11
Si infilò nel letto accanto a James convinta che quella notte non avrebbe chiuso occhio. Aveva la testa in fermento, piena di nuovi dati. Tre delitti apparentemente senza un nesso, eseguiti da tre assassini disorganizzati in tre posti diversi, l’arto amputato scomparso dalla scena, i tre arrestati suicidati in prigione o sotto custodia e lo stesso messaggio lasciato da tutti e tre, un messaggio scritto sul muro, tranne nel caso di Medina, che l’aveva indirizzato personalmente a lei. Per quanto, l’ostinazione con cui Quiralte aveva richiesto la sua presenza per rivelare l’esatta ubicazione del corpo poteva intendersi come una forma di recapito personale. E adesso, scoprendo che Lucía Aguirre era nata nel Baztán, si apriva una nuova porta, forse proprio il nesso fondamentale fra tutti i delitti. Doveva scoprire al più presto dov’era nata la vittima di Logroño. Come si chiamava? Non ricordava se il rapporto di Padua la menzionasse. Guardò l’orologio per l’ennesima volta, e vide che era quasi l’una e mezza. Verso le due Ibai avrebbe richiesto la poppata, e a quel punto si sarebbe alzata e avrebbe steso una lista di cose che doveva scoprire. Cominciò a prendere appunti mentali, e nel frattempo si addormentò.
Era vicina al fiume e ascoltava, senza poterle vedere, le lamiak che battevano ritmicamente la superficie dell’acqua con i loro piedi d’anatra. Lucía Aguirre, con il viso grigiastro come appena uscito da un camino spento, si cingeva la vita con il braccio sinistro e guardava con orrore il moncone che pendeva sezionato dal gomito. Non soffiava il vento stavolta, e il battito dei piedi, che risuonava come pioggia nell’acqua, si spense nell’istante in cui gli occhi pavidi di Lucía incrociarono i suoi, e la donna riprese come ogni volta a ripetere la sua cantilena, solo che adesso riuscì a sentire la sua voce, secca e roca, per la sabbia che le riempiva la gola, e riuscì anche a capirla: non diceva «tastalo», e neppure «agguantalo», ma semplicemente «Tarttalo».
Bastò il piagnucolio del figlio a riportarla alla realtà. Guardò l’orologio e vide con stupore che erano già le quattro.
«Bravo, campioncino, resisti sempre di più. Quando comincerai a dormire tutta la notte?» gli sussurrò prendendolo in braccio.
Dopo la poppata gli cambiò il pannolino e lo rimise nella culla.
«James», sussurrò.
«Sì?»
«Vado a lavorare. Ibai ha mangiato e dormirà fino domani mattina».
James borbottò qualcosa e le lanciò un bacio assonnato.
Di notte il riscaldamento era tenuto al minimo, e quando entrò nell’ufficio del commissariato ringraziò il cielo di aver messo un pesante golf di lana e il piumino che James la costringeva sempre a indossare. Accese il computer e si prese un caffè alla macchinetta del corridoio mentre ripassava la sua lista mentale di azioni. Si sedette alla scrivania e cominciò a cercare, riguardando negli appunti di Padua tutto quello che avevano sul caso di Logroño. Esattamente come ricordava, non si faceva menzione dell’identità della vittima, che compariva solo con le iniziali I.L.O.
Andò su Google, cercò nelle emeroteche dei principali giornali della Rioja e trovò vari riferimenti al crimine e all’aggressore, Luis Cantero. Ma niente sull’identità della vittima. Finalmente trovò un articolo sul processo in cui si parlava di Izaskun L.O. e un altro che commentava la sentenza dell’assassino di I. López Ormazábal.
Izaskun López Ormazábal. Inserì il nome completo nel database della polizia e dopo pochi secondi aveva di fronte i dati della sua carta d’identità.
Izaskun López Ormazábal.
Figlia di Alfonso e Victoria.
Nata a Berroeta, Navarra, il 28 agosto del 1969.
Morta…
Rilesse più volte i dati con un brivido gelido che la percorreva da capo a piedi. Nata a Berroeta, un paesino di un centinaio di abitanti a neanche dodici chilometri da Elizondo e che di sicuro apparteneva alla valle del Baztán. L’evidenza di quella scoperta le fece quasi girare la testa. Sospirò, liberata dalla tensione che aveva accumulato nelle ultime ore, e si guardò attorno cercando nel silenzio della sala vuota qualcuno con cui condividere la notizia e l’agitazione che ne derivava. Sì, perché anziché sentirsi sollevata dalla conferma dei suoi sospetti, era consapevole che il precipizio su cui si affacciava non si era mai mosso da lì: era lì anche quando non sapeva della sua esistenza, ma adesso acquisiva una concretezza ardente e palpitante che gridava dal profondo, mescolata al sangue delle vittime, e che avrebbe continuato a farlo finché non avesse sviscerato la verità. Sapeva già che non sarebbe stato facile, ma l’avrebbe fatto, anche a costo di scavare nell’inferno e vedersela con il demonio, che come in un gioco aveva attirato la sua attenzione scrivendo sulle pareti il nome di una bestia che si mangiava i pastori, le fanciulle e gli agnelli, tutta carne di innocenti.
