«Ma non sarebbe una cosa ordinata!»
Egli prese il pacchetto e ne accarezzò riflessivo l'involucro intatto. «Be', se fossi un discepolo dell'eminente Sigmund Freud...»
«Se tu fossi un discepolo di Freud, che cosa diresti?» Alzò gli occhi, vide la cameriera che aspettava in piedi accanto a loro. «Un cappuccino, prego.»
Il fatto che avesse ordinato di sua iniziativa irritò Arthur; ma lasciò correre, intento com'era a inseguire il pensiero balenatogli nella mente. «Un caffè, prego. E ora, per tornare a quello che stavo dicendo di Freud, mi domando che cosa penserebbe di questo. Potrebbe dire...»
Justine gli tolse di mano il pacchetto, lo aprì, prese una sigaretta e l'accese senza dargli il tempo di cercare i fiammiferi. «Ebbene?»
«Penserebbe che tu preferisci mantenere intatte le membrane, non ti pare?»
La risata di lei gorgogliò nell'aria fumosa e fece sì che parecchie teste si voltassero incuriosite. «Ah, sì? Ma non è questo un modo tortuoso per domandarmi se sono ancora vergine, Arthur?»
Egli fece schioccare la lingua, esasperato. «Justine! Vedo che, tra le altre cose, dovrò insegnarti l'arte sottile della tergiversazione.»
«Tra le altre cose, Arthur?» Justine appoggiò i gomiti al tavolino, gli occhi scintillanti nella penombra.
«Ebbene, cos'è che devi imparare?»
«Sono molto ben preparata, in realtà.»
«In tutto?»
«Santo Cielo, sei molto bravo nel sottolineare le parole, vero? Benissimo, dovrò tener presente come hai pronunciato queste.»
«Vi sono cose che possono essere imparate soltanto con l'esperienza diretta» disse lui, sommessamente, tendendo la mano per spostarle un ricciolo dietro l'orecchio.
«Davvero? Io ho sempre trovato più che sufficiente l'osservazione.»
«Ah, ma che cosa mi dici quando si tratta dell'amore?» E pronunciò quella parola con profonda delicatezza. «Come puoi impersonare Giulietta senza sapere che cos'è l'amore?»
«Hai segnato un punto. Sono d'accordo con te.»
«Sei mai stata innamorata?»
«No.»
«Sai niente dell'amore?» Questa volta, anziché la parola «amore», sottolineò la parola «niente».
«Proprio niente.»
«Ah! Allora Freud avrebbe avuto ragione, eh?»
Prese il pacchetto delle sigarette e ne fissò l'involucro di cellophane, sorridendo. «In certe cose, forse.»
Fulmineo, lui afferrò il fondo del cellophane, lo sfilò dal pacchetto e lo tenne in mano, poi, drammaticamente, lo appallottolò e lo lasciò cadere nel posacenere, ove crepitò e si contorse, espandendosi. «Mi piacerebbe insegnarti che cosa significa essere donna, se possibile.»
Per un momento Justine non disse nulla, intenta a osservare i movimenti del cellophane nel posacenere, poi strofinò un fiammifero e, con cautela, lo accostò al cellophane. «Perché no?» domandò alla breve vampata. «Già, perché no?»
«Dovrà essere una cosa divina, con chiaro di luna e rose e un corteggiamento appassionato, oppure breve e penetrante, come una freccia?» declamò lui, la mano sul cuore.
Rise. «Suvvia, Arthur. Per quanto mi concerne, spero che sia lunga e penetrante. Ma niente chiaro di luna, né rose, per piacere. Il mio stomaco non è fatto per un corteggiamento appassionato.»
Arthur la fissò un po' malinconicamente, scuotendo la testa. «Oh, Justine! Lo stomaco di tutti è fatto per un corteggiamento appassionato... anche il tuo, giovane vestale dal sangue freddo. Un giorno... aspetta e vedrai... anelerai a essere corteggiata.»
«Puah!» Si alzò. «Vieni, Arthur, facciamo quello che deve essere fatto, prima ch'io cambi idea.»
«Subito? Questa sera?»
«Perché no, in nome del Cielo? Ho tutto il denaro che occorre per una camera d'albergo, se tu sei al verde.»
L'Hotel Metropole non distava molto; percorsero le vie sonnacchiose e lei tenne il braccio infilato intimamente sotto quello di Arthur, ridacchiando. Era troppo tardi per chi aveva cenato fuori e troppo presto perché la gente fosse già uscita dai teatri, per cui c'erano poche persone in giro, soltanto gruppetti di marinai americani di alcune navi da guerra in porto, e gruppi di ragazze che guardavano le vetrine tenendo d'occhio i marinai. Nessuno badava a loro, il che fece molto comodo ad Arthur. Entrò in una farmacia mentre Justine lo aspettava fuori, e ne uscì sorridendo allegramente.
«Adesso siamo bene attrezzati, amor mio.»
«Che cosa hai comprato? Dei preservativi?»
Lui fece una smorfia. «No di certo. Mettersi un preservativo è come venire avvolti in una pagina di Selezione... un condensato di banalità. No, mi sono procurato una certa gelatina. Ma tu come sai dei preservativi, a proposito?»
«Dopo essere stata per sette anni in un collegio cattolico? Cosa credi che facessimo? Che pregassimo?» Sogghignò. «Ammetto che non facevamo un granché, ma parlavamo di tutto.»
Il signore e la signora Smith osservarono il loro regno che non era poi male per un albergo di Sydney, a quei tempi. L'epoca degli Hilton doveva ancora venire. La camera era molto vasta, con una vista superba sul Sydney Harbor Bridge. Non c'era bagno, naturalmente, ma un catino e una brocca su un tavolinetto dal piano di marmo che si armonizzavano con gli enormi relitti di mobili vittoriani.
«Bene, che cosa devo fare, adesso?» domandò lei, riaccostando le tende. «È una bellissima vista, no?»
«Sì. Quanto a quello che devi fare adesso, ti togli le mutande, naturalmente.»
«Niente altro?» volle sapere Justine, maliziosa.
Arthur sospirò. «Togliti tutto, Justine! Con la sensazione pelle contro pelle la cosa è molto più piacevole.»
Precisa e svelta, ella si liberò dei vestiti, senza un'ombra di timidezza, si distese sul letto e allargò le gambe. «Va bene così, Arthur?»
«Dio buono!» fece lui, piegando con cura i pantaloni: sua moglie li esaminava sempre per vedere se fossero spiegazzati.
«Cosa? Che cosa c'è?»
«Sei una rossa autentica, eh?»
«Che cosa ti aspettavi, piume viola?»
«Le facezie non creano la giusta atmosfera, tesoro, quindi smettila immediatamente.» Tirò in dentro la pancia, si voltò, si diresse verso il letto pavoneggiandosi e vi salì, poi cominciò a darle piccoli baci esperti sul viso, sul collo, sulla mammella sinistra. «Mmmmmmmm, come sei bella.» L'allacciò con le braccia. «Ecco. Non è piacevole?»
«Presumo di sì. Sì, è molto piacevole.»
Calò il silenzio, interrotto soltanto dagli schiocchi dei baci e da occasionali mormorii. C'era un enorme e antico tavolino da toletta di fronte al letto, il cui specchio inclinato ancora rifletteva l'arena dell'amore, a opera di qualche precedente occupante della stanza con inclinazioni erotiche.
«Spegni la luce, Arthur.»
«Tesoro, no! Lezione numero uno. Non esiste aspetto dell'amore che non sopporti la luce.»
Avendo eseguito i massaggi preparatori con le dita, e spalmato la gelatina là ove doveva trovarsi, Arthur riuscì a introdursi tra le gambe di Justine. Un po' indolenzita, anche se del tutto a suo agio, e sentendosi, anche se non trascinata fino all'estasi, alquanto materna, Justine guardò oltre la spalla di Arthur e al di là del letto, nello specchio.
Accorciate dalla prospettiva, le loro gambe sembravano irreali, con quelle oscuramente pelose di lui compresse tra le sue, lisce e liberate dalle lentiggini; tuttavia, la maggior parte dell'immagine riflessa dallo specchio consisteva nelle natiche di Arthur che, mentre egli manovrava, si dilatavano e si contraevano, e saltellavano su e giù, con due ciuffi di peli gialli come quelli di Dagoberto che sporgevano sopra i due globi gemelli e sembravano salutarla allegramente.
Justine guardò; tornò a guardare. Poi si premette violentemente il pugno chiuso sulla bocca, gorgogliando e gemendo.
«Su, su, tesoro mio, va tutto bene! Ti ho già rotto l'imene, e quindi non può essere molto doloroso» bisbigliò lui.
Il petto di Justine cominciò ad ansimare; egli l'allacciò più strettamente con le braccia e balbettò vezzeggiativi.
A un tratto Justine rovesciò il capo all'indietro, aprì la bocca lasciandosi sfuggire un lungo gemito, che divenne poi uno scroscio dopo l'altro di risate clamorose. E, quanto più lui diventava furioso e flaccido, tanto più forte lei rideva, additando, incapace di parlare, lo specchio di fronte al letto, la faccia striata di lacrime. Aveva tutto il corpo percorso da movimenti convulsi, ma non proprio nel modo che si era aspettato il povero Arthur.
Sotto molti aspetti, Justine era molto più vicina a Dane di quanto lo fosse la loro madre, e quello che entrambi provavano per Ma' apparteneva a Ma'. Non si intrometteva in ciò che provavano l'uno per l'altra, né lo contrastava. Questi sentimenti, nati nei primissimi anni, avevano finito con l'intensificarsi invece di diminuire. Quando Ma' aveva finalmente potuto liberarsi dalla schiavitù di Drogheda, loro erano già così grandicelli da studiare le lezioni per corrispondenza al tavolo di cucina della signora Smith; e l'abitudine di trovare sollievo l'uno nell'altra era stata, così, foggiata per sempre.
Sebbene fossero molto diversi, avevano molti gusti in comune, e quelli che non condividevano li tolleravano l'uno nell'altra con un rispetto istintivo, considerandoli sfumature indispensabili della diversità. Si conoscevano completamente. La tendenza naturale di lei era quella di deplorare i difetti negli altri e di ignorarli in se stessa; la tendenza naturale di Dane era quella di capire e perdonare le manchevolezze umane nel prossimo, e di essere spietato con le proprie. Lei si sentiva invincibilmente forte, lui sapeva di essere pericolosamente debole.
E, in qualche modo, tutto ciò si combinava in un'amicizia quasi perfetta, nel nome della quale niente era impossibile. Tuttavia, poiché Justine era di gran lunga la più loquace, Dane veniva sempre a sapere molto più di lei e dei suoi sentimenti di quanto ella non sapesse del fratello. Sotto certi aspetti, Justine non considerava sacro nulla, e Dane si rendeva conto di avere il dovere di fornirle quegli scrupoli che le mancavano. Di conseguenza, accettava il proprio ruolo di ascoltatore passivo con una tenerezza e una comprensione che avrebbero esasperato enormemente Justine, se le avesse sospettate. Ma non le sospettava mai; sin da quando era stato abbastanza grandicello per prestarle ascolto, gli aveva confidato assolutamente tutto.
«Indovina che cosa ho fatto ieri sera?» gli disse, aggiustando con cura il grande cappello di paglia, in modo da avere il viso e il collo completamente in ombra.
«Hai interpretato la tua prima parte di protagonista» disse Dane.
«Sciocco! In questo caso te lo avrei detto prima perché tu potessi venire ad ammirarmi. Riprova!»
«Ti sei finalmente buscata uno dei pugni che Bobbie sferra a Billie.»
«Acqua... acqua...!»
Lui fece spallucce, annoiato. «Non ne ho proprio idea.»
Sedevano sull'erba del Domain, sotto la mole gotica della cattedrale di Santa Maria. Dane aveva telefonato per avvertirla che si sarebbe recato alla cattedrale per una speciale funzione; non avrebbero potuto incontrarsi prima nel Domain? Certo che avrebbero potuto; moriva dalla voglia di raccontargli il suo recentissimo exploit.
Avendo ormai quasi terminato l'ultimo anno al Riverview, Dane era capitano della scuola, capitano della squadra di cricket, di quella di rugby, di quella della palla a mano, nonché delle squadre di tennis. E per giunta capoclasse. A diciassette anni, superava il metro e ottanta di statura, la sua voce aveva raggiunto il tono baritonale definitivo e, miracolosamente, egli era riuscito a evitare le afflizioni dell'adolescenza quali i foruncoli, la goffaggine e il pomo d'Adamo sporgente. Essendo così biondo, ancora non si radeva, ma, sotto ogni altro aspetto, sembrava più un giovanotto fatto che uno studentello. Soltanto l'uniforme del Riverview lo classificava.
Era una giornata calda e assolata. Dane si tolse la paglietta del collegio e si distese sull'erba, mentre Justine gli sedeva accanto allacciandosi le ginocchia con le braccia per essere certa che tutta l'epidermide nuda fosse riparata dal sole. Dane aprì un pigro occhio azzurro nella sua direzione.
«Che cosa hai fatto ieri sera, Jus?»
«Ho perduto la verginità. O almeno, credo di averla perduta.»
Dane spalancò entrambi gli occhi. «Sei una stupida.»
«Puah! Era tempo, dico! Come posso sperare di diventare una brava attrice senza avere un'idea di quello che succede tra un uomo e una donna?»
«Avresti dovuto restare intatta per l'uomo che sposerai.»
Una smorfia di esasperazione le alterò il viso. «Davvero, Dane, a volte sei così arcaico da mettermi in imbarazzo! Supponi che fino a quarant'anni non conosca l'uomo giusto. Che cosa pretenderesti che facessi? Che ci stessi seduta sopra per tutti quegli anni? È quello che farai tu? Te lo conserverai fino al matrimonio?»
«Non credo che mi sposerò.»
«Be', nemmeno io. Nel qual caso, perché legarci attorno un nastro azzurro e conservare la verginità nello scrigno delle mie inesistenti speranze? Mica volevo morire con la curiosità di sapere.»
Lui sorrise. «Ora non può più succederti.» Giratosi bocconi, appoggiò il mento alla mano e la fissò negli occhi, con la faccia morbida, preoccupata. «È andata bene? Voglio dire, è stato spaventoso? Ti ha fatto schifo?»
A Justine guizzarono le labbra, mentre ricordava. «In ogni caso, non mi ha fatto schifo. E non è stato neppure spaventoso. D'altro canto, non capisco perché faccia andare tanto in estasi tutti quanti. Al massimo, sono disposta a definirla piacevole. E non è che mi sia messa con uno qualsiasi. Ho scelto un uomo molto simpatico e abbastanza maturo per sapere quello che faceva.»
Dane sospirò. «Sei proprio una sciocca, Justine. Sarei stato molto più contento se avessi detto: "Non è un granché a vedersi, ma ci siamo conosciuti e non ho potuto farne a meno". Posso ammettere che tu non voglia aspettare di essere sposata, ma si tratta pur sempre di qualcosa che devi volere a causa della persona con la quale lo fai. Mai a causa dell'atto in sé, Jus. Non mi stupisce che tu non sia andata in estasi.»
L'espressione allegra e trionfante le si dileguò completamente dal viso. «Oh, accidenti a te, ora mi hai fatta sentire orribile! Se non ti conoscessi bene, direi che stai cercando di umiliare me... o i miei moventi, in ogni caso.»
«Ma mi conosci bene, no? Non vorrei mai umiliarti, però a volte i tuoi moventi sono, né più né meno, stoltamente stupidi.» Adottò un tono di voce funereo e monotono. «Sono la voce della tua coscienza, Justine O'Neill.»
«Lo sei eccome, idiota!» Dimenticando di dover restare all'ombra, si lasciò cadere sull'erba accanto a lui, affinché non potesse vederla in faccia. «Senti, lo sai il perché. Non è vero?»
«Oh, Jussy» fece lui, malinconicamente; ma qualsiasi cosa fosse stato sul punto di aggiungere, ne venne impedito, poiché lei parlò di nuovo, quasi selvaggiamente.
«Non amerò mai, mai, nessuno! Se tu ami le persone, ti uccidono. Se hai bisogno delle persone, ti uccidono. È così, te lo dico io!»
Lo addolorava sempre il fatto che lei si sentisse esclusa dall'amore, e lo addolorava ancor più sapere che era lui la causa. Se esisteva una ragione per cui Justine era così importante per lui, consisteva nel fatto che sua sorella lo amava abbastanza per non portargli rancore e mai, nemmeno per un momento, gli aveva tolto il suo affetto per gelosia o per risentimento. Agli occhi di Dane, era una realtà crudele che lei si muovesse lungo un circolo del quale lui costituiva il centro stesso. Aveva pregato e pregato affinché questa situazione mutasse, ma non cambiava mai. Il che non aveva sminuito la sua fede, ma gli aveva semplicemente fatto capire che a un certo punto, a un certo momento, sarebbe stato costretto a pagare per i sentimenti sperperati su di lui a spese di Justine. Lei accettava di buon grado la situazione, era riuscita a persuadere persino se stessa che si trovava benissimo su quell'orbita esterna, ma lui sentiva la sua sofferenza. Sapeva che sua sorella soffriva. C'erano tanti aspetti degni di essere amati in lei, e aveva così pochi aspetti degni d'amore in se stesso! Senza alcuna speranza di capire le cose diversamente, presumeva di avere la parte del leone negli affetti a causa della propria bellezza, della propria indole più malleabile, della propria capacità di comunicare con la madre e con le altre persone a Drogheda. E anche perché era un maschio. Ben poco gli sfuggiva, a parte ciò che non poteva semplicemente sapere, e aveva goduto della fiducia e della compagnia di Justine come nessun altro mai. Eppure, Ma' contava per Justine assai più di quanto lei volesse ammettere.
Espierò, si disse. Ho avuto tutto. In qualche modo dovrò ripagare, compensarla.
A un tratto, lo sguardo gli cadde per caso sull'orologio, e si mise in piedi elasticamente; per quanto riconoscesse che il suo debito con la sorella era enorme, a Qualcun altro doveva anche di più.
«Devo andare, Jus.»
«Tu e la tua dannata Chiesa! Quand'è che crescerai abbastanza per liberartene?»
«Mai, spero.»
«Quando ti rivedrò?»
«Be', poiché oggi è venerdì, domani, naturalmente, qui alle undici.»
«Okay. Fa' il bravo.»
Era già lontano di parecchi metri, con la paglietta del Riverview sulla testa, ma si voltò per sorriderle. «Non sono sempre bravo?»
Justine gli sorrise a sua volta. «Dio ti benedica, sì. Sei troppo bello per essere vero; sono sempre io a cacciarmi nei guai. Ci vediamo domani.»
Nel vestibolo della cattedrale di Santa Maria c'erano parecchie enormi porte imbottite di cuoio rosso. Dane ne socchiuse una, spingendola, e si insinuò dentro. Si era congedato da Justine un po' in anticipo, ma gli piaceva sempre entrare in chiesa prima che si riempisse e lo distraesse tramutandosi in un mare di sospiri, colpi di tosse, fruscii, bisbigli. Quando vi si trovava solo era molto meglio. Un sacrestano stava accendendo i candelabri dell'altar maggiore; un diacono, pensò, senza sbagliare. A capo chino, si genuflesse e si fece il segno della Croce mentre passava davanti al tabernacolo, poi, silenziosamente, si infilò in un banco.
