IV


Lettera: Nicolao di Damasco

a Gaio Cilnio Mecenate, da Gerusalemme (14 a.C.)

Da tre anni a questa parte, nelle lettere che ti mando, mi domando perché il nostro amico Ottaviano Cesare ha insistito tanto affinché accompagnassi Marco Agrippa e sua moglie in questo lungo viaggio in Oriente. Sembra chiaro, infatti, che di per sé i miei rapporti con Erode non sono sufficienti a giustificare una così lunga assenza da Roma. Ora comincio a capire le sue ragioni. Prima di conoscerle, ti domanderai perché ho scritto a te, ormai ritirato dalla vita pubblica, anziché a Ottaviano Cesare stesso. Ma se sarai così cortese da seguirmi, comincerai poco a poco a capire.

Ti scrivo da Gerusalemme, in cui sono arrivato pochi mesi fa con Marco Agrippa e Giulia. Ci mandò qui Erode, che ci aveva offerto un periodo di riposo dopo gli interminabili viaggi. Ma il soggiorno di Agrippa a Gerusalemme fu breve: era appena arrivato che giunse notizia di gravi disordini nel Bosforo. L’anziano re, fedele a Roma, è morto, e la sua giovane consorte, Dynamis, immaginandosi senza dubbio una Cleopatra settentrionale e senza prestare attenzione alla sorte infelice di quella donna, si è alleata con un barbaro di nome Scribonio. Sfidando la politica di Roma, ha dichiarato di governare il regno del marito insieme all’amante. Infatti corre voce che, istigata da Scribonio, lei abbia avuto a che vedere con la morte del marito. In ogni modo Marco Agrippa, sapendo che questo regno è l’ultimo bastione contro i barbari del Nord, decise di recarsi laggiù per reprimere la rivolta. Ed è quanto sta facendo ora, con navi e uomini forniti da Erode.

Era impossibile, naturalmente, che Giulia lo accompagnasse. Inoltre non sembrava che ne avesse voglia, ma neppure accettò l’incitamento di Erode a restare a Gerusalemme fino al ritorno del marito. Né sembrò che lei stessa volesse tornare a Roma. Invece, nonostante le nostre preghiere, riunì il proprio seguito e, quando il marito partì per il Nord, lei partì per la Grecia e per quelle isole, più al Nord, da cui lei e Marco Agrippa erano appena tornati. Ho ricevuto notizie allarmanti da quella parte del mondo, dov’è ora Giulia. E sono state queste notizie, mio caro Mecenate, a spingermi a scriverti questa lettera.

Negli ultimi due anni, durante i loro comodi viaggi al Sud, tra le isole dell’Egeo e nelle città costiere della Grecia e dell’Asia, sia Marco Agrippa che Giulia sono stati ricevuti con gli onori dovuti ai rappresentanti dell’Imperatore Ottaviano Cesare e di Roma. Ma in modo particolare Giulia, in quanto figlia dell’Imperatore, è stata fatta oggetto di quelle adulazioni di cui soltanto i Greci delle isole e dell’Est sono capaci.

Le adulazioni cominciarono in modo abbastanza consueto. Ad Andros, in onore della sua visita, era stata eretta una statua con le sue sembianze. Quando lo seppero, gli abitanti di Mitilene, nell’isola di Lesbo, costruirono una statua più grande che aveva allo stesso tempo le sembianze di Giulia e della dea Afrodite. E, a partire da quel momento, man mano che isole e città venivano a sapere dell’arrivo di Giulia e Agrippa, le cerimonie divennero sempre più stravaganti, finché, alla fine, Giulia finì con l’essere considerata la dea Afrodite in persona, tornata sulla terra per essere adorata (almeno con i riti) dal popolo.

Anche tu, come me, riterrai che in tutta questa stravaganza, per quanto sia ridicola, non c’è in realtà niente di troppo nocivo. Infatti, in quelle manifestazioni pubbliche, i Greci furono così astuti da modificare gli strani riti in modo da non arrecare offesa a nessuno, e da farli apparire quasi romanizzati.

Ma, nel bel mezzo di tutto questo, ha cominciato ad accadere qualcosa di davvero straordinario a Giulia, a cui io sono sempre stato (come sai) molto affezionato. È come se avesse cominciato ad acquisire alcuni attributi di quel personaggio a cui è stata paragonata nei riti: è divenuta imperiosa e sempre arrogante, come se, in effetti, davvero non fosse mortale.

Quest’impressione ormai mi martella da un po’ di tempo: ma proprio ora ho ricevuto notizie dall’Asia che, purtroppo, la confermano pienamente.

Secondo il rapporto, Giulia, dopo aver trascorso la giornata a Ilio, mentre passeggiava tra le rovine dell’antica Troia tentò di attraversare di notte il fiume Scamandro. In seguito a circostanze non chiare, la zattera su cui viaggiavano Giulia e i suoi servi si capovolse, e tutti furono trascinati a valle dalla corrente. Di certo ognuno di loro rischiò la morte, ma alla fine Giulia fu tratta in salvo (da chi, non si sa). Poi, in preda all’ira contro gli abitanti del villaggio che secondo lei non tentarono di salvarla, e in nome di suo marito Marco Agrippa, impose al villaggio il pagamento di centomila dracme, cioè quasi mille dracme per ognuno di quei poveretti. È davvero una penalità enorme per individui miserabili, gran parte dei quali non riesce a mettere insieme mille dracme in una intera esistenza di fatiche.

Si sostiene che gli abitanti di quel villaggio, nonostante avessero sentito le invocazioni d’aiuto e fossero accorsi a guardare, non tentarono il salvataggio. Potrebbe essere vero. Ciononostante intercederò. Chiederò un favore a Erode (che me ne deve parecchi) pregandolo di persuadere Marco Agrippa a condonare la multa. Lo farò non per compassione degli abitanti del villaggio, ma perché temo per la sicurezza della famiglia di Ottaviano Cesare.

Infatti Giulia non aveva trascorso la giornata come una innocente viaggiatrice a Ilio, e la sua traversata dello Scamandro non era stata un innocente ritorno ai suoi alloggi.

Ti ho parlato prima di quelle cerimonie pubbliche, in parte religiose, in parte politiche, in parte sociali, nel corso delle quali Giulia era stata innalzata sul trono di Afrodite. Bene: oltre queste, c’è un altro genere di cerimonia che non è pubblica, ma segreta, ignorata e molto spaventosa in quest’epoca illuminata.

