L’affermazione della Chiesa della Controriforma
1. Il sacco di Roma e il problema della riforma della Chiesa
Nel 1494 la discesa di Carlo VIII re di Francia fino a Napoli dava inizio alle «guerre d’Italia», un trentennio in cui la penisola doveva diventare il tragico teatro degli scontri tra le ambizioni di Francia e Spagna e delle devastazioni degli eserciti. Al mutevole gioco delle alleanze tra opposti schieramenti presero parte gli Stati regionali italiani con scelte di campo alterne. Il successo o il fallimento di queste scelte avevano ripercussioni fortissime all’interno di un singolo Stato. Potevano condurre a radicali trasformazioni istituzionali, come quelle avvenute a Firenze rispettivamente nel 1494 e nel 1527 con la cacciata dei Medici e l’instaurazione di un regime repubblicano (1494-1512; 1527-1530); a repentini mutamenti politici e sociali come nello Stato di Milano, nel corso dei convulsi passaggi dal governo ducale al dominio francese sino a quello di Carlo V; oppure costituire per una classe dirigente un trauma a partire dal quale ripensare il rapporto con i sudditi oltre che la politica estera, come era accaduto al patriziato veneziano dopo la sconfitta di Agnadello (1509) allorché la Terraferma era stata invasa dalle forze congiunte della Lega di Cambrai stipulata tra pontefice, Francia, Impero, Savoia, Este e Gonzaga.
Al centro degli eventi che mettevano in subbuglio la penisola, papa Giulio II della Rovere (1503-1513) stringeva e rompeva alleanze, conquistava città e territori, comandava gli eserciti. Nel 1511 egli passava dalla lega antiveneziana di Cambrai alla Lega santa contro la Francia. Re Luigi XII decise allora di riunire a Pisa un concilio per deporre il pontefice, un’assemblea scismatica che si sarebbe sciolta in seguito alla disfatta delle armi francesi e alla convocazione a Roma del V concilio Lateranense sotto il diretto controllo del pontefice (1512). Nello stesso periodo la critica di Erasmo da Rotterdam si levava contro questo «papa guerriero» attento più all’espansione del suo Stato che alle esigenze spirituali del suo gregge, contro una Chiesa imbevuta di interessi temporali, contro una religione affidata a frati corrotti e ignoranti, a un clero secolare avido e ambizioso, a teologi sottili e litigiosi. In scritti che contribuirono a creare in tutta l’Europa un sentire comune a dotti umanisti e al popolo, Erasmo accusava il clero di aver tradito il messaggio morale e religioso dei Vangeli, di aver ridotto la fede a un cumulo di pratiche superstiziose, cerimonie esteriori e preghiere oscure. In quegli stessi anni i monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini, interpretando le speranze riposte nel concilio Lateranense da larga parte del mondo ecclesiastico, redigevano il Libellus ad Leonem X (1513) dove – dinanzi ai grandi compiti missionari che si profilavano all’orizzonte con la scoperta del Nuovo Mondo – tracciavano un vastissimo disegno di rinnovamento interno della Chiesa che restò inattuato.
Di fronte all’instabile situazione politica, alle guerre con il loro strascico di miseria e malattie, all’incapacità dell’istituzione ecclesiastica di rispondere alle esigenze e alle inquietudini della vita religiosa, nel primo trentennio del Cinquecento un turbine di fermenti profetici, tensioni apocalittiche e trepide speranze nell’arrivo di un’età di rigenerazione della cristianità percorse la penisola articolandosi secondo una molteplicità di esperienze nutrite, a tutti i livelli sociali, dalla diffusione della stampa. L’eredità profetica savonaroliana non si era spenta nel 1498 con il rogo del frate domenicano ma, largamente diffusa tra gli ordini religiosi, si era dispersa in mille rivoli in tutta Italia, alimentando attese in un rinnovamento radicale della società che, al di là del contesto cittadino fiorentino, si allargavano all’intera cristianità. Frati itineranti infiammavano i fedeli dai pulpiti, mentre nelle piazze e nei mercati cittadini eremiti di status non ben definito, vestiti di sacco e pelli come i profeti «Enoch ed Elia», si mescolavano a «ciarlatani, cavadenti, ripositori d’ernia» per predicare la penitenza. Fogli volanti e opuscoli circolavano in tutti gli strati sociali. «Ascoltate mortali/ li orribeli segnali/ che annuntiano gran mali»: predicazione e stampa davano voce a paure dilaganti, diffondevano notizie di eventi prodigiosi e di nascite mostruose da una città all’altra, annunciavano imminenti flagelli, l’invasione turca, l’avvento dell’Anticristo e la fine del mondo se gli uomini non si fossero redenti. Non erano fenomeni che riguardassero solo il popolo: dotti curiali e potenti cardinali forzavano i segreti della Sacra Scrittura e di antichi codici per leggervi l’annuncio del «papa angelico», colui sotto il cui governo, secondo i vaticini, doveva aprirsi la nuova era. Nel frattempo la propaganda politica utilizzava ai propri fini tali inquietudini identificando ora nel «re dei gigli» Francesco I ora nel suo nemico Carlo V l’imperatore che avrebbe pacificato, riformato e salvato la cristianità.
Nel 1517 a Wittenberg la rivolta contro Roma del frate agostiniano Martin Lutero aveva avviato un processo storico che di lì a qualche anno avrebbe infranto l’unità religiosa del mondo cristiano. A occupare in quel periodo il sacro soglio erano papi fiorentini della famiglia dei Medici, con la breve interruzione di Adriano VI (1522-1523), l’ex precettore di Carlo V. Nella splendida Roma di Leone X (1513-1521) prima, di Clemente VII (1523-1534) poi, il teologo di Utrecht fu considerato un «barbaro» per i suoi ideali di riforma e per l’indifferenza verso le arti e le lettere, verso il neopaganesimo e il raffinato estetismo della Roma medicea che nel 1528 Erasmo avrebbe condannato nel Ciceronianus, un violento pamphlet scritto all’indomani del sacco.
Nel 1527, infatti, in seguito alla stipulazione della Lega di Cognac tra il papa e il re di Francia, le truppe imperiali di Carlo V entravano nella penisola e marciavano senza ostacoli sino a Roma mettendola a sacco e tenendola in pugno per quasi un anno. I lanzi luterani al servizio dell’imperatore, che nel papa vedevano l’incarnazione dell’Anticristo e in Roma la nuova Babilonia, profanarono i simboli del centro del mondo cristiano, infierendo con violenze inaudite sugli abitanti. Al di qua e al di là delle Alpi, pur tra valutazioni politiche divergenti, il funesto evento fu interpretato come segno tangibile della «giusta ira di Dio».
Il sacco del 1527 non rappresentò solo un trauma individuale per quanti avevano goduto sino allora della munifica magnificenza della Roma rinascimentale di Clemente VII («Non mi par esser quel Bastiano che era avanti al sacco: non posso più tornare in cervello» scrisse il pittore Sebastiano del Piombo al suo ritorno nella capitale pontificia) né fu soltanto una tragedia per chi era rimasto in balìa degli orrori della lunga occupazione. Come avrebbe sostenuto Francesco Guicciardini nella Storia d’Italia, l’umiliazione della Roma cristiana aveva messo in ginocchio non solo una città, non solo il papato, ma la stessa fede nel primato culturale e politico dell’Italia rinascimentale fondato sulla continuità con l’eredità della Roma antica.
Alla fine degli anni Venti, alla corte di Clemente VII, la protesta di Lutero e del mondo tedesco, a dieci anni di distanza dall’affissione delle tesi, era ancora incredibilmente sottovalutata e non compresa nella sua portata e dimensioni. Negli anni successivi alla tragedia del sacco, dopo la pace di Bologna del 1530 tra il papa e Carlo V, la necessità di una riforma in capite (ossia ai vertici) cominciò a diventare problema politico e religioso anche per il papato. A poco a poco uomini di Chiesa e di cultura che erano fortunosamente fuggiti da una città devastata dalle scorribande dei lanzichenecchi luterani o successivamente allontanatisi da una corte stremata e moralmente screditata, iniziarono a guardare a Roma come al luogo in cui programmi di rinnovamento, linee di riforma e proposte avrebbero potuto trovare ascolto e coordinamento.