In ginocchio, poggiò il capo alle mani intrecciate e lasciò vagare liberamente i pensieri. Non pregò consapevolmente, ma divenne piuttosto una parte intrinseca dell'atmosfera, che sentiva densa eppure eterea, inesprimibilmente sacra, meditativa. Era come se si fosse tramutato nella fiammella di una di quelle piccole lampade votive di vetro rosso che sembrano sempre palpitare sull'orlo dell'estinzione, ma che sono alimentate da una piccola pozza di qualche sostanza vitale e irradiano un fioco ma duraturo chiarore nelle remote tenebre. Silenzio, assenza di forma, oblio della propria identità umana, ecco che cosa provava Dane entrando in una chiesa. In nessun altro luogo si sentiva così a posto, così intensamente in pace con se stesso, così lontano dalla sofferenza. Abbassò le palpebre, chiuse gli occhi.
Dalla cantoria giunse uno scalpiccìo di passi, un soffio d'aria dalle canne dell'organo. Il coro di fanciulli della cattedrale di Santa Maria era arrivato in anticipo per potersi esercitare un poco prima della funzione. Si trattava soltanto della Benedizione del venerdì, ma era uno degli amici e insegnanti di Dane al Riverview a impartirla e lui aveva voluto essere presente.
L'organo emise alcuni accordi, passò a un pianissimo mormorante di accompagnamento e, sotto i bui archi di pietra ricamata, si levò la voce ultraterrena di un fanciullo, sottile e acuta e dolce, così colma di innocente candore che le poche persone nella vasta chiesa deserta chiusero gli occhi e rimpiansero quella purezza che non avrebbero mai più potuto ricuperare.
Panis angelicus,
fit panis hominum,
dat panis coelicus
figuris terminum.
O res mirabilis,
manducat Dominus,
pauper, pauper,
servus et humilis...
Pane degli angeli, pane celeste, cosa mirabile! Dalle tenebre io ho gridato a Te, o Signore; Signore, ascolta la mia voce! Che l'orecchio Tuo ascolti la mia supplica. Non voltarmi le spalle, Signore, non voltarmi le spalle. Poiché Tu sei il mio Sovrano, il mio Maestro, il mio Dio, e io sono il Tuo umile servo. Negli occhi Tuoi una sola cosa conta, la bontà. Tu non ti curi se i servi Tuoi sono belli o brutti. Per Te soltanto il cuore conta; in Te tutto guarisce, in Te io conosco la pace.
Signore, la mia è solitudine. Io prego affinché presto finisca la sofferenza della vita. Ma Tu sei, e il Tuo conforto è la sola cosa a sostenermi. Qualsiasi cosa Tu richieda da me, o Signore, Ti sarà data, poiché io Ti amo. E, se mi è lecito presumere di poterti chiedere qualcosa, io chiedo che in Te ogni altra cosa sia dimenticata per sempre...
«Sei molto taciturna, Ma'» disse Dane. «A che cosa stai pensando? A Drogheda?»
«No» rispose Meggie, sonnacchiosa. «Sto pensando che invecchio. Stamane mi sono trovata una decina di capelli grigi, e mi dolgono le ossa.»
«Tu non invecchierai mai, Ma'» disse lui, consolante.
«Vorrei che fosse vero, tesoro mio, ma sfortunatamente non è così. Sto cominciando ad aver bisogno del pozzo artesiano, e questo è un indizio certo di vecchiaia.»
Giacevano al caldo sole invernale, sopra asciugatoi distesi sull'erba di Drogheda, vicino al pozzo artesiano. Al lato opposto della vasta pozza, l'acqua bolliva e gorgogliava, e il puzzo dello zolfo andava alla deriva sul vento e galleggiava verso il nulla. Era uno dei grandi piaceri invernali, nuotare nel laghetto del pozzo artesiano. Tutti i dolori e tutte le fitte della vecchiaia imminente venivano mitigati, pensò Meggie, e si girò supina, il capo all'ombra del tronco sul quale lei e Padre Ralph si erano messi a sedere tanto tempo prima. Moltissimo tempo prima; non riusciva a evocare nemmeno una fioca eco di quello che doveva aver provato quando era stata baciata da Ralph.
Poi udì Dane alzarsi e aprì gli occhi. Egli era stato sempre la sua creatura, la sua adorabile creatura; sebbene lo avesse veduto cambiare e crescere con orgoglio possessivo, aveva sempre sovrapposto la sua ridente immagine infantile alla faccia matura di lui. Non le era ancora accaduto di pensare che egli non era più, sotto alcun aspetto, un bambino.
Tuttavia, anche per Meggie giunse il momento della consapevolezza, in quell'istante, mentre lo contemplava stagliato contro il cielo vivido, nel minuscolo costume da bagno di cotone.
Dio mio, è tutto finito! L'infanzia, la fanciullezza. È un uomo. Fierezza, risentimento, uno sciogliersi femminile nell'improvvisa, terrificante consapevolezza di una qualche tragedia imminente, e ira, adorazione, tristezza, questo e altro ancora sentì Meggie, alzando gli occhi verso il figlio. È una cosa terribile, creare un uomo, e più terribile ancora creare un uomo come questo. Così straordinariamente maschio, così straordinariamente bello.
Ralph de Bricassart e un poco di lei. Come avrebbe potuto non commuoversi a vedere nel fiore della gioventù il corpo dell'uomo che si era unito con lei nell'amore? Chiuse gli occhi, imbarazzata, non sopportando di dover pensare a suo figlio come a un uomo. La guardava, lui, vedendo una donna ormai, o era lei, sempre, quel meraviglioso diminutivo, Ma'? Dio lo maledica, Dio lo maledica, come ha osato crescere?
«Sai qualcosa delle donne, Dane?» domandò a un tratto, riaprendo gli occhi.
Sorrise. «Gli uccelli e le api, vuoi dire?»
«Questo lo sai, avendo Justine come sorella. Quando scoprì che cosa si nascondeva sotto le copertine dei testi di fisiologia, andò a spifferare tutto a tutti. No, volevo dire: hai messo in pratica qualche aspetto dei trattati clinici di Justine?»
Egli mosse la testa in un rapido cenno di negazione, si lasciò cadere sull'erba accanto a lei e la guardò in viso. «È strano che tu mi faccia questa domanda, Ma'. Volevo parlartene già da molto tempo, ma non sapevo come cominciare.»
«Hai appena diciotto anni, tesoro mio. Non è un po' presto per cominciare a mettere in pratica le teorie?» Appena diciotto anni. Appena. Era un uomo, no?
«È proprio di questo che volevo parlarti. Non intendo metterle in pratica affatto.»
Come era gelido il vento che soffiava giù dal Grande Spartiacque! Strano, fino a quel momento non se n'era accorta. Dov'era la vestaglia? «Non metterle in pratica affatto» ripeté con voce sorda, e non fu una domanda.
«Esatto. Non voglio, mai. Non che non ci abbia pensato, e non abbia desiderato moglie e figli. Li ho desiderati. Ma non posso. Perché non c'è abbastanza spazio per amare loro e anche Dio, come io voglio amarlo. Lo so da molto tempo. Sembra che non riesca a ricordare un momento in cui non lo abbia saputo, e, quanto più avanzo negli anni, tanto più grande diviene il mio amore per Dio. È un grande mistero, amare Dio.»
Meggie giaceva contemplando quegli occhi azzurri calmi, remoti. Gli occhi di Ralph come erano stati un tempo. Ma illuminati da un qualcosa che era del tutto estraneo a Ralph. Li aveva avuti anche lui così, a diciotto anni? Li aveva avuti? Si trattava forse di qualcosa che si poteva provare soltanto a diciotto anni? Quando lei era entrata nella vita di Ralph, lui aveva già dieci anni di più. Eppure suo figlio era un mistico, lo aveva sempre saputo. E non riteneva che, in una qualsiasi fase della vita, Ralph fosse stato portato al misticismo. Deglutì e avvolse più strettamente la vestaglia intorno al suo povero corpo.
«E così mi sono domandato» continuò Dane «che cosa avrei potuto fare per dimostrarMCGli quanto Lo amavo. Ho lottato contro la risposta per molto tempo, non volevo vederla. Perché desideravo anche, moltissimo, vivere da uomo. Eppure sapevo quale doveva essere l'offerta, lo sapevo... C'è una sola cosa che possa offrire a Dio, per dimostrarMCGli che niente altro esisterà mai nel mio cuore prima di Lui. Devo offrirMCGli il solo rivale che abbia; questo è il sacrificio che Egli mi chiede. Sono il Suo servo, ed Egli non avrà rivali. Ho dovuto scegliere. Tutte le cose che mi consentirà di avere e di godere, tranne questa.» Sospirò e staccò uno stelo dell'erba di Drogheda. «Devo dimostrarMCGli che capisco perché mi ha dato tanto alla nascita. Devo dimostrarMCGli che mi rendo conto di quanto priva di importanza sia la mia vita come uomo.»
«Non puoi farlo, non te lo consentirò!» gridò Meggie, e con una mano gli afferrò il braccio, stringendoglielo. Come era liscio, e che grande forza gli si sentiva sotto la pelle, proprio come in Ralph. Proprio come in Ralph! Non consentire a qualche splendida ragazza di mettere lì la mano, di diritto?
«Mi farò prete» disse Dane. «Intendo dedicarmi completamente al servizio di Dio, offrire a Lui tutto ciò che ho e che sono, quale Suo sacerdote. Povertà, castità e ubbidienza. Egli non chiede di meno ai Suoi servi che presceglie. Non sarà facile, ma lo farò.»
Che espressione aveva sua madre negli occhi! Come se l'avesse uccisa, schiacciata nella polvere sotto il piede. Non sapeva che sarebbe stato costretto a soffrire così, si era limitato a sognare l'orgoglio di sua madre per lui, il piacere di sua madre nel dare il proprio figlio a Dio. Gli avevano detto che sarebbe stata commossa, esultante, completamente d'accordo. E invece lo stava fissando come se la prospettiva del suo sacerdozio fosse stata per lei una condanna a morte.
«Non ho mai voluto essere altro» disse disperato, sostenendo lo sguardo di quegli occhi morenti. «Oh, Ma', possibile che tu non riesca a capire? Non ho mai, mai, voluto essere altro che un prete! Non posso essere altro che un prete!»
La mano di lei gli scivolò giù dal braccio; abbassò gli occhi e vide i segni bianchi lasciati dalle dita, dove le unghie erano affondate in profondità. Meggie alzò la testa, rise e continuò a ridere e a ridere, enormi, isterici scoppi di risa amare e beffarde.
«Oh, è troppo bello per essere vero!» ansimò, quando riuscì di nuovo a parlare, asciugandosi le lacrime dagli angoli degli occhi con mano tremante. «Che incredibile ironia! Cenere di rose, egli disse quella notte mentre venivamo a cavallo al pozzo artesiano. E io non capii che cosa avesse voluto dire. Cenere eri e cenere tornerai a essere. Alla Chiesa appartenevi, alla Chiesa sarai data. Oh, magnifico, magnifico! Dio faccia marcire Dio, io dico! Dio il sodomita! L'acerrimo nemico delle donne, ecco che cos'è Dio! Tutto ciò che noi cerchiamo di fare, Egli cerca di disfarlo!»
«Oh, non dire così! Oh, no! Ma', no!» Egli piangeva per lei, per la sua sofferenza, senza capire né quella sofferenza, né le parole che essa pronunciava. Le lacrime cadevano, gli torcevano il cuore; il sacrificio era già cominciato, e in un modo che lui non avrebbe mai immaginato. Ma, sebbene piangesse per lei, nemmeno per lei avrebbe potuto rinunciare al sacrificio. L'offerta doveva essere fatta e quanto più dolorosa fosse stata, tanto più preziosa sarebbe risultata agli occhi di Dio.
Lo aveva fatto piangere e questo non era mai accaduto, in tutta la sua vita, fino a quel momento. Meggie accantonò risolutamente l'ira e la sofferenza. No, non era leale da parte sua imporglisi. Egli era come lo avevano fatto i suoi stessi geni. O il suo Dio. O il Dio di Ralph. Era la luce della sua vita, suo figlio. Non avrebbe dovuto soffrire a causa sua, mai.
«Dane, non piangere» bisbigliò Meggie, accarezzandogli i segni dell'ira sul braccio. «Scusami, non volevo. Mi hai colta di sorpresa, è stato un colpo, ecco tutto. Naturalmente, sono lieta per te, sul serio! Come potrei non esserlo? È stata una sorpresa, non me lo aspettavo, ecco tutto.» Ridacchiò, una risatina tremula. «In un certo qual modo, la notizia mi è piombata addosso come un fulmine.»
Gli occhi gli si schiarirono, e la osservò, dubbioso. Perché aveva immaginato di ucciderla? Quelli erano gli occhi di Ma', come li aveva sempre conosciuti; colmi d'amore, intensamente vivi. Le forti e giovani braccia la strinsero, l'abbracciarono. «Sei sicura che non ti dispiace?»
«Dispiacermi? Può mai dispiacere a una buona madre cattolica che suo figlio si faccia prete? Impossibile!» Balzò in piedi. «Brrrr! Come sono gelata! Torniamo a casa.»
Non erano venuti a cavallo, ma con una Land Rover; Dane si mise al volante e sua madre gli sedette accanto.
«Sai già dove andrai?» domandò Meggie, traendo un respiro simile a un singhiozzo, e scostandosi dagli occhi i capelli scompigliati.
«Nel Collegio San Patrizio, presumo. Almeno finché non mi sarò orientato; poi, forse, sceglierò un ordine. Preferirei essere un gesuita, ma non ne sono così certo da optare subito per la Compagnia di Gesù.»
Meggie fissò l'erba fulva che ondeggiava dietro il parabrezza punteggiato da insetti spiaccicati. «Io ho un'idea molto migliore, Dane.»
«Oh?» Doveva concentrarsi sulla guida; la pista a volte era quasi invisibile e vi cadevano sempre nuovi tronchi.
«Ti manderò a Roma, dal Cardinale de Bricassart. Ti ricordi di lui, vero?»
«Se me ne ricordo? Che domanda, Ma'! Credo che non lo dimenticherei nemmeno dopo un milione di anni. Per me è l'esempio del sacerdote perfetto. Se potessi diventare un sacerdote come lui, sarei felicissimo.»
«La perfezione non è di questo mondo» disse Meggie, piccata. «Ma ti affiderò a lui perché so che ti proteggerà per amor mio. Potrai entrare in un seminario di Roma.»
«Dici sul serio, Ma'? Proprio sul serio?» L'ansia escluse la felicità dal volto di lui. «Ma abbiamo abbastanza denaro? Spenderemmo molto meno se rimanessi in Australia.»
«Grazie allo stesso Cardinale de Bricassart, mio caro, tu non mancherai mai di denaro.»
Sulla porta della cucina, lo spinse dentro. «Va' a dirlo alle ragazze e alla signora Smith» mormorò. «Andranno in estasi.»
Arrancò su per la rampa che conduceva alla grande casa ed entrò nel salotto ove si trovava Fee, miracolosamente non assorta nel lavoro, ma intenta a conversare con Anne Mueller davanti al vassoio del tè pomeridiano. Quando Meggie entrò, le due donne alzarono gli occhi e le lessero in faccia che era accaduto qualcosa di serio.
Per diciotto anni i Mueller erano venuti in visita a Drogheda persuasi che niente sarebbe mai cambiato. Ma Luddie Mueller era morto all'improvviso l'autunno precedente e Meggie aveva scritto subito a Anne per domandarle se le sarebbe piaciuto stabilirsi definitivamente a Drogheda. C'erano camere in abbondanza, o un villino degli ospiti, se avesse preferito stare per suo conto; avrebbe potuto pagare una pensione, se era troppo orgogliosa per alloggiare lì gratis, sebbene Dio sapesse che non mancava il denaro per mantenere anche mille ospiti permanenti. A Meggie sembrava di poter così ricambiare gli anni solitari passati nel Queensland, e Anne scorse in quell'invito la salvezza. La solitudine a Himmelhoch senza Luddie era terribile, benché avesse assunto un amministratore, evitando di vendere la proprietà. Alla sua morte Himmelhoch sarebbe passata a Justine.
«Che cosa c'è, Meggie?» domandò Anne.
Meggie sedette. «Credo di essere stata punita da un fulmine.»
«Cosa?»
«Avevate ragione, tutte e due. Diceste che avrei perduto Dane, e non vi credetti, pensavo davvero di poter sconfiggere Dio. Ma non è mai esistita al mondo una donna in grado di prevalere su Dio. Dio è Uomo.»
Fee le versò una tazza di tè. «Prendi, bevi questo» disse, come se il tè avesse avuto gli stessi poteri rianimatori del brandy. «Come lo hai perduto?»
«Vuol diventare sacerdote.» Si mise a ridere e a piangere contemporaneamente.
Anne prese i bastoni, zoppicò verso la poltrona di Meggie e sedette goffamente sul bracciolo, accarezzando i bei capelli rosso-dorati dell'amica. «Oh, cara! Ma non è poi così grave.»
«Sai di Dane?» domandò Fee a Anne.
«L'ho sempre saputo» rispose lei.
Meggie si calmò. «Non è poi così grave, dici? È il principio della fine, non capisci? Il giusto castigo. Ho sottratto Ralph a Dio, e ora pago con mio figlio. Tu mi avevi detto che si trattava di un furto, Ma', non ricordi? Non volli crederti, ma avevi ragione, come sempre.»
«Andrà al San Patrizio?» domandò Fee, pratica.
Meggie rise più normalmente. «Questo non sarebbe un castigo, Ma'. Lo manderò da Ralph, naturalmente. Una metà di lui gli appartiene; lasciamo che Ralph se lo goda, finalmente.» Alzò le spalle. «Dane conta più di Ralph, e sapevo che desiderava andare a Roma.»
«Hai mai detto a Ralph la verità sul conto di Dane?» domandò Anne; era un argomento del quale avevano sempre evitato di parlare.
«No, e non gliela dirò mai. Mai!»
«Si somigliano tanto che potrebbe supporlo.»
«Chi, Ralph? Non lo indovinerà mai! Questo almeno lo terrò per me. Gli manderò mio figlio, ma non più di questo. Non gli manderò suo figlio.»
«Sta' in guardia dalla gelosia degli dei, Meggie» disse Anne, sommessamente. «Potrebbero non avere ancora finito con te.»
«Che cosa possono farmi di più?» chiese Meggie disperata.
Quando Justine seppe la notizia si infuriò, sebbene, da tre o quattro anni a quella parte, lo sospettasse. Per Meggie era stato come un colpo di fulmine, ma per Justine fu come una prevista doccia d'acqua gelida.
In primo luogo perché aveva studiato a Sydney con lui e, come sua confidente, lo aveva ascoltato parlare di cose che non diceva a sua madre. Justine sapeva quale vitale importanza rivestisse la religione per Dane; non soltanto Dio, ma il significato mistico dei riti cattolici. Se fosse nato e cresciuto protestante, pensava, era il tipo da convertirsi in ultimo al cattolicesimo per soddisfare un qualcosa nell'anima sua. Non faceva per Dane l'austero Dio calvinista. Il suo Dio era miniato in vetrate colorate, avvolto dall'incenso, fasciato in pizzi e ricami d'oro, esaltato da musiche maestose, e adorato con belle cadenze latine.
