4
33º Latitudine Sud
L’appuntamento era in un ristorante che si chiamava Divertimento, circondato da un giardino frondoso, sulle pendici del colle di San Cristóbal. Non appena misi piede nel porticato all’ingresso, mi saltarono addosso due tipi biondi coi capelli tagliati a spazzola e degli auricolari. Uno mi sbarrò la strada con le braccia incrociate, piantandomi addosso uno sguardo glaciale, mentre l’altro mi perquisiva senza toccarmi. Si limitò a passarmi un metal detector sotto le ascelle e sui fianchi.
«Čistyj» borbottò e siccome ero pulito mi lasciarono andare. Mi domandai che ci facevano a Santiago quei due gorilla russi e cosa c’entrava Kramer con loro.
Dopo tutte le sconfitte che avevo incassato, il mio vecchio istinto di sopravvivenza mi fece rizzare i peli sulla nuca e mi ordinò di sparire, di mandare al diavolo Kramer e i suoi affari. Mi voltai e uno dei due gorilla all’entrata strinse i pugni facendo scrocchiare le nocche. Il mio anfitrione non accettava sgarbi.
Gli anni non perdonano e Kramer sembrava ben più decrepito di quando lo avevo conosciuto. Non avevo mai saputo la sua età, soltanto come si chiamava e che lavorava per il Lloyd Anseatico, una compagnia di assicurazioni che si occupava di faccende complesse e molto delicate dal punto di vista della legalità. Era già vecchio la prima volta che l’avevo visto ad Amburgo, vent’anni prima. Adesso l’unica cosa a non essere decrepita era la moderna sedia a rotelle su cui era seduto. Il posto era piacevolmente climatizzato, Kramer però aveva una coperta di alpaca sulle sue gambe inutili. Con lui c’era un uomo, un tizio forse della mia età, alto, robusto ma con evidenti problemi di sovrappeso, che mi osservò coi suoi acquosi occhi azzurri bevendo a piccoli sorsi un bicchiere di pisco sour.
«Bel paese, Belmonte. Capisco perfettamente che tu abbia deciso di tornare» disse Kramer indicandomi una sedia.
«Vuol parlare di turismo? Posso procurarle una guida delle bellezze naturali.»
«Vedo che non sei cambiato. Sempre duro e arrogante. Mi piaci, Belmonte. Non sei contento di rivedermi?»
«Ricordo che aveva un cane rognoso. L’ha barattato con i due che mi hanno accolto?»
«Il mio nobile Canaglia! È passato a miglior vita. Era un buon cane, davvero. Credo che tu conosca già il signore che mi accompagna.»
L’uomo mi guardava e sorrideva. L’azzurro dei suoi occhi appariva sbiadito sotto le spesse sopracciglia e le guance solcate da capillari tradivano l’alcolista. Accarezzava il bicchiere senza smettere di osservarmi.
«Accademia Rodion Malinovskij delle Forze corazzate sovietiche. Io ho fatto di lei un buon cecchino e so che poi ha messo a frutto le mie lezioni, per esempio in Nicaragua. Colonnello Stanislav Sokolov, ma lei può chiamarmi Slava, come ai vecchi tempi» disse con un pesante accento russo.
No, l’ombra di quel che eravamo non perdona. Avevo conosciuto Slava nel 1977, era un giovane ufficiale del KGB responsabile dei latinoamericani che imparavano l’arte della guerra all’Accademia Malinovskij. Alcuni di loro, la maggior parte, strisciavano nel fango e nella neve, sempre bagnati fradici, intirizziti dal freddo, per arrivare alle parti vulnerabili di un carro armato e piazzarci una mina magnetica o una carica esplosiva. Gli altri, la minoranza, fra cui io, venivano invece addestrati come snipers, tiratori scelti incaricati di coprire le forze di fanteria mentre avanzavano al riparo dei tank. Slava era un ufficiale duro, implacabile nelle punizioni, con un fisico atletico e capelli quasi albini. Ora stava dall’altra parte del tavolo ridotto a un grassone alcolizzato, con giusto la forza di reggere il Rolex d’oro che sfoggiava al polso sinistro.