Nel 1534 Paolo III Farnese ascese al soglio pontificio. Le creazioni cardinalizie degli anni successivi mostrano come il nuovo papa fosse in grado di aggregare intorno a sé i principali rappresentanti dei circoli riformatori, in particolare quel gruppo eterogeneo di uomini di Chiesa che avevano animato l’ambiente veneto all’indomani del sacco. Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti (in latino Teate), membro di una famiglia della grande feudalità napoletana, dopo la fuga da Roma si era rifugiato a Venezia dove era stato nuovamente eletto preposito dell’ordine dei teatini da lui fondato nel 1524 insieme con il patrizio vicentino Gaetano Thiene. Reginald Pole, allontanato dalla corte inglese per essersi opposto al divorzio di Enrico VIII suo cugino, alla fine del 1532 era tornato a Padova di cui in passato aveva frequentato lo Studio (ossia l’Università). Gregorio Cortese era abate del monastero veneziano di San Giorgio Maggiore, in quel periodo luogo d’incontro di uomini di cultura e di esponenti delle classi dirigenti cittadine più sensibili ai problemi religiosi. Gasparo Contarini sarebbe approdato in curia dopo una brillante carriera politica e diplomatica spesa al servizio della Repubblica, portatovi dagli studi e da una complessa ricerca spirituale. Pietro Bembo, anch’egli patrizio veneziano, era uno dei letterati più famosi dell’epoca e aveva già dato compiuta forma teorica alla sua codificazione dello stile e della lingua volgare. A partire dalla metà degli anni Trenta questi uomini confluirono a Roma seguendo percorsi differenti. Il Contarini fu elevato alla porpora cardinalizia nel 1535, Carafa e Pole nel 1536, il Bembo nel 1539, il Cortese nel 1542.
Nel 1536 una commissione presieduta dal Contarini ricevette l’incarico di tracciare le linee di una riforma universale in vista della convocazione conciliare. Ne facevano parte oltre al Carafa, al Pole e al Cortese anche il grecista Girolamo Aleandro (cardinale nel 1538); Jacopo Sadoleto (cardinale nel 1536) compagno del Bembo come segretario ai brevi sotto Leone X; il domenicano Tommaso Badia (cardinale nel 1542) e il nobile genovese Federico Fregoso (cardinale nel 1539), entrambi molto legati al Contarini, nonché Gian Matteo Giberti, il potente datario apostolico di Clemente VII che, dopo il fallimento della politica papale filofrancese culminato nella tragedia del sacco, aveva abbandonato la curia per dedicarsi a un’intensa attività riformatrice nella sua diocesi veronese. L’anno successivo a Paolo III veniva consegnato il documento conosciuto come Consilium de emendanda Ecclesia, cioè Parere sulla riforma della Chiesa.
Il memoriale affrontava una vasta serie di problemi: dal controllo sui libri, sulla predicazione al popolo e sull’insegnamento universitario, agli abusi del clero regolare e secolare sino alla riforma degli uffici centrali romani. L’entità delle questioni esaminate condannava le riforme proposte a restare lettera morta, specie allorché si tentò di affrontare il risanamento dei grandi dicasteri curiali quali la Dataria (che aveva il compito di concedere dispense, di effettuare composizioni in deroga alle norme del diritto canonico e di conferire i benefici non concistoriali, ossia quelli la cui assegnazione non spettava al Collegio cardinalizio) e la Penitenziaria (tribunale incaricato di concedere grazie, dispense e assoluzioni per il foro interno, ossia per le questioni di coscienza), le due istituzioni-simbolo della corruzione romana in età rinascimentale, «fondaghi di mercantie» della «monarchia papesca» come le avrebbe definite un esule italiano oltralpe, contro le quali già si era indirizzata la feroce polemica di Lutero. Anche se il progetto di riforma ecclesiastica delineato nel Consilium fallì, il fatto essenziale è che per un breve momento tra gli esponenti dei vertici curiali si riuscì a raggiungere un accordo intorno a un comune programma di rinnovamento da presentare al pontefice.
All’interno di questo gruppo di uomini di cultura e di Chiesa che, nel volgere di pochi anni, sarebbero entrati a far parte (o già ne erano membri) del Collegio cardinalizio, non avrebbero tardato a emergere le divergenti concezioni religiose, le opposte visioni ecclesiali e i conflitti di carattere politico che nei due decenni successivi avrebbero lacerato i vertici della Chiesa. Dinanzi al problema della diffusione del dissenso religioso e delle dottrine riformate i fronti si sarebbero divisi: all’atteggiamento irenico e conciliatore verso il mondo protestante di quanti si raccoglievano intorno alla prestigiosa figura del Contarini si sarebbe contrapposta la posizione d’intransigente lotta antiereticale dei cardinali Gian Pietro Carafa e Girolamo Aleandro. All’inizio degli anni Quaranta il contrasto tra queste due diverse linee politico-religiose avviò tra i membri del Collegio cardinalizio una serie di aspre lotte che avrebbero condotto alla vittoria dello schieramento intransigente, al prevalere della volontà di scontro dottrinale con il mondo protestante e all’affermazione della Chiesa della Controriforma.
2. Il pontificato farnesiano: crisi religiosa e nuove prospettive politiche
Con la stabilizzazione del dominio imperiale sulla penisola dopo la pace di Bologna del 1530 tra il papa e Carlo V, i toni apocalittici si spensero a poco a poco, privi ormai degli spazi politici su cui proiettare le proprie ansie di rigenerazione. Parallelamente l’istituzione ecclesiastica stendeva un controllo crescente sui fenomeni profetici, mettendo a tacere quella folta schiera di figure – monache visionarie, frati che vivevano al di fuori dei loro conventi, laici che predicavano di religione – che ne erano stati i protagonisti. A partire dagli anni Trenta profetesse e predicatori di terribili flagelli cessarono di dominare la vita dei fedeli.
Con l’elezione di Paolo III, come si è detto, la Santa Sede cominciò finalmente ad affrontare il problema della rottura dell’unità religiosa europea e della propagazione dell’eresia nella penisola. Sin dagli anni Venti il dissenso religioso in Italia aveva trovato canali privilegiati di trasmissione nella circolazione di «libri avvelenati et pieni di mille heresie scritti in volgar lingua»; negli scambi di uomini e idee che avvenivano nei centri universitari; nell’insegnamento di «grammatici», umanisti e maestri di scuola, e soprattutto nei sermoni dei predicatori del «puro evangelio» che dai pulpiti cittadini divulgavano tra il popolo i temi della grazia, della giustificazione per fede, del sacrificio di Cristo.
La diffusione delle idee riformate in Italia ebbe una dimensione essenzialmente urbana, con caratteristiche specifiche da città a città. A Venezia la fiorentissima industria libraria produsse la prima Bibbia eterodossa in volgare (1530-1532) tradotta dall’esule fiorentino Antonio Brucioli, in seguito processato per eresia dall’Inquisizione, insieme con le precoci traduzioni delle opere di Erasmo e Lutero. In questo crocevia di mercanzie, uomini, libri e idee, dove le nuove dottrine avevano conquistato bottegai e artigiani, ma anche discendenti d’illustri famiglie patrizie, i testi eterodossi circolavano senza difficoltà sotto gli occhi allarmati del nunzio pontificio (cioè il rappresentante diplomatico del papa) che nel 1543 denunciava la «libertà grande della stampa».
Sino alla fine degli anni Quaranta la classe dirigente veneziana, sempre pronta a far valere l’autonomia dello Stato aristocratico e repubblicano contro Roma, si astenne dall’adozione di significative misure repressive. Grazie al clima di libertà che si respirava nella capitale della Repubblica, nel 1539 Filippo Melantone poteva inviare una lettera ai veneziani «studiosi del Vangelo» in cui esortava le autorità a raccogliere le diffuse istanze di rinnovamento religioso contro la tirannia papale. Nel 1541 il generale dei cappuccini Bernardino Ochino poteva illudersi che la Repubblica sarebbe diventata il punto di partenza e il centro propulsore per la propagazione della Riforma nella penisola: «Già Christo ha incominciato a penetrare in Italia, ma vorrei che v’intrasse glorioso, a la scoperta, e credo che Venetia sarà la porta». Ancora nel 1545 il vescovo di Capodistria Pietro Paolo Vergerio, ormai ricercato dall’Inquisizione, intravedeva quegli spiragli politici che gli consentivano di scrivere una veemente «esortazione alla riforma della Chiesa» in forma di lettera al neoeletto doge Francesco Donà. Sia l’Ochino sia il vescovo Vergerio sarebbero stati costretti alla fuga oltralpe per sfuggire al processo inquisitoriale, l’uno nel 1542, l’altro nel 1549.
In un’altra repubblica, quella di Lucca, l’eresia si radicò profondamente nelle file del patriziato cittadino dedito ai traffici mercantili con i paesi riformati, nei conventi (Pier Martire Vermigli, fuggito con alcuni compagni al di là delle Alpi nel 1542, era priore dei canonici lateranensi di San Frediano) e tra alcune eminenti figure di umanisti come Celio Secondo Curione e Aonio Paleario. Il Curione, professore all’Università di Pavia negli anni Trenta, si era rifugiato a Venezia e di qui a Ferrara alla corte di Renata di Francia, da dove si trasferì a Lucca come precettore di una famiglia patrizia cittadina, per poi fuggire in Svizzera nel 1542. Al Paleario, allontanatosi da Siena dove le sue dottrine nel 1542 gli avevano procurato una prima denuncia all’Inquisizione, nel 1546 fu addirittura assegnata dalle autorità lucchesi una cattedra pubblica d’insegnamento: dopo varie peregrinazioni, venne processato, decapitato e arso sul rogo per eresia a Roma nel 1570. La piccola repubblica fu a lungo luogo d’incontro di esponenti del dissenso religioso che qui potevano trovare la protezione di solide complicità e coperture sociali. Solo intorno alla metà degli anni Cinquanta il movimento ereticale lucchese fu spezzato e i processi aprirono un flusso di esuli verso Ginevra tra i quali comparivano i nomi più prestigiosi della classe dirigente cittadina.
