Sabato santo, sera e notte
“Cosa pensi dei transessuali?” cambia totalmente discorso Irene. È seduta con Rosalba al bar di Carlo con due cocktail analcolici sul tavolo. Rosalba ha passato i primi dieci minuti a complimentarsi per il nuovo taglio e i vestiti che Irene le ha detto di aver comprato. Poi ha parlato di nuovo della signora Ilde e della sua ipotesi di abuso subito durante l’infanzia che, per trasposizione, in vita adulta si è tramutato in una rabbia contro le figure autoritarie per antonomasia, quelle religiose. “Ne ho conosciuta una. Si tratta della fidanzata di Tore.”
“Una ragazza,” dice Rosalba, con il tono professionale che non prevede sorprese.
“Sì. La voce era l’unica cosa che ogni tanto... Però se non l’avessi saputo.”
“E ti ha turbata.”
“Turbata, perché? Ci siamo divertite stamattina.”
“Se me l’hai chiesto un motivo deve esserci. Da quando ti conosco non hai mai cambiato la pettinatura, e oggi? Un taglio nuovo, che ti sta benissimo, e quel bel tono di rosso. Ti sembra un caso?”
“Certo che lo è, se lei non fosse andata dal parrucchiere io non li avrei tagliati. Ma mi vedi forse turbata?”
“No, anzi. Forse sono gelosa. Io ti conosco da quando andavamo alle magistrali, e un’estranea in una mattina ti aiuta più di quanto sia mai riuscita a fare io in tanti anni.”
“Aiuta?”
“Nel senso di prenderti un po’ più cura di te. Quante volte ci ho provato io?”
Irene non risponde. Quel verbo, aiutare, le ha dato fastidio. Prende tempo bevendo dalla cannuccia lo strato più alto del suo cocktail, quello bianco, le sembra cocco. Mangia un pezzo di ananas infilato nel lungo stecchino. “Io non ho bisogno di nessun aiuto.”
“Beata te,” dice Rosalba. Si è resa conto di avere usato la parola sbagliata. “Sapessi di quanti aiuti ho bisogno io. Con Maurizio, poi...”
Qualcuno, entrando, fa un cenno di saluto a Rosalba. Lei contraccambia. Il bar è pieno di ventenni. L’atmosfera è positiva. La musica non troppo alta, le sedie a poltroncina, comode. Irene si sbuccia un pistacchio.
“Rosalba tu lo sapevi che gli uomini vanno più dai travestiti che dalle prostitute donne?”
“È questo che ti ha turbata?”
“Sei fissata con questo turbata. Sono solo sorpresa. Mi ha anche detto che la maggior parte sono sposati. Tu non lo trovi strano?”
“Strano. Non lo so. Forse nei trans trovano una donna più simile a loro, rassicurante.”
“Ma tu lo sposeresti Maurizio?” chiede Irene. Maurizio è l’uomo, già sposato, con il quale Rosalba ogni tanto si vede.
“Sposare?” Rosalba prende tempo sbucciando un paio di pistacchi. Se li porta alla bocca. “No, e che me ne farei di un uomo così?”
“E com’è l’uomo che sposeresti?”
“Bella domanda. Intanto un uomo che non abbia bisogno di un’amante per piangerle addosso le sue sconfitte esistenziali. Ma ci devo pensare. E il tuo uomo, invece, Irene, com’è il tuo uomo ideale?”
“Il mio uomo ideale?” ripete Irene. Torna a bere il cocktail. Cerca di pensare qualcosa, qualche caratteristica che potrebbe renderle un uomo ideale. Ma non lo sa, davvero. Non le viene niente. Rosalba le dà il tempo di pensarci, continua a lavorare alla ciotola dei pistacchi.
“Un uomo diverso da mio padre, ecco,” le esce qualche istante dopo, in una di quelle frasi che non pondera. Frasi il cui significato le sta dentro da anni.
“Di questo non ti devi preoccupare”, dice Rosalba molto seria. “Tuo padre, lo sai, era il lato più schifoso degli uomini. Gli uomini possono essere piccoli, d’accordo, l’ho detto tante volte. Ma ci si può stare bene. Devi solo convincerti che anche tu ti meriti un uomo normale. Devi anzi pensare che ci sia qualcuno che meriti te, perché puoi dare tanto, a un uomo, e puoi ricevere anche tanto. Ma solo se lo vuoi. Se non ne senti l’esigenza, Irene, non fartene un problema. Ciò che importa è che tu ti senta bene.”
“Io mi sento bene,” ammette, sincera, Irene. “Però per te è normale uscire con Maurizio, no?”
“Ma ci sono anche problemi e a volte ci soffro.”
“Lo so, ma intanto è normale,” ripete Irene. La sua insistenza sulla normalità costringe Rosalba a riflettere. Rimane ferma a guardare Irene col bicchiere ormai vuoto in mano. La vede vulnerabile. Prova la sensazione di avere a che fare con una di quelle bambine che spesso le capitano al consultorio, ben educate ma intimorite dalla situazione. Bambine che a ogni domanda che lei pone, prima di rispondere, girano lo sguardo verso la madre o il padre, preoccupate dal rischio di dire troppo. Solo che Irene da bambina non ha mai avuto un padre e una madre a cui riferirsi.
“Irene,” le dice Rosalba, “stare con un uomo non è l’unico modo per essere, come dici tu, normale. Però che ne parli è molto positivo. È il punto di partenza perché qualcosa succeda, ne sono sicura.”
Irene non dice nulla, china sul bicchiere si tiene la cannuccia tra le labbra.
Rosalba finisce in un sorso quel poco di aperitivo che le è rimasto. Cambia tono. “Però, visto che le cose stanno così bisogna darsi da fare, e non potrai dirmi di no la prossima volta che ti chiedo di uscire con me. Vedrò di rendermi utile come amica. D’accordo?”
“Va bene,” sorride Irene, “però adesso devo andare.”
“E troveremo anche un infermiere per tua madre. Che venga tutti i giorni. Non ripetermi che c’è già l’infermiere. Due volte alla settimana non basta. Lo sai.”
“Non è questo, ho detto a Piero che preparo io la cena.”
“Ma anche tuo fratello, Irene, tu lo vizi troppo, non troverà mai una donna che regga il tuo confronto.”
“Figurati, l’ultimo problema di mio fratello è trovare una ragazza, ne ha anche troppe.”
“Appunto, tante fanno meno paura di una, è un altro modo per fuggirci, per fuggire la nostra intelligenza.”
“Dici?”
“Certo che lo dico.”
“Le ragazze che ho visto con mio fratello, però, non mi sembravano preoccupate di sembrare intelligenti.”
“Be’, noi non siamo quelle ragazze.”
***
Ha finito il lavoro a casa della signora Riva, ha fatto un salto da Giacomo, al bar Everest, vestito da lavoro, per un aperitivo. C’era molto da parlare, ognuno aveva la sua da dire, e i fluttini di Berlucchi sono diventati tre, quattro, il tempo minimo necessario per uno scambio di opinioni. Adesso se ne sta buttato sul divano, nel breve sonno da camionista, che dura di solito dieci minuti. Ma stavolta si sveglia prima, di colpo, quando al telegiornale di Rete 4 nominano Colle Ventoso. Cazzo, ne parlano tutti ormai, con le immagini interne delle scale dove sono stati trovati i corpi, poi con un giornalista diritto proprio davanti al portone del condominio. Si vedono anche un po’ le impalcature che ha montato lui, e il giornalista dice che per saperne di più hanno fatto delle interviste per sentire gli umori della gente, e la persona che appare a rispondere alle domande, a svegliare del tutto Piero è la Cantarella. La signora Cantarella, impettita e diritta davanti alla telecamera, con lo scialle viola quasi rosso sulle spalle, sopra un vestito luminoso sul blu viola, e gli orecchini, e il trucco. Piero non l’ha mai vista così.
“Cazzo!” grida, sentendo Irene aprire la porta.
“Ho fatto la spesa,” risponde Irene, gridando pure lei.
“C’è la Cantarella in tv.”
Irene appoggia la borsa in cucina. Appare in soggiorno, la Cantarella non è più sullo schermo. “E che ha detto?”
“Boh, un po’ di cose, tipo che è stata lei a scoprire i morti.”
“Questo non è vero, lei ha visto solo Tore. E la polizia?”
“Non ne sanno niente. Che storia, però. Ti serve una mano?”
“In macchina ci sono altre due borse, ma se stai riposando, scendo io.”
“Mica stavo dormendo,” replica Piero. Trova fastidioso ammettere di dormire fuori orario. Si alza dal divano. “Stavo guardando la tv. La macchina è... Wow!” si sorprende, vedendo il nuovo taglio della sorella.
“Ti piace?” domanda Irene che ancora, non può fermarlo, si sente arrossire.
“Non male, sembri più giovane.”
Irene tira fuori il pollo dal microonde, lo appoggia su una presina al bordo del tavolo. Sta pensando a come rivolgersi al fratello. Opta per la strategia diretta.
“Devo chiederti un favore.”
“Dalla puttana io stasera non ci torno,” la interrompe Piero, diretto anche lui, subito sulla difensiva.
“Ma chi ha parlato di lei? Mi devi solo chiamare per avvertirmi se Rino Romano è alla riunione della leva.”
“Che te ne frega del Romano?”
“Niente, volevo andare a casa sua.”
“Se vuoi sapere se è a casa, chiamalo, no?”
Irene si piega, prende dal forno la teglia con le patate. “Il contrario,” dice con lo stesso tono tranquillo. “Voglio sapere se c’è alla riunione per essere sicura che non sia a casa sua.”
“Cioè,” dice Piero per chiarire il concetto, “se Rino Romano è alla riunione tu vuoi andare a casa sua.”
Irene non parla. Si toglie il guanto da forno, distribuisce le patate nei piatti.
“Ma sei fuori?” Il concetto adesso è chiaro a Piero. “Che cos’hai in mente?”
“Indagini.”
“E da quando sei diventata un poliziotto?”
Irene non risponde. Appoggia il pollo sul tavolo, si volta a prendere il forchettone e il coltello.
“E come entri?” chiede ancora per mostrarsi pratico.
“Sei tu che hai messo le impalcature, no?”
“E allora?”
“Mi accompagni tu, e poi entriamo dalla finestra del bagno.”
“Che stronzata stai dicendo? Scordatelo.”
“Ma della polizia non devi avere paura. Sto collaborando con loro.”
“E perché non ci entrano loro?”
