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L’avrebbero riportata a casa.
Con questa promessa inespressa, avevano preso in consegna il corpo della bambina.
Le avrebbero reso giustizia.
Dopo il suicidio di Bermann era difficile mantenere questo impegno, ma ci avrebbero provato lo stesso.
Perciò ora il cadavere era lì, all’Istituto di medicina legale.
Il dottor Chang sistemò l’asta del microfono che pendeva dal soffitto in modo che fosse perfettamente a perpendicolo con il tavolo d’acciaio dell’obitorio. Quindi accese il registratore.
Per prima cosa si armò di bisturi e lo fece scivolare sulla sacca plastificata con un gesto rapido, tracciando una linea retta molto precisa. Depositò lo strumento chirurgico e, delicatamente, afferrò con le dita i due lembi che aveva ricavato.
L’unica luce nella sala era quella accecante della lampada che sovrastava il tavolo operatorio. Tutt’intorno, il baratro del buio. E, in bilico su quell’abisso, c’erano Goran e Mila. Nessuno degli altri componenti la squadra aveva ritenuto di dover partecipare a quella cerimonia.
Il medico legale e i due ospiti indossavano camici sterili, guanti e mascherina per non contaminare le prove.
Aiutandosi con una soluzione salina, Chang cominciò ad allargare lentamente i margini della sacca, staccando la plastica dal corpo sottostante a cui aveva perfettamente aderito. Un po’ alla volta, con molta pazienza.
A poco a poco, cominciò ad apparire... Mila vide subito la gonna verde di velluto a coste. La camicetta bianca e il gilet di lana. Quindi si cominciò a scorgere la flanella di un blazer.
Man mano che Chang risaliva, svelava nuovi particolari. Arrivò alla sezione toracica da cui mancava il braccio. La giacca lì non era affatto sporca di sangue. Era semplicemente tagliata all’altezza della spalla sinistra da cui fuoriusciva un moncone.
«Non l’ha uccisa con questi abiti addosso. Ha ricomposto la salma, dopo», disse il patologo.
Quel «dopo» si perse nell’eco della stanza, precipitando nella voragine di buio che li circondava, come un sasso che rimbalza sulle pareti di un pozzo senza fondo.
Chang sfilò il braccio destro. Al polso c’era un braccialetto con appeso un ciondolo a forma di chiave.
Arrivato all’altezza del collo, il medico legale si fermò un momento per tergersi la fronte con un piccolo asciugamano. Mila si accorse solo ora che il patologo stava sudando. Era arrivato al punto più delicato. Il timore era quello che staccando la plastica dal volto potesse venir via anche l’epidermide.
Mila aveva già assistito ad altre autopsie. Di solito i medici legali non si facevano tanti scrupoli nel trattare i corpi su cui dovevano indagare. Li tagliavano e li cucivano senza alcuna cura. In quel momento capì, invece, che Chang desiderava che i genitori rivedessero per un’ultima volta la loro bambina nel miglior stato possibile. Per questo era così apprensivo. Ebbe un moto di rispetto per quell’uomo.
Finalmente, dopo alcuni interminabili minuti, il medico riuscì a togliere completamente il sacco nero dal volto della piccola. Mila la vide. E la riconobbe subito.
Debby Gordon. Dodici anni. La prima a sparire. Gli occhi erano sgranati. La bocca era ancora spalancata.
Come se stesse disperatamente cercando di dire qualcosa.
Portava un fermaglio con un giglio bianco. Lui le aveva pettinato i capelli. “Che assurdità”, pensò subito Mila. Era stato più facile essere compassionevole davanti a un cadavere piuttosto che di fronte a una bambina ancora in vita! Ma poi dedusse che il motivo per cui si era preso tanta cura di lei era un altro.
“L’ha fatta bella per noi.”
Quell’intuizione le fece rabbia. Ma capì anche che al momento quelle emozioni non le appartenevano. Spettavano a qualcun altro. E fra poco lei sarebbe dovuta andare di là, superare il buio profondo e comunicare a due genitori già distrutti che la loro vita era davvero finita.
Il dottor Chang scambiò un’occhiata con Goran. Era venuto il momento di stabilire con che tipo di assassino avevano a che fare. Se il suo interesse per quella creatura era stato generico, oppure terribilmente mirato. In altre parole, se la bambina avesse subito o meno violenza sessuale.
