Per grazia ricevuta.
Così, il contrabbando un giorno è finito. Chi era già nato allo sbarco degli alleati se lo ricordava da sempre, però un giorno, da un giorno all'altro, è finito. Senza lasciare accattoni, o morti di fame, o gente senza arte. Senza sparatorie, o saracinesche chiuse all'improvviso. Poi erano arrivati i distributori automatici, ma c'era stato un lungo interregno durante il quale avevamo perso tutti i punti di riferimento.
minimum fax La fine del contrabbando di sigarette e l'esplosione del traffico di cocaina, la vitalità delle famiglie allargate e la solitudine dei nuovi single, la forza d'animo di adolescenti con i genitori in carcere e di madri costrette a farcela da sole: la difficoltà di vivere e di amare in una città, Napoli, in cui l'amore e la vita hanno i denti affilati e non concedono sconti.
Per grazia ricevuta ci regala quattro storie di donne e di uomini in un momento cruciale della loro vita, narrate con ironia ma anche con una passione a volte dolorosa.
Le protagoniste di questi racconti diventano poli di attrazione per una fauna di personaggi indimenticabili: operai fascinosi e quindicenni effeminati, vecchi camorristi e nuovi notabili, tipografi clandestini e amici immaginati. Il tutto sostenuto dalla vitalità, dalla precisione, dalla sensualità di una scrittura che ha consacrato Valeria Parrella come una delle voci più belle delle nostre ultime stagioni letterarie.
Progetto grafico di Riccardo Falcinelli.
Illustrazione di Marina Sagona.
Valeria Parrella.
Per grazia ricevuta.
© Valeria Parrella, 2005.
© minimum fax, 2005.
Tutti i diritti riservati.
Edizioni minimum fax. piazzale di Ponte Milvio, 28-00191 Roma. tel.
06,3336545 / 06.3336553 - fax 06.3336385. info@minimumfax.com.
www.minimumfax.com.
Prima edizione: aprile 2005.
ISBN 88 7521 059 4.
Illustrazione in copertina di Marina Sagona.
L'immagine a pagina 44 è tratta da: Crockett Johnson, Barnaby, Dover Publications, Inc., New York.
© Crockett Johnson, 1942,1943.
Scansione e correzione di Angelo Masciulli.
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I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce.
***
Valeria Parrella.Per grazia ricevuta.
La corsa.
A Tonino, per il braccialetto.
Ogni volta che attraverso questa strada scelgo sempre lo stesso punto: ci arrivo un po' in diagonale dallo spartitraffico, o dritta dritta sulle strisce pedonali come se le macchine si fossero fermate per farmi passare. O scendendo dal tram, senza ombrello, corro a ripararmi sotto la tettoia della farmacia. Ma sempre passo via Marina in questo punto, non lo faccio apposta, cioè: lo faccio apposta senza volerlo. E allora lo immagino. Lo immagino così forte che posso vederlo: era Mario, e veniva lungo il marciapiede. Non attraversava: faceva già abbastanza caldo perché il corpo scegliesse da solo i passi all'ombra. Camminava veloce scorrendo sulla sinistra le finestre dell'ospedale Loreto, sulla destra la strada che avanzava contro il mare. Il mare contro la caserma, contro il collocamento, contro le gru del porto. Andava spedito come quel signore che aveva fatto il bancomat pochi istanti prima, proprio mentre lui superava, veloce, la banca, Divani & Divani, Chateau d'Ax. Il signore del bancomat era giusto un passo dietro di lui e aveva l'espressione del prelievo in una città di cui non ti fidi. Mario non aveva nessuna espressione, nessuna. Camminava veloce, scansava le radici degli alberi che avevano gonfiato il marciapiede, sempre sulla destra le scansava, lato strada. Quello del bancomat scansava sulla sinistra, lato ospedale, come se tenersi più dentro potesse evitargli lo scippo, come se il motorino che temeva si fosse fatto scrupoli a salire lo scalino.
L'ombra conta su pochi alberi. Quelli esplodevano sotto l'asfalto mentre Mario li sfilava: l'ultimo era immenso, lasciava uno spazio stretto tra il tronco e il muro. Mario ci passò in mezzo, toccò la corteccia, poi gli alberi finirono. Allora fece tre passi nel caldo, davanti a sé guardava questa tettoia della farmacia dove avrebbe ritrovato l'ombra. Aveva sceso lo scalino in un punto tranquillo: al posto dell'entrata del pronto soccorso c'era un cantiere, le macchine non passavano di là, neppure c'era bisogno di guardare a destra e sinistra per attraversare la strada.
Tre passi di Mario sono poco più di un secondo. Il signore del bancomat sentì il rumore di un motore troppo vicino, lo spostamento d'aria, avvertì un braccio teso mentre si voltava. Mentre si bloccava atterrito stringendosi la tasca del pantalone, la moto lo superò, e l'uomo che sedeva dietro, l'unico col casco, piantò una lama di quindici centimetri tra le scapole di Mario. Poi, come se l'avesse abbracciato per accompagnarlo al bar, gli cercò addosso dovunque, gli tirò fuori qualcosa dalla tasca, risalì in sella e si fece portare con la massima calma verso Sant'Erasmo.
Il coltello è un'arma strana. Luisa mi ha giurato che non fa male, che quando entra nella carne manco te ne accorgi, e mentre me lo diceva si passava una mano sulla coscia destra, per tutta la lunghezza della coscia si contavano ventisette punti e un filo di carne bianca. Ma appunto, il coltello è un'arma da gamba, non da spalle. E per offendere, non per uccidere. Si può morire di coltello solo per errore, perché salta la vena sbagliata in una rissa. Allo stadio, o fuori Mergellina a capodanno, quando la dose di cocaina costa dieci euro e pure gli uomini di niente se ne possono fare una. Per essere ucciso alle spalle Mario si sarebbe aspettato una pistola.
Quando lo immagino mi si fanno i muscoli della schiena rigidi, e poi il collo mi fa male per mezza giornata.
All'entrata del pronto soccorso c'era un cantiere: stavano aggiustando le rampe di accesso. Fecero partire un'ambulanza dalla traversa, anche se avrebbero potuto portare Mario a braccia fino a dentro. Il signore del bancomat si sedette a terra, non vicino a Mario: giusto quel passo che gli era rimasto dietro, giusto un metro prima, sul gradino del marciapiede. Rimase poggiato all'albero così finché vide che i portantini lo caricavano sull'ambulanza; poi a piedi, da un varco laterale, lo raggiunse al pronto soccorso.
Fu lui la prima persona che vidi, quando arrivai: stava seduto su una panca, con la schiena e la testa appoggiate al muro.
"Non posso farlo entrare, è troppo piccolo".
"Non dite sciocchezze, dottò", feci all'infermiere scartandolo di lato.
"Io dove lo lascio?" "Qua possono entrare solo bambini dai dodici anni in su".
"Ho capito, e io mo' che devo aspettare, che fa dodici anni?" Quel sorriso era l'ultima possibilità che gli concedevo, poi avrei buttato per aria la barella di sinistra, quella vicino al muro.
Il signore del bancomat si alzò dalla panca.
"Appartenete a quello che è stato accoltellato?" "Sì".
"Ve lo tengo io il bambino, andate, andate".
Tonino stava già tutto sudato.
"Non lo fate sfrenare".
Poi guardai l'infermiere.
"Voi controllatemi questo signore qua, vedete? Sta sotto la responsabilità vostra".
In rianimazione c'è poco da fare, ti fanno entrare solo per dimostrarti che respira, che non ti hanno preso in giro quando ti hanno detto che era vivo ancora. Ma Mario, con quel corpo lì, già non c'entrava più niente.
Uscendo sapevo questo: Mario era vivo, la prognosi riservata.
Tonino si era allungato sulla panca e si era addormentato con la testa sulle gambe del signore.
"Voi siete la moglie?" Gli dissi sì per istinto, intanto piano piano mi girai la pietra dell'anello verso il palmo della mano.
"Signora, se volete vi porto a casa, ho la macchina davanti alla farmacia".
"Sì, però io sto di casa a Ponticelli".
Al signore del bancomat i medici avevano dato le prime notizie, gli avevano consegnato il contenuto delle tasche di Mario, poi se l'erano ripreso. I poliziotti gli avevano chiesto di non allontanarsi, i documenti, una deposizione, di andare il giorno dopo al comando di via Cosenza. Il signore del bancomat si era seduto sulla panca, si era dimenticato di essere un fumatore, mi aveva visto arrivare dal fondo del corridoio come una cassiera aspetta la collega per passarle il turno.
Poi, mentre Tonino dormiva sulle sue gambe, si era calmato, aveva regolato il suo respiro su quello del bimbo finché era tornato normale.
Adesso doveva spiegarmi tutto.
Solo per questo ero in macchina con lui, non ho bisogno di passaggi, io, non ne ho mai avuto: con Tonino nella pancia e le gambe gonfie ho aspettato sull'asfalto che si sciogliessero gli ingorghi, e poi, sui tram, ho scosso i ragazzi dalle spalle per farmi sedere.
Comunque il signore non se ne poteva andare lasciandomi sotto al portone così, senza avermi detto una sola parola in macchina.
"Salite".
"No, grazie".
"Ma io non ve lo sto chiedendo per favore, voi dovete spiegarmi".
"Io? Voi dovete spiegarmi".
"Scusate, ma voi mi state prendendo in giro? Io tengo mio marito dentro un letto d'ospedale... e più di questo che vi devo dire?
Che è successo?" "Abbiate pazienza, signora: forse sto solo un poco scioccato..."
''E che siete stato accoltellato voi?" "No..." "E allora salite, andiamo".
Mi sono tolta le scarpe. Da quando avevo quattordici anni non ho mai comprato scarpe con meno di tacco 60. Mi sembra che con meno di tacco 60
non riesco a farmi prendere sul serio dalla gente.
E se la gente deve darti un inguine, o un'ascella, per farsi strappare i peli, la fiducia è tutto.
Ma allora me le tolsi per capire.
"Faccio la pasta al bambino... volete mangiare?" "Non posso, mi si è chiuso lo stomaco".
"Vabbè, fate come volete, io la creatura la devo fare mangiare, se tenete fame mangiate pure voi".
Mentre gli davo le spalle mi raccontava, poi chiese: "Che fa vostro marito?" "Gesù, ma dove campate? Fa il corriere... voi che fate?" "Ho un'attività di ombrelli, a via Toledo".
"Embè, siete commerciante, certe cose le dovreste sapere".
"Vabbè signora, una cosa è saperle, e una cosa è farle... corriere di soldi?" "Che significa?" "Porta i soldi, vostro marito?" "Madonna, porta quello che c'è da portare. Non è che spaccia.
Scorta i carichi, controlla che fine fanno".
"E soldi, ne porta?" "Ma perché?" "E allora che cosa gli cercavano addosso quelli?" "La roba".
"Ma perché lo hanno accoltellato: erano tossici?" "Eh, questo speravo che me lo dicevate voi a me. Non lo so. Ma pure si verrà a sapere".
Il signore del bancomat venne tutti i giorni al Loreto alle tre, orario visite. Mi aspettava sulle scale antincendio, fumava con gli infermieri mentre io stavo a fare niente fuori la porta della rianimazione.
Alle quattro e un quarto mi facevano entrare per venti minuti, allora lui mi aspettava giù, alla macchina, mentre io stavo a fare niente dentro la sala di rianimazione. E mi riaccompagnava a casa. Quando non riuscivo a piazzare Tonino dalla vicina, me lo portavo dietro, e stavo tranquilla, che mentre io aspettavo, loro due andavano ad affacciarsi sul ponte della circumvesuviana e guardavano partire i treni.
Una volta, dopo l'ospedale, ci portò a mangiare la pizza a piazza Carità.
"Se ci allunghiamo di due passi, vi faccio vedere dove tengo l'attività".
"No, veramente, si fa tardi, Tonino domani ha l'ultimo giorno di scuola.
Siete stato già così gentile..." "Anna, ci vediamo tutti i giorni, e diamoci il tu".
"Mamma, io posso pure non andarci, a scuola".
"Tonino, non dire sciocchezze. E pure voi, fatemi il piacere, non dite sciocchezze".
In ospedale ci andavo a perdere tempo. I dottori non parlavano con me, ma non era solo perché non ero la moglie. Pensavano di avermi detto tutto quello che potevo capire. E poi, avevo sempre l'impressione che si stava rubando le cure di qualcun altro: per uno che si è preso una coltellata alla schiena, di ossigeno gliene passavano pure troppo.
Io cominciavo a perdere le clienti: se un'estetista si ferma nel periodo estivo ha perso tutto. Eppure io mi piantavo là fuori, alle tre, e me ne andavo solo dopo averlo visto.
"Che venite a fare, così presto? Tanto prima delle quattro e un quarto non vi facciamo entrare".
"E mo' lo volete decidere voi, che devo fare io il pomeriggio?
No... fatemi capire..." Una mattina l'aria tornò a bastargli, e Mario si svegliò. Aveva gli occhi blu.
Nessuno aveva pensato ad avvisarmi, arrivai lì fuori e l'infermiere mi disse che l'avevano trasferito in corsia. Ma quando lo vidi seppi subito che ormai non era più lui, me ne accorsi nel modo in cui mi fissava, perché io nella mia vita non ero mai stata così bella come quando Mario mi guardava. Da quel momento ci furono cose vere che potevo fare per lui, frittatine da portare in contenitori termici, bottigliette di succo di frutta riempite di caffè, il pappagallo da svuotare quando aveva recuperato il controllo del suo corpo, l'olio Johnson sui fianchi, a massaggiare contro le piaghe, perché da steso non riusciva a respirare più.
Da quando Mario si era svegliato, il signore del bancomat era scomparso.
Intanto Capisante mi aveva mandato a chiamare. Si era informato della guarigione, per prima cosa. Mi aveva chiesto se quel signore che si faceva vedere così spesso sapeva qualcosa, se io sapevo qualcosa, se Mario mi aveva lasciato qualcosa. Io avevo risposto che il signore mi faceva la corte, e che Mario mi aveva lasciato con una mano avanti e una dietro. Solo allora lui mi aveva detto che sapeva chi lo aveva pugnalato: erano fuoriusciti, un braccio del sistema che tentava di mettersi in proprio. Intercettavano piccoli carichi in attesa di fare il salto. Io gli avevo chiesto solo la cosa che non mi dava pace: "Perché non ha sparato?" "Perché non aveva la pistola".
Capisante aveva visto la fiamma che non riusciva ad accendere la sigaretta, allora aveva messo la sua mano sulla mia per tenerla ferma.
"In tempo di pace nessuno gira armato fuori dal quartiere. E se poi ti fermano per un controllo? Ti conviene?" "E se lo uccidevano?" "Annarè, ma quelli lo sapevano che non era armato: sennò gli andavano vicino con un coltello?" "E comunque, a quelli ci abbiamo pensato noi", mi aveva detto.
Poi, per salutarmi, mi aveva fatto riaccompagnare a casa con la macchina, il ragazzo dal cofano aveva cacciato un cesto e l'aveva portato su. Nel cesto c'erano pasta, formaggio, zucchero e caffè. E ottocentomila lire in una busta da lettera. Tutto quello che gli avevo potuto dire, Capisante lo sapeva già. E anche la storia che Mario era stato vendicato: probabilmente Capisante era riuscito a non farsi scavalcare, a far rientrare l'ammutinamento, ma la vendetta era di passaggio, come lo eravamo io e Mario. Eppure a me aveva fatto piacere che mi aveva chiamata: essere la madre di suo figlio, quindi, contava qualcosa.
Anche al reparto Mario era come se fosse in coma: mi parlava poco, si lasciava fare tutto e nessuno sapeva o si era chiesto se mai sarebbe uscito di là con le gambe sue. Quando il signore del bancomat un giorno tornò per parlarmi, ce ne andammo al bar Loreto a prendere il caffè.
"Caldo?", fece il barista.
E allora io mi resi conto che era ottobre, avrei dovuto fare il cambio di stagione e non avevo iscritto Tonino a scuola.
"Se mi fate una delega ci vado io. Certo se mi fate una delega, poi me lo dovete dire per forza che il bambino ha il nome vostro e che non siete nemmeno sposata".
Io non gli dovevo spiegare proprio niente: lo sapeva anche lui che a tornare a casa a Ponticelli, con trentanni addosso e un uomo che non ha deciso quanto potrà vivere, potevo solo mettere le scarpe con il tacco più alto che avevo, fare forti le caviglie e andare dicendo di essere sposata.
"Robe, chi ve l'ha detto?" "Il magistrato. Ieri mi hanno chiamato per l'inchiesta, ve lo sono venuto a dire".
"Anche a me mi hanno fatto l'interrogatorio. Non il magistrato, però".
"Capisante?" "Eh".
"Vi ha cercato qualcosa?" "Ma perché, che tenete voi che mi dovrebbero cercare a me?" "Niente, che significa? Ve lo chiedo perché non so come funzionano questi movimenti".
Neppure io veramente lo sapevo nei particolari, ma sapevo sempre di più che Roberto mi nascondeva qualcosa. Insieme sapevo che l'unica cosa non suicida da fare era fidarmi. E io volevo fidarmi: per riposare un poco.
"Avrei una preghiera, però non lo so se me la potete esaudire".
"Anna, se non mi dite di che si tratta nemmeno io lo so..." "Volete parlare voi con i dottori? A me non mi spiegano niente".
"Ma perché dovrebbero dire qualcosa a me?" "Perché voi glielo sapete chiedere".
Così seppi che era una questione di posto: bisognava decidere dove farlo morire. Mario non aveva parenti, a parte una moglie che aveva lasciato per me due mesi dopo le nozze, e adesso chissà dove stava. Mobilitai Capisante, qualcuno firmò qualcosa e Mario tornò nel suo letto dove era giusto, dissero tutti, che lui morisse.
Invece Mario restò a letto sette mesi; intanto Tonino a scuola aveva quasi imparato a leggere.
L'assistente sociale che mi aveva fatto assegnare la casa, quando Tonino aveva un anno, gli aveva messo davanti una tazza e una pallina.
"Metti la pallina nella tazza", gli aveva chiesto sorridendo.
Tonino l'aveva guardata, poi aveva preso la tazza per il manico e se l'era portata alla bocca per bere. L'assistente sociale allora aveva sorriso a me, rassicurante.
"Non sa eseguire un'istruzione semplice", mi aveva spiegato.
"Ma non fa niente: recupererà andando all'asilo".
Tonino era rimasto molto deluso: in una tazza come quella, il pomeriggio, io e Mario versavamo una goccia dalla macchinetta, e poi l'allungavamo con l'acqua: per non farlo sentire escluso mentre bevevamo il caffè.
Adesso l'assistente sociale era contenta: a scuola Tonino aveva recuperato. Aveva imparato a fare quello che la gente si aspettava da lui. Poi tornava a casa e si fiondava nella stanza del padre. Si arrampicava sul materasso, faceva la tenda con il lenzuolo. Si nascondeva sotto il letto per farsi cercare e Mario, che non aveva la forza nemmeno di parlare, allungava un braccio e bussava sulla sponda. Quello era il segnale,Tonino lo sapeva: era stato scoperto.
Ogni tanto mi chiedeva la borsetta per fargli il manicure. "Stai attento, a mamma", ma in realtà lo sapevo che Tonino usava la limetta con una precisione e una pazienza che nemmeno io avevo più da quando mi tremavano le mani: se colorava un album con i pastelli a cera, andava sempre oltre l'orlo del disegno, ma non aveva mai sbavato un'unghia di smalto.
Io e Mario ci eravamo conosciuti così: gli avevo sistemato le mani la mattina del suo matrimonio.
E allora, anche se adesso non capiva niente, io lasciavo che Tonino gliele curasse.
Mentre Tonino assorbiva il mio mestiere io ereditai il mestiere di Mario.
Non con i suoi incarichi, non con la sua paga. Potevo vendere, questo sì: altre donne lo facevano. Quelle che abitavano nei bassi stavano solo affacciate alla porta, fino a una certa ora, come a uno sportello. Io invece che stavo al settimo piano dovevo scendere per strada, ma in periferia gli orari sono comodi", dalle sei e mezza fino a mezzanotte, l'una al massimo. Lasciavo Tonino davanti alla televisione e lo trovavo addormentato. Fino a tutto novembre non faceva freddo, dicembre era più difficile, ma a dicembre c'era la mia vicina di casa che metteva la bancarella di botti; facevamo un braciere in un bidone, accappottavamo i bambini e ce li tenevamo giù con noi fino a tardi.
Quando Mario morì Tonino stava a scuola. Io chiamai l'assistente sociale.
"Tenetevelo voi".
"Ma dove me lo tengo?" "Non lo so: ma tenetevelo voi finché non l'abbiamo interrato".
Trentasei ore dopo Tonino tornò a casa ed entrò dritto dritto senza nemmeno posare la cartella. Chiusi la porta, poi mi girai e lo trovai seduto a terra che bussava sulla sponda del letto.
Roberto era comparso mentre il corteo svoltava l'angolo della chiesa. Al cimitero però, quando tutti si erano avvicinati per salutarmi , non l'avevo visto più. Tornò il giorno del trigesimo, ascoltò tutta la messa, poi mi riaccompagnò a casa.
"Vi posso aiutare in qualche modo?" "Voi avete famiglia?" "Ho una sorella, che fa la portiera a via Toledo, pochi palazzi dopo quello in cui ho l'attività".
"E avete nipoti?" "Sì, due maschi".
"Vi volete portare un poco Tonino, al pomeriggio, per farlo distrarre?
