Eventi (sentimentali) precipitati
E va bene: mentre contemplavo, gli eventi precipitavano.
Dopo un paio d’ore passate in ospedale – dalla luce bianca della luna a quella giallastra del neon – ne sapevamo meno di prima. Cos’era successo? In quanti erano?
Sí certo, qualcosa s’era capito: Giacomo era con Sandra in un posto un po’ isolato, a cercare il punto migliore per l’inquadratura, quando due individui, forse tre, o chissà, erano spuntati e avevano aggredito Giacomo, senza motivo: lieve frattura al setto nasale, intervento di riallineamento manuale dopo anestesia locale (pare non avesse fatto effetto), ematomi vari.
Il resto della troupe (erano in due) non s’era accorto di niente, Sandra Cheli invece – che vedevo ora per la prima volta: una massa di capelli biondi, piegata sulla panca, l’orlo delle mutandine che fuoriusciva dai jeans (e ho pensato a Titti) – aveva cercato di scappare, ma era caduta: ginocchia sbucciate.
Poi ci hanno fatti andare, e cosí siamo usciti nella notte ormai fresca – eravamo sotto i venti gradi, un venticello pungente, da stringersi sulla moto. Prima di entrare in casa – l’orologio segnava le 2,58 – ho guardato ancora una volta il cielo: Vega e Altair quasi allineate in orizzontale. Mi dovrebbe venire in mente qualcosa di poetico, ho pensato – e invece niente. Poi non riuscivo a dormire, ho sfogliato un libro, Brain. Il cervello, istruzioni per l’uso, e ho scoperto che nel tempo intercorso tra un minuto e 379 mila anni dopo il Big Bang, l’universo ha cominciato a espandersi e raffreddarsi e si sono formati gli atomi di idrogeno, cosí belli nella loro struttura elementare, un neutrone, un protone, un elettrone, e sí, un universo giovane affollato da giovani atomi di idrogeno, eppure nel bel mezzo di quella calma ancestrale, il nostro sistema nervoso, il mio, il tuo, quello di tutti, era in nuce.
Una volta che qualcuno, o qualcosa, una forza, ha reso possibile l’atomo di idrogeno, l’universo ha cominciato la sua corsa evolutiva, e non parla solo di stelle e pianeti questa storia, ma di elementi chimici, della tavola periodica che cresce, delle cariche elettriche che trovano un mezzo di trasporto privilegiato: gli ioni, il cavallo da traino del sistema nervoso.
Se non ci fossero gli ioni, senza elettrochimica cioè, il nostro sistema nervoso non potrebbe funzionare, questa polvere di stelle che porta avanti il pensiero e forma le emozioni.
E dunque, mi chiedevo, c’è la concreta possibilità che da un atomo di idrogeno sia nato uno ione e che questo dopo 14 miliardi di anni di pellegrinaggio sia finito nel sistema nervoso dell’aggressore di Giacomo, influenzando cosí tutta la storia: se sí, chi mai avrebbe potuto prevedere il viaggio? Come controllare il caos e trovare la felicità?
Tutto questo afflato cosmologico è durato fino alle tre e un quarto, poi sono crollato, e la mattina dopo, nemmeno le sette, stavo già su una panchina di Villa Pamphilj – il sole ancora basso, l’enorme massa di CO2 prodotta dagli alberi del parco mi raffreddava le spalle – e leggevo «Repubblica».
M’ero concentrato piú prosaicamente su uno di quegli articoli che mi rovinano la giornata, un classico sui bei tempi andati. Si rimpiangeva la bellezza del vecchio Orient Express, una volta sí che si viaggiava, quando il mondo era pacifico e non compromesso con le guerre del capitale, allora si viaggiava per la gioia dello spirito e non per il denaro.
Mi ero accasciato: l’universo evolve, cucina nella fornace stellare la tavola degli elementi, gli ioni migrano, strutturano il nostro cervello, danno corpo a emozioni e sentimenti, ci chiediamo se siamo liberi e possiamo essere felici, ma poi leggi quelli che il vecchio treno di una volta e tutto implode davanti a te.
Vabbè, niente, giornata già rovinata.
E allora ho preso il cellulare.
E lo ammetto, sono uno che controlla gli ultimi accessi a WhatsApp. Comunque non lo faccio per spiare, anche se nessuno mi crede. Controllo l’ultimo accesso proprio per non cedere alla tentazione di chiamare le persone alle sei del mattino.
Il WhatsApp di Paola mi dava l’ultimo accesso alle ventitre.
Erano quasi le sette, era successo tutto quello che era successo, e lei non sapeva niente?
Ho controllato Luigi: ultimo accesso alle 3,15. Magari dormiva ancora.
Ho aspettato. Alle otto, niente.
Alle 8,45 mi è venuto sonno, ma mi è tornato in mente l’articolo sui bei viaggi di una volta: godetevi la povertà, voi poveri, non diventate come noi, ricchi e borghesi.
Ho fatto un giro in bici.
Alle dieci ancora niente, cosí alle 10,01 ho chiamato Paola. Non mi ha risposto. Alle 10,30 scorrazzavo su per i saliscendi di Villa Pamphilj, e mi chiedevo che albero fosse quello con foglie cosí grandi, trilobate, da sembrare un fico.
Ho svegliato Luigi, non resistevo piú.
– Non è strano? Il WhatsApp di Paola è fermo alle ventitre di ieri. L’ho pure chiamata…
– Ma non ci vorrà piú sentire, mi sembra ovvio.
– Che hai? Sensi di colpa?
– Ma quando mai…
Ecco, ho pensato mentre Luigi parlava, si chiama Firmiana simplex. Bello arrivare alla soluzione, cosí, mentre fai altro e ormai non ci pensi piú.
Allora ho insistito:
– Dài, chiamala, per curiosità, è successo ’sto casino e lei non si è vista né sentita.
Luigi ha detto di no, ha sbuffato, e poi: – Va bene, la chiamo.
Ma niente, non ha risposto nemmeno a lui.
Intanto ero uscito dalla villa, ora percorrevo via Carini, guidavo senza mani, m’intrufolavo in spazi stretti e parlavo con Luigi, cosí un vigile mi ha fatto segno: ma dove cazzo vai?
E dove andavo? A prendere un caffè da Dolci Desideri.
Seduto al tavolino mi sono guardato intorno, il tempo di fare una carrellata, e di nuovo ho cercato Paola. Niente.
– O ce l’ha con noi, oppure mi sa che dobbiamo preoccuparci, – ho detto a Luigi, che nel frattempo l’aveva chiamata con numero sconosciuto. – Ci preoccupiamo?
Mi sono detto: andiamo per ordine, ho provato a chiamare Giacomo, magari l’aveva sentita. Giacomo era spento. Ancora Luigi:
– Ma no, dài, starà con qualcuno e avrà dimenticato il cellulare a casa.
Però poi ci siamo detti: visto il suo stato d’animo di questi ultimi giorni… la sensualità (andavamo cauti con le definizioni) non era cosí evidente (ci schiarivamo la voce)… insomma, non ci pareva proprio dell’umore, diciamo, di scopare con uno.
– Ah, ecco, – ha detto però Luigi, – non doveva passare al Kino dopo la cena? C’è quel festival di comici…
– Si sarà ammazzata dalle risate, – che battuta scema, ho pensato. Ho chiamato Mario, uno che organizzava il festival. Mi ha detto che no, non s’era vista, e poi:
– Comunque un giorno vieni al festival, serve anche per rilassarsi un po’, con questa crisi abbiamo raddoppiato le presenze.
La centrale Acea incombeva su di me e sull’edificio si addensavano delle nubi. Pensavo: bisognerebbe andare a casa di Paola. Ho guardato il ciliegio davanti a Dolci Desideri: è un ciliegio o un amareno? Mi è venuta voglia di salirci sopra.
– Sí, come no, – ho risposto e tagliato corto con Mario e richiamato Luigi:
– Senti, io vado.
– Da Paola?
– Sí, vado, busso, che ne so, hai presente quei romanzi dove il protagonista si rende conto dell’assurdità della vita proprio durante un’assurda domenica? Buona domenica, nessuno a cui telefonare…
– Che stronzata, aspetta, andiamo insieme.
Venticinque minuti dopo mi sono attaccato al citofono di Paola: niente.
– Ragioniamo, – mi ha detto Luigi. – Non è in casa, sta con uno.
– Saliamo, – ho detto io.
Luigi ha sbuffato.
– Comunque, qui a fianco abita quello… come si chiama? – mi stava venendo un’idea.
– Quello chi?
– Su… il comico… quello giovane di Napoli.
– A me i comici già non mi piacciono, pensa poi se sono di Napoli.
– Dài che lo conosci.
– Ma fa ridere?
– Macché, fa un sacco di battute cretine sulle donne, però piace, c’ha pure un canale su YouTube… ecco… sí, Augusto Fiorito, ce l’avevo sulla punta della lingua…
Forse la mia mente già aveva cominciato a elaborare una strategia per entrare a casa di Paola quando guardavo e ammiravo l’amareno fiorito a luglio (una doppia fioritura, in ritardo)?
– Ah certo, lo conosco, eccome… vabbè… ma che ci dobbiamo fare con il comico?
– Visualizza.
– Che cosa?
– Il cortile interno di Paola.
Luigi ha socchiuso gli occhi: – Visualizzato, e allora?
– E allora: Fiorito abita al secondo piano, nello stabile adiacente, Paola al…
– Al terzo, sí, lo so, e che fa: chiamiamo Paola dal balcone di Fiorito?
– Chiamiamo! Vediamo, se non risponde, al massimo mi arrampico.
– Ma che cazzo ti arrampichi…
– Io sono bravissimo ad arrampicarmi, quando ero piccolo non parlavo ma in compenso avevo una straordinaria agilità, – ho spiegato.
– Mo parli e dici pure sempre le stesse cose…
– Dài, suoniamo a Fiorito.
– Aspetta: problema.
– Quale?
– Non so se è proprio un problema…
– Cioè?
– Mi sono scopato l’ex di Augusto… – ha detto Luigi.
– E che cazzo…
– E che cazzo ci devo fare se lui è impotente?
– Augusto? Ma che dici? Sta sempre con ragazze bellissime.
– Eh, lo so, ma non c’entra.
– Come non c’entra?
– Non c’entra, stanno con lui perché le fa ridere.
– Ma lui lo sa?
– Che è impotente o che stanno con lui perché le fa ridere?
– Ma no! Che ti sei scopato la fidanzata! Lo sa? Come si chiama questa?
– E chi si ricorda…
– Vabbè… se non ti ricordi tu, magari non si ricorda nemmeno lui.
– Mi sa che si ricorda.
– Andiamo, al massimo ti caccia.
E siamo andati a suonare al citofono di Augusto Fiorito.
– Chi è?
– Augusto, ciao, senti, mi sa che è successo un casino.
Un attimo dopo eravamo sul balcone di Augusto che tra l’altro era in boxer e maglietta, una maglietta tutta slabbrata, e io ho guardato i gerani, una fioritura bella e ricca, come dicono i manuali di giardinaggio, e poi i boxer, e ho pensato: qua non fiorisce niente. Vabbè.
Abbiamo chiamato: – Paola! Paola!
Eravamo preoccupati, anche Fiorito.
– Mi arrampico, – ho detto.
Guardavo Fiorito che guardava Luigi in modo strano, il quale per non raccogliere il suo sguardo faceva finta di prendere le misure dal balcone di Augusto a quello di Paola. Quando Augusto è rientrato in casa, Luigi mi ha sussurrato: – E comunque i comici so’ tutti impotenti, perché mai dovrebbero far ridere in continuazione? Per non scopare, no?
Un istante dopo, rieccolo: maglietta aderente, che metteva in evidenza pettorali e bicipiti, e jeans a vita bassa. L’insieme gli conferiva una certa sciatteria, tipica di alcuni seduttori, quelli che sembrano invitino le donne a fare un movimento solo, e si è già nudi, a letto, e soprattutto allegri, ma Luigi mi ha letto nel pensiero, e mi ha fatto segno: no, non è cosí, credimi. Forse Augusto voleva solo dimostrare qualcosa a Luigi, o a me, o farsi bello per Paola, casomai Paola fosse viva e vegeta, e quindi, in ultima analisi, che sistema stavamo mettendo in moto?
Mi arrampico da sempre sugli alberi, non soffro di vertigini e avrei tanto voluto fare l’equilibrista, quindi non c’ho messo molto, erano pochi passaggi e abbastanza facili, il peggio che poteva succedermi era beccarmi una denuncia per scasso o trovare Paola a letto con uno, e invece dal suo balcone l’ho vista: stesa sul divano, le braccia penzolanti, dentro mi sembrava tutto di un colore giallastro.
– Oh cazzo, – ho gridato.
– Oh cazzo, – hanno detto in coro Luigi e Augusto, prima di sparire.
Dovevo sbrigarmi a entrare, ma non ho sfondato il vetro, inutile, la porta del balcone non era fissata bene, quindi ho spinto, allargato la fessura, infilato una mano dentro, sollevato la maniglia e sono entrato.
Devo stare attento a non scivolare sul sangue che di sicuro troverò sul pavimento, ho pensato, perché senz’altro si è tagliata le vene. E invece, di sangue nemmeno l’ombra.
Ho fatto un passo e sono saltato per lo spavento: il citofono. Mi sono catapultato ad aprire e poi mi sono diretto verso Paola. L’ho scossa. Respirava? Sí. Meno male.
– Paola Paola, – ciao ciao domenica, risuonava nella mia testa.
Luigi è entrato correndo: – Che cazzo ha preso? – E l’abbiamo scossa, una, due, tre volte, e lei ha aperto gli occhi. Ha sbattuto le ciglia lunghe: non era in forma, no, il respiro pesante, da sonno pesante.
Ci ha visti e ha gridato, Augusto è saltato, Luigi ha riso, io ho detto: – Vaffanculo, Paola, ci vuoi fare morire?
– Che ci fate voi qui? – però con un tono impastato, sembrava stesse ancora sognando.
– Paola, siamo noi, – ho detto.
– Vi vedo. Ma che ci fate qui? – il tono ancora piú impastato.
Allora ho detto ad Augusto di prendere un bicchiere d’acqua, e lui si è mosso veloce verso la cucina.
– Ma che hai preso? – le ho chiesto. – Ti stiamo chiamando da stamattina!
E abbiamo sentito un botto, Paola ha gridato, Luigi è saltato. – E che cazzo, – ho detto io, – calmiamoci, siamo tutti scossi. Augusto?