Sembrava, inoltre, una sorta di ironica perversione il fatto che un uomo così mirabilmente dotato di bellezza dovesse ritenerla un handicap paralizzante e deplorarne l'esistenza. Poiché Dane faceva proprio questo. Rifuggiva da ogni accenno al proprio aspetto; Justine immaginava che avrebbe preferito di gran lunga essere nato brutto e totalmente privo di attrattive. Capiva in parte perché egli la pensasse così; e, forse proprio perché lei aveva scelto come carriera una professione notoriamente narcisistica, si sentiva alquanto propensa ad approvare l'atteggiamento del fratello nei confronti del proprio aspetto. Ma una cosa non riusciva assolutamente a capire: perché Dane odiasse decisamente la sua avvenenza invece di limitarsi a ignorarla.
Né era molto portato per la sessualità; Justine non sapeva bene per quale ragione: aveva insegnato a se stesso a sublimare in modo quasi perfetto le proprie azioni o, nonostante le doti fisiche, gli faceva difetto una qualche essenza intima, indispensabile? Forse la prima ipotesi era la più vera, in quanto, tutti i santi giorni, Dane si dedicava a qualche energico sport per essere certo di andare a letto spossato. Sapeva benissimo che le sue tendenze erano «normali», vale a dire eterosessuali, e sapeva inoltre quale tipo di ragazza gli piacesse... alta, bruna e voluttuosa. Eppure, non era sensualmente consapevole, non si accorgeva delle sensazioni che davano le cose quando le toccava, o degli odori nell'aria intorno a sé, né capiva le particolari soddisfazioni della forma e del colore. Per poter sentire uno stimolo sessuale, la provocazione doveva essere irresistibile, e soltanto in quei rari momenti Dane sembrava rendersene conto.
Dane le diede la notizia dietro le quinte, al Culloden, dopo uno spettacolo. Tutto era stato deciso con Roma, quel giorno; moriva dalla voglia di dirlo a Justine, eppure sapeva di darle un dolore. Le ambizioni religiose erano un argomento del quale non aveva mai parlato con la sorella quanto avrebbe voluto, perché Justine si adirava. Ma, quando si presentò dietro le quinte, quella sera, gli riuscì troppo difficile contenere ancora a lungo la propria felicità.
«Sei uno stupido» disse lei, disgustata.
«È quello che ho sempre voluto.»
«Idiota.»
«Insultandomi non cambierai niente, Jus.»
«Credi che non lo sappia? Ma mi consente di sfogarmi, ecco tutto.»
«Mi sembra che dovresti trovare abbastanza sfogo sul palcoscenico interpretando la parte di Elettra. Sei davvero brava, Jus.»
«Dopo questa notizia lo sarò ancora di più» disse lei, torva. «Andrai al San Patrizio?»
«No, vado a Roma, dal Cardinale de Bricassart. Ma' ha preso tutti gli accordi.»
«Dane, no! È così lontano!»
«Be', perché non vieni anche tu, magari in Inghilterra? Con la tua esperienza e la tua abilità, dovresti poter trovare una scrittura senza troppe difficoltà.»
Sedeva davanti allo specchio togliendosi il trucco di Elettra, ancora con le vesti di Elettra; circondati da marcati arabeschi neri, i suoi strani occhi sembravano ancor più strani. Annuì adagio. «Sì, potrei, perché no?» domandò a se stessa, cogitabonda. «Avrei dovuto farlo da tempo... L'Australia sta diventando un po' troppo piccola... Hai ragione, camerata! È deciso! Andrò in Inghilterra.»
«Magnifico! Pensa un po'! Avrò periodi di vacanze, sai, si fanno sempre, in seminario, come all'università. Potremo fare in modo di prenderle insieme, viaggiare un po' in Europa, tornare a casa a Drogheda. Oh, Jus! Ho già pensato a tutto. Averti non tanto lontana renderà la cosa perfetta.»
Gli sorrise radiosa. «Sì, non è vero? La vita non sarebbe più perfetta se non potessi parlare con te.»
«Hai detto quello che temevo.» Dane sorrise. «No, parlando seriamente, Jus; tu mi preoccupi. Preferirei averti dove mi sia possibile vederti di quando in quando. Altrimenti, chi mai sarebbe la voce della tua coscienza?»
Si lasciò scivolare giù, tra un elmo da oplita e una maschera spaventosa da pitonessa, sul pavimento, in un punto dal quale poteva vederla. C'erano soltanto due camerini per i divi, al Culloden, e Justine non aveva ancora raggiunto la celebrità sufficiente per conquistarne uno. Era nello spogliatoio comune, tra l'andirivieni incessante di tutti gli attori.
«Dannato Cardinale de Bricassart!» inveì. «L'ho odiato non appena gli ho messo gli occhi addosso!»
Dane ridacchiò. «E invece non è vero, se vuoi saperlo.»
«È così! È così!»
«No, niente affatto. La zia Anne mi ha raccontato una cosa durante le vacanze di Natale, e scommetto che tu non la sai.»
«Cos'è che non so?» domandò lei, circospetta.
«Che quando eri una poppante ti allattò con il biberon, ti fece fare il ruttino e ti cullò, e riuscì a farti addormentare. Zia Anne dice che eri una bambina terribile e bisbetica e non sopportavi di essere tenuta in braccio. Ma quando ti prese lui tra le braccia, ti piacque, e come!»
«È una bugia schifosa!»
«No, non lo è.» Sorrise. «A ogni modo, perché lo odii tanto, adesso?»
«Lo odio e basta. Mi ricorda uno scarno, vecchio avvoltoio e mi dà il voltastomaco.»
«A me piace. Mi è sempre piaciuto. Il sacerdote perfetto, così lo definisce Padre Watty. E credo che lo sia davvero, per giunta.»
«Be', vada a farsi fottere, dico io!»
«Justine!»
«Ah, ti ho scandalizzato, stavolta, eh? Non immaginavi nemmeno, scommetto, che conoscessi questa parola.»
Gli occhi di lui danzarono. «Ma sai che cosa significa? Avanti, dimmelo, Jussy, ti sfido!»
Non sapeva mai resistergli, quando la stuzzicava; anche gli occhi di lei cominciarono ad ammiccare. «Potresti anche diventarmi un frate gaudente, stupido, ma, se non conosci già il significato della parola, farai meglio a non indagare.»
Divenne serio. «Non preoccuparti, non indagherò.»
Un paio di gambe femminili molto ben fatte si fermò accanto a Dane e piroettò. Alzò gli occhi, arrossì, distolse lo sguardo e disse: «Oh, ciao, Martha» in tono noncurante.
«Ciao a te.»
Era una ragazza estremamente bella, non molto dotata come attrice, ma così decorativa da avvantaggiare qualsiasi messa in scena; si dava inoltre il caso che fosse esattamente il tipo di Dane, e Justine aveva udito più di una volta i suoi commenti ammirati su di lei. Alta, una di quelle ragazze che le riviste cinematografiche definivano sempre sensazionali, con capelli e occhi nerissimi, pelle chiara, seni magnifici.
Appollaiatasi sull'angolo del tavolino da toletta di Justine, fece dondolare in modo provocante una gamba sotto il naso di Dane e lo contemplò con malcelata ammirazione, che lui trovava ovviamente sconcertante. Signore Iddio, era davvero un bel ragazzo! Come aveva fatto, quella brutta cavalla da tiro che era Jus, a procurarsi un fratello con un aspetto simile? Forse aveva appena diciotto anni e aveva ancora il latte sulle labbra, ma chi se ne infischiava?
«Se andassimo a casa mia a prendere un caffè e via dicendo?» propose, abbassando gli occhi su Dane. «Potreste venire tutti e due» soggiunse con riluttanza.
Justine scosse decisamente la testa mentre un'idea improvvisa le illuminava lo sguardo. «No, grazie, io non posso. Dovrai accontentarti di Dane.»
Lui scosse la testa altrettanto recisamente, ma con alquanto rincrescimento, come se fosse davvero tentato. «Grazie lo stesso, Martha, ma non posso.» Sbirciò l'orologio quasi fosse stato un'ancora di salvezza. «Santo Cielo, mi rimane soltanto un minuto sul contatore del posteggio! Quanto ci metterai ancora, Jus?»
«Una decina di minuti.»
«Ti aspetterò fuori, allora, va bene?»
«Fifone!» lo schernì lei.
Gli occhi scuri di Martha lo seguirono. «È assolutamente splendido. Perché non vuole guardarmi?»
Justine ebbe un sorriso amaro e, strofinandosi, si pulì finalmente la faccia. Le lentiggini stavano tornando. Forse Londra le avrebbe giovato; non c'era sole. «Oh, non preoccuparti, ti guarda. E ci starebbe, anche. Ma ci starà?»
«Perché? Cos'ha che non va? Non venire a dirmi che è un finocchio! Merda! Perché tutti gli uomini fantastici che conosco io sono finocchi? Non avevo mai pensato che lo fosse anche Dane, però; non ha affatto l'aria di esserlo.»
«Bada a come parli, tonta. Non è un finocchio! Anzi, se dovesse fare gli occhi dolci al Soave William, taglierei la gola a lui e al nostro affascinante attor giovane.»
«Be', se non è un invertito e se gli piace, perché non se la prende? Non afferra il mio messaggio? O forse pensa che io sia troppo vecchia per lui?»
«Tesoro, neanche a cent'anni sarai troppo vecchia per l'uomo medio, non stare a crucciarti per questo. No, Dane ha giurato di astenersi dal sesso, l'idiota. Diventerà prete.»
La bocca sensuale di Martha si aprì: gettò indietro la criniera color inchiostro. «Ma va' là!»
«È vero, è vero.»
«Vorresti dirmi che tutta quella maschia bellezza andrà sprecata?»
«Temo di sì. Vuole offrirla a Dio.»
«Allora Dio è più finocchio del nostro Soave Willie.»
«Potresti aver ragione» disse Justine. «Senza dubbio, non ama molto le donne, in ogni caso. Siamo di second'ordine, noi, e restiamo indietro di parecchio nelle supreme sfere. Le poltrone di prima fila e i palchi sono severamente riservati ai maschi.»
«Oh.»
Justine si sfilò, contorcendosi, la veste di Elettra, infilò un leggero vestito di cotone, ricordò che fuori faceva freddo, si mise una giacca di lana lavorata a maglia, e diede un colpetto affettuoso sulla testa di Martha. «Non stare a crucciarti per questo, tesoro. Dio è stato molto generoso con te; non ti ha dato il cervello. Credimi, è molto meglio così. Tu non farai mai concorrenza ai Padroni del Creato.»
«Non saprei, non mi spiacerebbe far concorrenza a Dio per avere tuo fratello.»
«Scordatene. Ti batteresti contro l'Establishment, e non è proprio possibile. Ti sarebbe molto più facile sedurre il Soave Willie, credi a me.»
Un'automobile del Vaticano aspettava Dane all'aeroporto e lo condusse velocemente lungo vie assolate, dai colori tenui, piene di gente bella e allegra; lui tenne il naso incollato al finestrino e assorbì tutto, colmo di un'eccitazione intollerabile nel contemplare personalmente le cose che aveva veduto soltanto in fotografia... le colonne romane, i palazzi barocchi, lo sfarzo rinascimentale di San Pietro.
E ad aspettarlo, questa volta fasciato di scarlatto dalla testa ai piedi, c'era Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart. La mano gli venne tesa con l'anello sfavillante. Dane cadde su entrambe le ginocchia per baciarlo.
«Alzati, Dane. Lascia che ti guardi.»
Si alzò, sorridendo all'uomo alto che aveva quasi esattamente la sua stessa statura; potevano guardarsi negli occhi. Per Dane, il Cardinale aveva un'aura immensa di potere spirituale che lo fece pensare al Papa, più che a un santo; eppure, quegli occhi intensamente tristi non erano gli occhi di un pontefice. Quanto doveva avere sofferto per assumere quell'aspetto, ma con che nobiltà doveva essersi innalzato al di sopra delle sofferenze per essere il più perfetto tra i sacerdoti!
E il Cardinale Ralph contemplò il figlio che non sapeva fosse suo figlio, amandolo, pensò, perché era il figlio di Meggie. Proprio così avrebbe voluto che fosse suo figlio; altrettanto alto, altrettanto sorprendentemente bello, altrettanto aggraziato. In tutta la vita non aveva mai veduto un uomo muoversi così bene. Ma, di gran lunga più soddisfacente di qualsiasi bellezza fisica era la semplice bellezza dell'anima. Il ragazzo aveva la forza degli angeli, e un qualcosa della loro qualità ultraterrena. Era stato così anche lui, a diciotto anni? Cercò di ricordare, di gettare un ponte oltre gli eventi dei tre quinti di una vita; no, non era mai stato così. Forse perché questo ragazzo veniva davvero alla Chiesa di sua iniziativa? Nel suo caso, infatti, non era stato così, sebbene avesse avuto la vocazione, di questo continuava a essere certo.
«Siedi, Dane. Hai fatto come ti ho chiesto, hai cominciato a imparare l'italiano?»
«A questo punto lo parlo scorrevolmente e lo leggo molto bene. Probabilmente la mia quarta lingua facilita le cose. Sembra che sia portato per le lingue. Un paio di settimane qui, e dovrei parlare anche romanesco.»
«Sì, lo imparerai senz'altro. Anch'io ho talento per le lingue.»
«Be', fanno comodo» disse Dane, imbarazzato. L'imponente figura in scarlatto lo intimidiva un poco; tutto a un tratto, diventava difficile ricordare l'uomo in sella al castrone sauro, a Drogheda.
Il Cardinale Ralph si sporse in avanti, osservando il giovane.
«Affido a te la responsabilità di mio figlio, Ralph» gli aveva scritto Meggie. «Ritengo te responsabile del suo benessere, della sua felicità. Ciò che ho rubato, restituisco. Lo si esige da me. Devi soltanto promettermi due cose, e io sarò serena nella certezza che avrai agito per il suo bene. Anzitutto, promettimi di accertare, prima di accettarlo, che questo sia quanto egli davvero, e assolutamente, vuole. In secondo luogo, che se ciò è quanto egli vuole, lo terrai d'occhio e ti accerterai che rimanga quello che vuole essere. Se dovesse cambiare idea, lo rivoglio con me. Perché apparteneva prima a me. Sono io a dartelo.»
«Dane, sei sicuro?» domandò il Cardinale.
«Assolutamente.»
«Perché?»
Gli occhi del ragazzo erano curiosamente remoti, così familiari da farlo sentire a disagio, ma familiari in un modo che apparteneva al passato.
«A causa dell'amore che ho per Nostro Signore. Voglio servirlo come Suo sacerdote per tutta la vita.»
«Ti rendi conto di ciò che implica servire Dio, Dane?»
«Sì.»
«Sai che nessun altro affetto dovrà mai frapporsi tra te e Lui? Che sarai esclusivamente Suo e dovrai dimenticare tutti gli altri?»
«Sì.»
«Che la Sua volontà dovrà essere fatta in ogni cosa e che, servendo Lui, dovrai seppellire la tua personalità, la tua individualità, il concetto che hai di te stesso come esclusivamente importante?»
«Sì.»
«E che, se necessario, dovrai affrontare la morte, la prigionia, la fame in Nome Suo? Che non dovrai possedere nulla, apprezzare nulla che possa sminuire il tuo affetto per Lui?»
«Sì.»
«Sei forte, Dane?»
«Sono un uomo, Eminenza. Sono anzitutto un uomo. Sarà difficile, lo so. Ma prego di poter trovare la forza, con il Suo aiuto.»
«Vuoi proprio che sia così, Dane? Niente al disotto di Dio potrà soddisfarti?
«Niente.»
«E se in seguito dovessi cambiare idea, che cosa faresti?»
«Be', chiederei di andarmene» rispose Dane, sorpreso. «Se cambiassi idea, sarebbe perché avrò sbagliato in buona fede per quanto concerne la mia vocazione, e per nessun altro motivo. Di conseguenza, chiederò di andarmene. Non per questo amerò meno Dio, ma saprei che non in questo modo Egli vorrebbe essere servito da me.»
«Ma, una volta pronunciati i voti definitivi, e dopo l'ordinazione, ti rendi conto che non potresti più tornare indietro, che non potrebbe esservi alcuna dispensa, che assolutamente non saresti più libero di te stesso?»
«Me ne rendo conto» disse Dane, paziente. «Se vi sarà una decisione da prendere, dovrò prenderla prima.»
Il Cardinale Ralph si riappoggiò alla spalliera della poltrona e sospirò. Aveva mai posseduto una tale certezza? Era mai stato così forte? «Perché proprio da me, Dane? Perché sei voluto venire a Roma? Perché non sei rimasto in Australia?»
«Ma' ha proposto Roma, ma io ci pensavo come a un sogno da molto tempo. Non avrei mai creduto che potessimo disporre di tanto denaro.»
«Tua madre è molto assennata. Non te lo ha detto?»
«Che cosa avrebbe dovuto dirmi, Eminenza?»
«Che hai un reddito di cinquemila sterline annue, e molte migliaia di sterline già depositate in banca a tuo nome?»
Dane si irrigidì. «No. Non me lo ha mai detto.»
«Molto assennata. Ma hai questo denaro, e Roma è tua, se vuoi. Vuoi Roma?»
«Sì.»
«Perché vuoi me, Dane?»
«Perché lei, Eminenza, è l'idea che io mi faccio del sacerdote perfetto.»
Una smorfia alterò i lineamenti del Cardinale Ralph. «No, Dane, non puoi vedermi in questo modo. Io sono tutt'altro che un sacerdote perfetto. Ho trasgredito a tutti i voti, te ne rendi conto? Ho dovuto imparare quello che tu sembri già sapere nel modo più doloroso che possa toccare a un sacerdote: venendo meno ai voti. Perché mi rifiutavo di ammettere che ero in primo luogo un uomo mortale e soltanto in secondo luogo un sacerdote.»
«Eminenza, non importa» disse Dane, sommessamente. «Quello che lei dice non mi impedisce affatto di ritenerla il sacerdote perfetto. Credo che lei non capisca ciò che intendo, ecco tutto. Non mi riferisco a un automa disumano, superiore alle debolezze della carne. Intendo dire che lei ha sofferto, ed è maturato. Le sembro presuntuoso? Non è nelle mie intenzioni, sinceramente. Se l'ho offesa, le chiedo scusa. È solo che mi riesce così difficile esprimere i miei pensieri! Voglio dire che, per diventare un sacerdote perfetto, devono occorrere anni, sofferenze terribili, ed è necessario avere sempre presente un ideale, e Nostro Signore.»
Il telefono squillò; il Cardinale Ralph alzò il ricevitore con la mano lievemente malferma, e parlò in italiano.
«Sì, grazie, veniamo subito.» Si alzò. «È l'ora del tè pomeridiano, e lo prenderemo con un mio vecchio, vecchissimo amico. Subito dopo il Santo Padre, è probabilmente il sacerdote più importante della Chiesa. Gli ho detto che saresti arrivato e ha espresso il desiderio di conoscerti.»
