La favolosa età del Medio Evo si interseca ai viaggi intergalattici in un complesso misterioso e avvincente. Dalle profondità del cosmo, durante l’era delle Crociate, discende, presso una cittadino della Gran Bretagna, una potente astronave, i cui occupanti, esseri mostruosi, sono vinti da un gruppo di Crociati in attesa di partire per liberare il Santo Sepolcro. Essi si impadroniscono del vascello spaziale, e congetturano di usarlo per recarsi in Terra Santa. Per il tradimento di uno dei mostri superstiti che avrebbe dovuto pilotare l’astronave, i Terrestri si trovano proiettati nello spazio e devono conquistare il pianeta di origine dei Galattici. Avventura del tutto nuova che interesserà per lo spirito di abnegazione e per il coraggio di coloro che intensamente la vivono.

Nominato per premio Hugo in 1961.

Poul Anderson

Crociata Spaziale

PROLOGO

Quando il Capitano sollevò la testa, la lampada da tavolo schermata trasformò il suo viso in un paesaggio lunare ricco di abissi tenebrosi e di pozze di luce. Un portello aperto dava sulla notte estiva di un pianeta alieno.

«Allora?», chiese il Capitano.

«L’ho tradotto, Signore,» rispose il sociotecnico. «Sono stato però costretto ad estrapolare il linguaggio partendo dalle lingue moderne ed andando indietro, ed è per questo che ci ho messo tanto tempo. Nel corso del lavoro, però, ho imparato abbastanza e adesso sono in grado di parlare con questi… esseri.

«Bene,» fece il Capitano. «Ora forse riusciremo a scoprire che cosa c’è sotto tutta questa faccenda. Per la Galassia! Mi sarei aspettato qualsiasi cosa in un luogo come questo, ma una situazione così…!»

«So benissimo quello che provate, Signore. Anch’io, nonostante tutte le prove tangibili che avevo sotto gli occhi, ho faticato a credere al resoconto originale».

«Molto bene. Lo leggerò immediatamente. Non c’è un momento di pace».

Il Capitano congedò quindi il sociotecnico con un cenno del capo, e questi uscì dalla cabina.

Per un momento il Capitano rimase immobile, fissando il documento ma in realtà senza vederlo affatto. Il libro originale era antichissimo, in modo impressionante, pagine e pagine di pergamena coperte da una scrittura onciale, racchiuse da una massiccia copertina. La traduzione che stava davanti a lui, incece, era un semplice dattiloscritto e basta. Eppure aveva quesi paura a girarne le pagine, paura di ciò che avrebbe potuto trovarvi nascosto. Più di un millennio prima si era verificata una grandiosa catastrofe le cui conseguenze echeggiavano ancora nell’aria.

Il Capitano si sentì molto piccolo e solo. La sua casa era tanto lontana.

Eppure…

Cominciò a leggere.

CAPITOLO I

Avendomi l’Arcivescovo William, coltissimo e venerando prelato, comandato di trascrivere in lingua inglese quei grandiosi eventi di cui fui umile testimone, mi accingo a prendere la penna nel nome del Signore e del mio Santo Patrono, e confido nel loro aiuto perché sostengano le mie scarse capacità narrative per il bene delle future generazioni, le quali potranno con profitto studiare il resoconto della campagna di Sir Roger de Tourneville al fine di imparare a prestare fervida reverenza al grande Dio creatore e motore di tutte le cose.

Io scriverò avvenimenti, esattamente quali li ricordo, senza paura né parzialità; in questo confronto anche dal fatto che la maggior parte di coloro che vi furono coinvolti ormai sono morti. Io stesso fui una pedina di scarsa significanza ma, poiché è bene che il relatore sia conosciuto acciocché gli uomini possano meglio giudicare la sua aderenza ai fatti, permettetemi prima di accennare a me stesso con poche parole.

Nacqui circa quarant’anni prima dell’inizio della mia storia, quale figlio minore di Wat Brown, fabbroferraio del piccolo paese di Ansby, che si trovava nella parte nordorientale del Lincolnshire. Queste terre erano date in feudo al Barone di Tourneville, il cui antico castello si ergeva su una collina appena sopra il paese. C’era anche una piccola Abbazia dell’Ordine Francescano in cui entrai quando ero ragazzo.

Qui, avendo io acquisito una certa abilità (l’unica mia abilità, temo) nell’arte del leggere e dello scrivere, venni spesso incaricato di istruire in quest’arte i figli dei laici. Il nome della mia fanciullezza lo volsi in latino e, quale lezione d’umanità, ne feci il mio nome di religioso, per cui ora mi appello Fratello Parvus. Infatti sono basso di statura e non favorito dalla bellezza, anche se sono tanto fortunato da riscuotere la fiducia dei bambini.

Nell’Anno di Grazia 1345, Sir Roger, allora Barone, stava raccogliendo un esercizio per unirsi al nostro possente Re Edoardo III ed a suo figlio nella Guerra di Francia. Ansby era il luogo del raduno e, entro il primo giorno di maggio, l’esercito vi era tutto raccolto.

Gli uomini si accamparono sui terreni di proprietà comune, ma trasformarono il nostro pacifico paesello in un luogo di risse. Arcieri, balestieri, fanti armati di picca e cavalieri, invasero le strade fangose dove presero a bere, giocare, fornicare, scherzare e litigare, mettendo in grande periglio le loro anime e le nostre capsule dai tetti di stoppie. E, invero, perdemmo due case per colpa del fuoco.

Nello stesso tempo, però questi individui portarono un insolito ardore, un tale senso di grandezza che gli stessi servi pensarono, pieni di brama, di partire con l’esercito se solo fosse stato loro concesso.

Perfino io cominciai a nutrire tale desiderio, e ciò avrebbe anche potuto avverarsi in quanto avevo fatto da tutore al figlio di Sir Roger, al quale avevo anche riordinato i conti. Il Barone mi propose di diventare suo amanuense, ma il mio Abate espresse dei dubbi.

Perciò, così stavano le cose quando arrivò la nave wersgoriana.

Ben rimembro quel giorno. Ero uscito per una commissione e, dopo la pioggia, era spuntato il sole; nelle strade si affondava nel fango fino alle caviglie. Mi avviai tra la folla di soldati che si aggirava senza scopo, salutando con un cenno di capo coloro che conoscevo quando, improvvisamente, si levò un gran grido. Anch’io come gli altri, sollevai la testa.

E lassù… un miracolo! Giù dal cielo, ingrandendo mostruosamente man mano che scendeva, ecco arrivare una nave tutta di metallo. Così abbagliante era il riflesso del sole sui suoi fianchi lucidi che non riuscii a distinguere chiaramente la forma. Mi dette l’idea di un immenso cilindro lungo almeno duemila piedi e, tranne che per il sibilo del vento, non si udiva alcun rumore mentre si avvicinava.

Qualcuno gridò. Una donna si inginocchiò in una pozzanghera e cominciò a pregare. Un uomo gridò che i suoi peccati l’avevano alfine raggiunto e si unì a lei. Ma, per quanto queste azioni fossero degne di lode, mi resi conto che in tanta affluenza di gente, molti sarebbero stati calpestati a morte se fosse scoppiato il panico. E questo non era certo l’intendimento di Dio, se era stato Lui a inviare quel visitatore.

Senza sapere neanch’io bene quel che facevo, balzai su una grande bombardato di ferro il cui carrello era sprofondato fino agli assi nel fango della strada.

«Fermi tutti!», gridai a gran voce. «Non abbiate paura! Abbiate fede e non muovetevi da qui!»

I miei deboli richiami si dispersero nel vento. Poi Red John Hameward, il Capitano degli Arcieri, balzò sulla bombarda accanto a me: era un gigante allegro coi capelli di rame e gli occhi di uno scintillante azzurro, che mi era sempre stato amico fin dal primo giorno del suo arrivo ad Ansby.

«Io non so che cos’è quella cosa lassù», ululò col suo vocione. Le sue parole rotolarono come un tuono sopra il vociare della folla che si quietò. «Forse è un trucco dei Francesi. O forse è qualcosa di amichevole e, in questo caso, le nostre paure sarebbero ancora più infondate. Seguitemi, soldati: andiamogli tutti quanti incontro, là dove toccherà terra!»

«È una Magia!», gridò un vecchio. «Questa è Stregoneria, e per noi non c’è scampo!»

«No,» lo confortai. «La Stregoneria non può nuocere ai buoni cristiani».

«Ma io sono un misero peccatore!», piagnucolò l’uomo.

«Per San Giorgio e Re Edoardo!»

Red John saltò giù dalla bombarda e guadagnò di corsa la strada. Io raccolsi la tonaca e mi lanciai dietro di lui, ansante, cercando di ricordare le formule dell’esorcismo.

Guardandomi alle spalle, rimasi sopreso nel vedere che la maggior parte della folla ci seguiva. Forse non era tanto rincuorata dall’esempio all’arciere, quanto timorosa di rimanere indietro priva del capo. Ma li seguimmo nel loro accampamento per afferrare le armi e poi di nuovo sui terreni comuni. Vidi che i cavalieri erano saliti in groppa ai loro destrieri ed ora scendevano con rumore di tuono dal fianco della collina sulla quale si ergeva il castello.

In testa a tutti cavalcava Sir Roger de Tourneville, privo di armatura ma con la spada al fianco, che mulinava attorno a sé, con grandi grida, la propria lancia. A poco a poco lui e Red John riuscirono a riordinare la marea disordinata degli uomini in una parvenza di assetto da combattimento. Ci erano appena riusciti, che la grande nave atterrò.

Atterrò sulla terra da pascolo: il suo peso era colossale, e non sapevo cosa poteva averla trasportata con tanta leggerezza nell’aria. Vidi che la sua struttura era tutta chiusa, un guscio liscio senza ponte di poppa né castello di prua. Invero non mi ero aspettato di vedere remi, ma una parte di me si chiese con maraviglia (mentre il cuore mi batteva all’impazzata) come mai non ci fossero vele. Vidi invece alcune torrette d’osservazione da cui spuntavano delle bocche metalliche simili a quelle delle bombarde.

A quel punto cadde un silenzio di tomba. Sir Roger spinse il suo cavallo vicino a me che stringevo i denti per non vacillare.

«Tu sei un clerico istruito, Fratello Parvus,» mi disse con voce tranquilla, anche se le sue narici erano bianche ed aveva i capelli scuri madidi di sudore. «Che cosa dici di questo portento?»

«Invero non saprei, Sire,» balbettai. «Le antiche leggende narrano di Maghi che, come Merlino, potevano volare nell’aria».

«Potrebbe essere qualcosa di… divino?»

Così dicendo Sir Roger si fece il Segno della Croce.

«Questo non sta a me dirlo». Sollevai lo sguardo incerto al cielo. «Ma non vedo legioni di angeli».

Poi dalla nave provenne un rumore metallico soffocato che si perse in un gemito di paura da parte nostra quando cominciò ad aprirsi una porta circolare. Ma nessuno si mosse dal suo posto, perché eravamo Inglesi, o forse semplicemente perché avevamo troppa paura per scappare.

Lanciai un’occhiata e vidi che la porta era doppia e dava in una camera all’interno. Quindi una rampa metallica scivolò fuori come una lingua, tre metri più in basso, finché non toccò terra. Io sollevai in alto il crocifisso mentre dalle mie labbra si sgranavano Avemaria come chicchi di grandine.

Fu allora che uno dell’equipaggio si fece avanti. Oh, Gran Dio, come posso descrivere l’orrore di quella prima vista? Certo, gridò convulsa la mia mente, quello doveva essere un Demone sbucato dalle viscere dell’Inferno.

Era alto cinque piedi, possente e massiccio di struttura, avvolto in una tunica argentea e risplendente. La sua pelle era priva di peli e di colore azzurro scuro. Aveva una coda corta e spessa, e le sue orecchie erano lunghe e appuntite su entrambi i lati della testa rotonda; occhi stretti color ambra sprizzavano lampi da un viso dal naso tozzo; ma la sua fronte era alta e spaziosa.

Qualcuno cominciò ad urlare.

Red John brandì il suo arco.

«Zitti laggiù», ruggì. «Affè mia, ucciderò il primo che si muove!»

Non era quello il momento di imprecare, pensai. Sollevando la croce ancora più in alto, costrinsi le mie gambe molli a portarmi qualche passo avanti, mentre con voce incerta intonavo qualche canto d’esorcismo. Ma ero certo che non sarebbe servito, perché la fine del mondo incombeva sopra di noi.

Se il Demone si fosse limitato a rimanere lì fermo, presto noi avremmo spezzato i ranghi e saremmo fuggiti via, ma lui sollevò, invece, un tubo che stringeva in mano. E da esso scoccò una fiammata bianca e accecante. La sentii crepitare nell’aria e vidi che veniva colpito un uomo accanto a me. Su di lui divampò un fuoco e quindi cadde morto, col petto squarciato e carbonizzato.

Tre altri Demoni emersero dalla nave.

Quando succedevano cose simili, i soldati erano addestrati a reagire, non a pensare. Così, l’arco di Red John vibrò, ed il primo dei Demoni precipitò giù dalla rampa attraversato da una freccia lunga un braccio. Lo vidi sputar sangue e morire. Come se quel primo colpo avesse dato il via a centinaia d’altri, l’aria divenne improvvisamente grigia per le frecce che l’attraversavano sibilando. Anche gli altri tre Demoni caddero, così irti di frecce da sembrare porcospini in una mostra.

«I Demoni possono essere uccisi!», ululò Sir Roger. «Hurrà per San Giorgio o per la felice Inghilterra!»

Diede quindi di sprone al cavallo per lanciarlo su per la rampa.

Dicono che la paura generi un coraggio innaturale. Con un urlo collettivo, l’intero esercito si gettò dietro di lui. Anch’io, debbo confessarlo, gridai e corsi dentro la nave.

Di quel combattimento che infuriò attraverso stanze e corridoi, ho poca memoria. Qualcuno, da qualche parte, mi diede un’ascia. In me ho una confusa impressione di aver vibrato colpi omicidiali contro quegli osceni visi azzurri che mi avventavano ringhiando contro, di essere scivolato sul loro sangue e di essermi rialzato per tornare a colpire.

Sir Roger non aveva modo di dirigere la battaglia. I suoi uomini si scatenarono semplicemente senza alcun freno. Sapendo ora che quei Demoni potevano essere uccisi, il loro unico pensiero era di ucciderli e farla finita.

L’equipaggio della nave era composto da un centinaio di membri, ma pochi portavano armi. Più tardi, nelle stive, trovammo congegni di ogni genere, ma era evidente che gli invasori avevano contato sulla sorpresa per diffondere il panico. Non conoscendo gli Inglesi, non si erano aspettati la nostra opposizione. In quanto all’artiglieria della nave, essa era pronta all’uso ma, una volta che noi eravamo penetrati all’interno, era priva di utilità.

In meno di un’ora li avevamo stanati tutti.

Poi uscii da quel carnaio e piansi di gioia quando sentii nuovamente su di me il benedetto tepore del sole. Sir Roger stava valutando le nostre perdite con i suoi Capitani, perdite che ammontavano complessivamente ad una quindicina di uomini.

Intanto, mentre là fuori ero ancora scosso da tremiti per la stanchezza e la tensione, emerse dalla nave Red John Hameward con un Demone appoggiato su una spalla.

L’arciere buttò l’essere ai piedi di Sir Roger.

«Questo l’ho abbattutto col mio pugno, Sire,» disse ansando. «Ho pensato che forse voi voleste averne in mano almeno uno vivo per sottoporlo a interrogatorio. O non devo correre rischi e gli taglio subito quella brutta testaccia?»

Sir Roger rifletté intensamente. La calma era discesa su di lui; infatti, nessuno di noi aveva ancora afferrato l’enormità dell’avvenimento. Un sorriso truce gli spuntò sulle labbra e rispose in un Inglese scorrevole quanto il Francese aulico che impiegava di solito.

«Se questi sono Demoni,» disse, «si tratta di una ben misera genìa, perché sono stati uccisi con la stessa facilità con cui si uccidono gli uomini. Anzi, ancora più facilmente, invero. Questi dell’arte guerriera sapevano ancora meno della mia figlioletta Less, che più di una volta ha dato poderosi strattoni al mio naso. Io direi che delle robuste catene basteranno per tenere al sicuro codesto essere, non credi, Fratello Parvus?»

«Sì Milord,» risposi «anche se sarà meglio porgli vicino alcune reliquie di santi e la Sacra Ostia».

«Bene, allora portalo all’Abbazia e vedi cosa puoi venire a sapere da lui. Ti farò accompagnare da una guardia. Poi, stasera, vieni a cena da me».

«Sire,» lo rimproverai, «sarebbe opportuno celebrare una Messa Solenne di ringraziamento prima di pensare ad altro».

«Sì, sì, certo!», ribatté lui con impazienza. «Parlane pure col tuo Abate, e fate quanto reputate meglio. Ma verrei poi a cena da me a raccontarmi tutto quello che avrai appreso».

I suoi occhi divennero pensierosi mentre fissava la nave.

CAPITOLO II

Andai da lui come mi era stato ordinato e con l’approvazione del mio Abate, il quale pensava che — in questo caso — il Braccio Spirituale e quello Secolare dovessero essere tutt’uno. Il paese risultò essere stranamente tranquillo mentre mi incamminavo per le strade illuminate dagli ultimi bagliori del tramonto. La gente era in chiesa o stava rintanata tra le mura domestiche. Dal campo dei soldati sentivo provenire i suoni di un’altra Messa. La nave appariva enorme come una montagna sopra le nostre minuscole dimore.

Ma noi ci sentivamo rincuorati e, credo, un po’ esaltati dal nostro successo sopra quegli esseri potenti, certo non di questa terra. Sembrava inevitabile concludere, sia pure presuntuosamente, che Dio doveva averci concesso la sua approvazione.

Attraversai il cortile interno dove la guardia era stata triplicata, ed entrai direttamente nel grande salone. Ansby Castle era una vecchia fortezza normanna: desolata all’aspetto e fredda per abitarci. Il salone era già in penombra, illuminato solo da candele e da un gran fuoco guizzante che a tratti strappava dall’ombra immagini di armi e tappezzerie. I Nobili e gli esponenti più importanti del paese e dell’esercito erano già seduti a tavola dove, tra un fitto intrecciarsi di conversazioni, i servi correvano con le portate mentre i cani si disputavano gli avanzi. Era una scena familiare e confortevole però, sotto di essa, si avvertiva una grande tensione. Sir Roger mi fece cenno di andare a sedere accanto a lui ed alla signora, un segno questo di grande onore.

Permettete ora che vi descriva Roger de Tourneville, Cavaliere e Barone. Era costui un uomo sulla trentina, imponente, dai muscoli robusti, con occhi grigi e lineamenti aguzzi. Portava i capelli biondi alla solita moda dei nobili guerrieri, folti sulla parte superiore della testa e rasati al di sotto, che rovinavano in un certo senso il suo aspetto peraltro non sgradevole, perché aveva le orecchie sporgenti quanto i manici di una brocca.

Questo distretto, dove lui era nato, era povero e arretrato, ragion per cui lui aveva passato la maggior parte della sua vita altrove, in guerra. Tutto questo spiegava la sua mancanza di finezza cortigiana, anche se a modo suo era intelligente e gentile.

Sua moglie, Lady Catherine, era una figlia del Visconte di Mornay; la maggior parte della gente pensava che Lady Catherine si fosse sposata al di sotto della sua condizione sociale e del suo stile di vita, in quanto era stata allevata a Winchester tra ogni eleganza e le più moderne raffinatezze. Era una donna molto bella, con grandi occhi azzurri e capelli d’ebano, ma aveva anche un po’ della virago. Avevano solo due figli: Robert, un bel bambino di sei anni, che era il mio allievo, ed una bambina di tre anni di nome Matilda.

«Bene, Fratello Parvus», tuonò il mio Signore col suo vocione. «Siediti e bevi un boccale di vino… affè mia, questa occasione richiede ben altro che della semplice birra!»

Il delicato naso di Lady Catherine si arricciò leggermente; nella sua vecchia dimora paterna, la birra era destinata agli ospiti di Sangue non Nobile. Quando mi fui assiso, Sir Roger si chinò verso di me e chiese ansioso:

«Allora che cosa hai scoperto? È davvero un Demone quello che abbiamo catturato?»

Il silenzio cadde sulla grande tavolata. Perfino i cani si azzittirono. Potevo sentire il fuoco che crepitava nel caminetto e gli antichi stendardi che frusciavano impolverati appesi alle travi sopra di noi.

«Credo di sì, Milord,» risposi facendo grande attenzione alle parole. «Infatti si è molto infuriato quando lo abbiamo spruzzato con l’Acqua Santa».

«Però non è svanito in una nuvola di fumo, vero? Ah! Se questi sono Demoni, non sono per nulla simili a quelli di cui ho sempre sentito parlare. Questi sono mortali come gli uomini».

«E ancora di più, Sire,» dichiarò uno dei suoi Capitani, «perché costoro sono privi di anima».

«Non m’interessa la loro spregevole anima,» sbuffò Sir Roger. «Io voglio sapere della loro nave. L’ho percorsa in tutti i sensi durante la battaglia. Che balena di nave! Potremmo farci salire su tutta Ansby e ci sarebbe ancora spazio. Ma hai chiesto a quel Demone come mai loro, che erano solo un centinaio, avevano bisogno di tanto spazio?»

«Il Demone non parla alcuna lingua nota, Milord,» risposi.

«Schiocchezze! Tutti i Demoni conoscono almeno il latino. Quello è solo ostinato».

«Forse una piccola seduta col vostro boia potrebbe servire?», interloquì il Cavaliere Sir Owain di Montbelle, con un sorriso scaltro.

«No,» risposi, «a mio parere, sarebbe meglio di no. Questo Demone sembra molto rapido nell’apprendere: è già in grado di ripetere molte parole con me, per cui non credo che finga solo la sua ignoranza. Datemi alcuni giorni e forse sarò in grado di parlare con lui».

«Alcuni giorni potrebbero essere troppi!», brontolò Sir Roger, gettando l’osso di manzo che aveva spolpato ai cani e leccandosi quindi rumorosamente le dita.

Lady Catherine corrugò la fronte e gli indicò la ciotola dell’acqua ed un tovagliolo accanto a lui.

«Mi spiace, mio dolce amore.» mormorò lui. «Non riesco mai a ricordarmi di queste nuove usanze».

Sir Owan lo trasse dall’imbarazzo chiedendogli:

«Perché pensate che qualche giorno sia troppo tempo? Certo non vi aspetterete che arrivi un’altra nave?»

«No. Ma gli uomini diventeranno più irrequieti che mai. Eravamo già pronti per partire, e poi è successo questo

«E allora? Non possiamo comunque partire alla data prefissata!»

«No, testa di legno!» Il pugno di Sir Roger si abbatté fragorosamente sul tavolo rovesciando un bicchiere. «Non capite che occasione ci si presenta? Devono essere stati i Santi stessi a concedercela!»

Mentre noi sedevamo come folgorati, Sir Roger continuò:

«Noi possiamo imbarcarci tutti su quella cosa. Cavalli, vacche, maiali, pollame… così non saremo angustiati dai problemi dei rifornimenti. E ci saranno anche le donne, così avremo tutti i conforti delle nostre case! Già, e perché non anche i nostri figli? Lasciamo perdere i raccolti dei campi che potranno rimanere trascurati per qualche tempo: inoltre sarà anche più sicuro rimanere tutti insieme, onde evitare che chi rimane possa essere soggetto ad altre visite.

«Io non so di quali altri poteri disponga questa nave oltre a quello di saper volare, ma il suo solo aspetto basterà ad incutere un tale terrore che non avremo quasi bisogno di combattere. Sarai perciò con essa che attraverseremo la Manica e porremmo fine alla Guerra di Francia nel giro di un mese, capisci? Poi procederemo oltre ed andremo a liberare la Terrasanta, quindi torneremo qui in tempo per il taglio del fieno!»

Il lungo silenzio fu rotto bruscamente da un tale uragano di applausi che le mie deboli proteste ne furono soffocate. Per me l’intero progetto era folle. E, come me, mi parve che la pensassero Lady Catherine e qualcun altro. Ma il resto dei convitati rideva e gridava da far risuonare tutto il salone.

Sir Roger rivolse il suo viso congestionato verso di me.

«Tutto dipende da te, Fratello Parvus,» mi disse, «tu sei il migliore di tutti noi nelle questioni di lingua. Quindi devi costringere quel Demone a parlare od insegnargli a farlo, qualunque sia il caso. E lui ci mostrerà come far salpare quella nave!»

«Mio Nobile Signore…», lo interruppi con voce incerta.

«Bene!» Sir Roger mi batté una tale manata sulla spalla, che quasi soffocai e caddi giù dal mio scranno. «Sapevo che saresti stato in grado di farlo. Come ricompensa, avrai il privilegio di venire con noi!»

Invero sembrava che l’intero paese e l’esercito fossero ugualmente posseduti dal Demonio. Certo, la scelta più saggia sarebbe stata quella di inviare un veloce messaggero al Vescovo, o forse addirittura a Roma stessa, per chiedere consiglio. Ma no: loro volevano partire tutti insieme, subito! Le mogli non volevano lasciare i mariti, né i genitori i figli, o le ragazze i loro innamorati. Il più infimo dei servi ardiva a sollevare gli occhi da terra e sognava di liberare la Terrasanta e, intanto che c’era, guadagnarsi una cassa d’oro per strada.

Ma che altro ci si poteva aspettare da un popolo la cui razza era un misto di Sassoni, Danesi e Normanni?

Ritornai all’Abbazia e passai la notte in ginocchio a pregare per avere un segno che mi illuminasse. Ma i Santi non vollero pronunciarsi. Dopo le preghiere mattutine mi recai con cuore pesante dall’Abate e gli riferii quanto aveva ordinato il Barone. L’Abate si incollerì perché non gli veniva concesso di comunicare immediatamente con le autorità ecclesiastiche, ma decise che per il momento era meglio obbedire. Io fui liberato da altre incombenze acciocché potessi studiare il modo migliore per riuscire a conversare col Demone.

Così mi accinsi all’impresa e scesi nella cella dove era confinato. Situata per metà sottoterra, era una stanza stretta, che veniva usata per le penitenze. Fratello Thomas, il nostro fabbro, aveva incassato dei ceppi nel muro e vi aveva incatenato quell’essere. Ora questi era sdraiato su un giaciglio di paglia: uno spettacolo spaventoso in quella penombra.

Gli anelli della catena stridettero quando il mostro si alzò vedendomi entrare. Accanto a lui, ma fuori dalla sua portata, c’erano le nostre reliquie nelle loro custodie: il femore di Sant’Osberto e il sedicesimo molare di San Guidubaldo che dovevano impedirgli di liberarsi dei ceppi e fuggire nell’Inferno.

Anche se devo ammettere che non ne sarei rimasto tanto spiaciuto se l’avesse fatto.

Mi feci il segno della croce e mi sedetti accanto a lui. I suoi occhi gialli sprizzavano lampi. Avevo portato con me carta, inchiostro e penne per mettere alla prova il mio, sia pur limitato, talento nel disegno. Schizzai la figura di un uomo e dissi: «Homo,» perché mi sembrava più saggio insegnargli il latino che qualsiasi altra lingua limitata ad una sola nazione. Poi disegnai un altro uomo e gli feci vedere che i due ora venivano chiamati homines. Continuai così, e lui fu lesto ad apprendere.

Poco dopo mi fece cenno di porgergli la carta, ed ancora gliela porsi. Quindi disegnò la propria figura con grande abilità. Mi disse che il suo nome era Branithar e che la sua razza si chiamva Wersgorix. Non mi riuscì di trovare questi termini in alcun trattato di demonologia ma, da quel momento, lasciai che fosse lui a guidare i nostri studi, perché la sua razza aveva fatto dell’apprendimento delle nuove lingue una scienza. Da allora il nostro lavoro procedette speditamente.

Lavorai per lunghe ore con lui e, nei giorni che seguirono, vidi poco del mondo esterno. Sir Roger continuò a mantenere interrotte le comunicazioni con i suoi vicini. Penso che il suo maggior timore fosse quello di vedere che qualche Conte o Duca veniva a portagli via la nave per appropriarsene. Il Barone trascorse parecchio tempo a bordo coi suoi uomini più audaci, cercando di comprendere tutte le meraviglie che incontrava.

In breve tempo Branithar fu in grado di lamentarsi della dieta a base di pane ed acqua, e di minacciare vendetta di tutti i generi. Io avevo ancora paura di lui, ma gli opposi una gran risolutezza. Naturalmente la nostra conversazione era molto più lenta di come riportata qui, con molte pause mentre cercavamo di trovare le parole giuste.

«Tutto questo ve lo siete cercati,» gli dissi. «Avreste dovuto sapere bene che non era il caso di scatenare un attacco senza alcun motivo contro dei Cristiani».

«Chi sono i Cristiani?», mi chiese.

Perplesso, pensai che dovesse fingere la sua ignoranza e, per prova, gli feci recitare con me il Paternoster. Ma lui non svanì in una nuvola di fumo, e questo fatto mi turbò.

«Credo di capire,» mi disse, «tu ti riferisci a qualche primitivo pantheon tribale».

«Oh, no, non è una cosa così pagana!», esclamai indignato.

Allora cominciai a spiegargli la Trinità, ma ero appena arrivato alla transustanziazione, che mi fece un gesto di impazienza con la sua mano azzurra. Per il resto era una mano del tutto umana, solo che aveva delle unghie spesse e aguzze.

«Non importa,» disse. «I Cristiani sono tutti feroci come la tua gente?»

«Oh, avreste certamente avuto miglior fortuna coi Francesi.» ammisi. «La vostra sfortuna è stata di capitare tra gli Inglesi.»

«Una razza ostinata!», convenne. «Ma vi costerà caro. Però, se mi liberate immediatamente, vedrò di mitigare la vendetta che sta per ricadere su di voi.»

La lingua mi si incollò al palato, ma riuscii a staccarla ed a chiedergli abbastanza freddamente di spiegarsi meglio. Da dove veniva e quali erano le sue intenzioni?

Gli ci volle un po’ di tempo per chiarire il suo pensiero perché i concetti erano diversi. Io naturalmente pensai che mentisse, ma almeno, così facendo, lui imparò ancora dell’altro Latino.

Fu dopo due settimane dal giorno dell’arrivo della nave, che Sir Owain di Montbelle comparve nell’Abbazia e chiese un colloquio con me. Ci incontrammo nel giardino del chiostro e, trovata una panchina, ci sedemmo.

Questo Owain era il figlio minore, grazie al secondo matrimonio con una donna gallese, di un piccolo Barone delle Marche. Suppongo che l’antico conflitto di due diverse discendenze divampasse stranamente nel suo petto; ma era presente anche il fascino dei Gallesi. Diventato paggio e poi scudiero di un Cavaliere della Corte Reale, il giovane Owain aveva conquistato il cuore del suo Signore ed era stato allevato con tutti i privilegi che competevano a ranghi molto più elevati del suo. Aveva viaggiato molto all’estero, era diventato un trovatore di una certa rinomanza, gli era stato conferito il titolo di Cavaliere… e poi, improvvisamente, ecco che si era tovato senza un penny in tasca.

Così nella speranza di guadagnarsi una fortuna, era giunto fino ad Ansby per unirsi all’esercito. Per quanto, però, fosse valoroso, era troppo tenebrosamente bello per il gusto della maggior parte degli uomini i quali dicevano che nessun marito si sentiva sicuro quando lui era d’attorno. Questo non era del tutto vero, però, perché Sir Roger aveva preso in simpatia il giovane, ammirava il suo giudizio come la sua istruzione, ed era ben felice che Lady Catherine avesse qualcuno con cui parlare delle cose che più la interessavano.

«Mi manda il mio Signore, Fratello Parvus», cominciò Sir Owain. «Egli desidera sapere quanto tempo ancora ti occorre per domare il mostro che tieni qui».

«Oh… ormai parla abbastanza scioltamente,» gli risposi, «ma si attiene con tanta fermezza a delle falsità così evidenti ed assolute che non mi è ancora parso opportuno riferire quanto ho appreso».

«Sir Roger sta diventando molto impaziente, ed ormai è quasi impossibile tener fermi gli uomini. Gli stanno divorando il patrimonio, e non passa notte senza che ci sia una rissa o un omicidio. Dobbiamo partire in fretta, o rinunciare del tutto».

«Allora vi prego di non partire,» risposi. «Almeno non su quella nave sbucata dall’Inferno».

Potevo vederne la guglia vertiginosa, ed il suo muso circondato dalle nubi più basse, che si ergeva al di là delle mura dell’Abbazia. E mi terrorizzava.

«Allora,» incalzò Sir Owain, «cosa ti ha detto il mostro?»

«Ha avuto l’impudenza di sostenere di non venire dalle viscere della terra, ma dall’alto. Addirittura dal cielo!»

«È… un angelo?»

«No. Afferma di non essere né un angelo né un demonio, ma solo un essere appartenente a un’altra razza, mortale come quella umana».

Sir Owain si accarezzò il mento ben rasato, con una mano.

«Potrebbe anche darsi,» disse pensoso, «in fondo, se esistono gli unipedi, i centauri, ed altri esseri mostruosi, perché non dovrebbero esistere anche questi goffi musi azzurri?»

«Lo so. Sarebbe una teoria ragionevole, se non fosse che lui sostiene di abitare in cielo».

«Dimmi che cosa ti ha riferito di preciso».

«Come volete, Sir Owain, ma ricordate che le empietà che vi riferirò non sono mie. Questo Branithar sostiene che la Terra non è piatta, bensì una sfera sospesa nello spazio. E poi va anche oltre, ed afferma addirittura che la Terra si muove attorno al Sole! Alcuni degli antichi eruditi sostenevano concetti similari, ma io non riesco proprio a capire che cosa impedirebbe agli oceani di riversarsi nello spazio o…»

«Ti prego, continua con la narrazione, Fratello Parvus».

«Bene: Branithar sostiene che le stelle sono altri soli non diversi dal nostro, solo molto più lontani, e che attorno ad essi ruotano dei mondi come farebbe il nostro attorno al Sole. Neanche i Greci avrebbero digerito simili assurdità. Per quali cafoni ignoranti ci prende questo essere? Ma, sia come sia, Branithar sostiene che il suo popolo, i Wersgorix, proviene da uno di questi altri mondi, un mondo che sarebbe molto simile alla nostra Terra. E vanta i loro poteri di Stregoneria…»

«Bè, questa non è una menzogna,» osservò Sir Owain. «Abbiamo voluto provare anche noi alcune delle loro armi a mano. E abbiamo bruciato tre case, un maiale ed un servo prima di imparare a controllarle.»

Deglutii, ma continuai:

«Questi Wersgorix hanno navi che possono volare tra le stelle ed hanno conquistato molti mondi. Il loro metodo consiste nel soggiogare o distruggere le eventuali popolazioni native arretrate che vi trovano. Poi colonizzano tutto il nuovo mondo, ed ogni Wersgor si prende centinaia di migliaia di accri. Il loro numero cresce fin troppo rapidamente e, poiché non amano stare in luoghi troppo affollati, sono costretti a cercare in continuazione nuovi mondi.

«Questa nave che noi abbiamo catturato era un vascello esploratore alla ricerca di un altro mondo da conquistare. Dopo aver osservato la nostra Terra dall’alto, il Comandante aveva deciso che era adatto ai loro scopi ed era disceso. Il loro piano era il solito, e finora non aveva mai fallito. Ci avrebbero terrorizzati, avrebbero utilizzato il nostro paese come base, e da qui si sarebbero allargati per raccogliere esemplari di piante, animali e minerali. Ecco perché la loro nave è tanto grande ed hanno tanto spazio vuoto. In verità si tratta di una autentica Arca di Noè. Poi sarebbero tornati a casa e, dopo aver comunicato le loro scoperte, sarebbe partita una flotta per attaccare tutta l’umanità».

«Uhm,» fece Sir Owain. «Se non altro questo l’abbiamo impedito».

Entrambi ci sentivamo scusati per quanto avevamo fatto, nell’orribile visione della nostra povera gente tormentata da quegli esseri, distrutta o resa schiava, anche se nessuno di noi in realtà credesse a quella narrazione. Io ero convinto che Branithar provenisse da qualche remota parte del mondo, forse oltre il Cathay, e che ci raccontasse quelle menzogne solo nella speranza di spaventarci e di indurci a liberarlo.

Sir Owain convenne con la mia teoria.

«Ciononostante,» aggiunse il Cavaliere, «ora dobbiamo assolutamente imparare ad usare la loro nave, nel caso che malauguratamente dovessero arrivarne altre. E quale sarebbe il modo migliore di farlo se non portandola in Francia ed a Gerusalemme? Come ha detto il mio Signore, in questo caso sarebbe prudente, oltre che utile, portare con noi donne, bambini, agricoltori e popolani. Hai chiesto al mostro come si possono lanciare gli Incantesimi che fanno funzionare la nave?»

«Sì», risposi, sia pure con riluttanza. «Dice che il timone è molto semplice».

«E l’hai avvertito di cosa gli succederà se non ci guiderà fedelmente?»

«Gliel’ho spiegato chiaramente. Dice che obbedirà».

«Bene! In questo caso potremo partire fra uno o due giorni!» Sir Owain si rilassò contro lo schienale della panchina, con gli occhi semichiusi, come se stesse sognando. «Poi, una volta finito tutto, dovremo pensare ad avvertire la sua gente della sua cattura. Col suo riscatto penso che si potrebbe comperare molto vino e divertire molte belle donne».

CAPITOLO III

Così partimmo.

Più strano ancora della nave e del suo arrivo, fu l’imbarco. Quella strana cosa si ergeva nei campi come una montagna d’acciaio forgiata da un Mago per qualche orribile scopo. Dall’altra parte dei campi, era adagiata la piccola Ansby, con le sue case di paglia e le strade coperte di solchi, i campi verdeggianti sotto il pallido sole d’Inghilterra. Perfino il castello, che prima dominava imponente la scena, ora appariva meschino e grigio.

Ma, sulle rampe che avevano calato da diverse altezze, per entrare in quel pilastro lucente, si accalcava la nostra gente, rossa in viso, sudata, e vociante per l’allegria.

Qui John Hameward ruggiva col suo arco infilato in un braccio ed una ridacchiante sgualdrinella di taverna appesa dall’altro. Là un piccolo proprietario terriero armato di un’ascia arrugginita che forse era stata usata ad Hastings, e rivestito di una ruvida cotta di panno rammendato, precedeva una moglie brontolona carica di coperte e pignatte, con una mezza dozzina di bambini aggrappati alle gonne. Qui un arciere cercava di spingere un mulo recalcitrante su per la rampa con delle imprecazioni che gli facevano guadagnare anni e anni di Purgatorio. Là un ragazzo inseguiva un maiale che era sfuggito alle sue cure. Qui un Cavaliere dalle ricche vestimenta scherzava con una bella donna che portava al polso un falcone incappucciato. Là un prete sgranava il Rosario mentre si avventura dubbioso in quelle fauci metalliche. Qui una vacca mugghiava, là una pecora belava, qui una capra agitava le corna, là chiocciava una gallina. Nel complesso, salirono a bordo duemila anime.

La nave le ospitò tutte agevolmente. Ogni uomo importante poté avere una cabina tutta per sé e per la moglie… Infatti molti avevano portato mogli, amanti, o entrambe, per fare della partenza per la Francia un’occasione ancora più mondana. I plebei collocarono i loro giacigli nelle stive vuote. La povera Ansby rimase così quasi deserta, e spesso mi chiedo se esista ancora.

Sir Roger aveva costretto Branithar a guidare la nave in qualche volo di prova ed essa si era innalzata agile e silenziosa mentre il Demone azionava ruote, leve e manopole nella torretta di comando. La guida era veramente un gioco infantile, sebbene noi non riuscissimo assolutamente a capire certi dischi coperti di iscrizioni pagane su cui oscillavano degli aghi.

Per mio tramite, Branithar disse a Sir Roger che la nave ricavava la sua forza motrice dalla distruzione della materia, un’idea orrenda in verità, e che i suoi motori la sollevavano in aria e la proiettavano in avanti annullando l’attrazione terrestre nella direzione prescelta. Questo era assurdo… Aristotele infatti ha spiegato chiaramente che le cose cadono a terra perché è nella loro natura di cadere, ed io non sono disposto a credere alle idee illogiche alle quali soccombono così facilmente le teste vuote.

Nonostante le riserve espresse, l’Abate si aggregò a Padre Simon nella benedizione della nave. La battezzammo Crusader, cioè «Crociato».

Sebbene avessimo ben due cappellani a bordo, avevamo anche preso a prestito un ricciolo dei capelli di San Benedetto e, tutti coloro che si erano imbarcati si erano confessati ed avevano ricevuto l’assoluzione. Così pensavano di essere al riparo dai pericoli dell’anima, anche se io avevo i miei dubbi.

A me fu assegnata una piccola cabina di fianco all’appartamentino in cui alloggiava Sir Roger con la moglie ed i figli. Branithar era custodito, sotto sorveglianza, in una stanza vicina. Il mio compito era di fare da interprete e di continuare ad istruire il prigioniero nella lingua latina, di proseguire l’istruzione del giovane Robert e di fare da amanuense per il mio Signore.

Alla partenza, comunque, la torretta di controllo fu occupata da Sir Roger, Sir Owain, Branithar e me. La torretta era priva di finestre, come tutta la nave del resto, ma c’erano schermi di vetro su cui apparivano immagini della terra sotto di noi e del cielo circostante. Io avevo i brividi e recitai il Rosario, perché non si addice ad un cristiano di guardare nei globi di cristallo degli Stregoni sconosciuti.

«E adesso,» esclamò Sir Roger, raggiante in volto e ridendo di me, «si parte! Arriveremo in Francia in meno di un’ora!»

Il mio Signore si sedette davanti al pannello coperto di leve e di ruote.

Branithar mi disse rapidamente:

«I voli di prova sono durati solo qualche miglio. Avverti il tuo padrone che, per un viaggio di questa lunghezza, occorre fare certi preparativi speciali».

Sir Roger fece un cenno d’assenso quando gli trasmisi l’avvertimento.

«Molto bene, lasciamo fare a lui, allora.» La sua spada scivolò fuori dalla guaina. «Ma io sorvegliò la rotta dagli schermi. Al primo segno di tradimento…»

Sir Owain aggrottò le sopracciglia, torvo in volto.

«Vi pare saggio, Milord?», chiese. «Il mostro…»

«È nostro prigioniero. Voi siete troppo schiavo delle superstizioni celtiche. Owain, lasciatelo fare.»

Branithar si sedette. L’arredo della nave era scomodo per noi umani. Sedie, tavoli, letti ed armadietti, erano troppo piccoli per noi, e neanche troppo belli, privi com’erano di ornamenti. Non c’era neanche un drago intagliato. Ma ne avremmo fatto a meno. Osservai attentamente il prigioniero mentre le sue mani azzurre correvano sul pannello.

Un profondo ronzio fece fremere tutta la nave. Io non provai nessuna sensazione ma, improvvisamente, la Terra che si vedeva sugli schermi inferiori prese a rimpicciolirsi. Questa era una Stregoneria: avrei preferito che la spinta all’indietro che si prova quando viene avviato un veicolo non venisse annullata.

Lottando col mio stomaco per tenerlo al suo posto, fissai la volta del cielo riflessa dallo schermo. In breve ci trovammo tra le nubi che si dimostrarono una specie di nebbiolina sospesa a grande altezza. Un’altra dimostrazione della meravigliosa potenza di Dio, perché è risaputo che gli angeli spesso si siedono sulle nubi e non si bagnano affatto.

«E adesso, rotta a sud,» ordinò Sir Roger.

Branithar grugnì, regolò un quadrante, ed abbassò di scatto una leva. Sentii un clic metallico, simile a quello di una serratura che scatta. La sbarra rimase abbassata.

