1

 

 

Deposi il supplemento illustrato domenicale del “New Times” e sbadigliai. Guardai Nero Wolfe e sbadigliai di nuovo.
— Questo S. J. Woolf è, per caso, suo parente?
Wolfe lanciò una freccia e colpi un re di fiori nel bersaglio, senza prestarmi attenzione. Continuai.
— No, non può essere suo parente, perché il nome è scritto in modo diverso. Le ho fatto questa domanda perché mi era balenata un’idea nella zucca. Non crede che potrebbe giovare ai suoi affari se questo S.J. Woolf, che è un redattore del “Times”, pubblicasse un bell’articolo sulla sua attività, magari con una bella fotografia?
Wolfe borbottò qualcosa di inintelligibile e si chinò a raccogliere una freccia che gli era caduta. Ripresi: — In fatto di pubblicità non potrebbe trovare di meglio. Questo Woolf pubblica soltanto interviste con personaggi altolocati. Proprio quello che ci vuole per lei. Per quanto le possa sembrar strano, non la sto prendendo in giro… Nella cerchia molto vasta delle nostre conoscenze ci sarà senza dubbio qualcuno che lo conosce e che potrebbe suggerirgli l’idea. Wolfe continuava a non prestarmi attenzione. A dire il vero, non avevo sperato che mi badasse, perché era troppo intento a far la sua ginnastica. Recentemente si era messo in testa di pesare troppo… Proprio come se l’Oceano Atlantico si mettesse in mente di essere troppo bagnato… perciò aveva aggiunto un nuovo elemento all’andamento metodico della sua giornata; si era fatto impiantare un nuovo apparecchio, per fare dell’esercizio fisico ogni giorno, che era una meraviglia. All’esercizio in questione si dedicava ogni giorno dalle tre e quarantacinque alle quattro pomeridiane. C’era una tavola di circa settanta centimetri quadrati, rivestita di sughero, con un ampio cerchio disegnato e ventisei raggi, nonché un cerchio più piccolo delimitato da un filo metallico molto sottile, in modo che l’area del cerchio maggiore era divisa in cinquantadue sezioni. Ogni sezione era decorata con la riproduzione di una carta da gioco e nell’insieme il bersaglio rappresentava un intero mazzo di carte. Il centro del bersaglio era un cerchietto di dimensioni molto ridotte ornato dalla figura del Joker. C’era poi un certo numero di frecce della lunghezza di circa dieci centimetri e del peso approssimativo di mezzo etto, di legno, con la punta metallica ad ago e con le relative piume. La regola consisteva nell’appendere la tavola a una parete e nel porsi a tre o quattro metri di distanza per poi lanciare cinque frecce contro il bersaglio tentando di fare un poker con le prime quattro frecce e di colpire il Joker con la quinta.
Si può facilmente immaginare quanto fosse appassionante quel gioco.
Comunque, quando Wolfe si convinse di pesare troppo, scelse quello strano sport. Chiamava le frecce giavellotti. Quando io scoprii che le mie perdite si avvicinavano a una decina di dollari, decisi di rinunciare a incoraggiarlo e mi sottrassi alle gare dicendogli che il mio medico mi aveva proibito gli esercizi violenti per evitare disturbi cardiaci. Wolfe continuò a esercitarsi da solo e, al tempo di cui ora sto per parlare, aveva acquistato una tale abilità da riuscire a colpire il Joker due volte su cinque.
Dissi: — Sarebbe un’ottima pubblicità. Ci pensi, lei stesso potrà dichiarare di essere un genio. Ci procureremmo una quantità di clienti nuovi. Potremmo prendere del personale fisso… Una delle frecce sfuggi dal mucchio che Wolfe teneva in mano, cadde al suolo e rotolò ai miei piedi. Wolfe rimase impalato e mi guardò. Sapevo quel che voleva, sapevo che non gli piaceva chinarsi, ma la necessità di chinarsi per raccogliere le frecce era l’unica parte del gioco che rappresentasse un vero e proprio esercizio e ritenevo che lui ne avesse bisogno. Rimasi immobile. Wolfe continuò a guadarmi dilatando gli occhi e disse: — Ho notato gli articoli del signor Woolf. Sono molto ben scritti.
