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Il nuovo criterio
Le regole del lavoro stanno cambiando. Oggi siamo giudicati secondo un nuovo criterio: non solo in base a quanto siamo intelligenti, preparati ed esperti, ma anche prendendo in considerazione il nostro modo di comportarci verso noi stessi e di trattare con gli altri. Questo nuovo metro viene applicato sempre più spesso quando si deve scegliere chi assumere e chi no, chi licenziare e chi riconfermare, chi scavalcare e chi promuovere.
Le nuove regole consentono di prevedere chi ha maggiori probabilità di eccellere e chi è più soggetto a perdersi lungo il cammino. Indipendentemente dal settore in cui lavoriamo, poi, esse misurano aspetti fondamentali per la definizione della nostra futura vendibilità sul mercato del lavoro.
Questo potente metro di giudizio ha ben poco a che fare con tutto ciò che a scuola ci fu presentato come importante; ai fini di questo standard, infatti, le capacità scolastiche sono in gran parte irrilevanti. La nuova misura di eccellenza dà per scontato il possesso di capacità intellettuali e di conoscenze tecniche sufficienti a svolgere il nostro lavoro. Invece, punta principalmente su qualità personali, come l'iniziativa e l'empatia, la capacità di adattarsi e di essere persuasivi.
Non si tratta di una moda passeggera, né della panacea del momento in campo di management; i dati che suggeriscono di prendere sul serio questa nuova misura del successo sono stati raccolti nell'ambito di studi che hanno coinvolto migliaia e migliaia di persone dedite a professioni di ogni genere. Oggi la ricerca individua con una precisione senza precedenti le qualità che fanno di un individuo un elemento capace di eccellere. Questa ricerca dimostra che le capacità umane di cui parleremo costituiscono la maggior parte degli ingredienti necessari per eccellere sul lavoro, e in particolare nella leadership.
Se lavorate in una grande organizzazione, è probabile che già adesso siate valutati proprio in base a queste capacità, sebbene forse non lo sappiate. Se state facendo domanda per ottenere un lavoro, probabilmente verrete esaminati e osservati attraverso queste nuove lenti; anche in tal caso, tuttavia, nessuno ve lo dirà in termini così espliciti. Indipendentemente dal tipo di lavoro che fate, comprendere il modo di coltivare queste capacità potrà rivelarsi essenziale per avere successo nella vostra carriera.
Se fate parte di un gruppo direttivo, dovete riflettere per capire se la vostra organizzazione si comporta in modo da alimentare queste competenze – o se invece le svilisce e le scoraggia. Nella misura in cui esse sono favorite dal clima che si respira nel vostro ambiente di lavoro, l'organizzazione sarà efficace e produttiva, e voi potrete ottimizzare l'intelligenza del vostro gruppo e l'interazione sinergica dei suoi migliori talenti individuali.
Se lavorate in proprio o per una piccola organizzazione, la vostra capacità di eccellere dipenderà in grandissima misura dal possedere queste abilità – sebbene quasi certamente a scuola non ve ne avranno mai parlato. Ciò nondimeno, la vostra carriera dipenderà – in misura maggiore o minore – da quanto sarete riusciti a impadronirvi di tali capacità.
In un'epoca che non offre alcuna garanzia di lavoro sicuro, nella quale il concetto stesso di «lavoro» viene rapidamente sostituito con quello di «capacità esportabili» da un contesto all'altro, queste sono le principali abilità che ci rendono – e ci mantengono – impiegabili sul mercato. Sono ormai decenni che si parla in modo alquanto inconcludente di queste capacità, che hanno ricevuto moltissime denominazioni – da «carattere» a «personalità», «capacità soft», «competenze». Ora che comprendiamo con maggior precisione questi talenti umani, esiste un nuovo termine per far riferimento ad essi: intelligenza emotiva.
Un modo diverso di essere intelligenti
«All'istituto tecnico avevo la media più bassa», mi racconta il co-amministratore di una società di consulenza. «Ma nell'esercito, quando andai alla scuola per allievi ufficiali, ero il primo del corso: lì dipendeva tutto da come ti comportavi, dal tuo modo di saper trattare con gli altri, dalle tue capacità di lavorare in team e di assumere la leadership di un gruppo. E questo è esattamente quel che riscontro nel mondo del lavoro.»