“Perché io sono del posto, noi conosciamo i Romano, quindi...” E quindi? Quindi non sa che altra scusa inventare.
Ma Piero non aspetta che la sorella finisca. “Polizia o no, io non vengo.”
“Io ci devo andare lo stesso. Però sinceramente mica pensavo che tu avessi paura.”
“Paura? A me quello che interessa è non mettermi nei casini.”
Irene taglia il pollo a metà. Sa che non deve mollare adesso. Lavora di forchetta e di coltello grosso. Ricomincia. “È tutto molto semplice. Tu mi chiami per confermare che Rino è alla riunione. Anzi ancora meglio,” le viene in mente con mezzo pollo in equilibrio verso il piatto alzato di Piero, “ti chiamo io, così poi è più facile per te trovare una scusa per venire via. Puoi dire che io ho problemi con la mamma, facile no?, e andiamo al condominio e insieme entriamo nell’appartamento dei Romano. Non c’è niente di complicato.”
Piero non risponde, riappoggia il suo piatto, prende il pollo con le mani, lo addenta.
“È buono?” chiede Irene.
“Buono,” dice Piero, “però al microonde la pelle diventa un po’ meno croccante.” Si spinge in bocca una patata e si aiuta a deglutire con un sorso di Coca. “Perché vuoi entrarci?” L’idea, è evidente, lo incuriosisce.
“Per dare un’occhiata.”
“A cosa?”
“Se lo sapessimo non sarebbe necessario, no? È proprio questo il punto. Andiamo a cercare qualcosa ma non sappiamo cosa. Il Romano si è comportato in maniera strana. Cioè non ha fatto niente e questo è strano. E poi l’hanno visto litigare con Tore.”
“Te l’ho già detto, questa è una cazzata. I Romano non sono tipi da litigare. È Tore che non voleva dargli i soldi e loro è giusto che glieli hanno chiesti. È la regola.”
“Vedi che è giusto andare a vedere.”
“Ho capito. Però non vuol dire che sono loro,” aggiunge Piero, per dire qualcosa.
“Certo,” dice Irene. “E anzi se non troviamo niente per noi è ancora meglio, ce ne andiamo tranquilli.”
“Non mi va, Irene, ci sento puzza di casini, non stasera, devo prepararmi.” Suona come l’ultima obiezione. Nella voce la convinzione se n’è andata. Irene si alza da tavola. Esce dalla cucina e ci rientra poco dopo. “Visto che domani non ci sei, te lo do adesso.”
“Che bestia di uovo.”
Appoggia sul tavolo anche la bottiglia di vino. “Me l’ha consigliata Crovetti, l’ho incontrato al super. Costa un po’, però ha detto che è molto buono.”
Piero se l’avvicina. “Il Crovetti è uno che ne sa di vini. La beviamo lunedì quando torno. Ma te, a che ora vuoi entrare dai Romano?”
***
“Avremmo dovuto arrestarlo,” dice Bercalli. Se ne sono rimasti in silenzio, in macchina, senza meta, per diversi minuti.
“Lo so,” dice Colasette.
“E allora?”
“Avremmo rispettato la procedura, certo, per sequestro di minore. Ma non avremmo avuto alcun giovamento sul versante indagini. Lei ci crede che nessuno sapeva niente di quel ragazzo? Siamo sicuri che Davide in questa storia di tenerselo in casa non avesse complici? E poi, prima di tutto, siamo sicuri che sia veramente stato in casa sua tutto questo tempo? In più per noi l’urgenza è la sua morte. Non dimentichiamo che qualcuno gli ha causato l’ematoma al braccio, il taglio al labbro. Davide Torti era a Fatima, in questi giorni, un alibi d’acciaio. E, non so lei, ma il modo con cui dava per scontato le cose, la normalità del racconto, a me è rimasta addosso la sensazione che c’è troppo di costruito. Ha notato la sua reazione quando gli ho comunicato che nel suo appartamento non c’è niente che appartiene a Gabriele?”
Si ferma a prendere tempo per formulare il suo pensiero. “Anche il prete ci ha detto che Davide stava riprendendo i rapporti con la famiglia. Sembra una cosa molto importante per tutti. E allora siamo noi a rimetterli insieme. Gli diamo la possibilità di agire e quindi di fare errori. Non abbiamo tempo di mettere sotto controllo il telefono, ma potremmo verificare poi se Davide si metterà in contattato con qualcuno. Capisce, siamo noi a creare una situazione che potrebbe portarci vantaggi. Per il sequestro di minore avremo tempo per metterlo dentro.”
“Così si espone a critiche. Dobbiamo almeno in qualche modo formalizzare il suo piano e mettere la casa sotto sorveglianza.”
“Un paio di agenti che passano di lì regolarmente, va bene. Rodighiero e Garofalo. Io e lei. Per fargli sentire che dubitiamo.”
“Dubitiamo di cosa?”
“Di tutto. Ma non è importante di cosa dubitiamo noi, piuttosto come agisce Davide e se si mette in contatto con qualcuno. Per questo creiamo la situazione. Però adesso io e lei abbiamo bisogno di una pausa.”
“Un bicchiere di vino può essere considerato pausa?”
“Un bicchiere di vino, cibo, affetto. E magari anche un po’ di realtà.”
“Non si starà invitando a casa mia, Colasette?” scherza Bercalli. La storia di Davide e Gabriele Rizzato se la sente pesare addosso. Ha bisogno di leggerezza. “D’accordo che mi ha abbracciata di sorpresa, oggi, non pensi che non me ne sia accorta, a casa del prete, ho temuto che mi mordesse il collo.”
“Non vorrei deluderla, ma la colpa è dello stereo che non funzionava. Le sarebbe dispiaciuto?”
“Uhm, molto macho, ma lei è abituato male. Non basta più, i tempi sono cambiati, la mia generazione ha riscoperto i valori tradizionali, corteggiamento, seduzione, tempi lunghi, fiori, messaggini intriganti.”
“Salterei il corteggiamento e mi accontenterei di un bar dove la gente se ne sta seduta e parla di vacanze, di macchine, di cazzate.”
“Avanzamento di carriera, da autista personale a diversivo dal lavoro.”
“E se la fa contenta mi cimento nel corteggiamento. La vecchia generazione sfida la nuova.”
“Lasci stare, non vorrei correre il rischio di prenderla sul serio.”
Restano un momento in silenzio.
“Gabriele Rizzato,” torna a dire Colasette, “non mi esce dalla testa.”
“Cosa dobbiamo pensare?”
“Un bar prima di tutto.”
“Appena più avanti c’è l’Hemingway, va per la maggiore. Ma io sarei per un buon bicchiere di vino. Cinque minuti in più c’è Le nozze di Figaro. Là ne sanno di vini.”
“L’unica cultura rimasta in questi posti è nei nomi dei bar. Sono anch’io per il vino.” Poi appoggia le dita sulle tempie, con una certa pressione, quasi che potesse spremere fuori un qualche pensiero intelligente. Perché è di questo che ha bisogno, di un pensiero che lo rassicuri, un’idea nuova, perché di quel Gabriele Rizzato non sa davvero cosa pensare.
Quando Bercalli torna dal bancone del bar, Colasette ha appena terminato la telefonata con Garofalo. Dietro Bercalli si avvicina il proprietario, con bottiglia e grossi calici. Il locale è bello. Arredamento di design moderno e vecchi tavoli di legno, con delle sedie da chiesa, riconoscibili dagli inginocchiatoi nella parte dietro.
“Dottore, questo è Flavio, dove il vino è una garanzia. Flavio, questo è Valerio Colasette, il commissario,” dice Bercalli.
“Io purtroppo non garantisco niente,” sorride Colasette, mentre si stringono le mani.
“Questo è di quelli che devi andarli a cercare,” dice Flavio. Mostra la bottiglia di un Rosso Conero. “Appena si fa un nome costerà tre volte tanto.” Riempie i bicchieri. “Tempo di straordinari per voi, stando a quello che ci raccontano.”
Bercalli annusa nel bicchiere, lo rotea, annusa di nuovo, assaggia. “Buono, però avevi ragione, senza quella punta di alcol, forse, però ci sta, se non me lo dicevi prima.”
“Ha un buon corpo che lo supporta. Aspetta che si apra. Un po’ di formaggio lo volete?”
“Se hai quei tuoi grissini con un po’ di San Daniele.”
“Il vino le va bene?” Flavio chiede a Colasette, che non l’ha ancora assaggiato.
“Mi fido in tutto di lei,” dice, intendendo Bercalli. “Però non ci porti troppa roba, ci aspettano a cena. L’ha fatto lei quel quadro?” domanda, mano puntata a indicarne uno: una sorta di strati di grigio e nero e qualcosa, molto sottile, intorno, di arancione. Quella sovrapposizione di colori pastosi è ben fatta. Non è roba da dilettanti.
“Sono un ingegnere pentito e un artista fallito, uno di quelli che sanno fare tante cose ma in modo mediocre.”
“Questa enoteca,” dice sincero Colasette, “è uno dei posti più belli che ho visto qua intorno, nome a parte. Non lo direi un posto mediocre.”
“Grazie, mi fa piacere che apprezzi. È stato uno sfizio che ho sempre voluto togliermi, e sono contento. Non è d’accordo con Le nozze di Figaro? Lei come l’avrebbe chiamato un bar come questo?”
Colasette prende tempo, pentito del suo commento. “Non so.” Si guarda intorno, ma non può tirarsi indietro. “Le nozze di Cana, ecco, un nome simile ma più in tema.”
“Le nozze di Cana.” Flavio sorride. “Non è male, ma purtroppo io non faccio miracoli. Il vino buono lo devo comprare, non mi esce dai rubinetti. È mio quel quadro laggiù.” Ne indica uno vicino alle scale che scendono ai bagni. “Lo tengo a metà strada, un po’ nascosto un po’ esposto. So che è poca cosa, ma non riesco a metterlo in cantina. Quello che lei ha notato è di un vero artista, un gallese che fa una vita da recluso, e c’è molto di spirituale nelle sue opere, ci medita come fossero delle icone. Quando posso vado su direttamente per vedere se ha qualcosa da vendermi. Ma non è detto che voglia sempre vendere.” Si volta verso il bancone dove alcuni clienti lo stanno aspettando. Si scusa e con la bottiglia in mano si allontana dal tavolo.
“Chi ci aspetta per cena?” chiede Bercalli.
“Nessuno, saremo io e lei. Sembra di casa qui.”
