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Dopo il secondo capitombolo – meno catastrofico del primo, ma comunque abbastanza rovinoso perché alle vecchie ferite si aggiungessero nuove ammaccature e fiammeggianti abrasioni – sulla finestra della mia camera fu sistemato un robusto lucchetto, e davanti alla porta si alternò un servizio d’ordine che limitava la mia libertà a una misera ora d’aria.
Il mondo avrei voluto frantumare! Ma poi capivo che quei sessanta minuti li dovevo invece utilizzare per tenerlo insieme. Per incollarne i pezzi. Per fare in modo che rimanesse il mondo che avevo sempre conosciuto.
Del resto, per quanto fossi nato guerriero, armigero, combattente che offre il meglio quando infuria la battaglia, non potevo ignorare che ogni conflitto esige momenti di requie. Durante i quali, più che la spada, bisogna sfoderare una sagace, intensa, talvolta anche frenetica azione diplomatica.
Dieci minuti sulla spiaggia a motivare le truppe. Dieci minuti al bar. Dieci minuti alla frontiera del territorio ostile, per far intendere ai nemici che il Maligno è sempre vivo. E nella mezz’ora che avanzava? Be’, non è facile descrivere cosa succedeva. Giacché quella mezz’ora restava sempre avvolta non soltanto nella penombra di un ovile al confine estremo del paese, ma anche nei sentimenti, ogni giorno meno chiari, che provavo quando Mela mi si sdraiava accanto sopra il fieno e, con un tono concitato che rivelava quant’era breve il tempo che avevamo, ma soprattutto quanto adesso le sembrasse lungo – e forse vuoto, lento, sfilacciato – quello che non condividevamo, mi descriveva le sue insulse giornate tra i cafoni.
(«Ci rivediamo, Malì?», mi aveva chiesto. «Tipo fra tre giorni alla masseria del fico?», e dopo, sfilandosi dall’abbraccio con cui mi aveva sostenuto dalla giostra fino a casa, aveva sospinto il capo dei signori nel suo mondo, oltre il cancello sormontato dal glicine, con un colpo repentino sullo sterno che sembrava una mossa segreta di kung fu – roba da niente, sul momento, e poi ci resti secco.
Infatti, più tormentoso tra tutti i lividi, appena m’accasciai tra le lenzuola il tocco delle sue dita cominciò a bruciarmi in mezzo al petto, e non smise finché non la rividi.)
Quanto a me, sia chiaro, nei pomeriggi che trascorrevamo nascosti nella paglia Mela non la sfioravo neanche con un dito – sebbene la sua voce, i suoi silenzi, la sua risata crepitante, io me le sentissi addosso come mani che non stavano mai ferme. Che un po’ mi accarezzavano, un po’ facevano il solletico, e un po’ sferravano certi manrovesci da rimanere di stucco.
«Certo, Malì, che sei proprio una lagna! Ma non ti piace niente, a parte combattere?», mi sfotteva con un sorriso impertinente.
E io, che al di fuori di quel recinto di pecore avrei rivendicato la nobile missione della pugna e la funzione inestinguibile dell’odio perfino davanti a Paolo VI, al Mahatma Gandhi o all’inviato di pace in Medio Oriente Henry Kissinger in persona, tossivo come un motore a tre cilindri e quasi rinnegavo la mia fede.
«Ma no! Che c’entra? Mi piacciono un sacco di altre cose...»
Mela raddrizzò la schiena e non mi concesse il tempo di pensare. «Tipo?», incalzò.
«Boh! Dai! Che ne so? Tipo i Delirium, La freccia nera, Ultime grida dalla Savana...»
«Ultime grida dalla Savana?», ridacchiò. «Ma è una scemenza, Malì! Roba per bambini di tre anni».
Dopodiché, sentenziando lapidaria che io di cinema – era evidente – non ci capivo un fico secco, si abbandonò un’altra volta sul foraggio e mi adocchiò insistentemente. Come a dire sono qua. Io non mi muovo. Vediamo tu, adesso, che sai fare.
Ora – a parte che i miei genitori avevano dovuto tribolare per convincere quel rompiscatole di Oscar a ritirare la denuncia – io ormai, alla parola cinema, associavo d’istinto un complesso stato ecchimotico, la rottura dei rapporti con Sabrina e, dulcis in fundo, la distruzione del mio adorato Caballero.
Inevitabile, quindi, che l’argomento mi rendesse un po’ nervoso.
«Ha parlato Lello Bersani!»
Mela, ovviamente, Lello Bersani non sapeva nemmeno chi fosse. Ma non per questo si scoraggiò. Mi batté una pacca sulla spalla e mi promise, sempre con ’sto tono da furbastra, che una volta, al cinemino, ci saremmo andati insieme. Così, finalmente, avrei visto un film come si deve.
«Ti piace il cinemino, vero Malì?», sibilò candida. Al contrario io ero nero, e non risposi. Mela mi allungò un pizzicotto sul fianco.
«Ué Mé!», sobbalzai. E sospirando così profondamente che tutte le pecore drizzarono le orecchie, gliela diedi vinta.
«Uffa, sì. Come no? Mi piace. Abbastanza».
«Che bello. Ci piacciono le stesse cose, Malì».
«Eh, sì. Come no».