Tutti in quella sala erano combattuti fra il desiderio che le fosse stata risparmiata quest’ennesima sevizia, e la speranza che invece ciò non fosse avvenuto. Perché in tal caso ci sarebbero state più possibilità che l’assassino avesse lasciato delle tracce organiche che avrebbero permesso di identificarlo.
Esisteva una procedura precisa per i casi di violenza carnale. E Chang, non avendo ragioni per discostarsene, iniziò con l’anamnesi. Consisteva nel cercare di ricostruire circostanze e modalità dell’aggressione. Ma nello specifico, data anche l’impossibilità di assumere informazioni dalla vittima, non c’era modo di risalire ai fatti.
La fase successiva era l’esame obiettivo. Una valutazione fisica, accompagnata da una documentazione fotografica, che procedeva dalla descrizione dell’aspetto generale fino all’individuazione di lesioni esterne che potessero segnalare che la vittima si era opposta o aveva lottato.
Si iniziava, di solito, con segnare e repertare gli indumenti indossati. Quindi si procedeva con la ricerca di eventuali macchie sospette sui vestiti, di filamenti, capelli, foglie. Solo allora si passava allo scraping subungueale, che consisteva nel raccogliere dalle unghie della vittima, con una specie di stuzzicadenti, eventuali residui di pelle dell’assassino - nel caso si fosse difesa - o di terra e fibre varie per risalire al luogo dell’uccisione.
Anche stavolta il risultato fu negativo. Le condizioni del cadavere - a parte l’amputazione dell’arto - erano perfette, i suoi abiti puliti.
Come se qualcuno avesse provveduto a lavarla prima di metterla nel sacco.
La terza fase era la più invasiva e prevedeva l’esame ginecologico.
Chang si munì di un colposcopio e cominciò a esaminare dapprima la superficie mediale delle cosce nella speranza di individuare macchie di sangue, materiale spermatico o altre secrezioni del violentatore. Poi prese da un vassoio di metallo il kit per l’esame vaginale, che comprendeva un tampone cutaneo e uno per la mucosa. Con le sostanze prelevate, preparò due vetrini, fissando la striscia del primo con del Citofix e lasciando che la seconda si essiccasse all’aria.
Mila sapeva che servivano per un’eventuale tipizzazione genica dell’assassino.
L’ultima fase era quella più cruda. Il dottor Chang piegò il tavolo d’acciaio all’indietro, sollevando le gambe della bambina su due sostegni. Quindi si mise a sedere su uno sgabello e, con una lente d’ingrandimento dotata di una particolare lampada a ultravioletti, passò all’individuazione di possibili lesioni interne.
Dopo qualche minuto, sollevò il capo verso Goran e Mila, sentenziando freddamente: «Non l’ha toccata».
Mila annuì e, prima di allontanarsi dalla sala, si piegò sul cadavere di Debby per sfilarle dal polso il braccialetto con appesa la piccola chiave. Quell’oggetto, insieme alla notizia che la bambina non era stata violentata, avrebbe costituito l’unica dote da portare con sé per i Gordon.
Appena si congedò da Chang e da Goran, Mila avvertì l’urgenza di togliersi quel camice pulito. Perché, in quel momento, si sentiva sporca. Passando per lo spogliatoio, si fermò davanti al grande lavabo di ceramica. Aprì l’acqua calda e vi infilò sotto le mani, cominciando a strofinarle forte.
Continuando a lavarsi freneticamente, sollevò lo sguardo sullo specchio che aveva di fronte. Immaginò nel riflesso la piccola Debby che entrava nello spogliatoio, con la sua gonna verde, il blazer blu e il fermaglio nei capelli. E che, facendo leva sull’unico braccio rimastole, si metteva a sedere sulla panca accostata alla parete. E cominciava a guardarla, dondolando i piedi. Debby spalancava la bocca e poi la richiudeva, come se cercasse di comunicare con lei. Ma in realtà non diceva nulla. E Mila avrebbe tanto voluto chiederle della sua sorella di sangue. Quella che ormai era per tutti la bambina numero sei.
Poi si ridestò da quell’allucinazione.
L’acqua del rubinetto scorreva. Il vapore saliva in ampie volute e aveva coperto quasi del tutto la superficie dello specchio.
Solo allora Mila si accorse del dolore.
