«È stato un momento di malumore, scusabile in un uomo che non ha un quattrino. Eh, tu non le puoi capire, queste cose!»

            E quando Deslauriers fu salito a casa sua, il commesso non diede tregua a Federico; voleva addirittura persuaderlo a comprare il ritratto. In realtà Pellerin, non sperando più di riuscire a intimidirlo, li aveva circuiti perché spingessero Federico ad accettare la cosa.

            Deslauriers, poi, era tornato sull'argomento, aveva insistito.

            Le pretese dell'artista erano ragionevoli.

            «Io credo proprio che adesso, con cinquecento franchi, probabilmente...»

            «E daglieli! ecco qua, tieni,» disse Federico.

            La sera stessa gli portarono il quadro. Gli parve ancor più abominevole della prima volta. Mezze tinte e ombre s'eran fatte pesanti come il piombo sotto i ritocchi troppo numerosi, e sembravano ancor più nere in confronto alle luci, rimaste brillanti qua e là e assolutamente stonate nell'insieme.

            Federico si vendicò d'averlo pagato abbandonandosi ad amare denigrazioni. Deslauriers gli credette sulla parola e approvò il suo modo d'agire. L'ambizione dell'avvocato, infatti, era rimasta quella di costituire una falange e di esserne il capo. Ci sono uomini la cui gioia consiste nel far fare agli amici qualcosa che sia loro sgradevole.

            Federico, in ogni caso, non era tornato dai Dambreuse. Gli mancavano i fondi: sarebbero occorse infinite spiegazioni; e non riusciva a decidersi. Forse aveva anche ragione. Niente più era sicuro, in quel momento, e l'affare del carbonfossile non lo era più d'un altro; un mondo simile era da abbandonare; Deslauriers finì col distoglierlo dall'impresa. A forza d'odiare diventava virtuoso; e poi preferiva che Federico restasse nella mediocrità. Così era sempre suo pari, e in più intima comunione con lui.

            La commissione della signorina Roque era stata eseguita molto male. Fu suo padre a scriverlo, dando indicazioni estremamente precise e chiudendo la lettera con questo motto scherzoso: «a costo di fare una fatica da negro...»

            Federico non poteva far altro che tornare da Arnoux. Salì in magazzino, ma non c'era nessuno. L'impresa andava a rotoli e gli impiegati imitavano l'incuria del padrone.

            Costeggiò la lunga scaffalatura carica di ceramiche, lunga da un capo all'altro del locale; poi, arrivato in fondo, all'altezza del banco, si mise camminando a batter forte i piedi per farsi sentire.

            La tenda della Porta fu sollevata e comparve Madame Arnoux.

            «Come, lei... lei qui!»

            «Sì,» balbettò la signora un po' turbata. «Stavo cercando...»

            Vide il fazzoletto di lei vicino alla cassa e immaginò che fosse scesa dal marito per rendersi conto di qualcosa, per liberarsi, certo, da un'inquietudine.

            «Ma... lei ha bisogno di qualcosa, forse?»

            «Una cosa da niente, signora.»

            «Questi commessi sono insopportabili, s'assentano continuamente.»

            Al contrario, non bisognava biasimarli; lui, per esempio, era felice della circostanza.

            Lo guardò con ironia.

            «E così, questo matrimonio?»

            «Quale matrimonio?»

            «Il suo.»

            «lo? nemmeno per sogno!»

            Lei fece cenno di no.

            «E se anche fosse, dopo tutto? Ci si rifugia nel mediocre quando si dispera del bello, della bellezza che abbiamo sognato.»

            «Però i suoi sogni non eran tutti così candidi.»

            «Perché dice questo?»

            «Dal momento che si fa vedere alle corse con... con delle persone!»

            Federico maledisse in cuor suo la Marescialla. Ma gli venne in mente una cosa.

            «Ma se è stata proprio lei, una volta, a pregarmi di andare a trovarla, per il bene di Arnoux.»

            «E lei ha pensato di approfittarne per prendersi qualche distrazione.»

            «Santo cielo! lasciamo stare queste piccolezze.»

            «Naturale, visto che sta per sposarsi.»

            E si mordeva le labbra, trattenendo il respiro. Federico, allora, proruppe:

            «Ma le dico, le ripeto che non è vero. Come può credere che con le mie esigenze intellettuali, con le mie abitudini, io vada a seppellirmi in provincia a giocare alle carte, a sorvegliare i muratori, a trascinarmi in zoccoli per la strada? E a quale altro scopo, dunque? Forse le hanno detto che è ricca. Ma io non so proprio che farmene del denaro. Le sembra che dopo aver desiderato tutto quanto c'è di più bello, di più tenero, di più incantevole, una specie di paradiso in terra; e dopo averlo trovato, infine, questo ideale, e nel momento in cui una tale visione m'impedisce tutte le altre...»

            E prendendole il viso fra le mani si mise a baciarla sulle palpebre, e intanto ripeteva:

            «No, no. Mai, mai succederà che io mi sposi!»

            Lei accettava le carezze, resa come di pietra dalla sorpresa, dal rapimento.

            Si sentì, dalla scala, richiudersi la porta del magazzino. La signora ebbe un sobbalzo; e restava con la mano tesa come per ordinargli il silenzio. S'avvicinavano dei passi. Poi qualcuno, da fuori, disse:

            «È lì, signora?»

            Quando il contabile spinse la porta Madame Arnoux era appoggiata col gomito sul banco e si rigirava una penna fra le dita, tranquillissima.

            Federico s'alzò.

            «Ho l'onore di salutarla, signora. Il servizio sarà pronto, vero? posso contarci?»

            Non gli rispose. Ma quella complicità silenziosa mise sul suo volto le fiamme dell'adulterio.

            Il giorno dopo era di nuovo da lei. Fu ricevuto; e per consolidare i vantaggi acquisiti cominciò subito, senza preamboli, a giustificarsi dell'incontro al Campo di Marte. Il caso, nient'altro che il caso l'aveva fatto incontrare con quella donna. Dato e non concesso che fosse carina, come avrebbe potuto attirare, sia pure un minuto solo, i suoi pensieri, dal momento ch'era un'altra quella che lui amava?

            «Lei sa bene ch'è così: gliel'ho detto.»

            Madame Arnoux chinò la testa.

            «E mi ha fatto molto male, dicendomelo.»

            «Perché?»

            «Perché le più elementari convenienze esigono, adesso, ch'io non la riveda più.»

            Federico protestò l'innocenza del suo amore. Il passato doveva garantirle l'avvenire; aveva giurato a se stesso di non turbare l'esistenza di lei, di non stordirla con i suoi lamenti.

            «Ieri, purtroppo, il mio cuore era troppo gonfio.»

            «Meglio non pensare più a quel momento, amico mio:»

            E tuttavia, che male ci sarebbe stato se due povere creature avessero confuso insieme la propria tristezza?

            «Perché anche lei, anche lei non è felice! Io lo so, non ha nessuno che risponda al suo bisogno di tenerezza, di devozione; io l'obbedirò in tutto, l'obbedirò sempre... senza mancarle mai di rispetto: glielo giuro.»

            E si lasciò cadere in ginocchio, suo malgrado; cedendo a un peso che s'era fatto, dentro, troppo grave.

            «Si alzi!» gli disse la signora. «Glielo ordino.»

            E in tono imperioso aggiunse che se non avesse fatto come lei voleva, non l'avrebbe vista mai più.

            «Dovrebbe avere un bel coraggio!» replicò Federico «Cos'ho da fare, io, in questo mondo? Ci sono tanti che s'accaniscono per la ricchezza, la fama, il potere. Io non ho posizione né impegni; è lei la mia occupazione esclusiva, il mio unico bene, lo scopo, il centro della mia vita, dei miei pensieri. Non potrei vivere senza di lei come non posso vivere senza l'aria del cielo. Non capisce, non sente come la mia anima aspira a lei, sale verso la sua, e che devono confondersi insieme, e che io ne muoio?»

            Madame Arnoux si mise a tremare in tutte le membra.

            «Oh, se ne vada, vada via, la supplico!»

            L'espressione stravolta del suo viso lo fermò. Poi fece un passo. Ma lei, con le mani giunte, indietreggiava da lui.

            «In nome del cielo, mi lasci, mi lasci, di grazia!»

            Tanto era, l'amore di Federico, che la lasciò.

            La collera contro se stesso lo sopraffece ben presto; si dichiarò un imbecille; ventiquattr'ore dopo era di ritorno.

            La signora non c'era. Federico restò lì sul pianerottolo, stranito d'indignazione e di rabbia. Sopraggiunse Arnoux e gli spiegò che la moglie, proprio quel mattino, era andata a stabilirsi in una piccola casa di campagna presa in affitto ad Auteuil, dato che non avevano più quella di Saint-Cloud.

            «Un'altra delle sue fantasie. Ma tutto sommato, visto che a lei fa piacere... e anche a me, del resto; tanto di guadagnato! Ceniamo insieme, stasera?»

            Federico addusse un impegno urgente e si precipitò ad Auteuil.

            Madame Arnoux si lasciò sfuggire un grido di gioia; e tutto il rancore di Federico scomparve di colpo.

            Non le parlò affatto del suo amore. Anzi, per metterla meglio a suo agio esagerò nel riserbo; e quando le chiese se poteva tornare lei disse: «Ma certo», e gli tese - per ritirarla subito - la mano.

            Da quella volta le visite di Federico si moltiplicarono. Prometteva grosse mance al cocchiere, ma il più delle volte la lentezza del cavallo lo spazientiva; smontava di carrozza, poi, rimasto senza fiato, s'arrampicava su un omnibus; e con quanto sdegno passava in rassegna le facce della gente che gli sedeva di fronte e non stava andando da lei...

            Distingueva la casa da lontano all'enorme caprifoglio che copriva da un lato la travatura del tetto; era una specie di chalet svizzero dipinto di rosso, con un balcone sporgente. In giardino c'erano tre vecchi castagni e nel mezzo, su un rialzo del terreno, un ombrellone di paglia sostenuto da un tronco d'albero. Sotto i muri d'ardesia una grossa vite mal attecchita pendeva a festoni come un cavo marcio. La campana del cancello, piuttosto dura da tirare, echeggiava lungamente, e passava sempre parecchio tempo prima che arrivasse qualcuno. Ogni volta Federico avvertiva un'angoscia, una paura imprecisata.

            Poi sentiva sbattere sulla ghiaia le pantofole della donna di servizio; oppure era Madame Arnoux in persona a comparire. Un giorno le capitò alle spalle ch'era inginocchiata ai bordi del prato e cercava le violette.

            Era stata costretta, per via del carattere, a metter sua figlia presso un convento. Il ragazzo passava il pomeriggio a scuola. Arnoux faceva lunghe colazioni al Palais-Royal in compagnia di Regimbart e dell'amico Compain. Nessuno poteva infastidirli o sorprenderli.

            Era inteso che non dovessero possedersi. Questo patto, escludendo ogni pericolo, favoriva le loro effusioni.

            Lei gli raccontava la sua vita d'un tempo, a Chartres, nella casa di sua madre; le sue inclinazioni religiose verso i dodici anni; poi la furiosa passione per la musica, quando nella sua cameretta, dalla quale si scorgevano i bastioni, rimaneva a cantare fino a notte. Lui le disse delle sue malinconie in collegio e come nei suoi cieli di poesia risplendesse sempre un viso di donna; tanto che la prima volta, vedendola, l'aveva riconosciuta.

            I loro discorsi, di solito, riguardavano gli anni durante i quali s'erano frequentati. Lui le ricordava particolari irrilevanti, il colore della sua veste quella certa volta, chi era venuto quel dato giorno, ciò che lei aveva detto in un'altra occasione; e lei, tutta meravigliata, rispondeva:

            «Sì, mi ricordo.»

            I loro gusti, i loro giudizi erano identici. Sovente, quello che stava ascoltando esclamava:

            «Anch'io!»

            E l'altro, a sua volta, confermava:

            «Anch'io.»

            Erano, poi, interminabili lagnanze contro la Provvidenza:

            «Se il cielo avesse voluto... Se ci fossimo incontrati...»

            «Ah, fossi stata più giovane!»

            «No: io di poco più vecchio.»

            E s'immaginavano una vita d'amore e basta, tanto feconda da colmare qualsiasi solitudine, forte più d'ogni gioia, al di sopra di tutte le miserie, dove il tempo si sarebbe dissolto in una perpetua espansione di se stessi; una vita alta e rilucente come un palpitare di stelle.

            Stavano quasi sempre fuori, in cima alla scalinata; le fronde degli alberi toccate dal giallo dell'autunno si gonfiavano ineguali davanti a loro fino alla pallida estremità del cielo. Qualche volta raggiungevano, alla fine del viale, un padiglione il cui unico mobilio era un canapè di stoffa grigia. Macchie nere invadevano lo specchio, le pareti sentivano di muffa; ma loro restavano là rapiti a parlar di se stessi, degli altri, di non importa cosa. A volte, attraversando le gelosie, i raggi di sole si fissavano tra il soffitto e il pavimento come le corde d'una lira, e il pulviscolo si metteva a turbinare in quella gabbia di luce. Lei si divertiva a fenderla con la mano; lui se ne impadroniva dolcemente e contemplava l'intreccio delicato delle vene, i piccoli nei della pelle, la forma delle dita. Più che una cosa, ogni dito di lei era, per Federico, quasi una persona.

            Gli regalò i suoi guanti; la settimana dopo, il suo fazzoletto. Lei lo chiamava «Federico», lui la chiamava «Maria», adorando quel nome che sembrava fatto apposta, le diceva, per esser sospirato nell'estasi e racchiudeva come delle nuvole d'incenso, dei festoni di rose.

            Arrivarono a stabilire in anticipo i giorni delle sue visite; e uscendo come per case, lei andava a incontrarlo sulla strada.

            Non faceva niente per eccitare il suo amore, perduta com'era in quella sorta di negligenza che distingue le grandi felicità. Per tutta la stagione portò la stessa veste da casa di seta scura, con bordature di velluto dello stesso colore, di foggia ampia come conveniva alla languida morbidezza dei suoi gesti e alla severità della sua espressione. Era allora, d'altronde, nel suo pieno meriggio di donna, momento insieme di riflessività e di tenerezza nel quale la maturità che comincia mette nello sguardo una fiamma più profonda e la forza del cuore si unisce all'esperienza della vita; e tutto l'essere, sul punto estremo del proprio fiorire, si gonfia di ricchezze smisurate in una sua perfetta armonia. Mai era stata più dolce, più indulgente. Sicura di non cadere, s'abbandonava a un sentimento che le appariva come un diritto conquistato a furia di sventure. E poi era una cosa tanto dolce, e tanto nuova! Che abisso fra i modi grossolani di Arnoux e quelli adoranti di Federico!

            Lui aveva paura di perdere, con una sola parola, tutto ciò che gli sembrava d'aver guadagnato: si diceva che un'occasione favorevole si può ripresentare, ma è impossibile rimediare a una mossa incauta. Voleva che fosse lei a darsi, non lui a prenderla. Gustava con delizia la certezza del suo amore come un possesso anticipato; e poi la grazia della sua persona gli turbava il cuore più che i sensi. Era una beatitudine senza confini, un'esaltazione tale da fargli persino dimenticare la possibilità d'una gioia completa. Quand'era lontano da lei, desideri furiosi lo divoravano.

            Presto caddero nei loro discorsi lunghi intervalli di silenzio. A volte una specie di pudore sessuale li accendeva di rossore, uno di fronte all'altra. Tutte le precauzioni prese per occultare il loro amore finivano per svelarlo; quanto più forte diventava, tanto più riservato si faceva il loro comportamento. L'esercizio d'una simile menzogna esasperava la loro sensibilità. Fiutavano con voluttà il sentore delle foglie umide, soffrivano per il vento dell'est, avevano irritazioni immotivate, funebri presagi; un rumore di passi, lo scricchiolare d'un mobile li spaventavano come se fossero stati in colpa; si sentivano spinti verso un abisso, avvolti in un'atmosfera di tempesta. Se Federico si lasciava sfuggire qualche lagnanza, la signora accusava se stessa.

            «Sì, faccio male, mi comporto come una civetta. Non deve più venire!»

            Lui, a quel punto, rinnovava i soliti giuramenti; e lei li ascoltava ogni volta con lo stesso piacere.

            Il ritorno a Parigi e il trambusto per il capodanno rallentarono un poco i loro incontri. Quando venne di nuovo, Federico aveva un modo di fare in certo senso più ardito. La signora usciva ogni minuto per dare qualche ordine; e, nonostante le preghiere di lui, riceveva tutti i buoni borghesi che capitassero in visita. Si dava la stura, allora, ai discorsi su Léotade, Guizot, il Papa, l'insurrezione di Palermo e il banchetto riformista della XII circoscrizione, che suscitava tante inquietudini. Federico cercava di sfogarsi blaterando contro il Potere: anche lui come Deslauriers si augurava, adesso, un rovesciamento generale, tanto le circostanze l'avevano inasprito. Dal canto suo, Madame Arnoux s'incupiva.,

            Il marito, sempre prodigo di stravaganze, manteneva un'operaia dello stabilimento, quella tale di Bordeaux. Fu la signora stessa a dirlo a Federico, che pensò di poterne ricavare un argomento «dal momento ch'era tradita».

            «Non mi fa né caldo né freddo,» gli rispose.

            Federico credette che quella risposta confermasse definitivamente il loro legame. Arnoux ne sospettava?

