LOCANDA ALMAYER

1

Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare - il mare -nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.

Potrebbe essere la perfezione - immagine per occhi divini - mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità - verità - ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una grande giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela.

È come una sentinella - questo bisogna capirlo - in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà -proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, e poi proprio accanto a lui, dove diventa un nulla fermarsi - e, tacendo, guardare.

L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere. Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola.

— Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio di usarli?

Questo sembra risvegliarlo. Questo l’ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere.

— Vi prego, non muovetevi —, dice.

Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare” - ed è un pensiero che dà i brividi.

Lei si è già voltata da tempo, e già sta rimisurando l’immensa spiaggia con il matematico rosario dei suoi passi, quando il vento passa sulla tela ad asciugare uno sbuffo di luce rosea, nudo a galleggiare nel bianco. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.

La marea, da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il suo cavalletto, se li piglia, adagio ma con precisione, restano lì, l’uno e l’altro, impassibili, come un’isola in miniatura, o un relitto a due teste. Plasson, il pittore.

Viene a prenderselo, ogni sera, una barchetta, poco prima del tramonto, che l’acqua gli è già arrivata al cuore. È così che vuole, lui. Sale sulla barchetta, ci carica il cavalletto e tutto, e si lascia riportare a casa.

La sentinella se ne va. Il suo dovere è finito. Scampato pericolo. Si spegne nel tramonto l’icona che ancora una volta non è riuscita a diventare sacra. Tutto per quell’ometto e i suoi pennelli. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero.

2

... solo di rado, e in un modo che taluni, in quei momenti, nel vederla, si udivano dire, a bassa voce

— Ne morirà oppure

— Ne morirà o anche

— Ne morirà e perfino

— Ne morirà. Tutt’intorno, colline.

La mia terra, pensava il barone di Carewall.

Non è proprio una malattia, potrebbe esserlo, ma è qualcosa di meno, se ha un nome dev’essere leggerissimo, lo dici e già è sparito.

— Quand’era bambina un giorno arriva un mendicante e comincia a cantare una nenia, la nenia spaventa un merlo che si alza...

— ... spaventa una tortora che si alza ed è il frullare delle ali...

— ... le ali che frullano, un rumore da niente...

— ... sarà stato dieci anni fa...

— ... passa la tortora davanti alla sua finestra, un attimo, così, e lei alza gli occhi dai giochi e io non so, aveva addosso il terrore, ma un terrore bianco, voglio dire non era come uno che ha paura, era come uno che stesse per scomparire...

— ... il frullare delle ali...

— ... uno che gli scappava l’anima...

— ... mi credi?

Credevano che sarebbe cresciuta e tutto sarebbe passato. Ma intanto per tutto il palazzo stendevano tappeti perché, è ovvio, i suoi stessi passi la spaventavano, tappeti bianchi, dappertutto, un colore che non facesse del male, passi senza rumore e colori ciechi. Nel parco, i sentieri erano circolari con la sola eccezione ardita di un paio di viali che serpeggiavano inanellando morbide curve regolari - salmi - e questo è più

ragionevole, in effetti basta un po’ di sensibilità per capire che qualsiasi angolo cieco è un agguato possibile, e due strade che si incrociano una violenza geometrica e perfetta, sufficiente a spaventare chiunque sia seriamente in possesso di una vera sensibilità e tanto più lei, che non possedeva propriamente un animo sensibile ma, per dirla con termini esatti, era posseduta da una sensibilità d’animo incontrollabile, esplosa per sempre in chissà quale momento della sua vita segreta - vita da nulla, piccola com’era - e poi risalita al cuore per vie invisibili, e agli occhi, e alle mani e a tutto, come una malattia, che una malattia non era, ma. qualcosa di meno, se ha un nome dev’essere leggerissimo, lo dici e già è sparito.

Per cui, nel parco, i sentieri erano circolari.

Né bisogna dimenticare la storia di Edel Trut, che in tutto il Paese non aveva rivali nel tessere la seta e per ciò fu chiamato dal barone, un giorno d’inverno, che la neve era alta come bambini, un freddo dell’altro mondo, arrivare fin là fu un inferno, il cavallo fumava, le zampe a casaccio nella neve, e la slitta dietro a scarrocciare, se non arrivo entro dieci minuti forse muoio, come è vero che mi chiamo Edel, muoio, e per giunta senza nemmeno sapere cosa diavolo deve farmi vedere il barone di così

importante...

— Cosa vedi, Edel?

Nella camera della figlia, il barone sta in piedi di fronte alla parete lunga, senza finestre, e parla piano, con una dolcezza antica.

— Cosa vedi?

Tessuto di Borgogna, roba di qualità, e paesaggi come tanti, un lavoro fatto bene.

— Non sono paesaggi qualunque, Edel. O almeno, non lo sono per mia figlia. Sua figlia.

É una specie di mistero, ma bisogna cercare di capire, lavorando di fantasia, e dimenticare quel che si sa in modo che l’immaginazione possa vagabondare libera, correndo lontana dentro le cose fino a vedere come l’anima non è sempre diamante ma alle volte velo di seta - questo posso capirlo - immagina un velo di seta trasparente, qualunque cosa potrebbe stracciarlo, anche uno sguardo, e pensa alla mano che lo prende - una mano di donna - sì - si muove lentamente e lo stringe tra le dita, ma stringere è già troppo, lo solleva come se non fosse una mano ma un colpo di vento e lo chiude tra le dita come se non fossero dita ma... - come se non fossero dita ma pensieri. Così. Questa stanza è quella mano, e mia figlia è un velo di seta. Sì, ho capito.

— Non voglio cascate, Edel, ma la pace di un lago, non voglio querce ma betulle, e quelle montagne in fondo devono diventare colline, e il giorno un tramonto, il vento una brezza, le città paesi, i castelli giardini. E se proprio ci devono esser dei falchi, che almeno volino, e lontano.

Sì, ho capito. C’è solo una cosa: e gli uomini?

Il barone tace. Osserva tutti i personaggi dell’enorme tappezzeria, uno ad uno, come a sentire il loro parere. Passa da una parete all’altra, ma nessuno parla. C’era da aspettarselo.

— Edel, c’è un modo di fare degli uomini che non facciano del male?

Se la deve essere chiesta anche Dio, questa, al momento buono.

— Non so. Ma ci proverò.

Nella bottega di Edel Trut lavorarono dei mesi con i chilometri di filo di seta che il barone fece arrivare. Lavoravano in silenzio perché, diceva Edel, il silenzio doveva entrare nella trama del tessuto. Era un filo come gli altri, solo che non lo vedevi, ma lui c’era. Così lavoravano in silenzio.

Mesi.

Poi un giorno un carro arrivò al palazzo del barone, e sul carro c’era il capolavoro di Edel. Tre enormi rotoli di stoffa che pesavano come croci in processione. Li portarono su per la scalinata e poi lungo i corridoi e di porta in porta fino al cuore del palazzo, nella stanza che li aspettava. Fu un attimo prima che li srotolassero che il barone mormorò

— E gli uomini?

Edel sorrise.

— Se proprio ci devono essere degli uomini, che almeno volino, e lontano. Il barone scelse la luce del tramonto per prendere sua figlia per mano e portarla nella sua nuova stanza. Edel dice che lei entrò e subito arrossì, di meraviglia, e il barone per un istante temette che la sorpresa potesse essere troppo forte, ma non fu che un istante, perché subito si fece udire l’irresistibile silenzio di quel mondo di seta dove una terra clemente riposava lietissima e piccoli uomini, sospesi nell’aria, misuravano a passo lento l’azzurro pallido del cielo.

Edel dice - e questo non potrà dimenticarlo - che lei si guardò a lungo intorno e poi voltandosi - sorrise.

Si chiamava Elisewin.

Aveva una voce bellissima - velluto - e quando camminava sembrava scivolasse nell’aria, che non potevi smettere di guardarla. Ogni tanto, senza ragione, le piaceva mettersi a correre, lungo i corridoi, incontro a chissà cosa, su quei tremendi tappeti bianchi, smetteva di essere l’ombra che era e correva, ma solo di rado, e in un modo che taluni, in quei momenti, nel vederla, si udivano dire, a bassa voce...

3

Alla locanda Almayer ci potevi arrivare a piedi, scendendo per il sentiero che veniva dalla cappella di Saint Amand, ma anche in carrozza, per la strada di Quartel, o su una chiatta, scendendo il fiume. Il professor Bartleboom ci arrivò per caso.

— Questa è la locanda della Pace?

— No.

— La locanda di Saint Amand?

— No.

— L’Albergo della Posta?

— No.

— L’Aringa reale?

— No.

— Bene. C’è una stanza?

— Sì.

— La prendo.

Il librone con le firme degli ospiti aspettava aperto su un leggìo di legno. Un letto di carta appena rifatto che aspettava i sogni di nomi altrui. La penna del professore si infilò voluttuosamente tra le lenzuola.

Ismael Addante Ismael prof. Bartleboom

Con svolazzi e tutto. Una cosa ben fatta.

— Il primo Ismael è mio padre, il secondo mio nonno.

— E quello?

— Addante?

— No, non quello li... questo.

— Prof.?

— Eh.

— Professore, no? Vuol dire professore.

— Che nome scemo.

— Non è un nome... io sono professore, insegno, capite? Io vado per la strada e la gente mi dice Buongiorno professor Bartleboom, Buonasera professor Bartleboom, ma non è un nome, è quello che faccio, insegno...

— Non è un nome.

— No.

— Va be’. Io mi chiamo Dira.

— Dira.

— Sì. Vado per la strada e la gente mi dice Buongiorno Dira, Buonanotte Dira, sei bella oggi Dira, che bel vestito che hai Dira, Hai mica visto Bartleboom per caso, no, è nella sua stanza, primo piano, l’ultima in fondo al corridoio, questi sono gli asciugamani, tenete, si vede il mare, spero che non vi dia fastidio. Il professor Bartleboom - da quel momento semplicemente Bartleboom - prese gli asciugamani.

— Signorina Dira...

— Sì?

— Posso permettermi una domanda?

— Sarebbe?

— Ma voi quanti anni avete?

— Dieci.

— Ah ecco.

Bartleboom - da poco ex professor Bartleboom - prese le valigie e si incamminò

verso le scale.

— Bartleboom...

— Sì?

— Non si chiede l’età alle signorine.

— È vero, scusate.

— Primo piano. L’ultima in fondo al corridoio.

Nella stanza in fondo al corridoio (primo piano) c’erano un letto, un armadio, due sedie, una stufa, un piccolo scrittoio, un tappeto (blu), due quadri identici, un lavabo con specchio, una cassapanca e un bambino: seduto sul davanzale della finestra (aperta), con le spalle alla stanza e le gambe a penzoloni nel vuoto. Bartleboom si esibì in un misurato colpetto di tosse, così, tanto per fare un rumore qualsiasi.

Niente.

Entrò nella stanza, posò le valigie, si avvicinò a guardare i quadri (uguali, incredibile), si sedette sul letto, si tolse le scarpe con evidente sollievo, si rialzò, andò

a guardarsi allo specchio, constatò che era sempre lui (si sa mai), diede un’occhiata nell’armadio, ci appese il mantello e poi si avvicinò alla finestra.

— Fai parte del mobilio o sei qui per caso?

Il bambino non si mosse di un millimetro. Ma rispose.

— Mobilio.

— Ah.

Bartleboom tornò verso il letto, si slacciò la cravatta e si sdraiò. Macchie di umidità, sul soffitto, come fiori tropicali disegnati in bianco e nero. Chiuse gli occhi e si addormentò. Sognò che lo chiamavano a sostituire la donna cannone al Circo Bosendorf e lui, arrivato sulla pista, riconosceva in prima fila sua zia Adelaide, donna squisita ma dai discutibili costumi, che baciava prima un pirata, poi una donna uguale a lei e infine la statua lignea di un santo che poi tanto statua non era se d’improvviso prese a camminare e ad andare diritto verso di lui, Bartleboom, gridando qualcosa che non si riusciva bene a capire e che tuttavia sollevò lo sdegno di tutto il pubblico, tanto da costringere lui, Bartleboom, a scappare a gambe levate, rinunciando perfino al sacrosanto compenso concordato col direttore del circo, 128 soldi, per la precisione. Si svegliò, e il bambino era ancora lì. Però era voltato e lo guardava. Anzi, gli stava parlando.

— Ci siete mai stato, voi, al Circo Bosendorf?

— Prego?

— Vi ho chiesto se ci siete mai stato, al Circo Bosendorf.

Bartleboom si drizzò seduto sul letto.

— Che ne sai tu del Circo Bosendorf?

— Niente. Solo che l’ho visto, è passato da qui l’anno scorso. C’erano gli animali e tutto. C’era anche la donna cannone.

Bartleboom si domandò se non fosse il caso di chiedergli notizie della zia Adelaide. É

vero che era morta da anni, ma quel bambino sembrava saperla lunga. Alla fine preferì limitarsi a scendere dal letto e avvicinarsi alla finestra.

— Ti spiace? Avrei bisogno di un po’ d’aria.

Il bambino si spostò un po’ più in là sul davanzale. Aria fredda e vento da nord. Davanti, fino all’infinito, il mare.

— Cosa ci fai tutto il tempo seduto qua sopra?

— Guardo.

— Non c’è molto da guardare...

— Scherzate?

— Be’, c’è il mare, d’accordo, ma il mare è poi sempre quello, sempre uguale, mare fino all’orizzonte, se va bene ci passa una nave, non è che sia poi la fine del mondo. Il bambino si girò verso il mare, si rigirò verso Bartleboom, si girò ancora verso il mare, si rigirò ancora verso Bartleboom.

— Quanto vi fermerete qui? —, gli chiese.

— Non so. Qualche giorno.

Il bambino scese dal davanzale, andò verso la porta, si fermò sulla soglia, rimase per un po’ a studiare Bartleboom.

— Voi siete simpatico. Magari quando ve ne andrete sarete un po’ meno imbecille. Cresceva, in Bartleboom, la curiosità di sapere chi li aveva educati, quei bambini. Un fenomeno, evidentemente.

Sera. Locanda Almayer. Stanza al primo piano, in fondo al corridoio. Scrittoio, lampada a petrolio, silenzio. Una vestaglia grigia con dentro Bartleboom. Due pantofole grigie con dentro i suoi piedi. Foglio bianco, sullo scrittoio, penna e calamaio. Scrive, Bartleboom. Scrive.

Mia adorata,

sono arrivato al mare. Vi risparmio le fatiche e le miserie del viaggio: ciò che conta è che ora sono qui. La locanda è ospitale: semplice, ma ospitale. È sul colmo di una piccola collina, proprio davanti alla spiaggia. La sera si alza la marea e l’acqua arriva fin quasi sotto alla mia finestra. È come stare su una nave. Vi piacerebbe.

Io non sono mai stato su una nave.

Domani inizierò i miei studi. Il posto mi sembra ideale. Non mi nascondo la difficoltà dell’impresa, ma Voi sapete - Voi sola, al mondo - quanto io sia determinato a portare a termine l’opera che è stata mia ambizione concepire e intraprendere in un giorno fausto di dodici anni fa. Mi sarà di conforto immaginarvi in salute e in letizia d’animo.

Effettivamente non ci avevo mai pensato prima: ma davvero non sono mai stato su una nave.

Nella solitudine di questo luogo appartato dal mondo, mi accompagna la certezza che non vorrete, nella lontananza, smarrire il ricordo di colui che Vi ama e che sempre rimarrà il Vostro

Ismael A. Ismael Bartleboom

Posa la penna, piega il foglio, lo infila in una busta. Si alza, prende dal suo baule una scatola di mogano, solleva il coperchio, ci lascia cadere dentro la lettera, aperta e senza indirizzo. Nella scatola ci sono centinaia di buste uguali. Aperte e senza indirizzo.

Ha 38 anni, Bartleboom. Lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare la cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno, ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi, se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle sul grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle

— Ti aspettavo.

Lei aprirà la scatola e lentamente, quando vorrà, leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu si prenderà gli anni - i giorni, gli istanti - che quell’uomo, prima ancora di conoscerla, già le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti a quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell’uomo

— Tu sei matto.

E per sempre lo amerà.

4

— Padre Pluche...

— Sì, Barone.

— Mia figlia compirà domani quindici anni.

— ...

— É da otto anni che l’ho affidata alle vostre cure.

— ...

— Non l’avete guarita.

— No.

— Dovrà prendere marito.

— ...

— Dovrà uscire da questo castello, e vedere il mondo.

— ...

— Dovrà avere dei bambini e...

— ...

— Insomma, dovrà pur iniziare a vivere, una buona volta.

— ...

— ...

— ...

— Padre Pluche, mia figlia deve guarire.

— Sì.

— Trovate qualcuno che sappia guarirla. E portatelo qui.

