Mentre camminava per Regent’s Park – lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti – Jasper Gwyn ebbe d’un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui. Già altre volte lo aveva sfiorato quel pensiero, ma mai con simile pulizia e tanto garbo.
Così, tornato a casa, si mise a scrivere un articolo che poi stampò, infilò in una busta, e portò personalmente, attraversando la città, alla redazione del “Guardian”. Lo conoscevano. Saltuariamente collaborava con loro. Lui chiese se era possibile aspettare una settimana prima di pubblicarlo.
L’articolo consisteva in una lista di cinquantadue cose che Jasper Gwyn si riprometteva di non fare mai più. La prima era scrivere articoli per il “Guardian”. La tredicesima era incontrare scolaresche fingendosi sicuro di sé. La trentunesima, farsi fotografare con la mano sul mento, pensoso. La quarantasettesima, sforzarsi di essere cordiale con colleghi che in verità lo disprezzavano. L’ultima era: scrivere libri. In certo modo chiudeva il vago spiraglio che poteva aver lasciato la penultima: pubblicare libri.
Va detto che in quel momento Jasper Gwyn era uno scrittore piuttosto di moda in Inghilterra e discretamente conosciuto all’estero. Aveva debuttato dodici anni prima con un thriller ambientato nella campagna gallese ai tempi del thatcherismo: un caso di misteriose sparizioni. Tre anni dopo aveva pubblicato un romanzo breve che raccontava di due sorelle intenzionate a non vedersi mai più: per un centinaio di pagine cercavano di realizzare il loro modesto desiderio, tuttavia la cosa risultava impossibile. Il libro terminava con una magistrale scena su un molo, d’inverno. A parte un saggetto su Chesterton e due racconti pubblicati in differenti raccolte collettive, l’opera di Jasper Gwyn si chiudeva con un terzo romanzo, lungo cinquecento pagine. Era la pacata confessione di un vecchio olimpionico di scherma, ex capitano di marina, ex presentatore di varietà radiofonici. Era scritto in prima persona e si intitolava A fari spenti. Iniziava con questa frase: “Spesso ho riflettuto sul seminare e sul raccogliere”.
Come era stato notato da molti, i tre romanzi erano così diversi tra loro da rendere arduo riconoscerli come frutti della stessa mano. Il fenomeno era piuttosto curioso, ma non aveva impedito a Jasper Gwyn di diventare in breve tempo uno scrittore riconosciuto dal pubblico e rispettato da gran parte della critica. Il suo talento nel raccontare era d’altronde indubbio, e in particolare sconcertava la facilità con cui sapeva calarsi nella testa delle persone e ricostruire i loro sentimenti. Sembrava conoscere le parole che ognuno avrebbe detto, e pensare in anticipo i pensieri di ciascuno. Non c’è da stupirsi se a molti, in quegli anni, era sembrato ragionevole pronosticargli una brillante carriera.
All’età di quarantatré anni, tuttavia, Jasper Gwyn scrisse per il “Guardian” un articolo in cui elencava cinquantadue cose che da quel giorno non avrebbe fatto mai più. E l’ultima era: scrivere libri.
La sua brillante carriera era già finita.
La mattina in cui uscì l’articolo sul “Guardian” – con grande evidenza, nell’inserto domenicale – Jasper Gwyn era in Spagna, a Granada: gli era parso opportuno, nella circostanza, mettere tra sé e il mondo una certa distanza. Aveva scelto un alberghetto tanto modesto da non prevedere il telefono in camera, così quella mattina dovettero salire ad avvertirlo che c’era una chiamata per lui, sotto, all’ingresso. Lui scese in pigiama e si avvicinò malvolentieri a un vecchio telefono laccato in giallo, posato su un tavolino di vimini. Appoggiò all’orecchio la cornetta e quella che sentì era la voce di Tom Bruce Shepperd, il suo agente.
– Cos’è questa storia, Jasper?
– Quale storia?
– Le cinquantadue cose. Le ho lette stamattina, mi ha passato il giornale Lottie, ero ancora a letto. A momenti mi veniva un colpo.
– Forse avrei dovuto avvertirti.
– Non mi dirai che è una cosa seria. È una provocazione, una denuncia, cosa diavolo è?
– Niente, un articolo. Ma è tutto vero.
– In che senso?
– Voglio dire, l’ho scritto seriamente, è esattamente quello che ho deciso.
– Stai dicendomi che smetti di scrivere?
– Sì.
– Ma sei pazzo?
– Adesso devo proprio andare, sai?
– Aspetta un attimo, Jasper, dobbiamo parlarne, se non ne parli con me che sono il tuo agente...
– Non c’è niente da aggiungere, smetto di scrivere e basta.
– La sai una cosa, Jasper, mi stai ascoltando?, la sai una cosa?
– Sì, ti sto ascoltando.
– Allora ascoltami, io quella frase l’ho già sentita decine di volte, io me la son sentita dire da un numero di scrittori che tu neanche ti immagini, l’ho sentita pronunciare anche da Martin Amis, mi credi?, sarà stato una decina d’anni fa, Martin Amis mi disse quelle esatte parole, smetto di scrivere, ed è solo un esempio, ma potrei fartene una ventina, vuoi che ti faccia la lista?
– Non credo sia necessario.
– E sai una cosa? Non uno che abbia smesso davvero, non esiste di smettere.
– D’accordo, ma adesso devo proprio andare, Tom.
– Non uno.
– D’accordo.
– Bell’articolo, comunque.
– Grazie.
– Un vero sasso nello stagno.
– Non dire quella frase, ti prego.
– Cosa?
– Niente. Adesso vado.
– Ti aspetto a Londra, quando vieni?, Lottie sarebbe strafelice di vederti.
– Sto per staccare, Tom.
– Jasper, fratellone, non fare scherzi.
– Ho staccato, Tom.
Quest’ultima frase però la disse dopo aver staccato quindi Tom Bruce Shepperd non la sentì.
Nell’alberghetto spagnolo Jasper Gwyn rimase, piacevolmente, per sessantadue giorni. Al momento di pagare il conto, nelle sue spese extra figuravano sessantadue tazze di latte freddo, sessantadue bicchieri di whisky, due telefonate, un salatissimo conto in lavanderia (centoventinove items) e l’importo per l’acquisto di una radio a transistor – il che può gettare una certa luce sulle sue inclinazioni.
Data la distanza, e l’isolamento, per tutto il suo soggiorno a Granada Jasper Gwyn non dovette tornare sull’argomento del suo articolo se non saltuariamente, tra sé e sé. Solo gli accadde, un giorno, di incontrare una giovane donna slovena con cui finì per intrecciare una piacevole conversazione, nel giardino interno di un museo. Era brillante e sicura di sé, parlava un discreto inglese. Gli disse che lavorava all’Università di Lubiana, nel dipartimento di storia moderna e contemporanea. Era in Spagna a fare delle ricerche: stava lavorando alla storia di una nobildonna italiana che, a fine Ottocento, girava l’Europa alla ricerca di reliquie.
– Sa, il traffico di reliquie, in quegli anni, era l’hobby di una certa aristocrazia cattolica, gli spiegò.
– Davvero?
– Pochi la conoscono, ma è una storia affascinante.
– Me la racconti.
Cenarono insieme, e al dessert, dopo aver a lungo raccontato di tibie e falangi di martiri, la donna slovena prese a parlare di sé, e in particolare di quanto si sentisse fortunata a fare il mestiere di ricercatrice, mestiere che lei considerava bellissimo. Aggiunse che naturalmente tutto quello che “stava attorno a quel mestiere” era agghiacciante, i colleghi, le ambizioni, la mediocrità, l’ipocrisia, tutto. Ma disse anche che per quanto la riguardava non sarebbero bastati quattro poveretti a farle passare la voglia di studiare e di scrivere.
– Sono lieto di sentirglielo dire, commentò Jasper Gwyn.
Allora la donna gli chiese che mestiere facesse lui. Jasper Gwyn esitò un po’, e poi finì per mentire a metà. Disse che per una dozzina d’anni aveva fatto l’arredatore, ma da due settimane aveva smesso. La donna ne parve dispiaciuta e gli chiese per quale ragione avesse abbandonato un lavoro che aveva l’aria di essere così piacevole. Jasper Gwyn fece un vago gesto nell’aria. Poi disse una frase incomprensibile.
– Un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla, e che tutto mi feriva a morte.
La donna parve incuriosita, ma Jasper Gwyn fu abile a portare la conversazione su altri temi, scivolando lateralmente sul vizio di mettere la moquette in bagno, e poi dilungandosi sul primato delle civiltà meridionali, dovuto al loro conoscere il significato esatto del termine luce.
Molto tardi, quella sera, si salutarono, ma lo fecero così lentamente che la giovane donna slovena ebbe il tempo di trovare le parole adatte per dire che sarebbe stato bello, quella notte, passarla insieme.
Jasper Gwyn non ne era così sicuro, ma la seguì nella sua stanza d’albergo. Poi, misteriosamente, non risultò complicato mescolare in un letto spagnolo la fretta di lei e la cautela di lui.
Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese.
– Cosa sono?, chiese lei.
– Bei nomi. Te li regalo.
Jasper Gwyn trascorse a Granada ancora sedici giorni. Poi se ne andò anche lui, dimenticando nell’alberghetto tre camicie, una calza spaiata, un bastone da passeggio con testa d’avorio, un bagnoschiuma al sandalo e due numeri di telefono scritti a pennarello sulla tenda di plastica della doccia.
Tornato a Londra, Jasper Gwyn trascorse i primi giorni a camminare per le strade della città in modo prolungato e ossessivo, con la deliziosa convinzione di essere diventato invisibile. Poiché aveva smesso di scrivere, in cuor suo aveva smesso di essere un personaggio pubblico – non c’era ragione che la gente lo notasse, adesso che era ridiventato uno qualunque. Prese a vestirsi senza cautela, e tornò a fare tante piccole cose senza il retropensiero di risultare presentabile nel caso in cui, improvvisamente, un lettore lo avesse riconosciuto. La posizione che assumeva al bancone del pub, ad esempio. Viaggiare in bus senza biglietto. Mangiare da solo al McDonald’s. Ogni tanto qualcuno lo riconosceva, e allora lui negava di essere chi era.
C’erano un sacco di altre cose di cui non si doveva più occupare. Era come uno di quei cavalli che, scosso il fantino, tornano indietro, svagati, al piccolo trotto, mentre gli altri sono ancora a farsi scoppiare il cuore inseguendo un traguardo e un qualsiasi ordine d’arrivo. La delizia di un simile stato d’animo era infinita. Quando gli accadeva di incrociare un articolo di giornale o una vetrina di libreria che gli ricordavano la rissa da cui si era appena ritirato, sentiva il cuore farsi leggero, e respirava un’infantile ebbrezza da sabato pomeriggio. Erano anni che non si sentiva così bene.
Anche per questo tardò un po’ a prendere le misure della sua nuova vita, prolungando quel personale clima da vacanza. L’idea, maturata durante il soggiorno in Spagna, era quella di tornare al mestiere che faceva prima di pubblicare romanzi. Non sarebbe stato difficile, e nemmeno sgradevole. Ci vedeva perfino una certa eleganza formale, una sorta di andamento strofico, da ballata. Niente però lo spingeva ad affrettare quel ritorno, giacché Jasper Gwyn viveva solo, non aveva famiglia, spendeva poco, e in definitiva per almeno un paio di anni avrebbe potuto tranquillamente campare senza neanche alzarsi al mattino. Così rimandò la cosa, e si dedicò a gesti casuali e a pratiche da tempo rimandate.
Buttò via i giornali vecchi. Prendeva treni per destinazioni vaghe.
Quel che gli accadde, tuttavia, fu di ritrovarsi addosso, col passare dei giorni, una singolare forma di disagio che all’inizio fece fatica a comprendere e che solo dopo un po’ imparò a riconoscere: per quanto fosse seccante ammetterlo, gli mancava il gesto dello scrivere, e la quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di una frase. Non se l’aspettava, e questo lo fece riflettere. Era una sorta di piccolo fastidio che si ripresentava ogni giorno e prometteva di peggiorare. Così, a poco a poco, Jasper Gwyn iniziò a chiedersi se non era il caso di prendere in esame mestieri marginali in cui gli fosse possibile coltivare l’esercizio della scrittura senza che ciò implicasse, necessariamente, il ritorno immediato alle cinquantadue cose che si era ripromesso di non fare mai più.
Guide di viaggio, si disse. Ma si sarebbe dovuto viaggiare.
Pensò a quelli che scrivevano i manuali di istruzioni per gli elettrodomestici, e si chiese se esistesse ancora, da qualche parte del mondo, il mestiere di scrivere lettere per coloro che non erano in grado di farlo.
Traduttore, pensò. Ma da che lingua?
Alla fine, l’unica cosa chiara che gli venne in mente fu una parola: copista. Gli sarebbe piaciuto fare il copista. Non era un mestiere vero, se ne rendeva conto, ma c’era un riverbero in quella parola che lo convinceva, e gli faceva credere di cercare qualcosa di preciso. C’era una segretezza, nel gesto, e una pazienza di modi – un impasto di modestia e solennità. Non avrebbe voluto fare altro che quello: il copista. Era sicuro di poterlo fare benissimo.
Cercando di immaginare cosa mai, nel mondo reale, potesse corrispondere alla parola copista, Jasper Gwyn si fece scivolare addosso un sacco di giorni, uno dopo l’altro, in modo apparentemente indolore. Quasi non se ne accorse.
Ogni tanto gli arrivavano contratti da firmare, si riferivano ai libri che aveva già scritto. Rinnovi, nuove traduzioni, adattamenti per il teatro. Li lasciava sul tavolo, e alla fine gli apparve chiaro che non li avrebbe firmati mai. Con un certo turbamento scoprì che non solo non voleva più scrivere libri ma, in qualche modo, non voleva neanche averli scritti. Cioè, gli era piaciuto farli, ma non desiderava affatto che sopravvivessero alla sua decisione di smettere, e anzi lo infastidiva che quelli andassero, con una forza propria, dove lui si era ripromesso di non metter piede mai più. Iniziò a buttare i contratti senza nemmeno aprirli. Ogni tanto Tom gli girava lettere di ammiratori che educatamente lo ringraziavano per quella pagina, o quella particolare storia. Perfino questo lo innervosiva, e non mancava mai di registrare come nessuno di loro facesse accenno al suo silenzio – non sembravano esserne informati. Un paio di volte si prese la briga di rispondere. Ringraziava, a sua volta, con parole semplici. Poi annotava che aveva smesso di scrivere, e salutava.
Notò che a quelle lettere nessuno rispose.
Sempre più spesso, tuttavia, gli ritornava quel bisogno di scrivere, e la mancanza di una quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di una frase. In maniera istintiva, allora, finì per compensare quella mancanza con una sua privata liturgia, che non gli sembrò priva di una qualche bellezza: prese a scrivere mentalmente, mentre camminava, o sdraiato nel letto, la luce spenta, aspettando il sonno. Sceglieva parole, costruiva frasi. Poteva succedergli di proseguire per giorni dietro a un’idea, arrivando a scriversi in testa intere pagine, che poi gli piaceva ripetere, talvolta a voce alta. Avrebbe potuto, allo stesso modo, farsi scrocchiare le dita, o ripetere degli esercizi ginnici, sempre gli stessi. Era una cosa fisica. Gli piaceva.
Una volta gli accadde di scrivere, in quel modo, un’intera partita a poker. Uno dei giocatori era un bambino.
In particolare gli piaceva scrivere mentre aspettava in lavanderia, in mezzo ai cestelli che giravano, al ritmo di riviste sfogliate distrattamente su gambe accavallate di donne che non sembravano coltivare alcuna illusione che non riguardasse la sottigliezza delle loro caviglie. Un giorno stava scrivendo mentalmente un dialogo tra due amanti in cui l’uomo spiegava che fin da bambino aveva la curiosa facoltà di sognare le persone solo quando ci dormiva insieme, proprio mentre ci dormiva insieme.
– Vuoi dire che sogni soltanto quelli che sono nel tuo letto?, chiedeva la donna.
– Sì.
– Che stronzata è?
– Non lo so.
– E se uno non è nel tuo letto tu non lo sogni.
– Mai.
A quel punto si era avvicinata una ragazza grassa, piuttosto elegante, lì nella lavanderia, e gli aveva porto un cellulare.
– È per lei, aveva detto.
Jasper Gwyn aveva preso il cellulare.
– Jasper! Messo l’ammorbidente?
– Ciao Tom.
– Disturbo?
– Stavo scrivendo.
– Bingo!
– Non in quel senso.
– Non mi risulta che ci siano molti sensi, se uno è uno scrittore scrive, tutto lì. Te l’avevo detto, nessuno riesce a smettere davvero.
– Tom, sono in una lavanderia.
– Lo so, sei sempre lì. E a casa non rispondi.
– Non si scrivono libri in lavanderia, lo sai, e comunque non li scriverei io.
– Palle. Vuota il sacco. Cos’è, un racconto?
La biancheria era ancora al prelavaggio, e non c’era nessuno a sfogliare riviste. Così Jasper Gwyn pensò che poteva provare a spiegargli. Raccontò a Tom Bruce Shepperd che gli piaceva metter in fila parole, e incastrare frasi, come avrebbe potuto scrocchiarsi le dita. Lo faceva nel chiuso nella sua mente. Lo rilassava.
– Fantastico! Vengo lì, tu parli, io registro, e il libro è fatto. Non saresti il primo a usare un sistema del genere.
Jasper Gwyn gli spiegò che non erano neanche storie, erano frammenti, senza un prima e senza un dopo – andava già bene se si potevano chiamare scene.
– Geniale. Ho già il titolo.
– Non dirmelo.
– Scene di libri che non scriverò mai.
– Me l’hai detto.
– Non muoverti, sistemo due cose e arrivo.
– Tom.
– Dimmi fratellone.
– Chi è questa qui tutta elegante?
– Rebecca? È una nuova, bravissima.
– Cosa fa oltre a portare in giro un cellulare nelle lavanderie?
– Sta imparando, da qualche parte bisogna pur iniziare.
Jasper Gwyn pensò che se c’era una cosa che gli dispiaceva, nell’aver smesso di fare lo scrittore, era che non avrebbe più avuto alcuna ragione di lavorare con Tom Bruce Shepperd. Pensò che un giorno lui avrebbe smesso di inseguirlo con le sue telefonate, e quello sarebbe stato un brutto giorno. Si chiese se non era il caso di dirglielo. Lì, in lavanderia. Poi gli venne un’idea migliore.
Chiuse il cellulare e fece un cenno alla ragazza grassa, che si era allontanata di qualche passo, per educazione. Notò che aveva un volto molto bello, per il resto limitava i danni scegliendo bene i vestiti. Le chiese se poteva lasciarle un messaggio per Tom.
– Certo.
– Sia così gentile allora da dirgli che mi mancherà.
– Certo.
