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IL vento di aprile soffiò una corrente nuova. Negli Stati Uniti, un’emorragia cerebrale stroncò Franklin Delano Roosevelt e il suo vice, Harry Truman, divenne il trentatreesimo presidente americano.

«War is over!» gridarono per le strade i soldati alleati ebbri di gioia, spesso ubbriachi. In Italia la liberazione si propagò per tutte le città del Nord. Mussolini fu riconosciuto a bordo di una vettura tedesca e arrestato dai partigiani a Dongo, sul lago di Como. Tentava di fuggire in Svizzera insieme alla sua amante Claretta Petacci, scortato da un drappello di quindici gerarchi. Furono tutti fucilati a Giulino di Mezzegra, i loro corpi trasportati a Milano e appesi a testa in giù in piazzale Loreto. Pochi giorni dopo si diffuse la notizia del suicidio di Adolf Hitler ed Eva Braun e l’Armata Rossa conquistò il Reichstag, l’ultima fortezza del Terzo Reich.

Furono giorni di speranza, condivisa da militari e civili, un lungo sospiro di sollievo misto a smarrimento, paura dell’ignoto scenario futuro che si sarebbe stagliato davanti, in un Paese distrutto e affamato, ma anche indomito e agguerrito, desideroso di riscatto.

La voglia di rinascita fu suggellata in mia madre dall’intima consapevolezza di essere di nuovo in dolcissima attesa. Si convinse che sarebbe stata una femminuccia, anche il piccolo Nicola avrebbe avuto presto una sorellina con cui dividere affinità ed esperienze di crescita, così come i primi due figli erano diventati indissolubili, una coppia affiatata e ben assortita.

L’estate fu rovente di disagi e stenti: la luce elettrica veniva erogata a giorni alterni e l’acqua corrente nelle case scarseggiava perché l’acquedotto era stato danneggiato e spesso si doveva attingere dalle fontanelle pubbliche. Mancava anche il gas, perché i nazisti in ritirata avevano fatto saltare il gasometro. Non c’erano molti mezzi di trasporto pubblici, per lo più distrutti o requisiti dai tedeschi, e per le vie circolava solo qualche mezzo di fortuna, camionette private e fatiscenti nelle quali si viaggiava stipati in piedi.

Pochi privilegiati potevano disporre di una vettura propria.

La città era profondamente ferita: i bombardamenti avevano lasciato in ogni quartiere desolanti cumuli di macerie, edifici crollati o semidistrutti. Molta gente senza più un tetto se ne stava negli edifici scolastici, altri si erano accampati sotto gli archi degli acquedotti o in borghetti di baracche di lamiera. Migliaia di famiglie che avevano perso tutto confluirono dalle campagne – da Anzio, da Cassino e dai Castelli – per cercare di trovare un qualunque lavoretto e racimolare qualche spicciolo.

In attesa che la situazione si riassestasse, la mia famiglia si concesse una pausa di serenità e si trasferì per un po’ nella fresca residenza di Roccalvecce. Cercarono di allontanare dalla mente l’impronta indelebile degli orrori, ma anche a distanza li raggiunsero le tristi notizie degli strascichi di una guerra cui non era stata posta ancora la parola fine. Il Giappone aveva continuato a resistere, fino a essere cavia e vittima dei più devastanti bombardamenti di tutti i tempi.

Il 7 agosto la radio comunicò: «Ieri il pilota ventinovenne Paul W. Tibbets a bordo del quadrimotore B-29 Enola Gay ha sganciato la prima bomba atomica della storia sulla città giapponese di Hiroshima».

Nessuno inizialmente si rese ben conto della gravità del fatto, erano tutti inconsapevoli della reale entità dell’azione. Solo molto tempo dopo fu noto l’orrore che causò centomila morti al momento dello scoppio, raddoppiati nei giorni immediatamente successivi. Tre giorni dopo, infatti, un secondo micidiale ordigno uccise altre persone a Nagasaki.

In novembre ebbe inizio la resa dei conti: a Norimberga prese l’avvio il processo contro i criminali di guerra nazisti. L’eco in provincia giunse velata, ammorbidita da uno stile di vita rallentato, ancorato alle antiche tradizioni, imbevuto di rasserenante saggezza popolare che riusciva a riportare l’attenzione sulle piccole necessità.

Alla tenuta Salviati di Migliarino la vita fluì come su un binario parallelo. Fu festa grande per le nozze di mia cugina: la primogenita di zia Igiea sposò il principe siciliano Francesco Lanza di Scalea. Si trasferirono subito a Palermo, dove lui avrebbe esercitato la professione di ingegnere e intrapreso una brillante carriera politica, coinvolgendo spesso anche Arabella in svariate attività benefiche collaterali.

Da Roccalvecce i miei andarono alle nozze, in Toscana, in automobile. Alla fine della guerra mio padre si era concesso il lusso di una nuova comodissima vettura, una limousine Mercedes 230 W153 blu notte, che rendesse più confortevole il viaggio di una famiglia già cresciuta e ancora in felice espansione.