Il più famoso dottore del Paese si chiamava Atterdel. In molti l’avevano visto resuscitare i morti, gente più di là che di qua, già bell’e che andati, spacciati, davvero, e lui li aveva ripescati dall’inferno e restituiti alla vita, che volendo era anche una cosa imbarazzante, alle volte perfino inopportuna, ma va capito che quello era il suo mestiere, e nessuno lo sapeva fare come lui, per cui quelli resuscitavano, con buona pace di amici e parenti tutti, costretti a rifare tutto da capo, e rimandare lacrime ed eredità a momenti migliori, la prossima volta magari ci pensano per tempo e si rivolgono a un dottore normale, uno di quelli che li accoppa e basta, non come questo che li rimette in piedi, solo perché è il più famoso del Paese. E il più caro, oltre tutto. Padre Pluche, così, pensò al dottor Atterdel. Non che credesse molto ai medici, questo no, ma per tutto ciò che riguardava Elisewin si era obbligato a pensare con la testa del barone, non con la sua. E la testa del barone pensava che dove falliva Dio poteva farcela la scienza. Dio aveva fallito. Adesso toccava ad Atterdel. Arrivò al castello su una carrozza nera e lucida, il che risultò un po’ luttuoso ma anche molto scenografico. Salì velocemente la scalinata e giunto davanti a Padre Pluche, senza quasi guardarlo, chiese

— Siete voi il Barone?

— Magari.

Questo era tipico di Padre Pluche. Non riusciva a trattenersi. Non diceva mai la cosa che avrebbe dovuto dire. Gliene veniva in mente prima un’altra. Un attimo prima. Ma era più che sufficiente.

— Allora siete Padre Pluche.

— Ecco.

— Siete voi che mi avete scritto.

— Sì.

— Be’, avete uno strano modo di scrivere.

— Nel senso?

— Non c’era bisogno di scrivere tutto in rima. Sarei venuto lo stesso.

— Ne siete sicuro?

Ad esempio: qui la cosa giusta da dire era

— Scusatemi, era uno stupido gioco e in effetti la frase arrivò perfettamente confezionata nella testa di Padre Pluche, bella lineare e pulita, ma con un attimo di ritardo, quel tanto che bastava per farsi scivolare da sotto uno stupido refolo di parole che non appena affiorato sulla superficie del silenzio si cristallizzò nell’incontestabile lucentezza di una domanda completamente fuori luogo.

— Ne siete sicuro?

Atterdel sollevò lo sguardo su Padre Pluche. Era qualcosa di più di uno sguardo. Era una visita medica.

— Ne sono sicuro.

Hanno questo, di buono, gli uomini di scienza: ne sono sicuri.

— Dov’è questa ragazzina?

“Sì... Elisewin... È il mio nome. Elisewin.”

“Sì, dottore.”

“No, davvero, non ho paura. Parlo sempre così. É la mia voce. Dice Padre Pluche che...”

“Grazie, signore.”

“Non so. Le cose più strane. Ma non è paura, proprio paura... è un po’ diverso... la paura viene da fuori, questo io l’ho capito, tu sei lì e ti arriva addosso la paura, ci sei tu e c’è lei... è così... c’è lei e ci sono anch’io, e invece quel che succede a me è che d’improvviso io non ci sono più, c’è solo più lei... che però non è paura... io non so cosa sia, voi lo sapete?”

“Sì, signore.”

“Sì, signore.”

“È un po’ come sentirsi morire. O sparire. Ecco: sparire. Sembra che gli occhi ti scivolino via dalla faccia, e le mani diventano come le mani di un altro, e allora tu pensi cosa mi sta succedendo?, e intanto il cuore ti batte dentro da morire, non ti lascia in pace... e da tutte le parti è come se dei pezzi di te se ne andassero, non li senti più... insomma te ne stai per andare, e allora io mi dico devi pensare a qualche cosa, devi tenerti aggrappata a un pensiero, se riesco a farmi piccola in quel pensiero poi tutto passerà, bisogna solo resistere, ma il fatto è che... questo è davvero l’orrore... il fatto è che non ci sono più pensieri, da nessuna parte dentro di te, non c’è

più un pensiero ma solo sensazioni, capite? sensazioni... e quella più grande è una febbre infernale, è un tanfo insopportabile, un sapore di morte qui nella gola, una febbre, e una morsa, qualcosa che morde, un demonio che ti morde e ti fa a pezzi, una...”

“Scusate, signore.”

“Sì, ci sono volte in cui è molto più... semplice, voglio dire, mi sento sparire, sì, ma dolcemente, piano piano... è l’emozione, Padre Pluche dice che è l’ emozione, dice che non ho nulla che mi difende dall’emozione e così è come se le cose entrassero direttamente nei miei occhi e nelle mie...”

“Nei miei occhi, sì.”

“No, io non me lo ricordo. Io so che sto male, ma... Alle volte ci sono cose che non mi spaventano, voglio dire, non è sempre così, l’altra notte c’era un temporale terribile, lampi, vento... ma io ero tranquilla, davvero, non avevo né paura né niente... Poi però basta un colore, magari, o la forma di un oggetto, o... o la faccia di un uomo che passa, ecco, le facce... le facce possono esser tremende, non è vero?, ci sono delle facce, ogni tanto, così vere, a me sembra che mi saltino addosso, sono facce che urlano, capite cosa voglio dire?, ti urlano addosso, è orribile, non c’è modo di difendersi, non c’è... modo...”

“L’amore?”

“Padre Pluche mi legge i libri, ogni tanto. Quelli non mi fanno male. Mio padre non vorrebbe ma... insomma ci sono storie anche... emozionanti, capite?, con gente che uccide, che muore... ma potrei ascoltare qualsiasi cosa se viene da un libro, questo è

strano, riesco anche a piangere ed è una cosa dolce, non c’è di mezzo quel tanfo di morte, piango, tutto qui, e Padre Pluche continua a leggere, ed è molto bello, ma questo mio padre non lo deve sapere, lui non lo sa, e forse è meglio che...”

“Certo che lo amo, mio padre. Perché?”

“I tappeti bianchi?”

“Non so.”

“Mio padre io un giorno l’ho visto dormire. Sono entrata nella sua stanza e l’ho visto. Mio padre. Dormiva tutto rannicchiato, come i bambini, su un fianco, con le gambe rannicchiate, e le mani chiuse, a pugno... non lo dimenticherò mai... mio padre, il barone di Carewall. Dormiva come dormono i bambini. Lo capite, questo, voi? Come si fa a non aver paura se perfino... come si fa se anche...”

“Non so. Qui non arriva mai nessuno...”

“Ogni tanto. Me ne accorgo, sì. Parlano piano, quando sono con me, e sembra che si muovano anche più... più lentamente, come se avessero paura di rompere qualcosa. Però non so se...”

“No, non è difficile... è diverso, non so, è come stare...”

“Padre Pluche dice che io in realtà dovevo essere una farfalla notturna, ma poi c’è

stato un errore, e cosi son arrivata qui, ma non è esattamente qui che dovevano posarmi, e così adesso tutto è un po’ difficile, è normale che tutto mi faccia male, devo avere molta pazienza e aspettare, è una cosa complicata, si capisce, trasformare una farfalla in una donna...”

“Va bene, signore.”

“Ma è una specie di gioco, non è una cosa proprio vera, e neanche proprio falsa, se voi conosceste Padre Pluche...”

“Certo, signore.”

“Una malattia?”

“SI.”

“No, non ho paura. Di questo non ho paura, davvero.”

“Lo farò.”

“Sì.”

“Sì.”

“Allora addio.”

“ ”

“Signore...”

“Signore, scusatemi...”

“Signore, volevo dire che lo so che sto male e non riesco nemmeno a uscire da qui, ogni tanto, e anche solo correre è per me una cosa troppo...”

“Volevo dire che io la voglio, la vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita quella non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire è

vivere che voglio. Ce la farò, vero?”

“Vero che ce la farò?”

Giacché la scienza è strana, un animale strano, che cerca la sua tana nei posti più

assurdi, e lavora secondo meticolosi piani che da fuori non si possono che giudicare imperscrutabili e perfino, talvolta, comici, tanto sembrano un vacuo vagabondare e invece sono geometrici sentieri di caccia, trappole seminate con sapienziale arte, e strategiche battaglie di fronte alle quali accade di rimanere stupefatti un po’ come accadde al barone di Carewall quando quel dottore vestito di nero alla fine gli parlò, guardandolo negli occhi, con fredda sicurezza ma anche, si sarebbe detto, con un velo di tenerezza, cosa del tutto assurda, conoscendo gli uomini di scienza e il dottor Atterdel in particolare, ma non completamente incomprensibile se solo si fosse stati capaci di entrare nella testa del dottor Atterdel stesso e in particolare nei suoi occhi dove l’immagine di quell’uomo enorme e forte - nulla di meno del barone di Carewall in persona - continuamente scivolava nell’immagine di un uomo rannicchiato nel suo letto, lì a dormire come un bambino, il grande e potente barone e il piccolo bambino, uno dentro l’altro, da non riuscire più a distinguerli, da finire per rimanerne commossi, anche ad essere veri uomini di scienza come lo era, incontestabilmente, il dottor Atterdel nell’istante in cui con fredda sicurezza e pur con un velo di tenerezza guardò negli occhi il barone di Carewall e gli disse Io posso salvare vostra figlia - lui può salvare mia figlia - ma non sarà semplice e in certo modo sarà anche tremendamente rischioso - rischioso? - è un esperimento, non sappiamo ancora davvero che effetti può avere, crediamo che possa servire in casi come questo, l’abbiamo visto molte volte ma nessuno può davvero dire... - eccola la geometrica trappola della scienza, gli imperscrutabili sentieri di caccia, la partita che quell’uomo vestito di nero giocherà contro la malattia strisciante e imprendibile di una ragazzina troppo fragile per vivere e troppo viva per morire, malattia fantastica che però un nemico ce l’ha, ed è immane, medicamento rischioso ma sfolgorante, completamente assurdo, a ben vedere, tanto che perfino l’uomo di scienza abbassa la voce nell’istante preciso in cui agli occhi immobili del barone ne pronuncia il nome, niente più che una parola, ma è ciò che salverà sua figlia, o la ucciderà, ma più

probabilmente la salverà, una parola sola, però infinita, a suo modo, perfino magica, intollerabilmente semplice.

— Il mare?

Restano immobili, gli occhi del barone di Carewall. Fin dove finiscono le sue terre non c’è in quell’istante stupore più cristallino di quello che barcolla in bilico sul suo cuore.

— Voi salverete mia figlia con il mare?

5

Solo, in mezzo alla spiaggia, Bartleboom guardava. A piedi nudi, i pantaloni arrotolati in su per non bagnarli, un quadernone sotto il braccio e un cappello di lana in testa. Leggermente chinato in avanti, guardava: per terra. Studiava l’esatto punto in cui l’onda, dopo essersi rotta una decina di metri più indietro, si allungava - divenuta lago, e specchio e macchia d’olio - risalendo la delicata china della spiaggia e finalmente si arrestava - l’estremo bordo orlato da un delicato perlage - per esitare un attimo e alfine, sconfitta, tentare una elegante ritirata lasciandosi scivolare indietro, lungo la via di un ritorno apparentemente facile ma, in realtà, preda destinata alla spugnosa avidità di quella sabbia che, fin li imbelle, improvvisamente si svegliava e, la breve corsa dell’acqua in rotta, nel nulla svaporava.

Bartleboom guardava.

Nel cerchio imperfetto del suo universo ottico la perfezione di quel moto oscillatorio formulava promesse che l’irripetibile unicità di ogni singola onda condannava a non esser mantenute. Non c’era verso di fermare quel continuo avvicendarsi di creazione e distruzione. I suoi occhi cercavano la verità descrivibile e regolamentata di un’immagine certa e completa: e finivano, invece, per correre dietro alla mobile indeterminazione di quell’andirivieni che qualsiasi sguardo scientifico cullava e derideva.

Era seccante. Bisognava fare qualcosa. Bartleboom fermò gli occhi. Li puntò davanti ai piedi, inquadrando un pezzo di spiaggia muto e immobile. E decise di aspettare. Doveva finirla di correre dietro a quell’altalena sfinente. Se Maometto non va alla montagna, eccetera eccetera, pensò. Prima o poi sarebbe entrato - nella cornice di quello sguardo che lui immaginava memorabile nella sua scientifica freddezza - il profilo esatto, orlato di schiuma, dell’onda che aspettava. E li, essa si sarebbe fissata, come un’impronta, nella sua mente. E lui l’avrebbe capita. Questo era il piano. Con totale abnegazione Bartleboom si calò in un’immobilità senza sentimenti, trasformandosi, per così dire, in neutrale ed infallibile strumento ottico. Quasi non respirava. Nel cerchio fisso ritagliato dal suo sguardo calò un silenzio irreale, da laboratorio. Era come una trappola, imperturbabile e paziente. Aspettava la sua preda. E la preda, lentamente arrivò. Due scarpe da donna. Alte, ma da donna.

— Voi dovete essere Bartleboom.

Bartleboom, veramente, aspettava un’onda. O qualcosa del genere. Alzò lo sguardo e vide una donna, chiusa in un elegante mantello viola.

— Bartleboom, sì... professor Ismael Bartleboom.

— Avete perso qualcosa?

Bartleboom si rese conto che se ne era rimasto chino in avanti, ancora irrigidito nello scientifico profilo dello strumento ottico in cui si era tramutato. Si raddrizzò con tutta la naturalezza di cui fu capace. Pochissima.

— No. Sto lavorando.

— Lavorando?

— Sì, faccio... faccio delle ricerche, sapete, delle ricerche...

— Ah.

— Delle ricerche scientifiche, voglio dire...

— Scientifiche.

— Sì.

Silenzio. La donna si strinse nel suo mantello viola.

— Conchiglie, licheni, cose del genere?

— No, onde.

Così: onde.

— Cioè... vedete lì, dove l’acqua arriva... sale sulla spiaggia poi si ferma... ecco, proprio quel punto, dove si ferma... dura proprio solo un attimo, guardate, ecco, ad esempio, lì... vedete che dura solo un attimo, poi sparisce, ma se uno riuscisse a fermare quell’attimo... quando l’acqua si ferma, proprio quel punto, quella curva... è

quello che io studio. Dove l’acqua si ferma.

— E cosa c’è da studiare?

— Be’, è un punto importante... a volte non ci si fa caso, ma se ci pensate bene lì

succede qualcosa di straordinario, di... straordinario.

— Veramente?

Bartleboom si sporse leggermente verso la donna. Si sarebbe detto che avesse un segreto da dire quando disse

— Lì finisce il mare.

Il mare immenso, l’oceano mare, che infinito corre oltre ogni sguardo, l’immane mare onnipotente - c’è un luogo dove finisce, e un istante - l’immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla. Questo, voleva dire Bartleboom. La donna fece correre lo sguardo sull’acqua che scivolava incurante, avanti e indietro, sulla sabbia. Quando rialzò gli occhi su Bartleboom erano occhi che sorridevano.

— Io mi chiamo Ann Deverià.

— Onoratissimo.

— Sono anch’io alla locanda Almayer.

— Questa è una splendida notizia.

Soffiava, come sempre, vento da nord. Le due scarpe da donna attraversarono quello che era stato il laboratorio di Bartleboom e si allontanarono di qualche passo. Poi si fermarono. La donna si voltò.

— Prenderete un tè con me, vero, questo pomeriggio?

Certe cose, Bartleboom, le aveva viste solo a teatro. E a teatro rispondevano sempre:

— Sarà un piacere.

— Un’enciclopedia dei limiti?

— Sì... il titolo per esteso sarebbe Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura con un supplemento dedicato ai limiti delle umane facoltà.

E voi la state scrivendo...

— Sì.

— Da solo.

— Sì.

— Latte?

Lo prendeva sempre col limone, Bartleboom, il tè.

— Sì grazie... latte.

Una nuvola.

Zucchero.

Cucchiaino.

Cucchiaino che gira nella tazza.

Cucchiaino che si ferma.

Cucchiaino nel piattino.

Ann Deverià, seduta di fronte, ad ascoltare.

— La natura ha una sua perfezione sorprendente e questo è il risultato di una somma di limiti. La natura è perfetta perché non è infinita. Se uno capisce i limiti, capisce come funziona il meccanismo. Tutto sta nel capire i limiti. Prendete i fiumi, per esempio. Un fiume può essere lungo, lunghissimo, ma non può essere infinito. Perché

il sistema funzioni, deve finire. E io studio quanto può essere lungo prima di finire. 864 chilometri. È una delle voci che ho già scritto: Fiumi. Mi ha preso un bel po’ di tempo, lo potete ben capire.

Ann Deverià capiva.

— Per dire: la foglia di un albero, se voi la guardate per bene, è un universo complicatissimo: ma finito. La foglia più grande la si può trovare in Cina: larga un metro e 22 centimetri, lunga più o meno il doppio. Enorme, ma non infinita. E c’è

una logica precisa, in questo: una foglia più grande potrebbe crescere solo su un albero immenso e invece l’albero più alto, che cresce in America, non supera gli 86

metri, un’altezza considerevole, certo, ma del tutto insufficiente a sostenere un numero, anche limitato, perché certo sarebbe limitato, di foglie più grandi di quelle che si trovano in Cina. La vedete la logica?

Ann Deverià la vedeva.

— Sono studi faticosi, e anche difficili, non si può negarlo, ma è importante capire. Descrivere. L’ultima voce che ho scritto è stata Tramonti. Sapete, è geniale questa cosa che i giorni finiscono. É un sistema geniale. I giorni e poi le notti. E di nuovo i giorni. Sembra scontato, ma c’è del genio. E là dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti. Li ho studiati per settimane. Non è

facile capire un tramonto. Ha i suoi tempi, le sue misure, i suoi colori. E poiché non c’è un tramonto, dico uno, che sia identico a un altro allora lo scienziato deve saper discernere i particolari e isolare l’essenza fino a poter dire questo è un tramonto, il tramonto. Vi annoio?