«Grazie, Eminenza.»
Percorsero corridoi, attraversarono piacevoli giardini molto diversi da quelli di Drogheda, con alti cipressi e pioppi, geometrici rettangoli d'erba circondati da viali a pilastri, con lastroni di pietra muschiosi; passarono sotto archi gotici, sotto ponti rinascimentali. Dane contemplava avidamente ogni cosa, e ogni cosa gli piaceva. Era un mondo così diverso dall'Australia, così antico ed eterno.
Impiegarono un quarto d'ora, camminando di buon passo, per arrivare al palazzo, entrarono e salirono un grande scalone di marmo sulle cui pareti pendevano arazzi inestimabili.
Il Cardinale Vittorio Contini-Verchese aveva ormai sessantasei anni e il corpo in parte storpiato dai reumatismi, ma la mente intelligente e sveglia come sempre. La sua gatta attuale, una gatta blu, russa, a nome Natascia, gli si raggomitolava in grembo facendo le fusa. Poiché non era in grado di alzarsi per accogliere gli ospiti, si limitò a un ampio sorriso e fece loro cenno. Il suo sguardo passò dal volto diletto di Ralph a quello di Dane O'Neill; gli occhi si spalancarono, si socchiusero e si fermarono su Dane. Sentì il cuore mancargli un colpo, portò sul cuore la mano già tesa nel benvenuto, con un gesto istintivo di protezione, poi rimase immobile sulla poltrona, fissando con stupore l'edizione più giovane di Ralph de Bricassart.
«Vittorio, si sente bene?» domandò ansiosamente il Cardinale Ralph, prendendo tra le dita l'esile polso e tastandolo.
«Certo. Un doloretto passeggero, niente di più. Comodi, comodi.»
«Anzitutto, vorrei presentarle Dane O'Neill, che è, come le ho detto, il figlio di una mia carissima amica. Dane, Sua Eminenza il Cardinale Contini-Verchese.»
Dane si inginocchiò, premette le labbra sull'anello; al di sopra del capo chino di lui, lo sguardo del Cardinale Vittorio cercò il volto di Ralph e lo scrutò più attentamente di quanto avesse fatto per anni. In modo appena percettibile si rilassò; lei non glielo aveva mai detto, allora. E lui non sospettava, naturalmente, ciò che chiunque, vedendoli insieme, avrebbe supposto all'istante. Non padre e figlio, naturalmente, ma due stretti consanguinei. Povero Ralph! Non aveva mai veduto se stesso camminare, non aveva mai osservato le espressioni della propria faccia, non aveva mai notato lo scatto all'insù del suo sopracciglio sinistro. Invero Dio era buono, rendendo gli uomini così ciechi.
«Accomodatevi. Il tè sta per essere servito. Dunque, giovanotto! Vuoi diventare prete, e hai chiesto l'aiuto del Cardinale de Bricassart?»
«Sì, Eminenza.»
«Hai scelto con saggezza. Protetto da lui, non ti accadrà alcun male. Ma mi sembri un po' nervoso, figlio mio. Forse perché ti trovi in un ambiente nuovo?»
Dane sorrise il sorriso di Ralph, forse con un po' meno di fascino consapevole, ma così identico al sorriso di Ralph da ferire il cuore vecchio e stanco come un contatto fuggevole col filo spinato. «Sono sopraffatto, Eminenza. Non mi ero reso conto di quanto fossero importanti i Cardinali. E non mi ero mai sognato che sarebbero venuti a prendermi all'aeroporto, o che sarei stato invitato a un tè con lei.»
«Sì, è insolito... E forse potrebbe essere causa di complicazioni, me ne rendo conto. Ah, ecco il tè!» Compiaciuto, stette a guardare mentre veniva posto sul tavolino, poi alzò un dito ammonitore. «Ah, no! Farò io da padrona di casa! Come lo prendi il tè, Dane?»
«Come Ralph» rispose il ragazzo; poi arrossì intensamente. «Mi scusi, Eminenza. Non intendevo dir questo!»
«Non importa, Dane, il Cardinale Contini-Verchese capisce. Ci siamo conosciuti la prima volta come Dane e Ralph, ed era molto meglio in quel modo, non è vero? Le formalità sono nuove nei rapporti tra noi. Preferirei che in privato continuassimo a essere Dane e Ralph. Sua Eminenza non ci baderà, non è vero, Vittorio?»
«No. Mi piace chiamare la gente con il nome di battesimo. Ma, torniamo a quel che dicevo circa gli amici altolocati, figlio mio. Potrebbe essere un pochino imbarazzante per te, quando entrerai in quel qualsiasi seminario che sceglierai, questa tua lunga amicizia con il nostro Ralph. Dover dare spiegazioni complicate ogni qual volta si facessero commenti sui rapporti tra voi due sarebbe molto tedioso. A volte, Nostro Signore consente una piccola bugia» - sorrise, facendo balenare i denti d'oro - «e, per il bene di tutti, preferirei che ricorressimo a una di queste innocenti menzogne. Infatti, è difficile spiegare in modo soddisfacente i tenui legami dell'amicizia, mentre è molto facile spiegare il legame cremisi del sangue. Pertanto, diremo a tutti che il Cardinale de Bricassart è tuo zio, Dane, e risolveremo così la questione» concluse il Cardinale Vittorio, soavemente.
Dane parve scandalizzato, il Cardinale Ralph rassegnato.
«Non essere deluso dai grandi, figlio mio» disse il Cardinale Vittorio, con dolcezza. «Anch'essi hanno i piedi di argilla, e si assicurano la tranquillità con piccole bugie. È una lezione molto utile, quella che hai appena imparato, e sono certo che ti gioverà. Tuttavia, devi renderti conto che noi gentiluomini in scarlatto siamo diplomatici fino alla punta delle dita. Io penso davvero soltanto a te, figlio mio. Le gelosie e i risentimenti esistono anche nei seminari, così come negli istituti secolari. Soffrirai un poco perché crederanno che Ralph sia tuo zio, il fratello di tua madre, ma soffriresti molto di più se ritenessero che non vi unisce alcun legame di sangue. Noi siamo anzitutto uomini, e tu avrai a che fare con uomini in questo ambiente come negli altri.»
Dane chinò il capo, poi si sporse in avanti per accarezzare la gatta, ma si fermò con la mano tesa. «Posso? Mi piacciono i gatti, Eminenza.»
Non avrebbe potuto trovare una scorciatoia più rapida per penetrare in quel cuore invecchiato, ma costante. «Puoi. Confesso che sta diventando un po' troppo pesante per me. È una ghiottona, vero, Natascia? Va' da Dane; appartiene alla nuova generazione.»
Per Justine, non fu possibile trasferire se stessa e le sue cose dall'emisfero sud a quello nord con la stessa rapidità di Dane; quando ebbe lavorato fino al termine della stagione teatrale al Culloden e si fu congedata senza rincrescimento dalla dimora dei Bothwell Gardens, suo fratello si trovava a Roma già da due mesi.
«Come diavolo ho fatto ad accumulare tante cianfrusaglie?» domandò, circondata da vestiti, carte, scatole.
Meggie la guardò, con una scatola di pagliette di ferro in mano.
«Che cosa ci facevano queste sotto il tuo letto?»
Un'espressione di profondo sollievo affiorò sulla faccia accesa di sua figlia. «Oh, Dio sia lodato! Erano lì? Credevo che le avesse mangiate il barboncino della signora Devine; non sta bene da una settimana, e non avevo il coraggio di accennare alle pagliette che non riuscivo più a trovare. Ma sapevo che quella bestiaccia sarebbe stata capacissima di mangiarsele; mangia qualsiasi cosa. Non dico» continuò Justine, cogitabonda, «che mi dispiacerebbe non trovarmela più tra i piedi.»
Meggie si mise a ridere. «Oh, Jus! Ti rendi conto di quanto sei buffa?» Gettò la scatola sul letto, tra la montagna di altri oggetti che già vi si trovava. «Non fai proprio onore a Drogheda! Dopo tutte le nostre fatiche per ficcarti in testa l'ordine e la pulizia!»
«Avrei potuto dirti che ero una causa persa. Vuoi portarle a Drogheda, le pagliette? So che viaggerò per mare e che non ci sono limiti al bagaglio, ma credo che a Londra di pagliette se ne trovino a tonnellate.»
Meggie mise la scatola in uno scatolone di cartone con la scritta «Signora D.» «Credo che faresti meglio a regalarle alla signora Devine; dovrà rendere questo appartamento abitabile per il nuovo inquilino.» Su un lato del tavolo c'era una torre vacillante di piatti da lavare e, tra un piatto e l'altro, sporgevano raccapriccianti avanzi di cibo ammuffiti. «Non li lavi mai, i piatti?»
Justine ridacchiò, senza un'ombra di pentimento. «Dane dice che non li lavo affatto, ma che li rado.»
«Questi dovresti prima sottoporli al taglio dei capelli. Perché non li lavi come facevi una volta?»
«Perché questo significherebbe riportarli in cucina, e siccome di solito ceno dopo mezzanotte, nessuno apprezzerebbe lo scalpiccio dei miei piedini.»
«Dammi uno degli scatoloni vuoti. Andrò giù io a lavarli subito» disse sua madre, rassegnata; sapeva bene, prima ancora di offrirsi di venire, che cosa l'avrebbe aspettata. Eppure era stata, in un certo qual modo, impaziente. Non le capitava spesso di aver modo di rendersi utile a Justine; ogni volta che aveva tentato di aiutarla, si era sentita, alla fine, completamente inutile. Ma, nelle faccende domestiche, per una volta tanto la situazione si capovolgeva; poteva dare una mano a sua figlia finché voleva senza sentirsi ridicola.
In qualche modo, Justine e Meggie sbrigarono ogni cosa, poi partirono con la giardinetta che Meggie aveva guidato da Gilly, dirette all'Hotel Australia ove Meggie aveva un appartamento.
«Vorrei che voi di Drogheda acquistaste una casa a Palm Beach o ad Avalon» disse Justine, posando la valigia nella seconda camera da letto dell'appartamento. «Qui è terribile, proprio su Martin Place. Pensa un po', trovarsi a un passo dalla risacca! Non ti indurrebbe, questo, ad andare più spesso a prendere l'aereo a Gilly?»
«Perché dovrei venire a Sydney? Ci sono stata due volte in questi ultimi sette anni... per accompagnare Dane alla partenza, e ora per accompagnare te. Se avessimo una casa, rimarrebbe sempre vuota.»
«Balle!»
«Perché?»
«Perché? Perché al mondo c'è qualcosa di più della dannata Drogheda, maledizione! Quel posto mi fa impazzire!»
Meggie sospirò. «Verrà un momento in cui anelerai a tornarci.»
«E questo vale anche per Dane?»
Silenzio. Senza guardare sua figlia, Meggie tolse la borsetta dal tavolo. «Arriveremo in ritardo. Madame Rocher ha detto alle due. Se vuoi i vestiti prima di imbarcarti, faremo bene ad affrettarci.»
«Toccata!» disse Justine, e sorrise.
«Come mai, Justine, non mi hai presentato nessuno dei tuoi amici? Non ho veduto anima viva, qui ai Bothwell Gardens, tranne la signora Devine» disse Meggie, mentre sedevano nel salon di Madame Rocher e guardavano le languide mannequin sfilare pavoneggiandosi.
«Oh, sono un po' timidi... Quel completino arancione mi piace, a te no?»
«Non va con i tuoi capelli. Scegli il grigio.»
«Puah! Secondo me l'arancione si accompagna perfettamente con i miei capelli. In grigio, sembro qualcosa che il gatto abbia trascinato qua e là, sporca di terra e mezzo putrida. Sii à la page, Ma'. Le rosse non devono mai farsi vedere in bianco, grigio, nero, verde-smeraldo, o quel colore orribile che piace tanto a te... com'è che si chiama, cenere di rose? È vittoriano!»
«Il nome del colore l'hai azzeccato» disse Meggie. Poi si voltò a guardare sua figlia. «Sei un mostro» disse, ma in tono affettuoso.
Justine non le badò affatto, non era la prima volta che se lo sentiva dire. «Prenderò quello arancione, lo scarlatto, lo stampato viola, il verde-muschio, il color borgogna...»
Meggie era dibattuta tra l'ilarità e la rabbia. Che cosa si poteva fare con una figlia come Justine?
L'Himalaya salpò dal Darling Harbor tre giorni dopo. Era un vecchio e bel piroscafo, con la chiglia piatta e un'ottima tenuta di mare. Costruito ai tempi in cui nessuno smaniava per la fretta e tutti si rassegnavano al fatto che l'Inghilterra distava quattro settimane via Suez, o cinque settimane via Capo di Buona Speranza. Ormai, anche i transatlantici erano aerodinamici, avevano scafi disegnati come quelli dei cacciatorpediniere, per arrivare più in fretta. Ma le loro conseguenze su uno stomaco sensibile sgomentavano anche un vecchio lupo di mare.
«Com'è divertente!» rise Justine. «Abbiamo un'intera splendida squadra di calcio in prima classe, per cui la traversata non sarà noiosa come temevo. Alcuni di quei giocatori sono superlativi.»
«Sei contenta, adesso, che io abbia insistito affinché viaggiassi in prima classe?»
«Presumo di sì.»
«Justine, tu hai il dono di fare affiorare il peggio in me, è sempre stato così» scattò Meggie, perdendo la pazienza a causa di quella che le sembrava ingratitudine. Non avrebbe potuto, il piccolo mostro, almeno per una volta, fingere di essere dispiaciuta di partire? «Cocciuta, testarda, egoista! Mi esasperi.»
Per un momento Justine non rispose, ma voltò la testa dall'altra parte, come se, più che a quanto stava dicendo sua madre, fosse interessata al fatto che la campana di bordo stava avvertendo tutti i non-passeggeri di scendere a terra. Affondò i denti nel labbro inferiore per evitare che tremasse, poi incurvò la bocca in uno smagliante sorriso. «Lo so che ti esaspero» disse allegramente, voltandosi di nuovo verso la madre. «Non importa, siamo quello che siamo. Come tu dici sempre, ho preso da papà.»
Si abbracciarono imbarazzate prima che Meggie si insinuasse quasi con sollievo tra la folla che si incanalava verso la passerella, e scomparisse. Justine salì sul ponte-passeggiata e si appoggiò al parapetto con rotoli di stelle filanti nelle mani. Molto più in basso, sul molo, scorse la figuretta con il vestito rosa-grigio e il cappello dirigersi verso il punto stabilito e rimanere là in piedi facendosi schermo agli occhi con una mano. Buffo, anche da quella distanza si capiva che Ma' si stava ormai avvicinando alla cinquantina. Mancava ancora qualche anno, eppure lo si capiva dall'atteggiamento. Salutarono entrambe con la mano nello stesso momento, poi Justine lanciò la prima delle sue stelle filanti e Meggie ne afferrò con destrezza l'estremità. Una stella filante rossa, una blu, una gialla, una rosa, una verde, una arancione; formarono lunghe spirali, srotolandosi e srotolandosi, tese dalla brezza.
Una banda di cornamuse era venuta a salutare la squadra di calcio, e, i gonnellini gonfiati dal vento, faceva sventolare bandiere, suonando una bizzarra trascrizione di Questa è l'ora. La gente si assiepava ai parapetti della nave, spenzolandosi, tenendo disperatamente le estremità delle sottili stelle filanti; sul molo, centinaia di persone allungavano il collo verso l'alto, contemplando avidamente le facce di coloro che andavano così lontano, per la massima parte facce giovanili, desiderose di vedere come fosse realmente il perno della civiltà al lato opposto del mondo. Avrebbero vissuto laggiù, lavorato laggiù, per tornare forse di lì a due anni, o forse per non tornare affatto. E tutti lo sapevano, o se lo domandavano.
Il cielo azzurro era ovattato qua e là da nubi di un bianco-argento e soffiava il vento impetuoso di Sydney. Il sole riscaldava le facce voltate verso l'alto e le spalle di quelli che guardavano in giù; una gran fascia di nastri multicolori e vibranti collegava nave e terra. Poi, a un tratto, tra la fiancata del piroscafo e il molo si aprì un varco; l'aria si riempì di grida e di singhiozzi, e, a una a una, le migliaia di stelle filanti si spezzarono, fluttuarono frenetiche, caddero afflosciandosi e resero la superficie dell'acqua simile a un telaio lacerato unendosi alle bucce d'arance e alle meduse, per essere spinte alla deriva.
Justine rimase ostinatamente al suo posto contro il parapetto, finché il molo non si fu ridotto a poche linee rette e a minuscole capocchie di spillo rosa; i rimorchiatori misero l'Himalaya con la prua al mare, lo rimorchiarono inerte sotto le campate tonanti del ponte del porto di Sydney e più fuori, sulla corrente principale di quella smagliante distesa d'acqua fulgida di sole.
Non era come andare a Manly col traghetto, sebbene seguissero lo stesso itinerario al di là di Neutral Bay, e di Rose Bay e di Cremorne e Vaucluse; no. Poiché, questa volta, il piroscafo si spinse fuori dei promontori, al di là delle scogliere crudeli e degli alti ventagli di spuma simili a pizzi, nell'oceano. Dodicimila miglia di oceano, fino al lato opposto del mondo. E, sia che dovessero tornare in patria o no, non sarebbero più appartenuti a nessun continente, perché avrebbero vissuto e sperimentato due sistemi di vita diversi.
Il denaro, scoprì Justine, faceva di Londra una città quando mai allettante. Non era per lei l'esistenza squattrinata di chi viveva avvinghiandosi ai margini della «Valle dei Canguri», a Earl's Court — chiamata così perché un gran numero di australiani ne faceva il suo quartier generale. Né era per lei la tipica sorte degli australiani in Inghilterra, che stentatamente tiravano avanti negli ostelli per la gioventù, lavorando, compensati con una elemosina, in qualche ufficio o in qualche scuola o in qualche ospedale, e tremavano di freddo accanto a un minuscolo radiatore, in una stanza gelida e umida. Justine aveva invece un appartamento a Kensington, vicino a Knightsbridge, con il riscaldamento centrale; e un posto nella compagnia teatrale di Clyde Daltinham-Roberts, il Gruppo Elisabettiano.
Quando giunse l'estate, prese il treno per Roma. Negli anni successivi avrebbe sorriso ricordando quanto poco era riuscita a vedere durante quel lungo viaggio attraverso la Francia e l'Italia; tutti i suoi pensieri erano occupati dalle cose che doveva dire a Dane, e dalla necessità di impararle a mente per non dimenticarle. Erano tante che, inevitabilmente, ne avrebbe tralasciata qualcuna.
