Capitolo quattro

Chase

Sei mia, tesoro. Sei mia, cazzo.

L’avevo capito da come era uscita dall’ascensore: quasi barcollava, come se le riuscisse difficile camminare perché il suo sesso pulsava troppo. Quando poi le avevo toccato il braccio e l’avevo sentita fremere, era stato difficile non gongolare.

Un attimo dopo aveva riattaccato con quell’atteggiamento inviperito, ma solo perché era arrabbiata perché la stavo avvicinando. Avevo finto di farmi da parte; avevo capito che Stephanie non era una che cedeva facilmente. Se fosse successo, avrei dovuto mantenere il sangue freddo, ma non appena avessi intravisto un’occasione l’avrei colta.

Non le avevo mentito quando le avevo detto che mi piaceva il baseball: era un gioco in cui anche un solo centimetro faceva la differenza e mi aveva sempre affascinato. Una folata di vento fa volare la palla da una parte, ed è out. La palla rotola leggermente in un’altra direzione ed è fuoricampo, due punti guadagnati. Nelle partite non c’era la forza bruta del football o la velocità dell’hockey o del basket; tutto era lento, dalla ricezione ferma ai lanci, ed era inframezzato da qualche momento di talento misto a fortuna. Chi cavolo non ne sarebbe rimasto affascinato?

Ma avrei potuto fingere un interesse anche per le corse dei cani, se avesse deciso di guardarle. Avevo sentito delle voci su Stephanie Bransky e su quello in cui era coinvolta: quei giri di scommesse tra uomini burberi in stanze piene di fumo come nei film di Martin Scorsese. A un primo sguardo, sembrava improbabile che quella ragazza bionda e minuta fosse in grado di nuotare in acque così torbide, ma dopo averla osservata per un po’ avevo visto quant’era tosta. Era sveglia, impetuosa ed era la ragazza più sexy che avessi mai visto. Tutti i vestiti strappati e le magliette larghissime del mondo non potevano nasconderlo. Il fatto che non mi permettesse neanche di respirarle troppo vicino mi faceva eccitare ancora di più, tanto da smanettarmi quattro volte al giorno al pensiero di dominarla.

Truly si era rifiutata di parlarmi della sua coinquilina, e rispettavo la decisione. Aveva sventolato la mano con impazienza quando avevo tirato fuori la questione delle scommesse, e aveva tenuto la bocca ben cucita su qualsiasi cosa sapesse dei trascorsi di Stephanie con gli uomini. Mi stava bene, avrei scoperto tutto da solo.

«Torno subito», farfugliò Stephanie raccogliendo uno zaino logoro.

Quando sparì nel bagno, sapevo che stava lottando contro sé stessa. Sorrisi quando sentii scorrere l’acqua dietro la porta, e mi sbottonai la camicia. Me la immaginai davanti allo specchio, nervosa, alle prese con un accanito conflitto interiore su quanto fosse necessario mandarmi via da lì. Sì, si stava dicendo che era esattamente quello che doveva fare, ma in fondo mi desiderava e non riusciva a sbattermi fuori.

Era agitata quando emerse dal bagno e mi vide seduto in penombra a torso nudo.

«È iniziato il nono», la informai.

«Che cavolo pensi di fare, ora?», chiese, con le mani sui fianchi.

Ma non mi intimò di andarmene: aveva già deciso cosa voleva, solo che non l’aveva ancora ammesso. Ormai la serata era decisa, non mi ci sarebbe voluto molto per dimostrarlo.

«Ho vinto», le dissi qualche minuto dopo, quando avevo girato una carta in un gioco all’apparenza innocente.

«Direi di sì», rispose, nervosa e insicura.

Non avevo intenzione di fermarmi a un bacio. Lo sapeva. Ma stetti al gioco finché non si eccitò davvero, inarcando il corpo contro il mio in modo che potessi sentire la dolce promessa della sua intimità contro di me. A quanto pareva, aveva problemi a spogliarsi del tutto, ma al momento mi stava bene. Steph mi fece togliere le mani dalle sue tette e scosse la testa, quindi trovai altro da fare. Gradì quando la spostai sopra di me e le infilai le mani nei pantaloncini, e gradì ancora di più quando le abbassai gli slip. Porca miseria, quasi mi uccise quando iniziammo a strusciarci. Non lo facevo – non ne avevo bisogno – da una sacco di tempo. Ero impaziente come un adolescente sul sedile posteriore di una macchina.