In altre parole, ciò che oggi conta davvero è un modo diverso di essere intelligenti. Nel mio libro del 1995, Intelligenza emotiva, mi ero concentrato principalmente sull'educazione, sebbene anche allora avessi trattato, in un breve capitolo, le implicazioni dell'intelligenza emotiva nell'ambiente di lavoro e nelle organizzazioni.1-1
Quel che mi colse completamente di sorpresa – e che mi fece un grandissimo piacere – fu l'ondata di interesse dimostrato dal mondo del lavoro. Rispondendo a una marea di lettere, fax, e-mails e telefonate, richieste di colloqui e consulenze, mi ritrovai imbarcato in un'odissea di portata planetaria, impegnato a parlare con centinaia e centinaia di persone – dai direttori generali alle segretarie – su ciò che significa arricchire il proprio lavoro con l'intelligenza emotiva.
Più volte mi sentii ripetere quello che finì per diventare un ritornello familiare. Persone come il consulente di successo con la bassa media scolastica mi raccontavano di aver scoperto come, ai fini dell'eccellenza sul lavoro, importasse di più possedere l'intelligenza emotiva che non l'abilità tecnica o le nozioni che si apprendono a scuola. Mi sentii dire che il mio libro aveva consentito di parlare, chiaramente e senza timore, dei costi che l'inettitudine emotiva comporta per le aziende, e di mettere in discussione una concezione limitata delle capacità utili sul lavoro, secondo la quale la-competenza-tecnica-è-tutto. Costoro credevano di aver trovato un nuovo modo di considerare ciò che desideravano nella propria organizzazione.
Certe persone mi hanno parlato con straordinaria sincerità di questioni che vanno ben oltre l'area scandagliata dal radar delle PR aziendali. Altre mi hanno raccontato che cosa non funziona (nel libro, i racconti sull'inettitudine emotiva sono riportati senza rivelare l'identità della persona o dell'organizzazione). D'altra parte, molti mi hanno anche raccontato storie di successi, confermando quale valore pratico l'intelligenza emotiva possa avere sul lavoro.
E così cominciò l'indagine di due anni culminata nella scrittura di questo libro. Nell'impresa, diversi fili, rappresentati dai vari aspetti professionali della mia vita, si sono intrecciati a formare un unico tessuto. Fin dal principio mi sono avvalso dei metodi del giornalismo per scavare a fondo nei fatti ed esporre le mie conclusioni. Ho anche fatto ritorno alle mie radici di psicologo accademico, compiendo un'analisi approfondita delle ricerche che chiariscono il ruolo dell'intelligenza emotiva nelle prestazioni ad alto livello di individui, gruppi e organizzazioni. Ho eseguito personalmente, o commissionato ad altri, numerose analisi scientifiche sui dati raccolti presso centinaia di società, al fine di stabilire un metro preciso per la quantificazione del valore dell'intelligenza emotiva.
Questa indagine mi ha riportato al lavoro di ricerca al quale partecipai ad Harvard dapprima mentre mi stavo specializzando e poi come membro del corpo docente. Quello studio faceva parte di una sfida lanciata al mito del QI – quel concetto falso, e ciò nondimeno ampiamente accettato, secondo il quale, ai fini del successo, ciò che conta davvero è solo l'intelletto.
Quel primo lavoro contribuì a generare ciò che ora è diventato una mini-industria impegnata ad analizzare le reali competenze che assicurano il successo in attività e organizzazioni di ogni genere; i risultati sono sorprendenti – quando si tratta di determinare una prestazione lavorativa eccellente, il ruolo del QI si colloca al secondo posto dietro all'intelligenza emotiva.
Le analisi effettuate da decine di esperti in quasi 500 fra aziende, agenzie governative e organizzazioni non-profit sparse in tutto il mondo (analisi che il lettore troverà descritte nel Secondo Capitolo del libro) sono pervenute in modo indipendente a trarre conclusioni straordinariamente simili; i loro risultati sono particolarmente convincenti, in quanto non viziati dai pregiudizi o dai limiti insiti nel lavoro di un singolo individuo o di un singolo gruppo. Le loro conclusioni indicano tutte il ruolo fondamentale dell'intelligenza emotiva ai fini dell'eccellenza sul lavoro – praticamente in ogni settore.
Di certo, nel mondo del lavoro queste idee non sono nuove: il comportamento delle persone e il loro modo di stringere relazioni con gli altri è messo al centro in alcuni di quelli che sono considerati i classici della teoria del management. Ciò che è davvero nuovo sono i dati: oggi possiamo avvalerci di 25 anni di studi empirici che ci mostrano, con una precisione finora sconosciuta, quanto sia importante l'intelligenza emotiva ai fini del successo.
