III

Giunto alla stazione, Robert salì in carrozza sotto una pioggia torrenziale, e subito diede al cocchiere l’indirizzo della sua precedente abitazione, quella che aveva disdetto prima della partenza; poi però, quando si rese conto del proprio errore, disse il nome del vecchio albergo dove aveva prenotato una stanza. Situato alle spalle di una chiesa, fra gli alti e tetri palazzi del centro, l’edificio non aveva certo quell’aspetto simpatico e allegro con il quale gli alberghi più moderni sono soliti dare il benvenuto ai loro ospiti; tuttavia Robert lo aveva scelto non soltanto perché le sue risorse finanziarie, che pure erano ancora quasi intatte, non gli permettevano un soggiorno relativamente lungo in un albergo più moderno, ma soprattutto perché, in una stanza al quarto piano, aveva trascorso anni prima alcune ore prima in compagnia di un amico da tempo defunto la cui amante abitava lì. Stranamente l’immagine dell’albergo di cui conservava memoria era quella di un piccolo, antico palazzo, e invano cercò ora le tracce di uno sfarzo svanito che allora aveva potuto suscitare o favorire una simile illusione.

Non c’erano né le artistiche decorazioni lungo la ringhiera in ferro delle scale, né sotto il soffitto dell’atrio si vedevano i rilievi barocchi che si era aspettato di trovarvi; e il tappeto delle scale, stretto e consunto, riluceva di un rosso porpora misero e scolorito.

Tuttavia la stanza che gli assegnarono, col soffitto alto e due grandi finestre, arredata in modo accogliente e con una bella vista sulla cupola della chiesa coperta da una patina verde, lo riconciliò con la prima misera impressione. Si fece portare su le valigie e, tanto per conferire alla stanza d’albergo una leggera parvenza di intimità, tirò subito fuori alcune cosucce personali, come la custodia per la carta da lettere, il tagliacarte, il posacenere e altri simili oggettini che soleva portare sempre con sé, anche quando era in viaggio. Poi andò nella stanza da bagno che, si vedeva chiaramente, doveva essere stata in passato uno sgabuzzino inutilizzato, trasformato per l’uso attuale solo dopo che erano state riconosciute, sia pure con riluttanza, le necessità dei tempi moderni. Una lampada giallognola fissata al soffitto diffondeva una luce fioca nella stanza senza finestre e lo specchio oblungo, appeso al muro in una semplice e vecchia cornice dorata, era attraversato da un’incrinatura in tutta la sua lunghezza. Com’era sua abitudine, Robert si trattenne abbastanza a lungo nel bagno, poi, il ruvido accappatoio bianco gettato sulle spalle, andò allo specchio e trovò che il viso sottile e senza barba era freschissimo e addirittura abbastanza giovanile per i suoi quarantatré anni. Stava già per allontanarsi contento, quando dal vetro appannato un occhio estraneo sembrò fissarlo in maniera enigmatica. Si accostò di più allo specchio e credette di notare che la palpebra sinistra pendeva più bassa della destra. Si spaventò un poco, fece un controllo con le dita, strizzò gli occhi, compresse energicamente le palpebre e le riaprì - ma la differenza rispetto alla parte destra rimase. Si vestì in fretta, andò al grande specchio a muro tra le due finestre, aprì le palpebre quanto più poté e dovette constatare che la palpebra sinistra non ubbidiva così in fretta al suo volere come la destra.

Eppure l’occhio era chiaro, la pupilla reagiva senza lentezza allo stimolo della luce; e poiché inoltre si ricordò di aver dormito per tutta la notte sul lato sinistro, una spiegazione sufficiente per la debolezza della palpebra sembrò comunque trovata. Ciò nonostante Robert si propose di consultare il giorno dopo il dottor Leinbach oppure Otto o, meglio ancora, di attendere, per vedere se il fratello si sarebbe accorto da sé della disparità fra le due palpebre. Ma nello stesso momento sentì quel proposito come attraversato da una paura indistinta, quasi avesse commesso una mancanza e dovesse aspettarsi un rimprovero, se non addirittura un castigo. Dapprima si rifiutò di capire quella sensazione; poi allungò le braccia come a difendersi da un nemico che si avvicinava, si allontanò dalla propria immagine riflessa allo specchio e andò alla finestra su cui battevano pesanti gocce di pioggia. Il suo sguardo cadde sulla statua marmorea di San Cristoforo che si trovava in una nicchia nel muro della chiesa di fronte, proprio come venti anni addietro. Soltanto allora si accorse di trovarsi nella stessa stanza in cui aveva alloggiato tanti anni prima l’amante del suo amico Höhnburg; i mobili però erano nuovi, e invece delle pesanti portiere di felpa rosso scuro, dal bastone di ottone dell’alcova scendeva in pieghe leggere una tenda chiara di cretonne a fiori intonata al colore dei nuovi parati. Non doveva forse considerare quella trasformazione in un colore più chiaro e simpatico come un presagio favorevole? Tentò di farlo, ma senza successo. Poiché nella mente di Robert riaffiorò con crudele chiarezza il ricordo di quella lontana sera di primavera durante la quale si era misteriosamente annunziato non solo il destino dell’amico, ma - come sentì con un brivido profondo - forse anche il suo stesso destino. E rivisse quella sera nel ricordo.

Dopo avere assistito alle corse di cavalli a Freudenau, egli era entrato con il fratello Otto, il sottotenente Höhnburg e alcuni altri conoscenti in un affollatissimo locale all’aperto del Prater.