– Niente, scusate, – ha detto Augusto dall’altra stanza.
Siamo tornati a scuotere Paola: – Che ti sei presa?
Luigi le ha mollato anche un piccolo schiaffo.
– Ohh, – ha detto lei, – stai fermo.
Gli occhi si sforzavano di mettere a fuoco quella bella giornata di luglio, forse con le palpebre semichiuse assorbiva lunghezze d’onda piú intense e colorate…
– ’sto bicchiere? – ho gridato ad Augusto e lui è comparso sanguinante: gli scendeva sangue dal sopracciglio destro, gocciolava sul petto.
– Ma che è successo?
– Ti sei fatto male? – ha chiesto Paola, e poi rivolta a me e Luigi: – Ma chi è?
– Scusami, sono Augusto, il tuo vicino, è una storia comica, un attimo fa stavo a casa, ora sto da te con il sopracciglio spaccato.
– Ma sei caduto? – ha chiesto Luigi (ben ti sta, avrà pensato).
– Ci sono le scarpe buttate per terra, le donne hanno la capacità di buttare le scarpe dappertutto e una delle due resta sempre in piedi, chissà com’è possibile, l’altra si piega, ma tu guardi quella in piedi e non ti accorgi dell’altra e ci inciampi, e cadi, e dove cadi? Cadi sullo spigolo di una sedia, una sedia girata verso di te, e sai perché? Perché le donne girano le sedie per sistemarci sopra la borsa…
– Oh, – ha detto Luigi, – lo spettacolo lo fai dopo! Porta ’sto bicchiere che questa sta morendo… – E c’era un che di competitivo nel suo tono, voleva affrontare Augusto sul suo campo, la comicità.
– Ma dio bono, – ha detto Paola, subito apprensiva. – Ti sei fatto male veramente, sanguini molto.
– Effettivamente, – ho detto io, – secondo me ci vuole qualche punto.
– No, non vi preoccupate, ora mi asciugo, intanto ecco l’acqua.
– Ma aspetta… – e Paola ha provato ad alzarsi, però è ricaduta subito sul divano.
– Ma stai morendo! – l’ha sgridata Luigi. – Che te ne importa di quello?
Io allora ho accompagnato Augusto di là a disinfettarsi, mentre Luigi allargava le braccia:
– ’sti cazzo di comici so’ proprio comici.
– È carino, – ha biascicato Paola, – tutto sanguinante, ma che è successo?
– Tienila sveglia, – ho gridato a Luigi dal bagno. In un cassetto abbiamo trovato garza e disinfettante. Intanto ho sentito Luigi che diceva:
– Comunque, per riprendere il discorso di ieri: esistono, sai, donne Zelig, cioè che assumono la personalità del ragazzo che frequentano. Tipo, le conosci che odiano il calcio, e va bene, ti dici, poi le rincontri e si sono messe con uno sportivo e sai come le rivedi? Mentre corrono, in tenuta perfetta, le scarpette e tutto il resto.
Che cazzo sta dicendo?, pensavo, mentre Augusto si tamponava la ferita ma aveva un piede, quello destro, che fremeva, sembrava un accenno di twist: è che voleva raggiungere Luigi e dire la sua. Guarda ’sti due scemi, ho pensato.
– Ti parlo per esperienza diretta, io ne ho incontrata una che aveva cinque paia di scarpette da calcio, s’era lasciata con il fidanzato sportivo e le erano rimaste le scarpette. Alla fine, dopo lo sportivo, s’è messa con un fascista, uno che le ha imposto di non vedere altri uomini, ti rendi conto? E lei che ha fatto? Se l’è sposato. Questo per dire cosa sono le dinamiche sadomaso, cos’è il potere, quello vero, non quello che attribuisci a me…
Io e Augusto siamo tornati di là.
– Il problema, – ha detto Paola sollevandosi un po’, – quello che tu non capisci, è che questa con le scarpette ha qualcosa da perdere, e infatti ha perso… Tu non perdi mai…
– Ohhh! – ha esclamato Luigi. – Cosí mi piaci, bella combattiva, mo sí che sei sveglia! Hai visto che a qualcosa servo?
– Bene, portiamo ’sti due al pronto soccorso, – ho detto io.
Era successo che Paola aveva preso qualche pasticca: non riusciva a dormire, era inquieta.
– Il buio, – ha detto, mentre andavamo al pronto soccorso con la macchina di Fiorito, – a volte ho proprio bisogno del buio, chiudere tutte le finestre, mettermi sotto le coperte…
– È luglio! – le ho ricordato.
– Vabbè la copertina quella leggera…
– Ma che pasticche avevi? – le ha chiesto Luigi.
Non erano sue, ma una rimanenza di un ragazzo che aveva frequentato.
– Ma chi? – le ho chiesto. – Il dominatore finanziario: quello che ti faceva i regali solo per essere insultato?
Sí, lui. Che era depresso, soffriva di attacchi di panico, e però riusciva a farsi lunghe e placide dormite con le suddette pasticche. Siccome Paola era la prima volta che le prendeva, l’effetto era andato al di là delle rosee aspettative, era crollata, la realtà le arrivava solo come vaghi tonfi, lontani, starò sognando, si diceva, com’è bello questo buio, questa frontiera tra spazio e tempo, questo limbo. Ancora si esprimeva con frasi sconnesse.
Fatto sta che il dottore del pronto soccorso, dopo aver messo tre punti al sopracciglio di Fiorito e riso di gusto a due sue battute («Non mi fare ridere, sennò mi trema la mano») che a me non facevano ridere, è passato a Paola con quell’andatura tipica dei dottori, alla «vediamo questa che si sente», e dopo un’occhiata, nemmeno cosí approfondita, se n’è uscito con una frase non troppo sibillina: – Soffre di depressione?
A quel punto Luigi mi ha detto: ora o mai piú, e cosí abbiamo preso Paola in disparte e le abbiamo detto dell’aggressione di Giacomo. Oddio oddio…
Quindi rimettiti in macchina e via verso l’altro ospedale.
C’era solo Giacomo, Sandra la mattina era andata via («Eccone un’altra che è sparita», ha detto Luigi), e allora lo abbiamo caricato in macchina per accompagnarlo a casa. Era ben combinato: un bendaggio a protezione del naso con tanto di steccatura per mantenerne l’allineamento, una settimana di antibiotici e due settimane di riposo.
La macchina di Fiorito la guidavo io, Luigi mi era seduto accanto, e dallo specchietto retrovisore potevo vedere Paola, la maschera di Giacomo e il sopracciglio destro incerottato di Fiorito.
Giacomo nei week-end consegnava le pizze a domicilio, l’unico lavoro che gli permetteva di pagare almeno le bollette. Poi ecco l’occasione del film, Ugo che gli passa il testimone, un compenso misero, d’accordo, ma almeno un appiglio. Va in periferia per documentare le abitudini, i rituali, le difficoltà, per scardinare i luoghi comuni, per tracciare la linea tra le stelle e far risplendere sopra quell’umanità le costellazioni (che la luce sia con voi, che sia di buon augurio). Un film empatico, aveva dichiarato in un’intervista, caldo, che accenda il cuore. E cosa succede? Che lo prendono a pugni. E ora eccolo lí, silenzioso, scosso, sconfitto, e Paola accanto a lui.
– Ragazzi, scusate, mi è venuta fame, è stata una giornata assurda, no? – ha detto all’improvviso Augusto.
Luigi l’ha guardato malissimo.
Quando io e Luigi, dopo la pizza, ce ne siamo andati con la moto, eravamo piú rilassati. Eravamo riusciti anche a goderci un tramonto che all’orizzonte sembrava quella brace che nel camino non si spegne mai anche se ci butti sopra l’acqua.
– Forse non te la ricordi, – gli ho detto, – ma c’è una battuta di Woody Allen, in Io e Annie, quando lui si porta a casa lei e parlano del complotto Kennedy. Lei gli dice: parliamo di questo perché non vuoi scopare.
– Sí sí, mi ricordo.
– I comici potrebbero essere cosí…
– Diciamo che potrebbero far ridere e accontentarsi di questo aspetto.
– Quando ero piccolo…
– Oh Gesú! Non parlavi… lo so.
– No, dài, è seria la cosa: proprio perché non ero forte con le parole, – Luigi era dietro di me e si doveva essere distratto, ho sentito che girava la spalla sinistra, – da ragazzo avevo cominciato ad ascoltare le barzellette di Gino Bramieri. Le imparavo a memoria e poi le ripetevo, con la stessa cadenza di Bramieri, ero bravissimo, era il mio modo per avere un ruolo, infatti le ragazze ridevano.
Fermi a un semaforo, ho ripreso fiato e ho continuato: – Ora, c’era questo play-boy, Enzo del Vecchio, uno che non so come faceva ma se le scopava tutte. Cioè, quando lui arrivava a una festa, gli altri maschi mollavano l’osso, capito?, non c’era niente da fare… Insomma, era piú grande di me di qualche anno, ma allora, sai, quando tu hai sedici anni e lui venti, la differenza si sente… Una volta, siccome stavo raccontando barzellette a tutto spiano, questo si avvicina e mi dice: Ahò! Allora sei scemo! Che racconti a fare tutte ’ste barzellette, a forza di fare cosí poi fai solo ridere, con le femmine devi fare poco lo spiritoso, a una devi solo farle sentire quanto ti piace, ma ti piace veramente, in maniera speciale, il resto so’ cazzate, e poi ’ste barzellette non fanno manco ridere.
– Bella lezione.
– E se avesse ragione Paola?
– In che senso?
– Facciamo troppe battute…
– Ma no.
– Comunque, Enzo del Vecchio, non so, era impressionante, una macchina, poi ha cominciato a farsi di eroina ed è morto.
– Gli artisti flirtano con la morte, è solo questione di dosaggi, – ha detto Luigi.
Incredibile come si può accendere Roma in alcune notti di luglio. Tutte le finestre illuminate, si illuminano pure i sorrisi e i corpi, sembrano le luci a intermittenza dell’albero di Natale, un’allegria rassicurante, e l’angoscia si diluisce: va via. Cambia l’umore, in certe notti romane.
Cosí quando siamo arrivati sotto casa di Luigi eravamo un po’ presi dall’euforia dell’illuminazione, quasi una festa di paese, quindi ci siamo salutati, lui è salito, i suoi dovevano già essere tornati dal mare. Mi sono fermato qualche secondo a contemplare la serata, lo sfavillio delle luci mi rassicurava, i colori attirano altri colori e infatti il mio sguardo è andato verso terra, sull’asfalto, a pochi passi dalla mia moto: c’erano dei segni colorati, rosso fuoco. Ho seguito alcune linee, disegnavano un: nzo! Con punto esclamativo. Allora sono sceso dalla moto e in piedi ho allargato la prospettiva. Era una scritta: stronzo! D’istinto ho guardato verso l’alto, stronzo! era scritto proprio sotto il balcone di Luigi. Mi sono alzato sulle punte come una ballerina, e ho allargato ancora lo sguardo, non era solo stronzo, si trattava di un giudizio articolato: Sandra Cheli sei sempre piú puttana, Luigi Piccirillo sei sempre piú stronzo!
Ho chiamato Luigi al cellulare. Mi ha risposto molto tranquillo.
– Guarda… – gli ho detto, – c’è una cosa sotto casa tua.
– Una cosa?
– Una scritta. Ma Alessandra c’è?
– È scesa a prendere il latte, ma perché?
– È scesa a prendere il latte? A quest’ora? Quindi dovrebbe essere qui nei paraggi?
– Ma che c’è? Dimmi!
– C’è una scritta… Se ti affacci la vedi.
– Ma che scritta?
Poi si è affacciato: – Cazzo!!
– Forse Alessandra non l’ha vista, voglio dire, non si vede cosí bene, la cancelliamo stanotte, è un attimo.
– Aspetta, aspetta, fammi vedere una cosa… – l’ho sentito camminare per la casa, rumore di sportelli. – Porca puttana: il latte c’è, due litri.
– Ah!
– Eh.
Nei giorni successivi ho smesso di contemplare il mondo dalle panchine e mi sono incupito: alla ricerca della felicità si sono sostituiti pensieri di morte, gli stessi che sentivo arrivare da adolescente quando, con una certa costanza, riflettevo sul suicidio. Quei pensieri, che diventavano ossessivi in alcuni momenti – e allora fissavo il vuoto, o un crepaccio, o una frana profonda apertasi in mezzo alla strada, per colpa delle piogge persistenti e dell’incuria –, quei pensieri altro non erano che un banale sotterfugio della coscienza, una trincea dove concedermi una tregua dal frastuono della battaglia lí fuori, una specie di simulatore: cosa potrebbe succedere se morissi?
La timidezza dell’adolescente, la balbuzie e il resto, certo non mi invogliavano a comunicare questa cupezza all’esterno, proprio a nessuno, cosí, di notte, rintanato sotto le coperte, giocavo con il mio segreto mortifero, e poi durante il giorno ostentavo una certa spavalderia, sí, il sarcasmo, anche l’impegno politico, in fondo, faceva parte dell’armamentario, e naturalmente, in casi complicati, ma piú seri e intimi, la poesia e l’ubriachezza, e sempre, ovunque, la musica. In alcuni momenti, e su alcune ragazze, questo modo di corteggiare la morte con la posa giusta aveva presa.
In sostanza questo stato d’animo cupo e duraturo si sublimava alle volte, per incanto, nel pomeriggio, dopo il vespro, o in certe mattine attraversate dal vento – mi piaceva la sensazione dei capelli scompigliati – quando riuscivo a percepire la tristezza sui volti delle altre persone. E allora cosa si può fare se non scriverne: mettere su carta, allargare la trincea, simulare collettivamente… la letteratura, no? Questo magnifico inganno.
Ora, per via degli eventi precipitati, proprio nei giorni in cui mi interrogavo sulla felicità, al risveglio, davanti al fornello, in attesa del gorgoglio del caffè, ho ripensato a Camus.
Non aveva ancora trent’anni e già andava al dunque. Nel Mito di Sisifo fece intendere un po’ a tutti che non era il caso di prenderla troppo alla larga, la domanda fondamentale della filosofia era una sola: perché non ci suicidiamo? Rispondere era nostro compito. Anche perché, a cascata, da quella domanda ne scaturiscono altre. Chi siamo e cosa facciamo qui? Davanti al fornello in attesa del caffè? Sul divano come Paola, sotto la copertina di lana (a luglio, a Roma), rannicchiati, prostrati, traditi, già a trent’anni? Nel bel mezzo di questa crisi che giú al bar di sicuro si manifesterà con tutto il suo clamore d’odio? O a Tor Sapienza su quella collinetta che Giacomo aveva scelto per illuminare il cielo di costellazioni, seppure in post produzione. Che ci facciamo in questi posti?