Abbassò lo sguardo e tirò via istintivamente le mani dal getto di acqua bollente. La pelle del dorso era arrossata, mentre sulle dita c’erano già delle bolle. Mila se le fasciò subito con un asciugamano, quindi si diresse all’armadietto del pronto soccorso, in cerca di bende.
Nessuno avrebbe mai dovuto sapere ciò che le era successo.
Quando aprì gli occhi, per prima cosa si ricordò del bruciore alle mani. Per questo scattò a sedere, riprendendo bruscamente contatto con la realtà della camera da letto che la circondava. L’armadio che aveva di fronte, con lo specchio incrinato, il cassettone alla sua sinistra e la finestra con la tapparella abbassata che lasciava comunque filtrare qualche linea di luce azzurrognola. Mila si era addormentata vestita, perché le coperte e le lenzuola di quella squallida stanza di motel erano macchiate.
Perché si era svegliata? Forse avevano bussato. O forse l’aveva solo sognato.
Bussarono di nuovo. Si alzò e si avvicinò alla porta, aprendola solo di qualche centimetro.
«Chi è?» domandò inutilmente alla faccia sorridente di Boris.
«Sono venuto a prenderti. Fra un’ora inizia la perquisizione a casa di Bermann. Gli altri ci aspettano lì... E poi ho pensato di portarti la colazione.» E le agitò sotto il naso un sacchetto di carta che verosimilmente conteneva croissant e caffè.
Mila si diede una rapida occhiata. Non era affatto presentabile ma forse questo era un bene: avrebbe scoraggiato gli ormoni del collega. Lo invitò a entrare.
Boris fece qualche passo all’interno della stanza, si guardò intorno con aria perplessa, mentre Mila si avvicinava al lavabo posto in un angolo per sciacquarsi il viso ma, soprattutto, per nascondere le mani bendate.
«Questo posto è anche peggio di come me lo ricordavo.» Fiutò l’aria. «E c’è sempre lo stesso odore.»
«Credo che sia un repellente per insetti.»
«Quando sono entrato nella squadra, ci ho passato quasi un mese prima di trovarmi un appartamento... Lo sai che qui ogni chiave apre tutte le stanze? I clienti hanno l’abitudine di andarsene senza pagare e il proprietario si era stancato di dover rimpiazzare sempre le serrature. Di notte faresti bene a sbarrare la porta con il cassettone.»
Mila lo guardò attraverso lo specchio sopra al lavandino. «Grazie del consiglio.»
«No, sul serio. Se hai bisogno di un posto più decente in cui abitare, posso darti una mano.»
Mila gli rivolse un’occhiata interrogativa. «Per caso, agente, mi stai invitando a stare da te?»
Boris, imbarazzato, si affrettò a precisare: «No, non intendevo questo. È che potrei chiedere in giro se c’è una collega che vuole dividere il suo appartamento, tutto qui.»
«Spero di non dovermi trattenere tanto da averne bisogno», osservò lei, facendo spallucce. Dopo essersi asciugata la faccia, puntò il sacchetto che le aveva portato. Glielo strappò quasi dalle mani, andandosi a sedere a gambe incrociate sul letto per ispezionarne il contenuto.
Croissant e caffè, come aveva sperato.
Boris rimase spiazzato da quel gesto, e ancora di più nel vedere le sue mani coperte dalle bende. Ma non disse nulla. «Fame?» domandò invece, intimidito.
Lei gli rispose con la bocca piena. «Sono due giorni che non tocco cibo. Se non fossi arrivato tu stamattina, dubito che sarei riuscita a trovare la forza per varcare la soglia.»
Mila sapeva che non avrebbe dovuto dire una cosa del genere, quell’affermazione era un evidente incoraggiamento. Ma non trovò altro modo per ringraziarlo, e poi aveva davvero fame. Boris le sorrise, tronfio.
«Allora, come ti trovi?» le chiese.
«Mi adatto facilmente, perciò: bene.»
“A parte la tua amica Sarah Rosa che praticamente mi odia”, ma questo Mila lo pensò soltanto.
«Mi è piaciuta quella tua intuizione sulle sorelle di sangue...»
«Un colpo di fortuna: mi è bastato pescare fra le mie esperienze adolescenziali. Anche tu avrai fatto qualcosa di stupido a dodici anni, no?»