“Fabio è un bel tipo, uno di quelli che ha sempre qualcosa da dire mentre ti serve il vino. Mi fermo spesso tornando a casa. A cosa beviamo?” dice, alzando il bicchiere.
“Beviamo e basta,” dice Colasette. Per non deludere Bercalli, annusa il vino prima di accostare il bicchiere alle labbra.
“Sarà una cena a lume di candela?”
“Se le va ci faremo spegnere le luci.”
“Romantico. Mi dica cos’ha in mente.”
“Dobbiamo arrivare a una qualche conclusione con i Romano.”
“I gemelli Romano,” ripete Bercalli.
“I gemelli Romano, sì, loro.”
“Non vorrà propormi di stare appostati fuori dal condominio, in macchina, tutta la notte ad aspettare?”
“No, troppo pericoloso. Le statistiche dicono che il 75% dei giovani non sposati fanno sesso in auto. Lo trovano molto eccitante.”
“Non me lo dica, tutto il giorno in auto con un poliziotto e un prete, sembra una barzelletta, non si immagina l’eccitazione. Mi dica dell’irruzione nell’appartamento.”
“Busseremo, semplicemente. Di sabato sera, sul tardi, non si aspetteranno visite. Possiamo prendercela comoda e cenare con calma.”
“Ha detto non si aspetteranno, al plurale.”
“Loro, terza persona plurale, esatto,” dice Colasette. “Mentre lei era al bancone mi hanno telefonato Garofalo e Rodighiero. Hanno fatto una ricerca su tutti i voli per Sharm el-Sheikh. Ma Dino Romano non risulta tra i passeggeri di nessun aereo.”
“Una vacanza post-moderna,” dice Bercalli.
“Infatti,” dice distratto Colasette. Dà un sorso al suo bicchiere. Lo tiene contro le labbra, poi lo riappoggia sul tavolo e torna presente. “Lei crede agli angeli?” chiede. In testa ha ancora Gabriele Rizzato. Le ali disegnate sulla schiena.
“Da bambina mi giravo di scatto per poter beccare di sorpresa il mio angelo custode.”
“Ce l’ha fatta?”
“No, ma un volta ho picchiato la testa contro la sbarra del letto.” Lo dice e si tocca la fronte, spostando appena i capelli. “Tre punti. È rimasto il segno.”
Colasette le guarda la fronte, ma nella penombra non si vede nessun segno.
“Certo che...” dice Bercalli fermandosi subito, come a riflettere sulle sue parole. “Certo che come primo caso poteva andarmi meglio.”
“Anche a me, come ultimo caso, poteva andarmi meglio.”
Bercalli fissa Colasette. Si porta il bicchiere alla bocca. “È solo stanco. Si prenda una vacanza.”
“Si può prendere una vacanza dalla vita?”
“La pianti con le frasi a effetto. Vada in Galles, sembrava interessato poco fa, si faccia camminate, compri quadri. Ma non è che tutta questa crisi dipende dalla sua fidanzata che è sparita?”
“Che ne sa che è sparita?”
“Non l’ho mai vista controllare così spesso il cellulare e poi non dimentichi che sono una donna.”
“E chi è che se l’è dimenticato?” s’intromette Flavio, il proprietario, apparso al tavolo con un tagliere. Non può fingere di non aver sentito. “Se volete altro,” aggiunge subito, “fatemi un fischio. Poi mi dite cos’è questo pecorino.”
“Flavio,” lo ferma Bercalli, “lo porti il commissario in Galles con te?”
“Volentieri, vieni anche tu, il Galles è un gran bel posto. Vi ho messo anche un po’ di lardo. Mangiatelo subito che la bruschetta è calda.”
L’enoteca non è piena. Alcune persone al banco commentano con Flavio il vino, si sente persino lo schiocco dei palati, quando finalmente ne prendono un sorso, masticandolo. Coppie sedute ai tavolini, con i loro sorrisi e i loro vini. Un gruppo di quattro ragazzi, vicino alla finestra, parlano del viaggio da organizzare in agosto, Vietnam, oppure Brasile. I nomi delle città arrivano anche al loro tavolo. La musica è un jazz contemporaneo, bello. Se oggi non avesse già avuto i suoi cinque minuti di invidia quotidiana, in questo momento Colasette invidierebbe Flavio, quella sua apparente soddisfazione. Parlano tutti in quel locale, a parte lui e Bercalli, che mangiano e basta. Non in onore del galateo. Semplicemente Colasette non ha niente da dire per andare incontro al fastidio che la sua dichiarazione ha suscitato in Bercalli, e Bercalli non ha alcuna ragione per spiegare il fastidio che la dichiarazione di Colasette le ha suscitato. E allora meglio mangiare quel lardo, quel pecorino, e sorseggiare il Rosso Conero. In questo, complice il silenzio, tutti e due hanno già finito il bicchiere, che non è piccolo.
“Con chi passa la Pasqua?” chiede Colasette che ne ha abbastanza di quel silenzio.
“La mattina coi fedeli alla santa messa, si è dimenticato che ci sarà anche lei?”
“E pranza coi suoi?”
“I miei sono alle Mauritius. A Pasqua viaggiano sempre.”
“E suo fratello?”
“Alle Mauritius pure lui.”
“Che lavoro fa suo fratello?”
“Il mantenuto, se è un mestiere.”
“Lo può essere, e lei perché è entrata in polizia?”
“Ci deve essere per forza un perché?”
“Di solito è economico,” dice Colasette, “ma non mi sembra il suo caso.”
“Invece potrebbe proprio essere un motivo economico. Forse per non passare Pasqua alle Mauritius. Mi dica cosa non va con la sua fidanzata.”
“Quella ragazza non c’entra niente con me. Ma non sono capace di chiudere e neppure so se davvero lo voglio.” Dicendolo si accorge di avere chiamato Luna “quella ragazza” come se, con la ragazza che ha davanti a sé in questo momento, avesse più intimità che con lei. Luna.
“Io l’ho incrociata solo una volta la sua fidanzata, e sembrava che vivesse per lei.”
“Appunto. Luna ama perché è l’unico modo che ha per esistere. E non fa per me.”
“Ci sono altri modi di amare?”
“Spero di sì.”
“E lei come la ama una donna?”
“Preparandole la colazione la mattina,” sorride Colasette.
“Per questo ci basta il bar sotto casa. Cappuccino e brioche possono sostituire un uomo così.”
“Ma non ci si può realizzare di rimando, mi capisce? Non si può buttare sulla vita di un altro la responsabilità della propria realizzazione.”
“Proprio lei. Mi parla di realizzazione due minuti dopo avermi detto che si dimette.”
“Che c’entra? Non posso pensare che nella mia vita non ci sia niente altro da cui ricominciare. Ho bisogno di qualcosa di nuovo.”
“Cosa c’è che non le va più?”
“Tante cose. Per cominciare abbiamo finito il vino. Un altro bicchiere?”
“E la cena?”
“Intanto beviamo, al mio ultimo e al suo primo caso.”
“Mi lusinga con cene a lume di candela, e poi cerca di ubriacarmi. È questa la strategia di corteggiamento di cui parlava?”
“Stesso vino?” domanda Colasette.
“Si prenda almeno la responsabilità della scelta.”
“La sa una cosa, Bercalli, lei mi è davvero simpatica.”
“Se anche questo complimento fa parte della sua tattica di seduzione, non lo ripeta alla donna che vuole portarsi a letto.”
“Sono in affanno,” sorride Colasette, “non reggo il suo passo.”
“Lei è un tipo interessante,” dice Bercalli. “Non è il massimo della simpatia, ma di certo è interessante. E, mi faccia un favore, visto che di tempo ne abbiamo, prenda una bottiglia.”
***
Irene sale sulla macchina del fratello. “Come ti è sembrato Rino?”
“Tranquillo come sempre, è un tipo che parla poco. Tutti a fargli un casino di domande sul condominio, e lui diceva solo che non ne sapeva niente. È uno che si fa i cazzi suoi. E io, secondo me, noi stiamo facendo una cazzata.”
Non fa altri commenti e Irene non fa altre domande. Cinque minuti dopo girano in via Giolitti. La fanno tutta. La manovra nel parcheggio delle villette in costruzione. Piero guida piano anche scendendo lungo la via. Altra occhiata nel cortile. Nessuno in giro. Lasciano la macchina dietro il caseggiato dismesso, dall’altra parte della strada principale. È la ditta Fumagalli, dove lavora Piero, che ha l’appalto per i lavori di recupero. Attraversano di corsa la strada. Scavalcano l’inferriata che circonda il giardino del condominio. Di fronte a loro, oltre i roseti, oltre le piccole betulle, il condominio. Si avvicinano accovacciati, le schiene curve, le braccia a penzoloni, il collo diritto a tenere alta la testa e poter vedere. Il vento gli soffia alle spalle, vengono giù delle gocce sporadiche di una pioggia che non sa decidersi.
“Cazzo, è tutto bagnato!” dice Piero con la voce strozzata. “Lo sapevo che era una cazzata.”
“Ti ho stirato un altro paio di jeans,” bisbiglia Irene. “Dopo te li puoi cambiare. Cosa dici, saliamo da qui?” Indica l’impalcatura che sta dalla parte dei soggiorni.
“E certo,” risponde Piero, “dove se no?”
Ovvio che è lì che devono arrampicarsi e non dalla parte della strada. Ma Irene lo ha chiesto perché vuole che sia il fratello a mettersi davanti. Lui è esperto di queste impalcature. Piero, in realtà, l’unica preoccupazione che ha è che qualcuno esca sul balcone e li becchi lì, infossati contro l’impalcatura, che cazzo gli direbbero? Buonasera, stiamo cercando funghi.
“Sei pronta?” le sussurra senza aspettare risposta. Punta le mani, con un leggero slancio sale sulle prime assi. Allunga una mano a Irene ma lei rifiuta e sale da sé. Deve mostrarsi sicura. “Non fare casino e muoviti solo quando io sono arrivato dall’altra parte.” Prende un lungo respiro e a quattro zampe si sposta per quei cinque metri. Sull’altra sponda le scale a pioli usate dai muratori. Un’orchestra di mille rumori, inaspettati, mai Piero si è accorto, negli anni che ci ha passato sopra, che le tavole si piegano così tanto, che alzando il piede sbattono appena contro il sostegno di ferro, con quel rumore di tamburo metallico, toc e toc e toc. “Cazzo, fai piano!” le urla mentalmente, agitando le mani a indicarle di andare più piano. Irene è a metà. Il balcone alla sua destra, appena sopra la schiena. Sente le voci di un cartone animato. Lo riconosce, Shrek, l’ha visto anche lei. La luce le illumina le mani appoggiate su quei legni sporchi. Poi una voce al di là della tenda. “Fantama, fantama.” È Cesare, il marito della signora Morelli. Li ha sentiti. L’agitazione le fa perdere il controllo. Non bada al rumore, scatta verso il fratello.
