Ho una tresca con la nobile arte.

Sì, insomma, ho una tresca con la boxe.

Ma ho una tresca anche con l’arte tout court e con uno dei suoi migliori fighter in circolazione, Achille Bonito Oliva. È un amico.

Si può avere una tresca con un amico? La risposta è sì, quando uno dei due è un pugile e l’altro il figlio di Dio che gli “combina” gli incontri.

Del resto anche A.B.O. è un dio nel suo genere.

God save the A.B.O. e A.B.O. save the G.O.D.

Partire è un po’ morire. Pestare è far restare
ogni malcapitato che hai steso su un quadrato
se non lo butti a mare.

Partire è un po’ morire. Pugnar è rimuginare
l’idea che sei mortale, i pugni fanno male
se non li sai incassare.

Partire è un po’ morire. Suonarle è salutare
che poi sia un contrabbasso oppure il primo fesso
ha tutto da imparare.

Partire è un po’ morire. Colpire è basilare
perché tu lasci un segno oppure spacchi il grugno
ma è il gesto che è esemplare.

Partire è un po’ morire. Un pugno fa pensare
che un mento è solo un mento, sei tu che sei un portento,
lo riesci a dimostrare?

Partire è un po’ morire. Picchiare è un po’ volgare
ma se tu sei elegante e abbatti un elefante
c’è poco da obiettare.

Partire è un po’ morire. Menare è dimostrare
che il meno sembra un più se l’hai menato tu,
l’incontro è regolare.

Partire è un po’ morire. Morire è non boxare
perché senza guantoni ti cadono i coglioni
e allora, è meglio andare.

Le storie sono tramandate e sono tremende.
Le migliori sono tremende e tramandate.
Questa è una di queste.

The Ring è un film giap che non avverte il gap generazionale, perché ha l’ambizione di spaventare chiunque lo veda, giovani leoni e nonni in carriola.

È molto nipponico a modo suo, quindi imperiale e anche un po’ “kamikaze”, che dopo averlo visto, con tanto di sequel e prequel, tradurrei, senza esitazione alcuna, in kagacazzo.

Narra di una videocassetta maledetta, una leggenda metropolitana con più utenza della metropolitana di Tokyo. Chiunque la visioni riceve una telefonata soprannaturalmente anonima che lo avvisa del fatto che ha una settimana di vita.

Puntualmente sette giorni dopo i malcapitati schiattano con un’espressione di insostenibile orrore sul volto. A pensarci bene se una vhs li ha ridotti così possiamo immaginare che cose tremende sarebbero capitate con un dvd o con un blu-ray.

Nella cassetta si vede confusamente una sorta di cerchio, di anello appunto, che si rivelerà la bocca di un pozzo che ha ingoiato una spettrale ragazzina giapponese, nota iettatrice di cui una figura genitoriale ha oculatamente pensato di sbarazzarsi.

Ma la giovane menagramo è coriacea. Esce dal pozzo incazzata gialla, e nonostante sia morta come la virilità di un ottuagenario, decide di vendicarsi su poveri fruitori di vhs, che oltretutto non c’entrano un cazzo con la sua fine.

La biancovestita portaiella non si accontenta infatti di essere uscita dal pozzo, ma esosamente esce anche dal teleschermo adunca, rapace, letale: quello che si dice “bucare il video”.

E pensare che quando sono andato a vedere The Ring, con la strepitosa Elisa Kiritsaka, una studentessa italogreca, ero convinto che fosse un film sulla boxe.

Il mondo si basa su un enorme equivoco.

Se pensate che vi dica quale, state equivocando le mie intenzioni.

Dimenticavo di presentarmi, vi stringerei volentieri una mano se e quando ne avete bisogno. Ma non posso: ho le mani legate. Il che per essere Dio non è il massimo.

Per la precisione sarei il figlio di Dio, anche se non ci tengo che si sappia. L’ultima volta è finita a chiodi e croci.

Si parla molto di me, specialmente a vanvera.

Dicono che mio padre, quello di comodo, facesse il falegname. Mi confondono con Pinocchio. Anch’io sono un bugiardo matricolato, ma non sono di legno e la carne è debole.

