Parte 8
Politica al buio
21.
I corrotti
Oppure estrattivi, come li chiama il ministro Barca. Di Lavitola, Scajola, Monte dei Paschi e aeroporto di Forlì. Dell’avidità epidemica, dice Guido Rossi. E del perché sia necessaria l’inefficienza della politica e dell’amministrazione.
Nell’ultimo periodo della nostra storia l’avidità sembra aver subito mutazioni sempre più imprevedibili e aggressive, contribuendo al formarsi dell’intreccio di politica, economia e affari dal quale le nostre società rischiano di venire strangolate.
Il conflitto epidemico Radice di tutti i mali è l’avidità di denaro.
Prima lettera di San Paolo Apostolo a Timoteo, 6,10
L’avidità. Le mutazioni «imprevedibili e aggressive» dell’avidità. L’intreccio di politica e affari che ci strangola. La corruzione. Ci vorrebbero altre duecento pagine per parlare di corruzione, un altro libro. Ma poi invece no, bastano tre o quattro promemoria che tanto sappiamo tutti molto bene il punto qual è.
Abbiamo avuto Lavitola, che bastava guardarlo per tornare lombrosiani e capire tutto: non servono le sentenze dei tribunali per sapere che, uno così, dirigere un giornale non sa nemmeno cosa sia, che «L’Avanti!» era una copertura di altri affari loschi e loschissimi, ricatti e traffici dei Servizi, voli oltreoceano e carte taroccate, conti all’estero, dialetto bestemmie lusinghe e questue nel telefono. Del resto: avete mai visto qualcuno, negli anni di Lavitola, leggere «L’Avanti!»?
Abbiamo avuto l’insaputa di Scajola. Le olgettine che 10 mila euro a sera sono pochi. Finite poi a 2500 al mese. Le feste con le teste di maiale e l’alloro a incoronare imperatori consiglieri regionali dell’Agro pontino, temuti come tiranni. Abbiamo visto banche secolari non esitare, sotto il comando della politica, a comprare altre banche decotte e di seguito crollare. Senza un fiato abbiamo assistito all’inglorioso epilogo del Monte dei Paschi, la banca a cui Giuseppe Garibaldi scrisse per dire che sfortunatamente in quel momento non era in condizione di pagare il suo debito: la lettera è lì, a Siena, in una teca. Abbiamo sentito commercianti di protesi dire che «le donne e la cocaina favoriscono gli affari», abbiamo osservato morbosi i commerci. Consideriamo normale che a Forlì ci sia un aeroporto internazionale che paga milioni di soldi pubblici per assicurarsi che un vettore – una linea aerea – garantisca i voli che ne legittimano l’esistenza. Voli da Forlì ai monti Urali, naturalmente deserti.
L’importante è che ci sia un consiglio di amministrazione, dunque i consiglieri, e un presidente.
Fabrizio Barca, ministro della Coesione territoriale nel governo Monti, in una memorabile intervista a Marco Damilano de «l’Espresso», dice così: «Abbiamo avuto una classe dirigente estrattiva che si è dedicata a gestire risorse immense in modo non innovativo». Una classe dirigente estrattiva. Minatori del proprio tornaconto. Con l’elmetto e la torcia incorporata, come i minatori del Sulcis. Anche il grande corruttore di un libro di Scott Fitzgerald lavorava in una montagna, ci viveva. Un diamante grosso come l’hotel Ritz, s’intitola il racconto. Era una montagna fatta di diamanti. Alla fine della storia il corruttore per emendare le sue colpe ne offre un pezzo a Dio, il quale declina l’offerta. Il corruttore conclude che forse la cifra era troppo bassa. Non c’è niente difatti, dice, che non si possa comprare. Bisogna solo stabilire il giusto prezzo.