Con quel contegno astruso, quell’aria sibillina, quel frenetico sdraiarsi, sedersi, balzare in piedi, poi distendersi di nuovo – era impossibile afferrare quando Mela scherzasse.
Per Mela, invece, sembrava molto facile capire quando io – per improvvisa introversione, per antica misoginia, o per il visualizzare, con un brusco soprassalto, quanto da giorni ormai avveniva nel segreto dell’ovile (Matò!, Francisco Marinho, il signore dei signori, immerso in un gregge assieme a una cafona!) – diventavo serio, laconico, speculativo; e allora sospendeva ogni discorso, si grattava un po’ dietro le orecchie e, come una cagna ai piedi del padrone, si acciambellava docile al mio fianco.
Dentro che cosa m’ero andato a cacciare, non lo capivo. Ma di sicuro, in quei momenti, sentivo di essere fuori dal tempo. Fuori dal mondo che avevo sempre conosciuto.
«Mo’ devo andare, Mé. Se non torno puntuale mio padre mi lega alla catena».
Mela non si mosse. Il bianco dei suoi occhi, ora, aveva il candore e la densità del latte. Forse per questo un vitellino protese il muso ed emise un malinconico belato.
«Che fai, rimani qua?», chiesi spazzolando i miei jeans Jesus. E poi – per coprire quel silenzio che suonava un po’ impudico, tanto era spoglio, e nudo, e senza veli – le chiesi se pure suo padre, ogni tanto, minacciava di tenerla chiusa in casa.
Mela non disse niente, e – cosa ancora più strana – restò rannicchiata sulla paglia. Proprio come un animale domestico, s’acquietava quando io mi fermavo. Ma se mi alzavo, se le parlavo, se mi muovevo da un punto all’altro della stalla, lei era sempre pronta a riprendere vigore. A venirmi dietro. A scodinzolare.
Forse, però, Mela non era un animale così domestico. Forse, ancorché di fantesca stirpe, di certo generata tra un lavatoio e una pignatta in coccio, di domestico non amava neanche troppo l’umile lavoro, ché quando le chiedevo – così, per chiacchierare – come se la cavasse sui fornelli, o con l’ago e il filo, Mela storceva il naso e rispondeva che la vita di una donna non si può ridurre a far la serva a un uomo.
«Ah, femminista sei?! E tuo padre cosa dice?»
«Mio padre?», mormorò infine Mela. E dopo, di nuovo, s’inceppò.
Cosa c’era tanto da rimuginare? Sono i padri che devono pensare ai figli – mica viceversa. E se in quell’estate così stramba, piena di complicazioni, mettevamo in discussione perfino le leggi naturali, che sarebbe rimasto delle nostre antiche certezze?
«Mé, allora?»
Avevo fretta, adesso. Puntuale o no, me ne volevo andare.
«Mio padre... sta in città».
«Ah, tanto ci voleva?!... E com’è – lavora, vive là?»
Questa volta la risposta non si fece attendere. Ma, per farla uscire, Mela dovette scuotere la testa con vigore, come se le fosse rimasta impigliata in mezzo ai denti.
«No, non vive là. Piuttosto, là ci muore».
All’inizio mi sembrava che ridesse. Dopodiché, per nascondere le lacrime, strinse al petto le ginocchia e vi incassò la fronte, come aveva fatto la mattina in cui le avevo scagliato addosso le meduse.
Matò, fossi scappato allora! Ma scappato veramente – dai pensieri, dai rimorsi, da questa trappola che sono i sentimenti quando si frappongono al nostro cammino.
Vedi Mé, tutti abbiamo una missione nella vita. Io ho un esercito da governare. Nemici da annientare. Mica posso soffermarmi a curare ogni ferita che infliggo. Mica mi aspetto che il nemico s’impietosisca per le mie.
La guerra è guerra, Mé!
Temporeggio qualche istante sulla soglia. In bilico tra l’umidità della stalla e l’arsura di agosto. Tra la puzza di letame e il profumo del biancospino. Tra il sommesso singhiozzo di Mela e l’assordante frinire delle cicale.
Alla fine mi decido.
«Scusa, Mela, ma io devo proprio andare».
E uscendo dall’ovile la luce mi colpisce in mezzo agli occhi, come un devastante diretto di Monzón.
Così, stordito, barcollo sul sentiero, attraverso la campagna e m’immetto nuovamente nel flusso vacanziero.
È domenica. E sebbene – in quel mondo imperscrutabile che è il mondo oltre Torrematta – i telegiornali discettino di crisi petrolifera e fine settimana all’insegna dell’austerity, chiunque possieda una macchina tra Otranto e Gallipoli oggi la prende, introduce nel serbatoio cinquemila lire di benzina super e si viene strombazzando a incolonnare, tra le altre Simca 1000, le Seicento e gli immancabili Ape Piaggio, lungo la strada che costeggia il mare.
Sarebbe una festa. Se non fosse che io – sudando copiosamente sotto il sole – la prendo come un’invasione.
Chi è questa gente? E perché, invece di mescolarsi al centro della carreggiata, come una mandria impazzita, non si schiera da una parte o dall’altra e prende posizione, così che io possa capire se devo trattarli come torma ostile, o come una legione di possibili alleati?