            «Adesso no!»

            E gli raccontò che una sera, dopo averli lasciati soli, era tornato indietro, aveva ascoltato attraverso la porta, e dato che stavano parlando di cose indifferenti viveva, da quel giorno, in una sicurezza completa.

            «Con ragione, d'altronde,» osservò amaramente Federico.

            «Naturale!»

            Avrebbe fatto meglio a non arrischiare quella parola.

            Un giorno, all'ora in cui di solito Federico veniva, non si fece trovare in casa. Gli sembrò un tradimento.

            Un'altra volta s'era irritato vedendo che i fiori che le portava stavano sempre immersi in un bicchiere.

            «E dove dovrei metterli, secondo lei?»

            «Non là, mi sembra. Ma in fondo, stanno meno al freddo che se fossero sul suo cuore.»

            Un po' di tempo dopo la rimproverò perché la sera prima, senza avvertirlo, era andata agli «Italiens». Altri uomini l'avevano vista, ammirata, avevano potuto, forse, innamorarsi di lei; Federico s'attaccava ai sospetti soltanto per metterla sotto accusa, per tormentarla: cominciava ad odiarla, e il meno che potesse pretendere era di farle scontare una parte delle sue sofferenze.

            Un pomeriggio, verso la metà febbraio, la trovò molto agitata. Eugenio si lamentava d'un mal di gola. Il medico, veramente, aveva detto ch'era una cosa da niente, un forte raffreddore, un'influenza. Federico fu colpito dall'aria esaltata del ragazzo. Cercò nondimeno di rassicurare la madre, portando ad esempio parecchi bambini della stessa età che avevano avuto malattie del genere ed eran guariti subito.

            «Davvero?»

            «Ma sicuro, si capisce.»

            «Com'è buono, lei!»

            E gli diede la mano. Lui la trattenne nella sua.

            «No, la lasci.»

            «Ma perché? è a chi vuol consolarla che l'ha tesa. Lei mi crede quando le dico queste cose, e dubita di me quando... quando le parlo del mio amore!»

            «Non ne dubito affatto, mio povero amico.»

            «Ma tutta questa diffidenza, allora; come se io fossi un miserabile capace di approfittare...»

            «Oh, questo no!»

            «Potessi avere una prova, una soltanto!»

            «Quale prova?»

            «Quella che si può offrire a chiunque, che anche a me non è stata negata.»

            E le ricordò che una volta erano usciti insieme, in un crepuscolo d'inverno pieno di nebbia. Com'era lontano tutto questo, ormai! Chi le impediva, adesso, di farsi vedere al suo braccio davanti a tutti, senza nessun timore per lei, senza secondi fini da parte sua, senza che nessuno, intorno, potesse importunarli?

            «E va bene,» disse la signora, con una decisione e un coraggio che a tutta prima lasciarono stupefatto Federico.

            Ma egli subito, vivamente:

            «L'aspetterò all'angolo di rue Tronchet e rue de la Ferme: vuole?»

            «Ma... amico mio ...» balbettava Madame Arnoux.

            Senza darle il tempo di riflettere, aggiunse:

            «Martedì prossimo?»

            «Martedì?»

            «Sì, fra le due e le tre.›

            «Ci sarò.»

            E distolse il viso con un moto di vergogna. Lui le posò le labbra sulla nuca.

            «Oh no, non è bene questo,» lei disse. «Finirà per farmi pentire...»

            Federico si trasse da parte, timoroso di come una donna, sempre, possa mostrarsi volubile. Poi sulla soglia, bisbigliando dolcemente come per un'intesa ben precisa:

            «A martedì.»

            La signora abbassò i begli occhi in atto discreto e rassegnato.

            Federico aveva un progetto.

            Sperava, grazie alla pioggia o al sole, di poter riparare insieme a lei sotto un portone, e una volta lì di riuscire a farla salire in casa. La cosa difficile era trovarne una che andasse bene.

            Si mise dunque a cercarla, e pressappoco a metà di rue Tronchet vide da lontano un cartello: CAMERE AMMOBILIATE.

            Il custode, mangiando la foglia, lo portò a colpo sicuro al piano ammezzato per mostrargli una camera e uno spogliatoio con due uscite. Federico la fissò per un mese e pagò la pigione in anticipo.

            Andò, subito dopo, in tre negozi per comprare i profumi più rari; si procurò un pezzo di finto merletto per sostituire l'orribile copripiedi di cotonina rossa, e scelse un paio di pantofoline di raso celeste; solo il timore di apparire grossolano lo trattenne da altri acquisti. Tornò con quanto aveva preso, e con devozione più sincera di quelli che preparano gli altarini cambiò di posto il mobilio, mise a posto le pieghe dei tendaggi, sistemò le foglie d'erica sul camino, le violette sul cassettone; avrebbe voluto che il pavimento della stanza fosse tutto d'oro. «È domani, sì, domani,» continuava a dirsi. «Non sto sognando!» E sentiva il suo cuore battere a grandi colpi nel delirio della speranza. Poi, preparata ogni cosa, si mise la chiave in tasca, come se la gioia ch'era là dentro in attesa potesse volarsene via.

            A casa, l'aspettava una lettera di sua madre.

            «Come mai un'assenza così lunga? Il tuo modo d'agire comincia ad apparire ridicolo. Capisco che all'inizio, in una certa misura, tu abbia potuto esitare davanti a questa unione; ma a questo punto è necessario che tu ci rifletta seriamente.»

            E dava le cifre precise: quarantacinquemila franchi d'argento di rendita. Inoltre, «la gente chiacchierava»; e il vecchio Roque aspettava una risposta definitiva. Quanto alla ragazza, la sua posizione era, in verità, alquanto imbarazzante. «Ti vuole molto bene.»

            Federico mise da parte la lettera senza finirla e ne dissuggellò un'altra, un biglietto di Deslauriers.

 

            Carissimo,

            la pera è matura. Contiamo su di te, secondo la promessa. Ci si riunisce domani all'alba in place du Panthéon. Vieni al caffè Soufflot. Prima della manifestazione è necessario che ti parli.

 

            «Bravi: le conosco, le loro manifestazioni. Grazie mille! ho un appuntamento decisamente più piacevole.»

            E il giorno dopo alle undici Federico era già fuori di casa. Voleva dare un'ultima occhiata ai preparativi; e poi, chissà? lei avrebbe potuto essere, per un caso qualsiasi, in anticipo... Allo sbocco di rue Tronchet sentì venire, da dietro la Madeleine, un grande clamore; proseguì, e sul fondo della piazza, a sinistra, vide un gruppo di uomini in blusa e di borghesi.

            In effetti, un avviso uscito sui giornali aveva convocato là tutti gli aderenti al banchetto riformista. Quasi immediatamente il ministero, aveva fatto affiggere un proclama di divieto. La sera prima, l'opposizione parlamentare aveva rinunciato all'iniziativa; ma i patrioti, che non erano al corrente della decisione dei capi, erano accorsi al raduno insieme a parecchi curiosi. Una deputazione di studenti s'era recata, poco prima, da Odilon Barrot. Adesso era al Ministero degli Esteri; e non si sapeva né se il banchetto ci sarebbe stato, né se il Governo avrebbe messo in atto le sue minacce, né se le guardie nazionali si sarebbero fatte vedere. Il malumore investiva i Deputati non meno del Potere.

            La folla aumentava continuamente; a un tratto si sentì vibrare nell'aria il ritornello della Marsigliese.

            Erano gli studenti che arrivavano in colonna, marciando ordinatamente al passo su due file, con i volti irritati e le mani nude, e non smettevano di gridare a intervalli regolari:

            «Viva la Riforma! abbasso Guizot!»

            I suoi amici erano là in mezzo, certamente. Forse stavano per vederlo, per trascinarlo con loro. Federico si rifugiò prestamente dentro rue de l'Arcade.

            Dopo aver fatto per due volte il giro della Madeleine, gli studenti presero a sfilare giù verso place de la Concorde. La piazza era gremita; e la folla stipata sembrava oscillare, da lontano, come un campo di spighe nere.

            Contemporaneamente i soldati di fanteria si schieravano in ordine di battaglia sulla sinistra della chiesa.

            I due gruppi, però, non accennavano a muoversi. Per farla finita, agenti in borghese afferravano i più scalmanati per trascinarli brutalmente al posto di polizia. Federico, soffocando la sua indignazione, non aprì bocca; avrebbero potuto prenderlo insieme agli altri, e fargli mancare l'incontro con Madame Arnoux.

            Pochi minuti dopo spuntarono gli elmi delle guardie municipali. Si facevano largo tra la folla distribuendo piattonate. Un cavallo stramazzò a terra, corsero a soccorrerlo; non appena il cavaliere si fu rimesso in sella tutti se la diedero a gambe.

            Si fece di colpo un gran silenzio. La pioggia sottile che aveva ammorbidito l'asfalto non cadeva più. Le nuvole scorrevano via, incalzate mollemente dal vento dell'ovest.

            Federico, guardandosi davanti e di dietro, si mise a percorrere rue Tronchet.

            Alla fine suonarono le due.

            «È adesso, adesso,» pensò. «Ecco, esce di casa, s'avvicina...» E un minuto più tardi: «Avrebbe già avuto il tempo d'arrivare.» Fino alle tre cercò di restare calmo. «Ma no, non è ancora in ritardo; un po' di pazienza, diamine!»

            E passava in rassegna, non sapendo che fare, le poche vetrine: una libreria, un sellaio, un'impresa di pompe funebri. Ben presto conosceva a memoria tutti i titoli dei libri, i finimenti, le stoffe. I negozianti, a furia di vederlo passare e ripassare senza sosta, cominciarono a stupirsi, poi, presi da timore, tiraron giù le saracinesche.

            Senza dubbio aveva avuto qualche impedimento, e certo anche lei ne soffriva. Ma che gioia, tra poco! perché stava per venire, questo era sicuro. «Me l'ha promesso!» Eppure, un'insopportabile angoscia s'impadroniva di lui.

            Obbedendo a un moto insensato entrò nella casa, come se avesse potuto esser là. E magari, proprio in quel momento, lei stava arrivando nella strada. Si precipitò fuori. Nessuno! E ricominciò a percorrere il marciapiede.

            Osservava le crepe del selciato, le bocche dei canali di gronda, i lampioni, i numeri sopra i portoni. Gli oggetti più insignificanti erano diventati per lui dei compagni, o meglio degli ironici spettatori; le facciate uniformi delle case gli sembravano prive di pietà. Sentiva freddo ai piedi. Era come spolpato dall'angoscia della delusione. I suoi passi gli facevan rintronare il cervello.

            Quando s'accorse che il suo orologio segnava le quattro provò come una vertigine, un tuffo di spavento. Si sforzò di ripetersi dei versi; di fare un calcolo, non importava quale; d'inventare la trama d'una novella. Impossibile: l'immagine di Madame Arnoux l'ossessionava. Aveva voglia di correrle incontro. Ma che percorso doveva scegliere per esser sicuro d'incrociarla?

            Abbordato un fattorino, gli mise in mano cinque franchi e lo incaricò d'andare in rue Paradis, a casa di Jacques Arnoux, per informarsi dal portinaio «se la signora era in casa». Poi si piazzò sull'angolo di rue Tronchet con rue de la Ferme per tener d'occhio contemporaneamente le due strade. In fondo alla prospettiva, sul boulevard, scivolavano masse confuse. A tratti distingueva le piume sull'elmo d'un dragone, oppure un cappello femminile; e sforzava le pupille per riconoscere il volto. Un bambino cencioso, che portava in giro una marmotta dentro una scatola, venne sorridendo a chiedergli l'elemosina.

            L'uomo in giacchetta di velluto ricomparve. «Il portinaio non l'aveva vista uscire.» Chi la tratteneva, dunque? Se fosse stata malata, lui l'avrebbe saputo. Forse qualche visita? Ma sarebbe stato semplicissimo non riceverla. Tutt'a un tratto si batté la mano sulla fronte.

            «Che stupido che sono! Ma si capisce, la sommossa...» Una spiegazione così naturale gli diede sollievo. Poi all'improvviso: «Però il suo quartiere è tranquillo.» E un dubbio disgustoso lo sopraffece. «E se non venisse affatto? se la promessa fosse stata soltanto una parola per sbarazzarsi di me? No, no, non è possibile!» Era certo un caso straordinario a trattenerla, uno di quegli avvenimenti che mandano all'aria qualsiasi progetto. Nel qual caso gli avrebbe scritto avvertendolo... E Federico mandò il fattorino a casa sua, in rue Rumfort, a vedere se non ci fosse qualche lettera.

            Nessuna lettera. L'assenza di notizie lo rassicurò.

            Traeva presagi dal numero di monete prese su a caso con la mano, dalla fisionomia dei passanti, dal colore dei cavalli; quando il vaticinio era avverso cercava di non crederci. Negli attacchi di furore che lo prendevano contro Madame Arnoux, la insultava a bassa voce. Debolezze da svenire s'alternavano a soprassalti di speranza. Sì, stava per arrivare: era là alle sue spalle... Ma girandosi: niente! Una volta vide, alla distanza di circa trenta passi, una donna che aveva la stessa figura, un vestito identico al suo. La raggiunse: non era lei. Poi furono le cinque; le cinque e mezzo; le sei! Accendevano i lampioni a gas. Madame Arnoux non era venuta.

            La notte precedente s'era sognata di trovarsi, già da parecchio tempo, sul marciapiede di rue Tronchet. Era lì ad aspettare qualcosa d'indefinito ma, al tempo stesso, d'importante, e temeva, senza saperne il perché, che qualcuno potesse vederla. A un tratto un dannato cagnolino le si scagliava contro e addentava l'orlo della sua veste. S'ostinava, abbaiando sempre più forte. Madame Arnoux s'era svegliata. Il cane continuava ad abbaiare. Tese l'orecchio: veniva dalla camera del bambino. Vi si precipitò a piedi nudi; era lui, in preda a un accesso di tosse. Le mani gli bruciavano, la faccia era rossa, la voce stranamente rauca. La difficoltà di respirazione aumentava di minuto in minuto. La signora restò fino all'alba a scrutarlo, curva sul suo lettino.

            Alle otto il tamburino della Guardia Nazionale venne ad avvertire Arnoux che i suoi camerati lo aspettavano. Vestitosi in tutta fretta se n'era andato, promettendo di passare immediatamente ad avvertire il loro medico, il dottor Colot. Alle dieci Colot non s'era visto; Madame Arnoux mandò la cameriera. Il dottore era fuori, in campagna, e il suo giovane sostituto era in giro per delle visite.

            Eugenio posava la testa di traverso sul cuscino, e non smetteva di aggrottare i sopraccigli e dilatare le narici; il suo povero faccino, ormai, era più bianco del lenzuolo; ogni volta che aspirava l'aria, gli sfuggiva dalla laringe un sibilo secco, metallico quasi e sempre più breve. La tosse che lo scuoteva ricordava il barbaro strepito che imita l'abbaiare nei cani di cartapesta.

            Madame Arnoux fu colta dallo spavento. Si buttò sul campanello e si mise a invocare soccorso gridando:

            «Un medico, un medico!»

            Dopo dieci minuti arrivò un vecchio signore in cravatta bianca, coi favoriti grigi ben curati. Fece una quantità di domande sulle abitudini, l'età, il temperamento del piccolo malato; poi gli guardò in gola, gli posò l'orecchio sulla schiena e stilò una ricetta. L'aria tranquilla del brav'uomo era insopportabile. Sembrava imbalsamato. La signora sentì l'istinto di percuoterlo. Sarebbe tornato, disse, prima di sera.

            Gli accessi terrificanti ricominciarono ben presto. A volte il bambino saltava su di colpo dal letto: moti convulsi gli scuotevano i muscoli del petto, e il ventre, respirando, gli si scavava come se gli mancasse il fiato dopo una corsa. Poi ricadeva a testa indietro, la bocca spalancata. Con infinite precauzioni la madre cercava di fargli inghiottire il contenuto dei piccoli flaconi, lo sciroppo d'ipecacuana, la pozione solforosa. Ma lui respingeva il cucchiaio lamentandosi flebilmente, con parole ch'eran come soffiate.

            Ogni tanto la signora rileggeva la ricetta. Le formule che v'eran scritte la terrorizzavano; forse il farmacista s'era sbagliato! Si sentiva impotente, disperata. Sopraggiunse il sostituto di Colot.

            Era un giovane dal fare modesto, nuovo del mestiere, che non nascondeva affatto la sua emozione. Dapprima, per paura di compromettersi, restò indeciso, poi prescrisse l'applicazione di pezzi di ghiaccio. Ci volle parecchio tempo per trovarli. Poi la borsa che li conteneva si ruppe; fu necessario cambiar la camicia al piccolo malato. Tutta questa confusione provocò un nuovo accesso, ancora più terribile.

            Il bambino si mise a strapparsi la biancheria dal collo come se avesse voluto liberarsi di qualcosa che lo strangolava; raspava sul muro con le unghie, afferrò le cortine del letto cercando un punto d'appoggio per respirare. Il viso, adesso, era violaceo, e tutto il corpo, coperto di sudore, freddo, sembrava improvvisamente smagrito. Gli occhi si fissavano sulla madre selvaggiamente, con terrore. Le gettava le braccia intorno al collo, vi si attaccava con disperazione; e lei, soffocando i singhiozzi, gli balbettava tenerezze:

            «Oh sì gioia, tesoro, angelo mio!»

            Succedevano momenti di calma.