Sul sedile posteriore la bambinaia reggeva in braccio il piccolo Nicola assopito, sedeva al centro fra Ascanio e Clotilde per tenerli buoni e distanti. Ma i bambini, benché eccitati per la novità del viaggio, erano tranquilli e impegnati a guardare lo scorrere delle nuvole sui panorami cangianti oltre i finestrini.

«Facciamo un gioco», aveva pure proposto mia madre. «Giochiamo alle parole incatenate, cominciamo da un nome…»

«Arabella… come la zia!» aveva proposto Clotilde, non si capacitava che la sposa fosse solo sua cugina.

«Bravissima, ora Ascanio unisci una parola che termini con l’ultima sillaba…»

«La… la… lattuga…» rise il bambino.

«Ga… gallina!» intervenne anche Achille.

Continuarono per un bel tratto di strada, poi i bambini sbadigliarono e si assopirono appoggiati ai fianchi della loro tata.

Furono nozze da favola. Avvolta da una nuvola di tulle, la sposa apparve evanescente come un sogno. Per mia madre però l’evento fu particolarmente faticoso, aveva i piedi gonfi e la schiena troppo dolente per goderselo appieno. Con un sospiro di sollievo per ciò che le consentiva il suo voluminoso stato, il giorno dopo le nozze abbracciò Igiea, felice ma visibilmente provata. Ripartirono da Migliarino in automobile, subito dopo pranzo.

Mia mamma aveva smaniato tutta la notte, imputando i disturbi all’appesantimento della digestione: in effetti da qualche settimana non riusciva più ad alimentarsi regolarmente, la nuova vita si mostrava impaziente di uscire alla luce, si agitava scalciando verso lo stomaco e provocandole spesso delle fitte lancinanti.

Si fermarono più volte a riposare e sgranchirsi le gambe. L’ultimo tortuoso tratto di strada le procurò un forte senso di nausea. Dovettero fermarsi ancora davanti alla chiesetta di San Rocco per bloccare un nuovo conato. I bambini cominciarono a frignare, come contagiati dall’inquietudine che traspariva nei gesti e nelle parole dei genitori. Arrivarono al castello di Roccalvecce che era quasi notte.

La mattina successiva dormirono tutti fino a tardi, mia madre finalmente si rilassò. L’atmosfera del borgo riusciva sempre a dissolvere ogni velo di angoscia, manteneva a distanza i suoi pensieri negativi. La struttura labirintica e affascinante lo rendeva scrigno di una riposta poesia, quasi che in quel susseguirsi di vicoli, vicoletti, stradine abbracciate l’una con l’altra, vi fosse stato il preciso disegno di un’artista dell’urbanistica.

Sentì un peso insopportabile alla schiena e un gran bisogno di camminare, uscì quindi dal portone del castello, passeggiò a lungo per la piazza scaldandosi al timido sole autunnale. Alcune donne affaccendate al lavatoio si distolsero sorridendole. Tutti la conoscevano e le volevano bene, le più anziane si ricordavano di Achille bambinetto, lo avevano visto diventare un bel giovane e ammiravano la determinazione della nuova famiglia.

L’aiuto delle donne del borgo si rivelò provvidenziale il giorno successivo, quando all’improvviso mia madre fu colta dai dolori del parto con qualche giorno di anticipo.

All’alba del 2 novembre il vento sibilò freddo fra i rami degli alberi, ma nel chiuso del castello Costaguti il fuoco del camino ravvivò l’amore, rinsaldò la famiglia e rivelò il miracolo di una nuova vita. Nacque nella notte fra il giorno dei Santi e quello dei Defunti il terzo maschio: Ignazio.

Quel bambino così tenero e inerme sciolse l’ultimo grumo di rancore che sedimentava al fondo dell’anima, e così mia madre si riconciliò con quel padre così cambiato, cagionevole, irrimediabilmente fragile. Persa la grinta e la speranza di risollevarsi, la malattia aveva trasformato Granpapà in un vecchio svagato. Dovunque fosse ospite, trascorreva le giornate seduto davanti a una finestra a contemplare il cielo, la sua vita era altrove, un ripercorrere le innumerevoli avventure, arroccato in un vortice di memorie senza uscita. Le aveva fatto male vederlo alle nozze di Arabella così silenzioso e distratto, lontano da tutti. Aveva rimpianto il padre infedele, l’uomo orgoglioso, dinamico e sempre allegro. La luce in lui si era spenta. Aveva provato una tenerezza infinita, l’astio di figlia ribelle verso un padre amatissimo, dongiovanni spavaldo, si era trasformato in affettuosa pietà, in bisogno di proteggerlo. Fu un simbolico abbraccio, stringerselo forte e accoglierlo, quell’attribuire il suo nome al nuovo nato, perché almeno il nome sopravvivesse alle ingiurie del tempo, contro l’ineluttabile destino di tramonto.

