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La cinese ha la faccia di un bulldog e si muove lesta.

La merce è tutta sui ripiani. Rotoli di carta igienica ammonticchiati su scatole di salmone essiccato, tetrapak di zuppe pronte accanto a bocconcini di halibut e noodles liofilizzati, confezioni di carne in scatola, dadi vegetali e pacchetti di sigarette infilati in ogni buco.

La fila arriva fin fuori e gira l’angolo della piccola drogheria, incastrata tra case prefabbricate e pali della luce.

Arriva il mio turno. Indico una zuppa di riso liofilizzato e una bottiglia d’acqua. La cinese afferra i soldi e li mette sul mucchio. Le sue mani sono piccole e sudate. Si agitano frenetiche sul bancone. Prendo il mio sacchetto e faccio per uscire. Quando mi volto vedo che l’agente Max è lì, in fila dietro di me.

Anche oggi splende il sole sulla città.

Mi siedo sulla mia roccia a forma di pennuto. Aggiungo dell’acqua al riso sottovuoto, butto giù una pillola di Pitoxin e guardo la distesa di case sotto di me.

L’agente Max mi raggiunge e si siede qui accanto. Si muove piano, attento a non mettere un piede in fallo. Neanche mi saluta. In mano ha un sacchetto di carta stropicciata. Tira fuori una barretta di cioccolato e una lattina di Coca-Cola.

«Che fai, Tony?» dice.

Fa così freddo che quando parla gli fuma la bocca, come se avesse un fuoco che gli brucia dentro, al centro dello stomaco.

«Mi godo il sole» rispondo.

Due strade s’incrociano poco lontano, vicino ai binari della ferrovia. Le case costruite sul fianco della montagna ci sbattono contro e si fermano lì, a ridosso delle rotaie, oltre le quali inizia la città senz’anima e colore, spanciata nella piana fino al porto zeppo di pescherecci. All’incrocio, un gruppo di gente ferma alla fermata dell’autobus.

«Guardale, Tony, tutte quelle persone laggiù. Si gonfiano i muscoli in palestra, ingollano vitamine, fanno le colonscopie, eppure...» Dà un morso alla sua barretta di cioccolato.

«Eppure cosa?»

«Eppure niente potrà tenerli in vita per sempre» dice col boccone in bocca. Ingoia. «Non è stato facile trovarti in questo inferno.»

«Perché mi segue, agente?»

«E tu perché hai tagliato la corda?»

«Sono andato solo via da casa.»

«Proprio il giorno in cui quei tre ci hanno rimesso la pelle?»

«È un reato?»

Butta giù un sorso di Coca.

«Perché non hai aspettato di avere il diploma in mano?»

«Vuole arrestarmi per questo?»

«No, Tony, non ti arresto. Almeno per ora. È che sono curioso» dice. «Mi chiedo perché tu sia venuto in questa fogna di posto ai confini del mondo. Uno in gamba come te poteva fare ben altro!»

«Cosa ha che non va questo posto?»

«Ti gela le palle, e puzza di pesce.»

«Questo posto mi piace.»

Io finisco il mio riso, lui si scola la lattina fino all’ultima goccia. Si alza. Gli allungo la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.

«Fatti la barba, ragazzo, hai l’aria di uno che non dorme da giorni.» Ha il culo sporco di terra. Scuote la stoffa dei calzoni, poi indica la città sotto di noi.

«Guarda che caos, quanta desolazione! La gente ha paura, ragazzo, teme che il peggio possa accadere in qualunque momento.»

«Il peggio è accaduto tempo fa, agente Max. Bisogna farsene una ragione oramai.»

«Già. E come se non bastasse a volte la vita ci fa questi piccoli, meravigliosi doni. Il mio culo rotto, per esempio» dice. «E tu, invece?»

«Io cosa?»

«Tu cosa hai avuto in dono dalla vita?»

Durante la notte la temperatura sale.

La bassa pressione richiama masse d’aria dalla tundra oltre le montagne, e l’aria si solleva, lievita, condensa. Una coperta grigia si posa sulla città, e ogni cosa oggi ha il colore del metallo.