Ho una voglia pazzesca, tesoro!

Ma stava per venire: il ritmo del suo respiro era cambiato, le stavano sfuggendo dei piccoli ansiti e sentivo la tensione del suo corpo mentre cercava di raggiungere il piacere. Non mi sarei fermato per niente al mondo. Le afferrai i fianchi e la spinsi più forte contro di me. Quando fui sicuro che era al limite, feci scivolare facilmente due dita dentro di lei. Piegò indietro la testa e si lasciò sfuggire qualche imprecazione. Aveva gli occhi chiusi, i ricci biondi le ricaddero sul viso arrossato e, anche con addosso quella stupida maglietta, era sensualità pura. Era la mia più grande vittoria erotica.

Ma glielo feci comunque dire: la costrinsi a guardarmi negli occhi per farle ammettere che voleva di più, e lo fece di sua spontanea volontà.

«Ti prego», ansimò, e sapevo che avrei rievocato quel suono nella mia testa fino alla nausea, il suono della bellissima e ostinata Stephanie Bransky che mi pregava di scoparla.

«Brava ragazza», le dissi, e mi infilai un preservativo.

Morivo dalla voglia di toglierle la maglietta e toccarle le tette, ma continuava a tirala giù e non volevo raffreddare l’atmosfera. Avrei risolto la questione più tardi.

Quando le afferrai i fianchi snelli, presi a stimolarla con i pollici finché non iniziò ad ansimare, dopodiché feci ciò che avevo desiderato fare fin dal primo giorno di lezione ad agosto, ancora prima che sapessi come si chiamava, prima che mi rendessi conto che era molto più di una bella ragazza seduta tre file davanti a me in aula.

«Porca puttana!», gridai mentre affondavo dentro di lei. Non mi ricordavo di aver mai provato tanto piacere alla prima spinta, ma non ricordavo nemmeno di essermi trattenuto così a lungo per una ragazza che mi interessava. Il sesso con diverse ragazze non era mai uguale, ma erano tutte abbastanza simili e non mi ero mai preoccupato di distinguerle nella mia mente. Però con Stephanie era diverso, forse perché l’avevo desiderata e avevo pensato a lei per un bel po’ di tempo. Non ci ero abituato.

Mi sforzai di rallentare, cercando di assaporare ogni momento. Stephanie mi strinse ancora e allargò di più le gambe, incapace di trattenere un urlo.

«Chase!», gridò, poi fremette per il nuovo orgasmo.

«Cazzo», esclamai, e non riuscii a trattenermi ancora. Venni così forte da stordirmi.

Quando uscii da lei, eravamo entrambi sudati e con il fiato corto. Girò la testa di lato e i capelli le caddero sul viso. Controllai lo stato del preservativo: avevo paura che non avesse retto, ma era integro. Me ne liberai e le sfiorai la guancia liscia con le nocche.

«Cavolo», dissi piano, ma lei finse di non sentirmi. Si coprì e restò girata. Mi appoggiai su un gomito e ritentai.

«Stephanie».

«Il tuo telefono continua a squillare», disse in tono piatto, e io aggrottai le sopracciglia. Era da dieci minuti che quel maledetto affare rischiava di esplodere per tutte le chiamate, ma era l’ultima delle mie priorità. Con un sospiro, presi i pantaloni dal pavimento e tirai fuori il cellulare. Era Creed.

«Che c’è?», ringhiai.

Quel gorilla scontroso ringhiò di rimando. «Che vuol dire “che c’è”, faccia di merda? Sei sparito un’ora fa».

«Non ce la fai a vivere senza di me per un po’?»

«Il ricevimento sta finendo e Cord ti stava cercando. Quindi piantala di girare nel cavolo di casinò e porta qui il culo».

«Sorvolando sul fatto che sei fin troppo attaccato al mio culo, Creedence, sarò sotto tra qualche minuto».

Il suo tono si fece sospettoso. «Sei nel casinò, vero?».

Lanciai un’occhiata a Steph. Era seduta, con la parte inferiore del corpo coperta e le braccia strette intorno alle ginocchia. Continuava a non guardarmi.

