Mentre si vestiva, si lavava la faccia, si pettinava i capelli, non smise di pensare, cercando di scandagliare l’infernale mistero, come un ragazzo curioso che fruga con un bastone nella tana di una vipera. Da qualsiasi parte lei frugasse, dalla tana usciva un sibilo furioso.
Anche non considerando la natura della sua colpa, il contatto con 58
uno dei tentacoli della SMERSH era detestabile. Il solo nome dell’organizzazione era aborrito ed evitato. SMERSH. «Smiert Spionam», «Morte alle spie». Era una parola spaventosa, una parola da oltretomba, il vero alito della morte, una parola che non veniva pronunciata neppure tra amici, o nelle segrete maldicenze d’ufficio. E ancor peggio era l’Otdyel II, la Sezione della tortura e della morte, dell’organizzazione stessa.
E il capo dell’Otdyel II, quella donna, Rosa Klebb! Si sussurravano cose tremende, sul suo conto. Aneddoti che Tatiana sognava nei suoi incu-bi, che dimenticava durante la giornata. ma che ora rivivevano vividamente nella sua memoria.
Si diceva che Rosa Klebb non tralasciasse di presenziare ad alcuna tortura. Nel suo ufficio c’era un grembiule bianco macchiato di sangue e uno sgabello pieghevole; dicevano che quando Rosa Klebb passava nei corridoi, col grembiule bianco sulle spalle e lo sgabello in mano, diretta verso i sotterranei, la voce si spargesse in un lampo. Immediatamente, i dipendenti della SMERSH smettevano di parlare, si chinavano maggiormente sulle loro carte, forse facevano anche gli scongiuri, con la mano nascosta in tasca, e non si riprendevano finché Rosa Klebb non era ritornata nel suo ufficio.
Perché, secondo quanto si sussurrava, il colonnello trascinava lo sgabello fin sotto la faccia del disgraziato, uomo o donna, che pendeva dal tavolo del supplizio, e si sedeva per fissarlo negli occhi. Poi pronunciava dolcemente soltanto alcuni numeri: il numero uno, o il dieci, o il venticin-que, e gli inquisitori sapevano cosa fare e cominciavano. E Rosa Klebb inchiodava il suo sguardo negli occhi della vittima, a pochi centimetri dal suo viso, e respirava le urla di dolore come altrettante esalazioni profu-mate. E, secondo l’espressione degli occhi del torturato, ella cambiava il tipo di tortura, dicendo soltanto: «Ora il 35», oppure: «Adesso il 64». Non appena gli occhi si svuotavano di ogni espressione di coraggio e di resistenza per assumere quella di debolezza e di implorazione, ella cominciava a tubare dolcemente: «Ecco, ecco, colomba mia. Parlami, tesoro, e mi fermerò. Fa male. Ahimè, fa così male, bambino mio. E si è così stanchi di soffrire. Vorresti che tutto finisse, vorresti riposare in pace e non sentire più dolore. Io sono come tua madre, e sono qui accanto a te, e aspetto soltanto di far cessare la tua sofferenza. Ho pronto un bel letto comodo e morbido, tutto per te, dove potrai dormire e dimenticare, dimenticare, dimenticare. Parla,» sussurrava amorevolmente. «Devi soltanto parlare, e 59
poi avrai la pace e mai più dolore.» Se gli occhi resistevano ancora, ricominciava a tubare: «Ma tu sei sciocco, mio tesoro. Quanto sei sciocco!
Il dolore che hai provato è cosa da nulla. Da nulla. Forse tu non mi credi, mia colombella. Ebbene, tua madre ti farà provare un poco, ma solo poco poco, del numero 87.» E gli inquisitori cambiavano i loro strumenti e il punto di presa, e Rosa Klebb se ne rimaneva accucciata sul suo sgabello a osservare il lento defluire della vita dagli occhi del torturato, fino a quando le parole dovevano essere urlate nelle orecchie del disgraziato perché rag-giungessero il cervello.
Ma non succedeva quasi mai, così si diceva, che il torturato avesse una resistenza tale da poter percorrere a lungo la via del dolore della SMERSH. Quando la morbida voce prometteva la pace, quasi sempre vinceva, perché Rosa Klebb riusciva in qualche modo a leggere negli occhi del paziente quando era giunto il momento in cui l’adulto era stato ridotto nella condizione di un bambino che piange per sua madre. E lei sostituiva l’immagine della madre e ammorbidiva la forza di resistenza che le parole di un uomo avrebbero invece indurito.
Poi, dopo aver ridotto alla ragione un’altra persona sospetta, Rosa Klebb ripercorreva i corridoi con lo sgabello e col grembiule bianco, lordo di sangue fresco, e ritornava nel suo ufficio. La voce si spargeva ancora una volta, tutti sapevano che la faccenda era finita, e la normale attività riprendeva.
“Tatiana si riscosse dai suoi pensieri e guardò ancora l’orologio.
Mancavano quattro minuti. Lisciò l’uniforme con le mani, guardò ancora una volta il suo pallido viso nello specchio, poi si girò e disse addio alla sua stanzetta. L’avrebbe mai più rivista? Percorse rigidamente il lungo corridoio e chiamò l’ascensore.
Quando la porta si aprì, Tatiana raddrizzò le spalle, alzò il capo ed entrò nella cabina come se fosse stata l’anticamera della ghigliottina.
«Ottavo,» disse all’incaricata dell’ascensore, e rimase rigida di fronte alla porta. Nel suo intimo, ricordandosi di una parola che fin dall’infanzia non aveva più pronunciato, Tatiana ripeteva all’infinito: «Mio Dio, mio Dio, mio Dio.»
9 Un compito gradevole
La porta anonima, color crema, era ancora chiusa, ma Tatiana poteva 60
già sentire l’odore dell’interno. Una voce le ordinò seccamente di entrare: Tatiana aprì la porta e, mentre rimaneva in piedi e fissava lo sguardo in quello della donna che sedeva dietro un tavolo rotondo sotto la luce di una lampada centrale, si ricordò improvvisamente dove aveva sentito quell’odore.
Era l’odore della metropolitana di Mosca in una sera calda, profumo dozzinale che dissimulava gli effluvi animaleschi. In Russia, la gente si inzuppa letteralmente di profumo, sia che abbia fatto, sia che non abbia fatto il bagno, ma soprattutto quando non l’ha fatto, e le ragazze sane e pulite come Tatiana preferiscono sempre andare a piedi a casa o in ufficio, a meno che la pioggia o la neve non siano proibitive, in modo da evitare il lezzo dei treni o della metropolitana.
Ora Tatiana era immersa in quell’odore. Contrasse le nari per il disgusto.
Il disgusto e il disprezzo verso una persona che riusciva a vivere in mezzo a un tale odore, la aiutarono a sostenere lo sguardo degli occhi giallastri che la fissavano attraverso le spesse lenti degli occhiali. Non vi si poteva leggere nulla. Erano occhi che assorbivano, non occhi che esprime-vano. Lo sguardo la analizzò completamente, muovendosi lentamente sul suo corpo come l’occhio di una telecamera.
Il colonnello Klebb disse:
«Siete una bella ragazza, compagno caporale. Camminate avanti e indietro per la stanza.»
Che cosa significavano quelle parole dolciastre? Tatiana fu colta da un nuovo timore per le note abitudini personali della donna, ma obbedì.
«Toglietevi la giacca e mettetela sulla sedia. Alzate le mani sopra la testa. Più in alto. Adesso piegatevi e toccate il pavimento. Su in piedi.
Bene. Sedetevi.» La donna aveva parlato come un dottore. Accennò alla sedia di fronte a lei. Gli occhi della donna si abbassarono su una cartella posata sul tavolo.
Deve essere la mia zapiska, pensò Tatiana. Come era interessante poter vedere da vicino lo strumento che presiedeva alla vita di un individuo.
Quanto era grossa… quasi cinque centimetri di spessore. Che cosa ci poteva essere, in tutte quelle pagine? Tatiana guardò la cartella aperta con occhi affascinati.
Il colonnello Klebb sfogliò le ultime pagine e poi chiuse il fascicolo.
La copertina era arancione con una striscia azzurra in diagonale. Che cosa 61
significavano quei colori’?
La donna la guardò. Coraggiosamente, Tatiana riuscì a ricambiare lo sguardo.
«Compagno caporale Romanova.» Era la voce autorevole dell’ufficiale superiore. «Ho dei buoni rapporti sul vostro lavoro. Sia nel lavoro, come nello sport, la vostra attività è eccellente. Lo Stato è contento di voi.»
Tatiana non poteva credere alle proprie orecchie. La reazione la fece quasi svenire. Arrossì fino alla radice dei capelli e poi impallidì; stese una mano sul tavolo, e balbettò debolmente: «Sono ri…riconoscente, compagno colonnello.»
«A causa dei vostri eccellenti requisiti, siete stata prescelta per un incarico molto importante. E un grande onore per voi. Riuscite a capirlo?»
Qualunque cosa fosse, era meglio di quello che avrebbe potuto essere. «Naturalmente, compagno colonnello.»
«Questo incarico comporta una grande responsabilità. Inoltre, è previsto per voi un avanzamento di grado. Mi congratulo con voi, compagno caporale, per la vostra promozione, a compimento della missione, al grado di capitano della Sicurezza di Stato.»
Non si era mai verificato un fatto simile, per una ragazza di ventiquattro anni. Tatiana presentiva un pericolo. Si irrigidì come un animale che scorge la tagliola d’acciaio sotto l’esca. «Sono profondamente onorata, compagno colonnello.» Non poté evitare che il sospetto trasparisse dalla sua voce. Rosa Klebb grugnì senza commenti. Sapeva esattamente ciò che la ragazza doveva aver provato quando era stata chiamata. L’effetto della sua gentile accoglienza, lo choc provocato dalle buone notizie, il timore che di tanto in tanto si riacutizzava, erano fin troppo evidenti. Tatiana era una bellissima ragazza ingenua e innocente. Proprio quello che richiedeva la konspiratsia. Ora ella doveva essere rabbonita. «Mia cara,» disse dolcemente il colonnello. «Come sono trascurata. La vostra promozione dovrebbe essere celebrata con un bicchiere di vino. Non dovete pensare che gli ufficiali superiori siano esseri inumani. Faremo un brindisi. Sarà una buona scusa per aprire una bottiglia di champagne francese.»
Rosa Klebb si alzò e aprì un armadio dove il suo attendente aveva preparato ciò che lei gli aveva ordinato.
«Provate uno di questi cioccolatini, mentre io mi do da fare col tappo. È, sempre difficile togliere il tappo da una bottiglia di champagne.
Noi abbiamo proprio bisogno di un uomo che ci aiuti in questo genere di 62
lavoro, non è vero?»
L’orribile chiacchierio proseguì, mentre il colonnello porgeva a Tatiana una enorme scatola di cioccolatini. «Vengono dalla Svizzera. Sono i migliori. Quelli rotondi sono ripieni. Quelli quadrati sono al latte o al cioccolato amaro.»
Tatiana mormorò un ringraziamento. Stese la mano e scelse un cioccolatino rotondo. Sarebbe stato più facile da inghiottire. Si sentiva la bocca arida; attendeva, piena di paura, il momento in cui avrebbe scoperto la trappola e se la sarebbe sentita chiudere intorno al collo. Doveva essere qualcosa di tremendo, se c’era stato bisogno di nasconderla sotto tutto quell’apparato. Il cioccolatino le si appiccicò in bocca come un pezzo di gomma da masticare. Misericordiosamente le venne messo in mano un bicchiere di champagne.
Rosa Klebb era in piedi al suo fianco. Alzò allegramente il suo bicchiere. « Za vashe zdarovie, compagna Tatiana. E le mie più vive con-gratulazioni.»
Tatiana allargò la bocca in un orrendo sorriso. Alzò il bicchiere e si inchinò leggermente. « Za vashe zdarovie, compagno colonnello.» Vuotò il bicchiere di colpo, come si usa fare in Russia, e lo posò sul tavolo.
Rosa Klebb lo riempì di nuovo, senza perdere tempo, rovesciando un po’ di liquido sulla tovaglia. «Ed ora, alla salute del vostro dicastero, compagna,» disse alzando il bicchiere. Il sorriso dolciastro si indurì, mentre ella controllava la reazione della ragazza.
«Alla SMERSH!»
Intorpidita, Tatiana si alzò in piedi. Prese il bicchiere pieno. «Alla SMERSH.» La parola venne fuori a fatica. Lo champagne la soffocò; dovette vuotare il bicchiere in due sorsi. Poi si sedette pesantemente.
Rosa Klebb non le diede tempo di riflettere. Si sedette davanti a lei e posò le mani sul tavolo. «E adesso veniamo agli affari, compagna.» La sua voce aveva ripreso il tono autoritario. «C’è molto lavoro da fare.» Si chinò in avanti. «Avete mai desiderato vivere all’estero, compagna? In un paese straniero?»
Lo champagne produceva il suo effetto su Tatiana. Probabilmente, il peggio doveva ancora venire, ma ora avrebbe voluto che venisse presto.
«No, compagna. Sono contenta di vivere a Mosca.»
«Non avete mai pensato a cosa può essere la vita in Occidente?… Ai bei vestiti, al jazz, alle cose moderne?»
63
«No, compagna.» Era sincera. Non ci aveva mai pensato. «E se lo Stato vi richiedesse di andare a vivere in Occidente?»
«Obbedirei.»
«Volentieri?»
Tatiana scrollò le spalle con una punta di impazienza. «Si deve fare quello che lo Stato ordina.»
La donna fece una pausa. Poi proseguì, in tono confidenziale.
«Siete vergine, compagna?»
Oh, Dio mio, pensò Tatiana. «No, compagno colonnello.»
Le labbra umide luccicavano sotto la luce della lampada.
«Quanti uomini?»
Tatiana arrossì fino alla radice dei capelli. Riguardo alle questioni sessuali, le ragazze russe sono pudiche e reticenti. In Russia, il clima sessuale è piuttosto puritano. Le domande della Klebb le sembravano ancor più rivoltanti perché le erano state fatte in tono freddo ed inquisitorio da un ufficiale superiore che ella incontrava per la prima volta in vita sua. Tatiana fissava lo sguardo giallastro del suo superiore. «Per favore, qual è il motivo di queste domande intime, compagno colonnello?»
Rosa Klebb si raddrizzò. La sua voce si fece sferzante come una scu-disciata. «Fate attenzione, compagna. Non vi trovate qui per fare delle domande. Vi siete dimenticata a chi state parlando? Rispondete!»
Tatiana si fece piccola. «Tre uomini, compagno colonnello.»
«Quando? Quanti anni avevate?» I duri occhi gialli la fissavano attraverso il tavolo, la inchiodavano, la padroneggiavano.
Tatiana era in procinto di scoppiare a piangere. «A scuola. Quando avevo diciassette anni. Poi all’istituto di lingue estere. Avevo ventidue anni. E poi, l’anno scorso. A ventitré anni. Un amico che ho conosciuto sulla pista di pattinaggio.»
«I loro nomi, per favore, compagna.» Rosa Klebb prese una matita e un notes e li spinse verso la ragazza.
Tatiana si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere. «No,»
gridò tra i singhiozzi. «No, mai, qualsiasi cosa mi facciate. Voi non ne avete il diritto.»
«Smettetela di fare la sciocca.» La voce del colonnello era sibilante.
«Nello spazio di cinque minuti, io potrei costringervi a dirmi quei nomi o qualsiasi altra cosa io desiderassi sapere. State giocando una partita molto pericolosa, con me, compagna. La mia pazienza ha un limite.» Rosa Klebb 64
si concesse una pausa. Stava forse diventando troppo dura. «Per il momento, non importa. Domani mi darete i nomi. Non accadrà nulla di male a quegli uomini. Rivolgeremo loro soltanto una o due domande su di voi…
semplici domande tecniche, null’altro. Ora tiratevi su e asciugatevi le lacrime. Non possiamo permetterci stupidaggini del genere.»
Rosa Klebb si alzò e si avvicinò a Tatiana. La voce divenne untuosa e dolce. «Andiamo, mia cara. Dovete aver fiducia in me. Non rivelerò a nessuno i vostri piccoli segreti. Ecco, bevete ancora un po’ di champagne, e dimenticate questo piccolo contrattempo. Dobbiamo essere amiche. Abbiamo molto lavoro da fare assieme. Dovete imparare, mia cara Tania, a trat-tarmi come trattereste vostra madre. Ecco, bevete questo.»