Fecero ritorno da Roccalvecce a Roma al principio del 1946, carichi di buoni propositi. Il palazzo Costaguti era un’isola privilegiata al centro di una città allo sbando, le vie erano popolate da torme di bambini e ragazzetti che girovagavano in cerca di qualcosa da rubacchiare per mangiare, venivano dalle borgate degradate, spesso riuniti in vere e proprie bande, denutriti, sporchi, senza scarpe. Era una sofferenza profonda il non poterli aiutare tutti. Spinta dalla voglia di fare qualcosa, mia madre maturò il desiderio di dedicarsi all’impegno politico.

Naturalmente non trascurò mai la vita famigliare, né il contatto quotidiano con i suoi adorati figli. C’erano le istitutrici a provvedere alle esigenze materiali, tuttavia lei si premurò sempre che ci fosse un momento solo loro nell’arco della giornata. Nel pomeriggio si riunivano sul tappeto grande della sala e lei non esitava a tornare bambina e gattonare in mezzo a loro. Sistemavano Ignazio fra cumuli di cuscini, Nicola stava quieto in braccio e i due più grandi le sedevano ai lati. Dalla più riposta memoria affioravano in lei le immagini di altri soffitti multicolore. Gli arabeschi dei Quattro pizzi all’Arenella si sovrapponevano alle magnifiche raffigurazioni delle volte affrescate. Da tutte le sfumature traeva lo spunto per imbastire racconti mirabolanti, tessuti dalla fantasia su spunti lasciati lì da secoli, dono dei grandi pittori rinascimentali che avevano decorato ogni centimetro del nostro magnifico palazzo.

Così le favole improvvisate da mia madre per noi bambini non furono mai quelle della tradizione popolare. Ricostruirono gli antichi miti, ispirandosi agli affreschi di Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio nella Sala d’Ercole, all’estro di Badalocchio e Giacinto Brandi nel Corridoio delle Ore, alla maestria di Giovanni Francesco Romanelli nella Sala di Arione, ai dipinti di Pier Francesco Mola nella Sala di Bacco e Arianna, di Taddeo e Federico Zuccari nella Sala dei Mesi. Fu dolcissimo sognare a occhi aperti nel contemplare l’opera del Cavalier d’Arpino nella Sala di Venere ed Enea, o l’inconfondibile impronta sul soffitto della Sala di Apollo, del Carro del Sole e il Tempo che scopre la Verità del Domenichino, e infine gli amorini di Agostino Tassi, a contornare il superbo soffitto del Guercino nella Sala di Rinaldo e Armida utilizzata come camera da letto da mia madre.

Lentamente, così come avvenne al chiuso e nell’armonia della nostra casa, anche fuori tutto sarebbe dovuto tornare faticosamente alla normalità. Anche la famiglia reale sarebbe dovuta tornare nella sua sede al Quirinale. Invece al principio di maggio ci fu un passaggio frettoloso e senza cerimonie.

A Villa Maria Pia di Napoli, alla presenza di un notaio, il re mantenne la promessa formulata l’anno precedente e abdicò in favore del figlio che divenne re Umberto II. La sera stessa Vittorio Emanuele s’imbarcò con la regina Elena sul Duca degli Abruzzi, diretto al volontario esilio in Egitto. Gli parve l’unica possibilità di staccare le sorti di Casa Savoia da quelle del vituperato regime fascista.

Invece fu tutto inutile, nelle giornate del 2 e 3 giugno ebbe luogo il referendum: per la prima volta anche le donne furono chiamate al voto e la maggioranza del popolo si espresse in favore della soluzione repubblicana.

L’esito provocò sbigottimento e divisione, molti italiani si sentirono improvvisamente orfani. Seguì un’ondata di manifestazioni in difesa della monarchia cui rispose la minaccia di assalto al palazzo del Quirinale da parte dei repubblicani. Per scongiurare l’esplosione di un vero e proprio conflitto civile, il re e la regina «di maggio» preferirono lasciare l’Italia e rifugiarsi in Portogallo, ancor prima che fosse comunicata loro la ratifica ufficiale del risultato.

L’autunno fu costellato di molti lutti. A metà novembre giunse da Cortina la notizia della morte di Vera Arrivabene. Due settimane dopo si spense serenamente il mio nonno paterno, don Pietro Costaguti. Da quel giorno però la nonna, donna Maria, si rintanò in una scorza durissima, fatta di dolore inespugnabile.

Pochi giorni prima di Natale, in casa della figlia Sofia Borghese, morì la zia Giulia Lanza di Trabia assistita amorevolmente dai suoi cari e da Greny, per la quale fu un colpo durissimo, l’ennesimo tramonto. Nell’affannosa ricerca di vita fresca cui aggrapparsi, decise di lasciare Roma e si trasferì in Toscana, da Igiea. A Migliarino tutto era in giovane fermento, si respirava l’ottimismo e la gioia per le recenti nozze di mia cugina Domitilla con il principe di Cerveteri, «Lillio» Sforza Marescotto Ruspoli, un alto funzionario direttivo della Banca Romana e intimo amico del principe Junio Valerio Scipione Borghese con cui condivideva gli ideali politici di rispetto della patria, la tutela della proprietà privata e la custodia dell’identità nazionale. Temi significativi, che avrebbero composto il solido basamento di un nascente partito politico, il Movimento sociale italiano.