Ann Deverià non si annoiava. Cioè: non più del solito.

— Cosi adesso sono arrivato al mare. Il mare. Finisce, anche lui, come tutto il resto, ma vedete, anche qui è un po’ come per i tramonti, il difficile è isolare l’idea, voglio dire, riassumere chilometri e chilometri di scogliere, rive, spiagge, in un’unica immagine, in un concetto che sia la fine del mare, qualcosa che si possa scrivere in poche righe, che possa stare in un’enciclopedia, perché poi la gente, leggendola, possa capire che il mare finisce, e come, indipendentemente da tutto quello che può

succedergli attorno, indipendentemente da...

— Bartleboom...

— Sì?

— Chiedetemi perché sono qui. Io.

Silenzio. Imbarazzo.

— Non ve l’ho chiesto, vero?

— Chiedetemelo ora.

— Perché siete qui, madame Deverià?

— Per guarire.

Altro imbarazzo, altro silenzio. Bartleboom prende la tazza, la porta alle labbra. Vuota. Come non detto. La riposa.

— Guarire da cosa?

— É una malattia strana. Adulterio.

— Prego?

— Adulterio, Bartleboom. Io ho tradito mio marito. E mio marito pensa che il clima del mare assopisca le passioni, e la vista del mare stimoli il senso etico, e la solitudine del mare mi induca a dimenticare il mio amante.

— Davvero?

— Davvero cosa?

— Davvero voi avete tradito vostro marito?

— Sì.

— Ancora un po’ di tè?

Posata sulla cornice ultima del mondo, a un passo dalla fine del mare, la locanda Almayer lasciava che il buio, anche quella sera, ammutolisse a poco a poco i colori dei suoi muri: e della terra tutta e dell’oceano intero. Pareva - lì, così solitaria - come dimenticata. Quasi che una processione di locande, di ogni genere e età, fosse passata un giorno da lì, costeggiando il mare, e tra tutte se ne fosse staccata, una, per stanchezza, e lasciatasi sfilare accanto le compagne di viaggio avesse deciso di fermarsi su quell’accenno di collina, arrendendosi alla propria debolezza, chinando il capo e aspettando la fine. Così era la locanda Almayer. Aveva quella bellezza di cui solo i vinti sono capaci. É la limpidezza delle cose deboli. É la solitudine, perfetta, di ciò che si è perduto.

Plasson, il pittore, era da poco tornato, fradicio, con le sue tele e i suoi colori, seduto a prua della barchetta spinta, a colpi di remi, da un ragazzino dai capelli rossi.

— Grazie Dol. A domani.

— Buona notte, signor Plasson.

Com’è che non fosse già morto di polmonite, Plasson, questo era un mistero. Uno non sta ore e ore al vento del nord, con i piedi a bagno e la marea che gli sale nei pantaloni, senza, prima o poi, morire.

— Prima deve finire il suo quadro —, aveva sentenziato Dira.

— Non lo finirà mai —, diceva madame Deverià.

— Non morirà mai, allora.

Nella stanza numero 3, al primo piano, un lume a petrolio illuminava con dolcezza - facendone trapelare il segreto, tutt’intorno, nella sera - la bella devozione del professor Ismael Bartleboom.

Mia adorata,

Dio sa quanto mi manca, in quest’ora malinconica, il conforto della Vostra presenza e il sollievo dei Vostri sorrisi. Il lavoro mi stanca e il mare si ribella ai miei ostinati tentativi di capirlo. Non avevo pensato che potesse essere così difficile stargli davanti. E mi aggiro, con i miei strumenti e i miei quaderni, senza trovare l’inizio di ciò che cerco, l’ingresso a una qualsiasi risposta. Dove inizia la fine del mare? O

addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una parola sola o in un sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a un passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare. Oggi ho conosciuto una donna bellissima. Ma non siate gelosa. Io vivo solo per Voi.

Ismael A. Ismael Bartlehoom

Scriveva con serena facilità, Bartleboom, senza mai fermarsi e con una lentezza che nulla avrebbe potuto turbare. Amava pensare che nello stesso modo, un giorno, lei lo avrebbe accarezzato.

Nella penombra, con le lunghe dita sottili che avevano fatto impazzire più di un uomo, Ann Deverià sfiorava le perle della sua collana - rosario del desiderio - nel gesto inconsapevole con cui era solita intrattenere la propria tristezza. Guardava agonizzare la fiammella della lampada, spiando di tanto in tanto, nello specchio, il proprio volto ridisegnato dall’affanno di quei piccoli bagliori disperati. Si appoggiò a quegli ultimi refoli di luce per avvicinarsi al letto dove, sotto le coperte, una bambina dormiva ignara di qualsiasi altrove, e bellissima. Ann Deverià là guardò - ma d’uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte - sguardo meraviglioso che è

vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta - qualcosa come due cose che si toccano - gli occhi e l’immagine - uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più

assoluto della mente, l’ unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare - vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere - sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire - vedere - sentire - perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto - ricevere - senza domande, perfino senza meraviglia - ricevere - solo - ricevere - negli occhi - il mondo. Così, solamente, sanno vedere gli occhi delle madonne, sotto le arcate delle chiese, l’angelo sceso da cieli d’oro, nell’ora dell’Annunciazione. Buio. Ann Deverià si stringe al corpo senza vesti della bambina, nel segreto del suo letto, rotondo di coperte leggere come nuvole. Le sue dita sfilano su quella pelle incredibile, e le labbra cercano nelle pieghe più nascoste il tiepido sapore del sonno. Si muove lentamente, Ann Deverià. Una danza al ralenti, che adagio scioglie qualcosa nella testa e tra le gambe e dappertutto. Non c’è ballo più esatto di quello, per volteggiare col sonno, sul parquet della notte. L’ultima luce, nell’ultima finestra, si spegne. Solo l’inarrestabile macchina del mare continua a svellere il silenzio con la ciclica esplosione di onde notturne, lontane ricordanze di tempeste sonnambule e naufragi di sogno.

Notte sulla locanda Almayer.

Immobile notte.

Bartleboom si svegliò stanco e di malumore. Per ore, in sogno, aveva trattato l’acquisto della cattedrale di Chartres con un cardinale italiano ottenendo alla fine un monastero dalle parti di Assisi al prezzo, esoso, di sedicimila corone più una notte con Dorothea, sua cugina, e un quarto della locanda Almayer. La trattativa, per giunta, si era svolta su un vascello pericolosamente in balia dei flutti e comandato da un gentiluomo che diceva di essere marito di madame Deverià e, ridendo - ridendo - ammetteva di non capire assolutamente niente di mare. Si svegliò che era esausto. Non si stupì di vedere, a cavalcioni del davanzale, il solito ragazzino che, immobile, guardava il mare. Ma rimase sconcertato dal sentirlo dire, senza nemmeno voltarsi:

— Io, a quello lì, il suo monastero glielo tiravo dietro.

Bartleboom scese dal letto e senza una parola prese il ragazzino per un braccio, trascinandolo giù dal davanzale e poi fuori dalla porta e infine giù per le scale, gridando

— Signorina Dira!

mentre rotolava giù dai gradini e finalmente approdava al piano terreno dove

— SIGNORINA DIRA!

alla fine trovò quello che cercava e cioè la reception - volendo chiamarla così - e insomma arrivò, tenendosi bene stretto il ragazzino, al cospetto della signorina Dira - dieci anni, non uno di più - dove si fermò, finalmente, con fiero cipiglio, solo parzialmente smussato dall’umana debolezza di una camicia da notte gialla, e più

seriamente boicottato dall’abbinamento della suddetta con una cuffia da notte in lana, maglia larga.

Dira sollevò gli occhi dai suoi conti. I due - Bartleboom e il ragazzino - se ne stavano sull’attenti di fronte a lei. Parlarono uno dopo l’altro, come se se la fossero studiata.

— Questo ragazzino legge nei sogni.

— Quest’uomo parla nel sonno.

Dira riabbassò gli occhi sui suoi conti. Non alzò nemmeno la voce.

— Sparite.

Sparirono.

6

Perché il mare, il barone di Carewall, mai l’aveva visto. Le sue terre erano terra: e pietre, colline, paludi, campi, dirupi, montagne, boschi, radure. Terra. Il mare, non c’era.

Il mare era per lui un’idea. O, più propriamente, un percorso dell’immaginazione. Era qualcosa che nasceva nel Mar Rosso - diviso in due dalle mani di Dio - si moltiplicava nel pensiero del diluvio universale, lì si perdeva per poi ritrovarsi nel profilo panciuto di un’arca e immediatamente si collegava al pensiero delle balene - mai viste ma spesso immaginate - e da lì ridefluiva, di nuovo abbastanza chiaro, nelle poche storie, fino a lui arrivate, di pesci mostruosi e draghi e città sottomarine, in un crescendo di splendore fantastico che bruscamente si accartocciava nei tratti aspri del volto di un suo antenato - incorniciato e perenne nell’apposita galleria - che dicevano essere stato avventuriero al fianco di Vasco da Gama: nei suoi occhi sottilmente malvagi, il pensiero del mare imboccava una strada sinistra, rimbalzava su alcune incerte cronache di iperboli corsare, si impigliava in una citazione di sant’Agostino che voleva l’oceano essere la casa del demonio, tornava indietro a un nome - Thessala - che forse era una nave naufragata forse una balia che raccontava storie di navi e di guerre, sfiorava l’odore di certe stoffe arrivate fin lì da paesi lontani, e finalmente riaffiorava alla luce negli occhi di una donna d’oltremare, incontrata tanti anni prima e mai più vista, per andarsi a fermare, al termine di un simile periplo della mente, nel profumo di un frutto che, gli avevano detto, cresceva solo in riva al mare, nei paesi del sud: e a mangiarlo si sentiva il gusto del sole. Poiché il barone di Carewall non l’aveva mai visto, il mare viaggiava, nella sua mente, come un clandestino a bordo di un veliero fermo in porto, a vele ammainate: inoffensivo e superfluo.

Avrebbe potuto riposare lì per sempre. Ma giunsero a stanarlo, in un attimo, le parole di un uomo vestito di nero chiamato Atterdel, il verdetto di un implacabile uomo di scienza chiamato a compiere un miracolo.

— Io salverò vostra figlia. E lo farò con il mare.

Dentro il mare. C’era da non crederlo. L’appestato e putrido mare, ricettacolo di orrori, e antropofago mostro abissale - antico e pagano - da sempre temuto e adesso, d’improvviso

ti invitano, come a una passeggiata, ti ordinano, perché è una cura, ti spingono con implacabile cortesia

dentro il mare. È la cura alla moda, ormai. Mare

preferibilmente freddo e fortemente salino e mosso, giacché l’onda fa parte integrante della cura, per ciò che di temibile porta con sé, tecnicamente da superare e moralmente da dominare, in una sfida paurosa, a ben pensarci, paurosa. Tutto nella certezza - diciamo nella convinzione - che il grande grembo marino possa spezzare l’involucro della malattia, riattivare i canali della vita, moltiplicare il salvifico secernere delle ghiandole centrali e periferiche

linimento ideale per idrofobi,

malinconici, impotenti, anemici, solitari, malvagi, invidiosi,

e pazzi. Come il pazzo

che portarono, a Brixton, sotto lo sguardo impermeabile di dottori e scienziati, e immerso di forza nell’acqua gelata, squassata dalle onde, e poi tirato fuori e, misurate reazioni e controreazioni, di nuovo immerso, con la forza, beninteso, otto

gradi

centigradi, la testa sotto l’acqua, lui che riemerge come un urlo e la forza da animale con cui si libera di infermieri e addetti vari, tutti nuotatori esperti, ma non serve a nulla contro il cieco furore dell’animale, che scappa - scappa - correndo nell’acqua, nudo, e gridando il furore di quella pena micidiale, la vergogna, il terrore. Tutta la spiaggia gelata dal turbamento, mentre quell’animale corre e corre, e le donne, da lontano, girano lo sguardo, benché certo vorrebbero vedere, eccome vorrebbero vedere, la bestia e la sua corsa, e, diciamolo, la sua nudità, proprio quella, la sconnessa nudità che brancola nel mare, addirittura bella in quella luce grigia, di una bellezza che perfora anni di santa educazione e collegi e rossori e dritta va dove deve andare, su per i nervi di timide donne che nel segreto di gonne enormi e candide le

donne. Il mare sembrava, tutto d’un tratto, averle aspettate da sempre. A credere ai medici, stava li, da millenni, perfezionandosi pazientemente, nell’unico preciso intento di offrirsi come unguento miracoloso da offrire alle loro pene, dell’animo e del corpo. Cosi come andavano ripetendo in salotti impeccabili, a mariti e padri impeccabili, gli impeccabili dottori, sorseggiando tè, e misurando le parole, per spiegare, con paradossale cortesia, che lo schifo del mare, e lo choc, e il terrore, era, in vero, serafica cura, per sterilità, anoressie, sfinimenti nervosi, menopause, sovraeccitazioni, inquietudini, insonnie. Ideale esperienza per sanare i turbamenti della giovinezza e preparare alla fatica dei muliebri doveri. Solenne battesimo inaugurale di giovinette divenute donne. Così che volendo dimenticare, per un attimo, il pazzo nel mare di Brixton

(il pazzo continuò a correre, ma verso il largo, finché non lo si vide più, reperto scientifico sfuggito alle statistiche dell’accademia medica e consegnatosi spontaneamente al ventre dell’oceano mare)

volendolo

dimenticare

(digerito

dal

grande intestino acquatico e mai restituito alla spiaggia, mai rivomitato al mondo, come ci si sarebbe potuti aspettare, ridotto a vescica informe e livida) si

potrebbe

pensare a una donna - a una donna - rispettata, amata, madre, donna. Per una qualunque ragione - malattia - portata a un mare che non avrebbe altrimenti mai visto e che adesso è l’ago della sua guarigione, ago sterminato, invero, che lei guarda e non capisce. Ha i capelli sciolti e i piedi nudi, e questo non è qualcosa da nulla, è assurdo, messo insieme a quella tunichetta bianca e ai pantaloni che lasciano scoperte le caviglie, le potresti indovinare i fianchi sottili, è assurdo, soltanto la sua stanza di moglie l’ha vista così, eppure, così, lei sta su una spiaggia enorme, dove non ristagna l’aria collosa di un talamo nuziale ma soffia il vento dal mare portando l’editto di una selvaggia libertà rimossa, dimenticata, oppressa, svilita per tutta una vita di madre moglie amata donna. Ed è chiaro: non può non sentirlo. Quel vuoto intorno, senza pareti e porte chiuse, e solo, davanti, uno sterminato specchio eccitante d’acqua, già

solo quello sarebbe festa dei sensi, orgia dei nervi, e ancora deve succedere tutto, la morsa dell’acqua gelida, la paura, l’abbraccio liquido del mare, la scossa sulla pelle, il cuore in gola...

L’accompagnano verso l’acqua. Sul volto le scende, sublime

nascondimento, una maschera di seta.

D’altronde, del pazzo di Brixton mai nessuno

venne a reclamare il cadavere. Questo va detto. I medici sperimentavano, questo va capito. Giravano coppie da non crederci, il malato e il suo medico, malati diafani, elegantissimi, divorati dal morbo di una lentezza divina e medici come sorci in una cantina, a cercare indizi, prove, numeri e cifre: a spiare i movimenti della malattia nella sua smarrita fuga dall’agguato di una cura paradossale. Bevevano l’acqua del mare, si era arrivato a questo, l’acqua che fino a ieri era orrore e schifo, e privilegio di un’umanità derelitta e barbara, dalla pelle scottata dal sole, avvilente immondizia. La sorseggiavano, adesso, quegli stessi divini invalides che sulla battigia camminavano trascinando impercettibilmente una gamba, nella simulazione straordinaria di una zoppia nobile che li sottraesse all’ordinario dettato di mettere un piede davanti all’altro. Tutto era cura. Qualcuno trovava moglie, altri scrivevano poesie, era il mondo di sempre - ripugnante, a ben vedere - improvvisamente trasferitosi, a scopi esclusivamente medici, sull’orlo di un baratro per secoli aborrito ed ora scelto, per scelta e per scienza, come promenade del dolore.

Bagno

d’onda,

lo chiamavano i

medici. C’era perfino un macchinario, sul serio, una specie di portantina brevettata per entrare nel mare, serviva per le signore, ovviamente, signore e signorine, per ripararle da sguardi indiscreti. Loro salivano sulla portantina, chiusa da ogni lato con tende dai colori sfumati - colori che non gridassero, per cosi dire - e poi le portavano dentro il mare, qualche metro dentro, e lì, con la portantina a filo d’acqua, loro scendevano e prendevano il bagno, come un medicamento, quasi invisibili dietro le loro tende, tende al vento, portantine come tabernacoli galleggianti, tende come paramenti di una cerimonia inspiegabilmente smarrita in acqua, uno spettacolo, a vederlo dalla spiaggia. Il bagno d’onda.