«Sì, sono alle slot machine. Ora dammi tregua e di’ a Cord che scendo subito per baciare la sposa».

Riattaccai e iniziai a infilarmi i pantaloni. In sottofondo, sentii che la partita di baseball era finita: i Dodgers avrebbero giocato la World Series.

Allungai la mano verso Stephanie. «Scendiamo. Magari ci hanno lasciato un po’ di torta».

«No», rispose con una smorfia, un’espressione preoccupata sul bel viso. «Non ho intenzione di rimettermi in tiro».

«Mica ho detto che devi. Mi piace quello che hai addosso ora».

Mi guardò storto e si strinse di più nella coperta. «Sono nuda dalla vita in giù».

Risi. «Appunto. Dico sul serio, infilati i pantaloncini e vieni con me». Mi sedetti ai suoi piedi e allungai una mano. «Divertiamoci un po’, Steph. Dai, siamo a Las Vegas. Facciamo quello che vuoi».

Diventò rossa e fece un respiro profondo. Non sapevo che cavolo le fosse preso, a parte il fatto che era ovvio che di solito non la dava in giro. Mi guardò con superiorità. «Voglio solo dormire un po’».

Diceva davvero. Stephanie era tornata in modalità “Chase fa schifo” e in quel momento non avevo tempo per elemosinare le sue attenzioni.

«Va bene», dissi con una scrollata di spalle e ritirando la mano.

Lei tirò su col naso. «E, giusto per evitare malintesi, stasera non aprirò la porta».

La mia risposta fu tagliente: «Che cavolo ti fa credere che busserò?».

Fu la cosa sbagliata da dire. Sussultò e strinse di più le ginocchia. Avrei dovuto saperlo: faceva la stronza ma era tutta apparenza.

«Steph», iniziai a dire, ma mi lanciò un cuscino in faccia.

«Sparisci, Chase», intimò, ma non mi mossi. «Cos’è, ti sei perso?».

Cercai di scherzare. «Difficile, tesoro, dal momento che ho un senso dell’orientamento impeccabile. Non credo mi abbia abbandonato di colpo».

«FUORI DAI COGLIONI!», gridò.

«Cristo». Mi alzai. Le pareti erano sottili, e l’ultima cosa di cui avevo bisogno era che qualche ficcanaso chiamasse la sicurezza. Raccolsi la camicia da terra e mi diressi alla porta. «Se dovessi decidere di rilassarti un po’ e comportarti in modo umano, fammi uno squillo». Mi girai e posai la mano sulla maniglia. Non volevo andarmene davvero, e se avesse dato anche il minimo segno di volermi lì sarei rimasto, non importava chi fosse arrabbiato con chi. Ma Stephanie Bransky si era raffreddata. Per qualche motivo, aveva deciso di chiudersi di nuovo a riccio e non provare niente. Sembrava impossibile che neanche una decina di minuti prima fossimo avvinghiati in preda alla passione.

«Buonanotte, Stephanie».

«Ciao, Chase».

Mentre camminavo nel corridoio, mi sentivo seccato. Negli anni, erano state poche le volte in cui una ragazza aveva catturato la mia attenzione per più di qualche settimana, e anche in quei casi non era stato nulla di memorabile. La cosa strana era che a volte mi attirava l’idea di costruire qualcosa che durasse con una persona che non vedevo l’ora di incontrare ogni giorno. Non mi ero sorpreso quando Cord era caduto ai piedi di Saylor, ma ero rimasto a bocca aperta guardando Creedence innamorarsi: pensavo sarebbe stato molto più probabile beccarlo a baciare alla francese un serpente a sonagli che sentirgli dire “Ti amo” a una donna.

Mentre aspettavo l’ascensore, mi imbattei nelle stesse ragazze che prima barcollavano nel corridoio. La bionda era truccata in modo pensante, aveva il rossetto sbavato sui denti e lo sguardo annebbiato.

«Come ti chiami, bonazzo?», soffiò sensuale avvicinandomisi. Odorava di latte e non volevo sapere perché.

«Risparmia il fiato», risposi prima di allontanarmi dall’ascensore per prendere le scale, «sembri una costosa e sono a corto di soldi».