Un lampo infernale di trionfo brillò negli occhi di Branithar che scattò in piedi e ringhiò rivolto a me:

«Consummati estes!» Il suo Latino era decisamente pessimo. «Siete finiti! Vi ho appena condannati a morte!»

«Che cosa?», gridai.

Sir Roger, che aveva più o meno compreso il senso della frase, imprecò e si lanciò contro il Wersgor, ma la vista di quanto appariva sullo schermo lo bloccò di colpo. La spada gli cadde al suolo con un rumore di ferraglia ed il viso gli si inondò di sudore.

E invero lo spettacolo era terribile. La Terra rimpiccioliva sotto di noi come se precipitasse in un grande pozzo. Attorno a noi il cielo azzurro diventava di un colore sempre più cupo e le stelle spuntavano sempre più numerose e sempre più luminose. Ma non era ancora il tramonto, perché su uno schermo risplendeva ancora il Sole più brillante che mai!

Sir Owain gridò qualcosa in gallese.

Io caddi in ginocchio.

Branithar si lanciò verso la porta. Sir Roger si girò di scatto e l’afferrò per la veste. I due rotolarono sul pavimento avvinti in una lotta furibonda.

Sir Owain era rimasto paralizzato dal terrore, mentre io non riuscivo a staccare gli occhi dall’orribile bellezza dello spettacolo attorno a noi. La Terra si era rimpicciolita ancora a tal punto che adesso riempiva un solo schermo. Ed era azzurra, avvolta come da una fascia nella parte centrale, coperta di macchie scure e rotonda.

Rotonda!

Nel ronzio leggero che si udiva nell’aria, si inserì una nuova nota, più profonda. Nuovi aghi sul pannello di controllo si animarono con un tremolio. Improvvisamente prendemmo a muoverci con velocità sempre crescente, con una rapidità impossibile. Un gruppo di motori, basati su princìpi a noi totalmente sconosciuti, avevano sciolto i ceppi che li frenavano.

Vidi la Luna ingrandirsi di fronte a noi e, mentre ancora la guardavamo, eccola passarci così vicina da poterne vedere le montagne e la superficie bucherellata e macchiata d’ombre. Ma tutto questo era inconcepibile! Tutti sapevano che la Luna era un cerchio perfetto. Singhiozzando, cercai di rompere quello schermo falso e bugiardo, ma non ci riuscii.

Sir Roger ebbe finalmente il sopravvento su Branithar e lo lasciò semisvenuto sul pavimento. Poi il Cavaliere si rizzò in piedi, respirando pesantemente.

«Dove siamo?», chiese ansimando. «Cos’è successo?»

«Stiamo salendo», mugolai. «Stiamo salendo e ci allontaniamo sempre più.»

Mi infilai quindi le dita nelle orecchie per non venire assordato quando ci fossimo schiantati contro la prima delle sfere cristalline che sorreggono i pianeti.

Dopo un po’, visto che nulla succedeva, aprii gli occhi e guardai di nuovo. Adesso, sia la Terra sia la Luna si allontanavano insieme ed assomigliavano ad una doppia stella di colore azzurro e oro. Le stelle vere, invece, brillavano immobili sullo sfondo di tenebre senza fine. A me parve che stessimo ancora guadagnando velocità.

Sir Roger interruppe le mie preghiere con una imprecazione.

«Prima dobbiamo sistemare questo traditore!» E, così dicendo, vibrò un calcio nelle costole di Branithar. Il Wersgor si rizzò a sedere e gli restituì un gelido sguardo di sfida.

Io cercai di riacquistare la calma e gli chiesi in Latino:

«Cos’hai fatto? Sai che, se non ci porterai subito indietro, morirai tra atroci torture?»

Il mostro si alzò in piedi, incrociò le braccia e ci guardò con sprezzante orgoglio.

«Voi barbari credevate di essere all’altezza di una mente civilizzata?», sbottò per tutta risposta. «Fate ciò che volete di me. La vendetta sarà ampiamente sufficiente quando arriverete alla fine del viaggio».

«Ma tu cos’hai fatto?»

La sua bocca ammaccata si contorse in un sorriso.

«Ho messo la nave sotto il controllo del pilota automatico. Adesso si dirige da sola. Ogni manovra è automatizzata: la partenza dall’atmosfera, il trapasso alla quasi-velocità iper luce, la compensazione degli effetti ottici, ed altri fattori ambientali».

«Allora spegni subito i motori!»

«Impossibile. Adesso che la leva di bloccaggio è inserita, nessuno può farlo. Neanch’io. E quella leva rimarrà abbassata fin quando arriveremo a Tharixan, il più vicino mondo colonizzato dai miei simili!»

Provai a toccare i comandi con cautela. Non si spostarono. Quando lo dissi ai due Cavalieri, Sir Owain gemette ad alta voce.

Ma Sir Roger ribatté truce:

«Adesso scopriremo se è la verità o no. Se non altro, l’interrogatorio costituirà una punizione per il suo tradimento.»

Per mio tramite, Branithar rispose beffardo:

«Sfogate pure il vostro disprezzo, se volete farlo: io non vi temo. Ma vi ripeto che, anche se riuscirete a piegare la mia volontà, sarà tutto inutile. L’orientamento del timone non può più essere modificato, né la nave fermata. Quella leva di bloccaggio è stata studiata apposta per essere usata nel caso che una nave dovesse essere inviata da qualche parte senza nessuno a bordo». Dopo un istante, aggiunse però con onestà: «Sappiate, però, che non vi porto rancore. Voi siete degli sconsiderati temerari, ma quasi mi dispiace che noi abbiamo bisogno del vostro mondo per noi. Se mi risparmiate, vi prometto che intercederò per voi quando arriveremo su Tharixan. Se non altro, vi potrà essere risparmiata la vita.»

Sir Roger si strofinò pensieroso il mento e sentii crepitare la sua barba anche se si era sbarbato solo il giovedì prima.

«Mi sembra di capire che sarà possibile governare nuovamente la nave quando raggiungeremo questa destinazione,» disse. Io ero rimasto stupefatto vedendo con quanta freddezza aveva accolto la notizia dopo il primo shock. «Non potremmo allora invertire la rotta e tornarcene a casa?»

«Io non vi guiderò mai!», rispose Branithar a quella proposta. «E voi, da soli, non sareste mai in grado di ritrovare la strada perché non siete capaci di leggere i nostri libri di navigazione. Noi saremo lontanissimi dal vostro mondo, a una distanza addirittura superiore a quella che la luce può coprire in un migliaio dei vostri anni.»

«Potresti avere la decenza di non insultare la nostra intelligenza.» mi inalberai. «So benissimo anch’io quanto te che la luce ha una velocità infinita.»

Branithar si strinse nelle spalle.

Un bagliore illuminò l’occhio di Sir Roger.

«Quando arriveremo?», chiese.

«Fra dieci giorni», ci informò Branithar. «Non sono le distanze tra le stelle, per quanto grandi siano, che ci hanno resi così lenti nel raggiungere il vostro mondo. Il fatto è che noi ci stiamo espandendo da tre secoli, e il numero dei soli è semplicemente colossale.»

«Uhm! Quando arriveremo, avremo a nostra disposizione questa bella nave con le sue bombarde e le sue armi a mano. I Wesrsgorix forse rimpiangeranno la nostra visita!»

Io tradussi quanto aveva detto per Branithar e questi rispose:

«Io vi consiglio caldamente di arrendervi subito. È vero che questi nostri raggi di fuoco possono uccidere un uomo o ridurre una città in cenere, ma scoprirete che non vi serviranno a niente perché noi disponiamo di schermi di energia pura in grado di bloccare qualsiasi raggio del genere. La nave invece non è protetta in questo modo perché i generatori necessari per alzare uno schermo di forza sono troppo mastodontici per esservi contenuti. Perciò i cannoni delle fortezze spareranno in alto e vi distruggeranno.»

Quando Sir Roger udì la risposta, si limitò ad osservare: «Bé, abbiamo sempre dieci giorni per pensarci sopra. Per ora manteniamo segreta tutta la faccenda. Nessuno può guardare fuori dalla nave, tranne che da qui. Vedrò di escogitare qualche fola che non allarmi troppo la gente».

Detto questo uscì dalla torretta e la cappa gli svolazzò attorno come un paio di grandi ali.

CAPITOLO IV

Io ero quello che meno contava nel gruppo, ed avvennero molte cose nelle quali non ebbi parte. Tuttavia cercherò di riferirle con la maggior completezza possibile e mi servirò delle congetture laddove dovrò sopperire ai vuoti delle mie conoscenze. I cappellani udivano parecchie cose in confessione e, pur senza violare il segreto, erano sempre pronti a correggere le false impressioni.

Credo perciò che Sir Roger abbia preso Catherine, sua moglie in disparte e le abbia raccontato come stavano realmente le cose. Se aveva sperato che lei accettasse la situazione con calma e coraggio, ne fu deluso, perché la donna ebbe un attacco di furore.

«Malaugurato il giorno che vi sposai!», gridò, pestando il piedino sul ponte d’acciaio, mentre il suo bel viso diventava prima rosso e poi bianco. «È già abbastanza odioso che la vostra ottusità mi abbia svergognato di fronte al Re ed alla Corte per condannarmi ad una vita di noia in quella tana d’orso che chiamate castello; adesso mettete addirittura in pericolo la mia vita e quella dei miei figli, per non parlare poi delle nostre anime!»

«Ma cara,» balbettò lui, «io non potevo immaginare…»

«Oh, no, eravate troppo stupido infatti! Non era sufficiente che doveste partire per la Francia dove sollazzarvi con saccheggi e sgualdrine di dubbia virtù, ma dovevate proprio farlo con questa bara volante! La vostra presunzione vi ha detto che il Demone aveva così tanta paura di voi da essere il vostro schiavo obbediente. Oh, Maria, abbi pietà di noi donne!»

Dopodiché Catherine si voltò singhiozzando e scappò via.

Sir Roger la guardò svanire in fondo al lungo corridoio. Poi, col cuore pensante, si apprestò ad andare a trovare i suoi soldati.

Li trovò nella stiva di poppa che stavano preparandosi la cena. L’aria rimaneva sempre pura nonostante tutti i fuochi che accendevamo; Branithar mi aveva detto che la nave aveva incorporato un sistema per rinnovare gli spiriti vitali dell’atmosfera. Io trovavo personalmente alquanto snervante avere le pareti sempre luminose e non poter distinguere il giorno dalla notte, ma i soldati si limitavano a sedersi in circolo, tracannando orci di birra, menando vanterie, giocando a dadi ed ammazzando pulci, una ciurma scatenata e senza Dio che però accolse il loro Signore con vero affetto.

Sir Roger fece cenno a Red John Hameward che gli si stava avvicinando con passo pesante, di raggiungerlo in una saletta laterale.

«Mio Sire,» osservò l’omaccione, «mi pare che questo viaggio per la Francia stia diventando lungo assai.»

«I piani sono stati, uhm, modificati,» gli rispose Sir Roger scegliendo con cura le parole. «Sembra che nella terra d’origine di questa nave ci sia un enorme bottino. Con esso noi potremo equipaggiare un esercito così grande da conquistare non solo numerose terre, ma anche da tenerle e colonizzarle per noi».

Red John ruttò e si grattò sotto il farsetto.

«Sempre che non ci imbattiamo in un avversario troppo forte per noi, Sire.»

«Non credo proprio. Ma devi preparare gli uomini per il cambiamento di piani e calmare le loro paure se ci sono.»

«Non sarà facile, Sire.»

«Perché no? Ti ho già detto che il bottino sarà buono.»

«Bè, mio Signore, se volete tutta la vierità, le cose stanno in cotal guisa. Vedete, anche se abbiamo portato con noi la maggior parte delle donne di Ansby, e molte di loro sono nubili e, uhm, ben disposte… anche così, rimane il fatto, Milord, voi mi capite, che gli uomini sono il doppio delle donne. Ora, le donne di Francia sono belle e probabilmente anche le saracene andrebbero bene in un momento di difficoltà, a parte il fatto che si dice, che siano molto vezzose, ma, a giudicare da quei musi azzurri che abbiamo sconfitto, bè, le loro femmine non devono essere poi troppo avvenenti.»

«E come fate a sapere che non tengano prigioniere delle belle Principesse che bramano di vedere un onesto volto inglese?»

«Questo è anche vero, Milord. Potrebbe anche essere così.»

«Allora provvedi a che gli arcieri siano pronti a combattere quando arriveremo.»

Sir Roger batté una mano sulla spalla del gigante e andò a ripetere le stesse cose agli altri Capitani. Più tardi, mi riferì la questione delle donne ed io rimasi inorridito.

«Dio sia lodato per aver fatto i Wersgorix così poco attraenti, se sono di un’altra specie!», esclamai. «Grande è la sua Previdenza!»

«Per quanto siano brutti,» mi chiese il Barone, «sei sicuro che non siano umani?».

«Sa Iddio quanto vorrei saperlo, Milord», risposi dopo averci pensato su. «Non assomigliano a nulla di quanto esiste sulla Terra. Eppure camminano su due gambe, hanno le mani, e sono dotati della parola e della ragione.»

«Questo conta poco.» decise Sir Roger.

«Oh, ma importa grandemente, invece!», esclamai. «Perché, vedete, se loro hanno un’anima, allora è nostro sacro dovere convertirli alla Fede. Ma, se non ce l’hanno, sarebbe blasfemo dare loro i Sacramenti.»

«Lascerò a te decidere se l’hanno o no.» ribatté il Barone con indifferenza.

Mi affrettai quindi a tornare nella cabina di Branithar, che era sorvegliato da un paio di uomini armati di lancia.

«Cosa vuoi?», mi chiese quando mi sedetti.

«Tu hai un’anima?», indagai.

«Una cosa?»

Gli spiegai cosa volesse dire la parola spiritus. Ma rimase ancora perplesso.

«Voi credete veramente che nella vostra testa viva una miniatura di voi stessi?», ribatté.

«Oh, no! L’anima non è materiale. L’anima è ciò che dà la vita: bè, non proprio esattamente in quanto anche gli animali sono vivi, ma la volontà, la coscienza…»

«Ho capito. Il cervello.»

«No, no, no! L’anima è ciò che sopravvive anche dopo che il corpo è morto ed affronta il giudizio per quanto il corpo ha fatto durante la vita».

«Ah. Voi allora credete che la personalità sopravviva dopo la morte. Un problema interessante! Se la personalità è uno schema piuttosto che un oggetto materiale, come sembra ragionevole, allora è teoricamente possibile che questo schema possa essere trasferito in qualcos’altro: lo stesso sistema o insieme di relazioni, insomma, ma in un’altra matrice fisica.»

«Smettila di parlare a vanvera!», scattai in un impeto di impazienza. «Sei peggio di un albigese. Allora, rispondimi in parole semplici: avete o non avete un’anima, voi?»

«I nostri scienziati hanno indagato sui problemi connessi ad un concetto schematico della personalità ma, per quanto ne sappia, mancano ancora dei dati decisivi su cui basare una conclusione.»

«Ed ecco che ci risiamo!», sospirai. «Non sai darmi una risposta semplice? Rispondimi semplicemente: l’anima, l’avete o no?»

«Non so.»

«Non mi sei affatto di aiuto.» lo rimproverai, e me ne andai.

Io e i miei colleghi dibattemmo a fondo il problema ma, a parte l’ovvia conclusione che si poteva imporre il battesimo provvisorio a qualsiasi essere non umano disposto a riceverlo, non trovammo alcuna soluzione. Era una faccenda che solo Roma poteva risolvere, magari con un Concilio Ecumenico.

Mentre avveniva tutto questo, Lady Catherine aveva ricacciato indietro le proprie lacrime ed aveva imboccato altezzosamente un corridoio cercando di calmare il proprio tumulto interiore con un po’ di moto. Nel lungo salone dove pranzavano i Capitani, trovò Sir Owain che stava accordando la propria arpa.

Questi scattò in piedi e s’inchinò.

«Milady! Che sorpresa piacevole… direi abbagliante».

Lady Chaterine si sedette su una panca.

«Dove ci troviamo adesso?», gli chiese improvvisamente scuotata da ogni energia.

Intuendo che la donna sapeva la verità, Sir Owain rispose:

«Non so. Il sole si è rimpicciolito ormai a tal punto che si è perso in mezzo a tutte queste stelle.» Un sorriso gli spuntò lentamente sul viso scuro. «Ma in questa sala c’è già un sole risplendente.»

Catherine sentì il rossore montarle su per le gote, poi abbassò lo sguardo sulle proprie scarpe. Le sue labbra si mossero, senza che lei lo volesse.

«Questo è il viaggio più solitario che gli uomini abbiano mai intrapreso!», osservò Sir Owain. «Se Milady lo permette, cercherò di farvi trascorrere un’ora con una ballata dedicata al vostro fascino.»

La donna rifiutò una sola volta. Poi la voce di lui si levò alta fino a riempire tutta la sala.

CAPITOLO V

C’è poco da dire sul viaggio. La noia in breve diventò più pericolosa dei pericoli che ci attendevano. I Cavalieri si scambiavano parole feroci e John Hameward dovette far sbattere l’una contro l’altra più di una coppia di teste per mantenere l’ordine tra i suoi arcieri. I servi la presero meglio; quando non dovevano occuparsi del bestiame o non mangiavano, si limitavano a dormire.

Notai che Lady Catherine era spesso in conversazione con Sir Owain, e che suo marito non era più tanto felice del fatto. Tuttavia, Sir Roger era sempre preso a fare piani e preparativi, e il giovane Cavaliere le offriva alcune ore di distrazione, perfino di allegria.

Io e Sir Roger passavamo molto tempo con Branithar che era ben disposto a raccontarci della sua razza e dell’Impero che avevano conquistato. Io però ero riluttante a credere alle sue affermazioni. Strano che una razza così brutta dovesse vivere in quello che io giudicavo essere il Terzo Paradiso, ma il fatto non poteva essere negato.

Forse, pensavo, quando le Scritture parlavano dei quattro angoli del mondo, non si riferivano affatto al nostro pianeta Terra, ma ad un universo cubico. E, aldilà di esso, doveva trovarsi la dimora dei benedetti; mentre l’osservazione di Branithar relativa all’interno della Terra dove c’era il magma in fusione, era certo consono alle visioni profetiche dell’Inferno.

Branithar ci raccontò che c’erano circa un centinaio di mondi simili al nostro nell’Impero Wersgor, mondi che orbitavano attorno a molte stelle separate, in quanto era ben improbabile che un sole avesse più di un pianeta abitabile.

Ognuno di questi mondi ospitava qualche milione di Wersgorix ai quali piaceva di avere parecchio spazio a disposizione. E, fatta eccezione per il pianeta principale, Wersgorixan, non esistevano città. Su quei mondi però che trovavano alle frontiere dell’Impero, come Tharixan verso cui eravamo diretti, c’erano delle fortezze che servivano anche da basi per la flotta spaziale. Branithar sottolineò la potenza di fuoco e l’imprendibilità di questi castelli.

Se un pianeta adatto alla loro razza ospitava indigeni intelligenti, questi dovevano essere sterminati o resi schiavi. I Wersgorix non facevano lavori manuali, che invece lasciavano agli iloti o agli automi. Loro erano solo soldati, conduttori di grandi possedimenti, commercianti, proprietari di fabbriche, uomini politici, cortigiani. E i nativi schiavizzati, che erano disarmati, non avevano nessuna speranza di rivoltarsi contro i loro padroni alieni, anche se questi erano in numero relativamente scarso.

Sir Roger mormorò qualcosa sulla possibilità di distribuire armi a quegli individui oppressi quando fossimo arrivati, e di raccontare loro delle rivolte contadine, ma Branithar intuì il suo proposito e gli rispose ridendo che Tharixan non era mai stato abitato e che su tutto il pianeta c’erano solo qualche centinaia di schiavi.

Questo Impero occupava nello spazio una sfera di circa duemila anni luce di diametro (un anno luce è l’incredibile distanza che la luce copre in un anno standard Wesgoriano, che era circa del dieci per cento più lungo dell’anno terrestre, secondo Branithar). Questa sfera comprendeva milioni di soli coi loro mondi ma, la maggior parte di questi, a causa dell’aria velenosa o delle forme di vita velenose o per altri motivi, erano inutili per il Wersgorix e venivano ignorati.

Sir Roger gli chiese se la sua fosse l’unica nazione che avesse imparato a volare tra le stelle, ma Branithar si strinse nelle spalle con fare sprezzante.

«Ne abbiamo incontrate altre tre, che hanno sviluppato quest’arte in modo autonomo.» disse. «Sono razze che vivono entro i confini del nostro Impero, ma finora non le abbiamo sottomesse. Non ne valeva la pena fintanto che ci sono dei pianeti primitivi disponibili a portata di mano. Per ora permettiamo a queste tre razze di trafficare e di mantenere il piccolo numero di colonie che hanno già fondato in altri sistemi planetari, ma non abbiamo permesso loro di continuare ad espandersi. A questo scopo sono bastate un paio di guerre di poca rilevanza. Loro non ci amano, perché sanno che un giorno, quando ci farà comodo, le distruggeremo, ma non possono fare nulla di fronte alla nostra strapotenza.»

«Capisco.» osservò il Barone con un cenno del capo.

Poi Sir Roger mi diede ordine di cominciare ad apprendere il linguaggio Wersgoriano. Branithar trovò che era divertente farmi da maestro, ed io trovai che il duro lavoro serviva a calmare le mie paure, così procedemmo in fretta. La loro lingua era una barbarie di suoni, priva com’era delle nobili inflessioni del Latino, ma appunto per questo non era difficile da imparare.

Nella torretta di comando trovai dei cassetti pieni di carte e di tavole numeriche. La loro scrittura era meravigliosamente precisa e pensai che, con degli scribi così abili, era un vero peccato che non avesse pensato di minima quelle pagine. Grazie a quanto avevo appreso della lingua e dell’alfabeto wersgoriani, mi misi a studiare accuratamente quelle carte finché giunsi alla conclusione che costituivano le carte di navigazione di bordo.

Tra di essa c’era anche una mappa del pianeta Tharixan, dal momento che questa era la base del nostro vascello. Quindi mi misi a tradurre i simboli che indicavano terra, mare, fiume, fortezza e così via. Sir Roger ci passò sopra lunghe ore di studio. Perfino la carta saracena che suo nonno aveva riportato indietro dalla Terrasanta era rozza se paragonata a questa; è bensì vero, però, che i Wersgorix dimostravano un’assoluta mancanza di cultura perché omettevano le figure delle sirene, i quattro venti, gli ippogrifi e gli altri ornamenti consimili.

Decifrai anche alcune scritte degli strumenti del pannello di comando. Certi quadranti, come quello dell’altitudine e della velocità, furono facili da comprendere. Ma cosa poteva significare la scritta «flusso del combustibile»? Qual era la differenza tra «propulsione subluce» e «propulsione iperluce»? Invero questi dovevano essere dei potenti anche se pagani, incantesimi.

E così giorni trascorrevano l’uno uguale all’altro e, dopo un certo periodo che a noi parve un secolo intero, finalmente vedemmo una stella che diventava sempre più luminosa sugli schermi; poi s’ingrandì, sempre più, finché divenne grossa e luminosa quanto il nostro sole. Infine vedemmo un pianeta simile al nostro, solo che aveva due piccole lune. Allora ci tuffammo verso il basso, finché la palla nel cielo scomparve e vedemmo sotto di noi una grande distesa frastagliata: quando vidi il cielo ritornare azzurro, mi gettai in ginocchio per ringraziare il Signore.

La leva di bloccaggio scattò verso l’alto con un rumore metallico. La nave si fermò e rimase sospesa ad un miglio da terra. Eravamo giunti su Tharixan.

CAPITOLO VI

Sir Roger mi aveva mandato a chiamare nella torretta di comando con Sir Owain, Red John che accompagnava Branithar tenuto legato da un pezzo di corda. Quando vide gli schermi, l’arciere spalancò tanto d’occhi e si lasciò sfuggire una sfilza di imprecazioni.

In tutta la nave intanto era stata passata parola agli uomini in grado di battersi di preparare le armi. I due Cavalieri indossavano l’armatura, mentre i loro scudieri li aspettavano all’esterno con scudi e elmi. I cavalli scalpitavano nelle stive e nei corridoi, e le donne e i bambini si rintanavano negli angoli con gli occhi che brillavano per la paura.

«Finalmente ci siamo!», esclamò Sir Roger.

Era spaventoso vederlo così infantilmente allegro, mentre tutti gli altri deglutivano a fatica e sudavano a tal punto da far puzzare l’aria. Ma un combattimento, sia pure contro le potenze dell’Inferno, era qualcosa che era in grado di comprendere.

«Fratello Parvus, chiedi al prigioniero in che punto del pianeta ci troviamo.»

Rivolsi allora la domanda a Branithar e questi toccò un pulsante, facendo illuminare uno schermo fino a quel momento buio, sul quale comparve una mappa.

«Non ci troviamo nel punto in cui si incrociano i fili collimatori», ci disse. «La mappa si srotolerà man mano che andiamo avanti.»

Confrontai la mappa con la carta che avevo in mano.

«La fortezza chiamata Ganturath sembra trovarsi ad un centinaio di miglia a nord-nord-est, Milord.» dissi.

Branithar che ormai aveva imparato un po’ d’inglese, annuì.

«Ganturath è solo una base di secondaria importanza.» A questo punto dovette passare al Latino per meglio sostenere le sue vanterie. «Tuttavia ci sono di stanza numerose astronavi e sciami di aerei. In quanto alle armi da fuoco di terra, possono disintegrare questo vascello, mentre i loro schermi di energia impediranno alle scariche delle nostre armi di passare. Meglio che vi arrendiate.»

Quando ebbi tradotto, Sir Owain osservò lentamente:

«Potrebbe essere la cosa più saggia da fare Milord.»

«Cosa?», strepitò Sir Roger. «Un inglese che si arrende senza battersi?»

«Ma pensate alle donne, Milord, ed a quei poveri bambini!»

«Io non sono ricco,» disse Sir Roger, «e non posso permettermi di pagare un riscatto.»

Si assise quindi sul sediolo del pilota con tanto di armatura addosso e toccò i comandi manuali.

Sugli schermi che ci permettevano di vedere in basso, vidi la terra che scivolava via lentamente sotto di noi. I suoi fiumi e le sue montagne ricordavano quelle di casa nostra, ma le tinte verdi della vegetazione avevano una strana sfumatura azzurrina. La campagna sembrava incolta. Di tanto in tanto comparivano delle costruzioni tondeggianti, in mezzo ad enormi campi di grano coltivati da macchine, ma per il resto l’uomo era del tutto assente, come nella Foresta Nera. Mi chiesi se per caso anche questa fosse la riserva di caccia di qualche Re, poi ricordai che Branithar aveva accennato alla rada popolazione dell’Impero Wersgoriano.

Una voce ruppe improvvisamente il silenzio con un profluvio di parole nella sgraziata lingua dei musi azzurri. I suoni provenivano da un piccolo strumento nero inserito sul pannello principale.

«Ah!», esclamò Red John sguainando il pugnale. «Per tutto questo tempo abbiamo avuto a bordo un clandestino! Datemi una sbarra di ferro, Milord, e lo sniderò io da là dentro!».

Branithar intuì quanto il gigante aveva detto, quindi scoppiò in una risata sonora che gli salì dal profondo di quella sua gola azzurra.

«Quella voce arriva da lontano, portata da onde simili a quelle della luce, ma più lunghe.» disse.

«Bé, siamo stati rilevati da un osservatore della Fortezza di Gantarath.»

Sir Roger fece un breve cenno d’assenso quando ebbi tradotto.

«Le voci provenienti dal nulla sono niente in confronto a quanto abbiamo già visto.» osservò. «Cosa vuole quel fellone?».

Io ero riuscito a cogliere solo poche parole, ma ne avevo compreso il senso, minaccioso. Chi eravamo? Questo non era lungo riservato all’atterraggio dei vascelli da esplorazione. Perché eravamo entrati in una zona vietata?

«Calmati,» diedi istruzione a Branithar, «e ricorda che io capirò se intendi tradirci.»

Branithar si strinse nelle spalle come se fosse divertito, ma anche la sua fronte era coperta da un velo di sudore.

«Astronave 587-zin in fase di rientro.» disse. «Messaggio urgente. Ci fermeremo sopra alla base.»

La voce diede il suo assenso, ma avvertì che, se ci fossimo abbassati a meno di uno stanthax (circa mezzo miglio) saremmo stati distrutti. Avremmo dovuto rimanere immobili finché non fosse salito a bordo l’equipaggio della pattuglia aerea.

Ormai Ganturath era visibile: si trattava di una massa compatta di cupole e semicilindri in muratura sopra scheletri d’acciaio, come scoprimmo più tardi, che formava un cerchio dal diametro di circa mille piedi. Mezzo miglio più a nord, si stendeva un piccolo agglomerato di edifici e, attraverso uno schermo visore da ingrandimento, vedemmo che da questo agglomerato spuntavano le bocche di enormi bombarde da fuoco.

Mentre ci fermavamo, una pallida luminescenza si levò attorno a tutti i lati della fortezza. Branithar ce la indicò col dito.

«Quelli sono gli schermì difensivi. I vostri colpi si smorzerebbero contro di loro senza far danno. Ci vorrebbe un colpo furtunato per fondere una di quelle bocche da fuoco, là dove escono fuori dallo schermo, ma voi siete un bersaglio troppo facile.»

In quel momento si avvicinarono diversi apparecchi metallici a forma d’uomo, che sembravano moscerini di fronte alla massa enorme del nostro Crusader. Poi ne vedemmo altri levarsi dal suolo, dalla parte principale della fortezza.

La bionda testa di Sir Roger fece un cenno d’assenso.

«È proprio come pensavo!», osservò. «Quegli schermi potranno anche fermare un raggio di fuoco, ma non un oggetto materiale, visto che quelle barche sono riuscite ad attraversarlo.»

«È vero.» ribatté Branithar per mio tramite. «Voi potreste anche riuscire a sganciare qualche bomba, ma la parte più lontana, quella dove si trovano i cannoni, vi distruggerebbe.»

«Aha!» Sir Roger studiò il Wersgor con occhi che erano diventati gelidi. «Così possedete anche granate esplosive, eh? Indubbiamente ne avrete a bordo. E non me l’hai detto! Ne riparleremo più tardi.» Indicò col pollice Red John e Sir Owain. «Bene: voi due avete ormai visto la disposizione del suolo. Adesso tornate dagli uomini e preparatevi ad uscire quando toccheremo terra.»

I due se ne andarono dopo avere rivolto un’ultima occhiata nervosa agli schermi dove gli apparecchi si vedevano molto vicini a noi. Sir Roger appoggiò le mani sui volani che controllavano le bombarde. Avevamo infatti scoperto, dopo qualche prova, che quelle grandi armi prendevano la mira e sparavano quasi da sole. Quando gli apparecchi di pattuglia si avvicinarono, Sir Roger azionò i comandi.

Accecanti raggi infernali scaturirono dalla nostra nave ed avvolsero gli apparecchi in un mare di fiamme. Vidi il più vicino a noi che veniva tranciato in due da quella spada fiammeggiante. Un altro precipitò incandescente ed un terzo esplose. Si udì un rumoreggiare di tuono, poi vidi solo precipitare scorie metalliche.

Sir Roger volle mettere alla prova quanto aveva affermato prima Branithar, ma vidi che aveva detto il vero: i raggi rimbalzavano via da quello schermo pallido e traslucido. Emise un grugnito:

«Ho voluto vedere: adesso sarà meglio che scendiamo, prima che mandino quassù una vera corazzata per fare piazza pulita di noi, o che aprano il fuoco da quelle batterie.»

Mentre parlava, spinse giù la nave in picchiata. Una fiammata toccò il nostro scafo, ma eravamo ormai troppo bassi. Poi vidi gli edifici di Ganturath avventarsi contro di me e mi aggrappai alla parete in attesa della morte.

Tutta la nostra nave fu percorsa da uno stridio metallico e si udì un rumore lacerante. La nostra stessa torretta si squarciò mentre sfioravamo una bassa torre di guardia, ed il parapetto fortificato fu spazzato via. Il Crusader, lungo duemila piedi, schiacciò mezza Ganturath sotto di sé col suo peso incalcolabile.

Sir Roger scattò in piedi ancora prima che i motori si spegnessero.

«Avanti!», ululò. «Dio è con noi!»

E si lanciò di corsa sul ponte che si era deformato ed inclinato. Strappò il proprio elmo dalle mani dello scudiero terrorizzato e se lo infilò mentre correva. Il ragazzo lo seguì con i denti che gli battevano per lo spavento portando lo scudo del Barone di Tourneville.

Branithar era rimasto seduto, senza parole. Io raccolsi la veste e corsi via per cercare un sergente che mettesse sotto chiave quel prigioniero così prezioso per me. Fatto questo, fui in grado di assistere alla battaglia.

La nostra discesa era avvenuta nel senso della lunghezza e non sulla coda, ma i generatori artificiali di gravità ci avevano impedito di andare tutti a gambe all’aria. Attorno a noi era il caos: edifici fracassati e mura squarciate. Una marea di Wersgorix azzurri dilagò fuori dal resto della fortezza.

Quando arrivai all’uscita, Sir Roger era già fuori con tutta la sua cavalleria. Non si fermò per raccogliere i suoi uomini ma si lanciò al galoppo là dove i nemici erano più fitti. Il suo cavallo nitrì, scuotendo la criniera, con l’armatura che sprizzava lampi; la lunga lancia del mio Signore inchiodò tre corpi in una volta sola, poi, quando alla fine si spezzò, Sir Roger sguainò la spada e prese a menare fendenti, assetato di sangue.

La maggior parte di coloro che lo seguivano non avevano scrupolo di usare armi che non si addicono a dei cavalieri; così, oltre alle armi da taglio, alle asce ed alle mazze chiodate, ecco spuntare armi da fuoco portatili prese a bordo della nave.

Poi si riversarono fuori anche gli arcieri e i fanti. Forse era il loro stesso terrore che li rendeva così selvaggi e si avventavano addosso ai Wersorix prima che il nemico potesse fare uso dei suoi lampi mortali. La battaglia si trasformò in un corpo a corpo, una rissa non più guidata, dove l’ascia, il pugnale od il bastone servivano meglio dei raggi di fuoco o delle armi a palla.

Quando Sir Roger ebbe fatto il vuoto attorno a sé, fece indietreggiare il suo stallone nero. Poi rialzò la visiera e si portò la tromba alle labbra. Il suono si levò al di sopra del fragore delle armi e chiamò a raccolta la forza a cavallo. Questi combattenti, più disciplinati dei fanti a piedi, si disimpegnarono dalla lotta ed accorsero attorno al Barone. Dietro al mio Signore si formò così una massa di grandi cavalli, di uomini simili a torri d’acciaio, di scudi stemmati, e di piume al vento e lance levate.

La mano guantata di ferro di Sir Roger indicò il forte lontano dove le bombarde levate contro il cielo avevano smesso di sparare inutilmente.

«Dobbiamo prenderlo prima che raccolgano le loro forze!» gridò. «Dietro di me, Inglesi, per Dio e per San Giorgio!»

Prese una nuova lancia dal suo scudiero e diede di sprone al cavallo, acquistando sempre più velocità. Dietro di lui il fragore degli zoccoli che battevano il terreno assunse un rombo di tuono.

I Wersgorix che erano di stanza nel forte più piccolo si riversarono all’esterno per resistere all’attacco. Erano armati di vari tipi di armi da fuoco, oltre ad avere dei piccoli missili esplosivi che lanciavano a mano. Un paio di cavalieri furono abbattuti ma, a distanza così ravvicinata, non c’era tempo per prendere la mira. Inoltre, l’attacco li aveva sconvolti. Non c’è appunto spettacolo più terrificante di una carica di cavalleria pesante.

Il guaio dei Wersgorix era di essere troppo progrediti. Per loro il combattimento sul campo era ormai obsoleto e, quando si presentò la necessità, si trovarono male addestrati e peggio equipaggiati. È vero che possedevano quei raggi di fuoco e gli schermi di energia per ripararsi dagli stessi raggi, ma non avevano proprio pensato che sarebbe stato necessario disseminare il suolo di chiodi a tre punte.

E così avvenne che la massa della nostra cavalleria si abbatté sulle loro linee, le travolse, le calpestò nel fango e continuò la carica senza neppure venire rallentata.

Uno degli edifici dietro di loro aveva un varco aperto e nell’apertura era stata trainata una piccola astronave, grande quanto una qualsiasi nave della Terra, eretta sulla coda, col motore acceso, e pronta a decollare e ad inondarci di fiamme dall’alto.

Sir Roger le scagliò contro la cavalleria. I lancieri la colpirono tutti insieme contemporaneamente. Le lance si spezzarono, e gli uomini furono sbalzati di sella. Ma riflettete un momento: un cavaliere lanciato alla carica porta con sé tutto il peso della propria armatura e sotto di sé ha millecinquecento libbre di cavallo. Il tutto viaggia ad una velocità di diverse miglia all’ora. La forza d’urto che ne consegue è spaventosa.

La nave fu rovesciata. Cadde su un fianco e rimase lì.

I cavalieri di Sir Roger dilagarono, come impazziti, per tutta la fortezza, lavorando di spada, di mazza, di stivale e di zoccolo di cavallo. I Wersgorix cadevano come mosche. O meglio, le mosche erano le piccole barche di pattuglia che ronzavano sopra la nostra testa senza riuscire a sparare per timore di colpire nella mischia anche i loro uomini. A dire il vero, a questo ci pensava mirabilmente Sir Roger ma, quando i Wersgorix se ne resero conto, ormai era troppo tardi.

Nella parte principale della fortezza, là dove si trovava il Crusader, il combattimento si trasformò in una diatriba per stabilire se si dovevano uccidere tutti i musi azzurri oppure farli prigionieri, oppure respingerli nella vicina foresta. Regnava però ancora la più totale confusione, e Red John Hameward aveva l’impressione di sprecare invano le doti dei suoi arcieri, così li inquadrò in un distaccamento ed uscì a passo di corsa allo scoperto per aiutare Sir Roger.

Le barche di pattuglia gli piombarono addosso come uccelli da preda, e la preda sembrava davvero a portata di mano. I loro raggi sottili erano appunto studiati per distanze brevi. Al primo passaggio morirono due arcieri. Poi Red John urlò un ordine.

Improvvisamente il cielo si riempì di frecce. Una freccia lunga un braccio, lanciata da un arco di tasso di sei piedi, è in grado di trapassare un uomo coperto d’armatura, e il cavallo sotto di lui.

Ebbene, queste piccole barche peggiorarono ancora le cose volando direttamente in mezzo allo stormo di piume d’oca. E nessuna di loro si salvò. Sforacchiate, coi piloti irti di frecce come porcospini, si schiantarono a terra, e gli arcieri si lanciarono avanti con un ruggito per gettarsi nella mischia che li attendeva.

L’astronave che i lancieri avevano rovesciato aveva ancora a bordo l’equipaggio che adesso doveva essersi ripreso dallo shock: infatti, improvvisamente, le torrette presero a sprizzare fiamme e non i deboli raggi delle armi portatili, ma veri e propri fulmini che abbattevano le pareti. Un cavaliere e la sua cavalcatura, centrati da quel fuoco, svanirono istantaneamente. I lampi presero a spazzare tutt’attorno, vendicativi.

Red John raccolse l’estremità di una grande trave d’acciaio venuta giù della cupola schiantata da quelle bombarde. Cinquanta uomini lo aiutarono. Poi corsero tutti insieme verso il portello d’entrata della nave. Una volta, due volte, crash! Ed ecco che la porta fu abbattuta e gli Inglesi si lanciarono all’interno.

La Battaglia di Ganturath durò per qualche ora, ma la maggior parte del tempo fu impiegato semplicemente per stanare i superstiti della guarigione che si era nascosti ovunque. Quando il sole alieno calò verso ovest, erano morti una ventina di Inglesi. Ma nessuno era rimasto gravemente ferito, perché le armi a fiamma generalmente uccidevano se riuscivano a centrare il bersaglio.

Furono uccisi circa trecento Wersgorix, ed un numero all’incirca uguale fu catturato; molti di questi avevano perso un arto od un orecchio. In quanto a quelli che erano fuggiti a piedi, direi che dovevano essere all’incirca un centinaio. Questi avrebbero senz’altro avvertito della nostra presenza gli insediamenti più vicini… che tuttavia non lo erano poi molto. Evidentemente la velocità e l’effetto distruttore del nostro attacco iniziale doveva aver messo fuori uso gli apparecchi per parlare lontano prima ancora che l’allarme potesse venir diffuso.

Il nostro vero disastro non divenne evidente che più tardi. Non ci preoccupammo se la nave con cui eravamo arrivati era andata distrutta, perché adesso avevamo a disposizione diversi altri vascelli che, messi insieme, ci avrebbero contenuti tutti quanti. I loro equipaggi infatti non avevano avuto la possibilità di utilizzarli contro di noi. Il guaio era piuttosto che, con quel suo orrendo atterraggio, il Crusader aveva avuto la torretta di comando squarciata e tutti gli appunti wersgoriani di navigazione erano andati perduti.

In quel momento, però, pensavamo solo al trionfo. Tutto macchiato di sangue, ansante, con l’armatura bruciacchiata ed ammaccata, Sir Roger de Tourneville tornò col suo stanco cavallo verso la fortezza principale, seguito da lancieri, arcieri e fanti, tutti stracciati, malconci, e con le spalle curve per lo sfinimento. Ma il Te Deum era sulle loro labbra e si levava in cielo sotto quelle strane costellazioni mentre i loro stendardi sventolavano coraggiosamente al vento.

Era meraviglioso essere Inglesi.

CAPITOLO VII

Ci accampammo nel forte più piccolo che era rimasto quasi intatto. I nostri uomini andarono a far legna nella foresta e, mentre si levavano in cielo le due lune, guizzarono le fiamme scoppiettanti dei fuochi. Gli uomini sedevano uno accanto all’altro, coi volti che si stagliavano nelle tenebre, illuminati dalla luce confortante e guizzante dei fuochi, in attesa che i pentoloni della cena fossero pronti. I cavalli brucavano quell’erba sconosciuta senza gustarla.

I Wersgorix catturati erano tutti raccolti in un angolo e guardati a vista da un gruppo di soldati armati di picche. Erano ancora storditi. Tutto questo a loro non sembrava ancora possibile, e quasi provai dispiacere per loro, per quanto crudele e pagano fosse il loro dominio.

Sir Roger mi mandò a chiamare perché mi unissi ai suoi Capitani che erano accampati vicino ad una delle torrette armate. Tutte le difese disponibili erano state apprestate in attesa di un contrattacco e cercando di non pensare a quali altri orribili trucchi poteva avere a disposizione il nemico.

Per le donne di più alto linguaggio erano state erette alcune tende. In maggioranza si erano già ritirate per la notte, ma Lady Catherine sedeva su uno scranno ai bordi del fuoco ed ascoltava le nostre chiacchere con la bocca tirata e esangue.

I Capitani si erano coricati per terra, esausti. Vidi Sir Owain di Montbelle che strimpellava oziosamente la sua arpa; il vecchio e temibile Sir Brian Fitz-William, coperto di cicatrici, il terzo dei tre Nobili Cavalieri di questo viaggio; il grosso Thomas Bullard che accarezzava la spada sguainata che teneva in grembo; Red John Hameward, intimidito, perché tra tutti era quello di più bassa estrazione. Un paio di paggi versavano del vino.

Sir Roger, il mio indomabile Signore, stava in piedi, con le mani allacciate dietro la schiena. Ora che si era tolto l’armatura come gli altri, dato che aveva lasciato i suoi abiti migliori nelle ceste da viaggio, avrebbe potuto essere scambiato per il più umile dei suoi sergenti, ma chiunque avesse cambiato subito idea vedendo il suo viso muscoloso, dal naso sporgente e sentendolo parlare. Per non parlare poi degli speroni che gli tintinnavano agli stivali.