Esiste un culto segreto, in quelle isole e tra quei Greci dell’Est, che adora una dea il cui nome (almeno per i non iniziati) è ignoto. Si dice che sia la dea di tutti gli dèi e le dee. Il suo potere trascende quello di tutte le altre divinità concepite dal genere umano. In determinate occasioni, la potenza di questa dea viene celebrata con riti molto strani… Nessuno sa di cosa si tratta, in realtà, poiché il culto è segretissimo. Ma nessun segreto è assoluto e, nei miei viaggi, ne ho sentito parlare quanto basta per colmarmi di ripugnanza a causa della sua natura, e di apprensione a causa delle sue conseguenze.

È un culto femminile e, nonostante esistano dei sacerdoti, sono uomini castrati che consentirono ad essere impiegati come vittime sacrificate alla dea. Sono le sacerdotesse a scegliere queste vittime: si dice che talvolta scelgano i loro stessi figli poiché, stando al culto, ognuna di queste vittime è il più onorato e il più fortunato degli uomini. Il prescelto deve avere meno di vent’anni, dev’essere vergine, e deve prestarsi volontariamente al sacrificio.

Non conosco la natura esatta del rito. Ma ho sentito personalmente, da lontano, la musica dei flauti e i canti nei sacri boschetti dove i rituali vengono celebrati. Si dice che per tre giorni gli iniziati e gli appartenenti alla setta si «purifichino» mediante l’astinenza da tutto ciò che è carnale. Si dice, inoltre, che quando i riti incominciano, i celebranti si inebrino con danze, canti e strane bevande… nessuno sa se di vino o di qualche altra sostanza più misteriosa. Poi, quando i celebranti sono in preda alla frenesia indotta dalla musica, dai canti e dalla strana bevanda, la cerimonia incomincia. Una delle numerose vittime destinate al sacrificio viene condotta davanti alla donna prescelta quale incarnazione rituale della Grande Dea. A parte la pelliccia di qualche belva avvolta intorno alla vita, l’uomo è nudo. Viene legato a una croce fatta con legno sacro ricavato da alberi del boschetto, per i polsi e per i piedi, con ghirlande di alloro. Dopo che è stato portato davanti alla dea, i celebranti gli danzano intorno. Si dice che mentre danzano, divenuti frenetici, si strappino di dosso le vesti. Poi la dea si avvicina al giovane e, con il coltello sacro, allenta la pelliccia che ne nasconde la nudità. Poi, quando trova una vittima che le piace, taglia le corde di alloro e conduce il giovane nel bosco sacro, preparato per le «nozze» tra lei e il mortale.

Le «nozze» dovrebbero essere un matrimonio rituale. Ma in realtà si tratta di un culto femminile e segreto, non sanzionato né dalla legge né dalle tradizioni pubbliche. La dea e la sua vittima rimangono nascosti per tre giorni in una caverna. Si dice che la dea abusi della vittima in qualsiasi modo le piaccia. Cibi e bevande vengono collocati all’imboccatura della caverna, e i celebranti all’esterno indulgono a qualsiasi lussuria o perversione cui li induca la frenesia.

Dopo tre giorni, la dea e il suo amante mortale escono dalla caverna, e attraversano un corso d’acqua diretti verso un altro bosco sacro che assume il nome di Isola del Benedetto. Là l’amante mortale diviene immortale, per lo meno nel barbaro pensiero dei celebranti.

È noto a tutti che questo culto predomina da Ilio a Lesbo, e che tra i suoi fedeli ci sono membri delle famiglie più ricche e colte in quella parte del mondo. Quando la sua zattera si capovolse, Giulia stava tornando da uno di questi riti, e stava andando nell’Isola del Benedetto. Era stata l’incarnazione della dea. Gli abitanti del villaggio, che detestano quelle pratiche tenebrose, non riuscirono a superare il timore di questi strani esseri, che secondo loro vivono in un mondo al di là della loro comprensione e della loro esperienza. Non posso consentire che vengano costretti a versare la somma imposta, poiché in tal caso la segretezza (che ora protegge Giulia, l’ignaro Marco Agrippa, Ottaviano Cesare, e persino Roma stessa) verrebbe violata.

A parte le pratiche oscene su cui corrono tante voci, poi, ce n’è un’altra ancor più grave. Gli adepti del culto hanno l’obbligo di abiurare ogni autorità tranne i propri desideri e non devono ubbidienza ad alcun uomo, legge, o tradizione dei mortali. In questo modo, non si incoraggia soltanto l’immoralità… ma anche l’omicidio, il tradimento e ogni altra azione illegale.

Mio caro Mecenate, confido che tu ora capisca perché non ho potuto scrivere all’Imperatore, perché non posso parlare con Marco Agrippa, perché devo addossare a te il fardello di questo problema, nonostante tu ti sia ritirato dalla vita pubblica. Devi trovare il modo di persuadere il tuo amico e padrone a costringere Giulia a tornare a Roma. Se per il momento non è ancora irrimediabilmente corrotta, lo sarà presto, a furia di restare in questo strano paese che ha scoperto.

Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)

Non ho mai saputo perché mio padre mi ordinò, in termini a cui non potevo disubbidire, di tornare a Roma. Non mi diede mai ragioni tali da giustificare l’imperiosità dell’ordine. Si limitò a dire che era sconveniente che la moglie del secondo cittadino rimanesse così a lungo lontana dal popolo da cui era amata. E che c’erano certi doveri sociali e religiosi a cui soltanto Livia e io potevamo adempiere. Non credetti che fosse questa la ragione vera del richiamo, ma non mi consentì di fargli domande. Comunque di certo si accorse di quanto mi pesava tornare: mi sembrava, allora, di essere stata esiliata dalla sola vita in cui mi ero sentita me stessa, e di dover trascorrere i giorni compiendo doveri che per me non avevano più significato.

In ogni caso fu Nicolao, quel bizzarro, piccolo ebreo siriano, a cui mio padre era inesplicabilmente affezionato e di cui si fidava, a recapitarmi il messaggio, dopo aver compiuto il viaggio da Gerusalemme per trovarmi a Mitilene, nell’isola di Lesbo.

Ero arrabbiata, e gli dissi: «Non andrò. Non può costringermi a tornare».

Nicolao si strinse nelle spalle: «È tuo padre», disse.

«Mio marito», replicai. «Sono qui con mio marito».

«Tuo marito…», disse Nicolao, «tuo marito è nel Bosforo. Ed è amico di tuo padre. E tuo padre è l’Imperatore. Ottaviano Cesare sente la tua mancanza, sospetto. E a Roma… sarà primavera quando tornerai».

Così salpammo da Lesbo, e io vidi l’isola scivolare via, come nubi in un sogno. Era la mia vita, pensai, ad allontanarsi da me. La vita in cui ero stata una Regina, e più di una Regina. E, man mano che i giorni passavano e ci avvicinavamo sempre più a Roma, capii che quella che tornava non era la stessa donna partita tre anni prima.