Solo la scienza può certe cose, questa è la

verità. Spazzare secoli di schifo - l’orrendo mare grembo di corruzione e morte - e inventare quell’idillio che a poco a poco si diffonde su tutte le spiagge del mondo.

Guarigioni come

amori. E poi questo: un giorno sulla spiaggia di Depper l’onda portò a riva una barchetta, un rudere, poco più che un relitto. E c’erano loro, i sedotti dalla malattia, sparpagliati sulla chilometrica riva, a consumare ciascuno il suo amplesso marino, ricami eleganti sulla sabbia a perdita d’occhio, ognuno nella sua bolla di emozione, libidine e paura. Con buona pace della scienza che lì li aveva convocati, tutti scesero dal loro cielo a lenti passi verso quel relitto che esitava ad incagliarsi nella sabbia, come un messaggero timoroso di arrivare. Si avvicinarono. Lo tirarono in secca. E videro. Adagiato sul fondo della barca, con lo sguardo rigirato verso l’alto e un braccio a porgere, in avanti, qualcosa che non c’era più. Lo videro: un santo. Era di legno, la statua. Colorato. Il mantello scendeva fino ai piedi, una ferita tagliava la gola ma il volto, quello, non ne sapeva nulla e riposava, mite, su una divina serenità. Null’altro, nella barca, solo il santo. Solo. E tutti, istintivamente, ad alzare gli occhi, per un attimo, a cercare sulla superficie dell’oceano il profilo di una chiesa, comprensibile idea ma anche irragionevole idea, non c’erano chiese, non c’erano croci, non c’erano sentieri, il mare è senza strade, il mare è senza spiegazioni. Gli sguardi di decine di invalides, e donne consunte, bellissime, lontane, medici come sorci, aiutanti e valletti, vecchi guardoni, curiosi, pescatori, ragazzine - e un santo. Smarriti, tutti loro e lui. Sospesi.

Sulla spiaggia di Depper, un giorno.

Nessuno mai capì.

Mai.

— La porterete a Daschenbach, è una spiaggia ideale per i bagni d’onda. Tre giorni. Un’immersione al mattino e una nel pomeriggio. Chiedete del dottor Taverner, vi procurerà tutto il necessario. Questa è una lettera di presentazione per lui. Tenete. Il barone prese la lettera senza nemmeno guardarla.

— Ne morirà —, disse.

— É possibile. Ma molto improbabile.

Solo i grandi dottori sanno essere così cinicamente esatti. Atterdel era il più grande.

— Mettiamola così, Barone: voi potete tenere quella ragazzina qui dentro per anni, a passeggiare su tappeti bianchi e dormire in mezzo a uomini che volano. Ma un giorno un’emozione che non riuscirete a prevedere se la porterà via. Amen. Oppure accettate il rischio, seguite le mie prescrizioni e sperate in Dio. Il mare vi restituirà vostra figlia. Morta, forse. Ma, se viva, viva davvero.

Cinicamente esatto.

Il barone era rimasto immobile, con la lettera in mano,

a metà strada tra lui e il medico vestito di nero.

— Voi non avete figli.

— Questo è un fatto di nessuna importanza.

— Comunque non ne avete.

Guardò la lettera e lentamente la posò sul tavolo.

— Elisewin rimarrà qui.

Un attimo di silenzio, ma solo un attimo.

— Neanche per sogno.

Questo era Padre Pluche. In realtà la frase che era partita dal suo cervello era più

complessa e si avvicinava di più a una cosa come “Forse è il caso di rimandare qualsiasi decisione dopo aver serenamente riflettuto a ciò che...”: una cosa cosi. Ma

“Neanche per sogno” era chiaramente una proposizione più agile e veloce, e non fece gran fatica a sgusciare tra le maglie dell’altra ed affiorare sulla superficie del silenzio come una boa imprevista e imprevedibile.

— Neanche per sogno.

Era la prima volta, in sedici anni, che Padre Pluche osava contraddire il barone in una questione pertinente la vita di Elisewin. Provò una strana ebbrezza: come se si fosse appena buttato da una finestra. Era un uomo di un certo spirito pratico: già che era li, per aria, decise di provare a volare.

— Elisewin andrà fino al mare. Ce la porterò io. E se ci sarà bisogno ci rimarremo mesi, anni, fino a che non troverà la forza per affrontare l’acqua e tutto il resto. E alla fine tornerà: viva. Qualsiasi altra decisione sarebbe un’idiozia, peggio, una viltà. E se Elisewin ha paura, non dobbiamo averla noi, e non ce l’avrò io. A lei non importa nulla di morire. É vivere che vuole. E quel che vuole, l’avrà. Parlava da non crederci, Padre Pluche. Da non credere che fosse lui.

— Voi, dottor Atterdel, non capite niente di uomini e di padri e di figli, niente. E per ciò io vi credo. La verità è sempre disumana. Come voi. Io so che non vi sbagliate. Ho pena di voi, ma le vostre parole le ammiro. E io che non ho mai visto il mare, fino al mare me ne andrò, perché me l’han detto le vostre parole. É la cosa più assurda, ridicola e insensata che mi potesse capitare di fare. Ma non c’è uomo, in tutte le terre di Carewall, che potrà impedirmi di farla. Nessuno.

Raccolse la lettera dal tavolo e se la mise in tasca.

Aveva il cuore che gli sbatteva dentro come un matto, le mani che gli tremavano e uno strano ronzio nelle orecchie. Non c’era da stupirsi, pensò: non capita tutti i giorni di riuscire a volare.

Poteva succedere qualsiasi cosa, in quell’istante. Davvero ci sono momenti in cui l’onnipresente e logica rete delle sequenze causali si arrende, colta di sorpresa dalla vita, e scende in platea, mescolandosi tra il pubblico, per lasciare che sul palco, sotto le luci di una libertà vertiginosa e improvvisa, una mano invisibile peschi nell’infinito grembo del possibile e tra milioni di cose, una sola ne lasci accadere. Nel triangolo silenzioso di quei tre uomini, passarono tutte, le cose a milioni che vi sarebbero potute esplodere, in processione, ma in un lampo, fino a che, diradatosi il bagliore e il polverone, una sola, minuta, apparve, nel cerchio di quel tempo e di quello spazio, sforzandosi con qualche pudore di accadere. E accadde. Che il barone - il barone di Carewall - prese a piangere, senza nemmeno nascondere il volto tra le mani, ma solo lasciandosi andare contro lo schienale del suo sontuoso sedile, come vinto dalla stanchezza, ma anche come liberato da un peso enorme. Come un uomo finito, ma anche come un uomo salvato.

Piangeva, il barone di Carewall.

Le sue lacrime.

Padre Pluche, immobile.

Il dottor Atterdel, senza parole.

E nient’altro.

Tutte cose, queste, che nessuno mai seppe, nelle terre di Carewall. Ma tutti, nessuno escluso, ancora raccontano adesso quel che successe dopo. La dolcezza di quello che successe dopo.

— Elisewin...

— Una cura miracolosa...

— Il mare...

— È una pazzia...

— Guarirà, vedrai.

— Morirà.

— Il mare...

Il mare - vide il barone sui disegni dei geografi - era lontano. Ma soprattutto - vide nei suoi sogni - era terribile, esageratamente bello, terribilmente forte - disumano e nemico - meraviglioso. E poi era colori diversi, odori mai sentiti, suoni sconosciuti - era l’altro mondo. Guardava Elisewin e non riusciva a immaginare in che modo avrebbe potuto avvicinarsi a tutto quello senza scomparire, nel nulla, dispersa nell’aria dal turbamento, e dalla sorpresa. Pensava all’attimo in cui si sarebbe voltata, d’improvviso, e negli occhi avrebbe ricevuto il mare. Ci pensò per settimane. E poi capi. Non era difficile, in fondo. Era incredibile non averci pensato prima.

— Come arriveremo al mare? —, gli chiese Padre Pluche.

— Sarà lui che verrà a prendervi.

Così partirono, una mattina di aprile, attraversarono campagne e colline e al tramonto del quinto giorno giunsero sulla riva di un fiume. Non c’era un paese, non c’erano case, niente. Ma sull’acqua oscillava, silenzioso, un piccolo vascello. Si chiamava Adel. Navigava, di solito, nelle acque dell’Oceano, portando ricchezze e miserie, avanti e indietro, tra il continente e le isole. A prua, portava una polena dai capelli che scivolavano fino ai piedi. Le vele avevano dentro tutti i venti del mondo lontano. La chiglia aveva spiato, per anni, il ventre del mare. In ogni angolo, odori sconosciuti raccontavano storie che le facce dei marinai portavano trascritte sulla pelle. Era un due alberi. Il barone di Carewall aveva voluto che risalisse, dal mare, il corso del fiume, fino a lì.

— È un’idea folle —, gli aveva scritto il capitano.

— Vi coprirò d’oro —, aveva risposto il barone.

E adesso, come un fantasma sfuggito a qualsiasi ragionevole rotta, il due alberi di nome Adel era lì. Sul piccolo pontile, a cui di solito ormeggiavano barchette da nulla, il barone strinse a sé la figlia e le disse:

— Addio.

Elisewin tacque. Si calò sul viso un velo di seta, fece scivolare nelle mani del padre un foglio, piegato e sigillato, si voltò e andò incontro agli uomini che l’avrebbero portata sul vascello. Era quasi notte, ormai. A volerlo, sarebbe potuto sembrare un sogno.

Così Elisewin scese verso il mare nel modo più dolce del mondo - solo la mente di un padre poteva immaginarlo - portata dalla corrente, lungo la danza fatta di curve, pause ed esitazioni che il fiume aveva imparato in secoli di viaggi, lui, il grande saggio, l’unico a sapere la strada più bella e dolce e mite per arrivare al mare senza farsi del male. Scesero giù, con quella lentezza decisa al millimetro dalla sapienza materna della natura, infilandosi a poco a poco in un mondo di odori di cose di colori che giorno dopo giorno svelava, lentissimamente, la presenza lontana, e poi sempre più vicina, dell’enorme grembo che li aspettava. Cambiava l’aria, cambiavano le aurore, e i cieli, e le forme delle case, e gli uccelli, e i rumori, e le facce della gente, sulla riva, e le parole della gente, sulle loro bocche. Acqua che scivolava verso l’acqua, corteggiamento delicatissimo, le anse del fiume come una cantilena dell’anima. Un viaggio impercettibile. Nella mente di Elisewin, sensazioni a migliaia, ma leggere come piume in volo.

Ancora adesso, nelle terre di Carewall, tutti raccontano quel viaggio. Ognuno a modo suo. Tutti senza averlo mai visto. Ma non importa. Non smetteranno mai di raccontarlo. Perché nessuno possa dimenticare di quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno - un padre, un amore, qualcuno - capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume - immaginarlo, inventarlo - e sulla sua corrente posarci, con la leggerezza di una sola parola, addio. Questo, davvero, sarebbe meraviglioso. Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male, ma si avvicinerebbero portate dalla corrente, si potrebbe prima sfiorarle e poi toccarle e solo alla fine farsi toccare. Farsi ferire, anche. Morirne. Non importa. Ma tutto sarebbe, finalmente, umano. Basterebbe la fantasia di qualcuno - un padre, un amore, qualcuno. Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare. Strada clemente, e bella. Una strada da qui al mare.

Tutt’e due immobili, gli occhi fissi su quell’immensa distesa d’acqua. Da non crederci. Sul serio. Da rimanere li una vita, senza capirci niente, ma continuando a guardare. Il mare davanti, un lungo fiume alle spalle, la terra, alla fine, sotto i piedi. E

loro, lì, immobili. Elisewin e Padre Pluche. Come un incantesimo. Senza neanche un pensiero in testa, un pensiero vero, solo stupore. Meraviglia. Ed è dopo minuti e minuti - un’eternità - che Elisewin, finalmente, senza staccare gli occhi dal mare, dice

— Ma poi, a un certo punto, finisce? A centinaia di chilometri, nella solitudine del suo enorme castello, un uomo avvicina alla candela un foglio e legge. Poche parole, tutte su una riga. Inchiostro nero.

Non abbiate paura. Io non ce l’ho. Io che vi amo. Elisewin.

La carrozza se li piglierà, poi, perché è sera, e la locanda li aspetta. Un viaggio breve. La strada lungo la spiaggia. Tutt’intorno, nessuno. Quasi nessuno. Nel mare - che ci fa nel mare? - un pittore.

7

A Sumatra, davanti alla costa nord di Pangei, ogni settantasei giorni emergeva un isolotto a forma di croce, coperto da fitta vegetazione e apparentemente disabitato. Rimaneva visibile per poche ore, poi risprofondava nel mare. Sulla spiaggia di Carcais i pescatori del paese avevano trovato i resti del vascello Davemport, naufragato otto giorni prima dall’altra parte del mondo, nel mare di Ceylon. Sulla rotta per Farhadhar apparivano ai marinai strane farfalle luminose che davano stordimento e senso di malinconia. Nelle acque di Bogador era scomparso un convoglio di quattro navi militari, divorato da un’unica enorme onda apparsa dal nulla in una giornata di piatta assoluta.

L’ammiraglio Langlais sfogliava lentamente quei documenti arrivati dalle più diverse parti di un mondo che, evidentemente, si teneva stretta la sua follia. Lettere, stralci di diari di bordo, ritagli di gazzette, verbali di interrogatori, rapporti confidenziali, dispacci d’ambasciata. C’era di tutto. La lapidaria freddezza dei comunicati ufficiali o l’alcoolica confidenza di marinai visionari attraversavano indifferentemente il mondo per arrivare su quella scrivania dove, a nome del Regno, Langlais tracciava con la sua penna d’oca il confine tra ciò che, nel Regno, sarebbe stato considerato vero e ciò che sarebbe stato dimenticato come falso. Dai mari di tutto il globo, centinaia di figure e voci giungevano in processione su quella scrivania per essere inghiottite da un verdetto sottile come un filo di inchiostro nero, ricamato con grafia precisa su libri rilegati in cuoio. La mano di Langlais era il grembo su cui andavano a posarsi i loro viaggi. La sua penna, la lama su cui si piegava la loro fatica. Una morte esatta e pulita.

La presente notizia è da ritenersi priva di fondamento e come tale è fatto divieto di divulgarla o citarla nelle carte e nei documenti del Regno.

O, per sempre, una limpida vita.

La presente notizia è da ritenersi veritiera e come tale comparirà in tutte le carte e i documenti del Regno.

Giudicava, Langlais. Confrontava le prove, saggiava le testimonianze, indagava sulle fonti. E poi giudicava. Viveva quotidianamente in mezzo ai fantasmi di una immensa fantasia collettiva dove lo sguardo lucido dell’esploratore e quello allucinato del naufrago producevano immagini talvolta identiche e storie illogicamente complementari. Viveva nella meraviglia. Per questo nel suo palazzo regnava un ordine prestabilito e maniacale: e la sua vita scivolava secondo un’immutabile geometria di abitudini che sfiorava la sacralità di una liturgia. Si difendeva, Langlais. Stringeva la propria esistenza in una rete di millimetriche regole capaci di ammortizzare la vertigine dell’immaginario a cui, ogni giorno, concedeva la propria mente. Le iperboli che da tutti i mari del mondo arrivavano fino a lui si placavano sulla meticolosa diga disegnata da quelle minute certezze. Come un placido lago, le attendeva, un passo più in là, la saggezza di Langlais. Immobile e giusta. Dalle finestre aperte giungeva il ritmico rumore delle cesoie del giardiniere che potavano rose con la sicurezza di una Giustizia intenta a emanare salvifici verdetti. Un rumore qualunque. Ma quel giorno, e nella testa dell’ammiraglio Langlais, quel rumore recitava un messaggio ben preciso. Paziente e ostinato - troppo vicino alla finestra per esser casuale - portava l’obbligatorio ricordo di un impegno. Langlais avrebbe preferito non sentirlo. Ma era un uomo d’onore. E dunque scostò le pagine che raccontavano di isole, relitti e farfalle, aprì un cassetto, ne estrasse tre lettere sigillate e le posò sullo scrittoio. Arrivavano da tre luoghi diversi. Benché recassero i segni distintivi della corrispondenza urgente e riservata, Langlais le aveva lasciate riposare, per viltà, alcuni giorni, dove neppure poteva vederle. Ma adesso le aprì, con gesto secco e formale, e vietandosi qualsiasi esitazione, si mise a leggerle. Annotò su un foglio alcuni nomi, una data. Cercava di fare tutto con l’impersonale neutralità di un contabile del Regno. L’ultimo appunto che prese recitava:

Locanda Almayer, Quartel

Alla fine prese le lettere in mano, si alzò e, avvicinatosi al camino, le buttò nella fiamma prudente che vigilava sulla pigra primavera di quei giorni. Mentre guardava accartocciarsi la preziosa eleganza di quelle missive che mai avrebbe voluto leggere, percepì distintamente un grato e improvviso silenzio giungergli dalle finestre aperte. Le cesoie, fin lì instancabili come lancette d’orologio, tacevano. Solo dopo un po’ si scolpirono, nel silenzio, i passi del giardiniere che si allontanava. C’era qualcosa di così esatto in quel congedo che avrebbe stupito chiunque. Ma non Langlais. Lui sapeva. Misterioso per chiunque, il rapporto che univa quei due uomini - un ammiraglio e un giardiniere - non aveva, per loro, più segreti. La consuetudine di una vicinanza fatta di molti silenzi e privati segnali custodiva da anni la loro singolare alleanza.

