5.
Oh come siede solitaria,
la città che abbondava di popolo
Fu così, nello spazio di una notte, che tutti gli animali sparirono.
Al loro posto si alzò un muro di silenzio, contro il quale ci appiattivamo fissando inorriditi il bosco ormai deserto.
In quel deserto Zebra lanciava sassi e Ghepardo schizzi di veleno.
«Restituiscimeli o vengo giù a bruciarti», minacciò un giorno dal bordo della rupe.
Ghepardo parlava con la stessa rapidità con cui viveva. Le sue parole erano graffi che nemmeno sentivi, finché non ti accorgevi di sanguinare.
Paragonato alla sua andatura, chiunque sembrava zoppo.
Mi grattai la guancia. Zebra, che aveva appena caricato la fionda, restò col sasso in canna e gli chiese di cosa stesse parlando.
«Di quest’ammasso di erbacce che si è preso i miei falchi», rispose Ghepardo stringendo le pupille.
Zebra amava il bosco sopra ogni cosa. Invitò Ghepardo a non bestemmiarlo.
«Mi hai forse sentito dargli del porco?», s’invelenì l’altro.
Non avevamo che il bosco, a cui imputare la sparizione degli animali. E proprio per questo, adesso, nominarlo ci rendeva nervosi.
Fiutammo il vento a muso proteso: dalla terra non si alzava un grido, dal cielo non scendeva uno stormo.
Ghepardo tornò a sedersi e sbadigliò. Era sempre il primo a scagliarsi sulla vita, ma era anche il primo a staccarsene. Ghermiva le prede, ne divorava quanto gli bastava, e il resto lo lasciava agli spazzini.
Con una di quelle decisioni che lo portavano in una frazione di secondo dall’inerzia al balzo, un giorno Ghepardo aveva deciso che alla sua felinità mancava la libertà del volo, e si era messo ad allevare falchi pellegrini.
Anche quando non parlava (e succedeva spesso) bastava tendere l’orecchio e dietro quello sguardo sentivi i suoi pensieri che battevano le ali.
Se li fissavi, i suoi occhi glaciali calavano sui tuoi come due artigli.
(I falchi pellegrini, in picchiata, sono imbattibili. Si avventano in volo sulla preda e le infliggono una stoccata con gli uncini. Dopodiché la finiscono al suolo, spezzandole le vertebre cervicali a colpi di becco.)
Per difenderci dalla tramontana riparammo dietro al costone e accendemmo un falò. Tra i baveri alzati e i berretti calati sugli occhi, i nostri zigomi si molavano al fuoco. Zebra ne saggiò la lama: «Dice Toro che troverà una soluzione».
«Sì, bravo», ghignò Ghepardo. «Stai a sentire il Toro!»
Strappò un rametto di agrifoglio e lo ridusse in briciole: «Non è più capace di concepire un figlio, figuriamoci una buona idea!»
Non sopportavo che Ghepardo fosse più ribelle di me.
«Smettila di offendere nostro padre», lo rimproverai.
«Macché padre!», s’inasprì. «È soltanto un inseminatore».
«Che non insemina più», aggiunse riassumendo in una zampata dieci anni di inutile attesa.
Era dalla nostra nascita che i cacciatori aspettavano l’arrivo di un nuovo bambino.
Per quanto tempo, ora, avremmo aspettato il ritorno degli animali?
Ricacciammo sotto i baveri i nostri dubbi.
Poi Zebra disse: «E se non tornano?»
«Perché non dovrebbero tornare?», sbuffai. «Sarà una migrazione temporanea».
Ghepardo mi scrutò. Voleva capire se credevo a ciò che stavo dicendo.
«Vado a prendere da bere», dissi nascondendogli lo sguardo. Il suo mi scortò finché poteva. Dietro le rocce, riempii la fiaschetta con l’acqua del ruscello e ne rabboccai il livello con qualche goccia della mia. Poi risalii sulla rupe.
Ghepardo mi dava le spalle e guardava l’orizzonte.
«Non devi preoccuparti per i falchi», lo rassicurai. «Sono certo che se la caveranno».
Afferrò la borraccia, bevve un sorso e poi mi chiese che ne sapessi dei suoi falchi.
«Stanotte li ho sognati».
L’acqua gli andò di traverso. Nessuno, nel Cerchio, era più in grado di sognare.
«Non ti credo», tossì. Anche il tiro di Zebra uscì leggermente strozzato.
(La sua fionda non mirava a niente, se non a scagliare il più lontano possibile i sassi con cui si riempiva le tasche.)