Tatiana tolse un fazzoletto dalla tasca della gonna e si asciugò gli occhi; poi prese il bicchiere di champagne con la mano che tremava e bevve qualche sorso, tenendo il capo abbassato.
«Bevetelo tutto, mia cara.»
Rosa Klebb era curva sopra la ragazza come una spaventosa e tenera chioccia.
Tatiana obbedì e vuotò il bicchiere. Si sentiva ormai priva di resistenza, stanca, disposta a fare qualsiasi cosa pur di terminare quel colloquio e di andar via, andare a dormire. Pensò che forse doveva succedere proprio così, nella camera della tortura, e che proprio quello doveva essere il tono di voce usato dalla Klebb in tali occasioni. Be’, era davvero efficace. Ora ella si sentiva docile. Avrebbe cooperato.
Rosa Klebb si sedette e osservò con compiacimento la ragazza, da dietro la sua maschera materna.
«E ora, mia cara, un’ultima domandina intima. Una confidenza tra donne. Vi piace fare all’amore? Provate piacere? Molto piacere?»
Le mani di Tatiana si alzarono di nuovo a coprirle il volto. Con voce soffocata, la ragazza confidò: «Be’, sì, compagno colonnello. Naturalmente, quando si è innamorate…» La sua voce si perse in un sussurro. Che altro poteva dire? Che risposta desiderava, quella donna?
«E, supponiamo, mia cara, che voi non foste innamorata. In questo caso, se voi faceste all’amore con un uomo, provereste ugualmente del piacere?»
Tatiana scosse il capo, indecisa. Abbassò le mani dal viso e chinò il capo. I capelli le scivolarono sugli occhi come una pesante cortina. Stava cercando di pensare, di essere d’aiuto, ma non poteva immaginarsi in una 65
situazione simile. Pensava… «Penso che dipenderebbe dall’uomo, compagno colonnello.»
«È una risposta intelligente, mia cara.» Rispose Klebb. Aprì il cassetto del tavolo, tirò fuori una fotografia e la porse alla ragazza. «Che cosa ne dite di quest’uomo, ad esempio?»
Tatiana prese cautamente la fotografia, come se avesse timore di scottarsi. Provò un certo sollievo, guardando quel viso crudele. Cercò di nuovo di pensare, di immaginare… Non posso dirlo, compagno colonnello.
Sembra un bell’uomo. Forse, se fosse anche gentile…» Restituì in fretta la fotografia.
«No, tenetela, mia cara. Mettetela accanto al letto e pensate a quell’uomo. Più avanti sarete maggiormente informata su di lui, sul vostro nuovo lavoro. E adesso,» gli occhi giallastri luccicarono dietro le lenti spesse, «vi piacerebbe sapere che lavoro dovrete svolgere? Il compito per il quale voi siete stata scelta tra tutte le ragazze russe?»
«Sì, naturalmente, compagno colonnello.» Tatiana guardò obbedien-te quel volto deciso che puntava verso di lei come un cane da caccia.
Le labbra umide e molli si schiusero in un sorriso invitante. «Voi siete stata scelta per un compito semplice e delizioso, compagno caporale…
un compito gradevole, veramente. Dovrete innamorarvi. Questo è tutto.
Nient’altro. Non fare altro che innamorarvi di quell’uomo.»
«Ma dovrei sapere chi è. Non lo conosco nemmeno.» Rosa Klebb si leccò le labbra. Avrebbe dato modo a quella ragazza sciocca e ingenua di pensare a qualcosa.
«È una spia inglese.»
« Bogu moiou! » Tatiana si portò subito una mano alla bocca, un po’
per soffocare l’invocazione religiosa e un po’ per lo spavento. Rimase semiparalizzata dalla sorpresa e guardò Rosa Klebb con gli occhi sbarrati e leggermente velati per lo champagne.
«Sì,» disse Rosa Klebb, soddisfatta del risultato raggiunto dalle sue parole. «È una spia inglese. Forse la più famosa. E da ora in poi voi dovrete esserne innamorata. Perciò è meglio che cominciate ad abituarvi all’idea. Ed evitate stupidaggini, compagna. Dobbiamo essere seri. Si tratta di un importante affare di Stato per il quale voi siete stata scelta come strumento. E così, niente assurdità, per favore. E ora passiamo ad alcuni dettagli pratici.» Rosa Klebb si interruppe. Poi riprese, duramente: «E
togliete le mani da quella stupida faccia. E smettetela di comportarvi come 66
una vacca impaurita. Sedetevi diritta e fate attenzione. O sarà peggio per voi. Capito?»
«Sì, compagno colonnello.» Tatiana si raddrizzò rapidamente e posò le mani in grembo, come se si trovasse ancora alla Scuola ufficiali della Sicurezza. Aveva il cervello in subbuglio, ma questo non era il momento adatto per le considerazioni personali. La sua esperienza le indicava che questa era un’operazione per lo Stato. Doveva lavorare per il suo paese. In qualche modo, ella era stata scelta tra tante per partecipare a un’importante konspiratsia. Come dipendente della mos, avrebbe dovuto compiere il suo dovere, e compierlo bene. Si mise diligentemente in ascolto.
«Per il momento,» Rosa Klebb riprese il suo tono ufficiale, «non mi dilungherò. Più tardi sarete maggiormente ragguagliata. Durante le prossi-me settimane, vi addestrerete in modo da sapervi cavare d’impiccio in qualsiasi evenienza. Vi verranno insegnate certe abitudini straniere. Sarete rifornita di un ricco guardaroba. Imparerete l’arte dell’adescamento. Poi sarete mandata in un paese straniero, in Europa. Là incontrerete quell’uomo, e lo sedurrete. Facendo così, non vi verranno delle stupide resipi-scenze. Il vostro corpo appartiene allo Stato. Lo Stato vi ha nutrito fin dalla nascita. Ora, il vostro corpo deve lavorare per lo Stato. Siamo d’accordo?»
«Sì, compagno colonnello.» La logica era irrefutabile.
«Accompagnerete quell’uomo in Inghilterra. Lì, sarete senta dubbio interrogata. L’interrogatorio sarà molto facile. Gli inglesi non usano il metodo forte. Voi risponderete in modo da non mettere in pericolo lo Stato. Vi suggeriremo noi le risposte che dovrete dare. Probabilmente vi manderanno in Canada. È un posto dove solitamente gli inglesi mandano una certa categoria di stranieri prigionieri. Non appena arrivata in Canada, penseremo noi a farvi liberare e a riportarvi a Mosca.» Rosa Klebb sbirciò la ragazza. A quanto sembrava, stava accettando ogni cosa senza porsi delle domande. «Vedete bene: si tratta di un incarico relativamente facile.
Avete qualche domanda da rivolgermi, a questo punto?»
«Che cosa succederà a quell’uomo, compagno colonnello?»
«Non ha nessuna importanza per noi. Ci servirà soltanto come mezzo per farvi entrare in Inghilterra. Lo scopo dell’operazione è di fornire delle false notizie agli inglesi. Naturalmente, compagna, noi saremo molto lieti di avere le vostre impressioni sulla vita in Inghilterra. La relazione di una ragazza bene addestrata e intelligente come voi, sarà di enorme valore, per lo Stato.»
67
«Senza dubbio, compagno colonnello!» Tatiana si sentì importante.
Improvvisamente, ogni cosa sembrava così eccitante! Il suo unico desiderio era quello di comportarsi bene. Avrebbe cercato di far del suo meglio.
E se non fosse riuscita a farsi amare dalla spia inglese? Esaminò di nuovo la fotografia. Piegò il capo da una parte. Era un viso attraente. Che cosa era quell’«arte dell’adescamento» di cui la donna aveva parlato? Che cosa poteva essere? Forse avrebbe potuto aiutarla a conseguire il suo scopo.
Rosa Klebb si alzò in piedi. Era soddisfatta. «E ora possiamo riposar-ci, mia cara. Per questa sera, il lavoro è finito. Andrò a mettermi un po’ in ordine e poi faremo una bella chiacchierata. Farò in un attimo. Intanto, mangiate i cioccolatini o saranno sprecati.» Rosa Klebb fece un gesto vago con la mano e sparì nella camera accanto.
Tatiana si appoggiò allo schienale della sedia. E così, si trattava soltanto di questo, all’incirca. Non era poi così brutto, dopo tutto. Che sollievo! E che onore, essere stata scelta. Come era stata sciocca a spaventarsi!
Naturalmente, i capi dello Stato non avrebbero mai permesso che a una cittadina innocente, che lavorava sodo e che non aveva punti neri sulla sua zapiska, fosse fatto del male. D’un tratto si sentì immensamente grata verso quello Stato così paterno, e orgogliosa, nello stesso tempo, di avere la possibilità di ripagare in parte il suo debito di riconoscenza. Anche quella Klebb non era poi così cattiva, dopotutto.
Tatiana stava ancora passando in rivista allegramente la situazione, quando la porta della stanza da letto si aprì e «quella Klebb» apparve sulla soglia. «Che cosa ne pensate di questo, mia cara?» Il colonnello Klebb spalancò le tozze braccia e si rigirò sulle punte dei piedi come un’indos-satrice. Poi si mise in posa, con un braccio teso e l’altro appoggiato alla vita.
Tatiana era rimasta a bocca aperta. Si riprese in fretta e la richiuse.
Cercò di dire qualcosa.
Il colonnello Klebb indossava una camicia da notte trasparente di crêpe de Chine arancione, con la scollatura bassa e quadrata e delle lunghe maniche fluttuanti. Sotto la camicia si poteva intravvedere un reggiseno formato da due rose di seta artificiale e un paio di mutande vecchio stile pure di seta artificiale, con gli elastici sopra le ginocchia. Da un’apertura della camicia sporgeva un ginocchio rugoso, simile a una noce di cocco giallastra, spinto in avanti in una posa classica da manichino. I piedi erano racchiusi in un paio di pantofole di satin rosa ornati di piume di struzzo.
68
Rosa Klebb si era tolta gli occhiali e si era impiastricciata il viso con uno spesso strato di belletto e di rossetto.
Aveva l’aspetto della più brutta e più vecchia prostituta del mondo.
Tatiana balbettò: «E molto carino.»
«Non è vero?» cinguettò la donna. Poi si diresse verso un grande divano in un angolo della stanza. Era ricoperto di un tessuto sgargiante e di fattura popolare. Contro il muro c’erano cuscini di satin piuttosto sporchi.
Gettando un gridolino di gioia, Rosa Klebb si tuffò sul divano, assumendo una posa alla Recamier. Alzò un braccio e accese una lampada rossa sostenuta da una statuetta di vetro che rappresentava una donna nuda.
Poi batté leggermente sul divano, accanto a sé.
«Spegni la luce centrale, mia cara. L’interruttore è vicino alla porta.
Poi vieni a sederti accanto a me. Dobbiamo conoscerci meglio.»
Tatiana si avvicinò verso la porta. Spense la luce centrale. Poi spinse decisamente la mano sulla maniglia, la girò, aprì la porta e uscì con disin-voltura nel corridoio. D’un tratto i suoi nervi cedettero. Sbatté la porta dietro di sé e si mise a correre come una pazza lungo il corridoio, con le mani strette contro le orecchie, per proteggersi da un richiamo imperioso che non la raggiunse mai.
10 La miccia brucia
Il giorno dopo, al mattino.
Il colonnello Klebb sedeva alla scrivania, nell’ufficio spazioso che era il suo quartier generale nel seminterrato della SMERSH. Era più un laboratorio tecnico, che un ufficio. Una parete era completamente tappezzata da una carta geografica dell’emisfero orientale. La parete di fronte era coperta da quella dell’emisfero occidentale. Dietro la scrivania, sul lato sinistro, una telescrivente batteva di tanto in tanto messaggi en clair derivati dalla ricevente della Sezione cifrario, situata sotto gli alti tralicci della radio sul tetto dell’edificio. Quando il colonnello Klebb se ne ricordava, strappava il foglio di carta che si andava a mano a mano srotolando, e vi dava un’occhiata. Ma era una pura formalità. Qualora fosse accaduto qualcosa di importante, il telefono si sarebbe messo a squillare. Da quella stanza si controllava ogni agente della SMERSH, in ogni parte del mondo.
La sorveglianza era ferrea e continua.
Il grosso volto era imbronciato e sciupato. Le borse sotto gli occhi 69
erano gonfie e la cornea striata di sangue.
Uno dei tre telefoni della scrivania ronzò leggermente. La donna alzò il ricevitore. «Fatelo passare.»
Si rivolse a Kronsteen che sedeva, stuzzicandosi pensosamente i denti con uno spillo, in una poltrona appoggiata alla parete di sinistra, sotto la punta dell’Africa.
«Granitsky.»
Kronsteen girò lentamente il capo e fissò la porta.
Red Grant entrò e chiuse dolcemente la porta dietro di sé. Si diresse verso la scrivania e quando fu a pochi passi dal suo comandante si fermò e lo guardò quasi rabbiosamente negli occhi. Kronsteen pensò che quell’uomo sembrava un poderoso mastino in attesa di essere nutrito.
Rosa Klebb lo squadrò freddamente. «Siete in forma e pronto per lavorare?»
«Sì, compagno colonnello.»
«Voglio darvi un’occhiata. Spogliatevi.»
Red Grant non mostrò alcuna sorpresa. Si tolse la giacca, e dopo aver cercato dove poterla mettere, la lasciò cadere per terra. Poi, con indifferenza, si spogliò completamente e si liberò delle scarpe con un calcio. Il massiccio corpo abbronzato e coperto di peli dorati sembrò illuminare la squallida stanza. Grant rimase immobile, con le braccia pendenti lungo i fianchi e un ginocchio leggermente piegato, come se stesse posando per una scuola d’arte.
Rosa Klebb si alzò in piedi e girò attorno alla scrivania. Esaminò accuratamente il corpo dell’uomo, premendo e saggiando qua e là, come se stesse valutando la perfezione di un cavallo; poi gli si portò alle spalle e continuò minuziosamente l’ispezione. Prima che la donna ritornasse di fronte a Grant, Kronsteen si accorse che ella aveva tolto un oggetto dalla tasca dell’uniforme e se lo era infilato sulla mano destra. Vide un bagliore metallico.
La donna si fermò a pochi centimetri dallo stomaco di Grant, tenendo la mano nascosta dietro la schiena.
Inaspettatamente, con una spaventosa velocità, e facendo forza coll’intero peso delle sue spalle, la donna fece scattare il pugno destro, armato di un pesante pugno di ferro direttamente nel plesso solare dell’uomo, Ughh!
Grant si lasciò sfuggire uno sbuffo di dolore e di sorpresa. Piegò 70
leggermente le ginocchia ma si riprese subito. Per un attimo gli occhi gli si erano chiusi per lo spasimo, ma un secondo dopo erano di nuovo fissi, e leggermente arrossati, negli occhi inquisitori che lo scrutavano da dietro le spesse lenti degli occhiali. Ad eccezione di un brutto segno sulla pelle, proprio sotto lo sterno, Grant non dimostrava alcun disagio, dopo aver ricevuto un colpo che avrebbe mandato chiunque altro a contorcersi sul pavimento.
Rosa Klebb sorrise sinistramente. Rimise in tasca il pugno di ferro e tornò a sedersi dietro la scrivania. Quindi si rivolse a Kronsteen con una punta di orgoglio. «Per lo meno, è abbastanza in forma,» disse.
Kronsteen grugnì.
L’uomo nudo ghignò con evidente soddisfazione. Alzò una mano e si massaggiò lo stomaco.
Rosa Klebb si appoggiò allo schienale della sua poltrona e lo guardò pensierosamente. Alla fine, disse: «Compagno Gramtsky, abbiamo del lavoro per voi. Una missione importante. Più importante di qualsiasi altra da voi portata a termine. È una missione che vi farà guadagnare una medaglia,» gli occhi di Grant luccicarono, «perché il bersaglio è difficile e pericoloso. Vi troverete da solo e in un paese straniero. È chiaro?»
«Sì, compagno colonnello.» Grant era eccitato. Questa era forse l’occasione per quel gran passo in avanti. Che medaglia gli avrebbero dato?
L’Ordine di Lenin? Ascoltò attentamente.
«Il bersaglio è una spia inglese. Vi piacerebbe uccidere una spia inglese?»
«Moltissimo, davvero, compagno colonnello.» L’entusiasmo di Grant era autentico. Non chiedeva di meglio che uccidere un suddito inglese.
Aveva parecchi conti da regolare, con quei bastardi.
«Vi occorreranno parecchie settimane di preparazione e di allena-mento. In questa missione voi agirete sotto le spoglie di un agente inglese.