Capii anche che la vita a cui tornavo sarebbe stata diversa. Ignoravo in che modo, ma ne ero sicura. Nemmeno Roma avrebbe più potuto intimorirmi ormai, mi dissi. E mi chiesi, ricordo, se mi sarei sentita ancora una bambina rivedendo mio padre.

Tornai a Roma nell’anno del consolato di Tiberio Claudio Nerone, figlio di Livia e marito della figlia di mio marito, Vipsania. Avevo venticinque anni. Colei che era stata una dea tornava a Roma come una mera donna, amareggiata.

Lettera: Publio Ovidio Nasone

a Sesto Properzio, in Assisi (13 a.C.)

Caro Sesto, mio amico e maestro… Come te la passi nel malinconico esilio che ti sei imposto? Il tuo Ovidio ti supplica di tornare a Roma, sentiamo tantissimo la tua mancanza. La situazione qui non è tanto tetra come potresti credere. Un nuovo astro splende nel cielo romano e, una volta di più, chi ha sufficiente spirito può vivere nell’allegria e nei piaceri. In questi ultimi mesi, infatti, sono arrivato alla conclusione che non vorrei vivere in nessun’altra epoca e in nessun altro luogo.

Tu sei il maestro della mia arte e più anziano di me… Pure, puoi essere certo riguardo a chi è più saggio? La tua malinconia potrebbe scaturire da te stesso, anziché essere stata determinata da Roma. Ritorna tra noi, ti prego. Possiamo ancora godere dei piaceri, prima che discenda l’eterna notte.

Ma perdonami. Non sono tagliato per i discorsi seri, e tu lo sai. E anche se li comincio, non riesco a concluderli. All’inizio di questa lettera volevo soltanto parlarti di una giornata deliziosa, sperando di poterti così persuadere a tornare con noi.

Ieri era l’anniversario della nascita dell’Imperatore Ottaviano Cesare, e dunque una festività romana. Ciononostante, per me la giornata cominciò male. Ero nel mio ufficio, ed era prestissimo… alla prima ora, proprio mentre il sole cominciava faticosamente a salire da Oriente attraverso quella selva di edifici che è Roma, ed era sul punto di porre ai suoi piedi la città… Ero in ufficio così presto perché, nonostante non si può lavorare a una causa durante una festività, purtroppo si può essere costretti a farlo il giorno dopo: e io avevo una difesa particolarmente difficile da preparare. Cornelio Apronio ha citato Fabio Cretico per il mancato pagamento di certe terre, mentre Cretico lo ha citato a sua volta, in quanto dice che i titoli della proprietà sono viziati. Entrambi sono ladri, nessuno dei due è dalla parte della ragione. Di conseguenza l’abilità della difesa e la persuasività dell’arringa rivestono un’importanza enorme… Come, naturalmente, il magistrato che ci capiterà.

In ogni modo, avevo lavorato per l’intera mattinata. Mi venivano in mente versi meravigliosi, come accade sempre quando mi sto occupando di qualcosa che mi annoia. Il mio segretario era particolarmente lento e maldestro, e il rumore che veniva dal Foro mi urtava i timpani più ferocemente di quanto avrebbe dovuto. Stavo divenendo sempre più irritabile e, per la centesima volta, giurai di rinunciare a questa stupida carriera che, in ultimo, mi darà soltanto ricchezze di cui non ho bisogno e la noiosa distinzione di una carica senatoriale.

Poi, nel pieno di quella noia, accadde una cosa straordinaria. Sentii un rumore di passi fuori della porta, e una risata. E, nonostante non avessi sentito bussare, la porta si spalancò, ed ecco apparire davanti a me il più sorprendente eunuco che io abbia mai visto… Acconciato e profumato, avvolto in sete eleganti, con smeraldi e rubini alle dita. Rimaneva lì davanti a me come fosse qualcosa di meglio di un liberto, persino qualcosa di meglio di un cittadino.

«Questi non sono i Saturnali», dissi rabbioso. «Chi ti ha dato il permesso di fare irruzione nel mio ufficio?».

«La mia padrona», fece lui, con voce effeminata e stridula, «che ti ordina di seguirmi».

«La tua padrona», dissi, «può marcire, per quello che me ne importa… Chi è?».

Sorrise, come io fossi una lumaca ai suoi piedi.

«La mia padrona è Giulia, figlia di Ottaviano Cesare l’Augusto, Imperatore di Roma e primo cittadino. Vuoi sapere di più, giurista?».

Credo di averlo fissato a bocca aperta. Non riuscivo a parlare.

«Quindi mi seguirai?», fece lui, arrogante.

In un lampo la mia irritazione si dileguò. Risi e gettai al segretario il fascio di scartoffie che avevo in mano. «Fa’ il meglio che potrai con questi documenti», dissi. Poi mi girai verso lo schiavo che mi aspettava. «Ti seguirò», dissi, «dovunque la tua padrona voglia». E lo seguii uscendo dall’ufficio.

Com’è mia abitudine, caro Sesto, farò una breve digressione. Per caso, avevo conosciuto la dama in questione poche settimane prima, in un’enorme festa offerta da quel Sempronio Gracco che conosciamo entrambi. La figlia dell’Imperatore era tornata appena un mese prima da un lungo viaggio in Oriente, dove aveva accompagnato il marito, Marco Agrippa, recatosi laggiù per certe sue missioni, e dove Agrippa rimane ancora adesso. Ero ansioso di conoscerla, naturalmente. Dopo il suo ritorno, la gente elegante di Roma non aveva parlato d’altro. E così quando Gracco, che sembra avere rapporti molto amichevoli con lei, mi invitò, io, inutile dirlo, mi affrettai ad accettare.

C’erano letteralmente centinaia di persone alla festa nella villa di Sempronio Gracco… Una riunione davvero troppo numerosa per poter essere molto divertente eppure, a suo modo, fu piacevole. Nonostante il gran numero di invitati, ebbi la fortuna di imbattermi in Giulia, e chiacchierammo per qualche momento. È una donna incantevole, squisitamente bella, e davvero intelligentissima e colta. Fu così cortese da dirmi che aveva letto alcune delle mie poesie. Conoscendo la fama di incorruttibilità di suo padre (come la conosci tu, mio povero Sesto), cercai di scusarmi piuttosto miserevolmente per l’«impertinenza» dei miei versi. Ma lei mi sorrise in quel suo modo disarmante, e disse: «Mio caro Ovidio, se vuoi convincermi che, nonostante i tuoi versi siano impertinenti, tu conduci un’esistenza casta, non ti rivolgerò più la parola».