– Voglio dire che prima o poi smetterà di rompermi i coglioni ovunque io vada, e io proverò lo stesso sollievo che si prova quando in una stanza si spegne il motore del frigorifero, ma anche lo stesso sgomento inevitabile, e la sensazione, che lei certo conoscerà, di non essere sicuri di sapere cosa farsene di quell’improvviso silenzio, e forse di non esserne in fondo all’altezza. Le sembra di aver capito?
– Non ne sono sicura.
– Vuole che gliela ripeto?
– Forse dovrei prendere un appunto.
Jasper Gwyn scosse la testa. Troppo complicato, pensò. Riaprì il cellulare. Gli arrivò la voce di Tom. Come funzionassero esattamente quei cosi non lo avrebbe capito mai.
– Tom, stai zitto un attimo.
– Jasper?
– Voglio dirti una cosa.
– Spara.
Gliela disse. Con la faccenda del frigorifero e tutto il resto. Tom Bruce Shepperd diede un colpo di tosse e per qualche secondo tacque, una cosa che non faceva mai.
La ragazza, poi, se ne andò camminando in quel modo un po’ navale che hanno i grassi di andare, ma prima di questo sorrise a Jasper Gwyn, nel salutarlo, con una luce negli occhi radiosa, le labbra splendide e i denti bianchi.
Tuttavia l’inverno gli sembrò inutilmente lungo, quell’anno, e il fatto di svegliarsi insonne al mattino presto, il buio ai vetri, prese a ferirlo.
Un giorno, che faceva freddo e pioveva, si trovò seduto nella sala d’aspetto di un ambulatorio, con un numeretto in mano – aveva convinto il medico a prescrivergli dei controlli, sosteneva di non sentirsi benissimo. Di fianco a lui andò a sedersi una signora con un trolley della spesa pieno e un ombrello marcio che le cadeva in continuazione. Una signora anziana, con un foulard impermeabile in testa. Se lo tolse, a un certo punto, e nel modo in cui diede un colpo ai capelli c’era qualcosa come il residuo di una seduzione interrotta tanti anni prima. L’ombrello però continuava a caderle da tutte le parti.
– Posso aiutarla?, le chiese Jasper Gwyn.
La donna lo guardò poi disse che negli ambulatori avrebbero dovuto esserci dei portaombrelli, nelle giornate di pioggia. Qualcuno, aggiunse, aveva solo da toglierli quando tornava il sole.
– È un ragionamento sensato, disse Jasper Gwyn.
– Certo che lo è, disse la donna.
Poi prese l’ombrello e lo appoggiò per terra, sdraiato. Sembrava una freccia, o il limite di qualcosa. Lentamente si formò una pozza d’acqua, intorno.
– Lei è Jasper Gwyn o è solo uno che gli assomiglia?, chiese la donna. Lo fece mentre cercava nella borsa qualcosa di piccolo. Con le mani che rovistavano là dentro alzò lo sguardo per essere sicura che lui avesse sentito la domanda.
Jasper Gwyn non se l’aspettava, così disse che sì, era Jasper Gwyn.
– Bravo, disse la donna, come se lui avesse risposto giusto a un quiz. Poi disse che la scena del molo, in Sorelle, era quanto di più bello avesse letto negli ultimi anni.
– Grazie, disse Jasper Gwyn.
– E anche l’incendio nella scuola, all’inizio dell’altro libro, quello lungo, l’incendio nella scuola è perfetto.
Alzò di nuovo lo sguardo su Jasper Gwyn.
– Io ho fatto l’insegnante, precisò.
Poi tirò fuori dalla borsa un paio di caramelle, erano rotonde, agli agrumi, e ne offrì una a Jasper Gwyn.
– Grazie, no, davvero, disse lui.
– Ma figuriamoci un po’!, disse lei.
Lui sorrise e prese la caramella.
– Il fatto che siano sparse nella borsa non vuol dire che facciano schifo, disse lei.
– No, certo.
– Ma ho notato che la gente è propensa a crederlo.
Jasper Gwyn pensò che era esattamente così, la gente non si fida di una caramella trovata sul fondo di una borsa.
– Credo sia lo stesso fenomeno per cui la gente diffida sempre un po’ degli orfani, disse.
La donna si voltò a guardarlo, stupita.
– O dell’ultima vettura della metropolitana, disse, con una strana felicità nella voce.
Sembravano due che da bambini erano stati insieme a scuola, e adesso snocciolavano i cognomi dei compagni di classe, riportandoli su da distanze enormi. Passò un istante di silenzio, tra loro, come un incanto.
Allora presero a chiacchierare e quando un’infermiera venne ad avvertire che era il turno del signor Gwyn, Jasper Gwyn disse che in quel momento proprio non poteva.
– Perderà il suo turno, disse l’infermiera.
– Non importa. Posso ripassare domani.
– Come crede, disse freddamente l’infermiera. Poi chiamò ad alta voce un certo Mr Flewer.
Alla donna con l’ombrello la cosa sembrò normalissima.
Alla fine si ritrovarono soli, nella sala d’aspetto, e allora la donna disse che era proprio ora di andare. Jasper Gwyn le chiese se non doveva fare un esame, o qualcosa del genere. Ma lei disse che veniva lì perché era un posto caldo, ed era esattamente a metà tra casa sua e il supermercato. Inoltre le piaceva guardare la faccia della gente che doveva fare l’esame del sangue, a digiuno. Sembra gente a cui hanno rubato qualcosa, disse. Già, confermò Jasper Gwyn, convinto.
La accompagnò a casa, tenendole l’ombrello aperto, con lei che non voleva mollare il trolley, e per strada continuarono a parlare fino a quando la donna non gli chiese cosa stava scrivendo adesso, e lui disse Niente. La donna camminò un po’ in silenzio, poi disse Peccato. Lo disse con un tono di rimpianto così sincero che Jasper Gwyn ne fu come addolorato.
– Finite le idee?, chiese la donna.
– No, quello no.
– E allora?
– Mi piacerebbe fare un altro mestiere.
– Tipo?
Jasper Gwyn si fermò.
– Credo che mi piacerebbe fare il copista.
La donna ci pensò un po’. Poi riprese a camminare.
– Sì, posso capire, disse.
– Davvero?
– Sì. È un bel mestiere, il copista.
– È quello che ho pensato.
– È un mestiere pulito, lei disse.
Si salutarono sui gradini che portavano alla casa di lei, e a nessuno dei due venne in mente di scambiare un numero di telefono o di accennare a una prossima volta. Solo, a un certo punto, lei disse che le spiaceva sapere che non avrebbe più letto un suo libro. Aggiunse che non tutti sono capaci di entrare nella testa della gente come sapeva fare lui, e che questo suo talento sarebbe stato un peccato chiuderlo in garage e lucidarlo una volta all’anno, come uno spiderino d’epoca. Disse proprio così, come uno spiderino d’epoca. Poi sembrò aver finito, ma in realtà aveva da parte ancora qualcosa.
– Fare il copista c’entra col copiare qualcosa, no?, chiese.
– Probabilmente.
– Ecco. Ma non atti notarili o numeri, la prego.
– Cercherò di evitare.
– Veda se trova qualcosa tipo copiare la gente.
– Sì.
– Come sono fatti.
– Sì.
– Le verrà bene.
– Sì.
Era forse passato un anno, un anno e mezzo dall’articolo sul “Guardian”, quando Jasper Gwyn prese a stare male, di tanto in tanto, in una forma che si trovò a descrivere come un improvviso svanire. Gli accadeva di vedersi da fuori – così raccontava – oppure di perdere ogni percezione precisa che non fosse il percepire se stesso. A volte poteva essere impressionante. Un giorno dovette entrare in una cabina telefonica e con fatica fare il numero di Tom. Gli disse, balbettando, che non sapeva più dov’era.
– Nessuna paura, mando Rebecca a prenderti. Dove sei?
– Il problema è quello, Tom.
Finì che la ragazza grassa si fece tutto il quartiere in macchina finché lo trovò. Nel frattempo Jasper Gwyn se n’era rimasto nella cabina, stringendo spasmodicamente la cornetta e cercando di non morire. Per distrarsi parlava al telefono – gli venne da improvvisare una telefonata di protesta per l’interruzione dell’acquedotto, nessuno lo aveva avvertito e questo gli aveva portato enormi danni economici e morali. Continuava a ripetere Devo aspettare che piova per farmi lo shampoo?
Si sentì subito meglio, appena salito sulla macchina della ragazza grassa.
Mentre si scusava, non riusciva a smettere di fissare quelle mani grassocce che stringevano, ma il verbo non era esatto, il volante sportivo. Non c’era coerenza, pensò, e quella doveva essere l’esperienza che in ogni istante del giorno quella ragazza faceva del proprio corpo – che non c’era coerenza tra lui e tutto il resto.
Ma lei sorrise, di quel suo bel sorriso, e disse che anzi, era onorata di potergli essere d’aiuto. E comunque, aggiunse, anche a lei era capitato, aveva avuto un periodo in cui le capitava spesso di stare male in quel modo.
– Tutt’a un tratto pensava di morire?
– Sì.
– E com’è guarita?, chiese Jasper Gwyn, che a quel punto avrebbe mendicato una cura da chiunque.
La ragazza tornò a sorridere, poi rimase un po’ in silenzio, guardando la strada.
– No, va be’, disse alla fine, queste sono cose mie.
– Certo, disse Jasper Gwyn.
Si arrotolavano. Probabilmente il verbo giusto era quello. Si arrotolavano sul volante sportivo.
Nei giorni che seguirono, Jasper Gwyn si sforzò di mantenere la calma e, nel tentativo di trovare un linimento alle crisi che si facevano sempre più frequenti, si affidò a un esercizio che si ricordava di aver visto in un film. Consisteva nel vivere lentamente, concentrandosi su ogni singolo gesto. Come regola potrà sembrare piuttosto generica, ma Jasper Gwyn aveva un modo di osservarla che la rendeva sorprendentemente reale. Così si infilava le scarpe guardandole, prima, valutandone la bella leggerezza e apprezzando il tratto cedevole del cuoio. Nell’allacciarle evitava di lasciarsi andare a un gesto automatico e osservava nel dettaglio lo splendido andare delle dita, secondo un fare rotondo di cui ammirava la sicurezza. Poi si alzava, e ai primi passi non dimenticava di registrare la salda presa della calzatura sul collo del piede. Allo stesso modo, si concentrava sui rumori che di solito si danno per scontati, tornando a udire lo scatto di una serratura, la raucedine dello scotch, o il minimo sferragliare delle cerniere. Molto tempo gli andava a registrare i colori, anche quando la cosa non era di alcuna utilità, e in particolare era attento ad ammirare le tavolozze casuali che le cose generavano nel loro disporsi – che fosse l’interno di un cassetto, o la spianata di un parcheggio. Spesso contava gli oggetti che incontrava – gradini, lampioni, urla – e con le dita controllava le superfici, riscoprendo l’infinito compreso tra il ruvido e il liscio. Si fermava a guardare le ombre, per terra. Sentiva ogni moneta, tra le dita.
Tutto ciò gli dava un’andatura sontuosa, nel muoversi quotidiano, come di attore, o di animale africano. Nella sua lentezza elegante sembrava agli altri di riconoscere il tempo naturale delle cose, e nella precisione dei suoi gesti risaliva in superficie una signoria sugli oggetti che i più avevano dimenticato. Jasper Gwyn neanche se ne accorgeva, ma molto chiaro gli era invece come quell’andare minuzioso gli restituisse una qualche giustezza – quel baricentro che evidentemente gli era venuto a mancare.
Durò un paio di mesi. Poi, stanco, tornò al vivere consueto, ma nel farlo lo ripigliò all’istante la nota evanescenza, e senza possibilità di difesa lo assalì un senso di vuoto incurabile. D’altronde quella cura ossessiva nell’accosto al mondo – quel modo di allacciarsi le scarpe – non era poi qualcosa di molto diverso dallo scrivere le cose invece che viverle – dall’indugiare su aggettivi e avverbi – e così Jasper Gwyn dovette ammettere con se stesso che l’abbandono dei libri aveva generato un vuoto a cui non sapeva ovviare se non allestendo liturgie sostitutive imperfette e provvisorie come il mettere insieme frasi nella sua mente o allacciarsi le scarpe con una lentezza da idiota. Ci aveva messo anni ad accettare che il mestiere di scrivere gli era diventato impossibile e adesso si trovava costretto a registrare come senza quel mestiere non gli fosse affatto facile tirare avanti. Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn.
Capirlo lo fece sentire sperduto, e indifeso come solo sono i bambini, quelli intelligenti. Si sorprese a provare un istinto che non gli era consueto, qualcosa di simile alla necessità urgente di parlarne con qualcuno. Ci pensò un po’ ma l’unica persona che gli venne in mente fu la vecchia signora con il foulard impermeabile, là all’ambulatorio. Sarebbe stato molto più naturale parlarne con Tom, se ne rendeva conto, e per un attimo gli parve persino possibile riuscire a chiedere un aiuto, in qualche modo, a una delle donne che lo avevano amato, e che certamente sarebbe stata deliziata di ascoltarlo. Ma la verità è che l’unica persona con cui davvero avrebbe voluto parlare di quella faccenda era la vecchia signora dell’ambulatorio, lei il suo ombrello e il suo foulard impermeabile. Era sicuro che avrebbe capito. Finì che Jasper Gwyn si fece prescrivere altri esami – non era difficile, sulla base dei suoi sintomi – e tornò a frequentare la sala d’aspetto in cui quel giorno l’aveva incontrata.
Nelle ore che passò lì, ad aspettarla, per i tre giorni degli esami, si studiava per bene come le avrebbe spiegato tutta la faccenda, e benché lei continuasse a non arrivare, lui giunse a parlarle, come se fosse lì, e ad ascoltare le sue risposte. Nel farlo, comprese molto meglio quanto lo stava consumando, e una volta si immaginò distintamente la vecchia signora tirare fuori un libricino dalla borsa, un vecchio taccuino a cui si erano appiccicate un sacco di briciole, probabilmente biscotti – lo aveva aperto cercando una frase che si era segnata, e quando l’aveva trovata aveva avvicinato gli occhi alla pagina, proprio molto vicino, e l’aveva letta a voce alta.
– Le risoluzioni definitive si prendono sempre e soltanto per uno stato d’animo che non è destinato a durare.
– Chi l’ha detto?
– Marcel Proust. Non sbagliava mai, quello.
E richiuse il quadernetto.
Jasper Gwyn detestava Proust, per ragioni che non aveva mai avuto voglia di approfondire, ma quella frase se l’era messa da parte anni prima, sicuro che un giorno o l’altro gli sarebbe tornata utile. Pronunciata dalla voce della vecchia signora suonava come inattaccabile. Cosa devo dunque fare, si chiese.
– Il copista, che diamine, rispose la signora con il foulard impermeabile.
– Non sono sicuro di sapere cosa significa.
– Lo capirà. Quando sarà il caso, lo capirà.
– Me lo prometta.
– Glielo prometto.
Uscendo dall’elettrocardiogramma sotto sforzo, l’ultimo giorno, Jasper Gwyn passò dalla reception e chiese se avevano più visto una signora piuttosto anziana che veniva spesso lì, a riposarsi.
La signorina dietro al vetro lo squadrò un attimo prima di rispondere.
– È mancata.
Usò proprio quel verbo.
– Qualche mese fa, aggiunse.
Jasper Gwyn rimase a fissare la signorina, smarrito.
– La conosceva?, chiese lei.
– Sì, ci conoscevamo.
Si voltò istintivamente a guardare se c’era ancora l’ombrello per terra.
– Ma non mi aveva detto niente, disse.
La signorina non chiese nulla, probabilmente aveva intenzione di tornare al suo lavoro.
– Forse non lo sapeva, disse Jasper Gwyn.
Quando uscì gli venne spontaneo ripercorrere la strada che aveva fatto con la vecchia signora, quel giorno, sotto la pioggia: perché era tutto quello che conservava di lei.
Forse sbagliò una traversa, probabilmente non era stato molto attento quel giorno, così si ritrovò in una via che non riconosceva, e l’unica cosa di nuovo uguale era la pioggia, che aveva iniziato improvvisa, battente. Cercò un caffè dove rifugiarsi ma non ce n’erano. Alla fine, tentando di tornare all’ambulatorio, si trovò a passare davanti a una galleria d’arte. Era il genere di luogo in cui lui non metteva mai piede, ma quella volta la pioggia lo rendeva incline a cercare riparo, e dunque si sorprese a gettare un’occhiata oltre al vetro. C’era legno per terra e il locale sembrava grandissimo, e illuminato bene. Allora Jasper Gwyn guardò il quadro esposto in vetrina. Era un ritratto.
Erano quadri grandi, tutti simili, come la ripetizione di un’unica ambizione, all’infinito. C’era sempre una persona, nuda, e poco altro intorno, una stanza vuota, un corridoio. Non erano persone belle, erano corpi ordinari. Semplicemente stavano – ma particolare era la forza con cui lo facevano, quasi fossero sedimenti geologici, frutto di metamorfosi millenarie. Jasper Gwyn pensò che erano pietre, ma morbide, e vive. Gli venne voglia di toccarle, era convinto che fossero tiepide.
A quel punto se ne sarebbe anche andato, bastava così, ma fuori continuava a diluviare e allora Jasper Gwyn, senza sapere che questo avrebbe segnato la sua vita, si mise a sfogliare un catalogo della mostra: ce n’erano tre, aperti, su un tavolo di legno chiaro – quei soliti libroni dal peso irragionevole. Jasper Gwyn constatò che i titoli dei quadri erano quelli un po’ idioti che ci si poteva aspettare (Uomo con mani sul grembo), e che accanto a ogni titolo era registrata la data di esecuzione. Notò che il pittore ci aveva lavorato per anni, più meno una ventina, senza che apparentemente fosse cambiato nulla nel suo modo di vedere le cose, o nella sua tecnica. Semplicemente aveva continuato a fare – come se fosse stato un unico gesto, solo molto lungo. Jasper Gwyn si chiese se era stata la stessa cosa per lui, nei dodici anni in cui aveva scritto, e mentre cercava una risposta capitò nell’appendice del libro, e lì c’erano delle fotografie fatte mentre il pittore lavorava, nel suo studio. Senza accorgersene si piegò un poco, per vedere meglio. Lo colpì una foto in cui il pittore se ne stava placidamente in poltrona, girato verso una finestra, a guardare fuori; a pochi metri da lui, una modella che Jasper Gwyn aveva appena visto in uno dei quadri esposti nella galleria se ne stava nuda sdraiata su un divano, in una posizione non molto dissimile da quella in cui era stata fermata sulla tela. Anche lei sembrava guardare nel vuoto.