Quando entrai nel cerchio di luce mi fece un cenno.

«Ah, eccoti qui, Fratello Parvus. Siediti e bevi un boccale di vino. Tu hai la testa sulle spalle e abbiamo tutti bisogno di buoni consigli stasera.»

Per un po’ passeggiò ancora avanti e indietro riflettendo, ed io non osai interromperlo con le mie sciagurate notizie. Una varietà di suoni che uscivano dal buio accentuava l’estraneità di quel mondo dalle lune gemelle. Questi non erano i grilli, le rane ed i succiacapre d’Inghilterra: questo era un ronzio, uno stridore, un canto dolce e inumano simile a quello di un liuto d’acciaio. E anche gli odori erano alieni, e questo mi disturbava ancora di più.

«Bene!», disse il mio Signore. «Per grazia di Dio abbiamo vinto il nostro primo scontro. Adesso dobbiamo decidere le prossime mosse.»

«Io credo…» Sir Owain si schiarì la gola, poi parlò in fretta: «No, signori, ne sono sicuro! Dio ci ha aiutato contro imprevedibili tradimenti, ma non sarà più con noi se mostreremo un indebito orgoglio. Noi ci siamo conquistati un raro bottino d’armi con le quali potremo compiere grandi cose a casa nostra. Perciò, torniamo subito indietro.»

Sir Roger si strinse il mento con due dita.

«Io preferirei rimanere qui,» rispose, «ma c’è molto di vero in quanto voi dite amico mio. E poi potremo sempre tornare, una volta liberata la Terrasanta, e sistemare come si deve questo nido di Demoni.»

«Sì.» convenne Sir Brian. «Siamo troppo pochi adesso ed abbiamo l’ingombro delle donne, dei bambini, dei vecchi e del bestiame. Così pochi combattenti contro un intero Impero sarebbe una follia.»

«Eppure mi piacerebbe spezzare un’altra lancia contro questi Wersgorix», osservò Alfred Edgarson. «Non ho ancora messo le mani su una sola briciola d’oro.»

«L’oro non è di nessuna utilità se non lo riportiamo a casa.» gli ricordò il Capitano Bullard. «E poi è già brutto battersi col caldo e la sete della Terrasanta. Qui non sappiamo neanche quali sono le piante velenose né com’è l’inverno. Sì, è meglio partire domani stesso.»

Un mormorio di assenso si levò tra i presenti.

Io mi scharii la gola, abbattuto. Avevo appena passato un’ora sgradevolissima con Branithar.

«Miei Signori…», cominciai a dire.

«Sì? Che c’è?»

Sir Roger mi scoccò un’occhiata inceneritrice.

«Miei Signori, io credo che non saremo più in grado di ritrovare la via del ritorno!»

«Cosa?», gridarono tutti. Parecchi balzarono in piedi. E sentii Lady Catherine che, inorridita, respirava tra i denti.

Poi spiegai loro che gli appunti wersgoriani sulla rotta per raggiungere il nostro sole erano andati perduti tra le rovine della torretta di comando. Avevo condotto io stesso le ricerche, frugando dappertutto nel tentativo di ritrovarli, ma senza successo. L’interno della torretta era bruciato e fuso in più punti, segno evidente che un raggio di fuoco vagante entrato dall’apertura, aveva colpito un cassetto spalancatosi durante il violento atterraggio ed aveva così incenerito le carte.

«Ma Branithar conosce la rotta!», protestò Red John. «L’ha percorsa lui stesso! Gliela strapperò con le tenaglie roventi, Milord, se necessario!»

«Calma, calma!», lo consigliai. «Qui non è come navigare sottocosta, dove i riferimenti sono noti. Qui ci sono milioni di stelle. Questa spedizione aveva zigzagato attraverso di esse alla ricerca di un pianeta adatto e, senza gli appunti presi dal Comandante nel corso della navigazione, si potrebbe passare tutta una vita alla ricerca del nostro sole senza mai trovarlo.»

«Ma Branithar ricorda qualcosa?», guaì Sir Owain.

«Se si ricorda un centinaio di pagine di numeri?», risposi. «No, nessuno ci riuscirebbe, e questo è tanto più vero in quanto Branithar non era il Capitano della nave né il Navigatore che teneva nota degli spostamenti; controllava le apparecchiature ed eseguiva gli altri compiti di navigazione. Il nostro prigioniero era un Nobile di rango inferiore il cui compito era di occuparsi con altri membri dell’equipaggio di quei demoniaci motori…»

«Basta.» Sir Roger si morse il labbro e fissò lo sguardo per terra. «Questo cambia tutto. Sì… La rotta del Crusader non era conosciuta in anticipo? Diciamo dal Duca che l’aveva fatta salpare?»

«No, mio Signore,» risposi. «Le navi esploratrici wersgoriane si limitano a dirigersi verso quelle direzioni che vengono decise dal Capitano, il quale indica anche quelle stelle che gli sembrano più promettenti. Così, fin quando non sono ritornate neanche il loro Duca sa dove sono stati.»

Si levò un gemito collettivo. Quelli erano uomini induriti dalle battaglie, ma tutto questo avrebbe scoraggiato anche i Nove Saggi. Sir Roger si avvicinò rigidamente a sua moglie e le posò una mano sul braccio.

«Mi spiace mia cara», mormorò.

Lei volse altrove il viso.

Sir Owain si alzò in piedi. Le nocche della mano con cui stringeva l’arpa risaltavano evidenti per la tensione.

«A questo ci avete condotto!», gridò con voce stridula. «Alla morte ed alla dannazione aldilà del cielo! Adesso siete soddisfatto?»

Sir Roger portò la mano sull’elsa della spada.

«Frenate la lingua!», ruggì. «Tutti voi avevate accettato il mio piano. Neanche uno di voi si era opposto. Nessuno è stato costretto a venire. E adesso dovremo condividere tutti insieme questo fardello, e che Dio abbia pietà di noi.»

Il giovane Cavaliere mormorò qualcosa in tono bellicoso, ma poi tornò a risedersi.

Mi fece impressione vedere con quanta rapidità il mio Signore era passato dalla disperazione al coraggio. Naturalmente era tutta una maschera che si era messo a beneficio degli altri, ma quanti uomini avrebbero saputo fare altrettanto? Sì, in verità, era proprio un condottiero senza pari. Tutto merito del sangue di Re Guglielmo il Conquistatore, un nipote bastardo del quale aveva sposato la figlia illegittima di quel Conte Goffredo, che più tardi era stato bandito per pirateria ed aveva fondato così la nobile Casata dei de Tourneville.

«Suvvia ora,» disse il Barone con una quasi certa allegria, «la situazione non è poi così disperata. Dobbiamo reagire con cuore saldo, e vedrete che la vittoria ci arriderà. Ricordatevi che abbiamo in mano nostra numerosi prigionieri che ci potranno servire come merce di scambio. E, se dobbiamo tornare a combattere, abbiamo già dimostrato che a parità di condizioni non ci possono resistere. Ammetto che loro sono di più e che sono più abili con queste armi infernali. Ma con questo? Non sarà la prima volta che degli uomini coraggiosi abilmente guidati avranno respinto sul campo un esercito apparentemente più forte.

«Alla peggio, potremo ritirarci. Abbiamo abbastanza navi celesti e potremmo evitare l’inseguimento negli abissi insondabili dello spazio. Ma io sono disposto a rimanere qui, a trattare con abilità, combattere qualora ce ne sia la necessità e conservare la mia fede in Dio. Certo Lui che ha fermato il Sole per Giosuè, potrà anche annientare un milione di Wersgorix se lo vorrà, perché la sua misericordia è senza fine. Dopo che avremo strappato le nostre condizioni al nemico, lo costringeremo a ritrovare il nostro sole ed a riempirci la nave d’oro. Non perdetevi d’animo, vi dico! Per la gloria di Dio, l’onore d’Inghilterra e l’arricchimento di tutti noi!»

Li tenne in pugno, li indusse ad una completa comunanza di spirito con lui e, alla fine, fece sì che lo applaudissero. Gli si affollarono intorno e passarono, una sull’altra, le loro mani sulla grande spada scintillante del mio Signore e si giurarono di rimanergli fedeli finché il pericolo fosse passato. Poi un’ora trascorse in piani ambiziosi… anche se per la maggior parte, ahimè, inutile, perché ben raramente Dio fa sì che succeda ciò che l’uomo si aspetta. Alla fine se ne andarono tutti a riposare.

Io vidi il mio Signore prendere la moglie per il braccio e accompagnarla nella sua tenda. Lei gli parlava in tono duro, a sussurri, e non ascoltava le sue proteste ma continuava a tormentarlo in quella notte aliena. La luna grossa che già declinava, li bagnava col suo freddo fuoco.

Le spalle di Sir Roger si ingobbirono, poi il mio Signore si voltò e si allontanò lentamente da lei, si avvolse in una coperta da sella e dormì sull’erba umida.

Era ben strano che un uomo tanto eminente tra gli altri fosse così inerme di fronte ad una donna. E, mentre giaceva lì nell’erba, incuteva compassione e pietà. Pensai che fosse un segno di cattivo augurio per tutti noi.

CAPITOLO VIII

Al principio eravamo stati troppo eccitati per prestarvi attenzione e dopo dormimmo troppo a lungo ma, quando mi svegliai visto che era ancora buio, controllai il movimento delle stelle rispetto agli alberi. Com’era lento! La notte di qui era molte volte più lunga di quella della Terra.

Questo fatto di per se stesso innervosì parecchio i nostri uomini. Il fatto che non fuggissimo (ormai non si poteva più nascondere che il tradimento, e non la volontà, ci aveva portati fin qui) era incomprensibile a molti. Ma, se non altro, erano disposti ad aspettare intere settimane per eseguire quanto diceva il Barone.

Lo shock, quando apparvero le navi nemiche ancora prima dell’alba, fu notevole.

«Rinfrancate i cuori,» consigliai a Red John mentre coi suoi arcieri era scosso da brividi in quella nebbiolina grigia, «i musi azzurri non dispongono di poteri magici, ve lo abbiamo ripetuto durante il consiglio dei Capitani. Il fatto è che loro possono parlare a distanza di centinaia di miglia e coprire in volo quelle distanze in pochi minuti. Così, non appena uno dei fuggiaschi ha raggiunto un’alta tenuta, è stato dato l’allarme contro di noi.»

«Allora,» protestò Red John, non del tutto a torto, «se non si tratta di Magia, vorrei proprio sapere cos’è?»

«Se si tratta di Magia, non dovete aver paura,» risposi, «perché le Arti Magiche non possono prevalere contro i buoni cristiani. Ma vi ripeto che si tratta semplicemente di abilità meccanica e bellica.»

«E quella può anche prevalere contro i buoni cristiani!», borbottò un arciere.

John lo fece tacere con uno scapaccione ed io imprecai contro la mia lingua imprudente.

In quella luce debole e ingannevole, vedemmo molte navi sospese in cielo, alcune delle quali erano grandi quanto il nostro povero Crusader. Le ginocchia mi tremavano sotto la tonica.

Naturalmente ci trovavamo tutti quanti all’interno dello schermo di energia del forte più piccolo, che non era mai stato interrotto. I nostri cannonieri avevano già scoperto che le bombarde da fuoco che vi si trovavano avevano i comandi semplici quanto quelli della nave, ed erano pronti a sparare. Io però sapevo che non avevamo vere e proprie difese. Infatti i Wersgorix avrebbero potuto usare una di quelle potentissime granate esplosive di cui avevo sentito parlare oppure potevano attaccare a piedi, travolgendoci semplicemente col loro numero.

Quelle astronavi, però, si limitavano a rimanere sospese in assoluto silenzio sotto la volta delle stelle sconosciute. Quando alla fine la prima pallida luce dell’alba sfiorò i loro fianchi, lasciai gli arcieri e mi avvicinai alla cavalleria, camminando a disagio sull’erba bagnata di rugiada. Sir Roger era in sella, rivestito della sua armatura completa con l’elmo stretto sotto il braccio e scrutava il cielo e dal suo viso nessuno avrebbe potuto capire quanto poco aveva dormito.

«Buongiorno, Fratello Parvus», mi disse. «È stata una lunga notte.»

Sir Owain, a cavallo accanto a lui, si umettò le labbra. Il suo viso era pallido e gli occhi dalle lunga ciglia avevano profonde occhiaie scure.

«Nessuna notte di mezzo inverno è stata mai così lunga da passare in Inghilterra», osservò e si fece il Segno della Croce.

«Allora durerà più a lungo anche il giorno», disse Sir Roger.

Sembrava quasi più allegro adesso che doveva trattare con dei nemici invece che con donne nervose.

La voce di Sir Owain risuonò come il crepitio di un ramo secco che viene spezzato.

«Perché non attaccano?», gridò. «Perché se ne stanno lì così? Cosa aspettano?»

«È ovvio invece, e non pensavo che sarebbe stato necessario spiegarlo», rispose Sir Roger. «Non hanno forse buone ragioni di temerci?»

«Cosa?», dissi io. «È vero Milord che noi siamo Inglesi, ma…» Il mio occhio si spostò sopra le poche e misere tende piantate attorno alle mura della fortezza; sopra i soldati stracciati e sporchi di’ fuliggine; sopra le donne accoccolate ed i vecchi, i bambini piagnucolanti; sopra il bestiame, i maiali, le pecore, i volatili, cui accudivano servi nervosi; sopra i pentoloni in cui ribolliva il porridge della colazione… «ma, in questo momento, mio Signore,» finii di dire, «abbiamo più l’aspetto di Francesi.»

Il Barone sorrise.

«Cosa ne sanno loro di Francesi o di Inglesi? Se è per questo, mio padre, combatté a Bannockburn, dove un manipolo di lanceri scozzesi armati di picche riuscirono a sgominare la cavalleria di Re Edoardo II. Ora tutto quel che sanno i Wersgorix di noi è che siamo improvvisamente sbucati dal nulla e, se quanto Branithar va vantando è vero, abbiamo compiuto un’impresa che non è mai riuscita a nessun altro loro nemico: quella di conquistare una delle loro fortezze! Non ti muoveresti anche tu con prudenza se fossi il loro capo?»

La sghignazzata che si levò tra la truppa a cavallo dilagò fino ai fanti, finché tutto il campo ne risuonò. Vidi che davanti a quell’ululato i prigionieri nemici furono percorsi da un brivido e si strinsero l’un l’altro.

Quando si levò il sole, alcune barche wersgoriane toccarono lentamente terra mantenendosi ad una prudente distanza di circa un miglio. Noi evitammo di attaccarli, così quelli si rincuorarono e sbarcarono alcuni uomini che cominciarono ad erigere una macchina sul campo.

«Intendete lasciar loro costruire un castello sotto i nostri occhi?», gridò Thomas Bullard.

«È meno probabile che ci attacchino se si sentono un po’ più sicuri», rispose il Barone. «Voglio che capiscano chiaramente che siamo disposti a parlamentare.» Il suo sorriso si trasformò in una smorfia. «Ricordatevi, amici, che ora la nostra arma migliore è la lingua.»

In breve, i Wersgorix fecero atterrare molte navi, che disposero circolarmente come quelle pietre che i giganti collocarono in Inghilterra a Stonehenge prima del Diluvio, per formare un campo circondato dal soprannaturale bagliore di uno schermo di energia, da cui spuntavano bombarde mobili e su cui stazionavano le navi da guerra. Solo quando fu tutto pronto, mandarono avanti un araldo.

Quell’essere sgraziato si avvicinò audacemente a noi sul prato, pur rendendosi ben conto che avremmo potuto abbatterlo in qualsiasi momento. I suoi indumenti metallici sprizzavano bagliori sotto il sole del mattino, ma vedemmo che teneva le mani vuote bene in vista. Sir Roger in persona si fece avanti accompagnato dal vostro umilissimo servitore che sgranava Paternoster in continuazione.

Il Wersgor parve indietreggiare quando si trovò davanti quel poderoso stallone nero su cui troneggiava una torre di ferro, ma poi riprese coraggio e con voce incerta disse:

«Se vi comportate come si deve, non vi farò distruggere per tutta la durata di questo colloquio.»

Quando gli ebbi tradotto con voce insicura quanto era stato detto, Sir Roger scoppiò in una risata.

«Digli,», mi ordinò, «che io non scatenerò a mia volta i miei fulmini personali, anche se sono così potenti che non posso giurare che non mi sfuggiranno e non distruggeranno il suo campo se fa una mossa troppo improvvisa.»

«Ma voi non avete fulmini simili a vostra disposizione, Milord,» protestai, «non sarebbe onesto fingere così.»

«Tu renderai le mie parole con fedeltà e con viso serio, Fratello Parvus,» mi ordinò il Barone, «o scoprirai tu stesso qualcosa sui fulmini.»

Obbedii. Di quanto seguì non riporterò nulla a causa delle difficoltà di traduzione. Il mio vocabolario wersgoriano era troppo limitato e la mia grammatica doveva essere oltraggiosa. Ad ogni modo, io ero l’unica pergamena su cui quei potenti potevano scrivere, cancellare, e tornare a riscrivere. Sì, prima che quell’ora fosse trascorsa, mi sentivo proprio come un palinsesto!

Oh, le cose che fui costretto a dire! Sopra tutti gli uomini io porto somma reverenza a quel valoroso e gentile Cavaliere che è Sir Roger de Tourville tuttavia, quando questi parlava come se nulla fosse della sua tenuta inglese — quella piccola che comprendeva solo tre pianeti — e della sua personale difesa di Roncisvalle contro quattro milioni di maomettani, e di come lui da solo avesse catturato Costantinopoli per scommessa, e di quella volta che, ospite in Francia, aveva accettato l’invito del suo ospite a esercitare lo jus primae noctis nei confronti delle duecento pulzelle che si sposavano in quel giorno, e di tante, tante altre cose ancora; le sue parole quasi mi soffocavano, sebbene io sia considerato ben versato sia nelle romanze cortigiane che nelle vite dei Santi.

La mia unica consolazione consisteva nel fatto che ben poche di quelle oltraggiose menzogne superarono la difficoltà di traduzione, per cui il messaggiero dei Wersgor comprese solo (dopo qualche tentativo di impressionarci) che davanti a lui si trovava una persona che poteva annientarlo quando e come voleva.

Perciò convenne a nome del suo Signore che sarebbe seguita una tregua per discutere della faccenda in un riparo da erigere a metà strada tra i due campi. Ogni parte avrebbe inviato là una ventina di persone a mezzogiorno in punto, disarmate. E, finché fosse durata la tregua, nessuna nave avrebbe volato in vista dei due campi.

«Ah!», esclamò allegramente Sir Roger mentre tornavamo tra i nostri al piccolo galoppo. «Non me la sono cavata poi male, no?»

«K-k-k-k,» risposi. Lui rallentò l’andatura ad un passo più lento ed io riprovai: «Invero, Milord, San Giorgio, o più probabilmente, come temo, San Dismas, patrono dei ladri, deve aver vegliato su di voi. Tuttavia…»

«Sì?», mi incoraggiò lui. «Non avere paura di esprimere la tua opinione, Fratello Parvus.» Poi proseguì con una gentilezza del tutto immeritata: «A volte penso che hai più testa tu su quelle spalle ossute che non tutti i miei Capitani messi assieme.»

«Ebbene, Milord,» proruppi, «voi avete strappato loro alcune concessioni per un po’ di tempo. Come voi avete previsto, quei musi azzurri usano una grande cautela mentre ci studiano, ma per quanto pensate che potremo sperare di ingannarli?

«La loro è una razza che da secoli domina sull’Impero che ha creato, quindi devono avere molta esperienza riguardo i popoli più strani e dalle abitudini per loro più insolite. Ora, dato il nostro scarso numero, le nostre armi antiquate, e l’assenza di astronavi di nostra produzione, non finiranno col dedurre — e molto presto — la verità, dopodiché ci attaccheranno con una forza travolgente?»

Sir Roger strinse le labbra e gettò un’occhiata verso il padiglione che proteggeva sua moglie ed i figli.

«Questo è ovvio», ammise. «Io spero solo di riuscire a ritardare ancora un po’ l’attacco».

«E dopo?», incalzai.

«Non so.» Sir Roger roteò su se stesso verso di me e mi fissò con lo sguardo di un rapace che piomba sulla preda, aggiungendo: «Ma questo è il mio segreto, mi capisci? te lo dirò come in confessione: se tutto questo trapela, se la nostra gente scoprirà quanto sono preoccupato e che non ho il minimo piano… per tutti noi sarà la fine.»

Feci un cenno d’assenso col capo. Sir Roger piantò gli speroni nel fianco del proprio cavallo e tornò al galoppo verso il campo, gridando come un ragazzo.

CAPITOLO IX

Durante la lunga attesa, prima che giungesse il mezzogiorno su Tharixan, il mio Signore chiamò a consiglio i Capitani. Un tavolo a cavalletto venne eretto davanti all’edificio centrale e ci sedemmo tutti attorno.

«Per grazia di Dio,» cominciò Sir Roger, «ci è stato concesso un certo respiro. Come tutti voi potete notare, ho fatto in modo che tutte le loro navi scendessero a terra, e cercherò di guadagnare più tempo possibile. Ma questo tempo bisogna metterlo a frutto. Dobbiamo rafforzare le nostre difese, inoltre saccheggeremo il forte alla ricerca di mappe, libri ed altre fonti di informazione. Quelli tra i nostri uomini che hanno maggior attitudine all’arte della meccanica, dovranno studiare e provare ogni macchina che troveremo, in modo che possiamo imparare anche noi come erigere schermi di energia, come volare e, insomma, come poter opporre resistenza ai nostri nemici. Ma tutto questo deve essere fatto in grande segreto, in luoghi nascosti agli occhi degli avversari perché, se dovessero scoprire che non sappiamo nulla di tutte queste diavolerie…».

Con un sorriso Sir Roger si passò un dito sulla gola.

Il buon Padre Simon, il suo cappellano, divenne verdastro.

«Era proprio necessario?», chiese debolmente.

Sir Roger fece un cenno nella sua direzione.

«Ho del lavoro anche per voi, Padre. Io avrò bisogno di Fratello Parvus, perché mi faccia da interprete coi Wersgorix, ma abbiamo un prigioniero, Branithar, che parla Latino…».

«Io non direi proprio, Milord.» lo interruppi. «Le sue declinazioni sono atroci e ciò che fa dei verbi irregolari non può essere descritto con acconce parole in una nobile compagnia.»

«Ciononostante, fintantoché non avrà imparato sufficientemente l’Inglese, sarà necessario un chierico per parlare con lui. Perché lui dovrà spiegare a coloro che studiano le macchine catturate tutto ciò che non comprendono, ed inoltre dovrà fare da interprete quando interrogheremo gli altri prigionieri wersgoriani.»

«Ah, ma lui si presterà?», indagò Padre Simon. «Quello è un pagano assai recalcitrante, figlio mio, ammesso che abbia davvero un’anima. Pensa, solo qualche giorno fa, sulla nave, nel tentativo di addolcirgli quel cuore di pietra, sono entrato nella sua cella ed ho cominciato a leggergli ad alta voce l’elenco delle generazioni da Adamo a Noè, ed avevo appena passato Jared, che mi sono accorto che si era addormentato come un sasso!»

«Fatelo portare qui,» ordinò allora il mio Signore. «E cercate anche Hubert il Guercio. Ditegli di venire qui con tutto l’armamentario.»

Mentre aspettavamo, parlando sottovoce, Alfred Edgarson notò che rimanevo in silenzio.

«Ebbene, Fratello Parvus,» esclamò col suo vocione, «cos’è che ti turba? Tu hai poco da temere, penso, dal momento che sei un uomo di Dio. Ma anche noi, se ci comportiamo bene, non avremo nulla da temere, se non un po’ di penitenza in Purgatorio. E poi ci uniremo a San Michele per far sentinelle alle mura del Paradiso. Non è così?»

Non volevo proprio scoraggiarlo dicendo loro quanto mi era venuto di pensare ma, quando insistettero tutti, risposi:

«Ahimé, miei prodi, il peggio può già essersi abbattuto su di noi.»

«Cosa?», abbaiò Sir Brian Fitz-William. «Come sarebbe a dire? Non startene lì a piagnucolare!»

«Mentre viaggiavamo verso questo pianeta non avevamo nessun modo sicuro per misurare il tempo», sussurrai in risposta. «Le clessidre sono troppo imprecise e, dopo che abbiamo raggiunto questo luogo creato dal Diavolo, ci siamo perfino dimenticati di rovesciarle. Ma quant’è lungo il giorno qui? Che giorno è sulla Terra?»

Sir Brian assunse un’aria perplessa.

«Davvero non lo so. Ma che importa?»

«Immagino che voi abbiate mangiato del manzo a colazione,» risposi, «siete sicuri che non sia venerdì?»

Tutti sussultarono e si guardarono spalancando tanto d’occhi.

«Quando sarà domenica?», gridai. «Mi sapete dire la data dell’Avvento? Come faremo ad osservare la Quaresima e la Pasqua con queste due lune che ci confondono le idee?»

Thomas Bullard si prese il viso tra le mani.

«Siamo rovinati!»

Sir Roger si alzò in piedi.

«No!», gridò rivolto agli altri. «Io non sono un prete e neanche un uomo molto pio. Ma non è stato proprio Nostro Signore in persona a dire che il settimo giorno era fatto per l’uomo e non l’uomo per il settimo giorno?»

Padre Simon aveva un’espressione dubbiosa.

«Io posso concedere dispense speciali in occasioni straordinarie,» disse, «ma non so bene fin dove posso arrivare con questa facoltà.»

«Tutto questo non mi piace», mugugnò Bullard. «Mi sembra che Dio abbia distolto da noi la sua mano perché non abbiamo osservato i digiuni ed i sacramenti.»

Sir Roger si adirò. Per un momento osservò i suoi uomini da cui il coraggio defluiva come il vino da un boccale crepato; poi si calmò, scoppiò in una sonora risata e gridò:

«Nostro Signore non aveva forse ordinato ai suoi seguaci di andare il più lontano possibile per diffondere la Sua parola e che Lui sarebbe sempre stato con loro? Non discutiamo i Sacri Testi. Forse noi pecchiamo venialmente in questa contigenza ma se è così, un uomo non piagnucola, bensì cerca di fare ammenda. Faremo delle costose offerte per emendarci, e per ottenere i mezzi per fare queste offerte non abbiamo forse l’intero Impero Wersgoriano a portata di mano, un Impero da spremere come un limone per ottenerne il riscatto? Questo dimostra che è stato Dio stesso a ordinarci questa guerra!»

Sir Roger sguainò la spada, che sprizzò lampi accecanti alla luce del sole, e la tenne brandita verso l’alto.

«Con questa, col mio Sigillo di Cavaliere, ed il mio braccio, che è anche il Segno della Croce, io giuro di battermi per la gloria di Dio!»

Lanciò in aria l’arma che roteò lucente nel tepore del mattino, poi la riafferrò al volo e la fece roteare tanto che la sua lama vibrò.

«Lotterò con questa spada!»

Gli uomini lanciarono un debole evviva. Solo il tetro Bullard si astenne. Sir Roger si chinò verso quel Capitano e lo udii dire:

«La prova incontrovertibile del mio ragionamento è che taglierò a pezzi chiunque solleverà ulteriori obiezioni.»

In effetti, sentii che con la sua rozza logica il mio padrone aveva afferrato la verità. Quando ne avessi avuto il tempo, avrei riplasmato la sua logica nella debita forma sillogica, tanto per essere sicuro della sua esattezza; ma per il momento ne fui molto incoraggiato e gli altri se non altro non si sentirono più così demoralizzati.

Poi un soldato andò a prendere Branithar che, in piedi davanti a noi ci fissò con occhi di fuoco.

«Buongiorno,» gli disse con gentilezza Sir Roger per mio tramite. «Vorremmo che tu ci aiutassi ad interrogare i prigionieri e a studiare le macchine catturate.»

Il Wersgor rizzò fieramente il capo con l’orgoglio dei guerrieri.

«Risparmiatevi il fiato», rispose con disprezzo. «Tagliatemi la testa e fatela finita. Io ho già sottovalutato una volta le vostre capacità e questo è costato la vita a molti della mia gente. Non li tradirò ancora.»

Sir Roger annuì.

«Mi aspettavo una tale risposta», osservò. «Ma che fine ha fatto Hubert il Guercio?»

«Sono qui, Milord eccolo qui, il buon vecchio Hubert.» e il boia del Barone arrivò zoppicando, aggiustandosi il cappuccio. Sotto un braccio scarno stringeva l’ascia e sulla gobba portava la corda col cappio in fondo. «Stavo girando per il campo Milord, e raccoglievo fiori per la mia nipotina. La conoscete anche voi, quella bimbetta dai lunghi riccioli d’oro; a lei piacciono tanto le margherite. Speravo di trovare qualche fiore in questa terra pagana che le ricordasse le margherite del nostro caro Lincolnshire per farne poi una collana…»

«Ho del lavoro per te», disse Sir Roger.

«Ah, sì, sì sicuro.» L’unico occhio cisposo del vecchio ammiccò, poi il boia si strofinò le mani ed esclamò: «Ah, grazie, Milord! Non è che voglia criticare, ma questo non è il posto del vecchio Hubert, e lui sa qual è il suo umile posto, lui che ha servito da uomo e da ragazzo, e suo padre e suo nonno prima di lui, quale boia dei Nobili de Tourneville. No, Milord, io conosco il mio posto e non me ne allontano, così come comandano le Sacre Scritture. Ma Dio mi è testimone che avete tenuto il vecchio Hubert assai inoperoso in tutti questi anni. Ora vostro padre, Sir Raymond, lui lo chiamavamo Raymond dalle Rosse Mani, lui sì che era un uomo che apprezzava quest’arte. Ma anche se io ricordo vostro padre, Milord, vostro nonno era il vecchio Nevil Artiglio Feroce e della sua giustizia, se ne parlava in tre Contee. Ai suoi tempi, la plebe sapeva stare al suo posto e i gentili potevano ancora trovare un buon servo con una paga ragionevole, non era come adesso che se la cavano per bontà vostra con una multa o magari con un giorno di prigione. Sì, è proprio uno scandalo oggi…»

«Basta,» esclamò Sir Roger. «Il muso azzurro qui presente è ostinato. Tu pensi di riuscire a persuaderlo a collaborare.»

«Oh, bene, Milord! Bene, bene, bene!» Hubert si succhiò le gengive sdentate con sommo diletto e girò attorno al nostro prigioniero, studiandolo da tutte le angolature. «Oh, questa è proprio sì, sì, sì, il Cielo benedica il mio buon padrone! Ora ho portato pochi attrezzi con me, solo qualche stringipollici, pinze e altre cosucce del genere, ma non ci metterò molto a preparare una ruota. E magari anche un pentolone di olio bollente. Lo dico sempre io, Milord, che in una bella giornata grigia non c’è nulla di più piacevole di un braciere acceso e di un bel pentolone di olio bollente. Quando penso al mio vecchio buon padre, mi vengono le lacrime a questo vecchio occhio, sicuro. Vediamo, vediamo, tum-te-tum-te-tum.»

Canticchiando, cominciò a prendere le misure di Branithar con la sua corda.

Il Wersgor balzò indietro. La sua conoscenza dell’inglese, per quanto imperfetta, era sufficiente a fargli capire il senso della conversazione.

«Non lo farete!», gridò. «Nessun popolo civile oserebbe…»

«Ora fammi vedere la mano, per favore.» Hubert prese uno stringipollici dalla sua bisaccia e lo tenne accostato alle dita azzurre del Wersgor. «Sì, sì, la misura è proprio quella giusta.» Quindi cominciò ad estrarre una serie di piccoli coltelli. «Sumer is icumen in,» canticchiò, «Ihude sing cucu.»

Branithar sussultò.

«Ma voi non siete civili», protestò debolmente. Poi con voce soffocata, ringhiò: «Va bene, lo farò! Maledetti mostri! Ma, quando la mia gente vi avrà schiacciato, verrà il mio turno di divertirmi!»

«Io posso aspettare.» lo assicurai.

Sir Roger era raggiante. Ma, improvvisamente, il suo viso divenne di nuovo sicuro. Il vecchio boia, che era molto sordo, stava ancora inventariando tutti i suo aggreggi.

«Fratello Parvus,» mi disse il mio Signore, «vuoi essere tu… te la senti… di comunicare la notizia a Hubert? Confesso di non avere il coraggio di dirgliela io.»

Riuscii a consolare il buon Hubert, assicurandolo che, se avessimo sorpreso Branithar a mentire, o comunque a non aiutarci onestamente, la punizione non sarebbe mancata. Questo bastò per farlo allontanare tutto felice per andare a costruire una ruota, ed io raccomandai alla guardia di Branithar di far sì che questi non mancasse di vederne la costruzione.

CAPITOLO X

Finalmente venne il momento del nuovo incontro col nemico.

Poiché molti dei suoi uomini erano impegnati nello studio delle macchine nemiche, Sir Roger completò la sua delegazione portando con sé le mogli, tutte elegantissime nei loro abiti più belli. Per il resto fummo accompagnati, io e lui, solo da pochi soldati disarmati, abbigliati con i paramenti di Corte.

Mentre attraversavamo a cavallo il campo per raggiungere la struttura a pergola che la macchina wersgoriana aveva eretto in un’ora tra i due campi, una struttura di una stoffa perlacea e lucente, Sir Roger disse alla moglie:

«Se potessi scegliere, preferirei non portavi con me in una missione così pericolosa, ma dobbiamo fare colpo su di loro con la nostra potenza e le nostre ricchezze.»

Il viso di Lady Catherine rimase di pietra, voltato verso le lunghe e sinistre colonne delle navi a terra.

«Qui non ci sarà per me più pericolo, Milord, di quanto ce ne sia per i miei figli nel padiglione dove si trovano ora.»

«In nome di Dio!», mugolò Sir Roger. «Ho sbagliato. Avrei dovuto lasciare stare quel vascello e mandare un messaggio al Re, ma adesso mi rinfaccerete questo errore per tutta la nostra vita?»

«Forse non sarà una vita lunga grazie al vostro errore», lo rimbottò Lady Catherine.

Sir Roger assunse un’espressione offesa.

«Il giorno del nostro matrimonio giuraste…»

«Oh, sì. E non ho forse mantenuto il giuramento? Non vi ho mai rifiutato obbedienza.» Le guance di lei si infiammarono. «Ma solo Dio può comandare ai miei sentimenti.»

«Non vi procurerò un ulteriore incomodo,» ribatté Sir Roger con voce impastata.

Questo non lo sentii, però. Loro due cavalcavano davanti a noi e il vento faceva svolazzare i loro mantelli scarlatti, il berretto piumato di lui, ed i veli del copricapo conico di lei, fornendoci l’immagine perfetta del cavaliere e del suo amore. Ma io mi arrischio a scriverlo, di mia iniziativa, alla luce della malasorte che ne seguì.

Poiché Lady Catherine era di Sangue Nobile, riusciva a controllare il proprio comportamento. E, quando giungemmo nel luogo dell’incontro, i suoi lineamenti delicati mostravano solo un freddo disprezzo nei confronti del comune nemico. Con grazia accettò la mano di Sir Roger e smontò con eleganza felina. Lui le fece strada più goffamente e con la fronte accigliata.

Sotto la pergola c’era un tavolo rotondo, circondato da una specie di banco imbottito. I capi wersgoriani ne occupavano una metà, coi loro visi azzurri impenetrabili rivolti verso di noi e gli occhi irrequieti. Indossavano delle casacche di maglia metallica con insegne di bronzo per indicarne il rango. Gli Inglesi, con le loro sete, le catene d’oro, le piume di pavone, le brache di pelle di pecora, le maniche a sbuffo, e le scarpe a punta rialzata, sembravano tanti galli in un pollaio.

Vidi che gli alieni erano stati presi alla sprovvista e il contrasto del mio semplice saio di frate li confuse ancora di più.

In piedi, giunsi le mani e dissi in lingua wersgoriana:

«Per il successo dei nostri colloqui, come pure per sigillare la tregua, permettete che reciti un Paternoster.»

«Un cosa?», chiese il capo dei nemici, un muso azzurro alquanto grasso ma pieno di dignità e con un viso deciso.

«Silenzio, per favore.»

Avrei voluto spiegar loro cos’era un Paternoster, ma la loro abominevole lingua non sembrava avere una parola che significasse preghiera; l’avevo già chiesto a Branithar.

«Pater noster, qui est in coelis,» cominciai, mentre gli Inglesi si inginocchiavano con me.

Sentii uno dei Wersgorix che sussurrava:

«Vedete, ve l’avevo detto che erano barbari. Questo dev’essere un loro rituale superstizioso.»

«Io non ne sono così sicuro.» rispose il capo, dubbioso. «I Jair di Boda hanno anche loro certe formule di integrazione psicologica, mediante le quali li ho visti raddoppiare temporaneamente le loro forze, o far smettere ad una ferita di sanguinare o stare giorni e giorni senza dormire. Si tratta di un controllo degli organi interni per mezzo del sistema nervoso… ma, nonostante tutta la nostra propaganda contro di loro, sappiamo benissimo che i Jair hanno una civiltà scientifica quanto la nostra.»

Mi fu facile sentire questo scambio di opinioni tra gli alieni, ma loro non parvero rendersi conto che li avevo capiti. Poi ricordai che anche Branithar mi era sembrato un po’ sordo. Evidentemente tutti i Wersgorix avevano un udito inferiore a quello degli uomini.

Questo, come appresi in seguito, era dovuto al fatto che il loro pianeta natale aveva un’atmosfera più densa di quella della Terra che rendeva tutti i rumori più distinguibili. Qui su Tharixan, invece, con un’aria che era simile a quella dell’Inghilterra, i Wersgorix erano costretti ad alzare la voce per farsi sentire. Ma per ora accettai grato quel dono di Dio, senza indugiare nel chiedermi perché fosse così, e stando ben attento a non far capire al nemico che potevo sentirli.

«Amen», dissi alla fine, e ci sedemmo tutti attorno al tavolo.

Sir Roger trafisse il capo con i suoi occhi grigi e gelidi.

«Vorrei sapere se sto trattando con una persona di rango adeguato…», chiese.

Io tradussi.

«Cosa volete dire con questa parola, "rango"?», indagò il capo dei Wersgorix. «Io sono il Governatore di questo pianeta e quelli che sono con me sono i più importanti funzionari delle Forze di Sicurezza.»

«Quel che vuol sapere il mio Signore,» gli spiegai, «è se voi siete di nascita sufficientemente elevata da non farlo disonorare nel trattare con voi.»

A questo punto i Wersgorix apparvero ancora più stupefatti. Cercai di spiegargli come meglio potevo il concetto di "gentile": impresa che col mio limitato vocabolario non fu affatto agevole. Dovemmo dibattere la questione per parecchio tempo finché, alla fine, uno degli alieni disse al suo campo:

«Credo di capire adesso, Grath Huruga. Se loro ne sanno più di noi sull’arte degli incroci per ottenere certe caratteristiche…» dovetti interpretare molte parole nuove per me dal loro contesto, «… allora può darsi che abbiano applicato queste conoscenze anche a se stessi. Forse tutta la loro civiltà è organizzata come una forza militare al cui comando stanno questi superesseri creati con tanta cura attraverso incroci selezionati.» Ebbe un brivido a quel pensiero. «Naturalmente, in questo caso non sarebbero disposti a sprecare il loro tempo a parlare con esseri di intelligenza inferiore.»

Un altro funzionario esclamò:

«No, è troppo fantastico! Nel corso di tutte le nostre esplorazioni non abbiamo mai trovato…»

«Noi abbiamo toccato solo un minuscolo frammento della Via Lattea,» rispose Huruga. «È meglio non correre il rischio di sottovalutarli, fintanto che non ne sapremo di più.»

Io, che ero ad ascoltare quelli che consideravano sussurri, rivolsi loro il mio sorriso più enigmatico.

Il Governatore mi disse:

«Il nostro Impero non ha i ranghi stabili, ma ogni persona assume il rango che compete ai suoi meriti. Io, Huruga, sono la più alta autorità di Tharixan.»

«Allora posso trattare con voi finché non sarà stato avvertito il vostro Imperatore», disse Sir Roger per mio tramite.

La parola «Imperatore» mi creò qualche difficoltà. In realtà il dominio dei Wersgorix non assomigliava a nulla di quanto conoscessimo sulla Terra. La maggior parte delle persone ricche ed importanti avevano nelle loro vaste proprietà con un seguito di musi azzurri loro sottoposti. Tra loro comunicavano per mezzo di un apparecchio chiamato telecomunicatore e si spostavano su veloci barche aeree o astronavi.

Poi c’erano sono le altre classi di cui ho già parlato prima: i guerrieri, i mercanti e i politici. Ma nessuno assumeva nella vita una certa posizione per diritto di nascita. In base alla legge, tutti erano uguali, liberi di prodigarsi al meglio delle loro capacità per ottenere denaro o posizione sociale.

Tutti i Wersgorix erano privi di cognome e venivano identificati con un numero in un ufficio del registro centralizzato. Maschi e femmine raramente vivevano insieme per più di qualche anno, ed i figli venivano mandati a scuola ancora molto piccoli fino a raggiungere la maturità, perché i genitori spesso li consideravano più un peso che una benedizione.

Tuttavia questo regno, che in teoria poteva sembrare una repubblica di uomini liberi, in pratica era la peggior tirannia che l’umanità avesse mai conosciuto, perfino peggiore degli infausti tempi di Nerone.

I Wersgorix non provavano nessun affetto particolare per il loro luogo di nascita, né sentivano i legami di parentela p gli impegni del dovere. Il risultato era che ogni individuo si trovava assolutamente solo di fronte all’onnipotente governo centrale.

In Inghilterra, quando Re Giovanni era divenuto troppo arrogante, si era scontrato sia con la vecchia legge sia con gli interessi locali consolidati; così i Baroni lo avevano imbrigliato ed avevano pronunciato qualche nuova parola a favore della libertà per tutti gli Inglesi. I Wersgorix, invece, erano una razza servile, incapace di protestare contro i decreti arbitrari dei superiori. La «Promozione secondo i meriti» significava solo la «promozione secondo l’utilità di una persona nei confronti dei Ministri Imperiali».

Ma ecco che sto divagando, una brutta abitudine per la quale anche il mio Arcivescovo è stato spesso costretto a rimproverarmi. Ritorno allora ai ricordi di quel giorno, sotto quel padiglione perlaceo, in cui Huruga rivolse i suoi terribili occhi verso di noi e disse:

«A quanto sembra voi vi dividete in due varietà. Siete due specie diverse?»

«No,» rispose uno dei suoi funzionari. «si tratta di due sessi, ne sono sicuro. È evidente che sono mammiferi.»

«Ah, sì.» Hurruga fissò i costumi delle dame dall’altra parte del tavolo, costumi dalla scollatura profonda come usa la moda di questi tempi svergognati. «Vedo, infatti.»

Quando ebbi tradotto questo per Sir Roger, il Barone rispose:

«Digli in caso siano curiosi, che le nostre donne impugnano la spada a fianco degli uomini.»

«Ah.» Huruga mi aggredì. «Quella parola: "spada". Ti riferisci ad un’arma da taglio?»

Non avevo tempo di chiedere consiglio al mio Signore, perciò pregai dentro di me per riuscire a mostrarmi deciso e risposi.

«Sì. Le avete osservate sulle nostre persone al campo. Troviamo che sono le armi migliori da usare per il combattimento corpo a corpo. Provate a chiedere ai superstiti della guarigione di Ganturath.»

«Mmm… sì». Uno dei Wersgorix assunse un’espressione truce. «Noi abbiamo trascurato per secoli l’arte del combattimento individuale, Grath Huruga. Non sembrava esercitare bisogno, ma ricordo uno degli scontri non ufficiali che abbiamo avuto con i Jairs. Avvenne su Uloz IV, e i Jairs si servirono di lunghi coltelli con effetti terribili.»