Dicono che sono stato concepito tramite l’intervento di un amico di famiglia, un certo Santo, un uomo di spirito.

Dicono... dicono... ma non ne sanno nulla.

L’altro giorno a Radio Maria ho sentito un tale che citava certe frasi con cui mi ero rivolto al mio amico Lazzaro, come se fossi stato presente. Parlava di me come se fossimo culo e camicia. E pensare che non l’ho mai visto né abbiamo mai pascolato i porci insieme.

Le sue affermazioni sono puri pettegolezzi, non gossip, peggio, “God zip”. Credo che se insisterà lo manderò all’inferno, se non lo mando prima affanculo.

La realtà è che io sono la persona più fraintesa del creato.

Mi piace la boxe. Anche a lui piaceva. Era un combattente nato.

Lo tenevo d’occhio da un pezzo gingillandomi nell’anonimato da cui lui rifuggiva riottoso.

Sì, decisamente era un pugile. Si chiamava Oliva, ma non era Patrizio, anzi, per certi versi era piuttosto plebeo. Perché, secondo quello che diceva Heinrich Mann o Rocky Marciano, non ricordo: “Un intellettuale ha bisogno di un piccolo tasso di volgarità per diventare un grande intellettuale”.

Oliva si chiamava Achille ed essendo autocritico come pochi, si sentiva muy Bonito. L’espressione, nel suo caso, andava scissa.

Lui era contemporaneamente l’auto e il critico.

L’auto da deus ex machina, quindi automunito, e critico in quanto scettico o entusiasta decodificatore del codice stradale sulle vie del mondo.

Qualcuno diceva che fosse un esibizionista. Ma va’, un esibizionista è, per luogo comune riconosciuto, un tipo che al parco manifesta improvvisamente la propria generosa virilità aprendo l’impermeabile, sotto il quale è nudo, vorace e verace come un verme solitario.

Lui non era così.

Quando nel 1981 si era fatto fotografare nudo su “Frigidaire” non aveva portato l’impermeabile. (Perché essendo permeabile era disposto ad accettare a modo suo, a muso duro, qualsiasi forma di contaminazione interdisciplinare.)

Gli piacevano i fumetti, perciò in onore di Superman, in Italia Nembo Kid, aveva teorizzato la Super Arte. Poi aveva definito i contorni, i piatti di portata, gli antipasti, il dolce e il limoncello del “sistema dell’arte”: l’articolato circuito di produzione, diffusione, promozione e vendita delle opere d’arte.

Non pago, anche se giustamente lo pagavano parecchio, era diventato il nume tutelare di una sua scoperta: la transavanguardia.

Come semplificarla per un pubblico di pugili? Be’, direi “del maiale non si butta via niente”.

Perché l’arte figurativa, nonostante le rimostranze di quella concettuale, fa sempre la sua porca figura!!!

Oltre ai fumetti e alla boxe gli piacevano le donne. E guarda un po’ era ricambiato. Forse perché in lui coesistevano il puer aeternus garibaldino e il senex di Cavour.

Sul ring, non il film giapponese, l’arena delle emozioni, era sempre sia un dilettante che un professionista. Forse perché la sua professione era il diletto.

Fisicamente dimostrava da sempre la stessa età. Secondo me, oltre ad averlo fotografato nudo, nel frigidaire lo avevano anche infilato. E lui bello bello, nel ghiaccio studiava l’avversario.

Mi sono sempre defilato. Quando adotti un profilo alto, se il tuo avversario ha un buon allungo sei fregato.

Ho pochi amici, e me lo merito. Non che sia colpa mia ma faccio involontariamente loro del male.

Quando mi sentivo con Giovanna d’Arco (io parlavo, lei ascoltava), con la scusa che “sentisse le voci”, voici, ecco qua l’han messa al rogo.

Il problema in realtà non sono io, io sono solo un grosso equivoco.

Il problema non è neanche l’avversario, porco diavolo. Lucifero è solo un angelo che mi è caduto quando me la tiravo da funambolo.

Il problema è l’area del problema e il suo perimetro. Si chiama the ring, come il film giapponese.