Non ero il solo a essermi incupito. Giacomo dopo l’aggressione se ne stava a riposo a casa e – di sicuro c’entrava lo stress post traumatico – si svegliava alle tre di notte e si metteva a pulire. Con il naso rotto, il bendaggio insanguinato e le ecchimosi, scopava il pavimento, spolverava, il tutto con esagerata energia: piú di 120 watt. Poi si rinfilava a letto, e lí se ne stava tutto il giorno, a persiane chiuse. Leggeva Joseph de Maistre. Aveva scaricato Considerazioni sulla Francia perché, diceva, quel libro gli serviva da ispirazione per finire il film. Paola era un po’ preoccupata, tanto che m’ha chiamato: – La colpa è tua! Chi gliel’ha messo in testa De Maistre?
C’eravamo fatti un’idea: la reazione di Giacomo dipendeva dal fatto che gli aggressori non erano stati trovati. Erano apparsi nella notte, nella notte erano spariti.
Giacomo sosteneva che fossero rumeni, ne era convinto, e ci teneva a sottolineare che la comunità rumena li conosceva eccome e aveva deciso di proteggerli, nel frattempo puliva e leggeva De Maistre.
Tuttavia che belle giornate, qualche accenno di temporale pomeridiano: avrei dovuto pensare al mare, al litorale, alle parole al sapore di mela, il sale sulle labbra e l’arsura in gola. E invece ovunque mi girassi mi assalivano pensieri cupi: tutto il contrario della felicità.
A distrarmi dalle mie considerazioni ci ha pensato Luigi. S’era trasferito nel suo studio – momentaneamente, sottolineava.
Sí, Alessandra stava parecchio nervosa.
Era tornata a casa, senza latte. Va bene, le aveva detto Luigi, chi ha scritto quella frase è un cretino, un pazzo geloso, ora la cancelliamo e pace.
Alessandra aveva detto: non si cancella un cazzo, adesso prendi la roba e te ne vai.
Google aveva fatto il resto. A una ricerca veloce, Sandra Cheli era apparsa in immagini e video, piú curriculum. C’era anche una foto postata da quella giornalista famosa («Quella di cui non ti posso dire il nome…» «Ma chi? Quella che ha denudato il tuo stato d’animo e che tu hai denudato per vendetta, senza scopartela?» «Sí, quella, ma senza psicologismi che già c’ho i miei problemi»): si vedeva Luigi a un vernissage insieme a Sandra, sembravano in posa, un po’ intimi, Luigi ad Alessandra aveva detto di non esserci andato («Sto attento a tutto, tranne a una giornalista che fa una foto durante un vernissage di merda… tu mi devi dire la funzione informativa di quella foto per il popolo del web…»)
Mi ha chiesto di raggiungerlo allo studio per mangiare qualcosa insieme.
Cosí verso le diciannove, dopo l’ufficio, sempre con qualche pensiero cupo in testa e la domanda di Camus che tornava a tormentarmi, sono salito sulla moto, direzione Quadraro: vediamo un po’ cosa posso fare per tirarlo su.
Il Quadraro era pieno di gente e c’era tanta luce, intensa e diffusa. Ho posteggiato, chiuso il bloster (nemmeno i pensieri di morte mi distolgono dalla precauzione) e ho notato, seduta sotto il cedro del Libano, una donna in attesa. Aveva la faccia spigolosa, tagliente, gli occhiali con montatura spessa e gli occhi serrati per la luce, i capelli corti, rossi, sembravano bruciare – ma può darsi che questa descrizione mi sia venuta in mente dopo averla incontrata e dopo aver parlato con lei, non prima.
– Laura Fuca. Piacere, – e mi ha teso la mano.
– Piacere…
Ci ho messo un attimo a ricordare.
– Ahh, Luigi mi ha parlato di te.
– Male?
– No no, mi ha detto che sei quella che comanda la Biennale…
– Allora male… Lo metto sempre di fronte alle sue responsabilità. Per esempio, mi dà appuntamento e poi non si fa trovare, il cellulare spento, che dovrei fare?
– Strano, – ho detto.
– Comunque io ti conosco, ti leggo…
Spesso mi dicono: ti leggo… Con i puntini di sospensione. E io dico: sí sí, e annuisco due volte con la testa, senza mai domandare: e che ne pensi?
Neppure per un attimo ho temuto che Luigi potesse essersi avvelenato con le pasticche, anche se era strano che non fosse allo studio.
Sarà che eravamo sotto il cedro in piedi, il caldo e il resto, allora le ho detto: – Aperitivo?
– Aperitivo! Basta che non ci perdiamo il bel marpione maschilista, – e ha riso.
Ho riso anche io.
– Dobbiamo rivedere il montaggio della sua opera e non ci volevano questi casini, – mi ha guardato strano, come fossi colpevole di complicità. E ho pensato: ma non era meglio se me ne andavo al mare con tutta la famiglia…
– Qui vicino c’è il Grandma, – le ho detto.
– Ottimo, hanno una birra buonissima.
– Certo, la conosco, l’Habemus Apa.
E mentre continuava a guardarmi, sentivo i puntini di sospensione tra di noi. Mi è venuto il dubbio che ce l’avesse con me, sarà per lo sguardo tagliente, il mento tagliente, in effetti anche a causa del cielo rosato del tramonto luccicava dalla testa ai piedi, come un coltello.
– Ma sei per caso un fanatico del cibo stagionale o cose cosí? – mi ha chiesto all’improvviso.
– E no, scusa, – le ho detto, – ma allora non mi leggi.
– Ti leggo… ti leggo… ma voi uomini dite una cosa e ne fate un’altra.
– No, è piú semplice: il Grandma è il bistrot piú vicino.
– Eh, sí, voi la fate sempre semplice.
Ma dov’era finito Luigi, porca puttana, stavo cosí bene a pensare al suicidio e a Camus.
Ci siamo seduti a un tavolino e abbiamo ordinato due Habemus Apa.
– E Luigi come sta? – mi ha chiesto.
– Guarda, è uno molto professionale, non ti darà problemi, vedrai.
– Lo so, lo so, ma stavolta ha fatto un bel casino con Sandra. Alessandra sta malissimo, non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto, non penso che le cose si metteranno piú a posto…
– Mah, sono cose che succedono, – e mentre lo dicevo mi stavo già mordendo la lingua.
– Succedono? – È diventata serissima, non piú tagliente, anzi anche la voce è cambiata, piú profonda, rauca. Ha inspirato come se si preparasse a un monologo e si è presa tre minuti interi per riportarmi tutte le parole di Alessandra.
– Cosa ti ho fatto di male? Perché hai voluto umiliarmi cosí? Sai come mi sento ora? Come quando cadi sulla schiena e ti esce tutta l’aria dai polmoni e ti sembra di morire per mancanza d’ossigeno… – mi sono guardato intorno perché Laura aveva alzato il tono della voce. – Ma cosa credi che io sia? – ha continuato. – E che cos’è questo gioco in cui tu detti le regole e nello stesso tempo me le nascondi? Tu vuoi giocare a Risiko ma hai tutti i carri armati e tutti i territori: cos’è, non vuoi farmi giocare, hai paura che non ne sia capace? E non mi venire a dire che lo fai per meeee! – Qui Laura ha gridato e trascinato il «me» finale. Forse aveva gridato anche Alessandra, in effetti la stava imitando alla perfezione, la voce, i movimenti di quando è nervosa e si tocca i capelli.
Sbattendo il bicchiere Laura ha rovesciato un po’ di birra sul tavolino, un liquido giallo schiumoso informe che mi ha suscitato una profonda tristezza. – Adesso, – aveva aggiunto Alessandra e ora Laura lo riportava fedelmente, – adesso ti spiego cosa vuol dire mentire… sai cosa significa, lo sai? Significa esercitare un meschino, spregevole controllo su un’altra persona. Me-schi-no spre-ge-vo-le con-trol-lo! Significa giocare con due regolamenti diversi, – l’ameba di birra stava scivolando lentamente e pericolosamente verso il bordo del tavolo sospinta dalle vibrazioni prodotte dall’esuberanza vocale di Laura, e fra poco sarebbe caduta, – lasciare che si umili. Le persone tradite da voi, – e qui Laura ha indicato me, che passavo il giorno a pensare alla felicità e la notte a Camus, – da voi, bugiardi e furbetti, sopportano una crescente lista d’offese, e non sono tanto le scritte sotto casa, quelle si possono cancellare, è una questione di stima! Alla fine voi stessi finite per perdere la stima che avevate di loro, sí. Succede che i bugiardi traditori cominciano a pensare che quella persona in fondo se lo merita. E sai perché? Perché ha dei limiti, poverina, non capisce, non può capire. E invece siete voi ad averli, i limiti. Anche se pensate che la vostra sia una gentilezza nei suoi confronti, le volete risparmiare sofferenza, poverina, già ha i suoi problemi… Grazie, grazie davvero per l’attenzione! Voi e il vostro Risiko personale, i vostri stratagemmi… Questo non si cancella, no. E adesso vai via di qui.
Laura ha sospirato, forte, nel locale è calato il silenzio, un sipario, una cappa, e si è bevuta la birra rimanente in un sorso. Una donna si è avvicinata: molto seriamente mi ha guardato male e le ha stretto la mano, calpestando l’ameba di birra, e mi sono sentito come se avesse calpestato me.
In quel momento il cellulare di Laura ha squillato:
– Ah, di te stavamo parlando… con Antonio… al Grandma, sí, e tu dove sei, di grazia? Ah, ok, allora diciamo fra un’ora, perfetto.
Poi si è rivolta a me: – Il tuo amichetto ha avuto un problema.
Io ho visto il mio cellulare illuminarsi, era un messaggio di Luigi: Liberati di quella pazza e vieni da me.
Che belle le giornate calde di luglio, anche se la felicità evapora, e potevo starmene al mare con la mia famiglia, e invece… ora come mi liberavo?
Fortuna che Laura Fuca ha visto un giovane artista di strada che conosceva, uno che andava in giro con una bici da cross degli anni Settanta, le marce piantate sulla forcella – come gliela invidiavo. L’ho salutato anch’io, lo conoscevo, e mi è sembrato un deus ex machina venuto a riportare la pace in quella tragedia. Era un tizio simpatico, faceva delle opere divertenti, rifiniva le ombre: per esempio, il profilo allungato di un palo diventava un poliziotto con manganello e cappello e la figura restava lí, minacciosa, a terra, con l’ombra che si dilatava, trasformando il profilo del poliziotto. Aveva disegnato su un foglio le nostre ombre, quelle che proiettavamo io e Laura mentre parlavamo – e chi se n’era accorto? –, e Laura era una massa scura, un’ameba appunto, che mi stava ingoiando, perché la mia ombra appariva tutta rintanata in se stessa. Sotto al disegno aveva scritto: «Prezioso il luogo, il tempo dovuto al silenzio, qui, ora, io taccio».
Approfittando della conversazione di lavoro iniziata tra Laura e l’artista delle ombre, mi sono dato. Pochi minuti dopo chiacchieravo con Luigi nella cucina del suo studio (tre stanze al piano terra, finestre sul giardino), mentre lui girava il sugo sul fuoco.
– È una che vuole costruire il mondo a sua immagine, capito? Tutto deve quadrare alla perfezione, e se qualcosa non s’incastra nel suo disegno, allora comincia a giudicare. È cosí anche sul lavoro, ma lí, sai, funziona, voglio dire, è seria e professionale, molto propositiva, mette sempre le cose a posto. Nei sentimenti invece… si difende, vuole l’assoluto, vuole sentimenti perfetti per un mondo ideale, ma i sentimenti sono sporchi, lo sai… Comunque, mangiamoci ’sta pasta prima che torni… Mi prendi qualche foglia di basilico fuori?
Sono uscito e rientrato un attimo dopo con delle belle foglie di basilico profumate in mano e ho detto:
– Pensavo alla domanda di Camus: perché non ci ammazziamo? – l’ho detto consapevole della stonatura con il profumo del basilico.
– E l’hai trovata la risposta?
– Eh, cioè… – Luigi intanto armeggiava con i fornelli con molta sapienza, gesti decisi, efficaci, e pensavo: bella la calma serafica, e tuttavia mi dava la schiena e di tanto in tanto si massaggiava il collo e poi sollevava la nuca e puntava al soffitto, e io pensavo: però c’è tensione. – Cioè, ha risposto con la sua vita.
– Che vuoi dire? – mi ha chiesto Luigi.
– Alla fine non si è mica ucciso, è morto in un incidente automobilistico, e nemmeno guidava lui, ha avuto una vita ricca e piena di amicizie, il Nobel, si è scopato tutte le attrici parigine. In realtà, quella che ha pensato al suicidio è stata sua moglie.
– Ahhh, qua volevi arrivare!
– No, figurati, no… lo sai… i riferimenti sono casuali, non c’entra Alessandra, voglio dire: Camus sentiva la presenza della morte, e l’ha combattuta con la vita. Forse il problema delle scelte che facciamo e delle conseguenze delle scelte, forse… insomma tutto si riduce a questo: o sei deontologico o consequenzialista.
– Consequenzia… – e una goccia d’acqua è sfuggita da una bolla sulla superficie borbottante della pentola ed è scivolata come una lacrima lungo il bordo, fino ad arrivare alla fiamma ed evaporare con uno sfrigolio.
– O sei deontologico, e quindi pensi che non devi mai abdicare a certi valori che sono eterni, tipo non mentire, mai, anche se un nazista bussa alla tua porta e ti chiede: ci sono degli ebrei nascosti in cantina? Ecco, tu devi dire la verità, no? Prima il valore e poi le conseguenze, cioè la morte degli ebrei.
– Ah sí, ho capito, – e di nuovo Luigi si è massaggiato il collo, – il consequenzialista invece calcola le conseguenze delle sue azioni, misura i valori in base alle conseguenze.