«Vedo che la vita le sorride, Slava. Scambiare il Poljot d’acciaio marchiato KGB con un Rolex non è un cattivo affare.»
Il russo fece una risata, chiese un altro pisco sour e cominciò a raccontare aneddoti sui vecchi tempi in Unione Sovietica.
Io volevo sapere che ci facevo lì, ma Slava non la smetteva più di parlare della solitudine del cecchino, della pazienza, della capacità di restare immobile per ore, per giorni interi, incurante della pioggia e del sole, della fame e della sete, pisciandosi e cacandosi nei pantaloni, indifferente alle bestiacce che gli strisciavano addosso, totalmente concentrato sulla distanza che lo separava dall’obiettivo, sulla velocità e la direzione del vento, sempre con un occhio piantato nel mirino telescopico e l’indice che sfiorava il grilletto del fucile.
«Era tutto uno schifo, tovarišč. La guerra che ci aspettava era un’altra, ma questo a Mosca non l’hanno mai capito. Non l’hanno mai capito nemmeno quelli che ci hanno mandato in Unione Sovietica. Le dirò una cosa, Slava, per il suo manuale di guerra: in Nicaragua c’erano dei cecchini invisibili che ci causavano perdite enormi e noi non sapevamo cosa accidenti fare. Nulla di quello che avevamo imparato all’Accademia Malinovskij ci aiutava a localizzarli e anche se rimanevamo giornate intere incollati a terra, al minimo movimento uno dei nostri perdeva mezza testa fra i cespugli. Non si sentivano le detonazioni e per di più usavano proiettili a espansione, per cui dalle teste scoppiate non c’era modo di capire la traiettoria della pallottola. Non eravamo nella steppa, Slava. Eravamo in una cazzo di selva.
«Un giorno, per pura e semplice disperazione, un guerrigliero sandinista mitragliò le chiome degli alberi con una M-60 fin quasi a fondere l’arma e, con nostra sorpresa, sentimmo cadere qualcosa dai rami. Mentre ci avvicinavamo qualcuno gridò che era un bambino, ma in realtà si trattava di un mercenario vietnamita, o meglio di mezzo mercenario vietnamita, perché la raffica l’aveva tagliato in due. La parte inferiore del corpo, dalla vita in giù, era ancora dentro un’imbracatura di tela, fissata con un’attrezzatura da alpinista. Nello zaino attaccato al tronco c’erano, oltre alle munizioni, acqua, razioni di cibo per vari giorni, visori notturni e, legato all’imbracatura, un Galil ACE 31 con il silenziatore. Quel giorno finì il mito dello sniper di copertura e prima di spostare il grosso della colonna guerrigliera, l’avanguardia mitragliava le chiome degli alberi. Era un’altra guerra, una guerra di contadini, di studenti e di maestri, in cui non c’era posto per i guerrieri d’élite. Una guerra di merda con gente più portata a morire che a vincere.»
Il russo stava per replicare quando per fortuna si avvicinò una cameriera con degli stuzzichini ed ebbi modo di chiedere che cosa volevano da me.
Kramer cominciò a dissertare sui cambiamenti avvenuti nel mondo dall’ultima volta che ci eravamo visti, e aggiunse che il Lloyd Anseatico curava gli affari di vari imprenditori russi legati al Cile. Dall’incontro dell’APEC, il foro di cooperazione economica asiatico-pacifica, avvenuto a Santiago nel 2004, gli imprenditori della Federazione russa avevano mostrato un crescente interesse per l’acquisto di prodotti cileni, cosa positiva per il commercio bilaterale.
«Proprio così. I russi ricchi vogliono mangiare mele cilene e i cileni ricchi vogliono puttane russe. Il mondo è cambiato e io brindo al cambiamento» aggiunse Slava.
«E io che diavolo c’entro col suo nuovo ordine mondiale?»
«Calma, Belmonte. Ti piaccia o no, ormai sei nei pasticci» disse il vecchio svizzero pescando svogliatamente qualcosa dal vassoio di ostriche.