La corruzione epidemica costa all’Italia 60 miliardi all’anno. Il doppio di quello che servirebbe a mettere in ordine i conti del Paese. Sull’epidemia corruttiva, sui conflitti di interessi che dilagano fino a essere percepiti come la norma ha scritto un saggio dottissimo, anni fa, Guido Rossi, uno dei massimi esperti internazionali di diritto societario e per un periodo presidente della Consob. Il conflitto epidemico, s’intitola. Un’epidemia, come certe malattie che si propagano quando i corpi recettori sono deboli. Come la peste, o la rabbia.
«Abbandonati a sé stessi i mercati – soprattutto quelli finanziari – non obbediscono ai meccanismi virtuosi che molti considerano loro propri, ma tendono invece a incoraggiare manipolazioni e frodi».
Manipolazioni e frodi.
Di nuovo Fabrizio Barca: «Se non sei integerrimo per motivi individuali o radici familiari ti abitui a crescere in una società dove si gioca sporco, dove i concorsi sono percepiti come taroccati, dove si bara fin dall’esame di maturità. La zona grigia della politica è alimentata da comportamenti diffusi a livello popolare. Chi guida, certo, ha enormi responsabilità: è un modello».
Guido Rossi, nel 2003: «Qualcosa sembra aver cancellato la percezione della differenza fra interesse individuale e interesse collettivo, e dei gravi squilibri che si creano quando il primo è lasciato libero di prevalere sul secondo».
L’interesse individuale che prevale sull’interesse collettivo.
Fabrizio Barca, nel 2012. «L’abitudine estrattiva ha riguardato negli anni anche le classi amministrative e i corpi intermedi. Ovunque le persone di valore che lavoravano nella politica e nell’amministrazione sono state bloccate perché ciò che contava era la capacità di accaparrarsi risorse».
Rossi: «L’efficacia dei codici etici dipende solo dall’etica di coloro che li devono applicare».
Barca: «Il vero cambiamento avviene con la competizione, non col ricambio anagrafico. Non va bene qualunque giovane, non va bene qualunque donna».
Per anni coloro che avevano competenze e talenti sono stati allontanati dalla politica come pericolosi nemici. In una logica in cui la fedeltà prende il posto della lealtà, difatti, solo coloro che annuiscono senza criticare sono degni di essere ammessi alla corte del potere. Dove la selezione avviene per cooptazione, dove chi è scelto mai può essere migliore di chi sceglie – sempre deve essere più debole, peggiore dunque grato e devoto – non c’è posto per la capacità di fare.
Essa diventa al contrario una colpa e un difetto: la misura esatta dell’altrui incapacità. Di meno in meno si è arrivati al quasi niente. Il disprezzo per la politica – così diffuso e sarcastico in rete, così propizio ai movimenti di rivolta che nascono e crescono nel web – ha origine qui. Persino chi non la considera un’origine legittima dovrebbe trovarla comprensibile. Non esiste antipolitica senza cattiva politica.
Barca: «La Rete offre possibilità straordinarie di far circolare informazioni ma non può sostituire i luoghi della politica dove ci si guarda in faccia e si stabilisce un rapporto anche fisico con più persone.
Ciò detto, mi guardo bene dal denigrare chi vota Grillo. Quello di Grillo è un partito. Nato dal web, certo, ma divenuto reale: un luogo dove la gente si incontra. Questo mi dicono i ragazzi che sono attratti dal Movimento: che lì possono partecipare, parlare e non solo ascoltare. Lo stesso vale per le primarie del Pd. Renzi, comunque lo si giudichi, ha mobilitato. Per troppo tempo la sinistra ha proposto modelli liquidi o al contrario dirigisti. Per troppo tempo la destra ha prodotto leaderismo e organizzazione politica strutturata secondo criteri aziendali». Criteri di interesse, di profitto individuale e oligarchico. Il bene di pochi non quello di tutti.
Rossi: «L’auspicio è che i conflitti di interessi sembrati a vasta parte dell’opinione pubblica un fatto forse poco elegante ma normale da un giorno a un altro tornino ad apparire inaccettabili. A quel punto le buone leggi seguiranno».
Barca: «Quel che serve all’Italia, oggi, è leale concorrenza e buona amministrazione».
22.