Potrebbe giocare con i vostri nipoti..." Me lo riportava alle otto. Io gli dissi che scendevo a prenderlo fuori al cancello: proprio Roberto non avrei voluto mai che mi trovasse a spacciare. Ma alla fine sono convinta che aveva capito. A modo mio lo ringraziai, per avermi sempre lasciato il dubbio: "Senti, Roberto, è ridicolo che continuiamo a darci il voi, mo'
non ci crede più nessuno".
"Uè, e che è? Festeggiamo il primo anniversario?" Mi sembrò solo una presa in giro, invece era più o meno giugno quando mi rispose così. Ed era il giorno di sant'Antonio quando Mario guardava la tettoia di questa farmacia con gli occhi suoi. Ci penso adesso, ma allora non avrei saputo dire da quanto ci conoscevamo io e Roberto, e questa differenza tra la sua memoria dei giorni e la mia, se l'avessi capita, mi avrebbe fatto meravigliare di meno, quando mi chiese di sposarlo. Che mi veniva dietro lo sapevo da subito, un matrimonio però è un'altra cosa, e noi ci eravamo abbracciati solo una volta fuori al President, perché io era da quando era nato Tonino che non mi sedevo in un cinema.
Ma lui non era stupido: non si faceva forte del mio sentimento, si faceva forte perché io non avevo scelta.
Infatti non fu una questione di scelta. È che tu con un uomo che ti sposi prima o poi devi pure andarci a letto, e allora non è più solamente il dirgli grazie perché ti ha fatto quella gentilezza che nessuno gli aveva chiesto. Prima o poi viene pure il giorno in cui si litiga, si è stanchi, e si deve dire una mezza parola in più. anche se è nel patto che ci si è sposati per stare tranquilli.
E allora mi è venuto in mente quando ero esasperata. e Mario tornava a casa e si buttava sul letto aperto con i panni del lavoro, e Tonino faceva il pazzo da ore, magari non aveva nemmeno riposato il pomeriggio, non un minuto aveva preso somme io stavo indietro con i servizi e mi avrebbe fatto piacere che il piano fosse stato pronto in tavola, e invece l'acqua ancora non bolliva, e poi magari Capisante lo richiamava e Mario mi diceva: "Tra mezz'ora devo scendere", anche se erano già le dieci di sera. E allora io urlavo e mi arrabbiavo e gli tiravo il piatto addosso e lui imprecava contro mia madre, che mi aveva fatto così, e ci mancava poco che non mi desse uno schiaffo. Poi, più tardi, mentre mi calmavo sciacquando l'insalata, e piano piano cominciavo a non strappare più le foglie, mi voltavo all'improvviso: e trovavo Mario che mi guardava.
Magari era un minuto già che mi guardava, e io nemmeno me ne ero accorta.
Allora mi sentivo bellissima, anche se ero sudata e stanca. Forse mi sentivo bellissima perché ero sudata e stanca per colpa sua: sentivo il seno esplodere dentro il vestito a ogni respiro, e le gambe mi tremavano finché lui non veniva a calmarle.
"Robe, qua ci stanno solo tozzi: non ci sta pane per te".
Glielo dissi così la mattina dopo sotto al portone, poi gli accarezzai la guancia e me ne tornai sopra: perché ero scesa in pantofole, e non mi piaceva farmi vedere da quelli del palazzo.
Prima c'era una sola strada che da Gianturco portava fino a qua. Per arrivare a piazza Garibaldi dovevi calcolarti anche un'ora, con tutto il traffico e tutti gli incroci. Nessuno si è mai calcolato un'ora: sentivamo quella strada molto più breve di quanto ci voleva a farla. Da quando hanno costruito l'asse nuovo si vede chi arriva fin da sotto casa: i clienti nostri arrivavano con il motorino, o con l'autobus. Scendevano alla fermata sul ponte, si facevano la curva a piedi, lungo il guardrail.
Cominciavano a sorridere sotto le luci arancioni.
"Due pezzi da cinquanta", mi fece uno dei due, e l'avrei dovuto capire che se non si era già venduto il braccialetto d'oro un motivo doveva esserci.
"Aspetta", dissi io, e mi girai, andai al cestino della spazzatura.
Mentre prendevo le bustine da cinquantamila ero ancora alla distanza giusta per scappare. Avrei potuto allontanarmi fino alla macchina parcheggiata e poi correre forte da là. Rientrare dalla scala C, passare per il terrazzo di copertura, tornare a casa. E là dentro, col cazzo mi venivano a cercare in due.
A casa avrei trovato il piatto a metà di Tonino, Tonino davanti alla televisione. Mi sarei preoccupata più tardi, seduta sul ballatoio, con la vicina: "'Sta creatura non mangia proprio", avrei detto penzolando il piede, facendo ballare l'infradito sull'alluce.
Ma erano due anni che quasi tutte le sere arrivavo vicino a quel cestino, da quando l'assessore aveva fatto il nuovo arredo urbano.
Erano arrivati con i camion che ancora avevamo i pozzi neri invece delle fognature e se pioveva per tre giorni di seguito risaliva la melma e non potevamo mandare i bambini a scuola, e ci avevano scaricato davanti al rione cento vasi di plastica rossa. Il geometra che prendeva le misure da un vaso all'altro ci spiegò che li aveva disegnati, appositamente per noi, un architetto famoso di Milano che aveva sistemato pure la Villa Comunale. Appena se ne furono andati, i bambini cominciarono a buttarli giù usando le traversine rotte delle panchine come spranghe. La mia vicina ne fece staccare uno con cura e se lo portò a casa per la biancheria sporca. Poi. in serata, passò Capisante. Girò intorno a un vaso e lasciò detto di non rovinarli.
Era da allora che pescavo bustine da ventiquattromila di eroina^ altre da cinquantamila, di cocaina, da lì dentro. Erano cartine minuscole che pesavano molto meno di mezzo grammo e a periodi la sostanza buona era proprio poca, ma nessuno si lamentava troppo, e comunque non con me.
Facevo quel tragitto in automatico, senza attenzione. Ma soprattutto tornai indietro con la roba, con i piedi miei verso le guardie, perché ero stanca. e quando sono stanca preferisco credere che va tutto bene.
Non glielo dissi perché volevo una risposta. Lo dissi perché era la mia unica angoscia, salendo nella volante, e quella poliziotta la prima femmina che vedevo: "Ho un bambino di otto anni, a casa, che tiene solo a me".
"E allora perché stai in mezzo alla strada?" È una cosa da mettere in conto. La mettiamo talmente in conto che non ci fa troppa paura, e la sfida è proprio a non averne, di paura.
Sappiamo più o meno cosa dire, con sicurezza cosa non dire, chi aspettare
.cosa chiedere. Il nostro rione è così tanto storia di entrate e uscite dalla galera che non ho mai sentito dire a nessuno, per salvarsi la faccia, che era stato in viaggio sui camion, o imbarcato, o che si era preso una brutta malattia e aveva passato gli ultimi mesi in ospedale. Il carcere non isola, avvicina. A vederli tornare è come incontrarsi dopo la guerra, raccontarsi per smaltire o stare zitti per non pensarci. Quando il cognato di Capisante finì i domiciliari spararono i fuochi alle due di notte dal piazzale. Per i maschi è un passaggio importante: se superi il carcere sei qualcosa in più, e i boss sanno che si possono fidare e possono darti incarichi più importanti.
Ma per una donna, no. Se non devi diventare tu stessa un boss, e non ne sono molte, per una donna l'unica possibilità, l'unico allenamento è non pensarci mai. Ci sono cose che ti devi abituare a non pensare. Tonino non è un bambino prepotente, ma non è nemmeno scemo. E questa via di mezzo è sempre stata un guaio nel rione. Tonino riesce a difendersi senza reagire: si sta zitto. Quando io e Mario litigavamo davanti a lui, o quando io lo sgrido, o quando l'assistente sociale gli fa una domanda per farlo pensare a qualcosa a cui lui non vuole pensare. Tonino si mette a guardare fuori, e se non c'è il fuori guarda a terra, ma oltre la terra, lontano.
Lontano da me, da sé, da tutti. Allora non puoi farci proprio niente più.
Ecco: io a Tonino che stava in un istituto e guardava lontano non ci dovevo proprio pensare. Superare due anni di carcere è solo questo.
L'unico modo conosciuto per sopravvivere.
Quello che non pensavo, però, lo andavo perdendo.
Andavo a fare la ceretta a certe signore io, che avevano i figli fuori dall'Italia. Erano partiti per andare a studiare in America, o avevano seguito delle ricerche e stavano fuori anni, le chiamavano una settimana sì e una no per pochi minuti di parole che nemmeno si sentivano bene.
"Io prima di tutto sono una madre", continuavano a dire. Ma sono cazzate.
Secondo me si piacevano assai mentre si ripetevano questa frase in testa, e mentre la ripetevano fuori, ma che quella è una frase vuota lo sapevo già da prima: la maternità finisce se te la tolgono, se ogni volta che ci pensi te la devi ricacciare dentro per sopravvivere.
Un giorno ho avuto un figlio, e un altro giorno qualcuno ha deciso che non devo pensare più io a crescerlo, che ho più colpa verso il mondo se resto fuori che verso Tonino se finisco dentro, allora non sono più una madre,come dicevano quelle. Io avevo una responsabilità, che potevo accettare solo vivendo. Non è che ho vissuto bene, ho sbagliato, ho vissuto male, malissimo, però l'unico modo che conoscevo per accettare quell'incarico era incaricarmi di vivere. Là dentro mi restava solo il peso della responsabilità. E se pure fossi stata innocente, se non avessi consegnato cocaina alle guardie quel giorno, allora la colpa sarebbe nata in carcere per ogni minuto che Tonino mi ha cercato o ha imparato a non cercarmi più.
Da sveglia ci riuscivo: camminavo per la cella e misuravo lo spazio con il corpo, con il tempo invece non si poteva più. Eravamo il nostro corpo a tredici anni, quando non potevamo dormire a pancia in giù perché le ghiandole dei seni chiedevano di crescere, e poi ogni mese per tutti gli anni che ci erano concessi. Il mio corpo è stato il tempo e lo spazio di Tonino: le ore: l'intervallo tra due poppate. Ma il carcere non è la pena dell'anima per l'anima che ha sbagliato, come voleva farci credere il parroco a messa. È la pena del corpo per il corpo che non ha saputo fare in un altro modo. Eppure da sveglia riuscivo a distrarmi: raccontavo, in punta dei piedi, le mie ultime decolleté prima della cella, e avevo trovato una tecnica per limarmi le unghie sulla pietra. Poi una notte sognai di strozzarmi con il cordone ombelicale, e senza un balcone per pigliare aria e dirmi che stavo sognando quella paura diventò l'unica realtà. Fu Luisa a chiamare le guardie, perché era stata tutto il giorno a soffrire la cicatrice sulla gamba, e adesso voleva dormire.
Cominciai a prendere delle pillole: in carcere i tacchi sono vietati, ma di terapie per il sonno te ne fanno quante ne vuoi. E cominciai a incontrare una psicologa.
Lei spiegava tutta l'angoscia con i danni che la galera poteva portare nella mia vita: li contava, me li faceva vedere, poi mi diceva che erano pochi e tutti superabili, ma con me si sbagliava. Il problema non era quello, perché quei danni io li vivevo già quando stavo fuori: già ero stata costretta a non mettere a letto mio figlio tutte le sere. Già mi ero trovata senza scelta e a vergognarmi mentre facevo le cose nell'unico modo in cui potevo farle. Il carcere in questo non mi aveva portato novità.
Solo, mi era cominciato un affanno dentro. Era una corsa dell'anima nel corpo costretto in quattro metri per tre: come se, mentre io stavo ferma e non dovevo fare niente, qualcuno nella mia testa correva al posto mio, si affannava e non arrivava mai. Ma dove doveva andare, ancora non l'ho capito. La psicologa disse che era normale, che questa mia ansia, così come la depressione di altre, sono i due modi più comuni per sfuggire al presente.
Quando me lo disse io guardai il mio presente e seppi cosa voleva dire.
Io sapevo quello che lei aveva solo capito, ma mi scocciavo di stare là a confermare.
"Una volta fuori, piano piano rallenterai, e un giorno in cui non ci starai pensando più, la corsa sarà finita senza neppure accorgertene".
"Va bene", dissi.
Ci diedero delle perline di plastica colorata e fili sottili di cotone nero, e ci misero a intrecciare braccialetti. Il primo lo regalai a Tonino appena lo incontrai nell'area verde. Gli feci tre nodi stretti al polso e gli dissi di non levarselo mai. La settimana dopo tornò senza braccialetto.
"Me ne fai un altro? Quello l'ho dato alla maestra".
"Ma perché?" "Perché era la cosa più bella che avevo".
Era il suo ultimo anno di elementari. Cercai di immaginarmi all'altro capo del braccialetto quella maestra, e mi chiesi se lei aveva mai provato a fare lo stesso con me. Fabbricammo centinaia di braccialetti per Natale, e ce ne comprammo tutte sigarette. Per il mio ultimo Natale in carcere feci il presepe nella sala comune, mi ci feci fotografare stesa davanti, truccata con molta cura.
"Stringi", avevo detto a Luisa.
Ma Luisa non ha stretto abbastanza e quando guardo la fotografia, adesso, devo mettere il pollice sul margine destro per coprire quella porzione di sbarre che sbuca da dietro il castello dei Magi.
Il trentuno dicembre mi arrivò una cartolina di Roberto. Raffigurava via Toledo quando ancora ci passavano le carrozzelle. Dietro c'era scritto 325 grande grande al centro, e poi sotto Buon Anno, Roberto.
Roberto si era fatto i suoi conti: cominciavo gli anni della libertà condizionata, e lui aveva creduto che per qualche ora al giorno sarei potuta andare dove volevo. Invece lavoravo in una cooperativa dalle otto alle tre, poi tornavo in carcere. Tonino stava in un convitto a due ore di macchina da me, così ogni tanto scappava, arrivava allo stazionamento degli autobus e ne aspettava uno, lo prendeva senza biglietto e i controllori vedendolo così alto nemmeno ci credevano che aveva solo undici anni. Io non sapevo dirgli di non farlo.
"Cerca di finire 'sta scuola in grazia di dio, Toni".
"Ma io voglio fare l'estetista".
"E dopo le medie vediamo".
"No, ma, che vediamo? Io voglio fare la scuola di estetista".
Un pomeriggio gli autobus saltarono le corse, e Tonino passò la notte in cooperativa. Gli operatori chiamarono il direttore del convitto per tranquillizzarlo e lui disse che questa situazione doveva finire.
Arrivare in cooperativa alle otto, e trovare Tonino che faceva colazione e parlava con gli altri, fu una vera mattina dopo tanto tempo.
Quando Tonino fu partito mi fecero telefonare al direttore.
"Signora, io la devo incontrare al più presto".
"Direttore, l'indirizzo della casa circondariale ce lo avete, ricevo il sabato dopo le quindici".
Invece ci andai io: con un permesso due guardie in borghese mi accompagnarono una domenica al convitto, mi lasciarono là e mi dissero che sarebbero passate a riprendermi alle tre alla stazione centrale.
Facevo una sorpresa a Tonino.
Quando ebbero richiuso lo sportello della macchina rimasi sola davanti al giardino della scuola. Ecco: potevo entrare. O sedermi su quel muretto a fumare. O seguire i binari del tram fino al mare.
Mi sentii come Luisa il primo giorno senza le stampelle sulla gamba accoltellata, come Tonino la notte che non tornai a casa.
Entrai. Parlai con il direttore, gli dissi che mi mancava poco, un anno è poco, che avevo cominciato un conto alla rovescia: "Potete cominciare a contare pure voi: Tonino fa l'esame e qua dentro non ci mette più piede".
"Signora, non mi fraintenda, però finché ci sta, qua dentro, deve studiare come gli altri e rispettare certe regole".
"E se lui, per studiare come gli altri, ogni tanto le deve rompere, certe regole?" Lo lasciai che ci pensava, e andai a prendere Tonino nella cappella dove seguivano la messa la domenica. Arrivai mentre il parroco alzava l'ostia e Tonino si scostava una ciocca di capelli dalla faccia, e la suora inginocchiata dietro di lui gli afferrava il braccio e glielo strattonava. Mi segnai con l'acqua santa e andai a prendere la suora:
"Esci".
"Sshhh".
"Non fare commedie: esci".
"Ma scusate, ma..." Le afferrai il braccio e glielo tirai verso l'alto per farla alzare, lei capì e mi seguì fuori.
"Siete la mamma del ragazzo".
"Eh".
"Signora mia, io lo faccio per vostro figlio, non lo vedete che è effeminato?" "Embè, e tu lo puoi trattare male perché si aggiusta i capelli, fammi capire..." "Quello si depila le sopracciglia con la pinzetta".
"E pure se lo piglia in culo tu le mani addosso non gliele devi mettere mai, hai capito?" "No, io così non posso continuare a parlare".
Allora le bloccai le spalle contro la pietra della chiesa.
"Tu se tieni problemi con Tonino me lo devi venire a dire a me.
Hai capito? Perché il padre gli è morto, ma la mamma la tiene, hai capito?" Le spingevo le unghie nella tela della veste, lei cominciò a tremare.
"Io sono ancora viva. Lo senti che sono ancora viva?" Ce ne andammo a mangiare una frittura, poi scendemmo assieme alla ferrovia, con molto anticipo. Io quanto è bella piazza Garibaldi non me lo ricordavo più, con il kebab all'angolo della farmacia e tutte le bancarelle della Duchesca.
Facemmo il marciapiede delle banche, Tonino si comprò gli occhiali da sole, e io un paio di stivali tacco 100 che gli lasciai nella busta: "Me li metto quando torno a casa".
Ci avviammo verso piazza Nolana perché io volevo dare un'occhiata al mare, anche se era mare di porto, e invece arrivammo solo fino al Carmine, che sul marciapiede non si riusciva a passare tanta era la roba che si vendeva per terra. Il mercato del pesce stava chiudendo e i venditori lavavano la strada con la pompa.
L'acqua scorreva sotto Porta Nolana, allora presi un bel respiro e glielo chiesi: "Toni, a mamma, ma tu mica sei ricchione?" Quando mancavano poche settimane alla fine della pena, quella corsa che avevo dentro, invece di rallentare accelerò: e rimasi schiacciata sul fondo della cella a guardare verso la porta, come se fosse stata la prima porta che vedevo in vita mia, senza sapere che farmene. Furono giorni bruttissimi di paura in cui non andavo nemmeno più alla cooperativa, nemmeno più all'ora d'aria.
Poi, comunque, sono uscita.
Entro al civico 325 di via Toledo.
Tra lo stemma di maiolica e l'ascensore anodizzato c'è la guardiola della portiera.
Mi guardo intorno, lei alza la testa e comincia a osservarmi, la lascio fare.
Entra un signore alle mie spalle, anche lui si guarda intorno.
"Chi cercate?", gli fa.
"L'avvocato Nucifero".
"Secondo piano, a sinistra".
Il signore se ne va, lei esce e siamo una di fronte all'altra. Nel momento in cui la guardo so che somiglia a Roberto, per vie confuse di lineamenti, gli assomiglia. Io caccio da tasca la cartolina piegata in quattro parti: gliela allungo.
Lei la prende, la apre. Legge l'unica cosa che c'è stampata: casa circondariale. Poi prende un secchio dalla guardiola.
"Venite..." Dal sottoscala ci infiliamo in una serie di cortili stretti, attraversiamo la pancia dei palazzi verso i quartieri. Man mano che ci allontaniamo dalla strada di rappresentanza i palazzi si fanno sempre più scuri, affumicati: fasci di cavi elettrici ci accompagnano come un corrimano, quando cominciamo a scendere le scale. Mi dice di guardare i segni nel tufo.
"Qua scappavamo sotto i bombardamenti".
"Quanti anni avevate, voi?" "Quattro".
"E ve lo ricordate?" "Signora, tutto quello che mi ricordo, comincia da qui".
Dopo quattro, cinque rampe di scale, i neon cominciano a non bastare più, sento l'umidità nelle ossa, anche se è estate. Camminiamo ancora in un corridoio dritto, ho l'impressione di andare verso i quartieri, verso la collina.
"Andiamo verso il corso?" "No: abbiamo solo attraversato la strada.
Stiamo sotto il civico 121, quello di Banca Intesa".
Il cunicolo finisce in un muro. La portiera comincia a fare ciao con la mano verso il muro, mi giro al ronzio di una telecamera finché la vedo: inclina un po' l'obiettivo per metterci a fuoco. La portiera ora parla veloce, si lamenta un po' perché ha i figli maschi a casa e il bidone della biancheria sporca nel bagno è sempre pieno, anche se mette tre lavatrici al giorno, e che quando se ne andranno di casa allora sì, che capiranno gli sprechi. Intanto mi carica le braccia: una pompa da giardinaggio, una scopa di saggina. Lei riempie il secchio di stracci, prende una scatola di Ava in polvere.
La telecamera si muove quando ci allontaniamo. Si gira ancora, prima di svoltare, verso la telecamera, sorride.
"Questo è il posto più sicuro che conosco. Da quando ho quattro anni, qua sotto mi sento come un bambino nella pancia della mamma. Per questo l'ho messo qui".
"E la telecamera?" "Prima dall'altra parte della strada ci stava la Motta, ve la ricordate?"