Ed ecco un altro filo del tessuto, un altro campo di interesse nella mia vita professionale: dai tempi della mia stessa ricerca nel campo della psicobiologia, per decenni ho seguito i risultati d'avanguardia ottenuti dalle neuroscienze. Quest'esperienza mi ha consentito di fondare il modello dell'intelligenza emotiva su quei risultati. Molti uomini d'affari sono tradizionalmente scettici riguardo alla psicologia «soft», o diffidenti nei confronti delle infinite teorie apparse e scomparse nel corso degli anni; tuttavia, le neuroscienze hanno ora reso trasparenti le motivazioni che spiegano la grande importanza dell'intelligenza emotiva. Gli antichi centri cerebrali che elaborano l'emozione sono la sede delle abilità necessarie per dominare efficacemente noi stessi e per acquisire destrezza sociale. Pertanto, queste abilità sono radicate nel nostro patrimonio ereditario al fine di consentirci sopravvivenza e adattamento.
Le neuroscienze ci insegnano che questi centri emotivi del cervello apprendono in modo diverso da quelli in cui hanno sede i processi di pensiero. Tale intuizione è stata fondamentale nello sviluppo di questo libro e mi ha indotto a mettere in discussione quello che, nelle aziende, si può considerare il buon senso comune nel campo del training e dello sviluppo.
In questa sfida, non sono solo. Negli ultimi due anni sono stato copresidente del Consortium for Research on Emotional Intelligence in the Workplace, un gruppo di ricercatori provenienti da scuole aziendali, dal governo federale e dall'industria. La nostra ricerca rivela deplorevoli carenze nel modo in cui le aziende formano il proprio personale relativamente ad abilità che vanno dalla capacità di ascoltare e dalla leadership alla costituzione di gruppi di lavoro e alla capacità di guidare il cambiamento.
La maggior parte dei programmi di training ha abbracciato un modello accademico, compiendo così un gravissimo errore che ha comportato lo spreco di milioni di ore e di miliardi di dollari. Quel che serve è un modello interamente nuovo di pensare a ciò che è necessario per aiutare le persone a potenziare la propria intelligenza emotiva.
Alcuni equivoci
Mentre viaggiavo per il mondo, parlando e consultandomi con persone che vivono diverse realtà aziendali, mi sono imbattuto in alcuni equivoci, peraltro diffusi, riguardanti l'intelligenza emotiva.
Lasciatemi dissipare fin dal principio alcuni di quelli più comuni. Tanto per cominciare, essere dotati di intelligenza emotiva non significa semplicemente «essere gentili» anzi, in certi momenti strategici, questo tipo di talento può richiedere di non esserlo affatto, ma di mettere l'interlocutore, senza tanti complimenti, di fronte alla verità scomoda ma importante che sta cercando di evitare.
In secondo luogo, essere dotati di intelligenza emotiva non significa dar briglia sciolta ai sentimenti – metterli tutti in bella mostra – ma piuttosto controllarli così da esprimerli in modo appropriato ed efficace, tale da consentire una serena collaborazione finalizzata al raggiungimento di obiettivi comuni.
Inoltre, quando si tratta di intelligenza emotiva, non è vero che le donne siano più «dotate» degli uomini né, se è per questo, è vero il contrario. Relativamente a queste capacità, ciascuno di noi ha un profilo personale con i suoi punti di forza e le sue debolezze: alcuni di noi possono essere molto empatici, ma carenti di alcune abilità necessarie per gestire la propria sofferenza; oppure può darsi che, pur essendo perfettamente consapevoli del minimo cambiamento del proprio umore, altri individui siano socialmente inetti.
Uomini e donne, intesi come gruppi, tendono ad avere un profilo condiviso e specifico, caratterizzato da punti forti e punti deboli. Un'analisi dell'intelligenza emotiva effettuata su migliaia di uomini e donne ha rilevato che, in media, le donne sono più consapevoli delle proprie emozioni, dimostrano maggiore empatia e sono più abili dal punto di vista interpersonale.1-2 Gli uomini, d'altro canto, hanno maggior fiducia in se stessi, sono più ottimisti e più capaci di adattarsi, e controllano lo stress meglio di quanto facciano le loro controparti femminili.