Cinque donne
Sindaci, di sinistra e del Sud. Dove le teste di maiale le lasciano, vere, sullo zerbino. Dove c’è il mare dei Caraibi e mancano le lampadine. Dove si governa per 800 euro. Il boss ti scrive dal carcere. Dove le nonne, una volta, coglievano i gelsomini.
Rosarno, Monasterace, Decollatura, Barcellona Pozzo di Gotto. Isola Capo Rizzuto. La scena della politica nazionale bisogna guardarla anche da qui, da queste terre di Calabria e di Sicilia: è un altro spettacolo. Bisogna leggerla con gli occhi di questi cinque sindaci che hanno tutti 40 anni tranne uno, sono tutti laureati, tutti eletti con il centrosinistra, tutti sotto minaccia di morte. Sono tutti donne, pensate pure che sia un caso.
Questi sono posti dove le teste di maiale non si indossano ai toga party come nelle feste dei consiglieri della Regione Lazio, te le lasciano vere mozzate sullo zerbino davanti a casa. «È un rito arcaico della ’ndrangheta ma noi qui ci siamo nate e non ci lasciamo impressionare, lo sappiamo che è così», dice Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno. Dove l’indennità da sindaco, lo stipendio, è di 800 euro al mese che diventano «411 virgola 80 centesimi perché ne lascio la metà al Comune per le spese sociali». Sono paesi e città dove se il boss locale ti spara alla macchina ti dànno la scorta, ma – spiega Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto – «Io non l’ho voluta la scorta, ho detto la scambio per due funzionari bravi per il Comune, due giovani assunti per concorso. Risultato: mi hanno tolto la scorta e non mi hanno dato i funzionari». Il giornale del mattino arriva anche a Decollatura, confine con Lamezia Terme: quando il sindaco Annamaria Cardamone legge l’intervista al capogruppo Pd alla Regione Lazio Esterino Montino, suo collega di partito, che dice insomma, quei due milioni di contributi per le spese erano disponibili, non li potevamo mica dare indietro, ecco, quando legge questo, il sindaco mormora la cifra due volte poi dice: «Io le spese le pago di tasca mia, se faccio l’avvocato e compro un libro me lo pago, perché se faccio il sindaco me lo deve pagare la comunità? È un lavoro, fare politica, non è mica una rendita».
A Maria Carmela Lanzetta hanno dato il premio intitolato a Joe Petrosino, poliziotto ucciso dalla mafia. Non è andata a ritirarlo.
«Avevo da lavorare». È la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26. Sindaco di Monasterace, nella Locride, tremila e cinquecento abitanti. Nonni contadini, madre farmacista e padre medico condotto.
Liceo classico a Locri, laurea in Farmacia a Bologna. «Non era una famiglia femminista, solo che le donne studiavano e basta». Non iscritta, vota Pd. Eletta sindaco con una lista civica nel 2006, rieletta nel 2011. Il 15 di maggio vince le elezioni, il 26 di giugno le bruciano la farmacia. Lettere con minacce di morte all’ordine del giorno, a marzo di quest’anno le hanno sparato alla macchina. Vive sotto scorta.
«Questo è un paese bellissimo, sul mare. L’area archeologica magno-greca più importante del Mediterraneo. Facciamo teatro, presentiamo libri. Qui le donne facevano le gelsominaie, mandano avanti l’economia da secoli. Siamo indipendenti, non siamo malleabili. Per me libertà e possibilità di scegliere sono ragioni di vita. Sono calabrese ma sono italiana. Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova, a Padova. La Locride soffre perché ci tolgono le scuole, l’acqua costa e non ci sono investimenti per le reti idriche. Ho una grande rabbia dentro, enorme. Siamo poverissimi. Non ho i soldi per cambiare le lampadine dei lampioni per strada. I lavori di manutenzione li faccio con la mia indennità. Non chiedo, non mi piacciono i lamenti. Prima di chiedere do. Le prime vittime della ’ndrangheta siamo noi. La gente è stanca della politica, è disgustata».
Carolina Girasole, 49 anni, due figlie. Sindaco di Isola Capo Rizzuto, Crotone. sedicimila abitanti.
