta da battaglia negli armadietti. Avrebbe tenuto addosso l’uniforme delle Salamandre finché non avesse potuto andare in magazzino a cambiarla con quella marrone e nera dei Topi. Non aveva oggetti personali; non avrebbe portato via nulla con sé. Tutto ciò che poteva affermare di possedere si trovava nel computer della Scuola, nella sua testa e nel suo cuore.

Usò una delle scrivanie pubbliche della sala giochi per registrare la richiesta di un corso personale di combattimento a gravità-Terra durante l’ora successiva alla colazione. Non intendeva vendicarsi di Bonzo. Ma non voleva che qualcuno potesse ancora colpirlo e metterlo a terra a quel modo.

CAPITOLO OTTAVO

L’ORDA E IL BRANCO

— Colonnello Graff, fin’ora le partite sono sempre state giocate con lealtà. Sia che la dislocazione delle stelle fosse casuale, sia che fosse simmetrica.

— La lealtà è una dote meravigliosa, maggiore Anderson. Non ha niente a che fare con la guerra.

— I risultati ne saranno compromessi. La classifica diventerà un dato privo di significato.

— Così sia.

— Ci vorranno mesi, anni, per attrezzare le nuove sale di battaglia e regolamentare le simulazioni belliche.

— È di questo che sono venuto a parlarle, infatti. Ricominci. Sia creativo. Pensi a ogni insolita o impossibile dislocazione delle stelle. Pensi ad altri modi in cui le regole possono essere aggirate. Aggiunga articoli, comma, eccezioni. Poi collaudi le simulazioni e veda qual è il loro grado di difficoltà. Vogliamo che qui ci sia una progressione calcolata. Vogliamo portare avanti il ragazzo.

— Quando ha intenzione di farne un comandante? A otto anni?

— No, naturalmente. Non ha ancora messo insieme la sua orda.

— Ah! Dunque mette sotto il torchio anche altri allo stesso modo?

— Lei sta dando troppa importanza alle gare, Anderson. Dimentica che si tratta di un addestramento e nient’altro.

— Dalle gare emergono lo stato sociale dell’individuo, i suoi scopi di vita, la sua identità. I bambini ne vengono fuori con una personalità formata. Se si pensasse che le gare possono essere oggetto di manipolazioni e imbrogli, la Scuola ne sarebbe scossa fin nelle fondamenta. Non sto esagerando.

— Lo so.

— Allora preghi che Ender Wiggin sia davvero il suo uomo, perché lei ha rovinato l’efficienza del suo metodo di addestramento e non potrà metterci una pezza per un bel po’ di tempo ancora.

— Se Ender non è quello che spero, e se il momento in cui giungerà al meglio delle sue possibilità militari non coinciderà con l’arrivo delle nostre flotte al mondo d’origine degli Scorpioni, allora non avrà alcuna importanza quali metodi usiamo qui alla Scuola.

— Spero che lei mi perdoni, colonnello Graff, ma sento di dover riferire i suoi ordini e la mia opinione sulle loro conseguenze allo Stratega e all’Egemone.

— Perché non anche al nostro amato Condottiero?

— Tutti sanno che lei ce l’ha nella manica.

— Quanta ostilità, maggiore Anderson! E io che credevo fossimo amici.

— Lo siamo. E penso che lei possa aver ragione su Ender. Solo non credo che lei, e soltanto lei, debba decidere il destino del mondo.

— Io non penso neppure d’avere il diritto di decidere il destino del solo Ender Wiggin.

— Così non le importa se faccio un rapporto?

— Certo che m’importa, razza d’un dannatissimo ficcanaso. Questa è una cosa che va decisa da gente che sa quel che sta facendo, non da dei cacasotto di politicanti che hanno usato i loro quattrini per farsi dare una poltrona.

— Ma lei capisce perché devo farlo.

— Certo: perché lei è un piccolo bastardo di burocrate dalla vista corta e pensa soltanto a star bene ammanigliato nel caso che le cose vadano male. Be’, se le cose andranno male tutti quanti saremo cibo per le larve degli Scorpioni. Così adesso abbia fiducia in me, Anderson, e non tiri sulle mie spalle tutta la dannata Egemonia. Quel che sto facendo è già abbastanza difficile anche senza di loro.

— Oh, che peccato! Qualcosa le rende dura la vita? Può farlo a Ender, ma non sopporta quando capita a lei, vero?

— Ender Wiggin è dieci volte più intelligente e robusto di me. Quello che gli faccio tirerà fuori la sua genialità. Se al suo posto ci fossi io, ne uscirei a pezzi. Maggiore Anderson, so che sto facendo naufragare le gare, e so che lei è più affezionato di me ad alcuni dei ragazzi che le giocano. Mi odi pure, se vuole, ma non mi fermi.

— Mi riservo il diritto di parlarne all’Egemone e allo Stratega quando vorrò. Ma per ora… faccia quello che ritiene meglio.

— Grazie per la sua così spontanea fiducia.

— Ender Wiggin… il piccolo mangiamerda che furoreggia nella grande graduatoria! Che piacere averti qui con noi! — Il comandante dell’orda dei Topi giaceva spaparanzato su una delle cuccette inferiori, vestito solo del suo banco. — Con te attorno, un’orda deve proprio mettercela tutta per perdere. — Parecchi ragazzi della camerata risero forte.

Non avrebbero potuto esserci due orde più diverse delle Salamandre e dei Topi. Il locale era un caos di disordine, sporco e rumoroso. Dopo Bonzo, Ender avrebbe creduto che un po’ d’indisciplina sarebbe stata un sollievo. Invece scoprì che s’era atteso quiete e ordine, e che quella baraonda lo metteva a disagio.

— Le cose ci vanno già a tutto vapore, Enderello bello. Io sono Rose de Nose, un geniale comandante ebreo, e tu un testavuota buono a nulla di un goy. Non scordarlo mai, e tutto ti andrà facile.

Fin da quando la F.I. era stata fondata, lo Stratega delle operazioni militari era sempre stato un ebreo. Questo per via del mito secondo cui un generale ebreo non perdeva mai una guerra. E fino a quel momento il mito non era stato smentito. Ciò conferiva prestigio a ogni ebreo della Scuola di Guerra fin dall’inizio, e gli faceva sognare di diventare Stratega. Era anche causa di rancori. Di conseguenza c’era chi chiamava i Topi «l’orda dei Giudei» o con titoli ancor meno gentili. Ma c’era anche chi ricordava volentieri che durante la Seconda Invasione il Presidente americano, un ebreo, era stato l’Egemone degli alleati, e un ebreo israeliano aveva ricoperto l’incarico di Stratega nella difesa a terra. E il Condottiero della Flotta era stato un ebreo d’origine per metà russa e per metà maori della Nuova Zelanda, Mazer Rackham, inizialmente sconosciuto e per due volte sottoposto a corte marziale, la cui leggendaria Forza d’Assalto aveva spezzato l’accerchiamento delle strapotenti astronavi nemiche per poi distruggere gli Scorpioni in una battaglia terribile presso Saturno.

E se Mazer Rackham era riuscito a salvare il mondo, allora non importava un fico se uno era ebreo o non lo era. Così diceva la gente.

Ma importava, e Rose de Nose lo sapeva. Si compiaceva di prendere in giro se stesso per prevenire i commenti sarcastici degli antisemiti (quasi tutti quelli che sconfiggeva in sala di battaglia diventavano, almeno per qualche giorno, dei mangiaebrei) ma nello stesso tempo si assicurava che tutti sapessero chi era. La sua orda occupava il secondo posto in classifica, e aspirava al primo.

— Ti ho preso con me, goy, perché non mi va di sentir dire che vinco soltanto perché ho dei bravi soldati. Tutti devono vedere che perfino con un soldo di cacio di poppante come te posso sempre vincere. Noialtri qui abbiamo solo tre regole. Fai quello che dico io, e non pisciare a letto.

Ender annuì. Sapendo che Rose voleva sentirsi chiedere quale fosse la terza regola si rassegnò a domandarlo. L’altro strinse le palpebre.

— Vuoi dire che quelle non erano tre? Be’, ragazzo, non siamo molto bravi in matematica, qui.

Il messaggio era chiaro. Vincere contava di più di ogni altra cosa.

— Le tue piccole esercitazioni con quei lattonzoli del tuo gruppo sono finite, Wiggin. Dimenticale. Sei in un’orda di ragazzi grandi, adesso. Ti faccio l’onore di arruolarti nel branco di Dink Meeker. Da ora in poi, per quello che ti riguarda, Dink Meeker è il tuo solo Dio. OK?

— Allora tu chi sei?

— Il boss a cui Dio viene a fare rapporto tutti i giorni. — Rose sogghignò. — E per cominciare ti è proibito usare ancora il banco finché non farai fuori due nemici nella stessa battaglia. L’ordine serve solo alla difesa di noi poverini. Corre voce che tu sia un seduttore di computer, e non voglio che tu metta le tue laide mani sul mio banco innocente.

Tutti scoppiarono a ridere, anche chi non poteva aver sentito, e Ender ci mise qualche momento a capirne il perché. Rose aveva programmato sullo schermo del suo banco un disegno animato, rappresentante un organo genitale maschile fornito di braccia e gambe che si toglieva l’uniforme delle Salamandre per indossare quella dei Topi. Nudo e con l’apparecchio poggiato sull’addome, lo aveva inviato ai banchi degli altri. Questo è proprio il tipo di comandante a cui Bonzo voleva vendermi, pensò Ender. Come riesce a vincere le partite un ragazzo che passa il suo tempo a questo modo?

Ender trovò Dink Meeker in sala giochi, seduto a guardare un paio di compagni. — Alla porta mi hanno detto che tu sei Meeker. Io sono Ender Wiggin.

— Lo so — annuì l’altro.

— Faccio parte del tuo branco.

— Lo so — disse ancora lui.

— Sono piuttosto inesperto.

Il ragazzo lo fissò. — Senti, Wiggin, queste cose le so già. Perché credi che io abbia chiesto a Rose di assegnarti a me?

Non era stato affibbiato a qualcuno, era stato scelto, lo avevano chiesto. Meeker lo voleva. — Perché? — domandò.

— Ho assistito a un paio dei tuoi allenamenti coi nuovi arrivati. Credo che tu abbia delle doti. Bonzo è uno stupido, e voglio che tu abbia un addestramento migliore di quello che può darti Petra. Tutto ciò che lei sa è come usare la pistola.

— Avevo bisogno di far pratica di tiro.

— Ti muovi ancora come se avessi paura d’inciampare nelle scarpe.

— Allora insegnami.

— Tu pensa a imparare.

— Non ho intenzione di smettere l’allenamento nel mio tempo libero.

— Io non ti ho chiesto di smetterla.

— Lo ha fatto Rose de Nose.

— Rose de Nose non può darti quest’ordine. D’altra parte, può impedirti di usare il tuo banco.

— Credevo che i comandanti potessero ordinare qualsiasi cosa.

— Potrebbero anche ordinare alla luna di diventare blu, ma questo non accadrebbe. Ascolta, Ender, i comandanti hanno esattamente l’autorità che tu gli permetti di avere. Più ubbidisci ciecamente, più potere avranno su di te.

— Anche quello di prendermi a pugni a loro piacimento? — chiese Ender, ricordando la punizione inflittagli da Bonzo.

— Ho sentito dire che quello è stato a causa di una tua certa iniziativa non autorizzata.

— Mi hai tenuto d’occhio sul serio, allora. È così?

Dink non rispose.

— Non voglio che anche Rose mi prenda di mira. Voglio scendere in battaglia come gli altri, adesso. Sono stanco di star seduto fuori a guardare.

— Nella classifica dell’efficienza personale andrai giù.

Stavolta fu Ender a non rispondere.

— Ascolta, Wiggin, finché sarai parte del mio branco sarai parte della battaglia.

Lui ne capì presto il motivo. Dink addestrava il suo branco indipendentemente dal resto dell’orda dei Topi, con vigore e disciplina; non si consultava mai con Rose, e solo di rado l’orda eseguiva manovre d’insieme. Era come se Rose comandasse un esercito e Dink un altro molto più piccolo che per caso si allenava in sala di battaglia nelle stesse ore.

Dink diede inizio ai primi esercizi chiedendo a Ender di dare una dimostrazione della sua tecnica d’attacco a piedi in avanti. Agli altri ragazzi non piacque. — Come si può andare all’attacco distesi sulla schiena? — domandarono.

Con sorpresa di Ender, Dink non li corresse dicendo: — Non state attaccando sdraiati sulla schiena, state cadendo giù verso di loro. — Aveva visto la posa in cui Ender agiva, ma non aveva capito il diverso orientamento che essa implicava. A Ender fu subito chiaro che per quanto Dink fosse esperto e molto in gamba, la tenacia con cui restava attaccato all’orientamento gravitazionale del corridoio anche in sala di battaglia limitava la sua mentalità.

Fecero pratica d’attacco contro una stella tenuta dal nemico. Prima di sperimentare il sistema di Ender a piedi in avanti, s’erano sempre spinti in volo in posizione «eretta», con l’intero corpo esposto ai colpi. A quel modo non ebbero difficoltà a conquistare la stella con una manovra agile ed efficiente. — In alto, adesso! — gridò Dink, e il branco balzò verso il «soffitto». A suo credito, tuttavia, volle far ripetere l’esercizio ordinando: — A piedi in avanti, forza! — Ma a causa del loro inconscio collegamento a parametri gravitazionali che non esistevano, i ragazzi eseguirono la manovra con goffaggine, come se il vuoto che avevano sotto i piedi desse loro le vertigini.

Detestavano quel modo di andare all’attacco. Dink insisté che era pratico e dovevano usarlo. E come risultato essi detestarono Ender. — C’è bisogno che venga un novellino a insegnarci a volare? — brontolò uno di loro, a voce alta perché anche Ender sentisse. — Pare di sì — rispose Dink. I ragazzi continuarono a lavorare.

E impararono. Nelle scaramucce pratiche cominciarono a capire quanto fosse più difficile colpire un avversario che arrivava a piedi in avanti. Non appena si furono convinti di questo, eseguirono le manovre molto più volentieri.

Quella era la prima sera in cui Ender usciva da un intero pomeriggio di addestramento. All’arrivo di Alai era stanco.

— Ora che sei in un’orda — osservò l’amico, — non hai bisogno di far pratica con noi.

— Da voi posso imparare cose che nessuno sa — disse Ender.

— Dink Meeker è il migliore. Ho sentito dire che sei nel suo branco.

— Perciò diamoci da fare. Vi insegnerò quello che oggi ho imparato da lui.

Guidò Alai e due dozzine di altri attraverso le stesse esercitazioni che nel pomeriggio l’avevano sfibrato. Ma aggiunse particolari nuovi agli schemi; costrinse i ragazzi a tentare manovre con una gamba congelata, o con tutte e due, e ad usare la massa di un soldato già immobilizzato come appoggio per cambiare direzione.

A un certo punto, voltandosi, notò che Dink e Petra erano insieme sulla porta della sala e stavano guardando. Più tardi, quando si girò di nuovo, i due se n’erano andati.

Così mi stanno sorvegliando, e quel che faccio è risaputo, pensò. Non sapeva se Dink fosse suo amico o meno; supponeva che Petra lo fosse, ma non era certo di niente. Avrebbero potuto essere irritati nel vederlo indossare i panni di capobranco o addirittura di comandante intento ad addestrare i suoi uomini. Oppure offesi, trovando che un soldato preferiva la compagnia dei novellini. A disagio rifletté che i suoi rapporti coi ragazzi più anziani non sarebbero mai stati facili.

— Credevo d’averti ordinato di tenere il tuo banco sotto naftalina, pupo — disse Rose de Nose, fermandosi accanto alla sua cuccetta.

Ender non alzò lo sguardo. — Sto finendo il compito di trigonometria per domani.

Rose appoggiò un ginocchio sullo schermo. — Credi di poter prendere sottogamba i miei ordini?

Ender depose il banco sul letto e si alzò. — Credo di aver bisogno della trigonometria più di quanto ho bisogno di te.

Rose era almeno venti centimetri più alto di lui, ma questo non lo preoccupava particolarmente. Non si sarebbe giunti alla violenza fisica, e anche il tal caso lui avrebbe potuto difendersi. Rose era un pigro, e non conosceva le tecniche di combattimento individuale.

— Scenderai molto in classifica, ragazzo. — Rose scosse il capo.

— Era previsto. Stavo in cima alla lista solo perché l’orda delle Salamandre mi ha usato nel modo più stupido.

— Stupido? La strategia di Bonzo gli ha fatto vincere una partita chiave.

— La strategia di Bonzo non gli farebbe vincere una partita di ravanelli in scatola. Lui mi aveva messo fuori. Estraendo la pistola dal fodero ho violato i suoi ordini.

Rose non ne era stato al corrente. La rivelazione lo irritò. — Così tutto quello che Bonzo ha detto di te era una bugia. Non sei né svelto né competente… e inoltre disubbidisci agli ordini.

— Ma ho trasformato una disfatta in un pareggio, e da solo.

— Be’, vedremo come fai a vincere una partita da solo, la prossima volta. — Rose si allontanò.

Uno dei compagni di branco guardò Ender e scosse il capo. — Solo lo sciocco sputa nel piatto dove mangia.

Ender si volse a controllare Dink, che stava disegnando sul proprio banco. Come se lo fosse aspettato Dink alzò gli occhi e gli restituì in silenzio uno sguardo fermo. Nessuna espressione, nessun cenno. Benissimo, pensò Ender. So prendermi cura di me stesso.

Due giorni dopo ci fu una battaglia. Era la prima volta che Ender si batteva come parte di un branco, e questo lo rendeva nervoso. I ragazzi di Dink si allinearono sul lato destro del corridoio, e luì cercò di imitarne l’atteggiamento sicuro e noncurante. Almeno fingi, si disse a dentri stretti.

— Wiggin! — lo chiamò Rose de Nose.

Ender sentì la tensione bloccargli d’un tratto la gola, e una goccia di sudore gli scivolò lungo una guancia. Rose la notò.

— Tremante? Sudato? Non bagnare la tua tuta nuova, pivello. — Rose gli batté un dito sul calcio della pistola, poi lo spinse verso il campo di forza che celava alla vista l’interno della sala di battaglia. — Adesso vedremo quanto sai esser bravo, Ender. Appena questa porta si apre, tu schizzi dentro e fili dritto avanti verso la porta nemica. OK?

Un suicidio. Autodistruzione immotivata e senza significato. Ma lui doveva eseguire gli ordini, quella era una battaglia e non una seduta di allenamento. Per un attimo l’ira gli fece stringere i denti, poi si costrinse alla calma. — Eccellente, signore. — Annuì. — La direzione in cui sparerò sarà quella del loro contingente principale.

Rose sorrise ampiamente. — Sparare? Non ti daranno neppure il tempo di sputare, bambino.

Il muro d’energia svanì. Ender balzò in alto, si aggrappò al corrimano superiore e con una torsione puntò i piedi in «basso», poi si spinse verso la porta nemica.

Avevano di fronte l’orda dei Millepiedi, e i soldati stavano appena cominciando a uscire dalla loro porta quando Ender era già a mezza via nella sala di battaglia. Molti di loro furono svelti a saltare al riparo delle stelle, ma lui aveva ripiegato le gambe sotto di sé e, con la pistola fissa nel varco fra le ginocchia per assicurarsi la mira, sparò un colpo dopo l’altro centrando gli avversari al momento del loro ingresso nel locale.

Gli congelarono le gambe, cosa che servì soltanto a regalargli altri preziosi secondi prima d’arrivare sotto il fuoco di quelli allargatisi ai lati. Ne colpì ancora diversi, quindi allargò le braccia in croce, puntando quello armato verso il grosso dell’orda dei Millepiedi. Fece fuoco sui loro corpi in rapido spostamento, e subito dopo una gragnuola di colpi lo congelò.

Un secondo più tardi andò a sbattere in pieno sul campo di forza della porta nemica, che lo rispedì indietro roteante come una trottola. Ormai inerme finì in mezzo a un branco di avversari attestati dietro una stella, e uno di loro lo tolse di mezzo con un calcio che lo fece roteare ancor più velocemente. Per il resto della battaglia rimbalzò qua e là, mentre la frizione dell’aria lo faceva rallentare poco a poco. Non aveva modo di sapere quanti Millepiedi fosse riuscito a metter fuori causa, ma poté stabilire che l’orda dei Topi stava comunque vincendo, come al solito.

Dopo la battaglia Rose non gli disse verbo. Ender risultava sempre primo nella classifica dell’efficienza, poiché ne aveva congelati tre, disabilitati interamente due, e parzialmente altri sette. Non vi furono più accenni al suo comportamento insubordinato, né proibizioni di usare il banco. Rose restò nella sua zona della camerata e lo lasciò in pace.

Dink cominciò a sperimentare la tattica dell’uscita istantanea dal corridoio; l’attacco di Ender mentre il nemico era ancora in fase d’ingresso era stato giudicato devastante. — Se un solo uomo può fare tanto danno, pensate cosa riuscirebbe a ottenere un branco. — Dink convinse il maggiore Anderson a far aprire una porta nel centro di una parete, nelle sedute di allenamento, al posto di quella a livello del «pavimento», per esercitarsi alle uscite di slancio in condizioni di battaglia. La voce si sparse subito. Da quel giorno in poi nessuno avrebbe concesso ai suoi uomini di uscire in campo con tutta calma. Le gare erano cambiate.

Ci furono altre battaglie. Ender vi partecipò svolgendo il suo ruolo come parte del branco. Commise degli errori. Parecchi scontri lo videro soccombere. Nella classifica scese dapprima al secondo posto, poi al quarto. Ma più imparava come porre rimedio ai suoi sbagli, più si adattava e si affiatava al branco, e riuscì a risalire al terzo posto, quindi al secondo e di nuovo al primo.

Un pomeriggio, dopo gli allenamenti, Ender si trattenne in sala di battaglia. Aveva notato che Dink Meeker arrivava invariabilmente a cena con un po’ di ritardo, e s’era detto che il capobranco si dedicava a un addestramento extra di qualche genere. Non aveva una gran fame, ed era curioso di sapere come Dink si allenava quando nessuno poteva vederlo.

Ma Dink non fece assolutamente nulla. Rimase fermo accanto alla porta, lo sguardo fisso su Ender.

Dal centro del vasto locale lui lo osservò in silenzio.

Nessuno dei due disse parola. Era chiaro che Dink aspettava l’uscita di Ender. E altrettanto chiaramente lui gli stava comunicando che non se ne sarebbe andato.

Dink allora gli volse le spalle, con gesti metodici si tolse la tuta da battaglia e poi si diede una spinta leggera, fluttuando via dal pavimento. Il suo volo lentissimo, fluido, lo portò attraverso la sala immersa nella penombra, col corpo quasi del tutto rilassato e le braccia mollemente distese quasi a cogliere il respiro delle inavvertibili correnti d’aria.

Dopo la fatica e la tensione degli esercizi, le imprecazioni, gli ordini e le manovre concitate, guardarlo galleggiare a quel modo era perfino riposante. Dink impiegò almeno dieci minuti per raggiungere la parete opposta. Infine si spinse indietro con uno scatto rapido, tornò dove aveva lasciato la tuta e la indossò.

— Andiamo — disse a Ender.

Tornati in camerata trovarono il locale vuoto, poiché tutti i ragazzi erano a mensa. I due andarono ai loro armadietti e misero tute da fatica pulite, quindi Ender ripassò accanto alla cuccetta di Dink e si fermò ad attendere che anch’egli fosse pronto.

— Perché mi hai aspettato? — domandò Dink.

— Non ho molta fame.

— Be’, ora sai perché non sono un comandante.

Ender se l’era già chiesto.

— In realtà mi hanno promosso, due volte, ma ho rifiutato.

Rifiutato? si stupirono gli occhi di Ender.

— Mi hanno tolto ogni volta la cuccetta, gli armadietti e il banco, mi hanno assegnato una cabina da comandante e mi hanno dato un’orda. Ma io sono rimasto nel mio alloggio, finché non si sono rassegnati a rimandarmi di nuovo in un’orda come subordinato.

— Perché?

— Perché non voglio che mi manovrino fino a questo punto. Non credo che tu abbia già saputo guardare in fondo a questa situazione, Ender. Ma tu sei ancora ingenuo. Tutte le altre orde, non sono loro il nemico. I nostri nemici sono gli insegnanti. Riescono a farci combattere l’uno contro l’altro, a farci odiare l’un l’altro. Tutto è gara. Vincere, vincere, vincere. E dietro questo c’è il niente. Ci ammazziamo a vicenda, diventiamo matti per battere questo o quell’avversario, e per tutto il tempo quei vecchi bastardi ci sorvegliano, ci studiano, scoprendo i nostri punti deboli, decidendo se siamo abbastanza bravi o no. Be’, abbastanza bravi per cosa? lo avevo sei anni quando mi hanno portato qui. Cosa diavolo potevo sapere? Loro decisero che io ero adatto al programma in corso, ma nessuno mi ha mai domandato se il programma era adatto a me.

— Allora perché non torni a casa?

Dink ebbe un sorriso storto. — Perché io non mi arrendo a metà gara. — Palpeggiò il tessuto della sua tuta da battaglia, distesa sulla cuccetta. — Perché amo tutto questo.

— Se è così, perché non essere un comandante?

Dink scosse il capo. — Mai. Guarda quel che ha fatto a Rose. Il ragazzo è matto. Rose de Nose. Dorme qui con noi invece che nella sua cabina. E sai perché? Perché ha paura della solitudine, Ender. Ha paura del buio.

— Rose?

— Ma loro lo hanno fatto comandante, e così deve comportarsi come se lo fosse davvero. E non sa cosa sta facendo qui. Vince le partite, e questo lo spaventa più di qualunque altra cosa, dato che non sa perché le vince, salvo che io ho qualcosa a che fare col risultato. Teme che da un momento all’altro qualcuno possa scoprire che lui non è una sorta di magico generale israeliano. Non si chiede neppure perché ci lasciano accanire tanto in queste gare. Nessuno se lo chiede.

— Questo non significa che sia matto, Dink.

— Lo so, tu sei qui da appena un anno e credi che questi ragazzi siano normali. Be’, non lo sono. Noi non lo siamo. Io frugo in biblioteca, e chiedo dei libri sul mio banco. Libri vecchi, perché non ci permettono di consultare roba recente; comunque mi è bastato per avere un’idea di ciò che è un ragazzino. E noi non siamo dei ragazzini. Quelli possono perdere qualche volta, e a nessuno importa. I ragazzini non vengono chiamati alle armi, non diventano comandanti, non spadroneggiano su più di quaranta altri della loro età. Questo supera ciò che chiunque possa sopportare senza diventare un po’ pazzo.

Ender cercò di rammentare quali altri bambini, nella sua vecchia scuola e in città, erano di quel genere. Ma il solo a cui poté paragonarli fu Stilson.

— Io avevo un fratello. Un tipo proprio normale. L’unica cosa che gli importava erano le ragazze. E il volo. Voleva volare. Gli piaceva anche giocare a pallone… qualche partitella, far rimbalzare la palla contro il muro, dribblare e correre su e giù per i corridoi della città, finché un agente della quiete non gli sequestrava il pallone. Insieme ce la spassavamo. Mi stava insegnando a dribblare, quando fui arruolato.

Ender ripensò al proprio fratello, e non si trattò di un ricordo molto consolante.

Dink fraintese l’espressione del suo volto. — Ehi… so che qui nessuno parla di casa. Ma noi proveniamo da un luogo, no? La Scuola di Guerra non ci ha partorito. Semmai ci distrugge. E tutti quanti ricordiamo le cose di casa nostra. Forse non volentieri, a volte, ma le ricordiamo e poi davanti agli altri fingiamo che… senti, Ender, perché fanno in modo che nessuno parli mai di casa? Questo non ti fa pensare che la cosa abbia un’importanza? Ci manovrano in modo che nessuno osa ammettere… ah, al diavolo anche te!

— No, aspetta — lo corresse Ender. — Stavo solo pensando a Valentine. Mia sorella.

— Scusa. Non volevo metterti di cattivo umore.

— Non fa nulla. Non ho pensato molto a lei, ultimamente, e proprio perché sto diventando… come hai detto tu.

— Già. E non piangiamo mai. Cristo, a questo non avevo mai pensato. Stiamo davvero mettendocela tutta per essere adulti. Come i nostri padri. Scommetto che tuo padre era come te, eh? Un bambino tranquillo, paziente, ma capace di…

— No, io non sono come mio padre.

— Be’ forse dico delle sciocchezze. Ma guarda Bonzo, il tuo ex comandante: si è praticato da solo un’overdose di antico onore spagnolo. Non può concedere a se stesso un attimo di debolezza. E chi riesce meglio di lui, lo sta insultando. Ma essere forte a quel modo è come tagliarsi le palle. Ecco perché ti odia: quando cercava di punirti tu non ne soffrivi. Così ti odia, e gli sembra normale desiderare di ammazzarti. È un pazzo. Tutti sono pazzi.

— E tu no?

— Sì, anch’io, ragazzino. Ma almeno, quando ho fatto un’indigestione di pazzia mi alzo in volo come un uccello nello spazio… finché la pazzia non mi esce dalla pelle e va ad appiccicarsi ai muri. Ma il giorno dopo arrivano altre battaglie, e torme di ragazzi urlanti vanno a sbattere calci sulle pareti. E la pazzia ne schizza fuori e mi ritorna addosso.

Ender sorrise.

— E anche tu sei pazzo — disse Dink. — Avanti, andiamo a mangiare.

— Magari tu potresti essere un comandante senza essere un pazzo. Magari il fatto di conoscere questa pazzia ti impedirà di cascarci dentro.

— Io non lascerò che quei bastardi mi manovrino, Ender. Sono riusciti a metterti sotto ben bene, e non hanno in programma di trattarti coi guanti. Guarda quello che ti hanno combinato fin’ora.

— Non mi hanno fatto niente, a parte darmi una promozione.

— E questa ti ha reso la vita tanto dolce, eh?

Ender rise e scosse il capo. — No, se la metti così.

— Loro pensano di averti su un vassoio. Non permetterglielo.

— Ma è per questo che sono venuto qui — disse Ender. — Per lasciare che mi trasformino in uno strumento. Per salvare il mondo.

— Non mi capacito che tu creda ancora a queste cose.

— Quali cose?

— La minaccia degli Scorpioni. Salvare il mondo. Ascolta, Ender, se gli Scorpioni volessero tornare, sarebbero già qui. Ma non ci stanno invadendo. Li abbiamo battuti, e loro se ne sono andati.

— Ma i filmati che…

— Tutta roba della Prima e della Seconda Invasione. Quando Mazer li spazzò via, i tuoi nonni non erano ancora nati. Apri gli occhi. È tutta una commedia. Non c’è nessuna guerra, e la F.I. ci tiene qui per i suoi scopi.

— Quali scopi?

— Finché la gente avrà paura degli Scorpioni, la F.I. resterà in una posizione di potere, e finché deterrà il potere certe nazioni continueranno a esser governate come in passato. Ma guarda i telegiornali, Ender: presto la gente non vedrà più il motivo di questa alleanza, e ci saranno di nuovo guerre, forse anche quella che metterà fine a tutte le guerre. La minaccia è questa, Ender, non gli Scorpioni. E in questa guerra, quando verrà, tu e io non saremo amici. Perché tu sei americano, proprio come i nostri cari insegnanti. E io non lo sono.

Andarono in sala mensa e cenarono, parlando d’altre cose. Ma Ender non poté impedirsi di continuare a riflettere su quel che Dink aveva detto. La Scuola di Guerra era un ambiente a tal punto chiuso, intorno a quei bambini così presi dalle gare, che lui dimenticava perfino l’esistenza del mondo esterno. Onore spagnolo. Guerre. Manovre politiche. Sì, la Scuola di Guerra era un posto ben piccolo al confronto.

Ma lui non poteva prendere per buone le conclusioni di Dink. Gli Scorpioni erano veri. La minaccia era reale. La F.I. controllava un sacco di cose, ma non la TV e la stampa. Non nella città in cui era nato. A casa di Dink, in Olanda, dopo tre generazioni di egemonia sovietica forse tutto era controllato. Ma suo padre aveva detto spesso che le bugie non potevano durare a lungo in America. E lui ci credeva.

Ci credeva, anche se il seme del dubbio era lì, ma del tutto inerte, e ogni tanto metteva fuori una piccola radice. Era un seme che nel crescere stava causando dei mutamenti. Lo rese più attento al significato dei discorsi altrui che alle loro parole. Lo rese più saggio.

Quella sera non c’erano molti ragazzi al solito allenamento, neppure la metà. — Dov’è Bernard? — s’informò Ender.

Alai si limitò a sogghignare. Shen alzò gli occhi al cielo e assunse un’aria di meditazione ispirata.

— Non te l’hanno detto? — intervenne un altro, un novellino di un gruppo arrivato un paio di mesi prima. — Corre voce che chi viene a imparare con te poi non combina niente di buono nell’orda di qualcun altro. Dicono che i comandanti non vogliono soldati che siano stati rovinati dai tuoi allenamenti.

Ender annuì.

— Ma io non me ne curo — continuò il ragazzino. — Voglio diventare il miglior soldato che ci sia, e allora un comandante che abbia un grammo di cervello pregherà per avermi. No?

— Sicuro. — Ender esibì un’aria convinta.

Cominciarono a lavorare di lena. Dopo circa mezz’ora, mentre stavano addestrandosi a manovrare i corpi congelati altrui per farsene scudo, numerosi comandanti vestiti di uniformi diverse entrarono in sala. Ostentando un’aria grave presero il nome a tutti.

— Ehi! — gridò Alai quando se ne andarono. — Siete sicuri di aver scritto bene il mio nome?

La sera dopo i ragazzi presenti erano ancora meno. E agli orecchi di Ender stavano giungendo voci preoccupanti: bambini del gruppo appena arrivato gettati a terra nelle docce, presi a spinte in sala giochi, sottomessi a soprusi in qualche corridoio, e le registrazioni dei compiti di scuola nei loro banchi cancellate o rovinate da ragazzi più anziani che sapevano come inserirsi nel computer.

— Stasera niente esercizi — disse Ender.

— Niente esercizi col cavolo! — si oppose Alai.

— Diamogli soddisfazione per qualche giorno. Non voglio che facciano del male a questi ragazzini.

— Se la smettiamo, anche per una sola sera, si convinceranno che le prepotenze di questo genere funzionano. Proprio come se tu fossi rimasto zitto e buono quando Bernard ti prendeva a pugni in testa.

— Inoltre — aggiunse Shen, — qualunque cosa facciano, noi non abbiamo paura. Perciò dobbiamo continuare. Abbiamo bisogno di pratica, e tu anche.

Ender ripensò a quel che aveva detto Dink. Le gare erano irrilevanti a confronto del resto del mondo. Perché qualcuno avrebbe dovuto regalare tutte le serate della sua vita a quello stupido, stupidissimo gioco?

— Pochi come siamo, non concluderemmo molto in ogni modo — disse Ender avviandosi all’uscita.

Alai lo prese per un gomito. — Ti hanno messo paura? Ti hanno pestato nelle doccie? Ti hanno ficcato la testa nel gabinetto? I ragazzi della tua orda ti sparano alla schiena quando nessuno li vede?

— No — disse Ender.

— Sei ancora mio amico? — chiese Alai sottovoce.

— Sì.

— Allora restiamo uniti, Ender. Io starò qui e mi allenerò con te.

I ragazzi più anziani tornarono a curiosare, ma pochi di loro erano comandanti di un’orda. Nel gruppo che venne dentro Ender vide alcune uniformi delle Salamandre, e anche un paio di Topi. Stavolta non presero nomi. Ridacchiarono, si diedero di gomito l’un l’altro e cominciarono a far battute pesanti ad alta voce, deridendo gli sforzi dei ragazzini più giovani che compivano esercizi coi loro muscoli non allenati. Non pochi di essi ne furono umiliati; qualcuno accennò a smettere.

— Ascoltate bene quello che dicono — intervenne Ender. — Annotatevi le loro parole. Vi saranno utili per quando vorrete far uscire dai gangheri il vostro avversario. Noi invece sappiamo mantenere la calma, no?

Shen volle sviluppare quel concetto, e ad ogni comparsa dei sogghignanti spettatori preparò un gruppetto di novellini per ripetere in coro le frasi più offensive. Quando ci presero gusto e acquistarono ritmo, quel coro intercalato da ululati sarcastici divenne così sfottente che alcuni dei ragazzi più anziani si spinsero via dalla parete e vennero avanti per battersi.

Le tute da battaglia erano confezionate per combattimenti a impulsi luminosi; offrivano scarsa protezione nelle lotte corpo a corpo in gravità zero, oltre ad ostacolare molto i movimenti. Metà dei ragazzi di Ender, tuttavia, indossavano tute di quel genere e non potevano lottare a mani nude. Ma la rigidità del tessuto li rendeva potenzialmente utili. In fretta lui ordinò ai novellini di radunarsi in un angolo della sala. I ragazzi più anziani risero di quella mossa, e altri nel vedere che il gruppetto si ritirava lasciarono la parete per unirsi agli attaccanti.

Ender e Alai decisero di proiettare un soldato congelato in faccia a un avversario. Il ragazzo prescelto usò la pistola su se stesso, abbassò l’elmo sul volto, e i due lo scaraventarono avanti. L’avversario fu colpito dal casco in pieno petto, e rantolò di dolore.

Nessuno scherzava più, adesso. Il resto dei ragazzi anziani si lanciò in volo verso la zona della battaglia. Ender non aveva troppe speranze che i suoi compagni se la cavassero senza ferite, forse anche serie. Ma il nemico li aggrediva in disordine e senza alcuna coordinazione: non avevano mai lavorato insieme, mentre la piccola orda di Ender, benché composta da appena una dozzina di elementi, aveva già una serie di schemi pronti per le manovre di gruppo.

— Quattro-Tre-Nova! — gridò Ender. Gli avversari risero. I suoi ragazzi formarono tre gruppi, coi piedi uniti e tenendosi per mano, simili a piccole stelle a contatto della parete di fondo. — Aggirare gli avversari e raggiungere la porta. Pronti… adesso!

Al segnale le tre stelle esplosero, mentre ciascuno dei quattro componenti schizzava via in una direzione diversa per rimbalzare sulle pareti laterali e raggiungere la porta. I loro assalitori si trovavano al centro del locale, dove mutare direzione era assai più difficoltoso, e oltrepassarli fu una manovra facile.

Ender aveva calcolato la sua posizione in modo che la spinta lo portasse a raggiungere il ragazzo congelato che s’era lasciato usare come un missile. Ora la sua tuta s’era di nuovo ammorbidita, e appena l’ebbe preso Ender sfruttò il proprio momento d’inerzia per spedirlo verso la porta. Sfortunatamente l’inevitabile risultato fu che lui venne respinto dalla parte opposta, e a velocità ridotta. Isolato dai suoi soldati stava ora fluttuando in direzione del fondo della sala, dove gli avversari s’erano riuniti. Si girò e controllò che i suoi compagni fossero giunti senza danni nei pressi dell’ingresso.

Ma intanto gli altri, furibondi e disorganizzati, s’erano accorti di lui. Ender cercò di calcolare quanti secondi aveva a disposizione per arrivare alla parete e spingersi via. Non abbastanza. E parecchi avversari già rimbalzavano verso di lui. Per un attimo fu sgomento nel vedere fra i loro volti quello di Stilson. Poi, con un brivido, capì che s’era trattato di uno scherzo della fantasia. Ma la situazione non era poi troppo diversa, con la differenza che stavolta non poteva risolverla con un duello. Quei ragazzi non avevano un capobanda, almeno per quanto ne sapeva lui, ed erano tutti più grossi e più forti.

Tuttavia qualcosa aveva imparato sui combattimenti corpo a corpo in assenza di peso, e sulla meccanica degli oggetti in movimento inerziale. Nelle partite in sala di battaglia non c’era bisogno di quelle tecniche; un soldato non si gettava in mezzo a un gruppo di avversari non congelati per colpirli a mani nude. Così, nei pochi secondi che gli restavano, cercò d’assumere la posizione migliore per accogliere gli assalitori.

Per sua fortuna essi conoscevano la lotta a zero G ancor meno di lui, e i pochi che tentarono di prenderlo a pugni scoprirono che i colpi avevano ben scarso effetto, dal momento che i loro corpi si muovevano all’indietro nell’istante stesso in cui facevano scattare avanti un braccio. Ma alcuni stavano arrivando a gambe tese, chiaramente intenzionati a spaccargli una costola con una pedata, e Ender si disse che doveva togliersi via al più presto dal loro punto d’impatto.

Afferrò per un polso un ragazzo che gli aveva appena mollato una sventola e lo tirò con forza verso di sé. Lo strattone servì a farlo roteare fuori portata dagli avversari in avvicinamento, ma lo allontanò ancor di più dalla porta. — State dove siete! — gridò ai compagni, che si preparavano ad accorrere in sua difesa. — Non muovetevi da lì!

Qualcuno lo afferrò per un piede. La stretta gli servì da leva, e riuscì a piazzare sull’orecchio destro del ragazzo un pedatone che gli strappò un grido. Se l’avversario l’avesse lasciato andare per tempo il colpo gli avrebbe causato assai meno danni. Invece volle essere testardo: il calcio gli lacerò l’orecchio facendone sprizzare gocce di sangue, e soltanto il dolore lo costrinse infine a mollare la presa.

Lo sto facendo di nuovo, pensò Ender. Faccio del male agli altri, soltanto per salvare me stesso. Perché non mi lasciano in pace? Perché devono costringermi a questo?

Altri tre ragazzi stavano convergendo su di lui, e stavolta agivano di concerto. La loro intezione era di ancorarsi a lui e di colpirlo tenendolo fermo. Ruotò su se stesso in modo da consegnare i suoi piedi a due di loro, e avere le mani libere per affrontare il terzo.

Come aveva previsto, i due avversari gli agguantarono subito le gambe. Ender prese l’altro per le spalle della tuta, lo trasse a sé e lo colpì con una testata in piena faccia. Ancora un gemito, ancora gocce di sangue che fluttuavano attorno. Gli altri due lo stavano percuotendo sui fianchi e cercavano di girarlo. Ender sbatté loro addosso il ragazzo che perdeva sangue dal naso, scalciò più volte e le sue gambe furono libere. Poi fu solo questione di usare lo stesso avversario come punto di appoggio, e spingendolo via si proiettò in direzione della porta. La manovra non fu pulita e veloce come quelle eseguite in allenamento, e lo fece roteare in modo antiestetico, ma poco importava. Nessuno lo stava inseguendo.

Alla porta si trovò in mezzo ai compagni. Dieci mani lo presero e lo dirottarono nel corridoio. I ragazzi ridevano sollevati e gli davano grandi manate sulle spalle. — Dannato bastardo! — lo complimentarono. — Razza di volpone! In gamba! Sei andato forte, amico!

— Be’, basta con l’addestramento, per oggi — disse Ender.

— Domani quelli torneranno — pronosticò Shen.

— Non otterranno quel che sperano — disse Ender. — Se verranno senza tute, finirà come oggi. Se avranno le tute da battaglia, li batteremo sulla velocità.

— Però — disse Alai, — scommetto che gli insegnanti non lo permetteranno.

Ender tornò a ripensare alle parole di Dink, e si disse che forse Alai aveva visto giusto.

— Ehi, Ender! — gli gridò dietro uno dei ragazzi anziani, mentre lui se ne andava. — Tu non sei nessuno, pivello. Sei zero!

— È il mio ex comandante, Bonzo — sospirò Ender. — Sembra che io non gli sia simpatico.

Quella sera Ender chiese sullo schermo del suo banco il rapporto dell’infermeria. Quattro ragazzi s’erano presentati per ricevere cure. Uno con una costola incrinata, uno con un testicolo dolorante, uno con l’orecchio destro lacerato, e uno col naso rotto e un incisivo spezzato. La causa riferita al medico era la stessa nei quattro casi:

COLLISIONE ACCIDENTALE IN GRAVITÀ ZERO

Se gli insegnanti avallavano quel palese falso nelle registrazioni ufficiali, era ovvio che non intendevano prendere provvedimenti contro chi aveva partecipato alla zuffa in sala di battaglia. Possibile che non facciano niente? Non gli importa quel che succede in questa scuola?

Visto che era tornato in camerata prima del solito, chiamò la partita libera sul suo banco. Da un po’ di tempo non la giocava più, e forse per quel motivo la sua figura non cominciò nel posto in cui l’aveva lasciata. La vide prender forma presso il corpo del Gigante. Soltanto che adesso era a stento identificabile come un corpo, a meno che uno non indugiasse a esaminarlo. La massa mummificata s’era trasformata in una collinetta su cui crescevano erbacce e rampicanti. Il cranio era invece ancora riconoscibile per i tratti di osso nudo e bianco, simile a roccia gessosa levigata dalla pioggia.

Ender proseguì, aspettandosi di dover eliminare i bambini licantropi, ma giunto al parco giochi ebbe la sorpresa di trovarlo vuoto. Forse una volta uccisi restavano morti per sempre. Questo lo rese un po’ triste.

Attraversò la foresta, scese nel pozzo, uscì dalla caverna piena di gemme e si trovò sul cornicione che sovrastava il meraviglioso panorama campestre. Di nuovo si gettò nel vuoto, la nuvoletta lo prese al volo e lo trasportò nella stanza in cima alla torre del castello.

Il serpente cominciò a sciogliere le sue spire dinnanzi al focolare, ma stavolta Ender non esitò: balzò sulla testa del rettile e la schiacciò sotto i piedi. La bestiaccia si contorse furiosamente, costringendolo a calpestarla a lungo, ma finalmente giacque immobile. Ender sollevò il serpente e lo scosse per controllare che non potesse tornare in vita. Poi, trascinandoselo dietro, cominciò a cercare se c’era una via d’uscita.

Trovò invece uno specchio. E in esso vide comparire una faccia che riconobbe all’istante. Era Peter. Sul suo mento ruscellavano gocce di sangue, e da un angolo della bocca gli sporgeva la coda di un serpente.

Con un grido di spavento Ender respinse il banco. I pochi ragazzi che c’erano in camerata si volsero di scatto, allarmati, e lui dovette scusarsi spiegando che non era successo nulla. Ma quando trasse di nuovo il banco a sé gli tremavano le mani. La sua figura era sempre nella stanza, davanti allo specchio. La fece voltare e cercò di usare un mobile per rompere il cristallo, ma non riuscì a spostarlo. Inutile fu anche il tentativo di staccare lo specchio dal muro. Alla fine Ender vi scaraventò contro il serpente. Lo specchio andò in frantumi e dietro di esso comparve un foro sbrecciato nei mattoni. Dall’apertura guizzarono fuori dozzine di serpentelli che si gettarono sulla figura di Ender, mordendola dappertutto. Strappandosi i rettili di dosso con movimenti frenetici la figura barcollò, cadde morta e fu ricoperta da un viluppo di forme verdi che la nascosero.

Lo schermo diventò nero, e apparve una scritta:

GIOCHI ANCORA?

Ender spense il banco e lo mise nell’armadietto.

Il giorno dopo parecchi comandanti vennero a stringere la mano a Ender, o mandarono uno dei loro soldati a dirgli che erano solidali con lui. Alcuni dichiararono che i suoi allenamenti extra una buona idea e che dovevano continuare. Per esser sicuri che nessuno avrebbe tentato soprusi si dissero disposti ad affidargli quei loro soldati che avevano bisogno di migliorare. — E i miei sono grossi come quegli Scorpioni che vi hanno attaccato l’altra sera — disse uno di loro. — Adesso dovranno pensarci due volte.

Quella sera invece di dodici ragazzi ce n’erano quarantacinque, più dei componenti di un’orda. E sia che fosse per la presenza di quelli che avevano affiancato Ender, sia che la sera prima ne avessero avuto abbastanza, nessuno dei loro provocatori si fece vivo.

Ender non chiamò più sul suo banco la partita libera. Ma essa continuava a svolgersi nei suoi sogni, mista al ricordo di come aveva ucciso il Gigante, alla ferocia con cui aveva schiacciato il serpente e affogato i licantropi, ai calci che aveva dato a Stilson, all’indifferenza con cui aveva rotto un braccio a Bernard. E terminava col volto di Peter che lo fissava orribilmente dallo specchio. Questo gioco sa troppe cose di me. Questo gioco dice delle sporche bugie. Io non sono Peter. Io non ho l’istinto omicida nel mio cuore.

Ma restava la paura più raggelante, il sospetto di essere un killer, e perfino migliore dello stesso Peter. Il pensiero che proprio quella sua dote compiacesse maggiormente gli insegnanti. È di killer che hanno bisogno contro gli Scorpioni. Gente che può prendere il nemico a calci nei denti e far schizzare il suo sangue per tutto lo spazio.

Be’, io sono il vostro uomo. Sono io il bastardo sanguinario che volevate quando avete autorizzato la mia nascita. Io sono il vostro strumento, e che differenza fa se odio la parte di me della quale avete più bisogno? Che differenza fa se quando i serpentelli della partita mi hanno ucciso io ero d’accordo con loro, e ne ero contento?

CAPITOLO NONO

LOCKE E DEMOSTENE

— Non l’ho chiamata qui per parlare del tempo. Come diavolo è possibile che un computer faccia questo?

— Non saprei.

— Come può aver ottenuto una foto del fratello di Ender, per poi inserirla nella grafica di questa Terra delle Meraviglie?

— Colonnello Graff, io non c’ero quando è stato programmato. Tutto ciò che so è che non aveva mai portato nessuno tanto avanti in quella partita. La Terra delle Meraviglie è già abbastanza strana, ma lui l’ha attraversata ed è andato oltre. In un posto al di là della Fine del Mondo. E…

— Conosco il nome di quei posti. Solo non so che significato abbiano.

— La Terra delle Meraviglie è stata programmata qui. Viene menzionata in varie registrazioni. Ma quel che c’è oltre la Fine del Mondo non risulta da nessuna parte. E non abbiamo alcuna esperienza di questo.

— Non mi piace che il computer giochi così con la mente di Ender. Peter Wiggin è l’individuo col maggior potenziale della sua generazione, a parte forse la loro sorella Valentine.

— E la partita mentale è stata programmata per aiutarli a formarsi, e a trovare mondi in cui si trovino a loro agio.

— Lei non ha capito, maggiore Imbu, eh? Io non voglio che Ender si trovi a suo agio con la fine del mondo. Il nostro compito qui non è di essere a nostro agio con la fine del mondo!

— La Fine del Mondo, in una partita, non è necessariamente la fine dell’umanità nella guerra contro gli Scorpioni. Ha per Ender un significato del tutto personale.

— Bene. Quale significato?

— Non lo so, signore. Io non sono quel ragazzo. Lo domandi a lui.

— Maggiore Imbu, è a lei che lo sto domandando.

— Potrebbero esserci mille significati diversi.

— Sentiamone uno.

— Lei ha isolato il ragazzo. Forse ciò che desidera è la fine di questo mondo, la Scuola di Guerra. O forse riguarda la fine del mondo in cui è cresciuto, casa sua. Oppure è qualcosa circa il suo modo di competere così duramente con gli altri. Ender è un ragazzino molto sensibile, lo sa, e ha fatto fisicamente del male a parecchi compagni. Forse desidera la fine di quel sistema di cose.

— Oppure niente di tutto questo.

— La partita mentale è un rapporto fra il ragazzo e il computer. Insieme creano delle vicende. E si tratta di vicende reali, nel senso che riflettono la realtà della vita del ragazzo. Questo è tutto ciò che so.

— Ora le dirò ciò che so io, maggiore Imbu. Quella foto di Peter Wiggin non può esser stata tolta dai nostri archivi qui alla Scuola. Non abbiamo niente su di lui, né documenti né registrazioni elettroniche. Inoltre la foto è alquanto successiva all’arrivo di Ender qui.

— È trascorso appena un anno è mezzo, signore. Cosa glielo fa credere? Un ragazzo non può essere molto cambiato.

— Adesso si taglia i capelli in modo del tutto diverso. La sua bocca è stata modificata da un intervento odontoiatrico. Mi sono fatto spedire delle foto recenti dalla Terra e le ho confrontate. L’unico modo in cui il computer che abbiamo qui, alla Scuola di Guerra, può aver avuto quella foto è tramite richiesta radio a un computer situato sulla Terra. E non uno connesso a quelli della F.I. Questo presume la conoscenza di una chiave d’accesso, e un’autorizzazione. Non è in nostro potere contattare la Contea di Guilford nel North Carolina e pescare una foto dai loro archivi scolastici. È stato qualcuno in questa Scuola a prendere l’iniziativa?

— Lei non capisce, signore. Il computer della Scuola è collegato alla rete della F.I. Se vogliamo una foto dobbiamo, in teoria, chiedere un’autorizzazione; ma se il programma della partita mentale stabilisce che la foto è necessaria…

— Può farsela mandare.

— Non è cosa di ogni giorno. Soltanto se è per il bene del ragazzo.

— OK, è per il suo bene. Ma perché? Suo fratello è pericoloso, lo abbiamo rifiutato dopo aver chiarito che ha una mentalità follemente distorta. Perché ha tanta importanza per Ender? Perché, dopo tutto questo tempo?

— Onestamente, signore, non lo so. E il programma della partita mentale non è strutturato in modo da potercelo rivelare. Esiste la possibilità che non lo sappia neppure lui. Si tratta di un terreno ancora poco esplorato.

— Sta dicendo che il programma si autocostruisce mentre va avanti?

— Possiamo metterla anche così.

— Non sa lui stesso dove sta mettendo i piedi, eh? Be’, questo mi fa sentire un po’ meglio. Pensavo d’essere io il solo.

Valentine celebrò da sola l’ottavo compleanno di Ender, nel piccolo bosco dietro la loro nuova casa di Greensboro. Liberò una striscia di terreno dagli aghi di pino e dalle foglie, e lì scrisse il nome di lui con un bastoncino. Poi costruì un cono di ramoscelli in un cerchio di sassi e accese un fuoco. Il fumo passò fra i rami e gli aghi del pino sopra di lei e spiraleggiò nel cielo. Sali su nello spazio, sempre più in alto, gli augurò in silenzio. Fino alla scuola di Ender, fra le stelle.

Non avevano ricevuto da lui una sola lettera, e per quanto ne sapevano quelle scritte da loro non lo avevano mai raggiunto. Nel periodo successivo alla sua partenza, ogni pochi giorni Mamma e Papà s’erano seduti davanti alla tastiera e avevano battuto lunghe lettere. Poi gliene avevano mandata una alla settimana, sempre in attesa di una risposta che non veniva mai, e quindi una al mese. Adesso erano trascorsi due anni e nessuno parlava più di lettere, nessuno aveva ricordato il suo compleanno. Lui è morto, si disse tristemente, perché lo abbiamo dimenticato.

Ma Valentine non lo aveva dimenticato. Senza farne parola con i genitori, e soprattutto attenta che Peter non lo intuisse, aveva continuato a pensare a lui ed a scrivergli lettere pur sapendo che non avrebbe ricevuto nessuna risposta. E quando Mamma e Papà li avevano informati che avrebbero lasciato la città sotterranea per trasferirsi nel North Carolina, Valentine aveva capito che non si aspettavano di rivedere Ender mai più. Se ne andavano dall’unico posto dove lui avrebbe saputo rintracciarli. Come avrebbe più potuto trovarli lì, fra quegli alberi, sotto quel cielo pesante e mutevole? Per tutta la vita Ender aveva vissuto nella luce artificiale dei corridoi, e adesso, chiuso nella Scuola di Guerra, aveva ancor meno contatto con la natura. In tutto quel verde si sarebbe perso.

Valentine sapeva perché s’erano trasferiti lì. Era stato per Peter, affinché il vivere fra gli alberi e i piccoli animali, in quella che Mamma e Papà pensavano fosse la sana natura primordiale, avesse un’influenza positiva su quel loro figlio così preoccupante e strano. In un certo senso l’aveva avuta. Peter era molto immerso in quell’ambiente. Lunghe passeggiate all’aria aperta, tagliando per i boschi e i campi; assenze che duravano a volte un giorno intero, con un coltello a serramanico in tasca e sulla schiena lo zaino contenente il suo banco e un paio di sandwich.

Ma Valentine sapeva. Lei aveva visto lo scoiattolo spellato vivo, legato per le zampe a quattro bastoncini conficcati nel fango. E con l’immaginazione continuava a vedere Peter catturarlo, metterlo in croce, e poi spellarlo con fredda e pensosa attenzione per portare allo scoperto l’intreccio dei muscoli rossi e pulsanti. Quanto ci aveva messo lo scoiattolo a morire? Fissando il focherello le parve di vedere Peter seduto con la schiena poggiata all’albero dove forse l’animaletto aveva fatto il nido, occupato a giocare col suo banco mentre la vita dello scoiattolo sgocciolava via.

Quella sera rientrò in casa ancor così inorridita che non poté mandar giù un boccone, e guardò Peter mangiare con grande appetito chiacchierando piacevolmente. Ma più tardi ci ripensò, giungendo alla conclusione che forse per Peter quello era stato una sorta di rito magico, come il suo piccolo fuoco: un sacrificio teso a placare gli oscuri Dei che davano la caccia alla sua anima. Meglio torturare scoiattoli che gli altri ragazzi. Peter era sempre stato un coltivatore di dolore: lo piantava, lo annaffiava, e giunto a maturazione lo divorava avidamente. Meglio che se ne nutrisse con piccoli sporchi bocconi di quel genere che con crudeltà compiute ai danni dei suoi compagni di scuola.

— Uno studente modello — dicevano i suoi insegnanti. — Vorrei averne altri cento come lui. Studia assiduamente, non termina mai un compito in ritardo. Ha desiderio d’imparare.

Ma Valentine sapeva che era una mistificazione. Peter voleva imparare, certo, ma non erano gli insegnanti a dargli un’istruzione. Lui studiava per suo conto a casa, sul banco, collegando lo schermo a biblioteche e banche di dati; seguiva programmi suoi e, soprattutto, parlava con Valentine. A scuola poi si comportava come se le puerili lezioni del giorno lo eccitassero. «Oh! Ah! Non sapevo che le rane, dentro, fossero fatte così!» era capace di dire. Ma a casa studiava la struttura intima delle cellule e le attività chimiche del DNA. Peter era un maestro della mistificazione, e i suoi insegnanti ci cascavano.

Ciò malgrado lo si poteva definire un buono. Non si batteva con nessuno, non faceva il bullo, andava d’accordo con tutti quanti. Era un nuovo Peter.

Così tutti credevano. Mamma e Papà lo dicevano così spesso che Valentine finiva per mugolare spazientita. Non è un nuovo Peter! È il vecchio Peter, solo più sottile!

Quanto sottile? Più sottile di te, Papà. Più sottile di te, Mamma. Più sottile di chiunque abbiate conosciuto.

Ma non più sottile di me.

— Sto ancora cercando di decidere — disse Peter, — se assassinarti o cos’altro.

Valentine s’appoggiò al tronco rugoso del pino e sospirò sulle ceneri sparse del suo focherello. — Anch’io ti amo tanto, Peter.

— Sarebbe talmente facile. Fai sempre questi stupidi piccoli fuochi. Un colpo alla nuca, un tizzone fra le vesti, ed ecco costruito lo sfortunato incidente. Così periscono le falene.

— E io ho pensato di castrarti nel sonno.

— No, non è vero. Tu pensi cose come queste soltanto quando sei con me. Perché io porto fuori il meglio di te. No, credo che non ti ucciderò, Valentine. Ho deciso che puoi essermi d’aiuto.

— Io, eh? — Qualche anno prima le minacce di Peter l’avrebbero terrorizzata. Ora invece non le facevano più molto effetto. Non che ne dubitasse: era capace di ucciderla davvero. Non riusciva a pensare a un solo delitto, per quanto terribile, che lui non avrebbe potuto commettere. Sapeva anche che non era pazzo, nel senso che non perdeva il controllo di se stesso. Era l’individuo più controllato che lei conoscesse. Salvo forse lei stessa. Peter sapeva rimandare l’esaudimento di un desiderio per tutto il tempo che gli era necessario; riusciva a mascherare qualsiasi emozione. Perciò Valentine era certa che non l’avrebbe mai uccisa in un accesso di rabbia. L’avrebbe fatto solo se i rischi fossero stati inferiori ai vantaggi. E non lo erano. In un certo senso si fidava di Peter più che di altri proprio per questo: sempre, e invariabilmente, le sue azioni erano calcolate in base ai suoi interessi. E così, per tutelare se stessa, le bastava accertarsi che Peter trovasse più vantaggioso lasciarla in vita.

— Valentine, i nodi stanno venendo al pettine. Ho scoperto dei movimenti di truppe in Russia.

— Di cosa stiamo parlando?

— Del mondo, Val. Hai sentito parlare della Russia? L’impero sovietico? Il Patto di Varsavia? Quelli che tengono in pugno l’Eurasia dall’Olanda al Pakistan?

— Non rendono pubblici i loro movimenti di truppe, Peter.

— Naturalmente no. Ma le ferrovie sovietiche pubblicano mensilmente il numero di passeggeri trasportati sulle varie linee. Io ho fatto analizzare al mio banco queste statistiche, per estrapolare quando treni contenenti truppe potrebbero muoversi sulle stesse linee. Già da tre anni sto dietro a questa cosa. Negli ultimi sei mesi su certe linee ci sono stati i mutamenti di orario e la diminuzione dei convogli passeggeri da me previsti. Si stanno preparando alla guerra. Sul territorio, almeno.

— E che mi dici degli Alleati? E degli Scorpioni? — Valentine non sapeva a cosa lui stesse mirando. Ma spesso Peter la attirava in discussioni di quel genere, in tono pratico e sugli eventi del mondo. La usava per mettere alla prova le proprie idee, e perfezionarle. In quel procedimento anche lei perfezionava le sue opinioni. Aveva scoperto che, mentre di rado si trovava d’accordo con Peter sul come il mondo avrebbe dovuto essere, spesso concordava con lui su ciò che il mondo effettivamente era. Erano diventati abbastanza esperti nell’estrapolare informazioni plausibili dai servizi filmati o stampati dei giornalisti, spesso ignoranti e quasi sempre superficiali. I manovali della notizia, come li chiamava Peter.

— Il Condottiero è russo, no? E lui sa cosa sta succedendo nelle alte sfere della Flotta, sia che gli Scorpioni non siano più considerati una minaccia, sia che s’avvicini una grossa battaglia. In un caso o nell’altro la guerra con gli Scorpioni sta per concludersi. E i russi si preparano per quel che accadrà dopo.

— Se spostano truppe, dev’essere sotto la direzione dello Stratega.

— È tutto interno ai confini del Patto di Varsavia.

Questo era preoccupante. La facciata della pace e della collaborazione continuava indisturbata fin dall’inizio delle ostilità con gli Scorpioni. Ciò che Peter aveva scoperto contrastava gravemente con quella situazione. E lei aveva un quadro mentale, chiaro come un ricordo, dei comportamenti delle nazioni prima che gli extraterrestri le costringessero a unirsi. — Dunque tutto sta tornando com’era un tempo.