Ci sono tante storie. Quella, veniva da lontano.

Un giorno, sei anni prima, avevano portato davanti all’ammiraglio Langlais un uomo che, dicevano, si chiamava Adams. Alto, robusto, capelli lunghi fino alle spalle, pelle bruciata dal sole. Avrebbe potuto sembrare un marinaio come tanti. Ma per tenerlo in piedi dovevano sorreggerlo, non era in grado di camminare. Una disgustosa ferita ulcerosa gli segnava il collo. Stava assurdamente immobile, come paralizzato, assente. L’unica cosa che alludesse a qualche rimasuglio di coscienza era lo sguardo. Sembrava lo sguardo di un animale in agonia.

“Ha lo sguardo di un animale in caccia”, pensò Langlais.

Dissero che lo avevano trovato in un villaggio nel cuore dell’Africa. C’erano anche altri bianchi, laggiù: schiavi. Ma lui era qualcosa di diverso. Lui era l’animale prediletto del capo tribù. Se ne stava a quattro zampe, grottescamente decorato di piume e pietre colorate, legato con una corda al trono di quella specie di re. Mangiava gli avanzi che lui gli gettava. Aveva il corpo martoriato da ferite e percosse. Aveva imparato a latrare in un modo che divertiva molto il sovrano. Se era ancora vivo era, probabilmente, solo per quello.

— Che cos’ha da raccontare? —, chiese Langlais.

— Lui niente. Lui non parla. Non vuol parlare. Ma quelli che erano con lui... gli altri schiavi... e poi anche altri che l’hanno riconosciuto, al porto... insomma raccontano di lui cose straordinarie, è come se fosse stato dappertutto, quest’uomo, è un mistero... a credere tutto quello che si dice...

Cosa si dice?

Lui, Adams, immobile e assente, in mezzo alla stanza. E intorno il baccanale della memoria e della fantasia che esplode ad affrescare l’aria con le avventure di una vita che, dicono, è la sua / trecento chilometri a piedi nel deserto / giura che l’ha visto trasformarsi in un negro e poi ridiventare bianco / perché trafficava con lo sciamano del posto, è lì che ha imparato come fare quella polvere rossa che / quando li catturarono li legarono tutti a un unico enorme albero e aspettarono che gli insetti li coprissero completamente, ma lui iniziò a parlare in una lingua incomprensibile e fu lì che quei selvaggi, improvvisamente / giurando che lui era stato su quei monti, dove non scompare mai la luce, e per questo mai nessuno ci è tornato sano di mente, tranne lui che, tornato, disse soltanto / alla corte del sultano, dove era stato preso per la sua voce, che era bellissima, e lui, coperto d’oro, aveva l’incarico di stare nella stanza della tortura e di cantare mentre quelli facevano il loro lavoro, tutto perché il sultano non dovesse sentire la fastidiosa eco dei lamenti ma piuttosto la bellezza di quel canto che / nel lago di Kabalaki, che è grande come il mare, e lì credevano che fosse il mare, finché non costruirono una barca fatta di foglie enormi, foglie d’albero, e con quella navigarono da una costa all’altra, e su quella barca c’era lui, potrei giurarlo / a raccogliere diamanti nella sabbia, con le mani, incatenati e nudi, perché non potessero fuggire, e lui era proprio lì in mezzo, come è vero che / tutti dicevano che era morto, la tempesta se l’era portato via, ma un giorno tagliano le mani a uno, davanti alla porta Tesfa, a un ladro d’acqua, e io guardo bene, ed era lui, proprio lui / per cui si chiama Adams, ma ha avuto mille nomi, e uno, una volta, l’ha incontrato che si chiamava Ra Me Nivar, che nella lingua del posto voleva dire l’uomo che vola, e un’altra volta, sulle coste africane / nella città dei morti, dove nessuno osava entrare, perché c’era una maledizione, da secoli, che faceva esplodere gli occhi a tutti quelli che

— Basta così.

Langlais non alzò nemmeno gli occhi dalla tabacchiera che ormai da minuti rigirava nervosamente tra le mani.

— Va bene. Portatelo via. Nessuno si mosse. Silenzio.

— Ammiraglio... c’è un’altra cosa.

— Cosa?

Silenzio.

— Quest’uomo ha visto Timbuktu.

La tabacchiera di Langlais si fermò.

— C’è gente disposta a giurarlo: lui c’è stato. Timbuktu. La perla dell’Africa. La città

introvabile e meravigliosa. Lo scrigno di tutti i tesori, dimora di tutti gli dei barbari. Cuore del mondo sconosciuto, fortezza di mille segreti, regno fantasma di ogni ricchezza, meta smarrita di infiniti viaggi, sorgente di tutte le acque e sogno di qualsiasi cielo. Timbuktu. La città che nessun uomo bianco aveva mai trovato. Langlais alzò lo sguardo. Nella stanza tutti sembravano rapiti da un’improvvisa immobilità. Solo gli occhi di Adams continuavano a vagabondare, intenti a braccare una preda invisibile.

L’ammiraglio lo interrogò a lungo. Come era sua abitudine parlò con voce severa ma mite, quasi impersonale. Nessuna violenza, nessuna pressione particolare. Solo la paziente processione di domande brevi ed esatte. Non ottenne una sola risposta. Adams taceva. Sembrava per sempre esiliato in un mondo inesorabilmente altrove. Neanche uno sguardo riuscì a strappargli. Nulla.

Langlais rimase a fissarlo, in silenzio, per un po’. Poi fece un cenno che non ammetteva repliche. Sollevarono Adams dalla sedia e lo trascinarono via. Langlais lo vide allontanarsi - i piedi che strisciavano sul pavimento di marmo - ed ebbe la fastidiosa sensazione che anche Timbuktu, in quel momento, se ne stesse scivolando ancora più lontana, nelle approssimative carte geografiche del Regno. Gli venne in mente, senza spiegazioni, una delle tante leggende che circolavano su quella città: che le donne, laggiù, tenevano un solo occhio scopèrto, meravigliosamente dipinto con terre colorate. Si era sempre chiesto perché mai avrebbero dovuto nascondere l’altro. Si alzò e si avvicinò oziosamente alla finestra. Stava pensando di aprirla quando una voce, nella sua testa, lo immobilizzò pronunciando una frase nitida ed esatta:

— Perché nessun uomo potrebbe reggere il loro sguardo senza impazzire. Langlais si girò di scatto. Nella stanza non c’era nessuno. Tornò a voltarsi verso la finestra. Per alcuni istanti fu incapace di pensare ad alcunché. Poi vide, nel viale di sotto, sfilare il piccolo corteo che riportava Adams nel nulla. Non si chiese cosa avrebbe dovuto fare. Semplicemente lo fece.

Qualche istante dopo era di fronte ad Adams, circondato dallo stupore dei presenti e leggermente affannato per la rapida corsa. Lo guardò negli occhi e a bassa voce disse

— E tu come lo sai?

Adams non parve nemmeno accorgersi di lui. Continuava a starsene in qualche posto strano, a migliaia di chilometri da li. Però le sue labbra si mossero e tutti sentirono la sua voce dire

— Perché io le ho viste.

Langlais ne aveva incrociati molti di casi come quello di Adams. Marinai che una tempesta o la crudeltà dei pirati avevano sbattuto su una costa qualunque di un continente sconosciuto, ostaggi del caso e preda di genti per cui l’uomo bianco era poco più che una specie animale bizzarra. Se una morte clemente non se li prendeva tempestivamente era comunque una qualche morte atroce che li aspettava in qualche angolo fetido o meraviglioso di mondi inverosimili. Pochi erano quelli che ne uscivano vivi, recuperati da qualche nave e riconsegnati al mondo civile con addosso i segni irreversibili della loro catastrofe. Relitti usciti di senno, detriti umani restituiti dall’ignoto. Anime perse.

Langlais sapeva tutto questo. Eppure prese Adams con sé. Lo rubò alla miseria e lo portò nel suo palazzo. In qualsiasi mondo fosse andato a rifugiare la sua mente, là lo sarebbe andato a prendere. E lo avrebbe portato indietro. Non voleva salvarlo. Non era esattamente così. Voleva salvare le storie che erano nascoste in lui. Non importava quanto tempo ci sarebbe voluto: voleva quelle storie e le avrebbe avute. Sapeva che Adams era un uomo disfatto dalla sua stessa vita. Immaginava la sua anima come un quieto villaggio saccheggiato e disperso dall’invasione selvaggia di una vertiginosa quantità di immagini, sensazioni, odori, suoni, dolori, parole. La morte che simulava, a vederlo, era il risultato paradossale di una vita esplosa. Un caos irrefrenabile era ciò che crepitava sotto il suo mutismo e la sua immobilità. Langlais non era un medico e non aveva mai salvato nessuno. Ma dalla propria vita aveva imparato l’imprevedibile potere terapeutico dell’esattezza. Lui stesso, si poteva dire, si curava esclusivamente con l’esattezza. Era il medicamento che, disciolto in ogni sorso della sua vita, teneva lontano il veleno dello smarrimento. Pensò, così, che l’inattaccabile lontananza di Adams si sarebbe sbriciolata solo nell’esercizio quotidiano e paziente di una qualche esattezza. Sentiva che doveva essere, a suo modo, un’esattezza amabile, solo sfiorata dalla freddezza di un rito meccanico, e coltivata al tepore di una qualche poesia. La cercò a lungo nel mondo di cose e gesti che dimorava intorno a lui. E alla fine la trovò. E a chi, non senza un certo sarcasmo, si avventurava a chiedergli

— Quale sarebbe questo medicamento prodigioso con cui contate di salvare il vostro selvaggio?

lui amava rispondere

— Le mie rose.

Come un bambino avrebbe potuto posare un uccello smarrito nel tepore artificiale di un nido fatto di stoffa, Langlais posò Adams nel suo giardino. Mirabile giardino, in cui le geometrie più raffinate tenevano a bada l’esplosione dei colori tutti, e la disciplina di ferree simmetrie regolava la spettacolare limitrofia di fiori e piante venuti da tutto il mondo. Un giardino in cui il caos della vita diventava figura divinamente esatta.

Fu lì che Adams, lentamente, ritornò a se stesso. Per mesi rimase silenzioso, solo concedendosi docilmente all’apprendimento di mille - esatte - regole. Poi la sua assenza iniziò a diventare una presenza sfumata, punteggiata qua e là da brevi frasi, e non più venata dall’ostinata sopravvivenza dell’animale che si era acquattato in lui. Dopo un anno, nessuno avrebbe dubitato, nel vederlo, di trovarsi di fronte al più

classico e perfetto dei giardinieri: silenzioso e imperturbabile, lento e preciso nei gesti, imperscrutabile e senza età. Dio clemente di un creato in miniatura. In tutto quel tempo, Langlais non gli chiese mai nulla. Scambiava con lui poche frasi, per lo più attinenti lo stato di salute degli ireos o le imprevedibili variazioni del tempo. Nessuno dei due fece mai allusione al passato, a un qualunque passato. Aspettava, Langlais. Non aveva fretta. Si gustava, anzi, il piacere dell’attesa. Tanto che fu perfino con un assurdo velo di disappunto che, un giorno, passeggiando in un vialetto secondario del giardino e passando vicino ad Adams, lo vide alzare lo sguardo da una petunia color perla e lo sentì, distintamente, pronunciare - apparentemente a nessuno - queste precise parole:

— Non ha mura, Timbuktu, perché da sempre pensano, laggiù, che la sua bellezza, da sola, fermerebbe qualsiasi nemico.

Poi tacque, Adams, e riabbassò lo sguardo sulla petunia color perla. Langlais proseguì, senza dire una parola, lungo il vialetto. Neanche Dio, se esistesse, si sarebbe accorto di qualcosa.

Da quel giorno, incominciarono a scivolare via, da Adams, tutte le sue storie. Nei momenti più diversi e secondo tempi e liturgie imperscrutabili. Langlais si limitava ad ascoltare. Non faceva mai una domanda. Ascoltava e basta. Alcune volte erano semplici frasi. Altre, veri e propri racconti. Adams narrava con voce piana e calda. Misurava, con un’arte sorprendente, parole e silenzi. Aveva qualcosa di ipnotico nel suo salmodiare immagini fantastiche. Ascoltarlo era una magia. Langlais ne era incantato.

Nulla dì quello che sentiva, in quei racconti, finiva nei suoi libroni rilegati in cuoio scuro. Il Regno, quella volta, non c’entrava. Quelle storie erano per lui. Aveva atteso che fiorissero dal grembo di una terra violentata e morta. Adesso le raccoglieva. Erano l’omaggio, raffinato, che aveva deciso di offrire alla propria solitudine. Si immaginava invecchiare all’ombra devota di quelle storie. E morire, un giorno, con negli occhi l’immagine, proibita a qualsiasi altro uomo bianco, del più bel giardino di Timbuktu.

Pensava che sarebbe stato tutto, e per sempre, così magicamente facile e lieve. Non poteva prevedere che a quell’uomo di nome Adams l’avrebbe presto legato qualcosa di sorprendentemente feroce.

Accadde, all’ammiraglio Langlais, qualche tempo dopo l’arrivo di Adams, di trovarsi nella fastidiosa e banale necessità di giocarsi la vita in una sfida a scacchi. Insieme al suo piccolo seguito fu sorpreso in aperta campagna da un bandito tristemente noto nella zona per la sua follia e per la crudeltà delle sue imprese. Nella circostanza, sorprendentemente, si mostrò incline a non infierire sulle sue vittime. Trattenne il solo Langlais e rimandò indietro tutti gli altri col compito di recuperare la somma, enorme, del riscatto. Langlais sapeva di essere abbastanza ricco per potersi ricomprare la libertà. Quel che non poteva prevedere era se il bandito sarebbe stato abbastanza paziente da saper attendere l’arrivo di tutto quel denaro. Si sentì addosso, per la prima volta nella vita, un pungente odore di morte.

Passò due giorni bendato e incatenato in un carro che non smetteva mai di viaggiare. Il terzo giorno lo fecero scendere. Quando gli tolsero la benda si trovò

seduto di fronte al bandito. Tra i due c’era un piccolo tavolo. Sul tavolo, una scacchiera. Il bandito fu lapidario nella sua spiegazione. Gli concedeva una chance. Una partita. Se vinceva, sarebbe stato libero. Se perdeva, lo avrebbe ucciso. Langlais cercò di farlo ragionare. Da morto non valeva un soldo, perché buttare via una simile fortuna?

— Non vi ho chiesto cosa ne pensate. Vi ho chiesto un sì o un no. Sbrigatevi. Un folle. Quello era un folle. Langlais capì che non c’era scelta.

— Come volete voi —, disse, e abbassò lo sguardo sulla scacchiera. Non gli ci volle molto per constatare che il bandito era folle di una follia brutalmente astuta. Non solo si era riservato i pezzi bianchi - sarebbe stato sciocco pretendere il contrario - ma giocava, lui, con una seconda regina ordinatamente sistemata al posto dell’alfiere di destra. Curiosa variante.

— Un re —, spiegò il bandito indicando se stesso, — e due regine —, aggiunse beffardo, indicando le due donne, invero bellissime, che sedevano accanto a lui. La battuta scatenò tra i presenti risa sfrenate e generosi urli di compiacimento. Meno divertito, Langlais riabbassò lo sguardo pensando che stava per morire nel modo più

stupido possibile.

La prima mossa del bandito fece tornare il silenzio più assoluto. Pedone di re avanti di due caselle. Toccava a Langlais. Esitò qualche istante. Era come se aspettasse qualcosa, ma non sapeva cosa. Lo capì solo quando, nel segreto della sua testa, sentì

una voce scandire con magnifica calma

— Cavallo nella colonna dell’alfiere di re.

Questa volta non si guardò intorno. Quella voce la conosceva. E sapeva che non era lì. Dio sa come, ma arrivava da molto lontano. Prese il cavallo e lo portò davanti al pedone dell’alfiere di re.

Alla sesta mossa aveva già un pezzo di vantaggio. All’ottava arroccò. All’undicesima era padrone del centro della scacchiera. Due mosse dopo sacrificò un alfiere, cosa che lo portò, la mossa seguente, a mangiare la prima regina avversaria. La seconda la intrappolò con una combinazione di cui - se ne rendeva conto - non sarebbe mai stato capace senza la puntuale guida di quella assurda voce. Man mano che sgretolava la resistenza dei pezzi bianchi sentiva crescere, nel bandito, una collera e uno smarrimento feroci. Arrivò al punto di temere di vincere. Ma la voce non gli lasciava tregua.

Alla ventitreesima mossa, il bandito gli diede in pasto una torre, con un errore tanto palese da sembrare una resa. Langlais stava automaticamente per approfittarne quando sentì la voce suggerirgli in modo perentorio

— Attento al re, ammiraglio.

Attento al re? Langlais si bloccò. Il re bianco se ne stava in posizione assolutamente innocua, dietro i resti di un abborracciato arrocco. Attento a cosa? Guardava la scacchiera e non capiva.

Attento al re.

La voce taceva.

Tutto taceva.

Pochi istanti.