"Come no?" "All'epoca ancora si attraversava via Toledo da sotto, e si poteva risalire nel palazzo di fronte. Poi quando si è messa la banca hanno chiuso la galleria con una lastra di ferro, poi ci hanno fatto quel muro. Però si vede che si mettono paura lo stesso. Si vede che lo sanno che i mariuoli possono sbucare da tutte le parti, e così ci hanno piazzato pure una telecamera. A me mi conoscono: io uso la galleria per posare le cose. Diciamo che se qua sotto ci entra qualcuno senza di me arriva la polizia in un minuto, per questo l'ho messo qua".
Guardo il pacchetto di Ava in polvere e mi rammarico di vederlo umido, con il cartone gonfio, come se dentro veramente ci fosse detersivo. La portiera forse indovina quello che penso, ma non dice niente, perché quando alla fine arriviamo davanti alla guardiola ci troviamo il ragazzo del bar con due caffè sul vassoio.
"Chi li manda?" "Pino, la guardia giurata".
"Ah, grazie assai..." Giro il caffè e quello sta ancora poggiato nel secchio, sotto gli stracci, lo guardo, lo guardo e non lo prendo. Deve essere lei a darmelo. Lei finisce il caffè, poi me lo mette in mano con tutt'e due le mani.
Io lo prendo come prendevo la posta in carcere, come prendevo Tonino la notte per farlo succhiare, come qualcosa che sta là per me, e arriva da un altro mondo.
"Che cosa ci sta?" "Buoni fruttiferi al portatore, venti buoni da quindici milioni di lire l'uno".
Io gratto via un po' di sale dal cartone gonfio di umidità, e sotto compare Calimero.
"Da quanto tempo li tenete?" "Me li ha portati mio fratello quattro anni fa, quando si è sposato.
Non si sentiva sicuro con altra gente in casa, anche se si trattava di sua moglie. Fino a quel momento se li era tenuti lui".
"Come sta?" "In grazia di dio".
"E voi, li avete tenuti tutto questo tempo per vostro fratello?" "No, signora: l'ho fatto per voi, come vi devo dire... per ringraziarvi".
"E di che?" "Di non avergli mai detto sì. Di non averlo sposato".
Mi mette il pacchetto in una busta per la spesa, e usciamo sulla strada.
La portiera guarda verso il vetro antiproiettili di Banca Intesa e fa grazie, con la mano, che il caffè era arrivato. Tonino è all'angolo di Onyx che mi aspetta sul motorino. Ha gli occhi blu. La portiera lo guarda, mi guarda: "Si è fatto grande".
Io me ne vado senza neppure risponderle. Ce la facciamo sul marciapiede, perché c'è il cantiere della metropolitana e la strada è chiusa, però piano, senza prepotenza, sfiorando la seta da bancarella dei cinesi.
Mi fermo sulla vetrina della farmacia. Devo scegliere l'olio post-depilazione. E una crema, non troppo densa, per i massaggi.
Le nostre clienti si aspettano molta cura nei prodotti: tutto quello che ci chiedono è il superfluo, e su quello non voglio risparmiare.
Al di là dei sonaglini Chicco, nel riflesso del vetro, vedo me su via Marina, tra gli alberi e l'ospedale Loreto, schiacciata dalle distanze.
L'aveva sentito anche Mario, il motorino arrivare, prima e meglio di Roberto aveva riconosciuto l'annuncio di dolore che portava: molte volte era stato messaggero allo stesso modo. Aveva capito che cercavano la cocaina, solo quella: non potevano sapere che i ricavati delle vendite di un fine settimana tornavano a Capisante, versati in otto poste diverse della città, sotto forma di buoni fruttiferi. E Mario glieli avrebbe portati, se gliene avessero lasciato il modo.
Aveva sentito il motorino arrivare all'altezza dell'ultimo albero, aveva lasciato cadere il sacchetto tra il tronco e il muro, forse pensava di tornarlo a prendere quando loro se ne fossero andati.
Nella città soffocata dalla spazzatura a un sacchetto nessuno ci fa caso.
Pensava che gli avrebbero mandato uno bravo, Luigi, o Peppino che sapeva che dire e dove colpire. Aveva sceso lo scalino senza espressione, forse senza nemmeno irrigidire la schiena, come faccio io adesso.
Roberto aveva raccolto il sacchetto mentre lo uccidevano. Poi si era seduto a terra, rannicchiato sullo scalino, per covare il sacchetto e smaltire l'orrore. Nel bagno dell'ospedale aveva scoperto la sua fortunali suo rischio, la sua responsabilità, la sua disonestà, la sua onestà, il suo dubbio, la sua irresolutezza. Poi gli era arrivato in braccio Tonino.
Se me li avesse dati subito forse non sarei finita mai in prigione, o forse ci finivo prima. Magari lui aspettava che gli dicessi sì per portarmeli in dote, magari ha avuto paura di usarli. O ha aspettato di scordarsene per sapere cosa farne. Il capo ha pensato che li avessero presi quelli del motorino il giorno che lo hanno ucciso, per questo non me li ha cercati mai. Io neppure sapevo che esistevano, e così non li ha cercati nessuno. E poi per un capo a quei livelli l'incasso di un fine settimana serve per rifinirsi una casa con le ceramiche e il cesso di Versace, mica ci fa molto di più. Mica lo sa che con la sua eroina ci sto comprando le maschere per il viso, quelle al miele: Tonino ci lavora meglio.
Un vecchio davanti a me cerca di convincere il farmacista a dargli le pillole, la terapia che facevo io in carcere. Dice che non trova più la ricetta, ma che ce l'aveva. Io dico che dovrebbe dargliele e basta, dico che questo farmacista si prende troppa responsabilità verso la notte del vecchio, che studiano studiano e non capiscono niente. Anche la mia psicologa: si era sbagliata. Quando dopo tanto tempo l'ansia ti lascia te ne accorgi benissimo: è come scendere dai tacchi a spillo, e infilare le pantofole. Il piede piano piano riprende la sua forma, la caviglia si rilassa. Dopo un poco inizi a strusciare i piedi sul pavimento, la pancia si vede di più. Sai che nessuno ti filerebbe combinata così. Sai pure che finché stai in pantofole non vai lontano. Però ci vuoi restare.
***
SIDDARTA.Ferdinando dice che non ha mai visto un fotoincisore con le unghie lunghe.
''Hai graffiato di nuovo la carta mozzarella, è normale: come fai a fare il mestiere con quella mano?" "Ferdinà, ma che c'entra? Questa carta fa schifo..." "Proprio sulla carta non mi puoi dire niente: io sulla carta non risparmio e tu questo lo sai. È che hai queste unghie da ricchione...
mo' buttala questa, falla daccapo".
La faccio daccapo, però le unghie non me le taglio: non ci riesco.
E poi è anche la mano sinistra. E che io ero mancino in tutto, anche per la chitarra. Ho sempre fatto tutto con la sinistra: scrivevo, tenevo il coltello e facevo i solfeggi. Non c'è stato un professore che non mi ha detto di cambiare mano: "Lo vedi che brutta grafia?" E mo' eccomi qua: che si usa solo il computer, ma anche sulla tastiera sono più veloce con la sinistra.
Avevo una prozia fissata che ci teneva a tavola, a me e a mia sorella, mezz'ora in più e ci insegnava a tenere le posate. Io diventavo cretino, tagliavo più polpa che buccia, alla fine lei si girava e se ne andava da mamma: "Ma le hai fatte storte 'ste creature?" "Zia, lasciateli stare: sono bambini, l'importante è che mangiano".
"E mica è vero. Un giorno si siederanno a tavola con le persone e le persone mica staranno a vedere se mangiano..." "E nemmeno come, però..."
"E mica è vero. Quello te ne accorgi subito se uno sa stare a tavola o no..." "Ma con chi devono andare a mangiare questi figli miei? Con l'ambasciatore?" "E tu che ne sai?" Mia sorella si metteva d'impegno: le restava la fame, ma quel poco che si riusciva a portare in bocca ci doveva arrivare con il gesto esatto. Imparò ad arrotolare gli spaghetti sulla forchetta che nemmeno un filo penzolava da sotto. Io, appena la zia se ne andava, afferravo la pera e me la mangiavo a morsi.
Mamma invece non mi ha mai detto niente per la sinistra, e nemmeno per le unghie: era lei che pagava il conservatorio, e che fece il sanguinaccio in più per i vicini dopo l'esame di solfeggio, per farsi perdonare che li avevo torturati per pomeriggi interi con gli esercizi sempre uguali.
Poi un giorno i professori del Tecnico la chiamarono: "Signora, vostro figlio non combina niente: noi così all'esame non lo possiamo portare".
Era appena cominciato il secondo quadrimestre.
"Vostro figlio fa troppe cose, signora: deve scegliere".
E anche mia madre dovette scegliere se parlarmi o no. Tornò a casa mentre stavo finendo Bach, mi ci ero fatto i calli: "Con le corde al contrario è più difficile", dicevano al conservatorio, ma alla fine la sinistra aveva avuto ragione e mi veniva benissimo.
Salivo e scendevo le corde per rilassarmi.
"Matteo, i professori dicono che non vai bene a scuola".
"Quella di lettere?" "Eh, quella di lettere, ma anche quello di scienze: dicono che non ti portano all'esame".
"E allora devono bocciare mezza classe".
"Stammi a sentire. Io lo so che fino a mo' sei stato occupato col solfeggio. Ma mo' ti devi mettere con la capa a fare bene".
"Mamma, ma stiamo a febbraio: l'esame è a giugno".
"Matteo, dicono che se recuperi il programma è un miracolo, tieni tutti due..." "Mi metto sotto".
"Senti. Tu mo' la parte scocciante della chitarra l'hai finita. Adesso viene il bello. Perché non lasci il conservatorio fino all'esame di stato? Poi ti riscrivi un'altra volta a settembre... non perdi niente. Il diploma è una cosa seria, sennò al giorno d'oggi dove vai?" I professori mi portarono all'esame con la sufficienza e io presi 42: però non li perdonerò mai per aver costretto mia madre a guardarmi così, come una che non mi riesce a guardare e però lo fa lo stesso.
Non tocco una chitarra da allora, sono passati sette anni e figuriamoci se ricomincio adesso che stiamo chiusi in tipografia dalle otto di mattina alle sei di sera, comunque le unghie non le taglio.
Sono sicuro che se prendessi una chitarra adesso la musica mi verrebbe ancora, però tutto quell'allenamento sulle dita, quello adesso serve solo ad andare veloce sui clichè.
Rifaccio la carta mozzarella e la passo a Guglielmo per mandarla in stampa: "Centra i cuoricini d'oro sulla piegatura del cartoncino", gli spiego.
All'una vengono a ritirare le partecipazioni, dopo prendiamo la carta da imballaggio e la stendiamo bene bene sul tavolo centrale, ma la carta è rigida e si muove, allora Guglielmo prende quattro Anna Frank e ci ferma gli angoli. Poi ognuno caccia il suo: io mi metto con la testa nella pizza di scarole e non la alzo nemmeno per rispondere, tanto solo scemenze si dicono a quest'ora, approfittando che Ferdinando se ne va a mangiare a casa.
"Forse nei giorni che il lavoro deve andare veloce dobbiamo fare come mio cugino a Brescia: la colazione".
"Cioè il panino?" "No, si chiama colazione, si mangiano uno yogurt, una pizzeria e poi cenano direttamente la sera".
Noi stiamo a sentire Michele però non gli crediamo, perché tiene la bocca piena delle salsicce con i friarielli che gli fa la moglie alle sei di mattina, con lo stomaco in mano. Perché è incinta la povera Rosetta, e quella puzza di soffritto all'alba la disgusta per tutta la giornata.
"Ma quale lavoro veloce... dici piuttosto che tua moglie non ti vuole cucinare più, e tu te ne esci con la storia del cugino di Brescia".
"Non sto scherzando: qua 'sti Fabriano non sono uno scherzo, si devono finire domani per domani e manco un'ora a terra devono stare in deposito".
"Ferdinando ha detto che domani viene con la moglie e con la figlia e ci mettiamo sotto e finiamo tutto in giornata".
"Speriamo..." "Ma perché stai così preoccupato?" "I Fabriano sono più pericolosi dei libri perché non vanno sulle bancarelle, vanno dritti dritti in cartoleria insieme a quelli buoni".
"E allora?" "Mi metto più paura".
"Michè, tu sei rimasto scioccato".
Michele era rimasto scioccato da otto mesi. Da quando Ferdinando era arrivato con un francobollo di Posta Prioritaria e mi aveva detto: "Fammi la lastra di questo".
Io gliel'avevo fatta. Poi era andato da Guglielmo mentre lui stampava i volantini per la pizzeria di fronte che si voleva mettere a fare le consegne a domicilio, e aveva spento la macchina senza neppure spiegare.
Gli aveva messo in mano la lastra con il francobollo: "Fai quattromila di questi, ottanta per foglio".
Guglielmo aveva preso la lastra in mano e l'aveva guardata bene, anche in controluce, poi l'aveva fissato negli occhi e gli aveva risposto: "Don Ferdinà, io questi non li faccio".
"Ma perché?" "Mi metto paura, mica sono gli Anna Frank, questi..."
Ferdinando gli aveva sorriso, e stretto l'avambraccio come un padre:
"Gugliè, sotto la mia responsabilità".
"Don Ferdinà: se mi chiama il ministro delle Poste e me lo dice lui sotto la mia responsabilità, allora io li stampo".
Così Ferdinando era andato da Michele e gli aveva promesso qualcosa di soldi.
E siccome qualche sera prima, quando si era ritirato a casa, Rosetta si era presa da parte Michele e gli aveva detto: "Amore, noi aspettiamo un bambino", e Michele a quel noi ci teneva veramente ed era stato tutta la notte a pensarci mentre Rosetta dormiva; allora in quel famoso martedì pomeriggio Michele rispose: "Sì, Ferdinando, va bene, però lo facciamo dopo il lavoro con il negozio chiuso".
E poi aveva chiamato Rosetta, con la Posta Prioritaria in mano, e le aveva detto:"Faccio tardi", e Rosetta doveva esserci rimasta male, dall'altra parte, ma Michele mica le poteva spiegare.
Appena noi ce ne andammo, Michele e Ferdinando cominciarono a stampare e avevano quasi finito quando un finanziere bussò alla saracinesca e un altro entrò dalla porta del giardinetto che tenevano aperta per far uscire la puzza dell'acqua dopo la pulizia dei rulli.
A un tabaccaio non era sceso giù di essere rimasto fuori dal giro, e aveva fatto una telefonata anonima; aveva detto: "Una tipografia nella traversa delle villette a San Rocco". I finanzieri avevano fatto su e giù per il vialetto, tra le villette, e poi erano arrivati.
La fortuna di Michele fu che in quel momento stava sul retro a rispondere a Rosetta, perché lei all'improvviso aveva capito che il bambino era maschio ed era corsa a telefonargli. Ma Ferdinando lo presero con le mani sulla Posta Prioritaria e lo arrestarono la sera stessa.
Da Poggioreale Ferdinando mi aveva scritto una lettera che cominciava così, che siamo tutti una famiglia e a me voleva bene come un figlio, e anche che di tutti i suoi figli io ero l'unico che sapeva mettere due parole in fila. Mi chiedeva di parlare con l'avvocato e poi scriveva anche delle cose in codice ma io capii benissimo che voleva: era la falsa contabilità da far sparire. Quando mi arrivò la lettera io rimasi molto male perché a casa nostra non era mai arrivata una lettera dal carcere. E
passai tutta la notte a parlare con mia sorella finché decidemmo di non dire niente a mamma.
Il carcere a Ferdinando non gli prese bene, si fece venire una mezza anoressia, e così dopo un mese passò ai domiciliari. Ma anche a casa Ferdinando continuava a stare depresso; i parenti non glielo perdonavano: quel capofamiglia buttato in pigiama sulla poltrona gli rovinava i pranzi della domenica. La sera di Natale, quando lo chiamarono a benedire la tavola, lui non se la sentì.
"Madonna, Ferdinà", disse la moglie, "e jamm', riprenditi un poco che altri due mesi sono".
"Veramente papà, è da quando siete tornato che state così".
"O' nonno, ma quand'è che vi riportano un'altra volta dentro?", concluse la nipotina.
Da allora cose veramente pericolose, nella tipografia, non se ne sono fatte più.
Alle sette mi metto in sella al Califfo, lascio Michele alla metropolitana e poi faccio tutto il Frullone fino a casa.
Trovo mia sorella schiantata sui libri e mamma in bagno. Le busso sulla porta per dirle che sono arrivato e sento che lei tira lo sciacquone: stava fumando di nascosto. Quando sente o me o Daniela che ci avviciniamo al bagno spegne la sigaretta sotto il rubinetto, poi l'avvolge nella carta igienica e scarica. Poi resta altri due minuti in bagno con la finestra aperta a lavarsi i denti e se la cosa è proprio urgente spruzza sulla tendina il primo profumo che trova.
"Uè", mi fa.
"Uè", faccio io.
"Tra mezz'ora è pronto".
Vado in camera mia che puzzo a peste del petrolio con cui puliamo le lastre dopo ogni stampa, e poi esco con i panni puliti sotto braccio sognando la doccia. Il bagno profuma forte di tabacco e muschio bianco.
"Dici a Daniela che è pronto", urla mamma nei settanta metri quadri che è tutta la nostra casa, così che Daniela sente almeno quanto me. Ma siccome sta sotto esame non vuole essere disturbata.
"Daniela è pronto", urlo io uguale uguale a mamma.
Daniela arriva a tavola con il pigiama che non si toglie da tre giorni, i calzini, e un cerchietto per i capelli che le ho regalato io negli anni Ottanta. Quasi non mi saluta e mi passa un foglietto: "Vedi se puoi procurarmi questo", dice.
Io leggo: Storia del Regno di Napoli di Benedetto Croce.
Faccio no con la testa. Su Napoli abbiamo un sacco di cose: I Proverbi, Il Dizionario Napoletano-Italiano e anche La Cucina Napoletana della Carola Francesconi che mamma tiene là come sottopentola, tanto poi cucina sempre le stesse cose.
"Ma com'è che da un po' di tempo a questa parte non fate più i libri per l'università?" "Mamma, non li abbiamo mai fatti i libri per l'università.
Copiamo solo quelli che vendono di più".
L'equivoco in testa a nostra madre è nato quando Daniela preparava Letteratura italiana II, che fu proprio il periodo in cui era arrivato non solo La luna e i falò, ma anche la stessa carta che usava Einaudi, comprata dallo stesso rivenditore.
Ferdinando può dire quello che vuole sulle mie unghie, ma noi con un originale, e il materiale buono, facemmo uscire una tiratura che altro che bancarelle: in mano a Pavese poteva andare.
Insomma Daniela ci fece l'esame e prese la lode. E qualche altra volta pure, è capitato con il catalogo della Newton & Compton, perché poi Ferdinando, un po' mi vuole bene, un po' non mi ha mai messo in regola, e così dice sempre: "Mattè, prenditi quello che vuoi, che tua sorella studia..." Mamma non si arrende: "E perché, Storia del Regno di Napoli non si vende?" "Non lo so, ma a noi chiedono di fare quelli che vanno proprio assai. Quelli che vanno sempre: Il diario di Anna Frank, Siddharta, Il giovane Holden".
"Li ho letti già".
"Lo so".
"A uno, non mi ricordo quale, mancavano dieci pagine per mezzo".
"Quello è Guglielmo: quando mancano le pagine è Guglielmo perché Michele è preciso".
"E come sta la moglie?' "Penso bene..." "E a che mese sta?" "Sempre all'ottavo: uguale a due giorni fa quando me l'hai chiesto".
"Che è? Stai nervoso?" Allora finalmente Daniela si riprende e mi salva:
"Mamma, sta stanco".
"Stai stanco?" "Stamattina ho fatto le partecipazioni per un matrimonio e oggi pomeriggio i santini per un trigesimo... hanno voluto la foto del morto, e da dietro la spalla, un poco a filigrana, il volto di Padre Pio.
Si doveva finire tutto il pulito per forza stasera, che domani abbiamo i Fabriano".
Mamma prende a sparecchiare e Daniela mi tira via, fuori al balcone.
Spegne la luce.
"Accenditi la sigaretta e fammi fare due tiri".
Gliela passo.
"Quando hai l'esame?" "Dopodomani. Devo fare la nottata".
"Sì, però dopo ripigliati".
"Mi ripiglio".
E piglia anche una sigaretta dal mio pacchetto, per la notte.
Perché anche Daniela fuma di nascosto, fuori al balcone: quando mamma scende a fare la spesa o va a prendere il caffè dalla vicina, lascia la porta aperta per sentire se rientra e fuma attaccata al muro del balcone come una lucertola. Fa un buchino nella terra dei vasi e ci butta la cenere dentro, poi lancia il mozzicone giù.
Mamma lo sa, come Daniela sa che mamma fuma in bagno, solo che nessuna delle due se la sente di deludere l'altra.
Quando faccio per andare a dormire mamma mi ferma sulla soglia della camera: "Senti..." "Eh?" "Ma tua sorella quando ce l'ha l'esame?" "Bon?"
A prima mattina trovo già tutta la famiglia in catena di montaggio.
La figlia di Ferdinando passa i fogli alla taglierina, la moglie incolla i quattro angolini di cartone sulla base, e la nipote li riempie: invece di dieci fogli per album ce ne deve mettere nove. Ferdinando è tutto eccitato: tira fuori dall'imballaggio gli A1 con le braccia stese come se dovesse piegare le lenzuola e li odora, mi fa toccare un lembo, dice:
"Guarda, Mattè, guarda come sono belli".
Veramente sono belli. Questi arrivano dalle cartiere di Fabriano con gli orli sfrangiati come pezzi di lino da corredo. Prima di arrivare da noi sono passati anche da Peppe lo Scalzo che ci ha stampigliato sopra la F.