Jasper Gwyn ci vide un tempo che non si aspettava, lo scorrere di un tempo. Come tutti, si immaginava che quel genere di cose andasse nel solito modo, con il pittore al cavalletto e il modello al suo posto, immobile, entrambi impegnati in un passo a due di cui conoscevano le regole – poteva immaginare le chiacchiere sciocche, intanto. Ma lì era diverso perché pittore e modello sembravano piuttosto aspettare, e si sarebbe detto aspettassero ognuno per conto proprio – e qualcosa che non era il quadro. Veniva da pensare che aspettassero di depositarsi sul fondo di un enorme bicchiere.
Girò pagina, e le foto non erano molto dissimili. Cambiavano i modelli, ma la situazione era quasi sempre la stessa. Il pittore una volta si stava lavando le mani, un’altra camminava a piedi nudi guardando in basso. Non stava mai dipingendo. Una modella altissima e spigolosa, con grandi orecchie da bambina, sedeva sul bordo di un letto, tenendosi con una mano alla spalliera. Non c’era ragione di pensare che stessero parlando – che si fossero mai parlati.
Allora Jasper Gwyn prese il catalogo e cercò intorno un posto dove sedersi. C’erano solo due poltroncine blu, giusto davanti al tavolo dove una signora stava lavorando, in mezzo a carte e libri. Doveva essere la gallerista, e Jasper Gwyn le chiese se poteva sedersi lì, o se la cosa la disturbava.
– Prego, disse la signora.
Aveva occhiali da vista eccentrici e quando toccava le cose lo faceva con la cautela che hanno le donne con le unghie curate.
Jasper Gwyn si sedette, e benché la distanza dalla signora fosse di quelle che avevano un senso solo alla luce di un desiderio reciproco di scambiare qualche parola, si appoggiò il librone sulle ginocchia e tornò a guardare quelle foto, come se fosse stato solo, a casa sua.
Lo studio del pittore vi appariva vuoto e sgangherato, non c’era traccia di consapevole pulizia, e c’era un’impressione di disordine irreale, poiché non vi era nulla che, all’occorrenza, si sarebbe potuto mettere in ordine. Analogamente, la nudità dei modelli non sembrava l’effetto di un’assenza di vestiti, ma una sorta di condizione originaria, preesistente a qualsiasi vergogna – o molto posteriore. In una delle foto si vedeva un signore sulla sessantina, con dei baffi curati, sul petto lunghi peli bianchi, che stava seduto su una sedia, intento a bere da una tazza, forse un tè, le gambe leggermente aperte, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Lo si sarebbe detto assolutamente inadatto alla nudità, al punto di evitarla perfino nell’intimità domestica o amorosa, ma lì stava in effetti perfettamente nudo, il pene appoggiato di lato, piuttosto grande e circonciso, e pur essendo indubitabilmente grottesco era anche, al tempo stesso, così inevitabile che Jasper Gwyn fu sicuro per un istante di ignorare qualcosa che quell’uomo sapeva.
Allora alzò lo sguardo, cercò intorno, e subito trovò il ritratto del signore coi baffi, grande, appeso alla parete di fronte: era proprio lui, senza tazza di tè, ma sulla stessa sedia, nudo, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Gli sembrò enorme, ma soprattutto gli apparve arrivato.
– Le piace?, chiese la gallerista.
Jasper Gwyn stava capendo qualcosa di particolare, che poi avrebbe cambiato il corso dei suoi giorni, e così non rispose subito. Tornò a guardare la foto, nel catalogo, poi di nuovo il quadro alla parete – era evidente che qualcosa era successo, tra la foto e il quadro, qualcosa come una peregrinazione. Jasper Gwyn pensò che doveva esserci voluto un sacco di tempo, un qualche esilio, e certo il dissolversi di molte resistenze. Non pensò a qualche trucco tecnico e nemmeno gli sembrò importante l’eventuale bravura del pittore, solo gli venne in mente che un fare paziente si era posto una meta, e alla fine quel che gli era riuscito di ottenere era ricondurre a casa quell’uomo coi baffi. Gli sembrò un gesto bellissimo.
Si voltò verso la gallerista, le doveva una risposta.
– No, disse. Non mi piacciono mai i quadri.
– Ah, disse la gallerista.
Sorrideva, comprensiva, come se un bambino le avesse detto che da grande voleva fare il lavavetri.
– E cosa non le piace dei quadri?, chiese, paziente.
Di nuovo Jasper Gwyn non rispose. Stava pensando a quella storia del ricondurre a casa. Non gli era mai venuto in mente che un ritratto potesse riportare a casa qualcuno, anzi, gli era sempre sembrato proprio l’opposto, era evidente che i ritratti si facevano per esibire una falsa identità, e spacciarla come vera. Chi avrebbe mai pagato per farsi smascherare da un pittore e per appendere in casa quello che di se stesso si affannava a nascondere tutti i giorni?
Chi avrebbe mai pagato?, si ripeté lentamente.
Alzò lo sguardo sulla gallerista.
– Scusi, ce l’ha un foglietto e qualcosa per scrivere, per favore?
La gallerista gli avvicinò un blocco di carta e una matita.
Jasper Gwyn scrisse qualcosa, due righe. Poi stette a lungo a guardarle. Sembrava assorto in un pensiero così fragile che la gallerista rimase immobile, come quando non si vuole far volar via un passero dalla ringhiera. Diceva anche qualcosa a bassa voce, Jasper Gwyn, ma qualcosa di indecifrabile. Alla fine prese il foglietto, lo piegò in quattro e se lo mise in tasca. Rialzò lo sguardo sulla gallerista.
– Sono muti, disse.
– Prego?
– Non mi piacciono i quadri perché sono muti. Sono come persone che parlano muovendo le labbra, ma non si sente la voce. Bisogna immaginarla. Non mi piace fare quello sforzo lì.
Poi si alzò, andò a mettersi davanti al ritratto del signore con i baffi e a lungo, ancora, rimase assorto nei suoi pensieri – molto a lungo.
Tornò a casa senza badare alla pioggia che cadeva battente, e fredda. Ogni tanto diceva qualche frase a voce alta. Stava parlando con la signora dal foulard impermeabile.
– Ritratti?
– Sì, perché?
Tom Bruce Shepperd studiò bene le parole.
– Jasper, tu non sai disegnare.
– Infatti. L’idea è quella di scriverli.
Un paio di settimane dopo quella mattina dalla gallerista, Jasper Gwyn aveva telefonato a Tom per dirgli che c’era una novità. Voleva anche dirgli che la smettesse di mandargli contratti da firmare che lui tanto non apriva nemmeno. Ma principalmente gli telefonò per quella storia della novità.
Aveva da dirgli che dopo aver cercato a lungo un nuovo lavoro da fare, adesso lo aveva trovato. Tom non la prese bene.
– Tu ce l’hai un lavoro. Scrivi libri.
– Ho smesso, Tom, come te lo devo ripetere?
– Non se n’è accorto nessuno.
– Cosa vuoi dire?
– Che puoi anche riiniziare domani.
– Scusa, ma se anche io decidessi per assurdo di riprendere a scrivere, con che faccia lo farei, secondo te, dopo quello che ho scritto sul “Guardian”?
– La lista? Geniale provocazione. Operazione avanguardistica. E poi chi vuoi che se la ricordi?
Tom non era solo il suo agente, era l’uomo che l’aveva scoperto, dodici anni prima. Andavano allo stesso pub, allora, e una volta erano rimasti fino alla chiusura a parlare di cosa avrebbe scritto Hemingway se non si fosse sparato con un fucile da caccia all’età di sessantadue anni.
– Un beato cazzo di niente, aveva sostenuto Tom. Ma invece Jasper Gwyn era di tutt’altra opinione e alla fine Tom aveva intuito, nonostante le quattro birre scure, che quell’uomo capiva di letteratura, e gli aveva chiesto che mestiere facesse. Jasper Gwyn glielo aveva detto e Tom se lo era fatto ripetere, perché proprio non ci credeva.
– Avrei detto professore, o giornalista, cose così.
– No, niente del genere.
– Be’, è un peccato.
– Perché?
– Non ne ho la più pallida idea, sono ubriaco. Lei sa cosa faccio io?
– No.
– Agente letterario.
Aveva tirato fuori un biglietto da visita e l’aveva porto a Jasper Gwyn.
– Se per caso un giorno le succedesse di scrivere qualcosa non mi faccia il torto di dimenticarsi di me. Sa, succede a tutti, prima o poi.
– Cosa?
– Di scrivere qualcosa.
Aveva passato un istante a riflettere.
– Anche di dimenticarsi di me, naturalmente.
Poi non ne avevano più riparlato, e quando si trovavano al pub volentieri se ne stavano insieme, spesso a parlare di libri, e di scrittori. Ma un giorno Tom aveva aperto una busta gialla, enorme, che gli era arrivata con la posta del mattino, e dentro c’era il romanzo di Jasper Gwyn. Aveva aperto a caso, e aveva preso a leggere da un punto qualunque. C’era una scuola che andava a fuoco. Era tutto iniziato da lì.
Adesso però tutto aveva l’aria di voler finire e Tom Bruce Shepperd neanche aveva capito bene perché. La lista delle cinquantadue cose, va bene, ma non poteva essere solo quello. Tutti i veri scrittori odiano quel che c’è attorno al loro mestiere, ma nessuno smette per quello. Di solito basta un po’ di alcol in più, o una moglie giovane con una certa propensione a spendere. Malauguratamente Jasper Gwyn beveva un bicchiere di whisky al giorno, sempre alla stessa ora, come se dovesse oliare un orologio. Inoltre non credeva nel matrimonio. Così sembrava non esserci nulla da fare. Adesso si era anche aggiunta quella storia dei ritratti.
– È una cosa molto riservata, Tom, mi devi giurare che non ne parlerai con nessuno.
– Puoi contarci, tanto chi vuoi che mi creda.
Quando Tom si era sposato con Lottie, una ragazza ungherese di ventitré anni più giovane, Jasper Gwyn aveva fatto da testimone, e durante la cena a un certo punto era salito in piedi su un tavolo e aveva recitato un sonetto di Shakespeare. Solo che non era di Shakespeare ma suo, un’imitazione perfetta. Gli ultimi due versi dicevano: se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato. Allora Tom lo aveva stretto tra le braccia, non tanto per il sonetto, di cui aveva capito poco, ma perché sapeva cosa doveva essergli costato salire su un tavolo e attirare l’attenzione della gente. L’aveva proprio stretto tra le braccia. Anche per questo, adesso, la storia dei ritratti non riusciva a prenderla bene.
– Prova a spiegarmela, chiese.
– Non so, ho pensato che mi piacerebbe fare dei ritratti.
– Okay, questo l’ho capito.
– Naturalmente non si tratterebbe di quadri. Vorrei scrivere dei ritratti.
– Sì.
– Ma tutto il resto sarebbe come con i quadri... lo studio, il modello, sarebbe tutto uguale.
– Li metti in posa?
– Qualcosa del genere.
– E poi?
– Poi mi immagino che ci vorrà un sacco di tempo. Ma alla fine mi metterò a scrivere, e quello che ne uscirà sarà un ritratto.
– Un ritratto in che senso? Una descrizione?
Jasper Gwyn ci aveva pensato a lungo. In effetti quello era il problema.
– No, una descrizione no, non avrebbe senso.
– I pittori fanno quello. C’è il braccio, e il pittore lo dipinge, finito lì. E tu che faresti? Scriveresti cose tipo “il candido braccio si appoggia mollemente” ecc. ecc.?
– No, appunto, non è neanche pensabile.
– E quindi?
– Non lo so.
– Non lo sai?
– No. Dovrei mettermi nelle condizioni di fare un ritratto e allora potrei scoprire cosa può voler dire, esattamente, scrivere invece di dipingere. Scrivere un ritratto.
– Cioè, adesso come adesso non ne hai la minima idea.
– Qualcosa, delle ipotesi.
– Tipo?
– Non so, immagino che si tratterebbe di riportare a casa quella gente.
– Riportarla a casa?
– Non lo so, non credo di riuscire a spiegartelo.
– Ho bisogno di un drink. Resta in linea, non pensare nemmeno di mettere giù.
Jasper Gwyn rimase con la cornetta in mano. Sentiva che Tom borbottava, sullo sfondo. Allora posò la cornetta e andò lento verso il bagno, mentre in testa gli giravano un sacco di idee, tutte che riguardavano quella storia dei ritratti. Pensò che l’unica cosa da fare era provarci, e d’altronde non sapeva certo dove voleva arrivare quando aveva iniziato il thriller sulle sparizioni in Galles, aveva giusto in mente un certo modo di procedere. Pisciò. E anche allora, se Tom gli avesse fatto spiegare prima di iniziare a scrivere cosa aveva in testa di fare, facilmente non avrebbe saputo cosa dire. Tirò lo sciacquone. Non è più insensato iniziare un romanzo, il primo, che affittare uno studio per fare dei ritratti senza sapere esattamente cosa voglia dire. Tornò al telefono e riprese la cornetta in mano.
– Tom?
– Jasper, posso essere sincero?
– Certo.
– Come libro sarà una palla colossale.
– No, non hai capito, non sarà un libro.
– E cosa, allora?
Jasper Gwyn si era immaginato che la gente avrebbe portato a casa quelle pagine scritte, e se le sarebbe tenute chiuse in un cassetto, o appoggiate su un tavolo basso. Come avrebbe potuto tenere una fotografia, o appendere un quadro alla parete. Questo era un aspetto della faccenda che lo entusiasmava. Niente più cinquantadue cose, giusto un accordo tra lui e quelle persone. Era come fargli un tavolo, o lavargli la macchina. Un mestiere. Avrebbe scritto cos’erano, tutto lì. Sarebbe stato, per loro, un copista.
– Saranno dei ritratti e basta, disse. Chi pagherà per farseli fare se li porterà a casa e la cosa finisce lì.
– Pagherà?
– Certo, la gente paga, no?, per farsi fare un ritratto.
– Jasper, quelli sono quadri, e oltretutto la gente ha smesso da anni di farsi fare ritratti, a parte la regina e un paio di rincoglioniti a cui crescono delle pareti da riempire.
– Sì ma i miei sono scritti, è diverso.
– È peggio!
– Non lo so.
Rimasero per un po’ zitti. Si sentiva Tom che deglutiva il whisky.
– Jasper, forse è meglio che ne riparliamo un’altra volta.
– Sì, probabilmente sì.
– Ci dormiamo un po’ su e poi ne riparliamo.
– D’accordo.
– Devo metabolizzare.
– Sì, capisco.
– Per il resto va tutto bene?
– Sì.
– Hai bisogno di niente?
– No. Cioè, una cosa, forse.
– Dimmi.
– Conosci un broker immobiliare?
– Uno che cerca case?
– Sì.
– John Septimus Hill, è il migliore. Te lo ricordi?
A Jasper Gwyn sembrava di ricordare un uomo molto alto, dai modi impeccabili, vestito con curata eleganza. Era al matrimonio.
– Vai da lui, è perfetto, disse Tom.
– Grazie.
– Cos’è, cambi casa?
– No, pensavo di affittare uno studio, un posto giusto per tentare quel ritratto.
Tom Bruce Shepperd alzò gli occhi al cielo.
Quando John Septimus Hill gli allungò il dossier da compilare, dove si chiedeva al cliente di chiarire le proprie esigenze, Jasper Gwyn provò anche a leggere le domande, ma alla fine alzò lo sguardo dai fogli e chiese se non si poteva fare tutto a voce.
– Sono sicuro che riuscirei a spiegarmi meglio.
John Septimus Hill prese il dossier, lo guardò con scetticismo, poi lo buttò nel cestino.
– Non mi è ancora capitato una volta di incontrare qualcuno che avesse la compiacenza di compilarlo.
Poi spiegò che era stata un’idea di suo figlio, da qualche mese lavorava con lui, aveva ventisette anni: si era messo in mente di modernizzare lo stile dell’azienda.
– Io sono propenso a credere che il vecchio modo di fare le cose andasse benissimo, continuò John Septimus Hill, ma lei può immaginare come nei confronti dei figli si abbia sempre una sorta di demente accondiscendenza. Lei ha dei figli, per caso?
– No, disse Jasper Gwyn. Non credo nel matrimonio e non sono adatto a figliare.
– Ragionevolissima posizione. Vuole iniziare col dirmi che metratura le servirebbe?
Jasper Gwyn si era preparato e diede una riposta precisa.
– Mi servirebbe un’unica stanza grande come mezzo campo da tennis.
John Septimus Hill non fece una piega.
– A che piano?, domandò.
Jasper Gwyn spiegò che se l’era immaginata affacciata su un giardino interno, ma aggiunse che forse anche un ultimo piano poteva andare, l’importante era che risultasse assolutamente silenziosa e tranquilla. Gli sarebbe piaciuto, concluse, avesse un pavimento trascurato.
John Septimus Hill non annotava niente, ma sembrava impilasse in qualche angolo della sua mente tutte le informazioni, quasi fossero state lenzuola stirate.
Parlarono di riscaldamento, bagni, portineria, cucina, rifiniture, serramenti e parcheggio. Su ogni argomento Jasper Gwyn mostrò di avere le idee molto chiare. Fu categorico nel chiarire che la stanza doveva essere vuota, anzi molto vuota. Il solo termine “arredato” lo infastidiva. Cercò di spiegare, riuscendovi, che non gli sarebbe dispiaciuta qualche macchia di umidità, qua e là, e forse delle tubature a vista, preferibilmente in cattivo stato. Si raccomandò che ci fossero persiane e scuri alle finestre, per poter regolare a suo piacimento la luminosità della stanza. Qualche traccia di vecchia carta da parati sui muri non gli sarebbe dispiaciuta. Le porte, se proprio erano necessarie, dovevano essere di legno, possibilmente un po’ gonfiato. Soffitti alti, decretò.
John Septimus Hill impilò tutto per bene, tenendo gli occhi semichiusi come se avesse appena finito un pranzo pesante, poi stette un po’ in silenzio, apparentemente soddisfatto. Alla fine riaprì gli occhi e si schiarì la voce.
– Posso permettermi una domanda che sarebbe lecito definire ragionevolmente privata?
Jasper Gwyn non disse né sì né no. John Septimus Hill lo prese come un incoraggiamento.
– Lei fa un mestiere in cui è indispensabile un grado assurdamente elevato di precisione e perfezionismo, vero?
Jasper Gwyn, senza capire bene perché, pensò ai tuffatori. Poi rispose che sì, in passato, aveva fatto un mestiere del genere.
– Posso chiederle di cosa si trattava? È semplice curiosità, mi creda.
Jasper Gwyn disse che per un po’ aveva scritto libri.
John Septimus Hill soppesò la risposta, come se aspettasse di scoprire se poteva capirla senza mettere troppo disordine nelle proprie convinzioni.