Poi Langlais capì. Fu come un lampo che gli attraversò il cervello un attimo prima che il bandito estraesse dal nulla un coltello e rapidissimo cercasse con la lama il suo cuore. Langlais fu più veloce di lui. Gli bloccò il braccio, riuscì a strappargli il coltello e, come a concludere il gesto che lui aveva iniziato, gli squarciò la gola. Il bandito franò a terra. Le due donne, inorridite, scapparono via. Tutti gli altri sembravano impietriti dallo stupore. Langlais mantenne la calma. Con un gesto che in seguito non avrebbe esitato a giudicare inutilmente solenne, prese il re bianco e lo coricò sulla scacchiera. Poi si alzò, tenendo il coltello stretto in pugno, e si allontanò

lentamente dalla scacchiera. Nessuno si mosse. Salì sul primo cavallo che trovò. Diede un ultimo sguardo a quella strana scena da teatro popolare e se ne scappò via. Come spesso succede nei momenti cruciali della vita, si sorprese capace di un solo pensiero, assolutamente insignificante: era la prima volta - la prima - che vinceva una partita giocando coi neri.

Quando arrivò al suo palazzo, trovò Adams steso nel letto, privo di coscienza e preda di una febbre cerebrale. I dottori non sapevano cosa fare. Lui disse

— Non fate niente. Niente.

Quattro giorni dopo Adams tornò in sé. C’era Langlais, al suo capezzale. Si guardarono. Adams richiuse gli occhi. E Langlais disse, a bassa voce

— Ti devo la vita.

Una vita —, precisò Adams. Poi riaprì gli occhi e li puntò dritti in quelli di Langlais. Non era lo sguardo di un giardiniere, quello. Era lo sguardo di un animale in caccia.

— Della mia non mi importa nulla. É un’altra vita, quella che voglio. Cosa significasse quella frase, Langlais lo capì molto tempo dopo, quando ormai era troppo tardi per non sentirla.

Un giardiniere immobile, in piedi davanti alla scrivania di un ammiraglio. Libri e carte dappertutto. Ma ordinati. Ordinati. E candelabri, tappeti, odore di cuoio, quadri bui, tendaggi bruni, mappe, armi, monete, ritratti. Argenti. L’ammiraglio porge un foglio al giardiniere e dice

— Locanda Almayer. Un posto sul mare, vicino a Quartel.

— È lì?

— Sì.

Il giardiniere piega il foglio, lo mette in tasca e dice

— Partirò questa sera.

L’ammiraglio abbassa lo sguardo e intanto sente la voce dell’altro pronunciare la parola

— Addio.

Il giardiniere si avvicina alla porta. L’ammiraglio, senza nemmeno guardarlo, mormora

— E dopo? Dopo cosa succederà?

Il giardiniere si ferma.

— Più niente.

Ed esce.

L’ammiraglio tace.

... mentre Langlais lasciava fuggire la sua mente sulle rotte di un vascello volato via, letteralmente, sulle acque di Malagar e Adams deliberava di fermarsi davanti a una rosa del Borneo per spiare la fatica di un insetto intento a risalirne un petalo fino al momento di rinunciare all’impresa e volare via, in questo simile e solidale al vascello che il medesimo istinto aveva avuto nel risalire le acque di Malagar, tutti e due fratelli nell’implicito rifiuto del reale e nella scelta di quell’aerea fuga, e uniti, in quell’istante, dall’essere immagini simultaneamente posate sulle retine e le memorie di due uomini che nulla avrebbe più potuto separare e che proprio a quei due voli, di insetto e di veliero, affidavano nello stesso istante il medésimo sgomento per il sapore aspro della fine e la sconcertante scoperta di quanto sia silenzioso, il destino, quando, d’un tratto, esplode.

8

Al primo piano della locanda Almayer, in una stanza che guardava verso le colline, lottava, Elisewin, con la notte. Immobile, sotto le coperte, aspettava di scoprire se sarebbe arrivato prima il sonno o la paura.

Si sentiva il mare, come una slavina continua, tuono incessante di un temporale figlio di chissà che cielo. Non smetteva un attimo. Non conosceva stanchezza. E clemenza. Se lo guardi non te ne accorgi: di quanto rumore faccia. Ma nel buio... Tutto quell’infinito diventa solo fragore, muro di suono, urlo assillante e cieco. Non lo spegni, il mare, quando brucia nella notte.

Elisewin si sentì scoppiare nella testa una bolla di vuoto. La conosceva bene quella segreta esplosione, invisibile dolore irraccontabile. Ma conoscerla non serviva niente. Niente. Se la stava pigliando, il male subdolo, strisciante - patrigno osceno. Si stava riprendendo quel che era suo.

Non era tanto quel freddo che le filtrava da dentro, e nemmeno il cuore, impazzito, o il sudore dappertutto, gelido, o il tremore delle mani. Il peggio era quella sensazione di sparire, di uscire dalla propria testa, di essere soltanto indistinto panico e sussulti di paura. Pensieri come brandelli di ribellione - brividi - il volto irrigidito in una smorfia per riuscire a tenere gli occhi chiusi - per riuscire a non guardare il buio, orrore senza scampo. Una guerra.

Elisewin riuscì a pensare alla porta che, a pochi metri da lei, collegava la sua stanza con quella di Padre Pluche. Pochi metri. Doveva farcela. Adesso si sarebbe alzata e senza aprire gli occhi l’avrebbe trovata, e allora sarebbe bastata la voce di Padre Pluche, anche solo la voce, e sarebbe passato tutto - bastava alzarsi da lì, trovare la forza per pochi passi, attraversare la stanza, aprire la porta - alzarsi, scivolare fuori dalle coperte, scivolare lungo la parete - alzarsi, mettersi in piedi, fare quei pochi passi - alzarsi, tenere gli occhi chiusi, trovare quella porta, aprirla - alzarsi, cercare di respirare, e poi staccarsi dal letto - alzarsi, non morire - alzarsi da lì - alzarsi. Che orrore. Che orrore.

Non erano pochi metri. Erano chilometri, erano un’eternità: la stessa che la separava dalla sua stanza vera, e dalle sue cose, e da suo padre, e dal posto che era suo. Tutto era lontano. Perso era tutto.

Non si possono vincere, guerre così. Ed Elisewin si arrese.

Come morendo, aprì gli occhi.

Non capì subito.

Non se l’aspettava.

Era illuminata, la stanza. Una luce piccola. Ma ovunque. Calda. Si voltò. Su una sedia, di fianco al letto, se ne stava Dira, con un librone aperto sulle ginocchia, e un porta candela in mano. Una candela accesa. La fiammella, nel buio che non c’era più.

Elisewin rimase ferma, la testa un po’ sollevata dal cuscino, a guardare. Sembrava altrove, quella bambina, eppure era lì. Gli occhi fissi su quelle pagine, i piedi che non toccavano nemmeno per terra e oscillavano lentamente: scarpette in altalena, appese a due gambe e una gonnellina.

Elisewin riabbassò la testa sul cuscino. Vedeva la fiammella della candela fumare immobile. E la stanza, intorno, dormire dolcemente. Si sentì stanca, di una stanchezza meravigliosa. Fece in tempo a pensare

— Non si sente più il mare.

Poi chiuse gli occhi. E si addormentò.

Al mattino, trovò il porta candela, solitario, appoggiato sulla sedia. La candela ancora accesa. Come se neanche si fosse consumata. Come se avesse vegliato a una notte lunga un istante. Fiammella invisibile nella grande luce che dalla finestra portava il giorno nuovo dentro la stanza.

Elisewin si alzò. Spense la candela con un soffio. Da ogni parte arrivava la strana musica di un suonatore instancabile. Un rumore grande. Uno spettacolo. Era tornato, il mare.

Plasson e Bartleboom uscirono insieme, quella mattina. Ognuno coi suoi strumenti: cavalletto colori e pennelli per Plasson, quaderni e misuratori vari per Bartleboom. Si sarebbe detto che venissero dall’aver sgomberato il solaio di un inventore pazzo. Uno aveva gambaloni e giacca da pescatore e l’altro una marsina da studioso, un cappello di lana in testa e guanti senza dita, da pianista. Forse l’inventore non era l’unico pazzo, lì intorno.

In realtà, Plasson e Bartleboom neanche si conoscevano. Si erano giusto incrociati qualche volta, nei corridoi della locanda, o nella sala della cena. Non sarebbero probabilmente mai finiti lì, sulla spiaggia, a camminare insieme ognuno verso il proprio posto di lavoro, se così non avesse deciso Ann Deverià.

— È stupefacente. Ma se uno vi montasse insieme, voi due, otterrebbe un matto unico e perfetto. Secondo me Dio è ancora lì, col grande puzzle sotto il naso, a chiedersi dove son finiti quei due pezzi che andavano così bene insieme.

— Cos’è un puzzle? —, aveva chiesto Bartleboom nello stesso istante in cui Plasson domandava

— Cos’è un puzzle?

La mattina dopo camminavano sulla riva del mare, ognuno coi suoi strumenti, ma insieme, verso gli uffici paradossali della loro quotidiana fatica. Plasson aveva fatto i soldi, negli anni precedenti, diventando il ritrattista più amato della capitale. Si poteva dire che non ci fosse, in tutta la città, una famiglia sinceramente avida di denaro che non avesse, in casa, un Plasson. Ritratti, beninteso, solo ritratti. Proprietari terrieri, mogli malaticce, figli gonfi, prozie accartocciate, industriali rubicondi, signorine da marito, ministri, preti, primedonne dell’Opera, militari, poetesse, violinisti, accademici, mantenute, banchieri, bambini prodigio: dalle pareti per bene della capitale occhieggiavano, opportunamente incorniciate, centinaia di facce attonite, fatalmente nobilitate da quello che nei salotti veniva chiamato “il tocco Plasson”: curiosa caratteristica stilistica altrimenti traducibile nel talento, invero singolare, con cui l’apprezzato pittore sapeva regalare un riflesso di intelligenza a qualsiasi sguardo, foss’anche quello di un vitello. “Foss’anche quello di un vitello” era una precisazione che, di solito, nei salotti si stralciava. Plasson avrebbe potuto continuare così per anni. Le facce dei ricchi non finiscono mai. Ma, di punto in bianco, decise un giorno di mollare tutto. E di andarsene. Un’idea molto precisa, e covata dentro per anni, se lo portò via. Fare un ritratto al mare.

Vendette tutto quel che aveva, abbandonò il suo atelier, e partì per un viaggio che, per quanto ne poteva capire lui, poteva anche non finire mai. C’erano migliaia di chilometri di costa, in giro per il mondo. Non sarebbe stata una cosa da poco, trovare il punto giusto.

Ai cronisti mondani che gli chiedevano le ragioni di quell’inusitato abbandono non fece cenno della questione del mare. Volevano sapere cosa c’era dietro la rinuncia del più grande maestro della sublime arte del ritratto? Lui rispose in modo lapidario, con una frase che non cessò, in seguito, di prestarsi a molteplici interpretazioni.

— Mi sono stufato della pornografia.

Era partito. Nessuno, più, l’avrebbe trovato.

Tutte queste cose Bartleboom non le sapeva. Non poteva saperle. Per questo, lì sulla riva del mare, esaurite le amenità sul tempo, si arrischiò a chiedere, giusto per tenere a galla la conversazione:

— Dipingete da molto?

Anche in quella circostanza, Plasson fu lapidario.

— Mai fatto altro.

Chiunque, ascoltando parlare Plasson, avrebbe concluso che c’erano solo due possibilità: o era insopportabilmente altezzoso o era scemo. Ma anche lì: bisognava capire. Plasson aveva questo, di curioso, quando parlava: non finiva mai una frase. Non riusciva a finirla. Arrivava alla fine solo se la frase non superava le sette, otto parole. Se no, si perdeva a metà. Per questo, soprattutto con gli estranei, cercava di limitarsi a proposizioni brevi e incisive. E in questo, va detto, aveva del talento. Certo, risultava un po’ supponente e fastidiosamente laconico. Ma era sempre meglio che risultare vagamente babbeo: cosa che regolarmente accadeva quando si lanciava in frasi articolate o anche solo normali: non riuscendo, mai, a finirle.

— Ditemi, Plasson: ma c’è qualcosa, al mondo, che voi riuscite a finire? —, gli aveva chiesto un giorno Ann Deverià, inquadrando con il consueto cinismo il cuore del problema.

— Sì: le conversazioni spiacevoli —, aveva risposto lui, alzandosi da tavola e andandosene in camera. Aveva del talento, come si è detto, a trovare risposte brevi. Vero talento.

Neanche queste cose Bartleboom sapeva. Non poteva saperle. Ma fece in fretta a capirle.

Sotto il sole di mezzogiorno, lui e Plasson seduti sulla spiaggia, a mangiare le quattro cose preparate da Dira. Il cavalletto piantato nella sabbia, a pochi metri da lì. Solita tela bianca, sul cavalletto. Solito vento da nord, su tutto. BARTLEBOOM — Ma ne fate uno al giorno, di quei quadri?

PLASSON — In un certo senso...

BARTLEBOOM — Ne avrete la stanza piena...

PLASSON — No. Li butto via.

BARTLEBOOM — Via?

PLASSON — Lo vedete quello là, sul cavalletto?

BARTLEBOOM — Sì.

PLASSON — Più o meno sono tutti così.

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — Voi li terreste?

Nube che passa sul sole. Viene giù subito un freddo che non te lo aspetti. Bartleboom si rimette il suo cappello di lana.

PLASSON — È difficile.

BARTLEBOOM — Non ditelo a me. Io non saprei disegnare neanche questo pezzo di formaggio, è un mistero come possiate fare quelle cose, per me è un mistero. PLASSON — Il mare è difficile.

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — È difficile capire da dove iniziare. Vedete, quando facevo ritratti, —

ritratti alla gente, io lo sapevo da dove iniziare, guardavo quelle facce e sapevo esattamente... (stop)

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — ...

BARTLEBOOM — ...

PLASSON— ...

BARTLEBOOM — Voi facevate ritratti alla gente?

PLASSON — Sì.

BARTLEBOOM — Accidenti, sono anni che vorrei farmi fare un ritratto, davvero, adesso vi sembrerà una cosa stupida, ma...

PLASSON — Quando facevo i ritratti alla gente iniziavo dagli occhi. Dimenticavo tutto il resto e mi concentravo sugli occhi, li studiavo, per minuti e minuti, poi li abbozzavo, con la matita, e quello era il segreto, perché una volta che voi avete disegnato gli occhi... (stop)

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — ...

BARTLEBOOM — Cosa succede una volta che avete disegnato gli occhi?

PLASSON — Succede che tutto il resto viene da sé, è come se tutti gli altri pezzi scivolassero da soli intorno a quel punto iniziale, non c’è nemmeno bisogno di... (stop)

BARTLEBOOM — Non ce n’è nemmeno bisogno.

PLASSON — No. Uno può quasi evitare di guardare il modello, tutto viene da sé, la bocca, la curva del collo, perfino le mani... Ma quel che è fondamentale è partire dagli occhi, capite?, e qui sta il vero problema, il problema che mi fa impazzire, sta esattamente qui:... (stop)

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — ...

BARTLEBOOM — Avete un’idea di dove stia il problema, Plasson?

D’accordo: era un po’ macchinoso. Ma funzionava. Si trattava solo di disincagliarlo. Ogni volta. Con pazienza. Bartleboom, come si poteva dedurre dalla sua singolare vita sentimentale, era un uomo paziente.

PLASSON — Il problema è: dove cavolo sono gli occhi del mare? Non riuscirò mai a combinare nulla finché non lo scoprirò, perché quello è il principio, capite?, il principio di tutto, e finché non capirò dov’è continuerò a passare i miei giorni a guardare questa maledetta distesa d’acqua senza... (stop)

BARTLEBOOM — ...

PLASSON — ...

BARTLEBOOM— ...

PLASSON — Questo è il problema, Bartleboom:

Magia: questa volta era ripartito da solo.

PLASSON — Questo è il problema: dove inizia il mare?

Bartleboom tacque.

Andava e tornava, il sole, tra una nuvola e l’altra. Era il vento da nord, sempre lui, a organizzare il silenzioso spettacolo. Il mare continuava imperturbabile a recitare i suoi salmi. Se aveva occhi, in quel momento non era lì che stava guardando. Silenzio.

Silenzio per minuti.

Poi Plasson si girò verso Bartleboom e disse tutto d’un fiato

— E voi... voi cosa studiate con tutti quei vostri buffi strumenti?

Bartleboom sorrise.

— Dove finisce il mare.

Due pezzi di puzzle. Fatti l’uno per l’altro. Da qualche parte del cielo un vecchio Signore, in quell’istante, li aveva finalmente ritrovati.

— Diavolo! Lo dicevo Io che non potevano essere scomparsi.

— La stanza è al piano terreno. Giù di là, la terza porta a sinistra. Chiavi non ce n’è. Non le ha nessuno, qui. In quel libro dovreste scrivere il vostro nome. Non è

obbligatorio, ma tutti lo fanno, qui.

Il librone con le firme aspettava aperto su un leggìo di legno. Un letto di carta appena rifatto che aspettava i sogni di nomi altrui. La penna dell’uomo lo sfiorò appena.

Adams.

Poi indugiò un attimo, immobile.

— Se volete sapere i nomi degli altri potete chiederli a me. Non è mica un segreto. Adams sollevò gli occhi dal librone e sorrise.