Qua se continuiamo così veloci per ora di pranzo abbiamo pure finito, e infatti alle due la moglie di Ferdinando caccia quattro belle frittate di maccheroni e dice: "Siete tutti ospiti miei". Poi sparecchiano e se ne vanno. E restiamo di nuovo noi uomini soli a imballare.
Mentre stiamo ancora chiudendo gli ultimi pacchi già arriva il camion che se li deve portare nei depositi delle cartolerie. Michele tira un sospiro di sollievo e poi gli squilla il telefonino con la suoneria di Rosetta.
Allora con sette pacchi di Fabriano in mano va a rispondere e inciampa in un'Anna Frank.
"E che sangue", dice, '"sta guagliona sbuca dappertutto".
Poi lo vediamo diventare rosso e farsi sempre più grande mano mano che parla, al punto che quando si alza sembra due metri e non ci sta più nei panni.
"Rosetta ha avuto una contrazione", fa, poi ci guarda: "Ma mica è pericoloso partorire a otto mesi?" Io, Ferdinando, Guglielmo e l'autista del camion diciamo tutti insieme: "Nooo", e facciamo pure con la testa a cacciavite, ma in realtà nessuno di noi lo sa veramente.
"Vai, va'", lo manda Ferdinando con un gesto di benedizione, e io gli dico: "Prenditi il mio motorino".
E così usciamo tutti sulla soglia e vediamo questa bella scena del camion che se ne parte volando con i pacchi Fabriano e dietro Michele, volando pure lui, che sul mio Califfo sembra l'incredibile Hulk. E mentre li vediamo uscire dal viale verso il Frullone, dall'altra parte del viale arrivano le macchine della finanza.
"Io vorrei sapere come fa 'sto bambino", dice Ferdinando, "a capire sempre quando si deve chiamare suo padre".
Ma non è veramente preoccupato perché il negozio è pulito, e allora quando il maresciallo dice: "Ispezione", noi gli facciamo un bel sorriso rilassato.
Infatti le carte sono tutte a posto, solo io qua dentro lavoro a nero perché Ferdinando non ha mai avuto il tempo di inquadrarmi, però il maresciallo mi guarda e fa: "Scommetto che tu sei in prova".
"Eh", dico io.
"Eh", dice lui, "vabbè, mo' mandiamo a chiedere 'sto controllo dei documenti, un'oretta e ce ne andiamo tutti quanti a casa.
Per favore però, spegnete i cellulari".
"Mannaggia", dico io, "volevo chiedere a mia mamma se è pericoloso partorire a otto mesi..." Il maresciallo mi guarda strano come se fosse un messaggio in codice, allora gli spieghiamo tutta la storia e lui ci tranquillizza, che anche sua moglie ha partorito a otto mesi e mo' suo figlio è grande e grosso, un bel ragazzino di undici anni che l'altro ieri ha pure imparato come si monta la pistola d'ordinanza.
Insomma tra una sigaretta e l'altra deve passare quest'ora. Ferdinando se ne esce fuori al viale con il maresciallo e si mettono a indicare la stazione della metropolitana e si ricordano di quando a quel posto c'era una masseria.
Io tiro da sotto il bordo del monitor un Siddharta e comincio a leggere.
È fatto bene: la copertina centrata, la carta buona.
"Mancano le bandelle", fa Guglielmo.
"E vabbè: per tre euro che vogliono..." Dopo dieci minuti e dieci partite di solitario mi ferma: "E che fai? Te lo leggi?" "Eh".
A pagina 38 lo fa di nuovo: "Com'è?" "Così così".
"E che significa Siddharta?" "È il nome suo".
Poi all'improvviso salto io: "Ma che cazzo, Gugliè, mancano dieci pagine".
"Sarà capitato a questo".
"No, pure a quello di mia mamma, ma come cazzo le fai le cose... di questo quanti ne abbiamo tirati?" "Mille".
"Che cazzo".
"E vabbè si capisce lo stesso".
"Ma che si capisce, questo è uno che fa sempre cose diverse".
"E vabbè sei arrivato fino a qua, dove stai? Vedi? 78. Fino a 78 e non capisci lo stesso?" "E si vede che sono cretino..." "Fino a mo' che è successo?" "Sta questo in India che è figlio di uno ricco, però non sta bene".
"Che ha?" "Niente, è triste, allora lascia tutto e se ne va con un amico a fare un viaggio e incontra certa gente e mano mano che l'incontra si mette a fare quello che fanno gli altri. Sono arrivato qua".
"Mo' si trova una".
"Figurati".
"Scusa, leggiti come continua".
"Mi hai fatto passare la voglia".
"Secondo me mo' si trova una. E si butta nel commercio".
Gli tiro il libro in testa e mi faccio sulla soglia, dico al finanziere:
"Marescià, a questo ve lo volete portare? Per favore..." "Me la offri una sigaretta?", risponde lui.
"Sta qua, mo' ce la fumiamo insieme", e allungo la mano per passargli il pacchetto.
Lui mi guarda le unghie: "Suoni la chitarra?" "Ho smesso".
"E quando ricominci?", fa, e mi dà i cerini.
Io accendo e sento un'idea arrivarmi nella testa che non mi riguarda proprio adesso: una cosa che viene dal passato o dal futuro.
Però ne sono sicuro mentre gli rispondo: "Presto".
***
L'AMICO IMMAGINATO.Vibrò tre volte nella pochette. Allora Marina si mise in attesa.
Sorridendo e senza spiegare nulla si allontanò dal gruppo di qualche passo, cominciò appena a camminare lungo il braccio ovest del patio per fermarsi contro la seconda colonna. Mentre tirava fuori il telefono dalla borsetta vide che stava scurando notte sul museo, vide un punto bianco riflesso nella finestra della Sala Farnese e sentì che Véspero, insieme a quel messaggio di Ernesto, facevano la sua vita perfetta.
Quando tornò, gli altri le dissero che era arrivato Biagio con Agnese, che con i capelli corti sua figlia le somigliava straordinariamente.
Si mise a cercarli, trovò Biagio davanti alla Pecora in formaldeide a cercare di convincere la bambina che si trattava di una statua.
Biagio le sorrise vedendola arrivare, e le fece segno con la mano, da dietro la testa di Agnese: che l'affare si faceva complicato.
"Più che arte contemporanea sembra un museo di scienze naturali..."
"In cui gli scienziati hanno sbagliato le dosi di formaldeide..." La bambina nemmeno aveva salutato sua madre, ipnotizzata dalla decomposizione delle opere. Marina la indicò al marito: "Non è l'unica a cui ha fatto questo effetto".
"Anche a chi?" "Anche all'autore: ha dichiarato: Some of my creations are
'silly'and 'embarrassing'..." Nel braccio di suo marito, che aveva la forma giusta per altezza e inclinazione, Marina tornò verso la Carcassa di cavallo e intanto raccontò per punti la giornata, iniziando dalla manifestazione dei disoccupati di Forza Lavoro Disponibile. Da quello che era entrato con la compiacenza del custode dal cortile di servizio, era salito fino al piano dell'inventario, era passato attraverso i reperti impolverati, le anfore, i capitelli, la cassa dei vetri, forse aveva anche rubato, poi aveva aperto una di quelle finestre che non si aprivano da mai e si era affacciato sulla città.
E da un cornicione così largo che sembrava il ponte di una nave aveva Strillato: "MI BUTTO. I CORSI DI FORMAZIONE, O MI BUTTO".
"Agnese parla da sola..." "No, non parla da sola", aveva spiegato Marina alla dottoressa Donati ingoiando quella punta di dolore che sempre provava quando a qualcuno che non era nessuno, un collega, un conoscente, doveva dare spiegazioni su Agnese.
"Non parla da sola: ha un amico immaginario".
"E chi è?" "Non l'ho mai visto..." "Dai, voglio dire... ma è uno dei cartoni?" "No, no: se lo è proprio inventato lei. Lo chiama Daniele".
"Mi aspettavo qualcosa di più esotico... tipo Smutty".
"Invece no. Daniele".
Marina vedeva Agnese muoversi nel vernissage molto più morbidamente dei giornalisti locali e raccontare tutto ad alta voce; attraversò il cortile e andò a convincerla che le installazioni non erano fatte con animali veri.
"Mamma dice che sono pupazzi", disse Agnese al suo amico immaginario.
L'inaugurazione tramontava in una cena nel Salone della Meridiana.
Invito riservatissimo a galleristi e artisti, un assessore sulla porta, che non accettava l'idea di andare a mangiare in trattoria.
Il governatore della regione era scappato in mattinata: in conferenza stampa aveva promosso le due mostre allestite in città, superando con slancio i quattro secoli che le dividevano, un volo dritto dritto dalla fine del Cinquecento ad adesso, ma non c'era interprete, e gli inglesi non avevano capito. Marina un poco si scocciava, e un poco le faceva piacere tenere ancora qualche ora addosso la camicia ruggine trasparente e le scarpe da tango, così più adatte a salire quello scalone delle suole in gomma dei turisti.
Biagio e la bambina erano tornati a casa e lei li aveva visti andare via lasciando qualcosa di se stessa con loro, prima di venire risucchiata dall'ufficio stampa, di essere presa sotto braccio da Dodi che le diceva di andare assolutamente a dare un'occhiata alla galleria nuova, che ci sarebbe passato un artista tedesco a inizio settimana.
Era questo il genere di discorsi per cui Ernesto avrebbe dovuto essere lì, di cui doveva essere informato appena possibile: appena si fosse passati dal timballo di tagliolini ai tubetti vongole e cozze, Marina si sarebbe alzata chiedendo permesso, avrebbe attraversato il salone nel semibuio imposto da esigenze di catering, e camminando lungo il solco della Meridiana avrebbe raggiunto le vetrate aperte.
Mentre lo scirocco annodava il tricolore allo striscione di Forza Lavoro Disponibile, poteva finalmente chiamarlo e sfogarsi.
Dare la giusta risposta a quel messaggio che chiunque avrebbe frainteso, ma lei no. Lei sapeva che non posso sopportare di non essere là nasceva da quella stessa attitudine da dirimpettaia di Ernesto, quella stessa predisposizione al pettegolezzo e al particolare che lo faceva essere il migliore ufficio stampa del migliore museo di arte contemporanea d'Italia. E il suo amico più difficile da gestire.
"Mi devi dire tutto".
"Non ti dico nemmeno con chi sono seduta al tavolo".
"Perché?... Che cattiveria..." "La prossima volta venivi..." "Ma ho questo inferno di fiera. Però ci vengo la settimana prossima e tu mi accompagni... con chi sei seduta?" "Con Dodi".
"Dio buono, forse è meglio la fiera..." "Gli inglesi mi stupiscono sempre".
"Anche a me, ma nello specifico?" "Hanno certe giacche nere di tre taglie in meno, i polsini escono fuori di venti centimetri, le cravatte piccole che manco un cappio e sono elegantissimi, ma perché?" "In compenso quelli degli uffici stampa inglesi vanno con i mocassini intrecciati..." "Ognuno ha quello che si merita..." "I mocassini intrecciati non se li merita nessuno. E la Sabelli?" "E venuta con la pelliccia".
"Embè? La personale è fatta con gli animali morti..." "Pronto? Qui è il sud. Capisci? Fuori dall'alpe c'è la primavera, io il prossimo weekend vado a Procida..." "Capito, capito, e quel mostro della Fabiana com'è vestita?" "Non lo vedo bene..." "Hai le cataratte?" "Stiamo a lume di candela, è buio..." "Non è arrivata ancora la corrente, nel Regno?" "Va bene se non lo capisce la Donati, che fa l'ufficio stampa di una galleria d'arte, ma che ti preoccupi tu che fai il medico mi sembra grave", disse Marina a Biagio. Poi portò in cucina i piatti piani e li passò a Luisa perché ci preparasse il sushi.
"Tu te lo devi dimenticare che i nostri mariti sono dei medici.
Sono diventati dei baroni, del paziente non ne sanno più nulla".
"Quando ci siamo sposati Biagio mi ha detto: 'Io non curo una patologia, ma una persona'".
"Adesso non curano nemmeno più le patologie, si limitano a farci convegni".
"Comunque a te Agnese ti sembra strana?" "Perché ha voluto mettere una sedia in più a tavola?" "Fa anche altre cose: si bagna perché tiene l'ombrellino a metà sulla testa, insomma è sempre in compagnia".
"Beata lei..." "Il primo fumetto che mi ricordo si chiamava Barnaby, era un libretto che aveva portato mio padre dagli Stati Uniti... hai presente quando ti leggi un fumetto talmente tanto che sai le vignette a memoria e poi te lo continui a leggere solo per ricordo?" "Eh".
"Era un bambino che aveva un amico immaginario, un 'fato padrino' con le ali rosa, e tutti i personaggi bambini lo vedevano e solo i suoi genitori si preoccupavano... secondo me è una cosa del genere".
"Ce l'hai ancora questo fumetto? Magari se lo trovi lo puoi dare ad Agnese".
"Era in inglese".
"Glielo leggi tu".
"La verità sai qual è?", disse Marina fermandosi nel corridoio con i piatti pieni in mano. "È che Biagio non è veramente preoccupato per Agnese: ha solo paura di fare brutta figura con gli altri".
Luisa fece la smorfia poco convinta di quella che ha appena sentito una cosa sgradevole, e per tutto il resto della cena tenne Agnese distratta insegnandole a mangiare con le bacchette. Solo quando la bambina si fu addormentata sul divano ricominciarono a parlare.
"Ad ogni modo Agnese anche mentre parla con Daniele, lo sa che non esiste".
"Un poco lo sa, e un poco secondo me lo protegge ai nostri occhi, cioè se lo vedessimo anche noi glielo rovineremmo".
"Comunque le femmine, le bambine, ne vanno più soggette".
"All'amico immaginario?" "A immaginare. Situazioni, ruoli, amici: certo è più comodo di un rapporto reale, non devi stare là a spiegare i giochi, puoi avere sempre ragione, non è deludente..." "Se aspetta di avere rapporti non deludenti si può fare vecchia, povera piccina", disse Marina andando a fare il caffè. press@castello.it sei in ufficio?
Ernesto marina@lagalleria.it Sì, ci parliamo? press@castello.it Dopo: adesso ho Christian a cinque metri, e ti volevo parlare male di Christian E. marina@lagalleria.it È quello che va in giro con le All Star anche a meno quindici gradi? Allora puoi scrivermi male di Christian, con lui a cinque metri... non è meglio? Che te ne fai del w.end? press@castello.it Vado a vedere la partita con Christian E. marina@lagalleria.it Tutto il w.end? press@castello.it È la cosa PRINCIPALE
E. marina@lagalleria.it Liliana è d'accordo? press@castello.it Liliana è a un corso di perfezionamento di kick boxing...ora ti telefono, mi ripeti il tuo diretto?
E.
"Ehi?" "Ehi".
"Stamattina uno stagista di Liliana mi stava rubando la bicicletta".
"Dici che glielo aveva commissionato lei, il furto?" "Mi fa: 'Era caduta e gliela stavo alzando...', ti rendi conto?" "Ma dai... uno stagista che ti ruba la bici per dispetto, ma cos'è?"
"Oggi gli è finito lo stage".
"Che ci facevi con la bicicletta?" "Ci faccio tutto con la bici, io".
"Ma... poi ce la fai? A quell'età? E poi non c'è la neve?" "Piccina, tu forse non ricordi ma io ho un fisico pa-u-roso per la mia età... per questo la Liliana fa la boxe: per starmi dietro..." "Secondo me lo fa per sopravvivere: cioè, ma ti rendi conto povera femmina, tenerti davanti a casa e sul lavoro..." "Martedì prossimo viene là a vedere la mostra, chiediglielo".
"Tu non vieni?" "Ora vediamo".
"Dopo il lavoro vado a Procida".
"Da amici?" "Con Biagio, prendo l'ultimo traghetto, lasciamo Agnese con i nonni".
Lui semplicemente la salutò, come altre volte prima del fine settimana, come se il fine settimana fosse lo spazio intimo da non invadere, e i giorni di lavoro soltanto il tempo dove potersi incontrare.
"Comunque quest'anno abbiamo avuto solo un giorno di neve, eh?" Marina posò il telefono e le sembrò, chiudendo la porta dell'ufficio dietro di lei, di chiudere un sipario, di abbandonare quel palcoscenico che era il loro territorio comune, in attesa che la vita vera arrivasse all'improvviso, nel pomeriggio della domenica.
E non c'erano mai state tante domeniche pomeriggio come nel suo matrimonio.
Era tutto un asciugare di forchette da rimettere nei cassetti, inseguire i nipotini nelle stanze, trovare la posizione più comoda sul divano.
Erano le ultime venti pagine del romanzo conservate per il momento migliore, quello più tranquillo, quando si accorgeva che i genitori erano diventati vecchi perché le chiedevano il letto per riposare. Quando Biagio organizzava i bambini in squadre per strappare via le infestanti dai vasi e la luce si veniva a posare sulle pagine, come un gatto d'inverno, e accompagnava le parole fino all'ultimo rigo, fino al punto.
Il punto in cui chiudeva gli occhi e si assopiva senza colpa, perché quel mondo che si muoveva attorno lo reggeva lei con i suoi occhi, lasciandoli aperti, e il pomeriggio della domenica li riusciva a chiudere con la promessa che il mondo se la sarebbe cavata da solo. Che la caffettiera che aveva lasciato carica sul fornello avrebbe aspettato fino alle cinque e mezzo e Biagio, sbirciandola addormentata dal terrazzo, avrebbe detto ai bambini di fare piano.
L'ultimo traghetto per Procida partiva da Pozzuoli: il secondo giorno, con le spalle in fiamme, Biagio lo vedeva rientrare sull'isola, giallo come un postale dei fiordi norvegesi. Marina era scesa a trovare campo per il cellulare, chiamare i nonni, e arrampicandosi verso il carcere aveva pensato che non le piaceva veramente la spiaggia quanto le piacevano invece i fichi d'india che sbucano dal tufo di Terra Murata, e le vecchie che si anticipano la messa della domenica, e le biciclette. Ne aveva affittata una. Era tornata con quella, scampanellando sotto il balcone della stanza.
Allora Biagio aveva abbassato la tesi del laureando di lunedì e l'aveva guardata da lontano, partendo da molto più lontano del limite della stanza. L'aveva guardata da sei anni di matrimonio, e non l'aveva trovata.
"Non ti ho mai visto su una bicicletta".
"In città è impossibile... mi sta bene?" "Molto. Dove l'hai trovata?" "Al noleggio. Ventiquattro ore dieci euro".
"Ti prepari per la cena?" "Salgo".
"Poi mi porti a canna..." Avevano bevuto molto e molto bene, poi il Greco era freddo e loro accaldati ancora, poi i gatti chiedevano le code delle alici, i bambini inseguivano le code dei gatti intorno alla sua bicicletta, allora Marina si alzò e andò in bagno. Chiuse a chiave e si mise davanti allo specchio.
Si toccava la faccia e si riconosceva.
Si guardava negli occhi e non voleva uscire più da lì. Di tutto quel porticciolo che fuori l'aspettava, di quelle cupole maiolicate sulle case scavate dai pescatori, di Biagio che lasciava cadere lische ai gatti sorridendo ai camerieri, di tutto il mare che c'era fino a casa, della sua casa che dormiva da qualche parte sulla costa, di Agnese che dormiva a letto con la nonna da almeno due ore; e di nuovo della pelle che le bruciava sotto le bretelle del vestito, e delle lentiggini che le erano esplose con il primo sole: di tutto questo non le importava quanto di quella bicicletta che a Torino era una cosa normale e nella sua vita mai.
Lo sapeva adesso; mentre la affittava non si era chiesta da dove nascesse quel capriccio, ma ora lo sapeva: ora cominciò a sorridere.
Davanti allo specchio si copriva la faccia con le mani lasciando appena lo spazio tra le dita per continuare a guardarsi, per non perdersi, e sorrideva come chi ha capito e si vergogna, come chi ha fatto quello che non doveva e si è già perdonato.
"La nonna lo ha detto a mamma", disse Agnese al suo amico immaginario.
Allora la nonna e la mamma avevano litigato, Marina si era convinta di aver sbagliato a lasciare Agnese in un momento così delicato, lasciare che la sua immaginazione si spandesse per la casa dei nonni senza gli argini del suo abbraccio: la nonna l'aveva lasciata apparecchiare per quattro, aveva lasciato che Agnese portasse in tavola il bicchiere e il piatto per Daniele. Marina provò a spiegare: "L'amico deve restare invisibile sennò il bambino entra in confusione rispetto alla dimensione del reale... ti ricordi Barnaby?"
Poi il telefono le vibrò tre volte nella tasca, allora baciò rapidamente la nonna, prese la borsa con il corredino di Agnese, e si avviò in ascensore. la delegazione arriva la prossima settimana, io spedito a basilea. aggiornamenti in tempo reale: ti tel. dopo.
Le aveva telefonato, dopo. Le aveva detto che non sapeva quando, ma sarebbe venuto, da solo. Che non sarebbe certo riuscito, da solo, ad attraversare una città così complicata. E Marina aveva sentito quella parola, solo, come un pericolo.
Sentiva il pericolo arrivare piano come l'acqua che si infiltra nella crepa del muro.