Notando lo smarrimento del collega che cercava inutilmente una risposta, le scappò un sorriso.
«Scherzavo Boris...»
«Oh, certo», disse lui arrossendo.
Mila mandò giù l’ultimo boccone, si leccò le dita e si buttò sul secondo croissant della busta, quello di Boris, che davanti a tanto appetito non ebbe il coraggio di dire nulla.
«Boris, dimmi una cosa... Perché lo avete chiamato Albert?»
«È una storia molto interessante», affermò. Quindi, con molta disinvoltura si mise a sedere accanto a lei e iniziò a raccontare: «Cinque anni fa ci capita un caso stranissimo. C’è un omicida seriale che rapisce le donne, le violenta, le uccide strangolandole e poi ci fa ritrovare i cadaveri senza il piede destro».
«Il piede destro?»
«Esatto. Nessuno ci capisce niente perché il tipo quando agisce è anche molto preciso e pulito, non lascia tracce dietro di sé. Fa solo questa cosa dell’amputazione. E colpisce maledettamente a caso... Insomma, siamo già arrivati al quinto cadavere e non riusciamo a fermarlo. A questo punto, il dottor Gavila ha un’idea...»
Mila aveva terminato anche il secondo croissant ed era passata al caffè. «Che genere di idea?»
«Ci chiede di cercare negli archivi tutti i casi che riguardano i piedi, anche quelli più insulsi e banali.»
Mila mostrò un’espressione più che perplessa.
Poi versò tre bustine di zucchero nel bicchiere di polistirolo. Boris se ne accorse e fece una faccia disgustata, stava per dirle qualcosa in proposito ma preferì continuare il racconto. «Anche a me all’inizio sembrava un po’ assurdo. Be’, invece cominciamo a cercare e spunta fuori che da qualche tempo c’è un ladro che si aggira nella zona rubando scarpe da donna dagli espositori che sono all’esterno dei negozi di calzature. Lì ci si tiene soltanto una scarpa per numero e modello - sai, per evitare che le rubino - e di solito è la destra, per facilitare la prova ai clienti.»
Mila si bloccò, con il bicchiere di caffè a mezz’aria, e rimase a contemplare, estasiata, l’originalità di quell’intuizione investigativa. «Avete sorvegliato i negozi di scarpe e avete catturato il ladro...»
«Albert Finley. Un ingegnere di trentotto anni, coniugato, due figli piccoli. Una villetta in campagna e un camper per le vacanze.»
«Uno normale.»
«Nel garage della sua abitazione troviamo un freezer e dentro, avvolti accuratamente nel cellofan, cinque piedi destri di donna. Il tipo si divertiva a fargli indossare le scarpe che rubava. Era una specie di ossessione feticista.»
«Piede destro, braccio sinistro. Per questo Albert!»
«Esatto!» disse Boris mettendole una mano sulla spalla in segno di approvazione. Mila si scostò bruscamente, alzandosi di scatto dal letto. Il giovane poliziotto ci rimase male.
«Scusa», gli disse lei.
«Nessun problema.»
Non era vero, e Mila infatti non gli credette. Però decise di fingere lo stesso che era come aveva detto lui. Gli diede le spalle e tornò verso il lavabo. «Mi preparo in un minuto, così possiamo andare.»
Boris si alzò e andò verso la porta. «Fa’ con calma. Ti aspetto fuori.»
Mila lo vide uscire dalla stanza. Poi sollevò il viso sullo specchio. “Oddio, quando finirà?” si chiese. “Quando riuscirò a farmi toccare di nuovo da qualcuno?”
Per tutto il tragitto verso la casa di Bermann non si erano scambiati una sola parola. Anzi, entrando in macchina, Mila aveva trovato l’autoradio accesa e capito subito che quella era una dichiarazione d’intenti su come si sarebbe svolto il viaggio. Boris c’era rimasto male, e forse ora aveva un altro nemico all’interno della squadra.
Arrivarono in poco meno di un’ora e mezza. L’abitazione di Alexander Bermann era un villino immerso nel verde, in una tranquilla zona residenziale.
La strada sul davanti era stata transennata. Di là da quel confine si ammassavano curiosi, vicini di casa e giornalisti. Mila, guardandoli, pensò che era cominciata. Mentre arrivavano lì, avevano ascoltato un giornale radio che dava la notizia del ritrovamento del cadavere della piccola Debby ed era spuntato fuori pure il nome di Bermann.