            Andò a cercargli i suoi giocattoli, un pulcinella, un album dì figurine, e glieli mise sul letto per distrarlo. Si sforzò persino di cantare.

            Cominciò una canzone d'una volta, di quando lo cullava fasciandolo, seduta su quella stessa seggiolina di stoffa. Ma il bambino rabbrividì per tutto il corpo, come un'onda sotto un colpo di vento; gli occhi gli uscivan fuori dall'orbite; credette che stesse per morire, e distolse lo sguardo per non vedere.

            Dopo un istante trovò la forza di guardarlo. Era ancora vivo. Una dopo l'altra passarono ore pesanti, tetre, insopportabili, infinite; calcolava i minuti, ormai, solo sul procedere di quell'agonia. Il petto gli si scuoteva buttandolo avanti come per spezzarlo; alla fine vomitò qualcosa di strano, qualcosa che assomigliava a un frammento arrotolato di pergamena. Cosa poteva essere? Pensò che avesse dato fuori un pezzetto delle sue viscere. Ma adesso respirava regolarmente, con larghezza. Fu quell'apparente benessere a spaventarla più di tutto; e stava lì come di pietra, le braccia abbandonate lungo il corpo, lo sguardo fisso, quando venne Colot. Il bambino, a sentir lui, era fuori pericolo.

            Dapprima non capì, e si fece ripetere la frase. Non era una di quelle consolazioni che i medici han l'abitudine di largire? Il dottore se ne andò con un'aria tranquilla. Le parve, allora, che le corde che le stringevano il cuore s'allentassero di colpo.

            «Fuori pericolo: è mai possibile!»

            Il pensiero di Federico le si presentò tutta un tratto in un modo preciso, inesorabile. Era un avvertimento della Provvidenza: anche se il Signore, nella sua misericordia, aveva voluto risparmiarle per ora la punizione. Quanto avrebbe dovuto espiare, in futuro, se avesse perseverato in quell'amore! Suo figlio, di certo, sarebbe stato colpito a causa di lei; lo vide, giovane uomo ormai, ferito in qualche sfida, portato via su una barella, moribondo...

            S'inginocchiò impetuosamente sulla seggiolina e con tutte le sue forze, lanciando verso l'alto la sua anima, offerse a Dio come un olocausto il sacrificio della sua prima passione, della sua unica debolezza.

            Federico era tornato a casa. S'era lasciato andare sul divano e non trovava nemmeno la forza di maledirla, Una specie di sonno lo sopraffece; e nell'incubo del dormiveglia sentiva cadere la pioggia e credeva d'essere ancora laggiù, sul marciapiede.

            La mattina dopo, per un'estrema viltà, mandò un altro fattorino a casa di Madame Arnoux.

            Era, costui, un savoiardo; e sia che non avesse fatto la commissione, sia che la signora avesse troppe cose da dire per spiegarsi con una parola, tornò indietro con la solita risposta. L'insulto era davvero eccessivo; fu preso da una collera d'orgoglio. Giurò a se stesso che non avrebbe più tollerato il minimo desiderio; e il suo amore scomparve come il fogliame d'un albero strappato dall'uragano. Gli sembrò di provarne sollievo, una sorta di stoico godimento e, subito dopo, un bisogno d'azioni violente; e si mise a girare per le strade senza avere una meta.

            Uomini affluivano dai sobborghi armati di fucili, di vecchie sciabole; qualcuno aveva in testa un berretto rosso, tutti cantavano la Marsigliese o la canzone dei Girondini. Qua e là una guardia nazionale s'affrettava al più vicino centro di raccolta. In lontananza rullavano tamburi. Alla Porte Saint-Martin c'erano stati degli scontri. Passava nell'aria un che di vigoroso, di guerresco. Federico continuava a camminare: l'agitazione della grande città gli metteva allegria.

            All'altezza di rue Frascati, vedere le finestre della Marescialla gli mise in testa un'idea folle, una reazione di giovinezza. Attraversò il boulevard.

            Stavan chiudendo il portone; e Delfina, la cameriera, ci scriveva sopra a carboncino: ARMI GIA' CONSEGNATE. Con aria frenetica gli disse:

            «La signora è proprio in un bello stato! Giusto stamattina ha licenziato il groom che le aveva mancato di rispetto. Sta crepando di paura, è convinta che saccheggeranno ogni cosa; e per di più il signore è partito!»

            «Il signore, chi?»

            «Il principe.»

            Federico giunse nel boudoir. Comparve la Marescialla in sottoveste, con i capelli sciolti sulla schiena e un'aria sconvolta.

            «Grazie, grazie! È la seconda volta che vieni a salvarmi; e non pretendi mai il compenso, tu!»

            «Ti chiedo scusa,» disse Federico stringendola alla vita.

            «Di', cosa stai facendo?» balbettò la Marescialla, un po' stupita e un po' rallegrata da quei modi.

            «Mi riformo, m'adeguo alle usanze,» le rispose.

            Lasciò che la rovesciasse sul divano, e rideva, non smetteva di ridere sotto i suoi baci.

            Passarono il pomeriggio a guardare dalla finestra il popolo che s'accalcava nella via. Poi la condusse a cena ai «Tre Fratelli Provenzali». Fu un pasto lungo, delicato. Al ritorno non c'eran vetture, s'incamminarono a piedi.

            Alla notizia d'una trasformazione di governo, Parigi s'era trasformata. Dappertutto c'era allegria; molta gente andava a spasso, le lampade accese a tutti i piani delle case facevano luce come a giorno pieno. I soldati riguadagnavano stancamente le caserme con un'aria triste, mezzi tramortiti. Li salutavano grida di: «Viva la fanteria!» ma tiravano avanti senza rispondere. Gli ufficiali della Guardia Nazionale, invece, brandivano la sciabola vociferando: «Viva la riforma!» e la frase, ogni volta, faceva ridere i due amanti. Federico era allegro, aveva voglia di scherzare.

            Percorsero rue Duphot fino ai boulevards. Lampioni alla veneziana mettevano sulle facciate delle case ghirlande di fuochi. Un brulichio confuso si muoveva al di sotto; e in mezzo a quella massa scura brillava, a tratti, un bianco di baionette. Il clamore delle voci era immenso. La folla era troppo Compatta, tornare indietro direttamente era impossibile. Stavano per imboccare rue Caumartin quando all'improvviso, dietro di loro, esplose uno strepito, come se un immenso pezzo di seta venisse stracciato di schianto. Era la scarica di fucilate del boulevard des Capucines.

            «Accoppano un po' di borghesi,» disse tranquillo Federico. Ci sono situazioni in cui un uomo, anche il meno crudele, è così staccato dagli altri che vedrebbe perire il genere umano senza un palpito di compassione.

            La Marescialla, aggrappata al suo braccio, batteva i denti. Dichiarò che non era in grado di fare venti passi di più. Allora, in un'estrema raffinatezza dell'odio, per meglio oltraggiare in se stesso l'immagine di Madame Arnoux, portò Rosanette fino alla casa di rue Tronchet, nella camera preparata per l'altra.

            I fiori non erano appassiti. La trina era distesa sul letto. Dall'armadio tirò fuori le pantofoline; tante premure parvero squisite alla ragazza.

            Verso l'una, lontani battiti di tamburo la svegliarono; e lo vide che singhiozzava, la testa sprofondata nel cuscino.

            «Ma cos'hai, amore mio?»

            «Sono troppo felice,» disse Federico. «Era da tanto tempo che ti desideravo.»

 

PARTE TERZA

 

 

 

I    (Torna all'indice)

 

 

            Uno schianto di fucilate lo trasse bruscamente dal sonno; e senza curarsi delle preghiere di Rosane volle andare a tutti i costi a vedere cosa stesse succedendo.

            Nel discendere i Champs-Elysées, da dove i colpi eran partiti, Federico incrociò all'altezza di rue Saint-Honoré alcuni uomini in blusa che vociferavano:

            «No, non da questa parte, di là; al Palazzo Reale!»

            Si mise a seguirli. I cancelli dell'Assunzione eran stati divelti Un po' più in là, in mezzo alla strada, vide tre blocchi di lastrico sollevati: un accenno di barricata, evidentemente; e, ancora, cocci di bottiglia, e rotoli di fildiferro per impacciare la cavalleria. Poi, di colpo, saltò fuori da un vicolo un giovane alto e pallido, con i capelli neri ondeggianti sulle spalle e, indosso, uno strano maglione a piccoli punti colorati. Impugnava un lungo fucile da soldato e andava correndo in punta di ciabatte, sciolto e veloce come una tigre e con una cert'aria da sonnambulo. A intervalli s'udiva qualche sparo.

            La sera prima, lo spettacolo d'una carretta che trasportava cinque cadaveri raccolti sul boulevard des Capucines aveva sovvertito lo stato d'animo popolare; e mentre alle Tuileries s'avvicendavano gli aiutanti di campo, e Molé, incaricato di formare un nuovo governo, stentava a venirne a capo, e Thiers cercava di metterne insieme un altro, e mentre il Re collezionava cavilli, esitava, e alla fine assegnava a Bugeaud il comando in capo per impedirgli di valersene, l'insurrezione s'organizzava in modo formidabile come se un solo braccio l'avesse guidata. Uomini di frenetica eloquenza arringavano la folla agli angoli delle strade; altri, nelle chiese, suonavan le campane a martello; si fondeva piombo, si confezionavan cartucce; alberi dei boulevards, vespasiani, panchine, cancellate, lampioni, tutto fu sradicato, rovesciato; all'alba Parigi era coperta di barricate. Non ci fu molta resistenza; si metteva in mezzo, dappertutto, la Guardia Nazionale; e alle otto, con le buone o con le cattive, il popolo s'era già impadronito di cinque caserme, di quasi tutte le sedi municipali, dei punti strategici decisivi. La Monarchia si dissolveva, rapida e senza scosse. L'attacco adesso era contro il posto di guardia di Château-d'Eau, per liberare cinquanta prigionieri che in effetti non c'erano.

            Federico fu costretto a fermarsi all'imbocco della piazza, piena di gruppi d'armati. Compagnie di fanteria presidiavano rue Saint-Thomas e rue Fromanteau. Una barricata enorme sbarrava rue de Valois. Rasente il suo profilo stagnava una nuvola di fumo; dissoltasi un poco, si videro uomini corrervi su in bilico facendo grandi gesti, poi scomparire; ricominciarono gli spari. Dal posto di guardia rispondevano senza che, all'interno, si scorgesse anima viva; le finestre eran protette da imposte di quercia nelle quali s'aprivano strette feritoie; e il grande edificio a due piani, con la sua fontana all'altezza del primo, le due ali laterali, la piccola porta nel mezzo cominciava a fiorire di piccole macchie bianche sotto l'urto del piombo. I tre scalini d'ingresso restavano deserti.

            Vicino a Federico un uomo col berretto alla greca e la giberna allacciata sopra un giubbotto di maglia discuteva animatamente con una donna che aveva in capo un fazzoletto di cotone.

            «Ma vieni via, dunque: vieni via!»

            «Lasciami in pace,» rispondeva il marito. «Puoi cavartela da sola a sorvegliare la portineria, no? Lo chiedo a lei, cittadino: non le sembra giusto? Io ho sempre fatto il mio dovere: nel '30, nel '32, nel '34, nel '39... Oggi ci si batte; e io devo battermi. Avanti, fila via tu!»

            La portinaia fini col cedere a quelle ragioni, e a quelle d'una guardia nazionale che stava accanto a loro, un uomo sui quarant'anni con l'espressione bonaria e una barba bionda a collare che gli incorniciava il viso. Continuava, costui, senza smettere di conversare con Federico, a caricare l'arma e a tirare, più tranquillo nel mezzo della sommossa di un orticultore nel suo giardino. Un ragazzino in grembiule di tela gli stava attorno per farsi dare qualche cartuccia: voleva utilizzare il suo fucile, una bella carabina da caccia che gli era stata data da «un signore».

            «Guarda un po' lì, dietro la mia schiena,» disse il borghese; «e poi sparisci. Non vorrai mica farti ammazzare, eh?»

            I tamburi battevano la carica; s'alzavano grida acute, urli di trionfo. La folla ondeggiava di continuo in una sorta di risucchio. Federico non avrebbe potuto muoversi, stretto com'era fra due massicce moltitudini; e poi era affascinato, si divertiva un mondo. I feriti che cadevano a terra, i morti lunghi distesi noti avevan l'aria di veri feriti, di veri morti. Gli sembrava d'assistere a uno spettacolo.

            Più alto di quel mareggiare di teste si vide, a un tratto, un vecchio vestito di nero sopra un cavallo bianco. La sella era di velluto; e l'uomo teneva in una mano un ramoscello verde, nell'altra un foglio di carta, e li agitava con ostinazione. Alla fine, disperando che lo ascoltassero, si tirò da parte.

            La fanteria era scomparsa è le guardie municipali eran rimaste sole a tenere la posizione. Come un colpo d'onda più forte, un gruppetto d'intrepidi raggiunse d'impeto la scalinata; furono abbattuti, altri sopraggiunsero; la porta risuonava sotto le sbarre di ferro che la scuotevano. I municipali tenevano duro. Ma una carretta stipata di fieno, che bruciava come una torcia gigantesca, fu trascinata contro le mura. Poi, in fretta, aggiunsero fascine, paglia, un bariletto di alcool. Il fuoco prese a serpeggiare lungo le pietre, l'edificio fumava da ogni parte come una zolfatara; in alto, fra le colonnine della terrazza, larghe fiamme esplodevano sibilando. Il primo piano del Palazzo Reale s'era popolato di guardie nazionali. Sparavano sulla piazza da tutte le finestre; le pallottole fischiavano, dalla fontana bucherellata l'acqua scendeva a mescolarsi col sangue in fangose pozzanghere frammezzo alle quali si scivolava su armi abbandonate, caschi, vestiti. Federico s'era sentito sotto il piede qualcosa di cedevole: era la mano d'un sergente in pastrano grigio, caduto a faccia in giù nel rigagnolo. Arrivavano in continuazione nuove bande popolari, sospingendo gli attaccanti verso l'edificio assediato. Le scariche di fucilate diventavan più fitte. Le osterie erano aperte: ci si andava ogni tanto a fumare una pipa, a bere un boccale di birra, poi si tornava a combattere. Un cane che s'era perso uggiolava; la gente, intorno, rideva.

            Federico fu investito in pieno da un uomo che gli cadde addosso rantolando con una palla nelle reni. Quel colpo, che forse era diretto a lui, lo rese a un tratto furioso; e stava per slanciarsi in avanti quando una guardia nazionale lo trattenne.

            «È inutile: il Re se n'è bell'e andato. Vada lei a vedere, se non ci crede.»

            Quella notizia restituì la calma a Federico. Place du Carrousel aveva un aspetto tranquillo. L'Hôtel de Nantes era sempre lì, alto e solitario, e le case di dietro, e la cupola del Louvre di fronte, la lunga galleria di legno stilla destra, il grande spazio incolto e ondulato che si stendeva sino alle baracche del mercato all'aperto era come se galleggiassero nel grigiore dell'aria, dove lontani murmuri sembravano sciogliersi nella bruma; mentre all'altra estremità della piazza una luce cruda, piombando netta da uno squarcio della nuvolaglia, ritagliava il profilo bianco di tutte le finestre sulla facciata delle Tuileries. Vicino all'Arco di Trionfo,

            steso a terra, c'era un cavallo morto. Dietro le cancellate gruppetti di persone erano fermi a conversare. Le porte del castello erano aperte; i domestici, sulla soglia, lasciavano entrare.

            In una saletta a pianterreno era apparecchiato per il caffellatte. Qualche curioso, per far dello spirito, si mise a tavola; gli altri restavano in piedi; fra questi un conducente di fiacre che, afferrata a due mani una zuccheriera colma, e dopo aver gettato a destra e a sinistra uno sguardo inquieto, si mise a mangiare voracemente, il naso ficcato nell'orifizio. Ai piedi della grande scalinata un uomo stava scrivendo il suo nome su un registro. Federico lo riconobbe da dietro.

            «Chi si vede: Hussonnet!»

            «Naturalmente,» rispose lo scrittore. «È la mia introduzione a corte. Che bella commedia, eh?»

            «Se andassimo di sopra?»

            E arrivarono nella sala dei Marescialli. Tranne quella di Bugeaud, trafitta all'altezza del ventre, le effigi di quegli illustri personaggi erano tutte intatte. Se ne stavano appoggiati alle loro sciabole, con un affusto di cannone alle spalle e in atteggiamenti formidabili piuttosto stonati con le circostanze. Una grossa pendola segnava l'una e venti.

            Tutt'a un tratto risuonarono le note della Marsigliese. Hussonnet e Federico si sporsero sulla rampa: era il popolo. Si precipitò su per la scalinata agitandosi in ondate vertiginose di teste scoperte, copricapi di cuoio, berretti rossi, spalle e baionette, con un impeto tale che alcuni erano come inghiottiti dentro quella massa brulicante che saliva, saliva sempre, simile a un fiume compresso dall'alta marea, spinta da un irresistibile impulso cui faceva da sfondo sonoro un lungo, sordo muggito. In alto la fiumana si disperdeva; il canto cadde.

            Ormai si sentiva solo lo stropicciare di tutte quelle scarpe, lo sciacquio sommesso delle voci. Inoffensiva, la folla s'accontentava di guardare. Ogni tanto, però, un gomito troppo pressato sfondava qualche vetro; da una console rotolava a terra un vaso, una statuetta. I rivestimenti di legno scricchiolavano. Le facce di tutti eran rosse, il sudore ne colava copioso.