«Per scopi speciali… sì, sì.» Huruga fece una smorfia. «Ma rimane il fatto che questi invasori corrono in groppa ad animali vivi…»

«Che non hanno necessità di combustibile, Grath, a parte un po’ di vegetazione.»

«Ma che non potrebbero resistere ad un raggio calorifero o ad una pallottola. Questa gente usa armi che appartengono alla preistoria. E sono arrivati qui a bordo di una nostra astronave, non di una loro…»

A quel punto interruppe il mormorio e, rivolto a me, abbaiò:

«Basta adesso! Abbiamo già perso abbastanza tempo! Fate come vogliamo noi o vi distruggeremo.»

Io tradussi.

«Lo schermo di energia ci protegge dalle armi a fiamma», rispose Sir Roger. «E, se desiderate attaccarci a piedi, sarete i benvenuti».

Huruga divenne paonazzo.

«Credete forse che uno schermo di energia potrà fermare una granata esplosiva?», ruggì. «Potremmo sganciarne una sola, farla scoppiare all’interno del vostro schermo e annientarvi tutti fino all’ultimo essere!»

Sir Roger fu preso meno alla sprovvista di me.

«Abbiamo già sentito parlare di simili armi esplosive», mi disse. «Naturalmente sta cercando di spaventarci con questa storia che basterà un solo scoppio per distruggerci. Non c’è nessuna nave così grande da poter imbarcare una tal massa di polvere nera. Mi prende forse per un bifolco che crede a qualsiasi panzana? È però vero che potrebbe fare esplodere diversi barilotti esplosivi nel nostro campo.»

«Allora cosa gli rispondo?», chiesi impaurito.

Gli occhi del Barone balenarono.

«Cerca di rendere la mia risposta con la massima esattezza, Fratello Parvus: "In questo momento noi tratteniamo il fuoco delle nostre artiglierie perché desideriamo parlare con voi, non semplicemente distruggervi. Ma, se insistete nel volerci bombardare, allora cominciate, per favore. Le nostre difese vi respingeranno. Ma ricordatevi che non intendiamo tenere i prigionieri wersgoriani all’interno di queste difese".»

Vidi che la minaccia li aveva scossi. Perfino quei cuori induriti non potevano coscientemente uccidere centinaia di persone della loro stessa razza. Certo gli ostaggi non li avrebbero tenuti immobilizzati per sempre, ma se non altro potevano farci guadagnare tempo, intanto che si trattava. Mi chiesi però che cosa ne avremmo fatto di quel tempo, se non dedicarlo a preparare le nostre anime alla morte.

«Be’,» osservò imbarazzato Huruga. «Non intendevo dire che non ero disposto ad ascoltarvi, ma non ci avete ancora detto perché siete venuti qui in questa maniera, senza essere stati provocati.»

«Siete voi che ci avete attaccati per primi, senza che noi vi avessimo mai fatto nulla», rispose Sir Roger. «In Inghilterra a un cane non permettiamo più di un morso. E il mio Re mi ha inviato qui per darvi una lezione.»

Hurruga chiese:

«Con una sola nave? E neanche delle vostre?»

Sir Roger rispose:

«Non mi pareva il caso di portarne più del necessario.»

«Così, per amore di discussione, quali sarebbero le vostre richieste?»

Allorché Sir Roger disse:

«Il vostro Impero deve dichiarare la sua sottomissione al mio potentissimo Signore di Inghilterra, Irlanda, Galles e Francia.»

Harruga ribatté:

«Via siamo seri, adesso!»

Sir Roger insisté:

«Io sono serissimo, addirittura solenne. Ma, per risparmiare ulteriori bagni di sangue, sono disposto ad incontrarmi con qualsiasi campione da voi designato, e con qualsiasi arma, allo scopo di derimere la questione con un unico combattimento. E che Cio protegga chi è nel giusto!»

«Ma siete tutti scappati da un manicomio?», esclamò Huruga.

«Considerate la vostra posizione», disse Sir Roger: «Noi abbiamo improvvisamente scoperto la vostra razza, una potenza pagana con arti e armi simili alle nostre ma inferiore. Voi potreste provocarci una certa quantità di danni, disturbare le nostre linee di navigazione, compiere incursioni sui pianeti da noi meno protetti. Tutto questo richiederebbe che vi sterminassimo, ma siamo troppo pietosi per provarne soddisfazione. L’unica alternativa ragionevole è di accettare il vostro omaggio.»

«E voi vi aspettate veramente di… un manipolo di esseri montati su cavalli e brandenti le spade… bub-bub-bub-bub-bub…» A quel punto Huruga si interruppe e si consultò coi suoi funzionari. «Accidenti a questo problema di traduzione!», brontolò. «Non sono mai sicuro di avere capito esattamente. Però potrebbero anche far parte di una spedizione punitiva che per ragioni di segretezza militare ha impiegato una delle nostre astronavi tenendo di riserva le loro armi più potenti. Tutto questo non ha senso, ma non ha neppure senso che dei barbari vengano a ingiungere al più potente impero dell’universo conosciuto di arrendersi e rinunciare ad ogni autonomia. A meno che non si tratti di un semplice bluff… però potrebbe anche darsi che abbiamo completamente frainteso le loro richieste, e questo potrebbe essere un guaio grosso per noi. Qualcuno ha qualche idea?»

Nel frattempo dissi a Sir Roger:

«Voi non parlate seriamente, vero, Milord?»

Lady Catherine non riuscì a resistere e sbottò: «Forse sì.»

«No.» Il Barone scosse la testa. «Certo che no. Cosa potrebbe farsene Re Edoardo di una massa di turbolenti musi azzurri? Ci sono già gli Irlandesi che procurano abbastanza grattacapi. No, io spero solo che loro tirino a trattare al ribasso. Se riusciamo a strappar loro la garanzia che lasceranno stare la Terra, e se magari ci concedono anche qualche forziere colmo d’oro…»

«E una guida per tornare a casa», osservai scuro in volto.

«Questo è un problema che dovremo risolvere più tardi», scattò il mio signore. «Non c’è tempo adesso. Non possiamo certo ammettere con il nemico che siamo persi.»

Huruga tornò a rivolgersi a noi.

«Dovete certo rendervi conto anche voi che le vostre richieste sono oltraggiose», disse. «Comunque, se siete in grado di dimostrare che il vostro Impero è così vasto e potente da far sì che ne valga la pena, il nostro Imperatore sarà felice di ricevere un Ambasciatore.»

Sir Roger sbadigliò e rispose in tono languido, sempre tramite me.

«Risparmiatevi gli insulti. Il mio Monarca riceverà forse un vostro emissario, sempre che quella persona adotti la vera Fede.»

«Cos’è la Fede?», chiese Huruga, perché ero stato di nuovo costretto ad usare una parola inglese.

«La convinzione della Verità Rivelata», dissi. «La realtà di Colui che è fonte di ogni bene e di ogni saggezza, e che noi preghiamo umilmente per ottenere la guida.»

«Adesso cosa va blaterando, Grath?», mormorò un funzionario.

«Non so», sussurrò Huruga in risposta. «Forse questi, uh, Inglesi, dispongono di un gigantesco computer a cui sottopongono le questioni più importanti per una decisione… non so. Accidenti a questi problemi di traduzione! Meglio che cerchiamo di guadagnare tempo. Osserviamoli, studiamo il loro comportamento, riflettiamo su quanto abbiamo sentito.»

«Dobbiamo inviare un messaggio a Wersgorixan?»

«No, idiota! Non ancora: prima ne dobbiamo sapere di più. Vuoi che l’Ufficio Centrale pensi che non sappiamo sbrogliarcela coi nostri problemi? Se questi sono veramente semplici pirati barbari, ti immagini cosa sarebbe della nostra carriera se chiedessimo l’intervento di tutta la flotta?»

Huruga si volse verso di me e disse ad alta voce:

«Abbiamo tutto il tempo necessario per la discussione. Aggiorniamo quindi la riunione a domani ed intanto studiamo bene ogni possibilità.»

Sir Roger ne fu ben contento.

«Accertiamoci bene delle condizioni della tregua, però», aggiunse.

Man mano che il tempo passava, mi diventava sempre più agevole l’uso della lingua wersgoriana, così riuscii rapidamente a capire che il loro concetto di tregua non era simile al nostro. La loro insaziabile fame di terre li aveva resi nemici di tutte le altre razze, perciò non riuscivano ad immaginare un giuramento vincolante scambiato con qualcuno che non fosse di pelle azzurra e munito di coda.

L’armistizio non era affatto un concordato formale, dichiararono che allo stato attuale delle cose non trovavano utile spararci addosso, anche quando facevamo pascolare le vacche al di fuori dello schermo d’energia.

Questo sarebbe continuato a valere fintantoché anche noi non avessimo attaccato i wersgoriani che si muovevano allo scoperto. Inoltre, nessun dei due voleva che l’altro volasse in vista dei campi per paura che si compissero missioni di spionaggio o si lasciasse cadere qualche barilotto esplosivo per cui, se si fosse lavata in volo qualche nave, questa sarebbe stata senz’altro abbattuta.

E questo fu tutto. Naturalmente, i musi azzurri sarebbero stati dispostissimi a violare questo accordo se avessero deciso che tornava loro utile, e ci avrebbero senz’altro inflitto dei danni se avessero visto la possibilità di farlo, e naturalmente si aspettavano che anche noi la pensassimo allo stesso modo.

«Loro sono avvantaggiati, Milord», osservai in tono funebre. «Le nostre navi volanti sono tutte qui. Ora noi non possiamo saltare a bordo delle astronavi e volare via perché loro ci salterebbero addosso prima che potessimo eludere gli inseguitori, mentre loro invece dispongono di molte altre navi su questo pianeta che possono levarsi liberamente in volo oltre l’orizzonte per essere pronte ad aggredirci quando verrà il momento.»

«È vero,» ammise Sir Roger, «ma, ciononostante, intravedo dei vantaggi. Questa faccenda di non fare promesse solenni né di aspettarsi di riceverne… sì…»

«Vi sta benissimo», mormorò Lady Catherine.

Sir Roger sbiancò in volto, balzò in piedi, poi si inchinò di fronte ad Huruga e ci guidò fuori dal padiglione.

CAPITOLO XI

Il lungo pomeriggio permise ai nostri di fare considerevoli progressi. Grazie all’aiuto di Branithar che li istruiva o facendo da interprete a quei prigionieri che erano esperti dell’arte in questione, gli Inglesi impararono presto a usare i comandi di diversi congegni.

In breve riuscirono a sollevare le astronavi e gli altri vascelli volanti più piccoli di qualche centimetro da terra, non di più, per non essere colpiti dal nemico se li avesse scorti. Impararono anche a spostarsi a bordo di carri senza cavalli; impararono a usare i telecomunicatori, gli apparecchi ottici d’ingrandimento ed altri strumenti alieni; impararono a maneggiare le armi che proiettavano il fuoco o il metallo e anche gli invisibili raggi stordenti.

Naturalmente noi Inglesi non avevamo mai usato prima questi telecomunicatori né gli apparecchi ottici d’ingrandimento, né tantomeno conoscevamo le procedure occulte che stavano dietro di essi, ma trovammo che usarli era un gioco da bambini. A casa nostra eravamo abituati a imbrigliare gli animali, a costruire complicate balestre e catapulte, a montare il sartiame delle navi in partenza e ad erigere macchine mediante le quali i muscoli umani riuscivano a sollevare anche pietre pesantissime.

Ora, al confronto, questi volani da girare o leve da abbassare erano uno scherzo. L’unica vera difficoltà, però, era che gli uomini più ignoranti faticavano a ricordare cosa significassero i diversi simboli sugli elementi, anche se questa scienza non era più complicata dell’araldica che qualsiasi ragazzo amante delle gesta eroiche era capace di snocciolare con la massima precisione.

Io, poiché ero l’unica persona in grado di leggere l’alfabeto wersgoriano, mi diedi da fare con le carte che avevo trovato negli uffici della fortezza.

Nel frattempo, Sir Roger conferiva coi suoi Capitani e dava ordini ai servi più ottusi, che non erano in grado di apprendere il funzionamento di quelle nuove armi, perché costruissero certi ripari. Il sole aveva iniziato il suo lento tramonto, trasformando metà del cielo in oro, quando mi mandò a chiamare davanti al suo comitato d’azione.

Io mi sedetti e guardai quei volti duri e magri, tutti animati da una nuova speranza. La lingua mi si appiccicò al palato. Conoscevo bene quei Capitani e soprattutto sapevo bene come ballassero gli occhi di Sir Roger quando stava covando qualche trovata infernale!

«Hai scoperto quali sono e dove si trovano i principali castelli di questo pianeta, Fratello Parvus?», mi chiese.

«Sì, Milord» risposi. «Ce ne sono solo tre, e Ganturath era uno di essi.»

«È incredibile!», esclamò Sir Owain di Montbell. «Sarebbe bastato un attacco di pirati per…»

«Voi dimenticate che qui non ci sono regni separati e neppure feudi separati», risposi. «Tutti sono direttamente sottoposti al Governo Imperiale. Le fortezze servono solo da residenza degli Sceriffi, i quali devono tenere l’ordine tra la popolazione ed incassare le tasse.

«È vero che queste fortezze sono anche considerate basi difensive, infatti ospitano anche bacini per le grandi astronavi e vi sono acquartierati guerrieri, ma è ormai da molto tempo che i Wersgorix non combattono più vere guerre. Hanno semplicemente sottomesso con la violenza dei selvaggi inermi, e nessuna delle altre razzi che conoscono i viaggi stellari oserà mai dichiarare loro guerra; solo di tanto in tanto si verifica qualche scaramuccia su qualche remoto pianeta. In definitiva, insomma, queste tre fortezze sono più che sufficienti per questo mondo.»

«Quanto sono forti?», sbottò Sir Roger.

«Sull’altro lato del globo ce n’è una chiamata Stularax, più o meno simile a Ganturath. Poi c’è la fortezza principale. Darova, dove risiede il Proconsole, Huruga. Questa è di gran lunga la più grande e la più forte, ed immagino che proprio da là vengono la maggior parte delle navi e dei guerrieri che abbiamo di fronte adesso.»

«E dove si trova il mondo più prossimo abitato da questi musi azzurri?»

«Stando a un libro che ho studiato, a circa venti anni luce da qui. In quanto a Wersgorixan, il pianeta principale, è molto più lontano… più lontano perfino della Terra.»

«Ma il telecomunicatore potrebbe informare immediatamente l’Imperatore di quanto è successo, no?», chiese il Capitano Bullard.

«No», risposi. «Il telecomunicatore funziona con una velocità che è pari solo a quella della luce. I messaggi tra una stella e l’altra devono essere trasmessi tramite astronave, il che significa che, per informare Wersgorixan, occorrerà qualche settimana. Huruga, però non l’ha ancora fatto. L’ho sentito bisbigliare ad uno della Sua Corte che avrebbe cercato di mantenere la faccenda segreta per un certo tempo.»

«Sì,» osservò Sir Brian Fitz-William. «Il Duca cercherà sicuramente di redimersi per quel che ha fatto, distruggendoci da solo prima di inviare una qualsivoglia comunicazione. È un modo di pensare piuttosto comune.»

«Ma se lo colpiamo abbastanza brutalmente, vedrete come griderà aiuto», profetizzò Sir Owain.

«Esattamente», convenne Sir Roger. «Ed io ho studiato il modo di colpirlo con brutalità!»

Mi resi tristemante conto che, quando la lingua mi si era appiccicata al palato, avevo intuito in anticipo come sarebbe andate le cose.

«Ma come faremo a combattere?», chiese Bullard. «Noi non disponiamo di una quantità tale di armi demoniache da poter competere con quelle che ci troviamo di fronte. Se fosse necessario, potrebbero perfino speronarci, nave contro nave, senza risentire delle loro perdite.»

«Proprio per questa ragione,» gli rispose Sir Roger, «io propongo un’incursione contro il forte più piccolo, Stularax, allo scopo di procurarci altre armi. Questo servirà anche a scuotere la fiducia che Huruga ha in sé.»

«Oppure a spingerlo ad attaccarci.»

«Questo è un rischio che dobbiamo correre. Male che vada non mi terrorizza affatto un’altra battaglia. Non capite? L’unica speranza è appunto quella di agire con audacia.»

Non ci furono grandi obiezioni. Sir Roger aveva avuto varie ore a sua disposizione per lavorarsi i suoi uomini. Adesso erano tutti ben pronti ad accettare anche la sua guida. Ma Sir Brian obiettò ragionevolmente:

«Come faremo ad effettuare questa incursione? Quel castello si trova a migliaia di miglia da qui. E non possiamo allontanarci in volo dal nostro campo senza venire abbattuti.»

Sir Owain inarcò le sopracciglia, beffardo.

«Forse avete un cavallo magico?», chiese sorridendo a Sir Roger.

«No. Ma ho altre bestie. Ascoltatemi…»

Quella fu una lunga notte di lavoro per gli uomini che misero degli sci sotto una delle astronavi più piccole, vi attaccarono diverse pariglie di buoi e la trascinarono fuori della fortezza senza fare il minimo rumore. Il suo passaggio sui campi scoperti fu mascherato da mandrie di bestiame disposte attorno come se pascolassero.

Grazie alle tenebre ed al benvolere del Signore, il trucco riuscì. Una volta al riparo delle folte chiome di quegli alberi molto alti, come una cintura di uomini di scorta che si muovevano come ombre per avvertire in anticipo della presenza di eventuali soldati azzurri («Tutta gente che ha fatto pratica a casa col bracconaggio», aveva detto Red John), il lavoro fu più sicuro ma anche più difficoltoso.

Era quasi l’alba quando finalmente la barca si trovò a diverse miglia dal campo, sufficientemente lontano per sollevarsi in aria senza essere vista dal Quartier Generale nel campo di Huruga.

Questo vascello, però, nonostante fosse il più grosso che ci fosse stato possibile spostare a quel modo, era sempre troppo piccolo per trasportare le armi più formidabili. Sir Roger, tuttavia, aveva esaminato durante il giorno i proiettili esplosivi sparati da certi tipi di armi. Poi si era fatto spiegare da un tecnico wersgoriano terrorizzato come innescare la miccia, in modo da fare esplodere la granata al momento del suo impatto. Adesso la barca trasportava diversi di questi proiettili esplosivi oltre ad un trabucco smontato in vari pezzi, che avevano costruito gli artigiani del Barone.

Nel frattempo, tutti coloro che non erano impegnati in questa operazione, erano stati adibiti al rafforzamento delle difese del campo. Perfino donne e bambini ricevettero delle pale. Nella foresta vicina si sentivano sibilare le asce. Per quanto fosse lunga la notte, essa ci sembrò ancora più lunga, mentre lavoravamo al limite dell’esaurimento, fermandoci solo quel tanto che serviva a divorare un tozzo di pane o a schiacciare un breve pisolino.

I Wersgorix ci osservavano mentre sgobbavamo, il che non poteva essere evitato, ma noi cercammo di nascondere loro ciò che facevamo veramente, affinché non vedessero che stavamo semplicemente circondando l’altra metà di Ganturath con palizzate, buche, chiodi tripunte, e cavalli di frisia. Quando arrivò il mattino e la luce del giorno, le nostre installazioni erano nascoste dall’erba alta.

Io stesso accolsi quel durissimo lavoro con piacere, perché serviva a calmare i miei timori. La mia mente, tuttavia, continuava a tornarci su come un cane che non molla l’osso. Sir Roger era forse impazzito? Tante, troppe sembravamo le cose che aveva fatto nel modo sbagliato. Ma, ad ogni domanda, ritrovavo anch’io le sue risposte.

Perché non eravamo fuggiti via nello stesso istante in cui ci eravamo impadroniti di Ganturath, invece di aspettare l’arrivo di Huruga che ci aveva così bloccati a terra? Risposta: perché avevamo perso la strada del ritorno e non avevamo la minima probabilità di ritrovarla senza l’aiuto di esperti marinai spaziali. (Ammesso sempre che fosse possibile ritrovarla). E la morte era sempre meglio di un cieco vagabondare tra le stelle… dove saremmo comunque morti nel giro di breve tempo per via della nostra ignoranza.

Adesso dopo aver guadagnato una tregua, perché Sir Roger aveva corso il gravissimo rischio di romperla subito attaccando Stularax? Infatti era evidente che la tregua non sarebbe potuta durare all’infinito. Una volta che avesse avuto il tempo di riflettere su quanto aveva visto, Huruga avrebbe scoperto il nostro bluff e ci avrebbe distrutti. Così invece, non avrebbe saputo bene cosa pensare della nostra audacia, e, forse, avrebbe continuato a crederci più potenti di quanto fossimo in realtà. Oppure, se avesse deciso di attaccarci, noi avremmo potuto trovarci più forti per via delle armi catturate nel corso dell’imminente incursione.

Ma Sir Roger si aspettava veramente che un piano così folle potesse aver successo? Solo Dio e lui stesso avrebbero potuto rispondere a questa domanda. Io sapevo che il Barone improvvisava man mano che procedeva, come un corridore che incespica e che improvvisamente deve correre ancora più forte se non vuole cadere lungo disteso.

Ma come correva meravigliosamente!

Quella riflessione mi calmò. Così affidai il mio destino al Cielo e mi misi a lavorare di vanga con cuore più tranquillo.

Appena prima dell’alba, mentre la nebbiolina dilagava filiforme tra gli edifici, le tende, e le bombarde da fuoco dal lungo muso, e la prima luce cominciava a tingere il cielo, Sir Roger diede il segnale della partenza ai suoi incursori. Erano venti: Red John con i migliori combattenti e Sir Owain di Montbelle come capo. Era curioso come il cuore spesso debole di questo cavaliere, si rinvigorisse sempre alla prospettiva del combattimento. Era quasi felice come un ragazzo mentre, avvolto in un lungo mantello scarlatto, stava lì ad ascoltare gli ordini.

«Attraverso i boschi, tenendovi sempre bene al coperto fino a raggiungere il punto in cui si trova la nave», gli disse il mio Signore. «Aspettate fino a mezzogiorno, poi decollate. Voi sapete come usare quelle mappe scorrevoli per la guida, vero? Bene, quando arrivate a Stularax — vi ci vorrà un’ora o giù di lì se volate ad una velocità che sembri ragionevole da queste parti — atterrate in un punto che vi offra una certa protezione. Poi tirate qualche granate col trabucco per indebolire le difese esterne, quindi, mentre sono ancora confusi, attaccate di volata a piedi; prendete tutto quel che potete dall’arsenale e tornate qui. Se qui è tutto traquillo, atterrate senza senza dare troppo nell’occhio, se invece stiamo combattendo, agite come vi sembra più opportuno.»

«Così sarà fatto, Milord.»

Sir Owain gli strinse la mano. Era destino che quel gesto non dovesse mai più ripetersi tra di loro.

Mentre si salutavano così sotto il cielo ancora oscuro, si udì una voce:

«Aspettate!»

Tutti gli uomini voltarono il viso verso gli edifici interni dove la nebbia si levava in dense volute e videro comparire tra di essa Lady Catherine.

«Ho sentito solo ora che state per partire,» disse la Signora a Sir Owain. «Dovete proprio farlo? Solo in venti contro un’intera fortezza?»

«Solo venti uomini…» Il giovane Nobile si inchinò con un sorriso che gli rischiarò il volto come un sole… «ed io, e il vostro ricordo, Milady!»

Il pallido viso di lei si imporporò e Lady Catherine passo davanti a Sir Roger, rigido come un sasso, avvicinandosi al giovane Cavaliere e fissando il proprio sguardo su di lui. Tutti si accorsero che le mani di Lady Catherine sanguinavano e stringevano una corda.

«Questa notte, quando non sono più stata in grado di sollevare una vanga,» sussurrò Lady Catherine, «ho aiutato a intrecciare le corde per gli archi. E non posso darvi altro come mio pegno».

Sir Owain lo accettò in un grande silenzio e, dopo averlo riposto all’interno della sua cotta di maglia d’acciaio, le baciò le piccole dita ferite. Poi, dopo essersi avvolto nel suo grande mantello, condusse i suoi uomini nella foresta.

Sir Roger non si era mosso dal suo posto. Lady Catherine gli fece un leggero gesto col capo.

«Oggi vi sederete al tavolo coi Wersgorix?», gli chiese.

Detto questo scivolò via nella nebbia verso il padiglione che ormai non ospitava più Sir Roger, e lui aspettò che fosse sparita alla vista prima di avviarsi nella stessa direzione.

CAPITOLO XII

I nostri approfittarono della lunga mattina per riposarsi a dovere.

Ormai ero in grado di leggere gli orologi wersgoriani, anche se non ero assolutamente sicuro di quello che fosse il rapporto tra le loro unità di tempo e le nostre ore terrestri. A mezzogiorno in punto, montai in groppa al mio cavallo e raggiunsi Sir Roger per andare alla conferenza. Era solo.

«Credevo che andassimo in gruppo», dissi con voce incerta.

Il suo viso era di pietra.

«Adesso non ce n’è più ragione», disse. «Potrebbe mettersi male per noi durante la conferenza quando Huruga verrà a sapere dell’incursione. Anzi, mi spiace di mettervi in pericolo, Fratello Parvus.»

Anche a me spiaceva, ma non dovevo perdere troppo a compatirmi, tempo che avrei potuto meglio usare per recitare il Rosario.

All’interno del padiglione perlaceo ci aspettavano gli stessi funzionari wersgoriani. Huruga dimostrò tutta la sua sorpresa quando ci vide.

«Dove sono gli altri negoziatori?», chiese con voce aspra.

«Sono impegnati a recitare le preghiere», risposi, il che era del resto anche vero.

«Ancora questa strana parola,» mugulò uno dei musi azzurri. «Cosa può voler dire?»

«Questo!», risposi. E glielo dimostrai recitando un Ave Maria e sgranando il Rosario.

«Si tratta di una specie di macchina calcolatrice, credo», rispose un altro Wersgor. «Ma non deve essere così primitiva come appare esternamente, però.»

«Ma cosa calcola?», sussurrò un terzo, con le orecchie ritte per la preoccupazione.

Huruga ci lanciò occhiate di fuoco.

«Adesso è ora di farla finita,» sbottò. «Avete lavorato tutta la notte laggiù. Se avete in mente qualche trucco…»

«Non avreste doluto averlo voi un piano?» lo interruppi con il mio tono mellifluo e cristianamente dolce.

Come speravo, l’insolenza lo sbalestrò.

Ci sedemmo.

Dopo aver riflettuto un momento, Huruga esclamò:

«Parliamo dei prigionieri. Io sono responsabile della sicurezza dei residenti di questo pianeta e non mi è assolutamente possibile trattare con chi tiene prigionieri dei Wersgorix. Quindi la prima condizione per proseguire questi negoziati è che i prigionieri vengano immediatamente rilasciati.»

«Allora è un vero peccato che non possiamo negoziare,» ribatté Sir Roger per mio tramite, «io non ho affatto l’intenzione di distruggervi.»

«E noi non lasceremo questo posto finché non mi saranno stati consegnati quei prigionieri», sbottò Huruga.

Io mi sentii mancare il fiato e lui sorrise gelido.

«Ho soldati pronti ad intervenire ad un mio ordine, se per caso anche voi avete portato qualcosa di simile a questo».

Si infilò una mano nella tunica ed estrasse una pistola lanciaproiettili. Io fissai la bocca dell’arma e sussultai.

Sir Roger sbadigliò e si lucidò le unghie su una manica di seta.

«Cos’ha detto?», mi chiese.

Glielo dissi.

«È un tradimento!», gemetti. «Era inteso che venissimo tutti disarmati.»

«No. Ricorda che non sono stati pronunciati giuramenti. Ma riferisci a "sua bassezza" il Duca Huruga, che avevo previsto questa eventualità e mi sono portato anch’io un’arma.»

Il Barone così dicendo, premette sull’anello dell’elaborato sigillo che portava al dito e strinse il pugno.

«Adesso l’ho innescata. Se rilascio il pugno per qualsiasi ragione prima di disinnescarla, la pietra esploderà con tale forza da proiettarci tutti quanti fino davanti a San Pietro.»

Coi denti che mi battevano, tradussi il mendace messaggio.

Huruga balzò in piedi.

«È vero?», ruggì.

«S… sì… è… vero,» risposi. «Lo g… giuro su Maometto.»

I musi azzurri si strinsero l’un l’altro per consultarsi. Dai loro frenetici sussurri appresi che in teoria era possibile l’esistenza di una bomba minuscola quanto quel sigillo, anche se nessuna razza nota ai Wersgorix era mai stata tanto abile da costruirne una.

Alla fine prevalse la calma.

«Bene!», osservò Huruga. «Sembra che siamo giunti ad un’impasse. Io personalmente sono convinto che stiate mentendo, ma non intendo mettere a repentaglio la mia vita.»

Tornò a infilarsi la pistola nella tunica.

«Vi rendete però conto anche voi che questa è una situazione impossibile. Se io non riuscirò ad ottenere personalmente la liberazione di quei prigionieri, sarò costretto a riferire tutta la questione al Comando Imperiale di Wersgorixan.»

«Non c’è bisogno di avere tanta fretta», rispose Sir Roger. «Noi tratteremo bene i nostri ostaggi. Se volete, potete anche mandare i vostri cerusici per accettarsi della loro salute. Per sicurezza però, dovremo sequestrarvi tutto il vostro armamento, in garanzia della vostra buona fede; ma in cambio monteremo la guardia contro i Saraceni.»

«I cosa?»

Huruga corrugò la fronte ossuta.

«I Saraceni. Pirati pagani. Non li avete incontrati? Mi sembra incredibile, perché quella gente dilaga in tutte le direzioni. In questo stesso momento una nave saracena potrebbe scendere proprio sul vostro pianeta natale per saccheggiarlo e ridurlo in cenere.»

Huruga sobbalzò. Chiamò vicino un funzionario e gli sussurrò qualcosa. Questa volta non riuscii a seguire quanto dicevano. Il funzionario uscì di corsa dal padiglione.

«Raccontatemi di questi Saraceni», disse Huruga.

«Con piacere.»

Il Barone si appoggiò allo schienale della sedia ed incrociò le gambe, pacifico. Io non sarei mai riuscito ad avere la sua calma. Ormai, da quanto potevo giudicare, la nave di Sir Owain doveva essere arrivata a Stularax. Perché infatti non dovete dimenticare che questa conversazione fu molto più lenta di quanto possa sembrare dallo scritto, a causa della traduzione, delle pause impiegate per spiegare qualche parola incomprensibile e la ricerca della frase giusta.

Eppure Sir Roger si mise a tessere il suo racconto come se avesse a disposizione tutta l’eternità. Spiegò che noi Inglesi avevamo aggredito così selvaggiamente i Wersgorix perché il loro inpensabile attacco ci aveva indotti a credere che fossero nuovi alleati dei Saraceni. Adesso che ci capivamo, però, era possibile che, col tempo, l’Inghilterra e Wersgorixan potessero raggiungere un accordo in modo da allearsi contro un comune pericolo…

Il funzionario wersgoriano si precipitò dentro di corsa. Dalla tendina scostata della porta, vidi i soldati del campo alieno che correvano ai loro posti mentre mi giungeva alle orecchie il rombo delle macchine che venivano messe in moto.

«Allora?», abbaiò Huruga avvolto al suo sottoposto.

«Sono giunti dei rapporti via telecomunicatore. È stato visto dalle fattorie più lontane un lampo brillante… Stularax è scomparsa… deve essere stata una granata di tipo superpotente…», rispose a scatti il funzionario mentre riprendeva fiato.

Sir Roger scambiò un’occhiata con me, mentre traducevo. Stularax scomparsa? Completamente distrutta?

Il nostro scopo era stato semplicemente quello di procurarci delle altre armi, specialmente quelle portatili per i nostri uomini. Ma se tutto era svanito in una colonna di fumo…

Sir Roger si passò la lingua sulle labbra secche.

«Digli che devono essere atterrati i Saraceni, Fratello Parvus,» mi ordinò.

Huruga non me ne diede la possibilità. Col petto che gli si sollevava ansante per la collera e gli occhi color ombra diventato color sangue, tirò fuori di nuovo la pistola e, tremando come una furia, gridò:

«Basta con questa farsa! Chi altri c’era con voi? Quante altre astronavi avete?»

Sir Roger si srotolò dalla sua posizione e si rizzò fino a sovrastare il basso wersgorix come una quercia sovrasta le sterpaglie di una brughiera. Sorrise, toccando con intenzione il proprio anello, e rispose:

«Be’, noi vi aspetterete che vi riveli questo dato. Forse farei meglio a tornarmene al mio campo finché non vi saranno calmati i bollori.»

Non riuscii però a tradurre brillantemente quella frase con le mie parole esitanti. Huruga ringhiò:

«Oh, no! Voi rimarrete qui!»

«Io me ne vado.» Sir Roger scosse la testa rasa. «A proposito, se io per qualsiasi ragione non ritorno, i miei uomini hanno ordine di uccidere tutti i prigionieri.»

Huruga mi ascoltò fino in fondo, poi con una padronanza ammirevole di se stesso, replicò:

«Andate, allora. Ma, quando sarete tornati, vi attaccheremo. Non ho l’intenzione di venire preso tra l’incudine e il martello, con voi qui a terra e i vostri amici che arrivano dal cielo.»

«Gli ostaggi,» gli ricordò Sir Roger.

«Noi attaccheremo», ripeté Huruga, testardo. «E sarà un attacco condotto interamente con forze di terra… in parte per risparmiare quei prigionieri ed in parte, naturalmente, perché ogni astronave ed ogni veivolo devono levarsi in aria per dare la caccia a quelli che hanno attaccato Sturalax. Ci tratterremo anche dall’usare armi ad alto potenziale esplosivo, per non mettere in pericolo l’incolumità dei prigionieri. Ma…» Il suo dito si abbassò come un pugnale verso il tavolo. «A meno che le vostre armi non siano di gran lunga inferiori a quello che penso, non vi schiacceremo se non altro col numero. Io credo che voi non abbiate neppure carri blindati, ma solo pochi carri leggeri catturati a Ganturath. E ricordatevi che, dopo la battaglia, chi di voi sopravviverà sarà nostro prigioniero. Così, se voi avrete fatto del male ad uno solo dei Wersgorix prigionieri, anche i vostri moriranno, lentamente. E, se voi sarete catturato vivo, Sir Roger de Tourneville, voi li vedrete morire tutti quanti prima di essere ucciso voi stesso.»

Il Barone mi ascoltò mentre traducevo. Le sue labbra risultavano pallidissime sul viso abbronzato.

«Bene, Fratello Parvus,» mi disse con voce alquanto soffocata, «non ha funzionato bene quanto speravo… anche se forse neanche tanto male quanto temevo. Digli che se ci lascerà tornare al campo indenni e limiterà il suo attacco alle forze di terra, evitando l’uso di esplosivi ad alto potenziale, i nostri ostaggi non avranno nulla da temere, eccetto il loro stesso fuoco.»

Poi aggiunse con una smorfia.

«E poi non credo neanche che sarei riuscito a trasformarmi in un macellaio di prigionieri inermi. Ma questo non è necessario tradurglielo.»

Huruga fece solo un gesto imperioso con la testa, un gesto gelido, quando gli trasmisi il messaggio.

Noi due ce ne andammo, montammo in sella con un volteggio e tornammo al campo, tenendo i cavalli al passo per prolungare la tregua, mentre il sole ci scaldava il viso.

«Che sarà successo al castello di Stularax, Milord?», sussurrai.

«Non lo so proprio,» rispose Sir Roger. «Ma oserei dire che i musi azzurri hanno detto il vero… ed io non ci ho creduto!… quando hanno detto che una delle loro granate più potenti avrebbe potuto distruggere un intero accampamento. Così le armi che speravamo di procurarci sono andate distrutte. Spero solo che nell’esplosione non siano periti anche i nostri poveri incursori. Ora non possiamo fare altro che difenderci.»

Sollevò fieramente il campo piumato.

«Però gli Inglesi si sono sempre battuti al meglio quando avevano le spalle al muro.»

CAPITOLO XIII

Così tornammo al campo ed il mio Signore gridò «Alle armi!», come se quella battaglia fosse stata il suo massimo desiderio. Con grande clangore di ferraglia, i nostri uomini raggiunsero i posti di combattimento.

Permettetemi ora di descrivere con maggior completezza la nostra posizione. Ganturath, che era una base di secondaria importanza, non era stata costruita per resistere ai combattimenti più accaniti. La parte più piccola che occupavamo noi consisteva di diversi bassi edifici in muratura disposti a cerchio. All’esterno del cerchio c’erano le postazioni corazzate delle bombarde del fuoco, ma queste, che avevano lo scopo solo di sparare in cielo contro le macchine volanti, ci erano inutili. Il sottosuolo era una vera e propria garenna di stanze e corridoi, e qui vi mettemmo bambini, vecchi, prigionieri e bestiame sotto la custodia di qualche servo armato. Altri anziani non adatti al combattimento, ma ancora sufficientemente in gamba, aspettavano presso il centro degli edifici, pronti a trasportare i feriti, servire la birra ed aiutare in qualsiasi altro modo la truppa combattente.

La truppa era schierata in una lunga linea sul lato di fronte al campo wersgoriano, appena al di qua del bastione di terra eretto durante la notte. I soldati armati di piccole alabarde ed asce erano rafforzati a intervalli da gruppi di arcieri. La cavalleria era pronta ad intervenire sulle due ali e, dietro di essa, c’erano le donne più giovani e gli uomini privi di qualsiasi abilità bellica con le pochissime armi a palla a nostra disposizione. Purtroppo le armi a raggio erano rese inutili dallo schermo di energia.

Attorno a noi brillava il pallido bagliore dello schermo. Dietro di noi sorgeva l’antica foresta e, davanti, l’erba bluastra sorgeva rigogliosa nella valle dove gemevano degli alberi isolati e le nubi si spostavano lentamente sopra le colline lontane. Tutto quel paesaggio aveva l’aspetto incantato e meraviglioso di un paese fatato. Mentre preparavo le bende con i non combattenti di superficie, mi chiesi come mai dovesse regnare l’odio e la morte in un regno così dolce.

Dal campo wersgoriano si levarono in cielo rombando alcune navi volanti che scomparvero subito alla vista. I nostri cannonieri riuscirono ad abbatterne qualcuna prima che si fossero tutte quante allontanate. Un buon numero però rimase al suolo di riserva. Tra di esse c’erano anche delle grosse navi da trasporto. Al momento, però, tutta la mia attenzione era fissa a terra.

I Wersgorix dilagarono verso di noi armati di armi a palla dalle lunghe canne, in squadre ben ordinate. Non avanzarono però a ranghi serrati, bensì sparpagliati il più possibile.

Alcuni dei nostri, vedendo questo, lanciarono un evviva, ma io immaginai che dovesse essere la loro normale tattica di combattimento a terra. Infatti, quando si dispone di armi a fuoco rapido, non si attacca in masse compatte. Si cerca invece di mettere fuori uso le armi nemiche con qualche altro macchinario.

Questi infatti erano presenti, senza dubbio trasportati qui dal bastione centrale di Darova. Di questi carri da guerra privi di cavalli ce n’erano di due tipi. Il tipo più numeroso era leggero e scoperto, fatto di sottile acciaio e conteneva quattro soldati ed un paio di armi a fuoco rapido.

Erano carri rapidissimi e agili, simili a scarafaggi d’acqua su quattro ruote. Quando li vidi correre ululando, sobbalzando a cento miglia all’ora sulle asperità del terreno, capii a cosa servivano: erano infatti così difficili da colpire che la maggior parte di essi avrebbe fatto in tempo a piombare addosso alle bombarde del nemico.

Questi piccoli carri, tuttavia, rimasero indietro per dare copertura alla fanteria wersgoriana. La prima linea vera e propria d’attacco era composta dai veicoli corazzati pesanti. Questi si muovevano lentamente per essere dei veicoli a motore: non andavano infatti più veloci di un cavallo al galoppo, anche per via delle loro dimensioni (erano grandi quanto la casa di un bifolco) e per lo stesso rivestimento d’acciaio che poteva resistere a qualsiasi arma, fatta eccezione per un colpo diretto di una granata. Con le bombarde che spuntavano dalle torrette e il ruggito e la polvere che provocavano sembravano proprio dei draghi.

Ne contai più di venti: massicci, inattaccabili. Venivano avanti sferragliando su cingoli, schierati in una lunga linea. Dove passavano loro, erba e terra venivano schiacciate formando dei solchi profondi.

Qualcuno mi disse che uno dei nostri cannonieri che aveva imparato ad usare il cannone su ruote che lanciava granate esplosive, abbandonò il proprio posto per andare a prendere quell’armata.

Sir Roger stesso, armato ora da capo a piedi, gli andò incontro al galoppo e lo mandò a gambe levate con la lancia.

«Fermo lì!», abbaiò il Barone. «Dove corri, marrano?»

«A sparare, Milord», ansimò il soldato. «Spariamogli contro prima che superino il muro e…»

«Se non avessi avuto la convinzione che i nostri buoni archi di tasso possono prevalere contro quei lumaconi giganti, ti avrei ordinato io stesso di innescare quel tubo di ferro,» disse il mio signore «ma, viste come stanno le cose, torna a raccogliere la tua picca.»

Questo ebbe un effeto salutare sugli uomini armati di lancia che stavano con le armi appoggiate a terra pronti a ricevere quella carica micidiale. Sir Roger non vide motivo di spiegare loro che (giudicando da quanto era successo a Stularax) non osava impiegare gli esplosivi a distanza così ravvicinata per paura di distruggere nel contempo anche le nostre forze. Naturalmente avrebbe dovuto rendersi conto che i Wersgorix dovevano disporre di molti tipi di bombe di diversa potenza, ma come si poteva pensare a tutto contemporaneamente?

Fosse come fosse, i conducenti di quelle fortezze mobili dovevano essere rimasti parecchio perplessi vedendo che non gli sparavamo addosso, e si chiesero che cosa avessimo in serbo. Lo scoprirono quando il primo carro finì proprio dentro una delle buche che avevamo scavato e ricoperto.

Altri due caddero in trappola nello stesso modo prima che si rendessero conto che quelli non erano ostacoli naturali. Certo i buoni Santi dovevano esserci venuti in soccorso. Nella nostra ignoranza noi avevamo scavato buche ben ampie e profonde che di per se stesse non sarebbero state sufficienti a impedire a quelle macchine di riuscirne, ma poi vi avevamo aggiunti grossi pali di legno, più per abitudine che altro, come se ci aspettassimo di impalare dei cavalli giganteschi. Ora alcuni di questi pali si impigliarono nei cingoli che avvolgevano le ruote e, in un baleno, quelle si bloccarono con la polpa del legno triturato.

Le buche però non erano disposte con regolarità, ed un altro carro riuscì a sfuggire all’insidia e si avvicinò al bastione, scaricando dal cannone un fuoco accelerato che, una volta corretto il tiro, scavò tanti piccoli crateri nel nostro bastione di terra.

«Dio arriderà ai giusti!», ruggì Sir Brian Fitz-William.

Il suo cavallo si lanciò fuori dalle nostre linee, seguito dappresso da una mezza dozzina dei cavalieri a lui più vicini, e tutti quanti si lanciarono al galoppo, disposti in semicerchio, appena oltre la portata del cannoncino.

Il veicolo si mise goffamente al loro inseguimento, cercando di aggiustare il tiro del cannoncino di piccolo calibro. Sir Brian riuscì a farlo puntare nella direzione da lui voluta, poi soffiò nel corno da guerra e tornò indietro galoppando al sicuro mentre il carro piombava in una buca.