– Appunto! le persone piú razionali, – e mi sono toccato la fronte, – tendono a controllare…
– Io voglio salvare gli ebrei… – e si è girato verso di me e mi ha guardato negli occhi, indubbiamente Luigi si portava bene i suoi anni. – Io credo, – ha aggiunto e si è rigirato verso i fornelli, – che il segreto nelle scelte che facciamo è il controllo, è tutto lí, qualcuno si deve prendere la responsabilità di controllare, le persone ti chiedono questo…
– Ecco, però, – ho detto, – mica le sappiamo prevedere sempre le conseguenze, c’è un territorio incerto davanti a noi, e il controllo prevede una certa dose di arroganza…
– Infatti, spesso è un’illusione, c’è sempre qualcosa che sfugge e che ti va in culo ma per questo è necessario il controllo, il controllo, – ha ripetuto, e poi mi ha chiesto: – Ti vanno bene le penne rigate? – e senza aspettare la mia risposta ha aperto lo sportello della credenza per prenderle. Ma il gesto è stato un po’ irruente e si è sentito un crash, la cerniera ha ceduto e l’anta si è inclinata. – Mannaggia, – ha detto e ha mosso su e giú l’anta. – Niente, mi sa che è andata, – e con un moto deciso ha staccato l’anta dalla cerniera e l’ha posata vicino al lavello, in bilico. Ora il mobile della cucina era una fronte umana bucata, si vedeva dentro: ecco la regione parietale frontale, mi sono detto, quella che ci permette di essere consequenzialisti. E mi sembrava cosí fragile…
– Controllare tutto è il segreto, – ha continuato Luigi come se non avessi parlato, – ma è un impegno, mica cazzi, esige conoscenza dell’altro, mica cazzi. Cioè, voglio dire, non è che una mattina ti svegli e vai da una per scopare e funziona tutto, sarebbe troppo facile cosí, c’è un lavoro di preparazione prima –. Ha preso due bicchieri con una mano e uno dei due è scivolato, ha rimbalzato e crash, – Porca puttana, – si è rotto nel lavello.
– Oh! – ho detto, – che succede…?
– Cioè, devi pensarci alle donne, – come se non fosse successo niente, nessuna rottura, – non puoi entrare dentro di loro se prima non le hai conosciute: chi sono? come portano i capelli? qual è il loro dolore? – e poi si è succhiato il dito, sanguinava e ha ripreso: – Mannaggia la puttana, – si è voltato verso di me e ho visto che gli è rimasta una striscia di sangue all’angolo della bocca, – se no, non puoi entrare, capito, – ha cominciato a parlare in frettissima, e a scatti, – le conosco le donne, le conosco a fondo, altrimenti come faccio a entrare, prima devo desiderarle, – ha preso i piatti, il primo e il secondo, ma il secondo l’ha sbattuto e si è rotto.
– Oh! – ho detto.
Ma niente, ne ha preso un altro, e ha buttato quello rotto nel lavello, poi si è di nuovo succhiato il dito, e ha continuato: – Il segreto è desiderarle sempre e loro lo sanno che tu le desideri e perciò si lasciano andare, mica facile, e quando si lasciano andare poi ti devi prendere delle responsabilità, devi controllare tutto, è il segreto, il controllo, – ha versato la pasta, era di nuovo di schiena, impegnato nell’operazione e poi ha urlato:
– Ma poi le donne se ne vanno, tutte, ti lasciano! – e ha lanciato il primo piatto di pasta contro il muro, poi ha preso la pentola – ha gridato di dolore, e ci credo, doveva bruciare – e l’ha lanciata contro la finestra, non ha sfondato il vetro, l’ha incrinato, ho visto la ragnatela di crepe formarsi di botto.
– Oh! – ho gridato anche io, e mi sono avvicinato, ma lui continuava:
– Siamo soli, capito, se ne vanno tutte, e tu resti senza niente, – e ha tirato un pugno sull’altra anta, quella sana, l’ha sfondata, pessimo legno o grande forza, chissà, fatto sta che mi sono fermato, non sapevo se calmarlo o farlo sfogare:
– Ti ricordi Anna? – mi ha chiesto.
Ho fatto segno di sí, certo, ma chi cazzo se la ricordava, stavo cercando di non contraddirlo:
– Ti ricordi che capelli lunghi e neri che aveva? E che pelle bianchissima, tenera… Quando mi stava sopra, mi avvolgeva con i suoi capelli, una sirena, mi portava sott’acqua, mi sentivo protetto e la proteggevo a mia volta… ti ricordi com’era timida? – ha dato un altro pugno sulla credenza, poi ha afferrato il mobile e l’ha staccato dal muro, è venuto giú tutto, i bicchieri, le pentole, i piatti, un fracasso… e le foglie di basilico erano ancora lí sul piano, verdi e profumate.
E Luigi continuava come un mulinello: – Anna se n’è andata anche lei! Dov’è ora? Non lo so. E dove sono io? In questa cucina di merda! – e ha preso a calci una sedia. – E Paola, Francesca, Eva, tutte le altre che ho sostenuto, amato, dove sono ora? – Mi guardava, era piegato in due, aspettava una risposta, ma io mi stavo ancora chiedendo chi fosse questa Anna. – Io c’ero quando loro soffrivano, – era come se avesse mal di pancia, si teneva la mano sugli addominali, – e ora loro dove sono? – ha gridato, mi è parso di sentire un tintinnio, come l’ultima vibrazione di un diapason. – E Alessandra, dov’è Alessandra? Vuole un’ammissione di colpevolezza… capito? E dov’è ora? – ha preso un’altra sedia, io ho chiuso gli occhi e li ho riaperti dopo il crash. – Vuole che le dica la verità: è una storia seria? Questo vuole sapere. Ma quale storia non è seria? Dopo i quarant’anni, tutte le storie lo sono, come le rotture del menisco, che cazzo vuol dire è una storia seria? – Altro pugno violentissimo sul tavolo. – Cos’altro vuole? Che ammetta lo sbaglio? E no! Non basta! Vuole capire se c’è il pentimento, se sei sincero: ma è questa la menzogna! – Era ormai fuori controllo. – Ma qual è poi lo sbaglio? Che faccio fare a mia moglie e a mia figlia una bella vita? Chiedi ad Alessandra se quando va in un negozio a comprare qualcosa guarda il prezzo o chiede uno sconto. Col cazzo! Siamo ricchi, viaggiamo, incontriamo persone interessanti. E ci amiamo anche, cosa non scontata, dopo tanti anni. Che cos’è l’amore? Il controllo della situazione, – la voce era stridula. – Se fossi un marito che non va scopando in giro, credi che sarebbe diverso? Cosa cambierebbe? Te lo dico io cosa cambierebbe… Che non avrei il controllo, e mi innamorerei della prima persona che passa e farei un casino! Io no, io garantisco serenità, perché io controllo, – era cosí teso che sembrava si potesse spezzare da un momento all’altro, al prossimo grido avrei sentito un altro crash, era un vulcano in eruzione. – E alla fine quello che ne esce distrutto sono io, non le donne, che se ne vanno…
A quel punto si è girato verso il muro e ha cominciato a prendere a pugni le mattonelle, sentivo le ossa scricchiolare. Mi sono scosso dalla mia immobilità e mi sono avvicinato, cautamente. L’ho afferrato da dietro e gli ho detto: – Adesso calmati! – Ma lui si è buttato in avanti e mi ha sollevato, facendomi sbattere con la testa contro il muro. Io ho fatto resistenza, ho rimpiattato i piedi per terra, sollevato le sue braccia e gliele ho incastrate all’altezza dei gomiti. Poi è stato facile, l’ho spinto a faccia in giú mentre lui continuava a sputare parole, ma con l’affanno: – Cosa vogliono le donne da me? Stima? Amore? Presenza? Ce l’hanno! Passione? Pure. Avventura? Hai voglia…
– Vogliono un fidanzato stabile, un figlio, mentre tu metti dei limiti…
– Ti sembro contro i fidanzati, io? Li possono avere! E pure i figli, glieli concedo! Ma che cazzo c’entra tutto questo con me?
Ricominciava ad agitarsi. Ho rafforzato la presa: – Stai fermo!
– Perché non possono controllare come controllo io? Perché mi devono lasciare per un altro, che senso ha? – L’ultima parola l’ha detta tremando, poi è stato zitto per un po’, il corpo ha cominciato a rilassarsi, ora sembrava molle. La cucina era uno schifo, vetri, pasta e legno dappertutto.
– Lasciami, – m’ha detto, – sembriamo due ricchioni, cosí avvinghiati.
– È vero, – e l’ho lasciato subito.
Mi sono girato sulla schiena, mi sentivo stanchissimo, un pezzo rotto in mezzo ad altri pezzi rotti.
Luigi si è tirato su e ha preso una sedia sbilenca, ha cercato di aggiustarla alla meglio, ci si è seduto:
– Il tradimento è tragico, all’inizio è divertente ma poi è tragico… è che noi siamo saldi nell’instabilità, capito?
– No, – cioè, sí, capivo, ma guardavo i pezzi sparsi per la cucina: erano una metafora del controllo? o un’opera d’arte?
Ha aperto le braccia sconsolato, chissà se si era reso conto del casino che aveva combinato.
– E Sandra Cheli non si trova, è incredibile. Se n’è andata, eccone un’altra. Cioè, prima quello stronzo del fidanzato ha combinato il guaio, con quella scritta sotto casa mia, poi io l’ho chiamata, e lei nemmeno mi ha risposto…
Il campanello.
Laura Fuca è entrata, due passi ed era in cucina, con la bocca aperta.
– Un’installazione, – le ho detto. Ma lei niente, nessun sorriso, neanche m’aveva sentito. In punta di piedi s’è diretta verso Luigi accasciato sulla sedia e sanguinante.
Allora Laura si è un po’ piegata, come per un dolore. Non sapeva che fare, se camminare tra i resti di quella che una volta era la cucina o rimanere piegata. Ha chiuso gli occhi, c’era un silenzio come quello che segue l’eucarestia, e da sotto la spessa montatura nera degli occhiali le sono uscite due lacrime bianche. Poi gli ha preso le mani:
– Ma che hai fatto?
– Niente, uno sfogo. Che hai fatto tu, perché piangi…?
– Perché voi siete troppo concentrati su voi stessi per accorgervi delle lacrime delle donne.
– Ma me ne sono accorto!
– È tardi, sai quante di queste piccole lacrime versiamo? Potremmo riempire gli oceani.
Luigi ha chiuso gli occhi e sospirato, non era il momento per la poesia:
– Credo di avere il polso slogato.
– Oh Gesú, – e Laura gli ha accarezzato la fronte, per sollevargli i capelli. L’aveva già perdonato, incredibile. Luigi ha chinato la testa per strofinarsi contro Laura. – Tu devi lavorare con queste mani, andiamo al pronto soccorso, ho la macchina fuori, – gli ha detto dolcemente.
Cosí Luigi si è alzato, sembrava sotto shock, appena uscito da un’anestesia, forse sentiva piú dolore ora che durante lo sfogo. Uscendo, Laura Fuca ha guardato la stanza e ha detto:
– Comunque, è davvero un’installazione, – e ha scattato un paio di foto col cellulare. – Chiudi tu, – mi ha detto.
Per oggi basta cosí, ho pensato, mentre me ne tornavo a casa in moto. A letto, via. Dormo, mi rilasso. Anche perché il giorno dopo dovevo andare da Giacomo: voleva parlarmi («di una cosa seria, una scelta risolutiva, molto importante per me»), e insomma non mi aspettavo niente di buono.
Mi sono sdraiato sul divano, non faceva neanche troppo caldo – tapparelle abbassate, quartiere silenzioso. Ho avuto un incubo, sognavo di non riuscire a muovermi, che poi lo so che sto sognando, e ogni volta penso: stai sognando, basta essere razionali, no? E invece niente da fare, incubo e risveglio agitato: ho guardato l’orologio, le 2,17. 120 watt di energia, questo ho pensato, altro che razionalità. Vista la bassa quantità di energia, alla fine, le nostre scelte non sono diverse da quelle dei cacciatori-raccoglitori? Cioè: voglio un frutto, ma che fatica, mi concentro, lo prendo, sí, buonissimo, che felicità. Tutto qui?
Allora ho cercato Amedeo su WhatsApp… magari è sveglio, gli faccio fare altri calcoli. Non c’era.
E se non riesci a prendere il frutto, se perdi potere? In fondo, Luigi era disperato perché debole, fuori casa, con la mamma malata, Sandra Cheli che non gli dà retta, perde potere, è infelice…
Ho visto il cellulare illuminarsi. Scommetto che è Amedeo, ho pensato, è sveglio e mo gli faccio rifare il calcolo, metti che s’è sbagliato…
Invece era Alessandra.
Sei online, vedo! Sei sveglio, quindi.
Sí.
Con chi chattavi?
Controllavo se Amedeo era online, avevo delle domande per lui.
Quindi è vero che non dormi mai, non è un’invenzione narrativa?
(Sentivo tra i caratteri di questo messaggio qualcosa di minaccioso perciò ho risposto con un’altra domanda).
E tu non riesci a dormire?
No, sono sotto casa tua.
Allora l’ho chiamata:
– Come sotto casa mia?
– Sono in macchina, non riesco a dormire, ti devo parlare!
– Ma Sara dov’è?
– È qui con me, dorme, ci siamo fatte un giro come quando era piccola… scendi?
In via di Donna Olimpia non si trova mai parcheggio, mai, nemmeno in alcune desolate notti estive, cosí Alessandra aveva accostato vicino ai bidoni dell’immondizia, tenuti aperti dalle cassette di plastica messe a mo’ di sostegno dai rom per le loro perlustrazioni.
Che visione: Alessandra alle due e mezza di notte, un fermaglio rosso (o almeno cosí mi sembrava, era buio), gli occhi di pianto, dei pantaloncini da casa, e Sara sul sedile dietro, sotto una copertina, i capelli spettinati, due donne e due bidoni della spazzatura aperti, la fragilità e l’indifferenza.
Mentre entravo in macchina accanto a lei, lo spazio tra lo sportello e i bidoni era stretto, ho pensato: ora mi chiederà di Sandra Cheli. E infatti me l’ha chiesto subito.
– Guarda, non lo so, credo sia solo una comparsa, – le ho detto.
Ha voltato gli occhi verso la strada, poi li ha abbassati, stava cominciando a piangere. Mi sono voltato verso Sara: – Andiamo sopra, – ho detto.
Le lacrime nemmeno le accarezzavano il viso, cadevano in verticale sui pantaloncini, mi sono frugato in tasca in cerca di un fazzoletto, ma niente. Lei mi ha detto che andava bene cosí, poi mi ha detto che no, non andava bene cosí, che nemmeno potevo immaginare come ci si sente, traditi. Da tutti, anche dagli amici, e mi sono quasi spaventato, per come mi ha guardato.