Quasi esaudendo le sue preghiere, il viceispettore Etxaide entrò nel suo ufficio tenendo un caffè in ogni mano.
«L’agente all’ingresso mi ha detto che era qui».
«Ciao, Jonan, ma che ora è?» chiese guardando l’orologio.
«Le sei e qualcosa», rispose lui, porgendole un bicchiere di caffè.
«Che ci fai qui così presto?»
«Non riuscivo a dormire, nel mio albergo c’è un gruppo di venti persone che festeggiano un addio al celibato», disse come se questo spiegasse tutto. «E lei?»
Amaia sorrise e nei venti minuti successivi lo informò delle sue scoperte.
«E crede che potrebbe esserci dell’altro?»
Lei non rispose subito.
«Qualcosa mi dice di sì».
«Potremmo cercare delle vittime di femminicidio che abbiano subito amputazioni», suggerì Jonan aprendo il portatile.
«Troppo generico», obiettò lei. «Nelle amputazioni potrebbero rientrare anche tagli o lacerazioni, e questo purtroppo è fin troppo comune in questi casi. E poi, sono sicura che se ci fosse un arto amputato scomparso, sarebbe un’informazione riservata».
«E se cercassimo vittime nate o vissute nel Baztán?»
«Ho già controllato, ma il luogo di nascita delle vittime di solito non è rilevante e spesso viene menzionato solo nel certificato di morte».
«Potremmo cominciare da lì: nei certificati di morte del Registro Civile ci dev’essere un’annotazione in cui figurano le morti violente», propose digitando dati nel suo computer mentre lei sorseggiava il caffè cercando di riscaldarsi le mani con il bicchiere di carta. «Devo portarmi una tazza», pensò mentre vagava con lo sguardo al di là dei vetri, ma la finestra le restituì solo il proprio riflesso, proiettato nel buio della notte profonda del Baztán.
«Le pompe funebri», le venne in mente all’improvviso.
Jonan si girò verso di lei, incuriosito.
«Come?»
«La famiglia di Lucía Aguirre ha pubblicato un annuncio mortuario all’agenzia di pompe funebri Baztán. Non sarebbe strano che dopo le uccisioni si fossero pubblicati necrologi e celebrate messe, e perfino che qualche vittima nata nella valle fosse stata sepolta nella sua città di origine, anche se magari al momento della morte si era trasferita altrove».
«A che ora apriranno?» chiese lui guardando l’orologio.
«Non credo prima delle nove, anche se in realtà hanno un numero d’emergenza aperto ventiquattr’ore al giorno», rispose guardando di nuovo fuori dai vetri, dove un lieve e lontano bagliore annunciava le prime luci dell’alba.
«Devo fare un paio di cose stamattina, ma se posso, mi piacerebbe accompagnarti alle pompe funebri: a Elizondo ce ne devono essere un paio. Cerca se ce ne sono altre nei dintorni, ma non chiamarle: preferisco chiedere di persona, magari li aiutiamo a rinfrescarsi la memoria».
Salì in macchina senza togliersi il piumino, e guidò lentamente per le strade deserte, con il finestrino abbassato per non perdersi il baccano che gli uccelli facevano al mattino presto. Entrata nel quartiere di Txokoto, girò per entrare sul retro del laboratorio, che a quell’ora era sicuramente chiuso, e fermò la macchina con i fari puntati contro il muro. Qualcuno aveva scritto in grande con lo spray PUTTANA TRADITRICE. Rimase ferma lì un minuto a fissare quelle due parole, che a furia di guardarle perdevano senso. Fece marcia indietro e tornò verso casa. Al suo arrivo, Ros si stava mettendo il cappotto in ingresso. La salutò senza nominare la scritta sul muro, entrò nella casa silenziosa in cui dormivano ancora tutti e notò che in sala faceva un gran freddo, mentre le altre stanze erano riscaldate a gas. Si inginocchiò davanti al camino e intraprese il rito sempre confortante di accendere il fuoco. Lo fece in maniera meccanica, ripetendo la cerimonia che aveva appreso da bambina e che le aveva sempre trasmesso una pace inspiegabile. Quando le fiamme cominciarono a lambire i ciocchi più grossi, si alzò e guardò l’orologio calcolando l’ora in Louisiana. Prese il telefono, cercò in rubrica il nome dell’agente Dupree e compose il numero, con il cuore che perdeva un battito, schiacciato dall’ansia, mentre una voce nella testa le gridava di riagganciare, di non fare quella telefonata, un attimo prima che l’agente Aloisius Dupree le rispondesse con il suo tono caldo da chissà dove a New Orleans.
«Buonasera, ispettrice Salazar, o devo dire buongiorno?»
Amaia sospirò prima di rispondere.
«Ciao, Aloisius, qui è quasi l’alba», rispose mentre cercava di dominare il tremito che la squassava, nonostante il fuoco che bruciava nel camino, ravvivato dalla legna secca.