In generale, tuttavia, le somiglianze sono di gran lunga più numerose delle differenze; alcuni uomini sono empatici come le donne più sensibili, e certe donne riescono a sopportare lo stress in modo del tutto analogo agli uomini più elastici. La verità è che, in media, se si osservano i punteggi complessivi di uomini e donne, i punti di forza e i punti deboli tendono a livellarsi intorno a un valore medio, e pertanto, in termini di intelligenza emotiva complessiva, non esistono significative differenze di genere.1-3
Infine, il nostro livello di intelligenza emotiva non è fissato alla nascita né si sviluppa solo durante la prima infanzia. A differenza del QI, che va incontro a pochi cambiamenti una volta passata l'adolescenza, l'intelligenza emotiva sembra in larga misura appresa e continua a svilupparsi durante tutta la vita, via via che impariamo dall'esperienza: la nostra competenza in questo campo continua a migliorare.
Gli studi che hanno monitorato il livello di intelligenza emotiva di alcuni individui nel corso degli anni hanno dimostrato che essi miglioravano costantemente in queste capacità, diventando più abili a gestire le proprie emozioni e i propri impulsi, ad automotivarsi e a perfezionare l'empatia e la destrezza in ambito sociale. Esiste una parola un po' antiquata per descrivere questa crescita nell'intelligenza emotiva: è «maturità».
Intelligenza emotiva: la priorità trascurata
Sempre più aziende ritengono che l'incoraggiamento delle abilità che fanno capo all'intelligenza emotiva sia una componente vitale nella filosofia di gestione di qualsiasi organizzazione. «Non si compete più solo con i prodotti, ma anche con il modo di impiegare al meglio le risorse umane», mi disse un manager della Telia, l'azienda di telecomunicazioni svedese. E Linda Keegan, vicepresidente per il training e lo sviluppo degli alti dirigenti della Citibank, mi dichiarò: «L'intelligenza emotiva è la premessa fondamentale di tutto il training indirizzato ai dirigenti».
È un ritornello che mi sono sentito ripetere in continuazione:
• Il presidente di uno stabilimento che dà lavoro a 100 persone nel campo dell'industria aerospaziale mi racconta che una delle principali aziende di cui è fornitore, la Allied Signal, pretendeva che lui e tutti i suoi dipendenti fossero addestrati a seguire l'approccio QC, ormai diffusissimo, che consiste nel discutere in gruppo i controlli di qualità e le procedure di fabbricazione. «Volevano che migliorassimo nel lavoro di squadra, e questo era fantastico», mi dice. «Ma noi lo trovammo difficile – come fai a essere un team se prima non cominci a essere un gruppo? E per cementarci come gruppo dovevamo potenziare la nostra intelligenza emotiva.»
• «Siamo stati molto efficienti ad aumentare la redditività con metodi come la riprogettazione e l'accelerazione del ciclo di lavorazione dei nuovi prodotti. Ma pur avendo ottenuto grandi successi, il grafico che descrive il nostro miglioramento si sta appiattendo», mi racconta un dirigente della Siemens AG, il grande gruppo tedesco. «Affinché la curva riprenda a salire, ci rendiamo conto che è necessario valorizzare il personale – massimizzare il nostro patrimonio umano. Per questo motivo stiamo cercando di rendere l'azienda più intelligente sul piano emotivo.»
• Un ex project manager della Ford Motor Company racconta di aver progettato un nuovo modello della Lincoln Continental usando i metodi sviluppati alla Sloan School of Management del MIT, per l'apprendimento nelle organizzazioni. Mi spiega come per lui venire a sapere dell'intelligenza emotiva sia stata una sorta di rivelazione: «Sono esattamente le abilità che dovevamo potenziare per fare della nostra un'organizzazione efficiente capace di apprendere».
Un'inchiesta eseguita dalla American Society for Training and Development nel 1977, sulle prassi diffuse nelle principali società per la valutazione comparativa delle prestazioni, rivelò che – nel valutare queste ultime, come pure nella selezione del personale – quattro aziende su cinque stavano cercando in qualche modo di promuovere nei propri dipendenti abilità facenti capo all'intelligenza emotiva, nella maggior parte dei casi avvalendosi di programmi di training e sviluppo.1-4
Se è così, perché scrivere questo libro? Perché gli sforzi di molte organizzazioni, la maggior parte purtroppo, sono stati mal guidati e hanno sprecato immense quantità di tempo, energie e denaro. Per esempio, come vedremo nella Parte Quarta del libro, lo studio più sistematico mai compiuto sull'utile ricavato dai capitali investiti nel training alla leadership rivelò che un seminario di una settimana, diretto ai massimi dirigenti e tenuto in ottima considerazione, aveva in realtà avuto un effetto leggermente negativo sulle loro prestazioni.