            «Gli eroi non sanno di buono,» fu l'osservazione di Hussonnet.

            «E tu sei terribilmente irritante,» replicò Federico.

            Sotto la spinta della folla, entrarono senza volerlo in una grande sala dove un baldacchino di velluto rosso s'innalzava sino al soffitto. Al disotto, sul trono, s'era seduto un proletario dalla barba nera, con la camicia sbottonata sul petto e l'aria ilare e stupida d'un fantoccio. Altri s'accalcavano sulla pedana per mettersi al suo posto.

            «Ecco il grande mito,» disse Hussonnet. «Il popolo sovrano!»

            Il trono, sollevato a forza di braccia, attraversò ondeggiando tutta la sala.

            «Perdinci, guarda come beccheggia. Il vascello dello Stato sballottato su un mare in tempesta... Che danza frenetica!»

            Fu trascinato sino a una finestra e da lì, in mezzo a una selva di fischi, scaraventato fuori.

            «Povero vecchio Stato!» commentò Hussonnet seguendone il tonfo giù in giardino, dove subito fu raccolto, portato a spasso fino alla Bastiglia, dato alle fiamme.

            Esplose, allora, una gioia frenetica, come se ai posto lasciato vuoto dal trono fosse comparso un avvenire di felicità senza limiti; e il popolo, meno per vendicarsi che per un'affermazione di possesso, si diede a frantumare specchi, a lacerare tendaggi, a fare a pezzi i lampadari, i candelabri, i tavoli, le sedie, gli sgabelli, tutta la mobilia: persino le collezioni di disegni, ì fiori ricamati. Ottenuta la vittoria, bisognava pur divertirsi! La canaglia s'agghindò buffonescamente di pizzi e scialli preziosi. Frange dorate s'attorcigliavano alle maniche dei camiciotti, cappelli con piume di struzzo ornarono le teste dei fabbri ferrai; i nastri della Legion d'onore servivano da cintura alle prostitute. Ciascuno dava sfogo a un suo capriccio: c'era chi beveva, chi s'era messo a ballare. Nella stanza della regina una donna si dava la pomata sui capelli; dietro un paravento due appassionati di carte erano intenti al gioco. Hussonnet fece notare a Federico un tale che, appoggiato sui gomiti a un balcone, si fumava la sua pipetta, cresceva di continuo, fino al delirio, il fracasso delle porcellane mandate in frantumi, delle schegge di cristallo che risuonavano rimbalzando come le note d'un'armonica.

            Poi il furore si fece cupo. Una curiosità oscena spingeva la gente a frugare nei salottini, negli spogliatoi, in tutti gli angoli, ad aprire tutti i cassetti. Avanzi di galera affondavano il braccio nelle lenzuola delle principesse, ci si rotolavano sopra per consolarsi di non poter avere loro tra le grinfie. Altri, dai visi ancor più sinistri, vagavano in silenzio alla ricerca di qualcosa da rubare: ma c'era troppa gente intorno. Sogguardando, dai vani delle porte, l'infilata dei saloni, non si scorgeva che la massa del popolo, scura contro le dorature e avvolta in una nube di polvere. Tutti ansimavano, il caldo si faceva via via più soffocante; i due amici, temendo di soffocare, guadagnarono l'uscita.

            In anticamera una puttana era dritta sopra un mucchio di panni in posa di statua della Libertà; immobile, con gli occhi spalancati, faceva paura.

            Fuori non fecero in tempo a far tre passi che s'imbatterono in un plotone di guardie municipali in bassa uniforme, i quali, togliendosi il berretto e scoprendo in quell'atto le loro teste un po' calve, salutarono il popolo con un profondo inchino. A tale testimonianza di rispetto, i vincitori in brandelli gonfiarono il torace. Anche Hussonnet e Federico non mancarono di provarne qualche piacere.

            Un fuoco ardeva dentro di loro. Tornarono verso il Palazzo Reale. All'altezza di rue Fromanteau cadaveri di soldati erano ammucchiati sulla paglia. Gli passarono accanto impassibili, fieri, persino, di mostrare tanta risolutezza.

            Il palazzo traboccava di gente. Nel cortile interno avevan dato fuoco a sette cataste; attraverso le finestre volavan giù pianoforti, cassettoni, orologi a pendolo. Dalle pompe antincendio l'acqua schizzava fino ai tetti; alcuni figuri s'industriavano a tagliarne i tubi a colpi di sciabola. Federico voleva indurre uno studente a intervenire; lo studente non capì; sembrava, d'altronde, un perfetto imbecille. Tutt'intorno, lungo le due gallerie, la plebaglia s'era impadronita delle cantine e s'abbandonava a un'ebbrezza immonda. Il vino scorreva a ruscelli, ci si sguazzava coi piedi: i crapuloni vociavano confusamente mentre s'abbeveravano vacillando dai cocci di bottiglia.

            «Andiamocene via,» disse Hussonnet, «il tuo popolo mi disgusta.»

            Per tutta la lunghezza della galleria d'Orléans i feriti erano stesi a terra sopra dei materassi, avvolti in tendaggi di porpora; le piccole borghesi del quartiere li soccorrevano con tazze di brodo e biancheria.

            «Che importa?» disse Federico. «Io lo trovo sublime, il popolo.»

            Il grande atrio turbinava di gente inferocita; alcuni volevano salire ai piani superiori per finire di far tutto a pezzi; sulla scalinata, le guardie nazionali cercavano di trattenerli. Il più intrepido era uno in tenuta da caccia, con la testa arruffata e le bandoliere in pezzi. La camicia gli scappava fuori a sbuffo dai pantaloni; e si distingueva in mezzo agli altri per l'accanimento col quale si dava da fare. Hussonnet, che aveva buona vista, riconobbe da lontano Arnoux.

            Poi, per respirare più liberamente, raggiunsero il giardino delle Tuileries. Si sedettero su una panchina; e rimasero qualche minuto con gli occhi chiusi, talmente storditi che non trovavano neanche la forza di parlare. Intorno a loro i passanti si scambiavano informazioni. La duchessa d'Orléans era stata nominata reggente; era finita, ormai; in tutti aleggiava la sorta di benessere che segue le soluzioni sollecite. In quella, dalle varie mansarde del castello si sporsero i domestici in atto di strapparsi di dosso le livree e gettarle giù nel giardino in segno d'abiura. Accolti da grida di scherno, s'affrettarono a ritirarsi.

            Attrasse l'attenzione di Federico e di Hussonnet un pezzo d'uomo che marciava svelto tra gli alberi col fucile in spalla. Il suo camiciotto rosso era stretto in vita da una cartucciera; intorno alla fronte, sotto il copricapo a visiera, aveva infilato un fazzoletto. Volse la testa: era Dussardier; e gettandosi nelle loro braccia:

            «Che felicità, amici, che felicità!» senza riuscire a dir altro, tanto ansimava di stanchezza e di gioia.

            Era in piedi da quarantotto ore. Aveva dato mano alle barricate del Quartiere latino, s'era battuto in rue Rambuteau salvando la vita a tre dragoni, era entrato alle Tuileries con la colonna Dunoyer, e infine era stato alla Camera e al Municipio.

            «Ne vengo adesso: va tutto bene, il popolo trionfa; operai e borghesi fraternizzano. Se sapeste le cose che ho visto, quanta brava gente! È meraviglioso!»

            E, senza accorgersi che non erano armati:

            «Ero sicuro di trovarvi qui. Per un po' è stata dura, vero? Ma non importa...»

            Un rivoletto di sangue gli scorreva sulla guancia; alle domande degli altri:

            «Oh, non è niente: un graffio di baionetta.»

            «Dovresti farti medicare, però.»

            «Bah! sono una pellaccia, io; cosa vuoi che conti? La Repubblica è proclamata, saremo tutti felici! Ho sentito dei giornalisti, poco fa, che parlavano proprio davanti a me: sembra che la Polonia e l'Italia saranno liberate. Niente più re, capite? Tutta la terra libera; tutta la terra!»

            E abbracciando l'intero orizzonte con un solo sguardo spalancò le braccia in un gesto di trionfo. Ma una lunga fila d'uomini in corsa si profilò sulla terrazza, a filo dell'acqua.

            «Per tutti i diavoli, dimenticavo: le fortezze sono occupate. Bisogna che ci vada. Addio!»

            E ancora, brandendo il fucile, s'era voltato per gridare:

            «Viva la Repubblica!»

            Dagli alti comignoli del castello salivano turbinando enormi fumate nere dense di scintille. I rintocchi delle campane erano, da lontano, come belati di greggi smarrite. Ovunque, da tutte le parti i vincitori scaricavano rumorosamente le armi. Pur essendo tutt'altro che un guerriero, Federico si sentì pulsare nelle vene l'antico sangue dei Galli. L'entusiasmo della folla l'aveva attratto nella sua rete magnetica. Con voluttà aspirava quell'aria tempestosa, piena d'odor di polvere; e insieme rabbrividiva alle raffiche d'un amore sconfinato, d'una tenerezza suprema e universale, come se il cuore di tutti gli uomini battesse all'unisono dentro il suo petto.

            Hussonnet, con uno sbadiglio, disse:

            «Forse è arrivato il momento di erudire il popolo.»

            Federico lo accompagnò nel suo ufficio di corrispondente, in place de la Bourse; e lo scrittore si mise a comporre per il giornale di Troyes un resoconto degli avvenimenti in stile lirico, un vero e proprio «pezzo» che non mancò, infatti, di firmare. Dopodiché andarono insieme a cena in un'osteria. Hussonnet s'era fatto pensieroso; i fatti della Rivoluzione superavano in eccentricità anche le sue trovate.

            Ma quando, bevuto il caffè, si recarono in Municipio per raccogliere notizie, la sua naturale spensieratezza aveva già ripreso il sopravvento. Saltellava sulle barricate come un camoscio, e alle intimazioni delle sentinelle rispondeva con battute scherzosamente patriottiche.

            Erano lì ad ascoltare nel momento in cui, al bagliore delle torce, fu proclamato il Governo provvisorio. A mezzanotte, morto di stanchezza, Federico fu finalmente di ritorno a casa.

            «E allora,» chiese al suo domestico che l'aiutava a spogliarsi, «sei contento?»

            «Sì, certamente, signore. Quello che mi piace poco, però, è questo popolo che va tutto insieme, tutto con lo stesso passo!»

            L'indomani, appena sveglio, Federico pensò a Deslauriers. Corse da lui; l'avvocato era appena partito, essendo stato nominato commissario in provincia. La sera prima era riuscito ad arrivare fino a Ledru-Rollin e parlando, senza concedergli tregua, a nome delle Scuole, gli aveva strappato un incarico, una missione. Comunque, lo informò il portinaio, doveva scrivere in settimana per dare il suo indirizzo.

            Via di lì, Federico passò a trovare la Marescialla. Lo ricevette acidamente, non perdonandogli d'averla piantata in asso. Il rancore svanì alle sue reiterate profferte di pace. Tutto era tranquillo, ormai, non c'era nulla da temere; Federico s'era messo ad accarezzarla; e Rosanette si dichiarò per la Repubblica, come aveva già fatto Monsignore Arcivescovo di Parigi e come s'apprestavano a fare, con ammirevole zelo, la Magistratura, il Consiglio di Stato, l'Istituto, i Marescialli di Francia, Changarnier, il conte de Falloux, bonapartisti e legittimisti in massa e una notevole percentuale di orleanisti.

            Il crollo della Monarchia era stato talmente repentino che, passato un primo momento di stupefazione, i borghesi provarono una specie di sbalordimento d'essere ancora vivi. L'esecuzione sommaria di qualche ladro, fucilato senza processo, parve una cosa giustissima. Per un mese s'andò ripetendo la frase di Lamartine sulla bandiera rossa, «la quale non aveva fatto che il giro del Campo di Marte, mentre la bandiera tricolore ecc. ecc.»; e tutti quanti si schierarono alla sua ombra, ciascun partito non vedendo, in effetti, altro colore che il suo, e ripromettendosi, non appena si fosse sentito il più forte, di strappar via gli altri due.

            Gli affari erano sospesi: l'inquietudine, la sciocca curiosità spingevano tutti quanti a riversarsi nelle strade. Il modo trascurato di vestirsi attenuava le differenze sociali, gli odii restavan nascosti, si faceva sfoggio di speranze; la folla era tutta pervasa di dolcezza. L'orgoglio dei diritti conquistati risplendeva sui volti.

            Circolava un'allegria da carnevale, modi e abitudini da bivacco; niente di più spassoso dell'aspetto di Parigi in quei giorni.

            Federico prendeva a braccetto la Marescialla e insieme, oziosamente, giravano per le strade. Lei si divertiva a vedere i nastrini che eran fioriti a tutti gli occhielli, gli stendardi sventolanti da tutte le finestre, i manifesti di tutti i colori appiccicati ai muri; ogni tanto buttava qualche moneta nelle cassettine per i feriti che eran posate su una sedia in mezzo alla strada, Oppure si fermava davanti alle caricature che raffiguravano Luigi Filippo in foggia di pasticciere o di saltimbanco, sotto specie di cane o di sanguisuga. Ma i poliziotti di Caussidière, con tanto di sciabola e di sciarpa, la spaventavano un poco. Qua e là erano innalzati alberi della libertà. Gli eccellentissimi rappresentanti della Chiesa partecipavano alla cerimonia, benedicevano la Repubblica; servitori gallonati d'oro gli facevan da scorta; e la moltitudine trovava che tutto andava benissimo. Lo spettacolo più, frequente era quello di una qualsiasi deputazione che andava in Municipio a reclamare una qualsiasi cosa; dato che tutte le categorie di artigiani o d'industriali aspettavano dal Governo la soluzione radicale delle proprie miserie. È vero, tuttavia, che qualcuno ci andava semplicemente per dare dei consigli, per felicitarsi, o magari soltanto per fare una visitina e veder funzionare la macchina.

            Verso la metà di marzo, un giorno che attraversava il ponte d'Arcole per sbrigare una commissione di Rosanette nel Quartiere latino, Federico s'imbatté in una colonna d'individui dai bizzarri copricapi e dalle lunghe barbe. Davanti a tutti, battendo su un tamburo, camminava un negro, ex modello d'atelier; e l'uomo che recava uno stendardo sul quale, ondeggiante al vento, si leggeva la scritta ARTISTI DEL PENNELLO, non era altri che Pellerin.

            Fece segno a Federico d'aspettarlo; dopo cinque minuti ricomparve: aveva tempo, dato che in quel momento il Governo dava udienza agli spaccapietre. Andava, insieme ai suoi colleghi, a reclamare la creazione di un Foro delle Arti, una specie di Borsa per dibattere gli interessi dell'Estetica; si sarebbero create opere sublimi mettendo in comune il genio dei singoli produttori. Ben presto Parigi sarebbe stata ricoperta di monumenti giganteschi; lui avrebbe pensato a decorarli; aveva persino abbozzato una figura della Repubblica. Uno dei suoi colleghi venne a prelevarlo: erano incalzati dalla deputazione dei commercianti di pollame.

            «Quante stupidaggini,» borbottò una voce dalla folla. «Balle, sempre balle; niente di un po' deciso!»

            Era Regimbart. Si guardò bene dal salutare Federico, ma approfittò dell'occasione per sfogare la sua amarezza.

            Il Cittadino passava le sue giornate a vagabondare per le strade, tirandosi i mustacchi, facendo roteare gli occhi, accogliendo e propagandando lugubri informazioni; e non diceva altro che: «Attenzione, stanno per buttarci a mare!» oppure: «Ma per la Madonna, qui si fanno le scarpe alla Repubblica!» Di tutto era scontento, soprattutto dei fatto che le nostre frontiere naturali non eran state riconquistate. Al solo nome di Lamartine si metteva a scrollare le spalle. Giudicava Ledru-Rollin «non all'altezza della situazione»; parlando, trattò Dupont de l'Eure da rimbambito, Albert da deficiente, Louis Blanc da utopista, Blanqui da tipo estremamente pericoloso; e quando Federico gli chiese cosa si sarebbe dovuto fare, gli strinse un braccio sin quasi a spezzarglielo e rispose:

            «Impadronirsi del Reno, maledizione, impadronirsi del Reno, le dico!»

            Passò quindi ad accusare la reazione.

            Quei signori stavano gettando la maschera, orinai. Il saccheggio del castello di Neuilly e di quello di Suresnes, l'incendio di Batignolles, i tumulti di Lione, i vari eccessi e disastri, si faceva di tutto, adesso, per gonfiarli a dismisura; e in aggiunta si citavano la circolare di Ledru-Rollin, il corso forzoso delle banconote, il reddito fisso precipitato a sessanta franchi e infine - colpo di grazia, iniquità suprema, ultimo stadio dell'orrore - la tassa dei quarantacinque centesimi. Ma al di sopra ancora di tutto questo, c'era il socialismo. Per quanto le sue teorie, nuove come il gioco dell'oca, fossero state dibattute durante quarant'anni abbastanza per riempire delle biblioteche, riusciva ancora a spaventare i borghesi non meno d'una pioggia di meteoriti; l'indignazione che provavano al suo riguardo nasceva dall'odio che tutte le idee provocano in quanto tali e che è proprio quello, fra l'altro, dal quale prende l'avvio più tardi il loro destino glorioso e fa si che risultino sempre, per mediocri che siano, al disopra dei loro detrattori.