Il vostro aspetto e i vostri modi non sono corretti. Dovrete imparare almeno qualcosa delle manie di quei,» il tono della voce si fece ironico,
« gentlemen [pronunciò la g come una c : centlemen] . Sarete affidato alle cure di un inglese che abbiamo a nostra disposizione. Un ex gentleman del Foreign Office di Londra. Avrà il compito di farvi passare per una spia inglese. Loro usano parecchi tipi di uomini. Non dovrebbe essere difficile.
Inoltre dovrete imparare molte altre cose. L’operazione dovrà essere portata a termine alla fine di agosto. Ma voi comincerete immediatamente 71
ad addestrarvi. C’è parecchio lavoro da fare. Rivestitevi e presentatevi al mio aiutante. Capito?»
«Si, compagno colonnello.» Grant sapeva che non era il caso di fare delle domande. Si rivestì in fretta, incurante dello sguardo della donna che sfiorava il suo corpo, e si diresse verso l’uscita abbottonandosi la giacca.
Giunto sulla soglia dell’uscio, si girò. «Grazie, compagno colonnello.»
Rosa Klebb stava prendendo alcune note sull’incontro. Non rispose né alzò lo sguardo. Grant uscì e chiuse delicatamente la porta alle sue spalle.
La donna posò la penna e si appoggiò allo schienale.
«E ora, compagno Kronsteen. Dobbiamo discutere ancora qualche punto, prima di mettere in moto la macchina? Vorrei ricordarvi che il Presidium ha approvato la scelta del bersaglio e ratificato l’ordine di esecuzione. Ho presentato al compagno generale Grubozaboyschikov le linee di massima del vostro piano. Le ha approvate. I dettagli del piano di esecuzione sono stati affidati completamente alla mia iniziativa. Il personale destinato a progettare e ad eseguire il piano è stato selezionato ed è in attesa di iniziare il lavoro. Avete qualche altra idea, qualche altro pensiero, compagno?»
Kronsteen fissava il soffitto e teneva le punte delle dita intrecciate.
Era indifferente al tono conciliante della donna. Lo sforzo della concentra-zione gli faceva pulsare il sangue nelle tempie.
«Quel Granitsky. È sicuro? Potete fidarvi di lui in un paese straniero? Non se ne andrà ” insalutato”?»
«È stato provato per dieci anni. Ha avuto molte possibilità di fuggire.
L’abbiamo fatto sorvegliare per scoprire qualsiasi indizio che lo potesse accusare. Non c’è stata mai la minima ombra di un sospetto. Quell’uomo è simile a un cocainomane Grant abbandonerebbe l’Unione Sovietica con la stessa facilita con la quale un cocainomane tralascerebbe la droga. È il mio migliore esecutore. Non ce n’è uno migliore di lui.»
«E quella Romanova? È stata soddisfacente?»
La donna corrugò le sopracciglia. «È una ragazza bellissima. Servirà ai nostri scopi. Non è vergine ma è pudica e sessualmente inesperta. La istruiremo. Parla un ottimo inglese. Le ho dato una certa versione del suo compito in questa faccenda. Collaborerà, senza dubbio. Se dovesse cercare di indietreggiare, sono in possesso dei nomi dei suoi familiari, bambini inclusi. Riuscirò a sapere anche i nomi dei suoi amanti. Se sarà necessario, 72
le spiegheremo che queste persone saranno considerate come altrettanti ostaggi fino al termine della missione. Sarà sufficiente un avvertimento di tal genere. Ma non credo che ci procurerà dei guai.»
«Romanova. È il nome di un byvshij, di un ex aristocratico. È bizzar-ro servirsi di un Romanov per un compito così delicato.»
«I suoi genitori erano lontani parenti della famiglia imperiale. Ma la ragazza in questione non ha frequentato ambienti byvshij. Comunque, tutti i nostri nonni appartenevano a quella razza. Non c’è nulla da fare.»
«I nostri nonni non si chiamavano Romanov,» disse seccamente Kronsteen. «Comunque, se ne siete soddisfatta…» Rifletté per un attimo.
«E quel Bond? Abbiamo scoperto dove si trova?»
«Sì. Gli agenti della MGB in Inghilterra ci hanno informato che attualmente si trova a Londra. Durante il giorno lo si può trovare al suo quartier generale. Di notte dorme nel suo appartamento, in un rione londinese chiamato Chelsea.»
«Bene. Speriamo che non si muova da Londra ancora per un paio di settimane. Ciò vorrà dire che attualmente non ha in progetto alcuna operazione. Potrà quindi essere messo sulle orme della nostra esca, non appena ne sentirà l’odore. Nel frattempo,» gli occhi scuri di Kronsteen continuavano a fissare pensosamente un punto imprecisato del soffitto, «io ho pensato a quale può essere la nostra base più comoda all’estero. È Istanbul.
In quella città avverrà il primo contatto. Abbiamo un buon apparat, laggiù.
Il Servizio Segreto inglese possiede soltanto una piccola base. A quanto mi hanno riferito, sembra che il capo di quella base sia un uomo in gamba. Lo elimineremo. Per noi, quel centro è convenientemente localizzato; ci sono delle rapide linee di comunicazione con la Bulgaria e col Mar Nero.
Istanbul non è troppo lontana da Londra. Ora sto pensando al luogo dove avverrà l’esecuzione, e il mezzo per farci andare Bond, dopo che si sarà messo in contatto con la ragazza. Il luogo migliore mi pare la Francia o i suoi dintorni. Noi abbiamo una eccellente influenza sulla stampa francese.
Loro sapranno ricavarne una formidabile pubblicità; è una storia che si presta a sensazionali rivelazioni di sesso e di spionaggio. Rimane ancora da decidere quando Granitsky entrerà in scena. Poi ci sono i dettagli minori. Bisogna scegliere gli operatori cinematografici e tutto l’altro personale, e spedirlo a Istanbul senza che nessuno se ne accorga. Le attività del nostro apparat turco non devono far filtrare nulla. Dovremo avvisare tutte le sezioni che i contatti radio con la Turchia dovranno essere 73
assolutamente normali prima, durante e dopo l’operazione. Non vogliamo che gli intercettatori inglesi possano subodorare qualcosa. La Sezione cifrario ha comunicato di non avere obiezioni di ordine di sicurezza a consegnarci l’involucro di una macchina Spektor. Questa sarà un’altra esca.
L’involucro sarà portato alla Sezione dispositivi speciali e convenientemente preparato.» Kronsteen smise di parlare. Il suo sguardo scivolò lentamente giù dal soffitto e si posò negli occhi della donna.
«Per il momento non posso pensare ad altro, compagna,» disse.
«Molti altri dettagli mi verranno in mente più tardi e dovranno essere siste-mati di giorno in giorno. Ma io ritengo che l’operazione possa benissimo cominciare.»
«Sono d’accordo con voi, compagno. L’operazione può mettersi in moto. Impartirò le istruzioni necessarie.» La voce dura e autoritaria si ammorbidì. «Vi sono grata per la vostra collaborazione.»
Kronsteen chinò impercettibilmente il capo in segno di assenso. Poi si alzò e uscì dalla stanza.
La telescrivente emise un fischio di avvertimento e cominciò a ticchettare un rapporto. Rosa Klebb si riscosse, tese la mano verso uno dei telefoni, e formò un numero.
«Ufficio operazioni,» disse una voce maschile.
Gli occhi giallastri di Rosa Klebb si fissarono su una macchia color rosa che indicava l’Inghilterra sulla carta geografica della parete. Lo sguardo le si accese, le labbra umide si schiusero.
«Parla il colonnello Klebb. A proposito della konspiratsia contro la spia inglese Bond. L’operazione avrà inizio immediatamente.»
Parte seconda: L’esecuzione.
11 La dolce vita
Le soffici braccia della dolce vita cingevano il collo di Bond e lo stavano lentamente soffocando. Egli era un uomo d’azione, e, quando per un lungo periodo l’azione veniva a mancare, il suo spirito cominciava a declinare.
Nel suo particolare genere di affari, l’azione era venuta a mancare per quasi un anno. E l’inazione lo stava uccidendo.
Alle sette e mezzo di mattina, di un giovedì 12 agosto, Bond si sve-74
gliò nel suo comodo appartamento situato nel piazzale alberato oltre la King’s Road e si indignò nello scoprire che la prospettiva di un’intera giornata da trascorrere lo annoiava mortalmente. Proprio come, in almeno una religione, l’accidia è il primo dei peccati capitali, così la noia, e particolarmente l’incredibile circostanza di risvegliarsi annoiato, era il solo vizio che Bond condannasse totalmente.
Bond stese una mano e diede due strattoni al cordone del campanello, per avvisare May, la sua preziosa governante scozzese, di essere disposto a fare colazione. Poi scaraventò via il lenzuolo dal suo corpo nudo e mise giù i piedi.
C’era un solo modo per combattere la noia: scacciarla via. Bond si piegò a terra ed eseguì venti flessioni lente sulle braccia, non arrestandosi mai per non consentire ai muscoli di rilassarsi. Quando le braccia non resistettero più al dolore, Bond si rotolò sulla schiena e alzò ritmicamente le gambe finché i muscoli dello stomaco non si misero quasi a urlare.
Allora si alzò in piedi e, dopo aver toccato la punta degli alluci con le mani per una ventina di volte, proseguì con gli esercizi di respirazione finché non ne fu stordito. Respirando affannosamente per lo sforzo, si rifugiò nella grande stanza in bagno piastrellata di bianco, e rimase sotto la doccia
— prima caldissima e poi freddissima — per cinque minuti.
Finalmente, dopo essersi fatto la barba e aver indossato una camicia di cotone blu scuro senza maniche e un paio di calzoni azzurri di lana leggera, infilò i piedi nudi nei sandali di cuoio nero e si diresse verso l’ampio soggiorno dalle grandi vetrate, soddisfatto di aver fugato la noia, almeno per il momento, scacciandola fuori dal suo corpo assieme al sudore.
May, un’anziana donna scozzese dai capelli grigio ferro e dal bel viso severo, entrò col vassoio e lo posò sul tavolo della veranda accanto al Times, l’unico giornale che leggeva Bond.
Bond le augurò il buon giorno e si sedette a far colazione.
«Buon giorno s’.» (May aveva una qualità che Bond considerava particolarmente patetica: non avrebbe mai dato del «sir» a un uomo, fatta eccezione per i re d’Inghilterra e per Winston Churchill — e Bond, qualche anno prima, l’aveva stuzzicata a proposito di questa sua deter-minazione — ma, in segno di eccezionale considerazione, ella concedeva a Bond un’accenno di «s» alla fine della frase.)
May rimase in piedi al suo fianco, mentre Bond spalancava il 75
giornale alla pagina delle notizie del giorno.
«’giovanotto è stato ancora qui iersera per la televisione.»
«Chi era?» Bond sfiorava con lo sguardo i titoli di testa.
«’giovanotto solito. Sei volte è stato qui a seccarmi, dal mese di giugno. Dopo quello che gli ho detto la prima volta su quella macchina di corruzione, pensate forse che si sia arreso? Lo venderebbe anche a rate, potete crederci!»
«Sono davvero ostinati, questi rappresentanti.» Bond posò il giornale e prese la caffettiera.
«Gli ho detto io qualcosa di buono, l’altra sera. Disturbare la gente all’ora di cena! chiesto í suoi documenti… qualcosa per far vedere chi era.»
«Spero che con questo sia stato sistemato.» Bond riempì la tazza, fino all’orlo, di caffè nero.
«Neppure per sogno. ‘tirato fuori la tessera del suo sindacato. ‘detto che aveva tutti i diritti di guadagnarsi da vivere. Sindacato degli elettri-cisti, figurarsi! Sono i comunisti, non è vero s’?»
«Sì, proprio vero,» disse distrattamente Bond. Ma poi si mise a riflettere. Era possibile che loro gli tenessero gli occhi addosso? Bevve un sorso di caffè e posò la tazza. «Che cosa ha detto esattamente quell’uomo, May?» chiese, fingendo indifferenza, ma sollevando lo sguardo verso di lei.
«’detto che sta vendendo apparecchi della televisione nelle ore libere, e guadagna la commissione. E se siamo sicuri che non ne vogliamo uno. Dice che noi siamo gli unici della piazza a non averne uno. ‘visto che non c’è quella cosa aerea sulla casa, oserei diri. Chiede sempre se voi non siete a casa perché vorrebbe convincervi a comprarne una. Figuratevi che sfacciato! Mi meraviglio che non ha cercato di fermarvi quando uscite o entrate. Lui mi domanda sempre se vi sto aspettando. Naturalmente io non ho detto nulla di quello che fate voi. Giovanotto decente e rispettabile, se non fosse così ostinato.»
Potrebbe darsi, pensò Bond. Ci sono parecchi modi per controllare se una persona è in casa o è fuori. Il comportamento e le reazioni dei domestici… un’occhiata attraverso la porta socchiusa.
«Be’ state perdendo il vostro tempo, perché lui non è in casa», sarebbe stata la reazione naturale nel caso dell’appartamento vuoto.
Doveva avvisare la Sezione di sicurezza? Bond scosse le spalle ner-76
vosamente. Che diamine. Probabilmente era un falso allarme. Perché mai loro avrebbero dovuto sorvegliarlo? E inoltre, la Sicurezza sarebbe stata capacissima di fargli cambiare appartamento.
«Sono sicuro che questa volta lo avete fatto scappare per sempre.» Bond rivolse un sorriso a May. «Penso che non sentirete più parlare di lui.»
«Sì s’,» disse May dubbiosamente. In ogni modo, ella non aveva fatto altro che rispettare gli ordini ricevuti: avvisare il padrone quando qualcuno «gironzolava attorno alla casa».
May se ne andò, facendo frusciare il grembiule nero che si osti-nava a portare anche nel cuore del mese di agosto.
Bond tornò a concentrarsi sulla colazione. Generalmente, erano inezie come questa che davano inizio a un ostinato lavorio delle sue cellule cerebrali; in altri tempi, Bond non sarebbe stato soddisfatto finché non fosse riuscito a risolvere il problema dell’uomo del sindacato comunista che continuava a venire a casa sua. Ora, dopo tanti mesi di inerzia e di inattività, la spada si era arrugginita nel fodero e il congegno di allarme mentale di Bond non funzionava a dovere.
La colazione del mattino era il pasto favorito di Bond. Quando egli si trovava a Londra, prendeva sempre le stesse cose. Caffè fortissimo, della qualità che vendeva De Bry nella New Oxford Street, preparato in una Chemex americana; Bond ne beveva due grandi tazze, senza nè latte nè zucchero. L’uovo sodo, nel portauovo di porcellana azzurra filettato d’oro, doveva essere bollito per tre minuti e venti secondi.
Era un uovo freschissimo, bruno e maculato, prodotto da galline francesi Marans di proprietà di certi amici di May che vivevano in campagna. (Bond non poteva sopportare le uova bianche e tale avversione faceva parte delle sue piccole manie.) Poi c’erano due grandi fette di pane integrale tostato, un grosso pezzo di burro del Jersey, di color giallo intenso, e tre tozzi barattoli di vetro che contenevano marmellata di fragole marca Tiptree «Little Scarlet»; marmellata Cooper’s Vintage Oxford e miele norvegese Heather di Fortnum. La caffettiera e l’argenteria erano di stile Regina Anna e il servizio di porcellana, decorato in azzurro e oro come il portauovo, era marcato Minton.
77
Mentre finiva di fare colazione, Bond considerò attentamente le cause immediate della sua abulia e del suo malumore. Tanto per cominciare, Tiffany Case, che era stata il suo amore per tanti mesi felici, lo aveva lasciato. Dopo le ultime penose settimane, durante le quali lei aveva voluto andare ad abitare in albergo, era improvvisamente partita per l’America a fine luglio. Tiffany gli mancava molto e la sua assenza lo torturava. E si era in agosto, e Londra era torrida e noiosa. Avrebbe dovuto partire, ma non se la sentiva di mettersi in viaggio da solo o di cercare chi potesse rimpiazzare temporaneamente Tiffany. E così, era rimasto nel semideserto quartiere generale del Servizio Segreto, a sgob-bare come sempre, a strapazzare la sua segretaria, a litigare coi colleghi.