Le aziende si stanno rendendo conto che anche gli interventi formativi più costosi possono fallire, e che troppo spesso ciò effettivamente accade. E questa inettitudine si manifesta proprio quando l'intelligenza emotiva – negli individui e nelle organizzazioni – sta emergendo come l'ingrediente mancante nella ricetta della competitività.
Perché tutto questo conta proprio adesso?
In un'azienda californiana di biotecnologie, di nuova fondazione, il direttore generale mi mostra orgogliosamente gli aspetti che caratterizzano la sua organizzazione. Nessuno, lui incluso, ha un ufficio fisso: tutti dispongono invece di un piccolo PC portatile – il loro ufficio mobile, collegato con quello di tutti gli altri. Qui, le qualifiche solitamente usate per descrivere le mansioni sono irrilevanti; il personale lavora in team crossfunzionali e il luogo ribolle di energia creativa. I dipendenti lavorano normalmente 70-80 ore settimanali.
«E allora qual è il rovescio della medaglia?» gli chiesi.
«Non c'è nessun rovescio», mi assicurò lui.
E proprio qui stava l'errore. Quando potei parlare con i membri del suo staff, sentii la verità: a causa del ritmo di lavoro febbrile la gente si sentiva esaurita, derubata della propria vita privata. Sebbene potessero comunicare fra loro via computer, i dipendenti avevano la sensazione che nessuno li ascoltasse davvero.
Sentivano il disperato bisogno di contatti umani, di empatia, di poter comunicare apertamente.
Nel nuovo clima aziendale, improntato all'essenzialità, in cui ogni lavoro è fondamentale, queste realtà umane sono più che mai importanti. Il cambiamento imponente è una costante: le innovazioni tecniche, la crescente competizione a livello globale e le pressioni degli investitori istituzionali sono forze in continuo aumento che permettono il costante cambiamento.
C'è poi un'altra realtà che rende l'intelligenza emotiva ancora più fondamentale: quando le organizzazioni riducono il proprio organico in successive ondate di ridimensionamento, i dipendenti confermati sono investiti di maggiori responsabilità – e sono più visibili. Là dove una figura di medio livello poteva nascondere un temperamento irascibile o troppo timido con una certa facilità, ora contano più che mai – e sono più che mai visibili – competenze come la capacità di controllare le proprie emozioni, il saper ben gestire un incontro, l'essere in grado di lavorare in un team e l'avere doti di leadership.
Nei paesi più ricchi la globalizzazione della forza lavoro favorisce l'intelligenza emotiva. Per poter essere mantenuti, gli stipendi più elevati corrisposti in questi paesi dipenderanno da un nuovo tipo di produttività. E le soluzioni di tipo strutturale o i progressi di natura tecnologica non bastano: come nell'azienda di biotecnologie californiana, lo sveltimento dei processi o altre innovazioni spesso creano nuovi problemi la cui soluzione chiede a gran voce una maggiore intelligenza emotiva.
Con il modificarsi della realtà aziendale, cambiano anche le caratteristiche necessarie per eccellere. Dati relativi ai talenti di individui capaci di prestazioni lavorative eccellenti, raccolti nel corso di diversi decenni, dimostrano come due abilità – che negli anni Settanta contavano relativamente poco per avere successo – siano diventate più importanti che mai negli anni Novanta: una di esse è la capacità di formare un team; l'altra è l'abilità di adattarsi al cambiamento. Nei profili degli individui capaci di prestazioni straordinarie hanno cominciato a fare la loro comparsa capacità interamente nuove: in particolare quella di funzionare da catalizzatori del cambiamento e di far fruttare la diversità. Nuove imprese richiedono nuovi talenti.
La nuova paura e il rapido ricambio dei posti di lavoro
Un amico che lavora in una delle 500 aziende americane con il massimo fatturato annuo, nella quale sono appena stati licenziati migliaia di dipendenti, mi confida: «E stato terribile: moltissima gente che conoscevo da anni è stata messa alla porta, si è vista retrocedere o trasferire. È stato difficile per tutti. Io ho ancora il mio lavoro, ma non mi sento più lo stesso nei confronti dell'azienda».
«Sono qui da trent'anni, e in tutto questo tempo avevamo avuto la sensazione che, fintanto che avessimo lavorato decorosamente, la compagnia sarebbe stata dalla nostra parte. Poi, all'improvviso, ci dissero "Qui nessuno ha più il posto garantito".»