            Il rispetto per la Proprietà la fece salire, allora, al livello d'una religione, la fece confondere con Dio. Qualsiasi attacco diretto contro di essa fu giudicato un atto di sacrilegio, quasi d'antropofagia. Benché la Legislazione fosse la più umana a memoria d'uomo, fu rievocato lo spettro del '93, e in tutte le sillabe della parola «Repubblica» si volle sentir vibrare la lama della ghigliottina; il che non impediva, d'altra parte, di disprezzare l'istituzione per la sua debolezza! Sentendosi senza un padrone, la Francia si mise a gridare di spavento, come un cieco che non trova più il suo bastone o un marmocchio che ha perso la governante.

            Chi tremava più forte di tutti era Dambreuse. La situazione nuova era di minaccia alla sua fortuna, ma più ancora costituiva un duro colpo per la sua esperienza. Ma come: un sistema tanto buono, un re così saggio! Era la fine del mondo. Dopo un giorno aveva già licenziato tre domestici, venduto i cavalli, s'era persino comprato, per avventurarsi nella strada, un cappello floscio; progettò di farsi crescere la barba; e se ne restava tappato in casa, accasciato, rileggendo amaramente i giornali più ostili alle sue convinzioni, incupito al punto che neanche le battute di spirito sulla pipa di Flocon riuscivano a farlo sorridere.

            Temeva d'essere esposto, come sostenitore del passato regime, a vendette popolari sulle sue proprietà nella Champagne; fu a questo punto che gli caddero sott'occhio le elucubrazioni di Federico. Si figurò, allora, che il suo giovane amico fosse un personaggio molto influente, che avrebbe potuto, se non aiutarlo, perlomeno proteggerlo; e così, un bel mattino, si presentò a casa stia accompagnato da Martinon.

            La sua visita, spiegò, non aveva altro scopo che vederlo un poco, scambiare qualche parola. Tutto sommato, era felice di ciò ch'era successo, e adottava con entusiasmo «il nostro motto sublime: Uguaglianza, Libertà, Fratellanza; dato che, in fondo, era sempre stato repubblicano». Se aveva votato, sotto l'altro regime, a favore dei ministero, era stato semplicemente per affrettare la sua inevitabile caduta. Giunse al punto di prendersela con Guizot: «bisogna ammettere che ci ha cacciati in un bell'impiccio!» Professava, in compenso, una grande ammirazione per Lamartine, che s'era dimostrato, parola sua d'onore, «meraviglioso: quelle sue parole a proposito della bandiera rossa...»

            «Sì, certo,» disse Federico.

            In seguito, Dambreuse dichiarò tutta la sua simpatia verso gli operai.

            «Più o meno siamo tutti operai, no?» E spingeva la sua imparzialità fino a riconoscere che Proudhon aveva una sua logica. «E molta, anche: niente da dire!» Poi, col distacco di un uomo d'intelligenza superiore, venne a parlare dell'esposizione di pittura dove aveva visto il quadro di Pellerin. Gli era parso originale, molto ben fatto.

            A ogni parola di Dambreuse Martinon faceva dei vigorosi cenni d'approvazione; anche lui era convinto che bisognava «avvicinarsi lealmente alla Repubblica»; parlò di suo padre contadino; s'atteggiava a lavoratore, a uomo del popolo. Ben presto vennero a discorrere delle elezioni per l'Assemblea Nazionale e, in particolare, dei candidati per il collegio di La Fortelle. Quello dell'opposizione non aveva la minima probabilità di riuscita.

            «Perché non prende lei il suo posto?» disse Dambreuse.

            Federico protestava.

            Ma perché no? dal momento che avrebbe ottenuto i suffragi delle sinistre grazie alle sue opinioni personali, e quelli dei conservatori per via della sua famiglia.

            Federico obiettò che non sapeva da che parte cominciare. Niente di più facile, bastava farsi raccomandare ai patrioti dell'Aube da un circolo della capitale. Si sarebbe trattato di leggere, al posto di una professione di fede come se ne vedeva ogni giorno, una seria esposizione di principi.

            «Me la sottoponga: so io quel che ci vuole per quell'ambiente. E lei potrebbe rendere, glielo ripeto, dei servigi importanti al paese, a noi tutti; anche a me.»

            Coi tempi che correvano era necessario darsi una mano; se Federico avesse avuto bisogno di qualcosa, lui stesso, o qualcuno dei suoi amici...

            «Gliene sono molto grato, caro signore.»

            «A buon rendere, si capisce.»

            Decisamente, il banchiere era un galantuomo.

            Federico non poteva fare a meno di riflettere sul suo consiglio; e una specie di vertigine non tardò a fargli girare la testa.

            Gli passavano davanti agli occhi le grandi figure della Convenzione. Gli parve che stesse per spuntare una splendida aurora. Roma, Vienna, Berlino erano insorte, gli Austriaci in fuga da Venezia; l'Europa intera s'agitava. Era giunto il momento di lanciarsi nel movimento, forse di accelerarlo; e poi, ad affascinarlo era la divisa che i deputati, a quanto si diceva, avrebbero indossato. Si vedeva già col panciotto a risvolti e la cintura tricolore; e quella smania, quell'allucinazione diventarono così forti, che andò a sfogarsene con Dussardier.

            L'entusiasmo di quel bravo ragazzo non veniva mai meno.

            «Ma certo, ma naturale: devi presentarti!»

            Federico, tuttavia, si rimise a Deslauriers. L'opposizione imbecille che il commissario s'era trovato fra i piedi in provincia ne aveva accresciuto il liberalismo. La sua risposta fu immediata e piena di violente esortazioni.

            Nondimeno, Federico aveva bisogno di un maggior numero di consensi; e ne parlò a Rosanette un giorno che c'era anche la Vatnaz.

            La signorina era una delle tante zitelle parigine che ogni sera, finito il loro giro di lezioni, sospesi i loro tentativi di vendere qualche disegno o di collocare qualche gramo manoscritto, rientrano in casa con la gonna infangata, si preparano la cena, la mangiano in solitudine e poi, coi piedi sullo scaldino, alla luce d'una lampada mal pulita, sognano un amore, una famiglia, un focolare, un po' di felicità, tutto ciò di cui sono prive. E così anche lei, come molti altri, aveva esultato alla Rivoluzione come all'avvicinarsi d'una vendetta; e si dedicava a una sfrenata propaganda socialista.

            L'emancipazione del proletariato, secondo la Vatnaz, aveva come presupposto l'emancipazione della donna. Era necessario che le donne potessero accedere a tutti gli impieghi; e poi bisognava istituire la ricerca della paternità, ci voleva un altro codice, ci voleva l'abolizione, o perlomeno una regolamentazione «più intelligente» del matrimonio. Ogni donna francese, in questo caso, sarebbe stata tenuta a sposare un uomo francese o ad adottare un vecchio. Balie e levatrici avrebbero dovuto essere dei funzionari alle dipendenze dello Stato; e poi, creare apposite giurie per esaminare le opere delle donne, una Guardia Nazionale per le donne; ogni cosa, insomma, per le donne. Dal momento che il Governo disconosceva i loro diritti, dovevano opporsi alla forza con la forza. Diecimila cittadine, armate di buoni fucili, potevano far tremare il palazzo del Municipio!

            Una candidatura di Federico le parve propizia ai suoi progetti. L'incoraggiò, facendogli intravedere la gloria all'orizzonte. Quanto a Rosanette, era lusingata dall'idea che il suo uomo avrebbe parlato alla Camera.

            «E poi ti daranno un buon posto, non credi?»

            Federico, esposto com'era a tutte le debolezze, si Lasciò travolgere dalla pazzia universale. Scrisse un discorso e andò da Dambreuse per farglielo vedere.

            Al rumore della porta carraia che si richiudeva, la tenda d'una finestra fu scostata e comparve un viso di donna; ma non fece a tempo a riconoscerla. In anticamera si fermò di netto davanti un quadro: era un quadro di Pellerin, posato - certo in via provvisoria - sopra una sedia.

            La Repubblica, o il Progresso, o la Civiltà, vi eran raffigurate da Gesù Cristo che guidava una locomotiva attraverso una foresta vergine. Dopo un minuto di contemplazione, Federico disse a voce alta:

            «Che cosa turpe!»

            «Sembra anche a lei, eh?» disse Dambreuse che arrivava in quel momento e dovette pensare che l'esclamazione di Federico non concernesse la pittura, ma la dottrina in essa esaltata.

            Contemporaneamente sopraggiunse anche Martinon. Passarono nello studio; e Federico stava tirando fuori il foglio di tasca quando la signorina Cecilia, entrando di colpo, proferì con aria ingenua:

            «C'è qui la zia, per caso?»

            «Sai benissimo che non c'è,» rispose il banchiere. «Comunque, faccia pure come se fosse a casa sua, signorina.»

            «Oh grazie, vado via subito.»

            Era appena uscita che Martinon si diede l'aria di cercare il fazzoletto.

            «Devo averlo dimenticato nel pastrano: chiedo scusa.»

            «Prego,» disse Dambreuse.

            Era chiaro che la manovra non gli sfuggiva; sembrava, anzi, che la favorisse. A che scopo? Ma ben presto Martinon fu di ritorno, e Federico diede la stura al suo discorso. Già alla seconda pagina, che denunciava come una vergogna il prevalere degli interessi pecuniari, il banchiere fece una smorfia. Più avanti, passando alle riforme, Federico chiedeva la liberalizzazione dei commerci.

            «Eh? Ma stia a sentire...»

            L'altro non l'ascoltava, è andava avanti. Reclamava l'imposta progressiva sui reddito, la federazione europea, l'istruzione del popolo, larghissimi incoraggiamenti alle Arti.

            «Quand'anche il paese assicurasse a uomini come Delacroix o Hugo una rendita di centomila franchi, che male ci sarebbe?»

            Il tutto si chiudeva con una serie di consigli ai ceti elevati.

            «Voi che avete, dovete dare senza risparmio; dare, dare!»

            Aveva finito, e restava in piedi. I suoi due ascoltatori non parlavano: Martinon aveva gli occhi fuori dalla testa, Dambreuse era pallidissimo. Alla fine, dissimulando l'emozione sotto un sorriso acido:

            «Davvero perfetto, il suo discorso.»

            E ne lodò molta la forma, per evitare di pronunciarsi sul contenuto.

            Tanta violenza da parte di quel giovane inoffensivo gli faceva spavento, soprattutto come sintomo. Martinon si sforzò di rassicurarlo. Fra non molto il partito conservatore si sarebbe preso la sua rivincita, era una cosa sicura; in parecchie città i commissari del Governo provvisorio eran stati cacciati; le elezioni eran state fissate soltanto per il 23 aprile: c'era tempo! insomma, bisognava che fosse Dambreuse in persona a portarsi candidato per il collegio dell'Aube; e da quel momento Martinon non lo abbandonò più, diventò il suo segretario, lo circondò di premure filiali.

            Federico tornò da Rosanette tutto contento di se stesso. C'era Delmar, che gli annunciò «definitivamente» la sua candidatura per le elezioni della Senna. In un manifesto «al Popolo», al quale si rivolgeva dandogli del tu, l'attore si faceva un vanto di comprenderlo, lui, e d'essersi fatto «crocifiggere per l'Arte» a suo esclusivo beneficio diventando così la sua incarnazione, il suo ideale. Era convinto, in effetti, d'avere sulle masse un'influenza enorme, al punto che più tardi, in un ufficio del ministero, s'offerse di sedare da solo una sommossa: quanto ai mezzi che pensava d'impiegare, la risposta fu la seguente:

            «Non pensateci: basterà che mi guardino in faccia.»

            Per mortificarlo Federico gli notificò la sua, di candidatura. Visto che il futuro collega puntava sulla provincia, il guitto gli offerse il suo aiuto e gli propose di introdurlo nei circoli.   |[continua]|

 

 

|[I, 2]|

 

            In effetti li visitarono tutti, o quasi: rossi e azzurri, furiosi e tranquilli, puritani e scollacciati, mistici e avvinazzati, quelli dove si decretava la morte dei re e quelli dove si denunciavano le malefatte dei droghieri. Dappertutto, gli inquilini maledicevano i proprietari, le bluse maledicevano le redingotes, i ricchi cospiravano contro i poveri. Parecchi avrebbero voluto delle pensioni come ex perseguitati dalla polizia, altri imploravano denaro per realizzare qualche invenzione; oppure si mettevano in discussione progetti dì falansteri o di bazar cantonali, sistemi per la felicità pubblica. Qua e là, nella foschia di tante sciocchezze, la schiarita improvvisa d'un po' di spirito; apostrofi repentine come schizzi di fango; sottigliezze giuridiche incapsulate in una bestemmia; fiori d'eloquenza in bocca a un manovale senza camicia, con la tracolla della sciabola allacciata sul petto nudo... Non mancava, a volte, qualche aristocratico dalle maniere dimesse, che pronunciava frasi da plebeo e aveva avuto cura di non lavarsi le mani per farle sembrare callose. Ma un patriota lo smascherava, i più puri gli si facevano intorno minacciosi; e quello si allontanava con la rabbia nel cuore. Per far mostra di buonsenso era d'obbligo denigrare gli avvocati e fare il più largo uso possibile di locuzioni come: «portare la propria pietra all'edificio comune», «problema sociale», «officina».

            Delmar non mancava mai l'occasione di prender la parola; e quando non trovava più niente da dire, la sua risorsa era di mettersi in posa, pugno sul fianco, mano nel panciotto, e girarsi bruscamente di profilo per far risaltare la sua testa. Scattavano, allora, applausi frenetici; era la signorina Vatnaz, dal fondo della sala.

            Nonostante la debolezza degli oratori, Federico non osava buttarsi. Tutta quella gente gli sembrava o troppo ignorante o troppo maldisposta.

            Ma Dussardier, messosi personalmente alla ricerca, gli annunciò che in rue Saint-Jacques esisteva un circolo chiamato Club dell'intelligenza. Un nome simile dava da sperare; e poi, ci avrebbe portato i suoi amici.

            Portò, in effetti, gli stessi che aveva invitato per il punch: il contabile, il rappresentante di vini, l'architetto; c'era persino Pellerin, forse sarebbe venuto anche Hussonnet; e davanti alla porta, sul marciapiede, stazionava Regimbart in compagnia di due individui, il primo dei quali era il fedelissimo Compain, un tipo piuttosto tozzo, segnato dal vaiolo e con gli occhi arrossati, il secondo una specie di scimmione dall'eccezionale capigliatura, noto allo stesso Pellerin semplicemente come «un patriota di Barcellona».

            Arrivarono, attraverso una specie di viale, a un grande locale destinato senza dubbio a laboratorio dì falegnameria e ancora odoroso di calce. Quattro lampade appese simmetricamente diffondevano una luce sgradevole. In fondo, su una pedana, c'era uno scranno con un campanello; subito sotto, un tavolo che figurava la tribuna, e ai due lati altri due tavoli un po' più bassi per i segretari. Il pubblico che affollava le panche era composto di anziani aspiranti pittori, maestrucoli, letterati rigorosamente inediti. Nelle file di pastrani dai colletti unti faceva spicco, qua e là, un copricapo femminile o la blusa d'un operaio. Anzi, il fondo della sala era pieno d'operai, venuti lì di certo perché non avevan di meglio da fare, o cacciati dentro dagli oratori per procurarsi degli applausi.

            Federico ebbe cura di mettersi fra Dussardier e Regimbart il quale, non appena si fu seduto, incrociò le due mani sul bastone, appoggiò il mento sulle mani incrociate e abbassò le palpebre, mentre Delmar, ritto in piedi all'altra estremità della sala, dominava l'assemblea.

            Allo scranno del presidente fece la sua comparsa Sénécal.

            La sorpresa, a giudizio del buon commesso, doveva rallegrare Federico, che ne fu, invece, notevolmente contrariato.

            La deferenza che la folla testimoniava al presidente era grande. Sénécal era stato fra quelli che avevano voluto, il 25 febbraio, l'immediata organizzazione del lavoro; il giorno dopo, al Prado, si era pronunciato a favore dell'assalto al Municipio; e dato che ciascun personaggio si rifaceva, allora, a qualche modello, chi imitando Saint-Just, chi Danton, chi Marat, lui aveva scelto d'assomigliare a Blanqui, il quale a sua volta s'era ispirato a Robespierre. Guanti neri e capelli a spazzola gli davano un aspetto rigido, estremamente appropriato.

            La seduta fu aperta con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, atto di fede abituale. Poi una voce vigorosa intonò I ricordi del Popolo, di Béranger.

            Altre voci si levarono:

            «No, non questa!»

            «Il berretto a visiera!» si misero a urlare i patrioti dal fondo della sala.

            E insieme, in coro, cantarono la poesia del giorno:

 

            Giù il cappello davanti al mio berretto,

            giù in ginocchio davanti all'operaio!

 

            Poi, a una parola del presidente, l'uditorio si fece silenzioso.

            Uno dei segretari procedette allo spoglio delle lettere.

            «Alcuni giovani ci scrivono che ogni sera, davanti al Panthéon, danno fuoco a un numero dell'Assemblea nazionale, e invitano tutti i patrioti a seguire il loro esempio.»

            «Benissimo! approvato!» rispose la folla.

            «Il cittadino Giangiacomo Langreneux, tipografo in rue Dauphine, propone che s'innalzi un monumento in memoria dei martiri di Termidoro.»