— Con pochi cambiamenti. Lo scudo spaziale continuerà a impedire il lancio di missili e di armi atomiche, così dovremo ammazzarci l’un l’altro a migliaia invece che a milioni. — Peter sogghignò. — Ora come ora sono in attività la Flotta e le forze armate, e l’Egemonia è in mano agli Stati Uniti. Una volta finita la guerra con gli Scorpioni tutto questo potere si dissolverà, perché è tenuto insieme da una paura comune. E quando ci guarderemo intorno scopriremo tutto a un tratto che le vecchie alleanze sono svanite o moribonde. Salvo una: il Patto di Varsavia. E l’economia del dollaro resterà sola contro cinque milioni di laser. Noi avremo la Cintura degli Asteroidi, ma loro avranno la Terra, e lassù non ci vuol molto a finire le scorte di sedano e di uva passa, senza la Terra.

Quel che seccò maggiormente Valentine fu il vedere che Peter non sembrava per nulla preoccupato. — Senti, perché mi sta venendo l’idea che tutto questo potrebbe essere un’opportunità dorata per Peter Wiggin?

— Per me e per te, Val.

— Peter, tu hai dodici anni. C’è una parola per quelli della nostra età: ci chiamano bambini, e ci trattano di conseguenza… se non sgarriamo.

— Ma noi non pensiamo come gli altri bambini. Giusto, Val? Non parliamo come bambini. E soprattutto non scriviamo come bambini.

— Per una chiacchierata cominciata con minacce di morte, Peter, mi pare che siamo andati alquanto fuori argomento. — Tuttavia Valentine si accorse d’essere eccitata. Scrivere era una cosa che faceva meglio di Peter. Entrambi lo sapevano. Ne aveva perfino parlato una volta, quando aveva dichiarato che lui riusciva a capire ciò che gli altri odiavano di più in se stessi, per poi tormentarli, mentre lei intuiva quello che in loro li compiaceva di più e se ne serviva per adularli. Era un modo cinico di vedere la cosa, ma era vero. Valentine sapeva far accettare agli altri ì suoi punti di vista; riusciva a convincerli che desideravano ciò che lei voleva che desiderassero. Peter, per contro, poteva indurii a temere quel che voleva che temessero.

Quando lui glielo aveva fatto notare, lei se n’era impermalita. Le piaceva pensare d’esser brava a convincere la gente perché aveva ragione, non perché era più svelta di mente. Ma per quanto dicesse a se stessa che non avrebbe mai manovrato qualcuno nel modo esposto da Peter, la rallegrava sapere che, a suo modo, avrebbe potuto controllare gli altri. E non soltanto ciò che facevano. Lei riusciva a controllare ciò che volevano fare. Provar piacere per quella capacità le rimordeva la coscienza, ciò malgrado talvolta s’era scoperta a usarla. Far sì che gli insegnanti agissero come lei voleva, e così gli altri studenti. Far sì che Mamma e Papà vedessero una cosa dal suo punto di vista. A volte era capace di persuadere perfino Peter. Questa era la cosa più terribile di tutte: capire Peter a tal punto e avere con lui un’empatia così profonda da entrare nella sua testa a quel modo. Dentro di lei c’era più Peter di quanto sopportasse di ammettere, benché ogni tanto riuscisse a esaminarsi fino a quel livello. E mentre Peter parlava, in lei tornò quel pensiero: Tu sogni il potere, Peter. Ma a mio modo io sono più potente di te.

— Ho studiato a fondo la storia — disse Peter, — e ho imparato molto sulla meccanica del comportamento umano. Ci sono periodi in cui il mondo si torce per mutare se stesso, e in quei momenti chiave la parola giusta può cambiarne il destino. Pensa a ciò che fece Pericle ad Atene, e Demostene…

— Sì, e portarono Atene alla rovina.

— Pericle, sì, ma Demostene aveva ragione su Filippo…

— O non fece che provocarlo…

— Vedi? Questo è proprio ciò che fanno gli storici. Chiacchierano sulle cause e sugli effetti, quando il punto è: ci sono periodi in cui il destino è fluido, e la giusta voce nel giusto luogo può muovere il mondo. Thomas Paine e Ben Franklin, ad esempio. Bismark. Lenin.

— Non sono esattamente casi paralleli, Peter. — Adesso gli stava dando torto a bella posta. Vedeva dove lui stava mirando, e pensò che la cosa era possibile.

— Non mi aspettavo che tu capissi. Tu credi ancora che la scuola possa insegnarti qualcosa di valido.

Io capisco più di quel che credi, Peter. — Così, vedi te stesso come un Bismark?

— Io vedo in me stesso uno che sa come inserire idee nella mente delle masse. Non ti è mai successo di trovarti a dire una frase intelligente, un’opinione azzeccata e poi, magari un mese dopo, sentire un adulto che la ripete a un altro adulto, tutti e due a te sconosciuti? O di sentirla in un filmato o in una trasmissione TV?

— Sì, ma ho sempre pensato di averla anch’io sentita in precedenza, e di non aver fatto altro che ripeterla.

— E ti sbagliavi. Ci sono forse due o tremila persone al mondo intelligenti quanto noi, sorellina. Per la maggior parte si stanno sudando la vita da qualche parte. Insegnando, i poveri bastardi, o facendo ricerche. Pochi di loro sono attualmente in posizioni di potere.

— Quei pochi fortunati, suppongo, siamo tu e io.

— Divertente come un coniglio con le gambe rotte, Val.

— Dei quali, senza dubbio, ce se saranno molti in questo boschi.

— Quando nevica possono sempre sciare sulla pancia.

Valentine rise di quella ridicola immagine, e odiò se stessa per aver pensato che fosse comica.

— Val, noi possiamo dire le parole che ogni altro ripeterà dopo un paio di settimane. Possiamo farlo. Non siamo tenuti ad aspettare d’essere cresciuti e tranquillamente inquadrati in qualche professione.

— Peter, tu hai dodici anni.

— Non per i mezzi di comunicazione di massa. Sui sistemi computerizzati io posso usare lo pseudonimo che preferisco, e tu anche.

— Sulle reti di computer noi siamo chiaramente identificati come studenti, e non possiamo interferire con l’opinione pubblica se non sotto questa veste, il che significa che non potremmo o non ci lascerebbero dire nulla di effettivo.

— Io ho un piano.

— Tu hai sempre un piano. — Val fingeva un’ironica indifferenza, ma ascoltava con attenzione.

— Possiamo inserirci sulle reti computerizzate come adulti a pieno titolo, e con qualsiasi nome vogliamo adottare, se Papà ci lascia usare il suo codice d’accesso di cittadino.

— E perché dovrebbe farlo? Abbiamo già i nostri codici di studenti. Cosa pensi di dirgli: Papà, ho bisogno di un codice da adulto, così potrò impadronirmi del mondo?

— No, Val. Io non gli dirò niente. Tu andrai a dirgli quanto sei preoccupata per me. Quanto sudo e soffro per andare bene a scuola. E dirai d’esser certa che sto scivolando nella pazzia perché non trovo nessuno abbastanza intelligente da parlare con me, e che tutti mi zittiscono perché sono così giovane, e che non sono mai riuscito a conversare coi miei pari. Tu puoi dimostrargli che questo stress mi sta facendo uscire di cervello.

Valentine ripensò al corpicino dello scoiattolo nel bosco, e capì che perfino quella scoperta rientrava nel piano di Peter. O almeno, dopo essersi divertito lui l’aveva inclusa nel suo piano.

— Dunque devi convìncerlo a lasciarci usare il suo codice. E ad assumere nuove identità così che la gente possa darci il rispetto che meritiamo.

Valentine poteva contrastare le sue idee, ma non affermazioni di quel genere. Non se la sentiva neppure di chiedergli: cosa ti fa pensare che meriti rispetto? Aveva letto molto su Adolf Hitler. Si domandò che tipo fosse stato a dodici anni. Non così intelligente, non simile a Peter, ma certo altrettanto avido di riconoscimenti. E se da bambino fosse stato travolto da una falciatrice, quali ne sarebbero stati gli effetti sul resto del mondo?

— Val — disse Peter, — so cosa pensi di me. Io non sono una persona amabile, questo pensi.

Valentine gli tirò un grosso ago di pino. — Una freccia nel tuo cuore nero, Jago!

— Ci ho pensato a lungo prima di venire a parlarti di questo. E avevo paura.

Lei si mise un altro ago di pino fra le labbra e lo soffiò avanti. Le cadde quasi in grembo. — Ancora un colpo fallito. — Perché fingeva di mostrarle qualche debolezza?

— Val, avevo paura che tu non mi credessi. O che non volessi credere che io posso farlo.

— Peter, io credo che potresti fare di tutto. E probabilmente lo farai.

— Ma la mia paura maggiore era che tu mi credessi e cercassi di fermarmi.

— Avanti, adesso minacciami ancora di un’orrida morte, Peter. — Credeva davvero che lei si lasciasse abbindolare dal personaggio del bambino umile e contrito?

— Merito il tuo sarcasmo, va bene. Mi spiace. Ma adesso parlo sul serio, ho bisogno del tuo aiuto.

— Sei proprio ciò di cui il mondo ha bisogno: un bambino di dodici anni per risolvere tutti i nostri problemi.

— Non è colpa mia se proprio in questo momento ho dodici anni. E non è colpa mia se proprio questo è il momento in cui l’opportunità si apre. Il momento in cui io posso dar forma agli eventi. Il mondo è ancora a regime democratico, in un periodo fluido, e a un uomo basta l’intelligenza per aver successo. Tutti pensano che Hitler sia andato al potere grazie alle sue camicie brune e alla loro violenza, e questo è in parte vero, perché nella bruta realtà il potere è sempre costruito sulla capacità di minacciare qualcuno. Ma più che altro lui trasse potere dalle parole. Le parole giuste al momento giusto.

— Pensavo or ora che fra te e lui ci sono dei punti in comune.

— Io non odio gli ebrei, Val. Non voglio sterminare nessuno. E non voglio neppure la guerra. Desidero che il mondo sia unito. È un’idea tanto malvagia? Non dobbiamo tornare ai vecchi sistemi. Cos’hai letto sulle guerre mondiali?

— Abbastanza.

— Potremmo ricadere nello stesso sbaglio. O peggio. Potremmo trovarci a far parte anche noi del Patto di Varsavia. Ecco un pensiero poco divertente.

— Peter, noi siamo bambini, non lo capisci? Stiamo andando a scuola, stiamo crescendo… — Ma anche mentre gli resisteva, voleva che lui la convincesse. Lo aveva voluto fin dal principio.

Peter però non sapeva d’aver già vinto. — Se credessi in un futuro di questo genere, se lo accettassi, non dovrei che starmene seduto e lasciar svanire l’opportunità, perché quando saremo adulti sarà troppo tardi. Dammi ascolto, Val. So quel che provi e hai sempre provato per me. Ma io non ti odio. Vi amavo entrambi, solo che dovevo essere… dovevo avere il controllo. Lo capisci questo? È la cosa più importante per me, ed è la mia dote migliore: io vedo dove sono i punti deboli, vedo come arrivare ad essi e manovrarli, e sono cose che vedo senza neppure sforzarmi. Volendo potrei diventare un uomo d’affari in qualche grossa ditta e arricchirmi più di chiunque altro, ma cos’avrei ottenuto alla fine? Niente. Quello che io voglio è governare, Val, e avere il controllo reale delle cose. Ma voglio anche avere qualcosa che meriti di essere governato. E voglio portare a termine progetti veramente grossi. Una Pax Americana sull’intero pianeta. In modo che se venisse qualcun altro, dopo che avremo battuto gli Scorpioni, se altre razze aliene cercassero di attaccarci, scoprirebbero che ci siamo già sparsi su mille pianeti, forti, pacifici e impossibili da distruggersi. Capisci? Io voglio salvare la razza umana dall’autodistruzione.

Non lo aveva mai visto parlare con quella sincerità. Senza un filo di sarcarmo né ombra di menzogna nella voce. Stava imparando a vivere il ruolo che recitava. O forse a recitare nel ruolo in cui credeva. — Così, un ragazzo di dodici anni e la sua sorellina stanno per salvare il mondo?

— Alessandro quanti anni aveva? Non presumo certo di farlo nel giro di una notte. Soltanto, devo cominciare adesso. Se mi aiuti.

— Non credo che quello che hai fatto allo scoiattolo fosse parte di una commedia. Penso che tu l’abbia torturato perché ci provavi gusto.

D’un tratto Peter si coprì il volto con le mani e pianse. Val diede per scontato che fingesse, ma se ne stupì ugualmente. Era possibile che lui le volesse bene davvero? No, si disse, ma trovandosi dinnanzi a quella che vedeva come la sua grande opportunità forse desiderava umiliarsi di fronte a lei per conquistare il suo affetto. Mi sta manipolando, pensò ma questo non significa che non sia sincero. Le guance di lui erano umide quando abbassò le mani, e aveva gli occhi gonfi. — Lo so — mormorò. — È questo a spaventarmi di più: che io sia davvero un mostro. Io non voglio essere un killer, solo che non so cosa farci.

Non lo aveva mai sentito ammettere così le sue debolezze. Sei così abile, Peter! Hai messo da parte anche le lacrime per poterle usare al momento giusto su di me. E tuttavia questo non la commosse, perché dimostrava che era vero almeno in parte che lui non era un mostro, e dunque lei poteva lasciar spazio al suo stesso e non diverso amore per il potere senza la paura di diventare mostruosa anche lei. Sapeva che Peter stava agendo secondo un calcolo preciso, ma era certa che le aveva concesso di gettare uno sguardo sulla sua anima. Era nascosta sotto strati e strati di fredda pietra, e doveva essergli costato caro riportarla alla luce.

— Val, se non mi aiuti io non so cosa diventerò. Ma se tu mi starai accanto, mia compagna in tutto quel che faremo, potrai impedirmi di cadere nel baratro, quello dove finiscono i dannati.

Lei annuì. Stai solo fingendo di voler dividere il potere con me, pensò. Ma in realtà io ho potere su di te, anche se non lo sai. - Lo farò. Ti aiuterò.

Appena il loro padre li autorizzò a usare il suo codice d’accesso con gli schermi di casa, Valentine e Peter cominciarono a tastare il terreno. Si tennero alla larga dalle reti di video-giornali con cui era richiesto l’uso del nome vero, cosa non difficile poiché la firma autentica era legata solo alla necessità di ricevere un compenso. Loro non avevano bisogno di denaro. Avevano bisogno di rispetto, per guadagnarne altro ancora. Con un nome falso, e sui video-giornali che accettavano interventi esterni specie quando gratuiti, potevano essere chiunque: uomini anziani, casalinghe di mezz’età, professionisti o piccoli politicanti locali, finché stavano attenti allo stile con cui scrivevano. Trasmettere un articolo di commento politico o culturale a un quotidiano a diffusione regionale costava circa quanto ricevere lo stesso quotidiano sullo schermo del tavolo la mattina dopo. E tutto quel che la gente avrebbe visto di loro sarebbero state le loro parole, le loro idee.

Per i primi articoli, che furono ben accetti, usarono nomi diversi, con le identità che Peter aveva già programmato di rendere famose e influenti. Ovviamente nessuno li contattò per invitarli a collaborare ai grandi video-giornali nazionali e internazionali; rispetto a questi essi potevano soltanto esser parte del pubblico. Ma potendo attingere al conto del padre riuscivano a tenersi aggiornati, leggevano gli articoli firmati dai commentatori politici più famosi sul loro banco personale, collegato al computer di casa, e su di esso assistevano ai dibattiti televisivi più pregnanti.

E sui piccoli quotidiani locali, dove anche la gente comune interveniva per discutere questioni nazionali e internazionali, cominciarono a inserire regolarmente i loro articoli. Fin dall’inizio Peter insisté che fossero deliberatamente provocatori. — Non possiamo capire in che misura il nostro stile funziona, finché non otterremo delle risposte… e a opinioni blande nessuno risponde mai.

Non furono blandi, e la gente rispose. Le risposte che ebbero sulle reti di video-giornali furono acide. Quelle che furono indirizzate loro per videoposta, servizio a cui Peter e Valentine accedevano con un codice personale da abbonati, o erano entusiaste o grondavano veleno. Presto appresero quali particolari dei loro saggi risultavano bambineschi o immaturi, e cominciarono a fare di meglio.

Quando Peter fu sicuro che entrambi sapevano come fingersi adulti, misero da parte le prime identità sperimentali e si apprestarono a destare attenzione su più larga scala.

— Nessuno dovrà sospettare alcun collegamento fra noi. Scriveremo su argomenti diversi e in momenti diversi. Ognuno eviterà riferimenti all’altro. Tu lavorerai in prevalenza con le reti della costa occidentale, io nel meridione. E per fingere d’essere di casa lì, non trascureremo i video-quotidiani locali.

Quel lavoro li assorbì completamente. Mamma e Papà talvolta si preoccupavano nel vederli trascurare ogni altra cosa, sempre insieme, ma i loro volti erano buoni e sembrava chiaro che Valentine aveva un’influenza positiva sul fratello. Del resto, anche lei mostrava d’aver assunto attitudini nuove. Nei giorni di bel tempo andavano a sedersi insieme nei boschi; quando pioveva s’appartavano in un locale pubblico tranquillo o nei parchi coperti, e componevano i loro articoli politici. Peter aveva disegnato con cura le due personalità, in modo che fossero diverse sia nelle idee che nel modo di esporle; c’erano anche alcune identità spicciole che usavano per lasciar cadere qua e là opinioni di un terzo genere, o attacchi alle prime due. — Lasciamo che ciascuna di esse trovi dei seguaci, se può — disse Peter.

Un giorno, stanca di scrivere e riscrivere finché il fratello fosse soddisfatto, Val esclamò disperata: — Scrivilo tu stesso, allora!

— Non posso — rispose lui. — Mai. Rischieremmo di mescolare i due stili. Non scordare che un giorno saremo abbastanza famosi da indurre qualcuno a fare delle analisi su di noi. Dobbiamo risultare persone diverse, articolo per articolo.

E Valentine s’impegnò al meglio. Il suo nome di battaglia sui video-giornali, il principale, era ormai Demostene. L’aveva scelto Peter, e in quanto a lui si firmava Locke. Erano ovvi pseudonimi, ma anche ciò faceva parte del piano. — Con un po’ di fortuna, la gente comincerà a cercar di scoprire chi siamo.

— Se diventiamo troppo famosi, i servizi segreti non ci metteranno niente a scoprirlo. Per il solo piacere di avere un dossier su di noi.

— Quando accadrà, saremo già troppo in alto per soffrirne un danno. La gente riceverà un colpo nell’apprendere che Demostene e Locke sono due ragazzini, ma tutti quanti saranno già abituati ad ascoltarci.

Cominciarono a comporre dibattiti per le loro personalità fittizie. Valentine avrebbe studiato un articolo d’apertura, e Peter avrebbe usato un nome provvisorio per replicarle. La sua risposta avrebbe dovuto essere intelligente e rappresentare una parte dell’opinione pubblica, condita con acuto sarcasmo e una buona dose di retorica. Valentine aveva un intuito per le allitterazioni che rendeva memorabili certe sue frasi. Poi anche Locke sarebbe entrato nel dibattito, separato da un ragionevole lasso di tempo. Se altri giornalisti avessero interposto i loro commenti, Peter e Val li avrebbero ignorati, o avrebbero modificato i propri articoli per adeguarli a ciò che era stato già scritto.

Peter teneva un accurato elenco di tutte le loro frasi più originali, e di tanto in tanto vagliava la pagina politica dei video-giornali per vedere se una di esse sbucava fuori qua e là. Non tutte ebbero presa, ma molte furono ripetute anche da reti a larga diffusione, e alcune ebbero tanto successo da comparire sulla stampa internazionale, citate o parafrasate in vari modi. — Ci stanno leggendo — approvò Peter. — Le idee stanno mettendo radici.

— Le frasi celebri, comunque.

— Quelle ne sono solo il veicolo. Guarda, cominciamo ad avere una certa influenza. Nessuno ancora cita i nostri nomi, certo, ma discutono gli argomenti che abbiamo messo in campo. Alcuni sono già all’attenzione del governo. È lì che dobbiamo mirare.

— Ci muoviamo per entrare in un grosso video-giornale?

— No. Aspetteremo che ce lo propongano.

Stavano lavorando da soli sette mesi quando una rete di distribuzione della costa occidentale contattò Demostene per videoposta. Era un’offerta per una colonna settimanale su uno dei quotidiani più letti.

— Non posso fare una colonna settimanale — disse Valentine. — Non ho ancora neppure un periodo mensile.

— Le due cose non sono collegate — disse Peter.

— Per me sì. Io sono ancora una bambina.

— Rispondi che accetti, e che siccome preferisci non rivelare la tua identità desideri esser pagata addebitando loro ogni secondo che passi collegata alla videostampa, tramite un nuovo codice d’accesso avallato dai loro computer.

— Così, quando i servizi segreti mi scopriranno…

— Sarai soltanto una persona che si inserisce nelle reti di distribuzione facendo pagare alla CalNet. Il codice di cittadino di Papà non ci sarà più coinvolto. Quello che non riesco a capire è perché hanno voluto Demostene prima di Locke.

— Che abbiano fiuto per il talento?

Vista come una sfida, era divertente. Ma a Valentine non piacevano certe posizioni che Peter imponeva a Demostene. Questi infatti cominciò a sviluppare un’ostilità paranoica verso il Patto di Varsavia. A preoccuparla c’era il fatto che Peter era il solo a sapere come destare una paura strisciante nei lettori; questo la costringeva a ricorrere a lui sia per la tecnica che per le idee spicciole. Intanto Peter, firmandosi Locke, propugnava strategie moderate più adatte a lei. Era un particolare studiato a bella posta, ma il suo effetto principale fu di legarla ancor più inestricabilmente a Peter. Val non avrebbe potuto rendersi indipendente da lui e usare Demostene per i suoi scopi: non sapeva come farne uso, da sola. Ma il legame funzionava nei due sensi, perché neppure Peter poteva far parlare Locke senza di lei. O avrebbe potuto?

— Pensavo che l’idea fosse di unificare il mondo. Se scrivo questo articolo come vuoi tu, sembrerà che io invochi la guerra contro il Patto di Varsavia.

— Niente guerra, bensì apertura delle reti di comunicazione internazionale, abolizione della censura sovietica e libertà d’informazione. Ossequienza alle stesse regole cui ubbidiscono gli Alleati, per la salvezza comune.

Senza volerlo Valentine replicò nello stile che usava per i suoi articoli, pur esprimendo un’opinione diversa da quella di Demostene. — Tutti sanno che fin dall’inizio il Patto di Varsavia fu considerato come una singola entità, per quanto riguarda il rispetto di quelle regole. La circolazione delle notizie è aperta, in campo internazionale. Ma nelle nazioni del Patto di Varsavia è una questione interna. Soltanto grazie a questo accordo essi permisero la supremazia americana fra gli Alleati.

— Stai recitando la parte di Locke, Val. Ascolta me: tu devi invocare la cessazione di queste regole interne al Patto di Varsavia. Devi sollevare l’ira e il disgusto dei lettori contro di esse. Poi, in futuro, quando comincerai a riconoscere la necessità di certi compromessi…

— Non mi ascolteranno, perché li avrò già portati al punto che la guerra sembrerà l’unica soluzione.

— Val, abbi fiducia. Io so quel che sto facendo.

— Come puoi dir questo? Non sei più intelligente di me, e inoltre non hai mai avuto un’esperienza diretta in cose tanto complesse.

— Io ho tredici anni, e tu dieci…

— Quasi undici.

— E so come funzionano queste cose.

— Va bene, farò a tuo modo. Ma niente retorica tipo «o la libertà o la morte».

— Dovrai fartela piacere, invece.

— E un giorno, quando ci avranno scoperti e ti chiederanno perché tua sorella è una tale guerrafondaia invelenita, dirai che sei stato tu a impormelo. Eh? Ci scommetto proprio!

— Sei sicura di non avere le mestruazioni, signorina?

— Peter Wiggin, io ti odio.

Ma ciò che sfumò di angoscia le preoccupazioni di Valentine fu quando la sua colonna fu venduta dalla California Network ad altre reti regionali, e Papà cominciò a leggerla sullo schermo del tavolo la mattina a colazione. — Finalmente un uomo con un po’ di buon senso! — esclamò il signor Wiggin. E commentò con entusiasmo alcuni dei paragrafi che Valentine, scrivendoli, aveva detestato di più. — È stato bello lavorare con quegli imperialisti rossi finché c’erano gli Scorpioni là fuori, ma dopo che avremo vinto io non me la sento di lasciare metà del mondo civile imbavagliata e coi paraocchi. Per il nostro e per il loro stesso bene. Non è così, cara?

— Credo che tu stia prendendo la cosa troppo seriamente — rispose Mamma.

— Questo Demostene mi piace. Guarda al futuro in modo giusto. È sorprendente che non sia pubblicato dalle reti internazionali… l’ho cercato nei video a diffusione planetaria, e non l’ho ancora trovato. È un vero peccato. Per fortuna, la CalNet…

Valentine perse ogni appetito e si alzò da tavola. Dopo qualche minuto Peter la raggiunse, in soggiorno.

— E va bene, non ti piace mentire a Papà — le disse. — E con questo? Tu non stai mentendo a lui. Lui non sa che Demostene sei tu, e Demostene non sta scrivendo ciò che tu pensi in realtà. Queste due menzogne si cancellano l’un l’altra, perciò.

— Questo è proprio il tipo di ragionamento che fa di Locke un vero asino. — Ma ciò che la angosciava non era il fatto di mentirgli quanto il vedere che Papà era d’accordo con Demostene. Fin’allora aveva creduto che soltanto gli sciocchi potessero condividere le sue idee.

Pochi giorni dopo Locke venne richiesto da un grosso videogiornale del New England, col preciso incarico di fornire punti di vista in contrasto con la colonna settimanale di Demostene. — Niente male, per due ragazzini ancora più o meno impuberi, eh? — commentò Peter.

— Ci corre un bel pezzo di strada fra scrivere un articolo e governare il mondo — gli rammentò Valentine. — Ed è una strada così lunga che nessuno è mai riuscito a farla.

— C’è chi l’ha fatta. Moralmente, intendo, non in senso politico. E nella mia prima colonna mi accingerò a fare a pezzi Demostene.

— Be’, Demostene non si è mai neppure accorto dell’esistenza di Locke.

— Per ora.

Con le loro identità fittizie adesso supportate dai computer della videostampa, non ebbero più bisogno del codice d’accesso del padre salvo che per far uso di altre identità provvisorie. Mamma li rimproverò che trascorrevano troppo tempo attaccati agli schermi. — Sole di vetro e aria di fessura, mena presto alla sepoltura — ricordò a Peter. — Dovresti andare un po’ a svagarti, ogni tanto.

Lui esibì una rassegnata mestizia. — Se credi che io possa frequentare quegli sciocchi della mia età, e smettere di istruirmi, forse stavolta ce la farò senza sentirmi impazzire. Posso provarci.

— No, no — disse Mamma. — Non voglio che tu smetta d’istruirti. Soltanto… abbi cura di te, ecco tutto.

— Io ho molta cura di me, Mamma.

Nulla era diverso, nulla era cambiato in quell’ultimo anno. Ender se lo ripeteva spesso, e tuttavia gli sembrava che ogni cosa avesse perduto sapore. Era sempre in vetta alla classifica dell’efficienza individuale, e adesso nessuno dubitava che lo meritasse. A nove anni di età era capobranco nell’orda delle Fenici, con Petra Arkanian come comandante. Dirigeva ancora gli allenamenti extra della sera, e ad essi partecipava ora un gruppo scelto di soldati nominati dai loro comandanti, benché qualunque novellino fosse il benvenuto fra essi. Anche Alai era capobranco, in un’altra orda, e continuava ad essere per lui un buon amico.

Shen non aveva il grado di capobranco, ma questo non era un ostacolo fra loro. Dink Meeker aveva finalmente accettato un comando ed era succeduto a Rose de Nose alla guida dell’orda dei Topi. Tutto sta andando bene, più che bene. Non potrei chiedere qualcosa di meglio…

Allora perché detesto la mia vita?

Addestrarsi con l’orda e combattere in sala di battaglia era divertente. Gli dava soddisfazione istruire i ragazzi del suo branco, e loro lo seguivano lealmente. Aveva la stima di tutti, e negli allenamenti serali lo ascoltavano quasi con deferenza. I comandanti studiavano le sue tecniche. Soldati di altre orde, a mensa, si avvicinavano al suo tavolo e chiedevano il permesso di sedersi solo per ascoltarlo parlare. Perfino gli insegnanti erano rispettosi con lui.

Si vedeva così dannatamente rispettato che avrebbe voluto urlare.

Osservava i ragazzini appena arruolati nelle varie orde, ancora freschi dei loro ricordi di casa; guardava i loro giochi, il modo in cui si facevano beffe dei comandanti quando essi non erano nelle vicinanze. Vedeva il cameratismo dei ragazzi ormai legati da anni di vita in comune lì alla Scuola di Guerra, che rivangavano battaglie ormai vecchie e nomi di soldati e comandanti da tempo giunti al termine del corso.

Ma con i suoi vecchi amici non c’erano giochi di quel genere, né risate, né tempo da dedicare ai ricordi. Soltanto lavoro. Soltanto tattica e strategia, ed eccitazione durante le battaglie, ma niente al di là di questo. E una sera, al termine degli allenamenti, la cosa lo colpì più di quel che aveva creduto. Stava discutendo con Alai certi particolari della manovra negli spazi aperti, quando Shen si avvicinò ad ascoltare. Per qualche minuto il ragazzo non disse nulla, poi una frase lo fece ridacchiare; d’improvviso afferrò Alai per le spalle e gridò: — Quattro-Tre-Nova! — Anche Alai scoppiò a ridere, e per un poco Ender li ascoltò rammentarsi l’un l’altro la battaglia dove quella manovra era stata fin troppo reale, quando avevano aggirato i ragazzi più anziani e poi…

D’un tratto i due ricordarono che lì c’era anche lui. — Scusa, Ender — disse Shen.

Scusa. Per che cosa? Per essere amici? — Quel giorno c’ero anch’io, lo sai — disse Ender.

E i due gli chiesero ancora scusa. Di nuovo al lavoro. Di nuovo al rispetto. Così Ender capì che ai suoi compagni non era venuto in mente di includerlo nelle loro risate, nella loro amicizia.

E come avrebbero potuto pensare che io ne ero parte? Ho forse riso? Ho rivangato episodi? Me ne sono rimasto lì a guardare, come un insegnante della Scuola. È già a questo modo che mi vedono. Insegnante. Soldato leggendario. Non come uno di loro. Non come uno che hai abbracciato per sussurrargli «salaam» all’orecchio. Questo è durato finché Ender sembrava ancora una vittima, ancora un bambino vulnerabile.

Adesso capeggiava una classifica, era un esperto. Ed era completamente, inevitabilmente solo.

Compiangi pure te stesso, Ender. Quella sera, disteso sulla cuccetta, lasciò che le sue dita scrivessero sul banco: POVERO ENDER. Poi rise di quelle parole e le cancellò. Non c’è un ragazzo o una ragazza qui a scuola che non vorrebbero essere al mio posto.

Chiamò sullo schermo la partita mentale. Come aveva fatto altre volte s’incamminò attraverso il villaggio che gli gnomi avevano edificato entro il collinoso scheletro del Gigante. Era facile costruire strani muri distorti seguendo la curvatura delle costole, aprendo finestre nei varchi fra esse. Il Torace era stato suddiviso in piccole abitazioni fissate a quelle travature ossee. L’anfiteatro per le riunioni era scavato a gradini nella coppa delle ossa iliache, e fra le gambe del Gigante c’erano cortili ed orti. Ender non aveva mai saputo a cosa mirassero gli gnomi con le loro attività, ma nel vederlo passare lungo il villaggio non lo avevano mai aggredito e in cambio lui li lasciava in pace.

Scavalcò l’osso pubico all’estremità dell’anfiteatro e si avviò fra gli orti. C’erano dei piccoli pony al pascolo, e nel vederlo scapparono. Lui non li inseguì. Non capiva più quale fosse il funzionamento della partita. Ai vecchi tempi, quando per primo aveva raggiunto la Fine del Mondo, tutto era combattimenti o enigmi da risolvere: sconfiggi l’avversario prima che lui uccida te, o escogita uno stratagemma per superare l’ostacolo. Adesso invece nessuno lo attaccava, non c’era da battersi, e dovunque andasse non si trovava davanti nessun ostacolo.

Salvo che, naturalmente, nella stanza del castello oltre la Fine del Mondo. Quello era rimasto l’unico luogo pericoloso. E Ender, benché avesse più volte giurato di non farlo più, continuava a ritornare là, continuava ad uccidere il serpente, e a guardare in faccia suo fratello. E ogni volta, qualunque azione intraprendesse, era morto lì dentro.

Neppure quella sera la cosa fu troppo diversa. Cercò di usare il coltello che c’era sul tavolo per scavar via la calcina ed estrarre una delle pietre del muro. Appena vi fu riuscito dal varco schizzò fuori un getto d’acqua, e a Ender non rimase che guardare lo schermo mentre la sua figura, ormai fuori controllo, si agitava follemente per restare in vita. La finestra della stanza era scomparsa; l’acqua salì e la sua figura annegò. Per tutto il tempo la faccia di Peter Wiggin rimase visibile nello specchio, con gli occhi fissi su di lui.

Sono intrappolato qui, pensò Ender. In trappola alla Fine del Mondo senza una sola via d’uscita.

E seppe, infine, cos’era il triste senso d’inutilità che provava malgrado tutti i suoi successi lì alla Scuola di Guerra. Era disperazione.

C’erano uomini in uniforme all’ingresso della scuola, quando Valentine arrivò. Non avevano l’aria d’essere di guardia, anzi si sarebbero detti in attesa di qualcuno entrato un momento negli uffici. Portavano l’uniforme dei Marines della F.I. le stesse che tutti avevano sempre visto nei sanguinosi filmati di guerra o nei film della TV, e questo stava conferendo all’edificio scolastico un’aura inaspettatamente romantica e avventurosa. Tutti gli studenti erano piuttosto eccitati.

Valentine non lo fu per niente. Dapprima quella novità la fece pensare a Ender; poi ebbe paura. Qualcuno aveva appena pubblicato un saggio molto critico sull’insieme degli articoli di Demostene. Il saggio, e di conseguenza il lavoro di lei, erano stati discussi in un dibattito televisivo aperto a interventi internazionali, e alcuni dei più importanti personaggi della stampa e della politica avevano chi attaccato e chi difeso Demostene. Ciò che l’aveva più preoccupata era stato il commento di un inglese: — Che provochi ostilità o consensi, Demostene non potrà godersi l’incognito per sempre. Ha oltraggiato troppi uomini illustri e sedotto troppi sciocchi perché glielo si permetta. Ma sia che si tolga la maschera da solo per assumere la guida dell’esercito di imbecilli che lo approvano, sia che lo smascherino i suoi avversari, non si può negare che sappia destare effetti di massa ben appropriati al suo pseudonimo.

Come c’era da aspettarsi, Peter ne era rimasto deliziato. Ma Valentine, rendendosi conto di quante persone potenti detestavano Demostene, aveva paura che cominciassero a indagare. La F.I. poteva farlo ufficialmente, ed era risaputo che sebbene fosse proibito i servizi segreti sapevano mettere le mani su qualunque dato. E adesso c’erano militari della F.I. tutto intorno alla Western Guilford Middle School, dentro e fuori. E non erano certamente lì per fare propaganda, perché il servizio di reclutamento dei Marines non ne aveva bisogno.

Così non fu sorpresa nel trovare il suo banco acceso e un messaggio che la attendeva in un angolo dello schermo.

PER FAVORE SI RECHI IMMEDIATAMENTE

NELL’UFFICIO DEL DR. LINEBERRY

Valentine attese nervosamente nell’anticamera del Preside, finché la porta dell’ufficio non si aprì e il Dr. Lineberry la invitò ad entrare. I suoi ultimi dubbi svanirono quando vide l’uomo alto e robusto, in uniforme da colonnello della F.I., che sedeva in una delle comode poltrone della stanza.

— Lei è Valentine Wiggin — disse l’uomo, alzandosi.

— Sì — mormorò lei, restituendogli debolmente la stretta di mano.

— Io sono il colonnello Graff. Ci siamo già incontrati.

Già incontrati? Quando mai lei aveva avuto a che fare con la F.I.?

— Venni a parlare ai suoi genitori, privatamente, per suo fratello.

Oh, allora non è per me, pensò lei. Loro hanno Peter… ma cos’è successo? Che abbia fatto qualcosa di male? Credevo che avesse smesso di comportarsi bizzarramente. O forse…

— Valentine… posso chiamarla per nome, vero? Valentine, lei sembra spaventata. Non c’è alcun motivo di esserlo. Per favore, si sieda. Le assicuro che suo fratello sta bene. Ed è stato più che all’altezza delle nostre aspettative.

Soltanto allora, mentre la sua angoscia cominciava a sciogliersi, lesse negli occhi di Graff che era venuto lì per Ender. Ender. Non sarebbe stata interrogata e punita. La cosa riguardava Ender, il suo fratellino, che se n’era andato via ormai da tanto tempo, che non aveva più parte nei pensieri e nelle manovre di Peter. Sei stato tu il fortunato, Ender. Te ne sei andato prima che Peter potesse invischiarti nei suoi progetti.

— Cosa prova lei per suo fratello, Valentine?

— Per Ender?

— Naturalmente.

— Lei cosa pensa che provi? Non l’ho più visto né sentito da quando avevo otto anni.

— Dottor Lineberry, prego, vuole scusarci?

Seccato, Lineberry si avviò alla porta.

— Un momento, dottore. Ripensandoci, credo che la signorina Wiggin e io avremo una conversazione più produttiva se facciamo due passi. Fuori. Lontano dai dispositivi d’ascolto che il suo segretario si è affannato a piazzare in questa stanza.

Era la prima volta che Valentine vedeva il Preside Lineberry restare senza parole. Il colonnello Graff andò a staccare un quadro dal muro e strappò via una membrana fonosensibile con la relativa microspia.

— Economica ma efficiente — annuì Graff. — Inoltre ci sono i collegamenti col vostro computer, vero?

Lineberry girò dietro la sua scrivania, spense un interruttore mimetizzato e si lasciò cadere pesantemente in poltrona. Graff condusse fuori Valentine.

All’esterno si avviarono lungo il campo da football. I marines li seguirono discretamente a distanza, allargandosi intorno allo spazio erboso per tener d’occhio una zona il più ampia possibile.

— Valentine, abbiamo bisogno del suo aiuto. Per Ender.

— Che genere di aiuto?

— Non siamo sicuri neppure di questo. Vorremmo anzi che lei ci aiutasse a capire come potrebbe aiutarci.

— Be’, cosa c’è che non va?

— Questo è un altro lato dello stesso problema. Non lo sappiamo.

Valentine non poté impedirsi di scoppiare a ridere. — Io non l’ho visto una volta in tre anni! E voi l’avete tenuto sotto controllo per ogni secondo in tutto questo tempo!

— Valentine, farmi viaggiare avanti e indietro fra qui e la Scuola di Guerra costa al Governo più di quel che suo padre guadagna in una vita di lavoro. E io non viaggio per diporto.

— Il Re aveva fatto un sogno — disse Valentine, — ma se n’era dimenticato il contenuto, così disse ai suoi saggi che dovevano interpretare quel sogno, pena la morte. Soltanto Daniele vi riuscì, perché era un profeta.

— Lei legge la Bibbia?

— Non quest’anno. Stiamo studiando i classici della letteratura medievale. Comunque, io non sono un profeta.

— Vorrei poterle dire tutto sulla situazione di Ender, ma ci vorrebbero ore, forse giorni, e alla fine dovrei metterla in isolamento protettivo perché molto di questo è classificato strettamente confidenziale. Perciò vediamo cosa si può fare con le informazioni che posso darle, eh? Dunque, c’è una partita che i nostri studenti giocano con il computer della Scuola… — E proseguì, parlandole poi della Fine del Mondo, e della stanza chiusa, e della foto di Peter nello specchio.

— È stato il computer a mettere lì la foto, non Ender. Perché non lo domandate al computer?

— Il computer non lo sa.

— E si suppone che io lo sappia?

— Da quando Ender è con noi, questa è la seconda volta che la sua partita arriva a un punto morto. A una sfida che sembra senza sbocco.

— La prima l’ha risolta?

— Certo.

— Allora dategli tempo, e probabilmente risolverà anche questa.

— Non ne sono sicuro. Valentine, suo fratello è un ragazzo infelice.

— Perché?

— Non lo so.

— Lei non sa molte cose, le pare?

Per un momento Valentine pensò che l’uomo stesse per bestemmiare. Invece Graff decise di riderci sopra. — No, non molte. Valentine, perché suo fratello dovrebbe vedere Peter nello specchio?

— Non dovrebbe. È una cosa stupida.

— Stupida perché?

— Perché se qualcuno è l’opposto di Ender, questi è Peter.

— In che senso?

Valentine non riuscì a pensare una risposta che non contenesse elementi pericolosi. Spiegare troppo su Peter avrebbe potuto portare a conseguenze spiacevoli. Conosceva abbastanza la gente per sapere che nessuno avrebbe preso sul serio le sue ambizioni di dominio, e i suoi piani. Ma accennare alla sua personalità avrebbe potuto convincere quell’ufficiale a raccomandarlo per un trattamento psichiatrico.

— Lei si sta preparando a dirmi una bugia — osservò Graff.

— Io mi sto preparando a dirle che non posso dirle niente.

— E ha paura. Cos’è che la preoccupa?

— Non mi piace parlare dei miei familiari. Lasciamo la mia famiglia fuori da questa faccenda.

— Valentine, io voglio evitare di coinvolgere la sua famiglia. Sono venuto da lei per non dover sottoporre Peter a una batteria di test, e non seccare i vostri genitori con un interrogatorio. Sto cercando di risolvere il problema adesso con la persona che Ender ama di più, forse l’unica persona al mondo di cui si fida ciecamente. Se non riusciamo a farcela in questo modo temo che sequestreremo tutta la famiglia e i nostri psichiatri vi rivolteranno dentro e fuori. Questa non è una questione secondaria per noi, e non me ne andrò senza averla risolta.

L’unica persona che Ender amava e di cui si fidava. Valentine provò una cocente fitta di dolore, di rimorso, di vergogna al pensiero d’essere invece così vicina a Peter. Peter, che era diventato il centro della sua vita. Per te, Ender, accendo un focherello una volta all’anno. Per Peter e per i suoi sogni lavoro invece dalla mattina alla sera. - Non ho mai pensato che lei tenesse alla simpatia altrui. Non lo pensai quando venne a portar via Ender, e non m’illudo che ora sia cambiato.

— Non finga d’essere una fanciulletta ignorante. Io ho visto i risultati dei test fatti quando era bambina, e oggi come oggi non ci sono molti professori universitari che potrebbero starle alla pari.

— Ender e Peter si odiano l’un l’altro.

— Questo lo sapevo. Lei li ha definiti opposti. Perché?

— Peter… può essere tutto odio, a volte.

— È pericoloso, vuol dire?

— Meschino, voglio dire. Odiare significa compiere atti meschini.

— Valentine, per il bene di Ender, mi dica cosa può fare quando è in questo stato d’animo.

— Minaccia di uccidere questo o quello. Non che lo faccia, beninteso. Ma quando eravamo piccoli Ender e io avevamo paura di lui. Progettava espedienti per ucciderci. In realtà ce l’aveva soprattutto con Ender.

— Il monitor ci ha già informati di questo.

— Parte della responsabilità l’aveva il vostro monitor.

— Tutto qui? Mi dica qualcosa di più su Peter.

Valentine dovette dirgli dei compagni di classe in ogni scuola che Peter aveva frequentato. Non li colpiva mai fisicamente, ma sapeva ferirli in modo peggiore. Scopriva la cosa di cui si vergognavano di più e la faceva sapere alla persona di cui desideravano maggiormente il rispetto. Scopriva la cosa di cui avevano più paura, e faceva in modo che se la trovassero davanti di continuo.

— Si comportava a questo modo anche con Ender?

Valentine scosse il capo.

— Ne è sicura? Ender non aveva un punto debole? Una paura segreta, o qualcosa di cui si vergognava?

— Ender non ha mai fatto nulla di cui dovesse vergognarsi. — E d’un tratto, sprofondando nella vergogna per aver dimenticato e tradito Ender, Valentine scoppiò in lacrime.

— Che c’è, adesso?

Lei scosse il capo. Non avrebbe mai potuto spiegare cosa provava nel pensare al suo fratellino, che era così buono, che lei aveva protetto fin dalla nascita, né dire cosa significava essere ora l’alleata di Peter, la sua aiutante, la sua serva in uno schema di eventi su cui lei non aveva il minimo controllo. Ender non s’era mai arreso a Peter, ma lei l’aveva fatto, fino al punto di divenire parte di lui. — Ender non ha mai ceduto — disse.

— A cosa?

— A Peter. Alla tentazione di essere come lui.

In silenzio girarono lungo la linea di fondocampo.

— Come avrebbe potuto Ender essere come Peter?

Valentine ebbe un fremito. — Gliel’ho già detto.

— Ma Ender non ha mai fatto quel genere di cose. Era soltanto un bambino.

— Ma sia lui che io avremmo voluto farle. Entrambi desideravamo… uccidere Peter.

— Ah!

— No, non è così. Non ne parlammo mai. Ender non ha mai detto che sarebbe stato capace di farlo. Solo che io… l’ho pensato. Io, non Ender. Lui non ha mai detto che gli sarebbe piaciuto vederlo morto.

— Cosa desiderava, allora?

— Niente. Ma non voleva essere…

— Essere cosa?

— Peter tortura gli scoiattoli. Li inchioda a terra e li spella vivi, poi resta seduto a guardarli finché muoiono. È una cosa che adesso non fa più, però in passato lo faceva. Se Ender lo avesse saputo, se lo avesse visto, credo che avrebbe potuto…

— Che cosa? Salvare gli scoiattoli? Cercare di curarli?

— No, a quel tempo non osavamo… disfare ciò che Peter aveva fatto, o attraversargli la strada in quelle cose. Ma Ender amava gli scoiattoli che c’erano nei parchi della città sotterranea. Era uno dei pochi che riuscivano a farli avvicinare per nutrirli. Ma a quel modo diventavano docili, e …per Peter era più facile catturarli. — Valentine riprese a piangere. — Capisce? qualunque cosa uno faccia, questo aiuta Peter. Tutto gli serve, tutto lo aiuta, non importa cosa uno possa escogitare.

— Lei sta aiutando Peter? — domandò Graff.

Lei non rispose.

— Suo fratello maggiore è davvero così malvagio, Valentine?

Lei accennò di sì.

— Crede che Peter sia il peggior individuo del mondo?

— Potrebbe esserlo? Non lo so. È solo il peggiore che io conosca.

— Tuttavia lei e Ender siete suoi fratelli. Avete avuto la stessa eredità genetica, la stessa educazione, dunque come può Peter essere un tale…

Valentine si volse di scatto e gridò, come se l’uomo la stesse torturando a morte: — Ender non è come Peter! Non ha niente in comune con lui! Salvo che è intelligente, e che è suo fratello. Ma non per questo lei deve osare… no! Lui non ha niente, niente, niente di Peter! Ha capito? Niente!

— Vedo — disse Graff.

— So cosa sta pensando… lei, bastardo! Lei pensa che io vaneggi, e che Ender sia uguale a Peter. Be’, forse io ho qualcosa di Peter, ma Ender no. Neppure lontanamente. E quando era piccolo e lo vedevo piangere glielo dicevo e glielo ripetevo, decine di volte: tu non sei come Peter, tu non hai mai fatto male agli altri, tu sei gentile e buono e diverso da lui in tutto e per tutto!

— E questo è vero.

L’acquiescenza di lui la calmò. — È maledettamente vero, infatti. Ci può scommettere che è vero.

— Valentine, lei aiuterà Ender?

— Non c’è nulla che io possa fare per lui, adesso.

— Una cosa c’è, esattamente la stessa che lei faceva in passato. Niente di più che confortarlo e dirgli che far del male alla gente non gli piace, che è buono e gentile, e che in lui non c’è nulla di Peter. Questa è la cosa più importante: che non ha qualcosa di Peter dentro di sé.

— Posso vederlo?

— No. Voglio che lei gli scriva una lettera.

— E questo servirebbe? Ender non ha mai risposto a una sola delle lettere che gli ho spedito.

Graff si schiarì la voce. — Ha risposto a… uh, ogni lettera che ha ricevuto.

Valentine trasalì a quell’ammissione. — Vuol dire che voi… figli di puttana!

— L’isolamento è, per certe cose, l’ambiente in cui meglio si sviluppa la creatività. E noi volevamo le sue idee, non il… ma lasciamo perdere. Non sono tenuto a giustificarmi con lei.

E cos’altro sta facendo? avrebbe voluto borbottare Val.

— Comunque, si è arenato. O ha mollato. Noi vorremmo spingerlo avanti, ma se lui non vuole è inutile.

— Forse farei a Ender un favore migliore se la mandassi a farsi friggere.

— Lei mi ha già dato un aiuto. Può fare di più. Gli scriva.

— Prometta che non taglierà una sola parola.

— Non sono autorizzato a promettere niente a nessuno.

— Allora se ne dimentichi.

— Nessun problema. Scriverò io la sua lettera. Possiamo far uso delle lettere precedenti per lo stile e i particolari. Semplicissimo.

— Voglio vederlo.

— Avrà la sua prima libera uscita a diciott’anni.

— Lei disse che l’avrebbe avuta a dodici.

— Abbiamo cambiato il regolamento.

— Perché dovrei aiutarvi?

— Non noi, ma Ender. Che le importa se nel farlo aiuterà anche noi?

— Che razza di cose terribili e odiose gli state facendo, lassù?

Graff ebbe una risatina. — Mia cara signorina Wiggin, le cose terribili sono ancora tutte da venire.

Ender era già alla quarta riga quando s’accorse che quella era una lettera, e non un messaggio mandatogli da un compagno della Scuola di Guerra. Gli era arrivata nel solito modo, una nota che lo aveva informato: POSTA IN GIACENZA appena aveva acceso il banco. Con un sussulto, il suo sguardo corse alla firma. Poi tornò alla prima riga e semidisteso sulla cuccetta lesse e rilesse più volte ogni parola.

ENDER,

I BASTARDI NON TI HANNO MAI CONSEGNATO UNA DELLE LETTERE CHE TI HO SPEDITO FIN’ORA. TI AVRÒ’ SCRITTO CENTO VOLTE, MA TU DEVI AVER CREDUTO CHE NON LO ABBIA MAI FATTO. IO NON TI HO DIMENTICATO. RICORDO OGNI TUO COMPLEANNO. RICORDO OGNI COSA. QUALCUNO POTREBBE PENSARE CHE POICHÉ’ STAI FACENDO IL SOLDATO ADESSO TU SIA DIVENTATO CRUDELE E SPIETATO, UNO A CUI PIACE FAR DEL MALE E COLPIRE, COME I MARINES DEI FILM, MA IO SO CHE QUESTO NON È VERO. TU NON SEI AFFATTO COME CHI-SAI-TU. LUI SEMBRA PIÙ BUONO MA INVECE DENTRO DI SÉ È SEMPRE UNA CAROGNA. FORSE TI SEI FATTO PIÙ DURO, MA QUESTO NON PUÒ INGANNARE ME. SEMPRE PAGAIANDO SULLA VECCHIA CANNA, TUTTO IL MIO AMORE E UN GROSSO BACIO

VAL

NON MI SCRIVERE. PROBABILMENTE LORO FAREBBERO LA SCHIFANALISI ALLA TUA LETTERA.

Ovviamente era stata scritta con la piena approvazione degli insegnanti. Ma non c’era dubbio che la mittente fosse Val. La deformazione della parola psicanalisi, l’epiteto carogna per Peter, il vecchio scherzo di pronunciare canna invece di canoa, erano tutte cosette che nessuno poteva sapere salvo Val.

E tuttavia quegli espedienti apparivano forzati, come se qualcuno avesse voluto studiarli per far sì che la lettere avesse un tocco di autenticità in più. Perché avrebbere dovuto esserne tanto preoccupati, se la lettera era vera?

Perché non è vera comunque. Anche se lei l’avesse scritta col suo sangue non sarebbe una cosa vera, dato che gliel’hanno fatta scrivere loro. Mi ha mandato tante lettere, e le hanno intercettate tutte. Quelle avrebbero potuto essere vere, lo erano, ma questa le è stata ordinata. Questa fa parte delle loro manipolazioni.

E quell’oscura oppressione lo sommerse di nuovo. Ora ne conosceva il motivo. Ora sapeva quali cose odiava. Non aveva alcun controllo sulla sua stessa vita. Loro programmavano tutto. Facevano tutte le scelte. Soltanto la partita libera era lasciata a lui, nulla di più; ogni altra cosa apparteneva a loro, dai regolamenti ai giochi, dalle lezioni ai programmi a lunga scadenza, e preso in quell’ingranaggio lui non poteva che continuare o cedere. L’unica cosa reale, l’unica preziosa realtà che gli restava era il ricordo di Valentine, la persona che lo amava da prima che si mostrasse abile in quei giochi bellici, che lo avrebbe amato anche se non ci fosse stata da vincere nessuna guerra contro gli Scorpioni. Ed essi avevano allungato le mani anche su di lei, l’avevano portata al loro fianco. Era una di loro, adesso.

Odiava quella gente e i loro giochi. Li odiava al punto che non seppe frenare le lacrime, con gli occhi fissi sulla lettera fatta su ordinazione. E i ragazzi dell’orda delle Fenici che se ne accorsero distolsero lo sguardo. Ender Wiggin che piangeva? Questo era preoccupante. Stava accadendo qualcosa di terribile. Il miglior soldato di tutte le orde disteso in lacrime sulla sua cuccetta. Nella camerata scese un silenzio profondo.

Ender cancellò la lettera, la spazzò via dalla sua memoria e richiamò sullo schermo la partita libera. Non sapeva bene cosa lo rendesse tanto ansioso di riprendere il gioco, di tornare alla Fine del Mondo, ma agì in modo da arrivarci senza sprecare tempo. Soltanto quando spinse lo sguardo sui colori autunnali di quel fiabesco mondo pastorale, soltanto allora capì cos’aveva detestato di più nella lettera di Val. Tutto ciò che diceva era in relazione con Peter, puntualizzava il fatto che lui non era come Peter: parole che Valentine aveva detto così spesso quando lo abbracciava per confortarlo mentre lui tremava di rabbia o di paura o di disgusto per i tormenti che il fratello gli aveva inflitto. Questo era più o meno tutto il contenuto della lettera.

E questo era ciò che loro avevano ordinato. I bastardi ne erano informati, e sapevano di Peter nello specchio della stanzetta di pietra, sapevano tutto, e per loro Val era soltanto uno strumento da usare per controllare lui, un altro trucco da mettere in atto. Dink aveva ragione: il nemico erano loro, e non amavano nessuno, e nulla gli importava, e perciò lui non avrebbe fatto quel che volevano, e di questo avrebbero potuto stare maledettamente certi. Lui aveva avuto un solo ricordo degno d’essere ricordato, una sola cosa buona, e quei bastardi l’avevano preso e mescolato al resto del loro concime… e così lui era finito, e avrebbe messo fine al gioco.

Come sempre nella stanza in cima alla torre c’era ad attenderlo il lungo serpente, e al suo arrivo srotolò le spire davanti al caminetto. Ma stavolta Ender non lo schiacciò sotto i piedi. Stavolta allungò le mani a prenderlo, gli si inginocchiò davanti, e dolcemente, molto dolcemente attirò la bocca scagliosa del rettile alle sue labbra.

E lo baciò.

Non aveva avuto intenzione di farlo. Voleva lasciare che il serpente lo mordesse sulla bocca. O forse aveva inconsciamente desiderato mangiarlo vivo, come il Peter dello specchio doveva aver fatto col rettile la cui coda sanguinante gli emergeva pendula dalle labbra. Invece lo aveva baciato.

E fra le sue mani il corpo del serpente s’ingrossò, assumendo un’altra forma. Le sue sembianze si fecero umane, femminili. Era Valentine, e la sorella gli restituì il bacio.

Il serpente non poteva essere Valentine. Lo aveva ucciso troppe volte perché ora si rivelasse per sua sorella. Era insopportabile!

Era questo che volevano ottenere quando gli avevano fatto leggere la lettere di Valentine? Non che gliene importasse molto.

Lei si alzò dal pavimento della stanza della torre e si mosse verso lo specchio. Ender fece alzare anche la sua figura e la affiancò. Si fermarono davanti allo specchio, dove al posto dell’orrido riflesso di Peter c’erano ora un drago e un unicorno. Ender tese una mano e toccò il cristallo: la parete cadde in polvere, rivelando la presenza di una grande scalinata che curvava verso il basso, fitta di personaggi che gridavano e acclamavano invitandoli festosamente a scendere. Tenendosi sotto braccio lui e Valentine s’avviarono giù per le scale. Ender aveva gli occhi pieni di lacrime per il sollievo d’aver infine trovato l’uscita da quella torre di pietra alla Fine del Mondo. E a causa delle lacrime non notò che ogni persona di quella folla eterogenea aveva la faccia di Peter. Riusciva soltanto a pensare che dovunque fosse andato in quel mondo Valentine sarebbe stata con lui.

Valentine lesse la lettera che il Preside Lineberry le aveva appena consegnato. «Gentile signorina Wiggin» diceva. «Le siamo grati per gli sforzi da lei fatti in favore dello sforzo bellico. Abbiamo il piacere di notificarle che le è stata conferita, a nome degli Alleati e dell’intera umanità, la Stella del Valor Civile di Prima Classe, ovvero la più alta decorazione militare di cui possa fregiarsi un civile. Sfortunatamente il Servizio di Sicurezza della F.I. ci proibisce di render pubblica la decorazione fino alla vittoriosa conclusione delle operazioni in corso, ma privatamente mi pregio farle sapere che il suo atto si è risolto in un completo successo. Distinti saluti, generale Shimon Levy, Stratega».

Dopo che l’ebbe letta due volte, il Dr. Lineberry gliela sfilò dalle dita. — Mi è stato ordinato di fartela leggere, e poi di distruggerla. — Prese un accendisigaro da un cassetto e diede fuoco alla lettera, lasciandola incenerire in un portacenere. — Erano buone o cattive notizie? — domandò poi.

— Ho venduto mio fratello — disse Valentine, — e loro mi hanno pagato i trenta denari.

— Questo mi sembra un po’ melodrammatico, Valentine, no?

Valentine non rispose e tornò in classe. Quella sera Demostene scrisse una graffiante denuncia delle leggi per la limitazione delle nascite. La gente aveva il sacro diritto di mettere al mondo quanti figli voleva, e la popolazione in eccesso avrebbe potuto esser inviata a colonizzare altri pianeti, per spargere la razza umana così lontano nella galassia che nessun disastro, nessuna invasione, avrebbe potuto farle rischiare l’estinzione. «Il titolo più nobile che un bambino possa avere — scrisse Demostene, — è Terzo!»

Per te, Ender, disse a se stessa mentre spediva l’articolo.

Peter rise divertito quando lo lesse. — Questo farà raddrizzare orgogliosamente le spalle a tanti poveri figli di mamma. Terzo! Un nobile titolo! Oh, in che sottile sarcasmo sai intingere la penna.

CAPITOLO DECIMO

DRAGO

— Adesso?

— Suppongo di sì.

— Devono esserci degli ordini, colonnello Graff. Un esercito non si muove solo perché un comandante dice di supporre che sia il momento di attaccare.

— Io non sono un comandante. Mi occupo di ragazzini, sono un insegnante.

— Colonnello, ammetto di esserle stato addosso, ammetto d’esser stato la spina nel suo fianco, ma è servito. Tutto ha funzionato come lei voleva. Nelle ultime settimane Ender è stato… è stato…

— Felice.

— Soddisfatto. Sta andando bene. Ha la mente lucida, il suo gioco è eccellente. Pur giovane com’è, non abbiamo mai avuto un ragazzo meglio preparato per il comando. In genere lo meritano a undici, ma a nove e mezzo lui è già all’optimum.

— Già, certo. Sa una cosa? Poco fa mi stavo chiedendo che genere d’uomo vorrebbe prendere un ragazzino ferito, curarlo alla meglio, e rispedirlo sul campo di battaglia. Un piccolo dilemma morale del tutto privato. Non ci faccia caso. Devo essere stanco.

— Salvare il mondo, ricorda?

— Lo chiami dentro.

— Stiamo facendo quel che dobbiamo fare, colonnello Graff.

— Andiamo, Anderson, lei sta morendo dalla voglia di vedere come se la caverà con tutti i nuovi stratagemmi del regolamento su cui le chiesi di lavorare. Scommetto che ci si è diabolicamente divertito.

— Questa è una bassa insinuazione di cui non la credevo…

— Sicuro, sono un basso individuo. E poiché fra una bassezza e l’altra a volte ci incontriamo, non nego d’essere ansioso di vedere come se la caverà. Dopotutto, le nostre vite dipendono dal fatto che sia veramente abile. Mi sintonizza?

— Lei sta cominciando a usare i modi verbali dei ragazzi, eh?

— Lo faccia entrare, maggiore. Io registrerò i turni nel suo programma di lavoro, e gli fornirò un nuovo sistema di sicurezza. Quel che gli stiamo facendo non è tutto un peso per lui; avrà di nuovo la sua intimità.

— Isolamento, vuol dire.

— La solitudine del potere. Coraggio, lo chiami.

— Sì, signore. Quando avrò finito con lui, fra una ventina di minuti, lo condurrò nel suo ufficio.

Ender aveva capito cosa c’era in ballo fin dall’istante in cui era stato convocato da Anderson. Tutti ormai si aspettavano che avrebbe avuto il grado di comandante. Forse non così presto, ma da tre anni capeggiava la classifica dell’efficienza individuale, con molti punti di distacco sul secondo, e quello che faceva gli allenamenti extra con lui ogni sera era diventato il più prestigioso gruppo di soldati della Scuola. Alcuni si chiedevano perché gli insegnanti non si fossero ancora decisi.

Si domandò quale orda gli avrebbero dato. Tre comandanti, compresa Petra, avrebbero presto finito il corso, ma non poteva certo sperare che gli dessero l’orda delle Fenici: nessuno passava mai al comando della stessa orda in cui era stato un soldato fra i soldati.

Per prima cosa Anderson lo condusse nel suo nuovo alloggio. Questa era già una dichiarazione ufficiale: solo i comandanti avevano stanze private. Poi gli mostrò pile di uniformi nuove di zecca, accessori vari e tute da battaglia. Ender aprì il cellofan per scoprire il nome della sua orda.

Draghi, diceva l’etichetta su una delle tute. Non esisteva nessuna orda dei Draghi.

— Non ho mai sentito parlare dell’orda dei Draghi, signore — disse.

— Perché da quattro anni è stata sciolta. Usiamo questo nome solo a intervalli, dato che c’è una… uh, superstizione su di esso. Da quando è stata fondata la Scuola di Guerra, l’orda dei Draghi non ha mai vinto neppure un terzo delle battaglie. Era diventata oggetto di scherzi e di battute.

— Be’, perché adesso la rimettete in tabellone?

— Abbiamo pile di uniformi. Dobbiamo pur usarle, no?

Seduto dietro la scrivania, Graff sembrava più grassoccio e stanco dell’ultima volta che Ender l’aveva visto. Consegnò a Ender il radiogancio, l’apparecchietto che i comandanti usavano per spostarsi a loro piacimento in sala di battaglia. Durante gli allenamenti serali Ender aveva spesso sospirato il possesso di un radiogancio, invece di dover rimbalzare sulle pareti prima di poter arrivare dove voleva. E ora che aveva imparato a farne a meno abbastanza bene, gliene davano uno.

