10. IL CERVELLO PENSOSO DEL CORPO
Niente corpo, mai mente.
“Il corpo gli È andato al cervello” È uno dei meno noti tra i celebri epigrammi di Dorothy Parker. Possiamo essere sicuri che l’arguzia sbrigliata della scrittrice non si sia mai rivolta alla neurobiologia, che ella non si stesse riferendo a William James e che non avesse mai sentito parlare di George Lakoff o di Mark Johnson - rispettivamente, un linguista e un filosofo che di certo hanno posto mente al corpo (1). Ma il suo gioco di parole potrebbe dare qualche sollievo al lettore infastidito dalle mie riflessioni sul cervello pensoso del corpo. Nelle pagine che seguono ritornerò sull’idea che il corpo offre un riferimento di base alla mente.
Immaginate di stare tornando a casa a piedi, attorno alla mezzanotte (certo, dovete vivere in una città nella quale ancora si torni a casa a piedi), e di rendervi conto all’improvviso che qualcuno continua a seguirvi, abbastanza da presso. In termini semplici, ecco quel che accade: il vostro cervello ravvisa la minaccia; evoca alcune opzioni di risposta; ne sceglie una; agisce su questa; in tal modo riduce o elimina il rischio. Come si È visto discutendo delle emozioni, però, le cose sono un po’ più complicate di così. Gli aspetti chimici e neura-li della risposta del cervello causano un profondo cambiamento del modo in cui operano tessuti e interi sistemi di organi. Ne sono modificati la disponibilità di energia e il tasso metabolico dell'organismo tutto, come pure la prontezza del sistema immunitario; il profilo biochimico complessivo dell'organismo attraversa rapide fluttuazioni; si contraggono i muscoli scheletrici che permettono alla testa, al tronco e agli arti di muoversi: segnali relativi a tutti questi cambiamenti vengono trasmessi al cervello, alcuni lungo vie neurali, altri lungo vie chimiche (nel flusso sanguigno), di modo che lo stato del corpo, che si È andato modificando di continuo, secondo dopo secondo, esercita un'influenza neurale e chimica sul sistema nervoso centrale, in diversi punti. Il risultato netto di questa come di altre situazioni simili È una marcata deviazione dall'andamento normale, sia in settori ristretti dell'organismo (cambiamenti “locali”) sia nell'organismo nel suo insieme (cambiamenti “globali”). Quel che È più importante È che tali cambiamenti si verificano "sia" nel cervello "sia" nel corpo.
Oggi si conoscono molti esempi di tali complessi cicli di interazione; nonostante ciò È consuetudine concepire corpo e cervello come separati, per struttura e per funzione. L'idea che sia l'intero organismo, anzich, il corpo da solo o il cervello da solo, a interagire con l'ambiente, il più delle volte riceve scarso credito, se mai viene presa in considerazione. Eppure quando vediamo, udiamo, tocchiamo, gustiamo, annusiamo, all'interazione con l'ambiente partecipano il corpo "e" il cervello.
Immaginate di contemplare uno dei vostri paesaggi preferiti: entra in gioco ben più che la rÈtina o le cortecce visive del cervello. Si potrebbe dire che, mentre la cornea È passiva, il cristallino e l'iride non solo lasciano passare la luce ma correggono la propria forma e dimensione reagendo alla scena che gli si apre davanti. Diversi muscoli muovono e orientano il bulbo oculare per seguire gli oggetti nel modo più efficace, mentre la testa e il collo si dispongono nella posizione migliore. Se questi (e altri) assestamenti non hanno luogo, di fatto non riuscite a vedere molto; ed essi dipendono da segnali che vanno dal cervello al corpo e da segnali correlati che vanno dal corpo al cervello.
Successivamente, i segnali riguardanti il paesaggio vengono elaborati all’interno del cervello. Vengono attivate strutture subcorticali come i collicoli superiori, e anche le cortecce sensitive di ordine inferiore e le diverse stazioni della corteccia di associazione e del sistema limbi-co connesse con quelle cortecce. Via via che le rappresentazioni disposizionali di quelle aree cerebrali attivano internamente la conoscenza relativa al paesaggio, il resto del corpo partecipa al processo. Presto o tardi, i visceri sono portati a reagire alle immagini che vedete e a quelle che la vostra memoria sta generando all’interno e che sono attinenti a ciò che vedete. Alla fine, quando del paesaggio visto si È formato un ricordo, questo sarà una registrazione neurale di molti dei cambiamenti dell’organismo appena descritti: alcuni hanno luogo nel cervello stesso (l’immagine costruita per il mondo esterno, insieme con le immagini costituite a partire dal ricordo), altri hanno luogo nel corpo.
Percepire l’ambiente, quindi, non può ridursi al cervello che riceve segnali diretti da un certo stimolo, tanto meno al cervello che riceve figure dirette. L’organismo si modifica attivamente, in modo che l’interfaccia possa prodursi al meglio; il corpo non È passivo. Forse È altrettanto importante osservare che la ragione per la quale la maggior parte delle interazioni con l’ambiente ha luogo È che l’organismo le richiede al fine di mantenere l’omeostasi - la condizione di equilibrio funzionale. L'organismo agisce di continuo sull'ambiente (per prime vennero azioni ed esplorazione), così da poter favorire le interazioni necessarie alla sopravvivenza; ma per riuscire con successo a evitare il pericolo, a procurarsi con efficienza cibo, sesso e riparo, esso deve sentire l'ambiente (odorarlo, gustarlo, toccarlo, udirlo, vederlo) in modo da potere intraprendere le azioni appropriate in reazione a ciò che viene sentito. Percepire È tanto ricevere segnali dall'ambiente quanto agire su di esso.
Sulle prime, l'idea che la mente derivi dall'organismo intero preso come un insieme può apparire contraria all'intuizione. Non È molto che il concetto di mente ha lasciato l'etereo non luogo che occupava nel diciassettesimo secolo per muovere verso la residenza attuale, nel cervello o in quei dintorni: una collocazione ancora più che dignitosa, anche se ottenuta dopo una sorta di degradazione. In termini di biologia evoluzionistica, di ontogenia (cioÈ di sviluppo individuale) e di funzionamento corrente, suggerire che la mente in sè dipenda dalle interazioni tra corpo e cervello può sembrare azzardato. Ma seguitemi: quello che io sto suggerendo È che, certo, la mente scaturisce dall'attività dei circuiti neurali, molti dei quali però vennero foggiati, nell'evoluzione, dai requisiti funzionali dell'organismo; si avrà una mente normale solo se quei circuiti contengono rappresentazioni di base dell'organismo, e continuano a tenere sotto osservazione gli stati dell'organismo in azione. In breve, i circuiti neurali rappresentano con continuità l'organismo, mentre esso È perturbato da stimoli provenienti dall'ambiente fisico e da quello socioculturale, e mentre agisce su tali ambienti. Se l'oggetto fondamentale di tali rappresentazioni non fosse un organismo ancorato nel corpo, potremmo sì avere qualche forma di mente, ma dubito che sarebbe la mente che abbiamo.