Tra i signori e i cafoni, l’ho già detto, io non contemplavo niente. Ma questo niente s’ingrossava a vista d’occhio.
Nel fine settimana, alla stregua di capricciosi aristocratici, entravano nelle pasticcerie e divoravano vassoi interi di bignè alla crema chantilly. O te li ritrovavi, al supermercato, con un carrello della spesa più straripante del vulcano Mauna Loa. Dal lunedì al venerdì, invece, ciondolavano pezzenti alla fermata aspettando la corriera, con le scarpe sfondate e l’aria estenuata di chi si è alzato alle cinque meno un quarto.
Decidetevi infine!, li apostrofavo con livore. Volete vivere come specie evoluta o da selvaggi? Ma loro niente. Nemmeno sembravano porselo, questo dilemma esistenziale. E continuavano ad andare avanti così, consumando ignavi, senza divisa, le merci e la vita – incivili civili in tempo di guerra.
Quella domenica, alla vigilia di ferragosto, pullulavano ovunque – sulla spiaggia, tra le giostre, intorno alle bancarelle – con il rischio che, aprendosi uno spiraglio nella folla, all’improvviso t’imbattessi faccia a faccia col nemico, e fossi costretto a un immediato e periglioso corpo a corpo. Non contro Scaleno, però, mi ritrovai a cozzare, né sulle membra adipose di Culacchio, o sul fetido alitare di Sorsodimieru. Era l’inconfondibile, dinoccolato incidere di Mifune e di Girovitale quello che mi sbarrava il passo.
«Miei prodi!», esclamai. «Dove marciate? E cosa fate, in questa bolgia?»
Anziché guardare me – il comandante – i due miliziani si guardarono tra loro.
Il primo, a dispetto del soprannome nipponico, di giallo aveva solo una zazzera biondastra e il mistero che ne avvolgeva il taglio; mentre il posto più orientale fino al quale si era spinto corrispondeva alla periferia est di Brindisi. L’appellativo gli era stato affibbiato dopo che, al cinemino, Oscar aveva proiettato un film in cui Toshiro Mifune rimane da solo in un’isola deserta, e – ignorando che la guerra è finita da un pezzo – continua ad attendere un nemico che non arriverà.
Toshiro (il nostro Toshiro) era sempre l’ultimo ad abbandonare Torrematta (cominciava la scuola e lui era ancora là): ecco quindi che nel giro di una sera, dall’anonimo Carmine Calò che era sempre stato, diventò per tutti l’irriducibile Mifune.
(«Sì», avevo precisato, «con la differenza che, la nostra guerra, davvero non finisce mai».)
L’altro, invece, era quello che oggi si definirebbe un salutista. E che noi, allora, chiamavamo semplicemente scassaminchia. Era fissato con le tisane, Girovitale, e stava attento peggio di Twiggy a quello che mangiava. Quando poi cominciò a prendere una prodigiosa medicina che, a suo dire, gli avrebbe allungato smisuratamente la vita, nel breve spazio di una mattina trascorsa sulla spiaggia a irriderlo ferocemente, il lungimirante Vito Girone si trasformò dapprima – sic et simpliciter – in Gerovital, e poi, per adattamento fonetico, in Girovitale.
Il grande vecchio. L’eterno. L’immortale.
«Sì, bravi, prendete per il culo», s’indispettiva Vito. «Vi voglio proprio vedere tra cinquant’anni!»
Nonostante tutto, però, Toshiro e Girovitale erano due bravi soldati.
Per questo – prima ancora che contrariato – rimasi alquanto sorpreso nel vederli andare in giro a braccetto come una coppia di fidanzati in pieno struscio, anziché impegnati ad assolvere il compito che in quelle mattine gli avevo assegnato. Un compito, oltretutto, decisamente adatto alla loro indole flemmatica, ché tutto consisteva nel presidiare il bar del villaggio e avvistare eventuali improvvidi cafoni che, dal lungomare, si arrischiassero verso il nostro territorio.
«Matò, Marì, quanti cristiani!», tentò di giustificarsi Toshiro. «Oggi niente si capisce».
Girovitale approvava enfaticamente, e precisava che, tra gente che entrava e gente che usciva, sotto il pergolato del Bar Pedro quella mattina era proprio ’nu casino.
«E proprio perché è ’nu casino che voi dovete stare là! A controllare chi passa. Chi s’infiltra. Chi ci invade».
Toshiro e Girovitale si morsero le labbra. I loro occhi non sapevano più dove andare. A me invece non andava di sapere di più. Ero nervoso. Deluso. Preoccupato.
«Vabbè», sbuffai, «sbrighiamoci, ché mi è venuta voglia di farmi una partita».
I due soldati non si mossero. Impalati sul marciapiede, i turisti li aggiravano a fatica, li sfioravano, qualche volta senza troppi riguardi rifilavano loro una spallata, e poi – sebben che fossimo signori – nemmeno si voltavano a domandare scusa. Quasi si trattasse di pali della luce. Di bestie. Di semplici cafoni.
«Allora?», li richiamai, come se fossero – in effetti – due recalcitranti barboncini. Finalmente Toshiro Mifune si mosse e, deglutendo a fatica, si accostò – nemmeno troppo – alla mia persona.