Persino M. si era deciso a non sopportare oltre le smanie di quella tigre ín gabbia del piano di sotto, e il lunedì di quella stessa settimana gli aveva mandato una nota piuttosto secca nella quale si comunicava che Bond era stato assegnato a una commissione di inchiesta presieduta dall’ufficiale pagatore capitano Troop. La nota aggiungeva che era ormai tempo che Bond, come ufficiale superiore del Servizio, si occupasse almeno dei problemi amministrativi più importanti. D’altra parte, non c’era nessun altro elemento disponibile. Il quartier generate era a corto di personale e così la Sezione 00 aveva aderito alla sua richiesta. Bond doveva presentarsi a rapporto quello stesso pomeriggio alle 14,30, nella stanza 412.
Era proprio Troop, pensò Bond mentre accendeva la prima sigaretta della giornata, la causa tormentosa ed immediata del suo malumore.
In tutte le grandi aziende, c’è un uomo che è comunemente considerato il tiranno e lo spaventapasseri degli uffici e che è cordialmente detestato dai suoi dipendenti. Tale individuo ricopre inconsciamente un ruolo molto importante, perché agisce come capro espiatorio per le solite beghe di ufficio. In effetti, egli riduce l’influenza deleteria di queste beghe offrendosi come una specie di bersaglio comune a tutti. L’uomo è generalmente il direttore generale oppure il capo dell’amministrazione. È un individuo indispensabile che provvede alle cose di poco conto: piccola cassa, luce e riscaldamento, asciugamani e sapone nelle toilettes, cancel-leria, mensa, rotazione dei turni di ferie, la puntualità del personale. È
l’unico uomo che ha un’importanza determinante nelle comodità e nelle attrattive di un ufficio, e la cui autorità si estende financo alla vita privata e alle abitudini personali degli uomini e delle donne che 78
compongono l’organizzazione. Per svolgere un lavoro simile, e per averne i necessari requisiti, l’individuo in questione deve possedere qualità irritanti e fastidiose. Deve essere parsimonioso, scrupoloso, curioso e pignolo, deve saper imporre una forte disciplina e essere indifferente alle opinioni altrui. Deve essere, insomma, un piccolo dittatore. Questo tipo d’uomo esiste in tutte le aziende bene organizzate. Nel Servizio Segreto inglese, era l’ufficiale pagatore capitano Troop, RN12 a riposo, direttore amministrativo. Il suo compito era quello (tanto per usare le sue stesse parole) «di mantenere il luogo in perfetto ordine e lucido come uno specchio».
Era inevitabile che i precipui doveri del capitano Troop lo rendessero inviso alla maggior parte del personale, ma era particolarmente fastidioso che M. non avesse pensato ad altri che a Troop, per ficcarlo come presidente ín quel particolare comitato.
Si trattava di una delle tante commissioni d’inchiesta che si occupano dei delicati meccanismi del caso Burgess e Maclean e dell’insegnamento che ne può derivare. Cinque anni dopo la chiusura di quel caso, M. l’aveva creata come un piatto prelibato per il Consiglio privato d’inchiesta del Servizio di Sicurezza, che il Primo Ministro aveva istituito nel 1955.
Bond aveva immediatamente intavolato una discussione turbo-lenta e senza speranza con Troop, auspicando l’impiego di «intellettuali» nel Servizio Segreto.
Velenosamente, e sapendo quanto i suoi interlocutori ne sarebbero stati infastiditi, Bond aveva osservato che se si voleva affrontare seriamente l’argomento della «spia intellettuale» dell’era atomica, occorreva valersi dell’aiuto di «intellettuali». «Gli ufficiali a riposo dell’Esercito indiano,» aveva detto Bond, «non sono assolutamente in grado di comprendere il processo mentale di un Burgess o di un Maclean. Forse non ne hanno neppure sentito parlare…
Figuriamoci poi se sono in grado di frequentare le loro cricche, di far parte delle loro amicizie e dei loro segreti. Dato che Burgess e Maclean si trovano in Russia, penso che l’unico modo di stabilire un contatto con loro e, forse, quando si fossero stancati dell’Unione Sovietica, di convincerli a fare il doppio gioco, sia quello di mandare a Mosca, a Praga e a Budapest i loro più intimi amici, con l’ordine di 12 RN (Royal Navvy), Regia Marina. ( N.d.t. ) 79
attendere finché qualcuno si faccia vivo. Almeno uno dei due, probabilmente Burgess, si deciderà a stabilire un contatto, sia a causa della solitudine, sia per il desiderio di rivelare la propria storia a qualcuno.13
Ma, indubbiamente, nè Burgess nè Maclean sí sentirebbero invoglia-ti a correre il rischio di confidarsi a uomini in impermeabile militare, coi baffoni a manubrio e un coefficiente mentale pari a zero.»
«Oh, davvero,» aveva rilevato glacialmente Troop. «E quindi voi suggerireste di popolare l’organizzazione di anormali dai capelli lunghi. È
un’idea piuttosto originale. Pensavo che tutti fossero d’accordo nel ritene-re gli omosessuali come uno dei pericoli maggiori per, la sicurezza dello Stato. Non posso proprio credere che gli americani riveleranno molti segreti atomici a una squadra di finocchi impregnati di profumo.»
«Non tutti gli intellettuali sono degli invertiti. E parecchi di loro sono calvi. Io sto soltanto affermando che…» e in questo modo, la discussione si era protratta, lasciata e ripresa, per tre giorni. Il comitato si era quasi completamente schierato con Troop. In quello stesso giorno si doveva arrivare a una conclusione definitiva, e Bond si stava chiedendo se era il caso di rendersi ancor più impopolare, pretendendo la messa ín discussione di un rapporto di minoranza.
Poteva affermare sinceramente di essersi occupato con serietà dell’intera faccenda, si chiedeva Bond, uscendo di casa alle nove in punto e dirigendosi verso la macchina? O era soltanto un ostinato dalle idee ristrette? O era così annoiato da non trovare nulla di meglio da fare che rompere le scatole alla sua stessa organizzazione? Bond non sapeva rispondersi. Si sentiva irrequieto e incerto, e, oltre a tutto, provava una fastidiosa inquietudine che non riusciva a definire.
Mentre Bond premeva il bottone della messa in moto della Bentley, gli venne alla mente una strana citazione.
«Quando gli dei hanno deciso di distruggere un uomo, cominciano coll’annoiarlo.»
12 Invito a nozze
Le cose si misero in modo che Bond non fu costretto a prendere una decisione per il rapporto finale del Comitato.
13 Scritta nel marzo del 1956 (I.F.).
80
Aveva appena fatto i complimenti alla sua segretaria per il nuovo abitino estivo, e aveva già esaminato la metà dei rapporti che erano arrivati durante la notte, quando il telefono rosso che poteva voler dire soltanto M. o il capo del personale, gracchiò perentoriamente.
Bond alzò il ricevitore. «007.»
«Potete venir su?» Era il capo del personale.
«M.?»
«Sì. E ha tutta l’aria di dover essere un colloquio lungo. Ho detto a Troop che non potrete partecipare alla seduta.»
«Avete un’idea di che cosa sì tratta?»
Il Capo del personale tossicchiò. Be’, l’idea ce l’ho. Ma è meglio che sia M. a esporvela. Sarà una grossa sorpresa, per voi.»
Bond si infilò la giacca e uscì nel corridoio sbattendo la porta dietro di sé; aveva il presentimento che lo starter avesse sparato la pistola, che i giorni di noia stessero per finire. Anche la corsa in ascensore su all’ultimo piano, e il percorso del corridoio silenzioso fino agli uffici di M. sembravano avere il significato delle altre occasioni, quando il cicalino del telefono rosso era stato il segnale che lo aveva fatto scattare, come un proiettile umano, attraverso le vie del mondo verso qualche meta lontana scelta da M. E anche gli occhi di Miss Moneypenny, segretaria privata di M., avevano quello strano sguardo pieno di eccitazione e di consapevolezze segrete, che lui conosceva molto bene, ormai. Miss Moneypenny gli rivolse un sorriso e premette la leva del citofono interno.
«007 è arrivato, sir.»
«Fatelo entrare,» disse una voce metallica, e nello stesso tempo una luce rossa si accese sulla porta, a indicare che il Capo non voleva essere disturbato.
Bond entrò e chiuse dolcemente la porta alle sue spalle. La stanza era fresca o forse erano le persiane abbassate a dare la sensazione di frescura. Lunghe strisce di luce e d’ombra solcavano il tappeto verde scuro per tutta la sua lunghezza fino all’orlo della grande scrivania centrale. In quel punto le zone di luce terminavano, così da permettere all’individuo che sedeva immobile alla scrivania di rimanere in un’oasi di penombra verdastra. Sul soffitto, proprio sopra la scrivania, roteava lentamente un grande ventilatore tropicale
— era una recente aggiunta alla stanza di M. — agitando la torrida 81
aria di agosto che persino lassù, sopra Regent’s Park, era pesante e afosa dopo una settimana di calore infernale.
M. indicò una sedia di fronte a sé. Bond si sedette e guardò il viso calmo e rugoso che egli amava, onorava e obbediva.
«Ti spiace se ti rivolgo una domanda personale, James?» M.
non aveva l’abitudine di rivolgere delle domande personali ai suoi dipendenti, e Bond non riusciva a capire che cosa stesa se accadendo.
«No, sir.»
M. tolse la pipa da un grande posacenere di rame e cominciò a riempirla, guardando pensierosamente le sue dita alle prese col tabacco. Poi disse bruscamente: «Non sei obbligato a rispondere, ma la domanda riguarda la tua, humm, amica, Miss Case. Come sai, generalmente io non mi interesso di queste faccende, ma mi hanno detto che siete stati, humm, visti assieme molto spesso, dopo l’affare dei diamanti. 14 Ho saputo perfino che avevate una mezza idea di spo-sarvi.» M. fissò Bond e poi abbassò lo sguardo. Mise la pipa in bocca e l’accese con un fiammifero di legno. Poi soffiò sulla fiammella tremolante ed emise queste parole, dall’angolo della bocca: «Ti spiace di dirmi qualcosa in proposito?»
Cosa c’era da dire? si chiese Bond. Al diavolo quei pettegolezzi d’ufficio. Brontolò: «Ebbene, sír, noi andavamo d’accordo. E avevamo una mezza idea di sposarci. Ma poi, lei ha incontrato un tale dell’Ambasciata americana. Il vice dell’Addetto militare, o roba del genere. Un maggiore della Marina. E io penso che finirà per sposar-lo. In ogni modo, sono entrambi partiti per gli Stati Uniti. Forse è meglio così. I matrimoni misti sono un disastro, molte volte. Credo che lui sia un tipo abbastanza in gamba. Probabilmente, Miss Case non riusciva ad acclimatarsi a Londra. Non riusciva a farcela. Bella ragazza, ma un po’ nervosa. Continuavamo a litigare. Probabilmente era colpa mia. Comunque, ora è tutto finito.»
M. gli rivolse uno di quei brevi sorrisi che gli illuminavano più gli occhi che la bocca. «Mi spiace che ti sia andata male, James,»
disse. La sua voce era priva di simpatia. M. disapprovava il lato
«libertino» — come lo chiamava dentro di sé — di Bond, pur rico-noscendo che i propri pregiudizi derivavano da un’educazione puri-tana. Ma, come capo di Bond, egli non desiderava affatto che il suo 14 Vedi Una cascata di diamanti, dello stesso autore.
82
dipendente si legasse in modo indissolubile a una sottana. «Forse è meglio così. Non bisogna invischiarsi con donne nervose, in questi affari. Intralciano i movimenti, se posso esprimermi in tale modo.
Scusami se ti ho fatto quella domanda. Dovevo sapere a che punto eri, prima di dirti ciò che è successo. È una faccenda piuttosto strana. Sarebbe stato difficile affidarti questo incarico, se eri sul punto di sposarti o qualcosa del genere.»
Bond scosse il capo, aspettando il seguito.
«Benissimo, allora,» disse M. C’era una nota di sollievo nella sua voce. Si appoggiò allo schienale della poltrona e tirò diverse boccate per ravvivare le braci della pipa. «Ecco che cosa è successo.
Ieri ci è arrivato un lungo rapporto da Istanbul. Sembra che giovedì scorso, il Capo della base T abbia ricevuto un messaggio dattilo-scritto e anonimo che lo pregava di prendere un biglietto di andata e ritorno sul battello in partenza alle ore 20 dal ponte di Galata verso la foce del Bosforo.
Nient’altro. Il Capo della T è un uomo avventuroso, e naturalmente ha preso il battello. Si è appoggiato al parapetto di prua e ha atteso. Dopo circa un quarto d’ora una ragazza gli si è avvicinata.
A quanto ci ha riferito il nostro agente, era una ragazza russa, bellissima. Dopo aver parlato per un po’ del panorama eccetera, la ragazza, senza mutare nè l’atteggiamento nè il tono di voce, gli ha raccontato una storia straordinaria.»
M. fece una pausa per accendere nuovamente la pipa. Bond approfittò del silenzio per fare una domanda. «Chi è il Capo della T, sir? Non ho mai lavorato in Turchia.»
«Un certo Kerim. Darko Kerim. Padre turco e madre inglese.
Un tipo in gamba. È Capo della T da prima della guerra. Uno dei nostri uomini migliori. Svolge un lavoro magnifico. Ne è appassionato.
Molto intelligente. Conosce quella parte del mondo come il palmo della sua mano.» M. mise da parte Kerim con un brusco movimento della pipa. «Comunque, la ragazza ha raccontato di essere caporale della MGB. Ha lavorato in quella organizzazione fin da quando ha terminato gli studi e ora è appena stata trasferita al centro di Istanbul, come addetta al cifrario. Ha fatto di tutto finché è riuscita a farsi trasferire; voleva lasciare la Russia e passare dalla nostra parte.»
«Ottima idea,» disse Bond. «Può esserci assai utile una ragazza 83
russa addetta al cifrario. Ma perché vuole passare dalla nostra parte?»
M. diede un’occhiata a Bond. «Perché è innamorata.» Fece una pausa e poi aggiunse dolcemente: «Dice che è innamorata di te.»
«Innamorata di me?»
«Sì, di te. Ha detto proprio così. Si chiama Tatiana Romanova.
L’hai mai sentita nominare?»
«Buon Dio, no! Voglio dire, no, sir.» M. sorrise accorgendosi dell’imbarazzo di Bond. «Ma che diavolo significa? Mi ha mai incontrato? Come fa a sapere che esisto?»
«Ecco,» disse M. «L’intera faccenda mi pare assurda. Ma è tanto assurda che potrebbe essere vera. La ragazza ha ventiquattro anni.
Da quando è impiegata alla MGB, ha lavorato allo Schedario centrale
— qualcosa di simile al nostro Records — nella Sezione inglese. Vi è rimasta per sei anni. Una delle schede di cui la ragazza doveva occuparsi era la tua.»
«Mi piacerebbe vederla, quella scheda,» commentò Bond.
«La ragazza ha raccontato che sulle prime è stata colpita dalle tue fotografie. Le è piaciuto il tuo aspetto e via di seguito.» M.
storse la bocca come se avesse morsicato un limone. «Ha letto tutto ciò che ti riguarda. E si è detta che tu dovevi essere un diavolo d’uomo.»
Bond abbassò lo sguardo. Il viso di M. era inespressivo.
«Ha detto che tu le piaci in modo particolare perché le ricordi l’eroe di un libro scritto da un certo Lermontov.15 A quanto pare, doveva essere il suo libro preferito. L’eroe in questione era un uomo molto avventuroso, che passava il tempo a immischiarsi in faccende perico-losissime. Comunque, tu glielo ricordavi. Ha detto che non faceva altro che pensare a te, e un giorno le è venuta l’idea che soltanto se fosse riuscita a farsi trasferire presso uno dei loro centri all’estero avrebbe potuto mettersi in contatto con te, dopodiché tu saresti andato a salvarla.»
«Non ho mai sentito una storia tanto assurda, sir. Senza dubbio, il Capo della T non l’avrà bevuta.»
«Aspetta un momento,» la voce di M. era diventata aggressiva.