Nei domini estensi, la corte ferrarese di Renata di Francia, convertita al calvinismo e ricca di rapporti con il mondo francese, rappresentò un punto di riferimento per i rappresentanti del dissenso religioso italiano sino al ritorno in patria della duchessa nel 1559 alla morte del marito Ercole II. Nell’altra città estense, Modena, l’eresia si radicò a tal punto da aggregare livelli sociali diversissimi e costituire una comunità eterodossa forte e compatta che per circa trent’anni dominò la vita religiosa cittadina. Nella «città infetta del contagio de diverse heresie come Praga», negli anni Trenta il filologo e letterato Ludovico Castelvetro traduceva in volgare le opere di Melantone e nel 1543 il vescovo Giovanni Morone scacciava il gesuita Alfonso Salmerón per invitarvi a predicare l’anno seguente il francescano Bartolomeo della Pergola, poi processato dall’Inquisizione.
A Firenze fermenti eterodossi si diffusero alla corte di Cosimo I de’ Medici coinvolgendo segretari, uomini d’affari e gli intellettuali legati all’Accademia del principe. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, con l’avallo del duca, il pittore Iacopo da Pontormo iniziava ad affrescare il coro della basilica di San Lorenzo – la parrocchia dei Medici e quindi un luogo denso di valori simbolici – traducendovi in immagini il Catechismo di Juan de Valdés, apparso a stampa nel 1545, che già teologi e inquisitori avevano stigmatizzato come eretico. Nella Repubblica senese, passata sotto il dominio mediceo nel 1557, solo la dura repressione inquisitoriale degli anni Sessanta riuscirà a stroncare un movimento clandestino che aveva amalgamato differenti livelli sociali e si era presto orientato verso il calvinismo. A Napoli negli anni Quaranta il dissenso religioso assunse connotazioni autonome, profondamente influenzato dal magistero spirituale dello spagnolo Juan de Valdés, sul quale si avrà modo di tornare, mentre una larga diffusione di dottrine ereticali è attestata dalle fonti dell’Inquisizione spagnola operante in Sicilia. In un altro dominio spagnolo, lo Stato di Milano, la comunità ereticale cremonese, una vera e propria Chiesa calvinista, mostra quale punto di organizzazione fosse in grado di raggiungere nel Nord Italia un dissenso che poteva avvalersi dei passi alpini come canali di comunicazione ed eventuali vie di fuga.
Il movimento filoriformato in Italia ebbe dunque una fisionomia non unitaria, entro la quale, però, per oltre un trentennio uomini e conventicole eterodosse poterono contare su sotterranee solidarietà, sulla mobilità degli adepti, su capillari forme di propaganda, su contatti d’amicizia con gli esuli d’oltralpe, su scambi epistolari con i maestri della Riforma e, soprattutto, sulle complicità sociali e politiche dei ceti dirigenti e dei governi della penisola. Stretti legami si crearono inoltre tra sparsi gruppi ereticali e uomini di Chiesa investiti di altissime responsabilità. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta il dissenso religioso nella realtà urbana italiana poté infatti assumere una dimensione istituzionale e godere di autorevoli legittimazioni ecclesiastiche da parte di uomini come Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria, Giovanni Morone vescovo di Modena, Vittore Soranzo vescovo di Bergamo, Pietro Antonio Di Capua arcivescovo d’Otranto, Giovanni Grimani vescovo di Ceneda e poi patriarca di Aquileia, tutti perseguitati dall’Inquisizione.
Un’altra importante caratteristica del dissenso religioso in Italia nel primo Cinquecento fu la larga articolazione sociale e il coinvolgimento dei ceti popolari nei dibattiti dottrinali finalmente sottratti al monopolio dei teologi. Gli analfabeti si facevano leggere dai compagni di fede il Nuovo Testamento e libri ereticali; famosi predicatori seminavano le «zizanie lutherane» con «modi pieni di colore, coperti et maligni»; molti religiosi condividevano l’opinione che, «se non avessemo pagura del fuoco, tutti viveressimo secondo Lutero», reputato alla pari di «un gran santo»; uomini e donne, «idioti mecanici semplici et altri» attaccavano voti e digiuni «perché queste cose non si ritrovan scritte nel Vangelio»: «Fino li gargioni di stalla» apparivano in grado di discutere «de le cose de Scrittura benissimo», mentre gli «errori de’ moderni heretici» conquistavano i «primi gentilhuomini», «li nobili et bone famiglie» delle città.
Le nuove dottrine incontravano situazioni cariche di emozioni e tensioni; inquietudini morali e politiche si rimodellavano dinanzi al messaggio religioso della Riforma; la tradizione profetica medievale, le prospettive apocalittiche riaccese dalla tragedia del sacco di Roma e la diffusa polemica antiecclesiastica trovavano un’inedita radicalità nella violenta denuncia luterana della Chiesa cattolica come «Ecclesia carnalis», «sinagoga diabuli», e nell’interpretazione della sua storia quale progressiva affermazione dell’Anticristo. Eppure il dissenso religioso che si sviluppò nella penisola non è interpretabile in chiave esclusivamente confessionale. Mentre negli anni Quaranta a Zurigo, a Wittenberg e a Ginevra le nuove ortodossie si andavano lentamente definendo e consolidando sul piano dogmatico e istituzionale sotto l’incalzare dei conflitti politici e sociali, la realtà italiana era frammentata in conventicole e gruppi ereticali privi di un centro organizzativo che fosse in grado di svolgere una funzione unificante sul piano dottrinale.
Per capire la specificità della crisi religiosa italiana occorre quindi rinunciare a un’analisi in chiave esclusivamente teologica del dissenso religioso, tenendone invece presente il carattere creativo e sperimentale. La lettura frequente e diretta della Sacra Scrittura senza la mediazione di preti e frati posta da Lutero come tratto essenziale dell’esperienza cristiana, diventava spesso per i fedeli – anche illetterati – il punto di partenza per ricerche autonome. Una volta che ci si fosse soffermati su un’idea, si cominciava a cercare conferme in altre letture, si interrogavano i testi dei riformatori, la fiorente produzione a stampa di trattati spirituali, volgarizzamenti biblici e operette ascetiche sulla riforma interiore, sino all’ascolto attento della predica dal pulpito. Lungo tali percorsi si formavano convinzioni in grado di orientare concretamente le scelte e l’esistenza di individui e di piccoli gruppi. La difesa della libertà evangelica del cristiano contro riti, devozioni superstiziose e prescrizioni della Chiesa ufficiale; la rivendicazione del ruolo dei laici nell’esperienza religiosa; la centralità della questione del rinnovamento interiore; il cristocentrismo nei suoi multiformi esiti e formulazioni diventavano i temi attraverso i quali i messaggi provenienti d’oltralpe erano condensati e rielaborati.
Sullo sfondo appena delineato vanno collocate le trasformazioni politiche e religiose in atto negli anni Quaranta ai vertici dell’istituzione ecclesiastica. Nel 1541, nel corso della dieta di Ratisbona tra l’imperatore Carlo V e i prìncipi tedeschi, si riaprivano i colloqui tra cattolici e protestanti affidati al legato papale Gasparo Contarini. Dinanzi alle intransigenze di Melantone, Martin Butzer, Giovanni Pistorio e alle dimensioni politiche e sociali ormai assunte in Germania dall’eresia, il cardinale veneziano dovette rendersi conto dell’impercorribilità della via della riconciliazione. Inizialmente, in materia di giustificazione, si poté pervenire a un compromesso dottrinale soddisfacente per i teologi protestanti e per il legato papale, intimamente convinto che «il fundamento dello edificio de’ luterani è verissimo», ma la frattura si rivelò insanabile sulle questioni riguardanti il carattere sacramentale della Chiesa e della sua costituzione gerarchica. Il tentativo di mediazione intrapreso dal Contarini fallì e l’operato del cardinale fu accolto in curia dalle aspre critiche di quanti ne osteggiavano la politica filoimperiale e le posizioni religiose riflesse nel discusso accordo sulla giustificazione. Nonostante ciò, il prestigio del porporato veneziano e i rapporti con il Farnese non furono scossi dalle accuse di eterodossia allora avanzate dai più inflessibili rappresentanti del Collegio cardinalizio.