«Vedi, Fransiscomarì», cominciò a balbettare, «il fatto è che... il... il... come si chiama?, il flipper!... be’, oggi... è occupato».
Io sollevai un sopracciglio. Lui abbassò ulteriormente la voce.
«Da stamattina alle nove», aggiunse quasi impercettibile.
Sul frastuono che ci circondava sembrò abbattersi improvvisamente un fragoroso silenzio. E, in un istante, da quaranta gradi che c’erano, si propagò tutt’intorno il gelo della mia voce.
«Toshiro Mifune», scandii, «che vuol dire: il flipper oggi è occupato? Il mio flipper non è mica un telefono. Non è mica un cesso pubblico. Il mio flipper è il mio flipper. Ne convieni?»
La chioma ribelle di Mifune, per una volta, rimase immobile, congiunta alla sua fronte mediante una damigiana di sudore. Girovitale annuì al posto suo.
Non l’avevo mica comprato il flipper, si capisce. Ma ci sono cose, nella vita, che ti appartengono per abito, per censo, per sacro e inalienabile diritto. E il flipper del Bar Pedro, sin dai remoti tempi in cui riuscivo a malapena ad arrivare alle manopole, era una di queste. Chi si permetteva, dunque, di metterci le mani al posto mio? Chi si azzardava a occuparlo per una mattina intera?
Toshiro Mifune e Girovitale diventarono ancora più reticenti. Farfugliavano. Grondavano. Nei loro costumi Hom a conchiglia sagomata, sembrava tenessero infilato un rovo di spine.
«Cé ne sacciu, Fransiscomarì?... ’Nu vagnune... ’Nu forestiero...»
Come degli zotici si mettevano a parlare! Come dei villani privi non soltanto di istruzione, ma anche di quel minimo senso del decoro che dovrebbe palpitare intorno alle figure gentilizie come luce che viene dal di dentro.
Le uniche palpitazioni che Toshiro e Girovitale trasmettevano erano i cento e passa battiti del loro polso. L’unica luce, i riflessi irradiati dai Tissot subacquei a dodici atmosfere ricevuti in regalo per la prima comunione.
«Marinho», piagnucolò il primo, «ti volevamo avvertire! Ma che sappiamo, noi, di dove stai? Di dove ti nascondi?»
E se anche il loro intento fosse stato puramente difensivo, l’affannosa giustificazione del secondo risuonò alle mie orecchie come un’esplicita accusa: «Da qualche tempo, Francisco Marinho, tu prendi e sparisci. Non sappiamo mai dove cercarti, Marì!...»
Il sapore fruttato, quasi abboccato, che mi lasciava in bocca il ricordo di Mela diventò improvvisamente un boccone amaro.
«Vabbè», biascicai mandandolo giù, «di questo discuteremo un’altra volta. Adesso ditemi com’è fatto ’sto minchione. Quanti anni tiene. Quant’è grosso. Se basterà parlare gentilmente, o se gli devo fare una faccia di fiele...»
La faccia di fiele, intanto, la fecero loro. Quell’espressione disgustata, attonita e vagamente esterrefatta che prelude a un conato di vomito.
«È grosso, Marì», sputò infine Toshiro. «E non basterà parlare. Tiene certi capiddi lunghi e le unghie nere. Li mocassini a punta. La catenina d’oro».
«E quando il flipper s’inghiotte la pallina», aggiunse Vito, «dice sempre vaffammocca, chitemmuorto e vaffangule».
La mia immaginazione, pronta a scandagliare l’intero catalogo umano, uscì dai blocchi più reattiva di Borzov. Poi, dopo tre o quattro falcate, rallentò, esitò, si bloccò del tutto e guardò indietro.
«Ma... allora...», ringhiai, «è... un cafone!... Avete lasciato il mio flipper in mano a ’nu cafone!»
Girovitale e Toshiro si guardarono e, all’unisono, scrollarono la testa. Ma siccome, in quell’estate del ’75, pareva di vivere allo specchio – continuamente rovesciati – anche il loro diniego potevo interpretarlo come un’ammissione.
«’Nu cafone!», ripetei furente, puntando sul bar con la stessa decisione di un khmer rosso all’attacco di Phnom Penh.
«’Nu cafone!», non smettevo di esclamare.
Se la mia maglietta Ellesse avesse avuto le maniche, me le sarei rimboccate ben oltre i gomiti, tanto mi prudeva la voglia di menare. Come un me stesso ancora più cattivo, sentivo nelle narici sibilare il mio respiro, mentre dietro, alle mie spalle, evaporavano nell’afa gli affanni di Mifune e di Girovitale.
«’Nu cafone!», sbottai per l’ultima volta. E feci irruzione dentro il bar.
Prima ancora del suo profilo da rapace, del becco adunco, del labbro tumefatto, a colpirmi fu l’inconfondibile fragore degli specials WOW, che soltanto io – il funambolico Marinho – nelle giornate di grazia sapevo sollevare nitido e trionfale tra il banco dei liquori e il frigo dei gelati.
Gli sgusciai alle spalle come un’ombra.
«Senti: s’è fatta ora», dissi urtandolo leggermente, quanto bastava per fargli percepire la struttura in puro acciaio del mio corpo. «Adesso gioco io».