Risposi: «Mia cara Giulia, se questa è la condizione, mi sforzerò di persuaderti del contrario».

Rise e si allontanò da me. Nonostante si fosse trattato di un momento piacevole, non mi passò neppure per la mente che lei avrebbe pensato ancora a me, e tanto meno che si sarebbe ricordata della mia esistenza per due settimane intere. Invece fu così. E ieri mi trovai di nuovo in sua compagnia, in seguito alle circostanze che ti ho descritto.

Davanti alla porta dell’ufficio c’erano, con i rispettivi portatori, almeno sei lettighe, chiuse da tendaggi di seta viola e d’oro. Oscillavano a causa dei movimenti di chi le occupava, e nella strada echeggiavano delle risate. Rimasi lì in piedi, senza sapere da che parte andare. Il mio castrato accompagnatore si era allontanato e stava rimproverando alcuni schiavi inferiori a lui. Poi qualcuno scese da una lettiga, e vidi subito che si trattava di lei, Giulia, che aveva così cortesemente interrotto la mia noiosa mattinata. Qualcun altro scese dalla lettiga e la raggiunse. Era Sempronio Gracco. Mi sorrise. Andai verso di loro.

«Mi hai salvato dalla morte per noia», dissi a Giulia. «Cosa farai adesso di questa mia vita che ti appartiene?».

«Me ne servirò in modo frivolo», rispose lei. «Oggi è il compleanno di mio padre, e lui mi ha permesso di invitare qualche mio amico nel suo palco al Circo. Assisteremo ai giochi e getteremo via denaro facendo scommesse».

«I giochi», dissi. «Fantastico». Nelle mie intenzioni, l’osservazione voleva essere neutra, ma Giulia la scambiò per ironia. Rise.

«Non è necessario interessarsi ai giochi», disse. «Ci si va per vedere, per essere visti, e per scoprire distrazioni meno consuete». Guardò Sempronio. «Forse imparerai». Mi voltò le spalle e chiamò gli altri. «Chi vuole dividere il suo posto con Ovidio, il poeta dell’amore, che scrive di cose cui avete dedicato la vita?».

Dalle lettighe si alzarono diverse voci, e molte gridarono il mio nome: «Qui, Ovidio, vieni con noi… La mia fanciulla ha bisogno di consigli!». «No, sono io ad aver bisogno dei tuoi consigli!». E si udirono molte risate. Infine, scelsi una lettiga su cui c’era posto per me, i portatori sollevarono il loro fardello, e ci dirigemmo adagio, lungo le strade gremite di folla, verso il Circo Massimo.

Arrivammo a mezzogiorno, proprio mentre orde di gente scendevano dalle gradinate per uno spuntino frettoloso prima della ripresa dei giochi. Provai una strana sensazione quando vidi che quella gente, riconoscendo i colori delle nostre lettighe, ci aprì un varco, come la terra si separa davanti all’avanzare del vomere. Eppure tutti erano allegri, ci salutavano e gridavano nel modo più amichevole.

Scendemmo dalle lettighe. Con Giulia, Sempronio Gracco e un altro che non conoscevo in testa, passammo sotto gli archi che fendono il Circo come un favo, diretti verso le scale. Di quando in quando, da sotto gli archi, un astrologo ci faceva cenno e ci chiamava, e poi qualcuno del gruppo gridava: «Lo conosciamo già il nostro futuro, vecchio!», e lanciava una moneta. Oppure una prostituta faceva cenni seducenti a chi sembrava libero, ma allora una delle dame le diceva, con simulato terrore: «Oh, no! Non rubarcelo! Potrebbe non tornare mai più!».

Salimmo le scale e, mentre ci avvicinavamo al palco imperiale, ci invitarono al silenzio, per rispetto alla presenza di Ottaviano Cesare. Ma Ottaviano non era nel palco, quando entrammo. E, devo ammetterlo, nonostante il piacere della compagnia di quella simpaticissima comitiva, mi sorpresi di ritrovarmi un po’ deluso.

Infatti, come tu sai, io non sono (come invece tu sei) intimo di Mecenate, e non ho mai conosciuto Ottaviano Cesare. L’ho visto da lontano, s’intende, come tutti a Roma. Ma di lui so soltanto quanto mi è stato riferito.

«L’Imperatore non è qui?», chiesi.

Giulia rispose: «Certi tipi di spargimento di sangue non piacciono a mio padre». E indicò, in basso, lo spazio aperto dell’arena. «Di solito arriva tardi, quando è finita la caccia alle belve».

Guardai nella direzione che mi indicava. Gli inservienti stavano trascinando via gli animali uccisi e rastrellavano la terra chiazzata di sangue. Vidi tante tigri, un leone, e persino un elefante trascinati al suolo. Avevo già assistito a una di quelle cacce, non appena arrivato a Roma, e l’avevo trovata noiosissima e rozza. Lo dissi a Giulia.

Lei sorrise: «Mio padre dice che a rimanere uccisi sono o uno sciocco o una bestia ottusa, e afferma di non riuscire a interessarsi né all’uno né all’altra. E a parte questo, non si può scommettere su queste lotte tra cacciatori e belve. Mio padre ama scommettere».

«È tardi», osservai. «Verrà, non è vero?».

«Deve venire», rispose lei. «I giochi hanno luogo in onore del suo compleanno, e lui non può certo essere scortese con chiunque lo onori in questo modo».

Annuii e ricordai che i giochi erano offerti da uno dei nuovi pretori, Iullo Antonio. Feci per dire qualcosa a Giulia, ma ricordai chi era Iullo Antonio e preferii tacere.

Giulia, però, doveva essersi accorta della mia intenzione, poiché sorrise. «Sì», disse. «In modo particolare mio padre non sarebbe scortese con il figlio di un vecchio nemico che ha perdonato, e la cui stirpe ha preferito a certi suoi parenti».

Annuii, e non parlai più della cosa. Ma mi meravigliai di questo figlio di Marco Antonio il cui nome, anche tanti anni dopo la sua morte, è ancora onorato da molti cittadini di Roma.

Ma in una comitiva così allegra c’era poco tempo per meravigliarsi di cose del genere. I servi portarono leccornie su piatti d’oro, e versarono vino in coppe dorate. Mangiammo, bevemmo e conversammo mentre osservavo la folla tornare sulle gradinate per le corse pomeridiane.