– Dài, – le ho detto, – davvero, per quello che ne so io, è una comparsa, una stronzata estiva.
– Voi e le vostre stronzate…
Eccoci, ho pensato, ci siamo, e allora l’ho prevenuta:
– Senti, ci siamo abituati a considerare il tradimento come qualcosa di tremendo che rompe un patto, – si stava già agitando, aveva messo su un ghigno, come se stesse per vomitare dallo schifo. – Aspetta! Non voglio dire che non lo sia, – ho abbassato la voce, Sara si muoveva nel sonno. – Voglio dire che spesso lo consideriamo come la rottura definitiva ed effettivamente per molto tempo lo è stato. Siamo stati bambini, – e ho guardato Sara, – in balia di uomini incerti e instabili che si sposavano giovani, e poi erano incapaci di tutto, non sapevano amare, si scocciavano di stare in famiglia, si sentivano in gabbia, e finiva sempre che si invaghivano di una. E siccome erano incapaci di controllare le loro emozioni, si facevano scoprire subito e alcuni di loro ne approfittavano per dire alla moglie delle cose terribili. Tu non hai idea di cosa usciva dalla loro bocca. Dicevano che se ne andavano, cosí, su due piedi: perché s’erano innamorati. Io avevo un vicino di casa, a Caserta, la sua stanza da letto divideva un muro con la mia, quindi spesso sentivo cosa si dicevano, e una notte, ero piccolo, lui disse che se ne sarebbe andato. Ricordo ancora il vagito di sofferenza della moglie, come se l’avessero accoltellata. Lei ribatté: pensi che mi troverai qui, ad aspettarti? E lui: non m’interessa! E poi aggiunse: sai da quanti anni voglio andarmene? Lei piangeva, disperata, e lui: sono cinque anni che penso di lasciare te e le bambine, e gridava come se fosse lui nel giusto. Dopo due mesi era di nuovo a casa. Che ci vuoi fare? Aveva cambiato idea. Prima era innamorato, e siccome era uno sincero quello che sentiva diceva, ora non era piú innamorato e quello che sentiva diceva. E sai che diceva? Ti amo! Questo per dirti che c’è rimasto in testa questo modello di uomo, e di donna, ma tra la fedeltà assoluta e questa tipologia di tradimento ci sono delle differenze, almeno Luigi queste cose perentorie non le dice…
– Voglio sapere solo una cosa.
– Cosa?
– Non ti lascio andare se non me la dici: voglio sapere se è vero quello che mi ha detto Laura Fuca…
– Guarda, quella è una tipa…
– Voglio sapere se è vero che Luigi ha spaccato tutto.
– Sí sí, c’ero…
– Aspetta… voglio sapere se ha spaccato tutto pronunciando il mio nome, se ha detto, dov’è ora Alessandra?
Luigi doveva aver raccontato a Laura Fuca di aver pronunciato solo il nome di Alessandra, ma vabbè…
– Non posso piú fidarmi di lui, – ha continuato Alessandra, – per questo lo chiedo a te, dimmi la verità, poi me ne vado, e io e te non ci siamo visti, non devi temere niente, perché non è che se tu dici di sí o di no cambia qualcosa, voglio solo la verità, mi serve per regolarmi, qualunque essa sia, non posso essere sballottata dai giochetti…
Ho respirato, per prendere tempo, e quindi le ho detto:
– Solo il tuo nome! È stata una specie di crisi di panico, credo, ha scassato tutto e…
Ma Alessandra non mi ascoltava piú, ha guardato di nuovo fuori, è passata una macchina della polizia, i lampeggianti accesi, siamo diventati blu, anche le lacrime di Alessandra sulla guancia. La macchina della polizia ha svoltato in via Vitellia e siamo rimasti di nuovo soli. Le ho detto:
– È raccomandabile piangere, fa bene al cuore.
– Tu perché hai scelto Daniela? – mi ha chiesto all’improvviso.
– Come?
– Tua moglie…
– Certo.
– Perché?
– Da questa domanda dipende qualcosa…?
– Sí, il capire cosa pensate voi. Siamo io e te, qui, di notte…
– Davanti ai bidoni.
– Davanti ai bidoni!
– Vogliamo salire su?
– Perché hai scelto Daniela per moglie?
Ho preso un bel respiro, ma non troppo, i bidoni mandavano un fetore…
– Vivevo da solo ma avevo un grande letto matrimoniale, e mi scocciava, sapessi come mi scocciava, piegare le lenzuola. Mi facevano male le braccia per lo sforzo di far combaciare i lembi alla perfezione, e mai ci riuscivo, e mi ricordavo di quando i miei genitori piegavano le lenzuola e le trasformavano in un’altalena su cui mi cullavano… Insomma, avevo conosciuto Daniela alla presentazione di Carmelo Bene, al Campidoglio, due chiacchiere e mi ero ritrovato a casa sua, sul divano, lei faceva la ritrosa, e io parlavo, parlavo, mi avvicinavo, e lei mi respingeva, insomma, giocava. Poi mi sono alzato dal divano e ho notato che il lenzuolo che lo ricopriva era tutto una piega, una fisarmonica, ci credo, m’ero mosso tanto, e Daniela allora si è alzata e con soli due colpetti ha sistemato il lenzuolo, due colpetti e tutto è tornato in ordine. A quel punto le sono saltato addosso, d’impeto, e ci siamo baciati, e lei mi ha detto: ora sí che ti sento convinto. Poi, se ci penso un momento, ti trovo anche altre storie…
– No, questa basta…
– E tu? – le ho chiesto.
– Io? Con lo stronzo di Luigi?
– Con lo stronzo, sí.
– Ero su un marciapiede, parlavo al cellulare con il mio fidanzato di allora e piangevo, stavamo litigando, e poi sono rimasta sul bordo del marciapiede in lacrime e si è avvicinato uno con il motorino. Eravamo a Caserta, il casco non si portava, lo sai, lo portavano solo i camorristi, però questo ragazzo lo portava. Poi si toglie il casco e mi bacia…
– Uhm…
– Mi stringe e mi bacia, sulla bocca. Dice: non si può essere tristi in una bella giornata come questa. Io l’ho mandato affanculo, come si permetteva? Solo un bacio, mi ha detto, alzando le mani e aveva delle mani bellissime. Ecco, quello stronzo era Luigi. L’ho rincontrato tempo dopo, e abbiamo cominciato a vederci, però stavo con quell’altro, Piero si chiamava, e non sapevo chi scegliere tra i due, finché una mia amica non mi disse, per gioco, dài: facciamo testa o croce, se esce croce scegli Luigi se esce testa Piero. E mentre la moneta era in aria io pensai che amavo Luigi e l’avrei sempre amato.
– E che uscí?
– Testa, ma io mi presi Luigi.
– E perché, ora che ci ripensi a freddo?
– Non so, potrei dirti che mi fa arrabbiare e io ho bisogno di arrabbiarmi, perché mi annoio e lui sfida i miei limiti, il mio senso di avventura, a volte anche la mia pazienza, però boh… forse sono pezze d’appoggio, cioè, non è gentile per niente, se ne sta sempre per i fatti suoi, a casa non aiuta mai, dorme sul divano davanti al televisore, non sa cantare, però canta in continuazione, se si ammala, non si alza dal letto per una settimana, poi gli misuri la febbre e nemmeno arriva a 37… Però è mio, anche se fa lo stronzo, – sembrava stesse per crollare di nuovo, tuttavia era una pena che non uccideva, insomma sembrava piú forte. – È come per la monetina, se metto su testa le qualità e su croce i difetti, e la lancio in aria, prima che cada io penso: che m’importa, è mio. Punto. Però che cazzo ne so, è notte, sto qui a piangere, domani magari riesamino meglio la questione.
Alessandra ha guardato l’ora, erano passate le tre, e allora se n’è andata.
Io però avevo l’adrenalina in corpo, cosí rientrato in casa ho chiamato Luigi, lui mi ha risposto assonnato:
– Che cazzo…
Gli ho detto che gli avevo risolto il problema con Alessandra, che era venuta sotto casa mia in macchina, con Sara che dormiva dietro. Credo di aver sentito un’incrinatura nel suo respiro. Poi mi ha chiesto con voce bassa ma scandendo bene:
– Allora?
– Allora prima di tutto non devi sapere che è venuta, mi ha chiesto di non dirtelo, ed è meglio se io e te sappiamo e lei non sa che sappiamo.
– Ovvio, allora?
– Allora mi ha chiesto se nello sfogo, quando hai scassato la cucina, hai pronunciato solo, ripeto, solo solo solo il suo nome, e ascolta bene, ascolta: voleva la verità.
– E tu?
– Secondo te? Sono deontologico o consequenzialista?
– Sei uno stronzo! Che le hai detto?
– Mo te lo dico, però tu mi devi dire una cosa, e voglio la verità!
– Cioè?
– Quando hai incontrato per la prima volta Alessandra, l’hai baciata sul marciapiede, senza conoscerla?
– Sí!
– Ma non mi hai detto che in questo modo avevi conosciuto anche Serena e Giorgia e non mi ricordo quante altre?
– Embè? In quel periodo facevo cosí, ma Alessandra è stata la prima.
– Lei pensa di averti scelto per quel gesto, perché crede che sia stato un gesto unico!
– Anche io lo penso! Mi disse che ero uno stronzo, ma me lo disse come nessun’altra me l’ha mai detto… C’era un che di malizioso… Ma si può sapere tu che le hai detto?
– Consequenzialista.
– Bravo! E che altro vi siete detti?
– Le ho detto che il tradimento non è questo male assoluto, le ho spiegato che sarebbe peggio se uno andasse via di casa per la prima che incontra, come accade spesso, ed è accaduto in passato, le ho raccontato di un mio vicino di casa, quando ero bambino, che diceva cose terribili alla moglie perché aveva incontrato un’altra, era arrogante, forte del suo innamoramento… anche se, ora che ci penso bene, non sono sicuro di questo ricordo, cioè… mi sa che ho citato una scena del film di Bergman, Scene da un matrimonio, boh…
– Poi dici a me…
– Ma è un ricordo in buona fede…
– Ma vaffanculo, va’.
La mattina dopo mi sono guardato allo specchio: barbuto, gli occhi gonfi. Ho visto le creme di Daniela, ma sí, ho pensato, tanto non lo saprà nessuno, e comunque la sensazione di freschezza sul viso è stata piacevole.
Mi sono preparato il caffè e porca miseria il gas andava a singhiozzo, il fornello s’accendeva e si spegneva, ho maledetto un po’ di persone, poi finalmente il caffè ha gorgogliato, ma sono rimasto a guardarlo mentre colava giú.
Due ore piú tardi, e dopo vari smadonnamenti per via di una manifestazione dei lavoratori precari che mi ha costretto a fare il giro largo – urla, corteo, e temperature in rialzo –, comunque morto di sonno, ho suonato a casa di Giacomo, al Pigneto.
Che casa triste – ho pensato – e nemmeno ero entrato. Giacomo abitava in una stanza e mezza: cucina, tre fornelli, un lavello, una credenza, un frigorifero da campo, sedie spaiate (ma questa era la tendenza del momento, un must dell’arredo), letto a una piazza e mezza, scrivania Ikea bianca, libri appoggiati su mattoni traforati e vestiti infilati dentro le valigie, le valigie sotto il letto.
Giacomo – naso viola ma sguardo lucido – si è seduto al tavolo – postura tranquilla, gambe incrociate – e mi ha fatto segno di accomodarmi: tapparelle chiuse per tre quarti, fuori il sole, dentro un’ombra inquietante, caffè già pronto, bicchierini di plastica in pila sul tavolo, dovevo solo sfilarne uno.
Abbiamo parlato del piú e del meno: come stava, quando pensava di ricominciare le riprese, naturalmente di soldi, quelli mancavano, ma per il momento, pare, non erano un problema – a parte l’affitto arretrato.
Tutta la conversazione è stata velocissima, come una check-list, controlla e gira pagina.
Sentivo che voleva chiedermi qualcosa e questo mi agitava. Voglio dire, erano stati giorni pesanti, avevo sonno, e allora cercavo di tergiversare, magari di digressione in digressione gli passava la voglia.
Poi Giacomo si è messo a raccontarmi una «storiellina orientale»:
– Immagina una carovana che si prepara ad attraversare il deserto.
Mi sono reso conto che c’era, ed era pure in funzione, un ventilatore su un lato del pavimento: sembrava avesse un ritmo lentissimo.
– In questa carovana, – ha continuato, – ci sono tre persone, diciamo cosí: Antonio, Giacomo e Luigi.
S’è fermato, forse i nomi propri non andavano bene, e infatti si è corretto:
– Diciamo che ci sono tre personaggi: A, B e C. Ora: A odia C e decide di ammazzarlo, – ho cominciato a interrogarmi su chi dovessi uccidere, mentre Giacomo mi guardava fisso con il nasone fasciato, – cosí A versa del veleno nell’acqua della borraccia di C. E quella è la sola riserva di acqua di C. Ma attenzione, – ha detto alzando il tono e l’indice destro, – anche B odia C e vuole ucciderlo, non sa che l’acqua di C era già avvelenata, e fa un piccolo foro nella borraccia di C in modo che l’acqua esca lentamente. La conseguenza è che parecchi giorni dopo C muore di sete. Domanda: chi è l’assassino: A o B?
Va bene, ho pensato, è il caldo, quindi ho spiegato a Giacomo che già passo le notti insonni, penso alla felicità, a volte mi sembra anche di capirci qualcosa, solo che la mattina non mi ricordo nemmeno piú cosa ho elaborato, e che non solo io, ma tutti noi, in questo preciso momento storico (mai avrei pensato nella vita di usare l’espressione «preciso momento storico»), siamo confusi e disorientati, e spesso ci instradiamo su binari morti, e invece sarebbe opportuno… Insomma, tergiversavo.
– Dài, chi è il colpevole: A o B?
– Non ho capito bene nemmeno questa storiella… e poi immagino sia uno di quegli enigmi irrisolvibili…
– Dal punto di vista della responsabilità civile, A non è responsabile, no?
– Sí, cioè no…
– È vero, sei confuso. Allora: A non è responsabile perché C non ha bevuto l’acqua avvelenata, quindi non può essere accusato…
– Quindi è B il responsabile?