L’anno successivo al fallimento dei colloqui di religione, lo scontro ai vertici della Chiesa si aggravò, mentre i margini di compromesso e di discussione si esaurivano progressivamente. Il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio Paolo III istituì il supremo tribunale del Sant’Uffizio romano con compiti di direzione e coordinamento delle inquisizioni locali e facoltà di procedere contro laici ed ecclesiastici senza tener conto di privilegi e immunità. Nelle mani del Carafa l’attività dell’Inquisizione doveva ben presto indirizzarsi verso la repressione del dissenso sul fronte interno ed esterno nella convinzione, già espressa dallo stesso Carafa dieci anni prima, che «li heretici si voleno trattar da heretici». Pochi mesi dopo fuggiva il generale dei cappuccini Bernardino Ochino, il più famoso predicatore italiano degli anni Trenta, amico del Pole e di Vittoria Colonna, del quale nel 1539 si era parlato come di un probabile cardinale, rifugiatosi nella Ginevra di Calvino per sottrarsi alla minacciosa chiamata presso la Santa Sede. Se fosse rimasto, come egli scrisse alla Colonna, non avrebbe potuto che «negar Christo o esser crucifisso». Lungo la stessa strada l’avrebbe seguito di lì a poco Pier Martire Vermigli, canonico regolare e priore del monastero lucchese di San Frediano, anch’egli legato ai gruppi valdesiani dei quali si parlerà tra breve, che dalle cattedre di Oxford, Strasburgo e Zurigo sarebbe diventato uno dei maestri del calvinismo europeo.
Nel maggio del 1542 veniva pubblicata la bolla di convocazione del concilio a Trento, presto sospeso a causa dell’aggravarsi della guerra tra Francia e Spagna. Nella svolta accentratrice romana di quell’anno (articolata sul doppio versante della convocazione conciliare e della riorganizzazione dell’Inquisizione) e nel fallimento del disegno politico e religioso del Contarini, che si spegneva mentre era legato a Bologna, la periodizzazione proposta in passato dallo storico Delio Cantimori ha indicato il momento cruciale del definitivo esaurimento del cosiddetto «evangelismo» italiano, di quello schieramento di potenti curiali e uomini di Chiesa legato al Contarini, disposto a un dialogo con il mondo riformato e ad aperture teologiche verso le nuove dottrine. Recenti studi hanno invece stabilito la vitalità degli ambienti riformatori italiani tra gli anni Quaranta e Cinquanta, mettendo in luce il favore e le protezioni di cui questi godevano presso la Santa Sede, nonché gli spazi ancora esistenti sotto il pontificato farnesiano per i fautori di prospettive politiche e religiose non riducibili agli indirizzi curiali più intransigenti. Proprio a Reginald Pole e a Giovanni Morone, nominato cardinale nel 1542, nell’ottobre dello stesso anno fu affidato il prestigioso incarico di presiedere l’assemblea conciliare che poi fallì. Indicativa è anche la composizione, in quel periodo, del Collegio cardinalizio dove sedevano il Bembo, il Sadoleto, il Cortese, giunti alla porpora coniugando impegno religioso e studi umanistici.
Lungi dal risultare sconfitto, il dissenso interno alla Chiesa nel 1542 si andava invece riaggregando e radicalizzando, sul piano dottrinale, intorno a nuove personalità, tendenze spirituali e linee politiche d’intervento. Figura ispiratrice era lo spagnolo Juan de Valdés. Il Valdés, di origine conversa e membro dell’hidalguìa della Nuova Castiglia, si era formato nella Spagna degli anni Venti dove i fermenti della spiritualità tardomedievale spagnola si erano incontrati con il misticismo degli alumbrados o illuminati, con l’erasmismo e con la diffusione delle dottrine luterane. All’inizio degli anni Trenta il cavaliere spagnolo si era rifugiato prima a Roma e poi a Napoli per sottrarsi all’Inquisizione del suo paese. Nella città partenopea si riunì intorno a lui un gruppo che dopo la sua morte (1541) si ricostituì a Viterbo alla corte del cardinal Pole, legato del patrimonio di San Pietro.
Il passaggio di uomini e libri tra Napoli e Viterbo, la fitta rete di contatti epistolari e personali, l’intrecciarsi di frequentazioni ed esperienze religiose intorno al cardinale inglese caratterizzarono la cosiddetta Ecclesia Viterbiensis. Ne fecero parte potenti uomini di Chiesa come il Morone e il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, già segretario di Clemente VII; membri della «familia» cardinalizia del Pole, vescovi, umanisti, illustri aristocratici e gentildonne come Giulia Gonzaga e Vittoria Colonna, che si trovarono così raccolti intorno al messaggio religioso valdesiano e ormai lontani dalle moderate posizioni di Contarini. La storiografia oggi li indica come il gruppo degli «spirituali», utilizzando l’espressione con la quale essi stessi si definirono e vennero designati dai loro nemici.
Quali erano i tratti fondamentali del messaggio del Valdés e quali elementi lo rendono così importante agli occhi degli storici rispetto ad altre dottrine che negli inquieti anni Trenta e Quaranta del Cinquecento furono in grado di indirizzare concretamente esperienze e scelte religiose? La fede che stava al centro della proposta valdesiana non si definiva attraverso un determinato nucleo di dogmi. La verità cristiana non consisteva in un insieme di contenuti dottrinali e di testi scritti, ma si conquistava attraverso una ricerca personale, sulla base di una trasformazione interiore sviluppata nel rapporto diretto con Dio. «Io non vi dò queste regole perché stiate legata ad esse, perché la ’ntentione mia è che non vi serviate di loro se non come d’uno alfabeto christiano per mezzo del quale possiate venire alla perfettione christiana», scriveva il Valdés nel 1536 nella dedica a Giulia Gonzaga dell’Alphabeto christiano, dove l’esule spagnolo non forniva ammaestramenti ma indicava direzioni e percorsi attraverso i quali costruire un’esperienza religiosa individuale.
Dall’irrilevanza dei contenuti teologici e della stessa Sacra Scrittura, da tale concezione «spiritualistica» dell’essere cristiano – ossia non dipendente da una verità religiosa oggettiva fissata dall’istituzione e trasmessa da una tradizione scritta, ma proveniente da un’illuminazione interiore e da un’esperienza soggettiva – derivavano l’assenza di ogni spunto polemico verso la gerarchia ecclesiastica, la possibilità di rimanere al suo interno senza operare rotture, ma anche la delegittimazione del significato del concetto di ortodossia e dell’esistenza stessa delle Chiese, fossero esse quella di Roma, di Wittenberg o di Ginevra. La mancanza dei toni violenti nell’invettiva antiromana e la rasserenante dolcezza del linguaggio del Valdés celavano l’esiguità degli spazi di mediazione accordati al clero entro una concezione che, dopo aver svalutato l’importanza delle opere ai fini della salvezza e aver fatto propria la dottrina della giustificazione per fede, metteva in risalto esclusivamente gli aspetti interiori dell’esperienza religiosa. «Che una persona può essere tanto piena de spirito che la non sia sottoposta alle leggi humane della Chiesa» era la convinzione, del tutto in linea con gli insegnamenti dell’esule spagnolo, attribuita al cardinal Morone da uno dei suoi accusatori.
La libertà del cristiano così delineata poteva condurre a esiti pericolosamente radicali, incompatibili con qualsiasi Chiesa, come dimostra la fortuna delle idee valdesiane tra gli antitrinitari dell’Europa orientale e tra i gruppi settari della rivoluzione inglese. Non a caso le dottrine del Valdés furono condannate anche al di là delle Alpi, nella Ginevra calvinista.
Tenendo conto di tali aspetti del pensiero dell’esule spagnolo si può comprendere in che senso l’adesione ad esso potesse accompagnarsi ad atteggiamenti nicodemitici, a comportamenti cioè che esteriormente si conformavano al culto ufficiale per professare nascostamente una fede diversa. Le aristocratiche cautele e la prudenza che ispirarono le scelte e le linee d’azione dei membri dei gruppi napoletani e viterbesi, i differenti livelli di comunicazione consapevolmente adottati a seconda dei destinatari del loro messaggio spirituale, l’uso di forme settarie di propaganda e di proselitismo, incompatibili con prospettive ecclesiologiche aperte all’intera società cristiana non erano dettati solo dall’opportunistica necessità di simulazione di fronte a pericoli esterni, ma si spiegano alla luce di un’esperienza religiosa quasi iniziatica che poteva essere capita solo se vissuta in prima persona. Il carattere settario e minoritario di quella proposta affondava le sue radici in tali premesse prima ancora che nella volontà di tutela dei propri privilegi da parte dei potenti ecclesiastici e degli aristocratici che, come si è visto, vi aderirono.