Le tartarughe da guerra si ritrassero. Con quell’erba, alta ed il nostro astuto camuffamento, non avevano modo di sapere dove erano state disposte le altre trappole. E quelle erano le uniche macchine di quel genere presenti su Tharixan, per cui non si poteva metterle in pericolo così alla leggera. Noi Inglesi avevamo tremato, per tema che continuassero. Sarebbe bastato infatti che ne passasse una sola per annientarci tutti.

Sebbene Huruga sapesse ben poco su di noi, sulle nostre forze e sui nostri possibili rinforzi spaziali, io penso che avrebbe fatto meglio ad ordinare ai carri corazzati di proseguire. In realtà la tattica wersgoriana fu deplorevole sotto tutti gli aspetti, ma non dimentichiamoci che da lungo tempo i Wersgorix non avevano più combattuto seriamente battaglie terrestri. La loro conquista di pianeti arretrati si era risolta come una battuta di caccia, e le loro scaramucce con le altre nazioni stellari rivali erano state soprattutto combattute in aria.

Così Huruga, scoraggiato dalle nostre fosse, ma rincuorato dal fatto che non avevamo impiegato le granate di piccola potenza, ritirò i grandi carri. Invece ci mandò contro la fanteria ed i veicoli più leggeri. Evidentemente la sua idea era quella di trovare un sentiero tra le trappole che avevamo disposto, e di segnarlo in modo che lo potessero percorrere le macchine giganti.

I musi azzurri attaccarono di corsa, appena visibili nell’erba alta, divisi in piccole squadre. Io stesso, che mi trovavo piuttosto indietro, vidi solo di tanto in tanto lampeggiare qualche elmo ed i pali che piantavano qua e là per segnalare un passaggio sicuro ai veicoli pesanti. Tuttavia sapevamo che dovevano essere molte migliaia di soldati. Il cuore mi batteva in petto all’impazzata e la mia bocca agognava con un bicchiere di birra.

Davanti ai soldati procedevano veloci le macchine leggere. Alcune di esse finirono nelle buche e, alla velocità cui andavano, si schiantarono orribilmente. Ma la maggior parte filarono avanti in linea retta… per finire sui pali che avevamo piantato nell’erba accanto al bastione in previsione di una carica di cavalleria.

Alla velocità cui procedevano, i carri erano vulnerabili quanto i cavalli davanti a quella difesa. Ne vidi uno sollevarsi in aria, rovesciarsi e schiantarsi a terra, rimbalzando un paio di volte prima di spaccarsi in due. Un altro finì impalato, sputò fuori del liquido combustibile e si incendiò. Un terzo sterzò bruscamente, slittò e andò a schiantarsi contro un quarto carro.

Molti altri, sfuggiti ai pali, andarono a finire sopra i chiodi a trepunte che avevamo sparpagliati in giro. Gli spuntoni di ferro entrarono negli anelli morbidi che circondavano le ruote e non fu più possibile estrarli. A quel punto un carro così ferito non poteva far altro che allontanarsi dalla battaglia zoppicando lentamente.

Il telecomunicatore doveva aver trasmesso ordini nell’aspra lingua wersgoriana perché la maggioranza dei carri scoperti, ancora illesi, cessarono di manovrare e si disposero in formazione sparsa ma ordinata, avanzando al passo.

Snap! fecero le nostre catapulte. Crash! fecero le balestre. Una grandine di frecce, sassi e pentole di olio bollente, si abbatté addosso ai veicoli che avanzavano. Non molti furono quelli messi fuori uso, ma la linea nemica ondeggiò e rallentò.

Poi la nostra cavalleria andò alla carica.

Qualcuno dei cavalieri morì, travolto da una tempesta di piombo, ma gli altri non dovettero galoppare a lungo per raggiungere il nemico. Poi i fuochi appiccati all’erba dai nostri pentoloni di olio bollente sollevarono un fumo denso che confuse la vista dei Wersgorix.

Quando le lance si spezzarono contro i fianchi metallici dei carri, sentii un clangore ed un gran botto, poi non ebbi più la possibilità di osservare la lotta. So solo che i lanceri non riuscirono a sbaragliare neanche un carro con le loro lance, ma i conducenti rimasero così sbalorditi che spesso non riuscirono neppure a difendersi da quel che ne seguì. I cavalli si impennarono e abbassarono violentemente gli zoccoli schiantando le sottili lamiere d’acciaio, poi un rapido lavoro di ascia, mazza o spada, svuotò un veicolo dei suoi occupanti.

Alcuni degli uomini di Sir Roger usarono le armi da fuoco individuali con grande precisione, lanciando anche piccole granate rotonde che scoppiavano seminando dappertutto frammenti frastagliati, quando venivano lanciate dopo che era stato strappato via un anellino. Anche i Wersgorix naturalmente disponevano di armi del genere, ma erano meno decisi a usarle.

Gli ultimi carri fuggirono via in preda al terrore, incalzati senza tregua dai cavalieri inglesi.

«Tornate indietro!», gridò loro Sir Roger, agitando la nuova lancia che gli aveva appena passato il suo scudiero. «Tornate qui, felloni! Fermatevi e battetevi, pagani senza onore!»

Il mio Signore doveva offrire uno spettacolo meraviglioso nella sua corazza lucente, col piumaggio al vento e lo scudo stemmato, in groppa al suo irrequieto stallone nero. Ma i Wersgorix non erano un popolo di cavalieri: erano gente molto più prudente e riflessiva di noi. E questo gli costò molto caro.

I nostri cavalieri dovettero ritirarsi rapidamente perché i fanti azzurri erano ora molto vicini e sparavano all’impazzata con le loro armi mentre si concentravano in grossi gruppi per prendere d’assalto il nostro bastione. Le armature non erano più una protezione, ma solo un bersaglio luminoso ben visibile. Sir Roger fece suonare la tromba per ordinare ai suoi uomini di seguirlo, ed essi dilagarono per la piana.

I Wersgorix lanciarono un hurrà di sfida e si buttarono all’attacco. Nella ribollente confusione del nostro campo sentii il Capitano degli arcieri lanciare un ordine, quindi uno stormo di grigie piume d’oca si levò verso il cielo come un fruscio di venti poderosi per poi abbattersi orribilmente sui Wersgorix.

Mentre la prima salve di frecce era ancora in volo, già partiva la seconda. Una freccia che abbia tanta forza dietro di sé, è un’arma tremenda che perfora un corpo e ne esce dall’altra parte con la testa tagliente tutta sanguinolenta. Adesso anche le balestre, più lente ma ancora più potenti, cominciarono a falciare gli attaccanti più vicini. Penso che in quei pochi istanti della loro carica, i Wersgorix avessero perso almeno la metà dei loro effettivi.

Tuttavia, ostinati quasi quanto degli Inglesi, continuarono la corsa fino al bastione. E qui c’erano ad attenderli i nostri fanti. Le donne continuavano a sparare a ripetizione, abbattendo una buona fetta di nemici. Quelli che erano arrivati troppo vicini per poter usare i fucili, si trovarono di fronte asce, lance, falcetti, mazze chiodate, pugnali e spade.

Nonostante le terribili perdite, i Wersgorix erano ancora due o tre volte più numerosi di noi. Ma la lotta era davvero impari per loro, privi com’erano di armatura. La loro unica arma in quel corpo a corpo era un coltello attaccato in cima alla canna del fucile, a mo’ di rozza lancia,… o il fucile stesso usato come clava. Qualcuno aveva anche pistole a palla che ci provocarono delle perdite, ma di regola, quando un muso azzurro sparava contro un inglese, sbagliava il colpo perfino a distanza così ravvicinata in quella confusione. E, prima che potesse far fuoco di nuovo, l’inglese gli aveva già aperto la pancia con un colpo d’alabarda.

Quando arrivò la nostra cavalleria, assalendo la fanteria wersgoriana alle spalle e falciandola senza pietà, fu la fine. Il nemico ruppe i ranghi e si volse in fuga senza badare se per farlo calpestava i propri camerati, tanto era l’orrore che li accecava. I cavalieri li inseguirono lanciando trionfanti richiami di caccia. E, quando il nemico fu sufficientemente lontano, i nostri grandi archi scaricarono una nuova salve di frecce.

Tuttavia, molti di coloro che sarebbero stati trafitti dalle lance riuscirono a fuggire, perché Sir Roger vide i pesanti carri che ritornavano goffamente in azione assetati di vendetta e si ritirò coi suoi uomini. Per grazia di Dio, io ero così impegnato coi feriti che mi venivano portati, che non seppi nulla di quel momento in cui i nostri capi pensarono che comunque eravamo stati sconfitti.

Perché l’attacco dei Wersgorix non era stato privo di conseguenze, infatti era servito a mostrare ai carri tartaruga come evitare le fosse che avevamo scavato. E adesso, quei giganti di ferro tornavano ad attraversare quel campo ormai trasformato in una fanghiglia rossastra e sapevamo bene che nulla avrebbe potuto fermarli.

Le spalle di Thomas Bullard si accasciarono quando vide quella scena dal punto in cui si trovava a cavallo accanto all’insegna baronale.

«Be’,» sospirò, «abbiamo dato tutto quello che potevamo dare. Adesso chi mi seguirà nella carica per mostrare ai musi azzurri come sanno morire gli Inglesi?»

Il viso stanco di Sir Roger assunse un’espressione grave.

«Il nostro compito è ben più difficile, amici», disse. «Noi avevamo ragione di rischiare la vita quando c’era una speranza di vittoria, ma ora che vediamo incombere la sconfitta, non abbiamo il diritto di sprecare le nostre vite. Noi dobbiamo vivere, come schiavi se sarà il caso, affinché le nostre donne ed i nostri bambini non debbano ritrovarsi soli su questo mondo infernale.»

«Per le ossa del Signore!», gridò Sir Brian Fitz-William. «Siete diventato un codardo?»

Le narici del Barone palpitarono.

«Mi avete sentito,», disse, «noi rimaniamo qui.»

E poi… ecco! Fu come se Dio in persona fosse venuto a dare una mano ai suoi poveri sostenitori e peccatori. Più luminoso del fulmine si levò un lampo bianco-azzurrino a diverse miglia all’interno della foresta, e fu così vivido che, coloro che guardavano in quella direzione, rimasero accecati per diverse ore. Non c’è dubbio che molti Wersgorix subirono appunto questa conseguenza, perché il loro esercito rivolgeva il volto proprio in quella direzione.

Il rombo che ne seguì buttò giù i cavalieri di sella e fece perfino cadere a terra gli uomini che stavano in piedi. Un turbine di vento ci investì, caldo come il vento di una fornace, e strappò via le tende come stracci al vento. Poi, quando quella collera distruttrice cessò, vedemmo sollevarsi una nube di polvere e fumo che si levò, simile ad un fungo maligno, fino quasi a toccare il cielo. Passarono vari minuti prima che cominciasse a diradarsi, ma le sue nubi permasero per diverse ore.

I carri di guerra lanciati all’attacco, si arrestarono di colpo; loro, al contrario di noi, sapevano bene che cosa significasse quell’esplosione. Era il simbolo della potenza assoluta, di quella distruzione della materia che ancora oggi considero un blasfemo tentativo di manipolare l’Opera di Dio, sebbene il mio Arcivescovo mi abbia citato i testi delle Sacre Scritture per dimostrarmi che qualsiasi arte è lecita se usata a scopo di bene.

Nel campo delle bombe di quel genere, quella esplosa nella foresta non era una molto potente, in quanto era destinata ad annientare tutto ciò che c’era entro un cerchio di mezzo miglio di diametro e produceva una quantità relativamente scarsa di quei veleni che accompagnavano simili esplosioni. Ed era stata fatta esplodere abbastanza distante dal teatro d’azione, appunto per non far male a nessuno.

La bomba tuttavia mise i Wersgorix di fronte ad un crudele dilemma. Se infatti avessero usato un’arma simile per distruggere il nostro campo, anzi se ci avessero distrutto in qualsiasi modo, avrebbero ora potuto aspettarsi una grandine di morte, perché in questo caso la bombarda nascosta non avrebbe più avuto ragione di risparmiare la zona di Ganturath. Così dovettero sospendere l’attacco contro di noi finché non avessero trovato e ridotto alla ragione quel nuovo nemico.

Le loro macchine da guerra tornarono indietro. La maggior parte delle navi volanti che avevano tenuto di riserva si sollevarono in aria e si sparpagliarono in cielo alla ricerca di chi aveva fatto esplodere quella bomba. Nella loro ricerca furono aiutati da un apparecchio (come sapevamo dai nostri studi) che impiegava le stesse forze che si ritrovano in una calamita.

Grazie a poteri che non capisco e che non ho desiderio di capire dal momento che il sapere non è essenziale per la salvezza, e sa anzi tanto di Magia Nera, questo congegno è in grado di individuare le grandi masse metalliche. Così, se una nave volante si fosse trovata nel raggio di un miglio dal suo nascondiglio, qualsiasi cannone sufficientemente grande da sparare una granata di quella potenza sarebbe dovuto venire irrimediabilmente scoperto.

Quel cannone però non fu trovato. Dopo un’ora di attesa piena di tensione, mentre noi Inglesi osservavamo e pregavamo dall’alto delle nostre mura, Sir Roger esalò un profondo sospiro.

«Non vorrei sembrare ingrato,» osservò, «ma io credo che Dio ci abbia aiutati attraverso Sir Owain e non direttamente. Penso che dovremmo trovare il suo gruppo in quella foresta, anche se le navi volanti del nemico non sembrano in grado di farlo. Padre Simon, voi dovete sapere quali sono i migliori cacciatori di frodo della vostra parrocchia…»

«Oh, figlio mio!», esclamò il cappellano, angustiato.

Sir Roger sorrise.

«Io non vi chiedo di rivelarmi i segreti del confessionale. Vi chiedo solo di organizzarmi una squadra dei più abili, come dire… boscaioli, che siano in grado di entrare non visti in quella foresta. Incaricateli di trovare Sir Owain dovunque si trovi e di ordinargli di trattenere il fuoco finché non lo avvertirò io. Non è necessario che mi diciate a chi affiderete questo incarico, Padre.»

«In questo caso, figlio mio, sarà fatto come ordinate.»

Il sacerdote mi tirò in disparte e mi chiese di dare i conforti spirituali in sua vece, a coloro che erano feriti e terrorizzati mentre lui avrebbe guidato un piccolo drappello di esploratori nella foresta.

Ma il mio Signore mi trovò un altro compito. Infatti incaricammo uno scudiero di raggiungere il campo wersgoriano sotto l’usbergo della bandiera bianca, reputando che il nemico avrebbe avuto abbastanza buonsenso da capire il significato di quel segno, anche nel caso non usasse lo stesso segnale per indicare la tregua.

E così fu. Huruga stesso ci venne incontro su un carro scoperto, dimesso in volto, e con le mani che gli tremavano.

«Vi ho chiamato per invitarvi ad arrendervi», disse il Barone. «Cessate di costringermi a distruggere i vostri poveri servi ignoranti. Vi garantisco che verrete trattati tutti lealmente e che vi sarà concesso di scrivere a casa per procurarvi i soldi del riscatto.»

«Io, arrendermi ad un barbaro come voi?», gracchiò il Wersgor. «Solo perché possedete un… un maledetto cannone che sfugge ad ogni individuazione… no!»

Fece una pausa.

«Ma, pur di sbarazzarmi di voi, vi concederò di allontanarvi a bordo delle astronavi che avete catturato».

«Milord,» ansimai, quando ebbi tradotto quest’ultima frase, «ci siamo veramente gudagnati una possibilità di fuga?»

«Non direi», rispose Sir Roger. «Non dimenticare che non siamo in grado di ritrovare la strada del ritorno e, in questo momento, non possiamo ancora chiedere l’aiuto di un esperto Navigatore, perché rischieremmo di rivelare la nostra debolezza ed i Wersgorix tornerebbero ad attaccarci. E, anche se riuscissimo ad ottenere di tornare a casa, lasceremmo questo nido di Demoni libero di tramare un nuovo assalto contro l’Inghilterra. No, temo proprio che chi cavalca un orso non possa smontare troppo presto.»

Così, col cuore pesante, riferii al nobile muso azzurro che noi eravamo fin lì per ottenere molto di più che non delle vecchie e scassate astronavi e che, se non fi fosse arreso, saremmo stati costretti a devastare la sua terra. Huruga ringhiò qualcosa in risposta e tornò indietro col suo carro.

Tornammo anche noi al campo. Poco dopo uscì dalla foresta Red John Hameward col gruppo di Padre Simon, che aveva incontrato mentre stava cercando di raggiungere il nostro campo.

«Abbiamo raggiunto senza intoppi il castello di Stularax, Milord», ci riferì. «Abbiamo visto delle altre navi volanti, ma nessuna ci ha attaccato, forse perché ci ha scambiato per una di loro. Ma sapevamo lo stesso che le sentinelle della fortezza non ci avrebbero permesso di atterrare senza prima fare domande. Così siamo scesi tra i boschi a qualche miglio dal Castello, abbiamo mutato il trabucco e ci abbiamo inserito una di quelle granate esplosive. L’idea di Sir Owain era di lanciarne qualcuna per indebolire le difese esterne, così da avvinarci poi a piedi, lasciando dietro di noi qualcuno che lanciasse altre grante per abbattere le mura una volta che fossimo stati vicini. Ci aspettavamo che la guarigione sarebbe uscita di corsa alla ricerca della nostra macchina, permettendoci di avvicinarci di soppiatto, uccidere le guardie rimaste, prelevare ciò che si poteva trasportare dal loro arsenale e ritornare alla nostra nave.»

A questo punto, dal momento che ora non viene più usato, farei meglio a spiegare che il trabucco era la più semplice, ma sotto vari aspetti la più efficace macchina da guerra negli assedi. Il principio in base al quale funzionava era semplicemente quello di una grande leva che oscillava liberamente su un fulcro. All’estremità del braccio più lungo si trovava una specie di secchio che doveva contenere il proiettile, mentre il braccio più corto portava un peso di pietra, spesso pesante diverse tonnellate. Quest’ultimo veniva sollevato tramite pulegge od un argano, intanto che veniva caricato il secchio, poi il peso veniva lasciato cadere, ed il contraccolpo faceva fare un ampio arco al braccio lungo.

«Io non avevo molta fiducia in quelle granate che avevamo a disposizione», continuò Red John. «Erano affarini da niente, che non pesavano più di cinque libbre, e non era facile preparare il trabucco perché le lanciasse a una distanza così limitata. E che cosa avrebbero potuto fare del resto, se non scoppiare come degli innocui petardi? Io ho visto come vanno usati i trabucchi nel corso degli assedi in Francia, quando si buttavano oltre le mura pesi di una o due tonnellate e a volte perfino cavalli morti. Ma gli ordini erano ordini. Così sistemai io stesso la piccola granata come mi era ordinato di fare e la facemmo partire. Whoom! Ci sembrò che esplodesse il mondo intero. Devo ammettere che il risultato fu migliore che se avessimo lanciato un cavallo morto.

«Attraverso gli schermi ingranditori vedemmo che il castello era andato totalmente distrutto. Non sarebbe servito più a niente prenderlo d’assalto, così vi scaricammo contro ancora qualche granata tanto per essere sicuri che venisse raso del tutto. Al suo posto non rimase che una enorme voragine vetrificata. Sir Owain giudicò che avevamo preso proprio una delle armi più potenti ed a me sembra che avesse ragione. Così atterrammo nella foresta a qualche miglio di qui, tirammo fuori il trabucco e lo rimontammo. Quando Sir Owain ebbe visto quanto stava succedendo, lanciammo una granata tanto per spaventare un po’ il nemico. Adesso siamo pronti a martellarlo fino a quando voi vorrete.»

«Ma la nave volante?», chiese Sir Roger. «Il nemico dispone di un apparecchio che fiuta il metallo. Ecco perché non ha scoperto il trabucco nella foresta: perché è fatto di legno, ma la nave volante potrebbe scoprirla dovunque la nascondiate.»

«Ah, quella, Milord.»

Red John si permise di sogghignare.

«Sir Owain l’ha sollevata in volo in mezzo alle altre. Chi riuscirà a distinguerla in quello sciame?»

Sir Roger scoppiò in una fragorosa risata.

«Ti sei perso una gloriosa battaglia,» disse al suo capo degli arcieri, «ma potrai accendere la pira funeraria. Torna dai tuoi uomini e ordina loro di cominciare a bombardare il campo nemico.»

Noi ci ritirammo nel sottosuolo nel momento stabilito, segnato con precisione dai misuratori di tempo catturati ai Wersgorix. Anche così, sentimmo però la terra tremare, ed udimmo un poderoso rombo soffocato mentre le installazioni di terra e la magggior parte delle loro macchine venivano distrutte.

Una sola esplosione fu sufficiente. I superstiti della carneficina, accecati dal terrore, presero d’assalto una delle navi da trasporto ed abbandonarono gran parte dell’equipaggiamento ancora assolutamente intatto. Le navi volanti più piccole furono ancora più rapide a svanire, come nubi sul mare spazzate via da una brezza vigorosa.

Mentre il lento tramonto cominciava a bruciare il cielo in quella direzione che noi avevamo nostalgicamente denominato ovest, i leopardi d’Inghilterra volarono sopra alla vittoria inglese.

CAPITOLO XIV

Sir Owain fu accolto al suo rientro come l’eroe di una chanson che scenda sulla Terra. Le imprese compiute non gli avevano richiesto una gran fatica e, mentre volteggiava in aria in mezzo alla flotta wersgoriana, aveva perfino scaldato un po’ d’acqua sopra un braciere per farsi la barba.

Scese dalla nave con passo agile, la testa eretta, la cotta di maglia lucente, ed il mantello scarlatto che svolazzava al vento. Sir Roger gli andò incontro presso le tende dei Cavalieri con l’armatura malconcia, sporco, puzzolente di sudore, ed imbrattato di sangue. La sua voce era roca per il gridare.

«I miei complimenti, Sir Owain, per la vostra azione veramente brillante.»

Il giovane gli fece un inchino, che rivolse assai discretamente a Lady Catherine, mentre questa emergeva dalla massa della folla vociante.

«Non avrei potuto fare di meno,» mormorò Sir Owain, «con una corda d’arco sul cuore.»

Il viso della mia Signora s’imporporò. Gli occhi di Sir Roger si spostarono rapidamente dall’uno all’altra. Invero, erano una bella coppia; lo vidi stringere la mano attorno all’elsa della sua spada ammaccata e ormai spuntata.

«Tornate nella vostra tenda, Madame», disse Sir Roger alla moglie.

«C’è ancora molto lavoro da fare coi feriti, Milord», rispose la donna.

«Voi siete disposta ad occuparvi di tutti, fuorché di vostro marito e dei vostri figli, eh?» Sir Roger fece uno sforzo per sogghignare, ma aveva il labbro gonfio dove una pallottola era rimbalzata sulla celata del suo elmo. «Tornate nella vostra tenda, ho detto!»

Sir Owain apparve scosso.

«Codeste non sono parole da rivolgere a una donna, Milord», protestò.

«Andrebbe forse meglio uno dei vostri sdolcinati madrigali?», grugnì Sir Roger. «O un’adulazione per procacciarvi qualche incarico?»

Lady Catherine divenne pallidissima e, prima di riuscire a parlare, tirò un respiro profondo. Tutte le persone che erano lì presenti e potevano sentire fecero un gran silenzio.

«Chiamo Iddio a testimone che questa è una calunnia», disse.

Poi si allontanò a passo veloce tanto che lo strascico dell’abito si sollevò dietro di lei. Mentre svaniva dentro il padiglione, sentii il primo singhiozzo.

Sir Owain fissò il Barone con sguardo inorridito.

«Ma avete perso ogni buonsenso?», riuscì a esalare alla fine.

Sir Roger inarcò le spalle come se dovesse sollevare un pesante fardello.

«Non ancora. Che i miei Capitani di Battaglia mi raggiungano dopo che si saranno rinfrescati ed avranno cenato. Ma sarebbe più saggio, Sir Owain, che voi vi assumeste la responsabilità di montare la guardia al campo.»

Il Cavaliere tornò ad inchinarsi. Non fu un gesto d’insulto, ma servì a ricordare a tutti noi come Sir Roger avesse trasgredito alle buone maniere.

Poi Sir Owain si allontanò e si mise alacramente al lavoro per eseguire le incombenze affidategli. In breve fu organizzato il servizio di guardia. Infine Sir Owain si fece accompagnare da Branithar in un giro d’ispezione nel semidistrutto campo wersgoriano, per esaminare quella parte dell’equipaggiamento che era rimasto sufficientemente lontano dal centro dell’esplosione da essere di nuovo utilizzabile.

Il muso azzurro, nei giorni precedenti, aveva appreso ancora un po’ d’inglese nonostante tutto il trambusto; adesso parlava in modo zoppicante ma efficace, e Sir Owain lo ascoltò con grande attenzione. Io li scorsi negli ultimi bagliori del tramonto mentre correvo alla conferenza dei Capitani, ma non riuscii a sentire quanto si dicevano.

Era stato acceso un grande falò e nel suolo erano state piantate alcune torce. I Capitani inglesi sedevano attorno al tavolo pieghevole, mentre sul loro capo risplendevano le luci di quelle costellazioni aliene. Dalla foresta provenivano i gemiti della notte. Tutti gli uomini erano stanchi morti e quasi si accasciarono sulle panche, ma i loro occhi non lasciarono il Barone neppure per un istante.

Sir Roger si alzò in piedi. Dopo un bagno ristoratore, avvolto in abiti freschi di bucato, anche se molto semplici, un grosso anello di zaffiro al dito, si tradiva solo per il tono smorto della voce. Anche se le sue parole erano sferzanti, la sua anima non era con esse.

Lanciai un’occhiata verso la tenda dove si era ritirata Lady Catherine coi figli, ma non riuscii a scorgerla perché era nascosta dalle tenebre.

«Ancora una volta,» disse il mio Signore, «la grazia di Dio ci ha aiutati a vincere. Nonostante la tremenda distruzione che abbiamo provocato, adesso abbiamo a disposizione più macchine ed armi di quante ne potremo usare. L’esercito che ci ha attaccati è a pezzi, e su tutto questo mondo ormai non rimane che una fortezza!»

Sir Brian si grattò il mento dove spuntavano ciuffetti di barba grigiastra.

«Questo giochetto di lanciare granate esplosive si può giocare anche in due», osservò. «È salutare rimanere qui? Non appena si saranno ripresi dallo shock, troveranno i mezzi di rivolgere il fuoco contro di noi.»

«È vero!», convenne Sir Roger con un cenno del capo. «Questa è una delle ragioni per cui non possiamo indugiare in questo luogo. Un’altra è che questo alloggiamento è assolutamente privo di comodità. Invece, il Castello di Darova è sotto tutti gli aspetti più grande, più forte e meglio organizzato. Una volta che lo avremo conquistato non dovremo più temere i loro bombardamenti. E anche se il Duca Huruga non dispone di altri mezzi con cui bombardarci quaggiù, possiamo essere sicuri che ormai avrà rinunciato all’orgoglio ed invierà delle astronavi sulle altre stelle per chiedere aiuto. Quindi possiamo aspettarci di dovere affrontare tra poco un’intera armata wersgoriana.»

A quel punto finse di non notare il brivido che percorse i suoi uomini e finì:

«Per questa ragione dobbiamo conquistare Darova intatta.»

«Per opporci poi alle flotte di un centinaio di mondi?», gridò il Capitano Bullard. «No, Milord, adesso il vostro orgoglio vi ha accecato e si è trasformato in follia. Io dico invece di prendere anche noi il volo subito, finché ci è possibile, e preghiamo Dio che ci guidi sulla strada del ritorno fino a raggiungere la Terra.»

Sir Roger colpì il tavolo col pugno e il rumore coprì tutti i fruscii provenienti dalla foresta.

«Per le sacre ferite di Nostro Signore!», ruggì. «Purtroppo nel giorno di una vittoria quale non si è mai più vista dai tempi di Riccardo Cuor di Leone, tu ti metteresti a fuggire con la coda tra le gambe! Ed io che ti credevo un uomo!»

Bullard mugolò con voce soffocata.

«E che cosa ci ha guadagnato Riccardo, alla fine, se non versare un riscatto che ha rovinato il suo paese!»

Ma Sir Brian Fitz-William lo aveva sentito e mormorò a bassa voce.

«Non sono disposto a sentir parlare di tradimento.»

Bullard si rese conto di quanto aveva detto e si morse le labbra per tacere.

Intanto Sir Roger continuò:

«Gli arsenali di Darova saranno stati privati degli armamenti per poter dare l’assalto al nostro campo. Adesso noi abbiamo in mano quasi tutto ciò che resta delle loro armi, ed abbiamo ucciso la maggior parte degli effettivi della loro guarigione. Diamogli tempo e si riorganizzeranno. Chiameranno a raccolta tutti i possidenti terrieri grandi e piccoli del pianeta e marceranno contro di noi. Ma, in questo momento, si devono trovare in uno stato di confusione totale: al più riusciranno a guarnire gli spalti contro di noi, ma di contrattacco neanche a parlarne.»

«Perciò dovremmo starcene seduti sotto le mura di Darova finché non riceveranno rinforzi?», disse una voce beffarda dall’ombra.

«Sarà sempre meglio che rimanercene seduti qui.»

La risata di Sir Roger era forzata, ma qualcuno si associò con risatine ironiche. E così, la cosa fu decisa.

La nostra gente, per quanto esausta, non ebbe la possibilità di dormire, e dovette immediatamente mettersi al lavoro sotto la brillante luce della doppia luna. Trovammo che diverse grandi navi da trasporto erano state danneggiate solo superficialmente perché, al momento dello scoppio, si erano trovate al limite del raggio d’azione della bomba, e gli artigiani che si trovavano tra i nostri prigionieri, le ripararono, sollecitati dalle punte delle lance.

Su di esse poi caricammo tutte le armi, i veicoli e l’equipaggiamento che fu possibile, cui seguirono i prigionieri, il bestiame e la nostra gente. Così, prima ancora della mezzanotte, le nostre navi si erano già levate in cielo, sorvegliate da un nugolo di altri vascelli con a bordo, ognuno, uno o due uomini. Facemmo davvero appena in tempo perché, un’ora dopo la nostra partenza, come apprendemmo in seguito, una pioggia di navicelle senza equipaggio ma cariche dei più potenti esplosivi, si abbatté sulla zona dove sorgeva Ganturath.

Un cauto volo in un cielo sgombro da navi nemiche ci portò su un mare interno. Al di là, in mezzo ad un’aspra regione coperta da fitte foreste, sorgeva Darova. Poiché mi avevano chiamato nella torretta di comando per fare da interprete, la vidi sugli schermi visori, molto più avanti e più sotto, ma ingrandita alla nostra vista.

Avevamo volato in direzione del sole e l’alba tingeva di rosa il cielo dietro gli edifici. Questi erano solo dieci strutture basse e arrotondate di pietra fusa, con le mura sufficientemente solide da resistere a qualsiasi colpo. Gli edifici erano collegati l’un l’altro con gallerie rinforzate.

In effetti, quasi tutto quel castello era profondamente sepolto nel sottosuolo, autonomo quanto un’astronave; vidi un anello esterno di gigantesche bombarde e lancia proiettili, che si affacciavano con le loro bocche da postazioni interrate. Lo schermo d’energia era sollevato, simile alla satanica parodia di un’aureola. Tutto questo però appariva solo un contorno delle difese della fortezza stessa. Nessun’altra nave, tranne le nostre, era visibile.

Ormai io — come la maggior parte di noi — ero stato istruito su come usare il telecomunicatore. Lo sintonizzai finché sullo schermo non comparve l’immagine di un ufficiale wersgoriano. Anche lui aveva chiaramente cercato di sintonizzarsi con me, per cui avevamo perso diversi minuti. Il suo volto era pallido, quasi ceruleo, e deglutì diverse volte prima di riuscire a chiedere:

«Che cosa volete?»

Sir Roger si fece torvo. Con gli occhi cerchiati e iniettati di sangue su un viso stravolto dalla fatica, il suo aspetto era terribile. Dopo che ebbi tradotto, scattò:

«Huruga».

«Noi… noi non vi consegneremo mai il nostro grath. Ce l’ha ordinato lui stesso».

«Fratello Parvus, rispondi a quell’idiota che io voglio solo parlare col Duca! Voglio un colloquio. Ma questa gente non ha proprio idea di quali siano gli usi tra persone civili?»

Il Wersgor ci rivolse uno sguardo ferito dopo che gli ebbi riferito le parole esatte del mio Signore, ma parlò in una scatoletta e toccò una serie di pulsanti. La sua immagine fu sostituita da quella di Huruga.

Il Governatore si strofinò gli occhi per cancellare ogni traccia di sonno e disse col coraggio della disperazione:

«Non sperate di distruggere questo posto come avete fatto con gli altri. Darova è stata costruita appunto come un forte di tutta sicurezza. Il bombardamento più inteso potrebbe al più distruggere le costruzioni di superficie ma, se tenterete un assalto diretto, riempiremo l’aria e la terra di fuoco e di metallo.»

Sir Roger fece un cenno d’assenso.

«Ma per quanto riuscirete a mantenere un simile fuoco di sbarramento?», chiese con voce melliflua.

Huruga scoprì i denti aguzzi.

«Più a lungo di quanto possiate voi prolungare un assalto, animale!»

«Ciononostante,» mormorò Sir Roger, «io dubito che voi siate organizzati in modo da poter reggere ad un assedio.»

Per quest’ultima parola non riuscii a trovare un termine wersgoriano nel mio limitato vocabolario e Huruga parve avere difficoltà a comprendere le circonlocuzioni con cui cercai di esprimere il concetto. Quando gli spiegai perché impiegavo tanto tempo a tradurre, Sir Roger fece una smorfia soddisfatta.

«Proprio come sospettavo,» osservò. «Vedi Fratello Parvus, queste nazioni stellari hanno armi potenti quasi quanto la spada di San Michele, sono in grado di distruggere un’intera città con una sola granata, e possono trasformare in un deserto una contea intera con solo dieci di esse; ma, appunto per questo, come farebbero a protrarre a lungo le loro battaglie? Eh? Quel castello laggiù è costruito per sopportare i colpi più micidiali, ma un assedio? Non direi proprio!»

Quindi, rivolto allo schermo, disse:

«Io mi sistemerò vicino a voi e vi terrò sotto sorveglianza. Al primo segno di vita provenienti dal vostro castello, aprirò il fuoco. Perciò i vostri uomini faranno meglio a non muoversi da sotto terra. In qualunque momento vogliate arrendervi, potrete chiamarmi col telecomunicatore, ed io sarò ben lieto di applicare nei vostri confronti le usanze di guerra.»

Huruga sogghignò ed io quasi lessi i pensieri che passavano per la mente di quel brutto muso.

Che gli Inglesi si accomodassero pure là fuori, intanto che l’armata vendicatrice era in cammino! Poi spense lo schermo.

Trovammo un buon punto per accamparci, ben oltre la linea dell’orizzonte, in una valle profonda e ben riparata attraverso la quale scorreva un fiume fresco e limpido, pieno di pesci. Tutta la foresta era interrotta a tratti da prati; la selvaggina era abbondante e gli uomini che non erano di servizio furono lasciati liberi di andare a caccia. Per la prima volta in quei giorni, vidi l’allegria tornare a fiorire tra la nostra gente.

Sir Roger non si concesse requie. Forse non osava, perché Lady Catherine aveva lasciato i bambini con una istitutrice e si recava tra gli arcieri con Sir Owain. Mai soli, perché stavano ben attenti a salvare le formalità, ma bastava che suo marito li scorgesse perché, si voltasse a lanciare qualche ordine con voce ringhiante alla persona più vicina.

Il nostro campo, nascosto nella foresta ed a quella distanza, era abbastanza al sicuro da granate e proiettili di ogni tipo, anche perché le tende, le tettoie, le armi e gli attrezzi, non formavano una concentrazione di metallo sufficiente ad essere individuata dai rilevatori magnetici wersgoriani. In quanto alle navi volanti che tenevano sotto sorveglianza Darova, atterravano sempre da qualche altra parte.

Naturalmente tenevamo sempre carichi i trabucchi, nel caso la fortezza mostrasse qualche traccia di attività, ma Huruga si accontentava di aspettare passivamente. A volte, qualche audace vascello nemico ci passava sopra la testa, proveniente da qualche altro punto del pianeta, ma senza riuscire a trovare un bersaglio per i propri esplosivi, ed una nostra pattuglia lo costringeva rapidamente ad allontarsi.

Per tutto questo tempo, la maggior parte delle nostre forze, le grandi navi, i cannoni ed i carri da guerra, si trovavano altrove. Io stesso non vidi la caccia che intraprese Sir Roger, perché rimasi al campo tutto preso dal problema di imparare meglio il Wersgoriano, mentre insegnavo a Branithar l’Inglese. Cominciai anche corsi di lingua wersgoriana per alcuni dei nostri ragazzi più intelligenti. E, del resto, non avevo nessun desiderio di partecipare alla spedizione del Barone.

Lui aveva astronavi e navi volanti. Aveva bombarde che lanciavano sia fiamme che granate. Aveva qualche poderosa macchina tartaruga, ed aveva centinaia di carri da battaglia leggeri, scoperti su cui aveva appeso scudi e gagliardetti, assegnando ad ognuno un equipaggio di un cavaliere e quattro armigeri. E si era messo a scorazzare per il continente a scopo di saccheggio.

Nessun centro isolato riusciva a resistere ai suoi attacchi. Dovunque passasse, seguivano il saccheggio e l’incendio delle proprietà, e lasciava dietro di sé solo desolazione. Uccise molti Wersgorix, ma non più del necessario; gli altri li fece prigionieri e li ficcò dentro le grandi navi da trasporto.

Qualche volta, alcuni proprietari terrieri ed agricoltori cercarono di opporre resistenza, ma erano armati di sole armi portatili e la sua gente li travolse per poi dar loro la caccia attraverso i campi. Gli ci vollero solo pochi giorni e poche notti per devastare l’intero continente, poi fece una rapida puntata al di là dell’oceano; bombardò e incendiò tutto quello che gli capitò a tiro, e ritornò indietro.

A me sembrò un crudele massacro, anche se non peggiore di quanto questo Impero aveva fatto a tanti altri mondi. Comunque, devo ammettere di non avere mai compreso la logica di simili imprese. Certo, ciò che fece Sir Roger era pratica comune in Europa contro province ribelli e nazioni straniere nemiche, tuttavia quando rientrò al campo ed i suoi uomini scesero barcollando dalle navi carichi di gioielli, di ricche stoffe, di argento e oro, ubriachi di liquori rubati e tronfi per tutto ciò che avevano fatto, andai da Branithar.

«Questi nuovi prigionieri sono fuori di ogni mia possibilità di intervento,» gli dissi, «ma avverti i tuoi fratelli di Ganturath che prima che il Barone possa annientarli, dovrà tagliarmi la testa.»

Il Wersgor mi rivolse uno sguardo incuriosito.

«Perché ti preoccupi tanto per la nostra sorte?», mi chiese.

«Che Iddio mi aiuti!», risposi. «Non lo so; forse perché anche voi siete Sue creature.»

La notizia di questo colloquio arrivò alle orecchie del mio Signore che mi chiamò nella tenda che ora usava invece del padiglione. Vidi che le radure rigurgitavano di prigionieri che si aggiravano come anime in pena, levando lamenti terrorizzati sotto la minaccia delle armi inglesi. La loro presenza, però, ci faceva da scudo; infatti anche se ora la discesa delle navi aeree doveva avere rivelato la nostra posizione con sufficiente approssimazione agli ingranditori di Huruga, Sir Roger aveva provveduto a far sapere con esattezza al Governatore quanto era successo. Quando vedevo, però, le madri dalla pelle azzurra che si stringevano al seno i loro cucciolotti piangenti, mi sentivo strìngere il cuore.

Il Barone sedeva su uno sgabello e divorava a morsi un cosciotto di manzo. Luci ed ombre che filtravano dalle foglie gli proiettavano un disegno a macchie sul viso.

«Cos’è questa faccenda?», si mise a gridare.

«Ti sei tanto affezionato a quei brutti musi da non permettermi di decidere il destino di quelli che abbiamo catturato a Ganturath?»

Mi irrigidii, inarcando le mìe spalle ossute.

«Se proprio non vi sovviene altro, Milord,» gli dissi con fermezza, «pensate a quanto una simile azione potrebbe pregiudicare la vostra anima.»

«Cosa?» Il Barone inarcò le sopracciglia. «Quando mai è stato proibito liberare i prigionieri?»

Questa volta fu il mio turno di rimanere a bocca aperta. Sir Roger si batté una manata sulla coscia, ridacchiando divertito.

«Ne tratterremo solo qualcuno, come Branithar e gli artigiani che ci sono utili. Tutti gli altri li accompagneremo a Darova. Migliaia e migliaia. Non pensi che il cuore di Huruga si scioglierà per la gratitudine?»

Rimasi come una statua di sale nell’erba alta ed in piena luce del sole mentre attorno a me risuonavano grasse risate.

Così, pungolati dai lazzi e dalle lance dei nostri uomini, quella folla innumerevole si avviò incespicando tra ruscelli e macchioni finché alla fine non emerse su un tratto di terra sgombra e si vide la lontana massa di Darova. Qualcuno si avventurò a uscire dalla massa, timoroso.

Gli Inglesi si appoggiarono sorridendo sulle loro armi. Un Wersgor cominciò a correre. Nessuno gli sparò contro. Un altro ruppe i ranghi e lo seguì, poi un altro ancora. Alla fine l’intera massa dei musi azzurri si mise a correre verso la fortezza.

Quella sera Huruga si arrese.

«Non è stato difficile,» osservò Sir Roger con una risatina. «Lo avevo imbottigliato laggiù. Dubitavo che avesse maggiori provviste dello stretto necessario, perché l’arte dell’assedio deve essere ormai andata perduta in questo paese. Così, prima gli ho dimostrato che potevo mettere a ferro e fuoco tutto quanto il suo pianeta, cosa di cui avrebbe dovuto comunque rispondere alla fine, anche nel caso che noi fossimo stati sconfitti, poi gli ho dato tutte quelle bocche in più da sfamare.»

Mi batté una mano sulla spalla. Quando mi fui rialzato e ripulito dalla polvere mi disse:

«Bene, Fratello Parvus, adesso che siamo padroni di questo mondo, ti piacerebbe essere a capo della tua prima Abbazia?»

CAPITOLO XV

Naturalmente non mi fu possibile accettare una simile offerta. A parte le ovvie difficoltà relative alla consacrazione, spero di sapere qual è il mio umile posto nella vita. E poi, a questo stadio delle cose, erano tutte chiacchiere e basta. Avevamo troppo da fare per offrire a Dio qualcosa più di una Messa di Ringraziamento.

Lasciammo liberi quasi tutti i Wersgorix che avevamo ricatturato, e Sir Roger trasmise attraverso un potente telecomunicatore un proclama a Tharixan, col quale ordinò ad ogni grande proprietario terriero di quelle zone che ancora non erano state devastate, di venire a rendere atto di sottomissione e portare via con sé molti di coloro che erano rimasti senza casa.

La lezione che aveva impartito era stata così severa che, nei giorni seguenti, fu tutto un susseguirsi di musi azzurri venuti a rendere omaggio. Io dovetti occuparmi di loro e dimenticai perfino cosa fosse il sonno. Per la maggior parte, però, si trattava di gente molto mansueta. Invero questa razza aveva regnato suprema tra le stelle per tanto di quel tempo, che ormai solo i suoi soldati avevano occasione di acquisire un virile sprezzo della morte. Dopo di loro seguirono i borghesi ed i piccoli proprietari terrieri, i quali del resto erano così abituati ad avere sopra di loro un governo onnipotente che non si sognarono mai neppure di pensare possibile una rivolta.