Non essere precipitoso soltanto perché vien fuori qualcosa che non ti è mai capitato prima. Supponi di essere un divo del cinema, invece di fare 15 Lermontov, Michail Jurevíc (1814-1841), scrittore russo. Il libro è Un eroe del nostro tempo. ( N. d. t. )
84
questo particolare mestiere. Riceveresti un mucchio di stupide lettere da parte di ragazze di ogni parte del mondo, piene di assurdità come il fatto di non essere capaci di vivere senza di te e così via. Qui c’è una sciocchina impiegata in un ufficio di Mosca. Probabilmente, l’intero lavoro è disimpegnato da donne, come da noi. Nessun collega di lavoro di sesso maschile a cui pensare, e quindi, eccola qui a sognare del tuo, humm, sembiante pieno di fascino su una scheda che continua a tornarle tra le mani per l’aggiornamento. E la ragazza finisce per prendersi ciò che credo si chiami “una cotta” per un paio di fotografie, così come succede a tutte le impiegate del mondo che si innamorano di quelle orribili fotografie dei rotocalchi.» M. fece ondeggiare la pipa per sottolineare la sua ignoranza in fatto di certe orribili abitudini femminili. Dio sa che io non me ne intendo molto di queste faccende, ma devi ammettere che sono cose che succedono.»
Bond sorrise a quella implicita richiesta di aiuto. Be’, per dire la verità, sir, devo riconoscere che è una cosa abbastanza logica. Non c’è alcun motivo perché una ragazza russa non sia sciocca almeno quanto una ragazza inglese. In ogni modo, quella Tatiana deve avere un bel fegato, per fare quello che ha fatto. Il Capo della T ha detto se la ragazza è al corrente del rischio che corre, se verrà scoperta?»
«Ha detto che era terribilmente spaventata,» disse M. Durante tutto il percorso del battello continuava a guardarsi in giro per vedere se qualcuno la stesse spiando. Ma sembra che ci fossero soltanto i viaggiatori abituali e i contadini che si servono di quei battelli. Data l’ora tarda, non ci dovevano essere molti passeggeri, in ogni modo. Ma aspetta un momento. Ti ho raccontato solo la metà della storia.» M.
aspirò profondamente il fumo e lo soffiò verso il ventilatore che continuava a girare pigramente sopra il suo capo. Bond osservò il fumo che veniva aspirato dalle pale e che si dissolveva nell’aria. «Ha detto a Kerim che la sua passione per te si è andata a mano a mano trasformando in una specie di fobia. Dapprima ha cominciato a dete-stare gli uomini russi. Col tempo, la fobia si è allargata al regime e particolarmente al lavoro che la ragazza doveva svolgere per il suo Stato e, anche se indirettamente, contro di te. E così, ha chiesto di essere trasferita all’estero. Siccome possiede una perfetta padronanza del francese e dell’inglese, le è stato offerto un impiego a Istanbul a patto che lei accettasse il trasferimento alla Sezione cifrario, il che 85
comportava una diminuzione di stipendio. Per farla breve, dopo sei mesi di addestramento, la ragazza è stata mandata a Istanbul, circa tre settimane fa. Si è data da fare immediatamente e ha scoperto il nome del nostro uomo: Kerim. Kerim risiede da tanto tempo a Istanbul e tutti sanno qual è il suo lavoro. A lui non importa affatto che lo si sappia, e a noi serve per sviare l’attenzione delle spie dagli agenti speciali che di quando in quando dobbiamo mandare laggiù. È
utile avere un uomo allo scoperto, in certi posti. Se la gente sapesse a chi rivolgersi, avremmo un sacco di clienti.
Bond commentò: «Inoltre l’agente allo scoperto riesce spesso a lavorare molto meglio di chi deve sprecare una quantità di tempo e di energia per tenersi nascosto.»
«E così, la ragazza ha mandato un messaggio a Kerim. Ora vuol sapere se può essere aiutata.» M. fece una pausa e succhiò pensosamente la pipa. «Naturalmente, la prima reazione di Kerim è stata esattamente quella che hai avuto tu. Ha fiutato la trappola. Ma non è riuscito a capire che cosa potrebbero ottenere i russi mandando quella ragazza da noi. Nel frattempo, il battello aveva raggiunto il Bosforo e di lì a poco avrebbe iniziato il viaggio di ritorno verso Istanbul. A mano a mano che Kerim cercava di coglierla in fallo, la ragazza diventava sempre più disperata. Poi,» gli occhi di M. am-miccarono leggermente in direzione di Bond, «venne fuori l’argomento decisivo.»
L’ammiccare degli occhi di M., pensò Bond. Conosceva assai bene il luccichio degli occhi grigi e freddi di M. che tradiva la sua eccitazione e la sua cupidigia.
«Aveva un’ultima carta da giocare. E sapeva benissimo di possedere l’asso decisivo. Se avesse potuto passare dalla nostra parte, avrebbe portato con sé l’apparecchio del cifrario. È la nuovissima macchina Spektor. Daremmo gli occhi, pur di averla.
«Dio,» disse sottovoce Bond, con la mente sconvolta per l’im-mensità della posta in gioco. Lo Spektor! La macchina che avrebbe consentito loro di decifrare completamente tutto il traffico «segretis-simo». Anche se la sua scomparsa fosse stata immediatamente se-gnalata, e le combinazioni cambiate, o anche se la macchina fosse stata abolita dai servizi delle ambasciate russe e dai loro centri spionistici di tutto il mondo, sarebbe stata ugualmente una vittoria 86
inestimabile. Bond non era molto al corrente dei misteri della crittografia e, per questione di sicurezza, nel caso lo avessero catturato, non desiderava conoscere i suoi segreti, ma sapeva benissimo che la perdita di uno Spektor sarebbe stata considerata come un immane disastro al Servizio Segreto russo.
Bond era vinto. Condivise immediatamente con M. la fiducia nella storia della ragazza, per quanto assurda potesse sembrare. Il fatto che un russo offrisse loro quel regalo e assumesse lo spaventoso rischio di portarlo con sé, poteva significare soltanto un atto di disperazione o, se si vuole, di disperata infatuazione. Anche se la storia della ragazza non fosse risultata vera, la posta in gioco era troppo alta per declinare l’offerta.
«Capisci, 007?» disse M. a bassa voce. Non era difficile interpretare i pensieri di Bond, osservando il luccichio dei suoi occhi.
«Capisci che cosa voglio dire?»
Bond evitò di compromettersi. «E la ragazza ha detto come avrebbe fatto?»
«Non esattamente. Ma Kerim ha riferito che era proprio decisa. Pare che la ragazza lavori spesso nei turni di notte. In quelle occasioni, è praticamente sola e dorme in ufficio, su una branda.
Sembra che non avesse dubbi in proposito, pur sapendo che la ucciderebbero sul posto se qualcuno si sognasse soltanto le sue inten-zioni. Era perfino preoccupata del fatto che Kerim dovesse farmi un rapporto sulla cosa. Gli ha fatto promettere che si sarebbe personalmente incaricato di mettere in codice il rapporto e che me l’avrebbe inviato usando le misure eccezionali di riservatezza, distruggendo le eventuali copie. Naturalmente è stata ubbidita. Non appena la ragazza ha parlato dello Spektor, Kerim ha capito che potevamo trovarci sulla pista del colpo più fortunato e importante di questo dopo-guerra.»
«E poi che cosa è successo, sir?»
«Il battello stava attraccando a un posto che si chiama Orta-koy e la ragazza ha deciso di scendere. Kerim ha promesso di in-viare il messaggio quella notte stessa. La russa ha rifiutato di dargli la possibilità di mettersi ancora in contatto con lei. Ha detto soltanto che avrebbe mantenuto fede alle sue promesse se noi avessimo fatto ciò che lei voleva. Ha augurato la buona notte, si è 87
mescolata ai passeggeri che scendevano dalla passerella e Kerim l’ha persa di vista.»
M. si curvò bruscamente verso Bond e lo fissò quasi rabbiosamente. «Ma, naturalmente, Kerim non poteva garantirle che noi avremmo fatto ciò che la ragazza chiedeva.»
Bond non disse nulla, ma pensò che era facile indovinare quello che sarebbe seguito.
«Quella ragazza manterrà la sua promessa solo a una condizione.» Gli occhi di M. si strinsero fino a formare una sottile fessura ardente e incisiva. «Che tu vada a prenderla a Istanbul per portare lei e la macchina in Inghilterra.»
Bond scrollò le spalle. Non vedeva alcuna difficoltà. Ma… Rivolse un candido sguardo a M. «E un invito a nozze, sir. Per quanto posso capire, c’è un solo inconveniente. Quella ragazza non conosce altro di me che alcune fotografie e qualche storia avventurosa.
Supponiamo che quando mi veda in carne ed ossa io non soddisfi le sue aspettative…»
«Ecco dove comincia il tuo lavoro,» disse M. sinistramente. «Per questo ho voluto sapere a che punto eri con Miss Case. Sta in te di soddisfare le sue aspettative.»
13 Un viaggio con la BEA
I quattro piccoli propulsori cominciarono a ruotare lentamente, uno dopo l’altro, e ben presto diventarono quattro buchi sibilan-ti. Il cupo brontolio dei turboreattori salì di tono fino a trasformarsi in un alto lamento, acuto e regolare. Il tipo di rumore e la completa assenza di vibrazioni davano a Bond la sensazione di trovarsi su un apparecchio completamente diverso da quelli che aveva fino-ra usato. Quando il Viscount rullò dolcemente verso la pista est-ovest dell’aeroporto di Londra, Bond provò la sensazione di trovarsi seduto in un costoso giocattolo meccanico.
L’apparecchio sostò un attimo, il capo-pilota forzò al massimo i turboreattori, e poi, dopo un soffice strappo dei freni, il volo 130
della BEA delle 10,30 per Roma, Atene e Istanbul, acquistò velocità, percorse la pista in un baleno, e puntò quasi verticalmente verso il cielo.
88
Dieci minuti dopo, aveva raggiunto i seimila metri di quota e si dirigeva verso sud, lungo il grande corridoio aereo che conduce nella zona mediterranea. L’urlo dei reattori si dissolse in un leggero, fischio monotono. Bond slacciò la cintura di sicurezza e accese una sigaretta.
Poi prese di sotto il sedile la valigetta piatta ed elegante di addetto diplomatico, l’aprì e ne tolse un romanzo poliziesco di Eric Ambler. La valigia era molto pesante, malgrado le apparenze. Bond la depose sul sedile vuoto accanto a sé. Pensò a come sarebbe stato sorpreso l’addetto ai bagagli dell’aeroporto di Londra se avesse pesato la valigia, invece di lasciarla passare senza controllarla, come nécessaire da viaggio. E pure, alla sorpresa degli impiegati della Dogana se, insospettiti dal peso eccessivo, avessero passato la valigia all’esame dell’inspectoscope.
La Sezione Q aveva riadattato la piccola borsa elegante, distruggendo il sapiente lavoro di esperti artigiani, per immagazzinarvi cinquanta caricatori da ‘25, in due linee piatte tra il cuoio e la fodera del dorso. In ognuna delle innocenti fiancate erano dissimulati due coltelli piatti da lancio, opera dei Wilkinson, i fabbricanti di spade; le impugnature erano abilmente nascoste nelle cuciture dei fianchi. Malgrado l’opinione nettamente contraria di Bond, gli addetti alla Sezione Q avevano praticato un nascondiglio nella impugnatura della valigia, dal quale, mediante una leggera pressione in un certo punto, sarebbe caduta una pastiglia di cianuro nel palmo della mano. (Non appena ricevuta in consegna la valigia, Bond si era affrettato a buttare la pastiglia nel gabinetto.) Più importante era il grosso tubo di crema da barba Palmolive collocato in un comunissimo portaspugna. La parte superiore del tubo si poteva svitare e conteneva il silenziatore della Beretta di Bond, avvolto nella bambagia. Per il caso disperato che fosse richiesto un pagamento a pronta cassa, il coperchio della valigia diplomatica conteneva 50 sterline d’oro. Si potevano togliere dal loro nascondiglio facendo scivolare da una parte una striscia della imbottitura interna.
Bond considerava un po’ ironicamente quella borsa piena di trucchi, ma doveva ammettere che, malgrado pesasse quasi cinque chilogrammi, essa rappresentava un’ottima soluzione per trasportare i ferri del mestiere che, altrimenti, egli avrebbe dovuto nascondere su di sé.
L’aereo era semivuoto. Esattamente tredici passeggeri. Bond sorrise tra sé e sé, pensando che Loelia Ponsonby sarebbe inorridita, se lo avesse saputo. Il giorno prima, quando egli aveva lasciato M. ed era 89
tornato nel suo ufficio per sistemare i dettagli del viaggio, la sua segretaria aveva violentemente protestato all’idea di una partenza di venerdì 13.
«È sempre preferibile partire il giorno 13,» le aveva pazientemente spiegato Bond. «Ci sono pochi passeggeri, si viaggia più comodamente e il servizio è migliore. Se appena posso, io scelgo sempre il giorno 13.»
«Be’,» aveva risposto la sua segretaria, rassegnata, «è il vostro funerale. Ma sono sicura che passerò la giornata a preoccuparmi per voi. E, per l’amor del cielo, cercate di non passare sotto una scala e di non combinare qualche guaio del genere, questo pomeriggio.
Non dovreste forzare la vostra fortuna in questo modo. Non so per quale ragione andate in Turchia, nè voglio saperlo. Ma ho uno strano presentimento nelle ossa.»
«Ah, queste bellissime ossa!» l’aveva schernita Bond. «Le porterò fuori a cena, quando sarò di ritorno.»
«Non pensateci neppure,» aveva risposto freddamente la ragazza. Più tardi gli aveva dato il bacio del buon viaggio con insolito calore, e per la centesima volta Bond si era chiesto perché mai lui si desse tanto da fare con le altre donne quando la più cara tra tutte era la sua segretaria.
L’aereo cantava regolarmente sopra lo sconfinato mare di nuvole bianche che sembravano tanto solide da poter fornire un ottimo campo d’atterraggio, se i motori avessero smesso di funzionare. Poi le nuvole scomparvero e sulla sinistra, lontana e avvolta in una nebbia azzurra, apparve Parigi. Per un’ora l’apparecchio sorvolò i campi riarsi della Francia, finché, dopo Digione, il verde della terra si andò a mano a mano incupendo coll’avvicinarsi della catena del Giura.
Servirono il pranzo. Bond mise da parte il libro e i pensieri che gli impedivano di leggere e, mentre mangiava, contemplò là in basso il fresco specchio del Lago di Ginevra. Quando le foreste di pini cominciarono ad arrampicarsi verso le chiazze nevose tra gli splendidi denti delle Alpi, Bond si ricordò delle vacanze invernali di molto tempo addietro. L’apparecchio girò attorno al dente aguzzo del Monte Bianco, e Bond si rivide, non ancora ventenne, con un capo della fune legato alla vita, aggrappato alla sommità di un 90
camino roccioso delle Aiguilles Rouges, mentre i suoi compagni di cordata, due studenti dell’Università di Ginevra, salivano lentis-simamente verso di lui.
E ora? Bond sorrise con una smorfia alla propria immagine riflessa nel vetro dell’oblò, mentre l’apparecchio usciva dall’anfiteatro delle montagne e si addentrava sulla terrazza rocciosa in direzione della Lombardia. Se quel giovane James Bond lo avesse avvicinato per strada, avrebbe riconosciuto il giovane pulito e pieno di vita che lui era a diciassette anni? E che cosa avrebbe pensato quel giovane di lui, l’agente segreto, il James Bond più anziano? Avrebbe riconosciuto se stesso in quell’uomo che per anni aveva avuto a che fare con questioni di tradimenti, di crudeltà, di paura, quell’uomo dagli occhi freddi e arroganti, dalla cicatrice sulla guancia e dall’evidente rigonfiamento sotto l’ascella sinistra? E se lo avesse riconosciuto, che giudizio ne avrebbe dato? Che cosa avrebbe pensato del compito attuale di Bond? Che cosa avrebbe pensato dell’abile agente segreto che stava viaggiando per il mondo recitando una nuova parte, molto romantica: quella del seduttore per il bene dell’Inghilterra?
Bond scacciò dalla mente il ricordo della gioventù morta e sepolta. Non conviene pensare al passato. Era inutile pensare a quello che avrebbe potuto essere. Bisognava seguire il proprio destino, e esserne soddisfatti, ritenersi fortunati di non essere un piaz-zista di automobili di seconda mano o un giornalista di cronaca nera, zeppo di gin e di nicotina, o peggio ancora, uno storpio… o un cadavere.
Sorvolando Genova, un lembo di terra stiracchiato al sole bruciante, e le dolci acque azzurre del Mediterraneo, Bond smise di pensare al passato e mise a fuoco l’immediato futuro… l’affare, come l’aveva descritto lui stesso, di «sedurre per l’Inghilterra».