Cammino sotto un cielo carico di elettricità. Attraverso la strada del gioco d’azzardo che è tutta un pullulare di ologrammi. Percorro una via che esplode di video poker e bordelli, e le insegne dei bordelli sono donnine formose coi bikini in vista. Ancheggiano. Ammiccano. Vibrano le labbra e cacciano fuori le lingue.

M’infilo in un vicolo cieco. Entro da una porta. Salgo scale, supero ballatoi, attraverso cortili. Arrivo a destinazione, chiudo gli occhi e aspetto.

La ragazza entra.

Indossa una vestaglia e nient’altro. Sento il fruscio della seta che le scivola lungo la schiena, posandosi sul pavimento. Ha il respiro pesante. Le tavole del pavimento neanche scricchiolano mentre si avvicina, tanto leggero deve essere il suo corpo.

Qualcosa vibra. Qualcosa si accende.

Apro gli occhi.

Ha cosce secche come stecchini, spalle forti e seno piccolo. Potresti contarle le costole solo guardandole il busto. I peli del pube sono bianchi come i capelli, che le scendono dritti intorno al viso, lunghi sulla schiena.

La ragazza dice: «Ciao, Tony.»

La ragazza è Marla.

*

Marla è a casa con me.

Seduta sul divano di pelle, e la pelle è logora, spaccata in più punti. Ha i capelli legati in una treccia, arrotolata sulla nuca. Il piercing sul sopracciglio sinistro intercetta la luce di sghembo, emanando luccichii intermittenti.

Immerge i piedi nudi in una vaschetta colma d’acqua saponata, e si mette a fumare. Mi sorride in silenzio. La cenere resta in bilico sulla sigaretta per tutto il tempo in cui resto a fissarla, poi cade sul pavimento.

Tira fuori i piedi dall’acqua e li asciuga con un telo di spugna, e da come tiene il telo tra le mani si capisce che la spugna è morbida. Si deterge le unghie con una garza imbevuta di acetone. L’acido corrode lo smalto graffiato e s’insinua nelle increspature della cheratina, portandosi via i residui di colore.

Con una lima di metallo si ritocca la lunula biancastra dell’unghia, dandogli la forma di una mezzaluna perfetta.

Andiamo avanti così a lungo: io che guardo lei, steso sul pavimento, lei che guarda me, appollaiata sul divano.

Il bollitore fischia.

Verso due tazze di tè bollente, poi torno a sedermi per terra. Le allungo il tè. Lei spegne quello che rimane della sigaretta e prende la tazza con entrambe le mani. Ci soffia dentro. Il vapore le bagna i pori della pelle.

«Ho un milione di domande da farti» le dico.

«Fammene una soltanto.»

«Perché non sei venuta all’appuntamento quella notte?»

Non risponde. Zitta, come se io non avessi aperto bocca. Faccio finta di niente. Beve il suo tè fino alla fine. Le passo un biscotto. Lei ci dà un morso, poi un altro.

«Ancora» dice. «Ho fame!» Sorride.

«È bello vederti mangiare.»

È sempre magra come allora.

Svita la boccetta dello smalto e si passa il pennellino sulle unghie dei piedi. Fa un primo strato, che lascia asciugare, poi ne fa un secondo. Le unghie si fanno viola come melanzane. Se non fosse per lo smalto sembrerebbero i piedi di un uomo.

Passano minuti.

Sono talmente tante le cose da dire che si finisce con lo stare in silenzio. Lei non mi chiede nulla: cosa io abbia fatto negli ultimi anni, oppure perché mi trovi in questa città, neanche come sono arrivato fin qui in Alaska. Incredibile a crederci, esserci ritrovati così per caso, dopo tanto tempo, in un luogo lontano anni luce da Mammoth Rock, eppure lei non sembra esserne stupita. Alla fine dice solo: «Prima o poi dovrò tornare da Blondie.»

«No che non devi.»

«Verranno a cercarmi.»

«E noi ce ne andremo.»

«Ho paura.»

«Nessuno ti farà niente.»

«Ho paura lo stesso.»

«Non averne.»

Si stende. È così alta che non ci sta sul divano, allora tira su le cosce e solleva i piedi, agitandoli nell’aria, che ora è un misto di fumo e acetone.