L’usurpatore si disunì. Trascurata per una frazione di secondo, la pallina si vendicò lasciandosi inghiottire dal ventre oscuro del mio flipper.
Era un cafone, senza dubbio. Eppure, senza dubbio, non lo era.
Perché, se i tatuaggi, la canotta traforata e l’alito da fogna l’omologavano ai bifolchi, l’anello che esibiva al mignolo sinistro, i pantaloni a zampa d’elefante, quella stessa chioma che gli piombava – sì – gravida di sugna sulla nuca, ma con un’idea di acconciatura alla Franco Gasparri, rivelavano una seppur rudimentale conoscenza del mondo civilizzato.
Senza voltarsi, raddrizzando il mozzicone senza filtro che gli pendeva dalle labbra, quel bizzarro esemplare sollevò lo sguardo come il russo Vasiliy Alexeyev, alle Olimpiadi di Monaco, sradicava un bilanciere di duecentotrenta chili. Lentamente, gravosamente, silenziosamente – a parte un inquietante digrignar di denti – visualizzò il display avanti a sé.
Milleduecento, segnava. Il mio record aveva resistito per un soffio.
«Non male», gli concessi. E prendendo possesso della manopola di destra, ripetei con timbro più stentoreo: «Non male, per un cafone».
Senza staccare il suo artiglio da quella di sinistra, lui torse gli occhi e sibilò che avrebbe fatto ancora meglio, se non fossi arrivato io a scassargli la pizza. Quindi, riducendolo a due spilli imbevuti nel veleno, conficcò il suo sguardo dentro al mio: «Se a scassarmi la pizza non fossi arrivato tu, Maligno».
Ora, a me fa sempre piacere che il volgo declini le mie generalità. Se conosce il mio nome, penso, conosce le mie gesta. Conferma la mia autorità. Celebra il mio carisma. Eppure, non lo nego, questa volta un brivido mi attraversò la schiena. Perché quel Maligno masticato a canini scoperti, quasi fosse un boccone di carne cruda, più che ribadire ciò che di me era noto, sembrava alludere a qualcosa di lui – delle sue origini, del suo habitat, della sua natura – che mi sfuggiva.
Chi sei tu, sinistro forestiero? E come mai, se la tua razza è quella di cafonide, pratichi la nobile arte del flippare?
Improvvisamente avvertii l’esigenza di un conflitto (che fosse scontro fisico o verbale) attraverso il quale ricondurre le sue subdole sembianze al più schietto rango di bifolco. Di reprobo. Di emarginato sociale.
«Comunque», dissi, «adesso ti sposti e gioco io».
Mi fissa. Mi squadra. Matò, mica si muove ’sto ribaldo! Sembra quasi non abbia capito. Poi, con un tasso di ambiguità che mi pare intenzionale, indica un’area a metà strada tra il cassone del flipper e le sue parti basse, e annuncia spavaldo che non se ne parla.
«Tengo ancora due palle, Maligno!»
Intorno a noi, da mattina d’estate ch’era prima, s’è fatta tetra e fosca notte invernale. Qualcuno, nell’assistere alla scena, rabbrividisce. Altri, come se appunto fosse scesa la nebbia, fanno finta di non vedere.
Solo Mifune e Girovitale, appostati in un angolo, continuavano a sudare copiosamente, e intanto serravano i pugni dietro la schiena.
«Ah, tieni due palle?», sogghignai. «E allora facciamo così: una la giochi tu, e una la gioco io. Chi perde sgombra il campo».
«Che ne dici?», lo incalzai senza concedere – a lui, ma anche a me stesso – il tempo di pensare.
«Che ne dici, le tieni sempre le tue palle?...»
La voce che Marinho – l’indiscutibile, l’irrefutabile, l’assiomatico Maligno – metteva a repentaglio nella bolgia del Bar Pedro il suo carisma, come se Torrematta non fosse più una monarchia fondata su volontà divina, ma terra di conquista per avventurieri, fece in un lampo il giro del villaggio, così che, mentre prendevo a colpi d’anca il mio fedele Top Hand Pinball a quattro gruppi di bersagli, mentre alternavo lungo i suoi fianchi energiche fiondate a tenere carezze, mentre dimagrivo a vista d’occhio per lo sforzo e la tensione, la folla ingrossava alle mie spalle trattenendo il fiato.
C’erano Vittorio, Franzoso, Sebo Conti. C’era Lucaviale. E col costume ancora fradicio e la sabbia appiccicata alle caviglie, strappato agli ombrelloni, ai Mottarello, ai gavettoni sulla spiaggia, si accalcava un devoto stuolo di signori, signorotti e signorine, che con vivida fede nel loro sovrano – ma anche, si avvertiva, con una certa apprensione – osservavano la pallina schizzare sotto il vetro, stupiti che a quelle imponderabili traiettorie, a quei rimbalzi frenetici e aleatori, fosse associato un diritto da sempre ritenuto stabile e sicuro, come quello di governare il mondo.
Mettiamo. Mettiamo che soccombi, Marinho – che farai? Cederai lo scettro? Assisterai impotente all’oltraggio della feccia burbanzosa che verrà a schiaffare le grinfie sul tuo flipper? Che contesterà il tuo lignaggio? Che insidierà la tua discendenza?