Non sto affermando che la mente È nel corpo; sto affermando che il contributo del corpo al cervello non si riduce agli effetti modulatori o al sostegno delle operazioni vitali, ma comprende anche un "contenuto" che È parte integrante del funzionamento della mente normale.
Torniamo all’esempio della passeggiata di mezzanotte verso casa. Il vostro cervello ha ravvisato una minaccia (la persona che vi segue) e dà inizio a diverse, complicate catene di reazioni neurali e biochimiche. Alcune battute di questa sceneggiatura interna sono scritte nel corpo, altre nel cervello, e tuttavia, anche se siete un esperto e sapete tutto della neurofisiologia e della neuroendocrinologia sottese, non potete distinguere nettamente quel che vi accade nel cervello da quel che vi accade nel corpo. Siete consapevoli di essere in pericolo; di essere fortemente allarmati - e forse dovreste accelerare il passo; di avere accelerato il passo, di essere infine, si spera, fuori pericolo. Il “voi” di questo episodio È in un sol pezzo; in effetti si tratta di una costruzione mentale molto reale, che chiamerò “sè” (in mancanza di un termine migliore) e che si basa su attività coinvolgenti l’intero organismo, cioÈ il corpo e il cervello.
Verrà data più avanti una sommaria descrizione di quel che a mio avviso occorre alla base neurale del sè; qui voglio però affermare subito che il sè È uno stato biologico ripetutamente ricostruito; "non" È un minuscolo individuo (il famigerato omuncolo) che se ne sta all’interno del vostro cervello a contemplare quel che succede. Se qui lo cito ancora, È solo per ribadire al lettore che non faccio affidamento su di esso: non serve invocare un omuncolo che vede, o pensa, o quant’altro, nel cervello, Perchè allora sarebbe naturale chiedersi se anche nel cervello di tale omuncolo si celi un altro essere ancor più minuscolo che vede, o pensa, eccetera, e così via all'infinito
* In realtà, credo che sarebbe megli parlare di regresso infinito nello spazio, per far notare che il vero problema sta nella creazione di una serie di matrioske, di bamboline russe, una dentro l'altra.
Questa particolare spiegazione, che pone il problema di un regresso all'infinito, non spiega un bel nulla. Devo anche osservare che l'avere un sè, un sè individuale, È del tutto compatibile con l'affermazione di Dennett secondo la quale non vi È alcun teatro cartesiano in qualche angolo del nostro cervello. Vi È, certo, un sè per ogni organismo (fatta eccezione per quei casi in cui un disturbo cerebrale ne ha creato più di uno, come accade nelle sindromi da personalità multipla, oppure ha menomato o soppresso l'unico sè normale, come accade in certe forme di anosognosia e in certi tipi di attacchi epilettici); ma il sè che dà soggettività alla nostra esperienza non È un ente centrale di conoscenza, un incaricato con il compito di ispezionare tutto ciò che accade nella mente.
Perchè lo stato biologico del sè si verifichi, bisogna che siano integri e in piena attività numerosi sistemi cerebrali e anche numerosi sistemi corporei. Supponete che vengano recisi "tutti" i nervi che portano al corpo i segnali del cervello; il vostro stato corporeo cambie-rebbe in modo radicale, e così pure, di conseguenza, la vostra mente. Anche un arresto parziale degli scambi cervello-corpo (come si ha in pazienti con lesioni al midollo spinale) modifica lo stato della mente (2).
I filosofi ben conoscono l'esperimento immaginario del “cervello in una vasca”: si immagina che un cervello, rimosso dal corpo cui apparteneva, venga mantenuto in vita immerso in una soluzione nutritizia, e venga stimolato - attraverso i moncherini dei nervi - nello stesso identico modo in cui sarebbe stimolato se fosse ancora racchiuso nel cranio (3). Vi È chi crede che siffatto cervello avrebbe esperienze mentali normali; ora, a parte la sospensione di incredulità indispensabile per immaginare questo esperimento (e in verità qualsiasi "Gedankenexperiment"), io credo invece che esso non avrebbe una mente normale. In mancanza degli stimoli "uscenti", diretti al corpo come campo d’azione, capaci di contribuire al rinnovarsi e al modificarsi degli stati corporei, ne risulterebbero sospesi l’innesco e la modulazione di quegli stati che, quando vengono ripresentati al cervello, costituiscono ciò che a me sembra il fondamento del senso di essere vivi. E se fosse possibile, al livello dei nervi recisi, imitare configurazioni realistiche di segnali entranti come se provenissero dal corpo? In tal modo il cervello scorporato avrebbe una mente normale. Questo sarebbe certo un esperimento suggestivo e interessante “da fare”, e sospetto che in tali condizioni il cervello potrebbe sì avere "una qualche" mente. Ma l’elaborazione ulteriore non avrebbe fatto altro che creare un surrogato del corpo, così confermando in definitiva che per un cervello normalmente fornito di mente occorrono input “di tipo corporeo”. Non sarebbe verosimile, invece, che anche in questa versione perfezionata gli “input corporei” ripetessero in modo realistico la varietà di configurazioni che gli stati corporei assumono quando sono innescati da un cervello impegnato a compiere valutazioni.
In breve, le rappresentazioni che il cervello costruisce per descrivere una situazione, e i movimenti elaborati come risposta, dipendono da mutue interazioni tra corpo e cervello. Via via che il corpo cambia, per influenze chimiche e neurali, le rappresentazioni che il cervello ne costruisce si evolvono; alcune rimangono non consce, mentre altre raggiungono la coscienza. Allo stesso tempo, al corpo continuano ad affluire segnali provenienti dal cervello, alcuni in modo deliberato e altri in modo automatico, provenienti da settori del cervello le cui attività non hanno rappresentazione diretta nella coscienza. Il risultato È che il corpo si modifica ancora, e quindi si modifica l'immagine che se ne ha.