– Eh no… B non può essere accusato perché ha fatto uscire l’acqua avvelenata. Se C avesse bevuto sarebbe morto lo stesso.
– Ma cos’è, hai deciso di iscriverti a Giurisprudenza? Non so se lo sai, ma io lavoro al ministero per le Politiche agricole e mi occupo d’altro… di piante, concimazioni, prodotti tipici, di fragole di stagione…
– Seguimi: non c’è nesso causale, infatti il nesso causale sussiste, – sussiste? ma come parla?, ho pensato, – quando il danno è la realizzazione del rischio specifico creato da quel fatto.
– È il rischio specifico?
– Uso questa storiella orientale solo per dirti come è facile che la gente se ne lavi le mani…
– Ahhh, ecco, era una metafora…
Quindi Giacomo ha scavallato e riaccavallato le gambe come tergicristalli e mi ha fatto una specie di riassunto dei fatti – la voce pacata, quasi un sibilo, che io attribuivo al naso gonfio e al bendaggio, ma che seguiva il ritmo delle pale del ventilatore, quel fruscio di sottofondo… mi stavo per addormentare.
– Capisci, – ripeteva, – è come la storiella orientale: non si trova il responsabile, il nesso causale non sussiste. Sono stato preso a cazzotti, in verità ne ho preso uno solo, nemmeno mi ricordo bene, mentre stavo cercando la giusta angolazione tra terreno e volta celeste, cosa molto complicata, ci stavo perdendo tempo, e niente, non mi veniva, poi Sandra ha detto una cosa e ho visto qualcuno con la coda dell’occhio, e mi sono ritrovato a terra e devo dire che con la testa tra la polvere… certo all’inizio era tutto bianco, poi però dal basso ho indovinato l’angolazione giusta e questo può sembrare comico, ma in quel momento sono svenuto e mi sono risvegliato in una pozza di sangue, e questo è meno comico.
Io non ho avuto il coraggio di dichiarare: sí, in effetti la prima parte della storia ha la sua intrinseca comicità. Anzi, sono rimasto impassibile.
Mentre Giacomo continuava il suo racconto, ho cominciato a sentire un vociare: un uomo si lamentava – del governo, credo, o qualcosa del genere –, sembrava fosse a casa di Giacomo e invece lui mi ha indicato la parete: era il suo vicino. Con pareti come quelle, se gridi il suono passa.
Al di là del muro il lamento rauco del tizio, i suoi insulti gutturali contro il mondo, davanti a me la giaculatoria soffusa e in fondo educata di Giacomo, in mezzo il caldo. Questa triade deve avermi reso ansioso, come se fossi in prossimità di un pericolo. La sensazione è sempre la stessa, un bruciore fisso al centro dello sterno: che sia una sofferenza d’amore, un turbamento, l’insonnia, il malessere di prima mattina che si trascina magari fino al pomeriggio inoltrato, magari amplificato dal caldo e hai voglia a respirare, concentrarti, ascoltarti, niente, non va via.
– E nemmeno hanno rubato la videocamera! – continuava Giacomo. – E dire che Sandra è scappata lasciandola a terra.
E nessuno della troupe aveva capito dov’era. Sandra, non la telecamera. Almeno fino a quando non era ricomparsa con varie sbucciature: era caduta tra i rovi, aveva detto. Insomma, Giacomo era stato colpito senza motivo. Un gioco, sei ubriaco, è notte, ti avvicini a uno qualsiasi e gli sferri un pugno, quello cade e tu ridi. Se avessero rubato la camera, lui se ne sarebbe fatto una ragione: – Sono stato picchiato perché il tizio, magari un tossico o uno spacciatore di videocamere usate, voleva la mia videocamera, aveva proprio l’intenzione di rubarla, non di colpirmi, insomma, quello è stato uno spiacevole effetto collaterale, tanto è vero che non ha infierito, mica mi ha tirato un calcio dopo, ha calcolato il massimo risultato con il minimo sforzo, ha massimizzato la felicità del suo gruppo, i 5000 euro di videocamera da spartirsi, con il minimo dolore, quello di Giacomo, – Giacomo cominciava a parlare di sé in terza persona, non era un buon segno, il tono della voce sempre molto pacato, ma mi guardavo intorno chiedendomi: non è che ora impazzisce anche lui e comincia a spaccare tutto? Però in effetti c’era poco da spaccare e se l’avesse fatto, quante pizze avrebbe dovuto consegnare per ripagare il danno?
– Invece allo stronzo in questione non interessava la videocamera, nemmeno per idea, gli interessava solo colpire Giacomo, voleva solo far del male, colpire il naso di Giacomo, e perché? Perché mai?
Poteva affannarsi a cercare il motivo da qui alla fine dei suoi giorni, non l’avrebbe trovato, non c’era nessun motivo. Intanto mi sembrava che l’energia del signore lamentoso al di là del muro penetrasse nella stanza e gonfiasse tutto.
– A me l’argomento periferie non interessa poi tanto, me ne sono già occupato in passato. Ma ho bisogno di quei soldi, guarda come sono ridotto. Però io sono uno che prende sul serio la questione passaggio di testimone, voglio davvero onorare il lavoro di Ugo, seguirne un po’ lo stile, è giusto, no? Ma per contingenze spiacevoli capito in questa landa, a Tor Sapienza, proprio quando c’è una specie di rivolta sociale contro gli immigrati, ma io certo non mi faccio spaventare, a parte il fatto che, guarda il caso bizzarro, anche io vivo come un immigrato, – certo, ho pensato, non c’era niente in quella casa ricollegabile al gusto di un giovane intellettuale film-maker. Tutto si può dire di Giacomo, tranne che sia entrato a Tor Sapienza con pregiudizi borghesi, bisogna dargliene atto.
Ora cominciava a parlare come se cantasse una nenia, una ninna nanna, con quel ritmo, ma sussurrato:
– Sandra dice: scusa andiamo piú avanti, qui non mi piace, e in effetti ha ragione, cosí ci spingiamo oltre e perdiamo il contatto visivo con il resto della troupe. Guardando il cielo, Sandra a un certo punto cita un pezzo dell’Iliade in greco, perché lei sa a memoria dei pezzi… quello sul duello tra Achille e Ettore, quando Ettore si rende conto che Deifobo non è con lui, la dea Atena ha preso le sue sembianze e l’ha ingannato. Dunque, Ettore è fuori dalle mura, soprattutto è solo, può soltanto affrontare Achille, cioè morire. E Sandra, sempre guardando il cielo, mi stava dicendo che non conosceva niente di piú commovente dell’incoerenza di Ettore, deciso ad affrontare Achille e nello stesso tempo preso dal panico. Io lí ho guardato Sandra e ho sorriso, che musica quei versi, e sí, ho sorriso al cielo e Tor Sapienza, e sorridendo non mi sono accorto di uno che s’era ubriacato chissà dove, chissà quando, chissà quanto, e per chissà quale casualità, – l’elettrone impazzito, ho pensato, – è capitato su quella montagnella, vicino a me, e ha deciso intenzionalmente di farmi del male, di umiliarmi, forse perché stavo sorridendo e guardando il cielo, forse invidioso o che ne so, e mi ha colpito!
Giacomo aveva raccontato tutto questo con voce di vento, e mi sembrava infatti una barca a vela che si allontana dalla riva – gli occhi mi si chiudevano.
– Come dovrei reagire io? – il tono leggermente piú alto. Io intanto mi sono versato altro caffè nel bicchierino di plastica, anche se ormai era freddo. – Come dovrei reagire se la polizia indaga e niente, non scopre niente? È come la storiella orientale: chi ha ucciso C? Chi ha preso a pugni Giacomo? Uno può dire che tutti siamo responsabili, tu con il tuo cazzo di Stellarium, Luigi con la sua idea delle microinstallazioni, io che sono diventato povero, i poveri arrabbiati di Tor Sapienza, un rumeno che beve perché ha passato una giornata di merda e vuole dimenticare… Si può dire tutto, abbiamo tutti delle responsabilità, ma tutto questo è falso, perché invece io so chi è stato! Lo sanno tutti a Tor Sapienza, e l’hanno detto alla polizia, e la polizia ha indagato, ma risulta che lo stronzo a quell’ora era a casa, anche se non era a casa, era ubriaco e mi ha colpito, ma la comunità rumena gli ha trovato un alibi, perché? Ha deciso di proteggerlo, chissà perché, e quella notte, sí, si è ubriacato, ma non voleva certo prendere a pugni me, chissà cosa gli è scattato nella testa quando mi ha visto, e chissà che problemi ha avuto nell’infanzia, poverino, e se ora la polizia dovesse prenderlo magari lo caccerebbe via, e dài, per un cazzotto cosí, per un naso scassato, nemmeno me l’ha rotto del tutto, nemmeno ha rubato la videocamera, e per questo niente lo stronzo deve passare un guaio? Dài.
Il ventilatore girava, Giacomo si è alzato, due passi, ha aperto il frigorifero per prendere una bottiglia d’acqua. Con un po’ di sforzo ha cercato di svitare il tappo e intanto parlava:
– Io non sono arrabbiato, la rabbia è passata, io sono lucido, quindi ti parlo con lucidità: sono tornato a Tor Sapienza e ho visto, ho visto… – e non riusciva a svitare il tappo, a volte questi tappi di plastica, realizzati con un polimero diverso da quello usato per la bottiglia, ecco, a volte non si svitano, e poi Giacomo era debole, o cosí pensavo, perciò gli ho tolto la bottiglia dalle mani e l’ho aperta con estrema facilità. – … Grazie, – ha detto. Non era nervoso ma aveva le mani sudate. – E insomma… ho visto lo stronzo. Lavora come operaio e se ne stava tranquillo a scavare. Eccolo lí, mi sono detto, rilassato, con la pancia tipica di chi si schiatta di birra il sabato sera e magari prende a pugni le persone. E quindi, lucidamente, senza rabbia, quella è passata, ecco io ti chiedo: possibile che questo stronzo debba restare impunito? Sicuro che se ce ne laviamo le mani come fanno tutti, Luigi, Paola, tu, la polizia, sicuro che questi spiacevoli inconvenienti non si ripeteranno piú?
– Senti, Giacomo, tutto questo che hai detto ha un senso, sicuramente, anzi ti dirò di piú: tutto questo che hai detto si chiama dolore…
– Bravo! Dolore! – ha riscavallato le gambe, ha sistemato la sedia piú dritta davanti a me, di modo da incrociare meglio i miei occhi. – Ma non è solo il dolore mio, dài, non è una questione di ombelico che va tanto di moda: io penso, io dico, io soffro, io amo… Quello che provo è un dolore che altri provano, perché ci sono persone a Tor Sapienza che subiscono questo ogni giorno e ogni giorno vedono il loro assassino.
– Assassino?
– In senso figurato… il loro assassino che se ne va in giro tranquillamente, e sai perché? Perché nessuno ha ucciso C, è stato A, B, o tutto un complesso di cose che chiamiamo destino, fatalità, caso, volere degli dèi e altri cazzi che, diciamoci la verità, noi di sinistra amiamo tanto dire, e sai perché? Perché proviamo altri tipi di dolori, che però sono doloretti di poco conto, cazzate sentimentali, in massima parte, mica ci rompono il naso a noi. A te, per esempio, a te ti rompono il naso?
– Due volte, cadendo dalla moto…
– Vedi? Fai ironia, sei sarcastico.
– Ma no, sono caduto davvero!
– Invece questi di Tor Sapienza subiscono quotidianamente la rottura del setto nasale, e soffrono, ma potrebbero sopportare tutto questo se alla fine si scoprisse chi cazzo, – e ha alzato la voce, ho avuto l’impressione che cambiasse il refolo di vento, che divenisse piú caldo, – chi cazzo ha ucciso C. Almeno questo. Non è difficile saperlo, ma nessuno li aiuta, e sai perché?
– …
– Perché la nostra cultura, anche la tua, è borghese, pulitina, carina, fate i romanzetti di autofiction carini eh, battutine, installazioni, documentari sociali, ma siete al riparo, dài, siete al riparo dalla rabbia…
– Ma no, guarda che io invece lo capisco, ho pure sputato su un’auto blu, ma perché siamo influenzabili…
– … dalla rabbia che fa rivoltare le viscere, che ti spinge verso l’abisso.
– Giacomo, calmati, ti faccio presente che ho un mutuo da vent’anni e vivo in via di Donna Olimpia, – è andato, ho pensato, è andato.
– Ma dimmi una cosa: voi scrivete per cambiare il mondo, la percezione della realtà, per aumentare…
– La sensibilità delle persone?
– La sensibilità delle persone… appunto, ma con che risultato? Dimmi chiaramente: che risultato abbiamo avuto, che cosa abbiamo cambiato con i romanzi, i documentari, i film del cazzo? Abbiamo capito come si vive nelle periferie? Mica leggono i libri o vanno alle mostre, no, quelli si guardano il motomondiale, dài, è un altro mondo, e dovete convenire con me che questo mondo soffre con canoni che non sono i vostri e che se volete davvero fare qualcosa, dare una mano…
– Vieni al dunque.
Ora che Giacomo stava facendo una pausa per bere, le grida del vicino si sentivano proprio bene. Deglutendo a fatica, per via del naso fasciato, ha detto: – … stanotte ho sognato che prendevo questa bottiglia dal frigo e rimanevo incastrato, non so come, nello sportello del frigo che era bianchissimo ma con delle macchie rosse. Ero bloccato, avevo freddo, mi giravo e c’era un cane, tozzo, mascella quadrata, abbaiava e sbavava…
– Ovvio riferimento al rumeno.
– Dici?
– E dico sí: qualcosa ti blocca, il frigorifero bianco con le macchie rosse, cioè la fasciatura un po’ insanguinata del tuo naso, – cercavo di darmi un tono ma avrei voluto urlare come Fantozzi dopo che il Ragionier Filini gli ha colpito il dito con il martello, – e il cane è il rumeno…
– No, il cane non è il rumeno.
– Guarda, le teorie di Freud sono un po’ screditate dalle scoperte dell’antropologia e delle neuroscienze, ma di sicuro il cane rappresenta la minaccia del rumeno.
– No, perché il sogno continua: mentre sono bloccato arriva uno che mi tappa la bocca e mi fa mancare l’aria e a quel punto il cane aggredisce il tizio. Il cane non ce l’aveva con me, ma con il rumeno.
– Ah! È il tuo cane da guardia.
– Sí.