Matò, in che rischio sono andato a ficcarmi!
Affidato a una sfera d’avorio, questo rischio corre lungo il filo degli specials, si abbatte sui bersagli, sobbalza sulle sponde. E accende così tante lampadine colorate che all’interno del Bar Pedro, all’improvviso, sembra di essere a Natale.
Raggiungo il mio record. Lo supero di slancio. Ma quando comincio a sentirmi senza peso – forza bruta e destrezza allo stato puro – la sublussazione dell’anca sinistra (accidenti a Mela e alla sua giostra!) torna a farsi sentire lancinante, così che, non riuscendo a ribaltare la pallina con una spinta pelvica adeguata, il tonfo della stessa nel gorgo del game over è così grave che, in confronto, quello prodotto dal mio corpo precipitando giù dal calcinculo pareva il morbido atterraggio di un frollino dentro il caffellatte.
Millequattrocento punti.
Ostento sicurezza.
«Tocca a te, campione», gli soffio nell’orecchio. Mentre quello, con le sue manacce lorde, catapulta sulla rampa la pallina come un toro che entra nell’arena.
Per un po’ seguo lo score. Che sale. Poi mi volto a guardare la platea, dove a salire è invece il nervosismo.
Chi ha un ghiacciolo in mano dimentica di leccarlo, così che il gelato si scioglie e cola sulle dita. Chi beve dalla lattina non si accorge che è finita. Chi si porta del popcorn alla bocca, spesso non la trova.
Respirare, per tutti, è diventata un’esigenza secondaria. Comunque subordinata al mangiarsi le unghie. Al mordersi le labbra. Allo sbarrare gli occhi.
In ogni movimento – che siano i gesti lenti, quasi narcotizzati, di chi sta lì a guardare, o il tarantismo forsennato del mio antagonista – non sono ormoni naturali, adrenalina o secrezioni ghiandolari a saturare l’aria, bensì il sintetico sentore delle droghe che verranno.
Faccio un calcolo mentale – «Cinquecento. Al massimo cinquecentoventi punti», penso – ma, quando mi volto, poco ci manca che il calcolo diventi nefropatico, con conseguente colica renale. Ho le allucinazioni pure io? Il punteggio, infatti, ha già valicato i settecento, e quel bifolco ogni freno inibitorio che possa indurlo a moderare i termini di fronte alle ragazze.
«Pigghiatela ’n capo», inveisce contro il mio delicatissimo flipper. E dopo, non contento: «’N mocca! ’N gule!» – mentre il cornetto apotropaico che tiene appeso al collo sobbalza in mezzo ai quattro peli che gli spuntano da sotto la canotta, e i tacchi rinforzati, sul linoleum, stridono più del vecchio frullatore con cui Pedro prepara i suoi frappè.
D’altra parte, abbattuto il muro dei tre zeri, anche il barista avverte l’incombere di un crollo, e – labbro sporgente, mandibola allentata – abbatte se stesso sul bancone. L’esercizio, adesso, è virtualmente chiuso, come la bocca del mio stomaco.
«Non mi tradire», imploro. «Non mi tradire», supplico rivolto a quella macchina perfetta, che tante volte, sotto la mia benedicente mano, ho avvertito suddita fedele, devota alleata, attendibile sodale. Che mai nella vita (a parte, si capisce, qualche ruvida carezza) si era sentita mancare di rispetto dal suo longanime sovrano – figurarsi insolentire con ingiurie e improperi, come da ore stava facendo quell’individuo abietto.
«Non mi tradire», penso. «Non mi abbandonare». E dopo penso a quando, il giorno prima, di punto in bianco era stata Mela a domandarmelo, avvinghiata – letteralmente – con le unghie e con i denti, ché le prime me le aveva, all’improvviso, conficcate nella schiena, e i secondi li stringeva come se stesse resistendo a un impulso misterioso, a un turbine di vento, a una violenta mareggiata che minacciasse di trascinarla via.
(«Non mi abbandonare, Marì. Non te ne andare, almeno tu».
«Che ti prende, Mé? Certo che strana forte, sei! Filodrammatica!»
Artigli non erano, ché Mela le unghie se le mordicchiava. Eppure graffiavano, ferivano, quasi laceravano, al punto che serviva tutto lo stoicismo dell’indomito Marinho per fare finta di niente e ridacchiare.
«Il teatro comico, però, dovresti fare. Leggero. Ché sei tutta pelle e ossa».
Mela, invece, mi appoggiò gravemente la guancia sulla spalla e – si capiva anche di schiena – fece una faccia da tragedia greca.
«Tu mi abbandoni», ribadì stancamente, quasi spossata. Come se il fato si fosse già compiuto, e a lei restasse appena la forza di constatarlo.
«Matò, Mé!», raddrizzai la schiena. «Che sono, mo’, questi discorsi? E poi, tieni forse la palla di vetro? Maga, sei? Nel futuro, puoi vedere?»
Come al solito, nel tentativo di chiuderle la bocca, fu lei a lasciarmi a bocca aperta. Primo, perché – miracolo di san Gennaro all’incontrario – i suoi occhi liquidi si coagularono, con un battito di ciglia, in un solido sorriso. E poi perché, nel domandarmi con tono da birbante se preferivo lei o Tony Binarelli – tipo – quella sfacciata attestava che adesso, nelle case dei cafoni, c’era pure la televisione, e che il dì di festa – anziché rattoppare brache, o scatterisciare i pomodori per la cena – si guardava Domenica in.)