All’ora sesta le gradinate erano gremite e, mi sembrò, addirittura traboccanti, invase da buona parte della popolazione di Roma. Poi, a un tratto, più forte del fragore naturale della folla, si levò un urlo. Gran parte della plebe era in piedi, e tutti indicavano il nostro palco. Mi girai, sbirciando oltre la mia spalla. In fondo al palco, nell’ombra, si profilavano due figure, una piuttosto alta, l’altra bassa. L’uomo alto indossava la tunica riccamente ricamata e la toga dagli orli purpurei di un console. Il più basso portava la semplice tunica bianca e la toga dei comuni cittadini.

Il più alto dei due era Tiberio, figliastro dell’Imperatore e console di Roma. Il meno alto era naturalmente l’Imperatore Ottaviano Cesare in persona.

Entrarono nel palco. Ci alzammo. L’Imperatore sorrise e ci fece cenno di sederci. Prese posto accanto a sua figlia, mentre Tiberio (un giovane dal volto severo, che sembrava non volersi trovare dov’era) sedette lontano dagli altri e non rivolse la parola a nessuno. Per vari momenti l’Imperatore e Giulia parlarono tra loro. Poi l’Imperatore mi guardò e disse qualcosa a Giulia, che sorrise, annuì, e poi mi fece cenno di avvicinarmi.

Andai accanto a loro e Giulia mi presentò a suo padre.

«Sono lieto di conoscerti», disse l’Imperatore. Aveva la faccia rugosa e stanca, i capelli chiari brizzolati di bianco… Ma gli occhi erano luminosi, penetranti e all’erta. «Il mio amico Orazio mi ha parlato della tua opera».

«Spero bene», dissi, «ma non posso avere la temerarietà di emularlo. La mia musa è più piccola e più volgare, temo».

Ottaviano Cesare annuì. «Ubbidiamo tutti alla musa che ci presceglie… Hai qualche favorito, oggi?».

«Come?», chiesi senza capire.

«Le corse», disse lui. «Hai qualche guidatore favorito?».

«Cesare», risposi, «devo confessarti che vengo alle corse più per la compagnia che per i cavalli. In realtà ne so pochissimo».

«Allora non scommettere», disse. Sembrava un po’ deluso.

«Scommetto su tutto tranne che sulle corse», mormorai. Annuì, sorrise appena, e si girò verso qualcuno alle sue spalle.

«Quale scegli nella prima?».

Ma, a chiunque si fosse rivolto, non ebbe il tempo di sentirne la risposta. All’estremità opposta della pista i cancelli si spalancarono, le trombe squillarono, e il corteo entrò. Era preceduto da Iullo Antonio, il pretore che aveva finanziato i giochi. Iullo indossava una tunica scarlatta, sopra la quale portava la toga orlata di porpora. Con la mano destra reggeva l’aquila d’oro, che sembrava quasi sul punto di spiccare il volo dalla bacchetta d’avorio sulla quale poggiava, e sulla testa la corona dorata di alloro. Dritto sopra il cocchio trainato da un magnifico cavallo bianco, era una figura imponente, devo riconoscerlo, anche visto così da lontano.

Adagio, il corteo fece il giro della pista. Dietro Iullo Antonio venivano i sacerdoti dei riti, che si occupano delle statue ritenute dagli ignoranti le reali personificazioni degli dèi. Seguivano i guidatori che dovevano gareggiare, splendenti nelle tenute bianche e rosse, verdi e blu. Infine una turba di danzatrici, mimi e buffoni piroettavano e facevano capriole sulla pista, mentre i sacerdoti lasciavano le effigi sulla piattaforma intorno a cui i corridori avrebbero guidato i cocchi.

Poi il corteo si diresse verso il palco dell’Imperatore. Iullo Antonio si fermò, salutò Ottaviano Cesare, e gli offrì i giochi in onore del suo compleanno. Osservai Iullo, lo ammetto, con una certa curiosità. È un uomo straordinariamente bello, con le braccia muscolose abbronzate dal sole, la faccia bruna e lievemente greve, denti bianchissimi e capelli neri ricci. Si dice che somigli molto al padre, nonostante tenda meno di lui a ingrassare.

Dopo aver dedicato i giochi, Iullo Antonio si avvicinò al palco e gridò all’Imperatore: «Ti raggiungerò dopo, quando li avrò fatti partire».

Ottaviano Cesare annuì. Sembrava soddisfatto. Si girò verso di me: «Antonio conosce i cavalli e i guidatori. Ascolta lui. Imparerai qualcosa sulle corse».

Devo confessare, Sesto, che i modi dei grandi superano le mie capacità di comprensione. L’Imperatore Ottaviano Cesare, padrone del mondo, sembrava interessarsi soltanto alle corse imminenti. Nei confronti del figlio di un uomo che aveva sconfitto in battaglia e costretto a uccidersi, era affettuoso, amichevole e spontaneo. E si rivolgeva a me come fossimo i più comuni cittadini. Ricordo di aver pensato fuggevolmente alla possibilità di una poesia su questo tema ma, con altrettanta rapidità, scartai l’idea. Sono certo che Orazio ne avrebbe composta una, ma non è questo il mio (o il nostro) genere.

Iullo Antonio scomparve al di là di un cancello all’estremità opposta dell’arena, e poco dopo riapparve nel suo palco sopra la linea di partenza. Un grido tonante si levò dalla folla, Iullo Antonio salutò con la mano e abbassò gli occhi sui corridori allineati sotto di lui. Poi calò la bandiera bianca. Le barriere caddero e, in un nuvolone di polvere, i cocchi partirono.

Scoccai un’occhiata furtiva all’Imperatore e mi stupii constatando come quasi non sembrasse interessarsi alle corse, adesso che erano cominciate. Sorprese il mio sguardo e mi disse: «Chi è assennato non scommette sulla prima corsa. I cavalli sono talmente innervositi dalla sfilata che di rado corrono come potrebbero».

Annuii, come se quanto aveva detto avesse un senso per me.

Quando i cocchi ancora non avevano completato quattro dei sette giri, Antonio si unì a noi. Sembrava conoscere quasi tutte le persone presenti nel palco, poiché le salutò amichevolmente con cenni del capo e pronunciò alcuni dei loro nomi. Sedette tra l’Imperatore e Giulia e ben presto tutti e tre cominciarono a scambiare scommesse e a ridere.

Così trascorse il pomeriggio. I servi portarono altri cibi, vino, e pezzuole umide, perché potessimo toglierci dalla faccia la polvere sollevata dai cavalli. L’Imperatore puntò su ogni corsa, a volte scommettendo con più persone contemporaneamente. Perdeva con noncuranza e vinceva con somma felicità. Subito prima dell’inizio dell’ultima corsa, Iullo Antonio si alzò per andarsene, dicendo che aveva alcune ultime cose da sbrigare sulla linea di partenza. Mi salutò ed espresse la speranza che potessimo rivederci, si congedò dall’Imperatore, poi si inchinò, con quella che mi sembrò un’elaborata e privata ironia, a Giulia, che rovesciò la testa indietro e rise.