«E che facevano? Sentiamo», mi sfidò Ghepardo restituendomi la borraccia. L’idea che i suoi falchi si fossero staccati dal trespolo per planare nei miei sogni lo irritava profondamente, ma pur di rivederli era disposto, sebbene circospetto, a varcare la soglia del mio inconscio.
«Avevano da mangiare?», si accostò.
Richiusi con calma la fiaschetta e annuii.
«Un fegato grosso così». Poi gli ghignai sul muso: «Il tuo».
Il suo sputo mi centrò in piena faccia.
«Almeno io il fegato ce l’ho».
Mi saltò al collo. Mi schienò, mi puntò un ginocchio sullo sterno e mi costrinse a ingoiare il contenuto della borraccia.
«La prossima volta che ci pisci dentro, fallo davanti a me. Vigliacco!»
«Non mi hai ancora detto se era di tuo gusto», dissi risputandogliela addosso.
Prendemmo a rotolarci tra il fuoco e il dirupo. Zebra ci girava intorno, e quando rischiavamo di bruciarci o di precipitare, ci spingeva al sicuro con un colpo di tallone.
Alla fine, stufo, ci prese a calci nel costato.
«Adesso basta, staccatevi!»
I nostri sguardi lottarono ancora per qualche secondo. Poi anch’essi si lasciarono cadere all’indietro.
«C’è tempo per ammazzarsi», concluse Zebra spegnendo il fuoco.
Aveva ragione: era per sopravvivere, che adesso bisognava lottare.
Per prima cosa i cacciatori ispezionarono le dispense. Con la cacciagione che vi era stata stipata, in teoria, avremmo potuto tirare avanti a lungo. Ma dall’odore che li investì capirono subito che qualcosa non aveva funzionato nella conservazione della carne.
Ne gettammo più della metà, e il resto ci affrettammo a cospargerlo di sale e carbone.
Poiché uccidere era molto più semplice che spaccarsi la schiena, nessun cacciatore aveva mai coltivato la terra. Mettendoli a tavola, scoprimmo che i frutti del Cerchio erano diventati immangiabili.
Più che la fame, però, per il momento ci stordiva il silenzio. Credevamo di viverci dentro, ma non c’eravamo mai resi conto di quanto chiasso facesse il mondo animale.
Per riempire il vuoto lasciato dai suoi versi, cominciai a parlare da solo.
E più parlavo, più mi scagliavo contro le parole.
«Soltanto le Scimmie e i vecchi disperati possono credere che servite a qualcosa. Noi siamo la natura, e la natura non si dice».
Non avevo alcuna fiducia nel linguaggio verbale, eppure le parole rispondevano al mio disprezzo saltandomi in bocca. Il loro sapore era rancido come cibo già masticato. Allora, dopo quei solitari monologhi, mi chinavo sul greto del fiume e vomitavo.
Un giorno, mentre Farfalla mi teneva la fronte, vedemmo passare qualcosa che, trascinato dalla corrente, ci sembrò la carcassa di un animale. La seguimmo, finché non s’incagliò sulla riva.
Non era un animale, ma una grossa scatola di plastica, vetro e metallo. Farfalla raccolse una pietra e la sfondò. Ne uscì altra ruggine.
«Cos’è questa ferraglia?»
La Farfalla scosse la testa: sia perché lo ignorava, sia perché per lei non aveva troppa importanza. Degli oggetti che il fiume ci recapitava dal mondo esterno, alla Farfalla interessava soltanto trasportarli fino a casa e affidarli alle mani di Formica.
Ora che i muli erano scomparsi, non rimaneva altro dorso che il nostro.
«Lascia stare, ci penso io», mi feci avanti.
Lei s’irritò immediatamente: «Mi stai trattando da femmina?»
Nonostante le lunghe ciglia e le labbra disegnate, la Farfalla faceva l’impossibile per risultare più maschio di noi maschi. Aveva graffi dappertutto e nella tasca posteriore un coltellino che estraeva all’improvviso per recidersi i capelli, che le crescevano veloci e pungenti come ortiche. Da qualche tempo, tra le cosce, teneva appeso un ramo.
«Che ti ricorda, questo?»
Lasciai che si sfogasse sventolandolo sotto il mio naso. Molto presto, si diceva (io, Cagna a parte, non ne avevo mai vista una), le donne del Cerchio sarebbero entrate in menopausa, e la Farfalla sarebbe diventata l’unico esemplare femmina in grado di procreare.
«Mi ricorda il sesso di un maschio», ammisi alla fine.
«E allora perché mi tratti da femmina?»
«Non ti tratto da femmina», protestai. «Se tu fossi una femmina non potresti neanche entrare nel bosco».