L’importanza del ruolo della spiritualità valdesiana rispetto ad altri orientamenti che animarono la vita religiosa italiana degli anni Trenta e Quaranta risiede nel fatto che essa coinvolse uomini che ricoprivano ruoli istituzionali di altissimo livello entro la struttura ecclesiastica. In particolare, l’attività degli spirituali si fece frenetica nel periodo compreso tra la prima fallita convocazione del concilio del 1542-1543 (cui il Morone e il Pole erano stati designati legati papali) e la sua apertura nel dicembre del 1545 sotto la presidenza, ancora una volta, del cardinale inglese. Gli spirituali pubblicarono in quel periodo i trattatelli del Valdés (sino allora confinati a una cauta diffusione manoscritta) e soprattutto un «dolce libricino» nato nell’ambiente valdesiano destinato a un’immensa circolazione: il Trattato utilissimo del beneficio di Christo, redatto a Napoli nel 1540 dal monaco benedettino Benedetto Fontanini da Mantova, amico dell’esule spagnolo, successivamente rielaborato nel 1542 a Viterbo da Marcantonio Flaminio, erede insieme con la Gonzaga del lascito spirituale affidato ai manoscritti inediti del Valdés. Attraverso il linguaggio tipico dei trattati di pietà e al di fuori di ogni controversia dottrinale, il libro condensava il rassicurante messaggio valdesiano di salvezza universale grazie al sacrificio di Cristo, arricchendolo con numerose citazioni calviniane sulla giustificazione per fede.
All’origine di questa attività di propaganda degli spirituali si trovava un progetto politico e religioso mirante a orientare i dibattiti conciliari e le importanti scelte dottrinali che la Chiesa stava per affrontare. Le dottrine valdesiane rappresentavano una proposta di mediazione volta a catturare il consenso delle élite ecclesiastiche e culturali, di cardinali e vescovi impegnati a Trento, intorno a un pensiero alieno da ogni polemica antiromana e, al tempo stesso, aperto alle dottrine del mondo riformato. Le aspettative di una prossima elezione al papato del Pole e il prestigioso incarico tridentino che gli era stato affidato davano consistenza alle «speranze conciliari» degli spirituali, che tuttavia ne uscirono in breve tempo sconfitti.
Nel gennaio del 1547 il concilio emanava il decreto sulla giustificazione secondo una rigida formulazione che chiudeva ogni possibilità di dialogo con la Riforma protestante, ma anche con le posizioni degli spirituali (il Pole si finse in quei giorni malato per evitare di apporre il suo sigillo a una decisione in contrasto con le proprie convinzioni religiose). Il Beneficio di Christo e i trattatelli valdesiani furono condannati dagli Indici di libri proibiti come opere eretiche. Nel 1549, alla morte di papa Farnese, durante il lunghissimo e tormentato conclave che ne seguì, le fervide aspettative riposte nell’elezione del cardinale d’Inghilterra al soglio pontificio non si realizzarono per un solo voto. Un ruolo determinante ebbero allora le accuse di eresia rivolte al Pole da Gian Pietro Carafa sulla base di una documentazione che era il frutto delle inchieste avviate contro il gruppo degli spirituali viterbesi già dal settembre 1542, all’indomani dell’istituzione dell’Inquisizione romana. Saldamente controllato dallo schieramento intransigente, il Sant’Uffizio era ormai in grado di condizionare l’elezione papale.
3. Dal conflitto ai vertici della Chiesa alla «guerra spirituale» del cardinal Carafa
La battaglia politica entro il Sacro Collegio combattuta durante la prima fase del tridentino non fu semplicemente un contrasto tra gli ambiziosi disegni di opposte fazioni cardinalizie, né il significato di quello scontro rimase confinato entro le aule curiali romane. Con le forze e gli orientamenti che ne uscirono vittoriosi dovettero fare i conti negli anni successivi la società e la vita religiosa della penisola. Da quel conflitto emersero i soggetti, le prassi istituzionali, i modelli ideologici e dottrinali che avrebbero dominato la Chiesa della Controriforma.
Momento cruciale fu il pontificato di Giulio III (Giovan Maria Ciocchi del Monte, 1550-1555). Durante il suo governo, l’Inquisizione andò accumulando una ricca documentazione a carico di cardinali e vescovi per mezzo di indagini e processi in cui erano imputati personaggi di secondo piano, raccolse testimonianze volte a portare alla luce complicità e solidarietà, alimentò un clima poco rassicurante di sospetto intorno ad alcuni dei più autorevoli esponenti del Sacro Collegio. Elemento trainante dell’Inquisizione romana era il cardinal Carafa. Già nel 1532, quando era solo un vescovo lontano da Roma e dalle prestigiose cariche curiali, egli aveva inviato a papa Clemente VII un memoriale sulla repressione dell’eresia luterana e la riforma della Chiesa nel quale – con una chiarezza d’idee stupefacente in quegli anni – proponeva di risolvere il problema del rinnovamento della Chiesa attraverso l’intransigente affermazione del primato papale e la «guerra spirituale» condotta «con ogni rigor et asprezza» contro l’eresia, al fine di «estirpar, annichilar et allontanar» questo «morbo dell’anima».
Gli imputati e i testimoni che nei primissimi anni Cinquanta erano costretti a presentarsi dinanzi agli inquisitori romani – a Gian Pietro Carafa, Marcello Cervini, Juan Alvarez de Toledo, Rodolfo Pio di Carpi e al commissario generale Michele Ghislieri – e che, nelle loro deposizioni, facevano i nomi dei cardinali Pole, Morone, Girolamo Seripando, Badia, non compromettevano modesti artigiani o frati sconosciuti, ma prelati circondati dal credito e dalla stima delle corti europee che, pur con sfumature e accenti diversi, nell’eredità del Valdés avevano trovato la possibilità di conciliare l’adesione a posizioni dottrinali vicine alla Riforma con il mantenimento di importanti ruoli all’interno della Chiesa.
Il Pole e il Morone furono salvati dall’intervento di Giulio III che nel 1553 impose al Carafa di interrompere le inchieste contro i due cardinali: il sotterraneo braccio di ferro tra pontefice e Inquisizione testimonia l’enorme potere politico detenuto dal Sant’Uffizio. La protezione papale non riuscì a evitare nel 1551 al vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, accusato d’eresia dai cardinali inquisitori, la clamorosa detenzione in Castel Sant’Angelo e la privazione del vescovado. Dal canto loro, l’arcivescovo d’Otranto Pietro Antonio Di Capua e il patriarca d’Aquileia Giovanni Grimani, entrambi inquisiti, pur riuscendo a evitare il carcere dovettero rinunciare a quel cappello cardinalizio che il prestigio personale, il potere delle famiglie e rispettivamente il favore di Carlo V e della Repubblica di Venezia avrebbero potuto garantire loro.
Nonostante gli aspri contrasti tra il papa e il Sant’Uffizio riguardo alla repressione del dissenso ai vertici della Chiesa, sotto il pontificato di Giulio III la stretta inquisitoriale si fece comunque più incisiva nei confronti della società, volgendosi oltre che contro seguaci di Lutero e di Calvino, anche contro movimenti e orientamenti maturati «dal basso» nel corso della crisi cinquecentesca. Nel 1552 ancora una volta dinanzi al Carafa, al Toledo, al Carpi e al Ghislieri, con un procedimento formale che condusse alla carcerazione a Roma del padre maestro e dell’ex preposito, fu di fatto processato l’intero ordine dei barnabiti, di cui furono messi sotto accusa le dottrine ispiratrici, le visioni ecclesiologiche e i capi carismatici, tutti investiti da imputazioni d’eresia che rischiarono di mettere in discussione l’esistenza della congregazione di chierici regolari fondata a Milano circa vent’anni prima, sostanzialmente colpevole di aver perseguito la ricerca della santità al di fuori delle regole imposte da una Chiesa che andava sempre più identificandosi con i modelli dettati dal Sant’Uffizio.
Nei primi anni Cinquanta, dunque, il Sant’Uffizio riuscì gradualmente a diventare il principale strumento di repressione non solo dell’eresia, ma di ogni dissenso interno che fosse in contrasto con ideali, certezze e indirizzi dello schieramento cardinalizio intransigente, un centro di potere in grado di contrastare la politica papale e di condizionare la stessa elezione del pontefice. Le figure inquietanti di cardinali inquisitori che si aggiravano con «un fascio de processi contra tutti i soggetti papabili» sarebbero riapparse in molti conclavi della seconda metà del Cinquecento: il risultato fu nella maggior parte dei casi l’elezione di porporati che facevano o avevano fatto parte del Sant’Uffizio quali Marcello II Cervini (aprile 1555), Paolo IV Carafa (1555-1559), Pio V Ghislieri (1566-1572), Sisto V Peretti (1585-1590).
Alla morte di Giulio III nel 1555, con il nome di Marcello II veniva eletto papa il Cervini, più volte membro del Sant’Uffizio. In seguito alla sua prematura scomparsa ascendeva al soglio pontificio Gian Pietro Carafa, a capo del tribunale romano sin dalla sua creazione. Si ricomponeva così la frattura che, facendo del Sant’Uffizio un corpo autonomo, aveva drammaticamente diviso i vertici della Chiesa sotto Giulio III: la politica dell’Inquisizione diventava politica del papato. Nel disegno politico e religioso del nuovo papa le linee di rinnovamento ecclesiale non dovevano passare attraverso il concilio che, interrotto nel 1552, Paolo IV si guardò bene dal riconvocare. Il rafforzamento delle strutture ecclesiastiche fu perseguito sotto il suo governo per mezzo d’iniziative accentratrici e verticistiche rigorosamente tese a salvaguardare il primato pontificio quali la riforma dall’alto degli uffici curiali, l’istituzione di commissioni cardinalizie, la scelta dei porporati, l’attribuzione di importanti incarichi a quanti tra costoro erano membri del Sant’Uffizio.