Vent’anni fa ero un isolato, un ex guerrigliero che cercava di sopravvivere in esilio senza il minimo desiderio di avere notizie degli antichi compagni. Tiravo avanti facendo il buttafuori in un cabaret di Amburgo e l’unica cosa che mi legava alla vita era guadagnare un po’ di soldi per mandarli alla mia compagna, o a quanto restava di lei dopo essere passata da Villa Grimaldi, Caserma Terranova, sulle mappe dell’orrore. Kramer era venuto da me attratto dall’ombra di quel che ero stato, e i legami del Lloyd Anseatico con i servizi segreti yankee, latinoamericani ed europei gli avevano permesso di rintracciarmi. Avevo accettato di lavorare per lui solo per i soldi, come uno dei tanti mercenari nel mondo del potere, e perché mi aveva promesso di far ricoverare Verónica in una clinica danese specializzata nelle cure alle vittime di tortura.
Ero entrato clandestinamente in Cile, avevo fatto quello che mi avevano ordinato di fare, e anche se dal punto di vista degli interessi del Lloyd la faccenda era finita bene, per altri versi si era complicata e c’erano stati dei morti, troppi morti.
«Aveva promesso di lasciarmi in pace, Kramer.»
«E l’ho fatto, Belmonte. Ho tenuto fede anche alla promessa di portare tua moglie in Danimarca. Non ti chiedo come sta, pur sapendo che i medici hanno tentato di tutto. Il problema, Belmonte, è che la polizia cilena ha indagato sulla morte di quel tedesco nella Terra del Fuoco. Come si chiamava? Ah, sì, Galinsky. Hanno trovato le tue tracce e certa gente ha mostrato particolare interesse nei tuoi confronti.»
«Vada al sodo, Kramer.»
«In marzo cambia il governo, se ne va la simpatica signora Bachelet e arriva Piñera, la destra che si è nutrita del latte della dittatura, crescendo e prosperando. Il nuovo presidente vuole entrare nelle grazie dei militari. Ci sono molti ufficiali sotto processo, altri in carcere, alcuni si sono addirittura suicidati, e sia la presidente uscente che quello entrante vogliono porre fine a questa situazione. Hanno urgente bisogno di offrire ai militari la possibilità di ripulire la propria immagine, una congiura, un complotto, una ragion di Stato per fermare lo stillicidio di denunce e processi. Sai bene, Belmonte, che molti dei tuoi ex compagni hanno firmato un accordo coi militari in cui, in sostanza, legittimano il modello economico vigente e si impegnano a evitare ogni forma di sovversione. È a questo punto che entri in gioco tu, Belmonte: ex guerrigliero in Bolivia, ex membro della scorta del presidente Allende, ex guerrigliero in Nicaragua, addestrato nelle accademie militari della defunta Unione Sovietica, della scomparsa Repubblica Democratica Tedesca e di Cuba, vivi stranamente lontano da tutto, in culo al mondo, e a quanto pare sei rimasto coinvolto nell’omicidio di un ex agente della Stasi e di altri vecchi sovversivi proprio quando la nuova democrazia vedeva la luce. Tu stai tramando qualcosa, un tipo con un passato come il tuo non sta fermo, e per di più nessuno conosce l’origine dei soldi con cui ti sei comprato casa e di cui vivi. Insomma, Belmonte, tutto questo fa di te il capro espiatorio ideale. Gioco sporco? No, è semplicemente il potere. Suppongo che tu non abbia dimenticato l’esistenza di una certa ‘Oficina’ creata dalla democrazia post dittatura. Il suo obiettivo era eliminare a qualunque costo i sovversivi rimasti e l’ha portato a termine. Quell’‘ufficio’ che non è mai esistito è ancora molto attivo, pronto a coinvolgerti in faccende sporche di ieri, e se necessario di oggi, per dimostrare che, forse con qualche possibile eccesso, i militari combattevano contro un nemico feroce. È il potere, Belmonte.»
«Figlio di puttana.»
«Sì, lavoro per il potere. Eppure basta un mio ordine perché i servizi legali del Lloyd consegnino alle autorità cilene un rapporto che dimostri in modo inoppugnabile la tua assoluta innocenza e certifichi che non sei mai rientrato in Cile prima del tuo rimpatrio registrato dalla polizia. Non solo, riceverai anche una ricompensa, sotto forma di assegno mensile. Siamo tutti in età da pensione, Belmonte.»