— Funzionerà soltanto durante le ore di addestramento programmate nel tuo orario di lavoro — lo avvertì Anderson.

Visto che Ender contava di proseguire coi suoi allenamenti extra, questo significava che il radiogancio gli sarebbe servito solo per metà delle ore di lavoro. E la cosa spiegava anche perché pochi comandanti facessero pratica fuori orario, ovvero nei momenti in cui il radiogancio non era collegato alla sala di battaglia: se avevano l’impressione che esso fosse un simbolo di autorità, o di superiorità sui soldati, lavoravano meno volentieri allorché dovevano farne a meno. Perciò questo è un vantaggio che avrò su alcuni miei avversari, pensò Ender.

Il discorsetto con cui Graff gli conferì la nomina suonò trito e annoiato. Soltanto verso la fine l’ufficiale parve interessato a ciò che stava dicendo. — Con l’orda dei Draghi abbiamo seguito una procedura insolita. Spero che a te non importi. Per metterla insieme si è dovuto promuovere anticipatamente una certa quantità di novellini, e ritardare nello stesso tempo la promozione di pochi veterani. Credo che sarai compiaciuto dei soldati da noi scelti. O meglio, spero che lo sarai, perché ti è proibito trasferire chiunque di loro.

— Niente scambi? — domandò Ender. Quello era sempre stato il metodo dei comandanti per eliminare i punti deboli, e favoriva anche i soldati stessi.

— Nessuno. Vedi, sono ormai tre anni che porti avanti i tuoi addestramenti extra. Hai dei seguaci. Molti bravi soldati metterebbero in atto spiacevoli pressioni sui loro comandanti per farsi trasferire da te. Noi ti diamo un’orda che potrà, col tempo, diventare competitiva. Non abbiamo intenzione di lasciarti riunire il meglio delle altre. Questo non servirebbe a nessuno.

— E se avrò dei soldati incapaci di andare d’accordo con me?

— Prova ad andare d’accordo con loro. — Graff abbassò gli occhi su alcuni fascicoli, e Anderson si alzò. Il colloquio era terminato.

Ai Draghi era stato assegnato il colore grigio, arancione, grigio. Ender andò a mettersi la tuta da battaglia, poi seguì la traccia luminosa fino alla camerata in cui erano stati trasferiti i suoi uomini. Li trovò già lì, che oziavano intorno all’ingresso, e non perse tempo in chiacchiere. — Ordinatevi nelle cuccette secondo l’anzianità di servizio. I veterani in fondo alla camerata, i nuovi verso la porta.

Era una sistemazione diametralmente opposta alle usanze, e Ender lo sapeva benissimo. Sapeva anche che non intendeva agire come gli altri comandanti, i quali non vedevano neppure i novellini sempre un po’ isolati in fondo al locale.

Mentre i ragazzi si comunicavano l’un l’altro le rispettive date di arrivo per ordinare i posti, Ender andò su e giù lungo il passaggo centrale. Quasi trenta dei suoi soldati erano dei novellini appena tolti dal gruppo con cui erano giunti alla Scuola, completamente privi di qualsiasi esperienza. Alcuni perfino sotto il limite minimo di età: quello più vicino alla porta era un soldo di cacio quasi patetico. Ender ricordò a se stesso che così doveva esser apparso anche lui a Bonzo Madrid, il giorno del suo arrivo. Tuttavia Bonzo s’era trovato con un unico soldato tanto giovane, e aveva avuto la possibilità di scambiarlo.

Nessuno dei veterani aveva mai fatto parte del gruppo che si allenava privatamente con lui. Nessuno era mai stato capobranco. Nessuno, in realtà, era più anziano dello stesso Ender, e questo significava che perfino i suoi veterani non avevano più di diciotto mesi di esperienza. Ricordava appena due o tre dei loro nomi, tanto scarsa era l’impressione che avevano destato in lui.

Naturalmente loro lo conoscevano bene, dato che era ormai il soldato più discusso della Scuola. E alcuni, notò Ender, lo guardavano senza la minima simpatia. Se non altro un favore me l’hanno fatto… nessuno di questi ragazzi è più anziano di me.

Appena ciascuno ebbe scelto la branda, Ender ordinò che indossassero la tuta da battaglia! — Il nostro orario prevede l’addestramento al mattino, e ci metteremo al lavoro subito dopo colazione. Ufficialmente dovreste godere di un’ora di libertà, appena usciti dalla mensa. Ma di questa parleremo in seguito, quando avrò visto a che punto siete. — Tre minuti dopo, benché molti di loro non fossero ancora del tutto pronti, ordinò loro di uscire in fila per uno.

— Ma io sono nudo! — si lamentò un ragazzino.

— La prossima volta sarai più svelto. Tre minuti dal mio ordine al momento di uscire dalla porta, questa è la regola della settimana in corso. La settimana prossima la regola sarà di due minuti. Avanti, march! — C’era il rischio che ben presto nel resto della Scuola circolasse la battuta che i Draghi erano dei tali pivelli da aver bisogno di esercizi perfino per imparare a vestirsi.

Cinque ragazzini erano completamente nudi, e sfilavano a passo di marcia nei corridoi tenendo la tuta in mano. Quelli del tutto vestiti erano una minoranza, e nel passare davanti alle porte spalancate delle aule l’orda attirò prevedibilmente l’irrispettosa attenzione delle scolaresche. Pochi avrebbero osato sfidare quella pioggia di commenti due giorni di fila.

Più tardi, nei corridoi che portavano alla sala di battaglia, Ender li fece correre rapidamente avanti e indietro, in modo che sudassero un po’, mentre quelli nudi si vestivano. Poi li condusse alla porta superiore, quella che si apriva la centro della parete come nella sala dove si svolgevano le battaglie fra le orde. Ordinò a ciascuno di saltare in alto, aggrapparsi al corrimano superiore e usarlo per darsi la spinta in avanti. — Riunitevi alla parete opposta — disse. — Come se andaste a conquistare la porta del nemico.

Già al momento di balzare, quattro alla volta, fuori dal corridoio i ragazzi gli mostrarono a che punto fossero. Quasi nessuno sapeva come procedere in linea retta verso l’obiettivo, e una volta arrivati alla parete opposta erano pochi quelli che riuscivano ad ancorarsi o a controllare il loro rimbalzo.

L’ultimo della fila era il più piccolo dell’orda, e per lui la ringhiera superiore era così lontana da richiedere un balzo di precisione.

— Puoi usare il corrimano laterale, se vuoi — disse Ender.

— Un accidente! — ringhiò il ragazzino. Saltò in alto, toccò la ringhiera appena con un dito e sbatté malamente nello stipite della porta, roteando via senza più controllo. Ender non seppe se ammirare quel piccoletto per aver rifiutato una facilitazione o irritarsi per la sua attitudine alla disubbidienza.

Quando finalmente riuscirono ad allinearsi lungo la parete, Ender notò che senza eccezione s’erano orientati con la testa volta dalla parte che nel corridoio era stata l’alto. Poggiò allora le mani su quello che i ragazzi consideravano il pavimento e si capovolse. — Perché state tutti a testa in giù, soldati? — domandò.

Alcuni di loro cominciarono a girarsi con ubbidienza.

— Attenzione, voialtri! — li fermò lui. — Ho chiesto perché state a testa in giù.

Nessuno rispose. Non avevano capito il senso della sua domanda.

— Ho chiesto il motivo per cui ognuno di voi ha i piedi in aria e la testa verso il basso.

Dopo qualche istante uno si decise a rispondere: — Signore, questa è la direzione di… in cui siamo usciti dalla porta, cioè.

— E questo ha forse qualche significato? Che differenza fa l’orientamento gravitazionale del corridoio? Pensate per caso di battervi nel corridoio? Qui dove stiamo c’è forza di gravità?

— No, signore — risposero alcuni, perplessi.

— Da ora in poi dimenticherete l’esistenza della parola stessa ancor prima di saltar fuori da quella porta. La gravità scompare, non ha più senso. Mi capite? E in qualunque modo siate girati quando entrerete in sala, ricordate questo: la porta nemica è in basso. I vostri piedi staranno puntati da quella parte. L’alto sarà invece verso la vostra porta. Il nord davanti, il sud di dietro, l’est a destra, l’ovest… da che parte?

Le loro mani si alzarono a indicare.

— Bene, vedo che sapete ragionare per eliminazione. Ma non vi consiglio di orientarvi col processo di eliminazione quando dovete andare al gabinetto d’urgenza. Cos’era quella specie di circo equestre che ho visto poco fa? Qualcuno aveva forse l’impressione di volare davvero? Ora tutti quanti: lanciarsi e radunarsi in doppia fila sul soffitto. Scattare! Muoversi!

Come Ender s’era aspettato, un buon numero di loro si lanciò d’istinto non verso la parete della porta d’ingresso, bensì verso quella che lui aveva definito «nord», ovvero la direzione che aveva rappresentato l’alto quand’erano ancora nel corridoio. Naturalmente capirono quasi subito l’errore, ma era troppo tardi, e per porvi rimedio dovettero aspettare di poter rimbalzare sulla parete nord.

Nel frattempo Ender li stava suddividendo dentro di sé in due gruppi, in base alla loro rapidità nell’apprendere. Il ragazzino più piccolo, che aveva fatto la peggiore uscita dalla porta, fu il primo ad arrivare alla parete giusta e restò lì posizionandosi correttamente con la testa in alto. Non lo avevano dunque promosso per caso, e avrebbe fatto una buona riuscita. Era però un galletto e un ribelle, anche se forse non aveva mandato giù il fatto d’esser stato costretto a marciare nudo nei corridoi.

— Tu — disse Ender, indicando il piccoletto. — Da che parte è il basso?

— Verso la porta nemica. — La risposta era stata rapida. Ma anche un po’ seccata, come a dire: OK, OK, adesso passiamo alle cose importanti.

— Il tuo nome, ragazzo.

— Questo soldato si chiama Bean [fagiolo N.d.T.], signore.

— Riferito alle dimensioni del corpo o a quelle del cervello? — Gli altri ragazzi fecero udire qualche risatina, ma lui li azzittì subito. — Non farci caso, Bean. Ho visto che sei svelto. Ora aprite bene gli orecchi, perché non mi ripeterò spesso. Nessuno esce da quella porta senza rischiare d’essere all’istante colpito e congelato. Ai vecchi tempi avreste avuto dieci, venti secondi prima di cominciare le ostilità. Adesso, se non schizzate fuori già pronti a colpire e a ripararvi, siete congelati. E cosa succede quando uno è congelato?

— Non può muoversi — rispose uno dei ragazzi.

— Questo è ciò che la parola significa - disse Ender. — Ma al soldato cosa succede?

Fu Bean, per nulla intimidito dalla sua spiritosaggine di poco prima, che rispose correttamente: — Continua ad andare dritto in quella direzione. Alla velocità con cui è partito.

— Proprio così. Voi cinque, là in fondo alla fila, muovetevi!

Stupiti i ragazzi si guardarono l’un l’altro. Ender puntò la pistola e li colpì tutti. — I cinque successivi, muoversi!

Si mossero. Ender sparò anche a ciascuno di loro, ma continuarono a volare allontanandosi verso le pareti. I primi cinque, invece, erano rimasti a fluttuare dove il raggio di luce li aveva raggiunti.

— Guardate questi cosiddetti soldati — disse Ender. — Il loro comandante ha ordinato loro di muoversi e non l’hanno fatto. Primo errore. Adesso sono congelati ma, peggio ancora, sono congelati qui dove non possono servire a niente; mentre gli altri, visto che almeno si sono mossi, stanno andando a dar fastidio al nemico, ostacolandogli i movimenti e la visuale. Voglio sperare che almeno cinque di voi abbiano capito il punto. E non dubito che Bean sia uno di loro. Non è così, Bean?

Il ragazzo non gli rispose subito, ma Ender lo fissò finché si decise a dire: — È così, signore.

— Allora, qual è il punto?

— Quando lei ordina di muoversi, il soldato si deve muovere in fretta. Così, se lo colpiscono, va a rimbalzare fra le posizioni nemiche invece di stare fra i piedi ai compagni.

— Eccellente! Vedo che in quest’orda c’è almeno un soldato capace di usare l’immaginazione. — Ender poté vedere il risentimento crescere nelle occhiate che gli altri si scambiavano, evitando di guardare Bean. Perché sto facendo questo? Cos’ha a che fare coi doveri di un buon comandante il trasformare un ragazzino in un bersaglio per gli altri? Dovrei farlo a lui soltanto perché l’hanno fatto a me? Per un attimo fu tentato di far marcia indietro, di dire ai ragazzi che il piccoletto aveva bisogno del loro aiuto e della loro amicizia più di chiunque altro. Ma naturalmente non poteva farlo. Non il primo giorno. Quel giorno, perfino i suoi errori sarebbero stati visti come parte di un qualche brillante progetto di istruzione.

Col radiogancio Ender si trasse vicino alla parete; prese un ragazzo e lo fece scostare dagli altri. — Stai rigido sull’attenti — ordinò. Lo fece ruotare nell’aria finché i piedi di lui puntarono verso i compagni. Quando il ragazzo accennò a muoversi, Ender lo congelò. Gli altri risero. — Quali parti del suo corpo potresti colpire? — Domandò al soldato direttamente davanti ai piedi di quello congelato.

— Tutt’al più le suole delle scarpe.

Ender si volse al ragazzo accanto. — E tu?

— Io posso vedere il suo corpo.

— E tu, laggiù?

Un ragazzo a qualche distanza da lui rispose: — Tutto il corpo.

— I piedi non sono grandi. Non riparano molto, eh? — Ender scostò da sé il soldato congelato. Poi ripiegò le gambe, come se fosse inginocchiato a mezz’aria, e sparò a ognuna di esse. All’istante i pantaloni della tuta s’irrigidirono, tenendogliele ferme in quella posizione.

Si spinse in alto, presentando loro le ginocchia unite. — Adesso cosa vedete?

Molto di meno, fu la risposta.

Ender si piazzò la pistola fra i polpacci. — Ma io vi vedo benissimo — annunciò, e cominciò a sparare a quanti si trovava davanti. — Fermatemi! Colpitemi, se ci riuscite! — gridò.

Alla fine lo congelarono, ma non prima che lui avesse colpito un terzo almeno di loro. Il suo pollice sinistro annullò l’effetto sfiorando un pulsante del radiogancio, poi usò l’apparecchio per scongelare gli altri soldati. — Ora — disse, — dov’è la porta nemica?

— Giù!

— E qual è la vostra posizione di attacco?

Qualcuno fece per rispondergli a parole, ma Bean reagì spingendosi via dalla parete con le gambe ripiegate sotto di sé, dritto verso il lato opposto della sala e sparando con l’arma fra le ginocchia per tutta la strada.

Per un attimo Ender fu tentato di gridargli un rimprovero, di punirlo, poi scacciò quell’impulso abbastanza meschino. Perché dovrei essere così ingiusto con un bambino? - Bean è il solo che ha capito quello che dico? — sbottò.

Immediatamente l’intera orda balzò in direzione della parete di fondo, tutti inginocchiati nell’aria, sparando all’impazzata fra le gambe e gridando con feroce entusiasmo. Potrà venire il giorno, pensò Ender, che mi sarà utile proprio una tattica di questo genere: quaranta ragazzi che urlano a squarciagola nel più disordinato degli assalti.

Quando li vide fermi sull’altro lato gridò loro di attaccarlo, tutti insieme. , rifletté, non c’è male. Mi hanno dato un’orda non addestrata, senza veterani di valore, ma almeno non è una torma di sciocchi. Potrò lavorare con loro.

Appena li ebbe rimessi in fila, ancora ridacchianti ed esilarati, cominciò a darsi da fare con impegno. Ordinò a tutti di congelarsi le gambe nella posizione che ormai conoscevano. — Ora sentiamo, a cosa vi servono le gambe in battaglia?

A niente, dissero alcuni.

— Bean non la pensa così, no? — suggerì Ender.

— Servono a rimbalzare meglio via dalle pareti. A spingersi.

— Giusto — disse Ender.

Gli altri ragazzi protestarono che spingersi via era movimento, non combattimento.

— Non c’è combattimento senza movimento — li corresse Ender. Loro tacquero, e detestarono Bean un po’ di più. — Adesso, con le gambe congelate in questo modo, sapreste spingervi via dalla parete?

Nessuno osò rispondere, per paura di sbagliare.

— Bean? — chiese Ender.

— Non ci ho mai provato, ma forse mettendosi fronte alla parete e piegandosi all’altezza della cintura…

— Giusto ma anche sbagliato. Guardate me. Ho la schiena al muro, le gambe congelate. Poiché sono in ginocchio ho i piedi contro la parete. Di solito, quando vi spingerete via dovrete spingervi in basso, lasciando il corpo dietro di voi, ovvero piegandovi all’indietro. Non in avanti, come ha detto Bean, altrimenti vi schiaccerestre il fagiolo. OK?

Tutti guardarono Bean e risero.

— Dunque la tecnica è questa: arrivare contro la parete a gambe ripiegate, ammortizzare l’urto con esse e rotolare con la schiena a contatto dell’ostacolo. Poi spingersi via usando le spalle. Guardate me.

Ender si staccò dalla parete con quel metodo, quindi assunse la posizione di attacco e a gambe avanti volò fino al lato opposto della sala. Atterrò sulle ginocchia, rotolò sulla schiena e con un colpo di reni balzò via in un’altra direzione, girando su se stesso come una trottola. — Sparatemi! — gridò. Il suo percorso era quasi parallelo alla fila dei ragazzi, che gli indirizzarono addosso gragnuole di colpi, ma poiché stava roteando nessuno poté tenere il raggio sul bersaglio per il minimo tempo necessario.

Lui riammorbidì la tuta e col radiogancio si portò di nuovo fra loro. — Adesso lavorerete una mezz’ora su questa tecnica. Metterà in funzione alcuni muscoli che non sapevate di avere. Imparate a usare costantemente le gambe come uno scudo, ed a controllare il rimbalzo per poter roteare. Contro i colpi a distanza ravvicinata girare su se stessi non serve a niente, ma quelli che vi arrivano addosso da lontano risulteranno innocui: a quella distanza il raggio deve star fermo sullo stesso punto per alcuni decimi di secondo, e se un corpo sta roteando questo non succede. Adesso ciascuno si congeli le gambe, e scattare via.

— Non ci assegni un percorso? — volle sapere un ragazzo.

— Nossignore. Voglio che sbattiate l’uno contro l’altro e impariate a cavarvela negli urti imprevisti. Salvo che quando manovreremo in formazione, perché allora dovrete sbattere su un compagno o spingervi via da lui per scopi ben precisi. E ora scattare, ho detto!

Quando diceva scattare, se non altro, l’orda scattava.

Ender fu l’ultimo a uscire al termine dell’orario, perché s’era attardato in fondo alla sala per aiutare un paio dei più lenti a capire certi movimenti. Per i veterani era stato un gioco, ma tutti i novellini avevano annaspato come pulcini nella stoppa quando s’era trattato di fare due o tre cose nello stesso tempo. Roteare con le gambe congelate era facile per chi non soffriva di vertigini, nessuno aveva difficoltà a stabilizzarsi in assetto di volo; ma lanciarsi in una direzione e sparare in un’altra, girare su se stessi, rimbalzare in una parete e uscirne sparando a un bersaglio, volando nella direzione voluta… questo era molto oltre le loro possibilità del momento. Esercizio fisico, rimbalzi e volo, questo era tutto ciò su cui Ender poteva farli sudare per i primi tempi. La strategia e le tattiche erano eccitanti, ma non se ne poteva neppure parlare finché l’orda non avesse imparato a muoversi in gravità zero.

A lui sarebbe servita un’orda pronta fin da quel momento. Come comandante era un novizio, inoltre gli insegnanti avevano cambiato non poche regole, non lo lasciavano fare scambi e gli avevano dato dei veterani che nessuno considerava delle cime. E nulla garantiva che gli avrebbero dato i soliti tre mesi di tempo per preparare l’orda, prima di metterla in cartellone per le battaglie con le altre.

Almeno, si disse, alla sera avrebbe avuto Alai e Shen per dargli una mano ad allenare i suoi nuovi ragazzi.

Era appena uscito dalla sala di battaglia quando, in corridoio, si trovò di fronte al piccolo Bean.

— Ehilà, Bean.

— Ehilà, Ender.

Una pausa.

— Signore - lo corresse lui dolcemente.

— Io lo so quello che stai facendo, Ender, signore, e voglio darti un avvertimento

— Un avvertimento a me?

— Io posso essere il miglior soldato che tu abbia, ma non fare giochetti con me.

— Altrimenti?

— Altrimenti sarò il peggiore. O l’uno o l’altro.

— E cos’è che vuoi, complimenti e bacetti? — Ender stava cominciando a irritarsi, adesso.

Bean lo fermò prendendolo per un gomito. — Voglio un branco.

Lui si volse di scatto e lo fissò negli occhi. — E cosa ti fa supporre che potresti mai averne uno in vita tua?

— Perché io so cosa deve fare un branco.

— Sapere cosa deve fare è una cosa — disse Ender, — farglielo fare è un’altra. Perché dei soldati dovrebbero seguire un poppante come te?

— Mi hanno detto che un tempo chiamavano te a questo modo. E ho sentito che Bonzo Madrid lo fa anche adesso.

— Ti ho fatto una domanda, soldato.

— Io mi guadagnerò il loro rispetto, se non mi fermerai.

Ender sogghignò. — Anzi, io ti sto aiutando.

— All’inferno! — disse Bean.

— Nessuno ti avrebbe notato, se non per compatire il povero bambinetto magrolino. E oggi ho fatto in modo che tutti ti notassero. D’ora in poi ti terranno sotto il loro microscopio. Tutto ciò che ti resta da fare per essere rispettato, adesso, è di essere perfetto.

— Così non avrò neppure una possibilità di imparare, prima d’essere giudicato.

— Povero piccino! Nessuno vuol essere buono con lui! — Ender lo prese per le spalle e lo tenne fermo contro il muro. — Te lo dirò io come puoi avere un branco. Provami che sai diventare un ottimo soldato. Provami che sai come tenere in pugno altri soldati. E poi provami che qualcuno vorrebbe affidarsi ai tuoi ordini in battaglia. Allora ti darò il tuo branco. Ma potresti sputar sangue per riuscirci, bada.

Bean sorrise. — Questo mi sta bene. Se tu lavori nel modo che hai detto, sarò capobranco entro un mese.

Ender lo afferrò per il petto e lo spinse contro il muro. — Quando io dico che lavoro in un modo, Bean, allora quello è il modo in cui lavoro. Chiaro?

Bean si limitò a sorridere. Ender lo lasciò e si allontanò a lunghi passi. Quando fu nel suo alloggio si gettò disteso sul letto e strinse i denti, scosso da un tremito. Cosa sto facendo? Il mio primo addestramento con l’orda, e sto già soggiogando i ragazzi come faceva Bonzo. E Peter. Li sbatto di qua e di là. Prendo di mira un povero bambino per dare a tutti gli altri qualcosa da odiare. Le cose che più disprezzavo in un comandante; e io le sto facendo.

È una legge della natura umana che uno debba diventare uguale al primo uomo che ha avuto autorità su di lui? Posso lasciar perdere tutto fin d’ora, se è così.

Nella sua mente ripassarono più volte le cose che aveva detto e fatto in quella prima mattinata con la nuova orda. Perché non aveva parlato e agito come sempre faceva con i ragazzi del gruppo di allenamento serale? Nessuna autorità se non la capacità di eccellere. Nessuno aveva bisogno di dare ordini, soltanto suggerimenti. Ma questo non avrebbe funzionato, non con un’orda. Gli amici che si allenavano con lui non dovevano imparare a lavorare insieme. Non dovevano sviluppare l’istinto di gruppo, non dovevano imparare a vivere situazioni che in battaglia li avrebbero portati a sostenersi a vicenda, a confidare l’uno nell’altro. Non c’era bisogno che loro scattassero ai suoi comandi.

Avrebbe anche potuto andare all’estremo opposto, se avesse voluto: esibire lassismo e incompetenza come Rose de Nose. Fare errori stupidi e affidarsi a capibranco capaci di porvi rimedio… ma no. No, lui voleva le capacità formative della disciplina, e questo significava pretendere — e riuscire a ottenere — ubbidienza rapida e incondizionata. Lui voleva un’orda ben addestrata, e questo voleva dire far allenare i soldati duramente, finché avessero padroneggiato una tecnica al punto di averla a noia, finché gli fosse penetrata nelle cellule del corpo tanto da divenire un riflesso condizionato.

Ma cos’era che lo aveva spinto ad agire così con Bean? Perché aveva messo gli occhi proprio sul più piccolo, più debole, e forse anche il più brillante di quei ragazzi? Perché aveva fatto a Bean ciò che era stato fatto a lui da comandanti che disprezzava?

Poi ricordò che la cosa non era cominciata con i suoi comandanti. Prima che Rose e Bonzo lo trattassero in modo sprezzante, era stato Bernard a creare quella situazione. Era stato Graff.

Sì, l’insegnante aveva fatto questo. E non certo per sbaglio. Ender ora lo capiva chiaramente. Era stata una strategia. Graff lo aveva deliberatamente isolato dagli altri ragazzi, rendendogli impossibile legare con loro. E adesso cominciava a sospettarne i motivi. Non era stato per unire il resto del gruppo, anzi la cosa li aveva divisi. Graff lo aveva isolato per vedere come reggeva sotto il torchio, per spingerlo a dimostrare non che era soltanto capace, ma che era migliore di tutti gli altri. Perché non gli era restato altro modo di ottenere rispetto e amicizia. E lo aveva reso un soldato migliore di quel che altrimenti lui sarebbe diventato. Aveva anche fatto di lui un ragazzo solo, spaventato, irritato, sfiduciato. E forse perfino queste caratteristiche s’erano sommate per renderlo un soldato migliore.

Questo è ciò che sto facendo a te, Bean. Ti ferirò perché tu diventi capace di sopportare le ferite. Ti costringerò a stare all’erta contro di me per svegliare il tuo ingegno. Ti insegnerò ad abituarti alla tensione. Ti terrò sempre sbilanciato, mai sicuro di quel che sta per succederti, in modo che tu sia pronto a ogni cosa, pronto a improvvisare, e deciso a vincere ad ogni costo. E ti farò anche sentire un misero reietto. Ecco il motivo per cui ti hanno messo con me, Bean: perché tu possa essere come me. Perché tu cresca camminando sulle mie stesse orme.

Ed io… si suppone che io debba crescere come Graff? Grassoccio e triste e indifferente, manipolando le vite di ragazzini per farli uscire perfetti da questa fabbrica, ufficiali e generali capaci di condurre le astronavi a difesa della patria. Tu devi aver gustato il piacevole senso di potere del burattinaio, nel costruirli. Finché non ti sei trovato ad avere un soldato migliore di qualsiasi altro. Ma non puoi avere anche questo. Distruggerebbe la simmetria della tua opera. Devi rimetterlo in riga allora; o schiacciarlo, isolarlo e colpirlo finché lui non si rimetterà in fila con tutti gli altri.

Be’, quel che oggi ti ho fatto, Bean, l’ho fatto. Ma ti terrò d’occhio con più comprensione di quel che credi, e quando verrà il momento giusto scoprirai che sono stato tuo amico, e che tu sei il soldato che volevi essere.

Ender non andò in classe quel pomeriggio. Rimase disteso sul letto e mise per iscritto le sue impressioni su ognuno dei ragazzi dell’orda, le loro caratteristiche psicofisiche e i dettagli su cui questo o quello avrebbe dovuto lavorare di più. Agli allenamenti di quella sera avrebbe parlato con Alai, e insieme avrebbero studiato il modo di insegnare a un gruppo eterogeneo fino a portare i singoli allo stesso livello. Almeno in questa difficoltà non avrebbe dovuto agire da solo.

Ma quando quella sera arrivò in sala da battaglia, mentre quasi tutti erano ancora a mensa, trovò sulla porta il maggiore Anderson che lo aspettava. — Ci sono state alcune modifiche al regolamento, Ender. Da ora in poi soltanto membri della stessa orda potranno lavorare insieme nelle ore libere, e di conseguenza le sale di battaglia dovranno essere frequentate secondo orari programmati. Da oggi il tuo turno è ogni quattro giorni.

— Nessun altro sta facendo allenamenti extra.

— Li hanno in progetto, Ender. Ora che tu comandi un’altra orda, i tuoi colleghi non vogliono che i loro ragazzi ti frequentino. E mi sembra comprensibile, no? Così ognuno condurrà i suoi programmi di allenamento.

— Fin’ora ho pur sempre fatto parte di orde loro avversarie. E mi hanno ugualmente mandato soldati da addestrare.

— Ma non eri un comandante.

— Voi mi avete dato un’orda completamente grezza, maggiore Anderson, signore…

— Hai un certo numero di veterani.

— Non sono certo eccezionali.

— Nessuno viene qui alla Scuola se non ha grosse doti, Ender. Impara a renderli migliori.

— Ho bisogno di Alai e Shen per…

— È tempo che tu cresca e faccia le tue cose da solo, Ender. Non hai bisogno che questi altri ragazzi ti tengano la manina. Adesso sei un comandante. Perciò fammi il favore di agire di conseguenza.

Ender oltrepassò Anderson e proseguì verso la sala di battaglia. Poi si fermò. — Dato che anche gli allenamenti serali sono ora regolarmente programmati, potrò usare il radiogancio come in quelli normali?

Era un sorriso quello di Anderson? No. Neppure una minima probabilità che lo fosse. — Vedremo — fu la risposta.

Ender si volse e andò in sala di battaglia. Da lì a poco arrivò la sua orda; ma nessun altro si fece vedere, sia perché Anderson fosse rimasto fuori a intercettare chi stava arrivando, sia che già nella Scuola si fosse sparsa la voce che le serate informali sotto la direzione di Ender erano un capitolo chiuso.

Fu un allenamento fruttuoso e i ragazzi fecero qualche passo avanti, ma al termine Ender era sfinito e si sentiva solo. C’erano ancora trenta minuti prima dell’ora di andare a letto. Non voleva accompagnare l’orda in camerata; aveva imparato da tempo che i migliori comandanti se ne stavano lontani, a meno che non avessero una buona ragione per addentrarsi fra le brande. I ragazzi dovevano avere la possibilità di starsene in pace, di rilassarsi, senza nessuno che fosse lì a farsi un’opinione di loro dal modo in cui parlavano o agivano fuori orario.

Così andò a bighellonare in sala giochi, dove qualche altro ragazzo stava sfruttando l’ultima mezz’ora prima della campanella per fare una scommessa o battere un punteggio fatto in precedenza. Nessuna delle macchine lo attirava, ma fece ugualmente una partita su una di quelle disegnate più che altro per i principianti. Annoiato, ignorò gli obiettivi del gioco e fece uso della figura mobile, un orso, per esplorare lo scenario animato che il programma conteneva.

— Non vincerai mai a quel modo.

Ender sorrise. — Ho sentito la tua mancanza stasera, Alai.

— Io ero in sala. Ma loro hanno fatto entrare la tua orda in qualche altro posto separato. Sembra che adesso tu sia diventato uno dei grandi, e che non potrai più giocare con noialtri piccoletti.

— Tu sei almeno un cubito più alto di me.

— Un cubito! Forse Dio ti ha ordinato di costruire una barca, o ti ha dato le misure per un tempio? O sei improvvisamente d’umore arcaico?

— Non arcaico, forse arcano. Segreto, tortuoso e incomprensibile. Sento già la tua mancanza, volpone circonciso.

— Non te l’hanno detto? Ora siamo nemici acerrimi. La prossima volta che ci incontreremo in battaglia dovrò darti una brutta strigliata.

Erano le solite battute, ma adesso c’era troppa verità dietro di esse. Sentendo Alai parlarne come se tutto fosse uno scherzo Ender si rese dolorosamente conto che quella nuova regola lo allontanava da un amico, e il suo malumore aumentò quando si chiese se Alai provava davvero la tristezza che aveva cercato di comunicargli con quella frase.

— Puoi sempre provarci — disse Ender. — Ti ho insegnato tutto quello che sai. Ma non ti ho insegnato tutto ciò che io so.

— Sapevo perfettamente che ti stavi tenendo da parte qualche trucchetto, Ender.

Una pausa. L’orso di Ender era nei guai, sullo schermo. Si arrampicò su un albero. — No, Alai. Non mi tenevo da parte niente con te.

— Lo so — disse l’altro. — Neppure io.

— Salaam, Alai.

— Non credo che ci sarà.

— Che non ci sarà cosa?

— La pace. È questo che salaam significa. La pace sia con te.

Quelle parole risvegliarono un’eco nella memoria di Ender. La voce di sua madre che gli leggeva una storia, da bambino. Non illuderti che io sia venuto a portare la pace sulla Terra. Io non vengo a portare la pace, ma una spada. E con la fantasia aveva visto Peter incedere sui cadaveri dei suoi nemici con uno spadone rosso di sangue fra le mani. Quelle parole e quell’immagine erano rimaste a lungo nella sua mente.

Senza un lamento l’orso morì. Fu una morte divertente, accompagnata da una musichetta allegra. Ender si volse e vide che Alai era già andato via. Ebbe l’impressione di aver perso una parte di se stesso, un sostegno interno che gli dava coraggio e sicurezza. Con Alai, assai più che con Shen, era giunto a provare un’affinità così forte che il noi gli saliva alle labbra molto più facilmente della parola io.

Ma Alai gli aveva lasciato qualcosa. Disteso a letto con gli occhi fissi nel buio Ender ci ripensò, e sentì ancora il bacio che Alai gli aveva dato sulla guancia mormorando la parola pace. Quel momento, quel bacio e quella pace erano sempre lì con lui. Io sono i miei ricordi, e i miei ricordi sono me. Alai è già un ricordo così legato a me che nessuno potrà mai togliermelo. Come Valentine, il ricordo più forte di ogni altro.

Il giorno dopo incrociò Alai in un corridoio, e si salutarono, si presero per mano, parlarono un poco; ma entrambi sapevano che adesso c’era un muro. Avrebbe potuto essere abbattuto, quel muro, in qualcuno degli anni a venire, ma per ora la sola vera comunicazione rimasta fra loro erano le radici già allargatesi profonde nel terreno, sotto il muro, dove chi l’aveva costruito non poteva tranciarle.

La cosa più raggelante, però, era la paura che quel muro fosse di un materiale indistruttibile, che Alai fosse lieto d’esser stato separato da lui e pronto per trasformarsi in un suo nemico. Perché ora che non potevano essere insieme erano infinitamente separati, e ciò che prima era stato certo e incrollabile adesso era fragile e impalpabile. Da ora in poi Alai diventerà uno sconosciuto ogni giorno di più, perché ha una vita che ormai si è staccata dalla mia. E questo significa che un bel momento ci incontreremo e scopriremo di non conoscerci l’un l’altro.

Questo lo rese triste, ma non al punto di piangere. I suoi occhi non erano più capaci di tanto. Quando avevano trasformato Valentine in una sconosciuta, quando l’avevano usata come un utensile per lavorare su di lui, da quel giorno in poi nulla di quel che potevano fare sarebbe riuscito a farlo piangere. Ender era certo di questo.

E con quella rabbia in corpo decise che era forte abbastanza da resistere loro e da sconfiggerli. I suoi insegnanti. I suoi nemici.

CAPITOLO UNDICESIMO

VENI VIDI VICI

— Lei non può pensare sul serio di mettere in programma queste battaglie.

— Sì, che lo penso.

— Lavora con la sua orda da sole tre settimane e mezzo.

— Gliel’ho già detto: abbiamo eseguito simulazioni computerizzate per stimare i probabili risultati. E qui c’è quello che il computer prevede che Ender farà.

— Noi siamo qui per dargli un’istruzione, non un esaurimento nervoso.

— Il computer lo conosce meglio di noi.

— Il computer non è certo famoso per essere compassionevole.

— Se lei voleva comporre elogi alla compassione, avrebbe dovuto ritirarsi in un monastero.

— Ehi, sta dicendo che questo non è un monastero?

— Inoltre, per Ender è meglio così. Lo stiamo portando al meglio del suo potenziale.

— Pensavo che gli avremmo dato un paio d’anni come comandante. Di solito facciamo loro fare una battaglia ogni due settimane, a cominciare dalla fine del terzo mese. Così tiriamo troppo la corda.

— E li abbiamo questi due anni da gettar via?

— Lo so. Ma non riesco a togliermi dalla mente questa immagine di Ender da qui a un anno: completamente inutilizzabile, bruciato, dopo esser stato sottoposto a tensioni che né lui né altri potrebbero sopportare.

— Abbiamo premesso al computer che c’era un obiettivo prioritario: il soggetto deve mantenere l’efficienza psicofisica dopo il programma di addestramento.

— Mantenerla, certo, ma per quanto tempo…

— Senta, colonnello Graff, è stato lei a chiedermi di preparare questo programma, e malgrado le mie proteste, se ricorda bene.

— Lo so, ha ragione, non dovrei scaricarle addosso i miei problemi di coscienza. Ma la mia brama di sacrificare dei bambinetti in vista della salvezza della razza umana si è alquanto assottigliata. Il Condottiero è andato a parlare con l’Egemone. Sembra che i burocrati russi siano preoccupati: alcuni giornalisti delle reti video stanno già esaminando i modi in cui l’America potrebbe usare la F.I. per smembrare il Patto di Varsavia, dopo che gli Scorpioni saranno stati sconfitti.

— Mi sembrano ipotesi premature.

— A me sembrano folli. La libertà d’informazione è una cosa, ma incitare gli Alleati a rivalità nazionalistiche… ed è per gente come quella, dalla vista corta e paranoica, che stiamo spingendo Ender sull’orlo della sopportazione umana.

— Penso che lei sottovaluti Ender.

— La mia paura è che stiamo sottovalutando la stupidità del resto della razza umana. Siamo davvero sicuri di dover vincere questa guerra?

— Signore, questa è una domanda da corte marziale.

— Sono passato all’umorismo nero.

— Be’, non è divertente. Quando si parla degli Scorpioni, niente…

— Niente è divertente, lo so.

Ender Wiggin era disteso sul letto, gli occhi fissi in alto. Da quando lo avevano promosso comandante non dormiva mai più di cinque ore per notte, anche se le luci si spegnevano alle 2200 e non venivano riaccese che alle 0600. Qualche volta lavorava ugualmente al suo banco, o sforzava gli occhi usandone per altri scopi la debole luminosità. Ma di solito lasciava vagare lo sguardo nel buio del soffitto e rifletteva.

O gli insegnanti erano stati dopotutto abbastanza generosi, o lui era un comandante migliore di quel che credeva. Nei suoi pochi e scalcinati veterani, vissuti senza infamia e senza lode nelle loro precedenti orde, stavano sbocciando doti di prim’ordine. Così, invece dei consueti quattro branchi, lui ne aveva creati cinque, ciascuno con un capo e un vice; ogni veterano in una posizione di responsabilità. Nell’addestramento disponeva di cinque branchi di otto elementi oppure di dieci mezzi branchi, cosicché a un singolo comando in codice l’orda poteva condurre un massimo di dieci manovre separate all’interno di un’unica manovra tattica. Nessun’orda s’era mai frammentata in quel modo prima d’allora, ma d’altronde Ender non meditava di fare cose già note ad altri. Molte orde praticavano manovre di massa, strategie ampiamente collaudate. Ender non predeterminava i particolari, anzi addestrava i suoi capibranco perché usassero le loro piccole unità contro obiettivi limitati, senza aiuto, da soli, obbligati ad agire di propria iniziativa. Dopo la prima settimana aveva messo in scena battaglie dallo svolgimento confuso, selvaggi scontri scimmieschi che lasciavano esausti i soldati e senza più voce i capibranco. Ma ora sapeva, dopo neppure un mese di lavoro, che la sua orda aveva un potenziale umano capace di trasformarla nel miglior gruppo combattente fra quelli già in classifica.

Quanto di tutto questo era parte del piano degli insegnanti? Erano al corrente di avergli assegnato ragazzi oscuri ma eccellenti? Gli avevano gettato fra le braccia trenta novellini, molti dei quali sotto il limite d’età, perché sapevano quale rabbia repressa vi fosse nei pivelli invidiosi dei più grandi e bramosi di portarsi alla loro altezza? O questo era ciò che succedeva a ogni gruppo simile, se dato in mano a un comandante che sapeva cosa voleva da loro e come costringerli a impararlo?

Quegli interrogativi lo preoccupavano, perché non sapeva se stava confondendo le idee a degli insegnanti ostili oppure esaudendo le aspettative di insegnanti molto astuti.

Il solo elemento di cui era certo era la sua impazienza di battersi. Molte orde avevano bisogno di tre mesi per il solo fatto che dovevano memorizzare dozzine di elaborate tattiche. Be’, noi siamo già pronti. Mandateci in battaglia.

Nelle tenebre la porta si aprì silenziosamente. Ender tese gli orecchi: un passo soffocato. Il battente fu richiuso.

Rotolò fuori dal letto e si mosse lentamente verso il lato opposto della camera; ma soltanto due minuti dopo, quando avvertì la presenza di un foglio di carta sotto un piede, capì che non era entrato nessuno. Lo raccolse. Naturalmente non poté leggerlo, ma sapeva che genere di ordini conteneva. Battaglia. Ma quanto sono gentili. Esprimi un desiderio, e loro te lo realizzano all’istante.

Quando le luci si accesero Ender indossava già la tuta da battaglia dell’orda dei Draghi. Uscì subito in corridoio, e alle 0601 era alla porta della camerata della sua orda.

— Uomini, fra un’ora sapremo se stiamo qui dentro per suonare o per essere suonati. Abbiamo una battaglia contro l’orda delle Lepri alle sette in punto. Vi voglio scaldati a gravità normale e pronti a scendere in campo. Tutti nudi come vermi e dritti in palestra, con la tuta da battaglia sottobraccio. Ci vestiremo dopo la ginnastica. E la colazione?

— Non vogliamo che qualcuno si metta a vomitare in sala di battaglia, no?

C’era almeno il tempo di andare a fare un po’ d’acqua?

— Non più di un decilitro ciascuno, razza di perditempo!

I ragazzi risero. Quelli che non avevano l’abitudine di dormire nudi si spogliarono; tutti arrotolarono la tuta da battaglia e seguirono Ender di corsa lungo i corridoi fino in palestra. Li fece passare due volte sul percorso a ostacoli, quindi alla scala svedese e alle parallele, ma con tutta calma. — Non affaticatevi, andate in scioltezza, dovete soltanto scaldarvi — ordinò, ma non temeva che si stancassero. Erano in buona forma, agili e leggeri, e il suo repertorio di frasi salaci una volta tanto li eccitava. Alcuni cominciarono spontaneamente a lottare; la palestra, di solito tediosa, nell’imminenza della battaglia diventava all’improvviso un posto divertente. La loro è l’euforica sicurezza di chi non ha mai sbattuto la faccia nelle delusioni di una battaglia, e pensano d’esser pronti. Be’, perché non dovrebbero pensarlo? Lo sono. E io anche.

Alle 0640 ordinò che indossassero le tute da battaglia. Parlò poi con i capibranco e i loro vice mentre si vestivano. — Le Lepri sono per lo più veterani, ma Carn Carby è il loro comandante da soli cinque mesi e non ho mai combattuto contro quest’orda con lui alla guida. È stato un soldato di ottima levatura, e le Lepri sono ormai da anni nella zona alta della classifica. Ma mi aspetto di vederli manovrare in formazione standard, perciò non sono molto preoccupato.

Alle 0650 li fece stendere tutti sui materassini per un training autogeno basato sulla musica e sulla respirazione. Alle 0656 ordinò l’uscita e correndo con leggerezza sfilarono nei corridoi verso la sala di battaglia. Ogni tanto Ender balzava in alto a toccare il soffitto, e i ragazzi dietro di lui lo imitavano battendo una mano nello stesso punto esatto. La loro striscia di luce colorata girò a sinistra; l’orda delle Lepri era già passata di lì, svoltando a destra. E alle 0658 furono davanti alla porta chiusa della sala di battaglia.

I branchi si allinearono su cinque colonne. A ed E erano pronti ad afferrare i corrimano esterni per proiettarsi ai lati. B e D avrebbero usato quello superiore per spingersi verso l’alto nell’ambiente a gravità zero. Il branco C si sarebbe tuffato sul corrimano inferiore per balzare nella direzione opposta.

Su, giù, destra, sinistra; Ender li fronteggiò, stando fra due delle colonne per non essere d’ostacolo, e li orientò nel solito modo: — Soldati, dite al nostro Bean dov’è la porta del nemico. Da che parte?

— In basso! — gridarono tutti, ridendo. E in quel momento su diventò nord, giù diventò sud, e la destra e la sinistra divennero est e ovest.

La parete grigiastra davanti a loro si dissolse, e l’interno della sala di battaglia fu visibile. Non sarebbe stato un combattimento al buio, ma non si poteva dire che la luce fosse molta: c’era una fosca penombra in cui tutto sembrava nebuloso. In distanza Ender vide la porta nemica, da cui già scattavano fuori le forme appena fluorescenti degli avversari. Per un attimo questo lo fece sorridere: tutti avevano imparato la lezione, dopo che Bonzo aveva fatto un uso malaccorto di Ender Wiggin, e continuavano ad applicarla. Si sparavano fuori dalla porta come razzi, cosicché c’era soltanto il tempo di gridare il codice della formazione in cui manovrare. Le battaglie iniziavano senza che i comandanti avessero il tempo di pensare. Ma Ender ora voleva prendersi quel tempo, e confidava nella capacità dei suoi soldati di combattere con le gambe congelate perché uscissero dalla porta intatti, malgrado il ritardo.

Controllò la disposizione delle stelle con un’occhiata. Ce n’erano otto, scaglionate non diversamente dal solito, abbastanza grosse perché valesse la pena di sfruttarle. — Prendiamo le stelle più vicine — ordinò. — C, scivolare lungo la parete. Se funziona, A ed E seguiranno. Se no, deciderò da lì. Io sarò col D. Muoversi!

Tutti i soldati avevano sentito quale fosse la strategia, ma le decisioni tattiche dipendevano adesso dai capibranco. Le istruzioni di Ender non fecero ritardare più di una decina di secondi la loro uscita, mentre l’orda delle Lepri si stava già muovendo in un’elaborata danza aerea all’altro lato della sala. In qualunque orda precedente Ender avesse militato, in quel momento avrebbe dovuto preoccuparsi che i suoi compagni potessero coprirsi a vicenda in una formazione adatta ad arginare la manovra nemica. Invece l’unica cosa che i Draghi stavano pensando era di penetrare al di là di essa, disperdersi fra le stelle e negli angoli della sala e quindi spezzettare la formazione avversaria in gruppetti molti dei quali sarebbero stati privi di un capobranco. E con quattro settimane appena di lavoro collettivo il caos scimmiesco in cui combattevano sembrava a Ender l’unico modo intelligente, l’unico modo possibile. Fu quasi sorpreso nel constatare che le Lepri erano ancorate a schemi tattici per lui già sorpassati.

Il branco C scivolò via lungo la parete, con le ginocchia ripiegate per farsi scudo contro gli avversari. Tom il Matto, il capo del branco C, aveva evidentemente già ordinato ai suoi di spararsi alle gambe. In quella cupa penombra non la si poteva definire un’idea malvagia, dal momento che una volta colpite le tute da battaglia perdevano la loro debole fluorescenza. Il suo branco parve svanire nella foschia, e per quanto seccato dal non vederli più Ender dovette approvare la cosa.

L’orda delle Lepri riuscì a rintuzzare l’attacco laterale del branco C, ma non prima che Tom il Matto e i suoi ragazzi avessero attraversato come proiettili la formazione più avanzata: gli otto Draghi fecero fuori una buona dozzina di Lepri prima d’esser costretti a ripararsi dietro una stella. Ed era una stella all’interno del territorio nemico, cosa che bastò a fermare l’avanzata ordinata da Carn Carby.

Han Tzu, soprannominato Zuppa Cinese, era il capo del branco C. Scivolò come un gatto dietro il bordo della stella dove s’era attestato Ender. — Che ne dici di girare sulla parete nord e arrivargli in faccia a ginocchia in avanti?

— Provaci — annuì Ender. — Io porto il B a sud e cerco di aggirarli. — Poi gridò: — A ed E, allargare sulle pareti! — Puntellò i piedi sul bordo della stella e si proiettò oltre la stella tenuta dal branco B, ordinando loro di seguirlo. Pochi istanti dopo li stava precedendo verso la parete sud. Vi arrivarono quasi all’unisono, e il rimbalzo li portò al di là delle due stelle da cui i soldati di Carn Carby stavano sparando contro Tom il Matto. Fu come tagliare il burro con una lama rovente. L’orda delle Lepri perse tanti uomini che il resto sarebbe stato un semplice rastrellamento. Ender suddivise i branchi in mezzi-branchi per attaccare ogni soldato nemico che fosse stato soltanto parzialmente inabilitato, e tre minuti più tardi i capibranco gli segnalarono che la sala era stata ripulita. Appena uno dei suoi ragazzi era stato completamente congelato — uno del branco C, che aveva sopportato il grosso del contrattacco nemico — e solo cinque erano inabilitati alle braccia. Metà avevano le gambe congelate, ma si trattava per lo più di colpi auto-inflitti. Tirate le somme, la strategia «caos contro ordine» aveva dato risultati fin troppo superiori a quelli che Ender s’era atteso.

Riunì i suoi capibranco e diede loro il privilegio di conquistare la porta delle Lepri: quattro caschi a contatto degli angoli luminosi, e Tom il Matto al centro per godersi quell’onore. Assai di rado accadeva che un comandante, purché non fosse congelato anch’egli, potesse portare tutti i suoi capibranco alla porta del nemico. Ender avrebbe potuto scegliere i cinque uomini in un’orda che non aveva praticamente subito perdite. Una buona battaglia.

Le luci si accesero al massimo, e il maggiore Anderson uscì dalla porta degli insegnanti al lato sud della sala. Con gesto solenne consegnò a Ender il radiogancio, il cui uso spettava per tradizione al vincitore. Lui azionò il piccolo apparecchio sulle tute dei suoi soldati, scongelandole, quindi li recuperò uno dopo l’altro e mise in fila i branchi prima di andare a scongelare gli avversari. Ranghi ordinati e militareschi, questo voleva esibire al momento in cui Carn Carby e le Lepri avessero riavuto il controllo dei loro corpi. Potranno imprecare e dire che li abbiamo attaccati come un branco di scimmie urlanti, ma ricorderanno d’esser stati distrutti, e ricorderanno di averci visti così: vittoriosi e perfettamente allineati, usciti quasi senza perdite dalla prima battaglia. L’orda dei Draghi non resterà molto a lungo nel suo tradizionale ruolo di mediocrità.

Carn Carby venne a stringere la mano a Ender appena fu scongelato. Era un ragazzo di dodici anni, che malgrado le sue doti era stato promosso comandante solo nel suo ultimo anno di permanenza alla Scuola, e forse questo gli aveva impedito di metter su arie da galletto come altri più precoci di lui. Quel che mi sta insegnando lo terrò a mente, si disse Ender, per quando sarò io a perdere. Dignità. Saper fare omaggio al valore dell’avversario. Le sconfitte non sono una tragedia… anche se spero di conoscerne il meno possibile.

Poco dopo, appena le Lepri furono uscite per la porta da cui erano entrati i ragazzi di Ender, Anderson mise in libertà l’orda dei Draghi. In fila indiana oltrepassarono la soglia, oltre la quale il pavimento piastrellato ricordava loro da che parte attirasse la forza di gravità. Ogni soldato oltrepassò la porta nemica, atterrò con un saltello e corse avanti fermandosi in fila con i compagni nel corridoio.

— Sono le sette e un quarto, uomini — li apostrofò Ender. — Questo significa che avete quindici minuti per la colazione, prima che l’orda si presenti in sala di battaglia per l’addestramento mattutino. — Gli parve quasi di sentirli sospirare in silenzio: avanti, comandante! Abbiamo vinto, lasciaci fare un po’ di festa! Ma conservò un’espressione impassibile. — Inoltre, poiché entrerete a mensa subito dopo le Lepri, siete avvisati che chi non sogghigna con tutti e trentadue i denti verrà severamente sculacciato.

I ragazzi risero, si scambiarono allegre gomitate nelle costole e battute scherzose, poi lui li mise al passo di corsa. Ma sulla soglia della mensa prese da parte i capibranco e disse loro che i ragazzi avrebbero avuto mezz’ora per la colazione, e che quel mattino l’addestramento sarebbe finito prima per dar loro il tempo di farsi una doccia e rilassarsi un po’ in camerata. Si trattava di un premio piuttosto striminzito, ma nel severo orario della Scuola era meglio che niente. Inoltre dava modo a Ender di mettere in atto la sua politica. Lascia che i ragazzi abbiano dai loro capibranco le buone notizie, e dal comandante solo frasi alquanto burbere. Così diventeranno nodi stretti e solidi nel tessuto che si tesse in questa fabbrica.

Lui non fece colazione. Non aveva fame. Andò invece alle docce e si lavò senza fretta, dopo aver ficcato la tuta da battaglia in un pulitore automatico che gliel’avrebbe restituita fresca e stirata in pochi minuti. In piedi sotto la doccia lasciò che l’acqua portasse via il sapone e continuasse a scorrergli addosso, ad occhi chiusi. Ogni goccia viene riciclata, qui dentro. Qualcuno berrà un po’ del mio sudore di oggi. Gli avevano affibbiato un’orda priva d’addestramento, e aveva vinto, e in modo per di più indiscutibile. Aveva vinto con sei soli soldati fra congelati e disabilitati. Adesso vediamo per quanto tempo gli altri comandanti continueranno a basarsi sulle loro formazioni rigide, dopo aver visto cosa può fare una strategia flessibile.

Stava fluttuando nel mezzo della sala di battaglia loro assegnata, quando i suoi soldati cominciarono a entrare. Nessuno venne a dirgli niente, come si aspettava. Sapevano che a parlare sarebbe stato lui, appena pronto a farlo e non prima.

Allorché furono allineati, Ender usò il radiogancio per passarli in rassegna e li osservò uno per uno. — La nostra prima battaglia non è finita disastrosamente — disse. Questo diede la stura ad alcune risate e al tentativo di inneggiare «Dra-dra-draghi! Ahyy-draghi!» che lui azzitti. — L’orda dei Draghi si è comportata bene contro le Lepri. Ma non illudetevi di trovare altri avversari tanto facili. Se quella fosse stata una buona orda, gruppo C, il vostro attacco è stato così lento che vi avrebbero schiacciati contro la parete prima di lasciarvi attestare al riparo. Branco A, e branco E, la vostra mira è difettosa. Ognuno di voi ha sul suo cartellino un solo centro ogni quattro o anche cinque colpi sparati. Erano colpi a lunga distanza, certo, ma se le Lepri non avessero concentrato il fuoco sul branco C il loro bersaglio sareste stati voi. E vi avrebbero fatto pagar cara questa manchevolezza. Voglio che ogni branco si eserciti al tiro, da lontano, con bersagli fermi e in movimento. Ogni mezzo branco fungerà a turno da bersaglio. Io scongelerò i colpiti ogni tre minuti. Addesso muoversi, coraggio!

— Non potremmo avere una stella su cui piazzarci? — chiese Zuppa Cinese. — Per tener ferma la mira mentre spariamo, voglio dire.

— No. Non dovete abituarvi ad avere un punto d’appoggio per la pistola. Se ti trema il braccio, congelati il gomito. Ai vostri posti!

I capibranco organizzarono subito il tiro al bersaglio, e Ender si mosse da un gruppo all’altro per dare suggerimenti e aiutare quei soldati che avevano qualche particolare difficoltà. I ragazzi s’erano già accorti che il loro comandante poteva essere brutalmente secco quando si rivolgeva ai branchi, ma che nel lavorare con il singolo individuo era assai paziente, dava suggerimenti più che ordini, ascoltava ogni domanda e ogni problema con sincera attenzione. Ma non rideva mai quando essi accennavano a coinvolgerlo in qualcosa di scherzoso, e presto avevano smesso di provarci. Lui era il comandante in ogni momento che trascorrevano insieme. Non ebbe bisogno di ricordarglielo: semplicemente lo era.

Quel mattino i ragazzi avevano ancora in bocca il sapore della vittoria e lavorarono volentieri, chiacchierando e appassionandosi a quel che facevano, finché un’ora prima del pranzo uscirono per andare a far la doccia. Ender trattenne i capibranco e analizzò con loro la tattica che avevano usato ed il rendimento dei singoli soldati. Poi andò in camera sua e senza fretta si mise una tuta da riposo pulita, ascoltando la registrazione di una lezione tecnica del giorno prima. Aveva idea di entrare nella mensa dei comandanti con circa dieci minuti di ritardo. Una legge non scritta imponeva ai comandanti di non entrare nel locale da pranzo riservato ad essi fino alla loro prima vittoria, perciò lui non ne aveva mai visto l’interno né sapeva quale comportamento ci si attendeva da un comandante a mensa con i colleghi. Ma sapeva che intendeva entrare soltanto quando i punteggi delle squadre che avevano combattuto quel mattino sarebbero apparsi sul tabellone.

Il suo ingresso non destò la minima sensazione. Ma quando alcuni dei presenti notarono quanto fosse giovane, e videro l’emblema del Drago sulle maniche della sua uniforme, lo seguirono con lo sguardo. Lui andò a riempirsi un vassoio al distributore automatico, e nel sedersi a un tavolo libero s’accorse che le conversazioni in sala erano cessate. Cominciò a mangiare, lentamente e con cura, fingendo di non rendersi conto degli occhi puntati su di lui. Pian piano le chiacchiere e i rumori normali ripresero, e soltanto allora poté rilassarsi e girare attorno qualche rapido sguardo.

Una delle pareti era occupata per intero da un grande schermo, su cui il computer proiettava classifiche e dati di vario genere. I soldati erano tenuti al corrente delle prestazioni delle orde, mentre qui c’erano graduatorie relative a quelle dei singoli comandanti.

E di nuovo, grazie agli scherzi delle percentuali, Ender risultava in testa con un 100% di vittorie, mentre il suo distacco era ancor maggiore in altre categorie: media dei superstiti sani/disabilitati, media degli avversari congelati, tempo medio per ottenere una vittoria, e media delle perdite per battaglia.

Aveva quasi finito di mangiare quando una mano gli si poggiò su una spalla. — Posso sedermi?

Ender non ebbe bisogno di voltarsi per riconoscere Dink Meeker. — Ehi, Dink! — si compiacque. — Certo, accomodati.

— Allora, bastardo placcato d’oro — disse allegramente l’altro. — Qui stiamo tutti cercando di decidere se i tuoi punteggi sono un miracolo o un maledetto imbroglio.

— Un’abitudine — disse Ender.

— Una vittoria non è un’abitudine — lo rimbrottò Dink. — Non montarti la testa. Quando sei nuovo ti mettono contro squadre materasso.

— Carn Carby non è precisamente un materasso. — Era vero. Carby si trovava presso il centro delle graduatorie.

— Lui è in gamba — disse Dink, — considerando la sua scarsa esperienza di comando, è una promessa. Tu non sei una promessa. Sei una minaccia.

— Minaccia di cosa? Ti danno da mangiare di meno, se io vinco di più? E pensare che sei stato proprio tu a dirmi che questo è uno stupido gioco, senza nessuna importanza.

A Dink non fece piacere vedersi ritorcere contro le sue stesse parole, non in quelle circostanze. — Però tu sei quello che mi ha convinto a seguire fino in fondo il loro piano. Bene… ma non fare il gioco dei tre bussolotti con me, Ender. Non vinceresti.

— Probabilmente no — disse lui.

— Io ti ho insegnato molte cose.

— Le più importanti — ammise Ender. — Adesso le sto solo risuonando a orecchio.

— Congratulazioni — disse Dink.

— È bello avere un amico, qui. — Ma Ender non era troppo sicuro che Dink fosse sempre veramente suo amico, e quell’impressione era reciproca. Dopo una ventina di secondi di silenzio Dink tornò al suo tavolo.

Ender poggiò le posate sul piatto e si guardò attorno. Qua e là in sala si cominciava a far conversazione. Gettò un’occhiata a Bonzo, che adesso era uno dei comandanti più anziani. Rose de Nose aveva terminato il corso. Petra era con un gruppetto di colleghi, in un angolo, e non aveva ancora guardato una volta verso di lui. Poiché molti degli altri di tanto in tanto si voltavano a osservarlo, inclusi quelli con cui Petra stava parlando, Ender fu abbastanza certo che la ragazza evitava deliberatamente il suo sguardo. Ecco il guaio di chi vince fin dall’inizio, sospirò fra sé. Perdi gli amici.

Diamogli qualche settimana perché si abituino. Per il giorno in cui avrò la mia prossima battaglia, le acque si saranno un po’ calmate.

Carn Carby si fece un punto d’onore di fermarsi a salutare Ender, poco prima che scadesse l’ora del pranzo. Fu di nuovo un placido gesto formale, e tuttavia, a differenza di Dink, Carby esibì modi molto spontanei. — Pare che io sia in disgrazia — disse con franchezza. — Nessuno ha voluto credermi, quando ho detto che hai messo in atto una strategia mai vista prima. Così spero che tu batta il prossimo di questi altezzosi signorini che ti capiterà davanti. Te lo chiedo come un favore.

— Farò del mio meglio, — annuì Ender, serio. — E grazie per esserti fermato a parlare con me.

— Oggi ti hanno trattato in modo indegno. Per tradizione i nuovi comandanti vengono complimentati da tutti, la prima volta che vengono alla mensa. Ma di solito nessuno arriva qui senza aver già ingoiato diverse sconfitte. Io ci sono entrato per la prima volta appena un mese fa. E se qualcuno merita complimenti, sei tu. Ma così è la vita. Fagli mangiare la polvere.

— Sei davvero… sì, ci proverò. — Carby uscì, e Ender mentalmente lo aggiunse alla sua lista privata di membri a pieno merito della razza umana.

Quella notte Ender dormì meglio di quanto gli accadeva ormai da mesi. E il suo sonno fu così profondo che a destarlo fu soltanto il cicalino, quando le luci si riaccesero. Scendendo dal letto notò che si sentiva a meraviglia; andò di corsa a fare una doccia rapida, tornò in camera e tolse dall’armadio una tuta da fatica. Soltanto allora, quando l’aria spostata dall’indumento lo fece svolazzare, si accorse che sul pavimento c’era un foglio di carta. Lo raccolse e lo lesse.

ORDA DEI DRAGHI — comandante Ender Wiggin

sala di battaglia, ore 0700

ORDA DELLE FENICI — comandante Petra Arkanian

Era la sua vecchia orda, quella che aveva lasciato soltanto quattro settimane prima, e ne conosceva le tattiche di battaglia come il palmo della sua mano. Grazie anche ai suoi apporti tecnici era la più flessibile fra le orde, capace di rispondere bene e in fretta alle situazioni impreviste. Le Fenici sarebbero stati i più abili nell’adattarsi all’attacco fluido e non schematico dei Draghi. Gli insegnanti erano determinati a rendergli la vita piuttosto interessante.