Si guarda intorno, ma non c’è granché da guardare qui. Il divano, un tavolo e due fuochi per cucinare. Indica un piccolo cane intagliato nel legno, poggiato sul davanzale della finestra. «Cos’è quello?» mi chiede.

«Lo sai cos’è!» Mi viene in mente il fruscio delle foglie secche quando Boa saltellava tra gli alberi di notte. E tutti quegli animali sentinella schierati a guardia dei cortili di Mammoth Rock, appesi alle porte delle case.

«Te la ricordi quella stupida tradizione?» mi chiede.

«Certo che me la ricordo.»

Silenzio.

«Ho ancora fame.»

«Usciamo a prendere qualcosa da mangiare?»

La luce rossa della segreteria telefonica lampeggia.

Chan fa rosolare dei cipollotti tritati e dice: «Ieri mi hanno infilato un tubo su per il culo.» Versa due uova sbattute nella pentola, poi aggiunge: «Mi hanno cacciato una telecamera nel retto.» Vorrebbero ricoverarlo, dice, perché manca poco oramai.

«E tu che gli hai risposto?»

«Di andare al diavolo.»

«Proprio così?»

«Proprio così!» Ride di gusto.

Versa del riso bollito nella padella insieme alle uova, aggiunge gamberetti e piselli, poi alza la fiamma al massimo.

«Quando sei giovane vedi che tutto intorno a te va in malora, però tu ti senti forte, qualunque cosa accada, quasi come se fossi l’unico a cui le cose andranno tutte per il verso giusto, per qualche motivo impossibile da spiegare. Poi i vecchi cominciano a tirare le cuoia, la gioventù passa, il tempo che hai davanti è sempre meno, e hai questa sensazione di disfatta generale. Ogni cosa marcisce e poi finisce, fino a quando ti accorgi che ora sei tu quello che sta andando in malora, mentre il resto mondo sta lì, e neanche gliene frega un fico secco che tu sia vivo o morto.»

Chan tiene la padella per il manico, facendola sussultare avanti e indietro sul fuoco. Il riso sfrigola, rosola, salta. Il vapore bollente gli lucida la fronte, imperlata di piccole cicatrici. Il fumo gli ingrassa i capelli e gli fa lacrimare gli occhi.

«Sapete, ragazzi, il segreto per fare un buon riso fritto è il fuoco: bisogna che sia forte! La fiamma deve allargarsi sotto la padella e risalire lungo i bordi, come se volesse inghiottirla, la padella e tutto il riso dentro.»

Chan aggiunge la salsa di soia, poi dice: «Io voglio crepare qui dentro. L’ultimo odore che voglio sentire in vita è la puzza di cipolla.»

Versa il riso in due vaschette di plastica, le chiude, e le infila in un sacchetto di cartone insieme a un paio di Cherry Coke. «Ecco il vostro pranzo, sono dodici dollari» dice.

Il sacchetto è bollente. Il tepore filtra attraverso la confezione di cartone e ci riscalda le mani. Mentre usciamo in tutta fretta c’imbattiamo nell’agente Max. Tiro dritto facendo finta di non vederlo, Marla mi segue. Lui ci viene dietro e mi afferra per il giubbotto. Mi giro. Lui guarda Marla, la riconosce, poi guarda me. «Te l’ho detto che il caso è ancora aperto, vero?» mi dice.

«Quale caso?»

«I tre ragazzi uccisi al luna park, quelli che ti avevano impiccato il cane.»

«E allora?»

«Il medico legale disse che erano morti per emorragia cerebrale. Avevano la schiena spezzata e le ossa del cranio aperte come cocchi, eppure sui loro corpi non c’erano segni di trauma esterno. Come se si fossero rotti da soli, o come se qualcuno avesse fatto tutto quel casino da dentro. Capisci, Tony?» dice.

«È storia vecchia, agente Max.»

Marla e io siamo già oltre l’angolo della strada quando lo sentiamo dire a gran voce: «Il bastardo che li ha ridotti in quello stato è ancora in giro!»

*

Marla si muove tra i sacchi di chili macinato, sfiora il recipiente dello zenzero candito, fa cadere un po’ di anice stellato.

I suoi capelli appena lavati sanno di vaniglia e la vaniglia si mischia al profumo della polvere di cannella, bianca, finissima, ammonticchiata in cesto intrecciato con corteccia di betulla.