Il motivo di tanta euforia mediatica era semplice. Il cimitero di braccia era stato un duro colpo per l’opinione pubblica, ma ora finalmente avevano un nome per battezzare l’incubo.
L’aveva visto accadere altre volte. La stampa si sarebbe attaccata tenacemente alla storia e, in pochissimo tempo, avrebbe calpestato ogni aspetto della vita di Bermann, senza fare distinzioni. Il suo suicidio valeva come un’ammissione di colpa. Perciò i media avrebbero insistito sulla loro versione. L’avrebbero designato a svolgere il ruolo di mostro senza alcun contraddittorio, confidando solo sulla forza della loro unanimità. L’avrebbero fatto a pezzi crudelmente, così come si presupponeva lui avesse fatto con le sue piccole vittime, senza però cogliere l’ironia di questo parallelismo. Avrebbero cavato sangue a litri da tutta la vicenda, per condire e rendere più appetitose le prime pagine. Senza rispetto, senza equità. E quand’anche qualcuno si fosse permesso di farlo notare, si sarebbero trincerati dietro un comodo e sempre attuale «diritto di cronaca» per celare la loro innaturale impudicizia.
Scesa dalla macchina, Mila si fece strada tra la piccola folla di cronisti e gente comune, entrò nel perimetro circoscritto dalle forze dell’ordine e si diresse a passo spedito lungo il viale d’accesso, fino alla porta di casa, senza poter evitare di essere abbagliata da qualche flash. In quel momento colse lo sguardo di Goran di là dalla finestra. Si sentì assurdamente in colpa perché lui l’aveva vista arrivare con Boris. E poi stupida per aver pensato una cosa simile.
Goran tornò a rivolgere la sua attenzione all’interno della casa. Poco dopo, Mila varcò la soglia.
Stern e Sarah Rosa, coadiuvati da altri detective, erano già al lavoro da un pezzo e si muovevano come insetti operosi. Era tutto sottosopra. Gli agenti stavano setacciando mobili, muri e quant’altro potesse svelare qualche indizio per chiarire la vicenda.
Ancora una volta, Mila non poteva unirsi a quella perlustrazione. D’altronde Sarah Rosa le aveva abbaiato subito in faccia che a lei era riservato solo il diritto di osservare. Così cominciò a guardarsi intorno, tenendo le mani in tasca per non dover giustificare le bende che le fasciavano.
Ad attirare la sua attenzione furono le foto.
Ce n’erano a decine sistemate sui mobili, in eleganti cornici di radica o d’argento. Ritraevano Bermann e sua moglie in momenti felici. Una vita che adesso sembrava lontana, quasi impossibile. Avevano viaggiato molto, notò. C’erano immagini di ogni posto del mondo. Però, man mano che le foto si facevano più recenti e i loro volti più vecchi, le espressioni apparivano velate. C’era qualcosa dentro quelle foto, Mila ne era sicura. Ma non sapeva dire cosa fosse. Aveva avuto una strana sensazione entrando in quella casa. Ora le sembrava di avvertirla meglio.
Una presenza.
In quell’andirivieni di agenti, c’era anche un’altra spettatrice. Mila riconobbe la donna delle foto: Veronica Bermann, la moglie del presunto assassino. Capì subito che doveva avere un carattere orgoglioso. Teneva un atteggiamento di decoroso distacco mentre quegli sconosciuti toccavano le sue cose senza chiedere il permesso, violando l’intimità di quegli oggetti, di quei ricordi, con la loro invadente presenza. Non sembrava rassegnata, bensì consenziente. Aveva offerto la sua collaborazione all’ispettore capo Roche, asserendo con sicurezza che il marito era estraneo a quelle terribili accuse.
Mila la stava ancora osservando quando, voltandosi, si trovò di fronte uno spettacolo inaspettato.
C’era un’intera parete ricoperta di farfalle imbalsamate.
Erano contenute in cornici di vetro. Ce n’erano di strane e bellissime. Alcune avevano un nome esotico, riportato insieme al luogo di origine su una targhetta d’ottone. Quelle più affascinanti provenivano dall’Africa e dal Giappone.
«Sono bellissime perché sono morte.»