0700 diceva il foglio, ed erano le 0630. Alcuni dei suoi ragazzi dovevano essersi già avviati sbadigliando a far colazione. Ender rimise l’uniforme nell’armadio, afferrò la tuta da battaglia e pochi secondi dopo entrava a lunghi passi nella camerata della sua orda.

— Signori, spero che ieri abbiate imparato cos’è una battaglia, perché oggi siamo gentilmente attesi nella stessa sala.

Occorse loro qualche momento per capire che stava parlando di una battaglia, e non dell’addestramento. Doveva esserci un errore, dissero alcuni. Nessuno aveva mai affrontato due avversari in due giorni consecutivi.

Lui porse il foglio a «Mosca» Molo, il capo del branco A, che all’istante sbraitò: — Tute da battaglia! Controllare la batteria delle pistole! Oggi i Draghi bruceranno la coda a certi tipi che si fanno chiamare Fenici, uomini! Scattare!

— Perché non ce lo hai detto prima? — chiese Zuppa Cinese. Zuppa aveva un modo di fare domande a Ender che nessun altro osava imitare.

— Volevo lasciarvi il tempo di fare una bella doccia — disse lui. — Ieri le Lepri dicevano che abbiamo vinto perché la nostra puzza li ha messi fuori combattimento.

I soldati che erano nelle vicinanze risero.

— Non hai trovato quel foglio finché non sei tornato dalla doccia, comandante. Vero? — disse una voce.

Ender si volse in cerca di chi aveva parlato. Era Bean, già in tuta da battaglia e con uno sguardo insolente negli occhi. Cerchi l’occasione di restituire pan per focaccia, eh, Bean?

— Proprio così — disse, esibendo un’annoiata pazienza. — Io non sono vicino al pavimento quanto te, caro bambino.

Altre risate. Bean arrossì di rabbia.

— È chiaro che ci troviamo di fronte a schemi tattici troppo rigidi — disse Ender. — Ma di volta in volta diversi, e io voglio che le iniziative dei capibranco siano lucide. Non posso far finta che mi piaccia il modo in cui ci mettono sotto il torchio, però so di poter dire una cosa: che ho un’orda capace di farcela.

Dopo quella frase, se avesse chiesto loro di seguirlo sulla luna senza tuta spaziale i Draghi ci avrebbero provato.

Petra non era Carn Carby. Fin dall’inizio le Fenici si dimostrarono capaci di una manovra corale molto flessibile, e arginarono bene i velocissimi e imprevedibili attacchi dei Draghi. Tuttavia Petra faceva agire uniti i suoi quattro branchi, e quando s’accorse che di fronte a lei c’erano dieci mezzi branchi ognuno dei quali scatenato in un’iniziativa diversa ne fu confusa. Ordinò allora di attestarsi a difesa di posizione fisse, e come risultato venne presa alle spalle. Mentre sparava come un’indemoniata, Bean la congelò con un preciso colpo al corpo. La battaglia terminò con tre soli Draghi congelati e nove parzialmente inabilitati. Le Fenici uscirono dalla sala di pessimo umore, e Petra passò accanto a Ender evitando ostentatamente di stringergli la mano. L’ira nei suoi occhi sembrava dire: io ero tua amica, e invece di limitarti a sconfiggermi mi hai addirittura umiliata.

Ender finse di non notare la sua ostilità e le fece ugualmente un cenno di saluto, sapendo che la ragazza aveva un carattere acceso. Si disse che dopo qualche altra battaglia Petra avrebbe constatato che le Fenici avevano inferto ai Draghi più perdite di ogni altro, e questo la avrebbe placata. Inoltre da lei stava ancora imparando qualche cosetta, e nell’addestramento di quel giorno avrebbe insegnato ai capibranco come fronteggiare un paio di manovre puramente difensive che le aveva visto mettere in pratica. Presto sarebbero stati di nuovo amici.

O così sperava.

Alla fine della settimana l’orda dei Draghi aveva combattuto sette battaglie, una al giorno. Sul tabellone risultavano 7 vittorie e zero sconfitte. Ender ebbe le perdite maggiori nello scontro con le Fenici, e in due occasioni i Draghi terminarono senza neppure un soldato congelato o disabilitato. Nessuno poteva più dire che a metterlo in cima alle classifiche erano gli scherzi matematici delle percentuali: troppe erano le orde che aveva battuto con margini di punteggio mai visti prima.

Per gli altri comandanti non era più possibile ignorarlo. Alcuni di loro presero a sedersi al suo tavolo, cercando cautamente di sondarlo per capire come aveva sconfitto i suoi ultimi avversari. Lui lo rivelò liberamente, dicendo a se stesso che pochi avrebbero saputo come allenare i loro soldati e i loro capibranco per ottenere un’orda di quel genere. E mentre i più cordiali facevano conversazione con lui, un gruppo molto più numeroso si radunava intorno ai comandanti da lui sconfitti, nel tentativo di scoprire un sistema capace di batterlo.

Ciò che scoprì lui fu il numero, imprevisto, dei ragazzi che lo odiavano. Ognuno aveva un suo motivo particolare: chi perché era troppo giovane per avere un’orda, chi perché era troppo bravo, chi perché aveva fatto impallidire i successi altrui, e chi perché scambiava la sua riservatezza per superbia. Ender cominciò a leggere quei sentimenti in faccia anche a ragazzi che non conosceva, incrociandoli nei corridoi. Poi notò che a mensa alcuni si alzavano ostentatamente e cambiavano posto, quando lui veniva a sedersi troppo vicino. Nello stesso periodo ci fu un’escalation dei piccoli incidenti e degli atti ostili: gomiti che gli si affondavano casualmente nelle costole in sala giochi, piedi che lo facevano inciampare mentre passava in mezzo a un gruppetto fermo su una porta, sputi o palle di carta bagnata che gli arrivavano alle spalle quando faceva un po’ di corsa lungo i corridoi. Qualcuno agiva anche apertamente, quasi a dirgli che se era invincibile in sala di battaglia nel resto della Scuola restava un ragazzino qualunque. Ender li disprezzava. Ma segretamente, così segretamente che forse neppure lui lo sapeva, aveva paura di loro. Era proprio con quelle vessazioni che Peter lo aveva sempre tenuto sulle spine, e in lui stavano rinascendo le angosce fatte di rabbia e d’impotenza che avevano accompagnato la sua infanzia.

Tuttavia erano soperchierie di scarso peso, e si disse che poteva accettarle come riconoscimenti d’altro genere. Alcune orde cominciavano già ad imitarlo. Molti soldati attaccavano con le gambe ripiegate in avanti, le manovre corali lasciavano il posto a quelle frammentate, e molti comandanti mandavano i branchi a scivolare via lungo le pareti. Nessuno sembrava incline a suddividere l’orda in cinque parti; affermavano che quattro branchi forti potevano prevalere contro cinque deboli… e questo continuava a dargli un vantaggio.

Stava insegnando a tutti quanti, ex novo, le tattiche di combattimento a gravità zero. Ma dove poteva rivolgersi per tirar fuori idee sempre originali ed efficaci?

Cominciò a frequentare la videoteca, piena di filmati propagandistici su Mazer Rackham e altri famosi comandanti che avevano combattuto durante la Prima e la Seconda Invasione. Interruppe le lezioni di addestramento pratico un’ora prima e incaricò i capibranco di fare istruzione a loro piacimento in sua assenza. Di solito mettevano su delle scaramucce, branco contro branco; Ender restava qualche minuto a vedere cosa inventavano e poi andava a studiarsi le antiche battaglie.

Molti di quei video erano pura perdita di tempo. Musica eroica, sfilate di ufficiali, consegna di medaglie al valore, scene confuse di marines che prendevano possesso di istallazioni costruite dagli Scorpioni. Ma qua e là trovò dei filmati utili: astronavi simili a punti di luce che manovravano nel buio dello spazio, o meglio ancora gli schermi di bordo sui quali si leggeva lo svolgimento di una battaglia schematizzata dai computer. Era difficile interpretare a tre dimensioni quei video bidimensionali, e spesso le scene erano troppo corte o senza un commento esplicativo. Ma lo sorprese notare l’abilità con cui gli Scorpioni attaccavano su traiettorie apparentemente casuali per creare confusione, o usavano esche e false manovre di ritirata per attirare le navi della F.I. in trappola. Alcune battaglie erano spezzettate in scene diverse e sparse fra bobine di documentari, telegiornali e registrazioni archiviate dalla F.I. ma rimontandole e proiettandole da solo Ender riuscì a ricostruirle per intero. Cominciò a vedere particolari che i commentatori ufficiali avevano ignorato. Costoro non facevano che sviolinate e tiritere sul coraggio dei comandanti umani e sulla nera perversità degli Scorpioni in questa o quella circostanza, ma a Ender interessava il lato tecnico, e si chiedeva come fosse mai stato possibile ottenere certe vittorie inesplicabili. Le astronavi terrestri erano rozzi prodotti di catene di montaggio costrette a lavorare in fretta; le flotte rispondevano al verificarsi di circostanze nuove con incredibile lentezza e inefficienza, mentre le navi degli Scorpioni agivano con un sincronismo impensabile e sembravano capaci di mutare obiettivi e manovre con istantanea precisione. Ovviamente, durante la Prima Invasione le astronavi terrestri erano state delle bagnarole lente e inadatte a vere e proprie campagne belliche nello spazio profondo, ma gli Scorpioni avevano portato nel sistema solare vascelli non troppo superiori ad esse. Era stato soltanto nella Seconda Invasione che i mezzi spaziali s’eran fatti potenti, veloci, e le armi veramente mortali.

Così fu dagli Scorpioni, e non dai terrestri, che Ender si accorse d’imparare la strategia. E questo gli fece provare un senso di vergogna e di colpa, perché quegli esseri chitinosi erano il più terribile pericolo mai piombato addosso all’umanità, un nemico odioso e mortale. Ma erano anche maledettamente abili in ciò che facevano. Almeno fino a un certo punto. Ogni volta sembravano seguire una sola strategia basilare: riunire il maggior numero possibile di navi nella zona chiave della battaglia. Non facevano nulla di sorprendente, niente che rivelasse fra loro la presenza di comandanti geniali o con tendenze individualistiche. La disciplina era ferrea, pari alla loro efficienza.

E c’era una cosa strana. Nella marea di discorsi su Mazer Rackham, i filmati relativi alla sua flotta brillavano per la loro assenza. Al più esistevano registrazioni sulle premesse di una battaglia, con le piccole e scarse astronavi di Rackham quasi patetiche al confronto della strapotenza degli Scorpioni. Questi avevano già fatto a pezzi la principale flotta terrestre oltre l’orbita di Plutone, spazzato via gli avamposti esterni del sistema solare, e s’erano fatti gioco dell’intera strategia messa in atto per impedir loro di avvicinarsi alla Terra. Di questa fase abbondavano le registrazioni, recuperate dalle rovine e montate in film per alimentare l’orrore e l’odio della gente. Poi gli Scorpioni erano giunti a contatto della piccola flotta riunita da Mazer Rackham presso Saturno. L’avvicinamento, la disparità di forze, e quindi…

L’unica ripresa, fatta dall’interno del piccolo incrociatore di Rackham, mostrava una nave nemica che esplodeva. Nelle bobine non c’era altro. Dozzine di filmati in cui i marines si aprivano la strada entro le buie astronavi nemiche, dozzine di riprese mostranti i corpi degli Scorpioni sparsi ovunque. Ma nulla in cui si vedesse uno Scorpione ucciso in combattimento, o comunque in atto di combattere, salvo in brani filmati chiaramente ripresi durante la Prima Invasione. Era frustrante scoprire che proprio la vittoria di Rackham fosse stata così censurata dalla F.I. Alla Scuola di Guerra gli studenti avrebbero avuto molto da imparare da Mazer Rackham, eppure le registrazioni di quella battaglia non c’erano. I servizi segreti non avevano certo fatto un favore a quei ragazzi che si accingevano a emulare le sue imprese belliche.

Come c’era da aspettarsi, appena si sparse la voce che Ender Wiggin studiava i filmati delle vecchie battaglie molti cominciarono a frequentare la videoteca. Per lo più erano i comandanti, e questi esaminavano le stesse registrazioni consultate da lui assumendo l’aria di chi ha capito cosa c’è di interessante e di cui prendere doverosamente nota. Ender li osservò darsi da fare senza dir parola. Anche quando un ragazzo, dopo aver proiettato alcuni video di diversa fattura, si volse a chiedergli: — Secondo te, questi riguardano tutti la stessa battaglia? — Lui si limitò a scrollare le spalle come se la cosa fosse irrilevante.

Fu durante l’ultima ora d’addestramento del settimo giorno, poche ore dopo che l’orda di Ender aveva vinto la sua settima battaglia, che il maggiore Anderson in persona entrò in videoteca. Consegnò un documento a uno dei comandanti seduti davanti agli schermi e poi si volse a Ender: — Il colonnello Graff vuole vederti subito nel suo ufficio.

Ender si alzò e tenne dietro ad Anderson lungo i corridoi. Il maggiore poggiò una mano sullo scanner della porta che separava i quartieri degli studenti da quelli degli ufficiali, e poco dopo furono davanti a Graff, che li attendeva seduto su una sedia girevole imbullonata al pavimento. Lo stomaco rigonfio metteva a dura prova le cuciture della sua uniforme, e Ender sbatté le palpebre nell’osservarlo. Graff non gli era parso particolarmente grasso la prima volta che l’aveva visto, appena quattro anni addietro. L’età e la tensione non erano state molto gentili con il direttore della Scuola di Guerra.

— Sono trascorsi sette giorni dalla tua prima battaglia, Ender — disse Graff.

Il ragazzo non fece commenti.

— E tu hai vinto sette battaglie, una al giorno.

Ender annuì.

— Inoltre, i tuoi punteggi sono insolitamente alti.

Lei sbatté appena le palpebre.

— Comandante, a cosa attribuisci i tuoi notevoli successi?

— Mi avete dato un’orda che riesce a fare qualunque cosa io pensi di farle fare.

— E cos’hai pensato di farle fare?

— Ci orientiamo come se la porta del nemico fosse in basso e usiamo le gambe come uno scudo. Evitiamo di manovrare in formazione e ci basiamo sulla mobilità. È stata d’aiuto anche la suddivisione in cinque branchi di otto elementi, invece che in quattro di dieci. Inoltre, i nostri avversari non hanno ancora avuto il tempo di adattarsi validamente alle nuove tecniche, e i primi li abbiamo sconfitti usando sempre gli stessi stratagemmi. Questa situazione perciò non ci aiuterà a lungo.

— Dunque non ti aspetti di continuare a vincere.

— Non con gli stessi metodi.

Graff annuì. — Siedi, Ender.

Lui e Anderson presero due poltroncine. Graff guardò il collega, e fu questi a fare la domanda successiva: — In che condizioni è la tua orda, dopo tutte queste battaglie consecutive?

— Oggi si possono considerare tutti veterani.

— Ma come reagiscono? Sono stanchi?

— Se lo sono, rifiutano di ammetterlo.

— Le loro capacità e i loro riflessi sono ancora al meglio?

— Siete voi a controllare i giochi che il computer gioca con la loro mente. Dovreste dirlo voi a me.

— Noi sappiamo già quello che sappiamo. Ciò che vogliamo sapere è quello che sai tu.

— Questi sono bravi soldati, maggiore Anderson. Sono certo che hanno dei limiti, ma ancora non li hanno raggiunti. Alcuni dei più giovani hanno ancora difficoltà a padroneggiare certe tecniche di base, ma lavorano sodo e migliorano. Cosa vuole che le dica, che hanno bisogno di riposo? È ovvio che un paio di settimane senza battaglie non gli farebbero male. I loro studi sono andati alla malora; nessuno di noi combina molto quando si va in aula. Ma questo voi lo sapete, e sembra chiaro che non v’importa, così perché dovrei preoccuparmene io?

Graff e Anderson si scambiarono un’occhiata. — Ender, perché ti sei messo a studiare i video delle guerre contro gli Scorpioni?

— Per aggiornarmi in strategia, naturalmente.

— Quei filmati sono stati fatti a scopi propagandistici. Tutta la nostra strategia ne è stata tagliata via.

— Lo so.

Graff e Anderson tornarono a guardarsi. Graff tambureggiò con le dita sulla scrivania. — Non giochi più la partita di fantasia — disse.

Ender non rispose.

— Dimmi perché hai smesso di giocarla.

— Perché ho vinto.

— Tu non hai vinto tutto in quella partita. C’è sempre dell’altro.

— Ho vinto tutto.

— Ender, noi vorremmo aiutarti a sentirti realizzato il più possibile, ma se tu…

— Voi volete fare di me il miglior soldato possibile. Andate giù a dare un’occhiata alle classifiche. Confrontatele con quelle di altri dalla fondazione della Scuola in poi. Non c’è dubbio che con me avete fatto un lavoro eccellente. Congratulazioni. Ora, quando intendete farmi combattere contro una buona orda?

Le labbra rigide di Graff si piegarono in un sorrisetto, e il suo stomaco sussultò un attimo a una risata silenziosa.

Anderson consegnò a Ender un foglio. — Adesso — lo informò.

ORDA DEI DRAGHI — comandante Ender Wiggin

Sala di battaglia, ore 1200

ORDA DELLE SALAMANDRE — comandante Bonzo Madrid

— L’inizio è fra dieci minuti — disse Ender. — I miei soldati hanno appena finito l’addestramento; saranno tutti nelle docce.

Graff sorrise. — Allora meglio che ti sbrighi, ragazzo.

Cinque minuti più tardi piombò nella camerata dei Draghi. Quasi tutti si stavano vestendo dopo aver fatto la doccia, alcuni erano già andati in sala giochi o in videoteca ad aspettare l’ora del pranzo. Lui mandò tre dei più giovani a richiamarli, e fece indossare agli altri la tuta da battaglia il più in fretta possibile.

— Questo è uno scontro duro, e siamo a corto di tempo — disse. — Hanno mandato l’avviso a Bonzo almeno venti minuti fa, il che significa che quando arriveremo in sala di battaglia loro saranno dentro già da cinque minuti.

I ragazzi erano offesi, e se ne lamentarono ad alta voce nel linguaggio che solitamente in presenza del comandante evitavano. — Cosa Cristo li morde, quei figli di puttana? Vogliono vederci con culo in terra? O si sono fottuti il cervello tutti quanti?

— Lasciate perdere. Avremo tempo stasera per imprecare. Siete stanchi?

«Mosca» Molo fece una smorfia. — Abbiamo lavorato duro fin’adesso. Per non parlare della batosta che abbiamo dato ai Furetti stamattina.

— Nessuno ha mai fatto due battaglie nello stesso giorno — disse Tom il Matto.

Ender replicò nello stesso tono: — Nessuno ha mai sconfitto i Draghi, però. Questa è la vostra grossa occasione. Volete gettarla via? — La sua dura sfida era la risposta alle loro lamentele: prima vincere, e le recriminazioni farle in seguito.

Adesso in camerata c’erano tutti, e stavano finendo di vestirsi. — Muoversi, uomini! — gridò Ender, e i ragazzi lo seguirono di corsa nei corridoi che portavano alla sala di battaglia, chi allacciandosi la tuta e chi controllando la pistola. Molti di loro avevano il fiato grosso; brutto segno, l’orda era troppo stanca per quella battaglia. Trovarono la porta già aperta, e nell’interno non era visibile nessuna stella: uno spazio del tutto vuoto, e l’illuminazione della sala era abbagliante. Niente ripari e niente penombra per nascondersi.

— Madre mia! — esclamò Tom il Matto. — Neppure le Salamandre sono uscite dalla loro porta.

Ender si portò un dito alle labbra, ordinando il silenzio. Con la porta aperta gli avversari avrebbero potuto udire ogni loro parola. Con un dito indicò attorno alla porta, dove senza alcun dubbio l’orda nemica era andata ad appostarsi, a ridosso della parete e pronta a far fuori all’istante chiunque fosse emerso in sala.

Ender li spinse tutti indietro di una dozzina di passi. Poi fece uscire dai ranghi alcuni dei ragazzi più alti, incluso Tom il Matto, e sussurrò loro di accovacciarsi, non in ginocchio ma con le gambe tese in avanti, in modo che formassero una L con il corpo. Li congelò con un colpo ciascuno. L’orda lo fissava in silenzio. Scelse il ragazzo più piccolo, gli consegnò anche la pistola di Tom il Matto e lo fece inginocchiare sulle gambe congelate di Tom. Poi mise le mani di Bean, ognuna armata di pistola, sotto le ascelle dell’altro.

Adesso i ragazzi cominciavano a capire: Tom era uno scudo, un’astronave, e Bean l’addetto alle batterie di bordo. Il piccoletto non era certo invulnerabile, ma avrebbe avuto il tempo di sparare.

Ender assegnò due ragazzi al compito di scaraventare Tom e Bean fuori dalla porta, ma segnalò loro di aspettare. Passò attraverso i compagni e in fretta li suddivise in gruppi di quattro: uno scudo, un tiratore, e due addetti al lancio. Poi, quando tutti furono chi congelato, chi armato e chi pronto a dare la spinta, segnalò a questi ultimi di sollevare il loro carico, scagliarlo oltre la porta e quindi di balzare in sala, anche’essi abbracciati in modo che almeno uno avesse riparo.

— Pronti… scattare! - gridò Ender.

L’orda dei Draghi scattò. Due alla volta le coppie scudo-tiratore volarono fuori dalla porta, posizionate in modo che lo «scudo» volgesse la schiena al nemico. Le Salamandre aprirono il fuoco all’istante, ma la maggior parte dei colpi intercettava soltanto il ragazzo congelato. E nel frattempo, con due pistole al lavoro e i loro bersagli pulitamente allineati lungo la parete spoglia, i Draghi riuscirono a fare il tiro a segno su degli avversari immobili e del tutto scoperti. Sbagliare era quasi impossibile.

Ma furono i lanciatori a giocare lo scherzo più sporco alle Salamandre, perché «Mosca» Molo e il suo compagno ebbero l’idea di uscire con un lieve saltello appena, e poi si respinsero l’un l’altro, volando di lato rasente alla parete della porta. I successivi li imitarono, mirando alle Salamandre da un’angolazione diversa, cosicché gli uomini di Bonzo non seppero se sparare alle coppie scudo-tiratore in allontanamento o a quelli che li assalivano lungo le loro stesse file.

Per il momento in cui anche Ender balzò in sala, la battaglia era già finita. Era trascorso sì e no un minuto dal momento in cui era uscito il primo Drago a quello in cui le pistole avevano taciuto. L’orda dei Draghi contava venti fra congelati e del tutto disabilitati, e solo dodici ragazzi ancora intatti. Quella era la loro peggiore percentuale di danni subiti, ma avevano vinto.

Quando il maggiore Anderson uscì a consegnargli il radiogancio, Ender non poté nascondere la sua rabbia. — Credevo che ci avreste dato la possibilità di affrontare un’orda in uno scontro leale!

— Congratulazioni per la vittoria, comandante.

— Bean! — sbottò Ender. — Se il comandante dell’orda delle Salamandre fossi stato tu, cos’avresti fatto?

Nei pressi della porta nemica dov’era finito, colpito alle braccia ma non del tutto congelato, Bean gridò: — Avrei messo delle vedette per guardare dentro la porta dei Draghi. E non sarei stato così idiota da tener fermi i miei uomini, visto che il nemico sapeva dove trovarli.

— Visto che vi date all’imbroglio — disse Ender a Anderson, — perché non insegnate alle altre orde a imbrogliare con intelligenza?

— Ti suggerisco di scongelare i tuoi soldati — disse Anderson.

Ender fece uso dell’apparecchietto per rimettere in attività entrambe le orde contemporaneamente. — Draghi in libertà! — ordinò subito dopo. Non ci sarebbe stata nessuna formazione schierata per salutare l’uscita degli avversari sconfitti. Quella non era stata una battaglia leale, perché se pure avevano vinto era chiaro che gli insegnanti avevano mirato a farli soccombere, ed era stata soltanto l’inettitudine di Bonzo a salvarli. Non c’era né onore né gloria in cosa simile.

Fu solo mentre usciva dalla sala di battaglia che Ender, ripensando all’espressione di Bonzo, capì che l’altro non gli avrebbe neppure riconosciuto il diritto d’essere adirato con gli insegnanti. L’onore spagnolo. Bonzo avrebbe masticato veleno inchiodato a ben altri pensieri: era stato sconfitto quando le probabilità erano tutte a suo favore, era stato sconfitto da dei novellini perdendo la faccia di fronte agli altri comandanti, era stato sconfitto da un avversario che prima di uscire non gli aveva neppure teso la mano per salvare almeno le apparenze. Se Bonzo non lo avesse già odiato per altri motivi, questo sarebbe bastato; ma poiché lo odiava ora quel sentimento si sarebbe mutato in una rabbia omicida. Ha cominciato a detestarmi quando le sue soperchierie non mi umiliavano abbastanza, pensò Ender. Queste sono cose che uno come Bonzo non dimentica.

E certo non aveva dimenticato il giorno in cui s’era unito ad altri ragazzi anziani per aggredire i novellini che si allenavano con lui. Quei veterani se l’erano legata al dito. Se loro bramano la vendetta, Bonzo avrà addirittura sete di sangue. Per un po’ Ender si trastullò con l’idea di tornare da lui per scusarsi di non avergli stretto la mano, ma con due battaglie alle spalle nello stesso giorno si sentiva seccato e stanco, assillato dalla mancanza di tempo, e scrollò le spalle. Gli insegnanti mi hanno messo in questa situazione, si disse, penseranno loro a controllarne le conseguenze.

Bean si lasciò cadere sulla cuccetta con un sospiro esausto. Metà dei suoi compagni erano già addormentati, e c’erano ancora quindici minuti prima che le luci si spegnessero. Stancamente tirò fuori il suo banco dall’armadietto e lo accese. L’indomani c’era un esame di geometria che l’avrebbe trovato miseramente impreparato. Se avesse avuto qualche ora in più sarebbe riuscito a sfangarsela in qualche modo, e aveva letto Euclide prima ancora di compiere i cinque anni, ma l’esame aveva un limite di tempo e la necessità di pensare in fretta lo avrebbe fatto affogare. Era lì per studiare e stava affogando nell’ignoranza, nella fretta, nella stanchezza. E l’esame sarebbe stato un disastro. Ma quel giorno avevano vinto due volte, e questo lo faceva sentire a posto.

Appena lo schermo si accese, tuttavia, ogni pensiero sull’esame svanì. Al centro di esso era comparso un messaggio:

VOGLIO VEDERTI SUBITO — ENDER

L’orologio segnava le 2150, solo dieci minuti all’ora in cui spegnevano le luci. Da quanto tempo era arrivato il messaggio di Ender? Comunque fosse, non poteva ignorarlo. Poteva esserci un’altra battaglia il mattino dopo (il pensiero lo fece gemere) e di qualunque argomento Ender volesse parlargli la cosa andava fatta subito. Così Bean si trascinò giù dalla cuccetta e continuando a sospirare percorse i corridoi deserti fino alla camera di Ender. Bussò alla porta.

— Vieni dentro — fu invitato.

— Ho visto adesso il tuo messaggio.

— Bene — disse Ender.

— Fra poco spengono le luci.

— Ti aiuterò a ritrovare la strada al buio. OK?

— È solo che non so se sapevi che ore erano quando…

— Io so sempre che ore sono.

Bean si tenne in bocca il mugolio che avrebbe voluto emettere. Erano alle solite. Qualunque conversazione avesse con Ender, sempre si tornava su quel tasto. Quello che Bean odiava. Lui era pur capace di riconoscere la genialità di Ender, e per questo lo stimava. Perché Ender non riusciva mai a vedere niente di buono in lui?

— Ricordi quattro settimane fa, Bean? Quando mi hai chiesto di diventare capobranco?

— Uh-uh.

— Io ho nominato cinque capibranco e cinque vice, da allora. E nessuno di loro sei tu. — Ender inarcò un sopracciglio. — Ho sbagliato?

— Nossignore.

— Secondo te, come ti sei comportato in queste otto battaglie?

— Oggi mi hanno disabilitato per la prima volta, ma il computer mi ha assegnato undici avversali congelati prima che mi colpissero. Non ne ho mai messi fuori gioco meno di cinque, in ogni battaglia. E ho sempre portato a termine la manovra che mi era stata assegnata.

— Perché ti hanno preso a fare il soldato così giovane, Bean?

— Non più giovane di quel che eri tu.

— Sì, ma perché?

— Non lo so.

— Lo sai, invece, come lo so io.

— Ho tentato d’immaginarlo, ma sono solo ipotesi. Tu sei… molto bravo. Loro lo sapevano, e sapevano che dandoti qualche spinta…

— Dimmi il perché, Bean.

— Perché hanno bisogno di noi, ecco perché. — Bean sedette sul pavimento e fissò i piedi di Ender. — Perché hanno bisogno di qualcuno che sconfigga gli Scorpioni. Questa è l’unica cosa che a loro importa.

— È necessario che tu lo sappia, Bean. Perché in questa scuola molti ragazzi pensano che le battaglie in sala siano importanti di per sé, mentre non è così. Servono ad aiutarli a trovare ragazzi che possano essere avviati a posti di comando, nella guerra vera. In quanto alle gare, le renderanno più dure. Stanno dando un giro di vite al sistema.

— Divertente. Credevo che lo stessero dando a noi.

— La prima battaglia di un’orda, nove settimane in anticipo. Poi una battaglia al giorno. E adesso due nello stesso giorno. Bean, io non so cosa stiano facendo gli insegnanti, ma la mia orda è stanca, io comincio a essere stanco, e a loro sembra che non importi neppure che le gare abbiano un regolamento. Ho cercato nel computer le registrazioni più vecchie: nessuno ha mai vinto tanto e con tante poche perdite, fin da quando esistono le gare di battaglia.

— Tu sei il migliore, Ender.

Lui scosse il capo. — Forse. Ma non è per caso che mi hanno dato i soldati di cui dispongo. Novellini, scarti di altre orde, ma falli lavorare insieme e il peggiore di loro potrebbe essere un ottimo capobranco in qualunque orda. Fin’ora s’erano limitati a rendermi dura la vita, ma adesso stanno indurendo tutto il sistema contro di me. Bean, vogliono spezzarci la schiena.

— Non possono spezzare te.

— Ti sorprenderebbe, se ci riuscissero? — Ender emise un sospiro secco, a denti stretti, come a un’improvvisa fitta di dolore. Bean scrutò il suo volto e s’accorse che l’impossibile stava accadendo: lungi dal perseguitarlo ed esasperarlo, Ender Wiggin si stava confidando con lui. Non molto. Ma un po’ sì. Ender era un essere umano, e a lui veniva concesso di saperlo.

— Forse ne saresti sorpreso tu — disse Bean.

— C’è un limite alle idee nuove o intelligenti che io posso tirar fuori ogni giorno. Qualcuno può sempre rivolgere contro di me stratagemmi che non ho mai neppure lontanamente immaginato, e allora non saprei come fronteggiarli.

— Il peggio che può succederti è che avrai perso una battaglia.

— Il peggio che può succedermi è proprio questo. Io non posso perdere nessuna battaglia. Perché se perdessi…

Tacque, senza spiegarsi meglio e Bean non fece domande.

— Ho bisogno che tu faccia lavorare il cervello, Bean. Voglio che tu pensi alla soluzione di problemi che ancora non ci siamo mai trovati di fronte. Voglio che tu tenti cose che nessuno ha mai tentato perché sono assolutamente stupide.

— Perché io?

— Perché anche se nell’orda dei Draghi ci sono alcuni soldati migliori di te… non molti, ma alcuni sì… non c’è nessuno che riesca a pensare meglio e più in fretta di te. — Bean non disse niente. Entrambi sapevano che era vero.

Ender gli indicò lo schermo del suo banco. Su di esso c’erano dodici nomi di ragazzi dell’orda. — Scegli cinque di questi — disse. — Uno da ogni branco. Saranno una squadra speciale, e tu li addestrerai. Solo durante gli allenamenti extra della sera. Mi farai un rapporto sulle cose che insegnerai loro. Non dedicare troppo tempo a ciascuna di queste cose. Per tutto il resto dell’orario di lavoro, tu e la tua squadra tornerete a far parte dell’orda, ciascuno col suo branco. Ma in battaglia, quando ci sarà qualcosa che soltanto tu e i tuoi potrete fare, sarete la mia squadra speciale.

— Questi sono tutti giovani — disse Bean. — Nessun veterano.

— Dopo quest’ultima settimana, Bean, tutti i nostri soldati sono veterani. Non ti sei accorto che nella classifica dell’efficienza individuale tutti e quaranta i nostri soldati sono fra i primi cinquanta? E che devi scendere al diciassettesimo posto per trovarne uno che non sia un Drago?

— E se non riuscissi a pensare a niente?

— Allora mi sarò sbagliato su di te.

Bean sogghignò. — Non ti sei sbagliato.

Le luci si spensero.

— Saprai ritrovare la strada al buio, Bean?

— Facile che domani mi trovino addormentato in qualche corridoio.

— Allora resta qui. E se terrai gli orecchi aperti potrai sentire la buona fata che stanotte passerà a lasciarci il nostro solito regalo quotidiano.

— Diavolo, non vorranno farci combattere anche domattina… o sì?

Ender non rispose. Bean lo sentì distendersi sul letto. A tentoni estrasse dalla parete la cuccetta di riserva e si sdraiò anch’egli. Prima che il sonno avesse la meglio riuscì a pensare a una dozzina di nuove idee. Ender ne sarebbe stato compiaciuto: ognuna di esse era stupida.

CAPITOLO DODICESIMO

BONZO

— Prego, si sieda, generale Pace. Mi pare d’aver capito che lei sia venuto a parlarmi di un argomento ritenuto urgente.

— Proprio così. Fino ad oggi, colonnello Graff, mi sono fatto un dovere di non interferire con l’andamento interno della Scuola di Guerra. Le è stata garantita l’autonomia, e malgrado la nostra differenza di grado sono conscio di nn poterle ordinare certe precauzioni, ma solo di consigliarle.

— Precauzioni?

— Non faccia l’ingenuo con me, colonnello Graff. Voi americani siete dei dilettanti in questo, confronto a certe dannate facce di bronzo sovietiche con cui ho spesso a che fare. Lei sa bene perché sono qui.

— Ah! Suppongo che Dap si sia deciso a fare quel suo rapporto.

— Lui ha tendenze… paterne verso gli studenti che sono qui. Afferma che lei, trascurando una situazione potenzialmente letale, sia non solo negligente, ma …uh, complice di una cospirazione mirante a provocare ferite gravi o mortali a uno dei vostri studenti.

— Questa è una scuola per ragazzi giovani, generale Pace. L’ultimo posto in cui il capo della Polizia Militare della F.I. possa avere un serio motivo per intervenire.

— Colonnello Graff, il nome di Ender Wiggin è già trapelato su per le alte sfere di comando. Abbiamo già dovuto mettere il bavaglio a un paio di servizi segreti troppo curiosi, e non le dico altro. Comunque, l’ho sentito definire a chiari termini come la nostra sola speranza di vittoria, contro l’imminente invasione. Quando siano in gioco la sua vita, o la sua salute, non mi sembra certo assurdo che la Polizia Militare cominci a pensare di dover proteggere il ragazzo, no?

— Dannazione a Dap e dannazione a lei, signore! Io so benissimo quello che sto facendo.

— Lo sa?

— Meglio di chiunque altro.

— Oh, questo è evidente, dal momento che nessun altro ha la più piccola idea di ciò che lei sta facendo. Lei sa da otto giorni che esiste una cospirazione, fra alcuni dei più incorreggibili di questi «ragazzi», mirante a sconfiggere e umiliare Ender Wiggin. E sa che alcuni membri di questa combriccola, particolarmente un certo Bonito de Madrid, detto Bonzo, sono molto propensi ad agire con bestiale violenza nell’attuale circostanza. Così Ender Wiggin, una risorsa internazionale d’inestimabile importanza, viene messo a rischio d’essere ritrovato col cervello spiaccicato su una parete della sua tranquilla scuola orbitale. E lei, pienamente conscio di questo pericolo, propone di non fare altro che…

— Niente.

— Vede da sé quanto la cosa possa lasciarci perplessi, no?

— Ender Wiggin è già stato in situazioni di questo genere: sulla Terra, il giorno che gli fu tolto il monitor. E anche allora contro un gruppo di ragazzi più anziani che…

— Non sono venuto qui senza essermi documentato. Ender Wiggin ha provocato Bonzo Madrid oltre le sue capacità di sopportazione. E lei non ha neppure un uomo della Polizia Militare pronto a intervenire o a far opera di prevenzione. È irragionevole.

— Quando Ender Wiggin avrà il controllo delle nostre flotte, quando dovrà prendere decisioni da cui dipenderanno la vittoria o la distruzione dell’umanità, ci saranno lì squadroni della Polizia Militare a cui potrà rivolgersi perché gli tolgano le castagne dal fuoco?

— Mi scusi, ma non vedo il nesso.

— È chiaro. Ma il nesso c’è. Ender Wiggin deve avere la certezza che qualunque cosa accada nessun adulto interverrà mai ad aiutarlo. Deve sentirlo nel cuore e nelle viscere. Se in lui non si formerà questo istinto, non raggiungerà mai il vertice delle sue possibilità.

— Non lo raggiungerà neppure se sarà morto, o dovesse restare invalido per sempre.

— Questo non accadrà.

— Perché non si limita a promuovere Bonzo? Ha quasi finito il corso.

— Ender sa che Bonzo progetta di ucciderlo. Se lo trasferissimo anzitempo al corso superiore, capirebbe che noi stiamo qui a proteggerlo. Inoltre non sarò io a mandare alla Scuola Ufficiali un ragazzo palesemente inadatto al comando.

— Che mi dice degli altri ragazzi? Li metterà in condizioni di aiutarlo?

— Staremo a vedere cosa accadrà. Questa è stata e continua a essere la mia decisione irrevocabile.

— Dio l’aiuti se risulta che ha torto.

— Se ho torto, Dio ci aiuti tutti.

— Graff, se succede qualcosa di brutto al ragazzo io stesso le organizzerò la corte marziale. E farò in modo che il suo nome sia disprezzato da un capo all’altro del pianeta.

— Mi sta bene. Ma ricordi: se avrò visto giusto lei mi dovrà proporre per una dozzina di medaglie.

— Sì? E con quale menzione ufficiale?

— Per essere riuscito a tenermi la Polizia Militare fuori dai piedi.

Seduto in un angolo della sala di battaglia, con un braccio agganciato a un corrimano, Ender osservava Bean che faceva pratica con la sua squadra. Il giorno prima avevano lavorato su una tecnica di attacco senza pistole, disarmando gli avversari coi piedi. Ender li aveva aiutati suggerendo colpi e mosse di lotta. Molte cose avrebbero dovuto esser cambiate, ma lo scontro di due corpi in volo a gravità zero presentava qualche possibilità sfruttabile.

Quei giorno, comunque, Bean aveva un giocattolo nuovo. Era una treccia molecolare, uno di quei sottili e quasi invisibili fili usati nell’edilizia spaziale per trattenere oggetti e carichi nelle vicinanze. A volte erano lunghe alcuni chilometri. Quella non superava in lunghezza la diagonale della sala, e tuttavia, mollemente arrotolata intorno alla cintura di Bean, era più o meno invisibile. La svolse e ne consegnò un capo a uno dei suoi soldati. — Giralo intorno a quella ringhiera una ventina di volte, che stia ben fisso — ordinò, e si spinse verso l’altra estremità della sala.

Come filo di sbarramento non sarebbe servito a molto, decise Bean. Era abbastanza invisibile, ma c’erano poche possibilità che un avversario andasse a sbatterci contro e ne fosse deviato. Questo gli diede però l’idea di usare la treccia per cambiare direzione a mezz’aria. Se ne arrotolò metà intorno alla cintura, lasciò l’altro capo fissato alla ringhiera e balzò in volo. La treccia lo bloccò di colpo, lo fece roteare su se stesso e trasformò la sua traiettoria in un arco al termine del quale Bean sbatté con violenza in una parete.

Nella sala risuonarono le sue urla; ma a Ender occorse qualche momento per capire che non stava gridando di dolore: — Avete visto a che velocità andavo? Avete visto come ho cambiato direzione?

Poco dopo tutti i Draghi smisero l’allenamento per guardare Bean che s’impratichiva con la treccia molecolare. I mutamenti repentini di direzione facevano effetto, specialmente a chi non si rendeva conto che era legato con quel filo invisibile. Quando lo usò per roteare in orbita attorno a una stella riuscì a raggiungere una velocità stupefacente.

Erano le 2140 quando Ender fischiò la fine dell’allenamento serale. Stanca ma soddisfatta d’aver visto qualcosa di nuovo, la sua orda s’incamminò lungo i corridoi interni verso la camerata. Ender s’avviò fra loro, ascoltandone in silenzio i commenti e le spiritosaggini. Forse stavano pagando la fatica, rifletté: una battaglia al giorno per più di quattro settimane, spesso in situazioni che avevano messo duramente alla prova ogni loro risorsa. Ma erano orgogliosi, soddisfatti, uniti. Non avevano mai perso, e avevano imparato a confidare l’uno nell’altro. Sapevano che i loro compagni si battevano bene e con tenacia, sapevano che i loro capibranco non li facevano sudare in manovre prive di scopo, e soprattutto sapevano che lui li preparava ad affrontare tutte le eventualità.

Mentre oltrepassavano il vasto bar automatico, Ender notò parecchi ragazzi anziani riuniti in gruppetti che sembravano far conversazione nelle diramazioni del corridoio e sulle scale. Alcuni passeggiavano pigramente nel corridoio principale, o con le spalle poggiate a una parete avevano l’aria di chi aspetta qualcosa. Doveva essere più che una semplice coincidenza, rifletté, il fatto che molti di loro portassero l’uniforme delle Salamandre, mentre tutti gli altri appartenevano alle orde i cui comandanti lo odiavano di più. Alcuni lo sbirciavano e poi distoglievano in fretta lo sguardo, altri cercavano di apparire rilassati ma in realtà erano tesi e nervosi. Cosa potrei fare se aggredissero la mia orda qui nel corridoio? I miei ragazzi sono giovani, tutti fisicamente inferiori, e per niente addestrati alla lotta in gravità normale. Se avessimo avuto il tempo di…

— Ehi, Ender — lo chiamò una voce femminile. Si volse e vide Petra, sulla soglia del piccolo museo dei voli spaziali in compagnia di un’altra ragazzina. — Ender, posso parlarti un momento?

Lui si rese conto che se si fosse fermato la sua orda sarebbe passata oltre, svoltando intorno alla sala musica e lasciandolo solo. — Facciamo quattro passi. Porta anche la tua amica — disse.

— Soltanto una parola. Aspetta.

Lui girò l’angolo insieme ai compagni. Pochi secondi dopo sentì i passi di Petra raggiungerlo di corsa. — D’accordo, verrò in là con te. — Quando Ender la ebbe accanto s’irrigidì involontariamente. Era anche lei una di loro, una di quelli che lo odiavano abbastanza da volergli fare del male?

— Un amico mi ha chiesto di avvertirti. Ci sono dei ragazzi che vogliono ucciderti.

— Che sorpresa! — esclamò Ender. I suoi compagni drizzarono gli orecchi. Li vide scambiarsi alcuni sussurri, con aria fra accigliata e disgustata.

— Ender, guarda che possono farlo. Lui mi ha detto che lo stanno progettando fin da quando sei stato promosso comandante e…

— E ancor di più da quando ho battuto le Salamandre, vuoi dire?

— Anch’io ti ho odiato, quando hai sconfitto l’orda delle Fenici.

— Non ti biasimo. Avrai avuto i tuoi motivi.

Lei sbatté le palpebre. — Comunque, lui mi ha detto di prenderti da parte, oggi, appena uscito dalla sala di battaglia, e di avvisarti che domani dovrai stare molto attento perché…

— Petra, se tu mi avessi preso da parte poco fa, in corridoio c’erano almeno una dozzina di ragazzi che avrebbero potuto spingermi dentro una stanza vuota. Vuoi darmi a intendere che non te n’eri accorta?

D’improvviso il volto di lei avvampò. — No. Come puoi pensare una cosa simile? Non sai neppure chi sono i tuoi amici? — Bruscamente la ragazza spinse da parte un paio di Draghi, girò un angolo e s’allontanò su per la scala che portava al ponte superiore.

— È vero quel che ha detto? — lo interrogò Tom il Matto.

— Cosa dovrebbe esser vero? — Ender si fermò sulla soglia della camerata, azzitti due o tre ragazzi che cominciavano a far baccano e ordinò loro di andare a letto.

— Che alcuni dei più anziani si sono messi d’accordo per ammazzarti.

— Tutte chiacchiere — borbottò lui. Ma pensava esattamente il contrario. Petra aveva saputo qualcosa di concreto, e ciò che lui aveva visto nei corridoi non era frutto della sua immaginazione.

— Saranno chiacchiere, ma spero che tu capisca di cosa parlo quando dico che i tuoi cinque capibranco adesso ti scorteranno fino in camera.

— È una passeggiata superflua.

— Diciamo che ci va di fare quattro passi.

Ender strinse i denti, seccato, ma sarebbe stato uno sciocco a rifiutare. — Fate come volete — disse. Si volse e uscì. I capibranco si accodarono a lui. Uno corse avanti e andò ad aprire la sua porta. Dopo aver controllato che nella stanza non lo attendesse una sorpresa, i ragazzi si fecero promettere che avrebbe chiuso a chiave. Uscirono, pochi secondi prima che si spegnessero le luci.

Sul suo banco lo attendeva un messaggio:

NON RESTARE MAI SOLO — DINK

Sul volto gli comparve un sorriso. Dunque Dink era ancora suo amico. Non preoccuparti. Non mi faranno proprio niente. Io ho la mia orda.

Ma nel buio della notte non aveva altri che se stesso. Confusamente sognò di Stilson, e fu stupito di vedere quanto fosse piccolo: un bambino di appena sei anni. Com’erano ridicole le sue pose da duro! E tuttavia in quel sogno furono Stilson e i suoi amici a sopraffarlo e a picchiarlo, e tutto ciò che lui aveva fatto al ragazzo nella realtà gli venne restituito con gli interessi nella fantasia onirica. Poi vide se stesso strillare e farfugliare come un idiota mentre tentava di dare ordini all’orda dei Draghi, ma dalla bocca non gli uscivano che parole prive di senso.

Si svegliò nelle tenebre, gelato da una paura senza nome. Per scacciarla si ripeté che gli insegnanti certo lo stimavano, altrimenti non l’avrebbero sottoposto a quella pressione. Loro non permetteranno che mi succeda nulla. Nulla di grave, almeno. Probabilmente, anni prima, quando i ragazzi anziani l’avevano assalito in sala di battaglia, fuori c’erano stati degli insegnanti a sorvegliare l’andamento della situazione ed in caso di necessità sarebbero intervenuti. Forse avrei potuto perfino mettermi a sedere, senza reagire, e loro li avrebbero fermati. In queste gare mi stanno addosso come aguzzini, ma fuori dalla sala vogliono che io sia al sicuro.

Con quella riflessione tranquillizzante ricadde nel sonno, e a svegliarlo fu solo il fruscio della porta, il mattino dopo, quando sul pavimento svolazzò la notifica della battaglia che lo attendeva quel giorno.

Vinsero, naturalmente, ma arrivare alla porta nemica fu un inferno. La sala di battaglia era così fittamente piena di stelle che in quel labirinto lo scontro si trasformò in una stressante caccia all’uomo della durata di 45 minuti. Di fronte avevano i Tassi, di Pol Slattery, ed essi combatterono furiosamente. Inoltre era stata introdotta una nuova difficoltà: quando i Draghi colpivano un avversario agli arti costui restava disabilitato per non più di cinque minuti. Soltanto quelli completamente congelati erano fuori in via definitiva. Ma lo scongelamento non funzionava per l’orda dei Draghi. Il primo ad accorgersi di quel che stava accadendo fu Tom il Matto, allorché cominciarono a vedersi attaccare alle spalle da gente che credevano d’avere già tolto di mezzo. E alla fine della battaglia Pol Slattery venne a stringere la mano a Ender e dichiarò: — Sono contento che abbia vinto tu, Ender. Il giorno che ti batterò voglio farlo lealmente.

— Usa quello che ti danno — sospirò lui. — Se ti trovi con un vantaggio sul nemico, tu usalo.

— Oh, è quel che ho fatto — sogghignò Slattery. — Io sono cavalieresco soltanto prima e dopo una battaglia.

Usciti di sala constatarono che avrebbero saltato la colazione; la sala mensa aveva già chiuso, a quell’ora. Ender guardò i suoi soldati che si avviavano in corridoio esausti e accaldati, e disse: — Per oggi ne avete avuto abbastanza. Niente addestramento. Prendetevi un po’ di riposo, svagatevi. Chi ha un esame, studi. — Ed ebbe la misura della loro stanchezza quando nessuno applaudì o rise; si limitarono a sfilare in camerata togliendosi di dosso le tute umide di sudore. Se lui lo avesse chiesto, avrebbero fatto l’addestramento; ma erano al limite delle loro forze e dover stare senza colazione a qualcuno sembrava già l’ultima goccia.

Ender avrebbe voluto farsi una doccia, ma si sentiva la schiena a pezzi. Si distese sul letto con la tuta da battaglia addosso, per quello che gli parve un minuto, e quando si svegliò era quasi l’ora di pranzo. Così svaniva l’idea di andare in videoteca a studiare qualcos’altro sugli Scorpioni. C’era appena il tempo di darsi una lavata, mangiare, e filare in classe per le lezioni pomeridiane.

Si sfilò la tuta, con una smorfia per l’odore corporeo che la impregnava. Aveva dolori muscolari e le articolazioni rigide. Non avrei dovuto mettermi a dormire dopo quella faticata. Sto cominciando a cedere. Mi sono ammosciato. E questo non posso permettermelo.

Così andò a correre un poco in palestra, e prima di passare nelle docce si arrampicò tre o quattro volte sulle corde. Non rifletté che la sua assenza dalla mensa dei comandanti sarebbe stata notata, né che andando a far la doccia all’ora di pranzo, con la sua orda occupata a rifarsi dalla perdita della colazione, sarebbe stato completamente solo e inerme.

Anche quando li sentì entrare nel locale delle docce non prestò loro molta attenzione. Stava assaporando la sensazione dell’acqua che gli scorreva sulla faccia e sul corpo, e il rumore dei passi sembrava lontano e soffocato. Escono già dalla mensa, pensò. Ricominciò a insaponarsi distrattamente. O forse è qualcuno che ha finito tardi l’addestramento.

O forse no. Riaprì gli occhi e si volse. Erano in sette, chi fermo presso la fila dei WC, chi appoggiato a uno dei lavandini, e lo stavano fissando. Davanti a tutti c’era Bonzo. Alcuni di loro esibivano un sorrisetto contorto, la smorfia soddisfatta che il predatore si prende il lusso di concedere alla sua vittima. Bonzo però non stava sorridendo.

— Ohé! — li salutò Ender.

Nessuno rispose.

Lui si volse e chiuse la doccia, anche se aveva sempre un bel po’ di schiuma addosso; poi allungò una mano verso l’accappatoio. Non era più lì. Uno dei ragazzi ci stava giocherellando. Era Bernard. Perché i personaggi di quella scena fossero al completo ci mancavano soltanto Peter e Stilson. Fra loro non avrebbe guastato il freddo sorriso di Peter, e neppure la grossolana imbecillità di Stilson.

Ender seppe che l’accappatoio era la loro esca, la mossa d’apertura. Nulla lo avrebbe reso più ridicolo e debole che andare dall’uno all’altro alla caccia di quell’indumento. Era questo che volevano: umiliarlo e farlo strisciare. Un gioco che lui non avrebbe giocato. Rifiutando di sentirsi a disagio perché era bagnato, infreddolito e nudo si tenne eretto e li fronteggiò, con le mani sui fianchi. Fissò Bonzo negli occhi.

— A te la prima mossa — lo sfidò.

— Questo non è un gioco, furbone — disse Bernard. — Ne abbiamo piene le scatole di te. Ma visto quanto sei bravo ti promuoviamo… al ghiaccio eterno.

Ender non guardò Bernard. Era negli occhi di Bonzo che vedeva il desiderio di uccidere, anche se taceva. Gli altri si tenevano a distanza, come incerti se fuggire e scoprire fin dove avrebbero avuto il coraggio di arrivare. Bonzo sapeva dove voleva arrivare.

— Bonzo — disse sottovoce Ender. — Tuo padre sarebbe orgoglioso di te.

Bonzo strinse le palpebre.

— Quanto sarebbe compiaciuto nel vederti adesso. Vieni a cercare il tuo avversario nudo sotto la doccia, grande e grosso come sei, e ti porti dietro sei amici. Direbbe che ti stai facendo davvero onore, eh?

— Siamo soltanto venuti a farti una proposta amichevole — disse uno dei ragazzi. — Ci basta che tu perda qualche battaglia, una ogni tanto. Magari quella che ti diremo noi.

— Magari anche tutte — aggiunse Bernard.

Gli altri risero, ma Bonzo non fece una piega, e neppure Ender.

— Sarai fiero di te, Bonito, coraggioso soldato. Poi potrai tornare a casa e raccontare ai tuoi ammiratori: sì, sono stato io a spezzare la schiena a Ender Wiggin, che non aveva neppure dieci anni quando io ne avevo tredici. E pensare che avevo soltanto sei amici, ma siamo riusciti lo stesso a dargliele, perché per fortuna lui era nudo e bagnato e solo. E loro diranno: diavolo! Hai avuto un bel fegato ad affrontare quello spaventoso e terribile Ender Wiggin senza portarti dietro almeno altri duecento coraggiosi amici…

— Tappati quella latrina di bocca, Wiggin — disse uno di loro.

— Non siamo venuti per sentir parlare questo piccolo bastardo — disse Bernard. — Non perdiamo altro tempo. Avanti.

— Voialtri state zitti — disse Bonzo. — Chiudete la bocca e state fuori dai piedi. — Cominciò a togliersi la tuta. — Nudo, bagnato e solo, Ender. Così saremo alla pari. Se sono più grosso di te non possiamo farci niente, no? Tu sei tanto intelligente che sai cavartela sempre. — Si volse agli altri. — Andate a sorvegliare la porta. Che nessuno entri.

Il locale delle docce non era molto vasto, e ovunque sporgevano infissi e tubature. Era stato lanciato in orbita in un sol pezzo, come un satellite, pieno fino al soffitto di equipaggiamenti e materiali di ogni tipo, e non aveva spazi morti o non sfruttati al massimo. Non a caso lo avevano cercato lì dentro, si disse, dove un cranio fratturato poteva esser fatto passare per un incidente.

Quando vide Bonzo mettersi in posa si sentì un groppo in gola. Doveva aver preso lezioni di lotta, e si muoveva come un esperto. Aveva un allungo maggiore del suo, era più forte di lui e pieno d’odio. Non farà le cose a metà. Vuole spaccarmi il cranio, pensò Ender. Cercherà di lasciarmi qui dentro con la testa rotta, e se andiamo per le lunghe ci riuscirà. La sua forza avrà la meglio. Se voglio uscire di qui con le mie gambe devo vincere alla svelta, e definitivamente. Gli parve di risentire lo spiacevole rumore con cui il naso di Stilson s’era rotto, quando l’aveva colpito con un calcio. Ma stavolta sarà il mio corpo a spezzarsi, a meno che prima io non spezzi lui.

Ender indietreggiò, diede un colpetto alla testa di una doccia per sollevarla più in fuori e aprì il rubinetto dell’acqua calda. Il getto uscì, in un alone di vapore. Svelto aprì le altre docce della fila.

— Non ho paura dell’acqua bollente — disse sottovoce Bonzo, muovendosi verso di lui.

Ma a Ender non interessava l’acqua. Voleva il vapore. Aveva addosso una patina di sapone secco, e l’umidità avrebbe reso il suo corpo più sdrucciolevole di quel che Bonzo poteva gradire.

Improvvisamente dalla porta venne un grido: — Basta, fermati! — Per un attimo Ender pensò che fosse un insegnante capitato lì per caso, ma invece era Dink Meeker. Gli amici di Bonzo lo avevano immobilizzato sulla soglia, schiacciandolo col petto contro il montante della porta. Il ragazzo girò la testa. — Smettila, Bonzo! — urlò. — Guai a te, se gli fai del male. Non puoi!

— E perché non posso, eh? — disse Bonzo, e per la prima volta sorrise. Ah, pensò Ender, gli piace far vedere a qualcuno che ha la situazione in mano, che è il più forte.

— Perché lui è il migliore, ecco perché! Chi altro può combattere gli Scorpioni come lui? È solo questo che conta, maledetti idioti, gli Scorpioni!

Bonzo smise di sorridere. Se doveva esserci una ragione inconfessabile per il suo odio, forse era proprio il sapere che Ender contava qualcosa per altra gente, mentre di sé non poteva dire lo stesso. Con le tue parole mi hai condannato, Dink. Per Bonzo, l’idea che io possa farmi onore anche fuori dalla Scuola è veleno.

Dove sono gli insegnanti? pensò, irritato. Non hanno capito che fra noi basta una lotta di pochi secondi per portare al dramma? Qui non siamo in sala di battaglia con addosso una tuta imbottita. Qui c’è la gravità, spigoli e angoli dove basta un colpo ed è la fine. Fermateci ora, o non ci fermerete più.

— Se lo tocchi sei uno sporco amico degli Scorpioni! — gridò Dink. — Sei un traditore. Se gli fai del male meriti di crepare! E io… uch! — Gli altri ragazzi gli fecero sbattere la faccia contro lo spigolo della porta, e lui si afflosciò con un gemito.

L’atmosfera del locale era annebbiata dal vapore e il corpo di Ender sudava, imperlato di umidità. Adesso, mentre sono ancora abbastanza scivoloso per le sue mani.

Fece un passo indietro, lasciando che la paura gli affiorasse liberamente sul volto. — Bonzo… smettila, adesso — disse. — Per favore, lasciami stare.

Era questo che l’altro aspettava: la certezza di averlo in suo potere. Altri ragazzi si sarebbero accontentati di umiliarlo, ma per Bonzo quello era solo il segno che la violenza sarebbe stata facile. Alzò una gamba come per sferrargli un calcio, ma all’ultimo istante poggiò il piede a terra e gli balzò addosso. Pur colto di sorpresa Ender si abbassò d’istinto, per evitare d’essere afferrato per il collo.

La faccia di Ender sbatté dolorosamente contro le robuste costole dell’avversario, poi un ansito gli uscì dai polmoni quando le mani di lui gli si abbatterono sulla schiena in cerca di una presa. Ma le dita di Bonzo scivolarono in vani tentativi di affondarglisi nella carne, e lui girò su se stesso all’interno delle sue braccia. Un attimo dopo gli voltava le spalle. A quel punto la mossa più classica sarebbe stata di scalciarlo all’inguine con un calcagno, ma era un colpo che doveva essere preciso, e Bonzo se lo aspettava già; s’era alzato in punta di piedi e spostava i fianchi all’indietro per tenere il ventre fuori dalla sua portata. Pur senza vederlo Ender sapeva dove si trovava in quel momento la faccia di lui: proprio dietro la sua testa. E invece di scalciare allargò saldamente i piedi sul pavimento, poi il suo corpo s’inarcò con un violento scatto di reni, e lo colpì con la nuca in pieno volto.

Le braccia di Bonzo lo lasciarono all’istante, e voltandosi Ender lo vide vacillare all’indietro fra due docce, a occhi sbarrati e grondando sangue dal naso. Per un attimo Ender fu tentato di approfittarne per uscire da li, così com’era già uscito dalla sala di battaglia dopo aver fatto sputar sangue a due o tre aggressori. Ma come allora, la cosa avrebbe avuto un seguito, ancora e ancora, finché la sete di violenza di Bonzo non si fosse spenta. L’unica soluzione era di colpire Bonzo in modo che la paura finisse col diventare più forte del suo odio.

L’avversario aveva appena urtato la schiena contro il muro che Ender lo raggiunse con una forte ginocchiata nei testicoli. Bonzo mandò un grugnito e si piegò in due, girandosi di lato, ma lui gli fece sbattere la testa contro il tubo della doccia, che vibrò da cima a fondo. Poi, usando i gomiti invece dei pugni, lo colpì ancora ripetutamente sullo stesso lato del cranio.

Bonzo non emise un gemito e non reagì. Non tentò neppure di raddrizzarsi, mentre la sua testa continuava a sbattere rumorosamente contro il tubo metallico. Ma ad un tratto crollò in avanti e rotolò al suolo, direttamente sotto il getto di una delle docce. Restò lì immobile, senza accennare a togliersi via dal micidiale fiotto d’acqua bollente.

— Cristo! — gridò una voce. Gli amici di Bonzo si precipitarono a chiudere il rubinetto. Ender barcollò da parte sotto una spinta, e scivolò, ma una mano lo aiutò a rialzarsi e qualcuno gli porse l’accappatoio. Era Dink, che perdeva sangue da un labbro. — Andiamocene da qui — disse il ragazzo. Prese Ender per un gomito e lo portò fuori in fretta. Da lì a poco sentirono i passi pesanti di qualche adulto che scendeva di corsa per le scale. Adesso gli insegnanti si sarebbero fatti vivi. L’ufficiale medico e l’infermiere, per prendersi cura del suo aggressore. Dov’erano prima dello scontro, quando ancora non c’erano ferite da medicare?

Le illusioni erano state spazzate via dalla mente di Ender. Adesso sapeva che era stato uno sciocco a fidarsi di Graff. Quella gente lo avrebbe lasciato crepare. Interessati a lui, certo, perfino premurosi dietro la loro durezza, ma lo avrebbero lasciato crepare, lì nelle docce. Nessuno lo avrebbe mai aiutato. Peter poteva essere una carogna, ma da quel lato aveva visto giusto, spietatamente giusto: il potere di causare sofferenza era il solo che gli altri rispettavano. Il potere di uccidere e di distruggere, perché chi non sapeva uccidere era sempre alla mercé di chi poteva farlo, e nulla e nessuno lo avrebbe salvato.

Dink lo accompagnò in camera sua e lo fece stendere sul letto. — Pensi di avere qualche frattura? — gli chiese.

Ender scosse il capo.

— L’hai conciato male. Quando l’ho visto lì, non avrei scommesso uno sputo su di te. Invece l’hai ridotto molto male. Se non fosse caduto, credo che avresti continuato fino ad ammazzarlo.

— Lui voleva ammazzare me.

— Lo so. Lo conosco bene. Nessuno sa odiare come Bonzo. Ma è congelato, ormai. Se non lo rispediscono dritto a casa, non riuscirà più neppure a guardarti negli occhi. Ne te né chiunque altro. È venti centimetri più alto di te, e l’hai ridotto uno straccio.

Ma nella mente di Ender era rimasto impresso soltanto il tremito che aveva scosso Bonzo quando la sua testa aveva sbattuto nel tubo. Lo sguardo vitreo e morto dei suoi occhi. Era già finito fin da allora, già incosciente. Stava in piedi a occhi aperti, ma senza pensare e senza reagire. Con quell’espressione vuota, terribile, quasi oscena. La stessa faccia che aveva Stilson quando lo lasciai là per terra.