In effetti, sembra che nessuno abbia più il posto garantito da nessima parte. Questi sono tempi difficili per chi lavora. La sensazione strisciante che nessuno abbia più un impiego davvero sicuro, nemmeno quando l'azienda per cui lavora è prospera, comporta il diffondersi della paura, dell'ansia e della confusione.
Volete un segno di questo crescente malessere? Una società americana di «cacciatori di teste», ossia specializzata nella ricerca di dirigenti ad alto livello, riferisce che più della metà delle chiamate per chiedere informazioni sui posti disponibili arriva da persone ancora impiegate, ma talmente timorose di essere sul punto di perdere il lavoro da aver già cominciato a guardarsi intorno per trovarsene un altro!1-5 Quando la AT&T cominciò a notificare il licenziamento ai primi dei 40.000 lavoratori che avrebbe lasciato a casa – in un anno in cui i suoi profitti toccarono la cifra record di 4,7 miliardi di dollari – emerse da un sondaggio che un terzo degli americani temeva che qualcuno della propria famiglia fosse sul punto di perdere il posto.
Tali paure persistono anche in un momento in cui l'economia americana sta creando più posti di lavoro di quanti ne vadano perduti. Questo rapido ricambio – quello che gli economisti chiamano eufemisticamente «flessibilità del mercato del lavoro» – è oggi un penoso dato di fatto della vita lavorativa. E questa nuova realtà fa parte di un fenomeno globale in continuo aumento, che sta avanzando in Europa, in Asia e in tutte le principali economie del mondo industrializzato. La prosperità non è una garanzia di lavoro; i licenziamenti procedono anche quando l'economia è in piena espansione. Come afferma Paul Krugman, un economista del MIT, questo paradosso è «il triste prezzo che dobbiamo pagare in cambio di un'economia dinamica come la nostra».1-6
C'è oggi una desolazione palpabile riguardo al nuovo scenario creatosi nel mondo del lavoro. «Noi lavoriamo in quella che equivale a una tranquilla zona di guerra» – così mi ha posto la questione un dirigente di medio livello impiegato presso una multinazionale. «Non c'è modo di offrire a un'azienda la tua fedeltà e di aspettarti che sarà contraccambiata. Perciò ognuno di noi sta diventando una sorta di microimpresa in proprio all'interno dell'azienda: devi essere in grado di far parte di un team, ma anche essere pronto ad andartene e a essere autosufficiente.»
Per molti lavoratori più anziani – i figli della meritocrazia, ai quali fu insegnato che l'istruzione e le capacità tecniche erano un biglietto sempre valido per il successo – ebbene, per costoro, questa nuova filosofia può costituire un vero e proprio shock. La gente si sta rendendo conto che per avere successo è necessario qualcosa di più dell'eccellenza intellettuale o della perizia tecnica, e che sul futuro mercato del lavoro, sempre più turbolento, se si vuole sopravvivere – e di certo per prosperare – occorre un altro tipo di capacità. Qualità interiori come l'elasticità e l'iniziativa, l'ottimismo e l'adattabilità, stanno oggi assumendo un nuovo valore.
Una crisi imminente: QI in ascesa, QE in calo
Dal 1918 – quando la prima guerra mondiale rappresentò l'occasione per il primo impiego di massa del QI sulle reclute dell'esercito americano – negli Stati Uniti il punteggio medio è salito di 24 punti e un crescendo simile è stato documentato nei paesi industrializzati di tutto il mondo.1-7 Le ragioni di questo fenomeno spaziano dalla migliore alimentazione al fatto che un maggior numero di bambini riceve un'istruzione più completa ed è aiutato a padroneggiare le abilità spaziali dall'esistenza di videogiochi e altri rompicapi; infine, incidono anche le dimensioni più piccole delle famiglie, che generalmente, nei bambini, sono correlate a punteggi più elevati del QI.
Tuttavia, è in atto una tendenza tanto pericolosa quanto paradossale: via via che, stando ai punteggi del QI, i bambini diventano più abili intellettualmente, nella loro intelligenza emotiva si assiste a un declino. I dati più inquietanti provengono forse da un'inchiesta su vasta scala condotta interrogando genitori e insegnanti; essa dimostra come, rispetto a quella che l'ha preceduta, l'attuale generazione di bambini sia emotivamente più disturbata. In media, oggi i giovani crescono più soli e depressi, maggiormente inclini alla collera e indisciplinati, più nervosi e tendenti a preoccuparsi, disposti a cedere agli impulsi e all'aggressività.