Era Dane, quello? L'uomo alto e biondo, sul marciapiede, quello era Dane? Non sembrava affatto diverso, eppure aveva l'aria di un estraneo. Non apparteneva più al suo mondo. Il grido che era stata sul punto di lanciare, per attrarre la sua attenzione, si spense prima di essere emesso; si spostò un po' più indietro sul sedile per osservarlo, poiché il treno si era fermato pochi metri appena più avanti di dove Dane, tranquillo, scrutava i finestrini con i suoi occhi azzurri. Sarebbe stata una bella conversazione unilaterale, la loro, quando gli avesse raccontato come aveva vissuto dopo la sua partenza, poiché ormai sapeva che in Dane non esisteva alcun desiderio di condividere le proprie esperienze con lei. Accidenti a Dane! Non era più il suo fratellino. L'esistenza che stava conducendo aveva ben poco a che fare sia con lei, sia con Drogheda. Oh, Dane! Che cosa si prova vivendo qualcosa ventiquattr'ore ogni giorno?
«Ah! Stavi già pensando che ti avessi fatto venire qui per niente, eh?» disse, dopo esserglisi avvicinata silenziosamente alle spalle.
Egli si voltò, le strinse entrambe le mani e la contemplò dall'alto della sua statura, sorridendo. «Sciocchina» disse affettuosamente, prendendo la più grande delle valigie, e offrendole il braccio libero. «È bello vederti» soggiunse, mentre l'aiutava a salire sulla Lagonda rossa con la quale andava dappertutto; Dane era sempre stato fanatico per le automobili sportive e ne aveva posseduta una non appena in età di prendere la patente.
«È bello anche vedere te. Spero che tu mi abbia trovato un albergo simpatico, perché pensavo sul serio quello che ti ho scritto. Mi rifiuto di essere confinata in una cella del Vaticano, tra un mucchio di celibi.» Rise.
«Non ti vorrebbero, con quei capelli demoniaci. Ti ho prenotato una camera in una piccola pensione non lontano da me, ma parlano l'inglese, quindi non dovrai preoccuparti anche se non ci sarò. E non è un problema girare per Roma parlando l'inglese; di solito c'è sempre qualcuno che lo sa parlare.»
«In tempi come questi, vorrei avere il tuo dono per le lingue straniere. Ma me la caverò; sono molto brava come mima e nelle sciarade.»
«Ho due mesi di vacanza, Jussy, non è fantastico? Potremo dare un'occhiata alla Francia e alla Spagna, e ci rimarrà ancora un mese da dedicare a Drogheda. Mi manca, la vecchia casa.»
«Davvero?» Si voltò a guardarlo, osservò le bellissime mani, che con perizia guidavano l'automobile nel pazzesco traffico romano. «A me non manca affatto; Londra è troppo interessante.»
«Non riesci a ingannarmi» egli disse. «So bene quanto contano per te Drogheda e Ma'.»
Justine strinse le mani in grembo, ma non gli rispose.
«Ti spiacerebbe prendere il tè con dei miei amici, questo pomeriggio?» le domandò, quando furono arrivati. «Ho peccato un po' di presunzione accettando a nome tuo. Ci tengono tanto a conoscerti, e siccome io non sarò un uomo libero fino a domani, mi spiaceva dire di no.»
«Stupido! Perché dovrebbe dispiacermi? Se fossimo a Londra, ti inonderei con i miei amici; perché tu non dovresti fare altrettanto? Sono lieta che tu mi consenta di conoscere i tuoi compagni di seminario, sebbene sia un pochino sleale nei miei riguardi, no? Giù le mani da tutti loro.»
Si avvicinò alla finestra e guardò, in basso, una misera piazzetta con due stanchi platani nel quadrilatero selciato, tre tavolini sotto i platani e, da un lato, una chiesa priva di qualsiasi grazia o bellezza architettonica.
«Dane...»
«Dimmi.»
«Capisco, sai, davvero.»
«Sì, lo so.» Il sorriso gli scomparve dalla faccia. «Vorrei che capisse anche Ma', Jus.»
«Ma' è diversa. Le sembra che tu l'abbia abbandonata, e non si rende conto che non è vero. Ma non stare a crucciarti a causa sua. Prima o poi capirà.»
«Lo spero.» Dane rise. «A proposito, non sono i miei compagni di seminario quelli che conoscerai oggi. Non sottoporrei mai loro o te a una simile tentazione. Si tratta del Cardinale de Bricassart. So che non ti piace, ma promettimi che starai buona.»
Gli occhi le si illuminarono, colmi di un fascino singolare. «Te lo prometto! Bacerò persino l'anello che mi verrà offerto.»
«Oh, te ne ricordi! Mi arrabbiai tanto con te, quel giorno! Avermi svergognato in sua presenza!»
«Be', dopo di allora ho baciato un gran numero di cose meno igieniche di un anello. C'è un giovincello orribile e foruncoloso, al corso di recitazione, che ha l'alito cattivo, le tonsille marce e lo stomaco putrido, eppure, ho dovuto baciarlo complessivamente ventinove volte. E posso assicurarti, camerata, che dopo di lui niente è impossibile.» Si aggiustò i capelli, e si voltò dallo specchio. «Ho il tempo di cambiarmi?»
«Oh, non preoccuparti per questo. Stai benissimo così.»
«Chi altri ci sarà?»
Il sole era troppo basso per riscaldare l'antica piazza, e le macchie di muffa sui tronchi dei platani li facevano apparire logori, malati. Justine rabbrividì.
«Ci sarà il Cardinale Contini-Verchese.»
Aveva già sentito quel nome e spalancò gli occhi un po' di più. «Perdinci! Frequenti ambienti molto altolocati, eh?»
«Sì. Cerco di meritarmelo.»
«Questo significa che altre persone ti mettono a dura prova in altri aspetti della tua vita, qui, Dane?» gli domandò lei, scaltra.
«No, non proprio. Le conoscenze non hanno importanza. Io non ci penso mai, e non ci pensano nemmeno gli altri.»
La stanza, gli uomini in scarlatto! Mai, in tutta la sua vita, Justine era stata così consapevole della superfluità delle donne nell'esistenza di certi uomini come nel momento in cui entrò in un mondo nel quale le donne non avevano semplicemente alcun posto, se non come umili suore, e per servire. Indossava ancora il vestito di lino verde-oliva che si era messa dopo la partenza da Torino, alquanto spiegazzato dal viaggio in treno, e si fece avanti sul soffice tappeto cremisi imprecando entro di sé contro la fretta di Dane di precipitarsi lì, e furiosa per non avere insistito che le lasciasse il tempo di indossare qualcosa di meno gualcito.
Il Cardinale de Bricassart era in piedi e sorrideva; che splendido vecchio.
«Mia cara Justine» disse, tendendo la mano e l'anello con un'espressione dispettosa, che lasciò capire quanto bene ricordasse l'ultima volta, e frugandole il viso in cerca di qualcosa che lei non capì. «Non somigli affatto a tua madre.»
Genuflettiti, bacia l'anello, sorridi umilmente, alzati, sorridi meno umilmente. «No, non le somiglio, vero? Mi avrebbe fatto comodo, la sua bellezza, nella professione che ho scelto, ma sulla scena riesco a cavarmela ugualmente. Perché recitare non ha niente a che vedere con la faccia com'è in realtà, sa. L'importante è come, con la propria arte, si riesce a persuadere la gente che sia la faccia.»
Una risatina asciutta giunse da una poltrona; una volta di più, avanzò sul tappeto per baciare l'anello su una mano sfatta di vecchio, ma, questa volta, alzando gli occhi, scorse occhi neri, e, strano a dirsi, vide in essi affetto. Affetto per lei, per una persona che il Cardinale non aveva mai veduto e che quasi non aveva mai sentito nominare. Eppure l'affetto c'era. Il Cardinale de Bricassart non le piaceva più di quanto le fosse piaciuto a quindici anni, ma provò tenerezza per questo vecchio.
«Si accomodi, mia cara» disse il Cardinale Vittorio, indicando con la mano la poltrona accanto a sé.
«Ciao, micia» disse Justine, solleticando la gatta blu-grigia sul grembo scarlatto. «È bella, no?»
«Lo è davvero.»
«Come si chiama?»
«Natascia.»
La porta si aprì, ma non per far passare il carrello del tè. Un uomo, grazie al Cielo vestito come un laico; un'altra tonaca rossa, pensò Justine, e muggirei come un toro.
Ma non si trattava di un uomo comune anche se era un laico. Probabilmente esisteva una piccola norma, in Vaticano, continuò a pensare la mente ribelle di Justine, che vietava specificamente l'ingresso agli uomini comuni. Non precisamente basso di statura, il nuovo arrivato aveva una corporatura così robusta da farlo sembrare più tarchiato di quanto fosse, con spalle massicce, un torace enorme, una grossa testa leonina, e lunghe braccia come quelle di un tosatore. Scimmiesco, a parte il fatto che trasudava intelligenza e si muoveva con l'andatura di uno capace di ghermire qualsiasi cosa volesse, con una fulmineità tale da impedire alla mente di accorgersene. Ghermirla e magari schiacciarla, mai però senza uno scopo, irriflessivamente, ma con una squisita premeditazione. Era bruno, ma la sua folta zazzera aveva esattamente lo stesso colore della paglietta di ferro e anche, in gran parte, la stessa consistenza.
«Rainer, è arrivato giusto in tempo» disse il Cardinale Vittorio, additando la poltrona all'altro lato, e parlando sempre in inglese. «Mia cara» continuò, rivolgendosi a Justine, mentre l'uomo, dopo aver baciato l'anello, si rialzava, «mi consenta di presentarle un ottimo amico, Herr Rainer Moerling Hartheim. Rainer, questa è la sorella di Dane, Justine.»
L'uomo si inchinò, battendo i tacchi puntigliosamente, le rivolse un sorriso fuggevole, privo di ogni cordialità, e sedette, un po' troppo di lato perché lei potesse vederlo. Justine sospirò di sollievo, specie quando vide che Dane, con la disinvoltura dell'abitudine, si era seduto sul pavimento accanto alla poltrona del Cardinale Ralph, proprio al centro della sua visuale. Finché avesse potuto vedere qualcuno che conosceva e che amava molto, si sarebbe sentita tranquilla. Ma l'ambiente e gli uomini in scarlatto, e ora quell'uomo bruno, stavano cominciando a irritarla più di quanto la presenza di Dane la calmasse; ed era offesa a causa del modo con il quale la escludevano. Per conseguenza, si sporse da un lato e di nuovo solleticò la gatta, conscia del fatto che il Cardinale Vittorio intuiva le sue reazioni e ne era divertito.
«È stata sterilizzata?» domandò.
«Certo.»
«Già, certo! Per quanto non riesca a capire perché lei abbia dovuto prendersi questa briga. La semplice fissa dimora in questo posto basterebbe a neutralizzare le ovaie di chiunque.»
«All'opposto, mia cara» disse il Cardinale Vittorio, immensamente divertito. «Siamo noi uomini ad avere psicologicamente neutralizzato noi stessi.»
«Mi permetto di non essere del suo parere, Eminenza.»
«Sicché, il nostro piccolo mondo provoca la sua ostilità?»
«Be', diciamo che mi sento un pochino superflua, Eminenza. È un mondo bellissimo da visitare, ma non vorrei mai vivere qui.»
«Non posso biasimarla. E dubito addirittura che le piaccia visitarlo. Ma si abituerà a noi, poiché dovrà venire spesso a farci visita, la prego.»
Justine sorrise. «Non sopporto di dovermi comportare come meglio so» confidò. «Questo fa affiorare tutti i miei lati peggiori... anche senza guardarlo, sento come sta inorridendo Dane.»
«Mi stavo per l'appunto domandando quanto tempo avrebbe resistito» disse Dane, per nulla sconcertato. «Basta grattare Justine in superficie e si trova una ribelle. Ecco perché è una sorella tanto preziosa. Io non sono un ribelle, ma i ribelli li ammiro molto.»
Herr Hartheim spostò la poltrona in modo da poter vedere Justine anche quando smise di giocare con la gatta e si raddrizzò. In quel momento, la bella bestiola si era stancata della mano dall'inconsueto profumo femminile; senza alzarsi, strisciò delicatamente dal grembo rosso al grembo grigio, raggomitolandosi sotto le mani forti e quadrate di Herr Hartheim, e facendo le fusa così sonoramente che tutti risero.
«Scusatemi se vivo» disse Justine, che non era aliena da una buona battuta, anche essendone la vittima.
«Il suo motorino funziona bene come sempre» disse Herr Hartheim, e l'espressione divertita causò mutamenti affascinanti sulla faccia di lui. Parlava così bene l'inglese da non avere quasi alcun accento, tranne inflessioni americane; arrotava le «r».
Il tè venne servito prima che tutti si fossero ricomposti e, strano a dirsi, fu Herr Hartheim a versarlo, porgendo la tazza a Justine con un'espressione molto più amichevole di quella che aveva avuto al momento delle presentazioni.
«In una comunità inglese» le disse «il tè pomeridiano è il momento di distensione più importante della giornata. Accadono molte cose, sorseggiando il tè, non è vero? Perché, presumo, per la sua stessa natura, può essere chiesto e preso in qualsiasi momento, si può dire, tra le due e le cinque e mezzo, e conversare fa venir sete.»
La mezz'ora che seguì parve comprovare la sua tesi, anche se Justine non partecipò alla conversazione. Il discorso passò dalle precarie condizioni di salute del Santo Padre alla guerra fredda, poi alla crisi economica; tutti e quattro gli uomini parlavano e ascoltavano con una vivacità che Justine trovò interessantissima, mentre, brancolando, cominciava a valutare le doti comuni a tutti loro, anche a Dane, che sembrava così diverso, quasi uno sconosciuto. Dane partecipava attivamente alla discussione, e a Justine non sfuggì che i tre uomini più anziani lo ascoltavano con una curiosa umiltà, quasi egli ispirasse loro un timore reverenziale. I suoi commenti non erano né disinformati, né ingenui, ma diversi dagli altri, originali, sacri. Era per quella sua «santità» che lo ascoltavano così seriamente? Perché lui la possedeva e loro no? Si trattava davvero di una virtù che ammiravano, e che anelavano a possedere essi stessi? Era così rara? Tre uomini così enormemente differenti l'uno dall'altro, eppure di gran lunga più strettamente uniti di quanto uno qualsiasi di loro lo fosse con Dane. Quanto era difficile prendere Dane sul serio come facevano loro! Non che, sotto molti aspetti, egli non si fosse sempre comportato come un fratello maggiore, anziché come un fratellino minore; non che lei non fosse conscia della sua saggezza, della sua intelligenza o della sua santità. Ma, fino a quel momento, egli aveva fatto parte del suo mondo. E si era abituata al fatto che Dane non fosse niente di più.
«Se desidera tornare subito alle sue devozioni, Dane, accompagnerò io sua sorella all'albergo» ordinò, praticamente, Herr Rainer Moerling Hartheim, senza preoccuparsi di accertare i desideri di nessuno al riguardo.
E così, Justine si sorprese a scendere, con la lingua inceppata, gli scaloni di marmo in compagnia di quell'uomo tozzo e formidabile. Fuori, nel giallo splendore di un tramonto romano, egli le mise la mano sotto il gomito e la guidò verso una Mercedes nera, il cui autista si mise sull'attenti.
«Venga, non vorrà trascorrere in solitudine la sua prima serata a Roma, e Dane è occupato altrimenti» disse, seguendola sull'automobile. «È stanca e smarrita ed è meglio che non stia sola.»
«Sembra che lei non mi lasci alcuna possibilità di scelta, Herr Hartheim.»
«Preferirei che mi chiamasse Rainer.»
«Dev'essere un uomo importante, per avere una macchina così lussuosa e un autista personale.»
«Sarò ancora più importante quando diventerò cancelliere della Germania Ovest.»
Justine sbuffò. «Mi stupisce che non lo sia già.»
«Impudente! Sono troppo giovane.»
«Davvero?» Si voltò per osservarlo più attentamente, e scoprì che la sua pelle bruna era liscia, giovanile, e che gli occhi profondamente infossati non erano circondati dalle pieghe carnose dell'età matura.
«Sono tarchiato e ho i capelli brizzolati, ma mi sono diventati grigi sin dai sedici anni, e mi sono appesantito non appena ho avuto abbastanza da mangiare. Adesso ho appena trentun anni.»
«Le crederò sulla parola» disse lei, e si liberò delle scarpe scalciando. «Ma è pur sempre anziano per me... io ho appena ventun anni.»
«Lei è un mostro» disse Hartheim sorridendo.
«Credo di esserlo davvero. Mia madre dice la stessa cosa. Soltanto, non so bene che cosa intendiate tutti e due con "mostro", e perciò mi dica qual è la sua versione, per favore.»
«Conosce già la versione di sua madre?»
«Se gliela chiedessi, sarebbe infernalmente imbarazzata.»
«E non crede di mettere in imbarazzo me?»
«Sospetto fortemente, Herr Hartheim, che anche lei sia un mostro, per cui dubito che qualsiasi cosa possa imbarazzarla.»
«Un mostro» egli ripeté, bisbigliando. «Benissimo, allora, Miss O'Neill, cercherò di definirle il significato del termine. Qualcuno che terrorizza gli altri; che calpesta la gente; che si sente così forte da poter essere sconfitto soltanto da Dio; che non ha scrupoli di sorta e pochi princìpi morali.»
Justine ridacchiò. «La sua descrizione mi sembra terribile. Io ho princìpi morali e scrupoli. Sono la sorella di Dane.»
«Non gli somiglia minimamente.»
«Peggio ancora.»
«La sua faccia non si armonizzerebbe con la sua personalità.»
«Ha indubbiamente ragione; ma, con la sua faccia, forse avrei avuto una personalità diversa.»
«Tutto dipende da che cosa viene prima, no? La gallina o l'uovo? Si rimetta le scarpe; ora passeggeremo.»
Faceva caldo, e cominciava a scendere l'oscurità; ma le luci erano vivide, la gente sembrava non curarsi di dove stesse andando, e le vie erano piene zeppe di rimbombanti motoscooter, di minuscole Fiat aggressive, di automobiline che sembravano orde di ranocchie prese dal panico. Infine, egli si fermò in una piazzetta, il cui acciottolato era stato consumato e reso liscio dai piedi di molti secoli, e condusse Justine in un ristorante.
«A meno che non preferisca all'aperto?»
«Purché mi dia da mangiare, non mi importa molto se sarà dentro, o fuori, o in un punto intermedio.»
«Posso ordinare io per lei?»
Le palpebre batterono sugli occhi scialbi, un po' stancamente, forse; ma in Justine c'era ancora combattività. «Non so se mi va a genio tutta questa tirannica faccenda del maschio-padrone» disse. «In fin dei conti, come può sapere quello che mi va?»
«Suor Anna fa sventolare la bandiera» mormorò lui. «Mi dica che cosa preferisce, allora, e le garantisco che la soddisferò. Pesce? Vitello?»
«Un compromesso? E sta bene, le verrò incontro a metà strada, allora. Prenderò del pâté, un po' di scampi e un piatto enorme di saltimbocca; poi una cassata e un caffè macchiato. Manovri con queste indicazioni, se può.»
«Dovrei schiaffeggiarla» disse lui, ma non perse il suo buon umore. Diede l'ordine al cameriere, esattamente come lei aveva chiesto, ma in un rapido italiano.
«Ha detto che non somiglio minimamente a Dane. Non lo ricordo proprio in nessun modo?» domandò Justine, un po' pateticamente, sorseggiando il caffè, troppo affamata per poter conversare durante la cena.