— Lo congeleranno, comunque — continuò Dink. — Tutti sanno che ha cominciato lui. Io li ho visti alzarsi insieme e uscire dalla mensa. Ci ho messo qualche secondo ad accorgermi che tu non c’eri, e poi un paio di minuti per scoprire dov’eri andato. Te l’avevo detto di non restare solo.

— Già. Mi spiace.

— Saranno costretti a congelarlo. È un cercaguai. Lui e il suo puzzolente senso dell’onore.

E in quel momento, con sorpresa di Dink, Ender cominciò a piangere. Disteso sulla schiena, ancora bagnato d’acqua e di sudore, tirò su col naso e lasciò che le lacrime gli si disperdessero sulle guance velate da tracce di schiuma secca. Un singhiozzo uscì dalla sua gola come un rantolo.

— Sei sicuro di non avere niente?

— Non volevo fargli del male! — ansimò Ender. — Perché non è stato capace di lasciarmi in pace?

Sentì la porta aprirsi con un fruscio, poi richiudersi. Pur semiaddormentato seppe che era la notifica per la battaglia di quel giorno. Socchiuse gli occhi, aspettandosi di trovare il buio del primo mattino, invece le luci erano già accese. Era nudo, e quando si mosse scoprì che le lenzuola erano umide. Nei suoi occhi, gonfi, era rimasto il dolore del pianto. Accese il banco per avere l’ora. 18,20 fu la cifra che comparve. È sempre lo stesso giorno. Ho già fatto una battaglia oggi. Ne ho fatte due… quei bastardi sanno cos’ho passato, e continuano a farmi questo.

ORDA DEI DRAGHI — comandante Ender Wiggin

Sala di Battaglia, ore 1900

ORDA DEI GRIFONI — comandante William Bee

ORDA DELLE TIGRI — comandante Talo Momoe

Tornò a sedersi sul letto. Il foglio tremava fra le sue dita. Questo non lo posso fare, disse in silenzio. E poi ad alta voce: — Questo non lo posso fare.

Si rialzò, stordito, e guardò attorno in cerca della tuta da battaglia. Poi ricordò: l’aveva messa in un pulitore automatico prima di far la doccia. Era ancora là.

Col foglio in mano uscì dal suo alloggio. L’ora di cena era quasi trascorsa e nei corridoi c’erano pochi ragazzi, ma nessuno gli rivolse la parola; in compenso raccolse parecchi sguardi intimoriti, forse a causa di quel che era successo a mezzogiorno nelle docce, forse per l’espressione fosca che gli aveva contratto il viso. Molti dei suoi ragazzi erano in camerata.

— Ehilà, Ender! Facciamo un po’ di allenamento stasera?

Lui consegnò il foglio a Zuppa Cinese, che mandò un grugnito. — Questi figli di puttana — disse. — Due alla volta?

— Due orde! — sbottò Tom il Matto.

— Si pesteranno i calli l’una con l’altra — disse Bean.

— Io vado a lavarmi — disse Ender. — Preparate i branchi e uscite. Vi raggiungerò alla porta.

Uscì dalla camerata lasciando dietro di sé un tumulto di chiacchiere, ma fece in tempo a sentire Tom il Matto che gridava: — Due fottute orde! E con questo? Gli frusteremo il culo!

Nelle docce non c’era nessuno. Il pavimento era stato lavato. Neppure una delle gocce di sangue che Bonzo aveva lasciato sulla parete e in terra. Ogni traccia cancellata. Lì non era mai accaduto nulla di spiacevole e di sporco.

Ender avanzò sotto il getto d’acqua tiepida e si sciacquò, lasciando che il sudore di quel combattimento se ne andasse giù per lo scarico. Tutto eliminato, salvo che lo ricicleranno, e domattina ognuno berrà la sua dose del sangue di Bonzo. Sangue ormai senza vita, ma pur sempre sangue, e con esso il mio sudore. Il tutto versato in nome della stupidità o della crudeltà o di qualunque cosa li abbia convinti a lasciarlo succedere.

Si asciugò, indossò la tuta e s’avviò verso la sala di battaglia. La sua orda stava aspettando in corridoio, presso la porta ancora chiusa, e quaranta sguardi lo seguirono in silenzio mentre andava a fermarsi di fronte al campo di forza bianco grigiastro. Tutti sapevano già che genere di battaglia li attendeva al di là di esso; questo, e la loro stanchezza residua dello scontro di quel mattino, li tratteneva dal darsi la carica con le solite grida. Dover affrontare insieme i Grifoni e le Tigri avrebbe messo a terra il morale di chiunque.

Qualunque cosa, purché serva a sconfiggermi, pensò Ender. Qualunque stratagemma riescano a pensare, sovvertendo anche le regole, senza fermarsi davanti a nulla pur di battermi. Be’, sono stanco di questi giochi. Nessun gioco vale il sangue di un ragazzo sparso sul pavimento delle docce. Congelatemi, rispeditemi a casa, io non ci sto più.

La porta si dissolse. Soltanto tre metri più avanti c’erano quattro stelle unite insieme, che bloccavano completamente la vista della sala. Due orde non bastavano. Devono anche tappare gli occhi alla mia orda.

— Bean — disse, — prendi i tuoi ragazzi e guarda cosa c’è dietro questa stella.

Bean svolse la treccia molecolare, se ne fissò un capo intorno alla cintura, diede l’altro a uno dei soldati della sua squadra e balzò lievemente oltre la porta. I cinque compagni lo seguirono subito. Era una manovra che avevano già sperimentato parecchie volte, e in pochi secondi riuscirono ad agganciarsi sulla parete interna della stella. Bean si spinse fuori a gran velocità, su una linea parallela alla porta; quando poi fu quasi all’angolo della sala scalciò contro la parete proiettandosi verso gli avversari. Lampi di luce sull’altro lato del locale lo informarono che questi gli stavano sparando addosso. Ma poiché era legato alla corda la sua traiettoria divenne un arco di cerchio facendo di lui un bersaglio impossibile, un arco che oltretutto si stringeva mentre la sua squadra tirava la treccia per recuperarlo sul lato opposto della stella. Appena i suoi lo ebbero portato al riparo mosse le braccia e le gambe, mostrando a quelli rimasti in corridoio che il nemico non lo aveva colpito da nessuna parte.

Ender lo raggiunse oltrepassando la soglia con un saltello.

— È piuttosto scuro — disse Bean, — ma c’è abbastanza luce da non poter seguire facilmente le loro mosse grazie alla fluorescenza delle tute. Il tipo di illuminazione peggiore. È tutto spazio aperto, da questa stella fino alla parete opposta. Ma là ci sono otto stelle riunite in un quadrato attorno alla loro porta. Non ho visto nessuno, salvo quelli che sporgevano la testa per sbirciare fuori. Ci aspettano standosene tutti quanti appostati là dietro.

Come a corroborare il rapporto di Bean, uno degli avversari gridò in tono sfottente: — Ehi, Dragamosci! Se volete pescare, non fatelo con uno stronzo attaccato alla lenza. Attaccateci le vostre sorelle, che noi stiamo qui ad abboccarcele!

Alcuni Draghi sogghignarono, impazienti di uscire con la pistola in mano, ma Ender non sapeva cosa pensare. Era una cosa stupida. Che possibilità aveva contro un nemico due volte più numeroso che per di più lo attendeva dietro una barricata? — In una guerra vera, ogni comandante con due grammi di cervello terrebbe indietro i suoi uomini anche lui.

— All’inferno! — disse Bean. — È soltanto un gioco.

— Ha smesso di essere un gioco quando gli insegnanti hanno cominciato a capovolgere le regole.

— Allora capovolgile anche tu.

Ender sogghignò. — D’accordo. Perché no? Vediamo come i nostri amici reagiscono davanti a una formazione.

Bean sbarrò gli occhi. — Una formazione? Ma non ne abbiamo mai fatta una da quando ci hanno messo in quest’orda!

— Abbiamo avuto la nostra prima battaglia dopo un mese di addestramento, cioè quando di solito si comincia a lavorare in formazione. Ormai è tempo che impariate anche questo. — Si volse alla porta, che era tornata a essere un muro opaco penetrabile da un solo lato, e con le dita segnalò: «branco A, avanti». I ragazzi emersero dalla parete d’energia, e lui cominciò a metterli in posizione al riparo della stella. Tre metri di spazio non erano molti, e la metà di loro erano confusi e di malumore, così ci vollero cinque minuti buoni prima che capissero il senso di ciò che stavano per fare.

Le Tigri e i Grifoni ingannavano il tempo gridando in coro sberleffi spiritosi di buon effetto, mentre i loro comandanti discutevano sulla possibilità di attaccare l’orda dei Draghi prima ancora che uscisse da dietro la stella. Momoe insisteva per l’attacco immediato. — Cristo, li superiamo per due a uno! — ripeteva, mentre la tesi di Bee era: — Appostati qui non possiamo perdere. Uscendo rischieremmo di scoprire che ha trovato un dannato modo per batterci.

Così restarono strettamente raggruppati dov’erano, finché in quella fosca penombra non videro una larga massa oscura emergere da dietro la stella dei Draghi. Aveva esattamente la stessa forma, e la mantenne anche quando smise di scivolare lateralmente e si proiettò dritta verso il centro vuoto del riparo quadrangolare usato dagli ottantadue avversari in attesa.

— Quella è bella! — esclamò un Grifone. — I Draghi che vengono avanti in formazione!

— Uno scudo! — brontolò Momoe. — E ci hanno impiegato cinque minuti per metterlo insieme. Se li attaccavamo allora, li avremmo già fatti a pezzi.

— Rifletti, Momoe — sussurrò Bee. — Hai visto il modo in cui quel ragazzino è volato fuori. Ha fatto un giro intorno alla stella senza toccare una parete. Forse hanno ottenuto l’uso dei radioganci, non credi? Devono avere qualcosa di nuovo, quelli là.

La formazione era comunque strana: un quadrato formato da corpi strettamente uniti, come un muro, sulla parte anteriore. Dietro di esso un cilindro, con la circonferenza fatta da sei ragazzi e una profondità di due; tutti quanti però completamente congelati e rigidi, cosicché non si capiva come riuscissero a tenersi uniti. E tuttavia qualcosa li teneva uniti quasi che fossero legati l’uno all’altro… il che, infatti, era vero.

Dall’interno di quella formazione altri Draghi stavano sparando con rapidità raffiche di colpi, e per un poco le Tigri e i Grifoni furono costretti a restare dietro le loro stelle.

— La parte posteriore di quell’affare lì è aperta — stabilì Bee. — Appena saranno abbastanza vicini potremo aggirarli e…

— Non starne a parlare, fallo! — esclamò Momoe. Senza perdere altro tempo ordinò ai suoi ragazzi di lanciarsi contro le pareti e rimbalzare dietro la formazione dei Draghi.

Nel caos della partenza delle Tigri, mentre i Grifoni si riunivano anch’essi lungo i bordi esterni del loro riparo, qualcosa mutò nella formazione dei Draghi: sia il cilindro che il muro frontale si aprirono in due, come se all’interno ci fosse stato un movimento molto energico, e all’istante essa invertì la direzione, tornando verso la porta da cui era partita. I Grifoni cominciarono a sparare, lanciandosi avanti, mentre la manovra aggirante delle Tigri riusciva perfettamente. I corpi dei Draghi pullulavano di cerchietti luminosi, centrati da decine e decine di colpi. Nella penombra Momoe mandava urla vittoriose.

Ma c’era qualcosa di strano, di sbagliato. Bee ci rifletté un momento e capì di cosa si trattava. Quella formazione non poteva aver invertito il volo a mezz’aria senza che qualcuno non si fosse spinto nella direzione opposta, e se questo qualcuno era partito con tanta forza da rimandare indietro la massa dei suoi compagni doveva esser schizzato via a gran velocità. Ringhiando un’imprecazione Bee si volse.

Ed era là: sei ragazzi con l’uniforme dei Draghi, proprio attaccati alla porta dei Grifoni e delle Tigri. Non c’erano arrivati sani, però, e con sollievo Bee vide che almeno cinque erano parzialmente inabilitati; soltanto uno era ancora intatto. Niente di cui preoccuparsi, dunque, si disse Bee. Puntò la pistola su uno di loro, prese con calma la mira, tirò il grilletto e…

Non accadde niente.

Le luci si accesero.

La battaglia era finita.

Anche se li aveva guardati e continuava a guardarli, Bee ci mise un po’ per capire cos’era successo. Quattro Draghi avevano posto il casco a contatto degli angoli luminosi della porta. E un quinto ci era passato attraverso. Insomma, avevano compiuto il rituale dell’apertura della porta nemica, e nient’altro. La loro orda era praticamente distrutta, non avevano inflitto ai Grifoni e alle Tigri la minima perdita, e avevano avuto l’incredibile sfacciataggine di andare a compiere il rituale della vittoria, causando l’accensione delle luci e la fine della battaglia.

Soltanto allora nella mente di William Bee si fece strada il sospetto che l’orda dei Draghi avesse non solo posto fine alla partita: esisteva la possibilità che, stiracchiando le regole, l’avessero anche vinta. Dopotutto, qualunque cosa accadesse in quel locale, un’orda non veniva registrata come vittoriosa finché i superstiti non fossero riusciti a toccare contemporaneamente i quattro angoli della porta nemica, mentre un quinto passava oltre nel corridoio. Di conseguenza se ne poteva arguire che il rituale della vittoria fosse la vittoria. Comunque, le apparecchiature automatiche della sala di battaglia avevano reagito a quel gesto, decretando la fine.

La porta degli insegnanti si aprì, e il maggiore Anderson fluttuò all’interno. — Ender! — chiamò, guardandosi attorno.

Uno dei Draghi completamente congelati mandò un mugolio all’interno del casco ermeticamente chiuso. Anderson usò il radiogancio per avvicinarlo e lo scongelò.

Ender stava sorridendo. — L’ho sconfitta di nuovo, signore — disse.

— Questo è un controsenso, Ender — rispose l’ufficiale, — I tuoi avversari erano i Grifoni e le Tigri.

— Fino a che punto crede che io sia stupido? — chiese Ender.

Ad alta voce Anderson annunciò: — Dopo questa… uh, manovra, tutto il regolamento sarà revisionato, introducendo l’obbligo che ogni soldato nemico sia congelato o disabilitato prima che la porta possa essere riaperta.

— Comunque, la cosa poteva funzionare soltanto una volta — aggiunse Ender.

Anderson gli consegnò il radiogancio. Ender scongelò i ragazzi tutti insieme. Al diavolo il protocollo. Al diavolo tutto. - Ehi! — gridò poi, mentre Anderson usciva. — Cosa farete la prossima volta? La mia orda chiusa in una gabbia e senz’armi, e con tutto il resto della scuola contro di noi? A quando uno scontro da pari a pari?

Nella sala si alzò un mormorio di consensi, e non soltanto da parte dei Draghi. Anderson non si prese la briga di voltarsi per replicare alla sfida di Ender. Fu William Bee a rispondergli: — Ender, se tu sei con una delle due parti in lotta non sarà mai uno scontro pari, qualunque cosa studino quelli.

— Proprio così! È vero! — esclamarono i ragazzi. Molti di loro risero. Talo Momoe cominciò a battere le mani e a gridare: — En-der! En-der! En-der! — Le sue Tigri e i Grifoni lo imitarono quasi tutti, applaudendo e continuando a ridere divertiti.

Dopo aver stretto la mano a Bee e a Momoe, Ender uscì dalla porta nemica. I suoi soldati gli si accodarono, e il coro di quelli che continuavano a gridare il suo nome li seguì lungo i corridoi.

— Ci alleniamo, stasera? — domandò Tom il Matto.

Ender scosse la testa.

— Domani mattina, allora?

— No.

— Be’, quando?

— Mai più, per quello che riguarda me.

Alle sue spalle si levarono dei mormorii.

— Ehi, questo non è leale — disse uno dei ragazzi. — Non è colpa nostra se gli insegnanti stanno stravolgendo le gare. E non puoi smettere di insegnarci e di guidarci soltanto perché…

Ender sbatté una mano aperta contro il muro e si volse di scatto. — Non mi importa più un accidente di queste gare! — Il suo grido echeggiò lungo il corridoio delle camerate. Ragazzi di altre orde misero la testa fuori dalle loro porte. Nel silenzio la voce di lui suonò bassa e secca: — Non me ne importa. Chiaro? È finito — sussurrò. — Il gioco è finito.

Senza guardare nessuno tornò in camera sua. Avrebbe voluto sdraiarsi, ma quando toccò il letto lo sentì ancora umido. Questo gli ricordò quel che gli era successo, e furioso strappò via le lenzuola e il materasso scaraventando tutto quanto nel corridoio. Poi arrotolò una tuta per farne un cuscino e si sdraiò sulla rete elastica del letto. Era scomoda, ma gli parve perfettamente intonata alle sue riflessioni.

Le stava rimuginando da non più di dieci minuti quando qualcuno bussò alla porta.

— Andatevene — borbottò. Ma chiunque fosse non lo udì, o non gli importava. Alla fine Ender gli disse di entrare.

Era Bean.

— Vattene, Bean.

Il ragazzo annuì, ma non si mosse. Con aria imbarazzata si guardò le scarpe. Il primo impulso di Ender fu di mettersi a urlare, di maledirlo e di ordinargli di lasciarlo in pace. Poi notò l’aspetto teso e depresso di Bean, le sue spalle curve per la stanchezza, gli occhi cerchiati dalla mancanza di sonno; e tuttavia la sua pelle era liscia e quasi trasparente, la pelle di un bambino. Le guance tenere di un bambino, i fianchi snelli di un bambino. Non aveva neppure otto anni. Per quanto fosse brillante, volonteroso e deciso era un bambino. Era giovane.

No, non lo è del tutto, si corresse Ender. Piccolo, certo. Ma sa già cosa significa battersi con una truppa che dipende da lui e dalla sua squadra, e ci ha dato la vittoria con la sua risolutezza. Non c’è niente di infantile in questo.

Interpretando il silenzio e l’espressione di Ender come un consenso, Bean chiuse la porta e si avvicinò al suo letto. Solo in quel momento lui vide che aveva in mano un foglio.

— Sei stato trasferito? — gli chiese. Era incredulo, ma la voce che si sentì uscire di bocca era smorta e piatta.

— All’orda delle Lepri.

Ender annuì. Naturalmente. Era ovvio. Se io ho un’orda che non può essere sconfitta, quelli devono togliermela. - Carn Carby è in gamba — sospirò. — Spero che sappia riconoscere i tuoi meriti.

— Carn Carby è stato promosso oggi. Glie l’hanno fatto sapere poco fa, mentre eravamo in sala di battaglia.

— Bene. Adesso chi è al comando dell’orda?

Bean allargò le braccia con aria rassegnata. — Io.

Ender fissò lo sguardo sul soffitto e annuì. — È naturale. Dopotutto sei soltanto quattro anni più giovane dell’età prevista.

— Non mi sembra divertente. Non so cosa stia succedendo qui. Tutti quei cambiamenti nelle gare. E adesso questo. Io non sono il solo a essere trasferito, sai. Hanno promosso metà dei comandanti, e messo un bel po’ di noialtri al comando delle loro orde.

— Chi di noi?

— Sembra che… tutti i capibranco e i loro vice.

— È chiaro. Se hanno deciso di indebolire la mia orda, quelli la radono al suolo. Qualunque cosa facciano, non la fanno mai a metà.

— Tu vincerai ancora, Ender. Tutti ne siamo convinti. Tom il Matto ha detto: «Ma mi ci vedi a comandare un’orda che debba battere i Draghi?» Tutti sanno che sei il migliore. Non riusciranno a spezzarti ora, qualunque cosa…

— L’anno già fatto.

— No, Ender. Oggi hai dimostrato che…

— Non m’importa più niente di questi giochi, Bean. Io non gioco più. Niente più addestramenti, niente più battaglie. Possono consegnarmi qui dentro tutte le notifiche che vogliono, ma io lascio perdere. L’ho deciso oggi prima di entrare in sala di battaglia. E se ho fatto di tutto per vincere è perché volevo andarmene con stile, solo per questo.

— Avresti dovuto vedere la faccia di William Bee. Non ce la faceva a raccapezzarsi all’idea che tu avessi vinto con sei ragazzi mezzo congelati, mentre in sala c’erano ottantadue di loro ancora tutti sani.

— Perché dovrei stare a pensare alla faccia di William Bee? Perché dovrei voler battere questo e quello? — Ender si appoggiò le palme delle mani sugli occhi. — Oggi ho fatto del male a Bonzo. Del male sul serio, Bean.

— Se l’è cercata.

— Non cadeva, e io continuavo a colpirlo. Stava in piedi come un pezzo di carne morta, e io gli sbattevo la testa nel muro…

Bean non disse niente.

— Volevo essere sicuro che non potesse mai più minacciarmi così.

— Non lo farà — disse Bean. — Lo spediscono a casa.

— Di già?

— Gli insegnanti non hanno detto molto, come al solito. La notizia ufficiale è che l’hanno promosso, ma nello spazio dove scrivono l’assegnazione… sai, Corso Piloti, o Scuola Armamenti, Corso Sottufficiali, o Specializzazioni Tecniche, questo genere di cose… be’, c’è scritto Cartagena, Spagna. È casa sua.

— Sono contento che l’abbiamo promosso.

— Diavolo, Ender, noi siamo contenti che sia fuori. Se avessimo saputo cosa voleva farti l’avremmo ammazzato a sangue freddo. È vero che ti ha aggredito con tutta una banda di altre carogne? Si dice che…

— No. Soltanto lui e io. E si è battuto onorevolmente. — Se non fosse stato per il suo senso dell’onore, comunque, gli altri mi sarebbero venuti addosso tutti insieme. E avrebbero potuto ammazzarmi. Questo mi ha salvato la vita. - Io invece non sono stato a pensare al mio onore — aggiunse sottovoce. — Mi sono battuto per vincere.

Bean rise. — E l’hai fatto. Gli hai mollato un calcio che lo farà filare a razzo fin sulla Terra.

Bussarono alla porta. Ma prima che Ender potesse rispondere questa si aprì. S’era aspettato qualcun altro dei suoi soldati, invece era il maggiore Anderson. E dietro di lui venne dentro il colonnello Graff.

— Ender Wiggin — disse Graff.

Lui si alzò. — Sì, signore.

— L’insolenza di cui hai dato prova oggi in sala di battaglia è stata eccessiva, e non deve ripetersi.

— Sissignore — disse Ender.

Bean era però ancora d’umore insubordinato, e quel rimprovero gli parve ingiusto. — Signore, secondo me era tempo che qualcuno dicesse a un insegnante come la pensiamo su quello che avete fatto.

I due adulti lo ignorarono. Anderson porse a Ender un foglio di carta. Formato protocollo, non come quelli stampati dal computer che servivano per le comunicazioni interne. Era fitto di ordini e di istruzioni. Bean sapeva cosa significava: Ender era stato trasferito fuori dalla Scuola.

— Promosso? — gli chiese. Ender annuì. — Perché ci hanno messo tanto? Sei solo di due o tre anni in anticipo sull’età minima. Comunque hai imparato a camminare, a parlare e a vestirti da solo. Cos’altro gli rimarrebbe da insegnarti?

Ender scosse il capo. — Tutto ciò che so è che il gioco è finito. — Ripiegò il foglio. — Mai troppo presto per me. Posso dirlo all’orda?

— Non c’è tempo di girare per la Scuola in cerca dei tuoi conoscenti — disse Graff. — La tua navetta parte fra venti minuti. Questo rende tutto più facile.

— Per noi o per lei? — chiese Ender. Non si aspettava una risposta. Si volse a Bean, gli strinse forte la mano per un momento, poi andò alla porta.

— Aspetta — disse Bean. — Dove sei stato assegnato? Specializzazione Tecniche? Corsi di Tattica? Armamenti?

— Scuola Ufficiali — rispose Ender.

— Al corso di preparazione?

— Al corso ufficiali — disse Ender, e uscì in corridoio. Anderson lo seguì. Bean prese il colonnello Graff per una manica. — Ma nessuno va alla Scuola Ufficiali, prima dei sedici anni.

Graff si liberò dalla sua mano, uscì e chiuse la porta dietro di sé.

Bean rimase solo nella stanza, stentando ad afferrare il significato di quel che aveva udito. Nessuno s’era mai iscritto alla Scuola Ufficiali senza aver fatto i tre anni di corso preparatorio in una delle specializzazioni tecniche o logistiche. Del resto, nessuno era mai uscito dalla Scuola di Guerra prima d’aver completato i sei anni del corso, e Ender ne aveva fatti solo quattro.

Il sistema sta andando a rotoli. Non c’è dubbio, ormai. O qualcuno negli alti comandi è impazzito, o la guerra ha avuto una brutta svolta. La guerra vera, quella con gli Scorpioni. Per quale altro motivo avrebbero stravolto i regolamenti interni a questo modo, e inasprito le gare? Per quale altro motivo avrebbero messo un bambino come me al comando di un’orda?

Bean continuò a rimuginare quelle domande mentre tornava in camerata. Le luci si spensero proprio mentre si fermava accanto alla sua cuccetta. Si spogliò nel buio, e irritato annaspò a lungo prima di riuscire ad appendere la tuta nell’armadietto. Non s’era mai sentito così depresso. Dapprima aveva pensato che la causa fosse l’inconscia paura di comandare un’orda, ma non era così. Sapeva che sarebbe stato un buon comandante. Ma continuava ad aver voglia di piangere. Non lo aveva fatto più dopo i primi giorni dal suo arrivo, quando la nostalgia di casa lo assaliva. Cercò di dare un nome al groppo che aveva in gola, alla sensazione che gli spingeva le lacrime agli occhi ad onta dei suoi sforzi per ricacciarle indietro. Si mise un pollice in bocca e lo morse, per sostituire un dolore noto a uno oscuro. Non funzionò. Non avrebbe mai più rivisto Ender, mai più.

Appena capì che la sua spina era quella, riuscì pian piano a levarsela dalla carne. Disteso sulla cuccetta fece esercizi di respirazione finché il bisogno di piangere scomparve. Poi si girò su un fianco e cercò di dormire, ma per qualche minuto il suo respiro continuò a essere rapido e secco, la fronte corrugata, gli orecchi tesi ai piccoli rumori notturni dei suoi compagni. Lui era lì con loro, ed era un soldato. Se qualcuno fosse venuto a chiedergli cos’avrebbe voluto fare da grande, non avrebbe avuto altra risposta da dargli.

Fu mentre si trasferiva sulla navetta che Ender notò per la prima volta i gradi sull’uniforme del maggiore Anderson. Erano diversi. — Sì, ora è colonnello — gli spiegò Graff. — In effetti, oggi pomeriggio il colonnello Anderson è stato messo alla direzione della Scuola di Guerra. Io sono stato assegnato a un altro incarico.

Ender non gli chiese quale.

Graff fluttuò giù fra i braccioli della poltroncina accanto alla sua, dall’altra parte del passaggio centrale. In cabina c’era soltanto un altro passeggero, un uomo in borghese, dall’aria tranquilla, che gli era stato presentato come il generale Pace. Aveva con sé una valigetta portadocumenti, ma non più bagaglio di quello che avevano lui e Graff. Per qualche ragione, il fatto che anche Graff se ne andasse da lì a mani vuote gli parve consolante.

Durante il tragitto verso la zona più interna del sistema solare Ender parlò una volta sola. — Perché stiamo tornando sulla Terra? — domandò. — Credevo che la Scuola Ufficiali fosse da qualche parte fra gli asteroidi.

— È così — annuì Graff. — Ma la Scuola di Guerra non ha strutture di attracco per le astronavi di stazza e autonomia maggiore. Farai una breve tappa intermedia sulla Terra.

Ender fu tentato di chiedere se avrebbe rivisto la sua famiglia. Ma d’improvviso, al pensiero che fosse possibile, fu colto da una strana paura e tacque. Preferì chiudere gli occhi e cercare di farsi la sua nottata di sonno. Poco più indietro, il generale Pace continuava forse a scrutarlo e studiarlo, mosso da interessi che lui aveva subito rinunciato a immaginare.

Quando atterrarono in Florida, Ender scoprì che quello era un caldo pomeriggio di mezza estate. Era stato tanto a lungo lontano dalla luce del sole che se ne sentì subito pugnalare gli occhi. Strinse le palpebre, arricciò il naso al puzzo del carburante e desiderò entrare in qualche luogo chiuso. Tutto gli appariva lontano, steso su distanze eccessive e stranamente piatto. Il terreno, senza la curvatura all’insù dei pavimenti su cui aveva camminato per quattro anni, dava l’impressione di curvarsi in basso, e benché sapesse di essere su una pista piatta Ender si sentiva come sulla cima di una collinetta. Anche l’attrazione gravitazionale mancava di quella lieve spinta laterale dovuta alla rotazione centrifuga, e nel camminare i suoi piedi avevano un noioso sbandamento. Detestò quell’insieme di sensazioni estranee. Avrebbe voluto tornarsene a casa: alla Scuola di Guerra, l’unico posto dell’universo a cui il suo corpo sembrava appartenere.

— Arrestato?

— Be’, mi è parsa una deduzione logica. Il generale Pace è il capo della Polizia Militare. E c’è stato un morto alla Scuola di Guerra.

— Non mi hanno detto se il colonnello Graff sia stato promosso oppure deferito alla Corte Marziale. Soltanto trasferito, ecco quello che so, con l’ordine di mettersi a rapporto dal Condottiero.

— Questo è buon segno?

— Chi lo sa? D’altra parte Ender Wiggin non soltanto è sopravvissuto a ogni prova e test, ma ne è uscito in ottima forma. Bisogna pur dare Credito di questo al vecchio Graff. Per contro, c’è il quarto passeggero della navetta. Quello che ha viaggiato in una cassa.

— È soltanto il secondo nell’intera storia della Scuola. Almeno non si è trattato di un suicidio, stavolta.

— L’omicidio è per qualche verso preferibile, maggiore Imbu?

— Non è stato un omicidio, colonnello. Abbiamo registrazioni video prese da due diverse angolature. Nessuno può incolpare Ender.

— Ma potrebbero incriminare Graff. Quando tutto questo sarà finito, una commissione senatoriale potrebbe passarci al setaccio e stabilire chi ha commesso degli illeciti e chi no. E darci una medaglia se non abbiamo offeso il loro senso estetico, oppure toglierci la pensione o metterci in galera. Se non altro, comunque, hanno avuto il buon senso di non dire a Ender che il ragazzo è morto.

— Ed è la seconda volta.

— Già. Non gli hanno detto neppure di Stilson.

— Ma il ragazzo ha paura di se stesso.

— Ender Wiggin non è un killer. Lui si limita a vincere… definitivamente. Se qualcuno deve averne paura, lasciamo che siano gli Scorpioni.

— Sembra quasi che lei li compatisca, al pensiero di mandargli addosso Ender Wiggin.

— L’unico per cui sono rattristato è Ender. Ma non lo sono abbastanza da suggerire che lo mettano da parte. Ho appena avuto accesso al materiale che finora Graff teneva chiuso col suo codice personale. Sui movimenti della flotta, cose di questo genere. Credo che potrò dimenticare cosa significa dormire sonni tranquilli.

— Il tempo stringe, vero?

— Non avrei dovuto parlargliene. Sono informazioni riservate.

— Lo so.

— Una cosa però posso dirgliela: non era troppo presto per trasferirlo alla Scuola Ufficiali. Anzi, forse è stato fatto con un paio d’anni di ritardo.

CAPITOLO TREDICESIMO

VALENTINE

— Ragazzini?

— Fratello e sorella. Si erano nascosti sotto cinque diversi strati di precauzioni difensive, nelle reti computerizzate dei video-giornali… lavorando per compagnie che pagano bene i loro articolisti. Per rintracciarli ci è voluta una maledetta quantità di tempo.

— Cosa stanno nascondendo?

— Potrebbe essere qualsiasi cosa. La più ovvia da nascondere, comunque, è la loro età. Il ragazzo ha quattordici anni, la femmina dodici.

— Chi di loro è Demostene?

— La ragazza. La dodicenne.

— Mi scusi. Non penso affatto che ci sia qualcosa di divertente, ma non ho potuto fare a meno di ridere. Tutto il tempo che abbiamo trascorso a roderci l’anima… tutta la fatica che stiamo facendo per convincere i russi a non prendere sul serio Demostene! Siamo arrivati al punto di portare Locke come prova che gli americani non sono tutti dei paranoici guerrafondai. E loro sono fratello e sorella. Due adolescenti!

— E il loro cognome è Wiggin.

— Ah! Una coincidenza?

— Il Wiggin è un Terzo. Loro sono il primo e la seconda.

— Ah, andiamo bene! Adesso i russi non crederanno mai e poi mai che…

— Che Demostene e Locke non sono affatto sotto il nostro controllo, come lo è il Wiggin.

— Che sia una cospirazione? Che qualcuno li stia controllando?

— Siamo riusciti a stabilire che non esiste nessun contatto fra questi due adolescenti e qualsiasi adulto che potrebbe dirigerli.

— Questo non significa che qualcuno non abbia escogitato un sistema in cui non avete potuto penetrare. È difficile convincersi che due ragazzini…

— Ho avuto un colloquio con il colonnello Graff, quando è tornato dalla Scuola di Guerra. È sua ferma opinione che nulla di quanto hanno fatto i due ragazzini era al di là delle loro capacità. Queste sono virtualmente uguali capacità di… del Wiggin. Soltanto il loro carattere è diverso. Ciò che lo ha sorpreso, tuttavia, è l’orientamento dei due personaggi pubblici: Demostene è infatti la ragazza, non c’è dubbio, però Graff dice che lei fu rifiutata dalla Scuola di Guerra perché era troppo pacifica, troppo conciliante, e soprattutto troppo capace di empatia.

— L’esatto contrario di Demostene.

— Mentre il ragazzo ha l’anima di uno sciacallo.

— Non è stato Locke a esser premiato di recente come «il giornalista americano di più larghe vedute»?

— È difficile capire cosa sta succedendo. Ma Graff ha raccomandato, e io sono d’accordo, di lasciarli fare. Senza smascherarli. L’ordine è di non fare nessun rapporto, salvo una nota in cui si dichiara che Locke e Demostene non hanno contatti esteri né con gruppi interni, a parte i legami pubblicamente dichiarati nei loro articoli.

— In altre parole, dichiararli innocui e lasciargli mano libera.

— So che Demostene sembra pericoloso, forse perché lui, o lei, ha un seguito così vasto. Ma ritengo significativo il fatto che il più ambizioso dei due ha scelto di essere moderato. Comunque non fanno che discorsi. Hanno influenza, ma nessun potere.

— Da quanto ne so io, influenza è sinonimo di potere.

— Se dovessero sgarrare troppo, potremmo smascherarli pubblicamente.

— Solo per pochi anni ancora. Più aspettiamo e più invecchiano, e allora desterà ben scarso stupore scoprire chi sono.

— Lei sa quali sono stati i movimenti delle truppe russe. C’è sempre la possibilità che Demostene abbia ragione. E in questo caso…

— Ci farà comodo avere Demostene all’opera. Va bene. Li terremo fra due guanciali di piume, per ora. Ma sorvegliateli. E io, naturalmente, dovrò lambiccarmi il cervello per tenere tranquilli i russi.

A dispetto della sua apprensione, per Valentine era un divertimento essere Demostene. Quasi ogni video-giornale della nazione riportava ora la sua colonna, ed era soddisfacente vedere il denaro accumularsi nei conti a cui attingeva sotto falsa identità. Di tanto in tanto lei e Peter, a nome di Demostene, facevano a certi candidati e a certe organizzazioni delle donazioni accuratamente calcolate: abbastanza denaro da far notare la cosa, ma non abbastanza da far sospettare al candidato che si volesse comprare il suo voto. Lei riceveva una tale mole di corrispondenza che la Calnet doveva dirottargliela su una segreteria, la quale rispondeva a quella di routine. Le lettere più interessanti le arrivavano da uomini politici di statura nazionale e anche internazionale, talvolta ostili, talaltra amichevoli, ma sempre miranti a influenzare diplomaticamente le vedute di Demostene. Queste lei e Peter le leggevano insieme, ridacchiando al pensiero che gente come quella stesse, senza saperlo, scrivendo a due ragazzini.

A volte, però, se ne vergognava. Suo padre leggeva regolarmente Demostene; ignorava Locke o, se mai l’aveva letto, non ne parlava. A pranzo non di rado elargiva loro punti di vista che Demostene aveva espresso nel suo articolo di quel giorno. Peter ne rideva sotto i baffi: — Vedi? Questo dimostra che l’uomo della strada ha bisogno che gli dicano quale opinione deve avere. — Ma Valentine si sentiva umiliata per suo padre. Se mai venisse a sapere che ho scritto io gli articoli di cui ci parla, e che non credo a metà di quelle cose, la rabbia e la vergogna lo ucciderebbero.

A scuola rischiò di combinare un guaio quando la sua insegnante di storia incaricò ogni studente di scrivere un saggio critico sulle vedute di Demostene e di Locke espresse in due dei loro primi articoli. Valentine dimenticò la prudenza e fece un brillante lavoro di analisi. Come risultato, dovette sudare per dissuadere il preside dal far pubblicare il saggio da uno dei videogiornali della stessa California Network. Peter s’infuriò selvaggiamente. — Sembrava uscito dalla penna di Demostene! Vuoi rovinare tutto? Piuttosto faccio fuori Demostene definitivamente. Tu non sai cos’è l’autocontrollo!

Se dava in escandescenze per cose da poco, Peter la spaventava ancor di più quando smetteva di parlarle. L’episodio accadde quando Demostene fu invitato a far parte del Comitato Presidenziale per l’Educazione al Futuro, un gruppo onorario che in realtà non faceva niente, ma lo faceva splendidamente. Valentine avrebbe supposto che Peter l’avrebbe presa come un’altra vittoria, ma così non fu. — Rifiuta — le disse.

— Perché dovrei? — si oppose lei. — Non si tratta di un lavoro, e hanno perfino detto che rispettando il ben noto desiderio d’anonimato di Demostene potrò limitarmi a partecipare con interventi scritti. Questo darà un peso autorevole alla persona di Demostene, e…

— E ti godrai l’idea d’essere riuscita a ottenerlo prima di me.

— Peter, non si tratta di te e di me, ma di Demostene e Locke. Noi li abbiamo costruiti. Non sono veri. E poi questo invito non significa che Demostene gli piaccia più di Locke, ma soltanto che ha una più vasta base di consenso popolare. Tu sapevi che sarebbe stato così. L’hai progettato per solleticare gli umori di tutti gli antisovietici e gli sciovinisti del mondo occidentale.

— La cosa non doveva funzionare a questo modo. Era Locke quello destinato a diventare autorevole e rispettato.

— Lo è. Il rispetto delle persone intelligenti non ha a che vedere con le manovre governative per accontentare le masse. Peter, non prendertela con me se ho fatto fin troppo bene quello che volevi.

Ma l’ira di lui durò molti giorni, e il suo mutismo costrinse Valentine a scrivere diversi articoli senza consultarlo. Probabilmente in quell’occasione Peter fu convinto che la colonna di Demostene avesse perduto mordente, ma anche se così fu nessuno parve notarlo. E la sua acrimonia dovette peggiorare quando vide che lei non veniva piangendo a chiedergli aiuto. Ma Valentine era stata Demostene ormai troppo a lungo per aver bisogno che le si dicesse cos’avrebbe pensato Demostene su questo o quell’argomento.

E mentre la sua corrispondenza con altri cittadini politicamente attivi s’intensificava, venne a conoscenza di fatti e retroscena di solito celati al grosso pubblico. Alcuni ufficiali delle forze armate di tendenze reazionarie le scrivevano accennando sovente a episodi e fatti tenuti sotto silenzio, e lei e Peter si divertivano a metterli insieme per ottenere un affascinante e inquietante quadro dell’attività segreta del Patto di Varsavia. I comunisti si stavano senza dubbio preparando alla guerra, una guerra che evidentemente prevedevano sanguinosa e di vasta portata. Demostene non sbagliava, strombazzando che il Patto di Varsavia stava violando ogni regola e tradiva la fiducia degli Alleati.

E il personaggio di Demostene pian piano cominciò ad acquistare una sorta di vita indipendente. A volte, dopo aver partecipato a dibattiti televisivi in cui era concesso inviare per video domande e risposte scritte, s’accorgeva d’aver pensato come Demostene, e d’essersi trovata d’accordo con idee che avrebbero dovuto essere soltanto un copione fasullo. E a volte, leggendo articoli di Locke, si sentì irritata dalla sua evidente cecità per quello che stava realmente accadendo.

Forse non era possibile indossare l’abito senza diventare monaco almeno in parte. Questo le dava da riflettere, e un giorno in cui certe deduzioni finirono col preoccuparla scrisse un articolo usando quel concetto come una premessa, per dimostrare che i politicanti usi a tranquillizzare i russi per tener calme le acque finivano inevitabilmente per divenire loro succubi, o addirittura loro involontari strumenti. Questo fu il sottile e calunnioso pugnale che Demostene affondò nella schiena del Governo, e gli estremisti di destra ne furono elettrizzati. Ricevette moltissima corrispondenza, e consensi anche da parte di gente che fin’allora l’aveva osteggiata. L’episodio fece svanire la sua paura di diventare, realmente e fino a un certo punto, Demostene. È più intelligente di quel che io e Peter avessimo mai pensato, si disse.

All’uscita dalla scuola trovò ad attenderla Graff. Era dall’altra parte della strada, appoggiato alla portiera della sua auto, e poiché indossava abiti civili ed era ancora aumentato di peso Valentine non lo riconobbe subito. Ma quando l’uomo le fece cenno di avvicinarsi ella trasalì; quegli occhi penetranti non erano cambiati affatto.

— Guardi che non scriverò un’altra lettera — gli disse subito. — Non avrei neppure dovuto scrivere la prima.

— Allora suppongo che non le piaccia ricevere medaglie.

— Non molto.

— Venga a fare un giretto con me, Valentine.

— Non salgo in macchina con sconosciuti dall’aria equivoca.

Lui le porse un foglio. Si trattava di una richiesta legale in piena regola, un’autorizzazione firmata dai suoi genitori.

— Ammetto che lei non si può definire uno sconosciuto — sospirò lei. — Dove intende portarmi?

— A vedere un giovane soldato che risiede provvisoriamente a Greensboro, di passaggio.

Lei salì in macchina. — Ender ha solo dieci anni — disse. — Quando lei lo prelevò, disse che non sarebbe venuto in licenza sulla Terra prima dei dodici anni.

— Ha superato certi esami più in fretta del previsto.

— Dunque sta andando bene?

— Potrà chiederlo a lui personalmente.

— Perché io? Perché non tutta la famiglia?

Graff sospirò. — Ender vede il mondo a suo modo. Abbiamo dovuto persuaderlo a incontrare almeno lei. Per Peter e i vostri genitori non prova interesse. La sua vita alla Scuola di Guerra è stata… intensa.

— Che significa? È diventato pazzo?

— Al contrario. È la persona più sana di mente che io conosca. Lo è abbastanza da capire che i suoi genitori soffrirebbero, più che gioire, riaprendo pagine di affetto che dovettero sforzarsi di chiudere con fermezza anni fa. In quanto a Peter, non gli abbiamo proposto d’incontrarlo; così non è stato costretto a mandare all’inferno degli ufficiali superiori a cui deve rispetto.

L’auto seguì la Lake Brandt Road girando intorno al vasto specchio d’acqua, e poi se ne scostò lungo una strada secondaria che andava su e giù fra le colline verdeggianti. Infine risalirono verso una grande villa rivestita in assicelle di legno che sorgeva in cima a un’altura. Dalla facciata si godeva il panorama del Lago Brandt, mentre sul retro il pendio declinava fino a un laghetto privato largo poche centinaia di metri.

— La villa apparteneva a un magnate di Hollywood che vi mandava in vacanza i suoi divi, in caso di esaurimento nervoso — spiegò Graff. — La F.I. l’ha affittata una ventina d’anni fa. Ender ha insistito che la vostra conversazione avvenga lontano da orecchi elettronici. Io gliel’ho promesso. Anzi, per corroborare la sua fiducia ho consentito che facciate un giretto su una zattera che ha costruito lui stesso. Devo avvertirla, però: intendo farle delle domande quando avrà finito di parlare con lui. Non la costringerò a rispondere, ma spero che lo farà.

— Non ho portato con me un costume da bagno.

— Possiamo fornirgliene un’intera scelta.

— Tutti con microspie all’ultima moda balneare?

— Credo che sia possibile intenderci sul terreno della fiducia reciproca. Ad esempio, io so chi è Demostene.

Lei provò un brivido di sorpresa e di paura, ma non disse nulla.

— L’ho saputo fin dal mio recente rientro sulla Terra. Al mondo ci sono soltanto sei persone, credo, al corrente di questo. Senza contare i russi… Dio solo sa dove arrivino i loro servizi segreti. Ma Demostene non ha niente da temere da noi. Demostene può confidare nella nostra discrezione. Proprio come io confido che Demostene non dirà a Locke cos’ha fatto e detto oggi. Mutua fiducia. E mutuo scambio d’informazioni.

Valentine non seppe stabilire se la loro approvazione andasse a Demostene o a Valentine Wiggin. Nel primo caso non poteva fidarsi di quella gente, nel secondo forse sì. La loro proposta di mantenere all’oscuro Peter poteva suggerire che conoscevano le loro differenze intellettuali. Ma Valentine non aveva ancora smesso di chiedersi se lei stessa conosceva davvero quelle differenze.

— Ha avuto il tempo di costruirsi una zattera? Da quanto tempo è qui?

— Due mesi. Nei nostri progetti questa vacanza doveva durare appena pochi giorni, ma… vede, sembra che lui non sia più interessato a proseguire gli studi.

— Ah! Così io sono ancora la terapia.

— Stavolta non dovrà darci una lettera da censurare. Siamo disposti ad accollarci il rischio. Abbiamo bisogno di suo fratello. Molto bisogno. È un momento cruciale per la razza umana.

Dall’ultima volta, Valentine era cresciuta abbastanza per sapere che quelle parole non erano vuota retorica. Ed era stata Demostene abbastanza da assimilare un certo tipo di reazioni di fronte a un pericolo. — Va bene. — Scese dall’auto. — È qui in casa?

Graff interrogò un inserviente con un’occhiata. — È giù allo scalo delle barche — rispose.

— Vediamo questi costumi da bagnò, allora.

Ender non alzò una mano a salutarla quando la vide scendere lungo il sentiero che serpeggiava giù verso il lago, né sorrise allorché lei avanzò sul moletto accanto allo scivolo per le barche. Ma Valentine seppe che era felice di vederla, perché per tutto il tempo lui tenne gli occhi fissi nei suoi.

— Sei più alto di quello che ricordavo — gli disse, stupidamente.

— Anche tu — rispose lui. — Ricordo anche che da bambina eri bella.

— La memoria ci gioca strani scherzi.

— No. Il tuo volto è uguale. Solo che a quell’età non capivo cosa fosse la bellezza. Vieni. Andiamo a galleggiare un po’ sul lago.

Lei esaminò la piccola zattera con aria piuttosto dubbiosa.

— Basta non alzarsi in piedi sul bordo — disse Ender. Camminando a quattro zampe si portò all’estremità anteriore del natante. — È la prima cosa che faccio con le mie mani, da quando tu e io ci costruivano le capanne con i blocchi di edilplast. Rifugi a prova di Peter.

Lei rise. Non aveva dimenticato quanto s’erano divertiti studiando piccole costruzioni capaci di reggere anche nel caso che qualcuno ne demolisse le più ovvie strutture portanti. Peter, al contrario, era stato un demonio d’abilità nel costruire capanne dall’apparenza solidissima che franavano addosso al primo abbastanza incauto da penetrarvi. Peter era stato un punto focale della loro infanzia, qualcosa che li aveva uniti.

— Peter è cambiato — disse lei.

Ender scrollò le spalle. — Non voglio parlare di lui.

— D’accordo.

La fanciulla salì sulla zattera, con movimenti assai più incerti di quelli di Ender. Lui usò una pagaia per manovrare intorno al molo e poi prese a remare verso il centro del laghetto privato. Nel notare quanto fosse abbronzato Valentine lo disse. — E ti sei anche irrobustito molto — aggiunse.

— Alla Scuola di Guerra si fa molto esercizio fisico, ma l’abbronzatura l’ho comprata qui. Passo le giornate in acqua. Quando nuoto è come essere di nuovo lassù, in gravità zero. Senza peso si può volare, e ne sento la mancanza. Inoltre, qui sul lago, tutto il territorio che mi vedo attorno è ricurvo all’insù.

— Come sul fondo di una tazza.

— Ho vissuto in una tazza per quattro anni.

— E ora noi siamo due sconosciuti?

— Lo siamo, Val?

— No — disse lei. Allungò una mano e gli toccò un polpaccio. Poi d’improvviso gli fece il solletico dietro il ginocchio, proprio dove lui era sempre stato più sensibile.

Ma quasi all’istante lui le bloccò il polso. Aveva una stretta forte, benché le sue mani fossero più piccole di quelle di lei, e per un attimo nelle pupille gli brillò una luce strana, pericolosa. Poi si rilassò. — Ah, già — disse. — Avevi l’abitudine di farmi il solletico. Sei sempre così dispettosa?

— No, non più — mormorò lei, ritraendo la mano.

— Ti va di nuotare?

Per tutta risposta Val si calò giù dal bordo della zattera. L’acqua era limpida e pulita, senza alcun odore di clorina. Per un poco nuotò attorno, poi risalì sulla zattera e pigramente si distese sotto la calda luce del sole. Una vespa ronzò su di lei e atterrò a un palmo di distanza dalla sua testa. La fanciulla non si mosse. Sapeva che l’insetto era lì, e che solitamente questo l’avrebbe spaventata. Ma non oggi. Lasciamo che vada in zattera anche lei, e che si abbronzi al sole come sto facendo io.

Poi la zattera ebbe un sussulto. Lei si volse e vide Ender rialzare con calma la mano da dove l’aveva abbattuta e gettare in acqua la vespa. — Questi sono insetti dannati — disse il ragazzo. — Ti pungono anche senza esser stati provocati. — Le sorrise. — Ed è così che ci insegnano a difenderci: strategia preventiva. Io sono diventato un asso nelle loro battaglie simulate. Il miglior soldato che abbiamo mai avuto.

— Chi poteva aspettarsi di meno? Sei un Wiggin.

— Già. Qualunque cosa questo significhi.

— Significa che tu puoi spingere il mondo in una certa direzione, se spingi nel posto adatto e nel momento adatto — disse Val, e gli rivelò ciò che Peter e lei stavano facendo.

— Quanti anni ha Peter? Quattordici? E pensa già di conquistare il mondo?

— Crede d’essere Alessandro il Grande. E perché non potrebbe esserlo? Perché anche tu non potresti esserlo?

— Non potremmo essere tutti e due Alessandro.

— Due facce della stessa medaglia. E io, il metallo che ne compone l’interno. — Ma subito Val dovette chiedersi fino a che punto lei fosse in posizione centrale. Aveva condiviso tante esperienze con Peter in quei pochi anni che perfino mentre lo disprezzava si rendeva conto di capirlo. Ender invece fino a quel momento era stato soltanto un ricordo: un ragazzino fragile e delicato che aveva bisogno della sua protezione. Non questo giovinetto abbronzato e dallo sguardo freddo, che schiaccia le vespe con le mani. Forse io e Peter e lui siamo fatti della stessa pasta, lo siamo sempre stati, e abbiamo voluto crederci diversi per orgoglio e per invidia.

— Il guaio con le medaglie è che la luce del sole può illuminare soltanto una faccia. L’altra sta all’ombra.

E proprio adesso tu credi di essere tornato all’ombra. - Vogliono che io ti incoraggi a proseguire gli studi.

— Non sono studi, sono gare. Nient’altro che gare, dall’inizio alla fine, solo che loro cambiano le regole quando e come gli salta in ticchio di farlo. — Mosse le mani a dita aperte. — Hai mai provato a far ballare una marionetta appesa ai fili?

— Puoi tirare anche tu gli stessi fili che ti legano.

— Soltanto se loro rilassano le dita. Soltanto se pensano che così ti stanno ancora usando. No, è troppo duro, è un gioco che non voglio giocare più. Appena comincio a sentirmi tranquillo, appena m’illudo di riuscire a padroneggiare le cose, mi piantano un altro coltello fra le costole. Da quando sono qui ho perfino degli incubi… sogno di essere in sala di battaglia, solo che invece di lasciarmi volare senza peso loro mi costringono a combattere nella gravità, e le cambiano continuamente direzione, così non riesco mai ad atterrare dove voglio, mai ad andare dove ho deciso di andare. E allora li supplico di lasciarmi uscire dalla porta, ma loro mi parlano solo con le luci del loro computer, mi risucchiano lì dentro. Mi trasformano in un ingranaggio di quella macchina insensata.

Val sentì l’ira della sua voce, e la sentì diretta anche contro di lei. — Già. Si presume che io sia qui per questo. Per spingerti di nuovo nella loro macchina.

— Io non volevo incontrarti.

— Me l’hanno detto.

— Avevo paura di scoprire che ti voglio ancora bene.

— Questo era ciò che io speravo.

— La mia paura, la tua speranza… altri due fili, per loro.

— Non è del tutto vero, Ender. Siamo troppo giovani, forse, ma non senza potere. Abbiamo giocato tanto secondo le loro regole che questa è diventata la nostra partita. — Ebbe una risatina. — Io faccio addirittura parte di una commissione presidenziale. Peter non è riuscito a mandarla giù.

— Loro non mi permettono contatti con la videostampa. Qui non c’è neppure un computer, a parte un vecchio barattolo che si occupa degli impianti di sicurezza e degli elettrodomestici. Roba istallata un secolo fa, quando facevano computer che non s’inserivano sui satelliti. Mi hanno tolto la mia orda, mi hanno tolto il banco, e la sai una cosa? Non è che me ne importi molto.

— Tu sai star bene in compagnia di te stesso.

— Io sono soltanto in compagnia dei miei ricordi.

— Forse è questo che siamo: i nostri ricordi.

— No. I miei ricordi degli altri. Degli sconosciuti. Degli Scorpioni.

Valentine rabbrividì, come all’improvviso passaggio di una brezza fredda. — Io ho smesso di guardare i video sugli Scorpioni. Sono sempre gli stessi.

— Io li studiavo per ore. Il modo in cui le loro navi si muovono nello spazio. E ti dirò una cosa strana, che ho capito veramente solo standomene qui al sole sul lago: tutte le battaglie in cui gli Scorpioni e gli uomini si scontrano faccia a faccia, sono roba della Prima Invasione. Mentre in ogni scena ripresa durante la Seconda Invasione, con i nostri soldati nell’uniforme della F.I., gli Scorpioni che vi compaiono sono già tutti morti. Non uno che si veda combattere o muoversi. E la battaglia di Mazer Rackham… non è in circolazione una sola ripresa di quell’avvenimento.

— Forse usò un’arma segreta.

— No, no, non sto a preoccuparmi del come li abbia uccisi. È un problema di censura ingiustificata: non vogliono dirmi niente degli Scorpioni, e nello stesso tempo pretendono che un giorno o l’altro io vada a combatterli. Io mi sono battuto già molte volte in vita mia, talvolta per gioco e talvolta… non per gioco. E ogni volta che sono riuscito a vincere è stato perché potevo capire i processi mentali dell’avversario da quello che facevano. Riuscivo a stabilire cosa pensavano che io avrei fatto, e come immaginavano che sarebbe andata la battaglia. E giocavo su questo. Oh, ero diventato un esperto. Ottenere un risultato basandosi su ciò che pensano gli altri.

— La maledizione dei fratelli Wiggin — scherzò lei, ma la spaventò il pensiero che Ender potesse leggere in lei come faceva con i suoi nemici. Peter la sapeva scrutare in fondo all’anima, o almeno era convinto di farlo, ma lui era una tale sentina di depravazione che Val non poteva provare imbarazzo neppure quando lo vedeva intuire anche i suoi pensieri peggiori. Ender, invece… da lui non sopportava d’esser scrutata così a fondo. Si sarebbe sentita nuda sotto i suoi occhi. Avrebbe avuto vergogna. — Credi che non riusciresti mai a battere gli Scorpioni senza saper nulla di lóro?

— La cosa ha anche altre sfaccettature. Stando qui, da solo e coi lussi dell’ozio, ho potuto anche riflettere su me stesso. E sul perché odio tanto me stesso.

— No, Ender… non devi.

— Non dirmi che non devo. Ci ho messo molto a capire che era così, e credimi, mi odiavo. Mi odio. E sono arrivato a intuire questo: nel momento in cui io capisco davvero il mio avversario, abbastanza profondamente da poterlo battere, in quel preciso momento io comincio ad amarlo. Penso che sia impossibile conoscere una persona, ciò che è e ciò in cui crede, senza amarla come lei ama se stessa. Ed è proprio allora, nell’istante in cui sento di amare il mio nemico, che io…

— Lo sconfiggi — terminò lei, e d’un tratto non ebbe più paura della sua capacità di leggere in lei.

— No, non hai capito. Io lo distruggo. Gli precludo ogni possibilità di assalirmi ancora. Lo calpesto e continuo a calpestarlo finché non esiste più.

— Stai esagerando, naturalmente. — Ma in lei tornò la paura, più gelida di prima. Peter si è ammorbidito, e tu… hanno fatto di te un killer. Due facce della stessa medaglia, ma chi è una faccia, e chi l’altra?

— Io ho fatto davvero del male a qualcuno, Val. Non esagero.

— Lo so, Ender. — Come farai del male a me?

— Vedi cosa sono diventato, Val? — mormorò lui. — Anche tu mi temi. — E le sfiorò una guancia, così gentilmente che lei avrebbe voluto piangere. Con la stessa morbidezza che la sua mano di bambino aveva avuto un tempo. Nella pelle di lei era rimasto il ricordo di quelle tenere dita innocenti che le toccavano il viso.

— Non ti temo — disse, e in quel momento seppe che era vero.

— Dovresti.

Non dovrò mai temerti. - Smettila di remare coi piedi nell’acqua. Finirai per attirare gli squali, lo sai.

Lui sorrise. — Se vedi un’ombra passare sotto la zattera stai tranquilla, è un agente di Graff. — Poi si finse spaventato al pensiero e tirò fuori di colpo le gambe, schizzando l’acqua attorno. Valentine fremette alle gocce fredde che le caddero sulla schiena.

— Ender, Peter otterrà quello che vuole. È abbastanza intelligente da dar tempo al tempo, ma si è già aperto la strada per arrivare al potere; se non nei prossimi anni, in quelli futuri. Non sono ancora certa se sarà un bene oppure un male. Peter può essere crudele, ma conosce già l’arte di tenere gli altri sotto il suo controllo. E ci sono segni chiari che una volta finita la guerra contro gli Scorpioni, o forse addirittura prima, il mondo precipiterà di nuovo nel caos. Se il Patto di Varsavia e altre nazioni tornassero alle mire espansionistiche che avevano prima delle Invasioni…

— Forse perfino Peter potrebbe essere un’alternativa migliore.

— Hai scoperto in te l’istinto del distruttore, Ender. Be’, anch’io. Peter non ha il monopolio di questo, qualunque cosa pensino quelli che lo hanno esaminato. E dentro di sé ha qualcosa del costruttore. Non conosce la pietà, ma apprezza le cose buone… se funzionano. E quando rifletti che il potere finisce sempre in mano a chi lo brama, vedi che in giro ci sono molti individui più crudeli o più stupidi di lui.

— Con una raccomandazione di questo genere, anch’io potrei dargli il mio voto.

— Qualche volta mi sembra tutto una follia. Un ragazzo quattordicenne e la sua sorellina che complottano per conquistare il mondo. — Cercò di ridere, con uno sforzo. — Non siamo ragazzini qualunque, è chiaro. Nessuno dei tre.

— Non hai mai desiderato di esserlo, qualche volta?

Lei cercò d’immaginare se stessa che si comportava e parlava come le sue compagne di scuola, i cui interessi erano accentrati su ben altri argomenti che la politica e il futuro del pianeta. — Sarebbe una gran noia.

— Io non la penso così. — E si allungò sulla zattera con le mani unite dietro la testa, come a dirle che avrebbe potuto restare lì disteso per sempre.

Dunque era vero, si disse Val. Qualunque cosa gli avessero fatto, la Scuola di Guerra aveva spento tutte le ambizioni di Ender. Adesso non desiderava altro che godersi quella polla d’acqua fra le colline baciate dal sole.

No, rifletté poi, no. Lui crede di non desiderare altro che questo, ma dentro di sé ha ancora troppo di Peter. O troppo di me. Nessuno di noi tre può essere felice restando con le mani in mano troppo a lungo. E nessun essere umano può vivere pienamente senza altra compagnia che se stesso. Così il suo tono tornò a farsi sicuro e stimolante:

— Qual è il nome che tutti conoscono, da un capo all’altro del mondo?

— Mazer Rackham.

— E cos’accadrebbe se tu vincessi la prossima guerra così come ha fatto lui?

— Mazer Rackham è stato un Jolly. Una carta inaspettata. Nessuno gli aveva mai dato credito. Ebbe la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.

— Ma supponi che succeda a te. Supponi di sconfiggere gli Scorpioni, e che il tuo nome diventi famoso come quello di Mazer Rackham.

— Lasciamo che a diventare famoso sia qualcun altro. Peter vuole essere famoso? Be’, mandiamo lui a salvare il mondo.

— Non sto parlando della fama, Ender. E neppure del potere. Parlo delle probabilità favorevoli, proprio come quella che Mazer Rackham seppe sfruttare quando si trovò nel luogo e nel momento in cui questa probabilità esisteva.

— Se io sarò qui — disse Ender, — in quel luogo non ci sarò io. Ci sarà qualcun altro. Lasciamo che quella probabilità se la goda lui.

Il suo tono di pigra indifferenza la fece infuriare. — Io sto parlando della mia vita. Tu… piccolo bastardo egocentrico! — Se quell’insulto lo urtò, non ne diede alcun cenno. Restò disteso dov’era, rilassato e ad occhi chiusi. — Quando eri piccolo e Peter ti torturava, avrei dovuto mettermi le mani in tasca e aspettare che Mamma e Papà venissero a salvarti? Loro non hanno mai capito quanto Peter fosse pericoloso. Io sapevo che avevi il monitor, ma non ho mai aspettato che loro o altri intervenissero. E sai cosa mi faceva Peter quando gli impedivo di farti del male?

— Taci! — sussurrò Ender.

E fu perché vide il suo respiro accelerarsi, fu perché s’accorse di averlo ferito, fu perché seppe che proprio come Peter aveva trovato il suo punto più sensibile e glielo aveva colpito, fu per questo che Valentine tacque, tremando.

— Io non posso batterli — disse sottovoce Ender. — Certo, un giorno o l’altro potrei andare ad affrontarli come un secondo Mazer Rackham. Con tutti quanti che si affidano a me. E non riuscirei a batterli.

— Se non puoi tu, Ender, allora non potrà farlo nessuno. Se sai di non poterli sconfiggere, allora meritano di spazzarci via perché sono più forti e migliori di noi. E non sarà colpa tua.

— Questo è maledettamente sicuro.

— E se non tu, chi altro?

— Chiunque.

— Nessuno, Ender. E adesso ti dirò una cosa: se tu ci provi e perdi non sarà colpa tua. Ma se non ci provi, e se loro ci distruggono, allora questo peso graverà su di te. Perché sarai stato tu ad assassinarci.