In realtà, anche usando altre parole, il suo compito consisteva proprio in questo: sedurre, e molto rapidamente, una ragazza che non aveva mai visto, il cui nome aveva sentito pronunciare soltanto il giorno prima. E per tutto il tempo, per quanto attraente fosse stata quella ragazza — e il Capo della T l’aveva descritta come «bellissima» — Bond avrebbe dovuto pensare non tanto a quello che lei era, ma piuttosto a quello che lei aveva: alla dote che la ragazza portava con sé. Era un po’ come sposare una donna ricca, per i suoi soldi.
Sarebbe stato capace di recitare la sua parte? Forse avrebbe potuto 91
assumere gli atteggiamenti adatti, e dire le cose esatte, ma il suo corpo sarebbe stato in grado di dissociarsi dai suoi segreti pensieri e agire come avrebbe agito in un rapporto amoroso normale? Come facevano certi uomini a comportarsi normalmente a letto, tenendo il pensiero rivolto unicamente al deposito in banca della donna che era con loro? Forse l’idea di metter le mani su un sacco d’oro poteva creare lo stimolo erotico. Ma una macchina da cifrario?
L’Isola d’Elba passò sotto di loro, e l’aereo si tuffò per raggiungere Roma. Mezz’ora di attesa in mezzo al vocìo degli altoparlanti dell’aeroporto di Ciampino, il tempo di bere due eccellenti Americani, e il viaggio riprese lungo la penisola italiana. I pensieri di Bond si dedicarono completamente al riesame dei dettagli del rendez-vous che si stava avvicinando alla velocità di cinquecento chilometri orari.
L’intera faccenda non poteva essere una complicata congiura della MGB di cui egli non riusciva a capire il significato? Stava forse addentrandosi in qualche trappola che neppure la fantasiosa mente di M. aveva saputo prevedere? Dio sapeva quanto M. paventasse l’eventualità di una simile trappola. Tutti gli aspetti possibili, il pro e il contro, erano stati vagliati, non soltanto da M. ma da un intero consiglio dei capi-sezione che aveva lavorato durante tutto il pomeriggio e la notte seguente. Ma, sebbene si fosse esaminato il caso dai punti di vista più disparati, nessuno era stato in grado di capire quale poteva essere l’intenzione dei russi o il vantaggio che essi avevano in mente di ricavarne. Forse pensavano di rapire Bond per inter-rogarlo? Ma perché proprio Bond? Non era altro che un agente in servizio effettivo, assolutamente ignaro degli affari generali dell’organizzazione e quindi privo della benché minima utilità per i russi; era al corrente soltanto dei particolari delle sue missioni e di una certa quantità di nozioni di importanza niente affatto vitale. O
forse, l’intenzione dei russi era quella di uccidere Bond per un’azione di rappresaglia? Ma erano ormai passati due anni dall’ultimo scontro di Bond coi sovietici. Se essi avevano l’intenzione di ucciderlo, avrebbero potuto farlo assai più semplicemente in una strada di Londra, o nel suo appartamento, o mettendo una bomba nella sua macchina.
Le meditazioni di Bond furono interrotte dalla hostess.
Allacciate le cinture, per favore.» Non aveva ancora terminato 92
dì parlare quando l’aereo precipitò in uno spaventoso vuoto d’aria e riacquistò nuovamente quota facendo urlare rabbiosamente i reattori. Il cielo si era fatto improvvisamente nero. La pioggia sferzava i vetri degli oblò. Poi ci fu un bagliore accecante, bianco e azzurro, e uno scoppio violento, come se una granata antiaerea avesse colpito l’apparecchio. L’aereo vibrò, riprese la stabilità e sfrecciò in mezzo alla tempesta che lo aveva atteso allo sbocco dell’Adriatico.
Bond fiutò il pericolo: un odore reale, simile a quel lezzo misto di sudore e di elettricità che si può sentire in un parco dei divertimenti. Ancora una volta, il bagliore accecante sfiorò i finestrini coi suoi tentacoli. Boom! Bond ebbe l’impressione di trovarsi al centro del tuono. Tutt’a un tratto l’aereo sembrò incredibilmente piccolo e fragile. Tredici passeggeri!
Venerdì giorno tredici! Bond pensò alle parole di Loelia Ponsonby e gli parve che le sue mani, aggrappate ai braccioli della poltrona, fossero bagnate. Quando sarà stato costruito questo apparecchio, si chiese? Quante ore di volo avrà fatto? Il tarlo della consunzione metallica sarà già entrato nelle sue ali? Quanta forza avrà già rosicchiato? In fin dei conti, poteva anche darsi che lui non arrivasse mai a Istanbul. Forse, la meta che aveva filosoficamente ricercato soltanto un’ora prima, sarebbe stata un tuffo a vite nel Golfo di Corinto.
Nell’intimo di Bond c’era un rifugio anticiclone, fatto sul tipo di quei ripari che si possono ancora trovare in certe vecchie case dei tropici. Sono piccole stanze o cellette dalle pareti robuste, costruite nel centro della casa, al piano terreno o addirittura scavate nelle fondamenta; il proprietario vi si rifugia con la sua famiglia, quando la tempesta minaccia di distruggere la casa, e vi rimane fintanto che il pericolo non sia cessato. Bond ricorreva al suo rifugio anticiclone solo quando si trovava in una situazione che lui non aveva la possibilità di controllare e contro la quale non c’era alcuna soluzione possibile. Nel frangente attuale, egli si richiuse nel rifugio, sbarrò i riflessi ai rumori infernali e agli scossoni violenti, si concentrò nella contemplazione di un punto imprecisato dello schienale di fronte al suo posto, e attese coi nervi rilassati, la soluzione, qualunque fosse, che il fato aveva deciso per il volo 130
della BEA.
93
Quasi immediatamente, il chiarore aumentò nella cabina. La pioggia smise di rigare i vetri degli oblò, e il rombo dei reattori si assottigliò fino a ridursi a un fischio regolare. Bond aprì la porta del suo rifugio e uscì fuori; girò lentamente il capo e, guardando dall’oblò, scorse la minuscola ombra dell’aereo che correva velocemente laggiù, sulle calme acque del Golfo di Corinto. Emise un profondo sospiro, e tolse dalla tasca dei pantaloni il portasigarette: un astuccio fatto di una speciale lega di bronzo. Fu lieto di constatare che le sue mani non tremavano, mentre prendevano l’accendisigaro e accendevano una sigaretta Morland ornata di tre cerchietti d’oro. Avrebbe fatto bene a dire a Lil che le sue previsioni si erano quasi avverate? Decise che se a Istanbul fosse riuscito a trovare una cartolina abbastanza piccante, Io avrebbe fatto.
Fuori, il giorno stava morendo in mezzo a un turbinio di colori; il Monte Imetto venne loro incontro, cupo, nella luce del crepuscolo.
Poi, le luci scintillanti di Atene, la pista di cemento sulla quale il Viscount rullò tumultuosamente, le maniche a vento afflosciate, e le insegne con le strane lettere danzanti che Bond non ricordava di aver più visto dai tempi della scuola.
Bond uscì dall’aereo con un gruppetto di passeggeri pallidi e silenziosi, entrò nella sala d’attesa e si diresse verso il bar. Chiese un bicchiere di Ouzo e lo bevve, facendolo subito seguire da un sorso di acqua ghiacciata. Era un liquore dal gusto forte, sotto lo stomachevole sapore dell’anisette, e Bond sentì delle brevi ondate di fuoco che gli scendevano nella gola e nello stomaco.
Quando gli altoparlanti lo richiamarono fuori, era già quasi notte, e la mezza luna correva alta e chiara sulle luci della città.
L’aria della sera era dolce e profumata; le cicale frinivano ritmicamente; un uomo cantava, in lontananza. La voce era limpida e dolente e anche il motivo della canzone aveva un tema malinconico.
Nei pressi dell’aeroporto un cane latrava rabbiosamente, avvertendo forse la presenza di persone estranee. Bond si rese improvvisamente conto di essere arrivato in Oriente, dove i cani da guardia abbaiano tutta la notte. Per una ragione sconosciuta, quella consapevolezza gli procurò un brivido di piacere e di eccitazione.
C’erano ancora soltanto novanta minuti di volo, per Istanbul, oltre l’oscuro Mare Egeo e il Mar di Marmara. Una ottima cena, accompagnata da due dry Martini e da mezza bottiglia di Calvet 94
Rosé, dissipò completamente dal cervello di Bond le riserve circa i viaggi di venerdì tredici e le preoccupazioni derivanti dalla sua missione, sostituendole con una sensazione di piacevole aspettativa.
Poi l’aereo si posò sulla pista del moderno aeroporto di Yesilkoy, a un’ora di macchina da Istanbul. Bond ringraziò la hostess per il bel viaggio, la salutò e si diresse con la pesante valigetta verso gli uffici della dogana, dove attese il resto del suo bagaglio.
E così, quegli ometti scuri e precisi, in uniforme kaki, erano i turchi moderni. Ascoltò il loro modo di esprimersi, le vocali stra-scicate, i suoni aspirati e le u sibilate, e notò gli occhi scuri, che smentivano i modi cortesi e delicati. Erano occhi lucidi, freddi e crudeli, di uomini che solo da poco tempo avevano preso contatto con la civiltà. Bond conosceva la storia di quegli occhi. Erano occhi abituati da secoli a sorvegliare le greggi e a scrutare il minimo movimento sull’orizzonte lontano. Erano occhi che non perdevano mai di vista il pugnale senza aver l’aria di farlo, che contavano le briciole di cibo e le minute frazioni della moneta e registravano ogni guizzo delle dita del mercante. Erano occhi duri, gelosi, infidi. A Bond non piacquero affatto.
Fuori dagli uffici doganali, un uomo alto, dall’aspetto fiero, coi baffi neri rivolti all’ingiù, uscì improvvisamente dall’ombra e si avvicinò a Bond. Indossava un elegante spolverino e teneva in mano un berretto da autista. L’uomo salutò e, senza nemmeno sincerarsi che il viaggiatore che aveva avvicinato fosse proprio Bond, gli prese la valigia e lo pregò di seguirlo verso una lucente macchina dall’aspetto aristocratico: una vecchia berlina Rolls Royce con l’interno foderato di vimini che, pensò Bond, doveva essere appartenuta a qualche miliardario degli anni venti.
Mentre la macchina scivolava fuori dall’aeroporto, l’uomo si voltò a metà e, parlando al di sopra della spalla, disse educatamente ed esprimendosi in un inglese perfetto: «Kerim Bey ha pensato che questa notte avreste preferito riposare, sir. Vi verrò a prendere domattina alle nove. A quale albergo volete scendere, sir?»
«Il Kristal Palas.
«Benissimo, sir.» La macchina proseguì lungo la larga strada costruita di recente.
Dietro a loro, nelle ombre diffuse del parcheggio dell’aeroporto, 95
Bond credette di udire lo scoppiettio di una motoretta. Quel rumore non gli disse nulla e quindi si rilassò per godersi la passeggiata.
14 Darko Kerim
James Bond si svegliò di buon’ora nella squallida stanza del Kristal Palas, sulle alture di Pera, e sovrappensiero allungò una mano sul suo corpo per esplorare la causa di una acuta puntura sulla parte esterna della tíbia destra. Durante la notte, qualcosa doveva averlo punto. Grattò rabbiosamente il punto che gli doleva. Avrebbe dovuto aspettarselo.
Non appena arrivato, la notte precedente, dopo essere stato ricevuto da un portiere scorbutico e sporco, e aver ispezionato rapidamente l’atrio con le piante di palme macchiettate dalle mosche e le piastrelle mo-resche consunte, aveva capito che razza di albergo doveva essere il Kristal Palas. Stava quasi per decidere di andare ad alloggiare altrove. La pigrizia e un gusto perverso per la sottile atmosfera di romanticismo che aleggia nei vecchi alberghi continentali, lo avevano deciso a rimanere.
Bond aveva quindi firmato il registro delle presenze e aveva seguito il custode fino al terzo piano.
La stanza, coi pochi mobili malandati e un lettuccio di ferro, era ciò che Bond si era aspettato di trovare. Prima di congedare il portiere, aveva verificato soltanto se sulla tappezzeria non ci fossero macchie di sangue provocate da eventuali cimici spiaccicate.
Era stato troppo avventato. Quando tentò di usare il rubinetto dell’acqua calda, dal tubo non uscì altro che un profondo sospiro, seguito da un deplorevole singhiozzo e da un piccolo millepiedi. Bond annegò il millepiedi nel sottile rivolo di acqua rugginosa che era sgorgato dal rubinetto dell’acqua fredda. Tutto ciò, pensò con una smorfia, per aver voluto scegliere un albergo dal nome divertente e per essersi voluto allontanare dalla dolce vita dei grandi hotel.
Comunque, era riuscito a dormire e ora, dopo essersi ripro-messo l’acquisto di un insetticida, decise di dimenticare i fastidi e di affrontare la giornata.
Uscì dal letto, scostò dalla finestra i pesanti tendaggi di peluche rossa, si appoggiò al davanzale e ammirò uno dei più famosi panorami del mondo: alla sua destra le placide acque del Corno d’Oro, alla sua sinistra le onde agitate del Bosforo aperto, e sotto di 96
lui la confusione dei tetti, dei minareti svettanti e delle moschee raccolte di Pera. Dopo tutto, aveva fatto una buona scelta. Il panorama lo ripagava delle molte cimici e delle varie scomodità.
Bond restò dieci minuti a contemplare la luccicante barriera d’acqua tra l’Europa e l’Asia, poi rientrò nella stanza illuminata dal sole e telefonò per farsi portare la prima colazione. Il suo inglese non fu capito, ma il suo francese ebbe successo. Fece un bagno freddo, si rase pazientemente la barba con l’acqua fredda, e si augurò che la colazione esotica che egli aveva ordinato non si rivelasse un fiasco.
Non fu deluso. Lo yogurt, servito in una ciotola di ceramica azzurra, era di color giallo intenso e aveva la consistenza della panna spessa. I fichi verdi, già pelati, erano perfettamente maturi e il caffè turco era nerissimo e aveva quel sapore di bruciato che indica una tostatura recente. Bond consumò quella deliziosa colazione seduto davanti alla finestra spalancata. Osservò i battelli e i caicchi che si incrociavano, solcando í due mari, e poi pensò a Kerim e alle ultime novità che potevano esserci.
Alle nove in punto, l’elegante Rolls venne a prenderlo e lo condusse attraverso la piazza Taksim e più giù, verso l’affollata Istikal, e fuori dall’Asia. Il fumo nero e denso dei mercantili in attesa nascondeva la sponda opposta, verso la quale la Rolls si dirigeva destreggiandosi tra le biciclette e i tram; il compassato gracidio del vecchio clakson a pulsante riusciva a malapena a far scansare la folla dei pedoni. Poi la strada divenne più accessibile e in fondo al grande ponte apparve il vecchio quartiere europeo con gli snelli minareti puntati verso il cielo e le cupole delle moschee rannicchiate ai loro piedi, simili a grossi seni sodi. Poteva essere un incanto, ma a Bond, che aveva già ammi-rato quel panorama al di sopra dei tram e dei cartelloni pubblicitari che ingombravano la riva del fiume, quella prospettiva fece l’effetto di un bellissimo fondale da teatro che la Turchia moderna avesse messo da parte per far posto alla costruzione in acciaio e in cemento armato dell’Istanbul-Hilton Hotel, un edificio luccicante e inespressivo eretto sulle alture di Pera.
La macchina superò il ponte, piegò a destra, continuò ad avanzare in una viuzza stretta e acciottolata, e si fermò davanti a un grande portone di legno. Un custode dal viso largo e sorridente, vestito di una logora uni-97
forme color kaki, uscì dalla guardiola e salutò il nuovo arrivato. Poi aprì la portiera della macchina e fece segno a Bond di seguirlo. Entrarono nella guardiola e poi proseguirono in un piccolo cortile ricoperto di ghiaia accuratamente rastrellata. Al centro del cortile c’era un grande eucalipto nodoso, ai piedi del quale becchettavano due tortore. In quel luogo calmo e pacifico, il frastuono della città giungeva come un brontolio lontano.
Il custode condusse Bond attraverso il cortile verso una porticina, oltrepassata la quale egli si trovò in uno stanzone dal soffitto a cupola e dalle finestre rotonde da dove entravano delle polverose lamine di sole a illuminare mucchi di casse e balle di merci. Bond s’inoltrò nella grande stanza, avvolto in un acuto odore di spezie e di caffè e da improvvise folate di sentore di menta.