Biologa, laureata a Roma alla Sapienza, aveva un laboratorio di analisi. Comune sciolto nel 2003 per infiltrazioni mafiose, tre anni di commissario straordinario, poi centrodestra. Vince le elezioni del 2008.
«La candidata del Pd non ero io, era la presidente del Consiglio comunale ma non hanno trovato l’accordo. Il giorno prima, alle nazionali, ha vinto Berlusconi. Il giorno dopo noi. Lo slogan era: “È qui che vogliamo vivere”: abbiamo detto: non scapperemo. Vogliamo legalità e trasparenza. In Comune quasi nessuno era entrato per concorso, tutti cooptati, inadeguati per numero e capacità. Ho riattivato i concorsi. Il controllo sugli atti. Ci siamo costituiti parte civile per riavere il patrimonio andato ai privati.
Abbiamo lottato contro il business dell’eolico, una faccenda di interessi loschi. Stiamo lavorando con don Ciotti sui terreni confiscati. Hanno bruciato tre macchine, anche quella di mio padre. Mi scrivono minacce di morte sui muri. Ho venduto il laboratorio. Ai colleghi del Consiglio regionale del Lazio chiedo che vengano qui sei mesi. Che un po’ di quei 2 milioni di euro che loro usano per le spese a piè di lista vadano ai ragazzi di Isola, figli di genitori uccisi, o in carcere. Vorrei creare una Casa della Musica, il futuro passa dai nostri bambini».
Anna Maria Cardamone, 48 anni, sindaco di Decollatura. Laureata a Messina in Economia e commercio, specializzata in Inghilterra. Iscritta al Pd dalla fondazione, eletta nel 2011. Cattolica. «Sono tornata in Calabria dopo quindici anni per amore della mia terra. Non c’era nessuna legalità amministrativa. Ho interrotto l’appalto di sempre sui rifiuti, ho lavorato alla trasparenza delle gare.
Abbiamo risparmiato molto, così, e assunto dodici persone da decenni precarie sotto ricatto. C’è a chi non piace. Guadagno 1400 euro. Chi fa politica deve essere sobrio e parco, le spese di rappresentanza ciascuno se le deve pagare col suo stipendio. Serve un rinnovamento radicale. L’antipolitica nasce dalla cattiva politica».
Maria Teresa Collica, 48 anni, un figlio di 5. Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, quarantacinquemila abitanti. Laureata in Giurisprudenza a Messina. Docente universitario. «Ho cominciato nel movimento civico “Città aperta” per sostenere Rita Borsellino alle regionali. Abbiamo fondato l’associazione antiracket, combattuto un mega parco commerciale per pericolo di infiltrazioni mafiose. La società faceva capo a Pio Cattafi, avvocato, indicato come terzo livello della Cosa Nostra messinese, ora agli arresti domiciliari. Abbiamo garantito la rotazione nei lavori di acquedotto e fognatura. Quest’estate sono saltati tutti i tombini, sarà un caso.
Abbiamo sforato il patto di stabilità e paghiamo una multa. La mia indennità è ridotta del 30 per cento, prendo 816 euro al mese. Ai dirigenti del Pd dico: fatevi un esame di coscienza, i cittadini sono sfiduciati e giustamente, siamo fuori tempo massimo. La politica non sono i calcoli matematici per le alleanze, serve il coraggio di fare scelte. Mi attaccano perché sono una donna. Ora per esempio dicono: è incinta.