Prima di chiudere la porta del pianerottolo, vidi la sua espressione stupita trasformarsi in arrabbiata quando si rese conto che le avevo dato della puttana. Certo, sapevo che non lo era e non era comunque una cosa carina da dire, ma non ero esattamente di buon umore.

Correre per nove rampe di scale fu una buona idea, mi aiutò ad attenuare la frustrazione per essermi fatto buttare fuori malamente dall’unica ragazza con cui avrei voluto davvero passare la notte.

Mentre attraversavo il corridoio per tornare nella saletta del ricevimento, mi rimisi la camicia nei pantaloni e mi sistemai i capelli: meglio non avere l’aspetto di uno che si era appena dato da fare.

Cordero però lo capì all’istante. Mi vide entrare e si scusò con Saylor e il padre, con cui stava parlando.

«Ma che cavolo!», sibilò, e capii che era nervoso per davvero. All’improvviso mi resi conto che forse non sarei dovuto sparire dal matrimonio di mio fratello per copulare, anche se non ero stato con una che avevo rimorchiato al bar. Cord sapeva che Stephanie mi piaceva da un po’, ma era stata comunque una cosa pessima da fare, quindi accettai la ramanzina.

«Scusa».

Cord incrociò le braccia e di colpo sembrò più grande di me di dieci anni: aveva un lavoro stabile, una moglie, un figlio in arrivo. Due, in realtà. Io lavoravo occasionalmente, frequentavo con poco entusiasmo qualche corso all’università e avevo appena finito la riabilitazione.

«Mi dispiace davvero», gli dissi, e lui si calmò. Poi mi fece un sorriso sbilenco.

«Stephanie?»

«Sì», ammisi, guardandomi intorno alla ricerca di Creed. «Senti, non dirlo a King Kong, va bene? Sembra avere qualche problema al pensiero che mi scopi la coinquilina della sua ragazza».

«Macché», risposte Cord, guardando Creedence e Truly condividere un momento intimo in un angolo. «È solo preoccupato per te».

Mi irritai. Da quando erano diventati una squadra nell’impresa di salvarmi da me stesso? Era una stronzata, esattamente come il fatto che mi avevano sempre chiamato “fratellino” solo perché ero stato l’ultimo a uscire dall’utero. Quel divario sembrava essere aumentato nell’ultimo periodo perché loro erano saltati nell’età adulta e io ancora annaspavo.

«Dovete piantarla di starmi addosso». Lo spinsi. «Forza, porta di sopra la tua sposa e datti da fare. Lo sai, vero, che quando i bambini nasceranno, sarai fortunato se ti farà una sega veloce una volta al mese?»

«Cazzate», ridacchiò. «Ti assicuro che quello non sarà mai un problema, tra me e Saylor».

Risi. «Quanta spocchia». Poi tornai serio. «Però dico sul serio: la storia di Stephanie deve restare tra noi due, va bene? Non è il tipo a cui piace far sapere i fatti suoi».

Capii che Cord stava pensando di punzecchiarmi, ma alla fine si limitò a farmi un enorme sorriso e ad avvolgermi il collo. «Abbracciami, fratellino».

Lo abbracciai forte e sentii gli occhi inumidirsi. Creedence e Cordero erano stati tutto per me fin da quando eravamo nati. Eravamo risaliti dall’inferno insieme, con le unghie e con i denti, ed eravamo riusciti a crescere solo grazie all’amore fraterno.

All’improvviso mi sentii come in una morsa. Creed si era avvicinato e ci aveva intrappolati entrambi nella sua stretta fortissima.

«Non lo rompere», lo avvisai, spingendolo via, «altrimenti Saylor ti stacca la testa».

Creedence sorrise, poi guardò verso Truly, che stava abbracciando Saylor. Sul suo viso comparve un’espressione di meraviglia. «Cavolo, quanti cambiamenti. Non riesco quasi a starci dietro».

«Non è cambiato niente», ribatté Cord, poi guardò sua moglie. «Eppure è cambiato tutto».

Gli diedi una pacca sulla schiena. «Vai, signor Gentry. Adempi ai tuoi doveri coniugali».

«Con piacere», sorrise, senza staccare gli occhi da Saylor. Lei si girò e gli regalò un sorriso smagliante. La avvolse tra le braccia e Truly si avvicinò a Creed, stringendogli il braccio. Poi mi notò.