Aveva tradito, sapeva già come si fa. Non era stato male, però nemmeno essenziale come il suo perfezionismo da gallerista le imponeva che fosse l'esistenza. E tanto era convinta che non fosse passato nulla di quei tradimenti nella sua vita che non era mai stata costretta a mentire, a nascondersi, a non ricordare. Non aveva mai dovuto dimenticare o omettere nomi in presenza di altri: quello che c'era stato era bastato il suo corpo a trattenerlo. Oltre: nella sua casa, a Biagio, ad Agnese, non era mai arrivato nulla.
E a Ernesto aveva raccontato di quel tradimento, lo aveva fatto perché era una parte della sua vita che lui non poteva conoscere se lei non gliel'avesse suggerita.
Perché nella prima estate in cui ebbero qualcosa da dirsi lei gli aveva lasciato intuire tutta l'angoscia che le provocava l'idea di Agnese in un asilo pubblico nel sud d'Italia.
"A quest'ora sarà già diventata un corriere della camorra..."
"Spiritoso..." "Lo porta ancora il pannolino?" "Ma no, che non lo porta.
Ha quattro anni".
"I pannolini tornano comodissimi ai narcotrafficanti..." Aveva dovuto ridere, si era distratta, avevano finito l'aperitivo a litigare su un allestimento e lei era tornata al suo tavolo, nella stessa piazza, venti metri più là, ma stessa tovaglia gialla e stessi discorsi, sentendo che quell'angoscia per Agnese era rimasta protetta dalla sua ironia, da una tenerezza che era patto indissolubile, e che nessuno avrebbe mai indovinato in Ernesto vedendolo mezz'ora dopo negare un'intervista al caporedattore del mensile più influente del momento.
E allora raccontargli il tradimento significava ricordargli che nella sua vita entravano anche altri uomini.
Però proprio Ernesto era meglio che restava là: a distanza di sicurezza, conficcato in una scrivania che lei non aveva mai visto ma poteva immaginare, ne aveva viste altre di scrivanie al Castello.
Aveva spostato l'immagine di lui nella mente fino a che aveva preso una certa costanza: e quando adesso lui sollevava il ricevitore per risponderle lo faceva con quella mano, con quella luce da sinistra.
Ma a cosa veramente pensasse lui, questo non lo sapeva dire: tutti i recettori che le consentivano di vedere una storia tra colleghi molto prima che i protagonisti stessi se ne accorgessero, quelle antenne dolorose che le avevano fatto indovinare il divorzio di sua cognata con mesi di anticipo rispetto alla famiglia, che la aiutavano a prevenire i malesseri di Biagio, adesso erano sovraccarichi, ingolfati, non più buoni a niente.
Avrebbe dovuto chiedere a qualcun'altro, come faceva con i suoi collaboratori quando era stata troppo tempo su una riproduzione e non sapeva più dire se valeva o no la pena di comprarla, quando le serviva aiuto per capire fino a che punto quello che le piaceva le piaceva davvero. Avrebbe dovuto fare così: chiedere che significavano quei segnali, quelle telefonate, chiedere di interpretare, e come dai maghi nel fondo delle tazzine: sperare di sentirsi dire.
Tentò di non chiamarlo più. Per giorni rispose ai suoi messaggi solo quel poco perché lui non capisse che c'era qualcosa.
Ma era successo altre volte, e non durava molto.
Un ciclo di resistenza non andava oltre la settimana, per Marina era come smettere di fumare dopo un colpo di tosse: poteva seppellirne il pensiero sotto le giornate fino a convincersi che stava bene, meglio.
Ma appena stava bene, meglio, allora non c'era più motivo per non chiamarlo. press@castello.it Allora stanno arrivando. C'è anche Liliana.
Pensi di andare al museo?
O mandi quel genio della Donati?
Liliana si è organizzata tipo gita scolastica: si fanno un giretto, scattano due polaroid, poi a mezzogiorno qualcuno dirà: "e dove si può mangiare una bella pizza?" Nessuno se ne accorge se non ci vai... io scendo mercoledì prossimo.
E.
Marina anticipò di due ore il sopralluogo al museo per controllare lo stato di decomposizione della testa di vacca. I custodi si lamentavano per la puzza, una turista danese era svenuta davanti alle larve di mosca.
Spostò l'appuntamento di pranzo, all'altezza dell'Adriano rinunciò a credere che il tassì sarebbe avanzato ancora nel traffico e risalì tutta Sant'Anna dei Lombardi a piedi.
La piazza di pietra esplodeva sotto il sole, i vecchi tentavano il tresette all'ombra dell'unico banano sopravvissuto alla mattanza estetica di una architetta milanese.
I custodi aspettavano Marina come se stessero aspettando il camion dello spurgo davanti a una fogna intasata, lei li tranquillizzò con un gesto della mano passando i tornelli d'ingresso ed entrò nella sala II mentre la dottoressa Donati introduceva il problema alla delegazione del Castello.
Marina si avvicinò con la sicurezza della padrona di casa, sorrise dando per scontato che il suo nome annunciato una volta dalla Donati bastasse per tutte le strette di mano, e guardando solo Liliana spiegò perché l'artista non aveva voluto che il sangue venisse drenato.
A mezzogiorno qualcuno disse: "E dove si può mangiare una bella pizza?"
Più tardi Marina li accompagnò all'altra mostra.
L'altra mostra non puzzava, ma nessuno degli ospiti avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare la città senza dire di averla vista.
Riuscirono a interessarsi, anche se di Caravaggio non c'erano più quotazioni dal 1610.
Marina appena poté guardò nel parco: aveva dimenticato cosa significa odiare una donna, temerla.
Ricordava gelosie accese nell'adolescenza che poi si erano ricomposte in un sentimento di appartenenza femminile, nella certezza di un vocabolario condiviso, una affiliazione che non serviva tradire o temere, che anzi proteggeva.
E gli uomini anche: erano diventati un mondo omogeneo e indistinto di caratteristiche comuni.
Si parlavano attraverso le donne. Generi e suoceri, fratelli e cognati, mariti di amiche che un tempo erano stati amici fra loro adesso decidevano il loro sabato e le loro vacanze attraverso le donne. I regali di Natale, la sala del cinema, la bottiglia da portare per la cena. Si riconoscevano l'uno con l'altro dagli atteggiamenti che le donne riconoscevano in loro, si prendevano in giro con i soprannomi che le proprie donne gli avevano affibbiato.
E in questo essere così diventati, neppure gli uomini erano temibili più.
Erano anni, moltissimi anni che non esisteva più un essere umano di cui avere paura.
Quella paura che adesso si muoveva nella gonna longuette, sorrideva sotto quel rossetto mattone che smette di essere volgare solo dopo i quaranta.
Quando diventa all'improvviso segno di borghesia solida e intellettuale.
Una donna che sa portare un rossetto del genere ha sempre relegato alla dimensione della manovalanza qualunque altra creatura femmina attorno a lei. E lei infatti adesso così si sentiva: ragazza a bottega che mai sarebbe arrivata a padroneggiare gli anni e la bellezza.
Quella donna, Liliana, aveva qualcosa in più, e forse più di tutto perché aveva resistito alla tentazione dei figli. Forse non aveva mai messo in conto di averli, senza cedere alla perdita della propria identità. Il fatto che Ernesto non avesse mai potuto avvertire in Liliana quella chiamata la rendeva speciale, più forte.
E quello che avviliva Marina, seduta d'angolo alla vetrata a guardare i pini, non erano solo Liliana e i suoi dodici anni di convivenza con Ernesto messi là, davanti alla Testa di Medusa, ma quell'universo che lei non vedeva, di cui riceveva notizia a giorni di distanza.
Marina guardava i pini che si tuffavano nella città dal parapetto del Belvedere. E aveva nostalgia di se stessa.
Il suo presente non arrivava: era la pressione che manca alla nuca un attimo prima della carezza, la linea libera che aspetta proprio quella telefonata per occuparsi, il vuoto del sonno nel risveglio il giorno della gita.
Quando mancarono solo tre giorni all'arrivo di Ernesto in città, tutto si calmò.
Marina tornò padrona della sua distanza dalle cose e allestì l'incontro, come l'ultimo vernissage.
Prenotò un ristorante per la cena, e quello per il pranzo.
Prenotò i nonni per il pomeriggio di mercoledì, ci avrebbe portato lei Agnese alle tre, con tutto quello che sarebbe potuto servirle fino al giorno dopo: "Mamma, Biagio è a un convegno".
''Ma non vi davate i turni per le assenze, tu e tuo marito?" Immaginò la strada che avrebbero fatto, da dove, da quando.
Chiese alla Donati: "Hanno riaperto la funicolare di Montesanto?", senza caricare la domanda di nessuna emozione.
Camminò per la sua casa guardandosi intorno, immaginando di non conoscerla per scoprire cosa non andava, come quando entrava e usciva dalle sale già finite, gli operai seduti a terra, l'artista fuori a fumare.
Comprò una saponetta quadrata al tabacco e iniziò a usarla perché non sembrasse nuova, perché Biagio al ritorno dal convegno non si chiedesse dove era finito il sapone liquido.
Spostò la sedia della cucina contro la parete, perché gli avrebbe fatto un caffè.
Controllò nel cassetto di avere il reggiseno giusto perché si sarebbe visto dalla camicia, e infilò in lavatrice lo slip che gli faceva completo, perché forse lui non l'avrebbe mai saputo, ma lei sì.
Poi chiamò la signora delle pulizie anche di lunedì, le fece passare la cera su tutti i pavimenti, organizzò un gioco con Agnese, che facevano solo d'inverno: strisciare le pattine per tutta la casa, come se i piedi fossero attaccati alle mattonelle.
La mattina del mercoledì Marina comprò le gerbere rosse perché stagliavano bene sulla parete ocra. Finì di fare ordine, poi inventò un disordine, perché quel disordine era il modo che aveva per rivelarsi. Per dirgli che aveva sentito una versione jazz di Bach, concimato i gerani per l'estate, studiato la ricetta del baccalà appena la sera prima, da quel Carnacina & Veronelli aperto sul tavolo della cucina, dimenticato la camicia da notte in bagno, appesa per le bretelline alla maniglia della porta.
Poi si fece lo shampoo, e andò a prendere Agnese a scuola.
"Agnese prendi la cartella: è arrivata mamma... signora, oggi ha esagerato".
"Che significa?" "Noi le mettiamo il piatto in più..." "E un vizio che le hanno fatto prendere i nonni".
"Oggi voleva che la maestra le riempisse il piatto".
"Questo non l'aveva mai chiesto..." "Non ha mangiato finché non le abbiamo riempito il piatto di Daniele. Signora, ma questo è assurdo, voi lo capite?" "Certo che lo capisco, ha ragione..." "Poi a me mi ha fatto impressione... un piatto là senza nessuno davanti... pure per gli altri bambini..." "No, ma lei ha ragione, le devo parlare".
"A voi non vi mancano i modi: vostro marito è medico".
"Ma non è una patologia, ha molta immaginazione".
"E non c'è niente di male in questo, ma noi non possiamo accontentare certe pretese... vedete un poco voi..." Però tirando la bambina dal lato interno del marciapiede, svelta svelta, Marina sentì che non era il momento di accendere un conflitto, né con Agnese, né con Biagio.
L'avrebbe accennato brevemente ai nonni, sulla soglia, senza farsi capire dalla bambina se solo Ernesto non le avesse telefonato proprio in quel momento, se lei non gli avesse chiesto: "Dove sei?" "A Torino".
"Tra quanto hai il volo?" "Non ce la faccio a venire".
"Perché? ...no, scusa".
"No, hai ragione".
"Ma stai bene?" "Sì, solo che mi hanno piazzato Paul Smith all'ultimo minuto, nessuno se lo può scarrozzare... e le sue camicie nemmeno mi piacciono..." "Mi dispiace tanto".
"Vabbè, ci sono altre camicie".
"Anche a me, tanto... proviamo la settimana prossima?" "Ehi?" "Proviamo che non ti fai sentire più".
"Addirittura?" "Addirittura".
"Non so se ci riesco".
"Sono sicura di sì".
Ammetterlo.
Ammetterlo senza rallentare il passo era difficile: ma nel momento in cui seppe che non sarebbe venuto, lei si ricordò di essersi fatta ammassare le ore di lavoro in un turno così faticoso per essere libera per lui, di aver tagliato il filo pendente della lampadina, a due giorni dall'arrivo del lampadario nuovo, perché lui non lo trovasse così, di aver pensato davanti alla pianta di peperoncino che era bello, di tanti verdi, che ce ne fosse uno rosso.
Di aver guardato le previsioni del tempo sulla pagina della Repubblica, aver cercato nelle incertezze delle nuvolette di dopodomani la certezza del bel tempo, e non perché lui pensasse che lei era sempre circondata di bel tempo, ma perché in ogni giornata di bel tempo Marina aveva pensato a lui.
"Mamma piange", disse Agnese al suo amico immaginario.
Capitolo 2.
L'operaio la chiamò per la terza volta in dieci minuti, lei chiamò l'interprete. Per la terza volta in dieci minuti l'operaio aveva segnato con un pennellino tre tipi diversi di bianco su una parete bianca. Marina si sforzò di guardare, di capire, inclinò la testa a favore di luce e contro, ma non riuscì a vedere la differenza. Era bianco.
Additò quello di mezzo: "Richtig", disse da sola,poi sorrise con il sorriso di chi accoglie l'impegno piuttosto che il risultato.
All'imbianchino bastò: si riallacciò il camice bianco e salì sull'impalcatura per dare l'ultima mano. Marina pensò che a continuare così non avrebbero finito mai, si sentì il petto oppresso e uscì fuori per fumare: l'aria della sala era così piena di solvente che ad accendere prima di uscire sarebbero tutti saltati in aria. Lei, gli artisti, l'imbianchino vestito come a Napoli nemmeno i medici.
Rimase a pensare all'esplosione e si sentiva meglio, seguiva i suoi pezzi proiettati in aria, accompagnava con piccole oscillazioni della testa le traiettorie: i pezzi di sé facevano parabole perfette e cadevano sugli alberi del parco, nel laghetto, nel cortile di mattoncini cotti dell'ex birreria. Ogni volta che un pezzo arrivava all'apice, Marina alzava la testa, soffiava fuori il fumo e guardava la punta della torre di Alexanderplatz. L'ultimo pezzo cadde oltre il muro, Marina immaginò un cane con le zampe incollate dall'asfalto che lo raccoglieva e se lo portava via, allora spense la sigaretta e tornò a combattere con i colori e con la lingua.
Si trascinò a cena con lo stesso jeans e le stesse tasche piene di paglia da imballaggio, con la sua stanchezza misurata. La concentrazione esercitata per ore, l'abilità di tenere sospesa nella mente l'azione successiva per il tempo che serve a compiere l'azione presente, anche quello: aveva una misura. A finire la giornata, la stanchezza dirigenziale aveva un altro gusto, si concedeva la soddisfazione.
Non era mai lo smontare cieco degli operai che vanno via senza potersi sedere neppure un minuto sulle casse, perché la schiena non si ricorda più come si fa.
Ma seduta a tavola, quando l'ansia si smorzava, Marina avvertiva un fraintendimento: quello che faceva non le interessava più.
Da giugno il lavoro non le interessava più, mangiare non le interessava più senza potere raccontare a Ernesto le portate, e la divisa del cameriere, e lo scultore ingobbito sul piatto come nel refettorio di un ospizio. Marina viveva la giornata e la doveva prendere per quello che era, manco doveva starci su a pensare, manco doveva fare sforzo di memoria, mettere da parte per domani, archiviare per riferire. Tutto doveva bastare a se stesso: come il lago costretto nella diga, così Marina aveva lavorato a tenere dentro quei mesi di assenza, a riportare tutto in dimensioni normali, controllabili, definite.
Cenò poco e leggero, cominciava a sentire voglia di verdure e olio d'oliva, cominciò a sentire voglia di cucinare. Tornò in albergo e telefonò a Biagio, parlarono a lungo di Agnese, poi si addormentò.
Anche quella notte non riposò: anche se si addormentava subito, dopo qualche ora si svegliava con la mano destra intorpidita, e restava nel letto senza avere la forza di leggere o mettersi a sedere, senza neppure accendere la luce. Sentiva necessario, inevitabile, il ritorno a casa, la bambina a prendere sonno tra di loro, Biagio a consolarla: "E la sindrome del tunnel carpale, le donne ne sono soggette", se lo ripeteva mentre stringeva e allentava il pugno nel buio, mentre provava a poggiarsi sull'altro fianco, si aiutava con l'altra mano a far riprendere sensibilità alle dita.
Le donne ne sono soggette, ma in un letto d'albergo la cosa non risultava più convincente. Si stancava troppo, quella mano; però l'allestimento sarebbe finito presto: da lì alle ultime polaroid, alle prime digitali da scaricare e spedire a Biagio, da ora a quando fosse entrato l'ambasciatore, quando avrebbe dovuto chiedere alla cameriera di stanza di darle un colpo di ferro sul vestito, sarebbe passato solo qualche giorno.
In aereo, sapendo di tornare, avrebbe dormito almeno fino a Malpensa.
Si addormentò di nuovo e sognò l'ultima favola che aveva letto ad Agnese prima di partire, quando la bambina aveva captato che l'indomani ci si sarebbe salutati di nuovo e aveva chiesto la storia, poi la mano, poi aveva avuto paura a prendere sonno, lasciare la madre che, lei lo sapeva, sarebbe partita per Berlino prima del suo risveglio. Prima del latte, e della nonna, e dell'asilo, mamma sarebbe arrivata in aeroporto.
"Domani mamma parte", aveva spiegato al suo amico immaginario.
"Però torna".
E poi, finalmente, si era addormentata. Quella sera Marina aveva letto ad Agnese la storia di un bambino fiammingo che aveva salvato il suo paese, a valle di un lago, otturando con un ditino la falla della diga che lo conteneva. Era una storia triste e che pretendeva eccessivo eroismo. Era una favola che le aveva regalato la nonna. Marina aveva criticato molto con sua madre la scelta di quel libro, aveva detto "ottocentesco" a significare che non c'era rimedio per quell'abisso di tempi e intenzioni che si era creato tra di loro. Ma poi il libro era tornato utile, si leggeva cantilenando le frasi finivano con vaghe assonanze, infelici, ma che facevano dormire.
Adesso Marina lo stava sognando: lei era la sua voce che leggeva da qualche parte e insieme la donna che arginava la falla con la mano, proteggeva il suo paese a valle, la bambina che aspettava il ritorno.
Otturava quel buco a costo di una fatica enorme, l'acqua le scorreva a rivoli tra le dita e lei allora schiacciava la mano più forte contro la diga, finché perdeva sensibilità.
"Appena torno mi faccio una radiografia", si disse a voce alta per svegliarsi meglio e per sentirlo come un ordine, poi si alzò e andò a spalmarsi l'Orudis gel sul polso, lungo il tunnel che le stringeva i nervi, come Biagio le aveva insegnato a fare.
Lui la cercò, lo fece di sera.
Era l'ultima sera e Marina aveva trovato una sola scarpa in valigia, aveva scavato, poi chiamato Biagio, gli aveva chiesto di controllare le ballerine nere: lei ne aveva una sola. L'altra era rimasta a casa, Biagio la teneva nella mano mentre la richiamava. Nemmeno il tempo di riderci un poco per schizzare subito con un tassì in un centro commerciale, l'unica cosa rimasta aperta a Berlino alle sette e quaranta. Lei: un'italiana a misurare scarpe da supermercato senza mezzi numeri.
Era arrivata al vernissage in ritardo e affannata, ma decente.
Aveva dovuto sorridere un po' di più, indugiare un po' di più con chi non si sarebbe filata mai: per farsi perdonare le scarpe.
Tenne ranghi serrati per tutto il tempo che fu necessario. Era una sera mondana, d'accordo, ma dietro c'erano tre settimane di lavoro braccio a braccio con i muratori e questo non doveva sfuggire a nessuno: mantenne un passo scientifico con i direttori degli altri musei, uno cerimonioso con le istituzioni, rappresentò in ogni sua parola la Galleria, e insieme, sempre, anche se stessa. Non diceva mai "noi" intendendo lo staff per cui lavorava, ma ogni volta che disse "io" lasciò intravedere dietro di sé un insieme di forze al quale era grata. Lei non era la Galleria, ma l'unica persona da cui la Galleria si sarebbe voluta far rappresentare.
Neppure dimenticò che l'inaugurazione era la festa dell'artista e a lui lasciò sempre la ribalta. Lo guardava da lontano, brindare con gli altri agenti, come la moglie di un uomo molto bello se lo lascia corteggiare dalle altre finché è sicura che sarà solo lei a scaldargli il letto.
Il vino cominciò a farsi sentire per tutti nello stesso momento, e quello fu il segno che la tensione si era finalmente allentata, giochi compiuti, alleanze strette, tutto ciò da cui non si poteva prescindere era successo.
Allora Marina lasciò che si accorgessero delle sue spalle e del suo collo, che le versassero il rosso siciliano importato per l'occasione, che un architetto si offrisse di accompagnarla in terrazza a fumare.
"Prendo lo scialle".
E uscendo dal dodicesimo piano dell'edificio su Berlino accesa, Marina pensò che non sembrava ottobre.
Si portò le mani alle guance come a misurarne la temperatura e calcolò al millesimo la percentuale di malizia che ci stava mettendo, giusta per dividere con qualcuno il panorama, non abbastanza per dividerci un letto, mentre chiedeva: "Sono rossa?" In quel momento Ernesto le telefonò.
"Sì?" "Disturbo?' "Sei tu?" "Delusa?" "Ma... perché chiami da uno 02?"
"Sono a Milano fino a lunedì".
"Come stai?" "Mah... Mi manchi".
"Ne prendo atto".
"Dai, però la scusa per chiamarti l'ho saputa trovare".