Non è vero, ma potrei governare anche se fossi incinta, no?» Elisabetta Tripodi, 44 anni, due figli di 12 e 16. Sindaco di Rosarno, quindicimila abitanti. Avvocato, laureata a Parma. Eletta dopo il commissariamento per mafia e la rivolta dei migranti. «Sono tornata perché se tutti scappano non cambierà mai nulla, spero che più avanti i miei figli capiscano. Chiamano le donne a fare politica nei luoghi e nei momenti difficili pensando che siano piú manovrabili, poi non le possono manovrare e le lasciano sole». Sotto scorta da un anno. Il boss Rocco Pesce, ergastolano, le ha inviato una lettera scritta a mano e imbucata dal carcere, la busta era di quelle del Comune. «Ci eravamo costituiti parte civile in un grande processo contro la cosca. Abbiamo confiscato la casa di sua madre e suo fratello. Pesce mi ha scritto: “Lei è così giovane…” Hanno incendiato macchine, tagliato alberi, fatto a pezzi animali. Ma io non posso permettermi di avere paura. Questo è anche il paese delle pentite di mafia, Giusy Pesce e Maria Concetta Cacciola. Tutte queste donne, loro e io, stiamo combattendo per i nostri figli. Loro per sottrarli a un destino scritto, io perché voglio che restino qui. Lo spettacolo visto da qui è desolante.
Non è l’antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne a ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni».
23.
Val di Susa
Dove un’insegnante di 58 anni, cattolica, figlia di un sindaco democristiano e sindaco a sua volta spiega cosa vuol dire essere No Tav e si chiede come mai non lo capisce chi la espelle dal partito, se non lo capisce.
Mi chiamo Carla Mattioli, ho 58 anni. Sono un’insegnante di Italiano e di Storia, ho passato la vita a insegnare ai ragazzi l’amore per questo Paese magnifico. Per le cose belle, per la nostra cultura. Mia madre Alma era maestra. Mio padre Ermanno professore alle medie. Democristiano, è stato un sindaco amatissimo. Vengo da una famiglia di gente per bene che ha allevato i figli nel culto dello studio, della responsabilità, del dovere. Il sapere e il lavoro la nostra ricchezza. Una famiglia cattolica, praticante. Dare senza chiedere in cambio, questo significa per me essere cattolica. Sono una persona moderata, sono nell’età dei nonni e credo di poter dire di aver maturato con l’esperienza un certo equilibrio, una certa saggezza. Ho vissuto con sobrietà e misura, non c’è niente di cui mi possa davvero rimproverare.
Dico questo e mi scuso, mi secca parlare di me. Non credo che la mia vicenda personale possa essere di per sé interessante ma lo diventa, forse, alla luce di quel che mi è accaduto. A giugno di quest’anno sono stata espulsa dal mio partito, il Pd, dopo essere stata sindaco della mia città per dieci anni, dal 2002 al 2012, unico sindaco rieletto al secondo mandato dal dopoguerra. Sono stata espulsa dopo che la lista civica che sostenevo ha vinto le elezioni con grande consenso popolare. C’è qualcosa che non capisco, nella politica così come è diventata, e quando non capisco – mi è successo sempre – mi ostino.
Scusatemi, ma non capisco dunque insisto.
Sono nata e vivo ad Avigliana, la città dei due laghi, in Val di Susa. Sono contraria alla Torino-Lione per ragioni che spiego da anni, perché conosco questa Valle e so di cosa ha bisogno, conosco molto bene la mia gente. Quando vedo che i giornali, i telegiornali, certi politici purtroppo anche locali additano i No Tav come terroristi prima di tutto mi intristisco. L’ignoranza delle cose infatti, quando fa rullare i suoi tamburi, mette un po’ di tristezza mista a paura. Paura, sì, perché nella storia l’ignoranza è stata sempre l’anticamera di epoche cupe. Mi intristisco e penso a mia madre Alma Gavioli, che andava a scuola ogni mattina e la domenica a messa, e a come è stato bello il giorno in cui siamo andate insieme a votare e abbiamo potuto votare lo stesso partito. Abbiamo votato Prodi, insieme. E poi il Pd sempre, da quando è esistito. Mia madre pensa che la Tav sia un errore, e non è una terrorista. Nemmeno io lo sono.