Era stato Goran a dirlo. Il criminologo indossava un pullover nero e pantaloni di vigogna. Il colletto della camicia gli spuntava in parte dallo scollo del maglione. Si posizionò accanto a lei per guardare meglio la parete di farfalle.
«Davanti a un simile spettacolo dimentichiamo la cosa più importante e più evidente... Quelle farfalle non voleranno più.»
«È innaturale», convenne Mila. «Eppure è anche così seducente...»
«È proprio l’effetto che fa la morte su alcuni individui. Per questo esistono i serial killer.»
A quel punto Goran fece un piccolo gesto con la mano. Fu sufficiente perché tutti i membri della squadra si radunassero immediatamente intorno a lui. Segno che, anche se sembravano del tutto presi dalle loro mansioni, in realtà continuavano a guardarlo, in attesa che dicesse o facesse qualcosa.
Mila ebbe la conferma di quanto grande fosse la fiducia che riponevano nel suo intuito. Goran li guidava. Era molto strano, perché lui non era un agente e gli «sbirri» - almeno quelli che conosceva lei - erano sempre restii ad affidarsi a un civile. Sarebbe stato più giusto che quel gruppo si chiamasse «la squadra di Gavila» piuttosto che «la squadra di Roche», il quale come al solito non era presente. Si sarebbe fatto vedere solo nel caso in cui fosse spuntata la classica prova schiacciante che avrebbe inchiodato definitivamente Bermann.
Stern, Boris e Rosa presero posto intorno al dottore. Secondo il loro solito schema, in cui ciascuno aveva la sua posizione. Mila rimase un passo indietro: temendo di sentirsi esclusa, si escluse da sola.
Goran parlò a voce bassa, fissando subito per tutti il tono con cui voleva si svolgesse quella conversazione. Probabilmente desiderava non turbare Veronica Bermann.
«Allora, cosa abbiamo?»
Stern fu il primo a rispondere scuotendo il capo: «In casa non c’è nulla di rilevante che possa ricollegare Bermann alle sei bambine».
«La moglie sembra all’oscuro di tutto. Le ho rivolto qualche domanda e non ho avuto l’impressione che mentisse», aggiunse Boris.
«I nostri stanno setacciando il giardino con i cani da cadavere», disse Rosa. «Ma finora nulla.»
«Dovremo ricostruire ogni spostamento di Bermann nelle ultime sei settimane», osservò Goran e tutti assentirono, anche se sapevano già che sarebbe stato un lavoro quasi impossibile.
«Stern, c’è altro?»
«In banca nessun movimento strano di denaro. Il costo più ingente che Bermann ha dovuto sostenere nell’ultimo anno è stata una terapia d’inseminazione artificiale per la moglie, che gli è costata parecchi soldi.»
Ascoltando le parole di Stern, Mila si rese conto di quale fosse la sensazione che aveva provato poco prima entrando e poi guardando le foto. Non una presenza, come aveva pensato in un primo momento. Si era sbagliata.
Era piuttosto un’assenza.
Si avvertiva la mancanza di un figlio in quella casa dai mobili costosi e impersonali, arredata per due individui che si sentono destinati a rimanere soli. Perciò quella terapia d’inseminazione artificiale di cui parlava l’agente Stern pareva un controsenso visto che in quel luogo non si percepiva neanche l’ansia di chi stesse aspettando il dono di un figlio.
Stern concluse la sua esposizione con un rapido ritratto del privato di Bermann: «Non faceva uso di droghe, non beveva e non fumava. Aveva la tessera di una palestra e quella di una videoteca, ma noleggiava solo documentari sugli insetti. Frequentava la chiesa luterana del quartiere e, due volte al mese, prestava la sua opera come volontario nella casa di riposo».
«Un sant’uomo», ironizzò Boris.
Goran si voltò verso Veronica Bermann per accertarsi che non avesse sentito quell’ultimo commento. Poi tornò a guardare Rosa: «C’è dell’altro?»
«Ho fatto uno scanning dell’hard disk dei computer di casa e dell’ufficio. Ho anche avviato una procedura di recupero di tutti i file eliminati. Ma non c’era nulla d’interessante. Solo lavoro lavoro lavoro. Questo tizio era fissato col suo lavoro.»
Mila si accorse che Goran si era improvvisamente distratto. Durò poco e presto tornò a concentrarsi sulla conversazione. «Di Internet cosa sappiamo?»