“Fantama, fantama,” grida Cesare.
La signora Morelli sta guardando L’isola dei famosi in cucina. Lo raggiunge in soggiorno. “Cosa c’è, Cesare, il cartone ti ha spaventato?”
“Fantama, fantama,” ripete Cesare. Indica la finestra.
“Ma no che non c’è nessun fantasma. Guarda.” Lo dice e alza le tapparelle, si appoggia ai vetri. Piero ha preso per un braccio Irene, l’ha tirata giù, sono accucciati all’angolo del condominio, appena sotto il balcone.
“Fantama, fantama,” insiste Cesare.
La moglie apre la finestra, mette fuori la testa. Con tutte le cose che sono successe, be’, ha anche paura. “Cucù il fantasma non c’è più,” si affretta a dire. “Hai visto? Non c’è. Te lo dico sempre che quel cartone ti mette paura.” Chiude la finestra, abbassa di nuovo la tapparella, stavolta fino a terra. “Così se c’è un fantasma non può entrare.”
“Mi sono sputtanato del tutto i pantaloni. Ma tu sei fuori a metterti a correre? A momenti ci becca,” sibila Piero all’orecchio della sorella. Rimangono immobili ancora un po’. “Adesso fai tutto quello che faccio io. Hai capito?”
È quello che vuole, Irene, essere guidata. Il fratello si alza in piedi, riprende la salita. Lei rimane ferma, lo guarda finché il busto, le gambe, i piedi, scompaiono sulle assi del piano di sopra. Tocca a lei. Da ragazza era brava in ginnastica, la più brava delle ragazze negli esercizi sulle spalliere, più brava di tanti maschi, e arrampicarsi lì, su quelle impalcature, deve essere la stessa cosa. Si alza in piedi, sale. Il fratello la aspetta con una mano calata.
“Batti meno i piedi,” le sussurra. Lì l’altro grosso ostacolo. Devono attraversare l’impalcatura per raggiungere la scala sull’altro lato. E la luce al di là del balcone, al di là delle tende, è accesa. Non si dicono niente. Piero parte per primo. A Irene, a vederlo da dietro, sembra bravissimo, silenziosissimo, piegato che gli fa venire in mente L’ultimo dei Mohicani, con quella luce che arriva dal soggiorno e gli fa brillare il collo e i capelli rasati, lo illumina di lato che sembra quasi un supereroe in una foresta lontana, col rumore della cascata, che lì, in quel momento, è la pioggia contro la plastica, che alla fine si è decisa a cadere. Parte anche lei, ripete gli stessi movimenti, raggiunge Piero. Nessuno è uscito a guardare, stavolta. Altra arrampicata altro piano. È il piano della signora Ilde, tutto più semplice. Altro piano, finalmente l’ultimo. Devono solo girare l’angolo del palazzo, raggiungere la finestra del bagno dei Romano. Dentro quel tunnel tra il condominio e il cellofan, su all’ultimo piano, è scuro, sospeso da qualche parte che non è più la terra, ma non è neppure il cielo. Il ticchettare dell’acqua che adesso viene giù forte. La plastica fradicia gocciola anche tra le fessure dell’impalcatura, rendendo quella sospensione subacquea. E fa anche freddo.
“E adesso?” mormora Piero di fronte alla finestra del bagno.
“Adesso entriamo,” dice Irene, mettendosi una mano nella tasca del giaccone.
“E come?”
“Con questo.” Srotola un fazzoletto che avvolge un piccolo tagliavetro. “L’ho preso dai tuoi attrezzi.”
“Ma è troppo piccolo e poi se il vetro cade svegliamo anche la Madonna.”
“Ormai siamo qua, proviamoci. Facciamo con attenzione.”
“Dammi a me, va’,” dice Piero, prendendo il tagliavetro dalla mano della sorella. Lo avvicina alla finestra, fa pressione. La finestra, semplicemente, si apre.
“Hai visto? La finestra era solo accostata,” dice emozionata Irene, non controllando la voce.
“Che culo, tu ci hai proprio culo.”
Entrano. Nella penombra Irene nota l’ordine di quel bagno. In una specie di deformazione casalinga, si è fatta l’idea che gli uomini, geneticamente, non siano fatti per le pulizie. Il fratello non sa neanche far partire la lavastoviglie, figurati l’ordine e l’igiene in bagno. “Aspettami di là, per favore.”
“Cosa?” chiede Piero. “Non vorrai mica... adesso.”
“Tu vai di là, e basta,” insiste Irene. Forse è la tensione della salita, forse è il freddo, un po’ si vergogna, ma deve andare in bagno. E quel bagno è anche pulito.
“Però è meglio se non accendi la luce. Usa il telefono, ma cerca di non toccare troppe cose,” dice, mentre il fratello esce, e lei può soffiare fuori tutta la paura che gli è cresciuta dentro, e cercare di rilassarsi, e fare la pipì. Quella della finestra aperta è stata davvero una fortuna, pensa, piegata con i gomiti sulle ginocchia, la faccia tra le mani, proprio una fortuna, mentre dalla finestra, appunto, il vento le arriva sul collo, le entra nella camicia, le scende lungo la schiena. È stata brava, adesso deve guardarsi intorno. Si alza, tira l’acqua, non sente neanche più il freddo, raggiunge il fratello.
Piero se ne sta ritto in soggiorno, in una penombra ballerina e colorata, di fronte a una gigantografia scolorita, tre metri per due, dell’Inter l’anno dell’ultimo scudetto, appesa alla parete proprio dietro la televisione che senza sonoro sta trasmettendo L’isola dei famosi, Piero ne riconosce i personaggi, in quella luce sintetica di inquadrature che cambia, cambiano le ombre di quella sala con un divano, un tavolo tondo, delle sedie e un armadio.
“Ma ti sembra il caso?” chiede Irene entrando.
“L’ho trovata così. Ma tu non accendere la luce, quella del corridoio ci basta, e non si vede da fuori.”
La voce di Piero la riporta al suo presente di violatrice di case private. Una cosa del genere, se scoperta, sarebbe sufficiente a farle perdere il lavoro. E allora sì che sarebbero casini. Meglio sbrigarsi.
“Cazzo che sfigati, ci scoperebbero coi giocatori dell’Inter, e poi mai una donna, è logico.”
“C’eri già stato?” chiede Irene.
“Qui dentro? Mai, e mai ci ritornerò. I Romano, secondo me, portano sfiga. Ma cosa dobbiamo cercare?”
“Diamo un’occhiata, se c’è qualcosa di strano, non normale.”
“Perché, tutte queste minchiate interiste, ti sembrano normali?”
Escono dal soggiorno. In cucina tutto in ordine e un silenzio pieno di vento e di pioggia contro la plastica. Neppure le macchine si sentono. Potrebbero essere su una nuvola. Ma sono in quella cucina, i piatti impilati ad asciugare, tazze con decorazioni nere e azzurre con le scritte “Interisti si nasce”, “Inter nel cuore”, bottiglie di plastica per terra, di fianco ai sacchetti della spazzatura differenziata. Aprono una porta. Dentro c’è un letto coperto da cellofan, un vecchio armadio. Il resto della stanza occupato da mensole con strumenti di lavoro. Piero apre un’altra porta e questa è la stanza dei gemelli, lascia passare Irene. Due letti singoli affiancati, le testiere contro la parete, un comodino nel mezzo, una finestra, nient’altro. Si riconoscono altre figure di calciatori appese alla parete. E maglie e una sciarpa, “Fede nerazzurra”.
“Se ti sposti dalla porta entra più luce,” dice Irene. “Ma non ce l’hanno un armadio?”
Pietro entra nella camera per poter osservare meglio. “È quella porta lì, un armadio a muro.”
Irene non aveva visto la porta. “Non mi ricordavo che in questo condominio ci fossero armadi a muro.”
“Se lo saranno fatto fare.”
“Deve essere spazioso. Potresti farcene uno in casa nostra.”
Piero tamburella con le nocche sulla parete dalla parte della finestra. “Cartongesso, arriva fino a qui.”
Irene apre l’anta. “Come si vestono i Romano?” chiede al fratello.
“Ma che te ne frega? Siamo venuti per dargli consigli di moda?”
“L’armadio finisce qui,” si sorprende Irene mentre con la mano sposta le grucce da destra a sinistra. “Non hai detto che arriva alla finestra?”
Piero ripete i colpi alla parete. “Suona vuoto, non senti? Ma i Romano hanno sempre gli stessi vestiti, mica gli serviva tutto quello spazio.”
“E perché farlo, allora?”
“Saranno cazzi loro, no?” risponde, infastidito più che altro perché si sente preso in causa. Qui si parla di muratura, il suo campo, e la faccenda, adesso, lo riguarda professionalmente. “Spòstati.”
Irene si siede sul letto. Piero apre di nuovo le ante, si piazza davanti. Accende la luce del cellulare, osserva l’interno dell’armadio. Rimette in tasca il telefonino, s’infila quasi tutto dentro. Tasta al buio la parete di destra. Lo fa con metodo. Si abbassa sulle ginocchia, continua a tastare.
“Ecco, cazzo, logico, non potevano essere così fessi da sprecare tutto quello spazio.”
“Cosa c’è?”
“C’è un’anta interna, ho trovato la serratura. Logico.” Si rialza, si sfrega le mani, controlla che la sua giacca sia a posto.
“Perché non l’hai aperta?” chiede Irene.
“Non c’è la maniglia, ci vogliono le chiavi.”
“Ma noi non abbiamo le chiavi. Buttala giù.” Serafica, lo fanno tutte le sere. Entrano nelle case degli altri, buttano giù porte.
“Ma sei fuori?”
“Non sarà mica una cassaforte? Provaci almeno, spingila, siamo arrivati fin qua per cosa, sennò?”
Piero fa un passo verso la sorella. Deve mostrarsi indifferente, non cedere. Continua a controllarsi la giacca, si dà delle pacche per pulirsi. “Io non butto giù niente, sarà tipo un piccolo sgabuzzino, e adesso ce ne andiamo fuori dalle palle.” Si guarda i gomiti, ci sbatte con forza la mano e il rumore che provoca copre il cigolio che esce dall’armadio.