Ottaviano Cesare si accigliò, ma non disse nulla. Poco dopo, quando la folla aveva cominciato a uscire dal Circo, ci congedammo. Alcuni di noi si riunirono per qualche tempo, quella sera, in casa di Sempronio Gracco. E io appresi quella che poteva essere stata la causa della piccola scena muta tra Iullo Antonio e la figlia dell’Imperatore. Fu la stessa Giulia a dirmelo.

Il marito di Giulia, Marco Agrippa, era stato sposato con la più giovane Marcella, figlia di Ottavia, la sorella dell’Imperatore. Nei primi mesi della vedovanza di Giulia, l’Imperatore lo aveva persuaso a divorziare da Marcella e sposare Giulia. Solo di recente Iullo aveva sposato quella Marcella che era stata la consorte di Agrippa.

«È tutto molto confuso», dissi esitante.

«In realtà no», disse Giulia. Poi rise: «Mio padre ha annotato ogni cosa, per cui ognuno può sempre sapere con chi è sposato».

E questi, mio caro Sesto, sono stati il pomeriggio e la serata che ho trascorso. Ho visto ciò che è nuovo e ciò che è vecchio. E Roma sta ridiventando un luogo in cui si può vivere.

Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)

Non mi è consentito bere vino, e il mio vitto è quello rozzo dei contadini… Pane scuro, legumi secchi e pesce salato. Ho preso le abitudini dei poveri: alla fine della giornata faccio il bagno e consumo un pasto frugale. A volte ceno in compagnia di mia madre, ma preferisco mangiare sola al tavolo davanti alla mia finestra, da cui posso vedere il mare ondularsi con l’alta marea della sera.

Ho imparato a gustare il sapore semplice di questo pane scuro, cotto alla buona dalla serva muta. Ha un sapore granuloso di terra, accentuato dall’acqua gelida della fonte che sostituisce il vino. Mangiando, penso alle centinaia e centinaia di migliaia di poveri e di schiavi vissuti prima di me… Impararono anche loro a gustare il loro vitto semplice, come ho fatto io? O il sapore di questi cibi veniva guastato, nelle loro bocche, dai sogni delle leccornie che non avrebbero mai avuto? Forse, com’è accaduto a me, si deve passare dalle vivande più ricche ed esotiche a quelle estremamente semplici. Ieri sera, seduta al tavolo dove scrivo queste parole, ho cercato di ricordare il sapore di quegli altri cibi, senza riuscirci. E, compiendo quel tentativo di richiamare alla mente quanto non sperimenterò mai più, ho ricordato una sera nella villa di Sempronio Gracco.

Non so perché ho ricordato proprio quella serata. Ma a un tratto, nel crepuscolo di Pandataria, la scena è scaturita davanti a me, come ripetuta sul palcoscenico di un teatro, e i ricordi mi hanno travolta prima che riuscissi a respingerli.

Marco Agrippa era tornato dall’Oriente, raggiungendomi a Roma, dove si trattenne per tre mesi. Io rimasi incinta del quarto figlio. Poco dopo, all’inizio dell’anno, mio padre inviò Agrippa al Nord, nella Pannonia, dove le tribù barbare minacciavano di nuovo la frontiera del Danubio. Sempronio Gracco, per festeggiare la mia libertà e annunciare l’arrivo della primavera, offrì una festa come (promise a tutti) Roma non ne aveva mai vedute. Tutti gli amici, da cui ero rimasta separata mentre mio marito si trovava a Roma, sarebbero stati invitati.

Nonostante i libelli che furono fatti circolare in seguito, Sempronio Gracco non era il mio amante. Libertino, mi trattava (come trattava molte donne) con una disinvolta familiarità che avrebbe potuto far nascere dicerie, per quanto false. In quel periodo, io ero ancora consapevole della posizione che mio padre immaginava dovessi occupare. E il periodo in cui ero stata una dea a Ilio mi sembrava un sogno in attesa di realizzarsi. Per qualche tempo ero potuta diventare un’altra creatura, diversa da me stessa.

Ai primi di marzo, mio padre assunse la carica di pontifex maximus, lasciata libera dalla morte di Lepido: decretò un giorno di giochi per festeggiare l’evento. Sempronio Gracco disse che, se l’antica Roma doveva avere un alto sacerdote, la nuova Roma esigeva un’alta sacerdotessa. Così offrì quel ricevimento alla fine di marzo, e nella città tutti parlarono di ciò che gli invitati si sarebbero potuti aspettare. Alcuni dicevano che gli ospiti sarebbero stati portati in giro su elefanti addomesticati, altri che mille musicanti erano stati fatti venire dall’Oriente, insieme ad altrettanti danzatori: la fantasia alimentava le aspettative e le aspettative alimentavano la fantasia.

Ma, una settimana prima della data fissata per la festa, a Roma arrivarono notizie secondo cui Agrippa, domata la rivolta sul confine più rapidamente di quanto chiunque si aspettasse, era tornato in Italia da Brindisi. Voleva raggiungere la nostra villa vicino a Puteoli, e io avrei dovuto incontrarlo là.

Non andai. Nonostante l’irritazione di mio padre, proposi di raggiungere mio marito la settimana seguente, quando si fosse riposato dalle fatiche del viaggio.

Quando feci questa proposta, mio padre mi fissò gelido: «Immagino che tu voglia andare alla festa offerta da Gracco».

«Sì», risposi. «Devo essere l’ospite d’onore. Sarebbe una villania rifiutare all’ultimo momento».

«Hai dei doveri nei confronti di tuo marito».

«E di te e della tua causa e di Roma», dissi.

«Questi giovani con cui passi il tempo», osservò, «ti è mai successo di paragonare il loro comportamento a quello di tuo marito e dei suoi amici?».

«Questi giovani», dissi, «sono miei amici. Puoi star certo che quando invecchierò saranno vecchi anche loro».

Fece un mezzo sorriso. «Hai ragione», disse. «È facile dimenticarlo. Invecchiamo tutti, e un tempo siamo stati giovani… Spiegherò a tuo marito che certi obblighi ti trattengono a Roma. Ma lo raggiungerai la settimana dopo».

«Sì», dissi, «lo raggiungerò allora».

Fu così che non mi incontrai con mio marito nel Sud, e andai alla festa di Sempronio Gracco. Divenne il ricevimento più famoso di Roma per molti anni, ma per ragioni che nessuno avrebbe potuto prevedere.

