Jean Améry, il filosofo suicida
L’episodio atroce del «Tempio del popolo», il suicidio collettivo di 900 adepti di una setta mistica-satanica, è tuttora incomprensibile, e forse lo sarà per sempre, se «comprendere» significa andare alla ricerca dei motivi. Del resto, ogni azione umana contiene un duro nòcciolo di incomprensibilità: se non fosse cosí, saremmo in grado di prevedere che farà il nostro prossimo, il che non avviene, e forse è bene che non avvenga. Particolarmente difficile è penetrare il perché di un suicidio, poiché, in generale, il suicida stesso non ne è consapevole, oppure fornisce a se stesso e agli altri motivazioni volontariamente o involontariamente alterate.
La notizia della strage di Georgetown è stata diffusa dai giornali contemporaneamente a un’altra assai meno clamorosa: il suicidio di un filosofo scontroso e solitario, Jean Améry, che invece è ben comprensibile, e ricco d’insegnamento. Non era questo il suo nome originario: si tratta di uno pseudonimo, o meglio di un nome nuovo, che il giovane studioso austriaco Hans Mayer si era scelto a indicare che lui, alla sua individualità nativa, era stato costretto a rinunciare. Hans ha antenati cristiani ed ebrei, tuttavia è ebreo quanto basta per essere definito tale dalle Leggi di Norimberga. Ma è totalmente assimilato: a casa sua si festeggiava il Natale, e la memoria che egli serba di suo padre, morto nella Prima guerra mondiale, non è quella di un savio ebreo barbuto, ma di un ufficiale dell’esercito Imperial-Regio in divisa da Kaiserjäger tirolese.
Piombano i nazisti in Austria: Hans si rifugia in Belgio e diventa Jean, ma nel 1940 la marea hitleriana sommerge anche il Belgio, e Jean, intellettuale timido e introverso ma consapevole della sua dignità, entra nella resistenza belga. Non vi milita a lungo. Presto cade in mano alla Gestapo, e gli viene chiesto di rivelare i nomi dei suoi colleghi e mandanti, se no è la tortura. Lui non è un eroe, se li conoscesse li direbbe, ma non li sa. Gli legano le mani congiunte dietro la schiena, e per i polsi lo sospendono a una carrucola. Dopo pochi secondi le braccia gli si slogano, e rimangono rivolte all’in su, verticali dietro la sua schiena. Gli aguzzini insistono, infieriscono con gli staffili sul corpo appeso, ma Jean non sa nulla, non può rifugiarsi neppure nel tradimento. Guarisce, ma è «legalmente» ebreo, e viene spedito ad Auschwitz-Monowitz dove vive altri 18 mesi di terrore.
Liberato nel 1945, ritorna in Belgio e vi si stabilisce, ma non ha piú patria ed è oppresso dal suo passato. Scrive saggi amari e gelidi, che si intitolano Di quanta patria ha bisogno l’uomo?, Della necessità e dell’impossibilità di essere ebreo, La tortura, I limiti dello spirito. Quest’ultimo è un’accorata e disperata meditazione su «quanto servisse» in Lager essere un intellettuale. Serviva poco, secondo Améry, anzi, era nocivo: l’intellettuale tendeva a non assuefarsi, a non accettare quella realtà impossibile, pur senza avere la forza (che avevano invece i detentori di una fede) di opporvisi attivamente o intimamente. Sono pagine che si leggono con un dolore quasi fisico, la testimonianza di un naufragio protratto per decenni, fino alla sua conclusione stoica.
Altrove, Améry ha lasciato scritto: «“Ascolta, Israele” non mi interessa: solo “Ascolta Mondo”, solo questo ammonimento potrei proferire con collera appassionata». Ma anche: «In quanto ebreo, vado per il mondo come un ammalato colpito da una di quelle malattie che non cagionano grandi sofferenze, ma che conducono sicuramente alla morte». E infine, lapidariamente: «Chi è stato torturato rimane torturato. […] Chi ha subito il tormento non potrà piú ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annientamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista piú».
No, non stupisce la fine di Jean Améry, ed è triste pensare che la tortura, sparita per secoli dall’Europa, è invece ricomparsa in questo secolo, e sta guadagnando terreno in molti Paesi; magari «a fin di bene», come se dalla sofferenza deliberatamente inflitta qualcosa di buono potesse nascere. È insopportabile pensare che, mentre la tortura subita ha pesato su Améry fino alla morte, anzi, è stata per lui una interminabile morte, i suoi torturatori siedono con ogni probabilità in un ufficio o godono di una pensione; e se interrogati (ma chi li interroga?) risponderebbero, come d’uso e con la coscienza leggera, di avere soltanto eseguito degli ordini.
In «La Stampa», 7 dicembre 1978.