Ai vecchi tempi delle London Prize Ring Rules, le regole che pretendevano di codificare la boxe, era uno spazio di ventiquattro piedi quadrati inglesi delimitato da otto paletti piantati su una superficie erbosa.

La superficie ovale sembrava più un cerchio che un quadrato. Il fatto che oggi il quadrato è quadrato ma si chiama ring, ossia cerchio, la dice lunga sull’attendibilità di come vanno le cose nella vita.

La prima volta che vidi Achille Bonito Oliva capii immediatamente che avrebbe fatto al caso mio. A quale caso mi riferisca, secondo me, non è ancora il caso di parlarne.

Stava per prendere un aliscafo per Capri. Era in compagnia di una bionda come la Venere di Milo che in più aveva le braccia.

Lei, Annamaria, con il glamour di Lauren Bacall nel Grande sonno.

Lui, Achille, con la faccia da impunito di Edmond O’Brien in Gangster cerca moglie.

Un mariuolo, quindi un figlio di Maria, mia madre, tentò di scippare una signora senza caramelle ma in abito fiorato Positano style.

Achille fu fulmineo, un ko lampo alla John Lawrence Sullivan, “The Boston Strong Boy”, che il 28 giugno 1880 sfondò la guardia di George Rooke con la propria versione di transavanguardia applicata.

Il borseggiatore perse nell’ordine la borsetta della signora, la borsa dell’incontro che era stato improvvisato e un paio di denti.

Poi sul ponte dell’aliscafo Achille Bonito Oliva, che d’ora in poi chiameremo A.B.O., essendo brevilineo, cominciò a pontificare, tra le turiste infoiate:

«Peccato che non ci sia un giornalista. I primi cronisti di boxe erano anche i più grandi poeti dell’Occidente. Penso a Omero, Virgilio, Pindaro. Con un cazzotto ben assestato riesci a far fare a chiunque un volo pindarico. Ve la dico con Virgilio: “sanguine cernis adhuc sparsoque infetta cerebro”.»

«What?» chiese una facoltosa casalinga di Minneapolis.

«Di sangue le vedi ancora sporche e d’infranto cervello, o se preferisce, cornuto e mazziato!»

Mi resi subito conto che A.B.O. aveva potenza oltre che potenzialità. Anche i suoi amici non scherzavano, come ebbi modo di scoprire, pedinandolo protetto dal mio anonimato da figlio di Dio di basso profilo.

Ai bagni Calypso di Vietri Marina, il proprietario dello stabilimento vide entrare nel suo feudo un uomo arrogante, che senza chiedere permesso alcuno si impossessò di una sdraio.

Pietro Tredici, l’amico di A.B.O., lo sollevò di peso.

«Mi lasci stare... sono un magistrato!» protestò il giudice col suo boia.

E Pietro Tredici (round), impassibile: «Quando è entrato come se fosse a casa sua avrà notato un cancello. Ora, dove c’è un cancello c’è un cane. Quel cane sono io. Se ne vada!».

A.B.O. sogghignò nonostante la napoletanità salernitana (contaminare è meglio che fottere). Sembrava un trickster, il briccone divino dei nativi americani, irriverente, senza morale, ma prezioso contatto tra l’uomo e la divinità. Ossia il sottoscritto!

Me li ricordo tutti i pugili che ho visto e la musica che dai guantoni si espandeva, diffondeva, proponeva, porca eva.

Alle orecchie e ai cuori degli spettatori c’era lo swing di Cerdan e c’era Joe Louis, che essendo malinconico picchiava in blues.

C’erano fanfare e fanfaroni. C’erano ciaccone e ciccioni. Tutti suonavano e si facevano suonare, prima o poi. Erano strumenti, orchestrali e musici puri. Ogni goccia di sudore era una nota. Ogni match truccato un accordo. Ma questo si sapeva già. Tromboni ingenuamente inconsapevoli come Primo Carnera trombati prima del gong, che non è un film giapponese. Una jab session, il jazz e il jab, il pop e Popeye. Boxe come musica. Boxe come arte. Non si trattava del Magico Primario, il raggruppamento di artisti convogliati nel 1980 dal critico Flavio Caroli battuto ai punti dalla transavanguardia.