“Attento, Piero!” grida Irene scattando in piedi.
“E che cazzo!” scatta anche Piero, carica d’istinto il pugno mentre ancora si gira e lo scarica sul tizio che spunta tra quelle ante, dal buio, che sta per alzarsi ritto e sta per dire che cosa volete?, ma non riesce né ad alzarsi ritto né a dire che cosa volete? perché la badilata del pugno di Piero lo ricaccia dentro l’armadio, e cadendo si trascina addosso le grucce con le giacche, le camicie, e scompare, senza neanche un gemito sotto i suoi stessi vestiti.
È Piero invece che geme. “Cazzo, cazzo, cazzo,” si lamenta tenendosi con la mano sinistra la mano destra. Irene si avvicina al fratello che cammina per la stanza con la mano infilata sotto l’ascella.
“Hai colpito Romano.”
“Ma chi cazzo di Romano è?” le grida Piero.
“Rino.”
“Ma se Rino l’ho visto prima.”
“Allora è Dino.”
“Ma se Dino...” non continua il ragionamento. “Cazzo l’ho ucciso, lo sapevo, lo sapevo, che casino, che casino.”
“Ma va’, stai calmo,” cerca di tranquillizzarlo Irene sperando che Rino o Dino, chiunque sia dei due, accenni un movimento. “Mica si può uccidere con un pugno, no? Ma ti sei fatto male?”
“Bene non mi fa. Non si è ancora mosso?” Cerca di controllare la voce, vuole darsi un contegno, ma la mano gli fa male.
“Ci si fa male anche a darli i pugni?” chiede Irene, per poter dire qualcosa.
“Ma che cazzo di domande, guarda se è vivo!”
Romano non è morto, ma tra la paura e quel pugno se ne sta in un mondo tutto suo, coperto di vestiti, e non ha gran voglia di riprendersi.
“Ehi, Romano, ci sei? Tutto a posto?” bisbiglia Irene come se lo stesse svegliando la mattina per andare a lavorare. Da dentro l’armadio non arriva nessuna risposta, ma il muoversi delle grucce lascia intendere che si sta riprendendo.
“Aiutiamolo ad alzarsi, è meglio se si stende sul letto,” dice Irene.
Si abbassano insieme, lei e il fratello, aspettando che Romano gli si faccia vicino. E abbassandosi dentro il grosso armadio Irene non resiste alla curiosità, spinge lo sguardo dentro. C’è una torcia accesa, che riflette sulle strette pareti bianche. Un cuscino. E uno zainetto. E lei è lì per quello, allarga un poco la chiusura. E dentro non ci sono cose da mangiare. Non ci sono libri da leggere. Non ci sono vestiti di ricambio. Cose che Irene si aspettava. Ma pezzi da dieci, da venti, da cinquanta, a pacchetti, tenuti insieme ciascuno con un elastico. No, non l’aveva pensato Irene. Quello zainetto è pieno di soldi.
***
L’auto di Rodighiero e Garofalo è già parcheggiata, come erano d’accordo, lungo la strada principale. Bercalli parcheggia dietro di loro.
“Dottore, non so lei, ma io sono mezza ubriaca.”
“Usi l’altra metà di sé,” dice Colasette.
“Sono rossa in faccia?”
“Vuole far colpo sui Romano?”
“Non voglio che Rodighiero e Garofalo pensino che io sia ubriaca.”
Colasette si volta, la osserva da vicino. Gli occhi sono arrossati, più piccoli del solito. E i capelli appena bagnati dalla pioggia. Qualche ciuffo attaccato al volto, stanco, però bello. Nella stanchezza più bello. “Non si preoccupi. A parte le orecchie, il resto è del suo colore naturale.”
Garofalo e Rodighiero sono scesi dall’auto. Bercalli e Colasette gli vanno incontro.
“Tutto bene dai Torti?”
“Il padre è uscito per andare a lavorare,” dice Rodighiero. “Si è avvicinato a noi. Giusto per farci capire che sapeva della nostra presenza. Nient’altro.”
“E qui?” chiede Colasette alzando la mano in direzione del condominio.
“Come prima,” risponde Garofalo. “Dino Romano non è partito per Sharm el-Sheikh. Probabilmente non è andato da nessuna parte ed è rimasto in zona.”
“Altri aggiornamenti?”
Sui Romano no. A proposito di Tore, i due calabresi che lo cercavano sono andati anche al bar della Rotonda. Stessa dinamica: si sono presentati come amici di Tore, hanno chiesto di lui, bevuto una birra. Nessuno li conosceva. Per l’infortunio alla mano sinistra, Tore è stato curato al pronto soccorso la notte tra lunedì e martedì, verso le due. Ha dichiarato di essersi fatto male per un piccolo incidente. Aveva la mano appoggiata all’auto, un amico ha chiuso la portiera e le due dita ci sono rimaste dentro. Il dottore ha confermato che si tratta di un trauma, fratture composte.
“Bene. Allora, qui, ci muoviamo così,” dice Colasette. “Io e Bercalli saliamo per primi in casa. Lei Garofalo controlla il condominio dalla parte dell’ingresso. Lei Rodighiero il lato sulla strada e del giardino. In caso qualcuno se la svignasse sulle impalcature.”
“Con quel cellofan rischiamo di non vedere,” dice Rodighiero. “È meglio salirci direttamente fino al piano.”
“Troppo alto, non mi va di correre rischi. Provi dal giardino.”
“E raccolgo anche un mazzo di fiori, in caso un Romano mi venga incontro.”
“Un pensiero gentile è sempre apprezzato.”
“In caso di fuga che facciamo?” chiede Garofalo per riportare il discorso sull’appostamento.
“Dubito che qualcuno tenti la fuga. Attendete una decina di minuti, poi raggiungeteci sopra.”
Al primo pianerottolo, da una porta socchiusa ne esce la testa della signora Morelli. “Ho sentito il portone,” si scusa subito.
“Spero non abbiamo svegliato suo marito,” dice Bercalli.
“Si figuri se dorme stasera, è in salotto a guardare il dvd di Scik... Scek...”
“Shrek?”
“Ecco, quello, è il suo cartone animato preferito. È molto agitato, con le cose che sono successe.”
“È per questo che siamo qui, volevamo accertarci che fosse tutto a posto.”
“C’è stato tutto il giorno un viavai, anche le televisioni e i giornali. Suonano, vogliono fare domande, anche per questo Cesare è agitato. Pensi che una ventina di minuti fa si è messo a gridare che c’era un fantasma.”
“In casa?”
“Fuori, sul balcone. Ho dovuto dare un’occhiata per farlo stare tranquillo.”
“E ha visto qualcosa di strano?”
“No, si figuri, solo le impalcature e il cellofan. Speriamo che finiscano presto i lavori, sembra di vivere in gabbia.”
“Be’, scusi se l’abbiamo disturbata.”
“Nessun disturbo, se siete voi, buonanotte.”
Salgono le scale in silenzio. Bercalli davanti, Colasette dietro, un po’ affaticati, non molto da dirsi, non molto da pianificare. Una coppia rodata e un po’ avvinazzata. Passano il piano della signora Cantarella. È col figlio, in salotto, aspettano il tg breve delle dieci e mezzo col videoregistratore pronto in caso apparisse ancora la madre. Il piano con le tre porte sigillate e finalmente sono davanti alla porta dei Romano.
Dentro, sono tutti e tre in camera. Romano sdraiato sul letto, uno strofinaccio da cucina bagnato tenuto sul naso. Piero si tiene ancora la mano destra sotto l’ascella del braccio sinistro. Irene col cellulare in una mano e il biglietto da visita di Colasette nell’altra, è al quarto numero digitato, quando suona il campanello.
“Cazzo,” s’impanica Piero, “scendiamo dalle impalcature.”
“Dove vai?” lo richiama Irene.
“Allora mandiamo lui a rispondere,” e indica Romano.
“Tu stai qui con lui,” ordina Irene con una sicurezza ostentata che stupisce anche se stessa. Esce dalla stanza. Passa il corridoio, telefonino ancora in mano, appoggia l’occhio allo spioncino. L’unica cosa da fare è aprire. Sblocca la serratura, abbassa la maniglia, tira a sé la porta.
“Buonasera, la stavo chiamando,” dice. Mostra il biglietto da visita e si imbarazza all’istante.
Colasette indietreggia un poco, una specie di reazione involontaria alla sorpresa di trovarsi davanti Irene. Sposta gli occhi dalla faccia di lei al biglietto da visita che Irene ancora tiene sollevato.
“Le ho fatto risparmiare una telefonata,” dice infine, togliendosi il cappello, “e cosa avrebbe voluto dirmi?”
“Adesso che è qui faccio prima a mostrarglielo,” si toglie dall’impiccio Irene. Si volta in fretta, cammina verso la stanza.
“Chi è dei due?” chiede Colasette.
“Forse Dino,” risponde Piero, con la voce più normale che può. Toglie la mano da sotto l’ascella.
“Ci può dire il suo nome?” chiede Colasette al diretto interessato. Ma Romano si passa lo straccio umido sul naso, guarda il sangue, non si cura di rispondere.
“E voi due invece...” Sta per dire “una bella arrampicata notturna” in modo che siano loro a confermare il suo sospetto di come ci sono entrati. Ma è lì per Romano e, di fronte a lui, ha tutti i vantaggi a fingere di non sapere. I due possono benissimo essere stati invitati in quell’appartamento dal proprietario.
“Me l’ha detto lei che era mio diritto...” dice Irene, ma non ha il tempo di finire la frase.
“E ha qualcosa da dirmi?” la interrompe Colasette.
“Dino, era lì dentro,” dice e indica l’armadio aperto.
Bercalli si muove subito. Si affaccia all’interno dell’armadio spingendosi fino al ripostiglio dietro il falso muro. Ne esce con lo zainetto in mano. “È pieno di soldi,” dice, rimettendosi diritta. “Sembrano tanti.”
“Bene,” dice Colasette rivolgendosi a Romano, “adesso noi ci sediamo intorno a lei e lei ci racconta una bella storia. Ma prima di tutto lei è Dino, giusto?”
“Sì.”
“Le serve un dottore?”
“No.”
“E a lei?” chiede a Piero.
“A me? No, e perché?” L’espressione è davvero da monello colto in flagrante. E mentre lo dice gli squilla il cellulare.