— Io ho l’anima di un assassino, in un caso o nell’altro.

— E cos’altro ti illudevi di essere? Gli esseri umani non hanno evoluto il loro cervello per ciondolare intorno a laghetti ameni. Uccidere è la prima cosa che abbiamo imparato. E abbiamo dovuto imparare a farlo bene o morire, altrimenti oggi sarebbero le tigri dai denti a sciabola a dominare la Terra.

— Io non potrei mai battere Peter. Non importa quel che ho detto o fatto. Non ci sono mai riuscito.

E così torniamo a Peter. - Lui era parecchio più grande di te, e più forte.

— Anche gli Scorpioni lo sono.

Lei riusciva a sentire il suo modo di pensare. O piuttosto, l’ostacolo che glielo bloccava. Ender sapeva di poter vincere tutto, ma in fondo al cuore era certo che sarebbe rimasto qualcuno capace di distruggerlo. E non era mai stato convinto d’aver vinto davvero, perché alle sue spalle era rimasto Peter, il campione imbattuto.

— Vuoi sconfiggere Peter?

— No — rispose lui.

— Sconfiggi gli Scorpioni, e poi torna a casa e guarda chi si ricorda ancora dell’esistenza di Peter Wiggin. Guarda i suoi occhi quando tutto il mondo ti amerà e ti onorerà. Soltanto in essi, e soltanto allora, potrai leggere la sua sconfitta. E la tua vittoria.

— Tu non capisci — disse lui.

— Sì, che capisco.

— Non è così. Io non voglio distruggere Peter.

— E allora cos’è che vuoi?

— Desidero che lui mi voglia bene.

A questo Val non poté rispondere. Da quel che ne sapeva lei, Peter non aveva mai voluto bene a nessuno.

Ender non disse nient’altro. Si limitò a restare sdraiato, senza muoversi e senza riaprire gli occhi.

Dopo un po’ di tempo Valentine si accorse che era quasi il tramonto, e che sciami di zanzare si stavano alzando in volo nelle zone in ombra. Raccolse la pagaia e la affondò nell’acqua, cominciando lentamente a spingere la zattera verso riva. Ender non diede segno d’accorgersi di quel che stava facendo, ma dal suo respiro Val capì che non dormiva. Quando furono allo scivolo delle barche saltò sul molo e si volse a guardarlo. — Io ti voglio bene, Ender. Te ne vorrò sempre, qualunque cosa tu decida di fare.

Lui non rispose, e Val si disse che non aveva creduto una parola di quell’ultima frase. Si avviò su per il sentiero che risaliva la collina, angosciata e furibonda contro quelli che l’avevano costretta ad incontrare Ender lì e in quei termini. Perché, alla fine, lei aveva fatto proprio ciò che loro volevano. Aveva ancora risucchiato nel loro ingranaggio suo fratello, e sapeva che stavolta lui non l’avrebbe perdonata facilmente.

Ender rientrò dalla porta posteriore, ancora bagnato dopo il suo ultimo tuffo nel lago. All’interno della villa non c’era una luce accesa, e nell’oscurità del soggiorno trovò Graff ad aspettarlo.

— Possiamo andarcene da qui? — chiese Ender.

— Se è questo che vuoi — annuì Graff.

— Quando?

— Appena sei pronto.

Ender si fece una doccia e si vestì. Gli era parso piacevole riabituarsi a maneggiare e indossare abiti civili, ma ancora non si sentiva a suo agio senza un’uniforme o una tuta da battaglia. Non indosserò mai più una tuta da battaglia, rifletté. Quelle erano le gare della Scuola di Guerra, una cosa con cui ho chiuso. Dalla finestra entrava il coro dei grilli che frinivano nel prato; in distanza ci fu il crepitio della ghiaia sotto i pneumatici di un’auto che usciva lentamente dalla rimessa.

Cos’altro avrebbe potuto portare con sé? Aveva letto parecchi dei libri contenuti nella piccola biblioteca, ma appartenevano alla casa e dovevano esser lasciati lì. La sola cosa di sua proprietà era la zattera, e anche quella sarebbe rimasta lì.

Al pianterreno le luci erano accese, e Graff si alzò nel vederlo comparire. Anche lui s’era cambiato. Indossava di nuovo l’uniforme.

Sedettero sul divano posteriore della macchina, e l’autista guidò a velocità moderata per le oscure strade di campagna verso l’aereoporto. Dopo un po’ Graff disse: — Un tempo, quando la popolazione aumentava ancora, mantennero questa zona a boschi e fattorie. È una terra ben irrigata, con una quantità di sorgenti e fiumiciattoli e molta acqua nel sottosuolo. Gli alberi hanno affondato le radici fin nel cuore della terra, rendendola viva. Ma noi ne abitiamo solo la superficie, come gli insetti che scivolano sul pelo dell’acqua in riva al lago.

Ender non disse nulla.

— Noi addestriamo i nostri ufficiali perché imparino a pensare in un certo modo, e questo richiede che molti elementi della vita normale scompaiano dalla loro mente, perciò li isoliamo. Voi. Vi teniamo appartati. E la cosa funziona. Ma è così facile, quando non incontri mai gente, quando non senti il profumo della terra, quando vivi fra pareti metalliche oltre le quali c’è il gelo dello spazio, è così facile dimenticare che vale la pena di combattere e morire per questa Terra. Perché il nostro pianeta e la sua gente meritano che si paghi qualunque prezzo per salvarli.

Così è per questo che mi avete portato qui, pensò Ender. Con tutta la vostra fretta di agire, è per questo che mi avete regalato tre mesi in riva a un lago: per farmi amare la Terra. Be’, ha funzionato. Tutti i vostri trucchi hanno funzionato. Anche Valentine. Anche lei uno stratagemma, per ricordarmi che non vado a scuola solo per me stesso. Bene, me lo ha ricordato.

— Può darsi che io abbia strumentalizzato Valentine — disse Graff, — e che tu mi odi per questo, Ender. Ma non dimenticare una cosa: lei ha ottenuto un risultato perché quel che c’è fra voi due è importante, è autentico, è una cosa che vale. Miliardi di legami simili uniscono miliardi di esseri umani. È per questo che combattiamo.

Ender si volse al finestrino e guardò le luci degli aeromobili che decollavano o atterravano sul campo d’aviazione.

Un elicottero li portò allo spazioporto della F.I. a Stumpy Point. La base aveva un altro nome, quello di un Egemone morto anni addietro, ma tutti continuavano a chiamarla Stumpy Point, dalla piccola e misera cittadina che era stata spazzata via dalle distese di cemento e acciaio e plastica sorte sulla riva del Pamlico Sound. C’erano ancora stormi di anatre selvatiche che nidificavano nelle paludi salmastre, dove i salici si piegavano quasi ad abbeverarsi. Cominciò a cadere una pioggia leggera e le immense piste si fecero lucide e scure; era difficile capire dove lasciassero il posto alle acque della baia.

Graff lo condusse attraverso.un labirinto di controlli. L’autorità dell’ufficiale era contenuta in una pallina di plastica che si portava dietro: la lasciava cadere entro canaletti inclinati, le porte si aprivano, uomini in divisa si alzavano e salutavano, la macchina risputava fuori la pallina e Graff tirava via diritto. Ender notò che dapprima tutti guardavano Graff, ma quando furono penetrati abbastanza nelle strutture dello spazioporto la gente cominciò a prestare più attenzione a lui. All’esterno avevano badato solo all’uomo e alla sua autorità, ma più avanti, dove tutti avevano un’autorità, era il suo carico umano a destare maggiore interesse.

Soltanto quando s’accorse che Graff si stava allacciando la cintura di sicurezza, seduto accanto a lui nella cabina della navetta, Ender capì che anche l’ufficiale lasciava la Terra.

— Fin dove? — gli chiese. — Fin dove viaggerà con me?

Graff ebbe un breve sorriso. — Per tutta la strada, Ender.

— L’hanno promossa direttore della Scuola Ufficiali?

— No.

Così avevano rimosso Graff dal suo incarico alla Scuola di Guerra col solo scopo di accompagnare lui in quel trasferimento. Sono importante fino a questo punto, si meravigliò Ender. E insinuante come un sussurro di Peter un pensiero lo attraversò: che vantaggi posso trarne?

Con un brivido cercò di pensare a qualcos’altro. Peter poteva cullarsi nei suoi sogni di potere, ma lui non aveva simili fantasie. Eppure, ripensando ai suoi anni alla Scuola di Guerra, dovette dirsi che aveva sempre avuto del potere sugli altri. Un potere legato al fatto di eccellere, e non già alla sua capacità di dominare il prossimo. Dunque non aveva motivo di vergognarsene. Mai, salvo che con Bean, aveva usato quel potere per ferire qualcuno. E anche con Bean le cose s’erano volte al meglio, dopotutto. Bean era diventato suo amico, prendendo il posto di Alai, che a sua volta aveva sostituito Valentine. Valentine, che stava aiutando Peter nei suoi piani segreti. Valentine, che gli avrebbe voluto bene qualunque cosa fosse accaduta. E seguendo quei pensieri si lasciò trasportare di nuovo sulla Terra, di nuovo alle ultime quiete ore di sole al centro del piccolo lago, nell’abbraccio delle colline boscose. Ed è questa la Terra, pensò. Non un globo lontano sospeso nello spazio, ma gli alberi che succhiano la linfa dalle rive di un lago colmo di riflessi, una casa seminascosta dalla vegetazione in cima a un’altura, un pendio erboso su cui il sentiero si vede appena, i pesci che sfiorano un attimo la superficie dell’acqua, il guizzo del martin pescatore che vola a catturare un insetto fra le canne. E la voce di una fanciulla che gli parlava attraverso il sipario degli anni trascorsi. La stessa voce che un tempo lo aveva rassicurato e consolato. La stessa voce a cui lui avrebbe impedito di spegnersi ad ogni costo, anche tornando a scuola, anche lasciando la Terra per altri quattro o altri quattromila anni. Anche se lei vuole più bene a Peter.

I suoi occhi erano chiusi, e l’unico suono che gli usciva dalle labbra era stato il respiro; tuttavia Graff si sporse attraverso il passaggio centrale e gli poggiò una mano su un braccio. Ender trasalì sorpreso. Subito sentì la mano dell’uomo ritrarsi, ma per un attimo fu come folgorato dalla stupefacente intuizione che forse Graff provava un certo affetto per lui. Ma no, doveva essere un altro dei suoi gesti maledettamente calcolati. Graff stava fabbricando un comandante, pezzo dopo pezzo, a partire da un ragazzino. Senza dubbio nel suo manuale di istruzioni un paragrafo prevedeva: Comma-17/carezza affettuosa dell’insegnante sull’arto superiore destro del soggetto.

La navetta impiegò poche ore a raggiungere il satellite AIP. Attracco Inter-Planetario era una città di tremila abitanti, che respiravano l’ossigeno prodotto dalle stesse piante di cui si nutrivano, bevendo un’acqua già passata mille volte attraverso i loro corpi, e vivevano soltanto al servizio dei rimorchiatori che facevano il grosso dei trasporti merci nel sistema solare e delle navette che portavano passeggeri fra la Terra e la Luna. Era un mondo dove Ender poté sentirsi a casa per un poco, dato che i pavimenti s’incurvavano all’insù come alla Scuola di Guerra.

I loro rimorchiatori erano tutti nuovi fiammanti; la F.I. non faceva che togliere di circolazione i velivoli sorpassati per sostituirli con modelli più potenti e veloci. Quello su cui salirono aveva appena scaricato una gran quantità di lingotti d’acciaio fusi su un’astronave mineraria che raccoglieva minerale sulla Cintura degli Asteroidi. L’acciaio era stato scaricato in caduta libera sulla Luna, e ora il rimorchiatore s’era agganciato a quattordici chiatte. Ma Graff mise di nuovo la sua pallina in un lettore, e le chiatte furono rimandate in deposito sullo scalo. Sarebbe stato un viaggio più lungo stavolta, e per una destinazione che Graff aveva ordine di specificare soltanto dopo che il rimorchiatore avrebbe lasciato l’Attracco I.P.

— Non è poi un gran segreto — disse il comandante del rimorchiatore. — Quando si parte per una destinazione «sconosciuta» è sempre per l’AIS. — Per analogia con la sigla AIP, Ender si disse che questa doveva significare Attracco Inter-Stellare.

— Non questa volta — lo informò Graff.

— Per dove, allora?

— Comando F.I.

— Non ho una qualifica di sicurezza abbastanza alta da sapere dove si trova, signore.

— La sua astronave lo sa — disse Graff. — Lasci che il computer dia un’occhiata a questa, e seguirà una rotta già programmata. — Porse al comandante la pallina di plastica.

— E si suppone che durante il viaggio io tenga gli occhi chiusi, per ignorare ufficialmente dove stiamo andando?

— Oh, no. Naturalmente no. Il Comando F.I. è sul planetoide Eros, vale a dire a circa tre mesi di viaggio da qui procedendo alla massima velocità possibile. Lei non dovrà fare risparmio sul carburante.

— Eros? Ma credevo che gli Scorpioni l’avessero ridotto a una massa radioattiva di… ah! E quando ho ricevuto la qualifica di sicurezza necessaria per sapere questo?

— Non l’ha ricevuta. Presumo perciò che al nostro arrivo lei verrà assegnato in servizio permanente su Eros.

Il comandante strinse i denti. — Ma che razza di figlio di puttana è lei? — ringhiò. Ender pensò che le sue mani avrebbero afferrato Graff per il petto. — Io sono un pilota! E voialtri non avete nessun diritto di sbattermi su un pezzo di roccia!

Graff non batté ciglio. — Signore, sta cercando di convincere un ufficiale superiore a farle rapporto per insubordinazione? — L’altro gli volse le spalle di scatto. Dopo qualche momento lui continuò: — Non sono tenuto a offrirle la mia comprensione. Comunque, i miei ordini sono di requisire il mezzo di trasporto più veloce, e al momento questo è il suo. La consiglio di prenderla con filosofia. Del resto, la guerra potrebbe finire entro i prossimi quindici anni…

— Lo dica a mia moglie! È ausiliaria nella Sussistenza, a Orbit-Uno!

— … e al termine di questo periodo, ovviamente, la dislocazione dei nostri alti comandi non sarà più un segreto. Inoltre sarà bene che la informi sin d’ora che giunti a Eros il suo equipaggio non dovrà fare avvicinamento visuale, ma strumentale. Eros è stato oscurato, e la sua albedo è all’incirca quella di un buco nero. In quanto a sua moglie, sarà fatta salire a bordo di uno dei prossimi mezzi che seguiranno la nostra stessa rotta.

— Grazie — borbottò il comandante. — Anche a suo nome.

Occorse circa un mese di viaggio prima che il comandante del rimorchiatore tornasse a rivolgere la parola a Graff.

Il computer di bordo aveva una biblioteca limitata, libri e film il cui scopo non era tanto di fornire istruzione quanto divertimento all’equipaggio. Così, per ingannare il tempo dopo la colazione e gli esercizi fisici mattutini, Ender e Graff presero l’abitudine di chiacchierare. Sulla Scuola Ufficiali. Sulla Terra. Sull’astronomia, la fisica, o altri argomenti che il ragazzo desiderava approfondire.

E ciò che lui soprattutto voleva erano notizie sugli Scorpioni.

— Non ne sappiamo poi molto — gli disse Graff. — Non abbiamo mai potuto esaminarne uno vivo. Anche quando si riuscì a intrappolarne uno, disarmato e in apparenza sano, lui morì al momento della cattura. Perfino il lui è incerto: sembra infatti probabile che la maggior parte degli Scorpioni combattenti siano femmine, ma con organi sessuali atrofizzati o mai sviluppati. Non possiamo dirlo con certezza. Ciò che ti sarebbe più utile è la loro psicologia, e nessuno ha mai avuto la possibilità di intervistarne uno.

— Mi dica quello che sa, e forse riuscirò a ricavarne qualche dato utile.

Graff gliene parlò diffusamente. A detta degli studiosi, gli Scorpioni erano organismi che avrebbero potuto evolversi anche sulla Terra stessa, se nel periodo Cretaceo o nel Giurassico le cose fossero andate in modo diverso. A livello molecolare non presentavano sorprese; perfino il loro materiale genetico funzionava con gli stessi meccanismi. Ma non era un caso se agli occhi umani sembravano grossi insetti: benché i loro organi interni fossero più complessi e specializzati di qualunque altro insetto, ed avessero perso parte dell’esoscheletro per sviluppare un’autentica struttura ossea, la loro forma fisica riecheggiava ancora quella dei loro antenati, che probabilmente erano stato molto simili a formiche munite di pinze anteriori e coda aculeata. — Ma non confonderti con queste ipotesi — disse Graff. — Hanno la stessa plausibilità di quelle che potrebbero fare loro su di noi, se deducessero che gli uomini discendono dagli scoiattoli.

— Se è tutto qui quello su cui possiamo basarci, e pur sempre qualcosa - disse Ender.

— Gli scoiattoli non costruirebbero mai astronavi — osservò Graff. — Occorrerebbero troppi mutamenti sulla strada che corre fra il raccogliere noccioline e il raccogliere asteroidi o stabilire stazioni di ricerca sulle lune di Saturno.

Sembrava probabile che gli Scorpioni vedessero nello stesso spettro d’onde a cui erano sensibili gli occhi umani, poiché c’erano luci artificiali nelle loro astronavi e nelle istallazioni che costruivano al suolo. Le loro antenne dovevano essere vestigia sopravvissute all’evoluzione, e non sembravano possedere organi dell’udito né dell’odorato né recettori tattili o gustativi. — Ovviamente non possiamo esserne sicuri. Ma alla dissezione non risulta nessun organo capace di emettere suoni. E la cosa più strana è che sulle loro astronavi non è stato mai trovato alcun apparato per la comunicazione. Niente radio o TV, niente che potesse trasmettere o ricevere qualsiasi tipo di segnale.

— Comunicano da nave a nave. Ho visto i filmati, ed è chiaro che possono parlare fra loro.

— Vero. Ma corpo a corpo, mente a mente. Questa è la cosa più importante che abbiamo appreso di loro: la comunicazione, comunque essa avvenga, è istantanea. O immensamente superiore alla velocità della luce. Allorché Mazer Rackham sconfisse la loro flotta d’invasione, tutti gli altri distaccamenti o avamposti chiusero bottega. All’istante. Non fu diramato nessun segnale di carattere fisico. Ogni loro attività cessò.

Ender ripensò ai filmati che mostravano Scorpioni in apparenza sani che giacevano dove la morte li aveva colti.

— Fu allora che sapemmo, dinnanzi all’evidenza, che la comunicazione a velocità ultraluce era possibile. Questo accadde settant’anni fa. E una volta certi che la cosa poteva esser fatta, riuscimmo a realizzarla in pratica. Non io, intendo. Io non ero ancora nato.

Ender era stupefatto. — Com’è possibile una cosa simile?

— Non posso neppure cominciare a spiegarti la fisica filotica. È una scienza per metà ancora fuori dalla comprensione umana. Ciò che conta è che abbiamo costruito l’ansible. Il termine ufficiale è Comunicatore Istantaneo di parallasse Filotico, ma qualcuno ha tirato fuori il nome ansible da un vecchio romanzo e gliel’ha appioppato. Non che siano molti a conoscere l’esistenza di questo apparecchio.

— Questo significa che le astronavi possono comunicare fra loro anche dai lati opposti del sistema solare — disse Ender.

— Significa che possono farlo all’istante attraverso tutta la galassia. E gli Scorpioni ci riescono senza bisogno di apparecchiature.

— Così hanno saputo della loro sconfitta nel momento stesso in cui è avvenuta — rifletté Ender. — Io pensavo… tutti hanno sempre detto che sul loro mondo ne sono venuti a conoscenza soltanto venticinque anni fa.

— Questo è servito a prevenire il panico — annuì Graff. — Ti sto dando informazioni che teoricamente neppure tu potrai portare fuori dal Comando della F.I. se mai dovessi partirne prima della fine della guerra.

— Se lei mi conoscesse bene — s’irritò Ender, — saprebbe che sono capace di mantenere un segreto.

— È il regolamento. Chiunque sia al di sotto dei venticinque anni è considerato un rischio per la sicurezza. Questo è ingiusto verso molti giovani meritevoli, ma aiuta a restringere il numero di coloro che potrebbero dare origine a una fuga di notizie.

— Ma a che scopo tutta questa segretezza?

— Perché… ci siamo assunti un rischio terribile, Ender, e se la videostampa ne fosse a conoscenza ci sarebbe una mezza rivoluzione con conseguenze imprevedibili. Vedi, appena realizzato l’ansibile lo montammo sulle nostre migliori astronavi ed esse partirono, con l’obiettivo di attaccare i sistemi solari abitati dagli Scorpioni.

— Sappiamo dove si trovano?

— Sì.

— Dunque non stiamo aspettando la Terza Invasione.

— La Terza Invasione siamo noi.

— Li stiamo attaccando! Nessuno ne ha mai fatto parola. Tutti sono convinti che le nostre flotte siano appostate fuori dei confini del sistema solare per…

— Non ce n’è una. Siamo praticamente senza difese, qui.

— Che accadrebbe se mandassero una flotta ad attaccarci?

— Allora siamo morti. Ma le nostre astronavi non hanno ancora avvistato una flotta simile, neppure un sospetto.

— Forse hanno rinunciato e si sono decisi a lasciarci in pace.

— Forse. Ma tu hai visto i filmati. Saresti disposto a scommettere l’esistenza della razza umana sulla possibilità che loro abbiano rinunciato ad aggredirci?

Ender cercò di fare un calcolo del tempo che poteva esser trascorso. — E le nostre navi hanno viaggiato per settant’anni…

— Alcune sì. Altre per trent’anni, e altre ancora per venti. Oggi costruiamo astronavi più veloci. Stiamo imparando a cavarcela un po’ meglio nello spazio. Ma ogni nave che non sia ancora in cantiere sta viaggiando verso uno dei pianeti degli Scorpioni, o un loro avamposto. Ogni nave, con le stive piene di missili e di astrocaccia, è là fuori verso il suo bersaglio. E stanno decelerando. Perché sono quasi a destinazione. Le prime astronavi furono mandate contro gli obiettivi più lontani, e le successive verso altri pianeti più vicini. Il nostro calcolo del tempo è stato abbastanza buono. Tutte quante arriveranno sul loro bersaglio con uno scarto di pochi mesi l’una dall’altra. Sfortunatamente i nostri mezzi bellici meno progrediti stanno per attaccare proprio il loro mondo d’origine. Tuttavia sono equipaggiati piuttosto bene… abbiamo alcune nuove armi che gli Scorpioni non hanno mai visto.

— Quando arriveranno?

— Entro i prossimi cinque anni, Ender. Tutto è già pronto al Comando F.I. L’ansible principale è là, in contatto con la nostra flotta d’invasione; le navi sono in pieno assetto di guerra. Tutto quello che ci manca, Ender, è un comandante in campo. Qualcuno che sappia cosa diavolo fare quando quelle astronavi dovranno entrare in azione.

— E se nessuno fosse all’altezza delle vostre aspettative?

— Faremmo del nostro meglio. Col miglior comandante che riusciremo a trovare.

Io, pensò Ender. Vogliono che io sia pronto in cinque anni. - Colonnello Graff, non c’è una sola possibilità che per allora io sia in grado di comandare una flotta.

Graff si strinse nelle spalle. — Tu fai del tuo meglio. Se non sarai pronto, useremo i comandanti che abbiamo.

Questo confuse i pensieri di Ender.

Ma solo per un momento. — Naturalmente, come avrai capito, fin’ora non ne abbiamo neppure uno.

Ender sapeva che quello era un altro dei giochetti di Graff. Convincimi che tutto dipende da me, così lascerò che tu mi tenga alla frusta, così ci darò dentro fino a spezzarmi la schiena.

Gioco o no, tuttavia, l’obiettivo era reale. E perciò lui avrebbe lavorato il più duramente possibile. Era a questo che Val aveva voluto spingerlo. Cinque anni. Soltanto cinque anni prima che la flotta arrivi là, e ancora non so niente di niente. - Avrò appena quindici anni — mormorò.

— Quasi sedici — disse Graff. — Tutto dipenderà dalle nozioni che avrai acquisito.

— Sa una cosa, colonnello? Mi piacerebbe tornare a nuotare in quel laghetto.

— Dopo che avremo vinto la guerra — disse Graff. — Oppure persa. In tal caso disporremo di qualche decina d’anni prima che arrivino a spazzarci via del tutto. Ma se la villa ci sarà ancora, ti prometto che potrai andare in zattera fino alla nausea.

— Ma sarò sempre troppo giovane per avere una qualifica di sicurezza.

— Ovvio, ma noi militari sappiamo come aggirare questi inconvenienti: vuol dire che le zattere che costruirai saranno top secret.

Entrambi risero, e Ender dovette ricordare a se stesso che Graff stava soltanto indossando l’abito dell’amico, e che tutte le sue azioni erano calcolate per trasformare lui in una macchina efficiente. Diventerò esattamente lo strumento che tu vuoi, disse dentro di sé, ma per lo meno non mi farete fesso. Andrò avanti perché questa è la mia scelta e non perché tu stai qui a manovrarmi, grosso bastardo d’un volpone.

Il rimorchiatore si fermò nell’orbita di Eros prima che Ender potesse vedere il planetoide. Fu il comandante a mostrarglielo su uno schermo collegato a un visore a infrarossi. Gli stavano praticamente accanto — a circa quattrocento chilometri — ma Eros, una montagna lunga ventiquattromila metri, non rifletteva che una minima frazione della luce solare e in parte sfuggiva anche al radar.

Il comandante attraccò a una delle tre piattaforme di sosta che orbitavano attorno a Eros. Quella era la distanza minima per il rimorchiatore, poiché sul planetoide c’erano impianti per la gravità artificiale e manovrare entro un campo di 0,5 G richiedeva agilità invece di potenza. L’uomo li salutò senza alcuna cordialità, ma questo non guastò il morale dei suoi due passeggeri: se al capitano seccava esser finito lì, Ender e Graff si sentivano come due galeotti all’uscita del penitenziario. Dopo che furono trasbordati sulla navetta che li avrebbe portati sulla superficie di Eros, risero di gusto ripensando al comandante e alla verbosità con cui Graff s’era impegnato solennemente a farlo raggiungere dalla moglie. L’uomo non aveva mostrato il minimo entusiasmo. E ancor meno entusiasta ne era stata la brunetta che lavorava sul rimorchiatore come ufficiale di rotta. Soltanto allora, girandosi a guardare fuori dal finestrino, Ender si rilassò abbastanza da dar voce a un’ultima domanda:

— Perché siamo in guerra con gli Scorpioni?

— Ho sentito ipotesi di ogni genere — disse Graff. — Perché hanno problemi di sovrappopolazione e devono colonizzare; perché non sopportano l’idea di dividere l’universo con altre specie intelligenti; perché non pensano che noi siamo una forma di vita intelligente; perché hanno una religione fanatica e selvaggia; perché hanno ricevuto le nostre trasmissioni televisive e deciso che siamo dei pazzi criminali… e chi più ne ha più ne metta.

— Lei cosa crede?

— Poco importa ciò che credo io.

— Vorrei saperlo lo stesso.

— Loro comunicano in modo assoluto, Ender, mente a mente. Ciò che uno pensa diventa il pensiero di un altro, ciò che uno ricorda diventa il ricordo di un altro. Perché avrebbero dovuto sviluppare un linguaggio? A cosa servirebbe loro leggere e scrivere, quando possono vedere e sapere tutto attraverso le menti degli altri? Lo stesso nostro concetto di comunicazione dev’essere estraneo a dei telepatici. Dunque non si tratterebbe di tradurre dal nostro linguaggio al loro, perché non posseggono neppure il concetto stesso di linguaggio. E altrettanto inutile sarebbe cercare di contattarli con i più diversi mezzi di segnalazione, poiché la cosa per loro non avrebbe significato. E magari loro hanno cercato di contattarci telepaticamente, e non hanno capito perché mai non abbiamo risposto.

— Così la guerra è scoppiata perché non potevamo parlarci?

— Se incontri qualcuno che non può farti capire in nessun modo chi è e cosa pensa, non sarai mai sicuro che non cercherà di ammazzarti.

— Cosa succederebbe se li lasciassimo cuocere nel loro brodo?

— Ender, non siamo stati noi ad andare a casa loro. Sono venuti qui. Se avessero intenzioni pacifiche ce lo avrebbero fatto capire evitando di invadere il nostro sistema.

— Forse non hanno capito che siamo una specie intelligente. Forse…

— Ender, credimi, si è discusso per un secolo di quest’argomento. Nessuno conosce la risposta. E quando si torna al punto, la decisione da prendere può essere una sola: se una delle due razze dev’essere distrutta, meglio assicurarsi maledettamente bene che non sia la nostra. La stessa eredità genetica umana ci preclude altre scelte. La natura non lascia evolvere specie prive dell’istinto di sopravvivenza. L’individuo singolo può decidere di sacrificare la sua vita, ma la razza nel suo insieme non può mai scegliere il rischio dell’estinzione. Così, se ci riusciremo, stermineremo gli Scorpioni dal primo all’ultimo; nello stesso modo in cui loro, potendo, distruggerebbero noi.

— In quanto a me — disse Ender, — voto a favore della sopravvivenza.

— Lo so — annuì Graff. — È per questo che sei qui.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

IL MAESTRO DI ENDER

— Se l’è presa comoda, eh, Graff? Il viaggio ha richiesto il suo tempo, ma tre mesi di vacanza mi sembrano un po’ troppi.

— Preferisco consegnare al cliente un prodotto non deteriorato.

— Ci sono uomini che semplicemente non hanno il senso dell’urgenza. Oh, be’, dopotutto c’è in gioco soltanto il destino del mondo. Ma abbia pazienza con me. Qui dentro si rischia di diventare stupidamente ansiosi, no? Sempre attaccati all’ansible, sempre in ascolto dei rapporti delle nostre astronavi, giorno dopo giorno di fronte al costante avvicinarsi della guerra. Sempre che li si possano chiamare giorni. Bene, ho visto che si tratta di un ragazzino davvero molto giovane.

— C’è una certa grandezza in lui. Una grandezza spirituale.

— E anche l’istinto del killer, voglio sperare.

— Sì.

— Abbiamo programmato un corso di studi su misura per lui. Il tutto condizionato al suo beneplacito, naturalmente.

— Ci darò un’occhiata. Non pretendo però di conoscere le materie in oggetto, ammiraglio Chamrajnagar. Io sono qui solo perché conosco Ender. Così abbandoni pure il timore che io modifichi gli studi da lei programmati. Tutt’al più il loro ritmo.

— Ci sono argomenti che lei consiglia?

— Non fategli sprecare il suo tempo con la fisica dei viaggi interstellari.

— E per quanto riguarda l’ansible?

— Gli ho parlato anche di questo, e delle nostre flotte. Sa che arriveranno a destinazione fra cinque anni.

— Sembra che ci abbiate lasciato ben poco da dirgli.

— Dovrete spiegargli come funzionano i sistemi d’arma. Per prendere decisioni efficaci bisogna che conosca i particolari tecnici.

— Dunque serviremo anche noi a qualcosa, infine. È bello saperlo. Abbiamo riservato uno dei cinque simulatori per suo uso esclusivo.

— Cosa mi dice degli altri?

— Gli altri simulatori?

— Gli altri ragazzi.

— Lei è stato assegnato qui per occuparsi di Ender Wiggin.

— Pura curiosità. Non dimentichi che sono stati tutti miei studenti.

— E adesso sono tutti miei. Si stanno addentrando nei misteri della flotta, colonnello Graff; misteri ai quali lei, come soldato, non è mai stato introdotto.

— Ne parla come se fosse una religione.

— Con un Dio, e con dei sacerdoti. Anche quelli di noi che comandano a mezzo ansible conoscono la sublime grandezza del volo fra le stelle. Vedo che lei sembra trovar biasimevole il mio misticismo. Le assicuro che la sua disapprovazione nasce soltanto dall’ignoranza. Ben presto anche Ender Wiggin conoscerà ciò che conosco io; danzerà anch’egli la dolce e spettrale danza fra le costellazioni, e se in lui c’è grandezza essa scaturirà dal suo spirito, rivelata, affinché il resto dell’universo ne apprenda la nobiltà. Lei ha un’anima di pietra, colonnello Graff, ma anche la pietra può assumere forma, sfiorata dallo scalpello della verità. Adesso può andare nel suo alloggio e sistemare il bagaglio.

— L’unico bagaglio che mi sono portato dietro ce l’ho indosso.

— Vuol dire che non possiede niente?

— La vile moneta che mi pagano viene misticamente raccolta dai sacerdoti del denaro, sulla Terra, nei sacri recessi di qualche banca. Non ho mai avuto bisogno di niente, a parte un abito civile per la mia recente… vacanza.

— Un potenziale francescano. E tuttavia lei è disgustosamente ingrassato. Ascetismo e ghiottoneria dunque? Quale contraddizione!

— Quando sono teso, io mangio. Là dove voi, evidentemente, reagite alla tensione espellendo dal corpo rifiuti mistici.

— Lei mi piace, colonnello Graff. Penso che finiremo per intenderci.

— Non si aspetti da me l’identico sforzo, ammiraglio Chamrajnagar. Io sono venuto qui per Ender. E né lui né io siamo venuti qui per lei.

Ender detestò Eros fin dal momento in cui scese dalla navetta di collegamento. Era stato abbastanza a disagio sulla Terra, dove ogni pavimentazione era piatta, ma nell’asteroide c’era di peggio. Si trattava di un blocco di roccia lungo e affusolato, largo soltanto sei chilometri e mezzo nel punto più stretto. Poiché la superficie del pianetino era interamente coperta da fotocellule che trasformavano in energia la radiazione solare, tutti abitavano in ambienti dalle pareti liscie collegati da tunnel che si ramificavano nelle viscere rocciose. Vivere in uno spazio chiuso non era certo un problema per Ender; ciò che lo colpì fu la constatazione che tutti i tunnel si piegavano visibilmente verso il basso. Fin dall’inizio questo gli diede una spiacevole e vertiginosa sensazione, specialmente quando passava nel tunnel che girava lungo la circonferenza più esterna di Eros. Il fatto che la gravità fosse metà di quella terrestre non gli era affatto d’aiuto, anzi incrementava l’illusione ottica d’essere sul bordo di un lungo precipizio.

C’era qualcosa di molto antipatico anche nelle proporzioni dei locali: i soffitti erano troppo bassi per la loro ampiezza, e i tunnel troppo stretti. Non era un posto costruito a misura d’uomo.

Ma la cosa meno sopportabile di tutte era l’affollamento. Ender non aveva esperienze di vita in città terrestri di medie o grosse dimensioni. Il suo concetto di località abitata s’era formato alla Scuola di Guerra, dove aveva conosciuto almeno di vista ogni persona. All’interno di quella roccia vivevano invece oltre diecimila anime. Non che mancasse lo spazio, malgrado la gran quantità di macchinari e di attrezzature di supporto. Ciò che infastidiva Ender era il vedersi costantemente d’attorno facce sconosciute.

Il tempo di farsi delle conoscenze non gli era concesso. Vedeva una gran quantità di altri studenti della Scuola Ufficiali, ma poiché il suo programma lo costringeva a migrare da un corso all’altro essi restavano soltanto dei volti. Assisteva a una lezione qui e a una conferenza là, tuttavia di solito l’uno o l’altro insegnante si occupava privatamente di lui; oppure a mostrargli tecniche e procedimenti era uno studente anziano che prima e dopo quella particolare circostanza non incontrava mai più. Pranzava da solo o con il colonnello Graff. La sua sola ricreazione era in palestra, e anche lì difficilmente vedeva due volte di seguito le stesse persone.

Sapeva bene che lo stavano isolando ancora, non più con la tattica di renderlo inviso agli altri studenti, ma piuttosto privandolo dell’opportunità di farsi degli amici. Difficilmente, comunque, avrebbe potuto legare con la maggior parte di loro: quasi tutti gli allievi s’erano già lasciati alle spalle la prima adolescenza.

Così s’immerse nello studio, desiderando solo imparare presto e bene. L’astrogazione e la storia militare erano materie che assorbiva come acqua, la matematica nelle sue forme più astratte gli dava delle difficoltà, ma quando doveva risolvere problemi che coinvolgevano lo spazio e il tempo scopriva che il suo intuito era più affidabile anche dei calcoli, e spesso vedeva la soluzione prima di poterla provare sotto forma di noiose e snervanti equazioni.

E per il suo divertimento c’era il simulatore, il più perfezionato videogame a cui avesse mai giocato. Studenti e insegnanti lo guidarono passo per passo entro le complessità di quei programmi. Dapprima, non conoscendo le impressionanti potenzialità delle partite, aveva giocato soltanto a livello tattico, controllando un singolo astrocaccia in continue manovre tese alla ricerca e alla distruzione del nemico. L’avversario, controllato dal computer, era sempre astutissimo e potente, e qualunque tattica escogitasse Ender scopriva, da lì a pochi minuti, che il computer sapeva rivolgerla contro di lui.

La partita era giocata in un campo olografico tridimensionale, ed il suo astrocaccia era rappresentato da un piccolo punto luminoso. Il nemico era una lucciola di colore diverso, ed entrambi volavano e combattevano entro un cubo di spazio di dieci metri per dieci. I comandi davano ampie possibilità: il campo cubico poteva esser fatto ruotare su se stesso, in modo che il giocatore lo osservasse da un angolo visivo a suo piacimento, e lo spazio contenuto all’interno si spostava automaticamente o su ordinazione per trasferire il duello in zone sempre nuove.

Pian piano, mentre s’impratichiva nel controllo tecnico dell’astrocaccia e nelle possibilità d’impiego delle sue armi, le partite si fecero più complesse. Poteva trovarsi di fronte due o più navi nemiche; c’erano ostacoli tipo detriti cosmici di cui si doveva calcolare la rotta o campi gravitazionali dei quali prevedere l’attrazione, e il giocatore era costretto a chiedere ed elaborare questi dati su dei monitor ausiliari. Per buona parte del combattimento ci si doveva preoccupare delle scorte di carburante o di energia, o di improvvisi guasti nei sistemi d’arma. Il computer cominciò ad assegnargli anche compiti particolari da portare a termine, come manovre di soccorso o di retroguardia eseguite in condizioni anomale o disagevoli.

Quando ebbe padroneggiato a dovere l’astrocaccia gli fu data la conduzione di una squadra di quattro incrociatori. Poteva parlare a voce, sgranando raffiche di ordini vuoi ai piloti vuoi agli addetti alle batterie, o al resto del personale delle quattro grosse navi. E invece di eseguire le istruzioni di un ipotetico comando supremo gli era concesso di determinare lui stesso la strategia, stabilendo quale dei molti obiettivi era il più importante da raggiungere. Aveva la possibilità di programmare tre degli incrociatori e lasciarli agire da soli, mettendosi personalmente alla manovra del quarto, e dapprima scelse spesso questo modo d’agire. In tali circostanze tuttavia i tre incrociatori facevano in breve una brutta fine, e la partita diventava assai più dura, cosicché dovette lavorare settimane e mesi per imparare il controllo dello squadrone al completo. Quando cominciò a riuscirci le sue vittorie divennero più frequenti.

Al termine del suo primo anno alla Scuola Ufficiali fu in grado di usare il simulatore a ciascuno dei quindici livelli di difficoltà, ovvero dal controllo di un singolo astrocaccia al comando di un’intera flotta. Già da tempo s’era accorto che il simulatore della Scuola Ufficiali aveva scopi analoghi a quelli della sala di battaglia alla Scuola di Guerra. Le lezioni teoriche avevano la loro importanza, ma le cognizioni ottenute e le capacità personali del singolo erano controllabili solo al momento in cui egli si applicava al simulatore.

Di tanto in tanto s’accorgeva che dietro di lui, nei posti riservati agli spettatori, qualcuno lo osservava giocare. Gli studenti o l’altro personale non aprivano mai bocca, ma a volte un insegnante interveniva, se aveva qualcosa di specifico di cui informarlo. Ender imparò a ignorare quel piccolo pubblico che in silenzio lo guardava affrontare complesse situazioni simulate ed infine se ne andava senza alcun commento. Ebbene, vi siete divertiti? avrebbe voluto chieder loro. Mi avete giudicato? Avete deciso se vi fidereste a far parte di una flotta comandata da me? Ma ricordate che non ho chiesto io d’essere il candidato al comando supremo.

Trovava che gran parte dei concetti da lui sviluppati in sala di battaglia potevano essere trasferiti al simulatore, e ogni pochi minuti faceva ruotare del tutto il campo olografico per non restare intrappolato in un’orientazione alto-basso, riesaminando costantemente la sua posizione anche dal punto di vista del nemico. Era esilarante avere quel controllo esterno su una battaglia, partecipandovi sia dal ponte di comando di un’astronave che da qualsiasi luogo al di fuori di essa.

Ed era frustrante avere nello stesso tempo ai suoi ordini astronavi così limitate, perché quelle che metteva sotto il controllo del computer diventavano oggetti computerizzati. Non avevano iniziativa, ma soltanto una programmazione. Non avevano intelligenza. Cominciò a provare molta nostalgia dei suoi capibranco dell’orda dei Draghi, ragazzi che avrebbe potuto piazzare al comando dei vari squadroni e che avrebbero agito bene senza bisogno della sua costante supervisione.

Alla fine del primo anno stava vincendo ogni battaglia sul simulatore, e giocava come se i comandi e i monitor fossero estensioni del suo corpo. Un giorno, mentre mangiava insieme a Graff, gli domandò: — Ciò che fa il simulatore è tutto qui?

— Tutto in che senso?

— Il modo in cui va il gioco. Troppo liscio. Da tempo non trovo più ostacoli e difficoltà nuove.

— Ah!

Graff parve indifferente alla cosa. Ma Graff aveva una maschera indifferente per costituzione. Il giorno dopo le cose cambiarono: Graff non si fece vedere, e al suo posto Ender si vide dare un nuovo compagno.

L’uomo era già in camera sua quando Ender si svegliò, quel mattino. Era piuttosto anziano, e stava seduto sul pavimento a gambe incrociate. Il ragazzo si sfregò le palpebre e lo fissò in silenzio, aspettando che dicesse qualcosa. Lui non aprì bocca. Ender si alzò, si lavò la faccia e si vestì, lasciando che lo sconosciuto mantenesse il silenzio finché gli faceva piacere. Aveva già appreso da tempo che quando c’era in corso qualcosa d’insolito, qualcosa che era parte dei piani di qualcun altro e non dei suoi, otteneva maggiori informazioni aspettando piuttosto che chiedendo. Quasi tutti gli adulti perdevano la pazienza assai prima di lui.

Tuttavia l’uomo non aveva ancor detto verbo quando Ender fu pronto per uscire e andò alla porta. La porta non si aprì. Lui si volse a fissare il vecchio che sedeva sul pavimento. Dimostrava più di sessant’anni, ed era di gran lunga il più anziano di quelli che Ender aveva visto fin’allora su Eros. Aveva la barba di un giorno, una spolverata di peluzzi bianchi che insieme ai corti capelli spettinati dava alla sua faccia un aspetto ispido. Aveva guance un po’ cascanti e occhi circondati da una rete di rughe. Rispose allo sguardo di Ender con un’espressione che lui trovò completamente apatica.

Si volse alla porta e cercò ancora di aprirla. Invano.

— E va bene — si rassegnò a dire. — Perché è chiusa?

Il vecchio continuò a fissarlo con occhi vuoti.

Così questa è la partita di oggi, pensò Ender. Bene. Se vogliono che io vada in classe apriranno la porta. Se non lo fanno è segno che non vogliono. Per me fa lo stesso.

Non gli era nuovo giocare a un gioco le cui regole sembravano evanescenti ed i cui obiettivi erano noti solo a qualcun altro. Ma rifiutò d’irritarsi per questo. Appoggiato con le spalle al battente fece alcuni esercizi di respirazione e poco dopo fu di nuovo calmo. Il vecchio non faceva altro che guardarlo, impassibile.

I minuti trascorsero e divennero ore, e più Ender s’intestardiva nel tener chiusa la bocca più lo sconosciuto sembrava tramutarsi in una statua priva di mente. Il ragazzo dovette chiedersi se non si trovasse davanti a un pazzo, un anormale sfuggito alla sorveglianza medica di Eros e che ora stava vivendo qualche sua insana fantasia lì nella sua camera. Ma più la situazione si prolungava, mentre nessuno veniva a bussare alla porta o a cercare di lui, e più si convinceva d’essere a confronto con un’azione deliberatamente tesa a sconcertarlo. E non voleva dare a quel vecchio la soddisfazione di spuntarla. Per ingannare il tempo cominciò a fare ginnastica. Gli esercizi più duri erano impossibili senza l’equipaggiamento della palestra, ma altri, specialmente quelli di preparazione alla lotta corpo a corpo, non richiedevano nessun attrezzo.

Gli esercizi lo portavano qua e là per la stanza. Stava facendo pratica di calci e colpi col taglio della mano. Una mossa lo costrinse a passare di fronte allo sconosciuto, e non era la prima volta che ciò accadeva, ma stavolta una delle vecchie braccia scattò di lato e lo colpì dietro il ginocchio d’appoggio proprio a metà di un passo. Ender perse l’equilibrio e cadde pesantemente al suolo.

All’istante balzò in piedi, furibondo, e si mise in guardia. Il vecchio sedeva calmissimo a gambe incrociate e il suo respiro non s’era accelerato di un filo, come se non si fosse mai mosso. Ender era pronto a battersi, ma l’immobilità dell’altro gli rendeva impossibile attaccarlo. Che faccio? Gli stacco la testa con un calcio? Sai che divertimento poi dover dire a Graff: il vecchio bastardo mi ha colpito, e ho dovuto reagire.

Riprese gli esercizi, standogli a distanza. E il vecchio continuò a fissarlo.

Infine, stanco e irritato, prigioniero nella sua stessa camera, tornò accanto al letto a prendere il suo banco. Mentre si chinava per estrarlo dallo scomparto sentì una mano robusta afferrarlo rudemente fra le cosce, e un’altra per i capelli. Un attimo più tardi era stato sbattuto faccia a terra. Le ginocchia del vecchio gli premevano dietro le spalle schiacciandogli il petto e il volto contro il pavimento, aveva la schiena piegata all’indietro, e le sue gambe erano strette in un abbraccio che gliele sollevava dal suolo. In quella posizione non riusciva a usare le braccia, e alcune vane contorsioni lo informarono che non avrebbe potuto neppure scalciare. In meno di due secondi il vecchio lo aveva completamente sconfitto e immobilizzato.

— Va bene! — ansimò Ender. — Hai vinto tu.

Le ginocchia gli affondarono dolorosamente nella schiena. — E da quando — disse l’uomo con voce bassa e rauca, — il tuo nemico ha bisogno che sia tu a dirgli che ha vinto?

Ender rimase in silenzio.

— Ti ho già colto di sorpresa una volta, Ender Wiggin. Perché non mi hai distrutto immediatamente dopo? Solo perché avevo un’aria innocua? Mi hai voltato le spalle. Idiozia. Non hai imparato niente. Non hai mai avuto un maestro.

Ender ebbe un impeto di rabbia, e non fece nulla per controllarlo o nasconderlo. — Di insegnanti ne ho avuti fin troppi! Perché diavolo avrei dovuto immaginare che lei si sarebbe rivelato un lurido…

— Un nemico, Ender Wiggin — sussurrò il vecchio. — Io sono il tuo nemico. Il primo che sia più astuto, svelto e intelligente di te. Non c’è nessun insegnante salvo il nemico. Nessuno, salvo il nemico, ti lascerà mai capire ciò che il nemico sta per fare. Nessuno, salvo il nemico, t’insegnerà come distruggere e conquistare. Soltanto il nemico ti mostrerà i tuoi punti deboli. E le sole regole del gioco sono i colpi che gli puoi dare e quelli che puoi impedirgli di darti. Da ora in poi io sono il tuo nemico. Da ora in poi io sono il tuo maestro.

Il vecchio lasciò ricadere le gambe di Ender. Poiché la sua faccia era ancora schiacciata al suolo il ragazzo non poté compensare il movimento, e quando piedi e ginocchia soatterono sul pavimento con un tonfo, dai polmoni gli scaturì un ansito di dolore. Poi l’altro gli si tolse di dosso.

Lentamente Ender ritirò le gambe sotto di sé, lasciando che una fosca smorfia sofferente gli affiorasse sul volto. Per qualche istante restò a quattro zampe, e riprese fiato. Poi il suo braccio destro scattò per colpire all’inguine il nemico. Con un saltello il vecchio balzò fuori portata, e mentre la mano di Ender annaspava nel vuoto l’altro avventò un piede per scalciarlo alla testa.

La testa di Ender non era più lì. S’era girato svelto sulla schiena, e nell’istante in cui il vecchio oscillava, sbilanciato dal calcio andato a vuoto, lui replicò con un altro calcio dietro il ginocchio. Con un grugnito l’uomo cadde, ma abbastanza vicino da riuscire a sferrargli un pugno in faccia. Ender gli balzò addosso, però l’altro si divincolava così furiosamente che gli fu impossibile afferrargli saldamente un braccio o una gamba, e nel frattempo una grandine di botte gli tempestava sulla schiena. Lui era più piccolo di statura; quando capì che l’avversario sapeva sfruttare troppo bene quel vantaggio lo scalciò via da sé, rotolò fino alla porta e con uno scatto di reni si rialzò.

Il vecchio s’era di nuovo seduto a gambe incrociate, ma adesso la sua espressione apatica era sparita. Stava sorridendo. — Meglio, stavolta, ragazzo. Ma sei lento. Dovrai imparare a manovrare una flotta meglio di come manovri il tuo corpo, o nessuno sarà al sicuro sotto il tuo comando. Capito la lezione?

Lentamente Ender annuì. Il suo corpo era tutto un dolore.

— Bene — disse il vecchio. — Non avremo più battaglie di questo genere. Tutte le altre saranno col simulatore. A programmartele adesso sarò io, con il computer; io svilupperò la strategia del tuo nemico, e tu imparerai a essere svelto e a scoprire quali trucchi il nemico ha in serbo per te. E ficcati in capo questo, ragazzo: d’ora in poi hai un nemico più veloce di te. D’ora in poi hai un nemico più forte di te. D’ora in poi sarai sempre sull’orlo della disfatta.

Il sorriso svanì dalla faccia del vecchio. — Sarai sempre a un pelo dalla sconfitta, Ender, ma dovrai batterti per vincere. E se dentro di te ci sarà questa forza, io ti insegnerò a farlo.

Il maestro si alzò. — In questa scuola esiste la tradizione che uno studente anziano scelga uno studente giovane. I due diventano compagni, e il più anziano insegna al più giovane tutto ciò che sa. Studiano insieme, combattono insieme e uno contro l’altro. Io ho scelto te.

Ender lo vide alzarsi e andare alla porta. — Lei è troppo vecchio per essere uno studente.

— Nessuno è troppo vecchio per studiare il nemico. Io ho imparato dagli Scorpioni. Tu imparerai da me.

Mentre la mano destra dell’uomo si poggiava sullo scanner della serratura, Ender saltò avanti a piè pari e lo colpì con un doppio calcio alle reni. Malgrado la forza del rimbalzo riuscì a restare in posizione eretta; l’altro invece mandò un rantolo e piombò in ginocchio.

Il vecchio trovò la maniglia della porta e si tirò faticosamente in piedi, il volto contratto dal dolore. Sembrava incapace di reagire, ma Ender non si fidò. Tuttavia, malgrado la sua diffidenza, la velocità con cui l’avversario si mosse lo sorprese con la guardia abbassata. E un momento dopo si trovò a terra sul lato opposto della stanza, col naso e un labbro che perdevano sangue. Quando s’aggrappò al bordo del letto e si volse vide il vecchio sulla soglia, occupato a massaggiarsi le reni indolenzite. Sulla sua bocca c’era un sogghigno.

Ender sorrise di rimando. — Maestro — disse, — lei ha un nome?

— Mazer Rackham — rispose lui. E scomparve nel corridoio.

Da quel giorno in poi Ender fu in compagnia di Mazer Rackham oppure solo. Il vecchio non parlava molto, ma era sempre lì: ai pasti, durante le lezioni, al simulatore, e sull’altro letto della sua camera la notte. Qualche volta Mazer lo lasciava lì, ma invariabilmente per tutto il tempo della sua assenza la porta restava chiusa, e nessun altro entrava fino al suo ritorno. Ender non la prendeva molto docilmente, e un giorno cominciò a chiamarlo Carceriere Rackham. Il vecchio rispondeva però al soprannome senza batter ciglio, né più né meno che se fosse stato il suo nome di battesimo, e dopo una settimana Ender ci rinunciò.

C’erano anche i lati positivi. Mazer gli mostrò i filmati delle vecchie battaglie della Prima Invasione, e la disastrosa disfatta della F.I. durante la Seconda. Non erano frammenti tolti dai telegiornali censurati, ma registrazioni complete. Poiché le battaglie più importanti erano state riprese da molti operatori, studiarono la strategia e la tattica degli Scorpioni da diverse angolazioni. E per la prima volta in vita sua Ender ebbe un insegnante capace di mostrargli particolari che da solo non avrebbe saputo notare. Per la prima volta aveva trovato una mente e una personalità che sentiva di poter ammirare.

— Perché lei non è invecchiato e morto come tutti? — gli chiese Ender. — Sono trascorsi settant’anni dalla guerra, eppure lei non passa di molto la sessantina.

— I miracoli della relatività — disse Mazer. — Vent’anni dopo la fine della guerra mi mandarono qui, anche se li avevo pregati e scongiurati di darmi il comando di una delle astronavi lanciate contro il pianeta natale degli Scorpioni e le loro colonie. Poi… si resero conto di alcune cose circa il comportamento dei militari nello stress della battaglia.

— Quali cose?

— Non ti hanno insegnato abbastanza psicologia perché tu possa capire. Basti dire questo: il Comando constatò che non avrei potuto comunque comandare l’attacco della flotta, per il semplice motivo che sarei morto di vecchiaia qui su Eros prima del suo arrivo. E tuttavia io ero la sola persona vivente capace di capire e prevenire il comportamento degli Scorpioni. Ero, così si dissero, l’unico ad averli sconfitti con l’intelligenza, piuttosto che grazie a circostanze fortunate. E avevano bisogno che io fossi stato qui quando si fosse trattato di addestrare la persona destinata a comandare la flotta.

— Così l’hanno imbarcata su un’astronave, spedendola via a velocità relativistica, e…

— E al termine di quel giro tornai a casa. Un viaggio disgustosamente noioso, Ender. Per la Terra io passai cinquant’anni nello spazio. Per me gli anni furono solo otto, ma mi parvero ottocento. E tutto perché potessi prendere a calci qualcuno abbastanza da farne il nostro futuro comandante.

— Dovrò essere io quell’uomo, allora?

— Diciamo che al momento sei la nostra punta di diamante.

— Ci sono altri che si stanno preparando?

— No.

— Questo fa di me la sola carta da giocare. Possibile?

Mazer scrollò le spalle.

— Perché io solo? Lei ha già vinto una volta.

— Io non posso assumere il comando, per ragioni diverse e comunque sufficienti.

— Maestro, mi faccia vedere in che modo ha sconfitto gli Scorpioni.

La faccia di Mazer divenne imperscrutabile.

— Mi ha già mostrato tutte le altre battaglie almeno sette volte. Ho visto com’è possibile contrastare il modo in cui gli Scorpioni combattevano in passato; ma lei non mi ha ancora detto una parola sulla tattica che usò per sconfiggerli nell’ultima battaglia.

— Quelle registrazioni video sono top secret, Ender.

— Lo so. Ho messo insieme pezzi e bocconi di quelle rese pubbliche: lei con la sua piccola flotta di riserva, l’avvicinarsi della loro enorme formazione, quelle colossali navi panciute da cui schizzavano fuori sciami di astrocaccia, poi la nostra ammiraglia che colpiva una delle loro, e un’esplosione. Qui la ripresa s’interrompe. Tutte le successive mostrano i nostri che si aggirano nei meandri delle loro astronavi, trovando Scorpioni già morti dappertutto.

Mazer sogghignò. — Già anche troppo. Ma queste scene avevano avuto centinaia di testimoni diretti e censurarle era inutile. Bene… diamo un’occhiata a quelle che furono tagliate, coraggio.

Poco più tardi, quando furono soli in videoteca e Mazer ebbe chiuso ermeticamente la porta poggiando una mano sullo scanner, Ender lo vide inserire nel computer una complessa chiave in codice. — Ecco qua. Osserva pure, ragazzo.

Ciò che passò sullo schermo era esattamente la stessa sequenza che Ender aveva rimesso insieme. L’ammiraglia di Mazer avanzò con coraggio suicida verso il cuore della formazione nemica, riuscì a colpire una loro astronave, e poi…

Niente. L’incrociatore di Mazer proseguì sulla stessa rotta, investito dalla nube di frammenti e radiazioni della nave esplosa. Ma non un raggio né un missile gli venne indirizzato addosso. La flotta nemica parve continuare come per forza d’inerzia, all’esterno degli anelli di Saturno. Dopo venti minuti due delle loro navi si urtarono ed esplosero; una collisione assurda che perfino un pilota ubriaco avrebbe evitato. E a parte le stelle che scorrevano sullo sfondo della formazione non ci furono altri movimenti.

Mazer accelerò lo scorrimento del filmato, fermandolo a tratti. — Aspettammo per tre ore — disse. — Nessuno voleva crederci. — Poi si videro le astronavi della F.I. accostare quelle degli Scorpioni. I marines cominciarono le operazioni di aggancio e di abbordaggio. A questo seguirono le riprese che mostravano gli Scorpioni morti ai loro posti.

— E così ora sai — disse Mazer, — che avevi già visto tutto ciò che c’era da vedere.

— Cos’è successo?

— Nessuno lo sa. Io ho la mia opinione personale. Ma fin troppi studiosi mi hanno fatto notare che non sono qualificato abbastanza da avere delle opinioni.

— Lei è quello che ha vinto la battaglia.

— Credevo che questo mi desse anche il diritto di commentarla, ma tu sai come vanno le cose. Gli xenobiologi e xenopsicologi non possono accettare, in coscienza, l’idea che un rozzo comandante d’astronave gli insegni il mestiere. E penso che gli esperti convocati dalla F.I. finirono con l’odiarmi, perché dopo aver visionato queste scene dovettero trascorrere il resto della vita qui su Eros. Misure di sicurezza, come sai. Non vissero felici e contenti.

— Mi dica la sua opinione.

— Gli Scorpioni non parlano. Pensano insieme, ed è una cosa istantanea, come l’effetto filotico. Come l’ansible. Ma molta gente suppone che questo significhi solo una comunicazione codificata, come un linguaggio: io invio un pensiero a te, e tu trasmetti la risposta a me. Però non ho mai creduto che la cosa funzionasse così. Il loro modo di darsi risposte era troppo immediato. Hai visto i filmati. Fra loro non poteva esserci nessuno scambio di venute per stabilire il corso di un’azione. Ogni nave agiva come parte di un organismo singolo. Erano sempre coordinate come il tuo corpo quando stai lottando: parti diverse, ciascuna con il suo automatismo, collegate da un unico pensiero. Loro non hanno conversazione mentale, come fra due o più creature dai diversi processi psichici. Tutti i loro pensieri sono presenti, insieme e nello stesso istante.

— Un unico individuo, di cui ogni Scorpione è come una mano o un piede?

— Sì. Non fui io il primo a suggerirlo, ma a crederci davvero eravamo in pochi. Sembrava un’idea così semplicistica che gli xenobiologi furono molto cortesi e pazienti, dopo la battaglia, quando dovettero spiegarmi perché non poteva funzionare. Ma gli Scorpioni sono insetti. Come le api e le formiche da cui sembrano discendere: lo sciame, la regina, gli operai, i combattenti. Questa organizzazione l’avevano forse un milione di anni fa, ma è così che cominciarono, con uno schema sociale dal funzionamento perfetto. Ed è accertato che nessuno degli Scorpioni da noi sezionato aveva i mezzi per riprodursi. Dunque, quando evolsero la capacità di pensare insieme, perché non avrebbero dovuto tenere la loro efficientissima regina? Perché non avrebbero dovuto continuare ad accentrarsi intorno a questa meravigliosa macchina vivente? Perché avrebbero dovuto cambiare?

— Così è la regina che controlla l’intero gruppo.

— Ce n’è la prova. Non è una prova che tutti possano accettare, perché nella Prima Invasione non c’era una regina. Ma quella era una missione esplorativa. La Seconda Invasione invece doveva impiantare una nuova colonia; costruire un alveare, o qualcosa di analogo.

— E perciò si portarono dietro una regina.

— Vediamo i filmati della Seconda Invasione, quando distrussero la nostra flotta fuori dal sistema solare. — Mazer fece apparire le immagini sullo schermo e gli indicò la formazione nemica. — Mostrami la nave della regina.

Era problematico. Per un bel po’ Ender non riuscì a distinguerla. Le astronavi degli Scorpioni continuavano a spostarsi secondo schemi complessi, nei quali non c’era un centro evidente né una nave con palesi caratteristiche da ammiraglia. Ma pian piano, mentre Mazer continuava a far scorrere le stesse immagini, Ender cominciò a intuire che ogni spostamento era focalizzato attorno a un punto che risultava il meglio difeso. Il punto mutava posizione in modo ingannevole, tuttavia concentrando l’attenzione su di esso si capiva che quella nave particolare continuava ad essere l’occhio della flotta. Ender la indicò.

— L’hai vista! — esclamò Mazer. — L’hai vista! E con te fanno due, fra tutti quelli che hanno esaminato i film, che sono riusciti a identificarla. Gli Scorpioni la mimetizzano con un’astuzia maledetta.

— Riescono a farla manovrare come fosse una nave qualsiasi.

— Ma non dimenticano un istante che quello è il loro punto debole.

— Lei ha ragione. Quella è la nave della regina. In tal caso, però, vien da pensare che quando lei la prese di mira le altre avrebbero dovuto focalizzare a sua difesa tutto il loro potere distruttivo. Avrebbero dovuto scaraventarvi fuori dallo spazio.

— Lo so. Ed è questo che ancora non capisco. Non è che non tentassero di fermarmi: fra raggi e missili me ne inviarono addosso una gragnuola. Ma fu come se non riuscissero a capacitarsi, finché non fu troppo tardi, che io avrei veramente ucciso la regina. Forse nel loro mondo è inconcepibile che una regina possa essere aggredita, o catturata, o addirittura soltanto infastidita. Io feci qualcosa che loro si aspettavano dal nemico in via soltanto teorica, irreale.

— E quando lei morì, tutti gli altri morirono.

— Niente affatto. Morì solo la loro capacità di pensare. Sulla prima nave di cui salimmo a bordo gli Scorpioni erano ancora vivi. Organicamente. Ma non si muovevano, non rispondevano a nessuno stimolo, non reagirono neppure quando i nostri scienziati ne presero alcuni per vivisezionarli. Dopo qualche ora morirono tutti. Niente più volontà. Non resta niente in quei loro cervelli, quando il contatto con la regina è troncato.

— Perché lei non è stato creduto?

— Perché non trovammo nessuna regina.

— Se era finita in pezzi…

— Fortune e sfortune della guerra. Io capisco chi agisce senza tener presente la mia opinione. La sopravvivenza impone certi comportamenti, e le ipotesi biologiche vengono in seconda linea. Ma altri si sono avvicinati alle mie deduzioni. Non si può vivere su questo asteroide senza sbattere la faccia su certe prove.