Il mercato è sottoterra.

Le pareti di pietra a vista si curvano porose sui banchi di spezie, creando una successione di piccole grotte sotterranee che sembrano anellidi, ed è come camminare nella pancia di un lombrico gigante.

Marla affonda la mano fino al polso nella noce moscata e rivolta i semi tra le dita fino a quando il loro aroma si fissa alla sua pelle, poi si passa la mano sulla faccia, e sorride. Calpesta i pistilli di zafferano caduti al suolo. L’orlo del suo cappotto fa volare in aria le bacche di ginepro.

Io le tengo un braccio intorno alla vita.

Lei mi tiene una mano infilata nella tasca del giubbotto.

Prende un bastoncino di liquirizia dal mucchio, me lo mette tra le labbra e dice: «Lo so che ti piace.» Il suo corpo è ancora più diafano in mezzo al viola dei chiodi di garofano e al blu dei semi di papavero, e gli altri non le staccano gli occhi di dosso, lo sguardo fisso sui suoi capelli bianchi.

C’infiliamo in uno spazio angusto tra due banchi di frutta secca. Un chiodo che sporge da un vaso le strappa un lembo del cappotto, ma lei non se ne accorge e tira dritto.

Le grotte del pesce sono tutte un pullulare di salmoni rossi e granchi reali. I gamberi scalpitano nei secchi, i molluschi fremono nei cesti. Quando arriviamo alle bancarelle dei dolci di pane, il profumo di farina cotta a legna si confonde con l’odore di kebab e pollo fritto.

Ci dirigiamo verso l’uscita.

Passiamo accanto ai banconi che vendono componenti per computer e software sottocosto. Frammenti colorati di silicio sono ammonticchiati accanto ai manuali illustrati, tra batterie di nichel e pile al litio.

Risaliamo in strada.

Il marciapiede è lucido di ghiaccio lungo il porto gremito di pescherecci. Marla si tiene al mio braccio per non scivolare e fissa il cielo che brulica di uccelli. Gli stormi volteggiano in circolo tra mare e terra. Gracchiano ai marinai, e i marinai stanno tutti lì sui ponti delle barche, intenti a srotolare le reti con cui hanno appena pescato i pesci pollock.

Ci imbattiamo in un autosilo vuoto.

Saliamo fino al tetto.

Il sole di mezzogiorno è una palla di luce bianca in mezzo al blu, proprio sopra le nostre teste, e non ci sono ombre. È talmente debole il sole che pare malato. Eppure la temperatura è dolce, l’aria quasi mite.

Una grande insegna della Pepsi-Cola svetta sul cornicione, tenuta in piedi da sottili impalcature in ferro.

«Saliamo in cima» dice Marla.

Ci arrampichiamo lungo la scaletta che sale dritta sul retro della L di Cola, e ci sediamo sul bordo interno della O.

Tra i due magazzini di fronte s’intravede una piccola porzione di città, una lama verticale di materia urbana stretta in un canyon di vetro e cemento. Le auto sbucano dietro al primo edificio, sfrecciano lungo la strada, poi spariscono dietro al secondo.

«Facciamo un gioco» dice Marla. «Tiriamo a indovinare di che colore sono le macchine che sbucano da lì.»

«E chi indovina?»

«Chi indovina vince.»

«Cosa?»

«Vince e basta.»

Il tempo passa. Ce ne stiamo seduti sul tetto a indovinare i nomi dei colori. A un certo punto Marla dice verde. L’auto che appare sulla strada è smeraldo come l’acqua del fiume di Mammoth Rock, allora lei batte le mani come una bambina, alza le braccia al cielo e dice: «Urrà.»

«Le prendi ancora quelle pillole?» chiede a un certo punto.

«Qualche volta.»

«E come va?»

«Va bene.»

Non mi chiede altro.

Dopo un po’ scende dalla scaletta, si mette gli auricolari nelle orecchie, accende l’iPod che ha in tasca e inizia a ballare sul tetto al ritmo di note che può sentire solo lei.

Non le stacco gli occhi di dosso.

Stare seduto qui e guardarla danzare è la migliore approssimazione di felicità che abbia mai provato. Zero angoscia, nessun tormento, l’ormone placebo che mi scorre nel sangue, le mani che non formicolano più da tanto.