Gli eventi mentali sono il risultato dell'attività che si svolge nei neuroni del cervello; ma vi È una storia precedente e indispensabile che essi devono narrare: la storia del disegno e del funzionamento del corpo.
La supremazia del corpo È un motivo che risuona nell'evoluzione: dal semplice al complesso, per milioni di anni, il cervello si È occupato in primo luogo dell'organismo che lo detiene. In misura minore lo si ritrova anche nello sviluppo di ciascuno di noi in quanto individui, cosicch, agli inizi vi furono dapprima rappresentazioni del corpo e solo in seguito rappresentazioni relative al mondo esterno -e in una misura ancora più piccola, ma non trascurabile, relative all'adesso, allorch, costruiamo la mente del momento.
Fare scaturire la mente da un organismo anzich, da un cervello staccato dal corpo È compatibile con un certo numero di ipotesi. Innanzitutto, quando nel corso dell'evoluzione furono selezionati cervelli abbastanza complessi da generare non solo risposte motorie (azioni), ma anche risposte mentali (immagini nella mente), ciò avvenne, con ogni probabilità, Perchè quelle risposte mentali rafforzavano la capacità di sopravvivenza dell'organismo con uno dei seguenti mezzi (o con tutti): un migliore apprezzamento delle circostanze esterne (per esempio, percependo un maggior numero di particolari di un oggetto, localizzandolo con più esattezza nello spazio, eccetera); un affinamento delle risposte motorie (così da colpire un bersaglio con maggiore precisione); una previsione delle conseguen-ze future attraverso la formazione di scenari e la pianificazione di azioni che portino a realizzare, tra gli scenari immaginati, quelli migliori.
In secondo luogo, dato che la sopravvivenza così orientata da una mente era intesa alla sopravvivenza dell’intero organismo, ai primordi le rappresentazioni di quei cervelli dovettero riguardare il corpo, in termini di struttura e stati funzionali, ivi incluse le azioni interne ed esterne con le quali l’organismo rispondeva all’ambiente. Non sarebbe stato possibile regolare e proteggere l’organismo senza rappresentarne l’anatomia e la fisiologia a un livello di dettaglio sia di base sia "presente".
Lo sviluppo di una mente, che in realtà significa sviluppo di rappresentazioni delle quali si possa acquisire coscienza come immagini, offrì agli organismi un nuovo modo di adattarsi a circostanze ambientali che non si sarebbero potute prevedere nel genoma. E’ probabile che la base di tale adattabilità abbia avuto inizio con la costruzione di immagini del corpo in funzione, cioÈ immagini del corpo che risponde all’ambiente esternamente (ad esempio usando un arto) e internamente (regolando lo stato dei visceri).
Se il cervello si È evoluto in primo luogo per assicurare la sopravvivenza del corpo, allora quando comparvero cervelli dotati di mente essi cominciarono con il por mente al corpo. E per tutelare la sopravvivenza del corpo con la più grande efficacia possibile, la natura - io credo - si imbatt, in una soluzione molto potente: "rappresentare il mondo esterno in termini di modificazioni che esso provoca nel corpo", cioÈ rappresentare l’ambiente modificando le rappresentazioni primordiali del corpo ogni volta che si ha un’interazione tra organismo e ambiente.
Che cos'È e dove si trova tale rappresentazione primordiale? Io credo che essa abbracci: 1) la rappresentazione di stati di regolazione biochimica in strutture del midollo allungato e dell'ipotalamo; 2) la rappresentazione dei visceri, ivi inclusi non solo gli organi della testa, del torace e dell'addome, ma anche le masse muscolari e la pelle - che agisce come un organo e costituisce il confine dell'organismo, la supermembrana che racchiude ciascuno di noi come un'unità; 3) la rappresentazione dell'intelaiatura muscoloscheletrica e dei suoi movimenti potenziali. Queste rappresentazioni, che sono distribuite in diverse regioni cerebrali (come ho già indicato nei capitoli 4 e 7), devono essere coordinate da connessioni di neuroni. Come spiegherò fra breve, credo che la rappresentazione della pelle e dell'intelaiatura muscoloscheletrica possa avere un ruolo importante nell'assicurare la coordinazione.
Quando si pensa alla pelle, per prima cosa viene fatto di immaginarla come un esteso strato sensoriale, rivolto verso l'esterno, che attraverso il senso del tatto ci aiuta a costruire forma, superficie, struttura e temperatura degli oggetti esterni. Ma essa È molto di più. In primo luogo, È una protagonista essenziale della regolazione omeo-statica: È controllata da segnali nervosi autonomi diretti provenienti dal cervello e da segnali chimici che le arrivano da numerose fonti. Quando si arrossisce o si impallidisce, il rossore o il pallore si verificano nella pelle “viscerale”, non in quella nota come sensore per il tatto. Nel suo ruolo di viscere (ed essa È, in effetti, il viscere più grande di tutto il corpo), la pelle contribuisce a regolare la temperatura corporea, aumentando o riducendo il diametro dei vasi sanguigni che contiene, e a regolare il metabolismo mediando gli scambi ionici (come avviene quando si suda). Gli ustionati gravi rischiano di morire non Perchè hanno perduto una parte integrante del loro senso del tatto, ma Perchè la pelle È un viscere indispensabile. Secondo la mia idea, il complesso somatosensitivo del cervello (specialmente quello dell’emisfero destro, negli esseri umani) rappresenta la nostra struttura corporea facendo riferimento a un disegno del corpo nel quale vi sono parti centrali (il tronco, la testa), parti appendicolari (gli arti) e un confine. Una rappresentazione della pelle potrebbe essere il mezzo naturale per indicare il confine del corpo, Poiché essa È un’interfaccia rivolta sia all’interno dell’organismo sia all’ambiente con il quale l’organismo interagisce.