            «Michele Evaristo Nepomuceno Vincent, professore in pensione, fa voti perché la Democrazia europea adotti un unico linguaggio. Ci si potrebbe servire di una lingua morta, per esempio del latino, previo qualche perfezionamento.»

            «No, niente latino!» gridò l'architetto.

            «E perché no?» replicò un insegnante.

            E i due ingaggiarono una discussione nella quale altri intervennero, ciascuno dicendo la sua per far colpo; una discussione fattasi presto talmente fastidiosa, che molti cominciavano a andarsene.

            Ma a questo punto un vecchiettino dalla fronte prodigiosamente alta, alla base della quale portava certi occhiali verdi, chiese la parola per una comunicazione urgente.

            Si trattava d'una memoria sulla ripartizione dei tributi. Le cifre sgocciolavano interminabilmente, non si vedeva la fine!

            L'impazienza cominciò a manifestarsi in mormorii, in conversazioni; niente sembrava turbarlo. Poi si misero a fischiare, a scandire la parola «Azor»; Sénécal riprese severamente il pubblico; l'oratore continuava come una macchina. Per fermarlo fu necessario afferrarlo per il gomito. Parve che il brav'uomo si risvegliasse da un sogno; si tolse tranquillamente gli occhiali e:

            «D'accordo, cittadini, d'accordo. Mi ritiro. Vogliate scusarmi!»

            L'insuccesso di quella lettura sconcertò Federico. Aveva in tasca il suo discorso; ma forse sarebbe stato meglio improvvisare.

            Il presidente annunciò infine che si sarebbe passati all'argomento più importante: la questione elettorale. Le grandi liste repubblicane non erano in discussione. Il Club dell'intelligenza, tuttavia, si riservava, come tutti gli altri circoli, il diritto di proporne una, con, buona pace dei sultani del Municipio; e i cittadini che aspiravano al mandato popolare potevano esporre i loro titoli.

            «Coraggio dunque!» disse Dussardier.

            Un uomo in tonaca, con i capelli crespi e una fisionomia petulante, aveva già alzato la mano. Dichiarò farfugliando, d'essere Ducretot, prete e agronomo, autore d'un libro intitolato Dei concimi. Fu rinviato a un circolo ortofrutticolo.

            Poi raggiunse la tribuna un patriota in camiciotto. Era un plebeo dalle spalle larghe, la grossa faccia estremamente dolce e lunghi capelli neri. Fece scorrere sull'assemblea uno sguardo quasi voluttuoso, rovesciò indietro la testa e infine, allargando le braccia:

            «Fratelli, voi avete respinto Ducretot, e avete fatto bene: ma non è stato per mancanza di religione, giacché noi siamo tutti religiosi.»

            Più d'uno l'ascoltava a bocca aperta con atteggiamenti estatici, da catecumeno.

            «E non è stato neanche perché si tratta d'un prete, giacché anche noi siamo dei preti. Ogni operaio è un prete, come lo era il fondatore del socialismo, il nostro comune Maestro: Gesù Cristo!»

            Era giunta l'ora d'inaugurare il regno di Dio; dal Vangelo si arrivava dritti dritti al 1789. Dopo l'abolizione della schiavitù, l'abolizione del proletariato! C'era stata l'era dell'odio; cominciava, adesso, l'era dell'amore.

            «Il cristianesimo è la chiave di volta, il fondamento del nuovo edificio...»

            «Di' un po', ci stai prendendo in giro?» gridò il viaggiatore in alcolici. «Chi ci ha messo fra i piedi un baciapile di questa forza?»

            L'interruzione provocò un grosso scandalo. Quasi tutti salirono in piedi sulle panche e tendendo il pugno vociavano: «Ateo! aristocratico! canaglia!», mentre il campanello del presidente suonava ininterrottamente e i richiami all'ordine si moltiplicavano. Ma quello, intrepido, e tenuto su fra l'altro da «qualche caffè» inghiottito prima di venire, si dibatteva in mezzo a tutti.

            «Un aristocratico io? ma non fatemi ridere!»

            Ottenuto, finalmente, di potersi spiegare, dichiarò che coi preti non si sarebbe mai stati tranquilli e che, a proposito di economie, una delle più grosse sarebbe stata di sopprimere le chiese, i santissimi cibori e, in una parola, ogni forma di culto.

            Questo, obiettò qualcuno, voleva dire andare troppo in là.

            «Vado in là, d'accordo: ma quando la nave è sorpresa dalla tempesta...»

            Senza lasciargli finire il paragone, un altro replicò:

            «Benissimo: ma demolire così tutto in una volta, come fanno i muratori privi di discernimento...»

            «Qui si insultano i muratori!» urlò un cittadino tutto bianco di calce. E intestarditosi che l'avevano offeso si mise a vomitare ingiurie, voleva battersi, resisteva aggrappato alla sua panca. Ci vollero non meno di tre uomini per metterlo fuori.

            L'operaio, nel frattempo, era sempre alla tribuna. I due segretari gli fecero presente che doveva scendere; e lui a protestare contro il sopruso.

            «Non potrete mai impedirmi di gridare: eterno amore alla nostra patria diletta! eterno amore alla Repubblica!»

            «Cittadini,» proferì a questo punto Compain, «cittadini!»

            A forza di ripetere «Cittadini» riuscì a ottenere un po' di silenzio; dopodiché, premendo sulla tribuna le sue mani rosse e tozze come moncherini, si sbilanciò tutto in avanti e, strizzando gli occhi:

            «Io credo che bisognerebbe dare un forte incremento alla testa di vitello.»

            Tutti tacevano, pensando d'aver capito male.

            «Ripeto: alla testa di vitello!»

            Trecento risate esplosero in un sol colpo. Il soffitto tremava. Davanti a tutte quelle facce stravolte dall'ilarità Compain fu sul punto d'indietreggiare. Poi, con tono aggressivo, riprese:

            «Come, non conoscete la testa di vitello?»

            Fu un parossismo, un delirio. Ci si teneva le costole per non scoppiare. Qualcuno era persino rotolato per terra, sotto le panche. Compain, esasperato, si rifugiò accanto a Regimbart e voleva trascinarlo via.

            «No, io resto fino in fondo,» disse il Cittadino.

            Questa risposta diede la carica a Federico; e mentre cercava a destra e a sinistra i suoi amici per averne sostegno, vide che davanti a lui, sulla tribuna, era salito Pellerin. Il pittore assunse con la folla un tono piuttosto altezzoso.

            «Mi piacerebbe proprio sapere dov'è andato a cacciarsi, fra tanti bei discorsi, il candidato dell'Arte. Io, mettiamo, ho fatto un quadro...»

            «Non sappiamo cosa farcene dei quadri!» interloquì brutalmente un tipo magro, con delle macchie rosse sugli zigomi.

            Pellerin protestò per l'interruzione. Ma l'altro, in tono tragico:

            «Non vi sembra che il Governo avrebbe già dovuto fare un decreto per abolire la prostituzione e la miseria?»

            La frase gli guadagnò in un batter d'occhio il favore del popolo; forte del quale, si mise a tuonare contro la corruzione delle grandi città.

            «Infamia e disonore! isognerebbe prendere al volo tutti i borghesi che escono dalla Maison d'Or, e sputargli in faccia. Sarebbe chieder troppo che il Governo non favorisse il malcostume? Ma se persino gli impiegati del dazio si comportano in un modo indecente con le nostre figlie, con le nostre sorelle...»

            Una voce commentò da lontano:

            «È un vero spasso.»

            «Via! alla porta!»

            «Ci cavan fuori contributi per pagare il libertinaggio! Per esempio, le paghe elevate degli attori...»

            «A me!» gridò Delmar.

            Con un salto fu sulla tribuna, fece il vuoto intorno, si mise in posa; e dopo aver dichiarato che non raccoglieva nemmeno accuse così basse, si dilungò sulla missione di civiltà degli attori. Dal momento che il teatro era la sede prima dell'istruzione nazionale, lui era per la riforma del teatro;, prima di tutto, basta con le direzioni, farla finita con i privilegi.

            «Con i privilegi, dico, di qualsiasi natura!»

            La mimica dell'attore riscaldava la folla; mozioni sovversive s'incrocìavano.

            «Basta con le accademie! morte all'Istituto!»

            «Basta con gli incarichi speciali!»

            «Abbasso le lauree!»

            «Aboliamo la carriera universitaria!»

            «Conserviamoli, invece,» disse Sénécal; «ma facciamo in modo che siano controllati, attraverso il suffragio universale, dal Popolo, unico vero giudice.»

            La cosa più utile, d'altronde, non era questa. Prima di tutto bisognava far abbassare la testa ai ricchi. E Sénécal li descrisse che s'ingozzavano di delitti sotto i loro soffitti dorati mentre i poveri, torcendosi di fame nei loro tuguri, coltivavano ogni sorta di virtù. Gli applausi si fecero così forti che dovette interrompersi; e rimase per qualche minuto con la testa alzata e gli occhi socchiusi, come se si lasciasse cullare dalla collera che aveva scatenata.

            Quando riprese a parlare fu in maniera dogmatica, con frasi imperative come articoli di legge. Lo stato doveva impadronirsi delle banche e delle assicurazioni. Le eredità sarebbero state abolite. Si sarebbe istituito un fondo d'assistenza mutua per i lavoratori. E ben altre riforme si sarebbero attuate nel futuro. Per il momento, tuttavia, queste potevano bastare; e quanto alle elezioni:

            «Abbiamo bisogno di cittadini puri, di uomini completamente nuovi. Non c'è nessuno che si faccia avanti?»

            Federico s'alzò. Si produsse, grazie ai suoi amici, un mormorio d'approvazione. Ma Sénécal, assumendo un'espressione alla Fouquier-Tinville, si mise a interrogarlo: nome e cognome, precedenti, vita e costumi.

            Federico rispondeva sommariamente, mordendosi le labbra. Sénécal domandò se qualcuno vedeva impedimenti a quella candidatura.

            «No, no!»

            Ma lui sì che ne vedeva. Tutti si protesero in avanti per sentire meglio. Il cittadino in questione non aveva versato una certa somma promessa a favore di un'iniziativa democratica, un giornale. Per di più il 22 febbraio, pur essendo stato regolarmente avvertito, aveva disertato il raduno del Panthéon.

            «E io vi giuro che si trovava alle Tuileries!» esclamò. Dussardier.

            «Potrebbe giurare anche d'averlo visto al Panthéon?»

            Dussardier chinò il capo; Federico taceva; i suoi amici lo fissavano tra inquieti e scandalizzati.

            «C'è almeno,» continuò Sénécal, «un patriota che possa farsi garante dei suoi principi?»

            «Io,» disse Dussardier.

            «Non è sufficiente: un altro.»

            Federico si volse verso Pellerin. Il pittore gli rispose con una quantità di gesti che, in sostanza, significavano:

            «Mio caro, sono stato rifiutato. Cosa diavolo vuole che possa farci?»

            Federico, allora, diede di gomito a Regimbart.

            «Già, ha ragione: è il momento di muoversi.»

            E Regimbart, scalata la pedana, attirò con un gesto l'attenzione sullo Spagnolo che l'aveva seguito:

            «Cittadini, permettetemi di presentarvi un patriota di Barcellona.»

            Il patriota salutò profondamente, roteò come un automa i suoi occhi d'argento e, mettendosi una mano sul cuore:

            «Ciudadanos! mucho aprecio el honor que me dispensáis, y si grande es vuestra bondad mayor es vuestra atención.»

            «Chiedo la parola,» disse Federico.

            «Desde que se proclamó la constitución de Cádiz, ese pacto fundamental de las libertades españolas, hasta la última revolución, nuestra patria cuenta numerosos y heroicos martires.»

            Federico tentò ancora una volta di farsi sentire:

            «Ma cittadini...»

            Lo spagnolo continuava:

            «El martes próximo tendrá lugar en la iglesia de la Magdelena un servicio fúnebre.»

            «Ma insomma, è una cosa assurda: nessuno capisce una parola.»

            Questa osservazione irritò terribilmente la folla.

            «Fuori, fuori! alla porta!»

            «Chi, io?» domandò Federico.

            «Proprio lei,» disse maestosamente Sénécal. «Se ne vada!»

            Mentre si alzava per uscire, la voce dell'iberico lo perseguitava:

            «Y todos los Españoles desearían ver allí reunidas les deputaciones de los clubs y de la milicia nacionaI. Una oración fúnebre en honor de la libertad española y del mundo entero, será prononciada por un miembro del clero de Paris en la sala BonneNouvelle. Honor al pueblo francés, que llamaría yo el primero pueblo del mundo, sino fuese ciudadano de otra nación!»

            «'Ristocratico,» gli squittì dietro un tipaccio, e gli mostrò il pugno mentre Federico, indignato, usciva di slancio nel cortile.   |[continua]|

 

 

 

|[I, 3]|

 

            Si rimproverò la sua devozione senza stare a pensare che le accuse che gli avevan rivolto, dopo tutto, erano giuste. Che razza di idea quella candidatura! E che asini, che cretini eran mai quelli! Paragonandosi a quella gente, medicava con la loro stupidità le ferite del suo orgoglio.

            Poi sentì il bisogno di vedere Rosanette. Dopo tante brutture e tanta cattiva retorica la persona di lei, la sua grazia sarebbero state un sollievo. Sapeva che avrebbe dovuto, quella sera, presentarsi in un circolo; tuttavia, vedendolo entrare, non gli fece domande.

            Era seduta vicino al fuoco, e scuciva la fodera d'un vestito. Un'attività del genere lo sorprese.

            «Oh bella: cosa stai facendo?»

            «Non vedi?» rispose seccamente. «Accomodo i miei quattro stracci. La tua Repubblica!»

            «Cosa c'entra la Repubblica? e perché mia, poi?»

            «È mia, forse?»

            E si mise a rimproverargli tutto quello ch'era successo in Francia da due mesi a quella parte, accusandolo di aver fatto la rivoluzione, e che era colpa sua se si andava in rovina, se la gente ricca abbandonava Parigi e se lei stessa, un giorno o l'altro, sarebbe morta all'ospedale.

            «Fai presto a prendertela calma, tu, con le rendite che hai! E poi, con questo andazzo, non le avrai più per molto neanche tu, le tue rendite.»

            «È possibile,» disse Federico, «i più devoti sono sempre mal ricompensati; se non fosse per la propria coscienza, i bruti coi quali si è costretti a trattare farebbero davvero passar la voglia di sacrificarsi.»

            Rosanette lo fissava stringendo gli occhi.

            «Eh? cosa? quali sacrifici? Il signore ha fatto fiasco, a quanto pare... Tanto meglio: così imparerai a fare le tue regalie patriottiche. Non dire bugie, so benissimo che gli hai dato trecento franchi; già, perché si fa anche mantenere, la tua Repubblica! Be', sai cosa ti dico? va' con lei a divertirti, e tanti auguri.»

            Sotto una simile valanga di sciocchezze Federico passava dal disappunto di prima a una delusione più pesante.

            S'era allontanato verso il fondo della stanza; Rosanette gli venne vicino.

            «Andiamo, ragiona un po'. Un paese è come una casa, ci vuole un padrone: se no tutti quanti stanno a farsi girare il pollice. In primo luogo, lo sanno tutti: Ledru-Rollin è pieno di debiti. Quanto a Lamartine, cosa vuoi che ne sappia di politica uno che fa poesie? È proprio inutile che scrolli il capo, sai? e pensi sempre di essere più intelligente degli altri: è proprio così. Ma tu stai sempre a far cavilli; non si può mai dire una parola, con te! Guarda Fournier-Fontaine, per esempio, quello dei magazzini Saint-Roch: sai di quanto è il suo deficit? ottocentomila franchi. E Gomer, lo spedizioniere qui di fronte, un repubblicano anche lui, già! quello aveva l'abitudine di rompere l'attizzatoio sulla testa della moglie, e ha bevuto tanto di quell'assenzio che han dovuto metterlo in una casa di cura. Tutti così, tutti uguali i tuoi repubblicani. Una Repubblica al venticinque per cento. Puoi proprio andarne fiero, sì!»

            Federico se ne andò. La vuotaggine della ragazza, rivelatasi di colpo in quel linguaggio plebeo, lo aveva disgustato. Gli parve persino di sentirsi di nuovo patriota.

            Il malumore di Rosanette non faceva che aumentare. La Vatnaz, col suo entusiasmo, la esasperava. Credendosi investita d'una missione, aveva la smania di perorare, di catechizzare e, molto più ferrata di lei in queste faccende, la subissava di argomenti.

            Un giorno era arrivata tutta piena d'indignazione contro Hussonnet, che si era permesso degli scherzi troppo audaci al circolo femminile. Rosanette; invece, approvava la sua condotta, avrebbe voluto persino vestirsi da uomo per andare «a dirgli il fatto loro, a quelle pettegole, e a prenderle a frustate». Federico entrava in quel momento.

            «E tu mi ci accompagni, eh?»

            E noncuranti della sua presenza ripresero a litigare, l'una continuando a sostenere la sua parte di borghese, l'altra di filosofa.

            Per Rosanette le donne erano nate esclusivamente per fare l'amore oppure per tirar su dei figli, per badare a una famiglia.

            A sentire la Vatnaz, la donna doveva avere il suo posto nello Stato. Anticamente le donne dei Galli legiferavano, quelle degli Anglosassoni anche; presso gli Uroni le mogli facevano parte del Consiglio. Lo sforzo per realizzare la civiltà era comune. Tutte dovevano parteciparvi e sostituire finalmente la fraternità all'egoismo, l'associazione all'individualismo, la cultura generale alla gretta specializzazione.