Al termine del lungo magazzino, Bond vide una piattaforma rialzata e circondata da una balaustra. Sulla piattaforma una mezza dozzina di ragazzi di ambo i sessi sedeva su degli alti sgabelli e era intenta a scrivere su dei grossi libri mastri vecchio stile. Sembrava la ricostruzione di un ufficio dickensiano; Bond notò che su ognuno degli alti scrittoi accanto al calamaio c’era un consuntissimo pallottoliere. Mentre passava in mezzo a loro, nessuno degli scribacchini alzò lo sguardo, ad eccezione di un uomo alto e dalla carnagione scura, col viso magro e sorprendenti occhi azzurri.
L’uomo gli venne incontro, alzandosi dallo scrittoio più lontano, gli sorrise calorosamente, mostrando una doppia fila di denti bianchissimi, e lo guidò verso il retro della piattaforma. Bussò a una bella porta di mogano fornita di serratura di sicurezza e, senza attendere risposta, aprì il battente e fece entrare Bond, chiudendo dolcemente la porta alle sue spalle.
«Ah, amico mio. Entrate! Entrate!» Un uomo corpulento, che indossava un abito di seta color crema dal taglio perfetto, si alzò da una scrivania di mogano e gli venne incontro tendendogli la mano.
Un pizzico di autorità contenuto nella forte voce amichevole di quell’uomo, ricordò a Bond che egli si trovava alla presenza del Capo della base T, nella giurisdizione di un altro agente e, giuridicamente, sotto il suo comando. Non era altro che una questione di etichetta, ma era una questione da non dimenticare.
Darko Kerim aveva una stretta di mano magnificamente calda e asciutta. Era una stretta energica, dalle dita nervose, non la stretta viscida dell’orientale, che fa venir voglia di asciugarsi la mano sul dietro della giacca. La stretta indicava altresì una forza nascosta, capace di serrare una 98
mano fino a rompere le ossa.
Bond era alto un metro e ottanta, ma Kerim era almeno cinque centimetri più alto di lui e, a quanto sembrava, due volte più largo e più robusto. Bond lo fissò negli occhi azzurri e ben distanziati, che sorridevano in un viso simpatico e scuro dal naso rotto. Gli occhi erano acquosi e venati di sangue, simili a quelli di un segugio che sta troppo tempo sdraia-to vicino al fuoco. Kerim doveva essere un crapulone incorreggibile, pensò Bond.
Il suo aspetto era vagamente zingaresco, sia per il portamento orgo-glioso, sia per i capelli neri fittamente ricciuti, sia per il piccolo anello d’oro che Kerim portava infilato al lobo dell’orecchio destro. Era un aspetto che dava una straordinaria impressione di drammaticità, di vitalità, di crudeltà e di sregolatezza, ma ciò che si notava immediatamente, ancor prima della drammaticità, era la forza vitale che emanava da quel viso.
Bond pensò che non aveva mai visto un uomo dotato di tanta vitalità e di tanto calore. Era come essere molto prossimi al sole. Bond lasciò ricadere quella mano forte e asciutta e ricambiò il sorriso a Kerim con una cordialità che difficilmente aveva provato nei confronti di uno straniero.
«Grazie per avermi mandato a prendere con la macchina, ieri notte.»
«Ah!» Kerim era felicissimo. «Dovete ringraziare anche i nostri amici. Anche loro sono venuti a ricevervi. Non perdono mai l’occasione di seguire la mia macchina, quando la mando all’aeroporto.»
«Era una Vespa o una Lambretta?»
«Ve ne siete accorto? Era una Lambretta. Ne possiedono un’intera squadriglia per i loro ometti: gli uomini che io chiamo i “senza volto”.
Sono così simili tra di loro che non siamo mai riusciti a distinguerli l’uno dall’altro. Piccoli gangster, per la maggior parte bulgari fetenti che svol-gono il lavoro duro per i loro padroni. Ma io ritengo che quello che vi ha seguito si sia tenuto ben lontano. Non seguono più tanto da vicino la Rolls dal giorno in cui il mio autista si è fermato di colpo e ha improvvisamente fatto marcia indietro a tutto gas. Ha rovinato la vernice e ha sporcato di sangue il telaio, ma ha insegnato loro l’educazione.»
Kerim tornò alla sua poltrona e ne indicò a Bond un’altra simile, dall’altra parte della scrivania. Quando Bond si fu accomodato, Kerim spinse verso di lui una scatola di sigarette bianca e piatta. La sigaretta che Bond accese si rivelò come la migliore che avesse mai fumato: il tabacco turco più dolce e più morbido in un lungo tubetto ovale di carta sottilissima 99
fregiata con una elegante mezzaluna d’oro.
Mentre Kerim, a sua volta, stava accingendosi a fumare in un lungo bocchino d’avorio macchiato di nicotina, Bond diede una rapida occhiata alla stanza che odorava fortemente di vernice, come se fosse stata ridipinta di recente.
Era una grande stanza quadrata, tutta tappezzata di pannelli di mogano lucidi, ad eccezione della parete che si trovava alle spalle di Kerim.
Al posto del pannello, lì era stato collocato un tendaggio di stoffa orientale che ondeggiava leggermente, dando l’impressione che di dietro ci fosse una finestra aperta. Ma sembrava improbabile, poiché la luce proveniva da tre finestre rotonde aperte alla sommità delle pareti. Forse, dietro il tendaggio c’era una veranda che dava sul Corno d’Oro; Bond poteva sentirne le onde che si infrangevano ai piedi della parete. Sul pannello di destra, in una cor-nice dorata, c’era una riproduzione del ritratto che Annigoni aveva fatto alla Regina Elisabetta. Sulla parete opposta, pure imponentemente incor-niciata c’era la fotografia di Churchill. Una grande libreria copriva la terza parete; sulla parete dirimpetto c’era un divano di pelle confortevolmente imbottito. La grande scrivania di mogano si trovava al centro della stanza; sul piano ricoperto di carte c’erano tre portaritratti d’argento, e Bond riuscì a distinguere l’incisione in rame di due Citazioni all’ordine del giorno e dell’Ordine Militare dell’OBE.16
Kerim accese la sua sigaretta, poi indicò il tendaggio con un gesto brusco della testa. «Ieri i nostri amici mi hanno fatto una visita,» disse accidentalmente. «Hanno attaccato una bomba a orologeria al muro della casa. Hanno regolato il detonatore in modo da prendermi mentre ero seduto alla scrivania. Fortunatamente, in quel momento mi stavo concedendo qualche minuto di distensione su quel divano, in compagnia di una ragazzina rumena la quale si illudeva che un uomo le avrebbe rivelato dei segreti in cambio di un po’ d’amore. La bomba è scoppiata proprio in un momento delicato. Per conto mio mi sono rifiutato di scomodarmi, ma credo che l’esperienza sia stata troppo forte per la ragazzina. Quando l’ho lasciata andare ha avuto un attacco di nervi. Ho paura che si sia convinta che il mio modo di fare all’amore sia troppo violento, in complesso.» Scosse la testa.
«Abbiamo dovuto fare in fretta per mettere a posto la stanza prima della vostra visita. Vetri per le finestre e per i quadri e tutto il resto. Comunque, c’è ancora puzzo di vernice.» Kerim si appoggiò allo schienale della 16 OBE, Officer (of the Order) of the British Empire. ( N. d. t. ) 100
poltrona e aggrottò leggermente le sopracciglia. «Non riesco proprio a capire il perché di questa rottura dei rapporti di pace. A Istanbul ci tolleria-mo vicendevolmente in modo molto amichevole. Facciamo il nostro lavoro e ci rispettiamo. Non si è mai sentito dire che i miei chers collègues dichiarassero improvvisamente guerra in questo modo. È piuttosto preoc-cupante. Ciò può significare soltanto un mucchio di guai, per i nostri amici russi. Sarò costretto a dare una lezione all’uomo che ha eseguito questo lavoretto, quando scoprirò il suo nome.» Kerim scosse di nuovo la testa.
«Non riesco proprio a capire. Spero che non abbia nulla a che vedere col caso del quale ci stiamo occupando noi due.»
«Ma era proprio necessario rendere così pubblico il mio arrivo?»
chiese cautamente Bond. «Io non desidero assolutamente che voi veniate coinvolto nella faccenda. Perché avete mandato la Rolls all’aeroporto? Ha servito soltanto a legarvi a me.»
Kerim ridacchiò indulgentemente. «Amico mio, devo spiegarvi qualcosa che dovete sapere. Noi, e i russi, e gli americani, abbiamo un uomo pagato in tutti gli alberghi. E noi tutti abbiamo corrotto un uomo del quartier generale della polizia per avere un elenco giornaliero di tutti gli stranieri che entrano nel paese, per via aerea, marittima o ferroviaria. Se avessi avuto un paio di giorni a disposizione, sarei riuscito a farvi entrare segretamente dalla frontiera greca. Ma per quale motivo? La vostra presenza nel paese deve essere messa a conoscenza dell’altra parte, per consentire alla nostra amica di mettersi in contatto con noi. Una delle condizioni che mi ha posto quella ragazza è che sia lasciato a lei di decidere in che modo avverrà l’incontro. Forse non ha molta fiducia nei nostri servizi di sicurezza. Chi lo sa? La ragazza era irremovibile, quanto a questo, e ha detto, come se io non lo sapessi, che il suo centro verrà immediatamente avvisato del vostro arrivo.» Kerim scrollò le larghe spalle. «E così, perché rendere le cose difficili a quella ragazza? La mia unica preoccupazione è di facilitare il nostro compito in modo da rendere piacevole la vostra permanenza a Istanbul… anche se non otterrete alcun risultato.»
Bond rise. «Ritiro tutto quanto. Avevo dimenticato gli usi balcanici.
Comunque, io sono ai vostri ordini, ora. Mi direte ciò che devo fare e io lo farò.»
Kerim scartò l’argomento con un gesto della mano. «E ora, visto che stiamo parlando di permanenza piacevole, come è il vostro albergo? Mi ha sorpreso che abbiate scelto il Palas. È poco più di una casa di tolleranza… è 101
ciò che i francesi chiamano un baisodrome. Ed è praticamente il luogo di ritrovo dei russi. Non che importi molto.»
«Non è poi così orribile. Comunque, non desideravo alloggiare al-l’Istanbul-Hilton o in uno degli altri alberghi del genere.»
«Soldi?» Kerim allungò una mano e tolse da un cassetto un fascio di banconote verdi. «Ecco mille sterline turche. Al mercato nero le valutano al giusto prezzo e cioè venti per una inglese. Il cambio ufficiale è di sette a una. Ditemi quando non ne avrete più e io ve ne darò ancora, finché ne vorrete. Faremo i conti alla fine della partita. Comunque, non ha nessuna importanza. Da quando Creso, il primo miliardario, ha inventato le monete d’oro, il soldo si è deprezzato. E le effigi della moneta si sono svilite tanto rapidamente quanto il suo valore. Da principio, sulle monete c’era l’effige degli dei. Poi hanno impresso il profilo dei re e ancora dopo quella dei pre-sidenti. Oggi le effigi sono scomparse. Guardate questa roba!» Kerim gettò a Bond il pacchetto di banconote. «Oggi è soltanto un rettangolo di carta con la riproduzione di un edificio pubblico e la firma di un cassiere. Por-cheria. Il miracolo è che si possono ancora comprare delle cose, con questa carta. In ogni modo, di che cos’altro avete bisogno? Sigarette? Fuma-te soltanto queste. Ve ne manderò qualche centinaio. Sono le migliori.
Diplomates. Non si trovano facilmente. La maggior parte va a finire ai Ministeri e alle Ambasciate. Niente altro, prima di metterci al lavoro? Non preoccupatevi per i pasti né per i divertimenti. Penserò io agli uni e agli altri. Lo farò con piacere e, se voi siete d’accordo, desidero rimanere vicino a voi per tutto il tempo della vostra permanenza qui.»
«Niente altro,» disse Bond. «Ma un giorno o l’altro dovete venire a Londra.»
«Mai,» disse Kerim decisamente. «Il clima e le donne sono troppo fredde. E io sono fiero di avervi qui. Mi ricorda il tempo di guerra,» suonò un campanello sulla scrivania. «Come vi piace il caffè? Con o senza zucchero? In Turchia non si può parlare seriamente senza aver davanti il caffè o il raki, e ora è troppo presto per il raki.»
«Amaro.»
La porta dietro a Bond si aprì. Kerim abbaiò un ordine. Quando la porta si richiuse, Kerim aprì un cassetto, ne tolse una cartella, la posò sulla scrivania di fronte a sé e vi batté le mani sopra.
«Amico mio,» disse trucemente. «Io non so proprio che cosa dire di questo caso.» Si appoggiò allo schienale della poltrona e intrecciò le mani 102
dietro la nuca. «Avete mai pensato che il nostro lavoro è simile al lavoro del regista di un film? Spesso io ho tutte le persone al loro posto e penso di poter cominciare a girare la manovella. Ma poi cominciano gli imprevisti: il tempo, gli attori, gli incidenti e così via. C’è poi qualche altra cosa che mi ricorda un film: l’intreccio amoroso. In questo caso poi, la faccenda è ancora peggiore, perché l’intreccio è tra i due principali interpreti. Questo è il fattore più confuso della faccenda, l’elemento più incomprensibile.
Quella ragazza è veramente innamorata dell’idea che si è fatta di voi? Vi amerà ancora, quando vi vedrà? E voi? L’amerete abbastanza da riuscire a convincerla di passare dalla nostra parte?»
Bond non fece alcun commento. La porta si aprì di nuovo e il capo del personale entrò, posò sulla scrivania due tazze di finissima porcellana ornate con una rete di filigrana d’oro e se ne andò. Bond assaggiò un sorso del caffè e tornò a posare la tazza sullo scrittoio. Era buono ma un po’
troppo spesso, per il suo gusto. Kerim vuotò la sua tazza tutto d’un fiato e poi sistemò un’altra sigaretta nel bocchino e l’accese.
«Ma non c’è nulla che si possa fare, riguardo a quest’intreccio amoroso,» continuò Kerim, parlando quasi a se stesso. «Possiamo soltanto aspettare ciò che succederà. Nel frattempo, ci sono altre cose, però.» Kerim si sporse in avanti e fissò Bond con uno sguardo che si era fatto improvvisamente duro e penetrante.
«Ci sono novità, nel campo nemico, amico mio. Non è soltanto quel tentativo di sbarazzarsi di me. C’è un grande andirivieni di persone. Sono al corrente di qualche fatto,» alzò il grosso dito indice e lo appoggiò a una pinna del naso, «ma soprattutto ho buon naso. È un ottimo amico che non mi tradisce mai.» Abbassò lentamente la mano sulla scrivania e aggiunse a bassa voce: «Se la posta non fosse così alta, io vi direi: “Tornate a casa vostra, amico. Tornatevene a casa. Qui c’è qualcosa di molto pericoloso.”»
Kerim tornò ad appoggiarsi allo schienale della poltrona. Quando riprese a parlare, la tensione era svanita dalla sua voce. Scoppiò in una dura risata. «Ma noi non siamo delle femminucce. E questo è il nostro lavoro. Perciò, dimentichiamoci del mio naso e andiamo avanti. Prima di tutto: c’è qualcosa che io vi posso dire e che voi non sapete ancora? La ragazza non si è ancora fatta viva, dopo il rapporto che vi ho spedito e non ho altre informazioni. Ma forse, vi piacerebbe sapere qualcosa di più particolareggiato, circa il nostro incontro?»
«C’è soltanto una cosa che io desidero sapere,» disse Bond recisa-103
mente. «Che cosa pensate di quella ragazza? Credete alla sua storia o no?
Credete che si sia innamorata di me? Non c’è altro che può contare. Se quella ragazza non ha preso una specie di cotta isterica di me, tutto l’affare non sta in piedi, e non può significare altro che una trappola complicata preparata dalla MGB, una trappola che noi non riusciamo a capire. È per questa ragione che vi chiedo se credete alla storia di quella ragazza.» La voce di Bond si era fatta incalzante, e il suo sguardo scrutava il viso del suo interlocutore.
«Ah, amico mio,» Kerim scrollò il capo e spalancò le braccia. «La vostra domanda me la sono posta io fin dal principio e da allora non ho smesso di cercare una risposta. Chi può dire se una donna mente, in queste faccende? I suoi occhi erano lucidi, bellissimi occhi innocenti. Le sue labbra erano tumide e sembravano offrirsi. Ma la sua voce era affannosa e la ragazza sembrava molto spaventata di ciò che stava dicendo e facendo.