«Come stai, ispettrice?» La sua voce suonò calda e comprensiva proprio come la ricordava.
«Confusa, molte cose insieme, forse troppe», confessò.
Cercare di ingannare Dupree non sarebbe servito a niente: quelle chiamate all’alba dovevano essere sincere, altrimenti che senso avrebbero avuto?
«Sono nel Baztán per indagare su un caso, niente di serio, una questione che devo risolvere più per ragioni politiche dei superiori che per altro, ma oggi ho scoperto che l’altro caso che sto seguendo forse ha origine proprio qui nella valle. Non so ancora come spiegarlo, ma ho la strana sensazione che sia uno di quei casi… E in qualche modo sembra che l’assassino cerchi di stabilire un contatto con me. Come in certi casi simili che ho studiato a Quantico, il modus operandi corrisponde a un individuo tipo Jack lo Squartatore, di quelli che vogliono entrare in contatto con la polizia, solo che questo lo fa in maniera sottile, e comincio a sospettare che forse si tratta di una personalità più complessa». Si fermò per riordinare i pensieri.
«Più complessa… quanto?»
«Non mi azzardo ancora a mettere la questione in questi termini. Quello che sappiamo è che gli esecutori sono criminali da quattro soldi, piccoli furti, rapine, truffe, e in comune hanno la violenza contro le donne. Hanno tutti ucciso donne del loro ambiente, che pare avessero legami con la valle: una di loro viveva qui, mentre le altre erano nate nel Baztán…» Stavolta si fermò senza sapere come proseguire. «Lo so che sembra un po’ tirata per i capelli, Dupree, ma sento che c’è dell’altro», si giustificò, «il problema è che non so da dove cominciare».
«Sì che lo sai, ispettrice Salazar, devi cominciare da…»
«Dall’origine», terminò la frase Amaia, con un tono che rivelava tutto il suo disagio.
«E l’origine è stata?»
«L’omicidio di Johana Márquez», rispose lei.
«No!» la contraddisse lui in tono brusco.
«Quello è stato il primo caso in cui ho sentito parlare di amputazione. Magari ce ne sono stati altri in precedenza, ma… il suo patrigno… il suo assassino, mi ha lasciato un biglietto prima di suicidarsi e questo ha fatto aprire l’indagine».
«Ma qual è stata l’origine?» tornò a chiedere Dupree con un filo di voce.
Un brivido la percorse e sentì le spine delle ginestre graffiarle il parka mentre attraversava il sentierino stretto fino alla grotta di Mari. Il tintinnio dei suoi braccialetti d’oro, i lunghi capelli dorati che le arrivavano in vita, il mezzo sorriso da regina o da strega e la sua voce che diceva: «Ho visto un uomo entrare in una di quelle grotte con un fagotto e uscirne senza».
E quando le aveva chiesto se l’avesse visto in faccia, tutto ciò che aveva saputo rispondere era stato: «Gli ho visto solo un occhio». Aloisius emise un sospiro che suonò acquoso e distante.
«Lo vedi che lo sapevi? Adesso devi tornare nel Baztán».
Quell’osservazione la colse di sorpresa.
«Aloisius, sono qui già da due giorni».
«No, ispettrice Salazar, non ci sei ancora tornata».
Riagganciò e rimase qualche secondo a fissare il messaggio che era comparso sullo schermo.
«Non avresti dovuto farlo».
La voce di Engrasi, che la guardava ferma a metà della scala, la fece sobbalzare facendole volare il cellulare sotto una delle due bergère di fronte al camino.
«Oh, zia, mi hai messo paura», protestò mentre si chinava per tastare alla cieca sotto la poltrona.
L’anziana arrivò in fondo alla scala senza smettere di fissarla con aria severa. «E non ti mette paura quello che fai?»
Amaia si rialzò con il telefono in mano e attese che il cuore riprendesse un battito regolare prima di rispondere: «So quello che faccio, zia».
«Davvero?» la prese in giro lei. «Davvero sai quello che fai?»
«Ho bisogno di risposte», si giustificò Amaia.
«E io posso aiutarti», ribatté Engrasi, dirigendosi alla credenza e prendendo il fazzoletto di seta nera che avvolgeva il mazzo di tarocchi.
«Per avere il tuo aiuto, zia, dovrei sapere quali sono le domande, sei stata tu a insegnarmelo. E io purtroppo non le conosco, non ne ho la minima idea. Parlare con lui mi aiuta in questo, non dimenticare il suo curriculum: è uno dei massimi esperti dell’Fbi in disturbi della condotta e comportamento criminale. La sua opinione è fondamentale per me».
«Giochi con cose al di fuori della tua portata, piccola mia», la rimproverò.
«Mi fido di lui».
«Per l’amor del cielo, Amaia! Sul serio non vedi quant’è morboso il vostro rapporto?»
Amaia stava per rispondere, ma si trattenne appena vide James scendere le scale con Ibai in braccio, già pronto per uscire.
La zia le rivolse un’ultima occhiata di rimprovero, rimise le carte a posto ed entrò in cucina a preparare la colazione.