Le nomine di Paolo IV mutarono la composizione del Sacro Collegio dove chierici regolari teatini – l’ordine fondato dallo stesso Carafa – e oscuri frati distintisi per lo zelo inquisitoriale si sostituirono ai prestigiosi intellettuali dell’epoca farnesiana. Le maggiori responsabilità di governo furono affidate a cardinali inquisitori quali Scipione Rebiba, Giovanni Reumano, il teatino Bernardino Scotti e il domenicano Michele Ghislieri. Frate piemontese di umili origini, quest’ultimo doveva la propria ascesa curiale all’intransigenza e alla determinazione con le quali si era distinto nella lotta contro l’eresia. Chiamato a Roma nel 1551 alla carica di commissario generale dell’Inquisizione su raccomandazione dello stesso Carafa, all’indomani dell’elezione di questi al soglio pontificio nominato vescovo di Nepi e Sutri, nel 1557 ricevette il cappello cardinalizio.
A poco più di un mese dall’elevazione alla tiara (1555) Paolo IV era in grado di aprire segretamente l’inchiesta formale del Sant’Uffizio a carico del cardinal Morone. Si trattò di un’iniziativa sollecita, resa possibile dal sotterraneo lavoro del Carafa inquisitore che aveva continuato ad accumulare in segreto prove e documenti contro gli spirituali. Il porporato milanese fu improvvisamente arrestato con l’accusa d’eresia il 31 maggio 1557: dal Vaticano dove si trovava fu subito portato nel carcere di Castel Sant’Angelo, mentre il suo palazzo romano veniva perquisito. Il repentino provvedimento fu accolto con costernazione dalle corti europee e dal Sacro Collegio che nel Morone aveva uno degli esponenti più prestigiosi. Il Pole, allora legato papale in Inghilterra sotto Maria Tudor, fu salvato da una sorte simile a quella del Morone solo dalla morte avvenuta nel 1558. Nel frattempo si aprivano nuovi processi contro autorevoli membri della gerarchia ecclesiastica e personaggi minori che erano stati coinvolti nell’esperienza religiosa degli spirituali: «Il papa attende a empiere le prigioni di cardinali e vescovi per conto dell’Inquisizione», scriveva uno di questi, Pietro Carnesecchi, nel 1557. La carcerazione del cardinale milanese che godeva del favore imperiale, d’altra parte, era coerente con gli orientamenti antiasburgici, in politica estera del pontefice che trattava da eretici Carlo V e il figlio Filippo II e si rifiutava di riconoscere il titolo imperiale di Ferdinando, fratello di Carlo V, alla morte di questi avvenuta nel 1558. La tensione tra papato e Asburgo giunse al culmine tra il 1556 e il 1557 durante la breve e disastrosa guerra ispano-pontificia, allorché le truppe spagnole del duca d’Alba provenienti da Napoli si avvicinarono minacciosamente alla capitale, rischiando di rinnovare la tragedia del sacco.
La svolta centralistica e repressiva dell’istituzione sotto Paolo IV si concretizzò nella promulgazione nel 1559 dell’Indice dei libri proibiti, il primo mai emanato per iniziativa pontificia, uno strumento potentissimo affidato dal papa al Sant’Uffizio, elaborato al di fuori dell’assemblea conciliare sospesa ormai da anni, per mezzo del quale il «furore» antiereticale del Carafa non si esercitò solo verso i libri «infetti» d’oltralpe ma portò la propria opera devastatrice nel cuore della cultura umanistico-letteraria e delle letture devote dei fedeli. Parallelamente fu ampliato il campo delle competenze dei tribunali inquisitoriali, estese a bestemmiatori, sodomiti, simoniaci, celebranti senza ordinazione; furono revocati i permessi di lettura dei libri proibiti; si stabilì la pena capitale per i colpevoli di eresie gravissime come l’antitrinitarismo; si esclusero dal diritto di voto in conclave i cardinali inquisiti o sospettati d’eresia. Un ulteriore strumento fu fornito dall’obbligo, fissato per i confessori, di rinviare ai tribunali inquisitoriali i penitenti che confessassero di possedere libri proibiti, rifiutando loro l’assoluzione.
La «guerra spirituale» sotto il Carafa non fu volta solo alla repressione del dissenso, ma s’indirizzò anche verso le minoranze religiose come gli ebrei. L’offensiva antiebraica era iniziata nel 1553 quando l’Inquisizione, capeggiata dal futuro Paolo IV, aveva diretto la confisca e i roghi del Talmud (testo che si pone a fondamento della tradizione e delle leggi ebraiche postbibliche) condannato come sacrilego e blasfemo, di cui venivano proibiti il possesso e l’uso. Divenuto papa, con la bolla Cum nimis absurdum del 1555 Paolo IV ordinò la segregazione nei ghetti di tutti gli ebrei che si trovavano nello Stato pontificio, impose la vendita dei beni immobili di proprietà ebraica, proibì loro l’esercizio dell’arte medica e il commercio di beni alimentari di prima necessità, li obbligò a indossare abiti con il segno giallo distintivo e soprattutto, capovolgendo gli orientamenti dei suoi predecessori in questa materia, decretò la validità e l’irreversibilità del battesimo per i «marrani», gli ebrei convertiti forzatamente in massa nel 1497 in Portogallo, e per i loro discendenti. Ciò significava aprire per il futuro un larghissimo e inedito spazio d’intervento all’Inquisizione nel procedere contro gli ebrei che potevano essere così portati dinanzi ai tribunali della fede come «giudaizzanti», ossia apostati dalla religione cattolica. È quanto accadde ad Ancona, porto pontificio, dove nel 1556 i marrani che erano tornati alla fede ebraica dovettero fuggire o rassegnarsi a essere massacrati dagli inquisitori papali.
Alla morte del Carafa nel 1559 la popolazione romana prese d’assalto il palazzo del Sant’Uffizio liberando i prigionieri e devastando l’archivio, mentre le pasquinate e la violenta satira anticarafesca divampavano, approfittando degli orientamenti del nuovo pontefice Pio IV della famiglia milanese dei Medici. L’altalena di condanne e riabilitazioni che, come si vedrà tra breve, durante i successivi pontificati di Pio IV (1559-1565) e di Pio V (1566-1572) avrebbero coinvolto i protagonisti della storia della Chiesa, è un indice significativo delle contraddizioni e delle resistenze attraverso le quali il processo d’insediamento degli indirizzi politici e religiosi della Controriforma ai vertici dell’istituzione giunse a compimento.
4. Chiesa, papato e Stati europei
All’indomani dell’elezione di Pio IV furono aperti i processi contro i nipoti del Carafa, conclusisi con la condanna a morte degli imputati che, avendo tenuto in mano le fila della segreteria di Stato e della diplomazia papale sotto Paolo IV, furono considerati responsabili della disastrosa politica antiasburgica e colpevoli di tradimento ai danni dello zio, un pontefice che gli incartamenti processuali delineavano pio e zelante, interamente dedito alla salvaguardia dell’ortodossia religiosa e sostanzialmente all’oscuro delle trame antiimperiali tessute dai nipoti. Si trattò in realtà di un processo alle scelte politiche del Carafa che, grazie alla risonanza accordatagli, consentì a Pio IV di colpire il fronte curiale dei familiari e degli uomini fedeli al suo predecessore. Tra i primi provvedimenti del nuovo pontefice di origine milanese vi furono la liberazione del cardinal Morone e la sua reintegrazione nel Sacro Collegio solennemente annunciata alle corti europee e italiane. Nel gennaio del 1562 il papa riapriva a Trento il concilio. L’incarico di presiederlo fu affidato proprio al Morone, prontamente richiamato ai vertici del potere curiale, che diresse a ritmo serrato i lavori dell’assemblea dal suo inizio sino alla conclusione nel dicembre del 1563.
Terminava così il concilio di Trento svoltosi – tra interruzioni e riconvocazioni – nell’arco di due decenni di storia europea densi di trasformazioni sul piano politico e religioso. La soluzione del problema protestante si era posta con urgenza al giovane Carlo V, divenuto imperatore nel 1519. Per oltre un ventennio, però, egli aveva dovuto lottare con le resistenze del papato che nella convocazione dell’assemblea ecumenica vedeva una minaccia per il primato pontificio e un pericolo di risveglio delle tendenze conciliariste (fautrici della superiorità dei concili sul papa), che nel secolo precedente avevano indebolito l’autorità della Santa Sede. A causa di questo ritardo l’imperatore, pur restando fedele al disegno universalistico di conservazione dell’unità religiosa europea sotto l’egida dell’aquila asburgica, era stato costretto a una politica di concessioni ai ceti imperiali che avevano aderito al luteranesimo, in cambio del loro aiuto contro turchi e re di Francia.