Ogni pugile è un magico primate. Un flauto magico. E tragico. A.B.O. rappresentava il colore della musica e il colore dei pugni. Era colorito, colorato, colorado, ma purtroppo, per quanto si abbronzasse sugli aliscafi con belle bionde, non era di colore. Era, in fondo, più o meno come Jerry Quarry che da George Foreman, Cassius Clay, Ken Norton e Joe Frazier veniva considerato la “speranza bianca”. I neri boxavano meglio ma tra le virtù teologali, dopo fede e carità, la speranza è l’ultima a morire.

Sì, A.B.O. era il fighter giusto per me.

Durante un diverbio con un poeta artista della Fluxus, con un cazzotto gli fece saltare i denti. Esattamente come era accaduto al borseggiatore dell’aliscafo.

Il poveraccio, a occhio e croce un peso welter (massimo 66,7 kg), era già sdentato di suo. Quindi l’avvenimento era come se fosse già accaduto.

Lui l’aveva fotocopiato warholianamente.

Dopo averlo studiato a lungo decisi di contattarlo. Lo feci in occasione di una mostra di Michelangelo Jr allo Spazio Erasmus di Milano. Michelangelo Jr stava cercando il punto zero che per un grande artista equivale a trovare un taxi nell’ora di punta.

Michelangelo Jr era un essere talmente fisico da sentire il bisogno di sperimentare “la cancellazione” nelle proprie opere: annullare le sovrastrutture per moltiplicare il punto di partenza verso l’infinito anziché il definito. Era bello, nonostante una vaghissima somiglianza con Ignazio La Russa.

Le sue opere, la cui materia, nello specifico di quella mostra, era il lievito disseminato, dimenticato da Dio, mio padre, nascevano dal soffio biblico. E da uno starnuto da raffreddore stagionale. Una stagione all’inferno.

Benché il suo proposito fosse quello di cancellarsi, le femmine presenti in galleria cercavano un contatto fisico, anche minimo: un pizzicotto, un ganascino, una carezza sulla barbetta luciferina. Anche A.B.O. lo apprezzava, anche se non al punto di strizzargli un capezzolo. Comunque era lì per lui, ritenendolo, parole sue, “identità di essere vivente, portatore di un dna del passato e plasmatore delle forme del futuro”.

Abbordai Michelangelo Jr portandogli un Cuba Libre.

«Era ora! Non ne potevo più di questa dannata sangria!»

La sangria e i tramezzini erano terminati. Avrei potuto tentare di moltiplicarli, ma non volevo dare nell’occhio.

Dopo essermi complimentato con l’ego di Michelangelo, gli chiesi qualche informazione: «Che tipo è A.B.O.?».

«Se il mondo va a mille, lui va a milleottocento, sorpassa e aspetta la carovana.»

«Secondo te è un buon pugile?»

«Di sicuro ha la trasversalità del ring.»

A.B.O. napoleonesco gigioneggiava tra le dame. Mi avvicinai timidamente a lui.

«Lei ha un bel punch.»

Guardò il suo bicchiere.

«Veramente è un Cuba Libre. Sa, è finita la sangria...»

«No, alludevo al colpo, il lucky punch. Il pugno fortunato che le forze della natura riescono a mettere a segno con avversari apparentemente imbattibili!»

Mi fissò compiaciuto e sospettoso.

«Si occupa di arte o di boxe?»

«Veramente, mio malgrado, mi occupo di religione... ma... sì, anche se in realtà è la religione che si occupa di me. Comunque mi piace la boxe.»

«Con chi ho il piacere...»

«Mi chiami pure Teo. Sta per Teofilo. Il nome l’ha scelto papà. Senta, è un po’ che la curo. È dai tempi del Gruppo 63, tre anni dopo che Cassius Clay e Carmelo Bossi hanno fatto la loro porca figura alle Olimpiadi di Roma. Ora è inutile tergiversare. Giacché mi sono presentato, tanto vale che sia sincero fino in fondo... lei non sa chi sono io!»

«No, in effetti non lo so. Però ha pronunciato una frase arrogante. Con grande umiltà.»