Egli accese la sigaretta a lei, accese la propria, poi si reclinò nell'ombra per osservarla in silenzio, ripensando al suo primo incontro col ragazzo, mesi prima. Il Cardinale de Bricassart con quarant'anni in meno; lo aveva notato immediatamente, e poi gli era stato detto che erano zio e nipote, che la madre del ragazzo e della ragazza era la sorella di Ralph de Bricassart.
«Una somiglianza c'è, sì» disse. «A volte anche del viso. Espressioni, molto più che lineamenti. Intorno agli occhi e alla bocca, e nel modo che avete entrambi di tenere gli occhi aperti e la bocca chiusa. Strano a dirsi, non sono somiglianze che condividiate con vostro zio il Cardinale.»
«Nostro zio il Cardinale?» ripeté lei, inespressiva.
«Il Cardinale de Bricassart. Non è suo zio? Sono certo che così mi è stato detto.»
«Quel vecchio avvoltoio? Non è affatto nostro parente, grazie al Cielo. Era il nostro parroco tanti anni fa, molto tempo prima che io nascessi.»
Era molto intelligente; ma anche molto stanca. Povera ragazzetta... poiché non era altro che questo, una ragazzetta. I dieci anni di differenza tra loro si spalancavano come se fossero stati cento. Sospettare, avrebbe fatto crollare in rovina il suo mondo, ed era così prode nel difenderlo! Probabilmente si sarebbe rifiutata di credere, anche se la verità le fosse stata detta apertamente. Come far sembrare la cosa priva d'importanza? Non insistere al riguardo, no di certo, ma nemmeno lasciar cadere immediatamente il discorso.
«Oh, allora si spiega» egli disse, con noncuranza.
«Si spiega che cosa?»
«Il fatto che la somiglianza di Dane con il Cardinale sia soltanto generica... la statura, la carnagione, la struttura fisica.»
«Oh! La nonna mi ha detto che nostro padre somigliava alquanto al Cardinale» disse Justine, serena.
«Non ha mai veduto suo padre?»
«Nemmeno una fotografia. Lui e Ma' si separarono definitivamente prima che Dane nascesse.» Fece cenno al cameriere. «Vorrei un altro caffè macchiato, per favore.»
«Justine, lei è una selvaggia! Lasci che ordini io!»
«No, maledizione, non voglio! Sono perfettamente capace di pensare per conto mio, e non ho bisogno che un dannato uomo mi dica continuamente che cosa voglio e quando lo voglio, ha capito?»
«Basta grattare in superficie e si trova una ribelle; così ha detto Dane.»
«Ha ragione. Oh, se sapesse quanto odio essere coccolata e vezzeggiata e viziata! Mi piace agire per conto mio, e non voglio sentirmi dire quello che devo fare! Non chiedo grazia, ma nemmeno la concedo.»
«Lo vedo bene» disse lui, asciutto. «Come mai è così, Herzchen? Si tratta di una caratteristica della famiglia?»
«Della famiglia? Francamente non lo so. Non ci sono abbastanza donne per poterlo dire, presumo. Soltanto una per generazione. La nonna, e Ma' e me. Mucchi di maschi, però.»
«Ma nella sua generazione non ci sono mucchi di maschi. Soltanto Dane.»
«Questo è dovuto al fatto che Ma' lasciò mio padre, immagino. Sembra che nessun altro uomo sia mai riuscito a interessarla. Un peccato, secondo me. Ma' è una vera donna di casa; le sarebbe piaciuto avere un marito da coccolare.»
«Le somiglia?»
«Non credo.»
«Quel che più conta, vi piacete a vicenda?»
«Ma' e io?» Sorrise senza rancore, né più né meno come avrebbe fatto sua madre qualora qualcuno le avesse domandato se sua figlia le piacesse. «Non so bene se ci apprezziamo a vicenda, ma qualcosa c'è. Forse si tratta di un semplice legame biologico; non saprei.» Le splendettero gli occhi. «Ho sempre desiderato che mi parlasse come parla con Dane, e ho sempre voluto andare d'accordo con lei come Dane. Ma, o manca qualcosa in lei, o manca qualcosa in me. In me, direi. Ma' è una donna di gran lunga migliore di quanto lo sia io.»
«Non l'ho conosciuta, e pertanto non posso approvare il suo giudizio, o dissentire. Se la cosa può in qualche modo consolarla, Herzchen, lei mi piace esattamente com'è. No, non cambierei proprio niente, nemmeno la sua ridicola combattività.»
«È davvero gentile da parte sua. E dopo che l'ho insultata, oltretutto. Non sono affatto come Dane, vero?»
«Non esiste nessuno al mondo che sia come Dane.»
«Vuol dire, con questo, che egli non è di questo mondo?»
«Sì, forse.» Si sporse in avanti, emergendo dall'ombra ed entrando nel fioco alone di luce della piccola candela infilata nel fiasco di Chianti. «Sono cattolico, e la religione è stata la sola cosa che non mi sia mai venuta meno nella vita, sebbene io le sia venuto meno molte volte. Non mi piace parlare di Dane, perché il cuore mi dice che di certe cose è preferibile tacere. Senz'altro, lei non gli somiglia per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti della vita, o di Dio. Lasciamo stare, va bene?»
Lo guardò incuriosita. «Va bene, Rainer, se lo desidera. Farò un patto con lei... di qualsiasi cosa potremo parlare, non si tratterà della natura di Dane, né di religione.»
Molte cose erano accadute a Rainer Moerling Hartheim dopo l'incontro con Ralph de Bricassart, nel luglio del 1943. Una settimana dopo, il suo reggimento era stato trasferito sul Fronte Orientale e là era rimasto fino al termine della guerra. Dibattuto e disorientato, troppo giovane per poter essere stato indottrinato dalla Hitler Jugend nei piacevoli anni pre-bellici, aveva affrontato le conseguenze della follia di Hitler su metri di neve, senza munizioni, mentre la linea del fronte si assottigliava a tal punto che esisteva un solo soldato ogni cento metri. E della guerra aveva portato con sé due ricordi: quell'atroce campagna militare in un grido spaventoso, e il volto di Ralph de Bricassart. Orrore e bellezza, il demonio e Dio. Quasi impazzito, quasi congelato, indifeso, in attesa che i guerriglieri di Krusciov si lanciassero sui cumuli di neve senza paracadute da aerei che volavano a bassissima quota, si era battuto il petto, pregando. Ma non sapeva per che cosa pregasse: se per avere munizioni con cui caricare il fucile, se per sottrarsi ai russi, o per la propria anima immortale, o per l'uomo incontrato nella basilica, o per la Germania, o per soffrire meno.
Nella primavera del 1945 si era ritirato di fronte ai russi attraverso la Polonia, come i suoi camerati, con un solo scopo: arrivare nella Germania occupata dagli inglesi o dagli americani. Poiché, se i russi lo avessero fatto prigioniero, sarebbe stato fucilato. Strappò i documenti e li bruciò, seppellì le due Croci di Ferro con le quali era stato decorato, rubò alcuni indumenti e si presentò alle autorità inglesi sul confine danese. Lo mandarono in un campo di profughi nel Belgio. Là, per un anno, visse di pane e farina d'avena, tutto ciò con cui gli spossati inglesi potevano permettersi di sfamare le migliaia e migliaia di persone loro affidate, in attesa che l'Inghilterra si rendesse conto dell'unica soluzione possibile: liberarle tutte.
Per due volte i funzionari del campo l'avevano convocato, presentandogli un ultimatum. C'era un piroscafo, nel porto di Ostenda, che imbarcava persone disposte a emigrare in Australia. Gli sarebbero stati dati nuovi documenti e sarebbe stato portato gratuitamente nel nuovo paese; in cambio avrebbe lavorato due anni per il governo australiano, facendo qualsiasi cosa gli avessero richiesto, dopodiché sarebbe stato completamente libero di se stesso. Non un lavoro da schiavo: lo avrebbero pagato secondo le tariffe in vigore, naturalmente. Ma, in entrambe le occasioni egli era riuscito, con argomenti persuasivi, a sottrarsi a quell'emigrazione forzata. Aveva odiato Hitler, non la Germania, e non si vergognava di essere tedesco. La Germania era la sua patria; e l'aveva sognata per tre anni. La sola idea di finire di nuovo in un paese ove nessuno parlava la sua lingua, né lui quella del posto, gli sembrava una maledizione. E così, all'inizio del 1947, si trovò senza il becco di un quattrino nelle vie di Aquisgrana, pronto a rimettere insieme i frammenti di un'esistenza che sapeva di volere a tutti i costi.
Lui e il suo spirito erano sopravvissuti, ma non per tornare alla miseria e all'oscurità. Rainer era infatti qualcosa di più di un uomo molto ambizioso: era un uomo di genio. Trovò lavoro alla Grundig e studiò la scienza che lo aveva affascinato sin da quando era venuto a conoscenza del radar: l'elettronica. Mille idee brulicavano nella sua mente, ma egli si rifiutò di cederle alla Grundig per una milionesima parte del loro valore. Studiò invece accuratamente il mercato, poi sposò la vedova di un uomo che era riuscito a mandare avanti un paio di piccole fabbriche di apparecchi radio, e si mise in affari per proprio conto. Il fatto che avesse poco più di vent'anni non contava. La sua intelligenza aveva tutte le caratteristiche di quella di un uomo molto più anziano e il caos della Germania post-bellica offriva ai giovani molte possibilità.
Poiché si era sposato soltanto in municipio, ottenne il divorzio; nel 1951, versò ad Annelise Hartheim esattamente il doppio di quanto valevano le due fabbriche del primo marito di lei, e fece proprio questo: divorziò. Ma non si riammogliò.
Ciò che era accaduto al ragazzo nel gelido terrore della pianura russa non ne aveva fatto un uomo senz'anima; aveva piuttosto bloccato la crescita di quanto esisteva in lui di tenero e di dolce, ponendo in risalto altre doti che egli possedeva... intelligenza, spietatezza, decisione. Un uomo che non ha niente da perdere ha tutto da guadagnare, e un uomo senza sentimenti non può essere ferito. O così egli diceva a se stesso. In realtà, era stranamente simile all'uomo che aveva conosciuto a Roma nel 1943; come Ralph de Bricassart, si rendeva conto di fare il male nel momento stesso in cui lo faceva. Non che la consapevolezza del male esistente in lui potesse fermarlo, sia pur soltanto per un secondo; ma pagava i propri progressi materiali con sofferenze e tormenti. Molte persone non avrebbero ritenuto che quei progressi valessero il loro prezzo, ma per lui valevano due volte le sofferenze. Un giorno avrebbe governato la Germania, creandola come l'aveva sognata, avrebbe modificato l'etica ariano-luterana, foggiandone una più liberale. Siccome non poteva promettere che avrebbe smesso di peccare, l'assoluzione gli venne rifiutata più volte in confessionale, ma, in qualche modo, lui e la sua religione riuscirono ugualmente a uscirne senza danni, finché denaro e potere gli permisero di riuscire a sentire il rimorso; allora poté presentarsi pentito ed essere assolto.
Nel 1955, ormai uno degli uomini più ricchi e potenti della nuova Germania Ovest, e una faccia nuova nel Parlamento di Bonn, Rainer tornò a Roma. Per cercarvi il Cardinale de Bricassart e mostrargli il risultato finale delle sue preghiere. Come avesse immaginato che potesse essere quell'incontro non riusciva più a ricordarlo, poiché, dal principio alla fine, fu conscio di una sola cosa: Ralph de Bricassart era deluso di lui. Si era reso conto del perché, e non aveva avuto bisogno di domandarlo. Ma non si era aspettato la frase conclusiva del Cardinale:
«Avevo pregato affinché divenisse migliore di me, dato che era così giovane. Nessun fine giustifica qualsiasi mezzo. Ma presumo che i semi della nostra rovina siano gettati prima che veniamo al mondo.»
Tornato nella sua camera d'albergo, Rainer pianse, ma si calmò dopo qualche tempo e pensò: quello che è stato è stato, per l'avvenire sarò come egli sperava. E talora vi riuscì, talora fallì. Ma tentò. La sua amicizia con gli uomini del Vaticano divenne per lui il bene terreno più prezioso della vita, e Roma il luogo in cui si rifugiava quando soltanto il loro conforto sembrava frapporsi tra lui e la disperazione. Conforto. Era un conforto di una strana specie, il loro. Non l'imposizione delle mani, o parole affettuose. Un balsamo che scaturiva dall'anima, piuttosto, come se capissero la sua sofferenza.
E, passeggiando nella tiepida notte romana, dopo aver accompagnato Justine alla pensione, Rainer si disse ora che non avrebbe mai smesso di esserle grato. Poiché, mentre la osservava affrontare il cimento dell'incontro di quel pomeriggio, aveva sentito agitarsi in sé la tenerezza. Sanguinante, ma indomito, il piccolo mostro. Poteva tener loro testa in tutto e per tutto, se ne rendevano conto? Egli provava per lei, si disse, quel che avrebbe potuto provare per una figlia della quale fosse stato orgoglioso; soltanto che non aveva una figlia. Di conseguenza, si era affrettato a sottrarla a Dane e a portarla via per osservare la reazione di lei a quello schiacciante clericalismo e al Dane che non aveva mai veduto prima; il Dane che non era più, e mai più avrebbe potuto essere, una parte della sua vita.
La cosa più bella del suo Dio personale, continuò a riflettere, consisteva nel fatto che Egli poteva perdonare tutto. Poteva perdonare a Justine il suo innato ateismo, e a lui la chiusura della propria centrale emotiva fino al momento in cui riteneva opportuno riaprirla. Soltanto per qualche tempo si era lasciato prendere dal panico, pensando di avere smarrito la chiave per sempre. Sorrise, gettò via la sigaretta. La chiave... Be', talora le chiavi hanno forme strane. Forse occorreva ogni spirale di ogni ricciolo di quella testa rossa per fare incespicare gli acrobati; forse, in una stanza di uomini in scarlatto il suo Dio gli aveva consegnato una chiave scarlatta.
Una giornata veloce, fuggita in un secondo. Ma, guardando l'orologio, vide che era ancora presto; e sapeva che l'uomo dotato di tanto potere, in quei giorni in cui Sua Santità giaceva vicino alla morte, sarebbe stato ancora alzato, condividendo le abitudini della sua gatta. Quei singulti spaventosi che colmavano la piccola stanza a Castel Gandolfo, deformando la faccia scarna, pallida, ascetica; l'uomo stava morendo, ed era un grande Papa. Qualsiasi cosa potessero dire, era un grande Papa. Se aveva amato i tedeschi, e se ancora gli piaceva sentir parlare tedesco intorno a sé, questo poteva forse modificare qualcosa? Non spettava a Rainer giudicarlo.
Ma, per ciò che Rainer aveva bisogno di sapere in quel momento, Castel Gandolfo non era il luogo in cui recarsi. Su per lo scalone di marmo fino alla sala scarlatta e cremisi, invece, a parlare col Cardinale Contini-Verchese. Che avrebbe potuto essere il futuro Papa, o forse no. Da quasi tre anni, ormai, egli osservava quei savi e affettuosi occhi neri indugiare là ove più amavano indugiare; sì, meglio cercare le risposte da lui che dal Cardinale de Bricassart.
«Non avrei mai creduto di sentirmi dire una cosa simile, ma, grazie a Dio, partiamo per Drogheda» esclamò Justine, rifiutandosi di gettare una monetina nella fontana di Trevi. «Avremmo dovuto dare un'occhiata alla Francia e alla Spagna, e invece ci troviamo ancora a Roma e io sono inutile come un ombelico. Fratelli!»
«Hmmmm, sicché ritiene che gli ombelichi siano inutili? Socrate era dello stesso parere, ricordo» disse Rainer.
«Socrate la pensava così? Non me ne rammento! Strano, e sì che credevo di aver letto quasi tutto Platone, per giunta.» Si voltò per fissarlo e pensò che l'abito alla buona di un turista a Roma gli si addiceva assai più del serio vestito che indossava per le udienze in Vaticano.
«Era assolutamente persuaso che gli ombelichi fossero inutili, in effetti. A tal punto che, per dimostrare la propria tesi, svitò il suo e lo gettò via.»
Le labbra di lei guizzarono. «E che cosa accadde?»
«Gli scivolò di dosso la toga.»
«Ma no! Ma no!» ridacchiò Justine. «In ogni modo, non portavano la toga a quei tempi, ad Atene. Però ho l'orribile sensazione che ci sia una morale nella sua storia.» Poi ridivenne seria. «Perché perde tempo con me, "Rein"?»
«Testarda! Le ho già detto che il mio nome si pronuncia Rainer, non Reiner.»
«Ah, ma lei non capisce» disse Justine, contemplando cogitabonda gli scintillanti rivoletti d'acqua, e la fontana sudicia piena di sudicie monete. «È mai stato in Australia?»
Le spalle gli trasalirono, ma non si lasciò sfuggire alcun suono. «Per due volte fui sul punto di andarci, Herzchen, ma riuscii a evitarlo.»
«Bene, se ci fosse andato capirebbe. Lei ha un nome magico per gli australiani, quando viene pronunciato a modo mio. Reiner. Rein. Pioggia, in inglese. La vita nel deserto.»
Stupito, egli lasciò cadere la sigaretta. «Justine, non si sta innamorando di me, per caso?»
«Che egocentrici sono gli uomini! Mi spiace molto deluderla, ma non è così.» Poi, come per raddolcire ogni scortesia delle sue parole, mise la mano su quella di lui e strinse. «È qualcosa di molto più bello.»
«Che cosa potrebbe essere più bello dell'innamorarsi?»
«Quasi tutto, credo. Non voglio più aver bisogno di nessuno in questo senso, mai.»
«Forse ha ragione. È senza dubbio un handicap paralizzante, se succede troppo presto. Ma che cosa c'è di molto più bello?»
«Trovare un amico.» Gli accarezzò la mano. «Lei mi è amico, non è vero?»
«Sì.» Sorridendo, Rainer lanciò una moneta nella fontana. «Ecco! Devo averle dato un migliaio di marchi nel corso degli anni, soltanto per essere certo che avrei continuato a sentire il calore del sud. A volte, nei miei incubi, soffro di nuovo il freddo.»
«Dovrebbe sentire il calore del vero sud» disse Justine. «Quarantadue gradi all'ombra, ammesso che riesca a trovare un po' d'ombra.»
«Non ci si può stupire se lei non soffre il caldo.» Rise la sua risata silenziosa, come sempre; una eredità del passato, allorché ridere forte avrebbe potuto tentare il fato. «E il caldo spiegherebbe il fatto che è dura come un uovo sodo.»
«Il suo inglese è scorrevole, ma americano. Sarei stata incline a pensare che lo avesse imparato in qualche raffinata università inglese.»
«No, cominciai a impararlo da soldati che erano popolani di Londra, o scozzesi, o dei Midlands, in un campo belga, e non ne capivo una parola, se non quando parlavo con l'uomo che me lo aveva insegnato. Uno diceva "abaht", un altro "aboot", un altro ancora "aboat", ma tutti quanti volevano dire "about". E così, quando tornai in Germania, andai a vedere tutti i film che potevo, e comprai i soli dischi disponibili in inglese, quelli incisi da attori americani. Ma li ascoltai e li riascoltai innumerevoli volte in casa, finché non parlai l'inglese quanto bastava per impararlo meglio.»