“Caz... non l’avevo spento. Posso?” È uno dei suoi amici al bar della Rotonda. Piero esce in corridoio. Un attimo. Torna dentro la stanza. “Scusi,” dice al commissario, “dobbiamo partire stasera e non mi hanno ancora visto.”
Colasette gli si avvicina. Lo prende per il gomito, da vecchio amico, con una leggera spinta per accompagnarlo. Camminano fino alla cucina. “Dove va di bello?”
“Al Collio, con gli amici. Stasera in disco, al mare, e domani un giro di cantine.”
“Beva un bicchiere alla mia salute. Però, per il momento, entri qui,” dice indicando la cucina. “E se telefona agli amici, è meglio che di questa visita notturna non ne parli. E sa perché?”
“Perché non è casa nostra e ho dato un pugno al proprietario.”
“Esatto, adesso chiuda la porta e non si muova finché non la chiamo io.”
Colasette rientra nella stanza con due sedie. Le appoggia davanti al letto di Romano. Irene si siede. Bercalli rimane in piedi, le mani appoggiate alla spalliera. Colasette di fianco al letto. “Siamo il suo pubblico, ci dica cos’è tutta questa sceneggiata della partenza.”
Romano guarda il suo sangue sullo strofinaccio bagnato. Nessun interesse a cominciare.
“Visto che non ha voglia di parlare, comincio io. Salvatore Cantoni, detto Tore, è un po’ a corto di soldi. Chiede prestiti a tutti. Li chiede anche a voi. Cinquecento euro.”
Romano non muove neppure la testa.
“Al momento di restituirveli, Tore si offre di giocare a carte il proprio debito. E vincete voi. La cifra raddoppia. Tore adesso vi deve mille euro. E i debiti di gioco sono sacri. Lui non accenna a ridarveli e a questo giro vi incazzate.”
Stavolta Romano sposta la testa per guardare Colasette.
“Suo fratello si inventa un viaggio ma resta in zona e, nello stesso tempo, qui succede quel che sappiamo. Avrà qualcosa da dirci, no?”
“Di cosa sta parlando?”
“Parlo di quello che è successo in questo condominio.”
Romano si morde le labbra. Sembra che stia cercando le parole per cominciare ma non riesce a trovarle.
“Due persone muoiono, un’altra c’è molto vicina. Con questa persona, guarda caso, i rapporti tra voi erano piuttosto tesi. Noi non crediamo alle coincidenze. Quello che invece pensiamo è che lei e suo fratello volevate riprendere i soldi. Ma le cose non sono andate come avevate pensato e spaccate la testa a Tore.”
“Noi non abbiamo fatto niente.”
“A cosa si riferisce?”
“Non abbiamo fatto niente a Tore, non sappiamo chi è quel ragazzo sulle scale, non c’entriamo niente volevamo solo i nostri soldi, per questo abbiamo inventato la vacanza.”
“E voi per vacanza intendete aggredire la gente?”
“No, ma abbiamo chiesto aiuto.”
Colasette si rivolge a Irene e a Bercalli. “Voi avete capito?”
Non rispondono, non hanno capito neppure loro.
“Può essere più chiaro? Come vede non riusciamo a seguirla.”
“Non erano mica mille, eravamo arrivati a cinquemila.”
Colasette aspetta un seguito. Lo aspetta anche Bercalli. Lo aspetta Irene.
Colasette si ripete il concetto a mente poi lo ripete ad alta voce. “Lei vuole che tutti credano che parte in vacanza, poi se ne resta qui, nascosto in quel buco.”
“Nell’armadio solo stasera, quando ho sentito che stava entrando qualcuno e non volevo essere visto.”
“E i soldi nello zaino? Costano care le vacanze negli armadi.”
Romano non dice niente, stavolta, e neppure si muove.
“Facciamo un riepilogo,” interviene Bercalli, voce rilassata e gentile. “A quanto pare voi avete prestato soldi a molti in paese. Anche a Tore, che però non salda. Glieli chiedete, discutete, e in condominio vi hanno anche visti litigare. Ma niente. Così decidete di farvi aiutare da qualcuno più esperto di voi nel recupero crediti.”
“È quello che vi ho appena detto.”
“No, Rino o Dino o chi cazzo tu sia, non ce l’hai proprio detto così,” dice Colasette. “È la mia collega che ha capito. In questura dovrete dirci anche come li avete trovati questi due calabresi. Sono loro che hanno spaccato le dita di Tore. Un bel colpo dentro la portiera della macchina. Giusto?”
“No, loro hanno usato le pinze.”
“Le pinze? Gli hanno spaccato le dita con le pinze?”
“È Tore che ce l’ha detto, noi non sapevamo che...”
“Che...?”
“Che... la violenza.”
“A no? Non lo sapevate? E come pensavate che li riprendevano i soldi, con l’ipnosi, col solletico ai piedi?”
“Sta cercando di dirci,” si intromette calma Bercalli, “che quei due poi hanno ucciso Tore.”
“No, non hanno ucciso Tore, gli hanno dato due settimane per trovare i soldi e poi sarebbero tornati.”
“D’accordo, questa è un’informazione importante,” continua Bercalli. “Adesso può cercare di spiegarci meglio perché questa messa in scena della vacanza?”
Romano continua a non muoversi. Ma nessuno si muove, in questo momento. Aspettano una spiegazione che non riescono a darsi da soli.
“Ce l’hanno detto loro, hanno detto che intervenivano questa settimana e noi era meglio se ce ne andavamo. Così abbiamo chiesto le vacanze al Motta ma lui ha detto che tutte e due insieme a Pasqua non se ne parlava. Dovevamo chiederle prima.”
“Quindi ha concesso le vacanze a uno solo,” dice Bercalli perché Dino Romano continui.
“Sì, ma noi non siamo mai partiti da soli,” dice Dino, come ultima spiegazione.
“Ma lei ci sta prendendo tutti per imbecilli?” dice Colasette. “Ve lo dico io come sono andate le cose. Voi lo sapevate da subito che questi avrebbero usato violenza. Tore non è l’unico che vi doveva dei soldi ma sarebbe servito da esempio per tutti. Questa cosa della vacanza è una stronzata, ma sa cosa le dico? Che non me ne frega un cazzo di capirla. È lei che deve capire che siete voi, lei e suo fratello, a essere nei casini. Ha capito? Qui ci sono di mezzo dei morti.”
“Senta,” è il turno ancora di Bercalli, “se non le è chiaro, lei e suo fratello siete i primi sospettati in questa faccenda. Davvero non ha niente da dirci?”
“A cosa si riferisce?”
“A Salvatore Cantoni, alle sue dita rotte, proprio pochi giorni prima di essere ritrovato in coma, con la testa rotta, a qualche metro dalla vostra porta. A questo ci riferiamo.”
“I soldi ce li chiedono e noi glieli diamo, non c’è niente di male.”
“Il doppio fondo nell’armadio a questo vi serviva, a tenere nascosti i soldi, è così?”
“Uno i suoi soldi li può tenere dove vuole.”
“Non glielo sto contestando,” continua pacata Bercalli. “Ma se i soldi non ve li restituiscono, allora qualcosa di male può succedere.”
“Noi volevano solo riprendere i nostri soldi.”
“La storia che ci ha raccontato della finta vacanza deve ammettere è piuttosto strana.”
Romano torna a guardare diritto di fronte a sé. L’energia sembra svanita. Non dice niente. Quella è la verità che lui aveva da rivelare.
Colasette ha bisogno di prendere tempo. Si volta a guardare Irene.
“Lei cosa ci faceva qui?”
“Volevo accertarmi che i due Romano fossero...”
“Fossero cosa?”
“Come cosa?”
“Mi sembra che ci si incontri piuttosto di frequente, non trova?”
“La stavo per chiamare, gliel’ho detto.”
“E ha scoperto altro?”
“Sì,” dice Irene, ma il tono di Colasette non le piace, “ho scoperto che ci si può fare male a dare un pugno, non solo a riceverlo.”
“E quindi?”
“Niente.” In realtà una nuova associazione di pensieri le è venuta. Ma è ancora troppo immediata per parlarne.
“Signora,” dice Colasette, notando l’espressione distante di Irene, “è vero, le ho detto che lei ha diritto alle...” Si ferma, ancora, non è il caso di parlare davanti a Romano. Quello che stava per dire è che, sì, gliel’ha detto che aveva diritto alle sue indagini ma stasera è andata oltre le sue competenze, ha violato la proprietà altrui e, se Romano la denuncia, rischia casini grossi.
È la porta dell’appartamento che rompe il silenzio. Rodighiero e Garofalo attraversano il corridoio. Si affacciano in camera. Non sono da soli. Con loro c’è l’altro Romano. Stava tornando dal bar. Non si mostra sorpreso della situazione, come se sapesse che il loro segreto non era destinato a durare.
“Ti hanno fatto male?” chiede soltanto, adesso che si accorge che il fratello sanguina.
L’altro muove un poco la testa, per dire di no. Rimangono a guardarsi in una comunicazione che non prevede altre parole.
“Ma che bella abbronzatura!” dice Colasette. “Si deve essere proprio divertito. Ci avete messo anche le palme in quel buco? E la lampada solare? E la sabbia? E il secchiello e le palette?” Non si capisce neppure lui. È incazzato sul serio, altro che ruolo del cattivo. Deve trattenersi, controllarsi. Si rivolge a Bercalli.
“Vada con i suoi colleghi in soggiorno. Portatevi anche quest’altro giramondo e sentite la sua versione dei fatti. Vediamo se ha la stessa storia da raccontarci o ne ha una ancora più bella.”
Bercalli si stacca dalla sedia. Si rende conto che Rodighiero vuole fare domande e gli fa un cenno con la testa, gli spiegherà lei.
Il Romano appena arrivato non chiede nulla. Non fa nessuna opposizione. Segue i tre agenti in soggiorno.
Colasette guarda la finestra chiusa. Guarda il muro, quegli uomini in pantaloncini corti, la scritta “Fede Interista”. Una coreografia assurda. Un mondo a parte. Una stanchezza estenuante, quasi come la pioggia che si sente da fuori, quasi come il vento, quasi come...
“Chi vincerà il campionato?” chiede, adesso calmo.
“Non me ne frega niente,” risponde Romano. Sta piangendo, senza fare rumore.
“È suo fratello che ha messo tutti questi poster?”
“Anche a mio fratello non gliene frega niente.”