Non c’erano elefanti addomesticati per portare gli ospiti da un luogo all’altro, né alcuna delle altre meraviglie di cui tutti avevano parlato. Risultò essere semplicemente la riunione di poco più di cento invitati, serviti e intrattenuti da quasi altrettanti schiavi, musicanti e danzatori. Mangiammo, bevemmo, ridemmo. Guardammo le danze e ci unimmo ai danzatori, con gioia e confusione. E, al suono di cembali, arpe e oboe, ci aggirammo nei giardini dove le fontane univano la loro voce alla musica e la luce delle torce giocava sulle acque danzando in un modo che trascendeva le capacità del corpo umano.

Verso la fine della serata doveva esserci un’esibizione speciale dei musicanti e dei danzatori, e il poeta Ovidio doveva leggere nuovi versi, composti in mio onore. Sempronio Gracco aveva fatto costruire per me una speciale sedia d’ebano, posta su un lieve innalzamento del terreno in giardino, in modo che tutti gli invitati potessero (come disse con la sua consueta ironia) rendermi omaggio…

Occupai la sedia e li vidi sotto di me. Si alzò la brezza. La sentii frusciare tra i cipressi e i platani mentre mi sfiorava come una carezza la tunica di seta. I danzatori ballarono e la pelle degli uomini cosparsa di unguenti lampeggiò alla luce delle torce. E io ricordai Ilio e Lesbo, in cui un tempo ero stata più che mortale. Sempronio era adagiato accanto al mio trono, sull’erba, e per un momento mi sentii felice come lo ero stata, e tornai ad essere me stessa.

Ma in questa felicità divenni consapevole di qualcuno accanto a me, che si inchinava cercando di richiamare la mia attenzione. Riconobbi un servo della casa di mio padre, e gli feci cenno di aspettare fino al termine della danza.

Quando i danzatori ebbero finito, e dopo i languidi applausi degli invitati, consentii al servo di avvicinarsi.

«Che cosa vuole mio padre da me?», gli chiesi.

«Sono Prisco», disse. «Si tratta di tuo marito. È malato. Tuo padre parte entro un’ora per Puteoli, e ti chiede di seguirlo».

«Credi che sia una cosa seria?».

Prisco annuì: «Tuo padre parte stanotte. È preoccupato».

Mi girai a guardare i miei amici distesi, noncuranti e allegri, sui pendii erbosi del giardino di Sempronio Gracco. Il suono delle loro risate, più incantevole e delicato della musica ai cui ritmi si erano mossi i danzatori, galleggiava sino a me sulla tiepida brezza primaverile. Dissi a Prisco: «Torna da mio padre. Digli che raggiungerò mio marito. Digli di non aspettarmi. Digli che partirò tra poco e andrò per conto mio da Agrippa».

Prisco esitò. Dissi: «Puoi parlare».

«Tuo padre desidera che torni con me».

«Digli che ho sempre fatto il mio dovere con mio marito. Non posso andarmene adesso. Andrò da Agrippa più tardi».

Prisco se ne andò, e io mi accinsi a riferire la notizia a Sempronio Gracco. Ma Ovidio aveva preso posto davanti a me e cominciato a recitare la poesia composta in mio onore. Non potevo interromperlo.

Un tempo, conoscevo a mente questa poesia. Ora non riesco a ricordarne una parola. È strano che non ci riesca, perché i versi erano belli. Credo che Ovidio non li abbia mai inclusi in uno dei suoi libri. Disse che appartenevano a me e non dovevano essere letti da nessun altro.

Non rividi più mio marito. Era già morto quando Ottaviano arrivò a Puteoli. La malattia, che i medici non riuscirono mai a diagnosticare, in realtà fu rapida e, spero, misericordiosa. Era un brav’uomo, e dolce con me. Non si rese mai conto, temo, che io lo sapevo. E mio padre, credo, non mi perdonò mai perché non ero andata con lui quella notte.

…Sono stati i tartufi. Furono serviti tartufi, quella sera, nella villa di Sempronio Gracco. Il sapore di terra di quei tartufi mi è stato ricordato dal sapore di terra di questo pane scuro: è questo che mi ha riportato alla serata in cui divenni vedova per la seconda volta.

Poesia dedicata a Giulia:

Attribuita a Ovidio (circa 13 a.C.)

Irrequieto. Vagando senza meta,

passo accanto a templi e boschi dove

vivono dèi, dèi che invitano i viandanti ad adorare, mentre

si soffermano tra gli alberi vecchi dove nessuna scure,

per quanto

la nostra memoria mortale ricorda,

avida ha morso rami o cespugli.

Dove potrei fermarmi? Giano osserva immoto

mentre lo avvicino

e mentre me lo lascio indietro, più rapido di chiunque

possa discernere,

tranne lui. E ora, ecco Vesta… Fidata, buona a suo modo,

penso. E perciò la chiamo. Lei però non risponde.

Vesta sorveglia la sua fiamma… Senza dubbio cucina

per qualcuno.

Con noncuranza agita la mano, china sempre

sull’ardente fornello.

Malinconico, scuoto la testa e proseguo. E ora Giove tuona,

gli occhi suoi saettano luce. Come? Insiste forse

affinché giuri

qualcosa che potrebbe cambiar la mia vita? «Ovidio»,

tuona di nuovo,

«non c’è fine a questa esistenza di amori? di versi volgari?

di vane

finzioni?». Tento di rispondere, e il tuono non si interrompe.

«Contempla gli anni, povero poeta: indossa le vesti

del senatore,

pensa allo Stato… o almeno provaci».

Assordato dal tuono non posso

sentire di più. Triste proseguo. E ora al tempio di Marte

stanco io sosto. E vedo, più pauroso di chiunque,

la mano sinistra

che semina un campo, e la destra a far balenare nell’aria

una spada,

Marte supremo! Vecchio padre dei vivi e dei morti!

Lo chiamo

gioiosamente, sperando infine d’essere bene accetto. Ma no,

colui che protegge e dà nome a questo marzo, al mese

della mia nascita,

non vuole accogliermi. Sospiro. Non c’è dunque posto

per me, o dèi?

Disperato, adesso, e ignorato dagli dèi più antichi del

mio antico

paese, mi spingo oltre i loro confini, e lascio che brezze

diverse mi conducano dove vogliono. E infine, teneri

remoti e dolci, giungono suoni: d’oboe e tamburo e di flauto.

Musica di risate. Il vento. Canti di uccelli.

Foglie fruscianti nella sera.

L’ho sentito. Devo seguirlo perché gli occhi

possano scorgere quanto la musica ha promesso.