«Tu mi abbandoni», sussurro al flipper mio, proprio mentre, al grido di suca, piretu fetente, mo’ sì che io te la sta mintu, il vandalo lo brutalizza a sganassoni e colpi d’anca. Tanto che i punti realizzati non richiamano davvero una segnatura (ché nessuno, a parte me, s’era mai spinto a cifre tanto esorbitanti), ma i punti necessari a suturare le ferite atroci che gli infligge.
Quando il mio orrido rivale sogghigna che mi devo preparare – che da lì a una manciata di sponde dovrò baciargli il culo e levarmi dai cugghiuni – incapaci di sostenere l’oscena visione di un leader carismatico ghermito dalla sconfitta, i più impressionabili si alzano e guadagnano l’uscita.
Milletrecento. Il punteggio ora non sale, ma come un conto alla rovescia – come la situazione di Marinho e del mondo civile – precipita vertiginosamente.
Meno cento. Meno cinquanta. Meno trenta.
Ormai convinto del proprio trionfo, il mio avversario attenua leggermente le invettive e, montando quasi in groppa al pianale, si concede perfino una licenza poetica.
«Sììì! Puledra selvaggia, sei!», esclama alludendo a una serie di rinculi così perentori da ricordare, effettivamente, una cavalla che scalcia imbizzarrita.
Nell’aria la tensione è altissima. Distruttiva. Praticamente insostenibile.
E infatti, all’improvviso, tutto ciò che è elettrico vacilla, fa un sussulto, e poi si spegne.
L’ineffabile animale rimane sbigottito. Prima boccheggia come un pesce preso all’amo. Poi, come una pecora, emette dei belati. Infine – al terzo be’?! – si accanisce disperatamente sui respingenti, e cerca di scuoterli come una farfalla a cui hanno bruciato le ali.
Naturalmente, abbandonata al suo destino, con un tonfo raggelante la biglia piomba negli abissi, nello stesso istante in cui cento sguardi incandescenti piombano sul display per decifrare il nostro fato.
«Milletrecentonovantanove: hai perso», gli notifico. E intanto avverto che gli astanti, l’ossigeno nei loro polmoni, ogni commento fino a lì sospeso – tutto reclama di farsi largo urgentemente. Di sgombrare. Di schizzare fuori. Miracolosamente, anche il mio prestigio è uscito illeso.
«Viva Francisco Marinho», grida qualcuno. «Viva lu signore de li signuri!»
L’unica cosa che rimane dentro – oltre, si capisce, alla biglia saldamente custodita nel ventre del flipper – è la protesta del mio ruvido rivale. Che infatti, quando trapela, ricorda prima il sommesso brontolio, poi la vibrazione tellurica, infine l’assordante boato di un’eruzione vulcanica.
«’Sta minchia!», esplode. «La corrente, se n’è andata!»
Mi degno di un’occhiata verso il neon. Negligentemente, accosto al frigorifero l’orecchio. Quindi convengo che sì, ma guarda!, è vero – se n’è andata la corrente. Però sul flipper c’è scritto bello chiaro che il gioco è terminato, e che il mio record, lui (no, no, no) non l’ha battuto.
Il disgraziato freme. Ribolle. Sotto forma di moccoli impetuosi, altro magma gli zampilla dalle labbra.
«Così è la vita», lo consolo elegante e sportivo come sempre. Ma, mentre allargo le braccia per meglio esprimere il concetto, la sua improvvisa decisione di colpirmi alla bocca dello stomaco non ha niente di forbito, né tantomeno brilla per fair play.
«Vigliacco», farfuglio. E piegandomi in due per il dolore, sferro un calcio così forte che il mento gli risale sulla fronte.
È zuffa. È rissa. È un’altra volta guerra.
Mentre intimo alle truppe di starsene alla larga – ché noi signori siamo, e mica ci scagliamo in cento contro uno – rivelando ben poca fantasia quello risponde al mio calcio con mossa pedestre: pedestre sia nel senso che tenta di piazzarmi il calcagno nel costato, sia in quello di banale, prevedibile, ordinario. Al punto che il suo piede, ben prima di colpirmi, io faccio in tempo a evitarlo, a pararlo, ad afferrarlo. E buon per lui che mentre goffamente saltella sopra una gamba sola, ed è sul punto di rovinare a terra, il mocassino gli si sfila e mi rimane in mano.
«Fuori! Fuori! Che mi sfasciate il bar!», strepita Pedro.
Non sia mai che io manchi di rispetto all’inalienabile concetto di proprietà privata – lancio la scarpa maleolente oltre il bancone, e spingo il cafonide verso il pergolato.
Là sotto, come in un ricovero della Croce Rossa, si accampano matrone con imponenti edemi da stasi linfatica. Malinconici casi di fanciulli eliofobici. Soggetti ipertesi e già minacciati dal secondo infarto.