Dieci giorni dopo John Septimus Hill portò Jasper Gwyn in un fabbricato basso, al fondo di un giardino, dietro a Marylebone High Street. Per anni era stato il magazzino di un falegname. Poi, in rapida successione, ne avevano fatto il deposito di una galleria d’arte, la sede di una rivista di viaggi e il garage di un collezionista di moto d’epoca. Jasper Gwyn lo trovò perfetto. Apprezzò molto le indelebili macchie di olio lasciate dalle moto sul pavimento di legno e i lembi dei manifesti di mari caraibici che nessuno si era preso la briga di staccare dai muri. C’era un piccolo bagno sul tetto, ci si arrivava con una scala di ferro. Non c’era traccia di cucina. Le grandi finestre potevano essere oscurate da massicci scuri in legno, appena rifatti e non ancora laccati. Alla grande stanza si accedeva da una porta a due battenti che dava sul giardino. C’erano anche le tubature a vista, e non erano messe niente bene. John Septimus Hill annotò, con tono professionale, che per le macchie di umidità non sarebbe stato difficile trovare una soluzione.
– Benché sia la prima volta, annotò senza ironia, che l’umidità mi viene presentata come un’auspicabile decorazione, invece che una iattura.
Fissarono il prezzo di affitto, e Jasper Gwyn si impegnò per sei mesi, riservandosi di rinnovare il contratto per altri sei. La cifra era considerevole, e questo lo aiutò a capire che se mai era stata un gioco, quella storia del ritratto, adesso non lo era più.
– Bene, le pratiche burocratiche le metterà a punto con mio figlio, disse John Septimus Hill al momento del commiato. Erano per strada, davanti a una stazione della metropolitana. Non la prenda come una osservazione dovuta, aggiunse, ma è stato un vero piacere avere a che fare con lei.
Jasper Gwyn era negato per gli addii, anche nelle loro forme più leggere, tipo il commiato da un broker immobiliare che gli aveva appena trovato un ex garage dove tentare di scrivere ritratti. Ma anche provava una certa simpatia per quell’uomo, sincera, e gli sarebbe piaciuto saperla esprimere. Così, invece di dire qualcosa di genericamente gentile, mormorò una frase che stupì anche lui.
– Ma non ho sempre scritto libri, disse, prima facevo un altro mestiere. L’ho fatto per nove anni.
– Davvero?
– Facevo l’accordatore. Accordavo pianoforti. Lo stesso mestiere di mio padre.
John Septimus Hill accolse la notizia con evidente soddisfazione.
– Ecco, adesso credo di capire meglio. La ringrazio.
Poi disse che c’era una cosa che si era sempre chiesto, a proposito degli accordatori.
– Mi son sempre domandato se sanno suonare il pianoforte. In modo professionale, intendo dire.
– Di rado, rispose Jasper Gwyn. E comunque, proseguì, se la domanda che ha in testa è come mai, dopo aver lavorato per ore, alla fine non si seggono lì a suonare una Polacca di Chopin per gustarsi il risultato della loro dedizione e del loro sapere, la risposta è che, anche se fossero in grado di farlo, non lo farebbero mai.
– No?
– Chi accorda pianoforti, non ama scordarli, spiegò Jasper Gwyn.
Si lasciarono promettendosi di rivedersi.
Giorni dopo Jasper Gwyn si ritrovò seduto per terra in un angolo di un ex garage che adesso era il suo studio di ritrattista. Si rigirava in mano le chiavi, e si studiava le distanze, la luce, i dettagli. C’era un gran silenzio, rotto solo dal gorgoglio episodico delle tubature dell’acqua. Rimase lì per un sacco di tempo, analizzando le prossime mosse da fare. Qualcosa si sarebbe pur dovuto mettere – un letto, forse, delle poltrone. Pensò a come illuminare, e a dove sarebbe stato lui. Cercò di immaginarsi lì, in silenziosa compagnia di uno sconosciuto, abbandonati entrambi in un tempo di cui dovevano imparare tutto. Sentiva già la morsa di un imbarazzo ingovernabile.
– Non ce la farò mai, disse a un certo punto.
– Ma si figuri un po’, disse la signora con il foulard impermeabile. Si beva prima un whisky, se proprio non se la sente.
– Potrebbe non bastare.
– Doppio whisky, allora.
– Lei la fa facile.
– Cos’è, ha paura?
– Sì.
– Bene. Se non c’è paura non si combina niente di buono. E per le macchie di umidità?
– Pare che ci sia solo da aspettare. I tubi del riscaldamento fanno schifo.
– Lei mi tranquillizza.
Il giorno dopo Jasper Gwyn decise di occuparsi della musica. Tutto quel silenzio lo aveva impressionato, ed era giunto alla conclusione che si dovesse foderare quella stanza con una qualche forma di suono. I gorgoglii dei tubi andavano anche bene, ma era indubbio che si potesse fare di meglio.
Di compositori ne aveva conosciuti tanti, negli anni in cui accordava pianoforti, ma quello che gli venne in mente fu David Barber. La cosa aveva una sua logica: Jasper Gwyn ricordava distintamente una sua composizione per clarinetto, ventilatore e tubi idraulici. Non era neanche tanto male. I tubi gorgogliavano un sacco.
Per anni si erano persi di vista, ma quando a Jasper Gwyn era accaduto di raggiungere una certa notorietà David Barber l’aveva cercato per proporgli di scrivere il testo di una sua Cantata. Non se n’era fatto niente (era una cantata per voce registrata, sifone da seltz e orchestra d’archi), ma i due erano rimasti in contatto. David era un tipo simpatico, aveva l’hobby della caccia, e viveva circondato da cani a cui dava solo nomi di pianisti, cosa che consentiva a Jasper Gwyn di affermare, senza mentire, che una volta era stato morso da Radu Lupu. Come compositore si era a lungo divertito frequentando l’ala più festiva delle avanguardie newyorkesi: non si facevano molti soldi, ma il successo con le donne era assicurato. Poi per un lungo periodo era scomparso, seguendo certe sue idee esoteriche sui rapporti tonali e insegnando quel che gli sembrava di averne capito in certi circoli parauniversitari. L’ultima volta che Jasper Gwyn aveva sentito parlare di lui era stato quando, sui giornali, aveva letto di una sua sinfonia eseguita, irritualmente, all’Old Trafford, il celeberrimo stadio di Manchester. Il titolo della composizione, lunga novanta minuti, era Semifinal.
Senza troppo sforzo trovò il suo indirizzo, e si presentò una mattina davanti a casa sua, nel quartiere di Fulham.David Barber aprì la porta e quando lo vide lo abbracciò senza tentennamenti, come se lo stesse aspettando. Poi andarono insieme al parco, a portare Martha Argerich a cagare. Era uno spinone vandeano.
Con David non era il caso di fare troppi giri di parole e quindi Jasper Gwyn disse semplicemente che gli serviva qualcosa per sonorizzare il suo nuovo studio. Disse che non era capace di lavorare nel silenzio.
– Mai pensato a dei bei dischi?, chiese David Barber.
– Quella è musica. Io vorrei dei suoni.
– Suoni o rumori?
– Una volta non pensavi che ci fosse differenza.
Andarono avanti a parlare, camminando nel parco, mentre Martha Argerich inseguiva scoiattoli. Jasper Gwyn disse che quel che si immaginava era un loop lunghissimo e appena percepibile che foderasse giusto il silenzio, ammortizzandolo.
– Lunghissimo quanto?, chiese David Barber.
– Non so. Una cinquantina di ore?
David Barber si fermò. Rise.
– Be’, non è esattamente uno scherzetto. Ti verrà a costare una certa cifra, amico.
Poi disse che voleva vedere il posto. E pensarci un po’, seduto lì. Così decisero di andare insieme allo studio dietro Marylebone High Street, il mattino dopo. Passarono il resto del tempo a ricordare i tempi andati, e a un certo punto David Barber disse che per un po’, anni prima, si era convinto che Jasper andasse a letto con la sua fidanzata di allora. Era una specie di fotografa svedese. No, è lei che andava a letto con me, disse Jasper Gwyn, io non ci capivo niente. Ci risero su.
L’indomani David Barber arrivò su una famigliare tutta scassata che sapeva di cane bagnato da lontano. Posteggiò davanti all’idrante, perché era il suo personale modo di contestare la gestione governativa dei fondi culturali. Entrarono nello studio e si chiusero la porta alle spalle. C’era un gran bel silenzio, a parte i tubi gorgoglianti, naturalmente.
– Bello, disse David Barber.
– Sì.
– Dovresti stare attento a quelle macchie di umidità.
– È tutto sotto controllo.
David Barber andò un po’ in giro per la stanza, e prese le misure di quel silenzio particolare. Ascoltò con attenzione i tubi, e valutò lo scricchiolio del pavimento di legno.
– Forse bisognerebbe anche sapere che tipo di libro stai scrivendo, disse a un certo punto.
Jasper Gwyn ebbe un momento di sconforto. Non si era ancora abituato all’idea che ci avrebbe messo una vita a convincere il mondo che non scriveva più. Era un fenomeno incredibile. Una volta un editor incontrato per strada si era caldamente complimentato con lui per il suo articolo sul “Guardian”. Poi subito dopo gli aveva chiesto: Cosa stai scrivendo adesso? Erano cose che Jasper Gwyn non era in grado di capire.
– Credimi, cosa io stia scrivendo non ha importanza, disse.
E spiegò che quel che gli sarebbe piaciuto era un fondale sonoro in grado di mutare come la luce durante il giorno, e quindi in maniera impercettibile e continua. Soprattutto: elegante. Questo era molto importante. Aggiunse anche che avrebbe voluto qualcosa in cui non c’era ombra di ritmo, ma solo un divenire che sospendesse il tempo, e semplicemente riempisse il vuoto di un trascorrere privo di coordinate. Disse che gli sarebbe piaciuto qualcosa di immobile come un volto che invecchia.
– Dov’è il cesso?, chiese David Barber.
Quando tornò disse che accettava.
– Diecimila sterline più l’impianto di diffusione. Diciamo ventimila sterline.
A Jasper Gwyn piaceva pensare che stava bruciando tutti i suoi risparmi nell’azzardo di un mestiere che non sapeva neanche se esistesse. Voleva in qualche modo mettersi spalle al muro perché sapeva che solo in quel modo avrebbe avuto una chance di trovare, in se stesso, quello che cercava. Dunque accettò.
Un mese dopo David Barber venne a installare il sistema di diffusione e poi lasciò a Jasper Gwyn un hard disk.
– Goditelo. Sono sessantadue ore, mi è venuto un po’ lungo. Non trovavo il finale.
Quella notte Jasper Gwyn si sdraiò per terra, nel suo studio di copista, e fece partire il loop. Iniziava con quello che sembrava un rumore di foglie e andava avanti, muovendosi impercettibilmente, e trovando come per caso suoni di ogni tipo. A Jasper Gwyn vennero le lacrime agli occhi.
Nel mese in cui aveva aspettato la musica di David Barber, o quel che era, Jasper Gwyn si era dato da fare per mettere a punto tutti gli altri particolari. Aveva incominciato dal mobilio. Nel deposito di un rigattiere di Regent Street aveva trovato tre sedie e un letto di ferro, piuttosto malconcio, ma con una sua eleganza. Ci aveva aggiunto due poltrone sfondate di cuoio che avevano il colore delle palline da cricket. Affittò due tappeti enormi e costosissimi e comprò a prezzo irragionevole un appendiabiti da muro che veniva da una brasserie francese. A un certo punto fu tentato da un cavallo proveniente da una giostra del Settecento e lì capì che gli stava scappando la mano.
Una cosa che non riuscì subito a mettere a fuoco era come lui avrebbe scritto, se in piedi o seduto a una scrivania, con un computer, a mano, su grandi fogli, o su piccoli taccuini. C’era anche da capire se effettivamente avrebbe scritto, o si sarebbe limitato ad osservare e a pensare, raccogliendo poi in un secondo tempo, magari a casa, quello che gli fosse venuto in mente. Per i pittori era semplice, avevano la tela a cui stare davanti, quello non era strano. Ma uno che avesse voluto, invece, scrivere? Poteva mica starsene a un tavolo, davanti a un computer. Alla fine capì che qualunque cosa sarebbe stata ridicola tranne iniziare a lavorare e scoprire sul posto, al momento buono, cosa aveva un senso fare e cosa no. Dunque nessuna scrivania, niente portatile, neanche una matita, il primo giorno, decise. Si concesse solo una scarpiera, modesta, da appoggiare in un angolo: si immaginò che gli sarebbe piaciuto, ogni volta, poter mettere le scarpe che quel giorno gli sarebbero sembrate più adatte.
Occuparsi di tutte queste cose l’aveva fatto sentire immediatamente meglio e per un po’ non aveva più dovuto badare alle crisi che l’avevano afflitto per mesi. Quando sentiva arrivare una certa evanescenza che aveva imparato a riconoscere, evitava di spaventarsi e si concentrava sulle sue mille occupazioni, svolgendole con uno scrupolo ancora più maniacale. Nella cura dei dettagli trovava immediato sollievo. Questo lo portava, alle volte, a raggiungere vette di perfezionismo quasi letterarie. Gli accadde, ad esempio, di trovarsi davanti a un artigiano che faceva lampadine. Non lampade: lampadine. Le faceva a mano. Era un vecchietto con un lugubre laboratorio dalle parti di Camden Town. Jasper Gwyn l’aveva a lungo cercato, senza neppure sapere se esistesse, e alla fine l’aveva trovato. Quello che aveva in mente di chiedergli non era soltanto una luce molto particolare – infantile, avrebbe spiegato – ma soprattutto una luce che durasse un certo tempo determinato. Voleva lampadine che morissero dopo trentadue giorni di funzionamento.
– Di colpo, o agonizzando un po’?, chiese il vecchietto, come se conoscesse a fondo il problema.
Quello delle lampadine potrà sembrare un punto di dubbia rilevanza, ma per Jasper Gwyn era invece diventato una questione cruciale. C’entrava con il tempo. Benché non avesse ancora la minima idea di che gesto potesse mai essere scrivere un ritratto, si era fatto una certa idea della sua possibile durata – come di un uomo che cammina nella notte è possibile decifrare la distanza e non l’identità. Aveva escluso da subito una cosa veloce, ma anche gli riusciva difficile pensare a un gesto abbandonato a una fine casuale e magari lontanissima. Così aveva incominciato a misurare – sdraiato per terra, nello studio, in assoluta solitudine – il peso delle ore, e la consistenza dei giorni. Aveva in mente una peregrinazione, simile a quella che aveva visto in quei quadri, quel giorno, e si era ripromesso di intuire la velocità del passo che l’avrebbe assolta e la lunghezza del cammino che l’avrebbe portata a destinazione. C’era da individuare la velocità a cui si sarebbero dissolti gli imbarazzi e la lentezza con cui sarebbe risalita in superficie una qualche verità. Si rese conto che, analogamente a quanto succede nella vita, solo una certa puntualità poteva rendere compiuto quel gesto – come felici alcuni istanti dei viventi.
Alla fine si era convinto che trentadue giorni potessero rappresentare una prima, credibile approssimazione. Stabilì che avrebbe tentato con una sessione di lavoro al giorno, per trentadue giorni, quattro ore al giorno. E lì arrivava il momento delle lampadine.
Il fatto è che non riusciva a immaginarsi qualcosa che finiva bruscamente, allo scadere dell’ultima seduta, in modo burocratico e impersonale. Era evidente che la fine di quel lavoro avrebbe dovuto avere un suo andamento elegante, perfino poetico, e possibilmente imprevedibile. Allora gli venne in mente la soluzione che aveva studiato per la luce – diciotto lampadine appese al soffitto, a distanze regolari, in bella geometria – e finì per immaginare che intorno al trentaduesimo giorno quelle lampadine iniziassero a spegnersi a una a una, a caso, ma tutte in un lasso di tempo non inferiore a due giorni e non superiore a una settimana. Vide lo studio scivolare in un buio a chiazze, secondo uno schema aleatorio, e arrivò a fantasticare su come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. Si vide distintamente alla luce fioca di un’ultima lampadina, dare tardivi ritocchi al ritratto. E poi accettare il buio, al morire dell’ultimo filamento.
È perfetto, pensò.
Per questo si ritrovò davanti al vecchietto, a Camden Town.
– No, dovrebbero morire e basta, senza agonizzare e senza fare rumore, possibilmente.
Il vecchietto fece uno di quei gesti indecifrabili che fanno gli artigiani per vendicarsi del mondo. Poi spiegò che le lampadine non erano creature facili, risentivano di un sacco di variabili, e avevano spesso una loro forma di imprevedibile follia.
– Di solito, aggiunse, il cliente a questo punto dice: Come le donne. Me la risparmi, per favore.
– Come i bambini, disse Jasper Gwyn.
Il vecchietto assentì col capo. Come tutti gli artigiani parlava solo lavorando, e nel suo caso questo significava tenere tra le dita delle piccole lampadine, quasi fossero state delle uova, e immergerle in una soluzione opaca, dal vago aspetto di distillato. Lo scopo dell’operazione era palesemente imperscrutabile. Le asciugava poi con un phon vecchio come lui.
Persero molto tempo a divagare sulla natura delle lampadine, e Jasper Gwyn finì per scoprire un universo di cui non aveva mai sospettato l’esistenza. Gli piacque particolarmente venire a sapere che le forme delle lampadine sono infinite, ma sedici sono quelle principali, e per ognuna c’è un nome. Per un’elegante convenzione, sono tutti nomi di regine o principesse. Jasper Gwyn scelse le Caterina de’ Medici, perché sembravano lacrime sfuggite a un lampadario.
– Trentadue giorni?, chiese il vecchietto quando decise che quell’uomo si meritava il suo lavoro.
– Quella sarebbe l’idea.
– Bisognerebbe sapere quante volte le spegne e le accende.
– Una volta, rispose impeccabile Jasper Gwyn.
– Come lo sa?
– Lo so.
Il vecchio si fermò e alzò lo sguardo verso Jasper Gwyn. Lo fissò, per così dire, nel filamento degli occhi. Cercò qualcosa che non trovò. Una crepa. Allora riabbassò lo sguardo sul suo lavoro e fece ripartire le mani.
– Bisognerà avere molta cura a trasportarle e a montarle, disse. Lei sa tenere in mano una lampadina?
– Non me lo sono mai chiesto, rispose Jasper Gwyn.
Il vecchietto gliene porse una. Era una Elisaveta Romanov. Jasper Gwyn la strinse con cautela nel palmo della mano. Il vecchietto fece una smorfia.
– Usi le dita. Così l’ammazza.
Jasper Gwyn ubbidì.
– Innesto a baionetta, sentenziò il vecchietto scuotendo la testa, se le do quelle a vite capace che me le fa fuori prima ancora di accenderle. E si riprese la sua Elisaveta Romanov.
Rimasero d’accordo che nove giorni dopo il vecchietto avrebbe consegnato a Jasper Gwyn diciotto Caterina de’ Medici destinate a spegnersi in un arco di tempo che sarebbe variato tra le settecentosessanta e le ottocentotrenta ore. Si sarebbero spente senza agonizzare in inutili lampi, e silenziosamente. Lo avrebbero fatto a una a una, secondo un ordine che nessuno avrebbe potuto prevedere.