Bambini statunitensi, di età compresa fra i sette e i sedici anni, raccolti in due gruppi randomizzati, furono valutati dai genitori e dagli insegnanti, ossia da adulti che li conoscevano bene. Il primo gruppo fu valutato a metà degli anni Settanta; il secondo, simile, verso la fine degli anni Ottanta.1-8 In quel periodo di circa quindici anni, si era verificata una costante riduzione dell'intelligenza emotiva dei bambini. Sebbene i soggetti più poveri partissero in media da un livello più basso, la velocità di declino era altrettanto alta in tutti i ceti economici, nelle zone residenziali più abbienti e negli slum più poveri.
Il dottor Thomas Achenbach, lo psicologo dell'Università del Vermont che effettuò questi studi – e che ha collaborato con colleghi stranieri su valutazioni simili effettuate in altre nazioni – mi racconta che il declino riscontato nelle competenze emotive fondamentali dei bambini sembra un fenomeno diffuso in tutto il mondo. I segni più eloquenti di questo declino sono rappresentati dalla crescente diffusione, fra i giovani, di problemi come l'assenza di prospettive e di speranza sul proprio futuro, l'alienazione, l'uso di droghe, il crimine, la violenza, la depressione o i disturbi del comportamento alimentare, le gravidanze non desiderate, i comportamenti rissosi e prepotenti e l'abbandono degli studi.
Tutto questo ha implicazioni assolutamente inquietanti per il mondo del lavoro: soprattutto fra le nuove leve, si riscontrano carenze crescenti nella sfera dell'intelligenza emotiva. La maggior parte dei bambini studiati da Achenbach alla fine degli anni Ottanta, entro il 2000 avrà un'età compresa fra i venti e i trent'anni. La generazione che segna il passo nell'intelligenza emotiva è proprio quella che oggi sta facendo il proprio ingresso nella forza lavoro.
Che cosa vogliono i datori di lavoro?
Un'inchiesta compiuta presso i datori di lavoro statunitensi rivela che più della metà dei loro dipendenti manca della motivazione necessaria per continuare a imparare e a migliorare. Quattro su dieci non sono in grado di lavorare cooperativamente con i colleghi; solo il 19 per cento di quelli che fanno domanda per un primo impiego ha abbastanza autodisciplina nel proprio stile di lavoro.1-9
Un numero crescente di datori di lavoro si lamenta della mancanza di abilità sociali nei nuovi assunti. Come mi disse un dirigente di una grande catena di ristoranti, «sono troppi i giovani che non riescono a sopportare le critiche – non appena qualcuno fa loro un'osservazione su ciò che stanno facendo, si mettono sulla difensiva o diventano ostili. Reagiscono alle osservazioni sulle loro prestazioni come se si trattasse di un attacco personale».
Il problema non è limitato ai nuovi assunti: è vero anche nel caso di alcuni dirigenti anziani. Negli anni Sessanta e Settanta, la gente faceva carriera iscrivendosi alle scuole giuste e frequentandole con profitto. Ma il mondo è pieno di uomini e donne bene istruiti e un tempo promettenti che hanno raggiunto un plateau nella loro carriera – o, peggio, che hanno fallito – a causa di gravi lacune nell'intelligenza emotiva.
In un'inchiesta a livello nazionale su ciò che i datori di lavoro cercano nei nuovi assunti al primo impiego, le capacità tecniche specifiche sono risultate meno importanti della fondamentale capacità di imparare sul lavoro. Dopo di essa, i datori di lavoro hanno elencato:
• la capacità di ascoltare e comunicare oralmente;
• la capacità di adattarsi e di reagire in modo creativo a insuccessi e ostacoli;
• il dominio di sé, la fiducia e la motivazione personali necessari per lavorare verso degli obiettivi;
• il desiderio di sviluppare la propria carriera e l'orgoglio per i risultati raggiunti;
• l'efficacia nel lavoro di gruppo e nelle relazioni interpersonali, la capacità di cooperare e lavorare in team, come pure l'abilità di negoziare in caso di disaccordo;
• le capacità organizzative, il desiderio di dare il proprio contributo, le potenzialità necessarie per assumere la leadership.1-10
Su sette caratteristiche indicate come auspicabili, solo una era «scolastica», e consisteva nella «competenza nella lettura, nella scrittura e nella capacità di calcolo».
Un elenco simile è emerso anche in uno studio sulle caratteristiche che le società richiedono, ai fini dell'assunzione, ai giovani laureati in scienze aziendali.1-11 Le tre competenze più auspicabili sono le capacità nel campo della comunicazione, le capacità interpersonali, e l'iniziativa. Come mi disse Jill Fadule, finanziatrice e responsabile delle ammissioni della Harvard Business School, «le capacità di essere empatici, di mettere le cose in prospettiva, di stabilire rapporti con gli altri e di cooperare» sono fra le competenze più importanti che la scuola cerca in coloro che fanno domanda di iscrizione.