Poi certo, ho gli occhi per vedere e il senno per capire: vedo bene gli estremisti anche violenti, li vedo replicati all’infinito nelle immagini dei Tg e nei commenti pensosi degli editorialisti, ma so che in ogni protesta di popolo a ogni latitudine dello spazio e della storia ci sono state frange irrazionali, incontrollate, spaventose e pericolose in definitiva più per la causa che dicono di sostenere che per quella che dicono di combattere. So che sono una minoranza, so che devono essere isolate e ricondotte alla ragione da chi gli sta vicino, so che a volte sono purtroppo pilotate ad arte per fini oscuri, so anche, credo, da cosa traggono linfa quando sono in buona fede. Dalla sordità, dall’ottusità, dalla chiusura degli interlocutori. Io vivo qui, i miei studenti di una vita – oggi uomini e donne – vivono qui. Li sento, ci parlo.
Nella enorme maggioranza dei casi sono persone esasperate dall’impotenza, dalla frustrazione. Mi sento di dire che nell’enorme maggioranza dei casi hanno ragione.
Ora se avete dieci minuti di pazienza vi racconto questa storia, che è la storia della sconfitta della politica così come io l’ho sempre intesa: un lavoro al servizio del bene della comunità. Non mi arrendo di fronte alle scelte incomprensibili, agli interessi non chiari. Il servilismo, la corruzione del potere: è questo credo che genera disillusione, distacco. È questo che alimenta il ribellismo e la rabbia.
Quindi ecco.
Un giorno, a fine giugno del 2012, insieme ad altri quattro esponenti del mio partito siamo stati espulsi dal Pd per una decisione della commissione provinciale di garanzia, una nota firmata da tal Roberto Gentile, che non conosco. Decisione senza contraddittorio, nessuno mi ha interpellata. L’ho saputo dai giornalisti. Cancellata dall’anagrafe degli iscritti. Motivo: mi ero candidata in una lista ufficialmente non sostenuta dal Pd, «Avigliana città aperta», quella che ha vinto le elezioni. In realtà in nessuna lista era rappresentato il simbolo del Pd. Quel che è successo è che verso la fine del mio secondo mandato il partito regionale, l’area del partito favorevole alla Tav, ha deciso che avrebbe sostenuto una grande coalizione composta da esponenti del Pd, del Pdl e dell’Udc. Gli elettori sono rimasti sbigottiti.
Avigliana ha dodicimila abitanti, qui ci conosciamo tutti. Come avremmo potuto allearci a coloro che avevamo sempre combattuto? Come avremmo potuto fare una campagna elettorale insieme al partito di Berlusconi? Il candidato «unitario» è stato indicato in Aristide Sada, commerciante, noto soprattutto per essere il figlio di Gioacchino Sada, ex tesoriere del Pci amico personale del padre di Piero Fassino, Eugenio. Avigliana è la città natale di Eugenio Fassino, infatti. Primo comandante partigiano della Valle, per noi un simbolo: a lui è intitolato il teatro comunale. È arrivata un giorno una lettera su carta intestata del Comune di Torino, firmata: il sindaco. Sosteniamo Sada, diceva Fassino. Non il Pd, ma il sindaco di Torino. In città è montata la protesta, mai col Pdl, dicevano. Cento persone di rilievo hanno firmato un appello, è nato il comitato «Avigliana città aperta». Cinque esponenti della giunta, tutti iscritti al Pd, tutti No Tav, hanno firmato. Io tra loro. Ci siamo candidati contro l’altra lista, il listone destra-sinistra, «Grande Avigliana». La Lega è andata da sola. Abbiamo vinto. I cittadini hanno scelto noi. Angelo Patrizio, il nostro candidato, è diventato sindaco. Poche settimane dopo è arrivata l’espulsione. Per «aver sostenuto una lista non autorizzata». Ma autorizzata da chi? Non vedete che l’unica autorizzazione lecita è quella degli elettori? Cinque consiglieri regionali del Pd hanno scritto una lettera in dissenso da quella decisione: «Non si capisce l’eresia, in nessuna delle due liste civiche il simbolo del Pd era rappresentato», hanno scritto. Mi hanno anche contestato, nell’espulsione, il fatto di non aver versato il 10 per cento della mia indennità al partito. D’accordo, non l’ho fatto, ma ho una buona ragione. Quando ho lasciato il lavoro e lo stipendio da insegnante – guadagnavo dopo vent’anni di docenza 1850 euro al mese – arrivata in Comune da sindaco mi sono ridotta l’indennità e l’ho adeguata al mio stipendio precedente.