In questo periodo, Sir Roger rivolse la maggior parte della propria attenzione all’addestramento dei suoi uomini nelle attività del forte. Poiché le macchine del castello erano semplicissime da manovrare, come in effetti la maggior parte delle macchine wersgoriane, in breve fu in grado di disporre alla difesa di Darova donne, bambini, servi e vecchi, i quali adesso sarebbero stati in grado, almeno per un certo tempo, di opporre resistenza a qualsiasi attacco. Coloro che invece si dimostrarono assolutamente incapaci di affrontare la diabolica arte della difesa, che consisteva nel leggere misuratori, premere pulsanti e girare manopole, li trasferì a distanza di sicurezza su un’isola lontana perché si occupassero del bestiame.

Quando finalmente la nostra vecchia Ansby, trapiantata su quel lontano pianeta, fu in grado di difendersi, il Barone raccolse nuovamente i suoi uomini per condurre un’altra spedizione nei cieli. A me espose la sua idea in anticipo: fino a quel momento ero ancora l’unico a parlare con scorrevolezza la lingua wersgoriana sebbene Branithar, con l’assistenza di Padre Simon, stesse già istruendo rapidamente altra gente.

«Finora ce la siamo cavata molto bene, Fratello Parvus,» mi dichiarò Sir Roger, «ma da soli non riusciremo mai a respingere l’armata che i Wersgorix stanno raccogliendo contro di noi. Ormai spero che tu abbia imparato a fondo la loro scrittura e la loro numerologia, almeno abbastanza da poter sorvegliare un Navigatore locale perché non ci porti dove non vogliamo andare.»

«In effetti ho studiato un poco i princìpi delle loro mappe stellari, Milord,» gli risposi, «sebbene in verità essi non impieghino delle vere e proprie carte ma solo colonne di numeri. Inoltre, a bordo delle astronavi, i Wersgorix non hanno timonieri umani, perché istruiscono un pilota artificiale all’inizio del viaggio e poi è questo homunculus che manovra tutto il vascello.»

«Questo purtroppo lo sapevo bene!», grugnì Sir Roger. «È stato appunto così che Branithar ci ha ingannati la prima volta portandoci qui! Un cane pericoloso, ma troppo utile per ucciderlo. Sono ben felice di non averlo a bordo in questo viaggio; anche se non mi sento affatto tranquillo a lasciarlo a Darova…»

«Ma dove siete diretto, Milord?», lo interruppi.

«Oh, sì, il mio viaggio.» Si strofinò con le nocche gli occhi arrossati per la stanchezza. «Ci sono altri popoli oltre i Wersgorix. Nazioni stellari di rango inferiore che temono il giorno in cui questi demoni azzurri decideranno di eliminarle. Andrò a cercare alleati.»

Era una mossa assolutamente ovvia, ma esitai.

«Bè?», fece Sir Roger. «Che ti rode adesso?»

«Se queste nazioni non sono ancora scese in guerra,» osservai debolmente, «perché l’arrivo di pochi selvaggi arretrati come noi dovrebbe spingerle a farlo?»

«Adesso fai attenzione, Fratello Parvus!», sbottò Sir Roger. «Sono stufo di sentirti piagnucolare su quanto siamo ignoranti e deboli. Noi conosciamo la vera Fede, no? Inoltre, e questo potrebbe essere ancora più importante, mentre le macchine da guerra cambiano nel corso dei secoli, rivalità ed intrighi qui non mi sembrano più raffinati di quelli che conoscevamo a casa nostra. Non è detto solo perché usiamo armi diverse, noi siamo dei selvaggi.»

Non potevo davvero confutare le sue argomentazioni, dal momento che questa era la nostra unica speranza di ritornare un giorno sulla Terra, a meno di metterci a cercarla con un volo a casaccio.

Le migliori astronavi erano quelle che si erano rifugiate nelle caverne sotterranee di Darova; le stavamo allestendo, quando il sole venne oscurato da un vascello ancora più grande e, mentre incombeva su di noi come un’enorme nube temporalesca, quella nave sconosciuta seminò il panico tra la nostra gente. In quel momento arrivò Sir Owain di Montbelle con un ingegnere wersgoriano a rimorchio, mi ordinò di seguirlo per fare da interprete, e ci trascinò davanti a un telecomunicatore. Poi, mentre se ne stava in disparte, fuori dal raggio d’azione dello schermo, con la spada sguainata in pugno, Sir Owain costrinse il prigioniero a parlare col Capitano della nave.

Questo era un vascello commerciale che faceva scalo regolare su questo pianeta. La vista di Ganturath e Stularax trasformate in crateri vetrificati avevano inorridito l’equipaggio. Ci sarebbe stato facile distruggere quell’astronave, ma Sir Owain si servì della sua marionetta wersgoriana per informare il Capitano che c’era stata un’incursione dallo spazio, respinta alla fine dalla guarnigione di Dorova, e che doveva atterrare immediatamente. Il Capitano obbedì e, quando i portali esterni della nave si aprirono, Sir Owain guidò a bordo un manipolo di armati che la catturò senza difficoltà.

Per questa sua impresa, il giovane Cavaliere fu osannato notte e giorno. La sua figura aitante e pittoresca risaltava in mezzo a tutti ed era sempre pronta a pronunciare una battuta scherzosa o a rivolgere una galanteria. Sir Roger, che lavorava senza tregua, divenne ancora più truce. Gli uomini ora lo temevano e forse anche un po’ lo odiavano, perché non li risparmiava minimamente nelle fatiche. Sir Owain offriva di fronte a lui un costrasto assoluto, come un Oberon contro un orso. Metà delle donne ormai dovevano essere innamorate di lui, anche se il Cavaliere aveva sempre pronta una canzone solo per Lady Catherine.

Il bottino preso alla gigantesca nave era ingente e soprattutto c’erano molte tonnellate di cereali. Provammo a darli al nostro bestiame sull’isola, che si stava smagrendo con quella detestabile erba azzurrina, e vedemmo che lo accettavano come se fosse la miglior avena inglese.

Quando Sir Roger lo venne a sapere, esclamò:

«Da qualunque parte provengano, quello è il primo pianeta che dovremo conquistare.»

Mi feci il Segno della Croce e scappai via.

Ma non c’era davvero tempo da perdere. Non era un segreto che Huruga aveva inviato astronavi a Wersgorixan immediatamente dopo la seconda battaglia di Ganturath; è vero che ci avrebbe messo un po’ di tempo per raggiungere quel lontano pianeta e che l’Imperatore avrebbe avuto bisogno di altro tempo per raccogliere una flotta nei suoi dominii sparsi dappertutto, e che poi altro tempo sarebbe occorso alla flotta per venire da noi: ma i giorni volavano ormai troppo in fretta.

A capo della guarigione di Dorava, composta da donne, bambini vecchi e servi, Sir Roger mise la moglie. Mi dicono che l’abitudine che hanno i nostri cronisti di inventare i discorsi delle grandi persone di cui scrivono le biografie, sia cosa che non fa onore ad uno studioso, ma io quei due non li conoscevo solo superficialmente dal loro aspetto altezzoso, ma anche (sia pure a tratti, perché si tradiva solo timidamente) dalla loro anima. Me li raffiguro ancora con assoluta chiarezza, mentre si trovavano in una stanza isolata di quel castello alieno.

Lady Catherine ha appeso al muro le sue tappezzerie ed ha steso dei tappeti sul pavimento, lasciando le pareti abbuiate e dando la preferenza ai candelabri, affinché quel luogo sembri più familiare. Indossa abiti da cerimonia, mentre il marito saluta i bambini. La piccola Matilda piange apertamente, Robert trattiene le lacrime, più o meno, finché non si è ritirato e non ha chiuso dietro di sé la porta, perché anche lui è un Tourneville.

Sir Roger si raddrizza lentamente. Per mancanza di tempo ha smesso di sbarbarsi, e la barba si arriccia come trucioli di ferro sul suo viso coperto di cicatrici. I suoi occhi grigi appaiono spenti, e c’è un muscolo della sua guancia che continua a vibrare. Dal momento che qui l’acqua calda scorre liberamente dai tubi, si è fatto il bagno; ma indossa il suo vecchio giustacuore di rozza pelle e le brache rammendate. Il budriere della sua grande spada scricchiola mentre lui avanza verso la moglie.

«È ora», dice un po’ goffo. «Devo andare.»

«Sì.»

La schiena di lei è liscia e dritta.

«Io credo…» Il Barone si schiarisce la gola. «Io credo che voi abbiate imparato tutto quanto possa servirvi.» E, visto che lei non risponde, aggiunge: «Ricordate che è assolutamente importante far sì che coloro che studiano la lingua wersgoriana continuino ad applicarsi con costanza. Altrimenti saremo come dei sordomuti tra i nostri nemici. Ma non fidatevi mai dei prigionieri. Ognuno di loro deve avere sempre al fianco due nostri armigeri.»

«Sarà fatto.»

Lei annuisce. È senza cuffia e la luce delle candele scivola sulle sue trecce eburnee.

«Vi segnalo che i maiali non hanno necessità dei nuovi cereali che diamo agli altri animali.»

«Questo è davvero importante! E assicuratevi anche di tenere sempre ben rifornita questa fortezza. Coloro tra i nostri che si sono nutriti coi cibi locali sono ancora in buona salute, per cui potere compiere requisizioni nei granai wersgoriani.»

Il silenzio incombe su di loro, pesante.

«Bene», dice il Barone. «Devo partire».

«Che Dio sia con voi, mio Signore.»

Sir Roger rimane immobile per un momento e studia attentamente il tono della voce di lei.

«Catherine…»

«Sì, mio Signore?»

«Vi ho fatto torto,» si costringe a dire, «e quel che è peggio, vi ho trascurato».

Le mani di lei si tendono avanti come animate da volontà propria e le palme ruvide di lui vi si chiudono sopra.

«Chiunque può errare di tanto in tanto», sussurra lei.

Sir Roger osa fissare il suo sguardo in quegli occhi azzurri:

«Mi volete dare un pegno?», chiede.

«Con l’augurio che ritorniate sano e salvo…»

Lui le fa scivolare le mani attorno alla vita, l’attira vicina e grida giosioso:

«E raggiunga la mia vittoria finale! Datemi un vostro pegno e io vi deporrò ai piedi questo impero!»

Lady Catherine si divincola. Ha una smorfia d’orrore sulle labbra.

«Quando, quando comincerete a cercare la nostra Terra?»

«Che onore c’è tornare di soppiatto a casa, lasciando alle nostre spalle infinite stelle nemiche?»

Si sente l’orgoglio nelle sue parole.

«Che Iddio mi aiuti!», sussurra lei e fugge via.

Lui rimane immobile finché lo scalpiccio dei piedi di lei non è svanito in fondo al freddo corridoio, poi si volta e torna dai suoi uomini.

Avremmo potuto ammassarci tutti a bordo di una sola delle grandi navi, ma pensammo fosse meglio sparpagliarci a bordo di una ventina di esse. Queste erano state ridipinte, con le vernici wersgoriane, da un ragazzo che aveva certa abilità nell’araldica, e adesso risplendevano tutte di porpora e oro, con le insegne dei de Tourneville ed i leopardi inglesi impressi sull’Ammiraglia.

Tharixan rimase lontano dietro di noi, e ci avventurammo in quel folle viaggio dentro e fuori di uno spazio che non era più quello semplicemente euclideo a tre dimensioni, grazie a quella che i Wersgorix definivano «guida iperluce». Le stelle tornano a fiammeggiare su ogni lato e ci divertimmo a battezzare le nuove costellazioni… il Cavaliere, l’Aratore, la Balestra, ed altre ancora, comprese alcune che non sarebbe bene mettere per iscritto.

Il viaggio non durò a lungo, solo qualche giorno terrestre, da quanto potemmo giudicare dai nostri orologi. Servì tuttavia a farci riposare, così che, quando entrammo nel sistema planetario di Bodavant, eravamo irrequieti come mastini.

Ormai sappiamo che ci sono soli di molti colori e dimensioni, tutti mescolati fra di loro. I Wersgorix, come gli umani, davano la preferenza ai piccoli soli gialli. Bodavant, invece, era più rosso e più freddo. Solo uno dei suoi pianeti era abitabile e, se anche questo di nome Boda avesse potuto essere colonizzato dagli uomini o Wersgorix, per loro sarebbe stato troppo scuro e gelido; quindi i nostri nemici non si erano preoccupati di sottomettere i nativi Jair, ma si erano semplicemente limitati ad impedir loro di fondare nuove colonie oltre quelle già fondate, ed a costringerli ad accettare dei trattati commerciali assolutamente sfavorevoli.

Il pianeta stava sospeso tra le stelle come un immenso scudo chiazzato e ragginoso e, quando le navi da guerra indigene ci contattarono, arrestammo obbedienti la nostra flottiglia. O meglio, cessammo di accelerare e ci tuffammo nello spazio in un’orbita iperbolica subluce, seguiti dalle navi jariane. Ma tutti questi problemi di navigazione celeste mi danno il mal di capo, e preferisco lasciarli agli astrologi ed agli angeli.

Sir Roger invitò l’Ammiraglio jariano a salire a bordo della nostra Ammiraglia, ed io feci da interprete, servendomi naturalmente della lingua wersgoriana. Ma mi limiterò a rendere il succo della conversazione e non il tedioso scambio di frasi faticose che in effetti avvenne.

Avevamo approntato il ricevimento con una certa imponenza per far colpo sui nostri visitatori. Nel corridoio che portava dal portale al refettorio erano state schierate due file di armigeri. Gli arceri avevano rammendato brache e farsetti, avevano infilato delle piume nei cappelli, ed avevano appoggiato gli archi a terra davanti a sé. I comuni armigeri, invece, avevano lustrato gli elmi e le cotte di maglia, ed avevano formato un arco di picche. Più oltre, là dove il passaggio diventava più alto ed ampio, risplendevano venti cavalieri lucenti nelle loro armature complete, in groppa ai loro destrieri, con stendardi e scudi blasonati, piumaggi e lance. Sull’ultima porta, il Mastro di Caccia di Sir Roger li attendeva con un falco sul polso ed un branco di mastini ai piedi.

Le trombe squillarono, i tamburi rullarono, i cavalli si impennarono, i cani ansimarono, e tutti insieme facemmo tremare la nave al grido tonante di:

«Dio e San Giorgio per la felice Inghilterra! Hurrà!»

I Jair parvero piuttosto spaventati, ma continuarono a venire avanti fino ad entrare nel refettorio, alle cui pareti erano state appese le più splendide stoffe provenienti dai nostri bottini. All’estremità della lunga tavola, su un trono affrettatamente costruito dai nostri carpentieri, e circondato da alabardieri e balestrieri, era assiso Sir Roger che per l’occasione aveva indossato vesti ricamate.

Quando i Jair entrarono, il Barone sollevò una coppa d’oro wersgoriana e brindò alla loro salute con birra inglese. In effetti avrebbe voluto usare del vino, ma Padre Simon aveva deciso di riservare quest’ultimo solo per la Santa Comunione, sottolineando il fatto che tanto quei Demoni alieni non si sarebbero accorti della differenza.

«Wâes hâeil!», declamò Sir Roger, una frase inglese che gli piaceva pronunciare perfino quando parlava in francese, lingua a lui più usuale.

I Jair esitarono finché un paggio li tolse dall’imbarazzo indicando loro dove sedere con un cerimoniale che assomigliava a quello della Corte Reale. Poi io recitai un Rosario e chiesi a Dio la benedizione sulla conferenza.

Questo, lo confesso, non fu fatto per motivi puramente religiosi. Noi eravamo già venuti a sapere infatti, che i Jair si servivano di certe formule verbali per invocare i poteri nascosti del corpo e della mente; ora, se per caso loro erano così stupidi da scambiare il mio armonico latino per una versione ancora più impressionante della stessa cosa, non era proprio colpa nostra, vi pare?

«Benvenuto, Milord!», disse Sir Roger.

Anche lui appariva molto riposato e c’era attorno a lui una punta di diavoleria. Solo coloro che lo conoscevano molto bene, avrebbero potuto immaginare il vuoto che vi albergava dentro.

«Invoco il vostro perdono per il modo poco acconcio con cui sono entrato nel vostro regno, ma le notizie che reco non possono proprio aspettare.»

L’Ammiraglio jariano si chinò verso di lui, teso in volto. Era un essere leggermente più alto di un uomo, sebbene più agile e aggraziato, con una morbida pelliccia grigia sul corpo ed un collare di piume bianche attorno alla testa. Sul viso portava baffi felini, ed aveva enormi occhi violetti, ma per il resto aveva un aspetto umano. Ovvero appariva umano, come possono apparirlo i volti in un trittico dipinto da un artista non troppo abile. Indosso aveva abiti aderenti di una stoffa bruna con le insegne del suo grado.

Ma, di fronte allo splendore che avevamo noi, lui ed i suoi colleghi apparivano davvero ben scialbi. Il suo nome, come scoprimmo dopo, era Beljad sor Van e, come ci aspettavamo, colui che era a capo della difesa interplanetaria aveva anche un’alta posizione nel governo di quel pianeta.

«Non sospettavamo davvero che i Wersgorix si fidassero a tal punto di un’altra razza da amarla e farne un’alleata!», osservò l’alieno.

Sir Roger scoppiò in una risata.

«Non direi proprio, Nobile Signore! Io arrivo a Tharixan che ho appena conquistata. E impieghiamo astronavi catturate ai Wersgorix per incrementare la nostra flotta.»

Beljad si rizzò a sedere di scatto. I peli della sua pelliccia vibrarono per l’eccitazione.

«Allora siete anche voi un’altra razza che conosce il volo stellare?», gridò.

«Noi siamo Inglesi!», rispose Sir Roger, sfuggendo così alla domanda. Non desiderava infatti mentire a potenziali alleati più del necessrio perché se poi avessero scoperto la verità, avrebbero potuto mostrarsi risentiti.

«I nostri Signori hanno possedimenti estesi all’estero, come l’Ulster, il Leinster, la Normandia… ma non voglio annoiarvi con un elenco di nomi.»

Io ero stato l’unico a notare che in effetti non aveva affermato che quelle Contee e Ducati fossero dei pianeti.

«Per farla breve, la nostra è una civiltà di origini antichissime, i nostri documenti scritti risalgono infatti a più di cinquemila anni fa.» Per quel calcolo si servì con la miglior approssimazione possibile dell’equivalente wersgoriano; e chi potrebbe negare che le Sacre Scritture si dipanano con assoluta precisione dal tempo di Adamo?

Beljad rimase però, meno impressionato, di quanto ci aspettassimo.

«I Wersgorix vantano solo duemila anni di storia chiaramente identificata, dal momento che la loro civiltà si è ricostruita dopo l’ultima guerra che li aveva completamente distrutti,» disse, «ma noi Jair possediamo una cronologia perfettamente documentata degli ultimi ottomila anni.»

«Da quanto tempo praticate il volo spaziale?», chiese Sir Roger.

«Da circa due secoli.»

«Ah. I nostri primi esperimenti in questo campo risalgono a… quanto tempo fa diresti, Fratello Parvus?»

«A circa tremilanciquecento anni fa, in un luogo chiamato Babele», risposi.

Beljad quasi si strangolò. Sir Roger continuò come se niente fosse.

«Questo universo è tanto grande che il Regno Inglese in espansione non è venuto a contatto col regno wersgoriano, anch’esso in espansione, che in tempi molto recenti. Solo che loro non si sono resi conto dei nostri veri poteri e ci hanno attaccati proditoriamente. Ma sapete anche voi quanto siano malvagi. Noi invece siamo una razza assolutamente pacifica.»

Dai nostri prigionieri, che ne avevano parlato in tono sprezzante, avevamo saputo che la Repubblica Jairiana deplorava la guerra e non aveva mai colonizzato un pianeta che già era abitato da una popolazione indigena.

Sir Roger congiunse le mani e sollevò gli occhi al cielo.

«Invero,» osservò, «uno dei nostri comandamenti fondamentali dice "Non uccidere". Ma ci è sembrato un crimine ancora maggiore permettere che una potenza così crudele e pericolosa come quella wersgoriana fosse lasciata libera di devastare contrade inermi.»

«Uhm!» Beljad si strofinò la fronte pelosa. «Dove si trova questa vostra Inghilterra?»

«Suvvia,» replicò Sir Roger in tono sornione, «non vi aspettate che lo riveliamo a degli estranei, sia pure di nobilissima stirpe, finché non avremo raggiunto un certo accordo. Neanche i Wersgorix la conoscono, perché abbiamo catturato la loro astronave esplorativa. Questa mia spedizione nel loro territorio ha lo scopo di punirli e di raccogliere informazioni. Come vi ho già detto, abbiamo catturato Tharixan subendo delle perdite leggerissime, ma non è costume del nostro Monarca intervenire negli affari riguardanti altre specie intelligenti, senza prima consultarle per sapere quali sono i loro veri desideri. Vi giuro che Re Edoardo III non si è mai sognato di farlo. Io, insomma, preferirei avere dalla mia parte voi Jair ed altre nazioni che abbiano sofferto per mano dei Wersgorix, in modo da condurre una crociata per umiliarli. E voi acquisterete così il diritto di partecipare ad una giusta ed equa divisione del loro Impero con noi.»

«E voi, capo di un unico corpo di spedizione militare, avete i poteri per intraprendere negoziati in questo senso?», chiese Beljad, piuttosto dubbioso.

«Signore, io non sono un nobiluccio di basso rango.» rispose il Barone irrigidendosi notevolmente. «I miei ascendenti equivalgono ai più alti del vostro reame. Un mio antenato, di nome Noè, è stato un tempo Ammiraglio delle flotte combinate del mio pianeta.»

«È tutto così improvviso!», rispose Beljad, incerto. «È un evento che non si è mai verificato prima. Noi non possiamo… io non posso prendere decisioni… prima bisogna discuterne e…»

«Certamente!» Il mio Signore alzò la voce fino a far risuonare tutto il salone. «Ma non indugiate troppo, Nobili Signori. Io vi offro la possibilità di contribuire alla distruzione delle barbarie wersgoriane, di cui l’Inghilterra non può più tollerare l’esistenza. Se voi condividerete con noi il fardello della guerra, dividerete poi anche i frutti della vittoria. In caso contrario, gli Inglesi saranno costretti ad occupare l’intero Impero Wersgoriano, perché qualcuno dovrà pur mantenere l’ordine. Perciò io vi dico, unitevi a noi sotto la mia guida ed hurrà per la vittoria!»

CAPITOLO XVI

Jair, come le altre nazioni libere, non erano poveri stupidi, e ci invitarono ad atterrare e ad essere loro ospiti sul loro pianeta. Quel soggiorno fu ben strano, come se l’avessimo trascorso sulla Collina senza tempo degli Elfi. Ricordo torri alte e sottili, collegate da arditi ponti aerei, città dove gli edifici si mescolavano ai parchi creando un effetto di fastose dimore, barche su laghi scintillanti, studiosi con tonaca e veli che discutevano con me della cultura inglese, enormi laboratori alchemici, una musica che ancora turba i miei sogni.

Ma questo non è un libro di geografia. È il resoconto più sobrio di antiche civiltà non umane e ad un orecchio inglese non erudito, sembrerebbe ancora più fantasioso delle immaginifiche descrizioni del famoso veneziano chiamato Marco Polo.

Mentre i capi militari, le persone più istruite e gli uomini politici jairiani cercavano di strapparci informazioni, sia pure impiegando la massima cortesia, una spedizione corse a Tharixan per accertarsi coi propri occhi di quanto era successo.

Lady Catherine l’accolse in pompa magna e concesse ai Jairiani di intervistare tutti i Wersgorix che volevano. Si limitò solo a far rinchiudere in un luogo separato Branithar, perché questi avrebbe rivelato troppe cose. Tutti gli altri invece, Huruga compreso, avevano solo la confusa impressione di una terribile e distruttrice macchina da guerra.

I Jair, inoltre, a parte il fatto che non avevano nessuna familiarità con le differenze relative alle caratteristiche fisiche umane, non si resero conto che la guarigione di Darova era composta dai nostri elementi più deboli ma, una volta contati gli effettivi, fecero fatica a capitarsi che una piccola forza d’intervento come la nostra fosse riuscita ad ottenere un simile risultato.

Certo, pensarono, dovevamo avere in serbo dei poteri nascosti! E, quando videro il nostro bestiame, i cavalieri in groppa ai loro destrieri, e le donne che cucinavano su fuochi di legna, accettarono con facilità la spiegazione che noi Inglesi preferivamo vivere all’aria aperta nella maniera più semplice, dal momento che questo era anche uno dei loro ideali.

L’altra fortuna da parte nostra fu che la barriera della lingua limitava la loro indagine a quanto potevano osservare coi loro occhi. In quanto ai nostri ragazzi che stavano imparando il wersgoriano, avevano fino a quel momento appreso troppe poche parole per una conversazione intelligibile. Una fortuna, ho detto, perché molti plebei, e magari anche qualche guerriero, avrebbero potuto esprimere tutto il proprio terrore e la propria ignoranza, se fossero stati capaci di farlo, per poi supplicarli di riportarli a casa. Così, invece, tutti i colloqui con gli Inglesi dovevano passare attraverso il mio filtro, ed io trasmettevo l’allegra arroganza di Sir Roger.

Il mio Signore non nascose loro che una flotta punitiva wersgoriana si sarebbe abbattuata fra poco su Darova. Anzi, ne fece quasi un vanto. E sostenne di aver preparato una trappola. Se poi Boda e gli altri pianeti stellari non avessero voluto aiutarlo a farla scattare, avrebbe dovuto chiedere rinforzi in Inghilterra.

Ora, il pensiero di una armata proveniente da un regno di cui si ignorava tutto, e che doveva entrare nella loro regione di spazio, turbò parecchio i capi jairiani. Non ho dubbi che alcuni di essi ci considerassero dei semplici avventurieri, fuorilegge forse, che in realtà non potevano contare su alcun aiuto dal nostro pianeta natale, ma gli altri dovevano aver obiettato:

«Possiamo rischiare di rimanere qui a guardare e non partecipare a ciò che sta per succedere? Anche se fossero pirati, questi nuovi venuti hanno conquistato un pianeta, e mostrano di non aver paura dell’intero Impero Wersgoriano. In ogni caso, dobbiamo armarci per ogni eventualità. Potrebbe darsi infatti che, nonostante i loro dinieghi, questa Inghilterra sia una nazione aggressiva quanto quella dei musi azzurri. Perciò, non sarebbe forse meglio rafforzarci aiutando questo Roger, occupando molti pianeti ed impadronendoci di un ingente bottino? L’unica alternativa sembra quella di allearci coi Wersgorix contro di lui, e questo è assolutamente impensabile!»

Per di più avevamo conquistato l’immaginazione dei Jair. Questi infatti avevano visto Sir Roger ed i suoi pittoreschi compagni percorrere al galoppo i loro viali tranquilli, ed avevano sentito della sconfitta dai loro vecchi nemici. Il loro folklore, che da tempo si basava sul fatto che loro conoscevano solo una minuscola porzione dell’universo, li predisponeva a credere che, al di là delle zone cartografate, esistessero razze più vecchie e potenti. Perciò quando sentirono che Sir Roger li invitava alla guerra, si infiammarono e la reclamarono a gran voce. Boda era una repubblica, non una mistificazione come quella wersgoriana. E la voce del popolo risuonò forte nel parlamento.

L’ambasciatore wersgoriano protestò, arrivando a minacciare la distruzione. Ma era lontano da casa, e i dispacci che inviò avrebbero impiegato tempo prima di arrivare: intanto le folle scagliavano pietre contro la sua residenza.

Sir Roger, conferì a sua volta, con due altri emissari. Questi erano i rappresentanti di due nazioni stellari, quella degli Ashenkoghli e dei Pr?*tan. Ho messo questi strani simboli nell’ultimo nome per rappresentare rispettivamente un sibilo ed un grugnito. Riporterò la conversazione che segue a campione delle tante che ebbero luogo.

Come al solito, ci servimmo della lingua wersgoriana. Questa volta ebbi maggiori difficoltà a fare da interprete perché il Pr?*tan che era contenuto in una scatola che manteneva il calore e l’aria velenosa che gli erano necessari, e parlava attraverso un altoparlante con un accento che era ancora più atroce del mio. Non cercai neppure di conoscere il suo nome né il suo grado, perché questi concetti erano per una mente umana ancora più evanescenti dei libri di Maimonide. Lo battezzai Mastro d’Uovo Terziario dell’Alveare di Nordovest, ed in privato lo chiamai Ethelbert.

Noi visitatori eravamo seduti in una fresca stanza azzurra, che dominava la città da un alto edificio. Mentre la forma tentacolare di Ethelbert, a malapena visibile attraverso il vetro, si sforzava di partecipare alle cortesie formali, Sir Roger lanciò un’occhiata sul panorama.

«Finestre aperte, ampie quanto il portone di un castello.» mormorò. «Che occasione! Quanto mi piacerebbe attaccare questo posto!»

Quando i colloqui ebbero inizio, Ethelbert disse:

«Io non posso impegnare gli Alveari in una qualsiasi scelta politica. Tutto quello che posso fare è di inviare una raccomandazione. Tuttavia, dal momento che il nostro popolo ha una mente che è meno individualista della media, posso aggiungere che la mia raccomandazione avrà un peso notevole. Allo stesso tempo però, sono assai duro da convincere.»

Questo eravamo già stati inclini a crederlo. In quanto agli Ashenkoghli, questi si dividevano in Clan; il loro Ambasciatore a Boda era il capo di uno di essi ed aveva personalmente l’autorità di farne intervenire la flotta. Questo semplificò a tal punto i negoziati che ci parve di vedere chiaramente la strada indicataci da Dio. Inoltre, la fiducia che acquisimmo in quella circostanza, ci fu parecchio giovevole.

«Senza dubbio, Milord, voi vi renderete conto degli argomenti che abbiamo esposto ai Jair,» cominciò Sir Roger, «gli stessi argomenti sono indubbiamente applicabili a Pur… Pur vattelapesca, come si chiama il vostro pianeta.»

Provai un senso di esasperazione vedendo che lasciava a me tutto il peso di una corretta pronuncia e dei giri di frasi necessari per mantenere il colloquio a livello di cortesia, e per penitenza mi assegnai un Rosario. Il wersgoriano era una lingua così barbara che non riuscivo ancora a pensare con chiarezza con quegli schemi per cui, quando interpretavo il Francese di Sir Roger, traducevo prima il succo del discorso nell’Inglese della mia infanzia, poi in maestose frasi latine, sulle cui solide fondamenta potevo erigere una costruzione wersgoriana che poi Ethelbert traduceva mentalmente in Pr?*tano. Meravigliose sono le vie del Signore!

«Gli Alveari hanno sofferto molto», ammise l’Ambasciatore. «I Wersgorix impongono limiti alla nostra flotta spaziale ed ai nostri possedimenti extraplanetari; esigono un pesante tributo in metalli rari. Il nostro pianeta natale, tuttavia, è assolutamente inutile per loro per cui non temiamo di venire occupati come Boda o Ashenk. Perché quindi dovremmo provocare la loro collera?»

«Immagino che questi esseri non abbiano idea di cosa sia l’onore», brontolò il barone. «Perciò digli che, una volta che Wersgorixan sarà stato sconfitto, non dovranno più subire quei tributi e quelle restrizioni.»

«Questo è ovvio», fu la fredda risposta. «Ma il vantaggio è troppo scarso in confronto al rischio che il nostro pianeta e le nostre colonie vengano bombardati.»

«Questo rischio sarà molto inferiore se tutti i nemici di Wersgorixan si uniranno insieme. Il nemico sarà troppo impegnato per poter condurre un’azione offensiva.»

«Ma non esiste nessuna alleanza del genere.»

«Ho ragione di credere che il Lord di Ashenk qui presente su Boda, progetti di unirsi a noi. E allora lo imiteranno certamente molti altri dei suoi Clan, se non per impedirgli di acquisire troppo potere.»

«Ma Milord,» protestai in Inglese, «voi sapete bene che il Lord di Ashenk ora non è affatto pronto ad arrischiare la sua flotta in questo azzardo.»

«Tu limitati a riferire al mostro ciò che ho detto io.»

«Ma, Milord, questo non è vero!»

«Ah, ma noi faremo sì che lo diventi; così in definitiva non sarà più una menzogna.»

Quasi mi soffocai per quei cavilli, ma tradussi il tutto come mi era stato ordinato.

Di rimando Ethelbert sbottò:

«Che cosa vi fa pensare questo? Il Signore di Ashenk è notoriamente molto cauto.»

«Certo.»

Era un vero peccato che la calma di Sir Roger andasse sprecata per quegli orecchi non umani. «Appunto per questo non annuncerà la sua intenzione apertamente. Ma i suoi collaboratori… qualcuno di essi parlerà o non saprà fare a meno di far trapelare qualcosa…»

«Questa è una questione su cui bisogna indagare!», disse Ethelbert.

Riuscivo quasi a leggergli nel pensiero. Avrebbe immediatamente messo all’opera le proprie spie, scelte tra i Jair.

Ci trasferimmo altrove e riprendemmo i colloqui che Sir Roger aveva avuto con un giovane Ashenkogh. Questo bellicoso centauro era desideroso di vedere una guerra in cui avrebbe potuto procurarsi fama e ricchezza.

Ci spiegò i particolari della loro organizzazione, delle documentazioni, delle comunicazioni che Sir Roger aveva bisogno di sapere, poi il Barone lo istruì su quali documenti andavano falsificati e lasciati in giro perché li trovassero gli agenti di Ethelbert, su quali parole andavano lasciate cadere durante le sbronze, quali goffi tentativi andavano fatti per corrompere i funzionari jairiani… nel giro di poco tempo, insomma, tutti, tranne l’Ambasciatore di Ashenk stesso, avrebbero saputo che stavano progettando di allearsi con noi.

Così Ethelbert mandò a Pr?*tan un messaggio in cui raccomandava la guerra. Il messaggio naturalmente partì segretamente, ma Sir Roger corruppe l’ispettore jairiano che passava i messaggi diplomatici in speciali contenitori sulle navi postali, promettendogli in dono un intero arcipelago su Tharixan.

Questa fu una mossa astuta da parte del mio Signore, perché gli diede la possibilità di mostrare al Capo degli Ashenkoghli quel dispaccio prima che partisse per la sua strada. Ed allora, visto che Ethelbert aveva tanta fiducia nella nostra causa, il Capo mandò a chiamare la sua flotta e scrisse lettere in cui invitava i Lord dei Clan alleati a fare lo stesso.

Ormai, naturalmente, il controspionaggio militare di Boda sapeva quanto stava succedendo e, naturalmente, i suoi capi politici non potevano permettere che Pr?*tan ed Ashenk mietessero un così ricco raccolto mentre il loro pianeta rimaneva a bocca asciutta. Di conseguenza raccomandarono che anche i Jair entrassero a far parte dell’alleanza. Così sollecitato, il Parlamento dichiarò guerra a Wersgorixan.

Sir Roger mostrava un sorriso che gli spaccava in due la faccia.

«È stato facilissimo», disse quando i suoi Capitani lo lodarono. «Mi è bastato indagare su come funzionano le cose da queste parti, il che non è un segreto. Poi questi signori delle stelle sono cascati dentro trappole che non avrebbero ingannato neanche un principotto tedesco mezzo scemo.»

«Ma com’è possibile, Milord?», chiese Sir Owain. «Questa è gente più vecchia, più forte e più saggia di noi.»

«Le prime due affermazioni ve le concedo,» convenne il Barone con un cenno d’assenso. Era talmente di buonumore che perfino al giovane Cavaliere si rivolgeva con franco cameratismo, «la terza no. Quando si arriva all’intrigo non sono neanch’io un asso come gli Italiani. Ma questi stellari sono proprio dei bambocci. Mi chiedete perché? Bè, sulla Terra ci sono da molti secoli molte nazioni e molti Lord, ognuno sospettoso dell’altro, sotto un sistema feudale che è fin troppo complicato per ricordarlo.

«Perché noi abbiamo combattuto tante guerre in Francia? Perché il Duca d’Angiò era per un verso il Sovrano d’Inghilterra e per l’altro un francese! Pensate a cos’ha condotto questo; eppure è ancora uno degli esempi minori. Sulla Terra noi siamo stati costretti dalle circostanze ad apprendere tutte le furfanterie che ci sono da apprendere. Ma qui, i Wersgorix sono da secoli l’unica vera potenza. Ed hanno compiuto le loro conquiste con un solo metodo, annientando crudelmente quelle razze che non avevano armi per difendersi. Grazie al fatto che loro possedevano il reame più vasto, hanno imposto con la pura violenza la loro volontà a tre altre nazioni che possedevano arti militari loro pari, e queste tre nazioni, singolarmente inferiori, non hanno neppure cercato di complottare contro Wersgorixan. Tutto questo non ha richiesto abilità superiore a quelle che occorrono per combattere una battaglia a palle di neve. Non mi ci è voluta quindi una grande abilità per giocare sull’ingenuità, l’avidità, la nascente paura e la mutua rivalità.»

«Voi siete troppo modesto, Milord!», osservò Sir Owain con un sorriso.

«Argh!»

Tutto il compiacimento del Barone svanì.

«Che Satana si porti via queste faccende. L’unica cosa importante adesso è che noi ce ne dobbiamo stare qui in panciolle fintantoché la flotta verrà organizzata e, nel frattempo, il nemico è già per strada!»

Invero quello fu un periodo d’incubo. Non potevamo partire da Boda per riunirci alle nostre donne ed ai nostri bambini di Darova, perché l’alleanza era ancora instabile. Sir Roger dovette riannodarla almeno un centinaio di volte, spesso impiegando mezzi che gli sarebbero costati cari nella vita dell’aldilà.

Noialtri, invece, passavamo il tempo a studiare storia, lingue, geografia (o dovrei dire astrologia?) e quelle stregonesche arti meccaniche. Per quest’ultime ci servimmo del pretesto di dover confrontare le macchine locali con quelle di casa nostra, confronto che si risolveva a svantaggio delle prime, naturalmente.

Fortunatamente, anche se non era del tutto strano, Sir Roger aveva scoperto dai documenti e, dall’interrogatorio degli ufficiali wersgoriani prima di lasciare Tharixan, che certe armi tra quelle catturate erano segrete. Così ci fu possibile dare dimostrazioni con pistole a palle esplosive molto efficienti, e sostenere che erano armi inglesi, facendo bene attenzione naturalmente che nessuno dei nostri alleati ci desse un’occhiata troppo da vicino.

La notte che ritornò a Tharixan la nave di collegamento jairiana con la notizia che era arrivata l’armata nemica, Sir Roger si chiuse da solo in camera sua. Non so che cosa sia successo, ma il mattino dopo la sua spada aveva bisogno di una buona molatura e tutti i mobili erano a pezzi.

Dio volle, però, che non dovessimo aspettare ancora per molto. La flotta bodavant era già raccolta in orbita, poi arrivarono diverse dozzine di agili navi da battaglia da Ashenk, seguite poco dopo dai vascelli a forma di scatola di Pr?*tan provenienti dal loro mondo natale coperto di gas velenosi. Allora ci imbarcammo e sfrecciammo rombando verso la guerra.

Il primo spettacolo che ci si offrì di Darova, dopo che ci fummo aperti un varco tra le più lontane astronavi wersgoriane e quando già eravamo entrati nell’atmosfera di Tharixan, mi fece venire il dubbio che forse non esisteva più nulla da salvare. In un raggio di centinaia di miglia attorno a Darova, la terra era bruciata, sconvolta e deserta. Là dove una bomba era caduta da poco, ribollivano pozze di roccia liquefatta. La morte subdola che può essere avvertita solo con speciali strumenti, aveva devastato l’intero continente, e sarebbe rimasta per anni attiva.

Ma Darova era stata costruita per resistere ad attacchi del genere, e Lady Catherine l’aveva approvvigionata a dovere. Scorsi una flottiglia wersgoriana abbassarsi ululando al di sopra dello schermo di energia, ed i suoi missili esplosero vicini, provocando uno scoppio verso l’esterno delle strutture di pietra di superficie, ma lasciando la parte interrata intatta. Poi il suolo tormentato si aprì; le bombarde si affacciarono come lingue di vipere, sputarono fulmini e si ritirarono al sicuro prima che nuove esplosioni potessero ridurle in rovina. Tre astronavi wersgoriane precipitarono distrutte, ed i loro rottami andarono ad aggiungersi al carnaio rimasto dopo un tentativo di prendere d’assalto la fortezza, condotto da terra.

Poi non ebbi più modo di osservare la foresta di Darova velata da nubi di fumo, perché i Wersgorix piombarono su di noi in forze ed il combattimento si spostò di nuovo nello spazio.

Battaglia ben strana fu quella: una battaglia che si combatté a distanze inimmaginabili con raggi di fuoco, granate o missili, senza equipaggio umano. Le astronavi manovravano sotto la direzione di cervelli artificiali, così che solo opportuni campi di gravità indotti impedivano agli equipaggi di spiaccicarsi contro le paratie. Gli scafi venivano lacerati dai colpi, che pur non centrando le navi, cadevano vicini, ma i vascelli non affondavano in quello spazio privo d’aria perché i guasti si sigillavano da soli, così che le parti rimanenti potevano continuare il combattimento.

Questo infatti era il modo usuale con cui si combatteva una guerra spaziale. Sir Roger apportò una innovazione che dapprima fece inorridire gli Ammiragli jairiani. Il Barone però insistette che quella era una normale tattica inglese… ed in un certo senso era vero. In effetti, però, lo fece per paura che i suoi uomini si tradissero con la loro goffaggine di fronte a quelle armi infernali.

Perciò li dislocò a bordo di numerose barche ultraveloci, e tutto il nostro piano generale di battaglia fu concepito in maniera per niente ortodossa, all’unico scopo di spingere il nemico a disporsi in certe posizioni.

Quando poi si presentò l’occasione, le barche di Sir Roger sfrecciarono nel cuore della flotta wersgoriana. Qualcuna andò persa, ma le altre continuarono la loro assurda orbita, dirette proprio verso l’Ammiraglia nemica. Questa era una nave mostruosa, lunga quasi un miglio, abbastanza grande da trasportare enormi generatori di campi di forza, ma gli Inglesi utilizzarono potenti esplosivi per aprirsi varchi nello scafo. Poi, rivestiti di armature spaziali in cima alle quali i cavalieri avevano piantato i loro pennacchi, si lanciarono all’abbordaggio armati di spade, asce, alabarde ed archi, oltre che di pistole.

Naturalmente non erano in grado di impadronirsi militarmente di tutto quell’enorme labirinto di corridoi e cabine, ma si dilettarono un mondo, patendo solo qualche leggera perdita, (perché i marinai di quel leviatano non erano fortunatamente abituati al combattimento corpo a corpo) e crearono una tale confusione che contribuì validamente a sostenere il nostro assalto principale. Alla fine, l’equipaggio abbandonò la nave. Quando Sir Roger se ne accorse, ritirò le proprie truppe, giusto un attimo prima che lo scafo si disgregasse.

Solo Dio ed i Santi più bellicosi sanno se questa azione si dimostrò decisiva. La flotta alleata era inferiore di numero e specialmente di armamento, così ogni nostro successo fu del tutto sproporzionato. D’altra parte il nostro attacco era stato una sopresa assoluta. Ed avevamo incastrato il nemico tra noi e Darowa, i cui missili più potenti si avventavano nello spazio per distruggere le navi wersgoriane.

Io non sono in grado di descrivere l’apparizione di San Giorgio, perché non fu mio privilegio assistervi, tuttavia molti uomini d’arme, sobri ed assolutamente degni di fede, giurarono di aver visto il Santo Cavaliere scendere a cavallo dalla Via Lattea avvolto in uno spumeggiare di stelle ed impalare le astronavi nemiche con la lancia come se fossero tanti draghi.

Sia come sia, dopo molte ore di cui ho solo un confuso ricordo, i Wersgorix cedettero e ritornarono in buon ordine dopo aver perso forse un quarto della flotta. Noi non l’inseguimmo a lungo, ma scendemmo su Darova dove ci fermammo ad una certa altezza. Quindi Sir Roger ed i capi alleati scesero a terra in una scialuppa.