Il nostro viaggio
Il mio compito, nello scrivere questo libro, è di guidare il lettore fra le argomentazioni scientifiche che sostengono l'importanza dell'intelligenza emotiva sul lavoro per i singoli, per i gruppi e per le organizzazioni. In ogni tappa ho cercato di avvalorare i dati scientifici con la testimonianza di persone impegnate in ogni tipo di lavoro e di organizzazione, e la loro voce echeggia in tutto il libro.
Nella Parte Prima sosterrò che l'intelligenza emotiva conta più del QI o dell'expertise per determinare chi eccelle sul lavoro – in qualsiasi lavoro – e che per esprimere uno straordinario talento nella leadership essa rappresenta praticamente tutto quanto è necessario. La realtà aziendale lo dimostra in modo convincente: le compagnie che fanno leva su questo vantaggio aumentano sensibilmente i propri profitti.
La Parte Seconda descrive rei dettagli dodici capacità specifiche, tutte basate sul dominio di sé – fra le quali l'iniziativa, la fidatezza, la fiducia in se stessi e la spinta alla realizzazione e al successo – insieme al contributo unico che ciascuna di esse dà alla prestazione eccellente.
Nella Parte Terza passeremo a considerare tredici abilità fondamentali nelle relazioni – come l'empatia e la consapevolezza politica, il saper trarre vantaggio dalla diversità, le capacità legate al lavoro in team e la leadership. Queste sono le abilità che, per esempio, ci consentono di navigare senza sforzo nelle acque di un'organizzazione mentre altri colano a picco.
Nel procedere in queste prime tre parti, il lettore si farà una percezione approssimativa del proprio modo di lavorare con l'intelligenza emotiva. Come dimostrerò nel Capitolo Terzo, la prestazione eccellente non implica che si primeggi in tutte queste competenze, ma piuttosto che si posseggano punti di forza in un numero di esse sufficiente a raggiungere la massa critica necessaria per il successo.
La Parte Quarta annuncerà buone notizie: indipendentemente dalle competenze in cui siamo più deboli, possiamo sempre imparare a migliorarci. Per aiutare i lettori che vogliono potenziare le proprie capacità nella sfera dell'intelligenza emotiva – ed evitare di sprecare tempo e denaro – offrirò loro delle linee guida pratiche e scientificamente valide, in modo che possano farlo nel modo migliore.
Infine, la Parte Quinta prende in considerazione che cosa significhi, per un'organizzazione, essere intelligente nel campo emotivo. Descriverò una di tali aziende e dimostrerò come queste prassi possano aiutare non solo nelle prestazioni lavorative, ma anche a rendere l'organizzazione un luogo soddisfacente, nel quale sia desiderabile lavorare. Dimostrerò anche come le compagnie che ignorano le realtà emotive dei propri dipendenti lo facciano a proprio rischio, mentre le organizzazioni dotate di intelligenza emotiva siano quelle meglio equipaggiate per sopravvivere – e per farlo nel modo migliore – negli anni futuri che si profilano sempre più burrascosi.
Sebbene il mio scopo sia quello di dare un aiuto, questo non è un libro di auto-aiuto. Forse ci sono troppi libri che fanno promesse esagerate sul «come fare» a migliorare l'intelligenza emotiva. Per quanto senza dubbio animati da buone intenzioni, essi di solito non fanno che perpetuare gli equivoci su ciò che è realmente necessario al fine di perfezionare queste potenzialità umane essenziali. Invece di rapide e semplicistiche soluzioni, il lettore in questo saggio troverà valide linee guida con le quali mettersi realisticamente al lavoro per migliorare la propria competenza emotiva. Queste linee guida rappresentano una rassegna equilibrata – compiuta sulla base di dati raccolti presso organizzazioni sparse in tutto il mondo – della nuova filosofia, dei nuovi risultati ottenuti dalla ricerca e delle «prassi aziendali ottimali».
Viviamo in un'epoca in cui le prospettive future di ciascuno dipendono sempre più dalla capacità di gestire in modo ottimale se stessi e le proprie relazioni. La mia speranza è di offrire una guida pratica per affrontare le sfide fondamentali che il nuovo secolo ci presenta, sia sul piano personale che su quello aziendale.