Justine si era tolta le scarpe, come sempre; stupefatto, egli l'aveva veduta camminare a piedi nudi sui marciapiedi così ardenti da potervi far friggere un uovo, nonché su terreni sassosi.
«Cialtrona! Si rimetta le scarpe.»
«Sono australiana. Abbiamo i piedi troppo larghi perché possano star comodi nelle scarpe. Questo è dovuto al fatto che, in realtà, in Australia non fa mai freddo; camminiamo a piedi nudi tutte le volte che possiamo. Io posso camminare su un pascolo disseminato di lappole e togliermele dai piedi senza sentirle» disse lei, tutta fiera. «Probabilmente, potrei camminare anche su braci ardenti.» Poi, bruscamente, cambiò discorso. «Amava sua moglie, Rain?»
«No.»
«E lei l'amava?»
«Sì. Mi sposò soltanto per questo.»
«Povera creatura! Se ne servì e poi la gettò via.»
«Questo la delude?»
«No, non credo. L'ammiro, piuttosto, in realtà. Ma mi dispiace molto per sua moglie, e sono più che mai decisa a non finire nella stessa padella.»
«Mi ammira?» Il suo tono di voce era stupefatto.
«Perché no? Io non cerco in lei cose che senza dubbio cercava quella donna, le pare? Mi è simpatico, è mio amico. Sua moglie l'amava, e lei era suo marito.»
«Io credo, Herzchen» disse, un po' malinconico, «che gli uomini ambiziosi non siano molto buoni con le loro donne.»
«Questo perché di solito si innamorano di donne che sono veri e propri scendiletto. Sì, caro, no, caro, tutto quello che vuoi, caro, e dove ti piacerebbe metterlo?, donne di questo genere. Una vera jella in ogni senso, dico io. Se fossi stata sua moglie, le avrei detto di andare a pisciare su una corda tesa, ma scommetto che lei se ne guardò sempre bene, no?»
Le labbra gli vibrarono. «No, povera Annelise. Era il tipo della martire, e pertanto non disponeva di armi così dirette, o così deliziosamente espresse. Vorrei che proiettassero film australiani, così conoscerei anche il suo vernacolo. La parte "Sì, caro" l'ho capita, ma non ho idea di che cosa significhi "jella".»
«Sfortuna nera, ma in senso peggiorativo.» Le larghe dita dei suoi piedi aderivano come forti mani alla superficie interna del muretto della fontana; si reclinò precariamente all'indietro, poi si raddrizzò con disinvoltura. «Be', in ultimo è stato cortese con lei. L'ha lasciata libera. Si trova di gran lunga meglio senza suo marito, anche se, con ogni probabilità, non la pensa così. Mentre io posso tenerla, perché non le consentirò mai di farmi perdere la testa.»
«Dura come un uovo sodo. Lo è davvero, Justine. E come le ha sapute queste cose di me?»
«Ho fatto delle domande a Dane. Naturalmente, essendo Dane, si è limitato a riferirmi i nudi fatti, ma io ho dedotto il resto.»
«Attingendo al suo enorme ripostiglio di precedenti esperienze, senza dubbio. Che impostora! Dicono che è un'ottima attrice, ma a me sembra incredibile. Come riesce a simulare sentimenti che non può mai aver provato? Come donna è più indietro, emotivamente, di quasi tutte le quindicenni.»
Saltò giù, sedette sul muretto e vi si appoggiò per rimettersi le scarpe, muovendo con un'aria afflitta le dita dei piedi «Ho i piedi gonfi, maledizione.» Nessuna reazione d'ira o di indignazione lasciò capire se aveva udito le ultime parole di lui. Come se, quando veniva fatta oggetto di calunnie o critiche, si limitasse a fare scattare l'interruttore di un apparato uditivo interno. Quante dovevano essergliene state rivolte! Il miracolo era che non odiasse Dane.
«Non è facile rispondere alla sua domanda» disse. «Devo riuscirci, altrimenti non sarei così brava, non le sembra? Ma è come... un'attesa. La mia vita lontano dalle scene, voglio dire. Conservo me stessa, non posso sperperare le mie energie fuori del palcoscenico. Non abbiamo più di un tanto da dare, non crede? E sulla scena non sono me stessa, o forse, per essere più esatta, sono una serie di personalità. Dobbiamo essere tutti quanti un profondo miscuglio di personalità, non la pensa così? Per me, recitare è anzitutto, e quel che più conta, intelletto; soltanto dopo è emozione. L'uno libera l'altra e la fa brillare. Recitare è molto di più che piangere, o gridare, o riuscire a ridere in modo persuasivo. È meraviglioso, sa. Pensare me stessa in un altro io, come qualcuna che avrei potuto essere, se le circostanze lo avessero consentito. Questo è il segreto. Non diventare qualcun'altra, ma assimilare la parte in me, come se l'altra fosse me stessa. E così l'altra diviene me.» Quasi che il suo entusiasmo fosse troppo grande per poterlo sopportare nell'immobilità, Justine balzò in piedi. «Pensi un po', Rain! Tra vent'anni potrò dire a me stessa: ho commesso assassinii, mi sono tolta la vita, sono impazzita, ho salvato uomini o li ho rovinati. Oh! Le possibilità sono infinite!»
«E saranno tutte sue.» Rainer si alzò a sua volta e di nuovo le prese la mano. «Sì, ha perfettamente ragione, Justine. Non può esaurirsi fuori della scena. Se si trattasse di chiunque altra, direi che potrebbe, ma, poiché si tratta di lei, non ne sono affatto sicuro.»
18
Volendo, quelli di Drogheda potevano immaginare che Roma e Londra non fossero più lontane di Sydney, e che Dane e Justine adulti continuassero a essere ragazzi in collegio. Ovviamente, non potevano tornare a casa in occasione di tutte le vacanze lunghe o brevi come in passato, ma una volta all'anno arrivavano per almeno un mese. Di solito in agosto o in settembre, e avevano press'a poco l'aspetto di sempre. Importava forse se, invece di quindici e sedici anni, ne contavano ventidue o ventitré? E anche se quelli di Drogheda vivevano per quel mese sin dalla primavera, non andavano certo in giro pronunciando frasi quali: bene, ormai mancano soltanto poche settimane! oppure: santo Cielo, non sono partiti nemmeno da un mese! Ma, verso luglio, il loro passo diventava più animato, e tutti avevano la faccia sorridente. Dalla cucina, ai pascoli, al salotto, si progettavano festeggiamenti e doni.
Nel frattempo, c'erano le lettere. Quasi sempre, rispecchiavano la personalità di chi le scriveva, ma a volte la contraddicevano. Sarebbe stato logico pensare, per esempio, che Dane dovesse essere un corrispondente meticoloso e assiduo e che Justine scrivesse soltanto saltuariamente. Che Fee non scrivesse affatto. Che i fratelli Cleary si limitassero a scrivere due volte all'anno. Che Meggie arricchisse le poste con lettere quotidiane, almeno a Dane. Che la signora Smith e Minnie e Cat spedissero biglietti d'auguri per i compleanni e a Natale. E che Anne Mueller scrivesse spesso a Justine e mai a Dane.
Dane era pieno di buone intenzioni, e, invero, scriveva con regolarità. Il solo guaio stava nel fatto che dimenticava di imbucare i risultati delle sue fatiche, con la conseguenza che passavano due o tre mesi senza una sua parola, e poi arrivavano dozzine di lettere in una volta. La loquace Justine scriveva missive lunghissime, affascinanti, veri e propri fiumi di introspezione, così franche e impertinenti da causare rossori. Meggie scriveva soltanto ogni due settimane, a entrambi i figlioli. Justine non riceveva mai lettere dalla nonna, Dane ne riceveva molte. Gli pervenivano inoltre, con regolarità, notizie da tutti gli zii, a proposito della terra, delle pecore e delle condizioni di salute delle donne a Drogheda, poiché sembravano ritenere che fosse loro dovere rassicurarlo e dirgli che a casa tutto andava bene. Ciò nonostante, non estendevano questa loro premurosità a Justine, la quale, del resto, ne sarebbe rimasta sbalordita. Per quanto concerneva le altre donne, la corrispondenza della signora Smith, di Minnie, di Cat e di Anne Mueller era quale si poteva prevedere.
Leggere lettere faceva molto piacere, ma scriverle era una fatica. Lo era, cioè, per tutti tranne Justine, che si esasperava perché nessuno le scriveva il tipo di lettere che sarebbero piaciute a lei... lunghe, prolisse e schiette. E quelli di Drogheda ricevevano quasi tutte le notizie di Dane da Justine, perché le lettere di lui non erano mai così descrittive e minuziose come quelle di sua sorella.
«Rain è arrivato oggi in aereo a Londra» scrisse una volta «e mi ha detto di avere veduto Dane a Roma, la scorsa settimana. Be', vede Dane molto più di me, in quanto Roma figura al primo posto nella sua agenda di viaggio, mentre Londra è all'ultimo. E devo confessarvi che Rain è una delle ragioni più importanti per cui mi incontro con Dane a Roma ogni anno prima di venire a casa. A Dane piace venire a Londra, ma se Rain si trova a Roma non glielo consento. Sono un'egoista, ma non avete idea di quanto mi goda Rain. È una delle poche persone che conosca che mi diano del filo da torcere, e vorrei che ci vedessimo più spesso.
«Sotto un certo aspetto, Rain è più fortunato di me. Può frequentare i compagni di studi di Dane, mentre a me questo non è consentito. Secondo me, Dane crede che li violenterei seduta stante. O forse pensa che sarebbero loro a violentarmi. Ah! Succederebbe soltanto se mi vedessero nel mio costume di Charmian. È fenomenale, gente, sul serio. Sembro una specie di Theda Bara aggiornata. Due piccoli tondi di bronzo sulle tette, una gran quantità di catene, e quella che credo sia una cintura di castità... occorrerebbe un apriscatole per entrare, in ogni caso. Con una lunga parrucca nera, la pelle tinta in modo che sembri abbronzata e quei pochi pezzetti di metallo, sono irresistibile.
«Dove ero arrivata??? Ah, sì, Rain a Roma, la settimana scorsa, si è incontrato con Dane e i suoi compagni. Si sono dati ai bagordi. Rain insiste sempre per essere lui a pagare e toglie Dane dall'imbarazzo. Che notte! Niente donne, no, ma tutto il resto sì. Ve lo immaginate Dane in ginocchio, in non so quale bar di Roma, declamare "Oh bei narcisi"? Per dieci minuti ha tentato di dire nell'ordine giusto le parole dei versi senza riuscirci; dopodiché ha rinunciato, si è messo un narciso tra i denti e si è esibito in una danza. Riuscite a immaginarvi Dane fare una cosa simile? Rain dice che è innocuo e necessario, sempre lavoro e nessuna distrazione, eccetera. Le donne essendo escluse, la cosa migliore è ubriacarsi. O così sostiene Rain. Non mettetevi in mente che succeda spesso, non è così, e presumo che, quando capita, Rain sia il capobanda, per cui tiene d'occhio l'intero branco di stupidelli. Ma quanto ho riso pensando all'aureola di Dane che si offuscava nel corso di un flamenco con un narciso tra i denti!»
Occorsero a Dane otto anni di studi a Roma per arrivare al sacerdozio, e all'inizio di quegli otto anni nessuno pensava che sarebbero mai finiti. Invece gli otto anni trascorsero più rapidamente di quanto tutti a Drogheda avessero immaginato. Nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto dopo l'ordinazione, ma tutti supponevano che sarebbe tornato in Australia. Soltanto Meggie e Justine sospettavano che Dane volesse restare in Italia, ma Meggie, almeno, riusciva a tenere a bada i propri dubbi con il ricordo di com'era contento quando tornava a casa ogni anno. Dane era australiano, non poteva non voler tornare in patria. Il caso di Justine era diverso. Nessuno si sognava che sarebbe tornata a casa per sempre. Faceva l'attrice e in Australia la sua carriera sarebbe naufragata. Mentre la carriera di Dane poteva continuare con lo stesso zelo ovunque.
Così, allo scadere dell'ottavo anno, non c'erano progetti su quel che avrebbero fatto i ragazzi quando fossero arrivati per le vacanze; quelli di Drogheda si proponevano, invece, di recarsi a Roma per assistere all'ordinazione di Dane.
«Abbiamo fatto fiasco» disse Meggie.
«Come, cara?» domandò Anne.
Sedevano in un angolo caldo della veranda, leggendo, ma il libro di Meggie le era caduto in grembo; stava osservando distrattamente i lazzi di due cutrettole sul prato. Era stato un anno piovoso, c'erano vermi dappertutto, e gli uccelli erano più grassi e più festosi. I loro gorgheggi saturavano l'aria dall'alba alle ultime luci del crepuscolo.
«Ho detto che abbiamo fatto fiasco» ripeté Meggie. «Un fallimento. Dopo tante promesse! Chi avrebbe mai potuto supporlo nel 1921, quando arrivammo a Drogheda?»
«Che cosa vuoi dire?»
«Una nidiata di sei figli, oltre a me. E, un anno dopo, altri due figlioli. Che cosa ti aspetteresti? Decine di bambini, una cinquantina di nipoti? E invece, guarda come siamo ridotti. Hal e Stu sono morti, nessuno di quelli rimasti in vita sembra avere l'intenzione di ammogliarsi e io, la sola a non avere il diritto di tramandare il nome della famiglia, sono stata l'unica a dare eredi a Drogheda. Ma, ciò nonostante, gli dei non si sono accontentati, ti pare? Un figlio e una figlia. Sarebbe stato logico aspettarsi come minimo parecchi nipoti. E invece che cosa accade? Mio figlio decide di farsi prete, e mia figlia è una vecchia zitella che vuole fare carriera.»
«Non vedo che cosa ci sia di tanto strano» osservò Anne. «In fin dei conti, che cosa potevi aspettarti dagli uomini? Isolati, quaggiù, e timidi come canguri, senza mai trovarsi con le ragazze che avrebbero potuto sposare. E per giunta, nel caso di Jims e di Patsy, anche la guerra. Riesci a immaginare che Jims possa sposarsi sapendo che il matrimonio per Patsy non è possibile? Si vogliono troppo bene. E inoltre, la terra è troppo esigente. Assorbe tutto quello che hanno da dare, perché non credo che abbiano molto. Dal punto di vista fisico, voglio dire. Non ci hai mai pensato, Meggie? La tua non è una famiglia molto portata per il sesso, volendo esprimersi senza peli sulla lingua. E questo vale anche per Dane e Justine. Voglio dire, esistono certe persone che cercano sempre il sesso come gatti in amore, ma non i tuoi figli. Anche se, forse, Justine si mariterà. C'è quel tedesco, quel Rainer; sembra che gli sia affezionatissima.»
«Hai fatto centro» disse Meggie, che non era in vena di lasciarsi consolare. «Sembra che gli sia affezionatissima. Tutto qui. In fin dei conti, lo conosce da sette anni. Se avesse voluto sposarlo, lo avrebbe fatto da secoli.»
«Credi? Io conosco Justine molto bene» rispose Anne sinceramente, perché era vero; la conosceva meglio di chiunque altro a Drogheda, comprese Meggie e Fee. «Credo che la terrorizzi l'idea di impegnarsi con quel genere di matrimonio d'amore che ne conseguirebbe, e devo dire che ammiro Rainer. Sembra che la capisca benissimo. Oh, non dico che sia innamorato, ma, se lo è, per lo meno ha avuto il buon senso di aspettare che fosse pronta a spiccare il salto.» Si sporse in avanti, e il libro che stava leggendo prima cadde sulle piastrelle. «Oh, ma lo senti, quell'uccello? Sono certa che anche un usignuolo non riuscirebbe a uguagliarlo.» Poi disse quello che aveva voluto dire da settimane: «Meggie, perché non vuoi andare a Roma a veder ordinare Dane?»
«A Roma non ci vado!» dichiarò Meggie, a denti stretti. «Non mi allontanerò da Drogheda mai più.»
«Meggie, non fare così! Non puoi deluderlo fino a questo punto! Va', ti prego! Se non ci andrai, Drogheda non sarà rappresentata da una sola donna, laggiù, perché tu sei l'unica abbastanza giovane per affrontare il viaggio. Però, ti assicuro, se pensassi anche soltanto per un momento di riuscire a sopravvivere alla fatica, salirei subito sull'aereo.»
«Andare a Roma e veder sorridere Ralph de Bricassart? Preferirei morire!»
«Oh, Meggie, Meggie! Perché devi far ricadere le tue frustrazioni su di lui, e su tuo figlio? Lo dicesti tu stessa, una volta... che la colpa era stata tua. E dunque, metti da parte l'orgoglio e va' a Roma. Per favore!»
«Non è una questione di orgoglio.» Meggie rabbrividì. «Oh, Anne, ho paura di andare! Perché non credo ancora che sia possibile, proprio non ci credo! Mi si accappona la pelle quando ci penso!»
«E non hai pensato che potrebbe non tornare a casa dopo essere stato ordinato sacerdote? Non ti è mai passato per la mente? Non gli concederanno più lunghe vacanze come quando era in seminario, e così, se decidesse di restare a Roma, dovresti per forza andarci tu, se volessi rivederlo. Va' a Roma, Meggie!»
«Non posso. Se sapessi come sono spaventata! Non si tratta di orgoglio, non è che Ralph sia riuscito a segnare un punto contro di me, non è nessuna delle cose che dico in giro per impedire alla gente di farmi delle domande. Dio lo sa, tutti e due i miei uomini mi mancano a tal punto che andrei a Roma in ginocchio, se potessi credere anche soltanto per un minuto di essere desiderata da loro. Oh, Dane sarebbe lieto di vedermi, ma Ralph? Ha dimenticato che io sia mai esistita. Ho paura, ti dico. Sento nelle ossa che, se andassi a Roma, succederebbe qualcosa. Quindi non ci vado.»
«Che cosa potrebbe succedere, in nome del Cielo?»
«Non lo so... Se lo sapessi, avrei qualcosa contro cui lottare. Ma una sensazione, come posso lottare contro una sensazione? Perché tutto si riduce a questo. A un presentimento. Come se gli dei si stessero riunendo.»
Anne rise. «Stai proprio diventando vecchia, Meggie. Finiscila.»
«Non posso, non posso! E sono vecchia.»
«Assurdo, sei nel momento migliore della maturità. In buona salute e giovane abbastanza, in realtà, per saltare su quell'aereo.»
«Oh lasciami in pace!» disse Meggie, e riprese il libro.
Di tanto in tanto, una folla con uno scopo preciso converge su Roma. Non si tratta di turismo, del desiderio voyeuristico di riscoprire le antiche glorie nelle reliquie attuali; e non si tratta neppure di riempire una piccola fetta di tempo tra A e B, con Roma in un punto intermedio sulla retta che unisce i due punti. È una folla unita da una sola emozione; scoppia d'orgoglio, in quanto viene per vedere un figlio, un nipote, un cugino, un amico, ordinati sacerdoti in quella grande basilica che è la chiesa più venerata del mondo. Alloggiano in umili pensioni, in alberghi lussuosi, in casa di amici o parenti. Ma tutti sono completamente uniti, in pace gli uni con gli altri e con il mondo. Fanno doverosamente i giri d'obbligo: i musei Vaticani, con la Cappella Sistina, in ultimo, premio di resistenza, il Foro, il Colosseo, la Via Appia, Piazza di Spagna, l'avida Fontana di Trevi, il son et lumière. In attesa del grande giorno, per ingannare il tempo. A loro verrà accordato lo speciale privilegio di un'udienza privata del Santo Padre, e per loro Roma non trova mai niente di troppo bello.