— È un bel nome Dira.

La bambina rimase interdetta. Gettò istintivamente un’occhiata al librone.

— Non c’è scritto, il mio nome.

— Non lì.

Era già tanto se aveva dieci anni, quella bambina. Ma se voleva poteva averne mille di più. Piantò gli occhi dritto in quelli di Adams e quello che disse lo disse con una voce tagliente che sembrava quella di una donna che, lì, non c’era.

— Adams non è il vostro vero nome.

— No?

— No.

— E come lo sapete?

— Anch’io so leggere.

Adams sorrise. Si chinò, prese il suo bagaglio e se ne andò verso la sua stanza.

— La terza porta a sinistra —, gli gridò dietro una voce che era di nuovo la voce di una bambina.

Non c’erano chiavi. Aprì la porta ed entrò. Non che si aspettasse un granché. Ma almeno si aspettava di trovare la stanza vuota.

— Oh, scusate —, disse Padre Pluche, allontanandosi dalla finestra e rassettandosi istintivamente il vestito.

— Ho sbagliato stanza?

— No, no... sono io che... vedete io ho la stanza di sopra, al piano di sopra, ma dà

verso le colline, non si vede il mare: l’ho scelta per prudenza.

— Prudenza?

— Lasciate stare, è una storia lunga... Insomma, volevo vedere cosa si vedeva da qui, ma adesso tolgo il disturbo, non sarei mai venuto se avessi saputo...

— Restate, se volete.

— No, adesso me ne vado. Voi avrete un sacco da fare, siete appena arrivato?

Adams posò per terra il proprio bagaglio.

— Che stupido, certo che siete appena arrivato... va be’, allora vado. Ah,... io mi chiamo Pluche, Padre Pluche. Adams annuì.

— Padre Pluche.

— Già.

— A presto, Padre Pluche.

— Sì, a presto.

Svicolò verso la porta e se ne uscì. Passando davanti alla reception - volendo chiamarla così - si sentì in dovere di borbottare

— Non sapevo che sarebbe arrivato qualcuno, volevo solo vedere come si vedeva il mare...

— Non importa, Padre Pluche.

Stava per uscire, quando si fermò, tornò sui suoi passi, e leggermente sporto sul bancone, chiese sottovoce a Dira

— Secondo voi potrebbe essere un dottore?

— Chi?

— Lui.

— Chiedeteglielo.

— Non mi sembra uno che muore dalla voglia di sentire delle domande. Non mi ha nemmeno detto come si chiama.

Dira esitò un attimo.

— Adams.

— Adams e basta?

— Adams e basta.

— Ah.

Se ne sarebbe andato, ma aveva ancora una cosa da dire. La disse ancora più

sottovoce.

— Gli occhi... Ha gli occhi di un animale in caccia.

Adesso aveva davvero finito.

Ann Deverià che cammina lungo la riva, nel suo mantello viola. Accanto, una ragazzina che si chiama Elisewin, con il suo ombrellino bianco. Ha sedici anni. Forse morirà, forse vivrà. Chissà. Ann Deverià parla senza staccare gli occhi dal niente che ha davanti. Davanti in molti sensi.

— Mio padre non voleva morire. Invecchiava ma non moriva. Se lo consumavano, le malattie, e lui, imperterrito, rimaneva aggrappato alla vita. Alla fine non usciva nemmeno più dalla sua stanza. Dovevano fargli tutto. Anni, cosi. Si era asserragliato in una specie di roccaforte, tutta sua, costruita nell’angolo più invisibile di se stesso. Rinunciò a tutto, ma si tenne strette, con ferocia, le uniche due cose di cui davvero gli importava qualcosa: scrivere e odiare. Scriveva faticosamente, con la mano che ancora riusciva a muovere. E odiava con gli occhi. Parlare, non parlò più, fino alla fine. Scriveva e odiava. Quando morì - perché morì, finalmente - mia madre prese quelle centinaia di fogli scarabocchiati e li lesse, uno ad uno. C’erano i nomi di tutti quelli che aveva conosciuto, uno in fila all’altro. E vicino ad ognuno, la descrizione minuziosa di una morte orrenda. Io non li ho letti, quei fogli. Ma gli occhi - quegli occhi che odiavano, ogni minuto di ogni giorno, fino alla fine - li avevo visti. Eccome li avevo visti. Ho sposato mio marito perché aveva gli occhi buoni. Era l’unica cosa che mi importava. Aveva gli occhi buoni.

Poi non è che la vita vada come tu te la

immagini. Fa la sua strada. E tu la tua. E non sono la stessa strada. Così... Io non è

che volevo essere felice, questo no. Volevo... salvarmi, ecco: salvarmi. Ma ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai. Però

troppo tardi l’ho capito. Se le dai tempo, alla vita, lei si rigira in un modo strano, inesorabile: e tu ti accorgi che a quel punto non puoi desiderare qualcosa senza farti del male. É lì che salta tutto, non c’è verso di scappare, più ti agiti più si ingarbuglia la rete, più ti ribelli più ti ferisci. Non se ne esce. Quando era troppo tardi, io ho iniziato a desiderare. Con tutta la forza che avevo. Mi sono fatta tanto di quel male che tu non te lo puoi nemmeno immaginare.

Sai cos’è bello, qui? Guarda: noi

camminiamo, lasciamo tutte quelle orme sulla sabbia, e loro restano lì, precise, ordinate. Ma domani, ti alzerai, guarderai questa grande spiaggia e non ci sarà più

nulla, un’orma, un segno qualsiasi, niente. Il mare cancella, di notte. La marea nasconde. È come se non fosse mai passato nessuno. E come se noi non fossimo mai esistiti. Se c’è un luogo, al mondo, in cui puoi pensare di essere nulla, quel luogo è

qui. Non è più terra, non è ancora mare. Non è vita falsa, non è vita vera. É tempo. Tempo che passa. E basta.

Sarebbe un rifugio perfetto. Invisibili a qualsiasi nemico.

Sospesi. Bianchi come i quadri di Plasson. Impercettibili anche a se stessi. Ma c’è

qualcosa che incrina questo purgatorio. Ed è qualcosa da cui non puoi scappare. Il mare. Il mare incanta, il mare uccide, commuove, spaventa, fa anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto, si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto: il mare chiama. Lo scoprirai, Elisewin. Non fa altro, in fondo, che questo: chiamare. Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti. Questo mare che vedi e tutti gli altri che non vedrai, ma che ci saranno, sempre, in agguato, pazienti, un passo oltre la tua vita. Instancabilmente, li sentirai chiamare. Succede in questo purgatorio di sabbia. Succederebbe in qualsiasi paradiso, e in qualsiasi inferno. Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà. Si ferma, Ann Deveria. Si china, si toglie le scarpe. Le lascia sulla sabbia. Riprende a camminare, a piedi nudi. Elisewin non si muove. Aspetta che lei si allontani di qualche passo. Poi dice, a voce abbastanza alta da farsi sentire:

— Io fra qualche giorno partirò da qui. E andrò nel mare. E guarirò. Questo è quello che desidero. Guarire. Vivere. E, un giorno, diventare bella come voi. Ann Deverià si volta. Sorride. Cerca le parole. Le trova.

— Mi porterai con te?

Sul davanzale della finestra di Bartleboom, questa volta se ne stavano seduti in due. Il solito bambino. E Bartleboom. Le gambe a penzoloni, nel vuoto. Lo sguardo a penzoloni, sul mare.

— Senti, Dood...

Dood, si chiamava, il bambino.

— Visto che te ne stai sempre qui...

— Mmmmh.

— Tu magari lo sai.

— Cosa?

— Dove ce li ha, gli occhi, il mare?

— …

— Perché ce l’ha, vero?

— Sì.

— E dove cavolo sono?

— Le navi.

— Le navi cosa?

— Le navi sono gli occhi del mare.

Rimane di stucco, Bartleboom. Questa non gli era proprio venuta in mente.

— Ma ce n’è a centinaia di navi...

— Ha centinaia di occhi, lui. Non vorrete mica che se la sbrighi con due. Effettivamente. Con tutto il lavoro che ha. E grande com’è. C’è del buon senso, in tutto quello.

— Sì, ma allora, scusa...

— Mmmmh.

— E i naufragi? Le tempeste, i tifoni, tutte quelle cose lì... Perché mai dovrebbe ingoiarsi quelle navi, se sono i suoi occhi?

Ha l’aria perfino un po’ spazientita, Dood, quando si gira verso Bartleboom e dice

— Ma voi... voi non li chiudete mai gli occhi?

Cristo. Ha una risposta per tutto, quel bambino. Pensa, Bartleboom. Pensa e rimugina e riflette e ragiona. Poi di scatto salta giù dal davanzale. Dalla parte della camera, s’intende. Bisognerebbe avere le ali per saltare giù dall’altra.

— Plasson... devo trovare Plasson... bisogna che glielo dica... accidenti, non era poi così difficile, bastava pensarci un po’...

Cerca affannosamente il cappello di lana. Non lo trova. Cosa comprensibile: ce l’ha in testa. Lascia perdere. Corre fuori dalla stanza.

— Ci vediamo, Dood.

— Ci vediamo.

Rimane lì, il bambino, con gli occhi fissi sul mare. Ci resta per un po’. Poi guarda bene che intorno non ci sia nessuno e di scatto salta giù dal davanzale. Dalla parte della spiaggia, s’intende.

Un giorno si svegliarono e non c’era più niente. Non erano scomparse solo le orme sulla sabbia. Era scomparso tutto. Per così dire.

Una nebbia da non crederci.

— Non è nebbia, sono nuvole.

Delle nuvole da non crederci.

— Sono nuvole di mare. Quelle di cielo stanno in alto. Quelle di mare stanno in basso. Arrivano di rado. Poi se ne vanno.

Sapeva un sacco di cose, Dira.

Certo, a guardar fuori, faceva impressione. Solo la sera prima c’era tutto il cielo stellato, una favola. E adesso: come stare dentro una tazza di latte. Senza contare il freddo. Come stare dentro una tazza di latte freddo.

— A Carewall è uguale.

Padre Pluche se ne stava col naso appiccicato ai vetri, incantato.

— Dura giorni e giorni. Non si muove di un millimetro. Là è nebbia. Proprio nebbia. E non si capisce più niente, quando arriva. La gente gira anche di giorno con una fiaccola in mano. Per capirci qualcosa. Ma non serve a molto neanche quello. La notte, poi... capita di non capirci proprio più niente. Pensate che Arlo Crut, una sera, è

tornato a casa, ha sbagliato casa ed è finito dritto dritto nel letto di Metel Crut, suo fratello. Metel neanche se ne accorse, dormiva come un sasso, ma la moglie si che se ne accorse. Un uomo che si infilava nel suo letto. Da non crederci. Be’ sapete cosa gli disse, lei?

E qui, nella testa di Padre Pluche si scatenò la consueta sfida. Due belle frasi partirono dai blocchi di partenza del cervello con davanti a sé il traguardo ben preciso di una voce con cui uscire all’aperto. La più sensata delle due, considerato che si trattava pur sempre della voce di un prete, era sicuramente

— Fallo, e mi metto a gridare.

Ma aveva il difetto di essere falsa. Vinse l’altra, quella vera.

— Fallo, o mi metto a gridare.

— Padre Pluche!

— Cosa ho detto?

— Cosa avete detto?

Io ho detto qualcosa?

Se ne stavano tutti nella grande sala che dava sul mare, al riparo da quell’inondazione di nubi, ma non dalla spiacevole sensazione di non sapere bene cosa fare. Un conto è

non far niente. Un conto è non poter far niente. È diverso. Erano tutti un po’ smarriti. Pesci in un acquario.

Il più inquieto era Plasson: gambaloni e giacca da pescatore, vagava nervosamente spiando di là dai vetri la marea di latte che non mollava di un millimetro.

— Sembra davvero uno dei vostri quadri —, annotò ad alta voce Ann Deverià, che se ne stava sprofondata in una poltrona di vimini, anche lei a spiare il grande spettacolo.

— Tutto meravigliosamente bianco.

Plasson continuò a camminare avanti e indietro. Come se non avesse nemmeno sentito.

Bartleboom alzò la testa dal libro che stava sfogliando oziosamente.

— Voi siete troppo severa, madame Deverià. Il signor Plasson sta provando a fare qualcosa di molto difficile. E i suoi quadri non sono più bianchi delle pagine di questo mio libro.

— Voi state scrivendo un libro? —, chiese Elisewin dalla sua sedia, davanti al grande camino.

— Una specie di libro.

— Hai sentito, Padre Pluche, il signor Bartleboom scrive libri.

— No, non è proprio un libro...

— È un’enciclopedia —, chiarì Ann Deverià.

— Un’enciclopedia?

E via. Alle volte basta nulla per dimenticare il gran mare di latte che intanto ti frega. È sufficiente magari il rumore chioccio di una parola strana. Enciclopedia. Una sola parola. Partiti. Tutti quanti: Bartleboom, Elisewin, Padre Pluche, Plasson. E madame Deverià.

— Bartleboom, non fate il modesto, spiegate alla signorina quella storia dei limiti, dei fiumi e di tutto il resto.

— Si intitola Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura...

— Bel titolo. Io avevo un insegnante, in seminario...

— Lascialo parlare Padre Pluche...

— Ci lavoro da dodici anni. É una cosa complicata... praticamente studio fin dove la natura può arrivare, o meglio: dove decide di fermarsi. Perché si ferma sempre, prima o poi. Questo è scientifico. Ad esempio...

— Fatele l’esempio dei copironi...

— Be’ quello è un caso un po’ particolare.

— L’avete già sentita la storia dei copironi, Plasson?

— Guardate che l’ha raccontata a me la storia dei copironi, cara madame Deverià, e voi l’avete sentita da me.

— Accidenti, era una frase lunghissima questa, complimenti Plasson, state migliorando.

— Insomma, questi copironi?

— I copironi vivono sui ghiacciai del nord. Sono animali a loro modo perfetti. Praticamente non invecchiano. Se volessero potrebbero essere eterni.

— Orribile.

— Ma, attenzione, la natura controlla tutto, non le scappa niente. E allora ecco quello che succede: a un certo punto, quando hanno intorno ai settanta, ottanta anni di vita, i copironi smettono di mangiare.

— No.

— Sì. Smettono di mangiare. Vivono in media altri tre anni, in quello stato. Poi muoiono.

— Tre anni senza mangiare?

— In media. Alcuni resistono anche di più. Ma alla fine, e questo è l’importante, muoiono. È scientifico.

— Ma è un suicidio!

— In un certo senso.

— E secondo voi dovremmo credervi, Bartleboom?

— Guardate qui, ho anche il disegno... il disegno di un copirone...

— Accidenti, avevate ragione Bartleboom, disegnate davvero come un cane, veramente, io non ho mai visto un disegno (stop)

— Non l’ho fatto io... è il marinaio che mi ha raccontato questa storia che l’ha disegnato...

— Un marinaio?

— Tutta questa storia l’avete saputa da un marinaio?

— Sì, perché?

— Ah, complimenti Bartleboom, veramente scientifico...

— Io vi credo.

— Grazie, signorina Elisewin.

— Io vi credo, e anche Padre Pluche, vero?

— Sicuro... è una storia assolutamente verosimile, anzi, se ci penso bene, l’avevo perfino già sentita, dev’essere stato in seminario...

— Si imparano davvero un sacco di cose in questi seminari... ce n’è anche per signore?

— Adesso che ci penso, Plasson, potreste farmi voi le illustrazioni dell’Enciclopedia, sarebbe splendido no?

— Dovrei disegnare i copironi?

— Be’, a parte i copironi, ma ci sono un sacco di altre cose... ho scritto 872 voci, potrete scegliere voi quelle che preferite...

— 872?

— Non vi pare una buona idea, madame Deverià?

— Per la voce mare lascerei magari perdere l’illustrazione...

— Padre Pluche il suo libro se l’è disegnato da sé.

— Elisewin, lascia perdere...

— Ma è vero...

— Non ditemi che abbiamo un altro scienziato...

— É un libro bellissimo.

— Davvero scrivete anche voi, Padre Pluche?

— Ma no, è una cosa un po’... particolare, non è che sia proprio un libro.

— Sì che è un libro.

— Elisewin...

— Non lo fa mai vedere a nessuno, ma è bellissimo.

— Secondo me sono poesie.

— Non proprio.

— Ma ci siete andato vicino.

— Canzoni?

— No.

— Su, Padre Pluche, non fatevi pregare...

— Ecco, appunto...

— Appunto cosa?

— No, dico, a proposito di pregare...

— Non ditemi che...

— Preghiere. Sono preghiere.

— Preghiere?

— Addio...

— Ma non sono come le altre, le preghiere di Padre Pluche...

— Io la trovo un’ottima idea. Ho sempre sentito la mancanza di un bel libro di preghiere.

— Bartleboom, uno scienziato non dovrebbe pregare, se è un vero scienziato non dovrebbe nemmeno pensare di (stop)

— Al contrario! Proprio perché studiamo la natura, essendo la natura nient’altro che lo specchio...

Ne ha scritta anche una molto bella su un medico. É uno scienziato no?

— Come sarebbe dire su un medico?

— Si intitola Preghiera di un medico che salva un malato e nell’istante in cui quello si alza, guarito, lui si sente infinitamente stanco.