– Ci siamo dimenticati di parlare del tipo di luce, disse Jasper Gwyn quando già stava per uscirsene.
– Come la vuole?
– Infantile.
– D’accordo.
Si salutarono stringendosi la mano, e Jasper Gwyn si accorse di farlo con cautela, come tanti anni prima era solito fare con i pianisti.
Bello, disse la signora con il foulard impermeabile. Mise ad asciugare l’ombrello su un radiatore e se ne andò un po’ intorno a guardare da vicino i particolari. La scarpiera, i tappeti dai colori caldi, le macchie di umidità sui muri e quelle di olio sul pavimento. Andò a controllare che il letto non fosse troppo molle, e provò le poltrone. Bello, disse.
In piedi, in un angolo del suo nuovo studio, il cappotto ancora addosso, Jasper Gwyn guardava quello che aveva messo su in un mese e mezzo, dal nulla e inseguendo un’idea insensata. Non trovò errori, e pensò che ogni cosa era stata fatta con attenzione e misura. Allo stesso modo un copista avrebbe potuto disporre carta e penna sul tavolo, infilarsi le mezze maniche di tela, scegliere l’inchiostro, sicuro di riconoscere la più appropriata sfumatura di blu. Pensò che non si era sbagliato: era un mestiere magnifico. Per un attimo lo sfiorò l’idea di una targa in ferro arrugginito, alla porta. Jasper Gwyn. Copista.
– È sorprendente quanto tutto ciò sia inutile in assenza di un qualsiasi modello, osservò la signora con il foulard impermeabile. O sono io che non l’ho visto?, aggiunse guardandosi intorno con l’aria di uno che cercava il reparto salse in un supermercato.
– No, niente modello, per ora, disse Jasper Gwyn.
– Immagino che non ci sia proprio la coda fuori dalla porta.
– Non ancora.
– Ha in mente come risolverla, o prevede di rimandare la cosa finché le scade il contratto d’affitto?
Ogni tanto alla vecchia signora tornavano su i toni da maestra di scuola. Quel modo burbero di avere a cuore le cose.
– No, un piano ce l’ho, rispose Jasper Gwyn.
– Sentiamolo.
Jasper Gwyn ci aveva pensato a lungo. Era evidente che avrebbe dovuto ingaggiare qualcuno, la prima volta, per mettersi alla prova. Bisognava però scegliere bene, perché un modello troppo difficile avrebbe potuto scoraggiarlo inutilmente, e uno troppo facile non lo avrebbe spinto a trovare quello che cercava. Non era neanche semplice intuire quale potesse essere il grado di estraneità giusto per quel primo esperimento. Un amico, per dire, gli avrebbe facilitato molto il compito, ma avrebbe falsato l’esperimento, perché troppe cose già avrebbe saputo di lui, e non sarebbe stato possibile guardarlo come un paesaggio mai visto. D’altra parte scegliere un perfetto estraneo, come la logica avrebbe suggerito, implicava tutta una serie di imbarazzi che Jasper Gwyn si sarebbe volentieri risparmiato, almeno quella prima volta. A parte la difficoltà di spiegare la cosa, di intendersi sul tipo di lavoro da fare insieme, c’era poi quella questione della nudità – spinosa. Istintivamente, era sembrato a Jasper Gwyn che la nudità del modello fosse una condizione imprescindibile. La immaginava come una specie di frustata necessaria. Avrebbe spostato tutto al di là di un certo confine, e senza quella scomoda dislocazione sentiva che non si sarebbe aperto nessun campo aperto, nessuna prospettiva infinita. Dunque bisognava rassegnarsi. Il modello doveva essere nudo. Ma Jasper Gwyn era un tipo riservato, e apprezzava la timidezza. Non aveva dimestichezza con i corpi e nella sua vita aveva lavorato solo con suoni e pensieri. La meccanica di un pianoforte era ciò che di più fisico avesse avuto modo di dominare. Se pensava a un modello nudo, davanti a lui, quel che provava era solo un imbarazzo profondo e uno smarrimento inevitabile. Per questo la scelta del primo modello era delicata, e incauta l’ipotesi di scegliere un perfetto estraneo.
Alla fine, tanto per semplificare un po’ le cose, Jasper Gwyn aveva deciso di escludere l’ipotesi di un maschio. Non ce la poteva fare. Non era questione di omofobia, ma di semplice desuetudine. Non era il caso di complicarsi troppo la vita, in quel primo esperimento: imparare a guardare un corpo maschile era una cosa che, per il momento, preferiva rinviare. Una donna sarebbe stata senz’altro meglio, non si sarebbe trovato a partire proprio da zero. La scelta di una donna, però, aveva delle implicazioni di cui Jasper Gwyn si rendeva perfettamente conto. Lì si aggiungeva la variabile del desiderio. Gli sarebbe piaciuto iniziare con un corpo che fosse bello scoprire, guardare, spiare. Ma era chiaro che fare un ritratto era un gesto da tenere al riparo dal desiderio puro e semplice, o, tutt’al più, doveva prendere avvio da quel desiderio e poi lasciarlo, in qualche modo, decadere. Doveva essere una questione di intimità distanti, fare un ritratto. Dunque troppa bellezza sarebbe stata fuori luogo. Troppa poca, d’altra parte, sarebbe stata un’inutile afflizione. Quel che cercava Jasper Gwyn era una donna che sarebbe stato bello guardare, ma non così tanto da finire per desiderarla.
– Facciamola breve, l’ha trovata?, chiese la signora con il foulard impermeabile, mentre scartava una caramella agli agrumi.
– Sì, credo di sì.
– E allora?
– Devo trovare il modo di chiederglielo. Non è così facile.
– È un lavoro, Mr Gwyn, mica le sta chiedendo di andare a letto.
– Lo so, ma è un lavoro strano.
– Se glielo spiega, capirà. E se non capisce, un lauto compenso la aiuterà a chiarirsi le idee. Perché è previsto un lauto compenso, vero?
– Non lo so con esattezza.
– Cos’è, fa lo spilorcio?
– No, non è quello, si figuri, è che non vorrei offendere. Alla fine sono soldi in cambio di un corpo nudo.
– Certo, se la mette giù così...
– È così.
– Non è vero. Solo un puritano complessato come lei può immaginare di descrivere la cosa in quei termini.
– Ne conosce di migliori?
– Certo.
– Sentiamo.
– “Signorina, in cambio di cinquemila sterline si lascerebbe guardare per una trentina di giorni, giusto il tempo di trascrivere il suo segreto?” Non è una frase difficile da dire. Si alleni un po’ davanti allo specchio, aiuta.
– Cinquemila sono tantine.
– Cosa fa, ricomincia?
Jasper Gwyn la guardò, sorridendo, e le volle molto bene. Per un attimo pensò che con lei sarebbe stato semplice, sarebbe stato un modo perfetto di iniziare, con quella donna.
– Lasci perdere, son troppo vecchia. Non deve cominciare con qualcuno di vecchio, troppo difficile.
– Lei non è vecchia. Lei è morta.
La signora alzò le spalle.
– Morire è solo un modo particolarmente esatto di invecchiare.
Tornato a casa, Jasper Gwyn si allenò un po’ davanti allo specchio. Poi telefonò a Tom Bruce Shepperd. Erano le due di notte.
– Cazzo, Jasper, sono le due! Sono a letto!
– Dormivi?
– Dormire non è l’unica cosa che si può fare in un letto.
– Ah.
– Lottie ti saluta.
In sottofondo si udì la voce di Lottie che senza rancore diceva Ciao Jasper. Era di buon carattere.
– Mi spiace, Tom.
– Lascia perdere. Cos’è, ti sei di nuovo perso? Devo mandare Rebecca a cercarti?
– No, no, non mi perdo più. Però, in effetti... a dire il vero era proprio di lei che ti volevo parlare.
– Di Rebecca?
Quel che aveva pensato Jasper Gwyn era che quella ragazza era perfetta. Aveva in mente come la bellezza irrimediabile del suo viso suggerisse un desiderio che poi il suo corpo smentiva, con fare placido e lento, perfetto. Era veleno e antidoto – lo era in modo dolce ed enigmatico. Jasper Gwyn non l’aveva incontrata una sola volta senza sentire l’infantile desiderio di toccarla, appena: ma come avrebbe potuto desiderare di posare le dita su un insetto lucente, o su un vetro coperto di vapore. Inoltre la conosceva, ma non la conosceva, sembrava essere alla giusta distanza, in quella zona intermedia dove qualsiasi intimità ulteriore sarebbe stata una conquista lenta ma non impossibile. Sapeva che avrebbe potuto guardarla a lungo, senza soggezione, senza desiderio, e senza annoiarsi mai.
– Rebecca, sì, la stagista.
Tom scoppiò in una risata.
– Ehi, Jasper, abbiamo un debole per le grassottelle?
Poi si girò verso Lottie.
– Senti questa, a Jasper piace Rebecca.
In sottofondo si sentì la voce assonnata di Lottie che diceva Rebecca chi?
– Jasper, fratellone, tu non la finisci mai di sorprendermi.
– Potresti smetterla un attimo con queste battute da caserma e starmi ad ascoltare?
– D’accordo.
– È una cosa seria.
– Ti sei innamorato?
– È una cosa seria nel senso che è una cosa di lavoro.
Tom si infilò gli occhiali. Nella circostanza era il suo modo di aprire l’ufficio.
– Ti ha convinto a fare le scene dei libri che non scriverai mai? L’ho detto che era in gamba, quella.
– No, Tom, non è per quella storia. Avrei bisogno di lei per un mio lavoro. Ma non quello.
– Prenditela pure. Purché tu torni a scrivere, a me va bene.
– Non è così semplice.
– Perché?
– Voglio fare a lei il mio primo ritratto. Sai quella faccenda dei ritratti?
Tom se la ricordava bene.
– Non vado matto per quell’idea, lo sai Jasper.
– Lo so, ma adesso il problema è un altro. Avrei bisogno che Rebecca venisse nel mio studio a posare per una trentina di giorni. La pagherò. Ma mi dirà che non vuole perdere il lavoro con te.
– A posare?
– Voglio provarci.
– Tu sei matto.
– Può darsi. Ma adesso avrei bisogno di quel favore. Lasciala lavorare per me un mesetto, e poi te la riprendi.
Andarono un po’ avanti a parlarne e fu una bella telefonata, perché finirono per discutere del mestiere dello scrivere, e delle cose che entrambi amavano. Jasper Gwyn spiegò che quella situazione del ritratto lo attirava perché forzava a piegare il talento a una posizione scomoda. Si rendeva conto che le premesse erano assurde, ma proprio questo lo attirava, nel sospetto che se alla scrittura sottraevi la naturale possibilità del romanzo, qualcosa essa avrebbe fatto, per sopravvivere, una mossa, qualcosa. Disse anche che quel qualcosa sarebbe stato ciò che la gente avrebbe poi comprato e si sarebbe portata a casa. Aggiunse che sarebbe stato il frutto imprevedibile di un rito domestico e privato, non destinato a risalire alla superficie del mondo, e quindi sottratto alle miserie da cui si era afflitti nel mestiere di scrittore. Infatti, concluse, stiamo parlando di un mestiere diverso. Un nome possibile era: fare il copista.
Tom stette ad ascoltare. Cercava di capire.
– Non vedo come potrai aggirare il candido braccio mollemente appoggiato sul fianco o lo sguardo luminoso come un’alba orientale, disse a un certo punto. E per quel genere di cose, difficile immaginare di fare meglio di un Dickens o di un Hardy.
– Be’, certo, se mi fermo lì, la disfatta è assicurata.
– Sei sicuro che ci sia qualcosa oltre?
– Sicuro, no. Devo provare, te l’ho detto.
– Allora mettiamola così: io ti passo la mia stagista e non ti rompo i coglioni, ma tu mi prometti che se alla fine dell’esperimento non hai trovato davvero qualcosa torni a scrivere. Libri, dico.
– Cos’è, un ricatto?
– Un patto. Se non ce la fai, si fa come dico io. Si riparte con le scene dei libri che non scriverai mai, o con quel che vuoi tu. Ma si restituisce lo studio a John Septimus Hill e si firma un bel contratto nuovo.
– Potrei trovarmi qualcun altro che venga a posare.
– Ma vuoi Rebecca.
– Sì.
– Allora?
Jasper Gwyn pensò che tutto sommato il giochetto non gli dispiaceva. L’idea che fallire lo avrebbe riportato indietro all’orrore delle cinquantadue cose che non voleva mai più fare, gli sembrò tutt’a un tratto elettrizzante. Finì per accettare. Erano quasi le tre di notte, e lui accettò. Tom pensò che stava per recuperare uno dei pochi scrittori da lui rappresentati che potesse considerare veramente un amico.
– Domani ti mando Rebecca. In lavanderia, come al solito?
– Magari sarebbe meglio un posto un po’ più appartato.
– Al bar dello Stafford Hotel, allora. Alle cinque?
– Va bene.
– Non farle il bidone.
– No.
– Te l’ho già detto che ti voglio bene?
– Non stanotte.
– Strano.
Passarono ancora una decina di minuti a sparare boiate. Due sedicenni.
Il giorno dopo, alle cinque, Jasper Gwyn si presentò allo Stafford Hotel, ma solo per cortesia, perché nel frattempo aveva deciso di lasciar perdere, essendo arrivato alla conclusione che l’idea di parlare con quella ragazza era completamente al di fuori della sua portata. Tuttavia, quando Rebecca arrivò, scelse un tavolino tranquillo, addossato a una finestra che dava sulla strada, e non gli riuscirono difficili le prime battute sul tempo e sul traffico che a quell’ora rendeva tutto impossibile. Convinto di ordinare un whisky, ordinò invece un succo di mela con ghiaccio e si ricordò di certi pasticcini che lì facevano benissimo. Per me un caffè, disse Rebecca. Come tutte le persone veramente grasse, non toccò nemmeno i pasticcini. Era radiosa, nella sua bellezza senza scopo.
Prima dissero cose che non c’entravano, giusto per prendere un po’ le misure, come si fa. Rebecca disse che gli alberghi eleganti la intimorivano un po’, ma Jasper Gwyn le fece notare come ci siano poche cose al mondo belle come le lobby degli alberghi.
– Quella gente che va e che viene, disse. E tutti quei segreti.
Poi si lasciò andare a una confessione, cosa che non gli era abituale, e disse che in un’altra vita a lui sarebbe piaciuto essere una lobby d’albergo.
– Lavorare in una lobby, vuol dire?
– No, no, essere una lobby, fisicamente. Anche di un tre stelle, quello non mi importa.
Allora Rebecca rise, e quando Jasper Gwyn le chiese cosa pensava di voler diventare nella prossima vita, lei disse Una rockstar anoressica, e sembrava avere la risposta pronta da sempre.
Così dopo un po’ fu tutto più semplice, e Jasper Gwyn pensò che poteva davvero provarci, a dire quel che aveva in mente. La prese un po’ larga, ma quello era d’altronde il suo modo di fare le cose.
– Posso chiederle se si fida di me, Rebecca? Voglio dire, è convinta di essere seduta davanti a una persona educata, che non la metterebbe mai in situazioni, diciamo così, sgradevoli?
– Sì, certo.
– Perché dovrei chiederle una cosa piuttosto strana.
– Dica.
Jasper Gwyn scelse un pasticcino, stava cercando le parole giuste.
– Vede, ho deciso recentemente di provare a fare dei ritratti.
La ragazza piegò la testa di un nulla.
– Naturalmente non so dipingere, e in effetti quello che ho in mente è di scrivere dei ritratti. Non so neanch’io bene cosa questo significhi, ma ho intenzione di provarci, e l’idea che mi è venuta è che mi piacerebbe iniziare facendo un ritratto a lei.
La ragazza rimase impassibile.
– Così quello che vorrei chiederle, Rebecca, è se sarebbe disposta a posare per me, nel mio studio, posare per un ritratto. Per farsi un’idea può pensare a quello che succederebbe con un pittore, o con un fotografo, non sarebbe molto differente, la situazione è quella, se riesce a immaginarla.
Fece una piccola pausa.
– Vuole che continui, o preferisce che ci fermiamo qua?
La ragazza si piegò leggermente verso il tavolino e prese tra le dita la tazzina del caffè. Ma poi non la portò subito alle labbra.
– Continui, disse.
Allora Jasper Gwyn le spiegò.
– Ho preso uno studio, dietro a Marylebone High Street, un enorme stanzone, tranquillo. Ci ho messo un letto, due poltrone, poco altro. Legno per terra, muri vecchi, un bel posto. Quel che vorrei è che lei venisse lì, quattro ore al giorno per una trentina di giorni, dalle quattro del pomeriggio alle otto di sera. Senza mai saltare un giorno, neanche la domenica. Vorrei che arrivasse puntuale e che, qualsiasi cosa accada, rimanesse lì per quattro ore a posare, che per me significa, semplicemente, a farsi guardare. Non dovrà rimanere in una posizione scelta da me, ma solo stare in quella stanza, dove più le piace, camminando o stando sdraiata, sedendosi dove le pare. Non dovrà rispondere a delle domande o parlare, e nemmeno le chiederò mai di fare qualcosa di particolare. Vado avanti?
– Sì.
– Vorrei che lei posasse nuda, perché penso che sia una condizione inevitabile alla riuscita del ritratto.
Questa se l’era preparata davanti allo specchio. Le parole gliele aveva limate la signora con il foulard impermeabile.
La ragazza aveva ancora la tazzina in mano. Ogni tanto la portava alle labbra, ma senza decidersi mai a bere.
Jasper Gwyn prese dalla tasca una chiave e la posò sul tavolino.
– Quel che vorrei è che lei prendesse questa chiave e la usasse per entrare nello studio, ogni giorno alle quattro del pomeriggio. Non importa cosa faccio io, lei mi deve dimenticare. Faccia conto di essere da sola, là dentro, per tutto il tempo. Le chiedo solo di andarsene, alle otto precise di ogni sera, e di chiudersi la porta alle spalle. Quando avremo finito, mi restituirà la chiave. Beva il suo caffè, o si fredderà.
La ragazza guardò la tazzina che aveva tra le dita come se la vedesse per la prima volta. La appoggiò sul piattino, senza bere.
– Vada avanti, disse. Le si era irrigidito qualcosa, da qualche parte.
– Ne ho parlato con Tom. È d’accordo a darle un permesso per quei trenta, trentacinque giorni, al termine dei quali la riprenderà a lavorare in Agenzia. So che sarebbe comunque un grosso impegno, per lei, e dunque le propongo la cifra di cinquemila sterline per compensarla dei disagi che avrà e della disponibilità che sarà così gentile da offrirmi. Un’ultima cosa, importante. Nel caso accettasse, non dovrebbe parlarne con nessuno, è un lavoro che intendo svolgere nel modo più appartato possibile, e non ho alcun interesse che i giornali o chiunque altro venga a saperne qualcosa. Io, lei e Tom saremmo gli unici a sapere, e per me è oltremodo importante che la cosa rimanga tra noi. Ecco, credo di averle detto tutto. Me li ricordavo più buoni, questi pasticcini.