Dopo un po’ Marla torna a sedersi qui vicino. Infila una mano nella tasca del mio giubbotto. Ci trova il sassolino. Mi guarda stupita, felice di trovarlo al suo posto. I suoi occhi esplodono di gratitudine, grandi come quelli di un cartone animato. Poggia il sassolino nel palmo della mia mano e mi dice: «Tony, ti andrebbe di farlo volare per me, di nuovo

E il sassolino vola solo per lei, ancora una volta, piroettando sui tetti dei magazzini intorno, tra torri di silos e montagne di cemento.

Scendiamo dall’insegna.

Marla si stende sul pavimento, si apre il cappotto e allarga le braccia. Le tiro su il maglione, accarezzandole il torace, e la pelle è così sottile che le sue costole sotto le mie dita sembrano scarnificate.

Le faccio colare un filo di saliva sul mento, e il filo si allunga fino a scenderle nell’incavo del collo. Lei apre la bocca e tira fuori la lingua per prenderne un po’ tra le labbra, poi abbassa la testa e aspetta. Chiude gli occhi.

Restiamo fermi uno sull’altra, fianco contro fianco, osso contro osso, stesi sul cemento sotto un cielo bianco di sole, perché non c’è altro da fare in questo momento dopo tutto il tempo passato ad aspettare, allora io avvicino il mio naso alla sua bocca aperta e respiro il suo fiato.

La tengo ferma, torcendole i polsi, ma lei non cerca di muoversi.

Spalanca gli occhi per un momento e mi guarda, ma il sole di mezzogiorno spara dritto nelle sue iridi acquose, allora lei abbassa di nuovo le palpebre e affonda il mento tra le mie scapole. Sposto la testa in asse tra il cielo e il suo viso, facendo ombra sulle sue guance lattescenti. Le dico: «Guardami.» Ma le sue ciglia sono come saldate.

I magazzini intorno sono così vicini che sembrano caderci addosso e i suoni delle auto così lontani che sembrano appartenere a un altro mondo.

Mi aiuta a togliere i pantaloni, facendoli scivolare lungo le mie gambe. Io le tiro su la gonna, e poi le sfilo le maniche del cappotto.

Le mie ginocchia raschiano il cemento quando mi spingo dentro il suo corpo, e minuscoli capillari le si rompono lungo la schiena mentre schiaccio il suo scheletro contro il pavimento.

Le pareti del suo utero si ammorbidiscono, i muscoli pelvici si contraggono un po’ alla volta, le ghiandole dell’uretra si gonfiano, lentamente.

È bella mentre si artiglia ai miei fianchi cercando di seguire le spinte, le sue mani immobilizzate nelle mie, e in alcuni momenti sembra che soffra, ma poi la sua bocca si deforma in un sorriso tirato a labbra giunte e io mi fermo. Cerca di liberarsi le mani, ma io stringo la presa, fino a quando lei apre le labbra e gode. «Guardami» le dico.

Lei fa cenno di no con la testa.

«Guardami, ti prego» le dico, mettendo la mia bocca sul suo orecchio, e poi avvicinando i miei occhi spalancati ai suoi occhi chiusi, tanto che le nostre ciglia ora si sfiorano.

Lei mi guarda.

E per la prima volta nella vita mi sento parte del mondo, la distanza infine che si annulla, sul tetto di questo parcheggio deserto, l’Alaska intorno.

*

Il cuore si trova dentro una borsa termica piena di ghiaccio a una temperatura di 4 gradi centigradi. Galleggia in 1000 millilitri di soluzione fisiologica e ringer acetato.

È fibroso, membranoso, stopposo.

Cavo, inodore, striato di sangue e gonfio di siero, percorso da solchi, attraversato da recessi e propaggini, innervato di capillari, innestato da tubolari arteriosi e cordoni venosi.

Sta chiuso in un sacchetto di plastica trasparente.

Le vene polmonari sono recise in corrispondenza del pericardio. L’aorta è troncata a livello della biforcazione.

La borsa termica si trova accanto al corpo, e il corpo è steso sul tavolo operatorio, già intubato, sedato, ventilato, il catetere collegato, il petto esposto all’intervento di trapianto, il torace pronto per essere aperto.