«Ho chiamato la società titolare del server e mi hanno dato una lista delle pagine web visitate negli ultimi sei mesi. Anche lì, nulla... A quanto pare aveva una passione per i siti dedicati alla natura, ai viaggi e agli animali. E poi acquistava in rete roba d’antiquariato e, su ebay, soprattutto farfalle da collezione.» Quando Rosa ebbe terminato la sua esposizione, Goran tornò a incrociare le braccia e si mise a guardare, uno per uno, i suoi collaboratori. Quella carrellata comprese anche Mila, che si sentì finalmente coinvolta.
«Allora, cosa ne pensate?» domandò il dottore.
«Sono come abbagliato», disse subito Boris sottolineando enfaticamente quella frase col gesto di portarsi una mano a coprire gli occhi. «È tutto troppo ‘pulito’.» Gli altri annuirono.
Mila non sapeva a cosa si riferisse, ma non voleva neanche chiederlo. Goran si lasciò scivolare una mano sulla fronte e si stropicciò gli occhi stanchi. Poi gli apparve ancora sul volto quella distrazione... C’era un pensiero che per un secondo o due lo portava altrove, e che poi evidentemente il criminologo archiviava per qualche motivo. «Qual è la prima regola di un’indagine su un sospetto?»
«Tutti abbiamo dei segreti» disse subito il solerte Boris.
«Appunto», gli fece eco Goran. «Tutti abbiamo avuto una debolezza, almeno una volta nella vita. Ognuno di noi ha il suo piccolo o grande, inconfessabile segreto... Invece guardatevi intorno: quest’uomo è il prototipo del buon marito, del buon credente, del gran lavoratore», affermò scandendo bene ogni punto sulle dita: «È un filantropo, un salutista, noleggia solo documentari, non ha vizi di sorta, colleziona farfalle... È credibile un uomo così?»
La risposta stavolta era scontata. No, non lo era.
«Allora che ci fa un uomo del genere col cadavere di una bambina nel bagagliaio?»
Intervenne Stern: «Si è dato una ripulita...»
Goran ne convenne: «Ci incanta con tutta questa perfezione per non farci guardare altrove... E dov’è che non stiamo guardando in questo momento?»
«Allora, cosa dobbiamo fare?» domandò Rosa.
«Ricominciate daccapo. La risposta è lì, fra quelle cose che avete già esaminato. Ripassatele al setaccio. Dovrete togliere la lucida crosta che le avvolge. Non vi lasciate ingannare dal bagliore dell’esistenza perfetta: quel luccichio serve solo per distrarci e confonderci le idee. E poi dovete...»
Goran si perse ancora. La sua attenzione era altrove. Stavolta se ne accorsero tutti. C’era qualcosa che finalmente prendeva corpo nella sua testa, e cresceva.
Mila decise di seguire lo sguardo del criminologo che si muoveva nella stanza. Non era semplicemente perso nel vuoto. Si accorse che stava guardando qualcosa...
Il piccolo led rosso lampeggiava a intermittenza, scandendo un ritmo tutto suo per richiamare l’attenzione.
Gavila chiese ad alta voce: «Qualcuno ha ascoltato i messaggi sulla segreteria telefonica?»
In un istante la stanza si fermò. Fissarono l’apparecchio che strizzava l’occhio rosso ai presenti e si sentirono colpevoli, colti in flagrante in quella clamorosa dimenticanza. Goran non ci fece caso, e semplicemente andò a premere il pulsante che azionava il piccolo registratore digitale.
Poco dopo, il buio rigurgitò le parole di un morto.
E Alexander Bermann entrò per l’ultima volta in casa sua.
«Ehm... Sono io... Ehm... Non ho molto tempo... Ma volevo dirti lo stesso che mi dispiace... Mi dispiace, di tutto... Avrei dovuto farlo prima, ma non ce l’ho fatta... Cerca di perdonarmi. È stata tutta colpa mia...»
La comunicazione s’interruppe e nella sala crollò un silenzio di pietra. Lo sguardo di ognuno, inevitabilmente, si posò su Veronica Bermann, impassibile come una statua.
Goran Gavila fu l’unico a muoversi. Le andò incontro e le cinse le spalle, affidandola a un’agente donna che la condusse in un’altra stanza.
Fu Stern a parlare per, tutti: «Be’ signori, a quanto pare abbiamo una confessione».