Come?

— Ma non è un titolo da preghiera.

— Ve l’ho detto che le preghiere di Padre Pluche non sono come le altre.

— Ma si intitolano tutte così?

— Be’, alcuni titoli li ho fatti un po’ più brevi, ma l’idea è quella.

— Ditecene degli altri, Padre Pluche...

— Ah, adesso vi interessano le preghiere, eh Plasson?

— Non so... c’è la Preghiera per un bambino che non riesce a dire le erre, oppure la Preghiera di un uomo che sta cadendo in un burrone e non vorrebbe morire...

Non ci credo...

— Be’, ovviamente è molto corta, poche parole... oppure la Preghiera di un vecchio a cui tremano le mani, cose così...

— Ma è straordinario!

— E quante ne avete scritte?

— Un po’... non sono facili da scrivere, ogni tanto si vorrebbe, ma se non c’è

l’ispirazione...

— Ma tipo quante?

— Adesso come adesso... sono 9502.

— No...

— Ma è pazzesco...

— Diavolo; Bartleboom, al confronto la vostra enciclopedia è un quadernetto d’appunti.

— Ma come fate, Padre Pluche?

— Non so.

— Ieri ne ha scritta una bellissima.

— Elisewin...

— Veramente.

— Elisewin, per favore...

— Ieri sera ne ha scritta una su di voi.

Ammutoliscono tutti, improvvisamente.

Ieri sera ne ha scritta una su di voi.

Ma non l’ha detto guardando uno di loro.

Ieri sera ne ha scritta una su di voi.

È altrove che guardava, quando l’ha detto, ed è lì che adesso tutti si voltano, colti di sorpresa.

Un tavolo, di fianco alla vetrata di ingresso. Un uomo seduto al tavolo, una pipa spenta in mano. Adams. Nessuno sa quando è arrivato lì. Magari è lì da un attimo, magari è lì da sempre.

— Ieri sera ne ha scritta una su di voi.

Tutti rimangono immobili. Ma Elisewin si alza e gli si avvicina.

— Si intitola Preghiera di un uomo che non vuole dire il suo nome. Ma con dolcezza. Lo dice con dolcezza.

— Padre Pluche crede che voi siate un dottore.

Adams sorride.

— Solo ogni tanto.

— Ma io dico che siete un marinaio.

Tutti zitti, gli altri. Immobili. Ma non si perdono una parola, non una.

— Solo ogni tanto.

— E qui, oggi, cosa siete?

Scuote la testa, Adams.

— Solo uno che aspetta.

Elisewin è in piedi, davanti a lui. Ha una domanda esatta e semplicissima, in mente:

Cosa aspettate?

Soltanto due parole. Ma non riesce a dirle perché un attimo prima sente nella sua testa una voce mormorare:

Non chiedermelo, Elisewin. Non chiedermelo, ti prego.

Rimane lì, immobile, senza dir nulla, con gli occhi fissi in quelli, muti come pietre, di Adams.

Silenzio.

Poi Adams alza lo sguardo al di sopra di lei e dice

— C’è un sole meraviglioso, oggi.

Di là dai vetri, senza un lamento, è morta ogni nube, e squilla accecante l’aria limpida di una giornata risuscitata dal nulla.

Spiaggia. E mare.

Luce.

Il vento dal nord.

Il silenzio delle maree.

Giorni. Notti.

Una liturgia. Immobile, a ben vedere. Immobile.

Persone come gesti di un rito.

Qualcosa d’altro che uomini.

Gesti.

Se li respira la strisciante cerimonia quotidiana, trasfigurati in ossigeno per un angelico surplace.

Se li metabolizza il perfetto paesaggio della riva, convertiti a figure da ventagli di seta.

Ogni giorno più immutabili.

Posati a un passo dal mare, diventano scomparendo, e negli interstizi di un elegante nulla ricevono la consolazione di una provvisoria inesistenza. Galleggia, su quel trompe-l’oeil dell’anima, l’argentino tintinnare delle loro parole, unica percepibile increspatura nella quiete dell’innominabile incantesimo.

— Voi credete che io sia pazzo?

— No.

Bartleboom le ha raccontato tutta la storia. Le lettere, la scatola di mogano, la donna che aspetta. Tutto.

— Non l’avevo mai raccontata a nessuno.

Silenzio. Sera. Ann Deverià. I capelli sciolti. Una lunga camicia da notte bianca fino ai piedi. La sua stanza. La luce che oscilla sulle pareti.

— Perché a me, Bartleboom?

Si tortura l’orlo della giacca, il professore. Non è facile. Niente facile.

— Perché ho bisogno che voi mi aiutiate.

— Io?

— Voi.

Uno si costruisce grandi storie, questo è il fatto, e può andare avanti anni a crederci, non importa quanto pazze sono, e inverosimili, se le porta addosso, e basta. Si è

anche felici, di cose del genere. Felici. E potrebbe non finire mai. Poi, un giorno, succede che si rompe qualcosa, nel cuore del gran marchingegno fantastico, tac, senza nessuna ragione, si rompe d’improvviso e tu rimani lì, senza capire come mai tutta quella favolosa storia non ce l’hai più addosso, ma davanti, come fosse la follia di un altro, e quell’altro sei tu. Tac. Alle volte basta un niente. Anche solo una domanda che affiora. Basta quello.

— Madame Deverià... io come farò a riconoscerla, quella donna, la mia, quando la incontrerò?

Anche solo una domanda elementare che affiora dalle tane sotterranee in cui la si era sepolta. Basta quello.

— Come farò a riconoscerla, quando la incontrerò?

Già.

— Ma in tutti questi anni non ve lo siete mai domandato?

— No. Sapevo che l’avrei riconosciuta, tutto qui. Ma adesso ho paura. Ho paura che non sarò capace di capire. E lei passerà. E io la perderò.

Ha davvero addosso tutta la pena del mondo, il professor Bartleboom.

— Insegnatemelo voi, madame Deverià, come farò a riconoscerla, quando la vedrò. Dorme, Elisewin, alla luce di una candela e di una bambina. E Padre Pluche, tra le sue preghiere, e Plasson, nel bianco dei suoi quadri. Forse dorme perfino Adams, l’animale in caccia. Dorme la locanda Almayer, cullata dall’oceano mare.

— Chiudete gli occhi, Bartleboom, e datemi le vostre mani.

Bartleboom ubbidisce. E subito sente sotto le sue mani il volto di quella donna, e le labbra che giocano con le sue dita, e poi il collo sottile e la camicia che si apre, le mani di lei che guidano le sue lungo quella pelle calda e morbidissima, e se le stringono addosso, a sentire i segreti di quel corpo sconosciuto, a stringere quel calore, per poi risalire sulle spalle, tra i capelli e di nuovo tra le labbra, dove le dita scivolano avanti e indietro fino a quando non arriva una voce a fermarle e a scrivere nel silenzio:

— Guardatemi, Bartleboom.

La camicia le è scesa sul grembo. Gli occhi le sorridono senza nessun imbarazzo.

— Un giorno vedrete una donna e sentirete tutto questo senza nemmeno toccarla. Datele le vostre lettere. Le avete scritte per lei.

Ronzano mille cose, nella testa di Bartleboom, mentre ritrae le mani, tenendole aperte, come se a chiuderle scappasse tutto.

Era così confuso quando uscì dalla stanza che gli parve di vedere, nella penombra, l’irreale figura di una bambina bellissima, stretta a un grande cuscino, al fondo del letto. Senza vestiti. La pelle bianca come una nube di mare.

— Quando vuoi partire, Elisewin? —, dice Padre Pluche.

— E tu?

— Io non voglio niente. Ma dobbiamo arrivare a Daschenbach, prima o poi, È là che ti devi curare. Questo... questo non è un posto buono per guarire.

— Perché dici così?

— C’è qualcosa di... di malato in questo posto. Non te ne accorgi? I quadri bianchi di quel pittore, le misurazioni infinite del professor Bartleboom... e poi quella signora che è bellissima eppure è infelice e sola, non so... per non parlare di quell’uomo che aspetta... quel che fa è aspettare, Dio sa cosa, o chi... É tutto... è tutto fermo un passo al di qua delle cose. Non c’è niente di reale, lo capisci questo?

Tace e pensa, Elisewin.

— E non basta. Sai cosa ho scoperto? C’è un altro ospite, alla locanda. Nella settima stanza, quella che sembra vuota. Be’, non è vuota. C’è un uomo là dentro. Ma non esce mai. Dira non ha voluto dirmi chi è. Nessuno degli altri l’ha mai visto. Gli portano da mangiare in camera. Ti sembra normale?

Tace, Elisewin.

— Che posto è mai questo, dove la gente c’è ma è invisibile, o va avanti e indietro all’infinito, come se avesse l’eternità davanti per...

— Questa è la riva del mare, Padre Pluche. Né terra né mare. È un luogo che non esiste.

Si alza, Elisewin. Sorride.

— È un mondo di angeli. Sta per uscire. Si ferma.

— Partiremo, Padre Pluche. Ancora qualche giorno e partiremo.

— Allora ascolta bene, Dol. Tu devi guardare il mare.. E quando vedi una nave, me lo dici. Capito?

— Sì, signor Plasson.

— Bravo.

Il fatto è che Plasson non ci vede un granché. Vede vicino, ma non vede lontano. Dice che ha passato troppo tempo a guardare facce di ricchi. Rovina la vista. Per non parlare del resto. Così le cerca, le navi, ma non le trova. Magari Dol ci riesce.

— É che passano lontano, le navi, signor Plasson.

— Perché?

— Hanno paura dei passi del diavolo.

— Sarebbe?

— Scogli. Ci sono degli scogli, qui davanti, lungo tutta la costa. Affiorano nel mare, e mica sempre li vedi. Così le navi girano al largo.

— Ci mancavano solo gli scogli.

— Li ha messi il diavolo.

— Sì, Dol.

— Veramente! Vedete, il diavolo abitava laggiù, nell’isola di Taby. Be’, un giorno una ragazzina che era una santa prese una barchetta e remando per tre giorni e tre notti arrivò fino all’isola. Era bellissima.

— L’isola o la santa?

— La ragazzina.

— Ah.

— Era così bella che quando il diavolo la vide si spaventò a morte. Provò a cacciarla via, ma lei non si mosse di un millimetro. Stava lì e lo guardava. Finché un giorno il diavolo non ne posse veramente più...

— Poté.

— Non ne poté veramente più e urlando si mise a correre e a correre, dentro il mare, finché sparì e nessuno più l’ha visto.

— E gli scogli cosa c’entrano?

— C’entrano perché ad ogni passo che il diavolo faceva scappando veniva fuori dal mare uno scoglio. Tutto dove metteva un piede, zac, spuntava uno scoglio. E adesso sono ancora lì. Sono i passi del diavolo.

— Bella storia.

— Sì.

— Vedi niente?

— No.

Silenzio.

— Ma ci rimaniamo tutto il giorno, qui?

— Sì.

Silenzio.

— A me piaceva di più quando vi venivo a prendere di sera con la barca.

— Non distrarti, Dol.

— Potreste scrivere una poesia per loro, Padre Pluche.

— Voi dite che i gabbiani pregano?

— Certamente. Soprattutto quando stanno per morire.

— E voi pregate mai, Bartleboom?

Si aggiusta il cappello di lana in testa, Bartleboom.

— Una volta pregavo. Poi ho fatto un calcolo. In otto anni mi ero permesso di chiedere all’Onnipotente due cose. Risultato: mia sorella è morta e la donna che sposerò la devo ancora incontrare. Adesso prego molto meno.

— Non credo che...

— I numeri parlano chiaro, Padre Pluche. Il resto è poesia.

— Appunto. Se solo fossimo un po’ più...

— Non fate le cose difficili, Padre Pluche. La questione è semplice. Voi credete davvero che Dio esista?

— Be’, adesso esistere mi sembra un termine un po’ eccessivo, ma credo che ci sia, ecco, in un modo tutto suo, ci sia.

— E che differenza fa?

— Fa differenza, Bartleboom, eccome la fa. Prendete per esempio questa storia della settima stanza... sì, la storia di quell’uomo, alla locanda, che non esce mai dalla sua camera, e tutto il resto, no?

— E be’?

— Nessuno l’ha mai visto. Mangia, a quanto pare. Ma potrebbe benissimo essere un trucco. Potrebbe non esistere. Un’invenzione di Dira. Ma per noi, comunque, ci sarebbe. La sera si accende la luce, in quella stanza, ogni tanto si sentono rumori, voi stesso, vi ho visto, quando ci passate davanti rallentate, cercate di guardare, di sentire qualcosa... Per noi quell’uomo c’è.

— Ma non è vero e poi quello è un matto, è un...

— Non è un matto, Bartleboom. Dira dice che è un gentiluomo, un vero signore. Dice che ha un segreto, tutto lì, ma è una persona normalissima.

— E voi ci credete?

— Non so chi è, non so se esiste, ma so che c’è. Per me c’è. Ed è un uomo che ha paura.

— Paura?

Bartleboom scuote la testa.

— E di cosa?

— Voi non andate sulla spiaggia?

— No.

— Voi non passeggiate, non scrivete, non fate quadri, non parlate, non fate domande. Voi aspettate, vero?

— Sì.

— E perché? Perché non fate quel che dovete fare, e sia finita?

Adams alza lo sguardo su quella bambina che parla con una voce da donna, se vuole, e in quel momento vuole.

— In mille posti diversi del mondo, ho visto locande come questa. O forse: ho visto questa locanda in mille diversi posti del mondo. La stessa solitudine, gli stessi colori, gli stessi profumi, lo stesso silenzio. La gente ci arriva e il tempo si ferma. Per qualcuno dev’essere una sensazione come di felicità, vero?

— Per qualcuno.

— Se io potessi tornare indietro, allora sceglierei questo: vivere davanti al mare. Silenzio.

— Davanti.

Silenzio.

— Adams...

Silenzio.

— Smettetela di aspettare. Non è poi così difficile uccidere qualcuno.

— Ma secondo te, morirò, laggiù?

— A Daschenbach?

— Quando mi metteranno nel mare.

— Ma figurati...

— Dai, dimmi la verità, Padre Pluche, non scherzare.

— Non morirai, te lo giuro, non morirai.

— E tu come lo sai?

— Lo so.

— Uffa.

— L’ho sognato.

— Sognato...

— Ascoltami, allora. Una sera, vado a dormire, mi infilo nel letto e quando sto per spegnere vedo la porta aprirsi e entrare un ragazzino. Credevo fosse un cameriere, una cosa del genere. E invece mi si avvicina e mi dice: “C’è qualcosa che volete sognare, stanotte, Padre Pluche?”. Cosi. E io dico: “La contessa Varmeer che fa il bagno”.

— Padre Pluche...

— Era una battuta, no? Va be’, lui non dice nulla, sorride un po’ e se ne va. Io mi addormento e cosa sogno?

— La contessa Varmeer che fa il bagno.

— Ecco.

— E com’era?

— Ah, niente, una delusione...

— Brutta?

— Falsa magra, una delusione... Comunque... Torna ogni sera, quel ragazzino. Si chiama Ditz. E ogni volta mi chiede se voglio sognare qualcosa. Così io l’altro ieri gli ho detto: “Voglio sognare Elisewin. Voglio sognarla quando sarà grande”. Mi sono addormentato, e ti ho sognata.

— E com’ero?

Viva.

— Viva? E poi?

— Viva. Non chiedermi altro. Eri viva.

— Viva... io?

Ann Deverià e Bartleboom, seduti l’una di fianco all’altro, in una barca in secca.

— E voi cosa gli avete risposto? —, chiede Bartleboom.

— Non gli ho risposto.

— No?

— No.

— E cosa succederà adesso?

— Non so. Credo che arriverà.

— Ne siete felice?

— Ho voglia di lui. Ma non so.

— Magari verrà qui e vi porterà via, per sempre.

— Non dite idiozie, Bartleboom.

— E perché no? Vi ama, l’avete detto voi, siete tutto quello che ha nella vita... L’amante di Ann Deverià ha finalmente scoperto dove il marito l’ha confinata. Le ha scritto. In questo momento forse è già in viaggio verso quel mare e quella spiaggia.

— Io verrei qui e vi porterei via, per sempre.

Sorride, Ann Deverià.

— Riditemelo, Bartleboom. Proprio con quel tono 11, vi prego. Riditemelo.

— Laggiù... eccola laggiù!

— Laggiù dove?

— Là... no, più a destra, ecco, lì...

— La vedo! La vedo, perdìo.

— Tre alberi!

— Tre alberi?

— E un tre alberi, non vedete?

— Tre?

— Plasson, ma da quanto siamo qui, noi?

— Da sempre, madame.

— No, ve lo chiedo sul serio.

— Da sempre, madame. Sul serio.

— Secondo me è un giardiniere.

— Perché?

— Sa il nome degli alberi.

— E voi come lo sapete, Elisewin?

— A me, questa faccenda della settima stanza, non piace niente.

— Che fastidio vi dà?

— Mi fa paura, un uomo che non si fa vedere.

— Padre Pluche dice che è lui ad aver paura.

— E di cosa?

— Ogni tanto mi chiedo cosa mai stiamo aspettando.

Silenzio.

— Che sia troppo tardi, madame.

Avrebbe potuto continuare così per sempre.

Libro Secondo