Questa mappa dinamica dell’intero organismo, ancorata al disegno del corpo e al confine di esso, non sarebbe prodotta in una sola area cerebrale, ma piuttosto in diverse aree, per mezzo di schemi di attività neurale coordinati nel tempo. La rappresentazione con mappe indifferenziate delle attività del corpo, al livello del midollo allungato e dell’ipotalamo (dove l’organizzazione topografica dell’attività neurale È minima), sarebbe connessa a regioni cerebrali nelle quali È sempre maggiore la disponibilità di organizzazione topografica del flusso di segnali: le cortecce dell’insula e le cortecce somatosensitive note come S1 e S2 (4). La rappresentazione sensoriale di tutte le parti che hanno una possibilità di movimento sarebbe connessa a vari siti e livelli del sistema motorio la cui attività può indurre attività muscolare. In altre parole, l’insieme dinamico di mappe come lo concepisco io È “somato-motorio”.
L’esistenza delle strutture che ho brevemente richiamato È fuori discussione. Non posso garantire che esse operino nel modo da me descritto, o che abbiano il ruolo che attribuisco loro - ma la mia ipotesi può essere esaminata e studiata. Nel frattempo, si noti che in mancanza di un dispositivo come questo non saremmo mai in grado di localizzare nel nostro corpo, sia pure in modo approssimativo, dolore o fastidio - per quanto imprecisi si possa essere nel farlo; non saremmo in grado di avvertire pesantezza alle gambe dopo essere stati a lungo in piedi, o senso di disordine all'addome, o la nausea e l'affaticamento che sono la spia del "jet lag" e che noi “localizziamo” pressoché nell'intero corpo.
Supposto che la mia ipotesi possa trovare elementi a sostegno, discutiamone alcune implicazioni. La prima È che la maggior parte delle interazioni con l'ambiente avviene "in un luogo" entro il confine del corpo, quale che sia il senso (il tatto o qualsiasi altro) impegnato, Perchè gli organi di senso esistono in una data localizzazione, entro la vasta mappa geografica di tale confine. La formazione e l'invio di segnali implicanti interazioni dell'organismo con i suoi dintorni possono ben essere elaborati facendo riferimento alla mappa complessiva del confine del corpo. Un senso particolare (ad esempio la vista) ha un suo "luogo di elaborazione particolare" (in questo caso gli occhi) all'interno di tale confine.
Perciò i segnali provenienti dall'esterno risultano essere doppi: qualcosa che si vede, o che si ode, eccita il particolare senso della vista, o dell'udito, come segnale “non corporeo”, ma eccita anche un segnale “corporeo” proveniente dal punto della pelle nel quale È entrato il primo segnale. Un particolare senso, quando È impegnato, produce una doppia serie di segnali: la prima viene dal corpo, ha origine là dove e ubicato l'organo di senso in questione (l'occhio per la vista, l'orecchio per l'udito) e viene convogliata al complesso motorio e somatosensitivo che in modo dinamico rappresenta l'intero corpo come una mappa funzionale. La seconda serie viene dall'organo di senso e viene rappresentata nelle unità sensitive pertinenti a quella modalità sensoriale (nel caso della vista, tali unità comprendono le cortecce visive di ordine inferiore e i collicoli superiori).
Tale assetto avrebbe una conseguenza pratica: quando si vede, non ci si limita a vedere, ma "si sente anche di star vedendo qualcosa con i propri occhi". Il cervello elabora segnali riguardanti il fatto che l’organismo È impegnato in un punto preciso della mappa di riferimento del corpo (ad esempio gli occhi e i muscoli che li controllano), o riguardanti le particolarità visive di ciò che sta eccitando le rètine.
Io penso che la conoscenza acquisita dall’organismo toccando un oggetto, vedendo un panorama, udendo una voce o muovendosi nello spazio lungo una certa traiettoria, fosse rappresentata con riferimento al corpo in azione. Agli inizi non vi era alcun toccare, o vedere, o udire, o muoversi, di per sè; vi era, piuttosto, un "sentimento del corpo" quando questo toccava, o vedeva, o udiva, o si muoveva.
In larga misura, tale assetto sarebbe stato mantenuto. E’ corretto descrivere la nostra percezione visiva come un “sentimento del corpo quando vediamo”, e noi certamente “sentiamo” che vediamo con gli occhi anzich,, poniamo, con la fronte. (“Sappiamo” anche che vediamo con gli occhi Perchè, se li chiudiamo, le immagini visive si dileguano; ma tale inferenza non equivale al naturale sentire di vedere con gli occhi). E’ vero che l’attenzione posta nell’elaborazione visiva di per sè tende a renderci in parte inconsapevoli del corpo; tuttavia, se insorgono dolore, inquietudine o emozione, l’attenzione può essere focalizzata istantaneamente sulle rappresentazioni corporee, e il sentimento del corpo lascia allora lo sfondo per portarsi al centro della scena.
In realtà si È assai più consapevoli dello stato complessivo del corpo di quanto si riconosca di solito; ma È evidente che con l'evolversi di vista, udito e tatto aumentava di pari passo l'attenzione usualmente destinata al rispettivo componente della percezione complessiva. Così la percezione del corpo il più delle volte era lasciata esattamente là dove essa faceva (e fa) il lavoro migliore: "sullo sfondo". Quest'idea si accorda bene con il fatto che negli organismi semplici, in aggiunta al precursore di un senso del corpo (che deriva dal confine dell'intero corpo dell'organismo, la “pelle”), vi sono precursori dei sensi particolari (vista, udito, tatto), come si può cogliere dal modo in cui il confine dell'"intero" corpo può rispondere (rispettivamente alla luce, alle vibrazioni, al contatto meccanico). Anche in un organismo privo di sistema visivo si può trovare un precursore della vista, sotto forma di fotosensibilità diffusa a tutto il corpo: l'idea stimolante È che, quando una parte specializzata del corpo (gli occhi) imbriglia e sfrutta la fotosensibilità, quella stessa parte abbia un sito specifico nel disegno complessivo del corpo. (L'idea che gli occhi si siano evoluti a partire da zone fotosensibili risale a Darwin; in modo analogo È stata ripresa da Nicholas Humphrey) (5).
Nella maggior parte dei casi di funzionamento percettivo regolare, il sistema somatosensitivo e quello motorio sono impegnati simultaneamente, insieme con il sistema (o i sistemi) sensitivi opportuni per gli oggetti percepiti. Questo È vero anche quando il sistema sensitivo opportuno dovesse essere il componente esterocettivo (ovvero orientato in senso esterno) del sistema somatosensitivo. Quando tocchiamo un oggetto, quindi, dalla pelle si dipartono due serie di segnali locali: la prima riguarda forma e struttura dell'oggetto; la seconda È connessa con i punti del corpo attivati dal contatto con l'oggetto e dal movimento di braccio e mano. Si aggiunga che, dato che l’oggetto può generare una successiva reazione corporea, pertinente al suo valore emotivo, poco dopo tale reazione il sistema somatosensitivo viene impegnato nuovamente. Dovrebbe risultare evidente che È quasi inevitabile un’elaborazione corporea, indipendentemente dalla natura di ciò che facciamo o pensiamo. E’ probabile che non si possa concepire la mente senza che essa sia in qualche modo "incorporata"; questa nozione fa spicco nelle proposte teoriche di George Lakoff, di Mark Johnson, di Eleanor Rosch, di Francisco Varela, di Gerald Edelman (6).