Questa volta non fu Dane ad aspettare sul marciapiede della stazione l'arrivo di Justine, come era sempre accaduto; si trovava in ritiro. Al posto di lui, Rainer Moerling Hartheim andava avanti e indietro, simile a un grosso animale. Non la salutò con un bacio, non lo faceva mai; si limitò a passarle un braccio intorno alle spalle, e a stringere.
«Come un orso» disse Justine.
«Un orso?»
«Un tempo, quando ti avevo appena conosciuto, pensavo che tu fossi una sorta di anello mancante, ma in ultimo ho deciso: sei più orso che gorilla. Era un paragone scortese, quello con il gorilla.»
«E gli orsi sono meno odiosi?»
«Be', forse uccidono una persona altrettanto rapidamente, però sono più affettuosi.» Infilò il braccio sotto il suo e regolò il passo; era quasi alta come lui. «Dane come sta? Lo hai veduto prima che iniziasse il ritiro? Lo ammazzerei, per non avermi lasciata partire prima.»
«Dane è quello di sempre.»
«Non lo hai condotto alla perdizione?»
«Io? No di certo. Sei molto carina, Herzchen.»
«Sono decisa a comportarmi nel modo migliore, e ho fatto acquisti da tutti i couturiers di Londra. Ti piace la mia nuova gonna corta? Le chiamano minigonne.»
«Precedimi e te lo dirò.»
L'orlo della gonna di seta pura arrivava circa a metà coscia. La gonna turbinò mentre lei si voltava e tornava indietro. «Che cosa te ne pare, Rain? È scandalosa? Non ho veduto nessuna donna a Parigi portarla già così corta.»
«Dimostra, Herzchen, che, con gambe belle come le tue, sarebbe scandaloso portare una gonna anche di un millimetro appena più lunga. Sono certo che i romani si troveranno d'accordo con me.»
«Questo significa che avrò il sedere nero e blu tra un'ora, anziché tra un giorno. Accidenti a loro! Sai una cosa, però, Rain?»
«Cosa?»
«Non sono mai stata pizzicata da un prete. Per tutti questi anni ho continuato ad andare avanti e indietro, in Vaticano, senza un solo pizzicotto a mio credito. Così mi son detta che forse, indossando una minigonna, sarei ancora riuscita a essere la rovina di qualche povero prelato.»
«Potresti essere la mia rovina.» Rainer sorrise.
«No, sul serio? In arancione? Credevo che tu mi odiassi, in arancione, visto che ho i capelli arancione.»
«Infiamma i sensi, un colore così acceso.»
«Mi stai prendendo in giro» disse lei, disgustata, mentre saliva sulla Mercedes, che aveva una bandierina tedesca sul cofano. «Quando l'hai avuta, la bandierina?»
«Quando ho ottenuto la nuova carica nel governo.»
«Non ci si può stupire se mi sono meritata un accenno su News of the World! L'hai letto?»
«Sai che non leggo mai la stampa scandalistica, Justine.»
«Be', nemmeno io. Me lo ha mostrato qualcuno» disse lei, poi rese più acuta la propria voce, immettendovi un accento volgarmente raffinato, falsamente patrizio. «Quale intraprendente attrice australiana dalla chioma color carota sta cementando rapporti molto cordiali con quale membro del Gabinetto della Germania Ovest?»
«Non possono sapere da quanto tempo ci conosciamo» disse lui, placido, allungando le gambe e sistemandosi comodamente.
Justine fece scorrere lo sguardo sul suo abbigliamento, con approvazione; molto nonchalant, molto italiano. Anche lui si atteneva all'avanguardia della moda europea, e osava portare una di quelle camicie traforate che consentivano ai maschi italiani di mostrare la villosità del torace.
«Non dovresti mai portare giacca colletto e cravatta» disse a un tratto.
«No? Perché no?»
«Il maschismo è senz'altro lo stile che fa per te... sai, quello che stai portando adesso, la catenella col medaglione d'oro sul petto peloso. Un abito a giacca fa pensare che tu abbia la pancia, mentre in realtà non ce l'hai.»
Per un momento la contemplò stupito, poi l'espressione dei suoi occhi divenne vigile, assumendo quella che lei definiva «l'espressione di pensiero concentrato». «La prima volta» disse.
«Cosa?»
«Per sette anni, da quando ti conosco, non hai mai fatto commenti sul mio aspetto senza criticarlo.»
«Oh, santo Cielo, sul serio?» domandò, e parve vergognarsi un po'. «Dio buono, ho pensato abbastanza spesso al tuo aspetto, e non l'ho mai criticato.» Per qualche motivo, si affrettò a soggiungere: «Voglio dire, a cose come l'aspetto che hai con un vestito.»
Lui non rispose, ma stava sorridendo, come per una riflessione molto piacevole.
Quel tragitto in automobile con Rainer parve essere l'ultima cosa tranquilla tra le tante che dovevano accadere per giorni e giorni. Poco dopo aver fatto ritorno da una visita al Cardinale de Bricassart e al Cardinale Contini-Verchese, la berlina noleggiata da Rainer portò all'albergo il contingente di Drogheda. Con la coda dell'occhio, Justine osservò la reazione di Rain alla sua famiglia, composta interamente da zii. Fino al momento in cui il suo sguardo non aveva trovato il volto della madre, Justine era stata persuasa che avrebbe cambiato idea, che sarebbe venuta a Roma. Il fatto che avesse proprio deciso di non venire era un colpo crudele; Justine non sapeva se soffrisse più per Dane o per se stessa. Ma intanto c'erano gli zii e toccava a lei fare gli onori di casa.
Oh, erano così timidi! E come distinguerli l'uno dall'altro? Quanto più invecchiavano, tanto più si somigliavano. E a Roma facevano spicco come... be', come allevatori australiani in vacanza. Indossavano tutti l'uniforme di città dei ricchi proprietari di allevamenti: stivali gialli con elastici sui lati, pantaloni di colore neutro, giacche sportive marrone di lana molto pesante e pelosa, con spacchetti laterali e un gran numero di rifiniture in cuoio, camicia bianca, cravatta di lana lavorata a maglia, cappello grigio a cupola piatta e a larga tesa. Niente di strano nelle vie di Sydney, durante la mostra pasquale, ma, nella tarda estate romana, era uno spettacolo straordinario.
E, in tutta sincerità, posso dire: Dio sia ringraziato per Rain! Quanto è buono con loro! Non avrei mai creduto che qualcuno potesse riuscire a far parlare Patsy, ma lui ci sta riuscendo, che il Signore lo benedica. Stanno chiacchierando a tutto spiano come due vecchie chiocce, e dove è andata a procurarsela, la birra australiana per loro? Gli piacciono, ed è interessato, presumo. Tutto è farina per la macina di un industriale-uomo politico tedesco. Come può continuare ad aver fede, essendo quello che è? Un enigma, ecco che cosa sei, Rainer Moerling Hartheim. Amico di Papi e Cardinali, amico di Justine O'Neill. Oh, se tu non fossi così brutto, ti bacerei, tanto ti sono grata. Signore Iddio, pensa se ti trovassi bloccata a Roma con gli zii e senza Rain! Il nome che ha gli si addice.
Lui si appoggiava alla spalliera della poltrona, ascoltando Bob che gli parlava della tosatura delle pecore. Justine lo osservò incuriosita. Quasi sempre notava immediatamente ogni particolare nell'aspetto fisico delle persone, ma, di quando in quando, la sua vigilanza si allentava e le persone si insinuavano in lei, si scavavano una nicchia nella sua vita, senza che avesse potuto procedere alla valutazione preliminare. Se la valutazione non era stata fatta, talora passavano anni prima di poter giudicare le persone con distacco, come estranei. Come in quel momento, mentre osservava Rain. Colpa di quel primo lontano incontro, naturalmente; quando era venuta a trovarsi circondata da ecclesiastici, intimorita, spaventata, e aveva sormontato il disagio con la sfacciataggine. Di lui si era limitata a notare le cose ovvie, la struttura possente, i capelli, la carnagione scura. Poi, quando l'aveva portata a cena, la possibilità di modificare la situazione era andata perduta, poiché Rain le aveva imposto una consapevolezza della sua presenza che trascendeva di gran lunga i suoi attributi fisici, ed era stata troppo interessata a quanto dicevano le labbra per guardargli la bocca.
In realtà, non era affatto brutto, si disse adesso. Sembrava quello che era, forse, un miscuglio del meglio e del peggio. Come un imperatore romano. Non ci si poteva stupire se amava la città. Era la sua sede spirituale. Rainer aveva una faccia larga, con gli zigomi pronunciati e un naso piccolo, ma aquilino. Folte sopracciglia nere che, invece di seguire la curva delle orbite, erano diritte. Ciglia molto lunghe, femminee, e bellissimi occhi scuri, quasi sempre aggrondati. Il tratto di lui di gran lunga più bello era la bocca, né tumida né sottile, né piccola né grande, ben disegnata, con un taglio netto sul limite delle labbra, e una singolare fermezza nel modo con il quale la teneva serrata; come se, allentando la sua presa, potesse tradire segreti profondi. Interessante, smontare, fattezza per fattezza, una faccia già così nota, eppure del tutto sconosciuta.
Emerse dalle fantasticherie e lo sorprese intento a osservarla mentre lo osservava, il che equivaleva a essere denudata davanti a una turba armata di lapidatori. Per un momento, gli occhi di lui fissarono i suoi, spalancati e vigili, non precisamente stupiti, ma piuttosto incantati. Poi, volse lo sguardo, placido, su Bob, e pose una domanda pertinente sulle pecore. Justine si diede una scrollata mentale, invitandosi a non fantasticare. Ma era affascinante vedere, a un tratto, un uomo che avevi considerato per anni un amico come un possibile amante. E non trovare affatto repellente la prospettiva.
Vi era stata una serie di successori di Arthur Lestrange e lei non aveva più avuto voglia di ridere. Oh, ho percorso molta strada, dopo quella sera memorabile, ma mi domando se ho effettivamente progredito. È molto piacevole avere un uomo, e al diavolo quel che diceva Dane della necessità che si tratti del solo uomo. Non voglio saperne di un solo uomo, e, di conseguenza, non andrò a letto con Rain; oh, no. Questo modificherebbe troppe cose e io perderei il mio amico. Ho bisogno del mio amico, non posso permettermi di farne senza. Me lo terrò come mi tengo Dane, un essere umano di sesso maschile, privo di rilevanza fisica.
La chiesa poteva contenere ventimila persone e pertanto non era affollata. Mai, in nessun luogo al mondo, tanto tempo e tante riflessioni e tanta genialità erano stati dedicati alla creazione di un tempio; faceva impallidire, rendendole insignificanti, le opere pagane dell'antichità. Davvero. Tanto affetto. Tante fatiche. La basilica del Bramante, la cupola di Michelangelo, il colonnato del Bernini. Un monumento innalzato non soltanto a Dio, ma all'Uomo. Sotto l'altar maggiore, in una piccola cripta di pietra, era seppellito lo stesso San Pietro; lì avevano incoronato l'Imperatore Carlomagno. Gli echi di antiche voci sembravano bisbigliare tra i fasci di luce che si riversavano nella basilica, morte dita lucidavano i raggi di bronzo dietro l'altar maggiore e accarezzavano le ritorte colonne di bronzo del baldacchino.
Giaceva sui gradini, a faccia in giù, come se fosse morto. A che cosa stava pensando? Aveva in sé una sofferenza che non avrebbe dovuto esserci, perché sua madre non era venuta? Il Cardinale Ralph guardò attraverso le lacrime e si rese conto che la sofferenza non c'era. Prima, sì. E in seguito, senz'altro. Ma, in quel momento, nessuna sofferenza. Tutto di lui si proiettava nel momento, nel miracolo. Non c'era posto in Dane per niente che non fosse Dio. Stava vivendo il giorno dei giorni, e nulla contava tranne il compito imminente, votare la propria vita e la propria anima a Dio. Lui probabilmente poteva farlo, ma quanti altri ci erano riusciti? Non il Cardinale Ralph, sebbene ricordasse ancora che la sua ordinazione era stata colma di sacro stupore. Aveva provato con tutto se stesso, ma non ci era riuscito del tutto.
Non fu augusta come questa, la mia ordinazione, ma ora la rivivo di nuovo attraverso di lui. E mi domando che cosa sia in realtà se, nonostante i nostri timori, ha potuto trascorrere fra noi tanti anni senza che una sola persona non gli fosse amica, e tanto meno nemica. È amato da tutti, e ama tutti. Non gli passa mai per la mente, nemmeno per un momento, che questo stato di cose sia straordinario. Eppure, quando venne a noi la prima volta, non era così sicuro di sé; noi gli abbiamo dato questa forza, e da questo forse le nostre esistenze sono giustificate. Molti sacerdoti sono stati ordinati qui, migliaia su migliaia, eppure per lui c'è un qualcosa di speciale. Oh, Meggie! Perché non sei venuta a vedere il dono che hai fatto al Signore... il dono che io non ho potuto offrirMCGli, avendo già dato a Lui me stesso? E suppongo che per questo egli possa essere qui, oggi, esente dalla sofferenza. Perché, per questo giorno, mi è stato dato il potere di assumermi il suo dolore, liberandolo. Piango le sue lacrime, mi affliggo in sua vece. E così deve essere.
In seguito, voltò la testa, vide la fila di quelli di Drogheda con vestiti scuri così fuori posto. Bob, Jack, Hughie, Jims, Patsy. Una sedia libera, quella di Meggie, poi Frank. I capelli di fuoco di Justine attutiti da un nero velo di pizzo; era la sola donna Cleary presente. Accanto a lei, Rainer. E poi un gran numero di persone sconosciute, ma che quel giorno partecipavano alla cerimonia pienamente, come le persone di Drogheda. Soltanto che quel giorno era diverso, quel giorno aveva un che di speciale per lui. Quel giorno gli sembrava quasi di avere egli stesso un figlio da offrire a Dio. Sorrise e sospirò. Che cosa doveva provare, Vittorio, facendo di Dane un sacerdote?
Forse perché sentiva così acutamente l'assenza di sua madre, la prima persona con la quale Dane riuscì ad appartarsi, al ricevimento offerto in suo onore dal Cardinale Vittorio e dal Cardinale Ralph, fu Justine. Con la tonaca nera e l'alto colletto bianco, era magnifico, pensò lei; soltanto, non sembrava affatto un prete. Sembrava un attore che impersonasse la parte di un prete, finché non lo si guardava negli occhi. Ed eccola, la luce interiore, quel qualcosa che lo tramutava da un uomo di gran bell'aspetto in un essere unico.
«Padre O'Neill» gli disse.
«Ancora non mi ci sono abituato, Jus.»
«Non è difficile da capire. Non ho mai provato niente di simile a quello che ho sentito in San Pietro, e, di conseguenza, non posso immaginare che cosa deve essere stato per te.»
«Oh, credo che tu possa, in qualche profondità dentro di te. Se davvero non potessi, non saresti una così brava attrice. Ma nel tuo caso, Jus, scaturisce dall'inconscio; non prorompe nel pensiero finché non hai bisogno di servirtene.»
Sedevano su un divanetto, in un angolo della sala, e nessuno venne a disturbarli.
Dopo qualche momento, disse: «Sono così contento che Frank sia venuto» guardando là ove Frank stava conversando con Rainer, il viso animato come i suoi nipoti non lo avevano mai veduto. «C'è un anziano prete romeno profugo che conosco» continuò Dane «e che è solito dire: "Oh, poverino!" con una tale compassione nella voce... Non so perché, ma è quello che mi sorprendo sempre a pensare di Frank. Eppure, Jus, perché?»
Ma Justine ignorò la trappola e passò subito al nocciolo della questione. «Avrei voglia di ammazzare Ma'!» disse tra i denti. «Non aveva il diritto di farti questo!»
«Oh, Jus! Io capisco. E devi sforzarti anche tu di capire. Se lo avesse fatto per malignità o per vendicarsi di me, potrei risentirmi, ma tu la conosci bene quanto me, e sai che non lo ha fatto né per l'una né per l'altra ragione. Andrò presto a Drogheda. Le parlerò, allora, e vedrò che cosa ha nel cuore.»
«Presumo che le figlie non siano mai pazienti con le loro madri come lo sono i figli.» Abbassò gli angoli della bocca dolorosamente, poi alzò le spalle. «Forse è un bene che io ami troppo la solitudine per infliggermi a qualcuno nella parte di madre.»
Gli occhi azzurri erano molto buoni, teneri; Justine si sentì venire la pelle d'oca pensando che Dane la compassionava.
«Perché non sposi Rainer?» domandò a un tratto.
Non poté fare a meno di aprire la bocca e trattenere il respiro. «Non mi ha mai chiesta» disse debolmente.
«Soltanto perché pensa che tu diresti di no. Ma questa è una difficoltà che si potrebbe eliminare.»
Senza riflettere, Justine lo afferrò per l'orecchio, come aveva avuto l'abitudine di fare quando erano bambini. «Non osare niente di simile, stupido! Non una parola, mi senti? Io non amo Rain! È soltanto un amico, e voglio che continui a essere un amico. Se accenderai anche solamente una candela a questo scopo, giuro che mi metterò a sedere, strabuzzerò gli occhi e ti scaglierò una maledizione; e ricorderai che questo ti spaventava da morirne, no?»
Rovesciò il capo all'indietro e rise. «Non funzionerebbe, Justine! La mia magia ormai è più forte della tua. Ma è inutile che ti scaldi tanto. Ho sbagliato, ecco tutto. Credevo che ci fosse qualcosa tra te e Rain.»
«No, non c'è niente. Dopo sette anni? Figurarsi, dopo tanto tempo anche i porci saprebbero volare!» Tacque, parve cercare altre parole, poi lo guardò quasi timidamente. «Dane, sono così felice per te! Credo che se Ma' fosse qui proverebbe la stessa cosa. Non le occorre altro, vederti come sei adesso, così. Aspetta e vedrai che cambierà idea.»
Molto dolcemente prese la faccia appuntita tra le mani, sorridendo con tanto affetto che, a sua volta, Justine alzò le mani per afferrargli i polsi, e assorbì quell'affetto attraverso tutti i pori. Come se stesse ricordando e tesoreggiando tutti gli anni della fanciullezza.
Eppure, dietro a ciò che vedeva negli occhi di lui, intuiva un dubbio vago, solo che dubbio era forse una parola troppo forte; più che altro, si trattava di ansia. Dane aveva la quasi certezza che Ma' avrebbe capito, in ultimo, ma era pur sempre umano, sebbene tutti tranne lui tendessero a dimenticarlo.
«Jus, vuoi farmi un favore?» le domandò, dopo averla lasciata andare.
«Tutto quello che vuoi» disse, sinceramente.