Ho scelto di prendere meno dalle casse del Comune anziché prendere di piú e versare una quota al partito.
Una scelta che considero etica. Del resto non ho mai avuto niente in termini economici, dal Pd: sono stata eletta come indipendente, mi sono pagata le campagne elettorali da sola, mi sono iscritta al partito dopo essere stata designata. Non vedo perché avrei dovuto sottrarre denaro all’amministrazione comunale per darlo al Pd. Alla fine dei due mandati la mia giunta ha lasciato il bilancio in pareggio, non un mutuo né un debito. Abbiamo fatto una variante al piano regolatore per non costruire più, zero consumo del suolo.
Abbiamo abbassato la tassa sui rifiuti del 20 per cento, abbiamo portato la differenziata al 60. Ma veniamo alla Tav. La maggior parte dei miei concittadini e io pensiamo che in anni di crisi così profonda non sia affatto una priorità. Abbiamo una diversa idea dell’uso del denaro pubblico. Non ci serve un foro da 600 milioni di euro per il trasporto merci, al netto dell’impatto ambientale che avrebbe. Ci serve semmai il potenziamento della rete ferroviaria dei pendolari, visto che i treni fanno schifo e ci mettiamo un’ora e mezza per arrivare a Torino. Ci servono opere per l’adeguamento antisismico degli edifici pubblici e privati, costruiti in anni di assenza di controllo e pericolosissimi. Ci servono soldi per la scuola. Noi come Comune mettiamo 40 mila euro per gli insegnanti di appoggio ai disabili che il ministero ha tagliato. Ma i bambini disabili non si possono tagliare, non so se al ministero lo sanno. Ci chiudono gli ospedali, i teatri, i musei, gli asili, ci tagliano i fondi per incentivare l’imprenditoria giovanile e dobbiamo spendere 600 milioni per un tunnel? Non abbiamo un euro per i servizi ai cittadini e dobbiamo versare milioni a chi, per cosa? Parliamo del famoso cantiere. Ci hanno messo un anno e mezzo a fare la recinzione attorno al sito neolitico, con le camionette della polizia sulle tombe.
Noi intanto cercavamo 800 mila euro per sistemare il circuito dei musei che dà lavoro a centinaia di persone, e i soldi non c’erano. Chiudete tutto, ci hanno detto, mandate a casa i laureati, specializzati, i giovani qualificati che lavorano nella cultura. Bene, anzi malissimo. Dopo sei mesi la ditta che aveva messo su il cantiere sul sito archeologico ha chiuso. Fallita, sparita, non so. Ma da dove vengono queste aziende, come vengono assegnati i lavori e a chi? La gente qui conosce le persone, sa di chi può fidarsi, quando vede arrivare sigle e nomi sconosciuti che appaiono per il tempo di prendere i soldi e poi scompaiono cosa deve pensare? È azzardato immaginare un giro scuro di interessi, persino infiltrazioni mafiose, speculatori, corruttori? Non credo.
Quando ero sindaco mi contattò una società francese, erano interessati allo scalo merci di Bussoleno, un vecchio scalo ferroviario militare in disuso. Volevano recuperare gli edifici fatiscenti, ripristinare la linea, aprire un centro di formazione per il personale. Avrebbero portato ottanta posti di lavoro. Mi pareva una proposta molto interessante, davvero. Non ho mai avuto risposta. Né dal sottosegretario ai Trasporti, né dalla Regione, da nessuno. Si vede che quei francesi non erano nelle liste degli investitori approvati.
Con Prodi eravamo arrivati a una mediazione. Nella sua «fabbrica del programma» aveva sentito i sindaci della Val Susa, c’era stato un vero contraddittorio, erano presenti i ministri. Di Pietro, allora al governo, aveva presentato un progetto in sede europea. Dopo gli scontri del 2005 era nato l’Osservatorio.