Ho discusso l’idea con svariati interlocutori e, se la mia esperienza può essere indicativa, credo che la maggioranza dei lettori non avrà difficoltà ad accoglierla, e solo pochi la troveranno estremistica o errata. Ascoltando gli scettici, ho appreso che la loro più forte obiezione nasce da ciò che essi avvertono come la mancanza di una forte esperienza presente di alcunch, di corporeo, quando pensano. Non mi sembra un problema, Perchè io non sto suggerendo che le rappresentazioni corporee dominino il paesaggio della nostra mente (salvo che nei momenti di sconvolgimento emotivo). Per quanto riguarda il momento presente, io penso che le immagini dello stato corporeo stiano sullo sfondo, in generale non oggetto di attenzione ma pronte a balzare in primo piano. Inoltre, io do più rilievo alla "storia dello sviluppo" dei processi cervello/mente anzich, al momento presente. Credo che immagini dello stato corporeo siano state gli indispensabili mattoni e impalcature di ciò che esiste adesso; ma senza alcun dubbio ciò che esiste adesso È dominato da immagini non corporee.
Un’altra fonte di scetticismo È la nozione che il corpo fu sì importante nell’evoluzione del cervello, ma esso È così intimamente e permanentemente “simbolizzato” nella struttura cerebrale che non
È più necessario che sia presente “nel ciclo”. Questa è una posizione estrema. Sono d’accordo che il corpo È ben “simbolizzato” nella struttura cerebrale, e che “simboli” del corpo possono essere usati “come se” fossero segnali corporei presenti; ma preferisco, per tutte le ragioni già esposte, pensare che il corpo rimanga “nel ciclo”. Occorre solo aspettare che si accumulino altri elementi di prova, per decidere sul merito dell’idea qui suggerita. Nel frattempo, chiedo agli scettici di pazientare.
Il corpo come riferimento di base.
Le rappresentazioni primitive del corpo in attività ci fornirebbero una cornice temporale e spaziale, una metrica alla quale riportare le altre rappresentazioni. La rappresentazione di quello che ora costruiamo come uno spazio tridimensionale sarebbe generata nel cervello, sulla base dell’anatomia e degli schemi di movimento del corpo nell’ambiente.
C’È una realtà esterna, ma ciò che noi ne sappiamo giungerebbe per opera del corpo in attività, attraverso rappresentazioni delle sue perturbazioni. Noi non sapremmo mai quanto la nostra conoscenza sia fedele alla realtà “assoluta”: quello che ci occorre avere (e io credo che l’abbiamo) È una solida coerenza nelle costruzioni della realtà che il nostro cervello produce e condivide con altri.
Si pensi all’idea di gatto: noi dobbiamo costruire una qualche immagine del modo in cui il nostro organismo tende a essere modificato da una classe di entità che arriveremo a conoscere come gatti, e occorre che lo facciamo in modo coerente, sia su scala individuale sia con riferimento al gruppo umano nel quale viviamo. Tali rappresentazioni dei gatti, sistematiche e coerenti, sono di per sè reali. So-no reali le nostre menti, sono reali le nostre immagini di gatti, sono reali i nostri sentimenti riguardo ai gatti. Accade che tale realtà mentale, neurale, biologica, sia la nostra realtà. Rane o pesci che guardino ai gatti li vedono in modo differente, e lo stesso vale per i gatti stessi.
Ma la cosa più importante È forse questa: le rappresentazioni primitive del corpo in attività potrebbero avere un ruolo nella coscienza, offrendo un nucleo alla rappresentazione neurale del sè e quindi un riferimento naturale per ciò che accade all'organismo, all'interno o all'esterno del suo confine fisico. Il riferimento di base nel corpo elimina il bisogno di attribuire a un omuncolo la produzione della soggettività. Vi sarebbero, invece, stati successivi dell'organismo, ognuno con una rappresentazione neurale nuova, in mappe multiple concertate, momento per momento, e ognuno tale da fissare il sè che esiste in quel momento.
Il sè neurale.
Io ho un enorme interesse per il tema della “coscienza”, e sono convinto che la neurobiologia possa cominciare ad accostarvisi. Alcuni filosofi (tra i quali John Searle, Patricia Churchland e Paul Chur-chland) hanno esortato i neurobiologi a studiare la coscienza, e sia filosofi sia neurobiologi (per esempio Francis Crick, Daniel Dennett, Gerald Edelman, Rodolfo Llin s) hanno cominciato a formulare teorie (7). Ma il presente libro non ha per argomento la coscienza, per cui limiterò i miei commenti a un aspetto, che È pertinente alla discussione fatta su immagini, sentimenti e marcatori somatici. Esso riguarda la base neurale del sè: comprenderla potrebbe gettare un po' di luce sul processo della soggettività, che e una proprietà essenziale della coscienza.
Prima, però, È bene chiarire che cosa intendo per “sè”; per questo, esporrò un'osservazione che mi È capitato più volte di fare su pazienti colpiti da disturbi neurologici. Quando in un paziente si produce incapacità a ravvisare volti che gli erano familiari, o a vedere i colori, o a leggere, o quando certi pazienti non riescono più a riconoscere motivi musicali, a comprendere quel che gli si dice, a esprimersi verbalmente, salvo rare eccezioni essi riferiscono che sta accadendo loro qualcosa, qualcosa di nuovo e insolito, che possono osservare, sforzarsi di capire e spesso descrivere con perspicacia e concretezza. Quel che colpisce È che la teoria della mente implicita in tali descrizioni suggerisce che essi “localizzano” il problema in una parte della loro persona, che essi ispezionano dal punto di vista della propria individualità. Il quadro di riferimento non differisce da quello che adotterebbero se dovessero considerare un problema riguardante le ginocchia, o i gomiti. Le eccezioni, come ho detto, sono rare: certi pazienti colpiti da grave afasia possono non essere così acutamente consapevoli del deficit di cui soffrono, e non daranno un resoconto chiaro degli eventi che si succedono nella loro mente. Di solito, però, viene ricordato bene anche il momento preciso in cui il deficit si presentò (spesso queste condizioni hanno un inizio brusco e netto). Innumerevoli volte ho sentito pazienti descrivermi la loro esperienza dell'orribile momento in cui si produsse una lesione cerebrale e quindi una menomazione cognitiva o motoria: “Mio Dio, che cosa mi sta succedendo?” È espressione frequente. Nessuno di questi complicati deficit viene mai riferito a un'entità vaga, o al tizio della casa accanto: quello che succede succede al soggetto.