Colasette guarda le lacrime scivolargli sulla faccia bianca, sporcarsi di sangue, cadergli sul pigiama nerazzurro.
“E perché allora?”
Nessuna risposta.
“Mi aiuti lei,” dice Colasette, rivolgendosi a Irene. È sincero. “Non so come continuare. Devono provare che non c’entrano coi fatti dell’altra notte. Non sto parlando dello strozzinaggio e neppure del fatto che hanno pagato qualcuno per minacciare i debitori. Sto parlando di Tore con la testa rotta, del ragazzo morto sulle scale. Non sono in una posizione semplice. Rischiano grosso.”
Irene si avvicina al letto. Vuole vedere meglio Romano e si rende conto solo adesso che lo guarda dopo anni, tantissimi anni. È una persona, anche lui. Una persona.
“Ti fa male?”
“Il sangue si è fermato.”
“Hai del ghiaccio in frigo?”
“Va bene così.”
“Scusa di tutte le cose che vi abbiamo fatto,” gli dice Irene. Si riferisce agli anni passati, alla loro infanzia, l’unico tempo che hanno condiviso e che rimane.
Romano, invece, pensa al pugno di Piero e non dice niente.
“Non lo so,” dice Irene. Si sta rivolgendo a Colasette, alle sue spalle. Non lo sa perché sia così coinvolta. Il suo sguardo rivolto al poster dell’Inter. “Io sono cresciuta in questo condominio, eravamo tantissimi bambini e c’erano anche i gemelli Romano e li abbiamo sempre trattati male, anche picchiati. Una volta li abbiamo abbandonati nel bosco. Era il periodo in cui si parlava sempre di marziani e con i bambini più grandi siamo partiti per il bosco. A quel tempo, dopo il condominio, cinque minuti a piedi, si scendeva nel bosco. Tutti avevamo paura e quando siamo arrivati a un prato in mezzo al bosco con un capanno di cacciatori al centro ci siamo fermati e i grandi hanno detto che dentro c’erano i marziani morti, qualcuno doveva entrare. Se i Romano entravano diventavano amici. C’eravamo tutti, anche mio fratello, anche Tore. E i Romano si sono presi per mano, hanno attraversato il prato, sono entrati e i grandi hanno cominciato a gridare e a scappare. Gridavamo tutti. Anch’io. Non capivo cosa fosse successo ma avevo una paura che non ho mai più provato e gridavo e correvo per stare dietro agli altri e abbiamo lasciato i Romano da soli, nel bosco, e già stava facendo buio. E poi c’era Tore, e Tore era il mio fidanzatino, ci eravamo promessi che da grandi ci saremmo sposati. E adesso, in questi giorni, Tore sta morendo, e i due Romano... anch’io come voi ho pensato... e per forza che io ci sono in mezzo, è come se si trattasse della mia vita. Si tratta della mia vita. Le è chiaro adesso, commissario?”
Colasette non risponde. Non è sicuro di avere capito.
“Irene, io e mio fratello giovedì notte eravamo a casa e abbiamo sentito rumore sulle scale, sono stato io a guardare. Ho messo la testa fuori e ho visto la grossa croce contro la parete. Sono uscito un poco e c’era la signora Ilde che faceva fatica a camminare ha messo le mani al muro per riuscire a rientrare in casa poi è entrata ha chiuso la porta e non c’era più luce.”
“Avreste dovuto chiamare la polizia,” dice Irene.
“Io volevo vedere ma ho sentito la porta di Tore che si apriva e ho pensato che se c’erano problemi poteva chiamare lui la polizia e invece...” si ferma un momento per dare ordine al racconto. “Ha acceso la luce e allora ho visto il corpo nudo. Tore si è avvicinato. Io ho fatto piano e sono tornato indietro.”
“Il giovane nudo era ancora vivo?” La domanda stavolta l’ha fatta Colasette.
“Era sdraiato per terra non si muoveva.”
“E poi cos’è successo?”
“Tore è andato vicino al corpo, però io non volevo farmi vedere sono tornato indietro e subito si è sentito un casino.”
“Cosa vuole dire un casino?”
“È caduta la croce però c’era anche il temporale che faceva un gran casino e io sono rientrato.”
“A che ora è successo?” chiede Colasette.
“L’una e mezza.”
“E lei e suo fratello cosa stavate facendo quando avete sentito i rumori?”
“Abbiamo visto la tv e stavamo andando a dormire.”
“Quindi sul pianerottolo non c’era nessun altro, me lo può confermare.”
“Io non ho visto nessuno.”
Colasette non può chiedergli altro. Si prende il labbro inferiore tra le dita. Ha bisogno di pensare. Quest’uomo, Dino Romano, con il suo modo di parlare senza tono, sta dicendo la verità. Sta parlando di se stesso e del fratello, hanno visto quelle scene di morte in piena notte e non hanno detto niente per timore di essere coinvolti, dato che proprio in quei giorni c’è gente pagata da loro che sta riscuotendo crediti e uno di loro non doveva neppure essere in paese. Colasette tiene gli occhi fissi su Dino Romano che invece non guarda niente. Una piccola striscia di sangue gli si sta seccando sotto una narice. Continua a guardarlo e si sta convincendo di potergli credere.
***
Rodighiero e Garofalo sono rimasti a dirigere l’operazione di arresto dei gemelli. C’è ancora da capire chi sono gli esattori della malavita che hanno ingaggiato. Deve essere chiarita la loro estraneità riguardo alle morti in condominio, il mancato soccorso e il fatto che non abbiano chiamato la polizia. C’è da mettere a verbale la loro testimonianza sui fatti della notte.
Bercalli ha accompagnato Irene a casa ed è tornata a prendere Colasette. Sono in auto, adesso, alla fine della via. Svoltano sulla strada principale.
“Si aspettava quello che abbiamo trovato?” chiede Bercalli.
“La storia dei Romano? Io no. E lei?”
“Non mi aspettavo di trovare il lavoro già fatto,” dice Bercalli, gli occhi sullo specchietto retrovisore alla sua sinistra.
“Cosa pensa di Irene?” domanda Colasette.
“È un bel tipo. Sembra che tutto quello che sta facendo lo faccia perché deve, ma non ne sa il motivo.”
“Ci si ritrova?”
“Senta, io so perfettamente perché sto facendo quello che sto facendo, e ne ho le scatole piene di filosofia ed esistenzialismo, per stasera. Sono stanca. Sto guidando in uno stato alterato dall’alcol che se facessimo davvero il nostro dovere, io e lei, mi dovrei ritirare da sola la patente. Non capisco se abbiamo risolto un caso o abbiamo avuto un’allucinazione etilica. E adesso ho anche fame.”
“Lo conosce Ci pensa Gavino?” le chiede Colasette.
“È un filosofo locale?”
“Mantengo la promessa della cena, andiamo da Gavino, se non ha troppe esigenze.”
Ci pensa Gavino è un piccolo ristorante pizzeria. Direttamente nell’atrio c’è un frigo espositore con antipasti e frutta e dolci. Sopra il banco, sulla destra, una tettoia con tegole rosse e un comignolo, messa lì a dare un’aria rustica al locale.
“Professore,” dice Gavino andando incontro al commissario, “se è venuto ad arrestarmi mi fa un favore. Un po’ di riposo mantenuto dallo Stato me lo merito.” L’accento sardo gli è rimasto nonostante i decenni di vita al Nord.
“Siamo in tempo a quest’ora per un piatto di pasta?” chiede Colasette stringendogli la mano.
“Eccome. C’è più tempo che vita. Me lo diceva sempre mia nonna.”
“Bello, che significa?”
“Mai capito. Ma citare i vecchi fa intelligente, no? Pennette alla corsa, le vanno bene?”
“Benissimo per me,” risponde Colasette.
“Un antipastino freddo?”
“Aspetto la pasta, grazie.”
“E lei signora?”
“Aspetto anch’io la pasta, e dell’acqua naturale, per favore.”
Gavino indica loro di accomodarsi nella saletta piccola. Un finto rampicante alla parete. Una finta finestra con gerani di plastica. Rappresenta un piccolo porto di mare. Tutto è vecchio. Su una parete una rete da pesca, qualche pesce di plastica intrappolato. Le candele spente.
“C’è anche il mare finto, fuori?” chiede Bercalli.
“E i gabbiani a pile. Dove vuole sedersi?”
“Sotto la finestra, al profumo dei gerani.”
Non c’è nessun altro. Nella sala accanto un gruppo di persone a una lunga tavolata. Le risate e le grida arrivano fino a loro. Gavino li raggiunge al tavolo. Apparecchia. Versa l’acqua nei bicchieri. Accende la candela.
“Come sono le pennette alla corsa?” chiede Bercalli a Colasette quando Gavino si allontana.
“Non lo so.”
Non lo sa neppure Gamal, il cuoco egiziano, quando Gavino entra in cucina dicendogli di preparare due penne alla corsa.
“E come cazzo sono?” chiede Gamal, che ha appena lavato i fornelli.
“Tu hai bisogno di un po’ di geografia, Gamal. Dov’è la Corsica? In mezzo al mare. Però ci sono tante montagne. Allora prendi un po’ di questi funghi, mettici quei gamberi, un po’ di panna e un po’ di pomodoro, e li hai fatti. La geografia, a te manca la geografia e la fantasia.”
I funghi sono un misto di champignon e porcini secchi. Li hanno fatti bollire in poca acqua. Una volta evaporata li hanno coperti d’olio, aglio e prezzemolo. I gamberi sono da finire, già scongelati ma ancora crudi.
“E lei, invece,” comincia Bercalli come a riprendere un discorso lasciato in sospeso, “perché uno come lei è entrato nella polizia?”
“Uno come lei,” ripete Colasette. Se mai scrivesse un’autobiografia l’intitolerebbe così, Uno come lei. Quante volte le persone si sono rivolte a lui in quel modo. Uno come lei dovrebbe... non dovrebbe... è sprecato... merita di più... uno come lei. “Le interessa davvero?” si limita a chiedere.
“Lei è un uomo e io una donna, quindi dalla mia ho la fortuna di essere geneticamente più predisposta all’intelligenza. Questo a parte, in lei vedo molte cose simili a me.”
“Con una quindicina di anni di meno.”
“Una ventina,” puntualizza Bercalli. “Ma ha così paura dell’età?”
“Preferirei avere la sua. Colpa di una poesia. Da ragazzo ho letto una poesia di Pasolini. Leggere Pasolini in seminario. Curioso, no? Una faccenda di studenti e poliziotti, borghesi e proletari. E mi è entrato in testa che dovevo diventare poliziotto.”