Il russo lodò il vino bianco abbinato alle ostriche e mi passò due fotografie, due volti ripresi di fronte, due uomini giovani, seri, dall’aria tragica, quasi cancellati dalla mia memoria.
«Li conosce, vero?» indagò Slava.
«Sa già la risposta. E sa anche che avevamo false identità, nomi di battaglia, e che da quando sono uscito dall’Accademia Malinovskij non li ho più rivisti.»
Il russo chiamò la cameriera, ordinò un altro vassoio di ostriche e fece cenno a Kramer di continuare.
«Tu rintracciali e noi in cambio ti lasciamo definitivamente tranquillo. Questi tuoi ex compagni stanno combinando qualcosa che potrebbe guastare i rapporti fra gli imprenditori cileni e quelli della Federazione russa. Come te, si muovono senza farsi vedere e senza lasciare tracce. Trovali, Belmonte, e non ci rivedremo mai più.»
Cercare l’ago nel pagliaio. Kramer mi proponeva di trovare due uomini che avevo visto per l’ultima volta nel 1978, nella scomparsa Unione Sovietica. Quei due erano stati addestrati da Slava e da altri agenti del KGB a diventare ufficiali di intelligence. L’unica cosa che sapevo di loro è che non erano entrati in nessuno dei gruppi di combattimento che dovevano tornare in Cile a lottare contro la dittatura. Quei due erano apparatčik, avevano relazioni influenti, e il loro addestramento come ufficiali di intelligence li aveva spinti a stringere amicizia con la gente del KGB più che con quelli che come me strisciavano nel fango e nella neve. I loro destini erano diversi dal mio, non erano figli della sconfitta e non erano stati preparati a conoscerla.
«Pretende che vada in Russia, Kramer? Queste foto hanno più di trent’anni.»
«È molto probabile che siano in Cile, Belmonte. Forse in questa stessa città. Sono come te, sanno muoversi senza agitare l’erba.»
«E cosa si suppone che stiano facendo o che faranno questi due tizi in Cile?»
Il russo strizzò qualche goccio di limone sull’ultima ostrica, guardò il mollusco che si contorceva a contatto con l’acido, lo ingoiò con gusto e dopo essersi pulito le labbra col tovagliolo mi porse una busta color manila.
«La sua missione è trovarli. Qui ci sono tutte le informazioni di cui ha bisogno, soldi che può spendere senza pezze giustificative e un telefono cellulare con un numero memorizzato. Lo userà soltanto per mettersi in contatto con il signor Kramer. Trovi quei due e noi ci occuperemo di dissuaderli.»
«Tutto così facile, Slava?»
Kramer spostò indietro la sedia a rotelle, si allontanò di un paio di metri dal tavolo e mi fece cenno di avvicinarmi al suo viso.
«Quello che ti dirò è molto rischioso per me perché potresti ammazzarmi con un colpo solo, ma picchiare un invalido non è ben visto da nessuna parte. Belmonte, in questo momento c’è un reparto delle forze speciali vicinissimo a casa tua. Entreranno, troveranno armi, esplosivi e quello che vogliono trovare. Tu sai benissimo come agisce l’Oficina, ma basta una telefonata e la storia, la tua storia, scompare e viene dimenticata in qualche fascicolo. È il potere, Belmonte, senza età né tempo, ma sempre presente.»
Un gesto di Kramer indicò che il colloquio era finito e i due gorilla mi scortarono fino all’uscita del ristorante. L’adrenalina mi scorreva nelle arterie e il cuore pompava a ritmo accelerato. Nella mano sinistra avevo la busta che mi aveva consegnato Slava e nella destra solo aria, che compressi stringendo il pugno con cui colpii allo stomaco uno dei gorilla. L’uomo non se l’aspettava, incassò il cazzotto, barcollò e cadde seduto su dei vasi di gerani.
Dal tavolo, Slava alzò una mano mostrando il palmo e l’altro gorilla aiutò il compagno a rialzarsi. Kramer sorrideva e io capii che la faccenda cominciava male, malissimo.