"E sarebbe?" "Mi è arrivato il comunicato stampa dell'inaugurazione".
"Ah, mi complimento... e quindi?" "Ti volevo fare in bocca al lupo".
"Il lupo è crepato felicemente da quattro ore, comunque grazie".
"Ma non è domani?" "Gioia, domani c'è l'apertura al pubblico. Mentre la gente farà la fila qua fuori io starò già sull'aereo morta... mi voglio fare tutto un sonno fino a Malpensa".
"Ti sei stancata molto?" "Non è questo, dormo male la notte, mi sveglio senza sensibilità alla mano destra".
"Dev'essere la sindrome del tunnel carpale: le donne ne vanno soggette".
"Avevi una fidanzata che faceva l'ortopedico?" "Ho avuto molte fidanzate con la sindrome del tunnel carpale.
E a che ora arrivi a Malpensa?" "Boh?" "Vengo a Malpensa".
"Ma dai: ho la coincidenza per Napoli".
"Mezz'ora?" "Non fare lo scemo".
"Mandami un messaggio appena scopri a che ora arrivi".
"Io non esco dall'area transiti".
"Corrompo l'omino alla barriera".
"Ma domani è domenica... non ci sono le partite?" "Ah già, è vero, che scemo: il Toro gioca anche in casa".
Accorgersi di non aver portato niente di adatto. Niente che sembri quello che lei sarebbe voluta sembrare, una che viaggia in aereo comoda ma elegante, che dorme mentre le hostess portano i pasticcini, che sceglie solo giornali stranieri.
Dov'era il vestito adatto a incontrarlo, vederlo di nuovo per due ore?
Qual era il soprabito che avrebbe potuto accogliere il suo abbraccio?
Marina ci pensò fino all'alba, ripassò la planimetria di Tegel, cercava di ricordare in quale terminal aveva visto Gucci, poi abbinava tutte le cose che aveva in valigia, la gonna con la camicia, ma anche la stessa camicia con il pantalone. Come alla bambolina di carta da vestire di quando era piccola, ritagliava dallo sfondo dell'armadio gli indumenti e li provava tutta la notte, e lo faceva per distrarsi, per confondersi le idee, per non pensare che tra dieci ore si sarebbe aperto il portellone automatico degli arrivi sulla domenica pomeriggio.
Mentre camminava sul tapis roulant pensò che lui non sarebbe venuto. Ma se pure così fosse stato, non sarebbe cambiato nulla: Marina si stava dicendo che ormai nulla poteva cambiare nulla e che la terrazza ristorante delle partenze sarebbe stata comunque meglio dell'hot dog che avrebbe trovato nell'area transiti.
Cercava la normalità delle sue azioni nelle persone che la vedevano passare davanti ai telefoni e alle toilette, che la vedevano imboccare il corridoio del nothing to declare: gli altri non notavano nulla di strano.
Solo a Marina sembrò che il portellone si squarciasse piuttosto che aprirsi, come se l'acqua avesse vinto sulla diga e con schiuma alta e gravità stesse precipitando a valle.
Gli si avvicinò come un foglio di carta bianco, con l'espressione che aveva nei giorni dell'esame all'università, mentre entrava in aula e si concentrava su una pagina bianca per non mettere a fuoco niente. Come gli attori quando si stancano prima del sipario, per non sentire la paura.
"Ciao".
"Ciao".
"Hai fame?" "Non tanta: sull'aereo ci hanno imbottiti".
"Allora un caffè?" Poi, passando davanti all'edicola, entrarono a sbirciare le riviste d'arredo d'interni, allora lui per farsi vicino e guardare la stessa stufa di maiolica sulla stessa pagina le poggiò una mano sul fianco. Lei la tenne ferma, con la sua, nel posto che lui aveva scelto, a lungo, intanto non smetteva di guardare la stufa. E chiuse la rivista solamente quando lui la baciò.
Malpensa di domenica pomeriggio sembrava un ospedale, i terminal pieni di passeggeri malati in attesa di andarsene.
Ernesto mangiò un toast e Marina prese un caffè, perché aveva fame ma non riusciva a deglutire nulla e non avrebbe mai voluto che lui se ne accorgesse. Riusciva a stringergli la mano sul tavolo ma anche in questo non era del tutto felice. Si sentiva la febbre addosso, la febbre era lui ma anche la sua assenza: c'erano due ore regalate da passare insieme che per mesi aveva voluto fino a non volerle più, però non riusciva a dimenticare che erano solo due ore.
Anche l'amore, adesso che era tornato, si era fatto adulto. Imparava a disciplinarsi se doveva, ma in cambio quando arrivava non esplodeva. Non era il lampo accecante e solo: si portava dietro tutto.
L'angoscia era nel cielo piatto e basso a cui nessuno dei due era abituato, nelle poche macchine sulla scacchiera sconfitta del parcheggio.
Aerei ad andare e tornare, maniche a vento.
Marina si lasciò baciare il collo temendo e sperando che stesse per finire, si lasciò raggiungere un capezzolo dal pollice che le inseguiva la scollatura. Ebbe voglia e voglia di tenerlo addosso, ma fu felice solo quando si avviò di nuovo alle partenze, quando lui la accompagnò alla scala mobile e lei sapeva che era lì a guardarla, e si sentì abbastanza sicura, e quindi non si girò.
Si allacciò la cintura di sicurezza che ancora non pensava a niente. Non che stava andando, non dove stava andando. Non pensava a quello che si erano detti, a come si erano lasciati, all'appuntamento che si erano dati per Bologna, né che suo marito stava partendo ora, mentre l'aereo decollava, per essere sicuro di attraversare la tangenziale mentre tutti uscivano dallo stadio, e arrivare in tempo a Capodichino.
E si addormentò, mentre le hostess servivano i cioccolatini.
Era in tangenziale con Biagio e guardavano sollevati le macchine intasare la corsia opposta; più in basso, la luce che ancora restava accompagnava la città fino a mare. Marina poggiò la mano sinistra sulla coscia di suo marito.
"Sei stanca?" "Uh, distrutta... però è andato tutto bene".
"Sei andata in pantofole al vernissage?" "Le scarpe più brutte che ho mai avuto..." Ma la cosa che le piaceva più del ritorno era abbracciare Agnese: la portò sul letto matrimoniale, le aprì davanti la valigia, la lasciò scavare tra le calze e i maglioni alla ricerca dei suoi regali.
"Ti ho portato un fumetto che il nonno portò a me da un viaggio".
Barnaby aveva colori pensati per incuriosire bambini di un'altra epoca, ma Agnese lo prese tra le mani come se avesse avvertito che dentro c'erano più cose di quelle che la copertina prometteva.
E sorrise.
"Domani te lo leggo".
"Lo leggo da sola".
"È in inglese, te lo legge mamma e poi piano piano lo leggi da sola".
Trovò la sua casa bellissima, trovò che si era mantenuta bene anche senza di lei, e quando a sera tarda Biagio la tirò sul divano, Marina era più potente di quando era partita.
Sentiva la forza tra le gambe mentre gliele stringeva attorno ai fianchi, sentiva di potersi concedere il divano. In un'altra qualsiasi notte coniugale avrebbero dovuto rispettare dei riti: il letto, e chiudere la porta, e andare lei un attimo in bagno prima, ma adesso qualcosa che li irrigidiva si era rotto, tra di loro, ed era Marina.
Sentiva addosso un'eccitazione infantile e mentre faceva l'amore si trascinava nella felicità tutto quello che aveva intorno. Tirava suo marito dentro e non pensava a niente: voleva solo continuare a stare bene.
Le parole dette all'aeroporto, il desiderio riesumato dal fondo del suo corpo, traboccavano.
Per due ore, a Malpensa, la vita era stata quello che aveva immaginato, e questa forza, non altro, Marina proiettava attorno a sé, anche sulla sua casa, su Agnese, anche su Biagio.
Solo più tardi, nella stretta finale, Ernesto ricomparve dal fondo indistinto di quella gioia e Marina lo guardò, ricompose i suoi lineamenti su quelli del marito e fu bene attenta a non dire nulla perché l'unica cosa che avrebbe potuto dire era il suo nome.
Un'ora dopo Biagio le spalmò l'Orudis gel sul polso.
'"...ma evidentemente non mi hanno ritenuto all'altezza del nome della Galleria...', hai capito questo stronzo?" Alla Donati tremava la voce come se le fosse importato davvero.
"Vabbè, però è la verità: a noi le sue cose non ci sono piaciute..." "Ed era il caso di dirlo sui giornali?" "E perciò: la figuraccia la fa lui".
"Ma, posso continuare a leggere? Quello dice pure le cifre..." "No, guarda, ci trovo un tale cattivo gusto..." "Eh, ma senti: 'il peggiore retroscena della trattativa è l'azzardo economico...'" Marina capì che se ne sarebbe liberata prima lasciandola fare, e mentre l'ascoltava ricordò il pollice di Ernesto sul suo capezzolo.
Nei secondi in cui lui era passato di striscio sul suo seno, l'aveva cambiato: adesso lo sentiva pieno e compatto nella maglietta, sapeva che era ancora bello, anche se dopo l'allattamento non aveva fatto le applicazioni al collagene che le aveva suggerito il collega di Biagio.
Sorrise.
"Sì, sì: ridi... a te non te ne importa perché stavi a Berlino, ma non ti dico le telefonate che mi sono dovuta sorbire..." Si fece due conti: incontrarsi al workshop di Bologna sarebbe stata una scusa naturale per vedersi ancora.
Per allora le mestruazioni le sarebbero passate da poco: sarebbero arrivate il mercoledì, giovedì al massimo, con una corsa mattutina nel bagno, e quattro giorni dopo non sarebbero state che muchi venati di rosso, tollerabili per chiunque anche al primo appuntamento.
Dalla nascita di Agnese le mestruazioni erano diventate regolari e leggere, non erano più l'onda devastante che la costringeva per tre giorni del mese a letto. Con la gravidanza il corpo aveva smesso gli eccessi.
"Ma tu quando arrivi?" "Il 15 mattina, penso: devo vedere certi... tu?"
"Io ho il treno il 19".
"Perché così tardi?" "Il workshop comincia il 20".
"Ma io arrivo il 15".
"E questo già lo hai detto... dunque?" "Come sei bella quando ti innervosisci..." "Bella non direi, sono gonfia, ho gli occhi gonfi..."
Fece un bagno, perché il freddo iniziava e permetteva tante cose: di abbandonare la doccia, di ritrovare le calze sotto la gonna, di propinare a cena una minestra un po' più densa per convincere Agnese a mangiare la verdura.
Riempì la vasca e ci si ficcò dentro, rimase a lungo immersa con il naso a pelo d'acqua e da lontano e da ovunque intorno a sé sentiva i rumori dei vicini che spostavano il tavolo per la cena.
Si tirò fuori per ispezionare le gambe: anche per la lunghezza dei peli Bologna era l'ideale.
Amava il suo ritorno a casa come mai prima. Adesso il tempo le si concedeva in un altro modo: tutto quello che faceva erano piccoli doni votivi per Ernesto.
Spaccava la crosta dura del sale in cui aveva cotto l'orata come se lui fosse stato lì, dietro una mattonella della cucina a guardarla.
Prendeva il vino come se glielo avesse versato lui, lo assaggiava come se Ernesto fosse stato le sue labbra e la sua lingua, il suo stesso gusto.
In quei primi giorni di scuola Marina rimase i pomeriggi a casa per accogliere le nuove ansie di Agnese: la bambina tornava accesa dalla continua richiesta di prestazioni, dalla voglia di essere brava, dalla stanchezza della concentrazione. Per la frustrazione di non essere riuscita ad attaccare la b con la r come la maestra aveva segnato sulla lavagna, venerdì era entrata a casa e si era buttata a terra nell'ingresso. Marina allora aveva dovuto raccoglierla e convincerla che non era importante attaccare le due zampette. Le aveva scritto sul quaderno "sei b rava brava lo stesso" per dimostrarglielo fuori e dentro la frase.
Solo allora Agnese aveva accettato di mangiare la carne. Poi aveva spiegato a Daniele come doveva fare i compiti.
Così la casa viveva meglio, anche se questa nuova energia che la alimentava la portava alla rovina: perché i rapporti familiari non amano farsi domande sul loro meccanismo interno, finché funziona.
Poi lo sentì. Stava seduta in poltrona di pomeriggio e guardava Agnese leggere: le labbra muoversi ancora sulla forma delle parole, ma la voce già tenuta a bada, Marina si lasciava ipnotizzare da quei movimenti brevi, dal busto della bambina che un poco ciondolava avanti e indietro.
E solo così poté succedere, che cominciasse a tendere l'orecchio a un segnale lontano, come quando arrivava ad Amalfi, e da dietro l'ultima curva del valico, da qualcosa di impercettibile, senza vederlo ancora cominciava a sentire il mare.
Marina sentì il suo secondo figlio.
Con tanta certezza seppe che quella fitta leggera non era l'arrivo del mestruo, che due giorni dopo restò a guardare senza urgenza e senza dubbio la provetta che si colorava, lenta come la sigaretta che le si consumava nell'altra mano.
Si alzò dal bordo della vasca e ricordò Biagio sul divano, i lineamenti confondersi e diventare Ernesto, Ernesto che tra due ore sarebbe partito per Bologna, che fra tre giorni l'avrebbe aspettata davanti all'albergo, aperto lo sportello del tassì, abbracciata nella hall, tolto il bagaglio di mano, detto due parole nel tempo che serviva alla reception per registrarla. Poi di nuovo e definitivamente abbracciata, dall'ascensore in poi.
Restò così a guardare dalla finestra la città in cui non esisteva più una strada per passeggiare: era inutile uscire, e poi iniziava a piovere e le persone si innervosivano e affollavano i portoni alla prima goccia, come se fossero state fatte di zucchero. Restò a guardarle dal vetro finché non sentì la stanchezza nelle gambe, e fu contenta di potersi sedere, tornare alla poltrona per un motivo.
A Biagio non sapeva dirlo. Aspettava un figlio legittimo da marito legittimo, in età adeguata. Non sapeva spiegare che aveva stretto un altro uomo, che quel figlio non avrebbe saputo riconoscere il padre perché lei stessa non lo riconosceva in Biagio.
Eppure quel lo che più angosciava Marina non era l'assurdità di convincere Biagio che un figlio concepito con lui non fosse figlio suo.
Bensì spiegare a Ernesto che lo era.
Tutto il dolore diventò l'impossibilità di avere un figlio da un uomo con cui non era mai stata a letto. Che per quanto lei avesse pensato a lui senza abbandonarlo mai, quel bambino non era suo.
Marina si avvolse nel plaid e pianse di pena il suo figlio nuovo, che in tre settimane già doveva raccogliere in sé la vita sua, quella di Ernesto, di Biagio, di Agnese.
Pianse come piangeva a volte per i bambini che mendicano all'angolo di piazza Borsa, o suonano l'organetto nella metropolitana, costretti a mostrare con il loro solo corpo l'errore di tutti. E piangeva suo figlio perché non poteva odiarlo.
Il mondo era pieno di donne che lo facevano con meno o più ragione di lei e lei si muoveva in quel mondo. Ma questa fu l'ultima cosa che si disse salendo sull'aereo, perché Marina quando stava cedendo sotto la tensione, invece di rompersi, si distraeva. E allora arrivò a Colonia che le luci dei negozi si stavano accendendo, e pensò che quelli sarebbero stati i giorni giusti per girare il mercato di Natale. Comprare le candele e le stelle di legno e i troll che tanto piacciono ad Agnese. La latitudine giusta nei giorni giusti, così Marina dimenticò perché era venuta e chiamò Biagio stesa sul letto della sua stanza come se fosse stata quella di un albergo, si lamentò che il gallerista avrebbe tardato di due giorni, come se fosse stato vero.
Chiamò anche la nonna, perché si era arrivati sotto sotto Natale e ancora non avevano organizzato niente. Né le turnazioni delle case tra vigilia, venticinque e Santo Stefano, né chi doveva fare la spesa del pesce, né quella dei dolci. Chiudendo raccomandò: "Mamma, Agnese ha già troppe Barbie".
Tutto quello che ci fu da tirare via era una sfera trasparente grande quanto la punta di una penna.
Il chirurgo la poggiò su un vetrino. Poi lasciò gli anestesisti a rianimare Marina e se ne tornò nel suo studio.
Si spogliò del camice, si lavò le mani e andò a sedersi alla scrivania.
Fuori dalla finestra i lecci lasciavano piovere foglie rosse come il sangue, perché quest'anno il freddo era arrivato all'improvviso.
Il medico restò un poco a guardarle, poi inserì il vetrino nel microscopio e poggiò l'occhio destro sulla lente: avvolta dalla membrana azzurra, vide tutta intera la forma di un bambino.
***
P.G.R.Sera.
Poi, un giorno, il contrabbando è finito.
Da allora è stato molto più penoso tornare a casa di mia madre.
È stato come ritornare in strade senza punti di riferimento. Senza i fuochi nei bidoni, senza le donne sedute a cassetta, via Dante è diventata buia e pesante da fare a piedi. Il manipolo di ragazzi in smanicato fermo all'angolo della vinella per lo spaccio non è mai stato la stessa cosa, e poi il movimento, all'ora in cui arrivo io, è ancora poco. Scendo dal 111 nero che sono al massimo le sette, qualche tossico dalla provincia che deve rincasare per la notte scende con me e mi accompagna per un tratto. Ne ho visti svuotare boccette di En sui sediolini del fondo per spaventare la paura quando il 111 nero arrancava negli ingorghi. Facciamo insieme il tratto fino all'incrocio, poi io continuo per corso Italia, loro si fermano al rifornimento. Accelero il passo che i magazzini stanno chiudendo e non c'è più ragione di stare in strada. Fino a domani la strada non esiste più.
All'altezza del mercato coperto guardo per forza davanti, in fondo, in alto: mia madre. Aspetta dietro la finestra, la tenda aperta a sipario.
Le mani sul termosifone. Hai fatto tardi, mi stavo preoccupando. Abbasso gli occhi sulla strada senza salutare. Che ci vuole ad alzare il braccio, mentre la guardo? Mamma sono viva ancora, ancora tu lo sei. Invece non sopporto la sua sagoma in controluce. La sua sagoma mi dice che sono in ritardo, che si stava preoccupando, che per la preoccupazione le è salito il mal di testa, che il mal di testa se ne andrà solo dormendo, ormai.
Attraverso, finalmente: la fila dei balconi mi nasconde alla sua vista e mi protegge dalla pioggia dei sensi di colpa. Dovrei elemosinare gocce di En ai tossici della provincia, ogni volta che arrivo.
Ho ancora le chiavi, dopo dieci anni. Ma mia madre apre il portone dall'alto sempre nell'attimo in cui le sto infilando nella serratura.
Mentre l'ascensore passa tra il terzo e il quarto piano metto a fuoco la cosa che dirò appena la vedo: devo dire una cosa qualunque, perché sembri normale rivedersi. Trovo qualcosa per abbattere l'imbarazzo di essere madre e figlia,di essere uscite l'una dall'altra e poi esserci separate.
Qualcosa che azzeri la meraviglia di rincontrarsi, due volte a settimana, a giorni di distanza.
Dopo quasi quarant'anni questa cosa mi sorprende, mi scuote le fibre come se stessi nascendo ora, come se non continuassimo a vivere quando non ci vediamo.
Sto nascendo adesso, traghettata dall'ascensore. Sesto piano.
Arrivo. Mamma apre la porta e mi accoglie.
"Uè, mammì".
"Mi stavo preoccupando".
"Oh, venendo ho visto i lavori di fronte alla bancarella di Enzo.
Ma è il suo, il negozio?" "Eh, è quello là, se lo è preso a pigione, mo'
ci fa i lavori dentro".
"Quando sono andata a prendere il ed per Luca me lo disse, che aveva fatto la pensata del negozio".
"...Mi è salito un mal di testa mentre ti aspettavo, mo' me ne devo andare solo a dormire, oì".
Intanto mi libero delle buste e della borsa, entro nella stanzetta piccola per poggiare il giubbino sul letto.
"Fai piano: sta Luca".
Faccio piano: a vederlo addormentato, Luca, sembra un bambino tranquillo.
Faccio piano, nel buio, vado a memoria.
In questa stessa stanza, al posto dove dorme Luca adesso, mi convinsi per la prima volta che le cose potevano esistere solo finché le vedevo io: avevo undici anni e l'epatite virale. Le transaminasi a ottocento. Il medico di base disse che sarebbe stato opportuno un ricovero, mia madre disse che forse il dottore era sbattuto con la testa a terra, e che si sarebbe potuto ricoverare lui, che in casa non mi sarebbero mancate cure.
Restai a letto per nove giorni di seguito, ma non fu un sacrificio, perché ero sempre stanca.
Mi alzavo sei o sette volte, camminavo piano con mia sorella Sara a fianco, per andare a fare la pipì. La pipì era come la ruggine dagli sciacquoni vecchi. Allora non avevo ancora le mestruazioni e non ero abituata a vedere l'acqua colorarsi forte, mi impressionavo.
La vita in casa continuava secondo il suo tempo: a tratti qualcuno entrava nella mia stanza per chiedermi se volessi qualcosa, o per portarmi qualcosa, e poi andava via. Io potevo sentire i passi allontanarsi, o la voce continuare a parlarmi. Ma mi convinsi che oltre la soglia della mia vista, le persone e le cose si dissolvessero, smettessero di esistere come le vedevo.
Poi la pipì si schiarì, il tasso di bilirubina in circolazione nel sangue diminuì senza lasciare danni evidenti al mio sistema nervoso.