Sebbene, a me, non servirebbe altro che un angolo appartato per torcergli il braccio dietro la schiena, per sbattergli la testa due o tre volte sulla soglia di granito, per ricacciargli la lingua all’altezza del piloro, l’irruzione dei due combattenti – intrecciati a gassa d’amante in un nodo d’inestinguibile odio – viene salutata da un tale parapiglia che non basta lo spazio per scappare.
«Adesso basta, Marì!», esclama Lucaviale alle mie spalle, quando vede che la mia maglietta a righe, imbrattata di sangue, è sul punto di diventare a tinta unita. «Basta, che lo ammazzi!», dice, ma io – soggiogato dalla foga, o forse dal turbine di angoscia che quell’estate, giorno dopo giorno, s’era messo a soffiare nel mio animo – non è che la virgola la percepisca molto chiaramente, così che, dal suggerimento del mio luogotenente, non evinco tanto che lo potrei ammazzare, quanto che devo farlo – condizione essenziale e necessaria al corretto fluire della storia.
Basta che lo ammazzi, Francisco Maligno.
Sento due, quattro, dieci mani che mi abbrancano le spalle. Sento urlare. Sento pregare. Ma più di tutto sento una rabbia cieca che mi trasforma in fiera sanguinaria. Mi bloccano le braccia, e io continuo a colpirlo con le gambe.
Mi bloccano le gambe, e io continuo a colpirlo con le braccia.
Mi bloccano le braccia e le gambe, e lo colpisco con una capocciata.
Quando, alla fine, mi tengono ferma anche la testa, gli sputo addosso.
Non c’è che dire, Francisco Marinho – avrai anche vinto, ma il controllo l’hai perso di brutto. È la tensione della sfida, che ti ha così sconvolto? L’essere stato tanto vicino a un tracollo? Eppure quante volte, nella tua lunga storia di guerriero, di capo, di leader carismatico, hai dovuto cavalcare il pericolo, rischiare, giocarti le fiches del tuo prestigio in un’unica puntata!
No, il sangue che ti sale alla testa non è lo stesso che hai versato rotolandoti nel limo con i Frati, ricevendo sulla tempia la ghiaia scagliata dalla fionda di Culacchio, e nemmeno quello che ti è uscito dalle orecchie quando Tonino detto Stonino detto lo Storduto ti ha scaraventato giù dallo Scheletro.
È il sangue, piuttosto, inteso come schiatta, stirpe, dinastia. È il sangue blu che ti gorgoglia dentro al cospetto di una specie sconosciuta – animalesca sì, ma con dei tratti antropomorfi che mettono paura. Che si ergono come una minaccia non solo verso la tua persona fisica, ma anche verso la razza dominante a cui appartieni.
Verso la sua purezza. La sua progenie. La sua sopravvivenza.
Ecco, Francisco Marinho, perché lo vuoi ammazzare. Perché hai capito che solo strozzando nella culla i vagiti di questa evoluzione puoi sperare di soffocarne la crescita. Lo sviluppo. La barbarica invasione.
E difatti, ora che – dimenandoti come un forsennato – sei riuscito nuovamente a liberare le mani, gli cingi il collo con tutta la tua forza. Così che il tuo nemico a poco a poco sembra smarrire i sensi, e ti guarda, più che con quelli ostinatamente combattivi della preda che ancora si dibatte, con gli occhi vitrei della bestia già imbalsamata e appesa alla parete.
«Basta, Maligno! Basta!», ripete Lucaviale. Ma questa volta con un impeto, un’angoscia, una così potente e rabbiosa esclamazione, che quando il suo pugno mi colpisce in mezzo ai denti ho quasi l’impressione che a colpirmi sia stata la sua voce. «Basta», urlano tutti, occultando con le mani gli sguardi dei bambini.
Il sapore del sangue, adesso, me lo sento nella gola.
Scalcio. Mi divincolo. Non mollo. Di sicuro la mia vittima la finirei là, in mezzo alla strada, se non fosse che, proprio quando l’agguanto un’altra volta per la chioma cotonata, e lo trascino sull’asfalto, e insieme a noi trascino Lucaviale, i miei soldati, il pubblico neutrale e tutta Torrematta, in quel mucchio selvaggio, nel mezzo delle ingiurie, della bolgia, del tumulto, irrompe come ferro rovente la sgommata di una motocicletta, e mentre il conducente gli urla di salire («Monta, cuggì! Monta, ché ’sto pazzo t’ammazza»), mentre quello s’aggrappa, s’arrampica, s’abbarbica al sellino, la visione di due cose familiari, ma estranee tra loro come il giorno e la notte, il dubbio e la fede, Yul Brynner e lo shampoo, mi colpisce come niente in quella mischia incandescente, né pugni in faccia né morsi né calci nello stomaco, era ancora riuscito a colpirmi.
C’è l’orrido Scaleno, sopra quel motorino. E sotto Scaleno – per quanto dire sotto mi faccia venire i brividi – c’è uno dei mezzi meccanici più eleganti, raffinati, signorili mai assemblati sulla faccia della terra.
Sotto Scaleno – Madonna mia! – c’è un Fantic Motor Caballero.
«Ma... Ma...», balbetto.
Scaleno, suo cugino, il Caballero svaniscono all’orizzonte in una nube polverosa. Tutto si offusca. Si smaterializza.
«Matò», riesco infine a sillabare, «il mio Caballero!»
E dopo, per fortuna, svengo.