E ora vediamo come vanno le cose con i pazienti affetti dalla forma completa di anosognosia di cui già ho parlato. NÉ secondo la mia esperienza Né secondo tutti i resoconti che ho potuto leggere, questi pazienti danno descrizioni simili a quelle dei pazienti del capoverso precedente. Nessuno esclama: “Dio, com’È strano che io non senta più alcuna parte del mio corpo, e che tutto quello che È rimasto di me sia la mente!”; nessuno sa dirvi "quando" cominciò il disturbo: essi non lo sanno, a meno che qualcuno glielo dica. Diversamente dai pazienti a cui ho fatto riferimento prima, nessuno dei colpiti da anosognosia sa riferire il disturbo al sè.
E’ ancora più curioso osservare che pazienti con una menomazione solo parziale del senso del corpo possono riferire il disturbo al sè: È quello che accade ai pazienti con anosognosia transitoria, oppure con asomatognosia. Particolarmente indicativo È il caso di quella paziente affetta da perdita temporanea del senso della struttura corporea nella sua interezza e del senso del confine corporeo (su entrambi i lati, destro e sinistro), e tuttavia perfettamente consapevole delle proprie funzioni viscerali (respirazione, battito cardiaco, digestione): la paziente era in grado di specificare la propria condizione come l’inquietante perdita di una parte del suo corpo, ma non del suo “essere”. In qualunque momento sopravvenisse un nuovo episodio di perdita parziale del senso del corpo, aveva ancora un sè - un sè piuttosto allarmato, per la verità. La paziente fu vittima di attacchi, che insorsero da una lesione dell’emisfero destro, piccola ma criticamente localizzata, all’intersezione delle diverse mappe somatosensitive di cui ho parlato in precedenza: la lesione offendeva l’insula anteriore, cioÈ la regione che a mio giudizio È cruciale per il senso dei visceri. Una terapia anti attacchi pose rapidamente fine a tali episodi.
Ed ecco come io interpreto la condizione dei soggetti colpiti da ano-sognosia completa: il danno che essi hanno subìto ha distrutto in parte il substrato del sè neurale. Perciò, essendo menomata la loro capacità di elaborare gli stati corporei presenti, essi sono in grado di costruire uno stato del sè che È ridotto, basandosi su informazione vecchia e che diventa sempre più vecchia di minuto in minuto.
L'accento posto sul sè non significa che io stia qui parlando dell'autocoscienza, Poiché io vedo il sè e la soggettività che esso genera come necessari per la coscienza in generale, non solo per l'autocoscienza; Né l'interesse per il sè significa che altre caratteristiche della coscienza siano meno importanti, o meno suscettibili di uno studio neurobiologico. Il processo di produzione di immagini e lo stato di vigilanza e "arousal" che per questo sono necessari sono altrettanto pertinenti quanto il sè, del quale facciamo esperienza come osservatori e detentori di tali immagini. Tuttavia il problema della base neurale del sè e quello della base neurale per la formazione di immagini non stanno al medesimo livello, Né dal punto di vista cognitivo Né dal punto di vista neurale. Non si può avere un sè senza vigilanza, senza "arousal", senza formazione di immagini, ma È tecnicamente possibile essere all'erta e pronti a reagire e con le immagini già formate in vari settori del cervello e della mente, pur avendo un sè compromesso. In casi estremi, l'alterazione patologica della vigilanza e della prontezza di reazione provoca torpore, stato vegetativo e coma, condizioni nelle quali il sè scompare del tutto, come hanno mostrato Fred Plum e Jerome Posner in una classica descrizione (8). Possono però aversi alterazioni patologiche del sè senza che siano distrutti quei processi di base: lo si vede in pazienti colpiti da certi tipi di attacchi o da anosognosia completa.
Ancora qualche cenno di precisazione, per poter proseguire: quando ricorro alla nozione di sè, non intendo in alcun modo suggerire che "tutti" i contenuti della mente siano ispezionati da un singolo osservatore e detentore - tanto meno che tale entità risieda in un unico sito cerebrale. Dico, nondimeno, che le nostre esperienze tendono ad avere una prospettiva coerente, come se davvero vi fosse un osservatore e detentore per la maggior parte dei contenuti, seppure non per tutti. Io immagino che tale prospettiva sia radicata in uno stato biologico relativamente stabile, incessantemente ripetuto. Sorgenti della stabilità sono la struttura e il funzionamento - in larghissima misura invarianti - dell’organismo e gli elementi in evoluzione dei dati autobiografici.
La base neurale del sè, a mio parere, sta in una continua riattivazione di almeno due insiemi di rappresentazioni. Il primo riguarda le rappresentazioni di elementi chiave dell’autobiografia di un individuo, sulla base dei quali si può ricostruire ripetutamente una nozione di identità, mediante parziale attivazione in mappe sensitive topograficamente organizzate. L’insieme delle rappresentazioni disposizionali che descrivono una qualsiasi delle nostre autobiografie riguarda un gran numero di fatti categorizzati che definiscono la nostra persona: che cosa facciamo, chi e che cosa ci piace, quali tipi di oggetti usiamo, quali luoghi frequentiamo e quali azioni compiamo più spesso. Si può vedere questo insieme di rappresentazioni come un dossier del tipo di quelli che ben sapeva preparare J. Edgar Hoo-ver, salvo il fatto che non È contenuto in schedari, bensì nelle cortecce di associazione di molti siti cerebrali. E poi, in aggiunta a tali categorizzazioni, vi sono gli eventi, unici, del nostro passato, che vengono costantemente attivati come rappresentazioni proiettate su mappe: dove viviamo e lavoriamo, quale lavoro svolgiamo, qual È il nostro nome e quello dei nostri amici e parenti più stretti, della nostra città, del paese, eccetera. Infine, nella memoria disposizionale recente, vi È una raccolta di eventi vicini nel tempo, insieme con una loro approssimativa proiezione temporale, e anche una raccolta di progetti, un certo numero di eventi immaginari che intendiamo far accadere, o ci aspettiamo che accadano. Progetti ed eventi immaginari costituiscono ciò che io chiamo “memoria del possibile futuro”, tenuta in rappresentazioni disposizionali proprio come qualsiasi altro ricordo.