La Farfalla considerò i miei argomenti e piano piano si lasciò convincere.
Il bosco, sostenevano i cacciatori, era troppo pericoloso per le donne. E siccome le donne erano troppo pericolose per gli uomini, le tenevano nei pascoli più alti assieme agli animali, nutrendole a latte e mandando ogni tanto il Toro a trovarle. Soltanto la Cagna si era ribellata a quell’esilio, e prima ancora di raggiungere la malga aveva già tentato la fuga due volte. Per scongiurare la terza (sarebbe stata fatale, viste le ferite che si era procurata lanciandosi tra i rovi), Alce le aveva messo una catena al collo e l’aveva riportata a valle in cambio della promessa di non mettere mai più piede fuori di casa.
(Eppure, a distanza di anni, la Cagna sapeva ancora catturare la scia degli odori che transitavano nella sua camera da letto. Quando le chiedevo come facesse a distinguere il profumo della ginestra da quello della genziana, i suoi occhi s’accendevano dietro le tendine e incendiavano il bosco.)
«Allora, vogliamo muoverci?», chiesi alla Farfalla.
Lei saggiò il peso della scatola e disse che era pronta. Poi si corresse: «Pronto».
Ci accordammo per trasportarla insieme. «Forza, al mio via!», e andammo avanti senza soste per un paio di chilometri. Poi le braccia s’intorpidirono e ci fermammo a riposare sotto un pino.
«Quante cartucce potrà tirarci fuori, il vecchio Formica?», chiesi indicando l’oggetto che stavamo trasportando.
Formica era il padre di Farfalla (o meglio, la sua paternità stava alla Farfalla come quella di Alce stava a me). Ma soprattutto, Formica era una formica: per vederlo stare fermo, avremmo dovuto schiacciarlo.
Tutto quello che il fiume sputava finiva nella sua officina. E se non sputava niente, lui si sputava comunque sulle dita e si metteva all’opera su ciò che trovava.
Ogni pallottola sparata nel Cerchio era stata forgiata dalle sue mani. Da un insignificante rottame recuperato in fondo al fiume, Formica era capace di ricavare una partita di proiettili calibro diciotto idonei a sventrare qualsiasi preda.
Possedeva la tecnica, insomma, e anche se i cacciatori si sforzavano di ricondurre la sua sapienza a un principio naturale, come l’evoluzione di un seme in albero, ogni volta che bussavano alla porta dell’officina tradivano un sintomatico nervosismo, e si dileguavano con le munizioni sotto il braccio senza mai osare sollevare lo sguardo sui suoi alambicchi.
Di fatto, Formica trasformava la spazzatura delle Scimmie nel nostro nutrimento.
«Non stiamo portando questa roba da mio padre», mi comunicò Farfalla. «O almeno non subito».
La guardai stupito. Quello che passava per la testa di Farfalla raramente faceva fermate intermedie: le sue decisioni ti arrivavano addosso all’improvviso, quando era troppo tardi per scansarti.
«Ah, no?», chiesi. «E allora dove andiamo?»
«A conoscere la tua Scimmia».
Toro era stato inflessibile: fino al ritorno del primo mulo, sul quale l’avrebbe immediatamente caricata e rispedita indietro, la Scimmia sarebbe rimasta nella nostra soffitta, e nessuno avrebbe potuto avvicinarla. Questo fece sì che ogni cacciatore, a pochi giorni dalla sua apparizione in cima alle scale, già trattenesse di lei un ricordo fantastico.
«Aveva la coda».
«I denti d’avorio».
«Le mani senza dita».
Benché nel Cerchio si parlasse poco, ormai non si parlava d’altro che della Scimmia.
«È vero che ha l’anima?», mi domandò Farfalla a bruciapelo.
Io non sapevo cosa rispondere. «Ha due grosse mammelle», dissi.
Allora lei si caricò la scatola nera sulle spalle e, maledicendo le femmine di qualunque specie, riprese la marcia. Sapevo che non sarei riuscito a fermarla, perciò le andai dietro.
Ghepardo e Zebra ci aspettavano poco fuori dal villaggio. Il primo si affilava le unghie sui canini, l’altro le strofinava sul tronco di un faggio: passava il giorno a massaggiare il bosco.
Mentre Ghepardo e Zebra si accodavano alla Farfalla, corsi avanti ad annunciare la loro visita.
«Toro, stanno arrivando...»
Ma Toro, ritto a capotavola, mi zittì con un cenno perentorio, e non mi degnò d’uno sguardo finché non ebbe completato il salmo che stava recitando.
«Ascoltaci, o Dio».