C’è stato un momento di silenzio, il vicino ha smesso di blaterare e Giacomo ha bevuto di nuovo, sempre a fatica, e mi ha chiesto:
– Tu lo conosci Peppe ’u Bulldog?
– Peppe ’u Bulldog! Certo, è di Caserta, abitava vicino casa mia, siamo cresciuti insieme, è un mezzo camorrista… Abita qui al Pigneto, tra l’altro sai perché si chiama Bulldog?
Giacomo non ha né annuito né smentito e stavo per spiegare l’aneddoto quando è arrivato un forte odore di pane fresco, e ho respirato, una, due volte, perché quell’effluvio mi tranquillizzava, cioè bruciavo ancora, in mezzo allo sterno, però l’ansia si abbassava. Allora ho ripreso:
– È diventato famoso perché da giovane rubò in un cantiere. Aveva preso in mano due cessi, pesanti, quando un cane, appunto, un bulldog gli sbarrò la strada, e lui non riusciva nemmeno a muoversi perché ogni volta che lentamente cercava di posare i cessi per terra, il cane si avvicinava minaccioso. Alla fine arrivò il guardiano a liberarlo da quella morsa, ma erano passate tre ore, gli si ruppero i tendini del braccio. Da allora pare abbia l’aspetto di un bulldog, ma lo è davvero, è uno che mena e ha sempre menato… ma lo senti che odore di pane?
Giacomo mi ha indicato la sua fasciatura e io ho detto:
– Ah, già!
– Presentami a Peppe ’u Bulldog.
– Eh?
– Devi solo accompagnarmi da lui e presentarmelo, basta.
– Che ci devi fare? È un mezzo camorrista…
– Tu mi porti da Peppe ’u Bulldog e poi te ne vai, io gli parlo e gli consegno i soldi che gli abitanti di Tor Sapienza mi hanno gentilmente donato come colletta, e Peppe ’u Bulldog parlerà con qualche suo scagnozzo…
– Giacomo, – ho detto, guardando fuori, e ho cercato con il solo sguardo di spalancare le persiane, – dovresti sentire questo odore di pane, mannaggia che stai chiuso, guarda il pane fresco è…
– Mi accompagni o no?
– Ho un grande rispetto per il pane, mi ricordo mia nonna che lo faceva in casa, e segnava la croce sulla crosta. Ricordo che non lo girava mai, portava male, sai quanta fatica era costata quella pagnotta? E dunque Giacomo, tu ora stai soffrendo, ma non vale la pena incasinarsi questa estate, con questo odore di mollica calda che placa ogni cosa, devi sfruttare questo dolore per il film…
– Mi accompagni?
Ho preso un respiro profondo:
– È come la storiella di Rossi che non dà mai passaggi agli autostoppisti, poi ne prende uno e viene rapinato. Al contrario Bianchi dà sempre passaggi agli autostoppisti e un giorno viene rapinato, – ora mi toccava spiegarla, e non ricordavo bene alcuni passaggi, allora ho fatto una lunga pausa, sperando che Giacomo intervenisse e mi dicesse: sí, la conosco, ho capito. Invece è stato zitto, era indurito. Ho dovuto continuare: – Siamo portati a pensare che Rossi è stato sfortunato, mentre Bianchi se l’è cercata, tu in fondo sei come Bianchi, frequenti da sempre le periferie per le tue cose, e non ti è successo mai niente, – no, Giacomo non dava segni di assenso, – ma la verità, – ho detto, sperando che andando avanti il senso risultasse chiaro anche a me, – la verità è che sono ragionamenti con il senno di poi. Il senno di poi può portarci alla dannazione: se avessi fatto questo o quest’altro. Ma noi non controlliamo tutti gli elementi, siamo spesso vittime del caso. Per questo proviamo rabbia, ce l’abbiamo con noi stessi, ci sentiamo sminuiti, vogliamo reagire…
Qui Giacomo ha finalmente cambiato espressione, ma si è incarognito, assomigliava a Peppe ’u Bulldog, e mi ha detto:
– Ah, ecco lo scrittore… certo, il senno di poi… Ma non preoccuparti, non ho intenzione di rompere questo patto sociale del cazzo: la civiltà e le regole. Volevo solo dirti come sarebbe bello reagire, che sensazione di libertà proverei se ora quel rumeno fosse picchiato dagli scagnozzi di Peppe, e lo appendessero davanti al cancello di casa. Solo questo tenevo a dirti: come sarebbe bello e utile se tu mi aiutassi a farlo. Poi puoi scrivere i romanzi che vuoi, ma almeno per una volta hai fatto una cosa concreta, coraggiosa, fuori dagli schemi. Se tu mi aiutassi, io andrei da Peppe ’u Bulldog e gli parlerei, e sarebbe come per A, B e C: alla fine dividendo il gesto in parti piccole, con ognuno che fa la sua, nessuno è responsabile veramente, perché tutti noi abbiamo le nostre buone ragioni, l’unica cosa certa sarebbe il mio piacere di vederlo con il naso rotto, legato al cancello di casa, cosí che le persone possano vedere che fine fanno gli stronzi… e invece siamo qui a parlare di pane e civiltà, e di come sfruttare questo mio dolore a vantaggio narrativo… Vorrei vedere se poi, dopo una lezione simile, i rumeni non stanno attenti agli operai ubriaconi. E se con un gesto risoluto si ottenesse piú di quanto si è ottenuto in anni e anni di chiacchiere?
Ero incerto se abbracciarlo o lasciarlo sfogare ancora.
– Per l’ultima volta, mi accompagni o no? – mi ha chiesto di nuovo.
– No! Anche perché me ne voglio andare al mare.
Mi sono alzato, ho aperto la finestra (che bella giornata e che odore di pane).
– Dài, scendiamo a mangiarci un pezzo di pizza.
Giacomo poi non ha quasi parlato, tuttavia ho avuto l’impressione che fosse meno arrabbiato, di certo non sentiva l’odore del pane però si stava mangiando insieme a me un pezzo di pizza calda e chissà… faceva effetto.
Un’ora dopo ero a casa, il pomeriggio era assolato e terso. Ho chiamato Paola per raccontarle di Giacomo ma non mi sembrava preoccupata, anzi, ha cambiato discorso subito, per la verità, non mi pareva nemmeno piú Paola, il suo umore, dico. Lunghe risate che non si spegnevano. Sarà l’effetto del litio che ha cominciato a prendere, ho pensato. Vedrai che le cose stanno migliorando, mi ha detto, e forse stava avendo una visione.
Comunque, la visione di Paola ha avuto un unico effetto: mi è aumentata l’ansia. Allora mi sono detto: mo mi prendo anch’io un intruglio, e che cavolo, tutti quelli che conosco usano psicofarmaci e io non mi posso prendere una pasticca contro l’ansia?
Ho cercato in bagno tra i medicinali, c’era un flaconcino, una roba leggera, poche gocce e a letto.
Mi sono svegliato alle dieci di sera. E va bene. Però l’ansia era salita a mille, il cuore batteva fortissimo, e chi dormiva piú. Ho cominciato a sentire – fisicamente, dico – la voglia di arrampicarmi su un albero, sí, stavo ancora a letto ma toccavo i rami, guardavo in basso per cercare il punto d’appoggio e cominciare la scalata, scostavo le fronde e in alto c’era la luce, e arrivavo in cima, certo con l’affanno, poi finalmente mi placavo.
L’indomani, poi, è stata una giornata di mal di testa pesante e vento leggero. Me ne sono stato chiuso in casa, al buio, aspettando che l’annunciata zona depressionaria si attivasse, e infatti come da previsione già nel pomeriggio il vento è aumentato.
Cosí sono andato fino al Gianicolo. C’era un leccio con delle belle fronde, ottimo per arrampicarsi.
L’ho fatto.
Lo sfizio era arrivare in cima e incidere le mie iniziali, un gioco che da adolescente facevo spesso e che mi aiutava a riacquistare l’equilibrio quando mi sentivo in bilico tra calcolo e istinto, quando un senso di lutto mi dominava e mi bloccava. Salire su un albero aiuta.
Dall’alto del Gianicolo, tra le fronde del leccio, Roma si distendeva elettrica e febbricitante, e il vento – immaginavo dalla mia posizione – arricciava il viso alle persone, giú in basso.
Non so dire se quello che ho saputo dopo, a fine giornata, fosse prevedibile, visto come s’era programmato il sistema, come s’erano disposte le palle sul biliardo, e se, anche al netto di eventuali elettroni, il tragitto fosse calcolabile.
Fatto sta che Giacomo aveva passato una nottata insonne per colpa del vicino che ascoltava la televisione ad alto volume, e di tanto in tanto commentava. Verso l’alba finalmente era caduto in un sonno profondo, ristoratore, che si era protratto fino alle undici, cosa anomala, anche perché dormiva male, per la fasciatura, e i pensieri.
Nel pomeriggio erano passati a prenderlo Paola e Augusto.
Hanno raccontato di aver visto Giacomo venire verso di loro – c’era vento, i vestiti e i capelli svolazzavano –, di averlo visto incrociare il vicino. E quest’ultimo, ad alta voce, ma forse era il vento che aveva amplificato le parole, aveva detto:
– Ahò, ma che te sei rifatto er naso?
Mentre avvenivano queste cose, io stavo cercando di incidere le mie iniziali sulla corteccia del leccio e credo di essermi distratto per via di un tuono – cazzo, ho pensato, qua rischio di prendermi un fulmine –, fatto sta che ho perso il concreto punto d’appoggio del piede destro. Avevo il coltellino in mano e l’ho lasciato per non trascinarmelo appresso durante la caduta. Sono venuto giú di schiena riflettendo, mi sembra, almeno cosí mi rivedo, con estrema attenzione sul fatto che di lí a un secondo sarei morto.
Nel vuoto, ad aspettarmi – da 14 miliardi di anni, piú o meno –, la forza di gravità e giú in basso un pendio erboso inclinato. Sono atterrato sull’erba di schiena, poi sono scivolato di qualche metro fermandomi sotto un bagolaro – e mi è subito venuto in mente il nome scientifico dell’albero: Celtis australis. Incredibile.
Non mi ha visto nessuno, del resto chi mai può immaginare che un imbecille di quarantanove anni salga su un albero perché prova ansia e conflitti, e vuole tornare giovane, o meglio, riprovare la forza del suo antico equilibrio?
Ho chiuso gli occhi come quando si starnutisce, li ho riaperti subito: sopra di me il cielo annerito. Ho mosso una mano e un piede: bene, non ero paralizzato. Però poi mi ha investito una folata di vento, il cielo sopra di me è diventato ancora piú scuro, e allora mi sono sentito paralizzato: ho visto tutto buio.
Quindi, io non posso aver visto, ma il cielo scuro sopra di me di sicuro sí. Effettivamente, in linea d’aria, nemmeno eravamo cosí lontani. E poi, un lampo, che ci mette a passare sopra la mia testa, al Gianicolo, e a illuminare poi Giacomo, al Pigneto?
Giacomo si stava muovendo verso Paola e Augusto, e sulle prime non aveva dato retta al vicino che gli chiedeva se si era rifatto il naso, insomma, almeno cosí sembrava finché, forse anche scosso dal tuono, dal fulmine, dalla raffica di vento improvvisa – quel tremolio diffuso di rami e vetri –, aveva tirato fuori dalla tasca un coltello a serramanico e si era avventato contro il vicino di casa.
L’azione era stata cosí rapida che a parte il cielo scuro che dominava la città intera, né il lampo né il vento, né Paola né Augusto avevano capito cosa stava per succedere – un topo che si avventa sul formaggio, questa era l’immagine che dopo, a cose fatte, avrebbe elaborato Augusto. Il vicino, di fronte a tanta irruenza, aveva alzato le mani ed era indietreggiato, spalle al muro, fino ad accasciarsi a terra.
Oddio, è morto!
Paola e Augusto si erano avvicinati.
Al che Giacomo aveva alzato le mani – non ho fatto niente, non ho fatto niente – e Augusto con prontezza da comico s’era preso il coltello dalle mani di Giacomo, l’aveva richiuso e nascosto in tasca, poi si era fiondato sul corpo dell’uomo privo di sensi, piú rapido della pioggia che cominciava a cadere, e aveva cominciato a praticargli il massaggio cardiaco.
Come carte sospinte dal vento erano arrivati i primi curiosi a formare un capannello attorno ad Augusto. Donne con le buste della spesa in mano, motociclisti che si toglievano il casco per vedere meglio, anche qualche cane randagio che si aggirava nei paraggi. Tutti chiedevano a Giacomo cosa fosse successo e Giacomo si guardava intorno smarrito: non lo so, un attimo prima era in piedi, quello dopo a terra.
Augusto, dopo diversi tentativi, era riuscito a rianimare l’uomo che aveva cominciato anche a vomitare, schizzando le scarpe di Giacomo.
Il temporale e la sirena dell’ambulanza, i soccorritori che si prendevano cura dell’uomo e l’uomo che voltava la testa per domandare: dove sono, cos’è successo?
Infarto. Il caldo, l’età, il grasso addominale, l’alcol, le tristezze, la rabbia, le fregature della vita, che altro? I classici soggetti a rischio.
Sotto la pioggia i soccorritori hanno stretto la mano ad Augusto, complimentandosi, in effetti l’aveva salvato meglio di un professionista, merito del corso da boy-scout secondo Augusto, che poi aveva infilato due o tre battute, e l’autista dell’ambulanza aveva riso nonostante la pioggia. Una volta messo in sicurezza l’uomo, via, verso l’ospedale.
Augusto aveva subito restituito il coltello a Giacomo, che con questo naso fasciato, scosso, attonito, era rimasto immobile, il coltello in mano, tremante. Allora Paola, di nuovo, glielo aveva sfilato: poi lo buttiamo, e Giacomo aveva fatto un misero cenno con la testa: sí. E l’aveva abbracciata. Aggressione, aveva sussurrato, stretto a Paola, ora finisco dentro.
Intanto la pioggia cadeva con insistenza. No, non restano tracce, aveva detto Paola, siamo solo noi tre, nessuno ha visto, e forse nemmeno il vicino riusciva a ricordare, c’era questa possibilità.
Era meglio, tuttavia, andare in ospedale, per togliersi la medicazione, sotto le bende c’era una faccia nuova, vero?
Invece sono rimasto sdraiato sotto il cielo cupo, avvolto dal buio, quei momenti che durano tantissimo e puoi ampliare a dismisura, come i sogni, e poi ti accorgi che sono realisticamente durati un secondo o poco piú. Percepivo le mille variazioni del buio, credo fosse lo speciale effetto dei fotodiodi o almeno il ricordo della notte passata.