In breve, l'incessante riattivazione di immagini aggiornate riguardanti la nostra identità (una combinazione di ricordi del passato e del futuro progettato) costituisce una parte considerevole dello stato del sè come io lo intendo.
Il secondo insieme di rappresentazioni sottese dal sè neurale È dato dalle rappresentazioni primitive del corpo di un individuo, a cui ho fatto accenno in precedenza: non solo come il corpo È stato in generale, ma anche come È stato "ultimamente", appena prima del processo che ha portato alla percezione dell'oggetto X (questo punto È importante: come si vedrà più avanti, io credo che la soggettività dipenda in larga parte dai cambiamenti che hanno luogo nello stato del corpo durante e dopo l'elaborazione di X). Ciò abbraccia, necessariamente, stati di fondo del corpo e stati emotivi. La rappresentazione complessiva del corpo costituisce la base per un concetto di “sè”, quasi nel modo in cui una raccolta di rappresentazioni di forma, dimensioni, colore, struttura e gusto può costituire la base del concetto di arancia. I primi (sia dal punto di vista dell'evoluzione sia da quello dello sviluppo) segnali corporei hanno contribuito a formare un “concetto di base” del sè, che ha offerto il riferimento di fondo per ogni altra cosa che accadesse all'organismo - inclusi gli stati corporei presenti che "di continuo" erano inglobati nel concetto di sè e subito divenivano stati passati. (Sono questi i predecessori e il fondamento della nozione di sè secondo la concezione di Jerome Kagan) (9). Quello che accade a noi "adesso" sta in effetti accadendo a un concetto di sè che È basato sul passato, ivi incluso il passato che era presente solo un momento fa.
Lo stato del sè viene costruito da cima a fondo in ogni momento; È uno stato di riferimento evanescente, di continuo ricostruito con tale coerenza che il possessore non se ne accorge mai, a meno che durante questo rifacimento qualcosa non vada per il verso sbagliato. Il sentimento di fondo di adesso, o il sentimento di un’emozione di adesso, insieme con i segnali sensoriali non corporei di adesso, toccano il concetto di sè quale È rappresentato nell’attività coordinata di molteplici regioni cerebrali. Ma il nostro sè (o meglio, il nostro metasè) “impara” riguardo a quell’“adesso” solo un istante più tardi. Colgono in modo lapidario questa essenza le considerazioni di Pascal sul passato, sul presente e sul futuro che ho citato in apertura del capitolo 8 (lo stesso può dirsi per il riferimento di Edelman al “presente ricordato”). Il presente diviene di continuo passato, e intanto che lo scorriamo ci troviamo in un altro presente, consumato in una pianificazione del futuro che compiamo poggiando il piede sui gradini del passato. Il presente non È mai qui. Noi siamo irrimediabilmente in ritardo, per la coscienza.
Vorrei affrontare, infine, quello che È forse il punto più critico. Attraverso quale esercizio di prestidigitazione un’immagine dell’oggetto X e uno stato del se (entrambi esistenti come momentanee attivazioni di rappresentazioni topograficamente organizzate) generano la soggettività che caratterizza le nostre esperienze? Anticipo la risposta dicendo che ciò dipende dal fatto che il cervello crea una descrizione, e che tale descrizione si dispiega in immagini. Allorch, nelle cortecce sensitive di ordine inferiore si formano immagini corrispondenti a un'entità appena percepita (ad esempio un volto), "il cervel
lo reagisce a queste immagini": ciò accade Perchè i segnali che da esse scaturiscono vengono trasmessi a svariati nuclei subcorticali (ad esempio l'amigdala, il talamo) e a molte regioni corticali, e Perchè quei nuclei e quelle regioni corticali contengono disposizioni per rispondere a certe classi di segnali. Il risultato finale È una attivazione delle rappresentazioni disposizionali nei nuclei e nelle regioni corticali, con la conseguenza di indurre una serie di cambiamenti nello stato dell'organismo. A loro volta, questi cambiamenti alterano in un istante l'immagine corporea, e in tal modo turbano la caratterizzazione "presente" del concetto del sè.
Il processo di risposta implica conoscenza, ma di sicuro non implica che un qualsiasi componente del cervello “sappia” che si stanno generando risposte alla presenza di un'entità. Quando il cervello di un organismo genera un insieme di risposte a un'entità, l'esistenza di una rappresentazione del sè non fa sapere al sè che l'organismo corrispondente sta rispondendo. Il sè come lo abbiamo descritto finora non può "sapere". Potrebbe tuttavia sapere un processo definibile “metasè”, a condizione che: 1) il cervello creasse qualche forma di "descrizione della perturbazione dello stato dell'organismo" risultante dalle risposte del cervello alla presenza di un'immagine; 2) la descrizione "generasse un'immagine del processo di perturbazione"; 3) l'immagine del "sè perturbato" venisse dispiegata insieme o in rapida interpolazione con l'immagine che ha innescato la perturbazione. In breve, questa descrizione riguarda la "perturbazione dello stato dell'organismo", come risultato delle risposte del cervello all'imma-gine dell’oggetto X. Essa non fa uso del linguaggio, anche se può essere tradotta nel linguaggio.
Il solo avere un’immagine non È sufficiente, anche facendo appello all’attenzione e alla consapevolezza, Perchè l’una e l’altra sono proprietà di un sè che fa esperienza di immagini - cioÈ che È reso consapevole delle immagini alle quali È intento. Ma nemmeno È sufficiente avere le immagini "e anche" un sè. Dire che l’immagine di un oggetto È riferita alle immagini che costituiscono il sè, o È correlata con esse, non È un’affermazione particolarmente utile: non si capirebbe in che cosa consistano il riferimento o la correlazione, o che cosa ottengano. Rimarrebbe del tutto misterioso in quale modo da tale processo emerga la soggettività.