«Be’, direi che la festa è finita. Che facciamo, ora?».

Controllai l’orologio: non erano nemmeno le nove. «Potremmo andare a vedere qualche spettacolo al casinò».

Creed, spiccio come sempre, obiettò. «’Fanculo. Io sono pronto a darci dentro».

Truly finse di essere infastidita, ma dal rossore sul suo viso si capiva che volevano davvero starsene da soli. Sapevo che avrei trovato compagnia se avessi voluto, ma pensavo a una ragazza in particolare e avrei voluto che fosse lì con me.

Saylor e Cord se ne stavano andando abbracciati. Fissai Saylor, ricordandola quando eravamo ragazzini, e desiderai disperatamente che non l’avessimo mai ferita, tanti anni prima. Ma forse era ciò che doveva succedere perché ci ritrovassimo tutti lì, perché le nostre storie terribili si risolvessero e perché la nuova famiglia Gentry ci passasse davanti con un sorriso mentre iniziava la vita insieme.

Truly e Creed erano pronti per andare nella loro stanza. Non si girarono nemmeno, tutti eccitati e senza staccarsi gli occhi di dosso. Deck era già sparito con la sua “dolcezza”. Millie e Brayden mi avevano invitato a stare con loro, ma il modo in cui stavano vicini, come la coppietta di innamorati che erano, mi fece cadere in depressione. Addirittura il padre di Saylor sembrava felice mentre se ne andava per mano con la fidanzata.

Restai nella sala vuota per qualche minuto e guardai gli addetti alle pulizie togliere tovaglie e impilare piatti. Non sembrarono neanche notare la mia presenza.

Sparisci, Chase.

Perché cavolo ci stavo rimuginando e perché cavolo faceva così male? Dopotutto, non conoscevo Stephanie molto bene. Certo, le sbavavo dietro e la sua personalità era un mistero che mi intrigava parecchio, ma non era l’unica bella ragazza scontrosa al mondo. Non mi sarebbe dovuto importare di lei, soprattutto visto che avevo ottenuto quello che volevo. Però non mi sarebbe dispiaciuto rifarlo.

Ma poi mi tornò in mente quando, un terribile pomeriggio di settembre, ero seduto su una panchina dell’università. Non avevo la forza di andare a lezione, stavo male come non mai. Era il giorno dell’incontro di Creed, il giorno in cui c’era la concreta possibilità di perdere uno dei miei fratelli. Se fosse successo, non sapevo come avrei fatto ad andare avanti.

Stephanie era la coinquilina di Truly e, grazie al suo giro di scommesse, era informata su cose come le lotte tra gladiatori nei bassifondi, quindi sapeva a cosa stava andando incontro Creedence. Anche se non avevamo mai avuto una conversazione che fosse finita bene, quel giorno si era seduta accanto a me. Eravamo rimasti lì insieme per un po’ a guardare i nostri colleghi indaffarati e ad ascoltare l’una il respiro dell’altro. Sapeva che stavo soffrendo e cercava un modo per farmi stare meglio. Sapeva anche quanto fossero stupide e inutili le parole in un giorno del genere. Alla fine mi ero alzato e le avevo detto: «Grazie, Stephanie», prima di tornare a casa e affrontare l’orrore della serata incombente.

Mi ero chiesto se avesse capito che il mio ringraziamento non era sarcastico. Ero stato felice di averla accanto a me per quel breve lasso di tempo, e da quel giorno avevo cercato di starle di nuovo vicino.

La mia stanza era davvero al nono piano, proprio come le avevo detto prima. Era però alla fine del corridoio dalla parte opposta alla sua. Non avevo nessun motivo di passare davanti alla sua porta. Nessun motivo a parte per un piccolo barlume di speranza.

Rimasi lì in piedi per un po’. Avevo anche sollevato il pugno un paio di volte, deciso a bussare, ma poi mi ero tirato indietro. Non avevo mai avuto problemi a relazionarmi con le ragazze: piacevo, le facevo ridere, e di solito da me volevano più di quanto io volessi da loro. Passai la mano sulla superficie della porta di Stephanie in una lunga carezza piena di rammarico. Non sentii niente dall’altra parte. Me ne andai.