Le sue mani stringevano il bordo del parapetto fino a diventar bianche. Ma naturalmente non posso indovinare che cosa c’era nel suo cuore.» Kerim alzò le mani. «Solo il cielo lo può sapere.» Abbassò le mani, rassegnato, le stese sulla scrivania e guardò Bond. «C’è un solo modo per sapere se una donna vi ama veramente, ma occorre essere degli esperti.»
«Sì,» disse Bond dubbiosamente. «Capisco quello che intendete dire.
A letto.»
15 L’ambiente di una spia
Portarono ancora caffè, e poi ancora caffè, e la stanza fu invasa dal fumo delle sigarette, mentre i due uomini consideravano i minimi particolari del caso, li analizzavano e li mettevano da parte. Dopo un’ora essi si ritrovarono al punto di partenza. Era compito di Bond di risolvere il problema di quella ragazza e, se fosse stato convinto dalla sua storia, di portare lei e l’apparecchio fuori dal paese.
Kerim si accollò gli altri problemi: quelli amministrativi. Per prima cosa, si mise in contatto col suo agente e gli fece riservare due posti su tutti gli aerei in partenza nella prossima settimana: BEA, Air France, SAS e Turkair.
«E ora vi devo procurare un passaporto,» disse. «Uno sarà sufficiente. La ragazza può viaggiare come vostra moglie. Uno dei miei uomini si incaricherà di fotografarvi; poi troveremo la fotografia di una ragazza che 104
assomigli pressappoco a quella russa. Così per dire, una fotografia della Garbo quando era giovane andrebbe benissimo. C’è una certa rassomi-glianza. Se ne può avere una cercando negli archivi di qualche giornale.
Parlerò col Console generale. È un eccellente individuo, s’appassiona ai miei piccoli complotti di cappa e spada. Il passaporto sarà pronto per questa sera. Che cognome vi piacerebbe usare?»
«Sceglietene uno voi.»
«Somerset, allora. Era il cognome di mia madre. David Somerset.
Professione: Direttore di società. Non significa nulla. E la ragazza? Facciamo Caroline. È un nome che le si adatta. Una coppia di giovani inglesi di bell’aspetto, appassionati di viaggi. Il modulo per il controllo della valuta? Lasciate fare a me. Diciamo, ottanta sterline in travellers’ cheques e la ricevuta di una banca che dimostrerà che ne avete cambiate cinquanta, durante il vostro soggiorno in Turchia. La dogana? Non verificano mai.
Non possono essere che felici, se qualcuno porta via qualcosa dal paese.
Dichiarerete: souvenirs turchi. Regali per i vostri amici di Londra. Nel caso di una partenza in tutta fretta, penserò io ai vostri bagagli e al conto dell’albergo. Sono abbastanza conosciuto, al Palas. Niente altro?»
«Non credo.»
Kerim diede un’occhiata all’orologio. «È mezzogiorno. Appena il tempo di farvi ricondurre all’albergo in macchina. Potrebbe esserci un messaggio per voi. Non dimenticate di esanimare le vostre cose per render-vi conto se qualcuno vi ha messo il naso.»
Kerim suonò il campanello e impartì delle disposizioni al suo impiegato, che rimase ad ascoltarlo con gli occhi fissi nei suoi e la testa tesa in avanti come quella di un cane da corsa.
Kerim accompagnò Bond alla porta e gli strinse ancora una volta la mano in una stretta calda e poderosa. «L’autista si incaricherà di condurvi al ristorante,» disse. «È un posticino nel bazar delle spezie.» I suoi occhi si fissarono cordialmente in quelli di Bond. «Sono felice di lavorare con voi.
Formeremo una bella coppia, assieme.» Lasciò andare la mano di Bond. «E
ora ho un mucchio di cose da fare. Può darsi che queste cose siano tutte sbagliate ma, in ogni modo,» Kerim allargò le labbra in un grande sorriso,
« jouons mal, mais jouons vite! »
L’impiegato, che indubbiamente fungeva anche da braccio destro di Kerim, condusse Bond verso un’altra porta che si apriva sulla piattaforma sopraelevata. Le teste degli scribacchini erano ancora curve sui libri-105
mastri. Oltre la porta c’era un corridoio con varie stanze aperte su entrambi i lati. L’uomo aprì una porta e Bond si trovò in un laboratorio fotografico perfettamente organizzato. Dieci minuti dopo, Bond si trovava di nuovo in strada. La Rolls lo condusse attraverso la stretta viuzza verso il ponte di Galata.Al Kristal Palas c’era di servizio un nuovo portiere, un ometto osse-quioso dalla faccia gialla e dall’espressione colpevole. Uscì da dietro il banco con le mani tese in avanti a mo’ di scusa. «Effendi, sono enorme-mente spiacente. Il mio collega vi ha fatto alloggiare in una stanza inade-guata. Non aveva capito che voi siete un amico di Kerim Bey. Ho fatto trasportare i vostri bagagli nella stanza numero dodici. È la migliore stanza dell’albergo. In effetti,» il portiere gli rivolse un’occhiata maliziosa, «il numero dodici è riservato alle coppie in luna di miele. Tutte le comodità.
Vi prego di scusarmi, Effendi. L’altra camera non è adatta per un cliente come voi.» L’uomo abbozzò un inchino affettato, fregandosi le mani.
Una cosa che Bond non poteva sopportare era lo sbattere dei tacchi di quell’ometto odioso. Lo fissò negli occhi e disse: «Ah! Vorrei prima vedere la nuova stanza. Può darsi che non mi vada. Mi trovavo abbastanza bene anche dov’ero prima.»
«Certamente, Effendi,» l’uomo si inchinò e indicò a Bond l’ascensore. «Ma, ahimè, nella stanza dove avete dormito ci sono gli idraulici, ora. I rubinetti…» la voce si perse in un mormorio incomprensibile. L’ascensore si fermò al primo piano.
Be’ la scusa degli idraulici può reggere, rifletté Bond. E, dopo tutto, non vedeva alcun male nell’occupare la migliore camera dell’albergo.
Il portiere spalancò una grande porta e si tirò indietro. Bond dovette ammettere che il portiere aveva ragione. Il sole inondava la stanza entrando da grandi vetrate che davano su un piccolo balcone. La stanza era tappezzata in rosa e grigio e i mobili erano un’imitazione dello Stile Impero, un po’ malandati ma ancora eleganti. Il pavimento di legno era ricoperto da un grande tappeto Bukhara. Dal soffitto decorato a stucco pendeva un lampadario scintillante. Contro la parete di destra c’era un enorme letto e, dietro di esso, un grandissimo specchio copriva quasi interamente il muro.
(Bond ridacchiò tra sé e sé. La stanza della luna di miele! Avrebbe dovuto esserci anche uno specchio sul soffitto, in ogni modo.) La stanza da bagno era pulitissima e fornita di ogni comodità, compreso un bidet e una doccia.
Gli accessori di toilette di Bond erano stati accuratamente disposti su una 106
mensola.
Il portiere seguì Bond nella stanza e, quando questi gli disse che la camera gli piaceva, si inchinò riconoscente e uscì.
Perché no? Bond ispezionò la stanza. Questa volta il suo esame delle pareti, del letto e del telefono fu assai accurato. Perché non rimanere in quella camera? Perché avrebbero dovuto esserci dei microfoni o delle porte segrete? Quale avrebbe potuto essere il loro scopo?
La valigia era posata su uno sgabello vicino al cassettone. Bond si inginocchiò. Nessun graffio alla serratura. Il filo di lana che egli aveva collocato vicino al congegno di chiusura non era stato rimosso. Bond aprì la valigia ed esaminò la borsa diplomatica. Non l’avevano toccata. Allora chiuse a chiave la valigia e si rialzò.
Si lavò e tornò nell’atrio. No, non c’erano messaggi per l’Effendi. Il portiere si inchinò, mentre teneva aperta la portiera della Rolls. C’era forse una traccia di cospirazione, dietro quel sorriso untuoso? Bond decise di infischiarsene. La partita, qualunque fosse, doveva essere giocata fino in fondo. Se il cambio della camera era stata la mossa d’inizio, tanto meglio.
La partita doveva ben cominciare in qualche modo. Mentre la macchina scivolava velocemente giù dalla collina, i pensieri di Bond si rivolsero a Darko Kerim. Che uomo, il Capo della base T! Soltanto la sua statura, in quel paese di piccoli uomini, sfuggenti e striminziti, sarebbe stata sufficiente per conferirgli autorità, e la sua enorme vitalità e amore per la vita avrebbe fatto di chiunque un suo amico. Da dove era spuntato fuori, quel pirata acuto ed esuberante? E come mai si era dedicato allo spionaggio? Kerim apparteneva a quei rari esemplari di uomini che Bond amava e Bond si sentiva ormai deciso ad aggiungere Kerim a quella mezza dozzina di amici ideali che aveva nel cuore.
La macchina ripercorse il ponte di Galata e si fermò vicino alle arcate del bazar delle spezie. L’autista precedette Bond su per gli scalini bassi e consunti e dentro l’effluvio degli odori esotici, lanciando imprecazioni ai mendicanti e ai facchini carichi di sacchi che ingombravano il passaggio.
Oltrepassato l’ingresso, l’autista girò a sinistra, fuori dal flusso della folla strisciante e ciarliera, e indicò a Bond un piccolo arco praticato nel muro spesso. Una scala a chiocciola di pietra spariva verso l’alto.
«Effendi, troverete Kerim Bey nella stanza in fondo a sinistra. Non dovrete far altro che chiedere di lui. Lo conoscono tutti.»
Bond si arrampicò per la scala a chiocciola e raggiunse un piccolo 107
atrio dove trovò un cameriere in attesa che, senza dir nulla, lo condusse attraverso un labirinto di stanzette dal soffitto a volta, piastrellate a vivaci colori. Bond raggiunse finalmente la stanza occupata da Kerim, e lo trovò seduto a un tavolo d’angolo al di sopra dell’ingresso del bazar. Kerim lo salutò rumorosamente, agitando verso di lui un bicchiere che conteneva un liquido biancastro e un cubetto di ghiaccio.
«Eccovi qui, amico. Bevete subito un po’ di raki. Dovete essere stre-mato, dopo tutte le vostre ispezioni.» E di seguito urlò degli ordini al cameriere.
Bond si accomodò in una morbida poltroncina e prese il bicchiere che il cameriere gli offriva. Lo alzò in direzione di Kerim e assaggiò il liquore. Aveva lo stesso sapore dell’Ouzo. Vuotò il bicchiere d’un fiato e il cameriere gliene porse subito un altro.
«E ora pensiamo al vostro pranzo. In Turchia non si mangia altro che frattaglie cotte nell’olio di oliva rancido. Per lo meno, qui, al Misir Carsarsi, le frattaglie sono migliori che in altri posti.»
Il cameriere disse qualcosa sorridendo.
«Ha detto che il doner kebab è molto buono, oggi, io non gli credo, ma potrebbe anche essere vero. È un agnello appena nato, cotto sulla brace e servito con riso, spezie e una montagna di cipolle. O forse preferite qualcosa d’altro? Un pilaff o uno di quei dannati peperoni ripieni che si mangiano qui? D’accordo, allora. Ma prima provate qualche sardina arrostita en papillotte. Sono appena mangiabili.» Kerim arringò il cameriere.
Poi si accomodò meglio sulla sua poltrona e rivolse un sorriso a Bond. «È
l’unico modo di trattare questi esseri maledetti. Sono felici di essere presi a calci e di ricevere insulti. Sono le sole cose che capiscono. L’hanno nel sangue. Tutte queste pretese di democrazia li stanno uccidendo. I turchi desiderano soltanto dei sultani, e delle guerre e delle vergini da deflorare e dei divertimenti. Poveri bruti, nei loro abiti da cerimonia e coi loro cilindri, sono dei miserabili. Guardateli un po’. Comunque, vadano tutti all’inferno.
Ci sono novità?»
Bond scosse il capo. Informò Kerim del cambio della camera e delle valigie intatte.
Kerim bevve un bicchiere di raki e si pulì la bocca col dorso della mano. Fece eco ai pensieri che Bond aveva avuto qualche momento prima.
«Be’, la partita deve pur cominciare, una volta o l’altra. Io ho mosso certe pedine. Ora non dobbiamo fare altro che attendere e osservare. Dopo 108
pranzo faremo una piccola scorreria in territorio nemico. Credo che vi interesserà. Oh, non correremo alcun pericolo di essere visti. Ci muovere-mo nell’ombra, sotto terra.» Kerim rise divertito. «E ora parliamo di altri argomenti. Cosa ne pensate della Turchia? No, non voglio saperlo. Parliamo d’altro.» Furono interrotti dall’arrivo della prima portata. Le sardine en papillose avevano il sapore di qualsiasi altra sardina fritta. Kerim si riempì il piatto di un cibo che aveva l’apparenza di filetti di pesce crudo. Egli notò lo sguardo interrogativo di Bond. «Pesce crudo,» confermò Kerim. «Poi prenderò della carne cruda e della lattuga. E per finire, una ciotola di yogurt. Non sono un maniaco, ma una volta mi allenavo per diventare lottatore professionista. È una buona professione, qui da noi. Il pubblico l’apprezza. Il mio allenatore mi consigliava di mangiare soltanto del cibo crudo. Ho preso l’abitudine; a me piace,» Kerim agitò la forchetta, «ma non pretendo che debba piacere a tutti. Non mi importa nulla del gusto della gente, m’importa soltanto che i miei commensali mangino ciò che desiderano. Non posso sopportare gli ospiti malinconici.»
«Perché non siete diventato un lottatore? Come avete fatto a entrare nell’organizzazione?»
Kerim infilzò un filetto di pesce nella forchetta e lo portò alla bocca.
Poi bevve mezzo bicchiere di raki, accese una sigaretta e si rilassò sulla poltroncina. «Bene,» disse, sorridendo un po’ amaramente, «anche questo può essere un argomento come un altro. E voi vi sarete certamente chiesto:
“Come ha fatto quel grosso pazzo a entrare nello spionaggio?” Ve lo dirò io, ma brevemente, perché è una storia lunga. Se vi dovessi annoiare, mi fermerete. D’accordo?»
«Benissimo,» Bond accese una Diplomate e si preparò all’ascolto.
«Provengo da Trebisonda.» Kerim osservò il fumo della sigaretta che saliva a spirale verso il soffitto. «Facevo parte di una grande famiglia dalle molte madri. Mio padre era quel tipo d’uomo al quale le donne non possono resistere. Tutte le donne vogliono essere dominate. Nel loro inconscio, desiderano ardentemente di essere buttate sulla spalla di un uomo, trasci-nate in una caverna e violentate. Era il sistema adottato da mio padre. Egli era un grande pescatore e la sua fama era diffusa in tutto il Mar Nero. Era molto abile nella pesca dei pescispada. Sono pesci difficili da prendere e duri da vincere, ma mio padre era il migliore tra tutti coloro che si dedicavano a quella professione. Alle donne piace che il loro uomo sia considerato un eroe, e mio padre era una specie di eroe in un angolo della 109
Turchia dove, per tradizione, gli uomini sono dei duri. Era un tipo robusto e romantico e poteva avere qualsiasi donna desiderasse; siccome le desiderava tutte, molte volte si è trovato nella necessità di dover uccidere, pur di ottenere ciò che voleva. Naturalmente aveva molti figli. Vivevamo tutti assieme, pigiati in una vecchia casa semidiroccata che le nostre “zie”
governavano. Le zie costituivano un autentico harem. Una di loro era una istitutrice inglese di Istanbul che mio padre aveva visto tra gli spettatori in un circo equestre. Provarono subito una reciproca simpatia e quella sera stessa mio padre la portò a bordo della sua barca da pesca e la condusse a Trebisonda veleggiando lungo il Bosforo. Non credo che lei se ne sia mai pentita; al contrario, sono certo che abbia dimenticato tutto il resto del mondo ad eccezione di mio padre. È morta poco dopo la guerra; aveva sessant’anni. Prima di me era nato il bambino di una “zia” italiana, e la donna lo aveva chiamato Bianco. Era un bambino chiaro di pelle. Io ero scuro, e mi chiamarono Darko.17 Eravamo in una quindicina di ragazzi, e la nostra infanzia fu invidiabile. Le nostre zie si accapigliavano spesso e noi le imitavamo. La nostra vita era simile a quella di una tribù di zingari. Era governata da nostro padre che castigava duramente donne e bambini, im-parzialmente, quando gli davano fastidio. Ma sapeva essere molto buono, quando i suoi “sudditi” rigavano diritto. Ma certamente voi non potete capire un sistema familiare costruito su queste basi.»