Si considerino, ora, le seguenti possibilità. Innanzitutto, il cervello possiede un terzo insieme di strutture neurali, che non È quello su cui si fonda l’immagine di un oggetto, e nemmeno quello che sorregge le immagini del sè, ma che È interconnesso con entrambi, nei due sensi. In altre parole, È il tipo di insieme di neuroni “di terza persona” che È stato chiamato zona di convergenza e al quale abbiamo fatto appello come substrato neurale per costruire rappresentazioni disposizionali in tutto il cervello, nelle regioni corticali come nei nuclei subcorticali.
Si immagini ora che tale insieme, "quando l’organismo È perturbato dalla rappresentazione dell’oggetto", riceva segnali sia da questa sia dalla rappresentazione del sè. Si immagini, cioÈ, che esso costruisca "una rappresentazione disposizionale del sè nel processo di cambiamento mentre l’organismo risponde a un oggetto". Non vi sarebbe alcunch, di misterioso, in questa rappresentazione disposizionale, che risulta proprio del tipo di quelle che il cervello È straordinariamente bravo a contenere, foggiare e rimodellare. Sappiamo anche che il cervello ha tutta l'informazione che occorre per costruire tale rappresentazione disposizionale. Poco dopo avere visto un oggetto e averne avuto una rappresentazione nelle cortecce visive di ordine inferiore, si hanno anche molte rappresentazioni dell'organismo che reagisce all'oggetto, in varie regioni somatosensitive.
La rappresentazione disposizionale che io ho in mente non È creata Né percepita da un omuncolo e (come È tipico di tutte le disposizioni) È in grado di riattivare, nelle cortecce sensitive di ordine inferiore alle quali È connessa, un'immagine di ciò a cui la disposizione attiene: un'immagine somatosensoriale dell'organismo che risponde a un particolare oggetto.
Infine, si consideri che tutti gli ingredienti da me descritti (un oggetto che viene rappresentato, un organismo che risponde all'oggetto della rappresentazione, uno stato del sè nel processo di cambiamento dovuto alla risposta dell'organismo all'oggetto) sono tenuti simultaneamente nella memoria operativa e sono seguiti (l'uno accanto all'altro, o in rapida interpolazione) nelle cortecce sensitive di ordine inferiore. Io suggerisco che la soggettività emerga nel corso dell'ultimo passo, quando il cervello produce non solo immagini di un oggetto, non solo immagini delle risposte dell'organismo all'oggetto, ma immagini di un terzo tipo, cioÈ immagini di un organismo nell'atto di percepire un oggetto e di rispondervi. Credo che la prospettiva soggettiva scaturisca dal contenuto delle immagini di questo terzo tipo.
Il dispositivo neurale minimo capace di produrre soggettività richiede allora: cortecce sensitive di ordine inferiore, ivi incluse quelle somatosensitive; regioni di associazione corticali, sensitive e motorie; nuclei subcorticali (in particolare talamo e gangli basali) con proprietà di convergenza, capaci di agire come insiemi “di terza persona”.
Tale dispositivo non richiede il linguaggio. La costruzione del metasè che io propongo È puramente non verbale: una vista schematica dei principali protagonisti secondo una prospettiva che È esterna a entrambi. In effetti, questa costituisce, momento per momento, una documentazione narrativa non verbale di quel che accade a quei protagonisti. Si può realizzare la narrazione senza linguaggio, usando gli strumenti elementari di rappresentazione dei sistemi sensitivo e motorio nello spazio e nel tempo. Non vedo ragione per cui animali privi di linguaggio non dovrebbero esserne capaci.
Agli esseri umani, il linguaggio offre la capacità di una narrazione del secondo ordine: esso può produrre narrazioni verbali, a parte quelle non verbali, ed emergerebbe da tale processo la raffinata forma di soggettività che ci caratterizza. Il linguaggio forse non costituisce la sorgente del sè, ma di certo È la sorgente dell’“io”.
Non sono a conoscenza di altre proposte specifiche per dare una base neurale alla soggettività; ma siccome questa È una caratteristica chiave della coscienza, È opportuno notare, sia pure brevemente, i punti di contatto tra la mia proposta e le altre avanzate in questo campo.
L’ipotesi di Francis Crick sulla coscienza si concentra sul problema della produzione di immagini e omette completamente quello della soggettività: non Perchè egli lo ignori, ma Perchè ha deciso di non occuparsene, per ora, dubitando che si possa affrontarlo per via sperimentale. La sua scelta e la sua cautela sono del tutto legittime; ma non vorrei che, rimandando la considerazione della soggettività, ci trovassimo incapaci di interpretare in modo corretto i dati empirici riguardanti la produzione e la percezione di immagini.
Quanto all’ipotesi di Daniel Dennett, essa attiene all’estremo alto della coscienza, ai prodotti finali della mente. Egli conviene sull’esistenza di un sè, ma non si volge a considerarne le basi neurali e invece si concentra sui meccanismi che potrebbero consentire di creare l’esperienza di un flusso di coscienza. E’ interessante osservare che, al livello di processo, egli ricorre a una nozione di costruzione di sequenze (la sua macchina virtuale joyciana) non dissimile da quella di costruzione di immagini che impiego io, a un livello precedente e più basso. Sono sicuro, comunque, che il mio dispositivo per generare la soggettività non È la macchina virtuale di Dennett. La mia proposta condivide una caratteristica importante con quanto sostiene Gerald Edelman sulle basi neurali della coscienza, e cioÈ il riconoscimento di un sè biologico impregnato di valori. (Tra i teorici contemporanei, Edelman si può dire sia stato l’unico ad accordare importanza ai valori innati nei sistemi biologici). Egli però limita il sè biologico ai sistemi omeostatici subcorticali, mentre io lo incorporo in effettivi sistemi a base corticale e ammetto che i prodotti della loro attività divengano sentimenti. Sono diversi, quindi, i processi che io descrivo e le strutture necessarie - nel mio schema -per compierli. Inoltre, io non so dire quanto la mia nozione di soggettività corrisponda alla nozione di coscienza primaria di Edelman. William James pensava che nessuna psicologia ragionevole potesse mettere in dubbio l’esistenza di “sè personali”; egli credeva che la psicologia non potesse fare cosa peggiore che togliere significato a tali sè. Oggi, forse, egli sarebbe lieto di scoprire che la base neurale del sè ha trovato ipotesi plausibili, seppure non ancora provate.