E a un tratto,

aperto davanti a me, un ruscello, sprizzante

di sorgenti che invadono

caverna e grotta, e pigramente vagano tra gigli tremolanti

quasi sospesi nell’aria. Certo, mi dico,

certo la divinità vive qui… una che mai non conobbi.

Ninfe nelle aeree vesti festeggiano la primavera e la notte.

Ma, dominandole tutte, alta, radiosa di bellezza,

una dea cui si volgono

tutti gli sguardi. Adorata nell’esultanza, pregata nella

gaiezza, sorride

illuminando il crepuscolo, più dolcemente della nostra

Aurora.

La sua bellezza supera quella della superba Giunone. Penso: è una nuova Venere scesa dalla sua alta dimora. Nessuno l’ha mai vista ancora, ma tutti sanno di doverla adorare. Salute, o dea! Lasciamo gli dèi antichi

al sicuro nei loro boschi. Accigliati a contemplare il mondo,

a rimproverare chi li ascolta.

Qui una stagione nuova è nata. Qui un paese nuovo si trova,

profondo nell’anima della Roma amata in passato.

Dobbiamo dare il benvenuto

al nuovo e vivere nella sua gioia, ed essere gai.

Presto la notte scenderà.

Presto, presto riposeremo. Ma intanto ci è concessa

questa bellezza,

questa dea ci è concessa che anima il bosco sacro.

Il diario di Giulia, Pandataria (4 d.C.)

Mio marito morì la sera della festa offerta da Sempronio Gracco. Non lo avrei visto ancora in vita anche se fossi partita come desiderava mio padre. Lui viaggiò per tutta la notte senza mai fermarsi e arrivò a Puteoli il giorno dopo, ma soltanto per trovarci il suo più vecchio amico già morto. Si dice che contemplò il cadavere di Agrippa quasi con freddezza e non parlò a lungo. Poi, con l’efficienza a lui consueta, si rivolse agli aiutanti di Marco Agrippa, che si fingevano addolorati. Ordinò di preparare la salma per il corteo funebre che si sarebbe diretto a Roma e fece avvertire il Senato, perché si tenesse pronto. Quindi, sempre senza riposarsi, accompagnò le spoglie mortali di Marco Agrippa nel lento e solenne viaggio di ritorno a Roma. Chi lo vide entrare in città disse che aveva il volto di pietra mentre zoppicava in testa alla processione.

Io fui presente, inutile dirlo, alle cerimonie nel Foro, quando mio padre pronunciò l’orazione funebre. E posso testimoniare che fu gelido anche in quell’occasione. Parlò di fronte alla salma di Marco Agrippa come se fosse un monumento, anziché quanto rimaneva di un amico.

Ma posso testimoniare anche che ci fu qualcosa che il mondo non seppe mai. Una volta terminata la cerimonia, mio padre si ritirò nella sua stanza, nella dimora privata sul Palatino, e non ricevette nessuno per tre giorni, durante i quali non si nutrì. Quando uscì, sembrava invecchiato di anni. E si esprimeva con una indifferente dolcezza mai posseduta in passato. Con la morte di Marco Agrippa, qualcosa era morto in lui. Non tornò mai più ad essere quello di un tempo.

Ai cittadini di Roma, mio marito lasciò per sempre i giardini acquistati durante gli anni del potere, le terme che aveva fatto costruire, un capitale sufficiente per la loro manutenzione. Lasciò inoltre ad ogni cittadino romano cento monete d’argento, e a mio padre il resto del patrimonio, con l’intesa che doveva essere impiegato a vantaggio dei suoi compatrioti.

Io mi credetti fredda, perché non mi afflissi a causa della morte di mio marito. Dietro l’ostentazione di dolore richiesta dal rituale, sentii… o meglio, non sentii quasi nulla. Marco Agrippa era un brav’uomo. Non mi era mai dispiaciuto. Gli volevo bene, presumo. Ma non soffrii.

Avevo ventisette anni. Avevo generato quattro figli e ne aspettavo un quinto. Rimanevo vedova per la seconda volta. Ero stata moglie, dea, e la seconda donna di Roma.

Se provai qualcosa in occasione della morte di mio marito, fu una sensazione di sollievo.

Quattro mesi dopo la morte di Marco Agrippa, misi al mondo il mio quinto figlio. Era un maschio. Mio padre gli diede nome Agrippa. Disse che avrebbe adottato il bambino, non appena fosse stato in età. Ciò mi lasciò indifferente. Ero felice di essermi liberata da una vita che avevo trovato opprimente come una prigione.

Ma non dovevo essere libera. Un anno e quattro mesi dopo la morte di Marco Agrippa, mio padre mi fece fidanzare con Tiberio Claudio Nerone. Fu il solo dei miei mariti che io abbia odiato.

Lettera: Livia a Tiberio Claudio Nerone

nella Pannonia (12 a.C.)

Caro figliolo, in questo caso devi seguire il mio consiglio.

Devi divorziare da Vipsania, come ha ordinato mio marito, e sposare Giulia. Tutto è già stato predisposto, e io ho avuto una non piccola parte negli accordi. Se vuoi prendertela con qualcuno per questa svolta degli eventi, tocca a me ricevere parte della tua ira.

È vero che Ottaviano Cesare non ti ha onorato con l’adozione. È vero che non ti ama. È vero che ti ha mandato a sostituire Agrippa nella Pannonia solo perché non c’è nessun altro disponibile cui affidare il potere. È vero che non ha nessuna intenzione di consentirti di succedergli. Ed è vero che sei stato, come hai detto, sfruttato.

Ma non ha importanza. Perché, se non acconsentirai a lasciarti sfruttare, non avrai avvenire, e tutti gli anni in cui ho sognato la tua futura grandezza saranno stati sprecati. Vivrai oscuramente la tua esistenza, nello sfavore e nel disprezzo.

Mio marito, lo so, vuole soltanto che tu sia il padre nominale dei suoi nipoti, e spera che l’uno o l’altro di loro possa essere pronto a succedergli, una volta raggiunta l’età necessaria. Ma non ha mai goduto di buona salute, e non si può sapere per quanto tempo ancora gli dèi gli consentiranno di vivere. Non è escluso che tu possa succedergli, indipendentemente dai suoi desideri. Hai il nome, sei figlio mio, e io erediterò inevitabilmente un certo potere, nella deplorevole eventualità della morte di mio marito.

Detesti Giulia: non ha importanza. Giulia detesta te: non importa. Avete un dovere nei confronti di voi stessi, del vostro paese e del nostro nome.

Ti renderai conto, con il tempo, che ho ragione. E, con il tempo, l’ira si dileguerà in te. Non metterti in quei pericoli che la tua impetuosità potrebbe invitare. Il nostro futuro è più importante di noi stessi.