Nel vasto salone centrale sotterraneo, la guarnigione inglese, sudicia ed esausta dopo giorni di battaglia, ci accolse con un debole evviva. Lady Catherine, però, aveva trovato il tempo di fare un bagno e di vestirsi con gli abiti migliori per dovere d’etichetta, e si fece avanti con l’incedere di una Regina per dare il benvenuto ai Capitani.

Ma, quando vide suo marito, ritto nella sua armatura spaziale tutta sfregiata contro la gelida luce del bagliore diffuso, il suo passo perse di sicurezza.

«Milord…»

Sir Roger si tolse l’elmo di materiale trasparente. I tubi di rifornimento dell’aria impacciarono un poco il suo gesto da gran Cavaliere, quando lui se l’infilò sotto il braccio e posò un ginocchio davanti a lei.

«No!», gridò a gran voce. «Non ditelo! Lasciate che sia io a dirlo, "Mia Signora e mio amore"».

Lady Catherine avanzò come una sonnambula.

«La vittoria è vostra?»

«No. Vostra.»

«Ed ora…»

Sir Roger si rizzò in piedi, facendo una smorfia mentre il peso di tutte le cose da fare ripiombava sulle sue spalle.

«Riunioni», disse. «Riparare i danni della battaglia. Costruire nuovi navi, raccogliere altri eserciti. Intrighi tra alleati, teste da sbattere l’una contro l’altra, fifoni da rincuorare. E combattimenti, nuovi combattimenti. Finché, a Dio piacendo, i musi azzurri non verranno ricacciati sul loro pianeta natale e si sottometteranno…»

S’interruppe. Il viso di lei aveva perso il bel colore che per un momento aveva assunto.

«Ma per stanotte, mia Signora,» disse un poco impacciato, anche se doveva aver provato quella battuta ormai parecchie volte, «credo che ci siamo guadagnati il diritto di rimanere soli, affinché io possa rendervi omaggio.»

Lei tirò un sospiro e tremò per un attimo.

«Sir Owain di Montbelle è vivo?», chiese.

Quando il Barone non le disse di no, Lady Catherine si segnò, ed un pallido sorriso le apparve fuggevolmente sulle labbra. Poi diede il benvenuto ai Capitani alieni, e porse loro la mano perché la baciassero.

CAPITOLO XVII

Arrivo ora ad una parte assai dolorosa di questa storia, una parte che è assai difficile scrivere. Ed io non fui presente se non all’atto finale.

Tutto questo avvenne perché Sir Roger si lanciò in questa sua crociata come se volesse fuggire lontano da qualcosa, il che in un certo senso era anche vero, ed io fui trascinato con lui come una foglia travolta da una bufera. Io ero il suo interprete ma, in ogni momento in cui non avevamo nulla da fare, divenni anche suo insegnante per istruirlo nella lingua wersgoriana, finché la mia povera e debole carne non ce la fece più.

L’ultima visione, prima di cadere nel sonno, era quella della luce di una candela che si proiettava sul magro viso del mio Signore. Poi questi mandava spesso a chiamare un dotto, esperto di lingua jairiana, perché proseguisse l’insegnamento fino all’alba. Di quel passo non trascorsero molte settimane che era già in grado di imprecare orribilmente in entrambe le lingue.

Frattanto continuava a guidare i suoi alleati con la stessa durezza che impiegava con se stesso, convinto che non bisognasse dare il tempo ai Wersgorix di riprendersi. Bisognava perciò attaccare un pianeta dopo l’altro, conquistarlo e stabilirvi sopra una guarnigione, affinché il nemico fosse costretto a battersi sempre in svantaggio, sulla difensiva.

In questo compito ricevemmo grande aiuto dalle popolazioni indigene rese schiave dai Wersgorix. Di regola a queste dovevano essere forniti solo armi ed una guida, poi esse attaccavano i loro padroni in grandi orde e con tanta ferocia che questi ultimi fuggivano da noi in cerca di protezione.

Jair, Ashenkoghli e Pr?*tan erano inorriditi, privi com’erano di esperienza in tali faccende; Sir Roger, invece, aveva conosciuto la Jacquerie in Francia. Confusi e stupiti dal suo modo di agire, i suoi colleghi comandanti giunsero ad accettare sempre di più la sua indiscussa supremazia.

Le varie vicende di quanto successe sono troppo complicate, e variano troppo da mondo a mondo, perché valga la pena di registrarle in questo misero resoconto, ma, per riassumere l’essenziale, i Wersgorix avevano distrutto su ogni pianeta abitato la civiltà originale preesistente. Adesso, però, anche il sistema wersgoriano veniva rovesciato, e Sir Roger si fece avanti a colmare il vuoto che si era venuto a formare, un vuoto fatto di paganesimo, anarchia, banditismo, carestia, con la minaccia sempre presente di un ritorno dei musi azzurri e la necessità di addestrare i nativi perché rinforzassero la nostra scarna guarnigione.

Il Barone aveva una soluzione pronta per questi problemi, una soluzione che si era imposta in Europa durante quei secoli non molto diversi susseguitisi alla caduta di Roma: il sistema feudale.

Ma, proprio mentre stava posando la pietra d’angolo che avrebbe consolidato la sua vittoria, il disastro si abbatté su di lui. Che Dio abbia pietà della sua anima! Mai era vissuto Cavaliere più valoroso. Perfino adesso, dopo una vita intera, le lacrime mi velano gli stanchi occhi e desidererei tanto sorvolare frettolosamente questa parte della mia cronaca, tanto più che, avendo assistito io a poca parte dei fatti, sarei anche scusato se lo facessi.

Comunque, coloro che tradirono il loro Signore non si precipitarono a farlo, ma vi finirono impaniati per gradi e, se Sir Roger non fosse stato cieco a tutti i segni di avvertimento, ciò non sarebbe mai successo. Perciò non trascriverò qui i fatti con fredde parole, ma ritornerò al precedente (e credo più vero) sistema di inventare intere scene, affinché le persone che ormai sono polvere, tornino a rivivere e ad essere conosciute, non come malvagie entità astratte, ma come anime fallibili, di cui forse Dio, all’ultimo momento, ebbe pietà.

Cominciamo da Tharixan. La flotta era già partita per impadronirsi della prima colonia wersgoriana nella sua lunga campagna. Ora, una guarnigione jairiana occupava Darova, e quelle donne, vecchi e bambini che avevano così validamente resistito al nemico, ottennero in ricompensa tutto ciò che era in potere di Sir Roger da dar loro.

Il Barone infatti li trasferì sull’isola in cui pascolava il nostro bestiame, dove avrebbero potuto abitare nei boschi e nei campi, costruendo case, occupandosi degli armenti, andando a caccia, seminando e mietendo, quasi come se si trovassero in patria. Del loro governo fu incaricata Lady Catherine, la quale tenne con sé, tra tutti i prigionieri wersgoriani, Branithar, sia per impedirgli di rivelare troppo ai Jair, sia perché continuasse a istruirla nella sua lingua. Le fu anche assegnata una piccola e veloce astronave da usare in caso di emergenza. In quanto alle visite dei Jair da oltre il mare, furono scoraggiate affinché non ci osservassero troppo da vicino.

Fu un periodo di quiete, tranne che nel cuore della mia Signora.

Per lei il gran dolore iniziò il giorno dopo l’imbarco di Sir Roger, mentre passeggiava su un prato fiorito ascoltando il gemito del vento tra gli alberi. Un paio delle sue dame la seguiva da presso. Attraverso il bosco risuonavano voci, si sentiva sibilare una scure, abbaiare un cane, ma per lei tutto sembrava lontano, come in un sogno.

Improvvisamente si fermò di botto e, per un istante, riuscì solo a fissare quell’immagine, poi portò una mano tremante al crocifisso che portava al collo.

«Maria abbi pietà!»

Le sue dame, ben addestrate, scivolarono discretamente via, allontanandosi da lei.

Dalla radura veniva avanti zoppicando Sir Owain di Montbelle. Era vestito con abiti sgargianti, e solo una spada ricordò a Lady Catherine che c’era ancora la guerra. La gruccia cui si appoggiava non interferì minimamente con la grazia con cui, inchinandosi, si tolse il cappello piumato.

«Ah!», esclamò il giovane.

«In questo stesso istante questo luogo è diventato l’Arcadia, e il vecchio Hob il porcaro che ho appena incontrato è il pagano Apollo che suona sull’arpa un inno alla grande Dea Venere.»

«Cos’è successo?»

Gli occhi di Catherine erano un lago azzurro di preoccupazione.

«La flotta è già tornata?»

«No».

Sir Owain si strinse nelle spalle.

«Tutta colpa della mia goffaggine di ieri sera. Stavo giocando a palla, saltellando qua e là, quando ho incespicato. La caviglia mi si è storta, e adesso è così debole e sensibile che in battaglia sarei del tutto inutile; così sono stato costretto a delegare il comando al giovane Hugh Thorne, e sono volato qui con un aeronave, in attesa di guarire, per poi prendere in prestito una nave con pilota jairiano per raggiungere i miei compagni.»

Catherine cercò disperatamente delle parole sobrie.

«Nelle… sue lezioni di lingua… Branithar mi ha accennato che questa gente delle stelle possiede straordinarie arti chirurgiche.» Il viso le si infiammò. «Con le loro lenti… possono scrutare perfino dentro un corpo umano… ed iniettano delle sostanze che possono guarire le peggiori ferite nel giro di pochi giorni.»

«Ci avevo pensato,» disse Sir Owain, «perché, naturalmente, non ho intenzione di tirarmi indietro in questa guerra, ma poi ho ricordato che il nostro Signore ha emanato ordini severissimi in proposito, in quanto la nostra unica speranza dipende dal fatto di convincere queste razze di Demoni che noi siamo sapienti quanto loro.»

Lady Catherine strinse ancor più il crocifisso.

«Così non ho osato chiedere aiuto ai loro medici,» continuò il giovane, «ed ho detto loro che rimanevo indietro per occuparmi di alcune faccende rimaste in sospeso e che avrei portato questa gruccia in segno di penitenza per i miei peccati. Quando la natura mi avrà guarito, ripartirò, anche se sarà come strapparmi il cuore, l’allontanarmi da voi.»

«Sir Roger lo sa?»

Sir Owain annuì, e tutti e due passarono in fretta ad un altro argomento. Quel cenno d’assenso, però, era una menzogna. Sir Roger, infatti, non sapeva nulla. Nessuno dei suoi uomini osava dirglielo. Io mi sarei anche arrischiato ad informarlo, perché lui non avrebbe mai osato colpire un servo del Signore, ma anch’io ignoravo questo fatto e, dal momento che ormai il Barone evitava la compagnia di Sir Owain, ed aveva tante altre cose che tenevano occupata la sua mente, non ci pensò neppure. Immagino anzi che, nel profondo dell’anima, lui non volesse neppure prestarvi attenzione.

Che Sir Owain si fosse realmente fatto male ad una caviglia, non oserei asserirlo. Certo che era una coincidenza ben strana! Dubito però che avesse progettato nei minimi particolari il suo tradimento finale. Molto più probabilmente, il suo intendimento era di continuare certi colloqui con Branithar e di vederne gli sviluppi.

Il giovane si accostò a Lady Catherine e nell’aria risuonò la sua risata.

«Finché non dovrò partire,» disse, «mi sento libero di benedire questo incidente.»

Lei distolse lo sguardo ed ebbe un tremito.

«Perché?»

«Penso che voi lo sappiate».

Le prese la mano.

Lei la ritirò.

«Vi prego di ricordare che mio marito è in guerra.»

«Non mi fraintendete!», esclamò il giovane. «Preferirei morire che essere disonorato ai vostri occhi.»

«Io non potrei mai nutrire dei dubbi… su un Cavaliere così cortese.»

«È tutto qui quello che sono? Sono cortese? Divertente? Un buffone di corte che vi rallegra nei momenti di stanchezza? Ma, anche così, meglio essere il buffone di Catherine che l’amante di Venere. Perciò lasciate che vi intrattenga.»

E la sua voce limpida si levò per innalzare un rondò in suo onore.

«No…» Lady Catherine si allontanò da lui come un cervo che si sottrae al cacciatore. «Io sono… io ho fatto una promessa…»

«Nelle corti dell’Amore,» affermò Sir Owain, «esiste solo una promessa, l’Amore stesso.»

La luce del sole brillava sui capelli.

«Io ho due bambini cui pensare», lo supplicò lei.

Il giovane si oscurò in viso.

«Invero, Milady, io ho spesso cullato sulle ginocchia Robert e la piccola Matilda, e spero di poterlo fare ancora, a Dio piacendo.»

Lady Catherine lo affrontò di nuovo, quasi umile.

«Cosa intendete dire?»

«Oh… nulla.»

Sir Owain guardò in direzione del bosco da cui provenivano rumori di ogni sorta e le cui foglie non avevano nessuna forma né colore di quelli che si vedono sulla Terra. «Non oserei mai pronunciare una slealtà.»

«Ma i bambini!», questa volta fu lei ad afferrargli la mano. «Nel santo nome di Cristo, Owain, se sapete qualcosa, parlate!»

Il giovane rivolse il viso lontano da lei. Aveva un profilo bellissimo.

«Io non sono addentro ai segreti, Catherine», le disse. «Probabilmente voi potrete giudicare la questione meglio di me. Perché voi conoscete meglio il Barone.»

«C’è forse qualcuno che lo conosce?», chiese lei con amarezza.

Sir Owain rispose con voce bassissima.

«A me pare che i suoi sogni si ingigantiscano ad ogni nuova svolta del destino. Dapprima si accontentava di volare in Francia per unirsi al Re. Poi voleva liberare la Terrasanta. Portato qui da un avverso destino, ha reagito con nobiltà: questo nessuno può negarlo. Ma, dopo aver ottenuto un po’ di respiro, si è messo forse a cercare di nuovo la Terra? No, ha conquistato tutto questo mondo. Adesso è partito per conquistare le stelle. Dove si fermerà?»

«Dove…»

A Lady Catherine non riuscì di continuare, né riuscì a distogliere lo sguardo da Sir Owain.

Il Cavaliere disse:

«Dio mette limiti a tutte le cose. L’ambizione sfrenata è un frutto di Satana che può portare solo male. Non vi pare, Milady, quando giacete senza sonno la notte, che noi finiremo con lo strafare ed andremo alla rovina?» Dopo una lunga pausa, il giovane aggiunse ancora: «È per questo che prego Cristo e la sua divina Madre perché aiutino tutti i nostri piccoli.»

«Cosa possiamo fare?», gridò lei angosciata. «Abbiamo ormai perso la strada del ritorno!»

«La si potrebbe ritovare», affermò il giovane Cavaliere.

«Vagabondando per cento anni alla ricerca della Terra?»

Sir Owain la osservò in silenzio per un attimo prima di rispondere:

«Non vorrei suscitare vane speranze in un sì bel seno, ma di tanto in tanto ho conversato un poco con Branithar. La nostra conoscenza delle rispettive lingue è assai scarsa e lui certo non si fida molto degli umani, ma mi ha detto… alcune cose… che mi inducono a credere che forse si potrebbe ritrovare la via di casa.»

«Cosa?»

Le mani di lei lo afferrarono, frenetiche.

«E come? Dove? Owain, siete impazzito?»

«No,» rispose lui con deliberata brutalità. «Ma supponiamo che sia vero, che Branithar nonostante tutto sia in grado di guidarci. Naturalmente, immagino che non lo farà gratuitamente. Voi pensate che Sir Roger sarebbe disposto a rinunciare alla sua crociata per tornare tranquillamente in Inghilterra?»

«Lui… oh…»

«Non ha forse sempre detto e ripetuto che, finché sussisterà la potenza dei Wersgorix, l’Inghilterra si troverà in mortale pericolo? E la riscoperta della Terra non lo condurrebbe solo a raddoppiare i suoi sforzi? No, a che servirebbe ritrovare la strada del ritorno? La guerra continuerebbe ugualmente fino alla nostra distruzione.»

Lady Catherine rabbrividì e si fece il segno della Croce.

«Ma dal momento che sono qui,» terminò Sir Owain, «tanto vale che cerchi di scoprire se la rotta di casa può essere veramente ritrovata. Forse voi riuscirete a pensare al modo di utilizzare questa conoscenza prima che sia troppo tardi.»

Poi Sir Owain la salutò cavalierescamente, un saluto che lei neanche sentì, e si allontanò zoppicando nella foresta.

CAPITOLO XVIII

Trascorsero molti lunghi giorni tharixiani: settimane, computate col tempo della Terra. Dopo aver conquistato il primo pianeta cui aveva mirato, Sir Roger passò al seguente. Qui, mentre i suoi alleati distraevano i cannonieri nemici, prese d’assalto il castello principale da terra, servendosi del fogliame per mimetizzare l’avanzata.

Questo fu il luogo in cui Red John Hameward salvò realmente una Principessa che era tenuta prigioniera. È vero che aveva capelli verdi e antenne piumate, né c’era possibilità di incrocio tra la sua specie e la nostra, ma la somiglianza con gli umani e l’immensa gratitudine dei Vashtunari, che stavano per essere conquistati dai Wersgorix, contribuì molto a sollevare il morale degli Inglesi che si sentivano sempre più soli. Se poi le proibizioni del Levitico siano o no applicabili, è materia che viene ancora dibattuta con passione.

I Wersgorix contrattaccarono dallo spazio, stazionando la loro flotta su un anello di planetoidi. Ma Sir Roger, mentre l’astronave era in volo, aveva fatto escludere a bordo la gravità artificiale ed aveva fatto addestrare i suoi uomini in quelle condizioni. Così, adesso, corazzati contro il vuoto, i nostri arcieri effettuavano quella famosa incursione battezzata Battaglia delle Meteore.

Frecce lunghe un braccio trapassarono molte tute spaziali wersgoriane senza che un sol lampo di fuoco od una sola pulsazione magnetica tradissero la posizione del tiratore e, una volta che la loro base fu privata dall’equipaggio umano, il nemico dovette ritirarsi dall’intero sistema. Intanto, mentre noi eravamo occupati con questo sole, l’Ammiraglio Beljad ne aveva conquistati altri tre, così la nuova ritirata dei Wersgorix dovette essere effettuata in profondità.

Su Tharixan, intanto Sir Owain di Montbelle si rendeva piacevole a Lady Catherine, mentre lui e Branithar si sondavano vicendevolmente, con cautela, col pretesto di studiare le rispettive lingue. Alla fine pensarono di aver raggiunto un punto di reciproca comprensione.

Restava solo da convincere la Baronessa.

Credo che entrambe le lune si fossero levate in cielo e le cime degli alberi risplendessero argentee per la loro luce, mentre le doppie ombre si allungavano sull’erba dove riluceva la rugiada, ed anche i rumori della notte erano diventati familiari e nessuno più li temeva, quando Lady Catherine lasciò il padiglione, come faceva spesso quando non riusciva a prendere sonno dopo che i bambini si erano addormentati.

Avvolta in un mantello col cappuccio si avviò lungo un viottolo che doveva diventare la strada del nuovo villaggio, passando davanti a capanne di canne che formavano macchie d’ombre sotto le lune, e s’inoltrò su un prato attraversato da un ruscello. L’acqua spumeggiava e scintillava alla luce, cantando tra le rocce.

Lady Catherine aspirò lo strano e caldo profumo dei fiori, che le ricordò il biancospino inglese quando s’incoronava la Regina di Maggio. Si ricordò anche di quando, sposina novella, aveva camminato sulla spiaggia ghiaiosa di Dover, il giorno in cui suo marito si era imbarcato per una campagna estiva, e lei aveva continuato ad agitare la mano per salutarlo, finché anche l’ultima vela era scomparsa all’orizzonte. Ora le stelle erano una cosa più gelida, e nessuno avrebbe visto il suo fazzoletto se anche l’avesse sventolato. Allora piegò la testa e si disse che non avrebbe pianto.

Le corde di un’arpa vibrarono nelle tenebre, poi Sir Owain si fece avanti. Non aveva più la gruccia, ma ancora zoppicava. Una massiccia catena d’argento che gli pendeva sulla casacca di velluto nero rifletteva la luce delle lune, e Lady Catherine lo vide sorridere.

«Oh!», le disse dolcemente il giovane Cavaliere «Ninfe e driadi folleggiano per i boschi!»

«No.»

Nonostante tutti i suoi propositi, Lady Catherine si sentì rallegrata. Le battute scherzose e le lusinghe di quel giovane le avevano rallegrato tante ore tristi e l’avevano riportata ai tempi spensierati della giovinezza trascorsa a Corte. Per mascherare il proprio imbarazzo, si schernì con un gioco di mani e, pur sapendo che era solo timidezza non riuscì a farne a meno.

«No, buon Cavaliere, questo è sconveniente.»

«Sotto un simile cielo ed alla presneza di tanta beltà, nulla è sconveniente!», ribatté lui. «Infatti ci è stato assicurato che non c’è peccato in Paradiso.»

«Non dite così!»

Il dolore che aveva provato prima le tornò raddoppiato.

«Se mai, è vero che siamo finiti all’Inferno.»

«Dovunque si trovi Milady, lì è il Paradiso.»

«Vi sembra questo il posto adatto per tenere una Corte d’Amore?», chiese Lady Catherine, beffarda ed amara.

«No.»

Questa volta toccò a lui diventare solenne.

«Invero non si addice una tenda, od una baracca di tronchi, per colei che comanda a tutti i cuori. Né queste frontiere sono un’acconcia dimora per voi… o per i vostri figli. Voi dovreste sedere tra le rose quale Regina dell’Amore e della Bellezza, mentre mille Cavalieri spezzano lance in vostro onore e mille menestrelli cantano il vostro fascino.»

Lei cercò di protestare.

«Mi basterebbe tornare a rivedere l’Inghilterra…», ma la voce le venne a mancare.

Sir Owain fissò lo sguardo sul ruscello dove scintillavano tremolanti le scie delle due lune gemelle e, dopo un lungo istante, infilò la mano sotto il mantello. Lady Catherine gli vide balenare in mano una lama d’acciaio e si tirò indietro di scatto ma lui levò l’elsa verso il cielo ed esclamò con quel tono ricco di passione che sapeva usare così bene:

«Su questo segno del mio Salvatore e sul mio onore, io vi giuro che il vostro desiderio sarà esaudito!»

La spada affondò nella terra molle del prato e il Cavaliere la fissò.

Lady Catherine lo udì appena quando aggiunse:

«Sempre che voi lo desideriate veramente.»

«Cosa volete dire?»

La donna si strinse nel mantello come se l’aria fosse particolarmente fredda. L’allegria di Sir Owain era ben diversa da quella grassa e rumorosa di Sir Roger e, in quel momento, la sua gravità era più eloquente delle balbettanti proteste del marito. Per un attimo, però, Lady Catherine ebbe paura di Sir Owain, ed avrebbe dato tutti i suoi gioielli per vedere il Barone uscire dalla foresta nella sua poderosa armatura cigolante.

«Voi non avete mai espresso chiaramente cosa intendete dire», sussurrò la donna.

Lui le rivolse uno sguardo su cui si leggeva una disarmante espressione di fanciullesca tristezza.

«Forse io non ho mai appreso la difficile arte di parlare direttamente ma, se ora esito, è perché sono restio a dire a Milady qualcosa che non mi è facile esprimere.»

Lady Catherine si raddrizzò. Per un istante sotto quella luce irreale, apparve stranamente simile a Sir Roger; infatti quello era un gesto tipico del marito ma, un istante dopo, tornò ad essere solo Lady Catherine che raccogliendo, abbattuta, un poco di coraggio, fece:

«Ditemi tutto.»

«Branithar è in grado di ritrovare la Terra», rispose il giovane.

Lady Catherine non era donna da svenire ma, per un istante, le stelle ondeggiarono sopra di lei e, quando si riprese, era appoggiata al petto di Sir Owain. Le braccia di lui la stringevano alla vita e le labbra del giovane si muovevano sulla sua guancia cercandole la bocca. Lady Catherine si scostò un poco e lui non insistette per baciarla, ma ora la donna si sentiva troppo debole per sottrarsi al suo abbraccio.

«Questa è una notizia tremenda,» disse Sir Owain, «per la ragione che vi ho espresso prima. Perché Sir Roger non rinuncerà mai alla sua guerra.»

«Ma potrebbe mandare a casa noi!», singhiozzò Lady Catherine.

Il viso di Sir Owain espresse una grande tristezza.

«Credete forse che lo farà? Lui ha bisogno di tutti noi per mantenere le sue guarnigioni e continuare in questa finzione di farsi credere forte. Ricordate cos’ha proclamato prima che la flotta lasciasse Tharixan. Non appena un pianeta apparirà saldamente conquistato, manderà a chiamare parte della gente di questo villaggio per unirsi a quei pochi, che ha già creato, Duchi e Cavalieri. In quanto a lui… oh, sì, lui parla di porre fine al pericolo in cui versa l’Inghilterra, ma ha mai parlato di fare di voi una Regina?»

Lady Catherine si lasciò sfuggire un sospiro, ricordando le parole che si erano dette.

«Branithar potrà spiegarvi tutto», sussurrò Sir Owain.

Il Wersgor sbucò da un cespuglio di canne dove era rimasto in attesa. Su quell’isola, da cui non avrebbe potuto comunque fuggire, si poteva ormai muovere con una certa libertà. La sua figura robusta era elegantemente rivestita con indumenti provenienti da saccheggi, la cui stoffa brillava come se fosse cosparsa da migliaia di minuscole perle. Il suo viso rotondo, privo di capelli, dalle lunghe orecchie e dal nastro prominente, non sembrava più brutto; i suoi occhi gialli erano perfino allegri. Ormai Catherine era in grado di comprendere abbastanza bene la lingua da poter conversare con lui.

«Milady si chiederà come potrei fare a ritrovare la strada lungo una rotta seguita a zig-zag tra sciami di stelle mai segnate sulle nostre carte», disse il Wersgor. «Quando a Ganturath andarono perse le carte di bordo, mi disperai. Ci sono così tanti soli nel raggio della nostra autonomia, anche contando unicamente quelli di tipo simile al vostro, che ricercarlo a caso richiederebbe almeno mille anni. E questo è tanto più vero in quanto le nebulosità dello spazio nascondono innumerevoli stelle, che diventano visibili solo quando ci si capita per caso abbastanza vicini. Certo è che, se fosse sopravvissuto qualche ufficiale della mia astronave, le ricerche avrebbero potuto essere limitate ad una zona molto più ridotta, ma io mi occupavo solo dei motori. Ho intravisto le stelle solo a tratti e per me esse non significavano nulla. Quando vi ho ingannati sulla Terra — maledetto quel giorno! — non ho fatto che inserire un comando di emergenza che dava istruzione ad un apparecchio automatico di pilotarci fin qui.»

L’eccitazione provata provocò una certa impazienza in Lady Catherine che si staccò dalle braccia di Sir Owain e sbottò:

«Non sono proprio una stupida. Il mio Signore mi rispettava abbastanza da cercare di spiegarmi queste cose per quanto di malavoglia lo ascoltassi. Cosa avete scoperto?»

«Non scoperto,» disse Branithar. «Ricordato. È un’idea che mi sarebbe dovuta venire prima d’ora, ma sono successe tante di quelle cose e… bè… sappiate dunque, Milady, che esistono certe stelle abbastanza brillanti da essere visibili come fari in tutto il braccio a spirale della Via Lattea. Queste stelle vengono appunto usate per la navigazione e, se i soli da noi chiamati Ulovarna, Yariz e Gratch paiono formare una certa configurazione rispetto alle altre, allora significa che ci si trova in una certa regione dello spazio. Basterebbe una valutazione visuale anche approssimativa degli angoli, per rilevare la propria posizione con uno scarto di una ventina di anni luce al massimo. E una sfera di questo raggio non è poi troppo grande per trovare una nana gialla come il vostro sole.»

Lady Catherine annuì lentamente, pensierosa.

«Sì. Probabilmente voi vi riferite a stelle brillanti come Sirio e Rigel…»

«Le principali stelle che si vedono nel cielo di un pianeta potrebbero anche non essere quelle a cui mi riferisco io,» l’avvertì il Wersgor, «in quanto potrebbe darsi semplicemente il caso che esse siano le più vicine al pianeta stesso. In realtà ad un Navigatore servirebbe un buon grafico delle vostre costellazioni, con numerose stelle brillanti indicate in base al colore, come si vedono nello spazio privo d’aria. Una volta in possesso di dati sufficienti, potrebbe poi analizzare e determinare quali stelle devono essere i giganti che servono da faro. E, a quel punto, la loro posizione relativa gli direbbe da che punto sono state osservate.»

«Bè, credo di essere in grado di disegnarvi lo Zodiaco», osservò Lady Catherine, sia pure con una certa incertezza nella voce.

«Questo sarebbe inutile,» rispose Branithar, «voi non siete abituata ad identificare i tipi stellari ad occhio. Ammetto che anch’io non sono un grande esperto: non sono stato addestrato a questo, conosco queste cose solo per sentito dire, e so che c’è gente esperta in questo. Io invece, una volta che mi trovavo nella torretta di controllo, mentre la nostra astronave stava orbitando attorno alla Terra compiendo osservazioni a lungo raggio, non ho prestato la minima attenzione alle costellazioni e non mi ricordo davvero come fossero.»

Lady Catherine si sentì precipitare in un baratro.

«Ma allora siamo ugualmente perduti!»

«Non proprio, direi. Io non ricordo nulla, consciamente. Ma noi Wersgorix sappiamo da tempo che la mente non è composta unicamente da una parte cosciente.»

«È vero,» convenne Catherine saggiamente, «c’è anche l’anima.»

«Ehm… non è esattamente questo che intendevo dire. Nella mente c’è una parte inconscia o semi-conscia, che è anche la fonte dei sogni e… bè, basti comunque dire che questa parte inconscia non dimentica mai nulla e registra perfino i fatti più trascurabili che hanno colpito i nostri sensi. Ora, se io fossi messo in stato di trance, potrei, con una guida sicura, fornire un’immagine accurata del cielo terrestre così come l’ho visto io. Poi, un esperto Navigatore che abbia a portata di mano tutti i suoi manuali, potrebbe vagliare il tutto con la sua arte matematica. Certo ci vorrebbe tempo. Per esempio, sono moltissime le stelle azzurre che potrebbero essere Grathc, e solo uno studio accurato potrebbe eliminare quelle che si trovano in relazione impossibile, ad esempio con l’ammasso globulare di Torgelta. Alla fine, però, riuscirebbe senz’altro a restringere le possibilità a quella regione limitata di cui ho parlato prima, potrebbe volar là con l’aiuto di un pilota spaziale e, visitando tutte le stelle gialle nane nei dintorni, finirebbero col ritrovare il Sole.»

Catherine batté le mani.

«Ma è meraviglioso!», gridò. «Oh, Branithar, quale ricompensa chiedete per questo? Il mio Signore vi regalerà un regno!»

Il Wersgorix si piantò a gambe larghe, la guardò apertamente in volto e, con quel tono di pacato coraggio che ormai avevamo imparato a conoscere, disse:

«Che gioia mi procurerebbe un regno se questo è costruito sulle rovine dell’impero del mio popolo? Perché dovrei aiutarvi a ritrovare l’Inghilterra se questo significherebbe solo portare qui altri Inglesi predatori.»

Lady Catherine strinse i pugni e, con normanna freddezza, replicò:

«Voi non potrete nascondere quanto sapete a Hubert il Guercio.»

Branithar si strinse nelle spalle.

«La parte inconscia della mente non è facilmente evocabile, Milady. Le vostre barbare torture servirebbero solo ad erigere una barriera insuperabile.» Si infilò una mano sotto la tunica ed improvvisamente un pugnale gli brillò un pugno. «Né del resto sarei disposto a subirle. Indietro! Questo pugnale me l’ha dato Owain e so bene da che parte si trova il mio cuore.»

Catherine si girò di scatto emettendo un leggero grido.

Il giovane Cavaliere le posò entrambe le mani sulle spalle.

«Ascoltatemi prima di giudicare», le disse rapidamente. «Sono settimane che cerco di sondare Branithar. Lui mi ha dato certe illusioni, ed io a mia volta le ho date a lui. Abbiamo contrattato come due mercanti saraceni, senza mai ammettere apertamente di farlo. Alla fine lui ha chiesto il pugnale come prezzo da pagare per mostrarmi le merci che aveva da offrire. Ho pensato che con quello non avrebbe certo potuto far del male a nessuno di noi, dato che ormai perfino i nostri bambini girano con armi ben più potenti. Così mi sono preso la responsabilità di accettare, e lui mi ha detto in cambio quanto ha appena riferito anche a voi.»

La tensione abbandonò Lady Catherine che si riscosse con un brivido. Aveva subito troppi shock ormai e, tra l’uno e l’altro, aveva conosciuto troppa paura e troppa solitudine. Ormai ogni sua forza l’aveva abbandonata.

«Che cosa vi serve?», chiese.

Branithar fece scorrere il pollice sulla lama del pugnale, ebbe un cenno d’assenso, e ringuainò l’arma, prima di parlare con gentilezza. «Per prima cosa dovete procurarmi un buon medico della mente wersgoriano. Ne posso trovare uno con l’aiuto del Libro Guida conservato a Darova. Ve lo potreste far consegnare dai Jair con qualche pretesto. Questo medico dovrà lavorare in combinazione con un esperto Navigatore wersgoriano che lo consigli sulle domande da rivolgermi e mi guidi la penna mentre tratteggerò la mappa durante lo stato di trance. Più avanti, poi, avremo bisogno anche di un pilota spaziale, ed insisto anche per avere un paio di cannonieri. Anche questi potrete procuraveli su Tharixan. Potete dire ai vostri alleati che vi servono per cercare di scoprire i segreti tecnici dei vostri nemici.»

«E quando avrete la mappa, cosa faremo?»

«Bè, non la consegnerò certo senza contropartita a vostro marito! Io suggerisco di imbarcarci di nascosto sulla vostra astronave. Lì le nostre forze si equilibreranno: voi uomini disporrete delle armi, noi Wersgorix delle conoscenze necessarie. Noi saremo sempre pronti a distruggere gli appunti, ed anche noi stessi, se cercherete di tradirci. Alla lunga potremo sempre contrattare con Sir Roger, e le vostre suppliche dovrebbero indurlo a cedere. Se si ritirerà dalla guerra, vi potremo organizzare il ritorno a casa e la nostra nazione si impegnerà a lasciare in pace la vostra, da quel momento in poi.»

«E se mio marito non accetterà?», chiese Lady Catherine con voce neutra.

Sir Owain si chinò verso di lei e le sussurrò in francese:

«Allora voi, i vostri bambini ed io stesso, ritorneremo ugualmente, ma questo Sir Roger non deve saperlo, naturalmente.»

«Non riesco a connettere».

La donna si coprì il volto con le mani.

«Padre nostro che sei nei cieli, non so davvero cosa fare!»

«E se la vostra gente persisterà in questa guerra assurda,» continuò Branithar, «il risultato finale sarà soltanto la vostra distruzione totale.»

Anche Sir Owain le aveva ripetuto la stessa cosa all’infinito per tutto quel tempo che era stato l’unico con cui lei aveva potuto liberamente parlare. Lady Catherine ricordò i cadaveri bruciati tra le rovine della fortezza; ricordò quanto aveva strillato la piccola Matilda durante l’assedio di Darova ogni volta che le esplosioni facevano tremare le pareti; ricordò i verdi boschi inglesi dove era andata a caccia col falco col suo Signore nei primi anni di matrimonio, e pensò agli anni che lui ora intendeva passare a lottare per una meta che lei non era assolutamente in grado di capire. Allora levò il viso verso la luce fredda delle lune, che fece brillare le sue lacrime, e disse:

«Sì».

CAPITOLO XIX

Non saprei dire che cosa spinse Sir Owain al tradimento. Due sentimenti si erano sempre annidati nel suo petto; nel profondo del cuore doveva aver sempre ricordato come il popolo di sua madre aveva sofferto per mano del popolo del padre. In parte, poi, i suoi sentimenti erano senza dubbio quelli che aveva rivelato a Catherine: orrore per la situazione, dubbi sulla nostra vittoria, amore per lei e preoccupazione per la salvezza di lei. E in parte ci doveva essere anche un motivo assai meno onorevole, che all’inizio doveva essere nato solo come un pensiero ozioso, ma che poi, accarezzato col tempo, era ingigantito… quello di ciò che si sarebbe potuto fare sulla Terra con le armi wersgoriane!

Perciò, lettori di questa mia cronaca, quando pregherete per le anime di Sir Roger e di Lady Catherine, dite anche una prece per Sir Owain di Montbelle.

Quali che fossero gli intrighi che rimuginava dentro di sé, il traditore si comportò con evidente audacia ed intelligenza. Per prima cosa mantenne una stretta sorveglianza sui Wersgorix che dovevano assistere Branithar. Nel corso delle settimane che impiegarono per strappare dalla mente di Branithar ciò che questi aveva dimenticato, per studiarlo con mezzi matematici superiori perfino a quelli degli arabi più sagaci, il Cavaliere preparò in segreto l’astronave alla partenza. E, contemporaneamente, non trascurò mai di rincuorare la Baronessa, sua compagna di cospirazione.

Lady Catherine venne più volte meno alla propria decisione: pianse, si incollerì, gli gridò di andarsene e sparire dalla sua presenza. Una volta arrivò un vascello recando ordini perché un gruppo di persone andassero a colonizzare un nuovo pianeta appena catturato: a bordo c’era una lettera indirizzata da Sir Roger alla moglie.

Questa lettera l’avevo scritta io stesso sotto sua dettatura, perché Sir Roger non si sentiva troppo sicuro della propria grammatica, ed io mi ero preso la briga di tornire le frasi così che, attraverso la loro durezza, trasparisse l’impressione di un amore umile e sempre presente. Catherine gli rispose immediatamente, ammettendo le proprie azioni e implorando perdono, ma Sir Owain che aveva previsto una mossa del genere, sottrasse la lettera prima della partenza della nave, la bruciò e persuase la donna a stare al suo gioco. Tutto ciò, giurò, era per il meglio di tutti, perfino per Sir Roger stesso.

Alla fine, Lady Catherine comunicò al villaggio, ormai sempre più ridotto di anime, che avrebbe dovuto raggiungere il marito, e s’imbarcò con i figli e due fantesche.

Sir Owain ormai aveva imparato abbastanza dell’arte spaziale per riuscire ad inviare l’astronave in una ben determinata destinazione (in fondo bastava premere solo i pulsanti giusti) così poté unirsi anche lui a loro, apertamente. La sera prima aveva imbarcato clandestinamente i Wersgorix: Branithar, il medico, il pilota, il Navigatore ed un paio di soldati capaci di usare le bombarde che si protendevano dallo scafo.

Queste armi erano del tutto inservibili all’interno dell’astronave, dove solo Sir Owain e Lady Catherine portavano armi. Altre armi portatili erano custodite nella cesta degli abiti nella camera da letto della donna e vi montava sempre di guardia una cameriera. Le ragazze infatti erano così terrorizzate dai musi azzurri che, se solo uno di essi si fosse azzardato ad entrare per prendere un’arma, le grida della fantesca avrebbero fatto immediatamente accorrere Sir Owain.

Ciononostante, il Cavaliere e la Baronessa dovevano tenere costantemente d’occhio i nuovi alleati, perché era chiaro che, se Branithar avesse potuto, si sarebbe affrettato a dirigersi su Wersgorixan dove avrebbe potuto informare l’Imperatore del punto in cui si trovava la Terra. Poi, una volta che l’intera Inghilterra fosse stata ridotta in ostaggio, Sir Roger avrebbe dovuto arrendersi. Inoltre, anche il solo sapere che noi non eravamo affatto una grande civiltà spaziale, ma dei semplici ed innocenti cristiani, più simili ad agnelli sacrificali, avrebbe a tal punto rincuorato i Wersgorix e demoralizzato i nostri alleati; quindi non bisognava permettere per nessuna ragione a Branithar di comunicare quel segreto, almeno finché i piani di Sir Owain non fossero giunti a compimento. O forse addirittura mai. Sono sicuro che anche Branithar aveva intravisto l’ambiguità della situazione una volta che avesse depositato il suo collega umano sul suolo inglese, e senza dubbio anche lui aveva fatto piani per affrontare quella situazione di emergenza, ma per il momento i loro interessi coincidevano.

Tutte queste considerazioni serviranno a smentire certe infami insinuazioni sul conto di Lady Catherine. Lei e Sir Owain, infatti, non osavano mai rilassarsi contemporaneamente, e dovevano montare sempre di guardia a turno, pistola al fianco, per tutta la durata del viaggio, se non volevano essere sopraffatti dall’equipaggio.

In realtà, i musi azzurri furono i più severi custodi della virtù che la storia ricordi. Ma, anche se non ci fossero stati, non per questo Lady Catherine sarebbe venuta meno al suo dovere. Per quanto potesse essere confusa e spaventata, non avrebbe mai mancato alla sua promessa nunziale.

Sir Owain si sentiva ragionevolmente sicuro che i dati di Branithar erano autentici, ma insisteva per averne le prove. La nave volante volò per circa dieci giorni prima di arrivare nella regione di spazio indicata. Un altro paio di settimane fu impiegato per esaminare le stelle che apparivano più promettenti. Non cercherò di riportare qui quali dovessero essere i sentimenti degli umani mentre le costellazioni diventavano gradatamente sempre più familiari, né quando scorsero dall’alto per un istante il castello di Dover coi suoi stendardi sopra le bianche scogliere, come fu loro concesso dal diffidente Branithar.

Poi la loro astronave uscì rombando dall’atmosfera e ripartì di nuovo verso le stelle ostili.

CAPITOLO XX

Sir Roger si era stabilito sul pianeta che avevamo battezzato New Avalon. La nostra gente ormai aveva bisogno di risposo, e al Barone occorreva un po’ di tempo per sistemare le molte faccende e per consolidare quel vasto regno che si era trovato sulle spalle. Inoltre era in trattative segrete con il Governatore wersgoriano di un intero Ammasso Stellare. Questi sembrava ben disposto a cedere tutta la regione da lui controllata, solo se avessimo potuto offrirgli una sostanziosa ricompensa e solide garanzie. I contatti procedevano lentamente, ma Sir Roger si sentiva fiducioso sui risultati.

«Questa gente non sa proprio nulla sulle delazioni e l’uso dei traditori,» mi confidò, «tanto che potrei comperarmi quel tizio per meno di quanto mi costerebbe una città. I nostri alleati non ci hanno mai provato, perché immaginavano che la nazione wersgoriana fosse solida quanto le loro. Eppure non è forse logico che questa enorme distesa di proprietà, separate da giorni e settimane di viaggio assomigli sotto molti aspetti ad un paese europeo? Anzi direi che sono ancora più corruttibili…»

«Perché a loro manca la vera Fede», osservai.

«Mmm, sì senza dubbio è così. Anche se non ho mai conosciuto un cristiano che rifiutasse il denaro della corruzione per motivi relgiiosi. Stavo pensando che il Governo Wersgoriano non richiede alcun giuramento di fedeltà.»

Ad ogni modo avemmo finalmente un po’ di pace, e ci accampammo in una valle sotto delle montagne dalle cime vertiginose. Una cascata ad un tiro d’arco si precipitava in un lago dalle acque cristalline, circondato da alberi. Neanche il disordine del nostro campo di inglesi litigiosi poteva rovinare una tale bellezza.

Io mi ero sistemato davanti alla mia piccola tenda personale, comodamente seduto su una rustica poltrona. Per un momento avevo posto i miei studi da un canto e stavo indulgendo nella lettura di un libro portato da casa, una rilassante cronaca dei miracoli di San Cosmas, mentre da lontano sentivo il crepitìo dei soldati che si allenavano a sparare, il sibilo degli archi e l’allegro frastuono della lotta col bastone. Mi ero quasi appisolato, quando sentii uno scalpiccio di piedi che si arrestò davanti a me.