«Da dove viene questo cuore?» chiedo, indicando la borsa termica.

Loro non rispondono.

Loro indossano passamontagna neri che gli coprono il volto.

La sala operatoria non ha finestre, circondata da una corona di ambienti sterili, a loro volta protetti da un anello di corridoi ciechi.

I valori di pressione arteriosa e pressione venosa pulsano sul monitor accanto al corpo. Gli strumenti operatori brillano sotto la luce dei fari, allineati su un ripiano di metallo satinato. Sono così splendenti che ti ci potresti specchiare. Mi rigiro un bisturi tra le dita. L’ombra sfocata del mio volto si riflette sul metallo tirato a lucido.

Il messaggio in segreteria telefonica diceva soltanto: Troverà tutto il necessario sul posto, è richiesta massima discrezione, il compenso sarà commisurato all’entità dell’intervento.

Trascorrono secondi, e i secondi diventano minuti.

«Non abbiamo molto tempo» dico.

M’infilo il camice. Metto i guanti. Indosso la mascherina.

«Diamoci da fare» dico. «Se passa ancora un po’ di tempo questo cuore diventa cibo per cani.»

Pratico un’incisione mediana a partire dallo sterno. Perforo i tessuti cutanei.

Attraverso gli strati sottocutanei.

Apro la cassa toracica con la sega pneumatica.

Applico il divaricatore sternale.

Seziono il pericardio fino al diaframma.

Attivo la circolazione extracorporea.

Il sangue fluisce fuori dal corpo, risucchiato nelle cannule trasparenti. Il fluido sgorga dalla vena cava superiore e inferiore, avanza lento nei tubicini, e s’infiltra nel dispositivo cuore-polmone.

Guardo le bolle d’aria gorgogliare nell’ossigenatore. Il sangue cede anidride carbonica e si satura d’ossigeno, poi viene rispedito a forza nelle arterie, ripulito, nutrito, caricato di nuova forza cinetica.

Il corpo si raffredda, il metabolismo rallenta.

La macchina per il neuromonitoraggio multimodale è attiva, i valori visibili sul monitor. «Ossimetria cerebrale e doppler bilaterale sulle arterie di destra e sinistra sono nella norma» dice qualcuno. Forse è un medico. Anche lui ha il viso coperto.

Il cuore è esangue ora, i polmoni immobili, il corpo pronto al trapianto.

«Ci siamo» dico.

Loro osservano i miei gesti, mi passano gli strumenti, non mi perdono di vista un solo istante, si fanno cenni con gli occhi, e gli occhi sono la sola parte del loro volto che riesco a vedere.

Dicono: «Abbiamo chiamato te, perché sappiamo che sei il migliore.» Dicono: «Sei giovane.» Dicono: «Dove hai imparato a fare queste cose?»

Seziono gli atri.

Recido aorta e arteria poco al di sopra delle valvole.

Asporto i due ventricoli.

Estraggo dal torace il cuore malato.

Metto al suo posto il cuore sano.

Ricongiungo lembi, suturo margini, fisso monconi.

Arresto la circolazione extracorporea.

Infine defibrillo il nuovo cuore, e il nuovo cuore comincia a pompare sangue, attraversato da impulsi elettrici, accucciato tra diaframma e polmoni.

«Puoi andare» dicono.

«Da questo momento non è più affare tuo» dicono.

Mi sfilo il camice imbrattato di sangue e mi guardo intorno.

I macchinari ancora funzionanti, le pareti bianche, i passamontagna scuri, le garze sparse ovunque sul pavimento, disseminate sui piani, incastrate tra bisturi e divaricatori. Il cuore che ho estratto dal torace è riverso su un vassoio, grande quanto il pugno di una mano. Lo guardo. Mi sento mancare. Mi appoggio alla parete per non cadere.

Uno di loro si avvicina.

Indico il corpo sul tavolo operatorio, il torace ancora aperto, il cuore che pulsa scoperto. «Il 15 percento dei pazienti che hanno subìto un trapianto di cuore muore entro il primo anno» dico.

«A noi non serve che sopravviva un anno, ci basta che riprenda conoscenza solo per un giorno» mi dice l’uomo, poi mi allunga una borsa piena di soldi.

francesca pinelli