«No, quello umile era il mio predecessore. Sarà una cosa ereditaria. Comunque, si tenga forte... sono il figlio di Dio!»

Papà A.B.O. assunse un’espressione da Mamma Ebe. Più complice che ebete.

«L’ho turbata o divertita?» mi informai.

«Nessuna delle due. Ha confermato l’attualità di un mio saggio: Difficoltà dell’essere e grazia dell’apparire

Fu così che diventai il suo manager.

A.B.O. cominciò a combattere per me.

Incontri clandestini. Sia chiaro, quello era il mio progetto.

La vera boxe era morta in gloria il 30 ottobre 1974 a Kinshasa, capitale dello Zaire, quando Muhammad Ali, in una sontuosa notte stellata, all’ottava ripresa con un destro stellare aveva messo Foreman ko.

Oggi è un circo più che un cerchio, un ring per ringalluzzire l’avidità. Tanto valeva approfittarne tornando alle origini, applicando il principio Mendoza.

Non so come riuscii a convincere A.B.O. Forse fu quando gli dissi: «Senti, io non sono mio padre, checché se ne dica. Non sarai mai il sinistro di Dio. Al massimo il sinistro di “Io”! non capita tutti i giorni di essere scelti come “campioni” dal figlio di Dio!».

Perché lo facevo? Semplice, mi piaceva la boxe e mi ero reso conto che il mio contributo ai doveri che comportava la mia posizione andavano in qualche misura assolti.

Essendo in incognito non potevo pretendere di donare la salvezza pescando anime. No. Io ero un pescatore di corpi. Corpi che col combattimento esemplificavano la lotta per la libertà del “gesto” forte contro il pensiero “debole”.

Il Principio Mendoza con A.B.O. funzionava da Dio, scusa papà.

Mendoza era un peso medio che si era prefisso di diventare campione di massimi, anche se nell’Inghilterra di fine Settecento non si andava molto più per il sottile.

Mendoza, un metro e settanta per settantadue chili e mezzo, essendo ben conscio di non poter rivaleggiare in forza bruta con quei bestioni dei suoi avversari, che torreggiavano su di lui più letali della Torre di Londra per una moglie di Enrico VIII, aveva capito che l’unica chance era perfezionare la propria velocità, abbinandola a una potenza da costruirsi con continui esercizi.

Con A.B.O. applicammo la legge di Mendoza, non solo il principio.

L’idea di base era semplice: la noble art contro l’arte. A.B.O. combatteva in capannoni industriali o in pescherie abbandonate contro pugili artisti o pugili critici.

All’inizio gli combinai incontri con gli “has been”, i sopravvissuti, i picchiatori che un tempo erano stati “qualcuno” e che ora non si rassegnavano al declino.

Il primo fu Kid Opalka, una vecchia gloria della pittura analitico riduttiva. A.B.O. lo “ridusse” subito con un gancio destro, il completamento offensivo del distretto sinistro.

Poi arrivarono gli ossi duri. Bomba Michaux, che combatteva per i Dessins Mescaliniens, oppiato e in stato di allucinazione come i suoi disegni.

Bastò uno swing, un gancio largo tirato da lontano, per finirlo. Fulmine Jodorowsky, del Mouvement Panique, un campione di sberleffi surreali che crollò sbeffeggiato da un uppercut, corto ed efficace. Cobra Pederson, cobra del Gruppo Cobra.

Il tipo ce l’aveva a morte con l’arte e la tecnologia razionale, costruttivista e geometrica, si rifaceva al dada. A.B.O. lo fece a dadi con il diretto sinistro-diretto destro che il grande Georges Carpentier, che non era un carpentiere ma picchiava come un fabbro, aveva portato alla perfezione.

Bullshit Manzoni, uno che, dopo aver steso in un orinatoio Rocky Fontane du Champ, aveva giurato che avrebbero fatto pagare la propria merda da artista a peso d’oro a chiunque avrebbe osato sfidarlo.

A.B.O. lo colpì con un gancio sinistro al mento seguito da un altro gancio sinistro al fegato, facendogli fare la figura dello stronzo, come aveva fatto Cerdan con Zale in una lunga notte del 1948.