Rimase la convinzione che le cose esistessero a strappi, e restai stanca.
"Mamma, ti ricordi quando presi l'epatite?" "Fu la cozza sotto all'orto botanico".
"Ma come vi venne di far mangiare una cozza a una bambina di undici anni?" "Ma perché, se ne tenevi diciotto non te la prendevi, l'epatite?"
"Ma che significa, ma?" "E poi i markers ce li abbiamo tutti. Pure tuo padre ce li aveva".
"Comunque mammì, tu il mal di testa lo tieni perché questo bambino è un guaio".
Mamma è tornata alla finestra, sta come una gru su una pantofola sola e si gratta l'altro piede contro il termosifone. Sta aspettando Sara. Mamma aspetta sempre qualcuno che la faccia preoccupare.
Mi avvicino e l'aspetto anch'io, lei mi fa posto lungo il termosifone.
Stiamo così, la finestra ci fa guardare fuori, fuori della casa, in strada, sul negozio di Enzo.
"Sarà un negozio di telefonini".
"Ma poi non capisco: se era nel ramo dei dischi, perché non fa un negozio di musica?" "Mamma, non era nel ramo dei dischi: vendeva i cd falsi..."
"Vabbuò, però sempre meglio di quando era contrabbandiere".
"Sì, ma in Italia è reato lo stesso, mo' che si mette il negozio fa la prima cosa pulita della vita sua".
"Però è stato bravo".
"Vendeva certe Marlboro come la segatura".
"Tu a dodici anni già fumavi, poi dici la cozza..." "A sedici, mamma.
Sedici".
A dodici anni già fumavo, avevano espropriato gli ultimi campi, comprato gli ultimi giardini, spianato gli agrumeti e iniziato le prime gittate di cemento, per costruire "il terzo mondo". La periferia si stava inventando una sua periferia, dove diradare le infrastrutture, isolare i vecchi e ghettizzare i giovani. Noi passavamo le transenne del cantiere sotto il cartello completo e ci arrampicavamo sulle fondamenta del "terzo mondo".
Accendevamo una sigaretta per volta, una per ciascuna. E facevamo passare il pomeriggio.
Era un'epoca in cui fumarsi una sigaretta di nascosto aveva ancora un suo senso privato. E uno condiviso, esterno: a tornare a casa femmina di dodici anni con l'alito di fumo ci sarebbe stato un padre violento. E per chi, come me, non ce l'aveva più da pochi mesi, ci sarebbe stata una madre a battersi in faccia le mani per la vergogna.
"Eccola".
L'ha già detto tre motorini fa, ma stavolta è proprio lei. Arriva sparata dall'incrocio come se avesse quindici anni e niente da perdere. Inchioda a quattro palazzi da qui, davanti alla rampa del garage. Poi scende dalla sella come una principessa dalla carrozza il giorno del ballo. Sara non ha neppure bisogno di portarlo giù, il motorino: quando arriva comincia a suonare il clacson con furia, anche di notte, e quelli del garage invece di innervosirsi salgono la rampa sorridendo come sotto incantesimo, la guardano mentre si toglie il casco come un cappellino con veletta, la seguono passarsi la mano nei capelli biondi delle persone bionde. Poi afferrano le chiavi al volo e la salutano. Ma non portano subito il motorino giù. Lei già voltata che raggiunge il portone, tentennano la testa sul ritmo dei suoi passi, trattengono ancora un poco quest'aria di colazione da Tiffany che mia sorella si porta dietro, prima di tornare a respirare il monossido di carbonio.
Intanto Sara ha alzato gli occhi e ci ha visto: ci saluta con tutte e due le braccia. Si vede che mamma non aspettava Sara, aspettava quel saluto: schizza verso l'ingresso per andare ad aprire il portone.
Allora spengo la luce e mi affaccio bene da vedere fino in fondo alla strada: la birreria, la ciminiera, e la terrazza con le sei lettere grandi tenute dai tubi di ferro messi in croce, come sui palazzi di Manhattan. PE R O N I. Mi accendo una sigaretta mentre sento mamma che porta Luca in trionfo verso la porta, e la porta aprirsi.
Sara viene a salutarmi con il bambino che le mangia il collo, poi va nella stanza a cambiarlo. Sento Luca che si fa fare tutto e mi viene una rabbia enorme, perché se ci avessi provato io si sarebbe divincolato come un capitone la notte di capodanno.
Spengo la sigaretta e raggiungo mia madre in cucina. Ha un fornello occupato dalla pasta e ceci, uno dalle cotolette e uno dal caffè. Tanto bisogna aspettare Alfredo. Sono solo le otto di sera.
"Stavo pensando così, che mentre ti fanno i lavori, te ne puoi venire a stare qua".
"Mamma ma non è che non ce l'ho una casa: mentre mi fanno i lavori mi sto a casa mia'".
"E vuoi stare accampata? Quando tieni la casa tua qua?" "Già ti tieni Luca tutto il giorno..." "Ma se esce pazzo per te..." "Sì, ma mi fa pure uscire pazza, a me".
Mamma rinuncia a capire, solleva il coperchio della moka, ci mette lo zucchero.
"Chiedi a Sara se lo vuole".
Sara si sta passando i piedi di Luca in faccia, mi dà le spalle.
"Lo vuoi il caffè?" Lei scuote la testa toccandosi lo stomaco. Mia sorella è una donna eccezionale: se le brucia lo stomaco, rinuncia al caffè. Io, piuttosto, rinuncio allo stomaco.
Luca è talmente pazzo di me che pretende di starmi seduto in braccio mentre ceniamo. Con la mano destra cerca nel piatto i ceci scuri, perché mia madre gli ha detto che portano fortuna. Questo lo autorizza a frugarmi nel piatto con le mani, autorizza suo padre, sua madre e sua nonna a guardarlo ridendo, obbliga me a non dirgli nulla.
"Oggi, mettendo a posto nella cassa, ho trovato gli orecchini di zia Vanda".
So già dove vuole arrivare, a cadenza regolare questi orecchini spuntano dovunque.
"Te li dovresti fare, i buchi alle orecchie..." "Mamma, ma ti pare a te che io a trentotto anni mi devo fare i buchi alle orecchie?" "Tu a zia Vanda la farai morire senza la soddisfazione di averti visto quegli orecchini alle orecchie".
"Io non lo so... mi devo fare i buchi alle orecchie sennò la zia muore disperata..." Sara si pulisce il piatto con il pane: "Mamma, ma ti pare il momento? Con tutto quello che tiene da fare?" "Ma perché, se li sta facendo lei i lavori? Non glieli sta facendo la ditta di Alfredo?" Io le seguo, mentre parlano di me in terza persona.
"La ditta non è di Alfredo: Alfredo ci lavora. La ditta è di Gianni, ma comunque tu non puoi capire: tu ti sei sposata in questa casa, e qua sei rimasta".
Mi danno uno strappo, perché ogni tanto se ne tornano anche a casa loro.
Alfredo si avvia avanti a prendere la macchina, io e Sara sotto braccio lo seguiamo di venti passi. Camminiamo sul marciapiede: seduta sui motorini, la nuova generazione del "terzo mondo" cerca un modo per vincere la solitudine infrasettimanale.
Un gruppetto chiude l'angolo del marciapiede da cui dovremmo scendere, allora io e Sara fisiologicamente ci separiamo: io scendo e faccio un giro largo, oltre le macchine parcheggiate, lei prosegue e intanto si lega i capelli con l'elastico che aveva sul polso. Quelli si aprono in due ali e la lasciano passare senza dire nulla.
Quando stiamo per imboccare il vallone di Miano, ci investe un odore dolce di luppolo in fermento.
I vestiti di mio padre avevano quell'odore il giorno in cui mi venne incontro nel cortile dello stabilimento, il giorno in cui a scuola era passato un topo e ci avevano mandato tutti a casa prima, e mamma aveva detto: "Andiamo a prendere papà", poi era rimasta al di là del cortile e io avevo fatto a zigzag tra gli operai che uscivano per la pausa pranzo, e sulla soglia dell'edificio avevo visto mio padre che toglieva una cuffietta bianca dalla testa di una donna e le baciava i capelli.
Io non avevo mai visto i miei genitori baciarsi così. Non c'era tradimento, perché non c'era ripetizione di gesti con un'altra donna: quel padre era un altro padre, un altro uomo, un'altra cosa.
Però mi voltai a guardare mia madre, e mi convinsi che da quell'angolazione aveva visto anche lei. Allora per non preferire nessuno mi fermai giusto a metà strada. Finché mio padre lasciò l'arco della porta e mi venne incontro.
Quella sera a Canzonissima c'era Carlo D'Apporto che raccontava barzellette che non capivo.
Io ero in attesa: stava per succedere qualcosa, qualcosa quella sera e per sempre doveva cambiare.
Invece non successe nulla.
Mio padre rideva, ma non mi sapeva spiegare le battute. Quando anche mia madre cominciò a rideremo cominciai ad avere paura.
Poi comparve Mina.
Da un riquadro in alto a destra Alberto Lupo con un fazzoletto al collo le diceva le parole giuste. Ma lei quelle parole le aveva già sentite e allora sapeva farne a meno. Faceva a meno dei grilli, della luna, delle rose e solo facendo a meno di tutto, anche di lui, riusciva a dormire e sognare.
Papà morì anni dopo, cadde da una scala mentre puliva un alambicco di rame. La Peroni osservò un minuto di silenzio, poi suonarono la sirena.
Il giorno dei funerali convocarono una riunione sindacale, così i suoi amici più stretti poterono scappare per venirci ad abbracciare. Zia Vanda lo disse a Sara convinta che fosse troppo piccola per capire fino in fondo la morte. Invece Sara capì, e gridò forte.
Quel grido ci bastò a sollevare il suo corpo per chiuderlo nella bara, a reggere la predica strascicata del prete, accompagnare la bara a Poggioreale, tumularla a terra, nel posto in cui otto anni dopo saremmo andate cocciutamente anche noi a passare lo spirito sulle sue ossa bianche, tornare a casa e ricominciare a vivere.
Archiviare in un loculo qualunque della nostra memoria il padre.
Quel grido bastò perché non c'era altro da dire. Era il patto spezzato, la promessa mancata, la strada lasciata a metà. Il genitore con i figli bambini che si concedeva la leggerezza della morte.
"Se mi lasciate qua prendo le sigarette al distributore".
"Vabbene, buonanotte".
'"Notte".
Così, il contrabbando un giorno è finito. Chi era già nato allo sbarco degli alleati se lo ricordava da sempre, però un giorno, da un giorno all'altro, è finito. Senza lasciare accattoni, o morti di fame, o gente senza arte. Senza sparatorie, saracinesche chiuse all'improvviso, con piccole fortunate riconversioni come quelle di Enzo. Poi erano arrivati i distributori automatici, ma c'era stato un lungo interregno durante il quale avevamo perso tutti i punti di riferimento.
9 18, con pausa pranzo Mi svegliano gli operai con una citofonata. Ho il mal di reni e la cervicale. Esco sul pianerottolo in mutande, chiamo l'ascensore, quando arriva al piano apro la porta e la lascio socchiusa.
Mi lavo la faccia nella caldarella, poi uso la stessa acqua per scaricare.
Dal gabinetto sale la puzza della città.
Sblocco la porta dell'ascensore mentre mi dico che il mio stomaco reggerà l'antinfiammatorio dopo il caffè, e l'alito di vodka che si portano dietro gli operai me lo conferma.
Arrotolo il sacco a pelo per non trovarlo infarinato come un presepe a Natale, e responsabilizzo il capomastro: "Lo chiudo in questa stanza, glielo spieghi tu agli operai?" "Tanto", mi fa, "oggi dobbiamo rifare le controsoffittature in quella stanza".
"No, Gianni, e se mi inumidite pure quella stanza io dove mi corico più?"
"Ti porto una canadese?" Gli sorrido, poi però schiumo rabbia dal portone fino all'imbocco della metropolitana.
"Abbonamento", dico.
E mi immergo nel Caikovskij filodiffuso dell'Azienda Napoletana Mobilità.
Una signora si è rifugiata nell'ultimo angolo prima del binario, proprio sotto le casse: scendo piano la rampa, per non rovinarle Giulietta e Romeo. E la fine dell'Atto Secondo quando scopro che quello è l'unico angolo dove si può fumare senza essere inquadrati dalle telecamere. Senza che una voce interrompa l'adagio per dirci che è vietato. Mi accuccio sullo scalino vicino alla signora e me ne accendo una mia. Dopo venti minuti che lampeggia la scritta nella finestra della destinazione Pozzuoli - Solfatara la signora decide che il suo amore per il romanticismo russo non ha retto alla prova, e se ne va a prendere un tassì. A me non importa, io comunque vengo espulsa da casa a prima mattina, e poi non finisce qui: dopo la metro mi tocca il C21.
Sul display del C21 mandano la pubblicità per quelli che vogliono fare la pubblicità su quel display, e l'oroscopo della giornata.
Il mio fa schifo, scendo che stanno dando il Toro. Il Toro non è male: mi metto sotto il suo segno e vado al negozio.
La mattina prima dell'apertura stiamo così: che non ci avviciniamo subito l'uno all'altro. Mentre tutti gli altri negozi sono ancora chiusi e i bancari si portano il caffè nei monouso sotto la carta argentata, ci intratteniamo tra cellulare e sigaretta. Restiamo aggrappati ai nostri pensieri privati, quelli che lasceremo chiusi nell'armadietto, incastrati tra l'orologio e il badge, e non torneranno che tra molte ore.
Sappiamo che ci aspetta un lavoro che non basterà da solo a costituire un altro vero pensiero. E allora restiamo così prima dell'apertura, a coccolarci ancora un poco. Come una donna che trascorre la propria vita in compagnia di un marito che non ama, e se ha un minuto ancora da rubare, se lo prende sulla soglia dell'amante che non vedrà per tutto il giorno.
Dopodiché lasciamo andare la giornata via: stiamo in negozio senza che dal lavoro ci arrivi nulla, senza riuscire a dare nulla se non il tempo, avvertendo in ogni momento, come rumore di fondo, di far tradimento a noi stessi.
Fumiamo nei bagni. Io e Maria ci stecchiamo una sigaretta, io seduta sul cesso, lei contro la porta, come a scuola. Poi ci laviamo le mani e i denti.
In prossimità della pausa pranzo la stanchezza diventa euforia.
Comincia a infiltrarsi leggera tra i settori, scende veloce le scale.
Negli spogliatoi diventa rossetto, capelli sciolti, tanga color fragola comprato ai saldi, respirazione yoga, verdura lessa in vaschetta d'alluminio per la dieta di Rosaria, foto di figli lasciati alla nonna sull'anta dell'armadietto, deodorante sotto le ascelle, pianto premestruale.
Passo davanti all'amministrazione mentre il ragioniere dice a Sergio che ha sbagliato una badgiatura. Sento Sergio rispondere: "Vabbè, allora licenziatemi: che io non ho il coraggio".
Il ragioniere ride, ma io so che non è una battuta: invito Sergio a mangiare con me.
"Però solo se ci pigliamo i panini e ci facciamo mezz'ora di sole..." È
una delle ultime mezz'ore di sole, non me la sento di negargliela: settembre ci sta precipitando addosso senza che ci siano stati mesi di cui avere nostalgia.
Sugli scogli restiamo noi commessi, gli assicuratori con la cravatta slacciata che si tolgono scarpe e calzini, i praticanti avvocati con gli occhiali da sole a tutto tondo e i palmari ultima generazione.
Sotto di noi gli ombrelloni sono chiusi, ma ragazze che sembrano lottatori di sumo si ostinano a cantare i neomelodici come se fosse luglio, come se si trattasse di Mina su una spiaggia della Versilia.
"Quando non ho le ferie ad agosto, settembre è un mese come gli altri".
"Settembre non è mai un mese come gli altri".
"Perché, che succede a settembre?" "Io, a settembre, vorrei vivere a Parigi".
"Quando sei stata a settembre a Parigi?" "Mai".
"E quando sei stata a Parigi?" "Mai".
"Ma parli francese?" "No".
"E allora?" "E allora niente, così..." E allora niente, ma se fossi a Parigi, a settembre, non suderei.
Camminerei veloce in un'aria grigia con un cappottino di lana pettinata, e neppure farei caso alle foglie gialle dei tigli che calpesto: tanto sarei sicura di rivederle il giorno dopo.
Faccio un segno al cingalese: che mi voglio fare un tatuaggio
\ da tre euro. Io e Sergio sfogliamo da un raccoglitore decine di disegni possibili: tribali, e felini in tutte le pose e rose di tutte le dimensioni.
{
"Posso anche scrivere un nome..." "Anche una frase?" "Tipo 'ti amo'?"
"Tipo 'questi tartari non arrivano mai".
"Ma è lunga..." "Sì, infatti 'ma che cazzo"! non ce lo scriviamo", e gli allungo cinque euro.
Sergio stira la carta del panino e glielo annota sopra: il cingalese ricopia con una stilografica all'henne.
' Mentre mi scrive sulla spalla, attacco a Sergio una pippa senza fine sui lavori, gli operai e il capomastro spiritoso: "Non avrei mai dovuto cambiare casa, anche se con Lucio era finita".
"Ma tu non hai cambiato casa per quello..." "Io non mi faccio una storia decente da una vita".
"E comincia con una storia indecente".
"Sono tutte indecenti. Nooo, io mi sono stancata, mi sono fatta vecchia, Sergiù, sono stanca, io sogno il matrimonio combinato". (
"Perché puoi scegliere..." "No, io sogno il matrimonio combinato in una società di matrimoni combinati, cioè, non mi deve nemmeno sfiorare il dubbio che non è giusto. Capito?" "Non ci dovresti scherzare: pensa quante donne si sono rovinate la vita per questo".
"Sì, ma almeno quando ci pensano sanno che la colpa non è loro".
"Comunque, se glielo chiedi a tua mamma, di trovarti un marito, quella mica ti dice di no..." No. Ma non basterebbe. Bisognerebbe tornare terreno vergine.
Mai avrei voluto guardarlo mentre si addormentava nel nostro letto senza sapere perché. Accettare che passino i giorni senza aver voglia di fare l'amore. Scoprire che il nostro amore è diventato quella morsa leggera che stringe senza far male, che lascia compiere tutti i movimenti, solo con più lentezza e più affanno.
Mai avrei voluto questo per me. Io voglio scenate, e porte sbattute.
E fughe senza ritorno. Voglio atti unici con finali a effetto, verità urlate in faccia. Sesso per l'ultima volta a farsi male. Voglio disperarmi perché l'amore non era finito. Ce n'era ancora da grattare sul fondo. Voglio mille volte essere lasciata, abbandonata, il mio posto di un'altra.
Invece una mattina l'ho visto nel letto addormentato e ho saputo che non lo amavo più. E mi è parso impossibile, perché quell'amore era la mia forma da anni, l'unica mia scelta, unico modo di ritrovarmi a sera.
Capire che un amore è finito di sua consunzione è ammettere che non si è più in un modo. Si resta attoniti come il bambino abbandonato dai genitori, si dorme molto come negli orfanotrofi.
È una prova dell'esistenza da cui nascono molte forme di vita: sono le valigie per non tornare più, assestamenti consapevoli nella noia, amanti, amicizie nelle quali riversare le energie addormentate, cambi di lavoro, incentivi di carriera, molti figli. Ma nessuno che l'abbia capito può dimenticare che la vita l'ha toccato con uno dei suoi segni più infelici.
Quel segno resta nella fronte che si contrae spesso, nella nostalgia a guardare i ragazzi che si baciano nei parchi, nell'ostacolare l'amore ai propri figli.
"Comincia a prudermi".
"Cosa?" "Il tatuaggio".
"Grattati. Ci prendiamo il caffè a volo a volo?" "No, rientriamo, ce lo pigliamo alle cinque: sennò ci togliamo I pure questa speranzella..." Ma prima delle cinque entra al negozio la mia professoressa della tesi, e finalmente so che posso dirglielo. La vedo avanzare tra gli scaffali, sfiorare qualche articolo da banco, scomparire dietro la colonna, riaffiorare, venire decisa verso di me. Finalmente posso dirle che lo so. Che appena un annetto dopo la laurea, un giorno, sfogliando un libro al Provveditorato, avevo trovato una nota a pie di pagina; e la nota rimandava a un altro testo; e il testo era suo, di Marta Vassalli, la donna con cui mi ero laureata; e con un ordine veloce due giorni dopo quel testo era arrivato, e allora io avevo potuto leggere tutta la seconda parte della mia tesi, quella dell'esperimento e delle conclusioni, quella su cui mi ero guadagnata la lode, quella scavata di notte nella tastiera della Lettera 22, quella che mia madre spazzava via la mattina dopo, accartocciata sul pavimento assieme ai filtri delle sigarette, quella là: la mia tesi. Finalmente come un libro vero, corredata di apparato critico, stampata in corpo 12, rilegatura al centro, 28 euro a firma ' di Marta Vassalli.
Adesso ce l'ho davanti e posso dirglielo, facile facile: sei una ladra, ma non lo faccio, le sorrido un sorriso full-time e aspetto che parli prima lei.
"Ciaaaao, ma sei tuuu?" "Abbastanza, sì".
"E adesso lavori quaa?" Io le sorrido di più, con tutti i muscoli della grande distribuzione, e le sventolo davanti il guinzaglio che mi porto al collo, quello che regge il cartellino, che regge il nome, il mio nome di battesimo soltanto, il cognome appena accennato, bloccato sulla prima lettera da un punto: i cognomi firmano i libri, non servono ai commessi.