— Che prove possono mai esserci, qui su Eros?

— Ender, guardati attorno. Non sono stati gli esseri umani a scavare questo posto. Noi abbiamo bisogno di soffitti più alti, per dirne una. Questo era l’avamposto degli Scorpioni. E l’affitto ci è costato caro. Oltre mille marines morirono per ripulirlo stanza dopo stanza, tunnel dopo tunnel. Gli scorpioni ne difesero ferocemente ogni palmo.

Ora Ender capiva perché le dimensioni dei locali gli erano apparse sbagliate. — Sentivo che questo posto aveva qualcosa d’inumano.

— Per noi fu lo scrigno del tesoro. Se avessero sospettato che il loro tentativo si sarebbe concluso con la nostra vittoria, probabilmente non avrebbero mai costruito e attrezzato questo posto. Noi imparammo a manipolare la gravità perché qui trovammo apparecchiature capaci di controllarla. Imparammo a sfruttare appieno l’energia solare perché furono loro a oscurare questo pianetino. E in realtà fu proprio questo che ci consentì di scoprirli: in un periodo di tre giorni Eros scomparve gradualmente da tutti i telescopi. Mandammo un rimorchiatore a indagare, e subito se ne capì il motivo. Le telecamere trasmisero alla Terra dozzine di scene, incluse quelle che accaddero quando gli Scorpioni abbordarono il rimorchiatore e fecero a pezzi l’equipaggio. Continuarono a funzionare mentre gli invasori esaminavano macchine e locali, e si spensero soltanto quando smantellarono infine tutto quanto. Il loro fu uno sbaglio… non possedevano attrezzature studiate per trasmettere segnali, e una volta morto l’equipaggio certo non sospettarono che qualcuno continuava a osservarli.

— Perché sterminarono l’equipaggio?

— E perché dovevano avere scrupoli? Per loro, perdere alcuni membri del gruppo è come per noi tagliarci le unghie. Niente di tragico e di immorale. Probabilmente pensarono che ammazzandoli non facevano altro che interrompere le loro comunicazioni con noi. Non eliminavano un essere senziente, indipendente, con un suo personale diritto al futuro e alla procreazione. L’assassinio deve avere scarso peso per loro. Soltanto l’uccisione di una regina è un delitto, perché eliminandola si annienta sia l’alveare che il suo intero bagaglio genetico.

— Così si può dire che loro non sanno quello che fanno.

— Non cercargli delle scuse, Ender. Solo perché non capiscono cosa significa uccidere essere umani, non vuol dire che siano degli innocentini. Abbiamo il sacrosanto diritto di difenderci con ogni mezzo, e la sola difesa buona è di annientarli prima che annientino noi. Così tu la devi pensare. In tutti gli scontri che abbiamo avuto, loro hanno ucciso migliaia e migliaia di esseri viventi. E quel che noi abbiamo fatto in due guerre è stato di ammazzarne uno solo.

— Se lei non avesse eliminato la regina, Mazer, avremmo perso la guerra?

— Direi che avremmo avuto non più di tre o quattro probabilità su dieci. Sono ancora convinto che avrei ridotto molto male quella flotta, prima che spazzassero via le mie navi. Loro avevano maggiore coordinazione tattica e un’enorme potenza di fuoco, ma anche noi avevamo qualche vantaggio. Ogni nostra nave, ogni piccolo astrocaccia, contiene un essere umano che pensa col suo cervello. Ognuno di noi può trovare soluzioni diverse e originali allo stesso problema tattico. Loro possono intervenire con una sola soluzione alla volta. Gli Scorpioni pensano in fretta, ma è il pensiero di un’unica creatura contro molte. Anche quando alcuni dei nostri comandanti, durante la Prima Invasione, persero delle battaglie a causa dell’indecisione e della stupidità, molti dei loro subordinati riuscirono a infliggere grosse perdite alla flotta degli Scorpioni.

— E quando la nostra flotta d’attacco arriverà sui bersagli previsti? Attaccheremo ancora le loro regine?

— Gli Scorpioni non sono certi arrivati ai viaggi interstellari grazie alla loro stupidità. Ci sono strategie che funzionano soltanto una volta. Io sono portato a credere che non riusciremo mai ad avvicinarci a una regina, a meno che non si arrivi ad attaccarla sul suo pianeta natale. Dopotutto una regina non è tenuta a partecipare alla battaglia spaziale che loro attuano. Basta che sia presente nelle menti dei membri del suo alveare. La Seconda Invasione portava una colonia; una regina veniva a popolare la Terra. Ma questa volta… no, non funzionerebbe. Dovremo batterli, una flotta dopo l’altra. E poiché possono attingere alle risorse di dozzine di sistemi solari, scommetto che in ogni battaglia loro saranno molto più numerosi di noi.

Ender ripensò al giorno in cui aveva dovuto affrontare due orde contemporaneamente. E li ho accusati di aver imbrogliato. Quando si verrà alla guerra vera, ogni battaglia sarà come quella.

— Un paio di vantaggi li avremo, Ender. Non ci sarà bisogno di mirare con gran precisione. Le nostre armi hanno vasta capacità distruttiva.

— Non useremo i missili a testata atomica, come in passato?

— Il Dr. Device è molto più potente. Le armi nucleari potevano essere sperimentate sulla superficie terrestre; questo sarebbe impossibile con il nostro Little Doc. Mi sarebbe piaciuto averne uno durante la Seconda Invasione.

— Come funziona?

— Io non ne capisco abbastanza da costruirne uno. Comunque si tratta di due raggi convergenti, al cui punto focale si crea un campo nel quale le molecole perdono la forza di coesione. L’energia infratomica si inverte. Quanto ne sai di fisica, a questo livello?

— Per di più ci occupiamo di astrofisica, in classe. Ma ne so abbastanza da capire il concetto.

— Il campo si dilata in uno sferoide vastissimo, ma infine si indebolisce e si ferma. Salvo quando arriva a contatto di un sostanziale ammasso di molecole, e in questo caso continua a espandersi con enorme violenza. Più grossa è l’astronave colpita, più il campo di inversione energetica si allarga.

— Così, ogni volta che va a contatto di un’altra nave, da essa si espande un nuovo sferoide…

— E se le navi nemiche sono abbastanza vicine, si crea una catena che le spazza via tutte. Poi il campo s’indebolisce e scompare, le molecole disgregate cominciano a riunirsi di nuovo, e dove prima c’era un’astronave adesso hai una nuvola di molecole, prevalentemente di ferro, carbonio, ossigeno e idrogeno. Niente radioattività, niente detriti. Soltanto un pulviscolo. Nelle prime battaglie dovremmo riuscire a coglierli insieme, ma loro imparano in fretta. In seguito terranno una distanza maggiore fra una nave e l’altra.

— Se il Dr. Device non è un missile, non può inseguire il nemico nelle sue evoluzioni — rifletté Ender, pensando al simulatore.

— Esatto. Nella battaglia spaziale pura e semplice il missile è un’arma ormai superata. Non dimentichiamo però che anche loro hanno imparato qualcosa da noi. Come creare lo scudo energetico, ad esempio.

— Little Doc può penetrare lo scudo?

— Come se non ci fosse neppure. Non è possibile vedere attraverso lo scudo di energia per mettere a fuoco i raggi sul bersaglio, ma poiché il generatore si trova al suo centro esatto è facile calcolarne la posizione.

— Perché non sono stato addestrato a questi armamenti?

— Lo sei stato. Abbiamo fatto sempre in modo che il simulatore ti portasse a situazioni simili. Il tuo lavoro è di delineare la strategia, quindi la tattica per andare sul bersaglio. E il computer di un’astronave è molto più abile di te a dirigere su di esso Little Doc.

— Il dottor Device. Perché questo nome?

— Il prototipo era stato chiamato Molecular Detachment Device. M.D. Device.

Ender ancora non capiva.

— M.D. sono le iniziali di Medical Doctor. Di conseguenza ecco il Dr. Device, o Little Doc, anche. Tanto per scherzarci sopra. — Ma Ender continuò a non vedere nulla di divertente nella cosa.

Avevano modificato il simulatore. Ender poteva ancora controllare la prospettiva ottica e i dettagli visuali del campo olografico, ma non c’erano più i comandi delle astronavi. Al loro posto erano stati messi dei nuovi pannelli, oltre a una cuffia fornita di visore ottico, auricolari e un piccolo microfono.

Il tecnico che li aveva attesi in sala gli spiegò in breve come indossare la cuffia.

— Ma come potrò controllare le astronavi? — domandò Ender.

Mazer glielo spiegò: non avrebbe più controllato direttamente nessuna nave. — Hai raggiunto un’altra fase del tuo addestramento. Hai fatto esperienze strategiche a ogni livello, ma ora è tempo che ti concentri sul comando di un’intera flotta. Come alla Scuola di Guerra lavoravi con i tuoi capibranco, adesso dovrai condurre dei comandanti di squadrone. Ti sono stati assegnati tre dozzine di futuri ufficiali da addestrare. Devi insegnare loro i tuoi accorgimenti tattici, devi costringerli a usare al meglio le loro capacità e a riconoscere i loro punti deboli, devi fare di loro un unico gruppo affiatato.

— Quando arriveranno qui?

— Ciascuno è già stato presentato al proprio simulatore. Parlerai con loro in cuffia. I nuovi comandi sui tuoi pannelli ti danno il modo di osservare dalla stessa prospettiva di ognuno dei tuoi comandanti di squadrone. Questo imiterà più da vicino le condizioni che incontrerai in una vera battaglia, dove ti limiterai a supervisionare l’azione di ogni singola stronave.

— Come posso lavorare con dei comandanti di squadrone che non ho modo di vedere?

— E perché dovresti aver bisogno di vederli?

— Per sapere chi sono, come pensano…

— Saprai chi sono e come pensano dal modo in cui lavoreranno con il simulatore. Ma non credo che dovrai preoccuparti troppo di questo. Ti stanno ascoltando, proprio adesso. Metti la cuffia e collegati col primo della serie.

Ender si aggiustò la cuffia sulla testa.

— Salaam — sussurrò una voce nei suoi orecchi.

— Alai! — esclamò Ender.

— E anch’io, il tuo fagiolino.

— Bean!

E poi risposero Petra, e Dink, e Tom il Matto, Shen, Zuppa Cinese, Mosca Molo, e via via tutti i migliori allievi di cui Ender era stato compagno d’orda o avversario, tutti ragazzi che alla Scuola di Guerra aveva imparato a stimare. — Non sapevo che foste qui — disse. — Non mi hanno detto che stavate arrivando.

— Ci hanno già fatto sudare su questi simulatori per tre mesi — disse Dink.

— Ti accorgerai che sono ancora la pistola più veloce della scuola — disse Petra. — Dink ci prova ancora con me, ma non la spunta.

Così cominciarono a lavorare insieme, ogni comandante di squadrone alla direzione del suo gruppo di astronavi, e Ender a coordinare l’insieme. Appresero a collaborare a diversi livelli, poiché il computer forniva loro diverse situazioni da risolvere. Talvolta il simulatore dava loro una flotta più numerosa, e Ender li suddivideva in tre o quattro branchi ciascuno dei quali composto da tre o quattro squadroni. Talvolta il simulatore dava loro un incrociatore leggero con i suoi dodici astrocaccia, e lui sceglieva tre comandanti assegnando a ognuno quattro dei piccoli e veloci apparecchi.

Era un piacere, ed era un gioco. Il nemico, controllato dal computer, era potente ma non troppo brillante, ed essi vincevano sempre a dispetto dei loro errori di valutazione o della scarsa intesa. Ma dopo tre settimane Ender era giunto a conoscerli molto più a fondo: Dink, abile esecutore di ordini però lento a improvvisare; Bean, in difficoltà nel controllare contemporaneamente molte navi ma capace di manovrare in modo micidiale il suo squadrone, velocissimo a reagire in ogni situazione insolita proposta dal computer; Alai, che come abilità strategica gli stava alla pari e poteva occuparsi di metà della flotta senza troppo bisogno di istruzioni.

Più Ender li metteva alla prova e più si rendeva conto dei loro difetti, il che lo aiutava a valorizzarne al meglio le doti. Le sedute di addestramento cominciavano con il simulatore che presentava una certa situazione bellica nel campo olografico. Ender prendeva subito atto della consistenza della sua flotta e di come stava manovrando quella nemica. Pochi minuti gli bastavano poi per sgranare ordini ai comandanti di squadrone, assegnando a chi una nave e a chi gruppi di navi, ciascuno con istruzioni generiche o particolareggiate sui compiti da svolgere. Mentre si sviluppava la battaglia poteva quindi balzare dall’uno all’altro dei punti di vista dei suoi uomini, chiedendo e dando suggerimenti, o modificando la tattica in caso di necessità. Poiché gli altri osservavano la situazione soltanto dal loro posto di combattimento, spesso si sentivano dare ordini che non erano in grado di capire appieno, ma anch’essi imparavano a fidarsi della sua direzione strategica. Se Ender diceva loro di ritirarsi, si ritiravano, rendendosi conto o d’essere pericolosamente isolati oppure che la manovra avrebbe convinto il nemico a osare più di quanto poteva permettersi. Quando qualcuno agiva di sua iniziativa e non si sentiva subito arrivare consigli e ordini, sapeva che la manovra aveva l’approvazione di Ender e che il suo silenzio era un invito a darci dentro a fondo. Ognuno sapeva che se le sue capacità personali fossero state inadatte alla situazione in cui era, Ender non lo avrebbe scelto per risolverla.

La fiducia reciproca era completa, la loro flotta si comportava in modo deciso e responsabile. E alla fine delle prime tre settimane Mazer mostrò a Ender una rielaborazione delle loro più recenti battaglie, con la differenza che stavolta erano osservate dal punto di vista del nemico.

— Così è come vi vedono quando li attaccate. Come giudichi la tua flotta? La vedi veloce e coordinata?

— Direi di sì. Proprio come una flotta degli Scorpioni.

— Infatti qui siete arrivati a eguagliarli. Reagite con la loro stessa rapidità. E ora qui… guarda questo.

Ender studiò i suoi squadroni che filavano contro obiettivi diversi, ciascuno nella sua situazione particolare, tutti inseriti nella strategia generale preordinata da Ender, ma chi osando di più, chi di meno, chi improvvisando varianti, e ognuno capace di agire con un’iniziativa personale sconosciuta alle astronavi degli Scorpioni.

— La mente-alveare degli Scorpioni è abilissima, ma può concentrarsi su una sola cosa alla volta. I tuoi squadroni si dedicano invece a vari obiettivi contemporaneamente, e la loro manovra è coordinata da un cervello sveglio. Vedi dunque che qui tu hai un vantaggio. Armamento superiore, anche se non di troppo, identica velocità di manovra e un serbatoio d’intelligenza a cui puoi attingere molto meglio. Ecco dove sarai superiore. L’inconveniente, invece, è che sarai sempre in netta inferiorità numerica, e che dopo ogni battaglia il nemico ti conoscerà meglio; saprà come combatti, e le sue contromisure saranno immediate.

Ender attese un commento conclusivo.

— Da ora in poi — disse invece Mazer, — ricominceremo daccapo il tuo addestramento. Abbiamo programmato il computer per simulare il genere di situazioni che potremo ragionevolmente aspettarci una volta giunti a contatto del nemico. Come base useremo gli schemi tattici che gli abbiamo visto mettere in atto nella Seconda Invasione. Ma invece di usarli contro di te meccanicamente, al controllo della simulazione del nemico ci sarò io. Dapprima ti troverai in situazioni in cui ci si aspetta che tu vinca a mani basse. Impara da esse, perché io sarò sempre lì, un passo più avanti di te, a programmare maggiori difficoltà e tattiche più evolute per spingerti ai limiti delle tue capacità.

— E anche oltre?

— Il tempo stringe. Devi imparare più in fretta che puoi. Quando mi imbarcai per quel viaggio a velocità relativistica, in modo da poter esser vivo negli anni cruciali del nostro attacco, lasciai dietro di me mia moglie e i miei figli. Al mio ritorno era già morti da un pezzo, e restavano soltanto dei nipoti già della mia età. Non avremmo avuto molto da dirci in ogni caso. Ero stato tagliato fuori da tutto ciò che conoscevo e dalle persone che amavo, e fui costretto a vivere in questa catacomba extraterrestre senza di meglio da fare che insegnare a uno studente dopo l’altro… tutti bravi ragazzi pieni di speranza. Anche tu sei molto promettente, come già tanti altri prima di te, e come loro potresti avere nella mente o nel cuore il germe del fallimento. Il mio compito è di scoprirlo… distruggendoti, se dovrò farlo. E credimi, Ender, se tu sei nato per essere schiacciato io ti schiaccerò.

— Così, non sono il primo.

— Naturalmente no. Che ti aspettavi? Ma sei l’ultimo. Se non impari, non ci sarà tempo di cercare nessun altro. E se io spero in te è solo perché non c’è rimasto nessun altro in cui sperare.

— E gli altri, i miei comandanti di squadrone?

— Chi di loro è tagliato per sostituirti?

— Alai.

— Sii sincero.

Ender non seppe cosa rispondergli e tacque.

— Io non sono un uomo felice, Ender. La razza umana non ci ha promesso nessuna felicità. E in cambio ci obbliga a mettere tutte le nostre facoltà al suo servizio. Prima per la sua sopravvivenza, poi per la sua sicurezza e comodità. Perciò, ragazzo, spero che durante l’addestramento tu non venga a seccarmi l’anima lagnandoti che non sei felice. Prendi il piacere che puoi nei tuoi rari momenti liberi, ma prima di questo dovrà venire il tuo lavoro, la tua istruzione, la tua capacità di vincere. La vittoria è tutto, perché senza di essa non ci sarà più niente. Solo se tu fossi in grado di ridarmi mia moglie e i miei figli, solo allora avresti il diritto di venire a lamentarti di quanto ti costa tutto questo.

— Non sto cercando di scaricarmi di nessun peso.

— Ma vorrai poterlo fare, Ender. Perché io ho intenzione di stritolarti nella polvere, se ci riuscirò. Ti colpirò con tutti i mezzi che potrò immaginare, e non avrò pietà, perché quando affronterai gli Scorpioni loro ti aggrediranno in modi che io non posso immaginare. E hanno meno pietà e lealtà dell’insetto che ci ha costretti a dar loro questo nome.

— Lei non può stritolarmi, Mazer.

— Oh, non posso? Guarda, e perché?

— Perché io sono più forte di lei.

Mazer sogghignò. — Ne riparleremo quando morderai la polvere, Ender.

Mazer lo tirò giù dal letto molto prima del solito. L’orologio segnava 0340 quando Ender si avviò in corridoio, stordito e insonnolito, alle spalle del vecchio. — Presto a letto e presto alzato — recitò Mazer, — dell’uomo sano ne fa un malato.

Ma Ender non si lamentò della levataccia; aveva sognato che gli Scorpioni lo stavano vivisezionando. Solo che invece di tirargli fuori le budella gli estraevano i ricordi dal cranio con un paio di pinze, appendendoli poi ad asciugare come fotografie e cercando di analizzarne il significato. Era stato un vero e proprio delirio onirico, e non riuscì a scacciarlo del tutto dalla mente neppure lungo il tunnel che portava alla sala del simulatore. Gli Scorpioni lo tormentavano durante il sonno, e da sveglio Mazer non gli dava un attimo di requie. Fra gli uni e l’altro, le sue giornate erano un calvario. Si costrinse a svegliarsi un po’ di più. Evidentemente Mazer lo intendeva alla lettera quando s’era detto deciso a schiacciarlo, perché portarlo a combattere ancora mezzo instupidito dal sonno era proprio il genere di sleale espediente che c’era da aspettarsi da lui. Be’, oggi il trucco non funzionerà, signor mio.

Sedette davanti al simulatore e appena ebbe la cuffia in testa scoprì che i suoi comandanti di squadrone erano già sulla breccia, in attesa. Il nemico non c’era ancora, cosicché li divise in due gruppi e cominciò una finta battaglia, limitandosi a guardare come se la cavavano lasciati a se stessi. All’inizio ebbero qualche incertezza, ma presto stabilirono tattiche precise e si batterono con decisione.

Poi il campo olografico del simulatore si spense, le astronavi scomparvero e la scena cambiò completamente. Sul lato più vicino del campo gli allievi poterono scorgere le forme, azzurrine nella luce polarizzata, di tre incrociatori terrestri, ciascuno dei quali capace di lanciare dodici astrocaccia. Il nemico, ovviamente conscio della loro presenza, aveva già formato un globo con una singola nave al centro. Ender non s’illudeva di certo che questa portasse a bordo una regina. Gli Scorpioni erano superiori per due a uno, ma s’erano raggruppati in una formazione insolitamente stretta. Il Dr. Device avrebbe fatto loro molti più danni di quel che s’aspettavano.

Ender scelse un incrociatore, ne fece lampeggiare l’immagine olografica e inserì il microfono. — Alai, questo è tuo. Assegna Petra e Vlad agli astrocaccia, a tuo giudizio. — Nominò gli altri due comandanti, poi distolse un astrocaccia da ciascuno dei tre incrociatori e li affidò a Bean. — Gira al largo e portati sotto di loro, Bean. Se cercano di avvicinarti rientra immediatamente nelle nostre linee, altrimenti piazzati in qualche posto da cui io possa farti intervenire in fretta. Alai, punta dritto su di loro tenendo presso di tre gli astrocaccia. Non far fuoco finché non te lo dico. Cerchiamo di non farli allargare.

— Non ci sono difficoltà, Ender — disse Alai.

— E perché non essere cauti ugualmente? Voglio avere il minor numero possibile di perdite.

Ender separò gli altri due incrociatori e li mandò dietro ad Alai a distanza di sicurezza. Bean era già fuori dal campo del simulatore, e durante l’avvicinamento lui continuò a contattarlo per avere la sua posizione. Era Alai, però, a giocare il ruolo più delicato contro un avversario stranamente immobile e sospettoso. La sua formazione a cuneo giunse a un migliaio di chilometri da quella sferica e cominciò a essere a portata delle armi avversarie. Ma al suo avvicinarsi le navi degli Scorpioni retrocedevano, come per attirarlo verso quella centrale. Alai deviò lateralmente, e la successiva nave nemica che si trovò a portata indietreggiò senza far fuoco, tornando a riassumere il suo posto dopo il passaggio dei terrestri.

Finte, ritirate, deviazioni all’esterno, ancora attacchi soltanto accennati, e infine Ender ordinò: — Vai là dentro, Alai.

La formazione a cuneo scattò avanti, e Alai disse con calma: — Sai che vogliono lasciarmi passare solo per poi circondarmi e mangiarmi vivo, no?

— Tu limitati a ignorare la nave al centro.

— Tutto quello che vuoi, boss.

La formazione sferica cominciò a contrarsi. Ender portò avanti il resto della flotta, e le astronavi nemiche si spostarono sulla circonferenza del loro globo schematico per far fronte ai due incrociatori in arrivo. — Attaccali qui, dove si stanno concentrando! — disse Ender.

— Questo manda a gambe all’aria quattromila anni di storia militare — commentò Alai, mandando avanti gli astrocaccia. — Si suppone che il nemico vada attaccato nel suo punto debole, non è così?

— In questa battaglia è ovvio che loro non sanno ciò che possono fare le nostre armi. Funzionerà una volta sola, ma voglio che funzioni in modo spettacolare. Fuoco a volontà.

Alai puntò i due raggi convergenti. Il simulatore ne costruì l’effetto creando un globo azzurrino dove essi si toccarono: prima una nave, poi due, quindi una dozzina, e infine la maggior parte di quelle nemiche si disgregarono in vampate di pulviscolo man mano che il globo si espandeva in quella stretta formazione. — State alla larga — ordinò Ender.

Le astronavi sul lato opposto della formazione non furono colpite dalla reazione a catena, ma la loro resistenza risultò inutile e la nuova arma le distrusse. Bean attaccò poi l’ultima, fuggita quasi nella sua direzione, e la battaglia finì. Era stata molto più facile di tutte le loro più recenti esercitazioni.

Quando Ender glielo fece osservare, Mazer scosse le spalle. — Quella era la simulazione della loro prima strategia di attacco. Doveva essere una battaglia in cui non sapevano quali fossero le nostre possibilità. Ora comincerai a impegnarti di più. E cerca di non fare troppo il gradasso quando avvisti il nemico: presto avrai pane per i tuoi denti.

Ender portò a dieci le ore di pratica giornaliera con i comandanti di squadrone, dando loro un intervallo pomeridiano di tre ore per riposare. Le battaglie simulate in cui Mazer supervisionava il nemico avvenivano ogni due o tre giorni, e com’era previsto si fecero sempre più difficili. Gli Scorpioni non tentarono più di accerchiare le sue navi, e impararono quale distanza tenere fra le loro per evitare le esplosioni a catena. Ogni volta c’era qualcosa di nuovo e situazioni inaspettatamente dure. Talvolta Ender disponeva soltanto di un piccolo incrociatore e di otto astrocaccia, talaltra il nemico lo costringeva a battersi in una cintura di asteroidi, oppure poteva capitare che gli Scorpioni lo lasciassero avvicinare a planetoidi fortificati che d’improvviso esplodevano, o a campi minati che sfuggivano ai rilevamenti e distruggevano alcune delle astronavi terrestri. — Tu non puoi permetterti queste perdite! — sbraitò Mazer dopo una di queste battaglie. — In una vera guerra non avrai il lusso di infiniti rimpiazzi con cui affrontare lo scontro successivo. Avrai quello che ti sarai portato dietro, e nient’altro. Devi imparare a combattere senza inutili perdite.

— Inutili è una parola dura — replicò Ender. — Ma non posso vincere una battaglia se il terrore di perdere una nave o due mi impedisce di affrontare ogni rischio.

Mazer sorrise. — Molto bene, Ender. Stai cominciando a imparare. Ma in una vera campagna bellica avrai alle spalle gli alti comandi, per non parlare della popolazione civile che ti strillerà le stesse cose. Ora, se oggi ti fossi trovato di fronte un nemico molto abile, ti avrebbe colpito qui annientando lo squadrone di Tom. — Ripassarono insieme la registrazione della battaglia. Nell’addestramento successivo Ender avrebbe dovuto ripetere ogni correzione di Mazer ai suoi comandanti e far sì che imparassero a metterle in atto consci del loro significato.

Se avevano pensato d’essere un gruppo ben preparato, affiatato, soddisfatto dei risultati del proprio lavoro, quando il simulatore diede loro la sensazione reale d’essere uniti contro gli Scorpioni seppero che combattere insieme poteva essere esilarante. Era l’euforia semplice di chi ha un ideale alle spalle e un nemico odiato di fronte, ma questo li portava a cercare i limiti delle loro capacità. Già in quei giorni molti allievi e ufficiali di Eros affollavano i posti a sedere nelle sale dei simulatori, per osservarli. Ender pensò a come sarebbe stato avere i suoi amici lì accanto a sé, ridere con loro, vederli tesi e rigidi durante le azioni pericolose o soddisfatti dopo un attacco ben riuscito. Talora si diceva che sarebbe stata una sciocca distrazione, ma altre volte non poteva impedirsi di desiderarlo con tutto il cuore. Anche nei giorni in cui aveva oziato nel laghetto fra le colline non era mai stato così solo. Mazer Rackham era il suo compagno, il suo maestro, ma non era suo amico.

Tuttavia non ne fece parola. Mazer gli aveva detto che lì non c’era posto per la compassione, e la sua infelicità personale non significava niente per nessuno. Per la maggior parte del tempo non significava niente neppure per lui. Concentrava sul lavoro ogni sua facoltà, spremendo il massimo di informazioni dalle battaglie simulate, e non si limitava a imparare passivamente questa o quella lezione ma cercava di estrapolare ciò che gli Scorpioni avrebbero fatto se fossero stati più abili, e come lui avrebbe reagito a questi loro miglioramenti. Dentro di lui continuavano a svolgersi le ultime battaglie e si svolgevano già quelle che si aspettava nei giorni successivi, sia che dormisse o fosse sveglio, e metteva alla frusta i suoi comandanti di squadrone con una durezza che di tanto in tanto li induceva a reagire.

— Devo osservare che sei un po’ troppo mite con noi — lo provocò un giorno Alai. — Perché non fai mai fucilare chi non è al massimo della sua genialità bellica? Coccolandoci a questo modo finirai col rovinarci.

Qualcuno degli altri rise nel suo microfono. Ma l’ironia era troppo scoperta, e Ender si limitò a rispondere con un lungo silenzio. Infine decise che gli conveniva ignorare quel tipo di commenti. — Ricominciamo daccapo — ordinò. — Stavolta senza che io sia costretto a pensare che qualcuno di voi ha bisogno d’essere sostituito. — La serie di manovre fu ripetuta senza più errori.

Ma mentre il loro rispetto per le sue doti di comandante si accresceva, l’amicizia che li aveva uniti a lui nella vecchia Scuola di Guerra svaniva pian piano. Era fra loro che formavano un gruppo, era fra loro che si scambiavano confidenze. Ender rappresentava soltanto una fonte di ordini, un insegnante, una voce negli orecchi, ed era distante da loro come Mazer lo era da lui. E non meno esigente.

Questo accresceva la loro efficienza in battaglia. E aiutava Ender a concentrarsi sul suo lavoro.

Di giorno, se non altro, e la sera dopo cena, quando tornava in camera con gli avvenimenti del simulatore che gli scorrevano nella mente. Ma nel sonno erano altre le immagini da cui non sapeva liberarsi. Spesso rivedeva il corpo del Gigante in stato di avanzata putrefazione, ma non come sullo schermo del banco: era reale, solido, e torreggiava su di lui emanando l’orrido puzzo della carne morta. Il piccolo villaggio nato nei meandri della sua ossatura era adesso abitato da Scorpioni, ed essi salutavano il suo passaggio sollevando una chela, come gladiatori che onorassero il pretore romano prima di morire per il suo divertimento. In quei sogni non provava odio per gli Scorpioni, e anche quando capiva che gli stavano nascondendo la loro regina non si metteva a cercarla. S’allontanava svelto dal corpo del Gigante, e allorché giungeva sul parco dei giochi i bambini erano sempre lì, lupeschi e ghignanti. E avevano facce a lui ben note. Talora Peter, talaltra Bonzo, a volte Stilson e Bernard; ma abbastanza spesso fra quelle selvagge creature c’erano Alai e Shen, Dink e Petra, e non di rado la stessa Valentine; tuttavia nel sogno lui la gettava nel torrente come gli altri e aspettava che affogasse, tenendola sotto a viva forza. Fra le sue mani lei si divincolava, lottava per riemergere, e alla fine si abbandonava inerte. Lui la tirava fuori dal lago e la stendeva sulla zattera, poi contemplava il suo volto contratto nel rictus vacuo della morte. Allora gemeva e piangeva su di lei, gridando e continuando a gridare che quello era un gioco, un gioco, un gioco!…

Poi una mano lo scuoteva, strappandolo dall’incubo. — Stavi gridando nel sonno — diceva la voce di Mazer Rackham.

— Uh… scusi — borbottava Ender.

— Non fa niente. È ora di alzarsi. Oggi c’è battaglia.

Il ritmo di lavoro si faceva sempre più intenso. Passarono a due battaglie al giorno, e Ender dovette ridurre al minimo le ore di addestramento. Mentre poi gli altri studiavano le registrazioni degli ultimi scontri simulati lui restava in silenzio a meditare sui suoi punti deboli, a ipotizzare quel che avrebbero potuto costargli in futuro. A volte era già preparato ad affrontare le innovazioni del nemico, a volte no.

— Credo che lei stia imbrogliando — disse un giorno a Mazer.

— Io?

— Lei può vedere tutte le mie sedute di preparazione, e si studia quello su cui sto lavorando, eh? Mi sembra stranamente pronto a contrastare certi miei stratagemmi.

— Quello che ti trovi di fronte è per la maggior parte simulazione computerizzata — replicò Mazer. — E il computer è programmato per rintuzzare le tue tattiche, dopo che ne hai fatto uso una volta.

— Allora è il computer più subdolo che ci sia, perché riesce a imbrogliare la sua stessa programmazione.

— Ender, tu hai bisogno di dormire di più.

Ma l’insonnia cominciava a tormentarlo. Ogni notte restava sveglio più a lungo, per poi cadere in un sonno che non lo riposava affatto. E nel buio si destava spesso, senza capire se era per l’inconscio bisogno di ripensare da sveglio al lavoro oppure soltanto per sfuggire ai sogni. Era come se qualcuno dirigesse il suo sonno dall’esterno, costringendolo a vagare entro i suoi ricordi peggiori ed a riviverli in modo distorto ma realistico. Alcune delle sue notti riuscivano a essere perfino più reali dei giorni. Cominciò a rendersi conto che la tensione aveva un prezzo, e che al simulatore la sua lucidità era in ribasso. All’inizio di ogni battaglia c’era sempre un afflusso di adrenalina che lo stimolava, ma poi era tutta una discesa. E se le sue capacità mentali avessero avuto delle pause, si chiedeva, chi lo avrebbe notato?

Stava lentamente scivolando. Erano lontani i giorni in cui poteva vincere una battaglia perdendo soltanto pochi astrocaccia. Adesso il nemico riusciva a mettere in evidenza i suoi punti deboli, forzandolo sulla difensiva; oppure prolungava lo scontro in una sorta di guerra d’attrito dove la vittoria finiva per essere una questione di fortuna più che di abilità. E in quei casi Mazer gli faceva riesaminare la registrazione con una smorfia di disgusto. — Guarda come perdi questo incrociatore! — brontolava. — E questa manovra… volevi fare un favore al nemico? — E Ender tornava alla preparazione, all’addestramento, sforzandosi di tenere alto almeno il morale degli altri. Ma non di rado gli sfuggivano rabbiose imprecazioni ai loro errori, in specie quando capiva che dietro di essi c’era una stanchezza maggiore della sua.

— Stiamo facendo troppi sbagli — disse un giorno un sussurro di Petra nei suoi auricolari. Era una richiesta d’aiuto.

— Chi non fa, non falla — borbottò Ender. Se la ragazza aveva bisogno di comprensione, non l’avrebbe avuta da lui. Il suo compito era di addestrarla; che cercasse i suoi amici fra gli altri allievi ufficiali.

Poi ci fu una battaglia che per poco non finì in un disastro. Petra lasciò le sue astronavi troppo lontano dall’azione, e in un momento in cui Ender non era con lei scoprì d’essere attaccata dalla retroguardia degli Scorpioni. In pochi secondi aveva perduto tutte le sue navi salvo due astrocaccia. Ender tornò su di lei e le ordinò di metterli su una rotta di fuga; la ragazza non rispose; i due astrocaccia non si mossero. Dieci secondi dopo una gragnuola di missili li facevano esplodere.

All’istante Ender si rese conto d’averla spinta all’esaurimento nervoso: il coraggio e la freddezza di Petra lo avevano indotto a utilizzarla più spesso degli altri, e in situazioni sempre fra le più dure. Ma non ebbe il tempo di preoccuparsi di Petra, o di sentirsi in colpa per ciò che le avevano fatto. Incaricò Tom il Matto di spostarsi per impedire alla retroguardia nemica di trasformarsi in un’ala tattica, e cercò di salvare il salvabile. Ma Petra aveva occupato una posizione chiave, e adesso la sua strategia era andata a rotoli. Se il nemico fosse stato soltanto un po’ più rapido a sfruttare il varco creato dall’allontanamento di Tom, Ender avrebbe perso. Invece gli Scorpioni attaccarono in quel punto stando troppo vicini l’uno all’altro, e Shen riuscì ad annientare quell’intera formazione con una singola reazione a catena. Tom il Matto dovette lottare, preso fra due fuochi, e Shen fece rotta in suo soccorso. Un quarto d’ora dopo, quando entrambi avevano perduto quasi tutte le loro navi, Mosca Molo riuscì a intervenire e grazie a lui ottennero una faticosissima vittoria.

Alla fine della battaglia poté sentire Petra piangere in un sottofondo di voci, probabilmente già lontana dal suo microfono. — Ditegli che mi dispiace… ero stanca — gemette la ragazza. — Non riuscivo più a pensare. Non ci riuscivo. Dite a Ender che sono mortificata, ma…

Petra non partecipò alla battaglia nei dieci giorni successivi, e quando infine tornò al lavoro non era più né svelta né salda di nervi come in passato. Molto di ciò che aveva fatto di lei un’ottima comandante di squadrone era perduto. Ender lo vide ed evitò di tenerla in prima linea, affidandole solo missioni ausiliarie e di copertura. La ragazza non si lasciò menare per il naso; sapeva quel che stava succedendo. Ma sapeva anche che Ender non aveva altra scelta, e si rassegnò.

Restava il fatto che aveva ceduto, e non era certo che la più fragile dei comandanti di squadroni. Ender lo prese come un avvertimento: non doveva spingere gli altri al limite delle risorse umane. Da quel momento, invece di sfruttare la loro abilità come parte integrante delle sue tattiche, avrebbe dovuto pensare a risparmiarli. Cominciò a sostituirli, e questo lo costrinse ad affrontare le battaglie con comandanti di squadrone di cui si fidava un po’ meno. Ma rilassare la pressione su di loro significò vederla aumentare su se stesso.

Una notte si svegliò mugolando di dolore. Aveva in bocca il sapore del sangue, e il suo cuscino era bagnato, appiccicoso. Sollevò le mani, tremanti, e capì d’essersi morso le dita nel sonno. Il sangue continuava a ruscellargli giù per i polsi. — Mazer! — chiamò. Rakham si alzò e fece subito arrivare un medico.

Mentre la ferita gli veniva curata e bendata, Mazer lo fissò. — Non mi preoccupa molto ciò che mangi, Ender, ma devi spingere l’auto-cannibalismo ben più oltre se vuoi essere escluso dalla Scuola Ufficiali.

— Stavo dormendo — disse lui. — Ma se pensa che io sia il tipo che per uscire si spara in un piede, Mazer, è lei ad avere bisogno del medico.

— Bene.

— Gli altri, quelli che non ce l’hanno fatta…

— Di cosa stai parlando?

— Quelli prima di me. I suoi allievi che non hanno superato l’addestramento. Cosa ne è successo?

— È successo che non ce l’hanno fatta. Nient’altro. Credevi che gli avessimo sparato alla nuca? Sono finiti altrove.

— Come Bonzo.

— Bonzo?

— L’hanno rimandato a casa.

— No, non come Bonzo.

— E allora cosa? Che gli è successo quando hanno fallito?

— Che importanza ha questo, Ender?

Lui non rispose.

— Nessuno di loro ha fallito a questo punto del corso, Ender. Con Petra hai fatto uno sbaglio. Pian piano si riprenderà. Ma Petra è Petra, e tu sei tu.

— Parte di lei è in me. Anche lei ha fatto di me quello che sono.

— Tu non fallirai, Ender. Non così presto. Spesso hai dovuto sfangarla dura, ma hai sempre vinto. Dunque ancora non sai quali sono i tuoi limiti; ma se li avessi già raggiunti saresti molto più delicato di quel che m’era parso.

— Sono morti?

— Chi?

— Quelli che hanno fallito.

— No, non sono morti. Per Cristo, ragazzo, quelle che stai giocando sono battaglie simulate!

— Credo che Bonzo sia morto. L’ho sognato l’altra notte. Ricordo lo sguardo che aveva quando l’ho colpito al volto con la nuca. Penso di avergli spinto le ossa nasali nel cervello. Il sangue gli usciva dagli occhi. Credo che sia morto in quel momento…

— È stato soltanto un sogno.

— Mazer, non voglio continuare a sognare queste cose. Ho perfino paura di dormire. Sono costretto a ripensare a cose che non voglio ricordare. Tutto il passato mi ripassa nella testa, come se io fossi un registratore e qualcuno mi accendesse per tirarne fuori le cose più terribili della mia vita.

— Possiamo anche imbottirti di tranquillanti, se è questo che chiedi. Mi rattrista molto che tu faccia brutti sogni. Vuoi che ti compri un orsacchiotto da tenere fra le braccia?

— Non mi prenda in giro! — protestò Ender. — Ho paura che finirò per impazzire.

Il dottore aveva fissato il bendaggio e si alzò. Mazer lo ringraziò e attese che fosse uscito. — È davvero questa la tua paura? — chiese.

Lui ci pensò sopra e non seppe cosa rispondere. — Nei sogni che faccio — mormorò, — non sono neppure sicuro d’essere me stesso.

— I sogni strani sono una valvola di sfogo, Ender. Io ti ho messo sotto pressione, ed è un momento critico nella tua vita. La psiche reagisce alla tensione, e nient’altro. Ora non sei più un bambino, ed è tempo che tu la smetta di aver paura la notte.

— Saggio consiglio — annuì Ender. E decise che non avrebbe mai più parlato dei suoi sogni a Mazer.

I giorni si susseguirono, e le battaglie richiesero sempre più energia psicofisica, finché Ender seppe d’essere sul binario vertiginoso dell’autodistruzione. Cominciò ad avere forti dolori allo stomaco. Il dottore gli prescrisse una dieta, ma presto perse completamente l’appetito. — Mangia — gli ordinava Mazer, e lui si portava meccanicamente il cibo alla bocca. Se però nessuno era lì a incitarlo non mangiava neppure un boccone.

Altri due comandanti di squadrone ebbero collassi nervosi uguali a quello di Petra, e le responsabilità che gravavano sui rimanenti si appesantirono. In ogni battaglia adesso il nemico li superava per tre o quattro a uno; inoltre s’era fatto più svelto a ritirarsi quando era in pericolo, e riusciva a prolungare di molto lo scontro. Talvolta occorrevano ore e ore di inseguimenti stressanti prima che l’ultima nave nemica fosse finalmente distrutta. Ender si decise a far ruotare i comandanti di squadrone durante il corso di una stessa battaglia, mettendo ragazzi più freschi e riposati al posto di quelli che cominciavano a diventare tardi di riflessi.

— Sai una cosa? — gli disse una volta Bean, sostituendo Zuppa Cinese al comando dei suoi restanti astrocaccia. — Questo gioco non è più molto divertente.

Poi un pomeriggio, mentre era in piena seduta di addestramento, Ender vide le luci offuscarsi e precipitò nel buio. Quando si risvegliò, steso sul pavimento, qualcuno stava dicendo che s’era spaccato un labbro e un sopracciglio contro il quadro dei comandi.

Lo portarono a letto, e per tre giorni non ebbe la forza di alzare un dito. Dormì quasi sempre, a tratti svegliandosi da sogni in cui ricordava d’aver visto delle facce, ma più che facce di persone vere gli eran parse maschere imperfette portate da misteriosi personaggi onirici. Sognò, o credette di sognare, a volte Valentine e a volte Peter, o i suoi amici della Scuola di Guerra, o gli Scorpioni che lo vivisezionavano. Una volta ebbe un sogno molto realistico in cui vide il colonnello Graff chino su di lui, che gli parlava dolcemente come un padre. Il mattino del quarto giorno aprì gli occhi e vide che nella stanza c’era il suo nemico, Mazer Rackham.

— Sono sveglio — disse Ender.

— Così sembra — annuì Mazer. — Hai riposato abbastanza. Oggi c’è una battaglia.

Quando ebbe scoperto che riusciva a stare in piedi, Ender andò a lavorare al simulatore e vinse lo scontro. Ma quel giorno non ci fu una seconda battaglia, e Mazer lo mandò a letto presto. Spogliandosi era debole e gli tremavano le mani.

Durante la notte gli parve di sentire qualcuno che gli sfiorava il volto con leggerezza. Dita lievi e gentili, un tocco affettuoso. Sognò di udire delle voci.

— Avrebbe potuto essere più comprensivo con lui.

— La comprensione non è in programma.

— Quanto crede che possa resistere? Sta cedendo.

— Ce la farà. È quasi finita ormai.

— Così presto?

— Pochi giorni e tutto sarà concluso.

— Come crede che si comporterà, nelle condizioni in cui è?

— Bene. Oggi ha combattuto perfino meglio del solito.

Nel sogno le voci erano quelle del colonnello Graff e di Mazer Rackham. Ma nei sogni accadono cose strane e incredibili, e quello non faceva eccezione, perché poi una delle voci disse: — Non sopporto più di vedere quello che gli stiamo facendo. — E l’altra rispose: — Lo so. Anch’io gli voglio bene. — Subito dopo i due personaggi diventarono Valentine e Alai, che lo stavano seppellendo con palate di terra, ma il suo corpo crebbe fino alle dimensioni di una collina, si coprì di cespugli e la pioggia lo scarnificò, e come fra le costole del Gigante gli Scorpioni costruirono tane dentro di lui.

Sogni e ancora sogni. Se al mondo c’era qualcuno desideroso di dare riposo al suo corpo mortale, questo succedeva solo nei sogni.

Si svegliò, combatté un’altra battaglia e vinse. Poi tornò a letto, lasciò che i sogni scorressero su di lui finché fu di nuovo il momento di destarsi, e ancora una battaglia, ancora una vittoria, ancora una notte in cui sogno e realtà continuavano a confondersi. Non che questo gli importasse più, ormai.

Nessuno glielo aveva detto, ma quello che lo attendeva sarebbe stato il suo ultimo giorno alla Scuola Ufficiali. Quando si svegliò, Mazer Rackham non era in camera. Si lavò, tirò fuori un’uniforme pulita e attese che Mazer tornasse ad aprirgli la porta. Dieci minuti dopo, poiché il vecchio non si faceva vedere, tentò la maniglia. La porta si aprì.

Possibile che Mazer fosse stato così distratto da lasciarlo libero e a se stesso, quel mattino? Nessuno a dirgli che era l’ora di mangiare, che era l’ora di andare al lavoro, o che era l’ora di riposare un po’. Libertà. Il guaio era che non sapeva bene cosa farsene di quella novità. Per un momento pensò di andare a cercare i suoi comandanti di squadrone e parlare con loro faccia a faccia, ma non aveva idea di dove alloggiassero. Magari a venti chilometri da lì, per quel che ne sapeva. Così, dopo aver vagabondato una mezz’ora per i tunnel più frequentati tornò alla mensa. Fece colazione seduto allo stesso tavolo di alcuni marines che parlavano di sesso, argomento su cui lui aveva soltanto informazioni teoriche. Seccato da questa riflessione andò al simulatore per distrarsi un po’. Libero o non libero, non gli veniva in mente altro che fare un paio d’ore di pratica.

Quando entrò in sala la prima persona che vide fu Mazer. Con scarso entusiasmo Ender ubbidì al suo cenno e andò verso di lui. Poi tolse di tasca una pillola e la ingoiò; si sentiva poco energico e alquanto ottuso di mente.

Mazer lo fissò accigliato. — Pensi d’essere sveglio, Ender?

I posti degli spettatori erano pieni di ufficiali dei due sessi, in divisa, e c’era anche qualche civile. Ender si domandò chi fossero, ma non si prese la briga di chiederlo; ben difficilmente, comunque, qualcuno sarebbe stato così affabile da presentarsi. Andò ai comandi del simulatore e sedette, preparandosi a cominciare.

— Ender Wiggin — disse Mazer Rackham, — fammi la gentilezza di voltarti un momento. La battaglia di oggi necessita di qualche spiegazione.

Ender ruotò sulla poltroncina girevole e gettò un’occhiata alla gente seduta nella penombra. Molti avevano l’espressione scaltrita ed impenetrabile dei burocrati, specialmente i civili; ma fra loro vide Anderson. La sua presenza lo sorprese, e si chiese chi si stesse prendendo cura della Scuola di Guerra in sua assenza. Vide anche Graff, e lo sguardo dell’uomo gli ricordò momenti migliori, il lago, la villa che da qualche tempo nella sua memoria aveva sapore di casa. Portami a casa, disse silenziosamente a Graff. Nel sogno hai detto che mi volevi bene. Portami a casa.

Ma Graff si limitò ad annuire; un cenno di saluto, non una promessa. E Anderson lo guardava come se non lo conoscesse affatto.

— Per favore, Ender, un po’ d’attenzione. Quello di oggi è l’esame, l’ultimo, con cui si conclude il tuo corso qui alla Scuola Ufficiali. Questi osservatori sono la commissione che valuterà il tuo grado di preparazione. Se preferisci che non stiano in sala, potranno esaminarti tramite un altro simulatore collegato.

— Restino pure, prego. — Esame finale. Dal giorno successivo forse si sarebbe goduto un po’ di riposo.

— Affinché questo sia un test probante, non come quelli che già conosci ma di un genere che sia una sfida alla tua abilità, la battaglia odierna introdurrà un nuovo elemento. Avverrà intorno a un pianeta. Questo influirà sulla strategia del nemico e ti costringerà a improvvisare. Sei pregato di concentrarti senza badare al pubblico.

Ender gli accennò di farsi più vicino e sottovoce chiese: — Sono il primo allievo arrivato a questo punto?

— Se oggi vinci, Ender, sarai il primo studente a superare questo tipo di esame. Più di così non sono autorizzato a dirti.

— Non pretendo che lo dica. Può anche rispondermi a cenni.

— Domani ti permetterò d’essere petulante e irrispettoso, ragazzo. Oggi, però, apprezzerei che tu badassi all’esame. Non gettare via tutto quello che hai fatto fin’ora. Dunque, come pensi di agire rispetto al pianeta?

— Dovrò considerarlo un elemento interno al campo di battaglia, non un obiettivo da raggiungere solo in caso di vittoria.

— Vero.

— Inoltre in un campo gravitazionale il consumo di carburante sarà maggiore, mentre si presume che il nemico potrà ottenere rifornimenti in orbita o soccorsi dal suolo.

— Già.

— Qual è l’effetto di Little Doc sulla massa di un pianeta?

Il volto di Mazer si fece rigido. — Ender, gli Scorpioni non hanno attaccato la popolazione terrestre nelle loro due Invasioni. Devi decidere fino a che punto è saggio adottare una strategia che provocherebbe ritorsioni della stessa entità.

— Il pianeta è l’unico elemento nuovo?

— Ricordi forse qualche battaglia in cui io ti abbia fornito un solo elemento nuovo? Dai pure per scontato che oggi non sarò affatto più leale con te. Ho delle responsabilità verso la Flotta, e non posso regalare la promozione ad allievi poco affidabili. Oggi farò del mio meglio per mandarti a sbattere col sedere in terra. Comunque, se terrai a mente le possibilità dei tuoi uomini e ciò che sai degli Scorpioni, potrai giocare al meglio le tue carte.

Mazer si volse e uscì dalla sala.

Ender inserì il microfono. — Siete ai vostri posti?

— Tutti in riga — confermò Bean. — È un po’ tardi per cominciare l’addestramento, stamattina, no?

Dunque non avevano detto niente ai suoi comandanti di squadrone. Ender si trastullò con l’idea di rivelare loro quanto fosse importante quella battaglia, ma decise che dar loro una preoccupazione in più non lo avrebbe favorito. — Spiacente — disse, — non ce la facevo a levarmi dal letto.

Gli giunsero alcune risatine. Nessuno ci credeva.

In attesa che giungessero le immagini li fece scaldare con alcune manovre in un campo olografico standardizzato. Gli occorse più tempo del solito per schiarirsi la mente e concentrarsi sulle attività dei subordinati, ma dopo un poco cominciò a sentirsi pronto di riflessi e lucido delle decisioni. O almeno, disse a se stesso, convinto d’essere lucido. E tanto dovrà bastarmi.

Il campo olografico del simulatore cancellò le immagini e si spense, poi ci furono delle scariche elettrostatiche. Ender attese che apparisse la zona prefissata per la battaglia. Cosa succederà se passo l’esame? Mi manderanno a un altro corso? Ancora un anno o due di addestramento massacrante? Ancora un anno di isolamento, di gente che mi torchi in questo o in quel modo, di assoluta mancanza di controllo sulla mia stessa vita? Cercò di ricordare quanti anni aveva. Undici, passati. Ma passati da quanti anni? O da quanti giorni? Da quanto tempo non si preoccupava più di conoscere la data? L’ultimo compleanno gli era sfuggito del tutto. Nessuno lo aveva certo ricordato, salvo Valentine.

E con gli occhi fissi nel campo ancora vuoto del simulatore desiderò semplicemente alzarsi e andarsene, uscire di sala così sfacciatamente da costringerli a sbatterlo fuori, come Bonzo, anche con disonore. Bonzo almeno aveva rivisto il cielo di Cartagena. Lui si sarebbe accontentato della polvere di Greensboro. Vincere significava continuare, andare avanti. Fallire significava un biglietto di ritorno per casa sua.

No, non è così, si disse. Loro hanno bisogno di me, e se fallisco non avrò più nessuna casa a cui tornare.

Ma non ne era convinto. Con la sua mente conscia lo sapeva, ma in altri posti più profondi, più oscuri, dubitava che quella gente avesse bisogno di lui. Tutta l’urgenza di Mazer, ad esempio, un altro trucco, un altro modo per spingermi a fare quello che vogliono. Un’altra catena per legarlo, per impedirgli di riposare, di vivere, implacabilmente e senza requie.

La formazione nemica apparve, e la stanca apatia di Ender si trasformò bruscamente in disperazione.

Il nemico era superiore alle sue forze per mille a uno; l’intero campo del simulatore brillava di puntolini verdi. Gli Scorpioni erano raggruppati in una dozzina di formazioni diverse che continuavano a spostarsi ed a cambiare aspetto, muovendosi in schemi apparentemente casuali entro un’enorme area di spazio. Non vide alcuna via possibile per oltrepassare quello schieramento: varchi che sembravano aperti si chiudevano d’improvviso e ne comparivano altri, mentre formazioni che apparivano deboli da lì a poco s’infittivano di panciute astronavi. Il pianeta si trovava sul lato opposto del campo, e per quel che Ender ne sapeva avrebbero potuto esserci altrettante navi al di fuori della zona inquadrata nel simulatore.

In quanto alla sua flotta, essa consisteva in venti vecchi incrociatori della classe «Icaro», ciascuno con appena quattro Angeli Neri nella stiva. Conosceva bene quel tipo di nave fornita di quattro astrocaccia. Erano incrociatori solidi, ma antiquati e poco agili, e il loro Little Doc aveva una portata non superiore alla metà della versione più moderna. Ottanta Angeli Neri, contro almeno cinquemila o forse anche diecimila navi da battaglia nemiche.

Sentì i suoi comandanti di squadrone respirare pesantemente; poté anche udire, fra le file degli osservatori alle sue spalle, un’imprecazione soffocata. Era consolante che almeno uno degli adulti notasse che non si trattava di un esame molto corretto. Non che questo facesse differenza. La correttezza non faceva parte del gioco, era ovvio. Nessuno si azzardava a dargli una sia pur remota possibilità di successo. Tutto quello che mi hanno fatto passare, e adesso farebbero carte false pur di non promuovermi.

Per un attimo rivide Bonzo e il suo perverso manipolo di amici, venuti a spaventarlo e a minacciarlo. Per convincere Bonzo a battersi da solo aveva fatto leva sulla sua vergogna. Ma adesso la psicologia non gli sarebbe servita a niente. E non poteva illudersi di sorprendere il nemico come aveva fatto con i ragazzi anziani, in sala di battaglia, perché Mazer conosceva le sue capacità dentro e fuori.

Gli osservatori alle sue spalle cominciarono a tossicchiare, a muoversi nervosamente. Qualcuno di loro doveva aver già capito che Ender non sapeva cosa fare.

Non è che me ne importi molto, pensò lui. Potete prendervi questa battaglia e ficcarvela dove dico io. Se non mi date neppure una sola misera possibilità, perché dovrei giocare?

Come l’ultima volta in sala di battaglia, alla Scuola di Guerra, quando avevano messo due orde contro di lui.

E mentre l’episodio gli tornava in mente anche Bean di certo pensò a qualcosa di simile, perché in cuffia la sua voce disse: — Ricordate, ragazzi, la porta nemica è in basso.

Molo, Zuppa Cinese, Vlad, Dumper e Tom il Matto risero. Non avevano dimenticato neppure loro.

Anche Ender rise. La cosa era divertente. Gli adulti prendevano i loro giochi da adulto con adulta serietà, e i ragazzi ci stavano e accettavano di giocarli, finché a un certo punto gli adulti passavano il limite, si strappavano la maschera e lasciavano indovinare che la loro serietà era fatta di regole abbastanza sporche. Lascia perdere, Mazer. Non ci tengo molto a passare il tuo esame, e non ci tengo per nulla a giocare con le tue regole. Se ti piace imbrogliare, lo stesso posso fare io. Non lascerò che la slealtà sia l’arma con cui mi batti… io sarò ancora più sleale di te.

Nell’ultima battaglia alla Scuola di Guerra lui aveva vinto ignorando il nemico, ignorando le proprie perdite; s’era mosso contro la porta del nemico.

E la porta del nemico era in basso.

Se infrango le regole anche qui, non mi daranno mai un posto di comando. Questa gente non ama stabilire dei precedenti pericolosi. Non mi daranno mai più un simulatore in mano. E questa sarà la mia vittoria.

In fretta sussurrò alcuni comandi nel microfono. Gli squadroni si raggrupparono e si strinsero in una formazione cilindrica e compatta, un proiettile puntato al centro della vasta massa di navi nemiche. Gli Scorpioni, lungi dal farsi avanti, sembrarono dargli il benvenuto, ben contenti di circondarlo e mostrargli che era condannato a morte ancora prima di cominciare a farlo a pezzi. Mazer sta almeno prendendo nota del fatto che in qualche modo hanno imparato a rispettarmi, pensò Ender. E questo mi darà tempo.

Fece muovere la sua formazione in basso, poi a destra e a sinistra, mostrandosi spaurito e indeciso sul da farsi ma avvicinandosi sempre più al pianeta nemico. Gli Scorpioni gli si addensavano attorno inesorabilmente, finché lo ebbero a portata dei grossi laser da battaglia. In quel momento la flotta di Ender sembrò esplodere in tutte le direzioni, come se fosse impazzita e in preda al caos. Gli ottanta Angeli Neri non seguirono alcuno schema tattico: cominciarono a sparare all’impazzata salve di missili, schizzando qua e là e cercando ognuno di aprirsi a caso una via di fuga nelle viscere dell’immensa formazione nemica.

Dopo qualche minuto di battaglia, tuttavia, Ender diede un altro ordine e una dozzina fra incrociatori e astrocaccia superstiti tornarono a riunirsi. Ma adesso erano al di là di uno dei più consistenti gruppi di navi nemiche; pur subendo perdite disastrose erano riusciti a oltrepassarlo, e avevano coperto più della metà della distanza che li separava dal pianeta.

Gli Scorpioni hanno aperto gli occhi, ora, pensò Ender. Sicuramente Mazer ha capito cosa sto per fare.

O forse Mazer non può credere che io voglia farlo. Be’, tanto meglio per me.

La sua piccola flotta fece delle diversioni qua e là, evitando i laser che cercavano il metallo degli scafi e dando massima energia agli scudi per respingere i missili, mentre gli Angeli Neri fingevano qualche attacco per riunirsi subito dopo agli incrociatori. Le navi nemiche continuavano a riunirsi, e per i nove decimi sul lato esterno, come per tagliare fuori i terrestri da un possibile ritorno nello spazio aperto. Bene, pensò Ender. Intrappolateci pure.

Mormorò un ordine nel microfono, e le astronavi terrestri accelerarono alla massima velocità verso la superficie del pianeta. Sia gli incrociatori che gli astrocaccia stavano andando alla distruzione, perché i loro scafi non avrebbero sopportato il surriscaldamento dopo l’ingresso nella stratosfera. E rallentare avrebbe significato finir preda dei laser da battaglia da cui l’unica difesa era la velocità di spostamento. Ma Ender non intendeva neppure avvicinarsi alla stratosfera. Fin dall’inizio di quella manovra ognuna delle sue astronavi stava mettendo a fuoco i raggi convergenti del suo Little Doc su una cosa sola: il pianeta stesso.

Il fuoco delle navi da battaglia che chiudevano verso di loro era infernale. In quell’incubo di raggi roventi come il cuore di una stella un incrociatore terrestre esplose, per altri due, e un quarto, tre astrocaccia svanirono in una nube atomica, e quindi ancora un incrociatore, e un altro… era un massacro, e continuava ad esserci l’incognita: quante navi sarebbero sopravvissute abbastanza da giungere a portata di tiro? Sarebbero bastati pochi attimi, una volta che i due raggi dell’arma avessero potuto convergere in corrispondenza della superficie. Un secondo con il Dr. Device, questo è tutto ciò che chiedo. Ender rifletté che forse il computer non era neppure equipaggiato con un programma che mostrasse le conseguenze dell’attacco di Little Doc a una massa planetaria. Cosa posso fare, allora? Dire «Bang! Siete morti»?

Ender si appoggiò allo schienale della poltroncina e restò a osservare quel che avrebbero fatto i suoi uomini, o meglio i pochi piloti e gli addetti ai sistemi d’arma superstiti. C’era un solo incrociatore, adesso, e osservato dalla sua prospettiva il pianeta distava meno di cinquantamila chilometri. L’astronave filava verso di esso come una bomba. Sicuramente siamo a portata, ora, pensò Ender. Ci siamo… i raggi sono andati a fuoco. E vediamo adesso come se la cava il computer.

Poi la superficie verde e azzurra di quel mondo striato di nuvole, che occupava una buona metà del campo del simulatore, cominciò a ribollire. D’un tratto ci fu un’esplosione di lava ardente, che schizzò fin nello spazio investendo l’astronave da cui Ender osservava la scena. Era vano cercar d’immaginare cosa succedeva sotto le nubi di vapore, ma si vedeva balenare l’azzurro del campo di disgregazione molecolare. Lo sferoide crebbe come un’apocalittica bolla d’energia, trasformando in polvere inerte perfino la lava che scaturiva dalle viscere squarciate di quel mondo. Nubi di atomi invadevano lo spazio.

Nel giro di altri tre secondi il pianeta cessò di essere una cosa solida e divenne un globo di foschia luminosa il cui diametro aumentava a incredibile velocità. L’astronave terrestre fu la prima a trasformarsi in una sventagliata di molecole quando ne fu investita, e a quel punto il simulatore trasferì automaticamente la prospettiva visuale a un astrocaccia, probabilmente l’unico superstite degli Angeli Neri dispersi all’inizio dell’azione, che stava filando via nello spazio in cerca di salvezza. Era a circa trecentomila chilometri dal pianeta, e da lì si vedeva soltanto un’immagine sferica in espansione, più veloce delle navi degli Scorpioni, le quali tuttavia sembravano aver rinunciato ad allontanarsi. Da lì a poco anche l’immensa flotta fu assorbita da Little Doc, e uno dopo l’altro i puntini di luce che erano i loro propulsori si spensero, polverizzati nell’alone azzurro che li inghiottiva.

Soltanto al perimetro della zona mostrata dal simulatore il campo di disgregazione molecolare s’indebolì. Due o tre navi nemiche ne erano rimaste fuori, e neppure l’astrocaccia che fungeva da punto di vista ne fu colpito. Ma dove prima c’erano migliaia di astronavi e il pianeta che esse avevano protetto, non restava più nulla di concreto. La sua massa però non aveva cessato di esistere, e al centro di quel campo gravitazionale già la polvere tornava ad infittirsi: i detriti si riunivano, cominciavano a surriscaldarsi e a fondersi, e in qualche settimana di tempo in quel luogo si sarebbe formato un nuovo pianeta primordiale, un po’ più piccolo di quello ormai svanito.