Höhnburg era stato il più allegro e il più chiassoso di tutti, ancora più vivace e sfrenato del solito, e non aveva suscitato particolare sorpresa il fatto che avesse dato al cameriere una mancia troppo vistosa. Ma sulla via del ritorno Otto aveva preso in disparte il fratello e gli aveva confidato che il loro comune amico Höhnburg era in preda a una forma inguaribile di follia - cosa che gli altri non sospettavano ancora, ma che a lui, essendo medico, era nota con certezza da parecchio tempo - e che, al più tardi nel giro di tre anni, sarebbe stato sottoterra. Robert si rifiutò dapprima di credere che il giovane ufficiale di cavalleria, che sembrava stare così bene, anzi benissimo, ed era inoltre un suo amico, fosse segnato dalla malattia e votato alla morte. Quando però infine, di fronte alle cognizioni professionali del fratello, dovette arrendersi, il carattere, il comportamento e la figura stessa dell’amico cominciarono ad apparirgli in una luce sempre più sinistra; evitò di parlargli, ebbe addirittura paura che questi si rivolgesse di nuovo a lui e lo prendesse sottobraccio e si allontanò dalla comitiva senza salutare nessuno. Già pochi giorni dopo Höhnburg fu colto da un attacco di pazzia furiosa e dovette essere ricoverato in una clinica.

Al successivo incontro con Otto, senza averne avuto prima l’intenzione e come seguendo un impulso repentino e irresistibile, Robert si fece promettere dal fratello che qualora avesse visto manifestarsi in lui, l’indomani o in un lontano futuro, i sintomi di una malattia mentale, lo avrebbe fatto passare subito dalla vita alla morte in modo sbrigativo e indolore, il che per un medico era sempre possibile. Otto dapprima si burlò del fratello considerandolo un incorreggibile ipocondriaco, ma Robert non si diede per vinto e disse che l’amore fraterno mai e poi mai avrebbe potuto rifiutare un simile servigio, poiché, mentre in ogni altro caso il malato stesso era in grado di porre fine quando lo desiderasse alle proprie sofferenze, un disturbo mentale degradava l’uomo ad abulico schiavo del proprio destino. Otto troncò seccato la conversazione. In seguito però Robert ripeté con tale insistenza la sua richiesta, sostenendola efficacemente con la pacata esposizione di motivi in realtà inconfutabili, che Otto, solo per porre fine una buona volta a quelle insopportabili chiacchiere, si lasciò strappare la desiderata promessa. Ma neppure allora Robert si dichiarò soddisfatto; scrisse al fratello una lettera in stile asciutto e quasi commerciale, nella quale confermava di aver preso atto della promessa e gli consigliava inoltre di conservare con cura quel documento per poterlo eventualmente esibire un giorno come prova irrefutabile di un’azione necessaria a chi lo avesse accusato o non gli avesse prestato fede.

Inviata la lettera, Robert si sentì più tranquillo e da quel momento in poi i due fratelli, come per una reciproca intesa, non avevano mai più fatto parola di quel patto, neanche allusivamente.

Robert però si sentì come liberato da un incantesimo; gli sembrò che fra i vari pericoli che potevano incombere sulla sua esistenza, il più cupo di tutti fosse bandito una volta per sempre. Anche quando in primavera si era visto costretto a tralasciare ogni attività poiché gli era venuta meno la memoria, e si era ritirato dalla vita di società poiché anche le parole più indifferenti lo irritavano o addirittura lo facevano soffrire, e aveva dovuto persino smettere di suonare il piano, che tanto amava ma che spesso lo commuoveva fino alle lacrime, delle quali poi si vergognava - anche allora, non aveva affatto temuto l’insorgere della pazzia, e tanto meno un simile timore lo aveva tormentato durante tutto il viaggio; ma ora sapeva con certezza che la sera precedente, in treno, prima di addormentarsi, quella parola fatale da vuota e morta successione di lettere dell’alfabeto, per la prima volta aveva riassunto per lui un significato attuale. Gli sembrò così che il patto tra lui e il fratello avesse riacquistato valore e che quella lettera, che certamente Otto aveva serbato con cura, fosse divenuta una sorta di obbligazione muta e inesorabile contro la quale era impossibile opporsi nell’ora della minaccia incombente. Ma c’era poi davvero bisogno di un simile documento? Non era forse Otto l’uomo capace di eliminare una persona ormai spacciata anche senza l’impegno di un patto che lo assolvesse dalla responsabilità - semplicemente per amore del prossimo? Robert fra l’altro non dubitava che i medici nobili e intelligenti prendessero decisioni del genere molto più spesso di quanto fosse generalmente noto; anche senza avere in mano lettere giustificatorie come quella di cui Otto era in possesso.

Ma non accadeva anche che i medici si sbagliassero? Non possono forse impazzire loro e ritenere malato un uomo sano di mente? E in quel caso non sono l’uno in balìa dell’altro - il malato del sano e il sano del malato, senza speranza di salvezza? A questo punto però Robert si controllò con forza. Non voleva consentire oltre che morbose elucubrazioni lo spingessero indifeso sul terreno incerto di fluttuanti possibilità, dove la cosa più probabile e quella quasi inconcepibile convivono in sleale vicinanza. Gettò di nuovo un fugace sguardo nello specchio. In quel momento non poté più stabilire una differenza fra destra e sinistra. Gli occhi erano tutti e due stanchi e appannati, tuttavia fin dalla giovinezza il sinistro era leggermente miope e lui aveva preso l’abitudine di serrarlo di quando in quando. A ciò bisognava aggiungere che la notte non aveva quasi riposato. Nell’insieme non si poteva negare che avesse un aspetto affaticato e assonnato. Decise così di rimandare per il momento la progettata visita al fratello e di ripresentarsi a Otto dopo una notte tranquilla, ristorato, di buon umore e possibilmente - anche questo aveva la sua importanza - quando il tempo si fosse rasserenato del tutto.