Dopo una prima convocazione nel 1542, come si è visto subito sospesa, il concilio era stato finalmente aperto da Paolo III Farnese il 13 dicembre 1545 a Trento, città dell’Impero ma in territorio italiano. Nel marzo del 1547 fu trasferito, con il pretesto di un’epidemia a Bologna, città pontificia, con una decisione che provocò la protesta ufficiale dell’imperatore e il ritiro dei vescovi spagnoli. Così sguarnita l’assemblea conciliare si prolungò stentatamente sino alla morte del pontefice (1549): riconvocata a Trento da Giulio III il primo maggio 1551, nuovamente sospesa il 28 aprile 1552 a causa della guerra tra Carlo V ed Enrico II di Francia alleatosi con i prìncipi tedeschi, non fu più ripresa dal Carafa impegnato in una rovinosa politica antiimperiale e antispagnola.
Quando, dopo un’interruzione di oltre dieci anni, il concilio fu riaperto nel 1562 a Trento da Pio IV, la geografia politica europea era completamente mutata. La divisione dell’eredità di Carlo V alla metà degli anni Cinquanta aveva ridisegnato gli assetti politici europei correndo lungo le linee di confine già tracciate dalle fratture dottrinali e confessionali. Con l’attribuzione nel 1556 al figlio Filippo II re di Spagna dello Stato di Milano e dei Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna (oltre ai domini coloniali e al possesso dei Paesi Bassi) e al fratello Ferdinando del titolo imperiale e dei domini diretti degli Asburgo, la spartizione dinastica carolina aveva decretato in Italia la fine di quell’autorità imperiale ispirata a prospettive ireniche e conciliatrici con il mondo germanico che aveva condizionato le scelte politiche e religiose dei primi decenni del Cinquecento. Nel 1555 la dieta d’Augusta aveva riconosciuto, nella forma giuridica dello ius reformandi, la libertà religiosa per i prìncipi protestanti, sancendo così la pluralità confessionale della Germania sulla base del principio cuius regio eius religio (a colui che deteneva la sovranità sul territorio spettava di determinare la religione dei sudditi, fatto salvo il loro diritto di emigrare) e aprendo la via al consolidamento istituzionale della Riforma in molti dei territori dell’Impero. Da quel momento la corte spagnola e quella imperiale avrebbero svolto politiche autonome rispetto al mondo protestante.
La pace di Cateau-Cambrésis tra Francia e Spagna fu quindi stipulata nel 1559, in una cornice europea molto diversa da quella che aveva caratterizzato l’età di Carlo V. In quello stesso anno, la morte improvvisa di Enrico II di Valois durante un torneo inaugurava il tormentato periodo di debolezza della monarchia, gettando la Francia nelle guerre civili e religiose che l’avrebbero dilaniata per quasi quarant’anni. L’Inghilterra di Elisabetta I Tudor si preparava ad entrare definitivamente nell’orbita della Riforma. Nella Scozia percorsa dal furore iconoclasta, il parlamento si avviava ad adottare la confessione di fede calvinista di John Knox. Nell’Impero il calvinismo conquistava il principe del Palatinato elettorale. Dai Paesi Bassi alle sponde del Mediterraneo, in un’Europa minacciata dal diffondersi delle confessioni riformate e dall’incubo turco, la Spagna di Filippo II diventò la potenza-leader nella salvaguardia della fede cattolica. «Divisa la Francia, perduta l’Inghilterra, heretica la Germania, vicina a morte la Fiandra e nell’istesso stato la Polonia»: con queste tinte fosche nel 1567 il nunzio dipingeva la situazione in Europa al Senato della Repubblica veneziana, spronandolo all’adozione di una rigida politica antiereticale.
L’anno precedente (1566), dopo un conclave in cui erano nuovamente riapparse le accuse di eresia contro il Morone al fine di impedirne l’elezione, un altro inquisitore era asceso al soglio pontificio. Pio V Ghislieri, domenicano, aveva dietro di sé un passato di lotta senza quartiere all’eresia maturata durante un’esperienza pluridecennale al servizio del Sant’Uffizio come commissario generale e successivamente da cardinale. Tra i primi atti di governo di papa Ghislieri, del quale appariva evidente l’intenzione di «voler resuscitare casa Caraffa», vi fu la revisione dei processi ai nipoti del Carafa, la condanna a morte con motivazioni pretestuose del rappresentante dell’accusa (l’avvocato fiscale) che aveva condotti tali processi e la distruzione degli incartamenti processuali a carico dei parenti del papa napoletano onde cancellare una scomoda testimonianza che, per il futuro, rischiava di incrinare la ricostruzione agiografica della problematica eredità politica di Paolo IV.
Il Morone, incarcerato e processato per eresia sotto Paolo IV e riportato alle più alte responsabilità di governo della Chiesa da Pio IV, divenne nuovamente oggetto delle attenzioni del Sant’Uffizio durante il pontificato del Ghislieri che, negli anni successivi, avrebbe rinunciato a riaprire il processo contro il cardinale milanese solo per il rischio di delegittimare il concilio con un’accusa d’eresia rivolta contro colui che l’aveva portato a compimento, nonché per le gravi implicazioni che tale gesto avrebbe comportato nei confronti del papa suo predecessore il quale ne aveva decretato l’assoluzione.
Lo stesso giorno in cui il Ghislieri riabilitava i nipoti di Paolo IV, il primo ottobre 1567, veniva decapitato e arso sul rogo per eresia il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, per lungo tempo attivo protagonista entro i gruppi valdesiani e spirituali della penisola, amico del Pole e del Morone, già processato e condannato in contumacia dall’Inquisizione sotto Paolo IV per essere poi pienamente assolto sotto Pio IV, con cocente smacco dell’allora cardinale inquisitore Michele Ghislieri. Emerge in questo caso con evidenza la drastica volontà di papa Pio V di giungere a una resa dei conti finale con uomini ed eventi del recente passato della Chiesa, di stigmatizzare i protagonisti di un trentennio di storia dell’istituzione come il Contarini, il Pole, il Morone nel comune giudizio d’eresia legittimando così sul piano storico, morale e ideologico l’operato dell’Inquisizione. Questo processo di costruzione di una cristallina memoria storica e di una propria «reputazione» attuato dal Sant’Uffizio si rileva anche in negativo nelle parole dell’imputato Carnesecchi che, durante gli interrogatori, obiettò come quello fosse «un processo al passato più che al presente, ai morti oltre che ai vivi».
Tra il 1568 e il 1570 l’Inquisizione processò e infine condannò a morte Niccolò Franco, reo di aver redatto un feroce libello contro la memoria di Paolo IV – il Commento sopra la vita et costumi di Gio. Pietro Carafa – nell’effervescente clima politico e religioso che dopo la morte del Carafa aveva fatto da sfondo ai processi contro i nipoti. Anche il fronte di dissenso rappresentato dalla propaganda anticarafesca, che alla tradizionale invettiva anticlericale e antiromana del primo Cinquecento aveva mescolato la critica erasmiana e il modello della graffiante e irriverente scrittura dell’Aretino, fu preso di mira dal Sant’Uffizio.
Durante il governo del Ghislieri, l’Inquisizione vide confermati i privilegi e l’allargamento delle proprie competenze già fissati da Paolo IV. Il Sant’Uffizio fu riorganizzato e il numero dei suoi membri fu ridotto a quattro cardinali di comprovata affidabilità quali Gianfrancesco Gambara, Francisco Pacheco, Scipione Rebiba e il teatino Bernardino Scotti. Nel frattempo, a ricevere il cappello rosso erano uomini come il francescano e inquisitore Felice Peretti (poi Sisto V) e Giulio Antonio Santoro, accanito persecutore dell’eresia e intransigente guida del Sant’Uffizio nell’ultimo scorcio del secolo sino alla morte nel 1602. La regolarità e la frequenza delle riunioni della congregazione cardinalizia preposta all’Inquisizione, già stabilite dal pontefice napoletano, divennero normale procedura istituzionale sotto il papa domenicano che assicurò alla congregazione una sede stabile in Vaticano ed era solito presiederne con diligente attenzione le riunioni. «Vede ogni processo et legge tutte le scritture», osservava un cardinale nel 1567 a proposito di Pio V. Il disbrigo di quei processi e di quelle inchieste inquisitoriali che, attraverso colpi di scena e aspre lotte, il Carafa aveva condotto dapprima come inquisitore in modo sotterraneo e poi da papa in maniera clamorosa, sotto il Ghislieri si trasformarono in abituale prassi burocratica dell’istituzione.