            «Ma dài! adesso ti metti anche a parlare di cultura...»

            «Perché no, scusa? E poi si tratta dell'umanità, del suo avvenire!»

            «Cerca di pensare al tuo, prima.»

            «Quello è affar mio.»

            Cominciavano a seccarsi. Federico si mise in mezzo. La Vatnaz, eccitatissima, arrivò persino a difendere il comunismo.

            «Che stupidaggine,» disse Rosanette. «E quando mai si potrà fare, una cosa simile?»

            L'altra recò a sostegno gli Esseniani, i fratelli Moravi, i Gesuiti del Paraguay, la famiglia dei Pingons vicino a Thiers in Alvernia; e nel gran gesticolare che faceva la catena del suo orologio s'impigliò a un piccolo montone d'oro ch'era appeso, insieme ad altre cianfrusaglie, in un mazzetto di ciondoli.

            Rosanette si fece di colpo singolarmente pallida.

            La Vatnaz era intenta a disimpigliare il montone.

            «Non affannarti tanto,» disse Rosanette, «ormai le conosco le tue opinioni politiche.»

            «Non capisco,» rispose la Vatnaz arrossendo come una vergine.

            «Va' là che hai capito benissimo.»

            Chi non capiva era Federico. Fra le due donne, evidentemente, s'era insinuato qualcosa di ben più importante e più intimo del socialismo.

            «E se anche fosse?» ribatté la Vatnaz drizzandosi intrepidamente. «Nient'altro che un prestito, ragazza mia, un debito contro un altro debito!»

            «I miei non li nego, sta' pur sicura. Per qualche migliaio di franchi, figurarsi! Io, almeno, prendo davvero in prestito; non rubo a nessuno, io.»

            La Vatnaz fece uno sforzo per sorridere.

            «Non ci metterei la mano sul fuoco.»

            «Al posto tuo starei attenta: secca com'è, potrebbe prender fuoco.»

            La zitella le mise la mano destra proprio davanti agli occhi e, tenendola ben ferma:

            «Eppure, ci sono amici tuoi che la trovan di loro gusto.»

            «Forse qualche andaluso; sai, come nacchere...»

            «Barbona!»

            E la Marescialla, con un profondo inchino:

            «Non sembri affatto più affascinante, quando ti arrabbi.»

            La Vatnaz non rispose. Gocce di sudore le affiorarono alle tempie. Teneva gli occhi fissi al pavimento; ansimava. Raggiunse la porta, alla fine, e sbattendola con forza:

            «Buonasera. Avrete mie notizie!»

            «Sarà un piacere,» disse Rosanette.

            La tensione dell'alterco l'aveva sfibrata. Si lasciò cadere sul divano tutta tremante, balbettando ingiurie frammezzo alle lacrime. Era quella minaccia della Vatnaz ad angustiarla? Macché, se ne infischiava proprio. Alla fine dei conti era l'altra, probabilmente, a doverle del denaro. Era per il montone d'oro, un regalo e fra i singulti le era sfuggito il nome di Delmar. Dunque era innamorata di quel guitto!

            «Ma perché ha preso me, allora?» si domandava Federico. «E come mai quel tipo è saltato ancora fuori? E lei, cosa le impedisce di mollarmi? Che senso ha tutto questo?»

            Rosanette continuava a singhiozzare piano. Era sempre distesa su un fianco, la guancia destra posata sulle due mani, e sembrava un essere così delicato, inconsapevole e affranto che Federico le si fece vicino, sull'orlo del divano, e la baciò con dolcezza sulla fronte.

            Gli disse, allora, molte tenerezze; il Principe era partito, sarebbero stati liberi. Ma lei si trovava, al momento, in qualche... difficoltà. «L'hai visto anche tu, l'altro giorno, che mi tocca rivoltare le vecchie fodere.» Addio carrozza, ormai; e non era tutto; il tappezziere minacciava di riprendersi i mobili della camera e del salotto grande. Non sapeva proprio come fare.

            A Federico venne voglia di rispondere: «Sta' tranquilla: ci penserò io.» Ma potevano esser storie. Forte delle esperienze fatte, si limitò a consolarla.

            I timori di Rosanette non erano infondati. Fu giocoforza restituire i mobili e lasciare il bell'appartamento di rue Drouot. Ne prese un altro, a un quarto piano sul boulevard Poissonnière. Le anticaglie del boudoir di prima furono sufficienti per dare ai tre nuovi locali un aspetto abbastanza ricercato. Vi si aggiunsero delle stuoie cinesi, una grande tenda sul balcone, e nel salotto un tappeto comprato d'occasione, ma ancora nuovo, e alcuni cuscini di seta rosa. Federico, che aveva contribuito largamente a tali acquisti, provava la gioia d'uno sposo novello che possiede finalmente una casa tutta per lui, una donna tutta per lui; e si trovava così bene che ci andava a dormire quasi tutte le sere.

            Un mattino, uscendo dall'anticamera, intravide sulle scale, all'altezza del terzo piano, il berretto d'una guardia nazionale che veniva su. Dov'era diretto? Federico attese. Il tipo continuava a salire, con la testa un po' bassa. Finalmente alzò gli occhi; era Arnoux. La situazione era chiara. Arrossirono tutt'e due nello stesso momento, presi dallo stesso imbarazzo.

            Arnoux trovò per primo la maniera d'uscirne.

            «Sta meglio, vero?» come se Rosanette fosse stata malata e lui stesse andando a informarsi della sua salute.

            Federico non si lasciò sfuggire l'appiglio.

            «Sì, certo; così m'ha detto la cameriera, almeno,» volendo far capire, in quel modo, di non esser stato ricevuto.

            Ma restavano ancora faccia a faccia a scrutarsi, incerti sul da farsi, Si trattava di vedere chi dei due dovesse restare. Fu Arnoux, ancora una volta, a risolvere di netto la questione.

            «Bene, bene; ripasserò più tardi. Dove sta andando? La accompagno.»

            Una volta in strada riprese a chiacchierare con la sua abituale disinvoltura. È chiaro che non era per niente geloso, o che aveva troppo buon carattere per prendersela.

            D'altronde era per la patria, adesso, che si preoccupava. Non aveva più smesso l'uniforme. Il 29 marzo aveva difeso gli uffici della Presse; durante l'invasione della Camera si era distinto per il suo coraggio; e aveva partecipato con gli altri al banchetto offerto alla Guardia Nazionale d'Amiens.

            Hussonnet era sempre di servizio insieme a lui, e non era secondo a nessuno nell'approfittare della sua fiasca e dei suoi sigari; ma, irriverente per natura, si divertiva a contraddirlo, denigrando lo stile sgrammaticato dei decreti, le conferenze del Lussemburgo, le vesuviane e i tirolesi, insomma tutto quanto, per finire col carro dell'Agricoltura che era trainato da cavalli invece che da buoi e alla cui scorta avevano adibito delle ragazze bruttissime. Arnoux, tutt'al contrario, difendeva il Potere, e auspicava l'unificazione dei partiti. I suoi affari, nel frattempo, avevano preso una brutta piega: cosa di cui si preoccupava assai moderatamente.

            La relazione di Federico con la Marescialla non l'aveva minimamente rattristato; la scoperta, infatti, gli valse - nella sua coscienza - un'autorizzazione a sospendere il mensile che aveva ricominciato a passarle dopo la partenza del principe. Portò a pretesto le difficoltà del momento, si lamentò molto; Rosanette fu generosa. Da quel momento Arnoux si ritenne il suo amico del cuore, cosa che lo rialzò nella stima che aveva di se stesso e lo faceva sentir più giovane. Convinto che Federico desse dei denaro alla Marescialla, giudicava la situazione «veramente spassosa»; arrivò al punto di non farsi vedere, di lasciargli campo libero quando s'incontravano.

            Federico, invece, sopportava a stento quella spartizione; e le cortesie del rivale gli suonavano come una presa in giro tirata, per di più, un po' troppo in lungo. Tuttavia, mettendosi di punta si sarebbe tagliato qualsiasi strada per riavvicinarsi all'altra; e questo era, comunque, l'unico modo per sentirne parlare. Il mercante di ceramiche, fosse abitudine o malizia, la ricordava spesso e volentieri nei suoi discorsi, e chiedeva persino a Federico perché non andasse più a trovarla.

            Esauriti tutti i pretesti, Federico assicurò d'essere stato parecchie volte a casa, ma sempre senza trovare la signora. Arnoux ne rimase convinto, anche perché sovente, parlando con lei, aveva fatto le sue meraviglie per l'assenza dell'amico, e lei, immancabilmente, aveva risposto che le visite di lui erano andate a vuoto: di modo che le due bugie, invece di elidersi, si corroboravano a vicenda.

            L'indole dolce del giovane e la contentezza d'ingannarlo facevano sì che Arnoux gli volesse sempre più bene. Spingeva la familiarità nei suoi confronti sino a limiti estremi, non per disprezzo, ma per fiducia. Un giorno gli scrisse che un affare urgente lo costringeva a recarsi in provincia per ventiquattro ore, e che lo pregava di sostituirlo al posto di guardia. Federico, non osando rifiutare, andò al posto del Carrousel.

            Fu costretto a subire la compagnia delle guardie nazionali. Fatta eccezione per un epuratore, un tipo spiritoso che beveva prodigiosamente, gli parvero tutti meno vivaci delle loro giberne. Il principale argomento di discorso fu la sostituzione della bandoliera col cinturone. Qualcuno si scagliava contro le imprese di stato.

            «Dove andremo a finire?» E quello al quale la domanda retorica era stata rivolta ripeteva, sbarrando gli occhi come sull'orlo d'un abisso: «Dove?» A questo punto un altro, più coraggioso, esclamava: «Così non si va avanti! bisogna finirla!» Dato che questi discorsi si ripeterono fino a sera, Federico s'annoiò mortalmente.

            La sua sorpresa non fu lieve quando, alle undici, vide spuntare Arnoux, il quale s'affrettò ad informarlo che veniva a restituirgli la libertà: il suo affare era sbrigato.

            Nessun affare, in realtà: era stata una sua trovata per passare ventiquattr'ore da solo con Rosanette. Ma il buon Arnoux aveva troppo presunto di se stesso; nella stanchezza, era stato preso dai rimorsi. Ed era corso a ringraziare Federico e a invitarlo a cena.

            «Grazie, non ho fame davvero; non sogno altro che il mio letto.»

            «Ragione di più per far colazione insieme, fra non molto. Che

            razza di pigraccio! Ormai non si torna più a casa, è troppo tardi.

            Sarebbe pericoloso.»

            Una volta di più, Federico cedette. Arnoux, che nessuno s'aspettava più di vedere, fu molto coccolato dai suoi fratelli d'arme, soprattutto dall'epuratore. Gli volevan bene tutti; ed aveva, in effetti, un così buon carattere da rimpiangere che non ci fosse Hussonnet. Però aveva bisogno di chiudere gli occhi un minuto, non più d'un minuto.

            «Si sdrai qui accanto a me,» disse a Federico, e si distese, senza nemmeno togliersi la bandoliera, sul lettino da campo.

            A dispetto del regolamento volle tenersi vicino, temendo un allarme improvviso, anche il suo fucile; dopodiché, balbettata qualche parola: «Angelo mio! mio tesoro!», non tardò a addormentarsi.

            Quelli che stavano parlando s'interruppero; e a poco a poco, nel posto di guardia, si fece un gran silenzio. Federico, tormentato dalle pulci, si guardava intorno. Lungo il muro dipinto di giallo, a mezza altezza, correva un ripiano sul quale gli zaini formavano una fila di piccole gobbe; poco più su, ritti uno accanto all'altro, erano allineati i fucili color di piombo; e le guardie nazionali, le cui pance si disegnavano confusamente nell'ombra, russavano verso il soffitto. Sulla stufa erano ammucchiati dei piatti, una bottiglia vuota. Intorno al tavolo, dov'era restata a mezzo una partita a carte, tre sedie di paglia vuote. Un tamburo posato sulla panca lasciava pender giù la sua tracolla. Il vento caldo che sbuffava dalla porta faceva fumigare la lampada; e Arnoux, disteso a braccia spalancate, dormiva. Aveva messo il fucile col calcio in basso e un po' storto, in modo che la canna gli sporgeva, adesso, proprio sotto l'ascella. Federico se ne accorse ed ebbe un moto di spavento.

            «Ma no, ho torto: non c'è nessun pericolo. Certo, se lui morisse...»

            Di colpo, una serie infinita di quadri cominciò a svolgersi davanti ai suoi occhi. Si vedeva insieme a lei, di notte, a bordo di una diligenza; poi sulla riva d'un fiume in una sera d'estate; o nel cerchio di luce d'una lampada a casa loro, dentro la loro casa... Si soffermò persino su dettagli di bilancio domestico, di arredamento, contemplando, toccando già con mano la sua gioia. E per realizzare tutto questo bastava che il cane del fucile venisse sollevato! Si poteva spingerlo con la punta del piede, il colpo poteva partire, e sarebbe stato un caso, nient'altro che un caso!

            Federico si soffermò su quell'idea come uno scrittore sulla trama d'una commedia. Poi, a un tratto, gli parve che non fosse lontana dal tradursi in azione, d'esser lui stesso sul punto di contribuirvi, di averne voglia; e allora una gran paura lo invase. Avvertiva, nel cuore stesso dell'angoscia, una sorta di piacere, e più vi sprofondava dentro, più sentiva con terrore che i suoi scrupoli svanivano; nella furia del sogno era come se il resto del mondo si cancellasse; e anche di se stesso non serbava coscienza che per una terribile stretta allo stomaco.

            «Ci beviamo un po' di bianco?» disse l'epuratore che s'era svegliato.

            Arnoux saltò a terra; e, preso il vino bianco, insistette per montare lui il turno di Federico.

            Poi lo trascinò a far colazione in rue de Chartres, da Parly; e dato che aveva bisogno di rifarsi si fece portare due piatti di carne, un'aragosta, un'omelette al liquore, dell'insalata ecc., il tutto annaffiato con un Sauternes del '19 e un Romanée del '42, senza contare lo champagne al momento del dessert e, naturalmente, i liquori.

            Federico non oppose resistenza. Era sulle spine, come se l'altro avesse potuto scoprirgli in volto le tracce dei suoi pensieri.

            Arnoux, appoggiato coi gomiti alla tavola e tutto piegato in avanti, gli confidava certe fantasie stremandolo col suo sguardo.

            Gli sarebbe piaciuto prendere in affitto tutti i terrapieni delle ferrovie Nord per seminarvi patate; oppure organizzare sui boulevards una cavalcata eccezionale, «la cavalcata del secolo», dove figurassero tutte le celebrità dell'epoca. Lui avrebbe preso in appalto il noleggio delle finestre, il che avrebbe procurato, in ragione di tre franchi l'una, un simpatico provento. Sognava, insomma, di far fortuna di colpo, una grossa fortuna, con mezzi da accaparratore. Ciononostante era un uomo morale, biasimava gli eccessi e la cattiva condotta, parlava del suo «povero papà», e tutte le sere, a sentir lui, faceva il suo bravo esame di coscienza prima di dedicare l'anima al Signore.

            «Un goccio di curaçao, magari?»

            «Eh? Sì, certo, come vuole.»

            Quanto alla Repubblica, le cose si sarebbero sistemate. In una parola, gli sembrava d'esser l'uomo più felice di questo mondo; e perso il controllo si mise a esaltare i pregi di Rosanette, paragonandola persino a sua moglie. Era tutt'altra cosa; non si poteva immaginare un più bel paio di cosce!

            «Alla salute!»

            Federico alzò il bicchiere a brindare. Per compiacenza, aveva bevuto un po' troppo; e poi tutto quel sole lo stordiva quando risalirono insieme rue Vivienne, le loro spalline sfregavano fraternamente l'una contro l'altra.

            Rientrato a casa, Federico dormì fino alle sette. Poi uscì per andare dalla Marescialla. Era fuori con qualcuno. Forse con Arnoux? Non sapendo cosa fare continuò la sua passeggiata sul boulevard, ma a ponte Saint-Martin c'era una folla tale che non poté proseguire.

            Un numero notevole di operai erano rimasti abbandonati a se stessi, alla loro miseria; e venivano lì tutte le sere, evidentemente per vedersi, per contarsi e aspettando qualche segnale. A dispetto della legge contro gli assembramenti, questi «club della disperazione» aumentavano in modo spaventoso; e parecchi borghesi vi si recavano ogni giorno, per seguire una moda e far mostra di coraggio.

            Federico s'accorse improvvisamente che vicino a lui, a tre passi di distanza, c'era Dambreuse con Martinon; voltò via la testa: Dambreuse aveva fatto approvare la propria candidatura e Federico gliene serbava rancore. Ma il capitalista lo abbordò.

            «Solo una parola, caro signore! Le debbo una spiegazione.»

            «Non ne chiedo affatto.»

            «Mi ascolti, di grazia!»

            Non era assolutamente colpa sua. Era stato pregato, praticamente costretto. Martinon confermò con prontezza le sue parole: una delegazione di abitanti di Nogent s'era presentata a casa sua.

            «D'altronde ho ritenuto d'esser libero, dal momento che...»

            Un rigurgito di folla sul marciapiede costrinse Dambreuse a tirarsi da parte. Dopo un minuto riapparve, e disse a Martinon:

            «È un servizio importante, questo, del quale non avrà certo a pentirsi...»