La ragazza sorrise e si voltò verso la finestra. Rimase un po’ a guardare le persone passare, ogni tanto ne seguiva una con lo sguardo. Poi tornò a fissare Jasper Gwyn.
– Nel caso, potrò portarmi dei libri?, chiese.
Jasper Gwyn fu sorpreso dalla propria risposta.
– No.
– Musica?
– Nemmeno. Io credo che dovrebbe semplicemente stare con se stessa, e basta. Per un tempo largamente irragionevole.
La ragazza assentì, le sembrava di capire.
– Immagino, disse, che su quella faccenda del nudo sia inutile discutere.
– Mi creda, sarà più imbarazzante per me che per lei.
La ragazza rise.
– No, non è quello...
Abbassò la testa. Sistemò certe pieghe della gonna.
– L’ultima volta che qualcuno mi ha chiesto di guardarmi non è andata benissimo.
Fece un gesto con la mano, come se scacciasse qualcosa.
– Ma io ho letto i suoi libri, disse, di lei mi fido.
Jasper Gwyn le sorrise.
– Vuole pensarci qualche giorno?
– No.
Si piegò in avanti e prese la chiave che Jasper Gwyn aveva appoggiato sul tavolino.
– Proviamo, disse.
Poi stettero un bel po’ in silenzio, ognuno con i suoi pensieri, sembravano una coppia di quelle che si amano da tantissimo tempo e non hanno più bisogno di parlare.
Quella sera Jasper Gwyn fece una cosa ridicola, si mise nudo davanti allo specchio e stette lì a guardarsi a lungo. Lo fece perché era convinto che Rebecca stesse facendo la stessa cosa, a casa sua, in quello stesso momento.
Il giorno dopo andarono insieme a visitare lo studio. Jasper Gwyn le spiegò della chiave e di tutto. Le spiegò che avrebbero lavorato oscurando le finestre con i battenti di legno e accendendo le luci. Si raccomandò molto che, uscendo, non le spegnesse. Le disse che aveva promesso a un vecchietto di non farlo mai. Lei non chiese nulla, ma fece notare che non c’erano luci. Stanno per arrivare, disse Jasper Gwyn. A un certo punto lei andò a sdraiarsi sul letto, e rimase un po’ lì, a fissare il soffitto. Jasper Gwyn si mise a sistemare qualcosa sopra, dove c’era il bagno: non voleva trovarsi con lei, in silenzio, in quello studio, prima che fosse il momento giusto di farlo. Scese solo quando sentì i passi di lei sul legno della stanza.
Prima di uscire, Rebecca diede un’ultima occhiata intorno.
– Lei dove starà?, chiese.
– Mi dimentichi. Io non esisto.
Rebecca sorrise, e fece una bella smorfia, per dire che sì, aveva capito, e prima o poi si sarebbe abituata.
Si misero d’accordo che potevano iniziare il lunedì seguente.
Fatti i conti, erano passati due anni, tre mesi e dodici giorni da quando Jasper Gwyn aveva comunicato al mondo che smetteva di scrivere. Qualsiasi conseguenza la cosa avesse avuto sulla sua figura pubblica, lui non la conosceva. La posta arrivava per vecchia consuetudine a Tom, e da un po’ Jasper Gwyn gli aveva chiesto di non stare neppure a passargliela, tanto aveva smesso di aprirla. Giornali ne leggeva raramente, in rete non andava mai. Di fatto, da quando aveva pubblicato la lista delle cinquantadue cose che non avrebbe fatto mai più, Jasper Gwyn aveva finito per scivolare in un isolamento che altri avrebbero interpretato come un declino, ma che lui tendeva a vivere come un sollievo. Si era convinto che dopo dodici anni di esposizione pubblica innaturale, resa inevitabile dal suo mestiere di scrittore, gli spettasse una qualche forma di convalescenza. Immaginava, probabilmente, che quando avrebbe ricominciato a lavorare, nella sua nuova mansione di copista, tutti i pezzi della sua vita si sarebbero risvegliati e si sarebbero ricomposti in un quadro nuovamente presentabile. Così, quando Jasper Gwyn uscì di casa, quel lunedì, fu con la certezza che non stava entrando semplicemente nel primo giorno del suo nuovo lavoro, ma in una nuova stagione della sua esistenza. Questo spiega perché uscendo si diresse risolutamente verso il suo barbiere di fiducia, con la precisa intenzione di raparsi a zero.
Fu fortunato. Era chiuso per lavori di ristrutturazione.
Allora perse un po’ di tempo e per le dieci si presentò nel laboratorio del vecchietto di Camden Town, quello delle lampadine. Si erano messi d’accordo per telefono. Il vecchio prese in un angolo un vecchio scatolone di pasta italiana che aveva sigillato con un largo scotch verde e disse che era pronto. In taxi non volle mollarlo nel bagagliaio e per tutto il viaggio lo tenne sulle gambe. Dato che era una scatola piuttosto grande ma dal contenuto evidentemente leggero, c’era qualcosa di irreale nella agilità con cui scese dal taxi e salì i pochi gradini che portavano allo studio di Jasper Gwyn.
Quando entrò rimase per un attimo fermo, in piedi, senza mollare lo scatolone.
– Io qui ci sono già stato.
– Le piacciono le moto d’epoca?
– Non so neanche cosa siano.
Aprirono con cautela lo scatolone e tirarono fuori le diciotto Caterina de’ Medici. Erano confezionate una ad una in una morbidissima carta velina. Jasper Gwyn portò la scala che aveva comprato da un indiano dietro l’angolo e poi si tolse di mezzo. Il vecchio ci mise un tempo irragionevole, a furia di spostare la scala, e salire, e scendere, ma alla fine ottenne l’effetto sperato di diciotto Caterina de’ Medici installate in diciotto portalampada pendenti dal soffitto in geometrica disposizione. Anche spente facevano la loro bella figura.
– Accende lei?, chiese Jasper Gwyn, dopo aver accostato gli scuri alle finestre.
– Sì, è meglio, rispose il vecchio, come se un’inesatta pressione sull’interruttore avesse la possibilità di compromettere tutto. Probabilmente, nella sua mente malata di artigiano, l’aveva.
Si avvicinò al pannello elettrico, e con lo sguardo fisso alle sue lampadine premette l’interruttore.
Rimasero un po’ in silenzio.
– Le ho detto che le volevo rosse?, chiese smarrito Jasper Gwyn.
– Zitto.
Per una qualche ragione che Jasper Gwyn non era in grado di capire, le lampadine, che si erano accese di un colore rosso brillante trasformando lo studio in un bordello, lentamente scolorarono fino ad attestarsi su una nuance tra l’ambra e l’azzurro che non si sarebbe potuto definire in altri termini che infantile.
Il vecchio borbottò qualcosa, soddisfatto.
– Incredibile, disse Jasper Gwyn. Era sinceramente commosso.
Prima di uscire, accese l’impianto che gli aveva preparato David Barber e nello stanzone incominciò a defluire una corrente di suoni che apparentemente trascinava, con prodigiosa lentezza, mucchi di foglie secche e nebbiose armonie di strumenti a fiato da bambini. Jasper Gwyn diede un’ultima occhiata intorno. Era tutto pronto.
– Non per farmi i fatti suoi, ma cosa ci fa qui dentro?, chiese il vecchio.
– Lavoro. Faccio il copista.
Il vecchio assentì col capo. Stava registrando come nella stanza non ci fosse alcuna scrivania e, invece, comparissero un letto e due poltrone. Ma sapeva che qualsiasi artigiano ha il suo stile particolare.
– Lo conoscevo, una volta, uno che faceva il copista, disse soltanto.
Non approfondirono.
Mangiarono insieme, in un pub dall’altra parte della strada. Quando si salutarono, con dignitoso calore, erano le tre meno un quarto. Mancava poco più di un’ora all’arrivo di Rebecca, e Jasper Gwyn si accinse a fare quello che, nel dettaglio, aveva già da giorni programmato di fare.
Andò verso la metropolitana, prese la linea Bakerloo, scese a Charing Cross, e per un paio d’ore visitò alcune librerie dell’usato cercando, senza trovarlo, un manuale sull’uso degli inchiostri. Accidentalmente comprò una biografia di Rebecca West e rubò, nascondendosela in tasca, un’antologia di haiku del diciottesimo secolo. Verso le cinque entrò in un caffè perché aveva bisogno del bagno. Al tavolo, bevendo un whisky, sfogliò l’antologia di haiku chiedendosi per l’ennesima volta che testa bisognava avere per inseguire un tipo di bellezza come quello. Quando si accorse che erano già le sei, uscì per andare in un piccolo supermercato biologico nelle vicinanze, e lì si comprò quattro cose per la cena. Poi si diresse alla più vicina fermata della metropolitana, attardandosi un po’ a visitare una laundry che trovò sul proprio cammino: da tempo coltivava l’idea di fare una guida dei cento migliori posti dove lavarsi la biancheria a Londra, quindi non perdeva occasione di aggiornarsi. Arrivò a casa che erano le sette e venti. Fece una doccia, mise su un disco di Billie Holiday e si cucinò la cena, riscaldando a fuoco lento una crema di lenticchie che poi seppellì sotto il parmigiano grattugiato. Finito di mangiare, lasciò la tavola apparecchiata e si distese sul divano, scegliendo i tre libri a cui avrebbe dedicato la serata. Erano un romanzo di Bolaño, l’integrale delle storie di Carl Barks con Donald Duck e il Discorso sul metodo di Cartesio. Almeno due su tre avevano cambiato il mondo. Il terzo l’aveva quanto meno rispettato. Alle nove e un quarto squillò il telefono. Di solito Jasper Gwyn non rispondeva, ma quello era un giorno speciale.
– Pronto?
– Pronto, sono Rebecca.
– Buonasera Rebecca.
Scivolò via un lungo istante di silenzio.
– Mi scusi se la disturbo. Volevo solo dire che io sono andata, oggi, nello studio.
– Ne ero sicuro.
– Perché mi era venuto il dubbio di aver sbagliato giorno.
– No, no, era proprio oggi.
– Allora bene, posso andare a letto tranquilla.
– Sicuramente.
Passò un altro refolo di silenzio.
– Sono andata e ho fatto quello che mi ha detto.
– Benissimo. Non le ha spente le luci, vero?
– No, ho lasciato tutto com’era.
– Perfetto. Allora a domani.
– Sì.
– Buonanotte Rebecca.
– Buonanotte. E scusi se l’ho disturbata.
Jasper Gwyn tornò a leggere. Era nel bel mezzo di una storia fantastica. Donald Duck faceva il piazzista ed era stato spedito nella zona più selvaggia dell’Alaska. Scalava montagne e discendeva fiumi portandosi sempre dietro un campione della merce che doveva vendere. La cosa bella era il tipo di merce che doveva vendere: organi a canne.
Poi passò a Cartesio.
Ma il giorno dopo era già lì quando Rebecca arrivò.
Si era seduto per terra, appoggiato alla parete. Nello studio scorreva il loop di David Barber. Un fiume lento.
Rebecca salutò con un sorriso prudente. Jasper Gwyn fece un cenno col capo. Si era messo una giacca leggera e aveva scelto per l’occasione delle scarpe in cuoio, allacciate, marrone chiaro. Davano un’impressione di serietà. Di lavoro.
Quando Rebecca iniziò a svestirsi lui si alzò a sistemare meglio gli scuri, a una finestra, più che altro perché gli pareva inelegante starsene lì a guardare. Lei lasciò i vestiti su una delle poltrone. L’ultima cosa che si tolse fu una T-shirt nera. Sotto non portava niente. Si andò a sedere sul letto. Molto bianca la pelle, un tatuaggio alla base della schiena.
Jasper Gwyn tornò a sedersi per terra, dov’era prima, e iniziò a guardare. Lo sorpresero i seni piccoli, e i nei segreti, ma non era sui dettagli che gli venne da fermarsi – era più urgente capire l’insieme, ricondurre a una qualche unità quella figura che sembrava, per ragioni da chiarire, non avere alcuna coerenza. Pensò che senza vestiti dava l’impressione di una figura casuale. Perse quasi subito la nozione del tempo, e gli fu naturale il gesto semplice dell’osservare. Ogni tanto abbassava lo sguardo, come un altro sarebbe riemerso in superficie, a respirare.
Per molto tempo Rebecca rimase seduta sul letto. Poi Jasper Gwyn la vide alzarsi e misurare lenta la stanza, a piccoli passi. Teneva gli occhi sul pavimento, e cercava punti immaginari dove appoggiare i piedi, che aveva da bambina. Si muoveva come raccogliendo ogni volta pezzi di se stessa che non erano destinati a rimanere insieme. Il suo corpo sembrava il risultato di uno sforzo di volontà.
Tornò verso il letto. Si sdraiò sulla schiena, la nuca appoggiata sul cuscino. Teneva gli occhi aperti.
Alle otto si rivestì, e per qualche minuto rimase seduta, con l’impermeabile addosso, su una sedia, a respirare. Poi si alzò e se ne andò – giusto un piccolo cenno di saluto.
Jasper Gwyn per un po’ non si mosse. Quando si alzò, lo fece per andare a sdraiarsi sul letto. Prese a fissare il soffitto. Aveva appoggiato il capo nell’incavo del cuscino lasciato da Rebecca.
– Com’è andata?, chiese la signora con il foulard impermeabile.
– Non so.
– È brava, la ragazza.
– Non sono sicuro che tornerà.
– Perché mai?
– È tutto così assurdo.
– E allora?
– Non sono sicuro neanch’io, di tornare.
Ma il giorno dopo tornò.
Gli venne in mente di portarsi un taccuino. Lo scelse non troppo piccolo, i fogli color crema. Con una matita, allora, ogni tanto scriveva parole, poi strappava il foglietto e lo attaccava con una puntina al pavimento di legno, scegliendo ogni volta un posto diverso, come uno che disponesse trappole per topi.
Scrisse così una frase, a un certo punto, e poi vagò un po’ per la stanza fino a scegliere un punto, per terra, non lontano da dove Rebecca stava in quel momento, in piedi, appoggiata a una parete. Si chinò e lo attaccò con la puntina al legno. Poi alzò lo sguardo su Rebecca. Non le era mai stato così vicino, da quando avevano iniziato. Rebecca lo stava fissando negli occhi. Lo faceva in modo mansueto, senza intenzioni. Rimasero a fissarsi così. Respiravano lenti, nel fiume di suoni di David Barber. Poi Jasper Gwyn abbassò lo sguardo.
Prima di andarsene, Rebecca attraversò la stanza e andò proprio dove Jasper Gwyn si era rincantucciato, seduto per terra, in un angolo. Gli si sedette accanto, lasciando le gambe allungate e nascondendo le mani tra le cosce, i dorsi che si toccavano. Non si voltò a guardarlo, solo rimase lì, la testa appoggiata alla parete. Jasper Gwyn sentì allora la vicinanza tiepida, e il profumo. Lo fece fino a quando Rebecca si alzò, si rivestì, e se ne andò.
Rimasto solo, Jasper Gwyn appuntò qualcosa sui suoi foglietti e andò ad attaccarli per terra, in punti che cercò con minuziosa attenzione.
Intorno a quei foglietti, Rebecca prese l’abitudine di camminare, nei giorni che seguirono, disegnando percorsi che la portavano da uno all’altro, come se cercasse il profilo di una qualche figura. Non si fermava mai a leggerli, solo gli girava attorno. Lentamente Jasper Gwyn la vide cambiare nei modi, diversa nel mostrarsi, più inaspettata nei gesti. Era forse il settimo, o l’ottavo giorno, quando la vide d’un tratto composta in una bellezza sorprendente, senza incrinature. Durò un attimo, come se lei sapesse benissimo dove si era spinta, e non avesse intenzione di restarci. Così spostò il peso sull’altro fianco, alzando una mano a sistemarsi i capelli, e tornando imperfetta.
Quello stesso giorno, a un certo punto, si mise a mormorare, a bassa voce, sdraiata sul letto. Jasper Gwyn non poteva sentire le parole, e nemmeno voleva. Ma lei continuò per minuti e minuti, ogni tanto sorrideva, o si fermava in silenzio, poi riprendeva. Sembrava stesse raccontando qualcosa a qualcuno. Mentre parlava faceva scivolare avanti e indietro il palmo delle mani sulle gambe distese. Le fermava quando taceva. Senza neanche accorgersene, Jasper Gwyn finì per avvicinarsi al letto, come uno che stesse inseguendo un animaletto e fosse finito a pochi passi dalla sua tana. Lei non reagì, solo abbassò il tono di voce, e continuò a parlare, ma muovendo appena le labbra, in un sussurro che a tratti cessava, e poi riprendeva.
Il giorno dopo, mentre Jasper Gwyn la stava guardando, le si riempirono gli occhi di lacrime, ma fu un momento, un transito di pensieri, o di ricordi in fuga.
Se Jasper Gwyn avesse dovuto dire quando iniziò a pensare che c’era una soluzione, probabilmente avrebbe citato un giorno in cui lei si era infilata, a un certo punto, la camicia, e non era un modo di tornare indietro su qualche sua decisione, ma di andare avanti oltre quello che aveva deciso. La tenne un po’ addosso, sbottonata davanti – giocava con i polsini. Allora qualcosa in lei si spostò, in un modo che si sarebbe potuto definire laterale, e Jasper Gwyn sentì, per la prima volta, che Rebecca gli stava lasciando intravedere il proprio ritratto.
Quella notte uscì a camminare per le strade e lo fece per ore, senza sentire fatica. Notò che c’erano lavanderie che non chiudevano mai, e registrò la cosa con una certa soddisfazione.
Non la vedeva più neanche grassa, o bella, e qualsiasi cosa avesse pensato e rilevato di lei, prima di entrare in quello studio, si era dissolta completamente, o non era mai esistita. Come non gli sembrava che passasse del tempo, là dentro, ma piuttosto si srotolasse un unico istante, sempre identico a sé. Cominciava a riconoscere, talvolta, dei passaggi del loop di David Barber, e quel loro ripassare periodico, sempre uguali, dava a qualsiasi trascorrere una fissità poetica di fronte alla quale l’accadere del mondo, fuori da lì, perdeva ogni incanto. Che tutto prendesse forma in un’unica luce immobile dal tono infantile era cosa di infinita delizia. Gli odori dello studio, la polvere che si stava posando sulle cose, lo sporco a cui nessuno opponeva resistenza – tutto dava l’impressione di un animale in letargo, che respirava lento, scomparso ai più. Alla signora con il foulard impermeabile, che voleva sapere, Jasper Gwyn arrivò a spiegare che c’era qualcosa di ipnotico, in tutto quello, affine agli effetti di una droga. Non starei a esagerare, disse la vecchia signora. E gli ricordò che era poi solo un lavoro, il suo lavoro da copista. Pensi piuttosto a combinare qualcosa di buono, aggiunse, se no mi torna dritto dritto a incontrare le scolaresche.