Stupito, socchiusi gli occhi e vidi il viso terrorizzato di uno scudiero del Barone.

«Fratello Parvus!», mi disse questi concitato. «In nome di Dio, venite subito!»

«Ugh, uh, è successo qualcosa?», chiesi mezzo addormentato.

«Esattamente!», gemette lo scudiero.

A quel punto raccolsi la tonaca e mi misi a correre dietro di lui. La luce del sole, i rami in fiore, il canto degli ucceli sopra di noi, tutto fu improvvisamente molto lontano. Sentivo solo il battito frenetico del mio cuore e mi resi conto di quanto fossimo pochi, deboli e tanto lontano da casa.

«Cos’è successo?»

«Non so di preciso,» rispose lo scudiero. «È appena arrivato un messaggio per telecomunicatore, trasmessoci da una delle nostre navi di pattuglia. Sir Owain di Montbelle desiderava un colloquio privato col mio Signore. Non so che cosa si siano detti, ma Sir Roger è uscito dalla sala barcollando come un cieco e con un ruggito vi ha mandato a chiamare. Oh, Fratello Parvus, era orribile a vedersi!»

Pensai che se la forza e l’astuzia del Barone non fossero più state lì a sorreggerci, avrei fatto bene a pregare per tutti noi, che senza di lui eravamo persi, ma improvvisamente sentii una gran pietà per lui. Sir Roger aveva sopportato una tensione troppo forte e per troppo tempo, senza avere nessuno con cui dividere il proprio fardello. Tutti voi, Santi Protettori, stategli vicino adesso, pregai.

Red John Hameward montava la guardia davanti al padiglione jairiano portatile. Aveva scorto da lontano il padrone e, vedendolo così alterato, si era affrettato ad abbandonare il poligono di tiro per essergli vicino. Con la freccia incoccata minacciò la folla che rumoreggiava davanti al padiglione e tuonò:

«Indietro voi! Tornate ai vostri posti! Affè mia, infilzerò come un ranocchio il primo infame che disturberà il mio Signore e romperò il collo al secondo! Andatevene, ho detto!»

Spinsi da parte il gigante ed entrai. Dentro il padiglione faceva caldo. La luce del sole che filtrava attraverso il materiale traslucido aveva un colore opaco. Il padiglione era per la maggior parte arredato con cose a noi usuali — cuoi, tappezzerie, armature — ma su una scansia c’erano vari strumenti di fattura aliena e sul pavimento era posato un grosso telecomunicatore.

Sir Roger sedeva come annichilito su una sedia davanti all’apparecchio, con il mento appoggiato al petto e le grosse mani penzolanti. Mi avvicinai di soppiatto dietro di lui e gli posai una mano sulla spalla.

«Che succede, Milord?», gli chiesi con la massima dolcezza.

Quasi non si mosse.

«Vattene!», disse.

«Mi avete mandato a chiamare.»

«Non sapevo ciò che facevo. Questa è solo una faccenda tra me e… vattene.»

La sua voce era priva di emozione, ma mi ci volle tutto il poco coraggio di cui dispongo per girargli attorno e, una volta davanti, chiedergli:

«Presumo che il comunicatore abbia registrato il messaggio come al solito?»

«Sì, senza dubbio. Sarà meglio che cancelli quella registrazione.»

«No».

Il Barone sollevò i suoi occhi grigi verso di me. Mi sovvenne di un lupo che avevo visto una volta in trappola, quando i villici gli si erano avvicinati in gruppo per finirlo.

«Non desidero farti del male, Fratello Parvus.»

«Allora non fatelo!», risposi bruscamente, e mi chinai per regolare il comando e risentire la registrazione.

Il Barone raccolse le sue energie poi, con voce stanchissima, mi disse:

«Se vedi quel messaggio,» mi avvertì, «dovrò ucciderti per il mio onore.»

Ripensai agli anni della mia gioventù. C’erano allora diverse parole brevi e pungenti, tipicamente inglesi, di uso comune. Ne scelsi una e la pronunciai. Con la coda dell’occhio, mentre ero piegato sui comandi, lo vidi afflosciarsi e ricadere sulla sedia. Tanto per sicurezza pronunciai un’altra parola tipicamente inglese.

«Il vostro onore consiste nel bene del vostro popolo», aggiunsi poi. «Ora, scosso come siete, non siete in grado di giudicare nulla. Sedetevi e lasciatemi ascoltare.»

Si rannicchiò su se stesso; io girai un interruttore e il volto di Sir Owain balzò sullo schermo. Vidi che anche lui era tirato in viso, la sua bellezza molto meno evidente del solito, e gli occhi asciutti e brucianti. Quando parlò, la sua voce era formalmente cortese, ma non riusciva a nascondere l’esultanza.

Non ricordo più le parole esatte, né esse hanno importanza. Il Cavaliere raccontò al suo Signore quanto era successo. Ora si trovava nello spazio a bordo dell’astronave rubata. Si era avvicinato a New Avalon per trasmettere quel messaggio ma, appena inviatolo, aveva di nuovo preso il largo. Non c’era speranza di ritrovarlo in quell’oceano sterminato.

Se ci fossimo arresi, ci comunicò, lui avrebbe organizzato il trasporto in patria della nostra gente, e Branithar lo aveva assicurato che l’Imperatore Wersgoriano avrebbe promesso di tenere le mani lontane dalla Terra. Se invece non ci fossimo arresi, lui si sarebbe recato a Wersgorixan ed avrebbe rivelato la verità su di noi. Allora, se si fosse reso necessario, il nemico avrebbe reclutato mercenari francesi e saraceni per distruggerci ma, probabilmente, una volta appreso quanto eravamo deboli, i nostri alleati si sarebbero così demoralizzati da richiedere immediatamente l’armistizio. In entrambi i casi Sir Roger non avrebbe più rivisto né moglie né figli.

Poi comparve sullo schermo Lady Catherine. Di lei ricordo le parole, ma non voglio trascriverle. Quando la registrazione terminò, la cancellai io stesso.

Per un po’ rimanemmo in silenzio, io ed il mio Signore.

Alla fine il Barone disse:

«Ebbene?»

La sua voce era quella di un vecchio.

Abbassai lo sguardo sulle punte dei piedi.

«Montbelle ha detto che domani rientrerà ad una certa ora in un raggio di comunicazione per sentire cosa avete deciso», mormorai. «Sarebbe possibile inviare numerose astronavi senza equipaggio e cariche di esplosivi con testata di ricerca magnetica lungo il raggio del telecomunicatore. Forse così si potrebbe distruggerlo.»

«Tu mi hai già chiesto molto, Fratello Parvus», disse Sir Roger con voce spenta. «Non chiedermi di uccidere mia moglie ed i miei figli… senza che prima abbiano ricevuto l’assoluzione.»

«Sì, certo. Ah, il vascello potrebbe essere catturato? No,» mi risposi subito da solo, «sarebbe praticamente impossibile. Anche un sol colpo sparato vicino ad un’astronave così piccola non si limiterebbe a danneggiarne i motori ma la ridurrebbe in polvere. Oppure il danno sarebbe irrilevante e Sir Owain potrebbe fuggire immediatamente più veloce della luce.»

Il Barone sollevò il viso che pareva scolpito nel ghiaccio.

«Qualunque cosa succeda,» mi ordinò, «nessuno deve sapere che mia moglie fa parte del complotto. Mi capisci? È fuori di sé. Un Demone deve essersi impossessato di lei.»

Lo guardai con ancora maggior pietà di prima.

«Voi siete troppo coraggioso per nascondervi dietro una tale sciocchezza», gli dissi.

«Be’, cosa posso fare?», ringhiò.

«Potete continuare a battervi…»

«Impresa disperata una volta che Montbelle sarà andato a Wersgorixan.»

«Oppure potte accettare le condizioni che vi ha offerto.»

«Ah! E per quanto pensi che i musi azzurri lasceranno effettivamente in pace la Terra?»

«Sir Owain deve avere qualche ragione per credere che lo facciano», risposi cautamente.

«Quello è un idiota!»

Il pugno di Sir Roger si abbatté sul bracciolo della poltrona, polverizzandolo. Poi si rizzò a sedere e la durezza della sua voce era un segno di speranza per me.

«O forse Sir Owain è un Giuda più nero di quanto abbia confessato, e spera di diventare Vicerè dopo la conquista. Non capisci, è qualcosa di più della brama di territori che costringerà i Wersgorix a impadronirsi della Terra; è il fatto che la nostra razza si è dimostrata mortalmente pericolosa. Per adesso gli uomini del nostro pianeta non costituiscono ancora un pericolo, ma diamogli qualche secolo per prepararsi e vedrai che gli uomini costruiranno anche loro le astronavi e conquisteranno l’intero universo.»

«I Wersgorix hanno sofferto in questa guerra», cercai debolmente di controbattere. «Avranno bisogno di tempo per riprendersi quanto hanno perso, anche se i nostri alleati dovessero riconsegnare loro tutti i mondi occupati. I Wersgorix potrebbero trovare utile lasciare in pace la Terra ancora per un centinaio d’anni.»

«Finché noi ormai saremo morti e sepolti?»

Sir Roger annuì pesantemente.

«Sì, potrebbe finire così. Per noi, qui, sarebbe comodo. Eppure, non bruceremmo all’Inferno se dovessimo trascurare così il nostro dovere di difendere le generazioni future?»

«Potrebbe essere la soluzione più saggia per la nostra razza», dissi. «Tutto ciò che è al di fuori del nostro potere è nelle mani di Dio.»

«Ma no, no, no, no!»

Sir Roger si torse le mani.

«Non posso. Meglio morire ora da uomini… ma Catherine…»

Dopo un nuovo momento di silenzio, dissi:

«Può darsi che non sia ancora troppo tardi per dissuadere Sir Owain. Nessuna anima è irrimediabilmente perduta finché rimane in vita. Voi potreste fare appello al suo onore e sottolineargli quanto sia sciocco fare affidamento sulle promesse dei Wersgorix. Potreste offrirgli il vostro perdono ed un’alta carica…»

«E anche l’uso di mia moglie?», ringhiò beffardo.

Ma un momento dopo, aggiunse:

«Sì, forse. Anche se preferirei di gran lunga spaccargli in due il cranio. Ma forse… sì, forse un colloquio… sarei perfino disposto a sforzarmi di umiliarmi. Tu mi aiuterai, Fratello Parvus? Non devo maledirlo, una volta di fronte a lui. Vuoi aiutarmi a rafforzare il mio spirito?»

CAPITOLO XXI

La sera dopo lasciammo New Avalon.

Io e Sir Roger partimmo a bordo di una minuscola lancia spaziale disarmata. Neanche noi eravamo molto più forti. Io avevo la mia tonaca ed il Rosario, come sempre, e nient’altro. Lui indossava un farsetto e brache da piccolo nobiluomo, ma portava anche la spada ed il pugnale, ed aveva speroni dorati agli stivali. Il suo corpo massiccio schiacciava il sediolo del pilota come una sella, ma i suoi occhi, levati verso il cielo, erano pieni di gelo.

Ai nostri Capitani avevamo detto che quello era solo un breve volo per andare a controllare una cosa speciale che aveva trovato Sir Owain. La nostra gente però aveva avvertito la menzogna, e adesso il campo rumoreggiava irrequieto. Red John dovette rompere due bastoni prima di poter ristabilire l’ordine.

Mentre ci imbarcavamo, ebbi la netta sensazione che la nostra impresa fosse già andata in rovina. Gli uomini erano seduti in silenzio. La notte era priva di vento ed i nostri stendardi pendevano flosci dai pennoni; solo allora notai quanto fossero ormai sbiaditi e laceri.

La nostra lancia forò il cielo azzurro ed entrò nelle tenebre, simile a lucifero quando era stato espulso dal cielo. Per un attimo scorsi una nave da battaglia in orbita di pattuglia e mi sarei sentito molto più confortato se avessi avuto alle spalle i suoi grandi cannoni.

Ma dovevamo arrivare solo con quel misero guscio di noce. Sir Owain era stato molto chiaro in proposito quando aveva parlato per la seconda volta al telecomunicatore.

«Se lo desiderate, de Tourneville, siamo disposti a ricevervi per un colloquio, ma dovete venire da solo, su una semplice lancia spaziale disarmata… Oh, d’accordo, potete portare con voi anche il vostro frate… vi dirò io quale orbita assumere. Poi, ad un certo punto di quell’orbita, vi verrà incontro la mia astronave. Se i miei telescopi e rilevatori, però, mostreranno che c’è inganno da parte vostra, procederò direttamente per Wersgorixan.»

Accelerammo l’andatura in un silenzio che andava facendosi sempre più pesante. Una volta mi azzardai a dire:

«Se voi due vi riconcilierete, i nostri ne saranno rincuorati. Allora sì che penso che diventerebbero veramente inviabili.»

«Io e Catherine?», abbaiò Sir Roger.

«Oh… io mi riferivo a voi e Sir Owain…», balbettai.

Ma in quel momento vidi veramente la verità: in effetti avevo pensato alla donna. Owain in se stesso non era nulla. Era Sir Roger su cui riposava il destino di tutti noi. Ma non avrebbe retto a lungo, separato da colei che possedeva la sua anima.

Lei e i bambini che avevano avuto insieme erano la ragione per cui si umiliava, supplicando l’indulgenza di Owain.

Procedemmo sempre più a fondo nello spazio esterno. Il pianeta rimpicciolì dietro di noi fino ad assumere le dimensioni di una moneta dal metallo opaco. Non mi ero mai sentito così solo prima d’allora, neanche quando ci eravamo levati per la prima volta in volo dalla nostra Terra.

Ma, finalmente, un gruppo di stelle si oscurò, e vidi la snella sagoma dell’astronave ingrandire di fianco a noi, mentre cercava di eguagliare la nostra velocità. Avremmo potuto perfino lanciare una bomba a mano e distruggerla, ma Sir Owain sapeva bene che non l’avremmo mai fatto finché a bordo c’erano anche Catherine, Robert e Matilda. Un istante dopo, un grappino magnetico si agganciò al nostro scafo. Le astronavi si avvicinarono, portale contro portale in un gelido bacio. Poi noi aprimmo il nostro passaggio e aspettammo.

Fu Branithar stesso a entrare, gli occhi folgoranti per il senso di vittoria. Quando vide la spada ed il pugnale di Sir Roger, rinculò.

«Avevamo detto niente armi!», gracchiò.

«Oh? Oh, sì, sì».

Il Barone abbassò lo sguardo assente sulle lame.

«Non ci avevo proprio pensato… sono come gli speroni per me, un’insegna del mio rango… nulla di più».

«Consegnatele!», ordinò il Wersgor.

Sir Roger si slacciò entrambe le armi e le passò al Wersgor nelle loro guaine. Branithar le passò quindi ad un altro muso azzurro e ci perquisì lui stesso.

«Niente pistole nascoste!», ammise alla fine.

Io avevo le guance in fiamme per l’insulto, ma Sir Roger non parve quasi accorgersene.

«Molto bene!», disse Branithar, «seguitemi!»

Percorremmo un corridoio ed entrammo nel salone centrale. Sir Owain sedeva dietro un tavolo di legno intagliato. Anche lui era vestito di sobrio velluto nero, ma delle gemme gli balenavano sulla mano che copriva una pistola posata davanti a sé. Lady Catherine indossava una gonna grigia e un velo. Un ricciolo ribelle però le sfuggiva sulla fronte e brillava come fuoco ardente.

Sir Roger si fermò appena dentro la porta.

«Dove sono i bambini?», chiese.

«Sono in camera mia con le cameriere.»

Sua moglie parlò meccanicamente.

«Stanno bene.»

«Sedetevi, Milord,» lo invitò Sir Owain in tono leggero. Il suo sguardo frugò rapidamente la stanza. Branithar aveva deposto spada e pugnale accanto a lui e stava in piedi sulla destra. L’altro Wersgor ed un terzo che ci aveva aspettato lì dentro, rimasero con le braccia conserte sulla porta d’entrata, appena dietro di noi. Immagino che fossero il medico ed il Navigatore di cui si era parlato; i due cannonieri dovevano trovarsi nelle loro torrette ed il pilota ai comandi, nel caso che qualcosa andasse storto. Lady Catherine, pallida come una statua di cera, era appoggiata alla parete posteriore alla sinistra di Owain.

«Confido che non portiate risentimento,» disse il traditore, «perché tutto è lecito in guerra ed in amore.»

Catherine sollevò una mano in segno di protesta.

«Solo in guerra.»

La si sentì appena e la mano le ricadde subito.

Io e Sir Roger rimanemmo impassibili.

Il Barone sputò sul ponte. Owain arrossì.

«Sentite,» esclamò, «non cominciamo a farla lunga con i giuramenti infranti. Voi vi siete arrogato il diritto di creare Nobili dei contadini e servi, di disporre feudi, di trattare con sovrani stranieri. Anzi, sareste perfino disposto a dichiararvi voi stesso Re se fosse possibile! Che ne è allora dei giuramenti fatti da voi a Re Edoardo?»

«Io non ho fatto niente contro di lui», rispose Sir Roger con voce scossa. «Se un giorno riuscirò a ritrovare la Terra, aggiungerò le mie conquiste ai suoi domini ma, fino a quel momento, dobbiamo cercare di sbrogliarcela come meglio possiamo, e non abbiamo altra scelta se non quella di imporre un nostro sistema feudale.»

«Può darsi che sia stato giusto farlo fino a questo momento», ammise Sir Owain. Il viso gli era ritornato sorridente. «Ma dovreste ringraziarmi per avervi alleggerito dal vostro problema, Roger. Ora possiamo tornare a casa!»

Quando lesse le nostre espressioni divenne grave.

«Milord,» disse, «quando vi siete offerto di venire a parlamentare, non potevate aspettarvi che avrei rifiutato una simile occasione. Ora rimarrete con noi.»

Catherine sussultò.

«Owain, no!», gridò. «Non mi avete mai detto questo… avevate detto che sarebbe stato libero di lasciare l’astronave se…»

Il giovane Cavaliere rivolse il bel profilo verso di lei e rispose con gentilezza:

«Pensateci, Milady. Non era vostro sommo desiderio la sua salvezza? Ma avete pianto, temendo che il suo orgoglio non lo avrebbe mai indotto a cedere. Adesso è prigioniero. Il vostro desiderio si è avverato. Il disonore ricade tutto su di me, ma io porto senza difficoltà questo fardello lo faccio per amore di Milady».

Lady Catherine tremò in modo visibile.

«Io non ho avuto parte in tutto questo, Roger», si appellò. «Non avevo immaginato…»

Suo marito non la guardò neppure. La sua voce tagliente interruppe le parole di lei.

«Adesso che cosa avete in mente di fare, Montbelle?»

«Questa nuova situazione mi ha dato nuove speranze», rispose l’altro Cavaliere. «Confesso che non mi ha mai riempito di somma gioia il pensiero di trattare coi Wersgorix. Ora non sarà più necessario. Potremo tornare direttamente a casa. Le armi e le casse d’oro a bordo di questo vascello mi daranno la possibilità di conquistare tutto ciò che desidero.»

Branithar, l’unico non umano che comprendeva l’inglese, abbaiò:

«Ehi, e che ne sarà di me e dei miei amici?»

Owain rispose freddamente:

«Perché non dovreste accompagnarci? Senza Sir Roger de Tourneville, gli Inglesi crolleranno subito e così tu avrai fatto il tuo dovere nei confronti dei tuoi compatrioti. Ho studiato il vostro modo di pensare… Per voi un luogo particolare non significa nulla. E intanto che saremo per strada raccoglieremo qualche femmina della vostra razza. Se diverrete miei fedeli vassalli, potrete conquistare possedimenti e potenza sulla Terra come da qualsiasi altra parte, ed i vostri discendenti divideranno il pianeta coi miei. È vero che dovrete sacrificare certi rapporti sociali, ma d’altra parte, acquisterete un tal grado di libertà quale il vostro governo non vi ha mai concesso».

«E noi?», esclamò Lady Catherine.

«Voi e Sir Roger avrete la vostra Baronia in Inghilterra,» promise Sir Owain. «Ed io aggiungerò anche altri possedimenti a Winchester.»

Forse parlava onestamente. O forse pensava che, una volta diventato il sovrano di tutta Europa, potesse fare quel che voleva di Lady Gatherine e del marito di lei. Lady Catherine però era troppo scossa per intravedere quella seconda possibilità, e la vidi improvvisamente piombare in un mondo di sogno, quando si rivolse sorridendo e piangendo contemporaneamente a Sir Roger, dicendogli:

«Amor mio, ora potremo tornare a casa!»

Lui le lanciò una sola occhiata.

«E la gente che abbiamo portato quassù?», chiese.

«No, quella non posso rischiare di portarla con noi.»

Sir Owain si strinse nelle spalle.

«Ma tanto quella è plebe che non conta.»

Sir Roger annuì.

«Ah,» disse. «È così.»

Ancora una volta il Barone guardò la moglie. Poi vibrò un calcio all’indietro e il suo sperone da cavaliere centrò in pieno il ventre del Wersgor dietro di lui che si accasciò a terra.

Anche il Barone lo seguì e rotolò sul ponte. Sir Owain cacciò un urlo e balzò in piedi, stringendo in mano la pistola. Fece fuoco, ma il colpo andò a vuoto. Il Barone reagì con la velocità del lampo, sollevò le braccia, afferrò al volo lo stupefatto Wersgor ancora in piedi e se lo tirò addosso cosicché, quando arrivò la seconda scarica, il raggio colpì solo quello schermo vivente.

Sir Roger sollevò di peso il cadere davanti a sé, si rialzò in piedi ed avanzò a grandi passi come una enorme macchina da guerra. Owain ebbe solo il tempo di sparare un’altra scarica che carbonizzò un cadavere. Poi Sir Roger gettò il corpo del Wersgor oltre il tavolo, in faccia al Cavaliere.

Owain cadde sotto il peso. Sir Roger cercò di guadagnare la spasa, ma Branithar ci aveva già messo sopra una mano, così il Barone afferrò il pugnale che uscì scintillante dalla sua guaina. Sentii un tonfo sordo mentre la lama attraversava la mano di Branithar, piantandosi nel tavolo fino all’elsa.

«Aspettatemi lì!», ringhiò Sir Roger, sguainando la spada «Per San Giorgio! Dio protegge i giusti!»

Sir Owain si era liberato dal cadavere e si era rialzato, con la pistola ancora in pugno. Io mi trovavo dalla parte opposta del tavolo rispetto a lui, e mi sentii mancare il fiato. Il Cavaliere aveva puntato l’arma proprio in pieno stomaco al Barone.

Allora promisi ai Santi molte candele e, col mio crocifisso di ferro, percossi il polso del traditore che lanciò un ringhio. La pistola gli cadde di mano e slittò sul tavolo. La grande spada di Sir Roger sibilò. Owain riuscì a scansarsi solo per un soffio e la lama si piantò saldamente nel legno del tavolo. Per un istante Sir Roger dovette lottare per strapparla di lì. La pistola era ancora sul tavolo. Mi lanciai per afferrarla e così fece pure Lady Catherine che aveva fatto di corsa il giro del tavolo. Le nostre fronti si scontrarono. Quando mi ripresi, ero seduto per terra e Sir Roger stava inseguendo Owain fuori dalla porta.

Catherine lanciò un urlo.

Roger si bloccò di colpo, come preso al laccio. Sua moglie si rialzò da terra in un turbinio di vesti.

«I bambini, Milord! Sono a poppa, nella camera da letto… dove ci sono anche le altre armi…»

Il Barone lanciò un’imprecazione e si lanciò di corsa fuori dal salone. Lei lo seguì. Io mi rialzai, ancora un po’ intontito, con stretta in pugno la pistola di cui si erano entrambi dimenticati.

Branithar scoprì i denti, ringhiando contro di me. Cercò di strappare via il pugnale che lo inchiodava al tavolo, ma riuscì solo a farsi sanguinare di più la mano.

Giudicai che per il momento era fuori combattimento. La mia attenzione era altrove. Il Wersgor che il mio padrone aveva sbudellato era ancora vivo, ma non lo sarebbe rimasto per molto. Esitai un momento… dove stava il mio dovere adesso? col mio Signore e sua moglie o con un pagano morente?… Mi chinai su quel viso azzurro contorto dal dolore.

«Padre,» biascicò.

Non so chi, o che cosa avesse invocato, ma gli somministrai quei pochi conforti religiosi che mi permettevano le circostanze e lo tenni stretto mentre moriva, pregando che riuscisse almeno a guadagnarsi il Limbo.

Sir Roger tornò indietro, asciugando la spada. Era tutto raggiante, ben raramente ho visto tanta gioia in un uomo.

«Quel pupacchiotto!», esclamò. «Sì, il sangue normanno si vede sempre!»

«Cos’è successo?», chiesi mentre mi rialzavo con la tonaca insudiciata.

«Owain non aveva cercato di raggiungere le armi,» mi disse Sir Roger. «Deve essere corso avanti, invece, per raggiungere la torretta di comando. Ma gli altri due musi azzurri, i cannonieri, avevano sentito lo scompiglio, e giudicando venuto il momento e la strada sgombra, sono andati a rifornirsi loro stessi. Ne ho visto uno infilarsi dentro la porta della stanza da letto. L’altro gli stava alle calacagna, armato con una lunga sbarra. Allora gli sono piombato addosso, ma si batteva bene e ci ho messo un po’ a ucciderlo. Intanto Catherine aveva inseguito il primo e lo aveva affrontato a mani nude finché non è riuscita ad abbatterlo. Quei cervelli di gallina delle serve non hanno fatto altro che strillare per il terrore, come previsto. Ma poi, è venuto il bello! Ascolta, Fratello Parvus! Mio figlio Robert ha aperto la cesta delle armi, ha tirato fuori una pistola ed ha centrato il Wersgor con la stessa precisione che ci sarebbe potuto aspettare da Red John. Eh, che demonietto!»

In quel momento entrò Milady. Aveva le trecce sciolte, ed una delle sue belle guance era violacea per la botta subita. Ma con lo stesso tono impersonale di un sergente che si presenta a rapporto dopo il picchetto, disse:

«Ho calmato i bambini.»

«Povera piccola Matilda», mormorò suo marito. «Si è spaventata molto?»

Lady Catherine si indignò.

«Volevano venire tutti e due a battersi!»

«Voi aspettate qui, adesso,» disse il Barone. «Io vado a trattare con Owain e il pilota.»

Catherine respirò a fondo, ancora scossa.

«Dovrò sempre starmene nascosta mentre il mio Signore affronta i pericoli?»

Il Barone si fermò e la considerò con lo sguardo.

«Ma io pensavo…», cominciò, stranamente a disagio.

«Che io vi abbia tradito semplicemente per tornare a casa? Sì.» Lady Catherine fissò il ponte. «Penso che voi mi perdonerete di questo molto prima di quanto riuscirò a perdonarmi io. Ma ho fatto solo ciò che mi sembrava meglio… anche per voi… ero confusa. Tutto sembrava come un sogno indotto dalla febbre. Mi siete mancato molto».

Molto lentamente, il Barone fece un cenno d’assenso.

«Sono io che vi devo chiedere perdono», disse. «Che Dio mi conceda abbastanza anni da diventare degno di voi.»

L’afferrò per le spalle.

«Ma voi rimanete qui. È necessario che montiate la guardia al muso azzurro. Se dovessi uccidere Owain e il pilota…»

«Fatelo!», gridò Lady Catherine in un impeto di furia.

«Preferirei di no», rispose lui con la stessa gentilezza che usava nei suoi confronti. «Guardandovi posso capirlo fin troppo bene. Ma se dovesse succedere il peggio… Branithar potrà guidarci a casa. Perciò sorvegliatelo bene.»

Lady Catherine mi prese la pistola di mano e si sedette. Il prigioniero rimase rigidamente in piedi con la mano inchiodata e un’espressione di sfida nello sguardo.

«Vieni, Fratello Parvus», mi disse Sir Roger. «Potrei avere bisogno della tua abilità con le parole.»

Aveva con sé la sua spada e si era infilato una pistola presa dalla cesta delle armi nella cintura. Percorremmo un corridoio, salimmo una rampa ed arrivammo all’entrata della torretta di comando. La porta era chiusa, bloccata con la chiave dall’interno.

Sir Roger vi batté sopra col pomo della spada.

«Voi due la dentro!», gridò. «Arrendetevi!»

«E se non lo facciamo?»

La voce di Owain giungeva assai debole attraverso l’ostacolo.

«In tal caso,» rispose Roger con voce decisa, «metterò fuori uso i motori e mi allontanerò a bordo della mia barca, lasciandovi andare alla deriva. Ma guardate: ora la collera mi ha lasciato. Tutto è finito per il meglio e noi torneremo veramente a casa… dopo che queste stelle saranno state rese sicure per gli Inglesi. Noi due eravamo amici un tempo, Owain. Datemi di nuovo la vostra mano. Giuro che non vi verrà fatto del male.»

Il silenzio era pesante.

Poi l’uomo dietro la porta disse:

«Sì. Voi non siete mai stato uno che ha infranto un giuramento, vero? Bene, passate pure, Roger.»

Sentì aprire la serratura. Il Barone posò la mano sulla porta. Non so cosa mi spinse a dire.

«Aspettate, Milord», e mi spinsi davanti a lui con inaudita sfacciataggine.

«Cosa fai?», mi chiese stupefatto, nella sua allegria.

Aprii la porta e varcai la soglia. E due sbarre di ferro si abbatterono sul mio capo.

Il resto dell’avventura devo riferirla per sentito dire perché mi ci volle una settimana per riprendere i sensi. Infatti crollai in un lago di sangue e Sir Roger credette che mi avessero ucciso.

Come si accorsero che non era il Barone colui che avevano abbattuto. Owain e il pilota lo attaccarono, armati delle due sbarre che avevano svitato da qualche parte, lunghe e pesanti quanto spade.

La lama di Sir Roger balenò nell’aria. Il pilota sollevò la sua sbarra e la spada, quando si scontrò su di essa, provocò un diluvio di scintille. Sir Roger lanciò un ululato che si ripercosse per tutta l’astronave.

«Assassini dell’innocenza…»

Col secondo fendente fece saltare la sbarra dalla mano intorpidita ed al terzo la testa azzurra fu spiccata dal busto e rimbalzò giù dalla rampa.

Catherine udì il tumulto e andò sulla porta del salone, guardando in direzione di prua come se il terrore potesse aguzzarle tanto la vista da permetterle di trapassare le pareti. Branithar serrò i denti e afferrò la misericordia con la mano libera. I muscoli delle sue spalle si irrigidirono e si gonfiarono. Pochi uomini sarebbero riusciti a estrarre quel pugnale, ma Branithar ci riuscì.

Milady udì il rumore e roteò su se stessa. Branithar stava girando attorno al tavolo. La mano destra gli pendeva lacerata e sanguinante, ma nella sinistra stringeva il pugnale luccicante.

Catherine sollevò la pistola.

«Indietro!», gli gridò.

«Mettete giù quell’arma», le disse lui beffardo. «Non la usereste mai. Voi non avete visto abbastanza stelle sulla Terra e anche allora non le conoscevate. Se succede qualcosa di brutto a prua, io sono la vostra unica speranza di ritornare a casa».

Lady Catherine puntò gli occhi in quelli del nemico di suo marito… lo fissò gelidamente e sparò, uccidendolo. Poi corse verso la torretta.

Sir Owain di Montbelle era tornato a rifugiarsi là dentro, ma non riusciva a sottrarsi alla cieca furia dell’assalto del Barone. Sir Roger impugnò la pistola. Owain raccolse un libro da un tavolino e se lo pose davanti al petto.

«Attenzione!» disse ansimando. «Questo è il libro di bordo dell’astronave. È qui che sono riportate le coordinate della posizione della Terra. E non ci sono da nessuna altra parte.»

«Voi mentite. C’è sempre la mente di Branithar.»

Ciononostante, Sir Roger si infilò la pistola nella cintura mentre avanzava a grandi passi.

«Mi spiace di oltraggiare del puro acciaio col vostro sangue, ma poiché avete ucciso Fratello Parvus dovete morire.»

Owain si mise in posizione di difesa, ma la sbarra di ferro era una ben povera arma. Tuttvia sollevò il braccio e la scagliò contro il Barone. Colpito in fronte, Sir Roger barcollò all’indietro. Owain gli balzò addosso, gli sfilò dalla cintura la pistola e scansò un debole fendente della spada del Barone. Poi con un salto si mise al sicuro, lanciando contemporaneamente grida di trionfo. Roger gli si fece addosso ancora barcollante. Owain prese la mira.

Sulla porta apparve Catherine. La sua arma sparò. Il libro di bordo dell’astronave svanì in una nuvola di fumo e ne rimasero solo le ceneri. Owain lanciò un urlo di dolore. Allora, con grande freddezza, la donna sparò di nuovo, ed il Cavaliere cadde.

Lady Catherine si lanciò tra le braccia di Roger e cominciò a piangere, confortata da lui. Ma non so chi dei due abbia dato più forza all’altro.

Più tardi il Barone disse in tono di rimpianto:

«Temo che abbiamo rovinato tutto. Adesso la via del ritorno per casa è andata veramente perduta.»

«Non importa», sussurrò la donna. «L’Inghilterra è là dove siete voi, Milord.»

EPILOGO

Un frastuono di trombe ed uno scalpitare di zoccoli lacerò l’aria. Il Capitano depose il dattiloscritto e premette un pulsante dell’intercom.

«Che diavolo succede?», brontolò.

«Quel dannato siniscalco a otto zampe del castello è finalmente riuscito a trovare il suo padrone, Signore», rispose la voce del sociotecnico. «Da quanto sono riuscito a capire, il Duca di questo sistema planetario era in giro per un safari e ci hanno messo tutto questo tempo per rintracciarlo. Ha addirittura un continente intero come riserva di caccia. Comunque adesso sta arrivando. Venite a vedere lo spettacolo. Un centinaio di aeronavi antigravitazionali… Buon Dio!… da quelle che sono atterrate stanno sbarcando torme di uomini a cavallo!»

«Farà senza dubbio parte del cerimoniale. Un momento e sono lì.»

Il Capitano fissò con occhi furiosi il dattiloscritto che ormai aveva letto per metà. Come poteva parlare in modo intelligente a quel fantastico sovrano senza avere la minima idea di quanto era realmente successo su quel pianeta?

Sfogliò rapidamente le pagine, una per una. La cronaca della crociata wersgoriana era lunga e poderosa e fu sufficiente leggere la conclusione, quando Re Roger I era stato incoronato dall’Arcivescovo di New Canterbury. Per molti anni ancora quel sovrano aveva regnato con magnanimità e giustizia.

Ma cosa era successo? Oh, certo, in modo o nell’altro, gli Inglesi avevano vinto le loro battaglie. Alla fine erano riusciti a diventare effettivamente così forti da non dovere più dipendere solo dalla fortuna e dall’astuzia del loro condottiero. Ma la loro società? Come poteva la loro lingua, per non parlare poi delle loro istruzioni, essere sopravvissuta al contatto con civiltà più vecchie e sofisticate? Maledizione, perché il sociotecnico si era addirittura messo a tradurre quel barbosissimo scritto di Fratello Parvus? O forse vi erano contenuti dei dati significativi?… Un momento… sì. Un passo proprio vicino alla fine colpì l’attenzione del Capitano che lesse:

«… ho fatto presente che Sir Roger de Tourneville ha stabilito il sistema feudale sui mondi appena conquistati e affidatigli in custodia dai suoi alleati. Alcuni critici dell’ultima ora sottolineano che il mio nobile padrone si sia comportato così solo perché non consceva istituzioni migliori. Io confuto questo punto di vista. Come ho già detto poc’anzi, il crollo di Wersgorixan non fu dissimile dal crollo di Roma, e a problemi simili si sono trovate risposte simili. Sir Roger, però, ha avuto il vantaggio di avere le risposte già a portata di mano, offertegli da molti secoli di esperienza terrestre.

«Certo, ogni pianeta era un caso a sé, che richiedeva un trattamento particolare; ma la maggior parte dei mondi aveva situazioni ed elementi importanti in comune. Le popolazioni indigene erano ansiose di seguire i dettami di noi liberatori. A parte la gratitudine che provavano nei nostri confronti, bisogna dire che si trattava di povera gente ignorante e che le loro civiltà erano state da tempo cancellate; ora avevano bisogno di una guida in tutto.

«Abbracciando la Fede, dimostrarono che avevano un’anima, e questo costrinse il nostro clero inglese a ordinare in gran fretta dei convertiti. Padre Simon trovò i passi delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa che sostenevano questa necessità pratica; invero, anche se lui non lo sostenne mai, sembrerebbe che Dio stesso lo abbia consacrato Vescovo inviandolo così lontano in partibus infidelium.

«Una volta concesso questo, ne consegue che lui non ha ecceduto la sua autorità nel piantare i semi della nostra Chiesa Cattolica. Naturalmente, a quel tempo, stavamo molto attenti a riferirci all’Arcivescovo di New Canterbury come al "nostro" Papa, o "Piccolo Papa", per ricordarci che egli era un mero agente del vero Santo Padre che non eravamo più in grado di rintracciare. Deploro parecchio l’atteggiamento indifferente delle più giovani generazioni riguardo tale questione di titoli.

«Cosa abbastanza strana, non furono pochi i Wersgorix che accettarono rapidamente il nuovo ordine. Il loro governo centrale era sempre stato una cosa lontana per loro, un semplice esattore ed impositore di leggi arbitrarie. Molti musi azzurri si sentirono affascinati dal nostro ricco cerimoniale e da un governo di nobili individui, che potevano incontrare faccia a faccia. Inoltre, servendo lealmente questi nuovi governanti, potevano perfino sperare di recuperare una proprietà o un titolo. Tra i Wersgorix che si sono pentiti dei loro peccati e sono divenuti preziosi cristiani inglesi, mi basti far menzione del nostro vecchio nemico Huruga, che oggi tutto questo mondo di Yorkshire onora nella persona dell’Arcivescovo William.

«Ma non ci fu nulla di subdolo nelle azioni di Sir Roger. Il mio Signore non tradì mai i suoi alleati, come qualcuno l’ha accusato; trattò con loro sempre con grande abilità ma, fatta eccezione per la necessità di dover nascondere le nostre vere origini (una maschera che però lasciò subito cadere non appena fummo abbastanza forti da non temere più la rivelazione), non usò mai manovrare sotto banco. Non è colpa sua se Dio favorisce sempre gli Inglesi.

«I Jair, gli Ashenkoghli e i Pr?*tan accettarono rapidamente i suoi punti di vista. Loro non avevano un vero concetto di impero e bastava che fosse loro concesso di poter avere tutti i pianeti senza indigeni che avevamo catturato, per lasciare con gran piacere a noi umani l’immensa seccatura di governare quel numero ancora maggiore di mondi che erano abitati da popolazioni schiave. E dalle necessità spesso sanguinarie che comporta un simile governo furono ben felici di poter distogliere i loro ipocriti occhi. Sono anche sicuro che molti dei loro politici si rallegrassero in segreto che ogni nuova responsabilità di questo genere assomigliava alle forze del loro enigmatico alleato; infatti, ogni volta Sir Roger era costretto a creare un Duca e altri Nobili minori, e poi lasciare una piccola guarnigione per addestrare gli aborigeni. Sollevazioni, guerre mortali, contrattacchi wersgoriani contribuirono a ridurre ancor più questi quadri già ridotti, ma avendo una scarsa tradizione militare, i Jair, gli Ashenkoghlli e Pr?*tan non si resero conto di come quegli anni crudeli servirono a saldare vincoli di fedeltà tra le popolazioni indigeni e gli aristocratici inglesi. Inoltre, essendo razze ormai logore, non previdero il fervore con cui gli umani si sarebbero riprodotti.

«Così, alla fine, quando tutti questi fatti furono oltremodo chiari, era ormai troppo tardi. I nostri alleati erano ancora solo tre nazioni, ognuna con una propria lingua ed un proprio stile di vita. Intorno a loro, invece, sorgevano rigogliose centinaia di razze, unite nella Cristianità, nella lingua inglese e nella corona inglese. Neanche se avessimo voluto, sarebbe stato possibile a noi umani di cambiare questo dato di fatto. Anzi, noi ne fummo sorpresi quanto chiunque altro.

«Se volete una prova di come Sir Roger non abbia mai tramato contro i suoi alleati, pensate solo con quanta facilità avrebbe potuto schiacciarli in tarda età, quando ormai governava sulla più potente nazione che si fosse mai vista tra queste stelle. Ma preferì essere generoso. Non fu opera sua se le loro generazioni più giovani, impressionate dai nostri successi, cominciarono a imitare sempre di più il nostro modo di vivere…»

Il Capitano mise da parte il dattiloscritto e si affrettò a raggiungere l’entrata della porta stagna principale. La rampa era stata abbassata e adesso un gigantesco umano dai capelli rossi saliva a grandi passi per dargli il benvenuto. L’uomo era vestito con abiti fantastici, portava con sé una ricca spada da cerimonia, ma aveva anche una pistola a raggi che dava l’impressione di essere abituato a maneggiare con disinvoltura. Dietro di lui stava sull’attenti una guardia d’onore di fucilieri in uniforme verde erba. Sulle loro teste garriva uno stendardo con le armi di un ramo cadetto della grande famiglia Hameward.

La mano del Capitano scomparve nella zampaccia pelosa del Duca. Il sociotecnico tradusse le parole pronunciate in un Inglese assai distorto:

«Finalmente! Dio sia lodato, finalmente sulla Vecchia Terra hanno imparato a costruire delle astronavi! Benvenuto, Signore!»

«Ma, come mai non ci avete mai trovati… ehm… Vostra Grazia?», balbettò il Capitano. Quando la domanda fu tradotta, il Duca si strinse nelle spalle e rispose:

«Oh, vi abbiamo cercati. Per generazioni ogni giovane Cavaliere partiva alla ricerca della Terra, se non decideva di andare alla ricerca del Sacro Graal. Ma voi sapete bene che numero sterminato di soli c’è. E ancora di più ce ne sono verso il centro della Galassia… dove abbiamo incontrato altri popoli stellari. Commerci, esplorazioni, guerre, tutto ci ha attirati sempre più verso l’interno, lontano da questo braccio della spirale così scarso di stelle. Vi potrete rendere conto infatti che questa che avete scoperto è solo una povera e lontana provincia. Il Re e il Papa risiedono nel Settimo Cielo… Alla fine le ricerche sono andate scemando e, nei secoli passati, la Vecchia Terra diventata poco più di una semplice tradizione.» Il suo faccione divenne raggiante. «Ma adesso si è capovolto tutto. Voi ci avete trovati! Meraviglioso! Ma prima di tutto, ditemi, la Terrasanta è stata liberata dai pagani?»

«Bè,» fece il Capitano Yeshu haLevy che era un fedele cittadino dell’Impero Israeliano, «sì.»

«Peccato. Mi sarebbe piaciuta una nuova crociata. La vita è diventata noiosa dopo che abbiamo sconfitto i Draghi dieci anni fa. Si dice, però, che le spedizioni reali nelle nubi stellari del Sagittario abbiano scovato alcuni pianeti molto promettenti… ma adesso pensiamo a voi! Dovete venire al castello. Vi offrirò la mia migliore ospitalità e vi approvigionerò per il viaggio che dovrete fare per raggiungere il Re. È una navigazione piuttosto insidiosa, ma vi fornirò un astrologo che conosce bene la rotta.»

«Bè, che ha detto?», chiese il Capitano haLevy quando l’omaccione smise di parlare.

Il sociotecnico glielo spiegò.

Il Capitano haLevy divenne color del fuoco. «Nessun astrologo toccherà la mia astronave, accidenti a lui!»

Il sociotecnico sospirò. Avrebbe avuto un sacco di lavoro da fare negli anni a venire.

FINE