Quell’animale tentava di corrompermi, fingendo di essersi interessato a ciò che avevo detto. Ripresi il supplemento illustrato, lo apersi alla pagina dove si trovava l’articolo e osservai allegramente: — Questo è uno dei migliori. L’ha letto? Riguarda un certo inglese che è venuto qui per una missione del Governo… aspetti… senta quel che dice qui… —Trovai il punto e lessi a voce alta: —“Non si sa se il marchese di Clivers abbia i poteri per discutere la situazione militare e navale in Estremo Oriente; da quanto risulta finora, si sa soltanto che è sua intenzione prendere accordi definitivi sulla questione delle sfere d’influenza economica. Per questo, dopo una settimana di colloqui a Washington, con i ministri degli Interni e del Commercio, si è trasferito a New York. per una permanenza indefinita, allo scopo di consultare gli esponenti della finanza e dell’industria. Nei circoli governativi ci si rende conto sempre più chiaramente che si potrà trovare una base solida per la pace in Oriente soltanto quando saranno tolte di mezzo le attuali cause di tensione nel campo economico”.
Guardai Wolfe tentennando il capo.
— Capisce? Sfere d’influenza economica. La stessa cosa che preoccupava Al Capone e Dutch Schultz. Pensi un po’ dove sono andati a finire a causa delle tensioni economiche. Wolfe fece un cenno d’assenso.
— Grazie, Archie. Tante grazie per le sue spiegazioni. Ora se volesse…
Mi affrettai a riprendere: —Aspetti, ora viene il più bello. — Scorsi con gli occhi le colonne. — Nella fotografia costui ha tutto l’aria di un vero condottiero d’uomini… capisce, sembra un capo-cameriere, o qualcosa di simile. L’articolo continua spiegando come lui sia molto competente in fatto di sfere d’influenza… ed ecco il suo stato di servizio in guerra… comandava una brigata ed è stato decorato quattro volte… un nobile lord costellato di decorazioni come l’insegna di una “premiata ditta”… Però la parte più interessante è quella in cui parla del suo carattere e della stia vita privata. È un appassionato di giardinaggio. Pota le rose del suo giardino con le sue stesse mani! Almeno così dice l’articolo, ma io ci credo poco. Ed ecco come continua nel paragrafo successivo: “Sarebbe un’esagerazione dire che il marchese è un eccentrico, tuttavia in molti punti lui non corrisponde al concetto convenzionale che ci siamo fatti del Pari d’Inghilterra; questo è dovuto probabilmente al fatto che al tempo della sua gioventù — il marchese ha ora sessantaquattro anni — ha passato lunghi periodi svolgendo le più svariate attività in Australia, nel Sud America e nelle zone occidentali degli Stati Uniti. È nipote del nono marchese di Clivers e ha ereditato il titolo nel 1905, quando suo zio e due suoi cugini sono morti nell’affondamento del Rotania, al largo della costa africana. È innegabile che il marchese di Clivers possiede una personalità molto spiccata a cui danno maggior risalto quelle che lui stesso si compiace di chiamare le sue idiosincrasie. Non va mai a caccia, quantunque possieda alcune delle più belle riserve della Scozia… e nonostante sia un tiratore insuperabile alla pistola. Ha una bella scuderia, ma non monta a cavallo da quindici anni. Non mangia mai niente tra la seconda colazione e la cena, il che per un inglese è un’eccentricità notevole. Non ha mai assistito a una partita di cricket. Pur possedendo più di una dozzina di automobili, non sa guidare. È un eccellente giocatore di poker, tanto che ha diffuso questo gioco nella cerchia dci suoi amici. Adora il croquet e disprezza il golf che, secondo lui, è uno sport indecoroso, e al suo castello di Pokendam tiene un cuoco americano il cui unico incarico è quello di fare torte di zucca. Durante i suoi frequenti viaggi sul Continente, non manca mai di portare con sé…”.
Mi fermai. Non serviva a niente che io continuassi; avevo perso il mio uditorio. Mentre Wolfe se ne stava di fronte a me, i suoi occhi si erano gradualmente ristretti; a un tratto lui aprì la mano e lasciò cadere al suolo tutte le frecce che gli restavano, si riscosse e senza una parola uscì dalla stanza. Lo udii attraversare il corridoio, entrare nell’ascensore e chiudere il cancelletto con violenza. Aveva la scusa per piantarmi in asso in quel modo; guardai l’orologio: erano le quattro, ora stabilita perla sua visita alla serra.
Avrei potuto lasciare le frecce sul pavimento, perché Fritz le raccogliesse più tardi, ma non serviva a niente giocare a dispetti con Wolfe. Stracciai la pagina del supplemento illustrato che avevo letto, con la fotografia del marchese di Clivers nel centro, la fissai al bersaglio con un paio di puntine da disegno, raccolsi le frecce e allontanandomi di quattro metri circa le lanciai tutte. Una delle frecce colpì il marchese sul naso, un’altra nell’occhio sinistro, due nel collo e l’ultima lo sbagliò per un paio di centimetri. L’avevo inchiodato a dovere.