Non aveva ancora idea di cosa fosse, questo benedetto Dio, e la Scimmia gli aveva già inculcato il desiderio di implorarlo.
«Finito?», azzardai con il cappello in mano.
Sul fuoco bolliva una striminzita minestra di asparagi. Mio padre era già alticcio. Toro chiuse la Bibbia, si sedette e mi lasciò parlare.
«Farfalla, Zebra e Ghepardo. Stanno arrivando qui per conoscere la Scimmia».
Più che stizzito mi parve afflitto: in dieci anni non erano mai venuti una volta nella nostra casa per approfondire la conoscenza di colui che li aveva generati. Si alzò e si diresse verso l’ingresso. Ma la sua prole era già entrata dal retro.
Il loro aspetto spaventò la Scimmia, che diede uno dei suoi urli. Il mestolo cadde dalle mani della Cagna.
«Che succede?», sobbalzò Alce.
Ghepardo drizzò il pelo. Zebra si rifugiò sotto il tavolo. Farfalla afferrò nella tasca il suo coltello e lo sfoderò sotto il naso dell’ospite.
«Grida un’altra volta e t’ammazzo».
Spaventata, la Scimmia si ammutolì, ma Farfalla non abbassò la lama. Toro le torse il polso e la disarmò.
«Cosa ti salta in testa?»
«Le ho solo detto di non gridare».
«Non gridare nemmeno tu, allora».
Farfalla si calmò. Guardò la Scimmia. Le girò intorno e disse: «Così sarebbe questa».
L’altra fissò il ramo che dondolava tra le sue gambe coperte di lividi. Poi stirò le labbra e allungò timidamente una mano verso Farfalla. Solo allora mi resi conto che tra l’una e l’altra non passavano che una manciata di anni.
«E questa mano cosa significa?», domandò diffidente la Farfalla.
Toro la invitò a stringerla: «Credo voglia salutarti».
La Scimmia si protese verso Farfalla. Toccata sulle dita, e in qualche altro punto dentro di sé, lei si ritrasse.
Solo allora Toro notò la scatola che c’eravamo trascinati dietro.
«Che cos’è? Non le voglio tra i piedi, certe porcherie».
Ghepardo scoppiò a ridere: «Però ti metti in casa una Scimmia!»
Toro si schiarì la voce e disse che la Scimmia sarebbe partita non appena si fosse trovato un mulo, o qualunque altro modo per riportarla dalla sua parte.
«Magnifico», lo canzonò Ghepardo tra i canini. «Allora possiamo metterci comodi».
L’arroganza, la combattività, il disamore – avevamo ereditato tutto dal Toro, e contro il Toro ora li usavamo.
«Funzionerà ancora, quel televisore?», disse improvvisamente la Scimmia.
Ghepardo si voltò di scatto: «Come hai detto che si chiama?»
Era sempre più attratto dai relitti che trovavamo nel fiume. Prima che Formica li fondesse e li trasformasse in piombo, Ghepardo li studiava per ore e ore cercando di capire a cosa potessero servire.
Anche Zebra uscì da sotto il tavolo. Squadrò la Scimmia, ne soppesò l’odore e poi le chiese a bruciapelo: «Posso toccarti?»
La Scimmia ovviamente non capì. Ma fece l’errore di sorridergli, e si ritrovò il muso di Zebra tra le mammelle.
«Odora di latte!»
La Scimmia saltò sulla sedia, restò un attimo in apnea e ricadendo gli allungò un ceffone. Zebra si strofinò la guancia e le mostrò i denti. La Scimmia si spaventò ancora di più. Nel parapiglia la minestra ondeggiò nei piatti e una bottiglia di birra si rovesciò. Per fortuna Alce l’aveva già mezza svuotata.
«Fate attenzione, porco di un bosco!», si rianimò chinandosi sulla tovaglia a succhiare l’altra mezza.
Sia la Scimmia che Zebra sembrarono sul punto di scoppiare in lacrime. La Farfalla si frappose tra i due e rialzò il coltello. Per disarmarla di nuovo, Toro dovette schiaffeggiare anche lei.
«Adesso basta!», gridò.
«Ma ha colpito Zebra!»
La Scimmia si rimpicciolì sulla sedia e chiese perché da quelle parti i minori fossero così aggressivi.
«Minori di cosa?», polemizzò Farfalla dall’angolo in cui era stata relegata.
La Scimmia si mordicchiò un labbro.
«Faccio bene, io, a stare chiusa in soffitta», piagnucolò.
Poi guardò Farfalla.
«Tuo padre lo sa che giri armata?»