            S'addossarono tutt'e tre alla saracinesca d'un negozio per parlare con più agio.

            Di tanto in tanto s'udivano grida di: «Viva Napoleone! Viva Barbès! Abbasso Marie!» La folla, fittissima, parlava con voci molto alte che riecheggiando fra le case producevano un rumore continuo, simile al frangersi delle onde in un porto. In qualche momento tacevano e s'alzava, improvviso, il canto della Marsigliese. Nel vano dei portoni, tipi dal fare misterioso offrivano bastoni animati. A volte due individui, incrociandosi, si strizzavano l'occhio, poi s'allontanavano veloci.

            Gruppi di sfaccendati bloccavano i marciapiedi, una moltitudine compatta ondeggiava sul selciato. Interi drappelli di poliziotti, sbucando fuori dai vicoli, ne erano istantaneamente inghiottiti. Piccole bandiere rosse mettevano qua e là come una fiamma; i cocchieri facevano grandi gesti dall'alto dei loro sedili, poi eran costretti a invertire la marcia. Lo spettacolo era pieno di movimento, e davvero curioso.

            «Pensi,» osservò Martinon, «come si sarebbe divertita la signorina Cecilia!»

            «Lo sa che a mia moglie non fa piacere che mia nipote venga con noi,» rispose Dambreuse sorridendo.

            Il banchiere era quasi irriconoscibile. Erano tre mesi che gridava «Viva la Repubblica!»; aveva persino votato a favore della legge che metteva al bando gli Orléans. Ma le licenze dovevano finire. Era, e si dichiarava, così furibondo, che andava in giro con un manganello in tasca.

            Anche Martinon ne aveva uno. Dato che i magistrati non erano più inamovibili, aveva lasciato il suo ufficio; ed era ancora più violento di Dambreuse.

            Questi odiava in modo speciale, fra tutti, Lamartine (al quale faceva colpa di aver sostenuto Ledru-Rollin) e con lui Pierre Leroux, Proudhon, Considérant, Lamennais: tutte le teste calde, tutti i socialisti.

            «Ma dove vogliono arrivare, alla fine? Hanno abolito il dazio sulla carne e l'arresto preventivo; adesso è allo studio il Progetto d'una banca ipotecaria; ieri si parlava, figuriamoci, d'una banca di Stato! E lo stanziamento di cinque milioni a favore degli operai? Ma per fortuna è finita, e dobbiamo ringraziarne il conte di Falloux. Via, via, per carità, e che facciano buon viaggio!»

            In effetti, non sapendo come sfamare i centotrentamila dipendenti delle aziende di Stato, il ministro dei Lavori Pubblici aveva firmato proprio quel giorno un proclama nel quale tutti i cittadini fra i diciotto e i vent'anni erano invitati a prender servizio come soldati o a emigrare in provincia per zappare la terra.

            L'alternativa aveva indignato la cittadinanza, persuasa che ci fosse sotto una manovra per distruggere la Repubblica. Vivere lontani dalla capitale li affliggeva come un esilio; si vedevan già morire di febbre in qualche contrada selvaggia. Agli occhi di parecchi, inoltre, abituati a lavori di precisione, l'agricoltura era uno svilirsi; e comunque si trattava d'una trappola, d'una presa in giro, del formale rinnegamento di tutte le promesse. Se avessero resistito si sarebbe fatto uso della forza, questo era sicuro; e così si preparavano a prevenirla.

            Verso le nove, gli assembramenti della Bastiglia e dello Châtelet rifluirono sul boulevard. Da porte Saint-Denis a porte Saint-Martin non era più che un enorme formicolio, un'unica massa blu scura, quasi nera. Gli uomini che s'intravedevano là dentro avevan tutti le pupille ardenti e facce pallide, tirate dalla fame, stravolte dall'ingiustizia. Nubi, intanto, s'andavano addensando; il cielo procelloso caricava d'elettricità la folla che si mise a turbinare su se stessa, indecisa, con l'ondulazione larga che ha il mare dopo una tempesta; nelle sue viscere si fiutava la presenza d'una forza incalcolabile, d'un'elementare energia. Poi, a un tratto, tutti esplosero in un canto: «Accendete! accendete!» Siccome molte finestre rimanevano spente, furori lanciati sassi in direzione dei loro vetri. Dambreuse ritenne prudente andarsene. I due giovani lo accompagnarono.

            Il banchiere prevedeva grandi disastri. Il popolo poteva invadere un'altra volta la Camera; e Dambreuse raccontò, a questo proposito, che il 15 maggio sarebbe sicuramente morto se non fosse stato per l'abnegazione d'una guardia nazionale.

            «Ma già, dimenticavo! è stato il suo amico, Jacques Arnoux, il fabbricante di ceramiche.»

            La folla degli insorti minacciava di soffocarlo, e quel bravo cittadino l'aveva preso in braccio e portato in salvo. Da allora si era stabilito, fra i due, un certo tipo di rapporto.

            «Uno di questi giorni dobbiamo pranzare insieme, anzi, dato che lei lo vede spesso, lo assicuri del mio affetto. È un uomo eccellente, vittima di calunnie, a mio parere; e poi ha dello spirito, sa? con quella sua aria da grosso cagnone... Di nuovo, carissimo: buonasera; tante belle cose!»

            Lasciato Dambreuse, Federico tornò dalla Marescialla e le disse con aria cupa che doveva decidersi: o lui o Arnoux. Lei rispose, con dolcezza, che non ci capiva un'acca di quella storia; che quanto a Arnoux, comunque, non l'amava, non ci teneva per niente. Federico aveva una gran voglia di andar via da Parigi. Rosanette non s'oppose a quella fantasia, e il giorno dopo erano già partiti per Fontainebleau.

            L'albergo dove si sistemarono si distingueva dagli altri per una fontanella che mormorava in mezzo al cortile. Le porte delle camere davano tutte su un corridoio, come nei conventi. Quella che gli avevan dato era grande, arredata con buoni mobili e tendaggi di cotone stampato, silenziosa grazie alla scarsità del traffico. Lungo i muri delle case bighellonava qualche borghese; poi, verso sera, dei ragazzi si misero a giocare alla lippa sotto le loro finestre; e tanta tranquillità, per loro che venivano dal tumulto di Parigi, era causa di meraviglia, gli distendeva i nervi.

            La mattina di buonora andarono a visitare il castello. Entrando dal cancello videro la facciata in tutta la sua estensione, con i tetti aguzzi dei cinque padiglioni e la scalinata a ferro di cavallo alla quale conduce il lungo cortile fiancheggiato a destra e a sinistra dalle due ali basse dell'edificio. Guardando il selciato da lontano, i licheni che vi crescono si confondono con la tinta rossastra dei mattoni; e il palazzo, color della ruggine come una vecchia armatura, aveva nel suo insieme qualcosa di regalmente impassibile, una sorta di grandiosa, militare tristezza.

            Comparve, alla fine, un domestico con un mazzo di chiavi. Per cominciare li portò a vedere gli appartamenti delle regine, l'oratorio del Papa, la galleria di Francesco I, il tavolino di mogano sul quale l'Imperatore sottoscrisse l'atto d'abdicazione e - in una delle stanze ricavate nell'antica galleria dei Cervi - il punto preciso dove Cristina fece assassinare Monaldeschi. Rosanette ascoltò attentamente tutta la storia, poi, voltandosi verso Federico:

            «Sarà stato per gelosia... Sta' attento a te, sai?»

            Attraversarono la sala del Consiglio, la sala delle Guardie, la sala del Trono, il salotto di Luigi XIII. Dalle finestre alte, senza, tendaggi, entrava una luce bianca; i pomoli delle maniglie, i sostegni di rame delle consoles erano spenti da un leggero velo di polvere; dappertutto le poltrone erano occultate da pesanti fodere di tela. Sopra le porte erano raffigurate scene di caccia Luigi XV; sugli arazzi, qua e là, gli dei dell'Olimpo, Psiche, le battaglie di Alessandro.

            Passando davanti agli specchi Rosanette si fermava un attimo a lisciarsi i capelli sulle tempie.

            Dopo il cortile della torre e la cappella di San Saturnino arrivarono alla sala delle Feste.

            Li sbalordì lo splendore del soffitto a scomparti ottagonali, lavorato più finemente d'un gioiello a fregi d'argento e d'oro, e il grandioso estendersi degli affreschi lungo tutte le pareti, dal camino gigantesco dove quarti di luna e faretre inquadrano le armi di Francia alla tribuna per i musicanti che attraversa la sala sul fondo nel senso della larghezza. Le dieci finestre erano spalancate: il sole faceva scintillare i dipinti, l'azzurro del cielo continuava all'infinito il blu oltremare degli archi; e dal fondo dei boschi che riempivano l'orizzonte con le loro cime vaporose, veniva come un'eco di allalì lanciati da trombe d'avorio, e di balletti mitologici che radunavano nel folto principesse é gentiluomini travestiti da ninfe e da silvani: epoca ingenua nelle scienze, violenta nelle passioni, sontuosa nelle arti, il cui ideale era di trasferire il mondo in un sogno delle Esperidi e di situare le amanti del re fra le costellazioni. La più bella fra quelle donne famose s'era fatta ritrarre, a destra, in veste di Diana cacciatrice e persino di Diana infernale, certo a significare la sua potenza anche al di là della tomba. Tutti simboli, questi, che ne confermano la gloria: qualcosa resta di lei, una voce indistinta, il prolungarsi d'un bagliore.

            Federico fu preso da un'inesprimibile, retrospettiva bramosia. Per distrarsi da quel desiderio si volse a guardare con tenerezza Rosanette e le chiese se non avrebbe voluto essere una tal donna.

            «Quale donna?»

            «Diana di Poitiers.»

            E aggiunse:

            «La favorita di Enrico II.»

            «Ah!» rispose lei debolmente; e fu tutto.

            Era chiaro che non sapeva niente, che non capiva niente, al punto che Federico per gentilezza le disse:

            «Non vorrei che ti stessi annoiando.»

            «No, no, tutt'altro!»

            Sollevò la testa e, facendo scorrere tutt'intorno uno sguardo straordinariamente indeciso, azzardò queste parole:

            «Fa venire in mente tante cose...»

            Eppure si vedeva, sul suo volto, uno sforzo, un'intenzione di rispetto; e dato che quell'espressione seria le donava, Federico la perdonò.

            Lo stagno delle carpe le parve più divertente; e passò un quarto d'ora a gettare briciole nell'acqua per vedere i salti dei pesci.

            Federico si era seduto vicino a lei sotto i tigli; e pensava a tutti i personaggi ch'eran passati fra quelle mura: Carlo V, i Valois, Enrico IV, Pietro il Grande, Jean-Jacques Rousseau e «le graziose piagnone della prima fila», Voltaire, Napoleone, Pio VII, Luigi Filippo. Gli sembrava che quei morti irrequieti lo circondassero, lo sfiorassero quasi; era stordito da tanta confusione d'immagini pur avvertendone l'incanto.

            Finalmente raggiunsero il giardino.

            Era un vasto rettangolo che al primo colpo d'occhio offriva i suoi larghi viali ingialliti, i suoi spiazzi erbosi, le siepi di sempreverde, i tassi acconciati a piramide, i bassi cespugli, le strette bordure di fiori i cui petali formano macchie distanti sul grigio della terra. Il giardino confina, in fondo, con un parco, attraversato per quanto è grande da un lungo corso d'acqua.

            Le residenze dei re han dentro una malinconia particolare, connessa certamente alle loro dimensioni, troppo vaste per il ristretto numero degli ospiti, al silenzio che ci sorprende dopo tante fanfare, all'immobile lusso che dimostra, così decrepito, la fugacità delle dinastie, l'eterna miseria del tutto. E questo effluvio dei secoli, paralizzante e funebre come il profumo di una mummia, raggiunge anche le menti più ingenue. Rosanette sbadigliava smisuratamente: tornarono in albergo.

            Dopo colazione fecero venire una carrozza scoperta. Per uscire da Fontainebleau attraversarono un largo piazzale, quindi risalirono al passo una strada sabbiosa dentro un bosco di pini bassi. Poi gli alberi diventavano più alti, e il conducente ogni poco diceva: «Ecco i Fratelli siamesi, il Faramondo, il Mazzoreale...», senza dimenticare nessuno, di quei celebri posti, fermandosi persino, qualche volta, per farli ammirare.

            Entrarono nella selva di Franchard. La carrozza, sull'erba, scivolava come una slitta; colombi invisibili tubavano; tutt'a un tratto avvistarono il garzone d'un caffè, e smontarono davanti alla staccionata d'un giardino dove c'erano dei tavolini rotondi. Poi, lasciando sulla sinistra le rovine d'un'abbazia, e camminando su un sentiero di rocce, raggiunsero il fondo della gola.

            Il luogo presenta, da un lato, una parete di granito coperta da un fitto intreccio di sempreverdi, mentre dall'altro il terreno quasi spoglio degrada verso la cavità della piccola valle, segnata dalla traccia pallida d'un sentiero fra i colori della brughiera; in lontananza si scorge una cima a tronco di cono, dietro la quale spunta la torre d'un telegrafo.

            Mezz'ora dopo misero nuovamente piede a terra per scalare l'altura di Aspremont.

            La strada sale a zig-zag in mezzo ai pini nani, sotto rocce dal profilo tagliente; tutta questa parte della foresta ha qualcosa di soffocato, di raccolto e un po' selvaggio. Viene da pensare agli eremiti, ai quali eran compagni i grandi cervi con una croce di fuoco tra le coma, e che accoglievano con paterni sorrisi i buoni re di Francia in ginocchio davanti alle loro grotte. Un odore di resina riempiva l'aria calda, radici s'incrociavano rasoterra come vene. Rosanette continuava a incespicarvi, era disperata, avrebbe pianto volentieri.

            Ma una volta in cima le tornò l'allegria: aveva avvistato, sotto una tettoia di rami, una specie di chiosco dove vendono legni scolpiti. Bevve una bottiglia di limonata, si comprò un bastoncino d'agrifoglio; e senza degnare d'un'occhiata il paesaggio che si scopre dall'altopiano fece il suo ingresso nella Caverna dei Briganti, preceduta da un ragazzino che reggeva la torcia.

            Al Bas-Bréau li aspettava la loro carrozza.

            Un pittore in camiciotto azzurro stava lavorando ai piedi di una quercia. Aveva la cassettina dei colori sulle ginocchia; e alzò la testa per guardarli passare.

            A mezza costa verso Chailly dovettero rialzare la capote per una nuvola che s'era aperta all'improvviso. La pioggia cessò quasi subito, e mentre tornavano in città il selciato delle strade scintillava sotto il sole.

            Da viaggiatori appena arrivati si seppe che una spaventosa battaglia insanguinava Parigi. Rosanette e il suo amante non ne furono sorpresi. Poi se ne andarono tutti, l'albergo si rifece tranquillo, le luci furono spente. Presero sonno al mormorio dell'acqua nel cortile.

            Il giorno dopo visitarono la Cola del Lupo, la Palude delle Fate, la Roccia Lunga, la Marlotta; il giorno dopo ancora, ricominciarono a caso, abbandonandosi alla volontà del conducente, senza mai chiedere dove fossero e trascurando persino, molte volte, i posti più famosi.

            Stavano così bene in quel vecchio landò, basso come un divano, col suo rivestimento di tela a righe tutta stinta! I fossati pieni di spine si succedevano sotto i loro occhi con un movimento dolce e continuo. Frecce bianche di luce attraversavano le felci; a volte davanti a loro, in linea retta, s'apriva una strada abbandonata, invasa qua e là, mollemente, dall'erba. Dove le strade s'intersecavano una croce stendeva le sue quattro braccia; altrove c'erano pali storti come alberi fulminati; sentieri ricurvi si perdevano tra le foglie, veniva voglia di seguirli: e nello stesso istante il cavallo aveva già girato, c'eran dentro, avanzavano nella mota; nei solchi profondi delle vetture era cresciuta la muffa.

            Credevano d'esser lontani dagli altri, completamente soli. Ma tutt'a un tratto passava un guardacaccia col suo fucile, o una torma di donne cenciose curve sotto lunghe fascine.

            Quando la carrozza si fermava il silenzio era immenso; non si sentiva che il soffiare del cavallo tra le stanghe, il verso debolissimo e insistente dì qualche uccello.

            In certi punti la luce, sbiancando l'orlo del bosco, arretrava il folto nell'ombra; oppure, attenuata in primo piano da una sorta di crepuscolo, suscitava in lontananza dei vapori violetti, una chiarità lattiginosa. A mezzogiorno il sole, piombando a picco sulle grandi distese di verde, le screziava, attaccava gocce d'argento alle punte dei rami, metteva sui prati tracce di smeraldo, macchie d'oro sui letti di foglie morte. Rovesciando la testa si vedeva, tra le cime degli alberi, il cielo. Gli alberi più giganteschi sembravano patriarchi o imperatori; quando si toccavano in alto, i loro fusti grandiosi formavano come degli archi di trionfo; altri ch'eran venuti su obliquamente facevano pensare a colonne sul punto di cadere.

            Se l'occhio riusciva, in quell'affollarsi di poderose linee verticali, ad aprirsi un passaggio, enormi ondate di verzura s'abbattevano a gobbe irregolari fino a raggiungere la quota delle valli: altre colline, là, sporgevano la loro groppa sul biondo delle pianure, dileguanti all'orizzonte dentro un indeciso pallore.