– Quanti giorni mancano?, chiese Jasper Gwyn.
– Una ventina, mi sa.
– Ho tempo.
– Ha già scritto qualcosa?
– Appunti. Niente che abbia senso leggere.
– Io fossi in lei non sarei così tranquilla.
– Non sono tranquillo. Ho solo detto che ho tempo. Pensavo di entrare nel panico fra qualche giorno.
– Sempre rimandare, voi giovani.
Spesso arrivava in ritardo, quando Rebecca già era nello studio. Poteva essere una decina di minuti, ma anche un’ora. Lo faceva deliberatamente. Le piaceva trovarla già scomparsa a se stessa nel fiume sonoro di David Barber e in quella luce – quando lui aveva ancora addosso invece la crudezza e il ritmo del mondo fuori. Allora entrava facendo meno rumore possibile e sulla soglia si fermava, cercandola con lo sguardo come in una grande voliera: nell’istante in cui la trovava, quella era l’immagine che più distinta gli sarebbe rimasta nella memoria. Lei nel tempo si era abituata, e non muoveva, all’aprirsi delle porte, ma solo stava del suo stare. Da giorni avevano ormai tralasciato qualsiasi inutile liturgia di saluto, nel trovarsi e nel lasciarsi.
Un giorno entrò e Rebecca dormiva. Sdraiata sul letto, leggermente girata su un fianco. Respirava lenta. Jasper Gwyn avvicinò silenziosamente una poltrona ai piedi del letto. Si sedette e rimase a lungo a guardarla. Come non aveva ancora mai fatto, da vicino seguiva i dettagli, le pieghe del corpo, le sfumature di bianco della pelle, le piccole cose. Non gli importava di fissarle nella memoria, non sarebbero servite al suo ritratto, ma attraverso quel guardare acquistava una vicinanza clandestina che invece lo aiutava, e lo portava lontano. Lasciò che il tempo passasse senza mettere fretta alle idee che sentiva arrivare, rade e disordinate come gente da un confine. A un certo punto Rebecca aprì gli occhi, lo vide. Istintivamente richiuse le gambe. Ma poi lentamente le riaprì, ritrovando la posizione che aveva abbandonato – lo fissò per qualche istante, e alla fine richiuse gli occhi.
Jasper Gwyn non si mosse dalla poltrona, quel giorno, e tanto si avvicinò a Rebecca che fu naturale finire dov’era lei, prima attraversando un torpore pieno di immagini, poi scivolando nel sonno, senza opporre resistenza, abbandonato nella poltrona. L’ultima cosa che sentì fu la voce della signora con il foulard impermeabile. Bel modo di lavorare, diceva.
Ma invece parve normale a Rebecca, quando riaprì gli occhi – qualcosa che doveva accadere. Lo scrittore addormentato. Che strana dolcezza. Silenziosamente scese dal letto. Le otto erano passate. Prima di rivestirsi si avvicinò a Jasper Gwyn e rimase a guardarlo – quest’uomo, pensò. Gli girò intorno, e poiché lui aveva un gomito appoggiato sul bracciolo, la mano abbandonata nel vuoto, avvicinò i suoi fianchi a quella mano, fino quasi a sfiorarla, e rimase per un attimo immobile – le dita di quest’uomo e il mio sesso, pensò. Si rivestì senza far rumore. Uscì che lui ancora dormiva.
Come ogni sera, fece i primi passi per strada con un’incertezza da animale appena nato.
Tornò a casa e c’era un ragazzo.
– Ciao, Rebecca – disse.
– Ti ho detto di avvertirmi, quando torni qui.
Ma senza nemmeno togliersi il cappotto lo baciò.
Dopo, la notte, Rebecca gli disse che faceva un nuovo lavoro. Poso per un pittore, disse.
– Tu?
– Sì, io.
Lui rise.
– Nuda, lei disse.
– Dai.
– Non è male come lavoro. Tutti i giorni, quattro ore al giorno.
– Che palle, chi te l’ha fatto fare?
– Soldi. Mi dà cinquemila sterline. La dobbiamo pagare, in qualche modo, questa casa. Ci pensi tu?
Il ragazzo faceva il fotografo, ma non sembrava esserci molta gente disposta a crederci. Così a tutto pensava Rebecca, l’affitto, le bollette, la roba in frigo. Lui ogni tanto spariva, poi tornava. Le sue cose erano lì. Rebecca era solita riassumere la situazione in termini molto elementari. Mi sono innamorata di uno stronzo, diceva.
Un paio di mesi prima, lui le aveva detto che un suo amico voleva farle delle fotografie. Combinarono di vedersi una sera, lì a casa sua. Bevvero molto e alla fine Rebecca si ritrovò nuda sul letto, con quell’amico che scattava. Non le importava. A un certo punto il suo ragazzo stronzo si era spogliato e le era andato vicino. Avevano iniziato a fare l’amore. L’amico intanto scattava. Poi, per qualche giorno, Rebecca non aveva più voluto vedere il suo ragazzo stronzo. Ma nemmeno allora aveva smesso di amarlo.
Lei sapeva, d’altronde, che il suo corpo l’avrebbe sempre destinata ad amori assurdi. Nessun uomo pensa di desiderare un corpo come quello. Ma l’esperienza aveva insegnato a Rebecca che molti invece lo desiderano ed è spesso il risultato di una qualche ferita che non vogliono ammettere. Spesso hanno paura del corpo femminile, senza saperlo. Alcune volte hanno bisogno di disprezzare per eccitarsi, e allora possedere quel corpo li fa sentire bene. Quasi sempre c’era una sorta di attesa di perversione in circolo, come se scegliere quella bellezza anomala comportasse necessariamente l’abbandono dei modi più semplici e rettilinei del desiderio. Così, a ventisette anni, Rebecca aveva già un mucchio di ricordi sbagliati, dove a stento avrebbe potuto ritrovare la dolcezza semplice di un momento pulito. Non le importava. Non c’era nulla che si potesse fare, a riguardo.
Perciò rimaneva con il suo ragazzo stronzo. Perciò non si era stupita quando Jasper Gwyn le aveva fatto quella proposta. Era esattamente il genere di cose che aveva imparato ad aspettarsi dalla vita.
La mattina lasciò il ragazzo stronzo addormentato nel letto, e se ne uscì senza neanche farsi la doccia. Aveva una notte di sesso addosso, e le piacque portarsela dietro, tutta intera. Oggi mi prendi così, caro Jasper Gwyn, vediamo che effetto ti fa.
Per quattro ore, al mattino, andava ancora a lavorare da Tom. Aveva una venerazione per quell’uomo. Da quando, tre anni prima, un incidente d’auto l’aveva costretto su una sedia a rotelle, si era costruito intorno un ufficio enorme, una specie di paese, dove lui era Dio. Si era circondato di lavoranti di tutti i tipi, alcuni vecchissimi, altri completamente pazzi. Lui stava attaccato al telefono tutto il tempo. Pagava poco e di rado, ma questo era un dettaglio. Aveva una tale energia, e generava così tanta vita intorno, che la gente finiva per adorarlo. Era uno di quelli che se per caso ti capita di crepare lo prendono come uno sgarbo personale.
Sulla faccenda del ritratto non le aveva mai detto niente. Solo una volta, quando era già qualche giorno che Rebecca il pomeriggio andava da Jasper Gwyn, lui le era passato vicino con la sua sedia a rotelle e inchiodando davanti al suo tavolo aveva detto:
– Se ti chiedo qualcosa, mandami affanculo.
– D’accordo.
– Come si comporta il vecchio Jasper?
– Vada a fare in culo.
– Perfetto.
Così, all’una si alzava, prendeva la sua roba e passava a salutare Tom. Sapevano entrambi dove stava andando, ma facevano finta di niente. Ogni tanto lui dava giusto un’occhiata a come era vestita. Magari pensava di dedurne qualcosa, chissà.
Allo studio di Jasper Gwyn ci andava in metropolitana, ma sempre scendendo una fermata prima, per camminare un po’, prima di entrare. Per la strada, si rigirava in mano la chiave. E quello era il suo modo di iniziare a lavorare. Un’altra cosa che faceva era pensare in che ordine si sarebbe tolta i vestiti. Era strano, ma stando vicino a quell’uomo, tutti i santi giorni, si finiva per imparare una sorta di precisione nei gesti che lei non aveva mai immaginato necessaria. Ti portava a credere che non fosse tutto equivalente, e che qualcuno, da qualche parte, protocollasse ogni nostro fare – un giorno, facilmente, ce ne avrebbe chiesto conto.
Girava la chiave nella toppa, e entrava.
Non si rendeva subito conto se lui era già lì. Aveva imparato che non era importante. Tuttavia non si sentiva al sicuro fino a quando non lo vedeva – e tranquilla fino a quando lui non la guardava. Non l’avrebbe potuto immaginare, prima, ma proprio la cosa più assurda – che quell’uomo la fissasse – era divenuta la cosa di cui aveva bisogno, e senza la quale non ritrovava nulla di se stessa. Con sorpresa capì che si accorgeva di essere nuda solo quando era sola, o lui non la guardava. Invece le era naturale quando lui la fissava, e si sentiva vestita, allora, e compiuta, come un lavoro ben fatto. Col passare dei giorni si sorprese a desiderare che lui si avvicinasse e spesso la frustrava quel suo rimanersene appoggiato al muro, restio a prendersi quello che lei avrebbe concesso senza alcun fastidio. Allora poteva accadere che fosse lei ad avvicinarsi, ma non era semplice, si sarebbe dovuto essere capaci di evitare qualsiasi atteggiamento che sembrasse una seduzione – finiva per essere brusca, nel gesto, e inesatta. Era sempre lui a ritrovare una distanza indolore.
Il giorno in cui lei arrivò con la sua notte di sesso addosso, Jasper Gwyn non si fece vivo. Rebecca ebbe tempo di fare dei conti, erano passati diciotto giorni da quando avevano iniziato. Pensò che anche le lampadine appese al soffitto erano diciotto. Matto com’era, era perfino possibile che Jasper Gwyn attribuisse un qualche significato alla circostanza – magari era per quello che non era venuto. Si rivestì, alle otto in punto, e poi ci mise molto a tornare a casa – era come se aspettasse che prima le si restituisse qualcosa.
Anche il giorno dopo Jasper Gwyn non arrivò. Rebecca sentì le ore passare con una lentezza esasperante. Era sicura di vederlo comparire, ma non accadde, e quando si rivestì, alle otto precise, lo fece con rabbia. Per strada, camminando nella sera, pensò che era scema, e che quello era soltanto un lavoro, cosa gliene importava a lei – ma anche cercava di ricordare se aveva letto qualcosa di strano, in lui, l’ultima volta che si erano visti. Lo ricordava chino sui suoi foglietti, null’altro.
Il giorno dopo arrivò in ritardo, apposta: giusto qualche minuto, ma per Jasper Gwyn, lei lo sapeva, era un’enormità. Entrò, e lo studio era deserto. Rebecca si spogliò ma poi non trovò da nessuna parte il cinismo, o la semplicità, per non pensare a nulla – passò il tempo a misurare l’ansia che cresceva. Non riusciva a fare quello che doveva fare – essere se stessa, semplicemente – benché ricordasse benissimo come le era sembrato facile, il primo giorno, quando lui non si era presentato. Evidentemente qualcosa doveva essere successo – come una peregrinazione. Adesso non le riusciva di tornare indietro da nessuna parte, e nessun cammino pareva possibile, d’altronde, senza di lui.
Sei scema, pensò.
Sarà ammalato. Starà lavorando a casa. Forse ha già finito. Forse è morto.
Ma sapeva che non era vero, perché Jasper Gwyn era un uomo esatto, anche nell’errore.
Si sdraiò sul letto, per la prima volta le parve di avere un inizio di paura, a starsene lì da sola. Cercò di ricordare se aveva chiuso a chiave. Si chiese se era sicura che fossero passati davvero tre giorni da quando l’aveva visto l’ultima volta. Ripercorse con la memoria quei tre pomeriggi pieni di niente. Le parve ancora peggio. Rilassati, pensò. Arriverà, si disse. Chiuse gli occhi. Iniziò ad accarezzarsi, prima lentamente, il corpo, poi in mezzo alle gambe. Non pensava a niente di particolare, e questo le fece bene. Si girò leggermente su un fianco, perché era così che le piaceva farlo. Riaprì gli occhi, davanti a sé aveva la porta d’ingresso. Si aprirà e non smetterò, pensò. Lui non esiste, esisto io, ed è questo che adesso mi va di fare, caro Jasper Gwyn. Mi va di accarezzarmi. Entra solo da quella porta, e poi vediamo cosa ti verrà da scrivere. Continuerò a farlo, fino alla fine, non mi importa se guardi. Richiuse gli occhi.
Alle otto si alzò, si rivestì, e tornò a casa. Pensò che mancava una decina di giorni, forse qualcuno di più. Non le riusciva di capire se era poco o tanto. Era un’eternità minuscola.
Il giorno dopo entrò nella stanza e Jasper Gwyn stava seduto su una sedia, in un angolo. Sembrava il custode di una sala, in un museo, che vigilava su un’opera d’arte contemporanea.
Istintivamente Rebecca si irrigidì. Guardò interrogativamente Jasper Gwyn. Lui si limitò a fissarla. Allora lei, per la prima volta da quando tutto era iniziato, parlò.
– Sono tre giorni che non viene, disse.
Poi si accorse dell’altro uomo. Stava in piedi, appoggiato al muro, in un angolo.
Due uomini, ce n’era un altro, seduto sul primo gradino della scala che portava al bagno.
Rebecca alzò il tono di voce e disse che non era nei patti, ma senza chiarire a cosa si stesse riferendo. Disse ancora che lei si riteneva libera di smettere quando le pareva, e che se lui pensava che per cinquemila sterline si potesse permettere di fare tutto quello che gli pareva si sbagliava di grosso. Poi rimase lì, immobile, perché Jasper Gwyn non aveva l’aria di voler rispondere.
– Che merda, lei disse, ma più che altro a se stessa.
Andò a sedersi sul letto, vestita, e lì rimase, per un bel po’.
C’era quella musica di David Barber.
Decise di non aver paura.
Loro, se mai, dovevano avere paura di lei.
Si svestì con gesti secchi, si alzò, e iniziò a camminare per la stanza. Stava lontano da Jasper Gwyn, ma passava accanto agli altri due uomini, senza guardarli, dove diavolo li avrà presi, pensò. E coi passi calpestava i foglietti di Jasper Gwyn, prima solo passandogli sopra, poi proprio stracciandoli con la pianta dei piedi, sentiva il duro delle puntine graffiarle la pelle – non le importava. Ne sceglieva alcuni, li distruggeva – altri li lasciava sopravvivere. Pensò che sembrava un servitore che la sera spegne le candele, in giro per il palazzo, e ne lascia accese alcune, per un qualche precetto della casa. Le piacque l’idea e a poco a poco cessò di farlo con rabbia, e prese a farlo con la mansuetudine che si sarebbe aspettata da quel servitore. Rallentò il passo, e perse durezza nello sguardo. Continuava a spegnere quei foglietti, ma con una cura diversa, mite. Quando le sembrò di avere finito – qualsiasi cosa avesse iniziato – tornò a sdraiarsi sul letto, e affondò la testa nel cuscino, chiudendo gli occhi. Non sentiva più rabbia, e anzi si stupì di sentire arrivare una sorte di quiete che, capì, stava aspettando da giorni. Nulla si muoveva attorno a lei, ma a un certo punto qualcosa si mosse, dei passi, e poi il secco rumore di una sedia, forse più sedie, spostate accanto al letto. Non aprì gli occhi, non aveva bisogno di sapere. Si lasciò sprofondare in un buio muto, e quel buio era se stessa. Lo poteva fare, e senza paura, e facilmente, perché qualcuno la stava guardando – se ne rese immediatamente conto. Per qualche ragione che non capiva, era finalmente sola, in modo perfetto, come soli non si è mai – o di rado, pensò, in qualche abbraccio d’amore. Finì lontano, perdendo qualsiasi nozione del tempo, sfiorando forse il sonno, a tratti pensando a quei due uomini, se l’avrebbero toccata – e al terzo uomo, l’unico per cui davvero era lì.
Aprì gli occhi, ebbe paura che fosse tardi. Nella stanza non c’era più nessuno. Accanto al letto, una sedia, una sola. Uscendo la sfiorò. Lentamente, col dorso di una mano.
Quando entrò nello studio, alle quattro precise del giorno dopo, la prima cosa che vide furono i foglietti di Jasper Gwyn, di nuovo al loro posto, neanche uno spiegazzato, rimessi a nuovo, con le puntine e tutto. Erano centinaia, ormai. Non sembrava che qualcuno ci avesse mai passeggiato sopra. Rebecca alzò lo sguardo e Jasper Gwyn era lì, seduto per terra, in quella che sembrava essere diventata la sua tana, la schiena appoggiata al muro. Ogni cosa era al suo posto, la luce, la musica, il letto. Le sedie allineate su un lato della stanza, in ordine, tranne quella che ogni tanto usava lui, messa in un angolo, il taccuino dei foglietti posato per terra. Quale sensazione di salvezza, pensò – che mai ho conosciuto prima.
Si tolse i vestiti, prese una sedia, la spostò in un punto che le piacque, non troppo vicino a Jasper Gwyn, non troppo lontano, e si sedette. Rimasero così per lungo tempo,Jasper Gwyn ogni tanto la guardava, ma più spesso fissava qualcosa della stanza, facendo dei piccoli gesti nell’aria, come se inseguisse qualche musica. Sembrava mancargli il suo taccuino, lo cercò un paio di volte con lo sguardo, ma poi in realtà non si alzava a prenderlo, gli andava di rimanere lì,appoggiato al muro. Questo fino a quando, d’improvviso,Rebecca si mise a parlare.
– Questa notte ho pensato una cosa, disse.
Jasper Gwyn si voltò a guardarla, colto di sorpresa.
– Sì, lo so, non dovrei parlare, smetto subito.
La voce era pacata, tranquilla.
– Ma c’è una cosa stupida che ho deciso di fare. Non ho nemmeno ben capito se la faccio per me o per lei, voglio dire soltanto che mi sembra giusta, come qui è giusta la luce, la musica, è giusto tutto, tranne una cosa. Così ho deciso di farla.
Si alzò, si avvicinò a Jasper Gwyn, e si inginocchiò davanti a lui.
– Lo so, è una cosa stupida, mi scusi. Ma me la lasci fare.
E, come avrebbe fatto con un bambino, si sporse verso di lui e lentamente gli tolse la giacca. Jasper Gwyn non oppose resistenza. Parve rassicurato dal fatto di vedere Rebecca piegare la giacca nel modo giusto, e sistemarla per terra con attenzione.