Ender si tolse la cuffia, nei cui auricolari cicalavano le voci dei suoi comandanti di squadrone, e soltanto allora si accorse che il pubblico seduto dietro di lui faceva un gran chiasso. Gli ufficiali in uniforme si stavano abbracciando l’un l’altro, gridando e ridendo; alcuni piangevano; altri s’erano inginocchiati a mani giunte, e stupefatto Ender si accorse che stavano pregando. Non riuscì a capirne il perché. C’era qualcosa di sbagliato. Avrebbero dovuto essere seccati e irritati.

Il colonnello Graff lasciò gli altri e si avvicinò a lui. Aveva il volto rigato di lacrime, ma sorrideva. Afferrò Ender per le spalle, lo tirò in piedi e con sua grande sorpresa lo abbracciò strettamente. — Grazie, Ender! — balbettò, commosso. — Grazie a te, e grazie a Dio, Ender!

Dietro di lui vennero subito tutti gli altri, chi per stringergli la mano, chi per congratularsi, e un paio di ufficialesse lo baciarono sulle guance con trasporto. Per qualche minuto non riuscì a trovare alcun senso nel loro comportamento. Forse che, dopotutto, era riuscito a superare l’esame? Era la sua vittoria, non la loro, e per di più una vittoria di scarso significato tecnico, ottenuta con l’imbroglio. Perché mai agivano come se avesse vinto rispettando onorevolmente le regole?

La piccola folla si aprì e fra essi comparve Mazer Rackham. Il vecchio avanzò dritto su di lui e gli strinse la mano. — Hai fatto la scelta più dura, ragazzo. O tutto o niente. La loro fine o la nostra. Ma Dio sa che non avevi altro modo di agire. Congratulazioni. Li hai battuti, e definitivamente distrutti.

Battuti. Distrutti. Ender si accigliò confuso. — Io ho battuto lei.

Mazer rise forte, divertito ma con una nota stridula che fece ridere anche gli altri. — Ender, tu non hai mai giocato con me. Fin da quando io sono diventato il tuo nemico, tu non hai mai giocato una sola volta.

Ender non capì dove stesse lo scherzo. Quel che sapeva era di aver sudato sangue ed innumerevoli battaglie sul simulatore, fino a rovinarsi la salute. Il sogghigno di Mazer cominciò a irritarlo.

Il vecchio allungò una mano a toccargli una spalla ma lui si scostò, scuro in volto. Mazer si fece serio, esitò un poco e disse: — Ender, negli ultimi mesi tu sei stato il comandante delle nostre flotte d’attacco. Questa era la Terza Invasione. Non hai mai giocato; le battaglie erano vere, e il solo nemico che hai affrontato erano gli Scorpioni. Tu hai vinto ogni battaglia, e finalmente oggi li hai attaccati nel loro mondo di origine, dove si erano rifugiate le loro regine… sì, tutte le loro regine, fuggite dalle colonie per evitare il nostro attacco, erano riunite lì e tu le hai distrutte dalla prima all’ultima. Non minacceranno mai più noi né nessun altro. E sei stato tu a fare questo. Tu.

Reale. Non era un gioco. Ender era troppo stordito per rendersi conto del significato di quelle parole. Quei puntini di luce ripresi da uno schermo e che il simulatore riproponeva a tre dimensioni… non erano puntini di luce, erano vere astronavi, macchine possenti che lui aveva affrontato e distrutto. Ed era un vero pianeta quello che lui aveva cancellato dalla faccia dell’universo. Si avviò verso l’uscita evitando la gente, ignorando le loro mani e le loro frasi entusiaste, senza guardare in faccia nessuno. Quando fu in camera sua gettò al suolo i vestiti, si distese a letto e quasi subito si addormentò.

A svegliarlo fu una mano che lo scuoteva. Gli occorse qualche istante per riconoscere i due uomini. Graff e Rackham. Volse loro le spalle. Lasciatemi dormire.

— Ender, abbiamo bisogno di parlarti — disse Graff.

Con un grugnito lui si volse a guardarli.

— È tutta la notte e tutto il giorno che la nostra stazione sta trasmettendo alla Terra i filmati della battaglia di ieri.

— Ieri? — Doveva aver dormito quasi ventiquattr’ore.

— Sei un eroe, Ender. La gente ha visto quello che avete fatto, tu e gli altri. Credo che non ci sia nazione che non ti abbia già conferito le più alte decorazioni.

— Li ho uccisi tutti, non è vero? — chiese Ender.

— Tutti chi? — Graff sbatté le palpebre. — Gli Scorpioni? Già, pare di sì.

Mazer si piegò su di lui. — È per questo che abbiamo fatto la guerra.

— Tutte le loro regine, i piccoli. Dunque ho sterminato la loro razza… ora e per sempre.

— Se lo sono voluto loro, quando ci hanno attaccati. Non è certo colpa tua. Doveva accadere.

Ender afferrò Mazer per il petto dell’uniforme e vi si appese, costringendolo a chinarsi faccia a faccia con lui. — Io non volevo ucciderli tutti. Non volevo uccidere nessuno! Non sono un killer! Voi non avevate bisogno di me, voialtri bastardi, ma di Peter. E invece lo avete fatto fare a me, con un inganno mostruoso! — Stava piangendo e tremava, incapace di controllarsi.

— È ovvio che ti abbiamo ingannato. Tutto era imperniato su questo — disse Graff. — Doveva essere un trucco, altrimenti non l’avresti fatto. Eravamo prigionieri di questa constatazione. Ci occorreva un comandante capace di tale empatia da saper pensare come gli Scorpioni, per capirli e anticiparli. Capace d’immedesimarsi con loro fino ad amarli, più o meno consciamente, perché immedesimarsi era vitale. Ma una persona così sensibile non avrebbe mai potuto essere il killer che ci serviva. Mai sarebbe andato in battaglia deciso a vincere a tutti i costi. Se tu avessi saputo, non l’avresti fatto. Se tu fossi il genere d’individuo capace di uccidere a mente fredda, invece, ti sarebbe mancata la comprensione necessaria a vincere gli Scorpioni.

— E doveva essere un ragazzo giovane, Ender — aggiunse Mazer. — Tu eri più veloce di me. Migliore di me. Io sono troppo vecchio e cauto. Un essere umano normale che sappia già cosa sia la guerra non può andare in battaglia con molto entusiasmo. Ma tu non lo sapevi. Abbiamo fatto di tutto perché tu non sapessi certe cose. Eri entusiasta e determinato, giovane e brillante. Ed eri nato per questo.

— C’erano equipaggi umani sulle nostre navi. Non è così?

— Sì.

— Io ho ordinato a quei piloti di andare a morire, e non lo sapevo neppure…

— Loro lo sapevano, Ender, e hanno attaccato. Sapevano per cosa stavano combattendo.

— Non avete neanche provato a chiedermelo. Non avete mai tentato di dirmi una frazione della verità.

— Tu dovevi essere un’arma, Ender. Come una pistola, come il Dr. Device, dal funzionamento perfetto ma all’oscuro del bersaglio su cui eri puntato. Noi abbiamo preso la mira. Noi siamo i responsabili. Se c’è qualcuno che deve avere la coscienza sporca, siamo noi.

— Andatevela a lavare da un’altra parte — disse Ender. Si voltò e chiuse gli occhi.

Mazer Rackham lo scosse. — Non è il momento di dormire. Apri gli orecchi, è importante.

— Voialtri avete finito con me — borbottò lui. — Ora lasciatemi in pace.

— Noi… loro non l’hanno affatto finita con te — sospirò Mazer. — È questo che sto cercando di dirti. Laggiù sulla Terra sono usciti di cervello, stanno per dare il via a una guerra. Gli americani accusano il Patto di Varsavia di esser pronto ad attaccarli, e il Patto dice la stessa cosa dell’Egemonia. La guerra con gli Scorpioni non è finita da ventiquattr’ore e il mondo è già sul punto di scatenarne un’altra, peggiore delle precedenti. Inoltre tutti dichiarano d’essere preoccupati per te. E tutti quanti ti vogliono. Ogni esercito vuole alla sua testa il più grande comandante in campo della storia. Gli americani. L’Egemonia. Tutte le nazioni salvo quelle del Patto di Varsavia, le quali invece ti vogliono morto.

— Peggio per me — disse Ender.

— Dobbiamo portarti via da qui. Eros è pieno di marines russi, perfino il Condottiero è russo. Potrebbe esserci uno spargimento di sangue da un momento all’altro.

Ender gli volse di nuovo le spalle. Stavolta i due non lo toccarono, ma la sonnolenza gli era passata. Li ascoltò parlare fra loro.

— Era proprio questo che temevo, Rackham. Lei lo ha spremuto troppo. Alcuni dei loro avamposti avrebbero potuto aspettare. Poteva dargli qualche giorno di riposo.

— Anche lei ci si mette, Graff? Anche lei mi taglierà i panni addosso col senno di poi? Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se non ci fossimo impegnati in un attacco totale. Nessuno lo sa. È andata così e ha funzionato. Soprattutto questo: ha funzionato. Si tenga a mente questa giustificazione, Graff. Anche lei potrebbe vedersi costretto a usarla.

— Mi scusi.

— Riesco a capire cosa gli abbiamo fatto. Il colonnello Liki dice che potrebbe non riprendersi mai dal trauma, ma io non ci credo. È troppo forte. Vincere significa molto per lui, e ha vinto.

— Non venga a parlarmi di forza. È un ragazzino di undici anni. Lasciamolo riposare, Rackham. La situazione non è ancora esplosa. Possiamo mettere un paio di sentinelle davanti alla porta.

— O metterle davanti a un’altra porta, e fingere che quella sia la sua.

— Cerchiamo il capo della sorveglianza.

I due uomini uscirono. Quasi subito Ender ricadde nel sonno.

Il tempo scivolò via attorno a Ender senza che la realtà esterna lo sfiorasse, salvo che per brevi e spiacevoli intervalli. Una volta si svegliò per qualche minuto tormentato da una dolorosa pressione nella carne di un braccio. Con un gemito mosse l’altra mano e si toccò: c’era un ago, conficcato in una sua vena. Cercò di levarselo ma le sue deboli dita annasparono invano sul nastro adesivo. Un’altra volta riaprì gli occhi nelle tenebre e sentì non distante da lui gente che mormorava e che imprecava. Nei suoi orecchi vibrava un rumore intenso, quello che lo aveva svegliato, ma non fu capace d’indentificarlo. — Accendi un po’ quella luce — disse una voce sconosciuta. E un’altra volta gli parve che qualcuno piangesse sottovoce, accanto a lui.

Avrebbe potuto esser trascorso un giorno, come anche una settimana; ma per i sogni che fece avrebbero potuto essere dei mesi. E in quei sogni gli parve di vivere un’intera vita. Di nuovo affrontò il Drink del Gigante, i bambini licantropi, la continua violenza, l’omicidio come unica e continua soluzione. Nella foresta udì una voce sussurrare: «Dovevi uccidere quei bambini per arrivare alla Fine del Mondo». E lui cercò di rispondere che non voleva uccidere nessuno, e che non gli era mai stato chiesto se desiderava uccidere qualcuno. Ma la foresta rise di lui. E quando si tuffò nel burrone alla Fine del Mondo, a raccoglierlo non fu una nuvoletta bensì un astrocaccia che lo portò a distanza di sicurezza dal pianeta degli Scorpioni, in modo che potesse osservare a lungo, interminabilmente, la morte che ribolliva qua e là sulla superficie. E poi più vicino, sempre più vicino, finché poté vedere gli Scorpioni che si torcevano e scoppiavano, trasformandosi in polvere che gli roteava attorno. E la regina, circondata dai suoi piccoli, soltanto che la regina era Mamma ed i bambini erano Valentine e tutti quelli che lui aveva conosciuto alla Scuola di Guerra. Uno di loro aveva il volto di Bonzo, con gli occhi e il naso pieni di sangue, e diceva «Tu non hai onore». E come sempre il sogno finiva con uno specchio, o una superficie metallica, o una polla d’acqua in cui vedeva riflessa la sua faccia. Dapprima c’era stata solo la faccia di Peter, con la coda del serpente e il rivolo di sangue che gli uscivano di bocca. Nei sogni successivi invece vi trovò la propria faccia, vecchia e triste, con occhi entro i quali c’era il peso di miliardi e miliardi di delitti… ma erano pur sempre i suoi occhi, e non poteva ridar loro uno sguardo luminoso e innocente.

Questo fu il mondo in cui Ender abitò e visse durante i cinque giorni della Guerra dei Due Blocchi.

Quando si risvegliò scoprì d’essere disteso nel buio. In distanza si udivano dei tonfi soffocati simili a esplosioni. Per un poco tese gli orecchi a quei rumori. Poi accanto a lui ci fu uno scalpiccio.

Si girò e protese le braccia, per fermare chiunque stesse cercando di colpirlo. Le sue mani incontrarono un vestito. Con un ansito rauco diede uno strattone di lato, e un corpo umano gli piombò addosso.

— Ender, sono io! Sono io!

Riconobbe quella voce. Usciva dai suoi ricordi come da un baratro profondo un milione di anni.

— Alai…

— Salaam, dannato pivello. Stai tentando di strangolarmi?

— Sì. Credevo che tu volessi strangolare me.

— Io stavo solo cercando di non svegliarti. Be’, almeno ti è rimasto l’istinto di sopravvivenza. Da quel che dice Mazer, sei avviato a diventare una specie di vegetale.

— Già, ci stavo provando. Cosa sono questi colpi?

— Scontri armati in corso. La nostra sezione è tenuta al buio per misura precauzionale.

Ender mise fuori le gambe e si tirò a sedere, ma non ce la fece. Un dolore lancinante alla testa lo costrinse a stendersi di nuovo. Mandò un gemito.

— Non cercare di alzarti, Ender. Va tutto bene. Sembra che possiamo vincere. Non tutte le nazioni del Patto di Varsavia si sono unite al Condottiero. Parecchie si sono alleate con noi, quando lo Stratega ha detto che tu eri fedele alla F.I.

— Io stavo dormendo.

— Be’, ha mentito? Forse nei sogni hai complottato per tradirci? Spero di no. Anche molti russi stanno con noi, e hanno riferito che quando il Condottiero ha ordinato di trovarti e ucciderti alcuni di loro per poco non l’hanno ammazzato. Qualunque cosa provino per l’altra gente, Ender, loro ti amano. Il mondo intero ha visto le nostre battaglie, la TV le trasmette giorno e notte. Anch’io ne ho rivisto alcune, complete della tua voce che dà gli ordini. Niente censura, c’è proprio tutto. Roba interessante. Come attore farai molta strada.

— Non credo — disse Ender.

— Stavo scherzando. Ehi, ci crederesti? Noi abbiamo vinto la guerra. Eravamo così impazienti di diventare adulti e di combattere, e già lo stavamo facendo tutto il tempo. Voglio dire, noialtri siamo dei ragazzini. Ma lo abbiamo fatto noi, Ender. — Alai rise. — Lo hai fatto tu, comunque. Sei stato in gamba, boss. Non so come tu abbia potuto portarci attraverso quell’inferno, ma lo hai fatto. Eri formidabile.

Ender notò quel verbo al passato. Ero formidabile. - E cosa sono adesso, Alai?

— Sempre in gamba.

— Per fare cosa?

— Per… tutto. C’è un milione di soldati che ti seguirebbero fino ai confini dell’universo.

— Io non voglio andare alla fine dell’universo.

— Be’, loro ti seguiranno. Dove vuoi andare?

Voglio andare a casa, pensò Ender. A casa. Ma non so dove sia.

I colpi lontani tacquero.

— Ascolta, c’è qualcuno — disse Alai.

In corridoio si udivano dei passi. La porta si aprì, e dopo un’esitazione i passi entrarono nella stanza. — È finita — disse una voce. Era Bean. Come a comprovare quell’affermazione, le luci si accesero.

— Ehi, Bean!

— Come va, Ender?

Petra e Dink vennero dentro anch’essi, tenendosi per mano. Si fermarono ai piedi del letto. — Ehi, l’eroe si è svegliato — disse Dink.

— Chi ha vinto? — chiese Ender.

— Noi, Ender — rispose Bean. — C’eri anche tu là.

— Non è così rimbecillito, Bean. Vuol dire chi ha vinto adesso. — Petra prese una mano di Ender. — Sulla Terra c’è una tregua. In realtà stavano negoziando da giorni. Finalmente si sono messi d’accordo sulla Proposta Locke.

— Ender non può sapere della Proposta Locke.

— È piuttosto complessa, ma in sintesi significa che la F.I. può continuare a esistere, senza che il Patto di Varsavia ne faccia parte. Così i marines del Patto rientreranno a casa loro. Credo che i russi si siano decisi a questo accordo perché le nazioni dell’Europa Orientale gli si stavano rivoltando contro. I morti sono stati molti, dappertutto. Qui almeno cinquecento, ma sulla Terra è stato abbastanza peggio.

— L’Egemone si è dimesso — disse Dink. — Sono una manica di idioti laggiù. Vadano al diavolo.

— Tu stai bene? — chiese Petra, sfiorandogli la fronte. — Eravamo preoccupati. Dicevano che sei diventato pazzo. Noi abbiamo risposto che i pazzi erano loro.

— Certo, che sono pazzo — disse Ender. — Ma sto meglio, credo.

— Quando te ne sei accorto? — domandò Alai.

— Quando ho creduto che tu volessi ammazzarmi e ho deciso che prima ti avrei strangolato. Penso d’essere un killer fino in fondo all’anima. Però preferisco vivere che lasciarmi uccidere.

Gli altri sorrisero e si dissero d’accordo con lui. Poi Ender scoppiò in lacrime e abbracciò Bean e Petra, che erano i più vicini. — Ho sentito la vostra mancanza — ansimò. — Avrei voluto essere con voi.

— Sei sempre stato con noi — disse Petra. Lo baciò sulle guance.

— E tu sei stata magnifica — disse Ender. — Quelli di cui avevo più bisogno, li ho torchiati di più. Poco saggio da parte mia.

— I ragazzi stanno benone, adesso — lo informò Dink. — Nulla che cinque giorni di letto, in una stanza oscurata e nel bel mezzo di una guerra, non possa curare.

— Non sarò mai più il vostro comandante, eh? — sospirò Ender. — Non ho intenzione di comandare niente, d’ora in poi.

— Nessuno può obbligarti — disse Dink. — Però tu sarai sempre il nostro comandante, per noi.

Per un poco rimasero in silenzio.

— Così, che ci resta da fare, adesso? — domandò poi Alai. — La guerra con gli Scorpioni è finita, quella sulla Terra anche, e qui non si combatte più. Cos’altro resta da fare, per noi?

— Siamo degli adolescenti — rifletté Petra. — Probabilmente ci rimanderanno a scuola. È la legge. La frequenza è obbligatoria fino a diciassette anni.

A quel pensiero tutti risero. E continuarono a ridere finché ebbero la voce rauca e le guance umide di lacrime.

CAPITOLO QUINDICESIMO

L’ARALDO DEI DEFUNTI

Il lago era immobile; non spirava un alito di vento. I due uomini occupavano un paio di sedie a sdraio affiancate sul moletto. A un anello rugginoso era ormeggiata una piccola zattera. Graff aveva allungato un piede sulla corda e ogni tanto tirava la zattera verso di sé, la spingeva via, poi la attirava di nuovo.

— Lei è alquanto dimagrito.

— Ci sono tensioni che fanno ingrassare, altre che fanno dimagrire. Io sono un ammasso di semplici reazioni chimiche.

— Dev’essere stata dura per lei.

Graff scosse le spalle. — Non poi troppo. Sapevo che sarei stato assolto.

— Alcuni di noi non lo erano altrettanto. Maltrattamenti di minori, negligenza, due casi di morte violenta… Quei filmati di Bonzo e di Stilson hanno fatto un brutto effetto. Vedere un ragazzo che ne uccide un altro…

— Se non altro, credo che abbiano salvato me. Il pubblico ministero li aveva tagliati, ma noi abbiamo presentato l’intera registrazione. È stato dimostrato che il provocatore non era Ender. Fatto ciò, si è trattato solo di ribadire certi concetti. Io ho affermato che lo consideravo necessario per la salvezza della razza umana, e ha funzionato; il giudice ha dichiarato che l’accusa doveva provare oltre ogni dubbio che Ender avrebbe vinto la guerra senza l’addestramento particolare che gli abbiamo dato. Il resto è stato semplice. Le necessità della guerra.

— Comunque sia, Graff, per noi è stato un sollievo. So che abbiamo dovuto costituirci anche noi come parte lesa, e che l’accusa ha usato nastri di nostre conversazioni contro di lei. Ma io ero già convinto che lei fosse nel giusto, e mi offersi di testimoniare a suo favore.

— Lo so, Anderson. I miei avvocati me lo dissero.

— E adesso cosa farà?

— Non lo so. Per ora mi rilasso. Ho parecchi anni di stipendio accumulato in banca, e potrei vivere con gli interessi. Forse mi darò all’ozio.

— Potrebbe essere un’idea. Ma io non ne sarei capace. Ho già rifiutato la presidenza di tre diverse università, offertami in base all’ipotesi che io sia un educatore. Nessuno mi crede quando dico che alla Scuola di Guerra tutto ciò che m’interessava erano le battaglie. Penso che accetterò quell’offerta di cui le dicevo.

— Allenatore?

— Ora che le guerre sono finite, il campionato attirerà più pubblico. Ma per me sarà una specie di vacanza: soltanto ventotto squadre in serie A. E dopo anni trascorsi a guardare ragazzi che volano e rimbalzano, il rugby mi farà l’effetto di un pomeriggio dedicato a contare le lumache in giardino.

I due risero. Graff sospirò e spinse via la zattera col piede.

— Questo natante. Difficile che possa sostenere lei.

Graff scosse il capo. — Lo ha costruito Ender.

— Già, è vero, è qui che lei lo portò.

— La proprietà è stata intestata a lui. Mi sono accertato che il governo non fosse avaro. Ha più denaro di quel che potrà mai spendere.

— Sempre che gli permettano di tornare a spenderlo.

— Non lo faranno.

— Con Demostene che invoca il ritorno in patria dell’eroe?

— Demostene ha chiuso con la videostampa.

Anderson inarcò un sopracciglio. — Questo che significa?

— Demostene si è ritirato. Definitivamente.

— Lei sa qualcosa, eh, vecchio lupaccio? Lei sa chi è Demostene.

— Chi era.

— Be’, me lo dica!

— No.

— Via, adesso lei non è più divertente, Graff!

— Non lo sono mai stato.

— Almeno potrebbe dirmi perché. Molti di noi erano disposti a giurare che un giorno Demostene avrebbe potuto diventare Egemone.

— Non esisteva nemmeno la più pallida possibilità. No, neppure tutti gli asini che trottano dietro Demostene potrebbero ragliare abbastanza da convincere l’Egemone a riportare Ender sulla Terra. Ender è troppo pericoloso.

— Ha soltanto undici anni. Dodici, adesso.

— Perciò chiunque potrebbe controllarlo facilmente, il che lo rende ancor più pericoloso. In ogni angolo del globo il nome di Ender può far muovere la gente: il Dio-Bambino, la Guida-Miracolosa, il Liberatore, Lo Stregone… qualunque aspirante tiranno potrebbe metterlo alla testa di un esercito e avrebbe vinto prima di sparare un sol colpo. E qualunque uomo savio e giusto, avendo Ender dalla sua parte, lo sfrutterebbe per ottenere il potere assoluto. Se tornasse sulla Terra sarebbe per venire qui, vivere tranquillo, salvare ciò che resta della sua adolescenza. Ma non glielo permetterebbero mai.

— Capisco. E questo è stato spiegato a Demostene?

Graff sorrise. — È stato Demostene a spiegarlo a qualcun altro. Qualcuno che di Ender saprebbe farne l’uso più completo, per unificare il mondo e governarlo con mano di ferro.

— Chi?

— Locke.

— Locke è quello che ha scritto di più sulla necessità di lasciare Ender su Eros.

— Il che dimostra che le cose non sono mai quello che sembrano.

— È troppo complicato per me, Graff. Mi dia una buona squadra, ecco la politica che capisco: regole chiare, arbitri onesti, e vincitori e perdenti che alla fine della partita si stringono la mano e se ne tornano a casa dalle loro donne.

— Mi faccia avere qualche biglietto di tanto in tanto, d’accordo?

— Non vorrà davvero starsene qui ad ammuffire, eh?

— No.

— Mi sembra d’aver capito che l’Egemone le ha offerto una poltrona.

— Una nuova di zecca. Quella di Ministro delle Colonie.

— Dunque è a questo che stanno puntando.

— Appena ci arriveranno i rapporti sui mondi che erano stati colonizzati dagli Scorpioni. Voglio dire, sono lì che ci aspettano, fertili e pronti, con strade e industrie e abitazioni già edificate, e i loro vecchi padroni tutti morti. Assai conveniente. Potremo modificare le leggi sul controllo della popolazione…

— Che tutti odiano.

— … e tutti i Terzi e i Quarti e i Quinti avranno astronavi per cercare il loro destino su mondi conosciuti e sconosciuti.

— Crede che la gente ci andrà?

— La gente ci prova sempre. Sempre. Niente può togliere dalla testa a un uomo che forse su un altro mondo può trovare una vita migliore.

— All’inferno, magari è davvero così!

Nei primi tempi Ender aveva creduto che lo avrebbero riportato sulla Terra, non appena la situazione si fosse stabilizzata. Ma le cose si erano stabilizzate da un pezzo, da un anno ormai, e adesso cominciava a capire che nessuno aveva interesse a farlo, e che se la sua immagine pubblica poteva essere utilmente usata la sua presenza in carne e ossa sarebbe stata soltanto una seccatura per tutti.

Aveva potuto farsi un’idea di come andavano le cose già durante il processo intentato contro il colonnello Graff. L’ammiraglio Chamrajnagar aveva cercato d’impedirgli di assistere alle udienze, quasi tutte teletrasmesse, ma non c’era riuscito: Ender era stato promosso ammiraglio, e quella volta aveva insistito per veder rispettati i privilegi che spettavano al suo grado. Rigido e silenzioso aveva assistito alla proiezione di un filmato riguardante Stilson e della registrazione del suo combattimento con Bonzo, aveva visto le fotografie dei loro corpi, aveva ascoltato gli psicologi e gli avvocati discutere di dove finiva l’autodifesa e cominciava l’eccesso di difesa. Lui aveva le sue opinioni in merito, ma nessuno gliele aveva chieste. Durante tutto il processo si era sentito personalmente in stato di accusa. Il pubblico ministero era troppo conscio degli umori del pubblico per imputargli qualcosa, ma aveva insinuato che la sua mente fosse quella di un malato, di un pervertito con tendenze omicide, di un criminale.

— Non farci caso — aveva commentato Mazer Rackham. — I politicanti ti temono, ma non possono ancora distruggere la reputazione che ti sei fatto. A questo ci penseranno gli storici, fra una trentina d’anni.

A Ender non importava molto della sua reputazione. Aveva assistito a quelle trasmissioni televisive con faccia impassibile, ma in realtà con un certo stupore. In guerra ho ucciso decine di miliardi di Scorpioni, creature vive e intelligenti, forse non peggiori di noi e che comunque non avevano lanciato un terzo attacco contro di noi, e nessuno lo ha definito un crimine.

La morte di Stilson e quella di Bonzo non erano un peso più leggero né più grave dei delitti che già sopportava la sua coscienza.

E così, oppresso da quelle ombre, per vuoti e interminabili mesi aveva atteso che il mondo da lui salvato decidesse di richiamarlo a casa.

Uno dopo l’altro i suoi amici, pur riluttanti, s’erano separati da lui per tornare alle loro famiglie, ciascuno atteso da una città che lo avrebbe salutato come un eroe. Aveva visto alla televisione quelle cerimonie di benvenuto, e s’era commosso nel sentirli tessere a lungo gli elogi di Ender Wiggin che, affermavano, aveva insegnato loro tutto ciò che sapevano e li aveva condotti alla vittoria. Ma se avevano speso qualche parola per invocare il suo ritorno sulla Terra, quei tratti erano stati censurati e nessun altro aveva potuto udirli.

Per un po’ di tempo su Eros non c’era stato altro da fare che riparare i danni causati dalla Guerra dei Due Blocchi, e ricevere i rapporti delle astronavi rimaste in grado di esplorare i numerosi pianeti che avevano attaccato.

Ma adesso su Eros c’era più attività che mai in passato, e più affollamento, perché molti coloni erano stati trasferiti lì in attesa di partire verso i silenziosi mondi degli Scorpioni. Ender diede una mano a riattrezzare gli interni di alcuni incrociatori, lavorando più di quel che gli ufficiali e i tecnici avrebbero desiderato. Nessuno di loro sembrava pensare che quel ragazzo di dodici anni poteva essere utile in un’attività pacifica quanto lo era stato in guerra; ma lui sopportava pazientemente la loro tendenza a ignorarlo, e quando aveva proposte o suggerimenti validi ne parlava coi pochi adulti disposti ad ascoltarlo, lasciando che poi le presentassero come fossero idee loro. Non si preoccupava di ottenere credito, ma solo di far bene il suo lavoro.

L’unica cosa che non poteva sopportare era la venerazione dei coloni. Imparò a evitare i tunnel dov’erano acquartierati, dopo aver fatto esperienza della confusione che destava se solo gli capitava di passare fra quella gente. Il suo volto era ormai troppo noto. Le donne e le ragazze correvano ad abbracciarlo, gli uomini volevano strigergli la mano, le madri insistevano per fargli baciare i loro bambini, non pochi dei quali erano già stati battezzati con il suo stesso nome, e poi si commuovevano nel vederlo così giovane. E non mancavano quelli che gli giuravano di non poterlo biasimare per i suoi delitti, non loro, perché lui infine era un ragazzino e non ne aveva colpa…

Ender faceva il possibile per tenersene alla larga.

Ma fra i coloni giunse qualcuno che non poté evitare.

Quel giorno non era all’interno di Eros. Era uscito con una navetta per andare all’Attracco I.S. dove stava imparando a lavorare sullo scafo esterno delle astronavi. Chamrajnagar gli aveva fatto osservare che la carpenteria meccanica non si confaceva alla dignità di un ammiraglio, ma Ender aveva replicato che non essendoci al momento eccessiva richiesta di esperti in guerre stellari gli sembrava saggio imparare un altro lavoro.

La radio del suo casco emise un ronzio e la voce di una centralinista lo informò che una persona chiedeva di vederlo nell’interno di quella stessa astronave. Ender non aveva idea di chi potesse essere, e non si affrettò particolarmente. Finì di installare l’antenna di riserva dell’ansible, poi si agganciò a uno dei cavi usati dagli operai e trecento metri più avanti, al portello della camera stagna, chiese il permesso di entrare.

Lei lo stava aspettando fuori dal deposito degli scafandri. Per un attimo lo seccò vedere che consentivano a dei coloni di disturbarlo perfino lì, sul lavoro. Poi la ragazza si volse, sentendolo arrivare, e lui ebbe un fremito.

— Valentine!

— Salve, Ender.

— Che stai facendo qui?

— Demostene ha dato le dimissioni. Adesso parto, vado alla più vicina delle colonie.

— Ci vogliono cinquant’anni per arrivare là…

— Soltanto due, se sei a bordo della nave.

— Ma se un giorno tornerai, tutti quelli che conoscevi sulla Terra saranno morti da un pezzo e…

— Proprio questo avevo in mente. Ho la speranza, tuttavia, che qualcuno di quelli che conosco su Eros venga con me.

— Io non me la sento di andare su uno dei mondi che abbiamo rubato agli Scorpioni. Ciò che voglio è tornarmene a casa.

— Ender, tu non tornerai mai più sulla Terra. Ho fatto in modo io stessa che fosse così, prima di partire.

Lui la fissò senza riuscire ad aprir bocca.

— Ho preferito dirtelo subito, così se questi sono i tuoi sentimenti potrai cominciare a odiarmi fin dall’inizio.

Poco dopo, in una delle cabine già attrezzate per i coloni, la ragazza si spiegò meglio. — Peter sta lavorando per farti richiamare sulla Terra, sotto la protezione del Consiglio dell’Egemonia — disse. — E può riuscirci. Nella situazione che si sta evolvendo, Ender, questo ti metterebbe a tutti gli effetti sotto il controllo di Peter, perché già metà dei consiglieri fanno quel che vuole lui. E quelli che non sono anima e corpo con Locke, li può intimidire o ingannare in altri modi.

— Sanno chi è Locke in realtà?

— Sì. La cosa non è ancora pubblica, ma nelle alte sfere della finanza, della F.I. e della politica lo conoscono bene. Ha troppo potere perché qualcuno stia a pensare alla sua età. Ha fatto cose incredibili, Ender.

— Ho notato che il trattato firmato un anno fa portava il nome di Locke.

— Quella è stata la sua mossa decisiva. Ha avanzato la Proposta Locke facendola avallare dai più grossi proprietari di video-giornali, e ad essa si è accodato anche Demostene. Era il momento che aveva atteso: usare l’influenza di Demostene sulle masse e quella di Locke sugli intellettuali per raggiungere un risultato di prestigio. Ed è riuscito a individuare una forma di accordo che, per motivi diversi, andava bene all’Est come all’Ovest, evitando una guerra che poteva essere terribile.

— Ha deciso di mettersi l’aureola dello statista?

— Così credo. Ma un giorno in cui era di buonumore, vale a dire in vena di fare il cinico, mi ha detto che se avesse permesso all’Egemonia di sfasciarsi avrebbe dovuto conquistare il mondo pezzo per pezzo. Finché l’Egemonia sta in piedi, invece, lo può conquistare in un solo boccone.

Ender annuì. — Questo è il Peter che conoscevo.

— Divertente, no? Peter che salva milioni di vite.

— Mentre io ne stermino miliardi.

— Non volevo alludere a questo.

— Così pensa di potermi usare?

— Lo pensava. Aveva dei piani per te, Ender. Voleva attendere il tuo arrivo per rivelare pubblicamente la sua identità, incontrandoti di fronte alle telecamere: il fratello maggiore di Ender Wiggin, che oltre a ciò è anche il grande Locke, l’architetto della pace. Accanto a te sarebbe apparso più maturo, e la somiglianza fisica fra voi è notevole, oggi. Stava già rastrellando denaro dappertutto. Col tuo stesso cognome, e col tuo appoggio, avrebbe potuto arrivare dovunque.

— Perché lo hai fermato?

— Ender, non ti piacerebbe trascorrere il resto della vita come una marionetta di Peter.

— Perché no? Fin’ora sono sempre stato la marionetta di qualcuno.

— Anch’io. Ho mostrato a Peter del materiale che avevo messo insieme, abbastanza da provare all’opinione pubblica che è un maniaco omicida. Fra le altre cose alcune sue foto mentre tortura degli scoiattoli, varie conversazioni registrate, e altre registrazioni dei tempi in cui avevi il monitor e che lo mostrano mentre ti tormenta con ferocia. Quando ci ha riflettuto sopra mi ha chiesto che prezzo chiedevo. E il prezzo che ho chiesto è stato la tua libertà, e la mia.

— Vivere in casa di qualcuno che ho assassinato non è precisamente la mia idea di libertà.

— Ender, ciò che è fatto è fatto. Adesso i loro mondi sono vuoti, e il nostro è affollato. E possiamo portare lassù cose che non ci sono mai state: gente che vive una sua vita personale, individuale, che si ama o che si odia per ragioni soltanto sue. In tutti i pianeti degli Scorpioni c’è sempre stata soltanto una persona, una vita, una storia; quando li abiteremo noi saranno pieni di vite e di storie, di animali e bambini. Ender, la Terra appartiene a Peter, e se tu non vieni via con me lui ti avrà, ti userà, ti tormenterà finché maledirai il giorno in cui sei nato. Adesso, e con me, hai l’unica possibilità di fuga.

Ender non disse nulla.

— So cosa stai pensando, Ender. Pensi che io desidero soltanto controllarti, non troppo diversamente da Peter o da Graff o altri.

— Chi ti dice che non mi stai già controllando?

— Benvenuto nella razza umana, allora — sorrise lei. — Nessuno ha il pieno controllo della sua vita. Il meglio che puoi fare è di lasciare un po’ di questo controllo a qualcuno che sia in gamba, o che ti vuol bene. Io non sono venuta qui perché sogno la vita del colono. Sono qui perché fin’ora ho vissuto con un fratello che odio. Ora voglio una possibilità di conoscere il fratello che amo, prima che sia troppo tardi, prima che la nostra infanzia sia svanita.

— È già troppo tardi per questo.

— Sbagli, Ender. Ti senti cresciuto e logoro e stanco di tutto, ma nel tuo cuore sei un ragazzino, e io sono ancor più giovane di te. Lo terremo gelosamente segreto. E quando tu governerai la colonia e io scriverò di filosofia e politica, nessuno saprà che la sera giochiamo a dama imbrogliando dispettosamente e poi facciamo le battaglie coi cuscini.

Ender rise, ma aveva notato un paio di cosette gettate lì troppo casualmente per essere casuali. — Governare?

— Io sono Demostene, Ender. Ho lasciato la terra su ali di fiamma: un pubblico annuncio in cui dichiaravo che credevo tanto nella nostra missione colonizzatrice da partire con la prima astronave. Nello stesso tempo il Ministro delle Colonie, un certo ex colonnello Graff, rivelava che il pilota di questa astronave sarebbe stato il grande Mazer Rackham, mentre la carica di governatore della colonia era stata affidata a Ender Wiggin.

— Qualcuno avrebbe potuto prendersi il disturbo di chiedermelo.

— Te lo sto chiedendo io.

— Dopo che tutto è già stato annunciato?

— A dire il vero queste registrazioni saranno trasmesse domani, se tu accetti. Mazer si è detto d’accordo qualche ora fa, su Eros.

— Rivelerai a tutti che Demostene sei tu? Una ragazza di quattordici anni?

— Si dirà soltanto che Demostene parte con i coloni. Lasciamo pure che i curiosi trascorrano i prossimi cinquant’anni a ruminare sulla lista dei passeggeri, cercando d’immaginare chi di loro è il grande demagogo che pestò i calli a Locke.

Ender rise e scosse il capo. — Sembra proprio che tutto questo ti diverta molto, Val.

— Non vedo perché non dovrebbe.

— Va bene — disse Ender. — Verrò. Forse proverò anche a fare il governatore, se tu e Mazer sarete lì a darmi una mano. Al momento la mia sola genuina dote di politicante è un’ignoranza assoluta di quello che dovrò fare.

Lei mandò un gridolino e lo abbracciò, con tutte le manifestazioni d’entusiasmo tipiche di una fanciulla a cui il suo fratellino minore ha appena fatto il regalo più bello.

— Val — disse lui, — voglio solo che una cosa sia chiara: non vengo perché me lo hai chiesto tu, né per essere governatore, né perché qui mi annoio. Vengo perché conosco gli Scorpioni meglio di chiunque altro, e forse là riuscirò a capirli meglio. Io ho rubato loro il futuro; posso riparare soltanto cercando di studiare e conservare il loro passato.

Il viaggio fu lungo. Prima che giungesse al termine, Val aveva finito il primo volume della sua storia delle guerre contro gli Scorpioni e il testo fu trasmesso alla Terra con la firma di Demostene. Ender si era guadagnato qualcosa di più che l’adulazione dei passeggeri; la gente che aveva imparato a conoscerlo gli voleva bene e lo rispettava.

Sul nuovo pianeta s’impegnò nell’organizzazione della colonia e lavorò con la stessa energia degli altri per mettere in piedi un’economia autosufficiente. Ma il compito alla lunga più importante, come tutti furono d’accordo, consisteva nell’esplorare ciò che gli Scorpioni avevano costruito: strutture e macchinari, fattorie, depositi e miniere, cercando di apprendere cose nuove e annotando tutto quel che vi era di utilizzabile per gli esseri umani. Non si trovarono libri; gli Scorpioni non avevano mai avuto materiale scritto o registrato. Con tutta la loro scienza immagazzinata nella memoria collettiva, con tutte le informazioni tecniche presenti nei ricordi da cui potevano attingere, quando quella razza era morta la sua cultura era scomparsa con lei.

Tuttavia ogni oggetto racconta la sua storia. Dalla robustezza dei tetti delle fattorie, dalle spesse mura delle stalle e dalle dimensioni delle dispense e dei depositi di foraggio, Ender seppe che lì gli inverni erano duri, con pesanti nevicate. Dai recinti armati con punte aguzze rivolte all’infuori, seppe che vi erano predatori molto insidiosi per gli animali domestici. Dai mulini seppe che il destino dei frutti oblunghi dei malridotti frutteti era di venir macinati e trasformati in tonde forme di pane verdastro. E dagli slittini che gli adulti usavano per tirarsi dietro la prole anche nei campi apprese che, sebbene gli Scorpioni non avessero una vera mente individuale, curavano teneramente i loro piccoli.

La vita si stabilizzò, e gli anni trascorsero. I coloni abitavano in case di legno, e usavano i tunnel delle città-alveare come magazzini o per impiantarvi fabbriche. A governarli c’era adesso un Consiglio di ministri che venivano eletti, cosicché Ender, benché la gente continuasse a chiamarlo «governatore», più che altro si occupava del tribunale e dell’ordine pubblico. Crimini e beghe non mancavano, anche fra coloni la cui vita si fondava sull’amicizia e sulla collaborazione; la gente si amava e si odiava, era contenta o infelice, e da questo nascevano conseguenze che facevano di quel pianeta un mondo umano. Nessuno era molto interessato alle trasmissioni che giungevano via ansible, anche se l’apparecchio era sempre in funzione per la corrispondenza in arrivo o in partenza, e i nomi saliti alla ribalta sulla Terra significavano poco per i coloni. L’unico che conoscessero era quello di Peter Wiggin, l’Egemone della Terra, e le sole notizie diramate in diretta dalla TV locale parlavano di pace, di prosperità, di grandi astronavi che lasciavano le sponde del sistema solare per ripopolare i mondi degli Scorpioni. Presto vi sarebbero state altre colonie sul Mondo di Ender, e la gente che avrebbe fondato quelle nuove cittadine qua e là sul pianeta era già a metà strada, ma nessuno se ne preoccupava. Gli emigranti sarebbero stati ben accolti e istruiti sulle caratteristiche del pianeta, però gli argomenti che importavano al colono medio erano ben altri: chi riuscirà a sposare l’ardente Juanita Cruz, da che malattia è affetto il giovane Kristopoulos, questo terreno non è adatto per le mele ma è un miracolo per le banane, e perché dovrei pagarlo quando quel maledetto vitello è morto tre settimane dopo che me l’ha dato.

— Sono diventati gente di campagna — disse Valentine un giorno. — A nessuno interessa sapere che Demostene oggi spedisce il settimo volume della sua Storia. Nessuno lo leggerà, qui.

Ender sfiorò un pulsante e il suo banco passò a mostrargli la pagina successiva. — Vai molto a fondo nei particolari, Valentine. Quanti volumi ancora pensi di scrivere?

— Uno soltanto. La storia di Ender Wiggin.

— E cosa pensi di fare? Aspetterai che io sia invecchiato e morto?

— No. Comincerò dalla tua infanzia e arrivata al momento presente concluderò.

— Io ho un’idea migliore. Metti la parola fine al giorno dell’ultima battaglia. Da allora in poi non ho fatto nulla che meriti d’esser messo per iscritto.

— Forse farò così — disse Valentine. — E forse no.

L’ansible aveva riferito che l’astronave dei nuovi coloni era ancora a un anno di viaggio da lì. Il loro rappresentante chiamò Ender all’apparecchio e gli chiese di trovare per loro un buon insediamento, abbastanza vicino da poter comunicare e commerciare senza difficoltà, ma abbastanza lontano da esser governato separatamente. Ender si fece assegnare un elicottero e ne approfittò per esplorare oltre i confini del territorio meglio conosciuto. Come aiutante prese con sé un ragazzino, un undicenne sveglio di nome Abra, che all’arrivo dell’astronave aveva soltanto tre anni e non conosceva altro mondo che quello. Ender e il suo passeggero partirono al mattino e volarono verso est fino al tramonto, poi atterrarono per trascorrere la notte in tenda, con l’idea di esplorare a piedi la zona i giorni successivi.

Fu il mattino del terzo giorno che, d’improvviso, Ender cominciò ad avere la spiacevole sensazione d’essere già stato in quel posto. Si guardò attorno: era una nuova terra, del tutto sconosciuta ai suoi occhi. Si volse a chiamare Abra.

— Ehi, Ender! — rispose il ragazzino agitando le braccia. Era sulla cima di una piccola altura cespugliosa. — Vieni a vedere!

Ender si avviò su per il pendio, sprofondando con gli stivali nel terreno molle e fangoso. Abra gli stava indicando qualcosa più in basso, dalla parte opposta. — Guarda qui. Ci avresti creduto?

La collinetta era spaccata in due. Nel mezzo c’era una profonda depressione che l’allargava in una caverna oscura, sul cui fondo stagnava l’acqua, e le pareti apparivano concave, stranamente regolari. A sud l’altura si abbassava e si separava in due costoni, che l’allargavano a V; a nord invece campeggiava un enorme blocco di roccia bianca, simile al cranio di uno scheletro sogghignante, nella cui bocca aveva messo radici un albero.

— È come se un gigante fosse caduto morto qui — disse Abra, — e la terra si fosse ammucchiata sulla sua carcassa.

Adesso Ender sapeva perché quell’immagine gli era entrata dritta nel subconscio. Il corpo del Gigante. Da bambino aveva giocato lì troppe volte per non riconoscere il posto. Ma questo era impossibile. Il computer della Scuola di Guerra non avrebbe mai potuto disporre di dati relativi a quel pianeta. Si portò il binocolo agli occhi e d’istinto scrutò verso est, già tremando all’incredibile sospetto di ciò che avrebbe potuto vedere sullo sfondo dei boschi.

E là, sulla riva di un ruscello, altalene e piccole giostre, un toboga. Il tutto arrugginito e sepolto fra le erbacce, ma non c’era possibilità di sbagliarsi sulle forme di quegli oggetti.

— Qualcuno deve aver costruito, dentro questa collinetta — disse Abra. — Guarda il teschio, e i denti… non è roccia. È cemento.

— Lo so — mormorò Ender. — Loro l’hanno costruito per me.

— Cosa?

— Conoscevo già questo posto, Abra. Gli Scorpioni l’hanno costruito per me.

— Gli Scorpioni erano tutti morti cinquant’anni prima che arrivassimo qui.

— Hai ragione, non è possibile. Ma io so quello che so. Abra, non avrei dovuto portarti con me. Potrebbe esserci un pericolo qui. Se mi conoscevano addirittura fino al punto di aver costruito questo posto, forse progettavano di…

— Di pareggiare i conti con te.

— Per averli uccisi.

— Allora vattene, Ender. Se questa è una trappola devi andartene!

— Se quel che volevano era preparare la vendetta, Abra, non me ne importa. Ma forse non era questa la loro intenzione. Forse ciò che vediamo era quel che avevano di più vicino a una forma di linguaggio… per lasciarmi scritto un messaggio.

— Ma non sapevano neppure cosa significasse leggere o scrivere.

— Forse stavano imparando, prima di morire. Meglio che tu vada via.

— All’inferno! Io non torno al campo mentre tu esplori di qua e di là. Vengo con te.

— No. Sei troppo giovane per rischiare di…

— Giovane un corno! Tu sei Ender Wiggin, perciò non dire a me cosa può fare e non può fare un ragazzo di undici anni!

Stabilirono di prendere l’elicottero, quindi tornarono sorvolando il corpo del Gigante, il parco giochi e la boscaglia, individuando la radura col pozzo. E poco più avanti c’era uno strapiombo, alla sommità del quale videro un cornicione su cui si apriva quella che era senza dubbio una porta di legno, esattamente dove avrebbe dovuto essere la Fine del Mondo. E all’orizzonte, sfumato nella foschia e tuttavia ben visibile sulla cima di un dirupo, c’era il castello. Con la torre.

Fu alla base delle mura corrose dal tempo che Ender atterrò. Scese dall’elicottero e ordinò ad Abra di mettersi ai comandi. — Qualunque cosa accada non seguirmi. Se non torno, decolla e torna a casa.

— Ah, tappati la bocca, Ender!

— Tappatela tu, pivello, o te la riempio di fango.

Malgrado il tono scherzoso di Ender, un lampo nei suoi occhi informò Abra che diceva sul serio, così si strinse nelle spalle.

In muro esterno della torre aveva pietre così sporgenti che sembravano fatte apposta per arrampicarsi. Capì che avevano voluto proprio questo.

La stanzetta in cui entrò scavalcando il davanzale della finestra era proprio come doveva essere, mobili compresi. D’istinto Ender si volse al caminetto, aspettandosi di vedere il serpente, ma c’era soltanto un tronco d’albero con un’estremità scolpita a testa di rettile. Un’imitazione simbolica, non un duplicato, e per essere delle creature che non conoscevano l’arte la cosa era fin troppo ben fatta. Dovevano aver preso quelle immagini della sua stessa mente, contattandola ed esplorandone le fantasie oniriche attraverso l’immensità degli anni-luce. Ma perché? Per suggerire al suo inconscio di venire fin lì, naturalmente. Lì dove c’era un messaggio per lui. Un messaggio… ma dov’era? E di che genere poteva mai essere? L’arcano stupore che s’era impossessato di lui continuava a dargli la pelle d’oca.

Lo specchio era fissato alle pietre della parete di fondo. Era una lastra di metallo opaco, nella quale era stata incisa rozzamente l’immagine di un volto umano. Il suo? Hanno cercato di riprodurre ciò che io vedo quando mi guardo allo specchio.

Fissò quel metallo senza capire. Ma in lui tornavano i ricordi: lo specchio scalzato dal muro, la cavità, i serpenti che ne balzavano fuori e lo attaccavano, affondando i loro denti velenosi sulla sua figura che infine cadeva al suolo uccisa e sconfitta.

Quanto dovevano conoscermi bene! si meravigliò Ender. Abbastanza bene da sapere che ho affrontato tante volte questo genere di morte da non averne più paura… abbastanza da sapere che, se anche avessi paura, questo non m’impedirebbe di staccare lo specchio dal muro.

Si avvicinò alla lastra metallica, sollevò il bordo inferiore e notò che veniva via come un coperchio. Ma niente balzò fuori ad aggredirlo. Ciò che Ender si trovò a fissare era una cavità dalle pareti lisce, sul fondo della quale riposava un ovoide di materiale bianco come la seta da cui, qua e là, pendevano stralci d’aspetto fibroso. Un uovo? No, non si trattava di un uovo: era una pupa, la larva di una regina degli Scorpioni, già fertilizzata dai maschi della sua specie e pronta a dare alla luce centinaia di migliaia di Scorpioni, compresi alcune altre regine ed altri maschi. Gli occhi di Ender stavano captando immagini che non facevano parte dei suoi ricordi, né della sua mente, né del suo mondo: le immagini dei maschi degli Scorpioni, molli e biancastri, che uscivano dall’oscurità di un tunnel. Dalla parte opposta due grosse femmine stavano introducendo la regina neonata nella sua stanza nuziale. Ognuno dei maschi si fece avanti, compì l’atto della penetrazione sulla regina larvale, tremò sconvolto da una breve estasi, cadde al suolo e morì, disseccandosi e accartocciandosi rapidamente. Poi la nuova regina fu deposta dinnanzi a un’anziana e magnifica creatura avvolta in due morbide ali scintillanti, un essere che aveva da molto tempo perso la capacità di volare ma era ancora aureolato di un maestoso potere. La vecchia regina si chinò a baciare la nuova, addormentandola con una droga lievemente venefica che le uscì dalle labbra cornee, quindi l’avvolse con i bianchi filamenti prodotti dal suo addome e nel farlo le comandò di diventare quel che lei era stata: una nuova creatrice, una nuova città, un nuovo mondo, una fonte da cui sarebbero emerse altre regine per popolare altre città e altri mondi…

Come posso sapere tutto questo si chiese Ender. Come posso vedere cose che non sono mai state nella mia memoria?

Quasi in risposta a quella domanda nuove immagini lo sommersero, e riconobbe quelle della prima battaglia contro una flotta degli Scorpioni. Le stesse che aveva osservato sul simulatore, ma capovolte, perché ora le vedeva come le aveva viste la regina di quell’alveare, attraverso moltissimi occhi diversi. Vide gli Scorpioni assumere la loro formazione globulare, sentì la loro sorpresa quando i terribili incrociatori terrestri sbucarono come lampi imprevedibili dalle tenebre; quindi vi furono i bagliori azzurri del distruttore molecolare che faceva esplodere in polvere le navi dell’alveare.

Ender provò le sensazioni che la regina aveva provato e trasmesso ad altre, mentre attraverso gli occhi delle sue operaie/combattenti vedeva piombare sulla flotta una morte troppo rapida perché fosse possibile evitarla. Non erano state sensazioni di paura o di dolore, tuttavia. Ciò che quella regina aveva sentito era stata una grande tristezza, una cupa rassegnazione all’ineluttabile. Non aveva pensato quelle parole, mentre vedeva l’attacco dei terrestri decisi ad uccidere, ma fu in parole che Ender poté tradurre la sua riflessione: Loro non ci hanno perdonato, aveva pensato quella regina. Di certo noi moriremo, adesso.

— E come puoi riavere la vita? — chiese Ender.

La regina racchiusa nel suo bozzolo di seta non aveva parole da offrirgli, ma quando lui fissò accigliato quell’oggetto, di nuovo da esso parvero scaturire delle immagini mentali: l’atto di deporre il bozzolo in un luogo fresco, un luogo oscuro, dove scorresse acqua per dargli umidità… no, non semplice acqua, bensì acqua mista alla linfa di un certo albero, e tenerlo tiepido cosicché alcune reazioni potessero avvenire nel suo interno. Poi attendere. Giorni e settimane, per dare alla pupa il tempo di completare la metamorfosi. E poi, allorché il bozzolo avrebbe assunto un polveroso colore marroncino… Ender vide se stesso nell’atto di aprirlo, e di aiutare la piccola e fragile regina ad emergerne. Vide se stesso sorreggerla per gli arti anteriori e aiutarla a camminare dal bozzolo squarciato a un nido fatto di sabbia e foglie secche. Allora sarò viva, fu il pensiero/sensazione che lui captò. Allora sarò sveglia. Allora partorirò i miei diecimila figli.

— No! — disse Ender. — Non posso farlo.

Angoscia.

— I tuoi figli, oggi, sono i mostri dei nostri incubi. Se io ti portassi alla luce, sarebbe soltanto per destinarti al massacro.

Dentro di lui lampeggiarono dozzine di immagini di esseri umani che venivano uccisi dagli Scorpioni, ma insieme ad esse scaturì un flusso di dolore così intenso che Ender non poté sopportarlo. Sentì le lacrime scorrergli sul volto, calde e veloci.

— Sì… se puoi far provare agli altri quel che fai provare a me, forse sapranno perdonare e dimenticare. Forse.

Soltanto io, rifletté. Mi hanno trovato attraverso l’ansible, seguendolo e scivolando nella mia mente. Penetrando in quei miei sogni tormentosi sono arrivati a conoscermi, proprio quando trascorrevo le giornate combattendoli e distruggendoli hanno scoperto le mie paure, e soprattutto hanno scoperto che non ero consapevole di sterminarli veramente. In quelle poche settimane che restavano loro da vivere hanno costruito questo posto per me, e il corpo del Gigante, e il precipizio alla Fine del Mondo, in modo che i miei occhi mi conducessero fin qui. Io sono il solo che essi conoscano, e così riescono a parlare soltanto a me e attraverso di me.

Noi siamo come te.

Noi siamo come te, fu il pensiero che prese forma nella sua mente. Non volevamo uccidere. E quando abbiamo capito, non siamo più tornati al vostro mondo. Noi credevamo d’essere le uniche creature intelligenti dell’universo, finché non abbiamo incontrato voi. Ma non avremmo mai supposto che il pensiero cosciente potesse nascere in animali solitari che non condividevano i loro sogni. Come avremmo potuto saperlo? Noi avremmo potuto vivere in pace con voi. Credimi. Credimi. Credimi.

Allungò le mani nella cavità e sollevò il bozzolo. Era sorprendentemente fragile, per un oggetto che conteneva tutto il futuro e tutte le speranze di una razza di esseri senzienti.

— Ti porterò con me — disse Ender, — di pianeta in pianeta, finché troverò un luogo dove tu possa svegliarti in sicurezza. E racconterò la vostra storia alla mia gente, cosicché per quel giorno possano avervi perdonato. Così come voi avete perdonato me.

Avvolse il bozzolo della regina nella blusa e tornò alla finestra, poi si calò fino alla base della torre.

— Che c’era là dentro? — chiese Abra.

— La risposta — disse Ender.

— A cosa?

— Alla domanda che mi hai fatto. — E questo fu tutto ciò che gli uscì di bocca sull’argomento. Continuarono l’esplorazione per altri cinque giorni, e infine scelsero una località molto a meridione del castello.

Qualche settimana dopo domandò a Valentine di leggere un saggio che aveva scritto. Lei batté il codice di quella registrazione, se la fece mandare su uno schermo dal computer dell’astronave, e lesse.

Era stato scritto come se la narratrice fosse l’ultima regina degli Scorpioni, che esponeva ciò che la sua razza aveva desiderato fare e ciò che aveva fatto. Parlava dei loro successi e dei loro fallimenti, e fra questi ultimi annoverava l’incontro con gli esseri umani. «Non volevamo farvi del male. Non consapevolmente» diceva, «e vi perdoniamo per averci uccisi».

Dagli albori della loro civiltà alla guerra che aveva spazzato via il loro pianeta natale, Ender ne riassumeva la storia come fosse un racconto tramandato oralmente dall’antichità. Quando arrivò a parlare della Grande Madre, l’unica regina riconosciuta nella sua epoca, colei che per prima aveva stabilito di allevare e istruire le giovani regine invece di ucciderle per non avere rivali, rallentò il ritmo della narrazione e disse di quante volte ella era stata costretta a distruggere quei frutti del suo corpo, le piccole regine che d’istinto le si rivoltavano contro, finché non ne partorì una che capiva il significato profondo dell’armonia e della collaborazione.

Questa era stata una novità rivoluzionaria per il loro mondo: due regine che si amavano e si aiutavano l’un l’altra invece di battersi furiosamente. Sotto di loro gli alveari si moltiplicarono, divennero forti e civili; prosperarono ed ebbero figlie capaci di vivere in pace. Quello era stato l’inizio di un regno destinato ad evolversi su molti pianeti.

«Ah, se soltanto avessimo saputo comunicare con voi!» sospirava l’immaginaria regina della storia di Ender. «Ma poiché ciò non accadde, vi chiediamo solo questo: che ci ricordiate, noi regine e operaie che vi combattemmo, non come nemiche ma come sventurate e tragiche sorelle, a cui Dio o il Fato o l’Evoluzione aveva dato una forma ahimè diversa dalla vostra. Se fossimo riusciti a stringerci la mano, ci saremmo apparsi l’un l’altro come creature uguali. E invece ci siamo uccisi a vicenda. Ma nonostante ciò i nostri spiriti vi danno il benvenuto, oggi, come ospiti onorati. Venite sui nostri mondi, amici della Terra; abitate i nostri tunnel, ridate la vita ai nostri campi, e ciò che non è più fatto dalle nostre mani siano le vostre a farlo in pace. Germogliate per loro, alberi e fiori. Sole, scalda questi nostri fratelli. E tu, buona terra, sii fertile per loro. Purché la vita continui, questa è l’eredità che gli lasciamo, e sia per sempre la loro casa.»

Il libro che Ender aveva scritto non era lungo, comunque conteneva tutti i fatti buoni o malvagi che erano a conoscenza della regina non ancora nata. E non lo firmò col suo nome, bensì con un titolo che aveva voluto darsi:

L’ARALDO DEI DEFUNTI

Sulla Terra il libro fu pubblicato senza molto scalpore, ma ne furono distribuite tante copie che già pochi mesi dopo era difficile credere che qualcuno non ne conoscesse il contenuto. Molti lo trovarono interessante; una ristretta minoranza prese alcuni dei suoi aspetti fin troppo sul serio. Questi diedero inizio a un culto basato sulla fratellanza universale e sul principio che, quando uno di essi moriva, aveva il diritto di avere accanto a sé un altro confratello, l’Araldo dei Defunti, il quale narrava la vita e le opere dello scomparso con le parole che lui stesso avrebbe usato, ma con spietata verità e senza celare i difetti né sottolineare le virtù. Quelli che si dedicarono a simili servizi funebri destarono spesso sconcerto e disagio fra i parenti del defunto, ma vi fu anche chi ritenne che la sua vita dovesse servire d’insegnamento a qualcun altro, anche per gli errori in essa contenuti, e s’impegnò a lasciarla scritta affinché alla sua conclusione vi fosse un Araldo che dicesse la verità come per la sua stessa bocca.

Sulla Terra essa rimase una religione fra le tante. Ma per quelli che avevano attraversato lo spazio per abitare nei tunnel delle regine degli alveari, e per coltivare i campi un tempo appartenuti agli alveari, spesso questa fu la sola religione. E non ci fu colonia che non avesse il suo Araldo dei Defunti.

Nessuno seppe, e nessuno in realtà volle sapere, chi fosse stato il primo degli Araldi. Ender preferì non dirlo.

All’età di venticinque anni Valentine finì l’ultimo volume della sua storia delle guerre contro gli Scorpioni. Ad esso accluse il testo completo del piccolo libro di Ender, senza però rivelare il nome dell’autore.

Fu allora che l’anziano Egemone della Terra, Peter Wiggin, ormai settantasettenne e sofferente di gravi disturbi cardiaci, si mise in contatto con lei, via ansible.

— Io so chi l’ha scritto — le disse il fratello. — Ebbene, se lui può dar voce alle parole degli Scorpioni, sicuramente potrà farlo anche per me.

Ender parlò così con lui a mezzo ansible, e Peter gli raccontò la storia della sua vita senza omettere nessuno dei suoi crimini né le azioni che avevano portato vantaggi a qualcun altro. E quando Peter morì, Ender scrisse un secondo volume ancora a firma dell’Araldo dei Defunti. I due libri, insieme, vennero chiamati La Regina dell’Alveare e l’Egemone, e furono considerati scritti sacri.

— Coraggio, Val — disse un giorno a sua sorella. — Voliamo via, e andiamo a vivere per sempre.

— Non ci è concesso — rispose Valentine. — Ci sono miracoli che neppure la velocità relativistica può fare, Ender.

— Dobbiamo andarcene. Sento che qui potrei perfino trovare la felicità.

— Allora rimani.

— Ho vissuto troppo a lungo col mio dolore. Non voglio sapere che persona sarei senza di esso.

Così si imbarcarono su un’astronave e viaggiarono di pianeta in pianeta. Dovunque si fermarono lui fu soltanto Andrew Wiggin, Araldo itinerante dei defunti, e lei fu soltanto una storica di nome Valentine, che metteva per iscritto le opere dei vivi mentre lui dava voce alle storie dei defunti. E in ognuno di quei luoghi Ender portò sempre con sé il prezioso bozzolo di seta bianca, in cerca del mondo in cui la regina dell’alveare avrebbe potuto risvegliarsi e crescere, e vivere in pace.

La sua fu una lunga ricerca.

FINE