Le sorrido e stringo il cartellino: casomai mi perdessi, nel negozio, saprei almeno come mi chiamo.
"Ma è un belliiissimo posto dove lavorare".
"Mo' non esageriamo..." "Ascolta: mica tutti quelli che si laureano possono fare ricerca... o insegnare..." Infatti, non tutti quelli che si laureano possono insegnare. E poi molti di quelli che insegnano non dovrebbero farlo. Io avrei voluto insegnare alle scuole medie, quelle soltanto, perché dodici anni sono terribili e non si possono superare da soli. A quel corpo che si deforma, contro il sudore puberale, ci deve essere pure qualcuno che spieghi perché non cominciare a fumare, che tuo padre non è morto perché era innamorato di un'altra donna, che tua madre non è contenta che sia morto, che non l'ha ucciso quando se ne è rimasta zitta.
"Sì, è ovvio, l'importante è lavorare... cerca qualcosa in particolare?"
E mentre glielo cerco io quel qualcosa in particolare che lei non sa trovare da sola, so che quello che ha detto l'ho già sentito tante volte che quasi ci credo.
Qualcosa del genere passò in testa a mia madre il giorno in cui fui assunta, in cui tornai a casa e mi buttai sul letto. Mia madre chiamò commossa zia Vanda; anche con le orecchie nel cuscino sentivo il suo sollievo: "A tempo indeterminato, i contributi".
Uscì di pomeriggio che pioveva e le scarpe ancora non le si erano asciugate dalla spesa, andò dal gioielliere e comprò un ex voto.
Non sapevo che mia madre avesse mai chiesto una grazia per me, di tante che avrebbe potuto, non quella. Non ho mai saputo in quale chiesa l'avesse lasciato e cosa rappresentasse: non glielo ho chiesto perché ero offesa.
Ma adesso ancora ritirandomi a casa entro nelle chiese, mi affaccio alle cappelle, frugo con gli occhi tra le teche e sulle statue.
Santi di legno dipinto mi mostrano braccia come appendini, tutta la speranza e la preghiera che hanno saputo accoglierei io mi chiedo dove sia quella di mia madre, che forma avesse quella che lei pensava per me.
Una penna, una mano, una testa, un libro con tre lettere puntate nell'argento, p.G.R.: la mia condanna e la mia rassegnazione per Grazia Ricevuta.
Accendo una candela e getto un euro per me in una cassetta a caso.
A mezz'ora dalla fine del turno mi telefona Gianni, il capomastro, me la fa breve: "È crollato il solaio del bagno".
"Cioè, non è che è crollato: l'avete fatto crollare".
"Comunque mo' non c'è il pavimento: ne vogliamo approfittare per spostare la colonna fecale?" "Ma che cazzo dici? Ma che cazzo ne so? È grave?..."
"Chi?" "Il bagno, è grave che è crollato? Mo' chi paga? Restate là, prendo un tassì e arrivo".
Sera Dal tassì mando un messaggio a Sara, le spiego il fatto, le dico di mandarmi subito Alfredo. Alfredo già sta là, mi scrive, poi forse capisce e aggiunge che arriva subito anche lei.
"Niente di grave".
"E se cadeva qualcuno?" "Non è caduto nessuno".
"Sì, ma tu li tieni in regola questi operai? E se cadeva qualcuno?
E se c'era qualcuno sotto?" "Alfredo sta in regola".
"Perché rispondi solo alla metà delle domande che ti faccio?" "Perché mi fai troppe domande tutte assieme".
"Alfredo, cristo benedetto, parlaci tu con questo..." Sara arriva a calmarmi, bacia il marito, guarda giù attraverso il solaio del bagno, nella vasca di quella di sotto, fa un fischio.
"Hai visto? C'ha l'idromassaggio..." "E io non c'ho manco il cesso".
"E vabbè, te lo rifanno in giornata il cesso, mo' però vai a parlare con Gianni, approfittiamo che possiamo mettere i sanitari dove vogliamo".
"Io li metterei su un pavimento. Che ne dici?" "Dai... hanno detto che non se ne vanno da qua se non ti finiscono il lavoro..." Mi trascino tra le bottiglie di solvente e quelle di vodka, un operaio mi fa segno che vuole una sigaretta, io gli lascio il pacchetto e poi gli chiedo di offrirmene una.
Mentre contemplo dall'alto gli accappatoi color lavanda della signora di sotto, scegliamo un posto per il gabinetto, uno per il bidet, uno per il lavandino. Gianni tira il metro dal mio dito all'angolo: "Ma se ti metto il lavandino qua, non ti posso montare la luce sullo specchio".
"Meglio, significa che ci metto meno coraggio a guardarmi, la mattina".
"Dici le rughe?" "Ma io non ho le rughe, non ho le rughe. Ho le rughe?"
"No, non ce le hai. Ed è anche molto bello guardarti, la mattina".
"...dov'è Alfredo? Alfredoo? Ma mo' chi paga, quaa?" Delego Alfredo a far rinvenire la signora dell'idromassaggio, quando tornerà, e fuggo con Sara.
Imbocchiamo l'asse mediano per andare all'Ipercoop a fare la spesa settimanale di mamma.
"Tu a Gianni piaci molto, gli piacciono i tuoi capelli".
"Che ne capisce di capelli?" "Gli piacciono i ricci".
"Invece a me piacciono i capelli lisci".
"Quando Mina li portava ricci, ti piacevano, i tuoi capelli..." "Quando Mina li portava ricci io ero Mina, i miei capelli erano i suoi capelli".
Mi giro a guardare fuori, i capannoni delle conserviere, le nordafricane ai falò, le sopraelevate incompiute, i palazzi affacciati sull'autostrada, poi noi dalla strada affacciate sui palazzine piazzole con le macchine in fila e i vetri appannati anche se è solo settembre, ; io che nemmeno mi ricordo più quando ho fatto l'amore l'ultima volta.
"Quando facevo anche io l'amore...", attacco, "ogni tanto mi passavano davanti delle immagini, senza una logica, come quelle che si vedono dal finestrino".
, "Ah, ma allora piace anche a te..." "Ma cosa?" "Gianni".
"Smettila".
"Comunque pure a me".
"Cosa?" "Le istantanee, vedo le scene".
"Ma sei sposata da dieci anni..." "Eh, e da venti anni vedo i posti di mare..." Quando aveva quattordici anni Sara tornò dal collegio per Natale, io andai con zia Vanda a prenderla alla stazione. Zia Vanda restò in macchina, occupò un posto in terza fila e mandò me ad aiutarla con le valigie: io arrivai alla testa del binario e trovai Sara che baciava Alfredo. Con la faccia così piena di brufoli che manco se ne vede il colore, pensai, non le farà schifo baciarlo? Non le faceva schifo: lo voleva. Voleva solo lui, mi chiudeva in camera per ore e mi costringeva a sentirla parlare. Nostra madre intercettò dei segnali e cominciò a fare domande sospette. Anche noi intercettammo i suoi segnali e sviavamo in automatico le risposte.
Ma Sara schiattava sotto la pressione dell'amore non detto, fuori c'era mamma, che faceva paura perché nessuno mai si era ritirato a casa innamorato così, ma dentro e dovunque c'era Alfredo che cresceva, si nutriva dei minuti in cui non si vedevano, non sopportava più di restare nascosto, finché Sara esplose e raccontò tutto. Mamma scoprì che Alfredo aveva solo sedici anni, ma già lavorava da quattro: faceva il muratore.
Con rito abbreviato mamma e zia Vanda decisero che Sara non sarebbe uscita di casa per i giorni che le restavano di vacanza, che avrebbero preso il treno assieme, lei, la zia, e avrebbero riaccompagnato l'anima perduta al collegio, Termini - tassì - via Nomentana, per le ore diciotto del sei gennaio.
Sara disse solo: "'O voglio e m'o piglio", e mentre lo disse la mano destra si chiuse ad artiglio e se ne volò alta con la sua preda.
Sara smise di studiare, poi smise di mangiare, ma non morì.
Due anni dopo, con la sua prima macchina, Alfredo fece i duecentoquattordici chilometri della Napoli-Roma e la portò a fare l'amore.
Mentre stavano abbracciati sul sedile reclinato, Sara vide il mare.
Vide il mare di Gaeta come si vede dal finestrino quando il treno ti sputa fuori dalla galleria e tu sai che stai tornando a casa.
Luca è nato da qui e adesso si muove nella vita con la sicurezza < con cui stanno a galla quelli che hanno imparato a nuotare da piccoli, prima che potesse arrivare la paura. Quelli che se ne stanno per ore al largo a fare niente, a rigirarsi su se stessi o a guardarsi i piedi, e quando gli arrivi vicino senza fiato ti accorgi che nemmeno sono stanchi, e anzi ci puoi poggiare una mano su, per i riposare un poco prima di ritornare indietro con il percorso più rapido possibile, più perpendicolare possibile alla spiaggia.
"Io invece vedo le città, scene di città dove sono stata, tipo all'estero..." "Non è brutto".
"No, non è brutto, solo che non capisco che connessioni hanno..."
"No, dico Gianni: non è brutto".
"Non lo so se è brutto, però mi ha buttato giù una casa".
"Quella casa stava inguaiata".
"Lo so... lo so, non me ne sarei mai dovuta andare, anche se con Lucio era finita".
"Ma tu non te ne sei andata per quello..." Non me ne ero andata. Ero stata cacciata via.
Ero uscita dalla metro a mezzogiorno e dieci, avevo riacceso il cellulare, attraversato la strada tra una Smart e una Punto, avevo imboccato la Pignasecca sotto le impalcature del restauro.
"Pronto".
Sapevo che era Lucio perché avevo guardato il suo numero sul telefono un momento prima di rispondere, il momento dopo una mano aveva tentato di tirarmelo via dall'alto, di farmi mollare la presa e scappare.
Ma la mia presa aveva tenuto, la mano era forte, abituata al magazzino e a dodici ore di inventario il sette gennaio di ogni anno. Avevo stretto, tirato verso il basso braccio e cellulare, avevo rafforzato la mano con l'altra e poi avevo continuato: avevo caricato indietro il gomito con tutta la forza della sorpresa e gli avevo preso lo stomaco, giusto allo sterno, giusto dove le ossa della cassa toracica smettono di difendere l'essenziale. Il ragazzo si era piegato in due come una tovaglia da riporre ed era caduto a terra.
Allora l'avevo fatto. L'avevo preso a calci in faccia, sulla testa, avevo urlato: "tu non lo puoi fare, tu non lo puoi fare", poi urlato solo, urlato. Ma non un grido qualunque: quel rantolo di voce che sento quando piango, quel fiato vibrato che mi resta quando so che alle parole conviene smontarsi per continuare a esistere.
Ci avevano raccolto dal marciapiede, a me senza forze e a lui che sanguinava, che aveva quattordici anni ed era svenuto.
Io ero stata portata in un altro ospedale, in stato di shock; quando l'avevo potuto lasciare con un'imputazione di eccesso di difesa, Lucio come avvocato difensore e dieci testimoni oculari che stragiuravano che avevo fatto bene, ero andata a trovare il ragazzo in corsia.
All'entrata del reparto il padre si era represso a stento: era già diventata una città in cui una donna può ammazzare di botte un ragazzino, ma era ancora una città in cui gli uomini non picchiano le donne.
Sua moglie mi aveva sputato sui piedi.
"Va' vattenne".
Me ne ero andata. Ero stata assolta perché ero incensurata, avevo un posto fisso, un conto corrente in banca, una laurea in un plexiglas a casa di mia madre. E poi perché i giornali parlavano da mesi di un giro di vite, e il governo aveva mandato l'esercito a presidiare Forcella e i Quartieri Spagnoli per far fare lo shopping senza pericoli agli americani che sbarcavano dalla Costa Crociere.
Ma il quartiere sentiva la verità. Sapeva che c'era un motivo se io avevo superato "il terzo mondo" portandomi dietro solo la droga del tabacco, mentre quel ragazzo entrava e usciva dal riformatorio.
Se a quattordici anni, a mezzogiorno e dieci, quello non aspettava smanioso in un banco che suonasse la campanella, ma che io allentassi la presa sull'ultimo regalo di Lucio. Che io c'ero arrivata in qualche modo ai miei trent'anni e passa, e quello era rimasto steso sul marciapiede senza sapere se ci sarebbe arrivato mai.
Quale era questo motivo, e dove fosse, non me lo avrebbe saputo dire nessuno, ma questo motivo mi faceva più forte di lui, e mi rendeva colpevole di averne abusato.
Il quartiere pensava quello che io pensavo. E piano piano mi isolò in un vuoto di silenzi e cose non dette, le persone dimenticarono di invitarmi, di farmi partecipare e anche di ricambiare i saluti, finché mi sputò via, come fanno i cani zoppi quando si amputano a morsi la zampa che non riconoscono più.
Avevo cambiato casa e pagato le spese legali a Lucio, perché sapevo che non l'avrei rivisto.
L'odore del luppolo arriva sul balcone solo in estate, o nelle sere come questa. Quando di giorno faceva troppo caldo per studiare, quest'odore mi diceva che tra me e quegli operai che stringevano e allentavano valvole stava passando una generazione.
Adesso so che abbiamo camminato all'indietro.
"Luca!", dico dall'altra parte del vetro, "Luca", ma lui sa che voglio fargli notare che la mia borsa non è double-face, e non mi è piaciuto trovarla al rovescio come una federa.
Busso alla portafinestra e lo chiamo.
"Dovevo giocare a regbi".
"A rugby?" Mi ha fregato. Avrei dovuto attaccare con non-si-toccano-lecose-degli-altri. Ma ormai mi ha scartato: fa tutta una descrizione sulle tecniche di gioco, confonde il rugby con il baseball, e la mia borsa con il suo guantone. Pelle buona. Poi si distrae e se ne va, impunito.
'"Sto creatur' è vinciuto", dico a mamma.
"Lascialo stare", fa lei. "Sta buono buono".
Infatti adesso sta buono buono, che parla da solo, tutto immerso in un gioco che nessuno può seguire. Uguale a come faccio io quando sono sola in questa casa vuota e in quell'altra, nell'ascensore, nel bagno: parlo, quando nessuno può ascoltarmi, discorsi che conosco solo io. Divento quella che poteva dare una risposta migliore, quella che sa porre le domande, quella che muore e ha qualcuno da far stare male, qualcuno che se ne è andato senza chiedere il permesso e che adesso torna sui suoi passi. Sono Mina che accompagna con lo sguardo il baciamano di Alberto Lupo. Quella che schiva gli applausi al termine di una lezione magistrale, che fa avanti e dietro sulle stesse mattonelle del bagno per provare un'entrata migliore, un sorriso migliore, uno sguardo più sensuale.
E lo faccio per rimediare.
Alfredo torna da casa mia. È stanco, ha la maglietta sporca di calce. Si honda a fare la doccia, passando mi nega una ruga sulla fronte, significa che non devo preoccuparmi. Sara non ha nemmeno bisogno di guardarlo per ringraziarlo ed essere contenta di lui.
"Tieni scritto sulla spalla".
"È un tatuaggio".
"Gesù, gesù, quella si è fatta il tatuaggio".
"È finto, mamma, si toglie in quindici giorni".
"Poi, dico io, il tatuaggio sì, e gli orecchini di zia Vanda no?"
"Mammaaa? È fintooo, si toglie con l'acquaaa..." "Ma perché, gli orecchini te li devi tenere sempre?... quello se non ti piacciono e non te li metti più il buco si chiude..." "Mammà, e lasciatela stare: tiene altri buchi da chiudere mo"'.
"Madonna, veramente, Alfre', che guaio..." "Ma quale guaio: per domani è tutto a posto, vuoi un passaggio?"
"No, no, mi prendo un autobus".
"Ma io non capisco: è necessario che se ne va, mo'?" "No, sai com'è...
avrei nove ore di lavoro domani..." "Eh, e non ti puoi addormentare qua?
Che non tieni manco il cesso..." "Mamma, non ho il cesso. Ma me ne devo andare mo'. A questo momento qua".
"Mangiati almeno qualcosa".
"Non tengo fame".
Attraverso il "terzo mondo" con un'urgenza enorme di uscire dalla periferia. La periferia è studiata per far chiudere la gente in casa, e io invece adesso ho bisogno di centro, e di gente che in casa si sente soffocare e va a sedersi per strada.
Aggrappata alle maniglie dell'R5 mi è chiaro: io non sarò mai Mina in
"Parole Parole Parole". Forse potrò essere Mina con i figli, Mina ingrassata, Mina che impara il cinese per cantare una canzone senza sbagliare la pronuncia. Ma non sarò mai Mina che scansa le lusinghe di Alberto Lupo, che lo schiaccia di tre ottave e poi gli cede nella passione.
Non avrò mai la certezza in bianco e nero delle fine-trasmissioni a fine giornata, non lascerò il palcoscenico per chiudere la soirée in un ristorante dopo teatro. Continuerò a essere la bambina che andava a dormire in abito lungo e capelli cotonati, che non voleva lavarsi la faccia per non rovinarsi le ciglia bistrate con tanta attenzione dalla truccatrice, la stessa che si addormentava con i tacchi. L'ultimo pensiero prima del sonno: un fascio di rose rosse mandato da Alberto nel camerino più bello del Teatro Dieci.
"Ti vuoi sedere?" Cristo, sono invecchiata. Sono Mina invecchiata, irriconoscibile, che passa stanca in autobus sul corso Garibaldi con dieci tossici che rincasano. "Sì, grazie".
Abbasso gli occhi, e trovo Gianni.
"Hai cenato?" "No".
"Una pizza?" Stringo la pizza fritta così forte che l'olio mi cola lungo le mani, Gianni mi pulisce il polso destro prima che la goccia arrivi alla manica.
"Tanto la devo lavare", faccio io.
Poi, respingo il fastidio, ingoio tutta la distanza insieme al boccone, e mi volto a guardarlo. Gli trattengo la mano che mi ha pulito, io altro adesso non so fare, ma questa mano ha costruito la mia casa e la conosco.
Me la porto alle labbra, la bacio leggermente, un bacio che mi consoli ma che non significhi niente.
Niente messaggi, niente ammiccamenti, niente malizia, niente scopare. La bacio piano che significhi solo grazie, o aiuto, che per me è da sempre la stessa parola. Adesso non posso guardarlo più, ma ho questa mano sulla bocca, la trascino sulla guancia destra, è gonfia e ruvida: è la prima carezza che mi ricordo, la tempia, la fronte. Sento la mia faccia solo sul dorso della sua mano. Quando me la passo sugli occhi ho detto tutto: messaggio, ammiccamento, malizia, scopare, ma anche grazie e aiuto. La bacio ancora e poi la lascio andare. Lui mi guarda. Non dice, non fa. Mi guarda.
La casa è ghiacciata. Più umida della strada. Io vorrei accendere la sigaretta, ma ho le tasche piene di cose, del badge, e della tessera del cinefórum, e dello sconto sul colore dal parrucchiere.
Gianni al buio va a inserire la spina nel cavo con cui stiamo rubando la luce dal lampione in strada. Io inciampo negli attrezzi sulla porta d'ingresso, negli stand di vestiti in scatola, nelle mattonelle firmate di zia Vanda, e sono costretta ad appoggiarmi ancora alla mano di quest'uomo. Mi stringe forte nel punto in cui i fianchi cominciano l'incavo della vita, baciandomi mi spinge indietro, ma io non devo fare nulla, perché il baricentro di questo abbraccio lo decide lui. Conosce la pendenza del pavimento, l'elasticità del solaio, la ruggine degli infissi. Non parlo, invece tremo.
Più tardi cominciano le istantanee.
La prima cosa che vedo è una cupola. Sembra Lisbona, ma poi piano piano mi convinco che è Santa Egiziaca a Pizzofalcone.
L'angolo di via Case Puntellate, poco dopo il terremoto.
L'ufficio postale dietro il mercatino di Antignano.
Mergellina, una sera nel fondo umido di una barca, io con una gonna lunga.
I Ponti Rossi, scendendo da Miano.
Piazza Borsa quando ancora c'era la fontana.
Le prostitute a Carbonara.
Un portone visto dall'alto: forse Stella dal corso Amedeo.
Varco Pisacane, altezza fermata del tram.
L'ingresso del Trianon, dal balcone della pizzeria di fronte.
La cima delle scale della Posta Centrale, quando i bambini si lanciano in discesa nelle cassette della frutta e io penso che ci vuole troppo coraggio e troppa incoscienza per lasciarsi scivolare e arrivare fino alla fine e chiudo sempre gli occhi e dentro di me dico: "No".
"Sì, invece: perché no? Sì": Gianni mi parla piano nell'orecchio, mi stringe forte un polso e mi accompagna nella discesa.
Subito dopo ci tiriamo il sacco a pelo addosso e ci addormentiamo, senza avere nemmeno un posto per fare pipì.
***
Ringraziamenti.La prima pagina di questo libro è stata scritta subito dopo una conversazione telefonica con Matteo Codignola, che si è svolta più o meno così: Matteo: 'Che fai?" Valeria: "Scrivo un racconto per un'agenda".
Matteo: "E perché perdi tempo a fare racconti per un'agenda?" Nel momento in cui scrivo non so ancora se ringraziarlo.
Ringrazio senza dubbio: Sandra Infante, perché mi presta gli occhi per leggere; Nicola Lagioia, perché mi toglie le pulci, senza mai farmi sentire pulciosa; e Francesco Russo, Francesco, Francesco, Francesco: per tutto quello che ci riguarda.
Indice La corsa
p. 5
Siddarta
p. 31
L'amico immaginato p.