Farfalla si rivolse al Toro: «Lo sai?», ammiccò impertinente.
Non era mai chiaro se ce l’avesse con lui perché l’aveva abbandonata a Formica o per il semplice fatto di averla generata (in altre parole, perché era o perché non era suo padre).
Tornato a capotavola, lo stallone ritrovò una parvenza di autorità.
«Chiedo scusa per Farfalla», tossicchiò. «E anche per l’iniziativa di Zebra: voleva solo conoscerti meglio».
Toccare ci serviva per scoprire il mondo. Per Zebra, in particolare, era un impulso insopprimibile, che spesso lo spingeva ad abbracciare gli alberi o a sdraiarsi tra le foglie nell’attesa che qualche animale si avvicinasse e gli si strofinasse muso contro muso.
«E adesso andate», concluse il Toro.
Prima di accompagnarli alla porta, la Cagna uscì dal suo raggio d’ombra, aprì la dispensa e caricò i tre ragazzi di provviste.
«Vacci piano», protestò Alce sollevando il naso dalla birra. «Non ne restano molte, di quelle salsicce».
La Cagna fece finta di non sentire: meno aveva, più le piaceva dare.
Farfalla e Zebra non ringraziarono, non si voltarono, non salutarono. Soltanto Ghepardo, sulla soglia, si girò verso la Scimmia e domandò: «Che c’è dietro la Linea?»
Lei, probabilmente, credette che Ghepardo le stesse presentando le sue scuse. Si arrotolò un ciuffo di capelli intorno al dito e le accettò borbottando: «Niente, niente».
«Niente?», si meravigliò Ghepardo.
La Scimmia lo liquidò con un mezzo sorriso: «Non pensarci più».
I suoi falchi e la Linea: Ghepardo non pensava ad altro. Si pizzicò il mento e ridusse gli occhi a due fessure.
«Non ti credo», concluse. E si portò via il – come l’aveva chiamato? – sì, televisore.
Rimasti soli, riprendemmo a sorbire la minestra. Era ormai fredda, come l’atmosfera.
Toro chiese se dovevamo ricominciare daccapo la preghiera, ma la Scimmia, incapace di comprenderlo o forse solo assorta, sollevò lo sguardo verso Alce e domandò decisa: «Quanti bambini vivono nel bosco?»
Lui non se l’aspettava. L’ultimo sorso gli andò di traverso. Aspettammo a testa bassa che finisse di tossire. Il suo sguardo era vuoto come le bottiglie allineate davanti alla scodella.
«Non ho capito», prese tempo.
La Scimmia non si stupì: era ancora convinta che le difficoltà di comprensione fossero reciproche.
«I bambini», m’indicò. «In tutto, quanti sono?»
Alce finse di essere più ubriaco di quello che era. «Lasciami pensare», farfugliò.
Spazientito, Toro allungò una gomitata a mio padre e sollevò quattro dita.
«Solo quattro?», si sorprese la Scimmia.
Toro e Alce si guardarono.
«E dove vanno a scuola?»
La finestra era aperta: fu facile mostrarle la nostra aula.
«Nel bosco?»
Chiese chi ci insegnasse a vivere. Il Toro di una volta non avrebbe esitato a gonfiare il petto e ad arrogarsi il merito. Si limitò a mettersi al centro di un largo gesto, che comprendeva la natura, i cacciatori, le prede.
La Scimmia si pulì le labbra e andò a riflettere davanti al fuoco. Nel baratro che divideva il suo mondo dal nostro, vide una buca da riempire.
«Mi piacerebbe incontrarli di nuovo», annunciò tornando in cucina.
Mio padre guardò il Toro. «Di che parla?», biascicò.
Io mi tenevo la fronte con la mano.
«I vostri figli. Vorrei conoscerli meglio».
Alce schioccò la lingua: «Cioè?»
«Non so», rimuginò la Scimmia. «Potrei aiutarvi a crescerli».
Ci pensò sopra e la sua idea le piacque.
«Sì, sì, li cresceremo insieme».
Sarebbe stato un giusto scambio, disse: prendersi cura della nostra istruzione come noi ci stavamo prendendo cura di lei.
«Che ne dici?», m’interrogò.
Prima che potessi fornirle la mia opinione, Alce crollò sulla tavola.
Assistito dalla Cagna, Toro lo afferrò per le ascelle e lo trasportò sul divano, dove fu seppellito sotto una spanna di coperte.
La Scimmia recitò una rapida lode per il cibo che avevamo mangiato.
Poi, nella casa, si udì soltanto il rantolo di mio padre che scivolava dall’ubriachezza al sonno.