Il vero punch, proprio il lucky punch, deve riunire in sé tre condizioni: deve raggiungere una zona sensibile, deve essere portato con massima precisione e massima velocità, deve essere portato con la massima potenza.

A.B.O. aveva il senso del dovere. E l’arte leibniziana di ottenere con il minimo di sforzo il massimo risultato possibile.

Infine, se permettete, aveva me.

Per me A.B.O. era una miniera d’oro, incenso e mirra.

Sapevo che prima o poi l’avrei perduto come un vecchio spasimante di una giovane amata. Ero conscio che prima o poi, stanco di combattere e di fare la figura di quello che è stato “scoperto”, avrebbe avvertito la necessità di scoprire lui qualcun altro, come ai vecchi tempi.

Quando avvenne fu un po’ come ricevere un pugno sui denti.

L’uso dei paradenti, ignorato dalla Belle Époque, era stato reintrodotto solo negli anni “folli”.

Ma gli anni folli erano finiti. Finirono così, di colpo. Puoi tentare di trattenere il tempo con un clinch, afferrandolo, per evitare di combatterlo. Ma non può durare, non puoi durare. Perché il tempo, oltre a essere l’arbitro, è molto più duro di te.

Una notte, nel parcheggio di un ipermercato dimesso di Quarto Oggiaro, si presentò una bionda a chiedere di A.B.O. La riconobbi subito. Era quella dell’aliscafo che stava tornando alla carica per tornare in carica. Parlottò con A.B.O. Non so cosa si dissero.

So cosa mi disse lui a cinque minuti dall’incontro.

«Teo, scusami, ma io mollo.»

«Non puoi farmi questo, te ne pentirai!»

«Perché? In fondo mica ho fatto un patto con il diavolo!»

«Vabbè, ma a parte la bionda, dammi una motivazione!»

«Come affermava il duca di Saint Simon, “al di sotto della mediocrità c’è solo la nullità. Ho affrontato dei mediocri, ora voglio affrontare il nulla”...»

«Ma io sono il tuo manager!»

«Ma no, sei solo un povero Cristo!

Passarono sei mesi.

Dopo di lui, il diluvio. Un diluvio di debiti per gli incontri che avevo già organizzato nei peggiori anfratti della città. I creditori mi volevano crocifiggere pur ignorando la mia identità.

Per fortuna che a tirarmi su il morale c’era la strepitosa Elisa Kiritsaka, la studentessa italogreca con cui ero andato a vedere The Ring, il film giapponese da cui era nato tutto ciò.

Elisa una sera mi convinse ad accompagnarla ad assistere a un incontro di wrestling clandestino.

Il campione era un ciccione giapponese, un ex promessa del sumo. Lo sfidante, non riuscivo a credere ai miei occhi, era A.B.O. Aveva perso un po’ di capelli, dall’ultima volta che l’avevo visto combattere, ma sempre con il taglio a pube.

Stavolta non boxarono. Si presero a panciate.

Nonostante la mole dell’avversario, A.B.O. vinse, perché oltre ad avere il lucky punch, aveva evidentemente una lucky pancia.

«Porgi l’altra pancia!» disse al suo avversario, un certo Pancia Shingo Onda, che veniva dal Mono-Ha, il movimento che si era votato a distruggere l’intrusione della coscienza dell’artista nell’atto di realizzazione dell’opera.

Pancia Shingo Onda si arrese.

Raggiunsi A.B.O., che si stava trastullando con Drudrù, una mora che sembrava Frida Kahlo, in una specie di improvviso spogliatoio a ridosso di una fabbrica di tonni in scatola, chiusa perché il prodotto era avariato.

«Nemmeno alle bionde sei fedele, eh?! Se non sapessi che ti chiami Achille ti chiamerei Giuda! Ma almeno dimmi per chi mi hai tradito... per chi lavori!»

A.B.O. ammiccò: «Per Dio».

«No, perdio lo dico io!»

«Non hai capito. Combatto per tuo padre. È lui il mio manager. Ti ha fatto le scarpe!»

Cosa volete che vi dica, e l’avrei anche al mio fratello maggiore Gesù:

«Dai parenti non c’è da aspettarsi niente di buono.»