Il patto era: fermiamoci e discutiamo. Una specie di tregua. Il movimento No Tav nella sua frangia estremista aveva ostacolato la partecipazione dei sindaci all’Osservatorio, dicevano: è una trappola. Invece le nostre ragioni sono emerse: ci sono i quaderni, scritti e pubblicati, di quei giorni. I tecnici delle due parti avevano convenuto che l’opera sarebbe stata utile, conveniente e fattibile solo in presenza di un aumento del Pil del 2 per cento. Non mi pare proprio che siamo in questa situazione, non ci siamo mai stati. Nel 2008 c’è stato quello che chiamano l’accordo di Pra Catinat. È costato due anni di discussioni fra amministratori locali e governo. Lo hanno chiamato accordo ma era solo un’intesa, piuttosto, sulle procedure da rispettare. Passo dopo passo avremmo dovuto concordare. Invece da quel momento in poi hanno giocato al pesce in barile. Il Pd, che al principio aveva mostrato di ascoltare le ragioni dei valligiani, è scomparso. Hanno forzato la mano con interpretazioni contrarie allo spirito dell’intesa, le popolazioni sono state di nuovo escluse. Sono comparsi cantieri e ditte sconosciute, poi sono scomparsi. Ci hanno chiamati sindaci dissenzienti e hanno cercato di spaccare il fronte in ogni modo. Gli estremisti hanno fomentato la rabbia dei più giovani, hanno detto: vedete, avevamo ragione, non ci ascoltano. Poi Mercedes Bresso, candidata alla Regione, sulla Val di Susa ci ha perso le elezioni. A pensar male viene da supporre che ci sia chi fomenta il fronte Sì Tav, lo finanzia allo scopo di demolire il centrosinistra. Certo il Pd da solo ci ha messo del suo. In un primo momento sembrava che stesse con la gente – soprattutto donne, e non è un caso – della Valle: con noi contro i grandi interessi. Poi deve essere successo qualcosa che non abbiamo capito. Se ne sono andati via tutti, hanno cominciato a mandare lettere su carta intestata, ad appoggiare liste con il Pdl, e a non rispondere più. Dicono che stiamo coi grillini, ma sono i loro stessi elettori che cercano ascolto nel movimento di Grillo. Mi dispiace tanto, io non sto con Grillo. Non mi piace il populismo, diffido dei predicatori. Avrei voluto che il mio partito si prendesse cura di noi. Ma continuano a non capire. Indicano la realtà come un nemico. Emanano decreti di espulsione. Ma la realtà non la possono espellere. Non ci possono combattere contro, la devono comprendere.
Ora è tutto fermo. Dopo la sconfitta della Bresso nessuno parla più di Tav, né della Valle. Però la rabbia, nella popolazione, quella cresce anche nel silenzio. Soprattutto nel silenzio perché, questo lo so con certezza, la rabbia nasce dal senso di impotenza, dalla sensazione profonda di non essere ascoltati.
Lasciare questo spazio a uno come Grillo è una stupidaggine colossale, miope e catastrofica. Chi vota Grillo, oggi, votava qualcun altro ieri e voterebbe ancora chi gli prestasse attenzione. Perché noi che facciamo politica siamo al servizio di chi ci vota e ripone in noi la sua fiducia, non il contrario. E questo lo dico senza nessun interesse personale, naturalmente. Non ne ho mai avuti e non ne ho adesso che ho quasi 60 anni, quello che potevo fare l’ho fatto e sono in pace. Avere o non avere la tessera di un partito non definisce la mia identità. Non sono io che sono andata altrove, sono loro che ci hanno voltato le spalle. Però non capisco perché, o forse non lo voglio capire perché sono ragioni opache. Allora mi tengo la mia tristezza, la mia disillusione ma non mi muovo di qui. Questo è il posto dove sono nata, queste sono le cause a cui i miei genitori mi hanno cresciuta e non mi muovo di qui. L’Italia, penso, in fondo siamo noi.