Poi lei gli sbottonò la camicia, lasciando per ultimi i bottoni dei polsini. Gliela sfilò via, e di nuovo la piegò con ordine, appoggiandola sulla giacca. Parve soddisfatta, e per un po’ non si mosse.
Poi si spostò un po’ indietro, e si chinò a slacciare le scarpe di Jasper Gwyn. Gliele tolse. Jasper Gwyn ritirò indietro i piedi perché tutti gli umani maschi si vergognano delle calze. Ma lei sorrise, e gli sfilò anche quelle. Mise poi tutto in ordine, come avrebbe potuto fare lui, stando attenta che ogni cosa fosse allineata.
Guardò Jasper Gwyn e disse che così andava molto meglio.
– Così è molto più esatto, disse.
Si alzò e tornò a sedersi sulla sedia. Era stupido, ma il cuore le batteva come se avesse fatto una corsa – proprio così se l’era immaginata, di notte, quando le era venuta in mente.
Jasper Gwyn riprese ad andare in giro con lo sguardo, tornando a fare piccoli gesti nell’aria. Non sembrava essere cambiato nulla, per lui. Come d’improvviso è diventato un animale, pensò tuttavia Rebecca. Gli guardava il petto magro, le braccia secche, e tornò indietro a quando Jasper Gwyn per lei era uno scrittore lontano, una fotografia, qualche intervista – sere intere a leggerlo, rapita. Si ricordò di quando Tom, la prima volta, l’aveva mandata nella lavanderia, con quel cellulare. A lei era parsa una follia, e allora Tom si era fermato a spiegarle un po’ che tipo era, Jasper Gwyn. Le aveva raccontato che nel suo ultimo libro c’era una dedica. Forse se la ricordava: a P., addio. Le spiegò che P stava per Paul, era un bambino. Aveva quattro anni, e Jasper Gwyn era suo padre. Però mai si erano visti, per la semplice ragione che Jasper Gwyn aveva deciso che non sarebbe stato padre mai, e per nessun motivo. Era in grado di sostenerlo con grande dolcezza e determinazione. E un’altra cosa le raccontò. C’erano almeno altri due libri, di Jasper Gwyn, che circolavano nel mondo: ma non col suo nome, e certo non sarebbe stato lì a dirle quali erano. Poi Tom le aveva puntato una biro blu alla testa e aveva fatto un rumore con la bocca, come un soffio.
– È un cancellatore di memoria, le aveva spiegato. Tu non sai niente.
Lei aveva preso il cellulare ed era andata in lavanderia. Se lo ricordava benissimo, quell’uomo, seduto in mezzo alle lavatrici, elegante, le mani dimenticate sulle ginocchia. Le era sembrato una sorta di divinità, perché era ancora piccola, ed era la prima volta. A un certo punto lui aveva provato a dirle qualcosa a proposito di Tom e di un frigorifero, ma lei faceva fatica a concentrarsi, perché lui parlava senza guardare negli occhi, e con una voce che a lei sembrava di conoscere da sempre.
Adesso quell’uomo era lì, il petto magro, le braccia secche, i piedi nudi messi uno sull’altro – un elegante relitto animale, principesco. Rebecca pensò quanta strada può accadere di fare, e come misteriose siano le rotte dell’esperienza se possono portarti seduta su una sedia, nuda, a farti guardare da un uomo che da lontano ha trascinato la sua follia fino a lì, riordinandola fino a farne un rifugio per lui e per te. Le venne in mente che ogni volta che aveva letto una pagina di quell’uomo, già era stata invitata in quel rifugio, e che in fondo non era successo nulla, da allora, assolutamente nulla – forse un tardivo allinearsi di corpi, sempre in ritardo.
Da quel giorno Jasper Gwyn si mise a lavorare vestito solo di un paio di vecchi pantaloni da meccanico. Gli dava una certa aria da pittore pazzo, e questo non guastava.
Passarono dei giorni, e un pomeriggio una lampadina si spense. Il vecchietto di Camden Town aveva lavorato bene. Si spense senza esitazioni e silenziosa come un ricordo.
Rebecca si voltò a guardarla – era seduta sul letto, fu come un’impercettibile oscillazione dello spazio. Sentì una fitta di angoscia, le fu impossibile evitarlo. Jasper Gwyn le aveva spiegato come sarebbe finito tutto quello, e adesso sapeva cosa sarebbe successo, ma non a che velocità, o con quale lentezza. Da tempo aveva smesso di contare i giorni, e sempre si era rifiutata di chiedersi come sarebbe stato dopo. Aveva timore di chiederselo.
Jasper Gwyn si alzò, camminò fin sotto la lampadina spenta e si mise ad osservarla, con un interesse che si sarebbe detto scientifico. Non sembrava inquieto. Sembrava chiedersi perché proprio quella. Rebecca sorrise. Pensò che se lui non aveva paura, non avrebbe avuto paura neanche lei. Si sedette sul letto e da lì vide Jasper Gwyn aggirarsi per lo studio, la testa china, per la prima volta interessato a quei foglietti che aveva attaccato al pavimento, e che mai era tornato a guardare. Ne raccolse uno, poi un altro. Toglieva la puntina, prendeva il foglietto, se lo metteva in tasca e poi andava a posare la puntina su un davanzale, sempre lo stesso. La cosa assorbiva tutta la sua attenzione e Rebecca si rese conto che avrebbe potuto anche andarsene e lui nemmeno se ne sarebbe accorto. Quando si spense la seconda lampadina, entrambi si girarono a guardarla, per un attimo. Sembrava quando si aspettano le stelle cadenti, nelle notti d’estate. A un certo punto Jasper Gwyn parve ricordarsi di qualcosa, e allora andò ad abbassare il volume del loop di David Barber. Con la mano sulla manopola, teneva fisso lo sguardo sulle lampadine, e cercava una simmetria millimetrica.
Quel giorno Rebecca tornò a casa e disse al ragazzo stronzo se per favore poteva andarsene, solo per qualche giorno – disse che le sarebbe piaciuto stare da sola, per un po’. E dove vado?, chiese il ragazzo stronzo. Da qualche parte, disse lei.
Il giorno dopo non andò nemmeno a lavorare da Tom.
Le era venuto in mente che stava finendo qualcosa, e lo voleva fare bene, voleva fare solo quello.
Un’idea non molto diversa doveva averla avuta anche Jasper Gwyn, perché quando arrivò nello studio, il giorno dopo, Rebecca vide i resti di una cena, in un angolo, per terra, e capì che Jasper Gwyn non era tornato a casa, la notte – né l’avrebbe più fatto prima che tutto quello finisse. Pensò com’era esatto, quell’uomo.
Nelle chiazze di buio ogni tanto lei passava, camminando, come a provare una sparizione. Jasper Gwyn allora la guardava, aspettandosi qualcosa dall’ombra. Poi tornava nei suoi pensieri. Sembrava lieto, tranquillo, tra i resti delle sue cene, il viso non rasato, i capelli scompigliati dalle notti per terra. Rebecca lo guardava e pensava che era irrimediabilmente delizioso. Chissà se aveva trovato quel che cercava. Non era possibile leggergli in faccia una qualche soddisfazione, né l’ombra di uno sgomento. Solo l’orma di una concentrazione febbrile, ma pacata. Qualche foglietto ancora raccolto per terra – poi li appallottolava e se li infilava in tasca. Lo sguardo alle lampadine, nell’istante in cui abbandonavano.
Ma a un certo punto andò a sedersi accanto a lei, sul letto, e, come se fosse la cosa più naturale al mondo, si mise a parlarle.
– Vede Rebecca, una cosa mi sembra di averla capita.
Lei rimase ad aspettare.
– Pensavo che non parlare fosse assolutamente necessario, io ho terrore delle chiacchiere, non potevo certo pensare di chiacchierare con lei. E poi temevo che si finisse con una cosa tipo psicanalisi, o confessione. Una prospettiva agghiacciante, non trova?
Rebecca sorrise.
– Però, vede, mi sbagliavo, aggiunse Jasper Gwyn.
Rimase un po’ in silenzio.
– La verità è che se davvero voglio fare questo mestiere devo accettare di parlare, anche una volta sola, due al massimo, al momento giusto, ma devo essere capace di farlo.
Alzò lo sguardo su Rebecca.
– Parlare appena, disse.
Lei fece cenno di sì col capo. Stava completamente nuda seduta di fianco a un uomo in pantaloni da meccanico, e la cosa le sembrava del tutto naturale. L’unica cosa che si domandava era come poteva essere utile a quell’uomo.
– Ad esempio, prima che sia troppo tardi mi piacerebbe chiederle una cosa, disse Jasper Gwyn.
– Lo faccia.
Jasper Gwyn gliela chiese. Lei ci pensò, poi rispose. Era una cosa sul piangere e sul ridere.
Andarono un po’ avanti a parlarne.
Poi lui le chiese una cosa che riguardava i bambini. I figli, precisò.
E un’altra sui paesaggi.
Parlavano a voce bassa, senza fretta.
Finché lui assentì col capo e si alzò.
– Grazie, disse.
Poi aggiunse che non era stato così difficile. Parve dirlo a se stesso, ma anche si voltò verso Rebecca, come se si aspettasse una specie di risposta.
– No, non è stato difficile, lei disse allora. Disse che nulla, lì dentro, era difficile.
Jasper Gwyn andò a regolare il volume della musica, e il loop di David Barber sembrò sparire dentro ai muri, lasciando poco più che una scia, dietro di sé, nella luce fragile delle ultime sei lampadine rimaste.
L’ultima la aspettarono nel silenzio, il trentaseiesimo giorno di quello strano esperimento. Quando furono le otto, sembrò loro scontato che l’avrebbero aspettata insieme, perché non contava più nessun tempo che non fosse quello scritto nei filamenti di rame generati dal talento folle del vecchietto di Camden Town.
Nella luce delle due ultime lampadine, lo studio era già una sacca nera, mantenuta in vita da due pupille di luce. Quando rimase l’ultima, era un sussurro.
La guardavano da lontano, senza avvicinarsi, come per non sporcarla.
Era notte, e si spense.
Dalle finestre oscurate, passava giusto la luce utile a segnare l’orlo delle cose, e non subito, ma solo all’occhio assuefatto all’oscurità.
Parve ogni oggetto concluso, e solo loro due, ancora, viventi.
Una simile intensità Rebecca non l’aveva mai conosciuta. Pensò che in quel momento qualsiasi gesto sarebbe stato inadatto, ma capì che era vero anche il contrario, e che era impossibile, in quel momento, fare un gesto che fosse sbagliato. Così si immaginò molte cose, e alcune aveva iniziato a immaginarle molto tempo prima. Finché sentì la voce di Jasper Gwyn.
– Credo che aspetterò la luce del mattino qui dentro. Ma lei naturalmente può andare, adesso, Rebecca.
Lo disse con una specie di dolcezza che poteva anche sembrare rimpianto, così Rebecca gli si avvicinò e quando trovò le parole giuste disse che le sarebbe piaciuto restare ad aspettare lì con lui – solo quello.
Ma Jasper Gwyn non disse nulla, e lei capì.
Si rivestì lentamente, per l’ultima volta, e quando fu davanti alla porta si fermò.
– Sono sicura che dovrei dire qualcosa di speciale, ma a essere sincera non mi viene proprio in mente niente.
Jasper Gwyn sorrise nel buio.
– Non si preoccupi, è un fenomeno che conosco molto bene.
Si salutarono stringendosi la mano, e la cosa sembrò ad entrambi di un’esattezza e di un’idiozia memorabili.
Jasper Gwyn ci mise cinque giorni a scrivere il ritratto – lo fece a casa, al computer, uscendo di tanto in tanto per camminare, o mangiare qualcosa. Lavorava ascoltando a ripetizione dischi di Frank Sinatra.
Quando pensò di aver finito, copiò il file su un cd e lo portò da uno stampatore. Scelse fogli quadrati di una carta vergata piuttosto pesante, e un inchiostro blu che sfiorava il nero. Decise l’impaginazione in modo che fosse sufficientemente ariosa senza diventare futile. Per il font si orientò, dopo lunga riflessione, su un carattere che simulava alla perfezione le lettere che una volta uscivano dalle macchine per scrivere: nel tondo delle O c’era anche un accenno di sbavatura dell’inchiostro. Non volle nessuna rilegatura. Si fece fare due copie. Alla fine lo stampatore era visibilmente provato.
Il giorno dopo Jasper Gwyn passò ore a cercare una carta velina che ai suoi occhi apparisse appropriata, e una cartellina con gli elastici non troppo grande, non troppo piccola, non troppo cartellina. Trovò entrambe in una cartoleria che stava per chiudere, dopo ottantasei anni di attività, e svuotava i magazzini.
– Perché chiudete?, chiese, arrivato alla cassa.
– Il titolare va in pensione, rispose, senza emozione, una signorina con certi capelli senza importanza.
– Non ha figli?, insisté Jasper Gwyn.
La signorina alzò lo sguardo.
– La figlia sarei io, disse.
– Bene.
– Vuole una busta regalo o è per lei?
– È un regalo per me.
La signorina fece un sospiro che poteva voler dire molte cose. Tolse i prezzi dalle cartelline e infilò tutto in una busta elegante chiusa da un sottile spago dorato. Poi disse che suo nonno aveva aperto quel negozio al ritorno dalla Prima guerra mondiale, investendo tutto quello che aveva. Non aveva mai chiuso, neanche sotto i bombardamenti, nel ’40. Sosteneva di aver inventato lui il sistema per sigillare le buste leccandone un bordo. Ma probabilmente, aggiunse, era una palla.
Jasper Gwyn pagò.
– Non si trovavano più buste come quelle, disse.
– Mio nonno le faceva al gusto fragola, disse lei.
– Sul serio?
– Così diceva. Limone e fragola, ma quelle al limone la gente non le voleva, chissà perché. Io comunque mi ricordo di aver provato, da piccola. Non sapevano di niente. Sapevano di colla.
– La prenda lei, la cartoleria, disse allora Jasper Gwyn.
– No. Io voglio cantare.
– Davvero? Opera?
– Tanghi.
– Tanghi?
– Tanghi.
– Fantastico.
– Lei invece che fa?
– Il copista.
– Fantastico.
La sera Jasper Gwyn rilesse i sette fogli quadrati che, su due colonne, contenevano il testo del ritratto. L’idea era quella di avvolgerli poi nella carta velina e riporli nella cartellina con gli elastici. A quel punto il lavoro era finito.
– Come le sembra?
– Proprio niente male, rispose la signora con il foulard impermeabile.
– Sia sincera.
– Lo sono. Voleva fare un ritratto e c’è riuscito. Francamente non ci avrei scommesso un penny.
– No?
– No. Scrivere un ritratto, che idea è? Ma adesso ho letto i suoi sette fogli e so che è un’idea che esiste. Lei ha trovato il modo di farla diventare un oggetto reale. E devo ammettere che ha trovato un sistema semplice e geniale. Chapeau.
– È merito anche suo.
– Dice?
– Molto tempo fa, forse non se lo ricorda, lei mi disse che se proprio dovevo fare il copista cercassi almeno di copiare la gente, e non dei numeri, o dei referti medici.
– Certo che me lo ricordo. È l’unica volta che ci siamo incontrati in vita mia.
– Disse che mi sarebbe riuscito benissimo. Copiare la gente, dico. Lo disse con una sicurezza priva di ombre, come se se non fosse neanche il caso di discuterne.
– Quindi?
– Non credo che mi sarebbe mai venuta in mente questa idea dei ritratti se lei non mi avesse detto quella frase. In quel modo. Sono sincero: non sarei qui, senza di lei.
La signora allora si voltò verso di lui ed aveva la faccia di quando certe vecchie maestre sentono suonare alla porta ed è quel vigliacco del secondo banco che le viene a ringraziare, il giorno che si è laureato. Fece un gesto come una carezza, guardando da un’altra parte, però.
– Lei è un bravo ragazzo, disse.
Rimasero un po’ zitti. La signora con il foulard impermeabile tirò fuori un grande fazzoletto e si soffiò il naso. Poi posò una mano sul braccio di Jasper Gwyn.
– C’è una cosa che non le ho mai raccontato, disse. La vuole sentire?
– Certo.
– Quel giorno, quando lei mi accompagnò a casa... Continuavo a pensare alla storia che lei non voleva più scrivere libri, non riuscivo a farmi passare dalla mente che era un dannato peccato. Non ero nemmeno sicura di averle chiesto perché, o comunque non mi ricordavo che lei mi avesse spiegato veramente come mai non voleva più saperne. Insomma, mi era rimasto qualcosa di traverso, ha presente?
– Sì.
– È durata qualche giorno. Poi una mattina vado dal solito indiano sotto casa, e vedo la copertina di una rivista. C’era tutta una pila di quella rivista, appena arrivata, l’avevano appoggiata sotto le patatine al formaggio. In quel numero avevano intervistato uno scrittore, così sulla copertina c’era il suo nome e una frase, il suo nome bello grande e la sua frase tra virgolette. E la frase diceva: “In amore mentiamo tutti”. Giuro. E guardi che era un grande scrittore, potrei sbagliarmi ma credo che sia addirittura un Nobel. Nel resto della copertina c’era un’attrice non tanto svestita, che prometteva di raccontare tutta la verità. Non ricordo su che stupida faccenda.
Tacque per un po’, come se cercasse di ricordarselo. Ma poi disse un’altra cosa.
– Non significa niente, lo so, ma spostavi la mano di dieci centimetri e potevi prendere delle patatine al formaggio.
Esitò un attimo.
– In amore mentiamo tutti, mormorò scuotendo la testa. Poi la frase dopo la urlò.
– Ben fatto, Mr Gwyn!
Disse che si mise a urlarlo proprio lì dall’indiano, con la gente che si voltava. L’aveva ripetuto tre o quattro volte.
Ben fatto, Mr Gwyn!
L’avevano presa per matta.
– Ma è una cosa che mi capitava sovente, disse. Essere presa per matta, chiarì.
Allora Jasper Gwyn disse che non c’era nessuno come lei, e chiese se le andava di festeggiare insieme, quella sera.
– Prego?
– Che ne dice di venire a cena con me?
– Non dica sciocchezze, io sono morta, i ristoranti mi odiano.
– Almeno un bicchiere.
– Che razza di idea.
– Lo faccia per me.
– Adesso è proprio ora che vada.
Lo disse con voce dolce, ma ferma. Si alzò, prese la borsa e l’ombrello, che era sempre marcio, e andò verso la porta. Trascinava un po’ i piedi, in quel suo modo che si poteva riconoscere da lontano. Quando si fermò era perché aveva ancora una cosa da dire.
– Non faccia il maleducato, porti quei sette fogli a Rebecca, e glieli faccia leggere.
– Lei crede che sia necessario?
– Certo.
– Cosa dirà?
– Sono io, dirà.
Jasper Gwyn si chiese se l’avrebbe mai più rivista, e decise che sì, da qualche parte, ma fra molti anni, in un’altra solitudine.