“Lei in abito da prete. Sexy,” dice Bercalli. “Leggerò anch’io questa poesia. Me la faccia avere.”
“Guardi i film, di Pasolini, piuttosto. La poesia, anche se stracitata, era pure brutta.”
“Intanto ha avuto la forza di ispirarla.”
“Ho accettato di essere parte di qualcosa che troppe volte, mi faceva schifo. Schifo le persone, schifo le circostanze. Ma più passa il tempo più le alternative diminuiscono.”
Gavino si avvicina al tavolo con due piatti in una mano e una bottiglia di vino nell’altra. “Mia nonna diceva anche che bere acqua mangiando fa ruggine allo stomaco. E questa cosa invece l’ho capita subito.” Versa nei bicchieri. “Questo lo offre la casa.” Appoggia i piatti e se ne torna all’entrata. Il commissario smette di parlare. Cominciano a mangiare. In silenzio. Per qualche minuto. Bercalli non finisce il suo piatto. “La panna mi va tutta sul sedere.” Il suo modo per non dire chiaramente che la pasta non le sembra il massimo. “Ci viene spesso qui?” chiede.
“Gavino mi è simpatico,” dice Colasette, forchetta davanti alla bocca. “Non mi avvelena e tratta bene il personale.”
Bercalli lavora con le dita la cera della grossa candela, mentre Colasette mangia. Ne prende piccoli pezzi, li attacca vicino allo stoppino, li osserva sciogliersi alla fiammella. Il gruppo nell’altra sala si alza, in un fragore di sedie, saluti e ringraziamenti. Colasette finisce il piatto. Bercalli si libera della cera che le è rimasta sulle dita. Si strofina le mani nel tovagliolo. Si avvicina il vino alle labbra. Porta gli occhi su Colasette. “Sa, Colasette,” dice, consapevole di non rivolgersi con il solito “dottore”. Sorseggia, appoggia il bicchiere, tira un lungo respiro. “Se non la conoscessi, se qualcuno me la descrivesse, non la sopporterei. Non ha mai creduto alla sua professione e, non contento, è diventato pure istruttore.”
“Pensa che non sia stato un buon istruttore?” Lo chiede senza vergogna di mostrarsi vulnerabile.
Lo abbraccerebbe, sopraffatta da una tenerezza che non si spiega. “Tutt’altro, lei è bravissimo. E io le sono molto grata.”
“Grazie. Non è che ha una sigaretta?”
“Fuma?”
“Non più, ma sto cercando di ricominciare.”
“Mi dispiace, non posso aiutarla a riprendere il vizio. Poi sono anni che è vietato nei luoghi pubblici, se l’è scordato?”
“Gavino ce lo concederebbe. Lei, Bercalli, è una persona intelligente.”
“Non deve contraccambiare il mio complimento.”
“Lo credo veramente.”
“Lei non è capace di credere veramente a niente, e lo sa.”
“E lei a cosa crede?”
“Io? Credo che sia il caso di pagare e di andarcene a dormire.”
“Giusto,” dice Colasette.
“Però un’ultima cosa,” dice Bercalli. “Oggi lei mi ha chiesto se avevo notato la reazione di Davide alla notizia che non c’era niente che faceva pensare che Gabriele abitasse con lui. Davide poteva reagire in mille modi ma intanto essere stupito. Invece si è preso il tempo per riflettere prima di rispondere e ha risposto come se lei lo avesse attaccato. Era questo che intendeva?”
“Era questo, sì, ha preso il tempo per riflettere,” ripete Colasette e si alza. Cerca il portafogli nella tasca della giacca. “E poi questa cosa di Gabriele che muore proprio quando Davide ha deciso che sarebbero partiti, più ci penso meno mi convince. Non so perché, ma non riesco ad accettarla come pura coincidenza.”
***
Si è tolta i vestiti umidi, si è messa il pigiama, si è seduta in soggiorno per vedere la fine dell’Isola dei famosi e si è addormentata. La sveglia la pubblicità. Si alza dal divano, entra nella stanza della madre. Gli occhi sono chiusi. Il mascara tutto sbavato, come se avesse pianto. Anche le gote sono rigate. Ha la testa piegata a sinistra, il respiro ruvido esce diretto dalla gola. Il bianco della saliva secca risalta agli angoli delle labbra dove il rossetto si è spaccato come in piccolissime zolle di terra arida. Spegne la tv. Imbeve un grosso batuffolo di cotone nello struccante, lo passa sulla faccia della madre. Le rughe si sono accentuate molto, in quei due anni di infermità. La madre apre gli occhi. Irene si concentra sulla fronte, sulle rughe delle tempie. Con una mano le abbassa ciocche di capelli. Sono corti, quasi a spazzola. I capelli lunghi le solleticherebbero il collo, le spalle. E poi ci vorrebbe troppo tempo per lavarli e asciugarli. Sembri una veterana di guerra in pensione, le ha detto Irene, quando le ha tagliato i capelli. Finisce di pulirle il viso. Passa il liquido rinfrescante nella bocca, la crema sulle labbra. Una crema anche per il viso. Le toglie il cappotto. Poi chiude la tapparella. Le cambia il cuscino. La copre con la coperta. Spegne la luce.
I suoi pensieri, adesso, sono solo al sindaco Crovetti, a quella nuova idea che le è venuta in casa dei Romano. Si rimette davanti alla tv. C’è un programma in cui alcune star della televisione commentano quello che è successo sull’isola e fanno paragoni con una serie precedente dove i protagonisti erano loro. Ma non riesce a stare sveglia. Prende il telefono, chiama il fratello.
Piero è al bar dell’autogrill prima di Verona. Una delle tappe di avvicinamento a Iesolo. Butta giù il caffè. Butta giù il Montenegro, esce nel parcheggio.
“Tutto a posto?” risponde.
“Tutto a posto,” dice Irene. “E la tua mano?”
“Mica ero pronto a picchiare, ma mi stava saltando addosso.”
A Irene non è parso che Romano avesse intenzione di aggredire il fratello. Ma non è il momento di sottigliezze. Decide di prenderlo di sorpresa. “Il sindaco andava dalla stessa puttana... la fidanzata di Tore?” Si è messa d’impegno per usare il termine puttana, ma lo scopo è di non essere fraintesa, e andare diretta al punto.
Piero si guarda intorno, come se altri potessero sentire. “Irene, che cazzo dici, mezzo paese va a puttane, che te ne frega?”
“E Crovetti andava proprio da Lory.”
“Ma chi te l’ha detto?”
“L’ho scoperto,” azzarda.
Piero si sente troppo vicino alla porta dell’autogrill. Troppo vicino ai suoi amici. Scende qualche gradino. “Irene, senti, il sindaco è ancora giovane, la moglie è sempre in chiesa, e quindi è normale se ha voglia di scopare. Però che andava dalla stessa di Tore io non te l’ho detto. Io a puttane non mi serve di andare, ma non rompo a chi ci va. E anche tu devi farti i cavoli tuoi. Basta metterti nei casini. Oggi per colpa tua anche io ho rischiato. Guarda che l’ho capito che la polizia non lo sapeva che noi...” Non finisce la frase. Una pacca sulla spalla lo avvisa che stanno tornando alle macchine. Prossima tappa, autogrill di Mestre, poi Iesolo.
“Piero, tu ti ricordi di quel pomeriggio nel bosco?” cambia discorso Irene. Ha avuto una conferma. Crovetti va con le donne di strada. “I marziani nel capanno.”
“Ma che cazzo stai dicendo?”
“Quando siamo scappati e abbiamo abbandonato i Romano, da soli. Era già sera.”
“Tu sei fuori, Irene. Ti fai troppi film da sola, nel tuo cervello. E meno male che non bevi.”
“Non è vero, stasera con Rosalba ho bevuto un cocktail. Be’, divertiti. E grazie.”
“Di che cosa?”
“Che mi hai accompagnato sulle impalcature.”
“Ho dovuto cambiarmi i pantaloni.”
“Hai trovato quelli stirati?”
“Logico. Ci vediamo lunedì.”
In cucina si versa un bicchiere di Coca, ne beve un sorso, l’appoggia sul tavolo. Forse ne dovrebbe parlare con il commissario Colasette. Ma per dirgli cosa? Il sindaco ha uno sfregio sulla faccia. La mano dolorante. Possono essere i segni della lotta con Martina. Ed è grasso. E il fratello ha detto che va con le donne di strada. È sufficiente? Le tornano in mente certe mattine che è arrivato in Comune con gli occhi gonfi di stanchezza, lamentandosi dell’insonnia. Cerca di figurarselo innamorato di Martina. Che la prende a pugni. Ma è difficile vederlo in quella luce.
Non è tranquilla e le palpebre sono pesanti di sonno. Deve per forza andare a letto. Parlerà con Crovetti e dopo, dopo basta, fine del suo impicciarsi dei fatti di quei giorni. Lo deve fare per Martina. Che non è giusto. Non è giusto che mentre Crovetti se ne sarà andato a letto, lei invece, Martina, oltre a essere stata picchiata, se ne sta in prigione. No, non è giusto. Domani si alzerà e andrà a messa. A messa, come sempre, ci sarà il sindaco, e lei gli parlerà. Semplice. Non è semplice? Non le serve neppure l’aiuto del fratello, stavolta. Spegne la luce, si gira a sinistra, rannicchia le gambe al petto, piega la schiena, si tira bene la coperta sul collo, chiude gli occhi. Intorno c’è un silenzio buio, neppure le auto per strada, neppure la pioggia. Forse ha finalmente smesso di piovere e domani sarà bello. Suo fratello è come se avesse vissuto in un’altra famiglia, un’altra infanzia. I ricordi non danno fastidio, a lui. Non si ricorda di come trattavano i gemelli. Non si ricorda del male che gli hanno fatto nel bosco. Solo per lei il passato è sempre presente nella sua testa. Nei suoi sensi di colpa. Nelle sue paure. Nei suoi rancori. Il passato non passa mai e non ti fa vivere bene il presente. Gliel’ha detto tante volte Rosalba. Forse ha ragione. Per questo lei è diversa da Piero. Sono successe tante cose oggi. Ha fatto tante cose, lei, oggi. Tanti pensieri, adesso, in testa, tanta stanchezza, tante immagini che, sembra, vogliono spingere lontano il sonno, che però arriva, senza che lei se ne accorga, cinque minuti dopo aver spento la luce.