Ho messo insieme tutti gli avvenimenti, se non avessi usato Stellarium, se Luigi non avesse consigliato a Giacomo di usarlo, se Giacomo non avesse accettato il consiglio, se Sandra non avesse detto: spostiamoci piú in là, se Giacomo non fosse stato colpito, se dopo non avessi parlato con Giacomo, se non avessi preso l’ansiolitico, se non mi fossi svegliato con l’ansia e il mal di testa, se non fossi stato cosí lirico da ricordarmi di quando salivo sugli alberi per compensare il dolore, se il tuono non mi avesse distratto e se non avessi fatto un passo falso.
Siamo soliti pensare solo all’ultima azione: è l’ultima quella che conta, la piú eccezionale nell’ordine generale del mondo. Che presunzione, ritenere che solo l’ultima azione sia sotto il nostro rigido controllo: lí avevamo il libero arbitrio e potevamo quindi fare diversamente, crediamo ingenuamente.
Steso a terra facevo da diga ai rigagnoli d’acqua che ormai scorrevano abbondanti. Un’immagine che il cielo avrebbe giudicato comica.
Che facevo? Invocavo la grazia? La grazia è la legge del moto discendente, diceva Simone Weil. Difficile sottrarsi definitivamente alla suggestione. Arrendersi per ricevere. Arrendersi alla forza discendente che poi ti fa ascendere è una legge del moto (non newtoniana), diceva la Weil – lo canta anche Lindo Ferretti.
La resa però presuppone una disciplina mistica o una ricerca o un’ispirazione divina. E anche a terra, bagnato, mezzo paralizzato, mi sentivo lontano da tutto questo.
Esiste Dio? O un Designer che ha progettato la mia esistenza?
MacKenzie, uno dei primi oppositori di Darwin, disse che nella teoria darwiniana l’artefice è l’Ignoranza Assoluta, tant’è che possiamo enunciare come principio fondamentale dell’intero sistema che, per creare una macchina perfetta e meravigliosa, non è indispensabile sapere come farla. Sembra dunque, sosteneva MacKenzie, che l’Ignoranza Assoluta possa prendere il posto della Sapienza Assoluta in tutte le imprese di abilità creativa.
Incredibile, MacKenzie era nel torto ma aveva capito la teoria darwiniana. La teoria evoluzionista spiega come l’enorme diversità delle forme si sia originata da un’unica specie ancestrale. E spiega anche come – a dispetto delle sue divulgazioni popolari – il processo evolutivo non implichi un progresso. Tipo, dalle specie inferiori a quelle superiori. La tendenza a dire che i batteri sono meno complessi dei mammiferi significa riportare in gioco l’idea del progresso, e non è convincente: il batterio è di per sé molto complesso.
È cosí che funziona, ed è cosí anche per quelli che non sono d’accordo, anche se ciò che produce la natura non ci piace. Non possiamo che accettarlo, è un dato di fatto. L’evoluzione è di tipo bottom-up, ed è cieca, procede per tentativi – la creazione dovrebbe essere del tipo top-down, procedere per scopi e obiettivi. Invece funziona proprio come lo scettico MacKenzie temeva funzionasse: l’evoluzione va avanti per errori del Dna.
Siamo un errore. Un piede in fallo. Però cosí appaiono nuovi tratti, e questi sopravvivono e mostrano capacità riproduttiva solo se sono adattativi nei confronti dell’ambiente in cui casualmente si trovano. Non c’è un Designer. Anzi, se proprio siamo in vena di similitudini narrative, il Designer qualora esistesse procederebbe per sbagli e casuali colpi di fortuna, come un ubriaco Ignorante Assoluto del suo cammino che trova un muro davanti e devia creando a sua insaputa una nuova strada, o contro quel muro, al contrario, si schianta. Il Designer non sa come è fatta la macchina, e nemmeno può dire che è meravigliosa. Non la vede, la macchina. Né la macchina né noi.
Giacomo ha sentito una fitta lancinante che partiva dal setto nasale e si propagava in tutto il corpo, e si è reso conto che stava per perdere i sensi. – Ottimo, – gli ha detto il dottore, – svenga pure, cosí nel frattempo le tolgo l’altro tampone.
E difatti si è risvegliato senza dolore e senza tamponi, certo un po’ di sangue raggrumito, e il setto nasale livido e ingrossato, ma è normale: il sangue che si è coagulato si deve riassorbire. Una dichiarazione che Giacomo ha preso come una metafora.
Qualche isolato piú in là – il cielo s’era aperto ed era di una bellezza struggente, un velo blu che rigonfio calava su Roma, sui buoni e sui cattivi, sui deontologici e sui consequenzialisti, sui vivi e sui morti –, qualche isolato piú in là, in un altro ospedale, Augusto stringeva la mano al vicino di casa di Giacomo che lo ringraziava con le lacrime agli occhi, commosso e scioccato, e soprattutto dimentico di tutto: l’ultima immagine che aveva in testa era lui che usciva di casa, poi il buio, subito dopo la pioggia sul viso, come una doccia rinfrescante, aveva detto. E dopo la frescura, una sensazione di galleggiamento, chissà se l’acqua che scorreva e si accumulava in pozze non lo sollevava davvero. Come un materassino sulle onde…
– Finché tutta questa leggerezza è andata via e ho sentito il dolore: perché la vita che torna, il sangue che scorre, provoca dolore.
Paola e Augusto se ne sono andati a mangiare, e – incredibile – Paola rideva a tutte le battute di Augusto. Incredibile, ha pensato di nuovo piú tardi, quando si è trovata a letto con Augusto, che però aveva funzionato cosí cosí, ma non importava, perché era veramente incredibile, un po’ di litio e i pensieri suicidi passano, la rabbia si scioglie… e rido, rido per delle cose che mai mi avrebbero fatto ridere prima… Chi siamo noi allora, se basta un farmaco per cambiare la nostra percezione?
Ha guardato Augusto che dormiva, e ha pensato: mi piace, incredibile, e comunque chissene… di chi siamo, e ha chiuso gli occhi immergendosi nel buio dolce.
Giacomo invece se n’è tornato a casa solo. Scosso, disorientato, ma piú tranquillo. Essere dimentichi di tutto in fondo è un piacevole stato d’animo, simile alla grazia.
Ma sotto il suo portone ha incrociato Sandra Cheli.
– Mi dispiace, è tutta colpa mia, – gli ha detto.
– Sei pazza? E perché mai?
– È colpa mia, – ha ribadito Sandra. – Qualunque cosa faccia, metto su un casino, e non mi resta altro da fare che scappare.
– Ma che dici? Sei solo giovane, – Giacomo forse riusciva pure a sentire l’odore dell’erba bagnata, anche se si trattava del misero giardinetto sotto casa sua. Allora le ha preso la mano: – Saliamo da me, ci beviamo una cosa.
L’appartamento ora era silenzioso (il vicino in ospedale…) e un tramonto rosso di brace filtrava dalle tapparelle. La luce era calda, piacevole. Sandra ha tirato su tutte le tapparelle e la brace del tramonto è scintillata ovunque nella stanza.
Sandra ha guardato il naso nuovo di Giacomo, e i lividi:
– Sono belli.
Poi ha aggiunto: – È come quello di mio padre, hai il naso di mio padre.
Giacomo ha respirato forte ed è riuscito – cosí mi avrebbe assicurato il giorno dopo – a sentire l’odore del pane.
– E facciamoci una pasta, dài, – ha proposto a Sandra.
Ma non c’era niente in casa, solo due pomodori in frigo. Sandra si è data da fare, ha tagliato i pomodori in fette molto sottili, e mentre armeggiava si è messa a cantare.
Giacomo si è guardato intorno: da dove arrivava quella voce? da fuori? Un canto triste ma denso, corposo, emozionato.
– Sandra, ma sei tu? Canti?
– È un modo per calmarmi, fin da piccola, se sono in ansia funziona.
– Ma sei bravissima, – ha detto Giacomo e si è seduto sul divano, chiudendo gli occhi. – Canta ancora.
Un attimo prima stava per ammazzare un uomo, un attimo dopo era mezzo addormentato sul divano, cullato da una ninna nanna, in pace con il mondo, e sentiva gli odori, respirava, era vivo e voleva vivere.
Il temporale estivo ha colpito il litorale laziale e si era spinto fino all’entroterra romano, ma anche Luigi e Alessandra si sono trovati sotto l’acqua scrosciante un paio di volte sul tratto dell’A1 Roma-Caserta.
Procedevano a velocità costante, musi lunghi e l’umore piú nero del cielo. Un silenzio ostinato, duro, al ritmo dei tergicristalli, un silenzio che nemmeno Sara riusciva a interrompere.
Dovevano parlare con i genitori di Alessandra: è importante dire le cose come stanno, è importante annunciare che siamo in crisi e stiamo lottando per non lasciarci, cosí aveva detto Alessandra. Se questo è quello che vuoi, va bene, era stata l’unica risposta di Luigi.
E poi dovevano passare a casa della madre di Luigi.
Due giorni prima il poeta casertano che si era insediato nella stanza di Luigi era stato cacciato fuori. In piena crisi sentimentale, tra Sandra e Alessandra, in un impeto scomposto, Luigi gli aveva telefonato e lo aveva minacciato gridando cosí forte da essersi lui stesso spaventato: sono io questo tizio che urla? Poi aveva contattato una badante, una consigliata da persone fidate. Avevano preso un appuntamento per le diciotto a casa della madre, e ora eccoli lí, nell’androne, pronti a salire le scale, secondo piano, due rampe, un atto facile, in fin dei conti usuale.
Eppure dopo pochi gradini, Sara che correva davanti ha raccolto un pennello, poi un altro. L’ha mostrato al padre che ha arricciato gli occhi: – Ma sono i miei!
Altra rampa altri pennelli, piú tubetti di colori… e alzando la testa verso il pianerottolo Luigi ha visto sua madre, lo sguardo furioso, trasfigurato, una maschera di pianto.
– Mamma… – ma non ha fatto in tempo a dire altro, perché gli sono arrivati in testa le tele, e pure un paio di cavalletti.
E poi sono cominciate le urla. Gridava a Luigi, ma non era con Luigi che ce l’aveva. Ce l’aveva con il padre di Luigi, Massimo, e stava scambiando Luigi con Massimo.
Alessandra ha stretto a sé Sara, mentre Luigi faceva le scale tre alla volta per raggiungere la madre.
– Vattene via, – gridava, – quella puttana ha chiamato a casa, hai capito? Come pensi che mi senta? Come pensi che mi possa sentire?
– Mamma, mamma… sono io, Luigi… – Ma era inutile. Sua madre piangeva come fosse successo tutto ora, pochi minuti prima, e non trentacinque anni prima.
– Ha risposto tuo figlio! – e Luigi ha cercato Alessandra con lo sguardo. Erano spaventati, e immobilizzati.
– Come credi che mi senta? – ha continuato, e ha lanciato un altro oggetto. – Te lo dico io. Sono piegata in due dal dolore! Da quando mi tradisci con questa puttana?
Luigi a questo punto è salito energicamente verso la madre, l’ha presa in braccio come se fosse una bambina, non fermandosi davanti ai pugni e alle minacce: vai via, vai via.
Forse la stretta, l’abbraccio, la mamma di Luigi s’è calmata, anche se respirava con affanno.
Dieci minuti dopo sembrava non fosse accaduto nulla. La mamma di Luigi ha conosciuto la badante e si è addormentata placida.
– Che cazzo siamo? – ha detto Luigi ad Alessandra, piú tardi, quasi sussurrando, mentre erano in cucina e Sara dormiva. – Che cazzo siamo? Un episodio di cosí tanti anni fa, capisci? Che poi non è andata nemmeno come se lo ricorda lei… C’era questa che si era innamorata di mio padre, una pazza, ma non è successo niente, forse una mezza cosa, ma niente di importante, eppure lei lo cacciò via, io mi ricordo questa sceneggiata che fece, con tanto di svenimento. Poi lei cominciò a uscire con un professore di italiano, uno scemo, giusto per fare dispetto a mio padre, e fecero un casino a scuola, un casino per niente, perché nemmeno loro combinarono nulla, a parte gli svenimenti, le sceneggiate… – Luigi ha preso fiato prima di continuare. – Che cazzo siamo? Guarda cosa ci ricordiamo dopo trentacinque anni, e mi potrebbe anche stare bene, ma è un falso ricordo, non è andata cosí, lo so per certo, tutta una sceneggiata napoletana, quando le persone non controllano i sentimenti mettono su le sceneggiate napoletane, si fanno del male. Cioè mio padre è morto da cinque anni e mia madre pensa ancora a quella cosa lí, non è possibile. Che cazzo siamo? Bisogna buttarsi le cose alle spalle e farlo subito sennò finiamo cosí, capito, con ricordi falsi nella testa…
E qui Luigi per quanto si sforzasse di controllare i sentimenti non è riuscito a trattenere un paio di lacrime, e Alessandra, nonostante non avesse detto una parola fino a quel momento, si è alzata dalla sedia e gli ha dato un bacio, leggero, tra guancia e labbra, e Luigi l’ha cinta in vita e senza troppa accortezza l’ha accostata al tavolo della cucina, e Alessandra ha detto: no, e si è messa a piangere, no, ha detto ancora, ma Luigi ha fatto finta di non sentire, si è slacciato i pantaloni, e Alessandra ha detto ancora: no, ha fatto per liberarsi, poi ha cominciato a piangere, ma senza singhiozzare, il respiro alterato e le lacrime che scendevano, Luigi sopra di lei, tutti e due avevano chiuso gli occhi, e piangevano, sballottati tra la gioia che annoda e il dolore che inchioda.
Ci pensi che cazzo siamo noi?, m’avrebbe raccontato poi Luigi, davanti a un caffè, mentre stava lasciando lo studio per rientrare a casa. Sei mio, sono tua, questo cerchiamo, proprietà e sicurezza, e per raggiungere tutto questo costruiamo una poetica, quell’incredibile meravigliosa poetica, quel nobile autoinganno, cosí necessario, perché sennò, come potremmo considerare l’amore, dài: siamo ancora dei primati.
– E comunque, – mi ha detto infine Luigi quella mattina. – In tutto questo casino convulso, mi è venuta un’idea… Però mo andiamocene al mare e ci pensiamo a settembre.