«Quasi che fosse inverno/ brucia cristiani Pio siccome legna/ per avvezzarsi al caldo de l’inferno» denunciavano le pasquinate nel 1570 sullo sfondo dei processi e dei roghi avviati da Pio V nelle città italiane per stroncare gli epigoni dei movimenti eterodossi a Napoli, a Faenza, a Lucca, a Mantova, a Ferrara e a Modena; proprio in relazione ai roghi di Modena, nel 1568 un testimone scriveva come per l’«arrosto [degli eretici bruciati] nessuno poté uscire di casa per quel dì che non si amorbasse, tanto era il fetore». Queste sistematiche campagne repressive andarono ad aggiungersi alle vere e proprie stragi volute agli inizi degli anni Sessanta dal Ghislieri, allora membro del Sant’Uffizio, delle comunità valdesi in Puglia e in Calabria, che nel 1532 avevano aderito alla fede calvinista. Interi villaggi e popolazioni inermi furono devastati e massacrati dalle milizie spagnole, braccio esecutore dell’impresa organizzata da Roma.
La repressione degli anni 1568-1569 segnò la fine delle sopravvivenze ereticali nella penisola: una serie d’importanti mutamenti rese possibile l’attuazione di un’azione così massiccia e l’assunzione di un ruolo così forte da parte del papato. La trasformazione degli assetti politico-religiosi europei, l’affermarsi dell’egemonia spagnola e l’alleanza tra la maggiore potenza cattolica e Roma ebbero infatti profonde ripercussioni in Italia, dove il definirsi delle ortodossie a seguito degli esiti dottrinali del tridentino e il rafforzarsi delle strutture repressive condussero al consolidarsi dell’accordo tra autorità ecclesiastiche e secolari contro il dissenso religioso, avvertito ora come disobbedienza al principe oltre che alla Chiesa. Sotto la spinta di tali fattori si spezzava quella rete di coperture e di alte protezioni istituzionali che, nel corso di un trentennio, aveva consentito all’eresia di radicarsi in Italia a tutti i livelli del tessuto sociale, pur secondo caratteri diversi da città a città. L’immagine della Francia devastata dalle guerre tra cattolici e ugonotti (calvinisti) stava, d’altra parte, sotto gli occhi di tutti negli anni Sessanta, a riprova delle paurose conseguenze arrecate dalla diffusione delle eresie entro lo Stato e a ulteriore conferma della funzione svolta dalla Chiesa cattolica come baluardo dell’integrità politica dei governi e garanzia della disciplina dei sudditi.
Nel mutato clima politico e religioso, si creò dunque una sorta d’inevitabile accordo tra Chiesa della Controriforma e prìncipi nella comune lotta all’eresia. A ciò si aggiunga il fatto che, in seguito al rafforzamento della monarchia pontificia, la Santa Sede era diventata il centro di distribuzione di favori e di vendita di uffici curiali, il luogo di drenaggio e di riattribuzione di rendite nella forma di pensioni e benefici ecclesiastici. Le possibilità di arricchimento e ascesa sociale gestite da Roma rappresentavano quindi un potentissimo strumento di aggregazione dei patriziati cittadini e delle aristocrazie della penisola intorno agli interessi politici e religiosi dei papi della Controriforma.
Entro gli equilibri sanciti dalla pace di Cateau-Cambrésis, l’alleanza tra gli Stati italiani e la Chiesa della Controriforma costituiva il carattere essenziale di un rapporto pur segnato da continui negoziati e conflitti, al quale non sfuggirono neppure realtà gelose della propria autonomia e dotate di un’antica identità politica quali la Repubblica di Venezia, che già nel 1547 aveva istituito la magistratura laica dei tre Savi all’eresia. Indicativo è anche l’esempio fiorentino di Cosimo de’ Medici: fermenti eterodossi ne avevano attraversato la corte negli anni Quaranta sullo sfondo di un rapporto contrastato con Paolo III Farnese che, nel 1545, con un colpo di mano aveva costituito per il figlio Pier Luigi il ducato di Parma e Piacenza. Ebbene, negli anni Sessanta il rapporto tra Cosimo e Roma mutò sino al conferimento da parte della Santa Sede del titolo di granduca di Toscana (1569). Il prestigioso riconoscimento – che suscitò le proteste degli altri Stati italiani e permise nel contempo al papa di riaffermare la propria autorità come fonte di titoli e legittimazioni – fu preceduto, nel 1567, dalla consegna all’Inquisizione del già citato Pietro Carnesecchi (che negli anni precedenti Cosimo aveva invece energicamente protetto contro il Sant’Uffizio) e dalle misure antiebraiche adottate dal duca con un brusco (ma momentaneo) cambiamento di rotta della politica precedente, in consonanza con gli orientamenti in questo campo di Pio V; lo stesso Pio V nel 1569 espulse le comunità da Roma e dallo Stato pontificio, provocando la diaspora di migliaia di profughi. Questi esempi mostrano come il rafforzamento delle posizioni di governo, l’acquisizione di uno stabile consenso e del controllo sulla società civile passassero ormai inevitabilmente attraverso l’adozione del modello di principe della Controriforma.
Per quanto riguarda la politica estera, nello stesso anno in cui scomunicava la regina Elisabetta I d’Inghilterra (1570), Pio V stipulava con la Spagna e la Repubblica di Venezia una Santa lega contro i turchi, una nuova crociata che avrebbe portato alla battaglia di Lepanto (1571). La vittoria contro l’«infedele» fu celebrata nei paesi cattolici con una massiccia propaganda per mezzo della stampa. In tale clima politico e religioso, la strage della notte di san Bartolomeo tra il 23 e il 24 agosto 1572 nella quale furono massacrati gli ugonotti francesi (3000 vittime a Parigi, 10.000 in provincia) fu salutata a Roma con la celebrazione solenne del Te Deum.
Il ruolo che il papato sotto Pio V era ormai in grado di rivendicare nei confronti degli Stati, nonché la funzione universalistica ed egemone che la Chiesa della Controriforma pretendeva di esercitare in nome della superiorità del potere spirituale su quello temporale, trovarono una clamorosa affermazione nel 1568 nella promulgazione della medievale bolla In coena Domini. Nella sua tradizionale formulazione, la bolla regolava i rapporti tra autorità ecclesiastica e civile, minacciando la scomunica ai prìncipi laici che nei loro territori non avessero rispettato le libertà ecclesiastiche, ossia quei privilegi di cui godevano i membri del clero, le cose ecclesiastiche e i luoghi sacri (immunità personali, reali e locali) nei confronti della giurisdizione laica. Per riassumere e semplificare, in base a tali prerogative gli ecclesiastici non potevano essere giudicati da tribunali laici, i beni della Chiesa erano esenti dalla fiscalità statale, un reo non poteva essere perseguito dal braccio secolare nei luoghi di culto. Gli effetti della permanenza di queste vaste aree d’immunità nel cuore della società erano complessi e non potevano che essere guardati con preoccupazione dai sovrani.
Nell’ultima fase il concilio di Trento si era misurato proprio con questo problema, detto della «riforma dei prìncipi», ma i contrasti sorti con i rappresentanti di Francia, Spagna e dell’imperatore avevano indotto i legati papali ad accantonare la questione. Dopo che l’assemblea conciliare aveva fallito nel suo tentativo di trovare una soluzione – di portata generale e universalmente valida – al problema dei rapporti tra la Chiesa e gli Stati, i contrasti con i governanti furono affrontati negli anni successivi direttamente dal papato, nei modi e sulla base delle esigenze dell’assolutismo pontificio dell’età della Controriforma.
Un secolo e mezzo più tardi, nell’Istoria civile del Regno di Napoli (1723), Pietro Giannone sottolineava il carattere aggressivo del documento promulgato da Pio V rispetto ai precedenti. La bolla, osservava lo storico napoletano, «butta interamente a terra la potestà dei prìncipi, toglie loro la sovranità de’ loro Stati, e sottopone il lor governo alla censura e correggimento di Roma». L’intransigente volontà del pontefice di dare diffusione al documento preoccupandosi che fosse pubblicato e letto in volgare nelle chiese; la spregiudicata minaccia dell’arma della scomunica contro i governanti laici che non ne avessero rispettate le direttive; il carattere lesivo dei suoi contenuti verso prerogative (persino di carattere fiscale) costitutive della sovranità dei prìncipi aprirono una durissima battaglia con gli Stati cattolici, in particolare proprio con la Spagna.
Il nodo conflittuale rappresentato dalla questione delle libertà ecclesiastiche si sarebbe sciolto solo all’epoca delle riforme del secondo Settecento, le quali ridefinirono i rapporti tra Chiesa, Stato e società. Nell’età della Controriforma, la questione del rapporto giurisdizionale tra il papato e gli Stati rimase aperta, suscettibile quindi di soluzioni e compromessi sul piano politico, ma anche capace di scatenare crisi gravissime al variare degli equilibri internazionali, delle singole personalità coinvolte, degli interessi e dell’entità delle forze in gioco. La vicenda dell’Interdetto lanciato nel 1606 da Paolo V Borghese (1605-1621) contro la Repubblica di Venezia, come si vedrà, ne è l’esempio più clamoroso. La vasta e immediata risonanza dello scontro tra Roma e Venezia, sino all’intervento di mediazione del re di Francia, mostra come all’epoca il rapporto con la Chiesa della Controriforma potesse costituire un problema politico di portata europea.